Project Gutenberg's L'ora topica di Carlo Dossi, by Gian Pietro Lucini This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you'll have to check the laws of the country where you are located before using this ebook. Title: L'ora topica di Carlo Dossi Author: Gian Pietro Lucini Release Date: April 9, 2015 [EBook #48672] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK L'ORA TOPICA DI CARLO DOSSI *** Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net
G. P. Lucini
L'ora Topica di CARLO DOSSI,
SAGGIO DI CRITICA INTEGRALE
VARESE
A. NICOLA & C.
1911
l'ora topica di CARLO DOSSI
suonata da G. P. LUCINI
alla memoria proteggente di LUIGI PERELLI
che insiste viva e feconda
e che mi ricollega in amicizia sopra
due secoli, ultimo, al nostro
CARLO DOSSI
dal Palazzo di BREGLIA,
NEL TIEPIDO AUTUNNO LARIANO DEL 1909
[5]
CARLO DOSSI;
è qui coi suoi amici,
continuando Rovani ha continuato Manzoni:
operò tale rivoluzione nelle lettere italiane,
nella forma e nel pensiero,
che le ha innerbate pei secoli;
ma non permise per sè imitatori dozzinali:
disconosciuto,
protende all'epoca, che già s'inalba,
la sua vera gloria confermata,
che i coetanei, troppo sordidi e sordi,
distrattamente, non gli concessero.
1849 — 1910
[7]
Giorno d'oro per le lettere italiane, quando, nel 1873, a cura di Luigi Perelli, in Milano, usciva il saggio di Giuseppe Rovani: La Mente di Alessandro Manzoni: io ne invidio l'aurora lucente e porporina e non presumo di emularla con L'Ora topica di Carlo Dossi. Però, le stesse ragioni presiedono per l'una e l'altra; se Carlo Dossi volle scrivere: «Rovani è il continuatore logico di Manzoni, come il Dossi di Rovani»; egli ha pur detto rivolgendosi a me; «siamo due campane fuse nello stesso metallo, ma di diversa capacità; diamo suoni di ugual valore, ma di diversa nota.»
Vorrò io perciò vantarmene e non far parte all'amicizia del di più che le deve in questo giudizio lusinghiero? Certo: ma oggi concorre a me, come già fu per Rovani, l'obbligo di una stessa affermazione. Ed in difetto di editori, i quali confidando in me e nella mia anomala letteratura come ditta e prodotti commerciali, commerciabili e reddituarii, mi fabricherebbero, allo spaccio, libretto garbato e corrente mi sia dato esporre, da queste pagine per me non venali e bandire, finalmente, il nome di Carlo Dossi, ai giovani della mia generazione ed ai giovanissimi che mi incalzano, e mi chiedono parole sempre più nuove con altre ed inedite audacie.
Anche tu, o Alberto, oggi dolorosamente desiderato dai tuoi che respirano nella tua memoria e nella tua fama, dalli amici che ti ammirano, da me che ti piango come fratello, sembra mi conforti ad esporre l'opera mia, cui, in parte, hai udito leggerti nelli ultimi tuoi dì: e se turba un poco la tua modestia non condannare la mia sincerità che [8] non deve mai interrompersi. Che anzi, troverò commentatori privilegiati di officiosità e di ignoranza che, me la imputeranno a male come inezie di fisiologia, ciarle sconvenienti, pettegolezzi indiscreti, sciorinate citazioni per lusso da note inedite difficilmente controllabili. Hanno ed avranno torto, perchè mi affido a quanto il nostro autore desidera si faccia in questo caso, come lo apprendo dalla stessa sua parola: «A scoprire, a rifare il processo su cui una mente, specie di scrittore, ha voluto produrre date opere; a rintracciare l'origine del materiale da esso impiegato e trasformato, a conoscere lo stato d'animo di chi pensava o eseguiva, giova più che tutto l'esame di quelle intime carte, qualunque sia la sua forma, nelle quali l'artista ha segnato il suo primo pensiero e consegnò la memoria dei pensieri ultimi. Simili documenti i quali vanno dal più laconico aforisma all'epistolario più diffuso, e possono anche comprendere i conti di cassa e di cucina, sono tanto più preziosi, inquantochè un artista, come ha raggiunto la designata altezza, si affretta solitamente a cancellare le tracce della sua via, quasi a dare ad intendere che ei vi volò, non vi si arrampicò».
E, quando allora mi imputeranno, in qualche passo, tono, aggressione, polemica, siano tutti persuasi, che, col proclamare, ammirando, l'arte ed il pensiero di Carlo Dossi, tento di difendere e volontieri me stesso.
G. P. Lucini
Dosso Pisani, il XXVIII di Gennaio, CMXI.
[9]
La fortuna, che sorresse e si oppose insieme alle opere ed al nome di Carlo Dossi, fu bizzarra, generosa e maligna nello stesso tempo. Mentre ne ha protetto l'amore e l'ammirazione tra i migliori suoi coetanei e lo ha riservato al culto de' giovani, non volle che la rinomea larga e sparsa, con facilità e tornaconto si divulgasse tra il pubblico grosso, quello che fa numero, sostiene il valore reale e crea, effimeramente, le gloriole posticcie; ma senza di cui l'efficacia dell'azione, la bellezza della letteratura, la verità dell'accusa e la giustizia della rivendicazione non hanno nerbo, latitudine, determinata vittoria.
Il clamor gentium evangelico contrasta, è vero, coll'odi profanum vulgus et arceo oraziano; ma l'opera d'arte, composta lungi dalla frequenza e dall'intemperanza della folla, va pur rovesciata sopra di lei; e questa, se non vuol disertare, cioè, privarsi di un piacere tanto più intenso quanto più difficile, deve accoglierla e profittarne.
Non per questo Carlo Dossi vi si accostò; proprio e fondamentale costume il suo di rimanerne schivo; e lo accompagnò, dai primi istanti del suo produrre, costantemente, se Antonio Ghislanzoni, volendo parlare della Vita di Alberto [10] Pisani incominciava: «Ne[1] è autore Carlo Dossi, un giovane letterato, che pochi conoscono, per la semplice e perentoria ragione ch'egli studia ogni via per tenersi nell'ombra; uno scrittore di elettissimo ingegno che si affatica quanto sa e può, onde apparire un dappoco.» Pochi dunque lo conoscevano; ma quali pochi? Nelle ultime stagioni di sua vita, Manzoni lo aveva letto e se ne era compiaciuto; Rovani, definitivamente, lo aveva preso per mano e condotto fuori, con lui, all'aperto; Carducci, nelli anni gagliardi, si arrestava insieme a conversare e a definire La Colonia felice «la più ampia e vigorosa concezione di romanzo.» Cesare Lombroso, che seppe circoscrivere i confini della pazzia ed oltre pose il genio, malattia gloriosa; che aperse nuove vie alle discipline italiche e sottrasse al libero arbitrio biblico, che l'incatenava alla bruttura del peccato originale, come ad una condanna di maledizione, l'uomo, riducendolo a sè stesso, libero, responsabile finchè sano; accoglie e favorisce la presentazione di Carlo Dossi per Alberto Pisani, li riconosce uno e li conserva nella sua Grafologia, indice di genialità. De Amicis impara da lui a sapere i Cento anni, che ignorava; mite, castigatissimo, ultra manzoniano, tutto sentimentale, sino alla patologia delle lagrime inutili e facili, lo pregia scrittore d'eccezione grande e La Desinenza in A un'opera forte e virile. Gigi Perelli, visitatore d'anime rare cuore plasmato all'altruismo, la di cui vita è una serie di continui benefici per coloro che ama, scopre e protende, lo sorregge con affetto più che fraterno, paterno, lo difende e lo inalza, gli addomestica le prime voci della pubblicità, gli va ricercando un pubblico. Paolo Gorini, con Perelli e con Primo Levi, lo accoglie nella sua intimità; per loro si dimentica a raccontare la sua Autobiografia, insempratore di cadaveri metalizzati, Prometeo di vulcani, abolitore della putredine umana col fuoco: e Cremona, al dir del Dossi, gli insegna, [11] dipingendo, come si debba scrivere e ne perpetua ed infutura la sua effigie. — Paolo Mantegazza lo chiamò «il Meissonier della letteratura, tutto cuore e tutto spirito». Cesare Correnti gli offerse la sua squisitissima arguzia; lo ammette tra i più cari, da che Carlo Dossi ama l'impossibile ed egli è un po' del suo parere «avendo imparato in sessant'anni di vita che al mondo non vi è altro di desiderabile che l'impossibile». — Crispi, il più grande uomo di Stato, che la Rivoluzione abbia dato all'Italia e che la paurosa grettezza della Monarchia e la tirchia meschinità del parlamentarismo piccolo-borghese abbiano esautorato, lo volle con sè collaboratore. Ed altri ancora, Grandi, Magni, Robecchi-Brichetti, il padre Tosti, Luca Beltrami, Polifilo di arguzie politiche, instauratore di un'altra e milanese scuola di Leonardo, col raccoglierne i cimelii con riproporne le carte, col rinnovarne i monumenti; il Ranzoni, pittore di rose, di monache e di garibaldini; il Conconi, acquafortista di notturni dossiani, descrittore della Casa del Mago, e fantastico di bizzarrie pittoresche; il Troubetskoi, statuario magnifico di imperatori barbari, zoofilo illustratore di vite e di forme animali, signorile ritrattista di primavere ricche e feminili; — tutti questi il miglior fiore dell'ingegno italico contemporaneo, anzi, della genialità, gli si fecero vicini, donde egli rientrava nella lucida, preziosa e profumata corona, su cui si adagia, lentamente, la cronaca, colla celebrità, per produrne, ai maggiori, la gloria, nella storia. E bene; con tutto questo, a Carlo Dossi mancò e mancherà la rinomea; ma è sicurezza sua di sopravivere al fiato vagolo e capriccioso delle acclamazioni troppo facili, poco spontanee, meno comprese e più vane. Egli non se ne cura, non se ne curò, esercita operosamente la sentenza del saggissimo antico: «bene vixit qui bene latuit:» ma a chi rimase nascosto? — Mentre, di sulla Cronaca Grigia Cletto Arrighi, scapigliato irriducibile a trapassare dalla Canaglia felice a [12] Nana a Milano, dal Teatro Milanese al Carro di Tespi, si era accorto, primo, di lui, lo aveva riposto sulli scudi, lo mostrava ovunque, battagliava in suo onore; Primo Levi lo manifestava in sul bel principio, schietto, limpido, tutto polpa sana, spoglio d'ogni convenzionalismo, carattere intiero e specifico di letteratura in — I libri di Carlo Dossi, considerazioni biografico-sociali, additandolo indice di una mentalità moderna, eretta da ragioni politiche, nel tempo in cui si rinnovava una nazione, si ritentava un carattere nuovo all'Italia, si proponevano all'arte, alla filosofia ed alla pratica nuovi quesiti, altre esperienze, al cittadino, deliberate libertà. — Mentre Eugenio Camerini lasciava, per lui, la profonda, severa e serena dottrina, dalla quale riuscivano nette e perspicue le sue prefazioni ai classici e ripassava, con diversa e moderna intenzione, le vicende letterarie, ottimo scolaro alle Lezioni di Eloquenza di Ugo Foscolo; — l'acutezza persuasa, preveggente e generosa di Felice Cameroni lo citava in ogni sua Appendice, in sul Sole, L'Italia del Popolo, La Valtellina, Il Tempo; ne cercava paragoni e paralleli, continuava a ripeterne il nome e l'opera, sollecitandogli lettori, facendogli credere ch'egli avesse un pubblico, illudendolo sulle riconosciute sue virtù, — e chi dice lettori di Carlo Dossi, sottintende subito amici od ammiratori. — Mentre Luigi Capuana, ne' suoi Studii sulla letteratura contemporanea, con attenzione sagace gli dedica molte pagine; lo raccomanda fra quelli verso cui Gautier inchinò la preziosità di Les Grottesques, dove occuperebbe il primo posto; lo rivede fenomeno e caso letterario, donde si rivelano qualità di primo ordine, che, insistendo sul lettore, coll'energico effetto della realtà, gli porgono un'acuta eccitazione interiore, escludendone la volgarità, l'impotenza, l'anemia, l'aborto: — alcuni Magazines inglesi lo nominano e se ne interessano. — Se, Pipitone Federico non lo trascura nei Saggi di letteratura contemporanea, non lo confonde coi settatori del carnalismo, per quanto lo giudichi un realista, non lo impegola nella caterva [13] nova, nata allora dalle lucidature mürgeriane, dalle risciacquature di Gérard de Nerval, dal fondo di bottiglia della gazzosa stecchettiana; ma lo fa vindice delli Antinoi-Menecmi dell'arte, ingualdrappati dalle scorrevoli frasette de' beceri toscani; humorista, lo pregia sopra a tutto, ruggente come un leone, o guerriero gallo colla lancia imbevuta del succo dell'aloe acerbo, disturbatore di pacifiche digestioni, rimprovero vivo ai bottegai scioperoni e sfacciati della feconda vendita delle candele di sego, dello zucchero, del pepe e delle loro abilità giornalistiche: — Ferdinando Fontana lo tramanda nel Dizionario dei poeti milanesi in ottima compagnia. Se Eduard Rod lo contemplò, colla usata sua competenza, in Romanciers italiens, apparsi su La Nouvelle Révue; lo spiegò letterato di razza, nel senso più raffinato della parola, poliglotta, istitutore a sè stesso della propria coltura letteraria, autore di libri di una eccessiva sensibilità, di una ironia acuta, di contorcimenti di stile e di pensiero, in cui il pessimismo prende il sopravento sopra la sua fondamentale sentimentalità, e la misantropia cerca di vincere invano la sua profonda carità umana: — a cura di Elena di Götzendorf, un Hausbuch tedesco ne stampava la biografia, il ritratto, le traduzioni; Elena, amica conosciuta per lettera di lontano, non veduta mai, promessa a fine tragica, compartecipe al suicidio dello sposo amatissimo, intenta, forte e soave intelligenza feminile. — Meglio avvisato Vittorio Pica lo riguarda in All'Avanguardia, comparandolo alli autori che il simbolismo francese, allora, suscitava; a Villiers de l'Isle-Adam, a Mallarmé, a Verlaine, all'Huysmans, alli altri, che si compiacciono di un ideale d'arte ultra eccezionale ed aristocratica, e si cercano, per lettori, un numero esiguo di delicatissimi, coi quali, quasi collaborano per la completa efficacia delle opere loro; poichè la sapiente suggestione di simili scritti lascia spazio e margine alla fantasia ed alla sensibilità di quelli, onde li possano completare personalmente. — Ma, se Benedetto Croce gli sommette [14] un lungo articolo sulla Critica, si confonde nella ricerca della sua speculazione; non così l'altro giorno, da su Poesia, la leva del futurismo internazionale, quando se ne proclamò il nome a bandiere spiegate, precursore «assodato di efficacia e sopravivenza; non così io stesso, se ricorro, a lui per esempii, esperienze e risultati, col Verso Libero: e l'opera del Dossi mi risponde, prova reale ed operante delle mie affermazioni estetiche attuali.
Dopo ciò, egli può essere ignorato dalla gazzetteria spicciola de' grandi giornali, dove la critica è facilmente sgomenta, dove non vi sono caratteri tipografici e carta per nominare queste tempre d'uomini tutto nervi e coraggio civile, che non temono la verità, che esercitano l'eroismo pericolosissimo, in questi giorni di maschere condecorate, della sincerità. Hanno industrializzato l'arte, la scienza, la politica, l'opinione pubblica; vi concorsero i vermiciattoli della scribacchiatura venale, i dubii arrivati, li imbecilli arrivisti, i così-così, in caccia di un ciondolo mallevadore della loro onestà, che poco persuade. Per costoro, piccolini e mediocri, Carlo Dossi rimane sempre colui noto all'epoca della fioritura sommarughiana, autore di qualche bizzarria eccentrica e curiosa. In cambio, codesti fogliaccioni sesquipedali, hanno lunghe articolesse sopra i garretti e la meritoria pietà cattolica e da veloce scaccino dei Dorando Petri, sopra la muscolosa trucolenza dei Raicevich, intorno ai voli per l'aria e le passeggiate sott'acqua, le visite dei Reali ai disastri siciliani, e di Fregoli al Papa, le scialuppe e li emetici curialeschi e di Assise, li elettuari fogazzariani, le cantaridi, finalmente ribassate di prezzo e di valore, d'annunziane, le acque sporche di polveri virgiliano-romaniche del Pascoli e via via: il costume non si rimutò.
Anche tutt'ora, codesta rivendita di parole stampate ad uso della borghesia fannullona ed arrivata maschererà, sotto un interessamento d'imprestito, dovuto al nome formidabile dell'editore letto sopra la copertina delle recentissime opere [15] complete dossiane, la sua malagrazia e sopra a tutto la sua supponenza spaventata e melensa davanti alla gratuita sincerità. La paura non è a fatto tranquillizzata, non le fobie persuase, non l'ignoranza confessa: tutte queste stigmate morali si ereditano atavicamente; i figli, nuovi accademici, patiscono le stesse malattie; e, se oggi, per rispetto umano, o per millantato credito, andranno al richiamo di chi scrisse la Desinenza in A, minimamente la comprendono, nè la lessero.
Avevano i padri trovato già temerari Mantegazza ne' suoi saggi popolari scientifici, Cremona nella sua pittura, Grandi nel suo Beccaria, Torelli nella dramatica. Il loro gusto aveva applaudito e si era imparadisato alla nuova e mengoniana. Galleria Vittorio Emanuele, alla statua di Rossini di fresco eretta, nell'atrio della Scala, alla oleografia della Stuarda del Valaperta, esposta a Brera, all'Olema melopea romantica e spappolata, che furoreggiava dalle ribalte liriche milanesi. A buon diritto, La Fidanzata russa del Fontana, il Mefistofele del Boito venivano biasimati. E, l'utile, proprio come oggi, era proposto all'ideale, sogno, utopia, fola. Essi si erano domandato: «Che pazzia è mai questa del Dossi, di scrivere senza la falsariga comune e di non curarsi delle vecchie ed autorevoli penne d'oca della critica?» E molti se lo domandano di bel nuovo.
«Che ci viene a fare quest'uomo, eccesso verbale, scrupolo di onestà letteraria, che scrive l'opera, non della stagione, ma nel tempo; cui vediamo armato d'ogni arma, che ci racconta senza rispetto, «tra[2] gli scrittori abortiti, in professori di belle lettere, tra gli spulcia codici, i puristi, gli etimologisti», tutta roba seria e patentata; i quali riguardano con sospetto il libro nuovo, senza pensare che i nascituri, saranno, per esperienza, molto più doviziosi delle miriadi de' loro antenati?» Tornano a dire i recentissimi, pe' quali [16] la resurrezione tipografica di Carlo Dossi non sarà sufficiente a commuovere, nella pigrizia del loro cuore venoso, un palpito più affrettato di snobismo.
Ma altri si mostreranno col sorrisetto della accoglienza, verso di lui; altri epigoni di quel giornalismo, di cui sopra, ripassati da un nuovo strato di biacca, riconfortati sul nero fumo confessionale, sul roseo sporco del liberal-conservatore; e vorranno, per estemporaneità, dimenticarsi delle antiche e paterne ingiurie avventate contro di lui. Pure, la discendenza è diretta: le parole ch'egli raccolse ne' Margini, nelle Etichette, nelli Invii, preposti alle prime edizioni a difesa e ad offesa, gli giovano tuttora. Giovano contro li eredi della cronachetta bonghiana suadente ad ogni mercede, per li usufruttuari dell'inconfessato livore baseggiano, ai continuatori della pratica grettezza inelegante e veramente costituzionale della mecanica giornaliera di un Torelli-Viollier, compilatore di diarii arroganti, plurireddittuari, in quest'ora bassa, senza ideali di giustizia, per cui è lecito scrivere senza entusiasmo e libero abbandono; dileggiano li ultimi scolari di un Verdinois buon anima, anguilla, a sgusciarti dalle mani.
Furono in allora, e sono anche qui, quelli rimasti in sui confini delle comode legalità, quelli, che sono sempre responsabili delle loro azioni, e ne pagarono li eccessi di persona; i sovversivi, insomma, coloro che fecero e fanno gran caso della personalità letteraria di Carlo Dossi, sbandierandola dalle loro gazzette: furono essi, che lo posero all'avanguardia del pensiero civile, foriero di estetica e lo difesero. Furono i nostri critici di pura tempra repubblicana, come il Dario Papa, le nostre riviste sbarazzine come La Farfalla, insignita dalla bella testolina sorridente di Tranquillo Cremona, che, contro tutto e tutti, conservarono alla democrazia l'aristocratico fascino della cultura umanistica, rappresentanti diretti della italianità di genio, continuatori del pensiero di Romagnosi, di Cattaneo, di Mazzini, della poesia di Foscolo; i generosi di sangue, d'audacie e di sacrifici, [17] quelli che lo presero in sicurtà e che tuttora lo difendono colla mia penna.
La presente opportunità alli altri, forse, farà loro dimenticare. Non vorranno accorgersi, che, se Carlo Dossi taglia ancora con buona lama affilatissima dentro la loro carne viva, non potranno affidarsi all'aiuto d'Alberto Pisani, uomo ufficiale d'ordine e decorato, perch'egli ne medichi le piaghe, colla preghiera di scusargli il fratello irritato ed impulsivo, come dev'essere ogni artista. Ambo, oggi, hanno moltissime ragioni e diritti per colpire insieme; perchè grave la doppia ingiuria venuta contro di loro da questa parte, e la patirono insieme, generosamente in silenzio, ma non ismemorati di nobile vendetta. Si facciano dunque in là col melenso sorriso della accoglienza. Il tempo insiste ma non rimuta nelle intelligenze i loro pensieri atavici. Noi diffidiamo delle loro attestazioni troppo in ritardo per essere sincere.
Non importa. Attualmente concorre a lui la schiera giovanissima; e, se il Cœnubium luganese domanda alli intellettuali il titolo dei quaranti volumi da loro preferiti, Pio Viazzi, esteta e legislatore, si piace di comprendervi le opere dossiane. Dossi, intorno a sè, sente il suffragio riverente delli ultimi venuti di sulla letteratura, di coloro che incominciano: siano Gustavo Botta, umanista di garbo libero e schietto; o Monneret de Villiars, il cordiale illustratore del Giorgione; siano Alessandro Casati, patrizio milanese, in cui vigila il buon ingegno che fu genio in Beccarla; o F. T. Marinetti, che lo confessa con passione e scandalo di futurista; o Carlo Linati che rinnova, in Cristabella, Goccie d'inchiostro; o il vecchio Loforte-Randi, spirito inquieto, odiatore della pagliacceria d'annunziana, indipendenza ardita e geniale da riconnettere Nietzsche a De Maistre, coraggioso di una sua Verità, che contrasta con quella di molti, che vanno per la maggiore ed hanno maggior tomo, solitario filosofo in vedetta, che non dimentica, e col quale amo dibattere e schiettamente ammirare.
Fresche e viride giovinezze d'arte sentono, nell'aria, pungere [18] l'ossigeno dossiano. Lo stacciano dalla lenta e bassa atmosfera coi loro alacri polmoni e se ne nutrono. Non conoscono direttamente l'opera purificatrice e di costanti prerogative, la pompa attiva che erutta polle sane di fecondità; ma ne presentono, per simpatia, la presenza d'intorno; vi si orientano ne mandano, araldi e trombetti, proiezioni di loro stessi, le loro opere adolescenti, in cerca. Sia Cesare Giulio Viola, che sofre serenamente, e ricompone la lieta e triste espressione de L'altro volto che ride, in cui, la Terra avvicenda le stagioni, a paragone dell'animo del poeta, col nascere ed il trapassare dei fiori, mentre i paesaggi cittadini prendono nome, persona e dramatica umana più grande essendo la pietà del poeta dove maggiore è il peccato della donna: sia Mario Puccini, che dà a sfogliare, pagina per pagina, arrugginite, color d'autunno, come le rame delli ontani patullati dal vento, le foglie della Canzone della mia Follia, contro cui si destreggiano le lancette flebotome dei cruscanti ed imbizzano le replete e disturbate digestioni dei settuagenarî inostricati universitaria pedanteria; — Mario Puccini, che se vuol darsi l'aria del critico dimostra di sentire, ma di mal comprendere il Dossi.
Così, nel Portico dell'Amicizia, che, nel suo palazzo del Dosso, Alberto Pisani volle eretto e consacrato alli amici dell'altro sè stesso, una colonna si istoria e professa, vicino a quella dedicata alli utili nemici, cento trenta nomi oscuri affatto, annubilati ambiguamente, o preclari a risplendere coloro che lasciarono traccia del loro passaggio sulla terra e nel suo cuore. Coloro che inviarono, dalle terre italiane, senza ch'egli celebrasse, come altri minimi, giubilei, le loro frasi timide, comprese, richiamate e gloriose; dalla povera maestrina provinciale che si effonde, esclamando, al letterato in voga; dal filosofo eminente, al viaggiatore illustre; voci di un popolo affratellato, nel saluto e nella riconoscenza, verso chi partecipò loro la malinconia di Alberto Pisani: l'umana carità di Regno dei Cieli; la filosofia agita, nelle parabole e [19] nelli apologhi di Goccie d'inchiostro; l'utopia di Colonia Felice; il sarcasmo scettico e crudele di Desinenza in A; le tenerezze gioconde e tristi di Amori; le amaritudini di Ritratti umani; le acute ed ironiche piacevolezze di Fricassea critica; la storia sentimentale, e, per questo, più vera, di mezzo secolo d'arte, Rovaniana.
Gli si confidarono solleciti, li anonimi, li sconosciuti, colle attestazioni umili che, per la loro indeterminatezza, prendono il valore simbolico del giudizio collettivo; li altri che sono dubitosi di sè, impacciati, pudichi de' loro sentimenti e delle loro espressioni; quelli che, messi sul cammino della confidenza vi rovesciano tutta l'anima, non terminerebbero più, svuotandosi de' loro più intimi secreti. E sono accenti feminili: così le accusa la calligrafia minuta, l'espressione ingenuamente architettata e timorosa di nuocere, il susurro, il bisbiglio all'orecchio della confessione: «... Perchè i libri di lei sono veri baci; baci intellettuali al lettore, cominciando dalla stessa bellezza delle edizioni, che è la più esterna, veste. — ... Io non ti conosco, o autore del Regno dei Cieli, dei Ritratti umani, dell'Alberto Pisani. — ... Qui parlo col tuo spirito, più che con te, personalmente, e ti parlo col mio spirito, più che con la mia voce. Quando ti vedrò, personalmente, ci daremo regolarmente del Lei, perchè le persone e i corpi dividono li spiriti, perchè ciascun corpo, nel mondo, vuol posto. Per il che noi ardiamo del desiderio in un istante, di conoscere una persona, di gettarle le braccia al collo; e poi ci batte il cuore quando abbiamo messo il piede sulla via di trovarla, di andare colla nostra persona avanti alla sua; perchè temiamo di spiacerle. Oh! quanto ci facciamo, spesso, più materiali che non sia nostra natura! — ... Io, un uomo, o mi piace e lo amo; o non mi piace: se mi piace e lo amo, mi piace tutto com'è; non conosco difetti; per me anche i suoi difetti costituiscono il tutto che amo. Così, per me, un libro: se lo amo, lo amo come un amico, svisceratamente — ... La Ines è un nuovo ardimento, [20] e non v'è intemperanza... — Per me amore è santo ovunque sì trovi. Valesse, tal capitolo, a fermar la mano di un solo suicida, Caino d'amore, non sarebbe intanto scritto invano. — ... Con in mano il Regno dei Cieli dico io, sarebbero già stati risolti anche tutti quei problemi. — ... E tutto ciò sia un segno dei tanti ringraziamenti che il mio cuore fece a lei, nel leggerlo; è un tenuissimo scambio del piacere a me fatto dai suoi libri...» Chi scrive? Perchè scrive? Bisogno, necessità: innominata voce del coro greco, non impersonata mai «perchè le persone ed i corpi dividono li spiriti, e noi ci facciamo spesso più materiali che non sia nostra natura!» Angiolo lontano: Carlo Dossi rimette a suoi nemici, per il suffragio tuo, tutti i dolori di cui l'abbeverarono!
Or dunque; se l'opera di Carlo Dossi è all'apogeo e completa, tutta risplenda, come fa il sole a giugno che si svuota di luce sopra li oggetti e li determina colle brevi ombre sottili e lineari, oscura e necessaria apposizione; essa è attuale, in azione; risponde al nostro sentimento ed al nostro bisogno; è l'anello necessario che ricongiunge la letteratura di Alessandro Manzoni con quella che verrà; è una maglia essenziale nella catena della evoluzione psichica ed estetica, la cui ignoranza e mancanza produrrebbero uno squilibrio ed un vuoto; per cui la presenza è richiesta, logicamente effettiva, par ragioni fisiche e filosofiche, perchè non intercorrano soluzioni di continuità, ferite slabranti, sanguinose e dolorose, disaccordi inarmonici; perchè, un'altra volta,, si ripresentino vittoriosi i cardini d'ogni legge fisica e morale; πάντα ῥεῖ: — Natura abhorret a vacuo.»
[21]
Carlo Dossi non ci viene da lontano; la sua nascita coincide con una grave e dolorosa sconfitta italiana, anzi ne fu sollecitata, come a noi insegnò a volere, con maggior tenacia e fortuna, l'indipendenza nostra: egli soferse, insieme alla sua crescita, quella della patria e ne espresse l'adolescenza ebefrenica. Mentre la miseranda cannonata d'Agogna contro Novara aveva condotto un giovane principe a Vignale, davanti ad un maresciallo austriaco imbaldanzito arbitro di guerra e di pace, e tornava a boccheggiare la patria nel sangue sparso a Milano, a Brescia, a Vicenza, a Venezia ed a Roma; egli nasceva il 27 di Marzo 1849 a Zenevredo, un borgo sulli Appennini dell'Oltrepò pavese, in vedetta della battaglia, risparmiato a pena dall'incendio, anzi, per un prossimo incendio, spaventata la giovane madre, settimino.
Ed egli fu precoce autore: (suol dire e distinguere: «De Amicis, Fogazzaro, Barrili, Rovetta ed altri non sono autori; cioè nulla aggiungono al patrimonio letterario italiano, ma semplici scrittori»). E subito il Demone lo richiese e se lo imprigionò. Egli non se ne pentirà mai: «[3]Tredici anni sono passati da allora, la mia esperienza è, più che matura, già marcia, e, non solo non sento rimorso alcuno di quel mio adolescente peccato, ma lo ristampo. — Resti dunque a dormire, nel suo sepolcro di versi, il consiglio del cisposo Orazio. — Per conto mio son ben contento di essermi alzato ai primi albori per cominciare questo viaggio, non breve, di una vita letteraria».
Bimbo, ama già il libro; precorre coll'imaginazione le [22] pagine che va leggendo, le quali gli servono per altri più belli, personali e meravigliosi motivi. Ricama di tutta sua fattura sulli spunti di un verso, di una frase; compie a suo modo l'avventura già scritta. Tal quale il mimmo vede, nella Casetta di Gigio, un mondo scoprirsi a lui nel buio fantastico di sotto le coltri; al Dossi furono dati voli eccelsi per le nuvole e le stelle e gesta ipogee; donde la sua ebrietà di imagini, che sorprendono la brava gente astemia e sobria di entusiasmo: s'egli ha immerso, come il Silfo di Pope, le ali nell'arcobaleno, come Guymplaine risorge anche dalli inferni.
Il libro-passione, spesso, gli acquetò e gli spense la passione-amore. Carezza con mano innamorata le pagine, come il suo sguardo si posa, con ogni delicatezza, sopra il profilo delle bellezze desiderate ed ottenute. Ma possedere significa produrre; anzi, massimo possesso ed esclusivo, veder viva, materiata la cosa sua, erotta da sè, aver raggiunto alcun che di più a quanto già esiste, dirsi autore, poeta. Testè, mentre si correggevano insieme le ultime bozze dell'ultima edizione, che ce lo porge intiero, nei pomeriggi freschi e lariani del Dosso, tra le raccolte del suo archivio, che lo completano, tra le leggende scritte sopra le pareti di marmo e di cemento, che, come fogli perenni, dicono la sua storia con quella di coloro che ha amato e lo amarono; — gli tremava la mano che reggeva la pagina, la voce che leggeva le righe; lo vidi lagrimare silenziosamente sopra la sua creatura. Fresca, intatta, vergine gli usciva dopo quarant'anni; sonoro, giovanile l'accento persuasivo e malinconico; l'adolescenza, la maturità tornavano dentro il volume a parlargli: nulla si era perduto nell'aspettare, nessuna grazia avvizzita, non una bellezza sciupata; quanto caduco il corpo del padre, ma come vigile e costante il nato dalla sua intelligenza! Carlo Dossi non accoglieva al ritorno il Figliuol prodigo, ma Cordelia la più cara, la più devota, la più dolorosa delle figlie di re Lear: ed il bacio, che lo estasiava, lo faceva sofrire insieme.
[23] Perchè il Demone gli diede occhi, mani, orecchi, membra e sentimenti specialissimi onde potesse rievocare il mondo diversamente: e tutti se ne meravigliarono e gli imputarono, i più, a posa menzognera la sua schiettezza, se ebbe il coraggio della massima sincerità; mirabile impostura del luogo comune! Egli se ne era allontanato, con quello disprezzando la gente comune, costituendo una vera rivoluzione in estetica contro i romantici, i classici, i cruscanti, i naturalisti, li idealisti; e fu sè stesso. — Ed il Demone gli dettò dentro le parole semplici naturali, e perciò misteriose; e lo credettero involuto, astruso, difficile: e il Demone gli porse in mano una penna temprata come uno stile, acuta, incisiva, incorruttibile, elastica, inossidabile qualunque fosse l'inchiostro dentro cui s'inzuppasse, acqua, lagrime, sangue, mota, cielo, coscienza umana, egoismo, folgore di ribellione e paradisiache bontà umiliate; ed egli ne usò, bambino gazzettiere, per giuoco, adolescente, per la malinconia dell'inquieto crescere, giovane, per i dolori e le crudeltà dell'amore, uomo, per le memorie e per l'istoria.
Sì che egli lo confessa ne' suoi Amori: «Amai i libri ancor prima che li sapessi leggere... parmi di aver davanti una folla di amici... li palpo sul dorso come generosi destrieri e li bacio anche, e sedendomi, qualche volta, sullo sporto della libreria, appoggio la mia testa contr'essi e lì rimango beato come sulle spalle di una donna cara, quasi assorbendo — feconda pioggia — il lor genio, quasi sentendo il mio ferro, al contatto della loro magnete, farsi magnete».
Primaticcio in tutto, per consentire alla sua nascita, sembra indovini le cose che la sua fanciullezza gli impedisce di conoscere; come d'un serbatoio d'esperienze altrui e di scienza atavica, elabora idee, concetti cui l'età giovanissima non gli concederebbe. I Quinterio, per parte di madre, gli avevano legato un fondamento di virtù pratiche e disinteressate; i Pisani l'avventuroso ritentare, il coraggio delle battaglie aperte, il piacere delle cose difficili e delle congiure — Don [24] Carlo il nonno, tipico e romantico stipite de' Federati —: d'ambo i lati amore e culto per la patria. Carlo Dossi, al fomento di questa genealogia, presumeva ed indovinava giustamente; appartato dalla vita, la sapeva meglio di chi, in mezzo al suo estuare frenetico, la eserciti, ma non ne racconti le fasi.
Fanciullo undicenne, nel 1861, gli balena nella vergine fantasia un Don Chisciotte della Mancia; epigrammi, canzoni d'occasione, versi sciorina; milanesi quelli: «In occasion d'on invit a festa de ball». La Caduta di Milano (1862) sfoggia l'ottava rima; per le teste di legno del suo teatrino da marionette, annoda l'intrigo della Cacciata dei Re, recitata a viva voce da lui e Guido, fratello minore; nel 1865, pubblica rappresentazione di una comedia: Lodovico Ariosto, collaboratore, per la prima volta, Gigi Perelli, vestiarista di genio, Tranquillo Cremona, che disegna i figurini de' costumi indossati per la recita dai bimbi dell'asilo, cui Claudia Antona-Traversi, parente de' Pisani, istituì a Sannazzaro de' Burgondi.
Poco dopo, si dà al giornalismo e spaccia l'infantile La Trombetta, due o tre numeri, cinquanta centesimi la copia manoscritta in redazione con Guido: — trasformata in Giornale delle Famiglie, numero unico, a contenere nientemeno che La Convenzione (di settembre), Lumi sull'antica scrittura egizia, seguiti da una gramatica, Progetto d'imposta lucrosissima allo Stato, ed il resto. Ma L'Aurora sorge ed assorbe il Giornale; ebdomadaria, poligrafata, tenera, porporina si completa nell'azzurro di un altro mattino raggiante, dopo quattro numeri di vita (1864-65). La Palestra letteraria.
Intanto, scolaro ginnasiale, Carlo Dossi aveva perduto appetito, salute, sonno dietro una nuova e geniale interpretazione dei geroglifici figurativi d'Egitto, e ne aveva, come vedemmo, proposta la grammatica, forse più logica delle altre molte, che, oggi, i dotti, nei loro dizionarii empirici, mandano a torno per riempire le teste e li scaffali delle librerie. Poi, [25] sedendo sulle panche liceali, appunta la critica contro la così detta pubblica istruzione; la dimostra seminario e semenzajo di coscienze già bacate, sopra le quali si deposita la patina del clericalume. Il primo racconto che si legge in: «Giannetto pregò un dì la mamma che il lasciasse andare a scuola...» — ed il titolo stesso è già per sè una acuta ironia, per quanto evidentemente ispirato dai capitoli del Lorenzo Benoni di Giovanni Ruffini — descrive costumi sacerdotali ed educativi, ha il medesimo significato morale; termina colla morte dell'innocente, col trionfo delle canaglie, precisamente, come nella vita. A riscontro, Luigi Perelli gli poneva Istruzione secolare», perchè la pedanteria laica, vale il gesuitismo bigotto; e l'equilibrio si ristabilisce così, ottimamente, in Italia. — L'anno dopo, da solo, Carlo Dossi ritenta la pubblicità, nel breve cerchio dell'ambito famigliare: «Per me si va tra la perduta gente». Spunto iniziale de' Ritratti umani; grotteschi, schizzati a volo, della Gente-per-Bene, caricature di scombiccheratori illustri, patentati, academici di tele e di carta; punge l'amaro assenzio tra le verbene e le violette profumate del sentimentalismo, tra le rosate vainiglie, elettuari delle speranze. Beppe Marini, il protagonista, sofre e si riconsola; contempla fantasime di fede e di speranza, ritto al capezzale della sposa seminuda, angelicamente, sognando, mentre la luna la inalba.
Di quel tempo, sorse la Società del Pensiero; il Dossi ne divenne l'anima, il segretario perpetuo; mentre Luigi Perelli, organizzatore nato, la attuava funzionalmente. Fondata un 14 Marzo del 1865, visse due anni; ragunata intima e precoce, «che doveva, poi, in breve, trasformarsi nella Palestra Letteraria. La sola idea di questa gara geniale ch'ei promoveva, altruista anche in questo, tra i nuovi ingegni italiani, lo poneva in rapporto con quanto vi era di grande in Italia»[4]. Sette furono i soci giovanetti della Academia novissima: [26] e vi andavano a leggere, senza catedra e senza inamidata e cinica grettezza, o: Una discussione tra il sole e la Luna udita da quei famosi astronomi Perelli e Pisani, o: Un viaggio alla ricerca delle origini di un filo di ferro, o: Le osservazioni sopra due vasi antichi, o: La pena di morte, o: Delle origini delli stuzzicadenti, o: Le osservazioni contro il cristian uso della inumazione dei cadaveri. — Sfoggi di ironia, di erudizione, di bizzarrie aforismatiche, di compromissioni, tra la serietà e la scienza, dileggio, funambolica imaginazione; contenevano, in germe, l'arte e l'atteggiamento della prosa completa di Carlo Dossi. Questi ne sottoscriveva un Album scientifico letterario, espressione stampata ed ufficiale della Società, il quale ebbe due numeri soli, il primo del 27 Marzo 1866, l'altro del 30 Aprile, essendosene sospese le pubblicazioni «stante le attuali eventualità di guerra» — Bella prova di letteratura, che correva a trasformarsi in azione armata, che abbandonava la penna per la carabina! Sì che le ragioni della patria, dopo i campi cruenti, venivano a manifestarsi in altre pacifiche battaglie, non diversamente proficue e nobili per la integrazione d'Italia; e da quelle unite riplasmavasi il nostro moderno carattere nazionale, auspice La Palestra letteraria.
Si diffuse, e durò tre anni, da una specie di sottoscala ampio e basso di Via Monte Napoleone 26, — Casa Padulli —, immesso tra la portineria e l'appartamento de' Pisani, in ragione verticale, dove pochi gradini più in su, si aprivano a due battenti le porte di quella abitazione[5] «a quanti buoni e geniali vi faceva convenire fortuna, da Tranquillo Cremona, ancor tutto elegante come la sua prima maniera, a quel mingherlino e pallido Primetto, milanese ancor di Ferrara, che, sotto la materna carezza di donna Ida, la mamma del Dossi, scioglieva spesso in lagrime dolci la naturale mestizia».
[27] Quello stanzino ingombro riboccava di carte, di mobili, di idee: vi giungeva Gigi Perelli pieno della conversazione con Rovani, da cui aveva immagazzinato ingegno per una settimana[6], «epigrammatici lampi, frasi degne, or di scatolino e di bambagia, ora di bronzo, un subbisso di imagini e tutte nuove fiammanti, comiche antitesi e osservazioni soavissime si rincorrevano senza riposo sulle sue labbra». Ma, a riordinar l'estetico guazzabuglio, concorreva Primo Levi; le sue mani venivano a visitare la confusione, col sole, che ciarlava col suo raggio più alto in mezzo al solfeggio della conversazione giovanile; perchè, qui, conveniva a sfoggiare la propria ed alacre primavera quella gazzetteria garrula, spregiudicata, intensa, cordiale, coraggiosa, tumida di molte virtù, che ai tempi grigi della borghesia arrivata, appajono, se non delitti, riprovevoli esuberanze.
Si lesse il primo numero della Palestra nel dicembre 1867; bandiva un programma di continua fragranza: «Offrire alla gioventù, che ama muovere i primi passi nella letteratura, un campo vergine, esclusivo ad essa, dove provare le proprie forze:» proclamava: «tutta la gioventù italiana è chiamata a far parte della società.» Si era istituita una commissione esaminatrice dei lavori da pubblicarsi; i più bei nomi vi facevan parte; oggi, li vantiamo glorie nelle scienze e nelle arti. Un Luigi Cremona; un Paolo Ferrari, indicato dai recenti trionfi di sulla ribalta comica; un Leopoldo Marengo, che faceva lagrimare i belli occhioni lombardi sopra la patetica di Celeste; un Vincenzo Masserotti fisico e medico di tono italianissimo, allievo di Scarpa e di Borda; un Giuseppe Pellegrini, filosofo del diritto di alta dottrina vichiana, istitutore privato, più tosto che piegarsi alle imposizioni dell'I. R. governo austriaco; Giuseppe Rovani; Giovanni Schiapparelli, illustratore del cielo e della terra; Bersezio, Dall'Ongaro repubblicano poeta di stornelli per l'indipendenza; [28] Guerrazzi; Mauri, che allevava l'infanzia con tenerezza di nonna e perdonava ai capricci dei giovanetti con bonomia manzoniana; Settembrini, che spumeggiava anticlericalismo e repubblica insieme e demoliva i Promessi Sposi; Tommaseo; Correnti; Cibrario, storico d'alto garbo guicciardinesco, più amico della verità che di Cavour, di Garibaldi e di re Vittorio; Mamiani filologo e diplomatico; Mantegazza; Gabriel Rossa; Carducci di fresco assunto ad una catedra bolognese, dopo di avere, per il primo, cantato il tricolore in Piazza della Signoria nel '59, e, per il primo, bestemiato d'Italia dopo Mentana, coincisa in sull'anno rattazzino; Arnaldo Fusinato, Fra Fusina, delle satire e delle lepidezze politiche e patriottiche. — Per tre volumi completi la pubblicazione si avvicendò; ora introvabili, eccitano la cupidigia del bibliofilo; se li leggete rappresentano, in breve, aureo anello, le più belle ragioni, le più ricche e rosee illusioni, lo sforzo nativo e sincero verso il divenire di una generazione, verso l'assettarsi di una patria. La Palestra Letteraria, come La Diceria, come La Giunta alla Derrata, proposta da Giosuè Carducci per rintuzzare le burle, le invettive, le caricature, che dai cruscanti academici e dai frigidi fanulloni delle lettere andava buscandosi lo spirito innovatore, si riportava contro il catedrante, li uomini del falso buon gusto, i fossilizzatori della vita e dell'arte, perchè le temono e si affidano solamente alla storia togata, perchè le ha mummificate. Il catedrante, l'uomo che ha la bigoncia al posto del cuore e del cervello, che stranisce all'incontro di un punto e virgola, cui non avrebbe messo lì, che professa, a tavola, al caffè, in letto colla stessa moglie, il suo piccolo omuncolo tozzo, pigro, disgraziato, feroce Torquemada delle Università, Calvino dei Consigli municipali, Tsar nel Consiglio superiore della così detta Pubblica Istruzione; rudere dovunque senza genitali, e perciò crudele, com'ogni essere mal riuscito, salito a dominare, sopra una pattuglia, quattro panche di scuola, un bidello, un diploma cartapecorino.
[29] Carlo Dossi, giovinetto di sedici anni, si battesimava dentro quest'acqua fervida e ghiacciata, lustrale, di continuativa e preservativa efficacia: sulla Palestra deponeva la sua prima e pubblica offerta. Uno dopo l'altro, apparivano i bozzetti brevi di mole, ma già preziosi: Valichi di Montagne, Viaggio di Nozze, Tesoretta, Istinto, Balocchi, La Casetta di Gigio. Allora «la[7] curiosità del pubblico, stomacata dalle ultime risciacquature neo-cattoliche, e dalla meschina fioritura di romanzacci patriottici e meneghini, onde fu straricca la produzione letteraria del periodo immediatamente seguito al ciclo eroico del 1848-60;» gli si era rivolta benigna. «Ed in[8] mezzo ad una moltitudine dalle faccie uniformi, dalla apparenza antiquata, dalle vesti disusate; fra tutte queste voci, che cantano all'unisono un coro di metro e di ritmo pallidamente cinquantenne, ecco apparire, miracolo nuovo, il Dossi; ecco, sorgere la voce di questo giovanetto, che osa torsi dalla nojosa e pedestre eufonia delle voci comuni, per inalzarsi a regioni sconosciute, ricca di tutti i tesori che la giovanezza, l'amore santo del bello, una intelligenza eletta, una delicatezza femminea quasi, tanto è fine ed aerea, possono fornire.» — Esso è qui, dai primi passi, fatto e completo; presenta una sua formola semplice, non si dimostra in divenire, ma nella attualità; li anni nulla hanno aggiunto o tolto al suo modo di vedere, mentalmente, e di rispondere alle sensazioni letterariamente; i suoi pregi ed i suoi difetti sono li stessi e nei primissimi Valichi di Montagne e nelli ultimi Amori. «Probabilmente[9] il Dossi» intuiva con rapida critica il Capuana, «non cercherà più di emendarsi e di correggersi; temerà di perdere qualcosa della sua fiera individualità e ostinerassi a rimanere qual'è. Ha torto? Chi lo sa? Potrebbe darsi che no.» — Certo no, sono le sue virtù; rimangono e rimarranno la sua forza.
[30] Giuseppe Rovani s'era tolto in mano il manoscritto di Valichi di Montagne, di L'Altrieri; colloquio breve intenso, saporito, con quest'anima adolescente, che gli veniva davanti per la prima volta, spoglia, perchè vestita di quella sua giusta letteratura; ed egli la sentì sotto i suoi occhi e sotto le sue mani nuda, fragrante, fremente, Luigi Perelli scriveva all'amico:
«Ti scrivo su di una busta, che mi trovo per caso in tasca, queste parole di Rovani: «ho lett pocc pagin de quell'affari; ghe assicuri che l'è de publicass;... ghe intuizion molto pronunciaa d'artista e della bonna voeuja de fa della lingua. Sta nott leggi el rest; e se domenica el ven a trovamm, ghe dirò quel che incoeu pos no dì».
Tornò Luigi Perelli, di sera tarda, all'illustre e definiva:
«Rovani si svegliò ieri notte alle 11. Mi guardò, mi sorrise, mi stese la mano; strinse la mia, poi mi disse: «Che le publica quel lavor; quel giovin che l'ha scritt l'è artista, el pittura ben;... l'è propri un bel sagg de gener descritiv; in somma (ridendo ed atteggiandosi) — Ne consiglio la pubblicazione — Ecco el me giudizi! Il lavoro parlerà da se quando sarà stampato. — Dixi» Addio di cuore tutto tuo; Perelli, 23 aprile 1868».
Provvisto di questo sicuro viatico, amministratogli da Giuseppe Rovani, che avrebbe rassicurato qualunque novello autore per le climateriche avventure della letteratura, dopo Valichi di Montagne, valicava il Rubicone della pubblicità, infossato ed insidioso, tra li scogli della disconoscenza, dell'ambizione delusa, del livore, dell'odio mascherato da consigliere e da emascolatore, L'Altrieri, un volumetto di centotrentanove pagine, stampato dal tipografo Lombardi di Milano in cento esemplari; opera rarissima oggi a ritrovarsi. Il Demone l'aveva preso definitivamente in signoria, e Carlo Dossi vi si era impersonato; per più di vent'anni visse esclusivamente in lui; poi, voltosi per altro campo, le sue distintive qualità non lo abbandonarono e parve tacere; più secreta e [31] più preziosa, l'onda continuava a zampillare, dai mille giuochi ipogei della vena turgida.
Per cui, se alcuno s'arresta alla superficie, ignora o fa caso semplicemente del banale empirismo, e viene a giudicarlo dal suo fatto pubblico di letteratura, e lo accorge arrestarsi a metà della sua vita, può ripetere, errando come Benedetto Croce in sulla Critica (Fascicolo VI del 1905) lo parole che il Guerrazzi dedicò a Tomaso Grossi: «aveva ricevuto da natura una bottiglina di olio finissimo; e presto l'ebbe tutto versato.» Ma a chi fu dato da Carlo Dossi l'onore e la massima confidenza di saperlo intiero e schietto come un cristallo; a me, cui si espose in ogni positura d'animo, confidò ogni segreto, ogni piega più oscura, distese davanti tutte le pagine dalle composte alle interrotte e sospese; a me, è pur anche concesso di dire, con una sua frase che ribatte all'altra del critico hegeliano di Napoli; «Nella mia vita di scrittore, tutti non hanno potuto non rilevare delle interruzioni; queste non sono che apparenti. L'energia intellettuale, in me, non fu mai sospesa, ma si trasformò solamente nei vari campi pei quali passò, sotto l'invito delle circostanze, e dove sempre ha lasciato una traccia letteraria.» Egli ha veduto con pupilla di artista anche la menzognera diplomazia cui fece schiettezza e generosità, come la polverosa e barocca archeologia, cui infuse di vita ed espose, a simiglianza di una poetica, giovane ed in azione, nel paese classico delli antiquati fegatosi e tabacconi, avari, ma rimpolpettati di superbia e d'ignoranza. Però che Minerva li nutre, li protegge, li addotta; in fine, li crea Ministri della nostra miseranda pubblica istruzione, in cui tenzonano la tirchieria e l'analfabetismo con bel seguito di pellagra e di delinquenza esemplare, veramente italiana.
[32]
Codesta precocità lo invasa ed instaura, senz'altro, a nostro predecessore morale; codesto nuovo attributo, ch'egli assegnava al libro, libro-vita, libro-carità, libro-dolore, per cui la carta agisce per sè, si riproduce solidamente ricostruita di voce e di volontà, battaglia, o schermo alle nostre soferenze, lo aveva reso, senza che egli lo accorgesse, precursore di Mallarmé: «Il Libro, espansione totale delle lettere, è un tacito concerto morale; è la persona stessa del poeta, se insiste sopra di un suo dolore, di una sua gioja, di una sua malinconia, di un suo disinganno.»
Ora, chi discese da Mallarmé? Chi discende da Carlo Dossi? Noi; un Alberto Pisani ci aveva preannunciati, uscito da un Guido Etelredi suo avatar di L'Altrieri; si continuerebbe nell'Impenitente, che, dopo La Desinenza in A, dedicherà alla Geniale la confessione piena ed intera di Amori: Carlo Dossi, iperemico di genio, ipertrofico di coltura, s'ammalava d'ideale e di belle lettere italiane. Egli era in pubertà; pubesceva con lui la città che abitava, Milano; adolesceva la Patria; era pur logico tutti patissero, senza avvisarli, passaggi inquieti d'ebefrenia; l'epoca li richiedeva. Sia per la collettività di un eletta di popolo, romanticismo, sia per l'elezione di un individuo, simbolismo, le cellule prime, o l'aggregato di cellule, rispondono a dei dolori vaghi ed innominati che li vanno martoriando senza lasciarsi attutile e vincere, perchè ne nascondono, misteriosamente, le ragioni. Sono i dolori innominati, non forti, ma insistenti, non decisi, ma continui, che vanno perseguitandoci senza localizzarsi, che formano, vagamente ma realmente, il nostro malessere, uncassines [33] li chiama Locke i senza causa; ciò che ne accenna l'avvertenza morale di sofrire la vita.
Epoca ibrida e dolorosa; vi si aspetta qualche grande avvenimento; il giovanetto attende l'amore; l'estetica fa allora eccesso e non difetto; vi si conoscono le ipertrofie sentimentali a profitto del culto del bello; si pretende e ci si crede qualche cosa di più e di diverso di quanto siamo; interviene il bovarysmo. Giornalmente, vengono a ferirci, con temprati bisturi sapienti, la noja, l'umiliazione, il dispetto, sensazioni morali male definite e peggio conosciute, che si fondono nel tædium, non quello latino e stoico per cui Petronio elegge la morte alla vita, ma quello di Leopardi, di Hartmann, di Schopenhaurer, che, pur lamentando di vivere, non si lasciano morire.
Vi si cerca qualche cosa di più che l'ordine di natura non può, per ora, concederci; ed intanto, la crescita normale accelera il suo processo febrilmente. La crisi, nell'esistenza maschile, si riassume una volta per sempre nello spazio di un lustro; qui convengono a svampare i vapori periodici e catameniali che tormentano le feminilità puberi, le involgono e le rivolgono, sempre che li patiscano, al desiderio smodato, all'isterismo, all'amare l'amore, ed alla poesia: in fine, pubertà. Se intercorre tra i quindici e i vent'anni; se non ritarda con processo postumo — e ne diventa una malattia morale, che può dare dei frutti d'arte saporosissimi, ma artificiali ed esigenti di una passione un poco sadica; — se una buona costituzione mentale rifiorisce, si incomincia armoniosamente la prima tappa per la esperienza; si va alla conquista della coscienza delineatasi sul bene e sul male; si risolve in versi; i più forti la deviano a profitto della prosa.
