Project Gutenberg's Fra Tommaso Campanella, Vol. 2, by Luigi Amabile

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Title: Fra Tommaso Campanella, Vol. 2
       la sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia

Author: Luigi Amabile

Release Date: February 21, 2015 [EBook #48332]

Language: Italian

Character set encoding: ISO-8859-1

*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK FRA TOMMASO CAMPANELLA, VOL. 2 ***




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FRA TOMMASO CAMPANELLA

LA SUA CONGIURA, I SUOI PROCESSI

E LA SUA PAZZIA

NARRAZIONE

CON MOLTI DOCUMENTI INEDITI POLITICI E GIUDIZIARII,
CON L'INTERO PROCESSO DI ERESIA
E 67 POESIE DI FRA TOMMASO FINOGGI IGNORATE,

PER

LUIGI AMABILE

già prof. ord. di Anatomia patologica nella R. Università di Napoli,
già Deputato al Parlamento Nazionale.

«La così detta congiura, che il Baldacchini
e i più dei biografi Campanelliani qualificano
eterno ed insolubile problema degli
eruditi».—Berti, T. Campanella, 1878

VOL. II.

NARRAZIONE, PARTE II.

Stemma dell'editore

NAPOLI

CAV. ANTONIO MORANO, EDITORE
371, Via Roma, 372


1882


L'editore avverte che avendo adempiute tutte le formalità prescritte dalla legge sulla proprietà letteraria, intende valersi della protezione che le leggi stesse accordano.


[Pg 1]

CAP. IV.

PROCESSI DI NAPOLI E PAZZIA DEL CAMPANELLA.

A.—Processo della congiura (primi mesi del 1600).

I. Al declinare del giorno 8 novembre 1599, le quattro galere provenienti dalla Calabria giungevano in vista di Napoli, e poco dopo un battello spiccavasi dal Regio «tarcenale», come allora si diceva, ed andava ad incontrarle. Nella sera, all'entrare in porto, dalle antenne di ciascuna galera si vide spenzolare un uomo appiccato, e due altri si videro squartare in mezzo alle galere medesime, «per spavento del populo di questa città, concorso in numero infinito alla fama di questi funesti spettacoli»[1]. L'indomani, i carcerati venivano sbarcati e rinchiusi parte nel Castel nuovo e parte nel Castello dell'uovo.

Ecco come era andata la faccenda di queste esecuzioni: ce ne danno notizie abbastanza precise in ispecie tre documenti autentici da noi raccolti, una lettera Vicereale del 9 novembre rinvenuta in Simancas, e due certificati scritti più tardi da' sacerdoti che avevano assistito alcuni di quegl'infelici, inserti poi nel processo di eresia. Il Vicerè scriveva a S. M.: «D. Garzia di Toledo con le quattro galere giunse ieri con Carlo Spinelli e i prigioni di Calabria, de' quali si aveano da giustiziare in Monteleone sei che erano convinti e confessi, e per non trattenere le galere li condussero con gli altri. Prima di sera mi avvertirono di quanto accadeva, e comandai che andassero ad incontrare le galere alcuni Religiosi i quali li aiutassero a ben morire, e che all'entrata del porto ne appiccassero quattro alle antenne e ne squartassero due, come si fece; ma ordinai che dapprima li strozzassero, ed essi morirono molto bene confessando i loro delitti, quantunque [Pg 2] uno rimanesse pertinace sino all'ultimo ed infine morisse come gli altri. Oggi i prigioni sono stati posti ne' Castelli» etc.[2]. Adunque l'ordine delle esecuzioni anche questa volta fu dato dal Vicerè; e da una lettera del Nunzio, come vedremo più sotto, risulta che le galere si fermarono in Nisida per entrare la sera nel porto, od almeno che si era diffusa la voce di questo avvenimento, senza dubbio insieme con la fama del funesto spettacolo, secondo l'espressione del Residente Veneto. Nè fu vero che que' due infelici venissero squartati vivi, siccome dissero di poi il Parrino e il Giannone ed anzi lo stesso Residente, il quale lo riferì al suo Governo del pari il 9 novembre, mostrando bene che tale era stata l'impressione avutane in Napoli; il Vicerè fu tanto caritatevole da pensare non solo a questo, ma anche a far salvare le anime di quegl'infelici coll'invio de' Religiosi, mentre sulle galere non mancavano mai i rispettivi Cappellani, sicchè in Madrid doverono rimanerne edificatissimi. Un certificato appunto del Cappellano della galera denominata S.ta Maria, D. Eligio Marti, che poi con la stessa qualità passò a servire nell'ospedale degl'Incurabili, ed un certificato di Gio. Luca de Crescenzio de' Padri Ministri degl'infermi, o Padri della Crocella com'erano chiamati volgarmente, ci rivelano il resto, mostrandoci a quale ordine di Religiosi il Vicerè fosse ricorso[3]. Erano allora in gran voga, e giustamente, i Padri Ministri degli infermi: lo stesso venerabile Camillo de Lellis li avea condotti in Napoli nel 1588, ed avea fatto grandemente apprezzare la loro caritatevole istituzione, sicchè ben presto, per le beneficenze di D.a Giulia Castelli, ebbero una distinta casa di Noviziato di rimpetto al Castello dell'ovo (alle Crocelle), oltrechè s'istallarono negli ospedali dell'Annunziata, degl'Incurabili, di S. Giacomo, venendo poi anche il De Lellis pel servizio corporale degl'infermi all'Annunziata; solo più tardi, col crescere della loro fortuna, preferirono il servizio spirituale, onde finirono per mantenersi in riputazione principalmente con la volgare credenza che avessero una speciale preghiera per abbreviare l'agonia degl'infermi accelerandone la morte! Più Religiosi di quest'ordine andarono a confortare quelli che doveano essere giustiziati, e al De Crescenzio toccò di confortare Gio. Battista Vitale, «il quale fu all'hora affocato dalli ministri di giustitia sopra uno schiffo e poi squartato in mezzo alle dette galere»; ma «in quel medesimo tempo che stava per morire, publice et in presentia nostra, e del fiscale sciarava, che si ritrovava in dette galere con detto Carlo Spinello, dichiarò, che quello che esso havea detto contro quelle persone da lui nominate nelle sue depositioni, e specialmente contro monaci, tanto in materia di Ribellione, quanto in materia di heresia non era vero, ma che il tutto havea detto per dolori de' tormenti datili dal predetto[Pg 3] fiscale sciarava». Al Marti poi toccò di udire la stessa dichiarazione, durante il viaggio, non solo dal Vitale ma anche dai Caccia e dal Pisano, e da ultimo toccò di trovarsi presente ed aiutare a ben morire «apparandosi detto acto di giustitia sopra la detta galiera S.ta Maria» per Gio. Battista Vitale e per Gio. Tommaso Caccia, i quali ad alta voce innanzi al fiscale Sciarava là presente ripeterono la dichiarazione e volevano che fosse scritta; «qual dechiaratione da loro facta, fu eseguita la detta giustitia, et furono li predetti Gio. Battista et Gio. Thomaso affoghati sopra uno schifo, et poi squartati in mezo di dette Galiere». Intanto come mai il Vicerè non disse nulla su tale proposito, e parlò invece della temporanea pertinacia irreligiosa mostrata da uno di questi infelici? Verosimilmente essi fecero dichiarazioni di discolpe, ma parziali, avendo in realtà rivelato per atroci torture più di quello che conoscevano, e noi l'abbiamo fatto avvertire a suo tempo, nè il Vitale potè smentire ciò che avea rivelato in materia di eresia, mentre non era stato mai interrogato su tale materia; quanto poi alla pertinacia di uno di loro, la cosa fu vera ed accadde appunto in persona del Vitale. Difatti si ebbe in sèguito la testimonianza di Maurizio, il quale sul punto di morte narrò a' Delegati del S.to Officio che suo cognato «che fu giustitiato qua in Napoli sopra, il molo dentro mare... non si voleva convertere, perchè diceva havere inteso da fra Dionisio che non ci era Christo, ciò e, che non ci credeva»[4]. Si ebbe poi anche, nel processo di eresia, la testimonianza del Barone di Cropani, il quale a detto altrui, giacchè soffrendo il mal di mare non vide nulla, disse che «tre che furo giustificiati sopra la galera», dove egli si trovava, gridavano essere stato loro estorto co' tormenti quanto aveano rivelato intorno alla ribellione, aggiungendo che «un Gio. Battista de Nicastro quale fu giustificato non si voleva convertire, ma disse che voleva andare a casa del diavolo, et ivi aspettare don loyse sciarava, si ben ala fine si ridusse et morì devotamente»[5]. È facile ravvisare che si alluderebbe qui propriamente a Gio. Battista Bonazza, il quale come vedremo or ora dovè essere giustiziato del pari; se non che in quanto alla pertinacia irreligiosa da lui mostrata probabilmente il Barone equivocò, confondendolo con Gio. Battista Vitale.

Ma, oltre il Caccia e il Vitale, vi furono quattro altri semplicemente appiccati, e su' nomi di costoro non abbiamo la benchè menoma notizia. Forse nell'Archivio de' Padri Ministri degi'infermi, che dicono trovarsi in Roma, potrebbe aversene qualche cenno; ma è difficile che costoro abbiano avuti registri particolareggiati come vedremo averli i Bianchi di giustizia, i quali confortarono alcuni altri più tardi, e sicuramente non ne dicono nulla nè gli [Pg 4] Annali del Lenzo, nè le Memorie storiche del Regi, che abbiamo appositamente consultato. Nondimeno per tre di loro, anche dietro l'indizio datone dal Barone di Cropani, possiamo dire essere stati con ogni probabilità quelli presi dal Soldaniero e già condannati a morte, cioè Gio. Battista Bonazza alias Cosentino, Fabio Furci e Scipio lo Jacono; il quarto dovè essere uno della stessa comitiva, ovvero Gio. Ludovico Tedesco che fu preso con fra Dionisio, col Vitale e col Maurizio, ma non abbiamo qualche elemento di una certa consistenza per affermarlo. Il Campanella nella sua Narrazione disse: «4 banditi nè confessi, nè nominati in cosa di ribellione appiccaro nel molo Xarava e Spinelli, perchè si dicesse in Ispagna, ch'era verificata la ribellione»; ma almeno i tre sopracitati erano confessi, ed il primo di loro, il Bonazza o Cosentino, era stato nominato dal Pizzoni oltrechè dal Soldaniero.

Del rimanente è verissimo che lo stesso Vicerè esagerava l'importanza dell'affare, per magnificare il servizio reso alla Corona di Spagna e per far valere le pretensioni del potere civile verso l'ecclesiastico: ce lo dimostrano le relazioni del Residente Veneto e del Nunzio Pontificio. Il Residente, nel giorno medesimo dello sbarco de' carcerati, si diè premura di vedere il Vicerè, che gli disse il loro numero essere di 156, de' quali «ottantasei rei convinti da non poter fuggir la morte et gli altri indiciati»! Egli trasmise questa notizia al suo Governo, e contemporaneamente partecipò anche il genere di morte ideato dallo Spinelli per Maurizio (ciò che farebbe credere essergli stato del pari comunicato dal Vicerè), partecipò il supplizio inflitto a sei de' carcerati sulle galere, ed aggiunse che il Campanella ed il Ponzio negavano la ribellione ma confessavano l'eresia, per tentare, come credevasi, di «prolongar la pena con esser condotti a Roma»; quest'ultimo apprezzamento usciva in campo per la prima volta e potè forse provenire dal medesimo Vicerè, ma senza dubbio il fatto era riferibile agli altri frati e clerici e non già a' due che venivano citati. Il Nunzio poi avea veduto anche prima il Vicerè, «havendo... havuto notitia che le Galere erano a Nisida per entrar al notte (sic) in porto», allo scopo di ricordargli che ordinasse al carceriere del Castello di tenere a sua istanza gli ecclesiastici carcerati, i quali avea saputo essere al numero di 14 (al di sotto del vero); e il Vicerè gli disse che tutti i carcerati erano 160, che tra gli ecclesiastici vi erano 8 clerici selvaggi della diocesi del Vescovo di Mileto (la qual cosa non era vera), che aveva anche qualche indizio contro il Teologo di quel Vescovo (tale era stato nell'anno precedente il Campanella), e perciò scrivesse al Vescovo di venire a Napoli insieme col Teologo, aggiungendo che farebbe tenere i carcerati nel Castello ad istanza di lui, ma in quanto alla congiura era necessario l'intervento di qualcuno de' suoi ufficiali negli esami. Ricordiamo che, nel settembre, il Vicerè aveva espresso desiderio che si mandasse in Calabria un delegato del Nunzio, il quale sarebbe intervenuto negli[Pg 5] esami degli ecclesiastici da farsi innanzi agli ufficiali Regii, e da Roma si era scritto che la causa degli ecclesiastici dovea farsi in Napoli dal Nunzio, vale a dire nel modo normale: ora, venuti i carcerati in Napoli, il Vicerè affacciava la medesima pretensione, ma naturalmente sotto forma diversa e senza dubbio più temperata, e per appoggiarla metteva innanzi, ad occasione del processo di congiura, i clerici selvaggi, Mons.r di Mileto e il suo Teologo, mentre sapeva bene che non c'era alcuna relazione tra essi e la congiura. Da ciò si vede pure che non nacque allora la contesa giurisdizionale, siccome scrissero poi il Parrino e il Giannone, ma soltanto si rinfocolò, non potendo nemmeno entrare in mente che per vederla nascere dovessero passare oltre due mesi, quando tra l'uno Stato e l'altro non si faceva che lottare per la giurisdizione ogni giorno. Il Nunzio non tardò a trasmettere a Roma le pretensioni del Vicerè, tanto sul modo di formare il tribunale, quanto sul far venire a Napoli Mons.r di Mileto, e in tale circostanza partecipò le esecuzioni fatte, aggiungendo che avea mandato una prima volta il suo Mastrodatti in Castello, e non si era potuto dargli udienza, l'avea mandato una seconda volta e gli si era detto che i carcerati erano tenuti ad istanza del Vicerè! Faceva inoltre conoscere che si era presentato a lui fra Cornelio del Monte e gli aveva consegnato gli esami raccolti in Calabria d'ordine del Card.l di S.ta Severina, annunziando che dirigevasi a Roma per dar conto del suo operato, ed egli intanto avrebbe letto questi esami per valersene a tempo opportuno.—Come ben s'intende, fra Cornelio consegnava il processo di Monteleone e quello di Gerace, che d'allora in poi rimasero nelle mani del Nunzio, mentre una copia ne era stata già mandata dalla Calabria a Roma; ed è notevole, da una parte, che il Nunzio non aveva mai saputo nulla de' processi fatti in Calabria da ecclesiastici, e d'altra parte, che nemmeno questa volta fra Marco di Marcianise credè opportuno di mostrarsi, la qual cosa apparisce da una lettera posteriore scritta dal Nunzio al Vescovo di Gerace[6].

Pertanto il Vicerè si era già dato pensiero del tribunale pei laici, avea fatta la scelta del personale, e nella stessa sua lettera del 9 novembre l'annunziava a Madrid. «Avendo trattato nel Consiglio Collaterale della gravità di questo negozio e come conveniva procedervi con molta ponderazione, ho stabilito di nominare in qualità di Delegato Marco Antonio d'Aponte del Consiglio di S.ta Chiara, che è un uomo molto letterato, molto savio e di molta prudenza, e in qualità di Fiscale D. Giovarmi Sanchez del medesimo Consiglio, che lo assistesse il dottor D. Luigi Xarava Avvocato fiscale di Catanzaro, e che mi dessero conto nel Collaterale di tutto ciò che si andrebbe facendo, perchè lì si risolvesse ciò che fosse più conveniente. Credo bene che S. S. debba volere [Pg 6] quanto all'eresia che il Nunzio giudichi i frati e i clerici, quanto alla ribellione procurerò che giudichiamo tutti». Noi abbiamo potuto trovare nell'Archivio di Stato in Napoli la lettera Vicereale di commissione, la quale venne spedita a' suddetti Consiglieri il 15 novembre, e ci dà anche il nome del Mastrodatti di cui si prescrisse servirsi, che fu Giuliano Canale. Ricordato l'invio dello Spinelli in Calabria per la congiura che vi si trattava, l'informazione e gli atti da lui compiti, il gastigo dato a' più colpevoli e il trasporto in Napoli di tutti gli altri contro i quali non era «tanta subsistentia et chiarezza», il Vicerè si esprimeva in questi termini: «vi dicemo et ordiniamo, che reconoscendo le dette informationi et atti, debbiate nomine regio et nostro, summarie, simpliciter et de plano, sine strepitu et figura Judicii procedere ad omnes et singulos actus usque ad sententiam exclusive, però delli incidenti di maggior momento, che in ciò occorreranno, ci ne verrete a far relatione nel regio collaterale consiglio, et quando seranno le cause a sententia, debbiate similmente venire a farcine relatione, attal' che in presentia nostra si possano votare et sententiare, e dopoi essequirle (sic) quello che serà sententiato, et potrete procedere a tutti li atti incumbenti etiam in dì festivi et feriali, non compiendo che si vada ritardando in questo la bona et breve administratione della giustitia» etc.[7]. È una grande iattura che sieno perduti appunto i volumi intitolati Notamentorum relativi a questo periodo: in essi si sarebbero certamente trovate, co' processi verbali del Consiglio, le notizie, i pareri e le risoluzioni prese nei suddetti incidenti di maggior momento e nelle sentenze da doversi emettere[8]. La perdita è rincrescevolissima, poichè siamo ridotti ad avere a nostra disposizione un numero ristrettissimo di documenti, mentre sappiamo che il processo ebbe a travagliare almeno un 130 persone, e sebbene fosse stato spinto innanzi con quella sollecitudine che il Vicerè aveva ordinata, rimase aperto per più anni, come crediamo di poter dimostrare con sicurezza.—Per ora gioverà dare qualche notizia su' Consiglieri delegati a formare il tribunale pe' laici. Essi erano entrambi assai distinti personaggi. Marco Antonio d'Aponte, o de Ponte, apparteneva alla nobile famiglia di questo nome ascritta al Seggio di Portauova, alla quale, oltre varie Signorie, vennero mano mano i titoli di Marchesi di Morcone, di S. Angelo, della Padula, di Collonise, e poi anche quello di Duchi di Flumeri. Marco Antonio era del ramo di Nicolò 3.o de Ponte, primogenito di Gio. Felice Signore di S. Angelo e di Vincenza Galeota; Consigliere fin dal 1594 in luogo di Pompeo Salernitano, Prefetto [Pg 7] dei Deputati della pecunia nel 1598, divenne poi Membro del supremo Consiglio d'Italia, 1.o Marchese di S. Angelo, Presidente del sacro Regio Consiglio, Reggente del Collaterale. Il Santanna nella sua Storia de' De Ponte, ce ne diede il ritratto, che lo rivela uomo autorevole ed austero: molti ce ne trasmisero le lodi, un Codice manoscritto, che si conserva nella Nazionale di Napoli, ci trasmise le pessime qualità de' tre suoi figliuoli che ne amareggiarono gli ultimi anni[9]. Quanto a D. Giovanni Sances de Luna, apparteneva anch'egli ad una nobile famiglia di origine spagnuola, ascritta al Seggio di Montagna nel 1570, ed insignita del Marchesato di Grottola nel 1574. Era secondogenito di D. Alonso iuniore 1.o Marchese di Grottola, Tesoriere Generale, Consigliere del Collaterale e Grasciere, e di D.a Caterina de Luna figlia di D. Giovanni Martinez de Luna Castellano di Milano per Carlo V.o e poi Generale d'armata. Divenne, per donazione del padre, Signore di S. Arpino, comunque glie ne fosse stato contrastato il possesso da' suoi parenti con molte liti transatte più tardi[10]. Consigliere fin dal 1593 godè sempre moltissima riputazione, «fu amato, riverito e dopo morte desiderato» come dice il De Lellis. Una circostanza del suo parentado merita qui speciale menzione: la sua cugina D. Anna Sances, figlia di D. Loise Sances fratello del 1.o Marchese di Grottola, avea sposato Gio. Battista Morano Barone di Gagliato e quindi era cognata di Gio. Geronimo Morano: trovavasi poi già intavolato a questo periodo un matrimonio tra l'unica e ricca erede del Barone, D.a Camilla Morano, e un altro D. Giovanni Sances cugino di lei e del Consigliere, figlio di D. Giulio Sances. Potremmo aggiungere ancora che una sua nipote D.a Caterina Sances, nata da D. Alonso 2.o Marchese di Grottola e D.a Beatrice de Marinis, sposò il fratello di Carlo Spinelli D. Gio. Battista, che divenne Marchese di Buonalbergo[11]. Abbiamo già notato altrove, che il Campanella ha reso la circostanza del parentado del Sances col Morano assai importante per la nostra narrazione.

Mentre il tribunale pe' laici si costituiva, il Nunzio incontrava difficoltà perfino a far ammettere che gli ecclesiastici fossero tenuti nel Castello come carcerati suoi, la qual cosa pure era stata antecedentemente consentita. Dapprima andò presso di lui lo Xarava, a fine di persuaderlo che essendo costoro imputati di ribellione, non [Pg 8] si dovevano rimettere al foro ecclesiastico; di poi vi andò D. Alonso Manrrique a nome del Vicerè per lo stesso oggetto, e quest'ultimo si servì di un mezzo abbastanza adoperato dagli alti ufficiali spagnuoli, quello cioè di mantenersi nelle grazie di Roma e al tempo stesso nelle grazie della Corte di Madrid che si mostrava tanto tenera per Roma, scovrendo e compromettendo gli alti ufficiali napoletani; «questi Ministri, egli diceva, che pretendono che nel caso di ribellione possa procedere il Principe di propria autorità, potrebbero fare qualche male offitio alla Corte di S. M.ia contro S. E.». Ma il Nunzio, che a queste parole riconosceva subito la grande devozione del Manrrique verso Sua B.no, non poteva cedere, e in una udienza avuta dal Vicerè sostenne assolutamente che gli ecclesiastici dovessero tenersi come carcerati suoi, giusta gli ordini che da un pezzo e ripetutamente aveva avuti da Roma; tuttavia «per facilitare il negotio» diè «speranza» che S. S.ta avrebbe accordato l'intervento di un ufficiale Regio negli esami di essi intorno alla congiura, tanto più che il Vicerè gli fece destramente intendere che voleva intervenirvi di persona, ed egli ne rimase preoccupato. Così, in dato, del 12 novembre, fu scritto dal Vicerè al Castellano, che tenesse gli ecclesiastici carcerati in nome del Nunzio, e da costui, con la relazione di tutto l'andamento dell'affare, fu scritto a Roma che sarebbe bene accordare l'intervento di un ufficiale Regio negli esami degli ecclesiastici.—Pertanto, procuratasi una copia del biglietto del Vicerè, il Nunzio mandò subito a chiedere al Castellano se il biglietto gli fosse pervenuto, e il Castellano rispose che l'avea ricevuto, ma che nel tempo medesimo gli era stato detto di non dargli esecuzione se il Nunzio non si fosse recato personalmente in Castello! Queste tergiversazioni continue, e il disegno mostrato dal Vicerè d'intervenire egli medesimo negli esami degli ecclesiastici, davano a pensare al Nunzio che si volesse intaccarne la giurisdizione. E in siffatto senso, il 16 novembre, egli scriveva a Roma, aggiungendo che, se fosse costretto a fare qualche cosa, proporrebbe di lasciar trattare prima la causa dell'eresia, per la quale si dava anche premura di notare che era disponibile soltanto il Vicario Arcivescovile di Napoli, trovandosi assente il Vescovo di Caserta, e però bisognava ordinare chi dovesse sostituirlo, laddove così fosse sembrato a Roma[12]. Il Vescovo di Caserta D. Benedetto Mandina de' Clerici regolari, già Nunzio in Polonia, era a quel tempo il «Ministro della S.ta ed universale Inquisizione» o «Inquisizione de Urbe», successo in tale ufficio al Vescovo di Sorrento Mons.r Baldino morto nell'aprile 1598; trattandosi di un processo clamoroso e non ordinario, dovendovi essere un tribunale più largamente costituito, egli appariva un giudice naturalmente designato.

Si può ben dire che dalla parte del Vicerè e de' suoi ufficiali, [Pg 9] più del solito fine di custodire la giurisdizione Regia, vi fosse una grande diffidenza verso Roma; questo riuscirà sempre più chiaro in sèguito, ma fin d'ora è già chiaro abbastanza. Quantunque ognuno de' Regii si fosse affrettato a dire che evidentemente il Papa non teneva mano a' disegni del Campanella, in fondo nessuno dimenticò giammai che il nome del Papa era stato pronunziato come quello del gran motore dell'impresa; e così, per anni ed anni, il sospetto di una segreta protezione di Roma non fu mai abbandonato da tutti i Vicerè ed alti ufficiali, e influì anche troppo sulle loro determinazioni intorno al Campanella. Dalla parte di Roma, quasi non occorre dirlo, non eravi il benchè menomo interesse pel povero frate, ma tutti i pensieri erano rivolti a far «conoscere la superiorità ecclesiastica» giusta un'espressione del Nunzio; eppure avrebbe dovuto oramai farvisi strada anche il sospetto, poichè i dubbii già concepiti sulla bontà de' procedimenti usati con quegli ecclesiastici, nella Calabria, ricevevano una potente conferma dalle spiegazioni orali che fra Cornelio dava in Roma appunto a quei giorni.

Fra Cornelio, venuto co' carcerati in Napoli, dopo di aver consegnato al Nunzio i processi ne' quali avea rappresentata quella parte che conosciamo, si disponeva ad andar subito a Roma, e da una lettera del Nunzio si rileva che dovè partire il 12 novembre[13]. Intanto non avea mancato di visitare nel Castel nuovo almeno taluno de' frati carcerati. Dalla testimonianza di un altro carcerato per delitti comuni, inserta nel processo di eresia, sappiamo che visitò fra Silvestre di Lauriana, ed ecco in che modo fu riferita questa visita: «venne una volta un certo frate rossetto compagno del visitatore di Calabria, et fra Silvestre li dimandò alcuni dinari quali erano stati contribuiti in Calabria dali conventi, et massime che fra Silvestre disse haver detto tutto quello che havea voluto detto frate rosso llà in Calabria, et questo frate rosso lo consolò, dicendo che non poteva patere cosa alcuna perchè esso era solo testimonio, è così li diede nove carlini»[14]. Naturalmente dovè vedere ancora qualche altro, ma non ce n'è rimasta alcuna notizia: sappiamo invece che giunto col procaccio in Roma, fu subito interrogato dal S.to Officio, e i risultamenti dell'interrogatorio si leggono ne' Sommarii del processo di eresia[15]. Noi abbiamo già avuta occasione di darne un cenno altrove (ved. vol. 1.o pag. 259). In sostanza venne a dichiarare che prima fra Domenico da Polistina e poi il Soldaniero, e il Vescovo di Catanzaro e gli ufficiali Regii gli comunicarono tutte quelle cose che egli registrò nel processo; non potè determinare e neanche legittimare la provenienza di parecchie gravi accuse contro il Campanella, espresse nelle lettere che avea già scritte al Generale dell'Ordine e al Card.l di S.ta [Pg 10] Severina, sia quanto a detti e fatti del Campanella, sia quanto alla diffusione delle eresie di costui in molti paesi che avea specificatamente indicati; non potè dare altre informazioni al di là di quelle inserte nel processo, mentre in più lettere aveva affermato di poterle dare meglio a voce. Per tutti i versi egli «non soddisfece», e in verità sarebbe stato ragionevole un buon processo contro questo malvagio frate; ma si conosce che uno de' lati più deboli del S.to Officio, sia amministrato da' Commissarii speciali sia dagli Ordinarii, era appunto il rispettare coloro i quali bene o male davano prova di zelo nella scoperta delle cose d'Inquisizione. Così la città di Napoli non potè mai ottenere, malgrado i più insistenti reclami, che ad evitare le tante testimonianze false nelle cause di S.to Officio fosse lecito di conoscere i nomi de' testimoni; Roma vi si negò ostinatamente, non dissimulando che preferiva il rischio di avere testimoni falsi al rischio di non trovar testimoni, e contentandosi di ovviare alle testimonianze incerte con le ripetute, pazienti, laboriose informazioni. Vedremo che questo precisamente accadde nella causa del Campanella, non senza aggravare nell'animo del Vicerè e de' suoi ufficiali il sospetto che si volesse, con le lungaggini, sottrarre il Campanella e i frati inquisiti al gastigo che si meritavano. Ma se in Roma non rimaneva più dubbio che il processo era stato iniziato malamente, non si sarebbe anche dovuto ingenerare il sospetto per l'intervento degli ufficiali Regii nella causa della ribellione e tanto più rifiutarsi ad ammetterlo? Così avrebbe dovuto essere; ma si conosce, o almeno si conosceva ottimamente da' padri nostri, che Roma scansa volentieri la lotta con chi si mostra duro.

Il 17 novembre il Card.l S. Giorgio scriveva che S. S. stimava ragionevole l'intervento di qualche ufficiale Regio nella causa della congiura, e parimente la venuta del Vescovo di Mileto alla presenza del Vicerè; stimava insomma ragionevoli tutte le dimande Vicereali, se non che dichiarava dovere il Nunzio permettere all'ufficiale Regio «d'intervenire in effetto ma non già d'ingerirsi nel resto, et spetialmente nelle materie tangenti al S.to Officio», dovere inoltre ad ogni modo assicurarsi bene che fossero i prigioni «custoditi come prigioni suoi, et tenuti a sua libera dispositione». Evidentemente c'era un singolare contrasto d'idee, una indeterminazione curiosa, una voglia mal celata di rendere la concessione illusoria. In un'altra lettera del 19 si ripetevano le medesime cose, dicendosi, quanto agli esami degli ecclesiastici, che S. S. «giudicava conveniente che mentre s'interrogavano delle materie concernenti tal congiura, v'intervenisse qualcheduno per il Fisco Regio conforme all'instanza del Vicerè», donde parrebbe che volesse concedersi tutt'al più la presenza di un Avvocato fiscale Regio: dichiaravasi poi S. S molto soddisfatta del vigore mostrato dal Nunzio nella difesa della giurisdizione, avendo «preteso vanamente i Ministri regii di procedere di propria autorità nel caso, et nelle[Pg 11] persone de i sodetti». Ma la Corte di Napoli non aveva preteso di assistere vanamente al giudizio, sibbene di prendervi parte, poichè aveva anzi preteso che il tribunale dovesse comporsi tutto di laici, e i Ministri Regii non erano tanto dolci da contentarsi delle semplici apparenze, onde la quistione ebbe a durare ancora un pezzo.—Nella stessa data del 19, il Nunzio poteva finalmente scrivere a Roma che il Vicerè, dietro le sue lagnanze, avea mandato al Castellano un altro biglietto, col quale gli ordinava di ammettere chiunque fosse stato da lui inviato per eseguire qualunque suo ordine. E scriveva pure al Card.l di S.ta Severina, dicendo che gli ecclesiastici inquisiti erano 14 (ancora non sapeva che erano in maggior numero), e la carcere sua era «una sola et non interamente sicura per simili huomini», e però avea ricercato il Vicerè che si contentasse metterli in Castel nuovo a sua istanza come era seguito: donde risulta sempre più manifesto non esservi stata veramente mai, tra il potere civile e l'ecclesiastico, una quistione intorno al doversi quegl'inquisiti tenere nelle carceri Regie o in quella del Nunzio, il quale, al pari di tutti i suoi predecessori e dello stesso Arcivescovo, continuamente profittava delle carceri Regie per gì'inquisiti ed anche pe' condannati di una certa importanza. Infine scriveva ancora il Nunzio a' Vescovi di Squillace e di Gerace, dicendo che i carcerati erano giunti e si doveano con loro eseguire gli ordini che S. S.ta avrebbe dati. Ci mancano le lettere di questi Vescovi, e così pure quella del Card.l di S.ta Severina, alle quali il Nunzio rispondeva, e però non conosciamo il motivo preciso di queste risposte del Nunzio abbastanza oscure; ma parrebbe che il Card.l di S.ta Severina avesse giudicato poco corretto che gl'inquisiti ecclesiastici fossero tuttora rimasti in mano delle forze Regie, e che i Vescovi di Squillace e di Gerace avessero fatto tardivamente avvertire che si badasse bene alle qualità di clerici nelle persone del Caccia e del Pisano.

Non si saprebbe dire veramente perchè il Nunzio avesse tardato fino al 23 novembre per mandare a riconoscere gli ecclesiastici carcerati, mentre ne aveva facoltà fin dal 15: comunque sia, a quella data egli mandò il suo Auditore, il Rev.do Antonio Peri fiorentino, che vedremo figurare anche troppo durante il processo di eresia, poichè il Nunzio, occupato in altri affari, si fece sovente sostituire da lui. Lo mandò al Castellano con un suo biglietto che può leggersi tra' Documenti; qui occorre soltanto notare essere stato questa volta il Castellano più che gentile, avendo non solo fatta dare una stanza per gl'interrogatorii, ma anche «offerto ministri et ogni altra cosa per la tortura»! Nell'udire un simile sfoggio di cortesia da parte del Castellano, Mons.r Nunzio, che fino allora non era riuscito a nulla con lui, dovè rimanerne lusingato tanto, che non mancò di riferire anche quell'offerta a Roma[16].—È [Pg 12] necessario pertanto fare la conoscenza di questo Castellano. Egli era D. Alonso de Mendozza e Alarcon, di nobilissima famiglia, discendente da quel D. Ferdinando di Alarcon, il quale tenne prigione Re Francesco di Francia dopo la rotta di Pavia, fu creato Marchese della Valle Siciliana e poi anche di Rende, e maritando l'unica sua figlia a un Mendozza, volle che tutti i successori prendessero perfino il suo nome, onde si ebbe una serie di Ferdinandi de Mendozza e Alarcon Marchesi della Valle, che ingarbuglia un poco la storia della famiglia. D. Alonso era terzogenito di D. Diego de Mendozza, quarto figlio di D. Ferdinando Pietro Gonzales de Mendozza, 2.o Marchese della Valle, che morì governando lo Stato di Milano; egli avea sposato D. Maria de Mendozza figlia di suo zio D. Alvaro e di D. Anna di Toledo. Secondo il costume del tempo, l'ufficio di Castellano del Castel nuovo era da anni nelle mani dei Mendozza. Dopo la morte di D. Ferdinando Pietro Gonzales, 2.o Marchese della Valle, era passato al figlio D. Alvaro, e in una delle assenze di costui, che guerreggiò in Fiandra con molto valore, fu retto da D. Diego padre di D. Alonso; più tardi, nel 1595, D. Alvaro medesimo con licenza del Re ne fece rinunzia a D. Alonso suo genero, e tale rinunzia fu confermata nel 1596, continuando poi nel medesimo ufficio, dopo la morte di D. Alonso, anche i due figliuoli di costui D. Alvaro e D. Diego iuniori successivamente[17]. Tutti questi particolari non debbono reputarsi inutili, che anzi dovremo darne ancora altri più in là, essendo stato il Campanella in relazione con qualche persona della famiglia Mendozza e della parentela di essa.

Ecco ora un saggio della ricognizione fatta dall'Auditore del Nunzio il 23 novembre; ne prendiamo alcuni brani dal 1.o volume del processo di eresia, dove essa trovasi inserta. Precisamente come scrisse il Nunzio a Roma nella stessa data, si volle rilevare quali e quanti fossero gli ecclesiastici inquisiti, i loro nomi ed il luogo in cui si trovavano carcerati: così per la prima volta s'incontra un breve interrogatorio del Campanella e di tutti gli altri ecclesiastici, con la descrizione degli abiti di coloro che furono presi travestiti da secolari; non di rado vi s'incontra pure la notizia della patria, parenti, età e circostanze in cui ciascuno fu preso[18]. Il Campanella venne interrogato prima di ogni altro, e diamo qui la descrizione che se ne fece, e le due risposte che si ebbero alle due interrogazioni fattegli. «Fu esaminato un certo giovane, con barba nera, vestito di abiti laicali, con cappello nero, casacca nera, calzoni di pelle, ferraiolo di lana come volgarmente si dice panno di Morano arbaso, e deferitogli il giuramento» etc. rispose: «Signore, [Pg 13] Io mi chiamo Fra Thomasi Campanella dell'ordine di San Domenico, sono di una terra chiamata Stilo in Calabria ultra, mio patre si domanda Geronimo Campanella et mia matre Catherina basile. L'essercitio mio è di Religioso, dire l'offitio, messa, predicare et confessare, et l'habitatione mia è in Stilo nel convento detto Santa Maria di Gesù di detto ordine di S. Domenico, et si ben mi ritrovo vestito di questa maniera, è perchè fuggiva l'ira di miei inimici che mi persequitavano, cioè l'Avocato fiscale Don luisi Sciarava et Gio. Geronimo Morano che mi veniva appresso»... «Nell'anno 1581 mi pare ch'io entrassi nella Religione, et per prima era chierico». Due cose si fanno qui notare: l'una è che sua madre vien detta Caterina Basile, mentre è stato assicurato che ne' libri parrocchiali leggevasi Caterina Martello, e su questo ci siamo già spiegati fin dal principio della nostra narrazione (ved. vol. 1.o pag. 2); l'altra è che il Campanella scusa qui la sua fuga dicendo che gli «veniva appresso» Gio. Geronimo Morano, non Maurizio de Rinaldis.—Seguì l'interrogatorio fatto a fra Pietro di Stilo, nel quale si parlò ancora del Campanella, e ne diamo semplicemente le risposte. «Havrà da dudeci anni ch'io sono entrato nella Religione, et havrà da undici anni che hò fatto la professione, et di presente quando fui preso carcerato steva à Stilo nel monisterio di S.ta Maria del Gesù dove io era vicario»... «In detto convento vi erano quattro sacerdoti di messa et uno laico assistenti computati con me, et fra Dionisio Pontio ci soleva venire come una furia, et andava et veniva; li quattro sacerdoti sono prima io, il secondo fra Thomasi Campanella, il terzo fra Domenico di Riaci, il quarto fra Simone della Motta (si noti che il Petrolo non c'era), et non fu di altri che fugissero di detti frati solo il Campanella avertito da fra Dionisio pontio che venne à dire che era stato avisato che veniva il s.r Carlo Spinello contro di loro, et così si ne partirno, et questo è quello ch'io so della fuga loro».—Lasciando poi tutti gli altri interrogatorii, riporteremo soltanto quelli di fra Domenico Petrolo, di fra Giuseppe Bitonto e di fra Dionisio, con la descrizione de' loro travestimenti. Quanto a fra Domenico si scrisse: «Fu esaminato un certo giovane con piccola barba, vestito di abiti laicali, con casacca nera di panno d'arbascio, calzoni di panno color lionato, con ferraiolo egualmente di panno nero d'arbascio, dietro giuramento» etc. rispose, «Io mi chiamo fra Domenico de Stignano dell'ordine di S.to Domenico, et son figlio ad Augustino petrone (sic) et a lucretia pelegia, et l'essercitio mio è di studente sacerdote di Messa, et ha dui anni ch'hò predicato et sono stato assignato al convento di Cosensa et deputato al convento di S.ta Maria di Gesù di Stilo»; nè gli fu dimandato altro. Quanto a fra Giuseppe Bitonto, troviamo: «Fu esaminato un certo giovane con barba castagnaccia, vestito di abiti laicali, con giubba bianca, cappello nero e calzoni di arbascio nero e ferraiolo di panno nero, con[Pg 14] giuramento interrogato» etc. rispose, «Io mi chiamo fra Gioseppe Bitonto di san Giorgio et sono sacerdote di Messa et lettore» etc. «Quando fui preso carcerato fui preso in casa fuori alla vigna d'un mio zio, che mi ni era ritirato là per pagura di non essere preso, già che si diceva che tutti l'amici del Campanella dovevano essere presi et però mi ritrovo in questo habito che mi presero che steva dormendo, et li sbirri mi levorno la tunica et l'habito, et in questo carcere di notte e giorno stò solo». Infine quanto a fra Dionisio si scrisse: «Fu esaminato un certo giovane con barba nera vestito di abiti laicali, con casacca di ciambellotto, calzoni di scottano nero e ferraiolo nero, con giuramento interrogato» etc. rispose, «Io mi chiamo fra Dionisio Pontio da Nicastro et son frate dell'ordine di S.to Domenico et l'essercitio mio è di sacerdote lettore et predicatore et mio padre si chiamò Jacovo pontio et mia madre si chiamò lisabetta monizza»... «Io fui preso carcerato à Monopoli dove io era fugito et scappato da molti soldati nel convento di piczoni, perche mi fu detto da claudio crispo che erano venuti detti homini per carcerare li frati in detto monisterio». Si può qui notare che egli dicevasi avvertito dal Crispo, il quale era stato solito di dimorare in quel convento e forse allora vi mancava, non già dal Caccia il quale veramente l'aveva avvertito, e non conveniva che fosse nominato, per nascondere che era là venuto in sua compagnia.—Facendo questa rassegna, l'Auditore ebbe a trovare non 14 ma 21 ecclesiastici, come si rileva dalla Ricognizione originale, ed ebbe a sapere che altri tre di loro erano stati rinchiusi nel Castello dell'uovo, probabilmente per semplice disavvertenza: questi erano infatti fra Pietro Ponzio, Cesare Pisano e Giulio Contestabile, ma nella lista che ne fu redatta lo stesso giorno e che può leggersi tra' Documenti[19], fu messo non già il Contestabile, sibbene Gio. Tommaso Caccia che era stato già giustiziato! Chi si permise tale sostituzione evidentemente dolosa? Sarebbe difficile dirlo; ma poichè insieme coll'Auditore non v'era alcuno ufficiale Regio che avrebbe potuto far nascere tale equivoco, bisogna piuttosto dire che l'abbia fatto nascere il Nunzio medesimo, per mostrarsi ignaro di questo grave e d'altronde irrimediabile oltraggio arrecato alla giurisdizione. Il Vescovo di Squillace fin dal giorno 11 avea scritto un'altra volta al Nunzio nominandogli in particolare un clerico, naturalmente della propria diocesi, che con ogni probabilità dovè essere il Caccia; il Nunzio gli rispose che questo clerico era stato condotto in Napoli, e intorno a lui doveva eseguirsi l'ordine che S. S. darebbe, come altra volta gli avea scritto[20]; sicchè il trovarselo nella lista gli potè servire di ottima scusa. Ma se questo non fosse stato un artificio suo, avrebbe dovuto poi venire [Pg 15] il giorno delle lagnanze e de' risentimenti presso il Vicerè, allo scoprirsi dell'inganno; ora siffatto giorno non venne mai, e ciò mostra che Mons.r Nunzio non vide perchè non volle vedere, o per lo meno che le sue grandi cure intorno alla giurisdizione non erano dirette a proteggere le persone ecclesiastiche, le quali potevano perfino scomparire senza che egli se ne avvedesse.

Nel medesimo giorno 23 novembre il Nunzio mandò a Roma la notizia della ricognizione fatta e la lista de' carcerati ecclesiastici, che raggiungevano appunto il numero di 23, con l'osservazione che se n'erano trovati 9 di più ed un solo clerico selvaggio. Nel giorno 26 tornò sull'argomento e ripetè l'istanza che venisse l'ordine circa le persone le quali doveano costituire il tribunale per l'eresia, accertando che in questa materia i Ministri Regii non avevano alcuna pretensione d'intervenire, ma soggiunse: «temo bene che nel capo della congiura e ribellione non sia per bastare à medesimi Ministri l'intervenire, ma che vorranno apparirci principali, et che sotto lor nome si faccino i Processi non ostante che di ragione non convenga, per che ritraggo che dicono altra volta haverlo usato, et che sia solito de Principi in simili casi proceder de facto». Questo gli venne confermato poco dopo dal medesimo Vicerè in una udienza avuta, e mentre egli insisteva sulla necessità «che tutto apparisse fatto coram Judice ecclesiastico», il Vicerè mandò a chiamare il Reggente d'Aponte (che era Gio. Francesco Marchese di Morcone, cugino del Consigliere, figlio di Gio. Antonio e di Costanza Lanaria), e costui disse che «havevano trovato che con altre occasioni era stato dalli Antecessori di S. S. commesso ad uno de Ministri Regii che intervenisse come delegato Apostolico in trattar simili cause»; il Vicerè soggiunse che se ne farebbe istanza a Roma. Il Nunzio allora non obiettò altro, ma chiese che i tre ecclesiastici rinchiusi nel Castello dell'ovo si facessero condurre in Castel nuovo, e l'ordine in questo senso fu subito dato; fece in pari tempo notare che i carcerati ecclesiastici si erano trovati in maggior numero, ma un solo veramente era clerico selvaggio, e il Vicerè disse che non pensava che erano tanti! Insomma il Vicerè all'occorrenza rappresentava anche la parte dell'ingenuo, e mostrava sufficiente abilità in questo armeggio.

Non si tardò a commettere le trattative all'Ambasciatore di Spagna ed all'Agente Vicereale in Roma. Una lettera del Vicerè, in data del 30 novembre, ci pone in grado di conoscere lo stato delle cose dalla parte del Governo di Napoli: sarà bene riportarla qui tutta intera in italiano[21]. «Già tengo dato conto a V. M. dell'aver tradotto qua i prigioni di Calabria, e della giustizia che si fece di sei di loro all'entrata del porto. Contro i laici si va procedendo, avendo delegato per Giudice il Consigliere Marco [Pg 16] Antonio de Aponte, e per Fiscale D. Giovanni Sanchez, con ordine che ci vadano sempre dando conto in Collaterale di quanto si farà. I frati e clerici tengo posti tutti in Castel nuovo, con ordine che stiano lì in nome di S. S. e del Nunzio che risiede qui per lui, ma segretamente ho ordinato al Castellano che non lasci trarre di là nessuno. S. S. inviò ordine al Nunzio che risiede qui, perchè con lui, o col Giudice che egli deputerebbe pel compimento di questa causa, entrasse sempre un'altra persona di parte mia. Io non mi sono contentato con questo, e però faccio istanza per mezzo del Duca di Sessa e di D. Alonso Manrrique che mi rimetta la causa, e quando non potessi ottener questo, che S. S. nomini i Giudici che io le presenterò, o mi mandi un Breve perchè io possa presto nominarli in suo nome. Perciò ho trovato un decreto emanato al tempo delle rivolte del Principe di Salerno da due Reggenti di questo Collaterale, nel quale si nominano Giudici creati da S. S. e S. M., e così con questo ed altre ragioni convenienti faccio l'istanza suddetta, e in tale stato tengo il negozio. L'Inquisizione ancora, da parte sua, tratta di volere coloro che sono inquisiti di eresia; io vado rispondendo a tutto con buone ragioni e parole, e almeno procurerò che i capi principali, per una via o per l'altra, non escano di qui senza aver giustizia di loro» etc. Quest'ultima proposizione si vedrà affermata ancora più energicamente nelle lettere Vicereali consecutive, ed essa fa intendere il deciso proponimento del Governo contro il Campanella e socii, malgrado che da parte di Roma non apparisse alcuna premura di secondarlo.

Naturalmente a Roma tutta questa insistenza per farle sacrificare i dritti giurisdizionali non piaceva punto, e già, mettendo in un sol fascio i negozii comuni e quello de' carcerati per la congiura (26 novembre), il Card.l S. Giorgio dolevasi col Nunzio, perchè i Ministri Regii non sapevano lasciare i loro abusi e il Vicerè non riusciva quale si era mostrato da principio: allorchè poi comparve D. Alonso Manrrique (2 dicembre) con quella specie di dimande sopra menzionate, si affrettava a partecipare al Nunzio la maraviglia destata dal vedere che i Ministri Regii pretendevano «di fare la causa soli». Ma non tardò nemmeno a fargli sapere (4 e 5 dicembre) la risoluzione di S. S., che la causa della congiura dovesse farsi da lui «et da un Ministro Regio non coniugato in sua compagnia, che non essendo Chierico pigli la prima Tonsura per questa occasione, non essendosi lasciato persuadere S. B.ne di delegare persona meramente Laica»; ed aggiunse pure l'altra risoluzione di S. S. «di far venire a Roma... finita la causa della congiura» coloro tra gli ecclesiastici che erano inquisiti o sospetti di eresia, onde non solo non accadeva di deputare alcuno in luogo del Vescovo di Caserta, ma neanche si doveano agitare in Napoli siffatte materie. Evidentemente con quest'ultima risoluzione la Curia Pontificia rinfocolava i sospetti e si[Pg 17] preparava un'altra difficoltà, imperocchè non poteva presumersi con qualche fondamento l'assoluzione di tutti gli ecclesiastici, in una causa di congiura in cui vi erario già state dieci condanne di morte con otto esecuzioni, nè doveva attendersi agevolmente il rinvio a Roma di coloro i quali sarebbero riusciti condannati, senza far loro espiare la pena nel Regno. Intanto, poco dopo, il Card.l S. Giorgio fece anche sapere che sì spedirebbe un Breve particolare sopra il tribunale della congiura, ma desiderando il Vicerè che la causa non si differisse ulteriormente, S. S. voleva che il Nunzio vi mettesse subito mano, senza nemmeno aspettare il Breve, contentandosi inoltre «che il Fiscale e il Notaro sieno quali il Vicerè gli vorrà».—Come si vede, pretendendo sempre di più e con gran fretta, quasi non lasciando tempo alle repliche, il Governo guadagnò molto e sollecitamente. Il Papa non si riserbò nemmeno la conoscenza personale del Ministro Regio che doveva intitolarsi Delegato Apostolico e procedere in nome della S.ta Sede: bastava che, essendo celibe, avesse la tonsura, e non avendola se la procurasse, senza contare che avrebbe poi dovuto sempre il Nunzio trovarsi d'accordo con questo Ministro Regio, poichè in caso di disparità chi mai avrebbe sciolta la differenza? Ben di rado la sostanza fu tanto barbaramente sacrificata alla forma. Una relazione di D. Alonso Manrrique in data di Roma 4 dicembre, la quale fu poi mandata in copia a Madrid, ci fa conoscere i particolari delle trattative da lui fatte, e le notizie e i consigli che dava[22]. Ci basterà notare che nelle trattative egli svolse l'argomento, che il Vicerè non si fermava in puntigli di giurisdizione, ma solo desiderava riuscire ad accertare il delitto e gastigarlo per soddisfazione del suo Re, e a tal fine era un mezzo più a proposito quello de' Ministri di S. M. che quello del Nunzio: quanto poi alle notizie ed a' consigli che dava, gioverà riportare le sue stesse parole. «In tal negozio mi rimane solo a dire che desidero infinitamente che si riesca a mettere in luce la verità, essendo molti di avviso che non vi sia nulla da accertare in riguardo al Re, e che a' prigioni non debba mancare il tutore, come altre volte ho scritto a V. E.; oltracciò ho potuto capire che hanno in progetto lasciar finire questa causa, e subilo che sia conchiusa, richiedere i prigioni per la causa della fede, e tradurli qua, dove, dicono alcuni, se si giustificano intorno alla fede, sfuggiranno quest'altra pena, o per lo meno ne sarà l'esecuzione poco rigorosa, come accade nelle cause dell'inquisizione. V. E. vedrà ciò che si conviene fare. Abbastanza buono sarebbe che agisse in guisa da far commettere al Nunzio la causa della fede, perchè fatte costi le prove e riusciti convinti di qualcuno de' due delitti, non avendo null'altro da far provare, si possa meglio insistere per l'esecuzione della sentenza, chè se non si rimette costà il fare questa causa, passa pericolo [Pg 18] che si porti qua». Il consiglio del Manrrique, senza mostrare un negoziatore di alta levatura, mostra un uomo accorto, ed è superfluo dire che fu presto seguito.

Il Nunzio ricevè le lettere del Card.l S. Giorgio per mezzo dello stesso Governo di Napoli, poichè sovente le staffette Regie servivano anche per lui, e il 10 dicembre, avuta un'udienza, fece conoscere la risoluzione di Roma al Vicerè, il quale già ne era informato e potè comunicargli la risoluzione sua di deputare il Consigliere D. Pietro de Vera d'Aragona clerico di prima tonsura. Costui era spagnuolo e veramente assai distinto magistrato, Consigliere dal 1588, «erudito e giusto» come lo disse il Toppi[23]; ma apparteneva ad una famiglia tutta devotissima al Governo, avendo pure un cugino, Diego de Vera, in funzione di Pro-segretario del Vicerè appunto a quel tempo, inoltre uno zio, Francesco de Vera, Ambasciatore di S. M. presso la Repubblica Veneta. Il Nunzio, che lo conosceva, ebbe a dichiararlo «uno de' principali del detto Consiglio, così in lettere come in altre qualità»[24]. E si offerse subito a cominciare la causa «etiam senza il Breve»; ma riferendo queste cose a Roma espresse pure la sua opinione che passerebbe altro tempo prima di cominciare, ed intanto potea venire il Breve, «per non haver a mettere le lettere in processo per fondar la giuriditione». Più tardi, il 17 dicembre, riferì la comunicazione fattagli dal Vicerè dell'aver già nominato il De Vera per Giudice e lo stesso D. Giovanni Sances per Fiscale, la visita fattagli da costoro in sèguito di questa nomina, e la sua novella offerta di esser pronto a trattare la causa; ma aggiunse che il Vicerè stimava a proposito «aspettar detto Breve quanto alli ecclesiastici, poichè intanto si potea trattar contro laici».—Oramai, concluso l'affare, il Vicerè non avea più tanta fretta, o voleva egli pure un documento il quale suggellasse ciò che si era ottenuto e che lo rendeva molto soddisfatto. Questa sua soddisfazione rilevasi da una lettera che mandava a Madrid fin dal 13 dicembre, insieme con una copia della relazione di D. Alonso Manrrique, rilevandosi in pari tempo la sua costante premura che il Campanella fosse gastigato e l'annunzio della prossima esecuzione di altri laici già condannati[25] «... S. S. si risolvè di fare quanto V. M potrà comandar di vedere da questa copia di lettera di D. Alonso, che non mi pare si sia fatto poco; e così ho nominato D. Pietro De Vera, che è il Decano del Consiglio, tanto per le molte e buone [Pg 19] parti che tiene, quanto per essere tonsurato, e credo che l'avrà per molto bene; stimai anche nominare fiscale lo stesso D. Giovanni Sanchez, e Mastrodatti il medesimo; così comincerà subito a procedersi nel negozio, e di ciò che farà il dottore Marco Antonio de Ponte co' laici si darà copia a D. Pietro de Vera e al suo compagno pel procedere contro i frati e clerici. Odo che contro il Campanella sono ben provati tanto il delitto della ribellione quanto il delitto dell'eresia; procurerò, se posso, che si faccia giustizia pel primo, sebbene non riesca a persuadermi che li vogliano tradurre a Roma per l'eresia; ma, per sì o per no, farò istanza che quanto riguarda l'Inquisizione si rimetta qui al Nunzio. Di alcuni de' laici che sono convinti o confessi comincerà a farsi giustizia secondo la colpa di ciascuno; di ciò che si farà andrò dando conto a V. M.» etc.

Adunque il Vicerè poteva tenersi certo che il Campanella non la scamperebbe, e facendo trattare in Napoli anche la causa dell'eresia, per lo meno veniva ad assicurarsi che il povero frate non sarebbe mai più sfuggito dalle sue mani. Vedremo che il far trattare la causa dell'eresia in Napoli, non offendendo la giurisdizione, fu accordato senza la menoma difficoltà, laonde non si ebbero controversie da questo lato, e con la promessa del Breve sulla costituzione del tribunale per la congiura nel modo convenuto, ebbe realmente termine la contesa giurisdizionale. Noi abbiamo voluto esporla in tutti i suoi più minuti particolari, giacchè essa non rappresenta una delle contese ordinarie, e i suoi particolari soltanto possono dare qualche luce su' fatti che si svolsero di poi, sull'andamento e sugli esiti de' processi. Naturalmente il processo di congiura pe' laici sottostava all'azione, legale a que' tempi, del Vicerè e del Consiglio Collaterale, e il processo di eresia per gli ecclesiastici sottostava all'azione legale del Papa e della Sacra Congregazione Cardinalizia; basta dire che le sentenze erano profferite dai Giudici così come le imponevano le risoluzioni superiori dietro la relazione de' fatti delle cause. Ma sul processo di congiura per gli ecclesiastici chi avrebbe avuto influenza? Certamente col Breve Papale il Nunzio ed il Consigliere sarebbero risultati «Delegati Apostolici», ma poteva attendersi dal Consigliere che si fosse posto alla dipendenza del Papa e non già del Vicerè? Il fatto è che ciascuna delle due parti avea presa la sua strada, che il corso delle trattative ci fa vedere in un modo abbastanza chiaro, e ci permette di giudicare in un modo meno fallace. Dalla parte del Vicerè si voleva il gastigo del Campanella e degli ecclesiastici più compromessi, conforme al gastigo che già era stato dato e si continuava a dare ai laici; bene o male si credeva alla congiura e la si voleva punita. Dalla parte del Papa si voleva riconosciuta «la superiorità ecclesiastica», che «tutto apparisse fatto coram Judice ecclesiastico» secondo le espressioni del Nunzio; e ritenendosi non esservi «nulla da accertare in quanto al Re», si voleva che non mancasse «il[Pg 20] tutore» agl'inquisiti, secondo l'espressione del Manrrique. Ora se così ritenevasi, se conoscevasi pure essere stato malamente condotto in Calabria il processo primo e fondamentale da fra Cornelio, occorreva una tutela efficace, ed è agevole intendere che quel Breve sarebbe venuto a tutelare i diritti giurisdizionali, non le persone degl'inquisiti; è agevole anzi intendere che il desiderio di un tutore rappresentava piuttosto un argomento per non lasciarsi strappare del tutto le prerogative ecclesiastiche. Anche ammettendo, come noi ammettiamo, che il Campanella fosse stato giuridicamente colpevole, sarebbe stata giusta l'istituzione di un tribunale che avesse data guarentigia d'imparzialità, e l'espediente al quale si era ricorso non poteva riuscire a darla; poteva solo creare nuovi imbarazzi, come difatti li creò, senza giovare efficacemente al povero Campanella. Vedremo a suo luogo i termini ne' quali il Breve fu redatto, vedremo anche la condotta che tenne il Nunzio ulteriormente, e rimarrà dimostrato appieno ciò che qui affermiamo.

È tempo ora di occuparci della vita che menava il Campanella e tutta la turba degl'infelici venuti di Calabria: ecco quanto possiamo dirne, secondo le notizie che si trovano sparse qua e là nel processo e nelle altre scritture di S.to Officio. Una parte de' carcerati trovavasi nel Castello dell'uovo, e fra essi il Barone di Cropani, Ferrante Ponzio, Gio. Paolo e Tiberio Carnevale, Jacobo e Ferrante Moretti, Francesco Antonio d'Oliviero, Marco Antonio Giovino, Geronimo di Francesco, Giuseppe Grillo, Felice Gagliardo; la parte maggiore trovavasi nel Castel nuovo, e ci basterà nominare solamente Geronimo del Tufo, Maurizio de Rinaldis, e insieme con tutti gli altri ecclesiastici ed anche co' parenti suoi il Campanella. Mano mano molti carcerati dal Castello dell'uovo passarono del pari nel Castel nuovo, e segnatamente Ferrante Ponzio, Francesco Antonio d'Oliviero etc.; ma perfino un anno e mezzo dopo questo tempo di cui parliamo ve n'erano sempre alcuni nel Castello dell'uovo, p. es. il Gagliardo. Gioverà rammentare in breve qualche particolarità del Castel nuovo, poichè non ci mancano elementi per definire la parte di esso occupata da' carcerati calabresi, il torrione in cui il Campanella fu rinchiuso, ciò che ci sembra dover riuscire interessante al cuore di ogni persona bennata. Come conoscono gli amatori delle cose patrie, nel Castel nuovo si distingue il maschio o castello Angioino del 1283, fornito delle cinque maestose torri, due delle quali verso il mare e tre verso terra, e la falsabraca o revellino Aragonese del 1486, con le sue torri e cortine molto basse, poi successivamente elevate, che a' giorni nostri abbiamo visto con poco giudizio spianare. A' tempi de' quali trattiamo, la falsabraca con le sue torri in gran parte quadre era incomparabilmente più bassa di quanto possiamo ben ricordare averla vista, e le cinque torri del maschio, veri torrioni si elevavano un poco di più sul livello de' bastioni rispettivi, i quali non raggiungevano l'altezza attuale, come si può vedere abbastanza bene p. es. dalla gran carta[Pg 21] di Napoli incisa da Alessandro Baratta nel 1628, che ogni amatore delle cose belle della città ha certamente ammirata nel Museo di S. Martino. E possiamo aggiungere che a que' tempi si chiamava impropriamente «reveglino» lo spazio compreso tra il maschio e la falsabraca; infatti nel processo vedremo parlarsi di uno scritto buttato giù dalla «cancella... al reveglino tra le due porte, che risponde ala finestra dela carcere del Campanella», in un momento in cui egli veniva sorpreso da una visita del luogotenente del Castello in cerca di scritti. Le cinque torri Angioine poi si chiamavano, la prima sul mare, ad oriente, Bibirella, nome improntato certamente da quella porzione di mare che essa guarda e che ancor oggi dicesi dal volgo beveriello, l'altra egualmente sul mare, ad occidente, Talassia, vale a dire marina, dal nome greco corrispondente; le due laterali alla porta maggiore verso terra, costeggianti il magnifico Arco d'Alfonso, si chiamavano torri della porta; l'ultima, ad oriente, sì chiamava dell'Incoronata, dei Governatore o del Castellano, perchè vi abitava appunto il Castellano. Siffatti nomi non s'incontrano nel processo, ma nelle scritture ed anche ne' libri del tempo (basti citare il Capaccio), ed importa conoscerli per potersi intendere: nel processo s'incontra solamente più volte citata «la loggetta delle carceri,.. il piano della loggetta,.. l'arco e il corridoio della loggetta», dove potevano in alcune ore i carcerati minori salire e passeggiare, ed inoltre citato, il «torrione» da cui il Campanella dava i suoi Sonetti a Maurizio «calandoli con uno filacciolo», «il torrione» da cui il Campanella, mostratosi pazzo, predicava la crociata al «populo che andava a vedere ad impiccar uno», il quale spettacolo si conosce che eccezionalmente si dava nella piazza del Castello, mentre ordinariamente si dava nella piazza del Mercato. E vedremo da' Registri de' Bianchi di giustizia risultare, che l'esecuzione di Cesare Pisano fu fatta fare «vicino la Guardiola del Castello» (presso a poco dove fino a' giorni nostri e stata la posta delle lettere), e quella di Maurizio innanzi la «Chiesa di Monserrato» (che sta quasi dirimpetto) vale a dire all' ingresso dell'attuale Strada di Porto, che allora dicevasi Piazza dell'Olmo, vale a dire di prospetto alla torre del Castellano, senza dubbio per metterle sotto gli occhi del Campanella e de' suoi calabresi. Da tutto ciò può desumersi con bastante certezza che il Campanella sia stato rinchiuso nella torre del Castellano, sotto gli appartamenti di D. Alonso de Mondezza, e che le carceri occupavano i piani inferiori di questa torre e i bastioni vicini, tanto verso la torre Bibirella, quanto verso la torre corrispondente della porta, trovandosi appunto sulla sommità di questi bastioni la loggetta del Castello. La massa de' calabresi era mista con altri là detenuti, per imputazione o per condanna, sia in nome del potere civile sia in nomo del potere ecclesiastico, e ne vedremo figurare parecchi noi corso di questa narrazione: occupavano molti il carcere così detto «del civile», occupavano altri il[Pg 22] carcere criminale che stava più in alto e componevasi di camere più piccole, dove erano rinchiusi uno, due e fin quattro individui, secondo l'importanza di essi, disponendo per solito di un sol letto ogni coppia e venendo spesso tramutati da una camera nell'altra. I miserabili ricevevano un carlino al giorno (circa 40 centesimi), e sappiamo che così vivevano moltissimi, tra gli altri il padre del Campanella, il Tirotta, gli stessi frati, come fra Paolo della Grotteria, fra Pietro di Stilo, il Petrolo, il Bitonto, e senza dubbio anche il Campanella, dopochè fra Cornelio si aveva appropriato il danaro raccolto in Calabria per loro. Mercè qualche inserviente, e sopratutto qualche parente venuto di Calabria per assisterli, i carcerati potevano provvedersi delle cose necessarie al vitto, che erano soggette a visita quando s'introducevano nel Castello; e così sappiamo che un giovanetto Aquilio Marrapodi figlio di Gio. Angelo, oltre il padre, serviva i Ponzii, il Petrolo, il Lauriana e il Pizzoni, comprando «per questi monaci foglie, fave, carcioffi, radici et altre cose da mangiare»[26]; potremmo perfino dare qualche lista della magra spesa quotidiana che si faceva anche per taluni de' carcerati del Castello dell'uovo, essendo notata sul rovescio di alcune carte sequestrate al Gagliardo ed allegate nel processo[27]. Naturalmente i carcerati non mancavano di profittare di questo mezzo e di qualche altro ancora per mandarsi cartoline e biglietti, ciò che per altro era proibito; ma solamente più tardi dando pochi soldi a uno de' due carcerieri Alonso Martines ed Onofrio, nominati anche nella Narrazione del Campanella, riuscirono ad avere diverse concessioni che a tempo proprio vedremo. Gli ecclesiastici, servendosi, principalmente di motti latini, poterono con tanto maggiore facilità mettersi in qualche relazione tra loro dalle finestre: poichè sappiamo con certezza essere stati perfino i più compromessi, dal primo momento, posti nelle «segrete», ossia in camere capaci di una sola persona e tenute strettamente chiuse, non già nelle così dette «fosse»; in queste furono posti al tempo de' loro esami, quando i Giudici solevano darne l'ordine per indurli a confessare. Le fosse si trovavano a piede del torrione del Castello, e ricevevano luce da aperture che corrispondevano alla parete dell'antico fossato, il quale circondava il Castello e in origine poteva anche ricevere acqua dal mare; del resto non ne mancavano di quelle affatto oscure, e rinomata fra tutte era la fossa del miglio o del coccodrillo, nota fin dal tempo degli Aragonesi, nella quale il Campanella narrò di essere stato posto prima del tormento. Alcuni lavori fatti durante la prima metà di questo secolo, ad occasione dell'ampliamento della fonderia di cannoni là eretta, posero in mostra queste fosse con lagrimevoli iscrizioni ed anche con qualche residuo di scheletro, la qual cosa ribadisce che il torrione delle carceri, dimora del Campanella, [Pg 23] sia stato quello che abbiamo indicato[28]. Si aveano dunque, da sotto in sopra, le fosse, la carcere del civile a pian terreno, le carceri criminali che occupavano i due piani superiori: e sappiamo che nel primo periodo della prigionia il Campanella trovavasi in una carcere criminale del piano più elevato, e Maurizio in un'altra del piano più basso immediatamente sottoposta alla prima, sicchè poterono talvolta scambiarsi qualche parola, e perfino, mediante un filo, trasmettersi qualche carta[29]. Ogni lettore umano, passando in vista del Castel nuovo, vorrà, speriamo, rivolgere uno sguardo a quel torrione, con un pio ricordo de' generosi, che tanto vi patirono senza che l'opera loro sia stata nemmeno riconosciuta.

A due cose attese il Campanella assiduamente fin da' primi tempi della sua prigionia in Napoli, sollecitare la ritrattazione da coloro i quali aveano rivelato, dare animo a coloro i quali si erano mantenuti negativi o in qualunque modo gli si mostravano tuttora amici. Come già in Calabria, così in Napoli, egli rivolse le sollecitazioni particolarmente al Pizzoni e al Petrolo; non occorse che sollecitasse il Lauriana, perchè anzi costui in Gerace gli avea scritta egli medesimo una lettera, nella quale, gli comunicava l'esame di Monteleone, gli prometteva con giuramento che si sarebbe ritrattato, e finiva per dimandargli il modo di potersi ritrattare. Nè stentiamo a credere che talvolta le sollecitazioni del Campanella non sieno state espresse in forma di preghiere, onde i sollecitati poterono dire di avere avuto da lui «minacce»; se non che i pochi documenti che ne sono rimasti non lo confermano, e d'altronde vi furono tanti motivi di asserire e di smentire a vicenda queste cose, da non poterne facilmente assodare la verità. Al Petrolo, come dicemmo a tempo e luogo, avea fatte alcune sollecitazioni per via, tra Squillace e Gerace, direttamente; altre glie ne potè fare mediante Cesare Pisano in Monteleone, e poi ancora altre in Napoli [Pg 24] ne fece di persona dalla finestra. Così gli avrebbe detto che bisognava ritrattarsi o altrimenti capiterebbe male, che era caduto in irregolarità avendo deposto in causa capitale contro particolari etc.; ma vedremo ulteriormente, che quando si pose a scrivere Poesie gli scrisse anche un Sonetto al medesimo scopo, ed in esso non si leggono minacce bensì le maggiori lusinghe. Al Pizzoni poi avea pure fatte sollecitazioni mediante fra Pietro Ponzio in Gerace, ed altre glie ne fece in Napoli per lo stesso mezzo, giacchè vedremo con certezza aver lui potuto parlare con fra Pietro dalla finestra; ma poi gli riuscì di mettersi in comunicazione diretta col Pizzoni mediante lo scambio di un Breviario, e ciò che se ne disse in sèguito mostra che nemmeno vi furono minacce; ecco pertanto come il fatto venne riferito[30]. Si trovavano ciascuno in una segreta. Il Campanella dimandò al carceriere Alonso Martines un Breviario, e il carceriere gli portò quello del Pizzoni. Nel Breviario «fra Gio. Battista pose molti signacoli di carta larghi, fatti à posta di certi modelli di musica rigati con le note, et d'una lettera nella quale si vedea che li fosse stato dato avviso, che la Causa era già stata rimessa al sig.r Nuntio et à Don Pietro di Vera, et in detti signaculi scriveva ch'esso fra Gio. Battista havea detto à frà Silvestro che insieme seco deponesse cose di santo officio per scampar quella gran furia, perchè in quel muodo la Corte secolare à viva forza l'harebbe punito per l'heresie, e Ribellione, il che non harebbe fatto per la sola ribellione, ma di fatto l'harebbe appiccati, già che quelli di Catanzaro, che la revelorno, dissero, ch'il Papa la favoriva» etc. Dimandava anche il Pizzoni, in quelle cartoline, chi fosse stato quel frate che, secondo la cronaca di S. Domenico, ebbe dalla B.ta Vergine la rivelazione che mai monaco di S. Domenico sarebbe stato eretico, se molto tempo innanzi non avesse deposto l'abito, e diceva di confidare che avrebbe potuto facilmente ritrattarsi, e ricordava diverse autorità, come il Cipolla Veronese, che permetteva dir cose di eresia a' condannati a morte per essere protetti dal S.to Officio, e S. Girolamo che concedeva il mendacio ad evadendam mortem. E il Campanella, conservando presso di sè alcune cartoline più importanti, scrisse sulle altre «che havea fatto molto bene, et che frà Domenico Petrolo à sua persuasione havea seguitato l'esempio d'esso frà Gio. battista, con l'istesso intento di ritrattarsi, et che quel frate della revelatione ut supra fù Reginaldo si ben si ricordava etc., et li diede esso Campanella molte altre authoritati per tal difesa». Ma passato e ripassato tra loro questo Breviario, ed esaurite le cartoline, cominciarono a scrivere sul Breviario medesimo, ove poteasi vedere di mano del Campanella scritto «bene et fideliter... ut lacrimas emiserim prae laetitia», ed inoltre «Micheas propter timorem mortis prophetavit falsum, et adiuratus se se retractavit, 3.o Reg. 24». [Pg 25] E il Campanella si diè anche premura di far sapere queste cose a fra Dionisio che stava in un'altra segreta; ed avendogli mandata scritta «dentro un pasticcio una cartella di simili andamenti, entrati in sospetto li carcerieri, aprirono il pasticcio, et trovata la cartella quella presentarono al Vice Rè, come anco per veder così scritto et scacacciato il Breviario, quello anco presentorono al medesimo Vice Rè, et si disse, che furono da lui rimandate al fiscale». Siffatte cose, verificatesi durante un certo periodo di tempo, furono poi riferite da fra Dionisio; e potrebb' essere che vi sia stata qualche esagerazione da parte del relatore, ma bisogna convenire che nulla vi s'incontra d'inverosimile, salva sempre la quistione della serietà delle cose che si comunicavano i due scrittori nelle cartoline e nel Breviario. Poichè all'uno ed all'altro, sotto tutti gli aspetti, conveniva scrivere in quel senso; ma si può dubitare che esprimesse la verità il Pizzoni, il quale infatti non fece di poi nulla di ciò che scrisse, e si deve dubitare che esprimesse la verità il Campanella, il quale, mentre dicevasi allietato fino alle lagrime, ad ogni buon fine metteva in tasca qualcuna delle cartoline scritte dal Pizzoni, che egli oramai avea potuto ravvisare «bilingue». Vedremo infatti che al momento in cui il Campanella fu spogliato per essere sottoposto alla tortura, gli fu trovata una delle dette cartoline, ed anche un sunto dell'esame del Lauriana certamente scrittogli da costui, il quale soltanto può dirsi avere agito in buona fede, ma sotto l'impero di una stringente necessità; poichè evidentemente, spinto dal Pizzoni, si era posto in un brutto garbuglio, da cui non sapeva in qual modo districarsi, e temeva molto che ritrattandosi sarebbe capitato male.—Dobbiamo aggiungere che pure con Maurizio il Campanella si mantenne in relazione, e, a quanto sembra, dalla finestra, verbalmente, profittando del trovarsi le rispettive carceri l'una sopra l'altra; ma non dovè di certo sollecitarne la ritrattazione, ed invece si dovè forse scusare presso di lui. Come si seppe in sèguito, continuò a dirgli qualche particolare sugli uomini e sulle cose della ribellione disegnata e tanto acerbamente prevenuta: ma una volta Maurizio, abbandonata ogni illusione, gli disse che in que' travagli loro «era tempo di riconoscere Iddio, e che stava scandalizzato di quella parola che havea detto in Stilo, che Giesu christo era un'huomo da bene», immaginandosi esser lui «in opinione che christo non fusse vero figliolo di Dio»; e il Campanella gli rispose che lui, Maurizio, «non intendeva bene li negotii» nè si curò di fornirgli spiegazioni.

D'altra parte, dicevamo, il Campanella attese a dare animo agli amici: questo fece componendo Poesie, siccome troviamo ricordato dal Syntagma, dove per altro se ne parla con una completa confusione di tempi. Per fortuna, la raccolta che noi pubblichiamo, essendo stata fatta in un periodo ben determinato e relativamente breve, ci mette in grado di potere fino ad un certo punto assegnare alle diverse poesie la propria data, oltrechè ci fornisce precisamente[Pg 26] quelle composte fin da principio e con lo scopo di rinforzare l'animo degli amici, rimaste poi naturalmente inedite perchè compromettenti. Ma è facile intendere che pochissime potrebbero riferirsi ad un periodo anteriore al cominciamento de' processi, perocchè a questi si pose mano con sollecitudine, e il maggior numero si collega con le vicende del processo della congiura così de' laici come degli ecclesiastici; laonde, per non scindere di troppo l'esposizione di queste poesie, gioverà dapprima narrare ciò che sappiamo del processo della congiura, e in sèguito ricercare le poesie da doversi dire composte nel periodo in cui il detto processo fu istituito e svolto.

II. Veniamo dunque al processo della congiura pe' laici[31]. Dicemmo che la commissione Vicereale fu data il 15 novembre a Marco Antonio d'Aponte e a D. Giovanni Sanchez o Sances, con l'ordine di riconoscere le informazioni e gli atti di Calabria, procedere sommariamente sine strepitu et forma Judicii, e non ritardare la buona e breve amministrazione della giustizia, servendosi di Giuliano Canale per Mastrodatti. Vedemmo pure avere il Vicerè provveduto che lo Xarava aiutasse il Sances, e scritto a Madrid, il 30 novembre, che si andava già procedendo contro i laici, e il 13 dicembre, che si sarebbe cominciato a far giustizia di alcuni. Gli ordini del Vicerè furono eseguiti puntualmente, ed è chiaro che non si perdè tempo; solo dobbiamo notare che a Giuliano Canale venne sostituito Marcello Barrese, il quale servì da Mastrodatti egualmente nella causa della congiura per gli ecclesiastici, e di tale sostituzione ci rimane tuttora ignoto il motivo.

Secondo il costume del tempo, si procedeva separatamente e successivamente per un determinato individuo o per un determinato gruppo d'individui, e si sentenziava a misura che si compivano gli atti ad essi relativi: così vi furono condanne ed esecuzioni in Calabria, e poi in Napoli, ed analogamente vi furono altre condanne od invece assoluzioni di tempo in tempo. Trovandosi due già condannati a morte in Calabria, Maurizio de Rinaldis e Cesare Pisano, sopra di essi appunto cominciò a svolgersi l'opera del tribunale, certamente per averne, se fosse stato possibile, rivelazioni in danno anche degli altri, al quale scopo si era giudicato meglio tenerli ancora in vita; con gli atti relativi a costoro ebbe ad iniziarsi il 3.o volume del processo, al sèguito di quelli compiuti in Calabria. Maurizio non avea confessato nulla malgrado gli orribili tormenti avuti; ricominciarono per lui in Napoli gli esami e ricominciarono i tormenti non meno crudeli. Il Campanella medesimo [Pg 27] cantò che Maurizio il primo avea vinto i tormenti antichi e sprezzato i nuovi, che avea sofferto tormenti inusitati per trecento ore[32]. È facile qui vedere una esagerazione poetica, ma, come abbiamo già avuta occasione di dire altrove, Mons.r Mandina, il quale fu più tardi Giudice dell'eresia e potè saperlo in modo autentico, affermò che era stato tormentato per settanta ore, alludendo con ogni probabilità a' soli tormenti avuti in Napoli. Per quanto possiamo giudicarne, egli dovè soffrire due volte, a breve intervallo, il tormento della veglia, ne' modi e forme che vedremo con tutti i loro particolari in persona del Campanella, il quale lo soffrì in sèguito, per una volta sola, nella causa dell'eresia. Comunque il tormento della veglia dovesse durare quaranta ore, pe' modi enormemente aspri con cui si amministrava sopratutto in Roma e in Napoli, quasi mai si giungeva a siffatto termine, senza che il paziente cadesse in tale prostrazione da far cessare la prova innanzi tempo, tanto più che il Giudice era tenuto a rispondere della morte di lui se avesse soccombuto nel tormento; e la prostrazione, quando gl'individui erano di buona tempra, ordinariamente si verificava fra le trenta e le trentacinque ore, ed ecco le settanta ore di tormento affermate dal Mandina. Nè rappresenta una difficoltà il leggersi «tormenti inusitati», poichè appunto tra questi era annoverata la veglia, e vi si ricorreva soltanto per casi straordinarii, mentre poi d'altra parte i Giudici di professione, a differenza de' «Capitani a guerra», doveano pure contenersi in quelle categorie di tormenti, che erano ammesse da' Giuristi e dalle consuetudini di ciascun paese[33]. Ad ogni modo le prove furono terribili, eppure vennero nobilmente superate da Maurizio: il fortissimo uomo non fece la menoma rivelazione, soffocando qualunque rancore, mentre già conosceva di essere stato nominato fin troppo nella Dichiarazione del Campanella! Ma durante i tormenti venne senza dubbio fatta la protesta che lo s'interrogava «citra prejudicium probatorum»; e poi, benchè non confesso, era pur sempre convinto, e gli si potè confermare la sentenza di morte, condannandolo ad essere appiccato e squartato certamente con la formola del tempo, «suspendatur in furcis adeo quod anima a corpore segregetur, eiusque cadaver in quatuor frustra dividatur». È superfluo poi dire che la sua casa doveva essere demolita ed aspersa di sale, e i suoi beni dovevano essere [Pg 28] confiscati: «domus propria diruatur funditus, et solo aequata, in ea sale asperso, destruatur; singula eius bona publicentur, et fisci commodis applicentur». Vi fu dunque la conferma della sentenza di morte già pubblicata in Calabria, e non poteva essere altrimenti; deve dirsi inoltre che vi fu una mitigazione nella specie del supplizio, in paragone di quello tanto spaventoso sentenziato dallo Spinelli forse a proposta dello Xarava, ed anche da questo lato non poteva essere altrimenti, perocchè il tribunale non era come il precedente «ad modum belli». Dopo ciò è facile giudicare quanto il Campanella scrisse molto più tardi, nella sua Narrazione, circa l'influenza che avrebbe avuta nella condanna di Maurizio l'amicizia e la parentela del Sances col Morano, il quale desiderava la morte di Maurizio per ereditarne un feudo e stringere una nuova parentela col Sances mediante un matrimonio. Con un po' di confusione di tempo e di circostanze, mostrato già in corso e bene avviato il processo degli ecclesiastici che invece non era cominciato ancora, il Campanella scrisse: «Sendo stato fatto fiscale in luoco di Xarava D. Gio. Sances, la cui sorella havea per marito il Baron di Gagliato, fratel di Giovan Geronimo Morano, il cui figlio per dispensa venuta del Papa stava per pigliar la figlia unica del Barone, nepote del Sances, e perchè detto Morano havea scorso il regno e preso Mauritio e F. Dionisio carcerati con molto vantaggio e sperava dal Rè un Marchesato, come si vantava publicamente, e di più desiderava la morte di Mauritio, perchè morendo senza herede mascolo esso Mauritio, il Morano hereditava di quello un feudo, come poi l'hereditò. Per questo il Sances oltra le sue pretendenze et amicitia delli processanti non cercò s'era vera la ribellione ma si sforzò verificarla, e far morir Mauritio». La parentela del Sances col Morano è fuori contestazione, ma è un fatto che il Sances non poteva non trovar vera la ribellione, e che Maurizio non poteva in alcun modo scansare la morte, come nemmeno la scansò quando più tardi fece sotto il patibolo una spontanea confessione di ogni cosa. E dobbiamo aggiungere che alla mano della figlia unica del Barone di Gagliato, D.a Camilla Morano, a quel tempo di soli dodici anni, aspirava il cugino del Fiscale, un altro D. Giovanni Sances, figlio di D. Giulio, che difatti la sposò più tardi, nel novembre 1605, avendone in dote la terra di Gagliato e il rinomato feudo di Burgorusso in tenimento di Stilo, e fu lui che divenne poi Marchese di Gagliato. Non sarebbe veramente difficile che vi avesse aspirato anche il figlio di Gio. Geronimo Morano, giacchè abbiamo nel Grande Archivio documenti i quali mostrano la gran cura del Governo nel far tenere D.a Camilla in Monastero, secondo i principii dell'ingerenza governativa ne' matrimonii de' nobili a' tempi feudali[34]. Ma è evidente che in un [Pg 29] simile conflitto di rivali non avrebbe potuto esservi nemmeno amicizia tra il Sances e Gio. Geronimo. Vedremo poi come finirono i beni di Maurizio, il quale forse potè essere semplicemente subfeudatario di una parte di Borgorusso, mentre le ricerche più ostinate su tale punto non ci hanno fatto sinora scovrire alcun feudo speciale di quella regione da lui posseduto. Nella detta ipotesi la morte di Maurizio nemmeno avrebbe profittato a Gio. Geronimo, ma a D.a Camilla; ad ogni modo quanto era già avvenuto, anche prima che la causa si agitasse in Napoli, mostra nel modo più chiaro che il Sances non poteva che dimandare ed ottenere la condanna di morte per Maurizio[35].

[Pg 30]

Intorno a Cesare Pisano, che il Nunzio aveva nella sua lista qual clerico, e il Governo riteneva doversi continuare a trattare qual laico, non sappiamo come si sia veramente proceduto nel tribunale di Napoli: sappiamo solo ciò che ne disse il Nunzio quando venne a conoscere l'esito del giudizio, scrivendone una lettera di lagnanza al Vicerè, nella quale lo avvertiva aver inteso che contro del Pisano «si procede con tanto rigore per il capo della ribellione, che senza ammettergli ne anche la probanza del Clericato è stato condannato à morte». Forse il tribunale stimò che avesse confessato abbastanza, e che invece di far nascere la quistione giurisdizionale col rumore di nuovi esami e nuovi tormenti, fosse preferibile dare un saggio di vigore confermando la condanna ed eseguendola senza curarsi d'altro. Lo argomentiamo dal conoscere la prolissa maniera di rispondere, che il Pisano era solito di usare ne' suoi interrogatorii, onde non sarebbe mancata poi la citazione di qualche notizia tratta da un nuovo interrogatorio, laddove questo ci fosse stato.

La condanna di Maurizio, e così pure quella analoga del Pisano, doverono pronunziarsi o almeno decidersi nel Consiglio Collaterale il 10 o 12 dicembre, poichè il 13 già si trasmetteva a Madrid la notizia di prossime esecuzioni. Difatti pel giorno 20 si allestiva certamente l'esecuzione di Maurizio, e molto probabilmente anche quella del Pisano, onde il Nunzio nel giorno 19 potè conoscere che costui era stato condannato a morte, e potè scriverne in fretta al Vicerè, facendogli notare, che non solo come clerico il Pisano avrebbe dovuto essere giudicato pure da lui «secondo l'appuntamento fatto con S. S.», ma anche come molto informato dell'eresie suscitate dal Campanella, «e forse della medesima setta», dovea essere riserbato; «non per campargli la vita, egli scriveva, se merita perderla per il capo della ribellione, ma per riscontro et castigo di quel che appartenesse al S.to Officio», supplicandolo di «non permettere che la causa della ribellione humana [Pg 31] si solleciti tanto che pregiudichi à quella della ribellione divina, perchè si sarà in tempo di castigar l'una et l'altra»[36]. Il Vicerè sospese allora la faccenda in quanto al Pisano, per farla sopire e darle poi corso più tardi a modo suo, di sorpresa. Rispose al Nunzio in termini generali, che in tutto ciò che si poteva servirlo, stesse certo, che lo si farebbe, e sarebbero liberati coloro che non paressero colpevoli in delitti così gravi, etc.[37]; non prese quindi alcuno impegno determinato, ed egualmente fece allorchè più tardi il Nunzio glie ne parlò, dimostrandogli che bisognava sempre mantener vivo il Pisano per riscontro delle cose del S.to Officio, anche quando i suoi Ministri non lo ritenessero clerico, come non lo ritenevano perchè non avea nemmeno indossato l'abito clericale «non ostante che mostrasse di haver preso gli anni passati gli ordini minori»[38]. Il Vicerè non lasciò intendere la sua opinione, e frattanto, con molta unzione, si diè premura d'intercedere a Roma, perchè fosse assoluto il Principe di Scilla, già scomunicato per l'affare di Marco Antonio Capito dal Vescovo di Mileto.

Ma in quanto a Maurizio, il 20 dicembre si andò per l'esecuzione; se non che una circostanza affatto impreveduta la fece poi sospendere per quel giorno. Massime il relativo documento da noi trovato nell'Archivio de' Bianchi di giustizia, ed inoltre una lettera del Residente Veneto, ce ne dànno sufficienti particolari. Giusta la consuetudine, il condannato doveva uscire dalle carceri della Vicaria, ed a spettacolo pubblico traversare una gran parte della città, percorrendo la via oggi detta de' Tribunali, scendendo pel vico Nilo (che perciò dicevasi «degl'Impisi» e fino a' giorni nostri fu detto «Bisi»), per dirigersi di là alla piazza del Mercato, ovvero scendendo per la via di Toledo e girando presso Palazzo (e ben s'intende che qui si parla del Palazzo vecchio), per dirigersi alle adiacenze di Castel nuovo. Maurizio fu egli pure tradotto dapprima alla Vicaria, e poi di là, sopra un carro, certamente perchè inabilitato a muoversi dietro le torture sofferte, facendo il lungo giro sopraindicato fu tradotto «a vista del Castel novo»; ma giunto sotto la forca egli dichiarò di voler rivelare ogni cosa, ed allora l'esecuzione fu sospesa. Ecco come il fatto trovasi esposto nel Registro de' Bianchi di giustizia: «et à di xx di xbre se andò in Vicaria con tutta la compagnia, et uscì la giustitia sopra un carro, et essendo già sotto la forca se risolse detto Mauritio confessare et rivelare li complici della ribellione, et così non si eseguì la giustitia et ritornò in Vicaria con essersi trattenuta la [Pg 32] compagnia un pezzo dentro la chiesa di Monserrato»[39]. Come mai Maurizio fece questa risoluzione? Egli stesso nelle sue ultime rivelazioni a' Delegati del S.to Officio, sul punto di essere definitivamente condotto alla forca, lo spiegò in questi termini: «Io sapendo che frà Thomaso si era esaminato contra di me, havendo io avuto più volte la corda, non hò voluto mai dire cosa alcuna contra di essi frati, è si bene poi hò ditto la verità, è stato perche sono stato consigliato che era obligato a dirlo per scarico dela mia conscientia, si come me hà ditto lo mio confessore dela Compagnia di quelli che confortano quelli che si vanno à giustitiare»[40]. Non altrimenti ne scrisse pure a Roma il Nunzio medesimo quando era già cominciata la causa degli ecclesiastici, ed egli, come Giudice di quella causa, poteva e doveva saperlo: «condotto alle forche si risolvette à dire spontaneamente, et per scarico di conscienza, tutto quello che sempre haveva negato nei tormenti»[41]. Inoltre, poco dopo l'accaduto, come vedremo più sotto, il Residente Veneto ne fece relazione al suo Governo negli stessi sensi, aggiungendo qualche altra circostanza degna di nota. Ma il Campanella, dapprima nella sua Difesa che noi pubblichiamo, poi nelle Lettere del 1606-07 pubblicate dal Centofanti, da ultimo nella sua Narrazione pubblicate dal Capialbi, riferì le cose assai diversamente, con circostanze che meritano di essere ben chiarite, poichè ognuno comprende l'estrema importanza del fatto, da cui, secondo la diversa interpetrazione, riesce suggellata o invece scossa profondamente l'esistenza della congiura o almeno la parte presavi dal Campanella. Dapprima dunque nella Difesa asserì che Maurizio «volle vendicarsi di quanto fra Tommaso scrisse in Castelvetere contro di lui», e che «ebbe speranza di redimersi all' ultimo momento col far dichiarazioni contro fra Tommaso, poichè così lo persuase un certo fiscale in abito di confrate promettendogli la vita sotto parola del Re come poi fra Tommaso udì dalla bocca di lui» (queste ultime proposizioni furono aggiunte per uso de' Giudici propriamente dell'eresia). Nelle Lettere al Papa, al Card.l Farnese, al Card.l S. Giorgio, al Re di Spagna, rinforzò le assertive anteriori scrivendo, che «sotto verbo Regio fecero confessar a Mauritio mille bugie», che Maurizio «per altra causa morendo sulle forche persuaso dal falso fiscale e confessore tornò in prigione e disse mirabilia et non subsistentia», che gli «fu promessa la vita sub verbo regio che dicesse su la forca quel ch'in mille tormenti negato havea», che «fu ingannato sotto parola della vita dopo molti tormenti quando andava a morire e disse [Pg 33] mille bugie»[42]. Infine nella Narrazione, scritta tanto più tardi, espose i fatti con tanto maggiore disinvoltura in questi termini. «Però vedendo esso Sances, che non si potea verificare la ribellione, perchè Mauritio con torture terribilissime in Calabria non havea confessato con tutto che Xarava lo torturò un'altra volta dopo condannato e confessato, dicendoli ch'il confessore era un secolare vestito di monaco per spiarlo: nè pur in Napoli poi confessò tormentato di novo: si vestir di confrati bianchi certi Consiglieri, fingendo che volean farlo morire: et esso Sances con un Gesuino confessor del Vicerè, li promisero la vita in verbo regio, se confessava la ribellione sopra la forca, perchè havesse color di verità. E Mauritio temendo morir de mandato regio perchè havea ucciso un suo cugino et una femina, et andato sopra le galere turche per scampar la vita confessò sopra la forca quando andò fintamente ad appiccarsi». Pur troppo questo garbuglio del Campanella è de' più dolorosi, e si può intendere ma non si può assolvere che egli abbia dovuto infamare Maurizio in tal modo. La condanna di Maurizio alla morte, come convinto di ribellione, era stata pronunziata già una volta in Calabria, e principalmente per colpa del Campanella medesimo; nè bisognava affaticarsi perchè la ribellione acquistasse «color di verità», quando il Campanella l'aveva così bene affermata nella sua Dichiarazione dando anche la spiegazione precisa dell'andata di Maurizio sulle galere turche, e già ad otto persone era stato inflitto l'estremo supplizio per essa. Il confondere gli omicidii anteriori di Maurizio col suo caso ultimo, il voler far credere che avrebbe potuto scampar la vita confessando quella ribellione per la quale era condotto alla forca, l'asserire che «andò fintamente ad appiccarsi» quasi che non vi fosse stata una precedente condanna in tal senso, tutto ciò è ben poco serio; ed egualmente è ben poco serio, o meglio iniquo, il voler mostrare Maurizio divenuto vigliacco a un tratto, dopo le splendide prove di fermezza da lui date, dopo gli splendidi attestati del Campanella medesimo espressi già nella Dichiarazione e in sèguito nelle Poesie. Può bene ammettersi nel Sances e nel Gesuita confessore del Vicerè (P.e Ferrante de Mendozza) ogni specie di tentativo per indurre Maurizio a confessare la ribellione, ma non in Maurizio tanta dose d'ingenuità da cedere segnatamente a quella specie di promessa che il Campanella si fece a narrare. Quanto poi all'esservi stati Consiglieri vestiti da confrati bianchi, i quali esercitarono la loro influenza su Maurizio per farlo confessare, la cosa potrebbe ritenersi nel senso, che qualche confrate addetto a confortare Maurizio allorchè andava a giustiziarsi, per eccesso di zelo, abbia avuto premura di suscitarne gli scrupoli e mostrargli la necessità di confessare per salvarsi l' anima. Si potrebbe [Pg 34] ritenerlo in astratto, poichè, come ricordano i nostri Storici ed attestano varii documenti, non una volta a quella benemerita Compagnia de' Bianchi furono mosse accuse di questo genere ed anche di genere opposto, da' particolari ovvero dal Governo, essendovi stato motivo di ritenere che i confrati avessero spinto qualche condannato alle confessioni ovvero alle discolpe; ma dobbiamo pure soggiungere che nel caso concreto Maurizio medesimo ebbe più tardi a dichiararlo a' Delegati del S.to Officio; se non che sarebbe difficile sostenere essere stato spinto alla confessione dolosamente e dietro manovre del Sances e del Governo. Per disgrazia questa volta non abbiamo nemmeno i nomi de' confrati intervenuti, che i Registri della Compagnia dànno sempre, specificando anche coloro i quali hanno assistito il condannato all'ufficio, per la strada, alla porta, alla scala o al talamo secondo le specie del supplizio: essendo mancata l'esecuzione, non vi fu un annotamento apposito, ma vi fu la seconda volta, quando l'esecuzione si compì, e non sarebbe troppo arrischiato l'ammettere che pure la prima volta fossero intervenuti i confrati medesimi. Laddove questa ipotesi dovesse ammettersi, potremmo dire certamente non essere intervenuti Consiglieri nè Fiscali, essere stati i due principali confortatori, che maggiormente avrebbero avuto ad influire, il P.e Palescandolo governatore della Compagnia il quale avrebbe assistito Maurizio lungo la strada, e D. Scipione Stinca egualmente sacerdote oltrechè dottore (ed avremo a vederlo più tardi difensore officioso della maggior parte de' frati nella causa dell'eresia), il quale avrebbe assistito Maurizio alla scala, dove appunto egli dichiarò voler fare le sue rivelazioni: vi fossero poi stati anche Consiglieri e Fiscali, si sa che la Compagnia ne annoverava molti, insieme co' più distinti personaggi del paese[43]. Ad ogni modo può dirsi certo che Maurizio non fu indotto a confessare [Pg 35] da alcuna ragione vituperosa, bensì da una ragione che può non essere stimata giusta, ma non può non essere rispettata, tanto più che trovasi in tutto conforme a' precedenti di lui. Da niuno fu detto mai, in quel tempo, che avesse confessato per vigliaccheria o per capitolazione, e fortunatamente abbiamo la relazione del Residente Veneto, la quale ci fa conoscere assai bene i desiderii e le condizioni che Maurizio espresse dopo la condanna e al momento dell'esecuzione; è superfluo dire che vi si può credere senza riserve, non trattandosi di fatti avvenuti fuori Napoli ovvero in segreto, pe' quali soltanto riesce difficile aspettarsi l'esattezza dal Residente, come s'incontra in realtà anche questa volta per talune circostanze che leggonsi in fine del suo dispaccio. Eccolo questo dispaccio, che porta la data del 28 dicembre, e che, unito alle affermazioni del Nunzio sopra citate, ci pare che venga a togliere ogni dubbio sul fatto in quistione. «Quel Mauritio Rinaldi famoso per essere stato capo della congiura et non meno perchè ogniuno sapeva, che dal signor Carlo Spinelli era stato condannato di esser segato vivo tra due tavole, condotto di ordine del Vicerè a' 23 del presente a vista del Castelnovo per dover essere impiccato, et poi squartato, non havendogli giovato di offerire sei mille ducati più di alcuni suoi beni liberi confiscati, per ottenere che per non derogar al suo nascimento di nobiltà gli fosse solamente tagliata la testa, giunto al luogo del supplicio, tutto converso a Dio, disse, che havendo in questa sua prigiona sofferto in tre mesi quaranta hore di corda, et altri tormenti per i quali si trovava tutto attratto et quasi morto senza haver mai confessato alcuna cosa, haveva à bastanza comprobato che egli per viltà non consentiva di mancar di fede a' suoi collegati, ma che allhora, essendo all'ultimo cimento dell'anima, per non seppelirla nell'Inferno voleva scoprir tutte le cose trattate senza niuna conditione di salvarsi la vita. Fu però per ordine di Sua Eccellenza trapposto più tempo alla sua morte, et hà egli manifestate cose maggiori che non si sapevano, et nominato persone di qualità per infette della heresia et della rebellione, onde, non ostante gli ordini di Spagna che furono che si procurasse di poner in silentio quanto prima questa materia, incominciano pur hora i processi et le retentioni»[44].

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Ripigliamo il racconto particolareggiato di quanto accadde, dopochè Maurizio manifestò la risoluzione di voler confessare ogni cosa. L'esecuzione fu sospesa ed egli venne ricondotto nelle carceri della Vicaria, come ci fa conoscere il documento esistente nell'Archivio de' Bianchi. Nè confessò sotto la forca, come risulterebbe dalla dicitura poco precisa della Narrazione del Campanella ed anche di qualcuno de' documenti per gli ecclesiastici conservati in Firenze, ma confessò per lo meno il giorno dopo nel tribunale. Questo si argomenta da una lettera del Vicerè, il quale trasmise subito a Madrid, il giorno 21, la risoluzione presa da Maurizio, ma solamente più tardi potè annunziare che avea confessato «e molto bene», senza per altro dire i particolari della confessione[45]. Si argomenta inoltre dall'ampiezza della confessione medesima, la quale, scritta, occupò per lo meno 32 fogli, come si rileva da' numeri notati pei brani di essa inserti ne' suddetti documenti conservati in Firenze. Aggiungiamo che da questi documenti si rileva pure essere stato tale atto tenuto sciolto, ma al sèguito del 3.o volume del processo; la qual cosa si spiega benissimo, considerando che erano stati già compìti tutti gli atti relativi a Maurizio ed anche quelli relativi al Pisano, allorchè si ebbe la lunga confessione del tutto inaspettata.

Ecco ora quanto sappiamo delle cose confessate da Maurizio, poichè ne sappiamo appena quella parte che si trova inserta a brani ne' documenti per gli ecclesiastici sopra citati, e quindi siamo ben lontani dal possedere tutta intera la confessione[46]. Maurizio andò una notte al monastero di S.ta Maria di Gesù a Stilo, dove trovò fra Tommaso ed altri; fra Tommaso parlò in lode delle armi e della campagna. E mentre così parlava nella sua camera, fra Pietro di Stilo entrava ed usciva. Di poi, egualmente a Stilo, in casa di D. Gio. Jacovo Sabinis, vennero a trovarlo fra Tommaso, fra Dionisio e Gio. Gregorio Prestinace, ma c'era gente e si parlò d'altro. Nella notte seguente o in quella dell'indomani tornarono (Maurizio non ricordava se ci fosse stato anche il Prestinace), e fra Tommaso cominciò a citare esempî di uomini che dal niente erano diventati grandi, allegando il Macchiavelli ed altri autori; animandolo alle armi disse che vi sarebbero mutazioni, che egli voleva fare repubblica, che bisognava trovare amici a questo effetto, e parlando contro la nuova numerazione disse che le anime di Dio erano contate come animali bruti, che si offendeva Dio, che quando David volle numerare il suo Regno, Dio non gastigò David ma i popoli che si erano lasciati numerare. Maurizio allora si offrì. C'era anche Giulio [Pg 37] Contestabile, il quale stava sempre insieme con fra Tommaso e non si scovriva perchè inimico a Maurizio: ma durante la carcerazione nel Castello fra Tommaso avea detto a Maurizio che Giulio con tutta la casa sua era consapevole. E una volta, stando del pari in casa Sabinis, essendosi visti certi legni in mare, fra Tommaso e fra Dionisio (Maurizio non ricordava se ci fosse stato anche il Petrolo), dissero di volere scendere per trattare co' turchi di questo negozio, e fra Dionisio si avviò con scusa di voler andare a riscattare un suo fratello. Fra Tommaso intanto gli diceva di stare in ordine e trovar compagni, non dovendosi perder tempo, di avere già molti con lui, averne parlato a persone principali e tra gli altri a D. Lelio Orsini; Maurizio disse non voler cominciare nè portar gente, se prima non vedesse cominciata la guerra, e fra Tommaso gli dimandò se quando si cominciasse a ribellare Catanzaro non avrebbe accudito, ed allora egli acconsentì. Inoltre Maurizio gli obiettò che non si potevano mettere ad un'impresa così grande senza danari, e fra Tommaso gli disse che avea persone le quali li avrebbero dati e specialmente sarebbero venuti dal Castello di Arena, di dove Marcantonio Contestabile confidava poterli pigliare, la qual cosa fra Tommaso gli confermò anche dopo la carcerazione. Si concluse di mandare fra Dionisio là presente a Catanzaro, per cercare ed indurre gente a far parte dell'impresa; e fra Dionisio vi andò, e al ritorno disse a Maurizio in Davoli che avea trattato con alcuni gentiluomini, e gli nominò Fabio di Lauro, Gio. Battista Biblia e il Barone di Cropani. Risolverono poi di chiamare Gio. Paolo di Cordova e Gio. Tommaso di Franza che Maurizio preferiva come uomini di valore, e Maurizio, a consiglio di fra Tommaso, scrisse loro sotto colore di trattare della loro natività: questi vennero con Orazio Rania a Davoli, ove Maurizio si trovava in casa di D. Marco Antonio Pittella, e fra Tommaso vi era venuto la notte precedente col Petrolo e Fabrizio Campanella; l'indomani parlarono in S.ta Maria del Trono, nel castagneto, e fra Tommaso discorse delle prossime guerre e dell'utilità del trovarsi pronti in armi, e trattenutisi più di due ore con fra Tommaso, dissero di poi che fra Tommaso era un grande uomo ed avea parlato della loro natività. Ancora fra Tommaso disse a Maurizio che v'intervenivano Claudio Crispo e Gio. Francesco d'Alessandria, fra Gio. Battista Pizzoni, e forse anche Giulio Soldaniero, ma Maurizio non si ricordava bene se glie lo avesse detto prima o dopo la carcerazione; e voleva che Maurizio fosse andato a Pizzoni, ma Maurizio non volle andarvi ed andò invece il Petrolo. Fin da che si trattò del negozio con fra Tommaso, fra Dionisio, Gio. Gregorio Prestinace e Gio. Jacovo Sabinis, si stabilì che quando apparissero galere turche, o fra Tommaso, o fra Dionisio, o il Petrolo, andrebbero a trattare co' turchi perchè volessero dare aiuto e favore. E poi vi andò spontaneamente egli stesso, Maurizio, senza alcuna missione del Campanella, o trattò con Morat Rais detta ribellione, e al ritorno mostrò il salvacondotto[Pg 38] a Gio. Gregorio Prestinace, fra Tommaso Campanella, D. Marco Antonio Pittella ed altri, a' quali disse ciò che avea trattato e conchiuso con Morat Rais, o ne giubilarono lodandolo e dicendogli che avea fatto assai di quello che desideravano; ben vero il Pittella non mostrò contento come gli altri, poichè non era così addentro al negozio come gli altri. E in somma conclusero tutt'insieme, Maurizio, fra Tommaso e fra Dionisio, che quando costui avesse finito di trattare ed avuto il consenso di quelli di Catanzaro, avviserebbe, e si sarebbe pigliato espediente di effettuare la ribellione ed entrare in Catanzaro, e fra Tommaso diceva doversi gridare libertà, scassinare le carceri e ammazzare gli ufficiali.—Fu questa la confessione di Maurizio, che abbiamo cercato di riordinare diligentemente secondo i numeri de' folii notati per ciascun brano di essa, e l'analogia delle circostanze espresse in ciascun brano. Facciamo subito avvertire, che se la confessione apparisce addirittura acre verso il Campanella, fra Dionisio, il Petrolo ecc., ciò avviene perchè i brani di essa a noi pervenuti son quelli soli che il Mastrodatti sceglieva pe' riassunti degl'indizii contro costoro: ma è facile comprendere che tutta intera avrebbe un altro aspetto, senza per altro rimanerne alterati i fatti sopra riferiti, mentre poi anche in questa parte a noi nota si vede che Maurizio non risparmia punto sè stesso. Nè i fatti vi riescono essenzialmente diversi da quelli esposti dal Campanella nella sua Dichiarazione, essendovi solo la differenza che nella confessione di Maurizio fra Tommaso risulta il motore fondamentale di ogni menomo passo. Ora intorno a ciò basta considerare che non si sarebbe proceduto nell'impresa, senza quelle tali profezie e previsioni di avvenimenti, dapprima più lontani, poi divenuti imminenti, siccome il Campanella li concepiva, e d'altronde si sconoscerebbe del tutto e il carattere, e la posizione, e il credito del Campanella, quando si volesse pensare che egli si fosse lasciato condurre invece di condurre; anche il contegno suo nel carcere ci apparisce nè più nè meno che quello di un capo, sia quando prosegue a discorrere di queste cose con Maurizio, sia quando lo giudica, lo esalta o lo vitupera, come fa del resto con tutti gli altri. Qualche lieve inesattezza nella successione de' fatti esposti da Maurizio, qualche vacillamento di memoria, si spiega agevolmente con lo stato della sua persona affranta e stritolata dalle torture. Ma non v'è luogo ad ammettere che il Fiscale abbia profittato di una simile condizione per fargli dire ciò che gli premeva che dicesse. Vedremo l'altra confessione di Maurizio innanzi a' Delegati del S.to Officio, fatta oltre un mese più tardi, in un momento supremo e lungi dall'influenza di Giudici d'ogni sorta, nella quale, benchè si espongano cose di altro genere, non si nota la menoma dissonanza ed invece si ha una sufficiente corrispondenza con le cose esposte nella presente confessione; e questo ci pare un argomento fortissimo per ritenerla del tutto vera.

La confessione di Maurizio, perchè acquistasse forza contro i[Pg 39] complici, come allora si costumava, venne ratificata con una nuova tortura. Questa, secondo i procedimenti in vigore, dovè applicarsi non più tardi del giorno consecutivo, leggendo de verbo ad verbum tutte le cose deposte, e facendo dichiarare al paziente sospeso alla corda che egli le confermava in omnibus et de omnibus. Quindi, come fu poi scritto a Madrid, parve bene al Vicerè, «avendone tenuto consulta col Collaterale, di trattenere l'esecuzione di Maurizio sino a confrontarlo con fra Tommaso Campanella»[47]. Credevasi allora che non dovesse tardare di molto l'arrivo del Breve Papale, con cui veniva ad essere costituito il tribunale della congiura per gli ecclesiastici; ma invece esso tardò ancora, e frattanto il tribunale pei laici continuò nel còmpito suo.

Le notizie ulteriori intorno all'opera di questo tribunale pei laici sono tanto deficienti, che in verità non abbiamo troppe cose a dire. Possiamo affermare con sicurezza che furono esaminati tutti gl'inquisiti già carcerati, amministrando o ripetendo torture più o meno crudeli a parecchi fra loro; oltracciò furono presi i provvedimenti più gravi contro i contumaci, e il tribunale restò aperto per varii anni. Il Campanella, mettendo insieme gl'inquisiti ecclesiastici e i laici, nelle sue lettere del 1606-07, una volta scrisse che vi erano stati 80 tormentati ad pompam, un'altra volta scrisse che i tormentati erano stati quasi 100, ed aggiunse che niuno avea confessato[48]; nella Narrazione poi ridusse di molto queste cifre, e scrisse che «furo tormentati... da cinquanta e nullo confessò cosa alcuna», nominando de' laici appena un Geronimo Politi procuratore di fra Dionisio (nome nuovo) e taluni fra' rivelanti tardivi di Catanzaro, Gio. Tommaso di Franza, Mario Flaccavento, Tommaso Striveri. Or sapendo che furono tormentati non più di sei o sette ecclesiastici, è facile vedere il numero de' laici tormentati, per quanto le cifre suddette lo consentono; e ben s'intende che nessuno di costoro confessò cosa alcuna relativamente a sè stesso, non già relativamente al Campanella e a fra Dionisio. Massime que' tre di Catanzaro sopranominati non poterono certamente contraddire le prime loro deposizioni; e difatti anche nel processo di eresia ebbe a vedersi più tardi Mario Flaccavento, insieme con Felice Gagliardo e con Camillo Adimari, sollecitare Giuseppe Grillo perchè deponesse contro fra Dionisio[49]. Il Campanella scrisse pure che lo Xarava diede a due de' sopra nominati le cartelle «di quello haveano a dire»: evidentemente le cartelle, se ve ne furono, doverono contenere il ricordo di ciò che essi avevano deposto in Calabria. Da parte nostra possiamo aggiungere soltanto il nome di qualche altro de' laici, che figurò pure nel processo di eresia ed ebbe ivi occasione di far [Pg 40] motto del tormento sofferto: tale fu Felice Gagliardo, che disse avere avuto «a morire» nella «seconda corda» che gli diedero in Napoli; ma ciò avveniva abbastanza più tardi, nientemeno che verso il marzo 1602, onde rimane dimostrato che tutto questo lavoro durò molto a lungo.

Circa i contumaci poi, dietro documenti da noi trovati nel Grande Archivio, possiamo dire che non si mancò di venire alla «forgiudica» per parecchi di loro, e non sempre in sèguito di indizii gravissimi. Come abbiamo accennato altrove, con questa parola «forgiudica», parola non giuridica ma di uso comune nel Regno, s'intendeva di costituire gl'inquisiti fuori ogni adito al giudizio, ovvero di giudicarli fuori giudizio, se a questo non si presentassero fra un certo termine; il quale termine le Costituzioni del Regno prescrivevano dover essere un anno, ma la licenza del Principe potea ridurre a pochi giorni e perfino ad ore! Si pubblicavano i bandi per citare gl'inquisiti a comparire personalmente «ad informare ed a' capitoli», e i bandi, intrinsecamente mortali, erano connessi all'annotazione de' beni: fatta poi e letta la sentenza, i rei si avevano per confessi, non potevano appellarsi nè supplicare, nè erano ascoltati nella causa principale; si ritenevano morti e i loro beni venivano confiscati, ognuno poteva ucciderli impunemente e i loro cadaveri non potevano esser seppeliti, potevano bensì, con certe regole, essere rilasciati per l'anatomia. Del resto, tanto prima che dopo la sentenza, si potevano opporre non poche eccezioni e capitoli, sia dagl'inquisiti medesimi, sia da' loro consanguinei. Una prima lettera Vicereale concesse a Marc'Antonio d'Aponte facoltà di dichiarare forgiudicati, con termine abbreviato, parecchi che a relazione di lui e di D. Giovanni Sances erano stati dichiarati contumaci ad informandum et ad capitula nella causa della «sedutione de congiura»: la lettera reca la data del 31 dicembre 1599. I contumaci erano: «Alexandro tranfo di tropea, Gio. francesco d'alexandria di Monte lione, Marco ant.o Contestabile di stilo, Matteo famareda di Catanzaro, Geronimo baldaya di Squillace, pietro paulo santa guida, Antonio verlino di S.ta Caterina, francesco antonio de lo Joyo di girifalco et Tolivio de lo doce de satriano»: il Vicerè accordava «di possere abreviare il termine dela forgiudicatione alli sopradetti contumaci, prefigendoli termine di giorni venti à comparere... non obstante la constitution del Regno, che vole il circolo dell'anno per possere declarare forgiudicati»[50]. Riesce certamente notevole il non vedere compreso in questo elenco l'amico intimo del Campanella e compare di Maurizio, Gio. Gregorio Prestinace: ma venne più tardi anche la volta sua; abbiamo difatti rinvenuta un'altra lettera nel senso medesimo, esclusivamente per lui, ma scritta circa dieci mesi dopo la sopradetta, nell'ottobre 1600, e ciò conferma che pure da questo lato [Pg 41] il lavoro fu lungo[51]. Con ogni probabilità non mancarono altre deliberazioni contro altri contumaci di Calabria: le evidenti e sconfortanti lacune, che presentano le scritture rimasteci nel Grande Archivio, ci autorizzano a ritenerlo. D'altronde l'elenco soprariferito ci presenta non solo nomi d'individui de' quali abbiamo avuto notizie più o meno ampie dagli Atti processuali che ci sono rimasti, ma anche qualche nome d'individuo che ci riesce del tutto nuovo. Non parliamo di Marcantonio Contestabile e di Gio. Francesco d'Alessandria, citati ampiamente da moltissimi testimoni: ricordiamo soltanto che il Famareda fu citato da Fabio di Lauro come particolare amico ed ospite di Maurizio de Rinaldis, il Baldaia fu perquisito e trovato possessore di una lettera di Maurizio a Gio. Francesco Ferraima e di poi citato dal Vitale qual complice in colloquio con Maurizio e raccoglitore di fuorusciti per conto di lui, il Dell'Joy fu citato dal Biblia e poi dal Mileri come complice in colloquio col Campanella e fra Dionisio, il Dolce fu citato dal Pistacchio come compagno di Maurizio nell'andata a Davoli, il Santaguida fu citato da più testimoni come uno degl'individui di S.ta Caterina i quali salirono sulle galere turche e vi rimasero più di un'ora, ciò che verosimilmente fece del pari il Verlino (leg. Merlino) anch' egli di S.ta Caterina. Ma quell'Alessandro Tranfo non si rinviene citato da alcuno negli Atti processuali in nostro potere finoggi, e ciò mostra che non conosciamo davvero quanto si fece pe' laici, e che ve ne furono altri, forse in numero ragguardevole, tuttora rimasti ignoti. Notiamo qui che documenti da noi trovati ci mostrano questo Alessandro Tranfo, figlio di Jacovo Giovanni Barone di Precacore (o Crepacore) e di S. Agata, qualificato Barone egli medesimo poco dopo il periodo di tempo di cui trattiamo, con ogni probabilità per «refutazione» fattagli dal padre, il quale morì più tardi, nel 1611[52]. A tempo della congiura avrebbe avuto appena 19 anni, e dovè essere di quelli ricercati da Maurizio dopo il convegno di Davoli, allorchè Maurizio andò in giro per parlare a Gio. Battista Soldano (egualmente di Tropea) e ad altri. Insieme col Barone di Cropani, egli va compreso nel gruppo dei «Baroni Provinciali», che secondo il Giannone parteciparono alla congiura del Campanella «in numero ben grande», e non furono da lui nominati nella sua Istoria civile per rispetto alle loro famiglie: noi pertanto conosciamo solamente i due anzidetti, e dobbiamo dire che [Pg 42] ve ne furono senza dubbio parecchi altri. Dietro laboriose ricerche siamo veramente pervenuti a sapere che varie famiglie dei carcerati di Calabria possedevano feudi rustici, e basterà citare i feudi di Guarna e Palermiti per gli Striveri, Pantano Pratovecchio e Tornafranza pe' Susanna, Caiazza pe' Salerno, Montalto pe' Dolce, S. Andrea con Turchisi e Caria pe' Vella imparentati mercè matrimonio a Gio. Gregorio Prestinace; ma non ci consta che a que' tempi i possessori di feudi rustici si fregiassero del titolo di Baroni, e ci sembra chiaro doversi dire che più individui siano rimasti ignoti, avendo la congiura, o almeno la repressione della congiura, avuto proporzioni assai più larghe di quelle che siamo in grado di ammettere finoggi, come per altro apparisce assai bene dall'estensione del territorio che diede inquisiti. Del resto, se non sappiamo i nomi de' molti Baroni propriamente detti, sappiamo che molti tra' carcerati appartenevano a famiglie nobili riconosciute: basterà fare avvertire che tra' soli carcerati di Catanzaro, oltre quelli sopra nominati, anche il Franza, i due Cordova, il Famareda, il Giovino, appartenevano a «famiglie nobili serrate», come rilevasi dal D'Amato, che ne fa distinta menzione e ne offre i rispettivi stemmi[53].—Notiamo poi che il tribunale di Napoli, coll'anzidetto elenco di forgiudicati, ci si mostra più severo di quello di Calabria: poichè se pel Baldaia, lasciato dapprima in pace, emerse la testimonianza posteriore del Vitale che aggravò gl'indizii contro di lui, pel Merlino e pel Santaguida non s'intende quali nuovi indizii fossero venuti in campo, mentre un altro Santaguida ecclesiastico, come vedremo a suo tempo, fu incolpato dello stesso fatto e subito apparve catturato senza fondamento. Dobbiamo del resto aggiungere, che se fu spiegata tanta severità per alcuni, nessun provvedimento risulta preso per altri non meno gravemente indiziati, come in verità è accaduto sempre in tali faccende sino a' giorni nostri. Ognuno p. es. crederebbe che i fuorusciti nominati dal Campanella nella sua Dichiarazione scritta, i figli di Jacobo Grasso, il figlio di Nino Martino, Carlo Bravo, i Baroni di Reggio, fossero stati immancabilmente perseguitati; lo stesso si crederebbe p. es. per Geronimo Camarda, colto nientemeno che in corrispondenza con Claudio Crispo; invece documenti che abbiamo trovato intorno a tutti costoro mostrano persecuzioni e catture pe' loro delitti comuni, senza che sia mai citato il delitto di ribellione, onde si deve conchiudere che da questo lato siano stati veramente lasciati in pace. Ma di ciò più tardi, quando con la nostra narrazione giungeremo agli anni successivi, ne' quali vedremo da una parte assoluzioni e rilasci, da un'altra parte la cattura e l'invio in Napoli di taluno de' forgiudicati sopradetti e del rispettivo manutengolo.

Sorgeva intanto il nuovo anno 1600, e il Breve Papale, per [Pg 43] cominciare a procedere contro gli ecclesiastici, non arrivava ancora. Come dicevamo, durante l'aspettativa, il Vicerè aveva interceduto a Roma per l'assoluzione del Principe di Scilla dalla scomunica che il Vescovo di Mileto gli aveva già da un pezzo inflitta; in pari tempo aveva sempre continuato ad insistere presso il Nunzio per la venuta del Vescovo medesimo in Napoli. Da Roma fu presto data al Nunzio, fin dal 22 dicembre, la facoltà di assolvere il Principe, a patto che fossero state già adempite tutte le necessarie condizioni. E il Principe venne assoluto, e in tale occasione egli medesimo fece istanza che venissero assoluti egualmente il suo Vice-Principe dottor Fabrizio Poerio e D. Luise Xarava, i quali erano stati scomunicati insieme con lui. Questo fu pure più tardi concesso, e con lungo giro eseguito pel Poerio, mercè facoltà trasmessa all'Arcivescovo di Reggio, ma non risulta che sia stato eseguito del pari per lo Xarava, il quale sappiamo che assai più tardi, nel 1605, richiese al Gran Duca di Toscana che gli ottenesse da S. S.ta la dispensa da qualunque irregolarità commessa pel passato[54]: così non a torto il Campanella scrisse essere stato lo Xarava perseverante nella scomunica. Arrivava poi nella capitale, la prima settimana del nuovo anno, il Vescovo di Mileto, che aveva impiegato circa un mese per venirsene a tutto suo comodo da Calabria, onde il Vicerè pretendeva doversi ritenerlo contumace. Una lettera del Nunzio, in data 11 gennaio 1600, narra tutti i particolari dell'udienza datagli dal Vicerè, essendovi lui pure intervenuto, e ci fa conoscere gli appunti e le ammonizioni dal lato del Vicerè, e le discolpe e la richiesta di un passaporto dal lato del Vescovo, con la conclusione del rilascio del passaporto senza difficoltà. Uno degli appunti che riesce importante per la nostra narrazione fu questo, che il Vescovo «desse occasione di sospettar di lui, come haveva fatto adesso col difendere qualch'uno di quelli che si pretendevono complici della ribellione seguìta in Calabria; come era un Clerico Cesare Pisano, in favore del quale si trovava fatto ex officio un Processo per Giustificatione del suo Clericato per essimerlo dalla Corte Secolare quando si trattava d'un negotio così grave». Il Vescovo disse «che il Processo del Clericato di quel Cesare era stato fatto avanti si sapesse nulla della congiura, ò ribellione, ad altro fine come poteva vedersi»[55]. Ma finalmente, nella stessa data 11 gennaio, arrivò pure il Breve Papale, e D. Pietro de Vera lo portò di persona al Nunzio. E già costoro si disponevano a dare cominciamento al processo, quando il Vicerè, avuto il Breve, e trovandosi ancora in Napoli il Vescovo di Mileto, diede improvvisamente ordine che Cesare Pisano fosse giustiziato.

Il Pisano, secondo il solito, fu tradotto alle carceri della Vicaria, [Pg 44] e un documento, che abbiamo allegato al processo di eresia, ce lo mostra il sabato 15 gennaio 1600 entro la cappella segreta di quelle carceri, in presenza de' Rev.di Orazio Venezia, Curzio Palumbo e Geronimo Perruccio, ufficiali della Curia Arcivescovile appartenenti alla Congregazione diocesana del S.to Officio, alla quale, mediante i Confrati bianchi, vicino ad essere giustiziato, egli avea fatto istanza di voler confessare per disgravio della sua coscienza. La lunga confessione che egli fece, e che secondo lo stile del S.to Officio è detta denunzia poichè in fondo con essa riusciva a denunziare sè medesimo e gli altri, lo rivela turbato, confuso, in qualche punto speciale contradittorio, ma nel complesso coerente in tutte le cose di eresia che altre volte avea deposte, con qualche rettificazione verso fra Dionisio, con qualche circostanza aggravante verso il Campanella ed anche verso sè medesimo, riconoscendo di aver creduto a quelle opinioni, la qual cosa aveva altra volta negata. I lettori troveranno questa confessione riportata nella sua integrità tra gli altri Documenti, e potranno scorgere le varianti in raffronto delle deposizioni anteriori[56]; qui basterà citarne i punti più importanti per la nostra narrazione. Intorno al Campanella, egli rivelò che fra Tommaso, nelle carceri di Squillace, gli avea raccomandato di non voler «ruinare li amici» col suo esame, quando non poteva salvare sè stesso; che inoltre, a tempo della gita da Monasterace a Stilo (cosa da lui precedentemente negata) fra Tommaso gli avea parlato dell'analogia de' nostri corpi con quelli dei cavalli e giumente, e della conversione delle anime nostre «in non essere» non trovandosi inferno, purgatorio e paradiso, ma circa l'esistenza di Dio avea detto dovergli bastare quanto gli aveano comunicato que' frati, essendo cose troppo alte per poterle capire; infine accennò all'essere stato visitato da fra Tommaso nelle carceri di Castelvetere a' primi tempi della sua carcerazione. Intorno a fra Dionisio, revocò di aver saputo da lui le cattive relazioni tra S. Giovanni e Gesù, ma non altro che questo, e intorno a fra Bitonto e fra Jatrinoli non revocò nulla; che anzi ripetè ancora una volta tutti i discorsi di eresie fatti da' frati da lui accompagnati nelle gite a Bagnara e a Messina, e poi a Stignano in casa Grillo etc., come pure i discorsi consimili da lui stesso tenuti nelle carceri di Castelvetere col Gagliardo, che vi partecipava, e col Santacroce, col Marrapodi e coll'Adimari, che egli voleva indurre in quelle opinioni, delle quali infine si pentiva e voleva far penitenza, vedendo «di havere da morire fra breve termino». Tutto ciò dovè sembrare di troppa gravità agli ufficiali della Curia, i quali non presero alcuna risoluzione; sicchè l'indomani, 16 gennaio, intervenne il Vicario Arcivescovile in persona, Ercole Vaccari, che poi troveremo come Giudice nella causa dell'eresia, e costui, fatta qualche altra interrogazione, decretò che per rendere valida la deposizione anche

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contro i complici «et ad omnem alium bonum finem et effectum» fosse al Pisano amministrata la tortura con la corda per un ottavo di ora. Ed immediatamente la tortura venne amministrata, ed i lettori troveranno fra' Documenti il primo processo verbale di questo genere. Spogliato, legato ed attaccato alla corda, di poi tratto in alto, il Pisano dovè più volte dichiarare che le cose dette erano vere, verissime; e soggiunse «lhò ditto per scaricarmi in tutto è per tutto la conscientia, è per salvarmi l'anima, et se non l'havesse ditto, lo tornaria a dire». Poi soggiunse ancora: «Monsignor mio, misericordia, che hò ditto la verità, et sono quattro giorni che non hò mangiato, è mi trovo debole»; ed allora, con la solita formola, il Vicario ordinò che fosse deposto, che gli fossero accomodate le braccia e venisse rivestito, quindi lo condannò come eretico formale, imponendogli l'abiura ed alcune penitenze «in questo poco spacio di tempo di vita» che gli rimaneva. La sentenza fu subito letta dal Mastrodatti della Curia Gio. Camillo Prezioso, l'abiura fatta e sottoscritta dal Pisano e l'assoluzione data dal Vaccari, nell'Audienza criminale della Vicaria.—Ma in pari tempo anche i Confrati bianchi ricevevano dal Pisano talune «esculpationi» intorno alla congiura, come ci mostra il documento relativo alla sua esecuzione, e queste meritano bene di essere ricordate[57]. In fondo il Pisano si ritrattava sul conto di talune persone che avea nominate ne' tormenti sofferti in Squillace, e negli «ultimi tormenti» sofferti in Gerace. In Squillace egli avea dichiarato che il fratello di Orazio Santacroce avrebbe dato aiuto «al trattato della rebellione», ed inoltre che avea parlato pure con Geronimo Conia di detto trattato, e questo non era vero. In Gerace avea dichiarato che i fratelli Moretti consentivano al trattato e che fra Dionisio glie l'avea detto, come pure che Gio. Angelo Marrapodi avea promesso di portar gente in aiuto, e tutto questo nemmeno era vero.—Tali furono gli atti estremi del Pisano, che nel medesimo giorno, malgrado fosse di Domenica, venne condotto al supplizio; ci corre pertanto il debito di giudicarli. A rigore, la confessione delle eresie potrebbe dirsi fatta con la speranza di suscitare direttamente nel S.to Officio la premura di avocare la causa al suo tribunale, e quindi intercedere perchè l'esecuzione fosse sospesa; tuttavia il tenore di essa è tale da poterla credere sincera, mostrando un uomo per quanto turbato altrettanto scevro d'illusioni, mentre d'altra parte tutta la vita anteriore di lui ce lo rivela di costumi tristi, ma leggiero più che malizioso. Le discolpe poi intorno alla congiura, le quali attenuano la responsabilità di parecchi ed anche esonerano perfino fra Dionisio circa un punto speciale, non fanno motto nè del Gagliardo, nè del Bitonto, nè del Jatrinoli, e però implicano evidentemente una conferma dell'esistenza del concerto per la ribellione: se non era vero che il tale [Pg 46] e il tal altro vi avessero avuta parte o che ve l'avessero avuta nella misura prima deposta, era vero che vi avessero avuta parte in una misura più circoscritta e che ve l'avessero avuta tutti i rimanenti. Di certo non gli era mancata l'opportunità di disdirsi in tutto e per tutto, e gli sarebbe riuscito tanto più facile il farlo in poche parole qualora la coscienza glie l'avesse consentito. Dopo ciò bisogna dire che fu assai male informato il Campanella, quando nella sua Narrazione scrisse che «il Pisano si ritrattò più volte, e poi dicendo che l'heresia lo havea salvato, lo fecero morir di domenica, avanti che si presentasse la bolla del clericato per lunedì, e nella sua morte si scommosse il cielo el mare, e s'annegaro 8 navi e galere in porto di Napoli». Che propriamente nella notte del 16 gennaio, ed anzi sull'alba del 17, vi sia stato un uragano, pel quale perirono in Napoli 7 navi e diverse altre egualmente nelle spiagge vicine, è ricordato da' nostri Storici, e meglio anche dagli Agenti di Toscana e di Venezia ne' loro Carteggi, e su ciò non v'è nulla da dire[58]. Che l'esecuzione sia stata fatta di Domenica per ragione non del Vicerè ma del S.to Officio, si rileva da quanto abbiamo narrato con la scorta de' documenti autentici ed anche dal documento de' Bianchi che dice: «a questa giustitia andò la compagnia il sabato prima 15 del mese et aspettò sino a 2 hore di notte, et poi fu licenziata per non possere l'afflitto essere assoluto del s.to officio». Che non la bolla ma l'informazione del clericato abbia dovuto già essere stata esibita al tribunale innanzi questa data, si è visto dall'averne il Vicerè fatto perfino un appunto al Vescovo di Mileto. Che infine il Pisano non siasi ritrattato mai, ed invece con una desolante persistenza abbia ripetuto, più o meno, le cose dell'eresia e della congiura innanzi qualsiasi tribunale, è accertato da tutti gli esami e rivelazioni che di lui possediamo, e precisamente nella persona di lui la raccolta che possediamo è completa.

I particolari del supplizio del Pisano ci vengono forniti dallo stesso documento dell'Archivio de' Bianchi. Col lunghissimo giro altrove accennato, dalla Vicaria «s'andò per palazzo»; e si eseguì la «giustitia per ordine di S. E. ad appiccare et squartare vicino la guardiola del Castello». Anche nelle scritture di S.to Officio relative alle persone di questa causa, troviamo che Felice Gagliardo, menzionando Cesare Pisano, lo disse «giustitiato al largo del Castello»[59]. Così quest'infelice giovane, di 26 anni, servì di spettacolo [Pg 47] non solo al popolo della fedelissima città, ma anche a' suoi compagni di sventura, che dalle carceri del Castello doveano vederlo. E meritano pure di essere notate ed interpetrate due circostanze che si trovano riferite dal Residente Veneto[60]. La prima, che il Vicerè fece affrettare l'esecuzione, poichè il Pisano nelle carceri avea disegnato di avvelenare Maurizio, il quale continuava a svelare il negozio della congiura; e fu questa verosimilmente una voce sparsa dal Governo medesimo, per giustificare un abuso giurisdizionale aggravato anche dal modo tenuto. La seconda, che il Pisano, essendo prete, fu impiccato in abito di prete; e questa circostanza dovè esser vera unicamente nel senso che si fece andare il Pisano al patibolo col ferraiolo nero di clerico; poichè non solo trovasi attestato dalla lettera del Residente il fatto dell'impiccato coll'abito di prete, ma anche trovasi riferito da tutti gli Avvisi del tempo essere stato impiccato un sacerdote, anzi lo stesso Campanella, ciò che significa esservi stata tale credenza, originata verosimilmente dal fatto dell'abito, che va interpetrato come uno sfregio inflitto al potere ecclesiastico.—Per certo il Nunzio ebbe a rimanere duramente deluso nella sua aspettativa intorno al Pisano, e non se ne potè neanche lagnare immediatamente in Corte, essendosene il Vicerè andato fuori Napoli: ne fece bensì risentimento con D. Giovanni Sances, e ne diè conto al Card.l S. Giorgio con la sua lettera del 21 gennaio, senza far motto della circostanza dell'abito di clerico fatto indossare al Pisano. Più tardi potè parlarne al Vicerè, il quale disse che di queste cose se ne rimetteva a' suoi ufficiali e che non avea saputo nulla di tale esecuzione; ed al Nunzio parve che le sue lagnanze avessero lasciato il Vicerè «confuso» e perciò si era espresso in quel modo «punto verisimile»! Per non intralciare la narrazione, aggiungiamo che ancora più tardi ne dovè dar conto egualmente al Card.l di S.ta Severina, il quale glie ne scrisse inculcando di risentirsene; ed egli fece del pari conoscere di averne già parlato al Vicerè, e di essergli stato da lui risposto «che non haveva saputa tal esecutione», come pure di averne parlato a' Ministri e di esserne costoro «rimasti confusi ad ogni modo»[61]. In verità bisogna dire che il Nunzio non rifuggiva dai concetti più arrischiati, quando si trattava di scusare la sua non rara indolenza in queste materie così delicate, che egli aveva per lo meno il torto di mettere allo stesso livello de' negozii ordinarii. Due volte la Compagnia de' Bianchi era andata in Vicaria pel Pisano, due volte il S.to Officio si era trattenuto col povero condannato, e il Nunzio non ne avea saputo nulla. Il vero è che egli soleva scansare ad ogni costo le imprese laboriose: così avea fatto pel Caccìa, così fece pel Pisano, così lo vedremo fare anche in qualche altra occasione.

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III. Intanto, dietro l'arrivo del Breve Papale, il tribunale della congiura per gli ecclesiastici si costituiva, e sollecitamente cominciava a funzionare. L'11 gennaio il Breve era stato presentato al Nunzio da D. Pietro de Vera e letto da entrambi; il 16 la nomina del medesimo D. Giovanni Sances per fiscale e di Marcello Barrese per Mastrodatti fu trasmessa ufficialmente, da parte del Vicerè, a D. Pietro de Vera con l'incarico di comunicarla al Nunzio; il 18 si tenne la prima seduta. Queste date risultano dagli Atti che si conservano in Firenze, posti al sèguito del Breve, parzialmente anche dal Carteggio del Nunzio, e dal Carteggio del Vicerè, infine da un documento che abbiamo rinvenuto nell'Archivio di Stato[62]: ma prima d'inoltrarci nella narrazione di ciò che si fece nel tribunale, non sarà inutile dare un'occhiata al Breve. Esso vedesi diretto al Vescovo di Troia Nunzio Apostolico e a Pietro de Vera Consigliere, e reca la data dell'8 gennaio. Con quella dicitura contorta e stentata di Marcello Vestrio Barbiano Segretario de' Brevi, e con quel piglio altiero ed ingiurioso tanto comune ad incontrarsi ne' documenti della Curia, Clemente VIII comincia dal ricordare la partecipazione avuta «pocofà» dal Vicerè, che taluni frati e clerici «figli dell'iniquità» aveano cospirato nello Stato del carissimo figlio Filippo e trattato di dare la Calabria «nelle mani de' turchi nemici del nome cristiano», e la dimanda dello stesso Vicerè, che si fosse degnato di provvedere con la benignità Apostolica perchè i parecchi carcerati avessero il meritato gastigo; ond'egli stimando que' «ribaldi e sediziosi uomini indegni dell'immunità e libertà ecclesiastica», concede alla fraternità del Vescovo, e alla discrezione di Pietro, facoltà di esaminare carcerati e carcerandi, complici, testi etc. Finquì ognuno avrà notato quel «pocofà» da doversi riferire a tre mesi indietro, una definizione della congiura che la Curia sapeva da un pezzo non esser la vera con qualche sospetto che la congiura medesima fosse destituita di fondamento, inoltre una durezza estrema di linguaggio verso individui i quali tuttora non erano che semplici imputati: si faccia un confronto col linguaggio tenuto dal Vicerè nell'istituire il tribunale pe' laici (Doc. 209 p. 109) e si vegga la differenza. Ma cosa voleva dire quell'essere i ribaldi e sediziosi uomini indegni dell'ecclesiastica immunità? Era forse un tribunale laico quello che s'istituiva per essi? Senza dubbio si derogava ai Canoni e alla procedura ordinaria, massime coll'intervento del Fiscale Sances e del Mastrodatti Barrese, individui laici nominati dal Vicerè; ma coloro i quali doveano in ultima analisi giudicare e sentenziare erano sempre il Nunzio, giudice naturale segnatamente de' frati, e il de Vera clerico, proposto dal Vicerè ma nominato [Pg 49] giudice dal Papa, e quindi funzionario Papale, precisamente come p. es. erano i Vescovi proposti dal Governo e nominati dal Papa senza potersi dire perciò funzionarii Governativi. Difatti «Commissarii Apostolici, Delegati Apostolici», si dissero poi sempre il Nunzio e il De Vera, e solo per le facoltà avute direttamente dal Papa essi furono in grado di esaminare gl'imputati, prescrivere i tormenti, emettere le sentenze; se il Campanella in sèguito pose sempre innanzi il Sances e le sue crudeltà, è chiaro che lo fece unicamente per mettere nell'ombra le persone e le crudeltà de' Commissarii Apostolici de' quali non gli conveniva sparlare. Si chiami dunque «tribunale misto» il tribunale creato col Breve, ma s'intenda bene la costituzione sua, e non se ne sconosca la natura al punto da attribuire al Governo Vicereale ciò che esso fece: sicuramente esso fu costituito in modo da dover servire in tutto e per tutto il Governo Vicereale, ma rimanendo pur sempre un tribunale i cui Giudici funzionavano in nome del Papa, coll'autorità avuta dal Papa. Non meno importante poi riesce il notare l'estensione de' poteri accordati a questi Giudici verso gli inquisiti: concediamo, diceva il Breve, facoltà «di sottoporli alla tortura ed altri tormenti giusta le disposizioni del dritto,... di procedere fino alla sentenza esclusivamente, e di consegnare e rilasciare alla Curia secolare, senza pericolo di censure.., colpiti dalle condegne pene giusta le sanzioni canoniche coloro i quali a voi sia constato essere legittimamente convinti e confessi». Ecco un abbandono insolito di ciò che le Autorità, tanto ecclesiastiche quanto laiche, ordinariamente si riserbavano; ma si noti che i Delegati potevano agire fino alla sentenza di condanna «esclusivamente», sicchè quando una tale sentenza si fosse dovuta emettere, sarebbe occorsa l'approvazione del Papa. Con ciò risulta chiarita anche meglio la natura del tribunale; e s'intende che l'approvazione del Papa non sarebbe mancata, ma s'intende pure che per salvare l'apparenza della superiorità ecclesiastica, il Papa consentiva ad assumere di dritto la responsabilità di ciò che sarebbe avvenuto, mentre abbandonava di fatto gli ecclesiastici inquisiti all'influenza prepotente del Governo Vicereale; non si neghi dunque tale responsabilità, e si riconosca questo abbandono del Campanella e socii fin dal momento della istituzione del tribunale col detto Breve.—Poniamo qui che il Campanella, nella sua Narrazione e poi anche in una delle sue lettere pubblicate dal Baldacchini[63], disse questo Breve «sorrettitio ch'esponea ribellione», ed affermò che «el S. Papa Clemente 8.o donò licenza che si facesse questa causa nelli carceri regi per confrontar li frati con li laici carcerati e mostrar che lui non era consapevole». In verità la concessione del Breve fu indipendente dal fatto della confronta, che venne in campo più tardi; quanto poi all'esporre ribellione, certamente il Breve non poteva esporre altro, e solamente avrebbe potuto esporla [Pg 50] in migliori termini; sappiamo poi che già da un pezzo il Governo Vicereale si era mostrato o aveva finto di mostrarsi persuaso che il Papa non fosse consapevole della congiura. Assai meglio di questo avrebbe potuto il Campanella dire intorno al Breve; ma, come sempre, nelle parole di lui bisogna leggere lo sforzo costante di appoggiarsi a qualunque specie di argomento, e al tempo medesimo di non dare motivi di disgusto al Papa, dal quale soltanto potea sperare la sua liberazione.

Dicevamo che il 17 e 18 gennaio si tennero le prime sedute del tribunale. Probabilmente il 17 si tenne seduta preparatoria facendo la rassegna degli Atti raccolti a carico degl'inquisiti, ma il 18 si produsse il rescritto Vicereale che nominava il Sances e il Barrese, e si deliberò di conservarlo ed eseguirlo, quindi si dovè subito metter mano all'interrogatorio del Campanella: così venne iniziato il 4.o ed ultimo volume di tutto il processo, consacrato appunto alla causa della congiura per gli ecclesiastici. La «deposizione» del Campanella è solo menzionata negli Atti esistenti in Firenze, e ciò si spiega con la circostanza che essa risultò negativa: quegli Atti per altro mostrano che si estese dal fol. 3 a 9 del volume e quindi fu molto lunga[64]. Una lettera del Nunzio, in data del 21 gennaio, fa conoscere precisamente che il Campanella negava, e che forse l'indomani si sarebbe fatta la confronta: «sono stato, egli dice, già due volte con il Sig.r D. Pietro di Vera in Castello, et essaminato (sic) fra Thomaso Campanella il quale stà sù la negativa, ma hà tanti che gli testificano contro, de' quali forse domani si farà la confrontatione, che credo bisognerà si risolva à dir il fatto come stà circa la congiura, et ribellione». Ma la confronta si fece solamente il giorno 23 gennaio, come risulta da una lettera del medesimo Nunzio scritta l'indomani, e non vi furono altri Atti fra l'esame del Campanella e la confronta, vedendosi questa occupare nel volume il fol. 10 ed 11, come è notato negli Atti sopra menzionati. Si ricominciò coll'esame del Campanella rammentandogli la Dichiarazione da lui scritta, ed egli, secondo il Nunzio, la negò egualmente, ed allora si venne alla confronta; ma forse il Nunzio volle dire che negò la ribellione della quale aveva altra volta scritto, e non deve far meraviglia questa distrazione da parte del Nunzio, che sempre, così nella causa della congiura come in quella dell'eresia, lasciò fare a' suoi colleghi, intervenendo solo in qualche occasione nella quale gli pareva che potesse «far conoscere la superiorità ecclesiastica». Ecco come egli riferì il fatto nella sua lettera del 24 gennaio. «.. Hieri stando pur frà Thomaso Campanella sù la negativa, etiam d'una narratione del fatto scritta di sua mano sin nel principio che fu preso, se gli condusse à petto, et per riscontro cinque, et particolarmente un' Mauritio de Rinaldi che fù quello che condotto alle [Pg 51] forche si risolvette à dire spontaneamente, et per scarico di conscienza, tutto quello che sempre havea negato nei tormenti, il quale disse sul viso à detto Campanella il trattato della Ribellione che havevano havuto insieme, e che per questo era stato sù le Galere Turchesche, e tutto quello ch'era seguito; et egli pure stette sù la negativa, onde il fiscale fece instanza che si venisse à tortura»[65]. Prima d'inoltrarci nell'incidente della tortura, dobbiamo dire che se nel giorno suddetto vi furono soltanto cinque confronte come il Nunzio asserì, ve ne furono di poi altre due, poichè sette ce ne mostrano fuori ogni dubbio, successivamente avvenute, gli Atti esistenti in Firenze; da' quali apparisce pure che queste confronte non durarono a lungo, occupando appena il fol. 10 ed 11 del volume[66]. Difatti, secondo la procedura che costantemente accade d'incontrare in qualunque processo del tempo, s'introduceva il teste, gli si deferiva il giuramento in presenza dell'inquisito, gli si dimandava se conoscesse costui, e verificatosi che lo conosceva, gli si dimandava in termini generali se le cose che avea deposte contro di lui fossero vere; ed allora, riuscendo negativa la confronta, mentre il teste diceva che tutto era vero, verissimo, l'inquisito diceva che non era vero, che tutto era bugia, che il teste ne mentiva per la gola; così la confronta finiva in pochi momenti. I sette confrontati furono, oltre Maurizio, Gio. Tommaso di Franza, Gio. Paolo di Cordova, Tommaso Tirotta, Felice Gagliardo, Geronimo Conia, fra Silvestro di Lauriana. Le parole del Nunzio sopra riportate ci mostrano che Maurizio, alla presenza del Campanella, non dovè limitarsi alla semplice rafferma della sua confessione in termini generali, ma trasportato dal suo zelo per l'anima dovè rammentare qualche cosa del progetto e de' preparativi di ribellione, e segnatamente dell'andata sulle galere turche deliberata d'accordo con lui. Quanto a Gio. Tommaso di Franza, Gio. Paolo di Cordova e Tommaso Tirotta, evidentemente la loro confronta dovè servire a raffermare il fatto del convegno di Davoli e de' discorsi ivi tenuti; quanto a Felice Gagliardo e Geronimo Conia, la loro confronta dovè raffermare segnatamente il fatto della visita del Campanella a Cesare Pisano nelle carceri di Castelvetere e le parole ivi scambiate, giacchè vedremo essere stato questo uno dei principali capi dell'accusa che il fiscale scrisse contro il Campanella. Infine quanto al Lauriana, la sua confronta dovè raffermare il fatto del convegno di Pizzoni e delle parole del Campanella ai congregati, ed è manifesto che al cospetto de' Giudici caddero tutti i proponimenti di ritrattazione che il Lauriana aveva esternati al Campanella. Vedremo altre confronte di altri inquisiti col Campanella nel tratto successivo: intanto già fin dalle prime confronte il fiscale dimandò a' Giudici che si ordinasse di amministrare la tortura, [Pg 52] ma il Nunzio volle che prima se ne informasse S. S. per ottenerne la licenza.

Ecco in che modo il Nunzio riferì questo incidente. «.. Il fiscale fece instanza che si venisse à tortura, et mettendogli io in consideratione che se il detto Campanella domandava la copia delli inditii non vedevo come se li potessero negare, disse, e mostrò che secondo l'uso della Vicaria e di tutte l'udienze di Regno, ne casi così enormi si veniva à tortura per il processo informativo.., et che anche questo si era fatto nell'ultimo caso di ribellione dove intervenne un deputato dalla sedia Apostolica et che me lo mostrerebbe; gli replicai che era più espediente saper sopra questo il comandamento di S. S. che ne può dispensare, et però mi son risoluto à scriverne per la staffetta, tanto più quanto intendo che questo medesimo è stato usato dalli Offitiali dell'Arcivescovato in casi d'importanza, et è stato ottenuto licenza di poter venire à tortura nel processo informativo senza farne altra copia, che certo conosco che in questo negotio sarebbe cosa di molta difficoltà, e lunghezza, ma non voglia (sic) consentire à nulla di straordinario secondo l'uso di quà senza particolare ordine il quale desidero quanto prima, acciò il negotio si possa tirar avanti conforme al desiderio del sig.r Vicerè». Abbiamo voluto riportare per intero questo brano di lettera, per potere ben valutare l'incidente. Da esso si dovrebbe inferire che fosse ben poca nel Nunzio la conoscenza del dritto e la pratica del tribunale, mentre pure ne presedeva uno e di non poco rilievo. Poichè se la Curia Arcivescovile ne' casi importanti doveva ottenere licenza da Roma per amministrare la tortura durante il processo informativo, senza dare all'inquisito la copia degl'indizii, ciò accadeva perchè ne' casi importanti la Curia Romana voleva essere intesa di tutto, e dirigere essa medesima il processo in ogni sua parte. D'altronde l'amministrare la tortura durante il processo informativo non era un uso particolare di Napoli, bensì un principio riconosciuto da tutti i Giuristi, ogni qual volta si trattasse di casi gravissimi e specialmente di lesa Maestà. Adunque la tortura dimandata dal fiscale, nel caso del Campanella, non usciva da' limiti del dritto e delle facoltà date dal Papa a' Giudici col suo Breve, essendovi tra le altre quella di poter sottoporre gl'inquisiti «alla tortura ed altri tormenti giusta le disposizioni del dritto». Non potendosi ammettere nel Nunzio tanta ignoranza del dritto, bisogna piuttosto conchiudere che egli abbia voluto dar prova di saper sostenere la superiorità ecclesiastica, mostrando che in tutto si doveva dipendere da Roma; e con ciò non giovava alla causa del Campanella e socii, ma la danneggiava senza dubbio, poichè rinfocolava la sorda diffidenza della Corte di Napoli verso quella di Roma nella faccenda de' frati. Bisogna tener presenti queste cose, poichè esse influirono certamente sulla condotta ulteriore del Governo Vicereale.—La richiesta della nuova facoltà per dare la tortura al Campanella fu[Pg 53] subito fatta dal Nunzio, mediante una staffetta spedita dal Vicerè, e si ebbe cura di farla in modo da comprendervi anche gli altri, che il Nunzio in una sua lettera di sollecitazione, in data del 4 febbraio, qualificava «inditiati per non dir convinti». Naturalmente la richiesta venne accordata senza la menoma difficoltà, trattandosi di una quistione di forma, non di sostanza; ma la lettera che l'accordava si fece attendere alcuni giorni.

Intanto il tribunale non perdeva tempo. Dopo l'esame e le confronte suddette del Campanella, immediatamente dopo, si venne all'esame di fra Dionisio, come si rileva dal trovare la deposizione di costui, negli Atti conservati in Firenze, notata col fol. 12 del volume[67]: anche di essa per altro quegli Atti non dànno che la semplice menzione, e certamente perchè risultò del pari negativa. Se non c'è una lacuna, del resto poco notevole, nelle notizie dei folii del volume, dopo fra Dionisio fu esaminato fra Gio. Battista di Pizzoni. Dichiarazioni fatte più tardi nel processo di eresia massime da fra Dionisio[68], quindi ripetute dal Campanella nelle sue Difese[69] e poi ancora nella Narrazione, tenderebbero a far credere che le cose fossero passate nel modo seguente. Il Pizzoni dapprima si ritrattò, onde fu posto in una fossa, dove col carbone scrisse sul muro il suo nome aggiungendovi «positus ut dicat mendacium ad instantiam fiscalium»; ma il Lauriana dalle carceri del civile, dietro il consiglio di un dottore Domenico Monaco, che là si trovava e che aveva consigliato lui stesso a non ritrattarsi perchè sarebbe stato punito come falsario, potè con lo stesso argomento indurre il Pizzoni a revocare la ritrattazione; così uno o due giorni dopo costui dimandò di essere udito di nuovo e revocò quanto avea dapprima ritrattato. Di tutto questo non si ha veramente notizia negli Atti sopra citati; solo vi si trova l'esame del Pizzoni qualificato «deposizione ultima di fra Gio. Battista che accetta quella fatta innanzi al Vescovo di Gerace», e da ciò potrebbe desumersi che le suddette dichiarazioni esprimessero il vero. Ma dobbiamo notare che possediamo tale deposizione di fra Gio. Battista integralmente riportata nel processo di eresia, perocchè venne trasmessa in copia dall'uno all'altro tribunale, e non vi scorgiamo alcuno indizio di un esame anteriore che con essa il Pizzoni si facesse a revocare[70]. La deposizione porta la data del 29 gennaio. I Giudici dimandano dapprima, «come si ritrova esso deposante carcerato in questo Regio Castello», ed egli dichiara come e quando e da chi venne carcerato in Calabria «acciò deponesse... contra fra Thomase Campanella et fra Dionisio Ponsio de le cose, che esso deposante havea denuntiato tanto al'Avvocato fiscale di Calavria in scritto [Pg 54] quanto per lettre al Generale»: poi, dietro altre dimande, dice di essere stato già esaminato dal Visitatore ed anche dal Vescovo di Gerace e si rimette a questi esami, spiega come non depose già per timore ed insiste ad atteggiarsi a denunziante, rettifica la parola «complici» che fu scritta nel suo esame a proposito degli altri frati da lui nominati, nega assolutamente di aver mai consentito alla ribellione, dicendo che piuttosto vorrebbe gli «fosse stata tagliata la lingua». Vedremo or ora che ben diversamente fu redatto il processo verbale dell'esame del Petrolo, il quale davvero prima si ritrattò e poi revocò la ritrattazione: ad ogni modo, la deposizione del Pizzoni che rimase e servì nello svolgimento ulteriore del processo fu quella sopradetta.—Non appena raccolta tale deposizione, fu immantinente chiamato il Campanella per fare la confronta, e come sempre era avvenuto, il Pizzoni disse che era vero quanto avea dichiarato nelle sue deposizioni contro di lui, e il Campanella disse che egli mentiva per la gola. Si passò allora alla confronta del Pizzoni con fra Dionisio; quindi si fece la confronta del Lauriana con lo stesso fra Dionisio, e il risultamento fu sempre identico, come si rileva dagli Atti che pubblichiamo tra i Documenti[71].

Nel giorno medesimo 29 gennaio si venne anche all'esame di fra Domenico Petrolo, e costui positivamente si ritrattò, ma poi revocò la ritrattazione aggravando fuor di misura la condizione del Campanella. Possediamo egualmente questi Atti nella loro integrità, giacchè vennero inserti in copia nel processo di eresia[72]. I Giudici dimandarono, al solito, come e perchè egli si trovasse carcerato, e il Petrolo rispose che credeva essere stato carcerato per deporre contro il Campanella: poi, dietro altre dimande, rispose di aver deposto che il Campanella volea ribellare la provincia di Calabria coll'aiuto de' turchi e de' fuorusciti, di averlo deposto a suggerimento di fra Cornelio, che lo persuase di dirlo per non essere maltrattato in Calabria e venir rimesso a' proprii superiori; quindi espose tutte le circostanze della sua fuga insieme col Campanella temendo che Maurizio volesse ammazzarlo, tutte le circostanze della loro cattura e carcerazione. Ma i Giudici gli obiettarono che avea deposto spontaneamente e poi avea ratificato la deposizione innanzi al Vescovo di Gerace, ed egli rispose che non avea ratificato nulla e che quanto avea deposto non era vero; infine gli dimandarono se era vero che avesse concertato col Campanella di ribellare la Calabria e farla repubblica, ed egli rispose, «non è vero, Giesù»! Si può ritenere per certo che i Giudici fecero allora porre il Petrolo nella fossa, onde egli ben presto si raccomandò al carceriere, dicendo che volea manifestare la verità.—Così nella seduta del 31 gennaio il Petrolo fu sottoposto a un nuovo esame; e nel processo [Pg 55] verbale trovasi consacrato che, essendo venuti i Giudici, il carceriere fece loro intendere il desiderio del Petrolo, e che costui tradotto nel luogo dell'Audienza ed interrogato se volesse manifestare la verità come avea dichiarato, disse di avere negato il primo esame per le minacce fattegli dal Campanella a nome suo ed anche a nome di fra Dionisio in più circostanze. E cominciò dal riferire i motti latini scambiati tra il Campanella e lui durante il tragitto da Squillace a Gerace, la cartolina mandatagli dal Campanella appunto in Gerace, l'ambasciata fattagli a Monteleone per mezzo del Pisano, le parole direttegli in Napoli dalla finestra del carcere; inoltre riferì le sollecitazioni avute perchè deponesse falsamente contro Mesuraca, il Principe della Roccella e Giulio Contestabile, e concluse che dubitando di poterne aver danno si era ritrattato. Lettogli quindi il primo esame, lo confermò, rettificando ed aggiungendo qualche cosa pur sempre a carico del Campanella ed a scusa propria. Così disse che solo il Campanella gli avea manifestato più liberamente doversi far ribellare Catanzaro, ma «lo dì prima della cattura»; che poi «alla Roccella» gli avea manifestato aver lui, il Campanella, questi pensieri nello stomaco da tredici anni e fin d'allora averli comunicati a fra Dionisio, avere inoltre mandato fra Dionisio alla Piana per mettere in ordine la gente e i fuorusciti, infine venire per lui trenta vascelli turchi dietro le trattative fatte da Maurizio, con altre circostanze relative a' fatti e detti di que' giorni. Interrogato aggiunse pure che il Campanella avea detto bastargli essere amico di Maurizio perchè i turchi non lo facessero schiavo; ed aggiunse inoltre spontaneamente, che una volta in Stilo essendosi il Campanella vantato di aver fatto nominare dodici Vescovi, ed avendogli lui detto «piacesse a Dio che tu fossi fatto Cardinale per fare bene a noi altri», il Campanella avea risposto, «io Cardinale? io voglio fare altri Cardinali, et non aspettare che me faccino à me». Fu questa la deposizione ultima del Petrolo, la quale, come ben si vede, riassumeva in brevissimi tratti perfino la storia de' disegni del Campanella, senza tralasciare nemmeno di far capire l'altissimo grado che egli si riserbava nel nuovo Stato da doversi fondare: e comparando i fatti accennati dal Petrolo con quanto sappiamo da tutti gli altri fonti, tenendo presente l'indole stessa del Petrolo, si può conchiudere che egli non abbia mentito, eccettochè nell'asserire di aver ben conosciuti i disegni della congiura solamente negli ultimi giorni e alla Roccella. Pertanto i Giudici fecero subito una confronta del Petrolo col Campanella, come si rileva da' soliti Atti, ne' quali la «deposizione» o «seconda deposizione» del Petrolo trovasi notata co' fol. 18 a 20, e la confronta col fol. 21[73]. Si ebbe così la nona ed ultima confronta in persona del Campanella, e non sarà strano l'ammettere che il risultamento di essa sia stato pur sempre identico a quello delle altre.

[Pg 56] Molto probabilmente allora appunto, il 31 gennaio, essendosi mostrato negativo con tanta ostinazione, il Campanella venne rinchiuso a sua volta nella fossa, donde non fu tratto che per essere sottoposto alla tortura: e veramente, nella sua Narrazione, il Campanella ne parla come di un fatto avvenuto dopo le confronte di Maurizio non solo con lui ma anche con fra Dionisio, ciò che sappiamo essere avvenuto immediatamente dopo la confronta sua col Petrolo. Ecco in che modo egli racconta il fatto. «Per questo il Sances credendosi haver trionfato di tutta la causa, pose il Campanella dentro la fossa del niglio in Castelnovo, che và quasi sotto mare, oscurissima humidissima dicendoli e facendoli dire che senza altro havea a morire e li davan de mangiar malamente solo una volta il giorno, stava con li ferri alle gambe, dormia in terra; e li vennero flussi di sangue. E così infermo poi lo posero nel tormento». Non stentiamo a credere che la fossa in cui venne posto il Campanella sia stata la più terribile, detta del coccodrillo, ovvero anche del miglio, non niglio come si legge nella Narrazione[74]. La menzione di questa fossa risale al tempo degli Aragonesi e vedesi continuata fino a' giorni nostri, senza per altro poter dire dove essa sia veramente stata, giacchè parrebbe essersi successivamente così chiamata ogni fossa molto profonda e quasi del tutto oscura; notiamo solamente esser probabile che il livello sottomarino di detta fossa sia stato asserito dietro la nozione della profondità dell'intero fossato, dove ne' primi tempi, come abbiamo accennato in altro luogo, potevasi immettere l'acqua del mare. Vedremo che il Campanella vi rimase solo per una settimana.

Intanto si fece ancora qualche confronta e segnatamente quella di Maurizio con fra Dionisio: subito dopo si esaminò pure il Bitonto, e non può esser dubbio che risultò parimente negativo; quindi si passò a fra Paolo della Grotteria, intorno al quale sappiamo di certo che negò ogni cosa[75]. Non apparisce poi che siano stati esaminati nè fra Pietro di Stilo nè fra Pietro Ponzio: ne' Riassunti degl'indizii compilati contro di essi, come contro diversi altri, non è ricordata una loro deposizione in qualunque senso, a differenza di quanto si vede per quelli sopra nominati e per qualche altro ancora. Apparisce invece essere stato esaminato fra Scipione Politi, il quale disse che avea conosciuto il Campanella, e che nel gennaio 99 lo andò a visitare per averne una lettera in favore di un suo parente, e poi, essendo l'ora molto tarda, rimase a dormire [Pg 57] con lui; che più volte andò a visitarlo di nuovo per parlargli di cose letterarie, ma non gli riuscì possibile per le molte persone che si trattenevano con lui, «et precise quando stava con Gio. Gregorio Prestinaci, et Gio. Jacovo Sabinis, si ponea à ragionare con quelli et lasciava tutti». Aggiunse che dopo la venuta di Carlo Spinelli si era detto «che lo fra Tomase, fra Dionisio, Mauritio et altri forasciti trattavano di dare, primo si disse, in poter del Papa questo Regno, et poi si disse che lo volevano dare in mano deli Turchi, et l'hà inteso generalmente, ma dopò che fu carcerato frà Tomase, l'intese dire questo dal Capitan Francesco Plotino, et si dicea, che Mauritio havea trattato con li Turchi et fra Dionisio ancora, et frà Tomase con altre persune et forasciti seu delinquenti»[76]. Così questo fra Scipione, già intimo del Campanella, se la cavò felicemente, e non può dirsi che il tribunale sia stato severo con lui.

Ma dobbiamo tornare a Maurizio, il quale aveva esaurito il còmpito per cui era stato fin allora serbato in vita, onde non si tardò a farne l'esecuzione. La confronta con fra Dionisio fu l'ultimo atto giudiziario certo della sua vita. Il Campanella, nella Narrazione, scrisse pure che «lo portaro... a conurtar F. Pietro di Stilo prelato del Campanella che confessasse per salvarsi come lui havea fatto, e poi fatto questo officio iniquo, mandò il carcerere Alonso de Martinez, et Onofrio a dir al Gesuino, che l'osservasse la parola: el Gesuino rispose, che non si osserva palabra con ladrones, e fu appiccato con perdita del corpo et dell'anima». Lasciamo da parte queste ultime asserzioni, che vedremo bilanciate da altre diametralmente opposte, e che ad ogni modo rappresentano la continuazione del disgustoso atteggiamento preso dal Campanella verso Maurizio. Quanto all'incarico che gli avrebbero dato di esortare fra Pietro di Stilo, il fatto non può recare sorpresa, visto lo zelo religioso eccitato in Maurizio, che era anche parente di fra Pietro; ma è singolare che non se ne trovi qualche traccia nel processo di eresia, dove gl'incidenti della causa sogliono trovarsi menzionati in gran numero. Vedremo per altro che qualche poesia del Campanella si spiegherebbe ottimamente con questo fatto, e del pari con esso può spiegarsi in gran parte il non essere stato poi fra Pietro nemmeno chiamato all'esame: conoscevano che sarebbe risultato ostinatamente negativo, e gli esami negativi non tornavano convenienti, poichè gl'indizii raccolti a carico degl'inquisiti principali ne rimanevano sempre alquanto vulnerati.

Il 3 febbraio era già avvenuto il passaggio di Maurizio dalle carceri del Castello a quelle della Vicaria, e le scritture di S.to Officio ce lo mostrano appunto a quella data, come già il Pisano, innanzi a' Delegati della Curia Arcivescovile, che questa volta furono i Rev.di Orazio Venezia e Curzio Palumbo Consultori e Marco Antonio [Pg 58] Genovese Avvocato fiscale, riuniti nell'Audienza criminale della Vicaria. Non bisogna credere che simiglianti ricorsi al S.to Officio, in punto di morte, si fossero verificati soltanto in persona dei condannati per la causa presente: era un uso molto comune a quei tempi, spesso verificatosi senz'altro motivo che quello di ritardare per qualche giorno l'esecuzione. Tra le carte venute nelle nostre mani abbiamo p. es. due lettere del Card.l di S.ta Severina, che trattano delle deposizioni di uno Scipione Prestinace egualmente di Stilo, celebre bandito menzionato in qualche documento del Grande Archivio[77] e decapitato il 17 febbraio 1597, il quale avea dimandato ed ottenuto di confessare al S.to Officio: e vedremo pure Felice Gagliardo, sul punto di essere giustiziato più tardi per delitto comune, fare una lunga deposizione innanzi a quel tribunale. Relativamente a Maurizio non si potrebbe supporre il motivo sopra indicato, giacchè l'esecuzione sua era stata già differita anche troppo; oltracciò non lo troviamo a rivelare in S.to Officio il giorno medesimo dell'esecuzione, come abbiamo visto in persona di Cesare Pisano, ma mentre l'esecuzione era stabilita pel 4 febbraio, egli il giorno precedente trovavasi innanzi agli ufficiali della Curia Arcivescovile da lui richiesti pur sempre con la clausola «a scarico della mia conscientia secondo me hà imposto il mio padre spirituale»[78]. Ed ecco in breve quanto, giusta lo stile del S.to Officio, egli «denunziò» contro il Campanella e fra Dionisio: gioverà conoscere il complesso delle sue rivelazioni, anche a costo di annoiarsi trovando una ripetizione di cose già narrate. In primo luogo depose che presso D. Gio. Jacobo Sabinis il Campanella avea detto essere stato Cristo un grande uomo da bene, ed aveva anche detto bene de' turchi (allora era di obbligo dirne male), ond'egli poi in Castello ebbe ad avvertirlo che stava scandalizzato di quelle parole, e fra Tommaso gli rispose che lui non conosceva bene li negozii. Dippiù, che pure nella stessa data, «con occasione della guerra che voleva cominciare, ò fattione che voleva fare contra il Re», fra Tommaso disse che voleva «fare brusciare tutti li libri latini perche era un inbrogliare le gente», senza precisare quali libri e senza scovrirsi molto con lui per cose di religione, giacchè egli era stato sempre saldo nelle cose della fede, «anzi chiarivi al detto frà Thomaso che di queste cose di religione non bisognava trattarne, perche non ci haveria mai consentito», e fra Tommaso rispose che egli voleva solamente riformare gli abusi della religione. Inoltre che avea saputo da Gio. Gregorio Prestinace volere il Campanella «fare una republica dove si havesse da vivere in commune», ciò che fra Tommaso medesimo gli confermò, dicendogli «che la generatione humana si dovea fare dagli huomini buoni» cioè gagliardi [Pg 59] e valorosi, e che «con la medesima occasione della guerra... voleva aprire li sette sigilli», ricordando che in Calabria dicevasi pubblicamente «che la scientia di detto frà thomaso sia del demonio ò di Iddio, perche ogn'uno che parla con esso lo ritira dove vole esso con la scientia e con la persuasione sua». Aggiunse pure infine, che intese da fra Tommaso «come quando voleva fare le guerre haveria fatto deli miracoli, et mostrato con la scientia è raggione che quello che mostrava esso era ben fatto». Relativamente poi a fra Dionisio, dichiarò che costui aveva una volta raccontato il solito fatto osceno in dispregio dell'ostia consacrata, ed anche l'annegamento di quel sacerdote che a tempo dell'inondazione del Tevere volea salvare il SS. Sacramento; che un'altra volta, stando lui, Maurizio, inginocchiato nella chiesa del convento, fra Dionisio gli disse che così voleva gli uomini, che sapessero fingere; e un'altra volta, stando a desinare, fra Dionisio, ovvero fra Tommaso, avea detto che i Cardinali non digiunavano, e le riforme si facevano per tutti ma non per loro. Aggiunse, dietro domanda di rivelare i complici, che ricordava solo di avere inteso dal Vitale suo cognato, giustiziato in mare, che fra Dionisio, avendo celebrato la messa in Nardò dentro la sua cella, gittò a terra l'ostia, nè credeva a Cristo, nè alla verginità di Maria. Da ultimo, interrogato se avesse deposto per odio, per inimicizia o per passione, egli appunto allora ricordò che non avea mai rivelato nulla contro quei frati, malgrado ripetute torture, e malgrado sapesse che fra Tommaso si era esaminato contro di lui, nè aveva poi detta la verità per altro, se non perchè il suo confessore della Compagnia de' Bianchi lo aveva consigliato a farlo per obbligo di coscienza.—Così, in fondo, non si ebbero rivelazioni nuove o numerose di Maurizio, il quale non potea nemmeno ignorare che vi erano state anche troppe rivelazioni di eresia, o per debolezza, o per artificio, allo scopo di passare alla Curia ecclesiastica: nè vi fu bisogno per lui di assoluzione e di abiura, poichè egli non era imputabile in siffatta materia. Ma l'importanza delle dette rivelazioni per noi sta in questo, che esse dànno una notevole impronta di autenticità a' tratti principali dei disegni del Campanella e delle riforme politiche e religiose da lui progettate, come anche alla via seguita da fra Dionisio in questa faccenda; poichè, quasi non occorre dirlo, noi crediamo pienamente sincere quelle rivelazioni, senza alcuna riserva, e però siamo stati anche solleciti di riferirle con le parole testuali. In un momento supremo, quando ogni speranza di salvar la vita, se mai ve n'era stata, avea dovuto rimanere del tutto spenta, vedere Maurizio non già ritrattare le confessioni fatte nel tribunale, ma aggiungere rivelazioni in termini tali da suggellarle, è certamente un fatto di suprema importanza; nè cesseremo dal dire egualmente da questo lato, che la condotta di Maurizio si può giudicare inaccettabile ma non mai indegna di rispetto, e chi volesse ad ogni modo biasimarla dovrebbe rivolgere i suoi biasimi piuttosto a coloro i quali abusarono[Pg 60] di quell'anima tutta imbevuta della fede in cui era stata educata. Ci rimane intanto una somma di notizie in tal guisa raccolte, che non ammettono dubbio.

Il giorno seguente, 4 febbraio, con lo stesso corteggio della prima volta, Maurizio venne condotto al patibolo, e di rimpetto al torrione del Castel nuovo, dal quale i suoi compagni di sventura poteano vederlo, lasciò miseramente la vita col capestro a soli 28 anni. Il Registro de' Bianchi lo ricorda in questi termini: «A dì 4 di febraro Venerdì 1600, per ordine di S. Ecc.a fù giustitia di Mauritio Rinaldi de Guardavalle appresso Stilo, lascia una figliuola d'anni tre, nomine Costanza in potere de sua matre nomine Giulia Vitale; et una sorella d'anni 30 vidua nomine Costanza. Ve intervennero» etc. Il Campanella, nell'Informazione, scrisse che «li fecero perder l'anima e 'l corpo, e non li donaro tempo di ritrattarsi se non alli confrati»: bisogna dire che egli non abbia conosciuto nulla delle rivelazioni fatte in S.to Officio, e poi sappiamo oggi ciò che avvenne presso i confrati; se mai vi fossero state discolpe, nel Registro de' confrati si leggerebbero come si leggono quelle del Pisano.—Dobbiamo aggiungere che il Residente Veneto, l'8 febbraio, riferiva l'avvenimento al suo Governo con qualche altra circostanza degna di nota e ne' termini più lusinghieri per Maurizio; non possiamo dispensarci dall'esporre qui il suo dispaccio e tutto intero, senza rimandare i lettori a' Documenti. «Quel Mauritio Rinaldi doppo haver ratificato alla presentia de i frati autori della ribellione tutte le cose fra loro accordate in Calavria, propose da sè stesso di lasciarle comprobate senza più dilatione con la sua morte perche non habbia loro à restar più speranza di poterle negar nei tormenti; con che finì la vita nel luogo et modo istesso dove anco la prima volta era stato condotto pubblicamente. Le attioni fatte da costui, et vivendo, et morendo sono generalmente stimate di tanto momento che da esse si possa far giudicio qual fossero stati i suoi progressi se fosse riuscito l'effetto della congiura. Et havendo colla volontaria revellatione, per solo zelo dell'anima sua, mosso l'animo del V. Re, non parendo a S. Ecc.za in caso di M. lesa di dover permutargli la pena della vita, hà fatto, con atto magnanimo, che la facoltà sua, già per la sententia confiscata, sia hora divisa in tre parti, una delle quali sia data per Dio, et una alla madre, et l'altra ad una figliuola nubile di esso infelice, con la qual gratia gli è parso morendo rinascere al mantenimento di persone a lui tanto congiunte». Una testimonianza del tutto disinteressata, come questa del Residente Veneto, su fatti avvenuti in Napoli, regge assai bene a fronte delle molte, delle troppe affermazioni vituperose del Campanella verso Maurizio. Forse, come tanto spesso, non tutte le circostanze da lui riferite debbono ritenersi esatte. Verosimilmente non sarà esatto che Maurizio abbia proposto di voler comprovare con la sua morte le cose da lui rivelate a carico de' frati, giacchè per[Pg 61] lo meno questo non era punto necessario; del pari non sarà forse esatto che egli abbia saputo in precedenza, con sua letizia, la revoca almeno parziale della confisca de' suoi beni, non essendo facilmente ammessibile un così pronto senso di pietà Vicereale verso un ribelle. Possiamo ritenere che la confisca non abbia avuto effetto, e forse per questo motivo son riuscite vane finora tutte le nostre ricerche nell'Archivio di Stato su tale argomento: vi era l'interesse di «Dio», cioè de' monasteri, a' quali con siffatto titolo tanto indegnamente adoperato si prodigava la roba altrui, e vi era anche il gusto Vicereale di mostrarsi in gara di commozione ne' casi di coscienza commossa. Ma ci basta sapere che i contemporanei giudicarono Maurizio ben diversamente da quanto il Campanella ci lasciò scritto, e crediamo che oramai il nome di Maurizio debba registrarsi nel martirologio italiano, dandogli lo splendido posto che gli compete.

Continuava intanto nel tribunale lo svolgimento delle prove a carico di fra Dionisio. Furono esaminati Mario Flaccavento e Gio. Battista Sanseverino, i quali confermarono di essere stati da lui sollecitati a prender parte nella congiura. Anche Fabio di Lauro e Gio. Battista Biblia fecero la confronta con fra Dionisio; e forse si udì pure qualche altro contro di lui, giacchè si nota a questo punto una piccola lacuna nella numerazione de' folii del volume[79].—Ma giunse finalmente da Roma la lettera che dava licenza di amministrare la tortura al Campanella e agli altri indiziati. Il Nunzio si affrettò a comunicarla al Vicerè, e dovè pure esser subito emanato dal tribunale il decreto per l'esecuzione. Questa lettera è menzionata in un'altra posteriore del Nunzio[80], e non si trova nel Carteggio, sicuramente perchè venne inserta nel processo, come allora solevasi fare.

Il 7 febbraio 1600 venne amministrata la tortura al povero Campanella, e la specie prescelta fu quella così detta del polledro. Ciò rilevasi da un documento trasmesso dall'uno all'altro tribunale ed inserto nel processo di eresia, il quale comincia così: «à tempo si dede lo polletro à fra thomase campanella ali 7 di febraro» etc.[81]. Di questa specie di tortura, tutta napoletana, non ci è costato poco il rinvenire i particolari; e li abbiamo finalmente rinvenuti in un trattato di Medicina legale intitolato Il Medico fiscale di Orazio Greco fisico della Gran Corte della Vicaria, trattato totalmente ignoto agli Storici dell'arte, essendo stato annesso ad un'opera legale[82]. Il [Pg 62] concetto del polledro apparisce preso da quel chiuso fatto con barre di legno che adoperavasi per fermare i polledri indomiti, attaccandone gli arti alle barre mediante funicelle. Non era un tormento comune: usavasi in casi d'importanza, ed il Greco, che scriveva oltre un secolo dopo il tempo di cui trattiamo, accertò che «sin dalle popolari revolutioni (int. quelle di Masaniello) non si era più pratticato». Il paziente veniva situato come in una cornice di legno a modo di scala piramidale, munita di traverse tagliate ad angolo acuto per cruciare tutta la parte posteriore del corpo, dalla nuca a' talloni: il capo era incassato come in una cuffia di legno nella quale la scala terminava; un foro si trovava nella parte posterior-superiore della cuffia, e fori analoghi si trovavano lungo gli assi della scala, per far passare gli estremi di tante funicelle che doveano stringere il capo e gli arti in più punti. Oltre due funicelle fortemente applicate a' polsi per tenerli uniti insieme, un'altra ne era applicata alla fronte, due alle braccia, otto alle cosce e gambe; in tutto 13 funicelle, i cui estremi passati pe' fori suddetti erano ritorti mediante bastoncelli di legno, così che le carni venivano strette sulle ossa; e perchè gli arti inferiori non si allontanassero tra loro, una funicella supplementare era passata intorno agli alluci. Del resto il Greco ebbe cura di darcene un disegno, e noi abbiamo creduto che valesse la pena di riprodurlo, per avere una nozione più chiara di tale tormento, e così intendere ciò che il disgraziato filosofo ne disse nella sua Narrazione[83]. Il Campanella dovè essere tratto dalla fossa del miglio per avere questa tortura, e però può contarsi che venne a dimorare nella fossa sette giorni. Un primo fatto da essere notato nella sua tortura fu questo, che mentre veniva spogliato gli cadde una carta contenente la relazione dell'esame del Lauriana, che costui gli avea scritta, e D. Giovanni Sances la lesse, e il Campanella gli disse che quella carta volea presentarla; D. Giovanni affermò che l'avrebbe presentata egli medesimo, ed allora il Campanella gli consegnò pure una o due cartoline scrittegli dal Pizzoni, dicendo che le presentasse egualmente. Queste cose furono poi da fra Dionisio riferite al Vescovo di Termoli, Giudice nel tribunale dell'eresia, il quale volle da lui una relazione su' documenti attestanti la corrispondenza passata tra il Pizzoni e il Campanella; ed il Vescovo, avutane notizia, fece richiesta de' detti documenti al tribunale della congiura, ed in tal guisa se ne trova una copia nel processo di eresia. Ma notiamo che si ebbe la copia di una sola delle cartoline che sarebbero state scritte dal Pizzoni, oltre la carta che sarebbe stata scritta dal Lauriana: e la cartolina reca la semplice assicurazione che egli non avea detto nè direbbe mai essere que' tali Signori (certamente i Del Tufo, Orsini, Sangro etc.) fautori del preteso delitto, ma amici [Pg 63] della persona e delle opere di lui; la carta poi reca veramente l'esame del Lauriana innanzi al Visitatore e a fra Cornelio, scritto abbastanza fedelmente, e con ogni probabilità secondo la vera maniera d'interrogare tenuta dagl'Inquisitori[84].

