The Project Gutenberg EBook of Alla finestra, by Enrico Castelnuovo

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Title: Alla finestra
       Novelle

Author: Enrico Castelnuovo

Release Date: June 9, 2015 [EBook #49184]

Language: Italian

Character set encoding: UTF-8

*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK ALLA FINESTRA ***




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ALLA FINESTRA.


ALLA FINESTRA

NOVELLE

DI

ENRICO CASTELNUOVO

Seconda edizione, con numerose aggiunte.

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI.
1885.


PROPRIETÀ LETTERARIA.

Tip. Fratelli Treves.



INDICE


AVVERTENZA DEGLI EDITORI.

Questo libro non è una semplice riproduzione di quello da noi pubblicato con lo stesso titolo nel 1878, e completamente esaurito. L'autore ne tolse alcune novelle ed alcune ne aggiunse. Tolse quelle che gli parevano più scadenti, aggiunse altre inserite già in precedenti raccolte, del pari esaurite e da lui credute non indegne di rivedere la luce.

Così dei sedici lavori che si trovano oggi riuniti sono riprodotti dalla nostra prima edizione i seguenti: Alla finestra, Le chiacchiere della nonna, Nevica, La gamba di Giovannino, Il fratello del grand'uomo. Due ore in ferrovia, La democrazia della signora Cherubina, La confessione di Doretta, La pagina eterna.

Invece Un raggio di sole e Il colpo di stato di Clarina appartengono al volume Racconti e bozzetti stampato nel 1872 a Firenze dal Le Monnier; Lo specchio rotto, Il parassita indipendente, Il maestro di calligrafia, L'orologio fermo, La lettera di Margherita sono tolti dai Nuovi racconti editi a Torino nel 1876 dal Casanova.

È insomma una scelta fatta dall'autore tra varie sue pubblicazioni e speriamo che la scelta non sarà sgradita ai lettori.

[1]

ALLA FINESTRA

I.

Alla finestra ci si sta negli altri paesi per veder la gente che passa; in molte parti di Venezia ci si sta sopratutto per discorrere. E chi conosce questa città singolare non deve farne le meraviglie; parecchie delle nostre calli sono così anguste che la camera dell'inquilino dirimpetto è assai spesso la cosa che si vede meglio affacciandosi al verone; le finestre si aprono le une nelle altre e paiono strette in sodalizio di mutuo soccorso; tu guarda qui, io guarderò costà. In queste viuzze, d'inverno, le donne si ammiccano dietro i vetri, si salutano con la mano; nella buona stagione, appena possono, si appoggiano al davanzale e mandano innanzi quei dialoghi che non hanno nè principio nè fine, e che il nostro Goldoni coglieva sul vero. Si ciancia di tutto: del tempo e dell'economia domestica, delle funzioni della chiesa e delle tresche della vicina, del grasso e del magro, delle bizzarrie dei bimbi e dei numeri del lotto, del cappello che la tale aveva domenica a messa e del rincaro del pollame, del puzzo dei rii e del travaglio [2] che danno le zanzare. In mezzo a queste chiacchiere innocenti si formano adagio adagio i pettegolezzi, le permalosità; indi mille soggetti di commedia che aspettano l'autore comico. Talora fra le due finestre, se da una parte vi è un uomo, s'inizia un intrigo galante che andrà a terminare nel matrimonio, oppure si risolverà in nulla come una bolla di sapone. Ma in tal caso, disgraziate quelle due finestre! Esse si terranno il broncio fin che non muti l'uno o l'altro degli inquilini.

Fra le tante calli che vi sono in Venezia ce n'è una chiamata Calle lombarda. Il perchè di questo nome domandatelo agli eruditi; noi profani non sappiamo assolutamente che cosa ci abbia da fare la Lombardia. Da un lato, e precisamente a destra di chi ci entra, nè ci si entra che da una parte sola, sorgono alcune casupole disuguali, povere e affumicate; di fronte c'è il muro posteriore di un palazzone del seicento, la cui facciata guarda sul Canal grande, e un braccio di questo muro facendo angolo retto col lato principale viene ad occupare i due metri che fronteggiano l'imboccatura della calle, e le dà appunto in tal modo il carattere di via cieca. Il palazzo, dalla famiglia che l'ha edificato, è conosciuto sotto il nome di Cà Dareni e sul Canale fa abbastanza bella mostra di sè. Verso la calle invece esso non presenta che una muraglia sgretolata, nelle cui fessure cresce il musco, e che finisce in un cornicione sotto il quale han posto il nido i colombi. La porta, un po' piccina per quella mole ciclopica, [3] ha un pregevole martello di bronzo raffigurante un Prometeo legato alla rupe. Sopra la porta, a tre piani diversi, ci sono tre finestroni difesi da grosse inferriate. Sono i finestroni delle scale. Del resto, lungo tutto il muro, per quanto è alto e largo, non ci si vede che una finestra, precisamente all'estremità interna del vicolo. Essa dà luce ad un gabinetto, che viene a terminare una fila di stanze, l'ultima delle quali guarda il Canalazzo e le altre guardano un rio. Il muro di Cà Dareni è alto e le catapecchie di rimpetto son basse, ragione per cui il sole conforta le lucertole che sbucano dalle screpolature del palazzo e non manda mai un raggio benefico alle creature umane le quali abitano nelle catapecchie. Quanto alla calle, essa nuota nelle tenebre tutto il giorno, ma è rischiarata la notte da un fanale a gaz posto sull'angolo. Nondimeno la mancanza assoluta di sole mantiene il selciato in una condizione semipaludosa che fa acquistare ai passanti la buona abitudine dei piediluvi. Dico passanti così per dire, perchè in verità non vi passano che gl'inquilini delle case e del palazzo, quando se ne eccettui forse qualche coppia sentimentale che trova il luogo propizio alle sue espansioni. Si sbaglierebbe però a credere che la calle fosse sacra al silenzio. Prima di tutto vi sono i rumori esterni, perchè la calle sbocca in una stradicciuola non larga ma brulicante sempre di gente. Poi c'è il fruttaiuolo sulla cantonata che vale per dieci. Dal giorno in cui la prima castagna raccolta sui monti arriva a [4] Venezia fino al giorno in cui è lecito arrostire castagne, egli vende i suoi marroni caldi, e richiama i compratori gridando a squarciagola — Di bollio! Ma di bollio! Egli intende così di esprimere in pretto toscano che i suoi marroni bruciano anzi bollono, secondo la sua elegante dicitura. D'autunno egli lascia l'ufficio di urlare alla moglie, la quale magnifica in note di soprano sfogato la zucca santa e baruca, e non si stanca mai di ripetere Cò negra! Ma cò negra! Finalmente nelle sere d'estate i due coniugi a vicenda proclamano ai quattro venti i meriti delle loro angurie (cocomeri).

A ogni modo, nella Calle lombarda la conversazione è languida. Ciò dipende dall'esser tutte le finestre, meno una, da una parte sola, dimodochè per vedersi bisogna sporger la testa fuori del davanzale e rischiare di prendere un torcicollo. Aggiungasi poi che in questa infelice condizione di cose siora Annetta può discorrere con siora Gertrude che le sta muro con muro, ma stenta a scambiare i suoi pensieri con siora Veronica che abita quattro finestre più in là. Una conversazione generale è difficilissima e non si tiene regolarmente che il sabato dopo l'estrazione del lotto. Quando uno dei monelli che assistettero all'estrazione in piazzetta, passa davanti all'imboccatura della calle con le sue polizzine di numeri in mano e gridando Cò bei! siora Annetta, siora Gertrude, e siora Veronica balzano tutte alla finestra e una di esse chiama il ragazzo, cala il panierino col suo centesimetto e ritira la lista [5] di cui legge poi ad alta voce il contenuto. Allora si discute sui numeri che naturalmente si trovano assurdi perchè non si è guadagnato, e si conclude che oramai non c'è più regola, e che anche la cabala è diventata vecchia e bisognerebbe cambiarla.

Abbiamo già detto che sul muro del palazzo, oltre ai finestroni delle scale a cui non s'affaccia mai nessuno, si apre una finestra. Precisamente di fronte ad essa, sulla linea delle casupole, c'è una finestretta molto invidiata dai vicini perchè è la sola che possa vedere dentro Cà Dareni. Non s'invidia però la persona che da tanti e tanti anni siede a quel posto e non se ne muove che per coricarsi sopra un letticciuolo lì presso. Povera Gegia!

II.

Fino a dodici anni ella era stata un amore di bimba. Aveva lunghi capelli biondi, occhi grandi e bruni e una personcina svelta, elegante, su cui i cenci facevano l'effetto di sete e di trine. Mòrtale la mamma mentr'essa era ancora in cuna, ella fu l'orgoglio del padre, gondoliere presso una famiglia signorile, il quale, rimasto vedovo, aveva preso in casa una sorella nubile per attendere alla fanciulla. Filippo (egli si chiamava così) godeva di una singolare reputazione presso i barcaiuoli come [6] quegli che aveva vinto il primo premio in due regate, e che conosceva tutte le regole dell'arte sua. Lo nominavano padrino nelle sfide, lo invocavano a giudice nelle contese e quando una parola era stata detta da Filippo, nessuno rifiatava più. Egli era inoltre un avvenentissimo uomo e si pavoneggiava nella sua livrea blù coi galloni d'oro. I bimbi lo guardavano con ammirazione e le donne più ancora dei bimbi. Egli faceva buon viso alle donne ed al vino, ma mostrava d'amar sopratutto la sua Gegia, che a nove anni sapeva leggere correntemente, conosceva la dottrina come un canonico, e dava scacco matto per bellezza a quant'erano le fanciulle della parrocchia. L'accompagnava ogni domenica a spasso e di tratto in tratto la conduceva a visitare i suoi padroni che le regalavano o una chicca, o una moneta, o una vesticciuola. Di questi doni la moneta era il meno gradito per lei, giacchè suo padre la metteva in tasca ed ella non ne sapeva più notizia.

Anche i Dareni, patrizi molto boriosi e molto bene incamminati verso il fallimento, si degnavano di sorriderle e di carezzarla e avevano perfino consentito alle loro bambine d'invitarla a casa. La Gegia ci era entrata come in un castello di fate, era corsa per la lunghissima sala, aveva visto gli specchi e i lampadari di Murano su cui si frangevano i raggi del sole, aveva visto i quadri coi parrucconi e le poltrone dai grandi schienali dorati, aveva visto infine il conte Luca alzar dalle pieghe della Gazzetta di Venezia il suo naso monumentale, tirar fuori [7] di tasca un fazzoletto di colore e soffiarsi con uno strepito da svegliare i morti. Ma il suo maggior gusto era stato quello di chiamare a nome dalla finestra del palazzo che dava sulla calle tutti i bambini di sua conoscenza e di salutarli con un bondì pieno di degnazione. Le aveva fatto poi un effetto singolare lo spinger gli occhi da colà entro la stanzuccia della sua casa.

Quest'amicizia della Gegia coi zentilomini suscitava certo qualche malumore, qualche invidiuzza, ma in complesso ella era benvoluta da tutti. Era buona, servizievole, facile ad affezionarsi, e la sua aria di contessina non le faceva sdegnare la compagnia di quelli ch'erano da meno di lei. L'avevano carissima anche nella fabbrica di conterie ove ella era entrata a undici anni e ove si distingueva per la sua assiduità al lavoro e per la sua intelligenza. Il signor Menico, il vecchio commesso che distribuiva le paghe il sabato, le pizzicava volentieri la guancia e ogni tanto le donava un cartoccio di perle colorate ch'ella portava a casa come un trofeo e con le quali si conquistava il cuore di tutti i bimbi del vicinato, comprese le contessine Dareni.

Quest'ultime però dovevano sparir presto dalla scena. Un bel giorno si seppe che il palazzo andava all'asta e che i Dareni si stabilivano in campagna. Infatti essi si dileguarono in silenzio lasciando dietro a sè un lungo strascico di debiti. Le contessine non si curarono punto di salutare la Gegia e la finestra sulla Calle lombarda si chiuse.

[8]

La Gegia ne provò un vivo dolore, ma in quell'età le afflizioni non durano a lungo e l'ingresso del nuovo parroco avvenuto dopo alcune settimane la compensò ad usura della conversazione che le era mancata. Che spettacolo quell'ingresso! Tappeti a tutte le finestre, iscrizioni per tutti i muri, festoni lungo le strade, e baracche sui campi ove si friggevano i galani, e si vendevano giocatoli. Il babbo, che nella pompa della sua livrea la teneva per la mano, aveva speso dieci centesimi per comperarle una specie di girandola, e l'aveva poi presa in collo in mezzo alla folla affinchè ella potesse veder meglio ogni cosa. In questa posizione eminente ella aveva letto quattro versi scritti in color verde sul muro della canonica nei quali si faceva giocare con molto spirito il nome e cognome del nuovo pastore:

Dei parrocchiani il core

Conforti Don Vittore,

Il cor dei parrocchiani

Conforti Don Milani.

Le donnicciuole gridavano in estasi: Siesta benedeta! Co'ben che la leze! Co'bela che la xè! Alla funzione in chiesa ella aveva poi saputo attirare perfino l'attenzione del parroco, che s'era informato con molta premura di lei.

A rendere ancora più memorabile quella giornata, la Gegia seppe che il palazzo Dareni era stato appigionato ad una famiglia forestiera, dimodochè [9] fra poco si sarebbe riaperta la finestra prospettante quella della sua casa.

Ma, prima che ciò avvenisse, la fanciulla infermò di un male strano. Il medico della parrocchia non ci capiva nulla, un altro dottore che Filippo fece venire a veder la figliuola, disse che c'era un rammollimento della midolla spinale, che sarebbe occorsa una cura lunga, una di quelle cure che la povera gente non può fare a casa sua, e per le quali ci sono gli ospedali apposta. Ma alla parola ospedale la Gegia gridò come un'ossessa, Filippo dichiarò che sua figlia non andrebbe in quei luoghi, e le comari della calle dissero a una voce e con molta solennità che i medici non ne indovinano una. Si ricorse quindi ai sapienti consigli di una empirica, la quale si rese mallevadrice della guarigione in quindici giorni. E siccome le febbri che avevano prima travagliato la fanciulla andarono via via rimettendo della loro intensità fino a sparire del tutto, così si cantò vittoria. Siora Veronica, la moglie del falegname, giocò al lotto i numeri della guarigione, e guadagnò un ambo.

Fatto si è che la Gegia non tardò a poter essere levata dal letto e messa sopra una sedia, ma non c'era caso di farle fare un passo. Sarà debolezza — dicevano il padre e la zia e le vicine; ed aspettarono. Ma il tempo, il gran medico, non seppe giovare in nulla alla povera creatura. Le sue gambette che parevano fatte al torno si assottigliarono, s'incurvarono; pareva che un soffio maligno [10] avesse arrestato lo sviluppo della leggiadra pianticella.

Con la beata spensieratezza della sua età, ella non dubitò un momento che sarebbe guarita; si metteva piena di fede certi empiastri che le erano suggeriti dalla ciarlatana, e faceva assegnamento sulla buona stagione. Il male l'aveva colta d'autunno, poi era sopraggiunto l'inverno, ma dopo l'inverno veniva la primavera, e con la primavera, chi non lo sa? rinasce tutto a questo mondo.

Intanto s'era fatta trasportare nella cameretta, la cui finestra guardava nella calle, e prospettava quella del palazzo Dareni. Questa cameretta si apriva sulla scala, e aveva servito fino allora come luogo di passaggio, ma la Gegia la preferiva alla stanza ove aveva dormito per lo addietro, appunto per poter vedere i nuovi inquilini del palazzo e sentire nella calle le voci dei suoi compagni di giuoco. Ed ogni mattina, o si strascinava ella stessa carponi, o si faceva collocar dalla zia sopra una sedia vicino alla finestra. Teneva uno sgabello piuttosto alto sotto i piedi, e con una ciotola di conterie sui ginocchi e un mazzetto d'aghi in mano passava tutta la giornata a infilar perle. Dietro i vetri foschi e giallastri si vedeva così da mane a sera la sua testina di Madonna, più spesso curvata sull'opera sua, talora volta all'insù a cercar l'azzurro del cielo, e talora intenta a guardar dentro il palazzo che s'era riaperto.

[11]

III.

Era venuta ad abitar Cà Dareni una ricca famiglia tedesca e il gabinetto di fronte alla cameruccia della Gegia serviva di abbigliatoio ad una ragazza di tredici anni, già alta di statura e in via di acquistare proporzioni matronali. La chiamavano Lotte (Carlotta), aveva occhi azzurri, capelli castani, di cui le scendevano due lunghe treccie giù per le spalle; le rosee guancie davano l'immagine della salute. Con un po' di tempo sarebbe certo divenuta una bella ragazza. Quando vedeva la Gegia le sorrideva. Ma la vedeva poco, perchè era d'inverno, ed essa sollevava di rado le cortine, e più raramente ancora apriva la finestra.

La buona stagione non portò alla Gegia alcun miglioramento. I fanciulli del vicinato ripigliarono i loro giuochi nella calle, le rondini tornarono a far sentire i loro trilli armoniosi, ma ella era inchiodata nella sua sedia a infilar perle. Un dolore inatteso le aveva poi recato lo strano contegno di suo padre verso di lei. Nei primi tempi della sua malattia egli le aveva prodigato ogni sorta di cure; adesso, non isperando più ch'ella guarisse, era freddo, ingrugnato, le teneva il broncio. Gli è che Filippo, nel fondo, era un grande egoista. Aveva amato sua figlia finchè la bellezza di lei, gli elogi che le venivano [12] diretti, lusingavano il suo orgoglio; adesso la commiserazione ch'ella destava negli antichi conoscenti muoveva la sua stizza, gli pareva un'offesa; adesso sarebbe stato lieto di poter dimenticare che aveva una figlia. Aveva amato il suo sorriso, non amava la sua mestizia e le sue lagrime; l'aveva amata ritta, svelta della persona, vispa delle movenze; non sapeva più amarla così rattratta, così pallida, così diversa insomma da quella ch'ella era. E cercava ogni pretesto per venire a casa meno che fosse possibile. Finalmente disse un giorno che d'ora in poi doveva passar la notte nel palazzo dei padroni, ed era vero, ma era vero altresì che aveva sollecitato egli stesso questo favore e che per ottenerlo s'era offerto di far la guardia al padrone vecchio, il quale contava più di settant'anni, e aveva bisogno che qualcheduno gli dormisse nell'anticamera. Presa questa risoluzione, Filippo lasciava trascorrere anche una settimana senza veder la sua figliola e credeva di adempir largamente a' suoi doveri di padre pagando la pigione di casa, e dando a sua sorella un piccolo peculio per mantenere sè e la Gegia. Ma queste poche lire non avrebbero bastato nemmeno a toccar la metà del mese, se non vi si fossero aggiunti i quattrini che la fanciulla continuava a guadagnarsi anche dopo la malattia col suo mestiere di infilatrice di perle. E l'ottimo signor Menico le portava in persona ogni sabato il suo salario, e non poteva capacitarsi che la più vispa delle sue operaie fosse ridotta così. Ma in cospetto di lei si mostrava [13] pieno di fiducia, le discorreva dei miglioramenti introdotti nella fabbrica, dei nuovi locali che si erano aperti, e del posto ove la si sarebbe messa, quando fosse guarita. Ella stava intenta ad ascoltarlo, e sperava, e rinfrancata dalle sue visite, subiva con animo paziente l'abbandono del padre e gli umori bisbetici della zia Marianna. Costei non era cattiva ma brontolona, ed era affetta da una sordità che cresceva ogni giorno. Diceva che la Gegia non aveva voce affatto, ma s'arrabbiava poi s'ella gridava un po' forte, come se avesse da discorrere con una sorda. E nella sua stizza si chiudeva in cucina e faceva al gatto lunghe e feroci requisitorie contro la nipote, che sentiva benissimo le impertinenze a lei dirette, e sospirava.

Nell'aprile di quel primo anno di malattia, una bella mattina, la Lotte spalancando le imposte si affacciò al davanzale della sua finestra. Aveva un bianco accappatoio sulle spalle e doveva ancora pettinarsi.

Ella vide la Gegia nel solito posto.

La Lotte aveva imparato un po' d'italiano, e raccogliendo tutte le sue cognizioni, chiese:

— Come ti chiami?

— Gegia, signora.

— E stai sempre a quella finestra?

— Sempre.

— O perchè non ti muovi?

La poveretta arrossì, e sentì venirsi le lagrime agli occhi.

— Sono malata — rispose.

[14]

— È vero. Sei un po' pallida. O che cosa hai?

— Ho male alle gambe.

— Da un pezzo?

— Da sei mesi.

— Oh, ma guarirai certo.

— Sì, spero, quest'estate.

Da quel giorno le conversazioni fra le due finestre si rinnovarono spesso. La Lotte era riconoscente alla fanciulla della buona cera ch'essa le faceva. In quel tempo (era nel 1862) i Tedeschi non erano avvezzi in Venezia ad esser trattati con cordialità.

— Che cosa fai? — domandò un dì la forestiera alla Gegia, vedendola occupata in un lavoro diverso dall'ordinario.

— Faccio un sottolume di perle a colori.... tanto per distrarmi.

— Dovresti vendermelo.

— Oh! Venderglielo, no.

— Perchè?

— Perchè vorrei regalarglielo.... se non si offende....

— Poverina! No, che non m'offendo.... Ma tu non sei ricca.

— Oh questa roba qui non val nulla.

— Senti, Gegia, accetto il tuo regalo ad un patto.

— Quale?

— Che tu mi permetta ch'io t'insegni un lavoro che ti distrarrà ancora di più.

— Oh magari? E sarebbe?

— Vedrai.

[15]

Così dicendo la Lotte si ritirò dalla finestra e scomparve.

Di lì a pochi minuti la Gegia sentì bussare all'uscio della scala, chè quanto alla porta di strada essa soleva rimaner socchiusa gran parte del giorno.

Tirò il cordone ch'era a portata della sua mano ed aperse.

Quale fu la sua maraviglia allorchè si vide dinanzi la Lotte in persona accompagnata dalla cameriera, che per dir la verità aveva un'aria scura ed uggita!