In alcuni organismi privilegiati, e per ciò dolorosi d'esserlo, questo stato di continuo malessere, questo stato in divenire, perdura; li accompagna, fedele tormento e carnefice. — Pietro Verri nota, nel Discorso sull'indole del piacere e del dolore, che tutti li uomini che coltivano le scienze e le arti [34] con buon successo, furono spinti dalla infelicità e dalla folla dei mali sulla laboriosa carriera che hanno battuto: ed a loro, così, vien concesso, per tale esuberanza, una valvola di sicurezza, per cui esce, in armonia ed in equilibrio, il troppo pieno della loro commozione. — Arte, rifugio, arte, romitaggio tranquillo, ma donde si espandono, donde non hanno più paura, nè di sè, nè delli altri, nè delle cose del mondo: — arte, che li rispecchia e perciò giudica li altri. L'arte li arma e li protegge, li avvalora; dai termini ambigui, dai dolori innominati e dal malessere, costoro, favoriti e cruciati insieme, si riverseranno nel libro; non nel libro del giorno, ma nell'opera dell'epoca; questo, che non si disperde, nè si dimette come un capellino alla moda, ma resta; ed è necessario che lo conosca, a riflesso del tempo, l'uomo civile.
La letteratura universale se ne avvantaggiò, ne conta i capolavori, siano La Vita Nova, o La Vita di Alberto Pisani siano L'Education sentimentale di Flaubert, o La Saison en Enfer di Rimbaud; precoce e restio, pei secoli, ciascuno, come Rousseau, ama dettare Les Confessions di fatti accaduti, o di fatti sentiti e per ciò più veri; e, l'uomo conservando il tono del proprio tempo, riesce oltre a dire la semplice personalità dell'uomo di natura. Romanticismo, se il tempo e le costituzioni saranno militari e reazionarie; simbolismo, se l'assetto della nazione volgerà alle industrie, il tono dell'anima al cinismo utilitario.
Lasciano il modo freddo e sereno del classico, in cui il ragionamento si distende, in cui la realtà ha un culto maggiore della verità, e, per tutti, un valore uguale e circoscritto: su cui non si sente il bisogno di ritornare alla ricerca delle essenze, dei nuclei costitutivi le idee, le emozioni, le credenze, i fatti sociali; in cui l'uomo saggio è calmo, riposa tra quattro spunti, o ruderi fondamentali di cognizioni, e, sopra a queste quattro sicurezze imparate dai maestri, si adagia, pago che rappresentino tutto il suo bagaglio scientifico e religioso. — Romanticismo, simbolismo, l'inquietudine,
[35]
«che col dar volta al suo dolore scherma;»
il mare in tempesta; il vento che ulula e sradica; il lago che schiumeggia crestato e livido; la foresta che si discapiglia; tutti nervi esagitati; la nevrastenia alla porta della ragione; la confusione tra i diritti, i doveri che non sono più e molti diritti che permangono privilegi; il cervello che fermenta ed estua; la rivoluzione imminente sulle piazze; provvidenziale e dolorosa, l'arte. È la secchia d'oro, scolpita ed aggemminata, uscita da mani pie e squisite, che discende e s'immerge al drenaggio dell'anima ripiena d'ogni liquore prezioso e va svuotandola senza interruzione sulle pagine; le quali si coprono di scrittura nera, ma cantano i sogni biondi e rosei andati a male, l'ostilità del tempo inclemente, i desiderii senza soddisfazione: liquore, che è il frutto della cooperazione di natura se, dalla mente, imbriglia l'ebefrenia e rappresenta il sopra più dell'ideale. — Crepuscolo, ora dei nervi. «Il giorno fondesi nella notte. È la più stanca ora per tutti e la più insidiosa per quelli, in cui i nervi tiranneggiano i muscoli. Già l'uomo cede alla donna, la riflessione alla spontaneità. Tutti quei sentimenti, sepolti lo stolto giorno in un tenore di vita odiata e nel sospettoso contatto coi nostri così-detti fratelli, risorgono; ciò che vi ha in noi di gentile parla. Nè le carezze di quest'ora tristissima son sconosciute ad alcuno, perchè tutti hanno in sè qualche cosa di buono, e ne hanno, perchè a nessuno è negato di amare»[10].
Crepuscolare in fatti, coll'Alberto Pisani, Carlo Dossi si dichiara e si intorbida insieme; ed è tuttora un grande mistero fisiologico, direi quasi mostruoso, il vederlo in una vita più chiusa dalla comunemente esercitata da tutti, quindi senza un vasto campo d'osservazione a portata delle sue esperienze, indovinare gesti e fatti della vita altrui nelle più intime esercitazioni, farsene il critico e l'humorista. Suol [36] dire per ciò: «[11]Ho cominciato a pensare a cinque anni, — a scrivere a sette — a sedici anni stampava. Ho sofferto una specie di purgatorio matrimoniale dai ventinove ai trentasei, a trentasette ero già entrato in vecchiaja, con disturbi visivi, essicamento di pelle, ateroma. La sola facoltà genetica mi si risvegliò tardi poichè non conobbi donna che ai ventisette anni»; e la conobbe allora dal lato pessimo se gli ha fatto produrre La Desinenza in A.
Onde, chi fu precocemente appassionato del sentimento d'amore per riflesso di letteratura e per schiva funzionalità biologica — che del resto lo difende e lo copre dalla repulsa feminile — sente tardi il senso genetico. Si prolunga per lui questo suo stato speciale, come lo accolse anticipato, fattore delle sue migliori rappresentazioni estetiche; non viene assolto in tre anni, come normalmente impiega a nascere, svilupparsi, determinarsi in virilità; ma perdura tre lustri, irretizzandogli le cerebrazioni in modo acuto, donandogli, in oltre, le facoltà necessarie di costanza, coraggio e volontà per te quali ha sentito il bisogno di essere originale e similmente sincero.
Egli soferse e gioì quella età[12] «che in alcuno confondasi colla infantile», ed io aggiungo, in Carlo Dossi, colla maturità — «in cui l'anima anelante di congiungersi ad altra e non trovando chi incontro le venga, dona parte di sè perfino ad oggetti della natura organica; i quali sotto il suo soffio si fanno quasi sensibili: non potendo raddoppiarsi si divide».
Ed ecco, che i maschi, per eccesso di virilità non ancora razionalmente impiegata, si feminizzano; ed ecco, che, sorpreso Apollo da Dionyso, Cristo predica e Leonardo da Vinci vede errare, e ritrae, quel sorriso unico ed ineffabile sulle labra adolescenti di San Giovanni — Bacco, di Gioconda — Melusina; [37] e tutte le parole proferite hanno un senso oscuro e conturbato che ricercano luce e speranza. Turgido di linfe, che fremitano nell'impeto seminale e ribollono, l'adolescente, nascosto e pur offerto alla pubblicità della letteratura, si appresta, colle grazie pudiche, spavalde, originali, corrotte, ciniche, in una sincera confusione che lo fa amare.
Egli coltiva la sua crisi; è la sua malattia e la sua gioja, gode della sua innocente perversità come una fanciulla, al primo apparire di sua luna rossa: avete letto Claudine à l'école di Villy? — Parlando di sè, Carlo Dossi attesta il buon lievito di una sua cattiveria e mattia. Ed allora si amano, tra le malinconie, le rumorosità dei giuochi strani e crudeli. Avvisano, quelle vergini di difficili mesi, nella incipienza delle virtù generative, anche le altre della distruzione: Shiwa ne è il mito nella trimurti. L'ebefrenismo si balocca sulli scrupoli religiosi ed il sadismo morale. L'organo è in floglosi e sitisce; la perversità gli porta requie e torna ad abruciarlo insieme: cupidigie d'amplessi, pazzie di amori angelici; sboccia la donna che sa concepire. Ad assaporare questo frutto, che palpita ed aspetta, ecco, un Don Juan di metafisica. Un distruttore di metafisiche. Carlo Dossi, è qui invece il paziente: egli sa che i due eccessi non si completano, ma si esasperano; sa che Le lettere di amore di una Monaca Portoghese equivalgono a Faublas, che Imperia è classicamente sana ed equilibrata, e che le ascetiche si appajano alle ammalate di ninfomania. Indovina le femine e le persegue; sembra del medesimo sesso: un medico illustre, infatti, discorrendo della costituzione fisica di Carlo Dossi, scherzando, amò sostenere, che, fattone il più tardi possibile la necroscopia, si sarebbe trovato, localizzato dentro di lui, un embrione di femina in arresto di sviluppo: e Primo Levi, che ha pur vissuto i suoi anni giovanili coll'autore di Alberto Pisani, non solo lo crede, ma lo torna a scrivere persuaso dall'opera letteraria dell'amico.
Chi poteva essere, adunque, la creatura ambigua, che dall'aspetto si definisce male? Malinconia; è chi va cercando [38] e patisce un difetto per un eccesso[13]. «Or che c'entrava mai; tomo senza compagno, tomo de subtilitate, tra quei tomi di amori appajati?» Cerca, e, se non trova, imagina e plasma a sua imagine; e si confida alla carta, al mezzo più semplice e più sicuro; e sa che egli non si tradisce; ma alcuno saprà rievocare la voce viva, il suo canto, come, seguendo le note nere, la mano del musicista sprigiona dalla cassa armonica, quando ne prema i tasti, un mondo nuovo d'armonie.
Certo, dall'altra parte, rispondono: il libro non è inerte mai; al tomo de subtilitate corrisponde l'anima lontana, ignota che si affaccia, tra i fumi e le nubi e diventa La Geniale. «A lei che verrà» dedica un esemplare della Vita di Alberto Pisani il 30 novembre 1870: ed il 23 settembre 1883 «... e non venne ancora» ed il 15 maggio 1889 «ne è ancor venuta» ed il 16 luglio 1891 «.... e forse non verrà più» ed il 1 dicembre 1893 «A lei finalmente apparsa!» Non per altra ragione, Alberto Pisani aveva scritto, nella casina del Mago, davanti alla finestra spalancata sopra la prospettiva del cimitero intimo e breve, Le due morali: egli le aveva destinate in mente ed in cuore, a quella sola Donna Claudia Salis, per cui sofriva; tutti li altri che potevano per avventura, leggerle non gli importavano. Era a codesta innocente Salomè di gioconda prestanza lombarda, ch'egli offriva, sopra il piatto cesellato e d'oro della sua sottile eloquenza, il viscere rosso e sanguinoso ancora palpitante che l'arte sua aveva saputo svellergli dal petto senza farlo morire, ed inchinava, in omaggio per l'amore ed il mistero, come Sordello il cuor dell'Eroe pel coraggio e la gloria, a quella desiderata sua già mai. — Libro; invito: è il gorgheggio del rossignolo inconscio e necessario; è il doveroso nitrito del polledro a primavera. «Come il giovane che, per pura esuberanza di vita, si avventura senza contar quanto ha e che può, in qualsiasi impresa o viaggio, compreso il più rischioso di tutto, il matrimoniale; [39] le prime volte entusiasticamente scriviamo, non per pompa di arte, non per mire di gloria, ma solo perchè non potremmo non scrivere. La gola dell'usignuolo si è empiuta di note e deve cantare: Venere intellettuale s'è eretta e vuole uno sfogo. È l'epoca, questa, dei lavori sinceri, dei libri fusi e squillanti come campane, non dei connessi a mosaico e muti quali parete di carcere[14]».
È allora che Carlo Dossi rinfrange la propria anima nel prisma dell'arte sua e proietta sullo schermo delle pagine bianche le semplici diversità dei proprii sentimenti, ciascun de' quali si impersona in un eroe, come ciascuna astrazione dell'iride si individualizza in un colore unito e categorico. Eccolo tramutato ne' suoi giovanotti pudichi ed irresoluti; si rivede in costoro, che aspirano dalla pelle e si riempiono di germinazione; sente le seduzioni che li turbano, che si riversano tumide, incomplete coi loro gesti seminudi ed interrotti di donna, col loro fruscio di vesti sganciate e cadenti, o di veli che affrettatamente ricoprono, coi bagliori di un seno intravvisto, collo schiocchio di un bacio improvviso, il succio del bacio reso, livida orma impressa. Li spiriti si liberano, si fondono; la creatura sopporta il suo doppio destino; l'erma quadrifronte del quadrivio riassume, nel passaggio delle età, dalla culla alla tomba; non variano che i lenocinii, i fronzoli di parata, le vesti decorative; Ciascuno è Tutti, nudo; dall'imperatore di genio alla lacera canaglia miserabile. Carlo Dossi continua la pubertà per lunghi anni operosi di letteratura; vi funziona in questo stato che richiede l'estetica del simbolismo, perchè appaja concreto, a sua imagine e somiglianza, il suo fatto d'arte. «La malinconia[15] lo aveva preso per mano e lo aveva condotto ad almanaccare, scoprendogli, una strana regione di spiriti che egli non aveva prima sospettato, un regno, se non di difficile entrata, d'impossibile [40] uscita. — E ciò aveva scosso fortemente i suoi nervi, — sotto al chiarore del fantastico mondo, le cose del materiale gli si colorirono al doppio». Egli s'illumina interiormente; Les illuminations interieures avrebbero trovato, poco dopo, i simbolisti francesi; l'equivalenza si determina. Donde venivano: Gìa imbrunata di morte e pargoleggiante, col sorriso pallido e pur lieto; e Donna Claudia Salis, che si sostituisce alla Provvidenza e conduce al suicidio, dopo d'esser riuccisa, d'Alberto; e la Cassierina, che sciupata dalla golosità di un libertino, non si affretta ad evadere e va consumandosi; e Donna Ines, spagnolesca, cerea, ardente in cuore, che odia la luna piena ed odia e ama il fratello, apparsole già come un Arcangelo di fuoco e di maledetta soavità? Donde le figure feminili, circonfuse di un'aura strana, che non si possono definire, perchè sfuggono alla assidua nostra attenzione, trepide, in movimento, rapide a scomporsi ed a ricomporsi in ogni istante la fisionomia, ad illuderci, ad apparirci svelate e ricoperte di nuvole, di garze opache, lune rincorse e seguite dai cirri di una notte estiva, sotto cui scompaiono ed, avvolte, inargentano e sfrangiano di porpore sbiadite e di ori vecchi smunti? — I critici del tempo parlarono di Sterne, di Thakeray, di Gian Paolo Richter; è a me lecito di aggiungervi George Meredith: la morte apre le postierle alla pubblicità, come un bel delitto: — la morte, soleva dire Meredith, io non l'ho mai paventata ed è l'altra fronte della stessa porta. — E voglio ricordarvi le creature del suo spirito che guarda altrove — my mind looks elsewhere — amate, dopo trent'anni che già nacquero, dai giovani della letteratura di Francia come loro creature (curioso motivo di similitudine con Carlo Dossi): — e quelle vengono dalla Istoria di Cloe, ed altre da Diana dei Crossways.
Nel coro s'intona Forestina: dalle selve vergini della sua novissima patria di castigo e d'immeritata relegazione, dal crepuscolo di una civiltà primordiale e sovvenuta, nelli sforzi dell'amore, della fede, ella si porge a Mario, il regressivo violento, [41] gli dona amore, soavità, purezza ingenua ed incosciente, lo nobilita e lo riammette nelli uffici e nella utilità del consorzio umano: Forestina, nome fragrante di eriche e di timi silvestri; nome, anche, di crestaina milanese, sbocciata al fomento de' romanzi di Tarchetti e di Tronconi, per la polvere dei balli dei Filobaccanti, di cui, corega e maestro di casa eroico, si istituiva Bizzoni; Forestina, ripresa e sciupata dalla penna or mai stanca di Cletto Arrighi, se ne descrive li Amori; quella che parve, immeritamente, a Settembrini sorella spuria di Esmeralda, quando giudica victorhughiana La Colonia felice; come altri, per troppa presunzione, la rimettono, ed errano, pedissequa al romanticismo dei Masnadieri di Schiller.
Ed anche ritornino dai Cieli, che imparadisano li Amori, le imagini, le statuine, i ritratti; e Ricciarda giovanetta dipinta e conservata immune dall'oltraggio de' secoli in pinacoteca; ed il bell'albero snello e schietto dalle foglie cangianti nel seguirsi delle stagioni, la Tillia; ed Elvira, alla cui morte pianse lagrime innamorate: e dalla Terra risorgano, per baci oscuri ma saporitissimi, Ester e Lisa ed Adele, la fraterna amica dell'amico ed Antonietta, intossicata d'amore: e, dal libro suo ancora, una diletta creata da lui, come per ideale incesto angelico, Gìa. Queste non suscitano nessun richiamo, nessun esempio nel cielo delle lettere nostre. Foscolo le aveva appena intravedute nella sua traduzione del Viaggio sentimentale e nel Gazzettino del Bel Mondo; Tarchetti le sorprese, in parte ma come Ninfe astute e maliziose s'erano rimbucate tra le frasche, nascoste, vivide e capziose nelle profondità di un panteismo illuminato da un raggio fantastico e cristiano; Manzoni le aveva ignorate; Victor Hugo rese enormi sino al grottesco. Queste del Dossi erano fuori ed oltre il classicismo ed il romanticismo. Poco prima, Aloysius Bertrand le aveva indicate dalle sue Fantaisies de Gaspard de la Nuit; meglio Baudelaire ne' Paradis artificiels; più lontano, Stendhal, allora sconosciuto ai più, fattosi Docteur Sansfin, gibboso e sperimentalista sulla natura viva, le aveva vedute balenare interrottamente. [42] Sicuramente, l'ultimo aveva sorpassato la consuetudine e non aveva perduto il merito di continuare Rovani, come questo aveva continuato Manzoni; ma in modo diverso, nel suo modo.
Per intanto, oggi, auspicati, gli porgo davanti, a parallelo, un Poil de Carotte, un Livre de Monelle, le Moralités Legendaires: Jules Renard, Marcel Schwob, Jules Laforgue, dovrebbero essere, ignorandolo, scolari del Dossi. La ragione rimane nello stesso momento morale: «Come[16] se non bastasse una vita astiosamente calma, or si trovava essicato quel sentimento che, a volte, a minuti, gliela faceva parere tal quale ei avrebbe voluto, senza pensare, che, spento il mezzo creatore d'ogni illusione, era pur spento quella per non ne sentir la mancanza». — Così, a dispetto della vita, che gli si rifiuta, viene la letteratura grande e pessima virtù d'ogni amarezza; non per questo, conoscendola, rinuncia, elegge il suo piacere doloroso e terribile, come l'ammalato d'amore torna ad amare per morirne; come l'intossicato dall'oppio e di morfina non dimette quei veleni della gioia amara che lo imparadisano e lo consumano. Che altro doveva fare il giovane Alberto se non scrivere sè stesso, sognare:
«Des casques, des rouets, des livres, des épées,
Des cierges, des bijoux, des billes, des poupées?»
E la sua Principessa di Pimpirimpara, risponde a Lohengrin fils de Parsifal, alla Salomè del Laforgue.
Per lui tutto è storia, tutto è realtà; quel poco di avvenimenti veri, che entrano nel suo racconto, basta ad innerbare la favola; e li uni e l'altra diventano leggenda, cioè una verità personale e passionale, per cui il valore massimo sta nell'averla sentita e vissuta. E che di più? Sognando non ha creduto di vivere? E la vita reale non equivale la visione del sogno? Sopra un'altra colonna del suo Dosso, egli fece [43] incidere, sotto un nome di donna a lui cara, ma che non conobbe se non di udita: «perchè nulla vi è di più vero del sogno».
Oggettivazione, dunque, di sè stesso in movimento, in pensiero, in fantasia; egli vi raccoglie tutti li elementi di quanto è, e di quanto vorrebbe essere; tutte le sue donne sono la cristallizzazione poetica delle creature vive da lui conosciute in difetto, rese, per lui e secondo il suo desiderio, perfette; il bovarysmo si trasforma in fantasime indimenticabili. — Se possiede la visione esatta del fatto, vi aggiunge la ragion massima del suo desiderio, della sua speranza, del suo idealismo; donde i valori reali si tramutano e divengono i valori veri della sua estetica. Egli non sa bene che sè stesso; è del suo corpo, della sua mente, delle sue illusioni, il più acuto osservatore, il più nemico critico; saggia, a traverso la pietra di paragone dei propri nervi e della propria sensibilità, qualche volta esquisita sino alla patologia, tutto il mondo e li altri uomini. Ma, mondo, uomini rimpasta a sè; egli si è aumentato; si è fatto centro; la pietra di paragone ha comunicato la propria sostanza nell'assaggio, a cose e ad uomini; li ha temprati al suo titolo; desiderio, speranza, idealismo vi si dispongono, informano li avvenimenti, si cristallizzano sopra li esseri e diventano le sue azioni, i suoi personaggi. — L'alchimia interna, donde passano le realtà per divenire le verità di Carlo Dossi, produce il suo tipo d'arte che è simbolico[17]. — «Simili descrizioni appartengono evidentemente alla storia — storia mia, ove si tratti di quelle quasi autobiografie che sono L'Altieri e L'Alberto Pisani, e saranno i Giorni di festa, e le Ore di malinconia»: storia, poema, espressione della propria sensibilità innerbata dalla imaginazione; racconto di realtà o di verità è tutt'uno. Egli sa con Foscolo che la Poesia sorpassa la Storia, perchè ha una significazione più vasta e più vera.
[44] Per intanto, alla Vita di Alberto Pisani, corrispondono L'anima delle Carni di un falso Giorgio Ofredi, il Livre du Petit Gendelettre, di un supposto Maurice Léon. — Autobiografia, o raccolta epistolaria, Giorgio Ofredi vi si mette in bacheca, espone i quarti del suo cuore pulsante e febricitante; va, per opposte esperienze, dentro il fremito delle carni che spasimano l'amore, alla ricerca dell'idea pura: termina, inerte, apata a sorviversi col bestemiare la libertà e la indipendenza di cui ha troppo abusato, giuocando come un gramatico alessandrino per l'esoterica dei sofismi e tormentandosi, nel pessimismo, ch'egli vuole, non che il mondo gli impone. — Strazio, Maurice Léon, concede a sè stesso la sintesi: «Considerate l'anima mia come la espressione simbolica di questa fine di secolo! — Sono seduto nella mia poltroncina: l'orologio a pendolo, tic-tac, tic-tac, oscilla e canta in ritmo. Muojo, vivo: tic-tac, tic-tac. Tutto muore, tutto vive: io so e non so; gioisco e sofro: oh, sofrire!» Che dice il Faust di Marlowe? «Oh, sofrire; ma saper di non morire ancora!» Quale differenza, quale ritirata di fronte ai diritti della vita! — Un bel mattino lieto e tiepido di primavera il domestico socchiude l'uscio della sua camera; dorme Maurice Léon; per lo meno crede ch'egli dorma. Vi ritorna poco dopo. Volumi sparsi, aperti, sfogliacciati, in terra, sopra il tavolino; si rialzarono le coperte del breve lettino sopra un cadavere insanguinato e sopra l'acciajo lucido di una rivoltella. Maurice Léon si era evaso, più fortunato di Giorgio Ofredi, che volle tentare il disgusto della esperienza: la coraggiosa vigliaccheria gli aveva risolto l'enigma delle idee pure. — Certo di quest'altri due, Alberto Pisani è più sano.
Comunque, se riavvicinate Les Images Sentimentales di Paul Adam, all'Altrieri, dopo di non aver trascurato le definizioni negative dell'Ofredi e del Maurice, voi vi ritroverete davanti autori che si sdoppiano, che projettano le loro diverse fasi, come la luna, sullo schermo bianco delle loro [45] pagine, rinnovandosi: vi si ammirano a loro posta, si calunniano, si umiliano, vi recitano le loro intime tragedie. Poi ironeggiano. Buona ironia! rimane il miglior idealismo preservativo, ricostituente, immunizza; è una ricchezza inesauribile, perchè, coll'usarla, la si riproduce; è un giuocare colla vita, per far sul serio dell'arte; è quanto rimane alle moderne genialità, dopo le messe sanguinose pontificate dalle passioni artificiali, dopo i suicidii delle loro maschere, che sono le modalità della loro coscienza; è quanto appartiene di più suo e di più caro all'artista, questa proposta dei logaritmi della imaginazione, sciorinata davanti all'immusonita praticaccia venale; che se ne turba, se ne spaventa e manda pel gendarme della logica, pel catedrante grigio, occhialuto e feticista. — Or bene, ecco le proposizioni annunziate da Carlo Dossi e che lo rendono più che attuale, per cui non può venire dimenticato e dalle quali l'opera sua attinge prerogative di una semplice e continuativa potestà operante: altri recentemente le completarono; ed lo affrettai a rimetterle d'accordo nel Verso Libero. Ben duro d'orecchio ed incartapecorito di cuore chi, oggi, non le intende; ben povero di mente chi le equivoca.
Maschera completa, Alberto Pisani: Carlo Dossi può schermirsi:[18] «Al diavolo le autobiografie: in esse lui, che si pinge, è troppo occupato a porre in rilievo le sue virtù e i suoi nei, e, poniamo anche, i vizii per dimostrarsi qual'è»: ma tosto soggiunge, per non lasciarci nella illusione di una sopercheria: «in un romanzo, invece, egli si apre ingenuamente ad ogni frase. — Ben sottinteso che chi si ha una pagina innanzi, abbia acuta vista, legga nelle interlinee, facoltà di pochissimi». Facoltà che ebbe ed ha ancora Primo Levi; il quale ha potuto dire[19]: «L'Alberto Pisani non è un romanzo: è qualche cosa di più; — non è neppure [46] un libro: è una vita — Alberto Pisani, essere reale, sarebbe stato possibile prima, in un'epoca che non fosse la nostra? No. Ne si creda ch'egli possa fornire un tipo alla presente gioventù — tutt'altro. Ma ha di particolare il nostro secolo, che, tra la disparata mediocrissima uniformità delle moltitudini, presenta qua e là dei tipi di esistenza originalissimi e che hanno, forse, in sè i germi confusi dell'epoche future». Sono delle anticipazioni.
Alberto Pisani, rappresentazione tragica del giovane italiano in un punto psicologico e critico di storia italiana, quando Italia, riuscita dalle prove della indipendenza, dissanguata ed anemica, ma denutrita e febricitante, desiderava di mangiare a sua fame, di riposare per riparare alle perdite, di pensar poco, di dormire, di ristorarsi alla pratica, interrotta dal meraviglioso poema agito del nostro risorgimento; l'Alberto Pisani che ode, ventenne, le ultime ed allegre cannonate di Porta Pia, che lasciano sussistere in Patria il dualismo e ricompongono, sull'ibrida monarchia, il trasformismo parlamentare; è anche l'ipostasi moderna del Werther, dell'Ortis, del Rolla e deriva il suo dolore dal dissidio, tra la cruda realtà che ci investe, ed i fulgidi ideali che fuggono. Che fa? Come può amare? Chi? Dove esercitare le sue virtù? Ed anche i suoi vizi? — Egli è adolescente; appetisce quanto sogna: il sogno è vero, ma non reale! Quindi?... Colla terzetta insidiosa, che si serbò in tasca dal giorno in cui prese possesso della Casa del Mago, scarica un colpo contro Donna Claudia Salis, rea di amare anche dopo morta non lui, geloso della morte che non annulla l'amore[20]: «poi volge l'arme a sè. Ci ha un terribile istante in cui la paura aggroviglia le vene: ei serra gli occhi; ma il colpo... parte. L'arme piomba fumante, giù dalla tavola, in una cesta di rose; Alberto cade sul desiato corpo di lei, morto».
Se non Werther, che ha fatto la scuola e la moda, Ortis [47] così: romanticismo; una sosta. La geniale ebefrenia interveniva colle tombe e Giulio Pinchetti, giovane non ancora venticinquenne ed apollineo poeta, autenticava l'Alberto Pisani. Oggi chi lo ricorda?[21] «Ventenne, era già disgustato di tutto e non credeva che alla tomba. Pareva quasi che una voce arcana gli susurrasse nell'anima: fuggi dalla terra, ti si vuole nell'infinito. Tre egli amò tuttavia fortemente: sua madre, un amico e una fanciulla». E vi è pur oggi l'amico che lo piange e lo richiede ancora, — Niccolò Sardi, letterato di robusto stile foscoliano e generoso italiano provato dalle palle apostoliche di Monterotondo, per cui trascina la gamba inerte e spezzata da piombo antiboino, — vi è il ligure mazziniano che ha per me aperto il forziere delle sue memorie e lo stipo del suo archivio, sì da concedermi le lettere di Pinchetti, che avvalorano di lagrime e di sangue La Vita di Alberto Pisani. In quelle aveva spremuto la sua angoscia e la sua follia l'adolescente poeta lariano: «Ho[22] bisogno della fede e la tua, o Niccolò, è vergine e schietta. Grazie, amico, la tua memoria mi scende dolcemente nel cuore e la confondo colle mie melanconiche speranze, colle mie dolorose reminiscenze. La morte della povera Lisa mi ha reso questo cuore più gentile, ma nel medesimo punto più addolorato; e tu sei capace di sentir questo dolore. La memoria della santa morta mi tormenta tuttodì, ora coll'aspetto del rimorso, ora di una disperata ricordanza; con quella della speranza non posso».
Brevemente lo soccorreva la poesia:
«Quell'acre voluttà della canzone
Che in mostra lieta sol pietà sospira,
O allegra poesia,
Di qual fonte tu sgorghi e quanto ria!»[23].
[48] Alberto Pisani e Giulio Pinchetti brancolano nel buio demenziale; si fanno tetro il mondo, pessimi li uomini; si credono cattivi. Pensano di loro stessi[24]: «Vedo il lento suicidio di quest'anima mia, un tempo così profumata di poesia; vedo sfogliarsi ad una ad una le rose che mi facevano bella la giovanile speranza; mi accorgo del lento calare dell'anima e dello spirito nella maremma della materia e non mi commuovo più: per me tutto è un corollario della umanità. Non trovo in me più quasi la forza di lottare: mi lascio trascinare dalla corrente, che va via infaticata e mi guiderà inonorato alla fossa, vedovo di gioja e di rimpianto cittadino. Ho spoetizzato la mia vita e non trovo che un filtro di vapori; non ho più fede; per me, le emozioni sono un vero onanismo di fantasia; il cuore non caccia più il suo inno spontaneo, primaticcio, prepotente». — [25]«Ho bisogno di cuore, di cuore, di cuore! Pace! E sta tutto in questa parola che sospira dall'anima mia! Ed io potrei vivere sino a trentasette anni, a cinquanta... c'è da divenir pazzo!» — Si ch'egli eleva il dolore a divinità indiscussa[26]; «L'anima mia non ha che una sola potenza: il dolore — che una sola fede: il dolore; — che una sola speranza: la morte». La volle, l'ottenne; col suo gesto reale confermò l'Alberto Pisani; ed a mezzo il giugno 1870, faceva getto della propria vita e ne dava le ragioni: parole, d'oltre il silenzio, sacre: «L'opera che sto per compiere e che, quando leggerete questa mia, sarà già compita, è dolorosa, terribile, snaturata; ma è necessaria per me. — Non mi venite però, colla solita bestemmia dei linfatici a dirmi: «fosti vile, che non hai saputo lottare». Il mio dolore non fu chiassoso, non mandò gemiti. — Mi pare di andare a morte come andrei ad una festa». Amara festa della pace perpetua ed oscura: Alfredo de Musset, [49] per quella cripta sollecitata e precoce aveva, da tempo, inscritto l'epigrafe: «Tout ce qui était, n'est plus; tout ce qui sera, ne pas encore. Ne cherchez pas ailleurs le sècret de nos maux». Sull'amico cadavere, Felice Cavallotti si chinava bisbigliandogli:
«Dormi, povero martire!
Dormi! questa è la calma
Che agognavi».
Stia, così, più eloquente che non ci fosse in vita, mitingaio: non tacerà mai con diverso dolore di letteratura, colli altri carnefici di loro stessi per incompatibilità di carattere col mondo che pure avevano amato e sposato. Ma, se tra i superstiti, che ressero allo scomparire delle illusioni disincantate, si affaccia Carlo Dossi; se il suo delirio erotico si amareggia e si avvelena di disgusto, erompe e si esaspera La Desinenza in A[27]; «Un'oncia di sangue di meno, un libro di più».
Se il biografo del suicida Alberto Pisani abbandona un istante il suo eroe e lo lascia riposare, torna subito a sè stesso — ed è forse la medesima istoria che seguita — e si compiace di confidarci: «Quando sono a Milano, in cilindro, marsina, guantato, con un sentore di muschio, leggo la Perseveranza, fumo cigarette di carta ed esclamo: «Sapristi!» [50] Mi vedeste invece a Pavia, oh, mi vedeste quando fò lo studente, con tanto di cappellaccio e mantello! Allora giuro per Cristo e Maria, dò del tu a chiunque e grido: «Viva Mazzini e Garibaldi! e il suo inno».
Tutti e due passeggiarono in quella Milano, on Milanin che se sgonfiava, e che si permetteva di conservare le strade ambigue, ed a metà campestri,[28] «fuor di mano, dove, nè le rotaje, nè i marciapiedi s'erano mai sovvenuti di entrare, sì bene l'erba cresceva al sicuro e qualche volta si coglievano fiori». Dove[29] «la casa di Elvira, doviziosa di vista, riguardava un giardino dall'ombre spesse e profonde, di là di cui verdeggiava un'ortaglia, e... così via, per ortaglie e giardini, l'occhio arrivava agli spalti chiomati d'antichi castani. Si bevea un'auretta tutta della campagna, e vi faceva la luna le sue più strane e poetiche apparizioni» — E vi abitò il Mago, in una straduccia de' Corpi Santi, che immetteva, dopo un guazzabuglio di piante, al di là di una prateria, in un cimitero suburbano e decaduto; — e vi si ritrovavano le classiche portinerie, dove, due comari, sacerdotesse della Sporchizia, madama Ciriminaghi e madama Pinciroli, discutevano sulla gabola del lott, convitando il caporal Montagna, perpetuamente incorizzato e la poveretta della giesa, beccamorti femina ed uccello di male augurio: — dove era la dimora de' signori Fabiani, di Donna Claudia Salis, «nella contrada Moresca, lunga contrada vergine, a suolo ineguale» che sciorinava, per quasi tutta la sua lunghezza, de' muriccioli bassi di giardino.
Era la città che adolesceva, ma che, nella crescita precoce ed eccitata da fomenti estranei troppo caldi ed eccessivi, conservava la sua nativa e genuina fisionomia; la Milano fine ed intellettuale, in cui le Arti avevano la preeminenza sopra i traffici e le officine. Qui, Rovani battagliava giornalmente perchè, nel tramutarsi necessario della fisionomia cittadina, [51] venissero rispettate le sue sigle speciali e distintive, non si denaturalizzasse il tipo de' suoi monumenti. — Era la Milano che non conosceva l'esigenza nevrastenica della velocità e camminava per le strette vie, ad agio, assaporando l'aria, riguardando alle bacheche, pedinando le popole; che, nelle notti molli e fresche di maggio, non assisteva al doppio scambio di ombre fantastiche, in gara, della luna artificiale voltaica, della luna solitaria e malinconica, in cielo, inquadrata dai tetti a sfondo di prospettiva. Non si fuggivano ancora i gialli carrozzoni della Edison, ronzanti, cigolanti, seguenti il filo della energia, rapidi a svoltare, scampanellando a furia, intempestivi, interrompendo conversazioni e fantasticherie; non ancora frastornava il rumore sordo delle voci e dei piedi, nè infastidiva il fumo del polverio, sul ripetersi arcaico ed atavico di un grido a richiamo del venditore ambulante; il fango, la piova si immelmavano, ma non scintillavano rotaje d'azzurro elettrico, nè suscitavansi uragani di pillacchere, schizzate a raggiera, dalle ruote d'acciajo delle biciclette, nè strideva o mugghiava la sirena automobile, nè, si subivano li urti, i disgusti, il leppo dei fiati prossimi, la promiscuità dei frettolosi. Vi erano i fiacres invece — le cittadine — le moli idropiche delli omnibus, che lentamente si facevano sostituire dai Tram a cavalli della Anonima; vi erano le linguette gialle e trepidanti del gas, riaccese dalla lancia lucifera del lampedée, il quale ricordava quel lampedée in sci fa di du barbis del povero Giovannin Bongè.
E la melanconia meneghina, il sentimentalismo lombardo (come un chiarore roseo d'aurora primaverile, circonfuso di nebbie fumigate dalle praterie irrigue; e, dalla mandra grassa che pascola, il suono del campano; e, tra le gabbe nane e gibbose capitozzate, il canaletto artificiale e parallelo a scorrere addomesticato) trovavano il paesaggio su cui si erano posati li occhi preveggenti di Leonardo da Vinci, donde traeva la ricchezza il lombardo Sardanapalo. Triste e dolce tranquillità della Contrada della Costa e di Santa Prassede, giù [52] verso Porta Tosa, in mezzo alle quali fluiva lenta, a rispecchio di antichi alberi nani, una roggia, tra rive ineguali e corrose a risciacquare le radici gialle, tentacoli vegetali, lievemente ondeggianti nella corrente: nelle mattine solatie, le lavandaje le fasciavano di panni distesi e variopinti ad asciugare. — Ora, nascosto il Naviglio interno per la maggior parte: demolito il Lazzaretto, arrugginito nelle muraglie tozze e sipario alla vista delle Prealpi lariane, Stendhal redivivo si lamenterebbe, se, nelle giornate ventose e limpide, nell'aria ossigenata e cristallina, dall'alto del Bastione non potesse più ammirare i denti bianchi ed acuti del Resegon de Lek (così scriveva) profilarsi sulla azzurra tenerezza del cielo. E i Corpi Santi facevano da sè una città a cerchio dell'altra, tra l'agricola le l'Industriale. Permanevano, come permangono, le cancellate e i pilastri, il primo viale de' Giardini Pubblici, tracciati dalla simmetria repubblicana e cisalpina, lungo Corso Venezia: ma non più la bella e rettilinea armonia classica, che Piermarini voleva istituita, sulle macchie e nei prati e nelle allee, perchè vi si decorassero, nelle pubbliche commemorazioni, li Eroi, tra le fiaccole, li altari romani, i profumi e le pire: Eroi della guerra e della pace.
Ma, se distrutto il Teatro Diurno, celebre per le sue pantomime e pe' suoi carroselli, e La Giostra, ed il Caffè, non così quel Salone, che lasciò indi l'area al Museo di Storia Naturale, e dentro cui ballarono il can-can de L'Orphée aux Enfers, al suono della musica dei Chasseurs d'Afrique, la Dama e lo Zuavo nel pocanzi troppo commemorato 1859.
Allora, il dedalo curioso e caratteristico dei vicoli, delle stradicciuole a gomito, ad oscurità rientrate, a balconcini tondi sporti, ad usciuoli socchiusi, ad invito pandemio, che racchiudevano l'isolato delle case, dalla contrada di San Raffaele, ai due Muri, dalla Pescheria Vecchia, a Santa Margherita, andava scomparendo; qui, aveva tenuto campo aperto, ad ogni avventura ed a chiunque avventore, e general comando, la venale e larga galanteria milanese:
[53]
«.... costumm de sta città,
Rapport ai donn de bonmercàa,
Massimament qui creatur
De San Raffael e di Du Mur;
Che, quand l'arriva on forestée,
Se fa compagn di bottigliée;
Massimament in temp de stàa...»
Poi, La Piazza del Duomo, nè ampliata, nè ancora decorata dal Monumento del Rosa, nè, come oggi, allietata dal torneo dei tram, propalatori di addomesticati fulmini tra le ruote e le rotaje, intorno al Padre della Patria, guardato a vista dalle nappine azzurre e dai pennacchi rosso-azzurri: e, se in Piazza Mercanti, si era colmato il vecchio pozzo, che, nel 1762, il conte Nicolò Visconti, prefetto della città, aveva ristaurato, pur continuava la frequenza di avocatt, borsiroeu, spii, vagabond, mercant de gran e de ris, fittavol, beolch, massèe, fattor.
Sì che Carlo Dossi ed Alberto Pisani furono spettatori della trasformazione. In quel loro Presente, in questo nostro Altrieri, già si pretendeva luce ed aria; già si incominciava a demolire: piazze larghe, strade in rettifilo; sovrani, picconi e squadre. Vi hanno camminato, vi camminano i cittadini più diritti e sicuri? Ogni cosa consiglia l'ortogonia, la politica e l'igiene; per ciò si sopprimono li edifici biscornuti e le idee doppie; — quelle, cioè, che sono sempre vive, e sono le più sincere; — noi non vogliamo scansare l'ostacolo, ma lo abbattiamo; alla critica succede la sintesi; ma scordammo molta allegria e molto buon cuore; ma l'ironia si è fatta sarcasmo; e ciascuno teme del suo vicino: se la satira interviene, si invoca al chirurgo, che Carlo Dossi reputa una delle più tristi necessità umane; e, chi dice chirurgo, accorge l'ammalato; e Carlo Dossi molti ne vide, coi quali, Alberto Pisani. In compenso, l'aspetto non potrebbe essere migliore; ma è un'inzaffatura di calce lievemente indorata dal giallo-cromo [54] dell'imbianchino: niente portoni ad ogni ponte del Naviglio, colmati i vicoli, fontanelle d'acqua potabile sopra d'ogni trivio; ciascuno veste più decentemente; alla domenica riposo festivo — incontrate il vostro lustrascarpe agghindato come un milord, George Brummel del selciato —, e le vostre domestiche si rifiutano di custodirvi il bollito. Milano è più sana, più costumata, più libera? È una domanda; e pure, quell'altra ha i suoi adoratori che la vagheggiano di sulle stampe ed i disegni con postumo amore tra il curioso e l'indiscreto; se ne innamorarono troppo tardi; la scrivono e la descrivono come una paleografia sentimentale.
Vecchie ringhiere, rigonfie e barocche, riccioli e tortili viticci e foglie d'acanto battute nel ferro; balaustre a volute ed a conchiglie massiccie, a specchiarsi nell'acqua lenta e verde del canale; lobbie di legno brunite dalla piova e lucidate dal sole; pensili giardinetti di quattro garofani garibaldini, un cespo di geranio rosato, una tegghia odorosa di maggiorana pei gatti, di salvia per l'arrosto; l'arcata del ponte bituminosa, concava, nell'acque, convessa, oscura galleria ai comballi, carichi di pietre, di calce, di fascinate; la rozza a guidaleschi, al rimorchio del carro fluviale: la Madonnina specchiante d'oro, ultima sull'orizzonte milanese, simbolo ed indice, come una fiamma: l'intimi ripostigli della città: l'ombra magra e profumata dalle glicine urbane e stanche, spioventi sulla terrazzetta; l'umidiccio della piccola ajuola, un portento di giardinaggio e di orticoltura d'ogni varietà; i Terraggi, i Bastioni, la Guglia, o bianca, o bigia, o violacea, o rosata, a sfidare il cielo, e, dai bassi muricciuoli, erigersi le alte magnolie sfiorendo e cercando azzurro ed aria motivi alla matita, un dì, del Bossi, del Canella; oggi, del Mentessi; raffigurazioni di una nostalgia. Ed il Belloni ne dà i paesaggi dell'Alzaja Pavese, e Ferraguti, le prospettive crepuscolari, e Balestrini la fanghiglia dei Fuori porta, i cavalli stanchi e professionali delle carrozze di piazza; ed il Buffa la newyorkese irruenza dei traini pesanti, la furia modernissima [55] dei commerci, che vanno rombando tra le brume, i fanali vegghianti e scarlatti, il rombo delle ruote e dei carrozzoni; l'Agazzi i cantucci caratteristici, le ripiegature secrete ed addominali dei vicoli, il Duomo in ogni ora del giorno, in ogni stagione, nevicato, sereno, le piangenti statue romane di Piazza Fontana, prefiche inesauste davanti l'Arcivescovado.
Donde la rammaricata nostalgia si tramuta in arte ed in letteratura. Giovanni De Castro ricorda i Visitatori illustri in una annebbiata palinodia; il Romussi ed il Barbiera, ambo gazzettieri spicci, badaluccano sulle esteriorità, ridipingono sulla vernice e sono pregiati perchè suonano il vuoto. Cameroni non può dire Milano se non soggiunga Stendhal, Dossi e qualche volta Lucini; indugia con amore su questa serie di paesaggi che fuggono, di parole che svaniscono nell'aria troppo rumorosa dell'epoca; rammenta Byron, Michelet, Balzac, Flaubert, Gautier, i Goncourt, Taine, amici e narratori di Paneropoli, trascura Foscolo, nemico e grande istigatore di virtù meneghine, che riconosceva: Felice Cameroni, a me carissimo, araldo di Zola tra noi, dalla Farfalla, dalla Italia del Popolo, dal Sole, dalla Rivista Drammatica del Polese; il Pessimista, lo Stoico, l'Atta-Troll, l'Uaneofobo, tutte gradazioni dal nero fumo al grigio; per cui egli dispensò la sua volontà e la sua grande coltura e seconda natura, che lo fecero incompatibile colla serenità; sì che, non morto, oggi, si insepolcra dentro un ostinato silenzio. Con lui, Carlo Bozzi amico suo, andava e va proponendo al Comune una specie di Museo Carnèvalet di nostre memorie che vanno perdendosi; Luca Beltrami ne ripara i monumenti, tenta di trasportare la Cà Missaglia vicino al Chiostro ed al Chiostrino delle Grazie, rinascimento primaticcio e lombardesco. Noi ci illudiamo, nelle ore tipiche, di tornare al nostro Verzée, «scoera de lengua... caregada de tucc i erudizion, che i serv e i recatton dan de solit a gratis al poetta:» ma, tra le faccende del mercato, tra il monte fresco ed odoroso delle verdure, dei fiori, delle frutta, i pingui formaggi, le rosate polpe [56] dei salumi; tra le piume e le pelliccie della cacciagione; tra la fragranza salina e salmastra della pesca, sotto li ombrelloni, sul suolo madido e lubrico; tra i frusti delle insalate e delle verze, in pieno cielo meneghino, un vocabolo toscano, una esclamazione napolitana, una bestemia genovese interrompono l'incanto. La Piazza veste la sua realtà: il carattere equivoco e complesso di un gran mercato qualsiasi, all'aria aperta; noi udiamo cianciare, in un misto italiano di caserma e di quinte, incolore e banale, linguaggio permesso ad una città d'emporio, che rimuta le sue espressioni col mutare veloce delle mode trimestrali, la sua fisionomia ad ogni lustro; città aperta all'estuarvi della immigrazione, dove, moltissimi sono li elettori e minimi i cittadini.
Però che se ne accorgeva Carlo Dossi sin dal principio e lamentava lo squalificarsi di molto patrimonio autoctono intellettuale[30]: «L'umore milanese e lombardo, oggi è quasi irremissibilmente perduto. Invano cerchi qualche scampolo di quella stoffa ambrosiana, che diede Manzoni, Cattaneo, Bertani, Gorini, Vassalli, Rovani e molti altri minori. Era gente questa di alto ingegno ed insieme cavalleresca, amabile e bonariamente spiritosa. Nutriti di Porta e di Rossini, erano amanti delle gonnelle senz'essere puttanieri; erano giocondi senz'essere mai sguajati. Oggi si è a loro sostituita la volgarità, l'ingrognatura, il portinarismo del Secolo, il bohemismo scimiottescamente francese ed odioso; l'ubriaco che rece al brillo che canta».
Ma allora si rifabricavano e si fucinavano coscienze e modi di vita cittadina, altri se ne assumevamo; si rifiutavano e si accoglievano attitudini, inquietudini letterarie e morali. Di quel tempo, nell'aspettazione di una nuova guerra coll'Austria, che deteneva ancora le provincie venete, nell'alacre fermento delle incalzate generosità del partito d'azione, i giovanetti tentavano più difficile se pur pacifica milizia.
[57] Se abbattevansi muraglie, Carlo Dossi ed Alberto Pisani venivano alle demolizioni notturne del Rebecchino, tra le fumigosità delle fiaccole, perchè, non ancora, alla fretta di far nuovo sul vecchio, aiutavano l'arco voltaico e la lampada ad incandescenza: ed udivano Arrigo Boito lamentare:
[31]«Scuri, zappe, arieti
Smantellate, abbattete e gaja e franca
Suoni l'ode alla calce e al rettifilo!
Piangan pure i poeti».
I poeti? I poeti ironeggiavano con Emilio Praga:
[32]«Per l'ampia volta querula,
Nel coro intarsiato,
L'orme di cinque secoli
Un giorno han cancellato:
Or tutto è liscio e candido,
E, a quei toni abbaglianti,
Ammiccan gli occhi i santi
E parlano? tra lor».
Santi? Si incominciava a non credervi più: si stavano stampando Il Re Orso e Le Madri Galanti e Tavolozza; si leggevano i romanzi del Tronconi: Felice Cavallotti ristampava le Poesie, bersaglio colpito inutilmente dalla Procura del re e soppresse per riapparire; ragione per cui lo scaldo repubblicano tornava ad essere ospite frequente delle Carceri Criminali, per riuscirne, brindando nei Filobaccanti, col bicchiere colmo e spumoso, sonora ilarità, sfarzo di facili amori a coprirgli i singhiozzi sulla povera ora trista italiana.
Così, mentre si tentava di rappresentare il Mefistofele, Tarchetti aveva già gettato il grido: All'aperto, all'aperto! di maggiore ed italiana efficacia che non fosse l'«en plein air!» zoliano, denunciava il facile mestiere di imitar Manzoni; [58] tornavasi ad odiare ed a combattere i pedanti come i più fieri assassini della poesia. I giovani si trovavano sospesi tra il lievito spremuto dall'Heine e dallo Schopenhaurer, in una stanchezza di razza che ha troppo lavorato e pensato, in una quiescenza alla servitù avvenire, per le inutili ribellioni al fatto che popolava l'Italia liberale e liberata di burocrazia piemontese, scialacquatrice di patria e pubblico erario. — Dolore di aerei disinganni? Non pensavano più alla Byron, alla Leopardi, alla Gilbert, alla Moreau; non adoravano ancora il corteggio dei Montjoye, dei Maître Guerrin, delle Susanne d'Ange, delle Femmes de Claude, dei Sirchi, dei Lebonard, delle contesse de Chalis delle Ize Clemenceau, delle Eve alla Verga, delle Fanciulle alla Torelli;.... ma già spuntavano li uomini d'affare: non più si invocava la morte, ma il listino di borsa; non più la manìa dell'Ortis, ma la febre del guadagno e delle voluttà presto godute... a pagamento. L'Altrieri si dubitava di Dio e ci si disperava per amore; Ieri, i giovani nati troppo presto per combattere per la patria, od avendo già combattuto per questa e non per questo, non trovandosi intorno più nulla da fare, si guardavano in faccia muti, interrogandosi se non conveniva rimutarsi in mercante, vendersi, o vendere qualche cosa, o qualcuno.
Supporavano le angoscie reali ed imaginate di questa gioventù tradita dalla realtà del vivere; deliravano le antinomie tra il volere ed il potere, tra la volontà inutile e la refrattarietà dell'ambiente sociale, tra il pensiero e l'azione, che sembrava non poter più.
Rappresentativo del malessere generale, ancora, Giulio Pinchetti sottoponeva la sua dolorosa vivisezione all'amico Sardi[33]: «Ho mille temi capricciosi che mi ballano in capo: mille pensieri condensati in convento: vapori, bolle, forse, che scoppieranno, presto o tardi, in qualche acquazzone di terzine. — Custoza, Lissa, cuore, natura... e tante altre tempeste [59] mi picchiano nel cranio, che non so io dove battere... Con più ci penso, ad onta di questo, mi vado persuadendo che in Italia l'unico poeta possibile, ora, è Byron: ed io ti dico, che, inanzi di essere Chatterton tra questa ciurmaglia di trafficanti, preferisco cantar natura e cuore indipendenti dell'umano bipede, come Berni o Petronio». — Ed il dissidio si acuiva e si faceva ad acusar il mondo[34]: «Il mondo è fatto al rovescio, come quei dannati di Dante che avevano il culo inanzi, il petto dietro e le lagrime strisciavano per lo fesso». — E lamentava la mancanza di scopo, e gridava la propria infelicità, e, nello stesso tempo, preferiva, colla Italia di fronte, la maschera di Sallustio, altro fare, altro dire[35]: o esserle infelice e non confessare l'infelicità giammai».
Decadenza?
«Noi siam i figli dei padri ammalati;
Aquile al tempo di mutar le piume,
Svolazziam muti, attoniti, affannati,
Sull'agonia di un nume».[36].
Agonizzava una coscienza eroica, perchè, organo non impiegato, s'arrugginiva nell'ozio e si sfaceva; agonizzava l'orgoglio del sacrificio mazziniano, perchè meta irraggiungibile. Che se Giuseppe Mazzini aveva consigliato alla gioventù sua[37]: «Abbiamo bisogno, noi giovani, de' poeti; di voi che raccogliate, abbelliate, inghirlandiate dei vostri fiori immortali quella poesia che a noi tutti freme nell'anima, incapace di crearsi un'espressione; abbiamo bisogno di ascoltare la vostra voce, il vostro inno in mezzo alla lotta, nella quale noi ci avvolgiamo; abbiamo bisogno di sapere che il vostro canto ci conforterà il sospiro ultimo che daremo alla patria, che un raggio della vostra poesia poserà sui nostri [60] sepolcri:» — i giovanissimi poeti si rammaricavano col Pinchetti:[38] «Quando pensi alle ombre mazziniane degli Uticensi, dei Bruti minori, dei Cassii, dei Timoleoni, perchè tu palpiti per essi e fremi per la innocenza loro? perchè questo brivido per le carni, se rammenti l'aura sonnolenta di Filippi, trofeo dei Pretoriani? perchè giustifichi il fratello che rompe il petto al tiranno? — No: la squallida aritmetica del fatto uccide l'uomo: egli ha bisogno di un divino per sognare, per destarsi, anche... ma intanto sognare! — Guardo le cose come stanno: e li eroi girano il mondo come le striscie nereggianti che pinge sul muro la lanterna magica. — Bruto è un pazzo; Cassio un broglione; Timoleone un fratricida puro e semplice, esecrabile di più; la statua si è infranta, resta il marmo. Ed ecco cos'è per me la vita: marmo: — Del resto, sono l'uomo più pacifico del mondo «mangio, bevo, dormo e vesto panni»; giuoco al bigliardo; fo pratica di notaio: evviva il Foscolo in fieri!»
La risata è un cachinno di ineffabile angoscia; la critica sulla società e sopra l'ultima, terza, monarchica, mal fatta Italia si determinava, perchè li Italiani, pur troppo erano, come i loro poeti disconosciuti, ancora in fieri.