Questa prima tortura data al Campanella non durò molto. Egli non resse allo strazio, dichiarò di voler confessare e fece una lunga confessione, tanto lunga da occupare due sedute in due giorni diversi: [Pg 64] dovè quindi esser posto due volte nel tormento del polledro con la solita formola «continuando et non iterando» per mantenere gli effetti legali di una confessione «in tormentis»; così possiamo spiegarci il trovarsi in una Lettera del Campanella al Papa il 1607, da noi pubblicata, la menzione di «dui polledri», e in uno de' brani della sua confessione pervenuti fino a noi la circostanza espressa con le parole «come disse l'altro dì»[85]. In fondo nella sua confessione il Campanella ammise che aveva avuto il progetto di fare la repubblica e che doveva con altri suoi compagni predicarla, ma solo nel caso in cui fossero accadute le mutazioni da lui previste, al quale proposito espose quanto avea raccolto ne' suoi profetali; inoltre sostenne che avea consigliato di ricorrere alle armi ma per difendersi, e rigettò poi sempre su Maurizio le trattative fatte col Turco. Ma un momento di tanta importanza merita bene di essere esposto con tutta la possibile larghezza. Vediamo dapprima ciò che ne disse egli medesimo nella sua Narrazione, avvertendo che egli pone in molto rilievo l'infermità contratta nella fossa del miglio e qualche altro suo incomodo, certamente perchè dovea sentirsi umiliato dal fatto dell'avere lui solo confessato, mentre tutti gli altri ecclesiastici, che vennero dopo di lui egualmente tormentati, non confessarono nulla, o non aggiunsero nulla a quanto aveano già detto. «E così infermo lo posero nel tormento del polledro senza lasciar che andasse prima del corpo... Il Campanella antevidendo, che era forzato morire, tanto più che il Sances disse al boja che lo tormentasse a morte e fù stretto con le funi al polledro con tanta strittura, che si rompevano tutte, e subito le raddoppiava: et il dolor cresceva tanto horrendamente che lo fecero spasmare, et uscir di cervello: per questo, secondo havea previsto, conoscendo che di certo moria se non diceva; però per dar tempo disse, che volea confessare. E perchè il Sances e li giudici non sapeano di Theologia et Astrologia li levò dalla legge a queste altre scienze con arte; dicendo ch'era vero, che lui predicò che si dovea mutar il mondo, el regno, et che s'havea a far una repubblica nova universale secondo molte revelationi di Santi e d'Astrologi, e che quando questo fosse succeduto, lui voleva predicarla e farla, e che sendo dimandato da molti disse a quelli, che attendessero all'armi, perchè occorrendo mutatione fatale da qualsivoglia banda si difendessero, e facessero la repubblica antevista nell'Apocalissi di S. Giovanni e nominò molti che consentiano a questo parere. Ma però non confessò heresia alcuna nè ribellione nè voluntà di ribellare. Anzi dice nella sua confessione, ch'interrogato da Mauritio come potea far questo, li rispose, che essi non havean d'assaltar il regno; ma con questa conditionale se venia mutatione, volean far la repubblica nelle montagne difendendosi come li Spagnoli nelle montagne quando [Pg 65] entraro li Mori. E parlava in tal modo che li giudici si credeano che confessava, e che solo negava la prattica con Turchi, la quale nega espressamente, e dice haver ripreso Mauritio perche era andato su le galere d'Amurat. E perche essi giudici non sanno quel che dice Arquàto Astrologo, et Scaligero, et Cardàno, e Ticòne e Gemma Frisio et altri Astrologi della mutatione instante al secol nostro: nè quel che dicon li Santi Caterina, Brigida, Vincenzo, Dionisio Cartusiano... pensare che queste profezie fossero finte dal Campanella per tirar la gente a ribellare, e ch'erano false; e si contentare di tal confessione, sperando anche che poi nel tribunal del S. Officio confessasse che quella republica che dicea voler fare havea d'esser heretica: e così saria stato brugiato». In verità i Giudici della tentata ribellione non aveano alcun motivo di preoccuparsi della qualità eretica della repubblica voluta dal Campanella, qualità che si sarebbe dimostrata più tardi in un altro tribunale. Bastava loro che venisse da lui confessato il trattato di far repubblica, per ritenerlo un reo confesso con tutte le terribili conseguenze legali; e non importava neanche troppo se per tale repubblica avessero dovuto aversi o no certe condizioni, se avessero dovuto usarsi le armi in difesa ovvero in offesa, se avessero dovuto esservi gli aiuti de' potentati esterni e segnatamente del Turco, da qualunque de' complici invocato. Le conseguenze legali non variavano punto per tutto ciò, e tale fu infatti l'opinione che ne portarono i Giudici; lo rileviamo benissimo da una lettera del Nunzio, in data 11 febbraio. «Nella causa della ribellione finalmente con poco tormento, per vigor della facoltà venuta et per la sua (int. la lettera del Card.l S. Giorgio) de' 24 del passato, che comunicai subito con S. E., si cavò da quel Campanella tutto il fatto come era passato, se bene non hà mai voluto chiamarlo ribellione ma detto che voleva far Repubblica la provincia di Calabria per mezo delle Armi e delle Prediche, quando però seguissino i garbugli in Italia, che lui si era presupposto, et intanto andava disponendo gli animi et procurando seguito; il trattar col Turco dice che fù concetto di quel Mauritio di Rinaldo, che poi hanno fatto appiccare, non di meno il negotio resta di maniera scoperto che non par che possa haver difesa, alla qual cosa se gli è di già dato il termine, e la commodità, et intanto si seguirà contra complici ch'egli hà nominato, con i quali si terrà il medesimo modo che si è tenuto con seco, poichè è riuscito bene». Vedesi qui manifestamente che neppure il Nunzio diede alcuna importanza a' Profetali esposti dal Campanella in rapporto al disegno della repubblica da lui concepito e promosso, e ritenne puramente e semplicemente essersi avuta la confessione di una congiura o trattato di ribellione, per lo quale il Campanella era andato disponendo gli animi e procurando sèguito, nè deve sfuggire che egli mostrò chiaro qual fosse l'animo suo, ed anche l'animo della Curia alla quale scriveva e doveva ingegnarsi[Pg 66] di dar buone notizie, dicendo che il modo tenuto era riuscito bene, mentre il povero filosofo si era avviato all'estrema rovina. Da un lato solo l'esposizione de' Profetali dovè colpirlo ed incutergli anche un certo timore, dal lato della profonda erudizione e dottrina che il Campanella palesava; poichè nella stessa data egli si diè subito a chiedere al Card.l S. Giorgio ed anche al Card.l di S.ta Severina, per la prossima causa dell'eresia, l'intervento di «persone pratiche e buoni Theologhi per disputare con quel Campanella, che per haver abiurato altra volta, com'egli stesso dice, vorrà forse in questo dar che fare dinuovo», notando che aveva «umore in difendere le sue opinioni»[86]. Da queste parole del Nunzio rimangono appieno giustificate quelle della Narrazione riferibili più direttamente a lui, che cioè «li giudici non sapeano di Theologia et Astrologia»: e ci sembra conveniente aggiungere, che da quanto sappiamo dell'andamento della confessione potrebbero risultare giustificate anche certe parole del Giannone intorno alla medesima. Il Campanella ci lasciò scritto, e non stentiamo a crederlo, che gli orrendi spasimi lo fecero «uscir di cervello»; da parte sua, almeno nel 1o giorno, chi sa in qual modo il Mastrodatti potè seguirlo nelle considerazioni apocalittiche dettate con una inevitabile confusione; non può quindi sorprendere l'impressione avuta dal Giannone quando ebbe a leggere nella copia del processo «la sua lunga deposizione fatta nel mese di febbraio... nella quale (egli dice) a guisa di fanatico e di forsennato, sia per malizia, sia per lo terrore, ora affermando, ora negando, tutto s'intriga e s'inviluppa».

C'incombe pertanto l'obbligo di vedere più da vicino ed anche commentare sobriamente la confessione del Campanella, adunando i brani a noi pervenuti con gli Atti esistenti in Firenze, e riportandoli secondo il testo del sunto fattone dal Mastrodatti[87]. Non si avrà l'intera confessione e tanto meno la precisa fisonomia di essa, ma se ne avranno i punti di maggior rilievo, pe' quali risulterà sempre più chiara la posizione derivatane a lui medesimo ed a' compagni suoi propriamente ecclesiastici. Notiamo innanzi tutto che ci mancano i brani relativi alle Profezie ed a' pronostici, i quali doveano verosimilmente occupare i fol. 28 e 29 del processo, ed abbiamo solamente alcuni di quelli compresi tra il fol. 30 e 34; essi cominciano dalla esposizione del partito che il Campanella intendeva trarre dagli avvenimenti previsti, e furono riferiti dal suo Avvocato nella Difesa. «Che soccedendono detti romori, et revolutioni, che lui per Profetie et altri segni prevedea, con detta occasione si volea forzare fare detta Provincia di Calabria Republica, che [Pg 67] con pigliare li monti si hariano mantenuti, et con questo il Papa et Rè di Spagna li hariano lasciati vivere in Repubblica, Che dicendoli Mauritio che detta Republica non si possea fare senza aiuto di Potentati esterni, Lui rispose che non havevano d'assaltare il Regno, et per questo non haveano bisogno di potenza esterna; mà che con la mutatione del Regno, che havea da soccedere secondo havea trovato per Profetie, loro soli bastavano con l'eloquenza et con gl'amici. Che l'Imperio Torchesco s'havea da dividere in due parti, Et una saria stata da parte de Christiani, Et un'altra dalla parte Maumettana, et che di quella parte di Christiani se n'haveriano visto dove per fato inclinavano. Che havendoli ditto Mauritio, che lui era andato sopra le Galere Torchesche à parlare con Morat Rais, che l'havesse voluto dare aiuto in fare detta Republica, esso fra Thomaso lo riprese di questo, che non havea fatto bene, per che li turchi sempre sogliono essere infedeli et inimici. Che lui dicea che succedendono detti romori, et mutationi nel Regno, si seriano fatti grandi, ò della parte del papa, ò della parte del Rè. Che in detto anno del 600 havea da essere unum ovile et unus Pastor, et che lui con li compagni suoi Monaci con detta occasione haveriano predicato in favore di detta Republica profetizata in benefitio del Papa». Ma dovè nominare quelli co' quali egli avea fatti tali discorsi, in ispecie poi i frati compagni suoi che avrebbero predicato con lui, giacchè il tribunale doveva occuparsi appunto degli ecclesiastici; ed ecco nominati parecchi, e s'intende che a noi sono propriamente pervenuti i nomi degli ecclesiastici già carcerati. Forse si era al secondo giorno, ed egli avea dovuto riflettere a' casi suoi; ad ogni modo troviamo qui pure l'animo suo, come sempre, soggetto all'impeto de' risentimenti, malgrado la confusione suscitata dall'atrocità de' dolori. Scorgesi infatti senza riguardi verso il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo, che si erano da poco tempo confrontati con lui a suo danno, abbastanza riguardoso verso fra Dionisio e naturalmente anche più verso fra Pietro di Stilo, abbastanza riguardoso perfino verso Giulio Contestabile, al quale già prima in Calabria, per lo stesso motivo de' risentimenti, aveva usato tutt'altro che riguardi. «In interrogatione chi sono questi altri religiosi, che volevano agiutare col predicare et eloquentia in detta Republica et Novità? dice che era esso deposante, Fra Gio. Battista de Pizzoni, frà Dominico Petrolo, frà Silvestro de Lauriana, frà Dionisio Pontio, et frà Pietro de Stilo lo seppe all'ultimo quando stavamo per fugire, et non seppe manco tutto lo negotio, et non ci confidiamo comunicarli questo, per che era un pazzo»! Con questo titolo di pazzo, dato al più giudizioso della compagnia, evidentemente egli quasi venne a porre fra Pietro di Stilo fuori causa. Rispetto a fra Dionisio non potea fare altrettanto, e si limitò a dire che «era consapevole di quanto si trattava, et esso fra Dionisio havea trattato, et parlato di questo[Pg 68] negotio di fare republica la provintia in genere con fra Gioseppo Yatrinoli et fra Gioseppo Bitonti, et con Cesare Pisano, li quali vennero una sera à Stilo, et la matina per tempo si partero et non li parlò». Rispetto al Pizzoni fu più largo ed anche molto ostile, a differenza di quanto avea fatto nella Dichiarazione scritta in Calabria. «La prima volta che esso frà Thomaso ne parlò con detto frà Gio. Battista fù l'anno passato del mese di Settembre 98 in Stilo, conferendo certe conclusioni che esso frà Gio. Battista havea da tenere nel capitolo». In dette conclusioni «trattò... de statu optimae Reipublicae, et dicendoci Io le legge di quella, Lui disse, volesse Dio, che si trovasse, ma è quella di Platone, che non si trovò mai, et Io le risposi che s'haverà da trovare questa republica innanzi la fine del mondo per compire li desiderij humani del secolo d'oro, et che così era profetato, et non se ne parlò più, et dopò à Giugnetto 99. venne fra Gio. Battista à Stilo, et per strada ragionammo, et li disse io tengo per fermo che l'anno 600 facendosi mutationi, ne haveriamo fatti grandi ò da la parte del Papa, ò da la parte del Rè, et lo frà Gio. Battista cominciò à dire venesse presto questa mutatione, finalmente disse che io volesse andare à Pizzoni à parlare con Claudio Crispo et animarlo con questa novità, che non pigliasse moglie. Et in conformità di questo quando frà Gio. Battista me disse che volea portare Claudio Crispo in Arena li persuadesse che non si maritasse, per che volea che ll'agiutasse à fare le sue vendette, et finalmente dopò d'essere andato à Pizzoni rechiesto da frà Gio. Battista, mi parlò Claudio, et ragionammo un giorno sopra l'astrolabio, acciò che con questa occasione havesse possuto subintrare a trattare con detto Claudio de la mutatione del mondo, et persuaderlo à volersi trovare pronto à la novità predetta, et à fare la Provintia di Calabria Republica, et in quella occasione havendosi aboccato esso deposante con Claudio Crispo presente fra Gio. Battista Pizzoni li dissi, che la fine del mondo era presta, et che innanzi à questo havea da essere una Republica la più mirabile del mondo, et che li monaci di san Domenico l'haveano da preparare secondo l'apocalissi, et che havea da cominciare dall'anno 600, et esso Claudio s'offerse stare in ordine, et se ricorda ancora esso deposante che in Arena li mostrò una lettra, à Claudio Crispo, et à fra Gio. Battista Pizzoni di Giulio Condestabile, dove l'avisava che Mauritio era andato sopra le galere in Costantinopoli (sic). Et dice de più che frà Gio. Battista Pizzoni, et Claudio Crispo mandorno à chiamare Eusebio Soldaniero da Serrata per frà Silvestro Lauriana, et non ci volse venire. A frà Silvestro Lauriana esso deposante non hà parlato di questo negotio, se non genericamente, dicendo, volesse Dio, che fusse tutto quello, che aspettamo, presupponendo, che lo sapesse per quanto frà Gio. Battista m'havea referito». Citò pertanto (e questo forse era un po' troppo) anche il Lauriana tra quelli «che volevano[Pg 69] agiutare col predicare et eloquenza... con li quali da Pasqua di resurrettione dell'anno passato 99 in quà havea trattato di fare detta Republica, et mutatione». Rispetto al Petrolo dichiarò avergli «parlato à Stilo dicendoli che nell'anno 1600 havea da cominciare ad essere Unum ovile, et Unus Pastor, et che noi haveriamo predicato in favore di questa republica profetizata in beneficio del Papa, et che il Papa l'haveria esaltati perchè loro si voleano pigliare alcuna parte della Provintia, et esso fra Domenico si ne contentava, et di questo ne hà parlato più volte, et esso fra Domenico era tutto cosa di esso deposante, et sempre lo hà sequitato, et cossì se offerse sequitarlo in questo». Onde lo citò egualmente tra' futuri predicatori, ed aggiunse che «con fra Domenico petruolo et fabritio Campanella andammo a Davoli, et trovò Mauritio che stava in casa di donno Marco antonio pittella, et per lettre Mauritio mandò a chiamare da Catanzaro Gio. thomase franza, et Gioan paulo de Cordoa». Infine rispetto a Giulio Contestabile confermò che era intervenuto al trattato, «quale si contentava trovarsici et era uno delli capi», aggiungendo «ch'un giorno del mese di Maggio il detto Giulio steva in camera d'esso fra Tomaso, et dicea male del Capitano di Stilo ch'era spagnolo, et in questo il vento fe cascare in terra il ritratto del Rè nostro Sig.re, et detto Clerico Giulio uscendo la porta l'incontrò innanti, et lo calpestrò, dicendo, mira à che stamo soggetti, à uno sbarbato, Re dell'uccelli». Fu dunque il vento che fece cadere il ritratto del Re, e Giulio l'incontrò innanti e così ebbe a calpestarlo, non già che lo prese e se lo pose sotto i piedi, secondochè il Campanella medesimo avea dichiarato in Calabria: non è dubbio qui che il risentimento con Giulio Contestabile si era calmato, e il fatto di lui veniva attenuato; invece col Pizzoni, col Lauriana e col Petrolo, il risentimento era vivissimo, e i fatti occorsi con loro venivano aspramente asserti.

Da' suddetti brani, i soli che ne rimangono e così trivialmente redatti, possiamo rilevare che la confessione orale in tortura non suggellava soltanto la dichiarazione scritta, ma faceva anche emergere manifesto il disegno del Campanella di rendere il paese indipendente da Spagna e costituirlo in repubblica, essendone autore non altri che lui, ed avendolo ad istanza di lui accettato diversi frati che doveano d'accordo predicarlo, come pure diversi laici, specialmente fuorusciti, che doveano con le armi per lo meno sostenerlo. Vero è che tale disegno presentavasi subordinato alla condizione di future rivolte e mutazioni; ma questo importava poco, non potendosi ammettere nemmeno con riserva l'apostolato per una forma di Governo diversa da quella costituita, e tanto meno il preparativo dell'azione rappresentato dalle ricerche e concerti di persone che doveano promuovere quella forma di Governo con la parola e con le armi. D'altronde non appariva decifrabile per opera di chi sarebbero avvenute le rivolte e le mutazioni antivedute con le Profezie [Pg 70] e co' segni astronomici, nè in qual modo la detta repubblica dovesse riuscire tollerata dal Papa e dal Re, essendo stata profetizzata in beneficio del Papa; egualmente non appariva decifrabile che il Campanella, mentre non voleva l'aiuto de' turchi per la detta repubblica ed avea rimproverato Maurizio che si era spinto a chiederlo, ammettesse doversi una parte de' turchi porre dal lato dei Cristiani, ed avesse continuato a trattare con Maurizio il quale avea concordato l'aiuto de' turchi, e a confabulare con persone disposte o chiamate a fare delle armi un uso più spinto e più pronto. Con ciò manifestamente veniva confermato quanto il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo, oltrechè molti laici, aveano deposto contro di lui, quanto aveano denunziato Biblia e Lauro, potendo solo ammettersi che l'avessero denunziato con la più grande ed iniqua esagerazione. E veniva in pari tempo giustificato quanto il Governo avea detto e fatto sin allora, potendo solo ammettersi che avesse tollerato negli ufficiali suoi lo sfogo della loro ambizione e rapacità sulla povera Calabria, considerandola già ribellata, e però «macchiandola di falsa ribellione», come ebbe a scrivere il Campanella, e come si trova anche scritto, con le medesime parole, dal Residente Veneto, benchè, al pari di altri Agenti accreditati in Napoli, non avesse mai posto in dubbio la congiura o il tentativo di ribellione[88].—Al Campanella potè sembrare, come nella Narrazione ci lasciò scritto, che non avesse confessato «nè ribellione nè voluntà di ribellare» e che i Giudici «accortisi che la confessione era erronea, perchè li altri non pigliassero la medesima fuga, non fecero ch'esso Campanella facesse la confronta a F. Dionisio, et a gli altri, come la facean fare da tutti l'altri che confessavano». Ma naturalmente i Giudici, per quanto videro chiara e limpida, e niente affatto erronea, la confessione di aver voluto ribellare, altrettanto videro oscura e misteriosa, ed al postutto indifferente, la condizione alla quale si diceva subordinata: nè ebbero a temere che fra Dionisio e gli altri, con la confronta avrebbero pigliato «la medesima fuga», poichè non accordavano alcun valore a questa fuga, la quale, per essere stata così denominata dal nostro filosofo, dovrebbe tradursi sotterfugio, onde le profezie e le vedute astrologiche risulterebbero, se non finte, certamente evocate «per tirar la gente a ribellare». E conviene aggiungere che fu una buona fortuna pel Campanella il non essere stata ordinata dai Giudici la sua confronta con fra Dionisio e compagni, poichè null'altro poteva seguirne, se non che costoro sarebbero risultati convinti per opera sua; e fra Dionisio principalmente, che dovè senza dubbio irritarsi per la confessione del Campanella e ne vedremo una prova più in là, avrebbe ben a ragione finito con odiarlo a morte dopo una confronta. In conclusione non può recare maraviglia che i Commissarii Apostolici si fossero trovati d'accordo nel giudicare [Pg 71] il Campanella «confesso»; in tal guisa egli trovasi qualificato negli Atti due volte, ed è superfluo dirne le conseguenze[89].

Secondo la procedura del tempo, in questi giudizii celeri, non appena esauriti per ciascuno inquisito tutti gli Atti informativi ed offensivi, fatta anche ratificare la confessione nel giorno seguente a quello della tortura allorchè essa era stata amministrata, i Giudici emanavano un decreto che ordinava la consegna di una copia degli Atti all'inquisito con la conclusione del Fiscale, assegnando un termine di pochi giorni per la difesa, ed all'occorrenza deputando anche un Avvocato di ufficio. Il Mastrodatti allora, che avea già preparato ogni cosa, trasmetteva in via legale la copia degli Atti, l'assegnazione del termine etc. all'inquisito, ed anche un Riassunto degl'indizii a' Giudici. L'Avvocato quindi ponevasi in relazione col giudicabile, scriveva l'Atto di difesa, che comunicava al tribunale nel termine stabilito, e poi attendeva la notificazione di un altro decreto ad dicendum per la trattazione della difesa, ciò che del resto importava solo la dimanda se avesse altro da aggiungere alla Difesa scritta. Debbono dunque riferirsi al tempo cui siamo giunti, alla 2a metà del mese di febbraio 1600 il Riassunto degl'indizii, alle prime settimane di marzo la Difesa scritta dall'Avvocato pel Campanella, ed anche la Replica scritta dal Fiscale, i quali Atti, come quelli analoghi successivamente compilati per gli altri incriminati ecclesiastici, rimasero nelle mani del Nunzio, e pervennero quindi con altre carte di lui nell'Archivio di Firenze[90]. Riserbandoci di esporre a suo tempo gli Atti sopra menzionati, qui dobbiamo notare che al Campanella fu assegnato per difensore il dott.r Gio. Battista de Leonardis Regio Avvocato de' poveri, e da una poesia di fra Tommaso a lui diretta vedremo che costui ebbe l'incarico di difendere anche gli altri frati inquisiti. Allorchè il Vescovo di Termoli, uno de' Giudici dell'eresia, scrisse a Roma la sua opinione su questa causa della congiura, tra le altre cose fece conoscere che «non si trovò un dottore il quale avesse voluto scrivere in jure a loro favore»[91]. Ciò deve intendersi nel senso che si cercò e non si trovò un Avvocato particolare, e con ogni probabilità il Vescovo intese parlare segnatamente di fra Dionisio, poichè il Campanella e gli altri non ne avrebbero avuto i mezzi; ad ogni modo poi l'Avvocato de' poveri non era una persona da nulla. Nato in Cicciano presso Nola, da umili origini, Gio. Battista de Leonardis si era dapprima mostrato uomo di lettere tale da venir chiamato ad insegnarle pubblicamente in Cosenza, dove cominciò anche [Pg 72] l'esercizio dell'avvocatura; ridottosi poi in Napoli e studiato accuratamente il diritto, era già un dottore ben conosciuto, quando con Privilegio del 30 settembre 1599, visto e promulgato il 26 gennaio 1600, fu chiamato all'ufficio di Avvocato de' poveri della Vicaria in luogo di Antonio Catalano[92].—Ma nel medesimo tempo avvenne pure un altro fatto, che il Campanella ci fece conoscere nella sua Narrazione e che finora non ci risulta da verun altro fonte; sicchè gioverà tanto più esporlo qui con le parole medesime della Narrazione. «Però dandoli le difese poi al Campanella e l'Avvocato de' poveri...[93] il Sances Fiscale finse che per curiosità desiderava sapere in che profetie fondava questi suoi detti, e li fece scriver dal suo notario dettando il Campanella molti articoli profetali: li quali esso Sances portò a' Gesuini, et ad altri, e molti di quelli dissero, che Campanella havea ragione e che non eran finte per ribellare. Però li mandò molti Gesuini, e Theologi Spagnoli a disputare. Li quali si divisero, altri dicendo che diceva bene, altri che no. El Campanella allegò li predetti Santi, et Astrologi et il Cardinale anche Bellarmino. E poi disse, che quando pur fosser false le profezie sue, questa non era confessione di ribellare, ma di falsificar la Theologia, et appartiene al S. Officio, non a loro». Ci fermiamo a questo punto, non senza raccomandare a' lettori di percorrere tutto il resto che il Campanella narrò a tale proposito. E ripetiamo che non vi sono altre notizie capaci d'illustrare il fatto, ma dobbiamo ad ogni modo avvertire che questi Articoli profetali di cui qui si parla, dettati al notaro della causa della ribellione ad istanza del Sances, non [Pg 73] debbono confondersi con quelli che il Campanella scrisse egli medesimo come una delle sue difese: noi li abbiamo trovati nel processo di eresia, presentati in giugno dell'anno seguente, e dovremo parlarne più in là.

Come abbiamo visto dalla lettera del Nunzio sopra riportata, l'11 febbraio già si era dato al Campanella «il termine e la commodità» per la difesa, e si era deciso di seguire con gli altri lo stesso metodo, cioè quello delle torture acri. Infatti può ritenersi con sicurezza che i fol. 35 e 36 del volume siano stati occupati dalla ratificazione della confessione del Campanella e dal decreto per l'assegno del termine e deputazione dell'Avvocato; ed ecco il fol. 37 occupato dall'Atto della tortura data a fra Dionisio[94]. Il Riassunto degl'indizii contro costui ci dice che gli fu dato egualmente il polledro e non confessò nulla, e un brano di lettera del Vescovo di Termoli, inserto ne' Sommarii del processo di eresia, ci fa conoscere che «fu tormentato con 'l tormento del polledro, et delle 19 funicelle (sic) con le quali era tormentato 7 se ne ruppero nell'atto della tortura datali per ribellione»[95]; vedremo nel medesimo processo che fino a tutto giugno egli non potè firmare gli Atti che lo riguardavano, e dovè segnarli portando la penna stretta tra' denti, giacchè i polsi torturati non si prestavano. Dopo fra Dionisio venne la volta del Pizzoni, il quale ebbe la corda aggravata da' funicelli per quasi due ore, e nemmeno confessò[96]: come riferì lo stesso Vescovo di Termoli, «fù ligato con li funicelli e posto alla corda per la causa della ribellione et è restato stroppiato d'un brazzo»; infatti vedremo che una delle sue spalle non guarì mai più, e questa lesione l'avviò alla morte durante il processo di eresia. Nella stessa seduta, o in una seduta successiva, furono interrogati il Clerico Gio. Battista Cortese e il Sacerdote D. Andrea Milano, che si ricorderà essersi trovati nominati in una lettera di Claudio Crispo a Geronimo Camarda, la quale parlava della congiura e futura vittoria nel mese di settembre: non sappiamo ciò che essi risposero, ma possiamo ritenere per certo che non si passò oltre contro di loro. E si ripigliarono subito le torture col Petrolo, che ebbe la corda per due ore ed egualmente non confessò: sappiamo da lui medesimo la specie di tortura avuta, poichè quando l'ebbe di nuovo nel 1603 per l'eresia, rivolto al Nunzio esclamava, «hoggi fanno tre anni, e fù pur Sabbato come [Pg 74] hoggi che hebbi un'altra volta la corda». Poi si venne a Giulio Contestabile che non era stato interrogato ancora, onde si raccolse la sua deposizione che riuscì negativa; e si passò al Bitonto e gli si diede la tortura «ad sciendum complices et fautores citra prejudicium probatorum», ed egli come tutti gli altri, ad eccezione del Campanella, non confessò, sicchè il metodo vantato dal Nunzio non riuscì. Possiamo affermare che non vi furono altre torture di frati, e però in conclusione l'ebbero solamente il Campanella e fra Dionisio mercè il polledro, il Pizzoni, il Petrolo e il Bitonto mercè la corda forse in tutti aggravata da' funicelli per due ore: questo risulta dal cenno fattone in coda a' rispettivi Riassunti degl'indizii che si conservano in Firenze; e dietro la scorta del medesimo fonte dobbiamo dire che per fra Paolo della Grotteria si procedè al solo interrogatorio, mentre pel Lauriana, per fra Pietro di Stilo e fra Pietro Ponzio non vi furono nemmeno altri interrogatorii, e si ritennero sufficienti quelli fatti da fra Marco e fra Cornelio e dal Vescovo di Gerace.—Immediatamente dopo il Bitonto ebbe la tortura anche Giulio Contestabile, per quasi due ore cum funiculis come dice il Riassunto degl'indizii compilato contro di lui, ed egli nemmeno confessò: naturalmente così a lui come a tutti gli altri, mano mano che si esaurivano gli Atti offensivi, era decretata la consegna della copia del processo, l'assegno del termine per le difese, la deputazione dell'Avvocato ufficioso qualora non avessero un Avvocato particolare; e vedremo tra poco che il Contestabile si provvide di un Avvocato particolare.

Tutto ciò fu compìto nella 2.a metà di febbraio e 1.a metà di marzo, con molta sollecitudine, poichè intendevasi finir presto ogni cosa, per liberare i parecchi prigioni poco o punto indiziati e quindi passare alla causa dell'eresia, come il Nunzio facea sapere a Roma. Difatti nello stesso periodo or ora indicato furono liberati dapprima otto, poi altri quattro, in tutto dodici incriminati ecclesiastici, come si rileva da due lettere del Nunzio, l'una del 3 e l'altra del 10 marzo, che gioverà riportare testualmente. «La causa della ribellione si tira avanti con ogni diligenza, et di già si è ordinato la liberatione di 8 fra Frati et Clerici che si trovavono presi per diversi sospetti senza fondamento et 4 altri spero ne liberaremo domani, poichè i principali sono tutti essaminati, et di già si vede in che il negotio potrà principalmente parare, et per che la medesima Ecc.za mi hà richiesto che i Calabresi che dovranno come hò detto liberarsi non si lascino così subito ritornare in Calabria, gli hò detto che si farà con un Precetto che non partino di Napoli senza licenza, parendomi cosa che come propone possa esser di qualche consideratione, che tornino là persone avanti che il negotio si finisca che sieno informati come gira, et ne suscitino qualche nuovo bisbiglio; procurerò che si risolva quanto prima per manco incommodo di quei poveri huomini» (3 marzo). «La causa della ribellione si tira avanti con la solita diligenza, [Pg 75] et di già se ne sono liberati 12 fra regolari et Clerici, et la prohibitione del partirsi che le scrissi con altra si è ristretta à due frati Domenicani, che non tornino in Calabria senza licenza, et altrove vadino dove vogliono» (10 marzo). Non si potea veramente procedere con maggior sollecitudine: il tribunale teneva sedute quasi ogni giorno, come si rileva da un'altra lettera del Nunzio della stessa data (10 marzo) che dice, «dal Venerdì in poi che l'occupo in dettar lettere, et le feste, gli altri tutti si va in Castello»[97]. Trattandosi d'individui non trovati delinquenti, ai termini del Breve i Giudici aveano facoltà di pronunciare senz'altro la sentenza; per essi non c'era la limitazione di procedere usque ad sententiam exclusive, ed è poi facile conoscerne i nomi guardando l'Elenco degl'incriminati ecclesiastici[98]. I primi otto furono: D. Gio. Battista Cortese, D. Gio. Andrea Milano, fra Scipione Politi, fra Francesco di Tiriolo, D. Marco Petrolo, fra Pietro Musso, D. Domenico Pulerà, fra Vittorio d'Aquaro; gli altri quattro furono D. Colafrancesco Santaguida, fra Giuseppe Perrone di Polistina, Giovanni Ursetta e Valentino Samà. Di tutti costoro vennero esaminati solamente il Cortese e il Milano; e i due Domenicani, a' quali si vietò di tornare in Calabria, doverono essere il Tiriolo ed il Musso, mentre contro fra Giuseppe di Polistina, come contro qualche altro, non si potè neanche compilare un Riassunto d'indizii, non essendosi trovata in processo cosa alcuna. Rimasero dunque in carcere nove frati Domenicani compreso il Campanella, e dippiù il clerico Giulio Contestabile; vi pervenne poi molto più tardi, come vedremo a suo tempo, il clerico D. Marco Antonio Pittella, il quale era scappato di mano alle guardie in Calabria, ma fu ripigliato nel 1601. E non è dubbio che gli Atti difensivi ebbero immediatamente corso pel Campanella, per fra Dionisio e per gli altri frati; così pure per Giulio Contestabile, e vi è motivo di ritenere che co' suoi mezzi costui abbia potuto far precedere la difesa della sua causa, essendo stato in grado di presentare in suo favore, senza ritardo, documenti, testimoni ed un Avvocato proprio.

La Difesa scritta per Giulio Contestabile ci fa intendere le accuse formolate dal Fiscale contro di lui, e ci dà notizia de' documenti e testimoni da lui presentati[99]. Secondo il Fiscale, Giulio Contestabile dovea dirsi uno de' capi della congiura dietro la Dichiarazione del Campanella, la cui amicizia con Giulio era confermata da sei testimoni uditi in Calabria, come pure dietro le deposizioni del Caccia, del Vitale e dello stesso Maurizio nell'ultima sua confessione; inoltre dovea dirsi reo di fatti e detti in dispregio di S. M. dietro le rivelazioni del Campanella e del Petrolo, e indirettamente anche di fra Pietro di Stilo. I documenti prodotti da [Pg 76] Giulio furono: un certificato di buona vita e fama, rilasciato dall'Università, clero e particolari di Stilo; l'istrumento pubblico di pace tra' Contestabili e Carnevali, stipulato mercè l'opera del Campanella e non ratificato; le fedi di tre Confessori che aiutarono a ben morire il Caccìa, attestanti la revoca della sua confessione fatta per forza di tormenti. I testimoni furono quattro: essi affermarono principalmente (con poca verità) che Giulio e il Campanella erano nemici prima del maggio 1599, fin dal gennaio di quell'anno, ma dal maggio «nè si parlavano, nè si cavavano la berretta». E l'Avvocato si appoggiò moltissimo a questa circostanza dell'inimicizia anteriore, e cercò di confermarla anche col fatto, che appena venuto lo Spinelli in Calabria, Giulio avea dato accuse scritte contro il Campanella, e procurata presso D. Carlo Ruffo commissionato dello Spinelli una commissione pel cognato Di Francesco in persecuzione del Campanella e complici, come pure il Campanella avea date egualmente accuse scritte contro Giulio ed avea sedotto il Petrolo a far lo stesso, mentre poi le sue affermazioni non poteano far fede, essendo lui «notato d'infamia per avere abiurato de vehementi»[100]. Invalidò inoltre le deposizioni del Caccìa, notando che costui non avea determinato il genere di discorsi passati tra Giulio e il Campanella, che era stato esaminato da un tribunale incompetente, e poi in ultimo avea revocato i suoi esami presso i Confessori. Invalidò la deposizione del Vitale, notando che non era stata fatta la ripetizione di lui innanzi a' Commissarii Apostolici, nè egli avea potuto conoscere da Maurizio la partecipazione di Giulio nella congiura, mentre Maurizio medesimo avea rivelato che la cosa gli era stata detta dal Campanella nelle carceri di Napoli, ed allora il Vitale era stato già giustiziato. Invalidò ancora la rivelazione di Maurizio, notando sempre che non era stata fatta la ripetizione di lui innanzi a' Commissarii Apostolici, ed aggiungendo che egli non avea potuto parlare col Campanella trovandosi rinchiusi [Pg 77] non solo in carceri separate ma anche in torrioni separati (fatto non vero), nè poteva credersi che Giulio fosse entrato in un concerto nel quale erano capi il Campanella e Maurizio, entrambi notorii nemici suoi. Infine, quanto all'avere Giulio oltraggiato il ritratto del Re, gli bastò mettere in rilievo le contraddizioni tra le rivelazioni del Campanella e quelle del Petrolo, e tra le prime ed ultime rivelazioni del Campanella medesimo.—Con siffatti argomenti l'Avvocato potè far ritenere Giulio Contestabile qual semplice sospetto di complicità, e così poi, allorchè molto più tardi si venne alla sentenza, il Contestabile, aiutato forse anche dalle potenti raccomandazioni delle quali vedremo che disponeva, riuscì a cavarsela con la condanna ad una pena relativamente mite.

Poco dopo, o tutt'al più contemporaneamente, venne fuori la Difesa del Campanella scritta dal De Leonardis: e in sèguito di essa una Replica di D. Gio. Sances. Ad entrambi questi Atti possiamo facilmente assegnare la data delle prime settimane di marzo, poichè certamente durante il marzo le difese doverono essere discusse: vedremo infatti esservi state negli ultimi giorni di marzo e primi di aprile le feste di Pasqua, e poco dopo, il 12 aprile, la richiesta del Sances a' Giudici di venire alla spedizione della causa. La Difesa scritta dal De Leonardis mostra che pel Campanella non ci furono nè documenti nè testimoni a discarico: nulla di simile vi si trova citato, e chiaramente vi si scorge che l'Avvocato sentiva di scrivere per una causa persa, giacchè il Campanella non poteva non dirsi convinto e confesso qual capo della congiura o tentata ribellione[101]. Fin dall'esordio della Difesa l'Avvocato non potè fare a meno di riconoscere una criminosa cospirazione contro la Real M.; se non che goffamente magnificò la clemenza e la bontà di Filippo III, per avere ordinata questa Difesa, ed affermò che da parte sua avrebbe voluto dilaniare e fare a brani con Neronica voluttà «simili facinorosi delinquenti», e dichiarò che per obbedienza agli ordini del Vicerè presentava al Nunzio e al De Vera «dottissimi e religiosi Giudici Apostolici» le ragioni che gli parevano favorevoli alla causa. Due questioni egli vide nella causa: la 1a, se il Campanella, dato che fosse reo di tale delitto di lesa Maestà, potesse consegnarsi alla Curia secolare, e siffatta questione egli dovè riconoscere già sciolta col Breve Papale, che ne avea dato larga facoltà a' Giudici Apostolici; la 2a, se il Campanella avesse commesso tale delitto di lesa Maestà, che dovesse consegnarsi alla Curia secolare, ciò che equivaleva a condannarlo alla morte, e sopra tale questione egli stimò aversi a considerare le circostanze del fatto e la qualità della persona. Notò quindi che il Campanella non gli pareva «legittimamente convinto» giusta i termini del Breve, poichè tutti i testimoni erano socii del delitto, i quali bastavano a provare la congiura, ma non bastavano a far condannare alla pena [Pg 78] di morte, massime in persona di un Clerico in sacris, contro il quale occorreva sempre una forma più privilegiata che nel Laico; oltracciò tutti i testimoni lo aveano detto capo della congiura, e per esservi congiura avrebbe dovuto esservi concerto di molti a fine di sovvertire lo Stato, ma i testimoni medesimi aveano detto che doveano fatalmente avvenire rumori e rivoluzioni nel Regno, ed allora egli avrebbe sottratta la Provincia alla potestà Regia, ma allora si era già verificata la sovversione dello Stato. Non gli pareva poi nemmeno confesso di congiura e per questo legittimamente convinto, mentre dalla sua confessione non risultava «una così grande ed acerba cospirazione quale era stata asserta da' testimoni», perchè appunto egli voleva far la repubblica quando fatalmente succedessero rumori e rivoluzioni, e non aveva mai approvato l'aiuto de' turchi. Aggiunse inoltre che la congiura non doveva avere una esecuzione prossima ed immediata, e poteva anche non verificarsi o poteva verificarsi in un senso buono, essendo preferibile nel caso di grossi trambusti, che si costituisse la repubblica dall'inquisito con la volontà del Papa e del Re, rimanendo impedita la conquista a' nemici invasori. In somma trattavasi della preparazione ad un mutamento in caso di un futuro evento dubbio, e l'inquisito non era suddito del Re e non avrebbe quindi dovuto mandarsi a morte come se il delitto fosse stato consumato o vi fosse stato disegno di uccidere il Re; non era poi l'inquisito nemmeno tale da poter sovvertire uno Stato, e quindi la pietà e l'equità de' Giudici Apostolici poteva fargli scansare la morte, «salvo sempre il più sano giudizio e l'autorità della Sede Apostolica», in servizio della quale e del Re Filippo egli, l'Avvocato, avrebbe voluto volentieri morire se fosse stato necessario!—Messe da parte le goffe ampollosità del tempo, rimane che il De Leonardis cercò, per quanto potè, di salvare il Campanella dalla morte: tutti i suoi sforzi furono concentrati su questo punto, riuscendo impossibile negare ciò che fra Tommaso avea confessato, e parecchie osservazioni dell'Avvocato, che i lettori vorranno senza dubbio più minutamente conoscere percorrendo la Difesa da lui scritta, offrono tutti gli elementi di una critica di quel Breve Papale che avea tanto largamente concesso di rilasciare alla Curia secolare gli ecclesiastici legittimamente convinti o confessi «di ribellione o prodizione, o altri delitti di lesa Maestà», senza tener conto di alcuna delle circostanze restrittive ammesse dalla giurisprudenza del tempo. Una sola cosa a noi profani in giurisprudenza apparisce imputabile al De Leonardis, la mancanza dell'argomento che i testimoni nella più gran parte non erano stati esaminati o ripetuti nel foro competente, e però non potevano dirsi capaci di legittimamente convincere: ma bisogna pur riconoscere che si era fatta una inestricabile confusione di fori, mentre da' «Giudici Apostolici», e segnatamente dal Nunzio, si era tollerato che figurassero nel processo, e quindi ne' Riassunti, come elementi del giudizio, perfino le deposizioni raccolte da fra Marco e fra Cornelio, ed anche[Pg 79] dal Vescovo di Gerace, nel foro di S.to Officio; così la mancanza del detto argomento non potè davvero influire in nulla. Avremo poi a vedere che il Campanella medesimo, nella Difesa sua propria, venuta in luce più tardi ed inserta nel processo di eresia, non trovò argomenti migliori di quelli del De Leonardis, e distinguendo il crimen volitum e il crimen patratum (distinzione che ne' delitti di lesa Maestà non giovava) concluse doverglisi dare piuttosto la pena del carcere perpetuo e non la pena di morte. Assai più tardi poi, nella sua Narrazione, scrisse che il suo Avvocato «più presto avvocò contra per diventar Consigliero»: ma anche questa volta bisogna riconoscere, che le necessità sue l'abbiano spinto a scrivere senza alcun ritegno tutto ciò che potè sembrargli utile a farlo uscire da una tristissima posizione.

Venendo all'Allegazione del Sances in risposta a quella del De Leonardis, abbiamo poco da dire[102]. Egli, rivolgendosi allo Ill.mo Presidente e al dottissimo Magistrato, stimò del tutto naturale che il Campanella, «legittimamente convinto e confesso» del delitto di lesa Maestà, dovesse «essere attualmente degradato e consegnato alla Curia secolare, tanto per disposizione del dritto, quanto in forza del rescritto di commissione del SS.mo Padre». E confutando le ragioni dell'Avvocato, fece notare che, circa la qualità della persona, trattavasi di un frate di mancata vita monastica, assiduo co' malfattori, già condannato ad abiurare, cospiratore contro gli Stati del Re Cattolico per menare vita lussuriosa e seminare eresie, autore e capo di tutto, convinto da testimoni come il Franza, il Cordova e due altri già carcerati col Pisano (sicuramente il Gagliardo e il Conia), i quali, sebbene socii nel delitto, in questo di lesa Maestà per una speciale disposizione del dritto provavano; che inoltre era confesso, come essi medesimi i «Padri» lo avevano udito, di avere eccitato a prendere le armi e procurare amici, confesso di formata macchinazione, soggetto ad essere degradato e consegnato alla Curia secolare anche per un rescritto espresso del Papa, il quale volle mostrare quanto difendesse e proteggesse gli Stati di S. M.. Nè egli faceva istanza che fosse condannato perchè avea già cacciato il Re e fatta la Repubblica, ma per avere macchinato e sedotto a farla le persone che si erano mostrate pronte, dovendosi nel delitto di lesa Maestà, per dritto, punire con la stessa pena così la volontà come l'effetto; la macchinazione era seguìta, e i Giudici poteano degradare questo clerico ribelle alla Maestà Divina ed umana, causa della perdita della vita, de' beni e dell'onore, per tanti infelici, e de' beni e della patria per [Pg 80] molti contumaci, costituiti anche in pericolo di vita, essendo stato lui di ogni cosa duce, autore e capo.

Una Difesa scritta, analoga a quella pel Campanella, parrebbe che avesse dovuto esservi anche per conto di fra Dionisio; giacchè il Sances chiese di poi a' Giudici che spedissero la causa tanto del Campanella quanto di fra Dionisio. Forse, essendo in sèguito costui scappato senza rimedio, il Nunzio credè inutile conservare tale Difesa e così essa non sarebbe a noi pervenuta; ma forse anche, con maggior probabilità, avendo lui dichiarato di volersi servire di un Avvocato proprio, e non essendo poi riuscito a trovarlo, rimase senza Difesa scritta, giacchè, nel decretare il termine per le difese, i Giudici solevano dichiarare che badasse l'inquisito a provvedersi di un Avvocato o a chiedere quello di ufficio, mentre in difetto, scorso il termine, il tribunale avrebbe spedita la causa anche senza l'Avvocato. Ciò per altro non vuol dire che fra Dionisio non si sia difeso da sè, oralmente e presentando documenti; che anzi dobbiamo ritenerlo, trovandosi in coda al Riassunto degl'indizii contro di lui l'annotazione «habuit defensiones quas fecit». Non potremmo dire lo stesso pel Campanella, mentre in coda del relativo Riassunto degl'indizii troviamo scritto solamente «habuit defensiones»: la qual cosa riesce difficile a spiegarsi, e bisognerebbe ammettere che veramente non sia stato chiamato a parlare, come di poi si dolse; ma forse egli avea dichiarato che intendeva presentare una propria Difesa scritta ed anche difendersi oralmente, e non giunse in tempo a presentare la Difesa scritta, come vedremo più in là, e i Giudici poco giustamente passarono oltre ritenendo decaduta la sua dichiarazione. Ad ogni modo la sorte del Campanella, e così pure di fra Dionisio, non poteva esser dubbia, e stiamo per vedere che il Nunzio non ne fece un mistero.

Di certo durante il marzo vi fu un poco di rilasciamento nell'attività del tribunale; le feste di Pasqua poi, negli ultimi giorni di marzo e primi di aprile, vennero a sospenderne affatto le sedute. Durante il marzo la causa del Contestabile, con l'esame de' quattro testimoni, non potè occupare molte sedute, tanto meno la Difesa orale di fra Dionisio, ancor meno la Difesa scritta dell'Avvocato del Campanella, e d'altronde conosciamo che i termini per le difese solevano essere brevissimi. Bisogna dunque ammettere qualche ragione estrinseca, e questa potrebbe ravvisarsi nell'assenza del Vicerè da Napoli in tale periodo: poichè egli dovè finalmente adempiere la missione già troppo ritardata, di Ambasciatore straordinario di obbedienza al Papa in nome di Filippo III, e così venne meno la sua inesorabile insistenza [103]. Il 9 marzo egli era partito da Napoli, insieme [Pg 81] con la Viceregina ed una distinta comitiva di Nobili, che erano felici di potersi mostrare servitori affezionati a S. M. e di poter guadagnare anche le indulgenze del Giubileo in Roma, nè fu di ritorno prima del 27 aprile. Potremmo narrare una grande quantità di aneddoti intorno a questo viaggio, ma ce ne asteniamo. Diremo solamente, per quanto riflette i casi della nostra narrazione, che tra' nobili i quali ottennero l'onore molto ambìto di accompagnare il Vicerè vi fu il Principe della Roccella, insieme col suo primogenito Girolamo Marchese di Castelvetere, la qual cosa venne ritenuta un favore particolare del Vicerè dietro la brillante condotta del Principe nella cattura del Campanella: oltracciò il Nunzio espose al Card.l S. Giorgio il desiderio che si trattassero in Roma direttamente col Vicerè gli affari più gravi, e tra questi non v'era compreso l'affare del Campanella, ma del resto, malgrado le promesse del Cardinale, non se ne fece nulla. Era rimasto in Napoli Luogotenente del Regno il figliuolo secondogenito del Vicerè, D. Francesco de Castro, giovane di anni e maturo di senno, il quale non fu tiepido nel volere spedita la causa del Campanella, ma non avea la voce autorevole del padre, e il Nunzio poteva tanto più opporgli la sua. Il 12 aprile, forse in previsione del prossimo ritorno del Vicerè, ma piuttosto in sèguito di una novità manifestatasi nel Campanella, come vedremo più oltre, il Sances chiese istantemente a' Giudici che si spedissero le cause del Campanella e di fra Dionisio: il Nunzio si avvide allora, abbastanza tardi, degl'inconvenienti a' quali si andava incontro, e si oppose, e volle che si attendesse per avere nuove istruzioni da Roma. Ecco come egli ne scrisse al Card.l S. Giorgio in una sua lettera del 14 aprile, che importa tener tutta sott'occhio, mentre da essa si rileva qual fosse la posizione giuridica del Campanella e di fra Dionisio, con la corrispondente condanna in vista. «Tornammo due giorni sono à trattar della causa della ribellione, et perchè il Fiscale di essa mi fece una gagliarda instanza della speditione quanto alla persona di fra Thomaso Campanella et di fra Dionigi Pontio, non volsi consentire che si trattasse della fine, non si sapendo ancora dove N. S.re voglia si conoschino le materie appartenenti al S.to Offitio, oltre che reputandosi l'uno [Pg 82] confesso che è il Campanella, et l'altro convinto che è il Pontio, potrà facilmente essere la fine delle loro cause il degradarli, e darli alla Curia secolare, ma non mi è parso che questo si deva fare in modo alcuno, senza parteciparlo prima con S. S. rimanendo sospesa la causa del S.to Offitio. Et se bene di questo se ne potrà fare espressa riserva, ho non dimeno per un certo che di convenienza reputato sia bene che S. B.ne lo sappia, et comandi se in ciò gli occorre altro, questo medesimo risposi hieri al Sig.r D. Francesco de Castro che à suggestione, per quanto credo, del medesimo fiscale me ne parlò tanto efficacemente, non si volendo far capace delle ragioni che mi movevano à voler prima parteciparlo costà, che mi hebbi à risentire, parendomi d'esser troppo stretto, et à dire risolutamente che non ne voleva far nulla et che mi pareva strano che in un negotio che hà durato più di 6 mesi mi si volesse ridurre ad un' giorno, quando per haver una risposta di costà ne bisognavano 10 ò 12 che non erano anche tanti che si convenisse negarmeli, et perciò desidero haver di questo risposta quanto prima».

La posizione del Campanella, e così pure quella di fra Dionisio, erano dunque nettamente definite: il Campanella ritenevasi confesso, fra Dionisio convinto, e secondo la giurisprudenza e i termini chiari ed espliciti del Breve Papale dovevano essere, previa la degradazione, consegnati al braccio secolare, naturalmente con quella rutinaria preghiera altrove menzionata che la pena fosse «senza pericolo di morte» etc., preghiera che la giurisprudenza imponeva, e che era sottinteso non doversi tenere dal braccio secolare in alcun conto[104]. Erano dunque accolte le conclusioni del Sances, e senza dubbio, pronunziata la condanna di degradazione e consegna alla Curia secolare, la Curia Pontificia non avrebbe più ricevuto il Campanella nelle sue mani per sottoporlo al processo dell'eresia, segnatamente essendovi l'intenzione, come appunto il Papa l'avea una volta manifestata, che gl'interessati nel negozio dell'Inquisizione si mandassero a Roma. Il Nunzio ebbe a capire quanto male a proposito si era procrastinato il giudizio dell'eresia, e nel tempo stesso si era largheggiato in concessioni pel giudizio della congiura; ed il pericolo di non poter più fare il giudizio dell'eresia, non già la menoma idea di salvare il Campanella, indusse lui ad esigere e Roma ad approvare che si soprassedesse alla spedizione della causa. Intanto siffatta sospensione giunse realmente a salvare dalla morte il Campanella e così pure fra Dionisio; ma il Governo Vicereale dovè ritenerla una manovra dalla parte di Roma in beneficio de' frati ribelli, e dovè legarsela al dito, poichè a' termini del Breve Papale non c'era da rivolgersi ancora a Roma ed «aspettare il comandamento di S. S.», ma potevasi concretare la sentenza e poi aspettarlo. Ad ogni modo la sospensiva non fu messa innanzi [Pg 83] dal Governo perchè non sapeva come condannare que' frati innocenti, secondo che è stato affermato da altri scrittori; e vedremo anzi quanto esso insistè, durante più anni, perchè si compisse una volta la spedizione della causa, finchè non sopraggiunsero altri fatti, pe' quali sorse un grave sospetto che Roma volesse addirittura salvare que' frati in dispregio del potere civile.

Da Roma, il 22 aprile, si scrisse al Nunzio che tra poco si manderebbe una risposta risoluta, e intanto si lodava che egli non avesse consentito alla spedizione della causa della ribellione, mentre pendeva la deliberazione da prendersi per quella dell'eresia. Effettivamente venne poi, alcuni giorni dopo, comunicata la deliberazione che vi si procedesse in Napoli, e già durante tutto questo tempo si era continuato lo svolgimento del processo della congiura, trattandosi le difese degli altri frati. Questo si rileva dalle lettere del Nunzio del 24 e del 28 aprile, nella quale ultima si dice «che i prigioni per la ribellione... seguono le loro difese, nelle quali non ci è parso restringerli, se bene i termini concessi à tal effetto erano passati». Quali siano state le difese de' rimanenti frati non conosciamo: alcuna Difesa scritta per loro dal De Leonardis non ci è pervenuta, e questo ci fa pensare che forse essi siano rimasti senza Difesa scritta. Del rimanente ecco quanto troviamo in coda a' rispettivi Riassunti degl'indizii, dove si ebbe cura di registrare ciò che si fece da questo lato. Pel Pizzoni troviamo, «habuit defensiones quas fecit», e da ciò desumiamo che egli siasi difeso da sè. Pel Petrolo, e così pure pel Bitonto, troviamo semplicemente «habuit defensiones», donde desumeremmo che questi due si siano rimessi alla giustizia del tribunale senza difendersi, la qual cosa collimerebbe col loro grado di cultura molto più basso. Per gli altri frati poi, cioè il Lauriana, fra Paolo della Grotteria, fra Pietro di Stilo e fra Pietro Ponzio, non troviamo alcuna annotazione, e dovremmo desumerne che il Sances abbia rinunciato all'azione penale contro di loro. È quasi superfluo aggiungere che pe' frati suddetti, come pel Campanella e fra Dionisio, e parimente pel Contestabile, furono compiute le difese ma restò sospesa la spedizione della causa: essi dovevano, o come principali o come testimoni, sottostare al processo dell'eresia, e la Curia Romana avea deliberato che dovesse prima svolgersi quest'altro processo. Così la sorte di tutti costoro rimase sospesa durante molto altro tempo, e da ciò rimase danneggiato singolarmente fra Pietro Ponzio, il quale non era implicato in nessuno dei due processi e restava intanto nel carcere; ma vedremo tra poco che appunto nel carcere erano già cominciati a sorgere alcuni sospetti contro di lui.—La deliberazione che il processo dell'eresia dovesse trattarsi in Napoli fu annunziata dal Card.l di S.ta Severina, con lettera del 28 aprile che troveremo a capo del relativo processo: questa lettera pervenne al Nunzio verso i primi di maggio, come si rileva dall'altra che egli scrisse al Card.l S. Giorgio in data del 5 maggio. Si fu dunque perfettamente in tempo a cominciare[Pg 84] il processo dell'eresia mentre terminava il processo della congiura per gl'inquisiti ecclesiastici fin allora presi; e come la spedizione di quest'ultimo processo rimase sospesa, così dobbiamo anche noi sospendere il racconto dell'esito riserbandolo pel tempo suo.

Ci occorre pertanto narrare un fatto importantissimo, che si era già verificato in persona del Campanella fin dai primi di aprile. Con un accesso subitaneo e violento si era manifestata in lui la pazzia: questo incidente, non senza conseguenze giuridiche per lui, merita tutta la nostra attenzione, e cominceremo dal vedere dapprima quanto egli medesimo ne lasciò scritto. Nelle lettere del 1606-1607, pubblicate dal Centofanti, una volta scrisse, «furono negate le difese, e per questo sopraggiunse la pazzia»; un'altra volta scrisse, «mi fecero pazzo essi con tanti tormenti et con non lasciarmi difensare»[105]. Più tardi (il 1614) in una delle note nelle sue Poesie scrisse, «bruciò il letto, e divenne pazzo ò vero ò finto»[106]. Più tardi ancora (il 1620), nella sua Narrazione, tornò alla prima versione del fatto e con molta larghezza scrisse, che il Sances «con altri di sua fattura» (e questi non potrebbero essere stati che il Nunzio e il De Vera), udendo le ragioni da lui addotte in sua discolpa, «levaro al Campanella la commodità di scrivere, e d'esaminare, e difensarsi, e li libri e il commertio con avvocati, e lo posero dentro al torrione inferrato dicendoli, che dovea morir per ragion di stato e che s'apparecchiasse i sacramenti, non a difensarsi, e li mandaro Gesuini, e frati a conortarlo a morire, e volendo presentar il Campanella li libri da lui fatti sopra la mutatione del mondo e la monarchia di Christo, d'una greggia sotto un pastore, presto apparitura in tutto il mondo, data da lui al Cardinal Sangiorgi dui anni avanti perchè si vedesse che non era invention contra la chiesa, nè contra il Re fatta novamente (sic). E di più volea presentar un volume scritto della Monarchia di Spagna molto utile alla corona, e la tragedia della Regina di Scotia fatta da lui per Spagna contro Inghilterra, e li discorsi alli Principi d'Italia, che per ben comune non devono contradir a detta monarchia, e questi libri fece venir dalla padria subito. Ma il Sances non volse che si presentassero, nè si sapessero, e però lo ristrinse nel torrione con le fenestre serrate, e mise timore a chiunque parlava d'aiutarlo, e li fè tanti stratii al povero Campanella che lo fè impazzire, brugiò il letto, e lo trovaro la mattina mezzo morto, e pazziò cinquanta dì».—Parecchie riserve debbono farsi intorno alle circostanze qui esposte. Vedremo che la sua pazzia durò anche oltre 14 mesi, e scorso questo tempo fu provata col più atroce de' tormenti; saremmo perfino [Pg 85] tentati di credere che vi sia stata in tal punto una lezione sbagliata. Vedremo dippiù che i libri i quali volea presentare non vennero dalla patria subito, e nella Difesa scritta da lui medesimo, compiuta dopo la manifestazione della pazzia e venuta in luce 14 mesi più tardi, egli chiedeva a' Giudici che gli si dessero i libri, menzionando i Discorsi politici inviati all'Imperatore, il Dialogo contro gli eretici esistente presso Mario del Tufo, la Monarchia dei Cristiani data al S. Giorgio, la Tragedia e il libro Del Reggimento della Chiesa che diceva trovarsi in Stilo tra le sue piccole masserizie, ed aggiungendovi di seconda mano la Monarchia di Spagna, che diceva trovarsi pure in Stilo tra le sue piccole masserizie, «in meis sarcinulis». Ognuno poi avrà già notato che i tormenti gli erano stati dati il 7 e 8 febbraio, mentre la pazzia cominciò a' primi di aprile, e circa il non essergli state date le comodità di difendersi, bisogna tener presente che nella prima delle sue Lettere del 1606 a Paolo V egli scrisse esplicitamente, «quando mi citaro mi protestai che voleva io difensarmi di propria bocca almen che (sic) non mi lasciaro articolare, e 'l Nuntio passato non mi fè chiamare, che penso non ci l'han detto nè potea» (accennando all'Aldobrandini, che mostrò di scusare poichè scriveva a un Papa): e certamente il Nunzio, che benissimo lo potea, non è scusabile di non averlo fatto chiamare, ma bisogna riconoscere che erano state date le comodità per la difesa, e, come vedremo tra poco, egli non giunse in tempo a presentare la Difesa scritta, e venne poi, il 2 aprile, a manifestarsi pazzo; sicchè riesce del tutto credibile essere sorta la pazzia quando dovè persuadersi che pel momento non dovea più pensare alla difesa, e per giunta mostravasi imminente il processo di eresia tanto più spaventevole per lui. Infine anche la circostanza dell'essere stato trattato con rigore maggiore del solito mentre dovea fare le difese, merita di essere accolta con riserva; poichè, all'opposto, nel detto tempo si soleva trattare gl'inquisiti con larghezza, e vedremo tra poco da una deposizione del carceriere Alonso Martinez confermata la cosa in persona sua. Tutte le altre circostanze poi debbono essere riconosciute esatte, giacchè concordano con quanto emerse in sèguito nel processo dell'eresia, onde siamo in grado di dare la data precisa dell'incidente e tutti i suoi particolari.

Non può dubitarsi che fornirono l'occasione o il pretesto per la pazzia le esorbitanze di confessori, che specialmente a motivo della Pasqua frequentavano allora più del solito il Castello. Vi erano assidui il P.e Pepe gesuita, il P.e Muzio, un P.e Pietro Gonzales Domenicano, e quest'ultimo specialmente confessava i frati carcerati, come trovasi attestato nelle loro deposizioni. Notiamo che fra Pietro di Stilo ebbe a dire del Gonzales: «soleva venire spesse volte quà, è ci faceva delle belle esortationi, et andava anco dal Campanella spesse volte per quanto mi è stato detto, è li faceva delle brutte riprensioni». Più esplicitamente il Vescovo di Termoli[Pg 86] scrisse a Roma: «dubito che la pazzia sia nata che andando il Padre Maestro Pietro Gonzales à confessar et communicar alcuni di questi carcerati prima che io venisse à Napoli, andava dal Campanella et l'essortava ad haver cura dell'anima perchè il corpo era spedito». Ben si vede che il Gonzales non godeva pienamente le simpatie del Vescovo di Termoli, e possiamo aggiungere che tanto meno godeva quelle del Nunzio, nel cui Carteggio si trovano più lettere contro di esso, dalle quali apparisce molto amico di fra Serafino di Nocera tanto affezionato al Campanella[107]: inoltre egli conosceva assai da vicino qualcuno de' frati carcerati, p. es. il Petrolo, che era stato con lui in Milano; e per tutti questi motivi rimane dubbio se egli avesse agito a quel modo per leggerezza ed imprudenza, o invece per malizia, vale a dire d'accordo col Campanella medesimo, a fine di rendere spiegabile l'inatteso manifestarsi della pazzia. Ecco ora in che maniera il Campanella si mostrò pazzo, secondo che depose il carceriere Alonso Martines quando ne fu interrogato. «La matina di pasqua del spirito santo prossime passato havendo io la sera precedente lassato una lucerna accesa dentro la priggione di detto frà Thomaso quale poteva durare circa un'hora, è mezza à far lume acciò egli vedesse à mangiare, la matina secondo il mio solito, visitando tutti li carcerati, ritrovai che frà Thomaso havea brusciato la lettèra, le asse, le tavole, un saccone di paglia, et una coperta, et la priggione era tutta piena di fumo, et frà Thomaso era gettato in terra, et io credevo che fusse morto, mà poi io udj che si lamentava, et io lo levai da terra, et lo messi in un'altro loco, et rivenne quanto alle forze del corpo, et ritornato da esso per condurlo alla messa che alhora havea licenza di condurlo, detto frà Thomaso mi venne à dosso è poco ci mancò che non mi levasse il naso dalla faccia, è, da questa hora in quà hà parlato spropositatamente, et anco con altri»[108]. Da diversi fonti all'uopo ricercati abbiamo potuto trarre che la Pasqua nel 1600 si celebrò il 2 aprile: fu questa dunque la data precisa in cui si manifestò la pazzia del Campanella, ed essa spiega pienamente così l'opportunità e convenienza della pazzia dal lato suo, come l'urgenza estrema della spedizione della causa dal lato del Sances. Reca poi senza dubbio una grande meraviglia il fatto, che il Nunzio non abbia partecipata a Roma tale novità; nel suo Carteggio non se ne trova menzione per lungo tempo, e il primo a parteciparla a Roma apparisce nel processo di eresia il Vescovo di Termoli, in data del 25 maggio[109].

[Pg 87]

Non appena ebbe notizia dell'incidente, il Sances ordinò che si spiassero gli andamenti del Campanella, per conoscere se la pazzia fosse vera o simulata; e fin dal 4 aprile alcuni scrivani andarono nelle ore della notte ad appiattarsi presso il carcere del Campanella per raccogliere ciò che avrebbero udito. Ebbe così due relazioni, che esponevano due colloquii notturni tra il Campanella e fra Pietro Ponzio rinchiusi in due carceri vicine, in data l'una del 10 e l'altra del 14 aprile: queste relazioni furono più tardi trasmesse in copia a' Giudici dell'eresia, i quali le inserirono nel loro processo, e in tal guisa ci è venuto tra mano non solo un documento importantissimo per intendere le cose del Campanella e la condotta del Governo Vicereale verso di lui, ma anche il racconto di uno de' più drammatici episodii del tempo de' processi[110]. Una delle relazioni scritta da Marcello de Andreanis, scrivano fiscale ordinario della Banca di Marcello Barrese, dice che essendosi insieme con Francesco Tartaglia, scrivano straordinario della medesima Banca, recato per ordine del Sances nelle carceri del Castello, e propriamente in un corridoio vicino alle carceri del Campanella e di fra Pietro Ponzio, accostatisi pian piano nel detto corridoio, il 10 aprile, a tre ore di notte, udirono il seguente dialogo. Il Campanella dimandava: che n'è di mio fratello e di mio padre? E fra Pietro rispondeva: stanno nelle carceri del civile con Giuseppe Grillo e Francesco Antonio di Oliviero. Ancora il Campanella: e di tuo fratello che n'è? E fra Pietro: Ferrante sta con quella marmaglia delle carceri del civile. Continuava il Campanella: oh che pietà, che ne sa quel poveretto Francesco Antonio di Oliviero! E fra Pietro: tu vedi! Ripigliava fra Pietro in latino: hai scritto abbastanza oggi? E il Campanella: assaissimo, tutto. Ancora fra Pietro: il Martines è rimasto fuori del Castello ed Onofrio (l'altro carceriere) è stato chiamato dal Capitano; noi possiamo parlare? E il Campanella, in latino: tu non conosci la razza degli spagnuoli; e fra Pietro, in latino: conosco la razza e la scelleratezza degli spagnuoli. Continuando quasi sempre in latino, il Campanella diceva: sai se Tommaso d'Assaro è stato liberato? E fra Pietro: no, dimandane a colui che sta nel carcere superiore (intend. superiore a quello di fra Pietro). E il Campanella: non posso; aggiungendo: fa in modo che dimani possa dare una pagina scritta a fra Pietro (certamente fra Pietro di Stilo), perchè non posso parlare e sento un odore di uomo! E fra Pietro: scongiurali, e parla in latino, giacchè sono idioti e non conoscono la lingua latina. Rimasti quindi un poco in silenzio, fra Pietro ricominciò: non ci è nessuno, perchè il vizio li porta via, tu hai lume? [Pg 88] E il Campanella: no, affatto; e soggiunse: andiamo a dormire perchè ho visto un lume. E fra Pietro: andiamo a dormire. Fu questo uno de' colloquii. Notiamo che Tommaso d'Assaro trovavasi carcerato e doveva essere vicino ad uscire in libertà, vedendosi il suo nome più tardi nella lista de' testimoni dimoranti in Napoli, dati da fra Dionisio nella causa dell'eresia, per fatti avvenuti nel carcere[111]. Ma ciò che riesce notevolissimo è il sapere che il Campanella scriveva, che aveva in quel giorno scritto «assaissimo, tutto», come pure una pagina da doversi passare a fra Pietro di Stilo, e che fra Pietro Ponzio ne pigliava molto interesse. Cosa scriveva il Campanella? Non mancheremo d'indagarlo più in là.—Veniamo all'altro colloquio. Esso è riferito da Francesco Tartaglia sopra nominato, il quale dice di essersi recato per dodici notti successive nel Castello, dietro ordine del Sances, e più volte ha udito il Campanella discorrere con fra Pietro «de bonissimo modo», e segnatamente la notte del 14 aprile, in compagnia anche de' carcerieri Martines ed Onofrio, udì le seguenti parole. Fra Pietro chiamò quattro volte il Campanella dicendo, o fra Tommaso... non senti no o cor mio? E il Campanella: bona sera, bona sera. E fra Pietro: o cor mio, come stai, che fai, sta di buon animo, perchè domani verrà il Nunzio e sapremo qualche cosa. Ed il Campanella: o fra Pietro, perchè non trovi qualche modo per potere dormire insieme e godere? E fra Pietro: volesse Iddio, anche a dover pagare dieci ducati al carceriere, a te, cor mio, vorrei dare venti baci per ora; ho sparso per tutta Napoli i tuoi Sonetti, li so tutti a memoria e nulla mi dà più gran gusto che il leggere qualche frutto dell'ingegno tuo. E il Campanella: voglio ora comporne uno pel Nunzio. E fra Pietro: sì cor mio, ma ti chiedo in grazia di comporre prima quelli per me o quelli che desidero per mio fratello, e poi comporrai quelli pel Nunzio. E il Campanella: va a riposare, buona sera. Ben si rileva qui la tenera ed irremovibile amicizia di fra Pietro pel Campanella, e il suo ardore per averne le poesie, spinto fino all'indiscrezione di volerne per sè e per suo fratello, mentre il povero filosofo ne meditava qualcuna che riuscisse a rendergli propizii i potenti nella sua terribile condizione; e si rileva al tempo medesimo l'animo depresso del filosofo, e il suo vivo bisogno della compagnia di un amico come fra Pietro. Si vide poi tale affettuoso colloquio dare al Vescovo di Caserta motivo di sospettare nientemeno che dell'onestà delle relazioni tra il Campanella e fra Pietro: evidentemente questi due giudicabili erano assai migliori di alcuni de' loro Giudici! Ma dunque il Campanella componeva Poesie, oltrechè scriveva pagine [Pg 89] da doversi trasmettere a fra Pietro di Stilo, e il Sances già ne sapeva qualche cosa: e come mai poteva egli meditare un Sonetto pel Nunzio? Non ne troviamo alcuno con questo indirizzo nella raccolta fattane da fra Pietro, e bisogna dire che o lo scrivano sia caduto in un equivoco, o il Campanella abbia voluto alludere al Sonetto indirizzato al Papa, da doversi per vie trasversali far capitare nelle mani del Nunzio, il quale si sarebbe poi fatto un dovere d'inviarlo al Papa. Si può intanto immaginare quale concetto abbia dovuto formarsi il Sances intorno a questa pazzia, durante la quale il Campanella scriveva Sonetti perfino al Nunzio: evidentemente egli non poteva che chiedere d'urgenza la spedizione della causa.

Ed eccoci condotti a narrare la vita intima del Campanella, considerandola propriamente dal lato delle sue opere d'ingegno, in questo primo periodo della sua prigionia di Napoli, rappresentato dal tempo in cui venne istituito e svolto il processo della congiura così pe' laici come per gli ecclesiastici. Dicemmo già che fin dai primi momenti dell'arrivo egli compose Poesie per dare animo agli amici, che nel Syntagma se ne ha il ricordo ma con una completa confusione di tempi, che la Raccolta fattane da fra Pietro ci mette in grado di potere fino ad un certo punto distinguere ed assegnare alle diverse poesie la propria data. E veramente nel Syntagma si parla delle poesie in questi termini: «Fui condotto a Napoli qual reo di Maestà, ed ivi, mentre si negava l'aiuto de' libri, composi molti versi latini ed italiani, sul primo Senno e prima Possanza, sul primo Amore, sul Bene, sul Bello e simili, che tutti scriveva di nascosto quando ne aveva l'agio. Di essi vennero formati sette libri intitolati La Cantica, de' quali in parte Tobia Adami pubblicò una scelta, fatta secondo il giudizio suo, sotto il nome di Settimontano Squilla, aggiuntavi l'esposizione. Composi parimente Elegie sulle sventure mie e degli amici, inoltre Ritmi profetali ed una quadruplice Salmodia su Dio e su tutte le opere sue, e a questo modo con le poesie diedi anche vigore agli amici acciò non si abbattessero ne' tormenti». Ora tra le poesie raccolte da fra Pietro, alla cui composizione quasi totale possiamo assegnare un tempo certo, compreso tra il 10 novembre 1599 e il 2 agosto 1601, non si trovano le Canzoni, le Elegie, le Salmodie ricordate nel Syntagma e poi pubblicate veramente dall'Adami; nè occorre dire che vi si troverebbero, qualora fossero state composte nel tempo anzidetto. Appena vi si trovano i Ritmi profetali, sicchè bisogna rimandare le poesie sopra ricordate ad un periodo posteriore di molto; nel qual caso, gli amici rinvigoriti con esse ne' tormenti dal Campanella sarebbero i soli pochi frati tormentati per l'eresia, ciò che vedremo accaduto nel gennaio 1603; invece la raccolta fatta da fra Pietro ci presenta le poesie del primo periodo, e tra esse quelle che servirono a rinvigorire gli amici tutti ne' tormenti per la congiura. La detta Raccolta non serba un ordine[Pg 90] strettamente cronologico, ed abbiamo già rilevato altrove che contiene pure qualche poesia certamente del tempo della prigionia di Roma, conservataci per reminiscenze comunicate dal Campanella al raccoglitore: ma essa nemmeno procede scompigliata del tutto, e in generale vi si possono molto bene riconoscere due gruppi che indichiamo subito, assegnando al primo il periodo del quale ci siamo finora occupati, vale a dire dal novembre 1599 all'aprile 1600. Questo primo gruppo è rappresentato essenzialmente dalle prime 24 poesie, che mostrano un distacco sensibile dalle rimanenti, tra le quali per altro è capitata ancora qualcuna da doversi riferire al primo gruppo, mentre poi nell'uno e nell'altro gruppo son capitate quelle poche di reminiscenza, già composte ne' tempi anteriori[112]. Il primo Sonetto col quale si apre la Raccolta di fra Pietro, ben conosciuto perchè fu poi pubblicato dall'Adami, è quello «sul presente stato d'Italia» che comincia col verso

«La gran Donna ch'a Cesare comparse»:

in verità noi lo crederemmo scritto piuttosto ne' giorni de' preparativi, in Calabria, contemplandosi in esso che per la patria infelice, dominata da stranieri, non c'era più da sperare nè nel Principato nè nel Sacerdozio, ma bisognava tornare a' puri principii del Cristianesimo e della Sapienza greca; ad ogni modo riesce abbastanza interessante il sapere che un Sonetto simile, decorato del sacro nome d'Italia e tutto sollecitudine per le sciagure di essa, sia di vecchia data ed abbia circolato tra le mani de' congiurati o de' perseguitati per la congiura[113]. Più sicuramente appartiene al primissimo tempo della prigionia di Napoli, e forse è stato davvero il primo composto nel Castello nuovo, quello che viene in 2o luogo «sopra l'istesso stato d'Italia» (titolo verosimilmente dato da fra Pietro), avendo tutta l'impronta dell'attualità, esprimendo la preoccupazione che il Conte di Lemos avesse a menar buoni i tristi processi fatti in Calabria, promettendo in tal caso più grave la rovina profetizzata agli oppressori, ed esalando il dolore del filosofo ancora sotto l'impressione della bieca accoglienza popolare sofferta nel viaggio da Gerace a Bivona:

[Pg 91]

«Il fato dell'Italia hoggi dipende
dall'esser vera ò falsa rebellione
questa, ch'à calavresi Carlo impone
e Sciarava, ch'el Regno el Rè n'offende.
E s'il Conte che regge ancor pretende
che lor finte ragion sian vere e buone
. . . . . . . . . . . . . .
più grave fia l'antevista ruina.
. . . . . . . . . . . .
Ahi cieca Italia nella tua rapina!
sin quando il senno tuo sopito langue?
s'io ben ti desiai, che t'ho fatt'io?»

Sarebbe poco ragionevole voler qui trovare una Musa felice e splendida, e lo stesso va detto per tante altre poesie di questa raccolta: il filosofo dovea sentirsi disposto a tutt'altro che a poetare; d'altronde poesie simili bastavano per que' rozzi ma generosi patriotti. Il 3o Sonetto, intitolato dall'autore «a sè stesso», può ritenersi bene al suo posto, valendo ad ispirare conforto e fiducia a' compagni suoi in un modo generale, e sempre promettendo la vendetta divina:

«Spesso m'han combattuto, io dico anchora,
fin dalla giovanezza, ahi troppo spesso,
. . . . . . . . . . . . . .
ma la spada del ciel per me lavora».

Non così l'altro intitolato anche «a sè stesso», con la giunta dovuta a fra Pietro, e certamente errata, cioè «subito fu preso»: esso venne pubblicato dall'Adami senza questa giunta, che forse potè essere suggerita a fra Pietro dalle parole che si leggono nel 2o verso, «il fiero stuol confondo»; ma tutte le circostanze, che accompagnano queste parole, le mostrano riferibili a' Giudici, Fiscale e contradittori intervenuti nelle confronte, sicchè il Sonetto risulta precisamente del tempo degli esami e confronte del Campanella, che aveano dovuto sembrargli tali da poterne menar vanto. Passiamo quindi sopra di esso, e del pari sopra il seguente, che gli apparisce collegato e che dinota un grave sconforto succeduto ad una viva fiducia; ci troviamo così in presenza del Sonetto «in lode di carcerati e tormentati», che ci conduce al periodo in cui si pose mano alle torture cominciando da Maurizio.

Siamo dunque alle prime settimane del dicembre 1599, al tempo del massimo fervore nel processo della congiura pe' laici. Maurizio avea sostenuto con fermezza terribili e lunghissimi tormenti, e gli altri avrebbero dovuto imitarne l'esempio; il Campanella lo esalta con entusiasmo, e merita di essere notato che attribuisce allo «ardore di libertà e di ragione» il superare que' tormenti, armi del tiranno:

«Veggio spirti rivolti al Creatore
schernir tormenti e morte, del tyranno
armi sovrare, e scherzar con l'affanno
[Pg 92]. . . . . . . . . . . . . .
Di libertà e ragion tanto è l'ardore
che dolcezza il dolor, ricchezza il danno,
seguendo l'orme di color che sanno,
stimano, armati di gloria et honore.
Rinaldi il primo sei notti e sei giorni
vince i tormenti antichi e i nuovi sprezza
. . . . . . . . . . . . . . . .
esempio a gl'altri d'invitta fermezza»[114].

Ma il poeta dovea sentirsi anche personalmente grato a Maurizio, il quale, non avendo confessato, aveva contribuito assaissimo a farne migliorare la causa; ed ecco quel Madrigale:

«Generoso Rinaldi
vera stirpe del syr di Monte Albano» etc.

Nè deve fare impressione qualche concetto come quello di «aver reso il pegno di fedeltà al Re». Bisogna tener presente che stavano entrambi in carcere e sotto un processo capitale; la poesia avrebbe potuto essere sorpresa da' carcerieri e trasmessa al Sances, onde naturalmente non può darsi molto peso a qualche concetto che esprima innocenza, ed invece deve darsene molto a quelli che esprimono sentimenti di libertà.—Ma giunge il 20 dicembre, e Maurizio sotto le forche si decide a confessare per iscrupolo di coscienza: si rivolta allora l'animo del poeta, e scrive quel «Madrigale di Palinodia», che è triste dover ricordare, e che i lettori troveranno dopo il precedente; un passaggio così brusco dalla lode al vituperio stringe veramente il cuore. Conoscendo poi che egli credè, più o meno, all'influenza del Gesuita confessore del Vicerè, il Padre Mendozza, che avrebbe determinato Maurizio alle rivelazioni, ci parrebbe naturale collegare con tale fatto quel Sonetto che potè anche scrivere più tardi, col titolo «contro i G......» ossia «contro i Gesuiti», pubblicato negli anni successivi dall'Adami col titolo più prudente «contro gl'ipocriti»: che esso debba riferirsi a' Gesuiti risulta manifestamente da' primi versi,

«Gli affetti di Pluton portano in core
il nome di Giesù segnano in fronte»;

ben doveva il poeta trovarsi in grande eccitamento contro costoro, allorchè accennava alle loro malizie, e non soltanto per aggiustare la rima egli scriveva

«questo veggendo fà ch'io mi dischiome»[115]

Nè scorgiamo altre poesie da doversi con qualche probabilità riferire a' fatti concernenti i laici, fra' quali pel solo Maurizio si vede che il Campanella poetò, mentre da una cancellatura fatta da fra Pietro [Pg 93] nella sua raccolta rilevasi che perfino il Sonetto «in lode di carcerati e tormentati» aveva dapprima il titolo di Sonetto «in lode di Mauritio Rinaldo».

Ma nelle prime settimane del gennaio 1600 già si conosceva non lontano il cominciamento del processo della congiura per gli ecclesiastici, e le poesie furono più frequenti. Non è arrischiato l'ammettere che siano stati composti in tale data que' due Sonetti profetali, l'uno ancora inedito che comincia col verso

«Toglie i dì sacri il Tebro e calca Roma»,

e l'altro già pubblicato dall'Adami che comincia col verso

«Veggio in candida roba il Padre Santo».

Questi Sonetti con qualche altro analogo, che trovasi disperso nel 2o gruppo e che vedremo altrove, sarebbero appunto i Ritmi profetali menzionati nel Syntagma; e non debbono sfuggire que' versi del primo rimasto inedito, forse rimasto inedito per essi,

«La giustizia si compra, el verbo santo
sotto favole e scisme ogn'hor si vende»[116].

Egualmente è verosimile che siano stati composti in tale data quei tre Sonetti concernenti lo Sciarava, i due primi di maledizione, il terzo, diremmo, d'insinuazione[117]. Il primo che comincia co' versi

«Campanella d'heretici e rubelli
Capo in Calavria mai non s'è trovato»

offre anche una discolpa, oltre la maledizione nella quale son compresi tutti i persecutori di alto grado

«Ruffi, Garraffi, Morani, e Spinelli».

Il secondo, che ci sembra abbastanza bello, e che comincia co' versi

«Mentre l'albergo mio non vede esangue
e gli spirti poggiar tremanti al cielo»,

offre una maledizione ed anche una preghiera, la quale mostra che l'autore riteneva del tutto imminente la chiamata agli esami,

«Deh Sig.^r forte, in me volgi tua faccia,
dà authorità più espressa al mio sermone
ond'i ministri di Sathan disfaccia».

Il terzo, che porta veramente il titolo «in lode di spagnuoli», offre una insinuazione contro lo Sciarava e una protesta di devozione a Spagna, la quale certamente nessuno vorrà prendere sul serio: [Pg 94] bisognava pure che il poeta si preparasse qualche argomento in suo favore pel caso di una scoperta delle poesie, massime quando avea mostrato tanto poco rispetto verso un funzionario importante del Governo spagnuolo e tuttora deputato ad assistere il Sances durante il processo. Poniamo inoltre qui il «Sonetto di rinfacciamento a Musuraca», senza dubbio mal situato tra le poesie del 2o gruppo, e sempre capace di eccitare gli amici a rimaner tali anche «a tempo d'infelice stato»[118]. Con tanto maggior ragione poniamo qui anche il «Sonetto fatto a tutti carcerati», che del rimanente potrebbe esser posto anche tra le poche poesie del tempo del processo de' laici[119]: in esso si dice che era negata, oltre la favella e il commercio, benanco la difesa, ciò che si spiega col fatto dell'amministrazione delle torture decretata durante il processo informativo, senza dare anticipatamente la copia degli atti; e tra' varii istrumenti di morte è citata pure la sega, ciò che aggiunge qualche cosa anche alla credibilità dello strano supplizio già destinato a Maurizio in Calabria. Vi brillano poi i concetti elevati e i consigli virili al maggior segno; vi si canta

«.... sol la virtù de' vostri petti
l'orgoglio del tyranno affrena e lega»;

vi si esalta il glorioso e bel morire per la libertà, e vi si dice

«Qui dolce libertà l'alma gentile
ritrova, e prova il ver, che senza lei
sarebbe anchor il paradiso vile».

Ma oltre gli eccitamenti in generale, diretti a' frati rimastigli fedeli, il Campanella diresse anche qualche eccitamento in particolare, p. es. al Petrolo, che sperava poter ricondurre a fedeltà; così dettò quel Sonetto che fra Pietro intitolò «in lode di fra Domenico Petrolo», e che veramente si deve dire di sollecitazione a ritrattarsi:

«Venuto è 'l tempo homai che si discuopra,
Petrolo mio, l'industriosa fede
che serbasti all'amico, e già si vede
ch'à tutte l'altre questa tua và sopra.
Mortifera, infedel, empia, ingrata opra
far simolasti, ch'a lui vita diede» etc.[120].

Non si sarebbe potuto adoperare modi più insinuanti, facendo ottimo viso a pessimo gioco; s'intende quindi che il Petrolo ne sia rimasto convertito, come mostrò con la sua deposizione del 29 gennaio, ma pur troppo per brevissimo tempo.

Cominciata in sèguito la causa, sostenuto l'esame ed essendo in corso le confronte, precisamente al cadere del gennaio 1600, il [Pg 95] Campanella rincorato dovè scrivere quel magnifico Sonetto «a sè stesso», che fu poi pubblicato dall'Adami e che comincia coi noti versi:

«Legato e sciolto, accompagnato e solo
chieto, gridando, il fiero stuol confondo,
folle all'occhio mortal del basso mondo» etc.[121];

le quali ultime parole dinoterebbero il valore dato da' Giudici alle profezie e presagi, che egli dichiarò averlo guidato a ritenere imminenti grandi mutazioni. Di poi sofferta la dimora nella fossa del miglio e quindi la tortura, fatta in questa la sua confessione, non dovè mantenersi in tanta fiducia, e lo mostrerebbe il Sonetto «alla Beata Ursula napolitana a cui si raccomanda», inserto nella raccolta dopo il precedente[122]: tutto il Sonetto esala lo sconforto del Campanella, che in quel momento sperava soltanto in una protezione superiore;

«Pregoti per l'honor del sacro manto
di cui spogliato incorsi in gran ruina,
. . . . . . . . . . . . . .
E canterò tornando al mio bel nido
il fin de' miei travagli» etc.

inutili speranze, desolanti ricordi. Ma non dovè tardare a sentire tanto maggiormente il bisogno di ravvivare la fede ed anche l'affetto de' suoi compagni, e crederemmo che dapprima gli abbia data una buona occasione la fermezza di fra Pietro di Stilo nel respingere le esortazioni di Maurizio a seguire l'esempio suo e a confessare: così alla 2a metà di febbraio e 1a di marzo ci parrebbe potersi assegnare i due Sonetti «in lode di fra Pietro di Stilo» seguìti da' tre «in lode del Rev.do P.e fra Dionisio Pontio»[123]; l'essere stati posti nella Raccolta in ordine inverso ben può spiegarsi con la classificazione della relativa importanza data da fra Pietro Ponzio a' frati compagni del Campanella. Fra Pietro di Stilo, che aveva tanto poco partecipato alle speranze ed a' maneggi della congiura, soffriva tanti disagi e maltrattamenti per l'affetto al Campanella, su cui vegliava assiduamente e senza ritrarsi per qualsivoglia motivo; così ben si spiega tutto il contesto de' due Sonetti, ne' quali si vede pure il Campanella tuttora sconfortato:

«Sino all'inferno un cavalier seguìo
l'avventurato amico à grande impresa.
. . . . . . . . . . . . . . .
Frati, amici, parenti, chi mi nega,
chi più ingrato mi trade, e mi maligna (int. il Pizzoni)
chi non volendo nel mio mal si piega (int. il Lauriana).

[Pg 96]

Solo il travaglio e la rabbia maligna
titulo in fronte del tuo honor dispiega
Rè della fede chi mai non traligna.
. . . . . . . . . . . . . .
Fedel combattitor, mai non s'estingue
più il nome tuo, poiche serbasti solo
virtù, religion, patria, et amici».

In tal guisa il Campanella, pieno di gratitudine, onorava fra Pietro Presterà, «Pietro suo», come poi lo disse nell'opera ricomposta Del Senso delle cose: ma per fra Dionisio il caso era abbastanza diverso. «Senza dubbio fra Dionisio avea motivo di dolersi del Campanella, che già prima nella Dichiarazione, ma poi anche peggio nella confessione in tortura, avea rivelato l'esistenza di un concerto per fare la Calabria repubblica compromettendo lui; ed avendo sostenuto il polledro con tanta fermezza, verosimilmente la sua vanità lo conduceva tanto più a sparlare del Campanella, il quale, fin dal 1o Sonetto, «senza voce, afflitto e lento» ne carezza al maggior segno la vanità:

«Cantai l'altrui virtuti, (int. di Maurizio), hor me ne pento
Dionigi mio, non havean senno vero» etc.

Umiliato per non essere riuscito, all'opposto di lui, nella prova del polledro, il Campanella spiega la cosa con una finzione poetica, ma anche più curialesca, e infine si rivela disposto a soggiacere a tutto:

«In me tanto martìre io non soffersi
ch'in te stava il valor, el senno mio,
e solo al viver tuo fur ben conversi.
S'a te par, io men vado, o frate, a Dio
nè chieggio marmi, nè prose, nè versi,
ma tu vivendo sol viverò anch'io».

Il 2o Sonetto, che risente troppo del gusto triviale del tempo, torna sull'argomento e glorifica fra Dionisio perfino con la testimonianza degli spiriti di Averno; ma vi si fanno notare i seguenti versi,

«Sfogaro mille Spagne e mille Rome,
al tuo martir unite, l'odio interno».

Il 3o Sonetto loda fra Dionisio per l'altro atto suo, per le confronte, le quali davvero non si scorge da qual lato potrebbero dirsi gloriose; e l'innesto, che vi si trova, dell'arme de' Ponzii, del giuoco degli scacchi e cose simili, apparisce una concessione al gusto non solo de' tempi ma anche de' Ponzii: nè bastarono i tre Sonetti, e più tardi ce ne volle ancora un quarto. Ma bisogna per ora aggiungere che oltre a questi sinora detti vi fu anche il Sonetto «al sig.r Gio. Leonardi Avvocato de' poveri», Sonetto tirato addirittura co' denti, manifestamente obliato tra le poesie del 1o gruppo e posto di ripiego tra quelle del 2o: esso deve riportarsi per lo meno alla fine del febbraio, poichè allude alle difese che il De Leonardis già[Pg 97] scriveva, ed agli argomenti che preparava quale Avvocato comune a tutti i frati

«Contra l'ombra di morte accesa lampa»[124].

Sicuramente poi nel marzo e prima metà di aprile la mente del Campanella fu tutta rivolta alla prosa e non alla poesia: basta ricordarsi de' due colloquii notturni passati tra lui e fra Pietro Ponzio, il 10 e il 14 aprile. Ma a quest'ultima data appunto fra Pietro gli annunziava di avere «sparso per tutta Napoli» i Sonetti, il Campanella annunziava di volerne comporre uno pel Nunzio, fra Pietro gli chiedeva in grazia di voler comporre prima quelli per lui e per suo fratello. Attenendoci più che è possibile all'ordine serbato nella raccolta di fra Pietro, dobbiamo dire che il Campanella siasi adattato a compiacere il suo amico, ma componendo un solo Sonetto, in cui abbracciò insieme fra Pietro, il fratello Ferrante, ed anche l'altro fratello fra Dionisio; di poi compose quello pel Nunzio, o meglio, come abbiamo già detto altrove, quello pel Papa da doversi far capitare nelle mani del Nunzio[125]. Il Sonetto «in lode de' tre fratelli di Pontio» concede loro per attributi nientemeno che i tre principii metafisici, e li mostra un riflesso della Trinità: Ferrante rappresenterebbe la potenza, fra Dionisio la sapienza, fra Pietro l'amore; e ci basti sapere che fra Pietro abbia rappresentato pel Campanella l'amore o «il buon zelo». Quanto al Sonetto «al Papa», l'ultimo del gruppo che abbiamo fin qui esaminato, esso può considerarsi come l'embrione di quelle «appellationi segrete» che il Campanella intese poi di avere inviate al Papa massimamente con le sue lettere del 1606-1607: egli si raccomanda come meglio può, e riescono notevoli sopratutto i seguenti versi:

«Non vedi congiurati a farli guerra
i nemici alla patria Italia bella,
ch'egli al valor anticho rinovella,
dove il zelante suo parlar s'afferra».

Ignoriamo se il Sonetto sia stato trasmesso al Papa: nel Carteggio del Nunzio non ne troviamo il menomo indizio, e del rimanente, laddove fosse stato trasmesso, niuno potrebbe meravigliarsi che il ricordo della patria Italia bella, e del valore antico da rinnovellarvisi, avesse trovato il cuore SS.mo indifferente o peggio; basta che esso sia giunto a noi, per farci sempre meglio conoscere ed apprezzare gl'intendimenti del Campanella.

Passiamo ora a vedere le prose, delle quali il Campanella si occupò nel tempo suddetto. Ve ne sarebbero a considerare innanzi tutto tre, la 1a Delineatio defensionum, la 2a Delineatio... Articuli prophetales, l'Appendix ad amicum pro Apologia: le due prime, che rappresentano le Difese presso i Giudici, comparvero [Pg 98] più tardi, il 3 giugno 1601, durante il processo di eresia per mano di fra Pietro di Stilo[126]; l'ultima, che rappresenta una difesa presso un amico, comparve varii anni dopo, con ogni probabilità nel 1607, in coda agli Articoli profetali ricomposti allora in una forma più larga, verosimilmente essa pure ricomposta in una forma più larga di quella della composizione primitiva[127]. Si può affermare con certezza, e ne vedremo tra poco le ragioni, che appunto in quest'ordine di successione le dette tre scritture siano state composte, essendone cominciata la composizione un po' prima della 2a metà di febbraio. Si ricordi che agli 11 febbraio era stato già accordato al Campanella «il termine e la commodità» alle difese, e che allora il Sances volle da lui una esposizione delle profezie sulle quali fondava le sue credenze di vicine mutazioni, onde egli dettò al Barrese notaro della causa molti Articoli profetali (ved. pag. 72 e 73). È naturale ammettere che il Campanella abbia posto subito mano a scrivere le sue Difese, stimando indispensabile aggiungervi anche gli Articoli profetali, mentre al Sances era parso conveniente acquistarne una nozione meno vaga mediante uno scritto. Ma tutto questo lavoro non potè esser pronto che pel 10 aprile, e il Campanella, giudicando che la causa sarebbe presto finita male e che bisognava pure aprirsi una via di uscita dall'imminente processo di eresia, avea dovuto manifestarsi pazzo fin dal 2 aprile: così le Difese scritte non poterono venir presentate in tempo, ma il Campanella continuò a lavorarvi di nascosto, senza dubbio nella speranza fallace che qualora non fosse stata giuridicamente convalidata la pazzia, esse avrebbero ancora potuto servire. Che il lavoro sia stato compiuto il 10 aprile, si desume dal colloquio notturno tenuto a quella data con fra Pietro Ponzio, il quale, avendo domandato al Campanella se avesse scritto abbastanza in quel giorno, ne ebbe per risposta «assaissimo, tutto»; l'aver poi il Campanella soggiunto che avea bisogno di dare l'indomani una pagina scritta a fra Pietro di Stilo, farebbe credere che in quel giorno medesimo egli avesse composta pure l'Appendice in forma di lettera, rappresentata da quella pagina scritta; sicchè la data di essa sarebbe il 10 aprile, ma resti ben fermato non potersi sostenere che essa sia stata allora scritta ne' termini precisi ne' quali è pervenuta a noi. Dopo le dette scritture abbiamo fondata ragione di ammettere che il Campanella si sia occupato di ricomporre l'opera già composta in Calabria «Della Monarchia di Spagna», volendosi servire anche di essa per sua difesa, quando si fosso ripigliata la spedizione della causa rimasta sospesa in que' giorni; e nella ricomposizione di detta opera ebbe ad impiegare il tempo immediatamente consecutivo, dal maggio 1600 ad una parte del 1601, mentre era in pieno svolgimento il processo di eresia.

[Pg 99]

Prima di esporre i particolari della Difesa, vogliamo notare alcune interessanti singolarità, che colpiscono vedendo in qual modo le Difese si trovano scritte: ne risulterà provato l'ordine di successione con cui vennero composte tutte le scritture sopra menzionate, ed anche chiarita la quistione de' libri, che il Campanella in sèguito affermò aver voluto presentare in sua discolpa, e in parte aver fatto subito venire dalla sua patria, ma che il Sances non volle si presentassero nè si sapessero (ved. pag. 84). Le Difese con gli Articoli, così come furono trasmesse più tardi a' Giudici dell'eresia, non appariscono scritte di mano del Campanella, bensì trascritte da due copisti, de' quali il primo che trascrisse la «1a Delineatio» è rimasto ignoto, ma vedremo a suo tempo essere stato procurato da un Vincenzo Ubaldini di Stilo, l'altro che trascrisse gli Articoli fu certamente fra Pietro Ponzio, come apparisce dal carattere e come fu chiarito anche presso il tribunale per l'eresia: costoro ebbero a porre in ordine il contenuto di tante carte e cartoline staccate avute dal Campanella, il quale poi lo rivide, lo corresse, vi appose qualche postilla e qualche aggiunta di mano sua, ciò che merita la nostra attenzione[128]. Fin dalla prima pagina colpisce il vedere enumerati quali libri suoi, atti a mostrare la sua affezione al Re e alla Spagna, i Discorsi a' Principi d'Italia che avea mandati all'Imperatore, il Dialogo contro i Luterani mandato a Massimiliano ed esistente anche presso Mario del Tufo, la Tragedia della Regina di Scozia conosciuta in Stilo e dal Principe della Roccella, e poi anche la Monarchia di Spagna, ma questa con un'aggiunta posteriore autografa, e con le circostanze dell'essere stata scritta «ad instantiam praetoris» e del trovarsi «in suis sarcinulis», naturalmente in Stilo; la cosa medesima si veda nell'ultima pagina degli Articoli profetali, dove sono enumerati i libri suoi atti a chiarire le cose enunciate negli Articoli, cioè la Monarchia de' Cristiani esistente presso il Card.l S. Giorgio, e il libro Del Regime della Chiesa esistente in Stilo «in suis sarcinulis» e poi anche, e sempre con un'aggiunta autografa, la Monarchia di Spagna, con la circostanza del trovarsi parimente in Stilo. Adunque il libro della Monarchia di Spagna dovè essere scritto dopo le Difese, probabilmente in rifazione di un esemplare perduto in Stilo durante le sue peripezie, ma non potè essere presentato perchè il Campanella mantenevasi tuttora pazzo, onde v'è ragione di credere che invece di farlo venire subito da Stilo, lo abbia mandato a Stilo per farlo trovare in quel posto e giustificare in tutto e per tutto la sua asserzione; questo per un altro verso si dovrebbe dire egualmente del libro del Regime della Chiesa, perchè sappiamo che era stato scritto [Pg 100] fin dal tempo della dimora in Padova ed era stato mandato a Mario del Tufo, e con ogni probabilità, mentre premeva che fosse venuto nelle mani de' Giudici, non si volle compromettere ulteriormente l'amico e protettore che ne possedeva un esemplare; deve d'altronde ritenersi molto naturale che in Calabria la prima composizione della Monarchia di Spagna si fosse perduta durante le peripezie del Campanella, mentre sappiamo con certezza che pure l'originale del Regime della Chiesa fu ivi «rubato da infedeli amici» come si legge nel Syntagma. Un'altra importante aggiunta autografa nella «1a Delineatio» si legge poco dopo quella finora esposta e commentata: avendo affermato che dalle profezie si rileverebbe non aver finto «ad malum tegendum», di seconda mano aggiunse che ciò si rileverebbe «et ex articulis prophetalibus ab eo additis» etc.; deve dunque dirsi che gli Articoli siano stati veramente scritti dopo la «1a Delineatio», che ad essi quindi si riferiva la dimanda fatta nel colloquio notturno da fra Pietro Ponzio il quale era impegnato a ricopiarli, e la data del 10 aprile sarebbe senz'altro la data in cui il Campanella dovè finirne la composizione. Mettiamo poi in un fascio tutte le altre aggiunte sparse nella «1a Delineatio», le quali recano essere stati i testimoni uniformi nelle profezie e varii nel rimanente, essere stato Maurizio persuaso a rivelare da un Fiscale in abito di confrate, essersi ritrattati il Caccia e il Vitale, essersi una volta ritrattato anche il Pizzoni; tutto ciò mostrerebbe che la composizione della «1a Delineatio» dovè cominciare anche prima che fosse stata consegnata la copia degli Atti processuali, rappresentando le dette aggiunte, quasi tutte, notizie raccolte dagli Atti; nè osta che in una si legga «detur copia processus et demonstrabitur», poichè ve ne sono altre che dicono «ut patet ex processu» e il Campanella avrebbe voluto non solo gli Atti concernenti la persona sua ma anche quelli concernenti i suoi compagni, che del resto dovè avere almeno in frammenti di soppiatto. Può dunque dirsi che egli abbia cominciato a scrivere questa «1a Delineatio» non appena sofferto il polledro e fatta la confessione, quando n'ebbe immediatamente «la comodità», ma deve anche dirsi che l'abbia compiuta dopo di avere avuto conoscenza della Difesa scritta dal De Leonardis e della replica del Sances, poichè vedremo or ora, nell'ultima parte di essa, non solo discusse con calore le identiche quistioni di dritto, ma anche respinte le cose che il Sances avea notate su' costumi, sulle passate imputazioni di eresia, sull'aver dato motivo di far morire molte persone: e gli Articoli profetali, da non doversi confondere con gli Articoli analoghi dettati al Barrese dietro richiesta del Sances, e rimasti senza dubbio nelle mani del Sances, naturalmente doverono essere scritti, nella loro ultima parte, tra le angustie della dimostrazione di pazzia e tra' pericoli della rigorosa sorveglianza.

Veniamo a' particolari delle Difese, che ci sembra conveniente esporre con larghezza e poi commentare un poco, sebbene venute[Pg 101] tanto più tardi in luce, non presentate al tribunale competente e rimaste affatto perdute pel Campanella. Teniamo per fermo che i lettori vorranno conoscerle nella loro integrità testuale, ma ciò non ci dispensa dall'obbligo di farne una minuta esposizione: deve anzi dirsi una fortuna poter udire subito dopo lo svolgimento del processo la voce dell'imputato, e poterne trarre una conclusione meno fallace intorno alla sua colpabilità ottenebrata da tanti interessi diversi.

Nella «1a Delineatio», appellandosi a' Libri sacri come fonte di ogni legge, il Campanella comincia dal notare che in essi son detti colpevoli di lesa Maestà solamente quelli che prendono le armi contro il Re giusto o per malevolenza o per ambizione, non quelli che perfino consumarono la ribellione guidati dalla profezia e comunque fossero cattivi soggetti, adducendo gli esempi di Siba e di Chore da una parte, e di Jeroboam, di Jehu e di Joiada dall'altra. E soggiunge: «ma fra Tommaso Campanella, insieme con quelli i quali aderirono a lui con retta intenzione, non fu mosso a cospirare nè dall'ambizione nè dalla malevolenza, se pure cospirò, bensì guidato dalla profezia umana e divina; nè la sua fu una cospirazione contro il Re, ma una certa cautela contro le incursioni de' barbari e un'ammonizione a' conterranei perchè si mantenessero incolumi ne' monti, se per fatalità avvenisse quanto si prediceva, laonde egli non è ribelle nè degno di morte». Passa quindi a dimostrare che non lo fece per ambizione di Regno, perchè era impossibile a lui poveretto distrarre il Regno o la provincia dal dominio di un Re tanto forte, e bisognava esser matto per ingannarsi fino a questo punto; e dice che per natura e per fortuna egli era impotente a tali desiderii, e rassegna i suoi precedenti, e nota le sue carcerazioni e malattie anteriori, il ritorno in patria per salute a consiglio de' medici Tancredi, Politi e Carnevale, i suoi studii alieni dalle armi, le sue predicazioni per indurre il popolo a fabbricare una Chiesa di cui il convento difettava ed egli scavò i fondamenti; e nota il libro Sulla predestinazione che scriveva contro Molina per S. Tommaso, e la Tragedia della Regina di Scozia contro gli Anglicani in favore del Re, la sua vita di studioso e religioso, la sua opera di pacificatore, e perfino la sua timidità provata nel tormento, citando come testimoni fra Pietro di Stilo, il Petrolo, tutti i suoi compagni di dimora, e conchiudendo che «dissero cosa mostruosa coloro i quali gli attribuirono la cupidigia di Monarchia». Dimostra poi che non cospirò per malevolenza verso il Re e il suo dominio, perchè aveva sempre ottenuto favore dagli spagnuoli ed austriaci, come dal Reggente Marthos (Reggente di Cancelleria in Napoli) e dall'Ambasciatore di Roma (il Duca di Sessa), e parimente dall'Arciduca Massimiliano e dall'Imperatore, i quali scrissero a Roma in favore di lui e di Gio. Battista Clario carcerati; onde per gratitudine egli compose il Trattato in cui sosteneva che l'Italia per suo bene dovea desiderare il dominio[Pg 102] del Re di Spagna, Trattato che mandò all'Imperatore mediante Gio. Battista Clario, ed egualmente il Dialogo contro gli Stati del settentrione calvinisti e luterani, che mandò a Massimiliano e che trovavasi in copia presso D. Mario del Tufo, come pure l'anzidetta Tragedia, nota a Stilo ed al Principe della Roccella, ed il libro della Monarchia di Spagna, scritto ad istanza del pretore (Governatore de Roxas?) e colmo di lodi per gli spagnuoli, che trovavasi nelle sue poche masserizie. Nota infine la sua amicizia col pretore spagnuolo e co' Presidi della Provincia (gli Auditori?), l'essere stato sempre invitato dal governatore a predicare, e l'aver detto nelle sue prediche tante cose in favore del Re: che Dio avea dato la Monarchia agli spagnuoli perchè aveano combattuto 700 anni contro i mori nemici della fede, mentre gli altri Principi cristiani si combattevano tra loro; che il Re avrebbe distrutto i turchi quando costoro si sarebbero divisi giusta la predizione di Arquato astrologo; che se nel Regno esisteva qualche durezza, essa dovevasi ai difetti del popolo e de' ministri, non già del Re; che nella prossima mutazione del mondo il Re Filippo avrebbe rappresentata la parte di Ciro, secondo i detti di Esdra e di Isaia, poichè dovea liberare la Chiesa dalla Babilonia de' turchi e degli eretici, edificare Gerusalemme, cioè Roma, e stabilire il vero sacrificio dovunque nel mondo, girando il suo imperio col sole, ogni ora facendo giorno in qualche parte del Regno suo e celebrandosi continuamente la Messa in siffatto giro, la quale sentenza era invalsa tanto, che Fulvio Vua sindaco di Stilo l'avea riprodotta nel recitare il prologo di una rappresentazione della Passione di Cristo, citando il Campanella fra' battimani generali. Così egli era stato sempre pel Re ed avea procurato che gli altri lo fossero, ne conservava l'immagine ed amava coloro che le facevano onore, come erano in grado di attestare fra Pietro di Stilo, il Petrolo, fra Scipione Politi, tutti gli Stilesi; nè poteva dirsi che egli si fosse infinto, mentre avrebbe agito contro sè medesimo, perocchè se voleva tra due mesi distruggere il dominio del Re, come mai così accanitamente l'edificava? e come mai il Popolo poteva credergli in tanta contraddizione? conchiudendo: «l'edificazione è attestata da molti e probi uomini, la distruzione segreta da pochi e scellerati, a chi crederete voi o giusti giudici?». Escluso quindi il movente dell'ambizione e della malevolenza contro la Maestà, rimaneva il movente della profezia, e non già contro ma a tutela della Maestà. E qui egli si fa a citare tutte le previsioni, tutt'i prodigi, tutte le profezie ad una ad una (sono state già accennate troppe volte e possiamo dispensarcene), aggiungendo di avere interpretate le imminenti mutazioni a favore del Re e della Chiesa, col servirsi delle affermazioni de' Profeti e de' Santi, col sostenere che prima della fine del mondo doveva esservi «un solo ovile ed un solo pastore in una sola Repubblica cristiana, a capo della quale il Pontefice Romano», che «il Re avrebbe adunato i Regni e il Papa li avrebbe accolti nel suo ovile con[Pg 103] maggior potestà». E dice che i frati di S. Domenico doveano preparare tale repubblica, e con autorità sacre e profane dimostra la futura repubblica, preludio della celeste, desiderio degli uomini pii e de' Profeti, de' Poeti e de' Filosofi, da verificarsi con la fusione di tutti i principati in un Regno Sacerdotale ammesso anche da Platone; e nota che riusciva esaltato il Re Filippo, posto da Dio per soggiogare tutte le genti e i Regni, onde il senso della repubblica predetta «era utile al Re prima che al Papa». Aggiunge non poter essere condannato nemmeno quando le mutazioni predette non si avverassero, poichè egli seguiva i Padri e i Santi, che pure errarono; egli non era Profeta ma seguiva i Profeti, e d'altronde nota che chi scorge i segni è tenuto a mostrarli, citando in ciò l'esempio di Geremia e il precetto di S. Pietro. Prevede intanto un argomento del Fisco, l'avere cioè lui detto che bisognava «fare la repubblica con l'eloquenza e con le armi ne' monti»: e risponde che spettava a' Domenicani il prepararla, e lo dimostra con molte autorità, aggiungendo che pure a' filosofi spetta trattare della repubblica, ed egli, filosofo cristiano, come S. Tommaso, Egidio ed altri, ne trattò scrivendo il libro della Monarchia universale dei Cristiani che trovavasi presso il Card.l S. Giorgio, ed in Stilo scriveva un libro sulla maniera di formare quella Monarchia secondochè avea promesso nel libro anteriore; donde bellamente provavasi «che egli non avea voluto preparare la repubblica per sè stesso, ma preparare pel Papa e pel Re un seminario di uomini grandi nelle lettere e nelle armi, acciò potessero essere inviati dal Re e dal Papa pe' negozii di pace e di guerra, e mostrare il preludio della repubblica grande universale» etc. Prevede ancora un'obiezione, cioè, chi gli avea data una missione simile? E risponde che avea «avuto nell'animo un istinto divino appoggiato da segni e da profezie», che Dio gli avea dato de' segni, ed egli avea considerato a proposito servirsi del cattivo evento in bene, e così «ciò che disse non fu un tentativo di ribellione ma una cautela contro il male imminente, perocchè non avrebbe fatta la republica se non si fosse avverata la mutazione; secondochè provasi dalla confessione sua»; e come i Veneti non furono ribelli, quando per mettersi al sicuro da' barbari occuparono gli scogli e il mare Adriatico e fecero la repubblica, così essi pure non lo sarebbero stati nell'occupare i monti se la mutazione si fosse avverata.

Continuando, passa a ribattere le testimonianze raccolte contro di lui. I testimoni aveano deposto «che egli voleva ribellarsi appoggiato agli aiuti de' turchi, de' banditi e de' predicatori»: ma non lo convincevano intorno a ciò, sia perchè egli non poteva ambire l'impossibile ed era amico degli spagnuoli, come avea già provato, sia perchè que' testimoni o parlavano per detto altrui, o erano complici ed uomini scelleratissimi, ed anche aveano fatte confessioni estorte per forza e per inimicizie. Tutti aveano detto che egli metteva innanzi le mutazioni, laonde non vi era intenzione di ribellarsi[Pg 104] ma di difendersi da' nemici del Re e del Papa; quanto essi aveano aggiunto proveniva o da cattiva intelligenza, o da inimicizia, o da malvagità, e nelle cose aggiunte a lui sfavorevoli erano «varii», e nella cosa principale a lui favorevole, cioè la profezia, erano uniformi, onde risultavano a discarico più che a carico. D'altronde la profezia di una mutazione è sempre apparsa così vicina alla ribellione medesima, che tutti i Profeti, come Michea, Geremia, Amos e del pari gli Apostoli e Cristo Signor nostro, furono incolpati di tale delitto; qual meraviglia che lo sia stato lui poveretto? Ma egli non si appoggiò mai all'aiuto de' turchi; nessuno lo disse se non per detto altrui, e lo stesso Maurizio che parlò co' turchi non disse che vi era stato mandato da fra Tommaso, ma che vi era andato spontaneamente; e ciò quantunque gli fosse nemico. Gli era nemico, perchè dubitò che esso fra Tommaso, il quale lo rimproverò pel salvacondotto stabilito co' turchi, lo rivelasse; inoltre perchè esso fra Tommaso, mediante una domestica, avvertì Giulio Contestabile che Maurizio si era nascosto nella piazza di Stilo per ucciderlo, e questo non succedendogli, nello stesso giorno Maurizio si portò a S. Maria di Titi per uccidere fra Tommaso e lo perseguitò per 7 miglia. E però Maurizio risultava degno di fede quando negava di essere stato mandato presso i turchi da lui, non già quando deponeva contro di lui per inimicizia; poichè era testimone unico, nemico, e facinoroso, che aveva ucciso più persone e volle vendicarsi di ciò che esso fra Tommaso avea deposto in iscritto contro di lui in Castelvetere, come rilevavasi dal processo. Allorchè esso fra Tommaso lasciò Davoli e Maurizio, trovandosi insieme con fra Domenico, veduti in mare i turchi li sfuggì, malgrado avesse visto il salvacondotto dato da essi a Maurizio; e però non avea confidenza ne' turchi, sebbene avesse detto doversi essi dividere sotto due Re secondo la profezia di Arquato astrologo, ed uno di costoro dover venire alla fede ed alla repubblica; ma Maurizio faceva queste cose perchè fosse temuto ed avesse danaro dagli amici, servendosi male de' detti di esso fra Tommaso, al pari degli scellerati ed eretici i quali abusano anche dei detti degli Apostoli. E poi Maurizio ridotto agli estremi ebbe speranza di salvarsi, deponendogli contro; giacchè glie lo persuase un certo fiscale in abito di confratello, promettendogli la vita sotto la parola Regia, come in sèguito udì dalla bocca di lui esso fra Tommaso, e vi erano per testimoni sacerdoti e persone dabbene che l'affermavano. «Nè esso fra Tommaso volle servirsi de' banditi come nemici del Re, ma come uomini armati, volgendoli al bene: perocchè propose di servirsi anche di uomini probi non banditi, come rilevasi dal processo. A' Principi amici poi egli dichiara non aver rivelato nulla, non perchè fosse cosa cattiva, ma perchè agli uomini felici ogni presagio di mutazione rincresce». Quanto a Claudio Crispo, costui rivelò per orribili tormenti non scritti in processo; ed era bandito, omicida e nemico di esso fra Tommaso, il quale[Pg 105] non avea voluto trattarne il matrimonio ed avea detto al Pizzoni che avvertisse il Signore del luogo che Claudio voleva ammazzarlo, onde si rifiutò di recarsi a Davoli quando egli ve lo chiamò per mezzo del Petrolo; adunque non meritava fede. Quanto al Caccia, al pari del Pisano, era stato esaminato in foro non ecclesiastico, ed era bandito ed omicida, nemico egualmente di esso fra Tommaso, il quale ricettò nella sua cella Marcantonio Contestabile quando egli voleva ucciderlo per averne avuto un colpo di archibugio; ed avea detto di aver parlato con fra Tommaso nel giugno, mentre aveagli parlato nella settimana santa, e poi sul punto di morte si era ritrattato. Quanto al Pisano e a Gio. Battista Vitale, oltrechè erano scelleratissimi, non aveano mai parlato con fra Tommaso; e nel carcere di Castelvetere non si parlò di quello che disse il Pisano, come lo provavano la sconvenienza della cosa e le testimonianze del Bitonto e di fra Dionisio; il Vitale poi sul punto di morte si era ritrattato. Quanto al Pizzoni, esso era scandaloso, scellerato ed infame (e qui nota ad una ad una tutte le colpe di lui minutissimamente ed anche ingenerosamente, con un odio manifesto); avea promesso di ritrattarsi nelle cartoline scritte entro il Breviario, e si era una volta ritrattato, e poi era tornato alle prime dichiarazioni, onde dovea dirsi bilingue, detestato da Dio nell'ecclesiastico, e qual fede potea fare? Il Lauriana era falsario, come lo provavano le sue lettere mandate a fra Dionisio ed a' fratelli Ponzii, e varie altre circostanze rilevate nel processo; era infame, come lo provava la sua vita anteriore; ed esso fra Tommaso nella sua confessione non lo nominò, poichè essendo infame non aveagli mai parlato, ed anzi si rifiutò di farlo accogliere nel convento di Stilo, onde gli divenne nemico. Fra Domenico Petrolo poi nemmeno meritava fede, perchè si lasciò persuadere dal Lauriana mentre era nella medesima fossa, nella quale scrisse esservi stato posto perchè dicesse il falso; inoltre in Lombardia aveva avuto penitenze come manesco.

Dopo di aver combattuto i testimoni, il Campanella combatte i primi giudici, accenna all'imputazione di eresia, discute le quistioni di dritto, e formola la sua conclusione. Fra Marco di Marcianise era vecchio nemico di fra Dionisio per le controversie de' frati Riformati. Fra Cornelio lombardo era egualmente nemico di fra Dionisio per molte cause fratesche, e poi avea preso danaro; 100 ducati da Mesuraca per fare un processo capitale, 50 ducati da' parenti di Cesare Pisano per favorirlo, 100 ducati da fra Vincenzo Rodino e fra Alessandro di S. Giorgio per liberarli dalla carcere. Lo Sciarava, giudice nell'altro foro, era stato giudice e parte, avea magnificata la causa della ribellione per magnificare sè medesimo presso il Re, trovavasi da due anni scomunicato dal Vescovo di Mileto patrono di esso fra Tommaso; avea preteso la ribellione essere fomentata da Prelati e da Principi, ed aveva amministrati tali e tanti tormenti da far dire ad ognuno più di quanto sapesse, mentre anche[Pg 106] i calabresi, per natura loro, credono di esonerarsi col dire più di quanto sanno non solo contro i nemici ma anche contro gli amici. E poi soggiunge: «Non deve pregiudicare ciò che falsi testimoni affermano, l'aver lui voluto fondare eresia, poichè questo deve discutersi non già ritenersi in anticipazione, nè egli ne fu mai confesso o convinto, benchè ne sia stato veementemente sospetto; e la sospizione si è verificata anche in persona di Profeti e di Santi, che trovansi condannati come eretici e seduttori. Nè in Calabria è possibile fondare eresia senza le forze de' Principi, siccome egli disputò nel libro della Monarchia, e se avesse avuta questa intenzione sarebbe andato in Germania o a Costantinopoli. Così mostransi riprensibili le parole sue mal comprese, non già la sua vita e i suoi costumi, circa i quali egli chiede di essere inquisito benchè si trovi diffamato. E i suoi travagli passati non lo rendono cattivo, ma forse piuttosto timido, giacchè la cattiva azione fa l'uomo cattivo.... Oramai si è fatto palese che i pensieri di fra Tommaso erano rivolti all'unione de' Cristiani». Soggiunge ancora: le pruove testimoniali dicono tutto al più aver lui voluto ribellare solamente di seconda intenzione, cioè nel caso in cui fossero avvenute mutazioni. Ma bisogna distinguere il reato commesso e il reato semplicemente voluto, e quello contro la persona del Re e quello contro il Regno. Chi l'abbia commesso merita la morte e non può darglisi di più; chi l'abbia solamente voluto merita qualche cosa di meno; chi l'abbia voluto di seconda intenzione merita anche meno di chi l'abbia voluto di prima intenzione; e chi non è suddito merita meno del suddito, e il frate meno del clerico secolare, poichè la Religione Domenicana dipende immediatamente dal Papa; chi poi dice bene del Re merita anche meno. Inoltre non ci fu mai un concerto, ma ci furono colloquii accidentali. Così nella casa di Gio. Jacopo Sabinis esso fra Tommaso andò a far la pace tra' Contestabili e Carnevali; erano presenti Maurizio e Gio. Gregorio Prestinace suo compare venuti per la pacificazione, e cadde il discorso sulle mutazioni, ma nessuno intervenne per la ribellione, che nessuno di loro avea mai ideata. A Pizzoni esso fra Tommaso andò sollecitato tre volte da fra Gio. Battista, e comunque vi fossero altre persone, il colloquio si tenne solamente tra lui, fra Gio. Battista e Claudio Crispo: non erano presenti fra Dionisio e gli altri, e però non ci fu concerto; esso fra Tommaso parlò al Crispo dietro istanza di fra Gio. Battista per trattenerlo nella difesa di lui, non già per la ribellione, e andò pure a vedere una fabbrica di carta, ed aveva compagni perchè la strada non era sicura. A Davoli neanche vi fu concerto, poichè il Rania e Maurizio non furono presenti al colloquio che esso fra Tommaso ebbe con Gio. Paolo di Cordova e Gio. Tommaso di Franza, «onde riesce chiaro non esservi stato da parte di fra Tommaso fermo consiglio, se fatalmente le mutazioni non avessero fornita l'occasione». Egli non merita pena, avendo solo razionalmente dubitato [Pg 107] pe' segni o per le profezie; nè è responsabile dell'essere molti morti per questa causa, poichè tutti erano omicidi, e Dio permise che morissero per avere abusato de' detti di fra Tommaso e per gli altri loro peccati. Anche le predicazioni degli Apostoli e de' Profeti eccitarono molti rumori, ma la predicazione di fra Tommaso fu a vantaggio della repubblica sì del Re che del Papa. I socii di Catilina convinti e confessi di congiura per mettere a fuoco la patria e distruggere il Senato, avendo giurato col bere sangue misto con vino, perchè non giunsero a consumare la loro scelleraggine, trovarono una parte di Senatori che con Cesare disse non doversi dare loro la morte: e non troverà misericordia presso cristiani fra Tommaso, che non commise scelleraggine, non si ricinse di armi, non mosse a sedizione,... nè è suddito, nè Principe o potente da cui possa temersi qualche cosa? I Dottori dicono, che è in facoltà del giudice consegnare o no un clerico alla Curia secolare, vista la condizione della persona: la condizione deve intendersi relativamente all'atto in quistione non già relativamente ad ogni altra cosa, e qui c'è difetto di condizione spettante alla sostanza dell'atto, poichè essendo fra Tommaso inabile a ribellare e per natura, e per fortuna, e per professione, non deve credersi che abbia cercato di ribellare, anche quando fosse un cattivo soggetto. Oltracciò il Papa nel suo Breve dice che si consegnino alla Curia secolare coloro i quali sono legittimamente convinti, e fra Tommaso non è convinto, sia perchè manca il corpo del delitto, sia perchè i testimoni sono complici, nemici e scellerati, ed anche varii intorno alla cosa, al modo, al luogo e al tempo. E la convinzione deve intendersi nel senso del reato commesso, non già soltanto voluto, e se la convinzione manca, la condanna deve pronunziarsi secondo il dritto canonico, non secondo il dritto civile: nè la ragione politica lo consiglia, poichè è odioso lo spargere il sangue di un sacerdote, massime pel motivo di profezia; e il popolo lo loderebbe quando avvenisse qualche sciagura. Tutti i testimoni ne' tormenti negano di essersi accordati con fra Tommaso intorno alla repubblica; adunque fra Tommaso fu solo a volerla, ciò che è impossibile, e così essi lo assolvono, e «mostrano fra Tommaso aver detto questo nella sua confessione pel minor male, sotto l'impressione del tormento, macerato dal carcere, dalla fossa e dall'inedia».

Ed ecco la conclusione: «Meglio è che sia messo in custodia fino al tempo della predizione sua, sì che il popolo ne vegga la falsità, ovvero si penta acciò non accadano i mali quando siano veri; come avvisava Geremia... Che se avvenga danno al Regno, egli si offre di risarcirlo al doppio; poichè della morte sua il Regno non rimane edificato ma scandalizzato, laddove si verifichi qualche sciagura, come apparisce dalla perdita delle navi sofferta [129]. [Pg 108] La morte è una cautela di mali futuri, non già de' passati: a ciò meglio provvede il carcere in materia di predizioni e novità». E ripigliando le sue considerazioni sul processo aggiunge di non dover morire, perchè non è ribelle nè di 1a nè di 2a intenzione, perchè non è convinto, perchè seguendo il fato predisse e desiderò preparare un bene da un male; e le inimicizie, tra tutti quelli che volevano ciò, mostrano non esservi stato tra loro alcun proposito di ribellare, poichè la cospirazione esige l'unione degli animi e molta confidenza, e tra loro non ve ne fu; vi fu abuso delle predizioni da parte di taluno. La ribellione non venne dimostrata con qualche atto, ma solo concepita nell'intenzione; null'altro il fisco può provare dal processo, ma non si può provarlo nemmeno dalle parole di fra Tommaso agli altri, poichè egli poteva altro dire ed altro intendere; ma dalle parole sue nel tormento non si prova l'intenzione di ribellare, bensì il contrario, e però contro di lui non c'è nulla. Finisce chiedendo i suoi libri e la facoltà di essere esaminato, e dimostrando che non si deve seguire il Palermitano, il quale dice che nel caso di delitto di ribellione il clerico ha da essere consegnato alla Curia secolare, poichè le teoriche di costui non sono soltanto erronee ma perfino eretiche[130].

La «2a Delineatio» è rappresentata dagli Articoli profetali. Sono 15 articoli ne' quali il Campanella mostra la necessità di occuparsi de' segni e delle profezie, espone e giustifica quanto avea raccolto in tale materia, ed infine ricorda anche i segni speciali visti in Calabria, onde era stato condotto a determinare l'inizio delle imminenti mutazioni nel 1600 e nel primo settenario del nuovo secolo. Andremmo troppo in lungo nel volerne dar conto; e trattandosi di cose le quali riescono a chiarire il punto di partenza della sua azione, ma non propriamente la sua azione ne' fatti della congiura, crediamo bene potercene dispensare. Egli li scrisse in aggiunta alla sua 1a Difesa, per dimostrare «che non si era infinto allo scopo di covrire un male», come appunto ivi dichiarò; non rappresentavano quindi propriamente una difesa, ma un allegato della difesa, e questo si rileva anche dalla loro intestazione. Il Campanella si proponeva di svolgerli innanzi a' Giudici coll'aiuto del libro sulla Monarchia de' Cristiani e del libro sul Regime della Chiesa, l'uno in potere del Card.l S. Giorgio, l'altro lasciato in Stilo; e chiedeva questi libri, e si protestava della nullità degli atti se i libri non fossero dati, come si legge appunto nella fine degli articoli.

Dobbiamo ora fare qualche commento su queste Difese, e segnatamente sulla 1a di esse. Lasciando da parte la forma, notiamo che varii tentennamenti appariscono ne' concetti medesimi esposti [Pg 109] dal Campanella, ed in ultima analisi non è assolutamente negato il fatto di un disegno partecipato con sollecitazioni a diversi aderenti, banditi e non banditi, di un concerto per far la repubblica nei monti, avvalendosi di mutazioni in vista ed aiutandosi con le armi e le prediche; ma questo fatto è semplicemente attenuato e fornito di spiegazioni, il cui valore doveva senza dubbio riuscire quistionabile assai nella mente de' Giudici. D'altronde non si vede efficacemente combattuto il cumulo di testimonianze raccolte contro di lui, ma anch'esso appena attenuato e fornito di spiegazioni non sempre felici; sicchè non è pienamente negata la reità, ma solo rimpiccolita al punto da respingere per essa la pena di morte ed ammettere la pena del carcere indefinito. Mentre si propone di sostenere che non abbia cospirato, comincia col dimostrare che «non fu mosso a cospirare nè dall'ambizione nè dalla malevolenza, ma guidato dalla profezia»; intende di provare non esservi stato concerto, e frattanto parla di «coloro i quali aderirono a lui con retta intenzione», e spiega che «volle servirsi de' banditi non come nemici del Re, ma come uomini armati convertendoli al bene, e propose di servirsi anche di uomini probi non banditi»; ed è superfluo insistere sul buio fitto della natura delle mutazioni, della condizione della repubblica da fondarsi, del Regno sacerdotale unico «utile al Re prima che al Papa», dell'essersi mosso a preparare la repubblica «per istinto divino e perchè spettava a' Domenicani il prepararla», e parimente degli scopi singolari affibbiati a tale repubblica. Non riesce poi certamente a combattere i testimoni dicendoli «complici e scelleratissimi», giacchè l'esistenza del reato veniva con ciò tristamente ribadita, e per la giurisprudenza del tempo nel reato di Maestà anche i complici valevano a convincere; nè riesce esatto dicendo che «tutti ne' tormenti aveano negato di essersi accordati con fra Tommaso intorno alla repubblica» e però fra Tommaso sarebbe stato il solo a volerla, mentre invece taluni erano risultati confessi di avervi direttamente o indirettamente aderito. E guardando alle obiezioni avverso ciascun testimone, debolissime riescono p. es. quelle fatte al Petrolo, e quanto al Pizzoni, niente di serio prova l'enumerazione delle sue scelleraggini ed infamie passate, le quali non aveano mai impedito che fosse corsa tra lui e il Campanella una grande intimità; nè prova molto la ritrattazione da lui fatta ma non mantenuta, e l'essere stato bilingue prova tutt'al più che gli avea mancato di fede, denunziandolo in un reato nel quale erano complici, ma non che il reato era stato da lui inventato. Quanto al Caccìa ed al Crispo, non riescono facilmente ammissibili le spiegazioni date per mostrare la loro inimicizia verso di lui, mentre egli si era mantenuto in istretta relazione con loro, e massime con l'ultimo avea tenuto una corrispondenza scritta, assai compromettente e caduta nelle mani del fisco; quanto al Pisano ed al Vitale, è vero che costoro non aveano mai parlato con lui, ma aveano pur troppo parlato co' due suoi più attivi compagni, fra Dionisio[Pg 110] e Maurizio, l'uno lasciato dal Campanella assolutamente nell'ombra, l'altro posto sotto una luce orribile; d'altronde, circa le ritrattazioni avvenute per taluni di costoro in punto di morte, esse a quel tempo nemmeno godevano molto credito, sapendosi che erano troppo spesso dovute alle istanze de' superstiti, e alla credenza che fosse opera cristiana e meritoria l'aiutarli. Quanto a Maurizio, l'inimicizia di costui non riesce concepibile, mentre in tanti tormenti sofferti non aveva mai nominato il Campanella, e le storie postume di tale inimicizia, come il movente delle ultime rivelazioni da lui fatte, appariscono asserzioni inventate pe' bisogni della causa: sul fatto medesimo dell'avere Maurizio deposto che il Campanella non avea voluto il soccorso de' turchi, fatto ripetuto costantemente dal Campanella, c'era un po' di equivoco, giacchè Maurizio avea con lealtà deposto di essere spontaneamente andato presso i turchi, non già che il Campanella fosse propriamente contrario alla dimanda di questo soccorso, mentre invece egli appunto ne avea fatto sorgere il pensiero. Ma del resto lasciando anche da parte tutte le testimonianze di questi «complici e scelleratissimi», c'era la testimonianza dello stesso Campanella, la Dichiarazione scritta in Castelvetere, suggellata dalla confessione orale in tortura; e il Campanella nella sua Difesa accenna appena a questa confessione, la quale era sempre della più alta importanza, giacchè, pur quando avesse potuto dimostrare di non essere stato convinto, gli rimaneva ancora a dimostrare di non essere stato confesso; egli si limita a dire, col solito tentennamento, una volta che «dalla sua confessione si provava solo che non avrebbe fatta la repubblica se non quando fosse avvenuta mutazione», ed un'altra volta che «dalle sue parole nel tormento non si provava l'intenzione di ribellare, bensì il contrario», laonde questo lato importantissimo della difesa apparisce deficiente. Infine torna anche inutile per lui ricordare che i primi Giudici erano nemici e venali, quando le imputazioni risultavano confermate innanzi a' successivi; inutile far notare che lo Sciarava si era servito di tormenti gravissimi, quando la giurisprudenza concedeva di potersene servire nel caso di lesa Maestà; inutile distinguere il reato commesso e il reato semplicemente voluto quando la giurisprudenza nel caso di lesa Maestà assegnava la pena medesima all'uno ed all'altro; inutile discutere le condizioni in cui si poteva consegnare il Clerico alla Curia secolare, quando il Breve Papale aveva conceduto che le si consegnassero quelli «legittimamente convinti o confessi». In conclusione le Difese del Campanella non avrebbero potuto distruggere l'imputazione fattagli, perchè la sua causa disgraziatamente era insostenibile con efficacia. Gli Articoli profetali da lui scritti, senza contare quello serbato in petto concernente la Monarchia a lui profetizzata dall'astrologo, valevano bene a dimostrare che egli penetrato di certi principii superiori aveva agito in conseguenza di essi: ma non era stata per anco fatta a que' tempi la grandiosa scoperta della forza irresistibile, e l'opera[Pg 111] sua, comunque ricinta di certe condizioni, non era e non poteva essere che una congiura, un disegno di ribellione, e i Giudici non avrebbero potuto profferire altra sentenza che quella di consegna alla Curia secolare. Egli medesimo si contentava allora di ciò che lo rese scontento in sèguito, quando il caso glie lo fece ottenere, di esser messo in custodia fino all'avveramento della predizione sua; e si sa che il tempo ne era definito sino ad un certo punto, lasciando un margine più che largo, come rilevasi chiaramente dalla stessa edizione posteriore de' suoi Articoli profetali. Dopo tutto ciò può ognuno formarsi un criterio intorno alla colpabilità del Campanella nel delitto appostogli; a noi essa apparisce manifesta.

Ci rimane a parlare dell'Appendice o Lettera «ad amicum pro Apologia», scritta, come abbiamo veduto, subito dopo le Difese. Quale oggi la possediamo, essa trovasi in coda a ciascuna delle tre copie ms. degli Articuli prophetales, ultima ricomposizione, che si conservano in Roma nella Casanatense, in Napoli ed anche in Madrid nelle rispettive biblioteche nazionali. Il Berti fu il primo a scovrirla nella Casanatense, e nel 1878 ne diè un sunto molto preciso, giudicandola documento valevolissimo a smentire l'esistenza della congiura. Noi la diamo per esteso, nella lezione della Casanatense e in quella di Napoli, giacchè ognuna di esse è molto scorretta e può l'una correggersi con l'altra, raccomandando a' lettori di percorrerla nella sua integrità: essi la giudicheranno probabilmente, come noi la giudichiamo, un documento apologetico, al pari delle lettere del 1606-1607 e della Narrazione che il Campanella scrisse tanto più tardi, per giustificarsi alla meglio e in tutti i modi, i quali d'altronde non escono dall'ordine de' modi da lui adottati e ripetuti sempre; nè sfuggirà certamente la concordanza de' concetti in essa svolti con quelli svolti nella Difesa. Diciamo d'un tratto che la Lettera apparisce scritta ad un compagno di carcere similmente frate, con ogni probabilità a fra Dionisio, durante la causa della congiura, dietro il risentimento di costui perchè le mutazioni previste non erano succedute o erano succedute a rovescio, ed anche perchè avea confessato di voler predicare la repubblica. Ma eccone una rassegna particolareggiata. Il Campanella vi ricorda aver detto che dall'anno 1600 in poi sarebbero succedute grandi novità, ed afferma che sul negozio di Calabria l'amico dovea sdegnarsi non già contro di lui ma contro sè stesso, che avea parlato di ciò che meno comprendeva. Che egli vide una cometa marziale la quale correva dall'oriente all'occidente, ed argomentò che sarebbe venuta gente estranea contro i Reggitori della Provincia, ma non potè vedere che razza di gente si fosse, e vennero i Capitani Regii e desolarono il paese (infatti venne Carlo Spinelli avverso a De Roxas Preside della Provincia, ma di questo pronostico sbagliato da cima a fondo avrebbero potuto forse rimanere capacitati i Giudici, non mai l'amico suo). Ed estendendosi ne' prodigi apparsi «che poteano muovere ogni savio a parlare», dice che nelle sue predizioni[Pg 112] non tocca questo Regno più che lo stesso mondo, di cui preconizza la fine (veramente nella Dichiarazione avea ammesso di aver predetto le mutazioni pel Regno di Napoli), ed annunzia la fine del mondo e la Santa repubblica aspettata da' profeti, da' filosofi e dalle genti; e dice che l'amico non può far difese se egli non parli ai Giudici, la qual cosa non si permette (ma pure fino ad un certo punto ne aveva parlato a' Giudici ed anche dettato uno scritto per uso del Sances). Predice all'amico che la congiunzione magna gli sarà fatale e non potrà sfuggire agli spagnuoli, che gli sovrasta la morte ne' 38 anni di età, come a sè stesso sovrasta ne' 43, e quindi gli raccomanda di trovar mezzi perchè la causa sia finita prima di tre anni (donde si dovrebbe inferire che la lettera fosse stata scritta dopo la sospensiva prodottasi nella spedizione della causa, vale a dire dopo il 12 aprile, ma bisogna sempre tener presente che si ha sott'occhio un esemplare della lettera rifatta). Passa a giustificarsi dell'aver confessato di voler predicare la desiderata repubblica, se fatalmente fosse avvenuta la rovina del Regno e della Provincia, raccogliendone i residui su' monti: io, egli dice, non ho confessato eresia nè ribellione, ma di aver voluto profittare di un male volgendolo in bene; così non furono i Veneti ribelli all'Impero, quando percossa Aquileia da Attila ripararono nelle lagune e costituirono una nuova repubblica libera dall'Impero. E poi dice che spettava a' Domenicani predicare tale repubblica, e lo dimostra co' testi ecclesiastici, con S. Vincenzo Ferrer, S.ta Caterina, l'Apocalisse, e cita fra Rusticano, Savonarola, M.o Catarino, il B.to Raimondo etc., e nota che quelli i quali tengono la fede per ragion di Stato giudicano che essi pure abbiano parlato per acquistare uno Stato, ma chi crede per ragione Divina li difende con Davide e S. Paolo. Aggiunge che egli è umiliato troppo, che tutti sono umiliati e flagellati troppo, che egli meritava un premio, che quelli che non credono nelle sue predizioni se ne avvedranno, e qui cita S. Pietro, Isaia etc. concludendo che le profezie si adempiranno, e raccomandando a tutti di agire virilmente e sollevare il loro cuore.—Che questa lettera si debba ritenere diretta a fra Dionisio, come il Berti ottimamente afferma sebbene non ne dica le ragioni, apparisce dal vederla scritta ad uno che si era sdegnato coll'autore, che avea già prima parlato a sproposito, che era in pericolo di non potere sfuggire agli spagnuoli, circostanze tutte riferibili appunto a fra Dionisio. Vi sarebbe solo da obiettare che avendogli il Campanella predetta la morte a 38 anni, nel tempo della congiunzione magna, vale a dire nel 24 10bre 1603 come ci lasciò scritto anche nelle Poesie, fra Dionisio avrebbe dovuto nel 1600 avere 35 anni di età; e sebbene ci facciano difetto le notizie intorno a ciò, mancandone sempre tutti i costituti suoi, l'età di 35 anni nel 1600 non può dirsi probabile per lui, tanto più che conosciamo avere allora il germano fra Pietro l'età di 31 anno, e l'altro germano [Pg 113] Ferrante 29[131]; tuttavia fra le moltissime scorrezioni di entrambi i manoscritti questa potrebbe esser una, e invece di 38 dovrebbe forse leggersi 35. Ma ciò che non persuade si è, che in una lettera confidenziale occorresse esporre tutte quelle giustificazioni estranee a' rimproveri che erano stati mossi, e ripetere tutte quelle profezie e citazioni che fra Dionisio e gli altri compagni aveano dovuto udire già troppe volte, come lo mostrano le deposizioni fatte da alcuni di loro in Calabria. Bisogna quindi dire che in ultima analisi, come gli Articoli profetali delle biblioteche sono certamente un'edizione posteriore rifatta ed ampliata degli Articoli scritti al tempo de' processi, così la lettera che sta in appendice a quelli Articoli dev'essere un'edizione rifatta ed ampliata della lettera scritta dapprima, e quindi un'edizione adattata alle circostanze dell'autore a' tempi ne' quali essa venne rifatta. Vedremo che gli Articoli profetali vennero rifatti nel 1607, con la speranza che sarebbero stati presentati ad alti personaggi, de' quali il Campanella sollecitava l'aiuto; e così l'Appendice avrebbe servito presso costoro, ripetendo gli argomenti che si trovano addotti nella «1a Delineatio defensionum» e poi nelle lettere del 1606-1607, svolti di nuovo in sèguito nella Narrazione; laonde bene a ragione dicevamo trattarsi di un documento apologetico non dissimile da tutti gli altri che si conoscono, e da doversi apprezzare co' criterii medesimi co' quali i detti documenti vanno apprezzati.

Nulla abbiamo poi a dire circa la ricomposizione del libro della Monarchia di Spagna; ci basterà solo far avvertire che essa venne eseguita realmente nel corso del processo dell'eresia, essendo rimasta sospesa la spedizione della causa della congiura, e continuando il Campanella a dimostrarsi pazzo.

Ma non c'ingolferemo nel racconto del lungo processo dell'eresia, senza parlare de' premii che da un pezzo i denunzianti e i persecutori della congiura dimandavano, il Vicerè sollecitava, e il Governo di Madrid venne accordando mano mano e senza alcuna fretta. «Non era negotio questo da passar irremunerato; furono riconosciuti non solo dal Conte, ma anche da S. M. in molte maniere»: così scrisse il Capaccio vissuto a que' tempi, discorrendo di Fabio di Lauro e Gio. Battista Biblia[132]. Disgraziatamente i Registri Mercedum rimastici nell'Archivio di Stato, ne' quali insieme con le ricompense si sogliono trovare specificati i servigi, cominciano solo dall'anno 1606; ma altre categorie di scritture forniscono anche notizie di concessioni fatte a questi due sciagurati, ricordando il loro servigio speciale della scoperta della congiura. Per Fabio di Lauro, ne' Registri Sigillorum in data di aprile 1600, troviamo [Pg 114] una grazia fatta a sei individui che avevano assassinato fra Maurizio Barracco, altra nostra conoscenza, sicuramente dietro la sua intercessione o «nominatione» come allora si diceva, «stante lo servitio fatto in scoprire la congiura tentata in Calabria, in deservitio de Dio et de sua M.» etc.[133]: ma troviamo pure in data del 3 gennaio 1602 e 3 aprile 1604 una licenza d'arme per lui con altri tre compagni, la qual cosa potrebbe indicare che era obbligato a guardarsi da qualche vendetta[134]. Per Gio. Battista Biblia poi, abbiamo veduto essergli stato ucciso il fratello Marco Antonio fin dal novembre o dicembre 1599: questo Marco Antonio, dapprima sostituto credenziere, era stato in sèguito nominato percettore della gabella della seta di Catanzaro, con privilegi notati per le esecutorie fin dall'ultimo di febbraio e 12 maggio 1595; ed ecco Gio. Battista Biblia succedergli in questo ufficio con privilegio notato per l'esecutoria il 16 dicembre 1600, ma naturalmente concesso alcuni mesi prima[135]. Oltracciò i Registri Privilegiorum ce lo mostrano con la data del 12 giugno 1602 insignito del titolo e grado di nobiltà, trasmissibili a' suoi discendenti: e in siffatta occasione troviamo menzionato «il singolare servizio» di avere partecipato al Sovrano «la congiura e perfidia di taluni della stessa città di Catanzaro»[136]. È del tutto verosimile che la medesima onorificenza, con qualche altra lauta carica, abbia avuta egualmente Fabio di Lauro, e lo confermerebbe il fatto, che alcuni anni dopo il Campanella, nelle sue lettere del 1606, parlò de' «revelanti falsi fatti cavalieri»; ma non ci è riuscito trovarne i documenti. Lo stesso ci è avvenuto per Gio. Geronimo Morano, pel quale le ricompense doverono essere certamente più laute: possiamo soltanto dire che egli non si mosse da Catanzaro e continuò a spadroneggiarvi, ma vi fu gravemente avversato dagli Spina. È certo poi che da Madrid, allorchè si trattava di pure lettere di complimenti, queste non si facevano troppo attendere, ma allorchè si trattava di ricompense sode, queste venivano con comodo e dopo maturi consigli. [Pg 115] E p. es. il Principe della Roccella non tardò ad avere, in data de' 27 aprile 1600, una lettera del Re, pubblicata dall'Adimari nella Storia della famiglia Carafa e ripubblicata dal Baldacchini, con la quale Filippo III diceva che avrebbe nelle occasioni tenuto presente l'avviso avuto dal Vicerè «de la promptitud con que acudistes à la defensa de las cosas de Calabria, en la ocasion dela venida dela Armada Turquesca el año passado, y el cuydado con que os empleastes en atajar la coniuracion que algunos tratavan en aquella Provincia». Ma, utilitario qual era, il Principe si fece anche cedere dal Conte di Condeianni D. Gio. Battista Marullo le difese di Bianco e Condeianni involte in una grossa vertenza col Fisco, e iniziò una favorevole transazione su questo capo, inoltre chiese un comando di gente d'arme (titolo di alto onore, con buon soldo, senza obbligo di servizio); scorse allora molto tempo, ma infine ottenne, oltre la transazione desiderata, un posto di Consigliere del Collaterale, con la promessa che dandosi l'occasione sarebbe stato tenuto presente pel posto di Capitano di gente d'arme[137]. Quanto a Carlo Spinelli, fatta una dimanda formale, con l'esposizione di tutti i suoi meriti, e tra gli altri quello della diligenza e premura usata «en acquietar y guardar la provincia de Calabria dela armada del Turco y alboroto que alli occurrìo el año passado», onde sollecitava o la proprietà del comando della cavalleria che teneva interinalmente, o l'aumento della pensione di. D.ti 400 che godeva, sempre con la facoltà della trasmissione a vita a un suo nipote, dovè attendere che il Vicerè e il Consiglio Collaterale dessero il loro parere sulla dimanda. I lettori troveranno ne' Documenti da noi raccolti la lettera Regia con la quale veniva ordinato l'invio di tale parere[138]; ed aggiungiamo che non prima del 4 settembre 1601 fu accordato allo Spinelli il posto di Capitano della cavalleria pesante, «avendo per aggiunto con futura successione D. Scipione Sanseverino Marchese di S. Donato suo pronipote da sorella» che egli nominò[139]; così questo giovane cavaliere, Marchese dal 1598 e subito promosso Duca il 20 settembre 1602, favorito dallo zio Spinelli e dal padrigno Reggente Costanzo, divenne sempreppiù scapestrato e prepotente, nè a caso parliamo di lui, dovendo incontrare anche la sua sorella nel corso di questa narrazione. Maggior tempo ancora dovè attendere [Pg 116] D. Carlo Ruffo, per vedere accolte le dimande fatte: abbiamo intorno a lui solamente il Privilegio col quale gli si concede la dignità e il grado di Duca di Bagnara, con la circostanza dell'averlo dimandato; esso è in data del 19 gennaio 1603[140]. Come si vede, D. Carlo saltò da Barone a Duca, pe' meriti suoi, di tutta la sua famiglia e de' maggiori, secondo l'espressione del Privilegio; e il Campanella fu pur troppo la causa principale di tante grandezze.

Naturalmente non venne dimenticato lo Xarava e neanche fra Cornelio. Documenti rinvenuti nell'Archivio di Napoli ci mostrano che il Conte di Lemos propose immediatamente lo Xarava al posto di Consigliere del Sacro Regio Consiglio di Capuana, non appena vi fu una vacanza per la morte di D. Alonso Ximenes; ma in Madrid si affacciarono dubbî sulla sua capacità, integrità e prudenza, il Re volle esserne bene informato, e per quella volta fu nominato Consigliere il Ruiz de Baldevieto, del quale accadrà pure di dover parlare in sèguito[141]. Nel frattempo vacò un altro posto di Consigliere per la morte di D. Francisco Bermudez de Castro, e l'ebbe l'Avvocato De Leonardis, stato già promosso a Fiscale della Vicaria; ne vacò poi un terzo pel passaggio di D. Pietro De Vera a Presidente, ed allora lo Xarava, recatosi personalmente a Madrid, potè essere nominato Consigliere, ma ciò avvenne non prima del 14 aprile 1603[142]. Vedremo che al nuovo ufficio agevolò ancora la via un altro avvenimento, che eccitò sempre più a' rigori verso i frati incriminati, a' quali rigori lo Xarava si offrì in un modo perfino strano: per ora aggiungiamo che tanto più tardi, nel 1615, ottenne ancora una pensione annua di D.i 300, e sempre venendo annoverati tra' meriti i servigi resi in Calabria da Avvocato fiscale[143]. Quanto a fra Cornelio, anch'egli dovè aspettare, ma impaziente qual era, d'accordo col Vicerè e con le commendatizie di Carlo Spinelli, nel marzo 1601 si recò a Madrid, e vedremo che subito fra Dionisio lo fece conoscere a Roma, essendosi ritenuto che avesse intrapreso tale viaggio per dar notizia al Governo dell'andamento del processo dell'eresia già in corso, nel quale si trovava a ridire sul conto suo, e sul conto di fra Marco da Marcianise come di tutti coloro i quali aveano tenuto mano o a perseguitare o a giudicare i frati; se non che, oltre questo scopo, dovè esservi anche l'altro di sollecitare almeno una pensione, ed è certo che finì per ottenerla. Lo [Pg 117] abbiamo desunto da due documenti raccolti tra diversi altri nell'Archivio di Torino, essendo stato fra Cornelio il protagonista di un incidente che avvenne parecchi anni dopo e che accenneremo in breve. Trovavasi Vicerè di Napoli il 2o Conte di Lemos, e fra Cornelio era ben veduto da lui: con lettere commendatizie del Card.l Aldobrandini, e con un atteggiamento di suddito fedele a casa Savoia, progettò un matrimonio tra il Re di Spagna e Maria di Savoia terzogenita del Duca Carlo Emmanuele; in giugno 1613 impegnò nella faccenda l'Agente del Duca in Napoli Melchiorre Reviglione, e ne fece fare la proposta al Conte di Lemos, offrendosi di andar lui in Spagna, giacchè essendo «pensionato del Re» nessuno avrebbe mai potuto intendere lo scopo del viaggio, che sarebbe stato attribuito ai suoi particolari interessi. La guerra pel Monferrato assopì la faccenda, ma nel novembre 1616 fra Cornelio se ne andò a Roma per parlarne al Ministro di Savoia, l'Abate Scaglia Conte della Verrua, al quale già si era offerto prima quale agente di fiducia mandandogli una cifra e qualche lettera di poca importanza: l'Abate non lo ritenne altrimenti che un furbo, desideroso di assicurarsi in Madrid la pensione, posta in pericolo dall'essere succeduto il Duca di Ossuna al Conte di Lemos, mentre egli trovavasi «da tanto tempo pensionato dal Re»; infine poi fra Cornelio, divenuto già gottoso, non volle contentarsi di 300 ducati d'oro fattigli offrire dal Duca pel viaggio, ma a noi basta che sia accertato il fatto della pensione già ottenuta da antica data[144]. Così non a torto poi il Campanella ebbe a mettere innanzi i tanti premii che il Re avea dati; e s'intende che per un servigio di quel genere i premii erano un fatto naturalissimo, ma veder premiato e notoriamente premiato anche fra Cornelio giudice di S.to Officio, senza che il Nunzio Aldobrandini se ne fosse mai curato in alcun modo, non può non dirsi un fatto veramente scandaloso.

Dobbiamo aggiungere ancora qualche parola sulla promozione avuta egualmente dall'Avvocato De Leonardis, di cui il Campanella poi nella Narrazione disse che avea «più presto avvocato contra per diventar Consigliero». Non pare che l'appunto possa qui dirsi fondato. Oltrechè abbiamo testualmente la Difesa scritta dal De Leonardis, ed ognuno è in grado di valutarla, sappiamo che egli non diventò Consigliere a un tratto, ma prima passò all'ufficio di Fiscale della Vicaria, e più tardi all'ufficio di Consigliere; percorse quindi la carriera giudiziaria comune, nella quale non poteva incontrare obiezioni, giacchè era universalmente riconosciuta la sua cultura e la sua buona morale, come l'attestano varie scritture del tempo. Non siamo riusciti a trovare nell'Archivio di Stato il Privilegio della sua nomina ad Avvocato Fiscale, dove avrebbe veramente [Pg 118] potuto esservi qualche parola di ricordo de' suoi meriti speciali anche per la causa degl'incriminati della congiura, giacchè il Governo spagnuolo non si sarebbe fatto scrupolo di parlarne; abbiamo soltanto trovato l'esecutoria di tale Privilegio in data del 2 novembre 1601. Ed abbiamo poi trovato anche il Privilegio della nomina a Consigliere in data di Valladolid 3 aprile 1602, la comunicazione fattane al Consiglio in data del 1o maggio, e l'annotamento dell'esecutoria in data dell'11 ottobre detto anno; nè il Privilegio reca alcuna menzione del servizio prestato nella causa della congiura, come s'incontra p. es. in persona dello Xarava[145]. Dopo ciò possiamo venire all'esposizione del processo dell'eresia.


[Pg 119]

CAP. V.

SÈGUITO DE' PROCESSI DI NAPOLI E DELLA PAZZIA DEL CAMPANELLA.

B.—Processo dell'eresia (maggio 1600 a settembre 1602).

I. Rammentiamo innanzi tutto, circa l'eresia, che dapprima il Papa avea manifestato di volere a Roma gl'incriminati o sospetti in tale materia finita la causa della congiura (4 10bre 1599); ma in sèguito, vista senza dubbio l'impossibilità della cosa, giacchè il Governo Vicereale non si sarebbe lasciato trarre di mano i frati che il processo della congiura mostrava colpevoli, avea spedito ordine mediante il Card.l di S.ta Severina che se ne occupasse il Nunzio, con ogni probabilità perchè il Vescovo di Caserta Ministro della S.ta Inquisizione Romana nel Regno trovavasi assente, in compagnia del Vicario Arcivescovile della Curia napoletana, il quale presedeva il tribunale diocesano di S.to Officio (4 febbraio 1600)[146]; il Nunzio poi, che molto volentieri ne avrebbe fatto di meno, vista la profonda dottrina del Campanella, il quale sviluppava tante profezie e produceva tante citazioni in suo favore, scrisse subito al Card.l S. Giorgio, ed anche al Card.l di S.ta Severina, che «se pur tal negotio dovea spedirsi qua» in Napoli, reputava necessario l'intervento di qualche persona pratica e buon Teologo (11 febbraio). Così scorse ancora un certo tempo, sino a che non fu disponibile l'uomo capace di stare a fronte del Campanella secondo le preoccupazioni del Nunzio, e solo verso la fine di aprile si potè costituire il tribunale per l'eresia, associando a' due Giudici prima designati il Vescovo di Termoli. Era costui quel fra Alberto Tragagliolo da Firenzuola Domenicano, che abbiamo già visto Commissario generale del S.to Officio sin dall'ottobre 1592 e durante i processi avuti in Roma dal Campanella nel 1594-1595, divenuto molto benevolo verso il filosofo in tale occasione e senza dubbio assai competente ed opportuno nel caso attuale. Malamente designato dal Fontana col nome di «frater Albertus Tragnolus» e poi anche con quello di fra Alberto Drago [147], così ritenuto dall'Ughelli e dopo di lui anche da Quétif ed Echard [148], malamente creduto [Pg 120] Firenzuola e non Tragagliolo dal Capialbi[149], egli cognominavasi Tragagliolo ed era nativo di Firenzuola nel Piacentino: avea già funzionato da Commissario del S.to Officio in Faenza, in Genova, in Milano, quando venne chiamato Commissario generale in Roma da Clemente VIII; poi dietro la morte di Mons.r Francesco Scoto fu promosso al Vescovato di Termoli, secondo il Fontana e l'Ughelli il 29 novembre 1599, ma certamente provvisto di exequatur soltanto all'ultimo di febbraio 1600, con esecutoria in data degli 8 marzo, come risulta dalle scritture esistenti nell'Archivio di Napoli[150]. Può dirsi con sicurezza che si pensò a lui per la causa del Campanella più che all'ultima ora, essendogli stata mandata a Napoli la nomina di Commissario della causa dopo la sua partenza da Roma; ond'egli assai probabilmente non giunse nemmeno a vedere la sua Chiesa, obbligato ad un lavoro assiduo pel processo di cui andiamo ad occuparci, fino al tempo della sua morte, che avvenne disgraziatamente otto mesi dopo, succedendogli nel carico di giudice D. Benedetto Mandina Vescovo di Caserta. Quanto al Vicario Arcivescovile, abbiamo già avuta occasione di rilevare che teneva detto officio il Rev.do Ercole Vaccari (ved. pag. 44): qui dobbiamo aggiungere che per le molteplici e gravi faccende della Curia Arcivescovile erano allora i carichi distribuiti a più persone in qualità di Vicarii, e nelle scritture del tempo, oltre il Vaccari, designato «Vicarius generalis capitularis et locumtenens in spiritualibus», troviamo il Rev.do Curzio Palumbo, designato «Vicarius generalis Monialium et locumtenens in civilibus»; e vedremo nel processo figurare da giudice o «congiudice» prima il Vaccari con la qualità di Delegato, poi il Palumbo con la qualità di subdelegato, poi ancora il Rev.do Alessandro Graziano successo al Vaccari dopo la morte dell'Arcivescovo Card.l Gesualdo.

Il 18 aprile 1600, alle istanze del Nunzio, il quale in data del 14 aveva ancora mostrato di non sapere dove S. S. volea che si trattassero le materie appartenenti al S.to Officio, il Card.l di S.ta Severina rispondeva, avere S. S. «per satisfare a cotesti Signori et Ministri Regii» risoluto che la causa spettante al S.to Officio [Pg 121] si trattasse in Napoli dal Nunzio, dal Vicario Arcivescovile e dal Vescovo di Termoli, il quale da tre giorni era partito per Napoli, onde egli dirigeva al Nunzio medesimo la lettera scritta per lui; e soggiungeva essere intenzione di S. S., che procurassero di terminar presto la causa, ma ne inviassero a Roma un breve Sommario, coll'avviso su' meriti del processo, e col parer loro intorno alla spedizione, prima di dare la sentenza. Analogamente egli scriveva pure al Vescovo di Termoli ed al Vicario Arcivescovile, aggiungendo al Vescovo, che per essere persona «molto ben pratica, et anco informata delle altre cause conosciute in questa santa Inquisitione contra il Campanella, ove abiurò come sospetto vehementemente di heresia l'anno 1591», non gli diceva altro, bensì offriva di mandargliene le scritture se lo reputasse necessario: dalle quali parole risultano chiariti assai bene gli antecedenti così del Vescovo di Termoli come del Campanella, e chiarita la posizione giuridica in cui il Campanella veniva a trovarsi, cioè la posizione di relapso, qualora le nuove accuse di eresia fossero state provate. Siffatte lettere leggonsi nel processo di Napoli, 2o volume dell'intero processo, costituendone i primi atti[151]. Sappiamo poi dal Carteggio del Nunzio che egli vide il Vescovo di Termoli il 5 maggio, e in tale data gli consegnò ad un tempo la lettera del Card.l di S.ta Severina e il processo di Calabria portato da fra Cornelio fin dal novembre e giacente presso di lui. Così al Vescovo di Termoli veniva in realtà «deferita ogni cosa», come il Nunzio ebbe a dire più tardi, ed egli, presa stanza nel convento di S. Luigi dell'ordine de' Minimi di S. Francesco di Paola, posto presso Palazzo Reale, si diede con molta alacrità a compiere il suo mandato. Gli altri colleghi si occuparono della causa piuttosto con la semplice loro presenza, ed il Nunzio, benchè figurasse come il principale tra' Giudici, nemmeno della presenza sua onorò largamente il tribunale; egli aveva pur allora ottenuto dal Papa di passare la Pasqua rosata nella sua Chiesa di Troia, ove non apparisce che si fosse mai recato fino a quel momento, e nel dichiararsi pronto a trattare la causa, riservavasi di voler andare a Troia per la Pasqua, la quale si celebrava il 22 del mese, come ci mostrano diverse scritture del 1600.

Il 10 maggio, in una camera del Castel nuovo, si diè principio agli esami, continuandoli poscia il 15, il 17, il 19, il 26, il 28; ma fin dalla 3a seduta, in sostituzione del Nunzio assente intervenne l'Auditore di lui, il Rev.do Antonio Peri fiorentino: come Notaro e Mastrodatti, servì sempre, dal principio alla fine della causa, Gio. Camillo Prezioso, uno de' vecchi Notari della Curia Arcivescovile, che figura nella più gran parte de' processi del tribunale diocesano della fine del 1599 e principio del 1600 [152]. Fu esaminato [Pg 122] dapprima il Pizzoni. Confermando in termini generali quanto avea deposto innanzi al Visitatore in Calabria, egli aggiunse che era stato più volte da parte del Campanella minacciato di farlo trovare in maggiore intrigo se non si ritrattasse specialmente sulle materie di S.to Officio, una 1a volta in Gerace mediante fra Pietro Ponzio che avea ricevuta per questo una cartolina da fra Tommaso, una 2a volta alla presenza di fra Paolo della Grotteria in Bivona, quando erano per imbarcarsi, mediante un soldato del capitano Figueroa, una 3a volta in Napoli mediante lo stesso fra Pietro Ponzio, che avea ricevuto per questo nuove lettere da fra Tommaso. Aggiunse pure che nell'udire la lettura del suo esame in Napoli (certamente a proposito della congiura), si era avveduto trovarvisi detti complici quelli che egli aveva indicati come familiari del Campanella, verosimilmente consapevoli delle opinioni eretiche di lui, e ripetè che costoro erano fra Pietro di Stilo, il Petrolo, fra Paolo della Grotteria, il Bitonto, il Jatrinoli. Ripetè l'occasione con la quale nel luglio scorso il Campanella aveagli parlato delle sue eresie, e come fra Dionisio, due giorni prima, gli aveva esternato le medesime eresie dicendogli di tenerle per vere. Aggiunse infine, che aveva rimproverato e cacciato il Campanella da Pizzoni, aveva informato di ogni cosa per lettera del 1o agosto il Generale in Roma, ne aveva anche informato di persona il Visitatore in Soriano il 28 agosto. Tale fu la deposizione del Pizzoni, che egli non potè sottoscrivere e dovè soltanto crocesegnare, trovandosi col braccio offeso dalla tortura avuta nell'altro tribunale[153]. Persistente nelle accuse contro il Campanella, aggravandone la responsabilità col fatto delle minacce, egli cercò di scusare sè medesimo con la cacciata del Campanella da Pizzoni e con gli avvisi datine a' superiori.—Vollero allora i Giudici udire su tale asserzione il Visitatore ed anche fra Cornelio, il quale era già tornato da Roma a Napoli in quel tempo (circostanza probabilmente ignorata dal Pizzoni). Entrambi, l'un dopo l'altro, nella 2a seduta del tribunale, il 15 maggio, ricordando qualche faccenda trattata col Pizzoni in Soriano, negarono di aver avuta quivi da lui alcuna notizia delle cose del Campanella[154]. Aggiungiamo che poco dopo il Vescovo di Termoli dovè pure interrogare per lettera il P.e Generale Beccaria, poichè se ne trova nel processo la risposta in data del 12 giugno dal convento di S. Tommaso, vale a dire da Napoli, dove a que' giorni era venuto [Pg 123] pel Capitolo generale che vi si tenne, e dove qualche mese dopo, il 3 agosto, morì col compianto de' cittadini e in voce di santità e di miracoli. Non contento delle reminiscenze proprie, il P.e Generale volle consultare anche quelle del suo P.e compagno, e venne a dichiarare che non si era mai avuta dal Pizzoni lettera alcuna contenente l'avviso asserto[155]. E per verità così il Visitatore come il Generale, al menomo avviso, non avrebbero potuto mancare di provvedere immediatamente contro il Campanella e fra Dionisio; e già riesce manifesta la pessima via in cui il Pizzoni si era posto e si manteneva.—Frattanto, nella stessa seduta, fu esaminato pure il Petrolo. Costui volle che gli si rileggesse la deposizione fatta in Calabria, e trovò solamente a ridire che non avea deposto con quelle precise parole che erano state scritte. Ripetè ad una ad una le eresie udite dal Campanella, quasi tutte quelle deposte in Calabria, dicendo di averle udite nel passeggiare con lui a' Lanzari presso Stilo, nel mese di maggio, e ripetendo i nomi de' frati e secolari co' quali il Campanella dava segni d'indevozione e parlava delle sue opinioni, ma non tanto apertamente, sicchè a lui non constava che fossero veramente complici; ripeteva pertanto di aver saputo da fra Pietro di Stilo che il Lauriana gli aveva dette certe parole pronunziate da fra Dionisio in dispregio dell'eucaristia. Inoltre si dichiarò egualmente minacciato dal Campanella perchè si ritrattasse, una 1a volta per via dal Campanella in persona che gli disse «per Deum oportet te retractare alioquin agam ut mecum moriaris», una 2a volta in Monteleone per mezzo di Cesare Pisano, una 3a volta in Napoli parimente dal Campanella in persona dalla finestra della carcere[156]. Come ben si vede, anche costui non faceva che aggravare la posizione del Campanella cercando di salvare la propria, e quanto alle minacce avute, noi ci siamo già manifestati nel senso che poterono esservi, dovendo il Campanella sentirsi esasperato contro questi suoi scempiati compagni, i quali avevano dapprima udito benevolmente le sue opinioni, si erano anche impegnati a propagarle, e poi le avevano manifestate a' Giudici rigettandone sopra di lui tutta la responsabilità.

Il 17 maggio, 3a seduta del tribunale, in cui cominciò ad intervenire l'Auditore Antonio Peri invece del Nunzio, si procedè all'esame del Campanella; ma egli, già mostratosi pazzo innanzi che si desse principio alla causa, continuò a mostrarsi tale. Gli si deferì il solito giuramento, ed egli non diè segno di capire; gli si disse di lasciare le finzioni, poichè altrimenti, per avere la risposta precisa, si sarebbe ricorso a' rimedi opportuni, vale a dire alla tortura, e gli si offerse il Diurno, sul quale avrebbe dovuto giurare toccandolo, ma egli rispose «voletemelo legere» continuando a mostrare di non capire; allora fu rimandato alla sua carcere[157]. [Pg 124] E si passò a fra Pietro di Stilo, il quale, con fina ironia, disse che non avrebbe voluto mancare di dire la verità per uomini quali il Campanella e fra Dionisio, mentre dal volgo erano allora chiamati inimici di Dio e del Re; negò di aver mai parlato con alcuno delle opinioni del Campanella, e solo ammise di averlo lodato come sapiente quale era stimato da tutti, affermando che un gran numero di persone di ogni ceto accorreva a vederlo, e ripetendo i nomi de' più particolari amici di lui, il Vua, Marcantonio Contestabile e il Prestinace (tutti già posti in salvo), il Caccia «quale fu squartato dalle galere, et Giulio Contestabile quale veneva più presto per il fratello che per il Campanella» (non più dichiarato intimo amico costui, ora che si trovava in pericolo ed erano già sbolliti i primi rancori). E noverò tra loro anche il Soldaniero, cui egli avea portata una lettera del Campanella, continuando a negare di aver mai saputo ciò che quella lettera contenesse, negando anche di aver saputo mai che fra Dionisio fosse stato in relazione col Soldaniero. Egualmente negò di aver mai persuaso o tentato di persuadere alcuno (cioè il Soldaniero) che non rivelasse le opinioni eretiche di fra Dionisio, che volesse credere alle opinioni di costui, e che andasse dal Campanella. Quanto poi alle opinioni eretiche del Campanella, disse di aver solamente saputo da alcuni birri i quali accompagnavano i prigioni, che il Campanella diceva di esser profeta e negava l'inferno e il paradiso, ma direttamente egli avea da lui udito soltanto che vi era poca differenza tra' peccati di lussuria ritenuti assai diversamente gravi (attenuazione notevole). Sempre dietro dimande, ripetè che il Campanella gli avea due volte detto di dover essere monarca, come gli era stato vaticinato pure da un astrologo; e in quanto a sè, ripetè di aver detto per burla voler prendere moglie, e di non aver mai sognato che avesse a predicare contro la fede[158]. Così, evidentemente, fra Pietro continuava a non negare ciò che riusciva impossibile negare, e difendendo sè stesso si sforzava di difendere in pari tempo il Campanella, attenuando perfino le cose altre volte da lui medesimo deposte.—Si venne allora all'esame anche di fra Silvestro di Lauriana, di fra Paolo della Grotteria, di fra Giuseppe Bitonto. Il Lauriana disse non aver altro a dire se non che pativa continue minacce da parte del Campanella ed egualmente di fra Dionisio perchè si ritrattasse, rivelando che costoro continuamente si scrivevano cartoline, e che qualora si facesse ricerca sulle persone di fra Pietro e di Ferrante Ponzio, forse si troverebbe qualche cosa; onde i Giudici fecero fare immediatamente questa ricerca sulla persona di fra Pietro che era in Castel nuovo, mentre Ferrante era in Castello dell'uovo, ma non si trovò nulla. Inoltre, dietro interrogazioni, il Lauriana affermò di essere andato col Pizzoni presso il Visitatore, per denunciare i fatti del Campanella, dopochè il Campanella era stato nel loro convento; [Pg 125] e disse di non sapere propriamente che persona fosse il Pizzoni, non avendolo avuto in pratica, ed attenuò di molto ciò che altra volta avea dichiarato a carico di lui, dicendo che mentre leggevano insieme un libro del Campanella, il Pizzoni, da lui interrogato, avea risposto che alcune cose del Campanella gli piacevano ed altre no (scuse sicuramente concertate tra loro). Fra Paolo poi disse non occorrergli dire altro, e negò di aver mai saputo tentativi di qualche carcerato verso altri carcerati perchè revocassero le deposizioni fatte; negò di aver mai trattato cosa alcuna col Campanella; affermò che quel libretto di cose superstiziose, trovato sulla sua persona, era stato in suo potere due giorni soli, e spiegò che avea avuta la condanna alla galera per aver minacciato il P.e Provinciale Pietro Ponzio, il quale fu poi ucciso mentre egli già trovavasi alla catena. Finalmente il Bitonto disse che avea bensì visitato due volte il Campanella, di cui era familiare, ma senza avere avuto nemmeno agio di trattenersi con lui; nominò quelli che aveano in sua compagnia visitato il Campanella, e li dichiarò tutti uomini dabbene, all'infuori del Pisano, che era tristo e volle accompagnarlo senza potersene liberare, ed abitò con lui otto giorni (contraddicendo con ciò la sua prima deposizione); disse pure non aver mai udito eresie da alcuno, ma solo nelle carceri avere udito dal Pizzoni e dal Lauriana che il Campanella e fra Dionisio aveano sparse eresie, e fattagli l'osservazione che sapevasi nel tribunale aver lui applaudito a certi discorsi eretici e segnatamente alla proposizione che la Messa si celebrava per bere ancora una volta, egli rispose di non saperne nulla[159].

Dobbiamo qui aggiungere che nella stessa data del 17 maggio venne presentata al Vescovo di Termoli una denunzia contro il Campanella da parte di fra Agostino Cavallo di Cosenza. Sappiamo che costui era Provinciale di Calabria in quell'anno[160], ed avea dovuto venire in qualità di definitore del Capitolo generale che allora celebravasi in Napoli, al pari di fra Giuseppe Dattilo egualmente di Cosenza, stato già Provinciale due altre volte ed appartenente alla fazione del Polistina. Fra Agostino consegnò al Vescovo di Termoli una scritta in cui esponeva che, avendo udito essere stata a lui affidata la causa del Campanella, per disgravio della sua coscienza gli faceva conoscere che il Campanella già da dieci anni in circa, stando in Cosenza, avea stretta amicizia con un ebreo chiamato Abramo, sospetto negromante e possessore di spiriti familiari, amico stretto anche di fra Dionisio; che col detto ebreo erasi il Campanella partito da Calabria, e di tutto ciò poteva aversi notizia anche da fra Giuseppe Dattilo.—L'indomani, d'ordine del Vescovo di Termoli, il Prezioso andò a raccogliere la deposizione di fra Agostino, ed alcuni giorni più tardi raccolse pure quella di fra Giuseppe Dattilo. [Pg 126] Fra Agostino confermò la pratica dell'ebreo col Campanella in Cosenza, in Montalto, in Altomonte (sic), di dove poi essi se ne andarono insieme a Napoli, con tutte quelle particolarità da noi già esposte a tempo debito in questa narrazione: confermò pure la pratica dell'ebreo con fra Dionisio in Catanzaro, notando che era corsa voce essere stato poi quell'ebreo giustiziato in Napoli come spia del turco, ed aggiungendo che allora dicevasi aver lui vaticinato al Campanella la Monarchia del mondo e che era stato lui, l'ebreo, la rovina del Campanella. Fra Giuseppe Dattilo fu meno esplicito: attribuì la scoverta di ogni cosa a fra Domenico di Polistina, e disse che a relazione di costui rimproverò in quel tempo il Campanella, perchè volea svestirsi dell'abito religioso, ciò che poi non fece, ma solamente se ne andò con l'ebreo a Napoli; disse che non si ricordava bene se fosse partito con sua licenza o no, e che in Calabria era corsa voce essere stato l'ebreo «brugiato in Roma per ordine del Santo officio». Quanto alla pratica dell'ebreo con fra Dionisio, non ne fece parola (e veramente il fatto era più che dubbio). I lettori troveranno ne' Documenti la denuncia e le deposizioni dei due frati[161], e leggendole sentiranno forse, come noi lo sentiamo, il sospetto che a quelle rivelazioni tardive potè dare la spinta fra Domenico di Polistina più volte in esso citato, tanto più che dalle parole e da' concetti di que' frati, comunque pezzi grossi dell'ordine, si rileva manifesta la loro melensaggine, della quale i nemici del Campanella, e ancor più di fra Dionisio, aveano tutto l'interesse di profittare. È difficile intendere che fra Agostino, così tenero della sua coscienza, avesse aspettato dieci anni a sgravarsela, e che fra Giuseppe Dattilo, così smemorato, avesse potuto ricordare la voce corsa che l'ebreo era stato bruciato dal S.to Officio, senza che qualcuno si fosse data la premura di eccitarne gli scrupoli e ravvivarne la memoria: del resto c'è anche da sospettare che costoro si mostrassero melensi per progetto, trovandosi ascritti alla fazione del Polistina, e volendo farsi credere ingenui.