— Non c'è in casa nè il babbo nè la mamma — disse la ragazza — e ho voluto prendermi un po' di vacanza. — Poi rivoltasi alla cameriera, soggiunse in tedesco. — Dà qui. — La donna tolse, brontolando, un involto enorme di sotto il braccio, e lo consegnò alla sua padroncina che lo posò sopra il tavolino, e lo aperse. C'erano fogli di carta di tutti i colori, forbici, fili di ferro, ecc., ecc. La Gegia guardava esterrefatta.

— Non capisci? Voglio insegnarti a fare i fiori di carta?

— Oh! — esclamò la Gegia, battendo le mani per la contentezza.

— Non c'è da sedersi in questa camera? — ripigliò la tedesca. E in pari tempo andò in cucina, ove la zia Marianna stava attizzando il fuoco, prese due seggiole di paglia, una per sè, l'altra per la sua cameriera, e senz'aggiunger parola tornò dalla Gegia.

[16]

La sorda, sbalordita da quell'apparizione, le corse dietro col ventolo gridando: — Ehi chi è là? Chi è là?

La Lotte diede in una risata sonora.

Quando la donna riconobbe la signorina dirimpetto cominciò una filza di scuse e di complimenti. La ragazza le rispose qualche cosa, ma visto che l'altra intendeva a rovescio non si occupò più di lei, e si consacrò tutta alla sua lezione.

— To' — diss'ella ad un tratto picchiandosi il fronte. — Ci manca il meglio. — E con un ordine breve e con un gesto imperioso mandò la cameriera a prendere quello che le mancava. Costei uscì borbottando e in un paio di minuti fu di ritorno con un mazzolino di fiori. C'era una camelia bianca cinta di violette.

— Ecco — osservò la Lotte pigliando il mazzolino — gli esemplari dipinti e gli stampi sono belli e buoni, ma quando non s'abbiano i fiori vivi davanti non se ne fa nulla.

La Gegia mostrava una singolare attitudine ad imparare, e la sua maestra la lasciò dopo un paio d'ore assai soddisfatta.

— E questa roba? — chiese timidamente la Gegia.

— Che roba?

— Questa carta, questi modelli?

— Ti regalo tutto, diamine.

— Oh, ma è troppo....

— Ti ripeto che ti regalo tutto, e basta. Non [17] sono avvezza a sentirmi contraddire. Del resto anche tu mi regali il sottolume.... Via, non vo' sentir altro, — e le pose la mano alla bocca, — ripiglieremo la nostra lezione domani, posdomani, quando vuoi. — Le carezzò i capelli e senza lasciarle tempo a rispondere fu fuori della porta.

La Gegia era tra commossa e confusa. Pur pensava che non poteva trascurare troppo il suo mestiere, e che avrebbe quindi dovuto rallentare un po' la foga della sua amica. Ma non ce ne fu punto bisogno; la Lotte era stranamente volubile, e corsero parecchi giorni prima ch'ella riparlasse dei fiori di carta. Intanto la Gegia faceva singolari progressi da sè, e non ci volle molto prima ch'ella ne sapesse quanto la maestra.

Una volta la Lotte comparve con un signore vestito di nero.

— Ho condotto qui il nostro medico, — ella disse, — voglio ch'egli ti veda.

La Gegia arrossì.

— C'è quella noiosa di tua zia?

— No, è fuori.

— Tanto meglio.

Il medico non sapeva una parola d'italiano, onde la Lotte doveva servirgli d'interprete. Fu un interrogatorio in tutte le regole sulle origini del male, sui sintomi, sulle sofferenze, ecc., ecc. All'interrogatorio succedette un esame. Il dottore fece uno sproloquio alla Lotte in tedesco, indi si ritirò con lei.

Per quel giorno la Lotte non si lasciò vedere [18] alla finestra del gabinetto. Il dì appresso ella ritardò a sollevar la cortina.

E la Gegia aveva tanta impazienza di saper da lei che cosa aveva detto il dottore!

Finalmente, quando le due fanciulle si videro, la Lotte pareva imbarazzata.

— Dunque? — chiese la Gegia, — il medico?....

— Ah! Il medico disse che.... guarirai... con un po' di tempo.

E la Lotte finse che qualcheduno la chiamasse per poter allontanarsi subito dalla finestra.

Fatto si è che il medico aveva giudicato la malattia della fanciulla non esser guaribile. Se fosse stata ricca, se avesse avuto i mezzi da fare una cura lunga e regolare, ci sarebbe stato da tentar qualche cosa, ma nelle condizioni in cui ell'era bisognava rinunciarvi. La Lotte se ne dolse vivamente, ma ella non poteva pretender che la sua famiglia sostenesse per un'estranea le spese d'una cura come quella che il dottore reputava necessaria; così era forza ch'ella si rassegnasse. Del resto si finisce sempre col rassegnarsi ai mali degli altri.

Quanto alla Gegia, ella non poteva a meno di dare un triste significato alle parole mozze della sua protettrice. Si disperò e pianse. Ma ella era in una età nella quale le illusioni ripullulano facilmente; aveva sperato nella primavera e poi nell'estate, e adesso andava via via persuadendosi che la primavera era stata troppo rigida e che l'estate [19] era troppo soffocante.... Forse in autunno, chi sa? o, in ogni caso, a un'altra primavera.

IV.

Succedette un inverno freddissimo. Nevicava ogni secondo giorno, e la Gegia stava rannicchiata sulla sua sedia collo scaldino allato tanto da poter posarvi di quando in quando le mani che intirizzivano. La neve, cacciata dal vento, si era rappresa sugli sporti, sulle inferriate, nelle screpolature del muro di faccia, e spenzolava dal cornicione del palazzo come il drappo d'un baldacchino, e orlava le imposte della finestra della Lotte che appena ogni due o tre giorni sollevava un momento le cortine e salutava con un cenno l'amica. Giù nella calle c'era un gran baccano. I monelli si rincorrevano gettandosi addosso la neve a manate, e la Gegia sentiva quel chiasso, sentiva le palle di quel bombardamento da burla frangersi sulle porte e sui muri, e il gridio dei fanciulli, e le voci corrucciate dei babbi e delle mamme, e pensava con che voluttà si sarebbe ella pur commista all'ilare schiera. Ma a dover stare così immobile, infilando perle alla luce colata che scendeva dall'alto, quei fiocchi bianchi che venivano a posarsi in silenzio sul suo davanzale le mettevano una malinconia da non dirsi. E salutò con entusiasmo i venti di marzo che portavano via le ultime [20] traccie di neve, e salutò i colombi, che rinfrancati, non uscivano più dal loro nido soltanto una volta al giorno per andare al tocco delle due in piazza San Marco, ma passeggiavano sul cornicione, traversavano la calle e si posavano sulla sua finestra a beccolarvi le briciole di polenta ch'ella spargeva colà apposta per loro.

— Come sono interessanti quelle bestiuole! — esclamò una mattina la Lotte affacciandosi al balcone dopo tanti mesi, e come se ripigliasse un discorso interrotto pochi minuti prima. — E che bene si vogliono! E che baci si danno!... Che cos'hai, Gegia? Perchè mi guardi come una bestia rara?

Ciò che la Gegia guardava era il gran mutamento operatosi nella sua amica durante quell'inverno. I suoi occhi azzurri avevano acquistato un'espressione nuova; parevano divenuti più grandi, più profondi; le lunghe treccie non le scendevano più infantilmente giù per la schiena, ma le erano raccolte intorno al capo; il vivo rossore delle sue guancie aveva ceduto il posto ad un leggero incarnato, la faccia già un po' troppo piena e paffuta s'era affilata alquanto e ridotta di un bell'ovale; il collo lungo, ben tornito, sottile, si posava superbamente sopra un magnifico giro di spalle degne d'esser modellate da uno scultore. Dall'autunno non era forse cresciuta in altezza, ma sembrava che fosse, tanto aveva acquistato ormai l'aspetto d'una ragazza fatta.

La Gegia le esternò la sua ammirazione; ella [21] fece spallucce e sorrise. Era avvezza ormai a ben altri omaggi!

— Ho continuato a intagliar fiori di carta, — osservò la povera inferma, credendo di dir cosa grata alla Lotte. — Oh come debbo esserle riconoscente per le lezioni che mi diede!...

— Bah! — rispose la tedesca con indifferenza. E mutò argomento. — E io ho ballato, cara mia ho ballato tutto questo inverno, ciocchè è meglio che far fiori di carta. Avevo ballato anche negli anni scorsi, ma non tanto, e non col gusto di quest'anno.... Che effetto singolare quell'esser portate in aria.... Tutto si confonde insieme, il suono, la luce, l'alito....

Ma si fermò a questo punto, chè le parve di veder una nube sulla fronte della sua disgraziata interlocutrice. Tolse da un vaso un mazzolino di fiori, e presa la mira lo gettò in camera della Gegia. — Ti servirà pei tuoi lavori, — le disse. Poi, dimentica del riserbo delicato che le aveva fatto poc'anzi interrompere il suo discorso, soggiunse: — Ma non ti darei per tutto l'oro del mondo quella viola lì. — E additò un fiore che era in un bicchiere, posato sul marmo del suo lavamano. — Oh quella viola non la darei a nessuno, a nessuno.

E si allontanò canticchiando la ballata di Goethe:

Es war ein König in Thule

Gar treu bis an das Grab....

La Gegia non era in grado di fare uno studio [22] psicologico nè sugli altri, nè su sè stessa; ella capiva soltanto che in quei pochi mesi un mondo di pensieri nuovi, di nuove impressioni, di nuovi affetti s'era spalancato dinanzi alla Lotte, e che in quel mondo ella ci era entrata come una regina. Ormai a parlare con lei le sembrava di discorrere con una persona che fosse sulla punta di un campanile; tanto ci correva tra loro! La fortunata fanciulla (chè, grande e grossa com'era, non toccava ancora i quindici anni) aveva la coscienza della sua bellezza, della sua forza, e la lasciava trasparire con la baldanza dell'età sua. Bisognava veder la mattina, quando faceva la sua toilette, come si compiaceva a guardarsi nello specchio! Certa di non aver di fronte altri che la Gegia, ella spesso non si curava nemmeno di abbassar le tendine e terminava di vestirsi a finestre aperte. Eppur la Gegia la divorava cogli occhi come se fosse stata un giovinotto, ed ammirava quelle spalle che parevan tagliate nel marmo, e le curve del seno mal dissimulate dal candido lino, le braccia ignude fin sotto le ascelle e arrovesciate dietro la nuca ad annodare le diffuse treccie dei lunghi capelli. E sentiva in cuor suo come un misto d'invidia, di desideri ancora mal noti, di sfiducia desolata e profonda. Era ella pur nell'età in cui nella fanciulla si sveglia la donna, e acquistavano un senso per lei tante frasi udite, tante cose vedute, e il sangue le correva nelle vene più infiammato, più rapido. Adesso capiva davvero il cinguettìo delle coppie innamorate che ad ora tarda [23] venivano a dirsi qualche paroletta furtiva sotto la sua finestra, e adesso intendeva ciò che significava l'esser novizze, come le si narrava or dell'una, or dell'altra delle ragazze, che, un po' più grandicelle, avevano, anni addietro, giuocato con lei. E, coricatasi, vegliava a lungo pensando, e si voltava e rivoltava nel suo letticciuolo; poi quando cedeva alla stanchezza e chiudeva gli occhi, i sogni si calavano in frotta sul suo capezzale. Era, in sogno, bella anche lei, bella come la Lotte, aveva anche lei il suo moroso, era fidanzata.... Poi si destava in sussulto, la fredda realtà le si parava dinanzi, e piangeva.

Una notte, nella quale non le riusciva di quietarsi, intese aprire adagio adagio le imposte della finestra dirimpetto. Tese l'orecchio e distinse la voce della Lotte, a cui una voce d'uomo rispondeva dal basso. Stettero forse cinque minuti a scambiarsi delle parole in tedesco; poi si udì lo scoccare di due baci, di due baci innocenti, intendiamoci, perchè l'uno scendeva da un primo piano alla strada, l'altro saliva dalla strada a un primo piano. Ma i baci mandati fanno più strepito dei baci dati e quel suono impedì alla Gegia di dormire anche il resto della notte. La mattina poi, quando la Lotte si affacciò alla finestra, ella le mise addosso certi occhi, che quella, contro il suo solito, divenne rossa, parve confusa, ed abbassò il viso.

La Gegia non potè a meno di lasciarsi scappar dal labbro. — Oh sia sicura che non dirò niente.

[24]

— Di che cosa? — rispose la Lotte facendosi di tutti i colori.

— Oh bella.... di questa notte.

— Che intendereste dire? — replicò la tedesca rizzando il capo in aria corrucciata ed altiera.

Alla Gegia vennero le lagrime agli occhi. — Scusi, — balbettò, — io non ci ho colpa.... non dormivo....

— Passate la notte alla finestra?

— No, no.... ma sentivo ugualmente... Del resto non potevo capir nulla.... Non capisco mica il tedesco, io.

— Ebbene! che male c'è? Era il cameriere di una mia amica che veniva a domandarmi se la sua padroncina aveva lasciato da me il suo ventaglio.

Non ci voleva un grande acume a capire che questa era una bugia, ma la Gegia non aggiunse parola. La Lotte chiuse la finestra dispettosamente, e non si fece più vedere per alcune ore. Ma sulle due ricomparve con cera rabbonita, si guardò intorno e chiese alla Gegia — C'è nessuno da te?

— Sì, c'è la zia — rispose l'altra cui non pareva vero d'essere interrogata amichevolmente.

— Che seccatura!

— Oh, la sta sempre in cucina e sente appena le cannonate.

— Ebbene, vengo, dopo tanto tempo, a darti una nuova lezione di fiori.

E queste ultime parole le pronunciò ad alta voce, come se desiderasse che fossero intese.

[25]

La Gegia aveva lasciato dormire da alcune settimane quei suoi lavorucci di carta, e teneva tutto chiuso in un cassetto del suo tavolino. Aveva bisogno di guadagnar quattrini e perciò doveva attendere a infilar perle e preparar qualche ninnolo di conterie, che il buon Menico vendeva per lei. Adesso tirò fuori dal tavolino la carta a colori, i modelli e gli arnesi che le erano stati regalati dalla Lotte, e stette in aspettazione della bella vicina.

— Buondì, Gegia — disse la Lotte entrando senza preamboli, e voltandosi con una certa compiacenza a raccoglier la coda della sua lunga vesta di percallo, che s'era impigliata nell'uscio. — Stamattina fui cattiva, ma che diamine? Se ti sentivano.... Basta.... À quelque chose malheur est bon.

— Le domando scusa di nuovo...

— Ci hai creduto alla storiella del cameriere?

— Ma.... sì.

— Baie! Hai una testolina troppa svelta.

La Gegia non rispose. Dopo una pausa di qualche secondo, ella disse: — Non siede?

— Chè! Bisogna ch'io me ne vada subito.... I miei genitori sono andati a fare una visita. Se tornano e non mi trovano in casa, sto fresca.

— Ah! Credevo fosse venuta per i fiori — osservò la Gegia guardando un po' mortificata tutta la roba ch'ella aveva messo sul tavolino apposta.

— No, no, i fiori non c'entrano — replicò la Lotte. E si diresse verso un cassettone sul quale erano collocati alcuni gingilli in conterie. — Oh! [26] il bel panierino! Oh il bel monile! Come mi piacerebbe averli!

— Li prenda.

— Purchè non sia come l'altra volta, sai. Voglio pagarli.

— Valgono così poco...

— Alle corte. Se non lasci ch'io me li pigli e li paghi, vado in collera.

— Che debbo dirle? Faccia lei.

— Così mi piace. — Involse i due oggetti nel fazzoletto bianco, poi si avvicinò alla Gegia e le diede una moneta chiusa diligentemente entro un pezzo di carta. Infine, chinandosele all'orecchio, le disse: — Se domani viene qui una donna portando qualche cosa per me, mi prometti di passarmi quella cosa dalla finestra? — E per prevenire ogni obbiezione, soggiunse: — Ho un panierino di paglia che farò scorrere lungo una cordicella di cui ti getterò uno dei capi. Mi prometti?

La Gegia non s'era ancor formata un'idea chiara di ciò che le si domandava. Aveva un confuso barlume che ci fosse qualche cosa di male, ma come risponder di no alla Lotte, che, bella e gran signora com'era, aveva tanta degnazione per lei? Così, divenendo rossa, articolò un sì appena percettibile.

— Grazie! — disse la Lotte. Le passò la mano sui capelli e soggiunse: — I bei capelli che hai! E anche il viso è bellino... Sembri una Madonna.

Indi, senz'altri indugi, sgusciò via rapida e leggera com'era venuta, e la lasciò mezzo sbalordita.

[27]

Ma lo sbalordimento della Gegia s'accrebbe, quando, rimasta sola, ella spiegò la cartolina che aveva ricevuta e vi trovò un napoleone d'oro. Senza saper precisamente il perchè, ella si sentì montar le fiamme al viso; credette per un istante a uno sbaglio, ma poi si ricordò che quella cartolina era preparata, e che doveva essere stata preparata appunto per evitare le obbiezioni ch'ella avrebbe mosso senza dubbio nel ricevere un compenso tanto maggiore del prezzo di ciò ch'ella dava. Non erano, no, i suoi gingilli che le venivano pagati con quel napoleone d'oro; era il servigio che si era chiesto da lei e ch'ella aveva promesso di rendere. Oh se avesse potuto ritirar la sua parola! Se avesse potuto consigliarsi con qualcheduno! Ma con chi? Suo padre non capitava quasi mai a casa, ed era diventato poco men d'un estranio per lei; colla zia Marianna bisognava rinunziare a discorrere, tanto era sorda; il signor Menico ella non lo vedeva che di lì a cinque giorni. E poi poteva tradire il segreto della Lotte? E se, dopo tutto, la Lotte non le avesse chiesto che la cosa più naturale del mondo? E se avesse voluto beneficarla? Aveva ella il diritto di essere orgogliosa? Di rifiutare un piacere a chi glielo domandava con tanta grazia? Ma se non fosse un piacere onesto? Onesto! E sapeva ella veramente ciò ch'era onesto e ciò che non era? Chi glielo aveva insegnato? Torturata da questi dubbi, la Gegia passava quel napoleone d'oro da una mano all'altra quasi fosse rovente, e si guardava [28] intorno come a cercare un'ispirazione che non veniva, un buon suggerimento che nessuno le dava. Ma quando vide entrare la zia Marianna, la fanciulla ripose istintivamente la moneta nel cassetto del suo tavolino; non era a lei ch'ella avrebbe potuto confidarsi. La zia Marianna era brontolona per indole; quel giorno poi ella accusava cento malanni, prevedeva che sarebbe caduta inferma e che l'avrebbero spedita all'ospedale. E si lamentava in anticipazione della sua cattiva stella e del pessimo cuore degli altri. La Gegia era avvezza a questi pronostici e a questi lamenti; pur quel giorno ne fu colpita più del consueto; pensò che una volta tanto la zia poteva dire la verità e che s'ella infermava sul serio sarebbe convenuto fare ogni sacrifizio per salvarla dallo spauracchio dell'ospedale. In questo caso i quattrini non sarebbero stati mai troppi e quel famoso marengo avrebbe servito a fare una buona azione. Così si decise a tenerlo, lieta forse in cuor suo d'aver trovato un motivo che giustificasse a' suoi occhi un tale proposito.

V.

Il panierino tragittò più d'una volta fra le finestre lungo la cordicella. I bimbi della calle, ne ridevano e salutavano questi passaggi aerei coi loro frizzi; le [29] donnicciuole facevano i loro comenti, tanto più ch'esse avevano visto una femmina ignota salire replicatamente della Gegia. Nondimeno le cose sarebbero andate liscie se un bel giorno il paniere non si fosse piegato troppo da una parte e non avesse lasciato cadere il suo prezioso carico nella via sottoposta. Il carico, che consisteva in una semplice letterina scritta in carta sottile, fece parecchie leggiadre giravolte prima d'arrivare in istrada, ma alla fine andò a terminare in grembo ad un monello che giuocava sullo scalino di una porta. Si può immaginare l'agitazione delle due ragazze. L'una, la Lotte, spintasi fuori con mezza la persona dalla finestra, seguiva collo sguardo il volo del suo biglietto; l'altra, la Gegia, che non poteva muoversi dalla sedia, lo seguiva col pensiero e non era la meno inquieta. — Ps! Ps! — fece la Lotte al ragazzo, vedendo che in quel momento non c'erano altri nella calle. E avvicinate le mani alla bocca in modo da raccogliere il suono, gli disse: Vieni subito al portone che scendo io. — Lasciò la finestra e fu presto sulle scale. Il fanciullo, cui non pareva vero di prendersi una mancia dalla signorina, aveva prontamente obbedito e, tenendo delicatamente fra le dita il biglietto, aspettava che il portone si aprisse. Volle sfortuna che in quel momento arrivasse dalla strada nientemeno che Herr Graf von Rheinstadt, il padre della Lotte. Come costui vide il garzoncello all'uscio di casa sua, gli domandò brusco che cosa volesse. L'interrogato, tra pella confusione, tra pel dubbio di [30] non farsi intendere in veneziano, si spiegò a gesti segnando prima la finestra della Gegia, poi quella del palazzo e sforzandosi a descrivere con la mano la caduta della lettera. Ma prima che la spiegazione fosse compiuta, la porta si aprì, comparve la Lotte, la quale rimase pietrificata alla vista del suo maestoso genitore. Herr Graf credette d'aver capito abbastanza, strappò il biglietto dalle dita del ragazzo e a titolo di mancia gli amministrò uno scappellotto. Indi, spingendo avanti di sè la figliuola, entrò in casa e si tirò dietro il portone con gran fracasso. Di lì a poco la cameriera tedesca, che, mesi addietro, aveva accompagnata la Lotte in casa della Gegia, venne alla finestra del gabinetto della sua padroncina, rivolse alla povera inferma uno sguardo velenoso e le gridò due volte Unverschämte! Unverschämte! (svergognata). Indi chiuse le imposte. Nello stesso tempo il ragazzo ch'era stato così mal ricompensato dei suoi servigi pensò di sfogar la sua stizza andando sotto al balcone della Gegia e urlando: — Tutto per colpa tua, brutta storpia! brutta....! E qui c'era una parola brutta davvero che il lettore mi dispenserà dal ripetere.