Alberto Pisani accorgeva una patria, una sua città, che, nelle ore notturne, assumeva un'aria sospettosa,[39] «quella di una ragazza, che, con gli orecchi attesi alla porta, legga un volume senza nome di tipi»:
«Eran fanciulle che leggean romanzi
Di fantasmi e di ganzi;
Eran fanciulle che poneansi al crine,
Fra i vezzi e fra le trine,
E gemme e perle e corone immortali,
Di fiori artificiali»,[40]
all'ora «in cui il mercato di Priapo affolla».
[61] E Carlo Dossi avvisava che,[41] «intanto una carrozza si arresta in una via tortuosa che fiancheggia la Corte. La sentinella rintana. Lo sportello si apre; ed, ecco, un alto signore, il quale offre la mano a una donna incappucciata e dal vestito che fruscia. Tò! quel signore non mi riesce nuovo; mi par d'averlo ammirato ad una mostra di truppe, in tanto di fanfarona divisa, isputacchiata di principesche decorazioni... La bella sua moglie le passa dinanzi. Egli le fa un ampio inchino, e, come la vede sparire in una piccola porta, — porta alle grandi fortune, — tutto orgoglioso di ben meritar quelle insegne che incuginan col re, rimonta nella carrozza». E Alberto Pisani e Carlo Dossi udivano aumentare, dalle finestre, i pst,[42] pst!.. — Nabucco imbestia: la città è in fregola; — ... mentre rincasano dai teatri:[43] «dove, nel vano della porta di mezzo, avevano ammirato i due poliziotti agli stipiti, i propri sostegni del palchettone regio»; od avevano, altrove, salutato, nei venerabili consessi ufficiali, a presiedere «La Maestà sua di gesso (dico il busto del re modellato nel gesso, o perchè simbolo, questo, di un costituzionale sovrano, o perchè comodo assai, nè repentini passaggi di temperatura politica)».
Sovversivismo? Erano trascorse le vigilie d'armi e di speranze, nelle quali l'entusiasmo fucinava e imaginava grandissima la patria e gloriosa; stagnavano le brume della sconfitta, l'onta di un dono, dalle mani dell'arbitro europeo, fosco, accigliato e fatale napoleonide. Pesavano alla Nazione la resa, non la violenta rivendicazione del Veneto, le Convenzioni di Settembre, il veto su Roma, guardata dalle milizie antiboine, mercenarie e francesi, accomandate dal bigottismo pauroso e dall'elegante fescennare gesuitico di una ex-maitresse-de-tripot, incoronata, per sapientissime lussurie [62] imperatrice. E Giulio Uberti, sdegnoso, rifiutava l'anima sua al verso:
«Tu[44] vuoi ch'io scriva....
Per questa Italia che sommersa in brago
Non troncheria il grugnito sonnolento
Sotto un milion di schioppettate ad ago?
Che ai suoi fornicator gridando viva,
E gavazzando de' miei calci al vento,
Me godrete impiccato? E vuoi ch'io scriva?»
Impazienza rivoluzionaria? Erano le giornate della cronaca torbida; quando, tra le memorie, ancora torride delle vittorie garibaldine, susurravasi di amori venali del principe a turbare la calma del parco brianteo; quando, le azzurre-bianche Guide ed i verdi-scarlatti Usseri di Piacenza, caricavano, caracollando in cospetto dei marmi istoriati della Cattedrale e ne scendevano, braveggiando, la scalea; quando Regìa e Lobbia, ed i fatti de' guardiacaccia di Tombolo e di Stupinigi irritavano la folla; quando, i migliori cittadini, perchè repubblicani, venivano a conoscere la Santa Margherita del Torresani croato, non d'altro rei che di franche e libere parole. Erano le giornate del Maggio 1870 in cui il sospetto per le congiure mazziniane spingeva i Savoia sulla via di Roma: quando Milano aspettava la bomba da esplodersi in Piazza della Scala per insorgere; ed il Galimberti, audacissimo dei Mille, andava rinfocolando le ire tra i commilitoni; quando s'accendevano, nelle notti del marzo, le brevi fiammate di Parma e di Pavia, alla Caserma di San Lino, senza suscitar l'incendio generale; e veniva, dopo lo scherno dell'attesa nell'anticamera ministeriale del Lanza, risposto ad Anna Pallavicino-Trivulzio — la quale a nome di quarantamila madri italiane chiedeva la grazia pel caporale Pietro Barsanti — ch'egli era stato proprio allora legalmente assassinato tra il muro e la [63] fossa del Castello di Milano. Sacra inferie: di quel sangue Cavallotti raccoglieva le stille per altro battesimo tremendo sulla corona, al contrapasso:
«Prole di Giuda, prole di sicari;
Sii maledetta!»
E le speranze si inacerbivano e l'ozio intristiva, e ne usciva le Scapigliatura. Acuire, ricopiando la vita e la letteratura di Rovani, aumentarsi nel giornalismo e nella vita pratica, che contrastava colle loro aspirazioni, non aver paura della verità, ironeggiare, bandire un Gazzettino Rosa ed una Cronaca Grigia; spensieratezza nei ritrovi, interruzioni aggressive e ribelli; la nostra Bohême.
Allora, finalmente, strozzato dalla agonia mortale che lo faceva irridere Giulio Pinchetti, dopo aver imprestato dell'Heine una sua beffarda disperazione:
— «Tengo[45] serrato il core
Perchè ho in dispregio ognun,
Non credo più a nessun,
Credo al dolore.
Vita, fatal menzogna,
Che noi tentiam negar,
Ma che con presto andar
Creder bisogna;» —
si liberava; e, colli altri, Boito lo assegnava, nel tempo turgido di un funereo incarico di demenze e di morti:
«Torva[46] è la Musa.... Per l'Italia nostra
Corse, levando impetuosi gridi,
Una pallida giostra
Di poeti suicidi.
Praga, cerca nel buio una bestemmia
Sublime e strana! E intanto muor sui rami
La sua ricca vendemmia
Di sogni e di ricami».
[64] Ne pigiarono il mosto, con molte pretese e molti esclusivismi, ne' cenacoli racchiusi tra le cortine verdi di Via Vivajo, nell'Ortaglia, nell'Osteria del Polpetta, nelle ragunate del Conservatorio, peripateticamente, per Via della Passione, tra lo sfondo del Naviglio, limitato dalla balaustra tortile del palazzo Visconti di Modrone e il dorso del Bastione impennacchiato, tra le foglie palmate delli ippocastani, di panocchie di fiori rosei e bianchi, gendarmi vestiti in gala a guardia della città. In tanto cantavano:
«Siam[47] tristi, Emilio, e da ogni salute
Messi in bando ambidue.
Ho perduto i miei sogni ad uno ad uno
Com'obolo di cieco;
Nè un sogno d'oro, ahimè! nè un sogno bruno
Oggi, non ho più meco».
E trovarono il tempo e lo strazio più acuto di stordirsi. — Se tornerà a Milano Primo Levi, nei giorni più chiassosi di fiera, quando vi convenne Italia alla sua prima esposizione non se li dimenticherà; ne riparlava testè «Pei nuovi Cento Anni», eccitando Luca Beltrami a raccogliere le memorie, «a colmare[48] le lacune, a rischiararne le ombre, a mettere in luce tutta la cara figura di quella Milano, la quale, per non essere ancora che una metropoli regionale, non era certo meno interessante della odierna mondiale città; che, per tanti titoli, merita l'ammirazione e la riconoscenza di tutta Italia». Ma,[49] «allora, il dir di Cremona era un delitto e di Grandi un'infamia. La critica era un inno solo all'arte del Bertini e dei suoi seguaci, e, noi, poveretti, che osavamo protestare passavamo per pazzi, e, per poco, non per furfanti». Allora, per esporre le proprie idee, senza sottoporle ad una evidente amputazione, senza contravenire alla urbanità che imperava [65] nelle gazzette-per-bene e gesuitiche, dove si raccomandava il luogo comune, per non irritare la pubblica melensaggine, era necessario fondare delle riviste eccezionali: Le Tre Arti. Erano uscite, con un primo numero di saggio nell'ottobre 1873 ed ultimo della serie; vi erano accorsi Primo Levi, Carlo Dossi, che parlava di Tranquillo Cremona e di Giuseppe Grandi alla esposizione di Belle Arti a Brera nell'anno 1873[50]; venivano riassunte da Luigi Perelli. Il quale, fuggendo lo strazio per la morte della amatissima Elvira fidanzata, fidanzavasi, per sempre, alla amicizia, riversandosi, nella bontà verso altrui; adorando l'opera di Grandi, e di Cremona, proteggeva Rovani pubblicandone La giovinezza di Giulio Cesare e la mente di Alessandro Manzoni: creandosi il re del Carnevalone Ambrosiano, promuoveva anfizionie di Maschere, verso Roma, ricongiunta, cuore d'Italia, rimesso a pulsare alacremente in petto alla Nazione; suscitava in fine, con Vespa e Borgomanero, il Rabadan, senza di cui non poteva essere settimana grassa milanese e non disinteressata piacevolezza, se, una volta l'anno, non compariva a frecciare, colla satira saporita del buon tempo, il costume e colla bosinada di circostanza a sora...; a cui non rifiutavasi la penna caustica di Carlo Dossi, emulo del Balestrieri. — Il Carnevalone Ambrosiano che si ammorba ed agonizza, oggi, nel fango marzolino di Porta Genova sfolgorante, in quei dì, di scintillanti attualità argutissime! La satira apparecchiava, tra li altri carri mascherati, in quelli anni eponimi alla carnascialeria, un traino fantastico di una gran luna, dentro cui si entrava per la bocca spalancata e nel cui interno si vedevano dipinte le goccie di liquidi diversi osservate al microscopio: in quella del vino, erano rappresentati ad infusorii Perelli e Rovani, in quella dell'acqua, le teste dei più insipidi tra i milanesi, in quella dell'aceto i più rabbiosi gazzettieri, Bizzoni, Treves, Cavallotti, — in quella [66] dell'orina, il marchese Villani. Luigi Perelli regnava assoluto sulle maschere: Perelli «che si incarica di volermi bene», come lo complimentava Rovani; il Perellino ed il Rovanino, perchè gli stava tutto il giorno alle costole, imitandolo nelle stranezze, e nell'amore intenso per l'arte, nella sottigliezza squisita del buon gusto: — Perelli il collaboratore nato e fabricato sopra misura, per intendersi e riplasmarsi cordialmente con l'autore di Ritratti umani.
«Non mai collaborazione letteraria fu più intima, più appassionata tra Perelli e me. Si era, allora, all'equatore della nostra amicizia e diciassettanni son scorsi», confessa l'altro nell'Etichetta al Campionario (1885). «Possedea, Gigi, tutto ciò di cui io mancava; bello aspetto, buon senso, pronta e smagliante parola, una audacia, che senza mai confondersi colla sfacciataggine, rovesciava d'assalto qualsiasi diffidenza, una onestà sovra tutto abbigliata di allegria, che quanti cuori toccava, avvinceva. In me, invece, il pensiero, benchè pigro e lambiccato, profondo, una ostinazione che mi rendeva capace, non solo di ideare un lavoro, ma di cominciarlo e, quel che è più di finirlo: oltraciò, molta malinconia, e, in utili dosi, cattiveria e mattia. Per servirmi di una metafora, che, a volta sua può veramente dirsi di zecca, Perelli era, in quel tempo, la lega del mio fino». — Insieme passavano le lunghe sere dell'inverno lombardo, così favorevole all'amicizia, in quelli anni tra 1866 e 1877: la cameretta tepida di Carlo Dossi li accoglieva, e, mentre questi aspettava accanto al camino, Tea, una sua cagnola fox-terrier, gli sedeva in grembo. Valicava il pensiero di lui, caprioleggiando, sopra le culmini di montagne rocciose, per poter offrire al veniente fiori di ghiaccio insospettati e rarissimo bottino d'alpinista-ideologo; «ma Gigi tardava troppo, e sotto al solleone della fantasia, il mazzetto si distillava e mutava in una fiala di essenze acutamente insopportabili. Finalmente, il suo passo franco si udiva. Tea si alzava di soprassalto squittendo di gioja ver lui. Carlo, assai meno umano di quella bestiola, lo accoglieva, di solito [67] con asprezza. Prigioniero volontario di lui medesimo, indispettivasi, quasi, della sua libertà».
Povera Tea, cui donna Ida doveva invitare alla ciotola della zuppa mattiniera, colle sacramentali parole: «Panera doppia e pan frances», perchè ne mangiasse, ella restia; povera Tea, generosa gladiatrice uccisa dal suo coraggio, da un rospo avvelenato, che addentò a morte nel piccolo giardino di Roma; Tea che riposa al Dosso, sotto all'enorme cippo, troppo piccolo per il suo affetto animalesco, gigantesco per l'esile corpicino sepolto: «Tea, bianca, nera, nocciuola, — dodici anni vissuta con Alberto Pisani — modello di fedeltà — più che umana canina»; e l'edera delle rovine, della morte e della immortalità serpenta, abbruna ed insempra il bianco marmo della targhetta commemorativa.
Ma, per allora, a pena nata La Vita di Alberto Pisani, a pena ricomposto, nella sua fragranza d'amore, Il Regno dei Cieli, la solita borghesia fanullona ed arrivata dalle academie teneva il campo, a Milano, ed ingombrava colla alterigia, la supponenza e l'idrocefalia, l'elfantiasi congenita, l'esosità e la golosità esemplari; sì che, nè il Gorini, nè il Cremona potevano essere decentemente nominati da quelli, nè Dossi vi aveva trovato mercè. I grossi bacalari, che facevan l'occhio pio alla prebenda governativa, aveano gridato, subito, al sacrilegio; si erano sbalorditi li stenografi delle frasi stereotipate dai trecentisti, o da Manzoni, i mendicanti de' riboboli fiorentini, i cucinatori di sdolcinature e graziette a fior di crusca di Val d'Arno; i compilatori di frasuccie lascive, scelte colte, de' gentilini pensierucci, delle facili ed elastiche riverenze, i puristi della lingua dotta, i modernisti della lingua parlata. Lo scandalo, in parte, perdura.
Ma, per allora, chi volesse dire ed essere qualche cosa di più, doveva passare — come oggi — alli occhi dei suoi coetanei e concittadini, un matto: i critici misero orginale: ma il matto, Carlo Dossi dice, è quel nome di cui si regala chiunque pensi diversamente di noi, quando ne sembra un [68] po' più forte il chiamarlo o bestia, o birbante. Onde i matti si facevano da parte, si ricercavano in mutua compagnia; venivano al cenacolo sbarazzino del Polpetta, in mezzo alli orti ed ai giardini del palazzo Cicogna; dove schiamazzavano intorno ai pantanelli artificiali, ancheggiando, le oche tarde e prepotenti, bagnate, tra il frascheggiare mobile delli alberi, di larghe goccie di sole come il pittore Carcano suadendo all'invito ritrasse in due tele ad emulare la celebre del Fortuny: Le Jardin des Poètes. Pranzavasi a buon mercato, spesso, a credito, sotto la pergola densa d'estate, rumorosa di carambole, se le boccie, sulla terra battuta e compressa del giuoco, si urtavano schioccando. Praga vi portava la sua malinconia, la sua barba bionda, che gli invadeva le guance, li occhi azzurri sotto la fronte amplissima e sognatori, i capelli lunghi e ritti, le scede, le baje, la lestezza delle sue caricature; qualche volta, la domanda un poco ebra e fatua:
«Chi è,[51] chi non è?
Oh povero me!...
Il prete lo giura,
Ma nulla io ne so;
Chi dice di sì, chi dice di no....
Gli è il coro dei matti che Adamo intonò!»
Giuseppe Grandi, tumido del trionfo del suo Beccaria, fremeva di orrore se Stambul, la cagnola di Giulio Uberti, l'avvicinava: — Giulio Uberti, poeta dimenticato, perpetuo innamorato settantenne a consumare il suo suicidio per una giovanetta quadrilustre ed allieva sua di declamazione, Miss Alice Lohr londinese, che lo amò dopo morto. Giulio Uberti, che appariva, tra li amici, col suo mezzo cilindro di felpa folta, el castor, inconcato a barchetta, imposto all'occipite perchè il tormentato e spazioso fronte di lui s'illuminasse al [69] sole, la pipa corta e brunita, stretta fra le labra; — classico come il Cominazzi repubblicano della Fama, cantore con vena foscoliana delli eroi di repubblica, Tito Speri, Washington, Lincoln, delle Stagioni, dei Bardi profughi, dello Spartaco, e, se in oggi saputo o commentato, vergogna ai precocemente calvi bardassa, ai Merlin Coccaj della bambagia italiana: Giulio Uberti, cui
«....[52] sul rugoso fronte non dome,
L'ire fremevano dell'alma austera;
Passò imprecando: sferzò: derise:
Tutto è putredine! — disse.... e s'uccise».
Gignous, silenzioso ed immerso nell'arte sua, sembrava cabalasse, mentalmente, toni e tinte sino allora inediti: — Bernasconi, Tartarin di politica, fanfaronava piacevolmente. — I tre Fontana si invitavano a vicenda alle ciarle. — Achille Cova arguto, li eccitava e li contrastava; — Giovanni Camerana magistrato, si abbandonava, senza sospetto alla rima macabra, come un Rollinat piemontese, per avviarsi anche esso al suicidio; — Ghislanzoni, ironico balbuziente, raccontava le sue innumeri prodezze, giornalista, librettista dei Promessi Sposi musicati dal Ponchielli, baritono, novelliere; — Ripamonti interrompeva la scultura per la poesia; là dove non giungeva la stecca da modellare veniva la sua penna acuta a trafiggere; — Cesario Testa, che si firmava scora L'Anticristo piemontese Belial, e che stava per farsi conoscere sotto il nome di Papiliunculus, riconosceva i suoi fratelli d'arte della Farfalla e li veniva a visitare: Cesario Testa, piccolo, bruno, nervoso, coltissimo, razionalista, naturalista, il ponte di passaggio tra la Scapigliatura milanese e la Scuola nova di Bologna; esulcerato dalle miserie della vita e pure travet laborioso, in perpetua bestemia contro il suo destino, cinico, pessimista e quindi romantico puro camuffato; intelligenza, [70] brio, onestà, impiegato di poi alla Corte dei Conti ed alla Cronaca Bizantina, dove Angiolo Sommaruga ne abusava; Cesario Testa, anch'egli ricoperto di nebbie, di anni e d'oblio.
Vi traevano Carletto Borghi dalla gentile e precoce genialità, morto avanti la fama; — Ambrogio Bazzero, solitario erudito d'armerie milanesi e commosso novellatore di sè stesso in Storia di un'anima, il primo discepolo di Carlo Dossi con Riflesso azzurro, «bacio su di un fiore appassito, dedicato a Sofia e Maria, sue sorelle», pur esso di brevissima esistenza: — con loro si accompagnava Guido Pisani, scialaquatore della sua intelligenza, ucciso da una spina di rosa, fondatore col Borghi, il Bolaffio e i due Pozza, del Guerin Meschino; il quale porta tutt'ora per insegna il guerriero cavalcante,[53] disegnato da Tranquillo Cremona e da Carlo Dossi, tra le maschere grottesche che ne fingono le lettere, donde si compita il suo titolo. Nè Tranquillo Cremona, tornato dallo studio e dal lavoro, che lo compiaceva nel cortiletto del Conservatorio, — un chiostrino colonnato e suggestivo offertogli al pennello da Lauro Rossi, — se ne schivava; nè la sua gioconda ilarità scompagnavasi da quella di altrui.
In questo campo chiuso la Scapigliatura si avvicendava; l'arte viveva di speranze; tutti erano migliori di quanto non apparissero; ciascuno si foggiava un Lovelace, un Don Giovanni, un Werther. Qui, si eccitavano le ire intestine; ed il Dossi ascoltava ed annotava la boccacevole eloquenza dell'ideale dipintore dell'ambiguo Falconiere, quando, dimessa la pennellata, dosava la burla con lenta perfidia e maestria al padrone di casa. — Ospite interruttivo, Cletto Arrighi, vi appariva dal Teatro Milanese ch'egli ricercherebbe invano di sul Corso, dove aveva tenuto il posto del Padiglione Cattaneo, sala da ballo per le ultime madaminn, dove, oggi, fa pompa un albergo cosmopolita di lucida eleganza: — Il Teatro Milanese, [71] che gli aveva trasmesso Perelli fresco delle nobili comedie di carattere, banditi pagliacetti e istrione, riusciti quindi in fama e ricercate dalla salace frivolità del principe e dell'epoca; e dentro cui profondeva l'eredità di Bernardino Righetti, lo zio, amico d'infanzia e collega nelli amori facili di Manzoni, prima del suo millantato pietismo.
Qui, dunque, venivano a rifugiarsi tutti che volessero dire una parola propria e diversa, che dovessero difendersi dalli attentati della borghesia milanese: qui, li artisti frapponevano ostacoli, bastioni e fossati, per non patirne il contatto, per non udire il riso di scherno contro li insuperabili e delicatissimi Cugini; per non confondersi coi bestemiatori della plastica vigorosa, psicologica e comacina del Grandi; per non avvalorare li errori delli orecchianti della letteratura di Rovani, della poesia del Tarchetti e del Praga. Da qui, fuggivano tutti li altri: però che scioccamente i rimescolatori dei dizionarii, i passeggiatori di biblioteche e di musei, li ineffabili impostori delle Academie se ne vantavano; e non accorgevano di diminuirsi, privandosi del lievito proficuo e prolifico della genialità, che lasciavan da parte, non vergognandosi del resto delle loro attitudini basse e sconvenienti che domandavano all'arte, cioè il loro fine, con Nana di Parigi, od a Milano, alias Emma Ivon, pruriginosa di memorie inedite e di aulici quadri plastici, a mezze tinte, tra la seppia e l'ocra gialla; — coefficienti all'onanismo ginnasiale, quando la piaggieria al naturalismo divenne di moda e servì, all'artista, per aver commissioni dal bottegaio arricchito, ed, a questo, di vantarsela da conoscitore.
Di là, da questi giardini, da queste officine secrete di motti salaci, di poesie d'occasione, di caricature, la corrente irrefrenata della attività estetica e giovanile si disperdeva per Milano; l'innerbava, la divertiva, la faceva pensare. Estuava per le ragunate della Famiglia Artistica e della Patriottica, dove si decidevano le mostre del Museo Birbonico, tenute nei palazzi di Piazza Mercanti, e le recite del Carro di Tespi; [72] si immetteva nei crocchi, sotto la pergola della Noce, un'osteria fuori Porta Ticinese, governata regalmente dall'astuta e simpatica Sora Luisa, mentre el Vittorel Pizzini mesceva, alli illustri aventori, Gattinara squisitissimo ed annoso: — [54] «ora, non c'è più: l'onorevole Depretis travolse il Gattinara nel tinoso baratro della Società enologica stradellina e gli fece fare la fine medesima del parlamentarismo in Italia». — Ma lo aveva cantato con ditirambi bacchilidiani ed inediti Odoardo Canetta, garibaldino e studente in perpetua candidatura sulla laurea di medicina, biondo Adone di gentilezza milanese, autore innominato e truffato di una esilarantissima comediola «On vioron in dazi»; e, prima, adolescente coraggiosissimo industrioso, con mio padre, di scede e di atroci burle ai pollin, i gendarmi austriaci: ma quel trilustre Gattinara lo aveva bevuto pur Rovani battezzandolo «Sangu de rana», quando, commensale gratuito ed abitudinario alla Noce, vi teneva scuola di arguzia, insegnando al Magni, che fiancheggiava allegramente grignolino co' suoi allievi, la metamorfosi di un San Paolo in Socrate: «Schiscegh el nas» — e Socrate riusciva indicativo, — rimproverargli il monumento eretto a Leonardo da Vinci in Piazza della Scala «on litter in quatter».
Supporava il barzelettare del giorno, sul Corso, davanti all'Hagy, istituzione e ricordo primo-consolare, liquorista di secreti profumi ed essenze, venuto dall'Egitto coi Mamelucchi al seguito di Napoleone. E si ponevano in bacheca, paracarri dell'eleganza maschile, i professionisti del Dandysmo — Barbey d'Aurevilly forse loro istitutore — stato-maggiore della gazzetteria, a dettagliare le bellezze e li abiti feminili delle passanti, a malignare sui nomi, le virtù palesi e nascoste, le abitudini intime, i compromessi coll'essere e il parere. — Sgargiavano le cravatte rosse ed il taglio inglese dei pantaloni di Fabrizio Galli, — baffi alla moschettiera; il [73] Coq, nome porpureo che lo indicava nelle sue caratteristiche morali e sessuali, pronto ad accorrere a richieste del Gaetanino, Genius loci del Gazzettino Rosa, il Monitor catrafatto e cannoneggiante della repubblica lombarda, quando, per mancanza di redazione tutta sotto chiave, lui solo ed il Pessimista rabberciavano il giornale: — stonava, coi bei giorni di sole, che ingiojellava il marciapiede primaverile, l'indivisibile parapioggia del Pozzoli, cantastorie di intrighi principeschi sempre rinnovati, sempre venali e complicati. — Propalava secreti la gajezza rumorosa ed alla vendetta dell'avv. Cario Besozzi, amico di tutti e di tutte, confidente universale, peroratore delle cause de' generosi e delle generose e de' pianti dei cuori in pena, preziosissimo giovane Figaro in frak ed in toga, disputato per l'occasione e per amicizia speciale, pacere dilettante e viaggiatore patetico per li amori eleganti delle spumose ed inquiete bellezze del Teatro Milanese, sensale anche di convegni e del resto, al dire della maldicenza interessata e lurida di Davide Besana. — Il quale, volto piatto ed addormentato, protestandosi sordo, ma le orecchie all'agguato e tese come quelle di un lepre in sospetto, Giuda Iscariota a buon mercato, rimessosi tra i sovversivi vi praticava caccia e pesca grossa e minuta a profitto della polizia politica ed immagazzinava notizie e documenti pe' suoi libelli: Re Quan Quan e la sua corte, Sommaruga occulto e Sommaruga palese, di cui fu il sicario prezzolato per ricatti di letteratura alimentare: Davide Besana[55] riconosciuto testè come vecchia pratica del Codice penale e che viveva, scrivendo per commissione, nell'aria umida milanese, necrologie, epitalami, contratti di nozze, precarii, citazioni, ricorsi di macellari contro la ricchezza mobile e denuncie anonime in blocco, mentre poneva mani, piedi e malvagità a difendere sè stesso, calunniando coloro che lo accusavano di facili e questurineschi abbandoni.
[74] Si erano aperte altresì, un po' più verso il Duomo e da poco, li splendidi battenti della Giulia e della sua buvette; un esercizio promiscuo tra il bar americano e la fiaschetteria, dove li avventori si trovavano in dovere d'essere innamorati della padrona, o corteggiatori, o favoriti, o protettori, rimanendo essa, che vantava il suicidio del marito e una mezza dozzina d'amanti rovinati, sotto il nominativo di Angelo Sommaruga; il quale non uscì di famiglia se, a Roma, si condusse, per lo stesso motivo, la sorella di lei, la celebre e ricantata, in sulla Cronaca Bizantina da Papiliunculus; Una Tigre, Adele. Dalla Giulia si era festeggiato l'esodo della Farfalla da Cagliari a Milano in lietissimo simposio; vi aveva brindato Francesco Giarelli, giornalista di razza, ripieno di enciclopedia, signore di uno stile limpido e scintillante, il gnomo Francesco Giarelli, se credete al Besana, mentore, consigliere, ispiratore e dissanguatore del Sommaruga. E si erano accese dispute di eleganza e di bellezza tra la Giulia e la Ivon, che se la vedeva in faccia troneggiare regalmente, uscendo dal Teatro Milanese; rivalità tra la Caffettiera e l'Attrice per maggior leggiadria e minore età: sì che i maschi venivano a parteggiare e parteggiarono i giornali.
Ma, indifferentemente, se si diceva che li attori del Teatro Milanese solevano pagare una cena di trenta soldi a' critici affamati e parassiti, perchè li elogiassero smaniosamente, — e la voce si propalava dalla Giulia — pure, dinanzi ai vetri della buvette, intermessa una sosta all'Hagy, si mostravano i pantaloni a quadri bianchi, gialli e neri del Giraud, — il volto glabro e clericale del Ferravilla, Beltramo e Meneghino decaduto, — la figura romantica e allampanata dello Sbodio.
Costanti e fedeli ai veleni certosini ed inglesi tornavano, in sull'ora delli aperitivi, a completare lo stuolo, l'eterno giovane Carissimi, la cavalleresca prestanza del Missori, — la gioventù repubblicana e spadaccina, la letteratura scapigliata e garibaldina del perduto Bizzoni, bello Achille d'imprese eroiche ed erotiche, il Re Quan Quan: e la critica intransigente [75] spumeggiava, spigliata, libera, aggressiva, aiutata dai fumi dell'Absinth opalizzato e scorso, a gocciole lenti nell'acqua, Musa verde potabile, eccitata dai fomenti ricomposti dello Scotum e dai Vermouth di Torino.
I lambiccatori delle quotidiane maldicenze decantavano i loro prodotti alcoolici, le loro ultime trovate: appostillavano i quadri del Bertini, così: «el can fa de bagai, el bagai fa de can» — ribattezzavano Malacchia De Cristoforis «Don Malacofolis de Cristiania» — davano la prosopopea del Vanzo, un pittore, che, con Luigi Conconi, cresceva in fama «on Garibaldi mojàa in la carbonina»; ripetevano i pensieri detti ad alta voce dai maggiori. Facevano sapere, che ormai, Alessandro Manzoni non tutta mettesse la morale nella sua Morale Cattolica, che andasse sfollandosi da casa Cantù, i suoi acoliti e Tommaseo, cui mandava a riferire: «Basta con lu, che el ga un pè in sacristia e l'alter in casin!» Che, a chi gli chiedeva come mai, avendo fatto dei libri così buoni, avesse pur fatto dei figli sì birbi, rispondeva: «I liber i ho faa col cô, i bagai col c....»: — che per farsi scusare le spesse frecciate contro le cose del giorno, soleva aggiungervi la prudenza di questa barzelletta: «Però, podi vess come quella veggetta del Mont Cenis, che in del '59 la trovava che i Frances, che vegniven giò, allora, in Italia, no eren pu quii Frances inscì gentil d'ona volta, al temp de Napoleon. Forse, me par ch'el mond el peggiora, perchè peggiori mi». Ed oscure calunnie propalavansi ad imputargli costumi testè venuti di moda al seguito dal Kaiser germanico, essendosi egli, in prima gioventù compiaciuto di libero poetare erotico; velenose malizie, suscitate dal fango delli spurghi gazzettieri.
Rammentava invece, versi, strofe e poemetti inediti, che erano passati tra le mani di molti, ed a firma manzoniana, prestissimo, del resto soppressi e non controfirmati dalla preveggenza meticolosa dell'innajuolo sacro, la memoria prodigiosa tenace e birichina del Rovani. Il quale, lodando e biasimando si valeva di citazioni, che, in bocca sua, erano formidabili [76] armi di offesa e di difesa; ed, a proposito del Monti, ripeteva l'epigramma del Manzoni fatto dimenticare:
«Un vate di gran lode,
Sul principio di un'ode,
Rimpiange il fior gentile
Del suo membro virile;
E, mentre ognun si aspetta
Ch'egli invochi Paletta
O qualcuno dell'arte,
Inneggia a Buonaparte.»
perchè, dove Giuseppe Rovani sfoggiava il suo eloquio spumeggiante e capriccioso era appunto all'Hagy, el racanatt di sciori. Il Ghislanzoni ve lo aveva descritto nel suo tempo migliore, in una improvvisata antologia, cui il romanziere di Lamberto Malatesta fingeva di declamare:
«In riva del Naviglio
Io nacqui e trassi i dì;
Il soldo d'applicato
Consumo nell'Hagy.
Quando i ronzini trottano
E il carro non traballa
Può rimanere in stalla
Il nobile corsier.
La storia dei Cent'anni
Ad intervalli scrivo;
Se un altro secol vivo
La leggerete un dì:»
già che questa usciva, saltuariamente, in appendice, sulla Gazzetta di Milano: el sô prâa de marscida, la sua coltivazione reddituaria, però che la letteratura pura lo mandava in rovina ed il giornalismo lo faceva vivere, senza lasciargli [77] possibilità di pagare i molti debiti. «Io nacqui indebitato; se la bolletta fosse un violino, io sarei un Paganini», soleva ripetere: e pur morì in Milano, la patria de' suoi creditori, il 26 gennaio del 1874, nella Casa di Salute di Porta Nuova, trasportatovi dall'Albergo del Gallo il dì di Natale dell'anno prima: e morì creditore esigentissimo di gloria, che tuttora cercano negargli, lasciando alla moglie dispensiere otto capi di vestiario e due fazzoletti bianchi da naso.
Ma, in sulla porta dell'Hagy, conveniva udirlo negli anni fecondi e gagliardi. Martellava una inesauribile zecca di epigrammi a battuta sonante d'arguzia. Corruscavano monete d'oro e d'argento, già mai di rame, al sole artificiale e ringiovanito dai vapori dell'alcool — el so giovin de studi —; insospettati modi di dire svuotavano le viscere scoperte di ipogee miniere ricchissime di storia, d'arte, d'indiscrezioni. — La vista di una passante, di una conoscenza, di un nemico, di un amico eccitava in lui la piacevolezza alla ventura.
Diceva del Sacchi bibliotecario, che camminava col muso per aria mezzo assonnato, muovendo le labra come biascicasse castagne. «El par un baco ch'el tenta de fa la galetta, ma la ghe reussis no». Della moglie di Cletto Arrighi, che poverina, non si sgravava che di cadaverini: «Ona Mojascia ambulante». — Ad un vedovo che si era riammogliato: «indegno d'aver perduta la prima». — Chiamava una cantante enormemente grassa, ma bella: «il naufragio dell'estetica». Espettorava la quintessenza delli insulti contro il Filippi, che fu tra i primi, critico della Perseveranza, a bandire l'opera di Wagner contro i rossiniani, dei quali Rovani era il massimo sostenitore; e fulminava Pezzini, comproprietario della Gazzetta di Milano, deforme e libidinoso, assicurandogli che «lo avrebbe migliorato con un pugno» — Ad un suo sozio attestava: «Molti migliori di te hanno salito la forca: ma tu la disonoreresti».
Se avvisava Giulio Carcano, lo sciapo traduttore di Shakespeare e lo stucchevole manzoniano, claudicante: «In tant [78] temp che l'è a sto mond e con tanta inclinazion ch'el ga in quella gamba lì, l'è sta mai capace de diventà nan». — Ed a Paolo Ferrari, che gli confessava d'aver letto molti libri prima di comporre La Satira e Parini, rispondeva: «Ch'el guarda che l'han mal informàa». — A Cantù faceva sapere: «Aveva egli otto anni ed era già un asino»; appajandosi a Mommsen che lo tacciò di ciarlatano; — a D'Azeglio, venuto in sulle bocche di tutti coll'Ettore Fieramosca: «L'è un gener de Manzon». Se riconosceva un galantuomo a passare, criticamente osservava: «On bon galantomm el dev semper avegh un fond cattivissim»: se ammirava una bellezza giovane e procace: «Speri che la vegnarà bonna per tutti»; se un acuto profumo di muschio gli pungeva le nari e scorgeva la biscia che lo emanava, una cantante ex-cocotte: «Adess la cerca in de l'arte quel che no po dag pu la natura». Eccitava i giovani a gesta erotiche, citando Orazio ed Ovidio, l'esempio turrito ed inalberato pagano che si conserva nel Museo secreto di Napoli, illustrato dalla prolifica divisa «Sator Mundi», seminatore dell'universo, proponendo loro il caso di una famosa editrice di musica, el granatiere di Slesia. Ma, invitato si schivava dal confessare la sua età, desiderando farsi credere più giovane, mentre, spregiudicato e razionalista, aveva conservato la superstizione del Venerdì e del Tredici.
A Garibaldi inchinò, ed incondizionatamente tutta la sua ammirazione: «Un grande uomo; avrebbe potuto essere un altro Cesare, o un altro Napoleone; ma ghe mancaa la vena del loder». Il che, udendo, un giorno, Cremona affermò: «A ogni frase ch'el dis el ghe mett su la sabbia»: la scolpiva, in fatti, nel marmo e la fondeva in bronzo, se, venutogli presso Carlo Dossi, ne preparava una futura Rovaniana. — Artisti letterati, follajuoli gli si affollavano in torno, racimolandogli giudizii sul momento, briciole di conversazioni e di aneddoti pepati sul libro a pena uscito, sul quadro in voga, sulla comedia e sull'opera datesi la sera prima; egli disperdeva le sue ricchezze ai più solleciti, nè si curava di serbarsele; [79] se ne impinzava il Perelli, el me fioeu, cui dedicava un suo volume: «In segno d'amicizia che non si trova in commercio». — Quindici giorni prima di morire, Giuseppe Rovani lamentava: «Gran brutt segn; go voueja de lavorà!».
Ora, non più: Carlo Dossi e Primo Levi non riconoscono il loro paesaggio: «se ancora tutta una interessante[56] fantasmagoria ti assedia il pensiero, e i dolori e le gioie, le speranze, le delusioni dell'arte e dell'amore, la giovanezza fidente e la stanca maturità, la ricchezza e la miseria, la gloria e la oscurità ci passano dinanzi per dirti che questa è la vita». — Via Vivaio, Via Borghetto, Via Rossini, si sono fabricate, si spiegano sulle ortaglie, i giardini; l'Osteria del Polpetta lasciò piazza libera. La città divora; le ombre dei platani centenari, delli ippocastani, che si confondevano con l'altre dei Bastioni, furono racchiuse e limitate in alti muri. L'industria conquistò le strade erbose e suburbane, le cascine, i prati irrigui; ricoperse di cripte i mille rivoli, un dì, protetti dai pioppi capitozzati e dai salici educati per vincigli, fugando l'arte e la natura, sempre più lontano. Stendhal, oggi, a Milano, non sentirebbe più odorare la Felicità, ma il loppo del carbon fossile: il Milanese è a tutto indifferente che non sia machina, scambio, operai, cambiali. — Irrequieta, disperata, esasperata la Scapigliatura volse al suicidio, o si immise nelle comode strade burocratiche, al soldo del governo; perchè dicono i saggi ed i pratici, — ed io lo credo volentieri — la letteratura conduce a tutto —; quand'anche a me, con licenza, poeta, procacci ogni giorno un odio nuovo, chiegga maggiori sacrificii liberamente esercitati, e mi divorerebbe la borsa e la mente se di quella non fossi, per prudentissima necessità, parsimonioso, di questa inutilmente ricchissimo.
Comunque, di là Crispi, saggiatore arguto d'uomini, pescò i migliori suoi amici ed i suoi più sicuri collaboratori. Scapigliatura, Bohème: «vi troverete dentro delli scrittori, dei [80] diplomatici capaci di rovesciare i progetti della Russia, delli amministratori, dei generali, dei giornalisti, delli artisti. Tutti i generi di capacità vi si rappresentano; è un microcosmo!» Ricordate la definizione di Balzac in Un Prince de la Bohème? Di Balzac, buon ospite milanese, che si ora deliziato dell'aria fresca e del bel verde del giardino di Casa Porcìa «sul Corso[57] di Porta Orientale, dieci case più in là della contessa Bolognini», cui dedicò Une fille d'Eve; mentre a Clara Maffei, destinò La Fausse maîtresse, Les Employés alla Sanseverina, al conte Porcìa, Splendeur et misère des Courtisanes, allo scultore Pettinati, La Vengence?
Là, lo aveva trovato Giovanni Raiberti, nell'estate del 1838, a tener conferenze ed esperimenti di magnetismo, vantandosi egli espertissimo in quella pratica e convinto mesmeriano; e, là, un gobbetto, che il medico milanese gli aveva apprestato a burla, «gobbo[58] davanti e di dietro, e bistorto in modo che al suo confronto il francese Mayeux è un Apollo» il sor Gattino astutissimo, gli scroccò parecchi luigi, fingendo il sonno ipnotico e millantando la soperchieria in una scena comicissima, in cui il dialogo francese-meneghino raccontato dal Raiberti, aggiunge alle risa la satira: Balzac furoreggiava: «Il y a quelque chose de maladroit dans ce sacré bossu!». E l'esperienza non gli riusciva; e il nano ghignava ed intascava.
La rete, immessa con larghezza d'intenzioni, nel mare magnum di Scapigliatura, non riuscì mai leggera; triglie e squali accorsero. Insediati, tranquilli, con sicure promesse, e fattive speranze di sinecure pel domani, i ribelli di ieri ci riguardano, additandoci l'ora del prossimo accondiscendere, piegando alla loro esperienza, che sarà, forse, la nostra; ma noi, oggi, squassando un'altra volta le nostre pregiudiziali [81] sopra ogni argomento, tra le voci del volgo, udiamo anche la loro che:
«.... urla a noi, tra le risate pazze:
«Arte dell'avvenire?!»[59]
Fino a quando? Trapassati Praga e Boito e Camerana, la critica di Cameroni insediata in un momento storico, la scultura del Magni dimenticata con tutti quelli che non hanno potuto dire tutta la loro verità; in funzione, Cremona, il grande, Dossi, Rovani, perchè non hanno avuto paura di essere disconosciuti anche dai loro contemporanei, non si dispersero, quindi non vennero sommersi dalla evoluzione, ma l'ajutarono. Questa continuità rispetta la costanza ed ha ragione sopra tutto che temendo il futuro, dimostra la propria debolezza. Dai cofanetti de' ricordi, leviamo viole essicate e suscitiamo anime di profumi trapassati colle ciarpe e le sete di un tempo. Scioriniamo queste ricchezze al sole. Il sole, oh, come accarezza i cimelii smunti e flosci teneramente, oh, come ci ride in faccia; e, sulla via rumorosa di opere e di passanti, ecco, romba e rulla e stride e scampanella il giallo carrozzone elettrico, meteora, tra la modernità dei palazzi. Non tutto il nuovo è bello; ma non sempre Mefistofele, innamorato del passato, ha ragione di ghignare la sua negazione; sopra queste assisi è il processo estetico di Carlo Dossi; dond'egli è rimasto, senza aver stretto il patto col Dimonio, anzi a suo marcio dispetto, tuttora giovane.
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Allora, riuscito dolorosamente dalla tempesta, per fortuna sua, ferito ma non sconciato, mentre altri coetanei, troppo ammalati del morbo del secolo, si erano lasciati sommergere dai flutti, o vi si erano abbandonati, mal vivi, alla deriva; Carlo Dossi riguarda a torno; ripensa e commemora il suo menegmo Alberto Pisani scomparso; numera ed appostilla quanto si trova vicino, volti d'uomini, aspetti d'animali, presenze di cose, avvicendarsi di gesti e di fenomeni, la cronaca morale del paesaggio cotidiano, la pratica utilitaria condecorata dal titolo di virtù cui la società ne richiede per il comodo della ipocrisia, pel vantaggio dei privilegi, per la facilità di sopportarci a vicenda, in bilancia, sull'odio e la paura reciproca, con urbanità, verso il nostro prossimo.
Sì, egli è salvo; ma tutte le sue illusioni erano naufragate, asfissiandosi nell'acque salse e putride, miste di lagrime, di sangue, nel pantano termale e solfureo della comunione umana, chiamata società. Alla prima tappa, lasciata a pena la mano preveggente e consolatrice della madre e la protezione della malinconia, che lo fa schivo e selvaggio, s'imbatte nell'Amore, e in un altro amore che non fu mai quello per cui Alberto si era sacrificato. Egli lo aveva già chiesto come una necessità di estetica: «Non vi ha poeta senza amore»; e, se non aveva composto versi, aveva pianto delle elegie in prosa. L'amore dozzinale l'avevano cantato tutti, dai petrarchisti ai manzoniani; e tutti avevano dimenticato di dipingerlo doppio, Eros ed Anteros, a mo' de' Greci, ed a loro non erano giunte, per la strada lunghissima del tempo, le parole sane e naturali di Dafni e Cloe, perchè intiero potessero rievocarlo. Angiolo di crudeltà, le [83] ali rosse, e non bendato ma reggente, crudele, esasperato, le freccie incoccate alla corda dell'arco, divinità aggressiva e deliberata, di lui, Carlo Dossi, rinnova il vero ritratto, senza pudori. Chi per eccesso di idealismo, si applicò a descrivere non l'Amore ma questo attuale amore, come un padre riformatore di costumi per la sincerità, può come Rops formar col disegno le lussurie, non il piacere, per flagellare il Bastardo nato dal Satiro e dalla Ipocrisia, nuda pandemia, le natiche ricoperte a scherno da una maschera di velluto nero.
Ed eccone i fiori di bragia e di cenere; i fiori che sono in mostra sopra di un cestello di vimini intrecciati e politi e coprono un groviglio verminoso ed avvelenato di ceraste e di aspidi africani: ecco, le bende intessute di seta e d'oro, che fasciano lo piaghe purulente; i veli candidi, che vestono una sposa non più intatta. Le venerabili, sacrosante e formidabili apparenze non lo arrestano col loro parere, che sembra, a tutti una realtà; egli immette le mani deliberate nella millantata lussuosità dell'apparato di grazia, di ricchezza, di verginità. Il dolore gli ha fatto svellere le zone proteggenti e menzognere, considerare l'abito e l'apparecchio come la più grande menzogna; anzi, le foglie provvidenziali di fico, posticcie sopra le così dette vergogne delle statue, reputò ingombrante ruffianesimo, perchè alla santità della natura si innestano come un riparo, che meglio richiama a supporre la perversità della cerebrazione, donde il Vizio.
La delicatezza squisitissima, feminea, quasi permalosa della estetica di Carlo Dossi non era disposta a resistere in armonia colla grossolana bestialità di quelle soddisfazioni; non ne sopporta l'atmosfera lutolenta e soffocante; come Baudelaire, al quale per un lato assomiglia, l'autore di Desinenza in A ha bisogno di convalidarsi nella amara ironia della necessità. L'altro aveva pur composto Les Fleurs du Mal, che la sciocchezza comune del secondo impero pretese pornografia, [84] mentre lasciò sfoggiare, per Compiègne, le caccie imperiali alle nude dame di Francia, alla Montijo facili adulterii ed il figurino delle mode accreditate presso una Cora Pearl e Nana. Identica fortuna: il ribrezzo ed il disgusto, in Italia ed in Francia, presero il nome di turpitudine letteraria; così, per Carducci, perchè tornò a chiamare «barba la barba e non l'onor del mento»; così per chi disse: «J'appelle chat un chat!»; così, nella pudibonda e presbiterana Inghilterra, contro Swinburne, che veniva dannato come l'introduttore, nella moralissima isola di Regina Vittoria, della scuola spumante della carnalità.
Carlo Dossi, innamorato delle pure e naturali grazie d'amore, trovò la femina; — innamorato della gloria, cui sente aver diritto, s'imbatte nella indifferenza, quando non sia l'astio; — innamorato della vita sana e gagliarda, ha con sè la malattia, coi tormenti della carne, coi dubi angosciosi della mente, colla rivolta dello spirito superiore e vittorioso della fralezza del corpo: — innamorato della bellezza d'arte incontra i truffatori delle arti ben rimunerati e vantati dalla terza Italia ufficiale, mentre li artisti geniali stentano il frusto di pane giornaliero e sono derisi; — innamorato di tutto l'ideale bellissimo e dominatore, lo vede, così, in mente; lo sente schiavo, nel mondo. — È egli veramente ammalato e debole? «egli, la cui[60] vita intellettuale è uno sforzo, e la materiate uno stento!» Non può? Che gli dice lo specchio, l'arte sua? Riproponiti in una serie di imagini; popola il mondo di te stesso; giudica da queste tue imagini: Hegel gli aveva passato la definizione: «L'humorismo è attitudine speciale dell'intelletto e del carattere, per cui l'artista pone sè stesso al posto delle cose». Sostituire il fatto reale, col fatto vero, sino a quando? ridere riconfortarsi nella propria onestà; dileggiare altrui, manifestarsi lieto, non concedere al mondo la trista gioja d'esporgli [85] le proprie sofferenze, che appunto il mondo gl'impone? Certo, quel modo di vivere, secondo le leggi artefatte sulla natura, secondo l'abnorme golosità dei sensi e dei sessi, che trovan pretesto di farsi chiamare piaceri onesti e civili, secondo le prove quotidiane dell'egoismo, che passano per utili e progressivi aumenti sociali, non lo compiace, se ne scansa, lo rifiuta, si mette in grado di non subirne i contatti; e, — quando lo attenta, — lo rimuta, lo foggia come vuole. Desidera che, intorno a lui, lo scenario sia completo, lo incornici bene; doni al suo volto ed al porgere della sua persona: non altrimenti l'anima estremo-orientale dei Nipponici, prima che la civiltà europea l'avesse violentata colle necessità commerciali, politiche ed imperialiste dello «struggle for life», si comportava nell'arte di fabricarsi i proprî oggetti ed i proprî paesaggi, intonandoli al loro stato morale.
Questo è difendersi; questo è opporre violenza a violenza, volontà testarda a volontà incosciente; quali armi, il ridicolo, la satira, la falsa commiserazione, l'elogio a doppio taglio, come una bipenne, l'incenso affatturato da suffumigi d'ospedale, il ghigno, che sembra sorriso, la risata del disprezzo irrefrenato e convulsa, come una bestemia!
L'arte personalissima di Carlo Dossi ha assunto per carattere specifico, l'humour: l'istrumentista, che intonò, in sordina, l'orchestra delli archi e dei legni, che amò i passaggi bemolizzati, pastosi e caldi di velluto e di ciniglia, la patetica lenta e sognatrice, rialza la gamma alli acuti, assume il crescendo rossiniano, il fragore wagneriano. Dalla psicologia garbata, a tenerezze degradanti e tenue a sfumature iridate, a compatimenti misericordiosi, di Goccie d'inchiostro — che sono meno nere di quanto non appajano a prima vista — alli schizzi, tra la caricatura ed il grottesco, — così li usò il Callot, il Goya, il Sattler, dai quali la vita si sforma in una gajezza macabra — dai segni impressionisti di matita — Odilon Redon li prescelse per le pagine martoriate delle sue acqueforti — dal bozzetto chiazzato di ombre e luci, tra il [86] giallo ed il violaceo — così procede il Conconi; — erano riuscite le figure di Madama Ciriminaghi e della sua amica, le macchiette avvisatrici della signora Isar e del suo degno figliuolo, il professore Proverbi, quella povera vittima del maestro Ghioldi, i musini bianchi e rosei, come mele appiole de' condiscepoli di L'Altrieri. Ma altra torna ad essere qui l'appostazione; qui, doveva rovesciarsi, tumido e violento, nell'esercizio incondizionato delle sue facoltà intellettuali, il suo modo; fortuna a pochissimi accordata. L'iniziale romanticismo si travolge, in una specie di rammarico, di rancore, contro la vita che deve sofrire e questa accusa di non essere stata per lui perfettissima; se ne ribella: scatta l'humour. — Poco dopo, può dire di sè stesso: «Vi è un Dossi buono ed un Dossi cattivo; donde due opere: il romanzo della bontà il romanzo della malvagità». Poteva dire invece: «Vi è un Dossi che vede le cose buone ed un Dossi che avverte e addolora per quelle cattive. Verso le prime, accorre, si compiace, concorda, continua l'armonia; colle seconde si irrita, discorda, interrompe i rapporti. Con quelle, la placida comunione si distende in bellezza, sorride, determina il piacere; per queste spasima, combatte, deforma e l'humorismo ghigna stridulo e beffardo, altro sforzo e migliore, per i caratteri idealisti, con cui tentano di ristabilire l'equilibrio. — Corre, in fatti, ai ripari, si prova a colmare le soluzioni di continuità apertesi nell'ordine e nel ritmo. Le lagrime ne approfondirebbero le ferite sanguinose; il sorriso accoglie una benda leggiera e profumata di balsami sopra le labra aperte e gementi di quella carne intagliata, che piange. Ed, intanto, l'operatore vedesi in uno specchio colle sue smorfie comicamente dolorose; sogghigna e singhiozza, perchè l'interruzione del riposo, della compostezza della fresca attitudine serena è caratteristicamente brutta, esteticamente suggestiva. Egli, che tenta guarire ed evadere dalla malattia non può: l'humorismo, in eccesso, dà dei risultati identici all'eccesso di amare: odia. — Carlo Dossi, che odia il deforme, lo pratica per ragion d'arte e per [87] suggerirvi l'opposto: donde i suoi Saggi di critica nuova, — I Mattoidi al primo concorso pel monumento in Roma a Re Vittorio Emanuele.
L'accomanda al patrocinio dell'amico illustre Cesare Lombroso; gli domanda perchè, «nessuno dei critici[61] nostri si occupò del contingente enorme, che il cretinismo e la pazzia hanno dato al primo concorso pel monumento al defunto Sovrano». Se ne imbizzarrisce. «Per quanto non appresi[62] mai scienze mediche, nemmeno insegnai in alcuna Università, nè, a disposizione de' miei sperimenti psichici, tengo alcun manicomio, salvo quello de' libri; — nel silenzio de' dotti è permesso, presumo, ad un ignorante di avventurar la sua voce, il suo «aqua alle corde». Questo strazio della plastica, del disegno, della architettura, questa ingiuria al buon senso, questi «poveri bozzetti[63] fuggiti od avviati al manicomio, dinanzi ai quali, chi prende la vita sul tragico, passa facendo atti di sdegno a chi la prende, come si deve, a giuoco»; questo oltraggio alle buone lettere, che accompagna la prova della demenza artistica colla grafomania delle leggende che la vogliono spiegare, non rappresentano il fior fiore dell'ingegno europeo, balzato fuori alla grida di un concorso per onorare colui che chiamano il Padre della Patria? Italia dà questa ricolta d'arte; essa, la madre autentica e pura delle Arti e delle Grazie? Questa è la espressione più genuina e maggiore della sua potenza creatrice, nel terzo suo risorgimento; con questi aborti, con queste pseudologie, con questi deliri in gesso, con questi incubi segnati a carboncino, a matita, all'acquarello, con tutti i mezzi grafici a disposizione delle due mani, o zampe, dell'uomo? Quale indice di coltura e di buon gusto! «Senonchè, l'imperizia della mano, quando è accoppiata alle incongruenze della mente, o ad altri disordini cerebrali, concorre ad accentuare le caratteristiche della pazzia». Carlo Dossi le raccoglie, [88] le enumera, le distende in rassegna, ne riproduce le parole, i disegni, li atteggiamenti, le ripropone chiare alla scienza: «Voi, insigne Lombroso[64], qual tema più eternamente attuale della follia?» Prorompe in uno scoppio di risa echeggianti: erasmiane.