Dobbiamo d'altra parte aggiungere che il Vescovo di Termoli si era presto messo in corrispondenza con Roma, dando ragguaglio al Card.l di S.ta Severina di ciò che veniva rilevando negli esami de' frati, e di ciò che gli riusciva sapere anche per vie estragiudiziarie; poichè con una premura lodevolissima, oppostamente all'incuria sempre addimostrata dal Nunzio, cercava la luce dovunque, non solo dagl'inquisiti, ma anche da fra Cornelio, dallo Sciarava, perfino da Fabio di Lauro, oltrechè da D. Pietro de Vera, parlando loro privatamente. Abituato a quelle ricerche diligentissime che si adoperavano nel giudicare le materie di S.to Officio, colpito dalla feroce prepotenza de' Giudici Regii e dalla condotta per lo meno deplorabile de' Giudici ecclesiastici nella Calabria, consapevole degli odii feroci e criminosi che campeggiavano segnatamente [Pg 127] nell'ordine Domenicano al quale egli stesso apparteneva, forse anche trasportato dall'ammirazione e dalla benevolenza che da un pezzo nutriva pel povero fra Tommaso, non credè mai di aver fatto abbastanza per iscoprire la verità, e vedremo che, fino alla sua morte, egli, tanto pratico nelle cose giudiziarie, rimase perplesso e dubbioso su tutto. Delle sue lettere non conosciamo che i punti più notevoli, i quali vennero inserti negli ultimi Sommarii de' processi, e senza le date che pure favorirebbero tanto più la buona nozione dell'argomento; laonde non possiamo riportarli, come vorremmo, a proprio tempo e luogo, ma ci vediamo obbligati a riunirli tutti in un fascio al sèguito degli atti compiuti da quel Vescovo. Conosciamo per altro le date delle prime lettere, che furono il 12 e il 19 maggio[162]. Il 12 maggio il Card.l di S.ta Severina gli mandava il Sommario del processo, o meglio de' processi ecclesiastici di Calabria (di Monteleone, di Gerace ed anche di Squillace), Sommario compilato nel S.to Officio di Roma dal Rev.do Procuratore fiscale, che era quello stesso Giulio Monterenzio, il cui nome figura anche ne' documenti del processo di Giordano Bruno: infatti oltre la lettera di S.ta Severina ne abbiamo un'altra posteriore di questo Monterenzio, che spiega un dubbio sorto sopra un punto del suo Sommario, ciò che dimostra pure la diligenza grandissima con la quale il Vescovo di Termoli attendeva alla causa[163]. Nella stessa data, due giorni dopo la prima seduta del tribunale, il Vescovo scriveva al Card.l di S.ta Severina partecipandogli senza dubbio che la trattazione della causa era già cominciata: il 19 maggio poi, due giorni dopo che il Campanella chiamato all'esame erasi mostrato pazzo, egli scriveva la sua 2a lettera, con la quale manifestava di credere che la pazzia del Campanella fosse simulata, che il Nunzio da molti giorni l'avea fatto sorvegliare ed avea saputo che parlava assennatamente, che stimava doversi venire alla tortura «pro praecisa responsione» (secondo la giurisprudenza del tempo); ed aggiungeva essere a sua notizia che il Campanella non temeva la tortura, e che la pazzia era nata da che il P.e Gonzales, confessore di alcuni tra' carcerati, prima della sua venuta a Napoli, aveva esortato il Campanella ad aver cura dell'anima perchè il corpo era spedito[164]. Come mai questi ultimi fatti, di ordine assolutamente riposto, erano venuti a notizia del Vescovo di Termoli? Vedremo fra Pietro di Stilo, assai più tardi, esporre ai Giudici la circostanza delle esortazioni e riprensioni del P.e Gonzales; è chiaro quindi che il Vescovo non rifuggiva dall'informarsi dell'andamento delle cose da' frati medesimi, mostrandosi con loro Giudice severo ma tutt'altro che inumano.

[Pg 128]

Si ripigliavano intanto più e più volte gli esami de' frati, e poi si passava a quello de' testimoni. Nel medesimo giorno, 19 maggio, si esaminavano ancora fra Paolo, il Bitonto, il Petrolo, fra Pietro di Stilo, il Lauriana[165]. Fra Paolo fu interrogato di nuovo circa quel libretto di cose superstiziose, e richiesto del motivo pel quale vi si leggeva un segreto per non confessare alla corda, onde si poteva dedurre che egli temesse di averla a soffrire; fu interrogato ancora su' detti e fatti del Campanella, su' frati i quali si erano congregati in Pizzoni, sull'impegno preso di dover predicare contro la fede al tempo della ribellione. Ed egli in fondo negò ogni cosa, nominò i congregati in Pizzoni, e all'ultima dimanda rispose «son frate semplice et non intendo Latino, come volea predicare»?—Il Bitonto fu interrogato circa la sua conoscenza con Felice Gagliardo e con Cesare Pisano, l'andata in Messina con Cesare, i discorsi fatti in tale occasione, la consacrazione di diverse ostie e lo scellerato abuso fattone, come pure circa il motivo pel quale avea lasciato l'abito e tolta la corona al tempo della sua cattura. Ed egli, qualificando il Gagliardo, come il Pisano, tristissimo uomo, ricordando le circostanze per le quali avea dovuto trovarsi con loro, negò energicamente tutti i fatti criminosi che se gl'imputavano; e addusse una sua malattia e il trovarsi in una vigna, per ispiegare il fatto dell'abito e della corona, conchiudendo sul fatto dell'ostia consacrata, «mi potete fare mettere nel foco e farmi ingiottire così come datum, et abiron, se mai hò ditto, ne fatto tal cosa».—Il Petrolo fu esortato a dire la verità, se gli fossero piaciute le opinioni del Campanella, mentre l'aveva tanto spesso udito parlare di eresie ed aveva continuato sempre a trattarlo, fino ad associarglisi nella fuga travestito quando era ricercato dal S.to Officio, e poi trovavansi nel processo tante cose contro di lui da doversi ritenere convinto. Ed egli si scusò sopra ciascuno addebito, persistendo pur sempre nel sistema di denunziare senza parsimonia i detti e fatti del Campanella, onde ripetè che fra Tommaso presso la Roccella gli avea detto essere stato da lui mandato Maurizio presso i turchi, come pure esser baie le credenze sul fico mangiato da Adamo, e in Squillace avea detto a un capo di squadra non trovarsi morte ma mutazione di essere, conchiudendo, «in altro son grandissimo peccatore, ma contra la fede non hò peccato».—Fra Pietro di Stilo fu esortato egualmente a dire la verità, se fosse stato consapevole de' fatti e detti del Campanella contro la fede ed impegnato a predicare in questo senso a tempo della ribellione, ciò che rendevasi credibile, essendo lui intimo del Campanella e di fra Dionisio, ed avendo anche esortato qualcuno (intendasi il Soldaniero) a non rivelare ed anzi a credere quelle eresie, come constava nel processo. Ed egli negò di aver mai saputo cosa alcuna del Campanella contro la fede, negò di essere amico di fra Dionisio, [Pg 129] mentre era invece amico del Polistina, confermando che fra Dionisio era scelleratamente abituato a parlare senza ritegno della più turpe lussuria, ed egli avea rimproverato il Campanella perchè conversava con lui; inoltre negò di aver mai parlato con alcuno in lode del Campanella se non per cose di filosofia.—Da ultimo il Lauriana fu interrogato sul motivo pel quale avea suonate le campane all'armi quando i ministri del S.to Officio erano venuti a catturare certi imputati, e fu eccitato a dire la verità, mentre era tanto amico del Campanella e di fra Dionisio da doversi ritenere non pure consapevole ma complice delle loro eresie ed impegnato a predicarle, come era noto per deposizioni. Ed egli si scusò, dicendosi suddito del Pizzoni ed obbligato ad eseguirne gli ordini ricevuti dietro erronei apprezzamenti; fece avvertire che non era letterato e quindi non era capace di predicare, ed aggiunse che avea comunicato al Pizzoni quanto gli era accaduto di sapere, che aveva pure scritta una lettera dettata dal Pizzoni per dar notizia al P.e Generale della ribellione e di alcune cose di S.to Officio, che aveva egli medesimo portata questa lettera alla posta di Monteleone. In tal guisa procedevano gli esami, condotti con molta perizia e conoscenza della causa, come risulta da' documenti; questi mostrano inoltre lo studio che il Vescovo di Termoli vi faceva, notando al margine di essi non solo i punti più importanti, ma anche i raffronti con gli esami anteriori, le menome varianti e le cose che gli sembravano inverosimili.

Si produsse allora un primo incidente tra' parecchi che in questa causa si verificarono. Fra Pietro Ponzio, sulla cui persona era stata fatta una ricerca di corrispondenze provocata dal Lauriana, si pose con tanto maggiore accanimento, egli e fra Dionisio, a sorvegliare il Lauriana e il Pizzoni, che tenevano corrispondenza tra loro. Il Lauriana trovavasi nella carcere da basso con più di venti individui, ed il Pizzoni stava in una delle carceri superiori con Gio. Angelo Marrapodi, Geronimo Conia e Marcantonio Stanganella: Aquilio Marrapodi, giovanetto quattordicenne, figlio di Gio. Angelo, serviva questi ultimi ed anche il Lauriana, fra Pietro e fra Dionisio, ed eludendo la vigilanza de' carcerieri portava le corrispondenze; un giorno fra Dionisio lo sorprese, gli tolse una lettera che teneva nascosta in petto, lettera senza firma e senza indirizzo, ma scritta certamente dal Lauriana al Pizzoni. Con essa il Lauriana diceva di avere inviate prima altre lettere, raccomandando di lacerarle, e di aver fatto capitare a fra Francesco da Tiriolo (che ricordiamo aver visto carcerato per la causa della congiura e già liberato) alcuni memoriali da doversi presentare; infine raccontava minutamente l'ultimo esame cui era stato sottoposto. La lettera fu mandata da fra Dionisio, mediante lo stesso Aquilio, a fra Pietro Ponzio, e da costui fu presentata al Vescovo di Termoli, qualificandola «un concetto importante pel progresso della presente causa»; immediatamente,[Pg 130] il 26 maggio, il tribunale venne ad occuparsene[166]. Fu interrogato fra Pietro, che disse avere avuta la lettera da quel servitorello, e crederla scritta dal Lauriana al Pizzoni. Fu interrogato in genere il Lauriana, che negò ogni cosa. Fu interrogato Aquilio, che affermò di servire suo padre ed anche que' monaci pei quali comprava cose da mangiare; affermò di aver portato lettere di secolari alla posta ma non di monaci, aggiungendo con grande disinvoltura, «se si trova che habbia portato pur un viglietto di questi monaci, voglio che mi sia tagliata la testa». Gli fu presentata allora la lettera, dimandandogli se sapeva leggere e scrivere; ed egli disse di saper «legere quando la lettera è bona et un poco scrivere», ma affermò di non conoscere quella scrittura. I Giudici, per convincerlo, fecero subito venire fra Pietro, il quale gli ricordò che avea portato biglietti e lettere del Lauriana e del Pizzoni, e n'era stato rimproverato da lui ed anche da un altro carcerato, Cesare Bianco; ed Aquilio dovè confessare ogni cosa, e licenziato fra Pietro, richiesto perchè non avesse detto prima la verità, con non minore disinvoltura rispose che non se n'era ricordato, aggiungendo di aver portato un'altra volta al Pizzoni un biglietto che il Lauriana gli avea detto essere memoriale, che non credeva di essere stato veduto ma che Cesare Bianco l'avea realmente rimproverato; e dietro altre dimande rispose che il Pizzoni non potea scrivere (aveva la spalla offesa), ma che con lui stavano suo padre e il Conia e lo Stanganella, i quali sapevano scrivere. I Giudici vollero ancora interrogare Cesare Bianco, che era di Nicastro e trovavasi carcerato per la congiura, e costui confermò di aver visto il Lauriana dare il biglietto pel Pizzoni e di averne mosso rimprovero ad Aquilio: e fatto venire il Lauriana lo confrontarono con costui, ed egli giunse a dire, «Dio mi mandi alle pene dell'inferno se mai hò fatto tal cosa», e licenziato il Bianco e richiamato Aquilio, confrontarono il Lauriana anche con lui, e il Lauriana continuò sempre a negare, e rimasto solo e presentatagli la lettera, disse che non avea fatta tale scrittura, che essa non era di mano sua ed egli non avea comunicato il suo esame ad alcuno. Ma le notizie dell'esame erano precise, e potevano essere state date solo o dai componenti il tribunale, o da lui, che aveva in tal guisa tradito pure il segreto solito ad imporsi dal tribunale ad ognuno che si esaminava: rimase quindi ben provato che il Pizzoni e il Lauriana si concertavano tra loro, per esimersi dalla responsabilità che più o meno aveano comune con gli altri frati da loro accusati; erano perciò sospetti, ed anzi falsi, se non in quanto agli altri, certamente in quanto alle persone proprie.

Nella stessa seduta fu esaminato di nuovo il Pizzoni[167]; e prima di tutto gli si dimandò se avesse mai ricevuto lettere e memoriali [Pg 131] dal Lauriana, ed egli rispose negativamente. Si volle allora che ripetesse le circostanze in cui il Campanella gli avea parlato delle profezie e delle rivoluzioni che dovevano accadere, e dicesse come e perchè fra Dionisio gli avea già parlato prima dell'eresie medesime ripetutegli in seguito dal Campanella, opponendo essere inverosimile che, mentre il Campanella indignato di non poter avere da lui fuorusciti a sua divozione aveva esclamato «ben mi fu detto da M.o Gio. Battista (Polistina) che tu sei un traditore», si era tuttavia lasciato andare a rivelargli tante eresie e tante empietà; inoltre gli si dimandò se conoscesse complici degli errori del Campanella e di fra Dionisio. Evidentemente si voleva cogliere il Pizzoni in qualche contraddizione, ma egli imperturbato ripetè le circostanze di que' discorsi, e l'occasione avutane dall'essere stati ricordati i travagli patiti in Roma dal Campanella, e le opere composte da lui; disse che la qualificazione di traditore, secondo l'avviso di M.o Gio. Battista di Polistina, gli fu data dal Campanella dopo i discorsi della ribellione e dell'eresia e non già prima; infine dichiarò di non conoscere complici.

Il 29 maggio si ritornò ad esaminare il Lauriana ed il Petrolo[168]. Al Lauriana si dimandò dapprima se si fosse risoluto a dire la verità sulla faccenda della lettera mandata al Pizzoni, ed egli rispose di averla detta la verità. Poi gli si dimandò una quantità di circostanze in cui avea dovuto udire le eresie del Campanella e di fra Dionisio, e se le avesse udite anche da altri, e come si fosse accorto che il Pizzoni vi partecipava, e se veramente fosse stato dal Pizzoni esortato a credere le eresie del Campanella, secondochè avea dichiarato nel primo esame sostenuto in Monteleone e ratificato in Gerace. Ed egli ripetè soltanto la scusa già data altra volta su quest'ultimo fatto, ma per tutto il resto disse sempre di non potersene rammentare, e si riportò costantemente al suo primo esame; «vedete llà ala mia esamina che llà lo trovareti».—Quanto al Petrolo, gli si dimandarono diversi chiarimenti sulle cose dette negli esami sostenuti in Calabria, e massime come e dove il Campanella dicesse le sue eresie a frati e secolari, come fosse egli venuto a conoscere la cifra che il Campanella e il Pizzoni adoperavano tra loro, come e dove ed a chi il Campanella esponesse le rivoluzioni che doveano accadere e le profezie che vi si riferivano, e quando ed a chi dicesse di voler predicare la libertà. E il Petrolo ripeteva le cose già deposte, conformando sempre che il Campanella non parlava di eresie agli altri così liberamente come faceva con lui, ma per motti e in diversi luoghi; che alla Roccella avea vista la cifra in una scrittura, la quale il Campanella gli disse essere una lettera del Pizzoni; che le profezie e le rivoluzioni erano state esposte dal Campanella dapprima nella Chiesa di Stilo, predicando all'altare sopra una sedia, ed a lui solamente il Campanella avea [Pg 132] detto, «par che queste profezie parlino di me»; infine che non ricordava dove, e quando, e con chi il Campanella avesse detto voler predicare la libertà.

Continuarono gli esami nel giugno seguente, e in essi potè intervenire il Nunzio, essendo tornato in Napoli dalla sua Chiesa di Troia; ma dopo quattro sole sedute egli mandò di nuovo in sua vece l'Auditore Antonio Peri, che lo sostituì per tutto il rimanente dell'anno, sicchè nella più gran parte del processo offensivo, in tutto il ripetitivo, ed anche in quasi tutto il difensivo, il Nunzio non assistè menomamente. Dal suo Carteggio rilevasi che in questo ritorno da Troia egli potè vedere quale fosse la sicurezza delle strade, ed essere informato sopra i luoghi intorno alle criminose relazioni tra banditi ed ecclesiastici: non sarà inutile riportare qui un brano di lettera da lui scritta al Card.l S. Giorgio su tale argomento, poichè interessa conoscere pienamente i tempi e farsi un concetto giusto di quella abominevole miscela di frati, clerici e banditi, la quale non era propria della Calabria a' tempi del Campanella, ma comune a tutto il Regno anzi a tutto il mondo che diceasi civile, venendo dalle autorità ecclesiastiche riguardata in un modo per lo meno singolare[169]. «Le replicarò che quanto alla ricettatione de' banditi et al commercio che tengono con loro molti Clerici, et tutti i religiosi che stanno in certi Conventi, dove per il poco numero non si osserva regola alcuna, è necessario provedervi in qualche modo acciò non segua così spesso che le Chiese et i Conventi sieno violate da questi Ministri Regii (ecco il vero e proprio inconveniente agli occhi del Nunzio), che gridono alle stelle che dette Chiese et Conventi sieno ricetto di tristi et d'assassini come riscontro pur troppo vero, et al ritorno di Troia è bisognato che mi proveda di chi mi assicuri la strada, poichè la sera che arrivai ad Ariano intesi che poco avanti erano stati rubati due mercanti Raugei et menati via da una truppa di Banditi per farne ricatti, onde scrissi al Vicerè della Provincia che è il Conte del Sacco, il quale non solo mi mandò 20 Archibusieri ma venne ancora lui su la strada per aboccarsi con me, et mi fece gran querela di quanto hò detto, con soggiugnere che fra gli altri certi Monaci di M.te Vergine che stanno à S. Guglielmo, luogo in quelle campagne[170], non solo raccettano, ma partecipano i loro furti, portano ambasciate fra di loro, et sono mezi alli ricatti» etc. etc.—Continuarono dunque gli esami coll'intervento del Nunzio, e il 7 giugno si udì per la 3a volta il Pizzoni, rimanendo dal suo esame occupata l'intera seduta[171]. Diremo in breve che, sempre [Pg 133] dietro dimande, egli dichiarò di avere udito una volta sola parlare di eresie e di ribellione tanto il Campanella quanto fra Dionisio; e redarguito, perchè nel primo esame avea detto di avere udito eresie dal Campanella in Stilo ed in Pizzoni, dichiarò che in Gerace non gli era stato letto il primo esame, e che il processo del Visitatore conteneva falsità. Addusse un altro motivo della sua andata a Stilo, un pagamento che dovea fare ad un frate, e ne fu redarguito da' Giudici. Narrò la sua andata a Stilo, seguita dall'altra ad Arena, insieme col Campanella accompagnato da' parenti armati. Disse di aver conosciuto già prima il Soldaniero, capo di banditi, che gli avea mandato una lettera minatoria, e di averlo poi visto passeggiare col Visitatore e fra Cornelio nel convento di Soriano il 28 agosto, ma di non sapere se egli fosse informato delle eresie del Campanella, sapere bensì che avea parlato con fra Dionisio; e redarguito, perchè nel primo esame avea detto che il Soldaniero era informato di tutto, dichiarò che fra Cornelio lo scrisse di sua volontà e poi non glie lo lesse. Negò di avere usato mai cifre col Campanella; confermò di avere scritto al P.e Generale e di aver dettata la lettera al Lauriana; stretto dalle dimande dovè negare che il Campanella e fra Dionisio gli avessero in Pizzoni parlato di eresie alla presenza d'altri, e dichiarare che fra Dionisio non si trovò mai in Pizzoni in compagnia del Campanella (dovè quindi dare una grave smentita al Lauriana). Accettò di avere ordinato al Lauriana che suonasse le campane all'armi nel tempo della loro cattura, ma aggiunse di averglielo subito vietato quando seppe che trattavasi della venuta de' soldati del Battaglione. Confermò di aver prima parlato al Visitatore delle eresie udite, notando che vi era andato egli solo: ma i Giudici gli obiettarono che se avesse davvero parlato prima al Visitatore di quelle eresie estragiudizialmente, non gli sarebbe stato possibile il volerle poi occultare, quando fu tratto in giudizio innanzi al medesimo Visitatore; ed egli si scusò adducendo il terrore avuto perchè ognuno gli annunciava la morte, l'essergli stato quindi necessario che il Visitatore e fra Cornelio gli ricordassero ogni cosa con una nota scritta che tenevano nelle mani, aggiungendo pure che aveva fin d'allora avuto minacce dal Campanella per mezzo di Gio. Tommaso Caccia. Nè dopo tutto questo i Giudici ritennero esaurito l'esame del Pizzoni.

Il 17 giugno furono esaminati nuovamente il Lauriana, il Petrolo, fra Pietro di Stilo; il 20 giugno fu esaminato per la 4a volta il Pizzoni. Stretto dalle dimande, il Lauriana confermò che quando il Campanella si fece a parlare di eresie c'era anche fra Dionisio oltre il Pizzoni (ed in ciò per lo meno la memoria non l'assisteva bene). Citò due occasioni per le quali il Campanella avea manifestato eresie: l'una, l'essere stata condotta dal Casale di Vazzano a Pizzoni una donna spiritata, e il Campanella la giudicò pazza, e nel dopo pranzo disse, «mi portano innanzi queste donne spiritate e matte, et io non tengo che ci siano ne spiriti, ne diaboli,[Pg 134] ne inferno, e ne paradiso»; l'altra, l'avere il Campanella letto un capitolo di Plinio in cui parlavasi della natura, onde disse che Dio era la natura con tutte le altre proposizioni altra volta deposte (singolare raffronto con ciò che avea pure già dichiarato il Caccia, ma attribuendolo al Pizzoni). Disse che fra Dionisio gli avea solamente parlato contro l'eucaristia, ma presente il Campanella e il Pizzoni; e che il Pizzoni non avea mostrato di credere all'eresie, ma di approvare alcune opinioni scritte dal Campanella in un suo libro, aggiungendo che in quel libro trattavasi di opinioni contro S. Tommaso.—Il Petrolo poi dovè rispondere ancora una volta intorno a' complici del Campanella; e continuò a dire che non ne conosceva, e che il Campanella non avea manifestato mai eresie formali in presenza di altri, sibbene si esprimeva per motti, de' quali fornì qualche esempio.—Infine fra Pietro di Stilo dovè dare chiarimenti intorno a ciò che il Campanella avea detto della elezione del Papa e de' miracoli; e fattosi leggere il primo esame cercò di attenuarne la misura, dolendosi anche di fra Cornelio che scriveva troppo diffusamente, ma conchiuse che confermava quanto nell'esame trovavasi scritto.—Ben più lungo fu l'esame del Pizzoni, che di nuovo occupò l'intera seduta. Sempre dietro dimande, dovè dichiarare in qual luogo fosse stato ammalato negli ultimi tre anni, e se in Stilo (che egli aveva taciuto nella sua rassegna) avesse avuto stanza anche il Campanella al tempo della sua malattia. Dovè dichiarare di nuovo se in Pizzoni, quando il Campanella parlò di eresie, fosse stato presente fra Dionisio; e dettogli che un testimone suo amico affermava che fra Dionisio c'era, fu costretto a smentirlo definitivamente, dicendo che quel testimone (il Lauriana) sapeva di tali cose quanto il muro della stanza, che quel testimone, alla presenza di quasi tutti i frati ed altri secolari, aveva in Monteleone confessato che non sapeva addirittura nulla nè di ribellione nè di cose di eresia, e che avea parlato per paura e per subornazione del Visitatore, di fra Cornelio ed anche di D. Carlo Ruffo, con la speranza di essere subito liberato anzi premiato, e la paura era stata tale che avrebbe deposto perfino contro suo padre; che quanto avea deposto eragli noto solamente per la lettera al P.e Generale scritta di sua mano sotto la dettatura di esso Pizzoni. Intorno a tutte le altre citazioni di deposizioni testimoniali contrarie (riferibili segnatamente al Caccìa, senza che il nome di lui fosse pronunziato), egli dichiarò che doveano provenire da persone infami e bugiarde, o inimiche, o sedotte, ovvero anche da falsità di scrittura, dando per sospetto il Visitatore e fra Cornelio, ed affermando che in Monteleone il Pisano e il Caccìa se n'erano lamentati con gli altri prigioni, perchè gli aveano carpiti 100 scudi per uno ed altri donativi, con la promessa di sottrarli alla Corte secolare, e così gli aveano fatto dire quello che aveano voluto; inoltre il Caccìa avea dimandato perdono ad esso Pizzoni, per aver deposto dietro insinuazione di que' due frati, che gli dicevano essersi[Pg 135] avute deposizioni del Pizzoni contro di lui, e poi anche dietro gli atroci tormenti sofferti mentre era travagliato dalla febbre. Negò di nuovo la cifra; confermò che il Lauriana gli avea detto essere rimasto scandalizzato, perchè il Campanella in una predica in Stilo aveva esclamato, «oh si mi fusse lecito estendermi in questa materia», parlando del governo de' Principi e Prelati, non già di eresia; infine ripudiò ad una ad una tutte le eresie che gli erano state addebitate.

L'indomani, 21 giugno, fu esaminato di nuovo il Bitonto, e poi, per la prima volta, fra Dionisio[172]. Il Bitonto dovè dar conto di ciascuno di que' molti fatti che avea deposti il Pisano, e che direttamente o indirettamente lo riguardavano (senza che il nome del Pisano fosse mai pronunziato): ed egli rispose costantemente «non ho mai inteso tal cosa», qualche volta anche «l'ho inteso da che son qua carcerato», ovvero «l'ho inteso quando so stato esaminato dalli giudici et in particolare in hierace», aggiungendo che quivi fu esaminato dal Vescovo e dal Visitatore, essendo presente anche Carlo Spinelli; e conchiuse che tutte quelle cose avevano dovuto esser deposte da qualche infame o nemico suo.—Si passò quindi a fra Dionisio. Costui, sempre dietro dimande, disse di aver saputo dal Sances e dal carceriere che era stato imputato in cose di S.to Officio insieme col Campanella, e negò con la più grande energia di aver peccato nella fede. Diè una lunga lista de' suoi nemici, a cominciare da' Polistina e dagl'inquisiti per la morte dello zio M.o Pietro, e venendo sino a fra Pietro di Stilo che disse creatura del Polistina, al Pizzoni finto amico nelle sue liti col Polistina e ladro di molti suoi scritti predicabili onde dovè infamarlo, al Lauriana partecipe del furto degli scritti ed incaricato della vendita di essi, oltrechè legato in nefande relazioni col nipote del Pizzoni, fra Fabio, e col Pizzoni medesimo, onde dovè scacciarlo dal convento di Nicastro dove esso fra Dionisio trovavasi Priore. Negò di aver mai trattato con qualche ebreo in Cosenza, dichiarando spontaneamente che a tempo di quell'ebreo, allorchè venne eletto il P.e Generale Beccaria (cioè nel 1588), egli trovavasi in Napoli, nel convento di S.ta Caterina a formello, e che seppe in Napoli da una lettera di suo zio M.o Pietro avere il Campanella avuto conversazione con quell'ebreo di cattiva fama in Cosenza, essere fuggito in compagnia di lui da Calabria ed avere arrecato questa fuga grande scandalo, onde gl'ingiungeva di non avere più relazione col Campanella; dichiarò anche, dietro dimande, di non avere mai più avuta notizia di quell'ebreo, nè occasione di parlare col Campanella, che non vide più per 7 od 8 anni dopo quel tempo. Negò assolutamente di avere mai avuto scandalo dal Campanella per cose di fede, mentre pure avea cercato di chiarirsene, poichè dicevasi che avea diavoli, comandava diavoli e credeva poco: aggiunse di aver [Pg 136] saputo da lui che era stato inquisito nel S.to Officio per un Sonetto bruttissimo contro la fede e contro Cristo, quale Sonetto gli recitò, che l'accusatore era stato condannato in galera ed esso Campanella liberato senza abiura, non avendo mai voluto accettare di avere abiurato, mentre di poi in Napoli ebbe a sapere che l'abiura c'era stata (onde dovrebbe dirsi che pure tra loro amici intimi si manteneva l'equivoco, confondendo l'esito di processi diversi). Tale fu la prima deposizione di fra Dionisio, che egli non potè sottoscrivere per la tortura avuta nel tribunale della congiura, e che crocesegnò tenendo la penna stretta tra' denti.

Fu poi fra Dionisio esaminato di nuovo tre altre volte successivamente, il 20 e 28 giugno, ed il 13 luglio, continuando sempre ad intervenire agli esami non il Nunzio, ma l'Auditore di lui Antonio Peri. Il 26 giugno fra Dionisio cominciò dal dire spontaneamente che avea ricevute dal Lauriana due lettere, con le quali gli narrava l'esame sostenuto in Calabria e gli chiedeva perdono, avendolo a torto accusato di proposizioni eretiche contro l'eucaristia, a suggestione del Pizzoni e per uscire dalle mani de' secolari; che queste lettere gli erano state tolte da' carcerieri, ed egli riteneva dovessero trovarsi nell'altro processo; che da esse rilevavasi essere stato deposto dal Lauriana di avere udite le eresie in un discorso tenuto dal Campanella in Pizzoni con lui, fra Dionisio, e con fra Gio. Battista di Pizzoni, e tale fatto era la più grande menzogna, non essendosi lui fra Dionisio mai trovato in Pizzoni contemporaneamente al Campanella (il fatto era fondamentale, e il vederlo a notizia di fra Dionisio mostrava che le lettere c'erano state, salva la quistione di sapere se in esse si parlava realmente di accuse ingiuste e di domanda di perdono). Narrò poi, interrogato, le circostanze della sua cattura e di quanto gli era avvenuto ne' giorni consecutivi (ciò che fu da noi esposto a suo tempo). Fornì spiegazioni sulla sua lettera trovata presso fra Vincenzo Rodino, sulla sua conoscenza col Pisano, sull'andata con costui a Messina e sull'andata successiva col Campanella e col Bitonto a Castelvetere, dove il Pisano trovavasi carcerato pel furto di una giumenta del Principe, riconoscendo di aver voluto aiutarne la liberazione, ma semplicemente per l'onore della famiglia di esso. Fornì spiegazioni sul fatto dell'inglese che in Roma avea dato un pugno all'ostia consacrata, dicendo di averlo veramente narrato perfino dal pulpito «etiam cum lachrimis», per dimostrare la gran bontà e tolleranza di Dio: dichiarò di non aver mai conosciuto l'avvenimento del prete annegatosi con l'ostia, e ripudiò assolutamente il fatto osceno commesso con l'ostia, facendone rilevare l'inverosimiglianza. Infine negò di aver mai parlato in dispregio dell'eucaristia, e disse che le precise parole, con le quali gli si faceva tale dimanda, si trovavano nelle lettere del Lauriana (altra prova che tali lettere c'erano state); notando che in Pizzoni egli non potea dire tali cose, poichè c'erano soltanto suoi nemici e un vigliacco[Pg 137] fuoruscito (certamente il Caccìa), il quale poi si disdisse nell'atto di essere giustiziato.—Il 28 giugno, esaminato per la 3a volta, fra Dionisio negò ad una ad una tutte le eresie e tutte le accuse che gli erano state apposte (dal Soldaniero, dal Lauriana, dal Pisano etc.) e che i Giudici gli vennero successivamente formolando, non senza dare qualche spiegazione in sua difesa. Così, a proposito del pugno da lui dato a un'immagine del crocifisso in Soriano, dichiarò che il Priore e Lettore di quel convento erano suoi nemici, che vi si trovava anche un gran fuoruscito a nome Giulio Soldaniero stato per tutta la quaresima in relazione con fra Gio. Battista di Polistina, ed egli avea temuto di essere ucciso o almeno bastonato da lui, e gli avea parlato sempre in pubblico. A proposito di altre eresie che si era deposto aver lui udite dal Campanella e lodate ed insinuate ad altri, dichiarò che il Petrolo, già da circa un mese, passando innanzi alla sua prigione si era avvicinato alla finestrina di essa e gli avea dimandato perdono, facendogli sapere che avea deposto essere stato detto dal Campanella, in presenza di lui fra Dionisio, che non c'era purgatorio nè inferno; onde temeva che questo potesse nuocergli, sebbene avesse pure aggiunto alla deposizione che il Campanella prima diceva le eresie a lui e poi le diceva anche agli altri, ma in modo che esso Petrolo non sapeva se gli altri le intendessero (e questo mostrava che veramente il Petrolo avea dovuto parlargliene). Infine negò di aver mai saputo che il Campanella si fosse proposto di predicare, e che egli medesimo dovesse predicare contro la Chiesa.—Il 13 luglio, esaminato per la 4a volta, dovè dar conto di altre eresie ed accuse, sulle quali non era stato ancora interrogato (quelle deposte da Maurizio per propria scienza o per detto del Vitale, come pure quelle raccolte nel processo di Squillace). Ed egli negò egualmente ogni cosa; ed a proposito del fatto dell'ostia che pretendevasi avere una volta consacrata e poi gettata a terra, disse di aver saputo da Maurizio, nel venire a Napoli, che tale fatto era stato deposto da Gio. Battista Vitale «credendosi schifare la morte almeno per alcuno giorno», e fece rilevare che il Vitale prima di essere squartato avea revocata quella deposizione (c'era quindi stato ad ogni modo un colloquio con Maurizio su tale fatto, salva rimanendo la quistione di sapere se Maurizio avesse realmente attribuito il motivo suddetto alla deposizione, ed anzi se vi fosse stata realmente una deposizione del fatto innanzi a' Giudici da parte del Vitale). Potè poi questa volta dopo cinque mesi, stando meglio co' suoi polsi, sottoscrivere il processo verbale dell'esame sostenuto.

Dobbiamo aggiungere che nella seduta medesima fu esaminato ancora Giulio Contestabile, qualificato non solo teste, ma anche principale, senza dubbio per avere troppo conversato col Campanella[173]. Egli disse di conoscere il Campanella e fra Dionisio, e [Pg 138] di stimarli uomini tristi mentre erano inquisiti di cose triste; disse di sapere che il Campanella ora stato già prima processato per eresia, ma non sapere altro, e di avere due volte sole parlato col Campanella in Stilo, in casa sua, per la conchiusione della pace tra la famiglia sua e quella de' Carnevali; ma Geronimo suo fratello scrisse da Napoli che non volea si trattasse con persona già processata per eresia, ed avendo lui divulgata la lettera, il Campanella gli divenne nemico. Dichiarò di non aver mai udito il Campanella parlare di Cristo nè di Mosè, e fece rilevare che in Stilo c'era un altro Giulio Contestabile figlio di Lucio, Maestro della confraternita del Rosario e perciò molto assiduo nel convento dei Domenicani (il fatto era vero[174], ma rappresentava una scusa grossolana).

Il 1o luglio fu interrogato Giulio Soldaniero, testimone importante, che si dovè far venire dalla Provincia. Il Carteggio del Nunzio ci mostra che egli non trovavasi più in Calabria, ma in terra d'Otranto, e che lo si fece venire per mezzo del Vescovo di Nardò; parrebbe pure dall'esame suo che fosse stato tenuto in prigione fin dal marzo, sicuramente ad istanza del S.to Officio. Lo stesso Carteggio ci mostra che appunto per lui la trattazione della causa soffrì un ritardo nelle prime settimane di luglio; poichè alla sua venuta era stato rinchiuso in Castel dell'ovo, e quando si volle esaminarlo, si trovò il solito intoppo del non esserci ordine alcuno del Vicerè, onde il Nunzio ebbe a fare istanza che o si desse quest'ordine o si conducesse il prigione in Castel nuovo[175]. Vedremo in sèguito che si fece venire anche il suo fido Valerio Bruno, ed entrambi furono rinchiusi in Castel nuovo insieme co' frati inquisiti. Il Soldaniero, dietro dimande, disse che era stato esaminato da fra Cornelio, e successivamente dal Vescovo di Gerace, dopo di aver mandato il Priore di Soriano al Visitatore per rivelare le cose dettegli da fra Dionisio; e ripetè talune di queste cose, affermando che quando vennero dette o fatte, era presente e consenziente il Pizzoni, e tutto proveniva dal Campanella. Invitato ad esporre ciò che fra Dionisio gli avea detto di provenienza del Campanella, non seppe dire più nulla e si richiamò all'esame precedente, poichè non se ne poteva ricordare. Aggiunse di aver visto in sèguito fra Pietro di Stilo, che gli raccomandò di non dir nulla di quanto gli avea detto fra Dionisio, ma egli già avea raccontato tutto al Priore e Lettore di Soriano: non potè ricordarsi se fra Pietro gli avesse [Pg 139] parlato di eresie, ma negò di aver ricevuto lettere del Campanella. Disse che avea raccontato pure ogni cosa a fra Domenico e fra Gio. Battista di Polistina e costoro se ne maravigliarono, che vide fra Dionisio una sola volta (prima avea detto due volte), e parlò al Priore ed al Lettore perchè lo cacciassero dal convento[176].

Ma il fatto più importante della seduta del 18 luglio fu il tormento della corda dato al Campanella per un'ora, fatto ricordato poi da lui medesimo nella sua Narrazione, là dove dice: «el Campanella sendo impazzito hebbe un'hora di corda, e restò per pazzo quando era il Tragagliola». Già fin dal 12 maggio, dietro la richiesta del vescovo di Termoli, il Card.l di S.ta Severina avea scritto: «quanto al particolare che ella avvisa, che fra Tomaso Campanella si finge pazzo, et non vuol giurare ne rispondere à quello, che se gli domanda, le dico che S. S. rimette all'arbitrio di Monsignor Nuntio e di V. S., e del Generale Vicario Archiepiscopale di dargli la corda per havere da lui la precisa risposta, con avvertire di non interrogarlo de' capi del negotio principale per non debilitare le ragioni del Fisco». Adunque, dopo il Soldaniero, venne introdotto il Campanella[177], e questa volta egli toccò il libro su cui fu invitato a giurare, ma fin dalla prima dimanda che gli venne diretta rispose in modo strano ed incoerente. «Volsero pigliare fratimo, et poi si concitorno tutti contra di me, et mi hanno spogliato, et mi ritrovo in questo modo, et hò fatto tanti libri, et poi me li hanno cambiati» etc. Era sempre vestito da secolare, col suo cappello nero tra mano, e diceva: «questo cappello è tutto stracciato, et tutte queste veste che hò sopra sono stracciate»; e volle coprirsi il capo ma l'aguzzino glie lo scoprì, onde egli si rizzò contro l'aguzzino dicendo, «guarda costui che mi vuol levare il cappello», e soggiunse «bisogna che venghi il Papa et sbroglia queste cose» etc. Fu quindi fatto condurre alla stanza del tormento e là venne spogliato e ligato alla corda, con le proteste che il S.ta Severina avea raccomandate: ed elevato in alto cominciò a dire «hoimè che moro, ah traditori, figlioli di cornuti, bagascie, mi hanno ammazzato, madonna santissima aiutami». Rinunziamo a continuare questa atroce rassegna di dolori, che d'altronde i lettori troveranno nel relativo Documento: solo diremo che il povero Campanella, talvolta furioso, talvolta abbattuto, ingiuriava o invece blandiva chiedendo pietà, e spesso invocava il Papa o a lui si appellava, nota dominante per tutto il tempo della sua pazzia; allorchè si rivolse a qualcuno de' Giudici in particolare, per muoverlo a misericordia, si rivolse sempre al «frate», cioè al Vescovo di Termoli. Tra le svariate dimande fattegli vanno notate le seguenti: quanto tempo fu carcerato in Roma, se era stato visitato da qualche medico nelle carceri, [Pg 140] come si chiamava il Commissario del S.to Officio in Roma al tempo in cui fu carcerato, ed anche, con ludibrio indegno, cosa avrebbe avuto di buono a pranzo, e dopo di avergli due volte minacciato il polledro, che dimandasse qualche grazia. E il Campanella, obbligato allora appunto a soddisfare a' suoi bisogni naturali stando sospeso alla corda, replicò all'ultima domanda che lo lasciassero... fare; nè rispose mai a proposito, e tra' diversi suoi detti incoerenti nominò il Marchese d'Arena, dicendo che «se havesse fatto (sic), non pateria questo», nominò Paolo Campanella, che avea disegnato una figura di S. Rocco, nominò Cicco Vono, qualificandolo suo nemico. Infine, scorsa un'ora, venne definitivamente deposto e sciolto, e secondo l'uso gli aguzzini gli ricomposero le braccia, quindi lo rivestirono e lo ricondussero nella sua carcere.

Subito dopo furono esaminati Geronimo padre e Gio. Pietro fratello del Campanella[178]. Geronimo si dichiarò di Stignano, dell'età di circa 65 anni, e dovè rispondere intorno alla causa della carcerazione di suo figlio, intorno a un libro che costui avea scritto ed egli avea lodato come superiore anche a quello degli Apostoli, intorno alle divinazioni fattegli sull'avvenire degli altri figli, intorno al rifiuto di predicare espressogli da fra Tommaso e motivato col non voler fare l'ufficio di saltimbanco, intorno al pranzo di Stignano in casa Grillo, dove egli avea fornite vivande ed avea dovuto udire eresie da fra Dionisio. Il povero vecchio disse di sapere solamente che suo figlio era stato carcerato da Carlo Spinelli, o per detto d'altri che avea scritto un libro in Napoli, mentre quanto a sè egli non sapea leggere nè scrivere, soggiungendo, «alhora tutti mi dicevano beato et hora tutti mi dicono sfortunato». Quanto alle divinazioni, disse che suo figlio era stato quattordici anni fuori di Calabria, ed al ritorno appena lo riconosceva per padre, trattando solo con Principi e Signori, come il Principe della Roccella e il Marchese di Arena; quanto poi al rifiuto della predicazione, disse che veramente avea pregato fra Tommaso di accettare l'offerta fattane da que' di Stilo col compenso di 200 ducati, «per aiutare alcune figlie femine che hò è sono pezzenti», ma fra Tommaso non volle, dicendogli che sapeva quel che si faceva. Accettò di aver visitato fra Dionisio in casa Grillo, ma negò di aver fornite vivande, aggiungendo, «non hò per me, et hò nove tra figlie et nipote femine»; negò pure energicamente di avere udito discorsi eretici, ed aggiunse, «si fra Dominico (Petrolo) lo dice, fatime mettere un chiappo al collo et impendere». Da ultimo s'inginocchiò innanzi a' Giudici e disse, «Signori, siamo tutti spersi per povero regno, et si questi monaci hanno fatto male, vi prego, castigateli per amore di Dio»: con ciò, s'intende, egli volea dire che facessero presto, perchè così sarebbe presto tornato a casa sua ove l'attendeva una frotta di giovani donne rimaste nell'abbandono [Pg 141] e nella miseria; e il suo desiderio era naturalissimo, ma faceva dimenticargli che tra' monaci i quali avrebbero dovuto essere gastigati, e non lievemente, c'era anche il migliore de' suoi figliuoli.—Molto più breve fu l'esame di Gio. Pietro Campanella, che si dichiarò di 28 anni in circa e di mestiere calzolaio. Gli chiesero se avesse mai udito suo fratello fra Tommaso parlare di rivoluzioni da dover accadere nel 1600; ed egli rispose che poche volte gli avea parlato e non mai di tali cose. Al pari di suo padre, non sapendo scrivere, segnò con una croce il processo verbale dell'esame.

Il 20 luglio venne il Campanella ricondotto innanzi a' Giudici, e continuò a mostrarsi pazzo[179]. Non voleva rimanere nella sala di udienza, si tirava indietro, e poi cominciò a baciare certe figure disegnate nel foglio del Calendario. Gli si fecero dimande strane; quante sorelle aveva, dove trovavasi il suo padre carnale e da quanto tempo non l'aveva veduto, se possedeva il breviario etc. poi lo si avvertì di cessare dal fingersi pazzo. Ed egli nominò più sorelle, Costanza che era Badessa, Emilia maritata, Giulia da doversi maritare con Michele Castellano; parlò del padre in modo incoerente, ricordò che gli aveano presi tutti i suoi libri, accennò ad una «Signora grande», a soldati che l'aveano perseguitato, ad una sua fuga di 20 miglia. Lamentavasi per avere le braccia addolorate in sèguito della tortura, e da ultimo disse, «dammi da bere frate, quattro confortini (confortatori) negri negri vengono ogni sera et mi ammazzano...». Dal processo verbale si rileva che avrebbe sottoscritto l'esame, se non avesse avuto le braccia debilitate.

Fu di poi, nella stessa seduta, interrogato nuovamente il Soldaniero, quindi Giuseppe Grillo; inoltre furono richiamati fra Dionisio ed il Pizzoni, per dare qualche chiarimento[180]. Al Soldaniero si fecero molte dimande; come mai fra Dionisio avesse cominciato a parlare con lui contro la fede mentre non c'era mai stata familiarità tra loro, se fra Dionisio fosse venuto a Soriano egli solo o in compagnia di qualcuno, come si fosse comportato il Pizzoni in quella circostanza, in quale giorno si fosse mangiato carne, a quale scopo que' frati gli avessero dette tante eresie. E il Soldaniero narrò di nuovo i particolari della venuta di fra Dionisio a Soriano, ed affermò che questa accadde di martedì, nel quale giorno, avendo precedentemente riportata una ferita di archibugio, egli non mangiava carne per divozione alla Madonna dell'Idria (cioè di Costantinopoli), ma fra Dionisio mangiò carne ed eccitò lui a mangiarne; non potè poi ricordarsi se il Pizzoni fosse presente, ma dichiarò che gli pareva di sì, e che costui confermava le opinioni di fra Dionisio, dicendo che erano opinioni del Campanella. I Giudici gli fecero [Pg 142] notare che nella prima deposizione avea detto non essere stato presente il Pizzoni, essere avvenuto il fatto in giorno di venerdì, non avere fra Dionisio mangiato carne (l'aveva solamente desiderata per mangiarla), e che badasse quindi a non dire menzogne: egli rispose più volte che non se ne poteva ricordare e si rimetteva al suo primo esame, conchiudendo che le eresie gli erano state raccontate perchè le credesse.—Giuseppe Grillo, fatto venire dal Castello dell'ovo in cui era rinchiuso, dietro dimande, dichiarò di aver conosciuto anteriormente fra Dionisio e gli altri frati che poi vennero a pranzo in casa sua in Stignano, e di averne buonissima opinione, ma non così Cesare Pisano che vide allora per la prima volta; dichiarò che durante il pranzo fra Dionisio avea detto doversi «rengratiar Dio di tante gracie che ci fà e cose simile», ma non avea detto nulla contro la fede, perchè egli «saria ricorso da superiori», ed anzi lo stesso fra Dionisio fece poi un sermone in Chiesa, in Stignano, presenti tre dottori e moltitudine di popolo, e fu lodato assai. Avvertito di non dir bugie, il Grillo soggiunse che avea detto la verità; che dal Petrolo, per mezzo del figlio di Desiderio Lucane, gli era stato raccomandato di volersi esaminare in favor suo; che da Mario Flaccavento come pure da Felice Gagliardo e Camillo Ademari, prima di venire dal Castello dell'ovo, gli era stato raccomandato di voler dire che in Stignano si era mangiato carne in giorno di venerdì o sabato, e che egli stesso l'avea mangiata inavvertentemente, poichè così trovavasi affermato in processo, e non dicendo così anche lui, avrebbe avuto la corda, ma egli avea risposto di non voler dire la bugia (tanti erano impegnati a non far alleviare la posizione degl'inquisiti, o invece tanto era furbo questo giovanotto che inventava sollecitazioni per procurarsi credito).—Si fece poi venire fra Dionisio, per sapere in che giorno fosse stato in Soriano, e se il Pizzoni vi fosse stato con lui. Dietro varii tentennamenti di reminiscenze, egli conchiuse che vi fu col Pizzoni il mercoledì, e il Pizzoni si partì subito pel suo conventino poco distante da Soriano, che in quella sera si mangiò co' frati, e l'indomani, giovedì, si mangiò nel dormitorio col Priore, col Lettore, con alcuni spagnuoli, ed anche con Giulio Soldaniero.—Da ultimo si fece venire il Pizzoni per udirlo sullo stesso fatto, ed egli lo negò assolutamente (senza dubbio a torto); e dietro dimande disse che non era mai stato a Soriano con fra Dionisio, che non aveva mai confermato eresie nè biasimata l'astinenza dal mangiar carne per divozione, e che questa era un'infamia in suo danno da parte di fra Dionisio e del Campanella conformemente alle loro minacce!

A questo punto si erano già raccolti esami sufficienti per poter passare dal processo informativo, che dicevasi pure offensivo, al processo ripetitivo: difatti il 31 luglio, sull'istanza del Procuratore fiscale, la Corte emanò i suoi Decreti in questo senso, ed abbiamo [Pg 143]ragione di credere che non poco v'influì Mons.r Nunzio, il quale era spesso sollecitato dal Vicerè a terminare la causa dell'eresia, acciò si potesse procedere alla spedizione di quella della congiura. Ma il Vescovo di Termoli, che avea realmente studiata la causa ed era abituato alla ricerca della verità senza transazioni, scorgendo un cumulo di circostanze poco atte a rassicurare la sua coscienza, volle che fossero interrogati dal tribunale il Priore e il Lettore di Soriano, fra Domenico da Polistina e così pure Valerio Bruno, inoltre fra Gio. Battista di Placanica e fra Francesco Merlino già interrogati dal Vescovo di Squillace in Calabria: e però fin dal 18 luglio avea con una sua lettera commesso a quel Vescovo di mandare tutti que' frati in Napoli, e di chiarire con nuovi esami alcuni punti del processo già da lui fatto nell'anno precedente; ed il Vescovo eseguì la commissione con ogni sollecitudine, procurando la comparsa de' frati al tribunale di Napoli ed inviando poi anche l'Informazione supplementare da lui presa, che per tal modo trovasi inserta nel processo di Napoli. Come si rileva dai documenti che fanno parte di questa Informazione, il Priore di Soriano era già venuto in Napoli chiamatovi dal P.e Generale, e fra Domenico da Polistina, funzionante da compagno del Provinciale di Calabria, fu da costui immediatamente inviato; a fra Gio. Battista da Placanica e a fra Francesco Merlino fu fatto dal Vescovo di Squillace, con la comminatoria di molte e gravi pene, precetto di presentarsi al tribunale in Napoli, l'uno nel termine di 20, l'altro nel termine di 25 giorni; al Lettore di Soriano fu fatto un uguale precetto, col termine di 30 giorni.—Si ebbe quindi una serie di altri esami, alcuni de' quali si compirono mentre già il processo ripetitivo faceva il suo corso: noi li poniamo tutti qui in continuazione degli esami precedenti, senza attenerci con rigore assoluto alla cronologia de' diversi atti processuali, per non intralciare di troppo il corso della nostra narrazione.

Ed in prima l'8 e l'11 agosto, nel convento di S. Luigi ove risedeva il Vescovo di Termoli, furono esaminati e riesaminati fra Giuseppe d'Amico Priore di Soriano e fra Domenico di Polistina[181]. L'esame del giorno 8 fu fatto innanzi all'intero tribunale. Fra Giuseppe d'Amico, dietro dimande, disse che fra Dionisio e il Pizzoni vennero insieme a Soriano, un giorno di giovedì al tardi, ed allora nel convento trovavasi pure il Soldaniero, uomo di mala vita, che Mons.r di Mileto non voleva fosse cacciato, come anche Valerio Bruno, servitore del Soldaniero ed egualmente fuoruscito; che il Pizzoni l'indomani se n'andò al suo convento di Pizzoni, d'onde tornò il sabato con Claudio Crispo e si diresse tosto ad Arena ove trovavasi il Campanella; che fra Dionisio, rimasto il venerdì a Soriano, partì egli pure il sabato per Arena, poco dopo ch'era partito il Pizzoni, dicendo di temere che costui conducesse il Campanella a [Pg 144] Pizzoni mentre egli volea condurlo a Soriano, e poi l'istesso giorno tornò a Soriano e vi rimase la domenica per farvi una predica, dopo la quale definitivamente se ne partì. Disse che, appena giunto, fra Dionisio dimandò del Soldaniero, e si recò in camera di lui e vi si trattenne un pezzo in colloquio, e ciò accadde nel giugno o luglio 99; che da otto a quindici giorni dopo, il Soldaniero parlò ad esso fra Giuseppe della ribellione, ma solo nel mese di agosto gli raccontò diverse eresie dette da fra Dionisio; che poi, trovandosi esso fra Giuseppe presso il Visitatore in Monteleone, quando già la congiura era scoverta e fra Dionisio era fuggito con una cavalla presa nel convento, riferì ogni cosa al Visitatore ed al Provinciale, ed avvertì al suo ritorno il Soldaniero di quanto avea fatto; che il Soldaniero allora gli rispose di dover essere esaminato, perchè avrebbe deposto anche di più, ma non aveva mai pregato lui che cacciasse fra Dionisio dal convento. Aggiunse che il Soldaniero non gli aveva mai discorso del Pizzoni come fautore di eresie, bensì come sollecitatore perchè «si havesse voluto trovare con l'intentione loro», e solo di fra Dionisio gli raccontò le diverse eresie, che egli si fece a ripetere; (così era certo l'armeggio per la ribellione da parte di tutti costoro insieme col Campanella, ma la faccenda dell'eresia era imputabile solo a fra Dionisio, che veramente ne faceva professione almeno come di un'arma di guerra).—Quanto a fra Domenico di Polistina, costui confermò che agli 8 o 9 di agosto dell'anno precedente, dopo l'incontro avuto col Campanella in Davoli, la sua fuga da quel posto per minacce di banditi e il suo arrivo in Soriano, seppe dal Soldaniero che fra Dionisio gli aveva esposto un gran numero di eresie, il fatto osceno contro l'ostia etc., eresie che fra Dionisio e il Campanella doveano predicare al tempo della ribellione, ed egli poi ne parlò a fra Cornelio del Monte; che del Campanella non seppe al di là delle cose dette, e con fra Cornelio non parlò del Campanella per conto dell'ostia consacrata (così fra Cornelio risultava falso, ma rimaneva pure a vedere se non era falso in ciò fra Domenico, e fino a qual punto costui fosse stato informato dal Soldaniero o viceversa). Aggiunse poi, spontaneamente, che il Campanella molti anni prima avea voluto uscire dalla Religione, e si era detto pubblicamente che avea lasciato la Calabria in compagnia di un certo Abramo ebreo o caldeo; (era sempre lui fra Domenico che evocava tale fatto, e questa volta per detto altrui, non per propria scienza).—Il nuovo esame di costoro, l'11 agosto, fu fatto innanzi al solo Vescovo di Termoli. Fra Domenico da Polistina narrò qualche circostanza di poco valore relativamente al suo incontro col Soldaniero. Fra Giuseppe d'Amico aggiunse che, parlando della ribellione col Soldaniero nell'agosto, ebbe a vedere nelle mani di lui una lettera del Campanella scritta di suo pugno, giacchè ne conosceva il carattere, la quale finiva col dire al Soldaniero che su quanto gli avea discorso fra Dionisio, se ne rimetteva al suo luogotenente fra Gio. Battista di Pizzoni; (così[Pg 145] fra Giuseppe parlava sempre de' soli fatti della ribellione, ma è pur vero che non avrebbe potuto parlare de' fatti di eresia laddove fossero stati a sua notizia fin da principio, mentre non si era curato di denunziarli per tanto tempo). Infine, dietro dimanda, depose che il Campanella, quando si partì dalla Calabria, diceva di partirsene per la persecuzione che soffriva dal Provinciale di quel tempo P.e Pietro Ponzio, e si disse che era partito con un Abramo, ebreo molto scienziato ma che esso fra Giuseppe non avea veduto; (nessuno dunque avea veduto questo ebreo, ma è pur vero che a nessuno conveniva ammettere di averlo veduto).

Di poi, il 21 agosto, fu interrogato in Castel nuovo Valerio Bruno[182]. Costui disse che era stato per circa un anno col Soldaniero nel convento di Soriano, che avea là veduto fra Dionisio rimastovi due giorni, durante i quali venne pure il Pizzoni, e che li avea veduti cacciare entrambi dal Priore a richiesta del Soldaniero, scandalizzato perchè gli avevano palesate molte eresie, le quali egli si fece a ripetere. Disse che fra Dionisio e il Soldaniero aveano mangiato insieme un giorno di martedì o venerdì; giorno in cui il Soldaniero si asteneva dalla carne per voto fatto in sèguito di un colpo di archibugio ricevuto, ed egli avea udito fra Dionisio maravigliarsene; che non seppe altro di ciò, ma poi l'indomani, essendo venuto il Pizzoni ed avendo confermato le eresie dette da fra Dionisio, ad un'ora o due in circa di giorno udì il Soldaniero che «comminciò a gridare che cose son queste che mi dite, à par mio dite queste cose, è comminciò à chiamare il Priore, Padre Priore venite, cacciati questi»; che il Priore il quale nella sera precedente avea cercato di scusare fra Dionisio dicendo che era briaco, ed avea raccomandato al Soldaniero, per amore di Dio, l'onore della Religione, finì per accorrere insieme col Lettore ed altri e così cacciarono que' due frati. Insomma, accumulando circostanze in modo abbastanza comico, questo furfante procurò di rendere sempre più credibile il suo racconto, ma avvertito da' Giudici che era caduto in qualche contradizione e che badasse di non dire bugie, cominciò lui a turbarsi veramente e ad esclamare «misericordia Signore, per l'amor di Dio, che questa cosa hà un anno che è passata che non mene ricordo;... io non son dottore, facilmente si può pigliare et errare una parola, habbiatimi compassione Signore». Infine dichiarò di non avere udito egli stesso, nè da altri all'infuori del Soldaniero, cose contrarie alla fede provenienti da fra Dionisio e dal Pizzoni; (evidentemente Valerio Bruno si era messo anche questa volta d'accordo col Soldaniero, per appoggiarne le deposizioni).

Vennero in sèguito da Calabria fra Gio. Battista da Placanica e fra Francesco Merlino, e il 30 agosto e il 2 7bre, quando già il processo ripetitivo faceva il suo corso, e furono sottoposti al primo [Pg 146] esame e all'esame ripetitivo nel solito convento di S. Luigi presso Palazzo: venne egualmente fra Vincenzo di Lungro Lettore di Soriano, e poco dopo, il 7 7bre, fu egli pure esaminato nel medesimo convento innanzi all'intero tribunale[183]. I due primi riuscirono di speciale interesse circa la persona del Campanella, l'altro circa la persona di fra Dionisio e i fatti di costui in Soriano. Fra Gio. Battista di Placanica disse di stare «di mal cervello, ciò e, di mal memoria», e si riferì costantemente all'esame già fatto dieci mesi innanzi in Squillace; fu interrogato su' concetti che il Campanella aveva espressi intorno all'immortalità dell'anima, alla fornicazione, alla scomunica, alle cerimonie de' turchi, alle religioni claustrali, e in genere non se ne seppe più di quanto se n'era saputo prima; può dirsi che fu esplicito solamente nell'attestare che il Campanella parlava della fornicazione in modo da sembrare che quasi dicesse non esser peccato, ed oltracciò nell'attestare che non potè avere nè dal Vescovo di Squillace nè dal P.e Provinciale la licenza di confessare e predicare in Monasterace. Nell'esame ripetitivo in sostanza disse di aver conosciuto il Campanella quando esso era novizio in Placanica, non aver mai udito direttamente da lui cose di eresie, aver solamente udito da lui dire «che inferno, che inferno» nel parlare a' suoi discepoli e segnatamente a Fulvio Vua e Giulio Contestabile, come pure che gli atti carnali non erano peccati tanto grandi quanto si ritenevano, poichè «Dio havea fatto il membro genitale...» per usarne.—Fra Francesco Merlino, nel primo esame, riferendosi lui pure all'esame sostenuto in Calabria, disse di avere solamente udito dire che il Campanella negava i miracoli fatti da Mosè, che avea mangiato più volte carne in giorni proibiti e segnatamente una porchetta insieme co' banditi in Pizzoni, che teneva con sè il demonio, e per arte diabolica conosceva tutto quello che sapeva; disse pure, a proposito del disprezzo della scomunica, che egli si trovava studente in S. Domenico di Napoli, quando il Campanella dimorava pure in questa città presso Mario del Tufo, e che venuto un giorno in S. Domenico il Campanella fu preso e tradotto nelle carceri del Nunzio, essendosi allora dato per motivo della carcerazione che aveva spiriti, ma essendosi poi saputo che ci erano altri motivi, e in ispecie che parlando della scomunica per coloro i quali estraevano libri dalla libreria avea detto, «come è questa scomunica, che, si mangia»? Nell'esame ripetitivo poi dichiarò, che avea cominciato a conoscere di vista il Campanella nel convento di Placanica, di cui esso Campanella era figlio, che in sèguito l'avea conosciuto in Napoli, quindi di nuovo l'avea visto in Calabria, essendosi più volte visitati, che non sapeva che avesse detto eresie, che altri aveano palesate più cose contro la fede da lui dette o fatte, le quali egli si diè a ripetere; che in Stilo passava per uomo onesto, che si era detto essere partito [Pg 147] dalla Calabria coll'ebreo Abramo, ed avere la sua scienza per arte diabolica, ma egli non credeva questo, avendo conosciuto «che hà bello ingegno et hà studiato assai». Inoltre che si era detto «che esso si voleva fare nominare il Messia della verità», ma di questa, come di altre cose, si parlò dopo la carcerazione, e più di una volta fece notare tale circostanza, dicendo, «molte cose sono state dette subito che questi fratri furono presi, et non so come uscessero», (ben si vede che in fondo il Campanella non riusciva aggravato di troppo da tali deposizioni).—Quanto a fra Vincenzo, Lettore di Soriano, egli narrò la venuta di fra Dionisio e del Pizzoni in Soriano con lievissime differenze dal modo in cui l'avea narrata il Priore fra Giuseppe: soltanto aggiunse di più, che quando fra Dionisio andò momentaneamente ad Arena per condurre il Campanella a Soriano, il Campanella non volle venirvi; inoltre che veramente, 4 o 5 giorni dopo la dipartita di fra Dionisio, il Soldaniero gli disse che fra Dionisio era venuto a trattare della ribellione contro il Re, avendo molti Signori per lui, e gli disse pure che fra Dionisio non credeva a nulla, comunicandogli il fatto del pugno dato al crocifisso e il fatto osceno contro l'ostia perpetrato da fra Dionisio medesimo, cose «approbate da fra Dionisio come cose del Campanella». Negò assolutamente che il Soldaniero avesse comunicato al Priore i detti e fatti contro la fede, se non dopo un mese o dieci giorni in circa; e per quanto i Giudici avessero insistito con le loro dimande, negò che il Soldaniero avesse mai parlato di tali cose mentre fra Dionisio era in Soriano per farlo cacciare dal convento, come pure che avesse attribuite le eresie anche al Pizzoni, dichiarando che il Soldaniero «ben diceva, che frà Thomaso Campanella, frà Dionisio Pontio, frà Gio. Battista di Pizzoni, frà Silvestro di Lauriana, frà Pietro de Stilo, et frà Dominico di Stignano erano tutto una cosa insiemi, mà non mi parlò di heresie contra frà Gio. Battista predetto». (Si sarebbe tentati di credere che il Pizzoni, per essersi stretto a fra Dionisio e al Campanella, dovea dapprima venire spietatamente involto nel medesimo destino loro, ma avendo poi fatto il suo orribile voltafaccia, questi frati di Soriano, appartenenti alla fazione del Polistina, doveano oramai proteggerlo: intanto per fra Vincenzo il Campanella riusciva egli pure imputabile delle peggiori cose contro la fede, e il Soldaniero rimaneva per entrambi que' frati scoperto).

Mentre in Napoli si facevano questi esami, in Squillace nello stesso tempo, dall'8 agosto all'8 7bre, il Vescovo esauriva la sua Informazione supplementare, la quale riguardava interamente la persona del Campanella. Mediante i diaconi selvaggi della sua Corte citò ciascun teste a comparire personalmente innanzi a lui, sotto le solite gravi pene ecclesiastiche, in brevissimi termini: ed egli medesimo nel suo Palazzo, col suo Vicario Sir Agazio Colobraro e coll' Auditore Andrea Mantegna, procedè a quasi tutti gli[Pg 148] esami[184].—Eccone un sunto. Vespasiano Vosco dottore di Girifalco dichiarò, che dopo la carcerazione del Campanella udì nella piazza di Squillace dire pubblicamente che costui riteneva Cristo essere un semplice eremita e Maria Maddalena sua concubina.—Gio. Battista Rinaldis dottore di Guardavalle dichiarò di aver saputo dalla sua suocera Dianora Santaguida, vedova di Ottavio Carnevale, che fra Scipione Politi le aveva detto che il Campanella «per stratiare et burlare li patri cappoccini, mentre andavano in Chiesa, li dicia dove andati, ad adorare un appiccato».—Marcello Fonte di Stignano confermò di aver saputo da Geronimo padre del Campanella, che costui non volle predicare in Stilo dicendo di non voler fare l'officio di Cantimbanco.—Il Rev. Scipione Ciordo di Camini confermò di avere udito da alcune persone del suo paese che il Campanella diceva «che la buggera (la fornicazione) non era peccato».—Fabio Contestabile di Stilo confermò che gli era stato detto dal Campanella di pigliarsi spassi e piaceri quanto più poteva «che del resto è pensiero di chi è».—La Sig.ra Dianora Santaguida di S.ta Caterina (questa sola innanzi all'Auditore Mantegna espressamente inviato) dichiarò che da Luzio Paparo suo parente avea saputo di aver lui udito dire che il Campanella diceva, «non vi ca (int. non vedi che) adorano uno impiso»; dichiarò che non avea saputo questo fatto da fra Scipione Politi, poichè costui non era venuto in casa sua, ma nello studio di suo figlio, separato dalla casa sua; aggiunse che l'aveva poi comunicato a Marcello Contestabile suo nipote.—Marcello Contestabile di Guardavalle raccontò ne' seguenti termini un discorso avuto con sua zia la Sig.ra Santaguida, a tempo della persecuzione fatta da Carlo Spinelli e dall'Avvocato fiscale; essa disse, «o Marcello figlio mio, secondo si intende questo fra Thomaso che vene a S.to Nicola alli monaci è peccato non me e abrusciato, et io le disse S.ra zia che cosa passa, et la detta mi rispose dicendomi figlio mio io tremo de dirti questi paroli, et raggionandomi disse credi Marcello che uno homo da bene che sta sotto parte illoco, nominando il nome ma non mi si ricorda come lo nominò ma per quanto mi ricordo mi pare che lo chiamò mastro Jacopo, et disse che quello l'havea detto che lo detto fra thomaso solia venire in S.to Nicola monesterio de dominichini di detta terra, et illà con li monaci facia banchetti et dopo si faciano portare uno leuto et sonavano et detti monaci et altri seculari ballavano et che... (un luridume da non riportarsi)... et detta donna me lo dicia con gran modestia sugiungendo che lo detto pure li disse che lo detto fra Thomaso raggionando di Jesu Christo disse, dati credito ad uno che morio impiso, et di questa parola spaventati io et la detta mia zia dicendone Jesu Jesu Vergine maria mi levai» etc.—Jacopo Squillacioti di S.ta Caterina (il mastro Jacopo della Santaguida) negò [Pg 149] assolutamente di aver mai saputo e detto alla Sig.ra il lurido fatto che la modesta e pia donna riferiva, e cosi pure qualche concetto eretico che il Campanella e suoi compagni avessero in qualunque modo espresso: unicamente attestò avere udito dire «che era venuto a S.to Nicola delli dominichini uno fra Thomaso, et diciano li genti di S.ta Catherina che non guardava hom' in faccia ma sempre si guardava la ungnia».—Fu questa l'Informazione supplementare di Squillace, dalla quale sicuramente non emerse nulla di nuovo, e se qualche aneddoto venne in luce, esso fu smentito sul nascere; può dirsi di più che rimase quasi sempre infruttuosa la ricerca della provenienza de' fatti in quistione, e sopratutto la ricerca delle persone presenti allorchè essi erano stati enunciati, oggetto principale dell'Informazione, per quanto dalle interrogazioni ivi registrate è lecito argomentare.

II. Possiamo ora occuparci del processo ripetitivo, per lo quale, come abbiamo fatto avvertire più sopra, la Corte fin dal 31 luglio 1600 aveva già emanati i suoi decreti. E gioverà innanzi tutto dire in che consistevano le ripetizioni, e in qual modo vi si procedeva secondo la giurisprudenza del tempo. Le ripetizioni concernevano essenzialmente i testimoni del fisco. Il Procuratore fiscale, che compariva in dati momenti senza assistere alle sedute della Corte, facendo lo spoglio degli esami raccolti compilava tanti Articoli, capi, o posizioni, esprimenti tanti fatti o detti incriminabili da' quali emergeva il delitto onde si intitolava la causa. Questi articoli egli redigeva ed esibiva per far constare chiaramente il delitto, e in ciascuno di essi poneva, offriva, e voleva e intendeva provare ciascun fatto o detto, ciò che per altro era stato ed era vero, pubblico, notorio, pubblica voce e fama, e però egli, il fiscale, protestava di non ritenersi costretto ad una prova superflua! Presentando gli articoli conditi di un simile noioso formulario, faceva istanza e chiedeva che si venisse alla ripetizione; e la Corte, veduti gli atti e l'istanza del fiscale, emanava un Decreto, col quale ordinava la consegna di una copia degli articoli all'imputato, e stabiliva un termine entro il quale l'imputato dovea formare e produrre gl'Interrogatorii da farsi a' testimoni del fisco sopra quegli articoli, ed anche dimandare un Avvocato e procuratore, dichiarando che in contrario si sarebbe proceduto alla ripetizione de' testimoni senza interrogatorii; per solito la Corte deputava pure fin d'allora, ex nunc prout ex tunc, un Avvocato e difensore di ufficio quando prevedeva che l'imputato non l'avrebbe chiesto da sè, ed infine ordinava di notificare ogni cosa all'imputato. Nello stesso giorno il Mastrodatti faceva la consegna degli articoli e la notificazione del termine con la deputazione dell'Avvocato, e ne redigeva un atto in presenza di quattro testimoni, ordinariamente carcerati e carcerieri. Quindi l'Avvocato presentava a nome dell'imputato gl'interrogatorii da rivolgersi a' testimoni contro gli articoli, e faceva istanza[Pg 150] ed umilmente chiedeva che i testimoni prima di esaminarsi su ciascuno articolo rispondessero a quegl'interrogatorii, in contrario con riverenza protestava. Quest'interrogatorii erano preceduti rutinariamente da alcune ammonizioni che si doveano fare a ciascun testimonio, cioè, di essere obbligato a dire la pura e semplice verità, sotto pena di scomunica ed altre molte e gravi pene, di tener presente che si commetteva falsità non solo col proferire il falso ma anche col tacere il vero, e che commettendo, Dio non voglia, la falsità, era sempre tenuto a restituire la fama. E non meno rutinariamente esigevano che ciascun testimone dicesse il suo nome, cognome, padre, madre, patria, esercizio, a spese di chi vivesse, quanto possedesse, se fosse solito confessarsi e comunicarsi, e presso quale confessore e in quale chiesa e da quanto tempo l'avesse fatto, se fosse stato mai scomunicato, e da quanto tempo e per quale causa: e poi, se conoscesse l'imputato, da quanto tempo e per quale causa, se gli fosse amico o nemico e perchè, se ci avesse mai conversato intrinsecamente e quale opinione ne avesse circa le cose della fede; e poi, venendo a ciascuna imputazione, se avesse udito qualche volta parlare l'imputato del tale argomento e in che senso, e con quali parole, e in qual luogo, e in qual parte di quel luogo, e con quale occasione, e in presenza di chi, e quante volte, e in quale ora, giorno, mese ed anno, e se determinatamente o d'improvviso, e se con assenso o con dissenso del testimone, e in caso di dissenso, con quali parole questo fu espresso e quali risposte ebbe etc. etc. etc. Ci rimangono saggi d'interrogatorii che costituiscono veri monumenti di fecondità in sottigliezze, e sempre allo scopo di far trovare qualche contradizione ne' testimoni, o di stancare interroganti ed interrogati e prender tempo. Era poi anche in facoltà dell'Avvocato di aggiungere qualche speciale interrogatorio, oltre quelli calcati sugli articoli, e perfino d'indicare qualche persona speciale cui quell'interrogatorio aggiunto dovea rivolgersi: d'altra parte, è quasi superfluo il dirlo, i Giudici non mancavano quasi mai di rivolgere di tempo in tempo a ciascun testimone, oltre la detta doppia serie di dimande, qualche loro particolare dimanda d'ufficio.

In tal modo fu iniziato e condotto anche il processo ripetitivo nella causa del Campanella e socii. Procuratore fiscale fu il Reverendo Andrea Sebastiano, fiscale della Curia Arcivescovile, che trovasi nella massima parte delle scritture processuali di quel tempo, avendo poi avuto a successore nel 1603 il Rev.do Silvestro Santorello: egli diede gli articoli soltanto contro ciascuno de' tre imputati principali, il Campanella, il Pizzoni e fra Dionisio, incolpandoli tutti egualmente «de haeretica pravitate et atheismo»; ma vedremo che durante la causa svanì l'ateismo e rimase unicamente l'eretica pravità. Il tribunale emanò tre Decreti, uno per ciascuno de' tre imputati, assegnando il termine di soli 4 giorni perchè si producessero gl'interrogatorii, ma veramente tollerò che questi fossero prodotti fin 16 giorni dopo, come si vede accaduto appunto[Pg 151] pel Campanella, essendo stati gl'interrogatorii in nome suo presentati il 16 agosto. Nel Decreto relativo al Campanella si disse: «atteso che fra Tommaso Campanella simula o sembra simulare la pazzia, i Signori giudici, senza deliberar nulla sopra di ciò, perchè la giustizia non patisca danno in qualche parte e per abbondanza di cautela, decretarono che ad esso fra Tommaso Campanella venga assegnato d'ufficio come si assegna per curatore ed avvocato il Rev.do Attilio Cracco»[185]. Questo medesimo Cracco fu assegnato per Avvocato e difensore al Pizzoni e a fra Dionisio, nel caso in cui costoro non avessero da loro medesimi chiesto un Avvocato e procuratore. Per quanto ci consta da diverse scritture di quel tempo, il Rev.do Attilio Cracco era l'avvocato officioso quotidiano nelle cause del S.to Officio in Napoli, salvo l'assistervi o no con la debita diligenza; così nel corso di questo medesimo processo troviamo una supplica di fra Dionisio a' Giudici perchè provvedessero a far andare presso di lui il Cracco che non ci andava. Da una nota confidenziale, scritta da costui a piè di un atto del processo, rilevasi che egli era compare del Mastrodatti Prezioso e certamente coll'avvocatura di officio faceva la sua carriera nella Curia: difatti in una scrittura del 23 luglio 1615, durante l'Arcivescovato del Card.l Carafa, essendo Curzio Palumbo Vicario delle Monache e Commissario delle cause di S.to Officio, troviamo il Rev.do Attilio Cracco Canonico ed Avvocato fiscale.

Ecco ora con la maggior brevità possibile i particolari degli articoli e degl'interrogatorii dati per ciascuno de' tre inquisiti, contro i quali si fece il processo ripetitivo.—Contro il Campanella furono dati dal fiscale non meno di 20 articoli, riproducendo anche tutte le scritture, atti e processi formati contro di lui[186]. Co' 20 articoli, corredati delle formole sopra esposte, il Fiscale volle provare avere il Campanella detto apertamente e pubblicamente: che non c'era Dio, che la Trinità era una chimera, che Cristo non era Dio ma un pezzente, che l'ecclissi del sole a tempo della passione di Cristo non fu miracolosa nè universale, che la risurrezione di Cristo non fu vera e il corpo di lui, al pari di quelli di certi legislatori, fu rubato, che Maria non rimase vergine, che nell'Eucaristia non c'era il corpo di Cristo ed essa fu istituita per semplice commemorazione, che i Sacramenti erano invenzioni di uomini ed istituiti per ragione di Stato, che i miracoli di Cristo non erano veri ed ognuno potea farne, e Mosè passò il mare profittando del flusso e riflusso e Lazzaro risuscitò per finzione, che era una stoltezza adorare il crocifisso, che non c'era purgatorio nè paradiso nè inferno e le anime tornavano nel nulla, che l'anima era mortale, che non c'erano i diavoli, che egli volea predicare una nuova legge migliore di quella de' Cristiani, che il peccato era tale in [Pg 152] quanto così credevasi dagli uomini e non era peccato quello che commettevasi di nascosto, che gli atti venerei non erano peccati e la Chiesa avea fatto male a proibirli, che le Sacre Scritture erano invenzioni degli Apostoli ad oggetto d'introdurre la fede di Cristo, che era lecito cibarsi di carne in ogni tempo, che egli sapeva fare miracoli o poteva farli, che la legge de' turchi era migliore di quella de' Cristiani. Come si vede, egli presentò i fatti emersi dai varii processi, accogliendoli con tutta la larghezza possibile e così come erano stati deposti. Naturalmente anche l'Avvocato riprodusse le cose medesime per conto suo negl'interrogatorii con tutto il formulario d'uso; nè aggiunse alcuna cosa di proprio per combattere le accuse, ma invocò la dottrina, bontà e religione de' Signori della Corte, notando che in simili casi conveniva che essi fossero non solo giudici ma anche patroni per indagare la verità[187].

Quanto al Pizzoni, gli articoli del fiscale contro di lui furono solamente 4, volendo provare aver lui detto, creduto ed anche tentato d'insegnare, che non c'era Dio, che non c'era Trinità, che era vano astenersi dal mangiar carne, ed in complesso tutte le eresie che si pretendevano dette dal Campanella, per lo che aveva con costui una cifra secondo la quale si scrivevano scambievolmente. E l'Avvocato si attenne alle stesse cose negl'interrogatorii, e per l'articolo in cui si affermava avere il Pizzoni professate tutte le eresie del Campanella volle che ogni testimone dicesse: se conosceva che il Pizzoni e il Campanella fossero familiari tra loro e da quali segni l'avea rilevato, se aveva mai udito costoro parlare di cose contro la fede e di quali cose, dove, e quando, e alla presenza di chi, e in modo aperto e chiaro o piuttosto oscuro, se aveva poi riferito ad altri queste cose, e a chi, e dove, e quando, e con quale occasione e a quale scopo, se infine conosceva quali fossero le opinioni del Campanella e che le esponesse etc. etc. Diede dippiù altri interrogatorii aggiunti, volendo che ogni testimone dicesse se era stato persuaso da qualche giudice a deporre contro il Pizzoni, segnatamente perchè il Pizzoni avea deposto contro di lui, se sapeva che fossero state scambiate lettere tra il Pizzoni e il Campanella, e cosa esse contenessero e in quale carattere fossero scritte, se sapeva che il Campanella e fra Dionisio avessero minacciato il Pizzoni e procurate fedi testimoniali false, se sapeva che il Pizzoni fosse stato lettore e predicatore di buone dottrine cattoliche o si fosse mai detto il contrario, se infine esso testimone era stato mai inquisito, processato e condannato, e da chi, e dove e per quale causa.

Da ultimo, quanto a fra Dionisio, vi furono per parte del fiscale 17 articoli, volendo provare aver lui detto, creduto ed insegnato o tentato d'insegnare: che non c'era Dio, che la Trinità era una chimera... insomma quasi tutte le cose affermate contro il [Pg 153] Campanella, aggiuntovi il fatto osceno in dispregio dell'ostia che sarebbe stato da esso fra Dionisio perpetrato, e con la conchiusione dopo tanto lusso di articoli, che aveva tenuto, creduto, insegnato o tentato d'insegnare tutte e ciascuna delle opinioni eretiche le quali si pretendeva aver tenute, credute e insegnate il Campanella. È superfluo dire che l'Avvocato seguì puntualmente il fiscale negl'interrogatorii; ma bisogna notare che aggiunse un'altra quantità d'interrogatorii divisa in tre gruppi, l'uno circa la persona del Pizzoni, l'altro circa la persona del Lauriana, il terzo circa la persona del Soldaniero. E col 1o volle che fosse il Pizzoni interrogato sopra più fatti: se esso Pizzoni fosse stato amico o nemico di fra Dionisio ed essendogli nemico come mai avesse fra Dionisio potuto comunicargli tanto gravi eresie, se fosse vero l'aver rubato molti scritti e prediche di fra Dionisio e l'essersene costui lagnato co' superiori, se avesse fatto fuggire fra Gio. Battista di Polistina quando fra Dionisio cercava di farlo carcerare per l'omicidio del P.e Ponzio, se fosse stato mai cacciato da qualche convento in cui fra Dionisio era Priore, se nel luglio 99 incontratosi con fra Dionisio in Stilo avesse cercato di parlargli e fra Dionisio vi si fosse rifiutato, se avesse dimorato più a lungo col Campanella ed avutane maggior conoscenza in paragone di fra Dionisio. Col 2o gruppo d'interrogatorii volle che il Lauriana dicesse: se esso Lauriana avesse cercato di vendere a fra Vincenzo Perugino certi scritti, che fra Vincenzo non volle comprare avendo conosciuto che apparteneano a fra Dionisio, se fosse stato mai suddito di fra Dionisio e da costui pubblicamente gastigato ed espulso dal convento per mala vita, se nel convento di Pizzoni ci fosse un passaggio per la cella del Vicario volendo andare alla cucina, se in Pizzoni fra Dionisio fosse stato prima o contemporaneamente al Campanella. Infine col 3o gruppo d'interrogatorii volle che il Soldaniero dicesse: se esso Soldaniero fosse andato nella camera in cui trovavasi carcerato fra Dionisio per parlargli, avendogli pure fatto visite, assistenza, spese, e prestato danaro quando fra Dionisio era infermo, allo scopo di conciliarsi con lui; inoltre se nelle carceri gli avesse rivelate le deposizioni fatte contro di lui, e divulgate alcune circostanze deposte nel suo esame.

Evidentemente gl'interrogatorii aggiunti, pel Pizzoni e per fra Dionisio, venivano da costoro medesimi suggeriti all'Avvocato con lo scopo di prepararsi il terreno alle difese. E così pel povero Campanella, che continuava a mostrarsi pazzo, non vi furono interrogatorii aggiunti, ed invece di essi vi furono le semplici raccomandazioni a' Signori Giudici.

Il 21 agosto 1600, nella seduta medesima in cui si faceva l'esame informativo di Valerio Bruno, procedevasi alle ripetizioni, cominciando da quelle contro il Campanella, che furono in breve esaurite nelle sedute successive del 22 e 23, aggiungendovisi una ripetizione supplementare il 29 agosto. Furono ripetuti il Soldaniero,[Pg 154] il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo, fra Pietro di Stilo; la ripetizione del Petrolo ebbe bisogno di un supplimento, per chiarire alcuni punti su' quali non parve di avere avute risposte da poter contentare[188]. Ad ognuno di costoro si lesse dapprima, con le debite ammonizioni, ogni singolo interrogatorio, di poi ogni singolo articolo «della parte avversa», a meno che la persona del testimone non vi fosse del tutto estranea, aggiuntavi pure qua e là qualche dimanda ex officio; e però nel processo si trovano inserti prima gl'interrogatorii con le ammonizioni e poi gli articoli, secondo l'ordine col quale doveano rivolgersi al testimone per averne le risposte. I lettori intenderanno che noi non potremmo in alcun modo riferire tutta la serie di queste risposte, le quali veramente dànno una quantità notevole di notizie, onde simili atti processuali riescono sempre di una grande importanza: moltissime notizie, da essi rilevate, hanno servito di base alla nostra narrazione degli antecedenti del Campanella, della congiura ed anche de' primi atti del processo; qui terremo conto essenzialmente delle cose che riflettono i punti più cospicui della causa.

Il Soldaniero (21 agosto) dovè dichiarare che era stato una volta scomunicato «per havere preso alcuni ribelli in chiesa» senza dire se fosse stato assoluto; e vedremo che pure di questo fatto si servì poi fra Dionisio per infermare la validità della sua testimonianza. Del rimanente continuò a dire che non aveva mai conosciuto il Campanella, non aveva mai ricevuta da lui alcuna lettera, e ne aveva avuta relazione solo da fra Dionisio, dal Pizzoni e da fra Pietro di Stilo, il quale ultimo non gli disse nulla del Campanella contro la fede, mentre i due primi gli dissero che il Campanella era uomo d'importanza, poteva fare miracoli, poteva risuscitar morti (null'altro che questo). Continuò a dire che mandò il Priore di Soriano a rivelare ogni cosa al Visitatore, e dichiarò di non avere avuta niuna promessa per deporre nel modo in cui depose. Naturalmente, non avendo mai conosciuto il Campanella, non potè attestare niuna delle cose affermate ne' 20 articoli del fiscale.—Il Pizzoni (22 agosto) ripetè le solite cose. Aveva conosciuto il Campanella da lungo tempo, ma solo quella volta che lo vide in luglio, lo udì parlare di eresie. Accennò (abbastanza goffamente) alle argomentazioni con le quali si era sforzato di ribattere le eresie che il Campanella aveva proferite, ed alla lettera che scrisse al P.e Generale, con l'opera del Lauriana, per informarlo di tutto; aggiunse che non potè fare altra dimostrazione contro di lui, perchè egli era accompagnato da tre o quattro banditi, come il Caccia e Marcantonio Contestabile; (sempre senza riguardo alcuno verso il Campanella e solo intento a salvare sè medesimo con la menzogna). Confermò che al suo esame innanzi a fra Cornelio era presente D. Carlo Ruffo, che quell'esame conteneva molti errori e [Pg 155] non gli era stato letto come era stato scritto. Sopra ciascuna eresia, che avrebbe udita dal Campanella, molto spesso si riportò agli esami fatti, non ricordandosi bene (circostanza da notarsi), ed infine aggiunse che quando parlava degli esami fatti, intendeva parlare di quelli fatti in Napoli, perchè in quelli fatti in Calabria ci erano «mille errori del scrittore».—Il Lauriana (nella seduta medesima) disse che conosceva il Campanella da due anni, e pel rimanente non fece che risponder sempre, «vedete al mio esamine che sarà llà,.. non mi posso ricordare,.. vedete llà all'esamine». Aggiunse infine, «queste cose le mantenerò in faccia à fra Dionisio et à fra Thomaso»; ed allora i Giudici gli fecero l'obiezione naturalissima, «come potrà sostenere quelle cose che dice di non sapere e non ricordare»; ed egli, «io lo sostenerò perchè essi l'hanno detto»; e i Giudici, «quali sono queste cose che i predetti dissero»; ed egli, «stanno scritte all'esamine, vedetelo llà»; e i Giudici, «dica le cose che si contengono in detto esame»; ed egli, «io non me ne ricordo»! Confermò del pari che a Monteleone D. Carlo Ruffo fu presente all'esame; e poi, venendo agli articoli, sul primo, cioè che il Campanella aveva detto non esservi Dio, rispose, «vedete l'esamine che mi pare che lo dica, et esso havea un libro in mano, che trattava de Deo, et si chiama Plinio»; su tutti gli altri rispose che non se ne ricordava, appellandosi continuamente al suo esame.—Il Petrolo (23 agosto) disse di avere conosciuto il Campanella prima che fosse frate, «che esso era prevetello», e poi negli ultimi due anni. Quindi, molto diffusamente, citando una quantità di circostanze, confermò ciascuna delle cose che avea deposte contro di lui. Narrò le pressioni sofferte la prima volta da parte di fra Cornelio per farlo deporre, la lettura fattagli privatamente dell'esame del Pizzoni per avere da lui le deposizioni medesime; e poi la presenza di D. Carlo Ruffo, del Capitano di campagna e di molti birri, nell'esame di Gerace, le pressioni ivi sofferte da parte di fra Cornelio per fargli sottoscrivere un esame che conteneva più di quello che aveva detto, l'andata alla stanza della tortura con lo Sciarava, le violenze di costui che prendendolo pel petto l'obbligò a sottoscrivere; onde si rimise all'esame fatto in Napoli «perchè quello di Calabria non fu scritto come egli diceva». Intanto venne ripetendo le eresie che il Campanella gli aveva espresse in discorsi confidenziali, negando quelle non deposte da lui e taluna malamente scritta in Calabria, come pure le diverse esagerazioni accumulate su quelle da lui deposte (che il fiscale aveva tratte dalle deposizioni del Caccia, del Pisano etc.).—Fra Pietro di Stilo (nella seduta medesima) dicendo che si era confessato al P.e Gonzales, aggiunse che costui faceva a tutti belle esortazioni, ed andava spesse volte dal Campanella e gli faceva «brutte riprensioni». Narrò la sua conoscenza col Campanella «da che era figliolo», accennando anche ad un progetto di matrimonio tra un fratello suo ed una sorella del Campanella, che poi non si[Pg 156] concluse «per questi romori». Confermò di non aver mai udito il Campanella parlare contro la fede, e di averlo solamente dovuto rimproverare come superiore del convento, ammonendolo che non praticasse tanto con secolari. Espose assai minutamente le circostanze verificatesi nel suo primo esame in Squillace, ricordando le dimande fattegli e le risposte date, e il non essersi voluto scrivere il processo verbale, e l'essere stato minacciato di consegna alla Corte Regia da parte del Visitatore e più ancora di fra Cornelio, presenti i birri della Corte; poi le cose medesime verificatesi in Gerace, presenti il Capitano di campagna e i suoi soldati, e l'avergli fra Cornelio mostrati certi ferri co' quali voleva fargli stringere il petto, e d'altra banda l'avergli promesso libertà se dicesse di avere udito eresie dal Campanella, aggiungendo che fra Cornelio aveva preso molti danari da' conventi ed altre robe da' particolari per fornirne gl'inquisiti, e intanto nessuno avea ricevuto nulla. Intorno alla Trinità, a' Sacramenti ed in ispecie all'Eucaristia, e così pure intorno alle Sacre Scritture, non solo negò che il Campanella ne avesse parlato male, ma attestò che alle volte disputando con dottori e con Cappuccini, alle volte predicando in Chiesa, ne aveva parlato sempre bene; del resto egli disse, «io non mi intendo di queste cose perchè son ignorante». Intorno all'ecclissi avvenuta a tempo della morte di Cristo rispose, «sò che il Campanella parlava di stelle, de lune, di clisse, è di terremoti et di tutte le scientie del mondo, è mi parevano cose curiose, è buone, mà dela oscuratione fatta à tempo dela morte di christo non ne sò niente»: intorno a' miracoli poi, pur negando che il Campanella avesse parlato de' miracoli di Cristo come era stato malamente scritto in Gerace, ammise che una volta, mentre il Campanella diceva che le opere sue si potevano comprovare con miracoli, avendo taluno, che forse era il Prestinace, argomentato in materia di miracoli, il Campanella mostrò di sprezzare quegli argomenti ed accennò ad una certa «elevatione di mente». Passando agli articoli, fin dal 1o disse, «poi che il fiscale dice questo, et è comprobato dalla Santa Chiesa che il Campanella è tenuto per uno heretico, vi dico che per l'avenire lo voglio tenere anchora io per heretico, ma però di queste cose contenute in questo articolo non ne sò niente»; ed egualmente per tutti gli altri articoli disse non saperne niente.—Infine il Petrolo (29 agosto) fu esaminato di nuovo, per dare chiarimenti intorno ad alcune cose che aveva ammesso per dette dal Campanella ovvero enunciate in modo confuso, e segnatamente intorno alle superstizioni che c'erano nell'Eucaristia, intorno all'ecclissi a tempo della morte di Cristo, intorno all'essere stato il sacramento dell'Eucaristia istituito per ragione di Stato. Ed egli, negando quest'ultima proposizione, che disse di non intendere ed attribuì totalmente a fra Cornelio, negando che il Campanella avesse mai parlato di quella tale ecclissi ed ammettendo invece che avea detto essere il sole calato alcune miglia, dichiarò di non ricordarsi delle[Pg 157] superstizioni che c'erano nell'Eucaristia. Ed aggiunse: «per l'amore di Dio, le Signorie Vostre non habbiano tanto riguardo alle cose fatte in Calabria, perchè le cose furono fatte tanto imbrogliate, è sotto sopra che non si potria dire»; e ricordò avere un prete di Gerace detto che loro frati si cavavano gli occhi l'un l'altro, ed essere stati dal Mesuraca dati 100 scudi a fra Cornelio perchè processasse mortalmente il Campanella ed egli potesse così guadagnarsi il taglione dalla Corte Regia, narrando di nuovo tutte le circostanze della fuga e cattura sua insieme col Campanella per opera del Mesuraca.

Se ci facciamo a valutare i risultamenti delle ripetizioni contro il Campanella, troviamo le seguenti cose. Riuscirono: assai meno gravi e quasi insignificanti le testimonianze del Soldaniero, già prima poggiate essenzialmente sopra vaghi detti e congetture; abbastanza chiaramente false le deposizioni del Lauriana, già dettate da suggestioni ed ingrossate per bestiale scempiaggine; pur sempre molto gravi e compromettenti le testimonianze del Pizzoni, già date senza dubbio per doppiezza e speranza d'impunità; non meno gravi, comunque attenuate di molto, le testimonianze del Petrolo, già rese per eccessiva timidezza piuttosto che per malvagità; sempre più favorevoli e giustificative da ogni lato le testimonianze di fra Pietro di Stilo, già prima niente affatto lievi per avveduto apprezzamento de' tempi, de' luoghi e delle circostanze. Riuscirono poi unanimi le dichiarazioni di mala condotta de' primi processanti da parte dei frati d'ogni colore, ma se esse giungevano ad infondere gravi dubbî sulla legittimità del processo fondamentale di Calabria, non potevano giungere a scuotere la convinzione che molte eresie aveano dovuto essere manifestate dal Campanella almeno ne' discorsi confidenziali, poichè, mentre p. es. il Pizzoni diceva che «mille errori del scrittore» erano corsi nel suo esame, e il Petrolo diceva che «le cose furono fatte sotto sopra», in fondo entrambi confermavano in tutto o in gran parte le loro testimonianze precedenti.

Ecco ora i particolari degli esami ripetitivi contro il Pizzoni. Essi si fecero immediatamente dopo quelli del Campanella ed occuparono due sedute, il 23 e 24 agosto: furono ripetuti, il Soldaniero (in due volte), il Lauriana, Valerio Bruno e il Petrolo.—Il Soldaniero disse di avere già conosciuto il Pizzoni qualche tempo prima che confermasse le eresie di fra Dionisio, perchè veniva spesso in Soriano; che quando vi venne con fra Dionisio, in due giorni successivi confermò le eresie che costui diceva, cioè che il Sacramento dell'altare non era vero, che egli se n'era servito per un uso osceno, e che i sette peccati (sic) erano stati fatti per ragion di Stato, rimettendosi in tutto il resto all'esame primitivo giacchè non se ne ricordava. Persistè nell'asserire che ne avvertì il Priore ed il Lettore fin dal 1o giorno, e poi, nel 2o giorno, procurò che que' frati fossero cacciati dal convento, affermando che il Pizzoni avea detto potersi sempre mangiar carne, ed avea lodato il Campanella e le[Pg 158] sue opinioni eretiche, ond'egli congetturò che tutti e tre que' frati si avessero comunicate le eresie tra loro. Inoltre confermò di aver narrato il fatto a fra Domenico e poi a fra Gio. Battista di Polistina, e dietro dimanda d'ufficio, attestò che credeva costoro uomini da bene; disse di non conoscere lettere scambiate tra il Pizzoni e il Campanella, e infine dovè dichiarare di essere stato processato, secondo lui falsamente, per l'omicidio di due fratelli Soldaniero parenti suoi. Quanto alle cose contenute negli articoli del fiscale, disse che non si ricordava se il Pizzoni avesse o no parlato dell'esistenza di Dio e della Trinità, che avea parlato del potersi mangiar carne ogni giorno, e che egli riteneva avergli discorso di eresie in que' due giorni per insegnargliele!—Il Lauriana disse di aver conosciuto il Pizzoni da oltre sei anni, non averlo mai visto fare o dire qualche cosa contro la fede, e solo averlo udito dire, a proposito di un libro del Campanella, che alcune delle cose scritte in quel libro gli parevano buone ed altre no, mentre esso Lauriana non le riteneva buone, perchè erano contro S. Tommaso, non già contro la fede. Confermò che in Pizzoni il Campanella e il Pizzoni stettero insieme sette giorni, e che quando il Campanella parlò di eresie era presente anche fra Dionisio. Disse di non sapere che il Pizzoni avesse professate le eresie del Campanella, di sapere che costoro si scrivevano ma di non averne mai visto i caratteri, infine di non essere a sua notizia che alcuno avesse minacciato il Pizzoni e procurato fedi false contro di lui. Quanto alla materia degli articoli del fiscale, sopra ognuno di questi rispose o di non averne udito nulla o di non ricordarne nulla.—Valerio Bruno disse di aver conosciuto il Pizzoni in Soriano, ma non avergli mai parlato; di aver udito dal Soldaniero, quando lo fece cacciare dal convento insieme con fra Dionisio, che avea detto mille cose contro la fede, ma non avere saputo nulla di particolare. Non avea saputo nemmeno che avesse detto potersi mangiar carne ogni giorno. Così non potè dare alcuna notizia precisa, e su ciascuno articolo rispose non saperne nulla.—Finalmente il Petrolo disse di aver conosciuto il Pizzoni da due anni, ma non aver mai trattato con lui, di sapere che il Campanella era stato in Pizzoni e che gli era amico, onde si visitavano l'un l'altro; di non potere dir nulla delle opinioni di lui non avendolo trattato. Confermò che alla Roccella, un giorno o due prima della cattura, avea visto lettere venute al Campanella e scritte in cifra, che il Campanella gli disse provenienti dal Pizzoni e da non potersi intendere che tra loro due; dietro dimande d'ufficio, disse dapprima che la lettera in cifra non avea sottoscrizione, di poi che non sapeva se avesse sottoscrizione e che egli non la lesse nè poteva leggerla; (si ricordi che di questa cifra esisteva in processo la sola sottoscrizione del Pizzoni e del Campanella, vergate di mano di fra Cornelio). E in somma non potè dare la benchè menoma notizia delle cose che s'imputavano al Pizzoni, e fu negativo in tutto, dicendo che avea solo congetturato che il Pizzoni[Pg 159] e il Campanella fossero amici intrinseci, perchè si scrivevano in cifra tra di loro.

Come si vede, le prove testimoniali contro il Pizzoni si andavano attenuando in un modo sensibile. Il Petrolo e Valerio Bruno non attestavano quasi nulla, mentre il fatto della cifra, deposto e conformato dal Petrolo, poteva riguardare la congiura, non l'eresia, e quel tanto che in genere deponeva Valerio Bruno si fondeva nella deposizione del Soldaniero. Il Lauriana disimpegnavasi straordinariamente bene, con ogni probabilità guidato dallo stesso Pizzoni attenuando le cose già deposte. Il Soldaniero medesimo attestava meno del solito, e d'altronde, continuando a sostenere che il Pizzoni era stato presente in due giorni a' colloquii di fra Dionisio con lui e che egli era ricorso al Priore e al Lettore contro quei frati, cose, specialmente in riguardo al Pizzoni, già ben provate false, non poteva punto conciliarsi la fede de' Giudici. E si può dire che il peggior testimone rimasto a carico del Pizzoni era il Pizzoni medesimo, che con le sue tante rivelazioni contro il Campanella, e col fatto, già ben provato falso, dell'essere ricorso contro costui al P.e Generale e al P.e Visitatore, infondeva grave sospetto che veramente avesse trattato di eresie col Campanella, egli che n'era stato uno degli amici più intimi ed operosi; di tal che la furberia e doppiezza che gli erano naturali, eccitate dalle pressioni inique di fra Cornelio, mentre tanto nocquero al Campanella, nocquero non meno a lui medesimo.

Ci rimane a dire degli esami ripetitivi contro fra Dionisio. Essi si fecero il 26, 28 e 29 agosto, aggiungendovisi anche una ripetizione supplementare nell'ultima seduta. Furono esaminati il Bruno, il Soldaniero, il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo e fra Pietro di Stilo.—Valerio Bruno (26 agosto) disse di conoscere fra Dionisio da un anno, di non avere mai parlato con lui, e di crederlo un uomo dabbene e buon cristiano (singolare credenza mentre andava di nuovo a farlo dichiarare eretico). Attestò di avere solamente udito dal Soldaniero che avea detto «alcune cose contra Dio,... non so che per raggione di Stato, e contra li sette peccati mortali»; inoltre, nel corso degl'interrogatorii, disse di avere anche udito dal medesimo Soldaniero, quando due volte ricorse al Priore e al Lettore contro di lui e del Pizzoni, che avea parlato della Trinità, dell'abuso osceno dell'ostia, del disegno di predicare una nuova legge; per altro dichiarò pure che in que' giorni avea predicato in Soriano, «et li gentilhomini dicevano che predicava buono, mà io non sò quel che si dicesse, mà mi pareva che parlasse de le cose di missere Domine dio, è che parlasse bene». Aggiunse di aver veduto discorrere tra loro alla tavola fra Dionisio e il Soldaniero, ma discorrevano piano, e non sapeva quel che dicessero, nè sapeva «che tra di loro venessero a parole»; di poi dichiarò che fra Dionisio non avea mangiato carne, e avea detto al Soldaniero «Signore, cammarati, perchè non è peccato mangiare[Pg 160] caso, ova, e latticini, e niente più occorse» (chiare contradizioni con le deposizioni precedenti). Dimandato d'ufficio se avesse veduto in Napoli il Soldaniero da che trovavasi in carcere, rispose di averlo veduto due volte e di averne solamente avuto conforto, con dire che stesse allegramente, e di averlo poi veduto anche dopo di essere stato esaminato ma senza parlargli. Infine, venendo agli articoli del fiscale, riaffermò le cose dette negl'interrogatorii, e di nuovo attestò di non sapere che fra Dionisio avesse detto esser lecito il mangiare carne ogni giorno indifferentemente.—Il Soldaniero (nella stessa seduta) confermò di aver veduto a Soriano per la prima volta in giugnetto, cioè in luglio, fra Dionisio che gli «fece de basciamano» e rimase a Soriano due giorni, aggiungendo di non averlo mai più veduto in sèguito se non carcerato, a Gerace, a Monteleone, sulle galere, e poi in Napoli, dove trovandosi lui ammalato a letto, esso Soldaniero lo avea guardato dalla porta, senza entrare nella camera. E ripetè ciascuno de' detti e fatti di fra Dionisio contro la fede, presente ed accettante il Pizzoni (poichè ciascuno interrogatorio gli dava modo di ricordarsene), e disse che que' frati aveano definito «impressioni di testa» i voti e le divozioni, come pure i miracoli, che aveano detto essere stati istituiti i Sacramenti dalla Chiesa «ad trahendum ad se»; del resto, nel ripetere ciascuno de' capi da lui deposti, per maggior cautela si riferì sempre al primo esame, dicendo anche una volta, «non esca da queste carceri se quanto ho detto nel mio esamine non è vero». E confermò di averne avvertito il Priore ed il Lettore, ma dovè non di meno attestare che fra Dionisio, ad istanza di un Rutilio di Pucci, predicò, e a lui parve che predicasse dottrine cattoliche (non era stato dunque cacciato a sua istanza dal convento). Non mancarono poi i Giudici di rivolgergli gl'interrogatorii dati espressamente per lui, se cioè avesse visitato, assistito, cibato con le mani sue e fornito di danaro a prestito fra Dionisio, mentre costui trovavasi infermo, per riconciliarsi con lui: il Soldaniero rispose negativamente su tutto. Infine, su ciascuno articolo, non occorre dire che ripetè quanto negl'interrogatorii avea dichiarato.—Il Pizzoni (28 agosto) disse di aver conosciuto fra Dionisio fin da che era studente del Fiorentino, e di essere poi stato suddito di lui nel convento di Nicastro: aggiunse che gli era divenuto nemico da che esso Pizzoni ne avea riconosciute le eresie, onde ne avea avute mille minacce. Confermò quindi avergli fra Dionisio in Pizzoni manifestate quelle medesime eresie, che tre o quattro giorni dopo anche il Campanella gli manifestò, e che esso Pizzoni poi espose al Visitatore e scrisse al Generale, servendosi del Lauriana, il quale così venne egli pure ad averne notizia. Addusse taluni degli argomenti co' quali combattè fra Dionisio, affermando che per quelle così dette verità, mentre erano eresie, non si poteva dir savio il Campanella, dal quale fra Dionisio le faceva derivare; narrò come costui finì per dargli dell'asino, ed egli lo scacciò dal convento,[Pg 161] ricordando una quantità di circostanze, di tempo, di luogo, d'occasione (che poteva bene citare a modo suo poichè non c'era stato presente alcun altro). Venne così confermando ciascun capo di accusa a misura che gl'interrogatorii li riducevano alla sua memoria; e sugl'interrogatorii dati espressamente per lui rispose, che veramente fra Dionisio aveva persi alcuni scritti sull'Apocalisse e gliene aveva chiesto conto, mentre egli non ne sapeva niente, che non aveva fatto fuggire fra Gio. Battista di Polistina quando fra Dionisio cercava di farlo carcerare, che costui mentiva quando diceva essere lui stato espulso da un convento per delitti e furti, che nel luglio 99 erano andati insieme ad Arena e quindi avevano di necessità dovuto conversare tra loro, che in Stilo fra Dionisio e il Campanella aveano perfino dormito insieme e quindi erano intrinseci amici. Sugli articoli del fiscale si riferì a quanto avea detto sugl'interrogatorii, talvolta anche a quanto avea detto negli esami precedenti, ripudiando ciò che non aveva udito o visto (come p. es. il fatto del pugno dato al crocifisso, del quale veramente avea parlato il Soldaniero) e tornando a ripetere che l'esame di Calabria era stato falsificato dal Visitatore e da fra Cornelio, i quali aveano preso anche danari dal Pisano e dal Caccia e gli aveano fatti rimanere ingannati, come costoro dicevano in Monteleone alla presenza di molti frati e secolari mentre stavano tutti in una carcere. Conchiuse col dire che egli aveva inteso di sgravare la sua coscienza, e non di gravare quella degli altri indebitamente.—Il Lauriana (nella seduta medesima) disse di aver conosciuto fra Dionisio da quattro anni, perchè era stato suddito di lui in Nicastro, e di esserne rimasto in Pizzoni scandalizzato per una proposizione da lui detta contro l'Eucaristia; ma ostinatamente disse di non ricordarsi di tale proposizione, e se ne riferì al primo esame, come fece anche per tutta la serie degl'interrogatorii senza che i Giudici avessero mai potuto cavarne alcuna spiegazione. Dietro dimanda d'ufficio, disse che il Pizzoni gli aveva fatto scrivere al P.e Generale una lettera in cui gli pareva «più presto de sì che altramente» che si fosse fatta menzione di fra Dionisio, parlandosi di ribellione e di cose di S.to Officio. Sugl'interrogatorii speciali per lui, disse che il Pizzoni lo aveva una volta mandato a vendere per sei ducati un libro di prediche a fra Vincenzo Perugino, il quale non lo volle, ed egli non ricordava che fra Vincenzo avesse detto che erano prediche di fra Dionisio; che egli aveva una volta avuto penitenze da fra Dionisio; che nel convento di Pizzoni, per salire alla cucina, si doveva passare per la cella del Vicario; sul resto si riferì al primo esame. Finalmente sugli articoli del fiscale si riferì del pari al primo esame, poichè non ricordava alcuna cosa.

Continuarono il 29 agosto gli esami ripetitivi contro fra Dionisio.—E dapprima il Petrolo disse di avere, fin da quando era novizio, conosciuto fra Dionisio, ed averlo poi veduto due volte in Stilo di passaggio, oltrechè in Stignano, l'ottava del Corpo di Cristo,[Pg 162] quando fece una predica sul SS.mo Sacramento che non si poteva sentire più bella «et tutti la laudorno» (la predica egli menzionava, il pranzo in casa Grillo no). Disse di non aver mai udito eresie dalla bocca di lui, ma solamente udito da fra Pietro di Stilo che egli, fra Dionisio, aveva dette al Lauriana alcune parole contro il SS.mo Sacramento, oltrechè aveva commesso qualche peccato di carne della peggiore specie. Rispose quindi su tutti gli interrogatorii negativamente: e dietro dimande d'ufficio disse che fra Dionisio era veramente amico del Campanella, ma egli non sapeva che il Campanella gli avesse comunicato eresie, nè aveva mai detto che il Campanella discorresse di eresie alla scoperta, mentre invece ne discorreva in modo che solamente qualcuno poteva intenderle. Sugli articoli del fiscale rispose del pari negativamente.—Fra Pietro di Stilo disse di aver conosciuto fra Dionisio ed averlo veduto tre volte in Calabria, due volte in Stilo ed una volta in Briatico quando andava contro fra Gio. Battista di Polistina; e dichiarò di averlo ritenuto sempre un ciarliero e vendicativo, ma non cattivo nelle cose di fede. Dimandato di ufficio se avesse almeno udito dire qualche cosa contro di lui in materia di fede, rispose che una volta il Lauriana gli cominciò a dire qualche cosa contro di lui, «ma non finì»; ed avvertito di non dir bugie, rispose che non aveva potuto comprenderlo (oramai fra Pietro era in vena di difender tutti, anche tirandola un po' troppo). Insomma non ebbe nulla a dire contro fra Dionisio, eccetto che era «scaccione, ciò e chiacchiarone», e riuscì negativo su tutti gl'interrogatorii e così pure sugli articoli: segnatamente sull'ultimo articolo, che diceva avere fra Dionisio creduto, insegnato o cercato d'insegnare tutte le opinioni eretiche del Campanella, egli rispose di non aver mai udito dire tali cose contro la fede da niuno di loro. Ed aggiunse, spontaneamente, che stando in Pizzoni ed avendo udito frati e secolari sparlare di fra Dionisio pe' suoi discorsi di cose lascive, avendogli anzi Claudio Crispo detto che pure nel discorrere la prima volta col Soldaniero si era comportato egualmente e costui n'era rimasto scandalizzato, egli nel passare per Soriano andando ad Arena, poichè il Soldaniero l'interrogò circa il Campanella e gli disse che fra Dionisio era un cervellino, lo pregò di tacere quanto fra Dionisio gli aveva detto, essendo nella natura di lui il ciarlare con tutti, ed intese di alludere a' discorsi di cose lascive; (così volle sopprimere la circostanza dell'aver lui portato una lettera del Campanella al Soldaniero, e veramente la tirò un po' troppo).—Da ultimo il Soldaniero, e successivamente Valerio Bruno, vennero entrambi interrogati in via supplementare sul fatto dell'espulsione di fra Dionisio e del Pizzoni dal convento di Soriano per parte del Priore e del Lettore. Il Soldaniero confermò che nel secondo giorno in cui que' frati gli aveano parlato di eresie, il Priore, dietro il suo reclamo, li cacciò entrambi, e poi gli disse, «che ti pare, non te l'ho fatti sfrattare?» ed egli rispose, «havete fatto bene». Valerio Bruno confermò[Pg 163] egli pure che que' frati furono cacciati nel secondo giorno in cui il Soldaniero avea parlato al Priore ed al Lettore, ed aggiunse che gli aveva veduti partire; (ma oltrechè il Priore e il Lettore lo negavano, era stato pure da entrambi questi testimoni affermato che fra Dionisio aveva fatta una predica in Soriano, e ciò non si accordava coll'espulsione).

Evidentemente anche per fra Dionisio le prove testimoniali riuscivano sempre meno gravi in questi esami ripetitivi. Fra Pietro di Stilo deponeva a favore di lui, e il Petrolo non l'accusava menomamente. L'accusava bensì il Lauriana, ma costui, che non sapeva più dar conto di nulla, era stato già dichiarato testimone falso dal Pizzoni medesimo che ne aveva diretto i passi. Non rimanevano dunque contro fra Dionisio che il Pizzoni e Giulio Soldaniero con Valerio Bruno: tuttavia il Pizzoni si andava scovrendo di una morale assai disputabile, ed intento solo ad accusare gli altri per iscusare sè medesimo; il Soldaniero poi non poteva riuscire ad accreditarsi, mentre sosteneva essergli state fatte tante confidenze in materia di eresie durante una prima visita di fra Dionisio (bisognava conoscere a fondo il modo di agire di costui per ammetterlo), ed oltracciò confessava di aver prima confabulato co' Polistina nemici capitali di fra Dionisio, continuava a deporre fatti indubitatamente falsi come l'espulsione di fra Dionisio e del Pizzoni dal convento, e mostrava abbastanza chiaramente di avere indettato il suo fido Valerio Bruno (come il Pizzoni avea fatto col Lauriana) e spintolo a deporre ciò che ad esso Valerio non constava, per far risultare più credibili le proprie deposizioni. Nè occorre dire che la condotta iniqua de' primi processanti, entrambi devoti alla fazione de' Polistina, accertata anche dal Pizzoni testimone del maggior peso contro fra Dionisio, faceva apparire per lo meno esagerata la colpabilità di costui e di tutti gli altri inquisiti.

Siffatti apprezzamenti, che sorgono spontanei nell'animo di chiunque sia fornito di una dose anche discreta di equanimità, non potevano non sorgere nell'animo del Vescovo di Termoli, che al rigore di un vecchio Commissario del S.to Officio sapeva accoppiare un senso squisitissimo di giustizia. E ci è rimasto di lui un documento che lo dimostra abbastanza bene, rivelandoci ciò che l'agitava a questo periodo della causa: poichè precisamente alla fine del volume che comprende il processo offensivo e ripetitivo, in uno de' folii esuberanti rimasti in bianco, troviamo un quadro di note ed appunti che egli redigeva intorno alla colpabilità di ciascuno inquisito, note ed appunti incompleti e in qualche tratto vergati con parole tanto abbreviate da rendersi poco intelligibili, ma in somma esprimenti le diverse contradizioni, inverosimiglianze, falsità, ed accuse rimaste infondate, che emergevano dalle deposizioni raccolte. I lettori troveranno questo quadro tra' Documenti [189]: d'altronde [Pg 164] vedremo in sèguito, dopo il processo difensivo, ciò che il Vescovo scriveva a Roma intorno alla causa, e il concetto che in ultima analisi se n'era formato.

Non appena esaurite le ripetizioni, nello stesso giorno 29 agosto 1600 i Giudici deliberarono di devenire alla spedizione della causa e al processo difensivo: pertanto disposero che fosse subito inviato al S.to Officio di Roma una copia del processo tanto informativo che ripetitivo; e sappiamo che l'8 settembre questa copia fu mandata al Nunzio dal Vescovo di Termoli insieme con una sua lettera, e che nella stessa data il Nunzio la trasmise al Card.l di S.ta Severina, accompagnandola con un'altra lettera sua, in cui partecipava le sollecitazioni che spesso riceveva da' ministri Regii desiderosi di potere spedire la causa della ribellione[190]. Diremo ora anche qui, innanzi tutto, in che modo si procedeva nelle difese. Un decreto fermava che ciascuno inquisito avesse una copia del processo (copia repertorum), ma senza nome e cognome di coloro i quali aveano deposto, «secondo lo stile del S.to Officio»; che inoltre fosse avvertito aver facoltà di scegliersi un Avvocato e procuratore a suo piacere, bensì persona cognita ed approvata dalla Curia, fornita de' requisiti necessarii, e con ciò un termine di tanti giorni per fare ogni e qualunque difesa, se intendesse e volesse farne: questo decreto era da' Giudici medesimi partecipato di persona a ciascuno inquisito, che facevano tradurre al loro cospetto separatamente. Scelto l'Avvocato, o dall'inquisito, o in mancanza dai Giudici, d'ufficio, costui recavasi nella casa di qualcuno de' Giudici a prestare il giuramento nelle mani di lui, inginocchiato, toccando i Santi Evangeli e promettendo di fare «le giuste difese» del tal di tale secondo lo stile del S.to Officio. Il Notaro e Mastrodatti consegnava allora al più presto le copie de' reperti a ciascuno inquisito, e redigeva sempre un atto di questa consegna e del seguìto ricevimento in presenza di quattro testimoni (i soliti carcerieri e carcerati) decorrendo dalla data di quest'atto il termine per le difese: talvolta pure, sia d'ordine de' Giudici, sia dietro spontanea deliberazione dell'inquisito, redigeva o autenticava una dichiarazione, in cui l'inquisito manifestava di volersi difendere, ovvero di non volersi difendere riposando nella giustizia e pietà dei Giudici, ed avendo per rato, fermo e valido quanto essi ordinerebbero, ciò che poteva farsi anche durante lo svolgimento delle difese. Mettendosi d'accordo coll'Avvocato, allorchè voleva difendersi, l'inquisito redigeva e presentava una serie di così dette eccezioni ossia articoli, in ciascuno de' quali eccepiva, poneva e voleva provare un dato fatto in sua discolpa, affermando per solito ogni volta che esso era vero, verissimo, come constava a coloro che lo sapevano o l'avevano udito: e quasi sempre cominciando dai fatti della sua buona vita fin dalla tenera età, passava, mano mano, [Pg 165] a' fatti delle inimicizie che aveva incontrate, alla mala condotta e speciale odiosità de' testimoni che intendeva o supponeva aver deposto a suo carico[191], alla falsità ed erroneità delle imputazioni fattegli, a tutti gl'incidenti che spesso si verificavano durante i processi. Oltracciò dava una lista di testimoni a difesa, indicandone anche la residenza, i quali dovevano essere esaminati sopra tutti o sopra alcuni determinati articoli. Dal canto suo il fiscale, sugli articoli presentati, faceva ed esibiva i suoi interrogatorii, ed istantemente chiedeva che i testimoni fossero esaminati prima sopra di essi e poi sugli articoli: gl'interrogatorii erano preceduti dalle solite ammonizioni, ed esigevano le solite informazioni sulla persona del testimone, e poi le informazioni su' fatti posti negli articoli con tutte le relative circostanze, terminando con un appello alla diligenza de' Signori Giudici. In somma si teneva la via medesima del processo ripetitivo ma all'inversa: gli articoli erano presentati dall'inquisito assistito dal suo Avvocato, e gl'interrogatorii erano presentati dal fiscale; e però questi ultimi erano sempre redatti senza tante sottigliezze e con molto maggiore concisione. Dobbiamo anche dire che i Giudici talvolta cassavano qualche articolo contenente fatti già enunciati in altri articoli, e il processo presente ce n'offre un esempio; inoltre non accoglievano mai tutti i testimoni dati se erano assai numerosi, come sovente accadeva, ma ne sceglievano un certo numero a loro piacere. S'intende poi che l'Avvocato non assisteva alle sedute del tribunale, ma poteva all'occorrenza fare una comparsa e più tardi presentare una vera e propria Difesa scritta, come ne conosciamo in gran numero pervenute sino a noi[192]. Figurava poi sempre quando esauriti gli esami testimoniali e consegnatane una copia all'inquisito, costui era citato [Pg 166] «ad dicendum», e neanche nel tribunale ma nella casa di abitazione di uno de' Giudici. Quest'ultima circostanza mostra sempre più chiaramente che non l'inquisito ma il suo Avvocato presentavasi allora in nome di lui, era interrogato se dovesse dire altro e potea forse presentare anche una Replica scritta; ma non apparisce che fossero ammesse le arringhe.

Come dicevamo, il 29 agosto i Giudici deliberarono che si procedesse alle difese; nello stesso giorno fecero tradurre alla loro presenza, l'uno dopo l'altro, il Petrolo, fra Pietro di Stilo, il Pizzoni, il Lauriana, il Bitonto, fra Paolo della Grotteria, e a ciascuno di essi separatamente parteciparono la loro deliberazione, assegnando per le difese il termine di otto giorni; poi si recarono alla carcere di fra Dionisio, che trovavasi ammalato a quel tempo, e parteciparono anche a lui la loro deliberazione e il termine stabilito di otto giorni. Sappiamo infatti che fra Dionisio fu ammalato una prima volta nell'agosto del 1600: ce lo mostra un conto di spese che vedremo più tardi fatte pe' frati inquisiti, e che contiene la nota delle medicine fornite a fra Dionisio dallo Speziale del Castello Ottavio Cesarano, con l'indicazione de' giorni in cui esse vennero fornite; e fu in questo frattempo che il Soldaniero vide fra Dionisio, gli prestò qualche assistenza e forse anche gli chiese perdono pe' travagli procuratigli coll'opera sua, come fra Dionisio asserì e il Soldaniero negò negli esami ripetitivi. Dobbiamo intanto notare che pel Campanella non fu tenuto lo stesso procedimento, senza dubbio a motivo della sua pazzia, ma ebbe in sèguito un Avvocato: per fra Pietro Ponzio poi non vi fu provvedimento alcuno, giacchè davvero in questa causa, come in quella della congiura, nulla gli si potè addebitare, all'infuori dell'intima amicizia col Campanella, provata specialmente con la scoperta delle conversazioni notturne tenute tra loro.

Il 5 settembre nel convento di S. Luigi il Vescovo di Termoli, presente anche l'Auditore del Nunzio Antonio Peri, ricevè il giuramento del dot.r Carlo Grimaldi Avvocato del Pizzoni; il 15 settembre ricevè ancora, egli solo, quello di Gio. Filippo Montella Avvocato del Petrolo, di fra Pietro di Stilo, del Lauriana, di fra Paolo e del Bitonto; il Montella nello stesso giorno prestò giuramento anche nelle mani del Vicario Arcivescovile, ma, non si saprebbe dire perchè, venne più tardi sostituito dal Rev.do dot.r Scipione Stinca, il quale prestò giuramento il 13 ottobre, e trovasi qualificato «avvocato deputato» per la difesa de' frati suddetti. Alla mancanza del Montella, seguita dalla deputazione dello Stinca, si deve forse riferire un memoriale de' frati al Vescovo di Termoli per dimandare un Avvocato, memoriale senza data, ed inserto nel processo un po' a caso, dopo le difese di fra Dionisio[193]. Nessuno [Pg 167] Avvocato si trova nominato per fra Dionisio, comunque in una lettera, da lui scritta nell'inviare taluni articoli a' Giudici, si legga che non avea «potuto accapar dal suo Avocato la compilatione di tutti gli articoli... per la lunghezza del processo et occupationi d'infiniti altri negotii di detto suo Avocato». Il 17 settembre fu consegnata a fra Dionisio la copia de' reperti della sua causa secondo lo stile del S.to Officio, e il giorno seguente una copia analoga fu consegnata al Pizzoni; di poi (15 e 18 ottobre) fu consegnata allo Stinca la copia de' reperti della causa de' diversi frati che egli doveva difendere. Aggiungiamo che ancora più tardi (31 ottobre) fu prestato il giuramento dal dottore di leggi Gio. Battista dello Grugno in qualità di Avvocato difensore del Campanella, certamente «Avvocato deputato» anche lui, comunque di una simile qualificazione non si trovi alcun ricordo[194]. Dobbiamo dire che l'opera di questi Avvocati nel presente processo apparisce anche meno del solito. Vedremo mancanti del nome dell'Avvocato non solo gli articoli di fra Dionisio, che forse li compilò da sè, ma anche quelli del Pizzoni, ne' quali per altro la mano dell'Avvocato si rivela da qualche errore materiale circa le persone, errore che l'inquisito non avrebbe certamente commesso; pel Campanella poi vedremo una comparsa del procuratore rimasto anonimo, ma vedremo anche qualche altro atto in cui il nome dell'Avvocato non manca; infine per gli altri frati vedremo che non ci fu occasione di comparsa dell'Avvocato, perchè non si fece nulla.—Ci crediamo pertanto nel dovere di dare qualche notizia intorno a' suddetti Avvocati. Carlo Grimaldi era un dottore non ispregevole; pervenne all'ufficio di Giudice della Gran Corte della Vicaria nel 1622-23, come è attestato anche dal Toppi[195]. Il dot.r Scipione Stinca è stato da noi già incontrato una volta nel corso di questa narrazione, sotto le forche preparate pel povero Maurizio, che egli ebbe ad assistere nell'estremo momento. Apparteneva ad una famiglia illustre per magistrati, nella quale figurava tuttora il dot.r Ottavio Stinca, che abbiamo pure avuta occasione di nominare qual difensore del Duca di Vietri, ed avremo occasione di nominare ulteriormente a proposito di qualche altra singolare persona la quale verrà in iscena più tardi. Era Avvocato e sacerdote, come tanto spesso accadeva a quei tempi: nel processo è detto «Presbyter Neapolitanus» e possiamo aggiungere che era ascritto all'ordine de' Cappellani Regii, poichè abbiamo trovato il suo nome nell'elenco di que' Cappellani, ripetuto dal 1595 [Pg 168] al 1603, nelle scritture della Cappellania maggiore esistenti nel Grande Archivio[196]. Quanto al dot.r Gio. Battista dello Grugno Avvocato del Campanella, egli era un uomo ancor più distinto. Nominato lettore delle Instituta e glose nel pubblico studio di Napoli, in sèguito dell'ingresso di Giulio Berlingieri nella Congregazione de' Gerolamini (31 8bre 1598), fu poi promosso alla lettura De Actionibus, vacata per morte di Gio. Maria Cossa, con provvisione raddoppiata in omaggio alla sua persona (ult.o di febbr. 1601); ed in tale qualità morì verso la fine del 1604, avendo a successore Ottavio Limatola, come ci risulta da' documenti sparsi nelle medesime Scritture della Cappellania maggiore[197]. Bisogna dunque riconoscere che le difese de' frati, e massime del Campanella, non si trovavano affidate a dottori di poco conto; solo si può dire che la ricerca di essi fu laboriosa, poichè durò circa due mesi, e forse, oltre il Montella, parecchi altri rifiutarono il carico di queste difese; d'altronde occorre anche vedere se vi attesero con diligenza, e su questo punto li giudicheremo all'opera.

Il 30 settembre si diè principio agli esami difensivi per fra Dionisio, co' quali si aprì il 3o volume del processo dell'eresia. Egli aveva scritto a' Giudici di non aver potuto ancora ottenere dall'Avvocato la compilazione di tutti gli articoli a sua difesa, e di averne intanto formato da sè un certo numero, pregando che sopra di questi venissero esaminati «alcuni carcerati, quali per essere stati habilitati facilmente partiranno per la Calabria»; ed è superfluo dire quanto sia per noi degna di nota siffatta circostanza, poichè ci rivela lo stato del processo della congiura pe' laici a quel tempo, e il destino di taluni tra loro, i cui nomi si leggono nella lista de' testimoni dati da fra Dionisio contemporaneamente a' suoi articoli. Appena sette furono gli articoli allora presentati da fra Dionisio, e con essi poneva e voleva provare la falsità delle deposizioni del Lauriana, e così pure del Soldaniero e di Valerio Bruno. Intorno al Lauriana, egli affermava, che costui avea già detto nelle carceri di Squillace e poi in quelle di Gerace, presenti molti, di essersi esaminato contro fra Dionisio ed altri, deponendo falsamente in materia di eresia e di ribellione persuaso dal Pizzoni, e di volersi ritrattare per scrupolo di coscienza; che poi nelle carceri di Napoli si era consigliato circa tale ritrattazione con un dot.r Domenico Monaco egualmente carcerato, il quale gli avea detto che ritrattandosi [Pg 169] avrebbe avuta la corda e sarebbe stato mandato in galera; che quando in Napoli ratificò il primo esame, rimproverato da molti a' quali avea detto di essersi esaminato falsamente, avea risposto, «che sempre c'era tempo per accomodar la conscientia, ma non sempre c'era tempo d'evitar la corda, et la Galera, et che più facilmente si potea accomodar con Dio, che con gl'huomini, et officiali»; che dopo ciò, quando nelle litanie si giungeva al verso a falsis testibus libera nos Domine, tutti guardavano in faccia al Lauriana e ridevano, ed egli arrossiva, e quando toccava a lui dir le litanie, ometteva quel verso con grandissimo riso di tutti; che infine avea negli ultimi giorni cercato perdono ad esso fra Dionisio, facendosi più volte chiudere per questo nella stessa carcere con lui dal carceriere. Intorno al Soldaniero e Valerio Bruno affermava, che il Soldaniero, egualmente per ottenere il perdono delle falsità deposte contro di lui, gli avea fatto visite, servigi, regali e prestito di danaro; che inoltre teneva continuamente presso di sè Valerio Bruno suo servitore, e poteva presumersi avergli fatto deporre il falso, essendosi da entrambi dichiarato ne' rispettivi costituti che non aveano mai parlato tra loro, mentre a tutti era noto il contrario. Sopra siffatti articoli dava per testimoni, variamente sopra ciascuno di essi, oltre fra Pietro di Stilo e fra Paolo, Geronimo Marra, Francesco Salerno, Nardo Rampano, Cesare Bianco e tutti gli altri carcerati di Catanzaro, Giuseppe Grillo di Oppido, Domenico Monaco il dottore, Aquilio Marrapodi suo servitore e il carceriere. D'altra parte il fiscale (sempre D. Andrea Sebastiano) presentava i suoi interrogatorii al n.o di 18, preceduti dalle solite ammonizioni, e contenenti le informazioni di rutina e le informazioni su' fatti asserti negli articoli[198].—I Giudici si limitarono ad esaminare Geronimo Marra, Francesco Paterno (o forse Salerno) e un Minico Mandarino, tutti giovani sarti di Catanzaro carcerati per la congiura; e li udirono su tutti gl'interrogatorii e tutti gli articoli indifferentemente, impiegandovi la sola seduta del 30 settembre. Le deposizioni di costoro non diedero alcun risultamento serio. Nessuno sapeva nulla; nessuno avea veduto nulla. Il solo Geronimo Marra dichiarò di avere udito in Napoli il Lauriana, dopo di essere stato esaminato, dire ad alcuni carcerati, «quando uscirò, Dio provederà all'anima», ma senza aver capito a quale scopo avesse dette tali parole[199]. Perfino intorno a Valerio Bruno rimase assodato che stava in una camera diversa da quella del Soldaniero, ma non si giunse a sapere nemmeno se facesse l'ufficio di servitore presso di lui (i guai sofferti aveano resi quei testimoni più che riservati).

Una lunga interruzione si verificò dopo questa seduta, la qual cosa reca un po' di meraviglia, mentre non si può negare che fino [Pg 170] allora si era proceduto con la più grande celerità, e se molto tempo si era impiegato nello svolgimento del processo, ciò era accaduto unicamente per l'intrinseca qualità della procedura, che nelle cause di S.to Officio era sempre scrupolosamente osservata. Bisogna dire che i Giudici ebbero a persuadersi non poter convenire questi esami sopra articoli in numero ridotto, dopo i quali si era costretti a fare nuovi esami sopra articoli in numero completo. E in tal guisa riesce di spiegarsi che il Notaro e Mastrodatti Prezioso, d'ordine del Vescovo di Termoli, il 6 ottobre si recò presso fra Dionisio, gli chiese formalmente se volesse o no difendersi, ed innanzi a testimoni rogò un atto in cui fra Dionisio dichiarò che voleva ed effettivamente intendeva fare le sue difese, e si sottoscrisse confermando tale sua volontà[200]. Ma senza dubbio non potè presentare le sue eccezioni od articoli se non a' primi del mese consecutivo, poichè si venne agli esami sopra di essi soltanto il 6 novembre. Verosimilmente fu sollecitato anche il Pizzoni a voler presentare i suoi articoli, essendo scorso da un pezzo il termine assegnato di otto giorni, ciò che era sempre tollerato dal S.to Officio, ma non poteva poi durare indefinitamente; così, mentre si menavano innanzi gli esami difensivi per fra Dionisio, si fecero ancora quelli pel Pizzoni. E certamente l'Avvocato del Campanella, non appena prestato il suo giuramento il 31 ottobre, dovè essere sollecitato del pari; giacchè poco dopo fu presentata al tribunale una comparsa, con la quale si diceva essere il Campanella pazzo, non potersene fare le difese, chiedersi un termine per provare la pazzia; e nello stesso giorno 6 novembre, quando cominciarono gli esami difensivi per fra Dionisio, cominciarono pure gli esami informativi sulla pazzia del Campanella. Sicchè dal 6 al 16 del mese venne simultaneamente esaurito tutto ciò che rifletteva la difesa degl'inquisiti principali: ma per procedere ordinatamente, sarà bene narrare prima gli esami difensivi per fra Dionisio, che erano stati già in parte iniziati, poi gli esami difensivi pel Pizzoni, che rappresentano il contrapposto degli anzidetti, infine gli esami informativi sulla pazzia del Campanella.

Le eccezioni od articoli, che fra Dionisio definitivamente presentò in sua difesa, ascesero nientemeno al numero di 58; e noi pur troppo non possiamo dispensarci dal darne conto, tanto più che in sostanza vi si comprendono le difese di tutti gli altri frati all'infuori del Pizzoni e del Lauriana, non escluso il Campanella che per la pazzia rimaneva ecclissato[201]. Con le sue eccezioni fra Dionisio affermò i suoi titoli di onore, cominciando dalla tenera età e passando a' tempi della vita monastica, ricordando pure l'andata presso Clemente VIII come procuratore della città di Nicastro per la faccenda dell'interdetto, e la premura spiegata per «manifestar l'innocenza del sangue del P.e M.o Pietro Pontio suo zio ucciso [Pg 171] proditoriamente da alcuni monaci», come potea rilevarsi dagli Atti esistenti nella Corte del Nunzio, onde si acquistò le inimicizie di tutti gl'inquisiti e loro parenti, e massime de' due Polistina. Affermò che costoro, d'accordo col Priore di Soriano eccitarono il Soldaniero contro di lui, e fecero circondare di birri il convento per costringere il Soldaniero ad accettare l'indulto offertogli da fra Cornelio altro suo nemico, e così poteva intendersi l'inverosimiglianza dell'avere esso fra Dionisio confidate a un tratto tante gravissime cose al Soldaniero. Che costui era di pessima vita e cattivo cristiano al punto di persistere tuttora nella scomunica inflittagli in Calabria, teneva per servitore Valerio Bruno nelle carceri di Napoli e dichiarava di non aver mai parlato, ed avea più volte cercato perdono ad esso fra Dionisio narrandogli i particolari del fatto di Soriano; che mentre era impossibile accordare la cacciata di esso fra Dionisio da Soriano e la predica contemporaneamente permessagli dal Priore, dovea notarsi aver lui deposto dopo il Pizzoni, quando da fra Cornelio gli fu detto che il Pizzoni l'aveva nominato come uno de' capi della congiura. Che esso fra Dionisio avea nella predica di Soriano, a santo e pio fine, parlato di qualche fatto esecrabile commesso contro il SS.mo Sacramento, per mostrare l'infinita pazienza di Dio; che lo stesso Valerio Bruno avea con più persone lodata la predica di lui in Soriano, dicendo che era riuscita a farlo piangere, la qual cosa non gli era mai accaduta; che se il Priore e il Lettore di Soriano avessero deposto di aver cacciato esso fra Dionisio dal convento, risulterebbero mendaci, poichè gli aveano permesso di predicare e non aveano partecipato nulla a' superiori. Che il Pizzoni gli era nemico, atteso il furto degli scritti per lo quale esso fra Dionisio l'aveva svergognato; che era sempre stato amico de' nemici di lui, ed avea fatto fuggire il Polistina, procurando che fra Pietro di Stilo l'avvertisse, quando esso fra Dionisio cercava di farlo carcerare; che era sempre stato di pessima vita, soggetto a penitenze per molti furti (citato uno per uno), affetto da mal francese etc., scappato in pianelle, senza cappello e senza cappa dal Capitolo di Catanzaro per fuggire la prigionia, obbligato a circondarsi di fuorusciti per salvarsi dalle vendette di coloro che aveva offeso con le sue disonestà. Che nella causa della congiura, negando dapprima l'esame di Calabria, il Pizzoni aveva espressamente affermato di aver detto anche in materia di eresia molti mendacii, amplificati ed accresciuti da fra Cornelio e dal Visitatore, e nella fossa in cui fu posto avea pure scritto sul muro di esservi stato posto perchè si volea che dicesse bugie, come tuttora potea vedersi, ma poi persuaso dal Lauriana confermò di nuovo il primo esame. Che aveva scritto al Campanella, entro il suo breviario, essere state da lui deposte le eresie per eccitare gelosie di giurisdizione tra il Papa e il Re, ma essere risoluto di ritrattarle, e due cartoline di questo genere furono prese dal Sances sul Campanella, quando costui fu tormentato. Che veramente il Pizzoni avea praticato[Pg 172] col Campanella più lungamente di esso fra Dionisio, ed avrebbe potuto piuttosto il Pizzoni dire a lui, che lui al Pizzoni, le cose del Campanella; e poi a molti avea dichiarato essergli state da fra Dionisio dette le eresie non assertive ma recitative tantum; e poi nel vespro di quel giorno di luglio in cui parlarono tra loro in Pizzoni, esso fra Dionisio fu visto parlargli sdegnato e bravarlo, poichè gli dimandava conto del furto degli scritti (lato questo il più debole della difesa per essere stato troppo spinto). Che il Lauriana gli era nemico perchè creatura del Pizzoni, perseguitato fin dal P.e Pietro Ponzio pe' suoi vizii e disonestà, complice del furto degli scritti che cercò di vendere al P.e Perugino, scacciato da esso fra Dionisio dal convento di Nicastro per le turpi relazioni con fra Fabio nipote del Pizzoni; che avea scritto due lettere ad esso fra Dionisio chiedendogli perdono, come l'avea pure chiesto a voce a traverso un foro esistente tra le carceri rispettive, ed inoltre l'avea chiesto anche a Ferrante Ponzio per lettere delle quali esibiva una in data 10 ottobre 99. Che nelle carceri aveva tenuta corrispondenza col Pizzoni ed animatolo a star saldo sulle cose deposte, perchè si trovassero uniformi nelle falsità, come fu provato durante il processo, rimanendo anche convinto di averlo falsamente negato; che avea fatto sapere a molti essere stato costretto a deporre il falso da fra Cornelio e dal Visitatore; che sopratutto avea falsamente deposto essersi trovati in Pizzoni al tempo medesimo esso fra Dionisio e il Campanella, mentre esso fra Dionisio vi era stato molti giorni prima; che avea detto a molti volersi ritrattare, cercando anche perdono a fra Pietro Ponzio, e poi consigliato da un Domenico Monaco non l'avea fatto ed aveva indotto il Pizzoni a non farlo; che n'era stato rimproverato da molti, ed era ritenuto falso testimone e deriso nel dir le litanie; che avea chiesto anche negli ultimi giorni perdono ad esso fra Dionisio infermo (come negli altri articoli già dati precedentemente). Che il Visitatore gli era stato sempre nemico, perchè esso fra Dionisio avea dovuto presentare al Papa memoriali contro di lui nelle quistioni de' Riformati e poi nel tempo de' torbidi di S. Domenico di Napoli; che aveva in Calabria forzato i testimoni a deporre contro esso fra Dionisio, e l'aveva condannato a gravi penitenze negandosi sempre a perdonarlo. Che fra Cornelio gli era nemico per fatti personali occorsi tra loro (già narrati altrove); che si era perciò unito a' Polistina, insieme co' quali avea sedotto e forzato il Soldaniero a deporre come avea deposto, procurandogli l'indulto. Che il Petrolo gli era nemico, perchè riteneva derivati da esso fra Dionisio tutti i suoi travagli, e perciò, come si era espresso con molti, l'aveva conciato a dovere ne' suoi costituti[202]; oltracciò nell'altro [Pg 173] tribunale si era dapprima disdetto, dichiarando che il Campanella l'aveva indotto ad imitare il Pizzoni nell'esporre eresie per sottrarsi alla furia secolare; che poi, al pari del Pizzoni, non era rimasto saldo in tali assertive, ed entrambi rimproverati per questo da molti carcerati aveano detto esservisi determinati pe' maltrattamenti del fisco e le visibili propensioni de' Giudici. Che fra Pietro di Stilo gli era egualmente nemico, perchè creatura del Polistina, che si diè premura di far fuggire quando esso fra Dionisio cercava di farlo carcerare; nè avea voluto andare al convento di Nicastro dove era stato assegnato quando esso fra Dionisio vi si trovava Priore. Che infine per tutto il tempo, in cui esso fra Dionisio era stato carcerato, ognuno avea dovuto persuadersi esser lui vittima di falsità fatte deporre dal Visitatore, da fra Cornelio e dallo Sciarava, ed essere cosa impossibile in lui la colpa specialmente di eresia.

In prova di così numerose affermazioni, fra Dionisio diè testimoni non meno numerosi, oltre 60 individui, secolari ed ecclesiastici[203]. Alcuni tra loro erano individui liberi dimoranti in Napoli, ed altri già carcerati e rimasti in Napoli, come p. es. Tommaso d'Assaro, Pietrantonio Tirotta, Cesare Forte[204]; altri già carcerati e tornati in Calabria, come D. Marco Petrolo, D. Minico Pulerà, Gio. Francesco Paterno e Geronimo Marra, su' quali ultimi abbiamo così la data precisa della liberazione; altri tuttora carcerati, sia per le cause presenti, sia per cause diverse come vedremo più sotto. Vi erano poi egualmente tra' testimoni frati disseminati in tutti i conventi di Napoli, come pure dimoranti in Calabria e in altre provincie, perfino in Siena e in Venezia. Ognuno de' testimoni era indicato per la prova di determinati articoli; ed oltracciò erano prodotti diversi documenti, e date le indicazioni per averne altri de' quali gli articoli facevano menzione. Così troviamo inserte nel processo, al sèguito delle difese di fra Dionisio: la procura originale [Pg 174] in pergamena fattagli dalla città di Nicastro per trattare anche presso il Papa la faccenda dell'interdetto; la lettera del 10 ottobre 99 scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio, per iscusarsi delle falsità deposte insieme col Pizzoni contro fra Dionisio, e pregarlo che trovasse modo di farlo venire a nuovo esame per ritrattarsi; e poi una fede dell'Università di Fiumefreddo sulle eccellenti predicazioni ed opere di carità fatte da fra Dionisio in quella terra; inoltre le fedi di Gio. Luca de Crescenzio de' P.i Ministri degl'infermi e di D. Eligio Marti Cappellano della galera S.ta Maria, già confortatori di Gio. Battista Vitale e Gio. Tommaso Caccia sul punto di essere giustiziati, attestanti che da costoro si era dichiarato aver deposto il falso per forza de' tormenti dati dallo Sciarava[205]. A questi documenti si aggiunsero poi quelli che il Vescovo di Termoli, sulle indicazioni date da fra Dionisio, venne procurando sopratutto dall'altro tribunale; ma allora si era già agli esami difensivi, e di essi conviene oramai occuparci.

Naturalmente non tutti i testimoni dati da fra Dionisio furono chiamati all'esame, ma soltanto i frati inquisiti (all'infuori del Pizzoni e del Lauriana), parecchi carcerati per la causa della ribellione, tra' quali il Contestabile, il Di Francesco, Geronimo padre del Campanella e il Barone di Cropani, dippiù quattro carcerati per altre cause, e con tutti costoro il carceriere. Su' quattro carcerati per altre cause ci crediamo in dovere di dare qualche notizia speciale; troveremo due di loro celebrati dal Campanella nelle sue poesie, da doversi considerare come suoi amici ed anche benefattori, e per parte nostra non avverrà mai che un amico e benefattore del povero filosofo rimanga in alcun modo trascurato; d'altronde importa pure conoscere un po' addentro le qualità de' testimoni, per essere in grado di valutare la fede che le loro testimonianze possono meritare. Essi furono: Cesare Spinola, D. Francesco Castiglia, fra Antonio Capece cav. Gerosolimitano, Domenico Giustiniano marinaro. Cesare Spinola nel suo esame si dichiarò genovese, dell'età di 30 anni in circa, celibe, benestante tale da potere spendere 100 scudi al mese: senza dubbio egli era uno di que' numerosi Spinola, che al pari di moltissimi altri Liguri ammassavano ricchezze con le loro speculazioni e facevano continui acquisti di rendite in Napoli. Di altrettali Spinola l'Archivio di Stato fornisce una serie infinita al cadere del secolo 16.o, anche con frequenti omonimi; ma per fortuna col nome di Cesare se ne trova solamente uno detto «q.m Stephani q.m Bartholomaei», e varii documenti lo mostrano abitante dapprima in Genova, dove stava anche una sua sorella a nome Antonia, monaca in S. Silvestro de Pisis, possidente del pari di varie rendite acquistate dal padre, massime sulla gabella della seta ma anche sopra altri cespiti. Da uno de' documenti raccolti Cesare apparisce inoltre parente, forse cugino, del Marchese Ambrogio [Pg 175] Spinola, essendo insieme col Marchese erede di una parte delle facoltà di Lorenzo Spinola; da altri documenti apparisce sotto la tutela di alcuni suoi parenti nel 1588, ed abitante già in Napoli nel 1602, circostanze tutte che rispondono a quelle notate nel processo[206]. Ci rimane tuttora ignoto il motivo della sua prigionia: ma sappiamo che nel 1599 un Cesare Spinola trovavasi affittatore del feudo di S. Nicola, e con ogni probabilità era appunto il Cesare del quale si è discorso, avendo sempre avuto i genovesi di ogni ceto il lodevole costume di lanciarsi nelle speculazioni[207]; nè è difficile intendere che per quistioni insorte, col metodo spiccio di quel tempo, egli fosse stato imprigionato. Vedremo che di poi il Campanella in un suo Sonetto, fra mille lodi, lo ringraziò anche della difesa che di lui avea fatta. Quanto a D. Francesco di Castiglia, era costui uno de' tanti spagnuoli che facevano la loro carriera nelle provincie napolitane, ma era nato a Verona, ed avea già i suoi 40 anni: ne' Registri Officiorum Viceregum lo troviamo nominato Capitano di Rossano pel 1594, poi Capitano di Ostuni pel 1598[208]; e mentre era al governo di Ostuni fu carcerato in Lecce e tradotto nel Castel nuovo di Napoli; il Campanella lo lodò non solo come un alto personaggio, ciò che era quasi di obbligo con uno spagnuolo, ma perfino come poeta, cantore delle Donne sante e de' suoi cocenti amori, della vinta Antiochia e dell'abominio che si meritavano le Corti false e bugiarde (dopo di averne persa la protezione). Quanto a fra Antonio Capece, la sua storia è molto brutta: il suo esame ne dice poco o nulla, ma ce l'insegnano ampiamente moltissime Lettere esistenti nel Carteggio del Nunzio, ed anche qualche documento de' Registri Curiae dell'Archivio napoletano. Era uno de' tanti Cavalieri di Malta, che profittando delle guarentigie giurisdizionali cominciavano per fare i prepotenti, e poi ben presto finivano per fare gli assassini di strada insieme co' compagni a' quali erano costretti ad appoggiarsi. Di nobile famiglia napoletana, dimorante nel vicino paesello di Melito, [Pg 176] aveva appena 26 anni e già fin dal 9 marzo 1595 trovavasi carcerato in Castel nuovo perchè le carceri del Nunzio erano malsicure per lui, essendosi distinto per molti e gravi delitti, omicidii, scarcerazione violenta di detenuti, svaligiamento del procaccio di Puglia, ricatti, furti ed assassinii al passo tra Melito ed Aversa, furto e ricatto di notte nella stessa città di Napoli in casa di Ascanio Palmieri fuori la porta del pertuso (quella che fu poi detta porta Medina e non ha guari è stata diroccata): fuggito una volta dalle galere mentre lo traducevano a Malta per esservi giudicato, nel 1598 era riuscito a fuggire anche dal Castel nuovo con un altro carcerato del Nunzio, Cesare d'Assero clerico, ma semplicemente «perchè il carceriere havea lassata la porta aperta et egli voleva buttarsi alli piedi di S. S.», siccome scrisse a Roma quando fu ripreso in Gaeta e ricondotto in Castel nuovo; e poichè tutti i suoi compagni nelle scelleraggini, i quali aveano testificato contro di lui, erano stati prontamente appiccati dalla Corte Regia e non potevano più farsi gli esami ripetitivi per convincerlo, il Nunzio lo teneva così in carcere senza sapere cosa dovesse farne[209]. Ci affrettiamo a dire che la Musa del Campanella non si mosse per lui. Finalmente quanto a Domenico Giustiniano, sappiamo dal processo che era un povero marinaro di Scio, preso da' turchi all'età di 7 od 8 anni e divenuto così maomettano, poi tornato in grembo alla madre Chiesa, ed in espiazione della colpa di rinnegato già da 10 anni in carcere, con otto grani al giorno pel vitto: il suo contegno ce lo mostra un uomo semplice ed ingenuo, senza ombra di fiele, e sì che egli poteva ben raccontare quanto fosse dura la via del paradiso; dimenticato nel carcere, quivi morì il 28 marzo 1607, come si legge ne' libri parrocchiali del Castello.

Il 6 novembre si tenne la prima seduta, ed ecco le deposizioni che si raccolsero[210]. D. Francesco di Castiglia disse correr voce tra i carcerati in generale che i frati si accusavano l'un l'altro; avere udito che Valerio Bruno teneva pratica col Soldaniero ma non averlo visto; aver saputo direttamente dal Soldaniero che era stato assediato nel convento di Soriano e forzato a dire ciò che gli [Pg 177] era stato domandato.—Di poi fu interrogato Giulio Contestabile, che riuscì un testimone di grande importanza. Egli disse avere udito da molti, e li nominò, che il Lauriana avea lasciato intendere di essersi esaminato contro il Campanella e fra Dionisio per istigazione del Pizzoni e per timore di D. Carlo Ruffo, Carlo Spinelli, Sciarava, fra Cornelio; aver lui medesimo veduto in Calabria, mentre fra Cornelio esaminava, que' secolari assistere con molta distinzione alle sedute e interrogare; avere più tardi saputo che il Lauriana volea ritrattarsi in Napoli, e non l'avea fatto per consiglio di un dottore; esser vero che tutti lo ritenevano testimonio falso e che arrossiva quando nelle litanie si diceva a falsis testibus; aver veduto lui stesso il Lauriana entrare nella camera di fra Dionisio, e così pure il Soldaniero più volte, avendogli costui inviato anche regali e fatto fare il pranzo da Valerio Bruno che lo serviva sempre, come ben sapeva perchè era compagno di stanza del Soldaniero. Aggiunse essere stato presente, quando Cesare Spinola disse al Soldaniero non dover procurare tanta rovina a que' frati, e il Soldaniero si scusò raccontando come era stato costretto di deporre contro fra Dionisio dopochè fu circondato il convento in cui stava per opera de' Polistina e del Priore; avere lui stesso udito il Soldaniero lamentarsi, perchè i frati l'aveano ridotto nelle mani del diavolo e non poteva ritrattarsi senza essere appiccato; aver veduto l'indulto concesso al Soldaniero da Carlo Spinelli coll'intercessione di fra Cornelio, e sapere che trovavasi depositato alla banca di Barrese. Aggiunse aver saputo in Napoli direttamente tanto dal Pizzoni quanto dal Petrolo, che in Calabria fra Cornelio diceva loro doversi dare soddisfazione a' Giudici laici, che essi aveano dovuto deporre eresie per isfuggire da' secolari e tentare di esser chiamati a Roma, e che «per verità tutto era stato inventione»; aver saputo anche dal Di Francesco suo cognato, carcerato insieme col Pizzoni in Gerace, che fra Cornelio «con bravate, e con bone parole lo suggerì ad esaminarsi contra non so chi frati». Conchiuse aver dovuto giudicare, dietro le cose sapute dal Soldaniero, dal Pizzoni e dal Petrolo, che erano state dette molte falsità (e vede ognuno di qual peso riusciva una simile testimonianza da parte del Contestabile, convertito oramai in deciso difensore de' frati).

Il 7 novembre s'iniziò la seconda seduta col cavaliere fra Antonio Capece[211], il quale disse aver veduto una volta un frate rossetto, compagno del Visitatore di Calabria, venire a visitare il Lauriana nel carcere, e costui ricordargli che avea deposto quanto egli avea voluto, e dimandargli qualche somma de' danari che erano stati contribuiti da' conventi di Calabria, ricevendone buone parole e nove carlini; aver poi saputo dallo stesso Lauriana che era sicuro di aver la corda, ma non se ne curava per amore del Pizzoni suo maestro, che lui veramente non conosceva nulla di quanto avea [Pg 178] deposto, ma l'avea deposto per liberarsi dalla Corte temporale e non essere «inforcato et fatto in pezzi», e si voleva veramente ritrattare; essersi ritenuto pubblicamente che si sarebbe ritrattato, ma non lo avea fatto dietro consiglio dato dal dot.r Monaco, presente Domenico Giustiniano; essere state una sera omesse da lui nella litania le parole a falsis testibus, ed avergli fra Pietro di Stilo detto «che non si vergognasse ma che le dicesse» (vigile ed accorto sempre quel fra Pietro); essere corsa pubblicamente la voce che avea chiesto perdono a fra Dionisio per le deposizioni fatte contro di lui. Aggiunse aver veduto il Soldaniero visitare e servire fra Dionisio ammalato, presenti anche il Contestabile, fra Pietro Ponzio e il carceriere. Inoltre aver veduto una lettera che fra Pietro Ponzio diceva scritta al Pizzoni dal Lauriana; avere udito lui stesso il Pizzoni da una fossa parlare al Lauriana in latino e perciò non averlo capito; aver saputo dal Pizzoni medesimo, che andava in quella fossa per non aver voluto confermare l'esame di Calabria fatto per uscire dalle mani de' laici e tutto falso; aver saputo dal Pizzoni e dal Lauriana che il Visitatore e fra Cornelio li avevano esortati a confessare per dar soddisfazione a' Giudici secolari, «che poi passata quella furia sarebbero andati in Roma per il S.to officio è llà si saria accomodato ogni cosa» (testimonianze per certo troppo esplicite, e troppe volte poggiate su notizie raccolte direttamente).—Di poi Cesare Forte di Nicastro, conciatore di pelli, carcerato per la congiura[212], confermò avere udito tra i carcerati che il Lauriana si voleva ritrattare ma un Domenico Monaco lo sconsigliò; essere ritenuto testimonio falso, rifiutandosi a dire le parole a falsis testibus, onde i carcerati ne mormoravano; su tutto il resto disse non saper nulla.—In sèguito Cesare Spinola[213] attestò aver veduto un giorno fra Dionisio e il Lauriana in alterco, aver domandato allora al Lauriana come mai nel Castello «non c'era cane nè gatto che lo potesse vedere, et alhora fra Silvestro rispose Dio perdoni à chi n'è causa», e dietro le sue insistenze gli palesò esserne stato causa il Pizzoni che gli avea fatto deporre quanto avea deposto. Aggiunse di sapere che il Soldaniero aveva parlato a fra Dionisio quando costui era ammalato, e che aveva a' suoi servigi Valerio Bruno; di avere una volta veduto il Soldaniero tornare dall'esame col viso infuocato, ed avergli detto «non più contra questi poveri frati, che tante cose? et esso rispose, che voi che io faccia? per Dio che non posso far di manco per trovarmi haver detto contra di essi monaci», e raccontò il fatto dell'essere stato circondato in un convento ed obbligato da un monaco a deporre contro fra Dionisio per non essere consegnato alla Corte; ond'egli, lo Spinola, volgendosi al Contestabile che era presente, ebbe a dirgli in disparte «mira che anima negra». Aggiunse [Pg 179] di conoscere che il Soldaniero aveva avuto l'indulto da Carlo Spinelli, ma non conoscere ad istanza di chi (testimonianze tutte gravi anche per la loro provenienza da un uomo non volgare).—Venne quindi la volta di Domenico Giustiniano, il quale dichiarò avergli un giorno il Lauriana dimandato consiglio, dicendo «che non havea faccia di comparere avanti di fra Thomaso Campanella perche si havea esaminato falsamente contra di lui, e detto milli falsità»; avergli lui risposto essere in obbligo di dire la verità, ma temendo il Lauriana che avrebbe la corda, essersi deciso consultare qualche letterato; «e così chiamassemo un giovane nominato Gio. Vincenzo mezzo monaco il quale non si volse impacciare, chiamassemo poi Domenico Monaco Dottore, et fra Silvestro li proposse il caso, et il dottore li disse, Io te hò ditto più volte che tu debbi star saldo alla prima esamina che altramente sarrebbe andato in una galera». Confermò avergli il Lauriana detto che i suoi superiori l'aveano forzato a deporre in quel modo, essere da tutti ritenuto falso testimone, avere una volta nelle litanie omesse le parole a falsis testibus, onde fra Pietro di Stilo lo rimproverò e tutti ne risero. Aggiunse di sapere che il Pizzoni e il Lauriana erano stati più mesi insieme nella carcere civile, ma non sapere che si fossero concertati o no fra loro (testimonianze rese ancora più gravi dall'ingenuità della persona).—Infine Giuseppe Grillo, che già conosciamo, dichiarò essere stato presente allorchè nelle carceri di Gerace il Lauriana si scusò con fra Pietro Ponzio perchè non si era ritrattato, dicendo che «esso era andato con animo di disdirsi pensando di trovare solo la Corte spirituale, mà che ci era anco presente Carlo Spinello et l'Avvocato fiscale Regio, è che lo spaventavano solamente à guardarlo». Confermò tutto il resto intorno allo stesso Lauriana, ma solamente per detto di altri. Confermò che il Lauriana e così pure il Soldaniero e Valerio Bruno aveano parlato con fra Dionisio, ciò che avea visto egli medesimo.

L'8 novembre fu dapprima interrogato, senza il formulario solito, il carceriere Alonso Martines di Medina del Seco[214], il quale disse: «frà Dionisio Pontio stette male à morte, et il sig.r Don Giovanni Sanges mi ordinò che io li dovesse dare un compagno, et che dovesse lassar aperta la porta dela priggione nella quale era il detto frà Dionisio»: e quindi vi entrò più volte il Soldaniero, che con le proprie mani imboccava fra Dionisio quando mangiava, e diceva di farlo per carità; vi entrò pure Valerio Bruno, che portò a fra Dionisio da parte del Soldaniero «qualche regalillo di frutta», ed anche il Lauriana, che una volta rimase a parlare con fra Dionisio per un'ora. Egli vide tutto ciò, e quando erano partiti il Soldaniero e il Lauriana, fra Dionisio gli disse, «guarda costoro, si sono esaminati contra di me, et adesso mi vengono [Pg 180] à dire che non si erano essaminati contro... niente» (non disse dunque che gli avessero dimandato perdono, ma d'altro canto perchè il Soldaniero specialmente negava con tanta ostinazione la visita fatta?).—Nardo Rampano di Catanzaro, sarto, carcerato per la congiura, disse essere stato sempre compagno del Lauriana nelle carceri di Squillace e poi anche in quelle di Napoli, avere udito più volte fra Pietro di Stilo in Squillace dare del falsario al Lauriana, che «piangeva e diceva che lo lassasse stare con li guai suoi»; aver veduto ancora in Napoli venire alle mani il Lauriana ed il Petrolo, il quale anche dava del falsario al Lauriana. Confermò tutto il resto circa il Lauriana, ed aggiunse inoltre di avere lui stesso udito il Pizzoni parlare dalla fossa col Lauriana «per un pertuso che risponde fuori, et parlavano latinamente» e dopo tre giorni il Pizzoni fu tolto dalla fossa e rimase da basso per più di due mesi in compagnia del Lauriana che lo governava; (senza mettere in dubbio l'orribile condotta del Lauriana, bisogna pur dire che tutti i frati d'ogni colore, eccetto il Pizzoni, seppero organizzare una vera crociata contro di lui).—Di poi Marcello Salerno di Guardavalle, sarto, carcerato egualmente per la congiura, confermò di avere udito tutte le voci che correvano su' fatti del Lauriana, tra le altre «che un certo dottore chiamato Dominico era stato la salute di frà Silvestro et la ruina dela causa». Aggiunse di aver udito prima fra Dionisio e il Lauriana quistionare e gridare tra loro e poi quietamente parlare insieme; aver veduto anche il Soldaniero visitare fra Dionisio. Non potè pertanto attestare di aver veduto in Squillace il Lauriana dimandare perdono a fra Pietro Ponzio per le falsità dette contro fra Dionisio, perchè allora esso Marcello aveva avuta la corda e stava male; attestò solamente di averlo udito dire da altri carcerati, come pure di aver udito che il Lauriana era stato sedotto a deporre in quel modo da un frate chiamato fra Cornelio. Aggiunse che veramente il Lauriana e il Pizzoni erano stati in un medesimo carcere più mesi; (nulla di nuovo, ma una concordanza notevole).—Quindi Cesare Bianco di Nicastro, domestico, carcerato come sopra, confermò le voci che correvano intorno al Lauriana, che tutti lo dicevano falsario, aggiungendo prudentemente, «quanto à me lo tengo per religioso da messa di S. Domenico». Attestò di aver veduto lui medesimo il Soldaniero ed anche Valerio Bruno parlare con fra Dionisio; ricordò di avere già deposto circa la lettera che il Lauriana avea mandata al Pizzoni; negò di avere udito il Lauriana dire che ci era tempo ad accomodare la coscienza, avendolo invece saputo per detto di altri carcerati; conchiuse dicendo, «fra Dionisio publicamente si tiene per homo da bene come lo tengo io, è per buon religioso, è predicatore, et publicamente si è ditto, è si dice particolarmente tra li carcerati che le cose che li sono state apposte sono state falsità»; (una testimonianza simile da un uomo piuttosto prudente merita di essere considerata).—Venne poi esaminato[Pg 181] Geronimo padre del Campanella[215], che questa volta si disse di Stilo, calzolaio, costretto a vivere col carlino al giorno che a lui dava la Corte (come agli altri compagni poveri), e dichiarò di non saper nulla su quasi tutte le dimande che gli furono fatte. Attestò che dicevasi il Lauriana essere falsario, aggiungendo «et esso se lo sape». Attestò che avea veduto il Lauriana visitare fra Dionisio e parlargli, come pure il Soldaniero, non così Valerio Bruno, il quale serviva di cucina il Soldaniero; (il povero vecchio era sempre di molto cattivo umore).—Successivamente venne esaminato Gio. Battista Ricciuto di Monteleone, orefice, che dichiarò del pari non saper nulla su quasi tutti i punti e volle barcamenarsi. Disse il Lauriana ritenuto «appresso di alcuni per buono et appresso di alcuni altri non»; aver recitato la litania «giusta», ma lui, Gio. Battista, non saper «lettera»; non sapere se il Lauriana avesse visitato o no fra Dionisio, ma la camera di costui essere rimasta aperta a tutti. Quanto al Soldaniero fu più esplicito; l'avea veduto in camera di fra Dionisio, avea veduto Valerio Bruno servirlo, avea saputo da costui l'indulto accordatogli.—Finalmente Tommaso Tirotta, già servitore del povero Maurizio e carcerato e tormentato per questo, dovè rispondere solo intorno al Soldaniero e a Valerio Bruno: e disse aver conosciuto l'uno e l'altro fin da quando stavano ritirati nel convento di Soriano, sapere che il Bruno serviva il Soldaniero anche nel Castello, sapere che il Soldaniero avea visitato fra Dionisio, non sapere che il Bruno l'avesse egualmente visitato ed anche servito, poter attestare aver lui medesimo, Tirotta, cucinato due polli per fra Dionisio nel focolare del Soldaniero col consenso di costui (testimonianza insignificante per questa causa).

Il giorno seguente, 9 novembre, si cominciò ad interrogare i frati[216]. E dapprima fra Paolo confermò che il Lauriana da tutti era stimato falsario, ricordando specialmente che così l'avea chiamato pure il Petrolo nel venire alle mani tra loro. Disse aver udito in Gerace perfino da' birri, ma non dal Lauriana, che costui avea detto volersi ritrattare e poi non l'avea fatto per timore, aggiungendo, a dimanda d'ufficio, che lo Spinelli e lo Sciarava erano presenti agli esami e minacciavano, ed il Capitano di campagna era anche presente e insolentiva, come avea provato egli stesso e parimente il Petrolo. Confermò aver udito in Gerace e in Monteleone che il Lauriana non conosceva nulla di quanto avea deposto, ma l'avea deposto per timore di fra Marco e del suo compagno, i quali dicevano volerlo consegnare alla Corte secolare se non confessava. Dichiarò aver veduto nella carcere di fra Dionisio, in colloquio con costui, il Lauriana, e così pure altra volta il Soldaniero; d'avervi veduto egualmente Valerio Bruno, che era servitore del Soldaniero, [Pg 182] tanto che pur in que' giorni, essendo il Soldaniero passato al Castello dell'ovo, gli preparava il pranzo e glie lo mandava aggiungendo che da Valerio era stato detto di aver udito quanto avea deposto non da fra Dionisio ma dal Soldaniero. Attestò che trovandosi in Pizzoni, vide fra Dionisio venuto per ricuperare certi scritti dal Pizzoni e sdegnato verso costui uscire dalla Chiesa dove gli avea parlato (testimonianza troppo tardiva e quindi sospetta). Attestò le cattive qualità del Pizzoni, i furti, il mal francese, le disonestà che gli erano addebitate. Disse di sapere che in Pizzoni, quando vi fu fra Dionisio, non c'era il Campanella; confermò che fra Pietro di Stilo non era amico di fra Dionisio, ed invece lo era del Polistina; (così fra Paolo si mostrava ben diverso da quello di prima, ma perciò appunto non poteva conciliarsi molta fede).—Successivamente fu interrogato fra Pietro di Stilo, che abbondò moltissimo ne' particolari, profittando della circostanza per far entrare nelle difese in un modo anche più largo la persona del Campanella, sicchè la sua deposizione riesce di una importanza straordinaria. Dichiarò aver saputo direttamente dal Lauriana, in Squillace e in Monteleone, che avea deposto «tutto buggie ad instantia di frà Cornelio, è di frà Gio. Battista de Pizzoni», ed espose l'occasione a questo modo: «io dissi à fra Silvestro, come è possibile che tu che sei inimico di frà Dionisio perche ti persequitò per conto di frà fabio in Nicastro.... et tù sempre sei stato lontano da frà Thomaso, che essi ti habbiano communicato queste cose à te, et à me che ero amico di fra Thomaso, e paesano, non habbia ditto niente, Et fra Silvestro alhora mi disse, non per Dio, io mai seppi queste cose, mà me l'ha fatto dire il maledetto frà Gio. Battista da Pizzoni, in servitio del quale hò posto l'onore, è molte volte in pericolo la vita, Et io dissi come è possibile che si hai deposto contra frà Dionisio, et il Campanella ad instantia di frà Gio. Battista, che tu poi habbi accusato fra Gio. Battista, esso mi rispose che quelli doi ciò è il Campanella, è frà Dionisio li dovesse nominare come in effetto li nominai, et io da me aggionsi fra Gio. Battista per terzo, massime che frà Gio. Battista mi havea ditto di haver udito heresie dal Campanella, è da frà Dionisio» (rivelazioni molto sottili). Attestò che pure alla presenza di molti di Catanzaro il Lauriana disse di aver deposte falsità, ed esso fra Pietro glie ne fece rimprovero. Attestò di aver saputo dal Dottore Monaco il consiglio dimandatogli dal Lauriana; disse che uguale consiglio fu dimandato al Giustiniano e poi ad esso fra Pietro medesimo, onde ebbe a rispondere, «che si havea detto la verità stasse saldo, et moressero li tristi, è si havea detto la falsità mirasse a sè, è che li testimonii falsi condennorno il figliolo di Dio alla morte». Confermò che il Lauriana era falsario, anche perchè avea deposto di avere udito eresie da fra Dionisio, dal Campanella e dal Pizzoni, «e non dimeno, egli disse, frà Dionisio non è stato mai in Pizzoni con frà Thomaso[Pg 183] Campanella, perche io era in Pizzoni in questo tempo, et l'haveria saputo si ci fusse stato», indicando testimoni, per sapere la verità, fra Paolo e il Pizzoni medesimo. Confermò aver fatto un appunto al Lauriana durante le litanie, quando si giunse alle parole a falsis testibus, poichè «parve che à fra Silvestro s'ingroppasse, è non potesse dire». Attestò che un giorno fra Dionisio e il Lauriana vennero a briga tra loro per le falsità, e poi la sera li vide discorrere insieme, come il Lauriana medesimo gli disse l'indomani. Attestò aver veduto più volte il Soldaniero parlare con fra Dionisio; quanto a Valerio Bruno, aver saputo lo stesso da carcerati. Dichiarò aver saputo da Giulio Contestabile che il Soldaniero gli avea detto essere stato da fra Cornelio forzato a deporre, ma attestò averlo poi saputo anche direttamente ed ecco in quale occasione: «al Soldaniero dissi che frà Gio. Battista di Pizzone se li raccomandava per amore di Dio, et Giulio rispose che non li volea perdonare, mà roinarlo, perche esso fù il primo che accusò il Soldaniero che con trenta persone voleva uscire in campagna per la ribellione, et che li rencresceva bene di haver detto contra frà Dionisio, perche la sospittione che havea contra frà Dionisio che se la tenesse con Eusepio suo inimico non era stata vera, è disse di haver fatto il debito suo verso frà Dionisio in camera di frà Dionisio, ma che al Pizzone lo voleva convincere col detto di valerio bruno suo servitore de loco, et tempore, perche da quello servitore faceva dire quel che lui voleva, è questo sarà il servitio che voglio fare à fra Gio. Battista, Et dopò questo biastemò San Gio. Battista, S. Giovanni evangelista, è Santo Cornelio, Et soggionse se venessero persone che havessero questi nomi io non li crederia mai, ne tan poco voglio credere à questi Santi per tali nomi, perche questi, ciò è frà Cornelio del Monte, e Maestro Gio. Battista Polistina, sono stati causa, che hò perso l'anima, la robba, e dubbito che perderò la vita, Et poi cacciò una carta reale, è disse questa mi costa un'anima, è tre mila docati, et confortandolo io che saria remesso, mi rispose questo è l'indulto, et maledicì quando mai fu indultato, et che era meglio per esso che fosse stato alli passi» (rivelazioni sempre più sottili ed anche abbastanza teatrali, un pochino inverosimili trattandosi non di un uomo semplice ma di un capo di fuorusciti qual era il Soldaniero). Dichiarò inoltre avergli lo stesso Soldaniero affermato, che i fatti esecrabili commessi contro l'ostia consacrata erano stati narrati da fra Dionisio nella predica di Soriano a pio fine (unico testimone fra Pietro su questo articolo tanto scabroso); avergli dippiù Valerio Bruno lodato grandemente quella predica. Accettò di aver fatto molto opportunamente fuggire il Polistina quando era perseguitato da fra Dionisio (con che si accreditava come testimone a favore di costui), e confermò ad una ad una le accuse di furto, malattie e «cose di donne» addebitate al Pizzoni, mostrandosi personalmente informato di tutto. Riconobbe[Pg 184] che il Campanella avea trattato molto col Pizzoni, ma disse di non poter entrare a giudicare se dovesse ritenersi più probabile che il Pizzoni avesse manifestate a fra Dionisio opinioni del Campanella, o invece il contrario. Affermò di avere tanto lui quanto il Petrolo saputo dal Pizzoni che fra Dionisio avea parlato di eresie disputativamente, e soggiunse essergli stato detto dal Pizzoni, nelle carceri di Monteleone, che volea ritrattarsi di quanto avea deposto contro fra Dionisio e il Campanella, allegando «molte raggioni per le quali esso havea confessato la prima volta, è fra l'altre... il timore della morte, e la speranza di libertà, l'odio che havea con frà Dionisio, et l'occasione dela soversione delle cose, che alhora pareva che il mondo tutto andasse sotto sopra» (non si poteva dir meglio); al quale proposito ritornò sulle minacce fatte da D. Carlo Ruffo, da fra Cornelio, dal Visitatore, da Ottavio Gagliardo, e ricordò quello che costoro aveano fatto contro lui medesimo. Ma la lunghezza di questo esame obbligò i Giudici a rimandarne il sèguito ad altra seduta.

L'indomani 10 novembre fu ripigliato l'esame di fra Pietro di Stilo. Ed egli continuò sull'articolo delle minacce fatte in Calabria a ciascuno de' frati inquisiti, esponendo anche a lungo gli eccitamenti avuti da fra Gio. Battista di Polistina unito con fra Cornelio, poco prima di montare sulle galere in partenza per Napoli, perchè deponesse contro fra Dionisio, onde giudicò che in questa faccenda si trattasse di una vendetta particolare del Polistina. Confermò l'inimicizia del Lauriana con fra Dionisio, avendolo costui perseguitato per le pessime relazioni tra lui e fra Fabio Pizzoni: attestò di aver veduto la lettera scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio, di avere udito più di quaranta volte dal Lauriana che era stato sedotto dal Pizzoni e da fra Cornelio, esponendo tutti i particolari del modo di procedere tenuto per gli esami in Calabria, la lettura dell'esame del Pizzoni agli altri che dovevano esaminarsi, la presenza de' laici che interrogavano anche in materia di eresia perfino in Gerace, facendosi gli esami innanzi al Vescovo. Così mano mano confermò ciascuno articolo su cui venne interrogato, sempre di scienza propria: e nel parlare del mulo rubato dal Pizzoni ad un uomo di Stilo, dichiarò che egli, insieme col Campanella e col Sig.r Francesco Petrillo, s'interpose per accomodare la faccenda; nel parlare degli eccitamenti del Visitatore perchè si deponesse contro fra Dionisio, aggiunse di essere stato eccitato a deporre anche contro il Campanella. Così pure, nel parlare della conferma dell'esame di Calabria fatta in Napoli dal Pizzoni a consiglio del Lauriana, aggiunse che egualmente il Petrolo (accusatore del Campanella) confermò l'esame a consiglio del Lauriana datogli allo stesso modo; nel parlare poi dell'inimicizia tra Dionisio e il Petrolo, dichiarò che non ne sapeva nulla, ma che sapeva bene esservi inimicizia tra il Petrolo e il Campanella, «perche si disse che una sorella di frà Dominico era innamorata di frà Thomaso, et che havevano peccato[Pg 185] insiemi, et per questo si disse che frà Dominico cercò di fare ammazzare il Campanella dal Mauritio, mà Mauritio non lo volse fare; quando poi si suscitorno questi rumori di ribellione il Mauritio cercò di ammazzare il Campanella, è fra Dominico, mà non potè si ben li sequitò per alcune miglia»! Finalmente, nel parlare del motivo per cui il Pizzoni e il Petrolo dicevano aver dovuto confermare i rispettivi esami, cioè l'insistenza minacciosa del fisco, non solo dichiarò averlo udito da que' frati mentre discorrevano tra loro di notte, ma soggiunse averlo udito particolarmente dal Petrolo mentre lo diceva al Campanella per iscusarsi (e ben si vede che il povero fra Pietro si spingeva quanto più poteva, certamente un po' troppo, per giovare al suo disgraziato amico).—Dopo di lui fu esaminato il Petrolo, ma sopra un numero di articoli assai limitato. Egli attestò aver saputo direttamente dal Lauriana che avea deposto contro il Campanella, fra Dionisio e il Pizzoni, che vi era stato colto da fra Cornelio e dal Visitatore mentre non sapeva nulla di quanto depose, che voleva ritrattarsi almeno relativamente al Pizzoni suo maestro, ma non già che avesse deposto il falso ad istigazione del Pizzoni; e spiegò le confidenze fattegli, dicendo essere stato assistito dal Lauriana dopochè ebbe due ore di corda (naturalmente per la congiura). Attestò essere il Lauriana ritenuto pubblicamente falsario, persistente nel falso a consiglio di un dottore «furbo e mariolo», riluttante a dire le parole a falsis testibus nelle litanie per quanto avea saputo da fra Pietro di Stilo. Attestò aver veduto il Lauriana e fra Dionisio parlare insieme, sibbene fuori la carcere; aver udito il Soldaniero bestemmiare santo diavolo[217] e borbottare minacce contro i Polistina, ciò che il Bitonto gli spiegò col dire che i Polistina lo avevano costretto a deporre ciò che depose; inoltre aver veduto il Soldaniero visitare fra Dionisio dentro la carcere e prestargli danaro, come pure aver veduto nella carcere di fra Dionisio Valerio Bruno servitore del Soldaniero. Dichiarò di avere non solo udito il Soldaniero lamentarsi dei Polistina, ma ricevute lui stesso in Bivona raccomandazioni dirette da fra Gio. Battista di Polistina perchè non risparmiasse fra Dionisio, e nella medesima occasione veduto anche il Polistina riscaldarsi con fra Pietro di Stilo. Dichiarò di aver udito il Soldaniero dire che in Calabria avea dovuto fare il birro per salvarsi la vita; di sapere che il Pizzoni era stato in relazioni molto strette col Campanella; di avere udito dal Pizzoni che le cose dettegli da fra Dionisio erano state dette recitative e poi egli l'aveva accomodate nella sua deposizione a modo di disputa; di avere avuto preghiera dal Pizzoni, perchè raccomandasse al Lauriana di persistere nella discolpa conoscendo che l'aveva discolpato; di sapere che il Campanella non era stato a Pizzoni quando vi fu fra Dionisio, perchè il Pizzoni e il Lauriana glie l'aveano detto, ed anzi il Lauriana, [Pg 186] preoccupato di aver detto il contrario, lo pregò di raccomandare a fra Paolo che non lo scovrisse su questo punto. Infine dichiarò di sapere che il Pizzoni e il Lauriana erano stati più mesi insieme nelle carceri civili, e di credere che si fossero là messi d'accordo a voce dopochè aveano cercato di farlo in iscritto; (così oramai il Petrolo, col contatto de' frati, si era modificato di molto, ed avea capito che la causa di ognuno rifletteva quella di tutti; ma si era troppo spinto innanzi per tornare francamente indietro).—Fu interrogato da ultimo il Bitonto, e costui dichiarò di aver saputo dal Lauriana in Gerace, che si era esaminato contro fra Dionisio e il Campanella a persuasione del Pizzoni, che non si era ritrattato per timore di Carlo Spinelli, ma che si sarebbe ritrattato in Napoli, dimandando ad esso Bitonto se si dovesse o no ritrattare. Attestò di aver veduto un giorno fra Dionisio e il Lauriana quistionare insieme ed aver poi saputo dallo stesso Lauriana che la sera era andato a cercare perdono a fra Dionisio per le falsità deposte contro di lui; aver veduto il Soldaniero visitare fra Dionisio nella carcere e portargli cose da mangiare, ed aver veduto egualmente presso fra Dionisio Valerio Bruno servitore del Soldaniero. Attestò aver udito dal Soldaniero che non gli si teneva conto del guidatico, e che i Polistina e fra Cornelio lo avevano consigliato e costretto a deporre le cose di eresie. Attestò che il Pizzoni avea fatto fuggire fra Gio. Battista di Polistina quando fra Dionisio cercava farlo carcerare, che in Calabria era reputato un cattivo soggetto, avea rubati scritti a fra Dionisio e commessi altri furti, aveva avuto il mal francese e fatto udire molte cose in materia di donne. Attestò egualmente di propria scienza la pessima condotta del Lauriana in materia di costumi, e per detto altrui le lettere che avea scritte a Ferrante Ponzio revocando le cose affermate contro fra Dionisio e il Campanella. Infine attestò l'amicizia di fra Pietro di Stilo per fra Gio. Battista di Polistina nemico di fra Dionisio (come si vede, nulla di nuovo, e d'altronde il testimone era troppo ligato a fra Dionisio per potergli accordare molta fede).