Quando la cosa si divulgò nel vicinato, le femminuccie della calle si mostrarono tutte piene di scrupoli virtuosi. Il giudizio meno ostile alla Gegia fu quello di siora Veronica. Poverazza! Bisogna compatirla. Non la pol far ela e la tien terzo ai altri. E il barcaiuolo Filippo, informato della faccenda, s'infiammò di un sdegno veramente magnanimo. — Quella [31] lì, vedete — egli disse, parlando della Gegia — dopo una roba simile, io non la conosco quasi più per mia figlia. — Onde gli spiriti timorati convennero che Filippo era un uomo giusto un uomo il quale, in materia d'onore, non guardava in faccia nemmeno alle sue creature. In quanto alla zia Marianna, ella aveva subodorato qualche novità. Ma siccome nessuno voleva perdere il fiato con lei, così alle sue interrogazioni si rispondeva gridandole nell'orecchio: — Domandate a vostra nipote. Era un altro martirio per la Gegia che diceva con voce supplichevole: — Mi lasci stare. Ma mi lasci stare. E la sorda si ritirava in cucina sbuffando e ripetendo su tutti i tuoni: — Mi par d'essere in una gabbia di matti.

In quale stato d'animo fosse la Gegia è facile immaginare. Il rimprovero che la sua coscienza le aveva già diretto faceva sentir più acerba la sua puntura dopo che la disgraziata ragazza trovava intorno a sè la riprovazione degli altri. Perchè così nel biasimo come nella lode che l'uomo dà a sè medesimo accade ben di rado che si astragga affatto dal giudizio altrui, e la coscienza dell'individuo, per altera, per illibata che sia, muta i suoi responsi col mutar dell'ambiente in cui vive. Ma la Gegia, in mezzo alla sua mortificazione, aveva un altro pensiero che la crucciava. Era il pensiero della sua amica alla quale ella non sapeva che punizioni si fossero inflitte. A veder sempre chiusa la finestra, ove la bella giovinetta soleva venir così spesso a [32] conversare con lei, ella sentiva stringersi il cuore. Certo la Lotte era stata mandata via di casa, forse la si era cacciata in un ritiro, povera creatura! La Gegia se la figurava già vestita di saio, coi capelli corti, come, da bambina, aveva visto le monache nel convento delle Terese. E anche lei, anche la Lotte, doveva dunque rinunziare al mondo, doveva rinunziare all'amore! Anche lei! Chi può assicurarci che nel pronunziar questa frase le Gegia non provasse in cuor suo quell'amaro conforto che è pur nella certezza del dolore diviso? Chi può assicurarci che ella non fosse in preda a quella strana contraddizione, che, mentre sveglia in noi tutto lo spirito di sacrifizio necessario a toglier di pena un amico, di farebbe accogliere come un disinganno la notizia che l'amico non ha nulla sofferto?

Questo disinganno, se era tale, la Gegia non tardò a subirlo. Pochi giorni dopo l'avvenimento della lettera, ella sentì salir dalla strada la voce della Lotte, il fruscio della sua vesta, lo scoppiettar del suo riso. Cò presto la ghe xè passada! dissero le comari della calle vedendola vispa, ilare, elegante. Il romanzo della Gegia era andato in fumo, la sua amica era sempre felice, ed ella piangeva a lagrime dirotte.

Col chiudersi della finestra di facciata s'era chiusa per la Gegia una gran parte del suo piccolo mondo. Ella passava intere giornate senza scambiare una parola, chè con la zia Marianna era inutile discorrere e le sue vicine non capitavano che di rado a visitarla. E poi queste visite erano quasi sempre una [33] fonte di mortificazioni per lei. Ogni momento le si diceva: — Sai, la tale si marita a Pasqua e la tal'altra fa l'amore con questo o con quello. — E qualche volta era la fidanzata stessa che veniva a darle la buona nuova. Veniva tutta in fronzoli, fresca, rosea, ridente, mostrando le buccole che le aveva regalato el novizzo, vantando, col freddo egoismo dei felici, la buona ventura che l'era toccata e descrivendo in lungo e largo i suoi piani per l'avvenire.

Povera Gegia! E pensare che queste ragazze erano, da bimbe, men belle di lei. Pensare che suo padre, il quale allora l'amava, non si stancava di ripetere: — Come la mia figliuola non ce n'è una in tutta la parrocchia! — Adesso ella conservava ancora un pallido ricordo di quel suo profilo di vergine, conservava i suoi bei capelli biondi, i suoi grandi occhi bruni. Ma quegli occhi erano scemi dell'usato splendore, e giravano intorno null'altro esprimendo che una mestizia quasi rassegnata; ma le guancie avvizzite avevano ormai la tinta giallastra della cera. Nel suo complesso aveva il curioso aspetto di una bambina vecchia. La statura, la sottigliezza delle braccia, la curva appena visibile del seno, le avrebbero fatto dare tredici anni al più, ma guardandola in viso, specialmente se vinta dalla stanchezza ella chiudeva un istante gli occhi, si sarebbe detto: È una donna di trenta. Nel fatto, al momento di cui parliamo, non ne aveva che sedici.

[34]

VI.

Era il principio del 1866. L'aria era piena d'elettricità. Si sentiva vicina una nuova guerra, l'ultima forse, quella che dopo tanti amari disinganni avrebbe finalmente riunito Venezia alla patria comune. Non si discorreva d'altro; due nomi che da sì lungo tempo erano nel cuore di tutti, tornavano sulle labbra e si ripetevano dagli adulti, dalle donne, dai fanciulli con una baldanza che nulla valeva a temperare: Vittorio e Garibaldi. I muri erano coperti ogni notte di questa iscrizione bizzarra: Viva VERDI. Era un anagramma a cui il celebre maestro di musica prestava ben volentieri il suo nome, e significava Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia. La polizia aveva un bel dar di bianco al voto sacrilego; era lavoro di Sisifo. I monelli canticchiavano sommessamente per le strade l'inno di Garibaldi; gli adolescenti aspettavano con impazienza che venisse il giorno opportuno di passare il confine; dietro le vetriate dei merciai facevano capolino le stoffe verdi, rosse, bianche, mal dissimulate dalle lane e dalle sete d'altri colori.

Di tutto questo rimescolìo la Gegia capiva qualche cosa delle chiacchiere delle vicine, ma le informazioni più esatte le riceveva dal signor Menico, quand'egli veniva il sabato a pagarle la sua settimana. Il signor Menico era stato guardia civica nel 1848-49, [35] e se lo tiravano in lingua raccontava come uno degli ultimi giorni dell'assedio, essendo in fazione davanti una caserma in Cannaregio, da cui si vedevano i forti, una palla di cannone era piombata sul tetto d'una casa vicina, e dopo molti giri e rigiri era caduta a due passi da lui portandosi dietro la grondaia. — Capite? a due passi! egli diceva. E ingrossava la voce e tentennava il capo con aria d'importanza come a significare: Una cosa simile è toccata a pochi! Malgrado di ciò il signor Menico non era un leone, e con la teoria che i muri parlano, egli lasciava volentieri da parte la politica. Ma adesso, con la Gegia, egli si faceva coraggio e dopo averle chiesto regolarmente se la zia Marianna continuava ad esser sorda, le raccontava le novità del giorno, e le assicurava sulla sua parola d'onore che questa volta i Tedeschi se ne sarebbero andati davvero. Glielo aveva detto persona che non era solita ad ingannarsi. E la Gegia a poco a poco andava infiammandosi per questa idea della patria che non le riusciva ben chiara, ma che pur doveva essere assai bella, e che forse l'era tanto più accetta quanto più le dava da pensare e la distraeva dalla muta contemplazione delle sue miserie. Del resto, gl'infelici sono rivoluzionari per loro natura. Chissà che il mondo cambiando non diventi migliore per essi, chi sa che le loro pene non si alleviino, che l'egoismo altrui non si corregga! Se avessero domandato alla Gegia: credi tu che gli Italiani restituiranno il vigore alle tue membra, faranno giungere alla tua finestra il sole [36] alla tua anima sitibonda l'amore? ella avrebbe, sospirando, risposto di no; ma poichè nessuno glielo chiedeva, ella si nutriva, inconsapevole, di dolci illusioni. Pur la martellava un pensiero, il pensiero della Lotte che, quantunque dimentica di lei, ella non aveva cessato di amare. Che sarebbe avvenuto della giovinetta col mutar delle cose? Avrebbe ella dovuto soffrire? S'era pur scritto anche sul muro di Cà Dareni — Morte ai tedeschi — e quando nella calle giungevano gli accordi del pianoforte della Lotte e il suono del suo canto, i monelli, ormai imbaldanziti, urlavano Canta, canta, che presto te tocarà pianzer. Oh se la Gegia avesse potuto consigliarla a fuggire! Ma non ci fu bisogno del suo consiglio, perchè una settimana prima della dichiarazione di guerra il conte di Rheinstadt risolse improvvisamente di andarsene con la famiglia. La Gegia non ne sapeva nulla quando una mattina vide aprirsi improvvisamente la finestra del palazzo e comparire la Lotte in abito e cappellino da viaggio.

— Addio, Gegia.

— Oh, va via? — rispose questa, che avrebbe voluto dirle tante cose.

— Sì, addio di nuovo, chè se i miei genitori sanno che sono venuta di qua, mi fulminano.

— E — balbettò l'altra — non ci vedremo,... più?

— Sì, di qui a un mese.... Questa volta metteremo presto giudizio ai matti....

— E se si vince noi, invece?

— Chi? noi...? Oh, anche tu, Gegia, — esclamò [37] la Lotte col tuono del tu quoque, Brute. Poi soggiunse ridendo: — Va là, che non c'è questo pericolo. — E volò via. Pochi minuti dopo un servitore che rimaneva a custodia del palazzo venne a richiudere le imposte.

Nel 1866 Venezia attraversò un periodo di alcune settimane che fu tra i più curiosi ed originali che si riscontrino nella storia. Abbiamo mille esempi dell'ansietà di un popolo che attende da una guerra il proprio riscatto e di questa guerra segue con animo intento le varie vicende, ma non son molti i casi nei quali una intera città per venti e più giorni esulta della indipendenza conquistata sotto gli occhi dei nemici che si trovano ancora entro le sue mura, e che di feroci e spietati ch'erano prima diventano indifferenti e quasi benevoli e assistono, con l'arma al braccio alle dimostrazioni fatte contro il loro governo. Uno spettacolo simile l'offerse Venezia dalla metà di agosto al 19 ottobre di quell'anno 1866. Sottoscritto l'armistizio, si trasse come un gran sospiro dai petti. Finalmente! Finalmente se ne vanno! Dopo tante disillusioni, dopo tante lagrime, dopo tanto sangue è giunto il gran giorno! e la vita del paese era tutta in questo pensiero, e ciascuno aveva bisogno di espandere la sua gioia, di narrare agli altri ciò che gli altri sapevano, e di farsi narrare ciò che un momento prima egli stesso aveva narrato. Le cose ripetute cento volte non perdevano mai della loro novità, erano come una musica divina che l'orecchio non si stanca di intendere. Nè si parlava [38] più a bassa voce come per lo addietro, nè si cercavano i crocchi fidati degli amici; era amico chiunque favellasse italiano. Si consumava la giornata nelle vie, in piazza, ai caffè. Di tratto in tratto circolava per le bocche una voce. Son passati pel Canalazzo, son scesi al Municipio o al Comando militare due, tre ufficiali del nostro esercito venuti a trattare degli alloggi, delle formalità della consegna, ecc., ecc. Talvolta era vero, talvolta no; nondimeno bastava il dubbio perchè nessuno rimanesse fermo, ed era un correre, un urtarsi, un farsi strada a furia di gomiti per giungere sino al luogo indicato, ove molto spesso si restava con un palmo di naso, perchè gli ufficiali o erano già partiti, o non erano neppure arrivati. Ma se spuntava un kepy, le grida, gli applausi non terminavano più, e lungo il passaggio della gondola che accompagnava i parlamentari alla stazione la gente si accalcava ai traghetti, sulle fondamente, alle finestre, sventolando i fazzoletti e salutando di giocondi viva i fratelli che entro pochi giorni sarebbero venuti a fermar stabile dimora in Venezia. E le bandiere tricolori, preparate a migliaia nel segreto delle pareti domestiche, cominciavano a mostrarsi qua e là come se non potessero tollerare più a lungo l'ipocrisia di quel nascondiglio e anelassero all'aure aperte e serene. In qualche luogo solitario e remoto della città si addestrava intanto con serietà eroicomica una larva di guardia nazionale, vestita d'uniformi di fantasia, armata di fucili di legno, che i fucili buoni non erano ancora permessi [39] e forse avrebbero fatto paura ai guerrieri, e già si disegnavano in lontananza le ambizioncelle del pizzicagnolo aspirante a caporale, e del chincagliere che si sentiva chiamato agli alti destini di luogotenente.

VII.

Di questo moto, di questa vita un'eco giungeva sino alla buia ed angusta viuzza abitata dalla nostra Gegia e interrompeva la triste e monotona esistenza della poveretta.

I grandi avvenimenti rendono espansivi e loquaci, e le vicine, perdonatole nella loro infinita clemenza lo scandalo del biglietto, salivano adesso più sovente da lei a chiacchierar delle cose del giorno. Inoltre una sua amica d'infanzia che aveva la commissione di parecchie bandiere tricolori per l'ingresso degli italiani, sentì che non poteva fare a meno di un aiuto e richiese la Gegia s'ella volesse lavorare con lei e spartire i guadagni. L'offerta fu accettata con entusiasmo, chè in quel tempo l'arte delle conterie dava alla Gegia ben poco da fare ed ella aveva supplicato invano suo padre di crescerle la mesata. Siccom'ella non si poteva muovere, l'altra trasportò da lei il proprio laboratorio, e le due ragazze stavano insieme dall'alba al crepuscolo a tagliare, a cucire quelle enormi pezze di lana, che coi loro vivi colori parevano illuminare la malinconica cameretta. [40] L'amica della Gegia era una giovine vispa ed allegra e si divertiva un mondo a ridere a spese della zia Marianna, la quale non sapeva raccapezzarsi in mezzo a quelle novità. Si aveva un bel gridarle nell'orecchio che i Tedeschi andavano via d'amore e d'accordo; ella ripeteva sempre che li aveva visti per la strada con la loro brava baionetta al fianco e che bisognava aver perduto il senno a far le bandiere tricolori mentr'essi erano qui.

— Ne ho conosciuti di quelli che andarono sulla forca per meno, — ella soggiungeva, ed era vero. Ma non c'era caso di farle intendere che i tempi erano cambiati. Ella scrollava le spalle e si ritirava nel campo trincerato della sua cucina ove la si sentiva brontolare: — Che il Signore ce la mandi buona! Sono impazziti tutti!

Il signor Menico invece, dacchè non v'era più dubbio sulla prossima partenza degli Austriaci, era diventato un eroe, e non era contento della soluzione pacifica delle cose. — Credete pure, tose mie, — egli diceva alla Gegia e alla sua compagna, — che ci voleva un altro poco di sangue.

— Com'è cattivo, signor Menico! — osservavano le ragazze tra il serio e il faceto.

— Cattivo! Cattivo! — egli rispondeva, prendendo tabacco. — Non è cattiveria.... È che noi altri uomini del 48 siamo fatti così. Quando si son vedute le bombe a due passi.... capite.... eh!... Non racconto frottole.... vi sono testimoni.

Anche il padre della Gegia, Filippo, faceva in quei [41] giorni men rare apparizioni nella camera della figliuola. I maligni susurravano che non gli dispiacesse fare il galante alla Pina, l'amica della Gegia, la quale era piuttosto belloccia ed appetitosa.

— Quel Filippo, — soggiungevano le donnicciuole con un sorriso indulgente, — benchè non sia lontano dai cinquanta, sta sempre dietro alle gonnelle. È vero ch'è un uomo da poter piacere ancora meglio di tanti zerbinotti.

Una volta egli magnificava alle due ragazze la nuova livrea che avrebbe indossato il giorno dell'arrivo del Re.

— Oh come pagherei a vederlo in gran gala, — esclamò la Pina.

— Paghereste a vedermi, fia mia? — egli replicò chinandosi verso di lei tutto ingalluzzito. — Ebbene, volete venir quel giorno a palazzo? Dirò ai padroni che siete una mia parente e vi troverò un posticino sulla riva o a una finestra perchè possiate assistere allo spettacolo e veder davvicino anche me.

— No, no, questi sotterfugi non mi vanno a genio.

— Eh che scrupoli.... Via!

— No, no e no.

— Andiamo, bella ragazza, non pigliate il caldo. Fatemi piuttosto sapere per quel giorno dove sarete, a che finestra, a che traghetto, e io farò il possibile perchè la gondola passi da quella parte, e quando sarò presso vi farò un segno, che, capite, coi padroni in barca, non posso mica chiamarvi....

[42]

— Diamine, s'intende. Ma, quando sarà?

— Il giorno preciso non è ancora stabilito. Bisogna prima che entrino le truppe.

— E queste entreranno?...

— Il 19 del mese. — S'era già in ottobre.

— Che spettacolo sarà anche quello! — esclamò la Gegia.

C'era un tal fondo di mestizia nella sua voce, che la Pina ne fu commossa, e soggiunse:

— Poverina! Che peccato che tu non possa veder nulla! — Indi battendosi il fronte con la palma, continuò: — A proposito; dicono che lasceranno andar la gente nell'entrata del palazzo di fronte che guarda sul Canal grande. Sapete, Filippo, che bella cosa dovreste fare? Un po' prima di andare in gondola coi padroni, venir qui, trasportar la Gegia abbasso, trovarle un buon posto, e poi, più tardi, passare a prenderla e riportarla su.

Mentr'ella parlava, la Gegia la guardava prima con maraviglia, poi con commozione e con riconoscenza. Dopo tanti anni avrebbe potuto davvero uscire dal suo tugurio, risalutare il sole, riveder l'azzurro del cielo? Avrebbe potuto mescolarsi alla gioia degli altri, vivere un giorno nel mondo, ella, la sepolta viva? Ma quando i suoi occhi s'incontrarono in quelli del padre, ella capì che aveva sognato.

— Ma, Pina, che idee vi saltano in capo? — proruppe Filippo con aria infastidita. — Come volete che la Gegia, nello stato in cui si trova, vada [43] in mezzo a quella calca? Sono momenti in cui rischiano di rompersi le gambe anche i sani, e lasceremo schiacciar lei ch'è malata?... Un bel servizio che fareste alla vostra amica!... Quanto a me poi avrò proprio tempo di portare in collo la gente....

La Pina stava per replicare, ma l'altra le accennò che tacesse.

— Basta, — ripigliò Filippo in tuono più dolce, — quasi quasi andavo in collera con voi, e io con le belle tose voglio esser sempre in buoni termini.

Ma la Pina non gli diede retta e si voltò da un'altra parte. Alla Gegia intanto colavano due grosse lagrime per le gote, e Filippo che non voleva veder musi lunghi uscì dalla stanza, dicendo: — Ecco ciò che si guadagna a tener discorsi senza sugo.

VIII.

Son passati sei mesi, sono entrate le truppe, è arrivato il Re, è arrivato Garibaldi, la città a poco a poco è tornata nel suo stato normale, e la Calle Lombarda ha ripreso un aspetto più calmo. Nondimeno le bandiere sventolano ancora dai balconi per qualunque pretesto, e gli organetti, che meriterebbero un po' d'indulgenza dai signori perchè sono l'orchestra del povero, vengono di tratto in tratto a suonare sotto la finestra della Gegia l'inno di [44] Brofferio o quello di Garibaldi. È l'unica distrazione che le abbiano recato i tempi nuovi; ella non si è mossa neppur nei dì più solenni; non ha visto i bersaglieri, non ha visto il Re, non ha visto l'eroe di Marsala. Ha tutt'al più un'idea delle camicie rosse, perchè Maso, un ragazzo ch'era cresciuto sotto i suoi occhi ed era andato ad arruolarsi volontario nel maggio 1866, reduce in patria, volle farsi ammirare nella sua divisa dai vecchi suoi conoscenti e salì anche dalla Gegia. Del resto, ella non si occupa di politica, non legge nè il Rinnovamento, nè il Corriere di Venezia, quantunque li senta gridar dalla strada, non è informata nè delle tendenze radicali del fruttaiuolo il quale sparla volentieri del Governo, nè delle tendenze reazionarie di siora Veronica che comincia a vedere in pericolo la religione e teme si voglia assassinare il Papa. La solitudine si è rifatta intorno a lei; non ci sono più gli Austriaci, ma per essa il mondo è com'era prima. Aveva sperato senza saper precisamente nè per che ragioni sperava, nè che cosa sperava; ora che tutti quei bei sogni si sono risolti in nulla, la vince uno scoraggiamento infinito. Si prova spesso, tanto per ingannare il tempo, a cantar qualche aria che le ha insegnato la Pina, ma la sua voce esile, dolce, simpatica, muore nelle lagrime. Ed ella guarda la finestra chiusa del palazzo Dareni, e ripensa alla Lotte che con tanta sicurezza le aveva detto di tornare e ormai non sarebbe tornata più.

Non andò molto infatti che i proprietari del palazzo [45] lo appigionarono ad altri. Una parte ne fu presa da certo dottor Galeni, avvocato di grido, il quale consacrò ad uso di studio due stanze sul rio e il gabinetto respiciente la calle. La Gegia, che seguiva con grande attenzione questi preparativi, vide una mattina l'avvocato, persona grave e dall'aria diplomatica, accompagnar nel gabinetto un giovine alto, macilento, e vestito di panni sgualciti.

— Si metterà qui, — disse l'avvocato accennando al suo interlocutore il tavolino appoggiato alla finestra. — Qui c'è penna, carta e calamaio. Adesso le porteranno un documento da copiare e vedremo la sua calligrafia.

Ciò detto, il dottor Galeni uscì.