Nè si accheta; la sua indagine continua serrata; avviluppa in una rete di riprove capziose, tira il cappio al nodo scorsojo della domanda suggestiva. Ne risulta Ona famiglia de Cilapponi; dove, la catastrofe di una stirpe di nobili lombardi è ridicola, tra l'ignoranza e la cattiveria; e vi regnano: la Marchesa Matriggiani-Andegari, di ottant'anni, cialla, superba e tegnonna, marchesa Travasa in diminuzione, collo sfarzo fesso e slabrato della decadenza; suoi figliuoli, el Cavalier Telesfor, maggior general, ciall resios e doppi — Don Eleuteri, deputaa, cial, baloss e che voeur parì foin — el Marches Calocer, ciall, bon e sempi; — e la nidiata implume e piumata dei nipoti vanitosi, bugiardi, sciocchini, falsi e poltroni.
Si svolgono I Bigottoni; dove la satira non è per la religione, ma se la dividono coloro, che, suoi ministri e pinzocchere e praticanti e nonzoletti ortodossi esemplari, vanno giornalmente denigrando, colle loro azioni, ogni e qualunque fede, avvilendone i nomi sacri sulle labra, nomi di scongiuro formidabile, coi quali il sentimento e la passionalità s'ajutano a vivere alla meno peggio. Perchè, se il Dossi ammira ed invidia, alcune volte, il sincero fervore ascetico e mistico di razza — vi prego di non confondere misticismo, che è una sintesi razionalista, con ascetismo, che è una iperestesia di sensualità religiosa; — e può entusiasmare per i fervori e la poesia del delirio di Santa Teresa e di Santa Caterina; odia e dirige l'accusa contro i bigotti — Tartufe, le laïque d'Eglise — che ripullulano assolutisti nelle loro convinzioni più del prete, che cedono e si ripiegano sopra tutti i punti, nella vita, nelle opere, nei bisogni fuorchè sul dogma di cui si sostituiscono [89] gianizzeri e pretoriani. Egli scoperse che Tartufe non è l'ipocrita, ma è lui, categoria: scorse, sotto la sua maschera, preannunciando, un Longinotti legislatore, un Meda rappresentante di seminarii, un Cameroni deputato di varazzini salesiani: questi, i Tartufe sinceri; questi, i bigotti reali e maggiori nella comedia sociale; i Tartufe delle banche agricole, delle deputazioni provinciali bergamasche, dei cinematografi istruttivi e comodamente oscuri al palpeggiare; i politici amanti del Giolitti. Anche il Tartufe gentiluomo e gentildonna; Tartufe di cui l'innata fierezza, o l'atavica spilorceria, si trattengono compunte in sulla buja prescienza di un peccato, in sul timore del castigo; si che cattolici e nobili, o grassi borghesi nobilitati, il che fa lo stesso, stanno in una umiltà che non impedisce l'esercizio de' loro privilegi, per quanto recitino l'Officio pro defunctis e l'altro alla Vergine, rimanendo calmi, tirchi, in albagia, ultimi venuti raillés ai Savoja nel trapasso della monarchia verso il socialismo, — ultima tirannia — per poter ricondurre a Roma li Scioani del Brembo ad instaurarvi, compiacente Enrico Ferri, il Papa-Re, s'egli darà un bajocco di più all'ora alli operai evoluti ed organizzati da' parroci democristi e dalle Camere del Lavoro, dimentiche d'ogni patriottica italianità.
Quindi, troveremo ne' suoi inediti Il libro delle bizzarrie. dove sarà condensato il triplo estratto e la quinta essenza dell'arguzia e del pensiero dossiano, riposta nel barattolo color di cielo sudicio, dall'epigrafe «Filosofia». Preziosissima conserva di esperienza, su cui il paradosso regna sovrano: il male ed il bene vi si innestano a vicenda; si fecondano, aprono la cataratta al vaso di Pandora; partoriscono le cose, li uomini e li avvenimenti; si determinano, dalle categorie, i gradini e nulla appare dannoso «nè dannosa la malattia[65] nè la Farmacia e nemmeno la malattia, che fa pregiata la sanità». Leggendo, voi sapete, che, come Erasmo lodò La Follia, egli inneggerà al Colera; che, come von Grabbe, goticamente, rimise [90] in discussione il Demonio con Dio, egli li riporrà di fronte; che, come Hoxmann fu il demiurgo di pupattole mecaniche ed originalissime, e Gustavo Kahn rivide il Puppen-Fée, a delizia dei bambini grandi; egli, memore di Condorcet, per il ridicolo delli uomini politici, scriverà una petizione al Parlamento Nazionale, di un mecanico, colla quale propone a re costituzionale un suo fantoccio contrafatto, a viti d'orologio ed a vita d'automa, che, ricaricato nelle solenne adunanze, faccia, con maggior compitezza, l'ufficio di quest'altro di carne e vivente.
La piacevolezza stampata lo fece richiamare da un procurator generale, che videsi comparir davanti un alto funzionario decoratissimo della Consulta; donde la meraviglia. Che, se Alberto Pisani ha dovuto servire alla Nazione, passando sotto i lavorini monarchici della uniforme diplomatica, ha pur sempre permesso a Carlo Dossi il piacere della ribellione, quando risponde alla costituzionalità in questo modo:[66] «Il re costituzionale può essere paragonato ad una meretrice, che è, per così dire, proprietà di chi lo paga, ossia del ministro al potere. — Cambia il ministro, ed egli cambia di gusti, di idee, di desideri, fossero pure contrari al programma precedente. Liberale-clericale-socialista, volta a volta, anarchico, se occorra, il re costituzionale è sempre passivo, vigliacco sempre» Ma se questi sceglie, dimostra la sua mentalità: ed allora: «Ogni[67] sovrano scelse sempre presso di sè consiglieri condegni del suo cuore e del suo ingegno. Trajano ebbe Plinio e Nerone Sejano: Napoleone I, una plejade di illustri: Vittorio Emanuele II, Cavour: Vittorio Emanuele III, Giolitti ed altri ejusdem farinae;» sì che data la terribile necessità di uno Stato, di un Governo, dentro cui la libertà di ciascuno è dimezzata, egli sceglie il meglio amministrato. «Io griderò[68] sempre con Napoleone: viva l'Impero! col Senato di Roma: viva la Repubblica!».
Sfoggia, così, una mirabile galleria di contemporanei, verso [91] cui intende la nostra malignità divertita, la malignità sana dell'uomo moralmente costituito, perchè rispetta i termini. Vi ammireremo: La Desinenza in A, che illustra il feminismo eterno, Ritratti umani, che riproducono volti di malati, di medici, di seccatori, d'impertinenti e di canaglie... oneste. «Il colore imperante di questi ritratti è la privazione d'ogni colore, cioè il nero — un gran malumore, contro gli individui di quella razza, alla quale, pur io ho il disonore di appartenere. Del che mi si fa grave carico. I signori uomini e, specialmente, le signore donne, si sarebbero oggi, a quanto contano i turiferari del loro amor proprio, così insaponati, da non serbare più traccia del preistorico cannibalismo e vivrebbero in una idilliaca comunanza pecorelle di candido zucchero, con roseo nastro, sui prati di felpa verde... Sarà benissimo, nel contesto; ma, intanto, la storia, anche contemporanea dell'umanità, è tutto un cibreo di delitti impastato col sangue e tale rimane, benchè l'assassinio sia chiamato eufonicamente valor militare, conquista il furto, colpo di stato il tradimento, esperienza parlamentare la truffa politica[69]». — Uditelo a ghignare: gorgogli e scoppi repressi di risa ben modulate sopra le dieresi ottative della sobbillazione estetica: «Oh, queste, no, non sono delle canaglie autenticate dal codice penale — il quale, del resto, ha rotto molte maglie alla sua rete, donde riescono i più malvagi-ben-vestiti —: oh, questi sono solamente que' malvagi-ben-vestiti, di cui sopra, nella libera circolazione della società, nel libero flusso e riflusso delle passioni». Tutti i giorni ne ha incontrato una dozzina; mentre discorrevano, ne schizzò il profilo intenzionale e saporito, caricatura ingrossata a punta secca di Holbein, acquarello disinvolto e libero di Hogarth.
Inoltre, la sua erudizione, che aveva riburattato il grano, il loglio e la segale cornuta del torbido e pregno secentismo, [92] aveva scoverto, ne' più secreti ripostigli, ne' più salaci cantucci, l'armamentario delle fattuccherie, delle superstizioni, delli scongiuri, de' recipe farmaceutici, di tutta la congerie ridicola, spaventosa, revulsiva delle pratiche e delle opinioni per cui un Mora illustrò di sè stesso La Colonna infame milanese in sulla Piazza della Vetra. Suggerimento manzoniano, diretta osservazione, a Carlo Dossi, avevano persuaso un indagine curiosa ed insistente sulla psiche delle sue macchiette plebee e meneghine, che stanno a fondo mobile delli altri suoi eroi di mista razza. In quelle, scorse corrispondenze ataviche, ritorni di gesti, di credenze, involuzioni di costume, che gli indicavano l'origine spagnolesca inveterata ed incrostata sopra il carattere del popolino; focolari mal spenti di sporadici ed interruttivi contagi presti a fecondare leggende di fantasime, di rumori, a condecorar case, appartamenti, camere, con una fiaba d'intricate avventure tra l'amore, la crudeltà, e di morti che ritornano e si fanno sentire. Quanti elementi per il grottesco, quanti motivi alle risa ed alla commiserazione in tali sciocchezze, cui la plebe si fabrica e dalle quali è suggestionata! Carlo Dossi le saggia colla scienza mirabile della ignoranza fastosa e torbida del seicento: a lui appariva el sur Dianzen benedett del Porta; beffando, in un mistero bigio, appostilla significazioni strane alle cose: ecco, un letto monumentale, per calcare il quale la paura bisogna che gli guardi sotto: ecco, le grinte delle imagini inquadrate, che dicono qualche cosa di più che non voglia il grossolano profilo della stampa: ecco, il canto lento e rituale della bàlia che sembra profetizzare in una oscurità, tra il magico ed il contadinesco: ecco, quell'incoscienza astrusa ed astratta per cui domandano oggetti enormi e foggiano maravigliose filosofie i suoi bambini; ne' capricci de' quali, nelli strilli e nel pretendere de' mimmi s'agita un quid di diavolesco, di involontariamente perverso, di subcosciente, che suggerisce una serie di acute riflessioni, per cui si risale all'origine animale dell'uomo, camuffata nella predestinazione fattucchiera. E le [93] prime pagine dell'Altrieri si svolgono tra la leggenda, le paure reali ed imaginarie; e La Casetta di Gigio è costruita dalla pura fantasia che connette un grande sistema filosofico vissuto; e de' periodi dettagliano le ambiguità senza grazia, le malodorose ovatte sudicie, i gesti lubrici, li attorcimenti tentaculari di molti uffici comuni e schivati, di alcune funzioni di spazzini sociali e comunali; il necroforo, la mammana, la poveretta de la giesa, el giovin de macellar, el perrucchée, il cenciajuolo, la minuta straccioneria urbana. — Sì; egli ama il secentismo, le sue parole biscornute e ravvoltolate, i suoi pensieri doppi e confusi, dentro cui si pescano le doppie e antieretiche verità della vita, ama quella sua scienza polverosa e strana, fatta di metafisica e di speculazione, la sua fisica che è ancora un'alchimia, il suo viaggiare che è sempre una scoperta. Ama lo stipite dell'Humorismo nostro secentesco. Giordano «per quelle sue pagine così genialmente mal scritte, nelle quali chiama la divinità: anima dell'anima». Sente codesto Bruno ben diverso dalla comune de' suoi contemporanei anticlericali; l'avverte come un autore ineffabilmente barocco, irto di angoli ed involuto di cornici, gonfio di panneggi, profondo ed ingannatore: Bruno, che ha ridotto ad idee ed a pensieri le sue emozioni, le sue impressionabilità squisite, la sua vertigine di novità e di indagini eccezionali; Bruno, che è stipite di un complesso e nascente romanticismo ghibellino, il meno costituito per servire di spunto moderno alla democrazia ed all'ateismo militante.
Accorre Carlo Dossi verso codeste grandi qualità mistiche ed al fascino torbido ed ambiguo del suo stile; il nome del valoroso ricorrerà spesso sotto la penna di lui. Un'altra affine genialità discorre quell'opera essenzialmente critica e religiosa, che, prima d'ogni altra, ha saputo svincolare il senso di fede, la sensazione di confidenza, dalle forme canoniche, dai dogmi freddi, terribili, sterili, personalizzandoli nella coscienza dell'Unico a mo' di uno Stirner religioso. Dal Candelajo, dallo Spaccio della Bestia trionfante, dalli altri [94] scritti bruniani, dispillano quell'humorismo che l'autore di Ritratti umani ripropone, i motivi che svolge di nuovo, compiacendosi quasi, in uno stesso stile scomposto, personale, saporitissimo.
Che s'egli va ricercandosi e foggiandosi bizzarre imprese, e l'una descrive: una palla di gomma in rimbalzo dal suolo alla palma della mano tesa ed aperta che ne corregge e ne rinnova l'elasticità, parlando: «Repulsa adsurgo» — e l'altra: un razzo d'oro in un cielo di notte: «Brevis sed splendens»; accoglie, definitivamente, la terza da Giordano Bruno: «In tristia hilaritas, in hilaritate tristis». — «Perchè[70] gli umoristi, in generale, dicono cose fuori della comune sentenza, ma in modo da colpire la intelligenza con un lampo di persuasione, che, spesso, si perpetua in duraturo chiarore: cioè, dicono cose savie vestite di pazzia e pazzie vestite di saviezza: però che ad un discorso fatto di ragione chiunque può opporre: ad uno di cuore nessuno». Infatti, riflettendo sopra sè stesso, si determina a paragone: «Satiricamente, Manzoni corrisponde ad Orazio, Rovani a Giovenale, Dossi ad Ovidio;» — ma definisce: «Il riso[71] di Manzoni era ironia, quello di Rovani sarcasmo; il manzoniano umorismo spira la pace, il rovaniano battaglia»; questo di Carlo Dossi è un singulto che sorride, un desiderio che lacrima, una gioja sciupata, una rosa, che, ancora sullo stelo e non completamente fiorita, vien maculata nel cuore da un verme roditore; è pure una corazza d'acciajo brunita ed oscura, una conchiglia funerea ed infendibile di bronzo, dentro cui la polpa dei nervi e del cervello delicatissimo si rifugiò; donde, dalla difesa combatte e vince. L'humorismo è sempre un'amara vendetta vittoriosa: «e la satira»[72] torna a dirsi «che è la forma letteraria della malvagità, gli è necessaria espulsione per conservargli [95] la morale salute», quando gli basti e non soggiunga: «Nella[73] satira si trova, è vero, una delle fonti dell'umorismo, ma l'umorismo non è tutta satira: essa trae anche la sua origine da quella parte di letteratura semisconosciuta dagli antichi, benché corrispondesse ad un affetto che naturalmente dovevano anch'essi sentire, il pathos:» — per cui, se «il comico[74] è riso, — l'umorismo è sorriso».
È ancora «la malinconia di un'anima superiore che giunge a divertirsi di ciò che lo rattrista», spiega Gian Paolo Richter: «è la perfezione del genio poetico», insiste Carlyle: «chi ne manca, sian pur grandi le sue doti, è un ingegno incompiuto; avrà occhi per vedere all'in su, ma non per vedere intorno a sè e sotto». — Addison desidera darcene la palingenesi, facendolo discendere dal Vero, dal Buonsenso, da cui nacque lo Spirito, che sposò una collaterale di nome Allegria. Fruttarono le nozze l'Humour, il più giovane della illustre famiglia, erede di esseri, di caratteri e di abitudini diverse e multiformi; perciò, era procede «leggiero spigliato, con abito bizzarro e fantastico, ora in veste nera, o togato come un medico od un giudice, ora in giornea pezzata ed a sonagliuzzi d'argento, tintinnabulante come l'Arlecchino, pirotecnica umana di lazzi, risa, sgambetti, scatologie.
Dal novissimo testamento della moderna ironia, Taine estrae l'epigrafe imperfetta: «L'Humour è un quid di acre, di amaro, di oscuro, che nasce nei freddi cieli settentrionali». Scherier lo vuole, secondo Leibnitz buon tedesco ripieno di salsiccie, di birra, «wrüst mit salkraut», la gaiezza dell'uomo allegro ed ottimista: — Stapler lo arma cavaliere della trista figura, bel-tenebroso, ritornato da tutte le gioje del mondo e da tutti i dolori, un idealista dissoluto — Lo encomia Teofilo Gautier in sulla contradizione delle stravaganze; e Luigi Pirandello nostro definisce: «Un vero umorista dovrebbe dirsi solamente chi ha il sentimento del contrario, [96] chi ha cioè una filosofica tolleranza spinta fino a tal segno da non saper più da che parte tenere; donde la pietà del contrasto»; sì che Spencer può dire: «Io rido, se nel massimo della mia attività, mi trovo nel vuoto; rido, se aspettandomi moltissimo, ad un tratto, non stringo nel mio pugno che il magnifico nulla». Carlo Dossi dunque ride, fa ridere, sorride e fa pensare, appassionato, se, al saggio del suo pensiero, se davanti al suo sogno entusiasta di bellezza, d'amore, di onestà, ritrova il magnifico nulla della vita moderna, nuda di tutti questi attributi, ricchissimamente vestita di tutte le altre virtù negative delle menzogne; e non usa la satira, la caricatura, la farsa, l'epigramma, ma una vera e propria sua arte di caratteristiche speciali, che si giova di satira, di caricatura, di farsa e di epigramma rifusi in una unità propria per una sequenza sentimentale, genuina e triste e lieta e rissosa e pacifica ad un tempo: arte, che ogni qual volta ci si presenta con opere degne di lei, anche vecchia par nuova, mentre ogni qualunque metodo scientifico, per quanto freschissimo, ci puzza sempre di cadavere quatriduano. Perciò Carlo Dossi non vi definirà l'humorismo, ma praticandolo, ne darà a noi la sensazione e quasi il gusto dolce-amaro di morso e di bacio, incidendo sopra il suo libro più doloroso: «Un'oncia meno di sangue, un libro di più».
Comunque, è dote squisitissima, rara e permalosa, che sfugge la nostra diretta conoscenza; noi la avvisiamo, la sentiamo, non possiamo dettagliarla e catalogarla secondo una norma scientifica: in casa nostra si acclimatizza a stento e nelle più alte figure letterarie. Ama climi poveri, inospiti, aspri, desidera l'inclemenza; è un'altra forma sotto cui si manifestano i dolori innominati; in cui questi stessi tentano di riflettersi, per fotografarvisi, perchè projettati, in fine, ne sappiano la propria fisionomia. Viene dal Nord, viene dal romanticismo; precede ed accenna le ore critiche di patema sociale, di trasformazione psichica. Il serpente della Bibbia, — e Luca di Leida lo raffigura colle zampe di gatto ed unghiato, [97] il volto antropoide, orecchiuto, il resto del corpo peloso, ravvolgendo, a spira, l'albero fatale — determina, grottescamente, l'incoscienza animale che sta per dar luogo alla coscienza umana.
Socrate, che ironeggia nei Memorabili di Senofonte, presente la voce di Thamos pilota egizio, che ridirà, a tutto il mondo pagano, la menzogna: «Il gran Pan è morto!» Se Petronio, tutto riso e cachinno, fa portare a Trimalchio la larvetta d'argento nel triclinio, gliela fa giuocare, disarticolata, nelle mani, e sul marmo della tavola del banchetto, per cui lo scheletro assume ogni più ridicola posatura, mentre canta: «Ahi, ahi, noi miseri, che omiciattolo vile è mai l'uomo!» insegna che la potenza romana sta per annullarsi nella istoria ventura. Luciano, il classico dell'humorismo produce Peregrino, L'Elogio alla Mosca, il Pirgopolinice, la Descrizione di Jerapoli, le inversioni già cristiane sopra le sciocchezze pagane: attesta che si avvicendano i concilii di Nicea e di Alessandria, che lo stato rimuta religione, che li Arabi stanno per conquistare l'Asia-Minore, che il Medio-evo è alle porte; in bilancia, sulla croce, è la mezzaluna.
Il Medio evo, epoca di crisi ininterrotte, si svolge dal grottesco necessariamente spettacoloso, munificente: la Messa nera, il Sabbato, il dì di San Giovanni, i Misteri, declamati e cantati nelle absidi abbaziali, i tornei, i buffoni, la Fiammetta ariostesca, i nani, la Feudalità. Intanto, all'ombra delle torri gotiche, sui campanili trinari e chiamanti al fuoco, alle tempeste, alla nascita ed alla morte, Quasimodo, campanaro del cielo e dell'inferno si arrampica; Gilles de Rais, il Barba-Bleu del folk-lore indo-europeo, sfoggia la sinfonia satanica e lussuriosa: da Victor Hugo all'Huysmans, la fabrica dei nostri divinatori è meravigliosa: da Nôtre-Dame a Là-Bas. — Impero indiscusso del dualismo, Dio e il Diavolo reggono l'umanità, sulla formola manichea, poichè il cattolicesimo in quell'epoca, fu sicuramente settatore di Manete e ne ha conservato, nel grembo romano, il lievito. Ne riuscì una filosofia [98] volgare per tutti, contadini, monaci, artisti e principi, percossi e doloranti dalla apparente confusione contradittoria del bene e del male, senza saperne le sottili rispondenze; da questa formola inimica la scienza e la fede mistica di Spinoza non avevano ancora estratta l'intima comunione del monismo, che è la maggior vittoria dello spirito moderno illuminato contro le categorie senza rispondenza d'Aristotele. Donde, l'antitesi estetica del grottesco; poichè il senso del bello, tranne nelle precoci figurazioni italiane, in Europa, era capovolto nel concetto medio-evale.
Dissonanze importano lo squilibrio; un'altra volta interviene la callida iunctura; la imprestano dalla formola di Orazio, là dove parla della Sirena; la pupilla stessa della umanità e la sua fantasia eccitata vedono i mostri, che l'uomo romano, nella stasi felice delle sue attribuzioni, aveva relegati nel Hades. Ed il Medio-evo, per distendere i propri nervi, esagitati sino alla pazzia demonologica, stiracchiati tra l'inferno ed il paradiso, doveva cambiar tono ed epoca, chiamarsi Rinascimento; e, dopo aver ritrovati l'Iddii immortali, ricantarli sotto il cido rappacificato ed azzurro.
Nelle patrie del Nord, Chauser, Rabelais, che immerge nelle Eaux de Jouvence Pantagruel, prototipo del Père Ubu e di Roi Bembance; — Shakespeare, che sotto li acanti di Grecia, fa passeggiare Bottom e Flute, borghesi d'Inghilterra, comedianti improvvisati, e, tra te Fate classiche, Fior di Cece, Tela di Ragno, Granellin di Mostarda, e Titania regalar una testa d'asino a Bottom, ed Oberon fa sedere e comandare sul trono d'Eolo; — Villon, ladro e letterato, esprimono la loro fioritura classicheggiante ed humorista.
Un'altra crisi. Un'altra ancora, quando Bergerac si farà condurre alla luna sopra uno stelo di rapa gigante; Le Sage inventerà Asmodeo, diavolo sciancato; Wieland rinnoverà un Aristippo; Goethe risusciterà un'altra e più bionda Elena; Cazotte un Diavolo innamorato in Ispagna; Hoffmann popolerà di ombre le camere, darà vita alle bambole, farà parlare [99] un gatto, Schnürr; — farà sapere ai Tedeschi che Napoleone ha vinto a Jena, fu vinto a Leipsick. — Massimo, Don Quixote, conserverà, sotto la magra e trista figura d'hidalgo spiantato, il cuore di Amadigi di Gaula; avrà per scudiere Sancio Pancia, cavalcator di un asino al suo fianco; assalterà mulini e greggie; distruggerà, di passata, la Cavalleria, per sempre. La sua persona bizzarra segna la fine della grandezza spagnuola; dentro la sua armatura, il monco di Lepanto, Don Miguel Cervantes de Saavedra, enumererà le ore di vita dell'istituto feudale; incomincierà la rivoluzione, che incoronerà la ghigliottina del '93, prevedendo e predicando la nuova istoria.
Il giorno in cui Swift, cappellano di lord Berkeley, torna dal Racconto di una botte, dove se la prende col Papa, Lutero e Calvino, canaglie e bestie ecclesiastiche ed eretiche, per mettersi a viaggiare, sotto l'abito di Gulliver, il paese di Laputa, la sua misantropia satirica, che non risparmia Walpole e il Re, morti e coetanei, indica che l'Inghilterra trabocca sopra i suoi confini d'isola europea, si distende e sta per fondare più grande patria, oltre li oceani, cui riempie delle sue armate, che assorgono il commercio e sostituiscono, al Pariato avventuroso, la Gentry sedentaria delle banche. Ma quando Sterne, col sorriso pallido e doloroso, con accento purgato di arguta proprietà di lingua e di una sottile percezione d'innominate sfumature sentimentali, riavvolto in una urbanità fredda, dignitosa, presbiterana ed ecclesiastica viene tradotto da Foscolo; Napoleone sfolgora in tutta la sua insolenza col blocco continentale contro le colonie dell'India, donde essa soffoca di pletora e necessariamente strema la madre-patria; l'autocrata ostenta la sua potenza in Italia, la suddivide, le impone principati di sua famiglia, ma non sa raffrenare e teme la libera voce del poeta immortale.
Se appare Carlo Dossi, ammonisce che la Terza Italia incomincia; «calano[75] i numerai, nelle cui vene scorre sangue [100] darwiniano di scimmia; men persone che cifre e, delle cifre, zeri». Ingannano la patria colle loro non controllabili celebrità; e si dicono scienziati, insegnano non la scienza, ma l'isterismo scientifico: son tedeschi ed imitano la Germania, che ha, fin qui, mancato di Archimede, di Galilei e di Gorini; vogliono strappare le piante nostrane per allevare le esotiche, dar la stricnina ai nostri figliuoli per, farci adottare i loro. «Unni nuovi! fuori», egli grida; l'impeto suo uguaglia a quello di Carlyle e di Stendhal contro i bottegai, i manifatturieri, i contabili: «O Muse, o, Amori[76] restate!». Ma tutta la grettezza delle fabriche e delle industrie ci assale, il listino di borsa numera, col rialzo ed il ribasso, il palpito dell'innamorato, la tariffa all'amore: ed egli, che di tutto questo sofre, ne rappresenta l'avvento, che rifonde ed incomincia pure riconoscendone la necessità. Ha riconosciuto, nell'ora psicologica in cui l'Italia si rivolgeva alli istituti politici e costituzionali ed al machinismo del nord, quale parte la sua letteratura deve giuocare nel complesso classico, funzionante tuttora sotto la vernice romantico-manzoniana. Egli si sentì invaso da questa corrente di Goulf Stream assiderato, pungente e rovente della ironia, accolse la malattia endemica anglo-sassone, le aperse il passo, nel frangente della crescita politica tra noi, attestando, col suo fatto, un altro sintomo della pubertà, della espansione della gioventù, che sembra decadenza; avvalorando, un'altra volta, il concetto ch'io già esposi della geniale ebefrenia.
Sono, in fatti, li adolescenti, le donne nei travagli catameniali, i casti per regola monastica, le monache continenti per regola deprimente, le epoche ibride ed in isvolgimento, che, nelle inquietudini crepuscolari, pei cieli tenerissimi della primavera incipiente, nel volo delle nuvole marzoline, nell'urto de' venti propagatori di polline, nell'espressione sbocciante del virgulto, che inverdisce, nell'urgere dell'erba sui prati, nei misteri della fecondazione, trovano le figure mistiche, mitiche, [101] sacre, demoniache, le rappresentazioni della Natura. Le Streghe appajono; sono il grottesco delle Ninfe; le Fate caprioleggiano i loro giuochi e discendono, cariche di doni, benigni e maligni; sono l'humorismo vivo delle Grazie. In un punto, nord e sud si trovano, si riabbracciano, oriente ed occidente, Cristo ed Heracles, Jehova ed Odino; Attila, dai Niebelungen, sporge la destra ad Ettore della Illiade; le razze scompajono, rimangono il poema ed il poeta, che le riassumono nella totalità semplice ed umana: ridono e piangono insieme. Allora rigurgita il troppo pieno cerebrale, non utilizzato, non polarizzato dalle epoche basse e grettamente egoiste: si riversa; ghirigori di letteratura, anfratti profondi, preziosità oscure ed intense manifestazioni attestano che molta energia giovane è trascurata, che il governo di un popolo è non tale quale la ragion sociale del popolo stesso richiede; che esiste una soluzione di continuità tra il cittadino e le leggi; che vi è qualche cosa che incomincia e qualche cosa che termina, che tutti sono malcontenti. Nelle giornate epiche, il classicismo impera; la retta è norma; la risposta breve e monosillabica, concione: qui, tutti hanno uno scopo diretto ed evidente, per cui consuonano in bellezza glabra, sommaria e stilizzata il gesto del soldato, la prosa del legislatore, la poesia di vittoria e di orgoglio: la pienezza si risolve in giuste membra alacri e forti. Chi opera e fabrica è asciutto, proporzionato ed elegante; l'obesità marchia il sedentario cabalatore di cifre, di sentimenti, di sofisma, di inquietudini astruse, dentro cui si perde, gioisce e addolora.
Così, Carlo Dossi, a richiamo de' suoi fratelli d'oltr'Alpe ed Oceano, popola la sua biblioteca; voi ne vedrete i suoi più cari volumi dentro li scaffali e si chiamano: Saggi d'Emerson, Opere di Carlyle, quelle di Shelley, le altre di Gian Paolo Richter, a costa a costa, con Don Chisciotte, I Promessi Sposi, I Cento Anni, Pantagruel, la Raccolta completa dei nostri poeti meneghini, da Carlo Maria Maggi, al Raiberti, le Tragedie di Shakespeare. Questi formano il perno della sua dottrina [102] e del suo credo estetico. A traverso le pagine de' suoi pari, egli si riconosce meglio; opera in modo che il suo sangue, fondamentalmente latino, ma ringiovanito dalli innesti barbarici, la sua mente italiana moderna, ma in giornaliero contatto colle opinioni, i tentativi, le esperienze e la saggezza straniera, il suo organismo sinceramente costituito di creta patria, ma imbevuto di più sottili ragioni internazionali, si inlievitino al contatto della vita contemporanea e si commuovano simpaticamente, producendo, a somiglianza di quelle letterature straniere, una loro espressione, che non ne deriva, ma le avvicina avendo, per specifico motivo: rendere una personalità in un'epoca di transazione e di aumento fisico e morale. Riconosceva egli discendenza barbarica nella sua famiglia? Se ne sentiva intimamente persuaso? Rosalia de Holly, la figlia del colonnello tedesco, discesa per altro sangue materno dai Beccaria di Montecalvo — per cui s'innestava tenacia lomellina a germanica fantasticheria — la bisnonna biondissima, Rosalia, della cui madre Carlo Dossi adorò «quel[77] fazzoletto dagli stemmi tarmati, che evaporava quasi ancora il profumo acre delle lagrime, piovute dai neri ed alteri occhi della trisavola Maria Lucia, piangenti il fulvo marito trafitto sull'ucciso cavallo nei campi di Slesia, la corazza lucente ai raggi, invano pietosi, della luna»; — Rosalia de Holly moglie a Gelasio Pisani gli aveva legato necessità di rifusione ghibellina, nordica, metafisica, rinnovatrice, per estetica, in un bisogno passionale di specificarsi. Certo è che, biologicamente, l'arte sua veniva secreta, spontanea e limpida in modo tale da riempire la lacuna, a lungo rimasta aperta, delle lettere nostre; che produde, sullo stesso suolo della valle padana, di sulle colline orobiche, sulle balze prealpine, genialità di mista composizione, come Parini, Manzoni, Rovani, Carlo Dossi: i quali orientano diversamente l'indirizzo della letteratura, ne rivoluzionano la forma, ne rimutano l'espressione.
Perchè egli ci ha dato una novissima, e, prima di lui, inedita [103] presentazione dell'humorismo, nel senso in cui noi oggi lo accettiamo, come nessuna opera classica l'accolse, per quanto vanti, e li ripeto, i nomi di Aristofane, Petronio, Luciano, l'Ariosto ed il Berni, Voltaire compreso, che pur esclamava: «Chi ci libera dai Greci e dai Romani», mentre rimase uno degli assertori più costanti della formola tradizionale, paziente osservatore dei costumi e delle bizzarrie del suo secolo. Se, nel caso dossiano, ancora l'ordine e la disciplina romanica gli fanno evitare l'eccesso della abbondanza delle risa e delle lagrime, non per ciò cessa l'acutezza del suo humour, anzi se ne avvantaggia.
L'humour sia dunque lo stato costante dell'animo suo: uscire con uno slancio, dal lettore non preveduto, nel meraviglioso, dopo la calma descrizione delle attualità: esagerare, nel rendere la sensazione e il sentimento: assumere, da una funambolica associazione di idee passionali, una sintesi; dall'uso concomitante della scienza e dell'ascetismo, una verità. L'humorista ritrova, nella sequenza della vita cotidiana, nella nenia odiosa della pratica, il fiore strano di una bellezza d'antinomia; lo coglie e se lo appunta alla bottoniera, ve lo conserva anche appassito. L'humorista ride e non vorrebbe; piange e nasconde le proprie lagrime quasi se ne vergogni; è un faceto che ricasca nella filosofia trascendentale; è un sentimentale che vuol essere logico; un espositore di paradossi, di imagini, di similitudini eccezionali freddo e metodico come un professore d'algebra; dalle premesse vere conduce il ragionamento ad una pazza deduzione, in apparenza, concordante; da un fatto singolo, si inalza ad una universalità dubia; col gioco del sillogismo e colle dichiarazioni sofistiche, mette da parte la realtà e vi sostituisce la verità. L'humorista è un realista che nota i fatti, col rammarico di non poterli descrivere com'egli vorrebbe che fossero, ma come pur troppo sono; vive di osservazione diretta e minuziosa ed inneggia commosso: ama la contradictio in terminis. Perchè sta nella vita corrente e la conosce a fondo, sa che questa è una [104] continua contradizione, che il miglior modo di renderla, coll'arte, è foggiarne una di contrasti, di subite apparizioni, di impreveduti fenomeni, di lagrime e di risa insieme; già che singhiozzi di pianto e di riso provengono dalla stessa vibrazione del diaframma. Al qual proposito, preponendo una Avvertenza ai quattordici calepini delle Note, azzurri ed inediti, dove Carlo Dossi ha riposto il sale secretissimo e l'essenza delle essenze della sua mente e de' suoi ricordi, entro i quali più scavi e frughi e più il piccone e la pala ti estraggono fuori ricchezze insospettate e qui sepolte generosamente; egli si rivolge al letterato che andrà leggendoli per renderne conto ad altrui, e gli dice: «Se vuoi avere la giusta idea d'un concetto, cerca questo sotto la parola naturale e comune che lo determina; ma cercalo pure nella sua opposta, e nella sua inversa. Per esempio; se vuoi sapere sulla gioja, qui guarda ed anche quanto si enumera sotto dolore: sulla luce, va a vedere sotto ombra; intorno a sottigliezze filosofiche, riscontra con filosofiche sottigliezze». Ultimo motto a rischiarare tutto l'anfigorigo avvolgimento del suo paradosso.
Donde, noi veniamo a sapere come i fatti ch'egli racconta sono, propriamente, i gesti della sua mente che vuol conoscersi in azione; così operò, alcune volte, il misticismo esasperato di Villiers de l'Isle-Adam, se si trovò in contatto colle platealità borghese — e ne riesce il Bonhomet cacciatore di cigni; — così predilesse Novalis; così perfece Gian Paolo Richter. Sembra a noi ch'egli apra una parentesi, per nascondervisi, quando sospende il racconto, vi immette, a tarsia ed a mosaico, le mirabili novelle come una minuta e scintillante gioielleria di pensieri e di rappresentazioni. L'azione, sotto via, si svolge meglio, sostenuta appunto da queste interruttive apparizioni; i cardini principiali, il leit-motiv vi continuano, direi, ipogei; li Apologhi, le Parabole sono le prove provate della attività delle sue emozioni, la dramatica dei suoi sentimenti figurati e messi ad agire, in sulla ribalta della sua letteraria sincerità. Perchè Carlo Dossi parla ad [105] una turba di non iniziati i suoi lettori di ventura; come Cristo ha predicato ai Gentili; e tutti e due si fanno parabolani per esporre, in fatto, l'idea. Se viene interrogato può rispondere con Rimbaud, un altro Cristo di terrene passioni rosso fiammante: «Io[78] divenni un melodramma». Melodramma di entità psicologiche, di sottili astruserie, di legami più intimi, ch'egli ha scoperto e che, invano — si tentò celare nel nesso, tra la natura ambiente, così detta[79] «morta», — da chi non ha fino intuito, colla storia, il carattere il «momento» degli attori, che ne sono circondati. Chi conosce il segreto dei pinti romanzi di Hogarth comprenderà le mie scritte pitture. Il mobile la tappezzeria la pianta, vi acquistano un valore psichico, vi completano l'uomo, e, da semplici attrezzi teatrali, vengono a far parte integrante nel ruolo dei personaggi. Gli è il coro della antica tragedia ridotto a forma moderna».
Con lui e per lui li oggetti, i mobili, le piante, i fiori, li animali, i fenomeni, tutti parlano e sentono, odono e rispondono. Egli adora le cose, perchè queste nascono e vivono e muojono con noi, come noi, e sono il prolungamento di noi stessi. Noi, colla nostra vicinanza, le influenziamo ed esse ricevono da noi: un certo animismo per simpatia, già che il nostro linguaggio, per necessità logica ed umana, le regala di un antropomorfismo, donde piangono e ridono con noi. — Egli, forse, abusò di questa proprietà di esteriorizzazione; ma la sua abbondanza animica sta bene coi fenomeni della materia che inzuffla di spirito. Grande dote questa di non potersi mai credere in solitudine: chè la solitudine sua, subito, si popola: le cose gli si rivelano, gli si confidano: sarebbero così inerti di non comprenderlo, di non confessarglisi?
Tutte le cose vivono ed hanno anima. Il ferro vibra di movimenti molecolari, nasce, invecchia, ha un destino. Le pietre preziose si allevano da sè, lentamente, per germini [106] astrusi: il topazio e lo zaffiro s'ammalano e smuntano. La calamita attrae, obbliga a sè, invita: il ferro percorre uno spazio per raggiungerla: la elettro-chimica ci spiega a sufficienza la reazione del ferro-magnete indotto? Il radio, che è sempre identico a sè, non trasforma il suo ambiente?
Per Carlo Dossi, come per qualunque altro grande poeta di pensiero o di forma personale, tutte queste domande hanno una risposta affermativa dalla passione. Le cose inanimate rivaleggiano, nel suo amore, colle animate personalmente, le quali pretestano una loro individualità forse appena di superficie, mentre le altre attestano leggi indefinite, mecaniche, fisiche, chimiche. Ma, per Carlo Dossi, come per ogni altro poeta originale, non servono le apparenze; egli non si illude sul valore dei movimenti che si chiamano volontari: sa che è un modo di dire e di pensare comune, ma che, del resto, la nostra umana volontà non ha presa a determinare le oscillazioni del nostro pensiero più che non possa il nostro vivere sopra il Sole, sopra la temperatura di Sirio. Così, è questa stessa convinzione, fatta da appositi no, da razionali impotenze, che lo rende compreso della corrispondenza tra l'animo suo e l'animo fraterno delle cose, che lo fa centro di un giuoco curioso ed involontario per cui deve, nelli Amori, manifestare sè stesso a traverso le cose, specialmente nel Primo Cielo.
Così, egli vive di più, perchè a ciascun oggetto suggestivo presta parte della sua propria vita. Vivere, in fatti, significa conoscere le apparenze e le sostanze secondo le loro differenze; significa essere sopra a tutto sensibile. Più si è sensibile, meglio si vive; meglio si è poeta, cioè si crea quanto maggiormente si sente con sensibilità attuale ed in azione che reciprocamente si determinano autenticandosi. La riflessione su questo punto d'incidente metafisica (è davvero metafisica?) se va cogliendone il nocciolo di sotto le rifuse contradizioni, si chiama anche humorismo; e Carlo Dossi riflette spesso in questo modo profondo ed originale.
[107] L'opera che riesce assomiglia al mobiglietto industriato dalla pazienza giapponese, stipo da rinchiudervi meraviglie di giada, oro, avorio e porcellana. Schiudetene i brevi battenti; ecco una cassettina di ferro, incisa a grandi volute, a mascheroni, a trifogli, a bruchi ed a serpenti lunghi ed aggrovigliati, fatica perfezione di aggemmina e di variopinta ferruminazio: alzatene il coperchio, che scivola sulla cerniera, sericamente; due uccelli si volano incontro tra due rame di fiori fantastici; eccone un'altra più piccola di lacca, aspra d'oro in rilievo; ma, una terza, quindi, una quarta; l'ultima d'argento tutta con quattro rubini, quattro macchie di sangue alli angoli. Dentro, la preziosità riposa sopra un letto di velluto, riparato da una guaina di seta ricamata. Toglietele l'ultima veste; mostrate nuda la bellezza; un idolo: se svitate la mano destra, erta in segno di benedire; vi ritrovate, nel cavo, un anello massiccio d'oro scolpito; porta un corpo di donna straziato dall'amore di una piovra, divinità del mare; nasconde, in una voluta della figura, una impercettibile fialetta di vetro, la quale conserva la morte sotto forma di una goccia di curaro: la difesa, l'offesa, la liberazione.
Sovente udii da Carlo Dossi magnificare i libri che apprestano, ad ogni nuova e ripetuta lettura, un motivo non prima scoperto a tutto profitto delle nostre insistenze. Arte psicologica, in cui egli eccelle; che mi si rappresenta in uno schema eguale alle circonvoluzioni del cervello, anfratti, in dedalee insenature, in meandri sinuosi della materia grigia; pura arte cerebrale. Magnificenza della energia dell'anima, un quid inispiegato ancora, come la scintilla elettrica; immensa potestà, chiusa nel breve e piccolo corpo fragile, ma che ascende l'infinito, rimanendo pacifica e perscrutando, in sè stessa, l'altitudine e la profondità della materia e della forza: pensiero divino. — In fine, la facoltà di vedere e di giudicare la vita, da un punto personale di vista e dal suo opposto, nello stesso tempo, è l'humorismo, pel quale Carlo Dossi ha l'acuto potere di scrivere Ritratti umani; che sono l'espressione della sua utile cattiveria e mattia.
[108] Pagina mea sapit hominem, porta, in fronte da Marziale, la copertina di Campionario; sa cioè ha sapor d'uomo, lo ha mangiato, lo ha digerito, se ne è nutrita; lo conosce per il palato e per il ventre; lo ha scomposto, ridotto ai minimi, termini, ai più brevi cristalli, come una esperienza chimica, come in un lavoro biologico e necessario dell'organismo; la pagina mia ha evacuato l'uomo, come è: non quello che vediamo intorno a noi, tutti i giorni, vestito come conviensi, ripassato dalla convenzionalità del galateo; colui che non sa i vantaggi della ineducazione, ma sfoggia le inciviltà della fondamentale ignoranza laureata; la pagina mia è la pietra di paragone; così ha saggiato l'uomo e ne dà il titolo esatto secondo la mia norma.
Pagina eguale ad Arte: l'ironista sa che l'arte, per sè stessa, è serena, è una certezza; non un dubio; non una disputa; ch'essa non si inganna, non si illude, credendo alla assoluta bontà, o cattiveria dell'uomo, senza confonderle; ma lo rivede, nè buono, nè cattivo, come è, a servirla bellamente, come funziona utilmente nella vita. L'ironista sta alla finestra; guarda nella piazza, giù, ove si avvicendano le beghe de' suoi simili; è lo zoologo, che, sul margine di una foresta, si attarda a descrivere i costumi delli animali in libertà, lontano dal pericolo delle zanne e delli artigli. L'ironista è per ciò un moralista della semplice, della pura morale, di quella che ogni organismo ben nato e ben costrutto esercita, coll'istinto e colla ragione, se vuol vivere in modo di non danneggiarsi nel contatto delli altri suoi pari. E l'uno e l'altro adunque si dilettano, quando vogliono divertirsi, a raccogliere le impronte, le orme delli uomini e delli animali, a delinearne le forme e li aspetti, a scriver loro sotto un cartellino mnemonico: «questo mi piace, questo no; questo mi conviene, questo ributto, questo mi è utile, questo dannoso; qui ho la gioja, qui il dolore».
L'humorista, per intanto li accetta in fascio; usa di una sola etichetta complessiva: «Ecco la Vita» — Musei anatomici, Teatri di scimmie, Circoli equestri, Fiere di beneficenze e di [109] egoismo: tutt'uno — Il lupo mangia il montone; la scimmia inganna il cacciatore; la tigre ha mascelle enormi ed i muscoli del corpo ubbidienti, rattratti in tensione della sua volontà, scatta, azzanna, lacera, uccide nel balzo, cacciando: i conigli fuggono; le anatre schiamazzano, i pipistrelli volano in sul crepuscolo; le formiche, come le api, sono socialiste; il fringuello canta meno bene dell'usignuolo, ed il pavone è uno smeraldo tiepido, rutilo, e sfoggiato, stride ingratamente come una giovanetta dilettante cantatrice: l'aquila vola sola incontro al sole e non si abbacina. Vi imbattete, così, anche nelli animali della gloria, Animalia Gloriae di Tertulliano, nelli enormi organismi di preda e di vanità che insanguinano e sconvolgono il mondo, Cesare o Napoleone; quindi nella divinità eroica, come Garibaldi. L'humorista conosce tutte queste varietà di esseri, ne cava la maschera rispettiva; ma per consolarsi meglio, per sentirsi più intima, guancia a guancia, seno a seno, nuda e tiepida ia sua fondamentale onestà, si procaccia — e ne trova dovunque a schiere — dei modelli più brutti di lui, li mette in bacheca, li sciorina ed indica: «Ecco la Società!» Sono i Ritratti umani.
La serie incomincia dal Campionario, per quanto ultimo uscito in ordine cronologico; un'altra e più saporita zoologia. Il suo procedimento è classico, perchè si svolge per prosopopea come nelle satire oraziane, ma il modo di riferimento è modernissimo; vi rientrano la fisiologia e la psicologia sperimentale, il termine netto e schietto anatomico; qui, non si ha vergogna di nulla, nè meno della vergogna, che è un sintomo d'inferiorità ed una espressione di rimorso; non si ha rispetto di nessuno, nè meno della realtà, che è l'apparenza più ovvia e meno vera di vivere. Giù le maschere, uomini cittadini veramente serii ed importanti; o, meglio: «Qui le vostre maschere; ne abbiamo preso il calco di lontano, per miracolo di plastica telepatica, come i maghi moderni di nostra conoscenza. È inutile che vi nascondiate: il nostro obbiettivo, che lavora coi raggi x penetra oltre ogni schermo, [110] cartone, legno, muro, impudente impostura, maestra nel costruire facciate impermeabili, opache, refrattarie ed incombustibili. Noi vediamo il flusso ed il riflusso del vostro sangue, la sistole e la diastole, i moti peristaltici, il giuoco delle articolazioni lubrificato dalle sinovie e tutto il mecanismo del vostro corpo, come dietro un cristallo limpidissimo: così, il vostro pensiero, prodotto dalla batteria elettrica dei gangli e dei nervi; il pensiero che è poi la vostra malvagità. Dipinti, sopra le lastre di vetro della lanterna magica, le lenti, la luce ed il riflettore vi rifrangono all'ingrosso ed al minuto, sopra il bianco e vasto diaframma delle projezioni».
Li occhi, accostumati a vedere le imagini virtuali, riflesse dalli specchi ortogonici ed academicamente levigati, secondo realtà, si atterriscono e riprovano le visioni singolari, che interpretano, dalla apparenza, le intime verità. Le accusano di deformare li aspetti, di non percepirli bene; accennano maligni e deplorevoli difetti nella composizione del cristallo, nella patina mercuriale della lastra. Ciò può essere esatto parlandosi di uno specchio reale, suppellettile domestica e consigliere di civetteria, non metaforicamente, di un cervello d'artista. L'espressione sua d'arte che accentua, aggiunge, scopre, è il risultato del veder meglio, è l'attestazione di una virtù rara, difficilmente conseguibile. Mettere a nudo le tare nascoste dello «istinto di perversità» — come le chiama Pöe — rifugiatesi ed avviluppate nelle pieghe prolisse e sotto la lucida [111] vernice della convenzionale educazione del viver comune e solito; leggere, in lettere majuscole, i vizii appiattati nel profondo dell'animo umano; riproporre l'umanità, ne' suoi tipi esemplari, nella serie di un'altra zoologia, è rendere, colla fisionomia del proprio tempo, l'immutabile caratteristica delle forze umane, passioni, istinti, interessi, virtù; sviluppare, sul tono di una canzone estemporanea, il ritmo archetipo e millennario della razza e della stirpe. Significa, in altre parole, occuparsi di Morale.
L'Arte riguarda la Morale come un attributo dell'individuo; la accetta coefficiente allo studio di un problema, che giornalmente, la vita risolve e la biologia propone. L'Arte varia il suo intenderla, col variare delle epoche, dei costumi, col modificarsi della superficie sociale. Per l'Artista, studiar la Morale, significa divertirsi a mettere in esercizio le sue migliori facoltà, sollecitate a funzionare dalla successione de' fatti, delle persone, delle cose che va, a mano a mano, scoprendo e dettagliando. — Viene egli, in fatti, col suo corredo scientifico e filosofico, nei suoi viaggi per il mondo, a visitar le anime, e spesso trova delli istinti; a riconoscere delle umanità, e, molte volte, trova delle animalità.
Il mondo appare alla sua indagine od un cortiletto insiepato e campestre, dentro cui si rinchiudono, col pollame variopinto, piumato, rostrato, speronato, ancheggiante, gracchiante, stridulo, chicchireggiante, schiamazzante, i conigli timidissimi e lussuriosi, le cavie, soggetti vivi e sperimentali di infezioni e di colture microbiche e bacillari, le capre ed i caproni testardi e salaci, le pecore sudicie, popolate di aragnidi e di assilli, cieche d'imitazione, le vacche prolifiche e lattifere, mugolanti e stupide d'imbambolatura ascetica e fatalista, i porchetti rosei ed azzurrini, intrufolati nella melma del truogolo, divoratori delle proprie immondizie, feroci per golosità, dalli occhietti infossati nell'adipe e dallo sguardo bieco, sospettoso, salesiano.
Il mondo si svolge anche alla sua passeggiata più amenamente; [112] appresta boschetti ed ombrie, piante esotiche, frondeggiar di palme, zagaglie lucide ed erette di banani, infiorescenze delicate e strane, ajuole di orchidee asessuate e mostruose, falliformi e vulvaperte; capanni accomodati per bestie rare: antilopi, muffloni, daini, cerbiatti, pachidermi di costo e d'importanza, elefante bianco o rinoceronte violetto del Nilo; la stragrande varietà più che socievole delle scimmie del Capo, della bertuccie, delle platarrine americane, a coda retrattile, ginnaste per eccellenza e per isfarzo funambolico, Wright delle foreste vergini, se, della appendice delle vertebre dorsali, si fanno propulsori forti e delicati per volare, senz'ale, da una pianta all'altra; uranghi di bell'aspetto civilizzato a salutare, a nascondere la vergogna perpetuamente stillando leucorrea; scimpanzè d'ultimo stile, onanisti in cospetto delle damine che li eccitano, mascherati, in faccia, di rosso e violetto, come il nicchio di un prelato delle camere vaticane e ripieni di dignità e di buon senso come un magistrato italiano. Vi sono anche delle gabbie conteste secondo i dettami dell'ultima igiene, con canaletti d'acqua scorrente, col becchime riposto nelle mangiatoie ad hoc, coi pioli disposti ed orientati secondo l'uso e il costume dei volatili che li abitano; colle leccornie a portata di becco. Qui, i pappagalli d'ogni clima e colore — se ne trovano sotto tutti i paralleli — dove la loro stupidità diventa impostura ed inframettenza, la loro chiacchiera naturale è purolento parlamentarismo, la loro schiamazzante vuotaggine, loquela meetingaia, il loro sgargiare di penne e d'albagia, virtù academica. Qui, anche i fagiani dorati, quelli d'Inghilterra, li altri del Giappone; della China, i galli rossi e neri di montagna e tirolesi; li uccelli, insomma, preziosi; caccia regale ed imbandigione di solito, alle mense meretricie, doni facili e niente costosi per le amanti delli uomini decorati ed impiegati nei mille ed uno offici della venaria, delle stalle, delle cucine, delle anticamere, delle alcove, del water-closet de' principi.
Il passeggiatore solitario e sentimentale tenta invano, di incontrarsi [113] in un'aquila, in un leone: se ne trova le spoglie, vede la carcassa di quella, colle ali aperte, inchiodata a spauracchio in sull'architrave del castelletto di qualche miserabile Don Rodrigo da operetta: se si imbatte nella pelle fulva e riccioluta dell'altro, la sa impagliata, con due occhi di vetro dispajati e loschi colla cartilagine del muso incartapecorita dalli acidi, con l'odor di valonea della concia e di naftalina per proteggerla dalle tarme e dai tarli; la ammira domestico immobile per destinazione, guarda — portone e vedetta di un Museo, baraccone ambulante, di storia naturale per le fiere suburbane e stridule.
E bene; non è egli tra li uomini invece? Che cos'è questa trasformazione calunniosa, indecente, che qualche volta si giova delle parole scatologiche più vive e più indicative? Già: le imagini passano dallo staccio del cervello dell'operatore singolare; il quale ha la facoltà di depurarle, di naturalizzarle, di ridurle, da apparenti, vere. Quale delitto di lesa umanità avere dei reagenti interni e psichici per cui si scompongono le imitazioni, i fac-simili del vero uomo e vi fanno depositare tutta la pelle, la vernice, il lustro, il falso oro applicatovi non chimicamente, rimandandone nudo il nocciolo osseo, amaro, laido, la pasta fangosa della materia genuina! Vorrete voi incolpare a questa sua virtù il disordine della verità? A questo suo coraggio la scelleraggine di essere sincero? A questa sua sincerità il bisogno di essere sfacciata? A questa questa sua purezza il diritto di mostrarsi com'è cristallina ed intemerata? Chi mai ha osato imputare alla anatomia il logico processo di brancicare tra pezzi di cadaveri per studio? L'abilità di esporvi le proprie e nitide preparazioni? La giusta superbia di farvi ammirare il risultato di una difficile operazione? Ben venga il disegnatore necrofilo, che dettaglia e descrive le rigonfiature dei muscoli, il groviglio delle arterie, le molle in tensione dei tendini, l'armatura schietta delle ossa, i perni, le cerniere, le guaine, le membrane, le scanalature delle articolazioni, la ramificazione filiforme dei nervi e dei [114] vasi motori, i meandri, i grafiti, i nielli damaschini di tutta l'innervatura, di tutta la capillare distribuzione, per cui ogni parte del corpo è nutrita e sente. Se ciò non basta, ajuti il plasmatore dei modelli di cera a ritrarre, dal vero e colli stessi colori, l'ascesso, la pustola, la fistola, il cancro imperiale e magnifico, le spondiliti, il rachitismo, i guasti epiteliari e le ulceri della sifilide, le necrosi dei lupus, le piaghe divoratrici della tabe, le obesità idropiche della elefantiasi, le contorsioni spasmodiche, le revulsioni, le slogature dell'epilessia, del tetano, dell'isterismo. Dipinti, disegni, statue di cera, preparati di carton-pierre, fotografie, cinematografi portino, in copia, i loro prodotti al Gabinetto anatomico.