Il 16 novembre si tenne l'ultima seduta, e furono interrogati il Barone di Cropani e Geronimo di Francesco, fatti venire dal Castello dell'ovo. Il Barone di Cropani, Antonino Sersale[218], narrò come egli si fosse adoperato per far perdonare dal Provinciale fra Dionisio quando costui ebbe grave punizione per aver bastonato un frate, come inutilmente avesse in tale circostanza procurato i buoni ufficii del Vescovo di Catanzaro e dell'Auditore De Lega presso il Visitatore, con la conseguenza rincrescevole per lui di essere ritenuto a motivo di queste trattative con fra Dionisio, «sospetto come li altri calabresi carcerati». Attestò per scienza propria le ottime qualità di fra Dionisio, e per detto altrui l'ostilità del Visitatore verso questo frate [Pg 187] dietro antichi dissensi circa le controversie de' frati Riformati, come pure l'amicizia del Visitatore per fra Gio. Battista di Polistina nemicissimo di fra Dionisio. Attestò aver saputo da due Padri Gesuiti, mentre si trovava nelle carceri di Monteleone, che il Mileri e il Crispo, quando vennero giustiziati, dicevano con alte grida aver tutto deposto in materia di ribellione per forza di tormenti avuti dallo Sciarava; e la cosa medesima essersi detta di altri tre che vennero giustiziati sulla galera in cui egli si trovava, sebbene non l'avesse udito di persona poichè soffriva il mal di mare, specialmente di Gio. Battista di Nicastro (il Bonazza), che per questo motivo non voleva nemmeno riconciliarsi con Dio ma poi si piegò. Aggiunse essere anche in materia di fede fra Dionisio «da tutti tenuto per bonissimo Catholico».—Geronimo di Francesco disse di avere appena conosciuto fra Dionisio, e di poter attestare che tutte le accuse fatte a questi frati erano falsità, come aveva in parte udito e in parte saputo dal Pizzoni, aggiungendo che i due giustiziati in Catanzaro (Mileri e Crispo) avevano confessato di aver tutto deposto per forza di tormenti e persuasione dello Sciarava; (e così entrambi i testimoni confondevano troppo la materia della ribellione e quella dell'eresia).

Abbiamo già avuta occasione di dire che in questo stesso periodo di tempo, oltre gli esami difensivi per fra Dionisio, si fecero anche quelli pel Pizzoni. Costui presentò in sua difesa 34 articoli, e poi ne diede in supplemento pure qualche altro nell'ultima ora scrivendolo di suo pugno (sicchè a quel tempo dovè la lesione della spalla dargli un po' di tregua), ma i Giudici non vi badarono nemmeno[219]. Secondo il solito volle provare che fin dal suo ingresso nella vita monastica avea vissuto religiosamente, e poi predicato ed insegnato ne' conventi principali, aggiungendo di avere strettamente digiunato ogni sabato e di non essere stato mai inquisito nè processato. Che il processo fatto da fra Marco e fra Cornelio era falso, avendo ricevuto danari e donativi da diverse persone per fare un processo tale da guadagnarsi un premio. Che que' frati eccitavano gl'inquisiti l'uno contro l'altro dicendo che l'uno avea deposto contro l'altro, leggevano in precedenza all'uno l'esame raccolto dall'altro, facevano co' tormenti dire quanto loro piaceva. Che senza precedente denunzia, inquisizione o querela, aveano fatto carcerare esso Pizzoni, dicendolo pubblicamente nemico di Cristo e del Re. Che il fisco e gli ufficiali Regii promettevano premii e diedero indulti per far deporre contro la propria coscienza. Che un testimone del fisco, il Caccia, aveva in punto di morte dichiarato di aver deposto il falso e se n'era fatta fede che esso Pizzoni riproduceva; inoltre questo Caccia era stato sottoposto alla tortura mentre aveva la febbre e in tale condizione era stato sedotto da que' frati a nominare esso Pizzoni! Che i due Polistina erano suoi nemici, essendo lui stato a Roma [Pg 188] contro di loro quando concorrevano al Provincialato. Che Giulio Soldaniero gli era nemico capitale e l'avea più volte minacciato, pretendendo che avesse nascosto Eusebio Soldaniero; e poi era stato eccitato da' Polistina a deporre contro di lui. Che Valerio Bruno era compagno di delitti e servo stipendiato del Soldaniero, e quindi non meritava fede; e poi egli medesimo confuso per le sue falsità avea detto a' Giudici, «misericordia signore, che sono ignorante». Che esso Pizzoni non era stato mai cacciato dal convento di Soriano, ma sempre accoltovi con affetto, e vi avea pure cantata la messa in presenza del Visitatore nel giorno di S.to Agostino (vale a dire il 28 agosto). Che il Campanella e fra Dionisio non aveano mai parlato di quelle cose che esso Pizzoni avea deposte, se non separatamente e fuori la presenza di alcuno; e il libro del Campanella stampato in Napoli non era scritto contro S. Tommaso ma contro Antonio Marta napoletano, e S. Tommaso vi si trovava nominato sempre colla massima riverenza (in questo contradiceva al Lauriana, col quale oramai il disaccordo era completo). Che avea sempre letto e predicato dottrine approvate dalla Chiesa. Che fra Dionisio gli era divenuto nemico mortalissimo da che esso Pizzoni avea deposto contro di lui molte cose intorno alla congiura e alla fede; fra Domenico Petrolo era stato eccitato a deporre contro esso Pizzoni da fra Cornelio, il quale glie ne lesse pure l'esame, oltrechè non avea potuto vederlo ammalato in Pizzoni due anni prima, perchè allora esso Pizzoni si trovava in altri posti. Che mai vi era stata tra lui e il Campanella corrispondenza in cifra, che non era mai il Campanella venuto altre volte a Pizzoni, che quando ci venne fu perchè volea vedere i Vescovi di Mileto e di Nicotera i quali dovevano là venire, che dopo di averlo esso Pizzoni cacciato dal convento, non gli scrisse mai più. Che se esso Pizzoni lo vide in Stilo, ciò fu per certo danaro che dovea restituire a un fra Marcello Basile, e per certo altro danaro che doveva esigere andò a vederlo presso il Marchese di Arena. Che avvertì il P.e Generale facendo scrivere la lettera al Lauriana e mandandola egualmente per costui alla posta di Monteleone, non appena seppe le cose delittuose del Campanella e di fra Dionisio. Che tutte le deposizioni de' frati furono fatte innanzi ad ufficiali Regii, ed anche innanzi a D. Carlo Ruffo, il quale era speciale nemico di esso Pizzoni per controversie passate tra loro. Che nel convento di Pizzoni egli non era stato se non durante tre mesi prima della sua carcerazione, mandatovi a forza da' Superiori suoi nemici, ed avea supplicato inutilmente di poter lasciare quel posto, solito ad essere frequentato da fuorusciti protetti dal Vescovo di Mileto, onde due Vicarii suoi predecessori aveano dovuto scapparne di soppiatto.

A questi articoli, redatti con un po' di disordine e con diversi errori di nomi, attestanti la poca cura dell'Avvocato e l'affievolimento del Pizzoni pur sempre infermo, venne aggiunto un elenco di testimoni rappresentati da tutti i frati inquisiti all'infuori di fra Dionisio[Pg 189] (oltrechè del Campanella come ben s'intende), da molti frati de' conventi di Calabria, e da taluni de' conventi di Napoli, dal Contestabile e dal di Francesco carcerati per la ribellione, dallo Spinola e dal Castiglia ed anche da un D. Francesco di Genova carcerati per altre cause, da Fabio Pisano disgraziato padre di Cesare dimorante in Calabria. E con una fiacchezza di accorgimento sempre più notevole, vennero tutti i frati inquisiti indicati come testimoni su tutti gli articoli indifferentemente, sicchè p. es. il Petrolo ed il Lauriana doveano provare anche le affermazioni contenute negli articoli addotti contro di loro; e può dirsi senza esitazione, che la difesa del Pizzoni, già essenzialmente scabrosa, fu mal condotta davvero.—Il fiscale Sebastiano diede dal canto suo appena 6 interrogatorii, contenenti le solite ammonizioni e generalità rutinarie, senza brigarsi menomamente de' fatti affermati negli articoli, tanto dovea sentirsi sicuro che non ve n'era bisogno. I Giudici poi chiamarono all'esame soltanto i frati inquisiti, lo Spinola e il Castiglia, il Contestabile e il Di Francesco, e in due sedute successive, il 14 e 15 novembre, esaurirono le difese del Pizzoni[220].

Il 14 novembre fu interrogato dapprima fra Paolo della Grotteria, il quale disse di conoscere da poco tempo il Pizzoni e non poter dare testimonianze sulla vita di lui; avere udito con molti altri carcerati in Monteleone Cesare Pisano affermare, che da suo padre era stato dato danaro ed altro al Visitatore e compagno, per passarlo dalla Corte temporale all'ecclesiastica; esser vero che il Visitatore e compagno, presenti Spinelli, Sciarava e il Vescovo di Gerace, minacciarono esso testimone se non avesse deposto contro il Pizzoni intorno al mangiar carne in tempo proibito; che D. Carlo Ruffo con suoi famigli era venuto nelle carceri a sedurlo e così pure fra Cornelio; che avea veduto minacce di pugni e di consegna alla Curia secolare, la quale procedeva a modo di campagna, fatte al Petrolo e a fra Pietro di Stilo. Avere udito parlare della fede fatta dal Caccia a tempo della sua morte, ma non averla veduta; poter attestare che il Caccia fu tormentato mentre avea la febbre, ma non sapere se il Visitatore e compagno fossero stati presenti. Avere udito da un birro che i due Polistina coll'intervento di un secolare, il quale doveva essere Giulio Soldaniero, avevano fatta una lista di accuse, non sapere se il Campanella e fra Dionisio avessero parlato o no di eresia, ma poter attestare che il Pizzoni si era con lui lamentato del Visitatore e compagno, perchè con buone parole e promesse di liberazione, al pari di D. Carlo Ruffo, l'aveano indotto a deporre contro que' due frati, ed egli l'avea fatto tanto più perchè pensava di non avere a nuocere a fra Dionisio che era fuggito; potere inoltre attestare che nella Chiesa di Pizzoni fra Dionisio avea parlato al Pizzoni con sdegno. Su tutto il resto disse non saper nulla (la difesa del Pizzoni già cominciava a risultare ben [Pg 190] altro che difesa, e se venivano a galla tutte le infamie del Visitatore e di fra Cornelio, non per questo il Pizzoni se ne giovava).—In sèguito il Petrolo disse del pari aver conosciuto poco il Pizzoni, avendolo veduto appena una volta in Stilo e poi nel carcere; sapere che era buon predicatore e letterato ma assai maledico, e che avea cominciato a digiunare il sabato da sole tre o quattro settimane! Aver udito in Gerace che il Mesuraca avea dato 100 scudi a fra Cornelio per far processare mortalmente i frati inquisiti, a fine di guadagnarsi il taglione sopra il Campanella ed esso Petrolo; aver udito in Monteleone da Cesare Pisano ed anche dal padre di costui, presenti altri frati, che erano stati dati 100 scudi e robe di tela a fra Cornelio, convenendo di far dire cose di eresie per passare al foro ecclesiastico. Essergli stato da fra Cornelio letto in gran parte l'esame del Pizzoni, ma non detto che dovesse deporre contro il Pizzoni. Essergli stato detto dal Pizzoni che fra Cornelio, presente Geronimo di Francesco, l'istruiva nella carcere su quanto avrebbe dovuto deporre; poter assicurare che esso testimone medesimo era stato visitato nella carcere da fra Cornelio, il quale voleva fargli sottoscrivere un verbale che egli non voleva sottoscrivere, «e disse con giuramento, dicendo per queste mani, monstrando le mani sue, che tu non hai da uscire da questo Castello se non in pezzi, et io mi humiliai, et esso col visitatore mi sputavano in faccia con dire non basta questo, ma volevano che io dicesse delle cose che non sapeva.., et il Sciarava mi pigliò una volta per il petto, è mi condusse alla banca sotto la corda, et voleva che confirmasse lo mio esamine quale io non voleva confirmare per le falsità che contineva». Dichiarò inoltre che tutti i frati di S. Domenico erano chiamati ribelli, che ognuno de' persecutori si aspettava un premio, e di fra Cornelio si diceva che sarebbe stato fatto Arcivescovo di Toledo! Avere udito che il Caccìa avea fatto fare una fede per ismentire le falsità deposte, e che era stato tormentato mentre avea la febbre; aver saputo da lui medesimo, in Squillace e poi in Monteleone, che era stato esaminato contro il Pizzoni e avea deposto il falso; ma i Giudici gli fecero osservare d'officio che dal processo si rilevava essersi le deposizioni del Caccìa avute senza tormento, e il Petrolo ripetè che in Gerace aveva avuta la corda (erano state confuse negli articoli le deposizioni sulla congiura e quelle sull'eresia, e i testimoni continuavano in tale confusione). Avere udito che il Pizzoni non era nemico ma amico del Polistina (confusione di due periodi diversi); aver saputo dal Pizzoni medesimo che fra Dionisio non gli avea dette tante eresie; e che glie le avea dette recitativamente; nulla poi aver saputo intorno al Campanella. Poter assicurare che il Pizzoni era stato esaminato innanzi al Visitatore e compagno, allo Spinelli e allo Sciarava, come esso medesimo era stato esaminato; che anzi lo Spinelli e lo Sciarava volevano esaminarlo soli ed egli si rifiutò di rispondere dicendo che era ecclesiastico, ma Sciarava gli disse che[Pg 191] non lo era più, perchè aveva allora lasciato l'abito, e finirono per interrogarlo (ma questo era accaduto in Gerace, e il Pizzoni avea già deposte tante cose propriamente in Monteleone, fuori la presenza dello Spinelli e dello Sciarava). Sugli articoli che concernevano direttamente la persona sua, confermò essergli stato da fra Cornelio letto in gran parte l'esame del Pizzoni ma non fatto eccitamento a deporre contro il Pizzoni; confermò inoltre aver veduta una lettera in cifra che il Campanella gli disse essere stata scritta dal Pizzoni. Su tutto il resto dichiarò non saper nulla.—Venne poi la volta del Lauriana, il quale disse aver conosciuto il Pizzoni da molto tempo, non essergli amico nè nemico, sapere che era buon predicatore ma non che digiunasse o no. Aver udito dal Pisano e dal padre di costui il pagamento e regalo fatto a fra Cornelio; aver saputo dal Caccia essere stato spinto a deporre contro il Pizzoni dietro assicurazione che il Pizzoni avea deposto contro di lui. Avere lui medesimo avuta dal Visitatore e compagno la minaccia di essere consegnato allo Sciarava, il quale diceva volergli dare la corda. Avere udito dal Caccia che molte cose erano state da lui deposte contro il Pizzoni e che venendo in Napoli si sarebbe ritrattato; sapere che il Caccia era stato sottoposto alla corda mentre aveva la febbre, ma non sapere se il Visitatore e compagno vi fossero intervenuti. Avere il Soldaniero scritto a Claudio Crispo lamentandosi che in Pizzoni si desse ricetto ad Eusebio suo nemico, la qual cosa non era vera. Riferirsi al suo esame circa la presenza contemporanea del Campanella e fra Dionisio in Pizzoni quando si parlò di eresia, e così pure circa la lettura del libro stampato dal Campanella. Esser vero che il Pizzoni leggeva la dottrina di S. Tommaso, che era stato Teologo del Vescovo di Nicotera, che era andato presso il Campanella per le ragioni da lui addotte. Avere scritto realmente la lettera al Generale, con cui il Pizzoni rivelava le cose del Campanella e di fra Dionisio, ed averla lui medesimo portata alla posta. Nel suo primo esame non esservi stati altri esaminatori che il Visitatore e fra Cornelio, senza intervento di persone laiche. Esser vero che il Pizzoni si lamentava sempre del Provinciale e del Polistina i quali l'avevano mandato nel convento di Pizzoni, e che in questo convento erano stati sempre ricoverati banditi, da' quali una volta il Vicario predecessore del Pizzoni aveva avuto minaccia di essere buttato dalla finestra.

Il 15 novembre si venne agli esami di tutti gli altri testimoni. E dapprima fu esaminato fra Pietro di Stilo, il quale, come sempre, ebbe di mira principalmente la difesa del Campanella, sicchè il Pizzoni non potè punto giovarsene. Egli disse aver conosciuto il Pizzoni da otto anni, averlo avuto a lettore in Briatico, essergli amico, essere rimasto con lui una volta che gli altri scolari gli si ribellarono; sapere che era buon lettore e buon predicatore, ma di vita scandalosa. Confermò di avere udito da alcuni preti in Gerace che a fra Cornelio erano stati dati danari da Misuraca, perchè[Pg 192] aggravasse la condizione de' frati e così egli guadagnasse la taglia; si diffuse sull'argomento de' premii e quindi della falsità del processo, dicendo, «chi pretendeva per questa causa di voler essere vescovo, chi cardinale, chi conte, chi una cosa, et chi un'altra, et comunemente fra Cornelio et il visitatore si tenevano vescovi, et quelli preti dissero con pietà, la causa di questi monaci non può andare bene perchè li istessi monaci li cacciano, et altro non mi racordo per ora, Et poi si il processo sia falso, dico che frà Gio. Battista da Pizzone et frà Silvestro de Lauriana separatamente l'uno dall'altro mi hanno detto che hanno detto la falsità, et per questo bisogna che il processo sia falso, quanto poi alli Giudici ciò e, Visitatore, et compagno, facevano, è dicevano tante cose, come saria pigliavano me, è mi conducevano avanti li giudici secolari, et dicevano, ve lo consegno per tre hore, facciati quel che vi piace, è se partivano..., di più dicevano si tu confessi non morirai, è sarai libero, et haverai premio, et altre parole simili, et l'istesso anco mi è stato fatto da don Carlo Ruffo è da quello di casa guagliardo (intend. Ottavio Gagliardo) à Monteleone...; fra Cornelio si monstrava non amico, mà servitore deli giudici secolari, et l'istesso visitatore pareva che dependesse da frà Cornelio, et per tutte queste cose, et altre, hò anco sospetto che per mali modi tenuti dal visitatore, è compagno che il processo sia falso». Disse poi non sapere che si leggessero prima a' testimoni gli esami raccolti contro di loro, ma saper bene che i giudici «fingevano et dicevano parecchie cose contra il Campanella, frà Dionisio, et il Mauritio, che erano tristi, et scelerati, et heretici, è che fra thomaso Campanella havea predicato publicamente le heresie, Et io facendo instantia di vedere le cose che mi dicevano non me le volevano monstrare, è poi mi dicevano hor su tu vuoi morire...». Ed inoltre: «fra Cornelio con belle parole, è lusinghe mi voleva persuadere à dire quel che lui voleva, ciò e, che io accettasse l'esamina deli altri, dicendomi tu solo non puoi portare il carro et si tu solo sarai pertinace, tu solo morirai, monstrando certe pietà, è forfanterie con me, et ultimamente sempre mi lassava con bravarie... Facevano gran cose per fare confessare, e massime frà Cornelio, il quale mi minacciava la morte, et io risposi pacientia, più presto la morte che offendere Dio». Dichiarò non conoscere che il Caccia avesse fatta una carta di ritrattazione, ma conoscere che fu tormentato mentre avea la febbre senza essere informato se v'intervenisse o no il Visitatore ovvero fra Cornelio; poter poi attestare, avendolo udito dal Caccia medesimo, che si lamentava di fra Cornelio perchè l'avea sedotto a dire la falsità con l'assicurazione che avrebbe così evitata la corda, onde diceva aver deposto la falsità per la corda (evidente ripiego per profittare in qualche modo di un articolo scioccamente redatto). Disse di sapere che il Soldaniero si era lamentato di fra Dionisio (anche di fra Dionisio),[Pg 193] del Pizzoni e del Lauriana, perchè ospitavano Eusebio fuoruscito suo nemico; sapere per detto di fra Paolo che il Soldaniero si era concertato col Polistina in questa faccenda, e che a lui parea vero, mentre il Polistina avea tentato di sedurre lui medesimo perchè deponesse contro fra Dionisio (ma non si pronunziò sulla inimicizia sorta tra il Pizzoni e i Polistina). Dichiarò non potere esser vero che fra Dionisio avesse dette eresie al Pizzoni, mentre nel principio di luglio, essendo in Stilo e sapendo che vi era venuto il Pizzoni, corse a prendere un candeliere dall'altar maggiore per ucciderlo, a motivo di certi scritti rubatigli da lui; ed esso testimone col Campanella doverono quietarli, promettendo il Pizzoni che avrebbe restituiti gli scritti e mandatili ad Arena (mezzo di difesa venuto in campo negli ultimi tempi). Dichiarò non sapere che il Pizzoni avesse accusato fra Dionisio a' superiori; potere invece attestare, che il Pizzoni voleva persuadere esso testimone a dire che avea veduta una lettera da lui scritta allo Sciarava e che costui glie l'avea mostrata, la qual cosa era «bugia tremendissima»; potere attestare ancora che il Lauriana avea detto ad esso testimone non esser vero che avesse portato alla posta una lettera del Pizzoni al P.e Generale (troppe confidenze ricevute). Quanto a fra Domenico Petrolo, dichiarò non sapere che costui avesse avuto terrori da fra Cornelio perchè deponesse contro il Pizzoni, ma avere udito dal Petrolo medesimo che aveva avuto terrori per deporre contro il Campanella e fra Dionisio (sempre confidenze da tutti costoro, che pure lo conoscevano amico intimo del Campanella). Quanto al non avere più il Pizzoni trattato col Campanella dopo di averlo cacciato dal suo convento, dichiarò constargli il contrario, mentre essendo il Campanella in Pizzoni verso la fine di luglio, fu pregato di volervi rimanere ulteriormente, e vi rimase tre giorni più di quanto si era proposto; aver sempre il Pizzoni pregato il Campanella che si recasse al convento di Pizzoni, averlo anche in Arena pregato in tal senso, sicchè per queste falsità non avrebbe dovuto farlo esaminare come testimone! Esser vero che quando il Pizzoni venne a Stilo portò certi danari a M.o Marcello Basile, come «ne portò anche al speciale che li curò il mal francese»! Sapere che fra Gio. Battista di Polistina l'avea processato per i suoi delitti; sapere che in Pizzoni vi erano banditi, ma non sapere che vi fossero prima che ci andasse per Vicario il Pizzoni (altro che difesa; il Pizzoni amico infedele, doveva essere trattato come un deciso nemico, oltrechè dimostrato testimonio falso per le seduzioni e il terrore incussogli da fra Cornelio).—Venne di poi il Bitonto, il quale disse aver conosciuto il Pizzoni da dodici anni, averlo saputo di mala vita, essere stato tenuto per scandaloso e maligno. Avere udito da Fabio Pisano la faccenda de' danari e regali dati a fra Cornelio per far liberare il figlio dalla morte, e da' carcerati la faccenda de' danari pagati allo stesso fra Cornelio dal Mesuraca, per far processare mortalmente il Petrolo e il Campanella. Avere fra Cornelio detto a lui[Pg 194] medesimo che il Pizzoni gli si era esaminato contro, eccitandolo così a deporre contro il Pizzoni; e dicendo lui che non sapeva nulla, avere avuto da fra Cornelio minaccia di consegna a' Giudici secolari. Sui cattivi modi di esame, e sulle speranze de' premii da parte de' Giudici e persecutori, disse: «usorno milli stracie verso di noi il fra Cornelio, et l'Avocato fiscale, et Carlo Spinello, acciò per le stracie dicessimo quello che volevano loro..., quello che pigliò à me pretendeva di acquistare una baronia, è don Carlo Ruffo, pretendeva essere Prencipe de Stilo, è frà Cornelio per quanto disse l'Avocato fiscale se li saria procurato un vescovato, et io udì quando che il fiscale disse questo in risposta che diceva non haveria mancato di fare tutto quello che havesse possuto in servitio del Re Catholico al quale era devoto». Intorno al Caccìa disse sapere che gli fu data la corda mentre aveva la febbre e che in particolare gli fu dimandato del Pizzoni, ma non sapere chi ci fosse presente e se vi fosse intervenuto il Commissario e compagno. Intorno alle relazioni tra il Pizzoni e il Polistina, disse sapere che il Pizzoni era andato a Roma per mostrare che l'elezione del Polistina al Provincialato non era valida. Confermò che il libro del Campanella era scritto contro un certo Marta napoletano (egli solo tra' testi si trovò in possesso di tale notizia). Confermò che il Petrolo era stato eccitato da fra Cornelio a deporre il falso contro il Pizzoni, dicendo averlo saputo dallo stesso Petrolo ed aggiungendo essere stato lui medesimo presente alle bravate di fra Cornelio verso il Petrolo. Su molti altri articoli, sulla condotta del Soldaniero messosi di accordo co' Polistina, su' fatti del convento di Soriano, sulle relazioni del Pizzoni con fra Dionisio e il Campanella disse non saper nulla; sulla presenza di banditi nel convento di Pizzoni disse aver saputo dal Lauriana che c'erano già prima che il Pizzoni ci andasse per Vicario (e ben si vede che le testimonianze del Bitonto furono pel Pizzoni assai migliori di quanto si poteva attendere).

Nella stessa seduta furono esaminati i rimanenti testimoni, chiamati a deporre sopra determinati articoli.—Cesare Spinola disse di conoscere un frate chiamato fra Gio. Battista di Pizzoni ma non avergli mai parlato; non sapere che il Soldaniero si fosse messo d'accordo co' Polistina contro il Pizzoni; sapere bensì che Valerio Bruno passava per servitore del Soldaniero.—Giulio Contestabile disse aver conosciuto il Pizzoni nelle carceri; poter attestare che il Caccìa avea deposto contro esso testimone e al momento dell'estremo supplizio si era ritrattato, onde egli se ne avea procurata dai confortatori una fede che aveva presentata in giudizio a sua difesa; non conoscere i Polistina e non sapere che si fossero concertati col Soldaniero a danno del Pizzoni, sapere che Valerio Bruno era da tutti tenuto per servitore del Soldaniero.—D. Francesco di Castiglia disse non conoscere il Pizzoni personalmente, non saper nulla del concerto del Soldaniero co' Polistina, sapere che Valerio Bruno era servitore del Soldaniero.—Infine Geronimo di Francesco disse[Pg 195] aver conosciuto il Pizzoni solamente nelle carceri di Gerace, dove stava con lui in una medesima camera, ed aggiunse: «essendo priggione con frà Gio. Battista di Pizzoni, venne un frate rossetto, di bassa statura, e giovane quale lo chiamavano il compagno del visitatore, e per nome intendo si chiama frà Cornelio, et parlando con fra Gio. Battista udii che disse: Padre frà Gio. Battista mio bisogna per sutterfuger lo giudicio temporale che deponestivo in materia dal Santo Officio, et confermassi l'esamina fatta, et à questo modo si daria satisfatione à questi Signori, ciò e, al Advocato fiscale di Calabria, et saressi forzato di andare in Roma per ordine del Santo officio, Et questo detto si appartorno un poco da me che io non potesse udire et raggionorno quasi mezza hora secretamente che non udii, mà dopò frà Gio. Battista mi disse che il Compagno non havea parlato solamente come da se, mà mandato dal Padre visitatore à posta per persuaderlo à quanto hò ditto di sopra». Ed interrogato d'ufficio dichiarò ancora: «frà Gio. Battista disse così confusamente per che io non volsi sapere quel che havea deposto, che esso si era esaminato avanti don Carlo Ruffo, et che era molto attimorato, è mi giurò sopra li ordini che lui tiene, che delle cose che lui havea deposto, non ne sapeva niente, et che si Dio li faceva gratia di venire in buona sanità, che alhora havea certi discensi molto fastidiosi nelle braccia, voleva morire in una corda per mantenere la verità, essendo che quello che haveva detto non era la verità, et à questo niuno altro fù presente perche noi doi soli eravamo in quello carcere» (troppe confidenze). Intorno alle sevizie da parte del Visitatore e compagno dichiarò, che al Petrolo esaminato da fra Cornelio, «perche non disse come voleva esso, li levò il ferrarolo, et il cappello essendo alhora in habito secolare nel quale era stato preso, et lo fece tornare alla carcere che pareva un pescatore, et io lo viddi senza cappello, e senza ferrarolo, per il che mi mossi à dimandarli perche non havea il cappello, et il ferrarolo, et esso mi racontò quanto hò ditto». Intorno al Caccìa, disse che «fu tormentato à tempo che havea la febre, et l'Avocato fiscale fece venire un medico, il quale dubitando di non essere carcerato, disse per quanto si è inteso che si li poteva dare la corda». Dichiarò per altro non sapere che il Visitatore e compagno vi fossero intervenuti, ed aggiunse: «quando questo Gio. Thomaso Caccìa et Gio. Battista Vitale furono giustitiati io mi trovai presente su le galere, et questi doi publicamente dissero, havendo anco chiamato prima l'Avocato fiscale, è li padri dela Crocella, et Maestro Cesare Pergola franciscano che era passiggiero, che quanto havevano detto contra di loro nelli tormenti, poiche non voleva credere detto fiscale che fusse mentita, è falsità, e perciò si contentavano di morire; mà in quello che toccava li altri dichiaravano che quanto havevano detto tanto in materia di ribellione come del Santo officio tutto era[Pg 196] falsità, è fecero instantia che ne facesse fare atto publico, mà esso non volse» (dichiarazioni evidentemente troppo larghe, estese anche alla congiura, della quale lo stesso Di Francesco era stato almeno persecutore; in quanto al Pizzoni poi testimonianze di accusa, non di difesa). E così ebbero termine gli esami difensivi pel Pizzoni.

Ecco ora gli esami informativi sulla pazzia del Campanella, che si fecero contemporaneamente agli anzidetti, in due sedute, il 6 e il 15 novembre, ad istanza del suo procuratore. Senza dubbio vi erano state da parte de' Giudici sollecitazioni per procedere alle difese del Campanella, poichè il Dello Grugno era entrato in funzione non prima del 31 ottobre, e ben presto fu presentata una comparsa scritta chiedendo un'informazione sulla pazzia; onde con appena sei giorni d'intervallo le si diè principio[221]. La comparsa, che trovasi inserta nel processo, non reca il nome di chi la scrisse, ed è redatta in latino ne' seguenti termini che diamo tradotti: «Innanzi agl'Ill.mi e Rev.mi Signori giudici delegati dal Santiss.mo S.r N.o nella causa di fra Tommaso Campanella dell'ordine dei predicatori carcerato nelle carceri del Castel nuovo, comparisce il procuratore dello stesso e dice, che il detto frate, da alcuni mesi in quà, è stato ed è in manifesta demenza, è stato ed è privo totalmente d'intelletto, siccome è apparso ed evidentemente apparisce dalle sue parole e da' suoi gesti, poichè a modo dei matti sempre ha detto e continuamente dice parole risibili, non a proposito, stravaganti; e però che non si possono fare per lui difese intorno alle cose delle quali trovasi inquisito, mentre a volerle fare bisognerebbe cavarle dalla bocca sua. Laonde chiede gli si conceda un termine conveniente per provare la predetta demenza, e frattanto si sospenda ogni cosa, premessa la protesta di non decorrenza del termine concesso per le difese...» etc. I Giudici diedero immediatamente corso alla dimanda, e cominciando dal carceriere esaminarono dieci testimoni, de' quali poterono aver notizia da' primi esaminati. Dobbiamo anche dire che nella prima seduta intervennero il Vescovo di Termoli, il Vicario Arcivescovile di Napoli e l'Auditore Antonio Peri (il Nunzio era pur sempre occupato in altre faccende), e nella seconda seduta raccolse gli esami il solo Notaro e Mastrodatti Prezioso per mandato dei Giudici. Daremo con tutta la larghezza possibile le cose raccolte, poichè esse non solo addimostrano la vita, almeno la vita apparente, del povero filosofo, ma anche rivelano le sue vedute e le sue tendenze in questo periodo molto importante della sua prigionia.

Il 6 novembre Alonso Martinez, carceriere, esaminato disse avere più volte parlato al Campanella, che gli avea risposto sempre «spropositatamente», e narrò come l'avea trovato la prima volta pazzo nel giorno di Pasqua, col letto bruciato e la prigione [Pg 197] piena di fumo, giacente a terra e poco dopo furioso al punto da esserglisi avventato contro per morderlo; tutte le circostanze già da noi dette altrove (ved. pag. 86). Interrogato se credesse che simulava la pazzia per isfuggire le pene forse dovutegli, rispose, «à giudicio mio il Campanella è pazzo». Indicò lo Spinola, il Castiglia, il Contestabile, il Grillo, tra coloro che potevano essere esaminati sull'incidente.—Giuseppe Grillo disse non avere parlato al Campanella, ma averlo visto quando il carceriere andava a dargli da mangiare; narrò che «diceva parole spropositate, è che voleva faro la bibbia, è la Cruciata, et pigliava le scarpe, è quando altra cosa, et faceva cose da pazzo». Indicò come contesti il Salerno, il Ricciuto, il Marrapodi, lo Stanganella, il Tirotta: interrogato se credesse che era finto pazzo, rispose crederlo «pazzo vero, perche la fintione in tanto tempo saria scoperta».—Cesare Spinola disse: «io hò visto et parlato col Campanella molte volte, secondo l'occasioni, et sempre hà parlato spropositatissimamente, et io alle volte ci hò posto pensiero particolare per vedere si era cosa finta ò reale questa sua pazzia, et in somma à mio giudicio è pazzo per le cose che l'hò sentito à dire, è dice che aspetta il Papa, et l'indulgentia per la cruciata, che bisogna che il Papa sia Monarcha, et à me diceva che mi voleva fare Confaloniero della Cruciata, mà con patto che io dovesse digiunare quaranta giorni, et quaranta notti»! (non poteva riuscire più esplicito).—Giulio Contestabile disse: «dicono che frà Thomaso Campanella sia pazzo, è così quando il carceriero li porta da mangiare sono andato à vederlo et sentire li spropositi che lui diceva, non che io l'habbia parlato in secreto ne di cose particolari»; inoltre, «dalle cose che lui ha ditto è fatto io lo giudico per pazzo, e potrebbe essere che lui simulasse, mà però dagli effetti lo giudico pazzo» (sempre riservato e cinto di cautele; era compatriotta del Campanella e clerico).—Marcello Salerno disse: «sempre dice parole al sproposito, et hier sera cercando del pane da noi altri carcerati, et non havendo, esso Campanella disse, questi diavoli di soldati che hò mandato alla Cruciata tutto se lo mangiano...; subito cominciato una cosa passa in un'altra...; io per quello che hò visto lo giudico pazzo».—D. Francesco di Castiglia disse: «io hò udito frà Thomaso Campanella parlare dalla porta della priggione, quando si li dava da mangiare, et anco dala finestra, è li raggionamenti suoi sono stati sempre mai spropositati, et io hò posto particolar cura per farlo parlare alcuna cosa à proposito in materia di filosofia, ò in altra cosa curiosa, et esso sempre risponde, di fare la Cruciata, et che spetta (intend. aspetta) sua Santità, è dalla fenestra cominciò à dimandare il populo che andava à vedere ad impiccar uno, è diceva che li voleva dare il confalone dela cruciata che faceva, è milli altri spropositi...; l'animo suo non lo posso giudicare, ma dico bene che le parole sue, et atti sono da pazzo, ne mai l'hò potuto[Pg 198] cavare da bocca cosa al proposito, et quando ultimamente li fù data la corda si lamentava che li forausciti l'havevano robbato trenta carlini, et l'havevano battuto assai in milli modi, senza dir parola che li fosse stata data la corda per ordine delle Signorie Vostre».

Il 15 novembre furono dal Prezioso esaminati i rimanenti testimoni. Gio. Angelo Marrapodi disse: «molte volte io hò udito à parlare fra thomase Campanella dentro le carceri dove stà, et il parlare suo è al sproposito dicendo delle parole spropositate, et parla pazzescamente, perche comincia a dire una cosa, et lassa quel parlare, et entra in altre parole...; lo tengo per pazzo come è tenuto dali altri...»—Gio. Battista Ricciuto disse: «da che si è ditto che frà thomaso Campanella sia pazzo, io con curiosità più volte lhò parlato, et anco inteso quando altri li hanno parlato, à tempo che il carceriero hà aperto la porta dela carcere dove stà per darli da mangiare, et ogni volta che hà parlato con altri hà parlato molto spropositatamente come soleno parlare li pazzi, et quando io, ò altri lhavemo dimandato qualche cosa non ha risposto à proposito, uscendo à diversi raggionamenti, che non ci era proposito, et hò visto che quando parla fà atti di pazzo, non stà fermo in un loco dela carcere, mà passeggia, è si hà soluto affacciare alla fenestra dela sua carcere, è chiamare dicendo ò Jaconi del convento, che si fà, venete quà che ci mancano cavalli, è dice che vole fare lo confaloniero, et che vole fare la cruciata, et chi vole fare capitano, è chi alfieri, è sargente maggiore, et che il Papa lhave scritto che metta in ordine li cavalli, e li soldati, tal che sempre lhò inteso parlare al sproposito, e fuori di raggione come soleno parlare li pazzi, et dicontinuo dice di simili cose, et quando parla fa molti segni con la bocca, è con li occhi, et con le mani, et alle volte piglia lo terreno dall'astraco dela carcere, è la butta in faccia di quelli che li parlano, et quando piglia li suoi scarponi che porta in piedi, è con quelli dà, et sequita quelli che sono ne la sua carcere...; da tutti quà in castello è tenuto per pazzo... et à giudicio mio dico che è pazzo, che si non fusse tale qualche volta parlaria al proposito».—Marco Antonio Stanganella, oltre le solite cose, disse: «alle volte salta, alle volte gioca di mano ad alcuno, e con li suoi scarpuni dà à quelli che li parlano, e li tira mò ad uno, et mò ad un altro, et alle volte hà detto che aspetta il Papa, e che voleva far confaloniero il Sig.r Cesare, et alle volte si accosta ala fenestra dela sua carcere, è gridando, dice ò Jaconi Jaconi del convento mettetivi in ordine che viene il Papa, e così sempre io lhò visto fare atti al sproposito, è parlare al sproposito...; è tenuto da tutti li carcerati per pazzo, ed anco da altri che vengono in castello che lo sentono parlare, et io lo tengo per pazzo».—Da ultimo Tommaso Tirotta disse: «sempre vole parlar esso, et hà udito che ha detto parole al sproposito,[Pg 199] et dice che vole fare la Cruciata, et che aspetta il Papa, et diceva ò là scopati bene, acconciati le stantie per il Papa, et che have tanta migliara di cavalli, et vole fare soldati, et che vole fare confaloniero il Sig.r Cesare Spinola che stà quà carcerato, et à me disse una volta che mi voleva fare artiglieri, che havesse cura dell'artegliarie, et chiama li Jaconi del convento, et per nome sole chiamare frà Giovannello, e fra luca, e fra nicodemo, e sole chiamare Scannaribecco[222], e così di continuo hà parlato, e sole menare à quelli che li parlano terreno in faccia, li scarpuni che porta in piedi, et và saltando per le carceri, e fà altri atti al sproposito, et parla spropositatamente, giusto come li pazzi, et quando ebbe la corda quà ultimamente, non si lamentava dela corda, ma diceva solo che li forasciti lhavevano tirato delle archabusciate, e dato delle bastonate, e che ne voleva scrivere al Papa, et mai hà parlato ne risposto à proposito, et hieri per ultimo lo viddi e fece il medesimo...; a giudicio mio lo tengo per pazzo, et così è tenuto dalli altri, et in quanto à me non lo posso passare per sapio, mentre parla al sproposito e risponde al sproposito, e fatti atti (sic) spropositatamente, come ho ditto».—Adunque tutti e dieci i testimoni affermarono che il Campanella era realmente pazzo; quasi tutti poi affermarono la sua mira verso il Papa, che doveva essere Monarca secondo la testimonianza dello Spinola, che doveva fare la Crociata secondo la testimonianza della massima parte; e si conosce che questo disegno della Crociata era una delle idee fisse di Clemente VIII, e si comprende che essa conveniva molto al Campanella accusato di connivenza col Turco. I carcerati accorrevano presso di lui quando il carceriere ne apriva la prigione, e così pure coloro i quali solevano venire a visitare i carcerati, per la curiosità di vedere il pazzo.

Esauriti gli Atti pe' tre inquisiti principali, si sarebbe dovuto passare a quelli per gli altri frati; ma per essi non si fece nulla. Probabilmente i Giudici ritennero che le difese di costoro si trovavano incluse in quelle de' principali; tuttavia non ne abbiamo veramente alcuno indizio. Abbiamo soltanto una comparsa di fra Pietro di Stilo, il quale, col suo squisito buon senso, esponeva «che li giorni passati essendoli stati à bocca dichiarati dal Sig.r Avvocato Scipione Stinca alcuni capi sopra li quali li fu da quello, come anco dalle SS.rie V.re detto che si volesse difendere.... hà risoluto, conoscendo penitus la sua innocentia sensa niuna culpa, renuntiar dette sue defese... havendo per rato, fermo, et valido quanto faranno le ss.rie loro». Ciò in data 17 novembre, vale a dire immediatamente dopo terminati gli Atti pe' principali.

[Pg 200]

Nello stesso giorno 17 novembre una copia degli Atti, formata a misura che essi si compivano, fu inviata con una lettera del Vescovo di Termoli al S.to Officio di Roma, secondochè rilevasi da un'annotazione inserta nel processo originale ed anche da una lettera del Nunzio al S.ta Severina in pari data[223]. Certamente insieme con la copia degli Atti dovè essere inviata anche una copia de' documenti che fra Dionisio avea presentati, e così pure de' documenti che aveva indicati e che il Vescovo di Termoli si era dato a raccogliere con la più viva premura. Il Vescovo avea raccolto dall'altro tribunale la copia dell'indulto concesso al Soldaniero e a Valerio Bruno da Carlo Spinelli per opera di fra Cornelio, le copie dell'esame del Pizzoni, delle confronte del medesimo Pizzoni col Campanella e con fra Dionisio, del primo e secondo esame del Petrolo, delle cartoline trovate sulla persona del Campanella quando ebbe il tormento del polledro; e così ci sono pervenuti questi preziosi documenti inserti nel processo dell'eresia[224]. Egli aveva chiesto pure una copia delle lettere inviate dal Lauriana a fra Dionisio, che avrebbero dovuto trovarsi egualmente nel processo fatto dall'altro tribunale; ma, come si rileva da quanto ne scrisse a Roma e fu rammentato ne' Sommarii de' processi, le lettere non vi si trovavano ed erano state forse perdute. Aveva inoltre chiesto il Breviario del Pizzoni, che recava la corrispondenza scritta tra esso Pizzoni e il Campanella, ed ebbe a sapere che questo Breviario nemmeno si trovava ed era stato sicuramente perduto. Non potendo rassegnarsi a questa perdita, il buon Vescovo pensò allora di rivolgersi a fra Dionisio medesimo, dimandandogli a nome del tribunale una relazione particolareggiata sulla faccenda del Breviario; e la relazione, trascritta da fra Pietro Ponzio, venne anch'essa inserta nel processo tra' documenti a difesa di fra Dionisio[225]. Diciamo qui di passaggio che molto più tardi a questa massa di documenti fu aggiunta anche una fede di alcuni frati carcerati, compreso il Lauriana, e di alcuni laici, attestanti che il Pizzoni più volte, e segnatamente tre giorni prima della sua morte, avea dichiarato di essere debitore di fra Dionisio degli scritti dell'Apocalisse da lui presi (confessione del furto fatto) del valore di D.i 10, come pure di D.i 4 avuti in prestito, commettendo al Lauriana di notificare a fra Dionisio dove si trovavano le sue robe in Calabria acciò sopra quelle fosse soddisfatto; inoltre, sempre più tardi, una fede del clero di Fiumefreddo, attestante le ottime qualità di fra Dionisio dimostrate due volte in quel paese con la predicazione cattolica, la bontà della vita e il fervore di carità, e questa fede potè essere inserta solamente nel 4o volume del processo. Aggiungiamo pure che [Pg 201] il Vescovo di Termoli provvide che fosse interrogato di ufficio fra Pietro Ponzio sulla asserta domanda di perdono fattagli dal Lauriana in Gerace, ed egualmente che fosse istituita una perizia calligrafica sulla lettera che era stata presentata come scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio; e furono questi gli ultimi Atti processuali complementari, che si fecero durante la commissione tenuta da quel rispettabile Prelato.

Il 21 novembre, d'ordine de' Signori Giudici, il Prezioso riceveva in Castel nuovo la deposizione di fra Pietro Ponzio[226], il quale, con molte particolarità e citando i testimoni, espose la comunicazione fattagli dal Lauriana in Gerace nella carcere detta la Marchisa; l'inquietudine da lui mostrata perchè si trovava «in mano del diavolo» avendo deposto molte falsità in materia di S.to Officio contro fra Dionisio e il Campanella, ad istanza del Pizzoni e parimente del Visitatore e compagno dietro minacce e promesse; la determinazione del Lauriana di volersi ritrattare con la dimanda del come dovesse procedere, e il rifiuto fattogli da esso fra Pietro di volersene occupare, per non trovarsi intrigato in queste faccende dubitando di commettere errore; la consegna di una lettera scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio per dimandare a costui il consiglio rifiutatogli da esso fra Pietro, e l'invio di detta lettera al suo destino; la non avvenuta ritrattazione del Lauriana in Gerace per paura dello Spinelli e dello Sciarava, e la dimanda di perdono avuta da lui in tale occasione; la nuova comunicazione fattagli in Napoli di volersi ritrattare, con l'invio di un'altra lettera a Ferrante Ponzio, la quale ultima lettera era stata presentata nella causa della congiura, mentre la prima, passata nelle mani di fra Dionisio, era stata presentata nella causa dell'eresia.

Il 3 e 4 dicembre furono raccolte le deposizioni di due periti calligrafi su questa lettera dal Vicario napoletano Ercole Vaccari «congiudice» nella Curia Arcivescovile. Gio. Antonio Trentacapilli «scrittore» disse che «essendo prattico, et versato nel scrivere diverse sorte di lettere cossi cancellaresche, come tonde, et corsive, potria conoscere per qualche similitudine di tratti, e di sillabe et di ligature di sillabe, et conietturare si fussero scritte da una mano istessa»; e mostratagli la lettera del Lauriana in data di Gerace 10 ottobre 1599 ed alcune sottoscrizioni del Lauriana medesimo agli Atti processuali, disse: «fatta la comparatione da lettera à lettera, da sillaba à sillaba, da tratto à tratto, e da carattere à carattere della lettera, et sottoscrittioni di fra Silvestro da Lauriana, dico che la sudetta lettera è stata scritta con inchiostro bianco, et con penna accomodata sottile, et le sottoscrittioni... sono state scritte con inchiostro più negro, et con penna accomodata più grossa, et per tale differentia non si può conoscere chiaramente che siano scritte di una istessa mano, però [Pg 202] come esperto et al mio giudicio giudico et dico che alcune lettere delle sottoscrittioni... hanno similitudine in parte colle lettere della sottoscrittione della lettera sudetta».—Di poi Alfonso Peres esercitato in tenere la scola di scrivere et di abbaco», interrogato, egualmente, col formulario medesimo conchiuse: «dico et confermo come esperto et prattico di diverse sorte di lettere scritte à mano, che tanto la sottoscrittione che stà in piedi di dette lettere... come anco le sottoscrittioni che dicono lo frà Silvestro de lauriana hò deposto ut supra sono state et sono scritte da una stessa mano». Così mentre uno de' periti rimaneva in dubbio, l'altro affermava che la lettera in quistione era veramente del Lauriana.

Dopo tutto ciò non sapremmo dire quale fosse stata, intorno a' meriti della causa, l'opinione formatasi dal Vicario Arcivescovile e dall'Auditore del Nunzio, mentre della persona stessa del Nunzio, tenutasi così a lungo lontana, non accade dover parlare per ora; ma in quanto al Vescovo di Termoli sappiamo benissimo che rimase sempre più perplesso e dubbioso, nè soltanto sull'eresia, ma di rimbalzo anche, e maggiormente, sulla congiura; lo sappiamo da' cenni della sua corrispondenza con Roma, inserti negli ultimi Sommarii del processo compilati in Napoli, e parimente da un brano di lettera del Nunzio scritta più tardi. Il Nunzio, in una circostanza in cui ebbe a parlare di fra Marco Visitatore, disse di sapere che costui «era mal sodisfatto del Vescovo di Termoli... per l'opinione che teneva, et se ne lasciava intendere, che l'essamine fatte da lui et da fra Cornelio in Calabria fussero state fatte più per sodisfattione de Ministri Regii che per la verità»[227]; e realmente anche più di questo troviamo ne' cenni delle lettere scritte dal Vescovo a Roma, de' quali è tempo oramai di tener parola. Abbiamo già avuta altrove (vedi pag. 126) occasione di dire che il Vescovo diede continuamente ragguagli al Card.l di S.ta Severina di ciò che veniva rilevando negli esami de' frati, e di ciò che gli riusciva di sapere anche per vie estragiudiziarie: così il 19 maggio, due giorni dopo che il Campanella erasi nell'esame mostrato pazzo, diè ragguagli su questa pazzia, sulle ragioni che l'aveano fatta nascere, su' motivi che c'erano per crederla simulata, sulla necessità di adoperare la tortura. Egualmente intorno al Pizzoni, mostratosi con la spalla lesa, fece conoscere che era rimasto storpio per la tortura avuta nell'altro tribunale; intorno a fra Dionisio, mostratosi anche impossibilitato a sottoscrivere i processi verbali, fece sapere in qual modo atroce fosse stato tormentato. Nè mancò poi di scrivere, «non sembra verosimile che fra Dionisio, senza grande familiarità col Soldaniero giovane a 22 anni, avesse voluto comunicargli tante eresie»; e d'altra parte, «Aloisi spagnolo già Fiscale in Calabria (lo Sciarava) mi hà detto, che fra Gio. Battista da Pizzone non voleva confessare contro il [Pg 203] Campanella avanti il visitatore, ma che esso li disse non hai tu detto la tale, è tale cosa d'heresia? et che all'hora testificò». Ancora non mancò di far sapere che «quando Cesare Pisano fu esaminato, il 19 ottobre 1599, già il Campanella era carcerato». E circa il processo di Calabria scrisse senza esitazione: «questo mi pare malissimamente fondato, et primo per quel che spetta à tutto il processo non si vede fondamento alcuno, et quella scrittura, che è stata posta inanzi al processo (l'elenco delle 36 proposizioni ereticali), è un compendio fatto di tutto il processo dopo che è stato finito, come mi hà detto à bocca frà Cornelio e dalla scrittura istessa appare». Circa poi la congiura fece sapere avergli fra Cornelio detto «che Fabio di Lauro di anni 20 fu il primo che gli rivelò il capitolo della ribellione, il quale Fabio riferì ad esso Vescovo medesimo avergli fra Dionisio manifestato che il Papa voleva il Regno di Napoli e molte altre cose inverosimili, dalle quali si desume essere il primo fondamento di tale Ribellione molto tenue anzi falso». Non mancò nemmeno di far rilevare la nessuna delicatezza de' primi Giudici scrivendo: «si fecero dar molti denari per provedere à questi carcerati et non gli è stato provisto, mà frà Cornelio li ha spesi in venir à Roma, et si come intendo ne diede conto alli superiori in Calabria»[228]. Passando al processo di Napoli e toccando i fatti accaduti prima del suo arrivo, fece conoscere che le due lettere scritte dal Lauriana a fra Dionisio circa l'esame fatto in Calabria, e sorprese da' carcerieri, non si trovavano nel processo della congiura, e che «D. Pietro De Vera gli riferì che erano state forse perdute giacchè erano state portate al Vicerè»; e così pure che il Breviario in cui si conteneva la corrispondenza del Pizzoni col Campanella nemmeno si trovava, come «gli riferì il notaro della causa», aggiungendo che del pari «D. Pietro De Vera gli disse che il detto Breviario era stato perduto, giacchè dato al Vicerè ed all'Arcivescovo di Taranto» (fratello confidente del Vicerè); le quali ultime notizie su' danari di Calabria, sulle lettere e sul Breviario, in fondo venivano a mostrare tutta l'incuria del Nunzio, al quale, e come Nunzio e come Giudice della causa della congiura, incombeva l'obbligo di guardare alle cose de' frati con ogni diligenza. La conclusione del Vescovo presso il Card.l di S.ta Severina fu questa: «i frati carcerati debbono essere tradotti alle carceri del S. Officio in Roma per cavarne la verità»; e su tale conclusione insistè anche con altre lettere, scrivendo: «questi rei non furono ben difesi, perchè furono perdute due lettere e il Breviario di cui diè notizia fra Dionisio Ponzio, e perchè non fu trovato un Dottore che avesse voluto scrivere in dritto a favor loro, e credo [Pg 204] che in questa causa i testimoni habbiano deposto per isfuggire il foro secolare, per li essempi quotidiani che havevano avanti all'occhi, il qual timore si vede che persevera in essi mentre sono nelle forze de i ministri Regii, ma tengo per cosa certa che se fussero fatti venire à Roma si scopriria la pura verità dei negocii passati, et parmi apunto che questo negocio sia simile a quello di bitonto»[229]. Aggiungiamo che il Vescovo trasmise pure a Roma un memoriale di fra Dionisio intorno alla causa della congiura, concepito negli stessi sensi. Il memoriale, di cui ci dànno notizia egualmente i Sommarii de' processi, era diretto a S. S., e fra Dionisio vi diceva essere innocentissimo tanto per l'eresia quanto per la ribellione, credere di averlo abbastanza provato per l'eresia, ma dubitare di poterlo pienamente provare per la ribellione, [Pg 205] allegando le molte ingiustizie patite da parte de' Ministri Regii, a' quali importava grandemente che non si scovrisse la sua innocenza, e il non aver potuto trovare un procuratore che non gli fosse sospetto. Faceva conoscere che molti condannati all'ultimo supplizio aveano disdette le cose deposte contro gli altri tanto in materia di ribellione che di fede, ma i Ministri Regii aveano proibito che si mettesse in iscritto qualche cosa intorno a ciò; esponeva la crudelissima tortura avuta e le inumanità sofferte in sèguito; conchiudeva supplicando il SS.mo si degnasse comandare che gli fosse data opportuna facoltà di potersi legittimamente difendere, che fosse rimosso dalle carceri secolari e tradotto nelle ecclesiastiche poichè in tal modo avrebbe potuto difendersi, che la causa della ribellione non fosse spedita sul processo sin'allora fatto come nullo ed invalido, appellandosi al SS.mo e protestando della nullità di tutta la causa e di qualsivoglia Atto di essa.

Senza alcun dubbio i frati non avrebbero potuto avere un Giudice più del Vescovo di Termoli benigno verso di loro, pur essendo ad un tempo severo applicatore della giurisprudenza inquisitoriale. La sua benignità emerge da tutti gli esami fatti e rifatti con tanta diligenza, e massime dalle diverse sue dimande d'ufficio rivolte agl'inquisiti; ma rifulge straordinariamente nel giudizio che si permise di enunciare intorno alla congiura, e nella conclusione alla quale si dichiarò pervenuto intorno a tutta la causa. Egli giudicò il primo fondamento, su cui era stata poggiata la faccenda della congiura, «molto tenue, anzi falso», ciò che per altro disse unicamente a riguardo delle ciarle che Fabio di Lauro riferiva essergli state manifestate da fra Dionisio, e ci preme assai che non rimangano equivoci su tale punto; ma il vedere quel fatto messo in rilievo da lui, che non aveva l'obbligo di occuparsene, mostra bene qual fosse l'animo suo verso gl'inquisiti. E sempre meglio ancora lo mostra la conclusione da lui palesata, che cioè i rei dovessero essere tradotti nelle carceri di Roma, sottratti al terrore delle forze de' Ministri Regii, «che se fossero fatti venire a Roma si scopriria la pura verità de i negocii passati»; con la quale conclusione egli non disse già que' frati innocenti, degni di essere liberati, ed anche qui ci preme che non rimangano equivoci, ma accolse appieno i desiderii loro, i desiderii adombrati da fra Dionisio nel suo memoriale e abbastanza apertamente espressi anche dal Campanella, che nella sua pazzia e durante la tortura gridava «al Papa al Papa, quà bisogna che venga il Papa». Senza dubbio il Vescovo di Termoli, ignaro de' riguardi e delle transazioni abituali tra le due Corti, onde talora giungevasi fino a conculcare la giustizia e a sacrificare gl'innocenti, non teneva conto delle difficoltà che si opponevano all'adempimento della sua conclusione; dovea quindi di necessità trovarsi in un ordine d'idee ben diverso da quello del Nunzio, che già abbiamo visto esclusivamente tenero della buona amicizia tra il Papa[Pg 206] e il Vicerè, condiscendente alle richieste Vicereali purchè si salvasse l'apparenza, incurante non solo degl'interessi degl'imputati ma perfino del buono andamento della giustizia verso di loro, e, come vedremo in sèguito, censore singolarissimo dell'opera del suo collega, ciò che per certo rappresenta il migliore elogio di costui. Animato dal puro e semplice amore per la verità, il Vescovo di Termoli dovea sentirsi imbarazzato vedendo quante circostanze aveano concorso ad ottenebrarla, la prepotenza ed immanità de' Giudici Regii, la nequizia de' primi Giudici ecclesiastici, la ferocia degli odii frateschi, lo spirito di profitto da una parte, la sete di vendetta dall'altra, il terrore incusso agl'inquisiti da tutti i lati; e dovea soffrirne pure non poco, amiamo crederlo, per quel sentimento di affetto che il Campanella avea saputo da lungo tempo ispirargli, e che se non giunse mai a farlo deviare un solo momento da' suoi doveri d'Inquisitore, lo rese certamente sempre più caldo nella ricerca della verità. Ma la morte venne a toglierlo da tanta inquietudine, e venne anche a togliere a' frati inquisiti l'unico sostegno, su cui potevano contare nella loro infelice condizione.

III. L'anno 1601 s'iniziava con tristi auspicii pe' poveri frati. Il 1o gennaio il Vescovo di Termoli moriva nel convento di S.ta Caterina a Formello, presso la porta Capuana, convento del suo ordine, in cui si era negli ultimi mesi recato, abbandonando quello di S. Luigi, e il 2 gennaio era sepolto nell'attigua Chiesa di S.ta Caterina. Nessuna memoria speciale ricorda il buon Prelato, ma in una lapide posta non lungi dalla sacristia, rilevata dall'Engenio[230] e poi, a quanto pare, dispersa, si leggevano i «Nomi e Cognomi dell'Illmi Cardinali, e Rev.mi Arcivescovi et Vescovi che sono sepolti in questa venerabil Chiesa, come quivi di sotto sono scritti, e la maggior parte sono sepolti con li Padri sacerdoti», e l'ultimo dell'elenco, l'11o, era «il Rev.mo Maestro Alberto di Firenzuola del medem' ordine Vescovo di Termoli, morì à 3 di Gennaio 1601» (sic). Le circostanze della sua morte ci sono interamente ignote finora. Nel Carteggio del Nunzio una lettera del 3 gennaio, dopo notizie di tutt'altro genere, reca anche questa: «hieri si diede sepoltura al Vescovo di Termoli in S.ta Caterina à Formello, dove si era ritirato come frate di quella Religione di S. Domenico»[231]; nè si trova una parola sola di chiarimento e anche meno di compianto per la perdita del collega Giudice in una causa di tanto rilievo! La Narrazione del Campanella poi, a proposito di questa morte, reca qualche parola che ha tutto l'aspetto di una insinuazione, oltre le solite affermazioni spinto che il Campanella sapeva ben trovare a sua difesa: «Sendo per la causa del S. Officio venuto dal Papa per Commissario il Vescovo di [Pg 207] Termoli M. Alberto Tragagliola, e si scoperse la falsità del processo di ribellione per le molte ritrattation che fur fatte dalli testimoni vivi e morendo; e per le contradittioni, e sconvenienze, e manifeste scolpationi dell'heresie trovate per schifar la pena della finta ribellione, el detto Vescovo si fè intendere, che volea liberar tutti, anche che il Vicerè e Fiscali con promesse e minacce lo voleano levar di questo proposito, e venne a morte, Dio sà perchè, e disse morendo «mi dispiace ch'io moro, e non ho liberato questi frati» e lo scrisse al Papa». Adunque la morte del Vescovo sarebbe stata forse procurata nientemeno che dal Vicerè e da' fiscali: ma nulla veramente autorizza ad accogliere un sospetto si grave, nè quel Vescovo avea propriamente scoperta la falsità del processo della congiura, il quale trovavasi fuori la sua ingerenza, nè volea propriamente liberare tutti i frati; e se avesse scritto al Papa in questo senso, i Sommarii de' processi ecclesiastici non avrebbero mancato di riferirlo. Ben potè rincrescergli che morendo rimanevano i frati senza alcuno appoggio; e dal complesso delle affermazioni del Campanella deve anche conchiudersi che il Vescovo effettivamente non faceva un mistero assoluto delle opinioni che su que' negozii si avea formate, e «se ne lasciava intendere», come il Nunzio scrisse più tardi a Roma.

Naturalmente un'interruzione si verificò nel corso del processo, non solo perchè dovè sostituirsi un nuovo Giudice al Vescovo di Termoli, ma anche perchè doverono in Roma studiarsi gli Atti processuali fin allora compiuti per mandare a Napoli istruzioni su quanto rimanesse a farsi ulteriormente. E frattanto il Governo Vicereale raddoppiò le sue insistenze, perchè si terminasse una volta la causa dell'eresia, e si potesse così spedire quella della congiura. Già abbiamo visto che fin dall'8 settembre, nel mandare a Roma la copia del processo offensivo e ripetitivo, il Nunzio avea partecipato le premure fattegli dal Vicerè e da' suoi Ministri; ma dopo di aver mandata la copia anche del processo difensivo, non cessò mai di sollecitare una risoluzione, e di far conoscere le vive istanze dei Ministri Regii e de' «Deputati insieme seco nella causa della ribellione», vale a dire anche di D. Pietro de Vera certamente dietro doglianze del Vicerè. Così nella lettera stessa di annunzio della morte del Vescovo di Termoli, e in molte altre successive, del 19 e 26 gennaio, del 2, 16 e 23 febbraio e del 15 marzo, non si trova altro che una serie di comunicazioni nello stesso senso, leggendosi: sono stato sollecitato «nè solo hora ma infinite altre volte per il passato, si che hò havuto et hò che disputare»...; «vengo di nuovo sollecitato molto per la speditione della causa de' frati»...; «son di continuo molestato da questi Ministri Regii per la speditione della causa della ribellione» etc.[232]. Queste lettere, non pubblicate dal Palermo, son rimaste ignorate; ma vede ognuno quanta [Pg 208] importanza esse abbiano per raddrizzare certi giudizii molto inesatti, che sono stati proferiti sulla condotta del Governo spagnuolo nella faccenda del Campanella.

Il 24 marzo (non maggio come fu letto dal Palermo) il Card.l di S.ta Severina partecipava finalmente al Nunzio la risoluzione di S. S., che Mons.r Vescovo di Caserta intervenisse nella causa del Campanella e complici «nell'istesso modo che faceva Mons.r Vescovo di Termoli»; oltracciò l'ordine dato, dopo aver visti i processi, di far nuove diligenze col ripetere alcuni testimoni ed esaminarne altri, come pure di far «diligenze sopra la simulatione della pazzia di esso Campanella» secondo che scriveva a lungo a Mons.r di Caserta, il quale glie l'avrebbe comunicato[233]. E nel processo dell'eresia abbiamo appunto la lettera del Card.l di S.ta Severina al Vescovo di Caserta; ma crediamo bene dar prima qualche notizia sulla persona del Giudice, cui doveva oramai deferirsi ogni cosa, come già al suo predecessore.—Vescovo di Caserta era D. Benedetto Mandina, nato in Melfi di nobile famiglia. Aveva già prima esercitato in Napoli l'avvocatura con un certo credito, e poi, illuminato da un grave calcio di cavallo ricevuto ad una gamba mentre cavalcava con gran sèguito di suoi clienti, era entrato nella Congregazione de' Chierici regolari al convento di S. Paolo nel 1583. Successivamente trasferitosi a Roma, perchè pure in S. Paolo era sempre consultato per faccende legali, gli accadde la cosa medesima da parte delle diverse Congregazioni, onde venne in credito tanto maggiore, e da Clemente VIII fu creato Vescovo di Caserta nell'ultimo di gennaio 1594[234]; poco dopo, nel 1595, fu inviato come Nunzio in Germania, in Boemia, in Polonia, presso Massimiliano, Rodolfo, Sigismondo ed altri Principi, a' quali fece un'orazione nel convegno di Varsavia, determinandoli alla lega contro i turchi e a quella guerra in cui si ebbe la famosa rotta di Agria che abbiamo già avuta occasione di ricordare a proposito del Bassà Cicala. Al suo ritorno, dopo la morte di Mons.r Carlo Baldino Arcivescovo di Sorrento avvenuta nel 1598, gli fu affidata anche la carica di Ministro della S.ta ed Universale Inquisizione Romana nel Regno, e però, naturalmente, avrebbe dovuto a lui esser commessa la causa del Campanella se fin da principio si fosse trovato presente in Napoli. Tutti questi elevati ufficii da lui tenuti, a' quali venne poi ad aggiungersi anche la sopraintendenza della Chiesa Arcivescovile di Napoli dopo la morte del Card.l Gesualdo, fanno intendere l'opportunità della sua vocazione a Chierico Regolare, e fanno anche intendere la profusione di lodi cantategli da' suoi biografi[235]. [Pg 209] Era caritatevolissimo, generosissimo, giustissimo; lo si disse perfino morto in concetto di santità come il P.e Beccaria (solo pel Vescovo di Termoli non ci fu alcuno che sentisse il menomo odore di santità). Erasi fin dal tempo del suo laicato «esercitato in tutte le opere di carità nel sodalizio della SS.ma Trinità de' Pellegrini al quale avea dato il suo nome»; la generosità ed umiltà sua l'aveano ridotto al punto che si rappezzava le vesti da sè medesimo etc. etc. Inoltre «nell'amministrar la giustizia era innocentissimo», ma severo co' delinquenti, ed una volta, in Caserta, gli fu dato il veleno nel vino con cui celebrava la Messa, ed egli se ne avvide, e perdonando chiunque glie l'avesse dato, se ne venne immediatamente a Napoli per curarsi. Da parte nostra non ci saremmo permesso il menomo dubbio su così splendide virtù, se non avessimo trovato fatti assolutamente opposti nella trattazione della causa del Campanella e socii.

Ecco ora in breve quanto il Card.l di S.ta Severina scriveva al Vescovo di Caserta nella stessa data 24 marzo; la lettera fu inserta nel processo, iniziando con essa la serie degli atti compresi nel 4o volume[236]. Per ordine di S. S. egli doveva intervenire nella causa del Campanella «con l'istesso modo, et autorità che faceva il Vescovo di Termole», e però gli si mandava una copia del Sommario del processo. Dovevano farsi alcune nuove diligenze «co' testimonii tra' quali può essere contestura, à fine di convincere il detto Campanella, poichè degl'inditii ve ne sono assai», ma ciò nella diocesi di Squillace, dal Vescovo di quella diocesi che allora trovavasi in Roma e presto se ne sarebbe tornato; si erano quindi redatti in Roma alcuni articoli addizionali per la ripetizione de' testimoni, e se ne mandava la copia a Napoli per farli presentare in processo e darne comunicazione legale al procuratore del Campanella, il quale avrebbe redatti gl'interrogatorii da doversi fare sopra i detti articoli e da doversi mandare a Squillace. Trovandosi carcerati in Napoli due di que' testimoni, cioè Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco (e ben si vede che il S.ta Severina non conosceva la condanna all'esilio già in corso pel Contestabile), dovevano essere egualmente esaminati, ed anche ripetuti su' medesimi interrogatorii ed articoli laddove avessero deposto cose rilevanti. Infine dovevano pure per ordine di S. S. farsi le diligenze necessarie per scoprire la simulazione della pazzia del Campanella a questo modo: «che si faccia visitare da Medici più volte, et poi si habbia il loro parere in scritti, et anco se gli dia il tormento della veglia con quella circonspettione che parerà conveniente per scoprire, et ritrovare questa simulatione di pazzia». Tutte queste cose egli dovea comunicare a' suoi colleghi, al Nunzio ed al Vicario Arcivescovile.

Mandava perciò il Card.l di S.ta Severina l'elenco delle diligenze [Pg 210] da doversi fare in Squillace e parzialmente in Napoli, coll'indicazione de' testimoni da doversi esaminare e ripetere su ciascuno de' fatti che si volevano provare; inoltre gli articoli, ne' quali si trovavano espressi i più cospicui tra codesti fatti[237]. I testimoni erano parecchi. E dapprima fra Simone e fra Dionisio di Placanica, e fra Domenico di Riace; questi erano stati nominati da fra Gio. Battista di Placanica, siccome presenti alle due affermazioni del Campanella, la fornicazione non essere peccato, e la legge dei turchi essere migliore di quella de' cristiani. Dippiù Tiberio e Scipione Marullo, Fulvio Vua, Gio. Gregorio Prestinace, Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco, Giulio Presterà, Francesco Bono, Fabrizio e Paolo Campanella, fra Scipione Politi, tutti nominati dal Petrolo come coloro a' quali il Campanella avea comunicate diverse eresie delle quali si dava un ricordo. Dippiù altri ed altri ancora, nominati nel primo processo del Vescovo di Squillace, siccome presenti alle affermazioni del Campanella, del potersi salvare anche senza il battesimo, del non esser valida la Messa celebrata da chi si trovasse in peccato mortale. Infine anche D. Marco Petrolo, nominato da Cesare Pisano come presente al sermone di fra Dionisio nella casa di Gio. Alfonso Grillo; nella quale occasione poteva esaminarsi anche Tiberio Lamberto che avea detto volere il Campanella predicare una nuova legge.—Gli articoli, compilati dal solito Procuratore fiscale Rev.do Giulio Monterenzio bolognese, furono solamente quattro, attestanti avere il Campanella osato affermare «etiam cum pertinacia», che non valeva, e dava solo qualche vantaggio temporale, la Messa celebrata essendo il sacerdote o l'instante in peccato mortale, che poteva esservi salvazione senza battesimo, che non occorrevano tante religioni di frati, le quali cose erano notorie nella diocesi di Squillace e qua e là nella Calabria anche prima della carcerazione del Campanella. Il fatto di maggiore importanza in questi articoli fu la qualificazione della causa del Campanella, che venne detta «di eresia e di relapso»; per la prima volta non si parlò più di ateismo e si cominciò invece a parlare giudizialmente di relapso, ciò che era ben più grave nelle sue conseguenze, come abbiamo già avuta occasione di mostrare altrove[238].

Avuta la lettera e gli atti or ora indicati, il Vescovo di Caserta recatosi dal Nunzio, secondochè ci fa sapere una lettera di costui del 30 marzo[239], disse che per allora gli occorreva andare alla sua Chiesa, ma sarebbe presto tornato per condurre a termine la causa. Ed intanto si provvide che fin dallo stesso giorno 30 marzo fosse data all'Avvocato assegnato al Campanella la copia degli articoli addizionali, col termine di due soli giorni per produrre [Pg 211] gl'interrogatorii; e il 2 aprile, il magnifico Gio. Battista dello Grugno, che questa volta si nominò, produsse 11 interrogatorii, scritti nelle solite maniere, ma meno banali, più conducenti allo scopo, e in diversi punti non senza un certo acume. P. es. a proposito del non essere necessarie tante religioni, egli volle che i testimoni dicessero se ciò era stato affermato nel senso che non fossero necessarie nelle città, ovvero nel senso che non fossero buoni mezzi di salute; a proposito del potersi salvare senza battesimo, egli volle che i testimoni dicessero se ciò era stato affermato parlando del battesimo in re, ovvero del battesimo in voto. Del resto, come Atti riguardanti la persona del Campanella, noi ci siamo creduti in debito di riportarli tra' documenti, e i lettori potranno giudicarli[240].—Mettiamo qui, per non intralciare la narrazione, che gli articoli del fisco vennero subito mandati a Squillace, ma in ultima analisi non si potè quivi conchiuder nulla, come ci mostrano due lettere del Card.l di S.ta Severina, l'una al Nunzio scritta il 30 marzo, l'altra al Vescovo di Caserta scritta parecchi mesi dopo[241]. I testimoni in generale probabilmente aveano fin perduta la memoria di quelle proposizioni; parecchi tra loro e i più importanti, come il Vua e il Prestinace, erano irreperibili, poichè si tenevano nascosti per isfuggire i rigori del Governo; ed oltre a tutto ciò fra non molto tempo, nel giugno di quell'anno, il Vescovo di Squillace se ne morì, onde la Sacra Congregazione di Roma dovè persuadersi che non c'era più nulla a sperare da quella via. Dalla via di Napoli poi nemmeno si potè raccapezzare qualche cosa, e il risultamento più certo dovè esser questo, che il Governo Vicereale rimase tanto più sospettoso ed irritato per quelle lungaggini, le quali doveano parergli tergiversazioni.

Il 7 aprile fu esaminato Geronimo di Francesco, uno de' due testimoni da doversi interrogare in Napoli secondo le ultime prescrizioni di Roma. Il Vescovo di Caserta si era già istallato in Napoli, ciò che mostra in lui molta alacrità nel compiere l'ufficio suo, e conosciamo che prese stanza nelle case di S. Andrea delle monache, propriamente nel palazzo posto all'angolo tra la via di Costantinopoli e quella della Sapienza. Aggiungiamo che il Nunzio medesimo, al contrario di quanto avea fatto durante la vita del Vescovo di Termoli, non mancò mai più alle sedute, o almeno alle sedute riguardanti la trattazione dell'argomento principale. Il di Francesco, interrogato, disse di conoscere molto bene il Petrolo e il Campanella patriotti suoi, di aver trattato poco col Petrolo, ma aver desiderato di far amicizia col Campanella «per la nominata che sentiva di esso, di essere litterato, et nominata di esser dotto»: ma soggiunse che fu colto da una infermità che lo tenne a letto cinque mesi, onde non potè trattare con lui, e poi per un cattivo [Pg 212] ufficio fattogli da esso Campanella presso certi suoi parenti, al punto da metterlo in questione con loro, gli divenne nemico. Dietro altre interrogazioni, disse di non aver mai trattato da solo a solo col Campanella, di avergli parlato una volta di cose comuni insieme con fra Pietro di Stilo, di averlo un'altra volta visto «in sua cella dove legeva di filosofia» essendosi lui fermato alla porta senza parlargli, e di avergli forse qualche altra volta parlato in piazza, senza ricordarsi di che, presenti Marcello Dolce, morto, e Gio. Francesco d'Alessandria (che sappiamo nascosto e forgiudicato; sempre testimoni irreperibili). Soggiunse di non ricordarsi che in presenza sua il Campanella avesse mai parlato di cose di fede. Con ciò manifestamente non v'era alcun luogo a ripetizione, e gl'interrogatorii e gli articoli doveano mettersi da banda.—Ci sarebbe stato da esaminare anche Giulio Contestabile; ma non si sapeva nemmeno dove si trovasse, ed è certo che, oltre un mese dopo questo al quale siamo pervenuti, il Nunzio non era riuscito ad averne notizia, come rilevasi da una sua lettera al Vescovo di Squillace[242].

Fu quindi sospesa la trattazione della causa, probabilmente con la speranza di trovare la persona del Contestabile, ed anche con la speranza di avere qualche risultamento dalle informazioni commesse a Squillace. Scorsero cosi presso a poco due mesi senza far nulla, e può intendersi con quanta mala soddisfazione del Governo Vicereale: ma si verificarono in questo periodo di tempo diversi avvenimenti, de' quali andiamo a dar conto. E dapprima furono ripigliate le sedute dell'altro tribunale per trattare la causa del clerico Marcantonio Pittella, che le forze Regie aveano catturato nuovamente dopo la sua fuga: ma di questo, che non entra nell'argomento attuale della nostra narrazione, discorreremo altrove. Un avvenimento, da doversi qui ricordare, fu l'invio di un memoriale di fra Pietro Ponzio a S. S., per reclamare un provvedimento intorno alla sua singolare posizione. Non ci è venuto sott'occhio il testo del memoriale, ma ne abbiamo trovato qualche altro consimile inviato più tardi dallo stesso fra Pietro, che non cessò mai dall'inviarne; e in sostanza egli, non vedendosi incriminato in nulla, chiedeva di essere giudicato, e non trattenuto in carcere solamente perchè germano di fra Dionisio. Il Nunzio, cui fu trasmesso il memoriale dal Card.l S. Giorgio, con sua lettera del 6 aprile rispose, esser vero che fra Pietro «fu preso come fratello di fra Dionigi Pontio capo insieme con il Campanella della pretensa ribellione, pretendendolo informato di essa, et non havendo trovato contra di lui cosa di fondamento, si sarebbe liberato con molti altri che si liberarono, se egli stesso con i ragionamenti fatti di notte con il Campanella da certe finestre non si fosse reso sospetto d'esser informato del tutto; et perchè questa causa della ribellione resta sospesa da quella della Inquisitione, per questo non si è passato [Pg 213] più avanti contro di lui; quando si tratti di nuovo di questo negotio, che potrà esser presto, per la speditione che si deve dare ad un Clerico (int. il Pittella), che dopo d'essere stato un pezzo latitante è venuto finalmente in mano della Corte, et la sua causa è in speditione, procurerò si tratti anche di spedir quella di questo fra Pietro, che per quanto vado considerando deve essere anche lui di mala razza»[243]. Vegga ognuno se possa dirsi questo il linguaggio di un Giudice serio e giusto: d'altronde egli non fece nulla di quanto promise; scorso poco più di un mese il Pittella era già fuori carcere come si rileva dalla sua lettera al Vescovo di Squillace, e fra Pietro rimaneva a languire nel Castel nuovo[244].

Un altro avvenimento d'importanza anche maggiore fu l'invio di un memoriale di fra Dionisio a S. S., per far conoscere che fra Marco di Marcianise avea mandato fra Cornelio in Ispagna, la quale circostanza poteva ben connettersi con le loro gesta in Calabria contro i poveri frati[245]. S. S., per mezzo del Card.l di S.ta Severina, ingiunse al Nunzio che s'informasse di tale partenza di fra Cornelio per la Spagna, «da chi vi sia mandato, et à che effetto»; ed il Nunzio, con sue lettere del 6 e del 20 aprile, rispondeva in certi termini che meritano di essere testualmente riferiti e ben considerati. «Quanto al particolare che mi domanda di quel fra Cornelio, posso dirle che hò parlato à chi l'hà visto in Genova per la volta di Spagna, et hò ritratto che è andato con partecipatione del Sig.r Vicerè, nè son lontano à credere che sia stato di consiglio et d'ordine di quel fra Marco da Marcianise, il quale sò che era mal sodisfatto del Vescovo di Termoli, che Dio habbia in gloria, per l'opinione che teneva, et se ne lasciava intendere, che le essamine fatte da lui et da fra Cornelio in Calabria fussero state fatte più per sodisfattione de Ministri Regii che per la verità, et Dio voglia che l'opinione in ciò di detto Vescovo non l'habbia fatto più largo di quel che conveniva in dar adito à quei frati di ritrattare le loro confessioni, come mi lasciai un tratto intendere che mi pareva, et ne avvertii, se bene lasciavo [Pg 214] guidare à lui il negotio, come pratico et essercitato lungo tempo in cotesto S.to officio dal quale era stato deputato, ma per le molte occupationi non potei sempre trovarmi à quelle lunghe repetitioni et difese che potettero fare, vi mandai bene il mio Auditore quelle volte che non potei esser io. Se sarà vero, come temo, che detto fra Cornelio sia andato alla Corte per scusare tal fatto, ò per far altro officio concernente questo interesse, lo reputerò molto errore et del Marcianese et di lui, perchè se erano mal sodisfatti dovevano pigliare altra strada». Ed in sèguito: «Hò havuto occasione di parlare con il Padre Fra Marco da Marcianise, il quale mi hà detto che egli (fra Cornelio) è andato in Spagna principalmente per un negotio del Sig.r Carlo Spinello, et che sapeva che haveva parlato al Sig.r Vicerè avanti partisse, et che poteva esser che trattasse là del negotio della ribellione et dell'Inquisitone, poi che si era trovato in Calabria à quei Processi, ma che sopra di ciò non gli haveva ordinato cosa alcuna. Come si sia, non voglio dubitar punto che ne parlerà, et questo non sò se potrà piacere; saprà V. S. Ill.ma quello che dovrà farsi»[246]. Con ogni probabilità il Card.l di S.ta Severina non fece nulla contro que' frati: ma ciò che riesce ancor più interessante per noi è il vedere il Nunzio riscaldarsi tanto, sol perchè poteva essere alla Corte di Spagna riferita sotto mala luce l'opera de' Giudici ecclesiastici di Napoli, e con questa preoccupazione, intento solo a salvare sè medesimo, spingersi fino a censurare l'opera del defunto Vescovo di Termoli. Egli che non aveva forse nemmeno letto il processo di Calabria, egli che certamente non aveva avuto cura de' più sacri dritti degl'inquisiti nel tribunale della congiura e d'altra parte aveva assistito ben poco alle sedute del tribunale dell'eresia, egli osava mettere innanzi i suoi scrupoli, perchè il Vescovo di Termoli era stato largo nel dare agl'inquisiti agio di ritrattarsi, ed aveva professata l'opinione che i processi di Calabria fossero stati fatti piuttosto per dar soddisfazione a' Ministri Regii. Ed era proprio bene scelto il momento per fare queste osservazioni, mentre que' due ribaldi davano la miglior dimostrazione che il Vescovo di Termoli era nel vero, e facevano manifesta la loro scelleraggine, ricorrendo a Spagna d'accordo col Vicerè e con Carlo Spinelli. Ma bisognava dunque schiacciarli ciecamente quegl'inquisiti per non turbare le buone relazioni con la Corte di Spagna, bisognava sacrificarli alla «ragione di Stato», della quale ben si vede che non a torto si dolse continuamente in versi ed in prosa il Campanella. Per verità il Campanella e socii potevano essere molto colpevoli, ed anzi per noi giuridicamente lo erano, ma meritavano senza dubbio Giudici assai migliori di quelli che ebbero.

L'ultimo avvenimento, che si verificò nel periodo di tempo al quale siamo pervenuti, fu la morte dello sciagurato fra Gio. Battista [Pg 215] di Pizzoni. Il 14 maggio, dopo tante sofferenze per la spalla slogata e suppurata, dopo un'apoplessia che gli tolse la parola per quattro giorni (circostanza da notarsi), egli spirò nelle carceri del Castello: lo mostra un'informazione, che d'ordine de' Giudici fu presa da Gio. Camillo Prezioso, e sulla data della morte concorda anche la notizia che ne abbiamo trovata ne' libri Parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo. Difatti in un elenco di morti posto al sèguito del libro III, col titolo «Memoria de quilli che morino in questo Castello novo dal di 23 de giugno fatta 1597» si legge: «A di 14 de maggio 1601 morse fra gio. batt.a calabrese». Con questa vaga indicazione, impossibile a decifrarsi senza l'aiuto di altri documenti, trovasi registrato l'amico intimo divenuto poi accusatore del Campanella, colui che fornì la base principale a quei processi, onde il povero filosofo ebbe a patire tante miserie, ed egli medesimo fu tratto ad una precoce fine odiato e malmenato da tutti.—L'informazione su questa morte fu presa il 1o giugno, e fu inserta nel 3o volume del processo, al sèguito delle difese che il Pizzoni avea fatte. Vennero esaminati Alonso Martines carceriere, Antonio de Torres carceriere anche lui e socio del Martines, inoltre Marcello Salerno carcerato per la ribellione, che già abbiamo conosciuto in altri Atti precedenti. Il Martines espose la malattia e la morte del Pizzoni a questo modo: «l'infermità sua fù che havea un braccio guasto per la tortura che hebbe quà in questo Castello per ordine delli Officiali Regii per la causa della ribellione (si vede bene che il Nunzio, la tonsura di D. Pietro De Vera, il Breve e Clemente VIII, non bastarono per far credere nemmeno al Prezioso, che raccolse la deposizione, essere sul serio quel tribunale per la ribellione un tribunale ecclesiastico); et per tal causa a lo braccio se li fece una postema, et dalla postema poi... se li fece una piaga, et li sopravenne un discenso grande che li levò la parola, et sequitandoli quella infirmità trà quattro giorni se morì, et morse la notte de li quattordici di detto mese di maggio, alle cinque hore, et io lo viddi morto ad una camera dove stava, e morse in questo regio Castello novo, et non solo lo viddi morto ma anco lo viddi sepellire alla sepoltura dove si soleno sepellire li preti, et di detta morte di frà Gio. Battista de pizzone ne è stata et è publica voce et fama in questo Castello novo trà quelli che lo conoscevano, è così è la verità». Le cose medesime esposero in sostanza anche gli altri, con un identico formulario; potrebbe appena rilevarsi che aggiunsero essere stato il Pizzoni leso nel braccio destro, avere usato molti rimedii inutilmente, avere avuta la visita di due medici etc. In conchiusione la morte di lui risultò con siffatte testimonianze legalmente accertata.

Intanto fin dagli ultimi giorni di maggio erano in corso i preparativi per ripigliare il processo, in adempimento delle diligenze ordinate da Roma a fine di scovrire la pazzia simulata del Campanella. Si era provveduto che due medici visitassero più volte il[Pg 216] Campanella, come risulta da una delle fedi che costoro scrissero e come d'altronde era stato da Roma ordinato; ma senza attendere tali fedi, si era provveduto anche quanto occorreva pel tormento della veglia; per questo dovè farsi venire ogni cosa dalle carceri della Vicaria, poichè sappiamo di certo essere stato della Vicaria uno degli aguzzini che a suo tempo vedremo entrare in iscena. Siffatti preparativi, che non potevano tenersi nascosti, posero in agitazione vivissima i poveri inquisiti: apparve a tutti che specialmente o fra Dionisio o il Campanella fossero sul punto di avere un tormento de' più gravi, e che di poi sarebbe venuta la volta degli altri; si pensò quindi di fare qualche tentativo capace almeno di trattenere un poco l'amministrazione del tormento.

Il 3 giugno fra Pietro di Stilo trasmise con una sua lettera al Vescovo di Caserta alcune carte del Campanella, sulla provenienza delle quali, dovendo nascondere il vero, fece una narrazione abbastanza inverosimile[247]. Erano le proprie Difese con gli Articoli Profetali, che il Campanella aveva scritte durante il processo della congiura, e che non aveano potuto essere presentate a tempo debito. Fra Pietro, che fin dall'inizio di questi processi avea prescelto di far la parte dell'ignorante, mostrando di non conoscere che cosa quelle carte rappresentassero, scriveva al Vescovo di aver ricevuto dal Campanella già da un anno, poco dopo il suo primo tormento (il tormento del polledro), alcune carte scritte di sua mano, con preghiera che le facesse copiare e le conservasse, perchè erano cose di molta importanza; ed egli le avea prese, e perchè non le intendeva, le avea fatte leggere all'olim fra Gio. Battista di Pizzoni (sempre citato il morto o l'assente) acciò vedesse se ci fossero cose di S.to Officio da poterlo compromettere, nè avea mai più potuto riaverle, dicendogli il Pizzoni che le avea perdute e che erano cose sospette; ma appunto nella sera precedente le avea riconosciute tra altre carte lasciate dal Pizzoni, e per suo discarico le consegnava a S. S.a Ill.ma, perchè vedesse se c'erano cose di eresia come il Pizzoni avea detto, e provvedesse secondo giustizia, assicurando che quelle carte erano «il vero trasunto di quelli scritti del detto frà Thomaso Campanella».—Da parte sua fra Dionisio, il 4 giugno, trasmise con una sua lettera a' Giudici, perchè provvedessero come meglio fosse loro parso di giustizia, una lettera a lui diretta dal Petrolo fin dal 28 maggio, nella quale costui, dicendosi infermo ed abbandonato, scriveva: «intendo che si fanno molti preparamenti di tormenti, e dubito che non siano per V.a Reverenza, o per il Padre Campanella, io, come hò possuto vedere nella copia del processo suo, non m'hò esaminato contra V.a paternità in niente, perche non ci era occasione, si bene mi hò esaminato contra di frà Thomaso ad un certo fine, ch'io esposi in un memoriale all'Ill.mo Sig.r vescovo di Termoli olim commissario di questa causa [Pg 217] (pia menzogna, sempre citando il morto), per il quale memoriale credeva io che fossemo tutti rimessi alli nostri superiori, ma vedo che non ha fatto effetto mentre cquà si tormenta, dunque vostra paternità mi favorisca di avvisare li signori superiori e protestarsi che facciano la causa nelle carceri delli nostri superiori (ciò era stato già eseguito appunto da fra Dionisio), ò vero che prima che procedano a cosa alcuna mi reesaminino» etc.[248]. Evidentemente questa lettera, fatta scrivere dal Petrolo infermo, era un pretesto per pigliar tempo e scansare il tormento almeno per qualche giorno; la lettera medesima di fra Pietro di Stilo, senza dubbio poggiata su qualche cosa assai più concludente, non aveva uno scopo diverso; ma i Giudici cominciarono per fare amministrare il tormento, e di poi, anzi durante il tormento, si occuparono di tali lettere ad essi inviate.

Il 4 giugno dunque il povero Campanella ebbe quell'atroce tormento detto la veglia, prolungato senza misericordia fino alla metà del giorno successivo. E prima di tutto dobbiamo spiegare in che consisteva la veglia, ed inoltre rammentare in che modo lo stesso Campanella ne parlò specialmente nella sua Narrazione. Anche qui le più esatte notizie ci sono fornite da un medico, e questa volta de' più celebri, da Paolo Zacchia. Si conosce che la veglia fu inventata nella 1a metà del 1500 da Ippolito de Marsiliis, famoso criminalista bolognese e Giudice nella Valle Lugana, «avverso gli ostinati e coloro i quali non temevano i tormenti». Egli si serviva soltanto di uno scanno di legno su cui faceva sedere l'inquisito per 40 ore, con due uomini a lato, i quali, ogni qual volta l'inquisito accennava a dormire, gli davano con la mano sul capo e glie lo sollevavano per tenerlo desto, venendo di tempo in tempo surrogati da altri, mentre i primi andavano a riposare; e il De Marsiliis si applaudiva molto di questo suo trovato, il quale, come egli scrisse, eragli parso piuttosto una cosa da ridere che un tormento, prima che ne avesse fatta l'esperienza, mentre invece ebbe a vedere «non trovarsi alcuno tanto feroce da potervi resistere» (era feroce l'inquisito, non il Giudice); al più tardi in due notti ed un giorno, con la promessa del riposo, l'inquisito confessava tutto, e però bisognava rammentarsi di questo genere di tormento che era della massima potenza e non affliggeva il corpo, «sicchè per esso il Giudice non incorreva mai in sindacato». Immediatamente i suoi contemporanei e successori se ne giovarono, accertandone tutti i vantaggi, come li accertò p. es. Paolo Grillando nel suo trattato. Ma il progresso si fece sentire anche in questo tormento, e si cominciò coll'aggiungervi copioso cibo e vino in precedenza, acciò il sonno divenisse tanto più grave, e si finì col modificare lo scanno ed associarvi altre specie di tormenti per accrescerne l'efficacia. Così diedesi allo scanno una maggiore altezza [Pg 218] affinchè i piedi dell'inquisito non poggiassero a terra, ed anche una superficie non piana ma ad angolo, denominando perciò lo scanno capra, cavallo o cavalletto, affinchè le parti deretane dell'inquisito ne venissero travagliate. E vi si associò pure la sospensione dell'inquisito alla corda con le braccia torte in dietro, nei soliti modi, ed anche con gli omeri fermati mediante funicelli alle mura laterali della stanza, talora perfino col petto fermato mediante una fascia al muro corrispondente al dorso, senza dubbio per impedire che l'inquisito col dondolarsi potesse sfuggire l'azione dello scanno. Infine vi si aggiunse lo scostamento, e l'elevazione forzata degli arti inferiori, mediante un lungo bastone posto per traverso, sulle cui estremità venivano ligati i piedi con altri funicelli, mentre un terzo funicello attaccato alla parte media del bastone lo attirava verso il muro di fronte, senza dubbio per impedire del pari che il tormentato, con lo stringere le cosce sullo scanno, potesse di tempo in tempo sottrarre le sue parti deretane all'azione di esso. Prospero Farinaceo, criminalista appunto del tempo del quale trattiamo, volle mostrarsi umanitario rifiutandosi di descrivere il tormento della veglia, perchè, egli disse, non era «nè aguzzino nè birro»; ma l'Ambrosino accennò alle condizioni dello scanno, alto 7 o 8 palmi, fornito di tre piedi e a superficie angolare ottusa, su cui doveva poggiare l'inquisito con le parti deretane nude, aggiungendo di aver visto talvolta lo scanno ad angolo acuto, che poteva uccidere il torturato venendogli rotte e perforate quelle parti. Paolo Zacchia, di poco posteriore per tempo, ci diede la descrizione completa del tormento quale allora si usava, e non è dubbio averlo dovuto il Campanella sostenere presso a poco in quella maniera perfezionata, che lo Zacchia descrisse e che noi abbiamo stimato necessario riferire[249]. Che al Campanella sia stata amministrata [Pg 219] la veglia secondo gli ultimi perfezionamenti risulta dall'Atto del suo tormento, in cui oltre lo scanno di legno detto il cavallo, la sospensione alla corda con le mani ligate dietro la schiena, l'aguzzino sedutogli accanto che lo toccava ed avvertiva di non dormire, è citato anche il funicello applicato a' piedi, che il povero tormentato chiedeva si portasse più in alto perchè i piedi gli bruciavano; e risulta egualmente da quanto ne lasciò scritto in ispecie nelle Quaestionum moralium, non che dalle parole stesse della sua Narrazione, in cui i funicelli sono ricordati in primo luogo, e sono ricordati anche i guasti verificatisi nelle sue parti inferiori. «Al tempo del Manini (int. Mandina) fu ad istanza del Sances Fiscale, ch'andò fin a Roma personaliter per tal licenza, tormentato 40 hore di funicelli usque ad ossa, legato nella corda a braccia torte, pendendo sopra un legno tagliente et acuto, che si dice la Viglia: che li tagliò di sotto una libra di carne, e molta poi n'uscìo pesta et infracidata, e fu curato per sei mesi con tagliarli tanta carne, e n'uscir più di 15 libre di sangue delle vene et arterie rotte, et sanò delle mani, e parti inferiori contra la speranza di medici quasi per miracolo, nè confessò heresia nè ribellione, è restò per pazzo non finto come diceano». E qui non possiamo dispensarci dal far avvertire che questa menzione del Sances, fatta già anche nella lettera a Paolo V, ci apparisce uno de' più spinti [Pg 220]ripieghi del Campanella per mettere nella penombra l'opera dei Giudici ecclesiastici e far risaltare la ferocia degli ufficiali Regii; il ripiego gli riuscì bene, se non presso Roma, presso il resto del mondo, poichè fino a' giorni nostri è stata sempre attribuita agli ufficiali Regii l'amministrazione della veglia, rimanendo pure dimenticato il canone allora vigente, «clericus regulariter torqueri non potest per laycum». Non intendiamo mettere in dubbio che il Governo Vicereale, e per commissione di esso il Sances, abbia potuto insistere presso la Curia, perchè si badasse bene a provare energicamente la pazzia la quale si avea ragione di credere simulata; ma crediamo assai difficile poter ammettere che da tali insistenze fosse nata l'idea di amministrare il tormento della veglia. Da un lato non si comprende in che modo il Sances avrebbe potuto sapere, o mostrar di sapere, lo stato della causa di S.to Officio e prendervi un'ingerenza diretta; d'altro lato in Roma non aveano bisogno di eccitamenti per ordinare l'amministrazione della veglia, non solo perchè era massima di giurisprudenza che agl'inquisiti finti pazzi si potevano e dovevano amministrare i tormenti gagliardi, tanto più che ritenevasi esservi con loro minor pericolo di morte[250], ma ancora perchè, ogni qual volta a Roma appariva necessario un tormento gagliardo, solevasi in quel tempo ordinare l'amministrazione della veglia. Difatti dal Carteggio del Nunzio si rileva che, meno di un anno dopo di aver data la veglia al Campanella, ad un altro frate Domenicano, fra Raimo dell'Olevano, essendo stata inutilmente adoperata la corda nel tribunale della Nunziatura, dietro licenza di Roma fu data pure la veglia e del pari senza cavarne nulla, sì che fu poi mandato alle galere: vero è che questo frate trovasi qualificato «Theologo et Predicatore se bene un gran tristo», già evaso dalle carceri del Nunzio fin dal 1593, ripigliato dalla Corte nel 1601 in abito di assassino con 7 palle in tasca, stato in campagna ed imputato di 6 delitti capitali ed un ricatto; ma l'imputazione del Campanella non era niente meno grave per la Curia Romana[251].

Ecco ora il doloroso racconto di quanto accadde durante la veglia data al Campanella, come risulta dall'Atto che ne fu disteso e [Pg 221] che pubblichiamo tra' Documenti[252]. Tutti i Giudici erano al loro posto: il Campanella introdotto dal carceriere Martines e richiesto del giuramento disse, Juravit Dominus, Deus in adiutorium...; ammonito su' guai a' quali andava incontro rispose, dieci cavalli bianchi; toccato dal cursore della Curia Arcivescovile gli disse, non mi toccare che sei scomunicato per la bolla in coena Domini. Alle ore 7 del mattino (ora 11a) fu ligato alla corda e sospeso sul cavalletto: nell'essere ligato diceva, ligatemi bene, badate che mi storpiate; poi con alte grida cominciò a dolersi, massime per la forte strettura de' polsi, dicendo son morto, non feci niente, e tante altre cose fuor di proposito, che era un santo, che era un Patriarca, che aspettava il Breve della Crociata etc. chiamando uno de' Giudici Monsignore, e il Vicario Arcivescovile «zio Arciprete». Chiese che gli si pulisse il naso, e si dolse di nuovo fortemente quando gli furono ligati i piedi; toccato dall'aguzzino gli disse, non mi toccare, che sii squartato. Udì suonare le trombe sulle galere ormeggiate al molo presso il Castel nuovo, e disse, suonate, suonate, sono ammazzato frate; guardò la porta della camera che stava aperta e disse all'aguzzino, aprimi, oh frate, oh frate. Poi abbassò il capo e tacque per un pezzo, e toccato dall'aguzzino disse, oh frate, e continuò a stare per un'ora col capo e col petto abbassati. Richiesto se volesse discendere, giurare e rispondere, accennò di sì, ma non volle proferire parola: lo fecero poi discendere perchè soddisfacesse a' bisogni naturali. Quindi fu posto di nuovo al tormento (2a volta) e disse, ora mi ammazzate ohimè, e tacque: l'aguzzino gli ricordava di non dormire, ed egli diceva, siedi, siedi alla sedia, taci, taci, nè rispose mai alle continue ammonizioni di mettere da parte la pazzia, ed alle diverse interrogazioni sulla sua patria, sulla sua età etc.; si lagnava di tempo in tempo, ma alle interrogazioni non rispondeva. Si giunse così alle 8 della sera (ora 24a) essendo questa volta rimasto sempre nel tormento senza interruzione, nè altro si udì da lui che, ohimè, ohimè; e battute le 9 (1a ora di notte) chiese da bere e l'ebbe, nè mai rispose alle interrogazioni, ma si notò che mostrava di udire con cura e di percepire le parole e le ammonizioni a lui dirette, e guardava anche i circostanti. Di poi disse, Cicco Vono l'ammazzò; e dichiarò che era di Stilo, Domenicano da Messa, che aveva impiantato il monastero di S. Stefano, che aveva preso l'abito alla Motta Gioiosa, e nominò Lucrezia sua sorella e Giulio suo fratello ivi dimoranti, nominò anche Emilia figlia di suo zio che egli aveva maritata. Più tardi chiese da bere vino e l'ebbe, e ricominciò a lagnarsi, a dire che chiamassero suo padre, quindi si ripose a tacere, e gli dicevano, «Tommaso [Pg 222] Campanella che dici? non parli?», ed egli non rispondeva, e solo volgevasi di qua e di là guardando i vicini. Sorse così il giorno e furono aperte le finestre e spenti i lumi, ed egli, sempre taciturno, appena diceva qualche volta, moro, moro, non posso più, non posso più, per Dio. Ma poco dopo parve che svenisse, onde i Giudici ordinarono di toglierlo dal tormento e porlo a sedere; quindi gli concessero di soddisfare a certa sua necessità, e poco dopo batterono le 7 (erano già 24 ore di tormento). L'infelice chiese allora qualche uovo da bere, e glie ne furono date tre, aggiuntovi del vino; disse che sentivasi morire, e chiestogli se volesse confessare i suoi peccati, rispose di sì e che gli chiamassero un confessore. Ma non se ne fece nulla essendosi ristabilito, e venne ordinato che fosse riposto nel tormento, ed egli incominciò a dire, lasciatemi stare, aspettate frate mio; gli fu detto allora perchè mai avesse tanta cura del corpo e non dell'anima, ed egli, «l'anima è immortale». Fu dunque riposto nel tormento (3a volta), e rimase taciturno, ma poi chiese all'aguzzino che portasse più in alto il funicello con cui erano ligati i piedi, perchè questi gli bruciavano; e i Giudici lo concessero. Continuò a star quieto, gli si dimandò se volesse dormire e disse di sì, gli si promise che avrebbe avuta comodità di dormire dopo di aver risposto alle interrogazioni, ed egli non parlò più, e talora si lamentò dicendo, oh mamma mia. Erano le 11 del mattino (ora 15a); i Giudici aveano profittato di quella seduta per esaminare fra Dionisio sulle lettere che avea presentate; gli ordinarono quindi di parlare al Campanella che stava nel tormento, e di persuaderlo a rispondere formalmente, ad evitare i tormenti che per lui erano affatto inutili, avvertendolo che il S.to Officio avrebbe procurato di ottenere da lui le risposte in tutti i modi! Fra Dionisio, come si notò nell'Atto, «adempì l'incarico con bastante diligenza e carità», discusse, disputò, e il Campanella gli disse che voleva rispondere alle interrogazioni. I Giudici allora concessero che fosse deposto dal tormento, oltrechè venisse ristorato con cibo e bevanda; intanto gli accordarono che andasse a soddisfare certe sue necessità, lasciandolo accompagnare da fra Dionisio, e in ciò scorse più di un'ora di tempo (così fra Dionisio ebbe tutto l'agio di consigliarlo, ma si può supporre in qual senso). Fecero di poi sedere il Campanella presso il loro tavolo, l'eccitarono a rispondere e gli dimandarono perchè si trovasse carcerato nel Castello; il Campanella rispose, che volete da me? Avendone solo parole, lo fecero riporre nel tormento (4a volta), e il Campanella vi rimase taciturno, insensibile, appena dicendo di tempo in tempo, moro, moro. E quando videro che vi stava senza dire la menoma parola, senza muoversi, senza dar segno di dolore, finirono per ordinare che lo deponessero, gli accomodassero le braccia, lo vestissero e riportassero alla sua carcere, dopo di essere stato nel tormento per circa 36 ore.

La prova data dal Campanella fu certamente grande, tanto più grande perchè nel tormento del polledro non gli era riuscito di[Pg 223] mostrarsi forte. Quattro volte successive, con brevi intervalli, era stato posto allo strazio e vi avea resistito un giorno e mezzo: i suoi amici ne rimasero ammirati, e vedremo segnatamente fra Pietro di Stilo farne gli elogi più entusiastici. Cosa ne avessero concluso i Giudici, si può rilevarlo dal Carteggio dell'Agente di Toscana. Era morto allora il Battaglino fin dalla notte di Natale dell'anno precedente, ed eragli successo Alessandro Turaminis senese, venuto nel 1592 ad insegnare con forte stipendio il «Jus civile della sera» nello studio pubblico di Napoli, rimanendo anche avvocato di S. Altezza il Gran Duca per gli affari di Capestrano e in buone relazioni col Nunzio: il Turaminis fin dal 2o giorno del tormento, essendone l'esito tuttora ignoto, avea scritto a Firenze che il Campanella veniva provato «nella sveglia ad istanza del S.to Officio» sul fatto della pazzia; e il 12 giugno scrisse, che avea lasciato «dopo hore 37 di risveglia confuso ognuno, et in dubio più che mai se fosse savio o matto»[253]. Rimase dunque scossa l'opinione che la pazzia fosse simulata, se dobbiamo credere al Turaminis, che potè veramente saperlo dal Nunzio; ma vedremo tra poco che ad ogni modo si ebbe presto motivo di non recedere da quella opinione, ed intanto conviene fermarci un poco sulle lesioni riportate dall'infelice filosofo in questo che fu l'ultimo de' suoi tormenti. Ciò che abbiamo visto da lui scritto su tale proposito nella sua Narrazione trovasi già riferito anche in più Lettere ed in qualcuna delle sue opere, col ricordo che era stato «sette volte tormentato»; e per l'ultimo tormento trovasi detto, più o meno, che avea perduta «una libbra di carne nelle parti deretane e diece libbre di sangue», che «era uscito sano dalla fossa (int. dalla sua tristissima condizione) dopo sei mesi», che avea «riacquistata la sanità per la diligenza dell'ottimo uomo, il chirurgo Scamardelli»[254]. [Pg 224] Senza dubbio in tutto ciò deve riconoscersi qualche esagerazione ed anche una inesattezza tipografica. Per intendere che il Campanella sia stato sette volte tormentato, bisogna computare ciascuna delle quattro riposizioni nel tormento verificatesi durante la veglia, e perciò noi abbiamo procurato di notarle: il conto torna solo col sommare le quattro riposizioni nella veglia, la corda semplice avuta a tempo del Vescovo di Termoli, e le due riposizioni nel polledro avuto per la congiura; nè sarà inutile ripetere ancora una volta che tutti questi tormenti furono dati sempre da Giudici deputati dal Papa, dietro ordine o consenso espresso del Papa, sicchè non riesce giusto attribuirli agl'inumani spagnuoli, pur riconoscendo che questi avrebbero fatto molto peggio se avessero potuto. Non è dubbio poi che la veglia abbia prodotto una ferita lacero-contusa con mortificazione ed emorragie consecutive, sebbene le valutazioni della carne e del sangue perduto appariscano fatte con molta larghezza: di certo vedremo risultare dal processo, che due mesi e mezzo dopo il tormento il Campanella trovavasi pur sempre a letto, assistito da suo padre e suo fratello ancora prigioni. Chi era intanto l'ottimo uomo, il chirurgo Scamardelli che gli prestò le sue cure? Ognuno comprenderà facilmente quale interesse egli ci abbia destato, ma nessuno potrà mai immaginare quanti sforzi ci abbia costato il conoscerlo, sino a che non ci venne l'idea di consultare i libri parrocchiali della Chiesa del Castello nuovo. Sapevamo che in ogni Castello si tenevano a que' tempi, con misero stipendio, un medico ed un chirurgo, e pel Castello di S. Elmo ci era riuscito di trovare che funzionava allora da medico-chirurgo un Bonifazio del Castillo con cui senza dubbio il Campanella dovè aver che fare quando più tardi fu trasportato a S. Elmo, ma pel Castello nuovo [Pg 225]le scritture di più Archivii non ci aveano rivelato che il medico Gio. Geronimo Orabona fino all'anno 1591[255]: d'altronde nel processo attuale trovavamo, per altre cure delle quali si parlerà in sèguito, nominato il chirurgo Scipione, e da un pezzo ci eravamo accorti che in tutte le opere del Campanella, non impresse sotto gli occhi suoi, le storpiature di nomi sono abbastanza frequenti. I libri parrocchiali del Castello nuovo ci hanno appunto mostrato che il chirurgo era Scipione Camardella (o Cammardella), appartenente ad una famiglia da molti anni dimorante in quella fortezza e stretta in parentela con molte persone ivi impiegate: onore a lui, che seppe ricondurre a sanità il povero filosofo, e meritarne la stima e la riconoscenza[256].

Come abbiamo accennato, il 5 giugno, 2o giorno del tormento del Campanella, i Giudici vollero profittare del trovarsi riuniti, per esaminare fra Dionisio intorno alle lettere che avea presentate. Trattavasi di sapere se appartenesse veramente a lui la lettera o memoriale diretto a' Giudici, se appartenesse al Petrolo la lettera inviata con quel memoriale ed in che modo esso fra Dionisio l'avesse ricevuta. Fra Dionisio accertò quanto si volea sapere, dicendo di aver ricevuta la lettera del Petrolo già da otto o nove giorni per mezzo di Felice Gagliardo carcerato per la congiura, il quale glie l'avea data passandola per la fessura superiore della porta del carcere, in cui si trovava egli solo e sempre chiuso. E i Giudici non se ne brigarono ulteriormente, nè chiamarono a nuovo esame il Petrolo come costui dimandava.—Si fecero invece, nella stessa seduta, ad esaminare fra Pietro di Stilo intorno alla sua lettera ed alle scritture, del Campanella con essa inviate, cioè le Difese con gli Articoli [Pg 226] profetali[257]. Fra Pietro, sempre dietro dimande, disse che fin dall'anno scorso, nel principio di quaresima, il Campanella gli avea mandate certe carte scritte per mezzo di un figliuolo che serviva nelle carceri ed egli non sapeva dire chi fosse; costui glie le passò per la fessura inferiore della porta a nome del Campanella, dicendogli per ambasciata che le facesse copiare e le tenesse a sua richiesta, perchè erano carte che gl'importavano. Ed egli, nella settimana santa, fece copiare il 1o fascicolo da fra Pietro Ponzio venuto allora a stare nel suo carcere, e diede l'altro ad un compatriotta, Vincenzo Ubaldini di Stilo, il quale dimorava in Napoli con un suo fratello, presso un Signore che non sapea dire chi fosse e che avea udito essere andato alla guerra, e il detto Ubaldini l'avea fatto copiare da un copista[258]. Aggiunse che gli originali non c'erano più, perchè il copista non volle restituire quello a lui consegnato, dicendo che era cosa curiosa, e l'altro, consegnato a fra Pietro Ponzio perchè lo copiasse, fu dato al Pizzoni insieme con la copia, e costui non volle restituir nulla dicendo che erano cose sospette; quando poi trovò quelle scritture, nel cercare un foglio di carta sotto il materasso del letto in cui era morto il Pizzoni, trovò pure l'originale predetto, ma fatto a pezzi e ridotto in altro uso, e c'erano stati presenti il Bitonto, fra Paolo ed anche il Petrolo ammalato. Aggiunse che aveva bensì lette quelle scritture, ma senza capir nulla dei profetali, e facendosi spiegare da fra Pietro Ponzio qualche cosa del fascicolo che egli copiava: inoltre che il martedì o un altro giorno della settimana santa, il Campanella «che non si era ancora publicato pazzo» mandò a chiedergli le copie fatte e se le tenne dalla mattina alla sera e poi glie le rimandò; ed allora vi appose certe note, che riconobbe essere di mano del Campanella ma scritte con carattere più piccolo del solito. Aggiunse infine che non avea mostrato ad alcun altro quelle scritture, nè sapeva che alcun altro le avesse viste all'infuori de' già nominati, e che non le avea [Pg 227] presentate prima perchè non le avea potuto aver prima.—È superfluo dire che molte circostanze di tale racconto erano mentite: lasciamo da parte il non conoscere il figliuolo che a nome del Campanella avea portato gli originali delle scritture (forse Aquilio Marrapodi) e il copista laico che avea trascritto una di esse; lasciamo da parte che quelle scritture erano state sempre nelle mani del Pizzoni, e poi ancora rimaste ignorate sotto il materasso fino a circa tre mesi dopo la morte di lui; ci limitiamo a dire esserci noto con bastante certezza, che il Campanella attendeva a comporre quelle scritture anche quando si era già mostrato pazzo, che di tempo in tempo mandava qualche pagina scritta a fra Pietro di Stilo, e che i frati vi annettevano anch'essi molta importanza, sperandone forse un grande effetto pel buon esito de' loro processi. Abbiamo a tempo opportuno esposto con larghezza la materia di tali scritture, che rappresentavano le Difese del Campanella nella causa della congiura: potrebbe sembrare che il Nunzio, uno de' Giudici in detta causa, avesse dovuto sentir l'obbligo di trasmetterle al tribunale proprio; ma per Verità quella causa era finita pel Campanella, e non rimaneva a' Giudici che mettersi d'accordo sulla sentenza da doversi pronunziare. Un Giudice coscienzioso non avrebbe certamente mancato di occuparsene ad ogni modo, ma tale non era il Nunzio, su cui, ben più che sul Sances, il Campanella avrebbe fatto senza dubbio cadere i suoi risentimenti, se non si fosse trovato nella necessità di parlarne il meno possibile; non farà quindi meraviglia che quelle Difese fossero rimaste inserte nel processo dell'eresia, utili solamente a noi, che abbiamo così potuto avere la comodità di esaminarle. Ma perchè furono esse presentate al tribunale dell'eresia? Evidentemente, nel presentarle, fra Pietro di Stilo non potè aver altro scopo, che quello di fare un tentativo disperato per allontanare almeno temporaneamente l'amministrazione della veglia, senza punto sospettare ch'esse avrebbero potuto andare perdute. E il tentativo non riuscì, ed anche la perdita non influì in alcun modo sull'esito della causa della congiura.

Dopo il tormento della veglia si ebbero le relazioni de' medici periti; il 7 giugno fu scritta quella del magnifico Pietro Vecchione, il 15 quella del magnifico Giulio Jasolino. Costoro appartenevano alla più elevata categoria de' medici allora in voga, e non sarà inutile darne qualche notizia, onde riuscirà manifesto che le ricerche sulla pazzia del Campanella, se vennero condotte con precipitazione, almeno in quanto alle persone de' periti vennero prese certamente sul serio. Pietro Vecchione da Nola, col suo esercizio d'insegnante privato, secondo il costume napoletano, aveasi acquistato tanta riputazione, che giovane ancora, di circa 33 anni, sulla proposta del Cappellano maggiore era stato dal Conte di Lemos il 15 ottobre 1599 nominato lettore della «theorica della medicina ordinaria», cattedra fra le più stimate, alla quale sovente si chiamavano anche i non napoletani, e già occupata da Filippo Ingrassia[Pg 228] (insieme con la pratica) dal 1547 al 1553, da Giovanni Argenterio nel 1556, dal Covillas nel 1560, da Gio. Geronimo di Cotrone da Nola (o viceversa) nel 1565, da Salvio Sclano nel 1570, da Innocenzio Canti nel 1577, da Quinzio Buongiovanni nel 1579, da Latino Tancredi in qualità di straordinario nel 1589, tutta una serie di uomini stimati altamente. Esercitava poi la pratica con immenso successo, ma del resto era uno de' molti, anzi troppi, che non avevano scritto mai nulla, facendo parte di quella beata falange degli uomini illustri inediti, specialità non napoletana soltanto ma italiana, ancor oggi niente affatto estinta, e prova sciagurata che la sua è la via meno disputabile per ottenere la pubblica stima, le alte cariche, i primi onori: il Vecchione infatti ebbe frequentemente accresciuto il suo stipendio, nel 7 giugno 1612 passò alla lettura di pratica, succedendo al Buongiovanni, morì Protomedico nell'aprile 1619. Quanto a Giulio Jasolino, Jazzolino o Azzolino, calabrese[259], già distinto allievo dell'Ingrassia, era un vecchio cultore di anatomia e chirurgia assai accreditato, e basta dire che fu maestro di Marco Aurelio Severino: non ebbe lettura pubblica essendo allora la cattedra di chirurgia ed anatomia occupata da Giuseppe Perrotta di Fratta, che fu il primo a riunire insieme nel pubblico studio in un modo definitivo queste due branche d'insegnamento; ma scrisse alcuni opuscoli, tuttora pregiati da que' pochissimi che si occupano di cose patrie, ed anche illustrò le acque termominerali d'Ischia. Avea già circa 60 anni al tempo di cui trattiamo, e stando in Ischia dettò la sua relazione sul Campanella; morì vecchissimo nel 1633, e fu sepolto nella Chiesa di S.ta Chiara.—Ecco ora ciò che essi riferivano intorno al Campanella[260]. Pietro Vecchione scrisse, che invitato a visitare più volte fra Tommaso per riconoscere se fosse davvero desipiente e melanconico o simulasse tale malattia, per quanto avea potuto esplorare con la mente, con la conversazione e coll'opera, avea ben rilevato che egli aberrava nell'immaginativa, nel discorso e nella memoria; ma poichè [Pg 229] non avea visto alcuno de' sintomi che sogliono trovarsi negl'infermi di tale malattia e v'erano grandi cause per simulare, era venuto nel dubbio che quella pazzia fosse simulata. Aggiunse che ad esplorarla con maggiore certezza occorreva lungo tempo e gran diligenza degli astanti, ciò che non si era potuto eseguire nelle carceri in cui esso Campanella si trovava, ond'egli non poteva affermare nulla di certo; ma conchiuse, «per quanto mi è dato scorgere congetturalmente, giudico che colui simuli la malattia». D'altra parte Giulio Jasolino, con un lungo scritto, venne nella medesima conclusione, ricingendosi di alquanto maggiori riserve, ed appoggiandosi ad un nugolo di citazioni d'Ippocrate e di Galeno. Ciò che fa riuscire notevole per noi questa sua relazione si è qualche notizia che vi si rileva intorno al modo tenuto nell'osservare il povero Campanella, e qualche motivo di congettura che vi si adduce intorno alla persona del filosofo. Il Jasolino osservò fra Tommaso e gli parlò, a quanto pare, una sola volta, ma certamente in presenza del Nunzio, del Vescovo di Caserta e del Vicario napoletano: ne ebbe risposte non a proposito, e lo vide «melancolico» nell'abito del corpo e nel colore; ma dichiarò non potersi giovare di quest'ultimo fatto, non avendo prima conosciuto il Campanella e non sapendo se tale temperamento fosse il suo naturale ovvero «acquistato per il lungo patimento delle carcere et per il gran timore et mestitia» (non si parla di altre specie di sofferenze, e questo mostra che la visita precedè la veglia). Invece notò che «essendo costui persona malitiosa, come si dice, vafer, callidus, et astutus, se hà da dubitare che la sua pazzia sia simulata»: ma aggiunse che intorno a ciò non intendeva affermare nulla di certo, e dichiarò che una lunga osservazione poteva farsi da' custodi, e questa avrebbe voluto, conchiudendo «che cossi si potrà chiarire della verità della fitta, che io stimo ò pure vera pazzia». Adunque, tra il sì e il no, il Jasolino stava egli pure per la pazzia simulata, e il giudizio de' periti in questo senso riusciva uniforme.

Più tardi, il 20 luglio, un'altra circostanza venne a provare a' Giudici che la pazzia doveva essere simulata[261]. L'aguzzino che aveva dato il tormento della veglia al Campanella e l'aveva anche riportato nelle carceri, un Jacovo Ferraro di Trani, fu esaminato dal Vescovo di Caserta ed interrogato sopra le «parole che si lasciò dire fra Thomaso Campanella dopò che fu sceso dal tormento». Ed egli rispose: «essendo io intervenuto come ministro dela gran Corte dela Vicaria à dare lo tormento dela veglia à frà thomaso Campanella predetto, dove io intervenni continuamente, havendomelo posto in collo per consegnarlo allo carceriero delle carceri di detto Castello novo, et cacciatolo cossì in collo dala camera dove hebbe lo tormento fino alla Sala reale, detto fra thomaso Campanella mi disse da sè le formate ò simili parole, che si pensavano che [Pg 230] io era co...... (int. sciocco) che voleva parlare? et à queste parole non ci fu nessuna persona presente». A voler giudicare la cosa secondo quel che sappiamo della natura del Campanella, bisognerebbe senz'altro ritenerlo del tutto vera; ma l'essersi verificata dopo un tormento di 36 ore, in quello stato descrittoci dall'Atto che ne fu raccolto, riesce sorprendente in modo, da potersi perfino accogliere l'opinione di chi dicesse procurata dal Sances l'assertiva dell'aguzzino; intanto, deposta sotto giuramento da una persona disinteressata, essa aveva ad ogni modo un valore incontrastabile.

Ma non ostante siffatte prove ed indizii, la giurisprudenza del tempo accordava al tormento una forza tale, da annullare tutte le altre prove e «purgare gl'indizii»; e giacchè il tormento era stato gagliardo e non ordinario, tanto più l'inquisito veniva a giovarsi dell'esito avuto, secondo le dottrine de' criminalisti più in voga. Così il Campanella dovea giuridicamente ritenersi pazzo, quantunque tutti fossero persuasi che egli simulasse la pazzia. E la conseguenza nel tribunale di S.to Officio non era indifferente: come «relapso» egli anche pentito avrebbe dovuto essere degradato e consegnato alla Curia secolare, che l'avrebbe fatto morire; essendo pazzo, non poteva più patire condanna, e laddove fosse stato già condannato dovevagli essere risparmiata la pena di morte, sul riflesso che avrebbe potuto un giorno rinsavire e pentirsi[262]. Non occorre dire quanto siffatto principio sia degno di nota, per valutare giustamente la risoluzione che da Roma venne presa più tardi intorno al Campanella.

Le copie di tutti questi Atti processuali erano inviate mano mano a Roma, secondochè mostrano le note di tempo in tempo inserte nel processo dal Notaro Prezioso: ma dopo tanto movimento si ebbe una lunga fermata, sicuramente perchè i forti calori della stagione estiva solevano tenere lontano da Napoli il Vescovo di Caserta, e poi più tardi perchè la malattia la quale afflisse il Vicerè, e finì per trarlo alla tomba, fece mancare un assiduo ed istancabile sollecitatore della causa. Appena un solo altro Atto fu compiuto nel resto dell'anno, e con molta fiacchezza, per un novello incidente sorto in questo tempo.

Il 2 agosto avveniva tra frati e laici carcerati una rissa, della [Pg 231] quale non si potrebbero in modo assoluto affermare le particolarità precise, poichè fu seguita da fatti ne' quali dovè intervenire il tribunale, e naturalmente ogni inquisito si fece a narrare le cose a modo suo: ne diremo quanto si potè raccogliere intorno ad essa dalle migliori testimonianze non soltanto degl'inquisiti ma anche degli ufficiali del Castello. Quello spirito irrequieto di Felice Gagliardo era stato dapprima in compagnia di Orazio S.ta Croce nel Castello dell'ovo per 17 mesi, ed ivi, oltre al mantenere corrispondenza co' banditi delle vicinanze di Reggio, che stavano in relazioni col padrigno suo Pietro Veronese, oltre al comporre prose e versi, un po' per bizzarria un po' per bisogno si diede a coltivare la negromanzia: il Castellano D. Melchiorre Mexia de Figueroa, che già l'avea fatto rinchiudere in un criminale, avvertito da' carcerati, e tra questi anche da Jacobo Moretto, che presso di lui si trovavano molte carte di negromanzia e già molte altre dello stesso genere ne avea lacerate, fece egli medesimo una ricerca e prese tutte le carte che trovò, delle quali alcune trasmise a D. Giovanni Sances, altre tenne presso di sè, altre lasciò prendere da Scipione Moccia Auditore del Castello. Tradotto poi nel Castel nuovo, il Gagliardo venne posto in una medesima camera con Orazio S.ta Croce, con fra Paolo della Grotteria, fra Giuseppe Bitonto e Giuseppe Grillo, di poi insieme col S.ta Croce passò a stare col Soldaniero, più tardi fu di nuovo allogato nella camera in cui si trovavano fra Paolo e il Bitonto, e con essi il Petrolo e fra Pietro Ponzio: naturalmente egli si strinse subito in amicizia con fra Paolo, che sappiamo amatore di segreti e sortilegi, e col Bitonto, che già conosceva e che si mostrò egualmente proclive a questo genere di cose; un altro carcerato Cesare d'Azzia napoletano, li aiutò grandemente ne' loro studî, prestando una copia manoscritta della così detta Clavicola di Salomone, ancor oggi tenuta in onore dagl'imbecilli che si occupano di divinazioni segnatamente pel giuoco del lotto, inoltre un libro manoscritto di segreti, ricette, scongiuri ed artifizii magici[263]. Il Gagliardo e il Bitonto si diedero subito a trarre una copia di tali scritture, e s'intesero tra loro al punto, che o per amicizia o piuttosto dietro qualche piccolo compenso, facile ad assumere ogni maniera di responsabilità quasi bravando i rigori del tribunale, il Gagliardo rilasciò al Bitonto una dichiarazione scritta in presenza del Curato del Castello ed altri testimoni; con questa affermava non esser vero quanto in processo [Pg 232] leggevasi deposto da lui contro il Bitonto, cioè che costui gli avea detto di stare in ordine perchè presto vedrebbe succeder guerre, ma esservi stato falsamente inserto da quelli che formarono il processo. Tali scritture, con altre ancora, si conservavano in una cassa appartenente al Bitonto, e questa cassa, non molto tempo prima dell'avvenimento che dobbiamo narrare, fu portata dal Bitonto nella camera di fra Dionisio, ritenutane la chiave in poter suo, pel motivo o pel pretesto che nella camera in cui stava erasi verificato qualche furto. Ora appunto il 2 agosto fra Pietro Ponzio disse al carceriere che facesse uscire il Gagliardo dalla camera dove trovavasi in compagnia di loro frati, e gli suggerì di allogarlo in un'altra camera in cui si trovava Camillo Adimari col Marrapodi, Conia, Soldaniero e S.ta Croce. L'Adimari uscito fuori sulla loggetta del corridoio, se ne risentì, perchè già stavano troppi letti in quella camera, e venne alle mani con fra Pietro il quale gli diede uno schiaffo. Accorsero allora i laici da una parte e i frati dall'altra, gli uni in difesa dell'Adimari e gli altri in difesa di fra Pietro: segnatamente il Soldaniero, il S.ta Croce e il Gagliardo, si azzuffarono col Petrolo, col Bitonto ed inoltre con fra Dionisio uscito dalla sua camera per quel rumore, avendo i frati «sarcene alle mani e seggiolelle di paglia» (fascetti di legna da ardere e sedie comuni), e servendosi i laici de' loro cinturoni di cuoio come allora si usavano. I soldati del Castello e il carceriere intervennero e separarono i contendenti, cacciandoli nelle rispettive camere; ma fra Dionisio fu trovato ferito alla fronte, e dapprima disse che l'aveano ferito il S.ta Croce e il Gagliardo, poi, venuto nel Castello l'inframmettente Padre Mendozza, disse a costui che l'avea ferito il Soldaniero.

Nella sera dello stesso giorno, da un lato il Soldaniero si presentò al luogotenente del Castello D. Cristofaro de Moya, d'altro lato il S.ta Croce e nientemeno anche il Gagliardo si presentarono al sergente Francesco Alarcon, dicendo che per servizio di Dio e di S. M. facessero fare una ricerca nella camera di fra Dionisio, rovistando tutta la camera ed una cassa che là si trovava, perchè sarebbero venute fuori «scritture e carte triste e prohibite»; e quegli ufficiali, insieme con due soldati e col carceriere Martines, si portarono a fare la ricerca non solo nella camera di fra Dionisio, facendolo stare presente, ma anche nella camera degli altri frati e in quella del Campanella. Presso fra Dionisio fu trovata qualche lettera e segnatamente una lettera di un Sertorio del Buono da Fiumefreddo a lui diretta; fu trovata inoltre la cassa di pioppo bianco ma senza la chiave, e fattala trasportare alla camera del Castellano ed avuta la chiave dal Bitonto, ne furono estratte le «carte di fattocchiarie», la dichiarazione rilasciata dal Gagliardo in favore del Bitonto ed anche le scritture concernenti la persona di fra Dionisio nella causa di eresia, vale a dire gli articoli del fiscale contro di lui, gli articoli suoi in sua difesa, e dippiù una[Pg 233] «Consideratione dell'essamina et lettura del processo de pretensa rebellione». Presso fra Pietro Ponzio fu trovato «dentro uno marzapane grande tondo» (canestro tondo di vimini fornito di coverchio) un libretto di Poesie rivestito di pergamena, «con zagarelle di seta pavonazze e rangiate» per fermagli; erano le poesie del Campanella che fra Pietro si occupava di raccogliere e divulgare. Presso gli altri frati la ricerca riuscì infruttuosa, ed unicamente sotto il capezzale del letto del Gagliardo, che stava con loro, furono trovate scritture di magia con circoli e segni; ma più si sarebbe trovato se la ricerca fosse stata condotta con maggior diligenza, e difatti più tardi ne vennero fuora altre carte di sortilegi. Infine presso il Campanella fu trovata qualche altra cosa, e ne lasciamo il racconto al sergente Alarcon che così si espresse quando fu poi esaminato più tardi su tale incidente: «Andassemo ancora à cercare la camera di frà Thomaso Campanella, et non vi trovai altro eccetto che una lettera serrata, non mi ricordo à chi era diretta, et perche lui stava malato in letto, ce stava un suo fratello dentro la camera, non mi ricordo il nome, et il patre stava fuori la camera, et mentre si faceva la cerca, se accorse lo tenente che il fratello di Campanella era stato alla cancella, et entrò suspetto che non havesse buttato alcuna cosa dala fenestra, et quando fummo à basso al reveglino trà le due porte del Castello, trovassemo una scrittura di diece ò dodici fogli in circa scritti, quali anco io pigliai è portai al Sig.r Castellano»[264]. Vedremo più tardi cosa fosse questo scritto del Campanella: diremo intanto che il Castellano D. Alonso de Mendozza, viste le carte, il giorno dopo ordinò che fossero rinchiusi nel torrione del Castello, in due criminali separati, fra Pietro Ponzio primo motore della rissa e fra Dionisio ritenuto autore delle carte proibite; ordinò inoltre che tutte le carte trovate nella ricerca fatta fossero portate al Vicerè dallo stesso luogotenente De Moya. Con ogni probabilità allora appunto, nell'essere fra Dionisio preso e tradotto al torrione, vennero trovate ancora nella camera di costui quattro lettere di fra Pietro di Stilo, in data del 3 agosto, scritte pochi momenti prima da fra Pietro a persone amiche e parenti di Gio. Gregorio Prestinace. Ecco ora quanto accadde delle carte portate al Vicerè, secondochè narrò il De Moya quando fu poi chiamato a deporre: «Le fici portare... à sua Eccellenza del vicerè di questo Regno, che stava alhora à chiaya alle case è giardino di Don Pietro di toledo, et io proprio in nome di detto Sig.r Alonso castellano le consegnai al vicerè alla presentia di Don Pietro Castelletta Regente [Pg 234] di Cancellaria, è di Don Giovanni sanges de luna, dandoli conto come si erano trovate è dove, et in particolare dissi che alcune di quelle scritture erano state trovate dentro di una cassetta di detto fra Dionisio pontio, et detto Don Pietro et Don Giovanni le veddero è lessero, et alhora medemo il vicerè ordinò fussero date sicome foro date al detto Sig.r don Giovanni sanges de luna, il quale se le pigliò in suo potere, e ben vero che tre à quattro di quelle carte restorno in potere del vicerè, il quale ordinò che se notassero che scritture fussero, et credo che don Giovanni le notasse, et quali foro quelle che si pigliò il vicerè io non le so, è mi ricordo che io ci viddi una carta nella quale era una mano pinta, ò fatta con la penna et inchiostro, altro in particolare non mi ricordo, è poi io mi licentiai dal vicerè et me n'andai»[265]. Probabilmente le scritture che il Vicerè tenne presso di sè furono quelle di segreti, ricette e sortilegi, le quali destavano curiosità: ad ogni modo doverono certamente destare curiosità sopra tutte le altre quelle della difesa di fra Dionisio nella causa di eresia, per le quali si potè avere una notizia abbastanza precisa di detta causa. Riesce poi notevole che il Vicerè non abbia fatto trasmettere al S.to Officio le carte che cadevano sotto il dominio di quel tribunale: è impossibile ammettere che egli non vi avesse dato importanza, ma si può meglio ritenere che egli non le abbia trasmesse per evitare un motivo di ulteriori lungaggini. Invece se ne diè moltissima cura fra Dionisio, che non quietò, finchè non venne ordinato di pigliare informazione su questa faccenda delle scritture.

Non appena potè, fra Dionisio mandò al Vescovo di Caserta un memoriale, supplicandolo di venire in Castello «per cose importantissime di S.to Officio»; e il 26 agosto, innanzi al Vicario Arcivescovile e al Rev.do Antonio Peri, trovandosi impedito il Nunzio ed assente il Vescovo di Caserta, fu interrogato circa il memoriale mandato[266]. Egli disse che coloro i quali gli si erano esaminati contro, in materia di eresia e di ribellione, avevano assaltato lui ed il germano fra Pietro, l'avevano ferito alla fronte con effusione di sangue, e poco dopo, fatta una ricerca nella sua camera, erano state trovate scritture proibite in una cassa, la quale apparteneva al Bitonto, che l'avea portata presso di lui perchè la conservasse; e ne' giorni seguenti aveva visto quelle scritture in mano del Barrese, venuto in Castello per dimandargli se fossero sue, e credeva che il Bitonto gli avesse «fatto il tradimento» d'accordo col S.ta Croce, Soldaniero e Gagliardo, tanto più che fra Pietro, il quale si trovava, come egli stesso, in un criminale, avea minacciato costoro di volerli denunziare al S.to Officio per cose gravissime. Chiese quindi che si pigliasse informazione intorno a quelle scritture, che [Pg 235] ne fossero gastigati gli autori o possessori, che si desse a fra Pietro suo germano il modo di poter presentare i capi di accusa contro que' suoi nemici, che fossero costoro «separati e posti in clausura», tanto perchè potesse scovrirsi la loro perversità, quanto perchè erano incorsi nella scomunica. Dietro dimande, disse che avea conosciuto essere quelle scritture di carattere del Gagliardo, aggiungendo che insieme con esse avea veduto in mano al Barrese anche le sue scritture di difesa e i capi del fisco in materia di S.to Officio (così profittava dell'occasione, se pure non l'aveva egli stesso provocata, per giustificare i suoi ritardi e prender tempo ulteriormente): disse ancora che tutti e tre que' ribaldi l'aveano percosso, ma il S.ta Croce l'avea ferito, mostrando la ferita, medicatagli «dal chirurgo del Castello nomine Scipione» di cui non sapeva il cognome (Scipione Camardella). Diede l'elenco de' testimoni, e dichiarò causa della rissa l'aver voluto fra Pietro Ponzio discacciare dalla camera sua il Gagliardo «per alcuni furti et perche haveva inteso che andava vendendo magarie»; aggiunse che la cassa del Bitonto era stata solamente circa otto giorni in camera sua.—Verso lo stesso tempo, Camillo Adimari sporse querela al Vicario Arcivescovile contro fra Pietro Ponzio, perchè aveva insultato esso querelante pacifico e quieto, e gli avea dato uno schiaffo in presenza della maggior parte de' carcerati, onde chiedeva una diligente informazione su questa insolenza e un provvedimento di giustizia. Naturalmente fra Pietro non poteva starsene tranquillo, dovea rispondere alla provocazione e già avea mostrato, per mezzo di fra Dionisio, che non gli mancava la materia per la risposta. D'altra parte ancora, non si saprebbe dire perchè, il Lauriana mandò al Rev.mo Vicario un memoriale, supplicando di essere riesaminato. Ma il tribunale non si riscaldò menomamente, non diè segno di vita per tutto il resto dell'anno, nè ripigliò poi le sedute senza una sollecitazione del Card.l di S.ta Severina. Evidentemente le sollecitazioni efficaci dalla parte del Governo di Napoli erano venute meno.

Come abbiamo avuta occasione di accennare, il Vicerè fu in questo tempo afflitto da una malattia che lo condusse alla tomba. Fin dal giugno erasi recato a Pozzuoli, con la speranza di guarire da certi edemi che gli erano comparsi e che si dicevano «pienezza di carne»; quindi era tornato a Napoli prendendo stanza a Chiaia. Ma a' primi di settembre già susurravasi essere la malattia dell'intestino retto e dover finire con una «fistola penetrante»; se ne indicava anche la cagione, attribuendola alla intemperanza dell'infermo, per la proclività ad accettare i banchetti offertigli continuamente da' Nobili e forse graditi alla sua Signora più che a lui. I medici erano in moto, e come faceva sapere il Residente Veneto al suo Governo, il 18 7bre ritenevasi ottenuto un miglioramento, per una medicina che «una parte de' medici si era arrischiata a dargli dopo molti dispareri». Una insignificante relazione sullo stato dell'infermo, con richiesta di consiglio e rimedio, fu inviata dalla[Pg 236] casa del Vicerè al dottor Diaz a Pisa, e leggesi in quel grande emporio di notizie che è l'Archivio di Firenze[267]: ma un medico di provincia, che abbiamo già avuta occasione di nominare, Giacomo Bonaventura, predisse francamente male, e questo esatto pronostico gli valse l'onore di esser chiamato al servizio di Clemente VIII, avendo Gio. Geronimo Provenzale dovuto recarsi all'Arcivescovado di Sorrento, che gli era stato concesso nel 1598 e che si godè fino al 1612[268]. Dopo di aver molto penato, «con febbre, flusso, siero e fistola penetrante», il 19 ottobre il Vicerè venne a morte; a 57 anni di età, dopo 57 giorni di malattia, come notarono gli studiosi de' numeri di quel tempo, calcolando il principio della malattia dal giorno in cui pel suo aggravamento si divulgò; essi notarono ancora che a breve intervallo venne a morte anche il fratello suo da lui tanto stimato, l'Arcivescovo di Taranto. Il Parrino ci ha tramandato le notizie delle pompe funebri, con l'elenco de' distinti personaggi che portarono sulle loro spalle la salma del Vicerè, tra i quali Carlo Spinelli; così pure le lodi dell'estinto, il compianto dei cittadini etc. etc. e questa volta bisogna dire che abbia ragione, poichè dopo la condotta per lo meno scempiata del Conte Olivares suo predecessore, la condotta del Conte di Lemos apparve tanto più degna di encomio. Non mancarono a' canti delle vie, come già in certi altri momenti del suo governo, le così dette pasquinate e i cartelli infamatorii, sfogo abbastanza frequente e per lo più espresso in modi goffi, ma che pure gioverebbe e non sarebbe sempre difficile conoscere rovistando le antiche scritture: bisogna pertanto notare che p. es. il Residente Veneto biasimò sempre tali manifestazioni contro il Lemos, e talora con parole estremamente acerbe[269].—Successe [Pg 237] come Luogotenente generale D. Francesco de Castro secondogenito del Lemos, il quale pure altra volta, in assenza del padre andato a Roma, avea governato il Regno con lo stesso titolo. Già sappiamo che allora non mancò d'insistere perchè il negozio de' frati avesse un termine, ma non apparisce che avesse fatto sollecitazioni in questo periodo del suo governo, avendo invece cominciato a farle molto più tardi.

Intanto i frati languivano già da un pezzo e continuarono a languire nella più squallida miseria, circostanza da notarsi per comprendere alcune delle poesie del Campanella, che a suo tempo dovremo passare a rassegna. Una lettera del Nunzio, scritta fin dal 7 7bre al Provinciale de' Domenicani di Calabria[270], ci fa sapere che da' conventi di quella Provincia erano stati una volta mandati danari perchè fossero distribuiti a' carcerati, ma che appunto il Campanella, il quale ne avea «bisogno più che gli altri come malato, non hebbe nulla»; e però il Nunzio aveva ordinato che fosse risarcito con la somma che allora si diceva pronta per lo stesso oggetto, e che tutti i danari rimanessero in mano di un corrispondente del Campanella in Napoli, il quale l'avrebbe provveduto di quel che gli fosse occorso, ed avrebbe badato, «sendo mentecatto», che non gli fossero rubati; aggiungeva poi il Nunzio che di tempo in tempo avrebbero dovuto mandarsi altre somme. Ma non apparisce che i danari, i quali si dicevano allora pronti, fossero stati così presto disponibili; essi doveano passare per varie mani e poteano per lo meno incagliare per via. Difatti vedremo più in là che una somma di D.ti 200 inviati da Calabria, con ogni probabilità quella medesima per la quale avea scritto il Nunzio, ebbe a patire la detta traversìa ed anche qualche cosa di peggio. Nè ci mancano documenti da' quali si desume che i poveri carcerati, nel tempo cui siamo pervenuti, doverono reclamare più volte a Roma e poi anche a Napoli, perchè si provvedesse alle cose necessarie pel loro vitto.

IV. L'anno 1602 cominciò con una sollecitazione del Card.l di S.ta Severina al Vescovo di Caserta, per la quale si vide presto cessata la sospensione della causa[271]. Il 4 gennaio, a nome della Congregazione de' Cardinali colleghi il S.ta Severina scriveva che non si era saputo più nulla intorno alla causa, che oramai per la [Pg 238] morte del Vescovo di Squillace, pel lungo tempo trascorso etc. non c'era nulla da attendersi sulle informazioni commesse in quella diocesi, che infine si voleva conoscere se fosse stato provvisto al vitto de' carcerati, come più volte erasi da Roma ordinato a' loro superiori.—E gli 11 gennaio i carcerati dirigevano anch'essi un memoriale al Vescovo[272] facendogli sapere che in quel giorno si era recato presso di loro lo scrivano dell'Inquisizione (forse il Prezioso) per intendere i loro bisogni, ma avea «dimostrato non troppa intentione di charità», e quindi supplicavano che si provvedesse. Tutti i frati apposero la loro firma a quel memoriale, ma pel Campanella l'appose il carceriere Alonso Martines, e da ciò ben si rileva che egli continuava sempre a mostrarsi pazzo.

Il 13 gennaio, innanzi al Vescovo di Caserta e al pro-Vicario generale Curzio Palumbo, che a questo periodo del processo sostituì definitivamente il Vaccari nell'assistenza alle sedute, fu esaminato di nuovo fra Dionisio e gli fu dimandato se volesse dire altro, poichè le risse e le inimicizie da lui deposte non erano materia di S.to Officio. Fra Dionisio rispose che aveva inteso deporre sulle scritture trovate in camera sua e mostrategli dal Barrese, per le quali voleva essere punito se mai fosse risultato colpevole. Aggiunse poi che il Soldaniero, comunque scomunicato per averlo percosso, e già prima scomunicato anche dal Vescovo di Tropea per violata immunità ecclesiastica, non se n'era mai curato nè se ne curava, continuando ad ascoltare la Messa nella Chiesa del Castello.—Certamente il tribunale dovè allora rivolgersi a S. Eccellenza per avere le scritture in quistione, giacchè poco oltre un mese dopo, per ordine di S. Eccellenza, le scritture gli furono inviate: ma non credè di dover ritardare per questo la spedizione della causa principale, non si curò dell'avere fra Dionisio esposto che gli erano state tolte anche le scritture di difesa e i capi del fisco, procedè agli atti ulteriori e poco dopo abilitò, come allora si diceva, il Soldaniero ad uscire dal carcere. Fra Dionisio ebbe a sentirsene gravemente offeso, e pensò allora di rivolgersi al S.to Officio di Roma, dal quale vedremo in sèguito ordinato di procedere alla debita informazione sulla faccenda delle scritture. Non meno ebbe a sentirsene offeso fra Pietro Ponzio, il quale poco tempo prima avea potuto finalmente presentare i suoi capi di accusa, una denunzia formale in materia di S.to Officio contro i laici intervenuti nella rissa e qualche loro aderente, tra gli altri contro il Soldaniero. Entrambi i Ponzii erano stati tenuti quattro mesi ne' criminali del torrione, e può intendersi facilmente come fossero anche per questo divenuti furiosi.

Dobbiamo qui dire che nella stessa data, 13 gennaio 1602, fu iniziato un processo secondario contro Orazio S.ta Croce continuato poi contro Felice Gagliardo, sulla base appunto della denunzia presentata da fra Pietro Ponzio, la quale veramente, oltre il S.ta Croce [Pg 239] e il Gagliardo comprendeva anche Giulio Soldaniero e un Ferrante Calderon dottore spagnuolo del pari carcerato[273]. I lettori intenderanno che riuscirebbe impossibile seguire tutti i particolari di questo processo, condotto a sbalzi per due anni interi, senza intralciare orribilmente la narrazione del processo principale ed anche correre il rischio di non finirla più; ma non possiamo dispensarci dal darne alcuni cenni, i quali veramente sono necessarii a chiarire certi fatti del processo principale, senza contare che ci fanno apprendere come si passava la vita nel Castel nuovo quando c'era il Campanella. La denunzia di fra Pietro mandata al Card.le Arcivescovo di Napoli, recava le seguenti cose, illustrate ed ampliate poi nel corso del processo a questo modo: 1o Contro il S.ta Croce; che era un pubblico bestemmiatore e diceva anche continuamente «santo diavolo» (esclamazione calabrese ancor oggi comunissima); che giocando a dadi col carceriere avea detto «Dio, non ti credo, se la prima volta ch'io giocarò con Martines non mi farai uscire da questo Castello con un Crocifisso alle mani et un chiappo in canna» (un laccio al collo per essere appiccato), e poi avea seguitato a giocare col Martines; che avea detto essere «il diavolo assai più potente di Dio, perchè Dio non aiuta gl'innocenti e il diavolo aiuta li suoi vassalli li tristi»; che non dava alcun segno di devozione, non andava a Messa nè recitava officio nè rosario, e ne' giorni solenni era visitato da una certa Delia sua antica concubina, con la quale stava di giorno e di notte, mangiava e giaceva in presenza anche de' frati, ed essendogli stato ciò proibito avea proferita una laidissima proposizione (la quale perciò sarà meglio non ripetere); che avea ferito fra Dionisio nella rissa, e trovandosi scomunicato non se n'era dato mai pensiero, anzi alle osservazioni fattegli avea risposto con un proverbio calabrese, «meglio essere scomunicato che comunicato all'imprescia» (comunicato in fretta). 2o Contro il Gagliardo; che era un pubblico mago e disegnava circoli con nomi di demonii, ed un libro con circoli disegnati trovavasi nelle mani degli ufficiali del Castello, anzi una volta un soldato con una gamba di legno, che stava al Castello dell'ovo, venuto ad esigere danari da lui avea detto che in quel Castello gli erano state trovate carte contro Dio; inoltre che nel Castel nuovo un certo Marcantonio Buono calabrese veniva a visitarlo per cose magiche, ed un giorno rimasti soli fecero insieme suffumigi con zolfo «e una pignatella piena di mill'imbroglie», e Geronimo Campanella entrando nella camera se n'uscì subito spaventato e cacciato dal puzzo gridando che là «ci erano cento mila diavoli», che in presenza de' carcerati si era vantato di rapporti carnali avuti con la suocera e la sorella della suocera, dicendo che era più dolce avere di tali rapporti con le parenti, e bene avea fatto Mosè a prescriverli; che pubblicamente ritenevasi [Pg 240] aver lui scritto col proprio sangue una carta al diavolo donandogli anima e corpo; che era ladro, e in tutte le sue azioni avea sempre mostrato poco timore di Dio. 3o Contro il Soldaniero; che da due anni scomunicato per Cedoloni affissi alla Cattedrale di Tropea, e poi incorso nuovamente nella scomunica per aver percosso sacerdoti suadente diabolo non si era curato dell'assoluzione, continuando a udir la Messa e conversare con tutti absque resipiscentia. 4o Contro il Calderon; che avendo chiesto a fra Pietro su che si fondava il Campanella per sostenere prossimo il dì del giudizio, ed avendo udite citazioni della scrittura e de' Padri, e tra esse qualcuna di Esdra, si era lasciato dire essere Esdra semplice storico e non profeta; che avendo udita la citazione di S. Vincenzo Ferreri, cui Cristo aveva ordinato di predicare nell'occidente la prossima ora del giudizio, come leggevasi nel Breviario, si era lasciato dire queste essere ciarle fratesche per accrescere onore alla religione; che discorrendo della fede ne' beati ed in noi viatori, si era lasciato dire altro essere ciò che noi crediamo ed altro ciò che quelli vedono, ed esservi differenza non solo nel principio e nel mezzo, ma anche nelle conclusioni della fede; che infine si era lasciato dire la fede vera procedere dall'esperienza e non dall'udito, nè voler credere se non ciò che vedeva.

Co' criterii odierni non si potrebbe comprendere come mai fosse stato tratto in iscena questo povero dottore; ma bisogna sapere che nelle cose di S.to Officio non si transigeva facilmente in quel tempo, ed al contrario di quanto generalmente si ritiene, lungi dall'essere il tribunale della fede mal tollerato, vi si accorreva molto volentieri, come lo dimostrano le «spontanee comparse» contro la propria persona, numerose al punto da far rimanere stupiti allorchè si esamina una collezione di scritture di questo genere. Ad ogni modo sulla denunzia suddetta di fra Pietro Ponzio, cui si aggiunse la querela di Camillo Adimari contro fra Pietro per lo schiaffo che costui gli avea dato, querela del resto malamente diretta al tribunale della fede e però inutile, si diè principio al processo in quistione. Funzionarono quali Giudici il Vescovo di Caserta, Curzio Palumbo ed Antonio Peri, nella sola prima seduta; poi Curzio Palumbo e D. Manno Brundusio Fundano, clerico, Segretario del Vescovo di Caserta, nella 2a seduta e in qualche altra[274]; più tardi funzionò il solo Curzio Palumbo qual deputato speciale, e talvolta [Pg 241] senza questo titolo, che anzi in qualche decretazione figurò il Cardinale Arcivescovo Gesualdo, e il nuovo Vicario generale Alessandro Graziano. Un notevole elenco di testimoni fu dato da fra Pietro ed anche dall'Adimari, e questo riesce di molta importanza per noi. Oltre i frati, D. Francesco Castiglia, il carceriere Martines e il sottocarceriere Antonio Ettorres (sic), vi figuravano pure Francesco Gentile, Geronimo e Gio. Pietro Campanella, il Marrapodi, il Conia, l'Adimari medesimo (dato da fra Pietro); Geronimo Baldaia, Marcello Salerno: il Notaro Prezioso, che dovea farne la ricerca, scrisse i nomi di questi ultimi, eccetto quello di Gio. Pietro Campanella forse per dimenticanza, e vi segnò a lato il rispettivo domicilio, onde si legge, «Geronimo Campanella è in Stignano, Geronimo Conia à Castellovetere, Camillo Adimari è d'altomonte non si sà dove sia» etc; quanto a Francesco Gentile si legge, «è stato carcerato e liberato, non se sape dove habita», e poi, «à mezzo cannone alla banda de la fontana, sagliendo ad alto passata la fontana» (una via di Napoli molto conosciuta). Raccomandando all'attenzione de' lettori questa notizia sul Gentile di cui avremo ad occuparci più in là, osserviamo per tutti i calabresi suddetti che erano già liberi nel tempo in cui fu scritta dal Prezioso quella lista, ed anche l'Adimari era libero, onde aggiungevasi quest'altro motivo perchè la sua querela rimanesse abbandonata: il processo della congiura era dunque finito per essi prosperamente, nè il S.to Officio avea posta l'empara per quelli che aveva esaminati in materia di fede, vale a dire Marrapodi, Conia, Adimari e d'altra parte Geronimo Campanella, sicchè avea lasciato cadere le imputazioni dapprima accolte contro di loro. Ma la data in cui fu scritta la lista del Prezioso non è determinata; si può solamente dire che dovè essere scritta tra il febbraio e l'aprile 1602, e però tale sarebbe la data approssimativa del rilascio della maggior parte di que' carcerati, mentre sappiamo che taluni di loro, come il Baldaia ed anche il Salerno, erano liberi da un pezzo; difatti dobbiamo ritenere essere stata scritta la lista quando trovavasi ancora in ufficio il Martines, che dal processo sappiamo aver patita l'esonerazione in maggio, mentre poi il processo fu avviato realmente nel mese di marzo, e continuato a riprese in luglio, agosto, settembre e novembre. Dapprima, il 13 e 19 gennaio, fu esaminato fra Pietro Ponzio per lo svolgimento della denunzia presentata; di poi si attese fino al 6 marzo per esaminare il Soldaniero, il quale già trovavasi fuori carcere e ad ogni modo pervenne a giustificarsi, affermando che nella rissa si era limitato a dividere i contendenti, e che in Tropea non era stato scomunicato lui ma un Camillo di Fiore al quale egli era subordinato; inoltre il 7 e 19 marzo furono esaminati quali testimoni fra Pietro di Stilo e il Petrolo, che confermarono i fatti asserti nella denunzia, e gl'illustrarono fornendo tutti i particolari sopra esposti. Si effettuò poco dopo la pace tra i Ponzii e il S.ta Croce, e costui, assolto dalle censure, venne quindi [Pg 242] esaminato intorno alla rissa (28 marzo), nella quale affermò aver presa parte solo per dividere i contendenti, ed essere la ferita di fra Dionisio imputabile non a lui ma al Soldaniero. Dopo questo esame il processo rimase lungamente interrotto, nè venne ripigliato che scorsi quattro altri mesi, nel luglio; dobbiamo dunque anche noi interromperne l'esposizione.

Dicevamo che il tribunale non credè di dover ritardare la spedizione della causa principale per qualsiasi motivo, e difatti il 19 gennaio 1602 ordinò che fosse condotto alla sua presenza fra Dionisio, e gli assegnò un termine preciso e perentorio di altri 15 giorni per fare qualunque difesa se volesse farne; e fra Dionisio espose che non aveva Avvocato, e che gli occorreva la copia delle difese sin allora fatte. Nel giorno medesimo tenne lo stesso procedimento col Petrolo, col Lauriana, con fra Pietro di Stilo, con fra Paolo, col Bitonto, chiamandoli in massa alla sua presenza, e non ricordando che fra Pietro di Stilo aveva già da un pezzo rinunziato alle difese.—Ma il 26 gennaio fra Paolo e il Bitonto presentarono egualmente la loro rinunzia e dimandarono di essere spediti secondo gli Atti del processo che ritenevano legittimamente compilato, dicendosi poverissimi ed innocentissimi, cruciati da lungo carcere «per la tentata ribellione pretesa e figurata in aria, con riverenza, e per l'eresia»: lo stesso poi fecero, il 29 gennaio, il Lauriana e il Petrolo, dicendosi del pari innocenti, innocentissimi, cruciati da lungo carcere e l'ultimo di loro anche da un lungo tormento. Il tribunale allora, il 31 gennaio, citò questi frati compreso fra Pietro di Stilo, ed il loro Avvocato Stinca e Procuratore Montella, perchè dopo di essere stata intimata tale citazione venissero sulle 19 ore (verso mezzogiorno) alle case de' Giudici, per dire ed allegare su' capi spettanti al S.to Officio ciò che volessero, tanto a voce che in iscritto, nel diritto e nel fatto; e l'intimazione fu eseguita il 2 febbraio. Certamente non si potè fare lo stesso con fra Dionisio, poichè bisognava prima fornirlo de' documenti che gli mancavano e che egli aveva indicati al tribunale per poter fare le sue difese; e così forse accadde di dover procurare dall'altro tribunale la copia dell'esame di Cesare Pisano innanzi allo Sciarava, copia che trovasi inserta nel processo tra gli Atti del tempo al quale siamo giunti, senza saperne il motivo[275].

Deliberavasi intanto l'«abilitazione» del Soldaniero, e il 12 febbraio, fattolo venire alla presenza de' Giudici nel palazzo del Nunzio, lo si avvertì che dovea tenere per carcere la città di Napoli, in guisa da non poterne partire senza licenza ottenuta da' Giudici in iscritto, sotto pena di D.i mille in beneficio del fisco apostolico; e il Soldaniero si obbligò alla detta pena dando in garanzia tutti i suoi beni, ed indicò qual suo domicilio l'alloggio di Lucrezia la bottegaia alla Carità.—Ma i frati già avevano concertato di far [Pg 243] cadere interamente sopra di lui la responsabilità delle scritture di sortilegio, e senza alcun dubbio si diedero premura di far accedere anche Felice Gagliardo al loro disegno. Così, fin dal 2 febbraio, fra Dionisio potè presentare al tribunale una Dichiarazione in questo senso, scritta da Felice Gagliardo e da fra Giuseppe Bitonto, a' quali si aggiunse inoltre fra Pietro di Stilo e fino ad un certo punto anche il S.ta Croce: costoro, più o meno, dichiaravano che alla loro presenza, mentre stavano sulla loggetta del Castello e il Bitonto portava la sua cassa nella camera di fra Dionisio, Giulio Soldaniero lo avea pregato di conservargli certe sue scritture d'importanza, le quali erano chiuse e suggellate, e il Bitonto per fargli servigio aveva aperta la cassa e rinchiuse in essa quelle scritture[276]. Il Gagliardo, che n'era stato per lo meno il copista insieme col Bitonto, con la solita disinvoltura aggiunse nella dichiarazione sua che quando il Soldaniero, dopo la rissa, fece istanza al luogotenente e sergente del Castello perchè procedessero ad una ricerca di carte presso fra Dionisio, disse a lui Gagliardo, «non dubitare, ch'io cilo carricata (int. ce l'ho caricata) a fra Dionisio, et adesso sì che lo farò bruggiare, perche quelli scritture che me vedesti porre in quella cassa sono pieni di negromantie et d'invocatione di diavoli, et sarà il complimento della sua rovina, et poco li gioveranno le defensione sue ch'ha fatte». Quanto al Bitonto, si capisce che cadendo su lui la responsabilità principale in questa faccenda, avea tutto l'interesse di fare e di procurare che altri facessero simili dichiarazioni: fra Pietro di Stilo poi vi si prestava gentilmente nell'interesse di tutti i frati, e si vede bene che i comuni pericoli aveano in lui cancellata ogni traccia della ripugnanza che avea sempre sentita per la persona di fra Dionisio. A questi tre venne ad aggiungersi ancora Orazio S.ta Croce, il quale per altro attestò solamente di aver veduto il Bitonto portare la sua cassa in camera di fra Dionisio e là deporla: con ogni probabilità egli dovè rilasciare questa dichiarazione, del resto veridica, a fine di cattivarsi i Ponzii co' quali gli premeva di far la pace, che difatti fu segnata tra loro nel seguente mese e gli procurò l'assoluzione dalla scomunica in cui era incorso. Fecero da testimoni nell'anzidetta dichiarazione il Curato e il Sagrestano del Castello, D. Gaspare d'Accetto e D. Francesco della Porta, inoltre il sergente Alarcon e due altri: essi certificarono le firme de' dichiaranti, ma solo quelle de' primi tre, la qual cosa dà motivo di ritenere che il S.ta Croce dovè intervenire più tardi.

E si ebbero finalmente le scritture che si aspettavano, verso il 20 febbraio. A questa data, secondochè si legge nella prima carta del volume in cui quasi tutte furono riunite come allegati, D. Juan Lezcano, segretario di S. Eccellenza, partecipò al Vescovo di Caserta che S. E. aveva ordinato a D. Giovanni Sances di consegnare [Pg 244] a S. S.ia R.ma le scritture trovate nella cassa di fra Dionisio Ponzio, ed insieme con esse una relazione di Marcello Barrese sul come erano state trovate. Questa relazione o non fu fatta, o non rimase nel processo, ciò che riesce più probabile; ma le scritture furono consegnate tutte, per quanto è lecito giudicare dagli Atti processuali che ne trattarono, comprese quelle trovate fuori la cassa, ed esclusa soltanto la lettera trovata chiusa presso il Campanella, della quale non si fece mai più parola. Alcune vennero senz'altro inserte tra gli Atti, e queste furono: la lettera di Sertorio del Buono a fra Dionisio, le quattro lettere di fra Pietro di Stilo a diversi, e la dichiarazione di Felice Gagliardo a favore del Bitonto circa le cose che avea deposte in materia di ribellione (ved. pag. 231); quest'ultima scrittura, se i Giudici, e segnatamente il Nunzio, fossero stati più teneri del loro dovere, avrebbe dovuto essere trasmessa al tribunale della congiura, ma invece rimase nel processo dell'eresia. Tutte le altre scritture, divise in due gruppi, vennero sottoposte al giudizio del P.e Cherubino Veronese Agostiniano, Teologo qualificatore della Curia Arcivescovile; nel 1o gruppo si contenevano quelle che sappiamo essere state trovate nella camera di fra Dionisio e presso gli altri frati, e però imputabili più o meno a' frati; nel 2o gruppo si contenevano quelle trovate presso il Gagliardo, secondochè rilevasi dal processo, e tale distinzione, fatta sin da principio, mostrerebbe che ci dovè essere la relazione del Barrese, quando le scritture furono consegnate. Vedremo che al 2o gruppo si aggiunse ancora un'altra scrittura, composta dal medesimo Gagliardo nientemeno mentre il tribunale procedeva agli esami su tale argomento; e poi si formò inoltre un 3o gruppo con le scritture appartenenti del pari al Gagliardo, trovate quando egli era rinchiuso in Castello dell'ovo e consegnate più tardi dal Castellano D. Melchiorre Mexia de Figueroa. Così il Padre Cherubino ebbe a fare tre relazioni successive, le prime in data del 15 e del 17 marzo, e questa con una aggiunta, la terza in data del 24 aprile; le scritture furono messe insieme in un volume col titolo «Scritture o Segreti manoscritti proibiti trovati nella cassa di fra Dionisio Ponzio in Castel nuovo con le relazioni del Rev.do Teologo sulle loro qualità», mentre non tutte erano state trovate in Castel nuovo e nella cassa di fra Dionisio, e già sapevasi che la cassa non apparteneva a fra Dionisio ma al Bitonto.

Innanzi di procedere oltre, importa dar conto di tali scritture ed anche della qualificazione espressa dal P.e Cherubino su quelle che egli ebbe ad esaminare. Cominciamo dalle scritture inserte immediatamente tra gli atti del 4o volume del processo, e dapprima dalla lettera di Sertorio del Buono di Fiumefreddo in data del 9 luglio 1601[277]. Costui rilevasi un amico affettuosissimo di fra Dionisio e del fratello Ferrante, dal quale avea pur allora ricevuto [Pg 245] canzonette spagnuole (anche Ferrante era virtuoso in poesia), e promette una fede del Clero di Fiumefreddo in favore di fra Dionisio, la quale difatti giunse e trovasi in questo volume del processo che non brilla per l'ordine dato a' documenti in esso contenuti: spera poi ardentemente la liberazione di tutti, manda un abbraccio al P.e fra Pietro «et all'amico», ricorda «la natività» e promette «alcuna cosella»; sulla soprascritta si dice quella lettera «data in potere della S.ra Donna Ippolita cavaniglia al castel nuovo». Vedremo che fu poi dichiarato essere appunto il Campanella l'amico, dal quale il Del Buono si aspettava che consultasse l'oroscopo e desse la natività di un suo figliuolo; e vuoi essere intanto notato il nome di colei alla quale era raccomandata la lettera, D. Ippolita Cavaniglia, pietosa Signora che troveremo esaltata nelle poesie del Campanella come sua grande benefattrice, onde avremo ad occuparci di lei debitamente.—Passiamo alle quattro lettere di fra Pietro di Stilo[278]. Esse risultano scritte con la data del 3 agosto e dirette tutte a Stilo, alla Sig.ra Giulia Prestinace sorella di Gio. Gregorio[279], alla Sig.ra Porzia Vella suocera dello stesso, a Suora Francesca Prestinace monaca di S.ta Chiara altra sorella, ed al P.e Domenico Caristo vecchio frate ed amico comune. In sostanza, più o meno, con parole coperte e sentenze curiose vi si ammonisce che l'amico (Gio. Gregorio Prestinace) non si fidi nelle assicurazioni del fratello, partito da Napoli credendo «di haver effettuato ogni cosa à loro sodisfattione»; aspetti che la forgiudica sia tolta, la qual cosa solamente il giudice Marc'Antonio di Ponte può sapere quando accadrà, e non si piglino «viziche per lanterne» ma si ascoltino «li consigli delli mal patiti»; e badi l'amico «che con vane speranze se ne ritorni alla patria» e pensi che vi sono nemici «et massime nci è illoco Giuda Scarioto» (forse Giulio Contestabile), e che nel Castello «ci sono emoli... quali non cessano dalla loro anticha perfidia» (certamente Geronimo di Francesco come fu poi dichiarato), e finita ogni cosa ne darà avviso «et allora l'amico potrà far la sua risolutione di appresentarsi». Contemporaneamente vi si dà speranza di prossima fine della causa con buon esito, perchè il Campanella ha vittoriosamente superato un grosso tormento e deve averne un altro, e fra Dionisio pure dovrà averne un altro per le scritture di segreti che si scoversero, ma un altro ne avrà anche il Petrolo, e su costui non si può contare come su' due primi, e però bisogna stare a vedere: questi concetti che esprimono i giudizii, le speranze e i timori, senza dubbio divisi dallo stesso Campanella, meritano di essere testualmente conosciuti. Fiero del suo fra Tommaso [Pg 246] per l'ottima prova da lui data, alla Sig.ra Giulia fra Pietro dice: «Campanella hebbe quaranta hore di tormento chiamato viglia, che fè stupir il mondo, et basta la fè più di un lione scatinato, et speramo haver purgato le cose della inquisitione; adesso aspetta un altro tormento di polledro chiamato, pessimo tormento, quale sostenuto Campanella serà assoluto da ogni cosa, per tanto vidiamo (int. aspettiamo a vedere) questo fine, de più si hà di tormentare frà Dionisio per li secreti adesso si sebbero (int. le scritture di secreti che adesso si seppero) et si scoversero per vere, et si à questi dui non temeti come huomeni di honore, che diremo di fra Domenico di Stignano, quale rovinò tutta questa causa, quale harà di avere uno grave tormento?» E alla Sig.ra Porzia: «Campanella dopò lo tormento di quaranta ore, sostenuto valorosamente come leone, si dice per verissimo che in materia di ribellione lui et frà Dionisio haranno à esser tormentati un'altra volta et assoluti da ogni male, al che non dovemo certo dubbitare, lo dubbio è che ha di esser tormentato frà Domenico petrolo, rovina della causa si bene si hà ritrattato, et per questo hà di esser tormentato, et per l'esperienza fatta non li dovemo haver credito». E a suora Francesca: «Campanella... queste settimane passate sostentò uno horribile tormento di quaranta ore non senza grande honor suo et bene quanto alla inquisitione; ben presto per materia di ribellione harà un altro pochetto di tormento insieme con frà Dionisio, quali dopò questo tormento saranno liberi et assoluti omnino da tutte le cose pretenze, et di questo non teneti dubbio; lo dubbio è che hà di esser tormentato frà Domenico petrolo di stignano, del quale la persona può dubitare et deve assai per la sua mala riuscita et pazzia, ma più tosto viltà che iniquità». E si adopera sempre a confortare ognuno, ed appunto a suora Francesca, dopo di avere con delicata attenuazione parlato del «pochetto di tormento» da doversi sostenere da' due principali inquisiti, scherzosamente dice che al suo ritorno le darà gran penitenza, perchè non ha pregato Dio per lui: confortatore egli che avrebbe pure avuto bisogno di conforto, quantunque ignaro che un tormento era riserbato del pari alla persona sua, questo frate dabbene non può non destare la più viva simpatia. Pertanto interessa notare que' suoi giudizii sul Petrolo, giudizii assolutamente confidenziali e quindi schietti: il Petrolo è dichiarato da lui non già inventore delle cose di ribellione, ma uomo di mala riuscita e di niuno accorgimento, vigliacco piuttosto che iniquo.—Circa la dichiarazione rilasciata da Felice Gagliardo in favore del Bitonto abbiamo poco da dire: essa risulta scritta in data del 5 giugno 1601, ed oltre la firma del dichiarante reca quella, scioccamente vergata, del Curato del Castello, ed anche quelle de' due clerici assistenti la Chiesa. Come abbiamo già esposto altrove, il Gagliardo con essa negava di aver detto ciò che trovavasi da lui deposto contro il Bitonto in materia di ribellione:[Pg 247] ed afferma che è falsità «falsamente posta, con reverenza, da quelli che faceano il processo»!

Veniamo alle scritture costituenti il volume di allegati e qualificate dal P.e Cherubino. Cominciando da quelle del 1o gruppo appartenenti a' frati o attribuite a' frati, si ha in primo luogo la così detta Clavicola di Salomone in molti fogli e con la seguente nota: «fatta experientia per il Re di franza, per il Gran Duca di fiorenza et altri Signori, et hoggi in questo Regno un solo la tiene et il Prencipe di Conca sta dando opera di far tal arte»[280]. Il carattere di tale scrittura non è da per tutto uniforme, sia per essere stata copiata in più volte, sia per essere stata copiata da diversi individui: vedremo che il S.ta Croce, molto competente, la disse di mano del Gagliardo, ma costui la disse in parte di mano sua e in parte di mano del Bitonto, avendo entrambi alternatamente lavorato per quella copia, e così confermò pure in punto di morte, aggiungendo che ne aveano avuto l'originale da Cesare d'Azzia egualmente carcerato, ed aveano data quella copia a fra Dionisio perchè la conservasse nella camera sua, dove poi fu trovata. Il P.e Cherubino, nel qualificarla, riconosce che è una copia, e rammenta che nell'Indice Romano allora stampato essa è notata nella prima classe delle opere proibite di autori incerti, risultando dichiarati veementemente sospetti di eresia coloro che la leggono, la posseggono e si servono delle cose in essa contenute, e formalmente eretici coloro che credono vere le cose in essa insegnate. Si hanno poi diverse scritture di minor mole che recano quasi sempre scongiuri, per trovare un tesoro, per rintracciare un furto, per avere uno spirito in forma di cavallo, per rendersi invisibile etc. etc. sovente tratti dalla Clavicola di Salomone; per taluna di esse potrebbe dirsi che sia stata copiata dal Bitonto, ma generalmente il carattere è quello del Gagliardo, e il P.e Cherubino appone ad ognuna il «sapit haeresim manifeste». Inoltre si ha un opuscoletto sulla musica evidentemente di mano del Pizzoni, rimasto in potere di qualcuno de' frati[281]. Ancora un grosso fascicolo con moltissime ricette [Pg 248] e «percantazioni» curiose; per non far dormire alcuni, per non esser preso, per far divenire zoppo un cavallo, per indurre discordia, per sciogliere un ligato o per chi non potesse stare con la moglie etc., tutto di mano del Gagliardo e qualificato dal P.e Cherubino nel solito modo; alla fine poi di questo fascicolo si trova una poesia in dialetto calabrese distinta in due parti col titolo di «Amorosa» e «Partenza», di mano del Gagliardo e con ogni probabilità di sua composizione, non vista o non curata dal Notaro e dal P.e Cherubino. Sono 24 stanze, alcune sufficientemente belle, e gioverà riportarne un saggio per conoscere le qualità dell'autore. Dell'«Amorosa» scegliamo le seguenti:

«Quandu ti viju a sa fenestra stari
mi pari in celu un Angela vidiri
e poi mu ti viju amacciari[282]
mi piglu pena affannu e dispiaciri
ca chi raggiuni non mi voi parlari
chi ti haiju fattu lu vorria sapiri
poi ca lu mancu non mi voi guardari
fingi chi non mi vidi e non fuijri[283].

Volsi provari lu luntanu stari
forsi di menti mi potevi usciri
l'amuri a autra banda volsi dari
e ijri arrassu per non ti vidiri
st'afflittu cori dissi nun lu fari
non ti scordari di lu ben serviri
mill'anni mi paria lu riturnari
cara patruna mia per ti vidiri.

Si vidi un'ursa in silva tetra et scura
aspra silvaggia, mansueta fari
si vidi un scogliu et una petra dura
spissu cadendu l'acqua arrimollari
e vui chi siti humana creatura
non vi potiti cu piantu placari
eccu chi siti ingrata di natura
essendo amata non voliti amari».

[Pg 249]

E queste altre della «Partenza»:

«Cori mi partu e mi ndi vogliu ijri
restati in guardia dilu miu sustegnu
e di lu pettu so mai ti partiri
ch'in cambiu la sua imagini mi tegnu
avisami per via dili suspiri
si illa ti tratta cu amuri o cu sdegnu
e si canusci chi mi ha da tradiri
ijetta un suspiru chi subbito vegnu.

Gula d'argentu cinta di ligustri
pettu chi si la bianca nivi equali
bucca suavi chi parlando mustri
vivi rubini e perni orientali
occhi sireni più di un suli lustri
. . . . . . . . . . . . . .»

Ma ciò basta per mostrarci l'ingegno e la fantasia del Gagliardo. Finalmente tra le scritture di questo gruppo si ha un libretto coperto di pergamena, contenente le poesie raccolte da fra Pietro Ponzio, composte dal Campanella: esse si veggono, con un principio di dedica, indirizzate da fra Pietro al Sig.r Francesco Gentile patrizio genovese, e ci dànno un quadro de' pensieri, delle azioni, della vita intima del Campanella nel carcere fino al 2 agosto 1601, vale a dire fino a 2 mesi dopo la veglia, laonde meritano di essere diligentemente considerate ed illustrate; noi l'abbiamo già fatto in parte e seguiteremo a farlo più in là, limitandoci per ora a notare che il P.e Cherubino le qualificò in latino ed italiano «Carmina in laudem et improperium multorum, ad amorem alliciendum; in quibus sunt multa quae videntur sapere idolatriam. Scrive a la donna da lui amata chiamandola Sommo bene. Dicteria multa, quae videntur sapere libellum infamatorium». Decisamente il P.e Cherubino era disposto a trovarvi il peggio possibile. Dobbiamo poi aggiungere che in questo gruppo di scritture si sarebbe dovuto avere anche quella trovata nel reveglino del Castello, sotto la finestra del carcere del filosofo, gettatavi dal fratello Gio. Pietro al momento in cui venivano gli ufficiali in cerca di scritture; ma essa non vi si trova, non essendo stata aggiunta alle altre inviate al P.e Cherubino e nemmeno inserta puramente e semplicemente nel processo, mentre senza dubbio fu dal Sances trasmessa a' Giudici del tribunale di eresia, nelle cui mani si trovava il 6 marzo 1602, quando fu esaminato il sergente Alarcon! La scomparsa di questa scrittura merita di esser notata, ma non si può interpretrarla in modo plausibile, se non ammettendo in qualcuno de' Giudici, o de' loro auditori e segretarii, il gusto di possedere un'opera filosofica del Campanella, giacchè con la scorta dell'unico cenno datone nell'esaminare l'Alarcon si rileva che tale era detta scrittura. Vedremo infatti tra poco registrato in questo esame che essa, composta di 32 fogli, in carattere minuto e senza coperta, cominciava con le parole «Per che teco menare la vita[Pg 250] non posso», e finiva con le altre, «ma che ne fece poi voi lo sapete»; donde si rileva che trattavasi delle due prime parti dell'Epilogo di filosofia, edito poi in latino dall'Adami nel 1623 col titolo di Philosophia realis epilogistica; e ci rimangono tuttora due copie manoscritte, nelle quali si leggono appunto le dette parole, ma di ciò parleremo più opportunamente in altro luogo di questa narrazione. Qui vogliamo soltanto notare che se i Giudici avessero avuto un vivo sentimento del proprio dovere, senza dubbio si sarebbero guardati dal lasciar perdere una scrittura, nella quale fin da' primi versi e da' primi capitoli si trattava di Dio, di Dio creatore e della Provvidenza Divina, mentre il Campanella era stato incolpato di ateismo oltrechè di eresia: d'altra parte dobbiamo notare che il Sances e il Governo Vicereale, nelle cui mani venne dapprima la detta scrittura, ebbero sicuramente ad avvertire che il Campanella era tutt'altro che pazzo, mentre si trovava occupato in un'opera simile.