L'altro sedette, si guardò intorno, rimboccò le maniche del vestito, mise nell'asticciuola una penna nuova, che premette prima sull'unghia del pollice sinistro, quindi lambì con la lingua e finalmente immerse nel calamaio. Dopo fatti questi preparativi, egli segnò alcune cifre sopra un foglio e parve soddisfatto dell'opera sua. Intanto un uomo di mezza età venne nel gabinetto con una carta in mano.

— Copii da qui sin qui, — egli disse posando la carta sul tavolino e ponendo il dito successivamente sul punto da cui doveva cominciare e su quello ove doveva finire la trascrizione. — Quando ha terminato passi dal cavaliere.

— Col manoscritto? — chiese il giovane timidamente.

— Già. Non si tratta appunto di questo?.... E [46] badi che il cavaliere non vuole che ci siano pentimenti e scancellature.

Il cavaliere, com'è agevole intendere, non era altri che l'avvocato Galeni, insignito appunto in quei giorni dell'ordine de' SS. Maurizio e Lazzaro.

Rimasto solo, il candidato si accinse con grande impegno al lavoro che doveva decidere delle sue sorti. Tanta era la sua paura di distrarsi ch'egli non alzava mai gli occhi dal foglio, ma scriveva con la fronte increspata e morsicandosi il labbro inferiore.

Dopo una mezz'ora, egli diede un'occhiata complessiva al suo compito e con qualche trepidazione uscì dal gabinetto per sottoporre la sua scrittura all'esame del principale. Quand'egli tornò, era un altr'uomo. Il saggio era riuscito soddisfacente e Carletto Miglioli era stato assunto all'altissimo ufficio di giovine di studio presso l'avvocato cavaliere Galeni collo stipendio cospicuo di trenta lire al mese e con l'obbligo di lavorare soltanto sette ore al giorno, dalle nove alle quattro.

Bisogna riconoscere che il buon Carletto era uomo di facile contentatura. Il giovine d'avvocato, almeno in Venezia, è il paria della società, da' cui non riceve altro compenso che quello di esser chiamato giovine tutta la sua vita fino ai cent'anni inclusivi, se ha la poco invidiabile fortuna di arrivarvi. Egli può scegliere due strade, una dritta, ed una tortuosa. Seguendo la prima, egli adempie coscienziosamente a' suoi doveri, copia con meccanica esattezza le scritture forensi, porta ai clienti le lettere, [47] del principale, si mantiene un perfetto galantuomo, e nel termine di un lustro al più perviene allo stato di piena indigenza e di compiuto idiotismo. Seguendo la seconda egli aggiunge alle sue mansioni altri piccoli uffici, assume certe cause minuscole che l'avvocato disdegna, si fa consigliere dei negozianti che vogliono fallire senza inciampare negli articoli del Codice penale, e aguzza così il poco ingegno e campa alla meno peggio, ma diventa in pari tempo un tipo esoso di azzeccagarbugli, uno degli esseri più sfuggiti dai galantuomini.

In media il giovine d'avvocato guadagna meno del più modesto artigiano, ma ha d'altra parte l'inestimabile vantaggio di dover vestire con una certa cura affine di non esser preso in isbaglio per un facchino quando si reca nelle aule tribunalizie, e di non offendere con una toilette troppo democratica i nervi della moglie dell'avvocato quando ella viene nello studio del consorte. È vero che qualche volta all'abbigliamento del subalterno provvede la liberalità del principale, che cede al giovine la roba usata. Allora il giovine, secondo la sua statura, ha corte o lunghe le maniche, lunghi o corti i calzoni, e secondo il suo diametro acquista nel suo vestito l'aspetto di un naufrago che non riesce ad emerger dall'onda, o quello di un fiume che non può più stare fra le sue rive.

Tra il signor Carletto e la Gegia non si tardò a scambiarsi ogni mattina il saluto. E al saluto tenne presto dietro qualche parola.

[48]

— Gran bella giornata — disse una volta il giovine alzando gli occhi dalla carta e guardando il cielo ch'era tinto del più limpido azzurro.

— Beato lei che può passeggiare — rispose la Gegia.

— Passeggiare! Passeggiare!... Il troppo moto fa appetito.

— Tanto meglio.

— Eh signora Gegia, tanto meglio per chi può soddisfarlo. Ma chi ne ha pochi del mese....

Rituffò la penna nel calamaio e si rimise a scrivere.

La Gegia ricominciò anch'ella a infilare le sue perle. Di lì a poco ella chiese: — Ha famiglia?

Carletto mise un punto su un i, forbì la penna sulla manica, e poi rispose: — La mia vecchia mamma.... Povera mamma!... Magari vivesse sempre.... Non so rassegnarmi all'idea di star solo.

— Via, signor Carletto — disse la ragazza — loro uomini hanno sempre qualcheduno che gli vuol bene. Se non ci fosse la mamma ci sarebbe la sposa.

— Oh sì, con un franco al giorno.

— È poco, assai poco, ma una brava massaia risparmia più che non costi.... Veda, per esempio, una moglie la divezzerebbe da quel brutto vizio....

— Che vizio?

— Quello di forbirsi la penna nel vestito.... Sa, gli abiti non si conservano mica a quel modo....

— Ha ragione, lo dice anche la mamma, povera vecchia.... Ma per quanto faccia ci ricasco sempre.... Oh dove siamo? — egli ripigliò come fra sè. — Sicuro, [49] sicuro.... Ecco il punto. — E lesse per meglio raccapezzarsi: Non è vero e si nega essere l'istromento dotale fatto in modo da ingenerare equivoci. L'istromento dotale della sullodata nobil donzella, in data 8 giugno 1850 rogito Paolucci, dice chiaro: sono assegnati alla sposa di dote sessanta mila fiorini austriaci.... Corbezzoli. Sessanta mila fiorini! Ha inteso, signora Gegia?

— Altro che inteso! Ma, così va il mondo! Chi troppo, chi troppo poco.

— A chi un milione di capitale, a chi una lira al giorno di stipendio.

— Ma potrà avere un avanzamento.....

— Noi giovani d'avvocato si resta sempre a un punto.... Basta, finiamo questa scrittura.

La Gegia chinò gli occhi sulle sue perle e non aggiunse parola.

Una mattina il giovine depose sul davanzale della finestra un vaso d'erbarosa.

— O cos'è quella, roba? — chiese la Gegia sorridendo.

— Un capriccio mio. Mi piace tanto l'odore dell'erbarosa che ho voluto avere uno di questi vasi sul balcone dello studio.... La mamma ci ha lasciato il cuore a veder scompagnata la sua collezione.

— Ha una collezione di piante?

— Dico così per dire. Ci sono altri due vasi, uno d'erba cannella, l'altro di cedrina È il nostro lusso. Ogni mattina la mia vecchierella va a guardarseli, li rimonda, li odora, ogni dopo pranzo li inaffia....

— C'è sole almeno a casa sua?

[50]

— Oh sì, grazie a Dio.... sulla finestra della mamma ce n'è a tutte le stagioni. Stiamo in una catapecchia, proprio sotto il tetto, ma sole ce n'è.... La non si muove mai di casa, la povera mamma; o che farebbe se non avesse il sole?

La Gegia sospirò.

— E qui non capita mai.

— Dice davvero?

— Mai, fuori che un quarto d'ora al giorno per due settimane di giugno.

— Sicuro, è questo enorme palazzone qui che fa ombra.

— Carletto! — gridò una voce imperiosa dal di dentro!

— Vengo, vengo.... È l'avvocato che chiama — disse il giovine correndo dal suo principale.

Di lì a poco egli tornò al suo posto con un fascio di carte sotto il braccio, borbottando: — Oggi sto fresco. C'è da lavorare fino alle sei.

Scrisse per un'ora senza fiatare; poi alzò gli occhi e disse: — Ieri cantava, signora Gegia. Perchè oggi è così silenziosa?

— Ho paura di disturbarlo.

— No, in verità; mi fa tanto piacere a sentirla e lavoro lo stesso.... Ha una voce così dolce.

La ragazza arrossì; e con una voce tremola dapprincipio ma che poscia si fece più sicura intuonò l'aria della Traviata: Ah forse è lui che l'anima, ecc.

— Oh la Traviata! Come mi piace!

— L'ha sentita?

— Una sola volta.... Che opera!

[51]

IX.

Era stato per una settimana un tempo diabolico. Quantunque fosse d'aprile era caduta un'acqua gelata, accompagnata da un vento di tramontana che metteva i brividi e trasportava in pieno gennaio. S'eran dovute tener chiuse le imposte, e la Gegia e il signor Carletto si erano appena salutati con un cenno del capo.

Il primo giorno in cui ricomparve il sole, la Gegia si trovava come il solito per tempissimo alla sua finestra. Ella aveva una certa impazienza di ricominciare gl'interrotti colloquii e aspettava le nove. Ma le nove suonarono e Carletto non venne.... Nè alle dieci, nè alle undici, nè a mezzodì. La pianta d'erbarosa beveva allegramente i raggi del sole e una bianca farfalla, venuta non si sa di dove e smarrita in quel vicolo solitario svolazzava contenta intorno alle sue foglie.

Sul mezzogiorno venne la serva dell'avvocato a tirar le cortine. La Gegia si fece coraggio e chiese: — Non s'è visto stamane il signor Carletto!

— Mi pare — rispose l'altra ch'era sgarbata e aveva una grande antipatia per la zoppa chiacchierona, com'ella chiamava la Gegia — mi pare che se ci fosse l'avrebbe visto prima di me.

La ragazza non rilevò il tuono scortese della risposta, ma soggiunse: — È malato forse?

[52]

— Che vuol ch'io sappia? — replicò la fantesca stringendosi nelle spalle.

— Non mangi oggi? — chiese a ora di pranzo la zia Marianna alla Gegia quando vide che non toccava nemmeno le vivande.

— No, non ho fame.

— Come? — fece la zia accostando l'orecchio.

— Non ho fame.

— Se non ti piace, non so che farci.... Che vorresti ch'io ti preparassi? Un piatto di fegatini?.... Povera scema!

— No, zia, non ho detto che non mi piace, ho detto che non ho fame.

— Pollame? Oh sì, proprio.

La zia Marianna era più sorda del solito e la Gegia dovette rinunziare a farsi intendere.

Nella sera venne per pochi istanti anche il barcaiuolo Filippo, le cui visite si facevano sempre meno frequenti. Quando s'accorse dell'umor nero della Gegia, invece di confortarla, corrugò la fronte, prese da un cassetto due o tre oggetti che gli occorrevano e se ne andò brontolando: — C'è un bel gusto a venire a casa. Una è sorda come una campana e quell'altra ha sempre la cera scura e contrita.... Vorrei sapere che cosa le manca....

Povera Gegia! Che cosa le manca? L'aria, la luce, il movimento, la vita, tutto.

La ragazza passò una notte angustiatissima. Ella non poteva scacciare il pensiero di Carletto. Se fosse malato assai? Era così pallido! E faceva una vita!

[53]

Ma il sentimento di lei non era che un sentimento di pietà o vi si mesceva un altro più soave, più dolce, un altro di cui ella non osava render conto a sè stessa? Sarebbe possibile ch'ella, la povera rattratta, si cullasse in vaghe fantasie d'amore? E a che pro, infelice ch'ell'era? Chi avrebbe chiesto un sorriso dalle sue labbra, una stretta dalle sue braccia?

La Gegia lo sapeva anche troppo, ma nondimeno appena alzata ella non istette dieci secondi senza volger gli occhi verso la finestra di faccia, e quando vide comparire Carletto non potè a meno di farsi rossa, di lasciar cader l'ago e le perle e di batter festosamente le mani gridando: — Oh! è qua, signor Carletto.

— Buon giorno, signora Gegia.

— Fu malato!

— Ebbi un po' di febbre.... Sfido io! Con questi tempi. — E tossì.

— Le è rimasta la tosse?

— Oh passerà.

Indi, svolgendo le carte che aveva sul tavolino, — Oggi c'è razione doppia, — egli disse.

— Povero signor Carletto.... Invece per ristabilirsi le occorrerebbe l'aria, il sole....

— I discorsi che faceva la mamma ieri.... Ma io le rispondevo: Abbiamo torto a lagnarci.... C è dirimpetto al mio studio una ragazza che non può muoversi mai.... E alla sua finestra non ci arriva un raggio di sole....

[54]

— Ha pensato a me?

— Sicuro. E la mamma pronta: Hai ragione, Carletto.... Quella povera ragazza è a peggior partito di te.... E dille ch'io pregherò la Madonna che la faccia guarire....

— Oh benedetta!...

— E dille, continuò la mia vecchia, che non si scoraggi e che la Madonna ha fatto ben altri miracoli che questi....

— Grazie, grazie di queste parole, — replicò la Gegia con le lagrime agli occhi.

— Oh come volentieri la ci verrebbe ella stessa a ripetergliele se non fossero ormai due anni che non fa le scale.

— Ma si figuri.... Speriamo che i pronostici della sua mamma si avverino, e se Dio vuole ch'io mi possa muovere da questa sedia, il primo luogo ove andrò, dopo la chiesa, sarà a casa sua....

— E che festa le si farebbe!

Carletto aveva tanto da lavorare che non fu detta quasi più una parola in tutto quel giorno; ma la Gegia provava in cuore una dolcezza ineffabile e nuova. Carletto aveva pensato a lei, aveva parlato di lei con sua madre. Ella non voleva guardar più in là, non osava chiedere a sè medesima se le sue belle fantasie fossero mai destinate a prender forma; perchè guardare il domani, se l'idea del domani non poteva che amareggiare le gioie dell'oggi?

Oh se le fosse dato guarire! Era giovine tanto! Aveva tempo ancora di amare, di godere!

[55]

Nel dopo pranzo sentì nella calle la voce di Maso, quel giovine ch'era stato con Garibaldi, e ch'ella aveva riveduto, dopo il suo ritorno, tre o quattro volte.

— Maso! Maso! — ella gridò.

— O che mi chiama, Gegia?

— Sì, potreste venire un momento da me?

Il giovinetto fece in quattro salti le scale.

— Mi fareste un gran piacere senza dirlo a nessuno?

— Dica liberamente.

— Conoscete la Filomena, Maso?

— La conciaossi, quella che anni fa veniva a curarla?

— Sì, quella appunto.... Se poteste cercarla e mandarmela?

— Anche subito.

— Grazie, Maso.... Basterà che venga domani sulle dieci, all'ora che non c'è la zia.

— A proposito, e dov'è adesso la signora Marianna?

— Dorme col gatto in grembo.... di là in cucina.

Il giovine sorrise e poi domandò peritoso: — Vuol riprendere la sua cura?

— Sì, Maso, vorrei tentare. Mi pare impossibile ch'io non debba guarir mai.

— Ha ragione, — rispose l'altro con la baldanza della sua età. — Provi, provi, abbia pazienza a curarsi e vedrà che tornerà anche lei come le altre. Oh la Filomena ne ha fatte delle cure, più assai [56] dei dottori con tutto il loro latino. Coraggio, Gegia, se lo ricorda di quando si correva insieme?

— Se me lo ricordo! E la nostra gita al Lido.... quell'estate?...

— Ah sicuro.... Quanti anni sono?

— L'anno prima ch'io m'infermassi.... d'estate.... Mi par ieri, c'era il babbo che aveva una giornata di libertà, c'era tuo padre buon'anima e la tua mamma, oh guarda che adesso ti do del tu come allora....

— Si figuri.... Ma è quello che deve fare....

— Purchè tu faccia lo stesso....

— Eh mi ci proverò.

— E c'era anche la Pina, — continuò la ragazza, — eravamo insomma una brigata d'otto o dieci. Ci dirigemmo a San Nicolò del Lido, tirava un venticello fresco ch'era una delizia e la barca andava su e giù, su e giù.... Mi par di vedere ancora una dozzina di barche di pescatori che, in fila, si dirigevano al porto.... Avevano il vento in poppa, le vele spiegate, certe vele a rattoppi, giallastre, rossiccie, con un emblema per ciascuna, o la Madonna, o un Santo, o un cuore, o un mostro marino.... Le ci sfilarono davanti una dopo l'altra queste barche, e noi si gridava «Buona pesca!»

— Che memoria ha! — esclamò Maso.

— Oh Maso, — replicò la Gegia, — tu hai visto tante cose nel mondo, io ne ho viste così poche.... È naturale che me ne rammenti. — Indi riprese animandosi sempre più: — A un punto il babbo perdette la pazienza e disse: Come si va adagio! [57] E afferrò il remo d'uno dei barcaiuoli e si mise a vogar lui.... Allora sì ci parve di volare sull'acqua.... E il desinare sotto il gran platano, lo hai presente?

— Un poco....

— Soltanto il principio, siamo intesi.... Perchè ho una gran paura che noi ragazzi fossimo brilli dopo il primo bicchiere....

— Lo credo anch'io, — proruppe Maso ridendo, — perchè ho una vaga reminiscenza che quel famoso albero mi volesse cascare ogni momento sulla testa.

— Ma! Per me le son cose finite.... E intanto ti trattengo qui con queste chiacchiere, e chi sa quante belle tose ti aspettano.

— Oh mi canzoni — disse Maso. E soggiunse:

— Dunque andrò per la Filomena.

— Sì, grazie.... E scusa, sai.

Il giovine sgusciò via.

X.

Era altrettanto facile di guarire la Gegia, quanto di far passeggiare per la piazza il campanile di San Marco; nondimeno la ciarlatana si guardò bene dallo scoraggiare la inferma; la rimproverò anzi di non aver fatto nulla da un paio d'anni, ma le soggiunse che ciò non rendeva punto disperata la cosa e che perseverando nei rimedi ella avrebbe potuto ricuperar pienamente l'uso delle sue gambe. Indi le [58] ordinò certi empiastri di sua recente invenzione, che s'erano chiariti efficaci in casi più gravi del suo. E la Gegia sperò e ubbidì ciecamente alle prescrizioni della ciarlatana, dando fondo per pagarla a poche lire ch'ella aveva risparmiate in più anni. Non toccò per altro il napoleone d'oro che le era stato regalato tanto tempo addietro dalla Lotte; questo napoleone, che le rimordeva di quando in quando la coscienza, ella aveva destinato di serbarlo ad un'opera buona, di farlo servire a vantaggio di qualchedun altro.

A Carletto la Gegia non disse nulla della cura intrapresa. Bensì a lunghi intervalli si lasciava sfuggir qualche parola che accennava all'idea della guarigione, faceva qualche progetto per quando fosse guarita.

Così pure, da pochi giorni e precisamente dacchè Carletto le aveva riferito il colloquio avuto con sua madre intorno a lei, ella aveva ripreso ne' suoi ritagli di tempo un'occupazione smessa da un pezzo: quella dei fiori di carta.

Un dì Carletto se ne accorse e le chiese: — Anche i fiori sa fare con quelle sue manine?

— Sono inezie.... Ho imparato da una signorina tedesca che abitava costì....

— Come son belli!

— Le piacciono?

— Tanto. E lavora per commissione?

— Sì — rispose la Gegia abbassando gli occhi e sorridendo.

[59]

— Lo sa, signora Gegia — disse Carletto alcuni giorni dopo — che mi son fatto fare il ritratto?

— Mi canzona? Il ritratto?

— In fotografia.... C'è un mio amico che s'è messo a fare il fotografo e ha voluto usarmi questa cortesia. Me ne diede sei copie.

— Davvero? — soggiunse la Gegia e non osava chiedergliene una. Poi, sforzandosi di parer disinvolta. — Sarà una sorpresa che vorrà fare alla sua amorosa....

— Ma se non l'ho, io, l'amorosa.

La povera Gegia non osava sperare di esser lei la preferita; pur le era un gran conforto il sentire che il cuore di Carletto fosse libero. E si fece coraggio a dire:

— Già che ne ha sei copie, potrebbe darmene una?

— Sicuro che gliela darò.

— L'ha con sè?

— No, la porterò domani.

— Si ricordi, sa — disse la Gegia a Carletto, quando questi alla solita ora si mosse per andarsene.

— Oh non dubiti.

Di lì a un'ora si bussò alla porta della Gegia.

— Chi è? — disse la ragazza.

— Sono io, sono Carletto che le porto oggi stesso il ritratto. Posso entrare?

— Vengo, vengo — disse la Gegia tutta confusa di questa visita che le metteva addosso uno strano turbamento.... Non ch'ella potesse temere della sua riputazione. Prima di tutto c'era nella camera attigua [60] la zia Marianna: poi chi si sarebbe sognato di attribuire un intrigo galante a lei, la storpia, la paralitica? Ella pensava invece che Carletto non l'aveva vista sino allora che dalla finestra; egli poteva crederla impedita nei movimenti, non rattratta com'era.

Depose in fretta sopra il tavolino che le stava allato la ciotola di perle e gli aghi, si ravvolse le gambe in una coperta di filo, tanto per nascondere alla meglio la parte inferiore della persona; quindi tirò la funicella che girava tutto intorno alla parete e di cui uno dei capi pendeva vicino allo stipite della finestra, a portata della sua mano, l'altro era legato al saliscendi dell'uscio.

Carletto entrò.

— Perdoni la libertà, signora Gegia — egli disse — ma ho pensato che domani debbo andare al tribunale per conto dell'avvocato e trattenermivi forse tutto il giorno. Così volli anticipare e farle oggi una visitina.... Eccole il ritratto.

E le porse una fotografia molto mediocre, che per vero dire non adulava l'originale, nè faceva un grande onore all'artista.

Carletto aveva stimato opportuno di farsi ritrarre in piedi, locchè dava maggior risalto al taglio disgraziato del suo soprabito e alla cortezza fenomenale de' suoi calzoni, dono generosissimo del principale, ch'era nomo di statura al disotto della mezzana. Inoltre per la paura di mandar a male la grand'opera col più piccolo movimento, il suo corpo [61] aveva perduto ogni morbidezza di contorni ed era rigido e stecchito come quello di un assiderato. Le braccia tese scendevano fino all'altezza dell'anca, facendo un leggiero angolo acuto col busto, e le mani aperte a ventaglio parevano preoccupate sovra ogni cosa di persuadere il mondo ch'esse avevano il numero giusto di dita, tanto un dito era discosto dall'altro. Ad aggiunger grazia all'insieme contribuiva il fondo che figurava un giardino. — Giacchè debbo viver sempre tra quattro muri, voglio stare almeno all'aperto in ritratto — aveva detto il giovine al fotografo, e questi, per compiacerlo, lo aveva addossato ad un paravento su cui erano dipinte due magnifiche palme.