Questo si annuncia, in sull'entrata, col buttafuori in livrea oscura e bottoni d'oro, cilindro e guanti; scosta cerimoniosamente la cortina dell'entrata, come un usciere ministeriale; si è assunto l'ufficio che le avvertenze e le prefazioni oneste fanno in sulla soglia dei libri. Chi se ne intimidisce, come coloro che hanno soggezione del preposto alla porta, stia fuori. La timidità, in questo caso, non è mai l'espressione rubiconda del pudore e della innocenza, ma il sospetto, ahimè, troppo fondato, di riconoscere, in qualche pezzo esposto, i sintomi, il colore, la deformazione malamente nascosta della propria malattia vergognosa: hanno paura di rivedersi al vero, di dimostrare, col loro imbarazzo, alli altri visitatori, la qualità del morbo, la specie della gangrena di cui sono affetti e vanno accusando giornalmente altrui, che non li ha di patirli cronicamente.
Chi vuol impedire a questo sfarzo di scienza, di abilità, di sicurezza il mettersi in vetrina. Quale la mano del veto che protenda un pennello intinto di nero fumo, per dar di frego ai disegni, per annullarli sotto tintura indelebile: «Voi non dovete dire; noi non vogliamo sapere! Vi manderemo la legge a inchiodarvi l'uscio, i gendarmi a rinchiudervi in muda: siete pericoloso». — «Baje! È la società pericolosa a sè stessa!». — Santa insistenza della sincerità! [115] Come i barbari, come li anarchici che vedono rosso, li uomini dell'ordine, della legge, della bibbia, ricorrono al pugno; manu militari, apprestano la sanzione del loro privilegio, della loro povera e spaventata volontà «Silentium!» Sferra l'urto una catapulta contro lo strumento, l'apparecchio, lo specchio perfettissimo e fatato, che vede più di quanto non dovrebbe. Miracolo! Nell'infrangersi argentino e campanellante, sonoro e gajo come una risata di giovanetta, li specchi si moltiplicano; ogni pezzetto porta la sua immagine vergognosa; ogni scheggia riproduce li uomini d'ordine, di legge, di bibbia nelle loro più grottesche ed usuali abitudini; lo scandalo singolare si fa pubblico; tutti debbono rivedersi, messi alla berlina, che attira folla di motteggiatori e pur tra i beffeggiati. Baje! la violenza contro l'Arte aggiunge stipe secche alla bragia: divampa meglio la fiamma intorno, li Artisti cantano e danzano la canzone pirrica della rinnovata purificazione; quest'uomini dell'ordine inconsideratamente incendiarii li divertono, perchè, vedetene la contradizione:
«Quando[80] alcuno, compreso da queste verità, sorge come Parini e Porta a dare la vera poesia civile contemporanea e topica; quando la applica alle tendenze pseudo-filantropiche, agli abusi, alle arti alle istituzioni libere; quando vi adombra alcuno de' vostri piccoli eroi, non quale se lo imagina il volgo, ma qual'è realmente: e tutto ciò con tocchi leggieri di gioconda ironia, colla bonarietà che si addice a questa ricca, grassa ed allegra Lombardia; allora, sapete che cosa succede? Dai più si ride, sì applaude, si vuole che si prosegua; ma nessuno francheggia il poeta di autorità e di protezione; ma tutti si ritirano in circolo a contemplare, sogghignando, l'assurda lotta di una povera penna isolata coi pregiudizii appoggiati alle casse d'oro. Poi si grida all'inquieto, all'accattabrighe, all'uomo pericoloso, all'imprudente che si [116] compromette e si danneggia. In somma la stessa Civiltà s'impenna e si spaventa della troppa civiltà». — Povero Raiberti, del bel numero uno medico-poeta: la sua diagnosi torna attuale, come sulle bocche dei ben pensanti tornano le accuse: «Pericolosi, delinquenti!» Perchè? li Artisti di questa tempra non valgono assai più del borghese fabricatore di coperte di lana, di pezze di sete, di macinini da caffè e di rosarii, (che sono poi la stessa cosa) — di gingilli e di chincaglierie cavalleresche, di abluzionanti bidets e di confessionali, (che lavano il di dentro ed il di fuori meticolosamente bene) — che battono acciajo per sciabole, vanghe, schiumarole, coperchi, catene, chiavi, chiavette inglesi per casse-forti e per cinti di castità? Eh via! È dunque per questo che l'Artista è un farabutto, perchè vi dà come siete e vi ride in faccia, vi ha visto piccoli, deformi, pretenziosi, vili, sudici, lui, oh, quanto puro, oh, quanto bello, oh, quanto nobile, oh, quanto grande al vostro paragone!
S'egli poi discende nelle grotte ipogee, lubriche, che stillicidano, pullulanti di lombrici, viscide di serpentelli ciechi, imbarricate di spesse ragnatele, trascorse dal volo flacido, delle membrane luttuose dei pipistrelli; se si sprofonda nelle miniere inesauste della sessualità, in che modo dovrà chiamare la cameretta verginale della educanda, la camera nuziale, il letto della vedova, il giaciglio della serva, il covo della quadrantaria? Potrà sostituirvi altre parole più determinative, senza esserne indispettito e scontento? Simbolo, ritrova La Desinenza in A.
Ritratti? Si: sempre Ritratti umani. Vi ricordate ciò che lo scultore Rubeck dice a Maja nella calma e calda mattinata d'estate, sulla riva di un fiord norvegese, stazione balnearia, in mezzo al comfort di un albergo di prim'ordine, ricco di giardini viridissimi e di fontane? Ibsen si sottintende dentro la maschera di Rubeck ultimo nell'Epilogo in tre atti: Quando noi ci ridesteremo di tra i morti: e confessa. «Altro vi ha dietro questi ritratti, a questi busti ch'io plasmo. Vi si trova [117] alcun che di sospetto... qualche cosa vi si nasconde, vi si appiatta, ipocritamente, e che li altri uomini non accorgono. — Io solo lo vedo. E mi diverto secretamente. Già, per li altri, esteriormente, questi busti, queste plachette, questi bassorilievi posseggono quella assomiglianza evidentissima, per cui la folla fa le sue meraviglie, e ne resta intontita; ma là, in fondo, dentro, si dissimula, nel volto ora, un'onesta smorfia di cavallo in riposo, ora il muso di un asino restio, ora, un cranio di cane dalla fronte piatta, dalle orecchie penzoloni, ora un ghigno di porco in grassa, spesso, anche l'aspetto di un toro stupido e brutale. — Già; mia cara Maja, non altro di più, semplicemente lo schema, la caricatura de' nostri buoni animali domestici, quelli che l'uomo ha sfigurato... e che, a loro volta, sfigurano il proprio padrone. Bah! sono appunto quest'opere subdole, sornione, che li ottimi borghesi ricchi vengono a chiedermi e pagano.... oh, ingenuamente, a peso doro. Già, ed io son felice».
Veramente, i grassi borghesi d'Italia non vennero mai in folla a comperare i loro propri Ritratti, che Carlo Dossi aveva loro preso sopra misura: egli è meno prudente dello scultore Rubeck; comunque non se ne duole ed è lieto del pari.
«Ma passiamo[81], per ora nella galleria de' Ritratti umani, dove tutte si accumulano le nubi del cielo mio, dove i colori bui e l'aggrondatura predominano a simiglianza di quelle caliginose imagini di antenati che, nei palazzi patrizi, occhieggiano biechi i loro rachitici successori»; egli ci fa il cicerone delle tele esposte, ci racconta vita, morte e miracoli. Per questa volta essi sono nella categoria delli infusorii e dei parassiti sociali, di cui le lenti dell'interno e nascosto microscopio, han fermato, con sicurezza, il profilo; de' quali li organi di relazione e di digestione furono delimitati esattamente col loro ufficio, pompe aspiranti e lancette tricuspidate di mosche, [118] di zanzare, di vespe, zanche dentate di scarafaggi, di coprobii e di coprofaghi, bisturi flebotomi di pulici, sesso generosamente prolifico di aragnidi capillari.
Eccovi i Lettori in varia categoria; quelli che pur trovano di poter spendere qualche lira, oltre alle cento che sprecano in guanti, in falso Champagne, in baci inverecondi; i lettori quasi analfabeti ma dotati di molte pretese legislative e no. — I Lettori misti spulcia-codici, puristi ed etimologisti, ed altra roba in cisti, umile come la coronata humilitas dei Borromei: Lettori scriventi, pesca grossa e pesca minuta; i Lettori puri, li sciocchi, i salati. — «Se non altro», direte, «questo letterato, ci conosce bene, sin dal principio, ci indispettisce subito e noi di rimando gli saremo scortesissimi».
Scortesissimi, del resto, come la presunzioni de' Dilettanti: seguono, la cantatina di buona famiglia; — l'ammacchiatore di acquarelli; — il cuoco dilettante avvelenatore, secondo i precetti di Brillat-Savarin o le norme di Monsignor Bignami; il dilettante vinicultore, bachicultore, floricoltore; — il dilettante auriga e cavallerizzo; — il dilettante benefattore; — il dilettante amoroso; — il dilettante medico; — Domine a delectantibus libera nos!
Perchè, subito, incontrate i Seccatori che stanno un gradino più in su, — poi, la Gente-che-sparagna, che tiene da conto; poi, i Poveri Cristi, che han da mangiare quando possono, di fronte alli Epuloni che mangiano quando vogliono; — poi, li Allarmisti, quelli ecclesiastici, quelli politici, que' sanitarii, tutte brave persone piene di scrupoli, di paure, che hanno gambe agilissime, leporine, orecchie all'agguato e tese, conigliesche, pallori, lagrime, diarree, dissenterie marziali, politiche di raccoglimento e di riflessioni... venostiane, dice Carlo Dossi, io vi aggiungo giolitto-tittoniane, per concordar col tempo.
Ed altri giungono sempre in ritardo o troppo presto; i Contrattempisti; eccellono le donne: «la[82] maggior parte [119] delle quali non fa mai nulla a suo tempo, cominciando dai bimbi» «Contrattempista[83] è l'architetto che, a glorificare un avvenimento attuale, innalza un edificio nello stile di dieci secoli fa; (convien forse ricordarne i nomi e con quelli l'illustre e glorioso, ma morto Sacconi?). Contrattempista è il politico, che in mezzo ad un popolo avido di libertà, di progresso, di potenza, stringe paurosamente i freni sciupando la generosità di un corsiero in un lavoro di machina burocratica, contrattempisti, più che tutti, siam noi, scrittori, che ci ostiniamo a presentar libri a una Italia che non sa leggere».
Ma codesti scrittori, ed io sono tra loro, hanno subito imparato ed usano i Vantaggi dell'ineducazione. Tutti ci possono, a loro pesta, gridar contro: «Maleducati, zoticoni, bifolchi!» Essi non potrebbero, con più grato profumo, incensarci. È piacer nostro, è nostra virtù, è nostro vanto, di comparire presso di loro ineducati. Niente Della Casa, niente Baldassar Castiglione, niente Melchiorre Gioja del galateo academico-professionale-aulico-costituzionale; noi non vogliamo mai più sciupare il nostro tempo nelle loro stalle a mangiatola dorata.
Altri si incontrano, per caso e sono li Irreperibili quando debbono pagar di borsa e di persona. Ma, ovunque, li troverete, arrugginite cavallette de' Comitati, locusta divoratrice di Fiere di Beneficenza, con voce reboante, spettacolosa corporatura, insommergibile impudenza sul palcoscenico delle vanità, delle rinomee, delle vuote gonfiature scipite. — O si fan piccoli, miserabili, mendichi per aumentar in fortuna; — o dicono di fare, di lavorare, procurandosi le mostre e le apparenze, politici, letterati, scienziati: e nessuno e nessuna libreria, nessun museo, nessuna esposizione protese le loro opere mai.
I Fannulloni sono i più fortunati. — Teologi, creature diafane [120] e galleggianti, come palloncini nell'aria, sonnambolici per la frequenza colli inquilini di là su; — Metafisici, che abitano in un cielo incontrollabile ed in un sistema planetario di semplice masturbazione, detto filosofico: — Gramatici, che protendono il trionfo della parola sullo spirito: è la Gramatica l'erba, dove in fatti, si sdraiano e brucano i fannulloni, che presi a burla da tutti, entrano a pieni voti nelle academie — il refugium mediocritatis, — e vi finiscono — fortunati noi! — ad addormentarsi: Oratori, trottole parlamentari e forensi, il cui scopo è dir nulla in molte parole, gonfiando ogni argomento col fiato dei loro polmoni, ciarlando e rimovendo forme elefantesche, pachidermi trombettanti a barriti disarmonici colla letteratura conferenziera ed alimentare.
E venga qui la razza dei Matematici calata nella seducentissima Italia, allora fresca, fresca, oggi, pur troppo, con germogli, rampolli e ceppaje inradicate di loro gramigne; i «Matematici[84], uno de' trampoli del dispotismo, odiatori della originalità, sillogistici sragionatori, preceduti da legge senza amore a terrorizzare l'istruzione, a desolarci il buon senso, barbari odierni, mondeghiglia di erudizione».
Insieme a questi interessantissimi ed assomiglianti connotati, Carlo Dossi vi darà pure la Ricetta per farsi illustri; cioè come si giunga dai mediocri, al trionfo. Non distenderà il fresco enorme, mal disegnato e colorito a tintaccie villane e stridule de L'Arriviste di Champsaur, zibaldone romantico-dramatico d'appendice secolina; ma precederà, con nostrana sottigliezza e maliziosa didattica, Henri Chateau, insegnandogli, quasi, i passi migliori del suo Manuel de l'Arriviste, dandogli le norme generali sul modo di vestirsi, di parlare, di porgere, di ammobigliare il proprio appartamento, con speciale riguardo lo studio; il recipe di non perder di vista li odori della cucina e pur di aver occhio alla bandieruola della fortuna. «Sii puttaniere, spilorcio, legalmente birbo in [121] tua casa, — padrone — inviolabile è il domicilio; basta che la facciata stia in regola colla commissione d'ornato. Ti consiglio, per tanto, di pendere più dalle vecchie che dalle nuove idee: mettiti in fronte allo scrittojo qualche ritratto di celebrità, vere anche, ma a patto che siano antiche, o, se contemporanee, a patto che sieno false. Un busto, un medaglione, ad esempio, di un Cantù, o di un Bonghi, farebbe egregiamente al tuo caso. Non temere la spesa. Basta il gesso». Polvere di scagliola e pasticcio di mota rappresa, la fama che si vende dalle gazzette a buon mercato: per Carlo Dossi, per quest'uomo piccolo, sparuto, magro, di poche parole, che difficilmente vi accoglie nella sua casa, acutissimo, che sembra saper tutto, che vede quanto alli altri sfugge, non ebbero che dei sorrisi di commiserazione. Ed egli, che ascoltò il cuore secreto della società, porge la mano esperta al polso de' veri e falsi ammalati; fa loro da medico, d'infermiere, da Giovenale, li sostituisce, degente.
Domanda al Dottor Ferretti «che, dopo avere per tanto tempo e con tanta ostinazione sofferto, per necessità di natura, la parte dell'ammalato», gli sia concesso il diritto di fingere — per breve capriccio d'arte — la parte del medico. Il Dottor Ferretti non è più nella prima giovanezza, ha trentott'anni; è discretamente colto in belle lettere; ha qualche ambizione politica, molto amore per il suo ufficio e per li ammalati in sua cura; la praticaccia del mestiere non gli ha ottuso la sensibilità: è un uomo di mondo ed onesto. Il Dottor Ferretti gli concede la sua persona, il suo stifelius, la cravatta bianca, i guanti gris-perle, il cilindro, l'aspetto elegante e sereno di un procuratore della morte, la tranquillità dello scienziato. Esso rappresenta il medico moderno. Non più i Merlini ed i Sabini, con barbe e zimarre e berrettoni; non più i Grotteschi, che balzano nel Monsieur de Pourceaugnac, colle più acadabranti preteste ed i più stolidi medicamenti; non più il sottile medico di Montesquieu e delle Lettres persanes, farcito de' misteri della cabala e della potenza delle evocative [122] projezioni — ricordiamo le sue tisane purgative, i vomitivi, le sanguettate, i clisteri generosamente inferti di revulsionante e letteraria indicazione —; non più il Medico-categoria, soggetto de' mille epigrammi, da Marziale al Magister Stopinus; non ancora le crudeltà fredde, matematiche e professionali dei Morticoles dell'ultimo Daudet; nè la curiosità scientifica e sanguinaria, l'avarizia sistematica, che dibatte il prezzo, al letto del moribondo del principe chirurgo, emerso dalle pagine aspre e virulenti del Mirbean; nè la lunga satira di dolore, di angoscie e di rassegnazione de' Dottori in Medicina di Carlo Del Balzo; nè il sacrificio compartecipato d'abnegazione del medico-sacerdote di La Force du Mal di Paul Adam.
Non è nè meno il medico-romanziere, della sanguinolenta e clinica autobiografia, il dottor Veressaïef delle: Memorie di un medico; le quali ebbero successo tolstoiano in sulla fine del secolo scorso in Russia rappresentando la dolorosa confessione di una vita di professionista tra il rammarico costatato della impotenza, della menzogna e della sterilità di una medicina di grido e di una chirurgia di fama internazionale impiegate nei casi difficili al letto de' pazienti: non codesta requisitoria contro l'ufficio sociale di una scienza la cui attività si manifesta in progresso sopra un cumulo di cadaveri; prodotto dalla inesperta e pur cocciuta curiosità travagliatrice per scoprire l'origine delle malattie, nelle vivisezioni, sopra li ammalati delli ospedali di pubblica beneficenza. — II Dottor Ferretti non è un mago di scienze miracolose; è un galantuomo professionista, che sa il suo conto, che si tiene al corrente delle ultime scoperte della chimica, delle ultime applicazioni elettriche, che già fa caso della chinesiterapia della laringojatria, dei microbi, de' bacilli, della igiene preventiva; egli non ha più in bocca l'Ipepaquana[85] o il Sal de duobus [123] non è chi vende la salute e li sforzi per non lasciar morire, come dice Raiberti; è chi sa, «come il volgo sia[86] sempre disposto a rinnegar la Medicina» e con ciò opera, senza illusione ed ancora con amore, il suo ministero.
Il Dottor Ferretti piacevoleggia; ha lo stile di Carlo Dossi, la pratica clinica di Giovanni Raiberti, il suo determinismo portiano:
«Gh'è[87] l'Omiopatia;
Gh'è l'Idro-glacio-sudo-terapia;
Gh'è i dottor dessedaa, stradessedaa,
Che guarissen qualunque malattia
Con i rispost di donn indormentaa».
Perchè questi nostri[88] «dottorini senza gravità, nè velluto alle unghie, abbigliati con gusto e ben pettinati, che fumano sigari e usano di occhialetto, che dottamente annojano poco, ma chiacchierano anche di capellini, che spesso sanno sonare delle polche e dei valsi, e, all'occorenza, ballarli», — questi eleganti cavalieri della farmacopea, del bistury e del forcipe, non hanno abolito l'erudita ciarlataneria, l'uomo essendo tuttora qual'era nelli eroici tempi: «dagli abiti in[89] fuori quel desso». Questione di livrea, di soppanno, di lavorini ricamati con arme differente, con colori opposti; Carlyle ce l'ha da tempo insegnato col suo Sartor resartus.
Il Dottar Ferretti regala a Carlo Dossi penna, carta, calamajo ed inchiostro molto nero, impresta la sua esperienza; l'altro se ne valga. — La penna corre, l'inchiostro tinge, afferma, inchioda in berlina. È tutta una spigliatezza, un ghirigoro liquido e scorrevole di frasi semplici e pungenti; ogni parola ha un aculeo, ogni virgola è un amo immesso a pescare nella coscienza del lettore, un uncino suggestivo; ogni [124] esclamazione un graffio. Malati, malattie, infermieri, eredi che aspettano impazienti l'ultimo nato del parente ricco, che li ha diseredati; medicastri che ritengono la laurea in medicina come una licenza di caccia; delitti sordidi, crudeli, nascosti, appiattati sotto la lustra del titolo nobiliare; la gola, la lussuria, la sciocchezza, la paura; dilettanti ammalati e dilettanti isteriche; Putifarre de' proprii medici curanti; nevrastenia, cattiveria, ed, ultima perla, invece del veleno in fondo, la riconoscenza d'un brav'uomo: tutto questo rivedono, al passo elegante della chiacchiera saporita, i Ritratti umani, dal calamaio di un medico.
La sua magnifica innocenza ha dei traslati, che, come una luce raccolta acconsente al mormorio caldo della voluttà sussurrata senza adombrare il pudore, così, castamente, persuadono a fare quanto offenderebbe di udire; qui, si barzelletta ad aforismi ed a paradossi, come un conferenziere di bazzecole umanitarie; qui, si riversano, si smascherano le nagioni de' drami, che esplodono sopra la cronaca de' giornali, con meraviglia di tutti; le tare secrete e vergognose, donde provengono li aspetti interessanti, poetici, romantici delle persone per bene ed assai sentimentali. Che più? Il coraggio è sangue in copia. — La bontà? digestione perfetta. — Il rossore? delicatezza di pelle. — Carattere integro, irriconciliabile? mal di fegato. — Poetiche malinconie? semplice gotta! — Dalla cura alla bara il Dottor Ferretti, raddoppiato da Carlo Dossi, ci porta in sulle braccia scientifiche e disinteressate questo corpo, quest'anima; cencio e fiato intermittente, gettandoceli sul tavolo della necroscopia e della vivisezione: «Questa è!» dice. Si riporta alla biologia pura ed alla sua parente, anatomia comparata: «L'anima[90] — mi diceva Gorini — è come il vapore, che, sempre quello, dà effetti diversi, a seconda dei mecanici ordigni mossi da lui: perocchè la stessa anima, entrando in un organismo [125] di tigre, rugge; in uno di augello canta; in uno di uomo pensa; in una di donna ama ». — «Ama?» riflette tutto solo Carlo Dossi, ridivenuto psicologo integrale. «Mente!» Ed ha la visione infernale e meretricia della Palingenesi della sua Desinenza in A.
Certo è, che Carlo Dossi, appunto perchè conobbe in sul tardi la donna di dentro, come troppo presto l'aveva degustata platonicamente, si trovò da queste sue esperienze disgustato e spaventato insieme. Se, per quasi dieci anni, avrà patito una specie di purgatorio-libero più o meno matrimoniale; se, una sua perversamente ingenua amica la N... tenterà di mutargli in odio l'amicizia coll'ottimo Perelli; se, una T... si sarà incaricata di spampanare e portar in trionfo una pseudo-maternità incolpandogliela; se egli avrebbe potuto dire dell'A... paragonandola ai bagni arsenicali di Roncegno, scrivendo ad un amico: «Già mi tuffai in due bagni di arsenico: assuefatto ad un veleno che era il riassunto di tutti l'A..., me la cavai, ma non ne trassi fino ad ora sollievo»[91]: può lambiccare queste sue scoperte e prove provate nel suo libro capitale di lussurie rientrate, di misoginismo e di morale per un'opera, caustica, dissolvente, fuori della consuetudine, personalissima.
Su via, non arrossite; non fatemi i bambinoni maliziosi ed imbambolati, colti sul fatto: non lo negate! Voi avete pur avuto tra le mani questo libro diffamato, lo avete gustato in secreto; avete palpeggiata la sua copertina, che, sotto una fascia rossa colla nera leggenda del titolo, porta le due belle testine di Conconi; e l'una ride giovanilmente graziosa, e l'altra s'attrista precoce, vizza, inviziata, erma bifronte, il libro e la vita. «Scegliete», vi dice ancora l'autore: «Scegli ipocrita lettore,» soggiungo io, «hypocrite lecteur baudelairiano, tu che non hai letto con animo puro Lesbos e Les Metamorphoses du Vampire, ed hai foraggiato, colle mani tremanti, ne' secreti ripostigli di Les Bijoux, cercando il tuo [126] vizio; scegli le pagine di questo volume, su cui tu non sapresti recitare una preghiera alla sincerità, senza di cui non esiste mortale, nè in Arte, nè nella Vita vissuta».
Essi sanno che non ci ingannano e pure continuano a ripeterci davanti i gesti archetipi della menzogna; impalpebrano li occhi, si nascondono il volto colle mani, arrossano, fuggono gettando grida d'orrore e trepidano, sfoggiano la mimica del bluff della pudicizia, della castità, della verginità della compunzione, veri saltimbanchi della morale pubblica, presbiteriani dalle coscienze sporche, jankees invischiati d'ogni vizio, ma ripoliti al di fuori, lucidi, specchianti, profumati, inganno vano e pretesa ignorante. Chamfort sogghigna ed io con lui: «Più il costume peggiora, ed in eguale misura s'aumentano le delicatezze della decenza. Per ciò, più li uomini si fanno viziosi, meglio applaudono ai quadri virtuosi». Vi risponde il Diavolo innamorato di Cazotte: «Mi avvedo, che da quando hanno incominciato a rispettarmi, e con me, li altri, ciascuno e tutti, io mi sento più infelice d'allora che mi si odiava». perchè il mondo è così: Fra Timoteo e Tartufe sono i più tristi bighelloni e ladri della opinione pubblica: essi leggono di nascosto Desinenza in A, se ne dilettano; interrogati pubblicamente, crocesignandosi, eruttano l'omelia delle virtù teologali, strillando come bimbi sculacciati dalla balia.
E bene, bando ai gufi! Questa è altra musica e orchestra! A me i giovanotti che vivono all'avventata, facendo l'amore sui pianerottoli! A me i prudentissimi vecchi, che han sempre fatto lo zio e i verginoni senza rammarico, e i «non[92] indegni di aver perduto la prima! — Or chi mi dona una rossa matita? Tu Cletto mio? Oh, grazie! — E la rompo. — Mezza è per te, criti-cuccio, cui ogni mio sproposito è seme di mille tuoi — tu giudice inquisitore che non amasti che il male, per poi, se nol trovi, inventarlo. Hai qui casi di maggiore [127] scomunica, eresie da tanaglia e da rogo. Troverai idee nuove, che tali almeno parranno alla tua squisita ignoranza, troverai gagliardi sapori, che a te, assuefatto alle più scempie pappine, abbaglieranno il palato. — Ma che vuoi? A gusti scaltriti (ed io sol cucino per essi) non può l'ingenuo manzo piacere se non a forza di salsa. Anzi anche il sale è talvolta lor dolce, e però ci vuol pepe. Viva il pepe che salva i panni dal tarlo — ed anche i libri». — Ora, se volete ascoltarlo e vedere, venite qui: se no spulezzate in fretta e subito sull'entrata. — «Chi ama le comedie prive di sesso, ha i teatri suoi, ha i suoi burattini, dove, può assistere senza pericolo alcuno, da quello all'infuori di addormentarsi. Per i poveri d'intelligenza provvede la caldaja dei frati, c'è una letteratura estesissima, nientemeno che il novantanove per cento di ogni biblioteca. Ne profittino, dunque. L'acqua non costa nulla e rinfresca. Questo libro contiene, certo, veleni, ma anche i veleni sono utili, basta sapere dosarseli; così che l'arte della salute — intendi per burla la medicina — fonda in gran parte su di essi. Non succhia il midollo di un libro se non il lettore, il quale si trovi in una disposizione di nervi consimile a quella in cui era, scrivendo, l'autore. Il gran Milton è da leggersi la domenica, quando si accumula nell'atmosfera il religioso uragano fatto di nubi d'incenso, di cerei lampi, di armonioso tuono di organi; Leopardi in una giornata piovosa, colla disgrazia ai calcagni e la dispepsia allo stomaco; Cattaneo in un'aula parlamentare, assente lo sfibratore Depretis; Carducci, sotto un arco romano, non medicato dal dottor Baccelli; Correnti, fra le stoffe preziose e le rarità antiquarie; Hugo al mare. Così è nell'epoca del malinconico e verginale erotismo dell'adolescenza che più si comprende la Vita nuova del giovinetto Allighieri, ed è nell'ora del disinganno amoroso che il presente volume sembrerà facile e piano.
Il Daimon greco di Carlo Dossi si è tramutato nel Dimonio gotico: gli imporrà tutte le birichinerie del caso; lo doterà [128] d'ogni e più secreto strumento, doppia vista, invisibilità, volar per l'aria, sprofondarsi sotto terra, penetrare nelle camere chiuse e sotto le lenzuola del letto, essere ovunque: l'ubiquità lo franca d'ogni alibi e d'ogni presenza, nello stesso momento. Altro che l'Asmodeo di Le Sage, il Shallaballah della puppets-woman londinese! Egli è il Belfegor di Machiavello, il Mephisto di Göthe, è il Diavolo margravio di Von Grabbe; per di più ha in dito, a talismano, l'anello di Gige.
Scoperchia tetti seziona case, divarica cortine... e coscie, spalanca imposte, abbatte usci e tramezze; segna e segue chiunque incontra sulla via pubblica; ne pesa il cervelletto dalla cuticagna; penetra nell'occipite e s'aggira nelle circonvoluzioni cerebrali; discende pel midollo spinale; si sofferma ad analizzare il succo che ne spremono le ghiandole: divide la vita feminile in tre parti; le dice tre atti di una tragedia comica di dieci scene ciascuna, in cui dramatizzano e farseggiano personaggi esemplari; precede ogni atto un Ouverture, come una sinfonia, che riassume, leit-motiv e spunti, accenni musicali e variazioni, tutta la tematica della orchestra e del canto; Intermezzi e Finale, che si presentano, come il coro della tragedia eschilea e della comedia aristofanesca, e, se non danno il giudizio della folla, pure come il personaggio che canta e il genio muto della scena chinese, come il Gracioso di Garcilaso e di Lope de Vega, esprimono il sentimento e l'intervento dell'autore.
Pupe di carne innervate a capricci ed a cattiverie, pupe di cenci, di cera, di mecanismo, si rispondono, nel giuoco, appena uscite dalla culla, in sulle prime pagine; si destreggiano, nella scuola redibitoria della guardaroba, del lavandino, della scuderia, nella normale educazione del servidorame; incominciano a vivere a paragone per la civetteria, l'inganno, l'intrigo, l'elegante viziosità.
Carlo Dossi, non ancora padre, non ancora chino a scoprire ed a scifrare l'intimo fiorire della intelligenza e del sentimento sopra figli suoi, ebbe delle intuizioni esatte, delle [129] rivelazioni istintive e naturali, quando dettaglia il piccolo tenace ed egoista organismo della feminilità bamboleggiante; prescrive anche una norma a' suoi per il futuro.
Poi il Collegio; un collegio tipico di ricchi, dove incontrate le bimbe di Rimbaud e di Tarchetti ad erudirsi; dove si risvegliano le prime prurigini; dove, le angiolette meditano, col palato, il terzo dei sacramenti ed altre si preparano al settimo»; mentre si disputano «a gara il Millo del portinajo, un gongolino di un anno e se lo serrano al seno, e gli fanno il linguino, e il pizzicorino, e lo mangiucchian di baci e carezze — baci che han denti, carezze che hanno unghie — palleggiandolo, soppesandolo, mirandolo e di sopra e di sotto e all'indrizzo e al rovescio, per imparare forse, come i bimbi si fanno». E le malignità, e le insinuazioni: si determinano i caratteri.
Vi son dipinti i balli e le ragunate: casa Polonia espone le proprie magrezze, ricoperte per pudicizia, colle figliuole da marito; le mamme decantano le palesi e nascoste virtù delle loro bimbe all'incanto. — E l'amor di sorella risponde colla gelosia, colla diffamazione; e l'amicizia è impastata sul livore e l'invidia, che traboccano in cortesi scortesie, in aggraziati dispettucci, in umili vanaglorie, dove le linguettine fesse impastojate tra l'r ed il v, lubriche di francese, unte di pittoresco gergo, lutolenti di domande indiscrete, schiumeggiano, dimostrano l'arte maravigliosa e feminile del Flos duellatorum, inchiovata, un'altra volta di più, in un odio sincero d'amicizia formale.
Noi sapremo come ami una madre la propria figlia; come, nelle gioie del matrimonio, si amino li sposi; noi vedremo morire la marquise Iza Millerose di Garza, maravigliosa maschera indimenticabile, erotta diritta a sfida per Les Diaboliques di Barbey d'Aurevilly; se chiede alla infermiera lo specchietto, al sacerdote il viatico, al vasetto cinabro e cerussa per comparire, dipinto cadavere, in sulle soglie della eternità, mormorando le antitesi di sua vita, tra il sonno [130] e la veglia: «Suis-je en ordre pour le bal? où êtes-vous, mes amis? Dio, non rapitemi il sole! Il bujo soffoca — e lo specchietto le fuggì di mano. — Perdo il chignon!... Mamma, il chignon!... e con un profondo sospiro, Iza piegò sulla spalla il capo, torta la bocca». Fissa la statua perenne, nel marmo della morte, Carlo Dossi.
Escano a stuolo le bergamine serotine, le lussuriose rondinelle del crepuscolo e della notte; portino la pregustata golosità, il piacere alla caccia del vizio; ridestino le memorie del lavoro di Venere, la rinomea delle manipolazioni erotiche e strane.
L'evocatore sfoggia la sua potenza; chiama a sè lo Spirito della Lussuria, senza materiale corrispondenza, senza bisogno di un seguito diretto, in cui si sfibri e si plachi. L'atto si annulla alla visione; rimane l'entità psichica e morale della intenzione; il gesto si spiritualizza, s'infosfora di bellezza e di pensiero; l'animo dell'artista, erotizzato, si esaspera; il cervello persiste a definire, in etica, l'estetica; rende la nobiltà di un ideale entro cui combattono e fremono, senza potersi superare, in vicenda, il Cielo e l'Inferno. È l'umanità nel suo punto più nudo e più crudo, in bilancia sulla Purezza e la Lussuria, fulcro Priapo; pietra nera d'Elagabalo discettatore della ragione animale ed eterna.
La punta della penna di Carlo Dossi stride ed incide, nera, sulla carta indelebile; non l'emula lo stile libero, che tracciò il museo secreto di Giulio Romano, di Marc'Antonio, de' Caracci, dell'olandese Torrentius, delle stampe saporose e grasse di Rembrandt; le grivoiseries postillate ed acquarellate, a sanguigna ed a grisailles, dei La Tour, di Boucher, di Fragonard, delli artisti in diciottesimo, del diciottesimo secolo, che hanno dato il massimo contributo al Décolleté et Retroussé di quattro secoli di gauloiseries, non la superarono mai. Anche Rowlandson, colla sua gioja ventripotente e massiccia, anche Hogarth son già sorpassati. Goya gli cavalca alla portiera di sinistra, a destra Rops; essi gli porgono il terribile [131] ed il delizioso; riabilitano, colla soferenza la lussuria: «Oh se la voluttà non è che il sorriso del dolore, la lussuria sarà lo strazio dell'amore!» Ancora i Giapponesi insegnano. Orribili e bellissime hanno dipinte delle donne riverse, li occhi chiusi, i denti serrati, tra la linea di sangue delle labra, il ventre martoriato, straziato da una caviglia spettacolosa; deformi li uomini e divini, inalberando un lingam, invidiato dal Dio di Lampsaco; orribile e martire, la donna succhiata dalle mille ventose di una piovra, e pur convulsa, isterica, soddisfatta dalla lussuria che conduce a morte: orribile e reogonico, il mostro ragno mygale, che divora, lentamente, il cuore alla fragile Tang Choui, la Dea della oscurità: orribile ed aspirante, la Corona del Piacere incredibile scoltura ferruminata d'argento, d'oro, di stagno, di perle, di giada, di avorio, di legno, di bronzo, di corallo, di lacche, di porcellane; corona di tutti i peccati mortali, che si spiritualizzano in tutte le virtù: l'Hoan-hi Koan-mieu. Morte; Lussuria: perciò è morta Iza Millerose; perciò vengono portate in trionfo, da braccia maschili ed ebre, da banchieri, studenti e cavalieri di fortuna, sopra la majolica bianca degli sparati insudiciati da una notte di veglione, la Sciana e la Firisella debardeuses emerite di borse e borsacchini; perciò si baciano frementi, sulle bocche insaziate, nella cella conventuale, piissima, nuda a difendere il vas spirituale, la janua coeli, la mystica rosa, le monacelle ed, altra farnetica le serafiche misticità di Santa Teresa gridando: «Dabo tibi dorsum et non faciem» quasi parlasse al Diavolo, mentre s'intrattiene col suo confessore, — il che è lo stesso. Perciò tengono casini da giuoco per i barati, i bari ed i baroni, principesse valacche e russe, vive ed attuali similitudini di quella Leonora che andò sposa a Borso d'Este: «faciem pictam, dotam fictam, vulvam non strictam»; — perciò la Barbica vende carne tenera feminile e già scozzonata; — Sofonisba Altamura del Conneticut dispensa il feminismo alla moda — vi appaiono cinedi ed insatiriti; — la duchessa di Stabia, nuova Marulla, ingaggia domestici d'alta statura, [132] dal collo toroso, dalle spalle quadre, a servirla per cocchieri e stalloni, salvo poi licenziarli, se, nel soddisfarla dimenticano di chiamarla eccellenza; Elda duchessa di Stabia, che divaricavit tibias suas sub omni àrbore.
Mirabile ed autentica sintesi letteraria; è sempre l'idealista precipitato in fondo alla cloaca sociale, dentro li infondibuli del sesso. Ne estrae il groviglio biblico: la donna, il dragone, l'uomo, il pomo: tra fiori, tra frasche, tra le angoscie: il serpe-dragone, sopra tutto, che rinchiude, nelle sue spire, tutto l'amore della umanità, che lo agglutina, lo protegge, lo cova e ne schiaccia mosto dalla pazzia e dall'isterismo. Mirabile assunzione della carne nell'ideale: Carlo Dossi, come Barbey d'Aurevilly, come Rops, come Péladan, come Villiers de l'Isle-Adam è un gnostico; Lussuria, per lui, sottintende la Morte, — donde trova: il Peccato, l'Assoluzione. Ne descrisse il simbolo Flaubert nella Tentation de Saint Antoine: «Toutes sortes de bêtes effroyables surgissent: c'est une tête de mort avec une couronne de roses; elle domine un torse de femme d'une blancheur nacrée, et dessous le linceul une étoile fait comme une queue. Et tout le corps ondule à la manière d'un ver gigantesque, qui se tiendrait debout». Gorgone d'altra e modernissima fattura, non quella che ha spaventato Sant'Epifanio, durante le sue preghiere, nel deserto: «La Gorgone somiglia ad una bella donna, i suoi capelli biondi terminano in teste di serpente; tutto il suo aspetto è incantevole; ma se tu la guardi, muori. Quando infuria di fregola, chiama, con voce armoniosa il leone ed il dragone e li altri animali, ma nessuno accorre all'invito. Quindi brama l'uomo. Costui si lascia ingannare e l'avvicina; ma s'Ella concede di nascondersi la testa la si cattura di sorpresa»: — «Questa donna, che nella sua bellezza sorride d'amori, ti regalerà l'anima e la morte»: termina Ottavio di Parigi. Nella sequenza di queste psichiche esperienze, il risultato è un paradosso, di queste espressioni esestiche la nota determinativa non è già la caricatura, ma l'humorismo: sopra [133] la linea solita della realtà sociale si disegna la sigla personale della verità umana; la scoperta è ancora una specie di grottesco feminile.
L'humorismo ha trovato che sia il vero pudore della donna; portato dalla sua educazione, indica la paura dell'uomo consideratolo come nemico, prima d'averlo carnalmente saggiato. Ma fate ch'ella si famigliarizzi col mostro; ed il pudore sarà una natural reazione, la tattica istintiva di tutte le femine della zoologia, tattica e processo che mira alla sovraeccitazione dei sensi, all'erezione massima della virilità per l'assalto ed il possesso.
Il pudore — nel giudizio di Carlo Dossi — ed i connessi attucci difensivi della civetteria, sono cantaride, carezze squisitissime, via alla lussuria: la realtà sessuale compie quanto l'imaginazione ha mal indovinato, e qui la lussuria è l'unico legame che mantiene l'accordo carnale e psichico tra l'uomo e la donna; che quando incespica in un giuoco impotente risovviene la castità e la continenza per logico dispetto. Però ch'egli vide tutte le donne così: affannate ed intese a quest'unico scopo; saziare le bramosie del sesso. La sola dissimulazione che loro presterà non altro significa che l'apparenza forzata di dover ubbidire. Esse invece determinano e regnano; esse invece, si modellano, schiave compiacenti, ai disegni preconcetti del loro piacere, per soddisfarsi la morbosità curiosa della loro imaginazione, avendo l'aria di farsi mancipie di una millantata docilità.
Arte, artificio supremo scoperto e raccontato; le femine ci regalano ma si raddoppiano; la febre erotica abolisce i generi; vi è un duale classico e greco che interviene, con un modo speciale e completo di verbo agito, ad esprimere una duplice azione concordata. Ma la virilità più da che non riceva,.... per quanto insofferente d'indugio e bramosa di critica la Desinenza in A, trionfi sopra la fregola pudicissimamente.
I timorati vergognosi di loro stessi, non lo credono, ma non importa. La Desinenza in A raccorda le linee della passione [134] collo stile acuto e dismagatore di un Rouvèyre, in tutti i suoi passaggi. Segue la donna, dallo sviluppo alla esplosione della voluttà, in ogni attitudine, quando le trine coprono una lupa, quando i lini male scoprono una tigre, quando le mussole denudano una leonessa che rugge. Carlo Dossi, se rifugge dal descriverci l'atto, lo suggerisce con due parole che ne uncinano l'imagine tra riga e riga di una banale presentazione; noi lo indoviniamo a canto ad ogni femina passante; di sotto alte maschere, che va rappresentando nelle attitudini le più solite, noi scopriamo l'unica positura animale, normale e personata caratteristicamente in una parola, in un aggettivo che riproduce in sulla ribalta letteraria l'altalenare commosso della foja.
E pure egli rimane freddo, come stanco e sazio: è l'artista che ha la mano sicura, ferma e traccia dal nudo vero la figura del modello lascivamente adagiato, con un tratto solo, dalla testa ai piedi e non si eccita: si ricorda, disegnando lucidamente, di tutta la nomenclatura topica ed anatomica, pronuncia delle frasi che palpeggiano ancora come mani sui fianchi tumidi, altre che graffiano e mordono di voluttà, ed or son tristi come ogni maschio dopo l'abbraccio; altre ancora che riflettono il delirio suppliziatore di cui persiste la torsione estasiata, il flagello della crudeltà, perchè Hilarion proclama: «La lussuria ne' suoi furori, come la penitenza, è sempre gratuitamente disinteressata: l'amor frenetico del corpo accelera la distruzione e proclama, colla sua stessa impotente debolezza, l'amplitudine dell'impossibile». Verdetto assolutamente futurista se un'altra volta Marinetti ne dà le ultime conseguenze in un Mafarka africano e barbaro, disceso in modo insospettabile, — per quanto li altri non lo vogliano comprendere — dalla Bibbia e dalla Desinenza in A.
Però che Carlo Dossi, come F. T. Marinetti, è un mistico e la filosofia del suo Gineceo, da tutte queste sue bocche spalancate, da tutti questi suoi ventri nudi e proferii, urla: «Noi siamo i procreatori: bianco di luna che inganna sulle rotondità [135] callipigie e marmoree: però che la voragine si apre sotto, piena di ombre, aperta sul nulla; il maschio vi si troverà sicut in vacuo basiliscus antro» — Ma la Desinenza in A trionfa anche dopo il coito, gelidamente ostentandosi doppia da un prisma nero. — Ricondotta la carne ad una azione esagerata, immessala in un posto preponderante, colla brutalità, nel drama comico del mondo, opera come un perfetto esorcista, un demonologo della scuola di Sprenger, che, per troppo amore alla salvezza eterna dell'uomo fatturato e stregato, consiglia affidarlo alle fiamme del rogo. Nella donna trovò subito la patologia, le rare; cercando la geniale, ha sfogliato molte rose senza giungere alla sincerità, all'affetto generoso, alla dignità, al sicuro affidamento, cui avrebbe dedicato sè stesso. — Un gorgoglio di risa represse, lo avrebbe presto persuaso della enorme fatica inutile.
«E[93] le donne? Oh, le donne!
Che modelli di spose,
di ragazze, di nonne!
Che virtù portentose!
Se questo tempo dura,
non c'è più corna per la jettatura».
Si ebbe davanti la folla della bagasceria rimorchiata da' suoi critici, uggiolantigli alle terga, «un[94] nuvolo di gonnelle, — dalla seta alla cotonina — ballerine ed avvocatesse (ambo oratrici coi piedi) trecche toscane e maestre di scuola (ambo appendici de' classici) sorelle di carità, mogli a nolo ed altre parenti posticcie, sarte, balie, modelle, cantiniere, telegrafiste, filandiere... un cibreo insomma di femmina, che, dopo di aver assistito ozioso alla pugna, cerca ora di riappicarla coi denti e colle unghie».
[136] Ciascuna di esse egli accusa nelle sue virtù maleficenti; tiranni-domestici, bas-bleus, feministe, isteriche, streghe sobbillatici, ninfomani, simulatrici di reato, pervertite, vampiri dissanguatori, megere, prossenete, facitrici d'angioli, svuotascarselle e brachette, lo scandalo, il tormento, la peste, la sifilide. Erasmo di Rotterdam lo titilla a fianco: «Su via; bisogna confessarlo, la femina è un animale inetto e folle, e pure piacente e grazioso».
Quante volte le letterature europee, con diverse lingue, metri differenti, identiche intenzioni intonarono l'Est enim mulier di Sant'Antonino misogino e taumaturgo, al cospetto della cristianità! L'Avidum Animal, che incomincia il suo alfabeto per terminare col Zelus Zelotypus, è ancora lo stesso. Tutte le massime, i proverbi della antichità, spolverati, ripoliti, riordinati La Desinenza in A ripropone colle apostrofi contro il malinteso feminismo, dalla Lisistrata aristofanesca al pamphlet, inglese del principio dell'800: Women and the Alphabet d'Higginson; dalle diatribe d'aurevilliane alla psicologia stendhaliana, dalla epigrammatica della Erotica Biblia all'odio posticcio di bravata futurista, genialmente marinettiana.
Anche il suo Swift permette allegramente il misoginismo, se concepiva la femina non come creatura umana ma come una specie di essere tra l'uomo e la scimmia, la quale è, tra li animali, mon il meno cattivo, ma certo il meno spendereccio e più divertente. — Anche un recentissimo e giovane Georges Fouret decanta maliziosamente La Negresse blonde:
«..... Sa mimique
Me dicte, et je sais lire en ses regards profonds
De vocables muets au sens metaphisique;
Je comprends son regard et nous philosophons:
Elle croit en Dieu par qui le soleil brille,
Qui crea l'univers pour le bon chimpanzé,
Puis, dont le Fils-Unique, un jour, s'est fait gorille
Pour ravir le pécheur a l'enfer embrasè».
[137] Dond'Eva evoluta, come codesta Singesse, va ragionando sul tema a mo' di Bernadette, intermessa una prova saffica classica e monacale: che, se non conosce Spinoza, s'acconcia a divertirsi, ritornando a ballare, cioè ad arrampicarsi di nuovo sulli alberi trogloditicamente a quattro mani, come ha imparato a stento a suonare il piano ed a pensare a quattro mani.
Non sarà dunque logico l'intervento delle agitate verghe del sadismo e della correzione didattica:
«Asinus, nux, mulier simili lege ligati,
Haec tria nil recte faciunt si verbera cessent»;
ed a che pro?
«Quid levius fumo? Flamen. Quid Flamine? Ventus.
Quid vento? Mulier. Quid muliere? Nihil».
Dove potrà rifugiarsi col proprio amore? Dove imbattersi nella bellezza fresca, nell'innocenza generosa della Sulamite? Chi gli ripeterà il versetto del Cantico dei Cantici? «Mane surgamus ad vineas, videamus si floret vinea, si flores fructus partorient, si flomerunt mala punica; ibi, dabo tibi ubera mea». O fecondità della campagna, a maggio, ed in quell'incenso di corolle sbocciate, in quelle sicure promesse, prossime a fruttificare, la munificenza lieta e serena delle grazie di sposa! Si? Cinque lire d'amore costa. Costei della sfacciata fornicazione è la più pura, perchè la più sincera: s'ella proclama le sue doti, sfoggia un inno maraviglioso alla Pandemia, al suo valore sociale di valvola di sicurezza per la pudicizia borghese, al suo merito profilattico ed igienico contro i pericoli e le degenerazioni dell'onanismo, alla sua divina compassione che nulla e nessuno rifiuta: e la lirica inchina alla prosa dossiana le più alte vette musicali, la satira si fa poema battuto nell'oro.
Perciò la natura trionfa: il Magoboja operatore della Palingenesi, fabrica la femina integrale; sorge Venere, «Un [138] biondissimo[95] fumo dalla fragranza di muschio vela la tremolante figura e si direbbe una chioma che già s'innanelli a larghe onde, e, fra l'aureola di essa e del fumo, va la figura accentuandosi a femminili curve e turgenze. Una bollicina di azzurro (vitriolum coeruleum) le scoppia nel mezzo, ed ecco a fremerle a pelle il reticolato venoso; una striscia di minio (cinnabaris mercurialis) vi guizza, ed ecco guance soffuse di pudico rossore, con una bocca che è un bacio; due faville vi scattano, ed ecco due occhi lucidi di desiderio e di lagrime che intensamente mi fissano». Non altrimenti vivono, sotto il bulino di Rops, le sue donne — simboli, per quanto si sformino in piedi caprini, in zampe unghiate, Sirene dell'asfalto parigino: «nuda sino alle coscie[96], erge una testa laida e pure simpatica; sorride la provocazione, con grazia ebra e stanca; bestemia parole grasse di suburra, mentre di un gesto crapuloso, in un colpo di gomito, si fruga nell'edificio della capigliatura. Odora il marciapiede e l'acqua profumata del bagno recente; evoca canagliescamente la quadrantaria all'agguato ed in caccia del cliente; sa tirar di coltello». Esse sono che loscheggiano, cachinneggiando con insolenza, espongono le loro acconciature color zafferano; impiumate, accendono la larga bocca col carmino, li occhi piccoli col bistro; si mettono al mercato su divanetti, sotto camicie succinte e rialzate sui fianchi; esse, le belle ragazze del dicterion elegante, esse, la Bellezza-Peccato verso cui balzando la libidine accorre, come un polledro inuzzolito, nitrendo. «Amore[97] mi tiranneggia. E già le palpito in braccio, e dileguo entro lei ed anche il sogno dilegua».
Il giorno chiaro, l'alba lucente e lucida, le ore dell'uomo che lavora pensa e vuole, non le ore oscure e passive, vincono il succubo, lo annullano, ritornano il sognatore spaventato [139] alla realtà. «Su via, vieni tra i tuoi fratelli, dopo la palingenesi, scrivi il nuovo testamento. L'umanità confessa e l'uno e l'altro documento e ne deriva: ma canta la speranza, la carità, l'amore di nuovo e sorgi, con noi, non più, a soffrine ma a combattere per essere più buoni, più belli, più sinceri».
«La Desinenza in A, fu, nella vita letteraria[98] di Carlo Dossi, quel che si dice un avvenimento. Si era ai bei giorni della guerra tra idealisti e realisti, guerra gioconda, allietata dalla fecondità straordinaria degli spropositi, che i giovinetti — obliosi di Senofonte e di Euclide — allegramente si scaraventano in faccia». Dossi, impropriamente, veniva chiamato realista, accolto con fervore nel campo spumeggiarne della Farfalla: anzi gli allogavano titolo ed onori di capitano, messia di un verbo nuovo in estetica, che, del resto sopravanzava realismo ed idealismo scolastico ed ufficiale, catalogati sui quadri di avanzamento della letteraria burocrazia.
Tanto egli era lontano dal carnalismo rubicondo e rubensiano e dalla effervescenza della gazzosa stecchettiana, quanto non volle, ed in sul bel principio lo dichiarò, confondersi «colli[99] incettatori della nazionale moralità, una compagnia di lamentazione perpetua di cui fanno parte i violacei predicatori, che ventilabran dal pulpito vituperi contro la concupiscenza e le ascoltatrici loro ammiranti, le baldracche, che han messo insieme bastevoli soldi per comperarsi il rossetto della castità»; con quelli «che fanno[100] de' loschi compendii di virtù per il popolo, a dieci centesimi la dispensa, e i gazzettieri, che, colla sifilide cristallina sulle labra, sermonano di pudicizia, e le mamme affannate a difendere le orecchie premaritali delle figliuole da ogni susurro impudico, salvo a lasciarvi precipitar dentro un mondezzaio di roba, non appena quelle figliuole sien giunte al legittimo stato di comporre adulteri». [140] Egli stava col realismo di Omero, dal Porta ripresentato meneghino: ammetteva che «la smania[101] sessuale è in natura ed ha dunque diritto di avere anch'essa la sua sede nell'arte; manchevole quindi sarebbe quella letteratura che si occupasse esclusivamente (perdonate la frase) dei propri inguini non studiandoli che di renderli appariscenti, nè più nè meno dell'altra che si cappona per procurarsi una voce d'angelo».
Urgevano prossime, sull'orizzonte, le aure fiammeggianti, ne' rutili vapori delle quali si sarebbe commossa la funzionale e romantica cavalleria cavallottiana, ed avrebbe spillato, dalla sua lirica, che poco prima aveva commemorato la morte di Manzoni, riepilogando un Cinque Maggio:
«Morto![102] ed nunzio lugubre,
Via sull'ali del vento,
Udii pei campi italici
Lungo echeggiar lamento»;
la povera bestemia al Povero Vate, indicandovi Stecchetti:
«Povero[103] Vate! in che rimorsi fieri
De l'antica viltà struggi te stesso!
Ti levi e insulti! e non sai dir cos'eri...
Se allor più vile — o men superbo adesso.
Cessa lo scherno.
Non insultarla se tu sei poeta,
La sacra fiamma che ti accese il core»;
per interzarvi, da La Ragione milanese, l'apostrofe patetica:
«Poi sdraja[104] nel porcil l'anima sazia
E — vigliacchi siam noi — si mette a urlare.
Potrà darsi benissimo. Ma... in grazia...
Se parlaste un pochino al singolare?»