Ben poco ci tratterranno le scritture del 2o gruppo, appartenenti esclusivamente al Gagliardo presso cui furono rinvenute. Una sola, in lingua latina, rappresenta una breve consultazione o meglio istruzione di un dottore intorno al valore giuridico della tortura, che è dichiarato potentissimo con l'autorità di Alberico e di Farinacio e con l'appoggio di qualche caso pratico atto a far vedere che la tortura immoderata, riuscendo negativa, giova sempre anche al delitto principale malgrado la protesta del citra prejudicium probatorum, poichè il Giudice rimane obbligato a punirlo con pene miti: vedremo poi come il Gagliardo profittò moltissimo di tale istruzione. Le rimanenti scritture, quasi sempre di una sola carta ognuna ed anche costituite da piccole cartoline, mostrano talora semplici ricette e disegni astrologici, talora segreti e sortilegi. Vi sono ricette per fare lo stagno, la tintura d'oro, un'acqua mirabile per la vista; vi sono figure di circoli e pianeti, e il P.e Cherubino per queste come per la scrittura precedente dichiara «nihil contrà fidem». Vi sono d'altra parte segreti molto spesso ad amorem, con oscenità da non potersi ripetere, scongiuri, evocazioni, divinazioni; una scrittura tra le altre reca il disegno di una mano a grandezza naturale, in più punti della quale son segnate certe parole, e qua e là, invocazioni di demonii, abuso di nomi sacri etc.; per tutte queste scritture il P.e Cherubino dice «sapiunt haeresim manifeste». Tali furono le scritture dapprima raccolte, alle quali altre se ne aggiunsero ma un po' più tardi.

Ripigliamo ora la narrazione dello svolgimento ulteriore del processo. Il 1o marzo 1602 il Card.l di S.ta Severina scriveva al Vescovo di Caserta[284], che avendo fra Dionisio presentato memoriale, con cui esponeva essergli state tolte dagli ufficiali Regii le scritture della sua causa, ed essere state trovate in camera sua [Pg 251] scritture cattive appartenenti al Bitonto, delle quali doveva rispondere il Bitonto e non esso fra Dionisio, S. S. avea ordinato che si procurasse di ricuperare le scritture delle cause di S.to Officio, e che si pigliasse la debita informazione contro il Bitonto od altri colpevoli per quelle scritture che risultassero cattive. In verità, come abbiam visto, il tribunale avea già procurato di ricuperare quelle scritture, ed anzi le avea ricuperate fin dal 20 febbraio: solo non si era dato pensiero di restituire a fra Dionisio le scritture della causa, nè glie le restituì fino a quando non ebbe ad esaminarlo sull'incidente. Ma dietro l'ordine venuto da Roma, procedè subito all'informazione prescritta, e dal 6 marzo al 1o maggio esaurì gli esami sulle scritture già raccolte e su qualche altra ancora presentata durante l'informazione; al tempo medesimo non lasciò di provvedere intorno alle ultime difese che avea da fare fra Dionisio nella causa principale, tollerando che il termine accordatogli fosse già scaduto. Diremo dapprima dell'informazione presa sopra le scritture.

Il 6 e 7 marzo, e poi il 19 il 21 e 22 dello stesso mese, quasi sempre innanzi al Vescovo di Caserta, al Vicario Curzio Palumbo e all'Auditore Peri, si venne agli esami de' testimoni e degl'interessati. Nella prima seduta del 6 marzo, si cominciò dall'interrogare il sergente Francisco Alarcon[285], il quale narrò minutamente la causa ed i particolari della ricerca fatta dal tenente del Castello e da lui nelle camere di fra Dionisio, di ira Pietro Ponzio e del Campanella; parlò in generale di scritture trovate all'aperto, presso fra Dionisio e presso fra Pietro, e della cassa di pioppo che ne conteneva altre, le quali poterono prendersi dal Castellano dopo di avere avuta la chiave da un altro frate, a cui, secondo fra Dionisio, quella cassa apparteneva. Disse che tutte le scritture furono portate al Castellano e da costui trasmesse al Vicerè Conte de Lemos bona memoria, che egli non aveva nemmeno viste le scritture trovate dentro la cassa, ed aggiunse, «se io vedesse quella scrittura ritrovata al reveglino trà le due porte, menata, per quanto si potte sospettare da me et dal tenente, dal fratello di frà thomaso, la riconosceria, l'altre non mi confideria di conoscerle»; aggiunse ancora che, dopo la pacificazione di fra Dionisio col S.ta Croce e col Gagliardo dentro la Chiesa del Castello innanzi al P.e Cura chiamato D. Gaspare d'Accetto, egli come testimone avea sottoscritta una carta nella quale si dichiarava che fra Dionisio non avea colpa in quella faccenda delle scritture. E mostratagli la scrittura di 32 fogli che cominciava con le parole «Per che teco menare la vita non posso», e finiva con le altre «ma che ne fece poi voi lo sapete», disse, «questa mi pare la scrittura che fù trovata al reveglino trà le due porte, che risponde ala fenestra dela carcere del Campanella, che si sospettò che fusse stata buttata [Pg 252] dal fratello del Campanella, et mi pare alla lettera minuta, è che non ci era coperta, però quello che si contenga in detta scrittura non lo sò perche non lhò letta».—Si passò quindi all'esame di fra Pietro di Stilo[286] e mostrategli le 4 lettere che gli appartenevano, disse che erano state scritte di sua mano nella camera di fra Dionisio ma non ancora mandate, e riteneva essere state prese con le altre scritture. Dietro dimande spiegò che l'amico del quale si parlava in quelle lettere, raccomandando che si guardasse dall'essere pigliato, era Gio. Gregorio Prestinace, fratello di Suor Francesca e della Sig.ra Giulia, e genero della Sig.ra Porzia Vella; che non sapeva «la causa di che era inquisito e lo vero negocio», ma da carcerati suoi compatriotti aveva udito «che lo detto Gio. Gregorio si era appartato per la causa dela ribellione» (sempre nell'atteggiamento d'ignorante e d'ingenuo); che costui gli era amico ed anche parente, ed avea scritto con tanto calore avendo udito che Geronimo Francesco, pur suo parente e parente di Gio. Gregorio, «procurava farlo pigliare ò vivo ò morto, perche li era inimico, et di ciò ne havea dato memoriale al vicere del Regno, et lhavea trattato lo fratello di Giulio contestabile, li quali tutti erano inimici del detto» (studiata confusione di due periodi diversi, e diffidenza non cessata mai; nominato il fratello di Giulio, invece di Giulio Contestabile, per riguardi facili ad intendersi). Dimandato se il Prestinace praticava col Campanella nel convento di Stilo e se mai il Campanella avesse parlato di cose appartenenti alla fede in presenza di esso deponente, rispose che Gio. Gregorio vi praticava e conversava come gli altri, e pel resto si rimise a quanto ne avea detto negli esami anteriori. Dimandato inoltre su' segreti de' quali avea parlato nella lettera alla Sig.ra Giulia Prestinace rispose, «sono secreti di taverna, che ogni uno che viene porta novelle di quello che sente, è le dicono quà in castello, et non so veri, et di questi secreti io scriveva» (accorta confusione di cose per non dare spiegazioni compromettenti).—Venne poi la volta di fra Dionisio[287]. Egli disse che teneva le scritture, le quali gli furono trovate, in parte nelle sue tasche, in parte sotto la materassa, ma le scritture della causa erano state a sua dimanda poste nella cassa allorchè il Bitonto glie la portò in camera; e soggiunse essersi oramai scoverto che il Soldaniero, suo nemicissimo, avea date le scritture proibite al Bitonto per farle trovare nella camera sua, e presentò le dichiarazioni rilasciatene dal Gagliardo, dal Bitonto, da fra Pietro di Stilo e dal S.ta Croce. Disse non aver viste le scritture proibite se non in mano del Barrese, poichè la cassa in cui si trovavano fu portata chiusa al Castellano, e le scritture tolte da essa furono poi date a D. Gio. Sances e quindi portate in Castello dal Barrese, il quale glie le [Pg 253] mostrò e voleva esaminarlo sopra di esse. Presentategli alcune scritture (quelle del 1o gruppo, escluse le poesie trovate a fra Pietro Ponzio), le riconobbe di mano del Gagliardo, ed una sola di esse, quella sulla musica, di mano del Pizzoni; riconobbe anche le scritture della sua causa, ed invitato poi a dare spiegazioni sulla lettera di Sertorio del Buono e massime sulla «natività» che costui gli chiedeva, rispose: «mi scriveva che io mi ricordasse dela natività di un suo figliolo, la quale mi cercò che lhavesse fatta fare da frà Thomaso Campanella che havea inteso che si delettava di queste cose, et me la cercò quando fù in napoli l'anno santo del 1600 dopò pasqua che tornò da Roma, et io per darli parole le dissi che fra thomaso non stava in cervello, et che si mai stesse in cervello ce lhaveria fatta fare, si ben io non so che frà thomaso ne sappia fare, è sò certo che non ne sape fare, si ben lui diceva de sì, et cosi passa lo fatto di questa natività, perche io non so fare tal cosa». Nel rimandarlo, i Giudici ordinarono che gli fossero restituite le scritture della causa.—Il giorno seguente (7 marzo) fu esaminato fra Giuseppe Bitonto. Egli disse che non aveva mai posseduto scritture ma solo qualche lettera, e con un poco di biancheria la teneva in una cassa, la quale portò presso fra Dionisio, perchè nella camera di costui, che stava solo, poteva essere meglio custodita; che mentre portava detta cassa, Giulio Soldaniero lo pregò di conservargli in essa un pacco di carte legato e suggellato con pasta od ostia, dicendo essere un suo processo che gl'importava più di 1000 o 1500 ducati, presenti fra Pietro di Stilo, il Gagliardo ed altri; che fra Dionisio volle pure conservare in detta cassa certi scritti concernenti la sua difesa. Dietro dimande poi narrò come la cassa fu presa dagli ufficiali del Castello, esponendo la rissa nella quale il Soldaniero, il Gagliardo e il S.ta Croce vennero contro di loro frati «et li maltrattorno assai, con pugni, et con lo stregneturo (stringitoio, cinturone) et roppero la testa à frà Dionisio», la ricerca di scritture proibite fatta ad istanza de' tre sopramenzionati, come gli fu riferito da molti «et in particolare da Scipione medico di questo Castello» (già nominato anche da fra Dionisio altra volta), e quindi la presa della cassa che gli fu più tardi restituita. Aggiunse di aver poi saputo che in detta cassa erano state trovate «la Clavicola di Salomone et altre cose di magarie», le quali il Gagliardo gli avea confessato esser sue, ed averlo saputo dal Marrapodi e dal Conia, i quali gli dissero che avendo fatta quistione tra loro il Soldaniero e il Gagliardo, costui gli rinfacciava di aver dovuto fare questo tradimento a' frati per servir lui, oltrechè il Gagliardo medesimo avea loro detto che era stato fatto concerto di porre le dette scritture sotto il capezzale del letto di fra Dionisio, ma poi aveano potuto riporle nella cassa (un mucchio di menzogne e una doppiezza veramente fratesca). Infine citò anche la dichiarazione rilasciata dal Gagliardo su tale proposito (ma nella dichiarazione il Gagliardo[Pg 254] non diceva che quelle scritture fossero sue proprie). I Giudici vollero allora che riconoscesse dette scritture, e mostratagli la copia della Clavicola di Salomone, disse che «alli sigilli di pasta» che recava quella scrittura gli pareva essere l'involto datogli dal Soldaniero; e richiesto delle qualità del Gagliardo e della causa per cui si trovava in carcere, disse che era di mala coscienza, ladro, bestemmiatore, odiato da' suoi parenti medesimi, i quali l'aveano fatto carcerare ed aveano detto ad esso deponente che si era dato al demonio mercè una carta scritta col proprio sangue, e si trovava poi carcerato in Napoli per conto della ribellione; aggiunse che essendo stato durante un anno in Castello dell'ovo, il Castellano di quel tempo, a nome Figueroa, avea pure trovato presso di lui scritture sortileghe, come si era saputo da un soldato di detto Castello con la gamba di legno a nome Navarro, che era venuto a riscuotere da lui certo danaro per un letto datogli in fitto, ed avea detto di volerlo accusare per quelle scritture. Dopo ciò riconobbe che la Clavicola di Salomone era di mano del Gagliardo, e così pure tutte le altre scritture sortileghe a misura che gli furono mostrate (quelle del 1o gruppo) insieme con la poesia «materno idiomate in octava rima»; riconobbe che il trattatello di musica era di mano del quondam Pizzoni «quale si delettava di musica et ne sapeva molto»; e richiesto se nella camera sua fossero state trovate scritture, disse che alcune furono trovate sotto il capezzale del letto del Gagliardo, altre in un canestro tondo appartenente a fra Pietro Ponzio, ma più tardi, nell'accomodare il letto comune ad esso deponente e a fra Paolo, trovarono entrambi «un libro stampato grande, in quarto foglio, di astrologia, con molti caratteri, et un pezzo di carta dentro, nel quale erano scritti secreti contra la corda con nomi di demonii, et ci era il nome di felice gagliardo, et questo libro e foglio, overo pezzo di carta, restorno in potere di fra Pietro Pontio». Infine gli fu mostrato anche il libretto di poesie «lingua paterna» (le poesie del Campanella), e riconobbe che era di mano del suddetto fra Pietro.

Il 19 marzo, con un ritardo verosimilmente prodotto dalla necessità di trovare il Figueroa e il Navarro, vennero esaminati Felice Gagliardo e fra Pietro Ponzio. Il Gagliardo disse essere stato carcerato in Castelvetere per un colpo di fucile tirato in rissa ad un suo cognato, e poi essere stato tradotto in Napoli per la causa della ribellione, dopochè Cesare Pisano, venuto nelle stesse carceri di Castelvetere e quivi visitato da fra Dionisio e dal Campanella, lo avea nominato in tortura qual complice nella detta ribellione. Chiesero allora i Giudici di che aveano parlato al Pisano il Campanella e fra Dionisio; ed egli rispose che aveano parlato segretamente, e non ne sapeva nulla, ma che fra Dionisio gli aveva poi detto che avesse dato credito a quanto gli diceva Cesare Pisano, e soggiunse, «io credo che mi volesse significare che havesse credito à quello mi diceva detto Cesare à prestarli dinari, di che[Pg 255] ne hò fatto fede à detto frà Dionisio» (ben si vede che rilasciava fedi senza difficoltà, e senza nemmeno curarsi delle contradizioni in materie tanto gravi). Dietro altre dimande disse che de' frati avea conosciuto solo il Bitonto venuto a predicare in Condeianni; e fattagli l'obiezione, come mai, non avendo prima conosciuto nè visto fra Dionisio, costui avesse potuto dirgli che prestasse danaro a Cesare Pisano, rispose, «lo detto Cesare havea detto che io era felice gagliardo gentilhomo di hierace, et cossì detto fra Dionisio me disse quelle parole»! Ma infine si venne alla faccenda delle scritture, e dietro varie dimande rispose, che ciascuno de' frati carcerati, co' quali si trovava di camera, aveva una cassa, ma egli non aveva nè cassa, nè scritture, nè libri, e solamente qualche lettera; che in luglio «perchè in detta camera ci entrava ogn'uno et non so che si perdío,... frà Paolo portò la sua cassa alla camera di Geronimo Campanella patre di frà thomaso Campanella, e frà Gioseppe (Bitonto) portò la sua cassa in camera di fra Dionisio pontio»; che il Soldaniero diede allora al Bitonto un involto di scritture sigillate perchè glie lo conservasse, ed egli non sapeva che scritture fossero, ma poi il Soldaniero gli avea detto che erano scritture proibite, senza manifestargli altri particolari sopra di esse, e che le avea fatte trovare in camera di fra Dionisio per rovinarlo, ond'egli ne avea rilasciata una fede, alla quale si rimetteva. Mostratagli questa fede, la ratificò, negando di sapere che specie di scritture fossero state trovate nella cassa. Chiesero allora i Giudici se il Pisano avesse parlato con lui di cose ereticali e se egli ne avesse fatta denunzia a' superiori come era obbligato; ed egli rispose che il Pisano ne avea parlato anche in presenza dell'Adimari, del Conia e del Marrapodi, e consigliatosi col suo confessore D. Pietro Manno, dietro ordine di costui egli scrisse e mandò per D. Pietro medesimo un memoriale al Principe della Roccella, il quale lo partecipò al Vescovo di Gerace, e il Vescovo quando poi vennero «li rumori universali di Calabria» mandò un Commissario che l'esaminò. Così finì la sua deposizione, con un nuovo garbuglio, per lo quale venne poi commesso dalla Sacra Congregazione di Roma e sollecitato dal Vescovo di Caserta l'esame di D. Pietro Manno in Gerace.—Fu quindi esaminato fra Pietro Ponzio[288], ed egli narrò il trasporto della cassa del Bitonto presso fra Dionisio, per furti verificatisi nella camera in cui si trovavano e dovuti al Gagliardo, la sua istanza al carceriere che ponesse costui in altra camera e la rissa avvenuta per questo, la voce corsa che il Soldaniero e il S.ta Croce si erano concertati di far trovare le scritture proibite presso fra Dionisio, la ricerca fatta anche in camera sua con la scoverta di un libretto di poesie che egli teneva sul letto, e di altre scritture che stavano sotto la materassa del Gagliardo. Riconobbe il libretto di poesie e disse, «è scritto di mano [Pg 256] mia et è intitolato (int. dedicato a) francesco gentile, e son sonetti del Campanella e di diversi altri autori, che sono andato radunando, et vanno per tutta questa città di napoli». Fece avvertire che il Gagliardo soleva scrivere con caratteri di diverse maniere, ed aggiunse che avea visto presso il Bitonto una carta con un circolo e un segreto «per havere una donna», che il Gagliardo avea rilasciato ad un paggio carcerato in Castello a nome Nicolò, ottenendone per compenso un vestito di velluto. Confermò inoltre che, dopo la ricerca delle scritture, fra Paolo avea trovato un libro stampato di astrologia con un circolo e un segreto contro la tortura di mano del Gagliardo, e disse averlo letto insieme con gli altri frati e poi consegnato al luogotenente del Castello. Scovrivasi per tal modo un nuovo fatto e sempre a danno del Gagliardo, contro il quale non agiva soltanto fra Pietro per iscagionare suo fratello, ma si erano rizelati senza ritegno principalmente i già suoi complici in materie sortileghe per iscagionare le persone proprie, e la quistione delle scritture proibite veniva ad allargarsi sempre più.

Il 21 marzo fu di nuovo esaminato il Bitonto per quest'altra scrittura del Gagliardo da lui scoverta, e disse che ne' giorni scorsi avea veduto il Gagliardo scrivere una carta e poi darla segretamente a un paggio di D. Andrea de Mendozza figlio della Marchesa della Valle, carcerato per ordine della Marchesa e chiamato Nicolò, il quale avuta la carta venne a farla leggere ad esso Bitonto per sapere se poteva starci bene in coscienza, e udito che la carta recava la scomunica a chi la teneva, glie la lasciò. Ed esibì la strana scrittura a' Giudici, i quali la fecero unire con le altre scritture proibite. Dietro altra domanda poi disse, che pure un Marc'Antonio Bruno di Condeianni, dimorante in Napoli alla piazza dell'olmo, era venuto più volte nel carcere, ed avea avuto segreti dal Gagliardo, e si era lamentato che gli avea fatto spendere 10 ducati senza alcun profitto, aggiungendo che spesso si chiudevano in camera e scrivevano, ed una volta «haveano fatto non sò che pignatello al foco, pieno di capelli et ossa, cera et altre forfantarie che il fuoco ce havea immorbati tutti, et questo lo vedde ancora fra Paolo della grottaria e fra Domenico di stignano» (ma c'è ragione di credere che costoro, e massime il Bitonto, fossero consenzienti a queste prove di suffumigi). Aggiungiamo che la novella scrittura fu subito mandata al P.e Cherubino, che la qualificò col «sapit haeresim manifeste», e fu unita con le altre costituenti il 2o gruppo o gruppo delle scritture appartenenti al Gagliardo[289].—Frattanto venne subito chiamato Nicolò Napolella, giovane a venti anni, nativo di Napoli e paggio come sopra si è detto, il quale credè opportuno mettersi in assoluta negativa, onde il suo [Pg 257] interrogatorio ci risulta un modello di pervicacia nell'inquisito e di pazienza ne' Giudici. Sempre dietro dimande disse aver conosciuto il Gagliardo nel Castello, ma non aver mai trattato di segreti con lui; averlo visto sei o sette giorni prima, ed avergli parlato in frotta con molti, «e si raggionò come stai, come la passi, e vi bascio la mano»! Disse aver conosciuto anche il Bitonto, ma non avergli mai parlato di scritture nè chiesto consigli, aggiungendo, «faccionosi li fatti loro, è mi lascino stare, è non mi vadano inbrogliando à queste cose». E i Giudici, «che dica chi sono quelli che lo voleno inbrogliare, et in che»; ed egli si fece allora a narrare che la sera precedente fra Pietro l'avea chiamato in disparte, dicendogli di avere informato il tribunale del segreto per amore dato al Gagliardo e raccomandandogli di deporre che era vero, ed egli avea risposto «buono» (int. «bene», espresso alla spagnuola); poi l'avea condotto presso il Bitonto che gli disse e gli raccomandò la cosa medesima, ed egli avea promesso, ma nella notte ci avea pensato meglio e si era deciso a non farne nulla, dicendo, «mi sono risoluto di non dannare l'anima mia». E i Giudici, «in che cosa si pensava di dannare l'anima sua»: ed egli, «in dire una falsità; avanti voglio che si perda tutta la Calabria che dire una falsità»! E i Giudici dimandarono chi fosse stato presente alla chiamata di fra Pietro, e l'ammonirono di nuovo di dire la verità sul fatto del segreto; ed egli nominò Ferrante Caldarone e Simone Garzia spagnuoli, ed anche fra Paolo; ma sul fatto del segreto disse, «non è vero niente».—Immediatamente vennero esaminati i tre testimoni indicati dal Napolella. Simone Garzia disse che in quel momento medesimo il Napolella gli avea parlato della chiamata avuta da fra Pietro nella sera precedente, ed egli avea risposto che non sapeva tal cosa. Il dottore Calderon della città di Pax, di anni trenta, disse che nel passeggiare sulla loggetta col Garzia e col Napolella avea veduto fra Pietro accompagnato da un altro frate, chiamare il Napolella in disparte, parlargli segretamente e poi condurlo alla camera in cui stavano il Petrolo e il Bitonto. Infine fra Paolo accertò egli pure la stessa cosa.—Fu allora interrogato fra Pietro, e costui disse che veramente avea chiamato il Napolella in presenza di fra Pietro di Stilo, e l'aveva avvertito che dietro la sua deposizione intorno al segreto sarebbe stato certamente esaminato, [Pg 258]e però attendesse a dire la verità; che il Napolella si era mostrato dolente del Bitonto, perchè avea divulgato il fatto del segreto, che egli non volea si sapesse da alcuno e specialmente dalla Marchesa della Valle; che allora lo condusse dentro la camera in cui stava il Bitonto, il quale gli fece intendere che trattandosi di cosa di S.to Officio era stato obbligato di agire come aveva agito.—Ed ecco in iscena fra Pietro di Stilo, il quale confermò ogni cosa, spiegando essere il Napolella dolentissimo che il Bitonto avesse pubblicata la faccenda del segreto, perchè «stando lui male con la Sig.ra Marchesa dela valle che havesse fatto casare lo figlio per via di magarie, si saria confermata in questa opinione et non l'haveria mai fatto escarcerare de Castello»[290]. Aggiunse aver visto la carta del segreto in mano al Bitonto, ed aver avuto preghiere da fra Paolo e dal dottore Calderon perchè facesse buono ufficio verso il Napolella acciò non fosse rovinato presso la Marchesa; aver avuto inoltre preghiera dal medesimo fra Paolo, perchè non facesse cattivo ufficio verso il Gagliardo e il S.ta Croce, considerando che erano calabresi (tutto ciò dava forza grandissima al fatto [Pg 259] in quistione, rimasto vacillante per l'assoluta negativa del Napolella).—Infine fu esaminato anche il Bitonto, il quale confermò che il Napolella era venuto con fra Pietro presso di lui, ed avea detto che quando fosse stato interrogato sul fatto del segreto, avrebbe manifestato la verità.

Ma non erano ancora scorse 24 ore, e il Napolella, riflettendo meglio sul caso suo, mediante il carceriere Martines mandò al Vescovo di Caserta un memoriale, con cui esponeva che per essere stato esaminato all'improvviso aveva avuta tanta paura da non aver saputo cosa si dicesse (eppure avea mostrato di saperlo molto bene); laonde supplicava Monsignore, che si degnasse «di restar servita di novo venirlo a saminarlo, che dirra la ystessa e pura verità come passa chi li ha dato detti scritti».

Così il giorno seguente, 22 marzo, innanzi al Vescovo di Caserta assistito dal suo segretario D. Manno Brundusio, fu esaminato dapprima il Napolella, che riconobbe il memoriale mandato e confessò di aver narrato al Gagliardo che «amava una donna ma non sapeva se si era dismenticata» di lui, onde il Gagliardo gli volle dare quel rimedio perchè la donna non se ne scordasse; e riconobbe lo scritto avuto e attestò di averlo mostrato al Bitonto e di averlo poi lasciato nelle mani di lui quando udì che recava la scomunica. Dietro dimande, disse che non in questa circostanza, ma fin da tre mesi scorsi, il Gagliardo gli avea chiesto «un paro di calzoni usati per amor de Iddio» ed esso glie l'avea donati; che dopo il suo esame avea udito tenere il Gagliardo «mala fama di queste poltronerie». Infine scusò il non aver detto prima la verità, allegando l'essere «giovanetto di poca età... è travagliato di carcere longo tempo», e l'aver dubitato che accettando quel fatto ne sarebbe venuta la rovina sua.—Si passò allora all'esame di Orazio S.ta Croce, il quale, sempre dietro dimande, disse che era stato già carcerato in Siderno e a Castelvetere il 22 luglio 1599, per aver bastonato un tale che gli aveva uccisa una giumenta, e poi era stato incolpato della ribellione e tradotto in Napoli; che nelle carceri di Castelvetere udì esservi già venuti il 2 luglio il Campanella e fra Dionisio per far liberare Cesare Pisano; che costui parlava di cose contro la fede e tutti i carcerati ne presentarono memoriale al Principe della Roccella per mezzo di Mario Scadova carceriere. Inoltre che conosceva Felice Gagliardo, gentiluomo di Gerace, che non aveva mai udito dir male di lui, e solo da pochi giorni aveva udito che veniva processato «per fatochiaro». Ed avendo detto che era in grado di conoscerne il carattere, gli furono mostrate le solite scritture (tanto del 1o che del 2o gruppo), e le riconobbe tutte di mano del Gagliardo, eccettuandone quella sulla musica che gli veniva mostrata insieme con le altre, ed includendovi quella contenente la poesia in dialetto calabrese, a proposito della quale disse crederla di mano del Gagliardo «tanto più che lui fà professione di fare versi è sonetti volgari» (non gli fu[Pg 260] mostrata la scrittura contenente il segreto dato al Napolella, forse perchè era stata trasmessa al P.e Cherubino, ma intanto per tutte le altre potea dirsi decisivo il giudizio del S.ta Croce, uomo competentissimo e non sospetto).—Si continuò ancora l'informazione esaminando fra Pietro Ponzio[291]. Si volle sapere da lui se conosceva il carattere del Gagliardo e se era a sua notizia che si dilettasse di far versi; ed egli rispose che lo conosceva, e che veramente il Gagliardo si piccava di far versi e sonetti, tanto che nei giorni scorsi avea fatto versi a fra Dionisio, cercando di pacificarsi con lui e chiedendogli perdono. Gli furono quindi mostrate tutte le scritture che si reputavano di mano del Gagliardo (come si era fatto pel S.ta Croce), ed egli confermò che veramente lo erano, escludendone solo quella sulla musica che disse di mano del Pizzoni: poi gli si chiese conto delle poesie trovate a lui, quelle del Campanella, ed in ciò importa conoscere la dimanda e la risposta testualmente. «Et dimandato alcuni sonetti che stanno scritti al libro n.o septimo, che sono maledicenti, altri che trattano di cose oscene (sic), et ci sono alcune cose scritte à donne amate che sapiunt idolatriam, da chi sono stati composti detti sonetti. Resp.t io un altra volta me ricordo di havere deposto che ad instantia di francesco Gentile haveva io radunato questi sonetti insiemi, deli quali parte mene havea dato esso gentile di mano sua, li quali non so l'authore, et alcuni altri me li hà dato il Sig. Cesare Spinola, et particolarmente li sonetti che sono dedicati alla Sig.ra Maria et alla Sig.ra donna Anna et uno à se stesso, et io ne hò avuto la maggior parte che sono più di venticinque lhò avuti da altri carcerati, li quali dicevano che erano stati composti da frà thomaso Campanella, et che il Campanella lhavesse dati à Mauritio de rinaldo calandoli con uno filacciolo dala fenestra del torrione, et che depoi la morte di Mauritio lhavea dati alli altri carcerati uno Cesare forse che havea servito detto Mauritio, et altri ne hò havuto da fra Giovan Battista de pizzone» (il Vescovo di Caserta ne dava il giudizio del Qualificatore peggiorato, e fra Pietro si schermiva almeno per quelli più scabrosi, massime perchè composti nel tempo della pazzia, mettendo perfino in dubbio l'autore ed al solito traendo in iscena gli assenti e i morti). Infine gli si chiese pure conto del come avesse parlato al Napolella delle cose che avea deposte, mentre gli era ingiunto l'obbligo del silenzio: e fra Pietro si scusò, allegando il suo zelo di carità, e il desiderio di accertarsi che il Bitonto gli avesse detto il vero intorno alla scrittura data dal Gagliardo al Napolella.—Da ultimo fu esaminato anche fra Paolo della Grotteria il quale disse di non conoscere il carattere del Gagliardo, non avendo avuto mai amicizia con lui, comunque egli dimorasse in una medesima stanza e scrivesse tutta la notte (negativa tirata un po' troppo). [Pg 261] Dietro dimande, attestò che il Gagliardo avea pessima fama, dicendo, «et ognuno se ne lamenta e ne dice male, et mò inganna uno et mò un altro, et dà ad intendere molte cose de fattochiarie»; attestò ancora che la cassa trovata nella camera di fra Dionisio vi era stata portata dal Bitonto, «che nella ricerca fatta dagli ufficiali in camera sua molte scritture furono trovate sotto il capezzale del Gagliardo, e andati via gli Ufficiali il Bitonto trovò a terra un libro e disse dover essere quello il libro che il Gagliardo dolevasi di avere perduto». Così mentre il Bitonto deponeva che il libro era stato trovato da fra Paolo, costui deponeva essere stato trovato dal Bitonto, e tutto induce a far ritenere che il libro stava nelle mani di entrambi, come pure che il Gagliardo avea bensì copiate di sua mano le più notevoli tra quelle scritture, ma in servigio specialmente del Bitonto, il quale vi annetteva molto interesse e le teneva suggellate e chiuse nella sua cassa. Pertanto si riuscì a far cadere ogni cosa sulle spalle del Gagliardo, ed anche, fino ad un certo punto, se ne trasse profitto per la difesa della causa principale, mostrando nel Soldaniero un fatto di animosità ed inimicizia, che costui non avea nemmeno sognato.

Rimanevano tuttavia ad esaminarsi il Moya già luogotenente del Castello a tempo della ricerca delle scritture, oltrechè il Figueroa già Castellano del Castel dell'uovo, e il Navarro soldato del medesimo Castello, per le altre scritture ivi trovate al Gagliardo anteriormente. Il Moya, divenuto capitano e non più dimorante nel Castel nuovo, fu citato più volte a voce ma non si curò di comparire; laonde il 28 marzo fu ordinato dal Vescovo di Caserta ed intimata dal cursore una nuova citazione in iscritto esistente in processo, con monitorio di dover comparire l'indomani personalmente sotto pena di scomunica ipso facto incurrenda, e malgrado ciò anche questa volta egli non comparve. Ma comparve il Navarro e poi il Figueroa (20 e 22 aprile). Francesco Navarro, di Montbeltran nella nuova Castiglia, disse aver conosciuto il Gagliardo fin dall'anno precedente carcerato nel Castello dell'uovo, essergli state trovate dal Castellano di quel tempo certe scritture che furono date a Scipione Moccia Auditore e potersene avere più distinta notizia dal detto Castellano Figueroa.—D. Melchiorre Mexia de Figueroa, di Messico nella Nuova Spagna[292], disse di aver tenuto carcerato nel Castello dell'uovo il Gagliardo, e perchè era molto inquieto, avere ordinato che fosse chiuso in un criminale lui ed anche Orazio S.ta Croce; narrò la ricerca di scritture fattagli dietro avviso di altri carcerati, e la scoverta di molte carte di negromanzia, per le quali fece relazione a D. Gio. Sances, non nascondendo che alcune di quelle scritture furono prese dall'Auditor Moccia, ed altre rimasero presso di lui, le quali offrì di esibire al tribunale dopo di averne fatto parola al Sances. Dietro altra dimanda [Pg 262] disse che il Gagliardo avea «molta mala fama e di huomo pessimo, et in particolare di essere necromante et fattochiaro, e di essersi dato al demonio in anima et in corpo, et che ne li havea fatta una scritta col suo sangue».—Venne poi finalmente ridotto anche il Moya a comparire. Il 26 aprile il Vescovo di Caserta ordinò contro di lui una nuova citazione per sentirsi dichiarare scomunicato coll'affissione de' cedoloni, e non avendo il Moya neanche questa volta obbedito, il 29 aprile lo dichiarò scomunicato, ordinando che fosse come tale pubblicato mediante i cedoloni affissi ne' luoghi pubblici della città, dandone all'uopo la relativa bozza[293]. Ed ecco, affissi i cedoloni, immediatamente il Moya innanzi al Vescovo di Caserta, il 1o maggio, a scusarsi, dichiararsi pronto a deporre, dimandare l'assoluzione; e nella stessa data, raccolto l'esame ed emanato il decreto di assoluzione, venendo questa commessa al Curato di S. Anna di Palazzo, che senza perdita di tempo assolvè il Moya ed anche i domestici di lui, accorsi a chiedere egualmente l'assoluzione per avere parlato con lui ne' due giorni ne' quali egli trovavasi scomunicato. Ben poco intanto ci tratterrà il suo esame che fu raccolto dal solo Notaro Prezioso[294]. D. Cristofaro de Moya, della città di Mensiner nella nuova Castiglia, narrò l'istanza fattagli da un carcerato calabrese, di cui non si rammentava il nome, perchè avesse proceduto ad una ricerca di scritture proibite nella camera e cassa di fra Dionisio; la ricerca eseguita alla sua presenza dal sergente Alarcon, dal carceriere Martines ed altri; la scoperta di scritture in quella camera ed anche in altre camere di frati delle quali non si rammentava in particolare; la presa della cassa che fu portata al Castellano; e la scoperta di altre scritture in essa contenute; infine la sua andata al Vicerè con le scritture raccolte, per ordine del Castellano, e tutti i particolari che su questo proposito abbiamo a suo tempo esposti. Dietro dimande, disse di non aver lette quelle scritture, e solo ricordarsi di avervi visto disegnata una mano, come pure certe ruote o circoli, e di avere udito nel Castello, e forse anche dal Vicerè, «che erano cose di fattochiarie»; ricordarsi inoltre che la ricerca di quelle scritture venne fatta dietro una rissa tra carcerati nella quale fra Dionisio fu ferito nel capo. Mostrategli le scritture, riconobbe i circoli e la mano disegnata che altra volta avea visto, e cadendogli sott'occhio il libretto di poesie (le poesie del Campanella) disse, «et questo [Pg 263] libro ancora riconosco che portai al vicere con l'altre scritture, et lo riconosco alla coperta, et alle zagarelle, benissimo». Notiamo che nulla egli accennò intorno alla scrittura trovata sotto la finestra della camera del Campanella, non essendone stato nemmeno interrogato, e però deve ritenersi che a questa data essa era già scomparsa.

Intanto il Figueroa, ottenuto certamente l'assenso del Sances, avea subito consegnate al tribunale le carte trovate al Gagliardo nel Castello dell'ovo e rimaste presso di lui; il P.e Cherubino le aveva immediatamente qualificate con una sua relazione in data del 24 aprile, e il tribunale, costituendone un 3o gruppo, le avea fatte riunire alle altre. Esse vennero in tal guisa ad aumentare indebitamente il volume delle così dette scritture proibite trovate nella cassa di fra Dionisio Ponzio, tanto più indebitamente perchè non erano punto proibite, riguardando tutt'altro che negromanzia. Forse il Figueroa si studiò di non consegnare quelle che potevano farlo trovare alle prese coll'autorità ecclesiastica come sciente e non rivelante od anche come semplice detentore di carte proibite, avendo già altra volta, e precisamente nell'anno al quale si riferiva la sua deposizione, sperimentato i rigori dell'autorità ecclesiastica.[295]

Gioverà non di meno occuparci di queste carte, perocchè quantunque riguardino materie comuni, servono bene a mostrare in tutta la sua luce il Gagliardo, e di costui c'interessa molto acquistare una piena conoscenza, a motivo di certe altre rivelazioni da lui avute in sèguito. Per ordine di data precede una lettera di Pietro Veronese padrigno del Gagliardo scritta da Gerace il 3 gennaio 1600; con essa il Veronese gli dà notizia della salute della moglie, sorelle e madre, lo eccita «a far cose honorate», e riverisce il Signor Orazio (S.ta Croce) dal quale ha avuta una lettera, come pure i due fratelli Moretti. Segue una lettera di Marcello Gagliardo, scritta da Gerace il 12 9bre 1600 forse ad Orazio S.ta Croce (manca la carta della soprascritta); e in essa si parla pure di Felice Gagliardo, si tratta di un invio di danaro, si fa sperare la dimanda di remissione da parte del Principe (il Principe della Roccella che era Signore di Condeianni) etc. Segue un'altra lettera di Pietro Veronese scritta da Gerace il 14 10bre 1600, quando egli tornava in patria dopo di aver visitato il figliastro in Napoli: con essa il Veronese gli dà notizia della salute de' parenti, ossequia i due Moretti, il Sig. Orazio (S.ta Croce) «et tutti quelli Signori», e gli partecipa che a Gerace «fu amaczato gelonardo regitano come vile». Questo disgraziato verosimilmente apparteneva alla famiglia del cognato [Pg 264] di Felice Gagliardo a nome Francesco Regitano, che il Gagliardo avea ferito con un colpo di fucile, causa della sua carcerazione; l'essere stato ammazzato come vile, nel gergo de' facinorosi ancor oggi in uso, vuol dire che era stato ammazzato per non aver saputo tacere sulle mosse loro. Pertanto a siffatto annunzio esulta il Gagliardo e scrive una poesia in dialetto calabrese, intitolata «Capitolo delo scaduto», che rappresenta un'altra delle scritture raccolte. Son 25 strofe, e ne riportiamo le prime per saggio:

«Piangia Geraci, hor ridarà eterno,
per ch'e guarito delo antiquo mali,
hora che Gio. lonardo iju a lo inferno.

Ridi Siderno, che Matteo Spetiali
dessi li cunti à lo amaro scaduto
ridimu tutti, riditi ho (sic) Casali.

Non darà parapezzi[296] lu tributu,
no sarà chiu Brombaci assassinatu
hora che fu amazatu stu fallutu.

Tu Condianni statti arritiratu
e fa allegriza d'ogni cantu e locu
chi li frutti anderanno à bon mercatu.

E vui massari fati festa e giocu
cu li sacculli vostri sempri chini (int. pieni),
hora che Riggitan' e intra lu focu» etc.

E continua così fino all'ultima strofa, con vituperii ed insolenze contro il povero morto, terminando coll'accertare che lo scaduto è andato all'inferno e che sarà da tutti ringraziato colui che l'ha ucciso; e il P.e Cherubino, che in tutte le scritture del presente gruppo non trova «nihil contra fidem vel bonos mores» definisce la detta poesia «una facetia ridiculosa», mostrando bene che pure i Teologi qualificatori sottostavano all'influenza de' gusti del tempo. Seguono due lettere di un Don Gioseppe di Capoa al Gagliardo, l'una scritta «dala per me oscura selva li 22 di xbre 1600», l'altra da Reggio, convento di S. Francesco, gli 11 gennaio 1601: sono due lettere brigantesche, atte a chiarire molto bene i procedimenti de' fuorusciti di que' tempi, e massime a tal fine ci è parso bene riportarle tra' documenti[297]. D. Giuseppe di Capoa, come si rileva dalle lettere, era un capo di fuorusciti con 43 compagni, tra' quali Luzio fratello del Gagliardo ed altri «amici sui et del Sig.r Veronese che li comanda», tutti del resto in relazioni strette col Veronese, alla cui chiamata, dopo il 12 10bre, partivano sotto il comando di D. Giuseppe per Gerace senza saperne la causa; e D. Giuseppe, che avea pure nella banda un suo parente Andrea, unitosi con lui per avere ucciso Carlo Barone e figlio, teneva molto a non diventare un ladrone di strada, onde scriveva al Gagliardo, «ho dato licenza a Caporale Giulio et compagni per haver fatto [Pg 265] un atto brutto, che si unirno con minichello et lutio il vostro, et hanno boscato molti migliara di scuti et volevano dar parte a me, ma per nessuno modo la volse, che tant'anni sono in campagna ho vissuto con le mie intrate, ne habbia dio ordinato tal furfanteria». Poi agli 11 gennaio, dietro la persecuzione da parte di un Auditore che faceva ogni sforzo per prendere que' fuorusciti, D. Giuseppe con tutti i 48 compagni erasi rifugiato nel convento di S. Francesco in Reggio, di dove scriveva la sua seconda lettera; ed avea già raccomandato al Gagliardo di scrivergli dirigendosi al cognato, ed allora raccomandava la lettera propria ad un tale, che non è nominato, con queste parole caratteristiche, «la gentileza d' V. S. et la protetione che come Cavaliere Cristiano tine (sic) de miseri gentilhuomeni travagliati attortamente dalla fortuna et dalla giustitia ne danno animo». Il Gagliardo avea scritto a D. Giuseppe che presto sarebbe uscito dal carcere, che un Cavaliere suo amico, in procinto di ottenere la commissione di capitano, aveva offerta a lui l'insegna (il posto di alfiere) per arrolar gente, che tutta la banda avrebbe potuto andarsene con lui alla guerra; e D. Giuseppe si dichiarava in ordine con tutti i suoi compagni, aspettandosi di essere guidato per questo, come allora si usava, e faceva esibizioni al Gagliardo, e si disponeva a mandargli sei canne di tabbì per un vestito da dovergli servire all'uscita dal carcere, ma anche con la franchezza del bandito gli diceva, «tutto quello che V. S. ha patuto lo meritava, per haver corso con il cervello suo balzano et non con consiglio di amici»; poi, all'ultima data, s'impazientiva e dichiarava di ritirare la sua parola se fra un mese il Gagliardo non avesse l'insegna, sottoscrivendo la lettera insieme con altri compagni, «Lutio Gagleardo suo fratello, Caporal Antonio Bregandi alias il Siciliano, Gio. bennardo Sdragona et Minichello Mullura»[298]. Non sapremmo dire [Pg 266] se la proposta di andare alla guerra, fatta dal Gagliardo a D. Giuseppe fosse stata un'invenzione del cervello suo balzano, ovvero un disegno fondato sopra un fatto positivo; ma dobbiamo attestare esserci noto da altri fonti che a quel tempo si trovava pure carcerato nel Castello dell'ovo Alessandro Piccolomini, 5o Duca di Amalfi, il quale dopo avere avuto già 12 anni di carcere per parte del Governo Vicereale ed una condanna a 10 altri anni da doversi espiare nel Castello di Aquila, dopo di avere avuto anche un processo di S.to Officio, per bestemmie ereticali e ricerche di segreti e sortilegi, finito con la condanna all'abiura e ad un anno di carcere, chiedeva allora appunto la grazia di uscire dal carcere coll'obbligo di andare a servire nelle guerre di Fiandra; ed ebbe questa grazia dal Conte di Lemos e gli fu commutata la pena da Clemente VIII con rescritto del 6 gennaio 1600, sicchè riesce probabile aver lui appunto offerto il posto d'alfiere al Gagliardo[299]. Ad ogni [Pg 267] modo riesce maravigliosa la fiducia del Gagliardo nella sua prossima liberazione, mentre nulla veramente poteva fargliela supporre. In ciò bisogna vedere un effetto della sua fantasia, della quale sono egualmente un parto le sue poche altre scritture di questo gruppo che dobbiamo ancora menzionare. E dapprima vi sono due prologhi di commedie (oltre una storia di S. Agata e S.ta Dorotea e un principio di racconto mitologico), che si mostrano infiorati di concetti non ispregevoli, certamente raccolti da trattati di siffatta materia, e che potrebbero pure rappresentare semplici ricordi di prologhi composti da altri e da lui recitati, ma sempre scritti col colore locale e con que' suoi curiosi modi calabresi[300]. Vi è poi una [Pg 268] Lettera in versi italiani, in cui finge una Lucrezia o Cieca, (forse volea dire Ciecia da doversi intendere Zeza, vezzeggiativo di Lucrezia) innamorata di lui per averla udita recitare in una commedia, adoperatasi a trarlo in libertà, e finalmente rimastane ingannata, perchè egli con la scusa di andare a visitare le antichità di Pozzuoli se n'è partito per la Calabria; una specie di Didone abbandonata, invano confortata dalla sua nutrice Tolla (a que' tempi vezzeggiativo di Vittoria), che sfoga il suo affanno, e narra e rampogna e prega il seduttore che ritorni, stemperandosi in oltre 300 endecasillabi, qualche volta zoppi, non di rado privi di senso ovvero sconnessi, ma quasi sempre più o meno sonori, e diretti «Al S. F. G. dela C. di G.» (evidentemente Al Sig.r Felice Gagliardo dela Città di Gerace).

«Questi mesti sospiri è questi versi
da le mie proprie man vergt' e scritte (sic)
coss' cantando, e sospirando muore
del bel Meandro in su l'herbose rive
il bianco Cigno à la sua morte appresso
se cancellanti (sic) e malamente intesi
seranno i tristi miei dolenti versi
fia solo (oime) perche sarà la carta
dal proprio sangue mio machiata e lorda
allor dovean l'invidiose parche
che dispensan l' vite de i mortali
haver finito d'avoltare il fuso
lo stame di mia vita all'hor potei (sic)
chiudere in bella et honorata sera
i miei sì belli et honorati giorni
quando te vidi in quella Real Sala
rapresentare in detti versi belli
il pastor Ergasto».......

E così via via, prendendo raramente fiato e non giungendo neanche a dire l'ultima parola con tanto diluvio di versi. Il P.e Cherubino dichiarò questa scrittura «litera amorosa,.. simpliciter enarratur [Pg 269]amor unius ad alterum, neque miscentur aliqua, quae aliquo modo sapiant haeresim». Ci resta infine a menzionare ancora un'altra lettera che dovè essere stata scritta al Gagliardo, in caratteri molto grossi segnati con la matita o forse col carbone, da uno che stava nella segreta, in questi termini: «Patron mio V. S. me mandi per il Carceriero il suo pastor fido et la fida ninfa che non so quello mi fare il giorno, mandatime si avete alcuno altro spassatempo, il grinto voli ch'io amo scosse che vostra Matri ami o la cara del Carpio et il carniero del barone (gergo di convenzione tra carcerati), avisatime alcuna cosa et dite al Sig. Scipione (Scipione Moccia Auditore del Castello), e al sig. Gio. Paulo (ignoto) che si adattano al favorirme con il Sig. Castellano farne uscire de qua o farme unire con mio Compare» (notiamo che Orazio S.ta Croce dicevasi compare del Gagliardo e trovavasi allora egli pure in segreta).—Così uno de' «passatempi» del Gagliardo era la poesia, un altro la negromanzia, e tutto ciò che di lui abbiamo potuto conoscere ci mostra che questo giovane a 22 anni, audace, pieno d'ingegno e di fantasia, potè poi realmente, nel trovarsi a contatto col Campanella in Castel nuovo, di venirgli accetto, guadagnarne la confidenza, averne comunicazione di cose le più intime che posteriormente si fece a rivelare in punto di morte; ma pur troppo senza ombra di coscienza, capace di tutte le improntitudini, egli può ispirarci fede limitatamente, e le sue assertive dovranno sempre essere vagliate con la più grande circospezione.

Non essendo le ultime scritture suddette del dominio del S.to Officio, con le deposizioni del Figueroa e del Moya chiudevasi la lunga e noiosa informazione sulle scritture proibite. Noi abbiamo voluto esporla in tutti i suoi particolari, non solo per dar notizia di tutti gl'incidenti verificatisi durante il processo, singolarmente poi di questo che ci fece avere le Poesie del Campanella, ma anche per mettere in luce tutti gli elementi capaci di farci intendere le qualità del Gagliardo. Aggiungiamo che i colpevoli delle scritture proibite pervennero con le loro deposizioni a far cadere ogni cosa sulle spalle precisamente del Gagliardo, sicchè costui ebbe a darne conto egli solo: fu dunque stralciato questo carico dal processo principale e riunito agli altri della ferita inflitta in rissa a fra Dionisio e delle proposizioni eretiche, onde abbiamo veduto istituito quel processo secondario contro il S.ta Croce e lo stesso Gagliardo, che avrebbe dovuto comprendere anche il Soldaniero e Ferrante Calderon (cfr. pag. 239-240). E per finirla intorno a questo processo, notiamo qui, che contro il Calderon dovè aprirsi un processo speciale, poichè non lo troviamo esaminato ulteriormente; contro il Soldaniero, non avendo lui osservato l'obbligo di rimanere in Napoli ed essendosene partito per la Calabria, si prescrisse una apposita informazione, si confiscò la cauzione data, si ordinò a' Cursori quarumvis Curiarum di citarlo a comparire fra tre giorni, sotto pena di essere dichiarato scomunicato oltrechè confesso e convinto[Pg 270] del delitto appostogli, e fu carcerato di nuovo in Calabria ma dopo qualche tempo, sicchè avremo agio di parlarne con comodo; relativamente poi al Napolella, essendo stato perdonato dalla Marchesa della Valle, supplicò il Vescovo di Caserta per la sua liberazione, impedita dall'empara interposta dal S.to Officio, e l'ottenne (9 luglio 1602) con la fideiussione di 25 once d'oro prestata da un Michele Cervellone palermitano[301]. In tal guisa rimasero sotto il processo già istituito i soli S.ta Croce e Gagliardo. Si ripigliarono dunque gli esami, il 12 luglio, cominciando dal S.ta Croce, il quale si ricorderà che fin dal marzo era stato già esaminato intorno alla rissa e alla ferita inflitta a fra Dionisio (ved. pag. 241-42). Egli fu questa volta esaminato intorno alle cose della fede, e disse che si trovava «lo più maravegliato huomo del mondo» per tale imputazione, negando ad uno ad uno tutti i capi di accusa e qualificandoli invenzioni de' suoi nemici, vale a dire de' frati ed anche del Martines, al quale egli avea «fatto perdere le chiavi» perchè convivea pubblicamente con la cognata nel Castello ed angariava i carcerati con le estorsioni; d'altra parte fece intendere che sebbene in Calabria «li villani e rustici sogliono dire questa parola Santo diavolo, tutta volta li gentil homini e persone civile non lo dicono», ed espose i buoni principii che professava e le divozioni che faceva, ed affermò che prima della rissa pagava cinque grana alla guardia, come le pagavano anche gli altri carcerati, per essere condotto alla Messa. Ma nel giorno medesimo fu esaminato qual testimone il Bitonto, che ribadì la maggior parte delle accuse e diè pure cattive informazioni sul Gagliardo. Con tutto ciò il S.ta Croce fu, come allora dicevasi, «abilitato» ad uscire dal carcere, coll'obbligo di tenere per carcere il domicilio che avrebbe indicato in Napoli e di dare per questo una cauzione di 25 once d'oro, che fornì un Rev.do D. Marcello Palermo (18 e 23 luglio): in sèguito trovò più comoda per lui una casa «nel fondico d'Eliseo alla carità dove si dice la pigna secca», e si rinnovò l'obbligo impostogli e la fideiussione del Palermo; deve dunque dirsi che per lui era finito egualmente con un'assolutoria il processo della congiura. Gli fu poi dato per Avvocato, a sua richiesta, il solito D. Attilio Cracco, e gli furono dati i capitoli del fisco col termine di due giorni per formare gl'interrogatorii (29 agosto): ma egli espose che tutto procedeva dalle inimicizie capitali contratte, con Alonso Martines per avergli fatto perdere l'ufficio, co' frati in generale a motivo della rissa, col Bitonto in particolare «perchè mandato da fra Dionisio alla casa di esso comparente fu, insieme coll'altro, autore di farlo trovare inquisito di ribellione»; e però dava la ripulsa a tutti i testimoni e chiedeva essere spedito secondo gli Atti medesimi [Pg 271] (12 settembre). Ad istanza del fisco fu esaminato ancora il Martines già carceriere, il quale confermò le accuse principali, senza punto mostrarsi nemico del S.ta Croce. Ma costui, prima che la causa fosse spedita, pensò bene di partirsene per la Calabria, come spessissimo facevano gli «abilitati», lasciando i fideiussori alle prese col fisco, e dando a questo, per siffatta via, un cespite ragguardevole di entrata. Furono allora esaminate dal Prezioso, per commissione del Vicario, Lucrezia Papa l'albergatrice con altre due donne (17 novembre), ed accertata la fuga del S.ta Croce venne «incusata» la cauzione e carcerato D. Marcello Palermo, il quale, per la fideiussione prestata e per qualche altro conto che dovea saldare, riuscì appena a liberarsi nel principio dell'anno successivo, sborsando D.ti 30, avuti, come egli disse, «per carità d'alcuno timoroso d'Iddio».—Quanto al Gagliardo, le cose andarono molto più in lungo, poichè si era commesso al Vescovo di Gerace l'esame di quel D. Pietro Manno, che egli avea nominato qual suo confessore pel tempo in cui trovavasi nel carcere di Castelvetere, (ved. pag. 255) e gli Atti relativi a tale commissione, benchè compiuti con la maggior sollecitudine, giunsero nelle mani del Vescovo di Caserta non prima del 1603, ed il processo potè proseguirsi e terminarsi stentatamente dal maggio 1603 al marzo 1604. Per tutto questo tempo non breve, il Gagliardo continuò a rimanere in mezzo a' frati; intanto la commissione data a Gerace risultò negativa, ed egli, esaminato dal Vicario Curzio Palumbo per delegazione dei Commissarii della causa principale, non mancò di profittare del trovarsi già fuori carcere, a quel tempo, fra Dionisio e il Bitonto, e scovrendo specialmente quest'ultimo cercò di scusarsi mercè una serie di garbugli sostenuti con una improntitudine singolare[302]. Narrò che al tempo del suo primo esame que' due frati gli consigliarono di negare ogni cosa, perchè altrimenti sarebbe stato bruciato dal S.to Officio, ma volendo ora manifestare la verità, riconosceva che quelle scritture erano di mano sua nella più gran parte, avendole copiate per conto del Bitonto ed anche del Pizzoni (il morto), i quali gli davano in compenso un carlino al giorno e gli dicevano che erano cose di filosofia; e mostrategli le scritture, indicò specificatamente quali di esse, ed anche quali parti di esse, erano state copiate da lui e quali dal Bitonto, affermando di non sapere da chi fosse venuto ed a chi fosse stato poi restituito l'originale; ammise che la carta data al Napolella era stata scritta da lui, ma sotto la dettatura del Bitonto, il quale diceva essere un segreto contro la corda che volea mandare ad un suo amico, e poi gli «fece il tradimento» col sedurre il Napolella e suggerire a costui un secondo esame in contradizione del primo, acciò apparisse che era un segreto di tutt'altro genere avuto da esso Gagliardo, aggiunse che il Bitonto gli era divenuto nemico, perchè [Pg 272] amoreggiava con una donna la quale stava sotto la loro carcere e corrispondeva con loro per un buco fatto al pavimento, ed egli aveva anche lui le sue pretensioni verso quella donna, e infine tutto era stato inventato da' frati, perchè egli si era esaminato contro fra Dionisio, il Campanella e il Bitonto, nella causa della ribellione. Negò poi di essersi vantato di aver segreti per corrompere le donne, di aver conosciuto carnalmente la suocera e la sorella della suocera trovando più dolce il concubito con le persone parenti, di aver lodato per questo la legge di Mosè (giusta le accuse originate dalla denunzia di fra Pietro Ponzio); negò inoltre di aver mai aderito alle eresie che da Cesare Pisano erano state annunziate nelle carceri di Castelvetere. Ed ebbe i capitoli del fisco, e gli fu assegnato il solito Avvocato Cracco; ma rinunziò alle difese, ed innanzi al Nunzio ed a' due Vicarii, Graziano e Palumbo, sostenne un'ora di corda senza rivelar nulla, onde fattane relazione a Roma, coll'assenso della Sacra Congregazione fu decretata per lui l'abiura de levi, l'imposizione di alcune penitenze salutari, e il rilascio in libertà dietro fideiussione, obbligandosi di non partire dalla città di Napoli. Tutto ciò fu eseguito; diedero per lui cauzione di 50 once d'oro Sigismondo Campo di Oppido e Tarquinio Granata di Tortorella, e così il 2 marzo 1604 potè uscire dal Castello nuovo, dovendosi dire già assoluto circa la congiura nel principio del 1602, dietro la grave tortura sofferta con esito egualmente favorevole. È quasi superfluo dire che senza licenza se ne partì per la Calabria. Ma avendo poi là commesso un omicidio, fu ricondotto in Napoli e quivi giustiziato due anni dopo, e in tale occasione venne a trovarsi di nuovo alla presenza del S.to Officio, avendo voluto fare una deposizione in disgravio della sua coscienza; questa deposizione, molto importante per noi, ci darà ancora motivo di parlare di lui.

Possiamo oramai tornare a' frati, e innanzi tutto ci conviene dire, che durante l'informazione sulle scritture proibite giunse per loro la sovvenzione prescritta da Roma a' conventi di Calabria, ed attesa fin dal settembre dell'anno precedente; ma non ci volle poco per ricuperarla, e ne fu pure distratta una parte. Si era in marzo 1602; sapevasi che 200 Ducati erano giunti a Napoli con lettera di cambio nelle mani di un frate del convento di S. Domenico, e questo frate non compariva: il Vescovo di Caserta, in data 23 marzo, mandò un precetto al P.e Arcangelo da Napoli priore di S. Domenico, perchè sotto pena di privazione del suo ufficio nel presente, e d'inabilità a qualunque altra dignità e prerogativa nell'avvenire, carcerasse in quel medesimo giorno il frate che avea ricevuto il danaro, e mandasse una fede dell'eseguita carcerazione da doversi trasmettere a S. S. in Roma. Con tutto ciò non risulta che il danaro fosse stato immediatamente ricuperato, giacchè, malgrado l'urgentissimo bisogno che se ne sentiva, si cominciò a disporne solamente il 23 maggio. A questa data il Vescovo di Caserta[Pg 273] emise i primi ordini di pagamento, ed il Notaro Prezioso li eseguì, essendo stata a lui girata tutta la somma, posta in deposito nel Banco del Sacro Monte della Pietà; nella stessa guisa continuò a farsi di tempo in tempo fino al 9 giugno 1604, giorno in cui stava ancora in cassa un piccolo residuo della somma, e i frati reclamavano, il Vescovo ordinava, Prezioso nicchiava, e vi fu bisogno di un ordine al Prezioso sotto pena di scomunica ipso jure incurrenda! Tutti gli ordini di pagamento, le copie delle polizze di Banco, i ricevi di ciascuno de' frati co' nomi de' testimoni presenti, ed anche i memoriali de' frati medesimi ogni qual volta reclamavano la sovvenzione, furono riuniti in un fascicolo allegato al processo, che rappresenta il conto reso dal Prezioso ed è per noi di un'importanza grandissima: poichè esso non ci mostra solamente come e quando il danaro sia stato distribuito, ma anche ci fa conoscere le miserevoli condizioni de' frati e la condizione speciale del Campanella, il quale fu sempre riguardato qual pazzo, sicchè dapprima fra Pietro Ponzio e poi fra Pietro di Stilo riceverono per lui la rata che gli spettava; inoltre ci fa conoscere la data delle vicende successive de' frati rimasti in Castel nuovo, e così rilevare quando fra Dionisio e il Bitonto riuscirono a mettersi in salvo, quando fra Pietro Ponzio fu rilasciato, quando il Campanella fu segregato e posto in carcere duro. Circa la distribuzione del danaro, dobbiamo dire che esso non fu veramente impiegato tutto nei bisogni de' frati: per la massima parte fu loro distribuito, dando a ciascuno dapprima 8 ducati, poi 2, 3, 1 ducato etc., e nella distribuzione di 1 ducato fra Pietro Ponzio non volle ricevere tale miseria dicendo di non averne bisogno; fu anche pagata in due rate una somma per medicinali forniti a fra Dionisio infermo dallo speziale del Castello Ottavio Cesarano, ma una somma di D.ti 14 e tarì 2 fu data al Prezioso per la copia degli Atti offensivi e difensivi mandati a Roma, ed anzi il primo ordine di pagamento fu per questa somma. Un ordine simile da parte del Vescovo di Caserta risulta indubitatamente biasimevole sotto tutti gli aspetti: egli non prese in benefizio suo, come avea già fatto altra volta fra Cornelio del Monte, ma destinò in benefizio altrui una somma che doveva esser sacra e non mai distratta dallo scopo pel quale era stata raccolta; d'altronde trasgredì le prescrizioni categoriche di un decreto Papale, che era stato emesso appena nell'anno antecedente. Le prescrizioni erano: che per le cause del S.to Officio non si esigesse nulla da nessuno, e che si mandassero anche gratis a Roma gli Atti de' Segretarii, Cancellieri etc.; il Vescovo di Caserta non poteva ignorarlo[303].

[Pg 274]

Ma veniamo al processo, al cui compimento occorreva solo esaurire le ultime difese di fra Dionisio. Abbiamo già detto che il tribunale non lasciò di provvedere intorno a queste difese durante l'informazione sulle scritture proibite: esso fin dal 19 gennaio 1602 aveva assegnato a fra Dionisio un nuovo termine perentorio di 15 giorni; ma fra Dionisio chiese che gli fossero prima date le copie degli esami de' testimoni, come pure che gli fosse assegnato un Avvocato e procuratore, che fosse esaminato di nuovo il Petrolo, che fosse presa informazione sulla ritrattazione fatta dal Pizzoni in punto di morte. Il 6 marzo, quando fu chiamato all'esame sulle scritture proibite, egli rinnovò tali dimande con una comparsa e protesta scritta esistente in processo, dimandando di più che prima si vedesse nel tribunale «caritativo e santo dell'inquisitione» la falsità de' testimoni a suo carico, avendo questi medesimi deposto falsamente nella causa della ribellione, ciò che egli non avea potuto dimostrare in quella causa per la potenza del fisco. Così dicendo egli alludeva anche al Soldaniero, contro cui nella stessa seduta presentava le dichiarazioni scritte del Gagliardo, del Bitonto, di fra Pietro di Stilo e del S.ta Croce, attestanti quasi tutte, che le scritture proibite erano state fatte trovare nella camera di fra Dionisio per astuzia del Soldaniero. Il 27 marzo, il tribunale assegnò per Avvocato il Rev.do Attilio Cracco, ordinò la consegna della copia degli esami testimoniali fatti in difesa di fra Dionisio e prescrisse al Cracco un termine di 10 giorni per venire innanzi a' Giudici, nel palazzo del Nunzio, ad dicendum. Il 30 marzo, non appena intimato questo decreto a fra Dionisio, costui mandò un memoriale a' Giudici, supplicando che facessero andare il Cracco presso di lui, poichè altrimenti il termine passerebbe invano, trovandosi infermo e povero, e non essendosi ancora vista la sovvenzione ordinata ai conventi di Calabria. Ma senza dubbio l'informazione sulle scritture proibite, riuscita più lunga di quanto potevasi credere, impedì a' Giudici di andare innanzi speditamente; d'altra parte fra Dionisio, [Pg 275]il 15 aprile, presentò una nuova comparsa, per chiedere copia di altri esami che non trovava fra quelli consegnatigli (l'esame del Soldaniero in Gerace, e quelli del Priore e del Lettore di Soriano), come pure «lettere e monitorii contro coloro che tenevano o in qualsivoglia modo conoscevano la ritrattatione fatta dal Pizzoni»; nè prima del 19 aprile furono da lui presentati gli ultimi articoli di difesa scritti di sua mano, ma senza l'elenco de' testimoni da doversi esaminare sopra questi articoli[304]. L'indomani, 20 aprile, i Giudici ordinarono che fra Dionisio, o il suo Avvocato, tra due giorni presentasse la copia degli esami consegnatigli, perchè verificata la mancanza di quelli nuovamente richiesti ne fosse provveduto; inoltre che del pari fra due giorni presentasse l'elenco de' testimoni, pe' quali avea dimandate le lettere e i monitorii. Questo elenco fu presentato il 24 aprile, e con esso dovè presentarsi ancora la copia degli esami già consegnati e trovarsi vera la mancanza di quelli indicati: infatti si vede nel processo registrata la consegna de' documenti mancanti, tra' quali pure la confessione ultima di Cesare Pisano in punto di morte, che fra Dionisio richiese posteriormente, ed inoltre si vede registrata una seconda consegna finale di tutti gli esami raccolti a tempo del Vescovo di Termoli; la prima consegna reca la data del 31 aprile, la seconda quella del 18 maggio, sicchè solamente a tale data si potè davvero esser pronti, e il 21 maggio si potè passare agli esami testimoniali.

Gli ultimi articoli presentati da fra Dionisio non furono più di tre[305]. Col 1.o egli affermava che il Pizzoni venendo a morte, per disgravio di sua coscienza, avea detto in presenza di più e diverse persone aver deposto il falso contro fra Dionisio ed altri in materia di S.to Officio e di ribellione, ed avere solamente aspettato, per ritrattarsi, che fosse posto in carceri ecclesiastiche. Col 2.o affermava che il Petrolo avea dichiarato ad infinite persone volersi ritrattare su quanto avea deposto contro fra Dionisio ed altri in materia di S.to Officio, voler mostrare tutta la radice della falsità del processo, ed avere perciò fatto due volte istanza a' Sig.ri ufficiali di essere riesaminato. Col 3.o affermava che Giulio Soldaniero «per dar credenza alle falsità da lui deposte contro esso fra Dionisio» avea fatto mettere scritture proibite in una cassetta dentro la sua camera e poi fatta fare la ricerca dagli ufficiali, onde egli era stato chiuso in un torrione per sei mesi e il Soldaniero l'avea diffamato dovunque. Con questi tre articoli semplicissimi evidentemente fra Dionisio giocava una grossa partita; ed ecco i testimoni che egli dava per comprovarli. Sul 1.o, Alonso Martines olim carceriere (era stato licenziato, come si è detto altrove, appunto nel maggio), il dot.r Michele Caracciolo, D. Francesco di Castiglia, [Pg 276] il clerico Masillo Blanco (Gio. Tommaso Blanch), il clerico Cesare d'Azzia, Gio. Francesco d'Apuzzo: ma il D'Azzia era stato già liberato dal carcere, e con diversi altri fu scartato dal Vescovo di Caserta, rimanendo solo il Castiglia, il Blanch, il D'Apuzzo, ai quali vennero poi aggiunti d'ufficio il Curato del Castello D. Gaspare d'Accetto e il Sagrestano D. Francesco della Porta, che aveano dovuto vedere il Pizzoni vicino a morire. Sul 2.o articolo, oltre i suddetti, erano dati fra Antonio Capece (il cav.re gerosolimitano), il Bitonto, fra Pietro di Stilo e il Petrolo; ma tra questi ultimi il Vescovo di Caserta accolse solamente il Petrolo e il Capece. Sul 3.o articolo era riprodotta la dichiarazione scritta di Felice Gagliardo ed altri, coll'istanza che fossero esaminati i dichiaranti nel caso in cui non lo fossero stati ancora; ma il Vescovo di Caserta li ritenne già esaminati (la qual cosa era vera per alcuni e non per tutti) sicchè di tale articolo non si parlò più.—Vogliamo intanto, giusta il nostro costume, dar qualche notizia delle persone de' testimoni accettati, ciò che riesce indispensabile in questo momento di tanta importanza: trasanderemo quelli altra volta conosciuti, e diremo qualche cosa del Blanch e del D'Apuzzo, come pure del D'Accetto e del Della Porta che abbiamo bensì conosciuti ma un po' troppo alla sfuggita. Cominciando da D. Gaspare d'Accetto, le scritture della Cappellania maggiore che si conservano nel Grande Archivio, ed egualmente i libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo, ci fanno conoscere i punti più notevoli della sua vita. Era di Massa Lubrense nel Sorrentino, ed a 50 anni, nel 1591, ebbe l'ufficio di Sagrestano della Chiesa del Castello, ufficio perduto da un D. Cesare Boffa, dietro un processo fattogli nel tribunale della Cappellania maggiore col titolo De raptu et fuga uxoris Francisci Alugia militis: pertanto nell'anno medesimo D. Gaspare fu sottoposto anch'egli a processo, per l'omicidio in persona di un D. Gio. Carlo Coppola, che dovea sposare una nipote di D. Gaspare, non avea voluto più sposarla e fu trovato ucciso; ma ne riuscì assoluto, e nel 1592 trovasi già in funzione di P.e Cura ne' libri parrocchiali. D'intelletto molto limitato, come lo mostrano gli Atti del processo del Campanella ne' quali prese parte, non apparisce punto inframmettente, e nel tempo di cui trattiamo tirava innanzi con una licenza annuale di poter confessare e amministrare gli altri sacramenti nel Castel nuovo, al pari di tutti gli altri ecclesiastici dello stesso ordine, mentre anche il Cappellano maggiore, D. Gabriele Sances fratello di D. Giovanni, sottostava a riconoscimenti temporanei da parte di Roma, in seguito di una fiera lotta giurisdizionale allora sorta. D. Gaspare tenne l'ufficio fino all'anno seguente, anno in cui morì. Quanto a D. Francesco della Porta, costui era della Diocesi di Oria, più svelto di D. Gaspare, e forse per questa ragione meno gradito: infatti non divenne P.e Cura che verso il 1609, mentre alla morte di D. Gaspare, per decreto del Cappellano maggiore in data del 3 agosto, lo divenne D. Alessio de Magistro napoletano, «precedente[Pg 277] (dice il decreto) la nomina nobis fatta da Maria de Mendozza moglie e procuratrice di D. Alonso de Mendozza Castellano del d.o Castello»; fino a tale punto si estendevano le ingerenze delle mogli de' Castellani[306]. Veniamo a Masillo Blanco ossia Gio. Tommaso Blanch, come leggesi sotto la sua deposizione. In questa egli si disse figlio del Barone di Olivito (int. Oliveto) dell'età di 19 anni, carcerato da oltre 13 mesi per un «preteso insulto» in persona di Ottavio Stinca (l'insigne avvocato che abbiamo avuto occasione di menzionare in questa narrazione); gli scrittori di cose nobiliari e sopratutto il Carteggio del Nunzio, ci dicono il resto[307]. Era uno de' più giovani figli di Francesco Blanch, 2o Barone di Oliveto, e di Lucrezia Capecelatro, la cui discendenza brillò moltissimo nella carriera militare: il terzogenito di costoro, Alfonso Blanch, si distinse più di tutti nelle guerre del Piemonte e morì in Fiandra, nell'assalto di Capelle, avendo sotto i suoi ordini il fratello Mario cavaliere gerosolimitano, che fu poi ucciso da' vassalli in Oliveto; il De Lellis non parla di questa brutta fine di Mario, ma ne parla il Nunzio nel suo Carteggio, perocchè il principale tra gli uccisori fu un clerico, ed opponendo le solite difficoltà delle prerogative ecclesiastiche il Vicario della diocesi non volle consegnarlo per più anni, finchè il Governo, stanco delle tergiversazioni, lo fece prendere e sommariamente impiccare. Forse nella difesa di questo clerico ebbe parte lo Stinca, onde i due fratelli Vincenzo e Gio. Tommaso Blanch, entrambi clerici per poter godere delle prerogative ecclesiastiche, gli fecero «un brutto assassinamento con ferite et in casa propria» secondochè scrisse il Nunzio a Roma; e il disgraziato dottore, un po' troppo tardi, si munì di licenza d'arme «con 4 suoi creati» come si legge ne' Registri Sigillorum[308]. Vincenzo Blanch riuscì a mettersi in salvo, ma Gio. Tommaso fu preso, e penò molto ad ottenere la remissione al foro ecclesiastico. Aggiungiamo che tanto Vincenzo, quanto Gio. Tommaso medesimo ed anche l'altro fratello Michele, finirono con abbracciare la carriera militare e vi si distinsero tutti. Vincenzo morì in Fiandra alla presa di Ostenda, Gio. Tommaso, divenuto Capitano d'infanteria, si segnalò nell'assedio di Vercelli, fu promosso Sergente maggiore nel Barese e sposò D. Anna Gattola: ma al tempo del quale trattiamo, essendo giovanissimo e spensierato, non farebbe meraviglia se si fosse accordato co' frati per assumere la parte che rappresentò nell'informazione della quale andiamo ad occuparci. Rimane a parlare di Gio. [Pg 278] Francesco d'Apuzzo. Egli era di Acerra, avea 23 anni, trovavasi imputato nientemeno che di parricidio, ed avea già due volte avuta la tortura: nel Grande Archivio non manca intorno a lui un documento che conferma la specie dell'imputazione fattagli, la quale imputazione senza dubbio non lo raccomandava presso i Giudici menomamente[309].

Il 21 maggio, dal Vescovo di Caserta e dal Peri vennero esaminati tutti i testimoni[310]. D. Francesco di Castiglia depose aver veduto il Pizzoni poco prima che morisse, chiamato dal carceriere Martines insieme col Blanch e con un altro (il d'Apuzzo), ed avere udito dal Pizzoni che volea sgravare la sua coscienza, essendosi esaminato contro fra Dionisio e il Campanella perchè così gl'impose un monaco di cui esso deponente non ricordava il nome (fra Cornelio), a fine di declinare la giurisdizione laica e liberarsi; che perciò ne avessero fatta testimonianza scritta, avendone lui già discorso col Curato e con altre persone, ma esso deponente non volle intrigarsi in questa faccenda, tanto più che il Pizzoni diceva esservi altre persone che lo sapevano. Dietro dimande aggiunse che non era stato ricercato da fra Dionisio nè da alcuno de' fratelli Ponzii per tale testimonianza, e non ignorava quanto importasse far testimonianza falsa specialmente in materia di S.to Officio. Nulla gli fu dimandato intorno alle dichiarazioni di volersi ritrattare fatte dal Petrolo.—Si passò al Blanch, il quale depose esser andato presso il Pizzoni infermo, richiesto dal Martines insieme con Gio. Francesco dell'Acerra, perchè il Pizzoni volea dichiarare di aver deposto il falso in Calabria e in Napoli contro fra Dionisio e il Campanella per sottrarsi al foro temporale; aver trovato nella camera del Pizzoni il Castiglia, ed aver udito dal Pizzoni che erano attesi perchè volea si facesse detta scrittura, la quale fu distesa da Gio. Francesco (d'Apuzzo) e sottoscritta da lui, dal Martines e dallo stesso Pizzoni ma con la mano sinistra, essendo storpiato a destra. Dietro dimanda aggiunse aver conosciuto il Petrolo, che più volte gli avea dichiarato voler ritrattare le sue deposizioni contro il Campanella e fra Dionisio, le quali erano false, ed aver presentato per questo un memoriale al Nunzio ed un altro al Papa; aggiunse pure esser morto il Pizzoni pochi giorni dopo fatta quella scrittura, la quale [Pg 279] rimase in potere dello stesso Pizzoni, che volea darla al suo confessore perchè fosse presentata. È da notarsi che i Giudici non lo interrogarono sul contegno del Castiglia in quella circostanza.—D. Gaspare d'Accetto depose non aver mai trattato nulla col Pizzoni nè prima nè dopo l'infermità da cui fu colto; essere stato a Massa (suo paese nativo) ed al ritorno aver trovato il Pizzoni senza la favella; esser possibile che Don Francesco della Porta, il quale lo sostituì nell'ufficio di Curato, sapesse qualche notizia della dichiarazione per cui veniva interrogato.—Gio. Francesco d'Apuzzo disse essere stato condotto dal Martines presso il Pizzoni insieme col Blanch, e non ricordarsi bene se il Castiglia fosse venuto con loro o si fosse trovato già nella camera del Pizzoni; avergli il Martines detto che il Pizzoni si volea ritrattare per disgravio di coscienza e che ne facesse scrittura, ond'egli si pose a scrivere quanto il Pizzoni diceva, ed infatti diceva di ritrattare ciò che avea detto contro il Campanella e fra Dionisio, così in materia di eresia come di ribellione, avendolo detto per isfuggire il foro temporale; essere stata quella carta sottoscritta da lui, dal Blanch e dal Pizzoni (non più anche dal carceriere), «atteso francesco de Castiglia non ci si volse intromettere», ed essere rimasta quella carta in potere del Pizzoni, che diceva volerla dare al suo confessore. Dietro dimande aggiunse essersi lui offerto di fare questa deposizione, ed esserne stato quindi ricercato da fra Dionisio; aggiunse inoltre avere più volte udito dire dal Petrolo che si volea ritrattare di quanto avea deposto, e che avea dato più volte memoriali a questo fine.—D. Francesco della Porta disse aver confessato il Pizzoni solamente pochi giorni prima che morisse, avergli anche amministrata l'estrema unzione, ma non essersi mai parlato di ritrattazione tra loro, essersi invece parlato pel Castello di una scritta fatta dal Pizzoni vicino a morire; aggiunse aver udito che il confessore di questi frati Domenicani era un Domenicano vecchio.—Fu poi esaminato il Petrolo circa la sua pretesa volontà di ritrattarsi, espressa e comunicata a più persone, ed ecco l'importantissima deposizione che egli fece: «Signori, la verità è che io non posso vivere in queste carceri alle persecutioni che mi fanno li frati, non solo li carcerati, et altri dela religione, mà hanno sollevato tutta la Calabria contra di me, con dire che io habbia infamata la provintia è la religione con quello che hò deposto, et che per ciò io per defendermi et mantenermi, vado dicendo con li carcerati è con altri per posser vivere con poco di quiete, et per non essere offeso, che mi voglio retrattare sempre che haverò commodità, per mantenerli così in speranza perche non mi offendano, mentre stò quà, et anco che non facciano offendere li miei in Calabria, mà la verità è che non lhò ditto mai con animo di volerlo mettere ad effetto, perche quanto hò deposto avanti di Monsignor Vescovo di termole bona memoria è stata la pura è semplice verità. Et per questo non hò di che retrattarmi, et per amore di Iddio vi prego[Pg 280] che questo negotio stia secreto, perche altrimente pericolaria dela vita et dell'anima». E i Giudici ordinarono che di questa deposizione non si rilasciasse copia[311].—Infine fu esaminato il Capece sul 2o articolo, sul quale era stato dato per testimone, vale a dire sulla volontà di ritrattarsi espressa dal Petrolo a più persone; e il Capece depose non saperne nulla.

Così quest'ultima difesa di fra Dionisio, che sarebbe stata utilissima egualmente al Campanella, non riusciva punto bene. Il 3.o articolo non era neanche messo in discussione; il 2.o articolo provocava la deposizione del Petrolo tanto brutalmente esplicita; il 1.o articolo veniva infermato notabilmente dalle deposizioni del Curato e del Sagrestano male a proposito citati dal Castiglia. Da questo lato dobbiamo rilevare che il Castiglia, il quale veramente avrebbe potuto fare impressione su' Giudici, si mostrò abbastanza impacciato nella sua deposizione; ma ad ogni modo attestò il fatto essenziale, e non si comprende come i Giudici non si fossero creduti in obbligo di udire su quel fatto il Martines ed anche il Domenicano confessore del Pizzoni, che avrebbero potuto recarvi luce grandissima. Tuttavia bisogna ricordare che si era avuta una dichiarazione scritta per conto del Pizzoni vicino a morire, avendo lui voluta sgravare la sua coscienza per quegli scritti di fra Dionisio che si aveva appropriati (ved. pag. 200); e non avrebbe dovuto allora sgravare la sua coscienza, se veramente questa gli rimordeva, sul fatto tanto incomparabilmente più grave che era la sua falsa deposizione? E non avrebbe dovuto fra Dionisio dare per testimone quel Domenicano confessore del Pizzoni, che dicevasi avere avuta la dichiarazione scritta intorno a quel fatto? Relativamente al Petrolo, ben si apponeva fra Pietro di Stilo, che ne dubitava in modo assoluto nello scrivere alle persone di casa Prestinace; il Petrolo non ebbe neanche bisogno del tormento per confermare quanto avea deposto. Temè d'incorrere nell'accusa di falsa testimonianza col disdirsi, o veramente la sua coscienza non gli permise di disdirsi? Tutto sommato, riesce difficile non abbracciare questa seconda opinione; ad ogni modo egli non si disdisse nè sulla ribellione nè sull'eresia come si era sperato. Quando le copie degli esami raccolti furono date a fra Dionisio, costui, non trovando quella dell'esame del Petrolo, potè capire come la cosa fosse andata: non di meno il Campanella, dapprima nelle sue Lettere tanto spesso citate, più tardi nella Narrazione ed anche nell'Informazione, scrisse che «fatto poi processo nel S. Officio... tutti li testimoni si ritrattaro in utraque causa», come pure che «li monaci fur in S. Officio ritrattati o convinti di falsità». Per lo meno il Campanella non fu bene informato: solamente il Lauriana fu sufficientemente provato falso testimone, ma il Pizzoni e il Petrolo, i due testimoni [Pg 281] davvero gravi per lui, non si poterono dimostrare ritrattati niente affatto, ed è superfluo notare quanto la cosa debba dirsi importante.

Il 24 maggio, il Vescovo di Caserta decretò che fossero consegnate a fra Dionisio le copie degli ultimi esami, ma tale consegna non fu eseguita prima del 18 giugno[312]. Per l'abitudine poi di quel Vescovo di trattenersi fuori Napoli durante i forti calori estivi, la causa de' frati non progredì nel luglio e nell'agosto. Soltanto si procedè a qualche Atto per Valerio Bruno, il quale con un primo memoriale al Vicario Palumbo, e poi con un secondo al Vescovo di Caserta (20 e 28 agosto) reclamò contro l'empara interposta dal S.to Officio alla sua liberazione mentre era stato «liberato dalle altre cause», e supplicò di essere spedito e abilitato. Il Vicario emise l'opinione che fosse di nuovo interrogato e poi spedito, e il Vescovo emanò da Caserta un decreto per l'abilitazione, la quale fu accolta anche dal Nunzio e dal Vicario generale Graziano e subito eseguita, con la fideiussione prestata dal padre del Bruno, e con l'obbligo di non partire da Napoli sotto pena di D.i mille e della galera ad arbitrio de' Giudici: nella quale fideiussione una circostanza degna di nota si è, che dal Bruno venne indicata per domicilio legale la casa di Carlo Spinelli a S.ta Lucia a mare, donde si scorge che lo Spinelli non abbandonava coloro i quali gli aveano reso servigi. E stando pur sempre in Caserta, il 30 agosto, il Vescovo spedì un ordine in nome suo e dei suoi colleghi, perchè fosse citato fra Dionisio ad dicendum nel palazzo del Nunzio, dove coll'Avvocato di lui sarebbe stata spedita la causa nella sua prossima venuta a Napoli[313]. Quest'ordine singolare, con l'assegno di un giorno non determinato, era un modo di mostrarsi obbediente alle ingiunzioni che venivano da Roma dietro le sollecitazioni che il Nunzio riceveva in Napoli dal Vicerè. Abbiamo infatti dal Carteggio del Nunzio che il Governo Vicereale non cessava di tener d'occhio l'andamento del tribunale di S.to Officio, ed ogni qual volta ne vedeva sospese le sedute, ricominciava le sue lagnanze. Così il 2 agosto il Nunzio scriveva al Card.l Borghese (successo nelle cose dell'Inquisizione al Card.l di S.ta Severina morto il 1.o giugno 1602), che più volte il Vicerè gli avea ricordata la spedizione de' frati inquisiti di eresia «per che poi si potesse spedir anche il negotio della Ribellione trattato son già circa due anni», e il giorno precedente gli avea pure fatto scrivere dal suo Segretario Lezcano un biglietto in tale proposito; laonde pregava che si desse ordine a Mons.r di Caserta di mandare a Roma le scritture e quanto si era fatto per la spedizione della causa. Il 9 agosto ripeteva le istanze, dietro sollecitazioni avute da D. Gio. Sances «Fiscale di permissione di N. S.re nella causa della rebellione di Calabria»; e nella stessa data il [Pg 282] Card.l Borghese gli facea sapere, che scriveva contemporaneamente al Vescovo di Caserta di mandare «il resto delle scritture co' voti de' signori Congiudici», sicchè verso la metà di agosto pervenivano finalmente gli ordini di concludere, e il Vescovo di Caserta era obbligato ad occuparsene senza ritardo.

Dobbiamo aggiungere che in questo tempo fra Pietro Ponzio supplicò di nuovo S. S. perchè la sua causa fosse spedita, non essendosi in lui trovata alcuna colpa[314]. Il 17 agosto il Card.l S. Giorgio lo partecipava al Nunzio, richiedendolo a nome di S. S. che desse informazione sul caso di fra Pietro, e mandandogli perciò una copia del memoriale. In esso fra Pietro dolevasi di aver sofferto innocentemente tre anni di carcere, di essere più volte ricorso al Vicerè, al Nunzio, a D. Pietro de Vera senza aver mai ottenuto nulla, di trovarsi in carcere solamente perchè fratello di fra Dionisio, concludendo col supplicare S. S. che si degnasse «ordinare à Mons.r Nuntio, et altri Giudici, che debbano con effetto provederlo di giustitia, giudicandolo secondo la sua propria colpa ò innocenza, et non secondo la ragion di Stato di Ministri temporali, la quale dopo tanto tempo dovria cessare». E il Nunzio, il 23 agosto, rispondeva come già altra volta (ved. pag. 212), che veramente fra Pietro era stato carcerato «più per essere fratello di fra Dionisio... che per delitto che si pretendesse contra di lui», ma «pe' suoi ragionamenti molto domestici» avuti di notte col Campanella, era stato ritenuto conscio del fatto e quindi da dover rimanere in carcere fino a che la causa fosse spedita: «intanto (egli aggiungeva) il Campanella si scoperse matto, et si fermò il negotio ne termini che si trovava, che veramente è alla fine, et si potrebbe ogni volta spedire, ma si è soprasseduto per la causa dell'Inquisitione»; questa si era protratta tanto che i Ministri Regii ne aveano molte volte fatto rumore, ma già al Vescovo di Caserta era stato ingiunto di procurarne la fine, e alla venuta di lui in Napoli dovea ripigliarsi, ed allora egli avrebbe procurata la spedizione di fra Pietro[315].

In fondo pel povero fra Pietro non c'erano che buone parole. Come già una prima volta nell'anno precedente, così anche questa volta il Nunzio promise e non attenne: benchè riconosciuto innocente, fra Pietro aspettò invano un provvedimento speciale per lui, e dovè rassegnarsi a vedere prima terminata la causa di eresia per tutti gl'inquisiti, tra' quali apparve egli pure compreso, mentre neanche il Nunzio nella sua lettera a Roma avea mostrato di essersene mai avveduto! Fortunatamente si era già ordinato di venire alla conclusione intorno all'eresia, per poi passare alla conclusione intorno alla congiura, ciò che ci resta appunto a narrare esponendo gli esiti de' processi.

[Pg 283]

V. Sarà bene pertanto occuparci delle opere scritte dal Campanella in questo lungo periodo di tempo, che comprende oltre due anni, dal maggio 1600 al settembre 1602: potremo così dare anche un qualche sollievo all'infinita noia inflitta a' lettori coll'esposizione del processo di eresia, inflitta veramente non per colpa nostra, ma per colpa de' Giudici. Come avea cominciato fin da' primi momenti dell'arrivo nelle carceri di Napoli, egli continuò a comporre poesie e prose, e per determinare nel miglior modo la data rispettiva, sarà bene dividere in due il periodo anzidetto. Nel 1o, che va dal maggio 1600 al 2 agosto 1601, data della ricerca di scritture fatta dagli ufficiali del Castello, egli senza dubbio compose tutte le Poesie che furono trovate presso fra Pietro Ponzio, all'infuori di quelle che abbiamo veduto costituire un primo gruppo riferibile al periodo antecedente; inoltre compose o meglio ricompose il libro della Monarchia di Spagna. Nel 2o, che va dal 2 agosto 1601 in poi, egli pose mano alle opere filosofiche, cominciando dal portare a compimento l'Epilogo di Filosofia, o la Filosofia epilogistica, che si ricorderà essere stata trovata sotto la finestra del suo carcere, buttata giù al momento in cui vi entravano gli ufficiali del Castello.

Al libro della Monarchia di Spagna egli attese certamente con la maggiore assiduità, avendolo ritenuto molto giovevole per la difesa della causa della congiura: dopo gli Articoli profetali, probabilmente dalla 2a metà del maggio 1600, dovè esser questa la sua unica occupazione seria, onde potè poi aggiungere di seconda mano il ricordo del libro nelle Difese già ricopiate. Noi ci siamo spiegati a lungo altrove intorno alla data della composizione della Monarchia (ved. vol. 1o, pag. 146-47) e ne abbiamo anche detto qualche altra cosa parlando delle Difese (ved. qui pag. 99 e 113); non sentiamo quindi la necessità di discorrerne ulteriormente. Solo diremo, che prima del giugno 1601, data in cui fra Pietro di Stilo presentò le Difese al tribunale, il libro dovè essere stato già scritto e mandato a Stilo, per farlo trovare in quel posto e farne menzione appunto nelle Difese. Nè ci dissimuliamo che siffatto termine di un anno, impiegato nella ricomposizione di un libro da parte di un uomo come il Campanella, sapendosi non averne allora scritto alcun altro, riesce estremamente lungo, sicchè tanto più si avrebbe motivo di pensare che il libro sia stato davvero composto, non già ricomposto nel carcere; ma ricordiamo pure che per tutto l'anno il Campanella fu guardato di molto a causa della sua pazzia, finchè poi non ebbe a provarla col tormento della veglia. Del resto, come abbiamo già fatto notare altrove, importa poco che il libro sia stato composto nella fine del 1598 o nel 2o semestre del 1600, non essendovi gran differenza tra l'essere stato scritto quando si meditava una congiura o quando si voleva dimostrare che non c'era stata congiura; importa solo sapere che non fu composto dopo dieci anni di prigionia, e che fu ad ogni modo un libro di occasione,[Pg 284] destinato ad addormentare od a placare la Spagna, onde non gli si può dare la significazione che gli è stata data, e bisogna trattenersi dal vedervi il saggio di una delle grandi aspirazioni del Campanella.

L'autore poi dovè certamente rivedere in sèguito questo libro, e per lo meno ritoccarne il proemio e la conchiusione, là dove, negli esemplari manoscritti che tuttavia se ne hanno in gran copia, esso reca l'indirizzo ora semplicemente a un D. Alonso, ora al Reggente Marthos Gorostiola, ed ora è sfornito di provenienza e di data, ora reca la provenienza dal conventino di Stilo e la data del dicembre 1598, aggiuntavi talvolta anche l'età dell'autore. Nel Syntagma de libris propriis troviamo registrato che egli compose la Monarchia dapprima in italiano, e poi essa «giunse nelle mani di tutti, nella lingua italiana e nella latina, dalle collezioni di Gaspare Scioppio e di Cristoforo Flugio». Vedremo più in là che il Flugio fu presso di lui nel 1603 e ne ebbe certamente la Filosofia che il Campanella finì di scrivere dopo la Monarchia; non ci sembra quindi arrischiato l'ammettere che abbia avuta anche la Monarchia in siffatta occasione; lo Scioppio poi ebbe egli pure la Monarchia con diverse altre opere verso la metà del 1607. Volendo prestar fede al Syntagma, bisognerebbe dire che il Campanella abbia voltata in latino la Monarchia innanzi il 1607: ad ogni modo ci pare che le due date diverse della consegna di questo libro, il 1603 e il 1607, dieno la ragione del trovarlo indirizzato una volta semplicemente a D. Alonso, e un'altra volta al Reggente Marthos con tutte quelle altre sfolgoranti circostanze della provenienza e della data. Giacchè appunto nel frattempo, alla fine del gennaio 1604, come si rileva anche dal Carteggio del Residente Veneto, era trapassato il Marthos; avea quindi potuto il nome di lui esser posto in luogo di quello di D. Alonso, rimanendo così eliminata ogni reminiscenza del De Roxas, e fornita una prova più limpida dell'affezione dell'autore agli spagnuoli, se non presso il Governo Vicereale che lo conosceva bene, presso la Curia Romana, l'Imperatore, gli Arciduchi di Austria e il medesimo Re di Spagna, presso tutti i potenti Principi a' quali il povero filosofo ebbe a rivolgersi. Ma non vennero fatte nel libro altre innovazioni, e si può dire che le piccole varianti introdottevi sieno piuttosto dovute a' cattivi amanuensi, giacchè per lungo tempo l'opera, assai ricercata, corse solamente manoscritta tra gli eruditi; del resto un confronto qualunque de' diversi esemplari non è stato mai fatto, e varrebbe la pena di farlo così per questa come per ogni altra opera del Campanella rimasta lungamente manoscritta, poichè nelle varianti potrebbe rilevarsi meglio la mano dell'autore e scoprirsene anche l'animo o piuttosto i bisogni ne' diversi tempi successivi. Si conosce che la Monarchia fu pubblicata per le stampe dapprima in tedesco, senza indicazione di luogo, nel 1623, a cura di Cristoforo Besoldo, il quale l'ebbe certamente dal suo amico[Pg 285] Tobia Adami cui fu consegnata dal Campanella con le altre opere sue nel 1613; molto più tardi fu pubblicata in latino, scorso un anno dalla morte dell'autore, in due luoghi e con più edizioni a breve intervallo (Hardevici 1640, Amsteleodami 1640 e poi ancora 1641 e 1643); quindi fu tradotta anche in inglese da Ed. Chilmead con pref. di Wil. Prinae in Londra 1649, ma nell'originale italiano fu pubblicata solamente a' giorni nostri a cura del D'Ancona in Torino 1854[316]. Una lettera inedita del Campanella, che noi pubblichiamo, ci mostra che l'autore fino agli ultimi anni della sua prigionia desiderò vivamente che l'opera, insieme con un'altra analoga, fosse data alle stampe, e ne fece dimanda al Vicerè[317]; ma sicuramente, allorchè fu libero, non dovè più gradirne la pubblicazione. Pertanto in Italia, durante la vita dell'autore ed anche dopo, se ne fecero molte copie manoscritte, ed ancora ne rimangono parecchie in varie Biblioteche, non meno di quattro in Napoli (tre nella Bibl. naz. ed una nella Bibl. de' PP. Gerolamini), una in Firenze, una in Lucca; e non meno di tre ne passarono a Parigi (Bibl. Naz. Ital. num. nuov. 875, 984 e 985) e una ne giunse pure a Londra (Mus. Brit. Egerton-collection no 10,689) che reca essere stata eseguita «anno 1634 a quinto di Septembre». Non paia eccessiva tutta questa discussione, trattandosi della Monarchia di Spagna, che per lo meno riguarda troppo da vicino l'argomento nostro.

Aggiungiamo che si potrebbe credere essersi il Campanella in questo periodo occupato pure della revisione de' «Discorsi a' Principi d'Italia» etc. che tanta attinenza aveano col libro della Monarchia di Spagna e che furono menzionati egualmente nella sua Difesa. Ma ricordiamo che egli ne fece menzione dicendoli inviati a Massimiliano, e d'altronde, così come li possediamo, offrono la citazione di qualche opera scritta ancora più tardi; bisogna quindi rimandarne l'avvenimento della revisione a una data posteriore.

Venendo alle Poesie, innanzi tutto dobbiamo dire che non può non recar maraviglia la loro quantità con indirizzi anche a persone [Pg 286] diverse, taluna delle quali persona veramente ufficiale, come p. es. la Sig.ra D.a Anna che vedremo dover essere stata una parente di D. Alonso il Castellano, in un tempo in cui il Campanella mostravasi pazzo! Possiamo in verità rimandare le poche poesie con siffatto indirizzo al tempo posteriore all'amministrazione della veglia; ma neanche possiamo rimandarle tutte come vedremo, e dobbiamo ricordare che quel tempo non raggiunse due mesi, essendo circoscritto dal 4 giugno al 2 agosto, e la Musa doveva mostrarsi allora ben riluttante, sicchè un numero molto tenue è lecito assegnarne al detto bimestre; d'altronde sono anche troppe le poesie indirizzate a persone, specialmente del bel sesso, in rapporti più o meno diretti con la famiglia del Castellano, nè poi il Campanella dopo la veglia avea peranco cessato di mostrarsi pazzo. Bisogna dunque conchiudere che nel Castello, perfino presso il ceto autorevole, non mancarono persone pietose e ben disposte verso il prigioniero; nè egli mancò di procurarsene la benevolenza e mostrarsene grato, esaltandone le virtù, carezzandone anche la vanità, abbandonandosi perfino al genere erotico e lascivo, sempre col gusto de' tempi, non senza comporre versi egualmente per conto di altri, spesso per procurarsene qualche favore e sovvenzione nella squallida miseria in cui si trovava. Non farà quindi maraviglia se queste poesie riescano quasi tutte scadenti, di niun valore letterario, ma in compenso di molto valore storico; nè farà maraviglia se in quelle poche, le quali trattano soggetti più elevati, si notino principii politici e religiosi comuni, mentre l'autore avea bisogno di giustificarsi, e le sue poesie doveano circolare tra persone sovente attaccate al Governo, più sovente attaccate alla religione nel senso volgare. Si comprende agevolmente, che non potremmo fare una rassegna minuta di tutte queste poesie senza allungar troppo la nostra narrazione, ma si comprende pure che non possiamo passarcela di volo, dovendo rilevarne specialmente ciò che può chiarire la vita intima del Campanella, ed anche la vita riposta per quanto è possibile, in questo notevole periodo della sua prigionia.

Poniamo in primo luogo alcuni Sonetti profetali, che si trovano disseminati nel presente gruppo di poesie, come ne abbiamo visto disseminati anche nel gruppo appartenente al periodo anteriore, e menzionati nel Syntagma quali Ritmi consolatorii, diretti a dar vigore agli amici. Uno di essi comincia col verso

«La scola inimicissima del vero»

e l'altro col verso

«Mentre l'aquila invola e l'orso freme»[318].

Entrambi ebbero l'onore della stampa per cura dell'Adami, ma non senza mende, come del pari l'ebbe un terzo, che mostra [Pg 287] quanto il Campanella tornasse volentieri su questo tema, per ricordare «il fine instante delle cose umane»: esso fu dettato ad occasione di una richiesta avuta di scrivere qualche Commedia, e comincia col noto verso

«Non piaccia a Dio che di comedie vane» etc.[319].

Chi mai potè fare tale richiesta al Campanella? Oseremmo dire Felice Gagliardo, che si è visto avere scritti più Prologhi di Commedie. Un altro Sonetto consolatorio di genere diverso è quello poco convenientemente intitolato «Al Principe di Bisignano», che è veramente un ricordo dell'essere stato il Principe rinchiuso nella medesima prigione, e dell'esserne poi finalmente uscito, onde il poeta ha motivo di dire

«Gran forza e speme tanto essempio adduce»[320]:

vi si possono fare varie osservazioni circa il numero di anni passati dal Principe in prigione, circa i motivi della prigionia, ed anche circa i motivi del ritorno in libertà, ma a' poveri calabresi la sola «cessata ragione di Stato» dovea sembrare un motivo soddisfacente.

Passando alle Poesie politiche, ne troviamo solamente cinque, intitolate all'Italia, a Genova, a Venezia, a Roma, e «Roma a Germania»[321]. Le tre prime furono poi pubblicate, le altre due furono scartate; ma quella all'Italia fu pubblicata sotto la forma di Canzone, mentre originariamente era stata composta in forma di Sonetto con appendici, e fu anche intitolata «Agl'italiani che attendono a poetare con le favole greche», mentre originariamente non aveva titolo determinato; nè sarà superfluo far avvertire, che le prime notizie delle proprie Poesie date dal Campanella nella lettera al Card.l Farnese del 1606, seguita dalle altre al Card.l S. Giorgio e al Re di Spagna, poi anche nel Memoriale al Papa del 1611, fanno distinta e principale menzione di tali poesie politiche[322].

Quella all'Italia può dirsi un vero Inno al primato italiano, nel quale son pure notevoli diversi concetti generali e particolari: l'essere cioè «sepoltura de' lumi suoi, d'esterni candeliere», il ferir sempre di nuovi affanni «lo stilense» il quale «quella patria honora che poi lui dishonora», il non cessar mai «di servir chi la paga d'ignoranza, discordia e servitute» alludendo certamente a Spagna ed a' Principotti italiani. Non parliamo poi del Sonetto [Pg 288] a Genova nè di quello a Venezia, permettendoci solamente di ricordare ancora una volta, che da quest'ultimo, e non da ciò che dovè scrivere in certi momenti tristissimi, conviene desumere i convincimenti del Campanella intorno a quella mirabile repubblica, fondata sul sapere e sul potere, condotta senza fiacchezze sentimentali, e perciò durata tanti anni. Circa il Sonetto a Roma, conviene notarvi quel concetto osservabile

«Deh non pianger l'Imperio, Italia mia,
ch'hoggi l'hai vie più certo e venerando»,

mentre nel primissimo Sonetto all'Italia, composto in altre circostanze, il poeta si era doluto che non si vedeva già più «vergognarsi per l'onor di Dina» nè Simeone nè Levi. Ecco dunque uno spiccato ritorno indietro, e non di poco momento: ma non deve sfuggire che il Sonetto fu scartato quando si venne alla pubblicazione delle poesie, e si può anche osservare, che mentre ne' versi originarii della poesia menzionata più sopra e diretta «Agl'italiani» etc. si leggeva

«...... la gran Roma
dove anche ha Dio suo tribunal costrutto»,

ne' versi rifatti posteriormente e così dati alle stampe si lesse

«E del cielo alle chiavi alfin pervenne»;

cioè a dire, fu sostituito un encomio di abilità politica ad un riconoscimento di dono soprannaturale. Circa il Sonetto «Roma a Germania», esso segna il passaggio alle poesie religiose, rappresentando una tirata contro la riforma, e questo veramente non è affatto nuovo nell'ordine delle idee del Campanella, cui la dissociazione nella fede cristiana riuscì sempre assai molesta: ma è nuovo quel tuono da pergamo accompagnato da vaticinii d'immancabile rovina, e bisogna tener presente che questo Sonetto fu pure scartato, e manifestamente uno studio dello scarto fatto riescirebbe davvero istruttivo.—Citiamo qui, al sèguito degli anzidetti, il Sonetto «Sovra il monte di Stilo»[323], poesia di niun valore, ma espressione di un caro ricordo del povero prigioniero, e passiamo subito a' Sonetti religiosi. Essi sono al numero di sei, de' quali furono poi pubblicati quattro, e riflettono la morte di Cristo, il sepolcro di Cristo, la Croce, l'Ostia consacrata[324]. In tutti brilla la professione di cristianesimo senza riserve, il concetto di Cristo vero figliuolo di Dio, ciò che il processo mostrava essere stato da lui negato; intorno alla Croce, egli spiega la sua poca simpatia verso la tendenza a mettere in mostra Cristo crocifisso invece di Cristo trionfante, ed anche in ciò si trova una giustificazione riferibile alle cose emerse dal [Pg 289] processo. De' due, che non furono poi pubblicati, l'uno tratta ancora del sepolcro di Cristo ma in tuono assolutamente predicatorio, l'altro rappresenta un fervorino sull'Ostia consacrata, e risulta esso pure una giustificazione. Si direbbero tutti questi Sonetti composti nella Pasqua del 1601.

Giungiamo alle poesie con indirizzo o menzione di persone diverse, talora non determinate, talora più o meno determinate, delle quali, potendo, c'ingegneremo sempre di dare qualche notizia, massime allorchè si tratti di persone benefattrici del povero prigioniero. Ci liberiamo dapprima di due Sonetti, l'uno per l'entrata di un alunno incognito nell'ordine monastico de' Somaschi, l'altro per l'entrata di un'Artemisia del pari incognita in un convento[325]. Citiamo poi due Sonetti indirizzati a due persone delle quali già abbiamo fatto conoscenza[326]: l'uno al Sig.r Cesare Spinola «splendor d'Italia, difensor di virtù», che l'autore encomia e ringrazia

«Del Campanella per la defensione
contro lo stuol traditoresco e rio»,

e manifestamente esso deve dirsi scritto poco dopo il 15 novembre 1600, giacchè a questa data lo Spinola lo difese mentre era chiamato qual testimone dal Pizzoni; l'altro, senza dubbio di pari data e per la stessa circostanza, indirizzato a D. Francesco di Castiglia, che l'autore loda molto anche come poeta, cantore di donne sante, di cocenti amori, e perfino di Antiochia vinta. E forse egualmente al Castiglia, seguace del Tasso, deve dirsi indirizzato il Sonetto che nella Raccolta vien subito dopo[327]: esso rappresenta una gentile ammonizione al seguace del Tasso, cui addita una meta più alta e abbastanza notevole per l'argomento della nostra narrazione, quella meta per la quale, il poeta dice, gioverebbe avere a guida Dante e Petrarca, scaldarsi al «fuoco de' lor petti», sentirsi il cuore punto «da giuste ire», elevarsi ed elevare

«Al degno oggetto dell'umana mente».

Ricordiamo inoltre qui il Sonetto indirizzato a un Sig.r Aurelio[328], un «canoro Cigno» tra' molti che si riunivano nelle Accademie napoletane, tanto più pullulanti quanto più avversate da Spagna. Non sapremmo, tra' mille Accademici di quel tempo, chi abbia potuto essere questo Sig.r Aurelio: ad ogni modo egli dovè vedere il Campanella ed eccitarlo a cantare di Cesare, e il Campanella se ne scusò adducendo le sue tristi condizioni,

«Che in atra tomba piango i miei dolori
sol pianto rimbombando il ferro e il sasso».

[Pg 290] Ecco ora un Sonetto al Sig.r Troiano Magnati[329], un cavaliere del quale possiamo dare qualche notizia sicura. Primogenito di D.a Ippolita Cavaniglia, che vedremo tra poco celebrata egualmente, egli faceva parte della Compagnia de' così detti Continui, una specie di Guardia del corpo del Re, e per esso del Vicerè, composta per metà di spagnuoli e per metà di napoletani, scelti sempre tra le persone nobili, e ne' primordii dell'istituzione tra le persone nobili di prim'ordine: una cedola di pagamento del soldo per l'anno 1596, ed una dimanda di licenza al Vicerè per l'anno 1610, che si leggono nelle scritture dell'Archivio di Stato, ci hanno fatto conoscere questa sua condizione di Continuo[330]. Il Campanella, dopo lodi enfatiche e seicentesche, gli chiede umilmente protezione per sè e pei suoi compagni:

«. . . . . . vendichi l'onte
fatte a tanti virtuosi e a me meschino».

Veniamo a D.a Ippolita Cavaniglia, la più alta benefattrice del Campanella e de' frati; a lei sono indirizzate non meno di tre poesie[331]. Un documento, da noi rinvenuto nell'Archivio di Stato, ci mostra questa Signora esser figliuola di D. Garzia Cavaniglia Conte di Montella, ma forse figliuola naturale, già vedova fin dal 1593 di Fabio Magnati, e madre di Troiano, Flaminio, Gio. Battista e Geronimo[332]. Si sa che i Cavaniglia, gente valorosa e fida e di sangue regio, vantavano l'essersi stabiliti nel Regno col 1.o D. Garzia, venuto da Valenza in Napoli con Alfonso d'Aragona, fatto Conte di Troia nel 1445 e celebrato dal Sannazzaro (la Contea di Montella sopraggiunse più tardi, nel 1477, con D. Diego, l'amante della sorella di Ferdinando Aragonese): ne abbiamo un trattato scritto dal Sarrubbo, oltre le notizie registrate dal De Lellis nei suoi ms. che si conservano nella Bibl. nazionale di Napoli; ma le donne non figurano mai nel Sarrubbo, e il De Lellis ricorda solamente, quali figlie del 2.o D. Garzia, Cornelia e Fulvia monache; e tuttavia il documento suddetto non lascia dubbio sulla origine di D.a Ippolita, mentre d'altra parte i libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo fanno spesso menzione di lei e de' suoi[333]. [Pg 291] Quanto a Fabio Magnati, il Capaccio mostra la famiglia de' Magnati proveniente da Bologna, dove essa era una delle 40, venuta in Napoli con Carlo 1.o, e dichiara Fabio «dottore di leggi, gentil' huomo virtuosissimo»[334]: non è improbabile che egli fosse Auditore del Castel nuovo, ma ad ogni modo là abitava con la sua famiglia. Nel corso di questa narrazione abbiamo visto raccomandata a D.a Ippolita la lettera inviata da Sertorio del Buono a fra Dionisio, che fu poi trovata il 2 agosto 1601 dagli ufficiali del Castello. Nelle poesie, oltre la sua nobiltà affermata con le nozioni storielle suddette, oltre la maestosa bellezza e tanti altri pregi, vediamo esaltata la sua

«Generosa pietà, man liberale»

e sempre col maggior rispetto, e con una impronta di serietà sovente lasciata da parte nelle altre poesie dirette al bel sesso; onde si vede che effettivamente il Campanella sentiva per lei quanto le esprimeva nel verso

«L'altre femine son, tu donna sei».

Ma nella terza delle poesie, che è un Madrigale, il Campanella rivela tutta l'intensità della sua gratitudine:

«. . mille grazie e benefizii farmi
volesti ancor; felici ferri e sassi,
che stringete i miei passi,
ringraziar non poss'io
nè gioir del sol mio,
ringrazio voi e di voi più non mi doglio» etc.

Abbastanza analoga a codeste poesie, comunque meno fervorosa, è l'altra seguente, indirizzata a una Sig.ra Olimpia[335]: non ci è riuscito interpetrare chi abbia potuto esser questa Signora e parrebbe che non abitasse nel Castello, poichè i libri parrocchiali non fanno alcuna menzione di un nome simile; il Campanella ne loda essenzialmente «l'umanità». Lo stesso dobbiamo dire della Sig.ra Maria, della quale il Campanella esalta la grande bellezza ed invoca la cortesia e la pietà, mostrando pure che glie ne avesse [Pg 292] dato prova una volta e poi si fosse posta in contegno[336]: tali circostanze ci hanno fatto per un momento pensare che potesse trattarsi della Castellana medesima, cugina e moglie di D. Alonso, che varii documenti e perfino il Carteggio dell'Agente Toscano attestano sovranamente bella, e che per la sua posizione sarebbe stata veramente in grado di giovare il Campanella con la pietà; ma non può ritenersi punto consentaneo all'indole de' tempi veder chiamata la Castellana di casa Mendozza col nome di «Sig.ra Maria», e difatti «D.a Maria» o semplicemente «Maria» si trova sempre chiamata ne' libri parrocchiali del Castello. Potrebbe essere stata una Maria Gentile o una Maria Spinola, e piuttosto quest'ultima, poichè le si vede anche indirizzato ad istanza del Sig.r Francesco Gentile un Madrigale tutto smancerie e peggio secondo il gusto de' tempi; e vi sarebbe una Maria Spinola Centurione da potersi supporre quella di cui qui si tratta, ma non vale la pena di sciupare il tempo in supposizioni troppo vaghe. Giungiamo alla Sig.ra «D.a Anna». Qui il titolo è tale da dover fare ammettere senz'altro una Signora di casa Mendozza, ma, secondochè insegnano i libri di materie nobiliari e i libri parrocchiali del Castello, vi furono non meno di tre Signore di questo nome; 1.o D.a Anna di Toledo figlia di D. Pietro il Vicerè, maritata a D. Alvaro di Mendozza già Castellano e madre di D.a Maria la Castellana moglie di D. Alonso, rimaritata a D. Lope di Moscoso Osorio 4.o Conte di Altamura, onde ne' libri parrocchiali trovasi anche detta «Anna Moscosa»; 2.o D.a Anna sorella del predetto D. Alvaro, quindi zia di D.a Maria ed anche dello sposo di lei D. Alonso il Castellano che le era cugino, maritata a Lelio Carafa e rimaritata al Conte di S. Angelo, lungamente vedova e fondatrice della Chiesa di Pizzofalcone, spesso detta ne' libri parrocchiali Contessa di S. Angelo; 3.o D.a Anna ultima sorella di D. Alonso il Castellano, malamente detta Claudia dal De Lellis, maritata nel 1594 a D. Ferrante de Bernaudo e dimorante senza dubbio nel Castello, detta sempre «D.a Anna» ne' libri parrocchiali[337]. Forse a quest'ultima, forse anche meglio alla prima [Pg 293] D.a Anna, la quale era tuttavia una delle belle, fu indirizzato il Sonetto dal filosofo; ma a qualunque delle dette Signore sia stato esso indirizzato, si tratterebbe sempre di persone in parentela stretta col Castellano, ed in ciò precisamente risiede la singolarità del fatto, mentre il filosofo mostravasi a quel tempo nel colmo della sua pazzia. Quanto ai concetti espressi nel Sonetto, vi si trova lodata la bellezza e nobiltà di D.a Anna, se ne vede invocato l'amore, con quegli spasimi a freddo che è maraviglioso come abbiano potuto regnare in poesia tanti e tanti anni senza nauseare[338]: lo stesso si trova egualmente in più composizioni del Campanella, delle quali dobbiamo ancora discorrere, onde si rileva che pure da questo lato egli abbia sacrificato al gusto e alla necessità de' tempi senza esitazione.

Ed eccoci all'ultimo gruppetto di poesie, nelle quali generalmente il pessimo gusto signoreggia sovrano. Le facciamo cominciare dal Sonetto che fra Pietro Ponzio trascrisse senza titolo, ma che mostrasi indirizzato ad un Gentile[339]. Non è dubbio che si tratti qui del Sig.r Francesco Gentile, per conto del quale fra Pietro raccoglieva le poesie del Campanella nel libretto che gli fu poi trovato dagli ufficiali; e possiamo affermare di non aver risparmiato assolutamente nulla per sapere chi fosse questo Sig.r Francesco Gentile, ma pur troppo senza esservi riusciti. Dalle poesie egli apparisce parente di una Sig.ra Giulia Gentile, alla quale il Campanella non manca di scrivere un Sonetto e un Madrigale, innamorato di una Flerida, alla quale il Campanella scrive poesie per conto di lui e poi anche per conto proprio, e spesso e vivacemente: ad istanza di lui ancora il Campanella scrive il Madrigale alla Sig.ra Maria già ricordato qui sopra, e crediamo che per conto egualmente di lui sieno state composte molte poesie di amore anche lascivo, mentre alcune altre dello stesso genere appariscono pure indubitatamente scritte dall'autore per conto proprio. Avevamo dapprima pensato che potesse essere Francesco Gentile da Barletta, nipote della Sig.ra Giulia Gentile, presso la quale stava ritirata D.a Ilaria Sifola sposata a D. Andrea de Mendozza figlio di D.a Isabella Marchesa della Valle con grandissimo sdegno di costei (confr. pag. 258): questo D. Francesco, nobile di prim'ordine ed amico delle buone lettere come lo provano due Commedie che di lui ci rimangono[340], avea potuto venire con la sua zia in Napoli, per placare la Marchesa e cercare un accomodamento nella lite di nullità intentata da lei a proposito del matrimonio di suo figlio. Ma al tempo del quale trattiamo egli doveva essere molto giovane, e la Marchesa trovavasi nel maggior colmo de' suoi furori: abbiamo infatti visto che il povero Nicolò Napolella ne soffrì le conseguenze fino ad una [Pg 294] parte del 1602, e i libri parrocchiali del Castel nuovo ci mostrano D.a Ilaria riunita a D. Andrea non prima del 1618. D'altronde fra Pietro Ponzio nel principio di dedica della Raccolta delle poesie lo dice Patrizio Genovese, e il processo dell'eresia ci mostra nel 14 novembre 1600 dato per testimone dal Pizzoni nelle sue difese un D. Francesco di Genova che verosimilmente è il Gentile, inoltre ci mostra dopo il 2 agosto 1601 dato per testimone da fra Pietro nella denunzia contro gli offensori de' frati il Sig.r Francesco Gentile, di cui il Mastrodatti dice, «è stato carcerato e liberato...» etc. (ved. pag. 241). Dovè dunque essere compagno di carcere de' frati, forse uno della famiglia de' Gentili che tenevano Banco in Napoli, del quale Banco esistono tuttora nel Grande Archivio tre libri che vanno dal 1592 al 1599; e ne' libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo egli figura qual padrino in un Battesimo del 18 aprile 1601. Ad ogni modo egli non era persona volgare, e nel Sonetto già citato, dicendosi pazzo, il Campanella gli chiede aiuto per sè e pe' suoi in nome dell'amore che egli porta a Flerida,

«Ond'io m'inchino a lei e per lei ti priego
ch'a lei, et a te, et a noi Gentil ti mostri
il fatal pazzo Campanella aitando».

Ma alla Sig.ra Giulia il poeta chiede nè più nè meno che amore e in un Sonetto la dice

«Gioia, idea, vita, luce, idolo, amore»,

e in un Madrigale ne loda la bellezza al punto, che dichiarandola superiore a Lia e Rachele egli si compiacerebbe di essere schiavo per sette e sette anni[341]. Intanto ad istanza del Sig.r Francesco Gentile scrive un Madrigale per Flerida, forse anche il Sonetto che segue, più probabilmente ancora un altro Sonetto posto nella Raccolta dopo quello indirizzato a lui[342]; e scrive inoltre il Madrigale alla Sig.ra Maria, dal quale si vede che il Gentile si compiaceva di fare il cascante a dritta ed a manca[343]. Vogliamo credere che egualmente per lui egli indirizzi a Flerida un Madrigale, da cui si rileverebbe essere stati ammalati entrambi ed essere ciò accaduto alla fine dell'anno, naturalmente alla fine del 1600[344]; dippiù il Sonetto col quale ne loda i nèi sul labbro e sul ginocchio, da' quali il poeta si lascia trasportare perfino

«. . . . . sul consecrato fonte
dell'immortalitate all'appetito»[345],

[Pg 295]

onde poi riesce di comprendere quel Madrigale, in cui si accenna a un certo fiasco fatto e spiegato non senza sufficiente industria[346]; finalmente anche il Sonetto in cui ringrazia Amore, l'altro sull'inestricabile laberinto d'Amore, e poi le Ottave e il Sonetto di sdegno, che dinotano una rottura completa e perfino villana[347].

Ma non siamo sicuri che tutte le poesie amorose dirette a Flerida siano state scritte per conto del Gentile, e una parte di esse ha potuto essere stata scritta per conto dell'autore, massime dopo la rottura anzidetta: è certo d'altro lato che l'autore credè egli pure dilettevoli o piuttosto comodi simiglianti passatempi, onde abbiamo almeno sei Sonetti di relazioni amorose indubbiamente sue, non mancando nemmeno nel titolo di alcuni fra essi indicato specificatamente «l'Autore». Forse presso Flerida ed anche qualche altra fanciulla egli trovò distrazioni, come di sicuro ne trovò presso una Dianora, al cui indirizzo la Raccolta ci offre un Sonetto; vedremo poi, nel sèguito della nostra narrazione, attestato da lui medesimo in una sua lettera il ricordo di scherzi a' quali certe donzelle lo invitavano dalle finestre, ed attestato dal Gagliardo in alcune sue deposizioni il ricordo di una certa Oriana, o secondo l'uso del paese D. Oriana, nome ingarbugliato che risponde bene a quello di Dianora, la quale abitava sotto la prigione e gli conservava libri e scritti, fornendoli ad ogni sua richiesta mediante una cordicina. La Dianora parrebbe una suora francescana, a giudicarne da' versi co' quali comincia il Sonetto

«Donna che in terra fai vita celeste
sotto la guida di colui che in Cristo
amando trasformossi»:

a lei il Campanella fa ringraziamenti, ma si dichiara nel tempo stesso devoto abbastanza intimo co' versi

«Stella Dian, Ora al mio fragil legno
che solca un mar d'affanni, onde non parte
l'occhio del mio desire e della mente»;

nè ci manca ne' Reg.i Partium la notizia di una «Sore Elionora Barisana», e, ciò che vale dippiù, ne' libri parrocchiali del Castel nuovo la notizia di una «Sore Dianora Barisciana di Barletta»[348]. Per questa donna, che potrebbe supporsi appartenente alla famiglia del «torriero» come allora si diceva il guardiano della torre, o per Flerida e altre fanciulle che potrebbero supporsi appartenenti [Pg 296] alla bassa famiglia de' Mendozza, egli dovè scrivere i rimanenti cinque Sonetti ne' quali canta il suo intrigo amoroso, un laccio di capelli da lui dimandato ed avuto, un presente di pere inviatogli, un bagno fornitogli in sollievo de' suoi dolori, ed anche una scena erotica abbastanza vivace accaduta a traverso il muro della prigione[349]. Mettendo da parte siffatta scena che i lettori potranno rilevare col loro comodo, notiamo quella singolare dichiarazione che il Campanella fa nel Sonetto sul presente di pere

«Che solo Amor può darci il sommo bene
lo qual filosofando io non trovai»[350];

notiamo poi con tanto maggiore interesse la circostanza, che l'avvenimento del bagno fornitogli dalla sua donna si deve riferire al tempo che scorse dopo il tormento della veglia, onde il povero filosofo si sentì ristorato ed anzi poeticamente risanato,

«Tolsi l'acqua, applicaila al corpo mio
già fracassato dopo lunga guerra
per gran tormento ch'ogni forte atterra,
del medesmo liquor bivendo anch'io»[351].

Abbiamo dunque un Sonetto composto certamente dopo la veglia, a tempo de' bagni, vale a dire in luglio secondo il costume del paese: ma esso non fu il solo, e possiamo con ogni probabilità aggiungervi anche con precedenza due altri Sonetti indirizzati a un «Sig.r Petrillo»; nè ci trattiene il rinvenirli a capo di tutto il gruppo delle poesie appartenenti al periodo di cui discorriamo, giacchè questo potrebbe significare solamente una speciale distinzione[352]. Dal primo de' due Sonetti questo Sig.r Petrillo apparisce un fanciullo, o più verosimilmente un giovanetto, leggiadro e riservato, che consola il povero filosofo con la sua presenza, e l'eccita a scrivere nuovamente qualche poesia,

«Il vecchio canto a ripigliar m'invita»;

e il filosofo dicendosi pazzo ed incapace di poetare con gusto, apparisce addolorato e affranto addirittura,

«Carme ti rendo d'ogni gusto parco,
ch'esce da bocca di dolcezza lungi,
ch'agli ultimi sospiri è fatta varco»;

ci parrebbe impossibile riferire simiglianti espressioni, e tutto il resto, ad un tempo diverso da quello che seguì immediatamente la veglia. Con l'altro Sonetto il filosofo loda la bellezza del fanciullo e gli comunica eccellenti riflessioni morali, ma continua sempre ad apparire profondamente mesto, ed anche oppresso dal pensiero dei [Pg 297] tradimenti che nella vita si patiscono; e chi era dunque questo Sig.r Petrillo? I libri parrocchiali del Castel nuovo ci dànno un po' di luce anche in questa come ce l'hanno data in altre circostanze: vi era un «Petrillo» figlio dello speziale del Castello Ottavio Cesarano e di Polissena Cammardella; nato nel 1583, egli morì nel 1603, ed avea quindi poco più di 17 anni allorchè comparve al filosofo, e doveva essere leggiadro come uno di que' fiorellini i quali, al vederli, fanno temere che ben presto piegheranno il capo[353]. Grande meraviglia ci avea recato il non trovare qualche poesia diretta dal filosofo al suo migliore aiuto, al chirurgo Scipione Cammardella; ma ecco che lo vediamo onorato in persona del nipote, il quale verosimilmente l'accompagnò in taluna delle prime visite e poi più tardi, quando il filosofo era sempre assai sofferente, e in principio tuttora non fiducioso al punto da fargli comprendere la simulazione della pazzia, in sèguito divenuto fiducioso in modo da mostrarglisi un vero e buono sapiente.

Furono queste le poesie che il Campanella compose dal maggio 1600 al 2 agosto 1601, e tutt'al più una sola di esse potrebbe dirsi apocrifa nella Raccolta fattane da fra Pietro, quella intitolata «Sonetto di Horatio di G.» etc.[354]. Sicuramente dopo il detto periodo egli non cessò dal poetare, ed anzi allora appunto compose le maggiori sue poesie, che si leggono nella Scelta pubblicatane più tardi dall'Adami: cercheremo a tempo e luogo di determinare, se sarà possibile, la data almeno di taluna di esse.

Veniamo alle opere alle quali il Campanella attese consecutivamente, e per ora a quelle composte dall'agosto 1601 fin verso la fine del 1602, cioè fino a che si compì il processo dell'eresia. Gioverà qui avvertire una volta per sempre che i fonti migliori, per determinare in un modo meno fallace le date di quanto egli compose negli anni più difficili della prigionia, saranno sempre le sue Lettere del 1606-1607 a' Card.li Farnese e S. Giorgio e al Re di Spagna, alle quali egli annesse l'elenco delle opere fin allora composte; meglio ancora la lettera allo Scioppio, egualmente del 1607, posta come proemio all'«Ateismo» e pubblicata dallo Struvio, nella quale citò ad una ad una con un certo ordine, ma nemmeno con un ordine cronologico esatto, le opere che realmente teneva a sua disposizione e che infatti gli mandò, avendole rivedute, ritoccate, ovvero composte di pianta, e facendo menzione anche di taluna che avea composta e perduta o stava componendo e non potea mandare ancora; inoltre il Memoriale del 1611 al Papa pubblicato dal Baldacchini, al quale fu pure annesso un elenco delle opere, e in generale tutte le lettere del Campanella scritte durante la [Pg 298] prigionia. Ma ad un grado limitatissimo potrà servire il Syntagma de libris propriis, pubblicato tanti anni dopo su note confusamente raccolte dal Naudeo, e manifestamente disordinato intorno alle opere scritte nel carcere, come si può rilevare dalle notizie che fornisce il processo dell'eresia, da quelle che forniscono i documenti anzidetti, non che dalla lettura medesima del libro[355]. Pel momento il processo dell'eresia è ancora il fonte certo, su cui si può contare senza riserva, e da esso sappiamo che il 2 agosto 1601 il Campanella già metteva mano a compiere l'Epilogo di Filosofia, o la Filosofia epilogistica.

Rammentino i lettori il manoscritto buttato giù dalla finestra del carcere del Campanella il 2 agosto, mentre venivano a visitarlo gli ufficiali del Castello. Oggi ancora vi sono in Italia due Manoscritti col titolo di «Epilogo...» o «Epilogo magno di quello [Pg 299] che della natura delle cose ha filosofato e disputato fra Thomaso Campanella servo di Dio»: analogamente al manoscritto buttato giù dalla finestra del carcere, l'uno, della Magliabechiana, comincia con le parole, «Perchè teco menar la vita non posso Signore, come il desiderio suo grande della virtù vorrebbe», l'altro, della Casanatense comincia con le parole, «Perchè menar teco la vita non posso Signore» etc.; entrambi finiscono con le parole, «quel che ne fece poi voi lo sapete», alle quali parole nell'esemplare della Magliabechiana succede un epigramma latino in lode del Campanella, e nell'esemplare della Casanatense succede un piccolo numero di brevissime note e postille. L'opera poi in latino, stampata a cura dell'Adami nel 1623 col titolo di «Philosophiae realis epilogisticae partes quatuor», comincia con le parole, «Quoniam tecum vitam ducere, charissime, non datur, ut avidissime cupis» etc., e nella sua 2a parte, che rappresenta l'Etica, finisce con le parole tradotte alquanto liberamente, «quid autem subinde fecerit, historia docet». Come si vede, trattasi qui dell'opera che sappiamo cominciata in Roma verso la fine del 1594 col titolo di «Compendio di Fisiologia», quando il Campanella non potea «menar la vita» con Mario del Tufo cui la mandò, continuata poi in Napoli nel 1598 con l'aggiunta anche dell'Etica. Dopo due mesi dal tormento della veglia, stando sempre a letto, il Campanella già attendeva a rivedere quest'opera e ne meditava il compimento: perduta la copia che ne aveva avuta senza dubbio da Mario del Tufo, è naturale ammettere che se n'abbia procurata un'altra, ma intanto, senza sospendere il suo lavoro, compose gli Aforismi politici e l'Economica, poi ritoccò l'Etica e compose ancora la Città del Sole menando così a termine tutta l'opera. Questi particolari del modo in cui il lavoro fu condotto si rilevano dal Syntagma, e fino ad un certo punto riescono confermati da ciò che mostrano intorno all'opera gli elenchi annessi alle lettere del 1606-1607 ed anche del 1611, come ancora da ciò che mostra il confronto dei Manoscritti in italiano con la parte corrispondente dell'opera stampata in latino. Gli elenchi del 1606-1607 mostrano l'opera col titolo di «Epilogo magno di ciò che ha filosofato» etc., e quello del 1611 la mostra col titolo di «Epilogismo delle scienze naturali e morali e politiche» etc., citando poi separatamente i libri degli Aforismi e della Città del Sole o «De propria Republica»; il confronto degli esemplari manoscritti in italiano coll'opera stampata in latino mostra nell'Etica molte varianti, sebbene vi si serbino interi lunghi tratti della composizione originaria non che la chiusura; e potremmo dare molti altri ragguagli, ma per lo scopo nostro ci pare che queste poche cose bastino. Così l'«Epilogo» o «Epilogo magno», come sono intitolati i Manoscritti della Magliabechiana e della Casanatense, sebbene con titolo rinnovato, rappresentano sempre l'opera quale fu continuata il 1598 in Napoli, e ci manca un manoscritto in italiano con l'Etica nel modo in cui fu ritoccata[Pg 300] verso la fine del 1601 nel carcere; abbiamo bensi gli Aforismi e la Città del Sole in italiano separatamente, quali furono composti nel detto tempo ma con precedenza, mancandovi ancora l'Economica. Tutte queste circostanze mostrano in pari tempo che veramente al Syntagma si può aggiustar fede in quanto a' particolari della composizione, se non in quanto alle date, mentre vi si legge: «Scrissi inoltre gli Aforismi politici, che poi distinsi in capitoli, e così composi la scienza politica; e vi aggiunsi l'Economica, utilissima; ed instaurai nuovamente l'Etica secondo la dottrina delle Primalità, e vi posi in ultimo un'idea di Repubblica che chiamo Città del Sole, molto più eccellente della Platonica e di qualunque altra» etc.

Adunque gli Aforismi politici, al numero di 150, furono composti con molta probabilità nel medesimo mese di agosto, sicuramente non più tardi del mese di settembre o ottobre 1601, mentre il povero filosofo stava ancora a letto col corpo lacerato dal tormento della veglia! Di poi fu scritta l'Economica, ed avuta forse un'altra copia dell'«Epilogo» fu rimaneggiata l'Etica. Degli Aforismi intanto molte copie si diffusero, prima che venissero ricomposti in capitoli e tradotti in latino. Se ne hanno tuttora in Napoli, nella Biblioteca nazionale, due copie, una delle quali è la copia già inviata allo Scioppio che ha note e postille autografe del Campanella, con citazioni di altre opere sue posteriori, come la Monarchia del Messia e i libri Astronomici; ce n'è una in Lucca nella Bibl. pubblica (cod. 2618), una in Firenze già nella Magliabechiana ed ora nell'Archivio di Stato tra le scritture Medicee miscellanee[356], una in Torino nella Bibl. dell'Università; ed anche a Parigi ne pervenne una copia nella Bibl. dell'Arsenale. Le due copie napoletane, al pari della fiorentina, hanno qua e là piccole aggiunte e specchietti in latino per taluni aforismi; ed offrono poi un piccolo garbuglio di distribuzione della materia, onde apparisce un numero di Aforismi un po' minore de' 150, mentre la materia c'è tutta. Si conosce che siamo debitori al D'Ancona della stampa degli Aforismi in italiano, così come furono composti originariamente dal Campanella: egli si potè servire solamente di una copia tratta da due Manoscritti parigini entrambi scorrettissimi, e dovè lavorare di molto a ridurla; le copie napoletane potrebbero ottimamente servire per qualche altra edizione.

Relativamente alla Città del Sole, la più importante per noi, di certo essa non fu composta dal suo autore «avanti che entrasse nel carcere» come è sembrato al Berti[357]: era bensì nella mente [Pg 301] e nel cuore di lui in quel tempo, ed anche sulle sue labbra a sprazzi, ma fu posta in iscritto solamente nel carcere, durante il 1602. Con ogni probabilità fu cominciata a' principii del 1602, scorsi i 6 mesi di cura che sappiamo essergli stati necessarii dopo la veglia, quando il suo corpo era tornato florido e il suo spirito trovavasi grandemente confortato; giacchè sostenuta bene la veglia, provata giuridicamente la sua pazzia, egli poteva reputarsi salvo, in forza di quel principio che registrò di poi in una delle note annesse alle sue poesie, cioè che «de jure gentium i pazzi son salvi»[358]; ed oltracciò, vedendo condotto così in lungo il processo dell'eresia, donde un ritardo sempre maggiore nella conchiusione del processo della congiura, dovea trarne la conseguenza che la ragion di Stato, della quale egli ritenevasi vittima, si sarebbe trovata verso di lui già calmata. E per verità, senza ammettere queste rosee speranze, non si potrebbe comprendere il suo ritorno a' cari sogni di un tempo, nel quale doveva allora sentirsi rivivere; non si potrebbe spiegare la sua audacia nel dar fuori, anche nascostamente e in mano di fidi amici, l'idea «della propria Repubblica» come egli l'intitolò di poi nelle sue Lettere a' Cardinali e al Re ed egualmente nel suo Memoriale al Papa; imperocchè grande davvero fu l'audacia sua nello scrivere un libro simile, mentre era in carcere e la sua sorte pendeva tuttora indecisa. Anche i biografi Campanelliani restii ad ammettere che il Campanella si fosse mai spinto a cospirare, segnatamente il Berti, hanno riconosciuto che nella Città del Sole sia stata da lui adombrata la Repubblica che si sarebbe fatta in Calabria, «nella quale esso si riprometteva non poca autorità»[359]; il Nunzio, che tenea sott'occhio al tempo medesimo i processi puramente ecclesiastici come p. es. quello di Squillace, ove erano registrate tante particolarità ammesse poi nella Città del Sole, potea formarsi un criterio gravissimo della colpabilità del Campanella intorno alla congiura e intorno all'eresia, nè occorre dire come dovesse ad ogni modo formarselo il Governo Vicereale, nel caso in cui gli fosse rimasto qualche dubbio intorno alla congiura. Ma l'indole del Campanella era appunto tale, da offrire una pieghevolezza eccessiva ed una temerità a tutta prova.—Il libro, come tutti gli altri finquì detti che vennero a costituire la «Filosofia epilogistica», fu scritto in italiano secondo il costume adottato dal Campanella già da qualche tempo, e fu da lui tradotto in latino più tardi, verso il 1613, quale si vede nella pubblicazione fattane dall'Adami il 1623; più tardi ancora fu ripubblicato egualmente in latino a cura dell'autore ormai libero in Parigi il 1636. Ma si comprende che esso dovè eccitare la curiosità al più alto grado, onde ne furono sin da principio fatte molte copie, delle quali ne rimangono tuttora alcune, sovente annesse agli Aforismi. In Napoli ve [Pg 302] ne sono due, una delle quali è la stessa già data allo Scioppio, non corretta dall'autore ma abbastanza buona, e l'altra è d'altra mano e molto buona; una copia ve n'è pure in Roma nella Casanatense, un'altra in Firenze, parte di un codice Riccardiano, un'altra in Lucca parte del codice sud.to della Bibl. pubblica; ed anche in Madrid rammentiamo di aver preso nota di un'altra copia là esistente senza il nome dell'autore. Le copie di Napoli, che abbiamo avuto tutto l'agio di esaminare, ci hanno mostrato due fatti importanti, non ancora avvertiti per quanto sappiamo: 1o, che esse rappresentano la composizione originaria del libro in una forma molto rozza, ma robusta e ad ogni modo caratteristica; 2o, che varii ritocchi successivi furono fatti al libro quando venne tradotto in latino nel 1613, e perfino quando ne fu preparata la ristampa, ciò che deve riferirsi a dopo il 1629. E poichè questo libro offre un saggio notevolissimo delle opinioni politico-religiose riposte dell'autore, meritano di essere ponderate le modificazioni successive introdottevi in tre date diverse, corrispondenti agli anni 1602, 1613, 1629; l'esame di tali modificazioni, mentre rivela l'animo dell'autore nelle dette date, rivela in pari tempo che le opinioni espresse in quel libro non furono da lui abbandonate giammai non ostante tutte le apparenze in contrario, come del resto si desume egualmente dalle Quistioni sull'ottima repubblica scritte in difesa della Città del Sole tanto più tardi, e fino ad un certo punto anche dalla dedica della 2a edizione del libro De Sensu Rerum fatta nel 1637 al Card.l Richelieu, dal quale, niente meno, l'autore disse di attendersi l'edificazione della Città del Sole[360]. Facciamo voti che questo libro, di cui si sono [Pg 303] eseguite diverse traduzioni e edizioni, sia pubblicato anche con le varianti delle diverse date suddette. Più edizioni sono totalmente esaurite: l'ultima del Daelli (Bibl. rara, Milano 1863), che abbiamo non ha guari potuto avere, è stata condotta sulla 2a ediz. di Lugano 1850, analogamente a quella più diffusa del D'Ancona, il quale non potè servirsi del codice Riccardiano perchè scorrettissimo. Entrambe quindi rappresentano un volgarizzamento dal latino, e per verità non ritraggono nel miglior modo la fisonomia del Campanella, de' suoi tempi e de' suoi luoghi, come lo farebbe l'italiano originale; basterebbe avere di esso almeno alcuni tratti, e possono sotto tutti i rispetti servire molto bene per una nuova edizione i codici napoletani.

Dopo la Città del Sole il Campanella attese certamente a comporre la sua Metafisica; e conoscendo essere stata questa un'opera [Pg 304] voluminosa possiamo ritenere che ebbe a lavorarvi per tutto il resto del 1602. Essa andò poi perduta, almeno per un certo tempo come vedremo, e non avendo altro fonte dal quale trarne maggiori notizie, dobbiamo ricorrere al Syntagma, il quale per fortuna apparisce esatto in tale circostanza. Ecco quanto vi si legge: «Poco di poi a Napoli scrissi una Metafisica in italiano, distinta in tre parti e quindici libri, ove trattai de' principii dell'essere, del conoscere e dell'operare, e posi allora le cause, i principii e le primalità dell'ente, sopra la Necessità, il Fato e l'Armonia escogitati prima da me: e questa ricevè dalle mie mani Geronimo Tufo Marchese di Lavello nell'anno 1603, nè me la restituì più mai». Adunque il Marchese di Lavello ebbe a fargli una visita in Castel nuovo il 1603, ed è verosimile che glie l'abbia fatta ai principii dell'anno, quando il processo dell'eresia era finito, ed anche la sentenza era stata comunicata al Campanella, ciò che vedremo [Pg 305]accaduto in gennaio 1603; non sarebbe quindi arrischiato l'ammettere che a tale data la Metafisica fosse stata già menata a termine. Circa il non essergli stata restituita la detta opera, vedremo che egualmente nella lettera del 1607 allo Scioppio il Campanella si dolse di «un Marchese discepolo ingrato» che se la riteneva, e quindi non a Gio. Geronimo, ma al figliuolo di lui che avea dovuto essergli discepolo, il Campanella credevasi in dritto di muover rimprovero; difatti nel Syntagma medesimo si trovano registrate le peripezie sofferte dal libro «essendo morto il Marchese», peripezie le quali con ogni probabilità il Campanella non conosceva ancora allorchè scriveva la lettera allo Scioppio.

Ci fermiamo qui per contenerci nel periodo che ci siamo prefisso. Aggiungiamo solamente che di tempo in tempo il Campanella dovè scrivere ancora altre poesie dopo quelle già menzionate, e fuori ogni dubbio una gran parte di esse, di natura intima, dovè essere eliminata quando si fece la scelta che fu poi pubblicata a cura dell'Adami: intanto, con un poco di buona volontà, si può pervenire a riconoscere qualcuna delle rimaste appartenente al periodo attuale. Ne indichiamo p. es. una che si rivela del tempo in cui l'autore scriveva la Città del Sole; è il Sonetto annoverato tra' Profetali che ha quella chiusa:

«Se in fatti di mio e di tuo sia il mondo privo
nell'util, nel giocondo e nell'onesto,
cangiarsi in Paradiso il veggo, e scrivo:

E il cieco amor in occhiuto e modesto,
l'astuzia ed ignoranza in saper vivo,
e 'n fratellanza l'imperio funesto»[361].

[Pg 306]

CAP. VI.

ESITI DE' DUE PROCESSI, FINE DELLA PAZZIA E CONCHIUSIONE.

(dal settembre 1602 al novembre 1604 e seg.ti)

I. Nel settembre 1602, ritornando a Napoli, il Vescovo di Caserta giusta gli ordini avuti dovè riunirsi col Nunzio e col Vicario Palumbo, procedere con loro a' voti su ciascuno de' frati, e poi partecipare questi voti a Roma. Egli avea fatto redigere un completo «Sommario del processo», sulla base di quello formato in Roma dal Monterenzio con l'aggiunta delle cose raccolte posteriormente, ed anche un «Riassunto degl'indizii» per ciascuno degl'inquisiti, in fine del quale si registrò di poi il voto di ciascun Giudice. Queste scritture, composte quasi tutte dal Segretario del Vescovo D. Manno Brundusio, insieme con le bozze e con le copie de' Riassunti fornite di numerose postille di carattere del Vescovo, sono pervenute in mano nostra: esse non fanno parte del processo propriamente detto, ma ne compiono molto bene la conoscenza[362]. Il Vescovo medesimo scrisse di suo pugno un elenco de' giudicabili in testa delle Copie de' Riassunti, e segnò queste con un numero progressivo in corrispondenza dell'elenco suddetto: naturalmente dobbiamo credere che nell'ordine medesimo si procedè alle votazioni; e siccome troviamo in primo luogo fra Pietro Ponzio, sul quale certamente nella 2a metà di agosto non si era votato ancora (ved. pag. 282), possiamo desumere che le votazioni cominciarono al più presto in settembre, verosimilmente nella 2a metà di settembre.

Si votò dunque dapprima su fra Pietro Ponzio. Il Riassunto contro costui recava: non essere stato nominato nel processo di Calabria ma carcerato d'ordine del Visitatore e per detto di D. Carlo Ruffo come germano di fra Dionisio: essere stato più volte accusato dal Pizzoni di minacce fatte nelle carceri da parte del Campanella, perchè esso Pizzoni si ritrattasse, ma avere ciò negato fra Paolo citato per conteste; essere stato sorpreso in colloquio notturno col Campanella che fingevasi pazzo, dal quale colloquio risultava «non lieve sospetto di familiarità lasciva e disonestissima tra di loro, sebbene fra Pietro fosse innanzi negli anni, rilevandosi dalla sua deposizione, e dall'aspetto, di maggiore età, di anni trenta»; infine non essere stato nè reputato nè esaminato come reo dal Vescovo di Termoli e da' colleghi (si sarebbe dunque potuto e dovuto lasciarlo in pace da molto tempo). Il Nunzio, il Vescovo medesimo ed il Vicario Palumbo, a voti uniformi giudicarono dover essere rilasciato per ciò che spettava al S.to Officio, [Pg 307] ma con fideiussione, potendo forse risultare qualche cosa contro di lui nel progresso delle cause del Campanella e fra Dionisio.—Da questo primo Riassunto può già rilevarsi l'animo e l'andamento del Vescovo di Caserta; preciso nella esposizione de' fatti, come del rimanente ci consta per tutti i Giudici di S.to Officio la cui opera abbiamo potuto studiare, ma feroce e senz'ombra di carità nella valutazione ed interpetrazione de' fatti esposti, ad un grado che ben raramente ci è accaduto d'incontrare. I lettori conoscono il colloquio notturno del Campanella e fra Pietro che il Vescovo citava (ved. pag. 88); come mai costui potè dargli quella brutale interpetrazione? È la cosa che più ci offende da parte di questo Vescovo, e che mostrerebbe veramente in lui un'anima abietta al maggior segno: si può solo perdonargli, conoscendo come fra tutte le grandi soddisfazioni, che altrettali soggetti possono godere, è del tutto negata loro quella di una tenera e sentita amicizia, onde debbono finire col perderne assolutamente ogni senso.

Si venne poi a fra Paolo della Grotteria. Recavasi contro di lui essergli stato trovato un libercolo di segreti e sortilegi, scritto non di sua mano, pel quale avea prodotto scuse varie e non mai accertate; essere stato nominato tra' complici del Campanella dal Pizzoni, dal Soldaniero, dal Petrolo, ma da una parte averlo poi fra Dionisio negato, e d'altra parte avere il Pizzoni chiarito che non dovea dirsi complice ma familiare, ed anche avere il Petrolo chiarito che lo conosceva amico del Campanella solo per detto altrui. Considerando che il libercolo, per relazione del P.e Cherubino, conteneva semplici superstizioni soltanto, e per diretta ispezione, appena due volte mostrava abuso di parole sacre, tutti e tre i Giudici, a voti uniformi, decisero doversi fra Paolo rilasciare con fideiussione, pel medesimo motivo detto innanzi, valutando qual pena il carcere sofferto.—Così verso questo frate de' più fangosi, e già galeotto, il tribunale fu piuttosto benigno, tanto che vedremo la Sacra Congregazione di Roma giudicare necessaria per lui qualche pena spirituale.

E si passò al Bitonto. Ricordavasi per costui la sua amicizia intrinseca col Campanella e fra Dionisio attestata da diversi, la visita da lui fatta al Campanella, la dichiarazione del Pizzoni di essere complice del Campanella; inoltre l'essere stato preso in abito secolare, l'avere conversato con secolari di pessima vita, tra gli altri con Cesare Pisano; principalmente poi venivano messe in mostra le ripetute deposizioni del Pisano, il viaggio fatto con lui a Messina e le molte eresie formali dette in tale occasione, rilevate anche nell'altro foro innanzi allo Sciarava, senza sapersi con quale autorità raccolte da costui, confermate poi in punto di morte, ratificate col tormento, e non invalidate da una deposizione di Giuseppe Grillo. I Giudici, del pari a voti uniformi, decisero doversi al Bitonto amministrare la tortura per un'ora, e non risultando altro doversi rilasciare con fideiussione.—Venne poi notato, dopo[Pg 308] la discussione sul Bitonto, che gl'indizii medesimi constavano tutti anche per fra Giuseppe di Jatrinoli, contro cui non erasi mai proceduto ad Atto alcuno, forse perchè non si trovava preso, ignorandosi anche se ne fosse stata mai ordinata la cattura o la citazione; e però i Giudici emisero il voto che fosse carcerato e si procedesse contro di lui.

Contro fra Pietro di Stilo rammentavasi la sua familiarità ed amicizia intrinseca col Campanella fin dalla puerizia; la testimonianza del Lauriana, che il Campanella ne faceva gran capitale e parlava con lui delle eresie; la testimonianza del Soldaniero che fra Pietro era venuto presso di lui a sollecitarlo perchè andasse a visitare il Campanella; l'aver lui portata una lettera al detto Soldaniero, ciò che lo dimostrava consapevole de' segreti del Campanella. Inoltre il non aver denunziato il Campanella, mentre ne conosceva alcune eresie, e come religioso e come Vicario del convento era strettamente obbligato a denunciarlo e a fuggirlo; averlo invece continuato a commendare per uomo dotto e sapiente, ed essersi poi negato a deporre, nel 1o processo, ciò che egli ne conosceva. E qui, accennate le divergenti opinioni de' dottori intorno al doversi o no ritenere veementemente sospetto di eresia lo sciente e non rivelante, concludevasi per l'affermativa, aggiungendo che tale veemente sospetto di eresia veniva comprovato dall'avere fra Pietro più volte dichiarato di volere ammogliarsi, benchè si fosse poi scusato allegando di averlo detto in via di scherzo. E però il Vescovo di Caserta emetteva il voto che gli si dovesse amministrare la tortura per purgare gl'indizii: ma il Vicario Palumbo opinò che dovesse prima sottostare ad un nuovo interrogatorio più diligente e poi darglisi una lieve tortura, e non risultando nulla, dovesse abiurare come lievemente sospetto di eresia ed essere rilasciato, ma col bando dalla Calabria; il Nunzio, da parte sua, si uniformò al voto del Palumbo.—Così questa volta la maggioranza del tribunale non seguì la foga del Vescovo di Caserta, il quale evidentemente potea riuscire tollerabile come accusatore ma non come Giudice. Egli confondeva nel più basso modo curialesco i fatti concernenti la ribellione con quelli concernenti l'eresia, non teneva conto dell'essere stato il Lauriana dimostrato falso testimone, non teneva conto dell'essere stato il Soldaniero dimostrato di pessime qualità e forzato da fra Cornelio a dire quel che disse, non teneva conto degli esecrabili procedimenti di fra Cornelio, onde fra Pietro non avea creduto di dover rispondere nell'esame al quale costui l'avea chiamato. I Sommarii de' processi offrivano capitoli speciali contro il Lauriana, contro il Soldaniero, contro fra Cornelio e lo stesso Visitatore, ma questi capitoli pel Vescovo di Caserta rimanevano inavvertiti. Eseguita poi la votazione, il Vescovo aggiungeva che le lettere di fra Pietro ultimamente scoverte (le lettere alle Sig.re Prestinaci etc.) aumentavano i sospetti contro di lui (quasi che quelle lettere alludessero ad eresie)! Poteva e doveva fra Pietro[Pg 309] ritenersi colpevole, ma molti degli argomenti addotti dal Vescovo potevano e dovevano tralasciarsi.

Contro il Petrolo allegavasi l'amicizia, conversazione intrinseca e confidenza col Campanella, di cui era discepolo; la fuga insieme presa in abito secolare; la comunicazione fattagli dal Campanella di più e diverse eresie oltrechè del segreto della ribellione, come esso Petrolo avea confessato, senza mai allontanarsene e senza denunziarlo, avendo appena deposto tali cose sotto le minacce e i terrori da parte del Visitatore. Inoltre la confessione ultima di Cesare Pisano ratificata in tortura, che rivelava molte eresie dette da fra Dionisio essere state confermate dal Petrolo; la testimonianza del Lauriana che egli fosse complice nella ribellione; la sua stessa condotta variabile tenuta nell'affermare, nel ritrattarsi, nel dichiarare falsa la sua ritrattazione. Laonde il Vescovo di Caserta opinava che gli si dovesse amministrare due volte la tortura, e non risultando altro, si dovesse farlo abiurare come veementemente sospetto di eresia e bandirlo dalla Calabria rilasciandolo sotto fideiussione; il Nunzio si uniformò a questo voto, ma il Vicario Palumbo votò per una tortura sola bensì gagliarda, accettando tutto il resto.—Come si vede, erano sempre messe in fascio la ribellione e l'eresia; e quantunque ciò accadesse ora in un campo più generale e più comportabile, non si può non riconoscere che il tribunale sconfinava, ed ammetteva un fatto, il quale non gli constava direttamente, e non era nemmeno passato ancora in cosa giudicata nelle persone de' frati. D'altronde pel Petrolo bastavano le proprie confessioni, rivedute e corrette con quelle del Pisano, ma il Vescovo di Caserta si credeva in obbligo di raccogliere tutto il peggio possibile, senza curarsi troppo di farne la scelta.

Contro il Lauriana ponderavasi la sua qualità di discepolo e confidente del Pizzoni «indiziato e quasi convinto delle eresie e degli altri delitti del Campanella»; la testimonianza del Soldaniero, che fosse uno degli eletti a predicare; l'avere udite eresie dal Campanella e dallo stesso Pizzoni senza averle rivelate; l'aver suonato la campana all'armi quando si andò a carcerarlo, con che mostrava «aver avuto coscienza e partecipazione de' delitti del Campanella». Inoltre il non aver deposto in giudizio se non dopo di essergli state comminate pene più gravi; e poi l'aver variato nelle deposizioni, l'aver cercato per lettere intorno ad esse consigli al Pizzoni e scuse a Ferrante Ponzio, negando in sèguito questi fatti e rimanendo convinto di mendacio; l'aver menato vita criminosa con costumi riprensibili etc. E però il Vescovo di Caserta espresse anche per lui il voto che gli si dovesse dare due volte la tortura, e non risultando nulla, dovesse abiurare come veementemente sospetto di eresia ed essere rilasciato con fideiussione: il Nunzio acconsentì a questo voto, ma il Vicario Palumbo votò per una tortura sola e per l'abiura come lievemente sospetto.—Senza dubbio contro questo abietto frate si sarebbe stato assai più nel vero procedendo[Pg 310] per falsa testimonianza; ma non si usava, senza evidentissime ragioni, passar sopra alla quistione dell'eresia.

Con la votazione sul Lauriana chiudevasi la discussione sui frati i quali aveano rinunziato alle difese, e per tutti costoro i Giudici concordemente emisero pure il voto, che dovessero essere esiliati da entrambe le provincie di Calabria, e tenuti in monasteri ne' quali i loro Superiori potessero osservarne la vita e i procedimenti. Notiamo qui che non ci è pervenuta alcuna notizia di votazione fatta intorno al Campanella, e che verosimilmente non ce ne fu, a motivo della sua pazzia legalmente accertata, la quale facea sospendere ogni Atto ulteriore contro di lui. Ma non deve sfuggire che ne' Riassunti degl'indizii sopra riferiti, e basta guardare quello del Lauriana, trovasi espresso in termini non equivoci il giudizio di colpabilità sul Campanella, e così pure sul Pizzoni defunto. Notiamo ancora che in tutte le votazioni fatte il Nunzio non mostrò mai un'opinione propria, mentre pure egli che sedeva al tempo stesso nel tribunale della congiura, e conosceva intimamente molte e molte cose estragiudiziali, avrebbe potuto e dovuto tenerla; ma indubitatamente egli non avea studiato nè seguito con premura lo svolgimento del processo, fu quindi obbligato a rimettersene a' colleghi, e pur troppo preferì quasi sempre uniformarsi al voto del collega peggiore. Invece il Vicario Palumbo mostrò sovente un'opinione propria: i motivi da lui addotti per sostenerla non furono registrati, ma possono intendersi agevolmente da quanto sappiamo intorno al processo, e bisogna dire che questa opinione riuscì molto più giusta; vedremo che la Sacra Congregazione di Roma la preferì costantemente.

Non rimaneva che procedere alla discussione e votazione su fra Dionisio. Il 20 settembre i Giudici emisero l'ordine di citarne l'Avvocato D. Attilio Cracco, perchè l'indomani comparisse nelle case loro a dire ed allegare quanto volesse, a voce ed in iscritto, avvertendolo che avrebbero spedita la causa anche senza la sua comparsa. E subito dopo doverono imprendere la discussione de' meriti della causa, poichè nel Riassunto degl'indizii troviamo affermato essersi i Giudici più volte riuniti a tale oggetto, e nel processo troviamo registrata la loro decisione in data del 24 settembre[363].

Ben lungo e circostanziato fu il Riassunto degl'indizii, scritto interamente dal Vescovo di Caserta, contro fra Dionisio: e poichè esso da tanti lati riguarda anche la persona del Campanella, contro cui non abbiamo un'analoga scrittura, lo riporteremo per quanto è possibile minutamente, accompagnandolo pure con qualche appunto; del resto raccomandiamo di consultare il documento originale[364]. Rammentavasi contro fra Dionisio la 1a deposizione del Pizzoni in Calabria ed anche la ripetizione del medesimo in Napoli; [Pg 311] la deposizione del Lauriana, e quelle del Soldaniero, del Pisano, del Conia; la sua fuga dal convento di Pizzoni mentre procedevasi all'arresto del Pizzoni, e la sua cattura avvenuta in Monopoli mentre cercava mettersi in salvo con Maurizio; la sua amicizia strettissima e piena confidenza col Campanella, durata anche dopo che lo zio P.e Pietro Ponzio glie l'aveva inibita sotto pena di maledizione; la sua lettera al P.e Vincenzo Rodino, in cui parlava di molti segreti che non conveniva affidare alla penna, la sua qualità e i suoi costumi di poco buono odore, le vanterie di brutti peccati commessi, l'irrequietezza e il continuo vagare per la provincia anche «in compagnia de' giovanetti Cesare Pisano e Alfonso Grillo» (evidentemente il Vescovo aveva una speciale tendenza a vedere certi vizii da per tutto); infine l'ultima rivelazione di Maurizio, che non avendo mai confessato nulla con 70 ore di tortura, volle poi sgravare la sua coscienza, e «comportandosi abbastanza sobriamente, disse soltanto ciò che avea saputo dal suo cognato Gio. Battista Vitale» (era proprio certo che dovesse saperne di più). Allegavasi poi e combattevasi ciò che fra Dionisio si era sforzato di dimostrare nelle sue difese contro le persone e i detti de' testimoni a suo carico. E circa il Pizzoni, notavasi che gli era stato nemico e gli avea rubati alcuni scritti, ma osservavasi che già si erano riconciliati tra loro onde conversavano sempre insieme e si trovarono riuniti anche nel momento dell'arresto del Pizzoni; notavasi che il Pizzoni avea pessimi costumi, ma con una classica frase osservavasi che in ciò «nulla avea da dire Catilina a Cetego»; notavasi che era stato vario in certi fatti ed avea osservato molte cose essere state inserte falsamente negli esami da fra Cornelio, ma osservavasi che si erano avute «correzioni piuttosto che varianti», e si dovea credere a quel testimone tanto più, perchè in fondo avea sempre persistito nella prima deposizione malgrado i tanti esami fatti e rifatti dal Vescovo di Termoli (e qui un calcio d'asino al suo predecessore); nè doveasi prestar fede all'ultima assertiva di ritrattazione scritta dal Pizzoni in punto di morte e consegnata al suo confessore, poichè questa non s'era trovata e il confessore P.e Pietro Peres (forse Gonzales) non era di buoni costumi ed avea confessato di nascosto, senza il permesso de' Commissarii e del Curato, e poi per comune sentenza de' dottori non si dovea tener conto delle dichiarazioni de' morenti, estorte da confessori e confortatori, non essendo neanche ogni morente un S. Giovanni Battista (ma in tutti i modi, lasciando in pace S. Giovanni Battista, bisognava cercarla quella confessione e non essere verso i costumi del confessore più severo che verso quelli del Pizzoni, del Lauriana e del Soldaniero). Circa il Lauriana notavasi esserne stata messa in mostra l'intima amicizia col Pizzoni, la mala vita, l'opinione acquistata di testimone falso; ma osservavasi che queste ragioni erano frivole, e bisognava tener conto della diffamazione procuratagli da' Ponzii medesimi e dagli altri frati; che anzi le sue[Pg 312] deposizioni erano assai verosimili, mentre già da un pezzo prima, quando non vi era sospetto d'inquisizione, per iscrupolo egli aveva attestato qualche cosa contro fra Dionisio, e poi non risparmiò neanche il suo maestro Pizzoni, e catturato con lui all'improvviso, senza precedente concerto, si trovò d'accordo con lui, nè cedè alle minacce de' Ponzii, «i più furbi ed astuti tra' calabresi» (e le suggestioni di fra Cornelio provate per tante vie? e le incertezze posteriori e i mendaci provati dallo stesso Pizzoni?). Circa il Soldaniero notavasi essere stata allegata la seduzione per parte de' Polistina, sotto promessa dell'indulto che poi gli fu concesso dallo Spinelli, le sue molte varianti con sè medesimo e con Valerio Bruno suo domestico, il mendacio provato con le deposizioni del priore e lettore di Soriano sulla circostanza dell'aver fatto cacciare fra Dionisio e il Pizzoni dal convento: ma osservavasi che nulla constava della pretesa seduzione (pertanto il nome di fra Cornelio figurava nell'indulto), e il Soldaniero era stato dichiarato dal Pizzoni già anteriormente consapevole di tutto, per comunicazione fattagli dal Campanella mediante fra Dionisio, ciò che era del pari provato dal priore e lettore di Soriano, e poi il Campanella medesimo gli avea mandato per fra Pietro di Stilo una lettera, come era confessato da fra Pietro ed attestato dal priore e dal lettore che la videro (ma la lettera non parlava di eresia, e si trovano qui sempre studiatamente confuse l'eresia e la congiura); nè le differenze tra lui e Valerio Bruno erano sostanziali, e Valerio, scorso un anno, avea potuto dimenticare qualche cosa ed anche mentirla, sussistendo non di meno una conformità tra il Soldaniero ed altri testimoni non sospetti. Circa il Pisano, si era allegata un'antica inimicizia per la parte da lui presa nella causa di fra Dionisio contro i Polistina, e la deposizione del Bitonto e del Petrolo, come pure di Giuseppe Grillo, attestanti non essersi fatti discorsi di eresia nella casa del Grillo: ma l'inimicizia era senza dubbio estinta, mentre fra Dionisio era andato col Pisano fino a Messina, e più tardi, insieme col Campanella, era andato a visitarlo nelle carceri di Castelvetere, per procurarne la liberazione, come aveva anche scritto al P.e Rodino; nè poteva tenersi conto delle deposizioni negative del Bitonto e del Petrolo, essendo costoro complici e socii nel delitto, nè di quella del Grillo, essendo inverosimile che i frati avrebbero parlato di cose tanto gravi in presenza di persone non sicure, e d'altronde la deposizione del Pisano era stata convalidata pure in punto di morte e ratificata in tortura. Circa il ì, si era allegata una fede del Cappellano della galera su cui fu confortato a ben morire, attestante aver dichiarato false le cose da lui deposte contro monaci, in materia di ribellione e di eresia, essendogli state estorte con le torture dategli dallo Sciarava: ma questa fede non aveva alcun valore, perchè non rappresentava una deposizione giurata, perchè citava come contesti i P.i Ministri degl'infermi ed uno di essi nella sua fede parlò del Vitale e non del Caccìa, perchè[Pg 313] riguardava le deposizioni fatte innanzi allo Sciarava e non quelle fatte spontaneamente innanzi al Vescovo di Gerace etc. Aggiungevasi che erano state pure prodotte fedi di alcune università che attestavano avervi fra Dionisio predicato con edificazione dottrine cattoliche, ma, naturalmente, ciò non bastava. E ricordata una quistione trattata dal Pegna nelle sue aggiunte all'Eimerico, che cioè essendo i testimoni legittimi e degni di fede, ma diversi per luogo e per tempo, non si aveva una convinzione piena e tale da fare assegnare la pena ordinaria per l'eretico negativo ed impenitente (vale a dire la degradazione e la morte), ricordata d'altro lato la gravità degl'indizii, presunzioni e congetture, segnatamente la circostanza del trovarsi «pienamente convinto nella connessa causa della ribellione», si veniva a' voti. Ed uniformemente tutti e tre i Giudici votarono la doppia tortura, seguita dall'abiura per veemente sospetto di eresia, aggiungendovi la relegazione, dopo scontata la pena per la causa della ribellione che doveva ancora essere spedita, in un convento fuori la provincia, a scelta de' Sig.ri Cardinali supremi inquisitori, con l'obbligo di alcune penitenze salutari vita durante.

Gli appunti sparsamente fatti nell'esporre questo Riassunto ci dispensano da ogni ulteriore commento sopra di esso. Principalmente fra Dionisio era più che colpevole in eresia, ma il Vescovo di Caserta spiegava contro di lui insinuazioni su tutto e su tutti, equivoci volontarii, interpetrazioni doppie, giudizii benignissimi sui testimoni a carico e severissimi su' testimoni a discarico, premura nel trovare la colpa più che la verità, indifferenza per gli odii ferocissimi delle fazioni fratesche e per la nequizia de' primi inquisitori, che avevano tanto influito nella formazione del processo: insomma, l'abbiamo detto altra volta, i frati erano colpevoli, ma meritavano migliori Giudici; un solo ne ebbero veramente buono, il Vescovo di Termoli, e fu tolto loro dalla morte, e il Vescovo di Caserta non risparmiò le insinuazioni nemmeno verso di lui. Giova conoscere testualmente ciò che egli ne disse: «ognuno che si faccia a guardare rettamente il modo tenuto dal predetto Vescovo nel ripetere tante volte i testimoni del processo offensivo, benchè debba piamente credere che il Vescovo l'abbia usato per investigare e ricercare la verità, pure vi trova non saprebbe dirsi quale umano desiderio di voler cogliere in falso i testimoni del fisco e distruggere il processo di Calabria». Non era umano ma divino desiderio quello di legger chiaro in un processo nato sotto tanti maligni influssi e brutto per tante irregolarità; il Vescovo di Caserta, scrivendo a quel modo, mostrava bene che il senso della giustizia non era in lui molto sviluppato. Il Campanella, nella sua Narrazione, come deplorò la morte del Vescovo di Termoli così giudicò il Vescovo di Caserta, e disse che costui «con dar tormenti et esser troppo fiscale non provò altro»: la qualità di «troppo fiscale» era il meno che potesse dire, e bisogna tener presente che[Pg 314] nelle sue condizioni il Campanella dovea mostrare i più grandi riguardi alle persone e alle cose di S.ta Chiesa.

Esaurite le discussioni e le votazioni, doverono mandarsi a Roma i Riassunti degl'indizii co' voti de' Giudici, ed una copia, con le relative bozze, ne rimase presso il Vescovo, ed è quella a noi pervenuta: ma dobbiamo notare che il Riassunto contro fra Dionisio vi si trova solamente in bozza, non ricopiato, donde si desumerebbe che tutto questo lavoro durò fin oltre il 16 ottobre, e che il Riassunto contro fra Dionisio forse non fu mandato, come non dovè essere mandato nemmeno quello contro il Bitonto, poichè costoro a quella data riuscirono a mettersi in salvo.—Intanto deve notarsi che nel processo fu registrata la decisione presa su fra Dionisio con la data de' 24 settembre: questo fatto riesce singolare, poichè i voti de' Giudici servivano solamente per proposte da sottomettersi alla Sacra Congregazione Romana de' Cardinali Inquisitori, dalla quale poi veniva presa la risoluzione che doveva essere seguita da' Giudici nella spedizione della causa. Noi crediamo assai verosimile che la decisione su fra Dionisio sia stata inserta nel processo molto più tardi, quando tutto fu esaurito, per far trovare un ricordo e non lasciare addirittura senza conclusione la causa di un soggetto principalissimo, su cui si aggirava la più gran parte del voluminoso processo.

Come dicevamo, fra Dionisio ed il Bitonto riuscirono a mettersi in salvo il 16 ottobre; essi fuggirono dal Castello insieme col carceriere, e senza dubbio tale fuga dovè essere preceduta da lunghi concerti, pe' quali probabilmente occorsero tutte quelle tergiversazioni, tutti quegl'incidenti fatti nascere da fra Dionisio negli ultimi tempi, non esclusa forse la rissa medesima con tutte le sue conseguenze prevedute e calcolate. Il Nunzio, il Vescovo di Caserta, e parimente il Card.l Gesualdo Arcivescovo di Napoli, tutti mandarono a Roma la notizia della fuga, che appunto dal Carteggio del Nunzio si rileva nella sua data e qualità precisa. In Roma se n'ebbe dispiacere, come si rileva da una lettera del Card.l Borghese in risposta a quella del Nunzio, al quale fu raccomandato caldamente di adoperarsi per riavere nelle mani i frati fuggiaschi[365]. In Napoli se n'ebbe «universale meraviglia», come si rileva da una lettera del Residente Veneto Anton Maria Vincenti[366]; e sicuramente il Vicerè dovè ordinare un'apposita inchiesta, ma di tale ordine non c'è riuscito trovare alcuna traccia. Abbiamo bensì trovato ordini vigorosi in questo senso, venuti da Madrid non appena vi giunse la notizia della fuga, e con essi menzionata una carta di avvertenze da doversi tener presenti, la quale carta per altro non fu trasmessa all'Archivio di Stato: con ogni probabilità le avvertenze principali riflettevano la convenienza e la maniera di [Pg 315] conoscere se Roma avesse tenuto mano in tale faccenda. Abbiamo trovato inoltre che lo Xarava, recatosi a Madrid per sollecitare la sua nomina a Consigliere, profittò dell'avvenimento per offrirsi ad «impinguare», come allora si diceva, l'inchiesta, e finqui la cosa riesce naturale: ma ciò che riesce strano si è l'essersi offerto pure nientemeno che a procedere nella causa di eresia tanto di fra Dionisio quanto del Campanella, siccome bene informato di tutti i loro disegni, e l'essersi da Madrid ordinato al Vicerè di vedere cosa convenisse fare circa l'intervento dello Xarava; decisamente la fuga di fra Dionisio avea fatto volgere la più viva attenzione verso Roma. Questo si può argomentare da due Lettere Regie esistenti nell'Archivio di Stato[367]; ma anche senza di esse, si comprende che, dopo le lungaggini verificatesi nello svolgimento della causa, il Governo Vicereale dovè rimanerne tanto più diffidente e sospettoso. Nulla poi conosciamo intorno a' particolari della fuga, la quale del resto non era un fatto assolutamente straordinario; basta ricordare che ne abbiamo già citato un altro esempio in persona del cav.re gerosolomitano fra Antonio Capece. Non potremmo nemmeno dire con certezza chi fosse stato il carceriere che se ne andò co' fuggiaschi. Senza dubbio non fu il Martines, che avea già da un pezzo perduto l'ufficio; ma tutto induce a credere che sia stato Antonio de Torres detto «sotto-carceriero» nella denunzia e ricorso di Camillo Adimari contro fra Pietro Ponzio, e successo interinalmente al Martines, perchè ne' libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo, dopo di aver figurato più volte a motivo di paternità dal 7 8bre 1587 al 4 7bre 1601, egli scomparisce affatto senza lasciare alcuna traccia di sè, e d'altra parte Onofrio Martorel, che dovrebb'essere l'Onofrio sotto-carceriere citato nel processo e nella Narrazione del Campanella, dopo di avervi figurato del pari assai sovente fin dal 1583, è registrato nell'elenco de' morti in data del 14 gennaio 1605; aggiungiamo poi che nel processo, fin da' primi giorni del 1603, poco dopo la data di cui qui si tratta, incontrasi il nome di un nuovo carceriere, Martino Sances. Conosciamo per altro che fra Dionisio se ne andò a Costantinopoli e quivi abbracciò la fede Maomettana: ma le ricerche da noi istituite nell'Archivio Veneto, rovistando il grandioso Carteggio de' Baili, ci han fatto sapere che egli giunse a Costantinopoli nel maggio dell'anno seguente, essendosi trattenuto segretamente sulle galere di Malta, ed avendole lasciate nel trambusto di una fazione vittoriosa di quelle galere contro il castello di Lepanto. Avremo campo di parlarne più in là: per ora notiamo che questo incidente faceva peggiorare moltissimo la causa del Campanella.

Apparve allora un ordine di cattura «a' cursori, aguzzini ed inservienti di qualsivoglia Curia, tanto ecclesiastica quanto secolare, in qualsivoglia luogo, ecclesiastico, secolare, regolare ed [Pg 316] anche di Monache comunque dotato di esenzione, non ostante qualunque privilegio», venendo dal tribunale accordate le veci e le voci proprie, ed inculcato a tutti e singoli, ecclesiastici e secolari, di dare aiuto, consiglio e favore necessario ed opportuno all'effetto predetto[368]. Quest'ordine si trova in processo senza data, ma non è dubbio che dovè essere emanato propriamente il 17 ottobre; poichè vi si rileva questa circostanza, che al momento in cui fu scritto, vi si parlò solamente della cattura di fra Dionisio fuggito, e poi, con una postilla in margine, vi si aggiunse anche il Bitonto; e non ci manca nemmeno un documento fuori il processo, che attesta essere dapprima venuta al Vescovo di Caserta la notizia della fuga del solo fra Dionisio[369]. Un'altra circostanza dobbiamo notare nell'ordine suddetto. Esso fu emanato a nome del Nunzio, del Vescovo di Caserta e del Vicario Alessandro Graziano: era costui il nuovo Vicario generale successo al Vaccari, e da questo momento in poi trovasi in quasi tutti gli Atti co' quali ebbe termine il processo principale.

Ma finalmente con lettera del 29 novembre il Card.l Borghese partecipava la risoluzione della Sacra Congregazione de' Cardinali[370], ed ecco quanto alla presenza di S. S. si era risoluto. Pel Campanella, «che sia condannato alle carceri di questo santo Uffitio (int. di Roma) ove perpetuamente sia ritenuto senza speranza alcuna di esserne liberato»; pel Lauriana e fra Pietro di Stilo, «che si dia loro la corda moderatamente... et non sopravenendo cosa che gli aggravi, si facciano abiurare come leggiermente sospetti di heresia, con impor loro alcune penitenze salutari»; pel Petrolo, «che se gli dia la corda più acremente... et non risultando altro, si faccia abiurare come sospetto vehementemente di heresia con imporgli alcune penitenze salutari»; e si aggiungeva per questi ultimi tre frati «l'essilio da tutto cotesto Regno» e l'assegnazione «da' loro superiori» in conventi ne' quali si vivesse con maggiore osservanza, notando essere «mente di N. S.re che per le dette pene... non si pregiudichi nè si ritardi la speditione della causa della pretensa ribellione da farsi da' giudici sopra ciò deputati da S. S.». Quanto a fra Paolo, si era risoluto: «che [Pg 317] sia rilasciato con imporgli alcune penitenze salutari»; e quanto a fra Pietro Ponzio, «che sia rilasciato liberamente dalle carceri per quello che spetta al santo Uffitio».