La Gegia ch'era artista per istinto avrà notato senza dubbio queste stravaganze, ma non volle contristare con le sue critiche il buon Carletto, e lo ringraziò molto della sua premura. Senonchè, mentr'ella parlava, non potè a meno di osservare nel suo interlocutore un certo che d'impacciato, una preoccupazione non naturale, una singolare inquietudine dello sguardo. Parve ch'egli stesso trovasse necessario di giustificarsene, perchè, quando i suoi occhi s'incontrarono in quelli della Gegia egli divenne rosso e balbettò: — Guardavo quei fiori lì sul tavolino.

La ragazza ben s'accorse non esser questa se non una scusa; tuttavia volle accettarla per buona, stese il braccio a prendere i fiori ch'erano ancora sciolti e se li pose in grembo.

[62]

— Oh la bella rosa — esclamò Carletto. — Verrebbe voglia di odorarla.... E questo gelsomino!...

— Oh il gelsomino è facile; cinque pezzettini di carta bianca, guardi il garofano piuttosto.

— Ma davvero! Com'è brava!

— È affar di pratica.

— Che lavoro c'è! Almeno glielo compenseranno bene.

La Gegia sorrise e disse: — Sa per chi preparo questo mazzolino?

— No in verità. Come potrei saperlo?

— Ebbene, spero che la sua mamma non avrà difficoltà ad accettarlo.

— La mia mamma? — esclamò Carletto.

— Sì — soggiunse la Gegia con accento commosso — da quando ho sentito che discorrono qualche volta di me con la sua mamma, m'è venuta l'idea di regalare a quella povera vecchia un lavoro mio.... Non ci vedremo mai; ella non si muove più di casa, io non mi muovo di questa camera, ma almeno.... io che sono la più giovine.... io che se fossi sana dovrei andarla a trovare.... pregherò questi fiori di far le mie veci.

Mentre diceva così, annodava rapidamente il mazzolino con un sottile filo di ferro, e con la manica del vestito si asciugava due grosse lagrime che le colavano giù per le gote.

— Oh Gegia, com'è buona! com'è gentile! — disse Carletto, volendo prenderle la mano.

Ella si schermì con uno di quegli atti istintivi della [63] donna che nega per consentire, e con un movimento un po' brusco della persona lasciò scivolare la coperta che teneva sulle gambe.

— Oh perdoni — disse il giovine. E raccolse la coperta da terra e gliela stese addosso amorevolmente. Pur non potè a meno di avvertire, meglio che non avesse fatto sino allora, la sproporzione del corpicino di lei; onde le parole gli morirono sulle labbra e restò lì imbarazzato, confuso.

— Dunque li accetta questi fiori perla sua mamma? — ripetè la povera Gegia macchinalmente, tendendogli il mazzolino e senza osar nemmeno di guardarlo in viso.

— Oh se l'accetto! Sì, con tutta la gratitudine — egli rispose prendendoglielo dalla mano, che questa volta, egli strinse davvero nella sua.

— Vada via adesso — ella replicò tenendo il capo voltato verso la finestra e accennando con la mano che le restava libera. — Vada via, potrebbe venire la zia Marianna.

Egli esitò ancora un istante; poi disse: — Grazie ancora una volta, Gegia, e a rivederci. — E se ne andò.

Oh se la Gegia fosse stata una ragazza come tutte le altre, certo egli non le avrebbe ubbidito così presto!

Appena egli ebbe chiusa la porta, la giovine appoggiò i gomiti al tavolino, nascose il viso fra le palme e ruppe in un pianto dirotto.

Il pingue gatto soriano ch'era in cucina e durante questo colloquio aveva cacciato più volte il muso [64] attraverso lo spiraglio dell'uscio e s'era sempre tirato indietro alla vista di un estranio, ora si avanzò adagio adagio sulle sue zampe vellutate, venne fino alla Gegia, si fermò un momento a guardarla; poi le saltò sulle ginocchia.

— Povera bestia! — esclamò la Gegia. — Povera bestia! — E lo accarezzò con una tenerezza assai maggiore dell'ordinario, tantochè il micio non si mosse di là, finchè la zia Marianna non venne in persona a prenderselo.

In quel giorno la Gegia aveva capito due cose: ch'ella amava Carletto, e che non avrebbe mai potuto essere amata come sono amate le altre donne.

Carletto le aveva detto — A rivederci — ma c'era da scommettere ch'egli non aveva in animo di tornarla a visitare; certo egli intendeva dire soltanto che si sarebbero riveduti dalla finestra.

Dalla finestra egli le porse infatti i ringraziamenti di sua madre pel dono dei fiori, ma non le fece altre visite, ed ella non cantò più; nè egli le chiese perchè non cantasse. Capiva forse di essere andato troppo avanti e non gli pareva onesto di lusingare la passione ch'egli aveva creduto scoprire nella Gegia. Così il primo colloquio intimo che i due giovani avevano avuto era stato anche l'ultimo, e il primo scambio di cortesie successo tra loro aveva contribuito a rallentare anzichè a stringere le loro relazioni.

Poi sopraggiunse l'inverno coi suoi freddi, le sue nevi, le sue pioggie, e Carletto e la Gegia non si videro per più mesi che attraverso i vetri.

[65]

XI.

Quando venne la buona stagione e le due finestre tornarono ad essere aperte, la Gegia notò che Carletto era immensamente deperito. E invero egli aveva una tosse ostinata.

— L'inverno mi fa sempre male — egli disse alla sua vicina — e non istò ancora perfettamente.

— Non vuol curarsi.

— Ho preso tanti pasticci, più che altro per far piacere alla mamma.... Ma il meglio sarà ch'io resti in casa un paio di giorni.... Ne ho chiesto licenza all'avvocato.

La Gegia sentì una trafittura al cuore. Le parve che una voce le dicesse ch'ella non avrebbe più rivisto Carletto.

— E quali giorni ha scelto per istare a casa? — ella domandò.

— Comincierò domani ch'è domenica; spero così martedì o mercoledì al più tardi di rimettermi al lavoro.... A ogni modo, senta, se per mercoledì non vengo allo studio farò di tutto per passare un momento da lei.

Era, dopo la visita dell'anno addietro, la prima volta ch'egli si proponeva di venirla a trovare a casa.

— Oh signor Carletto, è troppo buono — ella disse — non vorrei che queste cattive scale l'affaticassero.

[66]

— Non si dia pensiero, le farò adagio.... Se sapesse quante volte la mamma mi ha detto ch'io ho mancato con lei.

— Con me! — sclamò la ragazza arrossendo. — O come mai?

— Sì; perchè non son venuto di persona a ringraziarla dei fiori.

— Lo sa che non deve far complimenti.... Verrà quando potrà.

Il mercoledì la Gegia passò una giornata agitatissima. Era forse tornato a brillare un raggio di speranza nel suo povero cuore? Pensava ella davvero a un ricambio della sua infelice passione? O piuttosto la sua inquietudine era dovuta soltanto al timore che la malattia di Carletto fosse più grave di quello ch'egli non credeva o non fingeva di credere, tantochè egli non fosse in grado d'uscir di casa nè quel giorno nè il giorno appresso, nè mai forse, mai più?

Se il pensiero che angustiava la sventurata ragazza era questo, ella non si apponeva certo a torto. Non solo Carletto non comparve nel mercoledì, ma il giovedì mattina la Gegia vide la serva dell'avvocato che consegnava a un uomo maturo il vaso d'erbarosa.

Ella ebbe appena la forza di chiedere: — O non viene oggi il signor Carletto?

La donna, sgarbata secondo il suo costume, scrollò le spalle senza rispondere, ma l'incognito prese egli la parola. — No sicuro, non viene oggi e non sa [67] quando verrà.... Per questo ha mandato a prendere il vaso d'erbarosa.

— Ma che cos'ha?

— Febbre e tosse.... Un affar lungo.

— Ma non mica serio?

— E chi può dir nulla? È attaccato al petto.

E, salutata la Gegia, si allontanò.

Ella, sopraffatta dal dolore, colse appena un frammento di dialogo tra la fantesca e il messaggero di Carletto.

— Chi è quella ragazza?

— Oh un bel feudo!... Ha perdute le gambe.

La Gegia non aveva tempo di sentirsi mortificata da queste parole; il suo pensiero era corso alla camera ove languiva il solo uomo che per un istante aveva mostrato di provar per lei qualche cosa di più che un sentimento di sterile compassione... Oh così avesse potuto volare ella stessa a soccorrerlo, a vegliarlo! Così avesse potuto morire in vece sua, morire sotto i suoi occhi, ridonandogli la vita e la sanità! Che faceva ella nel mondo? A chi era necessaria? Non al padre, non alla zia; egli invece aveva una vecchia genitrice di cui era il solo conforto, egli poteva ancora trovare qualcheduno che lo amasse!

La tormentava inoltre l'idea delle strettezze in cui Carletto si trovava sicuramente. Poveretto! Se la sua malattia era lunga, come ne avrebbe sopportato le spese? Ed ella ripensò alla moneta donatale dalla Lotte; a che opera buona l'avrebbe destinata [68] se non a questa di soccorrere Carletto e la sua mamma?

Il sabato, quando il vecchio Menico venne da lei come il solito, ella lo supplicò di ascoltarla con pazienza e di prepararsi a darle una prova del suo affetto per essa. Gli raccontò la storia del napoleone d'oro, il voto ch'ella aveva fatto d'impiegarlo un dì o l'altro in tal cosa che le facesse perdonare a sè medesima il modo in cui lo aveva ricevuto; gli parlò di Carletto, della sua malattia, dei suoi imbarazzi economici e del bisogno ch'ella sentiva di essergli utile. Finchè era sano, ella non aveva avuto il coraggio di offrirgli nulla, ma adesso ch'era infermo, ogni esitanza le sarebbe parsa colpevole, ed era certa che Carletto non avrebbe rifiutato un aiuto da lei. Perciò, s'era vero ch'egli le voleva bene, egli stesso, il signor Menico, doveva assumersi quest'ufficio delicato, doveva andare da Carletto, informarsi della sua salute, vederlo e fargli accettare quel po' di denaro. No, s'egli stava in forse di compiacerla, ella non avrebbe più creduto nemmeno a lui, avrebbe detto, povera disgraziata, che nessuno, nessuno aveva pietà di lei sulla terra, Menico, ch'era di cuor tenero, finì col cedere e adempiette così bene all'incarico che la Gegia gli sarebbe saltata al collo se il saltare fosse stato cosa da lei. Quand'egli le disse che a parer suo Carletto non istava poi tanto male come si voleva far credere, quando le soggiunse che il suo napoleone era stato accolto con lagrime di riconoscenza e aveva risparmiato alla madre del giovine la necessità d'impegnare [69] un filo d'oro ereditato da suo marito, la Gegia si sentì quasi felice. È pur vero che noi non possiamo sbarazzarci affatto dell'amor di noi stessi nemmeno negli slanci più generosi dell'animo, e la soddisfazione di lenire un dolore altrui ci fa sovente dimenticare che sarebbe assai meglio che questo non ci fosse.

Di lì ad alcune settimane il signor Menico tornò a visitare l'infermo. Aveva ancora la tosse e un filo di febbre, ma era pieno di speranze. La finestra della sua cameretta era spalancata, e il sole veniva a lambire il suo letticciolo, e le dolci aure di primavera accarezzavano la sua fronte.

— Che cosa le mandi a dire alla Gegia? — chiese a Carletto la vecchia madre che gli sedeva vicino e lo guardava teneramente.

— Che sto meglio, e che mi alzerò domani e uscirò presto di casa giacchè ormai siamo in aprile e non ho più paura.

— Oh sì — soggiungeva la madre. — La primavera è un gran balsamo per te.

— Chi sa, domenica forse — ripigliò il malato appoggiandosi su un gomito — potrò andare a messa... E chi sa che non mi spinga fino dalla Gegia...

— Bada — interruppe la vecchia — non troppe cose in una volta. Ci andrai lunedì dalla Gegia... E bisogna che tu vada anche dall'avvocato...

— Sicuro; perchè egli mi passa sempre lo stipendio e mi conserva l'impiego... Insomma, o domenica o lunedì, se dura questo bel tempo la signora Gegia mi vedrà senza fallo.

[70]

Il buon Menico, nel riferire questi discorsi alla ragazza, tentennava un po' la testa, come a significare ch'egli non credeva a questa rapida guarigione; ma la Gegia gli diceva che egli era sempre stato un pessimista ed ella aspettava senza fallo Carletto per lunedì. Non isperava nulla per sè, non s'illudeva più nel bel sogno d'essere amata: le bastava rivederlo.

XII.

Senonchè, fino dalla mattina di quel lunedì atteso con tanta impazienza ella s'accorse che per quel giorno almeno le era forza rinunziare alla visita del convalescente. La temperatura s'era abbassata da un punto all'altro; pareva tornato l'inverno. Veniva giù un'acqua fitta, spirava un vento freddo che soffiando di tratto in tratto più forte faceva sbatter le imposte e moveva in giri capricciosi il fumo dei camini. Oppressa da una malinconia tetra, invincibile, la Gegia non trovava il verso di mettersi al lavoro. Ella stava immobile a sentir lo scroscio della pioggia, a guardar le goccioline che si formavano dietro i vetri della sua finestra chiusa e colavano a guisa di lagrime. E pensava a Carletto che aveva tanto bisogno del sole e a cui forse una giornata come questa ritardava di qualche settimana la guarigione... Forse egli era rimasto a letto, forse contemplava anch'egli mestamente il cielo color della cenere e si ravvolgeva entro le povere coltri per ripararsi dall'aria umida [71] che penetrava nella sua camera attraverso le imposte sconnesse.

Assorta nelle sue tristi fantasie, la ragazza non sentì bussare una prima volta alla porta. Quando si bussò di nuovo:

— Chi è? — ella chiese in sussulto.

— Amici. Non istà qui una signora Gegia?

— Sì — ella rispose e tirò il cordone.

Entrò un ometto di bassa statura con un pastrano che gocciolava da tutte le parti e sotto il quale pareva ch'egli nascondesse qualche cosa. La fisonomia non era nuova alla Gegia, ed ella che vedeva così poca gente, non tardò a riconoscerlo per la persona a cui la serva dell'avvocato Galeni aveva consegnato il vaso d'erbarosa. Egli veniva senza dubbio da parte di Carletto, ed è facile immaginarsi come battesse in quel momento il cuore della povera paralitica.

— Ah! Ho avuto il piacere di vederla un'altra volta — soggiunse il nuovo arrivato, levandosi il berretto e scuotendolo in modo da spruzzar d'acqua i mattoni del pavimento. — Sant'Antonio Abate! Che brutto tempo... Basta; ho un incarico poco allegro per questa signora Gegia... È lei, non è vero?

— Sono io!... Che c'è mai?

— Un incarico di Carletto.

— Di Carletto! — esclamò la ragazza impallidendo. — E come sta?

— Eh, sta meglio di noi adesso.

— Ma si spieghi... per carità... non mi faccia credere...

[72]

— Cara la mia tosa, ci vuol pazienza... Il Signore lo ha chiamato a sè.

— Morto? — gridò la Gegia. — Morto?

— Pur troppo. Stamattina alle 9.

— Oh Dio!

— È morto come un santo...

— Ma non istava meglio?

— Era spedito dal medico da un pezzo, ma son di quei mali!... Ancora ieri s'è provato ad alzarsi.... Iersera poi si sentiva più debole e ha voluto confessarsi e comunicarsi.. Io che sono il sacrestano della parrocchia avevo seguito il prete, e quando Carletto s'accorse ch'ero là, mi disse: — Girolamo, più tardi, di qui ad un'ora, passate da me. — Così ho fatto... Il poverino stentava a respirare, ma appena mi vide mostrò una gran consolazione e mi disse: — Girolamo, dovete farmi un piacere. — Mille, viscere mie, io gli risposi. — Figuriamoci, l'ho visto nascere, e suo padre ed io eravamo come due fratelli. — Ebbene — egli ripigliò dopo aver preso fiato — di facciata al portone dell'avvocato Galeni ci sta una povera tosa di nome Gegia, ch'io vedevo ogni giorno dalla finestra dello studio e che ha sempre mostrato molta premura per me. Quando sarò morto, e ormai sento che non passerò la giornata di domani, portatele quel vaso d'erbarosa ch'è lì sul balcone e che siete andato a riprendere poche settimane or sono... povero Girolamo, tant'era che non vi facessi fare che un viaggio solo... portateglielo per memoria mia, e salutatela tanto, e ditele ch'io pregherò [73] il Signore e la Madonna perchè la facciano guarire delle sue infermità... e che si ricordi qualche volta di me...

— Oh me ne ricorderò sempre, sempre — proruppe la Gegia in mezzo ai singhiozzi.

L'altro intanto aveva deposto sopra una sedia la pianta d'erbarosa e si soffiava romorosamente il naso con un fazzoletto blù.

— Si dia pace... non faccia disperazioni... Tanto ha finito di patire... Se avesse visto com'era ridotto...

— Povero giovine! Povero giovine! Così buono!

— Oh buono sì... E timorato di Dio, sa... Non come tanti... Egli veniva sempre alle funzioni... Don Agostino, quando lo ha lasciato iersera, disse a me: — Quello lì va in Paradiso dritto.

— E la sua mamma?

— Oh le mamme, si sa, stentano a rassegnarsi... Ma anch'ella stamattina mi disse asciugandosi gli occhi: — Vi raccomando di eseguir la commissione del mio Carletto... E la saluterete anche per me, quella tosa.

— Grazie, grazie... oh come pagherei a potermi muovere e a venirla a trovare!... Ma è inutile!... E come vivrà adesso?

— C'è una sua sorella maritata con un orefice, e quella si è obbligata a passarle un tanto... Poi ha ancora quei quattro stracci di suo marito.

— O senta — replicò la Gegia — io sono una poveretta, ma se la mamma di Carletto dovesse trovarsi nella miseria, io darei tutto quello che ho per [74] sollevarla... Glielo dica, sa, per l'amore che portava a quel giovine... glielo dica... E adesso, scusi, mi dia qui quel vaso.

Ella prese e guardò quella pianta come si prende e guarda un bambino; poi la depose dolcemente ai suoi piedi, si frugò nelle tasche e trattone un biglietto da due lire, lo porse al sacrestano.

— Giacchè è tanto buono; faccia dire una messa al nostro defunto anche per me... Lo hanno già portato in chiesa?

— Oh no, lo porteremo domani... E sia tranquilla che si faranno le cose per bene... Le ripeto che tutti lo amavano... e ci sarà un funerale da povera gente... ma decoroso...

Sono trascorsi alcuni anni, e la Gegia passa ancora le giornate al solito posto. Non sorride mai, non canta più, ha già qualche cappello bianco e qualche ruga sul fronte. Guarda spesso verso la finestra dirimpetto e i suoi occhi si bagnano di lagrime. Ella non sa persuadersi che un dì o l'altro non debba tornare Carletto a quella finestra e dirle:

— Buon giorno, signora Gegia.

[75]

LE CHIACCHIERE DELLA NONNA

«Egli le sì gettò ai piedi esclamando: Vi amo!»

Quando l'Adelina ebbe letta questa frase, ella posò dispettosamente il giornale sopra la tavola e disse: — Qui termina l'appendice, e bisognerà aspettare fino a domani. Non potevano stampare una riga di più e farci sapere che cosa abbia risposto la signora Clotilde?

La nonna sorrise. — Povera signora Clotilde! Ella si trova in una situazione difficile e vogliono lasciarle un giorno da pensarci su.

La contessa Olimpia (la chiamavano contessa, quantunque a rigore ella non avesse più diritto a portare il suo titolo di famiglia dopo essersi sposata con un ricco banchiere) era una bella vecchietta sulla settantina. Occhi vivi e intelligenti, sorriso arguto e benevolo, persona svelta ancora ed elegante, a malgrado dell'età. Quel giorno ella aveva in capo una cuffia bianchissima con nastri verdi scuri e indossava un vestito di seta nera che dava risalto al candore del carnicino e dei polsini insaldati. Adagiata in una poltrona a molle, coi gomiti appoggiati ai bracciuoli, con la testa protesa in avanti come chi ascolta, la [76] contessa Olimpia aveva seguito attentamente la lettura della nipote.

L'Adelina poteva avere diciannove anni, ed era leggiadrissima di volto e di forme. Somigliava alla nonna negli occhi bruni, mobili ed espressivi; ma quegli occhi avevano una qualità che quelli della nonna non potevano avere, il fuoco della giovinezza.

Nonostante il mezzo secolo e più che le divideva, le due donne s'intendevano e s'erano sempre intese fino dal giorno in cui l'Adelina, appena venuta al mondo, dopo aver strillato in braccio della levatrice, della balia e del babbo, s'era acquetata sulle ginocchia dell'ava. Nonna e nipote erano la gioventù della casa; i genitori e le sorelle dell'Adelina appartenevano alla razza di quelle creature linfatiche, che sono già vecchie a vent'anni e che non corrono mai rischio di smarrirsi per via, perchè camminano dentro un fosso.

La contessa Olimpia, ava paterna dell'Adelina, aveva conosciuta e goduta la vita, aveva esercitato intorno a sè il fascino della grazia e della bellezza. I maligni pretendevano che a rivangar nel suo passato si potesse trovar qualche momento di oblio; era certo però ch'ella si conservava una persona simpatica, atta a compatire e a intendere gli altri, pronta a fare un sacrificio con animo sereno e viso ridente. Un suo difettuccio era quello d'essere un po' loquace, e questo difettuccio aveva la disgrazia di combinarsi con uno della nipote, d'essere un po' curiosa.

[77]

Quando dico la nipote, voglio parlare dell'Adelina; chè le altre due erano floscie e insignificanti come i loro rispettabili genitori, e la nonna trovava che non c'era sugo a discorrer con esse.

— Eppure — osservò l'Adelina — gli uomini sono molto più arditi nei romanzi che nella vita reale.

— Uhm! — fece in tuono dubitativo la contessa Olimpia.