[141] Sarebbe riuscito imminente un poema a Giosuè Carducci, console di repubbliche per schiette rivendicazioni letterarie:
«Enotrio[105], dormi ed alte a' il ciel le grida
de la battaglia vanno, e la bandiera,
la tua bandiera dispiegata ai venti
sta ne la pugna.
E lo Stecchetti avrebbe accusato:
«........ de l'incenso il puzzo
e il canto fermo e d'Escobar la voce,
e il buffon Mena, da 'l tuo forte schiaffo
segnato il viso le tue laudi canta,
ma co'l pugnale di ferirti prova
dietro le spalle.
Oscenamente dondolando l'anca
Bavio, spadone, d'assalir si vanta
l'arte tua bella e di tenerla sotto
ferma, domata;
e Lesbia, usata a glubere i nepoti
flosci di Remo sotto gli angiporti,
getta il tuo libro e colla lingua infame
turpe lo dice.
Ecco i nemici».
Per intanto, La Desinenza in A aveva ingaggiata la pugna a mezza lama, sotto; aveva preceduto il rosario delle pubblicazioni sommarughiane, che da Roma, riburattate dal fresco ventilabro della unità italiana, spargevano sementa gagliarda e spregiudicata, protette da i nomi grandi di Boccaccio e di Machiavello. Il breve libro denso, schiaffeggiatore, apriva la carica, come un foriero galloppante sopra il miglior cavallo [142] dello squadrone, a Gli Amori bestiali del Valera, a Terra Vergine del D'Annunzio, a la fioritura bolognese della Postuma, della Nuova Polemica; aveva snocciolato non poche avemarie, già nel 1878 prima che in patria si incominciasse ad allungare le orecchie dalla parte di Francia, ascoltando quanto volessero dire di nuovo Zola ed i suoi amici, — «Com'è, La Desinenza in A — libro non certo per monacanda — rappresenta la giovinezza dell'autore, gli errori della poca sua carne, il suo squillo di bicchiere nell'orgia. Ma la giovinezza gli è oggi completamente sfiorita. La penna che segnò quei ritratti donneschi è rotta per sempre. Bene sta. Ogni stagione il suo frutto. Fanciullo, scrissi d'infanzia e vi offersi L'Altrieri; adolescente, di adolescenza e vi diedi, L'Alberto Pisani; giovine, di gioventù ed eccovi La Desinenza in A. Se la vecchiaja non mi sarà, come sembra, contesa, scriverò cos'è da vecchio — metafisici soliloqui, archeologiche dissertazioni; chissà mai! anche ascetica. Letterariamente, almeno, il Dossi non si falsificherà[106] mai».
Già dal 1883 egli aveva ipotecato, logicamente, il suo avvenire, predette le sue tappe, tutte quante sorpassate nel suo vivere: l'ascetica doveva arrestarsi all'Inno al Dio venturo in cui tutte le libertà, tutte le bellezze, tutti i benesseri conquistati avrebbero proclamato la felicità dell'uomo, al cospetto del cielo sereno e rappacificato, sulla paura della divinità, sopra il terrore e l'invidia de' propri fratelli. — Ma pure, cristalline rimasero sempre la prosa e l'anima di Carlo Dossi, a rinfrangere le meraviglie de' suoi sogni, il disgusto della sua onestà, la fiducia costante nella perfezione e nell'umano volere. Per conto suo, in arte, fu e rimase aristocraticissimo: come Frine egli non ambisce che all'omaggio de' sovrani... dell'intelligenza.
Non venne per ciò e d'un subito compreso; anche oggi lo comprendono poco. Allora minimamente, quando la pudibonda [143] gesuiteria era venuta all'arme, quando il Carducci denunciava i cuoricini stillanti lagrime e sangue, esulcerati dal nulla de-amicisiano, le marionette di carta pesta e di filo di ferro del Giacosa, ed incominciava a genuflettersi il Fogazzaro, e deliberava, tra il boja e l'esorcista, quell'altro Imbriani dei Dio ne scampi dagli Orsenigo, e s'inteneriva liricamente La Contessa Lara, promessa al coltello assassino del suo ganzo, povera vittima di letteratura e d'amore, e s'incarnava, a doppio aculeo, la Nuova Polemica, suscitando reazioni.
Ultima questa era venuta a definire ed a stravincere: ribatteva nel Prologo le lamentose ed aggressive fandonie del feminismo arrabbiato, corso a mordere alle calcagne Stecchetti e compagnia: si faceva a gridare «contro le[107] svenevolezze degli amori poetici passati, che tendevano a fare dell'arte un mare di latte e miele». Donde la donna viva e vera era esclusa, dove si ammetteva una sua copia manierata, aerea fumigosa, dispersiva, ideale che veniva a lagrimare, come un salice piangente, magra lirica, in ogni romanzo. La Silvia, la Nice, l'amica lontana facevan da modelle promiscue; Vittorelli trionfava; il cant della superipocrisia anglicana pontificava dentro le fuori la vita e la letteratura. Era «l'ideale[108] disceso agii uffici del mantello di Noè; voglia il senno italiano che Sem e Jafet, a forza di trascinarlo piamente su tutte le vive libertà del secolo, facciano di te un cencio spregiato anche dai rigattieri e dai preti!».
Ultima determinava, a favore della libertà dell'arte, di cui, per sè stessa, La Desinenza in A aveva già usato vittoriosamente; evitando l'eccesso ed il contagio del francesismo allettato a visitarci, col favore de' pronubi avvisatori innamorati dello Zola, e conservando tono, nerbo proposta e risultato nazionale. La Giacinta del Capuana, i classici e massicci Malavoglia del Verga, sicuro attestato di potestà siciliana, sarebbero venuti dopo. Madri per... ridere, — Commedie di [144] Venere stavano per uscire, sollecitate dall'esempio dossiano.
Nel folto della mischia, corpo ed anima, alla bersagliera, era infatti venuto a sciabolare, ad amministrar manrovesci e stoccate, Cesare Tronconi; aveva raccolto un buon libro di altre e saporitissime Confessioni e battaglie — che hanno il merito di precedere quelle carducciane — e lo inviava «Alla Gioventù italiana (maschi e femmine) affinchè non si lasci imbecillire». Vi si leggeva, come «il realismo non è che l'uso, in arte, della ragione pura, — che l'immoralità vera, in arte, consiste nello scrivere i libri così detti morali, — che il realismo, come lo intendo io, è un continuo inno al bene ed alla virtù, — che la morale, la morale, la morale per l'uomo è... la donna e il denaro». Vi difendeva sè stesso, Praga, li amici; si schivava dall'essere un imitatore di Zola, «perchè l'arte non si impara a scuola — l'arte deve essere nell'anima — l'arte è l'anima stessa». Per ciò rivendicava il diritto del tempo ed il tono morale di quella speciale atmosfera, se, contemporanee, Nana e Commedie di Venere erano pur uscite, ignorandosi. Per le piccinerie della ineffabile Rivista Europea e dell'altra, con licenza, Nuova Antologia aveva un motto che Carducci non lasciò senza parafrasare, nel secoletto vil che cristianeggia: qui più completo: «Cari fratellini Italianini, piccinini, Cristianini ed... Ebreini.» E con ciò Delitti avevano respiro.
Perchè non vorrò lasciar da parte Cesare Tronconi, dimenticato, o spregiato, dai saputelli euforetici del corrierismo, dove accorsero dalla anarchia e dal iperdannunzianesimo, sapendo che tutto potevano conservare, rivoluzione ed Arcadia in quel luogo refrattario alla sincerità, aperto a tutti i retori barzineggianti d'Italia. E lo rammenterò, come mi apparve nelli ultimi anni in cui lo conobbi, assorbito dalla morte troppo presto, mestissimo e sfiduciato dall'arte, cui aveva volte le spalle per più sicura esistenza, e nei giorni gagliardi, ne' quali la repubblicana amicizia di Perrussia e di Quadrio, editori per gusto e per amore delle lettere, gli apriva la Casa editrice [145] sociale e ne accoglieva i romanzi. — Dalle loro pagine donna Venere-Tisbe-Clementina-Salieri-Arditi-Miller, può dire, a conforto della Desinenza in A... e del misoginismo del tempo: «Se sapessero[109], quanti sguardi non significano altro che: Sei tu il mio cinque franchi? — oppure: Vuoi tu essere il mio due-franchi?» Per lo che Tronconi istesso interviene e riflette: «Ogni[110] donna è un caso nuovo. Dobbiamo quindi regolarci secondo i casi. Certo, bisogna capire... e qualche volta si capisce... quando non si è innamorati — perchè è la femmina che rende ciechi noi altri. — Ora, la femmina è fuori e la donna è dentro. Bisogna trovar la chiave». Egli tornava a distinguere, a far due parti di un tutto: e bene, la sua dedica non rifuse, come la Palingenesi dossiana? «A Lei[111] che ricorderà questi versi giusti... ma ingiusti:
So che. . . . . . . . . amore
In. . . . . . . . . . . uccidi
So che. . . . . . . . . core
So che. . . . . . . . . irridi.
Pur. . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
E non inorridisca, se....
In Arte, tutto ha la sua ragione d'essere — purchè tutto sia al suo posto. Quell'intelligenza che mi si è rivelata così bella... può comprendermi bene». — Comprendono male i barzineggianti, che fan della morale ad uso de' cotonieri e dei caratisti delle fabriche nostrane di automobili. Perciò, qui, Cesare Tronconi può trovare il suo posto; da che, mi pare che questo sia un rosario recitato a tutti i santi senza altare, e destinati alle future basiliche della sincerità.
Per allora, un momentaneo entusiasmo spingeva il Dossi alla popolarità; parve che sorgesse e potesse insistere, nel [146] cielo torbido delle lettere e della critica riconosciuto, il sole meridiano della novella e del romanzo nostrano. Altri, in un impeto di bufera artificiale, vennero, come nubi a distendersi cupe, a velare per poco la faccia d'oro e di luce; poi si dileguarono: ritornò il sole a soggiogare le nebbie.
Comunque tutti i poveri di spirito della pudibonda melensaggine patria e confessionale gridarono allo scandalo ed alla irriverenza. Li ultimi cavalieri di Re Arthus infiordalisati sotto la procura lasciata loro da Tomaseo se me adontarono. Risuscitarono, per l'occasione, li spauracchi più neri del loro arsenale di guerra, a difesa del loro sacratissimo e male odoroso pudore, per difetto di cotidiane ed igieniche abbluzioni alle parti, domandarono per ogni dove, foglie di fico, di platani e di vite; Stecchetti pornografo, Carducci ateo e fuori legge; altrove Swinburne contaminatore di Londra; qui Dossi infamato con quelli. E, nelli insulti verbali, la rugiadosa pastorelleria risuscitò dal Bosco Parrasio, per scolare nelle pie giaculatorie manzoniane, trovando che La Desinenza in A aveva sorpassato Nana. Certo, ha detto più di Zola perchè Dossi è più grande stilista; dove s'arresta la fotografia zoliana, là incomincia l'idealismo dossiano. Il suo timbro risuona in tono ben diverso che non squilli il gong di Nuova Polemica; unico ancora tra i suoi coetanei a dare quella nota di sua esclusiva personalità. Egli ebbe il coraggio di riscrivere il vecchiume misogino di venti secoli di letteratura, eroicamente senza ridirlo saggiandolo al suo tempo, provandone il contenuto colli aspetti che l'epoca sua gli offriva in ispettacolo: aggiunse, alla fisiologia ed alla patologia classica e romantica dell'odio e del disgusto per la femina, la novissima diagnosi delle donne ch'egli seppe e vissero con lui, le fermò, indice di costumi sociali, di un agire singolare. Chi considera La Desinenza in A, come fa del resto il Croce al puro obbiettivo del metodo estetico da lui ereditato da De-Sanctis, si svia. Carlo Dossi non va giudicato, isolato, come categoria, ma deve essere posto a paragone di uomini e di avvenimenti, [147] ragione storica non solo d'arte, circondato dalla sua atmosfera morale e fisica, da cui respirò idee e nutrimento, cui ridiede nerbo ed eccitamento per maggiori volate di bellezza e di sincera applicazione.
Egli può venir imputato, da chi sa molto e non ha oscura nessuna delle letterature europee, d'aver riportato in tempo presente il succo delle pagine argutissime, felicissime, piene di vita del Delicado, spagnuolo, canonico che amò l'Italia, le sue cortigiane, le avventure di passione e di risa e di scherno del nostro rinascimento e diede a noi il più storico simbolo di quella umanità colla Lozana andalusa. Altri potranno obbiettare che La Desinenza in A si appaja in alcuni capitoli in parentela prossima ai Raggionamenti del divino Aretino, ed io pure sarò di questo parere; ma tra Carlo Dossi ed il Messer Pietro intercorrono oltre trecent'anni, ed il la de' Raggionamenti è la dilettazione sessuale soppannata di satira, mentre qui risuona in timbro di riprovazione e protegge le verità contro le menzogne. E poi, che gioverebbe questo paragone? A confermare l'opinione mia espressa altrove che il nostro realismo italiano non fu altro che un passaggio classicista, un ritorno al motivo iniziale e positivo della nostra rinascenza, sollecitato dalla voga zoliana; un rivedere in massa e materia, in plastica ed in pittura il mondo che il romanticismo intermesso, ma soffocato aveva descritto in idee ed in forza, in possibilità ed in trasformazione. Il valore nuovo di Carlo Dossi sta come azione di vita e d'arte, pur esplicandosi con formule naturaliste, metodo di arte per la tangibilità.
Oggi, pur troppo, lo so per esperienza, tornano i giorni dell'Indice: corre per le città una turba di iconoclasti e di svergognati piissimi in cerca del vero e del bello, e, perchè nudi, li fanno sudici. Non accorge la morale bruttura della sua anima collettiva e feroce. Oggi, il Concetto della Pornografia ha cambiato sede; io lo rimetto nel cervello, quelli altri lo inchiodano, tra coscia e coscia, nel sesso. Oggi, la pornografia è venuta in coturno a passeggiare, tra li onori [148] delle pubbliche sedute parlamentari, careggiatavi delle 40.000 firme di dame e di dami di bergamasca e grottesca notorietà: coprire è mentire. — Oggi, pornografia non è più quanto insulta, o non rispetta, il diritto d'arte, la bellezza della forma, la necessità funzionale e naturale della letteratura. — Pornografia non è pur sempre, e dovrebbe essere, quel pleonasmo che esorbita sul necessario, il dettaglio viziosamente enormizzato a proposito, sì da riempire il primo piano, la piccola e misera ragione di sfondo, l'atto accessorio, verso cui si vuole forzatamente condurre l'attenzione del lettore; dove rimangono l'artificiosa esposizione, l'inutile suggestione intensiva per li esercizii dell'inguinaja e delle perversità, certo di natura, ma non tutta la natura. Molti libri, affatturati su questa ricetta, invece, hanno spaccio per ciò, e sono lodati; moltissimi lettori vi accorrono, se a pagina tale, o tal'altra, degustano il sal amaro ed il limone spremuto di scene speciali, in cui Garaguez e Priapo, turco e romano, falliformi soggetti esemplari, discutono colla chteis greca e si accordano internazionalmente sempre, qualunque siano le loro capacità. Tali pubblicazioni si determinano per lucro; dimostrano l'esibizione, l'eccitamento, l'offerta, la soddisfazione acquistata a tariffa: «πόρνη bagascia: anche l'etimologia insegna; colei che vende piacere, che inganna, cioè, all'amore eseguendone tutti li atti; colei che è l'idolatra secondo il senso evangelico di Paolo da Tarso; insomma, la mercantessa di cose false, di spasimi e di voluttà simulate, di preghiere mentite verso una falsa e bugiarda divinità. Così, la letteratura pornografica rimane la menzogna gesuitica e male espressa: La Pia Giovanetta del canonico Nava, La Via del Paradiso, i romanzi ascetici e modernisti del Fogazzaro, il brecciame e la rigatteria variopinta, ricucita insieme, li sfoggi invelati di lussuria da basso impero, centone d'annunziano: tutta la roba rinverniciata, ridorata, a richiesta del tempo giudeo e ghettajuolo, le acadabranti posizioni ultra aretinesche, l'ambiguo ed il grigio, ad encomio, dell'epoca pigra e lutolenta, che appare, ora, [149] sotto l'etichetta del libertinaggio, poi, della scienza, quindi, della religione, per ingannare, per corrompere, per farsi comperare, perchè autore ed editore ne abbiano i profitti maggiori: Pornografia.
E già che ci siamo, oh si, pornografia il nostro reggimento politico, in cui nulla è spontaneo, sincero, serenamente responsabile, in cui tutto è un affare, una burla insidiosa ed assurda, un commento pagato, un volo lucrato. Onde, se un giudeo di grandi numeri e di vertiginosa eloquenza, ipostasi non corretta di un montanaro allobrogo e cinico, interposto Luzzatti al potere dittatoriale di un Giolitti; se il filosofo-economista-scrittore di sulla religione sulla tolleranza, sui diritti dell'anima e della pancia, in bilancia tra il Ferri, avidissimo guascone di prerogative ministerali, ed il salesiano astuto bracconiere di coscienze e dilettante di gaudi deretani; se il Primo Ministro di quest'ultimo regno ingiurioso al buon senso ed alla virtù (ahimè, virtù!...) italiana, spaccia circolari per difendere la morale pubblica dai libri, dalle stampe, dalle cartoline, dalle scatole di zolfanelli, dalle maglie color carne, dalli inviti pandemii, dalle occhiate che offrono, dai pis-pis coi quali anche la povera prostituta si sfama, se, in quest'ora grigia dentro cui l'episcopato trionfa in Parlamento, la scuola è mancipia dei frati e delle monache, le banche passano allo sconto dietro l'attestazione del biglietto di pasqua, si vien parlando di morale, di ritorno ai sacri affetti della famiglia, d'instaurazione etica, di conservazione della innocenza, di diritti sacrosanti alla pura ignoranza delle vergini; oh, sii, sono assolutamente convinto che tutto è pornografia tranne le aperte imagini, le belle pagine, le sincere rappresentazioni che danno l'uomo nudo ne' suoi atti d'amore; tranne l'eterno, purissimo, vittorioso nostro paganesimo che insorge contro i Cristi e le Madonne rachitiche, colle sue bellezze, vituperando in quelli venti secoli barbari e tenebrosi di teocrazia, di dispotismo, di ferocia cristiana, attestando la sua perenne divinità umana già mai oscena, se l'arte colga in ogni positura, e, commossa, [150] rappresenti carne e spirito nell'odio, nel piacere, nel delirio insindacabile dell'amore, compartecipato gratuitamente, proferto ed accolto. E grido: «Se incominciassero codesti preti della morale pubblica a redimersi alla vera morale!».
Tutte quelle rappresentanze di un lucro sociale e costituzionale, tutti que' funzionari rimunerati vorrebbero forse mute le pagine di Desinenza in A? Ha Carlo Dossi trafficato mai del suo volume? Nessuno fu più di lui schivo a spingere il successo ad utile fortuna: egli sfida ogni indignazione cruscante e cristiana, pretesto ed ipocrisia, perchè non ha fatto nulla più di quanto fecero i loro Padri e Dottori del Vocabolario e della Chiesa. Ha riposto sulli altari quell'amore doppio e spaventoso in peccato, perchè ciascuno lo ammirasse con terrore e lo fuggisse con prudenza. — L'impudenza de saccentelli e dei paternostranti, del resto, apparve stolta, se ha voluto bruttar di fango pornografico La Desinenza in A; di rimbalzo schizzò loro in faccia. Quest'opera, dedicata a Tranquillo Cremona dalla cui pittura, Dossi, imparò a scrivere; quest'opera, che fu alli occhi molto casti e manzoniani di De Amicis la prova della virilità di un letterato formidabile; questo volume, che al classicissimo Luigi Lodi si presentò con pagine «serenamente[112] belle, in cui la verità della vita è intesa e rappresentata con sobrietà, con nettezza di colorito e con bella sincerità d'artista» non è tale d'essere proposta per lettura ad virgam erigendam, a cantaridina sospetta, per Taidi e Batilli impomatati, per vecchiaccie insoddisfatte e ninfomani, per vecchiardi impotenti ed insatiriti. — Luigi Lodi comprese «lo sdegno[113] iroso di chi imagina un mondo in cui non può, o non vuole, penetrare: l'odio feroce dei solitarii contro la gente che non conoscono, la crudezza ricercata di pitture e lo studio disgraziato delle parole difficili, degli accoppiamenti e degli accostamenti disarmonici di lingua»; ma accorse pure «che, di tratto[114] in tratto, la pura tempra [151] d'artista sapeva liberarsi forte e schietta dall'involucro accademico, onde si era avvolta e aveva, per una virtù, che è propria degli uomini d'ingegno vero, la intuizione esatta del reale e scriveva con una muscolosa energia, con un disprezzo superbo, che raggiungevano, non di rado, il maggiore effetto».
E però, quei melensi spauriti, tra la giaculatoria e la somma de' spiccioli recapitolatrice dell'introito giornaliero, bottegai al minuto e strozzini all'ingrosso, alla nuova edizione di La Desinenza in A si sentiranno orripilare. Stiano lontani, si scansino, l'aborrino. Di questi giorni, alcuni possono reclamarla sentinella futurista (disprezzo alla donna!) con suggello marinettiano, altri vengono ad aggiungerla a Quelle Signore, senza scrupoli reddituarie, per Le Maisons Tellier e l'Amministrazione Notari: la sua ristampa in ogni modo commoverà la Gente-per-bene delle Leghe per la pubblica moralità. Sciocchezze tutte che si ostinano ad accorrere per ricompensare o per proibire, autenticandole e truffando nello stesso tempo, le basse ignoranza, o le povere ed incomplete malvagità.
Malsicura coscienza del proprio valore, sollecitare, col pagliaccio in sull'entrata, colle insegne sesquipedali alla finestra, perchè si accorgano di voi: miseria, proibire, condannare. La prostituzione è un organismo ch'ebbe movimento dalla società, dalla comunione, dalle leggi che vollero impedire: il giorno, in cui il dogma ed il codice vietarono il libero connubio per ragioni statali ed economiche, si rizzarono le prime tende del dicterio: quando l'uomo si trovò nel bisogno di concorrere alla tribù, tutto ebbe valore, anche il proprio sterco: quindi, confini ai campi, limite all'azione, distinzioni permesso e no, venalità per il sesso.
Storie povere di mendicità internazionali e gemebonde. È pur lecito, che, sotto il patrocinio di San Luigi re, morto casto e imbertonato, in un torneo, mentre, piissimo, attendeva ad un'ultima e mirabile crociata; è pur meritorio, che, accomandati da San Luigi prete, vergine che vergognavasi di guardare in volto la madre sua, temendone tentazione carnale; [152] è pur logico, che, ripristinato un specie di Indice nel gabinetto del procuratore del re, dove si accolgono le delazioni de' diversi Santini, de' varii senatori Béranger, delle dispersive Mrs. Grundy; risorga in onore la così detta Police des moeurs! Impudenza presbiterana; cacciatori di ragazze del marciapiede, di cartoline illustrate a donne nude, di Asini podrecchiani li agenti si ritrovano per essere esposti alle tentazioni di un sadismo sociale e questurinesco. Dentro di loro vigilia il senso nascosto della dolcezza di far sofrire, di spingere, pizzicottando le braccia e le natiche alle sorprese, di lacerare le imagini, di deporre davanti il magistrato calunnie. Portano daghe e dovrebbero rimettersi il sajo col caperuccio a bauta dei famuli; mi si rappresentano collo staffile in mano e la disciplina, intonacati, il kepi a sghimbescio, le mortelle al kepi, in un orrido compromesso di costumi, capuccino-Menot birro-croato-vice-boja-dell'Inquisizione. — Vengono a passi foderati di ovatta, come i gatti in ispedizione ladresca: annusano l'aria, le carte, l'inchiostro di stamperia, i cartoncini bristol e no, le sottane, le mani, l'alito, le pudende. Louis Veillot di ultramontana e clericalissima memoria ha raccontato di un santo che avvisava, dall'odorato, la castità feminile, cane di scovo per selvaggina di paradiso: codesti agenti si pretendono dotati della medesima istintiva virtù per quella d'inferno.
Oggi, domando loro, ed a coloro che li sguinzagliano, come l'ho chiesto ieri, se, essendo concesso di allegare il voto ai contadini bergamaschi, perchè ne approfitti uno de' qualunque Coris o Longinotti del parlamento — dove li eletti allogano sè stesso al governo, il quale ricatta e vende promesse e buona fede alla Nazione; — se, potendo, secondo un'ambigua carta, essere permesso alla libertà individuale di affittare temporaneamente, la forza de' muscoli, l'abilità delle mani, il prodotto de' suoi cinque sensi, in pittura, scoltura, musica, letteratura, industria, bellezza, non sia possibile dar a nolo, in buon contratto, il sesso alla femina, perchè un maschio, che [153] ne la richiede, ne usi a soddisfazione de' propri istinti genitali. Vi sono delle regioni anatomiche sante e sacre, e delle altre vergognose nel corpo. Vi è una legge che proibisca, per ordine pubblico e pubblica igiene, le indigestioni? Verrà, forse, quando messer Ferri s'incontrerà sulle direttive politiche con mastro Giolitti: per ora è tollerato il morire di colica epatica in seguito ad una scorpacciata di ciliege acerbe. Chi oserà dunque determinare alla fame ed alla golosità del sesso, ora, motivo, pietanza legittima e no, quantità, qualità razionale? È vero: l'indigestione simboleggia lo spirito cattolico e si pratica indisturbata: l'amore è Venere che torna fatale a contrastar Cristo: qui, vi ha contradizione; là corrispondenza: per intanto codice e dogma confondono bellezza con peccato e delitto, ma sopra tutto paventano la sincerità. Protenderanno le granfie a una prossima ristampa di Desinenza in A?
È dato solo alli uomini puri, come Carlo Dossi, d'immettere le mani nel brago e di ritorle monde: essi hanno in loro stessi il preservativo eccezionale, salutare e fatale del loro carattere, che li fa, in ogni momento della loro vita, candidi e schietti. Essi possono discendere nelle oscure profondità dell'anima e nelle latebre del corpo più oscure, dettagliarne le complicazioni eretiche, ripresentarne le cerebrazioni, coll'arte: il mistero torbido affascina e completa la piena conoscenza delle cose chiarissime. Vicino alli Amori, gilii e rose stretti in fascio ed offerti alla più bella ed alla più saggia, stiano il fior di cardo, le orchidee, la panocchia violetta ed eretta dall'aconito d'alpe. Si compensano; sanno di completare la botanica; definiscono per opposti cardini, la vita. Perchè il sole e non l'ombra? — Perchè l'ombra, sempre, e non mai il sole? — Carlo Dossi, che fece opera di vita, non ha trascurato i due elementi; dal bene e dal male foggia l'intiero suo poema: voi scegliete quanto meglio vi aggradi, o dal Romanzo della Bontà o dal Romanzo della Malvagità: o dalla sua ragion critica, o dalla sua ragion pratica. Egli non vi limita, nè v'impedisce l'opzione; quanto a me non distinguo; lo accetto e lo bandisco in totalità.
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Rovine, prodotto sistematico e passionale di critica, giovano a preparare il materiale di fabrica per più nuovi e più comodi istituti; rovine attestano la parte più facile dell'opera nostra, in quanto, davanti alla realtà, al fatto, alla cosa, le nostre attività si svolgono con maggior efficacia, e, lavorando sul tangibile, sul visibile, sul positivo, il risultato ne riesce del pari. Ma, rovine dicono battaglie vinte o perse, sempre, uh motivo di negazione ed il più ovvio. Il no non edifica, ma costruisce inversamente; il no è la ragion-critica. Credere rinnovare, o feticcio, od idea, o divinità, od istituti, o palazzi, significa applicare il nostro bisogno e la nostra speranza, nella continuità, riconoscerla, saperne usare, adattare il momento nostro personale al momento collettivo, dimostrare la pratica, per l'utile immediato; riconciliarsi, riammettersi nella vita attiva... Per ciò, nella serie dei sistemi filosofici, e Kant insegna, se si accampa a vittoria il sillogismo della prima parte demolitrice, s'intorbida e fuorvia la logica, che s'ubriaca di sè stessa e di apriorismi dogmatici; quando, colli elementi delle smantellate case di altrui, tentasi di inalzare il proprio sistema: ed ecco rifacimenti grotteschi, pericolosi, difficilissimi di architettura ideologica, fuori della realtà.
Per l'estetica di Carlo Dossi il caso avviene diversamente, il suo fabricare, cioè il credere di nuovo, ha fondamento nella riconosciuta e sentimentale solidarietà umana, verso un progresso illimitato di una necessità impellente biologica: l'utile. Ogni cosa, istituto, essere e credenza si evoluziona e si raffina verso un modo più facile, più sicuro, meno confuso e più armonioso di vivere. L'Utile, [155] adunque, nella sua assisi, s'apparecchia a diventar Bene, e Federico Nietzsche vorrà invidiargli questa rinnovazione di valori etici, che per l'altro non significa se non il secondo motivo della sua estetica. Dal concetto: «L'uomo ha bisogno di essere buono (onesto) per vivere meglio», estrae la conseguenza: «L'uomo migliore è anche più bello»: e la reciproca: «Lo stato più confacente per l'uomo, perchè sia bello e buono, è la Società», in senso lato, in senso cooperativo. Perchè in fondo la sua società ideale che ammette tutte le libere espressioni ed espansioni dell'organismo umano, si rappresenta in compromesso collo stato di natura del Rousseau, donde gli attinse il processo iniziale e la prima idea indulgendo pure all'Emile, per La Colonia Felice.
In fatti, di fiele, di assenzio, di disgusto e d'ironia non vive un letterato; è necessario ch'egli sappia trovare motivo più nutriente, più dolce, se non l'ambrosia olimpica, a cui non crede più, almeno una panacea, una nepente salutare che si distenda sopra le sue piaghe ulcerose, ne acquieti il bruciore, le addormenti, gli induca in riposo la febre, dentro il cervello esagitato. Quand'egli sente questo bisogno, vede il giorno chiaro, vi si è immerso; numera e considera le ore di sole dell'uomo e ne approfitta; riconosce il nero ed il bianco, e nella disposizione delle gamme, tutti i colori intercorrenti tra il no ed il sì. E perchè ogni letterato è sempre un determinista, rimena, in un solo crogiuolo, le essenze del Bene e del Male per la sintesi del concetto balzacchiano dell'Utile. Così, Paul Adam, che si distilla da quello passando per Victor Hugo, scriverà Les Cœurs utiles, La force du Mal; Carlo Dossi, che si è filtrato a traverso Porta e Manzoni, che si è emulsionato con una goccia della ambiguità di Richter, produrrà La Colonia Felice, Regno dei Cieli.
Riuscì purgato, disoppilato dal viaggio lungo e triste de' Ritratti umani, come que' casti teologhi che facevan precedere alle loro sottilissime meditazioni molte oncie di olio di ricino. [156] «Poi, divenuto[115] buono, trovo che il miglior sistema filosofico è sempre quello della benevolenza e mi torna la fede nel miglioramento senza limiti della umanità — di quella umanità, che anche quando sta per retrocedere, va innanzi, poichè la sua ascesa è fatale e spirale. Scaricatosi allora la tempestosa meteora, riappare sul mio rinserenito orizzonte, l'azzurro profilo del Regno dei Cieli e quello adolescentemente verde della Colonia Felice».
Al Romanzo della bontà eccolo venuto a traverso il Romanzo della malvagità; perciò intende ristabilire l'equilibrio; desidera condurre, concomitanti, le due strade; fondere i due generi in un armonico tutto: e pure, oggi, passeggerà per l'una, domani, per l'altra, ma non raggiungerà ancora il crocicchio, verso cui concorrono: oggi, trascorrerà nella pianura e sul monte, domani, ntel deserto e fra il bosco, seguendo i capricci particolari de' sentieri anfrattuosi: lunga arte saldare i poli opposti. Fors'egli vide, in rapida e vorticosa apparizione, passargli davanti le imagini luminosissime di un Inno al Dio Venturo: ma per quanto non sorpreso nè da[116] follia, nè da morte, ancora riguarda invano questo fastigio del suo edificio di pensiero e di parole incompiuto come il palazzo di Asar-Haddon a Nimrod, «o come[117] per esprimermi con più modestia, quelle insegne bottegaie, che cominciate con spavalde maiuscole alte un braccio, finiscono, per l'imprevidenza dell'imbianchino e la scarsità dello spazio, con abbreviature spilorcie e pusillanimi minuscole».
Così, si sermona e si ragiona, stando nella comune anticamera neutra e promiscua, in cui fa attendere i propri lettori ed in cui si immettono due porte: una a settentrione, che si apre sulla galleria de' Ritratti, l'altra[118] a levante che si apre nel poliorama delle sue fantasie filosofiche: [157] con ciò vi trattiene, e, prima che volgiate ad una porta o all'altra, vi porge la Guida ufficiale per visitar meglio i luoghi.
La sua filosofia incomincia, da questa proposta, dopo di aver saggiato la apparente purezza delle intenzioni umane, con una serie di investigazioni e di domande. Foscolo, prima di lui, aveva insinuato: «Stimo le virtù l'arte di mascherare i propri vizii, e la civiltà, la scienza per cui li adoperiamo in modo d'apparire onesti». Onesti? Carlo Dossi conosce che il miglior galantuomo è colui che non si pregiudica col commettere delle cattive azioni, perchè glie ne vien danno: «oh siate indulgentissimi[119] fuorchè seco voi», esclama. «Poter nuocere basta. Riconciliatevi col Cielo. Siate egoisti davvero». Per intanto se «vivi come[120] vuol opinione, ti mancherà sempre qualcosa; come vuole natura, ti avanzerà»; e Rousseau, dall'Emilio, dal Contratto sociale, riprova un'altra volta la sua imminente attualità.
Il sensismo iniziale di Carlo Dossi si è lambiccato nel suo cervello: egli insegna a beneficare perchè rientri nelle abitudini umane l'atto del dono, come un atavismo da trasmettersi originalmente, istintivamente, da padre in figlio. «Che[121] il beneficio entri nel nostro tenore di vita come l'abito e il cibo. Non compassione, soccorso. Bene genera bene, come spiga, spiga». Il consilio è salernitano di cristiana sanità; il principio è anche mistico, da Pitagora a Plotino; li occultisti se ne varranno, considerato il bene come una energia per sè stante, riproduttrice di altre energie equivalenti; come del resto, il male per un'altra forza di valore opposto, ma reciprocamente trasformabile. Su ciò il monismo ultimo adottò unicità di materia e di energia, a cui i nostri organismi sensibili, personalmente, attribuiscono un valore particolare di gioja o di dolore, a seconda dei casi; perchè le loro vibrazioni sono identiche nel tempo, nello spazio e nel sentimento. E' [158] la coscienza individuale che personalizza e trova il tono del dolore e del piacere, e spesso li confonde o li inverte, come il daltonismo fa con i colori, non riconoscendoli od indicandoli con nomi improprii.
È pur la coscienza individuale che scopre il tono dell'utile, nella mestissima trenodia del sacrificio, per cui il sofrire per li altri acquista consistenza e nobiltà eroiche. — L'originalità dossiana consiste nel proporre l'Egoismo — sentimento intransigente e permalosissimo, istrice aculeato che si raggomitola e punge dentro di noi a sua esclusiva ed animale difesa accorgendo, di lontano, ogni estranea presenza — a fondamento della morale, come già aveva indicato, a traverso il laidume, la via alla bellezza, a traverso il vizio, l'avvento della virtù. Il benessere personale, prima pietra angolare dell'altruismo, appare un paradosso ed è la conseguenza logica dell'abitudine mentale dossiana, del metodo suo, che diventa facilità psichica, donde si inalzano la sua arte e la sua filosofia. Similmente il D'Arca Santa, nella sua Fisiologia dell'Egoismo — che pochissimi conoscono e ch'io reputo a somma ventura sapere, regalatone di una copia, introvabile preziosità pe' bibliofili — gli aveva assegnato la funzione maggiore: da qui, polarizzati li istinti, verso il bisogno imminente del meglio, si elevano, a grado a grado, a potestà morale, scelgono di sulla bilancia, il piattello del bene, perchè sentono come meglio — beneficando — avrebbero potuto vivere nella necessaria comunione umana: donde, svolgendosi ai fastigi, per la rinuncia e l'abdicazione della materialità, ma per assumere le meraviglie delli splendori ideali dello spirito, elaterio il tornaconto, ecco il progresso, le virtù. Le quali sono l'esercizio delle forze usate, prudentemente, in modo che l'individuo se ne aumenti, acquisti indisturbato possesso, riconosciuta autorità.
Carlo Dossi ricorse a Locke ed a Bentham: vi si informò, per quanto i principii del più gran bene per il più gran numero, — della geniale utilità e l'espressione della Deontologia, — donde [159] si assegna all'uomo, precipua condizione, il proprio interesse — accettati e svolte dal Say nella determinazione del giusto e dell'ingiusto dall'utile — fossero per contrastare coi pensiero d'Alessandro Manzoni, dalle cui vene discorre l'humorismo lombardo della letteratura dossiana. Se Manzoni oppugna questo e quello, li accusa di contradizione e teme, che, indulgendo a loro, risorga la formola: la mia forza è il mio diritto, ribattendo il sistema non solo nella pratica, ma nelle definizioni ch'egli credeva mendaci; Dossi, che lo fa suo padre spirituale, lo osteggia vittoriosamente, non coll'opporre ragionamento a trattato di filosofia, ma col racconto di un fatto — La Colonia Felice — con una dimostrazione psicologica, Il Regno dei Cieli, — Manzoni era inoltre troppo povero di coltura scientifica, fisica e biologica, per riconoscere li errori delle sue premesse in ciò il Dossi, che aveva seguito le più limpide frasi del Dialogo delle Invenzioni, non avrebbe inceppato. Se, in quell'aureo scritto, il trageda di Adelchi aveva dimostrato, «il[122] nesso che esiste tra la ricerca delle ragioni ultime e la filosofia pratica; e, nel campo della storia andò a cercare i fatti più notevoli e più caratteristici e che meno hanno apparenza di derivare da speculazioni filosofiche, per trovare come appunto ne sono la conseguenza»; l'autore di Desinenza in A non usa di mezzo e metodo diversi, ma si induce all'opposta teorica che dall'altro veniva protestata ed accampata nella Morale cattolica.
Per ciò, se questa autenticò al cattolicismo il dogma dell'imperativo categorico giansenista e di Emanuele Kant, sì che il suo insegnamento è fuori ed oltre la semplice Teologia[123] morale di un qualunque Fulgenzio Cunigliati, settatore purissimo di tomistica, assumendo il grado di una possibilità evolutiva; Il Regno dei Cieli ne devia. Se Don Alessandro [160] si accontentò di vedere in astratto, Carlo Dossi porge in sanzione interiore, svolge atti a riscontro di fatti egoistici e personali. Egli, accostatosi alla serenità della antropologia lombrosiana, distende il suo concetto, da prima negativo e pessimistico, già involuto dalla grettezza ferrigna del fatum e dalla nascosta crudeltà della fatale reversibilità del De-Maistre: qui si placa in una fede positivista, nell'ottimismo speranzoso ch'un migliore futuro, si temperi col determinismo, per cui i fenomeni e li esseri procedono per gradi, in cui la natura sapientissima non li immobilizza, ma li fa sostare quel tanto pel quale si assicurino del diritto di salire più in su. Exceltius! intona, comme un Allelujah, il Regno dei Cieli: la suprema bontà illuminata del perdono sociale che redime, dell'amore che fa virtuosi, sta nella Colonia Felice. — Aronne, all'inviato della madre patria, che, per bocca di quegli verrà a chiamare i condannati, esposti nell'isola deserta, dopo la prova ed i frutti della redenzione: «Uomini fratelli!» racconterà in questo modo le fasi della evoluzione di quel rifiuto galeotto a cui presiede. «Intanto, Aronne, a seconda dei luoghi, gli narrava la storia, ora triste, ora lieta, della colonia, dal tempo in cui d'uomo, non possedevano essi che il nome; quando cercavano il proprio vantaggio nel danno altrui; fin chè svegliati dal loro stesso russare e fiorita la tardiva saggezza, si riducevano, a forza, nell'umano diritto; e narrava, come allor la sventura apprendesse la felice fortuna; il bisogno il soddisfacimento, l'Anarchia, lo Stato; mentre la non mai zitta incontentabilità nutriva il progresso, sostituendo, ad una forzata uguaglianza nella miseria, la innata provvidenziale disuguaglianza[124].
Così, dalle oscure e terree radici dell'albero, immerse nell'humus a succhiare, per mille ventose, il nutrimento, con uno slancio di fede e d'amore, si sublimano le eccelse frasche aeree a giuocare coll'azzurro e le stelle di una tiepida notte [161] serena, allietata dallo zefiro primaverile e musicale, rischiarata dallo sfoggio di tutti li astri, apparsi sulle ringhiere del firmamento, come giovani indiademate a salutare li uomini di buona volontà. — Così, l'Utile è la ragion radicale e fondamentale del materialismo storico di Carlo Dossi, come è la Lotta di Classe nel sistema di Marx ed Engels; colla differenza che l'Utile dossiano rispetta i termini, i diritti e le prerogative del cervello, anzi li feconda di maggiori attributi; mentre la Lotta di Classe, gretta interpretazione economica e commerciale dei fatti, sommette la preziosità de' nervi al compromesso numerico della folla ed ai numeri muscolari della economia politica.
La Lotta di Classe dimenticavasi che sempre, una eletta minoranza sarà pur quella la quale doterà di maggiore giustizia sociale, di più lato benessere individuale, di più assodata sicurezza le nazioni, in sul cilio della bancarotta fraudolenta, per mancanza di solidarietà, in pericolo di morte per cessato esercizio di patriottismo e di virtù gestante e serena. Di ciò non obliavasi il Dossi. «Nuovi[125] errori pigliano, continuamente, il posto dei vecchi, perchè l'uomo procede solamente a loro mezzo; per cui, se tu vuoi essere degno di scusa in faccia alla storia, attienti all'errore dei molti, che è la verità di quest'oggi; e se, invece ambisci a una lode datti all'errore dei pochi, che è la verità del domani». Ma s'egli è qui inesorabile contro i luoghi comuni del presente non la perdona alle ignoranti superstizioni del passato: «La clemenza[126], si dice, dovrebbe essere esclusa dalla legislatura; ed io non vorrei neppure la legislazione. Si diminuiscano le pene per diminuire i delitti. Come nelle malattie fisiche giova più la cura preventiva della repressiva; così nelle morali. Cangiate le carceri in iscuole! Le pene rappresentano ancora [162] un lusso antico quando erano un reddito sicuro del principe». — Nè in diverso modo considera la beneficenza: «Non giova che preventiva. Gli 8450 stabilimenti italiani di carità posteriore non sono che altrettanti semenzai di[127] miseria»; sì che il razionalismo dossiano, galoppando con lena, aveva prima di Nietzsche rettificato molti valori malamente in uso di parole di frasi, di idee, depurandoli dall'esoso ed eroso grassume depostovi a patina dai secoli, dalle mani sporche e dalle coscienze sudicie delli uomini per cui erano, perdendo d'efficacia, passati i concetti primi, semplici ed esemplari della naturale moralità. Perchè Carlo Dossi ci ha confessato: «Pensai[128] che giustizia e bontà fossero cavigliati all'uomo dal suo egoismo medesimo, e che il proprio vantaggio, sapientemente considerato, coincidesse, in ultima analisi, col vantaggio altrui; che in ogni caso, il maggior e il più forte interesse si risolvesse in una soddisfazione di coscienza. Sul che imbrattai un fascicoletto di carta che s'intitolò il Regno dei Cieli». Qui, un angiolo proclama a divisa, dignitosamente sfavillando: «Vive[129] eterno Amore!» ed il Regno dei Cieli è, per l'autore di Desinenza in A: «Il Quinto Vangelo».
Si era, allora, nel folto delle agitazioni socialiste, della propaganda attiva libertaria; dalle idee di Chaumettte, di Buonarroti, di Fourier, di Saint-Simon, di Proudhon, di Blaqui, s'accendeva la rivolta sociale. Prima assisi, il meeting di Saint Martin's Hall, nel 1864, costatava la miseria dell'epoca, mostrava a nudo i vizii reconditi del misto regime europeo, denunciava, ai popoli oppressi, il bisogno di libertà, alle nazioni compresse, l'autonomia, a tutti, l'insorgere necessario contro i vincoli del dispotismo, le sovranità delli stati dominatori in urto ed in onta alle ragioni storiche e geografiche. [163] Emanavansi principi, concetti a seminare il mondo di certa raccolta tempestosa; ruinavansi le vecchie formole, le tradizioni, i rapporti diplomatici e costituzionali consacrati, il dogma della autorità. A Ginevra nel 1864, a Losanna, nel 1867, a Bruxelles, nel settembre dell'anno successivo, a Basilea, nel 1869, la Internazionale riuniva i suoi parlamenti. Quivi, Bakunine l'aveva raggiunta colla Democrazia socialista, v'innestava l'individualismo conflagrante, cui Marx ed Engels, dopo aver dettato il Manifesto, contrastavano con autoritarismo germanico ed egemonico, disvolgendone le due correnti rivoluzionarie; una, verso la statolatria accentratrice, l'altra, verso il sindacalismo dissolvente. Il comunismo ritornava in sulla ribalta della attualità; vi aveva conglobato il binomio, che avrebbe dovuto scindersi subito per incompatibilità di carattere; e l'elettrolisi della critica dispose, in fatti, ai due poli opposti, li elementi inimici. — La Comune aveva sfolgorato, sgozzata a Satory, agonizzante a Cajenna, accesa dalla causa occasionale di un Sedan, di una capitolazione di Parigi. La Federazione del Giura affocava con calma scientifica li odii, si opponeva, sostenuta da Bakunine, all'assorbimento hegeliano della logica di Marx; le Federazioni italiane optavano chiaramente per la rivoluzione pura, per la tattica delle società secrete. Al congresso di Bruxelles, del 1874, Cafiero non credeva opportuno accedere, eleggendo le armi alle chiacchiere; e De Paepe constatava le due tendenze: quella di Spagna, d'Italia e del Giura, anarchica, l'altra di Germania e d'Inghilterra in cui predominava la nozione dello Stato-operajo. Le Borghesie europee, all'agguato, eccitavano sommosse, scoprivano e fabricavano complotti polizieschi: in fondo, la loro attitudine era quella del sospetto e del terrore. Nelli anni eroici e di passione dell'Internazionale, si determinavano le prime ragioni del proletariato e delle filosofie libertarie, ad inlievitare tutta la serie delle proposte e delle pretese, che ancora si avvicendano sul campo della economia e si schierano, armate, nel breve e più logico arringo della politica interna d'ogni nazione.
[164] Per cui, nella coincidenza appassionata colla semaine sanglante dell'ordine versagliese, Carlo Dossi giovane ventiduenne aveva squillato, con entusiasmo e dolore, terzine libere di foscoliana eloquenza, che dovranno rimanere nella istoria della nostra lirica; terzine forse edite di poi ma anonime nel 1878, in un foglio d'avanguardia, a cura di Luigi Perelli, quando l'Italia ultima, ricondotta alla greppia dalle moine e dalle carezze di Margherita e dalla ostentata democrazia di Umberto, nuovi re, si sentiva, per tornaconto e d'impostura, per pigrizia e viltà, tutta scombussolata al fatto semplice di cronaca del Passanante.
Terzine porte, all'amico, dall'autore, con questa raccomandazione: «Io te le mando, qui accluse, perchè tu vegga se vi è maniera, da parte tua, di farle stampare in qualche gazzetta, o rivista. Inutile raccomandarti il più geloso secreto sul nome del suo autore. Non ch'io arrossi di averle commesse. È un bimbo illegittimo, che, per necessità di famiglia, mi tocca, oggi, di esporre, ma che in tempi migliori rivendicherò. — Lasciami dire: benchè solitaria, non è inopportuna una voce, che, in tanto delirio dinastico e pagnottistico, in tanta gara di servilismo, tenti di richiamare a dignità la coscienza italiana ed a carità l'umana. A me, come a qualunque onest'uomo, fa orrore l'omicidio, fosse pure politico, ma a me, come, purtroppo a pochissimi, fa insieme schifo lo spettacolo di uomini, i quali, non solo da sentimento di sdegno santissimo traggono pretesto ad adulazioni che l'amor di patria non iscusa, ma imprecano a quella libertà che li ha fatti e supplicano perchè sia loro tolta[130]»: fiero commento a questi versi che bisogna rileggere qui, poichè ignoti e bellissimi:
[165]
«NUOVE NOZZE»
«Piombò l'ignoto Iddio su Humana. Sparso
fu il nuzial sangue. Immensa orrida teda,
Lutezia in fiamme. Paraninfa, Morte.
All'improvviso amplesso Humana un grido
di voluttuoso spasimo gittò,
e, affranta, cadde nell'onda dei sogni.
Ma il sonno è sciolto. Ella si aderge altera
ricordando l'amplesso, e, intorno, mira
se ancor rifulga il suo terribil sposo.
«Vieni, o diletto» — desiosamente
chiama — «vieni a colei non sazia e tua
e le rinnova quel dolor fecondo.
Stanca son io dell'amor che legge
avara mi misura: amor che ha tiara
ha plico e diadema e sotto è calvo.
Vecchi rabbiosi d'impotenti voglie,
mi circuendo, a fedeltà costretta,
e il talamo che olezza ancor di te;
«il tuo — mi dicon — nome è annientamento.
Dunque t'affretta! Quanto intorno veggo
invoca scure, rogo e oblio profondo.
Tutt'ardo ed amo. Colle gruccie loro
seguon, que' vecchi, di briache linee
la terra urlando: «oltre non amerai!»
Sentomi adulta e di me stessa donna.
Vieni, o possente, e colla man tua rude
lacera i veli che mi offuscon gli occhi,
strappa i monili che mi son catene,
sciogli la veste che mi impaccia il piede,
e mi ritorna al sol libera e nuda.»
[166] Questi endecasillabi si volevano stampati anche da Alberto Pisani, segretario alle sabaude diplomazie della Consulta, come tradotti da Carlo Dossi, se pur lo vennero, perchè ritrovai solamente le bozze ma non il foglio che li avrebbe dovuto recare, ed oggi, in tempo migliore glieli rivendico a grande titolo di gloria. Senonchè, allora apertamente, in sospeso, si tenne in bilancia col Regno dei Cieli. Che, se in questo evidentemente veniva all'individualismo libertario e rispecchiava le Nuove Nozze, lo aveva però vestito di beneficenza e di carità, dandogli la rossa zimarra talare del Cristo. Ma la sua profonda dottrina, il suo scetticismo caustico, dubitarono ancora: riposero sotto a soppannare la camicia del Rabbi, la palandrana lunga, la zimarra decorata del conservatorismo, quasi volesse entrare, e nei palazzi e nei templi, coll'uniforme d'obbligo, volendo sorprendere per insidia le posizioni che desiderava occupare. E però nessuno si illuda, se la sua critica, che permane anche contro il socialismo, si rivolge diritta specificatamente a limitare le funzioni dello Stato improprio conservatore de' privilegi, a combattere la falsa morale, il costume, l'attitudine alla menzogna sociale.
Vi dice chiaramente e rivoluzionariamente: «Il Comunismo[131] ed il Socialismo vanno posti negli errori del tempo presente. (E ricordate che il presente è l'opera del Commercio). Il primo, a fortuna, è inattuabile; esso esige una perfetta e continua eguaglianza. Or come ottenere quella dell'ingegno? — L'altro, troupeaux et bergers, pur troppo è in pieno vigore. I Governi ne sono la massima prova; i quali tendono sostituire allo spirito dell'individuale interesse un interesse comune cui nessuno partecipa. L'Internazionalismo è tutt'altra cosa del Socialismo: ma Governo-Socialismo-Dispotismo, nel mio dizionario, sono sinonomi». — «È ora[132] [167] che l'individuo esca dalla tutela dello Stato: ciascuno sia responsabile di sè: facciamo senza degli Dei, tra poco faremo senza dei Governi». — La petizione è singolarmente individualista ed anarchica, per quanto uscita dalla penna di un diplomatico. Ma chi non ha accorto i germini di una teocrazia libertaria in De Maistre e le sementi di un determinismo anarchico in De Gobineau? Carlo Dossi è di questa razza; e non solo dubita, ma condanna lo Stato: «Lo Stato! come[133] espressione, anche etimologica, il suo vocabolo rappresenta l'immobilità: Stato è cosa che non si muove»: mentr'egli sa che il futuro filosofico e storico è l'Anarchia; però che la Repubblica, secondo l'opinione di Proudhon e di Giovanni Bovio è l'attuazione generosa di un reggimento libertario. «Lo[134] Stato è sempre un peso immane: pure bisogna pagarlo alla Società col prezzo del lavoro; come alla Natura si paga la Vita colla Morte. Da giovanotto fui persuaso che bisogna rassegnarsi allo Stato come alle sepolture. Oggi è sepoltura aperta che ammorba. E così in me si venne delineando il concetto dello Stato, come un organismo in cui tanto scema il Governo, quanto di autonomia acquista la persona. Un tale concetto, esplicato direttamente, tirava all'Ideale della Repubblica sociale. Se nello sgravarci di tutto questo, però, noi non possiamo, nè potremmo, buttarlo giù ad un primo scrollo di spalle, riduciamolo — dico io — secondo il disegno evolutivo della storia»; però che questa si avvia all'Anarchia deliberatamente. Al maggior filosofo italiano moderno può ben rispondere Carlo Dossi: «La Libertà[135] consiste nel poter fare quanto si deve volere, e non nell'essere costretti a far quanto non si può, nè deve. Ora, dato un Governo tutte le forme si valgono. Quod interest quot domini sint? Servitus una est! Dato un governo, [168] il migliore è il meglio amministrato. Ed allora, noi sentiamo tutti i mali della libertà perchè non la possediamo intiera».
L'osservazione critica si ripropone colla salacità fine e acuta, col senso nascosto della pratica: lo sentiamo irridere alla religione dello Stato, alle Religioni delle masse, alla Religione del Socialismo, alla Religione del Papa; e però ci consiglia alla osservanza di un codice, di un decalogo, di un rito, di un governo, contro cui si appunta e storce il suo Regno dei Cieli, il Quinto Vangelo!