Ben si vede che in Roma furono accolti i voti de' Giudici nel senso più mite; solo per fra Paolo furono aggiunte le penitenze salutari, e per gli altri fu accolto propriamente il voto del Vicario Arcivescovile, che si era mostrato mite più di tutti. Ma pel Campanella, pel quale non vi furono o non giunsero fino a noi i voti de' Giudici, si prese una risoluzione abbastanza difficile a spiegarsi. Secondo la giurisprudenza del S.to Officio che abbiamo già altra volta avuta occasione di ricordare, come pazzo, quale era legalmente riuscito a dimostrarsi col tormento della veglia, il Campanella non avrebbe dovuto essere condannato, ma ritenuto in carcere, fino a che o rinsavisse o morisse, potendo solo in uno di questi due casi avere una condanna (è noto che in materia di eresia anche i morti non venivano risparmiati); invece come sano di mente, per la sua qualità di relapso, avrebbe dovuto essere condannato alla degradazione e consegna alla Curia secolare, dalla quale sarebbe stato giustiziato. Il carcere perpetuo ed irremissibile, ovvero la così detta «immurazione» che avea lo stesso significato, era la pena dell'eretico pentito, e più propriamente, secondo una prescrizione del Concilio Tolosano, la pena dell'eretico, che pel timore della morte o per qualunque altro motivo, ma non di spontanea sua volontà, era tornato in grembo alla Chiesa: posto che pel timore della morte il Campanella si fosse finto pazzo, egli non avea però dato alcun segno di ritorno in grembo alla Chiesa. D'altronde la condanna al carcere perpetuo avrebbe dovuto sempre essere preceduta dall'abiura pubblica ed anche dalla degradazione, almeno verbale se non attuale, come ordinava un rescritto di Urbano IV; e di ciò, a proposito del Campanella, non si fece alcuna parola, nè realmente si vide poi alcun Atto in sèguito. Bisogna del resto ricordare ancora che nè il carcere perpetuo, nè l'irremissibile, importavano assolutamente la ritenzione vita durante, come dalla loro denominazione si potrebbe inferire; il S.to Officio non isconosceva del tutto la massima del foro laico, che cioè il carcere doveva servire a custodia e non a pena, e quindi soleva condonare il carcere perpetuo dopo tre anni, ed il carcere irremissibile dopo otto anni[371].—Queste considerazioni non poterono certamente sfuggire [Pg 318] al Governo Vicereale, che a simili argomenti attendeva con molta premura in que' tempi, ma non ci pare che siano state fatte da coloro i quali si sono occupati del Campanella; e però si sono avuti giudizii veramente un po' strani sullo spirito della condanna che il Campanella ebbe da Roma, sull'atroce condotta del Governo Vicereale verso di lui, sulla stessa determinazione presa in Roma, quando, dopo tanti anni di ritenzione in Napoli, il Campanella giunto nelle carceri Romane finì per acquistare la libertà. Certamente il Campanella fu da Roma giudicato colpevole in eresia, e non sapremmo punto ammettere che il S.to Officio gli avesse dato una condanna al carcere irremissibile senza motivo, o per semplice finzione con lo scopo di trarlo a Roma: se i compagni del Campanella furono sottoposti a tortura ed obbligati ad abiurare come sospetti leggermente o veementemente di eresia, come mai si può concepire che egli non sia stato giudicato eretico? Forse potè non essere ritenuto plenariamente convinto, come si era riconosciuto dai Giudici per fra Dionisio; ma anche ammesso ciò pel Campanella, il cui caso era veramente più grave di quello di fra Dionisio, rimane sempre a spiegarsi come mai potè avere la condanna che ebbe. Se ci è lecito esprimere una nostra opinione, essa è, che da Roma si volle dare a questa faccenda un termine ad ogni costo, poichè con la semplice ritenzione nel carcere, per aspettare il rinsavimento o la morte del Campanella e poi venire alla condanna, la faccenda sarebbe durata indefinitamente, e questo era divenuto impossibile: si mutò quindi la ritenzione continua in carcere perpetuo sine spe, senza prescrivere l'abiura e la degradazione, che nello stato in cui il Campanella si trovava, o più veramente fingeva di [Pg 319]trovarsi, non si sarebbe nemmeno riusciti ad effettuare, e con tale ripiego si apriva la via di dare un termine anche alla causa della congiura, essendo esaurita quella dell'eresia. La condizione poi del doversi la pena scontare nel carcere di Roma non fu nemmeno speciale, perocchè trattandosi del giudizio di un tribunale non diocesano, l'andata a Roma era di regola, e se si credè conveniente di esprimerla nella risoluzione, ciò si fece per evitare ulteriori controversie col Governo Vicereale, oltrechè per affermare quella «superiorità ecclesiastica» sempre ambita da Roma più di ogni altra cosa e non del tutto riconosciuta dal Governo in tale faccenda: d'altronde l'andata a Roma si sarebbe effettuata dopo la spedizione della causa della congiura, che non doveva essere «nè pregiudicata nè ritardata», e se per questa causa il Campanella avesse riportata la condanna della degradazione e consegna alla Curia secolare, come D. Giovanni Sances avea già chiesto, egli non sarebbe andato a Roma certamente. Adunque la risoluzione della Congregazione Romana non avea punto lo scopo di trarre il Campanella da Napoli a Roma: essa facilitava solamente, e di molto, ciò che il Governo Vicereale bramava, la spedizione della causa della congiura; essa dava modo di far proferire una condanna in quella causa, come una condanna era stata proferita nella causa dell'eresia, senza tener conto della pazzia legalmente accertata! Con ciò non diremo che il Governo Vicereale avesse dovuto rimanerne contento e soddisfatto. Si comprende che esso avrebbe preferita una condanna di degradazione e consegna alla Curia secolare, essendo il Campanella relapso in eresia, come D. Giovanni Sances non avea mancato di ricordare nella sua Allegazione: d'altronde non poteva fargli un'ottima impressione quella condanna di ripiego ad un carcere irremissibile che tale non era di fatto, quel ricordo di doversi codesta pena scontare in Roma, dopo «la speditione della causa della pretensa ribellione da farsi da' giudici sopra ciò deputati da S. S.», quasi che tale causa potesse terminare con una condanna a pena insignificante o con un semplice rilascio. Quando vi erano già state tante ragioni od occasioni di sospetti e diffidenze, riesce ben naturale ammettere che tutto ciò venisse ad aggiungere qualche cosa a' sospetti e alle diffidenze. Eppure non abbiamo alcuno indizio che il Governo Vicereale fosse rimasto irritato dalla risoluzione di Roma: se ne rinverrebbe qualche traccia nel Carteggio del Nunzio, come la si rinviene ogni qual volta vi era stato un positivo scontento da parte del Governo. Invece se dovessimo credere a ciò che ne disse poi il Campanella nella sua Narrazione, tutto fu fatto per compiacere il Governo; e per verità, quanto a sè, egli aveva ragione di dirlo, poichè Roma avea mostrato di non ritenerlo pazzo, mentre egli avea comprovata col più solenne de' tormenti la sua pazzia. Non sarà inutile ricordare qui le parole del Campanella. «Dopo questo (dopo il suo tormento) fuggio F. Dionisio dalli carceri, e li altri fur liberati; ma solo li frati furo esiliati dal regno per soddisfar[Pg 320] alli regi Fiscali, el Campanella in perpetuo carcere del S. Officio in Roma sine spe. Ma perchè li frati condannati a compiacenza d'officiali regi subito in Napoli et altri in Roma fur aggratiati e diventaro priori et officiali nella Religione, e si vide che questa condanna era ad ostentationem fatta dalli ecclesiastici; e sapendo ch'il Campanella senza esser esaminato fu condannato, e la sentenza è nulla per questo e per le appellationi secrete che prima e poi mandò a Roma, non volsero mai permettere che andasse alli carceri di Roma; nè che si facesse la causa sua di ribellione a Napoli» etc. Ma i frati, nella più gran parte, furono liberati dopo tortura e solenne abiura, e se furono di poi graziati dell'esilio, ciò accadeva sempre nelle condanne del S.to Officio, e sarebbe del pari accaduto per lo stesso carcere perpetuo del Campanella: e dopo tutto quello che abbiamo visto, potrebbe mai ritenersi che le condanne con le torture fossero state date a compiacenza degli officiali Regii e ad ostentationem? A noi basta assodare che non vi fu, come non vi poteva essere, una grave dispiacenza del Governo Vicereale per quella specie di condanne, e che esso non ne rimase irritato più di quanto lo era già per molti altri fatti, ed in ultimo luogo pel lunghissimo tempo impiegato nello svolgimento della causa e per la fuga di fra Dionisio; vedremo in sèguito che la sua irritazione crebbe veramente più tardi per qualche altro fatto, il quale esacerbò la diffidenza e il sospetto, aggiungendovi il risentimento e il puntiglio della peggiore specie.

Pervenuta in Napoli la risoluzione di Roma, non rimaneva che spedire la causa secondo il dettato di essa. Si sarebbe potuto farlo in pochissimi giorni, ed invece, non sapremmo dire per quale motivo, scorse oltre un mese, e le sentenze e gli atti ultimi non si compirono che al principio dell'anno seguente: lo stesso fra Pietro Ponzio, per lo quale era stato ordinato il rilascio semplice, e già il Nunzio avea più volte dato a Roma promesse formali di sollecita spedizione, non si vide libero e dovè attendere ancora. Il Nunzio si limitò a partecipare al Card.l Borghese di aver ricevuta la risoluzione presa intorno alla causa del S.to Officio, e di aver fatto sapere al Vescovo di Caserta, che era sempre pronto ad intervenire nella spedizione di detta causa[372].

L'8 gennaio 1603 si venne finalmente alla spedizione della causa. Secondo lo stile del S.to Officio, le sentenze furono prima scritte, e quindi promulgate e lette dal Notaro della causa agl'interessati, non essendo lecito fare altrimenti sotto pena di nullità. Si cominciò dal Campanella[373]. La sentenza, sottoscritta da' tre Giudici, diceva che, viste le informazioni e gli Atti, visto il tenore della lettera del Card.l Borghese scritta il 29 novembre 1602 d'ordine de' Cardinali sommi Inquisitori, in esecuzione di detta lettera [Pg 321] essi Giudici provvedevano e decretavano, che per le cause di eresia per le quali trovavasi carcerato e detenuto il Campanella doveva essere condannato, come con quel decreto era condannato, sua vita durante alle carceri formali della S.ta Inquisizione in Roma etc. etc., ripetendo la condanna e la pena ne' termini precisi da Roma trasmessi. Nel medesimo giorno suddetto il Prezioso, chiamato il Campanella con l'intervento di due testimoni, i Rev.di D. Antonio Peri e D. Vincenzo Pagano, gl'intimò e lesse la sentenza audiente et intelligente, e ne rogò un Atto appunto in questi termini. Dunque il Campanella udiva e comprendeva, e non tenevasi più conto della sua pazzia, circostanza di cui non avea da dolersi certamente il Governo Vicereale: intanto, in una ricevuta di piccolo sussidio tratto dalla somma venuta di Calabria, alla data del 30 marzo 1603, trovasi che la parte spettante al Campanella era ancora esatta da fra Pietro di Stilo, il quale dichiarava di aver «pensiero» della persona del Campanella, naturalmente perchè pazzo[374]. Si venne poi a fra Paolo della Grotteria, per lo quale la sentenza, scritta con lo stesso formulario, decretava il rilascio dalle carceri con l'indicazione delle penitenze impostegli (recitare in giorni determinati l'ufficio de' morti, il Credo, i Salmi penitenziali e le Litanie, recitare ogni giorno il Rosario, digiunare il sabato) «riservatane la moderazione, la mitigazione e la commutazione a' Cardinali sommi Inquisitori». Ed egualmente il Prezioso, con le cautele medesime, gli lesse la sentenza audiente et bene intelligente, et omnia acceptante; più tardi poi, scorse oltre due settimane, gli consegnò la copia delle dette penitenze salutari, rogandone un altro Atto innanzi a due altri testimoni, uno de' quali era Martino Sances carceriere. Ma bisogna notare che il rilascio di fra Paolo rifletteva le cause di S.to Officio, e poichè egli era inquisito anche della ribellione, continuò a rimanere in carcere.—Si passò quindi a fra Pietro Ponzio, cui fu decretato il rilascio per le cause spettanti al S.to Officio, sempre in esecuzione della lettera di Roma; e il Prezioso gli lesse la sentenza audiente et intelligente. Fra Pietro fu veramente posto in libertà: non abbiamo notizia della data precisa in cui uscì dalle carceri, ma verosimilmente ciò accadde senza molto ritardo, non essendovi empara per lui; possiamo solamente dire con certezza che nell'ordine di pagamento del piccolo sussidio menzionato sopra, alla data del 22 marzo, egli non era più computato tra' frati esistenti in Castello e non figurava di poi nella ricevuta. Lo troveremo in sèguito nel suo convento di Nicastro, poichè ci darà ancora occasione di parlare di lui.

Nello stesso giorno 8 gennaio, innanzi al Nunzio, al Vescovo di Caserta e al Vicario Graziano, si amministrò la tortura, prima a fra Pietro di Stilo e poi a fra Silvestro di Lauriana[375], tortura [Pg 322] moderata, di poco più di mezz'ora, dimandando loro se fossero vere le cose che aveano deposte contro gli altri, e se avessero aderito all'eresie che avevano udite (precisamente come in Roma era stato risoluto). Possiamo dire che l'uno e l'altro si mostrarono quali li abbiamo visti finora in tutto il processo. Fra Pietro di Stilo, lettogli il testo della sua deposizione fatta in Gerace, dichiarò vere le cose che avea deposto avere udite dal Campanella in Calabria, e quanto all'avervi aderito, disse che egli non avea nemmeno capito tutto quello che il Campanella diceva, anche perchè come Vicario del convento non gli riusciva star sempre fermo e poter udire tutto il discorso: incalzato dalle domande, se avesse creduto a ciò che aveva udito intorno a' miracoli, che era manifesta eresia, e se sapesse che un cristiano avea l'obbligo di farne denunzia a' superiori ecclesiastici, disse che non vi aveva mai creduto, che non aveva nemmeno immaginato essere quella un'eresia, che aveva appreso l'obbligo della denunzia solamente dopo di essere stato carcerato (sempre la parte dell'ignorante). Posto allora alla corda, fra le solite grida di dolore confermò ad una ad una le risposte date, ed avendogli i Giudici domandato se volesse scendere per poter dire più comodamente la verità, disse «io non voglio scendere et non sò altro che dire, è la verità è detta». Poi oppresso dall'atrocità del dolore si fece a dire, «scenditimi, scenditimi che dirrò la verità»; ma mentre i Giudici ne davano l'ordine gridò, «non mi scenditi, non mi scenditi, perchè la verità l'hò ditta» (il povero fra Pietro diffidava di sè medesimo, e si sforzava in tutti i modi di non lasciarsi andare a dire cose compromettenti). Infine non potè più resistere e volle scendere, ma disse «per Dio che non hò da dire niente, nè posso dire altro per Dio»; e più volte mantenuto in alto, più volte sceso, dicendo sempre che la verità l'avea detta, con segni di grandi sofferenze, essendo scorsa oltre mezz'ora, fu lasciato definitivamente.—Quanto al Lauriana, lettogli il testo della deposizione fatta in Monteleone alla presenza di fra Cornelio, e dimandatogli se le cose quivi deposte erano vere, disse, «io sono stato essaminato un'altra volta in Napoli dinanzi al Vescovo di Termoli» (sempre un appello a deposizioni anteriori); circa poi l'avere aderito all'eresie, lo negò con gravissimi giuramenti; dimandatogli se sapesse che c'era l'obbligo della denunzia, disse di sì, ed osservatogli che non avea subito fatta la denunzia a' superiori disse «mi riferisco all'essamine». Posto alla corda, emettendo le solite grida, deplorando di aver conosciuto quelle persone che aveano proferito eresie, rispondendo sempre di aver detto la verità, fra le angosce del suo dolore esclamò, «Monsignore aiutatemi, Frà Campanella è luterano marcio, abrusciatelo»! Ed allora gli venne domandato in che fosse luterano fra Tommaso Campanella, ed egli «me rimetto alle mie essamine» (sempre ignorante e brutale). Infine, essendo anche per lui trascorsa mezz'ora e più, fu fatto scendere.

[Pg 323]

Gli 11 gennaio, del pari innanzi a tutti e tre i Giudici, si amministrò la tortura a fra Domenico Petrolo, secondo le prescrizioni di Roma, più acremente e rivolgendogli le solite dimande[376]. Con molti particolari, come era suo costume, egli disse avere udito le cose deposte non tutte in Stilo, dalla bocca del Campanella, ma averne udite anche in Castelvetere, quando fra Tommaso gli persuase di imitare il Pizzoni, di farsi leggere la deposizione di costui e deporre alcune delle cose che costui avea deposte ad oggetto di scampare dalle mani de' secolari: ond'egli così fece, e fra Cornelio scrisse aggravando la deposizione, ed egli non si curò di questo aggravamento perchè fra Tommaso gli avea detto che così gli piaceva; ma poi, innanzi al Vescovo di Termoli, avea corretto il primo esame, spogliandolo di tutto ciò che fra Cornelio aveva aggiunto. E lettegli le deposizioni fatte innanzi al Vescovo di Termoli, egli dichiarò che le cose in esse contenute erano vere, ed aggiunse che non aveva mai aderito alle proposizioni eretiche, ed aspettava che il Campanella le avesse proferite alla presenza di altri, per poterlo denunziare e far constare le cose da testimoni. Fu allora posto alla corda, sempre in esecuzione di quanto era stato ordinato con la lettera di Roma, che venne costantemente ricordata in tutti questi Atti. Le sue sofferenze furono vivissime, le sue esclamazioni strazianti continue: rivolgevasi al Nunzio, rivolgevasi al Vicario, diceva loro che si sentiva aprire il petto e si protestava che moriva; al Nunzio ricordò pure che compivano appunto allora tre anni, ed era egualmente giorno di sabato, quando aveva altra volta avuta la corda (per la congiura). Del rimanente confermò sempre che le cose deposte erano vere, e che non aveva aderito all'eresie udite: ed essendo scorsa un'ora intera, fu ordinato, come per tutti gli altri, che lo scendessero, lo slegassero, gli accomodassero le braccia, lo rivestissero e lo riponessero nel suo carcere.

Immantinente si passò a dar fuori le sentenze già scritte, e a promulgarle e leggerle, procedendo anche alla consegna delle copie delle penitenze, agli Atti dell'abiura e a quelli dell'assoluzione dalla scomunica, tanto pel Petrolo quanto per fra Pietro di Stilo e pel Lauriana successivamente; sicchè tutto venne esaurito nello stesso giorno 11 gennaio 1603[377]. Le sentenze furono questa volta, secondo il rituale, scritte con maggiore solennità ed in lingua volgare. I Giudici, dichiarandosi speciali delegati de' Cardinali sommi Inquisitori, e rivolgendo la loro parola all'inquisito, gli ricordavano la sua causa: trovarsi lui nel tribunale del S.to Officio per avere udito «da alcuni religiosi» proferire eresie formali e non averle denunziate, avere avuto un termine per le difese senza averle fatte, essersi proposta e discussa la causa e fattane relazione a' Cardinali sommi Inquisitori, e dietro loro risoluzione essersi proceduto [Pg 324] all'esame rigoroso (la tortura) con le debite proteste del Procuratore fiscale, e visti e considerati i meriti della causa, essersi deliberato di venire alla spedizione e alla sentenza anche d'ordine particolare di detti Cardinali. Invocato quindi il nome di Gesù Cristo e di Maria Vergine, nella causa vertente tra il Procuratore fiscale e lui «reo, inquisito et processato», sedendo pro tribunali, dicevano, pronunziavano, sentenziavano e dichiaravano essere stato lui giudicato sospetto di eresia (veementemente o lievemente) e perciò incorso nelle censure: ed affinchè togliesse dalle menti loro e di altri fedeli questo sospetto contro di lui concepito, ordinavano che avanti di loro, nella Chiesa del Castello, pubblicamente e in giorno festivo abiurasse, maledicesse, detestasse ed anatemizzasse questa ed ogni altra eresia nella forma che da loro sarebbe stata data, contentandosi, dopo ciò, di assolverlo dalla scomunica incorsa. E per non far rimanere que' gravi errori totalmente impuniti e dare esempio agli altri, lo condannavano all'esilio fuori Regno vita durante o pel tempo che parrebbe a' detti Cardinali, e alla permanenza in un convento assegnato dal suo superiore regolare, dando cauzione di 25 once d'oro per l'osservanza dell'esilio, e in difetto obbligandosi a servire «per un remigante alle galere della S.ta Sede» per un tempo ad arbitrio di detti Cardinali. Gl'imponevano poi per penitenze salutari la confessione una volta la settimana, la frequente celebrazione della Messa e il Rosario ogni giorno, dichiarando che questa condanna non dovea ritardare nè impedire la spedizione della causa della ribellione, e riservando la moderazione, commutazione e mitigazione delle dette pene e penitenze a' Cardinali sommi Inquisitori. Conchiudevano: «Et così dicemo, pronontiamo, sententiamo, condanniamo, penitentiamo, et riserviamo in questo et in ogn'altro miglior modo et forma che di raggione potemo et dovemo», sottoscrivendosi ognuno col suo titolo e con la qualità di Commissario Apostolico.—Una simile sentenza di veemente sospetto fu dal Notaro della causa promulgata e letta dapprima al Petrolo, audiente et intelligente, alla presenza di 7 testimoni, e subito dopo, avuta anche la copia delle penitenze salutari impostegli, tutto addolorato com'era, il Petrolo fu tradotto nella Chiesa del Castello, ed ivi inginocchiato innanzi ai Giudici pronunziò la solenne abiura, secondo la scritta già preparata, e vi appose la sua firma. L'abiura conteneva la notizia della causa e della condanna, calcata sul formulario della sentenza. L'inquisito dichiarava che, inginocchiato innanzi a' Giudici e toccando i Santi Evangeli, confessava e si doleva di avere gravemente errato contro la Chiesa, perchè avendo da alcuni religiosi udito proferire eresie formali non li aveva denunziati; ed essendo stato giudicato veementemente sospetto di eresia, per rimuovere dalla mente di tutti i fedeli questo veemente sospetto abiurava etc. etc., promettendo e giurando di non mai più ascoltare eretici, di denunziarli subito qualora gli accadesse di conoscerli e udirli per l'avvenire, di adempiere[Pg 325] a tutte le pene e penitenze impostegli, ed infine ricercando il Notaro là presente di scrivere quella cedola di abiura recitata parola a parola, non sapendo lui bene scrivere (!) e di fare d'ogni cosa pubblico istrumento (ciò che per altro era stato già preparato). Da ultimo il Curato D. Gaspare di Accetto, con le solite cerimonie, procedeva alle assoluzioni dalla scomunica, censura e pene incorse; ed anche di questo fu rogato un Atto.—Allo stesso modo si fece di poi per fra Pietro di Stilo e pel Lauriana colpiti di lieve sospetto: l'uno dopo l'altro adempirono agli Atti e formalità di cui si è finora discorso.

Rimaneva intanto a compiersi ancora la parte più difficile pei poveri frati, la fideiussione di 25 once d'oro per ciascuno. Naturalmente, nella loro condizione, era quasi impossibile trovare anche uno degli strozzini i quali solevano fare questa specie di affari, e i Giudici l'aveano preveduto nella loro sentenza. Mandarono dunque un memoriale con cui diceano volersi obbligare alla pena della galera invece di dare la fideiussione, giacchè «per essere forastieri» non aveano fideiussori. E il 16 marzo il Notaro Prezioso, andato in Castel nuovo, rogò un Atto coll'intervento di cinque testimoni, e tra essi Felice Gagliardo, pel quale i tre frati, «sciolti da' ceppi e dalle catene e costituiti in libera libertà» secondo la formola solita in questi casi, spontaneamente dichiararono che non avendo trovato fideiussori si obbligavano a servire da remiganti sulle galere della S.ta Sede, per un tempo ad arbitrio de' Cardinali sommi Inquisitori, nel caso di contravvenzione all'esilio fuori Regno vita durante, e alla permanenza in un convento assegnato dal loro superiore giusta la sentenza[378]. Il 21 marzo la copia delle sentenze, decreti, abiure, ed obbligo della galera fu mandata a Roma.

Così nel marzo 1603 ebbe veramente termine il processo di eresia del Campanella e socii, durato, soltanto in Napoli, poco meno di tre anni, dal 10 maggio 1600 al marzo 1603, e finito con sole quattro condanne di frati propriamente per l'eresia: ve ne sarebbero state sei, qualora fra Dionisio e il Bitonto non fossero riusciti a fuggire, e computandovi anche il Pizzoni morto nel carcere, si sarebbero in tutto avuti, dopo tanto scalpore, sette frati solamente più o meno eretici. Ecco a quali proporzioni si riducevano le cose circa l'eresia, ed essendoci note le condizioni di taluni di questi frati, sopratutto del Lauriana ed anche del Petrolo, di fra Pietro di Stilo e del Bitonto, dobbiamo assolutamente ridurre le cose sempre più, accordando a' soli tre nominati nel processo in modo più spiccato, Campanella, fra Dionisio e Pizzoni, la possibilità di una opera efficace nel senso di una riforma religiosa, e riconoscendo unicamente nel Campanella la capacità di concepirla ed insinuarla.—Pertanto i frati rimasti in carcere, cioè il Campanella, il Petrolo, [Pg 326] fra Pietro di Stilo, il Lauriana ed anche fra Paolo della Grotteria, erano in grado oramai di saldare il loro conto col tribunale per la congiura: ma vedremo che vi furono altri incidenti e si andò incontro a lungaggini egualmente da questo lato, nè si potè cominciare a prendere una risoluzione a loro riguardo che nel luglio dell'anno seguente!

Dobbiamo aggiungere che il tribunale per l'eresia ebbe ancora a compiere qualche altro Atto circa il Soldaniero e Valerio Bruno, mentre per Orazio S.ta Croce e Felice Gagliardo avea provvisto con quello speciale processo secondario affidato al tribunale diocesano, le cui vicende abbiamo anche già narrato. Circa Valerio Bruno, rammentiamo che dietro due suoi memoriali, favorevolmente accolti dal Vicario Palumbo e dal Vescovo di Caserta, egli fu abilitato con fideiussione e coll'obbligo di non partire da Napoli, legalmente domiciliato presso Carlo Spinelli, avendo il Vicario Palumbo opinato che dovesse essere interrogato di nuovo e poi spedito. Fu quindi, il 19 luglio 1603, decretato un nuovo esame pel Bruno, ad oggetto di sapere se veramente il Soldaniero avesse chiesta al priore e al lettore di Soriano l'espulsione di fra Dionisio e del Pizzoni da quel convento, per l'eresie che aveano manifestate. Costretto a ripresentarsi in tribunale, il 19 agosto fu esaminato dal Vicario Palumbo «sostituto e deputato», e nell'esame si ricordò solamente di aver conosciuto fra Dionisio e il Pizzoni in Soriano, ma pel resto mostrò non ricordarsi più di nulla, dicendo, «dopò che hebbi la corda (int. per qualche incidente od anche per la sola ratificazione delle cose deposte nella causa della congiura) hò persa la memoria, è da quà ad un Credo non mi ricordarò di quello che V. S. me hà dimandato»[379]. Così il 19 novembre fu emanato per lui un decreto di rilascio ma pur sempre con fideiussione; e questa volta, il 28 gennaio 1604, si trovarono due disgraziati, un tessitore ed un calzolaio, che si obbligarono a presentarlo ad ogni richiesta nelle carceri Arcivescovili sotto pena di 50 once d'oro, obbligandosi il Bruno medesimo alla pena della galera, e tutti e tre indicarono per domicilio legale la casa di Carlo Spinelli, onde si vede che costoro erano tutti dipendenti dallo Spinelli.—Circa il Soldaniero, rammentiamo che essendo nel marzo 1602 partito per la Calabria in contravvenzione all'obbligo assunto di rimanere in Napoli, accertato il fatto con una informazione, venne confiscata la cauzione data e prescritta la citazione a comparire fra tre giorni sotto pena di essere dichiarato scomunicato oltrechè confesso e convinto del delitto appostogli, onde finì poi per essere carcerato di nuovo in Calabria. L'informazione eseguita dal Prezioso nel domicilio del Soldaniero in Napoli, esaminando la sua albergatrice Lucrezia Marmana bottegaia alla Carità, Beatrice d'Avanno maritata ad un genovese e divenuta amante del Soldaniero, inoltre anche [Pg 327] Agostino S.ta Croce clerico, fratello di Orazio ed albergato del pari in casa della Marmana, avea fatto conoscere che il Soldaniero se n'era andato in Calabria per arrolare soldati, avendo avuto l'ufficio di alfiere dal capitano Gio. Paolo de Corduba; poichè i banditi davano un contingente notevole all'esercito, come del resto dovunque, e nelle occorrenze il Governo concedeva anche indulti agli assassini coll'obbligo di servire alla guerra per un numero di anni determinato, facendo desolare segnatamente le provincie di Fiandra e facendo maledire il nome napoletano con altrettali soggetti. Il Soldaniero si schermì per non breve tempo, ma cadde finalmente in potere delle forze Regie, e venne chiuso nelle carceri dell'Audienza di Calabria a disposizione del Vescovo di Caserta. Carlo Spinelli s'interessò allora anche per lui, lo raccomandò a voce e scrisse di poi una lettera al Vescovo, che fu perfino inserta nel processo e ne mostra la firma autografa, presentando i nomi di varii individui capaci di fornire la cauzione pel Soldaniero, tra' quali nientemeno che il nome di Valerio Bruno[380]. La lettera fu scritta il 23 gennaio 1604, e il 26 il Vescovo di Caserta emanò un decreto di rilascio pel Soldaniero dalle carceri della R.a Audienza di Calabria, con la cauzione di 50 once d'oro e l'obbligo di presentarsi fra quindici giorni nelle carceri Arcivescovili di Napoli. Una significatoria di tale decreto fu subito spedita al Governatore e alla R.a Audienza di Calabria, ma senza aspettarne l'esecuzione, il 28 gennaio 1604, nella stessa data in cui rogavasi la fideiussione per Valerio Bruno, fu rogata anche quella pel Soldaniero, rimanendo accettato per fideiussore, insieme con due altri individui, appunto Valerio Bruno, e sempre indicata per domicilio la casa di Carlo Spinelli presso la Chiesa di S. Lucia a mare. Evidentemente lo Spinelli e il Vescovo di Caserta erano due anime fatte per intendersi senza la menoma difficoltà: abbiamo motivo di ritenere che il Soldaniero sia stato lasciato in pace, non trovandosi alcun altro esame di lui, e conviene dire che con tanta benignità verso due furfanti quali il Soldaniero e il Bruno, dopo tanto rigore verso i poveri frati, il Vescovo di Caserta nella fine della causa abbia emulato la condotta tenuta nel principio da fra Cornelio. Ma conviene anche dire che non dal tribunale, bensì dal solo Vescovo di Caserta, furono compiuti questi ultimi Atti, co' quali rimase definitivamente chiuso il lungo processo dell'eresia.

II. Passiamo all'esito del processo della congiura; e qui esporremo dapprima le poche altre notizie che ci è riuscito raccogliere intorno agli Atti ulteriori del tribunale pe' laici, il quale non cessò mai di funzionare durante il lungo tempo in cui funzionò il tribunale dell'eresia, ed anzi si tenne ancora aperto per qualche anno dopo. Abbiamo già detto altrove, che secondo il costume del tempo [Pg 328] si sentenziava separatamente e successivamente per ciascuno inquisito e per gruppi speciali d'inquisiti; vi furono quindi, di tratto in tratto, sentenze non solo pe' catturati, ma anche pe' contumaci che con pubblico bando erano stati dichiarati «forgiudicati». Possiamo dire con certezza che non si ebbero altri supplizii, poichè conoscendo i nomi de' principali inquisiti, li avremmo senza dubbio ravvisati ne' Registri dell'Archivio de' Bianchi di giustizia: si ebbero invece gravi condanne a parecchi anni di carcere, come per taluno degl'inquisiti ci risulta da documenti che abbiamo trovati nel Grande Archivio; e si ebbero ancora più numerose assoluzioni e rilasci, come ci risulta dalle notizie autentiche, registrate nel processo dell'eresia, circa coloro i quali figurarono egualmente in tale processo o vi furono semplicemente nominati.

Cominciando da quest'ultima categoria, non abbiamo che a riassumere le notizie sparsamente apprese dal processo di eresia. Ricordiamo dunque, che verso la fine di settembre 1600 erano stati abilitati e si trovavano pronti a partire per la Calabria tutti o quasi tutti gl'inquisiti di Catanzaro, segnatamente Geronimo Marra, Francesco Salerno, Nardo Rampano, e con costoro probabilmente anche il Franza, il Flaccavento, gli Striveri etc., onde a tale data nel processo dell'eresia fra Dionisio chiedeva che fossero interrogati di urgenza, prima che partissero. Ricordiamo che Felice Gagliardo, già torturato una prima volta in Calabria, ebbe un'altra tortura per la ribellione, un po' prima del 19 marzo 1602, quando fra Pietro Ponzio ne fece menzione come di un fatto non remoto[381]; e la tortura fu acre, verosimilmente tamquam in cadaver come allora si soleva prescrivere ne' delitti gravi, onde il Gagliardo medesimo disse di aver avuto «a morire», ma non confessò nulla e dovè essere assoluto, poichè non trovò alcuno ostacolo all'uscita dal carcere quando finì di saldare i suoi conti col S.to Officio. Ricordiamo inoltre che tra il febbraio e l'aprile 1602 erano già stati assoluti il Conia, il Marrapodi, l'Adimari, probabilmente anche il S.ta Croce, tutto il gruppo degl'inquisiti che insieme col Gagliardo e col Pisano si trovarono rinchiusi nelle carceri di Castelvetere; e i primi tre aveano pure fatto ritorno in Calabria subito dopo l'assoluzione, mentre il S.ta Croce rimase in carcere essendo implicato nelle materie di S.to Officio. Ricordiamo infine che nel tempo medesimo era stato egualmente assoluto Geronimo Campanella e forse anche Gio. Pietro Campanella (ved. pag. 241): l'ultima notizia avuta intorno a Geronimo si fu l'assistenza che egli faceva insieme con Gio. Pietro, il 2 agosto 1601, al povero fra Tommaso ancora ammalato pel grave tormento sofferto; più tardi, tra il febbraio e l'aprile 1602, egli era già tornato a Stignano.

Relativamente a' contumaci forgiudicati, dallo stesso processo di eresia abbiamo appreso che Gio. Gregorio Prestinace nell'agosto [Pg 329] 1601 voleva presentarsi, e fra Pietro di Stilo vivamente raccomandava che se ne astenesse: nè altro sappiamo intorno alla fine di questo amico intimo del Campanella, come pure dell'altro egualmente fuggiasco, Fulvio Vua, mentre intorno a Tiberio e Scipione Marullo possiamo ritenere che non patirono gravi molestie, poichè troviamo Scipione registrato tra coloro i quali si dottorarono nell'aprile o maggio 1604, e però bisogna ammettere che egli abbia potuto fare i suoi studii negli anni precedenti[382]. Abbiamo appreso poi da documenti, che ci è riuscito del pari trovare nel Grande Archivio, talune altre notizie sul Baldaia, sul Dolce, sull'Alessandria, sul Tranfo, inscritti, come si è veduto a suo tempo, in una lunga lista di forgiudicati.

Geronimo Baldaia di Squillace verso la fine del 1603 scorreva la campagna con comitiva di fuorusciti, ed aveva pur allora commesso un omicidio, d'accordo, a quanto pare, col capitano di Petrizzi (tanta era la confusione e corruzione amministrativa a que' tempi): la Corte del Principe di Squillace lo catturò, e pretese di farne essa la causa, ma l'Audienza di Calabria ultra si diede a raccogliere contro di lui informazioni «de più delitti»; nel luglio poi 1604 il Vicerè ordinò che queste informazioni gli fossero trasmesse, come pure che il Baldaia fosse dalle carceri di Squillace tradotto a Napoli, senza per altro fare alcun cenno della sua condizione di forgiudicato per la causa della congiura, sicchè dovrebbe dirsi essere stata quella condizione affatto dimenticata[383]. Quanto a Tolibio Dolce di Satriano, nel giugno 1604 il Capitano di Stilo aveva già catturato un Gio. Antonio Lucano, che gli avea dato ricetto mentre trovavasi «forgiudicato per la causa di ribellione», e poi finì per essere catturato egli medesimo, nell'ottobre di quell'anno, per opera di D. Carlo di Cardines Marchese di Laino, Governatore di Calabria ultra in quel tempo: il documento che lo riguarda non fa menzione di altri delitti da lui commessi, ma lo dichiara solamente «forgiudicato nella causa della pretensa ribellione», ed inviato a Napoli perchè quivi «in detta causa... si procede per delegatione», onde il Vicerè loda molto nel Marchese «la diligentia de un cossi accertato et signalato servitio»[384]. Da ciò rilevasi che al cadere del 1604 il tribunale speciale della congiura pe' laici era sempre aperto; ed aggiungiamo che un altro documento ci mostra il Dolce tuttora nelle carceri del Castel nuovo nel 1610[385]. [Pg 330] Passando a Gio. Francesco d'Alessandria, dobbiamo dire che egli continuava nella sua mala vita di fuoruscito in compagnia pure di Antonio suo padre, e nel 1605 venne finalmente catturato: un reclamo contro di lui lo dichiara «carcerato inquisito per la causa della Rebellione», sottoposto ad informazione per un omicidio in persona di un Antonio Lapronia e per «altri homicidii et enormi delitti»; un reclamo poi contro l'Auditore Ferrante Barbuto, successo all'Auditore Hoquenda come delegato a tale informazione, rivela che il Barbuto ebbe per mezzo di Carlo di Paola, nostra vecchia conoscenza, D.ti 200 «acciò guastasse l'informatione presa»[386]. Entrambi questi documenti meritano di essere consultati per acquistare una nozione de' tempi sempre più esatta, ma principalmente il secondo, scritto dal figlio di Gio. Geronimo Morano, altra nostra conoscenza, merita di essere consultato in tutta la sua estensione: poichè esso, oltre l'Alessandria, menziona diversi inquisiti, tra' quali Paolo e Scipione Grasso figli di Jacovo, presi con bando che concedeva indulto a chi li consegnasse vivi o morti; ed anche Gio. Domenico Martino famoso fuoruscito, probabilmente «il figlio di Nino Martino», che insieme co' «figli di Jacovo Grasso» il Campanella nominò nella sua Dichiarazione scritta come individui sui quali i Contestabili facevano assegnamento per la ribellione. Nessuno di costoro trovasi qualificato «inquisito per la causa della ribellione» come s'incontra in persona del D'Alessandria; e notiamo qui che la cosa medesima accade pure per altri fuorusciti egualmente nominati dal Campanella come amici di Maurizio disposti alla ribellione, cioè per Carlo Bravo e pe' Baroni di Reggio, secondochè ci mostrano altri documenti dello stesso tempo, onde si può dire che essi nemmeno vennero perseguitati per questa causa[387]. [Pg 331] Infine quanto ad Alessandro Tranfo, un documento del Grande Archivio ce lo mostra nel 1606 nella sua Baronia di Precacore, ma non perseguitato, sibbene in conflitto con un altro individuo di nostra conoscenza, quel furfantello di Aquilio Marrapodi figlio di Gio. Angelo (ved. pag. 129). Verosimilmente egli si presentò e riescì ad opporre qualcuna delle eccezioni consentite dalla giurisprudenza del tempo anche a' forgiudicati, e dovè difendersi in modo da rimanere assoluto: cosi, trovandosi nel luglio 1606 in compagnia del [Pg 332]Capitano di Precacore, ed essendogli passato arrogantemente dinanzi Aquilio Marrapodi già divenuto contumace per cause criminali, diede ordine che fosse preso, ma ne ebbe immediatamente minaccia di morte e dovè lasciarlo andare; nè manca qualche documento che accenna alle violenze ed omicidii commessi così da Aquilio come dal medesimo Gio. Angelo Marrapodi suo padre[388]. Di Marcantonio Contestabile, del Famareda, dell'Joy etc. non c'è riuscito trovare [Pg 333] altra traccia; non ci farebbe meraviglia che, dopo un'ecclisse durante qualche tempo, abbia ognuno ripigliata la sua solita maniera di vivere, rimanendo nella mala vita coloro i quali vi erano abituati; senza dubbio questo s'incontra per parecchi già imprigionati e tormentati per la congiura, con essersi in loro verificato un peggioramento di vita dietro i travagli sofferti[389]. Ma in somma, per quanto finora sappiamo, col 1605 cessano le notizie intorno al processo della congiura pe' laici, e non abbiamo motivo di ritenere che siasi ulteriormente proceduto per essa. Ci resta solo la notizia di una relegazione del D'Alessandria all'isola di Capri nel 1615, senza alcun cenno della causa; ma verosimilmente fu questa una mitigazione della pena negli ultimi anni che dovevano ancora scontarsi, secondo il costume del tempo[390].

Veniamo ora all'esito del processo della congiura per gli ecclesiastici. Anche da questo lato dobbiamo dire innanzi tutto, che il tribunale Apostolico non solo rimase aperto, ma tenne pure altre [Pg 334] sedute, dopo che ebbe liberati i 12 inquisiti presi per sospetti senza fondamento, e trattate le cause di tutti gli altri ecclesiastici incriminati, riservando la spedizione di esse fino a che ciascuno, o come principale o come testimone, avesse esaurito il suo còmpito nel processo dell'eresia. Così per Giulio Contestabile, visto nel corso di quest'ultimo processo che egli risultava non più incriminabile come principale ed era stato già più volte interrogato qual testimone, dopo il suo ultimo esame del 15 novembre 1600 il tribunale dovè immediatamente riunirsi per spedirne la causa della congiura, e sappiamo che emanò una sentenza di condanna a cinque anni di esilio da Napoli e da entrambe le provincie di Calabria. Tale esito della sua causa trovasi notato in coda del Riassunto degl'indizii compilato contro di lui[391]; e che la sentenza abbia dovuto essere pronunziata appunto nel novembre 1600, si desume da' documenti relativi all'espiazione della pena assegnatagli. Infatti una lettera del Card.l S. Giorgio al Nunzio, in data del 15 novembre 1602, fa conoscere che il Contestabile avea supplicato S. S. di rimettergli per grazia tre anni di esilio che gli rimanevano da scontare, avendone già scontati due, e S. S. volea sapere qual fosse l'opinione del Nunzio intorno a ciò[392]. Fermandoci un momento a questo punto, dobbiamo indispensabilmente notare che circa tale condanna il tribunale non chiese a Roma la risoluzione da doversi prendere, ed anzi non ne diede nemmeno partecipazione alla Curia, come si può desumere dal non vederne fatto alcun cenno in questo senso nel Carteggio del Nunzio: eppure il Breve avea prescritto di procedere «usque ad sententiam exclusive»; sicchè bisogna dire esservi stato un tacito abuso da parte del tribunale e una tacita acquiescenza da parte di Roma. Ciò forse diè poi motivo o pretesto al Campanella di credere che il Breve avesse prescritto di procedere «usque ad sententiam inclusive», come egli scrisse in una Lettera del 1624 a Cassiano del Pozzo pubblicata dal Baldacchini, dolendosi perchè nella persona sua non aveano neanche osservato il Breve che così prescriveva: ma invece è certo che il Breve avea la parola exclusive (noi l'abbiamo riscontrata tanto nella copia che se ne conserva in Firenze quanto nella copia che se ne conserva in Simancas), e bisogna pur dire che coll'abbandono di tale riserva divenne tacitamente compiuto in fatto, mentre non stava in dritto, l'abbandono degli ecclesiastici all'influenza del Governo Vicereale, essendo questa predominante per l'apatia del Nunzio verso di loro. Tornando ora alla grazia chiesta dal Contestabile a S. S., dobbiamo dire che il Nunzio, in data del 22 novembre 1602, rispondeva che non stimava conveniente alcuna grazia prima che il negozio fosse finito, «perchè, diceva, come viene rimproverato da questi Ministri Regii la tardanza in tale speditione, non ne [Pg 335] venisse rimproverato anche questo»[393]: e per verità in Roma non si teneva abbastanza conto dell'irritazione non del tutto ingiusta del Governo Vicereale, e deve anzi notarsi che nella stessa Lettera suddetta del Card.l S. Giorgio il Contestabile era indicato al Nunzio quale «bandito da V. S. di Calabria et di Napoli», come se D. Pietro De Vera non fosse esistito. Nè l'opinione del Nunzio valse a nulla. Non appena deliberata da Roma la sentenza da doversi pronunziare nella causa dell'eresia, il Card.l S. Giorgio nella data medesima scrisse al Nunzio essere cessato il rispetto che si opponeva alla grazia chiesta dal Contestabile, poichè nella Congregazione del S.to Officio era stata «spedita la causa del Campanella»; il Nunzio naturalmente rispose, che quando non si era mostrato favorevole alla grazia perchè il negozio non era finito, aveva inteso dire che dovesse aspettarsi la fine del processo della congiura, nel quale il Contestabile era stato condannato, ma che poi se ne rimetteva a quanto in Roma si stimasse meglio[394]. E si può ritenere per fermo essersi in Roma stimato meglio accordare la grazia, poichè troppo vive furono le insistenze del Card.l S. Giorgio, troppo potenti le raccomandazioni delle quali godeva il Contestabile; nè occorre dire come il Governo Vicereale dovesse rimanere disgustato ed anche sospettoso relativamente agli altri giudicabili, massime relativamente al Campanella, vedendo che da un momento all'altro poteva esser concessa da Roma una grazia la quale rendeva frustranea ogni condanna, mentre esso avea tanto penato perchè alla determinazione di questa condanna avesse preso parte un Giudice di sua fiducia.

Dopo il Contestabile venne la volta di D. Marco Antonio Pittella, che scappato già in Calabria fu poi ripigliato e tradotto a Napoli verso il marzo del 1601: in tale data il tribunale dovè riunirsi di nuovo e procedere allo svolgimento di questa nuova causa, la quale compì nell'aprile seguente, come rilevasi da una lettera del Nunzio che abbiamo pure avuta altrove occasione di menzionare[395]. Potremmo dire in breve che questa causa procedè e finì come quella del Contestabile, cioè con una tortura e con una condanna a 5 anni di esilio; ma appunto perchè si tratta di una causa finita con una condanna, gioverà sapere come e perchè essa si ebbe. Oltre il Riassunto degl'indizii contro il Pittella, ci è pervenuta pure la Difesa scritta per lui dallo stesso Regio Avvocato de' poveri Gio. Battista de Leonardis che difese il Campanella: questa Difesa del Pittella non solo ci fa intendere le accuse del fisco, ma anche rischiara tutto lo svolgimento della causa[396]. Si ricorderà che il Pittella a Davoli accoglieva in casa sua Maurizio e poi il Campanella ed altri [Pg 336] incriminati di congiura. Esaminato affermò che Maurizio veniva in una casa la quale egli avea data in fitto ad un Astolfo Vitale parente di lui, e quanto al Campanella egli non lo conosceva: fu sottoposto ad oltre un'ora di corda e non confessò nulla; infine ebbe il decreto per le difese. Il fisco pretese che dovea dirsi colpevole di conversazione con Maurizio e col Campanella e di ricetto di Maurizio, sciente la ribellione e preparato a prendervi parte dietro la testimonianza del Vitale, convinto sciente e non rivelante dietro le testimonianze del Vitale e di Maurizio; e questa volta il Leonardis, avendo una buona causa per le mani, fu piuttosto audace nel farne la difesa. Dopo di aver ricordato che la conversazione e il ricetto si effettuarono in agosto e che il Bando proibitivo fu emanato il 17 e 18 settembre, il Leonardis fece anche notare che quel Bando, emanato da un Giudice laico, non poteva colpire il Pittella clerico; che la deposizione del Vitale, testimone unico e socio nel delitto, non provava nulla e non avrebbe dovuto neanche bastare a far dare la tortura, tanto più che era stata fatta innanzi ad un Giudice laico, tanto più che era controbilanciata da un'altra testimonianza in contrario fatta da Maurizio capo di quella fazione; che per altro il Pittella con la tortura sofferta si era scolpato di tutto; che il Vitale e Maurizio, socii nel delitto ed infami, non potevano convincere nemmeno nel delitto di lesa Maestà, tanto più che erano stati esaminati in un foro laico ed incompetente, non ripetuti nel foro ecclesiastico, nè poi il Pittella, clerico, era obbligato a rivelare la ribellione contro il Principe di cui non era suddito. Malgrado tutte queste ragioni, il tribunale lo condannò a cinque anni di esilio da Napoli e da entrambe le provincie di Calabria, come avea fatto pel Contestabile, verosimilmente ritenendolo del pari sospetto di complicità nella progettata ribellione. Ognuno troverà senza dubbio un po' grave questo giudizio e la relativa condanna, poichè il Pittella avea per sè la testimonianza decisiva di Maurizio in punto di morte, attestante che egli non era nella congiura come gli altri, nè mostrava di goderne come gli altri; si vede bene quindi che il tribunale Apostolico non avea punto smesso il suo rigore, comunque il tempo trascorso avesse dovuto calmare i furori primitivi. Nè occorre dire che esso riteneva sempre la tentata ribellione qual fatto vero ed indiscutibile, mentre condannava il Contestabile e il Pittella a quel modo, donde è facile desumere abbastanza chiaramente come avrebbe trattato il Campanella e gli altri frati più compromessi. E possiamo oramai occuparci appunto di costoro.

Il Campanella e gli altri frati, avuta la condanna per l'eresia ed esauriti tutti gli Atti relativi a questa condanna, nel febbraio o tutt'al più nel marzo 1603 avrebbero potuto vedere spedita la loro causa della congiura. Ma da una parte avvenne allora un mutamento di Vicerè, succedendo il 3 aprile a D. Francesco de Castro D. Alonso Pimentel d'Herrera Conte di Benavente, e sempre, fin dalle prime notizie di prossima mutazione, gli affari d'ogni genere[Pg 337] solevano rimanere più o meno incagliati; d'altra parte sopraggiunse direttamente, nello stesso tribunale per la congiura, una difficoltà inaspettata. D. Pietro de Vera, già divenuto sin dall'aprile 1601 pro-Presidente del Sacro Regio Consiglio per morte di Vincenzo de Franchis, poi dal 16 10bre 1602 passato a Presidente per la promozione di Fulvio Costanzo a Reggente di Cancelleria[397], comunque in età più che matura, era preoccupato del non aver discendenza e trattava un matrimonio. Non era questa veramente la prima volta che a D. Pietro fosse venuto tale pensiero; il Residente Veneto, che non si lasciava sfuggir nulla ed anche di siffatte cose teneva informato il suo Governo, nel 1598 (25 7bre) scriveva che D. Pietro era sul punto di sposare la figlia di D. Hernando Mayorca già Segretario di più Vicerè, il quale, egli diceva, «prima non avea che la penna» ed allora, morendo, lasciava alla figlia 50 mila duc.ti di dote, ad un figlio 15 mila duc.ti di entrata. Ma poi non se ne fece nulla, ed al tempo al quale siamo pervenuti, come accade col progresso dell'età, D. Pietro non andava più in cerca di ricca dote ma di bellezza e gioventù, ed aveva intavolate trattative con la figliastra appunto del Reggente Fulvio Costanzo, D.a Livia Sanseverino, sorella di D. Scipione che abbiamo visto Marchese e poco dopo Duca di S. Donato (confr. pag. 115): era questa, come dice un manoscritto di Ferrante Bucca che l'aveva probabilmente conosciuta, «la più bella e bizzarra dama dell'età sua», e quasi non occorre dirlo, D. Pietro fu tutto occupato a vagheggiare la sua Diva andando allegramente incontro alle solite conseguenze[398]. Un altro motivo tenne pure distratto D. Pietro in questo tempo, la morte di suo zio Francesco de Vera, Ambasciatore di Spagna a Venezia, ond'egli dovè partire per quella città: un documento rinvenuto nel Grande Archivio ci fa conoscere che D. Pietro sottoscrisse il contratto di nozze il 29 aprile, ed una lettera rinvenuta nel Carteggio del Residente Veneto ci fa conoscere che partì per Venezia il 30 aprile[399]. Con queste circostanze e queste [Pg 338] date si può intendere una lettera del Nunzio, nientemeno del 18 luglio 1603, nella quale faceva sapere a Roma (dove non apparisce punto che si pensasse tuttora al Campanella) che subito dopo la spedizione della causa di S.to Officio egli non aveva mancato di sollecitare il suo collega D. Pietro per la spedizione della causa della congiura, ma senza riuscirvi mai; che avendo avuta notizia della partenza di lui per Venezia, l'aveva sollecitato di nuovo ed aveva pure sollecitato il Vicerè, tanto più che i frati ne facevano istanze continue, ma gli si era risposto non essere possibile far nulla prima dell'andata, bensì tutto si sarebbe fatto al ritorno; che infine essendo D. Pietro tornato, e trovandosi prossimo a sposare, fra 10 o 12 giorni, la figliastra del Reggente Costanzo, egli non avea mancato di muovergli il dubbio che siffatta mutazione di stato poteva recare impedimento alla funzione di Giudice de' frati, e gli si era risposto che non dicendo il Breve dover essere clerico non coniugato, non appariva impedimento alcuno. Ora su tale quistione il Nunzio chiedeva gli ordini di S. S.ta[400].

Gli ordini, al solito, tardavano a venire da Roma, e per sollecitarli il Nunzio scrisse ancora il 1o, il 15, il 29 agosto, inoltre il 12 settembre, e a quest'ultima data aggiunse esser venuta nuova che fra Dionisio trovavasi coll'armata turca; ma poi ebbe a sapere che in Roma già aveano avuta da altro fonte una tale nuova, ed anzi l'avevano partecipata al Duca di Sessa Ambasciatore di Spagna ed Agente di Napoli[401]. Il fatto merita bene di essere considerato, ed importa fermarci alquanto sopra di esso: un dispaccio del Bailo Contarini, da noi trovato nell'Archivio di Venezia, ci mostra che n'era rimasto anch'egli colpito, e torna impossibile immaginare che non ne dovesse rimanere colpito il Governo Vicereale. Il Contarini scriveva, che col Cicala si erano imbarcati due uomini del Regno, concertatisi con lui per guidarlo a «svaligiare» un posto di quel paese; inoltre era venuto un frate già carcerato col Campanella per complicità nella congiura e poi fuggito di prigione. Costui, trattenutosi segretamente sulle galere di Malta, nella fazione di Lepanto avea trovato modo di venirsene a Costantinopoli, avea preso l'abito di turco «come haveva anco il cuore», avea «havuto ricapito in casa del Cicala», diceva di conoscere in Calabria oltre 300 affiliati alla setta maomettana e tra essi alcuni di conto, predicava in italiano a' giovani rinnegati «facendo assai danno con la sua lingua», affermava «che presto uscirà anco di prigione il predetto Frate Campanella et ch'ancor lui venirà qui; il che se riuscirà, per esser anch'esso molto litterato, risulterà à grandissimo prejudicio della religione christiana»; aggiungeva poi il Contarini, che «oltre di questi» si erano imbarcati pure due soldati di Malta fuggiti in Lepanto, i quali fattisi turchi offerivano [Pg 339] al Cicala l'isola di Gozo etc.[402]. È agevole comprendere quanto siffatte notizie dovessero aumentare nel Governo Vicereale il sospetto e l'avversione pel povero Campanella. Possiamo affermare con sicurezza, che il Governo Veneto trasmise a Napoli, come era solito, le notizie della prossima venuta dell'armata turca con due uomini del Regno accordatisi col Cicala, e non disse una sola parola del frate già carcerato col Campanella, del quale d'altronde il Bailo non avea distintamente detto che si era imbarcato del pari: questo abbiamo rilevato dagli ordini de' Savii del Consiglio, registrati ne' così detti Codici-Brera che si conservano nell'Archivio Veneto[403]. Ma il Governo Vicereale avea pure informazioni proprie direttamente da Costantinopoli e in brevissimo tempo, onde non si può affatto dubitare che gli fossero egualmente pervenute le notizie relative a fra Dionisio, tanto più che era già preoccupato dell'amicizia intima di lui col Cicala, siccome ci mostra una Lettera Regia da noi rinvenuta nel Grande Archivio di Napoli[404]; nè occorre dire come per siffatte cose dovesse sentirsi rimescolato. Esso era stato sempre persuaso che questi frati aveano già iniziati i loro disegni di ribellione e di eresia col mettersi d'accordo co' turchi, segnatamente col Cicala, ed è facilissimo intendere l'impressione che dovea fargli il contegno di fra Dionisio dopo la fuga, la sua andata tra' turchi, l'apostasia, l'intimità col Cicala, la venuta con l'armata nell'ordinaria escursione di essa verso il Regno, l'annunzio misterioso della prossima libertà del Campanella che sarebbe andato del pari a Costantinopoli. Come fin da principio, così anche adesso il Campanella era danneggiato dall'imprudenza, dalla loquacità, dalle vanterie di fra Dionisio, il quale non si smentì mai in tutta la sua vita; e bisogna sommare anche queste circostanze con tutte le altre, per intendere il contegno del Governo Vicereale verso il povero frate, ritenuto sempre pericoloso per la sicurezza e la fede del Regno. Vedremo più in là che fin dal momento in cui giunse la notizia dell'imbarco di fra Dionisio sull'armata turca, il Campanella fu rinchiuso in un carcere molto più duro.—Poniamo intanto qui che il Cicala in quest'anno, come ne' tre precedenti, non potè compiere alcuna impresa contro la Calabria, ed anzi fu notevolmente disgraziato: gioverà conoscere quanto avvenne tra napoletani e turchi in detto periodo di tempo. Dopo l'inutile venuta in Calabria nel 1599, egli uscì di nuovo da Costantinopoli in luglio 1600 con 30 galere, portando scale, zappe e badili, con l'intenzione, per quanto fu riferito, di scendere a Cotrone, sicchè venne spedito a quella volta il Priore di Capua D. Vincenzo Carafa: [Pg 340] e il Cicala mandò, come allora si diceva, «due lingue» cioè due galere a prender lingua, a ricevere e dare notizie in Puglia e in Calabria, e scrisse anche al Vicerè, il 14 settembre, che passerebbe nella fossa di S. Giovanni, «quando non per altro, per sbarcare il Sig.r Carlo suo fratello escluso dal possesso del Ducato di Nixia»; ma un grosso temporale lo colse alla Vallona, e lo costrinse a ritirarsi in Costantinopoli, dove rientrò a' primi di dicembre. Anche Arnaut Memi, in settembre, apparve con tre galere in vista di Brindisi, ma forse per la ragione medesima non si mostrò più: invece Amurat Rais, uscito da Biserta più presto, ebbe a soffrire la perdita di una galera presagli da D. Garzia di Toledo, e tornò per vendicarsene e se ne vendicò pur troppo in Calabria. D. Garzia, a' primi di agosto, scorrendo con sei galere le coste del capo Bianco vi aveva incontrate tre galere di Biserta, ne aveva presa una facendo 110 schiavi e liberandone altrettanti, e secondo lui avrebbe preso anche la capitana se i suoi artiglieri avessero fatto fuoco a tempo: Amurat, tornato con sei galere e con una scorta di rinnegati calabresi, a' 23 settembre sbarcò a Cetraro presso Scalèa, vi uccise il Principe di Scalèa nostra vecchia conoscenza con altre 27 persone, e rimbarcò a suo comodo portando con sè 30 prigioni e il corpo del Principe[405]. Nel 1601 poi, al 1o di luglio, il Cicala uscì da Costantinopoli con 35 galere che giunsero per via fino a 60, e con queste potè prendere qualche nave; ma avendo, il 22 ottobre, spedito da Navarino verso la Calabria tre galere per lingua, ed essendo stato informato che la costa era molto ben munita, alla fine di dicembre rientrò in Costantinopoli senza aver nulla tentato. Nel 1602, parimente in luglio, uscì con 37 galere che sempre si accrescevano per via, col proponimento di danneggiare la Calabria o la Puglia, e però senza ritardo, fin da' primi di luglio fu mandato per Governatore di Calabria ultra D. Garzia di Toledo: alla fine di agosto apparve al capo di Otranto l'armata divisa in due squadre e diretta verso la Calabria, ed a' primi di settembre, giunta nella fossa di S. Giovanni, ne sbarcarono circa tre mila uomini, ma furono respinti con la perdita di 5 de' loro; poi l'armata si diresse a Reggio e vi perdè circa 100 uomini, si rivolse indietro e tentò di sbarcare al Bianco, luogo del Principe [Pg 341] della Roccella, e vi soffrì la perdita di circa 100 morti e 30 prigioni, infine spiccò 10 galere da quest'altra parte della Calabria e vi furono incontrate dalle galere di Genova, sicchè doverono anch'esse desistere da ogni impresa. Se ne tornò quindi il Cicala anche prima del solito a Costantinopoli, in novembre, e vi fu universalmente biasimato, tanto più che al tempo stesso giunse la nuova che i napoletani aveano fatta una diversione in Algieri e presa Bugia nell'ottobre. Da ultimo nell'anno presente 1603 egli uscì di nuovo in luglio con 37 galere che poi si accrebbero sino a 60, ma dovè in agosto liberarsi di parecchie di esse andate a male per vetustà, ed impazientito le fece vendere in Negroponte, rinunziando a tutti i suoi progetti e contentandosi di rimanere nell'Arcipelago a dar la caccia alle navi che andavano in cerca di grani: così fra Dionisio non giunse nemmeno a vedere le coste della Calabria, e il Cicala, compiuti i servizii annuali in Salonicco, in Scio, in Alessandria, rientrò a' primi giorni dell'anno seguente in Costantinopoli. Aggiungiamo che quivi era pur allora morto il Gran Signore «senza precedente male», come scrisse il Bailo Contarini, e succeduto Achmet giovanetto a 13 anni; e con suo dispiacere il Cicala dovè abbandonare il capitanato marittimo, inviare la moglie e la suocera al Serraglio e recarsi come generalissimo in Persia.

Giungeva frattanto, il 19 settembre, la risoluzione di S. S. circa il dubbio sorto pel matrimonio di D. Pietro de Vera[406]. S. S. non credeva conveniente che un coniugato giudicasse cause di persone ecclesiastiche; ordinava quindi al Nunzio che «per sè solo» conoscesse, spedisse e terminasse per giustizia le dette cause, ma contentavasi che D. Pietro lo assistesse nel conoscerle e spedirle, rimanendo «la totale giuridittione» presso il Nunzio. Pur troppo Roma mostrava di non avere il sentimento esatto della situazione, o piuttosto dava un'altra fra le tante prove di voler mantenere senz'altro riguardo «la superiorità ecclesiastica», con quella insistenza che sovente è stata detta fermezza, ma che evidentemente si sarebbe dovuta dire incorreggibilità. Vi era prima di tutto una notevole contradizione con la teorica ogni giorno professata dai Vescovi e sostenuta sempre da Roma, che i clerici coniugati dovessero ritenersi quali veri e pretti clerici, con tutte le immunità e prerogative ecclesiastiche; il Governo non aveva mai voluto riconoscerlo, ed avrebbe avuto torto a pretenderlo in tale circostanza; ma poteva Roma sconoscerlo? In fin de' conti poi, dopo sforzi non lievi, bene o male, da Roma si era ottenuto che una persona di fiducia del Governo sedesse e giudicasse nel tribunale Apostolico per la congiura; ed ora, nel momento decisivo, profittando di una circostanza che non poteva punto menare a tale conseguenza, si ordinava che quella persona sedesse ma non giudicasse, mentre uno de' principali imputati, fuggito dalle carceri senza sapersi come, si era unito [Pg 342] a' turchi e veniva con essi ad offesa del Regno, strombazzando che l'altro imputato sarebbe uscito dalle carceri egualmente e presto! Ma qualora al Nunzio fosse parso bene assegnare al Campanella una pena relativamente mite, si dovea perfino sottostare al ludibrio che l'uomo di fiducia del Governo si trovasse presente a tale decisione? Ci affrettiamo a dirlo: se il Governo si fosse seriamente preoccupato di questa ipotesi, avrebbe avuto torto. Il Nunzio, come si rileva da tutto il suo Carteggio, era pronto a dare mille volte il Campanella al braccio secolare. Egli era convinto che il Campanella fosse colpevole e non aveva per costui, al pari di Roma, il menomo sentimento di pietà: gli fosse pure apparso innocente, per un Nunzio il bisogno supremo era quello di mantenere le buone relazioni tra i due Stati, attendere al ricupero delle grosse entrate della Camera Apostolica e al riconoscimento della «superiorità ecclesiastica» senza guardare troppo pel sottile in tutto il resto. Ma gli uomini di Stato professavano allora strettamente la massima che abbiamo vista enunciare dal Conte di Lemos, «per non errare, fa mestieri ritener sempre il peggio». Il Campanella era pure una forza potente, come avea ben dimostrato col riuscire ad eccitare in tanto poco tempo gli animi di molta gente in Calabria; a Roma poteva essersi formato il pensiero di tenere viva ed in mano sua questa forza per ogni evenienza futura, e poteva esser questo il significato del volere che la pena inflitta al Campanella per l'eresia fosse da lui scontata nell'alma città. Varie altre ipotesi avrebbero potuto ancora affacciarsi alla mente del Governo Vicereale, ammesso che faceva mestieri ritener sempre il peggio. Ma poi, in ultima analisi, perchè doveva esso rinunziare alla sua influenza con tanti sforzi conquistata in tale causa? Come potea riconoscere in modo assoluto la superiorità ecclesiastica anche pe' delitti di lesa Maestà, ciò che si era sempre negato a riconoscere? Senza alcun dubbio, agl'incessanti motivi di sospetto e di diffidenza venivano ad aggiungersi il risentimento e il puntiglio giurisdizionale, e bisognerebbe dimenticare tutta la storia napoletana per credere che questo risentimento e puntiglio avrebbero potuto rimanere senza conseguenze; evidentemente c'era più che non bisognasse per far ricorrere il Governo a' propositi più atroci, a fine di non lasciarsi sfuggire di mano il Campanella.

Il Nunzio non tardò a comunicare al Vicerè la risoluzione di S. S., ed il 26 settembre potè ragguagliare il Card.l Borghese su quanto avea fatto[407]. Egli avea mostrato a S. E., che la risoluzione presa «non alterava quello che era stato fermato co' suoi antecessori in tal negotio»; D. Pietro de Vera «doveva intervenire a tutto quello che si trattava in detta causa; solo si voleva che non apparisse più come giudice». Arrestandoci un momento su queste parole del Nunzio, osserviamo che egli non interpetrava [Pg 343] fedelmente la risoluzione Papale, e la rendeva nel fatto assai meno amara; poichè ammetteva che D. Pietro sarebbe intervenuto a tutto e bastava che non apparisse giudice, mentre S. S. avea ritenuto non conveniente che giudicasse, ed ordinato al Nunzio che conoscesse spedisse e terminasse la causa per sè solo. Il Vicerè, che sicuramente avea avuto notizia della risoluzione originale di S. S., mediante gli ufficii non mai interrotti della fazione Cardinalizia attaccata a Spagna, potè mostrarsi sereno, ma nel tempo medesimo dovè sentirsi preso sempre più da diffidenza; d'altronde era per lui molto facile vedere che a nulla avrebbe giovato il rinfocolare una quistione già pregiudicata da un solenne pronunciato del Papa, e conveniva meglio farlo cadere senza strepito, opponendovi la forza d'inerzia: ciò spiega il suo contegno nel momento, quale lo espresse il Nunzio nello scrivere a Roma, ed anche il suo contegno ulteriore, quale lo vedremo nello svolgimento successivo della faccenda. Secondochè scrisse il Nunzio, egli «mostrò di restare in pace», ma per non essere informato del fatto richiese che glie ne fosse lasciata memoria; rappresentava dunque la parte dell'ingenuo, e voleva intanto poste in iscritto le parole del Nunzio che già costituivano un guadagno. Da parte sua il Nunzio potè ancora scrivere a Roma, «non vedendo in questo quello che si possa opporre, spero che il negotio andrà per i suoi piedi»: con ciò egli mostravasi ingenuo davvero, mentre pure ricordava quale fiera lotta giurisdizionale vi era stata per costituire il tribunale, e sapeva che il Governo Vicereale non era punto avvezzo a cedere facilmente in queste lotte; ma forse rappresentava egualmente la parte dell'ingenuo con Roma, dando larghe speranze per non avere richiami sul modo in cui aveva interpetrata la risoluzione di S. S.. E quasi sentisse il bisogno di far bene intendere la sua interpetrazione, conchiudeva, che con D. Pietro aveva fin allora trattato unitamente e così procurerebbe di trattare per l'avvenire, acciò il negozio si tirasse avanti. Dalle quali parole può rilevarsi che egli intendeva un po' meglio le circostanze, e può rilevarsi ancora che avrebbe fatto terminare la causa condannando senz'altro il Campanella, giacchè D. Pietro non si sarebbe certamente pronunziato per un'assoluzione.

L'indomani, 27 settembre, il Nunzio scrisse la memoria chiestagli dal Vicerè: nel suo Carteggio n'è rimasta la minuta che noi pubblichiamo[408]. Dopo di aver fatta la storia particolareggiata di tutti i precedenti, egli terminava con lo specificare sempre meglio che S. S. si contentava che D. Pietro intervenisse ad ogni cosa «eccetto che al sententiare» aggiungendo, «il che alla sustanza del negotio non vuol dir nulla, perche saremo d'accordo come siemo stati sin'adesso, et quello che concordemente si fermarà si esseguirà, sì che l'effetto sarà il medesimo come le dissi à bocca; desidero dunque che ella commetta al medesimo che intervenga [Pg 344] quanto prima». Da tutto ciò il Vicerè potea desumere anch'egli ben chiaramente, che per parte del Nunzio il Campanella sarebbe stato senza alcun dubbio condannato; ma o si serbò diffidente o non volle passar sopra alla quistione giurisdizionale, e veramente si ha motivo di ritenere l'uno e l'altro concetto, per intendere l'ultimo periodo del processo. Così tanto nel Vicerè quanto in D. Pietro de Vera si vide una mollezza, una fiaccona, da doversi dire che già si era deciso di opporsi a Roma col non far nulla: e non è dubbio che D. Pietro trovavasi nello stadio più acuto dell'«attender solo a star allegramente innamorato della propria moglie» come ci lasciò scritto il Bucca; ma se il Vicerè avesse voluto, D. Pietro avrebbe adempito all'ufficio suo.

Il 3 ottobre, e poi il 9, e poi ancora il 17, il Nunzio faceva sapere a Roma, che il Vicerè avea commesso a D. Pietro di andare a vederlo, che D. Pietro non era venuto ed il Vicerè avea detto che vi sarebbe andato ad ogni modo, che poi D. Pietro avea mandato a fare le sue scuse con l'assicurazione che sarebbe venuto nella prossima settimana[409].—Ma in che modo fu appresa in Roma l'interpetrazione data dal Nunzio alla risoluzione di S. S.? Il 24 ottobre il Card.l Borghese, partecipando al Nunzio che la lettera del 26 settembre era stata letta in Congregazione innanzi a S. S., diceva laconicamente, «in risposta non mi occorre altro, se non ch'ella si regoli conforme a quel che sopra di ciò per ordine della S. sua le fù scritto». Riesce impossibile vedere in queste parole un consentimento; tutt'al più vi si potrebbe vedere un'acquiescenza, ma vi si trova ad ogni modo ripetuto l'ordine di adempiere alla risoluzione quale era stata trasmessa[410].

Finalmente in data del 7 novembre il Nunzio fece sapere a Roma essersi dato ordine che i frati, i quali avevano avuto il termine alle difese avessero l'Avvocato e il Procuratore, per poter poi finire il negozio coll'intervento del Sig.r D. Pietro de Vera[411]. Non apparisce qui chiaramente che D. Pietro abbia preso parte nella decisione di dare quell'ordine, ma parrebbe piuttosto di no. È superfluo intanto ripetere che l'Avvocato e il Procuratore occorrevano solamente per intimar loro la citazione ad dicendum, necessaria nel momento in cui il tribunale dovea riunirsi per sentenziare; ma le difese erano state già fatte pel Campanella, rinunziate dagli altri rimanenti frati. Si potrebbe credere che allora veramente l'Avvocato avesse dovuto cominciare l'adempimento dell'ufficio suo, e perfino che la Difesa scritta del De Leonardis abbia a ritenersi composta nel periodo al quale siamo pervenuti: ma oltrechè la procedura del tempo non giustificherebbe tale credenza, il titolo di advocatus pauperum aggiunto al nome del De Leonardis basta ad [Pg 345] eliminarla; poichè abbiamo già visto l'Avvocato De Leonardis promosso a Fiscale, e successivamente anche a Consigliere il 3 aprile 1602, sicchè egli era già Consigliere in tal tempo, e qui possiamo aggiungere che l'ufficio di Avvocato de' poveri si teneva da Gio. Geronimo di Natale, con esecutoria di Privilegio notata il 21 giugno 1602[412]. Adunque, come è stato detto altrove, le difese doveano dirsi compiute, e l'intervento dell'Avvocato rappresentava una quistione di forma più che di sostanza[413].

Dopo il 7 novembre 1603 si verificò una lunga interruzione perfino nelle notizie riguardanti la causa: e questo non può spiegarsi in altro modo, che ammettendo un'assoluta noncuranza di D. Pietro de Vera nell'adempimento del suo ufficio, naturalmente col consenso segreto del Vicerè. Le lettere del Nunzio non offrono più alcun cenno del Campanella fino al 23 luglio 1604; manca veramente un registro ossia un fascicolo di queste lettere, ma la mancanza si estende appena dal 4 maggio al 5 luglio 1604, e la lettera del 23 luglio, nella quale si ricomincia a parlare del Campanella, è concepita in modo da fare intendere che non se n'era mai più parlato da lungo tempo. Anche le lettere di Roma non offrono nulla per tutto il suddetto periodo; nè può supporsi che nella raccolta di esse vi sia qualche lacuna concernente il Campanella, poichè se da Roma fosse venuta la menoma richiesta di notizie intorno a lui od intorno alla causa de' frati in generale, il Nunzio non avrebbe potuto mancare di rispondere, e nel modo in cui sono registrate le lettere o meglio le minute delle lettere del Nunzio, la risposta si sarebbe dovuta trovare. Ciò mostra bene quanto pensiero si davano del Campanella in Roma, e quanto siano andati lungi dal vero i biografi, i quali hanno ritenuto che in Roma volevano assolutamente trarre il Campanella da Napoli, e che il S.to Officio con la sua condanna, concepita nel senso che conosciamo, aveva avuto principalmente quello scopo. Frattanto è certo che un nuovo aggravamento si era verificato nelle condizioni del Campanella. Il silenzio serbato per tanto tempo dal Nunzio, e poi la solita necessità d'ingarbugliare taluni fatti da parte del filosofo, hanno contribuito del pari a rendere oscuro questo periodo della sua prigionia: ma le deposizioni di Felice Gagliardo in punto di morte, e un altro documento da noi trovato in altre scritture d'Inquisizione, ci mostrano indubitatamente che il filosofo venne separato da' frati suoi compagni e rinchiuso con maggiore durezza nel torrione del Castel nuovo; altri documenti poi, allegati al processo di eresia, ed anche alcune notizie date in sèguito dal filosofo medesimo, ci fanno argomentare [Pg 346] che tale trattamento più duro dovè essergli inflitto nel luglio o agosto 1603, sebbene egli, per procurarsi la commiserazione di Roma e dissimulare varie circostanze sfavorevoli, abbia esposte le cose in modo da far intendere che l'avessero tradotto nel Castello di S. Elmo in una fossa, la qual cosa accadde veramente più tardi, con ogni probabilità appunto nel luglio dell'anno successivo.

Ecco distintamente quanto era avvenuto al Campanella da che l'abbiamo lasciato, cioè dagli 8 gennaio 1603, giorno in cui gli fu letta la sentenza avuta nel processo di eresia. Egli continuò a rimanere per circa sei mesi nelle carceri comuni del Castel nuovo, in relazione co' frati, e segnatamente con fra Pietro di Stilo, unico suo confidente oramai dopo la liberazione di fra Pietro Ponzio, in relazione del pari con Felice Gagliardo, che da molto tempo bazzicava anche troppo co' frati: ed abbiamo avuta occasione di dire che ebbe una visita del Marchese di Lavello cui consegnò la sua opera della Metafisica, ma dobbiamo aggiungere che dal 25 febbraio al 15 aprile di quest'anno ebbe anche occasione di far la conoscenza di alcuni Signori tedeschi venuti nelle carceri del Castello, uno de' quali divenne da tale data suo amicissimo e caldo protettore. Il Conte Giovanni di Nassau avea fatta in incognito un'escursione a Napoli per curiosare la città, seguito da due gentiluomini, Cristoforo Pflugh e Geronimo Tucher, e dal domestico Giovanni Winckes, inoltre accompagnato da Gio. Ottavio Gonzaga che aveva al suo sèguito Uberto Caroni di Bozzolo. Visitata la città i viaggiatori si trovavano oramai in partenza, quando un dispaccio da Roma del Duca di Sessa avvertì erroneamente che un figlio, o nipote, o fratello del Conte Maurizio di Fiandra ribelle al Re di Spagna, con un sèguito di Cavalieri francesi era venuto in Napoli; il Vicerè diede immantinente ordine di catturarli. Il Conte col suo domestico era già partito in precedenza e fu raggiunto a Sessa, gli altri furono rinvenuti ancora in Napoli, tutti furono tradotti nel Castel nuovo[414]. Al Gonzaga, parente del Duca di Mantova, che dimostrò [Pg 347] essersi accidentalmente trovato in compagnia de' tedeschi fu concesso di tenere per carcere, insieme col Caroni, la casa del Principe di Conca; al Nassau col suo domestico fu assegnata nel Castello una carcere separata, agli altri furono assegnate le carceri comuni, ma certificato l'equivoco mediante un'informazione presa da D. Pietro de Vera, furono poi rilasciati con molte cortesie equivalenti a scuse[415]. Durante la prigionia il Campanella si strinse in grande amicizia sopratutto con Cristoforo Pflugh, latinamente Flugio, il quale parrebbe che appartenesse alla celebrata ed opulenta famiglia de' Fuggers negozianti di Augusta e divenuti Baroni di Kirchberg e Veissenhorn, più conosciuti in Italia col nome di Fuggheri e Foccari; ma avrebbe dovuto rabberciare il suo cognome e dichiararsi Sassone per rimanere incognito, e riesce allora notevole che perfino dopo molti e molti anni, a tempo della redazione del Syntagma il Campanella abbia continuato a chiamarlo «Flugio», come riesce notevole che a tempo della prigionia in Castel nuovo sia stato di religione protestante. Da alcune parole che leggonsi nel Carteggio del Turaminis, Agente Toscano, parrebbe che al pari degli altri suoi compagni di carcere egli dimorasse allora in Siena, forse ad oggetto di studio, e questo nemmeno si accorderebbe troppo coll'età del Cristoforo Fugger che conosciamo dall'opera del Custos[416]. Ad ogni modo non sembra dubbio che egli appunto abbia fatto conoscere il Campanella a' Fuggers, come certamente lo fece conoscere a Gaspare Scioppio, onde queste poche notizie su' Fuggers non saranno state inutili, avendo ancora ad incontrarli nel corso della nostra [Pg 348] narrazione. Una lunga lettera posteriore del Campanella diretta allo Pflugh e da noi pubblicata, riferibile all'anno 1607, ci fa conoscere che tanto lo Pflugh quanto il Conte Giovanni s'interessarono molto della sua sorte, e promisero di aiutarlo presso i Principi di Germania, che lo Pflugh specialmente si affezionò a lui, ascoltò le sue meditazioni filosofiche e religiose chiamandolo Mastro, gli giurò che avrebbe avuto pensiero della sua libertà, ne ebbe l'opera della filosofia (senza dubbio l'Epilogo, e probabilmente anche altre opere tra le quali la Monarchia di Spagna); mostrò poi una volta al Campanella un libro di spiriti che il Campanella derise, e videro anche insieme certe donzelle, che dalle finestre invitavano il Campanella a scherzi più che egli non avrebbe voluto (certamente le donzelle abitanti ne' piani superiori del Castello, a taluna delle quali il Campanella avea diretto e forse dirigeva ancora poesie più o meno vivaci); infine liberato dalla carcere ed andato a Roma si convertì al Cattolicismo, onde al Campanella balenò la speranza che glie ne sarebbe derivato un gran bene presso la Curia, avendo lui influito su tale conversione, e poi, col procurargli l'aiuto di altri suoi potenti amici e più tardi anche quello dello Scioppio, diè motivo di fargli concepire speranze sempre maggiori[417]. Le deposizioni di Felice Gagliardo, fatte al S.to Officio in punto di morte, compiono la conoscenza di questo incidente. Lo Pflugh ed il Tucher andarono a stare nella camerata del Gagliardo, il quale insegnò loro le orazioni cattoliche poichè dubitavano di essere stati presi come eretici; ma fecero anche, tutti insieme, certe pratiche di negromanzia per rendersi invisibili ed uscire così dal Castello, secondo i precetti di Gio. Wierio, avendone procurato il libro De Menomachia daemonum (sic) e trattane anche una copia[418]. Fu questo certamente il «libro di spiriti», che lo Pflugh mostrò al Campanella, e, come si vede, il Gagliardo trovavasi già molto avanti negli sperimenti di negromanzia e nella evocazione de' demonii.

Ma dopo circa sei mesi il Campanella dovè essere separato dagli altri frati e posto nel torrione del Castello, come risulta da più documenti. In primo luogo le medesime deposizioni anzidette del Gagliardo ce ne danno notizia precisa, rivelandoci in pari tempo fatti della maggiore importanza, capaci d'illustrare non solo tale periodo della prigionia ma anche il tema difficilissimo delle credenze riposte del Campanella con qualche tratto della sua vita intima: e sebbene al Gagliardo non si possa menomamente accordare [Pg 349] una cieca fede, massime poi nelle condizioni in cui si trovava al momento di deporre questi fatti, vedrà ognuno se essi non concordino con le notizie che abbiamo da altri fonti indubitabili[419]. Il Gagliardo disse, che essendosi già dato alla negromanzia, esercitata pure con taluni de' frati prigioni ed egualmente con altri, avea conosciuto il Campanella nel Castello, e nella carcere dove il Campanella stava, «al torrione», aveva appresa da lui segretamente l'astrologia, studiandola nelle Effemeridi del Magino, nell'Almanach, nel Cardano, libri che con altri ancora, e con gli scritti, un'amica a nome Oriana, dimorante sotto le carceri, con la quale il filosofo «faceva all'amore», conservava e poi porgeva mediante una cordicina dietro segnali convenuti, allorchè il filosofo li voleva: aggiunse, riportandosi evidentemente ad un periodo anteriore, che il Campanella non era affatto pazzo, ma tale si era finto per salvare la vita, che quando veniva gente estranea egli faceva pazzie, e poi con lui e con fra Pietro di Stilo, il quale gli era compagno, ridevano che avesse fatto credere di esser pazzo. Riferì inoltre che avendo più volte discorso da solo a solo col Campanella del testamento vecchio e del miracolo di Mosè al mare rosso, egli avea detto «che ne credesse solo quello che havea potuto essere naturalmente, et che l'altre cose che non potevano essere naturalmente non bisognava crederle, ancor che fussero scritte alla biblia» etc.; che poi gli aveva pure insegnato in Castello come dovesse adorare Dio, facendoglielo scrivere ed anche scrivendoglielo di sua mano, cioè a dire in piedi, col capo scoperto o coperto a volontà, guardando al cielo e recitando alcuni determinati salmi (ved. nel d.to Doc.) ma senza terminare col Gloria Patri etc., non credendo alla 2a e 3a persona della Trinità, ed invece dicendo: «Deo optimo maximo, potentissimo et sapientissimo, io te prego è supplico per lo fato armonia et necessità, per la potentia sapientia et amore et per te medemo, et per il cielo è per la terra et per le stelle erranti è fisse...». E gli aveva insegnato egualmente come dovesse adorare il sole e la luna, guardando in piedi, coperto o scoperto, fissamente il sole al nascere o al tramontare, e dicendo, «O sacro santo sole, lampa del cielo, patre della natura, portatore delle cose à noi mortali, conduttieri dela nostra Simblea» etc. per poi dimandare ciò che desiderava; ed alla luna, «Matre di tenebre» etc. etc. facendo lo stesso anche verso ciascun pianeta, le quattro parti del mondo e gli angeli che ad esse presedevano. Conchiuse poi il Gagliardo affermando, che con tali preghiere non aveva mai ottenuto nulla, che le eresie apprese dal Pisano e dal Campanella erano «capricci di huomini bestiali, dissoluti, senza fondamento di ragione alcuna», che il Campanella talora gli diceva certe cose e talora il contrario, e quando egli dimandava il motivo di queste contradizioni, gli rispondeva non essere [Pg 350] stato inteso bene la prima volta. Naturalmente il Campanella, con la solita astuzia, faceva la parte del distratto: ci toccherà poi di vedere che alcuni cenni, datici da lui in qualche lettera ed anche in qualche opera, confermano sufficientemente le notizie deposte dal Gagliardo; ma già fin d'ora ognuno avrà senza dubbio ravvisato il riscontro che esse offrono con la legge naturale lodata dal Campanella, co' suoi principii metafisici, con le cose esposte nella Città del Sole ed anche cantate nelle Poesie[420]. Si ha quindi un gravissimo argomento per non dubitare del racconto del Gagliardo, della relazione del filosofo con D.a Oriana, la quale evidentemente sarebbe la Dianora che abbiamo visto celebrata da lui con un Sonetto, [Pg 351] non che dell'essere stati insieme contemporaneamente il Campanella e il Gagliardo «al torrione»; gioverà d'altronde ricordarsi che il Gagliardo dovè passare nel torrione appunto nel secondo semestre del 1603 e rimanervi fino al 2 marzo 1604, essendo stato quello il tempo delle sue strette col S.to Officio, sicchè non ci manca nemmeno l'indizio della data.

Abbiamo poi anche un documento notevole raccolto in altre scritture d'Inquisizione, che attesta del pari essersi il filosofo, nel periodo anzidetto, trovato nel torrione del Castel nuovo separato dagli altri frati: è la deposizione di un carcerato della Vicaria in una Informazione presa contro fra Pietro di Stilo quando era già uscito dal carcere. Un Ciommo ossia Girolamo dell'Erario, dimandato se fosse mai stato in altre carceri oltre quelle della Vicaria, rispose di essere stato, precisamente verso il marzo 1604, nel Castel nuovo; e «prima (egli disse) fui posto in una fossa dove stetti per otto giorni, dopoi fui levato da la fossa, et fui messo alo torrione dove stava uno che si diceva fusse Campanella, et portava la chierica come portano li frati, non intesi di che ordine fusse, et il Carceriero, et Campanella dicevano che era Calabrese, et per un mese in circa dimorai à quello torrione con lo Campanella, è ci venevano altri carcerati, è poi ne erano levati. Et essendo stato con lo Campanella da un mese, fui messo dopoi ad un altra carcere di castello, dove trovai uno monaco che andava vestito da monaco con le veste bianche, che si chiamava frà Pietro, uno mastro Marco scarpellino... etc., et alla carcere di frà Pietro dimorai da un mese in circa, dopoi fui tormentato in castello per la causa mia, è fui messo al civile del castello, dove stavano diversi carcerati, tra li quali ci erano tre frati vestiti di bianco, che uno havea nome frà Paolo, deli altri non mi ricordo lo nome» etc.[421]. Questa separazione anche di fra Pietro di Stilo, questa differenza di trattamento, più duro per fra Pietro e meno duro per gli altri frati, meritano del pari di essere avvertite. Sorge naturalmente il pensiero che fra Pietro, l'amico intimo del Campanella, avesse dato motivo di richiamare sopra di sè l'attenzione del Governo: rimanga intanto assodato che nel marzo 1604 il Campanella trovavasi nel torrione, e non sembri puerile se facciamo avvertire che egli vi si trovava tuttora in abito laicale, riconoscibile solo pel suo capo raso e per la sua «corona»; qualunque fatto anche minimo della persona sua ci apparisce sempre memorabile.

Nè questo è tutto. Rammentino i lettori que' duc.ti 200 inviati da' conventi di Calabria in sussidio de' frati, e la stentata distribuzione che ne faceva il Prezioso dietro ordini successivi [Pg 352] del Vescovo di Caserta: un ordine del 2 settembre 1603 assegna duc.ti due a ciascuno de' quattro frati carcerati, non più 5, mancandovi il Campanella: questo stesso si verifica in due altri ordini posteriori (27 febbraio e 9 giugno 1604). Non sarebbe impossibile che specialmente nel 1o ordine del 2 settembre 1603 fosse corsa una pura e semplice dimenticanza del Campanella da parte di quel Vescovo, che se ne curava così poco e così male: egli vi dimenticò certamente fra Paolo della Grotteria, ma ve l'aggiunse subito come il documento mostra, e così avrebbe potuto aggiungervi nel tempo stesso il Campanella; laonde bisogna dire che il 2 settembre era già accaduto qualche cosa di nuovo per il povero filosofo, e non abbiamo bisogno di far notare come questa data collimi più che sufficientemente con quella del luglio o agosto che vedremo or ora da lui accennata. L'ultimo ordine di pagamento poi, l'ordine del 9 giugno 1604, fu provocato da due memoriali de' frati, e segnatamente uno di essi reca che «li poveri quattro frati di S.to Domenico carcerati nel Regio Castello novo» si trovano ignudi ed affamati, senza il denaro della Corte da più mesi e senza alcuno indizio di prossima spedizione, onde supplicano che si dia loro quel poco danaro rimasto e si parli a S. E. per la spedizione della loro causa[422]; adunque nemmeno da questo lato figura più il Campanella, e parrebbe veramente che soli quattro frati fossero rimasti in Castel nuovo e che il Campanella non vi si trovasse più. Ma non è possibile passar oltre alla deposizione di Ciommo dell'Erario sopra riportata; e quindi persistiamo nel ritenere che il Campanella alle date suddette trovavasi anch'egli nel Castel nuovo, bensì ristretto nel torrione, toltagli qualunque comunicazione con gli esterni ed anche co' frati suoi compagni; questi non ne parlarono ne' memoriali presentati, essendo loro vietato di comunicare con lui, e forse pure avendo dovuto persuadersi, che a voler fare causa comune con lui non sarebbero mai più venuti a capo di nulla.

Vi sono infine i cenni datine dal Campanella medesimo in più lettere ed anche nell'opera dell'Atheismus triumphatus, che scrisse dopo questo periodo, sebbene, come abbiamo già detto, egli siasi ingegnato di fondere insieme il passaggio al torrione e quello alla fossa di Castel S. Elmo. In una sua lettera al Papa, in data del 13 agosto 1606, egli scrisse cosi: «Hor sono tre anni (e quindi verso il luglio o l'agosto 1603) havendo interrogato il demonio che si faceva angelo, e compariva ad una persona da me instrutta a pigliar l'influsso divino, al qual mi pareva disposto per la sua natività che mirai, rispose di tutti i regni che dimandai... (seguono molte rivelazioni singolari specialmente intorno a Venezia e a Roma). Io accorto che era diavolo in molti segni, et avvisando quella persona dicendoli che dimandasse segnali come Gedeone et altre industrie, promesse il diavolo darli [Pg 353] poi; ma comparse ad un signore in uno specchio, che trattava farmi fuggire, e lo fè che mi tradisse e rivelasse; e fui posto in questa fossa pur dal diavolo predettami». Ecco qui un disegno di evasione trattato e scoperto, che vedremo affermato anche dal Nunzio e che, naturalmente, ci occuperà di proposito; ma per ora lo mettiamo da parte. Al Card.l Farnese, pochi giorni dopo, il Campanella scrisse pure: «M'occorse ver la natività d'una persona, li dissi ch'era inclinata alla profezia, li donai il modo di disponersi all'influsso divino, e perchè egli era scelerato, li comparse il diavolo e dicea esser angelo, e ci donò avviso di molte cose future in molti regni del mondo e del Papato e di Venetia ch'ha a rovinare. Io poi dimandai segni come Gedeone; s'era Dio o angelo, ci li promesse, e perchè non insegnassi a colui a scoprir il diavolo, esso diavolo mi fece ponere in questa fossa con stratagemma stupenda che non posso scrivere». Egualmente al Card.l S. Giorgio riferì la cosa medesima, con poca differenza di parole e con questa circostanza di più, che il diavolo «fè capitar male quel pover'huomo», senza dirne altro[423]. Non occorre poi riportare testualmente i brani dell'Atheismus triumphatus allusivi allo stesso fatto, avendo avuta già da un pezzo occasione di riportarli (ved. vol. 1.o pag. 21 in nota). Il Campanella in essi parla di «un astrologo moderato» spinto dalla superstizione di Aly Aben ragel, avido di sperimentare la dottrina de' Santi, che istruì un giovane incolto nel modo di pregare gli Angeli de' pianeti, lo dispose con le orazioni e le cerimonie, e il giovane cominciò a vedere cose mirabili, apparendogli uno spirito che si fingeva Angelo o luna, o sole, o Dio: l'astrologo per mezzo di costui ebbe risposte su cose gravissime, ma essendosi accorto che si trattava del demonio, si vide il falso angelo con inganni incredibili separare il giovane dall'astrologo e condurlo a morte violenta, oltrechè si vide un altr'uomo, che aspettava certe promesse fatte prima del caso del giovane, condotto a malanni atrocissimi etc. etc. Avremo in sèguito a commentare tutto questo garbuglio, ma già si vede manifestamente che si tratta qui delle relazioni passate tra il filosofo e il Gagliardo, con le preghiere al sole, alla luna, alle stelle, e con tutte le altre cose insegnategli mentre componeva appunto la [Pg 354] sua opera di Astronomia, essendo l'astrologo e l'altro uomo, posti in iscena nell'Atheismus, una persona sola, il Campanella. Le lettere chiariscono i racconti dell'Atheismus, ed esse, come abbiamo veduto, ci menano al luglio o agosto 1603 quanto alle pratiche astrologiche fatte dal Gagliardo con l'assistenza del Campanella; d'altro lato il processo del Gagliardo ci mena al 2 marzo 1604 quanto alla separazione di lui dal Campanella, giacchè appunto in tale data egli fu liberato dal carcere, per poi tornarvi di nuovo ed essere condannato all'ultimo supplizio due anni dopo. Manifestamente quindi la data del luglio e agosto 1603 è quella del passaggio «nel torrione del Castello» dove il Campanella di certo si trovava tuttora il 2 marzo 1604, giacchè il Gagliardo difficilmente avrebbe mancato di dirne qualche cosa laddove ne fosse stato tolto prima: risulta perciò ben giustificata anche l'affermazione di Ciommo dell'Erario, d'averlo visto nel torrione in marzo 1604 separato dagli altri frati, e come il non trovare il Campanella contemplato negli ordini di pagamento della sovvenzione ai frati in data del 2 settembre 1603, e 27 febbraio 1604, non implica che egli fosse stato già tradotto a S. Elmo, così non l'implica nemmeno il non trovarsi contemplato in quello del 9 giugno 1604. Vedremo poi che non mancano altri argomenti per farci dire che il Campanella dovè essere tradotto dal torrione nella fossa di S. Elmo appunto verso il luglio 1604. E se vogliamo indagare perchè sia stato posto nel torrione in luglio o agosto 1603, ne troviamo facilmente il motivo, ricordando che appunto in tal tempo giunse la notizia dell'imbarco di fra Dionisio sull'armata turca, con le sue ciarle già narrate della prossima liberazione del Campanella. Il fatto della conversione di fra Dionisio alla fede maomettana, che recava un aggravio manifesto a' giudizii già gravi intorno alle imprese disegnate in Calabria, fu sentito dal Campanella al punto, da vederlo schermirsene con tutti gli argomenti, possibili ed impossibili, in ciascuna delle lettere che scrisse nel 1606-1607, non appena vide la necessità di far udire la sua voce direttamente ai personaggi altolocati. Il fatto poi egualmente grave dell'imbarco sull'armata turca, veleggiando verso il Regno, fu dissimulato dal Campanella costantemente, e col proposito suo di volerlo dissimulare si spiega benissimo l'aver confuso il passaggio al torrione del Castel nuovo, il disegno di evasione scoperto, il trasporto a Castel S. Elmo, tre avvenimenti affatto distinti e verificatisi in tre tempi diversi.

Veniamo appunto alla faccenda del disegno di evasione scoperto e del passaggio a S. Elmo. Come dicevamo, il Nunzio ne fece menzione egli pure nelle sue lettere a Roma. Dopo circa otto mesi di silenzio, ripigliando la sua corrispondenza, nella lettera del 23 luglio 1604 egli ritesseva la storia delle peripezie avvenute per la spedizione della causa; riproduceva il fatto del matrimonio di D. Pietro de Vera, ricordava la risoluzione presa da S. S. per tale circostanza, esponeva le sue sollecitazioni continue per venire[Pg 355] «a qualche conclusione». E soggiungeva: «Ma l'essersi scoperto quà un certo Greco che praticava di fare scappare di Castello Fra Tommaso Campanella, come scappò Fra Dionisio Pontio et un'altro suo compagno, hà tenuto il negotio sospeso in modo, che non si è potuto trattar della sua speditione. Finalmente sabato passato fummo insieme, et quanto al detto Campanella S. E. l'hà fatto condurre nel Castello di S. Elmo, et non vuole che per ancora si tratti della sua speditione, crederò io, per quanto scuopro, per non haver interamente chiarito questa pratica che si teneva per la sua liberatone. Trattammo degli altri quattro che restavano» etc.[424]. Se non c'inganniamo, dal contesto della lettera del Nunzio appariscono due fatti non contemporanei, la scoperta di certe pratiche per far fuggire il Campanella, la quale avea per qualche tempo tenuto sospesa la spedizione della causa, e il trasporto del Campanella a S. Elmo del tutto prossimo alla data della lettera, per un motivo che il Nunzio mostra di supporre e che difficilmente persuaderà alcuno, giacchè per continuare a chiarire le pratiche dell'evasione non occorreva tradurre il Campanella a S. Elmo; dovè quindi esservi un altro motivo che il Nunzio volle dissimulare, e la cosa riuscirà confermata da quanto saremo per dire. Innanzi tutto cerchiamo d'indagare chi mai abbia potuto avere tanta pietà pel povero prigioniero da intavolare trattative di evasione, chi mai abbia potuto essere quel Greco che praticava di farlo fuggire, come pure in che data potè questo accadere.

Sappiamo dalle notizie sparse nel processo di eresia che molti venivano nel Castel nuovo, ed entravano col carceriere nella stanza del Campanella per vederlo quando era pazzo; ma evidentemente bisogna guardare un po' in alto per la faccenda in quistione. Senza dubbio ebbe a visitarlo più o meno spesso il Marchese di Lavello Gio. Geronimo del Tufo, ed abbiamo visto che «nel 1603» ci fu una sua visita ricordata nel Syntagma. Pertanto il Residente Veneto, in data del 3 febbraio 1604, riferiva al suo Governo, che pareva si andassero «risvegliando novi pensieri del Campanella che si trova in Castello per li trattati da lui maneggiati in Calabria», che era stato ultimamente di ordine del S.r Vicerè «carcerato il Marchese di Laviello, di casa del Tuffo, sospetta alla Ecc.za sua che tenesse le mani in simili negotii», e che ad essi si attendeva con molta diligenza etc.[425]. Ecco un nome ed una data che fanno volgere a buon dritto la mente sul progetto di evasione stato scoperto: il Residente potè non essere informato della cosa a fondo, e tutto il suo Carteggio mostra che davvero non lo fu mai; ma non gli mancò la notizia di diligenze che si facevano, e di una carcerazione, che riesce del tutto naturale credere motivata da qualche indizio o sospetto di maneggio in tale faccenda. [Pg 356] Anche il Gagliardo nelle sue ultime deposizioni ricordò l'avvenimento senza accennare a' motivi, ciò che mostra essere stato da lui pure ignorato il progetto di evasione e la scoperta fattane: ma riescono sempre notevoli i termini ne' quali si espresse, avendo ricordato che il Marchese «per un tempo stette carcerato in detto Castello»[426]. Considerando che il Gagliardo ne uscì nel marzo 1604, bisogna conchiudere che il Marchese ne fosse già uscito a questa data, e però vi fosse rimasto un mese o poco più: naturalmente tale circostanza mena a ritenere essersi avuto per lui un semplice sospetto ben presto chiarito senza solida base, oppure aver lui avuta una parte del tutto secondaria ed anche inconsapevole ne' maneggi per l'evasione. Chi dunque potè provvedervi? La mente ricorre subito a Cristoforo Pflugh, ed a' Fuggers de' quali abbiamo già dato notizia a proposito dello Pflugh; le promesse di Cristoforo, ed anche una parola del Naudeo, il quale nel Panegirico ad Urbano VIII, enumerando i tentativi fatti per la liberazione del Campanella, citò i «tot evanidos Fuggerorum ausus», ci aveano indotto a ritenere che con ogni probabilità i potenti mezzi di questa famiglia avessero potuto preparare l'evasione; le notizie poi dell'Epistolario del Fabre ora pervenuteci col nuovo libro del Berti, mostrando che in particolare Giorgio Fugger, dopo questo tempo, fissò perfino una somma di 10 mila ducati per aiutare la liberazione del Campanella, convalidano sempre più tale opinione[427]. Aggiungiamo inoltre che non deve recar meraviglia l'intervento pure di quel certo Greco che praticava di farlo scappare, secondo la notizia datane a Roma dal Nunzio. Il Carteggio Veneto ci mostra che da un pezzo trovavasi nel Castel nuovo un Pietro Lanza, bandito di Corfù, al quale facevano capo i parecchi Greci che venivano in Napoli con progetti di imprese da corsari contro i turchi. Il Lanza, già capo delle spie del Levante per conto del Governo Vicereale, si era dilettato di simili imprese perfino nell'Adriatico, che la Serenissima considerava come suo Golfo: dietro richiami del Residente il Vicerè Conte di Lemos lo rinchiuse nel Castel nuovo (6 novembre 1599), ma dandogli tutto il Castello per carcere e speranza di prossima libertà. Egli propose allora alla Viceregina, e costei accettò, di mandare due feluche in corso alla Vallona «nelle viscere de i stati da mare di quella Serenissima repubblica», come diceva lamentandosi il Residente, e nel marzo 1600 fu liberato per tentare l'impresa, essendo stato il suo ufficio già dato a un Jeronimo Combi: fatti i preparativi, il Lanza si unì con un Michele Protetri, egualmente bandito di Corfù e corsaro, venuto in Napoli a rilevarlo, e con lui si partì di notte segretamente (7 maggio 1602). Cercarono insieme d'impadronirsi di una nave Buduana nelle marine di Otranto, [Pg 357] ma non riuscirono: il Lanza tornò a Napoli e dovè rientrare nel Castel nuovo (7 agosto 1602). Quivi egli non cessò mai di far progetti contro i turchi, lusingando le cupidigie spagnuole, e giunse a prevalere su Jeronimo Combi e ad avere diversi incarichi di spedizioni segrete: nè gli mancarono mai collaboratori levantini, specialmente Greci, che venivano in Napoli e si dirigevano appunto a lui nel Castel nuovo, con disegni di sorprendere senza pericolo, sicuramente, il tale o tal altro Castello turco e farvi ottima preda[428]. Riesce quindi del tutto verosimile che qualcuno di costoro siasi preso l'incarico di procurare la fuga del Campanella, e che inoltre rappresenti quel Signore il quale poi finì per tradirlo e rivelarne i disegni, secondo ciò che ne lasciò scritto il Campanella medesimo.

Volendo dunque determinare la data della scoperta delle pratiche di evasione, non ne avremmo altra più verosimile che quella della carcerazione del Marchese di Lavello, cioè il gennaio 1604; e sarebbe pure, naturalmente, di poco anteriore la data della comparsa del diavolo con le sue rivelazioni, e dello spavento incusso a quel Signore che rivelò il disegno della fuga. Potrebbe sembrare una grossa obiezione la difficoltà di una riunione di più individui, perfino con qualcuno estraneo, in una carcere dura: ma bisognerebbe non aver mai conosciuto la curiosità de' carcerieri, prigioni e visitatori di ogni genere, in fatto di cose soprannaturali, sempre supposte feconde di grandi guadagni, in grazia de' quali non c'è nè compromissione nè rischio che valga a trattenere. E se è certo che nel marzo 1604 il Campanella trovavasi tuttora nel torrione del Castel nuovo, bisogna dire che la scoperta delle pratiche di evasione non abbia avuta influenza sul mutamento di Castello, e bisogna trovare un altro motivo per ispiegare il passaggio a Castel S. Elmo. Ritenendo che questo passaggio sia avvenuto nel luglio 1604, in un tempo del tutto prossimo alla data della lettera con la quale il Nunzio faceva conoscere la avvenuta riunione del tribunale Apostolico, troviamo facilmente il motivo del trasporto a S. Elmo nell'essersi voluto dal Governo che il tribunale si riunisse per la spedizione della causa degli altri frati senza potersi occupare del Campanella, tanto più dopochè il Nunzio aveva insistito [Pg 358] nel voler sentenziare egli solo; con ciò ci spieghiamo pure che il Nunzio abbia voluto dissimulare questo avvenimento rincrescevole, compiuto in dispregio di lui e della Curia. È chiaro infatti che dovendo il tribunale riunirsi, qualora il Campanella fosse anch'egli rimasto nel Castel nuovo, non si sarebbe potuto evitare, senza recriminazioni e contrasti, che il Nunzio lo avesse fatto almeno venire alla sua presenza, mentre egli trovavasi là rinchiuso qual suo prigione, a sua istanza e sotto la sua autorità, secondochè fin da principio era stato convenuto con Roma. C'imbatteremo poi, nel progresso di questa narrazione, in parecchie circostanze che riescono a confermare la data del luglio 1604, e non mancheremo di notarle a misura che si presenteranno. Vogliamo intanto far avvertire che la scoperta del progetto di evasione non diede propriamente motivo di far finire il processo del Campanella nella barbara guisa in cui finì, ma diede soltanto occasione di giustificare in qualche modo il sistema dell'inerzia che era stato deciso ed attuato già da molto tempo; quando vi fu pericolo di vedere questo sistema compromesso, si venne nella determinazione di allontanare il Campanella ordinandone il trasporto a S. Elmo.

Come abbiamo avuta occasione di dire, i quattro frati minori, mal ridotti, insistevano vivamente per la spedizione della loro causa, e tolta di mezzo la persona del Campanella, vennero finalmente i Giudici a riunirsi e ad occuparsene nella 2a metà di luglio 1604. D. Pietro de Vera, che per tanti e tanti mesi non si era prestato, si decise allora a prestarsi, ma sarà bene rilevare dalle parole testuali del Nunzio in qual modo: «Trattammo degli altri quattro che restavano, et l'uno, Fra Domenico da Stignano, come più colpevole, fummo d'accordo che si condennasse per tre anni in Galera, gli altri che restavano, attesa la purgatione fatta da loro con li tormenti, si licentiassero, con questo però che non potessino tornare in Calabria per tempo à beneplacito di S. S. Et quando si cominciorono à dettare le sentenze, scoprendo che in esse il Sig.r D. Pietro di Vera voleva esser nominato come prima, contradissi, et gli mostrai la lettera che tenevo. Rispose che non voleva risolversi sopra questo, senza parlarne prima con S. E., et se bene gli replicai che questo non serviva à niente, toccando à N. S.re il risolver sopra ciò, stette pur nel proposito, e mi chiese copia della lettera, et io glie la diedi, parendomi necessario metterla anche nel processo». Così veramente D. Pietro discusse e fu d'accordo col Nunzio, il quale si attenne all'interpetrazione che avea data alla risoluzione Papale; e fra Domenico Petrolo fu condannato a tre anni di galera «come più colpevole», sicchè fino all'ultimo momento venne ammessa la colpa; gli altri poi furono rilasciati solamente coll'obbligo dell'esilio dalla Calabria, ad arbitrio di S. S. «attesa la purgatione fatta da loro con li tormenti». Si vede qui ancora una volta con quanto poca attenzione il Nunzio si era occupato e si occupava di questa causa: per la[Pg 359] congiura il solo Petrolo aveva avuto il tormento, gli altri non ne avevano avuto punto, siccome mostrano anche due loro comparse altrove ricordate (ved. pag. 242); l'avevano bensì avuto per l'eresia e neanche tutti, essendone rimasto esente fra Paolo, ed il Nunzio confondeva insieme l'una e l'altra causa. Ma riesce notevolissimo quell'atteggiamento di D. Pietro nel voler figurare come Giudice, dopo che si era tanto parlato della risoluzione contraria di S. S., come del pari l'atteggiamento del Nunzio nel volerglielo impedire. D. Pietro, Commissario Apostolico, per tanto tempo non si era curato di leggere la risoluzione Papale che lo riguardava, ed in ultima analisi volle prender consiglio dal Vicerè intorno ad essa: in tal modo egli mostravasi quello che realmente era, e che un Breve Papale non valeva a far cessare di essere, il rappresentante del Governo. Ed il Nunzio continuava a dar prova di una sorprendente ingenuità, obiettandogli che il parlarne al Vicerè «non serviva a niente, toccando a N. S.re il risolver sopra ciò». Fin allora dunque il Nunzio non aveva capito ancora, che i vincoli effettivi di D. Pietro col Governo erano ben superiori a quelli fittizii col Papa creati dal Breve, e tanto meno avea capito che le tergiversazioni di D. Pietro, negli ultimi tempi, non erano state spontanee ma prescritte dal Vicerè.

Quale fosse davvero l'opinione del Vicerè su quell'incidente, non si potè sapere prima di un altro paio di settimane. D. Pietro non si affrettò a parlare al Vicerè, o forse meglio, sollecitato dal Nunzio, il Vicerè diede ad intendere che D. Pietro non gli avea parlato ancora, e giunse fino a promettere, che non appena gli avrebbe parlato, la spedizione della causa sarebbe stata commessa «conforme a quello che comanda S. S.»; ma intorno al Campanella disse di nuovo, «bisogna lasciarlo star così per buon rispetto, per il tempo che sarà necessario».—Queste notizie trasmesse a Roma non vi fecero punto cattiva impressione; bastava che il comandamento di S. S. fosse per trionfare, il resto non importava nulla. Il 30 luglio[429] il Card.l Borghese partecipava al Nunzio, che a S. S. era piaciuta la risoluzione sua di non ammettere a congiudice il de Vera e farne capace il Vicerè, che ordinava si regolasse tuttavia conforme alle lettere scritte ne' mesi passati, nè gli occorreva altro. E pel Campanella? Nè S. S., nè alcuno de' Cardinali componenti la Sacra Congregazione, innanzi a' quali la lettera del Nunzio era stata letta, si diedero il menomo pensiero di lui: al contrario di quanto si è finoggi creduto, a nessuno di loro importava che quell'infelice rimanesse a languire nelle carceri di Castel S. Elmo e la spedizione della sua causa fosse sospesa indefinitamente. Se vi era qualche ragione per la quale non conveniva tenerlo nel Castel nuovo, perchè mai non poteva il tribunale riunirsi nel Castel S. Elmo?

Ma verso il 7 agosto, dietro nuove sollecitazioni del Nunzio, [Pg 360] il Vicerè non tenne più oltre nascosta la sua vera opinione sull'incidente. A questa data[430] il Nunzio faceva sapere a Roma, che avendo parlato di nuovo al Vicerè, l'avea trovato «diverso» da quello di prima, perchè gli avea detto che non potendo D. Pietro de Vera intervenire come Giudice, avrebbe scritto a Roma e nominato un altro il quale potesse intervenire. Aggiungeva che invano egli avea replicato al Vicerè non esser questo necessario, «perchè il fine principale di N. S.re era stato che intervenisse qualch'uno de' Ministri di S. M. acciò vedesse come passava la causa, la qual cosa era fatta» (!); dimandava quindi nuovo ordine, poichè aveva saputo dal Notaro della causa che gli Atti, le minute e le sentenze erano in mano del medesimo D. Pietro, nè egli poteva andare oltre «senza qualche turbatione», che non gli era parso di dover eccitare mentre la faccenda poteva avere altro rimedio.—Ma il rimedio non poteva essere altro oramai che quello di cedere, poichè si aveva manifesto torto: e nessuno vorrà ritenere che il Vicerè fosse stato mai diverso in cuor suo. Il Conte di Benavente aveva adottato un modo di procedere del tutto opposto a quello del suo antecessore Conte di Lemos. Per quanto costui si era mostrato attivo, insistente, premuroso, personalmente impegnato, altrettanto egli aveva preferito mostrarsi freddo, inerte, distratto, poco informato; e lusingando a tempo la vanità della Curia, mezzo di riuscita sempre sicuro, avea scansato i richiami sulla gravissima decisione da lui presa intorno al Campanella, e fatta anche essenzialmente terminare la causa per gli altri frati, rimanendo perfino le minute delle sentenze nelle mani della persona di sua fiducia. Così, salvata la sostanza, occorreva solo provvedere alla forma, ed egli poteva finalmente scovrirsi ed anche non aver fretta, mentre al Nunzio non rimaneva che zittire. Costui avrebbe potuto e dovuto gridare quando il Campanella venne tradotto al Castel S. Elmo a sua insaputa, ed avrebbe potuto e dovuto ricordarglielo la Curia vedendo che egli non se n'era dato pensiero: ma per appellarsi alle convenzioni stabilite col Governo Vicereale, bisognava non pretendere di trasgredirle.

I frati non cessavano d'insistere per la spedizione della loro causa, ed il 20 agosto[431] il Nunzio ne dava conto a Roma, partecipando essergli stato detto dal Vicerè, in risposta alle sue sollecitazioni, che avrebbe fatto nominare in Roma la persona che desiderava in luogo di D. Pietro de Vera.

E qui, nel Carteggio del Nunzio, cessa ogni altro documento intorno alla causa ed intorno alla persona del Campanella. Vero è che bisogna ammettere senza esitazione qualche lacuna nelle Lettere di Roma, e notare una lacuna evidente di tre registri delle Lettere di Napoli, da' primi di ottobre 1604 al 14 gennaio 1605. I soli documenti di questo periodo, che ci rimangono, son quelli [Pg 361] pervenutici con gli Atti processuali inserti nel noto Codice Strozziano: 1o il Breve Papale del 27 ottobre 1604, calcato sull'altro precedente, col quale si ricorda la concessione fatta già al Conte di Lemos, si menziona la lettera ricevuta dal Conte di Benavente circa il matrimonio di D. Pietro de Vera, che «lo stesso Nunzio pretende» aver fatto spirare la facoltà accordatagli, e si nomina D. Giovanni Ruiz de Baldevieto in luogo del De Vera, accordandogli identica facoltà[432]; 2o le note marginali, apposte nell'Elenco degl'incriminati a' nomi de' quattro frati de' quali si dovea spedire la causa, ed esprimenti le sentenze per loro emesse, cioè pel Petrolo un triennio in galera, per gli altri il rilascio[433].—Si può dunque ritenere che il Vicerè presentò direttamente a Roma il nome di colui che volea sostituito al De Vera, onde il Nunzio non ebbe ad occuparsene nel suo Carteggio, e che venuto il Breve potè il tribunale tener seduta tutt'al più a' primi di novembre, e senza discussione emettere le sentenze secondo le minute già fatte e ne' termini stabiliti fin dal luglio precedente. Aggiungiamo qui che D. Giovanni Ruiz de Baldevieto o Baldeviescio (come si trova talvolta nominato nelle scritture dell'Archivio di Napoli) era anch'egli membro del Sacro Regio Consiglio al pari di D. Pietro de Vera e di D. Giovanni Sances, ma entrato in ufficio da più fresca data, nel 1602[434]. È superfluo poi far avvertire che doveva esser clerico; ed avendo di certo funzionato coll'apporre solo il suo nome alle sentenze, possiamo dispensarci dal discorrere ulteriormente di lui. Intanto la causa del Campanella rimase tuttavia sospesa. Non sappiamo se, ad occasione delle sentenze emesse per gli altri frati, il Nunzio si sia tenuto obbligato di spendere qualche parola col Vicerè intorno a lui: la lacuna sopraindicata, esistente nel suo Carteggio, non ci permette di affermar nulla su tale proposito, ma è un fatto notevolissimo che dal 14 gennaio fino al 16 dicembre 1605, data in cui egli lasciò il suo ufficio, nessuna parola fu spesa intorno al Campanella, sicchè bisogna dire che il povero filosofo rimase e dal Nunzio e dalla Curia Romana affatto dimenticato.

Invece sappiamo che se ne ricordarono gli aderenti suoi, ai quali egli stava realmente a cuore: essi presentarono al Nunzio un memoriale che cominciava con le parole «Ill.mo e Rev.mo Signore, Noi amici, e parenti e discepoli di Fr. Tommaso Campanella Sacerdote della Religione di S. Domenico carcerato in S. Ermo». Questo documento citato dal Nicodemo, e così pure dal Cipriano, [Pg 362] dietro una nota rimessa loro dal Magliabechi intorno alle opere manoscritte del Campanella a quel tempo esistenti nella Magliabechiana, può dirsi oramai irreparabilmente perduto[435]; e la perdita non sarà mai abbastanza deplorata, massime perchè le sottoscrizioni apposte al memoriale, oltre al far conoscere i nomi de' coraggiosi cittadini che soli si diedero pensiero del Campanella, avrebbero anche fatto rilevare il primo nucleo di quella scuola, che andò crescendo più tardi e rappresentò in gran parte la cultura napoletana del secolo 17o, secolo più calunniato che conosciuto. Ignorando la data del memoriale, non si saprebbe nemmeno dire se esso sia stato presentato poco dopo il luglio 1604, allo scopo di reclamare contro i pessimi trattamenti che il Campanella soffriva senza ragione, ovvero sia stato presentato nella fine di ottobre 1604 ed anche più tardi, quando il tribunale era prossimo a riunirsi o si era già riunito per la definitiva spedizione della causa de' quattro frati, allo scopo di ottenere che la causa del Campanella fosse egualmente spedita. Ma quest'ultima ipotesi è la meno plausibile, ed anzi veramente da rigettarsi. Avremo infatti occasione di vedere più in là che a questa data, e fin qualche anno dopo, il Campanella non voleva menomamente che la sua causa terminasse in Napoli, e i suoi aderenti non avrebbero mai agito in controsenso. Ad ogni modo il memoriale rimase tra le carte inutili del Nunzio, verosimilmente con esse andò poi a Firenze, di dove è in sèguito scomparso.

[Pg 363] Adunque mentre i frati uscivano di carcere, all'infuori del Petrolo che dovè essere tradotto nello Stato ecclesiastico per servire sulle galere di S. S., il Campanella rimaneva in Castel S. Elmo, indefinitamente carcerato. Nella Narrazione egli disse, che i frati «subito in Napoli et altri in Roma fur aggratiati e diventaro priori et officiali nella religione..,» mentre in quanto a lui «non volsero mai permettere che andasse alli carceri di Roma, nè che si facesse la causa sua di ribellione a Napoli, perchè non poteano condannarlo in altro, e perchè non andasse a Roma dove sapean c'havea d'esser liberato. Però con crudeltà et astutia grande lo posero in Castel Santelmo dentro a una fossa oscura 23 gradi sottoterra, sempre alla puzza oscuro et acqua, et quando piovea s'empia d'acqua, e mai ci entrava luce, stava inferrato sopra uno stramazzo bagnato con appena mezzo reale di vitto malamente». Che il Petrolo abbia dovuto essere graziato della galera in Roma, e gli altri dell'esilio in Napoli, bisogna ritenerlo senz'altro, tale essendo il costume della Curia in quel tempo, e ne abbiamo pure veduta qualche cosa in persona di Giulio Contestabile. D'altronde le anzidette deposizioni ultime del Gagliardo, in data del 12 luglio 1606, ci danno notizia che fra Pietro di Stilo nella 1a metà di quell'anno era già nel suo convento in Stilo, non sappiamo se in carica o no; ed un'Informazione presa contro fra Pietro Ponzio in Nicastro in data di dicembre 1604, ci dà notizia che fra Pietro trovavasi allora nel convento dell'Annunziata di Nicastro ed era divenuto abbastanza audace, avendo in Chiesa, ed in presenza del Vicario capitolare, del Clero e di un numerosissimo pubblico, osato d'interrompere e protestare durante la predica di un Cappuccino che sosteneva la credenza dell'Immacolata Concezione[436]. Che poi [Pg 364] il Campanella sarebbe stato liberato in Roma non possiamo menomamente dubitare: abbiamo veduto qual'era la giurisprudenza del S.to Officio intorno a ciò, ed abbiamo fatto avvertire che il Governo Vicereale non poteva non preoccuparsi di questa circostanza, e tanto più ricorrere ad ogni mezzo per non lasciarsi sfuggire di mano l'infelice filosofo. Ma che non sia stato permesso di far la causa della congiura, «perchè non poteano condannarlo in altro», deve ritenersi un assurdo, e nel tempo stesso una delle tante affermazioni equivoche, alle quali il Campanella fu troppo sovente obbligato a ricorrere nel resto della sua vita: la causa era stata già fatta, rimanendo solo il dover formulare la sentenza; e dopo la condanna da lui avuta per l'eresia, con la quale egli non era stato riconosciuto pazzo, dopo la condanna per la congiura avuta dagli imputati di second'ordine, dal Contestabile, dal Pittella ed in ultimo luogo dal Petrolo, il Nunzio non avrebbe potuto non condannarlo, nè occorre dire che l'altro Giudice, compagno del Nunzio, non avrebbe esitato un momento ad emettere un voto conforme. Infine quanto all'essere stato cosi duramente trattato in Castel S. Elmo, ed anche all'esservi stato tradotto con crudeltà ed astuzia grande, bisogna accettarlo pienamente. Senza dubbio si diè prova di una grande astuzia, per riuscire a tenere il Campanella nelle mani eludendo i dritti di Roma, e di altrettanta crudeltà nel farlo macerare in quella specie di carceri senza un motivo ragionevole, mentre anche il disegno di evasione era un fatto già vecchio di alcuni mesi. Nè si può dubitare delle pessime condizioni in cui egli ebbe a trovarsi, poichè qualche notizia contemporanea intorno alle carceri gravi di Castel S. Elmo ce le mostra appunto a quel modo. In sostanza quindi, menzionando i suoi patimenti, egli non esagerò di molto, così nelle poesie e nei libri, che sappiamo aver sempre continuato a comporre coll'assistenza di fra Serafino di Nocera malgrado i rigori che soffriva, come pure nelle parecchie lettere, che conosciamo avere scritte al Papa, a' Cardinali etc. dopochè si era già da qualche tempo deciso a smettere apertamente la sua pazzia: non esagerò menzionando «il Caucaso» in cui si trovava qual Prometeo novello, la fossa nella quale era sepolto, l'acqua che lo bagnava ne' giorni di pioggia, il giaciglio fradicio, il puzzo e il freddo, il vitto poco e sporco da provvedersi con 17 tornesi (40 centesimi), l'inverno e la notte continua «con tre hore sole di luce la sera et il giorno un poco a 22 hore per dire l'officio» sicchè invidiava «alle mosche et a' serpi la mirabile gratia della [Pg 365] luce»[437]. Egli mostrò allora di attribuire questi crudeli trattamenti al Capitano del Castello amico de' suoi nemici, cioè Carlo Spinelli, Principe della Rocella, Barone di Gagliato, Barone di Bagnara e D. Loise Sciarava, amico de' «Satrapi» che avevano tanto guadagnato coll'ammettere la congiura. Sappiamo che Castellano di S. Elmo era D. Garzia di Toledo, già tornato in quel tempo dalla missione di Governatore di Calabria ultra, e poi, nell'aprile 1605, mandato a Porto Longone qual Commissario della fabbrica di una fortezza, onde talvolta il Campanella si dolse non più del Capitano ma del Luogotenente del Castello[438]. D. Garzia dunque, co' suoi «50 leopardi» (i soldati spagnuoli) si sarebbe permesso di trattare così male il Campanella, impedendogli anche di parlare al Vicerè, com'egli avrebbe voluto, e ciò per suggestione de' Satrapi, i quali consigliavano il Vicerè «di non darlo al Papa e non lasciare che si difendesse secondo i canoni e la ragion naturale»: ma è chiaro che D. Garzia obbediva agli ordini ricevuti, e verosimilmente li eseguiva con un eccesso di zelo, facendo egli pure, secondo la curiosa espressione del Campanella, «come quelli che son pagati a piangere i morti, che gridano più che li figli e mogli che si doglion davero»; nè c'era da fare col Vicerè nuove difese secondo i canoni e la ragion naturale, quando un Breve del Papa aveva definito il modo di trattare la sua causa e questa era stata già trattata, oltrechè una decisione egualmente del Papa avea mostrato chiaramente che non c'era da ritenerlo pazzo.

III. Nel Castel S. Elmo si chiuse finalmente alla scoperta il periodo della pazzia del Campanella, e si chiuse col suo rivolgersi dapprima al Vicerè per mezzo di fra Serafino di Nocera, mandando ad esporgli taluni suoi concetti che costituivano promesse mirabili pel bene del Regno e quindi in favore del Re; poi col rivolgersi al Nunzio e al Vescovo di Caserta, procurandosi una visita di costoro ed esponendo in essa gli studii fatti e certi suoi concetti intorno alla fine del mondo, gl'inganni avuti dal diavolo e poi le grazie avute da Dio con le rivelazioni vere, onde potea far cose mirabili ad utile del Cristianesimo, delle quali cose presentava l'elenco [Pg 366] in un memoriale. A queste prime mosse tenne poi dietro più tardi il suo rivolgersi al Papa, ad alcuni Cardinali ed anche all'intero Senato Cardinalizio, quindi al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi di Austria, segnatamente dopochè gli venne procurato l'aiuto di Gaspare Scioppio, inviando lettere che ritessevano la storia delle cose sue, giustificavano la pazzia pregressa, ripetevano le promesse delle cose mirabili in vantaggio della Chiesa e dello Stato, presentavano l'elenco delle opere fin allora scritte, conchiudevano col supplicare che fosse udito e posto alla prova. Indubitatamente ciascuna delle dette mosse del Campanella fu coordinata a certi suoi pensieri, che egli andava esprimendo in varie e successive opere di occasione, alle quali attese col maggiore impegno comunque sepolto in una fossa tanto orribile; e diciamo opere di occasione, perocchè esse furono scritte con lo scopo manifesto di procurarsi grazia presso gli arbitri della sua sorte, presso il Vicerè e gli Agenti del ramo temporale e spirituale della Curia Romana, infine anche direttamente presso la Curia e tutti i potenti capaci di aiutarlo, sforzandosi di far acquistare di sè un miglior concetto nel campo politico e nel religioso, di mostrare quali e quanti servigi egli avrebbe potuto rendere laddove fosse posto in libertà. Riuscirà quindi utilissimo vedere in precedenza le opere che compose, con tutti gli accidenti della composizione di esse, in questo periodo che comprende gli esiti de' processi e che dalla fine del 1602 può protrarsi al 1605-1606, data almeno del termine della pazzia, giacchè il termine del processo della congiura non si vide per lui mai più.

Cominciamo dunque dal ricordare che il 1602 era stato impiegato dal Campanella per una piccola parte nella composizione della Città del Sole, e per la massima parte nella composizione della Metafisica, la quale verosimilmente fu compiuta ne' primi mesi del 1603 (ved. pag. 305). D'allora in poi egli dovè subito metter mano a' 4 libri di Astronomia contro Aristotile, Tolomeo, Copernico e Telesio, indicati anche col titolo De motibus astrorum juxta physica nostra e forse indirizzati alla memoria di Giulio Cortese, come abbiamo detto altrove potersi desumere da un brano dell'opera «Del Senso delle cose» che ha richiamata la nostra attenzione[439]. Sulla data di composizione dell'Astronomia non cade dubbio: la troviamo infatti registrata fra le altre opere negli elenchi inviati il 1606 a' Card.li Farnese e S. Giorgio; la troviamo del pari nell'elenco inviato il 1607 al Re di Spagna coll'altro titolo De nova astronomia libri 4 etc., aggiuntovi che erano rimasti «imperfetti», la quale ultima circostanza, motivata con ogni probabilità da' nuovi travagli sopravvenuti, dovè impedirgli di mandare l'opera allo Scioppio nel 1607. D'altra parte la cosa ci è confermata abbastanza dalle deposizioni ultime del Gagliardo, per le quali abbiamo già veduto che nel 1603 il filosofo si occupava di Astrologia [Pg 367] e certamente ancor più di Astronomia, avendo per le mani, con quel singolare ripostiglio, il Magino, l'Almanach, il Cardano, senza il quale aiuto non avrebbe in verità potuto trattare una materia simile; e secondo lo stesso Gagliardo ne avrebbe trattato così nel carcere ordinario come nel torrione, vale a dire dal febbraio o marzo al luglio o agosto 1603 ed anche da questa data in poi, fin verso il tempo dell'uscita del Gagliardo dal carcere, vale a dire fin verso il marzo 1604. È verosimile poi, che se non all'entrare nel torrione, almeno quando vide scoperto il disegno di evasione, carcerato il Marchese di Lavello e poi protratta tanto la spedizione della causa della congiura, penetratosi delle circostanze evidentemente aggravate, egli abbia interrotto la composizione della pura Astronomia, e posto mano al trattato De Symptomatis mundi per ignem interituri; infatti questo trattato si vede sempre menzionato come annesso a' libri di Astronomia nelle lettere del 1606-1607 e seguenti, e fu inviato esso solo allo Scioppio nel 1607, senza i libri di Astronomia, col titolo di Prognosticum astrologicum de his quae mundo imminent. Il Campanella poteva servirsene per difesa, essendo ricominciato ad apparire il bisogno di ulteriori difese, e così come già si è visto aver fatto altre volte, egli passava immediatamente a comporre opere adatte a' suoi bisogni: aggiungiamo che il trattato potrebbe ancora trovarsi in qualche Biblioteca, essendo stato mandato allo Scioppio, ma per l'autore andò certamente perduto insieme co' libri di Astronomia, che gli furono tolti dietro una perquisizione ordinata dal Nunzio il 1611, come apparisce dal Syntagma, nel quale per altro la data di composizione di questi libri si mostra esposta in una maniera impossibile. S'intende poi che il Campanella in tutto questo tempo continuò a comporre poesie, e che esse ci furono conservate solamente in parte, rimanendo eliminate le poesie confidenziali. È molto verosimile che debbano assegnarsi alla prima metà del tempo trascorso nel torrione le tre Salmodie, che vennero riportate in ultimo luogo nella scelta data alle stampe, dicendosi nel Syntagma che ve ne furono di quelle servite a rinvigorire gli amici ne' tormenti; esse sarebbero state composte a' primi del gennaio 1603, quando tre de' frati suoi compagni furono tormentati, e bisogna dire che veramente poterono servire pel solo fra Pietro di Stilo. Negli elenchi delle opere inviati a' Cardinali ed al Re si trova anche citata tra le Rime la «Salmodia della legge naturale e divina in tutte cose», ma essendo stati quegli elenchi compilati il 1606-1607, parecchie altre Salmodie poterono essere indicate sotto quella dicitura così generale; tuttavia le tre sopradette appariscono Inni suggeriti dalla speranza di un termine de' travagli, che a quella data poteva sembrare davvero imminente.

Al tempo trascorso nella fossa di Castel S. Elmo appartengono di certo molte opere e la massima parte delle poesie che furono pubblicate; nè si può dubitare che fin dal primo momento il Campanella[Pg 368] abbia dovuto porre mano alla composizione delle opere, giacchè il numero di esse riferibile a' primi anni della dimora in S. Elmo è davvero sorprendente; e però crediamo che egli abbia dovuto ben presto trovar modo di ottenere da' «leopardi» un maggior numero di ore di luce, alla qual cosa provvidero verosimilmente gli aiuti di fra Serafino di Nocera ed anche le risorse sue proprie, essendo stato sempre stimato tale da comandare al diavolo. Una delle poesie, che apparisce la prima di questo periodo, ce lo mostra rassegnato, come d'altronde era naturale, dovendosi stare a vedere dove la cosa andrebbe a riuscire: alludiamo al «Sonetto nel Caucaso», in cui il Campanella professa inutile il credere la morte un rimedio a' guai, giacchè «per tutto è senso», e conchiude:

«Filippo in peggior carcere mi serra
or che l'altr'ieri: e senza Dio no 'l face,
stiamci come Dio vuol, poichè non erra»[440].

Non abbiamo bisogno di dire che il carcere dell'«altr'ieri» sarebbe il torrione del Castel nuovo. Ma la fossa non consentiva una calma rassegnazione: ben presto egli dovè comporre ancora la «Lamentevole orazione profetale» e un po' più tardi le «Quattro Canzoni in dispregio della morte», così indicate nell'edizione Adami. Infatti la Lamentevole orazione tra gli altri dolori esprime quello per la separazione dagli amici tuttora in carcere, ciò che può riferirsi solamente a' frati lasciati nel Castel nuovo, ed ancora esprime l'apparizione di mostri e di draghi, ciò che fino ad un certo punto accenna all'apparizione de' diavoli, da' quali in più luoghi il Campanella affermò di aver ricevuto travagli nella fossa:

«Qui un mar di guai confuso
pien di mostri e di draghi
sopra di me si aduna,
e 'l tuo furor spirando aspra fortuna».
. . . . . . . . . . . . . .
«Da gli amici disgiunto
sono, e obbrobrio al mio sangue».
. . . . . . . . . . . . . .
«La gente del mio seme
m'allontanasti, e preme
duro carcer gli amici,
altri raminghi vanno ed infelici»[441].

Nelle Canzoni poi in dispregio della morte c'è l'affermazione esplicita di aver visto il diavolo, di gustare già la dottrina di Cristo, di essersi fatto certo dell'immortalità dell'anima, de' futuri premii e pene etc., e nelle note si dice che allora l'autore compose questa Canzone (la 4a) e «scrisse l'Antimachiavellismo», la qual cosa [Pg 369] vedremo avvenuta in una data non molto lontana da quella dell'entrata nella fossa:

«Or ch'han visto i miei sensi
non più opinante son ma testimonio,
nè sciocche pruove ho di secreti immensi,
già gusto quel che sia di Cristo il pane.
Deh sien da noi lontane
quelle dottrine che 'l celeste conio
non ha segnato; ch'io vidi il Demonio.

Credendosi i Demon malvagi e fieri
indiavolarmi con l'inganni loro,
benchè con mio martoro,
m'han fatto certo ch'io sono immortale,
che sia invisibil più d'un concistoro,
che l'alme uscendo van co' bianchi e neri» etc.[442].

Ben si rileva che il Campanella s'infervorava assai nelle dottrine della Chiesa, e come nelle poesie così vedremo pure nelle prose; ma il lato singolare del fatto è che questo venne determinato propriamente dal diavolo, e potrebbero anche dirsi abbastanza singolari i modi usati da lui nell'esprimere i concetti nuovamente acquistati; vale la pena di farvi attenzione. Non apparisce intanto che egli abbia scritte altre Salmodie nel periodo in esame. La Salmodia metafisicale è assai posteriore, giacchè vi si parla di «sei e sei anni» di pena, di «dodici anni d'ingiurie e di stenti»[443]; e per verità le prose l'occupavano anche troppo.

Nel tenersi rassegnato ed in aspettativa, egli non rimase certamente in ozio, e ben presto dovè attendere alla ricomposizione dell'opera Del Senso delle cose, che questa volta scrisse in italiano, come ci mostrano i Codici della Nazionale di Napoli e della Casanatense, la lettera del 1607 allo Scioppio da noi pubblicata, nella quale disse voler tradurre in latino il Senso delle cose e la Metafisica[444], da ultimo anche un brano dell'opera medesima, riprodotto del pari nella traduzione fattane, che venne poi stampata il 1620[445]. È verosimile che il Campanella siasi deciso a questo lavoro, perchè era di semplice reminiscenza, avendolo già una prima volta fatto in Napoli il 1590, nè esigeva essenzialmente l'aiuto di altri libri. Ad ogni modo non dubitiamo di assegnargli la data dell'ultimo quadrimestre 1604, poichè vedremo or ora il Campanella nel gennaio 1605 occupato in un lavoro di altro genere, poi lo vedremo ancora occupato in altri lavori, ed intanto troviamo il Senso delle cose già inserto negli elenchi delle opere compilati il 1606, quindi lo troviamo pure inviato allo Scioppio il 1607; d'altro lato, percorrendo l'opera, vi troviamo citata principalmente la [Pg 370] Metafisica e i libri Astrologici, le ultime opere composte dall'autore, ma non l'Antimachiavellismo e del pari i Machiavellisti, citati in due brani dell'opera che fu poi stampata, d'onde si rileva che l'Antimachiavellismo fu composto veramente più tardi. Così un confronto tra i manoscritti e l'opera stampata, mentre ci conduce a determinare la data di questa ricomposizione in un modo abbastanza esatto, ci mostra pure che i manoscritti debbono dirsi realmente la ricomposizione originaria dell'opera, non una traduzione dal latino fatta per conto di qualcuno poco versato nelle lingue antiche. Abbiamo detto che ci son due manoscritti di quest'opera, in Napoli e in Roma; aggiungiamo che del 4o libro di essa, costituito dalla «Magia naturale», vi sono inoltre più copie, una in Firenze nella Magliabechiana, due ancora in Parigi, nella Bibl. dell'Arsenale n.o 14 e in quella di S.ta Genoveffa n.o 15. La dicitura italiana vi si mostra oltremodo rozza; alcune parole esprimenti gli organi sessuali e gli atti generativi non si potrebbero ripetere, e si direbbe aver l'autore sentita l'influenza del linguaggio dell'ergastolo nel torrione e in S. Elmo. Il Berti, ispiratosi senza dubbio alla lettura della Monarchia di Spagna, degli Aforismi etc., ha giudicato che «queste versioni italiane... fatte per lo più con correzioni e purgatezza si potrebbero raccogliere e pubblicare»[446]; ma si tratta in realtà di composizioni originarie, ed alcune tra esse, in particolare quella Del Senso delle cose, sono tutt'altro che purgate. Notiamo poi nell'opera, sotto il punto di luce del nostro argomento, il ricordo di fra Pietro di Stilo più volte e quasi sempre in termini affettuosi; il ricordo analogo di D. Lelio Orsini due volte; fino ad un certo punto il ricordo anche de' Ponzii, là dove, recando un esempio, dice, «et così nel senso che quando vedo Pietro mi pare vedere Dionisio perchè simigliano». Notiamo ancora il ricordo indiretto del trovarsi carcerato, là dove, parlando della calamita, dice, «non sò se miri al polo antartico, che non mi lice parlare a' naviganti» (nella trad. lat. «non licet misero navigantes interrogare»); dippiù il ricordo dell'essere a lui pure riuscito, come all'Orsini, di atterrire con lo sguardo e con la voce coloro i quali lo teneano preso, alludendo con ogni probabilità ai momenti più acuti della sua pazzia; e da ultimo il ricordo che «li profeti hoggi si chiamano brabanti (leg. birbanti) et sciagurati dall'empio volgo», alludendo in modo chiarissimo alle condizioni proprie. Ma sopratutto crediamo notevoli varie affermazioni che si direbbero ostentati ripudii delle accuse mossegli nel processo di eresia, e in ispecie le ripetute affermazioni dell'esservi angeli e diavoli indubitatamente, dell'essere «empia» l'opinione che non esistano demonii ma solo esorbitanze d'umore melanconico, dell'essere «una sfacciataggine» negare che l'uomo comunichi con gli angeli e demonii e con Dio; alle quali affermazioni si trovano [Pg 371] associate le altre, che «per esperienza propria» avea conosciuto solamente diavoli, i quali gli erano apparsi e si erano sforzati di fargli credere la trasmigrazione delle anime e la mancanza di libero arbitrio, oltrechè gli avevano predette cose vere e false, ed egli avea pregato Dio che gli facesse vedere angeli buoni e non l'avea «mai impetrato», ma era diventato per la malignità del diavolo «più huomo da bene». Taluna di queste proposizioni, così spinte, fu poi alquanto smussata nella traduzione, e così «la sfacciataggine» fu detta «imprudentia»: ma l'essere «divenuto più huomo da bene» si elevò a «sanctior evasus»; e in tutti i conti il Campanella aggiunse con asseveranza, «nè questa è esperienza de sciocco nè di bugiardo, che dell'uno et dell'altro sempre mi guardai più che del diavolo stesso», ciò che fu tradotto «nec experientiam narro imperiti, timidi, vel mendacis hominis, utrumque enim vitavi semper sicut pestem diram». Intanto nell'ultimo libro dell'opera si trova notata un'altra circostanza, ma in modo assai oscuro: «Porfirio e Plotino aggiungono che vi siano gli Angeli buoni et perversi, come ogni dì si vede esperienza et io ne ho visto manifesta prova, non quando la cercai, ma quando pensava ad altro (lat. non quando investigatione avida id tentavi sed quando aliud intendebam); però non è meraviglia se al curioso Nerone non sono comparsi»: ignoriamo a quale momento il Campanella alluda, ma parlandosi della curiosità di Nerone non soddisfatta, e sapendosi che Nerone volle vedere i diavoli senza potervi riuscire, è certo che finqui il Campanella, ripetendo quanto cantava nelle Poesie, non aveva ancora progredito al punto da essergli comparsi angeli, come poi gli comparvero più tardi, essendosi sempre più ingolfato nelle dottrine de' Santi. Da ciò rimane anche chiarita la data di questa ricomposizione in italiano dell'opera Del Senso delle cose[447].

[Pg 372]

In gennaio 1605 abbiamo ragione di credere che il Campanella siasi occupato de' due opuscoli intitolati Del Governo del Regno e Consultazione per aumentare le entrate del Regno. Lo argomentiamo dal fatto che in questo tempo appunto, dopo di avere aspettato invano qualche provvedimento intorno alla sua persona, dovè uscire dal raccoglimento, non far più un mistero delle sue buone facoltà intellettuali, e sotto gli auspicii di fra Serafino di Nocera trasmettere proposte e promesse mirabili al Vicerè, naturalmente per conquistarne la grazia ed essere chiamato innanzi a lui. Certamente le proposte doverono essere analoghe a quelle espresse negli opuscoli, e naturalmente questi non si potevano ancora presentare, senza svelare e compromettere la comodità di scrivere di cui il prigioniero godeva; mentre poi era pure necessario che fra Serafino, il quale dovea presentare tali proposte, ne avesse avuto un cenno scritto, vale a dire avesse avuto gli opuscoli, i quali ne trattavano. D'altronde sappiamo che almeno la Consultazione fu poi data allo Scioppio separatamente dalle altre opere, ma nello stesso periodo di tempo, un poco prima o un poco dopo della data in cui le opere furono inviate, come apparisce da una delle lettere del Campanella pubblicate da noi[448]; sicchè laddove sia corso un qualche intervallo tra l'aver ventilate le proposte e l'averle scritte, esso sicuramente non fu molto lungo. L'opuscolo Del Governo del Regno non è pervenuto sino a noi; la Consultazione col titolo di Arbitrio o Discorso primo sopra l'aumento dell'entrate del Regno di Napoli, fu scoperta dal Dragonetti nella Casanatense e poi con accurato lavoro pubblicata dal D'Ancona. Quantunque relativa ad un tema niente affatto biblico, il Campanella, pur facendo proposte non indegne di considerazione, vi fa campeggiare la Bibbia largamente e vi si mostra un fervido religioso: e dev'essere notato che malamente nel Syntagma fu scritto essere stata diretta «al Conte [Pg 373] di Lemos», ciò che rimanderebbe la cosa al 1610. Fin dalle prime parole dell'opuscolo si vede che l'autore si dirige ad un Vicerè tenerissimo dell'annona, e sappiamo che il Conte di Benavente se ne occupò davvero con un'attività e severità straordinarie: nell'ultima pagina poi, evidentemente aggiunta con alcune altre dopo che si riuscì a far accogliere l'opuscolo dal Vicerè, è detto che il Torres Segretario di S. E. lesse l'opuscolo; e sappiamo dal Capaccio, come dal Parrino, che D. Baldassare Torres fu Segretario del Conte di Benavente con autorità eccessiva, tanto che le popolazioni assai se ne dolsero, ma assai più si dolsero poi di averlo perduto.—Lo stesso dobbiamo dire di due altri Discorsi, qualificati secondo e terzo, che abbiamo trovato nella Casanatense al sèguito del precedente e che diamo oggi alla luce, essendo parte integrante della Consultazione, siccome mostra anche il cenno fattone dallo Scioppio in una delle sue lettere pubblicate non ha guari dal Berti[449]. Mentre il primo tratta propriamente dell'annona, il secondo tratta della moneta scadente o falsa, e il terzo della pena di morte. Da ognuno di questi articoli il Campanella intende trarre un utile di 100 mila ducati pel Governo, 300 mila in tutto, mercè provvedimenti benefici in pari tempo alle popolazioni; ma l'aumento dell'entrate è il suo scopo principale, sicchè le sue proposte riescono vere proposte di occasione, fatte per rendersi propizii i potenti, come già abbiamo annunziato fin da principio verificarsi ampiamente nelle opere del periodo attuale. Il Dragonetti non pose mente a questo fatto nel giudicare il Discorso primo relativo all'annona, e però tanto più crediamo necessario farlo rilevare.

In sèguito, dal febbraio al luglio 1605, rivolgendo i suoi sguardi al Papa, dopo di averli inutilmente rivolti al Vicerè, il Campanella dovè porre mano alla Monarchia del Messia coll'annesso capitolo De' dritti del Re di Spagna sul nuovo mondo, ed ancora alla Ricognizione della Religione secondo tutte le scienze contra l'anticristianesimo machiavellistico, cui lo Scioppio volle poi dare invece il titolo di Atheismus triumphatus. Lo argomentiamo dal fatto che appunto nel luglio 1605 o qualche mese più tardi secondo i nostri còmputi che più sotto esporremo, il Campanella si procurò la visita del Nunzio e del Vescovo di Caserta dicendo di volersi accusare, e manifestò in essa i principii che andava svolgendo nelle dette opere, essere sicuramente venuto il tempo di «far una greggia et un Pastore», avere «esaminato la fede con la filosofia Pitagorica, Stoica, Peripatetica, Platonica, Telesiana e di tutte sette antiche e moderne» etc. etc., ed avere «con tutte le scienze finalmente humane e divine assicurato se stesso et gli altri che la pura legge della natura è quella di Christo a cui solo li Sacramenti [Pg 374] son aggiunti» etc.; con singolari affermazioni di aver ottenuto da Dio rivelazioni e potestà di difendere il Cristianesimo dopo di essere stato con altri ingannato dal diavolo, potestà perfino di far miracoli etc. La Monarchia del Messia fu scritta in italiano, messa da parte una volta e ripigliata tra mano più tardi; molto più tardi poi fu tradotta in latino. Ne esistono ancora in italiano una copia in Lucca, nel codice 2618 più volte citato, due in Parigi, nella Bibl. nazionale n.o 985, e nella Bibl. di S.ta Genoveffa n.o 3, inoltre una in Londra, nel Brith. Mus. n.o 2255. Il non trovarsene alcuna nelle Bibl.e di Napoli ci ha tolto di poter vedere se e quali differenze vi siano tra il manoscritto in italiano e il libro che fu poi stampato in latino a Jesi nel 1633; ma crediamo bene che non vi siano differenze contemplabili, sapendo per prova che il Campanella nelle traduzioni è stato sempre fedele alle composizioni originarie (salvo il caso in cui qualche brano fosse riuscito troppo spinto in un senso o in un altro), forse perchè le composizioni originarie si trovavano sempre già diffuse nel pubblico ed egli non volea mostrare di aversi a correggere. Naturalmente nella Monarchia del Messia la Bibbia campeggia in modo quasi esclusivo. Allorchè la diede alle stampe, disse in una prefazione che il libro si connetteva agli altri anteriori della Monarchia del Messia; e così dicendo ci pare che abbia alluso alla «Monarchia de' Cristiani» e al «Governo della Chiesa», mentre quando cita la prima di queste due opere nell'elenco mandato il 1606 al Card.l S. Giorgio, dice che essa offre i soli primi fondamenti, poichè egli «anchora non haveva proceduto nelle leggi e profezie, ma solo per historia politica e natura», e quando la cita nella lettera latina al Papa, la chiama addirittura «Monarchia del Messia». Ma la Monarchia del Messia di cui qui parliamo non si trova registrata negli elenchi mandati il 1606-1607 a' Cardinali e al Re di Spagna, e si trova poi nell'elenco mandato in giugno o luglio 1606 allo Scioppio: ciò vuol dire che essa fu condotta a termine solamente verso quest'ultima data, nè deve sorprendere che non si trovi nell'elenco mandato al Re, che è quasi contemporaneo, poichè conveniva poco nominarla al Re, al quale si vede anche la «Monarchia universale de' Cristiani» annunziata col titolo di «Monarchia universale alli Principi Christiani».—Quanto all'Ateismo debellato (lo chiamiamo fin d'ora così pel vantaggio della brevità), esso dovè essere scritto fin dall'origine in latino, ovvero, se fu cominciato in italiano, dovè essere presto tradotto e poi compiuto in latino acciò potesse meglio servire allo Scioppio, per cui fu compiuto ed a cui fu dedicato; e può dirsi che precisamente al tempo nel quale fu menato a termine, il Campanella abbia abbandonato il costume di comporre dapprima in italiano per poi tradurre in latino. Sicuramente fu menato a termine del pari verso la metà del 1607, essendo rimasto interrotto per qualche tempo: difatti esso si trova già chiaramente indicato nelle lettere del 1606 a' Cardinali,[Pg 375] ma quasi in un poscritto, non figurando negli elenchi delle opere ad essi mandati, ed invece figura nell'elenco del 1607 mandato al Re, col titolo «La esamina di tutte le sette del mondo a paragon del Vangelio con la ragion comune e di tutte scole» etc.; la qual cosa contribuisce a dimostrare quanto abbiamo sostenuto nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella circa la data della lettera al Re, assegnandole probabilmente quella del giugno 1607, mentre appunto verso tale data l'Ateismo fu certamente compiuto e mandato allo Scioppio con tutte le altre opere disponibili. Dovrebbe anzi dirsi che il Campanella vi abbia lavorato fino all'ultima ora, se si trovasse realmente esatto quanto affermò lo Struvio, che cioè nella copia mandata allo Scioppio tutta la materia dal cap. 7o all'11o fu scritta di mano dell'autore. Senza pretendere menomamente di dare un cenno qualunque di tale opera, meravigliosa per essere stata scritta in una fossa e lungi dal corredo opportuno di libri che ad ogni altro sarebbero stati indispensabili, ci limiteremo a far avvertire che essa era destinata a mostrare come l'autore oramai, perfino co' soli lumi della filosofia e della critica, fosse giunto a convincersi profondamente della verità della fede di Cristo, e si sentisse tutto fuoco e fiamme contro gli Atei, contro gli Anticristiani, contro i Machiavellisti e il Machiavelli; che al tempo medesimo essa era destinata a rappresentare la confutazione e la condanna delle tante accuse mosse all'autore col processo di eresia, la sua professione di fede ardente, in modo da farlo stimare capacissimo d'imprendere e conseguire cose grandi, qualora, s'intende, fosse stato posto in libertà. Dedicata poi allo Scioppio, che appariva l'unico aiuto possibile e che era noto per la rabbia fanatica ed insolente contro i suoi antichi correligionarii, l'opera riuscì forse anche per questo assai piccante, e però venne a procurare giudizii molto ostili all'autore da parte degli Acattolici, senza nemmeno conciliargli la benevolenza del Capo del Cattolicismo. Per noi riescono notevoli sopratutto alcune parti di essa, che offrono la confutazione di cose particolarmente addotte nel processo di eresia e contemplate con molta puntualità: così accade p. es. a proposito dell'Eucaristia, ove si parla della «contumelia vermium, muscarum et murium», e si muove la quistione «cur irrisa Eucharistia miracula non facit semper»; egualmente a proposito della «religio colendi imagines», del «colere Crucem in qua repraesentatur crucifixus», del «peccatum Adae», del «transitus maris rubri», etc. etc. Notevoli riescono inoltre le narrazioni circostanziate, ma pur sempre oscure, di quel tale astrologo che istruì un giovane incolto ad invocare gli angeli de' pianeti, d'onde si ebbe la comparsa di diavoli e una quantità di rivelazioni, con la conclusione che essi separarono poi il giovane dall'astrologo e lo trassero a morte violenta: non può qui non colpire che il Campanella parli di un astrologo, e taccia delle posteriori comparse di angeli con le rivelazioni e facoltà ottenute, mentre, al tempo in cui il libro fu compiuto,[Pg 376] già con le sue lettere del 1606 al Papa e a' due Cardinali aveva affermato essere stato quel giovane istrutto da lui medesimo, ed avere poi lui medesimo visto altri diavoli e da ultimo angeli; si direbbe che nell'opera egli avesse avuto ritegno di esprimere apertamente quanto si era permesso di esprimere nelle lettere confidenziali[450]. E si sa che lo Scioppio non tradusse in tedesco l'opera nè la pubblicò, come l'autore desiderava, e dovè l'autore medesimo pensare a pubblicarla quando divenne affatto libero, nel 1630, ma fu obbligato ad aggiungervi in alcuni punti le autorità de' S.ti Padri, mutando lo stile filosofico in teologico; che più tardi, perfino dopochè l'opera era stata ampiamente approvata e pubblicata, vi si trovarono altri appicchi nè si consentì che fosse ripubblicata, e in somma Roma finì per non rimanerne contenta. Si sa d'altro lato che presso gli Acattolici l'avere spiattellato tutti gli argomenti degl'increduli, come pure l'averla tirata troppo contro il Machiavelli, diè motivo di far dubitare della sincerità dell'autore. Ma basta aver chiarita l'occasione nella quale l'opera fu scritta, meritando senza dubbio tale occasione di essere molto bene considerata.

Diremo ora in breve delle altre opere appartenenti a questo stesso periodo, scritte fra le interruzioni delle precedenti, secondochè le circostanze le facevano apparire all'autore più o meno atte a procurargli la libertà. Dopo l'agosto 1605 egli ebbe verosimilmente ad occuparsi de' due trattati, de' quali si trova fatta menzione negli elenchi delle opere mandati a' Cardinali Farnese e S. Giorgio, col titolo «Cur sapientes et prophetae Nationum omnium in magnis temporum articulis fere omnes rebellionis et heresis tamquam proprio simul crimine notentur ac morti violentae subjaceant, et postmodum cultu et religione reviviscant»: l'esito del suo colloquio col Nunzio e col Vescovo di Caserta spiega ad un tempo l'interruzione dell'Ateismo e la convenienza de' detti trattati; pertanto è notevole che essi non si trovino registrati nell'elenco mandato in sèguito al Re. Forse l'autore stimò più conveniente metterli da parte dirigendosi all'Autorità civile, mentre vi si parlava della «morte violenta de' filosofi» come di un affare ordinario e consueto; forse anche egli li fece presentare appunto al Nunzio e al Vescovo di Caserta non appena li compose, e così potrebbe pure spiegarsi che siano andati perduti; infatti non li troviamo nemmeno nell'elenco delle opere mandate allo Scioppio.—Il titolo medesimo de' detti trattati ci mena a ritenere che subito dopo egli abbia posto mano alla ricomposizione degli Articoli profetali con una maggiore ampiezza, quali son pervenuti, tuttora manoscritti, fino a noi: essi figurano negli elenchi mandati [Pg 377] così a' Cardinali come al Re con la nuova intestazione, De eventibus praesentis saeculi Articuli prophetales 18. La nuova intestazione e il numero degli Articoli mostrano bene che non si tratta qui degli Articoli primitivi; il numero medesimo mostra che al tempo in cui l'autore redigeva i detti elenchi, gli Articoli non erano compiuti ancora, poichè egli credeva che dovessero raggiungere il n.o di 18, ed invece non oltrepassarono il n.o di 16, come si trovano in più Biblioteche[451]. D'altronde sappiamo che nel giugno o luglio 1607 il Campanella non potè o non volle ancora mandarli allo Scioppio, il quale vivamente li desiderava trovandosi impegnato in una quistione circa l'Anticristo, provocata da una sua opera su tale argomento; e una lettera posteriore del Campanella, da noi pubblicata, mostra che in novembre 1608 erano già pronti, sicchè per essi bisogna contare un anno iniziale 1605-1606 e un anno finale 1608.—Ma ecco ancora un'altra opera, per la cui composizione dovè rimanere interrotta egualmente quella degli Articoli, vogliamo dire i tre libri intitolati Antiveneti, a' quali è del tutto naturale assegnare la data della fine di agosto e mesi seguenti 1606, non appena l'autore ebbe notizia dell'interdetto lanciato dal Papa Paolo V contro Venezia, come si desume dalla 1a e 2a lettera al detto Papa pubblicate dal Centofanti: a questa data il Campanella diè fuori febbrilmente le rivelazioni del diavolo e quelle dell'angelo, alle quali i fatti di Venezia si prestavano in un modo magnifico; gli Antiveneti doverono essere composti con ottima vena in un tempo relativamente breve, e si trovano registrati nell'elenco delle opere mandate allo Scioppio.—Inoltre, un po' più tardi, egli dovè senza dubbio ricomporre ed ampliare i Discorsi a' Principi d'Italia, che dapprima verosimilmente erano in una forma più ristretta; lo si può argomentare anche vedendo che gli elenchi inviati a' Cardinali recano «Un discorso a' Principi» etc., mentre le copie manoscritte che tuttora ci rimangono in gran numero sono abbastanza voluminose recando 11 o 12 discorsi, e, ciò che più monta, citano tutte assai spesso non solo la Monarchia di Spagna, ma anche la Monarchia del Messia, il Discorso de' dritti del Re Cattolico sul nuovo mondo, gli Articoli profetali; nè vi manca (alla fine del disc. 7o od 8o secondo le diverse copie) una menzione dell' «empio Machiavello» che ricorda troppo l'Ateismo debellato appena compiuto e forse non ancora compiuto[452]. La data di siffatto lavoro può dirsi [Pg 378] quella de' primi mesi del 1607, quando Cristoforo Pflugh fece acquistare al Campanella la conoscenza dello Scioppio, che appunto allora fu nominato Consigliere Austriaco e designato dal Papa ad andare invece del Nunzio al Congresso di Ratisbona. Tutte queste circostanze di tempo di luogo e di persone, che si vedranno giustificate più in là, fanno intendere le opinioni manifestate dal Campanella ne' Discorsi, i quali doveano servire a rendergli propizii il Re di Spagna, l'Imperatore e gli Arciduchi di Austria. Aggiungiamo che specialmente dopo di avere acquistata la conoscenza di Gaspare Scioppio, ed anche del medico Gio. Fabre di Bamberga residente in Roma, nel corso del 1607 e in parte nel 1608, il Campanella ebbe a scrivere diversi opuscoli epistolari, come quello Sul modo di evitare il freddo, quello Sulla sordità e l'ernia, e gli altri tutti da noi pubblicati, cioè Sulla peste di Colonia, Sul modo di evitare il calore estivo, Sul Peripateticismo, Sul tempo successivo alla morte dell'Anticristo, Sul Pieno e sul Vacuo; avremo occasione di parlarne nel corso della nostra narrazione[453].

Possiamo oramai venire al racconto de' particolari di ciò che il Campanella imprese per uscire dalla fossa di Castel S. Elmo e riacquistare la libertà: egli medesimo ne parlò segnatamente nelle lettere che scrisse più tardi, in agosto 1606, al Papa Paolo V e al Card.l Farnese; e da questi fonti possiamo attingere le principali notizie ed anche argomentare le date approssimative degli avvenimenti, alle quali siamo sempre usi di annettere molta importanza[454]. «Dopo 5 mesi di stento» (così egli si espresse) propose al Vicerè di fare in servizio del Re cose mirabili, che importavano più che tre regni con aver parole del cielo, ma il Principe non volle ascoltarlo nè cavarlo da quella fossa orrenda, nè dargli agio di scrivere quelle cose nè di difendersi; «dopo 6 mesi» ottenne con arte di parlare al Nunzio e al Vescovo di Caserta, dicendo che si voleva accusare (vedremo tra poco in qual maniera si accusò e quali risposte ne ebbe), ed erano scorsi già «10 mesi» senza che potesse trovar credito (tale è il significato della espressione volgare da lui adoperata, «aver udienza»). Fermandoci dapprima alle date, ammesso il trasporto del Campanella a S. Elmo nel luglio 1604, [Pg 379] abbiamo che egli si sarebbe rivolto al Vicerè nel gennaio 1605, e poi avrebbe ottenuto di poter parlare al Nunzio e al Vescovo di Caserta nel luglio dello stesso anno; così il 13 agosto 1606 erano scorsi all'incirca dieci mesi, e diciamo «all'incirca» perchè vi sarebbe una differenza di poco oltre due mesi, i quali del resto avrebbero potuto essere scorsi dalla data dell'assentimento ad una visita alla data della visita fatta; tenuto conto della stagione la cosa riuscirebbe naturalissima, ed allora il colloquio dovrebbe dirsi avvenuto in settembre od ottobre 1605. D'altronde non deve sfuggire che se si ammettesse il trasporto a S. Elmo avanti il luglio 1604, il conto non potrebbe tornare in alcun modo, e però le date anzidette sono le approssimative unicamente possibili. In qual modo il Campanella abbia fatte le sue proposte al Vicerè, emerge precipuamente da ciò che sappiamo intorno a' suoi opuscoli Del Governo del Regno, e Consultazione sopra l'aumento delle entrate. Dovè presentarsi fra Serafino di Nocera, esporre principalmente i rimedii escogitati intorno all'annona, che tanto teneva occupato il Conte di Benavente, poi anche quelli intorno alla moneta scadente e alla pena di morte nel senso di far guadagnare altri 200 mila ducati, ed indicare la provenienza di ciò che aveva esposto mettendo fuori il nome del Campanella, capace di queste e di molte altre cose mirabili; ma non dovè trovare buona accoglienza, e così il Campanella potè poi dire che il Principe non volle ascoltarlo. Parrebbe che fra Serafino avesse anche sollecitato pel Campanella, ed inutilmente, il permesso di porre in iscritto le sue idee; ma se così passarono realmente le cose, non potrebbe trarsene la conseguenza che il Campanella non avesse già scritti questi rimedii intorno alle entrate, ed anche altri libri, poichè conveniva tenere tale fatto nascosto. Le sue «cose mirabili» furono ricordate egualmente nelle lettere del 1606 ai Cardinali, nella lettera del 1607 al Re, e tanto più tardi ancora nel Memoriale del 1611 al Papa che pubblicò il Baldacchini, non senza un qualche miglioramento ed accrescimento ulteriore: a capo di esse nel 1606-1607 troviamo sempre, e sotto pena della mutilazione di una mano nel caso di menzogna, il far aumentare le rendite nel Regno di 100 mila scudi oltre l'ordinario, appunto ciò che si legge ne' primi versi della Consultazione; poi vengono altre promesse, far guadagnare per una volta 500 mila scudi per una impresa importantissima a tutti i negozii d'Europa, fare un libro ove si mostri venuto il tempo di riunire tutte le genti sotto una sola legge ed un principato felicissimo etc., fare un altro libro segreto al Re ove si mostri il modo di arrivare a questa monarchia, e così tante altre cose atte ad eccitare l'estro del soprannaturale e l'ingordigia terrena[455]. Molte di queste cose erano evidentemente [Pg 380] «parole di cielo», e del resto la Consultazione medesima si vede saper tanto di cielo che è un piacere. Malgrado ciò, non fu possibile piegare l'animo del Vicerè, come non fu possibile nemmeno di piegar l'animo del Papa in sèguito. Intanto il Campanella mostrava che la sua pazzia era finita; e siamo in grado di esporre l'esito finale delle dette pratiche, poichè dagli ultimi brani di ciascun Discorso della Consultazione, aggiunti come poscritti più tardi, se ne può rilevare qualche notizia. Solamente dopo alcuni anni l'opuscolo venne accolto in Palazzo, ove fu portato dal P.e Pegna (un P.e Gaspare Pegna forse Domenicano, del quale non ci è riuscito finora saper altro), e il Segretario Torres, che lo lesse, approvò taluni mezzi in esso suggeriti, contro altri fece varie obiezioni alle quali il Campanella rispose. In particolare circa l'annona il Torres comandò che l'autore scrivesse sopra un altro punto: ma il Campanella fece sapere che ne avea scritto nella Monarchia già mandata al Re, appellandosi al Vescovo di Monopoli il quale l'avea letta, e si rifiutò di scriverne ancora volendo essere «inteso a bocca» da S. E., costante desiderio che non fu mai esaudito. L'appello al Vescovo di Monopoli ci mostra che tutto ciò dovè accadere non prima del 1608, quando già al Campanella erano state procurate molte commendatizie presso il Vicerè, come sappiamo da altri fonti, e il Vescovo di Monopoli P.e Gio. Lopez Domenicano, rinunziata la sua Chiesa per grave età, e giunto in Napoli, vi era trattenuto dal Vicerè qual suo Consigliere intimo, sino a che gli fu concesso di ritirarsi a Valladolid sua patria[456].

Fermandoci alle mosse del Campanella nel 1605, riuscita inutile quella fatta in gennaio presso il Vicerè, dicevamo che in luglio ne fece un'altra presso il Nunzio e il Vescovo di Caserta: e qui innanzi tutto dobbiamo avvertire che Nunzio era ancora l'Aldobrandini, ma Vescovo di Caserta era fra Diodato Gentile, successo già al Tragagliolo nel Commissariato generale del S.to Officio in Roma, e poi successo al Mandina defunto nel Vescovato di Caserta, con exequatur del 24 luglio 1604, occupando del pari la carica di Ministro della S.ta Inquisizione nel Regno. Senza dubbio per far uscire il Nunzio dalla sua apatia verso di lui, il Campanella disse di volersi accusare, onde il Vescovo di Caserta fu chiamato ad intervenire egli pure; e così il Campanella potè anche dire di averli [Pg 381] chiamati «con arte». Naturalmente, più o meno presto, essi doverono recarsi a S. Elmo, ed ivi in qualche sala ascoltare il Campanella, ma non videro la sua prigione: questo leggesi in un altro brano della lettera a Paolo V, ove il Campanella racconta che Mons.r Nunzio vide il carcere di fuori, e per non avere a contradire al Vicerè non entrò nè mandò a vederlo, e disse che era buono, «nel modo ch'ogni sepoltura par buona di fuori». Ecco ora il discorso del Campanella e le osservazioni de' due Vescovi; sarà meglio far parlare il Campanella medesimo: «M'accusai come, per mancanza dello spirito, che trovai tra' Cristiani molto difformi dell'antichità e profession nostra, mi risolsi ad esaminar la fede con la filosofia Pitagorica, Stoica, Epicurea, Peripatetica, Platonica, Telesiana e di tutte sètte antiche e moderne, et con la legge delle genti antiche e d'Ebrei, Turchi, Persiani, Mori, Chinesi, Cataini, Giaponesi, Bracmani, Peruani, Messicani, Abissini, Tartari, et com'ho con tutte le scienze finalmente humane e divine assicurato me stesso et gli altri che la pura legge della natura è quella di Christo, a cui solo li Sacramenti son aggiunti per aiutar la natura a ben operare con la gratia di chi l'ha dati; et che son pur simboli naturali et credibili: et vidi come Dio lasciò tante sètte caminare, e la mancanza dello spirito in noi, e lo scompiglio della natura e suo fine. Onde son fatto possente a difensar con tutto il mondo il Christianesmo; che fui sentinella fin mò dell'opere di Dio. E come la divina Maestà disegna in questo tempo far una greggia et un Pastore, e 'l giudicio dell'errore di tante nationi, e quel che soprastà al Christianesmo: e li sintomi celesti et terrestri del mondo morituro per fuoco, contra li filosofi con S. Pietro et Heraclito. La difficoltà del mondo nuovo, e dell'incarnatione et altri articuli difficultosi, l'esamina delle profetie e miracoli veri e falsi d'ogni setta. Et com'io et altri fummo ingannati dal diavolo aspettando scienza e libertà da lui, credendoci che fosse Angelo, e poi Dio, secondo si fingeva; e come, dopo lunga dieta, Dio benigno condescese al mio desiderio, che mai non fu maligno, se fu erroneo: e presentai memoriale di questa, e molti capi di cose faciende ad utile del Christianesmo. Nondimeno Monsignore Nuntio rispose ch'io era poco humile. Non so se l'ha fatto per provarmi: perchè ben so ch'è scritto nella Sapienza: Qui intuetur illam permanebit confidens: et che l'humiltà è magnanima et non vile, et io certo so che mai non ho bramato dignità nè honori, et a tutti vilissimi servitii ho posto mani. Sed neque me ipsum judico. Monsignor di Caserta fece conseguenza, ch'havendo io vagato per tante sètte, e cercato li miracoli veri e falsi, e le profetie e la novità del secolo, com'egli lesse nel mio processo in Roma, non havevo cattivato me ad ossequium Christi: e che mò voglio far miracoli falsi per scampare o allungar la vita. Ben fanno a non creder subbito; ma negarmi l'esperienza, o scriver a V. B. che[Pg 382] «non la voglia vedere, è un negar lo spirito di Dio, che ubi vult spirat, et seguir lo spirito degli huomini: Venite cogitemus adversus Jeremiam» etc. Così il Campanella mostrava anche da questo lato che la sua pazzia era finita e già da qualche tempo, tanto che avea visto anche con altri il diavolo, e poi, dopo lungo aspettare in penitenza, Dio l'aveva esaudito ed oramai si sentiva in grado di far cose mirabili ad utile del Cristianesimo. Quali abbiano dovuto essere queste cose, delle quali diè «molti capi», si può comprenderlo dagli elenchi più volte indicati, estraendo da essi i capi relativi appunto all'utile del Cristianesimo: dovè quindi promettere di far il libro in dimostrazione della prossima fine del mondo coll'unione di tutte le genti costituendo una gregge ed un solo pastore, far il libro contro i politici e Machiavellisti, un libro per convertire i Gentili delle Indie orientali, un libro contro i Luterani, ed andare in Germania ottenendovi la conversione di due Principi protestanti e il discredito completo di Calvino, fare al ritorno 50 discepoli contro gli eretici etc. etc. Di certo egli dovè promettere anche di far miracoli, come non cessò poi di prometterli più o meno esplicitamente fino al 1611; ed anche nella sua prima lettera al Papa e in una lettera posteriore allo Scioppio, pubblicate entrambe dal Centofanti, si dolse che il Nunzio e il Vescovo di Caserta avessero chiamato finzioni, delirii od astuzie, per uscire dal carcere, i suoi presagi, i suoi segni nel sole, luna e stelle, e i miracoli che avrebbe fatto per costringere ogni anima a riconoscere il Vangelo. Questo d'altronde emerge dalle osservazioni medesime fatte da costoro, quali il Campanella le narrò al Papa, da doversi dire in verità rispondenti a quanto sappiamo del carattere dell'Aldobrandini, che ci è abbastanza noto, e del Gentile, che parecchi documenti ci mostrano spietato ed esorbitante non meno del Mandina[457]. Secondo il nuovo Vescovo di Caserta, il Campanella voleva «far miracoli falsi per scampare od allungar la vita»; sicchè, nel concetto di questo Vescovo, pel disgraziato filosofo si trattava sempre di avere a perdere la vita più o meno presto. Dobbiamo intanto dire che il Vescovo di Caserta, per parte sua, ebbe a scrivere qualche cosa a Roma intorno a tale colloquio, ma il Nunzio non scrisse certamente nulla, come ci mostra il suo Carteggio del 1605, ultimo anno di ufficio per lui: che anzi in una sua lettera del 24 agosto 1605 al Card.l Valenti, tenuto allora provvisoriamente da Papa [Pg 383] Paolo «nel luogo che si sogliono adoperare i proprii nipoti», passando a rassegna, per sua giustificazione, i casi di torto giurisdizionale da lui trattati, egli non citò punto il caso del Campanella, e quindi dalla parte del Nunzio, non meno che dalla parte di Roma, rimaneva non curato il torto ricevuto in persona del povero filosofo, contentandosi che la sua causa non fosse spedita. Dalla parte del Campanella poi ognuno avrà notato come, tanto presso il Vicerè, quanto presso il Nunzio, egli non fece la menoma richiesta che la sua causa fosse spedita; nè veramente espresse mai più un desiderio simile per lungo tempo, se non sotto certe condizioni.

Scorsero non meno di 10 mesi dal detto colloquio, e il 13 agosto 1606 il Campanella si spinse a rivolgersi direttamente al Papa, moltiplicando anche questa volta i reclami e le lettere in più sensi e non trovando requie per molto tempo. Sicuramente tanto ritardo non provenne dall'essersi rassegnato, e lo dimostrano i gridi di dolore che sovente erompono nelle dette lettere; ma bisogna dire che egli non nutriva alcuna speranza di essere ascoltato, e però non si mosse di nuovo se non quando avvenne un fatto tale da tenere in agitazione vivissima l'animo del Papa; fu questo l'interdetto scagliato a Venezia, seguito dalla superba resistenza del Governo Veneto, e dall'abbandono del Papa in una pessima condizione da parte di coloro medesimi che gli aveano offerto aiuto. Allora appunto il Campanella tentò di profittare dell'occasione e scrisse la sua lettera, nella quale comincia col giustificarsi degli stratagemmi usati durante la causa (e certamente del principale tra essi che era stato la pazzia, come risulta dal veder citata l'autorità di S. Geronimo), si appella mostrando la necessità di venir tradotto a Roma e l'impossibilità di consentire che il giudizio della congiura ed anche dell'eresia termini in Napoli, fa un racconto delle cose di Calabria e degli avvenimenti posteriori come può farlo un giudicabile, riconosce commessa da lui la colpevole imprudenza di aver servito alla «revelation presente» ed esservi stato un «voluto, non fatto, eccesso», chiede per giudici il Bellarmino e il Baronio ma non in Napoli, coll'affermare che ha cose grandi, parole di cielo, da dire al Papa e alla Chiesa, ed aggiunge un poscritto in cui dichiara avere avuto nuova delle cose di Venezia, occorrere una guerra spirituale e la chiamata di tutte le persone sante a Roma, per parte sua obbligarsi a mostrare con miracoli stupendi la verità del Vangelo ed allungare le profezie laddove sia necessario. Questo poscritto apparisce l'occasione vera della lettera, la quale è seguita poi da un'altra, o, se piace meglio, da un allegato, in cui pel fatto di Venezia insiste sempre più sulla necessità di venir tradotto a Roma, narra le rivelazioni avute dal diavolo fintosi angelo tre anni prima, e per esse la caduta di Venezia nel 1607 con la perdita di gran parte dell'autorità del Papa, la caduta della dignità Pontificale e del Senato Cardinalizio dietro uno scisma dopo il 1625; narra poi la comparsa successiva di altri diavoli che l'afflissero,[Pg 384] e in sèguito, dietro preghiere a Dio, le rivelazioni vere che ebbe con gli avvertimenti da dover dare a S. S., e suggerisce consigli, e cita profezie, e dichiara di voler parlare a S. S. e poi morire etc. etc.

Importa commentare quest'altra mossa del Campanella, sempre più degna di attenzione comunque rimasta senza il menomo effetto. Non a torto dovè sembrargli molto opportuna l'occasione per rivolgersi al Papa. Fin da' primordii del suo Pontificato Paolo V si era mostrato assolutamente deciso a far rispettare ad ogni costo l'immunità ecclesiastica, e dopo di aver fatta e facilmente vinta una quistione con Lucca e poi con Genova in condizioni davvero esorbitanti, avea voluto farne un'altra anche con Venezia, che non si era mai adattata a riconoscere l'immunità ecclesiastica negli Stati suoi[458]. Annunziato dapprima con un Breve fin dal dicembre dell'anno precedente, emanato dappoi nel solenne Concistoro del 17 aprile 1606 il gran Monitorio, che dichiarava incorsi nelle scomuniche il Doge e il Senato Veneto per essersi rifiutati a consegnare al Nunzio due scellerati malfattori, il Canonico Saracino e il Conte Brandolino Abate di Narvese, Venezia si era mostrata inflessibile, si che il Papa avea stimato opportuno radunare un grosso esercito, e Venezia avea dovuto fare altrettanto. Napoli, così vicina, non poteva rimanersi indifferente, e dal Carteggio del Residente Veneto Agostin Dolce si rilevano, con le rispettive date, i fatti avvenuti allora nella città. I Gesuiti, irritati anche per essere stati espulsi da Venezia i frati del loro ordine insieme co' Teatini e Cappuccini ossequenti al Papa, gridavano nelle scuole contro Venezia e diffondevano per la città alcuni presagi tratti specialmente dal libro di M.o Antonio Arquato medico (in ciò i Gesuiti s'incontravano col Campanella). Il Nunzio Mons.r Guglielmo Bastoni Vescovo di Pavia, successo all'Aldobrandini fin dal dicembre passato, benediceva pubblicamente la capitana delle galere che partivano sotto il comando del Marchese di S.ta Croce per fare una dimostrazione ostile a Venezia, mentre un inviato, Ugo de Moncada, andava a Roma per dichiarare il Vicerè pronto a vendicare con la persona e col Regno le offese che fossero fatte a S.ta Chiesa, emulando le offerte del Conte di Fuentes Governatore di Milano e de' Duchi di Modena e di Urbino. Ma appunto a' primi di agosto si venne a sapere che il Marchese di S.ta Croce si era limitato a veleggiare [Pg 385] nelle acque di Brindisi, ciò che in realtà non era tollerato da' Veneziani, ma avea finito poi col rivolgersi contro i pirati di Durazzo ed espugnare questa città; che per armare le galere si era preso il danaro de' privati dal Banco di S. Eligio; che bisognava pensare a provvedersi di grano poichè quello promesso, da doversi estrarre dalla Marca d'Ancona, non sarebbe più venuto; che mancando il danaro, ed essendo le gabelle divenute insopportabili, già si pensava di sospendere il pagamento degli interessi agli assegnatarii (creditori dello Stato) come poi si verificò; che per tutte queste ragioni non si sarebbe passato alle armi, e in ultima analisi da Spagna erano venuti anche ordini di non passare alle armi[459]. Naturalmente il Campanella dovè giudicare che oramai poteva provarsi presso un Papa tanto attaccato all'immunità da pretenderla anche là dove non c'era mai stata, e tanto poco avveduto da compromettere a quel modo l'autorità Pontificia, riducendosi poi a supplicare almeno l'invio da Napoli di un'Ambasciata a Venezia per trattare la pace, ciò che fu commesso a D. Francesco de Castro accompagnato dal Duca di Vietri, due nostre vecchie conoscenze.