— Non sei del mio parere, nonna? Ma scusa, per esempio, a badare ai libri, ci sarebbe ogni momento qualcheduno che si getta ai piedi di una donna.... E ho notato che la donna ha tre sistemi diversi.... Ti ricordi della novella del Monde Illustré del mese scorso? Quel cavaliere s'inginocchia davanti alla marchesa. Ella scuote il campanello, e dice al servo: Eclairez Monsieur. Questo è un sistema che non si può adottar che di sera.

— Pazzerella che sei. Smetti.

Sistema secondo. Egli le si getta ai piedi secondo il solito, ella si alza sdegnata: Signore, voi violate le leggi dell'ospitalità; v'intimo di uscire.... Qui almeno non c'entra la servitù.... È vero che qualche volta il signore non esce.

La nonna rideva.

Sistema terzo. Egli fu come sopra; ella lo rialza cortesemente.... Mi pare un sistema da persone educate, ma è anche il più pericoloso.

— Sai, Adelina, che se la tua mamma ti sentisse....

— Misericordia!... È appunto per questo che parlo quand'ella non c'è.

[78]

— Bell'onore che fai alla nonna.

— La nonna è più indulgente.

— Troppo indulgente.

— Non mi hai insegnato tu quella bella sentenza d'una scrittrice francese: Tout comprendre c'est tout pardonner?

— Ho fatto male a insegnartela. Certe cose non devono interpretarsi alla lettera.

— Sii buona, nonnina.... Dunque tu dici che anche nella vita reale gli uomini si gettano spesso ai piedi delle donne....

— Io non ho detto nulla....

— Ma l'hai lasciato capire.... È singolare.... A me non è accaduto mai....

— Oh Adelina.... Non ti vergogni? Sei poco più di una fanciulla.... E vorresti?

— Tanto per vedere.... Deve fare un certo effetto.... Che effetto fa?

La contessa Olimpia non potè a meno di ridere. — Sai che è una domanda impertinente?

— Nonna, nonnetta, nonnina bella, se la cosa accade qualche volta, è impossibile che non sia accaduta anche a te....

— O vediamo un po' la ragione, signora dottoressa.

— Perchè basta guardare il ritratto a olio appeso in salotto per dire: questa donna, nella sua gioventù, era affascinante. O gli uomini di quel tempo avevano un gran cattivo gusto, o....

— Zitto, zitto, adulatrice.

[79]

— Nonna, nonnetta, nonnina bella, levami questa innocente curiosità; non s'è gettato nessuno ai tuoi piedi?

— Ma insomma?

— Il nonno, buon anima, che non ho mai conosciuto?

La contessa si strinse nelle spalle. — Lui?... Oh no.... Tuo nonno era un uomo serio e posato che attendeva ai suoi affari.... Egli chiese la mia mano ai miei genitori che gliel'accordarono.... Non c'era nessun bisogno ch'egli mi si inginocchiasse davanti.... Avevo allora sedici anni.

— Fosti sacrificata, povera nonna.

— No, no.... Mi trattò benissimo....

— Ma aveva molti anni più di te....

— Pur non era vecchio....

— Ma non lo amavi.

— Non si ama mica quando si vuole.... Si viveva in buona armonia, quantunque ci fosse tra noi una gran diversità di carattere. Egli era freddo, calmo, positivo; io ero impetuosa, entusiasta, poetica;... egli avrebbe preferito una vita ritirata, io invece andavo pazza pei divertimenti, pei teatri, pei balli.... Dopo tutto, se uno di noi poteva lagnarsi era lui; perchè egli non aveva voluto impormi i suoi gusti ed io gli avevo imposto i miei.

— Quanto pagherei ad averti vista in quei tempi, la mia nonnetta!

— Non pagheresti nulla, perchè se tu mi avessi vista allora, saresti adesso all'incirca come me, con [80] settant'anni sulle spalle, le grinze in viso e i capelli bianchi in testa.... Del resto, consolati, tutti dicono che mi somigli....

— Dovevi esser più bella, dovevi vestire con un gusto squisito.

— Sì, non vestivo male.... E non ispendevo mica tesori.... Ma, sai, il buon gusto è una cosa che non s'impara; o lo si ha, o bisogna rinunziarvi....

— Certo tu eri la regina di tutte le feste....

— La regina è troppo, ma, non lo dissimulo, ero tra le signore più in voga....

— Lasciamelo dire di nuovo; a costo di non esser più giovine adesso, avrei voluto vederti quand'eri fra i venti e i trent'anni, avrei voluto vederti nei balli, circonfusa di veli, splendente di gemme, vagheggiata da cento adoratori, superbi di raccogliere un tuo guanto, un fiore caduto dai tuoi capelli, assetati d'una tua parola, d'un tuo sorriso....

— Eh ragazza mia, vedi che cosa è rimasto di tutto ciò.

— È rimasta una bella nonnetta.... E poi i ricordi non valgon nulla?....

— .... Nessun maggior dolore

Che ricordarsi del tempo felice

Nella miseria....

— Sì, lo dice Dante; ma tu mi hai fatto leggere l'altra settimana una poesia di De Musset che ha un'opinione contraria:

[81]

Un souvenir heureux est peut être sur terre

Plus vrai que le bonheur.

— Lei ha sempre la sua risposta pronta....

— Non è vero, nonnetta mia; che gli uomini ti venivan dietro come tanti cagnolini?

— Sicuro che mi venivan dietro.... E c'era qualcheduna che ne aveva una rabbia.... La contessa Aureli specialmente. Era bella, ricca, più nobile di me che avevo macchiato il mio blasone maritandomi a un banchiere, e avrebbe voluto tener senza contrasto lo scettro della moda.... Ma per forza o per amore, doveva dividerlo meco.... Eravamo rivali, le due illustri rivali.... Il lunedì ella riceveva in casa sua, il sabato ricevevo io. Naturalmente ella veniva da me, io andavo da lei, non ci si poteva soffrire, ma si stava sempre insieme, per sorvegliarci a vicenda.... Se io non c'ero, ella aveva un gran circolo attorno; al mio arrivo tutti si alzavano e mi si faceva un posto presso la mia intima amica.... Il circolo si ricomponeva ma si badava a me.... La bellezza dell'Aureli era più regolare della mia, ma io piacevo di più; ella era più colta di me, ma la sua cultura era mal digerita.... la chiamavano l'oca dotta.... io invece avevo fama di essere una donna di spirito.... in quel tempo.

— Anche adesso, anche adesso.

— La contessa Aureli ambiva di farsi presentare gli uomini ch'erano in auge per una ragione o per l'altra, i forestieri sopratutto; già piuttosto che al [82] vero merito ella guardava alla fama.... A ogni modo, ella riusciva ad aver le primizie di queste conoscenze, e noi, maligne, si diceva ogni lunedì: stasera l'oca dotta ha esposizione di animali rari. Infatti ella era lì in mezzo alle sue celebrità che poi conduceva alla sua volta negli altri salons, dondolandosi e gracchiando come il volatile domestico di cui le si era dato il nome: Cuà, cuà, cuà.... Povera Aureli!... A questi uomini illustri ella mi dipingeva in anticipazione quale una buona donnetta, un po' frivola, un po' vana.... Ond'io ero guardata sulle prime con qualche diffidenza.... ma non tardavo a prendere la mia rivincita.... In mezzo al corteo dell'Aureli c'era il buono e il cattivo, l'argento puro e l'argento cristophle, ed io sapevo distinguerli così presto! Dell'argento cristophle non mi curavo affatto, lo lasciavo tutto alla mia dolcissima amica; io badavo al buono e ti assicuro, Adelina mia, che gli uomini di vero ingegno non davano retta alla contessa Aureli, ma a me.... Che le valevano le sue citazioni dal greco e dal latino, le sue frasi lambiccate?... Io ero spontanea, incisiva, originale nelle mie osservazioni; avevo uno schietto entusiasmo per ciò che era grande, per ciò ch'era bello, avevo uno sdegno profondo per tutto ciò ch'era ignobile.... — Voi avete una fisonomia vostra, voi siete voi — mi disse un giorno una certa persona alla cui stima la contessa Aureli ci teneva di più. — Ella è come l'acqua che s'adatta a tutti i vasi, come lo specchio che riflette tutte le immagini e non ne trattiene nessuna, come l'eco [83] che ripete tutti i suoni.... La si ammira un momento, e si passa;... quanto a voi, vi si ammira.... e si resta.

— Nonnetta mia, come parlava bene quella certa persona! Chi era?

— Che t'importa il nome, la mia fanciulla? Quella persona è morta in esilio molto prima che tu nascessi....

— In esilio?

Una nube passò sulla fronte della contessa Olimpia; l'Adelina le si avvicinò, sedette sopra uno sgabello a' suoi piedi e si pose in ascolto senza batter palpebre.

— Eh Adelina, strani tempi eran quelli! Feste e baldorie alla superficie e sotto i piedi un vulcano. Quanti giovanotti azzimati, all'uscir d'un ballo, trovavano un commissario di polizia che li conduceva in prigione e di là allo Spielberg. Dopo il 1848 si cospirava con la speranza di riuscire; prima si cospirava con la certezza di sacrificarsi, e d'esser chiamati pazzi dagli spiriti positivi.... Allora ci voleva davvero una fede gagliarda, allora ci voleva una forza di carattere!... Uno di questi forti caratteri era.... era lui, quegli di cui ti discorrevo.... Apparteneva a una cospicua famiglia di Lombardia, era stato raccomandato alla contessa Aureli, l'avevo conosciuto presso di lei.... Non si sarebbe certo supposto ch'egli fosse un cospiratore. Era gioviale, elegantissimo, adorno di tutte le doti di società, parlatore facile e arguto, pianista distinto, e all'occasione perfino poeta estemporaneo. Io ero tentata di crederlo frivolo.... E invece [84] egli era tra gli affigliati più attivi della Giovine Italia.... Si parlò per la prima volta di politica in un gran ballo dato da una delle nostre famiglie patrizie. C'era l'Aureli, c'ero io, c'erano tutte le signore della high-life, come usano chiamarla adesso, e c'era anche lui. I padroni di casa avevano poi stimato opportuno di comprendere tra gl'invitati alcuni ufficialetti austriaci.... Io ero italiana nel fondo dell'anima; mi faceva male la vista dei nostri oppressori; tremavo che uno di quegli ufficiali mi si facesse presentare e mi impegnasse per una polka o per una quadriglia.... Avrei voluto andarmene, ma come fare? Come avvertire mio marito, che s'era ritirato nella stanza da fumo insieme ad altri uomini seri?... Intanto gli ufficialetti trovavano liete accoglienze presso parecchie signore; l'Aureli mi passò vicino a braccio di un tenente; ma non c'era pericolo ch'ella me lo presentasse; era un principe, ed ella voleva tenerlo tutto per sè.... Girai gli occhi intorno; cercavo istintivamente lui.... il conte.... Forse egli poteva venirmi in aiuto.

— Ah! Era un conte?

— Sì... Lo vidi alla fine appoggiato allo stipite di una porta, e, appena egli rivolse lo sguardo dalla mia parte, gli feci segno col ventaglio di avvicinarsi. — Siete accigliato stasera? Che avete? — Nulla, contessa, ma me ne vado. — No, non andate — soggiunsi — impegnatemi invece per tutti i balli che ho disponibili.... Qui c'è il mio libretto.... Riempite i vuoti col vostro nome... Lo so che ballate [85] poco, ma si tratta di rendermi un servigio... Vi spiegherò poi... Fate presto. — E gli posi in mano il libretto... Non c'era tempo da perdere, perchè proprio in quel punto la padrona di casa si fermava davanti a me con un ufficiale a braccio. — Avete un valzer o una polka pel barone? — ella mi chiese, presentandomi il suo tedesco di cui non rammento più il nome. — Grazie, sono impegnata — risposi. — Per tutti i balli? — Per tutti. — Il barone non mi perdonerà certo d'essere arrivata troppo tardi — ella disse. L'ufficiale aggiunse qualche complimento in pessimo italiano. Poi si allontanarono insieme. Io respirai. — Era per questo? — domandò il conte, che s'era tenuto alquanto in disparte. — Sì, era per questo; non volevo ballare con un ufficiale austriaco. — E io volevo andarmene appunto perchè c'erano gli ufficiali austriaci. — Adesso siete contento di rimanere? — Contentissimo; vi ringrazio e vi ammiro... più del solito. — L'orchestra intuonò un valzer. — È il quarto ballo, è mio — esclamò il conte. Io mi alzai, egli mi cinse la persona col braccio, e ci slanciammo, cullandoci sull'onda dei suoni, in mezzo alle coppie che si urtavano, s'intrecciavano, si confondevano in una ridda vorticosa... Ah! la musica di quel valzer la ho ancora negli orecchi... E posso dire di aver presente tutta la festa come se fosse una cosa di ieri, onde al bisogno saprei descrivere perfino le toilettes delle signore, una per una... Che ciarliera di nonna, non è vero, Adelina?

— Parla, parla, mi diverto tanto.... E il conte?

[86]

— I miei sentimenti patriottici esercitarono sul suo animo un fascino maggiore della mia bellezza. Ebbi da lui confidenze che non avevano avuto i suoi più intimi amici, ed io sola, fra quante erano le sue conoscenti in Venezia, seppi che tempra di eroe egli avesse e quali cure ansiose e profonde si celassero sotto il suo sorriso.... Ero superba e tremavo... A ogni suo viaggio, e di questi viaggi a me erano ben noti gli scopi, temevo ch'egli non tornasse più..... Mi ricorderò finchè io viva d'una sera d'inverno.... Quanti inverni sono passati da allora, Adelina mia!... Il conte era partito da due mesi e non ne avevo notizia. Subito dopo pranzo m'ero ritirata nelle mie camere, e me ne stavo nel salottino da lavoro sentendo di fuori scrosciar la pioggia e il vento gemere sinistramente all'imboccatura del rio. M'ero messa a sfogliare un libro, poi avevo preso in mano il ricamo; poi, infastidita anche di questo, m'ero adagiata sulla poltrona davanti al caminetto. Ad un tratto s'aperse l'uscio dietro di me, e mi voltai in sussulto. — Sono io — disse una voce ben nota. Sentii che eravate qui e sono venuto senza lasciar tempo al servo di annunziarmi. — Voi! — esclamai, correndogli incontro. — Ma perchè trasformato così? — Il conte (era lui) non aveva più la sua folta barba. Egli si guardò attorno e mi chiese: — Siete ben sicura che nessuno ci ascolti, che nessuno ci sorprenda? — Chiusi gli usci di dentro. — Ebbene? — La polizia è sulle mie traccie — egli soggiunse. — Questa notte m'imbarco. — Dio mio! Questa notte! E lasciate [87] l'Italia? — Per sempre forse — egli rispose cupamente. — Non ci vedremo più? — diss'io congiungendo le mani. — È per questo che scelsi la via di Venezia.... Per Genova mi sarebbe stato più facile l'imbarco, ma non vi avrei dato l'ultimo addio.... Come siete pallida, Olimpia.... e come siete bella nel vostro pallore!.... Figgete in me i vostri occhi stupendi ed il lume soave me ne resterà nell'anima per tutta la vita.

— Oh nonna, sentirsi parlare così!

— Egli era tanto eloquente ch'io pendevo rapita dalla musica di quella voce, dal fascino di quegli accenti.... Egli, il forte, egli che aveva la fibra d'un eroe di Plutarco, egli avvezzo al comando, egli era lì supplichevole davanti a me, povera donna.... Di fuori infuriava la burrasca, di fuori lo attendevano insidie infinite, la carcere forse, forse il carnefice, nella ipotesi men triste l'esilio; era in poter di me sola, prima che egli partisse, di versare qualche dolcezza su quell'anima esulcerata.... Oh certo, le coscienze rigide, inflessibili, mi condannano...

— Io no...

— Tu! Che ne sai tu della vita, o fanciulla?

Vi fu qualche istante di silenzio.

— Finisci la storia, nonnetta mia — disse timidamente l'Adelina.

— Conveniva romper gl'indugi. Ogni soverchio ritardo poteva esser fatale. Il conte volle che, in presenza sua, abbruciassi alcune lettere. — Voi foste la mia confidente — egli disse infine.... In quei tempi, [88] Adelina mia, non ero la gran chiacchierona che sono adesso. — Le cose che vi ho rivelate seppellitele nella vostra memoria, i nomi che avete intesi dimenticateli; se vi si interroga sul conto mio mostrate di avermi conosciuto solo come uomo di società... È impossibile misurar le conseguenze di una parola imprudente... E voi siete madre, non dovete affrontare inutili rischi.... — Quand'egli si decise a partire, erano le dieci...

— E giunse in salvo?

— Sì, prima a Corfù, poi in Inghilterra... Ma la nostalgia l'uccise dopo tre anni.... Che cosa fai, Adelina?

— Nulla; rasciugo con un mio bacio quella lagrimetta che ti riga la guancia....

— Basta; cose vecchie, cose vecchie — disse la nonna, scrollando la testa come a cacciar via i pensieri importuni. — E lei, signorina, è contenta di avermi tirato in lingua anche oggi?.... Faccio male, faccio assai male; bisognerà che mi metta un bavaglio alla bocca....

— Nonnetta bella...

— Che c'è?

— Vorrei sapere...

— Ha saputo anche troppo, signora curiosa.

— Una domanda.... una sola.

— Via, sentiamo.

Quella sera, dove mai s'era cacciato il nonno?

— Il nonno dormiva ogni sera nella sua camera dalle otto alle dieci.

— Ecco, dal suo punto di vista, sarebbe forse stato meglio ch'egli avesse dormito dalle sei alle otto.

[89]

NEVICA

Il termometro segna appena un grado sopra zero, il cielo è coperto di nubi bianche di cattivo augurio, spira un'aria rigida e acuta; che ragione può avere il signor Odoardo di starsene alla finestra della sua camera da studio alle nove della mattina? È vero che il signor Odoardo è un uomo robusto e ancora nel fior dell'età, ma via, non bisogna far troppo a fidanza con la propria salute, nè tirarsi i malanni addosso. Ahimè, ahimè, la ragione mi par d'averla scoperta. Dirimpetto alla finestra del signor Odoardo c'è la finestra della signora Evelina, e la signora Evelina ha gli stessi gusti del signor Odoardo. Anch'ella è li a prendersi il fresco, appoggiata al davanzale, in veste da camera, con le sue chiome bionde e ricciute che le cascano ogni momento sulla fronte e ch'ella respinge indietro con una leggiadra scrollatina di capo. La strada è abbastanza angusta e si può benissimo conversare da una parte all'altra, ma col tempo che fa non ci sono che due finestre aperte, quella del signor Odoardo e quella della signora Evelina.

Non c'è che dire: la signora Evelina, venuta da qualche settimana ad abitare nella casa di facciata e [90] una magnifica vedovella, i suoi capelli sono oro filato, la sua carnagione è un impasto di latte e di rosa, il suo nasino volto un poco all'insù non è greco sicuramente, ma è più gustoso che se fosse greco, la sua bocca fregiata di denti bianchissimi par che inviti ai baci, e i suoi occhi poi, i suoi occhi azzurri hanno la trasparenza di un cielo sereno, ed ella sa girarli in un modo! Nè le bellezze della signora Evelina finiscono lì; che persona giusta, spigliata, che linee morbide, eleganti, che manine, che piedi! Ah, signora Evelina, signora Evelina, comincio a credere anch'io che il signor Odoardo non abbia tutto il torto di starsene alla finestra a pigliare il fresco invece di chiuder le imposte e di mettersi vicino alla stufa che arde romorosamente nella stanza. Di lei piuttosto mi meraviglio, perchè in fin dei conti il signor Odoardo non è un brutt'uomo, ma è poco distante dai quarant'anni, ed ella non ne ha che ventiquattro. Così giovine e già vedova! Povera signora Evelina! È vero ch'ella ha una gran forza di carattere. Volge il sesto mese della sua vedovanza ed ella s'è omai rassegnata, quantunque il suo defunto marito le abbia lasciato appena quanto basta per vivere modestissimamente. Però la signora Evelina non ha imbarazzi di figliuoli, è sola, è padrona di sè e non dovrebbe esserle difficile di passare a seconde nozze, con quegli occhi, con quei capelli, con quel nasino volto all'insù. Non c'è niente di male a confessarlo, la signora Evelina aspira al matrimonio, e se il nuovo marito non fosse più di primo pelo, pazienza!

[91]

Ora non è inutile a sapersi che il signor Odoardo è un uomo agiato, ed è vedovo anche lui... Che combinazione!

Si sposino dunque, e che la sia finita!... Già è la conclusione ordinaria di queste faccende.

Si sposino! È presto detto... Il signor Odoardo è ancora perplesso. Se si fosse trattato di levarsi un capriccio ho una gran paura che la perplessità gli sarebbe svanita. Errare humanum est. Ma la signora Evelina è una donna seria, non vuole frascherie, vuole un marito... oh la signora Evelina è una donna positiva; sa far girare le teste degli altri, ma sa tenere a posto la propria. È così furba la signora Evelina.

Se è così furba, la spunterà. A forza di ronzarle attorno, il signor Odoardo terminerà col bruciarsi le ali. Questo è senza dubbio il suo parere, gentile lettrice, e non le dissimulo che è anche il mio. Così non può durare sicuramente. Le visite del signor Odoardo alla signora Evelina sono troppo frequenti; adesso ci si aggiungono anche i colloqui dalla finestra. Bisogna prendere una risoluzione, e il signor Odoardo ha una gran paura che la risoluzione gli sarà strappata più presto ch'egli non vorrebbe, in giornata forse, quand'egli si recherà a casa della vedova.

L'uscio della camera da studio del signor Odoardo è proprio dirimpetto alla finestra. Perciò una corrente d'aria fredda che gl'investe la persona l'avverte che l'uscio fu aperto. E mentr'egli si volta, sente una voce cara e simpatica che gli dice:

[92]

— Addio, babbo, vado a scuola

— Buon dì, Doretta — risponde il signor Odoardo chinandosi a baciare una vezzosa fanciulla tra gli otto e i nove anni, e nello stesso tempo dalla finestra dirimpetto la signora Evelina grida anche lei:

— Buon dì, Doretta.