Torna egli all'errore? «Taci[136], non insultare Natura, la eternamente, la immoderatamente buona. Insieme alle lagrime ci ha dato il sorriso; qui vive felicità...» Felicità nell'inganno? Necessità della menzogna fiorita e dolce: perchè interromperà il sogno fatato delle Illusioni? Perchè, «con una[137] sfornata di ragioni semplici, evidenti, con una eloquenza, tanto più insinuante quanto meno pontificale, darsi a scalzare la buona fede di Pietro?» — «Che le aveva da sostituire il povero[138] uomo?» Carlo Dossi si ferma davanti alla verità che accieca, ma che non consola. «Abbiate pazienza[139], o Dei di seconda mano, miseri fabbricatorini di mondi contro natura; con l'ignoranza non hanno mai valso i raziocinii della saggezza, nè varranno mai. Di addurre al Vero la plebe, unica via, l'Errore». Sacrosanta Utilità dell'Errore; formola sociale: disse Sinesio: «Conviene che le folle sappiano quanto è proporzionato alle loro racchiuse intelligenze:» — E Varrone: «È necessario che il popolo ignori molte cose vere e creda a molte false». — E: Joseph de Maistre: «La folla comprende questi dogmi, quindi sono erronei; li ama, ed allora sono pericolosi». — E Champfort: «Scommetto che ogni idea pubblica è una consacrazione atavica di sciocchezze, poi che ha compiaciuto a tante persone». — Ma [169] per qual ragione privarli del loro piacere? Loforte-Randi, che è un razionalista, anch'egli fa parte all'errore e lo coonesta: alessandrineggia da gramatico e da gesuita, ma ammette: «che la folla[140] creda ciò è un gran bene; essa supplisce, così, alla sua fatale ignoranza, con un atto di fede, rimettendosi, in ogni cosa, a colui che — come essa crede — sa tutto e può far tutto;» ed invidia I poveri di spirito, perchè «gli atei, i quali[141] hanno la fortuna — o la disgrazia — di non farsi abbrutire dal bestiale materialismo (e sono gli atei solitari alla Shelley ed alla Nietzsche) sono degli infelici paragonabili a coloro, che, un giorno ricchissimi, sono tormentati dal ricordo della ricchezza irreparabilmente perduta». Per ciò, Carlo Dossi predica la pratica del Bene per l'Utile; e, non ricorrendo più alle illusioni religiose, alle speranze della fede, alli entusiasmi del sacrificio, va diritto al senso logico dell'egoismo, che per convenienza, conserva e riconsacra la religione. Il circolo si chiude: nuova interpretazione, antichissimi fatti positivi a persistere; Gaetano Negri sbircia malizioso dalle persiane socchiuse.
Gaetano Negri, che si nasconde; un filosofo anch'esso anarchico, perchè egotista ed autoritario, che impropriamente si cammuffò da conservatore, gesuita di altissimo garbo moderno, che assunse il servizio, per meglio dominare, anche del clericalismo, questa volta servo-padrone nel reggimento del ducato di Milano, oggi Consiglio Comunale di Paneropoli: ma fu raté, perchè non ebbe il coraggio delle proprie opinioni. Gaetano Negri, non beneviso a Carlo Dossi, che, se ammette necessaria una religione positiva nel compromesso sociale chiamato Stato — vedemmo in qual conto lo tenesse, — la considera colla mirabile impudenza d'affermare: «Manzoni[142] ostenta di aver fede; Rovani di non averne: Dossi ne piglia quando gli occorra di far degli effetti e quando gli accomoda: ma nessuno dei tre ne ha». — Perchè: [170] «Data[143] una religione, la migliore, secondo me, è quella in cui l'altro mondo meglio giova alla felicità di questo» Il tema è tuttora l'utilità; il modo di svolgerlo uno scetticismo, che si esaspera cinicamente.
Ond'io non lo seguo e vado lealmente colla serena e nobile franchezza del Renan: «La[144] nostra base consiste in ciò: bisogna agire come se la vita futura non ci fosse, sia che essa esista, o no. Predicare al popolo la non-vita futura, vuol dire rendergli un servigio; perchè è lo stesso che eccitarlo a compiere uno sforzo nel presente. Predicargli la vita futura, significa addormentarlo e forse truffarlo, facendogli perdere tutto per indurlo a correre dietro una chimera». Ed «io dico[145], che quando uno scettico somministra al povero il dogma consolatore senza credervi, al solo scopo di tenerlo tranquillo, egli fa opera di scroccone, pagando in biglietti, ch'egli sa falsi, la buona fede e la miseria altrui. La preoccupazione della vita futura è nociva alla umanità; nè ci si deve affidar troppo all'apostolato del prete nei giorni della paura. Perchè creda il popolo, e credano le classi dominanti; ma queste credono, o fingono, o s'illudono di credere solamente nei giorni pericolosi al loro dominio. Singolari cristiani questi forzati dal terrore! Al primo sole della tranquillità, ritornano increduli: Voltaire può venir cacciato dalla loro biblioteca, ma non dalla loro memoria. Così, se costoro mantengono una parte dell'umanità nelle barbarie, per dominarla e sfruttarla, fanno opera pericolosa ed immorale. Bisogna dare a ciascuno un posto nel banchetto reale della vita». L'anarchia di Carlo Dossi non se ne preoccupa, perchè è comunque, ed in ogni regime, liberissima anche nel libito, ed il suo esercizio è incondizionato con qualunque professione di fede? Non so: egli desidera che i propri fratelli siano armoniosamente [171] in pace con loro stessi nella supposizione di essere felici, l'unica vera felicità: la religione li può aiutare, in questo dunque giova. E che più?
«Imaginiamo per rinnovarci il coraggio di vivere!» A qualche cosa serva anche l'inutile ricchezza della poesia e del sogno, a popolare il deserto della morte coll'al-di-là» a soggiungere ragione di governo colla pompa e le menzogne pietose delle religioni: «L'illusione[146], l'errore necessario, è perciò il profumo più squisito della vita!».
Diplomaticamente De Maistre l'aveva già ammesso e Carlo Dossi gli si apparenta più che non a Manzoni, come meglio a Nietzsche che non a Rousseau. E pure, quanti ascosi legami, quante secrete intelligenze allacciano Nietzsche a De Maistre, — Rousseau a Manzoni! De Maistre, che considerava il catolicismo ragion sociale, sorride alle ingenuità di Manzoni, che lo attesta ragion morale: il Dossi può proclamarlo religione positiva, utile, il giorno in cui può giovarle al nostro interesse quando, comunque, ci allontana da un pericolo, ci consiglia su quanto ne nuoce, ci propone ciò che può aumentare la nostra felicità. Onde, chi sgorgò da viva fonte manzoniana e percorse un lungo cammino tra bronchi, sassi, cascate, paludi e calmi laghetti ornamentali, pur contrastando alla Morale Cattolica, la ripropone per convenienza; e dopo maturo esame, può aver motivi di credere: «Manzoni[147], come ogni grande humorista, è scettico. Non si guardi alla esterna fisionomia dei Promessi Sposi. Dentro in vece. E Manzoni non crede; ma il suo scetticismo è vestito di fede; e ciò l'introduce, sotto mentite spoglie, nel campo avversario: Rovani pure non crede; ma ostenta la sua incredulità a volto aperto, e forza il nemico d'assalto». E Carlo Dossi? — L'ho sorpreso qualche volta con questa frase sulle labra: «Credo a questo mondo!» E nella efficacia delle sue religioni positive?
[172] L'Utile accetta, dall'entusiasmo, l'ascetismo: integrativo e sperimentale, fa dalla metafisica sentimentale e dai logaritmi della imaginazione, dalli eccessi dell'isterismo e dalla forza d'inerzia della folla ignorante, un altro serbatojo di energia. L'Utile non può trascurare l'impulso collettivo ed operante della suggestione, come preghiera, come superstizione; non può lasciar da parte la massa di forze vive che si spostano da una comunione di credenti, dall'esorcismo rituale e condecorato, da tutti li incentivi erotici, profumi, colori, luci, suoni, contatti, commistioni d'alito, di abiti, di carni: non può non impiegare la potenza divulgatrice ed eccitante delle processioni e de' trionfi, delle tensioni nervose dell'aspettare, della vibrazione molecolare dell'aria per le grida, le orchestre, i cori squillanti. Freme la folla; aspetta la celebrazione di un mistero, l'avvento di un miracolo, di una grazia, di una cosa non mai prima occorsa: ed il fluido si riversa a fiotti; penetra ognuno ed ogni cosa; opera le trasmutazioni, si fissa in visioni, in allucinazioni, parla parole misteriose, apre la bocca ai muti, li occhi ai ciechi, i sessi alle infeconde; risana, ristora, converte, domina, feminilità radioattiva e passionale erotta e respirata, taumaturga, nell'atmosfera. L'Utile non ripudia Lourdes, le guarigioni, che Charcot dimostra colla scienza, nel suo laboratorio. L'Utile esprime le sue mille virtù dalle Lettres de Malésie, quando Paul Adam si induce mitografo e riassume, sotto la simbologia cattolica, il culto della Ragione e della Scienza; lascia ai miti la loro poetica potestà, li aumenta d'esoteriche funzioni, li espone, con isfarzo di teorie e di lustrazioni, alla saggezza del popolo nuovo; ma riserba, come i sacerdoti egizii e le gerusie di Eleusi, alla dottrina ermetica delli iniziati, il senso nascosto delle verità assolute, che dichiarano, per gesti ed attributi, le bellissime iconi, che declamano, con divine maestà di sinfonie e di poemi, le tragedie, sacre commemorazioni della storia, dei conflitti, della gioja e delle vittorie della Terra e delli Uomini, nello svolgersi delle epoche e nelle successive conquiste dell'Utile [173] sopra la brutalità della materia e de' semplici istinti animali.
Per questo motivo, Il Regno dei Cieli racchiude una parola di più ed un concetto maggiore di quanto La Morale Cattolica non abbia esposto: dall'Utile, combattuto e rifiutato da Manzoni, Carlo Dossi ha estratto un principio morale e sociale a cui Manzoni non arrivò. Inalza prezzo e bontà alla vita, mandata in discredito dal pessimismo leopardiano, dal sarcasmo schopenhauriano, restituisce santità alla missione dell'onesto, poesia al lavoro: non toglie la fede a chi crede, le consolazioni ideali e verbali a chi prega, le speranze dell'al di là a chi le brama, e senza delle quali non saprebbe esistere; ma tutti inchina ad adorare Dio anche nel prossimo loro. Egli confida nella Natura; col suo esempio e patrocinio, risponde allo sconforto; benedice anche il vizio, perchè necessario ed in tal modo che nessuna forma di governo, nemmeno la imaginaria repubblica aurea di Platone, ha saputo estirparlo. Egli, forse, sognava ancora, se vien desto: «La[148] mia soave fanciulla, sedutami a fianco, dicea: Che fai tu all'oscuro? — E con un bacio; mi rischiarò».
E però, dal delitto, fa sorgere novella Roma.
La clemenza di un principe dotto ed umanista, nutrito di Enciclopedia, innamorato delle teorie di Tomaso Moro e del Contratto di Gian Giacomo, concede a una torma di delinquenti, rei di delitto capitale, vita e libertà; la deporta in un'isola sperduta dell'Oceano. Colà, tiepidezza di clima, suolo pingue, fortunatissima stagione, costante salubrità d'aria, protezione di foreste e di fauna pacifica, favore di Natura li conservano: munificenza reale li dota d'armi a difesa e ad offesa di quella vita, cui la legge della madre patria rifiutò di privarli, abbandonandoli, alla loro coscienza ed al loro arbitrio, per ridiventare, in caccia di loro stessi e de' loro istinti, nella troglodita anarchia, vindici e protettori del proprio egoismo limitato ed aggredito dall'egoismo altrui.
[174] Liberi, le armi in pugno, delinquenti, senza legge, monade prima della società civile, quaranta tra uomini e donne stanno dissoluti e diserti dalla comune patria sopra la spiaggia, in faccia al mare, dopo la lettura della sentenza che ve li inchioda e che li abbandona alla implacabile coscienza: passano, in cospetto del suolo ignoto, rassegna omerica. Il maggiore e più forte si avanza; pretende, soggioga, domina «Ex ferocibus universis singuli metu suo, obedientes fuere».
Ed è Gualdo-beccajo. Rex o Konig, la violenza; biondiccio, membruto, occhi chiari, asciutto, barbaro primordiale, il brigante. Incontra tra le peccatrici, Nera bellissima; la sotto pone, la avvince a sè col prestigio dei suoi muscoli, colla fiamma della sua lussuria; Nera, bruna, magra, vibrante, oratrice d'insolenze e bestemie, trombettante strida acute, l'impulsiva. La coppia aristocratica si fonde, la cellula della famiglia tipica, progenitrice di dinastia, funziona.
Ma Aronne, letterato, debole di corpo, ricchissimo di mente, Vate o Pontifex, faina e volpe, il detentore delle parole, il fraudolento, colui che sa commuovere e convincere, che sa creare, dal nulla, cose col verbo, che dà anima ed azione alle idee, il depositario della scienza, che, in quella solitudine oceanica, appare rivelata, perchè nessuna contiguità di continente e d'uomini influisce sopra l'isola della deportazione; l'osteggia; si oppone a Gualdo, pretende e pretesta la sua ragion psichica, domanda superiorità nel comando.
I più deliberati, li assassini, i sanguigni seguono la fazione militare; i più pacifici, i cabalatori, i nervosi sostengono il geronte. S'azzuffano, Ghibellini e Guelfi; il Dispotismo e la Teocrazia si rimettono di fronte; incominciano l'evo di Mezzo di ogni storia universale; provano le loro forze, prima di fondersi, di costruire, sopra i due pernii essenziali, una patria; Diritto e Forza, Cervello e Muscolo, lo Stato integrale.
Il figlio nato dalla coppia regia, da Gualdo e dalla Nera, l'indice vivo della fecondità, della stirpe che si infutura, della posterità che appare, accelera la pace tra le due parti; la giurano. [175] Leggi si informano, preste ed esecutive costituzioni. Aronne le detta; Gualdo le fa eseguire: il Rex ritorna braccio armato del Pontifex; il Cervello, il Diritto si valgono dei Muscoli e della Forza: «Se il[149] pugno io l'ho forte, — Gualdo oppose, — debole è il capo. Io non potrei che farmi accoppare. Troppo mi sento ignorante di una ignoranza a cui non c'è pezza. Il mio braccio ha bisogno di testa. Ecco la testa! — e additò il Letterato». Per cui si instaura la diarchia, la antichissima diarchia romana, che i sette re di Tito Livio fa quattordici; che sussiste colla Repubblica ne' due Consoli; che appare nelle istituzioni civili e militari, concomitando all'unico scopo della grandezza romana. — Ne sdegna le leggi Mario, il Nebbioso: elegge esilio, il cammino de' boschi e della miserrima libertà delle fiere; Mario bello, giovane, forte, generoso ed intelligente, il dissidente, il refrattario; un'altra nuova potestà umana, la coscienza del proprio individualismo idealista. Ma amore lo ricondurrà alla comunione.
«Et Venerem sensere lupae, sensere leaene».
L'albore, in cui si annega il crepuscolo delle anime terrose e scabre e della informe coscienza umana, nella crisi tormentosa di voler essere di più; la pallida luce, in cui l'uomo ridiventa individuo, accetta e consiglia leggi, si fa cittadino, balenando, si affaccia colla seconda generazione: amore, incondizionatamente, fa il miracolo. Forestina nata da Gualdo, e sopravissuta nella nascita, alla Nera, che moriva nell'esporla; Forestina riallaccia la cretura alla natura, il finito all'infinito, ridona esistenza al sentimento, alla fede, determina la religione naturale, difesa preziosa per le anime sensibili e passionate. — Nelle pure viscere della verginità impubere, il bisogno di confidarsi fa scoprire a Forestina la prima preghiera alla divinità. Carlo Dossi trova, per le sue labra commosse, una nuovissima Ave Maria panteista; la preghiera scorre soave e maestosa, [176] battuta sopra, un endecasillabo scolto di foscoliana venustà, nascosto nella piana tipografia di una prosa, che male inganna li orecchi esercitati al verso:
«O Madre, o Madre, dalle tue profonde
viscere, alziamo lamentosi il canto.
Tu, spento sole, con feconda morte
anima e forma a noi susciti e cibi.
E noi, tuoi vermi..........»
Così io leggo e declamo il cantico classico e razionalista: altri scanda, se può, diversamente
Ma, nelle pure viscere della verginità pubere, scocca l'amore scintille ed accende. Ed è Mario reietto; colui, che, dopo le vicende d'odio e d'angoscia, dopo il sangue versato, dopo il rinnovarsi del mito di Elena, senza rovina d'Ilio e della favola dei Promessi Sposi, senza l'intervento del Cardinal Federigo e di Fra Cristoforo, ritorna alli uomini, dai boschi e dalle selve. Consacransi li sponsali tra la cannonata benaugurosa della nave, che arreca, dalla madre patria, l'assunzione de' deportati a cittadini, affermandoli redenti e utili. «Egri[150] eravate — interruppe il silenzio la voce del capitano, leggendo — non vi spegnemmo, guariste. Da ogni Vizio, Virtù. Roma, covo prisco di ladri, diventò nido di Eroi: siate Roma!».
Il nocciolo latino, fondamentale, un'altra volta appariva, anima indimenticabile, nell'innesto barbarico, che, chiaramente aveva inlievitato il racconto da Rousseau a Victor Hugo; felicissima integrazione. La Colonia Felice incomincia dove termina il romanzo intitolato La Colonia Felice.
Carlo Dossi può, com'egli crede, condannare, nella Diffida, che precede la quarta edizione del 1883, La Colonia Felice. Corroborato dall'arida efficacia del vero, dalla dura esperienza, che vorrebbe cancellati li ultimi fantasimi delle nebulosità ottimiste, azzurro-rosei, sotto il nero-fumo del sopravenuto [177] pessimismo, sconfessa, per ragioni scientifiche e pur lombrosiane, il concetto del suo lavoro, non ne accoglie la forma, sembrandogli lo stile troppo latineggiante e la concezione di romanzo storico impropria. S'egli desiderò ripetere la piacevolezza di Manzoni sul Romanzo storico, non so: comprendo invece lo scrupolo della sua sincerità, che gli fa preferire la verità del suo momento del 1883 all'altra iniziale del 1874. Comunque, egli aveva fatto onore alla sua antica divisa: «Tuttavia[151] ai presenti miei occhi (i quali non sono gli stessi di jeri e non saranno que' di domani)», predisposta nella prima giovanezza letteraria: e per ciò li occhi suoi del 1883 videro in modo specialissimo; se, per due altre e successive ristampe, quel suo lavoro apparve ma non sbandierò Diffida in sulle prime pagine. — Io pure la trascuro.
Ora, qualunque sia l'apprezzamento, che, delle sue proprie idee oggi faccia Carlo Dossi, non vorrò dimenticare che La Colonia Felice venne di quel tempo, e, per discussioni legislative, citata più volte nelle Camere italiane a sostegno della abolizione della pena di morte e della istituzione di una colonia penitenziaria; sì che la salace arguzia di Cesare Correnti, scrivendone all'autore, trovava modo di pungere: «Voi vorreste[152] che io, affogato, come sono, negli zeri, vi scrivessi qualche cosa del Regno dei Cieli e della Colonia Felice? Ieri, il Senato votò confermata la pena di morte. Domani, la rivoterà anche la Camera dei Deputati. Lasciatemi dunque ripigliare la marra e continuar a dirompere codesti sassi. È una brutta conclusione di vita, dopo essere riuscito a fare (scusatemi, volevo dire a vedere) una rivoluzione poetica, terminare vecchio e cieco a voltar una macina di mulino. Dio, che non è sordo, nè muto, ma ha orecchi e lingua nel vostro cuore, vi conservi giovane e buono anche quando vorreste essere matto». Magnifica patente di genialissima inattuabilità, per [178] la quale chi ha scritto La Colonia può essere sicuro di aver torto per molto tempo, ma di sopravivere alli errori de' plurimi, che sembrano aver sempre ragione. Intanto Giosuè Carducci gli faceva sapere: «Ho ricevuto[153] e letto tutto di un fiato il suo libro. È una rappresentazione potente, a momenti sbalordisce. Meglio, molto meglio dell'Alberto Pisani, ultimo libro suo a me conosciuto. Ma mi bisogna rileggere attento e calmo. Dopo che, le dirò, con più coscienza, che me ne pare. In tanto, salvo alcune manierature, ne sono innamorato».
Precisamente, a riprova, e ne estraggo dal mazzo una per tutte, ecco, la[154] Rivista Europea, che riassume lo spirito del tempo e della gazzetteria in ispiccia forma sintetica: e gli faceva subito sapere: «La facoltà inventiva, che non gli manca, l'immaginazione vivace, gli studi meglio diretti volga il Dossi a scrivere popolarmente, e, dal suo ingegno, poichè supponiamo che il vizio preso non sia in lui inveterato, si possono ancora attendere bei frutti; s'egli proseguirà, invece, nella malaugurata via per cui si è messo, per quanto amico devoto orni di splendida veste i suoi libri, questi saranno nati morti, ed il nome del Dossi, o andrà intieramente perduto, o si citerà, per ricordarsi che visse, a Milano, un giovine ingegno, che concepi il pazzo disegno di creare, in Italia, una nuova lingua furbesca, ch'egli e il suo amico Perelli erano i soli ad intendere e ad ammirare». Per cui, le veniva subito risposto:
«Critico mio,
«Quand un tête et un livre
Viennent à se heurter,
Et que cela sonne creux,
A qui en est la faute:
De la tète ou du livre?»
[179] Conoscete questi versi? Pare di no. Li capite? Capiteli pure senza ritegno, che non son miei, nè nuovi. Del resto, io vi offro sinceramente la mano. Ho pochi anni, ma bastante esperienza per sapere, che, dal nemico, il più cieco, cavasi spesso l'avvedutissimo amico. E, se voi non siete ancor mio, io mi dico già il vostro Dossi»[155].
Per me, Regno de' Cieli è l'inno orfico, Colonia Felice l'epopea, nel complesso dell'opera sua. Lo stile vi si appiana, si distende; smaglia de' suoi colori più belli; riflette, in limpido specchio, l'anima dell'autore, le sue imagini, l'espressione delle cose, la fisionomia delle persone. Non è più il torrente fragoroso e rabbioso, mal contenuto nelle ispide sponde, aspre di scogli su cui raschia, acciottola, schiumeggia e strepita in cascate subitanee, sotto le quali si nasconde, ipogeo, per tornare a rivedere il cielo, umiliato, per rigonfiarsi, con mille aspetti che imbarazzano, impreveduti, strani: è il lago maestoso, tra ripe lontanissime; si intumida; ha un ritmo seguito; le sue onde, infrangendosi sulla ghiaja della spiaggia, cantano le strofe isocrone di una canzone prosodica di accentate e prestabilite misure, di rime in risposta e ricchissime. Alli albori delle Odi barbare, Carlo Dossi volle sfoggiare la maestosa fluenza del suo Carmen solutum; le due espressioni della genialità italiana si trovavano, anche qui, a corrispondersi ed a valersi, per necessità di momento sociale ed estetico, corroborate dalla stessa romanità. In Dossi, appariva meno evidente, ma più assimilata, ridivenuta muscolo alla sua prosa: in Carducci, sfolgorava da tutta la massiccia ostentazione della sua sintassi oraziana, dalla sua purezza ciceroniana; ma erotta, dopo un XX settembre di savoina ed indifferente occupazione, per cui l'Urbe non divenne laica, suonava una poesia ibrida e pretenziosa. Le glorie e li eroi, ch'egli evocava, s'imbrunivano, inumiditi «nella nebbia del tempo, inattuali e lontani: ancora amor di patria, rifugiarsi nel passato ed illudersi di accendere, [180] a que' morti soli, il secolo: ma riflessione acuta e preveggente, succhiare e spremere il midollo intimo de' fasti e delle bellezze nostre, per saper porgere al piccolo contemporaneo, col miele della magniloquenza, l'assenzio dell'ironia: ecco, definire l'opera di Carlo Dossi.
Donde la sua ragion pratica viene insemprandosi con alto timbro speciale di prerogative costanti e perpetue. E, quando l'antropologia criminale lombrosiana invernicia il romanticismo ideologico di Rousseau, ne risulta La Colonia Felice; quando l'humorismo predominante viene a contatto colle vigilie armate e le ideali esaltazioni socialiste, sboccia Il Regno dei Cieli: il misantropo si fa filantropo. — La Colonia Felice è una riprova: induziona il principio di una civiltà con quella esperienza, per la quale Condillac perfece, viva, la Statua. A gradi, a gradi, dimostrò come, sotto la spinta della necessità, l'uomo si migliori. E davanti alla confusione filosofica del secolo, conseguenza del sistema hegeliano, contemporaneo di Spencer, egli ha proposto una intuizione, che, per le sue applicazioni, potrebbe assumere il valore di quella di Lamarck, precursore di Darwin nel determinare i principi della evoluzione in serie di costanza.
Eccone i Personaggi, avvicendati sopra l'isola ad informare simboli, a contenere, nell'albume maligno, il rosso embrione delli organi utili e buoni; dai quali si svolgeranno, necessariamente, le funzioni attive e le attribuzioni effettive disposte, per la divisione naturale del lavoro, in ogni aggregato d'uomini in lotta, per riaffermarsi e ricomporsi in clan, in nazione. Dall'atto riprovato dalla legge e dalla legge morale, sorge l'applicazione esatta di un valore, il quale, rivolto al governo di un popolo, l'avvia al miglioramento. Il gesto singolo differenzia l'individuo; tutti li individui concorrono ai diversi poteri di cui sono capaci: in questo modo l'egoismo si conserva e prospera; s'aumenta con lui la solidarietà delli egoismi, sin che raggiunga la più estesa espressione nella carità beneficente, senza sottintesi d'amore, di gloria, di paradiso, [181] per il bisogno di espandersi, rimunerando sè stessa a profitto d'altrui.
Nobili ed immortali tempre d'artisti e di filosofi intesero a ricercare ciò che saranno per essere li uomini se potessero essere più saggi. Platone ha la sua Repubblica d'oro; Tomaso Moro, martire inglese, l'Utopia; Campanella, monaco cosentino, sfuggito al supplizio, ma non alle carceri napoletane, La Città del Sole; Fénelon, che retrocede, avvia Telemaco a Salento; Cabet, che galloppa avanti, vola in Icaria; un sognatore, il d'Ussières, uscito dal grembo della rivoluzione, rinnova Cyrus et Milto, sulla ragione delli Illuminati di Martinez de Pasqually e di Weischaupt, specchio del civismo giacobino; Paul Adam ripropone la sua maraviglia nelle Lettres de la Malésie, dov'egli si instaura Solone, Pericle, Omero e Fidia con sacerdozio di pace, di guerra, di pompe, di vittorie, di amori e di funebri. Il gufo parigino Sebastiano Mercier, destina le sue imaginazioni socialiste a L'An deux mille quatte cent quarante, Réve s'il en fut jamais; lo ringiovanisce e lo plagia il Bellamy: Nell'anno 2000; William Morris discopre una nuova Atlantide, e sopra fabrica ed instaura armoniosamente, le cimmerie Città della sua speranza; Camille Mauclair, confidando nelle umanità a venire, legge nei secoli futuri, la vittoriosa difesa dell'Europa insindacalizzata contro l'Asia musulmana; Anatole France, che ha voluto insegnarmi, ma non a digiuno, questa enumerazione, sfoggia l'ironico sogno di Sur la Pierre Blanche, dove il suo paradiso comunista protende le ali della felicità, ma dove la felicità è troppo consuetudinaria e non consente alla noja del vivere, rincontro dell'impreveduto, la razzata di smeraldo e di porpora del fortuito. Perchè, se l'umanità muta di poco nell'epoche e le togliete anche ed ahimè! il mistero, il pericolo, la paura, il sospetto, la necessità, il desiderio degenerata, sì annullerà ad un tratto con la bellezza, la bontà e la ragione della vita stessa.
Carlo Dossi lasciò da parte l'interrogazione: che cosa [182] saremo domani? per raccontarci le origini; e, quando dalla scienza nuova, Zola estrae un romanzo di mostri, La Bête humaine, in cui la visione bovina dei fenomeni assume l'orrore delle allucinazioni deliranti, Carlo Dossi eleva un poema di naturale eroismo.
Regno dei Cieli, Colonia Felice, rappresentano, in estetica, un momento italiano di scientifico ed esatto positivismo, serenamente severo, vi è espresso l'ottimismo, determinista, colla fede nella perfettibile continuità, nel fatale andare dell'Uomo, verso Dio, per Dio divenire. Consacrano, nell'arte, la massima scoperta del XIX secolo, la legge divulgata ed assodata della evoluzione.
Dal mito poetico, dalla imagine filosofica, dal comma e dalla proposta ellenicamente colorita d'Anassimandro, d'Empedocle, di Democrito, che avevano intravisto l'unità della natura nella pluralità dei mondi, forza e materia in azione e tangibili, ed il concetto che tutti li organismi derivano da un solo o da pochissimi stipiti primogenii; sorgeva, in sul principio del 1800 e prendeva luce chiarissima, il fondamento razionale dell'evoluzione, sotto cui le belle poesie del dogma e d'ogni altra mitologica teogonia, cessavano di apparire, anche per la morale, verità rivelate. Per lungo spazio d'evi, la virtù della Indagine scientifica aveva sonnecchiato dentro le ceneri dell'ignoranza: la Genesi, sopportata e divisa dal Dimonio e dal Dio, aveva dettato il suo insegnamento, ne varietur. Tutto il Medio-Evo fu la lotta nascosta tra verità latina ed errore orientale; finchè la Rinascenza diede passo alle Divinità, restituiti simboli, non esseri resuscitati.
Copernico, Galileo, col tentando e ritentando, riaprirono le vie generose alla coscienza ed al rinnovamento scientifico del mondo; Laplace, dalla sua nebulosi, determinò l'origine de' sistemi solari; Lamarck, Saint-Hilare, Darwin trovarono che tutti li esseri viventi hanno origini comuni, che la vita delle piante e delli animali si svolge, da forme cellulari microorganiche, sino a raggiungere la complessa semplicità dell'uomo; [183] in cui si assumono tutte le leggi della fisica, della chimica, della mecanica, donde gesto, volontà e pensiero sono il risultato di operazioni controllabili metodicamente e producono, similmente, reazioni al loro riflesso. — Venne Gorini, ed apprestò le sue scoperte, le sue pubbliche esperienze, auspice la Società del Pensiero; e dimostrò la teoria dei vulcani, le spontanee generazioni, le determinazioni evolutive. Venne Lombroso; e risalì a nostra dottrina autoctona, attinse alle fonti di Pitagora, discese per Gian Battista Vico, per Filangeri, pei Verri, per Romagnosi; si alleò al portato sperimentale di Darwin e di Spencer, colla selezione naturale, l'elezione sessuale, l'adattamento all'ambiente, la lotta per la vita, necessità per cui si trasformano e pure permangono li organismi: affermò, così, per opposto motivo, l'involuzione e, l'arresto di crescita, la stasi degenerativa, i fenomeni morbosi psichici e regressi di alcuni esemplari umani; fece parte, nella follia, al genio.
Egli aveva fondato la scuola scientifica del diritto: se l'antropologia criminale toglieva l'uomo dall'assurdo di un peccato originale, dalla crudeltà di una deliberata malvagità, gli assegnava una malattia, sostituiva, ad una colpa, l'immeritato destino del delinquere; chiamò, in parte, responsabile la società di molti delitti individuali, che scomparirebbero, se li organi dello stato volessero difendere e premunire, nella corsa del vivere e del meglio vivere, li individui soggetti alla loro tutela e trascurati per l'imperio delli antichi pregiudizii e privilegi, condannandoli ad essere li insufficienti abbandonati senza ajuto a migliorarsi. A che il castigo ultimo e definitivo che sopprime? Perchè diffidare della concreta virtù naturale, dell'istintivo principio che ci avvia, per l'utile, al meglio, e richiamar la legge grettamente sul fatto e là colpire a morte, quando il delitto capitale? — Anche la predicazione cristiana aveva fatto suo cardine del: «Viva e si converta!» Perchè, li ergastoli non avrebbero potuto tramutarsi in manicomii criminali, dove la esperienza e le cure [184] avrebbero agito a salvare delinquenti, redimendoli? Perchè, se tutto è un cerchio chiuso e non sappiamo distinguere dove termini la materia e dove incomincia la forza, dove l'Uomo, per dar luogo a Dio, si dovrebbe dubitare della continuità delle leggi nel campo morale, dalla selezione fisica alla metamorfosi delli istinti, rivissuti come anomalie crudeli, sanguinose, cleptomane, bugiarde, depravare (tutti modi primordiali di difesa del troglodita, esposto ai pericoli del cielo, della terra, delli animali e del proprio fratello); perchè le bestialità non potrebbero svolgersi in virtù coscienti ed operanti, per l'utile, al benessere?
Li atavici, che rispecchiano le forme morbose della razza de' loro progenitori, si trasformano; una moralità superiore si evolve, per affrancar meglio la vita dell'individuo; si insempra, colla autonoma espulsione del male, la durata della specie. L'energia di costanza del Bergson riprova l'esattezza delle leggi evolutive: il regresso scompare; l'individuo si assetta in vista del futuro; il delinquente passivo e pericoloso, si tramuta nel cittadino per la grandezza della patria, per la gloria di sè stesso.
L'arte accorre a condecorar di bellezza la ragione scientifica della legge biologica; foggia i simboli umanati ed in azione del più grande poema di vita cosmica, — L'Esistenza umana; fa del mistero un drama, lo recita; dà alli uomini la percezione tangibile delle proprie origini e della propria destinazione. Ciò ha fatto Carlo Dossi, colla Colonia Felice: la mia lirica gli si mette al pari:
«Natura accoglie secreti avvolgimenti,
Forme protende e le conserva:
erompon, dal grembo materno, infinite
varietà di gioire e di sofrire.
Le Essenze prime sfoggiano onnipotenza,
sono le Allegorie personale a popolar la Terra.
[185]
Dai più brevi cristalli, al cervello del genio,
una legge presiede e comporta
questa continua trasformazione
dall'elettrone all'uomo.
Dal lampo che abbaglia alla fiamma del ceppo,
dal rombo del tuono al canto delli uccelli,
dalla Vita alla Morte, e fin dentro la tomba,
una legge presiede, completa, rinnova
il moro indefinito della Costanza e lo prova.
Tal cade una pietra spontanea da un monte;
vorticano, così, nell'orbite stellari
in armonia le Sfere e si compensano.
Fede nuova ridesta d'esultanza;
credi e confessa divinità la Vita.
Ama sempre ed ancora,
approssima il futuro coll'amore:
questo è il grande lavoro
che incalza la speranza a concretarsi.
Sofri; sofrire è bello con nobiltà serena:
in te si affisa, nel tuo dolore,
tutto il dolore del mondo;
se tu gridi di angoscia ciascuno risponde,
ciascuno è ferito,
il tuo pianto singhiozza e si confonde
colla pena di ognuno.
Tutto consente e ti protende
plurime grazie di compassione[156]».
Dio torna a sorridere dai millenni, dimenticatosi della crudeltà, nel cuore dell'Uomo; s'Egli Lo venera adora logicamente Sè-Stesso nella sua creativa potestà.
[186] L'Iddio filosofico sorride anche a Carlo Dossi; gli apre il regno dei cieli; gli appare, globo d'oro e di fuoco: quello che sembrava assente della sua letteratura avvisò che sempre l'aveva protetta e stava per istaurarne l'autore nuovo poeta di teogonia per l'Inno al Dio venturo. — Nel concetto rientra la reversibilità dogmatica, come si presentano le limitazioni ataviche e naturali testè scoperte dalla scienza. E chi assistè le prove di laboratorio di Paolo Gorini, il quale fu demiurgo di mondi nella pentola officinale e probatoria della chimica; quegli non dimette l'idea della Divinità, Energia del Mondo. Perchè Carlo Dossi è un moralista: già disse Ugo Lazzarini, nella sua Etica razionale: «Non v'ha morale senza Dio»; e si può soggiungere: «Non vi ha artista ateo, nel senso della negazione, perchè dovrebbe annullare sè stesso creatore per eccellenza».
In questo modo venne a riconoscere tutto: il Dio impersonato per sè; la Religione positiva, cioè la procedura della legge morale in arresto per chi teme l'al di là, custode preventiva e sociale, preventivo antiflogistico per le crisi climateriche delle rivoluzioni; la Fede grande, che sa d'ogni cosa e ne suppone le origini ed il fine, la Gnosi scientifica dei filosofi. Così, evidentemente, sfuggì all'errore di Gaetano Negri, professore d'ateismo tra li Academici, leader di salotto applaudito dal clericalume, anarchico sbagliato nelle ricerche razionaliste sopra il fenomeno religioso, reazionario parteggiante di stati d'assedio e di violente repressioni, davanti alla rivolta di piazza, che, con lui, danneggia i suoi consorti; doppia figura d'ibridismo cui il grande ingegno e la più grande abilità non seppero rifondere in un tutto sincero ed unito. — Forse, a Carlo Dossi concorreranno postume abdicazioni e postumi elogi anche da questa parte; ma, se potranno convenire ad Alberto Pisani, col quale non concordo in tutto, non si rivolgeranno mai al suo maggior fratello. Ora, se attenta alla libertà individuale, è pur santo che la pietà muliebre e l'affetto famigliare impetrino suffragi plurimi per lui, già rasserenato [187] dal sicuro stoicismo. E però lo spirito determinista e positivo della sua letteratura, l'anima del suo schietto idealismo filosofico e scientifico non se ne sentiranno menomati: rimarranno pur sempre anticlericali, e ciò è il pregio: hanno raggiunto l'Iddio, fuori ed oltre l'ufficiosità turibolante d'ogni e qualunque pratica di setta, d'ogni e qualunque esorcismo di prete, perchè ebbero da tempo, il concetto completo di fiamma e d'oro della Divinità, eterna Energia del Mondo, quando scrisse: «Il Pensiero[157] è Dio, perchè Lo comprende. Dio pensa Noi, quando Noi Lo pensiamo».
Quante volte i miei giovani amici di acerba baldanza inuzzoliti, o le mie vecchie pratiche riumiliate dalla grossa, matura, anzi fradicia esperienza, tutti seminatori e mietitori del campo letterario italiano, per sfuggire al tedio piovorno di una giornata ottobrina, in villa, si saranno appressati alla libreria della casa d'affitto, per cercarvi dimenticanza in qualche volume, compagno nella noja, dell'uggia di quella morbida insistenza! — Tomi scompagnati sopra i palchetti del mobile: vengono di lontano e da venture curiose la storia delle quali sarebbe interessante raccontare — non oggi, però. Sono le briciole disperse del manzonianesimo di moda, un dì; quelle, raccolte con ammirazione nelle case pò bene dalle famiglie, che un giorno, laute di palazzi a Milano, di palazzine sul lago, oggi lamentano e li uni e le altre colle ipoteche ad esorbitare la spina del tetto, traendone profitto, quando non abbiano venduto, delli appartamenti, in città, delle delizie, in campagna.
[188] E però vi troveremo alla rinfusa Carcano, Mauri, Bazzoni, Pier Ambrogio Curti, Ignazio Cantù ed il Cesare suo fratel degno, poligrafo ed impudente ricopiatore delli strafalcioni altrui, Bersezio, Guerzoni, Balbiani, la Pezzi, un Visconti-Venosta, il Grossi, che si trova a disagio in quella impropria compagnia, già mai Carlo Dossi. Vedetene la serqua mezzo sudicia, mezzo limpida, mezzo ironica, mezzo storica, mezzo fantastica, mezzo niente; la romanticheria sfiancata de' risciacquatori, delli intruglioni, delli imitatori, di tutta questa gente per noi illeggibile; si che que' giovani e que' vecchi, sospirando e gettando i libri a fascio, vorranno concludere col dire, che, finalmente, anche per le giornate di pioggia di nebbia e di vento in Francia, da Zola e da Leconte de l'Isle venne morto e sepolto il romanticismo come, in Italia, dal Verga e dal Carducci.
Si disingannino: il romanticismo, sotto altri aspetti, sotto il reale aspetto che ha pur assunto la letteratura internazionale, nè Zola, nè Carducci poterono abbattere: si trasformò, ed è difetto di vista corta e di cervelli ingombri da categorie tedesche non vederlo operoso ed operante, sotto altri nomi: si rifugiò testè evidentemente, nel futurismo; il quale ricopia le abberrazioni victorhughiane; e Manzoni, l'essenza non la vernice manzoniana, si agita ancora robusto tra noi, lasciati da parte li scoli, o profumati, o nauseabondi di Edmondo De Amicis e del Fogazzaro.
Il romanticismo fu una prolifica foresta fiorita; si abbarbicò, si espanse, si riprodusse vicino le nostre città. La sua insistenza è meravigliosa; ha immesso barbette e radici, muffe, virgulti, pennacchi di corolle anche sui prossimi muri delle fabriche de' prodotti chimici, delle facciate di legno e di mota delle Esposizioni Universali, in sul frontispizio dei libri, nelle librerie della réclame. Il romanticismo, bosco vergine di miracolose proprietà, viaggia viridamente come la fascinata shakespeariana, che mosse alla conquista del castello di MacBeth, [189] profezia di streghe ed inganno di guerra di Malcom, vendicatore di suo padre, Duncan, spodestato re di Scozia.
Passeggiamoci dentro, adunque, per viali, sentieri, spianate, prati a pendio, colonnati d'abbazie gotiche, basse navate frondeggianti romaniche e massiccie; dimentichiamoci a raccorre ghiande, castagne, noci, ranuncoli, eriche, ellere, licheni, sopra i massi sporgenti a fior di muschio, aconiti, digitali, margherite, pamporcini e sassifraghe: poi, tra i fiori noti, le erbe conosciute, i virgulti comuni, troveremo il raro, l'inedito, il non saputo prima, la meraviglia. Così usa Gautier pe' suoi Grottesques; egli è buon maestro botanico e dobbiamo imitarlo.
V'imbatterete, per ragion logica, in Carlo Dossi. — Lucido, poderoso, solenne, aveva frondeggiato un abete di perennità fruttuosa, che sorpassava dalle cime le betulle e le quercie, per quanto rigogliose, più basse e non sempre verdi: Giuseppe Rovani. Raccolta all'ombra sua, nutrita dello stesso suolo, un'altra pianta, specialissima, privilegiata di fiori e di frutti profumati e saporosi in modo insolito, dipinti di novissimi colori: Carlo Dossi. Verzicò, si espanse; oltrepassò erbe, virgulti, alberi, distese le sue rame, ne coperse la foresta e sott'intristirono per vecchiaia e per caducità betulle e quercie; morirono, tornarono in polvere vegetale a confondersi colla terra, spore per altre vegetazioni: la pianta rara, snella, schietta, a canto dell'abete, a suo paragone, ecco, a resister per altro e più acuto clima d'arte; anzi, per sua virtù, a rimutarsi intorno atmosfera, per ricomporre alle sue radici, humus adatto alla propria coltura e propagazione. — Dond'egli, che non lo ignora, instituisce la sua trimurti: Manzoni, Rovani, Dossi.
Se la sua ammirazione è per il primo, il suo grande amore per l'altro: anzi il suo affetto, qualche volta, lo sostituisce nella preeminenza e può dirci che fu più grande perchè più infelice, più schietto perchè meno sospettoso e più deliberato; [190] «Rovani[158] portò, in vita, la pena della sua troppa sincerità; Manzoni, invece, dando sempre ragione al lettore, finì col convincerlo del proprio torto: e, se Manzoni riuscì a farsi applaudire, facendo diversamente del comune, parve facesse lo stesso; mentre Dossi si fece odiare, perchè, parlando come la folla, parve esprimersi diverso. — Manzoni dice le cose sue come il lettore vuole; Rovani come non vuole il lettore; Dossi parla per proprio conto. — Manzoni dissimula il non credere; Rovani simula di credere; Dossi, credendo, non crede. Manzoni cambia le carte in mano al lettore; Rovani gliele strappa; Dossi confonde il giuoco. — Manzoni vuole che il bene si faccia per paura di un male; Rovani per necessità; Dossi per utilità. Donde Manzoni par credere all'altra vita; Rovani non crede nè in questa nè in quella; Dossi pur crede in codesta. — Il noi di Manzoni vale io e il lettore; il noi di Rovani io e non io (che vi stanno per due) — l'io del Dossi vale l'io solo. In altre parole: il primo si industria ad insinuare in altrui la propria opinione; il secondo la impone; il terzo la tiene per sè. — La naïveté, l'ingenuità della letteratura antichissima c'ispira quella riverenza che c'ispirano i bimbi; la pauvreté della nuova quel disprezzo che si ha per un uomo che faccia bambinerie. E pure Manzoni ritenne l'apparenza della ingenuità, mentre Rovani se ne spogliò: quindi Manzoni riuscì un malizioso doppio, non volendo parere un semplice. — Manzoni è la vendemmia della nuova letteratura fatta coll'uva di Alfieri, di Parini, di Foscolo; Rovani il torchiatico; Dossi la grappa». — «Lambicchiamone[159], dunque in buon'ora; ci servirà di sole invernata e, riscaldate da essa, le generazioni prepareranno, con impulso gagliardo, il terreno ed i tralci per le vendemmie future». Distilleria della quintessenza! «Delle letterarie stagioni dell'ultimo secolo, Manzoni è la primavera, Rovani l'estate, Dossi l'autunno»; [191] per ciò, «Rovani[160] è il continuatore logico di Manzoni come Dossi è di Rovani. Rovani ha esagerato Manzoni, mentre gli altri lo impicciolirono; Carcano, per esempio, colla cortezza della sua vista, non comprese che la maggior innovazione del Matesuro era custodita nel suo midollo umoristico, e si limitò a copiare le forme esteriori dei caratteri e dell'insieme. Manzoni, umorista, è scettico: in un libro di umorismo il protagonista è sempre l'autore; non lo si può perder mai di vista, essendone il principale interessato». Breve, rapido, Carlo Dossi postilla a maggior chiarezza la sua estetica genealogia; ce la lega e senz'altro, ce la impone. Perchè un'altra volta vi si osserva quella continuità, che le pigre speculazioni dei necrofori letterarii trascurano, e se ne indicano i gradi; le pietre miliari di una letteratura nazionale disponendosi a diverse distanze l'una dall'altra lungo la medesima direttiva della strada maestra, per cui processionano i trionfi e le rogazioni del popolo; il quale si ricorda ed enumera il tempo trascorso e le conquiste assodate, leggendone sopra i maggiori nomi scolpiti.
Tanto, in fatti, nella sostanza della serie estetica, identici riescono ad essere i Miti pagani e stoici del Foscolo, come le Maschere cattoliche del Manzoni, i Personaggi storici del Rovani, come le Allegorie filosofiche del Leopardi, le Divinità gogliardiche e civili del Carducci, come le Creature humoristiche, i Tipi ambigui, le Rappresentazioni satiriche di Carlo Dossi. Nella diversità delle espressioni, si conserva il motivo fondamentale di una necessità nazionale progrediente. Tali figurazioni hanno una medesima origine soggettiva, e per questo si sono esteriorizzate oppostamente: ciascun poeta ha scoperto nel suo mondo nuovo, creatogli dalla sua sensibilità e dalla sua volontà, e nell'uomo foggiato a sua imagine, queste varie espressioni, queste certezze intime, cui rende universali, regalandole di organi, di movimento e di possibilità generativa. Tutte [192] sono verità, nè si negano reciprocamente; quand'anche si contradicano, non si annullano; si inanellano, invece, conseguentemente, determinando, con maggior precisione, or l'una or l'altra delle faccie del poliedro della vita multiforme e segreta, con più delicato disegno, in una luce più propizia e più intensa. Riuscito Carlo Dossi dalla astrusa e dedalea arteria collaterale di Don Alessandro, scaturì in un tipo personale; ha costituito un altro anello della catena genetica letteraria, per cui il dimenticarlo, od il trascurarlo, importa una reale oscurità ed una lacuna nello studio delle lettere nostre.
Pure, la pigrizia, la burbanza, la vanità, le confusioni, attributi d'ogni e qualunque giornalismo affrettato, lo lasciarono da parte. E quando Domenico Gnoli, vecchio bibliotecario, considerava poco fa: «si è staccato il gancio che congiungeva l'arte nostra alla vita nazionale, l'anello che continuava la tradizione» errava, perchè non aveva posto mente al caso Dossi. Oggi, si incomincia a scorgere qua e là interrottivamente la sua influenza; noi riconosciamo in lui un nostro proprio esponente, perchè tutto in lui è rimasto italiano, anzi, lombardo nella forma, nel modo, nel tono di comprendere la vita e di renderla. Per ciò, a lui ricongiunto, col cordone ombelicale della artistica figliazione, il fare italiano permane anche in quanto si vuol chiamare impropriamente simbolismo (di cui fu uno de' più completi assertori, prima che l'etichetta scolastica venisse stampata; perchè prima la cosa quindi il nome, non viceversa): e chi volle far credere l'opposto, abusò della ignoranza altrui adulandola, pompeggiando della propria, che non aveva saputo suggerirgli il nome dell'autore di Colonia Felice. Ma non più: costoro devono riconoscere in noi, quei sintomi di cui egli è pur affetto, in nulla affatto forestieri; vizii o doti distintissimi di fragrante italianità.
Carlo Dossi, più vivo che mai, dopo l'aulica presentazione di sè stesso, nel salone dell'avi, si fa a noi famigliare; vi prende per mano, vi fa entrare nell'appartamento intimo [193] delle sue circonvoluzioni cerebrali, vi si dettaglia, nel compromesso sommamente simbolico, in cui vanno a fondersi per un tutto omogeneo, le più disparate dottrine. Vi farà assistere alla trasmutazione de' generi e delle scuole e voi perderete la nozione di quanto si chiamò classicismo e romanticismo, idealismo e naturalismo. Tentò la bellissima esperienza di avvicinarsi alla perfezione, cioè di dire tutto quanto sentì in modo che, nella fatica di renderlo, nulla andasse perduto per consumo, attrito, stanchezza; volle sorpassare la natura nell'eccedere, proponendosi, dalli oppositi, una nuova espressione, oltre le già conosciute, tracciandosene una norma quando sull'arte del Cremona considera: «Pure[161] sono alcuni, i quali, dimenticando che l'Arte non si impana dall'Arte ma dalla Natura, vorrebbero che ogni artista facesse di salvatesta, sognasse ad occhi aperti; e vanno dicendo che il più veritiero poeta è colui che più finge, che altro è pittura e scoltura, altro fotografia. Anche noi, finchè si tratta di screditare il nudo realismo, cediamo in tale sentenza, ma a patto di non sostituirvi, quanto lo vale, un nudo idealismo. Scopo dell'arte è la poesia, che è l'accordo prudente tra il finito e l'infinito, altrimenti noi avremo o dei corpi senza animo, o degli animi senza corpo. L'artista deve copiare direttamente dal vero, ma nell'ambiente del proprio animo; deve, per così dire, stacciarlo attraverso il crivello del giudizio individuale».
Donde facendovi i convenevoli, vi precede, Cicero pro domo sua: «Un[162] momento, bisogna assuefarsi alla vista delle tenebre. Al primo entrare, un sentor misto di fiori, muffa, petrolio. Il piede intoppica a ogni tratto e conviene saltare. Si passa, o almeno sembra, in mezzo a beccate di pappagallo e a gattesche strofinatine, in mezzo a vampe di forno e a zaffate di sorbettiera; quando poi la pupilla arriva a raccogliere [194] la scarsa luce, che discende da una gotica ogiva o da un pertugio di cànova, or da una fiamma di gas o da una bugia di sego, ti accorgi di camminare in un magazzeno da rigattiere antiquario. Roba di tutti i tempi e le foggie, dalla più goffa alla più di buon gusto. Correggesche pitture nel bujo, sgorbi alla Bertini in pieno lume: litografie del Gonin con cornice dorata, acqueforti di Rembrand incollate sui parafochi. E qui incontri, ad esempio, un tripode pompeiano dal severo profilo con su un vaso chinese (una pazzia di porcellana) e, dentro il vaso, fiori di serra stradoppi, leandri che pajono rose, rose imitanti dalie, dalie che si direbbero camelie, — freschissimi per la metà, ma per l'altra metà marci; là un poltronone barocco, che sarebbe il trionfo della comodità, se non gli mancasse una gamba, sovra il quale riposa un elmetto dell'omerica Grecia, oltraggiato da una visiera medioevale in cartone e da un pennacchio di carabiniere... Quindi e ammassi di cenci infagottati in manti porpurei, e boccali di bettole contenente Tokai e pietre murrine scavate ad orinale e aquilotti in catene imbalsamati con rospi che strillano da usignolo e usignoli che rantolano rospinamente. Nè va taciuto di un violoncello di Stradivari cui servirebbe da archetto un bastante da scopa, nè un topo nella gabbia di un canarino, che invece resta intrappolato, nè i diritti dell'uomo, cuciti colla cabala e il sillabo; e Rousseau sposato a De-Maistre, e Omero a Merlin Coccajo. Ma quel che vedi gli è il meno. Più l'occhio insiste in quel folto di roba e più ne discopre. C'è, dico, roba da insuperbire mille palazzi. Di chissà quanti — morto chi la possiede e distribuita con senno — farà mai la nomea! Chè, se ora c'è tutto, pur manca tutto. È luogo più fatto per imbrogliare che per sviluppare le idee. A volta ti sembra di essere nella magnifica confusione di una foresta vergine; ti miri attorno — sei fra il prezzemolo... Provi, insomma, la nausea del toujours perdrix, della essenza, che, per troppo sapore, è una offesa al palato; provi il disagio di una interminabile scala senza ripiani e di una biblioteca [195] senza catalogo. E però t'allontani alla svelta, non degnando pure di un guardo la soglia, che, in un mosaico di tutti i colori, vuol rammentato, con modestia superba, il nome di Carlo Dossi».
Non formalizzatevene; egli usa codesto garbo; sente di esservi più comprensibile; dà di sè stesso l'apologo e l'apologia; non diversamente usò con Rovani, descrivendone il tempio: in cui «entrare[163] e sentirsi il cappello di troppo è tutt'uno. È una fuga d'imponenti saloni, sulle cui vôlte si stende l'ampia pittura del Tiepolo e dalle cui immense pareti pendono arazzi, tessuti a disegni di Raffaello immichelangiolito... Qui, non la boria fracassona del ricco, ma la silente maestà del Signore. Particolari ed insieme vi hanno pari valore e i più modesti mobili respirano solennità; qui, insomma, ammiri, non fai la stima. E tutto, vedi, è massiccio. Niente indorature, niente impiallacciatura. Mogano e rovere fin all'ultima fibra, oro sino all'ultima scaglia. I sedili comodi tanto per invitarci al riposo, non al dormire; i camini vasti abbastanza perchè il calore si diffonda egualmente in quanti mai vi si assidono. E nella splendida calma di queste sale reali, i pensieri vanno pigliando un far grave e svolgonsi grandiosamente; più non rammenti le piccolezze del vivere quotidiano se non per deriderle, nè la famiglia ti appare fuor dallo sfondo della umanità. Sono sale per un congresso di legislatori e di principi. In ogni dove, l'invisibil presenza del nume. — È la reggia di Giuseppe Rovani».