Egli credè pertanto necessario rannodare la sua mossa alle precedenti, dare alla sua lettera l'impronta di un «appello», che secondo lui dovea render nullo il giudizio compiuto, siccome disse tanti anni dopo nella sua Narrazione, e credè anche necessario rifare la storia delle cose di Calabria, spingendosi ad affermazioni che crediamo inutile dimostrare insussistenti dopo tutto ciò che abbiamo visto nel corso della narrazione nostra. Basterà citar quelle, che l'eresia fu trovata da' frati, che il negozio de' turchi fu inventato da lui per non morire, che furono appiccati sul molo uomini per altra causa, che fecero confessare a Maurizio sub verbo regio mille bugie, che tutti morendo si ritrattarono. Ma gioverà notare due cose: l'una, il bisogno che sentì sempre di non essere messo a fascio con fra Dionisio divenuto maomettano, «di cane fatto lupo pe' gridi di mali pastori»; l'altra il nessun desiderio ed anzi il rifiuto di vedere spedita la sua causa in Napoli. Su quest'ultimo punto egli si espresse recisamente: non consentirebbe in [Pg 386] Napoli a giudizio alcuno, perchè era odiatissimo, perchè non vi erano aequa jura, perchè avrebbero detto al Nunzio che era finita la causa e lo condannasse senza ascoltarlo (così difatti avrebbe dovuto accadere). Nè si trattenne dallo scrivere: «questi giudici anche ecclesiastici più tosto mi vorrebber trovar nocente che innocente, perchè... non si fidano nè ponno difensarmi la innocenza, se in me la trovano, come Nicodemo non difese Christo; ma sendo colpevole senza briga ponno starsi e gratificarsi con questi Signori», mentre «non hanno alcuna autorità se non di farmi male, perchè son ligati al farmi bene». In somma la sua causa era straordinaria e dovea trattarsi in Roma, annullando, s'intende, ciò che si era fatto sin allora, ed egli volea che si dimandasse la persona sua, anche con l'obbligo di restituirla a Napoli qualora fosse trovata in falso. Più tardi poi disse che non aveano potuto conchiudere la causa della congiura in Napoli, perchè non aveano in che condannarlo: questa contradizione non ha bisogno di commento.

Ma un po' di commento occorre al fatto della comparsa del diavolo tre anni prima, invocato da una persona che egli aveva istrutta a pigliar l'influsso divino (sicuramente il Gagliardo), delle rivelazioni avutene anche circa Venezia e il Papato, e poi della comparsa di altri diavoli nella fossa, col sèguito delle grazie ottenute per via di flagelli e di studii, dell'avere avute altre rivelazioni, dell'esser divenuto capace di far miracoli, o, secondochè disse poco dopo, dell'aver visto angeli ed avuto autorità come quella di S. Giovanni a' farisei e potestà di far miracoli più stupendi che quelli di Mosè[460]. La frequenza ed asseveranza, con le quali il Campanella parlò in prosa ed in versi della comparsa del diavolo, delle rivelazioni avute e delle conseguenze di esse, non possono non fare un certo peso; e la cosa riesce di tanto maggiore interesse, in quanto che segna il punto di partenza del suo passaggio definitivo, reale o simulato, nel campo delle credenze cattoliche pure, e quindi riflette il vero problema difficilissimo della vita del Campanella, cioè l'essenza delle sue intime convinzioni religiose. Potrebbe ammettersi un'allucinazione, ma non mai la «lunga aberrazione mentale», che il Centofanti ha invocata e che si vede ricordata ancora da altri, mentre il Campanella medesimo non fece poi un mistero che la sua pazzia era stata simulata, e lo ripetè egualmente in prosa ed in versi troppe volte, sebbene in qualche determinata circostanza siasi contraddetto[461]. Ci sembra pertanto che invece [Pg 387] dell'allucinazione riesca più verosimile trattarsi di un fatto molto semplice, dell'evocazione de' diavoli esercitata dal Gagliardo, amplificata e messa innanzi dal Campanella così per premunirsi contro qualche nuova denunzia al S.to Officio specialmente da parte del Gagliardo, come per procacciarsi qualche via di uscita nelle sue tristissime condizioni, giustificando il suo ritorno nel retto sentiero con un evento straordinario, ed eccitando la curiosità e l'interesse del Papa, mentre poi, alla peggio, avrebbe potuto tutt'al più acquistarsi una riputazione di stravagante, che sarebbe sempre riuscita giovevole alla conclusione della sua causa. Benchè si possa dire aver lui veramente professata l'esistenza di spiriti buoni e rei, o «più o meno buoni», custodi de' pianeti e delle stelle ed anche vaganti pel mondo, dal processo di eresia conosciamo che con gli amici suoi avea sempre riso del diavolo nelle condizioni e forme comunemente ammesse; e conosciamo che il Gagliardo si era occupato [Pg 388]realmente di diavolerie, con ogni probabilità sotto gli occhi del Campanella, ma nemmeno possiamo dire che l'avesse fatto con quella larghezza e serietà che dalle affermazioni del Campanella emergerebbero, poichè egli non si sarebbe trattenuto dal farne parola nelle sue ultime deposizioni in S.to Officio, almeno per tentare di allungar la vita; forse egli attese alle scene di comparsa del diavolo, secondo il suo solito, per profitto, non che per acquistarsi la considerazione e l'ossequio de' carcerieri, e fu in questo agevolato dal Campanella che ne avea bisogno egualmente, laonde non dovè poi dare a quelle scene tanta importanza, e riesce un po' duro ad accettare che invece abbia dovuto darcela sul serio il Campanella. Conosciamo poi che non appena pose mano a comporre poesie ed opere nella fossa di S. Elmo, il Campanella attestò dapprima il fatto puro e semplice dell'apparizione evidente di diavoli a lui occorsa, ma con la circostanza un po' singolare nel fondo e nella forma, che per quel fatto era divenuto più uomo da bene (come abbiamo visto in qualche poesia e nell'opera Del Senso delle cose); più tardi, nell'Ateismo, tornò sul fatto corredandolo di molti particolari misteriosi già più volte menzionati, nè si trattenne dall'affermare nelle lettere che gli era stata con inganno promessa dal diavolo scienza e libertà, e dall'affermare nelle poesie che gli era stato pure promesso che «sarebbe esaudito», che «si canterebbe Viva Campanella nel fine del suo carcere»[462]; d'altronde in un brano dello stesso Ateismo debellato, lasciando chiaramente intendere essere stato lui medesimo in relazione co' diavoli per mezzo del Gagliardo, reca un'altra delle risposte avute là dove dice, «Astrologo per juvenem interroganti de multis dixerunt, quod ipse scripsisset de libero arbitrio, sed rectius Calvinum». Dopo tutto ciò si ammetta pure che tra le bizzarrie del Gagliardo, durante l'evocazione de' diavoli, vi sia stata quella di far pronostici su Roma e su Venezia; ma nessuno vorrà credere che il Campanella abbia prese sul serio altrettali visioni, e non le abbia rivedute e corrette, aggiungendovi del suo tante singolari particolarità oltrechè una coda non indifferente, in vista de' suoi gravi bisogni. Nè ci sembra punto temerario il ritenere che le visioni consecutive degli angeli, e le facoltà ottenute da Dio, siano del medesimo stampo; e tutto il garbuglio ci apparisce consentaneo all'indole del Campanella, perpetuamente motteggiatrice anche nelle circostanze più terribili, rimanendo vero soltanto che Dio gli avea concesse facoltà intellettive ed operative straordinarie, atte a costituirlo, secondo il suo concetto, condottiero della umanità con un migliore indirizzo.

Ma dunque il Campanella potè mentire a tal segno? Eh sì, non c'è da farne le meraviglie, e c'è da farle invece perchè si sia mancato di riconoscerlo, mentre egli non mancò di dichiararlo, segnatamente [Pg 389] nelle sue Poesie; nè adoperò alcuna circumlocuzione nel dichiararlo, e se i posteri non hanno voluto capirlo, la colpa senza dubbio non fu sua. Egli disse nettamente che era «bello il mentire» in determinate circostanze, appellandosi agli esempî della storia sacra e profana, e non meno nettamente pure disse che i savii, per schifar la morte, «furon forzati a dire e fare e vivere come gli pazzi, se ben nel lor segreto hanno altro avviso»[463]. Nè fu propriamente lui che inventò la trista massima «intus ut libet, foris ut moris est», bensì egli fu costretto a seguirla; nè ci sorprenderebbe che si gridasse allo scandalo, comunque pur oggi si tolleri con la più grande indifferenza che quella massima sia seguita gloriosamente da tanti e tanti, senza pur l'ombra delle condizioni del Campanella; basta considerare il numero grandissimo degli spiriti forti in religione, e de' partigiani de' cosi detti grandi principii in politica, che quasi sempre «nel lor segreto hanno altro avviso» per onta e malanno dell'umanità. Ma bisogna anche guardarsi dal comparare le cose grandi alle meschine, e però aggiungiamo di non credere che possa rimanerne vulnerata la fama del Campanella presso le persone non volgari. A niuno è venuto in mente mai che la fama di Galileo Galilei sia rimasta vulnerata dall'avere, con la sua abiura, affermato il contrario di ciò che pensava: l'infamia è ricaduta su coloro che ve lo costrinsero, e pel Campanella, travolto in un abisso di miserie che non ha riscontro nella storia de' nostri uomini di lettere, non è possibile avere un concetto diverso senza manifesta ingiustizia. Aggiungasi che egli si credeva nato per una missione altissima, per «debellare i tre mali estremi, tirannide, sofisma, ipocrisia», nè semplicemente con lo scriver libri, come potrebbe supporsi dietro monche notizie della sua vita; ed ebbe poi a provare, nel modo più efferato, «il senno senza forza de' savii esser soggetto alla forza dei pazzi» non solamente dall'alto, ma anche dal basso, non solamente da parte de' grandi, ma anche da parte del popolo le cui sorti egli si era sforzato di rialzare, ciò che gli diede amarezza infinita, come si rileva da più punti delle sue poesie. Eppure non disperò nè si arrestò mai, ciò che prova la ricchezza e la nobiltà della sua natura; ma necessariamente tutte le maniere di astuzia doverono sembrargli [Pg 390] accettevoli, anche quelle che agli animi nostri, tanto distanti dal suo, recano molto dolore. Così coloro i quali ebbero l'opportunità o la sagacia di saperne o penetrarne i pensieri intimi, lo apprezzarono maggiormente o lo vituperarono secondo i proprii umori diversi; e son note certe qualificazioni denigranti assegnate specialmente a talune delle sue opere più caratteristiche, certi epiteti ingiuriosi affibbiati alla sua persona, quando non si volle o non si seppe intendere che egli aveva idee riposte, nemmeno tenute addirittura sepolte ed erompenti sempre, perfino mentre era obbligato ad esternare idee di tutt'altro colore per uscire dalla sua tristissima condizione. Egli non tacque le sue idee riposte in politica e in religione, che trovò modo di esporre con un vero stratagemma, secondo una maniera non nuova ma più che ardita nello stato suo, facendo la descrizione della immaginaria Città del Sole; e poichè nella sua estrema vecchiezza ne curò la ristampa e vi aggiunse ancora le Quistioni sull'ottima repubblica, composte veramente da un pezzo e poi messe da parte, si ha motivo di ritenere che a queste idee, con poche varianti, egli sia stato attaccato fino alla morte. Intanto è costretto a salvarsi dall'ira universale, è costretto a mostrarsi diverso da quel che è; non giunge per questo a nascondere le sue interne credenze, e più volte anzi s'ingegna di farle rilevare almeno a' savii, ma pur troppo i savii riescono vigilanti solo tra' suoi avversarii o sonnecchiano affatto. Perfino nella lettera che egli scrive in appello al Papa, lo si vede deplorare «l'ecclisse di spirito» e che «bisogna credere o andar prigione», lo si vede annunziare che il Cristianesimo è «la pura legge della natura, a cui solo li sacramenti son aggiunti per aiutare la natura a ben operare», non lodando così certamente lo spirito della Curia, ed attribuendo a Dio creatore una parte affatto preponderante su Dio salvatore. Nelle opere poi, nello stesso Ateismo debellato, destinato a rappresentare la sua rumorosa professione di fede atta a salvarlo, sia quando impiega la maniera di esposizione ad utramque partem, sia quando adotta la maniera di esposizione ordinaria ed obiectionibus occurrit, lo si vede produrre con tanta larghezza gli argomenti degli avversarii, da aggiungerne perfino molte volte taluni non prodotti mai e suggeriti propriamente da lui. Il fatto trovasi notato da un pezzo quasi come una scoperta, mentre, se fossero state sempre lette con attenzione le cose del Campanella, si sarebbe visto che da lui medesimo non era stato taciuto[464]: pertanto esso ti rimane molte volte incerto se l'autore abbia veramente voluto convincerti appieno sull'opinione che sostiene, o invece illuminarti meglio su quella che combatte; sempre poi ti obbliga a riflettere [Pg 391] su quello che espone e su quello che non può esporre, su quello che spesso accenna doversi fare e che s'intende non poter fare. Ma il nostro assunto ci trattiene dall'affisare lo sguardo in questo orizzonte elevato, e ci richiama al penoso viaggio pedestre che abbiamo intrapreso: solo dimandiamo di poter dichiarare ancora una volta, che a nostro modo di vedere è indispensabile farlo questo viaggio prima di librarsi a volo, in caso contrario si correrà il rischio di una falsa strada[465].

[Pg 392]

IV. Noi potremmo fermarci qui, bastandoci di aver mostrato non senza una certa larghezza le tre principali occasioni e maniere, nelle quali il Campanella, dando un termine manifesto alla sua pazzia, tentò successivamente ed infruttuosamente, presso lo Stato e presso la Chiesa, di essere ascoltato per non rimanere sepolto nella fossa di S. Elmo. Ci parrebbe tuttavia di non avere esaurito il nostro còmpito, se non narrassimo anche il sèguito de' tentativi da lui fatti ulteriormente ed a breve intervallo, non solo presso la Curia Romana, ma anche presso la Corte di Madrid e presso le Corti Cattoliche di Germania, con tutte quelle lettere e mediante tutte quelle persone che abbiamo avuto bisogno di citare più volte.

Nello stesso anno 1606, quasi immediatamente dopo di essersi rivolto al Papa, egli invocò l'aiuto del Card.le d'Ascoli (fra Girolamo Bernerio Domenicano, protettore dell'Ordine), e poi anche quello de' Card.li Farnese e S. Giorgio. Non è pervenuta fino a noi la lettera diretta al Card.le d'Ascoli, ma n'è rimasta soltanto la notizia nelle altre dirette agli altri Cardinali. Queste furono scritte in data del 30 agosto 1606, cioè 17 giorni dopo che era [Pg 393]stata scritta la lettera al Papa, ed offrono gli argomenti medesimi addotti al Papa, con poche varianti ed un cenno fugace delle rivelazioni intorno a Venezia. Sempre rifacendo la storia delle cose di Calabria in una maniera adattata alla sua difesa, dichiarando di essersi salvato con la stoltezza dove era odiosa la virtù e di aver finto contro la violenza dietro l'esempio di David, annunziando grandi rivelazioni avute e le grazie de' miracoli per beneficio della Chiesa, supplicò che fosse ascoltato de jure e che l'aiutassero a farlo chiamare a Roma anche condizionatamente; aggiunse l'elenco delle promesse fatte ad utile del Re e della Chiesa, come pure l'elenco dei libri fin allora composti per dimostrare che egli era in grado di mantenere le sue promesse[466]. È superfluo dire che non ottenne nulla; probabilmente non ebbe nemmeno una risposta da qualcuno de' Porporati suddetti.

Ma ne' primi mesi del 1607 nuove e più forti speranze si destarono nel Campanella, avendo già potuto acquistare la conoscenza di Gaspare Scioppio oltre quella di Giovanni Fabre, spinti da' Fuggers in aiuto suo. Qui alle notizie dell'Epistolario che diremo napoletano, pubblicato in parte dal Centofanti e in più gran parte da noi, son venute or ora ad unirsi le notizie dell'Epistolario romano del Fabre dateci dal Berti, ma è a deplorarsi che la massa dei documenti di quest'ultimo Epistolario giaccia pur sempre inedita, sicchè nemmeno si è in grado di parlare del periodo in quistione con tutta l'esattezza che si richiede[467]. Cristoforo Pflugh, che aveva eccitato in favore del Campanella i Fuggers e tra essi principalmente Giorgio, eccitò pure lo Scioppio, avendo con ogni probabilità già prima impegnato il Fabre. La lettera autografa del Campanella allo Pflugh, da noi pubblicata, ci mostra fuori contestazione che lo Scioppio venne eccitato da Cristoforo: e possiamo ben dire che le relazioni tra il Campanella e lo Scioppio cominciarono non prima del 1607. Per certo il brano di lettera del Campanella allo Scioppio, posto dal Centofanti innanzi tutte le lettere Campanelliane da lui pubblicate, perfino innanzi a quella del 13 agosto 1606, fu così posto arbitrariamente, e non può servire a dimostrare una relazione tra' due personaggi anteriore al 1607: parlandosi, in quel brano, dell'impresa di convertire due Principi non che di allettare i savii di Germania mercè le nuove dottrine, risulta abbastanza chiaro che debba riferirsi al 1607, al tempo in cui lo Scioppio era destinato a partire per la Germania in missione presso la Dieta di [Pg 394] Ratisbona[468]. Gaspare Scioppio di Neumark, giovane grammatico eruditissimo, se ne stava da 8 o 9 anni in Roma, dove aveva abiurato il Protestantismo, e spiegando un fervore rabbioso contro gli antichi correligionarii, scrivendo successivamente panegirici al Papa e al Re di Spagna, Commentarii sulla verità Cattolica, sull'Anticristo, sul primato del Papa ed anche su' Priapei, era venuto in fama e al tempo stesso in molto favore presso la Curia Romana, tanto che dovendosi mandare qualcuno invece di un Nunzio alla Dieta di Ratisbona, Paolo V decise mandarvi lui con la veste di Consigliere di casa d'Austria; e possiamo affermare che già nel febbraio 1607 era Consigliere Austriaco, poichè con questo titolo lo troviamo nominato appunto nella Disputa del Fabre «De Nardo et Epithimo adversus Scaligerum, Rom. 1607» a lui diretta in data del 1o febbraio di tale anno. Quanto a Giovanni Fabre di Bamberga, domiciliato in Roma dal 1600, egli era medico dell'Ospedale di S. Spirito, lettore di Anatomia alla Sapienza, inoltre Prefetto dell'Orto Vaticano onde s'intitolava Semplicista di N. S.re; è noto poi che venne più tardi ascritto alla famosa Accademia dei Lincei insieme col Persio (1611), e divenutone Cancelliere (1614) ebbe a scrivere le «Praescriptiones Lynceae» etc. etc. Lo scopo di Giorgio Fugger nel proteggere tanto vivamente il Campanella, era sopratutto quello di adoperarlo a' servigi del Cattolicismo in Germania, giudicandolo per la sua dottrina, eloquenza ed attività, il più capace di combattere con successo i Protestanti. Si sa che nelle feroci dissensioni religiose di Germania i Fuggers erano tra' Cattolici più caldi, e che un Ottone Enrico Fugger, giovinetto al tempo del quale trattiamo, distintosi poi in molte fazioni militari sotto le bandiere di Spagna, fu quello che in ultima analisi prese Augusta, vi depose il Senato Luterano e ve ne istituì uno Cattolico. [Pg 395] Non fa quindi meraviglia l'ardore di Giorgio per liberare il Campanella, non conosciuto da lui come colpevole di eresia ed invece stimato vittima di malevoli, onde lungamente tentò tutti i mezzi per averlo in Augusta, lo soccorse in danaro e in commendatizie, lo protesse e lo fece proteggere, lo fece visitare e lo visitò egli medesimo, destinò una forte somma per farlo fuggire o liberare: le promesse di miracoli, le affermazioni di possedere segreti meravigliosi, le esagerazioni di ogni maniera, che il Campanella avea poste innanzi per acquistarsi la grazia e l'interesse de' potenti, non destavano allora le diffidenze di oggidì se non presso i ben pochi spregiudicati; si può dire che esse giovarono più che nocquero, e forse contribuirono sopra ogni altra cosa ad infervorare i Fuggers nella protezione del Campanella. Lo Scioppio riusciva pel filosofo un uomo provvidenziale, essendo confidente della Curia Romana e destinato ad avvicinare l'Imperatore Rodolfo, l'Arciduca Massimiliano di Baviera, l'Arciduca Ferdinando di Austria e tutti que' Principi di Germania che erano impegnati con Spagna a sostenere gl'interessi del Cattolicismo; il Fabre poi riusciva sempre un buono assistente ed un utile intermediario per la corrispondenza, la quale era già avviata da un pezzo tra i Fuggers residenti in Augusta e il Campanella, venendo le lettere dirette a un Marco Velsero gentiluomo di molta levatura ed influenza e non a' Fuggers, e d'allora in poi doveva allargarsi comprendendo anche le lettere dello Scioppio. Motori di tutte queste pratiche erano, come ben si vede, i Fuggers, e di essi specialmente Giorgio, mentre in Napoli si prestava con tenera sollecitudine fra Serafino di Nocera, che il Campanella chiamava suo «tutore»; per altro Giorgio mandò talvolta anche qualche suo agente particolare, dapprima forse un Sigismondo, che trovasi nominato nell'Epistolario napoletano ma che potrebb'essere veramente un incaricato dello Scioppio, più tardi poi un Daniele Stefano di Augusta, che trovasi nominato nell'Epistolario romano e che deve dirsi con sicurezza un agente di Giorgio.

Parrebbe che lo Scioppio avesse già letto qualche opera del Campanella, con ogni probabilità avuta da Cristoforo Pflugh, e che ne fosse rimasto altamente sodisfatto: così, dietro le sollecitazioni de' Fuggers, che doveano equivalere a comandi atteso l'enorme credito ed influenza di quella famiglia, dirigendosi al Campanella gli manifestava ammirazione per la prestanza sua apparsagli ne' libri suoi, gli prometteva di adoperarsi per la sua liberazione presso i Principi del Cristianesimo, gli esprimeva il desiderio di averlo a socio contro gli eretici; questo si può argomentare da un brano della lettera pubblicata poi dallo Struvio, con la quale più tardi il Campanella accompagnò l'invio di una copia delle sue opere dimandate dallo Scioppio. Naturalmente costui apparve al Campanella un Angelo, un Liberatore, un Redentore, e così trovasi chiamato sempre nelle lettere del filosofo. I nuovi documenti rinvenuti dal Berti mostrano che il 26 aprile 1607 egli era in Napoli, e[Pg 396] scriveva al Fabre, «De Campanella in bona spe sum fore ut ei loquar, et quae velim ab eo auferam: interque coetera disputationem adversus Venetos, quam Pontifici gratissimam fore confido». Questa è la sola notizia datane finoggi, e da essa non risulta che lo Scioppio abbia visto il Campanella, ma risulta che sperava di vederlo e di carpirne tutto ciò che volesse, accennando agli Antiveneti che diceva dover riuscire assai graditi al Papa, e mirando senza dubbio agli Articoli profetali che sarebbero riusciti graditissimi a lui medesimo; troveremo infatti che egli li desiderò e li chiese per lungo tempo e per tutte le vie, mentre il Campanella, tutt'altro che facile ad essere superato in avvedutezza, l'aveva ben capito e se ne schermì fin da principio. Lo Scioppio si era impegnato nell'astrusa quistione dell'Anticristo e de' futuri eventi della fine del mondo[469], e ciò forse, più di ogni altra cosa, gli fece apparire il Campanella tanto interessante; poichè, quanto agli scritti contro Venezia, il Papa trovavasi già in via di accomodamento per mezzo del Card.l di Gioiosa, che mandato da Errico IV era stato in Venezia ed era poi giunto a Roma fin dal 22 marzo, la qual cosa lo Scioppio non poteva ignorare. È posto intanto fuori controversia che lo Scioppio sia venuto in Napoli nell'aprile 1607, non già nel 1608; ma è posto in pari tempo fuori controversia che egli sia venuto per parlare al Campanella e carpirne le opere, d'accordo col Fabre, e che non abbia menomamente avuta una missione del Papa per trattare la libertà del prigioniero, come finora si era creduto dietro una delle tante erronee notizie registrate nel Syntagma, che noi abbiamo recisamente oppugnata; ci riserbiamo per altro di tornare più in là su tale quistione, di cui ognuno intende la grande importanza.

Come dicevamo, rimane tuttora ignoto se in Napoli lo Scioppio abbia visto il Campanella; ma non sarebbe meraviglia che non avesse potuto vederlo, mentre era tanto rigorosamente guardato, e le premure di un noto faccendiere della Curia Romana doveano piuttosto riuscire a farlo guardare maggiormente. Forse in tale occasione, se pure la cosa non sia accaduta un po' prima per via epistolare, lo Scioppio ebbe le copie delle lettere già dirette dal Campanella al Papa ed a' due Cardinali nell'agosto 1606, acciò rimanesse informato de' passi fatti, ed ebbe poi quella lettera al Papa da noi pubblicata; la quale mostra bene di essere del 1607, dicendovisi il Campanella carcerato da otto anni, ed oltrechè attesta l'invio delle lettere antecedenti con le parole «scrivo tremando et altre lettere mandai», accenna pure in modo manifesto allo Scioppio che si era offerto a favorirlo con le parole abbastanza notevoli, [Pg 397] «et mò io stava piangendo com'Helia sotto il Junipero, dimandando la morte, et ecco venir quest'Angelo Samaritano, dopò che mi sprezzaro li Leviti e li Sacerdoti, e me tradiderunt in manus tribulantium et in animam inimicorum meorum, questo dico mosso da spirito di Sapienza... et vult alligare vulnera mea». Tutta la lettera rappresenta un 2o appello al Papa, come è attestato fin dalle prime parole, «Io di novo appello la causa mia al Tribunal proprio di V. B.» etc.; e del resto vi si trovano ripetute le solite cose, essersi in procinto di veder le meraviglie, avendo parlato di segni e profezie essere stato ritenuto ribelle, aver sofferto tormenti e malanni gravissimi, voler essere ascoltato nel tribunale romano, poter mostrare cose mirabili, aver visto e toccato ne' suoi guai i misteri della fede e le cose celesti[470]. Ma ancora in data del 7 aprile 1607, non sapremmo dirne il motivo, scrisse quella lettera latina solenne al Papa ed a tutto il Senato de' Cardinali che fu pubblicata dal Centofanti, e in essa, tra umili supplicazioni e audaci rampogne, si dolse che non aveano voluto ascoltarlo, mentre «spesso li avea avvertiti di voler mostrare innanzi a' Principi del suo popolo ed alle tribù d'Israele secondo le sacre decretali, mercè le autorità della Scrittura come Giovanni Battista, e con miracoli da non potere essere imitati dal diavolo, come quelli di Mosè alla presenza di Faraone, che per volontà di Dio egli era chiamato alla salute de' popoli»; e dicendo che «se era pazzo lo liberassero» (proposizione degna di esser notata), ricordando le imputazioni ingiustamente sofferte per l'addietro e poi quelle degli ultimi tempi, accennando alle opere che avea composte, esponendo i segni della prossima fine del mondo e le relative profezie, difendendosi dalle accuse, mostrò la necessità di esser tradotto a Roma, citò i casi analoghi ne' quali si era fatto lo stesso, si dolse di non vedere esaltata la giustizia. Lo Scioppio avrebbe dovuto presentare questa lettera, ma da' documenti che finora possediamo emerge essersi rifiutato a presentarla, consigliando che non si parlasse di miracoli e si facessero semplici supplicazioni, al quale consiglio il Campanella non si piegò; e forse apparve per questo uno stravagante, come del resto apparve anche a parecchi in sèguito, mentre i tanti garbugli prodotti in sua difesa, le scene non brevi di simulazione di pazzia, gli sforzi continui per farsi credere ispirato, e le vicende tutte di una così lunga prigionia doverono fargli acquistare un portamento tale da rendere plausibile un giudizio di quella fatta. Ma si converrà che specialmente presso Paolo V, il quale negli ultimi tempi del suo Cardinalato avea tenuto il suggello dell'Inquisizione, e presso il Card.l S. Giorgio, il quale avea tenuto il suggello dello Stato, e però buoni conoscitori entrambi degli avvenimenti di Calabria e relativi processi, il Campanella nel 1606 non avrebbe potuto sperar nulla senza prendere [Pg 398] un atteggiamento straordinario; e naturalmente presolo una volta, egli non si poteva più smentire senza suo danno, e doveva ad ogni costo mantenersi nella condizione d'ispirato. Lo Scioppio non poteva capacitarsene, perchè in realtà non conosceva ancora, o meglio conosceva solamente in parte lo stato vero delle cose del Campanella: per altro continuò a mostrargli stima grandissima, si attendeva di poter apprendere molto da lui in poco tempo, oltrechè di ottenere la spiegazione delle cose più recondite intorno all'Anticristo, nè cessò mai di dirigergli di tratto in tratto quesiti, perfino dopo che avvenne qualche cosa per la quale lo vedremo essersi ritenuto offeso: e il Campanella prometteva che gli avrebbe insegnate tutte le scienze durante un solo anno, si offriva a fargli la natività, ne secondava ed ampliava i disegni di voler convertire i Protestanti e i Gentili, dava sollecite risposte a' quesiti di lui non appena gli pervenivano, affaticandosi anche a menare a termine l'Ateismo e que' Profetali che erano sommamente desiderati da lui. L'Epistolario napoletano ci mostra tutte queste cose, e ci mostra pure che lo Scioppio inviava al Campanella qualche sussidio, o del suo o del danaro de' Fuggers, per gli alimenti e per la trascrizione delle opere, la quale, come abbiamo dimostrato con l'esame delle copie pervenute fino a noi, venne fatta da un amanuense non napoletano.

Secondo una notizia tratta dall'Epistolario romano, il Fabre avrebbe accompagnato lo Scioppio o meglio sarebbe venuto poco dopo lo Scioppio in Napoli, e, nientemeno, avrebbe ottenuta l'uscita del Campanella dalla fossa di S. Elmo! Egli lo fece sapere a Marco Velsero, e costui, in data del 9 maggio 1607 gli scriveva, «grand'obbligo debbe tener il Campanella a V. S. di essere stato trasferito et accomodato come lei dice». Siamo tentati di credere che per lo meno debba esservi qui un errore di data, parendoci molto strano che il Fabre abbia potuto far credere una cosa simile, mentre non solo sappiamo che il Campanella il 26 giugno e l'8 luglio 1607 (nella sua lettera sulla peste di Colonia e nell'altra a Mons.r Querengo) disse trovarsi ancora nella fossa in ceppi, ma sappiamo pure dal medesimo Epistolario romano che vi fu bisogno di far scrivere al Vicerè dall'Arciduca Ferdinando, nel gennaio 1608, che volesse far trasferire il Campanella «dalla fossa di S. Elmo, dove giaceva, nel Castel Nuovo» (così si esprime il Berti). Vi fu poi un'altra venuta del Fabre abbastanza più tardi, dopo che avea pubblicata la disputa «De Nardo et Epithimo» e coll'occasione di dover raccogliere piante per l'Orto Vaticano: queste due circostanze si trovano ricordate da Giulio Cesare Capaccio che vide il Fabre in Napoli[471], e ci fanno comprendere lo scopo della venuta [Pg 399] ed anche la data di essa; poichè basta guardare la disputa anzidetta, per vedere che questa fu diretta allo Scioppio in data del 1o febbraio, ma fu dedicata all'Archiatro Pontificio Vittorio Merolli in data del 1o agosto 1607. Vedremo che la venuta di cui parliamo si deve riportare propriamente all'anno 1608. Notiamo pertanto non essere dimostrato davvero che il Fabre e lo stesso Scioppio, venendo a Napoli, si siano adoperati in favore del Campanella nel senso di avere direttamente procurato dal Vicerè mitigazione di custodia, miglioramento di vitto, e tanto meno avviamento alla libertà: in obbedienza alle premure di Giorgio Fugger essi doverono recar sussidii e procurare facilitazioni per questa via; ma finoggi possiamo affermare che realmente il solo fra Serafino, il meno nominato, si presentò una volta al Vicerè per parlargli del Campanella.

Assai più del Fabre, per quanto sappiamo, lo Scioppio diresse quesiti al Campanella. Ve ne furono Sul modo di evitare il freddo, come pure Sulla sordità e l'ernia, a' quali il Campanella rispose prima che agli altri, secondochè rilevasi dal Syntagma e in parte anche da qualcuna delle risposte a' quesiti successivi; ma le risposte a' detti quesiti non sono pervenute fino a noi. Ve ne fu un altro Sul modo di far cessare la peste in Colonia, trasmesso mediante fra Serafino, e il Campanella vi rispose il 24 giugno 1607: un esemplare della risposta si trova anche nella Magliabechiana, ma scorrettissimo e senza data; quello che fu da noi pubblicato è sodisfacente, e dobbiamo notarvi la premura del Campanella anche presso i Coloniesi per essere chiamato colà a curarvi la peste, offrendosi perfino ad essere lapidato nel caso d'insuccesso! Ancora ve ne fu un altro Sul modo di evitare il calore estivo, e la risposta, da noi pubblicata, fu fatta l'8 luglio 1607: in essa si notano anche varie precauzioni da doversi adottare durante il viaggio, accennandosi abbastanza al viaggio che lo Scioppio dovea intraprendere, ed oltracciò si parla di lettere commendatizie avute e di altre aspettate, a cura dello Scioppio; ci riserbiamo di dirne i particolari più sotto, limitandoci qui a stabilirne la data. Altri quesiti, come quello Sul Peripateticismo che il Campanella condannava, l'altro Sul tempo successivo alla morte dell'Anticristo, che si riteneva dover essere di soli 45 giorni, così pure un altro Sul Pieno e sul Vacuo nell'interesse del Fabre, parrebbe che veramente fossero stati diretti al Campanella nell'anno 1608: noi abbiamo pubblicate le risposte, che recano la data del 13 giugno e del 7 novembre senza indicazione di anno, e vediamo ora tra i nuovi documenti del Berti una lettera dello Scioppio, senza indicazione nè di luogo nè di tempo, che rappresenta indubitatamente la proposta de' quesiti suddetti; ma alludendosi in essa ad una lettera che il Campanella avrebbe dovuto scrivere particolarmente all'Arciduca Ferdinando, bisogna riferirla al 1608 e con ogni probabilità alla fine di maggio di tale anno.—Dobbiamo intanto dire, che terminata oramai la trascrizione delle opere, potè farsene l'invio allo Scioppio[Pg 400] con quella lettera notevolissima anche pel ricordo delle persecuzioni sofferte, posta qual Proemio all'Ateismo e pubblicata dallo Struvio con la data del 1o giugno; se non che trovandosi nella lettera citate come già mandate le risposte circa il freddo, il calore e la peste di Colonia, è evidente che la data di essa, quale fu letta dallo Struvio, riesce errata, e invece del 1o giugno si dovrebbe forse leggere p. es. 10 luglio 1607[472]. Ecco l'elenco delle opere trasmesse allo Scioppio in tale data, essendogli stata la Consultazione per aumentare i tribuni consegnata separatamente: la Monarchia di Spagna, i Discorsi a' Principi d'Italia, il Dialogo contro i Luterani, l'opera Del Senso delle cose, l'Epilogo magno di Fisiologia seguito dagli Aforismi politici e dalla Città del Sole, la Monarchia del Messia col discorso De' dritti del Re di Spagna etc., il libro De Regimine Ecclesiae, gli Antiveneti, e la Recognitio verae Religionis detta poi Atheismus triumphatus: possiamo aggiungere ancora che talune copie furono dal Campanella corrette ed altre no, come si rileva da quelle pervenuteci, l'una degli Aforismi politici fornita di correzioni autografe, l'altra della Città del Sole rimasta senza correzioni. All'Ateismo il Campanella diede la massima importanza, evidentemente per le sue condizioni infelicissime: lo dichiarò «suo monumento», lo dedicò allo Scioppio, mostrò desiderio che egli lo traducesse in tedesco insieme col Dialogo contro i Luterani. Si dolse pure di non poter mandare la Metafisica, perchè «un certo Marchese discepolo ingrato la riteneva ad istigazione di Satana», alludendo senza dubbio a Francesco del Tufo successo al padre Gio. Geronimo, che le scritture dell'Archivio di Stato, da noi ricercate appositamente, ci mostrano defunto il 17 luglio 1606. E dobbiamo dire che a torto egli credè effetto d'ingratitudine il non aver avuta la Metafisica, poichè essa, morto il Marchese Gio. Geronimo, era stata rubata da un domestico cognominato Gallo e venduta a Gio. Battista Eredio Pisano di Puglia, come il Campanella medesimo dovè sapere più tardi onde se ne trova il ricordo nel Syntagma; dobbiamo dire inoltre che verosimilmente reclamò l'opera sua quando seppe l'accaduto, alcuni anni dopo, e così essa potè capitare nelle mani del Reggente della Vicaria e del Vicerè, secondochè risulta da un documento che abbiamo rinvenuto del pari nell'Archivio di Stato[473]. Ma non mandò gli Articoli [Pg 401] Profetali e disse che li avrebbe mandati in sèguito: forse non aveva potuto compierli, o invece volle tenerli in serbo (e difatti non li mandò neanche quando poi disse di averli già pronti), acciò lo Scioppio, rimanendo nell'aspettativa, non cessasse dal favorirlo. Egli se ne attendeva l'adempimento delle promesse, cioè «essere suo liberatore presso i Principi del Cristianesimo, e dargli modo di essere suo commilitone contro le eresie de' figli di Abaddon». Questo gli ricordò nella sua lettera, e fatta la rassegna delle opere che gl'inviava soggiunse: «vedi, ho consegnato tutto nelle tue mani; poichè mi prevenisti co' tuoi beneficii, non volli apparire ingrato». Ma inoltre lo avvertì che molti, ricevute le opere, trascrivevano da esse le proprie, e gli raccomandò di badare a non cadere con gli altri, «poichè questo furto è peggiore di quello della fortuna e dell'onore e di ogni altro delitto, venendo sottratti i figli non del corpo ma dell'anima, e figli perenni....», ed allora potrebbe «volerlo estinto, e il diavolo subito gli direbbe nel cuore bastare quanto avea fatto intorno a ciò che avea promesso con giuramento, bastare averlo tentato, essendo impossibile procurare la salvezza del Campanella... di cui ogni male gli parrebbe provenire dalla giustizia di Dio». E finiva dicendo: «Tibique commendo libros, sicut me Deus tibi, si forte non simulas, ut coeteri»! Pare impossibile che un uomo come lo Scioppio non sia rimasto offeso da simili parole; ma sappiamo con certezza che se ne mostrò irritato in sèguito allorchè il Campanella, non vedendo pubblicare le sue opere, gli fece intendere di nuovo la sua preoccupazione che egli volesse servirsene, e non gli mandò i Profetali che egli desiderava sempre più. Per altro c'è motivo di ritenere che lo Scioppio siasi mostrato tollerante verso il Campanella molto al di là del solito suo, per deferenza a' potenti Fuggers, che non cessavano di proteggerlo accanitamente.

Abbiamo visto che il Campanella, nell'inviare le opere, diceva di farlo per non sembrare ingrato. Egli ritenevasi obbligato allo Scioppio, perchè era condisceso a favorirlo e si era impegnato a patrocinare la sua causa: d'altronde sappiamo avergli lo Scioppio procurato alcune lettere commendatizie dirette al figlio del Vicerè, altre averne sollecitate mediante Mons.r Querengo dal Card.l Borghese dirette egualmente al figlio del Vicerè, che le cronache ci dicono essersi recato a Roma insieme coll'altro suo fratello non appena eletto Paolo V, e però doveva essere stato conosciuto da molti della Curia; forse lo Scioppio medesimo sollecitò le lettere dell'Ambasciatore Cattolico e dell'Ambasciatore Cesareo, che il Campanella nella lettera dell'8 luglio 1607 diceva di attendere. Ma nessuna sollecitudine egli mostrò presso il Papa; e non deve nemmeno sfuggire che egualmente Mons.r Querengo non si adoperò presso il Papa, mentre non solo era suo Prelato domestico assai ben veduto, ma anche, secondo l'Eritreo, precettore ed aio del nipote di lui Gio. Battista Vittorio. Sicuramente al Papa non dovea[Pg 402] piacere di udire a parlare del Campanella, e niuno osò affrontarne il disgusto; ma è chiaro che vennero grandemente ridotte le promesse di aiuto fatte dallo Scioppio, per le quali il Campanella era condisceso a dargli nelle mani tutte le opere sue. Poniamo qui che ad occasione delle commendatizie promesse dal Querengo dietro le istanze dello Scioppio, il Campanella scrisse al Querengo una lettera di ringraziamento notevolissima, con molti cenni della sua vita passata, de' suoi studii e del suo modo di filosofare: verso il tempo medesimo scrisse una lettera non meno notevole a Cristoforo Pflugh, per rimoverlo da una tresca lasciva alla quale si era abbandonato in Siena, ed eccitarlo ad andarsene con lo Scioppio che preparavasi a partire per la Germania[474].—Ma importantissime riescono per la nostra narrazione le lettere che in questo periodo il Campanella scrisse al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi d'Austria, e che lo Scioppio dovea far ricapitare o presentare personalmente. Esse vennero scritte senza dubbio nel 1607, come risulta dal vedere che il Campanella vi si dichiara sempre carcerato «da 8 anni»; e può dirsi anche essere state scritte tra il giugno e il luglio, poichè quella diretta al Re, scritta prima delle altre, reca nell'elenco delle opere «La esamina di tutte le sètte» etc. ossia l'Ateismo debellato allora appunto condotto a termine. La lettera al Re fu scritta prima, giacchè trovasi menzionata nelle altre. Prendendo sempre le mosse da' futuri eventi, lusingando con la Monarchia universale che dovea verificarsi, rifacendo come altre volte la storia delle cose di Calabria, non negando ed anzi giustificando la simulazione della pazzia, dichiarando di trovarsi aggravato dai vassalli di S. M. che non volevano nè udirlo nè consegnarlo al Papa, perchè «temevano che lo liberasse subito», si appellava a S. M., e per la solenne occasione della nascita del felicissimo Principe (intend. della futura nascita del Principe che accadde in ottobre, venendo alla luce l'Infante Ferdinando che fu poi il Card.le Infante) chiedeva la grazia di essere ascoltato secondo la legge. Ricordava di avere scritto la Monarchia di Spagna, i Discorsi ai Principi d'Italia, la Tragedia della Regina di Scozia, annunziava di avere autorità come S. Giovanni e miracoli più grandi di quelli di Mosè; pregava quindi che lo facesse venire innanzi a lui e al suo Consiglio, terminando con l'elenco delle promesse anche accresciute, come pure con l'elenco delle opere che avea composte, ed aggiungendo che lo lasciasse dar prove celesti degli avvisi celesti almeno in Roma[475]. Poi dovè scrivere ancora le due lettere latine [Pg 403] all'Imperatore e agli Arciduchi di Austria, che lo Scioppio avrebbe presentate mostrando in pari tempo le opere da lui avute, non che le copie della lettera scritta al Re e di quella scritta al Papa e a tutti i Cardinali, «da doversi consegnare, se il timore non trattenga pure l'Angelo suo» (non aveva mai cessato di sperare che lo Scioppio l'avrebbe consegnata, smettendo il «timore» che lo tratteneva). In entrambe queste lettere egli press'a poco ripeteva le cose stesse tante volte dette, i segni da lui studiati, le opere composte per tale circostanza, le imputazioni avute di «volere usurpare il Regno» e di essere eretico, l'aver trovato salvezza con la pazzia, l'essere stato posto in una fossa, l'avere scritto cose mirabili e il doverne dire a voce molte di più. In ultima analisi poi, all'Imperatore chiedeva che lo facesse venire in ceppi innanzi a lui, dannandosi al fuoco se si fosse trovato mendace, ovvero procurasse di farlo andare presso il Papa o almeno presso il Re Cattolico; agli Arciduchi chiedeva di adoperarsi presso il Re, perchè volesse udirlo o farlo udire dal Papa o dall'Imperatore, sempre dannandosi al fuoco se fosse trovato mendace, ed additando lo Scioppio che avrebbe mostrato le opere e le lettere da lui scritte, e molte altre cose avrebbe esposte a voce. Ognuno avrà notato, che dalla prima all'ultima sua mossa la dimanda continua del Campanella fu sempre quella di essere ascoltato: anche dopo di avere scritto tante opere che potevano farlo ben conoscere nel senso in cui voleva essere conosciuto, egli non rifinì dal voler essere ascoltato; e perfino in una delle sue lettere allo Scioppio[476], dopo di avergli detto che i proprii libri di Metafisica gli sarebbero parsi scritti da un Angelo e non da un uomo, essendo superiori a tutti gli altri «che aveva già ricevuti», soggiungeva, «ma quando mi udrai faccia a faccia, terrai a vile anche gli stessi miei libri di Metafisica» (ciò che prova pure non aver mai avuto lo Scioppio tale occasione). Per intenderlo, bisogna ricordarsi della prepotente efficacia del suo discorso, attestata in ogni tempo e dalle persone più diverse, a cominciare dal povero Maurizio, che lo provò in Calabria e disse, «quando parla, ritira ognuno dove vuole», a finire a Vincenzo Baronio, che lo conobbe negli ultimi anni in Parigi e scrisse, «maior fuit impetu ingenii, quod in conversationibus eminebat, et in libris obscurum est et pene extinctum»[477].

Nell'agosto o forse nel settembre 1607 lo Scioppio partiva per la Germania fermandosi un poco in Venezia: l'Epistolario romano ha una sua lettera da Venezia in data del 22 settembre d.to anno, e poi ne ha anche un'altra posteriore da Ratisbona, in cui egli dice [Pg 404] aver portato dall'Italia una malattia dell'intestino retto cagionatagli dall'aver mangiato troppo melloni ed altre frutta in Roma; da ciò si desume chiaramente che partì da Roma al cadere dell'està. In Venezia egli affermò aver patito fastidii dal Magistrato de' Dieci avendo portato nella sua valigia le opere del Campanella, e più volte poi ripetè di averle tutte date al libraio Gio. Battista Ciotti per farle stampare, senza che costui avesse voluto più nè stamparle nè restituirle, sicchè dovè poi reclamarle per mezzo dell'Ambasciatore Cesareo, nè potè ricuperarle che dopo molto tempo[478]; ed inutilmente anche reclamò gli Antiveneti, e dovè esserne inviata da Napoli un'altra copia, e il Governo Veneto fece proposte volendo acquistar l'opera acciò non si stampasse. Ma su questi fatti, asserti dallo Scioppio e rilevati dal Berti ne' documenti dell'Epistolario romano, accade di dover fare qualche osservazione. È notissimo che in Venezia lo Scioppio fu imprigionato per due giorni ed obbligato a sfrattare, sia perchè tentò di sedurre o spaventare fra Paolo Sarpi, sia perchè venne accusato di essere l'autore di un libello a favore del Papa contro Venezia intitolato «Nicodemi Macri Romani cum Nicolao Crasso Veneto disputatio», siccome leggesi in una Vita di lui pubblicata da lui medesimo col nome di Oporino Grabinio[479]: ponendo in rapporto tale avvenimento co' fastidii avuti per le opere del Campanella, c'è da sostenere che lo Scioppio abbia compromesse queste opere, assai più che queste opere abbiano compromesso lui. Nè riesce facile intendere il suo desiderio di dare alle stampe le opere del Campanella appunto in Venezia e la sua determinazione di lasciarle lì, mentre si era impegnato di mostrarle all'Imperatore e agli Arciduchi, e il Campanella ne avea fatta menzione nelle sue lettere a questi personaggi. Finchè altri documenti non chiariranno tutte queste cose, avremo sempre il dritto di dire che il Campanella aveva ben capito lo Scioppio, e non a torto si doleva di lui, avendolo in sospetto circa le opere consegnategli.—Intanto nell'ottobre il Fugger avea mandato in Italia Daniele Stefano di Augusta, perchè cercasse di far liberare o far evadere da S. Elmo il Campanella a qualunque spesa. Il Fugger dovea professare l'opinione dell'onnipotenza del danaro, e in ciò questa volta s'ingannava. Lo Scioppio, meglio avveduto, stimava che siffatti tentativi avrebbero potuto nuocere, e in realtà il Governo Vicereale non era composto di dormienti; esso aveva le sue informazioni a [Pg 405] tempo e luogo, nè sarebbe arrischiato lo spiegare il tanto protratto rigore di custodia del Campanella per qualche sentore di maneggi di altrettali Papalini accaniti. Ma giova conoscere ciò che lo Scioppio avrebbe preferito: come ci narra il Berti, egli «proponeva che venissero espugnati i segretari col denaro, facendo forza sul loro animo affinchè lo assolvessero, od anche, se non volessero venire fino all'assoluzione, lo proscrivessero dal Regno, purchè finita la causa non fosse poi consegnato all'Inquisizione». Da ciò si vede che lo Scioppio avea già saputo essere stato il Campanella condannato nel tribunale dell'Inquisizione, ma non avea punto capito da chi dovesse venir sentenziato nel tribunale di Stato; poichè non i Segretarii Vicereali avrebbero dovuto sentenziarlo, ma il Nunzio e il Consigliere Baldovieto, nè il Nunzio avrebbe poi lasciato andare il Campanella altrove che nelle carceri dell'Inquisizione di Roma.

In Germania lo Scioppio potè presentare all'Imperatore le lettere del Campanella ma non le opere, per la semplice ragione che non le aveva; poi disse che pure avendole non gli sarebbe stato possibile presentarle, per le proposizioni che contenevano; ma veramente le proposizioni, che a lui parevano compromettenti, si trovavano nelle lettere più che nelle opere. Ad ogni modo dovè persuadersi che l'Imperatore era informato di cose gravi intorno al Campanella, e però egli scrisse da Ratisbona il 19 10bre 1607, e ripetè il 27 febbraio 1608, che poco o nulla doveva attendersi da quel lato. Forse l'Imperatore avea avuto notizia dell'esservi stato certamente un disegno di ribellione coll'aiuto del Turco; e secondo lo Scioppio, gl'italiani medesimi residenti in Praga gli aveano dato cattive informazioni sul Campanella (miseria, come si vede, non nuova). Andò poi ad Oetingen e presentò la lettera del Campanella all'Arciduca Massimiliano, il quale scrisse una commendatizia al Vicerè; e non potendo ancora recarsi a Grätz, mandò là la lettera del Campanella all'Arciduca Ferdinando, il quale dapprima si negò, ma otto giorni dopo scrisse anche lui una commendatizia al Vicerè. Questo affermò lo Scioppio, ed affermò pure di aver mandata la lettera al Re, facendola presentare alla Regina insieme coll'opera della Monarchia di Spagna. Ma si dolse che le promesse fatte in quelle lettere toglievano credito al Campanella, parendo favolose, e se non bugiarde, almeno dettate dalla tetraggine del carcere; nè mancò di rammentare che egli le avea sconsigliate. Maggior fiducia mostrò di avere nelle commendatizie dell'Arciduca Ferdinando, che diceva «suo patrono»; ma conchiuse che non dovesse concepire speranze, che non dovesse confidare, come soleva, più nell'aiuto umano che nel divino; se Dio non voleva esaudirlo, si uniformasse e gli dimandasse la morte! Queste cose lo Scioppio scrisse al Campanella in data del 27 febbraio 1608, e ci sembra veramente che a siffatta lettera abbia dovuto seguire quella del Campanella al Fabre da noi pubblicata, che comincia con le parole, «Mi scrisse il[Pg 406] mio Angelo Scioppio ch'io attendessi all'oratione, che più devo sperar in Dio che negli huomini...; ho fatto a Dio questa oratione, che le mie peccata non sieno impedimento all'attioni Scioppiane» etc.[480]; ci sembra pure che ad una lettera del Fabre allo Scioppio, esprimente il dolore e il timore del Campanella per le dette parole, abbia dovuto seguire quella dello Scioppio al Fabre pubblicata or ora dal Berti, che evidentemente è del marzo 1608 e non 1607, leggendovisi tra le altre cose, «Quod meum officium, quo ut ad mortem aequo animo subeundam se compararet monui, sic interpetratur quasi qui charitatem et opem ei praecidere ac negare voluerim, suo more facit». Lo Scioppio, nella lettera di cui parliamo si mostra ristucco del Campanella e de' suoi sospetti, perocchè il Campanella tornava a dolersi del non essere state le sue opere nè date alle stampe nè presentate all'Imperatore (la qual cosa pur troppo era vera); e ripete ciò che egli ha fatto, e manifesta che il suo patrono Ferdinando ha scritto più efficacemente di quanto era lecito sperare, avendo chiesto al Vicerè non il trasferimento ma la libertà del Campanella. Aggiunge per altro che l'invio della lettera è stato ritardato; che tutti dubitano se sia bene farlo mettere in libertà, essendo lui andato tanto innanzi con la sua pazzia, da credersi un nuovo legislatore del mondo e perfino da anteporsi a Cristo, «perocchè Cristo ebbe soli 5 pianeti ascendenti ed egli ne ha 6; queste cose son ventilate dagli amici suoi nelle aule medesime de' Principi, e non può dirsi quanto abbiano alienato da lui gli animi loro». Infine non dispera, e vuole che sieno trascritte compiutamente le opere della Metafisica e de' Profetali, acciò possano mandarsi quanto prima al suo patrono, in cui ecciterà il desiderio di vederle, proponendosi intanto di presentargli la Consultazione per aumentare i tributi del Regno, che egli, lo Scioppio, ha gustato molto.—Ognuno avrà qui notata la proposizione de' pianeti ascendenti favorevoli, e si sarà rammentato di fra Pietro di Stilo, che deponeva averlo il Campanella saputo da un astrologo delle parti di Germania, conosciuto nel S.to Officio di Roma: la cosa riesce quindi confermata, ma risulta anche chiarito che il Campanella l'aveva invece detto lui a quel tale astrologo (Gio. Battista Clario), forse dopo di essere stato messo sulla via di farne la scoperta dall'astrologo Abramo in Cosenza ed Altomonte. Gio. Battista Clario era tuttavia il Protomedico della Stiria, residente in Grätz presso Ferdinando come si rileva dal libro de' suoi Dialoghi, stampato nel 1606; riesce quindi naturalissimo ammettere che costui principalmente tra gli amici del Campanella abbia manifestate le dette cose nell'aula del Principe, e che molto abbia agito egli pure nel determinare Ferdinando a scrivere in favore del Campanella, mentre conosciamo che alle prime istanze dello Scioppio Ferdinando si era già negato. Sarebbe puerile il credere [Pg 407] che costui, il quale attendeva egualmente la sua stella per ascendere al soglio Imperiale, abbia davvero provato disgusto pel Campanella tanto protetto da' pianeti, e non invece curiosità di fargli indagare anche i pianeti Arciducali: vedremo tra poco lo Scioppio raccomandare al Campanella di volergli manifestare qualcuno dei segreti suoi utili a Ferdinando, perchè questo avrebbe giovato non poco alla sua liberazione, e vedremo anche Ferdinando stesso scrivere al Vicerè di farsi dire dal Campanella questi segreti; era dunque stato tutt'altro che balordo il Campanella a far tante promesse, come lo Scioppio diceva. D'altronde gli Arciduchi solevano annettere molta importanza ai frati predicanti nelle guerre contro i Maomettani, ed anche in questi ultimi mesi, a proposito della canonizzazione del P.e Lorenzo da Brindisi, ci venne rammentato che costui, fondatore de' conventi cappuccini in Praga, Vienna e Grätz, predicò nell'esercito guidato dall'Arciduca Massimiliano contro i turchi, e nella sua lettera agli Arciduchi il Campanella non mancò di dire, «jam paro libellum ad Pannoniae filios contra Macomethum». Aggiungasi che in Grätz gli eretici aveano pure dato molto da fare a Ferdinando, sicchè egualmente da questo lato il Campanella poteva essergli utile come e quanto il Fugger stimava che sarebbe riuscito utile a tutta la Germania; e da un brano di una delle lettere dello Scioppio al Campanella, per verità non molto chiaro, si avrebbe motivo di ritenere che Giorgio Fugger temesse di non poter avere con sè il Campanella qualora fosse stato liberato da Ferdinando[481]. In somma un'idea di tornaconto non mancava in tutti questi protettori, e il Campanella l'avea calcolato con la sua solita avvedutezza, come avea pure previsto che durando a lungo il gioco sarebbe sfumato; ciò forse aumentava la sua impazienza anche più del giusto.

La 1a lettera dell'Arciduca Ferdinando al Vicerè, almeno finoggi, non ci è nota testualmente: sappiamo solo che l'Arciduca scrisse nel principio dell'anno 1608 da Ratisbona, avendolo ricordato egli stesso nella 2a lettera, e che dimandò la liberazione del Campanella, ma l'invio della lettera fu ritardato da un tale che non conosciamo. Tutto induce a credere che in conseguenza di essa, o forse meglio in attesa di essa per prevenire le sollecitazioni, il [Pg 408] Campanella sia uscito dalla fossa, rimanendo per altro sempre in S. Elmo. Una lettera dello Scioppio al Campanella senza indicazione di luogo nè di tempo, ma evidentemente riferibile all'aprile o maggio 1608 come vedremo, comincia col dire, «Godo che le tue cose vadano un pochino meglio», ciò che indica essere avvenuto un cambiamento nelle condizioni del prigioniero in febbraio o marzo. Continua poi col suggerire che scriva particolarmente all'Arciduca Ferdinando, rendendo grazie dell'aver cominciato a gustare il frutto delle sue commendatizie, pregando di richiederlo in ceppi al Re di Spagna, con la promessa di restituirlo quando e dove al Re piacerebbe, e dichiarando che in tre mesi avrebbe fatto molte e così grandi cose a vantaggio dell'Arciduca e di casa d'Austria, da dover confessare che a niun altro egli era tanto debitore quanto allo Scioppio che glie l'avea raccomandato. Aggiunge inoltre voler essere spiegate due opinioni sue che venivano censurate: come mai il Peripateticismo, che avea messo tanta radice nella Chiesa, poteva dirsi empio al punto da ritenere Aristotile precursore dell'Anticristo; perchè mai bisognava affaticarsi a propagare la Monarchia Austriaca, se l'Anticristo era prossimo, e per opinione di molti, poggiata sopra alcune parole di Daniele, appena 45 giorni doveano passare tra la morte dell'Anticristo e il giudizio universale. Aggiunge da ultimo che assai avrebbe giovato comunicargli qualcuno de' segreti che egli possiede in beneficio dell'Arciduca. Come ben si scorge, lo Scioppio riconosceva finalmente che le grandi promesse non alienavano niente affatto gli animi de' Principi, ed anzi, furbo com'era, si disponeva a gustarne lui pure i frutti, espilando sempre; coglieva al tempo stesso destramente l'occasione per essere illuminato sulle maggiori quistioni relative all'Anticristo, suo tentativo continuo di espilazione. In fondo poi, il consiglio che dava al Campanella, circa il modo di scrivere all'Arciduca Ferdinando, era identico a quello che il Campanella aveva posto in atto presso l'Imperatore; non avea potuto riuscire presso l'Imperatore, ma conveniva tentarlo presso Ferdinando.—A questa lettera dello Scioppio dovè certamente seguire quella che reca la data del 13 giugno senza l'anno, e poi ancora l'altra in data del 7 novembre egualmente senza l'anno, entrambe da noi pubblicate[482]; giacchè vi si trovano riprodotte intere frasi dello Scioppio, vi si parla del doversi ricorrere del tutto all'aiuto del patrono Ferdinando, vi si risponde a' quesiti proposti. Nella 1a lettera il Campanella dà la spiegazione de' tempi dell'Anticristo e del Peripateticismo che considera come uno de' capi dell'Anticristo medesimo, distinguendo in questo 7 capi, 7 corna, ed anche una coda rappresentata da Gog e Magog, con molte altre particolarità atte a solleticare maggiormente la curiosità dello Scioppio: ma non si occupa della quistione de' 45 giorni, che interessava personalmente [Pg 409] il suo interrogante come si vide in sèguito e come egli avea capito fin da principio; si duole del resto di non aver potuto mandare i Profetali, facendone nascere sempre più vivo il desiderio, e cerca infine qualche sussidio per gli alimenti e la trascrizione de' libri. Ma l'importante per noi è che riconosce doversi riporre ogni speranza in Ferdinando, per opera del quale solamente vede farsi sempre più sereno, mentre da niun altro c'è da sperare; e ripete che deve ottenersi da Ferdinando il suo trasferimento in ceppi presso di lui per tre mesi, manifestando che il Papa non aveva potuto ottenere nè il trasferimento suo a Roma nè la terminazione della causa de jure in Napoli (la quale notizia non saprebbe dirsi donde gli fosse venuta). Nell'altra lettura poi si rileva qualche cosa di più. Lo Scioppio, irritato, non rispondeva già a molte lettere del Campanella, principalmente perchè il filosofo sospettava sempre che egli volesse farsi bello con le opere sue; ma gli premeva di sapere come dovesse interpetrarsi la faccenda de' 45 giorni successivi alla morte dell'Anticristo, poichè il Re d'Inghilterra lo aveva confutato e deriso circa tale fatto; si era quindi rivolto a fra Serafino di Nocera perchè procurasse una risposta dal Campanella, dicendo con furberia che la confutazione cadeva meno sopra di sè che sopra lo Squilla, il quale ammetteva doversi verificare dopo l'Anticristo la Monarchia de' Santi, e però, laddove non producesse argomenti capaci di sodisfare, egli ne avrebbe deriso i Profetali (è manifesto che i Profetali gli aveano toccato il cuore). Questa lettera a fra Serafino era stata scritta il 23 ottobre e giunse nelle mani del Campanella il 7 novembre, d'onde si potrebbe desumere che lo Scioppio si trovasse pur sempre in Germania; ma forse qualche circostanza estranea impedì un sollecito arrivo della lettera, essendo ad ogni modo indubitabile, per notizia tratta da una lettera dello stesso Scioppio scritta assai più tardi a Cassiano del Pozzo e da noi pubblicata, che il 1608 egli tornò a Roma in qualità di Ambasciatore Cesareo per menare innanzi la lega Cattolica, e siffatta circostanza non deve sfuggire. Il Campanella, nella sua risposta, si duole della freddezza dell'amico, e soggiunge, «abbastanza in addietro hai fatto per me, se non vuoi far altro, nessuno ti costringerà»; ma avendo lo Scioppio affermato essere facilissimo e spontaneamente offerto dal suo patrono il trasferimento «ad urbem», dice che lo gradirebbe assai, amando meglio morire in grembo alla Chiesa che essere ben nudrito in mano di nemici, e soggiunge, «non dire di non poterlo fare, poichè altrimenti riterrò essere stato uno scherzo quanto hai professato di aver fatto per me» (forse si alludeva al trasferimento da S. Elmo nella città di Napoli, ma piuttosto a quello da Napoli a Roma, essendo oramai certo che lo Scioppio non credeva utile quest'ultima maniera di trasferimento, perchè il Campanella sarebbe stato rinchiuso nelle carceri del S.to Officio, e ne sarebbe rimasto contrariato il Fugger che lo voleva presso di sè). Del resto, quanto alla Curia Romana, il Campanella dice con disdegno ed alterigia,[Pg 410] «cessino di augurarmi il peggio in Roma; la terra tollera più facilmente un Sole che due» (parrebbe che in Roma avessero conosciuto gli sforzi che si facevano in Germania per averlo colà, ma non li avessero punto approvati, e il Campanella avea dovuto persuadersi non esservi per lui alcuna simpatia nella Curia, ma invece una decisa avversione). Chiarisce poi la quistione de' 45 giorni successivi alla morte dell'Anticristo, ed accenna che per lui questo tempo è di molti secoli, facendo avvertire la necessità di distinguere i capi e la coda dell'Anticristo, la necessità di bene interpetrare i tipi e i postipi, il trigono nel tetragono, i fini latenti negli esordii (un mucchio di particolarità astruse); ed aggiunge, «i Profetali potrebbero ora servire, dì al Papa che comandi si portino a lui, e forse io pure sarò trasferito con essi»; quindi cerca di rabbonirlo e dice, «ti aspetto fra breve ed avrai ciò che desideri da me» (le quali circostanze menerebbero tutte a far ritenere che lo Scioppio già si trovasse in Roma), ed infine chiede che gli mandi il libro del Re d'Inghilterra, perchè risponderebbe egli medesimo, e questo forse gli profitterebbe di più (ma non manda niente affatto i Profetali).

Non conosciamo finoggi altre lettere del Campanella allo Scioppio, comunque apparisca possibile che ve ne siano state ancora. Aggiungiamo poi che nell'intervallo scorso tra gl'invii delle due lettere suddette, nell'autunno 1608, dovè accadere la venuta del Fabre a Napoli, nella quale egli «lasciò» al Campanella un quesito Sul Pieno e sul Vacuo; e il Campanella vi rispose, e in fine della sua risposta, che fu da noi pubblicata, disse che stava «più stretto di prima quanto allo scrivere» e che sperava venisse una lettera da Ferdinando, per la quale potesse andare presso di lui; tale circostanza fa determinare con esattezza la data che nella risposta manca, e giova tener presente che a tale data i rigori verso il Campanella non erano del tutto cessati[483]. Bisogna anche dire, secondo le notizie tratte dall'Epistolario romano, che tanto lo Scioppio in Germania quanto il Fabre in Roma aveano cominciato ad occuparsi della traduzione delle opere del Campanella: il Fabre faceva tradurre in latino e in tedesco il Dialogo contro i Luterani, e lo Scioppio, che ne sollecitava l'invio al Fugger, faceva tradurre in latino i Discorsi a' Principi d'Italia ed anche il primo libro degli Antiveneti; ma di tutte queste traduzioni non si vide mai la fine. Del pari non si vide mai la conchiusione della mossa del Campanella presso Ferdinando così come era stata concertata con lo Scioppio, [Pg 411] vale a dire che Ferdinando scrivesse al Re di Spagna di lasciar venire il Campanella in ceppi presso la persona sua per tre mesi: invece se ne ha una lettera al Vicerè in data di Grätz 3 ottobre 1608, con la quale, accennando all'altra sua precedente inviata nel principio dell'anno, dice che, sebbene non gli sia nota la causa della continuazione della prigionia del Campanella, essendo informato che questo soggetto «per la sua rara dottrina può far gran profitto nella religione Cattolica, sì come massime in questi tempi simili persone sono molto necessarie», prega S. E. «di fare gratia al nominato Campanella, liberandolo quanto prima della sua ritentione», ciò che sarà a lui «et a' principali altri, che fanno la medesima instanza, di molto gusto». Come mai Ferdinando desistè dal chiedere il trasferimento del Campanella presso la persona sua? Forse egli seppe che questo non piaceva punto a Roma, dove per lo meno si dovea pretendere che il prigioniero venisse a scontare nel S.to Officio la condanna riportata, onde il Campanella ebbe poi a dire «cessino di augurarmi il peggio in Roma»; forse anche il progetto di far dimandare quel trasferimento fu un semplice artificio dello Scioppio per indurre il Campanella a rivelargli qualcuno de' segreti, de' quali avea dapprima biasimata la promessa. Forse vi fu l'una e l'altra cosa insieme, ma privi della lettura di tutti i documenti noi non siamo in grado di tentarne l'interpetrazione: solo possiamo dire che il Berti assicura essersi dalla lettera ottenuto il semplice trasferimento del Campanella dal Castel S. Elmo al Castel nuovo. Dobbiamo poi aggiungere che vi fu ancora un'altra lettera di Ferdinando al Vicerè, scritta ad istigazione di Giorgio Fugger in data di Grätz 10 maggio 1609, e in questa non si parlò più di liberazione del Campanella, ma invece di due altre cose ben diverse, che meritano di fermare l'attenzione. Ferdinando pregò S. E. in questi termini: «di dar ordine et procurare affine che detto Campanella finisca senza impedimento e dimora i suoi libri della Matematica, d'Articoli profetali et anco della Metafisica. E tanto maggiore sarebbe l'appiacere se mi fossero mandati essi libri, come spero non l' sarà contrario. E poichè molti degni di fede rendono testimonianza et affermano che l'istesso Campanella habbi per il rarissimo suo ingegno et sottil intelletto molte cose di palesare che ridondano in utile et beneficio della M. Cat.ca mio sig. cognato, e della nostra casa d'Austria, sarebbe ben fatto che V. Ecc.za lo facesse venir avanti di sè, et intendesse quelli suoi secreti; si come la prego a farlo per amor mio, et comunicarmi poi quel tanto che l' parerà necessario». A questa lettera il Vicerè avrebbe risposto «che non era in sua facoltà di far uscire il Campanella»: come ognuno vede, tale risposta non ha alcuna relazione con la proposta, e potrebbe intendersi meglio in relazione con la lettera antecedente. Ma ad ogni modo, con l'ultima lettera, a che riducevasi infine la protezione accordata da tutti questi Signori al Campanella? Ad una pura e semplice espilazione e su tutta la linea,[Pg 412] col riconoscimento di qualità superiori nell'uomo di cui s'intendeva carpire le opere e i consigli; e ciò forma il più grande elogio del Campanella, e dovrebbero riflettervi coloro i quali trovano in lui tanti difetti, e cercano sparger dubbî perfino sulla sua capacità e sulla sua dottrina. Con tanti difetti, con tanto poca capacità e dottrina, per sì lungo tempo e con sì grande ardore egli fu stimato in Germania quasi indispensabile per tener fronte agli eretici di quell'età: non è a nostra notizia che parecchi individui siano stati stimati altrettanto[484].

È inutile oramai per la nostra narrazione vedere come anche il Fugger dopo altri tentativi presso la Corte di Madrid, venuto egli medesimo in Napoli nel 1610, si fosse raffreddato definitivamente, e il Fabre e lo Scioppio si fossero persuasi che il Campanella «stava bene dove stava», con accompagnamento anche di dileggi villani e spudorati da parte dello Scioppio: la nozione chiara del disegno di congiura d'accordo col Turco, e il convincimento che varie cose, e tra le altre le apparizioni dì diavoli, fossero [Pg 413] state simulate per uscire dalla prigione, tolsero al Campanella ogni appoggio; ed è indubitabile che cessato questo appoggio, i rigori del carcere furono per lui sempre più mitigati dal Governo Vicereale. A noi importa qui principalmente mettere in luce, che in tutti i maneggi per la liberazione del Campanella non vi fu la menoma partecipazione della Curia Romana. Nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella avevamo combattuta la pretesa «missione Papale avuta dallo Scioppio per trattare la liberazione del prigioniero», ed anche negata la venuta dello Scioppio in Napoli che dicevasi effettuata nel 1608, essendoci costui apparso senza dubbio un protettore del Campanella ma col fine recondito di espilarne le opere: i nuovi documenti datici dal Berti hanno provato che vi fu una venuta dello Scioppio, ma nel 1607, ed hanno confermato appieno che la Curia Romana non contribuì per nulla a' tentativi di liberazione ma forse li contrariò, ne hanno affatto smentito che lo Scioppio fu principalmente un espilatore. La missione Papale avuta dallo Scioppio fu già affermata dal Naudeo, il quale nel Syntagma, a proposito de' libri inviati allo Scioppio, fece dire dal Campanella «omnes jam dictos libros Scioppius a me accepit anno 1608, cum venit missus a Paulo V meam tractaturus libertatem, dedi etiam et Atheismum triumphatum»: e rimarrà sempre un esempio di grande distrazione l'aver voluto trovare nella lettera del Campanella con la data del 1607, posta qual Proemio dell'Ateismo e pubblicata dallo Struvio, la conferma di una venuta che dicevasi effettuata nel 1608; così pure l'avervi voluto trovare la conferma della missione favorevole data allo Scioppio da Paolo V, mentre vi si legge, «Levitae et Sacerdotes pertransierunt me absque benedictione..., jacebam prastolans mortem sicut Elias sub junipero, tu autem tanquam Angelus me ad vitam excitasti, sed subcineritium panem non attulisti, in cujus fortitudine me usque ad Oreb faceres ambulare». Il Campanella in una prefazione a nomo del tipografo, apposta alla ristampa dell'opera De Sensu rerum fatta in Parigi il 1637, disse che al pari di Tobia Adami e Rodolfo di Bima venuti in Napoli il 1613, anche lo Scioppio si aveva procurate dagli amici tutte le opere che egli avea composte «in anno 1608»; ma in una data più vicina a questa di cui trattiamo, nel 1631, quando potè pubblicare per la prima volta in Roma l'Ateismo debellato, nella prefazione disse, «misi hunc libellum amico ut proficeret in Germania, anno Domini 1607, multosque libros meos»; nè in alcuno di questi due brani parlò mai della missione data allo Scioppio da Papa Paolo. Il Naudeo, che fu il vero redattore del Syntagma, venne forse tratto a scrivere ciò che scrisse, rilevando l'anno dal primo de' due brani suddetti, ed aggiungendo la circostanza della protezione del Papa pel gusto inopportuno di recar gloria al Papato e vantaggio alla riputazione del Campanella: egli avea già fatto lo stesso scrivendo il celebrato Panegirico ad Urbano VIII, in cui non solo esaltò questo Papa qual[Pg 414] protettore del Campanella, ma anche Gregorio XV, Paolo V, e perfino Clemente VIII, che aveva certamente inaugurato l'abbandono del filosofo nelle mani degli spagnuoli. Ma, al solito, lo stesso Naudeo parlò nuovamente della venuta dello Scioppio a Napoli in una lettera privata diretta appunto a lui, che fu pubblicata dopo la sua morte e che noi non mancammo di ricordare; e in questa lettera parlò ben diversamente dello scopo della venuta a Napoli, riducendolo alla semplice voglia di vedere il Campanella, senza alcuna missione Papale. «Neapolitanum iter, quod ejus tantum invisendi gratia susceptum a te fuit»; e del resto per non mancare all'abitudine dell'elogio continuo, vero o falso, il Naudeo aggiunse essere stato dallo Scioppio procurato al prigioniero l'assegno di una non mediocre quantità di danaro per vitto e la concessione di una somma libertà, i quali beneficii sappiamo veramente essere stati goduti dal prigioniero alcuni anni dopo[485].—Non paia eccessivo questo trattenerci a lungo sul fatto della missione Papale: se ci fossero elementi capaci di accreditarlo, il fatto riuscirebbe sufficientemente grave; e per esso appunto siamo entrati ne' tanti e tanti particolari di ciò che avvenne dal 1607 in poi, giacchè altrimenti ci sarebbe bastato dire che il Campanella non trovò ascolto favorevole alle sue dimande nè in Roma nè in Spagna, in nessuna delle due parti che avrebbero potuto realmente dare un termine a' suoi guai. Qualora avesse dovuto accogliersi il fatto di una missione di Paolo V «per trattare la libertà del Campanella» od anche una partecipazione di Paolo V a' maneggi altrui per farlo uscire in libertà, sarebbe apparso molto naturale essere state mandate buone al Campanella le ragioni da lui addotte in difesa presso la Curia, circa la congiura e l'eresia, essersi riconosciuta ne' guai del Campanella una pura e semplice soperchieria di Spagna: per verità questo non avrebbe scosso dalle fondamenta ciò che abbiamo esposto massime intorno alla congiura, mentre la Curia mille volte pretese essere stati calunniati i delinquenti sol perchè clerici; ma avendo spesso abbandonato gl'imputati ecclesiastici anche appena sospetti, ogni qual volta trattavasi d'imputati politici, sarebbe sempre rimasto un motivo di dubbî e di perplessità. Invece è chiaro che Paolo V, già guarito della mania dell'immunità ad ogni costo dopo la faccenda di Venezia, avrebbe potuto solamente reclamare dal Governo Vicereale che si pronunziasse una volta la sentenza nella causa della congiura in persona del Campanella, la qual cosa nemmeno il filosofo desiderava, ma non mai trattare perchè egli fosse posto in libertà. Essendo stato dal suo antecessore, con un Breve in piena regola, istituito un tribunale ecclesiastico speciale in Napoli, non avrebbe potuto seriamente esigere che il Campanella fosse stato giudicato dal tribunale Romano com'egli dimandava: è superfluo poi dire quanto grave sarebbe [Pg 415] riuscito l'accogliere l'altra dimanda del Campanella, l'annullamento di un giudizio di eresia, menato innanzi con tutta la solennità possibile, sotto l'ingerenza continua della rispettiva Congregazione Cardinalizia preseduta dal medesimo Papa antecessore. Ed appunto perchè vi era stata una condanna in siffatto giudizio, riesce chiaro che il Papa avrebbe sempre dovuto esigere che il Campanella, non appena uscito dal carcere di Napoli, l'espiasse, e non andasse già a predicare contro gli eretici, mentre con quella condanna egli medesimo era stato implicitamente dichiarato un eretico: sotto tale rispetto è pure da notarsi che lo Scioppio, consapevole della condanna e tanto svisceratamente attaccato al Papa e alle istituzioni Cattoliche, vi si sia mostrato davvero tanto poco ossequente; ma vediamo anche oggi dove vada per solito a parare lo sviscerato attaccamento al Papa e alle istituzioni Cattoliche.

Inutili dunque riuscirono gli appelli, le suppliche, le lettere del Campanella, e gli sforzi de' suoi protettori, compresi quelli attuati per mezzo dello Scioppio, non approdarono a nulla: egli rimase nel carcere, dove i rigori furono ulteriormente mitigati sempre, ma non si venne mai più alla sentenza, essendosi poi col tempo perfino disperso o bruciato il processo, sicchè, anche volendo, non si sarebbe potuto sentenziare. E vogliamo dire che egli non cessò mai di serbare viva gratitudine verso coloro i quali si adoperarono per lui, verso lo stesso Scioppio, sebbene avesse avuto ragione di convincersi che si era servito delle opere trasmessegli per comporre le proprie. Appunto nella prefazione dell'Ateismo debellato stampato nel 1631, ricordando di aver mandato «ad un amico» quel libro con molti altri, il Campanella aggiunse, «quibus ad suorum compositionem profecit», ed augurò all'Ateismo «meliores fructus apud veritatis et non propriae gloriae cultores»: nella prefazione poi della ristampa parigina dell'opera De Sensu rerum, nel 1637, lodando Tobia Adami che gli si era mostrato fedele nell'aver procurata la pubblicazione delle opere avute, e menzionando lo Scioppio ed altri tedeschi e francesi, che avute le opere «nulla fecero per la gloria dell'autore», aggiunse «nisi Scioppius pro vita in principio». Così fino agli ultimi anni suoi il Campanella, ricordando il male, non dimenticò il bene, e ciò prova la bontà della sua natura, la quale del rimanente è attestata anche da varii altri fatti memorabili: basta considerare la difesa di Galileo Galilei, che scrisse mentre si trovava tuttora nel carcere di Napoli, e la difesa di Girolamo Vecchietti, che sostenne con pieno successo quando se lo trovò a lato nel carcere del S.to Officio in Roma[486]. [Pg 416] Le speranze di prossima liberazione lo tennero inerte per molto tempo. Dopo di aver menato a termine febbrilmente le opere da doversi trasmettere allo Scioppio, scrisse soltanto gli opuscoli epistolari che abbiamo menzionati: gli ultimi tra questi, riferibili al 1608, furono gli opuscoli Sul Peripateticismo e Sul tempo successivo alla morte dell'Anticristo, che forse rappresentano le risposte al Re d'Inghilterra delle quali si trova fatta menzione nel Syntagma, ed inoltre quello Sul Pieno e sul Vacuo diretto al Fabre. Al sèguito di essi si può mettere quello Per l'Abate Persio sull'uso della bevanda calda, che dovè essere di maggior mole e vedesi già preconizzato nell'opuscolo antecedente Sul calore estivo: esso apparisce riferibile a questo periodo, nel quale certamente il Campanella trovavasi in assidua corrispondenza col Persio, come mostra l'ultima sua lettera al Fabre tra quelle da noi pubblicate; ma bisogna anche dire che vi furono molti opuscoli e lettere all'indirizzo de' Fuggers, secondochè risulta dalla menzione fattane nel Syntagma. Compose inoltre senza dubbio molte poesie di dolore o di sdegno pubblicate poi dall'Adami, delle quali riesce di poter determinare talvolta la data precisa e più sovente la data approssimativa, sia dietro qualche circostanza che vi si vede notata, sia dietro qualche riproduzione di pensieri che si trovano espressi nelle lettere e nelle opere di data conosciuta. P. es. non si può dubitare che l'«Elegia al Sole», composta quando stava ancora nella fossa, debba dirsi della fine di marzo 1607, poichè vi si parla del sole in ariete e del tempo in cui Gesù risorse, ciò che ci mena alla Pasqua di risurrezione del 1607, sapendosi che in quest'anno veramente la Pasqua si celebrò col sole in ariete il 26 marzo, mentre nell'anno anteriore e nel posteriore si celebrò in aprile; dippiù vi si trova quel pensiero che fu poi riprodotto nella lettera a Mons.r Querengo del luglio 1607:

«Le smorte serpi al tuo raggio tornano vive,
invidio misero tutta la schiera loro».

Ancora il pensiero che trovasi nella stessa lettera, l'esser cioè il povero prigioniero «un meschino condannato dall'opinione popolare e di Principi, come il più empio e malvagio che fosse mai stato nel mondo», ci apparisce quello che ispirò i Sonetti «Della plebe» ed «A certi amici, ufficiali e Baroni» etc.; ma perfino le lettere al Papa, oltrechè l'Ateismo debellato, recano pensieri [Pg 417]posti del pari in versi quasi letteralmente, nè possiamo far altro qui che indicare tale criterio per la ricerca delle date. E poichè abbiamo citati que' due Sonetti, vogliamo pur dire che nell'uno «Della plebe» il sentimento di un legittimo disgusto ci apparisce fin dal titolo predominante su quello della compassione, e nell'altro «A certi amici» il contesto di tutta la proposizione, là dove si dice che «un piccol vero gran favola cinge», non rende queste parole applicabili propriamente alle imprese tentate in Calabria, come è parso ad un egregio storico; nè sappiamo poi resistere alla tentazione di ricordare qui l'aurea sentenza che vi si legge, e che non è riferibile propriamente alla plebe, da cui il Campanella professava non potersi trar nulla, bensì riferibile a coloro che vanno per la maggiore:

«Nè il saper troppo come alcun dir suole,
ma il poco senno degli assai ignoranti
fa noi meschini e tutto il mondo tristo».

Ma ciò che qui principalmente c'interessa di ricordare si è, che tutte queste poesie insieme con le altre scritte posteriormente fino al 1613, come pure le note delle quali vennero corredate dallo stesso Autore, sebbene fossero state soggette ad una scelta e non col solo criterio del merito filosofico e letterario, bensi con quello pure della convenienza politica e giudiziaria, costituiscono pur sempre un fonte prezioso di ricerche sugli atti e sugl'intendimenti veri del Campanella, le notizie de' quali doverono sottostare a tanti garbugli. Come da un lato la Città del Sole mostra le idee riposte del Campanella, così questa Scelta delle Poesie filosofiche con l'esposizione, studiata con amore ed accorgimento, rivela notizie importanti e testimonianze autentiche ben capaci di stare a fronte alle testimonianze del pari autentiche ma in senso affatto diverso: nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella, a proposito della edizione Adami da noi trovata e studiata nella Biblioteca de' PP.i Gerolamini, ci si è offerta l'occasione di fare alcune considerazioni su tale proposito, e ad esse rimandiamo i nostri lettori[487].

Abbiamo detto che secondo le notizie tratte dall'Epistolario romano il Campanella sarebbe uscito dalla fossa di S. Elmo, rimanendo sempre in quel Castello, verso il febbraio o marzo 1608, dopo che era stata scritta la 1a lettera dall'Arciduca Ferdinando nel gennaio: noi eravamo pervenuti allo stesso risultamento con calcoli fatti sopra una notizia, per altro poco chiara, che trovasi nella nota posta in coda alla Canzone «Della Prima Possanza»[488]. Quivi si legge che egli uscì dalla fossa, in cui stava quasi disfatto, otto mesi dopo di avere scritta quella Canzone, «sebbene ci stette tre anni ed otto mesi»: il «sebbene» rende poco chiara la notizia, [Pg 418] ma ritenendo l'entrata nella fossa avvenuta in luglio 1604 secondo i còmputi altrove esposti, e aggiungendovi tre anni ed otto mesi, abbiamo che, mentre la Canzone fu scritta in luglio 1607, l'uscita dalla fossa dovè accadere verso il marzo 1608; ed è superfluo fare avvertire come rimanga provato sempre meglio che la data dell'entrata nella fossa deve dirsi quella da noi stabilita. Importerebbe poi conoscere con precisione la data del trasferimento dal Castel S. Elmo al Castel nuovo, e finora si ha in modo vago che il trasferimento sarebbe accaduto dopo la 2a lettera di Ferdinando, vale a dire dopo l'ottobre 1608: dal Syntagma si ha dippiù che nel 1611 era già accaduto un altro trasferimento dal Castel nuovo al Castello dell'uovo. La conoscenza della data precisa del 1o trasferimento, dal Castel S. Elmo al Castel nuovo, importerebbe anche per fermare una circostanza fondamentale, capace di contribuire al chiarimento di un fatto della vita intima del Campanella, che è affermato dalla tradizione ma che potrebb'essere piuttosto leggendario. Alludiamo alla nascita di quel grande che fu Gio. Alfonso Borrelli, alla cui memoria si vedrebbe già elevato in Napoli un monumento, se vi fosse, come vi dovrebb'essere, il culto della dottrina e della virtù; è noto che verso questo tempo egli nacque nel Castel nuovo, e che una tradizione vorrebbe fosse nato dal Campanella[489]. Aggiungiamo poi che tanto nel Castel S. Elmo, quanto nel Castel nuovo e del pari nel Castello dell'uovo, il Campanella, assomigliandosi a Prometeo, continuò sempre a dire di trovarsi «nel Caucaso»; altre volte disse di trovarsi [Pg 419] «nella Ciclopèa caverna»; questo rilevasi dalle Lettere e dalle Poesie. Perchè mai il Campanella si assomigliava a Prometeo? In molte sue lettere egli si riconobbe colpevole di aver voluto servire alla rivelazione de' tempi, e così essendo le cose dovrebbe intendersi avere avuta la sorte di Prometeo per aver voluto scrutare ed annunziare agli uomini i pensieri di Dio, gli eventi ordinati da Dio. Ma nella lettera allo Scioppio pubblicata dallo Struvio parlò esplicitamente della sua condizione di Prometeo, consegnando l'opera dell'Ateismo debellato con queste parole: «Eia mi Scioppi, cape facellam hanc, in pectoribus hominum interclude, si forte ex ruderibus fiant animalia, ex animalibus homines; tibi debetur hoc munus, qui hujus saeculi es aurora; ego tanquam Prometheus in Caucaso detineor, quoniam non rite hoc functus sum munere, abusus sum donis ejus, ebibi indignationem ejus». Intanto nella lettera medesima lo Scioppio era sospettato tutt'altro che l'aurora del secolo, e quindi ognuno, tenendo presente l'alto concetto che il Campanella aveva di sè e della sua missione nel mondo (principale ragione di fargli desiderare la vita), ammetterà piuttosto che siasi rassomigliato a Prometeo nel senso della trilogia di Eschilo: aver concepito disegni divini, riflessi del Primo Senno, ed essersi sforzato d'infonderli ne' petti umani; venir punito «per avere troppo amato gli uomini»; aspettarsi un giorno la liberazione e il trionfo. Su questo ultimo fatto non cade dubbio, sapendosi dalle sue Poesie che egli sperava doversi al termine del suo carcere gridare «Viva, Viva Campanella»; sicchè da tutti i lati emerge abbastanza chiara anche la vera condizione sua per la quale ritenevasi punito, conforme a quella dichiarata dal Prometeo d'Eschilo:

Τὸν Διὸς ἐχθρὸν, τὸν πᾶσι θεοῖς
δι' ἀπεχθείας ἐλθόνθ' ὁπόσοι
τὴν Διὸς αὐλὴν εἰσοιχνεύσιν
διὰ τὴν λίαν φιλότητα βροτῶν.

Certamente poi bisogna del pari intendere con le nozioni dateci da Omero quell'arguta versione tra le tante, che lo stesso Campanella fornì circa il termine della sua condizione di Prometeo o l'uscita dalla Ciclopèa caverna: tale versione si legge nella sua lettera a Pietro Seguier, posta innanzi all'opera intitolata Disputationum Philos. realis lib. quatuor Paris. 1637, ed essa, a parer nostro, avrebbe dovuto fermare moltissimo l'attenzione de' biografi del filosofo. Parlando degli ergastoli, ne' quali i persecutori, «gl'ingrati padroni», l'aveano tenuto «gratis», il filosofo dice che non avrebbe mai pubblicato le opere in essi composte, «nisi Deus per miraculum longe mirificentius quam astutum facinus Ulyssis, quod de antro Polyphemi fecit ut exiret, me liberasset». Si comprende che il titolo d'«ingrati» dato a' padroni, naturalmente tanto laici quanto ecclesiastici, è consentaneo all'atteggiamento preso dal filosofo[Pg 420] dopo la carcerazione e mantenuto per tutto il resto della sua vita; ma in ultima analisi questi padroni rappresentavano per lui Polifemo, e coll'aiuto di Dio egli ne scampò mediante un «astutum facinus longe mirificentius» di quello di Ulisse, vale a dire che astutamente, e in una sfera ben più elevata, egli li ubbriacò, li accecò, e riuscì a salvarsi ponendosi in branco tra le pecore, aggrappato bravamente agli egregi velli del pecorone massimo (storia che non ha bisogno di commenti e che dice anche troppo):

ἀρνειὸς γὰρ ἔην, μήλων ὄχ' ἄριστος ἁπάντων,
τοῦ κατὰ νῶτα λαβὼν, λασίην ὑπὸ γαστέρ' ἐλυσθείς
κείμην· αὐτὰρ χερσὶν ἀώτου θεσπεσίοιο
νωλεμέως στρεφθεὶς ἐχόμην τετληότι θυμῷ.

Una simile proposizione, anche figurata, emessa quando già non c'era più nulla a temere e tanto meno a sperare da tutti i lati, riesce degna di fede incomparabilmente più di tutte le altre emesse in tempi ben diversi: e questo criterio vale senza dubbio per giudicare le cose dette sì dal Campanella che da' suoi più intimi amici circa le cause delle sue sciagure; poichè non mancano neppure proposizioni di qualche suo intimo amico, attestanti piena innocenza quando gravi riguardi imponevano di parlare in tal modo, ed attestanti tentativi di nuovo Regno e di nuova religione quando non c'era da usare riguardi e poteasi dire la verità senza danni.

Il nostro compito è esaurito; dobbiamo solamente fermarci ancora un poco su due quistioni, che senza dubbio saranno sorte nell'animo de' lettori, i quali per avventura abbiano seguito con interesse il corso di questa narrazione. Perchè mai il Governo Vicereale volle comportarsi così brutalmente col Campanella, costituendosi anche dal lato del torto, mentre avrebbe potuto ottenerne dal tribunale Apostolico la condanna all'ultimo supplizio? Perchè mai il Governo Vicereale volle far soffrire al Campanella il martirio di oltre un quarto di secolo, e la Curia Romana, tanto lesta ed ardita nell'esigere il rispetto delle prerogative degli ecclesiastici, non ebbe alcun sentimento o per lo meno alcun sentimento efficace della tutela di queste prerogative in persona del Campanella?

Circa la prima quistione, a noi sembra evidente che sulla determinazione del Governo abbiano avuto ad influire dapprima il sospetto e la diffidenza, poi anche il puntiglio giurisdizionale, in sèguito la sconvenienza assoluta di un supplizio tanto ritardato. Coi criterii d'oggidì sarebbe quasi impossibile intenderlo, ma è necessario riportarsi a' criterii del tempo. Il sospetto e la diffidenza, che aveano sempre campeggiato in questa causa per una lunga serie d'incidenti, doverono al termine di essa destarsi con maggiore intensità. C'era il gusto della soverchieria anche tra' Governi, e l'abilità si faceva consistere nel soverchiare. Poteva darsi il caso, veramente improbabile ma non impossibile, che all'ultima ora da[Pg 421] Roma fosse stato insinuato al Nunzio il risparmio della vita del Campanella, con la condanna p. es. alla galera in vita; l'altro Giudice, compagno del Nunzio, si sarebbe invece pronunziato per la pena di morte; chi avrebbe allora dovuto risolvere la discrepanza? E risoluta la discrepanza nel senso della galera in vita, come si sarebbe scansata la richiesta dell'invio del condannato a Roma, per remigare sulle galere di S. S.? Quanto al puntiglio giurisdizionale, bisogna considerare le tendenze del tempo veramente incredibili in tale materia, la lotta vivissima e continua, benchè non sempre appariscente, tra Napoli e Roma. In questa lotta, anche più degli spagnuoli, si distinguevano i napoletani, e il Vicerè medesimo, trattandosi di quistioni giurisdizionali, difficilmente riusciva a sottrarsi all'influenza loro nel Consiglio Collaterale; se si avesse, come sarebbe a desiderarsi grandemente, una storia di questo Consiglio, riuscirebbe manifesto che i Consiglieri napoletani, serbando tutte le possibili forme di devozione e di ossequio, in sostanza erano i più diffidenti e puntigliosi verso Roma; tra le scene di servilismo più abietto, le quistioni con Roma avevano il potere di far lampeggiare in essi il patriottismo più rovente. Così a ragion veduta, anche a proposito degl'indegni trattamenti a' quali il filosofo venne sottoposto, noi abbiamo parlato di Governo Vicereale più che di spagnuoli e Corte di Spagna, contro cui sono stati sempre esclusivamente diretti i biasimi e i vituperii, sapendo che il Vicerè dovè udire l'avviso del Consiglio Collaterale negl'incidenti della causa del Campanella[490]. E pur troppo Roma avea data occasione a' puntigli: durante la causa, i superbi «comandamenti di S. S.» erano venuti in campo abbastanza sovente, ma l'ultimo di essi, quello di far sentenziare dal solo Nunzio in una causa di Stato mentre si era pure convenuto altrimenti, sorpassava davvero ogni limite. Bisognava dare una risposta a Roma, e la risposta fu atroce, quantunque in forma più che modesta e affatto calma. Roma la comprese perfettamente e non parlò più, ma bisogna pure ammettere che essa venne ad accomodarvisi di buon grado: riuscirebbe altrimenti inesplicabile l'aver potuto tollerare in pace, nè per breve tempo bensì per anni, la violazione perfino di quanto si era convenuto fin da principio, di doversi cioè tenere il Campanella in carcere, egualmente che tutti gli altri ecclesiastici, a nome ed istanza del Nunzio, come prigione di lui; e ciò mentre quotidianamente per ogni menomo clerico, ancorchè malfattore de' più feroci, fioccavano i suoi reclami laddove si fosse verificata la più lieve infrazione dell'immunità ecclesiastica. Non occorre poi spendere molte parole per dimostrare, che essendo scorsi già varii anni dal momento del reato e della cattura del reo, al Governo doveva ripugnare l'esecuzione di una pena capitale, massime in persona [Pg 422] di un ecclesiastico. Trattandosi di reati gravi, non appena il voluto reo era caduto nelle mani della giustizia, per canone indeclinabile si abbreviavano i termini in modo spietato, e si preferiva di andare incontro ad una condanna meno giusta, anzichè ad una condanna tardiva: la prontezza ed esemplarità della pena era ritenuta una condizione tanto necessaria, che quasi non occorreva più pensare alla pena allorchè quella condizione mancava. Un cumulo di circostanze, non provocate ma deplorate dal Governo Vicereale, aveano prodotto un ritardo notevole, ed oramai alla pena capitale non si poteva più pensare: si devenne a ciò che dapprima il Campanella medesimo avea proposto come il migliore espediente, il carcere per un tempo indefinito, il quale fu poi anche mitigato, sia pure dietro le potenti commendatizie, e mitigato di certo ulteriormente in modo niente affatto ordinario, ma senza dubbio facendo rimanere negata la giustizia, calpestata ogni maniera di dritto. Tuttavia non deve sfuggire che se in dritto il non essersi proceduto alla sentenza fu una solenne ingiustizia, nel fatto solamente in tal guisa il Campanella riuscì ad aver salva la vita, non potendo dubitarsi che la sentenza del tribunale Apostolico, anche col nuovo Nunzio e col nuovo Consigliere, sarebbe stata sempre la degradazione e la consegna alla Curia secolare e quindi l'ultimo supplizio. Così bisogna pure guardarsi dal maledire l'interruzione della causa, e bisogna piuttosto esser grati alla lotta giurisdizionale, alle superbie, alle pretensioni, alle diffidenze, a' puntigli, all'abbandono; perfino all'abbandono, poichè se Roma avesse insistito su ciò che era veramente un suo dritto, la cosa non sarebbe andata affatto meglio pel povero Campanella, e si è visto che egli medesimo si protestava energicamente che la sua causa non doveva terminare in Napoli.

Circa la seconda quistione, non ci pare dubbio che i due fatti egualmente notevoli, cioè la pervicacia e crudeltà del Governo Vicereale nel non desistere da un'ingiustizia, e l'indolenza e mollezza della Curia Romana nel non reclamare seriamente un suo dritto per anni ed anni, si spieghino solamente con l'opinione divenuta comune ad entrambe le parti, che il Campanella fosse un uomo pericoloso per lo Stato e per la Chiesa. Possiamo aggiungere senza esitazione, che più si mostrava la rigogliosa vitalità del prigioniero, più si veniva a manifestare la sua dottrina, la sua energia, la sua versatilità, la sua vena inesauribile, più doveva egli essere giudicato pericoloso. La cosa merita di essere ben valutata, e gioverà trattenervisi qualche momento.

Lo Stato, che avea veduto sorgere in breve tempo un disegno non lieve di ribellione per la sola parola efficace del Campanella, non potè mai rimanere tranquillo sul conto di lui; e per quanto egli si stemperasse in proteste di devozione, e spiegasse nelle sue opere un grande attaccamento a Spagna, non gli accordò mai fede. Vedendolo poi rivolto a Roma assiduamente, con la teorica del dovervi[Pg 423] essere una sola greggia ed un solo pastore Sacerdote e Re al tempo medesimo, sospettò sempre che una volta liberato avrebbe potuto riuscire nelle mani del Papa una forza notevole. Così dopo una diecina di anni al più, sebbene il Campanella avesse continuato a dire che si trovava nel Caucaso, in realtà sappiamo che il Governo Vicereale lo tenne in carcere da potersi veramente chiamare cortese, come il Baldacchini chiamò il carcere di S. Officio sofferto più tardi in Roma, e con ragione incomparabilmente maggiore, vista la qualità del Governo che a tanto si piegava e il tempo in cui vi si piegava; ma di mandarlo via non volle mai udire a parlare, presago che avrebbe avuto a pentirsene. Gli concesse perfino di tenere insegnamento privato nelle carceri, oltrechè scrivere a sua volontà, porsi in corrispondenza con chi gli piacesse, ricever visite anche da illustri viaggiatori di passaggio per Napoli, e quanto alle opere che componeva, si vide il Nunzio nel 1611 fargli fare una perquisizione ed impossessarsi di quello che gli si trovarono, mentre nulla di simile si vide da parte del Governo. I Vicerè che si successero, il Conte di Lemos figlio, il Duca d'Ossuna, infine anche il Duca d'Alba, ebbero per lui stima e riguardi, più che non ne ebbero i Vicerè ecclesiastici, il Card.l Borgia e il Card.l Zapatta, e fin dal 3 novembre 1616, certamente pe' favori dell'Ossuna, il Campanella potè scrivere al Galilei «sto quasi in libertà»; ma l'uscita dal Castello non gli venne accordata, se non dopo che scorse oltre un quarto di secolo, dopo che il processo si era già perduto da un pezzo, ed un'ulteriore custodia del prigioniero non sentenziato nè sentenziabile si potea dire, più che inumana, vergognosa. La preoccupazione del Governo fu sempre che il Campanella avrebbe potuto riuscire una forza notevole nelle mani del Papa: ce lo ha dimostrato tutto l'atteggiamento da esso preso durante i processi, e ce lo conferma un prezioso documento da noi rinvenuto in Madrid. Perfino poco tempo prima che il Campanella fosse liberato, il Card.l Trexo spagnuolo, ammiratore suo e giudice competentissimo della posizione, gli ricordava le condizioni del Regno a fronte di Roma, gli faceva riflettere che troppo sovente egli aveva ne' suoi scritti lodato l'insolito governo di un Principe che fosse Re e Sacerdote ad un tempo, e soggiungeva: «poni mente a cancellare quest'articolo, o almeno a spiegarlo in un senso tale, che l'animo del Re, il quale non è nè può essere Sacerdote, e le orecchie de' suoi ministri non se ne offendano e ti abbiano ancora in sospetto». Nessuno intanto, speriamo, vorrà supporre in noi l'intenzione di scusare il Governo Vicereale, adducendo le concessioni fatte al Campanella e la preoccupazione che gli vietava di accordargli la libertà: noi, forse più di chiunque altro, siamo convinti che il procedimento del Governo fu non solo iniquo ma anche letale segnatamente pel Napoletano; poichè il colpo gravissimo, inflitto alla cultura e al carattere di un uomo portentoso,[Pg 424] ricadde sulla cultura e sul carattere del paese. Colui che aveva iniziato la sua carriera con la «Filosofia dimostrata co' sensi», ed aveva osato concepire un più che audace progetto di riscossa nei campi dello Stato e della Chiesa, non potè appunto profittare dei suoi sensi, dovè abbondare in fantasie, abbondare anche pur troppo in simulazioni; e parecchi i quali emersero di poi sulla folla degl'ignoranti, essendo accorsi al suo privato insegnamento non appena mitigati i rigori del carcere, ne riportarono naturalmente i molti pregi ma anche i gravi difetti. A noi però incombe il debito di spiegare la condotta del Governo e di mostrare che essa non fu capricciosa. Il Campanella era giuridicamente colpevole verso lo Stato, e venne ritenuto inesorabilmente un pericolo continuo per la Spagna: fu questa la maggiore delle sue glorie, e il Governo vi provvide con quella ferocia che era la sua forza.

Ma al martirio del Campanella non contribuì solamente lo Stato. La Chiesa aveva avuto occasione di conoscerlo già da un pezzo, nè poteva non tener conto degli antecedenti; dapprima un grave sospetto di eresia finito con una solenne abiura, poi varie altre imputazioni dello stesso genere ma riuscite a vuoto, da ultimo un disegno di ribellione d'accordo col nemico del nome Cristiano e un mucchio di eresie, accertati con un processo Apostolico ed un processo Inquisitoriale; c'era più di quanto occorresse, per rimaner sorda alle proteste di devozione, e guardare con diffidenza le opere del prigioniero ancorchè riboccanti di fervore religioso. Come abbiamo dimostrato, la condanna pronunziata dalla Chiesa nel processo di eresia non fu benevola pel Campanella, ma al contrario, e le ripetute istanze fatte perchè si sentenziasse nel suo processo di congiura, dopo di aver dato termine a quello di eresia, non erano dirette a salvarlo. Ignoriamo quali pratiche Roma abbia veramente fatte dopo un lungo, lunghissimo silenzio, a fine di ottenere il passaggio del Campanella almeno sotto l'autorità del Nunzio, come essa esigeva per ogni ordinario delinquente ecclesiastico, e come erasi convenuto fin da principio. Conosciamo soltanto con sicurezza, che pur quando si seppe indubitatamente che il processo della congiura non si trovava più essendo stato disperso o bruciato, come accadde nel 1620 a tempo del Vicerè Card.l Borgia il quale volea vederlo e non lo potè avere, nessun reclamo efficace fu sporto da Roma per uscire da una posizione tanto scandalosa. Conosciamo inoltre che perfino dopo 25 anni di carcere, durante il Pontificato di Urbano VIII, il Campanella chiedeva istantemente che il P.e Generale dell'Ordine facesse una dimanda al Re perchè lo concedesse a' Superiori, come da Spagna si desiderava per uscire dall'imbarazzo: e non avendo potuto ottenerlo, ed essendosi fatto raccomandare al potentissimo Card.l Barberini per questo, ebbe a provare che il Cardinale si acquetò facilmente alla negativa del P.e Generale, e ripetendo una proposizione emessa già dal Fabre e dallo[Pg 425] Scioppio disse che il Campanella «stava meglio dove stava»[491]. Conosciamo infine che dietro le insistenze di Mons.r Massimi Nunzio in Ispagna, fautore particolare del Campanella e carissimo al Re, venne una lettera Regia per lui, e sopra un memoriale da lui presentato si decretò in Consiglio Collaterale non la consegna al Nunzio ma la libertà provvisoria con l'obbligo di risedere nel convento di S. Domenico in Napoli; che di poi, in barba del Governo Vicereale, se ne fuggì travestito a Roma, e quivi scontò tre anni di pena nel carcere del S.to Officio, come era solito farsi pe' condannati al carcere perpetuo, senza che fossero veramente computati i 26 anni di carcere sofferti in Napoli; nè per quanto mite sia stato il carcere di Roma, si può dirlo più mite di quello di Napoli negli ultimi quindici anni, mentre in quest'ultimo era stato permesso fin l'insegnamento, che non fu mai permesso in Roma, non solo dentro, come era naturale, ma neanche fuori del carcere, consecutivamente. Tutto ciò mena a far ritenere che durante la prigionia di Napoli l'abbandono del Campanella fosse dipeso anche dalla sua condizione di delinquente politico, giacchè di simili abbandoni si ebbe pure un altro esempio più spaventoso sotto lo stesso Pontificato di Papa Urbano: è noto come finì l'allievo del Campanella fra Tommaso Pignatelli, reo di Stato in un ordine incomparabilmente inferiore a quello del suo maestro, abbandonato al giudizio di un ecclesiastico gradito al Vicerè nominato dal Nunzio per delegazione avutane dal Papa; egli fu atrocemente strangolato, dopochè quell'ecclesiastico, con la semplice assistenza di un Consigliere Regio, lo sentenziò reo di lesa Maestà, e bisogna tenerlo presente quando si discute de' casi del Campanella. Del resto la sola condizione di condannato per eresia bastava a far sì che Roma si curasse poco o niente del Campanella prigione, e sarebbe strano il pretendere che avesse dovuto mostrare tenerezze per lui. Qui dunque, speriamo, nessuno vorrà attendersi da noi vederci ingrossar la voce contro Roma: noi invece siamo dolenti di ciò che accadde più tardi e che è da tutti glorificato, della benevolenza mostrata al Campanella da Papa Urbano, la quale per verità non fu punto disinteressata, e in ultima analisi finì con la compromissione, con l'esilio, con l'abbandono spietato del filosofo nella più affliggente miseria. Ma pel nostro assunto ci preme ora solamente rilevare e spiegare la condotta di Roma verso il Campanella durante la prigionia. Il Campanella era non solo giuridicamente colpevole ma anche condannato dalla Chiesa, nè giunse ad ispirare fiducia per l'avvenire, e Roma si comportò [Pg 426] con lui non diversamente da quanto doveva attendersi da essa. Così lo Stato e la Chiesa vennero a trovarsi tacitamente d'accordo nel far soffrire al disgraziato filosofo un martirio efferato.

In conclusione ci si permetta ancora di dire, che non solamente due tribunali in regola, entrambi istituiti da Roma, aveano verificata e punita la congiura e l'eresia ne' pochi ecclesiastici più indiziati e non isfuggiti al Fisco, onde rimaneva del pari giustificata l'opera del tribunale pe' laici, ma tutti veramente in quel tempo ammisero esservi state pratiche dirette dal Campanella per fondare, aiutandolo anche il Turco, un nuovo ordine di cose in Calabria, con nuove istituzioni politiche e religiose. Nè solo pel tempo degli avvenimenti, ma anche per più anni consecutivi questa fu l'opinione generale, partecipandovi del pari senza riserva Agenti di altri Stati perfino in momenti di forte irritazione verso Spagna, come si può rilevare da' Carteggi de' Residenti Veneti che si successero nel Regno: se qualche volta si disse, come il Campanella medesimo affermò, che la Calabria era stata macchiata di falsa ribellione e straziata per questo, si volle intendere che tutta quella regione era stata tenuta responsabile di un fatto concepito e preparato da un gruppo d'individui, e con tale falso giudizio se n'era abusato scelleratamente. Ma, oltrechè negli avversi a Spagna, negli indifferenti medesimi non del tutto inetti, venne mano mano a destarsi la più profonda pietà verso un uomo tanto straordinario, che si vedeva indefinitamente prigione di Stato senza alcuna condanna, mentre, dopo i primi supplizii e le estese carcerazioni, già tutti i complici e in ispecie i frati si trovavano in libertà. Vennero quindi le voci de' pietosi e degli ammiratori ad unirsi alle franche denegazioni ed agli amari lamenti del prigioniero, massime dopo che, mediante l'insegnamento, gli fu permesso un più largo contatto co' migliori, e le corrispondenze, le visite, e sopratutto le opere che si diffondevano manoscritte o si citavano con meraviglia, diedero motivo a far parlare di lui diversamente dalla maniera in cui se n'era parlato prima. Talora in buona fede, più sovente con lo scopo di giovare al prigioniero, lo si disse candido ed ingenuo, vittima del suo spirito d'innovazione scientifica, avversato dagl'invidiosi; si accreditarono le sue discolpe, e fu agevole dimostrarle giuste nominando certe opere da lui scritte; si diffuse che Spagna gli negava la libertà per errore e per tirannia, che Roma l'avrebbe voluto e l'avea voluto, che il Papa era tutto per lui. Cominciò quindi a ritenersi, press'a poco come fino ad oggi i più gravi biografi del Campanella hanno mostrato di ritenere, che egli avea solamente fatto presagi e raccolto profezie per dimostrare la imminente fine del mondo e il secolo d'oro da doversi godere prima di essa, che della congiura era affatto innocente, che il Papa con la sua condanna in materia di S.to Officio aveva inteso trarlo a Roma per toglierlo dalle mani di Spagna, che Spagna lo teneva violentemente prigione in Napoli non avendo potuto trovare tanto[Pg 427] che bastasse a farlo condannare, che era infine stato disperso, celato o bruciato il processo, per impedire che l'innocenza fosse riconosciuta e l'analoga sentenza fosse pronunziata. Le denegazioni del Campanella sempre più spinte nel conoscere che il processo non si trovava più, l'interesse spiegato per lui dal Massimi Nunzio del Papa a Madrid, quindi la sua fuga a Roma non appena uscito dalle mani del Governo Vicereale, la sua prigionia nel carcere del S.to Officio in Roma per soli tre anni e non perpetuamente giusta le consuetudini non a tutti note, di poi la benevolenza mostratagli da Urbano VIII senza essersene capiti i veri motivi, tutti questi fatti suggellarono l'opinione che egli era stato davvero innocente, oppresso da Spagna, protetto da Roma; e vi furono allora, come vi sono stati di poi e vi sono ancor oggi, ammiratori del filosofo credutisi in obbligo di purgarlo dalle calunnie sofferte e di cantare le glorie del Papato che spiegò tanto favore verso di lui[492]. Sappiamo che perfino un cronista calabrese contemporaneo, Gio. Angelo Spagnolio la cui conoscenza si deve al Capialbi, mentre avea dapprima, nel 1599, affermata la congiura di Calabria e la parte presavi dal Campanella, si fece poi a revocare almeno quanto concerneva il filosofo nel 1642[493]. Già in Napoli Antonino Marzio fin dal 1626 aveva scritta un'Elegia e un Discorso a proposito della [Pg 428] liberazione del Campanella facendone la dedica a Urbano VIII e forse in buona fede, ma alcuni anni più tardi in Roma Gabriele Naudeo scrisse uno sfolgorante Panegirico ad Urbano VIII a proposito de' favori accordati al Campanella, e senza dubbio artificiosamente; poichè in un'altra opera posteriore, destinata a rimaner segreta, egli ingenuamente narrò che a breve intervallo il Postel in Francia e il Campanella in Calabria aveano tentato di fondare un nuovo stato di cose, ma non erano riusciti per non avere avuto forze, «condizione necessaria a tutti coloro i quali vogliono stabilire qualche nuova religione»; ed aggiunse, che «quando il Campanella ebbe il disegno di farsi Re dell'alta Calabria, scelse molto a proposito per compagno della sua impresa un fra Dionisio Ponzio che si era acquistata riputazione del più eloquente e del più persuasivo uomo del suo tempo»[494]. Questa testimonianza di un disegno del Campanella di voler fondare una nuova religione e farsi Re in Calabria, con l'indicazione del modo prescelto e del motivo per lo quale non riuscì, da parte del Naudeo stato in intime relazioni col Campanella nell'anno 1631 e seguenti, poi anche le lettere del Campanella pubblicate in piccola parte dal Baldacchini e in più gran parte dal Berti, avrebbero dovuto richiamare le menti a più esatti giudizii, far ricercare con diligenza i documenti dell'accusa e non soltanto quelli della difesa, far guardare un po' più addentro sulla condotta vera del Papato in genere e di Urbano VIII in ispecie verso il Campanella.

Su quest'ultimo punto, ed anzi su tutte le tribolazioni patite [Pg 429] dal Campanella dopochè uscì dalle mani degli spagnuoli, nemmeno ci pare che siasi profittato davvero de' documenti del tempo, studiandoli da tutti i lati e con la necessaria equanimità. Si è riconosciuto oramai che il Campanella non finì col godere un tranquillo ed agiato riposo, come del tutto erroneamente era stato ammesso; ma si è posta anche troppo in mostra la sua irrequietezza, la sua imprudenza, la sua testardaggine, senza porre in altrettanta mostra la condotta di coloro che dapprima lo trattarono con benevolenza pel gusto de' dispetti politici e pel desiderio di trarne vantaggiosi consigli, e poi lo abbandonarono, lo sprezzarono, lo lasciarono perseguitare fino alla morte da due ribaldi invidiosi, il P.e Generale dell'Ordine e il Maestro del Sacro Palazzo, d'accordo con un altro ribaldo, il Card.l Nipote, i quali tutti avrebbero voluto vederlo assolutamente annullato. È certo che Papa Urbano, quando gli parve giunto il momento di scovrirsi partigiano di Francia, mostrò benevolenza ed accordò uno stipendio al Campanella, per far dispetto a Spagna ed anche per averne conforti nelle vive apprensioni circa la propria salute, essendo rimasto scosso dalle varie predizioni astrologiche venute fuori contro di lui, e poi dalle sciocche malie che Giacinto Centini con l'assistenza di un frate e di un eremita eseguì per affrettarne la morte: allora egli sentì il bisogno delle conversazioni del Campanella ed anche delle sue contro-predizioni astrologiche, benchè avesse solennemente condannata l'astrologia, onde molto si mormorò in Roma per questo, e il Card.l Nipote vide necessario allontanare un poco il Campanella dal Palazzo Apostolico. È certo inoltre che quando i Card.li di casa Barberini crederono conveniente di non tirarla troppo con la Spagna, la quale anche venne a rilevarsi di molto con la vittoria di Nordlinga, e d'altro lato Papa Urbano giunse a rinfrancarsi intorno alla sua salute mediante gli esorcismi del rinomato frate della Trinità de' monti, e le predizioni astrologiche di un ebreo Abramo che gli assicuravano 24 anni di regno avendo il Sole nella 9.a casa, il Campanella fu abbandonato all'avarizia e alla perfidia del Card.l Nipote, che desiderava risparmiare lo stipendio accordatogli ed era collegato col Generale de' Domenicani, il cui fratello Ludovico già trattava segretamente col Vicerè di Napoli per conto de' Barberini: così, alla richiesta del Vicerè che voleva riavere il Campanella nelle mani, si facilitò l'andata di lui in Francia donde non sarebbe più tornato, invece dell'andata a Venezia dove egli avrebbe voluto recarsi, e mentre il povero esule era ancora in viaggio, il Card.l Nipote commetteva al Mazarini, Nunzio straordinario in Francia, di «screditarlo»[495]. È certo ancora che il Re di Francia lo accolse [Pg 430] con benevolenza e gli accordò una pensione per far dispetto a Spagna, ed anche per averne consigli politici, come lo affermò un testimone irrecusabile, il Foerstner, che vide più volte il filosofo in colloquio col Re e col Card.l di Richelieu su materie di Stato; ma poi la pensione non fu più pagata, e rimasero i dileggi del Richelieu ed anche del Mazarini, atti solo a provare una volta di più che in essi non c'era alcun senso di onestà e di giustizia. È certo infine che ben presto gli fu intimato da Roma di non stampare alcuna opera senza il permesso romano, il quale non veniva mai, altrimenti lo stipendio gli sarebbe stato tolto, esigendo pure che si fosse «quietato» a vedersi sospeso il publicetur per le opere già approvate e stampate, come l'Ateismo, la Monarchia del Messia, i Discorsi della libertà e felice soggezione etc., e a vedersi sospeso l'imprimatur per altre opere da doversi stampare, come il Reminiscentur, il Cento thomisticus de Praedestinatione etc., con la circostanza aggravante del non vedersi restituiti i manoscritti nè significate le proposizioni censurabili in essi rinvenute. Insomma egli avrebbe dovuto annullarsi, veder soppresse le opere sue benchè non condannate, vedersi trattato peggio del Galilei, il quale assistè all'abbruciamento del suo libro ma dopo che era stato condannato. E il Campanella non vi si piegò, e dategli appena 900 lire-tornesi fino al 15 marzo 1636 lo stipendio gli fu tolto, ed invano il povero vecchio, con una continua serie di lettere, fece conoscere le sue condizioni infelici esclamando, «mi muoio di necessità..; egestate premor..; non mi levate la lemosina che S. B. mi donò perchè la levate a Dio crocifisso..; sono uscito della memoria di V. B. in manera che mi lascia morir di fame e di necessità..; crepo di fame..; sto mendicando». Qual meraviglia se in una persecuzione simile siasi mostrato irrequieto, riottoso, imprudente? Sarebbe tempo oramai di non guardare taluni portamenti del Campanella senza tener conto degli strazii che gli furono inflitti, di non accogliere quasi con compiacenza certi giudizii sul conto di lui emessi [Pg 431]perfino da chi non si fece scrupolo di trattarlo in un modo tanto abominevole, di riconoscere che tutta la sua vita fu un martirio continuato, e che ben pochi meritano quanto lui l'ammirazione e la gratitudine dovute a coloro i quali fortemente vollero e grandemente patirono.

FINE.


[Pg 433] INDICE DEL VOL. II.


 Cap.IV. —  Processi di Napoli e pazzia del Campanella. Pag.1.
 A. —  Processo della congiura (primi mesi del 1600)."ib.

I. Arrivo delle quattro galere co' prigioni in Napoli; per ordine del Vicerè, all'entrare in porto ne sono impiccati quattro alle antenne, ed anche squartati due in mezzo alle galere, il Caccìa e il Vitale, ma dopo di averli fatti soffocare; ultimi atti di costoro (1). Notizie esagerate che ne dava il medesimo Vicerè; sua istanza che il Vescovo di Mileto si rechi a Napoli, e che nella causa dei frati e clerici intervenga un suo ufficiale; fra Cornelio consegna al Nunzio il processo di Calabria (4). Scelta de' componenti il tribunale pe' laici ed istruzioni relative; Marcantonio de Ponte Giudice commissario, D. Giovanni Sances Avvocato fiscale assistito dallo Xarava, Giuliano Canale Mastrodatti; notizie sul De Ponte e sul Sances (5). Difficoltà incontrate dal Nunzio per riconoscere i carcerati ecclesiastici; fra Cornelio, dopo di averne visitato qualcuno, parte per Roma, dove non riesce a sodisfare il S.to Officio che l'interroga; non per tanto Roma accetta che oltre il Nunzio intervenga nella causa degli ecclesiastici un ufficiale Regio (7). Ricognizione de' carcerati ecclesiastici nel Castel nuovo eseguita dall'Auditore del Nunzio; il Castellano D. Alonso de Mendozza; ricognizione del Campanella e socii; si trovano al n.o di 23 i carcerati ecclesiastici detenuti a nome del Nunzio di S. S.ta (11). Trattative per la costituzione del tribunale per gli ecclesiastici; Roma accorda che uno de' Delegati Apostolici venga nominato dal Vicerè, purchè non sia coniugato, ed abbia o pigli la prima tonsura; il Vicerè nomina D. Diego De Vera, mantenendo il Sances come fiscale anche per gli ecclesiastici; giudizio su tale determinazione di Roma (15). Vita del Campanella nel carcere; il Castel nuovo, i suoi torrioni, le sue carceri, le sue fosse; il Campanella è posto nel 2o piano del torrione detto del Castellano; nel 1o, sotto di lui, trovasi Maurizio; parole tra' carcerati dalle finestre e cartoline scambiate tra loro (20). Il Campanella sollecita il Petrolo e più ancora il Pizzoni perchè si ritrattino; scambia col Pizzoni cartoline in un breviario; inoltre si occupa a scrivere poesie (23).

II. Comincia il processo della congiura o «tentata ribellione» pe' laici, venendo sostituito al Canale per Mastrodatti Marcello Barrese; nuovi e terribili tormenti a Maurizio de Rinaldis che non confessa nulla; se ne conferma la condanna a morte, condanna che fu poi attribuita dal Campanella ad altre cause (26). Si conferma la condanna anche del Pisano già confesso, e si fanno i preparativi per le due esecuzioni; ma il Nunzio interviene e fa sospendere l'esecuzione del[Pg 434] Pisano che era clerico; invece Maurizio è condotto al patibolo dirimpetto al torrione in cui stava il Campanella, ma sotto la forca, dietro l'ingiunzione avutane dal confessore, dichiara di voler rivelare ogni cosa a scarico della sua coscienza e ne rimane quindi sospesa l'esecuzione (30). Motivi inaccettabili addotti poi dal Campanella per la spiegazione di tale fatto; sunto delle rivelazioni di Maurizio; dopo di averle fatte ratificare con una nuova tortura si decide di ritardare ancora la morte di Maurizio per farne la confronta col Campanella e co' complici (32). Tormenti a molte altre persone; provvedimenti contro i contumaci; forgiudicazione di parecchi secondo i documenti raccolti (39). Giunge da Roma l'assoluzione della scomunica pel P.pe di Scilla, pel Poerio e per lo Xarava, richiesta dal Vicerè e dagl'interessati; giunge da Calabria il Vescovo di Mileto ed ha un colloquio col Vicerè; giunge infine anche il Breve del Papa circa la costituzione del tribunale per gli ecclesiastici, ed allora il Vicerè, di sorpresa, fa procedere all'esecuzione di Cesare Pisano (42). Ultimi atti del Pisano; sue dichiarazioni innanzi a' Delegati del S.to Officio e discolpe innanzi ai Bianchi di giustizia; particolari del supplizio e delusione del Nunzio (43).

III. Si costituisce il tribunale della congiura per gli ecclesiastici; analisi del Breve Papale, risulta che con esso creavasi un tribunale Apostolico (48). Si esamina il Campanella, che nega anche il contenuto della sua Dichiarazione scritta in Calabria; si procede alla confronta di lui con Maurizio e poi col Franza, Cordova, Tirotta, Gagliardo, Conia, fra Silvestro di Lauriana; il fisco chiede che si venga alla tortura, ma il Nunzio esige che se ne chiegga licenza al Papa (50). Si esamina fra Dionisio, che nega; si esamina quindi il Pizzoni, che forse dapprima si ritratta ed è posto in una fossa, ma finisce col confermare quanto ha deposto in Calabria con poche varianti; si esamina quindi il Petrolo, che certamente comincia col ritrattarsi ed è posto nella fossa, e poi non solo conferma ma anche sviluppa i disegni del Campanella; si procede quindi alla confronta tra loro due (53). Il Campanella è posto nella fossa del miglio per una settimana; intanto si fa la confronta di fra Dionisio con Maurizio, si esaminano il Bitonto ed altri, tra' quali fra Scipione Politi (56). Si conduce Maurizio ad esortare fra Pietro di Stilo che confessi e poi si procede all'esecuzione di esso; sue ultime rivelazioni innanzi a' Delegati del S.to Officio; particolari dell'esecuzione; ottima riputazione che lascia di sè; i suoi beni sono distribuiti in tre parti, a' monasteri, alla vedova e alla figliuola (57). Sono esaminati il Flaccavento e il Sanseverino, e inoltre Lauro e Biblia che sono pure confrontati con fra Dionisio; venuta la licenza da Roma si dà al Campanella il tormento del polledro; particolari di questo tormento (61). Nello svestire il Campanella gli sono trovate cartoline scrittegli dal Pizzoni, e una carta scrittagli dal Lauriana; sono consegnate al Sances; non reggendo alla tortura egli confessa aver voluto fare la repubblica, ma sotto certe condizioni (62). Confessione del Campanella in tormento secondo i brani che ne rimangono; complici da lui nominati; commenti; non senza ragione è dichiarato «confesso» (66). Gli si dà la copia degli atti esistenti contro di lui con un termine per le difese, e gli si assegna difensore Gio. Battista de Leonardis avvocato de' poveri; notizie intorno a costui; il Sances fa anche dettare dal Campanella molti articoli profetali sui quali egli si fondava per sostenere l'avvenimento delle mutazioni (71). Si dà lo stesso tormento del polledro a fra Dionisio, che non confessa nulla; si dà la corda aggravata dalle funicelle per due ore al Pizzoni con lo stesso risultamento, ma rimane leso in una spalla (73). Si esamina il Cortese e il Milano; si dà la[Pg 435] corda per due ore al Petrolo che nemmeno confessa; si esamina Giulio Contestabile; si dà la corda al Bitonto e poi anche al Contestabile, i quali risultano parimente negativi (ib.). Sono rilasciati dapprima 8 e poi altri 4 tra frati e clerici imputati di minor conto; Giulio Contestabile presenta subito documenti, testimoni e la Difesa scritta da un avvocato proprio; particolari di questa Difesa (74). Difesa del Campanella scritta dal Leonardis; commenti; Allegazione scritta dal Sances in replica; non è nota la Difesa di fra Dionisio (77). L'attività del tribunale si rallenta per l'andata del Vicerè a Roma e poi per le feste di Pasqua; il Sances dimanda che si spediscano le cause del Campanella e di fra Dionisio, ma il Nunzio prevedendo che la fine delle cause sarebbe stata la loro condanna a morte, mentre non ancora si era fatto nulla circa l'eresia, si oppone per attendere gli ordini del Papa; intanto continuano le difese per gli altri frati (80). Durante le feste di Pasqua si manifesta nel Campanella un subitaneo e violento accesso di pazzia; particolarità e motivi del fatto; il Sances, alcuni giorni dopo, fa spiare il Campanella da due scrivani, i quali sorprendono due volte il Campanella in dialoghi notturni con fra Pietro Ponzio; relazione di questi dialoghi (84). Vita intima del Campanella nel carcere fin da principio della sua venuta in Napoli; poesie da lui composte per dare animo agli amici, le quali oggi si pubblicano per la prima volta; rassegna di queste prime poesie, cercando di ognuna la data e rilevandone l'importanza (89). Difese da lui scritte che non giunge in tempo a presentare, «1.a Delineatio» e «2.a Delineatio, Articuli prophetales»; analisi di esse e commenti; inoltre l'«Epistola ad amicum pro apologia» con ogni probabilità diretta a fra Dionisio per giustificarsi; infine la ricomposizione del libro della Monarchia di Spagna, eseguita mentre rimaneva sospesa la spedizione della causa della congiura ed il filosofo continuava a mostrarsi pazzo (97). Premii dati frattanto a Lauro e Biblia; concessioni fatte e posto di Consigliere del Collaterale dato più tardi al P.pe della Roccella; posto di Capitano della cavalleria pesante dato allo Spinelli, avendo per aggiunto e successore il suo nipote Marchese di S. Donato poco dopo nominato Duca; promozione di D. Carlo Ruffo da semplice Barone a Duca di Bagnara; nomina dello Xarava a Consigliere, e pensione accordata a fra Cornelio; la nomina del Leonardis a Consigliere, avuta dopo il passaggio a Fiscale, non reca alcun cenno del servizio prestato nella causa della congiura (113).

 Cap.V. —  Sèguito de' processi di Napoli e della pazzia del CampanellaPag.119.
 B. —  Processo dell'eresia (maggio 1600 a settembre 1602)"ib.

I. Viene risoluto da S. S. che il processo dell'eresia si faccia in Napoli dal Nunzio, dal Vicario Arcivescovile e dal nuovo Vescovo di Termoli, che è il Tragagliolo già Commissario del S.to Officio in Roma; notizie sul Tragagliolo e sul Vicario (119). La parte principale è deferita al Vescovo di Termoli, e il Nunzio spesso manda in voce sua alle sedute il Rev. Antonio Peri fiorentino suo Auditore; Mastrodatti è Gio. Camillo Prezioso, Notaro della Curia Arcivescovile; comincia il processo offensivo coll'esame del Pizzoni, che dichiara di avere avuto minacce dal Campanella, conferma le cose già deposte in Calabria, con varianti di minor conto, e sostiene avere già prima denunziato il Campanella per lettere[Pg 436] al P.e Generale, e di persona a fra Marco e fra Cornelio (121). Sono esaminati fra Marco e fra Cornelio che negano quanto ha asserto il Pizzoni; è interrogato per lettere il P.e Generale Beccaria che risponde negando del pari; è esaminato il Petrolo, che conferma le cose già deposte con poche varianti e dichiara di avere anche avute minacce dal Campanella (122). Si esamina il Campanella che sèguita a mostrarsi pazzo ed è rinviato; si esamina fra Pietro di Stilo che attenua le cose già deposte; si esamina il Lauriana che dice occorrergli soltanto di manifestare che ha continue minacce dal Campanella, ed attenua di molto unicamente le cose già deposte contro il Pizzoni, evidentemente per concerti presi tra loro; si esaminano inoltre fra Paolo della Grotteria e il Bitonto che fanno deposizioni negative (123). È presentata una denunzia contro il Campanella da fra Agostino Cavallo circa le sue passate relazioni con l'ebreo Abramo; sono esaminati per questo il denunziante ed anche fra Giuseppe Dattilo (125). Il Vescovo di Termoli privatamente raccoglie informazioni anche presso fra Cornelio, Xarava, Fabio di Lauro, D. Pietro de Vera, e le comunica al Card.l di S.ta Severina; ritiene che al Campanella debba amministrarsi la tortura, ma sa che non la teme; da Roma gli si mandano i sommarii de' processi di Calabria cioè di Monteleone, di Gerace, di Squillace (126). Sono riesaminati fra Paolo, il Bitonto, il Petrolo, fra Pietro di Stilo e il Lauriana; fra Pietro Ponzio invia al Vescovo una lettera del Lauriana al Pizzoni sorpresa da fra Dionisio; sono esaminati diversi su tale incidente; il Lauriana nega con giuramenti, ma risulta indubitato che egli ed il Pizzoni agivano d'accordo ed in falso (128). Sono riesaminati il Pizzoni, il Lauriana ed il Petrolo, su varie circostanze; il Nunzio, tornando dalla sua Chiesa di Troia, si convince per via della pessima vita de' frati in relazione co' banditi e ne scrive a Roma (130). Sono ancora riesaminati nuovamente il Lauriana, il Petrolo, fra Pietro di Stilo, il Pizzoni e poi anche il Bitonto; cominciano a rivelarsi i modi iniqui usati da fra Marco e fra Cornelio in Calabria, ma le cose deposte non sono smentite (133). Quattro esami successivi di fra Dionisio, che nega di avere avuto mai scandalo dal Campanella per cose di eresia, parla di dimanda di perdono direttagli dal Lauriana, fornisce ampie spiegazioni e cerca di ribattere tutte le accuse; esame di Giulio Contestabile, che sostiene essergli il Campanella divenuto nemico per aver lui divulgato che era stato già condannato all'abiura (135). Esame di Giulio Soldaniero, fatto venire da terra d'Otranto ove si era ritirato ed era stato carcerato ad istanza del S.to Officio; egli ha già dimenticate troppe cose e si contradice su varie circostanze (138). Avuto l'assenso da Roma si dà un'ora di corda al Campanella che continua a mostrarsi pazzo; poi sono esaminati suo padre Geronimo e suo fratello Gio. Pietro; poi è ricondotto il Campanella innanzi a' Giudici, e mostrasi sempre pazzo (139). Nuovo esame del Soldaniero, cui si fanno notare le contradizioni nelle quali è caduto; esame di Giuseppe Grillo; nuove dimande a fra Dionisio e al Pizzoni circa la loro andata a Soriano (141). Il tribunale emana i decreti occorrenti per passare al processo ripetitivo; ma sono ancora esaminati il priore e il lettore di Soriano come pure Valerio Bruno, ed inoltre fra Gio. Battista di Placanica e fra Francesco Merlino fatti venire da Calabria per chiarimenti; al tempo stesso in Squillace si compie un supplimento d'informazione commesso dal Vescovo di Termoli (142).

II. Processo ripetitivo; maniera di farlo; il fiscale della Curia Rev.do Andrea Sebastiano dà gli articoli solamente contro i tre imputati principali, il Campanella, [Pg 437]il Pizzoni e fra Dionisio; il Rev.do Attilio Cracco è assegnato quale avvocato di officio; particolari degli articoli del fiscale e degl'interrogatorii presentati dall'avvocato (149). Si comincia dalle ripetizioni contro il Campanella, e sono esaminati il Soldaniero, il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo e fra Pietro di Stilo; riescono attenuate le deposizioni del Soldaniero, false quelle del Lauriana, sempre gravi quelle del Pizzoni e del Petrolo, più favorevoli quelle di fra Pietro di Stilo; unanimi le dichiarazioni di mala condotta de' primi processanti (153). Seguono gli esami ripetitivi contro il Pizzoni; sono esaminati il Soldaniero, il Lauriana, il Bruno e il Petrolo; le accuse riescono attenuate, e rimane il grave sospetto contro di lui principalmente per le troppe rivelazioni fatte e le sue stesse discolpe trovate false (157). Esami ripetitivi contro fra Dionisio; sono esaminati il Bruno, il Soldaniero, il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo e fra Pietro di Stilo: anche per lui le accuse riescono attenuate, e sempre son posti in rilievo i modi iniqui di fra Marco e fra Cornelio (159). Perplessità del Vescovo di Termoli, quali si rilevano da una lista di varianti e di contradizioni da lui compilata; sollecitazioni del Governo perchè si possa terminare la causa della congiura; i Giudici per l'eresia deliberano di venire alla spedizione; maniera di procedervi (163). Assegno del termine di 8 giorni per le difese; avvocati Grimaldi e Montella, il quale ultimo è sostituito poi dallo Stinca: Gio. Battista dello Grugno avvocato pel Campanella; notizie intorno a costoro (166). Processo difensivo; esami difensivi per fra Dionisio; alcuni articoli vengono presentati in fretta, acciò siano esaminati sopra di essi alcuni de' carcerati per la congiura che stanno per uscire in libertà; 18 interrogatorii dati dal fiscale: sono così esaminati Geronimo Marra, Francesco Paterno e Minico Mandarino, ma infruttuosamente (168). Articoli completi per fra Dionisio al n.o di 58, con oltre 60 testimoni e varii documenti in suo favore; notizie su' testimoni Spinola, Castiglia, Capece e Giustiniano (170). Sono esaminati dapprima il Castiglia e il Contestabile, poi il Capece, Cesare Forte, lo Spinola, il Giustiniano e il Grillo; ne risulta che il Lauriana era stimato falso testimone, come pure il Bruno, e che il Soldaniero medesimo avea fatto intendere le cose passate tra lui, il priore di Soriano e fra Cornelio (176). Sono ancora esaminati il carceriere Martines, Nardo Rampano, Marcello Salerno, Cesare Bianco, Geronimo Campanella, Gio. Bat. Ricciuto e Tom. Tirotta; di poi fra Paolo, fra Pietro di Stilo, il Petrolo e il Bitonto; infine il Barone di Cropani e Geronimo di Francesco: ne risultano sempre più messe in rilievo le tristi qualità del Lauriana, del Bruno, del Soldaniero ed anche del Pizzoni, oltrechè la malvagità de' primi Inquisitori (179). Contemporaneamente si menavano innanzi gli esami difensivi pel Pizzoni, che avea presentato 34 articoli con molti testimoni scelti senza alcuna avvedutezza: erano esaminati dapprima fra Paolo, il Petrolo, il Lauriana: poi fra Pietro di Stilo, il Bitonto, lo Spinola, il Contestabile, il Castiglia e il Di Francesco; ne risulta il Pizzoni niente affatto difeso, e circa le qualità sue abbastanza aggravato (187). Pel Campanella, avendo il suo procuratore dichiarato non potersi compilare gli articoli difensivi perchè pazzo, ed avendo anzi dimandato un termine per provare detta pazzia, si procede a una informazione, e 10 testimoni, compreso il carceriere, attestano il Campanella esser pazzo; particolari della pazzia(196). Fra Pietro Ponzio comunica le istanze fattegli già dal Lauriana per essere perdonato delle falsità deposte, e consegna anche una lettera analoga scritta dal medesimo a suo fratello Ferrante: perizia calligrafica circa la lettera (201). Il Vescovo di Termoli non nasconde le sue perplessità circa i meriti della causa, fa note a Roma le tante irregolarità commesse e finisce con[Pg 438] dichiarare che dovrebbero gl'inquisiti esser tradotti a Roma per potere scoprire la verità; trasmette anche un memoriale analogo di fra Dionisio, mostrandosi animato dalle più caritatevoli intenzioni (202).

III. Morte del Vescovo di Termoli con grave danno de' frati; insistenze continue del Governo perchè la causa dell'eresia abbia termine; è nominato Giudice il Vescovo di Caserta D. Benedetto Mandina; notizie intorno a costui (206). Istruzioni del Card.l di S.ta Severina a nome di S. S.; si prescrivono visite mediche e il tormento della veglia per chiarire la pazzia del Campanella, inoltre nuove diligenze in Squillace; articoli del fiscale ed interrogatorii dell'avvocato per esse: è esaminato Geronimo di Francesco in tal senso (209). Le sedute del tribunale son sospese; fra Pietro Ponzio dimanda inutilmente di essere giudicato o rilasciato: fra Dionisio fa sapere a Roma che fra Cornelio era partito per Madrid; il Nunzio è costretto a confermarlo, dolendosi di lui ma dolendosi anche de' giudizii molto severi che avea sempre manifestato il Vescovo di Termoli contro di lui e contro fra Marco (212). Il Pizzoni, rimasto leso nel braccio dietro la tortura avuta, muore nel carcere; i preparativi per la veglia da darsi al Campanella mettono in agitazione i frati; fra Pietro di Stilo manda a' Giudici alcune carte già dategli dal Campanella, che sono le proprie Difese con gli Articoli profetali scritte per la causa della congiura; fra Dionisio manda una lettera del Petrolo che chiede di essere riesaminato (215). Senza aspettare le fedi de' medici si dà al Campanella il tormento della veglia; notizie intorno a questo tormento; particolari del tormento sofferto per 36 ore; durante l'amministrazione di esso si prescrive a fra Dionisio che consigli il Campanella a rispondere adeguatamente, ma il Campanella persiste a mostrarsi pazzo (217). Conseguenze del tormento sofferto: il chirurgo Scipione Cammardella curante di fra Tommaso (222). Esami di fra Dionisio e poi di fra Pietro di Stilo circa le comunicazioni fatte a' Giudici; fedi de' medici Vecchione e Jasolino, che sebbene perplessi inclinano a ritenere essere la pazzia simulata; esame di un aguzzino che fa conoscere alcune parole dette dal Campanella dopo il tormento; condizione giuridica del Campanella in sèguito di tutte queste prove (225). Nuova sospensione delle sedute del tribunale; accade una rissa tra i Ponzii, il Bitonto e il Petrolo da una parte, e il Soldaniero, il S.ta Croce, il Gagliardo e l'Adimari da un'altra parte, risultando ferito fra Dionisio; dietro denunzia de' laici si procede dagli ufficiali del Castello ad una ricerca di carte, e si trovano scritture di sortilegi presso fra Dionisio, ma non appartenenti a lui, diverse lettere appartenenti a fra Pietro di Stilo, una raccolta di poesie del Campanella presso fra Pietro Ponzio, uno scritto del Campanella che il fratello di lui buttò dalla finestra al momento della venuta degli officiali (230). Le carte sono portate al Vicerè; fra Dionisio, rinchiuso in un torrione al pari di fra Pietro Ponzio, scrive a' Giudici di voler essere esaminato circa le carte trovate nella sua cassa, e prega che si dia agio a fra Pietro di poter presentare capi di accusa contro i feritori; l'Adimari si querela di uno schiaffo avuto da fra Pietro, ed anche il Lauriana reclama di voler essere riesaminato (233). Il Vicerè si ammala e muore; il suo secondogenito D. Francesco de Castro rimane Luogotenente generale: la causa dell'eresia languisce; languiscono anche i frati in desolante miseria, e il Nunzio chiede nuovi sussidii per loro da' conventi di Calabria (235).

IV. Dietro sollecitazioni del Card.l di S.ta Severina si ripigliano le sedute del tribunale; si riesamina fra Dionisio circa le carte trovate nella sua cassa; si fa richiesta delle carte al Governo; fra Pietro Ponzio denunzia i feritori e[Pg 439] qualche altro loro compagno in materia di S.o Officio (237). S'inizia un processo secondario specialmente contro il S.ta Croce e il Gagliardo; dall'elenco dei testimoni presentati per questa causa si rileva che parecchi carcerati, tra gli altri il padre e probabilmente anche il fratello del Campanella, erano stati allora rilasciati; cominciano gli esami pel detto processo, ma poi questo è interrotto per dar termine al processo principale (240). S'intima a fra Dionisio un termine perentorio per le difese; così pure agli altri frati i quali vi rinunziano; si abilita il Soldaniero a starsene in una casa in Napoli loco carceris, e i carcerati, frati e laici, dichiarano appartenere a lui le carte trovate nella cassa di fra Dionisio (242). Il Governo manda le carte richieste; rassegna di queste carte; le lettere di fra Pietro di Stilo mostrano in che maniera i frati giudicassero le cose loro; carte di sortilegi e poesie in dialetto calabrese del Gagliardo; come il Teologo qualificatore abbia giudicate le poesie del Campanella; lo scritto buttato dalla finestra del Campanella risulta essere una copia della Filosofia epilogistica su cui l'autore lavorava (243). Dietro ordine del Card.l di S.ta Severina il tribunale si occupa delle carte avute; esami del sergente Alarcon, di fra Pietro di Stilo, di fra Dionisio, del Bitonto; si viene a conoscere che vi sono altre carte trovate presso il Gagliardo fin da che stava nel Castello dell'uovo (250). È esaminato il Gagliardo, e poi fra Pietro Ponzio e il Bitonto, il quale esibisce una nuova carta di sortilegio scritta dal Gagliardo per un Napolella carcerato; il Napolella ed alcuni testimoni sono interrogati per questo, e poi sono esaminati di nuovo fra Pietro Ponzio, fra Pietro di Stilo, il Bitonto e il Napolella medesimo a sua richiesta (254). Continua l'informazione sulle carte avute, con gli esami del S.ta Croce e poi di fra Pietro Ponzio circa la provenienza delle poesie del Campanella trovate presso di lui, inoltre con l'esame anche di fra Paolo della Grotteria; da ultimo sono esaminati il Figueroa e il Navarro circa le carte trovate nel Castello dell'uovo; rassegna di queste carte; un'altra poesia del Gagliardo in dialetto calabrese, due lettere di un capo di fuorusciti, tre prologhi di commedie, molti versi sciolti sempre del Gagliardo (259). Rimangono in causa solamente il S.ta Croce e il Gagliardo, a' quali si fa un processo separato che è commesso al Vicario Arcivescovile; brevi cenni su questo processo: il S.ta Croce finisce per essere abilitato ad uscire dal carcere e se ne parte per la Calabria senza licenza; il Gagliardo è sottoposto a tortura, e finisce egli pure per essere abilitato e partirsene senza licenza, venendo poi, due anni dopo, ripigliato e giustiziato in Napoli per un omicidio commesso in Calabria (269). Circa il processo principale, si provvede alle miserie de' frati col danaro venuto di Calabria, ma se ne dispone di una parte per pagare il Mastrodatti; nel tempo medesimo, facendo cessare le tergiversazioni, s'intima a fra Dionisio un brevissimo termine per le nuove difese (272). Tre nuovi articoli difensivi di fra Dionisio, attestanti le ritrattazioni fatte dal Pizzoni in punto di morte, i replicati desiderii di ritrattarsi mostrati dal Petrolo, l'aver fatto il Soldaniero porre scritti proibiti nella sua cassa per rovinarlo definitivamente; varii testimoni esaminati sopra di ciò, e notizie sopra di loro; gli esami non riescono vantaggiosi a fra Dionisio; in ispecie il Petrolo dichiara di aver detto volersi ritrattare per sottrarsi alla persecuzione de' frati, ma non aver nulla a ritrattare (275). Nuovi ritardi del tribunale per la stagione estiva, con raddoppiate lagnanze del Governo Vicereale; Valerio Bruno è abilitato a stare fuori carcere per essere poi nuovamente interrogato e quindi spedito; fra Pietro Ponzio fa nuove istanze perchè la sua causa sia spedita, ma inutilmente (281).

[Pg 440]

V. Opere composte dal Campanella in questo lungo periodo di tempo: dopo gli Articoli profetali, composizione o meglio ricomposizione della Monarchia di Spagna; fasi e successo di questo libro (283). Al tempo medesimo Poesie; esse rivelano la vita intima del Campanella, e conviene ricercare la data almeno delle principali: sonetti profetali, ed anche al P.pe di Bisignano, all'Italia, a Genova, a Venezia, a Roma; commenti (285). Altri sonetti sul monte di Stilo e su temi religiosi; altre poesie indirizzate a persone dimoranti nel Castello ed anche fuori, come lo Spinola e il Castiglia carcerati, il Sig.r Troiano Magnati, D.a Ippolita Cavaniglia, la Sig.ra Olimpia, D.a Anna; notizie circa queste persone (288). Sonetti al Sig.r Francesco Gentile, alla Sig.ra Maria, alla Sig.ra Giulia, a Flerida, a Dianora; sonetti composti dopo il tormento della veglia, specialmente quelli al Sig.r Petrillo; commenti (293). Ritorno alle opere filosofiche; compimento della Filosofia epilogistica o Epilogo magno, con l'aggiunta degli Aforismi politici e dell'Economica, istaurata anche l'Etica; poco dopo, al cominciare del 1602, composizione della Città del Sole, quindi composizione della Metafisica, con altre poesie di tempo in tempo (297).

 Cap.VI. —  Esiti de' due processi, fine della pazzia e conchiusione (dal 7bre 1602 al 9bre 1604 e seg.ti).Pag.306.

I. Giusta gli ordini avuti, il tribunale per l'eresia procede finalmente alla discussione de' meriti della causa e alla votazione; Sommarii del Processo e Riassunti degl'indizii co' voti de' Giudici per fra Pietro Ponzio, fra Paolo, il Bitonto, fra Pietro di Stilo, il Petrolo e il Lauriana: lo stesso per fra Dionisio un po' più tardi; commenti (ib.). Fuga di fra Dionisio e del Bitonto dal Castello insieme col carceriere; ordini da Roma e poi da Madrid perchè i fuggiaschi siano ripigliati; inchiesta ordinata dal Governo, e singolare profferta dello Xarava per tale inchiesta; ma il tribunale non avea mancato di decretare provvedimenti (314). Viene da Roma la risoluzione presa dalla Sacra Congregazione al cospetto di S. S. nella causa di eresia del Campanella e socii; il Campanella è condannato al carcere perpetuo ed irremissibile nel S.to Officio di Roma; altri frati sono condannati all'abiura dopo un tormento; per fra Paolo è ordinato il rilascio con penitenze salutari; per fra Pietro Ponzio il rilascio senza condizioni; commenti in particolare sulla condanna riportata dal Campanella (316). Il tribunale spedisce la causa secondo la risoluzione venuta da Roma; la sentenza è partecipata al Campanella; sono tormentati e fatti abiurare fra Pietro di Stilo, il Lauriana e il Petrolo (320). Non potendo dare fideiussione, i frati si obbligano invece a tre anni di galera e così possono andar via rimanendo in carcere il Campanella; poco dopo anche Valerio Bruno, e più tardi il Soldaniero, carcerato di nuovo in Calabria, sono rilasciati con fideiussione eleggendo il loro domicilio in casa di Carlo Spinelli; in tal modo finisce il lungo processo di eresia (325).

II. Il tribunale della congiura pe' laici è tenuto sempre aperto, anche dopo finita la causa di eresia; primo gruppo di carcerati abilitati a tornare in Calabria si conosce essere stato quello de' carcerati di Catanzaro; secondo gruppo quello de' già carcerati in Gerace col Pisano, dietro torture anche atroci; con esso fu abilitato egualmente il padre del Campanella e con ogni probabilità anche il fratello, ma restarono in carcere il S.ta Croce e il Gagliardo per conto del [Pg 441]S.to Officio (327). Intorno a' forgiudicati, si hanno notizie del Baldaia, del Dolce, del D'Alessandria, del Tranfo; pel solo Del Dolce, catturato insieme con Desiderio Lucano suo ricettatore, si conosce che fu condannato a parecchi anni di carcere e trovavasi ancora carcerato il 1610; notizie circa gli altri anzidetti e circa diversi già rilasciati che ripigliarono la mala vita (328). Quanto al tribunale della congiura per gli ecclesiastici, dopo la liberazione di molti e lo svolgimento delle cause degli altri lasciandone sospesa la spedizione, finisce per condannare Giulio Contestabile a 5 anni di esilio, e poi tratta la causa del Pittella nuovamente carcerato; particolari di questa causa, difesa del Leonardis, condanna egualmente a 5 anni di esilio (333). La spedizione della causa degli altri frati è impedita definitivamente dal matrimonio di D. Pietro De Vera con la sorella del Duca di S. Donato; opposizioni del Nunzio, tergiversazioni del De Vera; giunge intanto la nuova che fra Dionisio, capitato a Costantinopoli in casa del Cicala e fattosi maomettano, erasi imbarcato sull'armata turca che veniva verso il Regno; ciarle di fra Dionisio in Costantinopoli nocive al Campanella; fatti dell'armata turca dal 1600 in poi, e sua rinunzia ad ogni impresa nell'anno in corso pel cattivo stato delle navi (336). S. S. ordina che il Nunzio dia termine per sè solo alla causa, rimanendo il De Vera qual semplice assistente; impossibilità di tale pretensione; il Nunzio si sforza di farla accettare, il Vicerè finge, il De Vera temporeggia; s'intima a' frati un ultimo termine per le difese, ma il Campanella era stato già da un pezzo separato dagli altri frati e posto nel torrione (341). Fatti del Campanella dopo la sua condanna per l'eresia; visita avuta dal Marchese di Lavello cui consegna la sua Metafisica; relazioni acquistate col Conte Giovanni di Nassau, Cristoforo Pflugh e Geronimo Toucher venuti prigioni nelle carceri del Castello; lo Pflugh, o Flugio, è da lui convertito al Cattolicismo, gli rimane amico, e più tardi poi gli procura il patrocinio de' Fuggers e di Gaspare Scioppio (346). Posto, dopo 6 mesi, nel torrione, il Campanella si occupa a scrivere l'Astronomia, e più tardi De' Sintomi della futura morte del mondo per fuoco; testimonianze che lo provano; suoi importanti colloquii col Gagliardo in questo tempo, credenze che gli svolge ed orazioni che gl'insegna con riscontro delle cose scritte nella Città del Sole; altre testimonianze; scene di evocazione di spiriti (348). Essendosi poi scoperto un disegno di evasione, è trasportato nel Castel S. Elmo; indagini su questo disegno di evasione; il Marchese di Lavello è carcerato probabilmente per esso (354). Il Nunzio e il De Vera vanno in Castello per la spedizione della causa, e si trovano d'accordo nel condannare il Petrolo a tre anni di galera, e rilasciare fra Pietro, fra Paolo e il Lauriana con l'esilio dalla Calabria per un tempo a beneplacito di S. S.; ma il De Vera vuol continuare a figurare come giudice, il Vicerè interpellato s'infinge, Roma insiste, il Campanella rimane dimenticato in S. Elmo; il Vicerè fa poi sapere che nominerà un'altra persona invece del De Vera, ed essa fu il Ruiz de Baldevieto che approvato da un altro Breve ebbe a sottoscrivere la sentenza; ma pel Campanella dice doversene pel momento sospendere la spedizione (358). Gli amici, parenti e discepoli del Campanella presentano un memoriale al Nunzio per lui; indagini su questo documento oggi perduto; affermazioni equivoche del Campanella circa questo periodo importante della sua vita; durissimi trattamenti sofferti in S. Elmo (361).

III. Fine palese della pazzia del Campanella in S. Elmo; dopo 5 mesi egli manda a far proposte al Vicerè, dicendo aver concetti tali da dare vantaggi mirabili al Regno ed al Re, ma non trova ascolto; dopo altri 6 mesi manda a dire al Nunzio e al nuovo Vescovo di Caserta di volersi confessare, ed espone loro studii[Pg 442] fatti, visioni avute, concetti capaci di difendere il Cristianesimo in tutto il mondo, facoltà di far miracoli etc.; quanto a' concetti, egli si riferiva ad opere che diceva dover comporre e forse stava già componendo a fine di uscire dalla sua trista posizione (365). Rassegna di queste opere; lasciando imperfetta l'Astronomia, e continuando a comporre di tempo in tempo poesie come il Sonetto nel Caucaso, la Lamentevole orazione profetale e poi le Canzoni in dispregio della morte, egli ricompone l'opera del Senso delle cose; poi compone gli opuscoli Del Governo del Regno e la Consultazione per aumentare le entrate del Regno, in tre discorsi, de' quali si dànno gli ultimi due finora inediti (367). In sèguito, rivolgendosi a Roma, compone la Monarchia del Messia, aggiuntovi un capitolo Dei dritti del Re di Spagna sul nuovo mondo, inoltre la Ricognizione della vera religione, detta più tardi Ateismo debellato; considerazioni su queste opere e specialmente sull'ultima; composizione di un altro opuscolo e poi ricomposizione ampliata degli Articoli profetali; ancora gli Antiveneti, e poi i Discorsi a' Principi d'Italia del pari ampliati, tutte opere di occasione; infine parecchi opuscoli specialmente a richiesta di Gaspare Scioppio e Gio. Fabre da lui conosciuti in tal tempo (373). Racconto particolareggiato delle mosse del Campanella presso il Vicerè, poi presso il Nunzio e il Vescovo di Caserta, poi ancora presso il Papa; sue promesse mirabili ed esito delle proposte fatte con le Consultazioni; discorso fatto al Nunzio e al Vescovo di Caserta in S. Elmo, promesse sue anche in tale circostanza; non gli si crede e dopo altri 10 mesi scrive lettere al Papa Paolo V, a modo di appello, con affermazioni di comparsa del diavolo e rivelazioni avutene circa Venezia e l'avvenire del Papato (378). Commenti su quest'ultima mossa del Campanella, e principalmente sulla comparsa del diavolo che si rannoda alle evocazioni di spiriti fatte dal Gagliardo; essa è una delle parecchie sue finzioni, e fra le altre quella della pazzia sofferta, a proposito della quale non mancò poi di dichiarare che egli ammetteva il mendacio quando trattavasi di un alto fine; onde malamente la sua riputazione è stata bistrattata da coloro i quali non hanno voluto darsi la pena di studiarlo bene (384).

IV. Sèguito de' tentativi del Campanella per uscire dalla fossa di S. Elmo; scrive anche a' Card.li D'Ascoli, Farnese e S. Giorgio, e manda l'elenco delle promesse fatte e de' libri composti; poco dopo acquista la protezione de' Fuggers, e con essa quella di Gaspare Scioppio e Gio. Fabre, mediante Cristoforo Pflugh; notizie intorno a costoro (392). Lettere tra lo Scioppio e il Campanella; venuta dello Scioppio a Napoli per favorirlo, certamente non per missione del Papa come si disse di poi; richiesta da lui fatta di tutte le opere del Campanella; costui scrive un'altra lettera al Papa, a guisa di un 2.o appello, poco dopo scrive una lettera latina al Papa ed a' Cardinali da doversi presentare dallo Scioppio, il quale non la presenta perchè vi si dicea di voler fare miracoli (395). Venuta anche del Fabre a Napoli; parecchi quesiti sono diretti da lui e dallo Scioppio al Campanella, e danno occasione a parecchi opuscoli epistolari; finita la trascrizione delle opere, il Campanella ne fa l'invio con una lettera premessa all'Ateismo debellato, ma non manda gli Articoli profetali maggiormente desiderati dallo Scioppio (398). Commendatizie procurate dallo Scioppio al Campanella, ma non presso il Papa; lettera del Campanella a Monsig.r Querengo in tale occasione; lettere a Cristoforo Pflugh e poi al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi di Austria, da doversi presentare dallo Scioppio facendo anche vedere le sue opere, ad occasione della andata di lui in Germania qual Consigliere di casa d'Austria presso la Dieta di Ratisbona; in queste lettere ai[Pg 443] Sovrani il Campanella, narrando i suoi guai a modo suo, chiede di essere ascoltato (401). Partenza dello Scioppio per la Germania con fermata a Venezia, dove consegna le opere del Campanella al Ciotti perchè le stampi e costui non se ne cura; è poi imprigionato per due giorni ed obbligato a sfrattare, venendo sequestrata dal Consiglio de' Dieci l'opera degli Antiveneti del Campanella; invio di Daniele Stefano in Napoli da parte di Giorgio Fugger per fare evadere il Campanella a qualunque spesa; nocumento di questi tentativi preveduto dallo Scioppio (403). In Germania lo Scioppio presenta la lettera del Campanella all'Imperatore, che trova mal prevenuto; manda la lettera al Re di Spagna e confida meglio nell'Arciduca Ferdinando, ma si duole de' sospetti continui del Campanella, il quale a sua volta si duole di non vedere le sue opere nè stampate nè presentate (405). Ferdinando scrive più volte a favore del Campanella dimandandone perfino la liberazione; in fondo egli, come il Fugger, riponeva grandi speranze nella dottrina e nel fervore del filosofo per propugnare in Germania la causa Cattolica contro gli eretici, oltrechè ne attendeva ottimi consigli nelle cose di Stato; ma alla fine, abbandonando la persona del filosofo, chiede al Vicerè che gli faccia compiere i libri della Matematica, de' Profetali e della Metafisica, gli faccia dire anche qualche segreto che ha in favore di Spagna ed Austria, e mandi a Grâtz libri e segreti (407). Si raffredda il favore di Giorgio Fugger pel Campanella, dopo di aver conosciute le cause vere della prigionia sua, e i garbugli da lui messi innanzi per acquistare la libertà; lo Scioppio e il Fabre finiscono per dileggiarlo, dopo di averne espilate le opere; deve poi dirsi smentito che la Curia Romana abbia partecipato a' tentativi di liberazione, i quali non potevano neanche esser visti da essa di buon occhio (412). Malgrado l'abbandono da parte de' suoi protettori, il Campanella continuò sempre a mostrarsi grato verso di loro; sua inerzia di qualche anno durante gli ultimi tentativi infruttuosi di liberazione; pochi opuscoli scritti in tal tempo e diverse poesie di dolore e di sdegno, di alcune delle quali è possibile determinare la data; importanza delle sue Poesie in complesso e delle note aggiuntevi in sèguito, rivelatrici de' casi del filosofo da lui ingarbugliati per necessità in altre sue opere; ricerca della data in cui uscì dalla fossa rimanendo in S. Elmo, per poi passare al Castel nuovo e quindi al Castello dell'uovo; interpetrazione del suo rassomigliarsi a Prometeo nel Caucaso (415). Si discute perchè il Governo Vicereale abbia voluto comportarsi così brutalmente col Campanella, e la Curia Romana non si sia curata di esigere il rispetto dell'immunità ecclesiastica in persona di lui; ragioni abbastanza chiare che spiegano questi fatti; lo Stato e la Chiesa contribuirono egualmente al martirio del Campanella risparmiandone la vita (420). Due tribunali in regola, entrambi istituiti da Roma, aveano trovato il Campanella colpevole verso lo Stato e verso la Chiesa; le denegazioni posteriori sorsero abbastanza tardi dietro un sentimento di pietà e varii apprezzamenti inesatti; la benevolenza di Urbano VIII cominciò sol quando costui piegò verso Francia e volle far dispetto agli spagnuoli, oltrechè ebbe bisogno de' consigli e conforti del Campanella per la sua salute, ma cessate o modificate tali condizioni il Campanella fu abbandonato alla persecuzione de' suoi rivali e alla più desolante miseria in terra straniera; così ben pochi meritano quanto lui la nostra ammirazione e gratitudine (426).


ERRATA.

pag. 264; vers. 9: fior ridarà eterno—leg. hor ridarà eterno

NOTE:

[1] Così nel Carteggio del Residente di Venezia; ved. Doc. 184, pag. 94.

[2] Ved. nel Carteggio Vicereale il Doc. 36, pag. 42.

[3] Ved. Doc. 382, pag. 395.

[4] Ved. Doc. 307, pag. 256.

[5] Ved. Doc. 373, pag. 383.

[6] Ved. Doc. 61, pag. 53.

[7] Ved. Doc. 209, pag. 109.

[8] La serie de' Notamentorum che si è salvata dalle tante sciagure dell'Archivio di Stato comincia appena col 1610, e non vi manca la risoluzione presa quando, dopo 26 anni, il Campanella fu liberato; così avremmo avute egualmente tutte le altre risoluzioni prese ogni volta intorno a' principali imputati e a' diversi gruppi degl'imputati minori.

[9] Pel De Ponte come Consigliere, ved. Reg. Sigillorum v. 30, a. 1594, a 17 10bre; come Deputato della pecunia, ved. Reg. Curiae v. 43, fol. 11, let. del 18 giugno 1598. Intorno alla famiglia o alle notizie biografiche ved. Santanna, Della Storia genealogica della famiglia del Ponte, Nap. 1708, pag. 98 etc.

[10] Ved. Registri Privilegiorum vol. 141, fol. 120.

[11] Ved. per tutte lo notizie sul Sances, De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli, Nap. 1654-71, voi. 2.o part. 3a p. 390; pel parentado co' Morano ved. specialmente Della Marra Duca della Guardia, Discorsi delle famiglie estinte, forastiere, o non comprese ne' Seggi di Napoli, Nap. 1642 p. 264.

[12] Ved. Doc. 54, pag. 51.

[13] Ved. Doc. 52, pag. 50.

[14] Ved. Doc. 365, pag. 365.

[15] Ved. Doc. 394, pag. 455 e seg.ti.

[16] Ved. Doc. 62 e 65, pag. 54 e 55.

[17] Ved. Registri Sigillorum vol. 31 (an. 1595) 1o 10bre; vol. 32 (an. 1596) 9 7bre e 16 7bre. Inoltre De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili etc. Nap. 1654 vol. 1o, pag. 399.

[18] Cons. Doc. 304, pag. 246.

[19] Ved. Doc. 64, pag. 54.

[20] Ved. Doc. 67, pag. 56.

[21] Ved. Doc. 37, pag. 42.

[22] Ved. Doc. 39, pag. 13.

[23] Ved. Toppi, De origine omnium tribunalium, Neap. 1655-66, vol. 2o, pag. 187.

[24] Il Nunzio gli era anche molto amico, siccome si rileva da un'altra sua lettera del 1o giugno 1601, dove si legge: «Fra tutti i Ministri che son qua di S. M. Cattolica non ho maggiore domestichezza che con il Consigl. Pietro di Vera d'Aragonia, che mi fu dato per Collega da N. S.re nella causa della rebellione».

[25] Ved. Doc. 38, pag. 43.

[26] Ved. Doc. 325, pag. 276.

[27] Ved. la nostra Copia ms. de' processi ecclesiast. tom. 2o fol. 173-1/2.

[28] Un ms. posseduto dal Minieri-Riccio dà notizie delle fosse oscure, delle iscrizioni, delle ossa «rinvenute ne' sotterranei della torre Aragonese in occasione della fabbrica di una stufa per la nuova fonderia, di cannoni di ferro». La qualificazione della torre è uno sbaglio del raccoglitore delle iscrizioni, poichè la fonderia esiste sempre ed è facile vedere dove corrispondano i suoi fornelli. Le iscrizioni trovate leggibili rimontano solo al 1660; una del 1698 è di un tale che da 27 giorni vi si trova per essere andato incontro al Cardinale Principe di Savoia; spaventevole è quella di un tale, che impreca a' suoi parenti, i quali, per salvarsi, l'hanno fatto menare in quel posto, senza luce e tutto nudo, ove cerca la morte per finire di penare, e residui di scheletro ivi giacenti fanno pensare che vi trovò la morte. Ved. Catalogo de' MS. della Bibl. di Minieri-Riccio voi. 3o Nap. 1869, pag. 158.

[29] Ved. Doc. 421, pag. 527. Quivi specificatamente si notano tutte queste cose, attestate da fra Pietro Ponzio; e fra Pietro, per sua scusa, potè bene inventare che il Campanella trasmettesse i suoi Sonetti a Maurizio, calandoli giù dalla finestra, ma non inventare che la finestra di Maurizio si trovasse sotto quella del Campanella. D'altronde anche nella confessione ultima di Maurizio vedremo fatta menzione di parole scambiate tra lui e il Campanella nelle carceri di Napoli, e questo non potè accadere che dalle finestre.

[30] Ved. Doc. 376, pag. 386.

[31] Rimanga ben chiaro che il processo fu propriamente intitolato «di tentata ribellione»; solo pel vantaggio della brevità noi diciamo «processo della congiura», la quale maniera di esprimerci è del resto consentanea all'altra anzidetta, e certamente preferibile a quella che troviamo pure usata negli Atti e ne' Carteggi, cioè «processo di ribellione».

[32] Ved. i Doc. 441 e 442, pag. 551.

[33] Abbiamo fatto avvertire altrove (vol. 1.o p. 303) che potevano i Giudici, pe' delitti di lesa Maestà servirsi de' più gravi tormenti, ma non di tormenti nuovi. Qui aggiungiamo che lo stesso Farinacio cita la veglia, aggravata da successive modificazioni, col precetto «non habeatur nisi in vere atrocissimis ut laesa Majestate, assassiniis famosis et similibus» (De indiciis et tortura Ven. 1649 p. 348). Aggiungiamo ancora che Maurizio, malgrado fosse nobile, poteva essere sottoposto a tortura trattandosi di lesa Maestà, ed anzi a tortura più atroce, perchè «Nobilitas saepe auget delictum» secondo la massima del Gigante (De crimine les. Majest. Ven. 1588 fol. 67).

[34] 1.o Ne' Reg.i Curiae, vol. 46, (an. 1599-1601) fol. 10 si legge: «All'Audientia di Calabria ultra. Per alcune cause et degni rispetti moventi nostra mente ce è parso provedere et ordinare che D. Camilla morano figlia del q.m Barone di Gagliati di questa città di Catanzaro non sia amossa dal Mon.io di S.ta Chiara di detta città, dove al presente se ritrova per ordine di quessa R.a Audientia.... 18 julii 1601».—2.o Ibid. vol. 49. (an. 1599-1601) fol. 114 t.o si legge: «All'Auditor don Sancio di miranda. Per lettera delli 15 del passato mese de luglio havemo visto quanto per voi è stato provisto nel particolare del matrimonio di donna Camilla Morana figlia del barone di Gagliano havendola posta nel monasterio di S.ta Chiara di quessa città che il tutto sta molto ben fatto. et circa quello che ci dite che donna Anna sancez matre di detta donna Camilla tiene per sospetto il detto monasterio et per darli satisfatione l'haveti offerto un altro, gia che le parte senne contentano, vi dicimo che debbiate dar sodisfatione à detta donna anna circa il mutare detta donna Camilla sua figlia in altro monasterio come vi parerà meglio, non obstante l'ordine nostro che non si dovesse mutare da detto monasterio senza altro ordine che tale è mia voluntà et intentione. Datum neap. die 4 augusti 1601».—Il primo figlio di Gio. Geronimo Morano, Gio. Antonio, invece di D.a Camilla sua cugina sposò D.a Cornelia Ricca de' Signori dell'Isola (ved. Duca della Guardia. Discorsi delle famiglie nobili etc. Nap. 1641 pag. 264).

[35] Il feudo di Burgorusso, già difesa per le razze de' cavalli di Corte sotto gli Aragonesi, concesso poi al Conte di S.a Severina, era passato fin dal cadere del 1400 a Geronimo de Connestavulo subfeudatario del d.to Conte, e Francesca de Connestavulo lo recò in dote a Gio. Francesco Morano fin dal principio del 1500; era quindi già da un secolo posseduto da' Morano, onde poi con D.a Camilla Morano passò al Sances sud.to che divenne anche Marchese di Gagliato (ved. Reg.i delle Significatorie de' Relevii vol. 4.o fol. 112 t.o, e confr. Id. vol. 32.o fol. 154 t.o, inoltre Quinternioni n.o 175, fol. 191). Non c'è notizia che qualche porzione del feudo di Burgorusso fosse stata concessa in subfeudo a' De Rinaldis, e si sa che le notizie de' subfeudi si possono trovare solo accidentalmente nell'Archivio di Stato. Eppure, secondo il cenno datone dal Campanella, non avrebbe nemmeno dovuto trattarsi di quella specie detta subfeudum planum o de tabula, giacchè in altrettali suffeudi, tanto della varietà militare quanto della varietà rustica, per le costituzioni di Federico II succedevano anche le donne; avrebbe dovuto invece trattarsi di quella specie detta subfeudum quaternatum secundum quid, che veniva concessa col consenso anche del Re, giacchè in tal caso veramente, per estinzione di linea maschile od anche per solo crimine, succedeva il Barone sotto cui il feudo era tenuto. Ma rimane sempre che Burgorusso apparteneva a D.a Camilla, e che agli zii Gio. Geronimo, Scipione e Pietro, secondogeniti di Gio. Battista, spettava solamente la vita-milizia in D.ti 72, come risulta dal sud.to vol. 32.o delle Significatorie, fol. 154 t.o. Piuttosto Gio. Geronimo avrebbe potuto pretendere ed ottenere in mercede qualche feudo appartenente a' De Rinaldis dopo la confisca fattane, ma è singolare che non si abbiano notizie di feudi de De' Rinaldis per tutto il 1500, nè se ne abbiano di Gio. Geronimo Morano e figli per l'anno 1600 e seguenti. Per la fine del 1400 abbiamo trovato notizia del feudo di S. Marco in Calabria citra (detto anche S. Maoro nell'anno 1488) «concesso per la M.ta del S.or Re a Mosca de Raynaldo regio cavallarizo» e i feudi di Prato e di Cocchiato «concessi ad Michelangelo de Ranaldo»; ma in sèguito questi feudi si trovano tutti restituiti al Principe di Bisignano, e i due ultimi venduti da lui ad altri. In Stilo e Guardavalle poi verso i primi anni del 1600, oltre Burgorusso, si trova il feudo di Ragusa appartenente a' Tomacelli, da Lucrezia 2.a figlia di Geronimo e d'Ippolita Ruffo portato in dote a D. Filippo Colonna, che per morte del fratello Marcantonio divenne Duca di Paliano e Tagliacozzo e Gran Contestabile del Regno (amico del Campanella più tardi, e forse con l'occasione del feudo). Si trova inoltre il feudo di Arcamone, disputato tra Salvatore Reycitano e Cesario Salerno; e si trova infine il feudo Colicestra ed Agapito, acquistato da Berto Presterà. Il nome di Gio. Geronimo Morano non vi s'incontra affatto. Ciò darebbe ragione di creder vera la destinazione de' beni di Maurizio nel modo che vedremo affermato dal Residente Veneto.

[36] Ved. Doc. 78, pag. 59.

[37] Ved. Doc. 79, pag. 59. Questa copia di biglietto Vicereale senza data e senza indirizzo, ma inserta fra le lettere del periodo di cui trattiamo nel Carteggio del Nunzio, ci pare appunto che rappresenti la risposta del Vicerè alla lettera anzidetta.

[38] Così scrisse poi il Nunzio a Roma con la sua lettera del 21 gennaio 1600; ved. Doc. 83, pag. 60.

[39] Ved. Doc. 239, pag. 125. Chi conosce Napoli sa che la Chiesa di Monserrato trovasi all'ingresso dell'attuale Strada di Porto e di rimpetto alla torre del Castellano.

[40] Ved. Doc. 307, pag. 256.

[41] Ved. Doc. 84, pag. 61.

[42] Per ciò che è scritto nella Difesa, ved. Doc. 401, pag. 484. Per ciò che è scritto nelle Lettere, ved. Archivio Storico Italiano an. 1866, pag. 24, 59, 68 e 90.

[43] Facevano parte della Compagnia quasi sempre il Card.l Arcivescovo della città, molti Vescovi, Nobili titolati, Signori, Dottori, Sacerdoti, e per istituto un numero determinato di P.i Gesuiti e P.i dell'Oratorio, non che P.i di altri ordini. Ne faceva allora parte anche D. Gabriele Sances Cappellano maggiore, fratello di D. Giovanni; lo Stinca vi si era ascritto fin dal 6 gennaio 1585; più tardi, nel 1603, vi si ascrisse lo stesso Nunzio Jacopo Aldobrandini Vescovo di Troia. Annualmente uno de' fratelli era eletto all'ufficio di «scrivano». Costui registrava le relazioni delle giustizie, con la lista de' parenti del giustiziato, che la Compagnia aveva il carico di assistere e soccorrere, e con le discolpe e ritrattazioni se ve ne erano, oltrechè raccoglieva in altri libri i testamenti dei giustiziati, gli originali delle Autorità che ordinavano od invitavano la Compagnia alle giustizie etc. etc. Secondo l'attività dello scrivano e l'importanza del caso, si ha qualche notevolissima relazione, come quella della giustizia di fra Tommaso Pignatelli allievo del Campanella, che fu scritta da D. Antonio d'Aytona, e che trovata in copia nella Biblioteca Brancacciana dal chiar. prof. De Blasiis servì di base al suo bel lavoro intitolato Una seconda congiura del Campanella (ved. Giornale Napoletano di filos. e lett. giugno 1875). Nella Biblioteca dell'Abate Cuomo, ora Municipale, si hanno parecchie relazioni di giustizie, segnatamente de' tempi di Masaniello, che trascrisse da' Registri della Compagnia lo stesso compianto Abate.

[44] I suddetti ordini di Spagna rappresentano senza dubbio una delle voci diffuse allora ad arte; abbiamo altrove riferita la lettera del Re, che mostra gli ordini veri e ben diversi. Rappresenta del pari una voce diffusa ad arte quella che il Residente avea già trasmessa in un dispaccio anteriore (ved. Doc. 185, pag. 94) e che fornì al Mutinelli l'occasione di una nota sul tono di un idillio. Da' Registri Sigillorum di quel tempo si può vedere come S. M. di Spagna avesse pietà della borsa de' napoletani, facendo diluviare le grazie co' diversi titoli, di pensioni, avantagii, intertenimienti, piazze morte, sempre nell'interesse degli spagnuoli; e il fatto è illustrato assai bene da un'affannosa lettera del Vicerè che noi pubblichiamo (ved. Doc. 41, pag. 45). Si comprende poi che non si può fare alcuno assegnamento su quanto il Residente dice che Maurizio avrebbe confessato, trattandosi di un atto processuale del tutto segreto; e non abbiamo veramente notizia che fossero «cominciati» allora altri processi e catture dietro le confessioni di Maurizio.

[45] Ved. Doc. 40, pag. 44.

[46] Ved. Doc. 244 pag. 141-142-143; D. 247 pag. 159; D. 248 p. 160-161; D. 250 p. 163; D. 252 p. 166; D. 263 p. 175; D. 265 p. 182; D. 266 p. 184.

[47] Ved. Doc. 40, pag. 44.

[48] Ved. la Lett. al Card.l Farnese e quella latina al Papa e Cardinali, Arch. Storico Italiano 1866 p. 59 e 82.

[49] Ved. Copia ms. de' processi eccles. tom. 1.o fol. 132.

[50] Ved. Doc. 217, pag. 115.

[51] Ved. Doc. 218, pag. 115.

[52] Nella Numerazione de' fuochi di Tropea per l'anno 1595, vol. 1398 della collezione, si legge: «n.o 60. M. Jacovo Giovanne Tranfo a. 65; M. Ipolita Barone moglie a. 56; (*) M. Alessandro f.o a. 15; Isabella f.a a. 18; Cassandra f.a a. 11; Caterina schiava a. 30; Pietro schiavo an. 35; Giovanne schiavo a. 10; Fabritio schiavo a. 5. [ Barone de la terra de crepacore (sic) et del Casale de sant'Agata» etc.—Per la successione di Alessandro Tranfo al padre ved. i Rog. delle Significatorie de' Relevii.—Un altro documento intorno a lui troverà posto nel sèguito della narrazione.]