La Doretta che aveva già fatto una smorfia a vedere il babbo in conversazione con la vicina, ne fa un'altra a sentirsi salutare. E biascica di mala voglia:

— Buon giorno.

Poi, mogia mogia, col suo panierino infilato al braccio, ella se ne va a raggiungere la donna di servizio la quale l'attende in andito. La Doretta si sente un gran pizzicore negli occhi, e basterebbe un nonnulla a farla piangere.

— Mi piace tanto quella bimba — dice la signora Evelina con la più dolce inflessione di voce che si possa immaginare — ma le sono antipatica.

— Oh non creda... La Doretta è ritrosa per sua natura.

Il signor Odoardo risponde così, ma nel fondo del suo cuore è persuaso anch'egli che sua figlia non ha nessuna tenerezza per la signora Evelina.

Intanto il freddo si fa sentire più acuto, e il vento porta in giro qualche piccolo fiocco di neve. Non c'è caso, a meno di voler rimanere intirizziti, bisogna mettersi al riparo dall'aria.

— Nevica — dice la signora Evelina guardando in alto.

— Oh era da aspettarselo.

[93]

— Ebbene, vado a sbrigare le faccende di casa. A rivederci... Verrà a trovarmi più tardi?

— Sì mi procurerò questo piacere.

— A rivederci.

La signora Evelina chiude gli sportelli, saluta nuovamente dietro i vetri con un cenno del capo e con un sorriso, poi si dilegua.

Il signor Odoardo rientra anch'egli nello studio, e accorgendosi che fa molto freddo, caccia legne nella stufa, e inginocchiato davanti allo sportellino rianima il fuoco col soffietto. La fiamma divampa allegra, romorosa, e manda vivi bagliori sulla parete.

Di fuori continua a cader qualche fiocco di neve. Forse non farà più di così.

Il signor Odoardo con le mani nelle tasche dei calzoni, con la testa china al suolo, misura in lungo e in largo la stanza. Egli è turbato, profondamente turbato. Sente che è in un punto critico della vita, sente che in pochi giorni, in poche ore forse si deciderà di tutto il suo avvenire. È egli innamorato sul serio della signora Evelina? Da quanto tempo la conosce? Sarà buona come l'altra, saprà essere una seconda madre per la Doretta?

S'ode un suono di passi nell'andito. Il signor Odoardo si ferma in mezzo alla camera. L'uscio si apre di nuovo, e la Doretta, rossa in viso, col cappuccio di lana calato sulla fronte, col soprabitino abbottonato fino al collo, con le mani incrociate e nascoste entro le maniche, corre verso il babbo.

— Nevica, e la direttrice ci ha mandate indietro.

[94]

Ciò detto, la fanciulla si leva il cappuccio e il soprabito e va a riscaldarsi alla stufa.

— La stufa brucia, ma la camera è fredda — ella esclama.

Infatti, colpa la finestra rimasta aperta una buona mezz'ora, il termometro non segna che 5 gradi Réaumur.

— Babbo — ripiglia la Doretta — oggi voglio restar reco tutto il giorno.

— E se il babbo avesse da attender ai fatti suoi?

— No, no, smetti per oggi.

E la Doretta, senz'aspettar risposta, va a prendersi i suoi libri, la sua bambola e il suo lavoro. Indi sciorina i libri sullo scrittoio, adagia la bambola sul canapè e colloca il lavoro sopra uno sgabello.

— Ah! — ella esclama con aria d'importanza. — Che bella cosa che oggi non ci sia scuola!... Così avrò tempo di ripassar la lezione... Ih! guarda adesso come nevica.

Nevica infatti. Prima è un pulviscolo bianco, molto minuto, ma molto fitto, che mosso in giro vorticoso dal vento, viene a batter sui vetri con un suono secco, metallico; poi il vento rimette della sua violenza, i fiocchi si fanno più larghi e cadono silenziosi, incessanti, monotoni. La neve si distende come un soffice tappeto sulle vie, come un lenzuolo sui tetti, s'insinua nelle spaccature dei muri, s'accumula sui davanzali delle finestre, involge le sbarre delle inferriate, s'arrovescia e resta sospesa a festoni dagli orli delle grondaie e delle cornici.

[95]

In istrada deve far sempre un gran freddo, ma la camera si riscalda rapidamente, e la Doretta montando sulla sedia osserva con soddisfazione che il termometro è salito a undici gradi.

— Sì, cara — risponde il signor Odoardo — e l'orologio segna undici ore. Va a ordinare che ci preparino la colazione.

La Doretta obbedisce, e rientra di lì ad un momento.

— Babbo, babbo, sai la novità? La stufa del salotto non vuol ardere e tutta la stanza s'è riempiuta di fumo...

— Allora, bimba mia, facciamo colazione qui.

Questa savia risoluzione empie di gioia l'animo della Doretta, che s'affretta a recar la notizia in cucina, poi in tre o quattro viaggi, porta ella stessa dal salotto da pranzo alla camera da studio le posate, i piatti, la tovaglia e i tovagliuoli, e con l'aiuto del servo apparecchia la mensa sopra un tavolino del babbo. Com'è allegra la Doretta! Come s'è dissipata la nube che un paio d'ore prima le ottenebrava la fronte! E come adempie bene agli uffici di casa!

Il signor Odoardo la guarda con compiacenza, e non può trattenersi dall'esclamare:

— Brava Doretta!

È innegabile, la Doretta è tutta la sua mamma. Anche la sua mamma era un'eccellente massaia, un modello d'ordine, di pulizia, di buon garbo. Ed era leggiadra come la Doretta, quantunque ella non avesse i capelli biondi e gli occhi affascinanti della signora Evelina.

[96]

Insieme al servo che porta la colazione, entra un nuovo personaggio, il gatto soriano Melanio, il quale non manca mai ai pasti della Doretta. Il gatto Melanio è vecchio; ha visto nascere la Doretta e la onora della sua protezione. Non c'è mattina che egli non miagoli all'uscio della sua camera come a domandarle s'ella ha passato bene la notte, non c'è sera ch'egli non le tenga compagnia fino all'ora in cui ella si corica. Ogni volta ch'ella esce egli la saluta con un leggero gnau gnau; ogni volta che egli la sente venire le corre incontro e le si stropiccia intorno alle gambe. A pranzo e a colazione, quand'ella fa colazione in casa, egli si mette vicino alla sua seggiola e aspetta in silenzio ch'ella gli dia i rilievi della mensa. Però il gatto Melanio non ha l'abitudine di visitare lo studio del signor Odoardo, ed egli è piuttosto meravigliato di trovarvisi in questo momento. Dal canto suo il signor Odoardo accoglie con una certa diffidenza il nuovo ospite, ma la Doretta interviene in favore dell'animale e si fa mallevatrice della sua onesta condotta.

È un pezzo che la Doretta non mangia di così buon appetito. E dopo ch'ella ha fatto onore alla sua colazione, ella sparecchia la tavola col garbo e con la prestezza con cui l'ha apparecchiata, e in pochi minuti la camera da studio del signor Odoardo è tal quale era prima. Rimane bensì il gatto Melanio che si è accomodato accanto alla stufa e al quale la Doretta ottiene la grazia di essere lasciato tranquillo.... finchè non disturbi.

[97]

A forza di andare e venire la camera si è raffreddata di nuovo. Il termometro è disceso di un grado e mezzo e la Doretta per farlo salire vuota quasi tutta la paniera delle legne nella stufa.

Come nevica, come nevica! Non sono più fiocchi staccati, è come se una tela bianca a trafori si svolgesse continuamente davanti agli occhi. Il signor Odoardo comincia a credere che non gli sarà possibile di far la sua visita alla signora Evelina. È vero che non c'è che un passo, ma bisognerebbe sprofondarsi quasi fino alle ginocchia. A ogni modo, chi sa? Può essere che più tardi smetta di nevicare. Già è appena suonato il mezzogiorno.

La Doretta è colta da un'idea luminosa:

— Se rispondessi ora alla lettera della nonna!

Di lì a poco la Doretta è nella poltrona del babbo, davanti alla scrivania, con due guanciali sotto al sedere per istar più alta, con le sue gambine penzolanti nel vuoto, con la penna sospesa in mano, con gli occhi fissi in un foglio di carta rigata su cui non si leggono finora che due parole: Cara nonna.

Il signor Odoardo, addossalo alla stufa, guarda la figliuola e sorride.

Pare che la Doretta abbia finalmente trovato il modo di cominciare, perchè ella rituffa la penna nel calamaio, abbassa la mano sulla carta, corruga un poco la fronte, e spinge fuori la punta della lingua.

Dopo alcuni minuti di lavoro assiduo, ella alza il capo e domanda:

[98]

— Che devo dire alla nonna circa all'invito di andar a passare qualche settimana con lei?

— Dille che adesso non puoi, ma che ci andrai nella primavera.

— Insieme con te?

— Insieme con me — risponde macchinalmente il signor Odoardo.

Certo però, che s'egli fosse fidanzato con la signora Evelina questa visita alla suocera gli recherebbe non lieve imbarazzo.

— Ho finito — esclama la Doretta con aria trionfante.

Ma a questo grido ne succede un altro, mezzo di dolore, mezzo di rabbia.

— Che c'è?

— Uno sgorbio.

— Vediamo.... Che fai, scioccherella?... Adesso non c'è più rimedio.

La Doretta era corsa con la lingua sulla macchia d'inchiostro e aveva sciupato il foglio.

— Bisogna ricopiare — ella osserva mortificata.

— Ricopierai stasera. Dà qui intanto.... Non c'è male, non c'è proprio male. Ci sarà da aggiungere e da levar qualche lettera, ma in complesso, per una bambina della tua età, si può contentarsi. Brava Doretta!

La Doretta riposa sugli allori, giuocando con la bambola. Ella veste la sua Niní con l'abitino di lusso e la conduce a far visita al gatto Melanio. Il gatto Melanio, che sonnecchia con gli occhi semiaperti, si [99] mostra piuttosto annoiato di quegli omaggi, si rizza sulle quattro zampe, piega ad arco il corpo flessuoso e poi si raggomitola, voltando la schiena alla visitatrice.

— Ah, Melanio è poco gentile oggi — dice la Doretta mentre riconduce la bambola verso il canapè. — Ma non tenergli il broncio; egli non è mica sempre scortese; dev'essere effetto del tempo.... Anche a te, Niní, fa sonno questo tempo, non è vero?... Andiamo a dormire.... Così... dormi, dormi, piccina.

Niní dorme. La sua testa di legno riposa sopra un guanciale, il suo corpicino di cenci e di crine è involto da una coperta di lana, le sue palpebre sono abbassate. Poichè Niní alza ed abbassa le palpebre secondo che si trova ritta o giacente.

Il signor Odoardo guarda prima l'orologio e poi guarda fuori della finestra. Sono le due suonate e nevica sempre.

La Doretta ha un'altra idea.

— Babbo, sta a sentire se so bene quella favola di La Fontaine: Le corbeau et le renard.

— Sentiamo pure la favola — risponde il signor Odoardo, prendendo dalle mani della fanciulla il libro aperto alla pagina 18.

La Doretta comincia:

Maître corbeau, sur un arbre perché,

Tenait en son bec un fromage.

Maître... maître... maître....

[100]

— Avanti.

Maître....

Maître renard.

— Adesso mi ricordo:

Maître renard, par l'odeur alléché,

Lui tint à peu près ce langage:

Hé! bonjour....

A questo punto la Doretta interrompe la sua declamazione perchè il babbo non bada a lei. Infatti il signor Odoardo ha chiuso il libro sull'indice e guarda da tutt'altra parte.

— Ebbene, Doretta — egli osserva distrattamente — perchè non prosegui?

— Ecco, non dico altro — ella replica ingrugnata.

— Ih, che permalosa! Che cosa c'è?

La bimba, ch'era seduta su un panchettino, s'è alzata in piedi, e ha capito benissimo perchè il babbo non le dia retta. Nevica meno, e di là dalla strada, dietro i vetri della finestra dirimpetto, è comparsa una testa bionda, è comparso il busto della signora Evelina.

Coraggiosissima donna! Ella spalanca gli sportelli, e con una paletta di ferro sbarazza in parte il davanzale dalla neve. I suoi occhi s'incontrano con quelli del signor Odoardo; ella compone le labbra a un sorriso, e tentenna il capo, come a significare; Che razza di tempo!

Bisognerebbe esser proprio incivili per non dire una parola alla intrepida signora Evelina. E il signor [101] Odoardo, che non è incivile, cede alla tentazione di socchiudere un momento la finestra.

— Brava, signora Evelina, non ha paura della neve.

— Oh, signor Odoardo, che tempo indemoniato!... Ma, se non m'inganno, c'è la sua Doretta con lei.... Buon dì, Doretta.

— Doretta, vieni qui, vieni a salutar la signora.

— La lasci stare, la lasci stare, i bimbi fanno così presto a buscarsi un reuma.... Ah, non c'è caso, bisogna chiudere.... Capisco che per oggi devo rinunziare alla sua visita....

— Ma.... Vede che strade!

— Eh, uomini, uomini.... Si dicono il sesso forte.... Basta... a rivederla.

— A rivederla....

Si richiudono gli sportelli da una parte e dall'altra, ma questa volta la signora Evelina non iscompare. Ella è lì seduta accanto alla finestra, e poichè adesso nevica meno, il suo profilo stupendo si disegna nitidissimo dietro i vetri. Dio! Dio! Com'è bella la signora Evelina!

Il signor Odoardo passeggia per la stanza di pessimo umore. Gli pare di far male a non andare dalla seducente vedovella e gli pare che farebbe peggio ad andarvi. Sul fronte della Doretta s'è calata nuovamente una nuvola, quella nuvola stessa che vi si era calata la mattina.

Non si parla più della favola di La Fontaine. Invece il signor Odoardo brontola infastidito:

[102]

— È sempre freddo in questa benedetta camera.

— Sfido io, — replica la Doretta con un po' di acredine nella voce, — apri la finestra ogni momento.

— Ah! — pensa il signor Odoardo — vediamo di scavar terreno.

Ed avvicinandosi alla Doretta, la piglia per una mano, la conduce fino al canapè, e se la pone a sedere sulle ginocchia.

— Orsù, Doretta, perchè fai così cattiva cera alla signora Evelina?

La bimba diventa rossa, si confonde, non sa che rispondere.

Il signor Odoardo continua:

— Che cosa ti ha fatto la signora Evelina?

La Doretta si scontorce, vorrebbe nascondere il viso, e balbetta:

— Nulla mi ha fatto.

— Eppure non le vuoi bene.

Silenzio profondo.

— Ella invece te ne vuol tanto.

— Non me ne importa....

— Che sgarbata!... E se tu ci dovessi stare con la signora Evelina?

Qui la fanciulla prorompe:

— Non voglio starci, non voglio starci mai.

— Oh, queste sono sciocchezze — ammonisce in tuono severo il signor Odoardo, deponendo a terra la Doretta.

Ella si scioglie in un pianto dirotto.

[103]

— Ma insomma.... È questa la compagnia che fai al babbo?... Basta così, Doretta.

Il signor Odoardo ha un bel dire, la Doretta ha bisogno di piangere. I suoi occhi bruni nuotano nelle lagrime, il suo piccolo petto è ansante, la sua voce è rotta dai singhiozzi.

— Che capricci! — esclama il signor Odoardo arrovesciando il capo sui guanciali del canapè.

Il signor Odoardo è ingiusto, e ciò ch'è peggio, egli dice una cosa di cui egli stesso non è persuaso. Egli sa, egli deve sapere che quelli della Doretta non sono capricci. Egli deve saperlo meglio che non lo sappia ella medesima, la quale forse non sarebbe in grado di spiegare ciò ch'ella prova. È il presentimento d'un pericolo nuovo, è la ripetizione di un antico dolore. Ella non aveva ancora sei anni quando le è morta la mamma, eppure gliene è rimasta una impressione incancellabile nell'anima. E adesso le pare che la mamma le torni a morire.

— Quando avrai finito di piangere, Doretta, verrai qui — dice il signor Odoardo.

La Doretta, rincantucciata, piange meno ma non ha finito di piangere. Proprio come fuori. Nevica meno, ma non ha finito di nevicare.

Il signor Odoardo si copre gli occhi con una mano. Quanti pensieri gli si affollano alla mente, quanti affetti si combattono nel suo cuore! Oh se potesse scacciar via l'immagine della signora Evelina! Ma non gli riesce. Quelle ciocche bionde egli le vede ancora, vede ancora quelle pupille azzurre, quel sorriso lusinghiero, [104] quella persona tutta grazia e armonia. Egli non avrebbe da dir che una parola e la signora Evelina sarebbe sua, verrebbe a rianimare la sua casa solitaria, ad empirla di vita, d'amore. Per virtù di lei egli ringiovanirebbe di dieci anni, crederebbe di essere come quand'era fidanzato la prima volta. Eppure no, no. Come la prima volta non poteva essere. Egli era allora ben diverso da quello di adesso, e l'altra, oh anche l'altra era diversa molto dalla signora Evelina. Com'era modesta e vereconda! Quanto riserbo di vergine perfino ne' suoi trasporti d'amante! Come erano belli i rossori improvvisi che le tingevano il volto, com'era dolce l'incanto di quelle sue lunghe ciglia pudicamente abbassate! Egli l'aveva conosciuta nella intimità delle pareti domestiche, semplice, timida, buona figlia, buona sorella, come doveva essere buona moglie e buona madre. L'aveva amata qualche tempo in silenzio ed ella aveva amato parimente lui. Un giorno, passeggiandole a fianco in giardino, egli le aveva preso la mano con impeto subitaneo se l'era portata alle labbra, dicendole — Le voglio tanto bene. — Pallida, tremante, ella era corsa a gettarsi in braccio alla mamma con un grido — Come sono felice!

Oh bei tempi, oh bei tempi! Egli era poeta allora, egli susurrava nell'orecchio della sua fanciulla con l'accento della più sincera passione:

T'amo più che non s'ami umana cosa,

Sei la speranza mia, sei la mia fè,

Se' il mio Dio, la mia patria e la mia sposa.

Non amerò nel mondo altri che te.

[105]

Versi bruttini, ma che facevano palpitare di voluttà la giovine fidanzata. Oh bei tempi, oh bei tempi! Oh lunghe ore passate come un lampo in soavi colloqui, oh segreti dell'anima che l'anima scopre a sè stessa soltanto per rivelarli alla persona diletta, oh carezze desiderate e temute, oh rabbiette fuggitive, oh lagrimuccie rasciugate coi baci, oh sgomenti pudichi, oh ingenuità sante, oh abbandono d'un amore puro ed ardente, chi può sperar di trovarvi due volte nella vita?

No, la signora Evelina non può rendere al signor Odoardo ciò ch'egli ha perduto. No, questa vedova disinvolta, che dopo sei mesi va alla ricerca del secondo marito, non può ispirargli la fede che l'altra gli aveva ispirata. Oh donna del primo amore, perchè morire? I morti non hanno più nè baci, nè carezze, e i vivi hanno bisogno di carezze e di baci.

Chi parla di baci? Uno tiepido e lieve se n'è posato or ora sulle labbra del signor Odoardo e lo ha fatto trasalire. — Ah!... Sei tu, Doretta? — È lei, è la Doretta, che non dice nulla, ma che vorrebbe far la pace col suo babbo. Ella appoggia la sua guancia alla guancia di lui, egli tiene stretta la sua testina perchè la non gli scappi. Anch'egli tace; che dovrebbe dirle?

Si va facendo buio e gli occhi del gatto Melanio cominciano a brillare nell'angolo della stanza, vicino alla stufa. Il servo picchia all'uscio e chiede se deve portare un lume acceso.

[106]

— Riaccendete intanto il fuoco, — dice il signor Odoardo.

Le legne cigolano, scoppiettano, mandano faville e poi finiscono ad ardere con una gran fiamma, con un suono uniforme, possente, come il respiro d'un gigante addormentato. Nella mezza oscurità i riflessi luminosi guizzano sulle pareti, fanno spiccare i rabeschi delle carte, corrono fino a lambire lo spigolo dello scrittoio. Le ombre s'allungano, s'accorciano, s'ingrossano, s'assottigliano, gli oggetti paiono mutare continuamente di dimensioni e di forme. Il signor Odoardo lascia andare i suoi pensieri a briglia sciolta, e passa in rassegna gli anni trascorsi a fianco della moglie virtuosa, ricorda la cuna della sua bimba, e i primi vagiti, e i primi sorrisi; sente, ahimè! l'ultimo bacio della sua donna moribonda, l'ultima parola articolata dal labbro di lei: Doretta. Oh no, egli non può fare infelice la sua Doretta! Pur non è sicuro che il fascino della signora Evelina non lo vinca di nuovo; pur teme egli stesso che al riveder domani la bellissima ammaliatrice si dileguino i suoi virili propositi.... C'è forse un mezzo, uno solo!

— Doretta, — dice il signor Odoardo.

— Babbo.

— Devi ricopiar questa sera la lettera per la nonna?

— Sì.

— E non preferiresti invece di andarci tu dalla nonna?

— Con chi? — chiede la bimba angosciosamente [107] e, mentre ella attende la risposta, il suo cuoricino batte d'un palpito affannoso.

— Con me, Doretta.

— Con te? — ella esclama quasi non credendo a sè medesima.

— Sì, con me, col tuo babbo.

— Oh babbo mio! — ella grida, e le sue piccole braccia cingono il collo del signor Odoardo, e le sue labbra lo coprono di baci. — Oh babbo mio, buon babbo. Quando si parte?

— Domattina, se non ti fa paura la neve.

— Anche subito, anche subito.

— Subito no. Per bacco, non vorresti nemmeno pranzare?

E il signor Odoardo, svincolandosi dolcemente dall'amplesso della figliuola, si alza, suona il campanello e ordina che portino il lume. Quindi con un moto istintivo egli guarda ancora una volta dalla parte della finestra. Nella casa dirimpetto tutto è buio, il profilo della signora Evelina non si disegna più dietro i vetri. È sempre brutto tempo, cade sempre qualche fiocco di neve. Il servo chiude le imposte, tira le cortine; nessuno sguardo profano penetra ormai nel santuario domestico.