E ripeterà il suo giuoco malizioso anche per Edmondo De Amicis: «È il quartierino[164] di un impiegato a duemila. Gli amici di chi vi dimora lo dicono un primo piano, ma, in verità, è un puro ammezzato sopra terreno. Stanze poche, mobiglia poca; tutto è veduto in una sola occhiata nè si domanda che cosa c'è negli armadi perchè si sa già. Domina il pino. I mobili, a uno a uno, non tengon valore, infimi come [196] sono per la materia e la forma, pur, tutti insieme,, ne acquistano perchè fanno la casa. Nella stanza da letto — e da pranzo — la tappezzeria par tela ed è carta; alcuni dipinti paesaggi sulle pareti — un vaso d'erbasavia sul tavolo — un casco di fanteria in un canto — radi i libri i quali ci avvertono che chi li legge non ha oltrepassato il liceo (benchè non sia detto con ciò che l'Università abbia per privilegio la creazione del genio) e un letto di una persona e mezza, con la sua brava Madonna a capezzale e i suoi lini, piuttosto grossi, ma di bucato. Nè fatevi in là, mie ragazze. È letto riconosciuto dallo Stato Civile. — E, sulla porta di abete, ma che a forza di gomito è diventata quale acero, sta un biglietto di visita in cartoncino bristol, con scritto su da mano femminea il simpaticissimo nome di Edmondo De Amicis». Il quale, breve arte, ma grande cuore, ne lo ringrazia: «Affretto[165] coi voti un occasione qualsiasi che mi sia concesso di mostrarti quanto ti sia verace ed amoroso amico, e di contraccambiarti, anche inadeguatamente, qualcuna delle tante gentilezze che mi hai usate. Se questa occasione tu vorrai fornirmela, anche di ciò ti sarò grato». Ma Carlo Dossi non gliela porse mai, tuttora postumo creditore e debitore di lui. Carlo Dossi è letterato eroico e stoico nel senso della schietta integrità del suo pensiero, della deliberata e profonda sincerità del suo stile: egli non ha sottintesi e tornaconti che non siano d'arte. Alcuni giudizii, che volle esporre sopra li autori contemporanei, pur unilaterali, rispondono ad una certa ed esemplare responsabilità, dote aurea di carattere, in questi tempi di sommessa e vagellante preoccupazione del non offendere per rivalersene. Egli può chiamare qualche volta Carducci un gramatico adulatore di popolo, sovvenutosi di Correnti quando diffamò la luna in celeste paolotta, ma lo inchinerà, decretando monumentale la sua poesia, per cui:[166] [197] «Italia riebbe la lingua di Dante e la romana maestà, almeno, nella parola» — Egli invita a leggere Victor Hugo in riva al mare, ma subito, ricopia per lui una definizione dell'Heine «Un genio gibboso»: — può paragonare l'Aleardi ad una querula e gemente colomba amorosa; ma, nel riordinare la biblioteca di Alberto Pisani, lo pone vicino a Foscolo; — e Leopardi foggiare a serbatojo di perpetua infelicità, ma proporrà a ciascuno di imbeversi della sua chiarezza adamantina, di cui la lucidezza vince l'acqua fresca di una fonte indorata dal sole. Per ciò, egli è permalosissimo letterato, difficile a leggersi; bisogna che ci accostiamo a lui, intonando il nostro momento al suo, non ascoltandolo nelle sue bizze, concedendogli le sue troppo squisite bontà, interpretandolo e ricordando spesso i suoi pensieri da pagina a pagina, da imagine a imagine, valicando periodi, distanze, apparenti contraddizioni. Egli stesso si vanta di scrupolosa e meticolosa incontentabilità. Richiede lettori a sua imagine e somiglianza; que' lettori ideali che augurò ai poeti grandi Pietro Verri, nel Discorso sull'indole del Piacere e del Dolore, e precisamente questi, ch'io invoco a me stesso ed a chi amo, ammirando, dalle pagine clandestine (pur troppo! perchè nessuno v'ha che abbia avuto la malinconia di proporlo o di citarlo) del mio Verso Libero, quando desidero che il Libro viva nelle mani del lettore. Così, quante volte ho voluto avvicinare le mie opinioni sopra la lingua, lo stile, la funzione del libro e l'obbligo de' lettori verso di noi, riproponendole alle premessa dossiane; altrettante ho dovuto convincermi delle ragioni che ci ricollegano, riconoscendo in lui un precursore di identiche dottrine e di più sicura e provata esperienza. Per questo, il lettore venga a noi e si eserciti a nostro paragone emulandoci, creandoci, dalla indicazione, l'imagine completa, ricreandosi a foggiare, non inerte o distratto, ma collaboratore.
Il suo pubblico, «il[167] pubblico di un letterato, non è [198] già quello dell'uomo politico e del canterino (celebrità spesso e l'uno e l'altro di gola) pei quali è indispensabile e folla e contemporaneità di fautori; non ne occorrono a lui nè migliaia, nè centinaja, e neppure ventine ad un tratto; glie ne bastano pochi, uno anche, purchè siano degni, a lor volta di lode, e perchè si succedano — sentinelle d'onore — fino al più lontano avvenire. — Stieno però tranquilli i pubblicisti che fanno missione, direbbesi, di alimentare il cretinismo italiano; nè io, nè altri miei colleghi saremmo mai rei di abigeato di qualche loro lettore». Per questo, il libro deve vivere nelle sue mani, al suo contatto, vibrare, come un rocchetto elettrico e dar scintille, comunicando, nel circuito funzionale di una corrente, imagini, idee, passioni.
Veramente, a stile d'eccezione, comportano lettori armati a tutta prova ed intelligentissimi: Carlo Dossi se ne era fabricato uno a suo modo, avendo trattato la lingua di tutti come un volgare, su cui operar de condendo non accettar còndito. Si sentiva un Dante per qualcuno, che si sarebbe innamorato de' suoi tentativi e de' singolarissimi processi, mentre ripugnava dal lasciarsi ammirare ed imitare. «Alla[168] domanda — qual sia la miglior lingua — si può sempre rispondere: leggete Shakespeare è l'inglese; leggete Richter, è il tedesco: è l'italiano con Foscolo; è il milanese con Porta». A Gian Paolo Richter, sopra tutto, cui venne a conoscere prima de' simbolisti francesi e ch'era sgusciato dalle mani ortogoniche, e per ciò stroppiatici, della signora Kalb, riuscito senza avarie dalla piegatura gibbosa, cui il salotto di Goethe a Weimar, imponeva a chiunque lo frequentasse; — a Gian Paolo ricercò la vergine emozionalità idealista verbale, per cui veniva reso il mondo e si foggiavano i suoi fenomeni in figurazione, preindicando Nietzsche: «Il mondo è l'espressione della mia volontà». Questo suo stile «a[169] viluppi, ad intoppi, a tranelli, obbligando il lettore a proceder guardingo ed a sostare [199] in tempo — parlo sempre del non dozzinale lettore, ossia scaltrito in quei docks di pensiero che si chiamano e Lamb e Montaigne e Swift e Jean Paul — segnala cose che una lettura veloce nasconderebbe. Per contraccambio, le idee, o sottintese, o mezzo accennate, fanno sì che egli prenda interesse al libro; perocchè, interpretandolo, gli sembra quasi di scriverlo. Aggiungi, che una simile illuminazione a traverso la nebbia, facendo aguzzare al lettore la vista dell'intelletto, non solo lo guida nelle idee dell'autore assai più addentro che se queste gli si fossero, di bella prima, sfacciatamente presentate, ma insensibilmente gli attira il cervello — a modo di quei poppatoi artificiali che avviano il latte alla mammella restia — a meditarne di proprie. In altre parole, dall'addentellato di una fabbrica letteraria, egli trae invito e possibilità di appoggiarvene contro un'altra, — la sua — e, da lettore, mutatosi in collaboratore, è naturalmente condotto ad amar l'opera altrui divenuta propria».
Che altro può dire di più Mallarmé nel Quant au livre? Che altro noi? — Riunito, con estrema sottigliezza di sapere e sensibilità, il suo eloquio, compostolo di una efficacia e vivacità personale, di una abitudine determinata e potenziale, presta a scattare a muoversi, ad assumere tutti i gesti, le pose, dalla corsa al raccoglimento, senza ricorrere a stampi, a reminiscenze, a ricalchi, a strofinature pedagogiche, volle una sua interpunzione, una ortografia sua, volendoci attestare, che, «lo[170] scrittore il quale infrange l'ortografia tradizionale, prova luminosamente il valore della sua forza creatrice». Qui egli impiegò la sua dote di assimilazione e di conio novissimo; estrasse, dai dialetti, dall'anticaglie, dal gergo furbesco, dalle parole passate in disuso, dalle lingue straniere; rimestò, impastò, condensò, con sua fatica, con perseveranza, mentre li altri, scombussolati, intontiti, fuori di pista e di stalla, andavano urlando: «Il pensiero è oscuro, [200] contorto; è barbaro, incomprensibile»; lo accusavano di forzata originalità, di ostentata lambiccatura, di manieratezza, di insufficienza, di tracciar rebus e sciarade, assolutamente, come i simbolisti di dieci anni fa.
Ed egli a non udirli, a non accorgersi delle loro grida, delle loro lamentazioni; ad aggiungere al suo stile il profitto di una vastissima erudizione, che, passata a traverso il ciarpame secentesco delle frasi e delle superstizioni, si era imbevuta dell'ambiguo, del pauroso, del cinereo verbale, di quella trepidazione continuativa, di quei vocaboli massicci come i cantarani del tempo, o scorrevoli inafferrabili, come una vena di ruscello rapidissima, i quali rappresentano la trovata ed il valore estetico del barocchismo ed hanno sopravissuto al suo discredito ed alla immeritata dimenticanza.
Quindi inalza la sua creazione; la dipinge, la scolpisce, le dà respiro, la circonda di fiori, di puzze, di gioielli e di detriti. Egli vuole una solida casa di immarcescibile materia, ben piombata nel suolo e tanto alta da salir alla luna, verso cui lunaticamente sermoneggia e schernisce. Tutti i materiali gli servono per ornarla; come al pittore di genio tutte le materie colorate, non distinguendone i generi, confondendo pastello, vernici, acquarello, tempera, guazzo, alluminatura, disegno con matite d'ogni tono e durezza, pur di compiere il capolavoro, che è fuori d'ogni scuola e d'ogni regola; perchè la bellezza naturale non sottopone sè alla regola, ma la incomincia e la detta.
Poi, diffida ancora del lettore per quanto sapiente ed esperto: gli mette in sulla bocca i suoi accenti, come li appostilla sopra le parole stampate. Vuole ch'egli pronunci in questo modo e con questo ritmo; gli insegna a scandere la sua prosa in questo suono, con questa pastosità, con questo calore, fermandosi sulle apostrofi, sulle elisioni, sui tronchi, determinando specificatamente, da questo complesso di vicinanze e di visione tipografica, la suggestione che ne riesce, guidandola, come egli desidera, per il completo attuarsi del suo magistero. Ci chiama a fabricare con lui il suo e nostro [201] palazzo, ma cum medicamine, desiderando di essere il solo architetto, responsabile ed ubbidito: il lettore non può divagare, aggiungere o togliere ciò ch'egli non voglia; nulla è lasciato all'arbitrio suo, al suo troppo presumere: l'autore non abdica al droit de maîtrise; e la facoltà che egli ha consentito di indovinare e di completare è diretta dall'altra volontà, che, a distanza, la comanda pena il perdersi dentro la boscaglia impervia, ciottolosa ed inspinata di quei periodi, alli orecchi domesticati dalla melopea, striduli e disarmonici, ma, alli altri, che percepiscono l'armonia morale e l'omotopea, sonori ed euritmici di una profonda pienezza wagneriana.
Perchè Carlo Dossi pregia e non lamenta la fortuna vituperata da Jean Moréas, ritornato alla academia, dopo le brevi rivoluzioni simboliste quando, nelli Equisses et Souvenir allude a sè stesso, discorrendo di Goethe: «Infelice il poeta che nasce in uno de' momenti equivoci in cui la tradizione dell'arte è passata a caducità ed è necessario distruggere l'ordine per cercare di ristabilirlo sopra di una più solida base. Può darsi che si invidii la gloria di tale artefice, ma la vita sua, in quell'immenso sforzo, è pur sempre avvelenata». Ora, se l'autore di Colonia Felice prese luce in una di queste crisi, come Goethe, come il Moreas — in cui la genialità per essere feconda deve prestarsi ad assumere l'aspetto di una originale pazzia — non ne farà mai ammenda coll'imitare il greco-francese, al quale lascerà digitare da solo l'alessandrino classico
«Vos scrupules font voir trop de delicatesse;»
egli rimane il barbaro e si compiace di attestarlo, già che almeno in arte non si smentirà mai. — «Dossi[171] è nato per essere un corruttore delle lettere italiane: — dice egli di sè stesso. — Ed in ciò gli Italiani gli dovrebbero riconoscenza, perchè, così, egli prepara loro un nuovo rinascimento. I libri [202] del Dossi sono, quanto al carattere, un misto di scetticismo e di sentimentalità. E due sono i periodi dello stile di lui: I. di avviluppamento, II. di sviluppo — L'Altrieri, ad esempio, si compone di tre parti che sono come le tre persone della Trinità. In uno, il Dossi si rimane terra, terra (parte seconda) nell'altro sta a terra, guardando il cielo (parte prima) nell'ultimo, in cielo e guarda in terra. — Dei tre generi è riuscito passabilmente nei due primi. Egli del resto, vorrebbe dedicarsi al solo primo, il quale è a pari distanza dalle due esagerazioni della odierna letteratura (1880). Ma nel terzo non è riuscito, un po' per le sue inerenti difficoltà, un po' per la lingua e l'indole italiana che male si presta, in un cielo così azzurro, alle nebbiosità». Chè, s'egli non è della opinione di Giuseppe Ferrari, il quale esagerò G. B. Vico, nel presumere la lingua italiana reazionaria, cercando di scriverla con genio e capriccio originale; vi incontrava però la scarsità dei tempi e de' modi verbali, invocando la greca abbondanza luminosa, colorita e sonante a cui appetiva, sforzando il carattere chiuso della nostra. «Dossi[172] aveva tentato non di far sentire le parole, ma i suoni; di avvicinarsi, cioè, più che fosse possibile alla musica, come già aveva tentato di rendere la letteratura una pittura» impresa ripropostasi da' simbolisti italiani ultimi venuti sotto il nome di Futuristi; i quali osarono il processo dossiano ad oltranza, e, sforzando la rude e ferrigna materia del vocabolario nostro, lo fanno vivere come armonia, lo avvampano di luci colorate come una cinematografia erotta sulla notazione della realtà, alla rappresentazione imaginata e leggendaria della più sicura verità sostanziale ed umana.
Per tal modo, il fare dossiano raggiunge il vertice della nostra eloquenza, oltre la quale, di una linea, si gonfiano la caricatura ed il grottesco letterario, un'altra e peggiore retorica d'impotenza e d'imprudenza menzognera. — Nello svolgersi [203] del secolo, seguendone le fasi, con Foscolo, la prosa italiana ha assunto muscoli e coraggio repubblicano e guerriero, per maggiori libertà e nobile indipendenza, contrastando a Napoleone e pur napoleonica, poi che senza di questi, lo Zacinzio stesso avrebbe assunta altra e meno rappresentativa fisionomia: con Manzoni, ha pulsato il suo cuore in ritmo col cuore della ristaurazione, vagheggiando una tranquillità mite, fingendo una sicurezza per questa e per l'altra vita, volendosi persuadere, col persuadere altrui, nelle necessarie virtù cattoliche, ogni giorno più rare: con Carducci, esercitò le membra ben nutrite sui campi del Risorgimento e pretese a sè Roma completamente romana, invano: con Carlo Dossi, piange e ride, nel medesimo tempo, lo spasimo della gioia e dell'angoscia, sensitivamente raggricciata; si aumentò di tutte le squisitezze, che i sensi acutissimi le obbligavano, raggiungendo il confine dell'ineffabile, in bilancia sulla parodia e la caricatura, tal di qua del grottesco, ma quasi in aspettazione paurosa e patologica della pienezza totale, cui, in alcuni istanti, raggiunse: si rivela, insomma, padrona dell'inesprimibile e lo rende come la cosa più semplice, senza urtare l'educazione. Con Gabriele D'Annunzio, la forma è tutto un rappezzo d'abiti d'imprestito, decaduta nell'arlecchineria della moda che rimpicciolì la sua figura, prima così diritta e schietta, sopra di uno scheletro elegantissimo, su cui s'inturgidiva carne per l'eroica. Per ciò Foscolo, Manzoni, Carducci e Carlo Dossi non furono mai, ne saranno, cantori alla moda — per quanto la vera critica li faccia stipiti di loro arte distintissima; e Gabriele D'Annunzio rappresenta la pura moda; ma ciò, che questa crea, spazza pur via; e costui, abile sartore da rigattiere, durerà sin che vive e gli staranno intorno a trombettarlo i commessi viaggiatori delle sue specifiche.
Se non che Carlo Dossi rimarrà sempre un caso difficile di cui daranno la soluzione rari spiriti di eccellenza; i quali non professeranno la critica ma sentiranno, per affinità di indole e di carattere, un'arte di astruse intensità. Lo prova [204] la stessa Critica[173] di Benedetto Croce, il geniale senatore novello e principe, a detta di tutti, in quella professione. Ed egli dimostra di aver compreso non troppo dell'opera dossiana se ributta Colonia Felice, Ritratti umani, Desinenza in A, Amori, tra le scorie della sua produzione. Così, essendo egli, come meridionale, un emotivo, afferrato dalla Vita di Alberto Pisani, di L'Altrieri, di Goccie d'inchiostro; e, come riflessivo di metafisiche tedesche, cercando un sistema in arte, non avvide il bell'esempio di un artista che sa dare, con eguale intensità nel male e nel bene. Anatomico specialista il Croce, — cioè critico e non costruttore — può conoscere esattamente la topografia dei visceri essenziali, ma difettoso biologo non sa l'ufficio e le relazioni di questi nei processi differenziali della vita particolare d'ogni individuo. Dunque, sapientissimo di nomenclature — di sistemi — è improprio a rilevare le funzioni, cioè le attitudini, le attività, i gesti, la sequenza del moto e del divenire; ond'io diffido di quelli che sanno troppo di una cosa sola, e Benedetto Croce è con loro. In fondo, borghese, per quanto imbevuto di socialismo hegeliano si sente scandolezzato alle pitture della giusta malignità dossiana; gli sembra d'aver davanti qualche cosa di furioso e di perverso; rimasto alle categorie, isola li apparati in una necrofilia di dilettante, non li considera nell'organismo in totalità; giudica quindi ab inferiori, di sotto in su, errando nel caso generale, doppiamente nel caso specifico; poichè non devesi mai definire su una estetica, ma semplicemente sentirla. — Con maggior ragione, allora la folla che pesa è sucida, il greggie, non si ritroverà in Carlo Dossi; e Pipitone Federico lo ha già notato: «A chi[174] sappia intenderlo, apparirà forse il più meraviglioso ed efficace prosatore d'Italia, dopo il Foscolo e il Guerrazzi, l'unico credo, che sappia lottare [205] vittoriosamente colla lingua restia; pure, affermo, che solo pochi riescono a intenderlo, perchè al pubblico non corre obbligo di educarsi a un'aristocrazia fuor di moda adesso». E però, quanti ha egli trovato che si piegassero alla sua difficile disciplina?
Che sian pochi, qualche volta, l'autore di Desinenza in A ha rammaricato per le solite ed umane contradizioni; e l'ho visto rimbrunito davanti alla indifferenza de' più, e, ne' colloqui in cui mi apriva il suo animo ed il suo affanno, recitare un de profundis di amara rassegnazione. Riguardo a sè stesso, dechinato a precoce vecchiaia, ascendeva a generalizzare: «Ad una certa età, come non si può più coitare, così non si ha più la capacità di voler bene, di essere buoni ed onesti:» riguardo alla sua epoca, di una gagliardia che fu, insisteva particolarmente: «Morto Cremona, il mio Perelli, Grandi e Crispi, il mio tempo e l'opera mia hanno cessato di agire» In altri istanti, più scorati e di una sincera umiltà, suggeritagli dalle malinconiche riflessioni del dolore fisico, sottopose sè stesso mancipio di una dispettosa e crudele reversibilità: «Tolto di carriera, nessun onore letterario, salute mala: oggi, per quale giusta ragione, ch'io non conosco, sconto con queste pene una mia incosciente malvagità, o la cattiveria de' miei maggiori?» Ed enormizza i suoi difetti davanti alla scrupolosa rassegna del suo esame di coscienza; com'egli, malato imaginario, parevagli di sentire l'avvicinarsi della agonia, e, sospeso, soffocato dalla imminenza, diveniva di sè stesso il tormentatore emerito, mentre il suo polso numerava battute isocrone, i suoi polmoni respiravano in ritmo, il suo cervello auscoltava il fenomeno della autosuggestione, notandone le fasi per un bozzetto del Campionario.
Allora e dianzi egli, esagerando, errava addolorandosi di chimere. Abituato alla società di chiarissimi ingegni, al contatto ed all'attrito de' quali, in reciproca emulazione, si raffinava allenandosi a sempre nuove audacie, il disertare dalle [206] lettere, l'immettersi per altra via, lo portarono in un deserto, in cui, unica voce a rispondergli, l'eco della sua. Concentrò la sottigliezza; lambiccò un'altra volta, sino alla morbosità, la essenza singolarissima; e, non badando che a sè, non uscendo nel mondo, che lo circondava e che pur riteneva memoria del suo passaggio ed impronta del suo pollice, si è creduto dimenticato. Certo, con lui e dietro di lui, non erano interessi da soddisfare, non ambizioni, che, agevolando la sua, potessero avvantaggiarsi, ma l'affetto semplice, l'amicizia che non ha prezzo, ed è perciò esemplarmente gratuita anzi, quanto meno rimunerata, più profonda. — Nessuna ditta editrice aveva assunto, in blocco, il monopolio sfruttatore del suo ingegno; nessun incettatore di genialità era venuto a proporglisi come impresario, per cartellonarlo, in vedetta, sulli angoli delle vie per farne strombazzare il nome da tutti i lestofanti, che quando meno intendono, più forte sbraitano nell'arringo piazzajuolo. Solo, colli amici, a lottare contro l'ignoranza e la mala grazia del pubblico, riuscì per altro ad incidere la sua presenza, se non in latitudine, in profondità. È la sementa immessa profonda, a contatto delli strati più densi e meno depauperati dell'humus, quella che meglio rigoglia a sua stagione; ora, è la stagione di Carlo Dossi, se, annusatane l'aria dal più esperto editore italiano, questi protegge e spande, con sicuro profitto, l'opera di lui e se ne assume la ristampa completa.
Lontana dalla insistenza personale di chi scrisse Colonia Felice, una sua propaggine continuò crittogama; la sua tendenza, che sboccia coi giovani, covata da buon fomento, si conservò senza nulla perdere della sua virtù criptografa. Raccolti in un corpo solo i suoi Margini, le Note gramaticali, le Etichette, le Prefazioni formerebbero una recentissima Ars poetica anche ad uso de' più esigenti futuristi, per le più libere proposte ed attestazioni estetiche, da cui, per citare, non sai che trascegliere innamorandovisi dietro; e non si terminerebbe più. — Che cosa ha detto di più, in fatti, il futurismo, [207] il quale non rispetta i termini del prima e del poi? Risponderei: Che cosa ha detto di meno? È tutto qui: «L'imitazione[175] ritrae la linea esterna ed alto lì; lo studio fa scoprire la interna, che in tutte le opere eccelse, per quanto fra loro lontane e di specie e di lingua e di epoca, è eternamente quella. Vuoi che il tuo libro possa vincere il tempo? Sia in istile tuo, in parole dell'oggi, in idee dell'indomani, in arte del sempre». — Ed ama i libri piccoli, li opuscoletti leggieri e volanti, che si portano, senza fatica, in tasca, e, da lontano, colpiscono, scagliati, sempre nel segno, giavellotti, da mano maestra e sicura: ed odia i grossi libracci sesquipedali, li in folio buttirosi ed impeciati fratescamente, dove la massa delle sciocchezze si fa piramide; perchè pochissime sono le cose buone, belle e nuove che si possono dire: ma, per intanto consiglia che converrebbe aggiungere, nelle gazzette letterarie, alla rubrica libri nuovi, l'altra vecchi libri, perchè questi contengono, virtualmente, come ghiandole seminali della letteratura tutto quanto di... inedito i libri, che verranno, potranno stampare.
Così, egli sempre interruppe la consuetudine; l'obbligò a pensar molto, prima di poterlo giudicare; tutto quanto sciorinò, evidentemente, la sua prosa è il meno di quanto ha dato; suscita, coll'emozione di sentimento, come un romantico, l'emozione di pensiero, come un classico; ed è continuativo. — Non permette che venga osservato sotto il semplice schermo naturalista, nè a traverso alla lente azzurra romantica; s'adatterebbe a prender posto tra i simbolisti. Il suo processo estetico, col quale riguarda il suo interno ed espone le scoperte ch'egli fa sopra il mondo, lo manifestano tale. L'idea, il pensiero, l'emozione che ne risultano vengono esposti non in forma narrativa, ma colla satira, coll'epica, colla lirica, facendoli parte integrante del suo sentire, non del suo aver saputo, del suo conoscere. Ed in questa schiera, che [208] dovrebbe essere, quella senza etichetta ed in cui dovrebbero raggrupparsi tutti che danno suggello indelebile di sè; in questo ambito di grande libertà e di massima sincerità senza disciplina, in cui ognuno che vi si presenta è pari, quindi senza gerarchia, consuonerebbe il nome di Carlo Dossi.
Perchè, ogni cosa umana concorda con lui, dall'amore al ragionamento, dalle Pandette al Contratto sociale, dalle Serate di Pietroburgo alla Micceide. In tal modo manifesta la sua sensibilità coll'essere universale; vibrare a tutto quanto esorbita dalla lenta e comune pigrizia, dalla fortunata ed accidiosa ignoranza della mediocrità; e però sfoggia la sua dottrina, la sua pratica, la sua ironia, che, qualche volta, eccede e diventa sarcasmo, conservando, nel suo ribrezzo, nel suo scatto d'odio, nel suo rifiuto, una grande indulgenza ed una misericordia che non si meraviglia nè del miracolo, nè del più comune e disgraziato delitto. Ma col sicuro osservare le smorfie dell'uomo civile, spesso si sentì preso dalla nostalgia del selvaggio: notò le piccolezze, le grette sparagnerie, le povertà del cuore, della borsa e del cervello borghese italiano, non lo risparmiò, nè se gli piace, si risparmia con lui: il sorriso maschera il singulto, la risata le lacrime; egli sofre mentre maledice la miseria, la laidezza, il delitto e li trova pur sempre necessari alla vita.
Nel giuoco del parallelogramma delle tendenze morali, comprende ed avvalora ogni direttiva ed ogni forza per quanto contraria; compassionando, si vale per burlare e burlarsi: mente, sesso, scherno, applauso applica, intende, amministra. Grande psicologo, sotto le vesti, l'apparato, l'ornamento dei fronzoli delle sopraposizioni e delli incrostati depositi della civiltà, ha scoperto ancora l'uomo nudo; ed oltre ai giardini, ai parchi circoscritti e tosati dal giardiniere e dalle cesoje dell'ars topiaria, la natura: merito enorme, che sa svellere i veli della ipocrisia e spogliare i falbalà della gente per bene, onde si vedano le miserabili anatomie; si che noi, amando di riguardarci nello specchio azzimati, vi ci possiamo, [209] con orrore, scorgere nani, gobbi, sciancati, animali lupini incontro ad imagine e crudeli. Gli servì e s'impose freddezza di cuore, quasi una logica crudeltà; nelli istanti dell'osservazione, sicura maestria del gesto; quando viviseziona, imperturbabile serenità, se anche sopra sè stesso ed i suoi operi, notomizzando, sulli organi vivi che pulsano, sul cervello che farnetica; usò metodo d'ordine; ripristinò, per suo conto, delle categorie prima di lui non autorizzate a comparire in filosofia ed in estetica: egli stesso fu la sua pietra di paragone, perchè ebbe il più grande e meritato disprezzo per la folla che fischia ed applaude: libero uomo, sopra tutti i pregiudizi, tanto da sapersene usare contro coloro che ne abbondano e di piegarli alla sua volontà, uomo forte.
Carlo Dossi ci ha arricchiti di un'opera singolare, intensa e completa come un Albero della Scienza del Bene e del Male. Volle in fatti che si frescasse, sulla parete e la volta del suo studio, al Dosso, il serpente incollarato di perle e di fisciù a stringerlo, ascendendo, nel tronco. Anche s'indora, in sul frontone del palazzo, la divisa che lo afferma: «Pax candida fortis»; antica leggenda che arreca una colomba araldica, sullo smalto azzurro della pezza, sin dal lontano tredicesimo secolo. — Egli ha vinto; quindi sta in pace. Rivide sè stesso in trasmutazione estetica e il suo tempo; ripassò il mondo come una successione di fenomeni, di anime; rifuse la critica e l'avviò per altra via, concretò le sue idee, le rivestì di panni tagliati su misura esatta. Voltosi per altro campo non venne abbandonato dalle sue distintive qualità; diplomatico seppe le sale auliche, ma non si dimenticò delle foreste vergini e della sacra verginità delli artisti.
A lui, Francesco Crispi della Sinistra storica, chiese l'eloquenza letteraria, come la Destra la imprestò da Correnti. Col Perelli e Primo Levi da La Riforma era venuto allo statista siciliano in non dissimili intenzioni di quelle che trassero Giosuè Carducci all'ode per nozze della figlia di lui. Si era posto al fianco del ministro tra l'anarchia critica e l'ammirazione [210] per la italiana energia di quell'arditissimo tra li uomini di politica attiva. Allora la giovane Italia bollente d'entusiasmo era uscita di sotto la ferula e la melensaggine del Depretis. «Era[176] stata per molto tempo costretta a rimaner repressa dalla acciaccosa politica del vecchio di Stradella, a mò di una giovane sposa, piena di vita, obbligata a giacersi con un vecchio puzzolente ed a fasciargli le ferite di vergognose battaglie, in cui essa non aveva combattuto»: — nello stesso modo che la spumante Donna Amalia doveva subire il contatto del vinattiere tra la solita compagnia de' suoi sozii: «il[177] quadrilatero napolitano, cioè, composto da Nicotera, De Zerbi, Bernardino Grimaldi e San Donato, tra cui si moveva, come sensale, il Fazzari, se avessero potuto arrivare al potere avrebbero spadroneggiato il Napolitano spogliandolo come lupi affamati».
Su queste indiscrezioni di utilissima opportunità storica, Carlo Dossi ricordava volentieri quelli anni in cui, sbarazzinamente, Il Don Chisciotte della Mancia pupazzettava, colla matita agile ed acuta di Gandolin: La Real magione di Don Ciccio. E, là, tra un Capitan Fracassa di carta, alabardiere real — guardaportone — un Don Achille Lanti, debellatore di pacchi postali — un Don Emilio Buffardeci, primo capellano, direttore spirituale, consultore teologo — un Don Petruccio Lacava, gran cacciatore appariva pure una Donna Alessandrina Fortis, «dama di palazzo puramente onorario, perchè le sue attribuzioni sono esaurite dal tempo in cui Berti filava»; e si trovava en habit à la française con lavorini e passamani sulla cucitura ed una gran chiave a battergli le polpe deretane e magre «il Cavalier Pisani-Dossi, primo ciambellano del cifrario. L'autore della Colonia Felice, colla quale vaticinava chiaramente l'Eritrea, è il geloso depositario dei segreti grammaticali di Don Ciccio, la cui lingua superiore non accetta la sintassi del volgo, nè la pedanteria delle vecchie [211] formole letterarie. Annesso alla carica di primo ciambellano, oltre ad uno stipendio cospicuo, vi ha un proverbio onorifico: «La chiave non ha ossi, ma fa rompere il Dossi».
Del resto la sua curiosità d'antitesi se ne è sempre avvantaggiata. Mentre riconosceva in Crispi «una[178] virtù massima, la celerità; ed un massimo difetto: la fretta»; mentre rivolgeva in mente, e ve la conservava per una colonna votiva al Dosso, l'epigrafe: «Francesco Crispi, d'animo grande, fantasiò che l'Italia fosse grande o cercò suscitare negli Italiani la coscienza del loro valore: ma la folla gli rispose che voleva essere piccola e vile, e fra tanto volontari pigmei più gigantesca apparve la sua figura» — non si dissimulava la meraviglia di trovarglisi vicino: «Strana[179] sorte la mia, questa di Carlo Dossi, d'essere diventato lui — lui l'amante e l'entusiasta di ogni nuovo principio e forma avvenire — il collaboratore di un uomo il cui pensiero e la cui dottrina è tutta roba da rigattiere, roba vecchia, senz'essere antica, straccia ed usata». — Forse gli pareva, come[180] ad altri sognatorelli suoi pari, la molteplicità della vita cosa interamente vera?»
Comunque, egli ne sperimentò l'efficacia; e se alcuno mai può vantarsi d'aver vissuto in triplice partita — novissimo calcolo che esorbita dalla computisteria ma è tutto psicologico e letterario, — costui è Carlo Alberto Pisani-Dossi.
Rappresentante del nome italiano al di là dei mari, dalla Columbia portò in patria, nel suo museo di Corbetta, cimelii, studi sopra la civiltà pre-colombiana; dalla Grecia vasi, cocci, memorie, ch'egli si scavò e rinvenne nel suolo eroico, colle proprie mani. Ai gabellieri di Atene veniva, di quel tempo, ordinato di lasciar entrare senza sospetto in città, quest'omino, col cappello a cencio ed a sghimbescio impastranato ed impantanato, reggendo involti preziosamente custoditi [212] sotto il braccio, e che se ne veniva scantonando ratto dalla postierla, guardingo, quasi temesse d'essere scovato: Carlo Dossi, lasciata la politica internazionale, s'era dimenticato, su, alle rovine dell'Acropoli, del Partenone, fuori per lo Stadio, ricercatore indefesso; tornava, in quell'arnese da muratore anarchico bombardiere (e che altro poteva essere l'involto prezioso?) la sera, a palazzo.
Da lui l'arenile di Assab e di Massaua, disgraziata conquista intrapresa da un bluff italiano (inversione di natura, però che prima la funzione e l'organo e dopo il gesto) ebbe il nome rubricante di una sperata porpora coloniale: Eritrea: ed a lui, il Negus, gajo ed africanamente volpino, mandò per insegne, sciamma bianco e scarlatto, scudo di cuojo, lancia di frassino e d'acciajo mal temprato, nominandolo ras di sua corte, donandogli denti di elefante con cuneiformi inscrizioni amariche.
Archeologo, consultò il ventre della nostra terra romana e lombarda perchè ci indicasse l'età passata, la forma delle cose scomparse, in cui è conservata l'anima delli avi. Infin il suo silenzio di venti anni è tale e perfetto per coloro che non sono nella sua intimità. Senza dogmatismo, senza preconcetti aperto a tutte le influenze, acuto e previdente per farne suo pro, fu il primo, padroneggiando la forma con isfarzosità d'artista, ad accostarsi, senza partito preso, senza pretesti d'utilità e di morale, senza smanie di professore, alla vita ed alla natura. E di tutti i privilegi, che la natura e la società gli hanno conferiti, solo accolse e pregiò l'aristocrazia, designazione di nascita, genialità. Ha fatto più di quanto Bacone da Verulamio assegna al gentiluomo; non un libro solo, non un solo figlio, ma una sola casa, che sarà modello d'architettura nostra, a meraviglia ed a studio de' posteri.
Oggi, questo suo bel palazzo del Dosso, un'altra pagina letteraria che volle di marmo e di cemento, si illumina di sole e di quiete. Vergine gliela prepararono perchè vi scrivesse le sue memorie perennemente, la genialità architettonica ed originale [213] di Luigi Conconi, con cui, sui progetti già chiaramente tracciati, intervenne l'ordine calmo e meticoloso della materiale esecuzione di Luigi Perrone, felicemente compresi e rifusi nel monumento, fatica di lavoro comacino, fervido disegno ed ordinanza italiana.
Biancheggia tra i cipressi ed i pini; vigila sul Lario si addita da lungi. Dentro, le sale, che il pennello di Carlo Agazzi ha ornate e decorano, ritratti di Tranquillo Cremona ricordano volti, aspetti cari per la famiglia e per la storia; un secolo di passione italiana cantano le colonne del Portico dell'Amicizia storiate coi più bei nomi, colla notizia delle più belle gesta d'arte, di guerra e di pace. La piramide delle Tre Arti, dond'esce il fumo culinario e famigliare sfolgora, col faro elettrico, la notte; come le Tre Arti irraggiano dalla nostra terra benedetta: Cesare Ravasco le ha plasmate giovani, possenti, bellissime. Si svolgono i viali tra i lauri ed i roseti. A maggio, è un profumo di corolle aperte, rosse, rosee, bianche, pallide, tee, aranciate, spioventi, piangenti, ridenti, pazze, chiuse, maliziose, accartocciate, tra le sfumature di ogni tono di verde. E il giardino è un immenso incensiere all'azzurro smagliante.
E, sbucano dalle macchie, curiose, bionde, adolescenti, sudate, turgide, pei giuochi e le corse, ridendo, cantando, non più creature fittizie e di sogno, ma forti persone vive cui la pubertà equivoca, i figli suoi; la lietezza, la festosità; la razza fresca che si protende; la carne sua, concorsa a attestarlo in tangibilità operante;
«. . . . . . tre fortune
a tendere le braccia desiose
oh, rose umane!
per abbracciar l'evento non oscuro
de' calmi giorni prossimi.
nel presidio sicuro di leali virtù».
[214] Ed è con loro la madre gentile a proteggerli, sorretta dalle pregiudiziali cattoliche, e con loro il marito; «incomparabile esimia sposa ed amica, ardentemente desiderata lungamente attesa»: colei che, titolare in sulla soglia, appare e sorride in atto d'accoglienza tra i fiori all'ospite; colei di cui parla la colonna votiva, «concessa a Carlo Dossi dalla preghiera della santa sua madre e discesa quaggiù»; — chi trova al suo sguardo fiducioso e prudente la domanda insistente e pia cui non si rifiuta mai:
«. . . e apporta la nepente
per il delirio dell'ammalato,
trema in le mani,
comprime il cor che palpita;
e porge la bevanda medicata,
come recando un calice a festa
di soavi tristezze,
invito suadente, tumida di carezze,
coll'angoscia nell'anima,
parole di speranza sopra le labra a sbocciare».
Vecchie canzoni; perpetue rispondenze, ritornano ad intonarsi in sul motivo.
La mensa, al Dosso, riconferma l'ospitalità al visitatore; il castaneto, che invade la collina, penetra dalle semilunari pareti di cristallo e frascheggia sulla volta tra il motto che invita a cristiana sanità. Ingannate, dalle foglie vive alle brezze ed al sole, ma fisse all'intonaco del fresco dell'Agazzi, ronzano api e tentano farfalle: sorridono all'evidenza della finzione i commensali; si sturano dalla memoria aneddoti al fomento del vino che s'arrubina mei bicchiere. — Ma il vespero invita ad uscire: alla Vedetta, che opposta impende colla balaustra barocca a Como, s'affacciano, col panorama, a me lontanissime e recenti memorie.
Massiccia, quadrata, la città romana si imprime in un rilievo di planimetria sotto la guardia delle torri, s'incurva [215] ad ansa sulla spiaggia: il lago la riflette. Il Broletto l'attesta comune e repubblica, s'accampano le case disegnando le vie diritte, allineate sull'asse delle porte, in rassegna legionaria e consolare; la Catedrale proclama lavoro ed arte comacina e schietta; le fabriche dei sobborghi la invelettano, anacronismo, di fumi lunghi e cinerei, come una miss romantica; e vi appunta rose il tramonto; le vetriate fiammeggiano in una cipria d'oro. Orgoglio e mestizie galloppano, colle nubi figuratrici, in cielo; insieme mi scendono in cuore e mi eccitano a ricordare le avventure secolari della mia casa, glorie e dolori e sconfitte de' miei maggiori. Rutilan armi, corsaletti bruniti, partigiane; portano le rotelle ed i palvesi tre lucci voraci e ghibellini, embricati d'argento sulla porpora: passano cavalcate splendide e ambascerie per isponsali viscontei, processioni di lutto e di pompa ai mortorii ducali; evocansi magistero di magistrature comunali, assunte porpore cardinalizie, pedanteschi roboni e concioni secentesche; dottori d'academia, di toga e di stola; prelature e vaneggianti isterismi ascetici di monache e di priori; libertini impiumati, instivalati, la lunga toledana a battere ne' polpacci turgidi di spadaccino e di cacciatore, patteggiatori per il Medeghino amici e rivali dell'Innominato e nell'Oldrado; strascici di matrone: quindi, altre avventure napoleoniche, cariche garibaldine a raggiare di sangue sull'ultimo sangue del cielo, versato dal sole morente. Postremo ed ammalato, su vita incerta e breve a chiudere la razza, riguardo, a' miei piedi, le squadre delle vie comasche intersecarsi, ricoprendosi della cenere violetta della sera: le imagini smuntano all'allucinazione e sotto la penna che cerca fermarle vive in altrui, come già mi smagliavano palpitando in mente e dentro al cuore per famigliare pietà.
Ora, di me che importa? Qui non sono che araldo. Pe' giovani amici e coetanei — alle vecchie pratiche non mi rivolgo — ho voluto spronare questa bizzarra chinea avariata della estemporaneità, spingendola, al corso, meno tarda e viziosa, per giungere primo a riconoscere Carlo Dossi tra [216] noi. La cavalla s'impunta inalberandosi, recalcitra, sbuffando, spara calci, sgroppando, scrollandosi; un più mal destro scudiero avrebbe perso le staffe. Ma sotto le mie ginocchie, il ventre, ecco, ansima, le costole piegano; alli aculei d'acciajo delli speroni la pancia le si insanguina; il morso stira nella barra, le apre la bocca; le froge rosse le schiumeggiano; lo staffile arguto e vibrante fischia sulle terga. Onde, d'un balzo, si fa al galloppo dalle quattro zampe ferrate; ed io su a dirigerla verso il Campidoglio della gloria. Vi trombetto l'annuncio.
Perchè Carlo Dossi vi giunge dai gradini più alti, e la sua persona, qui, ritta, viene accettata intiera; ed altri impazienti eccita a seguirlo come un indice illuminato dal sole, coi restii che si affollano ancora indecisi, ma che già ne sono attratti. Se verrà raggiunto da più alacri questi lo accompagneranno, forse lo potranno continuare: ma badino alle sue parole: «Voi vi[181] fate, critici, una sbagliatissima idea di quello che sia la società umana, ritenendola tutta compresa, insieme alla fama ed al resto, nei pochi metri quadrati de' giornalistici uffici, che smerciano i vostri veleni, sacri asili all'infuori de' quali non sarebbe che «lido e solitudine nera». — Anch'io miro alla Fama, ma a patto solo di giungerla all'aria aperta e colla trionfata quadriga de' cavalli bianchi, non sul carretto dell'immondizia di Checco, non sul biroccio giallo-nero ed infangato di Cesare, non sulle penne rubate, sempre vendibili a chi più paga, di Ruggero». E su questi tre ultimi nomi, ai quali lascio libero chiunque di preporre il cognome, l'Araldo-Cintraco trombetta l'ultimo squillo per
«L'ORA TOPICA».
[217]
Sintesi epigrafica | Pagina 5 | |
Notizia preliminare | 7 | |
L'ORA TOPICA | ||
I | Il momento | 9 |
II | Come è nato | 21 |
III | Geniale ebefrenia | 32 |
IV | Passeggiata sentimentale per la Milano di «L'Altrieri» | 49 |
V | L'humorismo lo vendica | 82 |
VI | «Basse-cour — «Tiergarten» ecc. | 110 |
VII | Ragion pratica | 154 |
VIII | Perorazione | 187 |
1. Rivista minima, Fascicolo XVI — Ottobre 1871 — Lecco.
2. Etichetta al «Campionario.»
3. Agli scrittori novellini, prefazione di «L'Altrieri».
4. Primo Levi, Quistioni di cuore e di codice, per l'ultimo degli Ambrosiani. — Milano Tip. Golio 1900.
5. Primo Levi, Preludio alle Opere di Carlo Dossi, Edizione Treves.
6. Etichetta al «Campionario.»
7. Pipitone Federico, Saggi di letteratura contemporanea, 1885.
8. Primo Levi, Carlo Dossi e i suoi libri, ecc., 1873.
9. Studi sulla letteratura contemporanea. Seconda serie, 1882.
10. Carlo Dossi, Elvira.
11. Carlo Dossi, Note azzurre, inedite.
12. Carlo Dossi, Amori, Secondo Cielo.
13. Carlo Dossi, Vita di A. Pisani, Cap. XIII.
14. Prefazione generale ai «Ritratti umani».
15. Carlo Dossi, L'Altrieri.
16. Vita di A. Pisani, Cap. XIV.
17. Prefazione generale ai «Ritratti umani».
18. Vita di A. Pisani, Cap. XI.
19. Carlo Dossi e i suoi libri.
20. Vita di A. Pisani, Cap. ultimo.
21. C. R. Badiera, Simpatie, Un poeta suicida, Battezzati e C. Milano 1877.
22. Lettera inedita di G. Pinchetti, a N.Sardi, 27 ottobre, Como 1866.
23. Canzone inedita di G. Pinchetti, scritta sopra la copertina dei Versi di Leopardi.
24. Lettera inedita di G. Pinchetti a N.Sardi, 6 dicembre, Como 1866.
25. Lettera inedita di G. Pinchetti a N.Sardi, Milano, 12 agosto 1868.
26. Pensieri di G. Pinchetti.
27. Ultime parole di Desinenza in A.
28. Carlo Dossi, Elvira, elegia.
29. Carlo Dossi, Elvira, elegia.
30. Note azzurre inedite.
31. Il Libro dei Versi. Case Nuove, 1866.
32. E. Praga, Penombre, Imbiancatura.
33. Lettere di G. Pinchetti a N. Sardi, Como 11 ottobre 1866.
34. Lettera di G. Pinchetti a N. Sardi, Como, 20 aprile 1867.
35. Lettera di G. Pinchetti a N. Sardi, Como, 22 marzo 1868.
36. E. Praga, Penombre, Preludio.
37. G. Mazzini, Pensieri sui Poeti del secolo XIX.
38. Lettera di G. Pinchetti a N. Sardi, Como, 11 ottobre 1866.
39. Vita di Alberto Pisani, Capitolo VI.
40. E. Praga, Tavolozza, Larve Eleganti.
41. Vita di Alberto Pisani, Capitolo VI.
42. Vita di Alberto Pisani, Capitolo VI.
43. Vita di Alberto Pisani, Capitolo VI.
44. Dopo Custoza.
45. Versi.
46. Il Libro dei Versi, A Giovanni Camerana.
47. A. Boito, Il Libro dei Versi, Ad Emilio Praga.
48. Corriere della Sera, 3 dicembre 1908, Pei nuovi Cento Anni.
49. Primo Levi, L'Italia a Milano 1882.
50. Articolo raccolto in «Fricassea Critica» di Carlo Dossi.
51. Penombre, Notte di Carnevale.
52. Felice Cavallotti, Tre Ritratti.
53. Vedi la lettera che l'accompagnava ed il rammarico di non possederlo più in Fricassea critica.
54. Dossi e Perelli, Campionario, Il pianto della vedova.
55. Besana, Sommaruga occulto e Sommaruga palese, Roma, G. Brocca, 1885.
56. Primo Levi, Per i «Nuovi Cento Anni».
57. H. Balzac, Lettre à M.me Hanzka.
58. L'uomo grande ed il nano. Appendice all'opuscolo: «Il Volgo e la Medicina», altro discorso popolare.
59. A. Boito, Il libro dei Versi, a Emilio Praga.
60. Prefazione generale ai «Ritratti umani».
61. Carlo Dossi, I Mattoidi al primo concorso etcc....
62. Carlo Dossi, I Mattoidi al primo concorso etcc....
63. Carlo Dossi, I Mattoidi al primo concorso, etcc.
64. Carlo Dossi, I Mattoidi al primo concorso, ecc.
65. Prefazione generale ai «Ritratti umani».
66. Note azzurre inedite.
67. Note azzurre inedite.
68. Note azzurre inedite.
69. Prefazione generale ai «Ritratti umani».
70. Carlo Dossi, Note azzurre inedite.
71. Carlo Dossi, Rovaniana, inedite.
72. Prefazione generale ai «Ritratti umani».
73. Note azzurre, inedite.
74. Note azzurre, inedite.
75. Carlo Dossi, Campionario, La calata dei numerai in Italia.
76. Carlo Dossi, Campionario, La calata dei numerai in Italia.
77. Carlo Dossi, Amori, Primo Cielo.
78. Une saison en Enfer.
79. Carlo Dossi, Margine alla «Desinenza in A».
80. Raiberti, La Prefazione delle mie «Opere future».
81. Etichetta al «Campionario».
82. Campionario, I Contrattempisti.
83. Campionario, I Contrattempisti.
84. Campionario, La calata dei Matematici in Italia.
85. La prefazione delle mie «Opere future» scherzo in prosa del Medico-Poeta.
86. Il Volgo e la Medicina.
87. Raiberti, I Fest Natal.
88. Del calamaio di un Medico, Nuova ed antica impostura.
89. Del calamaio di un Medico, Nuova ed antica impostura.
90. Del Calamaio di un Medico, Bruti e Cristiani.
91. Lettera inedita a L. C. Roncegno, 14 Agosto 1885.
92. Desinenza in A, Via publica.
93. Lorenzo Stecchetti, Nuova polemica Palinodia.
94. Margine alla «Desinenza in A».
95. La Desinenza in A, Palingenesi.
96. Huysmans, Certains, Félicien Rops.
97. La Desinenza in A, Palingenesi.
98. Pipitone Federico, Saggi di letteratura contemporanea.
99. Margine alla «Desinenza in A».
100. Margine alla «Desinenza in A».
101. Margine alla «Desinenza in A».
102. F. Cavallotti, In morte, di A. Manzoni, 1873.
103. F. Cavallotti, Povero Vate, Milano, agosto 1877.
104. Nel giornale «La Ragione» Anno IV n. 233.
105. L. Stecchetti, Nuova polemica, a Giosuè Carducci.
106. Margine alla «Desinenza in A».
107. Stecchetti, Nuova polemica, Prologo.
108. Stecchetti, Nuova polemica, Prologo.
109. C. Tronconi, Commedie di Venere.
110. C. Tronconi, Commedie di Venere.
111. C. Tronconi, Commedie di Venere.
112. L'apologia dei Rebus, — Carlo Dossi, la Desinenza in A, seconda edizione, — La Domenica Letteraria, Anno III, N. 46, 20 Aprile, Roma, 1884.
113. L'apologia dei Rebus, — Carlo Dossi, la Desinenza in A, seconda edizione, — La Domenica Letteraria, Anno III, N. 46, 20 Aprile, Roma, 1884.
114. L'apologia dei Rebus, — Carlo Dossi, la Desinenza in A, seconda edizione, — La Domenica Letteraria, Anno III, N. 46, 20 Aprile, Roma, 1884.
115. Prefazione generale ai «Ritratti umani».
116. Prefazione generale ai «Ritratti umani».
117. Prefazione generale ai «Ritratti umani».
118. Etichetta al «Campionario».
119. Regno dei cieli.
120. Regno dei cieli.
121. Regno dei cieli.
122. G. Rovani, La Mente di Alessandro Manzoni, 1873.
123. Universae Theologiae moralis complexio accurate instituendis candidatis accomodata a Fulgentio Cunigliati, ordinis predicatorum, Venetiis, M. DCC. LIL.
124. Colonia Felice, Finale, La Patria.
125. Il Regno dei Cieli.
126. Note azzurre inedite.
127. Note azzurre inedite.
128. Carlo Dossi, Diffida alla quinta edizione di «Colonia Felice».
129. Il Regno dei Cieli.
130. Carlo Dossi, lettere inedite a Luigi Perelli 22 Novembre 1878.
131. Carlo Dossi, Note azzurre inedite.
132. Carlo Dossi, Note azzurre inedite.
133. Carlo Dossi, Note azzurre inedite.
134. G. Bovio, Dottrina dei partiti politici.
135. Note azzurre inedite.
136. Il Regno dei Cieli.
137. Goccie d'inchiostro. Illusioni.
138. Goccie d'inchiostro. Illusioni.
139. Dal calamaio di un Medico, — Medici e Farmacisti.
140. Verità, La Missione salvatrice della Chiesa cattolica.
141. Verità, La Missione salvatrice della Chiesa cattolica.
142. Carlo Dossi, Note per la «Rovaniana» inedita.
143. Carlo Dossi, Note azzurre inedite.
144. Renan, Inèdits, Le Malin 1910.
145. Renan, L'avenir de la Science.
146. Lo Forte Randi, Nietzsche, saggio critico.
147. Carlo Dossi, Note per la «Rovaniana» inedita.
148. Carlo Dossi, Il Regno dei Cieli, all'ultime parole.
149. La Colonia Felice, Stato e Famiglia.
150. La Colonia Felice, Finale, La Patria.
151. Goccie d'inchiostro.
152. Correnti, Lettera inedita, Roma, 1 Marzo 1878.
153. Lettera inedita, 10 Febbraio 1875.
154. Febbraio, 1875.
155. Milano, 6 Gennaio 1875.
156. G. P. Lucini, Per tutti li Dei morti ed aboliti.
157. Carlo Dossi, Note azzurre inedite.
158. Carlo Dossi, Note per la «Rovaniana» inedite.
159. Carlo Dossi, Margine alla «Desinenza in A».
160. Note per la «Rovaniana» inedita.
161. Fricassea critica, Tranquillo Cremona e Giuseppe Grandi alla Esposizione di Belle Arti a Brera del 1873.
162. Fricassea critica, Saggio di critica nuova, di tre scrittori contemporanei.
163. Fricassea critica, Saggi di critica nuova.
164. Fricassea critica, Saggi di critica nuova.
165. E. De Amicis, Lettera a Carlo Dossi, 26 Agosto 1881, inedita.
166. Epigrafe a Carducci nel Portico delli Amici al Dosso.
167. Carlo Dossi, Margine alla «Desinenza in A».
168. Margine alla «Desinenza in A».
169. Margine alla «Desinenza in A».
170. Marcel Schwob.
171. C. Dossi, Note azzurre, inedite.
172. C. Dossi, Note azzurre, inedite.
173. La Critica, rivista di letteratura, storia, filosofia, anno III fasc. VI, 20 Novembre, 1895.
174. Saggi di letteratura contemporanea.
175. Prefazione generale ai «Ritratti umani».
176. C. Dossi, Note azzurre, inedite.
177. C. Dossi, Note azzurre, inedite.
178. Note azzurre, inedite.
179. Note azzurre, inedite.
180. C. Dossi, Amori, Celeste.
181. C. Dossi, Margine alla «Desinenza in A».
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.
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