[53] Ved. D'Amato, Memorie historiche dell'illustr.ma famos.ma e fedel.ma città di Catanzaro, Nap. 1670.

[54] Ved. i nostri Doc. 83, 86, 89, pag. 61, 63, 64; e le notizie date nella nota a pag. 127 del vol. 1o di questa narrazione.

[55] Ved. Doc. 81, pag. 59.

[56] Ved. Doc. 306, pag. 248.

[57] Ved. Doc. 238, pag. 124.

[58] Ved. nell'Arch. Mediceo, filz. 4087, Let.ra del Battaglino del 18 gennaio 1600: «Horrendo spettacolo hebbi hieri nella mia loggia col veder perire inesorabilmente sette navi con quantità di marinari, fra esse è il galeone di Giorgio d'ulista carico di grani di Puglia come le altre cinque navi; il settimo fu un vascello Brettone chiamato da' nostri Vecchietti c'havea cominciato a caricar alberi et remi per andar in Spagna» etc. Un'altra del Turamini, ibid. stessa data, lo ripete. Inoltre ved. la Lett. dello Scaramelli, stessa data; Doc. 188, pag. 96.

[59] Ved. la nostra Copia ms. de' processi eccles. tom. 2.o fol. 236.

[60] Ved. il Doc. anzid.to

[61] Ved. Doc. 85 pag. 62, e Doc. 88 pag. 63.

[62] Ved. il Breve e gli altri Atti suddetti ne' Doc. 242 e 243 pag. 129; le Lett. del Nunzio degli 11 e 21 gennaio, Doc. 81 e 83, pag, 60 e 61; la Let. Vicereale de' 18 gennaio, Doc. 40 pag. 44; e l'altra Let. scritta d'ordine del Vicerè egualmente il 18 gennaio, Doc. 216 pag. 115.

[63] Ved. in Baldacchini la Lett. a Cassiano del Pozzo del 25 giugno 1624.

[64] Ved. Doc. 244, pag. 143.

[65] Ved. Doc. 84, pag. 61.

[66] Loc. cit. Doc. 244, pag. 143.

[67] Ved. Doc. 247, pag. 160.

[68] Ved. Doc. 376, pag. 387.

[69] Ved. Doc. 401, pag. 485.

[70] Ved. Doc. 378, pag. 389.

[71] Ved. Doc. 379, pag. 390.

[72] Ved. Doc. 380, pag. 391.

[73] Ved. Doc. 252, pag. 167.

[74] È questo uno de' punti della Narrazione che gioverebbe rivedere. Il Capialbi lesse niglio, ed aggiunse in nota «niglio, coccodrillo», citando l'Afflitto (Scrittori del Regno di Napoli, pag. 46, art. Acquaviva) che avrebbe forse alluso alla medesima fossa. Ma non ci è noto che la parola plebea niglio corrisponda a coccodrillo, bensì sappiamo che corrisponde a nibbio, sparviero; e l'Afflitto dice fossa del miglio, ed egualmente dice il Confratello de' Bianchi di giustizia che ci lasciò il ricordo degli ultimi momenti di fra Tommaso Pignatelli.

[75] Ved. Doc. 254, pag. 170.

[76] Ved. Doc. 256, pag. 172.

[77] Ved. Registri Curiae vol. 38.o (an. 1595-99) fol. 13, Let. Vicereale del 23 febbr. 1596.

[78] Ved. Doc. 307, pag. 254.

[79] Ved. Doc. 247, pag. 160.

[80] Ved. Doc. 87, pag. 62; ma bisogna notare che la data del 24 gennaio, quivi assegnata alla lettera in quistione, potrebb'essere errata, poichè il 4 febbraio essa era ancora attesa.

[81] Ved. Doc. 381, pag. 394.

[82] Sarno (Anelli de) Novissima praxis civilis et criminalis, cura observationibus... ac singulari tractatu inscripto Il Medico fiscale pro optima cognitione delictorum in genere, videlicet cadaveris venenati, virginis defloratae, pueri constuprati et aliorum consimilium Doctoris Horatii Graeci Medici phisici Regiae Curiae etc. Neap. 1717.

[83] Ecco il fac-simile del disegno del polledro datoci dal Greco (op. cit. pag. 499). Non rifuggano i lettori dal contemplarlo, specialmente quelli, che per caso menassero vanto di principii repubblicani; vedranno cosa costava a' padri nostri il professarli, e rileveranno bene la differenza:

La tortura del polledro

[84] Ved. Doc. cit. 381, pag. 394.

[85] Ved. Doc. 250, pag. 163.

[86] Ved. Doc. 87 e 88, pag. 62 e 63.

[87] Ved. Doc. 245, pag. 145-46; Doc. 247, pag. 160; Doc. 248, pag. 161; Doc. 253, pag. 169; Doc. 250, pag. 163; Doc. 251, pag. 165; Doc. 252, pag. 167; Doc. 265, pag. 183; Doc. 263, pag. 175, e Doc. 264, pag. 176.

[88] Ved. Doc. 192, pag. 97.

[89] Ved. Doc. 241, pag. 127, e Doc. 244, pag. 143.

[90] Alludiamo a' Doc. 244-266, pag. 129-183. Il Notamentum (Doc. 241, pag. 127) dovè essergli trasmesso o nell'inizio del processo, o piuttosto nel periodo di cui trattiamo, essendovi poi stato aggiunte a lato di ciascun nome le annotazioni relative all'esito del giudizio mano mano che questo si compiva per ciascuno inquisito.

[91] Ved. Doc. 394, pag. 456.

[92] Il Toppi (De Origine omnium tribunalium etc. Neap. 1655-66, vol. 2.o pag. 319), nel dare le notizie del Leonardis, non riesce esatto intorno alla data della nomina di lui ad Avvocato de' poveri, indicando per essa il 30 luglio 1601, che urta con la cronologia del processo del Campanella, nel quale si sa avere il Leonardis funzionato. Invece abbiamo trovato ne' Registri Privilegiorum le date sopraindicate pel Privilegio di nomina ad Avvocato de' Poveri (Ved. Privileg. vol. 120, an. 1599-600 fol. 188), e ne' Reg.i Sigillorum la data 30 luglio 1601 come quella del pagamento per l'esecutoria del Privilegio col quale venne poi nominato Avvocato fiscale della Vicaria (Ved. Sigil. vol. 38, an. 1601, introiti del 21 novembre). A complemento della rettificazione aggiungiamo che negli stessi Reg.i Sigillorum abbiamo trovato l'esecutoria del Privilegio di Avvocato de' poveri pel Catalano in data 16 febbraio 1594 (vol. 29), poi la nomina provvisoria di Jo. Vincenzo Cavaliero «mentre sua M. e sua Ecc.a provederà» in data 25 gennaio 1599 (vol. 35), infine l'esecutoria del Privilegio pel Leonardis in data 29 febbraio 1600 (vol. 37). Indubitatamente questo modo di successione, ed inoltre la data stessa del Privilegio del Leonardis «Metimnae coeli 30 7bris 1599», mostrano che il Leonardis non dovè essere nominato a bella posta nell'occasione di questo processo: sarebbe stato necessario un periodo di tempo molto maggiore per far giungere in Ispagna la proposta ed avere la decretazione di essa nella data suddetta.

[93] Naturalmente furono i Giudici quelli che ordinarono la consegna degli Atti al Campanella e gli assegnarono anche l'Avvocato; ma il Campanella parimente qui si studia di mettere nell'ombra i Giudici e di far comparire il Sances.

[94] Ved. Doc. 247 pag. 160; e risc. l'Illustr.ne II, pag. 619, per tutti gl'inquisiti che seguono.

[95] Ved. la nostra Copia ms. de' processi eccles. tom. 1.o, fol. 377.

[96] Il dottor Orazio Greco, che abbiamo citato a proposito del polledro, ci fa conoscere a proposito delle funicelle che se ne applicavano quattro, due ai carpi con uno o più nodi, le quali sempre recavano un'incisione della cute più o meno superficiale, e due alle braccia, a quattro dita sotto i capi degli omeri: preparato in tal guisa il paziente era poi elevato in alto con la corda, e finiva per rimanervi in uno stato orribile, che il Greco descrive minutamente.

[97] Ved. Doc. 93, pag. 65.

[98] Ved. Doc. 241, pag. 127.

[99] Ved. Doc. 264, pag. 175.

[100] Si avverta questa osservazione fatta dall'Avvocato, che si accorda con quanto avea già detto il Nunzio (ved. pag. 66) e che vedremo poi accordarsi anche con le affermazioni del Fiscale e infine con le affermazioni del Campanella medesimo nella sua Difesa; quattro affermazioni parallele emerse co' processi di Napoli. Nè si creda un'esagerazione curialesca il notatus infamia con le sue conseguenze. Era massima del S.to Officio che la sola carcerazione per delitto di eresia apportasse «notabile infamia» al carcerato, e i confessori, i medici, i maestri di scuola, i quali avessero abiurato come veementemente sospetti d'eresia, non solevano restituirsi o abilitarsi a' loro primitivi ufficii se non di espresso ordine e grazia del sommo Pontefice (Ved. Masini, Sacro Arsenale overo Pratica della S.ta Inquisitione, Roma 1639, pag. 309). La condanna poi in eresia formale colpiva d'infamia, di privazione di ufficio ed anche di successione i discendenti, e il potere civile in Napoli lo riconosceva. Ecco un breve documento in proposito, molto significativo e appunto del tempo del quale trattiamo: esso leggesi ne' Registri Sigillorum vol. 34, an. 1598, sotto la data 26 settembre: «Lettera per la quale se reintegra hercole miglionico a la dignità del dottorato et altri honori e officii publici e successione per lo delitto del eresia de suo avo»!

[101] Ved. Doc. 245, pag. 144.

[102] Ved. Doc. 246, pag. 149. Le parole, dalle quali risulta che questa Allegazione sia stata scritta in risposta a quella dell'Avvocato, si leggono a pag. 151:—«nos non instamus puniri eum, quod iam ejecerit Regem a Regno, Rempublicam fecerit, quod dicit se facturum procurasse, et hoc sub conditione et spe futuri eventus, ut advocatus partis fatetur» etc.

[103] È bello conoscere l'atteggiamento de' giuristi napoletani e del Consiglio Collaterale, fin dalla prima notizia di questo passo della Corona di Spagna verso Roma: ce l'insegnano due brani di dispacci del Residente Veneto scritto il 14 7bre e 26 8bre 1599.—1.o «Intorno alla investitura del Reame persistono tuttavia quelli che nelle materie feudali sono stimati più intendenti, che non dovesse la M. Cattolica condescender mai a dimandarla, poichè il Re suo padre, nell'atto che allhora era necessario per la rinuncia fatta vivendo dall'Imperator Carlo, fù investito da Papa Giulio terzo per sè et legitimi heredi, et discendenti secondo l'obligo et uso delle antiche et moderne infeudationi».—2.o «Il Consiglio non può accomodarsi che sia la persona sua (int. del Vicerè) che faccia l'atto di prestar l'obedientia al Papa, facendo in ciò molte considerationi, et movendo consequenze importanti per gli interessi di questo Regno con la Sede Apostolica, le quali tutte sono state con esso corriero rappresentate alla M. Cattolica».—Ma le rimostranze furono vane, e al Vicerè fu rinnovato l'ordine di recarsi a Roma.

[104] Confr. vol. I.o pag. 70.

[105] Ved. nell'Archivio Storico Italiano an. 1866 la Lett. latina al Papa, a pag. 82, e la Lett. al Re di Spagna a pag. 91.

[106] Ved. le Poesie ediz. d'Ancona p. 100. Anche nelle Lettere più volte accenna a riconoscere che la pazzia fosse simulata.

[107] Ved. il Carteggio del Nunzio filz. 231, Lett. del 13 aprile, 25 maggio e 15 giugno.

[108] Ved. Doc. 392, pag. 416.

[109] Ved. la nostra Copia ms. de' processi eccles. tom. 1.o fol. 362-1/2. Dal brano della lettera del Vescovo risulterebbe che il Nunzio avesse fatto molti giorni prima osservare il Campanella, e gli fosse stato riferito che in segreto egli parlava assennatamente: ma fu questa senza dubbio una piccola vanteria del Nunzio, mentre l'osservazione del Campanella venne ordinata dal Sances, il quale dovè poi discorrerne al Nunzio; difatti le relazioni avute dal Sances si raccolsero in sèguito nel processo di eresia, non le relazioni avute dal Nunzio, il quale si curava ben poco del Campanella e de' frati.

[110] Ved. Doc. 350, pag. 327.

[111] Ved. Doc. 361, pag. 356. Ma non è sicuro che questo d'Assaro fosse carcerato per la congiura: un Cesare d'Assaro, clerico, trovasi nominato qual prigione nel Carteggio del Nunzio; egli era incriminato di assassinio, con la tortura avea purgato gl'indizii, e non vedendosi liberato fuggì di Castello in compagnia del cav.r Capece ma fu ripigliato. Ved. Lett. da Roma, filz. 210 e 211, let. del 18 8bre 1597, 13 marzo 1598 etc. etc.

[112] Si dia uno sguardo all'indice delle poesie che pubblichiamo. E ci si permetta di aggiungere che quando fra Pietro fu poi interrogato circa le poesie, tra le diverse provenienze, indicò «per la maggior parte che sono più di 25» quella da altri carcerati, i quali dicevano averle avute da Maurizio, cui sarebbero state date direttamente dal Campanella etc. Non ci fermiamo su questa scusa di fra Pietro che cita il morto, scusa manifestamente inventata anche perchè sarebbe difficile riferire tante poesie al breve periodo in cui Maurizio rimase nelle grazie del Campanella, vale a dire dal 9 9bre al 19 10bre, o poi gli argomenti di molte fra esse alludono fuori ogni dubbio a circostanze posteriori a tale periodo; ma notiamo la distinzione di questo numero di «più di 25» poesie, che rappresenterebbero un gruppo speciale più antico.

[113] Ved. Doc. 436, pag. 549, e i seguenti.

[114] Ved. Doc. 441, pag. 551, e i seguenti.

[115] Ved. Doc. 459, pag. 558.

[116] Le favole da una parte, gli scismi dall'altra. Vedi Doc. 456, pag. 556.

[117] Ved. Doc. 452, 453 e 457, pag. 555 e 557.

[118] Ved. Doc. 489, pag. 569.

[119] Ved. Doc. 447, pag. 553.

[120] Ved. Doc. 451, pag. 554.

[121] Ved. Doc. 439, pag. 550.

[122] Ved. Doc. 440, ib.

[123] Ved. Doc. 449 e 450, pag. 554; dippiù gli anteriori 444-46, e 448, pag. 552-53.

[124] Ved. Doc. 464, pag. 559.

[125] Ved. Doc. 455, pag. 556.

[126] Ved. Doc. 400, pag. 475.

[127] Ved. Doc. 268, pag. 188.

[128] Anche nella stampa di questi documenti ci siamo ingegnati di riprodurre le postille e le aggiunte in modo da poterle distinguere dallo scritto primitivo impiegandovi altro carattere: preghiamo i lettori di guardarli, in riscontro a quanto stiamo per dire; ved. Doc. 401, pag. 478.

[129] Allude manifestamente alla perdita delle navi che si ebbe al tempo in cui si fece morire il clerico Cesare Pisano.

[130] Intendi Niccolò Tedeschi, Benedettino Catanese, Arcivescovo di Palermo, poi Cardinale, detto anche l'Abate Palermitano. Di lui si hanno molte opere; morì nel 1445.

[131] Ved. per Ferrante la Numerazione de' fuochi riportata nella nota alla pag. 10 del vol. 1.o; per fra Pietro ved. la sua prima deposizione innanzi al Vescovo di Gerace (Doc. 294, pag. 226).

[132] Ved. Capaccio, Il Forastiero, Nap. 1634, pag. 503.

[133] Ved. Doc. 229 pag. 120. Il poter «nominare» delinquenti, per farli indultare, era uno de' diversi modi di compensi pro meritis: nel caso del Lauro la nominazione fatta non è espressa, ma s'intende, mentre in altri casi è espressa. Ne citiamo uno relativo ad un soggetto del quale anche si è parlato in questa narrazione: «a 17 de marzo 1594 indulto et gratia facta à Prospero morales de peczolo per l'homicidio commesso in persona de mutio costantino stante lo servitio facto per battista de amicis d'havere dato in mano dela corte Marco sciarra e nominatione facta in persona de decto prospero». Ma generalmente era questa una delle concessioni minori, che si accompagnavano ad altre di maggiore entità.

[134] Ved. i Reg. Sigillorum vol. 40 e 42.—1.o «3 Gennaro 1602. Licentia de arme in persona de Fabio de Lauro, pietro de lauro, mauritio spina et ferrante de lauro».—2.o «3 de aprile 1604. Licentia de arme in persona de fabio de lauro, pietro de lauro, mutio spina (sic) et ferrante de lauro».

[135] Ved. i Reg. Sigillorum vol. 31 (an. 1595) e vol. 37 (an. 1600); in quest'ultimo si legge: «A dì 16 xbro, Privilegio del off.o di perceptore della seta della città di Catanzaro in persona de Gio. Battista Biblia».

[136] Ved. Doc. 231, pag. 120.

[137] Ved. i Reg. Litterarum S. M.tis vol. 12, (an. 1602-1610) fol. 545. Re Filippo dice al Vicerè che approva la transazione proposta dal Principe, ed aggiunge: «y por obligar le mas, he tenido por bien de le honrrar y hazer merced de una plaça del Conseio Collateral de que se le embiara su Titulo como se lo dereis de mi parte, y que en lo de la Compania de gente de armas que pide, en las ocasiones que se offroscieren se tenra con su persona y meritos la cuenta que es razon para hazer le la merced que huviere lugar». La lettera è in data del 12 luglio 1606.

[138] Ved. Doc. 232, pag. 121.

[139] Ved. i Reg. Privilegiorum vol. 125 (an. 1602) fol. 13. t.o; e confr. i Reg. Officiorum Suae Maj.tis vol. 1.o fol. 202.

[140] Reg. Privilegiorum vol. 123 (an. 1602-1603) fol. 128.

[141] Ved. Doc. 233, pag. 122.

[142] Ved. Doc. 235, pag. 123. Il suo viaggio a Madrid è ricordato in una delle sue lettere al Gran Duca di Toscana, che abbiamo già citata altrove; ved. vol. 1.o pag. 127 in nota.

[143] Ved. i Reg. Mercedum, vol. 2o, fol. 203. La pensione dicesi data pe' «multa grataque obsequia... per spacium triginta quatuor annorum singulari fide, vigilantia et integritate tam in dicto Consilio quam in officio Advocati fiscalis nostri Provintiae Calabriae ac interim in rebus magni ponderis nobis praestita».

[144] Ved. nell'Arch. di Stato in Torino Lettere Ministri Due Sicilie, maz. 2.o, let. del 4 e del 14 giugno 1613, dell'8 novembre 1616 e 6 gennaio 1617; inoltre Lettere Ministri Roma maz. 27, fasc. 2o, let. del 26 novembre 1616.

[145] Per le esecutorie di entrambi i Privilegi successivamente avuti, ved. i Registri Sigillorum vol. 38 e 39 alle date suddette. Pel Privilegio della nomina a Consigliere, ved. i Reg.i Privilegiorum vol. 123 fol. 168: quivi i meriti della sua persona sono espressi ne' seguenti termini, «cuius nobis et eruditio ac diligentia, et quidem probitas atque prudentia probantur, quandiu hactenus officium Advocati fiscalis nostrae Magnae Curiae Vicariae et alia munia cum laude exercuisti». Per la comunicazione fattane al Consiglio, ved. i Reg.i Notamentorum S. R. C. ab anno 1599 usque et per totum annum 1609, data suddetta.

[146] Questa lettera del S.ta Severina non si trova nel Carteggio esistente in Firenze, ma è citata nelle due lettere del Nunzio al S. Giorgio e al S.ta Severina degli 11 febbraio (ved. Doc. 87 e 88, pag. 63). L'assenza del Vescovo di Caserta dal Regno rilevasi dalla lettera precedente del Nunzio del 16 novembre 1599 (vedi Doc. 54, pag. 51).

[147] Fontana, Sacrum Theatrum Dominicanorum, Rom. 1666, pag. 589 e 544.

[148] Ughelli, Italia Sacra, Venet. 1720, t. 8, p. 37.—Quétif et Echard, Scriptores ordinis Praedicatorum, Lutet. Parisior. 1721, t. 2, p. 343-44.

[149] Nella sua Narrazione il Campanella lo nomina due volte, dicendolo Tragagliola, e il Capialbi lo corregge sempre dicendo «leg. da Firenzuola»; inoltre il Capialbi lo dice di Firenzuola in Toscana, ma anche l'Ughelli l'avea già dichiarato «Insuber».

[150] Vedi i Registri Comune vol. 29 (an. 1599-1603) fol. 28 t.o, dove il Vescovo è cognominato «tragaiolo», e i Registri Sigillorum vol. 37 (an. 1600), data 8 marzo, dove si legge: «Exequotoria de bulle apostolice del Vescovato della città di termole in persona del Rev. frate Alberto tragarola taxato nihil solvat» etc. Anche nel processo del Campanella non di rado il cognome del Vescovo trovasi scorretto; ma nel Carteggio del Nunzio (Lettere dal 1597 al 1598, Filza 210) può vedersene la firma autografa sotto una Fede rilasciata per aver ricevuto un frate prigione inviato da Napoli, e del pari se ne legge molto esattamente il cognome ne' preziosi documenti del processo di Giordano Bruno raccolti dal Berti.

[151] Vedi Doc. 308, pag. 256.

[152] Anche nel Carteggio del Nunzio si trovano parecchie notizie sul Prezioso, ma posteriori al periodo di cui ci stiamo occupando. Egli era in continui contrasti con Giacomo Protonotaro, altro Mastrodatti della Curia, invadendone senza posa le attribuzioni; e fu precisamente lui, che alcuni anni più tardi, per una quistione intorno a un processo di bigamia, essendosi negato di consegnare il processo all'autorità civile, fu senz'altro preso e mandato in galera, onde ne nacque la scomunica al Reggente de Ponte ed una delle più rumorose controversie giurisdizionali.

[153] Ved. Doc. 309, pag. 258.

[154] Ved. Doc. 310, pag. 260.

[155] Ved. Doc. 331, pag. 284.

[156] Ved. Doc. 311, pag. 261.

[157] Ved. Doc. 312, pag. 263.

[158] Ved. Doc. 313, pag. 264.

[159] Ved. Doc. 314, 315, 316, pag. 265 e 266.

[160] P.e Fiore, Della Calabria illustrata, Nap. 1691, vol. 2o, pag. 394.

[161] Ved. Doc. 328 e 329, pag. 281 e 282.

[162] Si rilevano dalla risposta del Card.l di S. Severina; ved. Doc. 330, pag. 284.

[163] Ved. la nostra Copia ms. de' processi eccles. tom. 1.o, fol. 111-1/2.

[164] Ibid. fol. 362-1/2-63.

[165] Ved. Doc. 317 a 321, pag. 268 a 273.

[166] Ved. Doc. 322 a 326, pag. 274 a 277.

[167] Ved. Doc. 327, pag. 279.

[168] Ved. la nostra copia ms. de' processi eccles. tom. 1.o fol. 96-1/2.

[169] Ved. Lett. del Nunzio del 16 giugno 1600 filz. 230.

[170] Cioè al Monastero di Monte Vergine propriamente detto, sul monte Partenio presso Avellino. Chi scrive questa narrazione serba dolorosissimi ricordi familiari di fatti dello stesso genere, avvenuti in questi nostri tempi sul detto monte.

[171] Ved. la nostra Copia ms. de' processi eccles. tom. 1.o fol. 98-1/2; così pure per gli esami seguenti.

[172] Ved. Doc. 332, pag. 284; quivi anche gli esami seguenti di fra Dionisio.

[173] Ved. Doc. 333, pag. 295.

[174] Nella Numerazione de' fuochi di Stilo (vol. 1385 della collez.) fasc. dell'anno 1636, l'elenco «veteris numerationis (1596) per comprobationem», oltre Giulio figlio di Paulo Contestabile di an. 26 sotto il n.o 200, reca anche: «n.o 256, Giulio Contestabile a. 35, Caterina uxor an. 20, Lucretia filia a. 2». Ne' Registri Partium vol. 1390 fol. 28 (an. 1596) si trova «Giulio Contestabile de Theseo»; invece nel processo leggesi «di Lucio».

[175] Ved. Let. del Nunzio al Vescovo di Nardò, del 28 giugno, e Let. del Nunzio al Vicerè del 4 luglio; Doc. 103 e 104, pag. 67.

[176] Ved. Doc. 334, pag. 296.

[177] Per la lettera del S.ta Severina ved. Doc. già cit.to 330, pag. 284. Per l'atto del tormento del Campanella ved. Doc. 335, pag. 298.

[178] Ved. Doc. 336 e 337, pag. 300 e 301.

[179] Ved. Doc. 338, pag. 301.

[180] Ved. la nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 1.o fol. 130 e seg.ti

[181] Pel D'Amico ved. la nostra Copia ms. de' processi tom. 1.o fol. 134 e 137; pel Polistina ved. Doc. 339 pag. 302.

[182] Ved. Doc. 340, pag. 303.

[183] Ved. Doc. 351 a 355, pag. 329 a 337.

[184] Ved. la nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 1o fol. 308 e seg.ti

[185] Ved. Doc. 341, pag. 306.

[186] Ved. Doc. 343, pag. 309.

[187] Ved. Doc. 342, pag. 306.

[188] Ved. Doc. 344 a 349, pag. 311 a 326.

[189] Ved. Doc. 358, pag. 340.

[190] Ved. nel Carteggio del Nunzio, Doc. 105, pag. 68.

[191] Ricordiamo che questa odiosità o inimicizia capitale avea sempre una importanza particolare nelle cause di S.to Officio; ved. la nota a pag. 260 del 1o volume di questa narrazione.

[192] Quando negli esami difensivi si vede interrogato un testimone sopra una serie di articoli, e poi sopra altri, saltatine alcuni con la formola «omissis aliis de voluntate producentis», s'intende che questa omissione non è fatta per volontà di persona presente, ma per volontà espressa dall'inquisito, d'accordo col suo Avvocato, nel dare la lista de' testimoni, avendo indicato che quel testimone doveva essere udito sopra determinati articoli. L'Avvocato dunque non era presente agl'interrogatorii. Circa le Difese scritte, anche tra' MS. della Biblioteca Nazionale di Napoli c'è una così detta «Collezione di processi per carcerati nel S.to Officio della Curia Napolitana» (XI, B, 34), che veramente è una Collezione di Difese per carcerati nel S.to Officio e in piccola parte anche per cause civili e criminali del foro ecclesiastico. Naturalmente in ogni Difesa, spesso intitolata «Tutamen pro...» etc., la «enucleatio facti» dà una certa contezza sommaria del processo. Le Difese per cause di S.to Officio, riunite in quella Collezione, vanno dal 1673 al 1680 ed appartengono quasi tutte a un D. Clemente Ferrelli avvocato de' poveri: i testimoni vi si veggono indicati con lettere A, B, C, talora anche l'inquisito, specialmente se è sacerdote, è indicato con N. N. Possediamo poi una Difesa anche stampata per causa di S.to Officio, ed è la sola che abbiamo incontrata fra tanti opuscoletti da noi veduti.

[193] Ved. la Copia ms. tom. 1o, fol. 267. Il Memoriale, scritto dal Lauriana e degno di lui, vedesi firmato appunto da' frati affidati alle difese del Montella e poi dello Stinca, ed attesta la bontà del Vescovo di Termoli per que' frati. Fu inserto nel processo a lato di una comparsa di fra Pietro di Stilo del 17 novembre, con la quale fra Pietro rinunziava alle difese. Ma essendovi nel memoriale, con cui si dimandava un Avvocato, la firma anche di fra Pietro di Stilo, è chiaro che la data di tale scrittura deve riferirsi a un periodo anteriore, e verosimilmente a' primi di ottobre.

[194] Ved. Doc. 357, pag. 339.

[195] Ved. Toppi, De origine omnium tribunalium etc. Neap. 1655-66, vol. 3o p. 29.

[196] Questo elenco annuale de' Cappellani Regii fu redatto in quel tempo per la franchigia del pagamento del «grano a rotolo» ed inviato a' Deputati della pecunia dal Cappellano maggiore. Vi si legge: «Rev. dot.r Scipione stinca con doi servitori». Notiamo che dall'anno 1604 in poi non fu inviato un elenco nominativo, e però non si trova più registrato il nome dello Stinca.

[197] Ved. i Certificati de' lettori, che il Cappellano maggiore inviava allo Scrivano di razione pe' pagamenti. La provvisione raddoppiata, concessa al Dello Grugno, raggiungeva appena D.i 80 annui; così poco costava a que' tempi un buon lettore.

[198] Ved. Doc. 359 e 360, pag. 341 e 342.

[199] Ved. Doc. 362, pag. 359.

[200] Ved. Doc. 356, pag. 339.

[201] Ved. Doc. 361, pag. 344.

[202] Questo è il significato della espressione che si legge nell'art. 53, che cioè «non l'aveva mandato a Roma per penitenza», modo volgare ancor oggi abbastanza usato nel mezzogiorno d'Italia.

[203] Ved. Doc. cit. pag. 356.

[204] Costoro sappiamo certamente essere stati già carcerati, poichè se ne fa menzione in diverse parti del processo. Su molti altri, compresi nella medesima categoria de' testimoni dimoranti in Napoli, non abbiamo uguale certezza: potrebbe supporsi che fossero stati anche carcerati, poichè fra Dionisio li dà per testimoni precisamente sull'art. 58, vale a dire sulla sua condotta «da tutto il tempo in qua che è stato carcerato»; ma riesce notevole che non abbia dato alcuno di loro per testimone anche su qualche fatto avvenuto nel carcere, come si verifica in persona di quelli che sappiamo essere stati certamente carcerati. È più probabile quindi che si tratti di frequentatori del carcere per ragione di visite, come si ha per Aquilio Marrapodi compreso nella stessa categoria, frequentatore del carcere per ragione di servizii; e così ci è parso doverli escludere dall'elenco de' carcerati che ci siamo ingegnati di compilare (ved. nel vol. III, Illustraz. IV, pag. 644). Diamo tutte queste spiegazioni perchè la cosa rifletterebbe individui di conto, tra gli altri il Dot. Gio. Vincenzo Serra e il Dot. Ottavio Serra, sul quale ultimo dal documento inserto nel processo si ha che trovavasi Sindaco di Nicastro quando fra Dionisio fu inviato al Papa per la faccenda dell'interdetto, e molti altri documenti potremmo produrre esistenti nel Grande Archivio.

[205] Ved. Doc. 382, pag. 395.

[206] Ved. i Reg.i Partium vol. 1165 bis e 1181 fol. 126; 1244 bis fol. 6; 1271 fol. 193; 1275 fol. 205 etc. etc. Inoltre i Reg.i Privilegiorum vol. 91 folio 137; e gli stessi Reg.i Partium vol. 1317 fol. 100 t.o, e vol. 1508 fol. 133.

[207] Ved. Reg. Sigillorum vol. 35 (an. 1599), sotto la data 21 giugno. Quivi si legge: «Licentia d'arme a Cesare Spinola affittatore de S.to Nicola, Massari e garzoni, taxato tarì uno».

[208] Ved. Reg. Officiorum Viceregum vol. 6 (an. 1593-96) fol. 75, e vol. 7 (an. 1595-98) fol. 155. Quivi si legge: «Expedita fuit provisio Patens officii Capitaneatus. Hostuni in personam mag.ci Don Francisci de Castiglia pro uno anno integro, et deinde in antea ad beneplacitum, cum provisione, lucris, gagiis, et emolumentis solitis, et consuetis, et cum clausulis in forma Regiae Cancellariae, qui etiam praestitit Juramentum in posse mag.ci et circumspecti D. Petri de Castellet regii Collateralis Consilii ac Regiam Cancellariam Regentis. Neapoli die 31 mensis Januari m.o d.o nonagesimo octavo. El Conde de Olivares».—Per l'esecutoria ved. Reg.i Sigillorum vol. 34 (an. 1598) sotto la data 20 febbraio.

[209] Non mancavano frattanto in favore di questo pessimo soggetto commendatizie perfino da Cardinali come il Bellarmino; ed il Nunzio, dopo la fuga e la ripresa di lui in Gaeta, scriveva che il suo negozio era «aggravato con intiera sua colpa, che s'è lassato ripigliare», nè seppe far di meglio che consegnarlo nel 1605 alla Religione di Malta che lo reclamò. Il Vicerè fin da principio avea fatto istanza che fosse giudicato dal Nunzio coll'intervento di un ufficiale Regio (come si fece pel Campanella più tardi), ma S. S. non volle concederlo, benchè si trattasse di un così volgare assassino. Ved. il Carteggio del Nunzio in Firenze: Lett. da Roma del 5 maggio 1595, 8 novembre 1600, 14 giugno 1602, 12 novembre 1604; e Lett. da Napoli 3 marzo 1598, 17 marzo e 5 maggio 1600, 17 maggio e 22 giugno 1602, 14 e 30 luglio e 28 ottobre 1605. Inoltre i Reg.i Curiae in Napoli: vol. 40 (an. 1595-99) fol. 181, 12 marzo 1598; e vol. 47 (an. 1599-600) fol. 15 t.o, 31 agosto 1599.

[210] Ved. Doc. 363 e 364, pag. 360 e 361.

[211] Ved. Doc. 365, pag. 364.

[212] Ved. Doc. 366, pag. 366.

[213] Ved. Doc. 367, pag. 367.

[214] Ved. Doc. 368, pag. 369.

[215] Ved. Doc. 369, pag. 370.

[216] Ved. Doc. 370 a 372, pag. 371 a 379.

[217] Esclamazione comunissima tra' calabresi.

[218] Ved. Doc. 373, pag. 381.

[219] Ved. Doc. 384, pag. 397.

[220] Ved. Doc. 385 a 391, pag. 402 a 414.

[221] Ved. Doc. 392, pag. 415.

[222] Intendi Scanderbeg; nel volgare napoletano dicevasi Scannaribecco, e del resto «Scannalibec» e «Scandalibechi» leggesi anche in molte scritture pubbliche, p. es. ne' processi della Sommaria.

[223] Ved. Doc. 106, pag. 68. La ricevuta del processo fu da Roma annunziata il 16 10bre, ved. Doc. 107, ibid.

[224] Ved. Doc. 377 a 381, pag. 388 a 394.

[225] Ved. Doc. 376, pag. 386.

[226] Ved. Doc. 374 e 375, pag. 383 e 384.

[227] Ved. Let. del 6 aprile 1601, Doc. 120, pag. 71.

[228] Ved. Doc. 394, pag. 448, 455, 456, 449. Per le parecchie altre proposizioni ved. la nostra Copia ms. tom. 1o, fol. 362-1/2, 363, 380-1/2, 377, 394, 398, 392-1/2. Son questi tutti gl'importanti brani del Carteggio del Vescovo.

[229] Ved. Doc. cit. pag. 457.—Molte ricerche abbiamo fatte su tale negozio di Bitonto (nota città della Puglia), ed abbiamo trovato questi tre documenti, che ci sembrano riferibili al negozio cui allude il Vescovo di Termoli: essi si leggono ne' Reg.i Curiae vol. 34, fol. 216, 270 e 277 t.o—1o «Al m.co giodice di butonto (sic). Havemo visto quanto ci scrivete per la vostra delli 14 del mese passato intorno al particolare della carceratione fatta per lo Rev.do Vicario di quessa città della donna fattocchiara contra la quale pretende procedere nella sua corte ecclesiastica prosopponendo che il sortilegio fatto per detta donna sia hereticale et per voi si pretende procedere nella vostra corte per le cause et raggioni che in detta vostra ci allegate dandoci del tutto aviso acciò havessimo ordinato quello havessivo dovuto exequire, al che respondendo vi dicimo che essendosi per noi ben considerato quanto ci scrivete ci è parso di ordinarvi che non vi debbiate intromettervi in quella causa ma in quella lassarete procederci dal detto vicario nella detta sua corte Ecclesiastica, et cossi l'essequirete non facendo lo contrario per quanto se hà cara la gratia della predetta M.ta Dat. neap. die 8 aprilis 1593. El c. de Miranda».—2.o «Al m.co Jodice de bitonto... Per la vostra de li XI de febraro che havete scritta all'infrascritto mag.co et circumspetto Reg.te Moles havemo visto l'aviso che li date deli sortilegii, et magarie che si fanno in quessa terra. In resposta dela quale vi decimo che havete fatto bene a dar l'aviso predetto et vi ordinamo che da mano in mano ci debiate donar particolare aviso di quello che accaderà in simili negotii acciò per noi se possa provedere et ordinare quello che più meglio ci parerà che convenghi et cossi lo debiate exequire che tal è nostra voluntà. Dat. neap. die 24 mens. martii 1594. El c. de Miranda».—3.o «Al Capitano della città de Bitonto... Nelle carcere della Viscoval corte de questa città de Bitonto sa ritrovano ritenute alcune donne e un giovanetto vaxallo del stato ecclesiastico per cause gravi de apostasia dalla santa fede impietà magarie et altre cose spettanti al santo officio del inquisitione, et per che conviene per il servitio de nostro Signor iddio che quelli se mandino in questa fidelissima città de Napoli nel miglior modo che si potrà, o con sicurta o pleggiaria se l'haveranno o vorranno dare, overo non dandola o volendola dare con farli condurre preggioni secondo sarà giudicato per il Rev.do Vescovo de questa predetta città, per ciò ci e parso farvi la presente per la quale ve dicimo, et ordinamo che al ricevere d'essa parendo al d.to Rev.do Vescovo dare quella pleggiaria che al d.to Rev.do Vescovo parirà doversi dare, la quale per quella quantità sia buona et sufficiente de venire retto tramite et presentarsi nelle carcere della Vicaria etc. Dat. Neap. die 23 augusti 1594. El Conde de Miranda». Sembra manifesto che gl'imputati venuti a Napoli sieno stati mandati a Roma, dove le imputazioni furono poi trovate insussistenti.

[230] Engenio, Napoli sacra, Nap. 1623, pag. 151-152.

[231] Ved. Doc. 108, pag. 68.

[232] Ved. Doc. 108 a 115, pag. 68 a 70.

[233] Ved. Doc. 116, pag. 70.

[234] Vedi l'Ughelli loc. cit.—La data dell'exequatur fu il 25 feb. 1594, come si rileva da' Reg. Sigillorum, vol. 27 (an. 1586-95) fol. 213 t.o.

[235] Ved. l'Engenio, Napoli sacra, Nap. 1623, p. 562; Silos, Historiarum clericorum regularium t. 2. Rom. 1655, p. 67 e 156.

[236] Ved. Doc. 396, pag. 470.

[237] Ved. Doc. 396 e 398, pag. 461 e 473.

[238] Ved. vol. 1o, pag. 70.

[239] Ved. Doc. 117, pag. 70.

[240] Ved. Doc. 398 b, pag. 473.

[241] Ved. Doc. 118 pag. 70, e Doc. 407 pag. 507.

[242] Ved. Let. del 18 maggio 1601; Doc. 122, pag. 72.

[243] Ved. Doc. 119, pag. 71.

[244] Ved. il cit. Doc. 122, pag. 72. In questa lettera si parla anche di patenti e licenze da trasmettersi al Pittella e al Contestabile: non riesce agevole intendere di che si tratti, ma parrebbe trattarsi di fornir loro i permessi di andare a deporre in Squillace circa le nuove diligenze ordinate da Roma, poichè per la condanna avuta essi dovevano rimanere «extra provinciam Calabriae».

[245] Il fatto è registrato anche dal Campanella nella sua Informazione, ed interpetrato naturalmente così: «fra Cornelio era di mala conscienza, poi c'ha venduto il sangue di suoi fratelli, et andò fin a Spagna per la paga allo ingannato Re». È da notarsi che il Campanella non aggravò mai la mano sopra fra Marco e lo disse perfino «huomo buono ingannato da loro, che stava tanquam idolum et pastor», mentre tutto il processo, ed anche la parte del Carteggio del Nunzio di cui ci stiamo occupando, mostrano il contrario; parrebbe che al Campanella premesse di non tirarla troppo.

[246] Ved. Doc. 118, pag. 70, e 120-121, pag. 71-72.

[247] Ved. Doc. 400, pag. 475.

[248] Ved. Doc. 399, pag. 474.

[249] Ved. Hippolyti De Marsiliis Bononiensis, In nonnullos ff. et C. titulos Comment. et Repetit. etc. Venet. 1635 p. 45: «Aliud est tormentum, quo saepe usus sum contra obstinatos et contra non timentes tormenta, et vere nemo ita ferox invenitur qui huic tormento possit resistere, et est tormentum non laedens corpus, tamen est maximae potentiae, et antequam de ipso fecissem experientiam, videbatur mihi potius res ridiculosa quam tormentum, quod tormentum tale est. Nam ponitur reus super uno scamno ad sedendum, et ibi adsunt duo qui eum custodiunt ut non dormiat, nec de die nec de nocte, et cum ipse reus inclinet caput in una parte propter somnum, ille famulus qui est ibi ab illa parte dat cum manu sibi in capite, et excitat eum et elevat sibi caput, et idem faciat alter famulus quando inclinat caput ab alia parte versus eum, et quando illi duo sunt fessi et volunt dormire, alii duo novi subrogantur in locum illorum, et non permittunt unquam dictum reum dormire nec quiescere, in tantum quam ad tardius in duabus noctibus et uno die, reus omnia confitebitur promissa sibi quiete...» etc.—Grillandus Paulus Castilioneus, Tractatus de hereticis et sortilegiis omnifariam coitus etc. Lugd. 1536 fol. 94 t.o. «Profecto vidi ea quae prius non credebam, quod illud affert maximum tormentum et fastidium in corpore, absque aliqua membrorum lesione».—Ambrosini Tranquilli Senogalliensis Processus informativus; acced. Bernardini Franc. Mediolanensis Scholia, et Farinacei Prosp. Decisiones de indiciis et tortura Venet. 1649, pag. 348: «Quomodo haec duo tormenta dentur (ignis et Vigilia) consule alios, ego enim non sum apparitor aut birruarius». E pag. 237: «Tormentum vigiliae est scamnum quoddam altum a terra per septem vel octo palmos in circa tribus inhaerens hastis tanquam fulcris, non planum sed paulum acclive et in medio elevatum, conficiens angulum sed obtusum, super quo angulo manet reus ano denudato. Dixi angulum obtusum, quia si esset acutus, ut quandoque vidi, posset tortum ipsum fractis et foratis sibi inferioribus partibus interimere».—Zacchia Paul. Quaestiones Medico-legales, ed. 4.a Avenion. 1655, t. 1, pag. 411: «Secundum tormentum, quo in praesentiarum utuntur, illud est quod tormentum Vigiliae nominant, quod quidem ex nonnullis conditionibus atrocius multo videtur quam tormentum funis; est autem hoc tormentum hujusmodi. Reus in totum denudatus, illique pilis omnibus etiam reconditarum partium derasis, brachiis versus spinam retro contortis, ut in tormento chordae, alligatur tanquam fune torquendus. Tripes tum scamnum in promptu est, quod Capram, vel Equum, vel vulgo il Cavalletto nuncupant, sexipedalis altitudinis, cujus summitas ex quadrangulari tabula lignea est pollicaris crassitudinis, latitudinis undique bipalmaris: ejus tabulae superficies plana quidom in totum non est, sed sensim paulatimque versus medium ex singulis latibus sese elevans, in obtusum angulum desinit seu potius obtusam planitiem efformat. Reus eo modo chordae ex trochlea pendenti alligatus hic sedens sistitur. Lata insuper fascia ad pectus inditur, ac retro in proximo pariete firmatur; uterque humerus muris hic inde a lateribus existentibus longo funiculo medius deligatur; tum ad pedes longus inditur baculus ipsos pedes divaricans, ne eos Reus jungere possit; hic baculus per alium funiculum, quo medius ligatur, sursum elatus pedes etiam, et crura Rei attollit, adversoque parieti firmatur. Hoc modo relinquitur misellus per decem, duodecim, quindecim, aut viginti, et plures horas ad Judicis libitum, nisi delicta confiteatur, ea tamen cautela adhibita, ne brachia retro contorta per crassiorem funem trochleae appensam nimis extendantur; fit enim, ut miseri Rei multum extensis brachiis de vita periclitentur» etc.

[250] Ved. Eymerici Nicol. Directorium Inquisitorum etc. Rom. 1578, p. 136: «Saepe contingit huic fictae insaniae remedium afferre torturam; nam dolor non facile patitur jocum et fictionem, atque in hoc casu nullum videtur periculum ad explorandum animi morbum..... cum nullum hic mortis periculum timeatur».

[251] Intorno a questo fra Raimo ved. nell'Archivio di Firenze il Carteggio del Nunzio; Lett. da Napoli 19 febb. 1593; 1o giugno e 28 10bre 1601; 25 febb.o e 20 9bre 1602; e Lett. da Roma 16 feb.o 1602; 28 mag. e 4 giugno 1604. Fra Raimo non confessò nulla nemmeno alla veglia e fu mandato alle galere Papali; ma giunse a farsi credere inabile e quindi a farsi liberare dal Generale delle galere; di poi fu nuovamente carcerato per indebita liberazione. Può servire per esempio del come andassero le cose a que' tempi.

[252] Ved. Doc. 402, pag. 498. Per le frequenti parole in dialetto ed anche per l'abbondanza del latino, onde l'Atto potrebbe riuscire oscuro ad alcuni lettori, ci crediamo obbligati ad esporlo qui senza restrizioni, mentre avremmo tanto volentieri fatto il contrario.

[253] Ved. Doc. 168 e 169, pag. 86.

[254] Nella lettera al Card.l Farnese del 30 agosto 1606 pubblicata dal Centofanti si legge: «Quello Altissimo Dio, che mi liberò di sette tormenti horrendi»; e in quella al Papa e Cardinali del 12 aprile 1607: «bis tormentum eculei sustinui; semel torturam brachiorum; et 40 horas suspensus fune et funiculis ad ossa penetrantibus, insidens acutissimo ligno quod devoravit carnes meas ad duas libras, et sanguinem ad octo sextertia exhausit plagis decurrentibus».—Nella Lett. al Papa del 1607 pubblicata da noi: «oltre li tormenti asprissimi di corda, e dui polledri, et 40 hore di veglia con funicelli sin'all'ossa, et sedendo sopra un acutissimo legno, chi mi secaro più di due libre di carne e più che vinti di sangue in diverse volte»; e in quella a Mons.r Querengo dell'8 luglio 1607: «per sapientiam et per stultitiam 7 volte dalla presentissima morte il Senno eterno mi liberò; et inanti à questi 8 anni stetti in carcere più volte, che non posso numerar un mese di vera libertà se non di relegatione: hebbi tormenti inusitati e li più spaventosi del mondo cinque fiate e sempre in timore e dolore»; (non contemplandosi qui il solo caso dell'ultima prigionia di Napoli, le cinque fiate darebbero motivo di sospettare che vi sia stato anche un tormento in Roma nel 1591, ma bisognerebbe ammetterne dippiù un altro in Padova nella 1a prigionia della fine del 1592, altrimenti il conto non tornerebbe, e non abbiamo criterii bastevoli a chiarirlo).—Nelle Poesie filosofiche, ediz. d'Ancona a p. 110, si legge: «Cinquanta prigioni, sette tormenti Passai...»; e a pag. 117, «Il corpo sette volte tormentato».—Nella Lett. allo Scioppio posta come proemio al ms. dell'Atheismus triumphatus e pubblicata dallo Struvio, a pag. 6: «Vide quaeso simne asinus ipsorum qui quidem jam in quinquaginta carceribus huc usque clausus, afflictusque fui, septies tormento durissimo examinatus, postremumque perduravit horis quadraginta, funiculis arctissimis ossa usque secantibus ligatus, pendens manibus retro de fune super acutissimum lignum, qui carnis sextertium in posterioribus mihi devoravit, et decem sanguinis libras tellus ebibit. Tandem sanatus post sex menses divino auxilio fossa demersus sum».—Nelle Disputationum in quatuor partes suae philosophiae realis, Quaestionum moralium pag. 8: «Id ego expertus sum 40 horis pendens de fune tortis brachiis ligatus et funiculis simul usque ad ossa adstrictis; super acuminatum lignum insidens, ita ut si velim brachiis me subtinere contortis, nimis affligerentur brachia scapulae, et pectus, et collum, si me demitterem a ligno nates devorabantur: quae distentae usque ad vessicae collum et radices genitalium, sanguinem multum emittebant, donec tanquam mortuum post 40 horas torquere cessarunt. Homines alii me maledicebant, et intendebant dolores, funem excutiendo: alii laudabant clanculum fortitudinem».—E ne' Medicinalium juxta propria principia lib. 6, pag. 58: «Mihi autem et venas et arterias disrupit nedum carnes laceravit cruciatus equulei in posterioribus partibus, et tamen diligentia Chirurgi Scamardelli, optimi viri, sanitatem adeptus sum».

[255] Nelle Cedole di Tesoreria e Cassa Militare vol. 439 (an. 1610), fol. 869 si legge: «a ultimo de maggio 1610... a Bonifatio del Castillo medico Cirugico del r.o castello di Sant'Elmo per suo soldo de mesi ventidue etc. a ragione de d.ti 3 il mese, D.i 72,3,—». Pel medico Orabona ved. segnatamente i Processi della Cappellania maggiore.

[256] Nel Lib. I. Baptizatorum ab. an. 1544 usque 1600 si legge: «A di 3 de Agosto 1566 Lucretia Camardella fig. de Gio. Antonio Camardella et Mad.a lavina Camardella» etc. Nel Lib. III Baptizatorum et Mortuorum, all'elenco de' morti si legge: «A dì 22 de febraro 1601 morse lavina madre de sipione (sic) camardella medico»; inoltre «A dì 29 de luglio 1631 morì Scipione Cammardella Gerusico del Castello sepolto alla sep.ra de Sacerdoti nella Chiesa».—È facile intendere che le parole scritte da fra Tommaso «diligentia Chirurgi S. Camardelli (Scipionis Camardelli)» sieno state nella stampa interpetrate «diligentia Chirurgi Scamardelli». Così nella stessa opera Medicinalium a p. 350 si parla di «Cioccio del Tupho», evidentemente Ciccio ossia Francesco del Tufo; a pag. 378 si parla del «medicus Santarellus nolanus», alludendo senza alcun dubbio al medico Antonio Santorelli da Nola, celebratissimo in quell'età, lettore di pratica nello studio pubblico dopo il Cannizales nel feb.o 1613, poi lettore di filosofia dietro il ritiro di Latino Tancredi nell'8bre 1617 etc. etc. In somma è difficile avere un nome senza storpiatura, ciò che s'incontra egualmente ne' non pochi libri italiani del tempo, dati a stampare all'estero senza la revisione degli autori.

[257] Ved. il cit.to Doc. 400, pag. 476.

[258] Questo Vincenzo Ubaldini non ci riesce ignoto. Era di Stilo e insieme con tutta la famiglia dimorava in Napoli. Andato a Stilo col fratello Francesco, fu carcerato insieme col fratello e tradotto in Vicaria; l'Archivio di Stato ci fa conoscere la famiglia loro ed anche il motivo della loro carcerazione; trovandosi in Vicaria ebbero più tardi ad essere chiamati quali testimoni in una informazione di S.to Officio presa appunto contro fra Pietro di Stilo.—1o Numerazione de' fuochi, vol. 1385. Fuochi di Stilo della vecchia numerazione (1598) estinti: «n.o 39. Bartolo Baldino a. 48; Livia uxor a. 30; Vincenzo f.o a. 18; Francesco f.o a. 15; Mutio f.o a. 5; Dalfina Brescia famula a. 18».—2o Reg.i Curiae vol. 55 fol. 9 t.o «All'Audientia di Calabria ultra..... Da alcune Monache del Mon.io di S. Maria della gratia de' Vergini della città di Stilo ci viene scritto dell'insulto, et parole ingiuriose fattoli, da Vincenzo et Francesco baldini dell'istessa città in detto loro monasterio...» (segue l'ordine di prendere informazione, assicurarsi delle persone ed avvisare) 29 maggio 1603.—3o Contra fratrem Petrum Dominicanum etc. nella n.a Copia ms. de' proces. eccles. tom. 2o, fol. 267.

[259] Nei suoi scritti si disse sempre «Hipponiata», dando così luogo ad interpetrazioni diverse, onde fu dichiarato di Monteleone, di S. Eufemia, di Gerace, di Taverna. In un curioso documento da noi trovato, del 1614, egli si dice napoletano, di circa 72 anni, figlio del q.m Mario e Lucrezia Galfuna. Intanto ci consta pure che dopo il Perrotta, dal 23 8bre 1607 fino al 1622, tenne la cattedra di chirurgia ed anatomia un Mario de Burgos y Azolin; potrebbe stare che questo Mario fosse un parente di Giulio, accomodatosi a ripigliare l'originario cognome spagnuolo per ottenere più facilmente la cattedra; se così fosse, s'intende che riescirebbe accertata l'origine spagnuola di Giulio Jasolino, ma è indubitabile che egli era nato in Calabria, e ci consta da altri fonti che aveva due fratelli in Napoli, Orazio e Ferrante, oltrechè vi fu contemporaneamente qualche altro dottore Jazzolinus di Taverna in Calabria (ved. per quest'ultimo nel Grande Archivio la Collectio Salernitana vol. 170 fasc. 1.o f. 47; il tom. 1.o fasc. del 1588 della stessa Collezione ha un autografo di Giulio Jasolino).

[260] Ved. Doc. 403, pag. 502.

[261] Ved. Doc. 404, pag. 503.

[262] Ved. Pegna, Scholia in Eymerici Directorium Inquisitorum, Romae 1578, Schol. XXV pag. 136; «Quid si revera haereticus in furorem incidat,... quomodo ejus causa tractanda? Respondeo custodiendum esse omnino, donec ad sanam mentem revertatur: nec potest damnari priusquam in furore moriatur, quia fortassis resipiscet et reconciliabitur Ecclesiae: nec ob id dicetur recedere impunitus, cum satis ipso furore puniatur». Anche se l'eretico fosse divenuto pazzo mentre era già condannato all'ultimo supplizio, bisognava sospenderne l'esecuzione: «Minus malum videtur eum impunitum relinquere, quam puniendo animam perdere; differendum est igitur aut etiam amovendum penitus omne supplicium» (Ibid.).

[263] Su questo Cesare d'Azzia potremmo dare varie notizie, ma ci basterà dire che era di famiglia nobilissima, bensì di costumi molto tristi. Anche nell'Arch. di Stato in Torino, Lettere-Ministri Due Sicilie maz. 1o, lett. dell'Agente Melchiorre Reviglione 28 mag. e 7 giugno 1602, trovasi qualche cosa intorno a lui; poichè egli era Cav. di S. Lazzaro fin dal 1560 e possedeva le commende di Ariano, Barletta, Venosa e Rocca-Rainola. Il Reviglione suggerì di farlo processare e privare dell'abito dal Nunzio Pontificio, del quale il Duca di Savoia si serviva in simili casi.

[264] Ved. Doc. 417, pag. 521. Si ricordi che dopo la veglia il Campanella fu posto in una camera presso la Sala Reale, ed ora si badi che lo scritto fu trovato nel reveglino tra le due porte del castello: a chi conosce il luogo è chiaro che il Campanella dovea trovarsi nel bastione che rimane tra i due torrioni, quello detto Bibirella e quello detto del Castellano, ma più dappresso a quest'ultimo e nel 2o piano.

[265] Ved. Doc. 423, pag. 528.

[266] Ved. Doc. 405, pag. 504.

[267] Ved. Filza 4089, Lettere di particolari scritte da Napoli al Sig.r Lorenzo Usimbardi l'anno 1601 et 1602. La relazione è senza data, ma precede di poco l'annunzio della morte del Vicerè; per altro le Lettere stanno in quella Filza assai disordinatamente.

[268] L'Ughelli, Italia Sacra t. 6o p. 624, qualifica il Provenzale «nobile Filosofo e Teologo» non già medico; ma dice che Clemente VIII si servì dell'opera sua e cita i libri medici di lui.—Quanto al Bonaventura, può leggersi il Carteggio del Nunzio, Let. di Napoli 2 9bre e 7 10bre, 4 8bre 1602 e 26 7bre 1603; e Lett. di Roma del 30 9bre 1601, 13 7bre 1602, 15 maggio 1604.—Notiamo che negli ultimi giorni della malattia del Vicerè il Nunzio non si trovava in Napoli; avea dovuto recarsi, con suo vivo dispiacere, a Larino, dove il popolo avea chiuso le porte della città in faccia al suo Vescovo Mons.r Vello, e vi si era fatto accompagnare da 50 soldati a cavallo concessigli dal Governo; ved. il suo Carteggio, Lett. da Napoli del 21 7bre, 5 e 15 8bre 1601 etc. e il Carteggio Veneto, Let. del 9 8bre 1601.

[269] Anche ne' Diurnali di Scipione Guerra, ms. della Biblioteca Nazionale di Napoli (X, B, 11) si trova un Sonetto apparso al tempo della morte del Lemos, che canzona la sua intemperanza e comincia così:

«Giungi roba al pignato Satanasso
vien teco a cena l'alma di un ghiottone
che andò mangiando per ogni pontone
con scusa di portar la moglie a spasso» etc.

Nel Carteggio poi del Residente Veneto, una volta in data del 7 7bre 1599, a proposito delle doglianze affisse pe' cantoni circa la carestia, si biasima «la smoderata presunzione et superbia del popolo»; un'altra volta in data del 19 8bre 1601, a proposito delle accuse che si facevano al Lemos estinto, trovasi un'osservazione molto amara, ma che è bene conoscere, perchè rimossa l'esagerazione potrebbe anche offrire qualche cosa da apprendere, ed essa è, che i napoletani «per natura danno sempre per fatto da altri quello che fariano essi se havessero la potestà»!

[270] Ved. Doc. 123, pag. 72.

[271] Ved. Doc. 407, pag. 507.

[272] Ved. Doc. 406, pag. 506.

[273] Ved. la nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 2o, fol. 180 e seg.ti.

[274] D. Manno Brundusio di Fondi era stato dapprima Segretario del Vescovo di Lucera, e poi divenne Segretario del Vescovo di Caserta; secondo alcuni suoi reclami nè l'uno nè l'altro gli avrebbero dato mai compenso; vedi nel Carteggio del Nunzio Aldobrandini Lett.e di Roma del 1o 7bre 1600 e 24 10bre 1604; e Lett.re di Napoli del 21 genn. 1605. Suo fratello parrebbe che fosse stato quell'«Appio Brundusio Fundano filosofo e medico preclarissimo» il quale diresse ad Antonio Serra l'economista alcune poesie che si leggono in fronte all'opera di costui intitolata: Delle cause che possono far abbondare gli Regni d'oro et d'argento, Nap. 1613.

[275] Ved. Doc. 408, pag. 507.

[276] Ved. Doc. 415, pag. 519.

[277] Ved. Doc. 410, pag. 509.

[278] Ved. Doc. 411, pag. 510.

[279] Questa Sig.ra Giulia fu poi moglie del medico e filosofo celebratissimo a' tempi suoi, Francesco Leotta, di cui fanno menzione il P.e Fiore, il P.e Elia de Amato etc. etc. Nella Numerazione de' fuochi di Stilo, fasc. del 1630 si legge: «n.o 411. Dott.r Francesco Leotta (assente nella città di Roma); Giulia Prestinace moglie a. 62» (con due serve).

[280] Il Principe di Conca, di cui qui si parla, non potrebb'essere altri che quel Matteo di Capoa, «grande Ammirante del Regno» fin dal 1597, cav.re del Toson d'oro etc. che abbiamo visto testimone a carico di Colantonio Stigliola nel processo che costui ebbe dal S.to Officio (confr. vol. 1o, pag. 95 in nota).

[281] Questo opuscoletto, di carte 11-1/2 non numerate, comincia così: «Pithagoram, cum occultam musices rationem admiratum esse legeretur, et ex fabrorum malleis juxta pondera invenisse: eumdem quoque ad hominum natales et genituras descendisse videtur. Ideoque hominis partum vitalem esse, quum armonias explesse (?) videtur: perfectiorem vero nonimestrem, eo quod pluribus simphoniis confectum esse dicitur (?): septimestris igitur ideo armonicus, quum id tempus ex triginta quinque (?) per senarium ductum constat. Triginta quinque vero ex sonoris numeris colligitur, quibus homo formatur in utero. Nam primis sex diebus semen ut lac decoquitur, sequentibus octo erubescit in sanguinem: subsequentibus 9 fit caro: postremis 12 organizatur et in hominem formatur. Unde per armonias transit. Nam a primis sex ad octo Diatesseron est: et ad novem Diapente: et ad duodecim Diapason: ex quibus triginta quinque confiantur; cui si denarium adas, quatraginta quinque conficies; quem si per senarium ducas efficies 270, quem numerum, si in menses dividas, novem menses faciunt. Denarium si per unum, duo tria et quatuor dividas totum decem faciunt: si binarium ad unitatem comparabis Diapason videbis: Ternarius ad binarium Diapente: Quaternarius ad ternarium Diatessaron: e contra vero Quaternarius ad unitatem Bis diapason: Ternarius ad unitatem Diapason cum diapente. Quae cum plures sint, nonimestris vitalis erit; Octomestris vero cum nullas istas habeat proportiones, immusicus est, et non vivet quod in eo nascitur mense, ut clarius in hoc exemplo schematis hujus patet». Segue una tavola schematica, che lasciamo, come tutto il resto, anche perchè la scrittura riesce di una lezione molto difficile; vi scapiteranno solamente i Musici e i Fisiologi, che avrebbero forse visto con piacere accomunati i più sublimi principii delle rispettive discipline.

[282] Pare che debba leggersi: «a mucciari» che vuol dire «a nascondere»; ma è scritto «amacciari».

[283] Veramente l'originale dice: «fingi chi mi vidi» etc.; ma non andrebbe nè il senso nè il verso.

[284] Ved. Doc. 409, pag. 509.

[285] Ved. Doc. 417, pag. 521.

[286] Ved. Doc. 418, pag. 522.

[287] Ved. Doc. 419, pag. 524.

[288] Ved. Doc. 420, pag. 525.

[289] Eccola questa scrittura; è brevissima, e possiamo soddisfare chi voglia un saggio di tali scempiaggini: «Aric sequi Cunaim Enamenìcon Amael settantol Coniuro vos per Dom. nostr. Jes. Christ. et Mariae (sic) Virginis matris eius ut statim talis in amore meo corrumpere faciatis.» E poi: «Abagator Amon Averamon canus masque pedasque conturbant te

Scrittura

[290] Su questa faccenda del matrimonio di D. Andrea de Mendozza, figlio di D. Isabella de Mendozza 2a moglie e già vedova di D. Pietro Gonzales de Mendozza 4o Marchese della Valle Siciliana e Rende, abbiamo trovato notizie quasi complete nel Carteggio del Nunzio, notizie che non dà il De Lellis (Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli 1654 part. 1a p. 398); ed è bene saperne qualche cosa, poichè madre e figlio abitavano nel Castel nuovo, e in questa faccenda del matrimonio si trovano implicate certe persone che hanno potuto aver relazione col Campanella. Adunque D. Andrea, essendo capitano d'infanteria spagnuola in guarnigione a Bisceglie, s'invaghì di D.a Ilaria Sifola, che abitava in quella città con la madre Beatrice Sassi, ed apparteneva a famiglia nobilissima e potentissima in quella regione, tanto da far correre il proverbio notato dagli scrittori di cose nobiliari, «pe' Sifoli e Palagani non si può vivere in Trani». D. Andrea la sposò e vi si unì, ma la madre Marchesa della Valle montò in tanta collera da far istituire un processo di rescissione di matrimonio nel tribunale del Nunzio; D.a Ilaria Sifola, contro la volontà della Marchesa che avrebbe preferito vederla in un convento, venne sequestrata presso una nobile Signora di Barletta D.a Giulia Gentile, certamente de' nobilissimi Gentili che vantavano nella loro famiglia 14 Conti di Lesina (ved. Zazzera, della nobiltà dell'Italia, Nap. 1625 t.o 2.o pag. 81) sorella di Michele 2o Gentile e di Tommaso, che da D.a Eleonora della Gatta ebbe Francesco Gentile. Il Carteggio del Nunzio offre alcuni memoriali della madre della Sifola ed anche di D. Alonso de Mendozza il Castellano, che era fratello della Marchesa della Valle e quindi zio di D. Andrea, diverse lettere di Roma e di Napoli su questi memoriali, ed una lettera del Nunzio medesimo a D. Artuso Pappacoda, che sappiamo essere anche parente della Marchesa della Valle (marito della zia D.a Caterina de Mendozza) ed inoltre a quel tempo Governatore della Capitanata, onde avea voluto ingerirsi nella quistione, tentando, a quanto sembra, far uscire D.a Ilaria dalla casa Gentile per ingarbugliare semprepiù la lite sul matrimonio (ved. Lett. di Roma 13 7bre, 11 8bre e 1o e 29 9bre 1602; e Lett. di Napoli 18 7bre, 25 8bre, 22 9bre e 6 10bre 1602). Ma il matrimonio fu da ultimo dichiarato valido, sicchè D. Andrea si unì di nuovo a D.a Ilaria e n'ebbe figli e figlie, una delle quali si maritò ancora a un Gentile: i libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo recano i nomi di taluno de' discendenti di D.a Ilaria e D. Andrea, cominciando peraltro D.a Ilaria a figurarvi non prima dell'anno 1618.

[291] Ved. Doc. 421, pag. 526.

[292] Ved. Doc. 422, pag. 527.

[293] Riportiamo qui la bozza de' cedoloni; vi apparisce anche il fisco per pura e semplice finzione legale: «Hic auctoritate Apostolica denuntiatur et publicatur Excomunicatus, et ab omnibus christi fidelibus arctius evitandus Capitaneus Moya, qui fuit locumtenens Regii Castri novi hujus Civitatis, ob non paritionem mandatorum Apostolicorum eidem intimatorum, instante fisco et petente.—.... locus sigilli.—Donnus Benedictus Episcopus Casertanus et Commissarius.—Amoventes, et lacerantes, aut quomolibet (sic) deturpantes sint etiam Excomunicati».

[294] Ved. Doc. 423, pag. 528.

[295] Nel Carteggio del Nunzio (Let. da Napoli filz. 230) trovasi la seguente lettera del Nunzio al Card.l di S.ta Severina: «17 marzo 1600. Hò ordinato mi sia chiamato quel Melchiorre Mescia de Figueroa che V. S. Ill.ma mi scrive per la sua de' 10 del corrente che sta in Castello dell'ovo et è scomunicato, acciò sappia che hò facoltà di assolverlo, come l'assolverò tuttavia che venga conforme al suo ordine».

[296] Contrada nel territorio di Gerace.

[297] Ved. Doc. 435, pag. 547.

[298] Nel Grande Archivio non mancano notizie intorno ad alcuni di costoro, e propriamente intorno a quelli che hanno maggiore attinenza co' soggetti della nostra narrazione. Luzio Gagliardo finì ammazzato con taglia promessa dal Governo, come si rileva dal seguente dispaccio Vicereale all'Audienza di Calabria ultra: «Magn.ci viri etc. Per parte de Vincenzo Schinosi ci e stato fatto intendere come ritrovandosi Cap.to della città di S. Agata di quessa Prov.a andando in perseq.ne di Banditi ammazzò lutio Gagliardo Capo di Banditi, la testa del quale ha presentato a D. Garsia de Toledo olim Governatore di quessa prov.a et per tal causa li spettano D.i cento in virtù deli regii banni.....» (dietro la dimanda di pagamento il Vicerè vuole informazioni) 14 10bre 1603. Ved. Reg. Curiae vol. 55, an. 1603-1604, fol. 78.—Ed anche il Veronese dovè saldare qualche conto, come si rileva da un altro dispaccio parimente diretto all'Audienza di Calabria ultra: «Magn.ci viri etc. Si è ricevuta l'informatione che ci havete inviata con la vostra delli 4 di maggio prox.o passato presa di nostro ordine in Gerace ad instantia del Rev.do Vescovo di quella città contra alcuni particolari laici di essa, et essendosi vista per noi et referitaci in questo regio Collaterale cons.o ci è parso per risposta di detta vostra dirvi sincome per questa ve dicimo et ordinamo che al recevere di questa la debbiate (sic) incontinente con ogni diligenza procurare de haver in mano Pietro Veronese inquisito tra l'altri in essa et carcerato che l'havereti debbiate incontinentemente mandarlo sotto buona e cauta custodia nelle carcere della gran Corte della Vicaria con vostro aviso a noi, verum offerendove plegiaria di venirsene à presentare fra termine di un mese dandola di d.ti mille debbiati liberarlo e permettere che venga inviandoci copia di detta plegiaria et aviso del dì della sua scarceratione acciò che non venendo fra d.to tempo si possa procedere all'accusa di quella. Dat. neap. die 30 junii 1612. El c.de de lemos». Ved. Reg. Curiae vol. 83, an. 1612-1616, fol. 24 t.o.

[299] I Registri Curiae (vol. 30 an. 1581-1588, fol. 241) recano solamente, in data del 21 gennaio 1587, l'ordine al dot.r Vello, Commissario di campagna contro fuorusciti e malfattori, di avere in ogni modo nelle mani il Duca di Amalfi. Il processo di eresia, che abbiamo potuto esaminare, reca la notizia della carcerazione sofferta, secondo i diversi tempi, nella Vicaria, nel Castello nuovo, nel Castello dell'uovo, e così pure quella della condanna avuta e della grazia concessa, oltre tutti i particolari de' fatti in materia di S.to Officio. Vi abbiamo notato fra' testimoni «carcerati in Castello» fin dal 1595, anche il Sig. Cesare d'Azzia (che fu in relazione col Gagliardo nella faccenda delle scritture proibite) insieme con altri nobili di primo ordine, come Alvise d'Aragona, Arimanno Pignone, Francesco Loffredo. Il duca aveva posseduto egli pure una copia della Clavicola di Salomone, e fin dai primi anni suoi, nel 1579, passando per Venezia, con un monaco del convento de' Frari si era occupato di sortilegi, continuati poi di tratto in tratto con altri frati e preti in modi spesso curiosi. Abiurò il 21 agosto nella Chiesa di S. Maria a Cappella, dove fu tradotto dal vicino Castello dell'uovo. Il rescritto di abilitazione da parte di Clemente VIII, in data del 6 gennaio 1600, fu firmato anche da fra Alberto (Tragagliolo) Vescovo di Termoli Commissario generale del S.to Officio; e la commutazione dell'anno di carcere in penitenze salutari fu decretata dallo stesso fra Alberto il 13 gennaio 1600. La rimozione dell'empara fu fatta il 24 marzo 1600, e a questa data il Duca dovè uscire in libertà, ma alla guerra andò nell'anno seguente e durò molti anni nella vita militare.—Il Residente Veneto, effettuata l'abiura, la partecipò al suo Governo in data del 7 7bre 1599 in questi termini: «Il Sig. D. Alessandro Piccolomini Duca di Amalfi, che per antichità di titolo era uno de' primi SS.i di questo Regno, dopò havere alienato il stato et consumato affatto ogni altro suo havere, et permesso che sua moglie con potestà Pontificia si sia sacrata monaca, et essendo poi lui per diverse colpe stato dal Conte d'Olivares confinnato xij anni in Castel novo si è questi ultimi giorni nella Chiesa di Capella alle mure della Città abiurato in valida forma di cose hereticali». Di poi, il 23 maggio 1600, partecipò il desiderio del Duca «già libero» di servire la Repubblica Veneta. Infine, il 9 gennaio 1601, partecipò l'andata del Principe di Avellino alla guerra con 24 compagnie e 43 capitani, tra' quali il Duca di Amalfi.

[300] Ne diamo alcuni brani per saggio. «Prologho (sic). Se 'l verno coprisse di continuo la terra di giaccio, e di neve, e gli estivi, et tepidi soli non la disfacessero, come potrebono gli alberi e gli pianti produrre i fiori et frutti? cossì se qualche breve riposo non iscemasse tal volta la fatica, et alleggiasse il peso de' continui fastidj, et de noiosi pensieri ch'agravano gli animi nostri, come potremmo noi lungamente vivere? non à dubio che per ripararci dell'arma della morte più che si può, ne fa bisogno d'alcun soccorso honesto, ò utile, ò dilettevole, et che soccorso può dunque trovarsi più convenevole che la Comedia, che à in se tutte questi tre parti, è honesta, perche fu trovata per ritrarre gli huomeni dell'ampia strada de vitii, et guidarli per lo stretto sentiero della virtù...» etc. «Ma all'età nostra si prezzano si poco che rarissime si ne veggono a rapresentare, nè so si di ciò debba incolpare l'avaritia o il poco amore che si porta alla virtù, dall'un canto mi cade nel pensiero di darne cagione all'avaritia poi che non e chi voglia scomodarsi di un mino danaro (sic) per fare una scena, e dall'altro canto m'induco ad accusare il poco amore della virtù, per che gli ascoltanti, vedendosi porgere a gli occhi un vitio, del quale essi sono machiati, temono in presentia dell'altri non arrosirse, et conferma questa mia oppinione il vedere che non voglino in quelle poche comedie che si fanno, che si reprendino vitii ma solo si dicano ciance et cose ridicole e di nisuna sostantia, servendosi della Comedia per uno spasso et per un gioco, e non a quel fine che fu ritrovata, et sono alcune persone che essendo elle degne di riso, come sentonu una parte che move meraviglia à dolorore (sic) à compassione ò ad altro effetto contrario o diverso dal riso si sentono svenire, et bisogna apparechiare lo aceto per unger loro i polsi, et stimano più una chiachiarata all'improviso et fori di proposito d'un vecchio venetiano o di un trastullo accompagnata di quattro accione disonesti et vili usati farsi da bagattellieri, che una Comedia grave che si serra stentato tre anni a comporla et sei mesi a recitarla, vedete a chi termine e ridotto il poeta Comico, che essendo stato ripotato da ingegni eccellentiss.mi più difficile a comporre che lo Epico e 'l tragico, non mancano infiniti che non havendo pure una minima notitia di poesia solo con un certo loro discorso naturale, o per dir meglio materiale, et con l'osservanza secca c'hanno fatta in leggere quattro o sei comedie, stimandosi dotti senza arte presummono darne giudicio, et poi come sentono una protassis, una epitassis, una catastrophe, o simil altra sorte di voci convien loro di ricorrere ogni tratto al Calepino: et perciò (intend. se perciò) l'autore havesse pensato di contentare tutti i cervelli non si sarrebbe mai messo a durare questa fatica, perche non à tanta albaglia (sic) nel capo, che presumma esser miglore di Plauto, e di terentio, et di gli altri Autori moderni eccellenti, le Comedie de i quali non hanno potuto passare senza reprensione per li mani di certi Maestri Aristarchi, che con la barba quadra et col mantello lungo, col passo della picca, col far carestia delle parole et non dire che non sieno sesquipedali et preugne di sententie, aquistono credito appresso gli ignoranti et fanno profissione di havere i nasi critici che sentono l'odore insino al vetro, et non componendo essi mai, sono severissimi Giudici delle compositione altrui...» etc. «La Comedia è nova non più recitata e pur hora uscita di sotto il pennello del pittore e chiamasi torti Amorosi, da torti grandi che fa Amore alle persone che ne intervengono, facendole seguir chi le fugge scacciar chi li brama e i desiderii loro difformi et non corrispondenti, ma acortosi al fine che la Comedia sì rapresenta in Gerace che è questa che vedete, che è lugo (sic) dove si puniscono severamente le ingiustitie et i torti ben che legerissimi, et però temendo che costoro non ricorressero per gustitia (sic) al tribonal dello sdegno, si risolve far raggione a ciascuno, et farlo rimaner contento. Di silentio non ardisco ricercarvi, perchè mi parrebbe far inguria (sic) alla cortesia et alla gentileza vostra vedendove stare cossi chieti, attendeti che adesso si derra principio».

[301] Notiamo di passaggio che questo Michele Cervellone, propriamente messinese, fu poi uno de' 4 principali imputati nella così detta 2a congiura del Campanella, che finì col supplizio di fra Tommaso Pignatelli il 1634.

[302] Ved. la nostra Copia ms. de' proces. ecclesiast. tom. 2o, fol. 215-1/2.

[303] Il decreto leggesi nel Carteggio del Nunzio, Filz. 216. Esso è stampato, e fu così trasmesso al Nunzio per farlo conoscere a tutti, con lett. del 18 10bre 1602; bensì la sua data è anteriore, e rimonta al 1601. Le ragioni del decreto sono espresse ne' considerandi: «Ut causae et negocia quovismodo spectantia ad Sanctam Inquisitionem cognoscantur et expediantur omni qua docet integritate, amotis quibusvis sordibus ac pecuniariis solutionibus» etc. Vero è che la Camera Apostolica non dava mai nulla e non compensava neanche il Ministro Generale della S.ta Inquisizione; si attesta infatti in una lettera a proposito della morte di Mons. Carlo Baldino predecessore del Vescovo di Caserta, che egli avea «servito 30 anni all'officio dell'Inquisitione senza mercede» (Lett. di Roma del 10 aprile 1598, Filz. 211). In che modo dunque dovea provvedersi alle spese? Ne' tribunali Diocesani vi provvedeva il Vescovo con l'entrate del Vescovado, e infatti in un'altra lettera, scritta a tempo della vacanza della Chiesa Napoletana per la morte del Card.l Gesualdo, si ordina al Nunzio, amministratore temporaneo, che faccia pagare dall'entrate dell'Arcivescovado «le spese del vitto et altre necessarie occorrenti per li carcerati del S.to offitio et speditioni delle loro cause» (Lett. di Roma del 23 maggio 1603, Filz. 218): ma nel tribunale del Ministro Generale dell'Inquisizione potevano sopperire alle spese unicamente le confische delle cauzioni degli «abilitati»; ad ogni modo non avrebbero mai dovuto sopperirvi l'elemosine raccolte in sollievo de' poveri carcerati.

[304] Ved. Doc. 412, pag. 513.

[305] Ved. Doc. cit.

[306] Le scritture della Cappellania maggiore, dalle quali abbiamo desunto i particolari suddetti, sono rappresentate da' Processi della Cappellania maggiore, che avemmo a studiare nel far le ricerche sul chirurgo Scipione Camardella.

[307] Ved. De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli, Nap. 1654-71, vol. 2o, part. 3a, pag. 349.—Carteggio del Nunzio, Lett. di Roma 30 nov. 1601, 23 feb. 1602, 24 genn. 1603; e Lett. di Napoli 14 10bre 1601, 25 gen. 1602, 21 marzo 1603, 24 marzo 1605.

[308] Ved. Reg. Sigillorum vol. 38 (an. 1601) sotto la data 24 di maggio.

[309] Ved. Reg. Curiae vol. 52 (an. 1601-1603) fol. 17, ove leggesi il seguente memoriale: «Gio. Francesco de Apuczo expone a V. Ecc.tia come sono octo mesi e più che se ritrova carcerato senza haver' fatto male sotto pretesto fosse consapevole dela morte del q.m notar' Gio. Carlo d'Apuczo suo padre per il che fu delegato per la felicis.ma memoria dell'Ecc.tia del Conte di lemos in detta causa il giudice Gio. Andrea Auletta, il quale come delegato procedè in detta causa et hà tormentato atrocissimamente esso supplicante mediante il quale (sic) è ridotto in tanta poca salute che si ritrova in pericolo di morte senza posser' ricorrere à persona alcuna che lo proveda per non haver' giodice...» etc. (supplica che gli si faccia giustizia, e S. E. all'ultimo di ottobre 1601 delega per la causa il giudice Tirone).

[310] Ved. Doc. 413, pag. 514.

[311] Ved. Doc. 414, pag. 518.

[312] Ved. Doc. 416, pag. 520.

[313] Ved. Doc. cit.

[314] Ved. Doc. 127, pag. 73.

[315] Ved. Doc. 128, pag. 74.

[316] Da una lettera del Campanella del 10 agosto 1624 a Cassiano del Pozzo, lettera pubblicata dal Baldacchini, apparisce che il Campanella riteneva essere stata la Monarchia tradotta anche in ispagnuolo e che questo accresceva le sue speranze di liberazione: per lo meno se fu tradotta in ispagnuolo, non fu stampata in questa lingua, avendola noi invano cercata nella Bibl. naz. di Madrid e in quella dell'Escuriale. Il Bosoldo poi ebbe cura di tradurla o farla tradurre in tedesco, perchè la politica era uno de' suoi studii prediletti, ma non si comprende perchè non l'avrebbe pubblicata in latino, se fosse stata già tradotta in latino, e questo ci dà motivo di sospettare che le affermazioni del Syntagma sopra citate possano essere inesatte. Quanto alla pubblicazione in italiano, essa fu condotta sulla copia scorrettissima esistente in Firenze, e il D'Ancona dovè lavorarvi assai e se la cavò con molto suo onore; ma ci sia lecito ripetere il voto, che laddove abbia a rifarsene l'edizione si tengano presenti le copie napoletane che si prestano tanto bene a' confronti.

[317] Ved. Doc. 524, pag. 604.

[318] Ved. Doc. 497 e 498, pag. 572 e 573.

[319] Ved. Doc. 494, pag. 571.

[320] Ved. Doc. 488, pag. 569.

[321] Ved. Doc. 504, 512, 515, 513, 517, pag. 575, 579, 580, 581.

[322] Nella lett. al Card.l Farnese si legge: «un volume di sonetti e canzoni a varie repubbliche regni et amici e salmodie...» etc. Nel Memoriale al Papa, pubblicato dal Baldacchini e riprodotto dal D'Ancona, si legge: «un volume di varie rime e Salmodie... morali e politiche».

[323] Ved. Doc. 502, pag. 574.

[324] Ved. Doc. 507, 505, 506, 509, 510, 508; pag. 576-577.

[325] Ved. Doc. 495, pag. 571; e 511, pag. 579.

[326] Ved. Doc. 462, pag. 559; e 491, pag. 570.

[327] Ved. Doc. 492, pag. 570.

[328] Ved. Doc. 499, pag. 573.

[329] Ved. Doc. 463, pag. 559.

[330] Ved. le Cedole di Tesoreria vol. 427, an. 1596, pagamento in data 30 giugno di D.i 150 per soldo de anno uno; e le Carte diverse del Governo dei Vicerè, fasc. 2o, an. 1610, dimanda in data 10 luglio, con la quale D. Troiano chiede licenza di poter rimanere un anno fuori Napoli.

[331] Ved. Doc. 467, 468, 477; pag. 560, 561, 564.

[332] Ved. i Registri Privilegiorum vol. 104, an. 1593-95, fol. 84. Sospettiamo che la madre di D.a Ippolita non sia stata Porzia Pignatelli moglie di D. Garzia, giacchè in questo documento, oltre l'assegno in moneta fattole dal padre, si ricorda anche questa promessa da lui avuta, «vita durante della madre di d.ta D. Ipolita consignarli ogni anno mensatim tomola ventiquattro di grano».

[333] Ved. Sarrubbo, Trattato della famiglia Cavaniglia, Nap. 1637, e De Lellis, Famiglie nobili di Napoli, ms. della Bibl. naz. nap. X, A, 3. fol. 263, e X, A, 8, fol. 175-193.—Negli stessi Reg.i Privilegiorum vol. 86, an. 1587-88, fol. 96, trovasi la donazione della parte legittima de' suoi beni fatta da Cornelia Cavaniglia nel vestirsi monaca, e in essa si citano la madre Porzia Pignatelli e i fratelli Troiano, Scipione, Fabrizio e Mario. Ne' libri parrocchiali della Chiesa di Castel nuovo è citato più volte Fabio Magnati fino al 1585, e Troiano Magnati due volte, nel 1596 e 1598; D.a Ippolita Cavaniglia poi è citata un grandissimo numero di volte, specialmente come madrina, anche in compagnia di D.a Anna e di D.a Maria de Mendozza, talora in compagnia del Principe di Bisignano quando costui era carcerato; e da ultimo l'elenco de' morti reca, «A dì 29 de xbre 1615 morì D.a Polita Cavaniglia, sepolta nel ihs vecchio» (intend. nella Chiesa del Gesù vecchio).

[334] Capaccio, Il Forastiero, Nap. 1634, pag. 774.

[335] Ved. Doc. 469, pag. 561.

[336] Ved. Doc. 465, pag. 560.

[337] D.a Anna de Mendozza, figlia di D. Diego e D.a Claudia de Caro fu sposa a D. Ferrante de Bernaudo (ved. Reg.i Sigillorum 18 7bre 1595) e ne ebbe varii figli, Claudia, Francesco, Diego, Beatrice (ved. i libri parrocchiali per gli an. 1595-98-99 etc.); era dunque figlia e non moglie al Bernaudo, che fu poi creato Duca, la Claudia di cui parla il De Lellis (Discorsi delle famiglie nobili etc. Nap. 1564 vol. 1o pag. 399). Aggiungiamo che vi fu una Claudia Antonia de Mendozza, ultima figlia di D.a Isabella Marchesa della Valle e quindi nipote di D. Alonso il Castellano, la quale nel 30 8bre 1614 sposò Alessandro Ridolfi di famiglia fiorentina, generale del Papa, Ambasciatore straordinario di Mattia Re d'Ungheria al Re di Spagna, divenuto in Napoli Consigliere del Collaterale, pensionato con D.ti 1000, ed anche Marchese di Baselice: costui parecchi anni più tardi fu in relazione col Campanella, il quale parlò appunto di lui in una Lettera al Papa del 9 aprile 1635, che è tra quelle pubblicate dal Berti, quando disse che co' fratelli Ludovico ed Ottavio (Ridolfi) stava «in Castel di Napoli dove era accasato il Marchese et io carcerato».

[338] Ved. Doc. 466, pag. 560.

[339] Ved. Doc. 473, pag. 562.

[340] Ved. in Allacci Drammaturgia, Venez. 1775, pag. 522 e 779. Le Commedie sarebbero: «La memoria di Dario e Grisante» e «I trastulli d'Amore» Viterbo 1647.

[341] Ved. Doc. 470, pag. 561; e 478 pag. 564.

[342] Ved. Doc. 471, pag. 562; 472, ib.; e 474, pag. 563.

[343] Ved. Doc. 475, pag. 563.

[344] Ved. Doc. 479, pag. 564.

[345] Ved. Doc. 476, pag. 563. Pel Campanella la filoprogenitura è una ingannevole tendenza naturale ad eternarsi o immortalarsi, come si può rilevare anche da un brano della lettera al Flugio, che fu da noi pubblicata; da ciò emerge chiaro quale sia il fonte consecrato all'appetito dell'immortalità.

[346] Ved. Doc. 484, pag. 568.

[347] Ved. Doc. 483, pag. 567: 482, ib.; 480, pag. 564; 481, pag. 566.

[348] Pel Sonetto ved. Doc. 501, pag. 574. I Reg.i Partium, volume 1420, an. 1597-1599, fol. 133, nell'elenco de' possessori di rendite pagabili sull'arrendamento del vino recano, «Sore Elionora Barisana D.i 14»; i libri parrocchiali del Castel nuovo, nell'elenco de' morti, fol. 93, recano, «A di ij de marzo 1620 morì Sore Dianora Barisana de Barletta sepolta a Monte Calvario». Si sa che la Dianora del dialetto vuol dire Eleonora.

[349] Ved. Doc. 516, pag. 581.

[350] Ved. Doc. 485, pag. 568.

[351] Ved. Doc. 486, ib.

[352] Ved. Doc. 460 e 461, pag. 558.

[353] Nel 1o de' Libri parrocchiali si legge, «1583 12 marzo, se battezò Gioseph Horatio figlio de Ottavio Cesarano e de pulisena Camardella»; nel 3o poi l'elenco de' morti reca, «a dì 16 de marzo 1603 morse petrillo Cesarano».

[354] Ved. Doc. 490, pag. 570.

[355] Percorrendo infatti l'art. 3o del Syntagma, dove appunto si parla de' libri composti o ricomposti nel carcere, non è difficile scorgere che la cronologia in genere e in ispecie è stata addirittura negletta. Lasciamo da parte le Poesie, sulle quali ci siamo già spiegati nel trattarne fin da principio. Dopo le Poesie si parla degli Aforismi politici etc., che siamo per vedere essere stati scritti non prima della 2a metà del 1601; poi della Monarchia di Spagna, che abbiamo veduta indubitatamente già ricomposta, se non composta, prima degli Aforismi; poi si parla de' 15 Articoli profetali, che sicuramente furono scritti anche prima della Monarchia di Spagna. In sèguito si parla de' libri Medicinali e degli Astrologici, che non sono nominati ancora negli elenchi del 1606; e passando sopra a' libri Astronomici e alle Quistioni, osserviamo che dopo tutto ciò, con un notevole salto indietro, si legge, «poco di poi in Napoli scrissi una Metafisica... e questa ricevè dalle mie mani Geronimo Tufo Marchese di Lavello nell'anno 1603»! In sèguito si passa a parlare de' libri di Teologia, del Reminiscentur, delle Orazioni alle 4 grandi nazioni con la data del 1617 e 1618, e quindi, come aggiunte a' libri anzidetti, si parla della Monarchia della Sapienza eterna e del Dritto del Re Cattolico sul nuovo mondo, libri che si trovano registrati tra quelli inviati allo Scioppio nella sua lettera del 1607! Tralasciamo la Metafisica scritta nel 1611 e la Consultazione sulle entrate del Regno che vedremo scritta più anni prima, e notiamo che a questo punto, essendo stati già citati libri perfino con la data del 1618, si dice, «tutti i suddetti libri lo Scioppio da me ricevè nell'anno 1608, quando venne mandato da Paolo Vo... ed anche gli diedi l'Ateismo debellato»! Così mostrasi fuori ogni dubbio mal fondato tutto ciò che è stato detto in tale materia sempre con la scorta del Syntagma, il quale può servire pe' particolari della composizione, non per la data di essa, verosimilmente perchè fu redatto su note staccate. Aggiungiamo che negli elenchi annessi alle lettere del 1606 sopra menzionate si dà talvolta per compiuta qualche opera che ancora non l'era, p. es. i 18 Articoli profetali (ultima composizione accresciuta), e si afferma anche essere le opere «tutte salve» ciò che per alcune non era vero, e basta citare l'opera «De rerum universitate», quella «De Philosophia Pithagoreorum», la «Tragedia della Regina di Scozia». Nella lettera allo Scioppio poi si citano le opere con l'ordine seguente: Monarchia di Spagna, Discorsi a' Principi, Dialogo contro i Luterani, Del senso delle cose, Pronostici astrologici, Compendio (epilogo) di Filosofia etc. etc.; e ben si vede che l'ordine cronologico non è serbato, e insomma unicamente con accurati confronti, e tenendo sott'occhio le opere stesse e tutto l'epistolario del Campanella dal momento in cui cominciò a scriver lettere stando in prigione, si può venire a capo di questo importantissimo lavoro.

[356] Avremo altrove occasione di vedere che questa copia fu involata dalla Magliabechiana, e poi tornò nelle mani del Governo con altre scritture, per le quali ebbe posto nell'Archivio. Ma vogliamo dire che dal Magliabechi in qua si trova sempre citata col titolo di Concetti methodici etc., mentre veramente il suo titolo è 150 Concetti methodici etc.

[357] Ved. Lett. inedite di T. Campanella e Catalogo de' suoi scritti, Roma 1878, pag. 74.

[358] Ved. la nota alle Poesie Filosofiche nell'ediz.e D'Ancona pag. 100.

[359] Ved. Berti, Tommaso Campanella, Nuova Antologia, luglio 1878, p. 217.

[360] La cosa è di un'importanza capitale per l'argomento che trattiamo, e ci si permetterà di riprodurre qui taluni confronti già notati nella 1.a nostra pubblicazione sul Campanella (Il Codice delle lettere etc.) esprimenti certe differenze contemplabili, nella forma e nella sostanza, tra la composizione originaria del libro fatta nel 1602 e rappresentata da' codici napoletani, la versione latina fatta nel 1613 e pubblicata dall'Adami in Frankfort, la 2a edizione della versione latina preparata dopo il 1629 e pubblicata dall'autore in Parigi; quest'ultima veramente differisce dalla penultima quasi sempre per qualche aggiunzione, e volgarizzata a cura di un editore Luganese fu poi riprodotta dal D'Ancona, sicchè possiamo citare l'edizione D'Ancona nell'esporre i confronti, anche perchè essa è più diffusa e popolare.—Circa la forma, si direbbe che con la magniloquenza latina fosse apparso necessario magnificare perfino gl'interlocutori del dialogo, i quali nella composizione originaria del libro erano «Hospitalario, Genovese marinaro», col latino furono promossi ad «Hospitalarius magnus, et Nautarum Gubernator Genuensis hospes», e col volgarizzamento divennero «Il Gran Maestro degli Ospitalieri ed un Ammiraglio Genovese di lui ospite». Oltracciò il Capo Supremo della Repubblica, che dapprima era semplicemente O (con o senza un punto nel mezzo, cioè a dire il Sole, come si mantenne nell'esemplare latino dell'Adami) divenne in sèguito Hoh. Naturalmente anche la dicitura italiana primitiva, convertita in latino e poi ritornata italiana, si vede trasformata di molto. P. es.: (cod. nap.) «S'io havesse tenuto à mente e non havesse pressa e paura, io te sfondacaria gran cose, ma perdo la nave se non mi parto»; (ediz. D'Anc.) «Oh! se mi ricordassi d'ogni cosa e non mi stesse a cuore la partenza, e più se nulla temessi, ti direi altro e ben più sorprendente, ma perdo la nave se non mi affretto a prendere il largo». Ancora: (cod. nap.) «Nulla femina si sottopone à maschio se non arriva a' 19 anni, ne il maschio si mette à generatione innanzi il 21»; (ed. D'Anc.) «Alcuna donna prima del decimonono anno non può consacrarsi à questo ministerio, e gli uomini debbono aver passato il ventesimo primo». Così la forma venne ingentilita, ma cessò di esser caratteristica, e ciò che è peggio non sempre riuscì a serbare la precisione. P. es.: (cod. nap.) «Una fiata mangiano carne, una pesce, et una herbe, e poi tornano alla carne per circolo»; (ed. D'Anc.) «Dapprima mangiano carni, poi pesci, infine erbaggi. Ricominciano poscia con le carni,»—etc. Ma ciò che maggiormente interessa è la diversità nella sostanza in più luoghi. Da una parte le cose relative a filosofia e religione sono più spinte nella 1a maniera e più attenuate nelle posteriori. P. es. (cod. nap.) «Son nemici di Aristotile, l'appellano pedante»; (ed. D'Anc.) «Sprezzano l'opinione di Aristotile, che chiamano logico non filosofo». Ancora: (cod. nap.) «trovai Moisè, Osiri, Giove Mercurio Macometto et altri assai, et in luoco assai onorato era Giesù Christo et li 12 Apostoli, che ne tengono gran conto. Ond'io ammirato come sapeano quelle historie» etc.; (ed. D'Anc. con molto maggiori distinzioni e qualificazioni) «ho veduto Mosè, Osiride, Giove, Mercurio, Licurgo, Pompilio, Pitagora, Zamolxi..... e moltissimi altri. Che più? Hanno dipinto lo stesso Maometto che però reputano fallace ed inonesto legislatore. Ma vidi l'immagine di Gesù Cristo essere stata collocata in un posto eminentissimo, assieme a quelle dei dodici Apostoli da essi altamente venerati e creduti siccome superiori agli uomini. Sotto i portici esterni osservai dipinti Cesare, Alessandro, Pirro, Annibale ed altri sommi la maggior parte cittadini romani.... Ed avendo con maraviglia chiesto come essi conoscessero le nostre istorie» etc. Inoltre: (cod. nap.) «tengono per cosa certa l'immortalità dell'anima et che s'accompagni morendo con spiriti buoni o rei secondo il merito; ma li luochi delle pene e premii non l'hanno per tanto certo (sic) ma assai ragionevole, pare che sia il cielo et i luochi sotterranei. Stanno anche molto curiosi di sapere se queste pene sono eterne ò nò. Di più son certi che ci siano angeli buoni e tristi come avviene tra gli huomini; ma quel che sarà di loro aspettano aviso dal cielo. Stanno in dubbio, se ci siano altri mondi fuori di questo»; (ed. D'Anc.) «credono all'immortalità dell'anime, ed alla loro associazione dopo la sortita del corpo cogli angeli buoni o cattivi secondo le azioni della presente vita, e questo perchè le cose simili amano i loro simili. Differente della nostra è la loro opinione intorno ai luoghi delle pene e de' premii. Dubitano se esistano altri mondi fuori del nostro». Come si vede, la prima composizione era ben cruda e molto più spinta, e le attenuazioni venute in sèguito non furono lievi. D'altro lato poi per un fatto risguardante la persona dell'autore troviamo tutta la riserva possibile nella prima composizione, e l'abbandono di ogni riserva in sèguito: 1o (cod. nap.) «dicono che se in 40 hore di tormento un huomo non si lascia dire quel che si risolve tacere, manco le stelle che inclinano con modi lontani ponno sforzare» etc.; 2o (ed. D'Anc.), «dicono che se un sommo filosofo per quaranta ore venne crudelmente tormentato da' suoi nemici senza mai potergli strappare di bocca una parola su quanto essi domandavano, perchè nel fondo dell'animo avea determinato di tacere, così nemmeno le stelle che movonsi in distanza e con lentezza non possono costringerci» etc. Adunque scrivendo il libro nel 1602 non palesò la faccenda della sua pazzia simulata, la palesò invece nel 1613, quando diede il libro tradotto all'Adami; e per verità sarebbe stata una pazzia vera il farlo prima. V'introdusse poi varie aggiunzioni mano mano, ed anche, quando preparò l'edizione di Parigi. Così, mentre nell'esemplare primitivo si trova notata soltanto l'invenzione del volare (che nel libro de Sensu rerum et Magia è riconosciuta in un calabrese), in quello latino dato all'Adami si trova notata anche l'invenzione degli strumenti oculari per vedere le occulte stelle (riconoscimento delle cose del Galileo sulle quali egli già cominciava a riflettere), e degl'istrumenti auricolari per udire le armonie de' cieli (presagi del telefono ad un'altezza non ancora raggiunta): ma è singolare che non vi si trovi l'invenzione sua, attribuendola agli abitanti della città del Sole, del modo di navigare senza vele e senza remi, ciò che pure avea già promesso con le lettere del 1606-1607 a' Cardinali e al Re di Spagna. Invece essa si trova nella 2a ed ultima edizione della versione latina, dove è registrata pure la scoperta del modo di evitare il fato sidereo, attribuita sempre agli abitanti della città del Sole, da doversi riferire al libro da lui composto De fato siderali vitando; ed in pari tempo è registrata la proibizione dell'Astrologia da parte del Papa, ciò che prima egli non reputava ben fatto e poi si credè in obbligo di accettare e difendere col suo opuscolo An Bullae Sixti V.i et Urbani VIII.i contra judiciarios calumniam in aliquo patiantur. Per le quali ultime circostanze abbiamo detto che la 2a edizione del libro dovè essere preparata dopo il 1629; giacchè dal Syntagma sappiamo con certezza che il libro De fato siderali etc. fu scritto nel S. Ufficio di Roma dopo la liberazione dal lunghissimo carcere di Napoli, vale a dire tra il 1626 e il 1629. Non è arrischiato l'ammettere che le modificazioni successive introdotte dall'autore nel modo di esprimere le sue opinioni circa Gesù, e circa i premii e le pene e l'eternità di esse, rappresentino pure e semplici attenuazioni pro bono pacis: e merita di essere considerata la sua persistenza in altrettali opinioni fino agli ultimi anni della sua vita, benchè abbia contemporaneamente abbondato nella composizione di libri di assolute credenze Cristiane Cattoliche.

[361] Ved. Poesie, ed. D'Ancona, p. 95.

[362] Ved. Doc. 395, pag. 457.

[363] Ved. Doc. 425, pag. 531.

[364] Ved. Doc. 395, alla pag. 464.

[365] Ved. Doc. 131, pag. 75.

[366] Ved. Doc. 193, pag. 97.

[367] Ved. Doc. 234 e 236, pag. 122 e 124.

[368] Ved. Doc. 426, pag. 531-32.

[369] Questo documento è rappresentato da un foglietto di pergamena, su cui a grossi caratteri si trovano segnati i nomi di tutti coloro le cui cause doveano spedirsi, frati ed anche secolari; ed è notevole che solamente a lato del nome di fra Dionisio si legge «aufugit», mentre a lato del nome del Bitonto non si legge nulla di simile. Tale foglietto stava insieme con le bozze e copie de' Riassunti degl'indizii presso il Vescovo di Caserta, e lo si dovè scrivere subito dopo la notizia della fuga di fra Dionisio, contemporaneamente all'ordine di cui si parla nel testo, forse nel determinarsi a rompere ogni altro indugio, fare le copie de' Riassunti ed inviarle sollecitamente a Roma; sicchè fino ad un certo punto esso confermerebbe il ritardo avvenuto nell'invio delle copie de' Riassunti oltre il 16 ottobre, e la non avvenuta copia del Riassunto contro fra Dionisio.

[370] Ved. Doc. 134, pag. 75.

[371] Giustifichiamo le proposizioni emesse nel testo. 1.o «Se l'heretico pendente la sua causa diverra pazzo o furioso... bisognerà tenerlo ben custodito nè condannarlo fino à tanto che egli ò risani ò muoia nel furore: perchè risanandosi potria per avventura rihaversi, e convertito, ritornare al grembo di S.ta Chiesa»; Masini, Sacro Arsenale, Roma 1639, pag. 381. art. 99.—2.o «Il rilasso legitimamente convinto dee, ò confessando, ò nò, rilasciarsi al braccio secolare»; Id. pag. 331. art. 93.—«Quantumcumque poeniteat, nihilominus relapsus est tradendus Curiae saeculari, ultimo supplicio feriendus»; Eymerici Directorium Inquisitorum, Romae 1578. p. 331.—3.o e 4.o «... à gli heretici pentiti, oltre alla publica abiuratione s'impone anco la pena di carcere perpetuo, perchè altrimenti, non potendo i Sacri Canoni con pena di morte castigar alcuno, non ci sarebbe pena alla gravità del delitto confacevole»; Masini, pag. 325. art. 76.—«Carcer perpetuus est poena haeretici reversi»; Locatus, Opus Judiciale Inquisitorum, Romae 1570. pag. 269.—Prescrizione del Concilio Tolosano: «Haeretici autem qui timore mortis vel alia quacumque causa, dummodo non sponte redierint ad catholicam unitatem, ad agendam poenitentiam per Episcopum loci in muro cum tali includantur cautela, quod facultatem non habeant alios corrumpendi»; Pegna, Scholia in Eymerici Directorio, Schol. LXV. lib. 3. pag. 185.—Rescritto di Urbano IV: «Clericus, qui est perpetuo immurandus, prius debet a suis ordinibus degradari»; Id. ibid.—«Cum illis qui vel in perpetuum carcerem vel in perpetuum ad triremes condemnantur dispensari soleat, ideo non solent condemnandi ad has poenas actualiter degradari sed solum verbaliter»; Id. ibid.—5.o «Poena perpetui carceris post lapsum triennii remitti solet»; Simancae Jacob. Enchiridion Judicum violatae religionis, Venet. 1578.—«Quaesitum scio, post quantum tempus solent in carcere perpetuo dispensari..; post lapsum triennii remitti solere scripsit Simancas. Quod si poena carceris irremissibilis fuerit imposita, elapso octavo anno solet relaxari»; Pegna, op. cit. p. 224.—Aggiungiamo a chiarimento dell'immurazione: «Eadem prorsus poena immurationis et carceris perpetui»; Pegna, op. cit. Schol. LXV. lib. 3. pag. 184.—«In aliquibus partibus.... Inquisitores habent in suis domibus carceres, quos vocant muros, quia domunculae illae adhaerent muro loci, qui est Episcopo et Inquisitori communis»; Locatus, op. cit. p. 39.

[372] Ved. Doc. 137, pag. 77.

[373] Ved. Doc. 427, pag. 532.

[374] Ved. la nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 2o, fol. 124.

[375] Ved. Doc. 428 e 429, pag. 533 e 535.

[376] Ved. Doc. 430, pag. 537.

[377] Ved. Doc. 431, pag. 540.

[378] Ved. Doc. 432, pag. 543.

[379] Ved. Doc. 433, pag. 544.

[380] Ved. Doc. 434, pag. 546.

[381] Ved. Doc. 420, pag. 526.

[382] Ved. la così detta Collectio Salernitana, vol. 171, fasc. 1.o fol.o 166 t.o: «Ego Scipio Marullus Stilensis» etc.

[383] Ved. Doc. 219, 220 e 221, pag. 116 e 117. Vi sarebbe anche un altro Documento, per brevità omesso, una lettera Vicereale che prescrive l'invio della persona stessa del Baldaia nelle carceri della Vicaria in Napoli, sempre per l'omicidio suddetto, senza alcun ricordo de' fatti della congiura. Ved. Reg. Curiae, vol. 55, an. 1603-1604, fol. 163 t.o.

[384] Ved. Doc. 222 e 223, pag. 117.

[385] Ved. Doc. 224, pag. 118.

[386] Ved. Doc. 225 e 226, pag. 118 e 119.

[387] Intorno a' Grassi sarà bene conoscere ancora i documenti di data anteriore che abbiamo trovati nel Grande Archivio: 1.o Registri Curiae vol. 46, an. 1599-1601, fol. 40, t.o «All'Audientia di Calabria ultra... Semo informati come Paulo, Pompeo et Scipione Grassi del Casale de Gionadi destritto di Melito hanno commesso molti delitti, per il che fu mandato Commissario dal nostro predecessore, et se le verificorno molti homicidii et furno reputati contumaci per la Vicaria, et dall'hora in poi sempre hanno (sic) armati in cometiva di dodici et più banniti commettendo delitti, et particolarmente li dì passati introrno in lo casale de S.to Constantino et scassorno la casa de una vidua nomine Gratia, et pigliatole due sue figlie l'una zita, et l'altra vidua, et, violentemente conosciutole et stupratole, al che volendo noi provedere come conviene...» (segue l'ordine di catturarli, prendere l'informazione sul fatto e darne avviso) 27 giugno 1600.—2.o Id. vol. 55, an. 1603-1604, fol. 195. «All'Aud. di Calabria ultra... Con questa v'inviamo l'alligate copie d'informationi contro Paulo Pompeo et Scipione grasso sopra il particolare della causa delle scoppettate tirate a francesco aquaro et sua cometiva, et vi dicimo et ordinamo che nella causa predetta debbiate procedere à quanto sarà de justitia che tal'è nostra voluntà. Dat. neap. die xo 7bris 1604».—Al 1606 parrebbe che Pompeo fosse stato già ucciso.==Relativamente a' Baroni di Reggio, essi erano parecchi e si distinguevano da' Baroni di Tropea e da' Baroni di Annoya, egualmente fuorusciti ed anche più numerosi; intorno a loro abbiamo i seguenti documenti, contemporanei e successivi alla data de' processi: 1.o Reg. Curiae vol. 46, an. 1599-1601, fol. 30. «All'Aud. di Calabria ultra... Dal Capitaneo della città de riggio ci viene scritto che havendo havuto notitia, che alcune persone di quella si erano disfidati et che la città stava in... (sic) andò in persequtione di quelli et carcerò li capi de le due partite che si erano disfidati nomine francesco pesello et domitio barone, per la quale carceratione se quietò il rumore, et forno excarcerati. dopoi li sopraditti francesco et domitio giontamente con innocentio candeloro della medesima città, per causa che il caporale di detta Corte li havea carcerati, in presentia di detto Capitaneo assaltorno detto caporale et con scoppette et spade l'ammaczorno, et fattesi per esso alcune diligentie non ha possuto averli nelle mani stando in paliczi..» (segue il fatto di un altro caporale ammazzato per la stessa ragione, avendo carcerato Paolo Melissari «contumace et uno delli predetti che si disfidorno», e quindi l'ordine di catturare i delinquenti). Ultimo di 10bre 1599.—2.o Id. vol. 54, an. 1603, fol. 15. «A D. Garzía de Toledo (governatore di Calabria ultra)... Per la vostra delli 7 del presente havemo visto quel' che vi veneva havisato da riggio, che Paulo et Gio. Domenico barone fratelli haveano ammazzato Pietro Gueria per causa di una lite civile che tenevano fra loro, quali si sono andati à salvare dentro una Ecclesia di detta città, et havendoli posto le guardie attorno, il Rev.do in Christo P.e Arcivescovo non li ha voluto permettere se non per quaranta passi attorno detta Ecclesia dentro la quale si stanno detti delinquenti senza nessuno timore, supplicandoci ve si ordinasse quel' che doverete exequire. Al' che respondendo ve dicimo et ordinamo, che si l'homicidio predetto è stato commesso appensatamente, poi che non deve godere dell'immunità dell'Ecclesia debbiati procurare d'haverli nelle mani in ogni meglior modo avvisandoci di quel' che exequireti acciò ne si possi ordinare quel' che convenerà per castigo di detti delinquenti. Dat. neapoli die ultima mens. februar. 1603.»==Da ultimo relativamente a Carlo Bravo, costui scorreva la campagna già prima del 1599 con un suo fratello Fabrizio, e poi, rimasto solo, fu preso nel 1603, ma per delitti comuni, secondochè risulta dai seguenti documenti: 1.o Reg. Curiae vol. 45, an. 1596-1601, fol. 47 t.o «Commissione in persona del magnif.o u. j. d. Julio Cesare malatesta quale si conferisce nella terra di filogasi a pigliare informatione... A noi è stato presentato memoriale del tenor sequente videlicet: Ill.mo et excell.mo Sig.re la povera gratia teti d'anni undici della terra de filogasi della prov. di Calabria ultra fa intendere a V. E. come li mesi passati da fabritio et carlo bravi et ferrante pisano di monte santo fu proditoriamente ammazzato Vincenzo teti patre d'essa supplicante ad instantia di Minico di tini della terra di filogasi per antiquo odio che detto Minico portava ad esso Vincenzo suo patre mediante una certa quantità di denari data a' detti tre assassini, quali fatto detto assassinio perchè poco distante veddero una certa donna nominata antonia quale haveria possuto vedere commettere detto assassinio l'ammazzorno, et dubitando detto minico di tini mandante che tale sceleragine non si scopresse fè dare subito tutore dal Capitaneo d'essa terra, come potente in quella et essendo persona facultosa, ad essa supplicante Masiello di nofrio con il quale proprio haveva trattato di farsi fare subito la remissione per potersi transigere con la corte baronale...» (segue la Commissione ad istanza del R.o fisco e con la proeminenza della Vicaria). Ult.o di ottobre 1597.—2.o Id. vol. 55, an. 1603-1604, fol. 80. «Al Marchese de layno... Per la vostra delli 15 del passato havemo inteso come havete incominciato a procedere nella causa contra Carlo bravo conforme l'ordine nostro non obstante la remessione che dimandava il Prencipe de melito et Duca di Nocera, et como che tal remessione l'ha dimandata quessa città di Catanzaro, et per non farsene mentione nel predetto nostro ordine ci supplicate di posser procedervi non obstante detta remessione si dimanda per questa città con lo de piu che in cio andate significando. Alla quale respondendo ve dicimo che cossì si intende lo predetto nostro precalendato ordine ancorche non ci sia particulare expressione...» (segue la raccomandazione che si spedisca con sollecitudine, vedendo che «in questo negotio se ci procede con molta flemma») 19 decembr. 1603.—3.o Id. ibid. fol. 175. «All'Audientia di Calabria ultra... Havemo visto la relacione che di ordine nostro ci havete fatta delli delitti che si ritrova inquisito Carlo bravo, per lo che considerato la gravità et moltiplicità delli delitti che hà commessi ve rispondemo et ordinamo che ci debbiate procedere all'espedicione della sua causa conforme à giustitia senza perdere un momento di tempo, et prima de publicare la sententia ci debbiate donare particolare aviso del voto che seranno quessi magn.ci Auditori in tal causa et cossì l'essequirete che tale è nostra voluntà. Dat. neap. die 28 mens. julii 1604».—4.o Id. vol. 64, an. 1605-1608, fol. 21. «All'Aud. di Calabria ultra... Per una nostra de li 18 del passato havemo visto per che voto è quessa Reg.a Audientia di condennare à Carlo bravo carcerato in quesse carceri per l'inquisitione di suoi delitti, mà non haveti voluto publicare la sententia per exequtione del ordine che da noi teneti, et ci supplicati siamo serviti darvi ordine di quel tanto in ciò haveti da exequire, alla quale rispondendo vi dicimo et ordinamo che nella causa di detto Carlo bravo debbiate procedere à quanto vi parirà che convenga de justitia che tale è nostra voluntà. Dat. neap. die ult.a mensis martii 1605».

[388] 1.o Reg.i Curiae vol. 64, an. 1605-1608, fol. 138. «All'Aud. di Calabria ultra... Dal Capitanio della Baronia di precacore et S.ta Agata di quessa provintia di Calabria ultra ci è stato scritto come alli 14 de luglio prossimo passato ritrovandosi in compagnia de Alexandro tranfo Barone di detta Baronia venne passando per avante di esso Barone Aquilio marrapodi suo vassallo armato di scoppetta a focile delle lunghe, et essendo passato con arroganza senza levarsi la barretta, et in contento dela Corte mentre era contumace per cause criminale, detto Barone havendoli detto per che causa passava cossi mal creatamente ordinò fosse carcerato, et detto Aquilio con la detta scoppetta che portava calò il cane drizzò la bocca di essa verso detto Barone dicendo adietro non passati avanti che vi ammazzo fando resistenza non lasciandosi pigliar carcerato, per lo che ni ha preso informatione et l'ha inviata a noi per che si proveda a lo che conviene..» (segue l'ordine che procuri aver nelle mani il detto Aquilio e lo mandi in Vicaria) Dat. Neap. 27 septembr. 1606.—Inoltre a fol. 178 t.o trovasi pure una lettera sullo stesso tema al Cap. di Precacore.—2.o Id. Ibid. fol. 142. «Al Gov.re di Calabria ultra che faccia relatione di quanto per la vedova portia sotira della terra di precacore è stato scritto intorno all'eccessi et homicidii commessi per Gio. Angelo Marrapodi et Aquilio suo figlio in persona de molte persone di d.ta terra et precise del suo marito à finem providendi». Lett. dell'ult.o di ottobre 1606.

[389] 1.o Reg.i Curiae vol. 64, an. 1605-1608, fol. 60. «A D. luise de moncada gov.e di Calabria ultra... A nostra notitia è pervenuto come francesco strivieri, Gioseppe Serra, Gio. thomase di franza, Gioseppe di Paula et aurelio biase di quessa città di Catanzaro non lassano ogni dì fare assassinii, robare chiese, svergognare monasterii de donne monache, stuprare vergine, uccider hor questo et hor quel altro, tagliar facci ad homini et donne honorate, mantener latri et far altri delitti, et che nel mese di 8bre prox.o pass.o non contenti delle cose predette habbiano svergognato a una casa nobile di quessa città in haver appostatamente struppiato un povero homo delli più honorati di quessa città in havendoli tagliato il naso, cavato un occhio et tagliatoli le labra et datoli una ferita in testa, delitti veramente molto imperiosi...» (segue l'ordine che coll'intervento dell'Aud.re Barbuto s'informi) 18 9bre 1605.—2.o Ibid. fol. 71. «A D. luise de moncada... Dall'Auditor fabritio auletta, et Marc'Antonio rossino advocato fiscale di questa reg.a Audientia, et anco dal Capitaneo di quessa città di Catanzaro semo stati avisati como essendono stati occisi Gio. francesco, et vitaliano bonelli patre et figlio da Geronimo et Gio. Paulo di Cordua di d.ta città di Catanzaro, che nel pigliare dett'informatione sia stato maltrattato il detto Capitaneo dalli Commissionati et soldati di quessa Regia Audientia..» (segue l'ordine che prenda subito informazione) 15 10bre 1605.—3.o Ibid. fol. 81 t.o «Risposta à don loise di moncada per conto delli forasciti di Catanzaro... Havemo recevuta la vostra relatione de nostro ordine fattaci intorno li delitti se pretendono essere stati commessi per francesco strivieri, Gioseppe Serra, Gio. thomase di franza, gioseppe di paula et aurelio biasi di quessa città di catanzaro, et come per voi sono stati inviati in certi lochi destinati, et de poi usate tutte le deligentie possibile per scoprir li detti delitti non haveti possuto in sin adesso havere tracza alcuna de essi, solo havete inquisito à Gio. thomaso del stroppio fatto in facci de gio. domenico marcello per la causa contenta in detta relatione, et como non l'haveti possuto havere alle mani, narrandoci come li predetti insieme a gio. paulo di cordova ammazzorno gio. francesco et vitaliano bonelli padre e figlio et anco insultorno al dottor fabio Conte...» (lo loda e ordina che continui) 30 gen.o 1606.—Questo per la sola città di Catanzaro, dove è manifesto che il Franza, il Cordova e lo Striveri con gli altri, aveano intimidato tutti; e senza uscire dallo stesso sud.to vol. Curiae si può vedere cosa accadeva a Stilo, dove (fol. 59) trovandosi il Capitano in Guardavalle, «alla casa del giudice di Stilo absente fu fatta petriata due notte» etc. etc.

[390] Ved. Doc. 228, pag. 120.

[391] Ved. Doc. 263, pag. 175.

[392] Ved. Doc. 132, pag. 75.

[393] Ved. Doc. 133, pag. 75.

[394] Ved. Doc. 135 e 136, pag. 76 e 77.

[395] Let. del 6 aprile 1601; ved. Doc. 119, pag. 71.

[396] Ved. Doc. 266, pag. 183.

[397] Ved. Registri Privilegiorum vol. 124, an. 1602, fol. 114. Il Privilegio per D. Pietro in data «Vallis Oleti 16 xbris 1602» ebbe l'esecutoria in Napoli il 18 marzo 1603.

[398] Ved. il ms. della Biblioteca Nazionale di Napoli (X, c. 20), intitolato «Desgratiato fine di alcune case napolitane», fol. 62. Pur troppo si rinvengono in questo codice registrate molte nostre conoscenze, il Principe di Conca, D. Ottavio Orsini Conte di Pacentro, Fabrizio di Sangro Duca di Vietri, Marc'Antonio d'Aponte, Gio. Battista De Leonardis. Non la finiremmo più a voler dare anche un piccolo cenno delle miserie patite da tutti costoro.

[399] Ved. Registri Privilegiorum vol. 137, an. 1607-1608, fol. 80, ove trovasi il Regio assenso alla convenzione tra D.a Livia e D. Scipione Sanseverino Duca di S. Donato, pel pagamento di D.ti 15mila assegnati in dote con molti patti e clausule dalla madre e balia D.a Lucrezia Carafa Marchesa di Corleto già moglie di D. Ippolito Sanseverino, ed è citato «l'albarano» tra la Marchesa e D. Pietro nella data suddetta.—Ved. inoltre il Carteggio del Residente Veneto anno 1603, Dispaccio del 29 aprile.

[400] Ved. Doc. 138, pag. 177.

[401] Ved. Doc. 139 a 142, pag. 77 e 78; inoltre Doc. 144, pag. 79.

[402] Ved. Doc. 200, pag. 99.

[403] Ved. Doc. 201, pag. 100.

[404] Ved. Doc. 237, pag. 124. Si noti che il 12 di luglio avvenne la partenza dell'armata: il 27 già poteva il Governo Vicereale averlo conosciuto, poichè soleva contemporaneamente partire un legno sottile con una spia, che in quindici giorni toccava le coste del Regno e trasmetteva le notizie a Napoli.

[405] Tutti questi fatti, e così pure i seguenti, sono stati raccolti nell'Archivio Veneto e nel Toscano, da' Carteggi de' Baili da Costantinopoli, del Residente di Venezia e dell'Agente di Toscana da Napoli. I Baili al ritorno del Cicala, sempre che potevano, facevano procedere all'interrogatorio con giuramento di qualche schiavo o di qualche altro individuo loro confidente che avea preso parte alla spedizione, e mandavano il processo verbale a Venezia; tanta era l'importanza che Venezia annetteva all'avere notizie precise di ciò che avveniva sul mare. Il Parrino fa succedere la spedizione ben riuscita di D. Garzia allo sbarco di Amurat, ma è attestato invece il contrario tanto dal Residente di Venezia quanto dall'Agente di Toscana. Vedi pe' Dispacci Veneti i volumi degli anni suddetti, e per quelli di Toscana le filze Medicee 4087 e 4088, dispacci del 22 e del 29 agosto 1600.

[406] Ved. Doc. 143, pag. 78.

[407] Ved. Doc. 145, pag. 79.

[408] Ved. Doc. 147, pag. 79.

[409] Ved. Doc. 148 a 152, pag. 80 e 81.

[410] Ved. Doc. 153, pag. 81.

[411] Ved. Doc. 154, pag. 81.

[412] Ved. Registri Sigillorum vol. 39, data suddetta.

[413] Il Campanella medesimo diè modo di farlo rilevare, quando più tardi, in agosto 1600, vistosi abbandonato con la causa indecisa, scrisse a Papa Paolo V: «hora informano monsignor Nuntio come essi vogliono... e diran ch'è finita la causa, che mi condanni senza ascoltarmi». Ved. Centofanti, Arch. storico italiano 1866, pag. 24.

[414] Riproduciamo qui un brano di documento, che abbiamo raccolto nell'Arch. di Spagna in Simancas e che concerne il fatto di questa carcerazione: è una relazione di D. Pietro de Vera, annessa in copia a un dispaccio di D. Francesco de Castro al Re, in data del 2 marzo 1603. «Quel che resulta de l'informatione presa contra Giovanni Conte di Nassau Todesco, è, che essendo gionto in Napoli esso Conte Giovanni l'ultimo sabato di Carnevale prossimo passato, in compagnia di D. Giovan Ottavio Gonsagha, e di Cristofaro Pflug di Sassonia, Geronimo Tucher di Germania, Uberto alias Roberto Caroni de la città di Bozoli trà Mantua et Cremona et Giovanni Winckes Alemano creato d'esso Conte Giovanni, et andando incognito, si fe diligentia d'haverlo nelle mani, et mentre D. Giovan Ottavio Gonsagha giovedì passato 20 del mese presente di febbraro mandò in Palazzo per haver licentia esso con tre altri d'andar con cavalli di posta à Roma, si mandò a pigliar tanto esso quanto tutti quelli di sua compagnia, che foro esso D. Giovan Ottavio, Cristofaro Pflug, Geronimo Tucher, e Uberto alias Roberto Caroni, et non si trovò detto Conte Giovanni di Nassau, perchè lo detto giovedì mattino, per tempo, esso Conte Giovanni insieme con detto Giovanni Winckes suo creato s'erano partiti à cavallo senza la compagnia di detto D. Giovan Ottavio, et altri sopradetti, e V. E. li mandò appresso gente per haverlo, e D. Antonio Sanchez de luna che andò fra gli altri lo trovò vicino Sessa et lo condusse in Napoli col detto suo creato... etc. etc. D. Pedro de Vera i Aragon» (Ved. Arch. sud.to Scritture Estado, legazo 1099).

[415] Questi particolari risultano da' Carteggi dell'Agente Toscano e del Residente Veneto, e in parte dalla relazione del De Vera mandata in Ispagna, dalla quale veramente si hanno i nomi di tutti i prigionieri, che ne' Carteggi non sono punto registrati. Ved. nell'Arch. di Firenze, Scritture Medicee filz. 4090, Lett. del Turaminis del 25 feb. 1603; nell'Arch. di Venezia, Senato-Secreta Napoli, Lett. di Anton M.a Vincenti del 25 feb. 1602 (more veneto) e degli 11 marzo e 15 aprile 1603.

[416] Malgrado le più vive ricerche non abbiamo potuto vedere alcuna delle varie edizioni dell'opera del Custos e Kilian intitolata «Fuggerorum et Fuggerarum... quot extant aere expressae imagines, Augbsb. 1593, 1618, 1630» etc., ma abbiamo trovata ultimamente in Roma, nella Corsiniana, l'altra opera del medesimo Custos intitolata «Atrium heroicum etc. August. Vindelic. 1602», in cui si hanno non meno di 12 Fuggers, tra' quali Giorgio, che nel corso della narrazione incontreremo protettore accanito del Campanella, e Cristoforo figlio di Giovanni, che dovrebb'essere il Cristoforo di cui qui si parla. Ma il suo ritratto, alla data del 1592, lo mostra già adulto, di bella e distinta figura, non giovanotto, qualificato illustre e generoso Barone; evidentemente egli è il Cristoforo della branca di Kirkeim, padre di Ottone Enrico già nato al tempo di cui trattiamo, e non può avere nulla di comune con Cristoforo Pflugh.

[417] Ved. Il Codice delle Lettere etc. pag. 63.

[418] Ved. Doc. 518, pag. 585. Il Bierio citato dal Gagliardo è senza dubbio Gio. Wierio, dotto e benemerito medico Belga, che trattò ampiamente delle cose demoniache. Nella ristampa delle sue «Opera omnia Amstel. 1660 t. 2» si ha il trattato intitolato veramente «Pseudo monarchia Daemonum» con gli altri «De origine et lapsu Daemonum, De Praestigiis daemonum et De Lamiis»; il trattato «De Menomachia (o meglio Monomachia, duello) daemonum» ci apparisce una svista del Gagliardo.

[419] Ved. Doc. cit. pag. 589.

[420] Sarà bene ad ogni modo rammentare le parole testuali che si leggono nella Città del Sole, riferibili alle deposizioni fatte dal Gagliardo. «Studiarono (i solari) aver propizie le quattro costellazioni di ciascuno de' quattro angoli del mondo (ediz. d'Ancona pag. 267). Al mattino... rivolgendosi verso oriente recitano breve orazione (ibid.). Ogni volta che fanno orazione si rivolgono a' quattro angoli del mondo; al mattino guardano prima all'oriente, poi all'occidente, indi al mezzodì (274). Onorano, non adorano il sole, le stelle, siccome cose viventi, statue e tempii di Dio ed altari animati del cielo... Nel sole contemplano l'immagine di Dio e lo nominano eccelso volto dell'Onnipotente, statua viva, fonte d'ogni luce e calore, vita e felicità d'ogni cosa...; in lui i sacerdoti adorano Dio, e raffigurano nel cielo un tempio, nelle stelle altari, ed anche case viventi di angeli buoni nostri intercessori appresso Dio (275). Adorano Dio nella trinità e ciò fa meraviglia, ma dicono che Dio è somma Potenza dalla quale procede la somma Sapienza che è pure Dio, e da ambedue poi l'Amore, che è Potenza e Sapienza...; non hanno però distinte nozioni delle tre nominate persone come i Cristiani, non avendo essi avuto rivelazione» (277).—Rammenteremo inoltre ciò che si legge nelle Poesie, a proposito dell'orazione a Dio nella «Canzone 3a in Salmodia metafisicale»:

«Poi ti prego, ti supplico e scongiuro
per l'influenze magne
necessità, fato, armonia, che 'l regno
dell'universo mantengon sicuro
. . . . . . . . . . . . . . . ,
pe 'l tempo, e per le statue tue viventi
stelle, uomini ed armenti»; etc.;

e a proposito dell'orazione al Sole nell'«Elegia al Sole»

«Tempio vivo sei, statua, e venerabile volto
del verace Dio, pompa e suprema face.
Padre di Natura, e de gli astri rege beato
vita, anima e senso d'ogni seconda cosa» etc. etc.,

aggiuntovi in nota che «il Sole è insegna della semblea d'esso autore». Circa la preghiera alle stelle e agli angelici spiriti in esse abitanti, se ne trova un saggio perfino nella «Canzone di pentimento»:

«Aria, tu vivo ciel, voi sacre stelle,
e voi spirti vaganti dentro a loro
ch'hor m'ascoltate ed io non veggio voi,
mirate al mio martoro,
di voi sicuri pregate per noi».

[421] Ved. Informazione contro fra Pietro di Calabria Domenicano carcerato in Castel nuovo, depos. suddetta, nella nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 2.o fol. 273-1/2.

[422] Ved. la nostra Cop. ms. tom. 2o, fol. 125-1/2.

[423] Aggiungiamo che la data del luglio o agosto 1603, come quella dell'entrata in una fossa venne sempre mantenuta dal Campanella anche in altre lettere, come p. es. in quella opuscolare sulla peste di Colonia e quella a Mons.r Querengo, da noi pubblicate, dove in data 24 giugno e 8 luglio 1607, afferma trovarsi nella fossa già da 4 anni (ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 54 e 60). Ma in altre lettere e p. es. in quella al Papa da noi pubblicata, nell'altra latina al Papa ed a' Cardinali, e nelle altre al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi di Austria pubblicate dal Centofanti, tutte sicuramente del 1607, egli dicesi da 8 anni nella fossa, vale a dire fin dal momento in cui venne tradotto a Napoli, ciò che riesce assolutamente inesatto: laonde bisogna ammettere che egli abbia parlato di fossa, ogni qual volta intese dire di essere stato posto in carceri dure.

[424] Ved Doc. 155, pag. 81.

[425] Ved. Doc. 194, pag. 98.

[426] Ved. Doc. 518, pag. 583.

[427] Ved. Berti, Nuovi documenti su Tommaso Campanella, Roma 9bre 1881, pag. 22.

[428] Il Carteggio de' Residenti Pietro Bartoli ed Agostino Dolce, non solo col Serenis.mo Principe ma anche con gl'Ill.mi et Ecc.mi Sig.ri Capi del Consiglio de' Dieci, offre spesso notizie di questo genere e talvolta assai curiose: notiamo tra le altre quelle di certe palle di foco per incendiare l'arsenale di Costantinopoli, od anche di certe macchine per dar morte al Gran Signore, costituite da scatole dorate con sapone muschiato, che nascondevano archibugetti forniti di micce la cui preparazione veniva accuratamente descritta. Il Vicerè, per una scala segreta, andò nel Castello a vedere queste sottili invenzioni di Pietro Lanza, e parimente si occupò sempre con molta cura de' disegni dei Greci, accogliendoli con favore (ved. i Carteggi sud.ti e segnatamente quello co' Capi del Consiglio dei Dieci, Busta n.o 19, fasc. 2.o an. 1608).

[429] Ved. Doc. 156, pag. 82.

[430] Ved. Doc. 157, pag. 82.

[431] Ved. Doc. 158, pag. 83.

[432] Ved. Doc. 267, pag. 186.

[433] Ved. Doc. 241, pag. 127.

[434] Il Toppi (De Origine omnium Tribunalium vol. 2.o p. 425 e seg.) fa figurare D. Giovanni Ruiz nel Sacro Regio Consiglio dall'anno 1604-1605 fino al 1610: ma ne' Registri Sigillorum, vol. 39, an. 1602, si legge in data del 19 giugno l'esecutoria del Privilegio che assegna al Ruiz «la piazza de Consigliero che vaca per morte de Ximenes». La cronologia del Toppi avrebbe potuto far pensare che il Ruiz fosse stato nominato pe' bisogni del processo del Campanella.

[435] Vedi Nicodemo, Addizioni copiose alla Biblioteca Napoletana del Toppi, Nap. 1683, e Cyprianus, Vita Th. Campanellae, Traiecti ad Rhenum 1741, pag. 69. Il memoriale nella raccolta Magliabechiana trovavasi intitolato «Epistola sociorum et parentum Fr. Thom. Campan.la J. Aldobrandino Nuntio Neapolitano» (nel Nicodemo leggesi malamente stampato «S. Aldobrandino» ma nel Cipriano leggesi esattamente). Riscontrando il Codice Magliabechiano menzionato anche altre volte (Campanellae et aliorum Op. varia Class. VIII, 6) alla fine del fol. 509, sotto l'ultimo verso si trova la parola «Epistola» per richiamo al principio del fol. seguente; ma, come si rileva appunto dalla numerazione e dalle tracce de' guasti avvenuti, furono quivi strappate ed involate molte carte, nelle quali, secondo la nota del Magliabechi pubblicata dal Nicodemo e dal Cipriano, erano compresi anche i «Concetti metodici o ammaestramenti politici di Fr. Tom. Campanella». Noi abbiamo potuto verificare che il furto avvenne in tempo molto rimoto; perchè sapendo esservi in quella Biblioteca il Catalogo a classi compilato dal medico Giovanni Targioni-Tozzetti fin dalla metà del secolo passato, ci siamo data la pena di consultarlo, e non vi abbiamo rinvenuta alcuna menzione nè dell'Epistola nè de' Concetti metodici. Avendo poi conosciuto che il D'Ancona avea trovato questi Concetti metodici in un Miscellaneo dell'Archivio Mediceo (Filza VIII, 6) siamo corsi a farne richiesta, nella speranza di trovare con essi anche l'«Epistola»: ma la speranza è riuscita vana, perocchè la detta Filza è stata scomposta, e i Concetti metodici si trovano staccati, senza alcuna traccia dell'«Epistola». Abbiamo potuto intanto verificare che la numerazione delle carte nelle quali si contengono questi Concetti metodici va dal fol. 519 al 537, e tornando al Codice Magliabechiano abbiamo trovato che dopo il fol. 509 si ha un fol. 517 che è tutto bianco, quindi il fol. 538 che reca i «Discorsi a' Principi d'Italia» etc. Adunque l'«Epistola», cominciando dal fol. 510, andava con ogni probabilità fino al 516 ed occupava 7 folii, circostanza da doverne far deplorare la perdita tanto maggiormente.

[436] Ved. la nostra Copia ms. de' proc. eccl. tom. 2.o, fol. 255 a 265. In questa Informazione, presa per conto del Nunzio, il Vicario generale Abate Achille Cittadino attesta che fra Pietro aveva un grande partito favorevole in Nicastro, e un testimone, incidentalmente, afferma che egli è fratello di fra Dionisio, il quale, fuggito in Turchia e rinnegato, dicevasi già morto in quel tempo. Il Capaccio (nel Forastiero, Nap. 1634 pag. 503) dice che fra Dionisio pagò la pena del suo peccato, perchè «un giorno quistionando con un Giannizzero fu ucciso». Ma bisogna accogliere con riserva altrettali dicerie, non raramente sorte pel desiderio di mostrare la punizione del peccato.—Degli altri frati non abbiamo notizia. Aggiungiamo solamente, circa fra Pietro di Stilo, qualche fatto singolare che risulta da un'Informazione presa contro di lui dal S.to Officio in data dell'11 luglio 1605 (ved. la cop. sud.ta tom. 2.o fol. 269 a 280). Un Lelio Macro di Pietrafitta, studente di legge condannato a morte, nelle sue ultime deposizioni prescrittele dal confessore affermò di essere stato in novembre 1604 per 22 giorni nel torrione del Castel nuovo, avervi conosciuto un fra Pietro Domenicano, aver saputo da lui che il Campanella era stato tradotto a S. Elmo e che col tempo sarebbe riuscito legislatore, aggiungendo che bisognava adorare il sole, la luna, le stelle, donde si aveva bene e male, suggerendogli anche le formole delle orazioni, e poi le solite storie sulla Trinità, sulla persona di Cristo, su Maria, su' luoghi di premio e di pena, su' sacramenti etc. Il Macro nominò pure altri individui che avrebbero dovuto conoscere fra Pietro e le sue opinioni, tra essi Ciommo dell'Erario e i due Baldini di Stilo (ad uno de' quali fra Pietro disse aver commesso di far ricopiare le difese del Campanella): nessuno de' nominati attestò cosa alcuna contro fra Pietro, e veramente, per quanto sappiamo almeno della sua avvedutezza, la cosa riesce incredibile; tuttavia come potrebbero spiegarsi le tante particolarità esposte da Lelio Macro, che hanno tanti riscontri? Si sarebbero forse alquanto diffuse tra' carcerati di quel tempo le notizie del processo dell'eresia e le orazioni a' pianeti?

[437] Queste ultime particolarità si leggono nella lettera a Mons.r Querengo da noi pubblicata (ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 60); di tutte le altre riboccano le poesie e i libri, non che le altre lettere del tempo, segnatamente quelle pubblicate dal Centofanti.

[438] Così si espresse nella lettera al Re pubblicata dal Centofanti (pag. 91). Il ritorno di D. Garzia al comando in S. Elmo accadde nel luglio 1603; ved. Reg. Curiae vol. 55, an. 1603-1604 fol. 16, dove si legge la Commissione data al successore Marchese di Laino (D. Carlo de Cardines) Governatore di Calabria ultra «all'estirpatione de forasciti et annettare (sic) la detta provintia de quelli». La Commissione di sopraintendere alla fabbrica in Porto Longone fu data nell'aprile 1605; ved. Carteggio Veneto Napoli 1605, Resid. Pietro Bartoli, lett. del 26 aprile e seg.ti che rivelano anche i modi affatto selvaggi adoperati per procurare i lavoratori.

[439] Ved. vol. 1o pag. 91.

[440] Ved. le Poesie, ed. D'Ancona, pag. 105.

[441] Ibid. pag. 106-108.

[442] Ibid. pag. 138.

[443] Ibid. pag. 110 e 124.

[444] Ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 42.

[445] Abbiamo dato questo brano nel vol. 1.o pag. 41 in nota.

[446] Ved. Lettere inedite di T. Campanella e Catalogo de' suoi scritti, Roma 1878 pag. 73.

[447] Possiamo dire che il Codice della Bibl. nazionale di Napoli sia stato scritto da un amanuense non napoletano ed anche ignorantissimo: difatti nel lib. 1.o cap. 3, vi si legge, «l'esperienza di quei che girano il mondo doppo la scoperta del Palombo», in vece di dire «del Colombo», e nel lib. 2.o cap. 26 si leggono le parole «coquiglie, ostraghe, incini», con dicitura non napoletana; ma tutto il contesto e mille altre parole sentono anche troppo del napoletano e mostrano l'originaria ricomposizione dell'opera. Il Codice della Casanatense in taluni punti ha miglior lezione, ma in generale è più scorretto: basti citare p. es. che là dove il Cod. nap. dice «el cavallo Montedoro di Mario dello Tuffo» etc., il Cod. rom. dice, «e il cavallo del Monte d'oro di Mario del Tufonico» etc. Potremmo riferire varie differenze non prive d'interesse; ma almeno due vogliamo notarne. La 1.a è, che nel Cod. rom. parecchie note marginali rimandano ad altre opere dell'autore; la 2.a è, che mentre il Cod. nap. nella fine dell'opera dice, «La quale (universale sapienza) sia pregata che me et te N. mio alzi alla sua dignità et cognoscenza, Amen», il Cod. rom. dice, «La qual sia pregata che me et Berillo mio alzi alla sua dignità et conoscenza et mandi presto il mio liberatore». Si sa dalle Poesie (Canzone di pentimento, senza alcun dubbio del 1613) che Berillo era D. Brigo di Pavia amico dell'autore, con ogni probabilità Cappellano del Castello dell'uovo, e si sa che nel 1613 l'opera era stata pur allora tradotta in latino: può dunque al Cod. rom. assegnarsi la data del 1610-1612, e su questa base possono valutarsi le altre piccole differenze tra' due Codici. Veniamo ora alla giustificazione delle cose notate sopra. I luoghi, ne' quali non si trovano le citazioni dell'Antimachiavellismo e de' Machiavellisti, come si trovano nella versione latina, sarebbero i cap. 24 e 25 del lib. 2.o: anche nel cap. 18 dello stesso libro si trova non citata l'autorità del Papa e qualche altra variante; nel resto non ci sono differenze contemplabili, e le citazioni della Metafisica e dell'Astronomia, si trovano egualmente nel lib. 1.o cap. 3, 6, 7, 13, e nel lib. 3.o cap. 2.—Pel ricordo di fra Pietro ved. il lib. 2.o cap. 20 e 21, e il lib. 3.o cap. 10; quivi c'è nome e cognome, «Pietro Prestera». Pel ricordo di D. Lelio Orsini, ved. il lib. 3.o cap. 9 e il lib. 4.o cap. 17; per quello riferibile a' Ponzii, il lib. 2.o cap. 21.—Pel ricordo dello stato di prigionia e delle altre circostanze personali dell'autore ved. lib. 1.o cap. 8, lib. 4.o cap. 17, lib. 4.o cap. 1.—Per l'argomento degli angeli e dei diavoli ved. lib. 1.o cap. 6 in fine, lib. 2.o cap. 25, lib. 3.o cap. 4 e 5, lib. 4.o cap. 1 e 2; segnatamente nel lib. 2.o cap. 25 si hanno le notizie delle apparizioni del diavolo e delle sue rivelazioni con tutte le conseguenze in persona del Campanella.

[448] Ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 47.

[449] Le parole dello Scioppio son queste: «Consultatio de reditibus regni... 300 augendis mire mihi placuit»; ved. Berti, Nuovi Documenti etc. Rom. 1881 pag. 30. I Discorsi che pubblichiamo si leggono nel nostro Doc. 519, pag. 591.

[450] Anche allo Scioppio, prima che gli mandasse l'Ateismo, il Campanella avea scritto in termini aperti e chiari di aver visto non solo diavoli ma anche angeli (ved. il brano di lettera del 6 maggio 1607, pubblicato dal Centofanti nell'Archivio storico italiano 1866, pag. 86). Nell' Ateismo si limita a dire che si era accertato dell'esservi angeli e diavoli in sèguito de' mentovati esperimenti (ved. cap. 13.o in fine).

[451] Abbiamo detto già in altri luoghi che ve n'è una copia nella Bibl. nazionale di Napoli, un'altra nella Casanatense, ed un'altra anche nella Bibl. nacional di Madrid (L, 101): quest'ultima è mancante delle prime 14 carte ed ha per titolo, scritto in margine da altra mano, «Questiones filosoficas y astrologicas». L'«Appendix ad anticum» già esposta altrove (pag. 111) riusciva opportunissima ne' tempi a' quali siamo pervenuti: merita bene di essere considerata egualmente l'occasione in cui fu riprodotta.

[452] Le copie manoscritte di quest'opera, tuttora esistenti nelle diverse Biblioteche, offrono una variante nella distribuzione della materia e quindi nel numero de' Discorsi, oltre non poche varianti nella materia medesima. La Bibl. Brancacciana di Napoli ne ha due copie, una in italiano, l'altra tradotta in spagnuolo; la Nazionale ne ha una in spagnuolo; quella de' PP. Gerolamini una in italiano. Dippiù, sempre in italiano, ce n'è una copia nella Magliabechiana, ma scorrettissima; un'altra in Lucca, un'altra in Torino. Ancora un'altra se ne conserva in Parigi (Bibl. naz. num. nuov. Ital. 986). Si sa che nell'originale italiano i Discorsi furono già pubblicati dal Garzilli (Nap. 1848), poi anche dal D'Ancona (Torino 1854).

[453] Avvertiamo intanto che tra le nostre Illustrazioni i lettori potranno trovare raccolto in un Catalogo quanto finora abbiamo sparsamente detto circa le opere del Campanella; ved. Illustraz. VII, pag. 663.

[454] Ved. Arch. storico italiano an. 1866; Let. a Paolo V, pag. 22 e 24; e Let. al Card.l Farnese pag. 66.

[455] Si comprende pertanto che delle molte promesse e cose mirabili, delle quali si trova l'elenco ne' documenti suddetti, una parte solamente sia stata messa innanzi nel tempo di cui discorriamo. P. es. non vi potè figurare ancora il fare un volume contro i Machiavellisti, che il Campanella meditò e cominciò a scrivere più tardi, onde si trova poi menzionato nell'elenco di agosto 1606 insieme con diverse altre promesse in vantaggio della Chiesa che vennero fatte consecutivamente.

[456] Il P.e Giovanni Lopez noto per le sue opere (Epitome SS.m Patrum etc. vol. 3, Rom. 1596), già Vescovo di Cotrone sin dal 1595, fu trasferto al Vescovato di Monopoli il 25 9bre 1598; ma non prima del 1608 abbandonò la sua Chiesa e se ne venne in Napoli; si sa che morì poi a Valladolid dell'età di 108 anni (ved. Fontana, Sacrum Theatrum Dominicanorum, Rom. 1666, pag. 181 e 239).

[457] Ci basterà qui dire che il Gentile si mostrò avverso al Campanella anche dopo il tempo del quale trattiamo. Fu lui il Nunzio che nel 1611 ordinò la perquisizione e il sequestro delle opere del Campanella dentro il Castello dell'uovo, come si legge nel Syntagma in termini curiosamente ridotti. Ebbe il carico di Nunzio con exequatur del 14 aprile 1610, succedendo a fra Valeriano Muti Vescovo di Castelli, e lasciando il carico di Ministro dell'Inquisizione a fra Stefano de Vicariis Vescovo di Nocera (ved. nell'Arch. di Stato i Registri Comune vol. 31, fol. 75 t.o, e Parrino, Teatro etc. Vicerè D. Pietro Fernandez de Castro).

[458] Per comodo di qualche lettore che non lo tenga presente, ricordiamo che Lucca avea proibito il commercio epistolare tra' cittadini e que' parenti di essi i quali abbracciata la Riforma aveano emigrato, e Roma approvò il fatto ma biasimò che fosse stato compiuto dalle autorità laiche, dovendo compierlo lei. Genova poi sciolse una congregazione gesuitica, alla quale i Gesuiti aveano fatto giurare di non dar voti per magistrati se non agl'individui appartenenti alla congregazione, oltrechè punì taluni amministratori di confraternite che si avevano appropriato il danaro di esse; e Roma, per la solita ragione, volle che la congregazione fosse ripristinata e gli amministratori ladri fossero rilasciati.

[459] Ved. nel Carteggio Veneto suddetto specialmente le lettere del 20 e 27 giugno, 18 e 25 luglio ed 8 agosto 1606. Non sarà poi inutile notare che pochi mesi prima del tempo suddetto, parlando delle gabelle divenute insopportabili, e in ispecie delle nuove gabelle sulla seta riuscite gravi sopratutto in Calabria, il Residente Bartoli scriveva de' Calabresi: «dicono palesemente che si darebbero, se havessero chi li volesse ricevere, non solamente a' turchi, come tentarono di fare cinque anni sono, ma anche à peggior generatione più tosto, che vivere sotto à questo governo». Nemmeno sarà inutile notare in che maniera rispondevano gli ufficiali del Governo agli assegnatarii, i quali si dolevano dell'essere stato trattenuto il pagamento degl'interessi loro dovuti: scriveva il Residente Dolce essersi risposto, «che era noto a cadauno che l'anima dell'huomo era di Dio, ma le vite, le facoltà et il danaro dei sudditi sono del Prencipe, et come padrone li era nelle occasioni lecito valersene a gusto e piacer suo».

[460] Così nella sua lettera di poco posteriore, in data del 30 agosto 1606, al Card.l Farnese; ved. Centofanti, nell'Archivio storico italiano, luglio 1866, pag. 66.

[461] Le lettere e i libri del Campanella in molti luoghi fanno intendere che egli simulò la sua pazzia. Difatti, quanto alle lettere, parecchie tra quelle pubblicate dal Centofanti lo rivelano, onde riesce strano che il Centofanti medesimo abbia ammessa nel filosofo «una lunga aberrazione mentale». Nella lettera a Paolo V, fin da principio, col ricordo del fatto «naturale anche a' bruti deboli servirsi dell'industria contra li possenti», coll'esempio de' savii, e coll'autorità di S. Geronimo, confessando «le strattagemme usate non per fuggir la giustitia ma la violenza», il Campanella fece allusione evidente anche alla pazzia simulata. Nella lettera al Card.l Farnese ricordò pure fin da principio il motto «placuit Deo per stultitiam salvos facere credentes», e in quella al S. Giorgio non solo ripetè che era stato conservato da Dio «con la stoltitia dov'era odiosa la virtù», ma anche rammentò che «la fintione s'usa contro la violenza, come insegna S. Geronimo con l'esempio di David e di Solone». Nella lettera latina al Papa ed a' Cardinali, ed egualmente nella lettera al Re di Spagna, affermò che per avergli negato le difese e pe' tanti tormenti «lo fecero pazzo»; ma perfino al Re non si peritò di scrivere, «dicono c'ho finto d'esser pazzo, io rispondo che David e Solone si finsero pazzi per lo stesso modo, e son lodati da S. Geronimo».—Quanto a' libri, il tratto più singolare è quello che leggesi nella Città del Sole e che oggi sappiamo doversi riferire alla pazzia, ma che pur quando non si sapeva che dovesse riferirsi alla pazzia, avrebbe meritata tutta l'attenzione degli scrittori intenti a decifrare le faccende del Campanella; vogliamo dire quel tratto già da noi riportato parlando del libro (ved. la nota alla pag. 364), là dove si cita un gran filosofo, che per 40 ore venne crudelmente tormentato da' suoi nemici, senza mai potergli strappare di bocca una parola su quanto essi domandavano, perchè nel fondo dell'animo avea determinato di tacere. D'altra parte son conosciuti da un pezzo i versi e la nota ad un suo Sonetto intitolato «Di sè stesso» ove si riproducono i concetti palesati al Card.l S. Giorgio, leggendosi: «quando bruciò il letto e divenne pazzo o vero o finto: Stultitiam simulare in loco prudentia est disse il comico, et de jure gentium i pazzi son salvi»; mentre nel Sonetto si canta:

«Bruto e Solon furor finto coperse
e Davide temendo il re Geteo.
Però là dove Jona si sommerse
trovandosi l'Astratto, quel che feo
al santo Senno in sacrificio offerse».

S'intende bene che l'Astratto qui è il Campanella, il quale si trovava in faucibus Orci, come sovente si espresse; e che avrebbe potuto dire di più nelle sue condizioni? Pur troppo, segnatamente nella Narrazione, disse anche essere stato pazzo «non finto»: questo pertanto mostra solo che le sue circostanze l'obbligarono molte volte a nascondere il vero, e che però le sue assertive debbono essere vagliate con molta circospezione.

[462] Ved. gli ultimi versi, con la nota annessa, della Canzone III in Salmodia metafisicale.

[463] Così nella Canzone «Della Bellezza», Madrigale 9o, egli dichiarò che

«Bello è il mentir, se a far gran ben si prova».

E nella nota quivi annessa citò la menzogna di Ulisse a Polifemo, e di Sifra e di Puha a Salomone. In un'altra nota annessa al Madrigale 4.o della «Canzon II al Primo Senno», parlando dello Spirito impuro, disse che esso è per natura mendace, ma aggiunse che «è segno di natura corrotta e viziosa, quando mente non per industria, bisogno e sagacità». L'essere poi stato costretto a fingere, e l'aver finto, si rileva dal Sonetto intitolato «Senno senza forza de' savii esser soggetto alla forza de' pazzi», dove il filosofo ci apparisce ritratto con la maggior fedeltà, essendo quivi citati i suoi presagi, le sue «Regie imprese» e le conseguenze di esse.

[464] «Nec potest Macchiavellista dissimulare in hoc aliisque saeculis praeteritis, futurisque, quod argumenta potiora dissimulaverim: nam plura quam ipsi queant imaginari et fortiora apposui, dissolvique per coelestem et humanam philosophiam non semel neque bis, usque ad radices». Così nella lettera proemiale all'Atheismus pubblicata dallo Struvio.

[465] Abbiamo detto che il Campanella fu diversamente ed assai spesso vituperosamente giudicato nella persona e nelle opere sue. Segnatamente circa le opere politiche e religiose, che appunto riguardano più da vicino l'argomento nostro, fu ammessa in lui un'astuzia con frode, un Machiavellismo combattendo il Machiavelli, un Ateismo combattendo gli Atei, la quale ultima proposizione in verità è affatto insulsa. Possono leggersi nel Cyprianus e nell'Echard le testimonianze di questo genere emesse dal Boecler, dal Conringio, dal Voël etc. etc. e non a torto l'Echard fece riflettere che in altrettali giudizii ostili dominava il dispetto de' Protestanti di Germania, i quali furono veramente, per esagerazione di zelo, trattati con molta durezza dal Campanella. Per conto nostro dobbiamo dire che nel paese, dove potè essere meglio conosciuto intimamente, oltre la caratteristica di astuto e furbo, stabilita a' tempi suoi e mantenutasi per tradizione, non mancarono le testimonianze dell'aver lui scritto ben diversamente da ciò che sentiva, e questo per verità importa di assodare. Così il Nicodemo, da potersi considerare un'eco di affermazioni d'individui che aveano trattato col Campanella, nelle Addizioni alla Biblioteca del Toppi disse, «Per quanto ebbe ingegno e dottrina, tanto fu ingannatore, e spesso, spesso, per compiacere altrui o per proprii fini, cose scriveva lontanissime da quello che nell'interno sentiva»: respingendo un modo di esprimersi tanto sciocco, che non tiene il menomo conto della posizione orribile del Campanella, rimane accertato il fatto della dissonanza tra i suoi pensieri e i suoi scritti. Potremmo poi riferire testimonianze e ricordi pieni di stima e di affetto, da parte di qualche suo discepolo distintissimo, che ebbe campo di conoscerlo intimamente e di valutarne al tempo medesimo le stringenti necessità: nè vi è chi ignori le testimonianze di stranieri illustri che lo conobbero, come Tobia Adami il quale ebbe a conversare con lui per più mesi al Castello dell'uovo nel 1613, e Gabriele Nandeo il quale ebbe a conversarvi del pari lungamente a Roma nel 1631, mostrandosi entrambi convinti non solo dell'ingegno e della dottrina del filosofo, ma anche del suo candore ed innocenza, mentre per lo meno il Nandeo era certamente consapevole delle sue imprese di Calabria. Ora a' tempi nostri il Sainte-Beuve (Portraits litteraires, Paris 1862, vol. 2.o p. 522) ha pubblicata un'altra lettera del Nandeo, rinvenuta nella corrispondenza ms. di Mons.r Peirescio, nella quale, in data del 30 giugno 1636, invelenito contro il Campanella, che assicuravasi avere sparlato di lui e che protestava di «non aver detto nulla a suo svantaggio e voler morire suo servitore ed amico», il Nandeo vomita largamente grossolani giudizii sul conto di lui. E dice che vuole «una sodisfazione per lettera di propria mano, concepita in guisa da mostrare almeno di essere dispiaciuto di avere offeso a torto e con leggerezza», ma aggiunge che «qualunque sodisfazione gli avesse dato, non lo stimerebbe mai altrimenti che un uomo stordito più di una mosca e negli affari del mondo meno sensato di un ragazzo», e «se ha evitato i giusti risentimenti del M.o del Palazzo di Roma fuggendosene a Parigi sotto pretesto di essere perseguitato dagli spagnuoli che non pensarono punto a lui, non eviterà frattanto i suoi» (giunge il Nandeo a tradire la verità fino a questo punto). E dice che il Campanella «ciarla potentemente, mentisce impudentemente, spaccia bagatelle al popolaccio, e con tutto ciò è un matto arrabbiato, un impostore, un mentitore, un superbo, un impaziente, un ingrato, un filosofo mascherato. . . », terminando col motto «ipse est catharma, carcinoma, fex, excrementum di tutti gli uomini di lettere, a' quali fa vergogna e disonore»! Il Sainte-Beuve, aggiungendovi anche una nota del Guy-Patin, che dopo di aver visitato il Campanella in Parigi scrisse di lui nel suo libro di ricordi il beau-mot «multa quidem scit, sed non multum», dice per conto suo bonariamente: «in un tempo in cui si è in via di esagerare sul Campanella, ho stimato bene far conoscere questa opinione segreta del Naudè e della cerchia degli amici del Naudè; giacchè sovente è invocata la loro testimonianza esteriore..., era giusto che se ne avesse anche la testimonianza intima e confidenziale». Per conto nostro, a fronte di testimonianze provenienti da uomini di coscienza sciaguratamente doppia, siamo disposti ad accogliere le testimonianze segrete anzichè le pubbliche, ma, naturalmente, riserbandoci il dritto di apprezzarne il valore: ed essendoci noto come negl'italiani si trovi ancora tanta dabbenaggine, che mentre al di là delle Alpi si professa lo chez-nous ad ogni costo, essi si affaticano a professare il favorite-signori senza eccezioni, stimiamo bene spendervi intorno alcune poche parole. Lasceremo da banda le testimonianze del Guy-Patin: vi sono le opere del Campanella, e chi è avvezzo a leggere deve da esse trarre i suoi convincimenti, non dalle impressioni di un uomo che studiava spirito e maldicenza per farne traffico, ricavandone un pranzo e un luigi per ogni seduta, ed era tanto competente in filosofia da maledire Descartes. Quanto alla lettera scritta nel 1636 dal Naudeo, essa per noi vale solo a mostrare due cose: 1.o che il Campanella non aveva l'abitudine del mutuo incensamento tanto diffuso tra' dotti a quell'età, onde il Naudeo, come il Peirescio, il Gassendo etc., non potevano tollerarne qualche giudizio sul conto loro, che non fosse un elogio continuo in tutto e per tutto; 2.o che il Naudeo era capace di bizze momentanee senza alcuna misura, da doversi dire francamente bestiali. Quando si avesse a ritenere la detta lettera del Naudeo non come una bizza momentanea, ma come l'espressione del suo profondo convincimento sul Campanella, allora, avendo lui scritto le note lettere latine posteriori al 1636 e la lettera dedicatoria del Syntagma, avendo inoltre pubblicato il Panegirico ad Urbano VIII con la relativa avvertenza, nel quale del resto diede veramente prova solenne di menzogna e d'impostura, andrebbe a lui rivolto quel suo motto «ipse est catharma, carcinoma», con ciò che segue.

[466] Ved. Doc. 520, pag. 596.

[467] Alludiamo a' «Nuovi Documenti su T. Campanella tratti dal Carteggio di Giovanni Fabri, Roma 9bre 1881». Notiamo che i documenti di tale Carteggio pubblicati nella loro integrità sono solamente cinque, rappresentati da due lettere dell'Arciduca Ferdinando e tre lettere dello Scioppio, mentre le notizie che li accompagnano ne mostrano un numero assai maggiore. Come abbiamo detto nella Prefazione di questo libro, ancora non si concede di poter vedere il Carteggio.

[468] Ved. Centofanti nell'Arch. storico italiano, luglio 1866 pag. 19: «De cleri reformatione iterum dico tibi me quasi nihil sperare . . . ; ipsi orabunt nos, si Principes duos, quos quasi manibus teneo convertemus, et sapientes Germaniae per novitatem doctrinae admirabilis alliciemus»: d'onde si vede che il Campanella avea giù rinunziato a sostenere la riforma del Clero consigliata come indispensabile nella lettera del 1606 al Papa, e il suo pensiero era tutto rivolto alle imprese di Germania da doversi compiere insieme con lo Scioppio, al quale aveva pure scritto un'altra volta. Aggiungiamo che essendo ora accertato da uno de' documenti rinvenuti dal Berti essere lo Scioppio venuto in Napoli nell'aprile 1607, e cominciando la lettera del Campanella con le parole «Mirifice me angit quod adspectus denegatur tuus», saremmo tentati di assegnarle appunto la data suddetta, quando essi stavano vicini e non si permetteva che si vedessero. Aggiungiamo ancora che non può dubitarsi essere stato l'anno 1607 quello in cui lo Scioppio ebbe la missione di Germania, poichè una lettera autografa di lui a Cassiano del Pozzo, da noi pubblicata, reca: «L'anno 1607 havendo gli Catolici di Germania supplicato il Papa Paolo V che soprasedesse di mandar un Nunzio alla Dieta di Ratispona per evitar la gelosia de' Protestanti, si risolse il Papa di mandarvi la mia persona come Consegliero di casa d'Austria» etc. (ved. Il Codice delle lettere del Campanella, pag. 80 in nota).

[469] Scioppii, De Antichristo, Epistola ad Ill.um quemdam Germaniae Principem Protestantem scripta, accesserunt ejusdem De Petri primatu, De adoratione summi Pontificis, de splendore et divitiis ecclesiasticorum, de Papae denique potestate in saecularibus etc. Ingolstadii 1605.

[470] Ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 35.

[471] Jul. Caesaris Capacci, Illustrium mulierum et illustrium virorum elogia, Neap. 1608-1609, t. 2, pag. 275-77. Il Capaccio dice che il Fabre gli «mostrò» la disputa mandata alla stampa contro lo Scaligero.

[472] Questo errore non sarebbe il solo: probabilmente per colpa dell'amanuense la lettera si mostra erronea in più punti. Fin dall'intestazione vi si leggo «Gaspari Scioppio... qui se litteratorem exhibet» e dovea dire «liberatorem»; offre poi «politicae XV aphorismos» e dovea dire «CL»; più oltre, «rogo te sis mihi ac tibi dedecori et onori», e dovea dire «ne sis» etc. etc.

[473] La data della morte del Marchese di Lavello Gio. Geronimo trovasi ne' Reg.i delle Significatorie de' Relevii vol. 39, fol. 108.—Quanto al ricupero della Metafisica ved. Doc. 522, pag. 603. L'intervento del Reggente della Vicaria fa ritenere che il Campanella abbia dovuto reclamare pel ricupero dell'opera sua.

[474] Entrambe le lettere sono state da noi pubblicate.

[475] È curioso il vedere che al Re, oltre le promesse solite di edificare una città inespugnabile etc., far che i vascelli navighino senza remi e senza vento, far che le carra camminino col vento con buoni pesi, far che i soldati a cavallo adoperino entrambe le mani senza obbligo di tener la briglia (cose più o meno già dette pure nella Città del Sole), aggiunse straordinariamente la promessa de' «Rimedii di rinnovar la vita ogni 7 anni». Nessuno meglio del Campanella sapeva adattarsi alle persone con le quali avea da fare.

[476] Ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 45.

[477] Così nell'Echard, Vita Campanellae, ediz. agg.ta al Cyprianus, Traiecti ad Rhenum, 1741, pag. 175.

[478] Ved. i Nuovi documenti pubblicati dal Berti, Doc. 1.o pag. 29. Ma ci permettiamo di far avvertire che la data di esso, 17 marzo 1607, non può stare; la lettera evidentemente fu scritta dalla Germania e basta riflettere che accenna ad una lettera commendatizia già scritta dall'Arciduca Ferdinando, la qual cosa conosciamo essere avvenuta in gennaio 1608; vedremo poi, nel corso della narrazione, come essa si colleghi a qualche altra lettera pubblicata da noi.

[479] Ved. Griselini, Memorie aneddote spettanti alla vita di fra Paolo Servita, Losanna 1760, pag. 142, e Oporini Grabinii, Amphotides Scioppianae, Paris. 1611, pag. 162.

[480] Ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 50.

[481] Riportiamo qui il brano suddetto perchè i lettori possano valutarlo: «Primum ab Archiduce Maximiliano, cum totos XI dies cum maxima mea molestia neque minimis impensis Oeniponti desedissem, literas ad Proregem impetravi, et quidem adnitente D. Georgio nostro. Deinde ut ipse Georgius hominem ei rei allegaret perfeci: ita tamen ut stipulanti promitterem, curaturum me ut secum prius toto anno esses quam quaquam discederes; tum etiam nullius me alterius principis auxilia imploraturum, quamdin spes aliqua sit suam tibi operam profuturam... Et tamen, bona cum ipsius pace, ut te Serenissimus Patronus meus Ferdinandus Archidux ex praescripto meo Proregi commendaret perfeci». Così nell'ultima delle tre lettere pubblicate dal Berti, che a noi pare debba mettersi in primo luogo.

[482] Ved. Il Codice delle lettere, pag. 46 e 68.

[483] Ved. Il Codice delle lettere, pag. 42. Dobbiamo fare avvertire che in questa lettera il Campanella dice dippiù esservi disgusto fra Abacuc e il Tutore: oggi, sapendosi dall'Epistolario romano che fin dall'ottobre 1607 era stato dal Fugger mandato in Italia Daniele Stefano di Augusta, per far evadere il Campanella, potrebbe lo Stefano esser ritenuto per Abacuc, disgustatosi col Tutore ossia fra Serafino.

[484] Abbiamo cercato di vedere con la maggiore attenzione se nell'Archivio di Stato in Napoli fosse rimasta qualche traccia di questo Carteggio dell'Arciduca Ferdinando ed anche dell'Arciduca Massimiliano intorno al Campanella. Ci pare che le tre seguenti Lettere Regie vi si riferiscano: ma il mistero col quale sono scritte vieta di ritenerlo in modo assoluto. E però le mettiamo qui per lasciarne giudici i lettori, pregandoli di ricordarsi che primo a scrivere fu Massimiliano, che pochi giorni dopo scrisse Ferdinando, nel gen.o 1608 (lettere giunte con ritardo), e che Ferdinando scrisse ancora in sèguito, il 3 8bre 1608 e il 10 maggio 1609.—1.o «El rey. III.o Conte de Venavente Primo mi Visso Rey, lugar teniente y Capitan general del Reyno de Napoles. He visto vuestras cartas de los 23 de mayo y 30 de iunio con los papeles que acusan tocante a mejorar el presidio y poblaçion de puerto Ercules, y sobre el socorro que pide el Archiduque Massimiliano Ernesto, y agradezco os mucho el cuydado que teneys de lo primero, en lo qual quedo mirando para proveer lo que convenga, y en lo que toca a lo que os escrivio el dicho Archiduque no se offrece que dezir, sino que fue açertado lo que le respondistes y lo sera que siempre vays con la misma consideracion no resolviendo nada sin avisarmelo, porque ay mucho que mirar en la forma de hazer aquellas ayudas. De Valladolid a 10 de setiembre 1608. Yo el Rey».—2.o «III.o Conde etc. Las cosas de la Religion Catolica en Alemana se van poniendo en tan mal estado que obliga a atender a su reparo con summo cuydado, y haviendo entendido el en que se hallan los Ser.mos Archiduques ferdinando y leopoldo mis hermanos por lo que toca a sus estados, He acordado de engargaros y mandaros, como lo hago, les asestays y ayudeys en lo que pudieredes de esse Reyno, y demas desto procureys que por todas vias se entienda que yo de acudir a la defensa de la causa Catolica y al empaxo de la cassa (sic) de Austria en qualquier evento, como debo, para que con esto se reprima el atrevimiento de los hereges, y avisareysme de lo que hizieredes, y se os ofreçiere açerca desta materia. De Segovia a 13 de agosto 1609. Yo el Rey».—3.o «.... queda entendido lo que el Archiduque ferdinando mi Hermano os ha embiado a pedir con el Conde fu.o efforça de Porçia, y que os le aveys respondido y ya se os ha avisado lo que es mi Voluntad, se haya por agora ensto, a quen no se offreze que anadir, sino que aquellas cosas me dan el cuydado que es razon y se va mirando en lo que se deve hazer.... De Segovia a 22 de Agosto 1609. Yo el Rey». (Da' Reg.i Litterarum S. M.tiz vol. 12, fol. 878, 1053, 1703).

[485] Ved. Gabr. Naudaei Epistolae, Genevae 1667. Ep. 82, pag. 614.

[486] Il Berti, nella Vita del Campanella stampata nella Nuova Antologia (luglio 1878, p. 615), parlando del carcere di Napoli dice che il Campanella «ricevette pure nel carcere la visita del celebre Gerolamo Vecchietti, di cui prese a difendere talune opinioni che erano state allora giudicate eretiche»; e in una nota aggiunge, «coteste opinioni si riferiscono alla cronologia sacra nella riforma del Calendario Giuliano». Ma in un Avviso di Roma della Collezione esistente nella Bibl. Corsiniana (cod. 1768) abbiamo trovato in data del 30 aprile 1633: «Il Vecchietti fiorentino dopo esser stato sett'anni prigione all'Inquisitione questa settimana n'è uscito». Era dunque prigione fin dal 1626, e quindi compagno del Campanella; e le Lettere Inedite del Campanella dateci dallo stesso Berti ci mostrano quale sia stata veramente l'opinione eretica, per la quale passò pericolo di essere dannato al fuoco da 18 Teologi d'accordo, l'aver negato che Cristo avesse mangiato l'agnello (ved. le Lett. da Aix 2 9bre 1634, da Parigi 4 10bre 1634, da Parigi 22 7bre 1636).

[487] Ved. Il Codice delle Lettere etc. pag. 131 e seguenti.

[488] Ved. le Poesie, ediz. D'Ancona pag. 151.

[489] Di testimonianze relative a tale notizia non conosciamo finora altra più antica di quella del Bulifon, cronista della fine del 1600 e principio del 1700; ed essa viene a luce oggi per la prima volta, comunicataci dal chiarmo Scipione Volpicella. Si sa che il Bulifon, libraio, registrava notizie di ogni sorte per compilare il suo così detto Cronicamerone; ma essendo stato saccheggiato il suo negozio e il suo domicilio il 1707, i manoscritti andarono perduti con tutto il resto, e poi se n'è venuto ricuperando qualche volume più tardi. Due di essi stanno nella Biblioteca Nazionale (X, F, 51-52), altri in mano di particolari, ed uno di questi ultimi reca: «La notte che divide l'anno 1679 dal 1680 morì in Roma quasi in miseria il celebre matematico Giovanni Alfonso Borelli d'anni 72. Egli nacque spurio, come dicono, nel Castello Nuovo di Napoli da un officiale spagnolo, sebbene v'è chi dica dal Padre Tommaso Campanella ivi carcerato. Ma restò tanto odioso di quella nazione che si assunse il cognome della madre. Questo nelle sue opere stampate e ristampate in più luoghi diede saggio della profondità di sua dottrina, con la quale gareggiò con li primi ingegni dell'Europa. Non si deve tacere che la maggior parte delle esperienze fatte nell'Accademia del Cimento in Firenze sono del nostro Borelli in quella aggregato. Le opere da lui stampate sono De vi....... (sic), De motibus a gravitate pendentibus, De motionibus animalium, Dell'incendio del Vesuvio, e Euclide restituito».—Ognuno apprezzerà, come merita, la notevolissima ragione del cambiamento di nome del Borrelli addotta dal Bulifon, tanto più che da' posteriori è stata variamente e meno acconciamente interpetrata. Noi pertanto abbiamo raccolto e discusso in una speciale Illustrazione quelle poche cose che finora ci è riuscito di trovare su tale argomento ne' libri parrocchiali del Castel nuovo e nell'Archivio di Stato. Ved. Illustraz. V, pag. 646.

[490] Il Conte di Lemos lo aveva dichiarato a S. M. fin da principio (ved. Doc. 36, pag. 42); d'altronde tale era la regola.

[491] Questa iniqua proposizione del Card.l Barberini trovasi riportata in una delle lettere del Campanella pubblicata dal Baldacchini, quella del 10 agosto 1624, ed era perciò nota fin dal 1840; ce l'ha poi confermata un'altra lettera pubblicata nel 1878 dal Berti, quella del 13 agosto 1624 (non 13 aprile come il Berti lesse, avendolo noi personalmente verificato nella Barberiniana). E tuttavia si è continuato sempre a parlare della gloriosa protezione del Campanella spiegata da Roma, dove è noto che il Card.l Barberini, Card.l Nipote, spadroneggiava.

[492] Anche oggi di questo favore di Papa Urbano pel Campanella si ha una notizia molto confusa, perfino riguardo al tempo in cui avvenne. P. es. il Berti parla della «pensione mensile che gli fu accordata quando venne di Napoli in Roma»: ma evidentemente una pensione, o meglio uno stipendio per la carica di cameriere intimo, non si potè accordare allora al Campanella, se fu rinchiuso nel carcere di S.to Ufficio per tre anni. E circa questo fatto della prigionia parimente il Berti dice, che il Campanella «passò tre anni sotto la mentovata custodia senza muoverne lagnanza»; ma non poteva muoverne lagnanza se aveva avuta una condanna al carcere irremissibile; del resto, dovè pure trovare chi l'aiutasse ad uscirne, disobbligandosi col fargli la natività, e in una lettera scritta al Papa, quando stava nel S.to Officio, usò le espressioni medesime usate con lo Scioppio quando stava nella fossa di S. Elmo, «Adiutor meus et liberator meus es tu Domine, ne tardaveris». Queste notizie risultano dagli stessi preziosi documenti datici appunto dal Berti (ved. Nuova Antologia luglio 1878 p. 400 e 392, e Lettere inedite, let. 12.a p. 40, e let. 4.a p. 21). Chiunque si faccia a leggere i documenti e a considerare le cose senza idee preconcette, troverà che la Curia Romana non ebbe mai alcun riguardo pel Campanella eccetto quello finale dell'averlo tenuto nel carcere di Roma per soli 3 anni, invece degli 8 anni soliti a farsi scontare, trattandosi di condanna al carcere perpetuo ed anche irremissibile. Ma si deve tener presente che dopo la condanna egli avea sofferto oltre ventitrè anni di carcere, che varii Cardinali e Prelati aveano molta considerazione della sua dottrina, massime poi che sopraggiunsero circostanze straordinarie e del tutto estrinseche, per le quali Papa Urbano, personalmente, mostrò di proteggerlo ed amarlo, e pure fino ad un certo punto. Si può ben dire che quella volta il Campanella non vide chiaro, e ad ogni modo, circa la protezione trovata da lui in Papa Urbano, si sarebbe dovuto accuratamente distinguere più periodi successivi, ne' quali le cose andarono ben diversamente.

[493] Da buon teologo, lo Spagnolio «reverentemente abolì» ciò che avea detto del Campanella e de' congiunti e familiari di lui; pel resto scrisse, «de coeteris, jure, an fraude et calumnia circumventi, saevis sint affecti suppliciis aut morte puniti, nullo modo contendo». Gli riusciva quindi anche indifferente il determinare se ci fosse stata o non ci fosse stata una congiura.

[494] Così nel libro intitolato «Considerations politiques sur les coups d'Etat, Hollande 1679» p. 262 e 277. Il libro era stato stampato anche nel 1667 e 1671 sempre assai dopo la morte dell'autore, e come abbiamo dimostrato nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella, esso fu certamente stampato per la prima volta in piccolo numero di esemplari, dovendo rimaner segreto, dopo il 1638; poichè nella dedica al Card.l di Bagno, il quale avea data al Naudeo la commissione di scriverlo, si parla del riposo e degli onori che il Cardinale godeva in Roma dopo sette governi di provincie, una Vicelegazione e due Nunziature, e si sa che tutto questo accadeva dopo il 1638, avendo in tale anno il Cardinale rinunziato il Vescovato di Rieti e preso stanza in Roma.—Quanto al «Panegyricus dictus Urbano VIII Pontif. max. ob beneficia ab ipso in Thom. Campanellam collata, Paris ap. Sebast. Cramoisy 1644», esso reca in fine la data del 1632, e sebbene nel titolo ed anche nella dedica si affermi essere stato «recitato» ad Urbano VIII, e l'Echard aggiunga che appunto nel 1632 questo sia accaduto «coram percelebri omnium ordinum consessu», gioverà conoscere un brano di lettera autografa inedita dello stesso Naudeo, che riportiamo tra i Documenti (ved. Doc. 527 b, p. 607). Vi si rileverà che il Panegirico non fu mai recitato, e che nel 1635 l'autore dolevasi di non poterlo dare alle stampe, del quale ultimo fatto ognuno naturalmente intenderà la ragione. Nulla diciamo poi del trovare affermato nel Panegirico, che Papa Urbano beneficò il Campanella «judicium non modo suum..., sed Clementis VIII, et Pauli V mentem, in aestimandis Campanellae dotibus mirificis, sequutus»; perfino Clemente VIII avea stimato le qualità del Campanella!

[495] Tutte le suddette particolarità emergono da' Carteggi e dagli Avvisi del tempo; l'ultima poi, la più scellerata, è venuta fuori co' documenti raccolti dal Bazzoni pel suo bel lavoro intitolato «Un Nunzio straordinario alla Corte di Francia nel secolo 17o», pubblicato nella Rivista Europea 2.o semestre 1880. Notevole riesce l'industria del Mazarini per adempiere alla commissione ricevuta; si serve del noto P.e Giuseppe e vuol servirsi anche del Card.l Della Valletta, ma attesta che il Campanella parla molto bene del Card.l Barberini non che del Papa (ecco una difficoltà). Più tardi fa sapere che ha parlato risentitamente al Campanella perchè vuole stampare alcune opere avendone ottenuta la permissione dalla Sorbona; vuole stampare l'Ateismo e vi si riscalda, «per qualche profitto che ne caverà»; e malvolentieri si lascia persuadere che non stampi, «parendogli che l'opporvisi sia togliergli la gloria» (cose da nulla). Con ciò fa anche sapere che il Richelieu lo stima un chiacchierone, e che veramente il giudizio suo non corrisponde all'ingegno. Senza dubbio in quelle condizioni l'avrebbe perduto ognuno il giudizio; ma che dire poi del giudizio di chi ha cantato inni di gloria a Papa Urbano ed a' Barberini a proposito del Campanella? Ed oggi c'è da temere per soprappiù, che debba il filosofo scontare il risentimento di coloro i quali non sono riusciti a capirlo.

Nota del Trascrittore

L'ortografia e la punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Grafie alternative mantenute:

Altre correzioni:






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