— Tanto fa desinar qui, — dice il signor Odoardo. — In salotto sarà una Siberia.

La Doretta mette in rivoluzione la cucina con la strepitosa notizia del suo viaggio. Prima si crede ch'ella scherzi; quando non si può dubitare che ella affermi il vero, si osserva sommessamente che il [108] padrone dev'esser impazzito. Partire nel cuore dell'inverno, con un tempo simile! Almeno si aspettasse una bella giornata!

Ma che importa alla Doretta dei commenti della servitù? Ella non capisce in sè dalla gioia, canticchia, saltella per la stanza e viene ogni momento a dar un altro bacio al babbo. Poi versa la piena de' suoi affetti nel cuore del gatto Melanio e della bambola Niní, alla quale promette di portar da Milano un vestito nuovo.

A pranzo non fa che parlare della sua gita, mangia pochissimo, domanda sempre che ora è e a che ora si parte.

— Temi di perder la corsa? — chiede il signor Odoardo sorridendo.

Eppure, quantunque egli lo dissimuli, non è meno impaziente di lei. Ha bisogno di andar lontano, lontano. Forse non tornerà fino alla primavera. Perciò ordina che gli preparino il bagaglio come se dovesse rimanere assente almeno due mesi.

La Doretta si corica presto, ma non fa che ravvoltolarsi nelle coltri, e svegliar venti volte la cameriera per domandarle: — È tempo d'alzarsi?

Anche il signor Odoardo è desto quando il servo alle sei della mattina viene a chiamarlo.

— Che tempo fa?

— Brutto, signor padrone.... Su per giù come ieri.... Anzi io direi che se non avesse proprio urgenza di partire....

— No, Angelo. Ho urgenza.... È inutile.

[109]

················

Alla stazione ci sono pochissimi viaggiatori avviluppati nei mantelli o nelle pelliccie; faccie scure, assonnate. Tutti si lagnano del tempo, del freddo, dell'ora; tutti protestano che senza un gran bisogno non si sarebbero alzati così di buon mattino. Un solo viso è ridente, una sola persona è vispa, la Doretta.

Lo scompartimento di prima classe in cui entrano il signor Odoardo e la Doretta è gelato, malgrado delle cassette d'acqua calda su cui posare i piedi, ma la Doretta trova che la temperatura è deliziosa, e se stesse in lei aprirebbe il finestrino per veder meglio fuori.

Una scampanellata, un fischio, e il convoglio si muove. Negli occhi della Doretta si dipinge una gioia ineffabile.

— Sei contenta, Doretta?

— Oh! Tanto....

Dieci anni addietro, con una giornata migliore, ma parimenti d'inverno, il signor Odoardo intraprendeva il suo viaggio di nozze. Gli sedeva di fronte una giovine, che somigliava alla Doretta quanto una donna può somigliare ad una fanciulla, una giovine leggiadra, composta, soavemente amorosa. Anche a lei il signor Odoardo aveva chiesto nell'istante della partenza. — Sei contenta, Maria?

— E anch'ella gli aveva risposto. — Oh! Tanto....

— Proprio come la Doretta.

[110]

Si corre, si vola. Addio, addio per sempre, signora Evelina.

················

È forse morta di disperazione la signora Evelina?

Oh no. La signora Evelina ha un ottimo temperamento e una buonissima casa. L'ottimo temperamento le impedisce di prender le cose troppo sul serio, la buonissima casa le offre mille distrazioni. Non tutte le sue finestre si aprono dalla parte ove abita il signor Odoardo. Ce n'è una, per esempio, che dà su un giardinetto appartenente ad un rispettabile celibatario il quale nei giorni di sole viene a fumarvi la sua pipa. La signora Evelina trova che il rispettabile celibatario è una persona a modo, e il rispettabile celibatario, che esercita le funzioni di liquidatore di avarie, trova che la signora Evelina ha un gran bel paio d'occhi ed è assai ben costruita, con materiali solidi, da poter meritare la classificazione 313 I. I. nei registri del Bureau Veritas. Ne viene che il celibatario guarda qualche volta in alto e la signora Evelina guarda qualche volta abbasso. Però la signora Evelina osserva che la stagione non è propizia alle conversazioni all'aria aperta, e invita il vicino a venirle a fare una visita. Il vicino esita, la signora Evelina rinnova l'invito. Come resistere a una bella signora? In fin dei conti una visita che conseguenze può avere? Nessuna, e l'ottimo liquidatore si loda assai [111] dell'accoglienza ricevuta, tanto più che la signora Evelina gli ha dato facoltà di venire un altro giorno con la sua pipa. Ella ama infinitamente l'odor della pipa. È proprio una donna perfetta la signora Evelina, una donna quale ci vorrebbe per un uomo d'affari che non fosse deciso a rimaner celibe tutta la vita. Del resto, pensa il liquidatore, è verissimo ch'egli è deciso a rimaner celibe, ma chi gl'impedisce di cambiare d'opinione?

Fatto si è che quando il signor Odoardo ritorna con la Doretta dal suo viaggio di tre mesi, egli riceve la comunicazione del prossimo matrimonio della signora Evelina Chiocci, vedova Rombaldi, col signor Archimede Fagiuolo, liquidatore di avarie.

— Fagiuolo! — esclama la Doretta. — Fagiuolo!

E questo nome le desta un'ilarità sconfinata. Ma se badate a me, ciò che la mette in buon umore non è tanto il marito, quanto il matrimonio della signora Evelina.

[112]

UN RAGGIO DI SOLE

L'ultimo lembo dello strascico d'un vestito di seta spariva dietro l'uscio del salotto di casa Mellari. Una signora innanzi negli anni, ma con la fisonomia piena di vivacità giovanile, seguiva il dileguarsi di quello strascico con uno sguardo lungo, tenero, appassionato; uno sguardo quale non hanno se non le madri per le loro figliuole e le avole per le loro nipoti. Ed era appunto una nipote della padrona di casa colei che aveva lasciato in quel momento la stanza.

La signora Anna, moglie del professore commendatore Everardo Mellari, sola in un angolo della camera, sedeva ad un tavolino su cui stavano alcuni libri legati, un servizio da te, un astuccio da lavoro e un moderatore di porcellana acceso; perchè, se non lo abbiamo ancora detto, lo diciamo adesso: erano le dieci di sera. Intorno a una tavola molto più grande collocata proprio nel mezzo dell'ampio salotto, rischiarato da una lucerna appesa al palco, e tutta sparsa di opuscoli e di giornali, discutevano di economia e di giurisprudenza sei uomini, con certe inflessioni nasali e una maestosa solennità degna di chi è socio di almeno cinque Accademie. Le sentenze si succedevano a regolari intervalli come le cento e una salve [113] d'artiglieria alla nascita d'un principino. Vuole però giustizia che si facciano in questo gruppo le debite distinzioni. Delle sei persone ivi raccolte quattro avevano aspetto fossile, e il più fossile di tutti era un giovine non ancora trentenne, uno di quei gingillini della scienza che camminano servilmente sulle orme altrui, e si credono dotti quando hanno letto una memoria papaverica dinanzi a un'assemblea sonnacchiosa. A costoro par grave di non avere che venti a trent'anni, e simulano i modi e la posatezza dell'età matura, gonfi, pettoruti, noiosissimi. Sul loro labbro non v'è sorriso, nei loro occhi non v'è luce, nella loro parola non v'è affetto, mummie prima di nascere.

Il professore commendatore Everardo Mellari, che al momento della nostra narrazione passava i sessanta, aveva avuto anch'egli il gran torto di non prendere la vita che da un lato solo, dal lato cioè dello studio e della meditazione, trascurando quella verità detta senza reticenze dal Giusti:

Se fa conoscere — le vie del mondo

Oh buono un bricciolo — di vagabondo!

Però in lui una intelligenza elevata, una dottrina profonda e un cuore ottimo e tenace nelle amicizie facevano perdonare quel po' di compassato e di convenzionale che v'era nel suo carattere. Quanto alla persona, ella somigliava all'indole ed all'ingegno, ed era quindi piuttosto poderosa che aggraziata.

Dissimile affatto dagli altri, e tale che lo si sarebbe [114] detto una stuonatura in quel concerto di dottoroni, stava in piedi appoggiando una mano alla spalliera della seggiola del professore Everardo, e tenendo con l'altra dinanzi agli occhi un giornale senza apparire troppo concentrato nella lettura, il signor Maurizio Dardi, il più vecchio e fidato amico di casa Mellari. Anch'egli fra i sessanta e i settanta, ma ritto, sottile, aitante delle membra, con una fisonomia briosa ed ironica spesso, con uno sguardo vivo, intelligente, pieno di fuoco, con dei capelli che ormai quasi bianchi del tutto conservavano la curva elegante della giovinezza e che si arricciavano di tratto in tratto con con una tal quale aria di provocazione come se volessero dire: — Oh se sapeste quante manine gentili ci hanno fatto scorrere fra le loro dita! — Dal complesso poi della persona tuttora attraente e dal vestire lindo e accurato, si vedeva l'uomo che aveva molto vissuto nella miglior società.

Il signor Maurizio aveva egli pure seguito con lo sguardo il dileguarsi del vestito di seta, e quando l'uscio si fu rinchiuso, con un movimento rapidissimo si fece accosto alla signora Anna, trasse un profondo sospiro dal petto come chi si sente sollevato da un peso, e avvicinando una sedia al tavolino, disse: — Si può fare un po' di conversazione con voi, signora Anna?

Ella che se ne stava fantasticando si scosse, e con un sorriso pieno di benevolenza: — Figuratevi! — rispose. — Vi confesso anzi che mi pareva impossibile di vedervi in mezzo a tanti uomini seri.

— Grazie del complimento. Però, ve lo dico col [115] cuore in mano, vostro marito solo lo digerisco, ma in compagnia con quegli altri no e poi no. Everardo mi va ripetendo sempre che io sono uno scapato come a vent'anni, e che egli stesso non sa spiegarsi come, tanto dissimili d'indole, noi abbiamo potuto rimanere amici tutta la vita. E in verità la cosa fa meraviglia anche a me.... Ma, vedete, a Everardo io perdono tutto.

— Oh bella! Siete voi che perdonate? — interruppe la signora Anna.

— Sicuro, perchè, in fin dei conti, queste esistenze seppellite in mezzo alla polvere delle biblioteche sono esistenze sbagliate. Bandire il sorriso dalla vita val quanto bandire il sole dall'universo.

— Oh diamine! Siete sentenzioso... Su via, cattiva lingua, di chi avete a dir male stasera?

— Di molte persone, ma se non vi dispiace, mi limiterò ad una sola.

— Molti i chiamati e pochi gli eletti — osservò sorridendo la signora Anna. — E chi è oggi l'eletto?

— È una eletta.

— Una donna?

— Per l'appunto.

— E chi dunque?

— Voi stessa.

— Io!

— Sissignora... Credete davvero ch'io sia stato ad ascoltare in tutto questo frattempo le dissertazioni sulle imposte indirette di quell'amenissimo dottor Belgini, che, se si sta alla fede di nascita ha ventinove [116] anni, e se si vede e si sente, ne ha almeno sessanta?

— Ma via, screanzato, parlate piano,

— Oh siate certa che non ci odono — rispose il signor Maurizio accostando però la sedia a quella della sua interlocutrice e abbassando alquanto la voce. Indi continuò:

— O vi par forse probabile ch'io abbia prestato una grande attenzione agli apoftegmi giuridici partoriti con tanto aplomb dal consigliere Marino, il quale, allorchè ha parlato, si volta a destra e a sinistra come per dire: Avete mai inteso nulla di simile?

La signora Anna fece uno sforzo per non ridere, e con un tuono malizioso soggiunse a mezza voce;

— Non c'è forse il commendatore Brullo?

— Oh! — proruppe il signor Maurizio — quello è un bell'originale. Non v'è cosa che non gli sia accaduta, non v'è paese in cui egli non sia stato, non v'è idea che prima di venire agli altri non fosse venuta a lui. In casi eccezionali egli fa delle concessioni. Stasera, per esempio, si discorreva della Groenlandia. Egli osservò: Io dovevo andarci. Maravigliato d'un tuono tanto rimesso: Eppure io tenevo per fermo, diss'io, che ci foste già stato. Credete forse ch'egli abbia capito ch'io mi burlavo di lui? Tutt'altro. Prese le mie parole per un complimento.

— In fin dei conti poi c'è Everardo — concluse la signora Mellari con accento serio e senza ironia di sorta.

— Ah sì, c'è Everardo — rispose con l'accento [117] medesimo il signor Maurizio — e ad Everardo ci faccio di cappello, ma, ve lo ripeto, a quattr'occhi, e quando posso levargli la crosta dell'accademico. Via, non v'impazientite. Ricevendo in casa sua de' pedanti gli tocca divenir qualche volta pedante anche lui per ospitalità... Ma, insomma, voi mi fate parer maldicente...

— Oh poveretto, non siete mica tale — esclamò la signora Anna. — E, a proposito, non dovevate dir male di me?

— Ah, questo sì, e comincio subito.

La signora Anna avanzò alquanto la sedia, e appoggiando il gomito al tavolino fece puntello al mento con l'avambraccio, e si pose in atto di benevola aspettazione.

— Dovete dunque sapere — principiò il signor Maurizio con un tuono scherzoso che temperava la asprezza apparente delle parole — dovete dunque sapere, mia cara amica, che io ho inteso gran parte del vostro colloquio con vostra nipote, e che fra voi e lei avete detto delle solenni corbellerie.

— O sentiamole un po' queste solenni corbellerie.

— Non mi negherete che la Evelina vi dicesse male di suo marito.

— Male poi no... Faceva alcune rimostranze.

— Or bene: quanto a me che del matrimonio...

— Risparmiatemi le vostre teorie. Già lo si sa che voi l'avete a morte col matrimonio.

— Falsissimo. Io la credo una ottima istituzione a benefizio dei celibi. Che cosa farebbero i celibi se non fossero gli ammogliati?

[118]

— Eh vergognatevi di questo cinismo.

— Sono meno cinico di quel che credete, amica mia, e mi sarebbe facile il provarlo. Ma ora ripiglio il filo del discorso. Quanto a me dunque che sono un celibatario ostinato ed impenitente, non ho nulla a ridire se una moglie si lagna di suo marito. Ciò sta nell'ordine naturale delle cose. Ma io mi metto dal punto di vista vostro, di una donna cioè che ha un culto per l'istituzione del matrimonio, e non posso a meno di strabiliare vedendo come voi lasciate tener quei discorsi a vostra nipote, e abbiate anzi tutta l'aria di secondarla.

— Oh se non avevate che a farmi questo sermone, mio venerabile signor censore, potevate davvero risparmiarvi la briga. In primo luogo, io non ho secondato niente affattissimo; e poi gli è appunto perchè ritengo che il matrimonio e la famiglia siano cose sacrosante che m'irrito quando ne vedo fraintesi gli obblighi dall'una parte o dall'altra.

— Queste sono frasi. Io credo invece che il matrimonio, per non finire in una catastrofe, debba essere un lungo esercizio di reciproca tolleranza. Tolleranza intendiamoci, non già del vizio e della dissolutezza, ma di tutti quei difettucci, di tutte quelle imperfezioni che ciascuno dei due coniugi vede indubbiamente nell'altro. Oh via, veniamo al fatto: di che cosa si lagna vostra nipote?

— Sapete che siete curioso? Io potrei mandarvi pei fatti vostri, e non dirvi nulla; ma voglio esser tre volte buona, e vi risponderò schiettamente che [119] Evelina ha ragione. Un uomo che ha una sposa come Evelina, un fiore di gioventù, di bellezza, un angelo di bontà e d'innocenza; un uomo che possiede una donnina simile e la trascura, e non le consacra tutto ciò che v'è di migliore nella sua anima e nel suo ingegno, meriterebbe.... eh lo so io che cosa meriterebbe. Il meno che possa toccargli è che sua moglie si dolga di lui.

— Voi siete una vestale che conserva il fuoco sacro. Ancora bollente come a vent'anni! Io vi ammiro.

— Eh ammiratemi meno, e ascoltatemi di più. O che vi pare che Evelina avrebbe ad esser contenta? A sedici anni appena, la maritano (e un po' di colpa ne ho anch'io) a un giovine sui cinque lustri, operoso, valente, onesto, ma tutto pieno della sua ambizione, tutto preoccupato dei suoi buoni successi. Egli è ora di qua, ora di là, oggi a Firenze, domani a Milano, domani l'altro a Napoli, sempre a raccogliere applausi, a mietere allori, a proferir discorsi, a tener conferenze, e che so io, e dopo quindici mesi di matrimonio è molto se sta tre giorni la settimana presso sua moglie per annoiarla coi racconti delle sue glorie e de' suoi trionfi. Oh caro mio, non v'è nulla di più egoista dei così detti uomini grandi, non v'è nulla di più gretto e meschino. Nel santuario della casa che dovrebb'essere aperto agli affetti, alle confidenze, alla celia, essi portano la loro vanità personale; al pettegolezzo senza malizia e senza conseguenze della vita domestica essi sostituiscono il [120] pettegolezzo pieno d'acrimonia e di fiele della vita pubblica e letteraria, e fanno cento volte desiderare il modesto impiegato, l'umile uomo d'affari che, dopo adempito il suo ufficio quotidiano, reca alla sua famiglia la parte migliore di sè; il sorriso del suo labbro, la poesia schietta della sua anima. Perchè questa è la gran differenza tra gli uomini comuni e quelli di maggior levatura; che i primi cercano di piacere alla moglie perchè sanno che non possono avere applausi da nessuno fuori di lei: gli altri, abbagliati dallo splendore che li circonda, non vedono che tenebre e squallore nelle pareti domestiche.

— Per bacco! — proruppe il signor Maurizio — stasera voi siete più eloquente di Mirabeau. Ma mi permettete di rispondervi?... In quello che voi dite c'è molto di vero; non v'ha dubbio, ma l'arma che avete brandita è un'arma a due tagli, e badate di non ferirvi da voi. Quando una giovine possede, come Evelina, uno sposo di un merito superiore, ella non ha che un mezzo per non divenire infelice. Ella non può impedirgli di raccogliere i frutti del suo ingegno e della sua dottrina e di essere acceso dalla febbre del buon successo: ella deve lasciarsi irradiare dalla sua luce, ella deve associarsi alle sue ambizioni. La neutralità le è proibita, perchè nella moglie l'esser neutrale vuol dire essere ostile. S'ella non si accalora pei trionfi del marito, il marito la trascura, ed ella finisce coll'odiar quella gloria che avrebbe dovuto riflettersi su di lei. I due coniugi vivono allora in due mondi diversi, le loro anime non hanno punto [121] di contatto, e, credetemelo pure, mia ingenua amica, quando i corpi sono costretti a stare insieme senza che le anime si confondano, non può nascerne altro che il tedio scambievole... Ma via, siamo giusti; come volete che un uomo, esposto a tutte le seduzioni del mondo, blandito, accarezzato in mille guise, riesca a trasformarsi di punto in bianco, e diventi semplice, modesto, spensierato, appena egli abbia varcato la soglia domestica? Ma una moglie saggia previene i pericoli, e poichè non può mutare il marito muta sè stessa.

— Oh! volete farne un'erudita?

— Che! Voi sapete meglio di me come una donna di garbo possa prender parte agli studi di suo marito senza perder nulla della grazia e della semplicità nativa. Tutto sta che la sua trasformazione le sia dettata dall'affetto verso il consorte, e non dalla smania di dottoreggiare con gli altri: che in quest'ultimo caso non avete già dinanzi a voi una persona colta, ma una noiosa pedante sul fare di quelle che si vedono spessissimo nella società italiana, così diversa dalla società inglese e tedesca, ove l'eleganza dei modi, le aspirazioni ad un ideale elevato sono le cose più naturali e spontanee del mondo.

— Ma voi parlate sempre degli obblighi della donna: l'uomo non ne ha dunque nessuno?

— Sì che ne ha; ma io vi ragiono dal lato della felicità e della pace coniugale. E vi dico con la convinzione più profonda che l'uomo, anche se fallisce a' suoi obblighi, può trovar nella gloria, nell'ambizione, [122] nel buon successo mille compensi, ma la donna, se non sa crearsi la felicità nel tetto domestico, non vi trova che la sventura o la colpa.

— Di che frasi sonore mi rintronate il capo! La colpa! Le donne virtuose sanno rimaner tali anche nell'infelicità.

— Nell'infelicità sì, — rispose vivamente il signor Maurizio, sorridendo a fior di labbro, — e quando un grande dolore, quando un grande disinganno occupa l'animo, io credo che la donna abbia in questo disinganno e in questo dolore una salvaguardia contro le tentazioni. Nel Paolo Forestier dell'Augier v'è un tipo di donna la quale, per vendicarsi dell'uomo che adorava e che l'ha abbandonata, si getta nelle braccia di un altro ch'ella disprezza, precisamente nel giorno e nell'ora in cui deve accadere il matrimonio del suo primo amante. È un concetto bizzarro che si fonda sopra l'ipotesi d'un fatto possibile forse, ma non verosimile. Ciò che invece, a mio parere, mette la donna sempre al limitare della colpa si è quella condizione malaticcia dell'animo che non è la gioia e non è il dolore, vaga, indefinita, vaporosa come il crepuscolo, piena di desideri che non sanno acquistar forma e contorno, piena di malinconie che non hanno nome e non saprebbero spiegarsi a sè stesse. Una donna che dice: — sono incompresa, — molte volte comincia col non comprender sè stessa, ed è in quello stato di perplessità che costituisce un eterno pericolo. Chi non sa che cosa si voglia accetta facilmente gli esperimenti, perchè suppone che l'ideale sognato possa [123] capitare quando meno si crede. Gli è appunto il caso della vostra Evelina. Le è sfuggita una frase ch'io colsi benissimo: — Capisco — ella disse — che fra lui e me non c'è modo d'intendersi. — Ora, questa frase, sia che racchiuda un profondo scoramento o una smisurata superbia, rivela in vostra nipote l'intenzione di lasciare che le cose vadano per la loro strada. La sua anima non è più occupata da suo marito....

— Ma chi vi dice queste cose?

— Lasciatemi finire. Il suo cuore è una casa vuota, e una casa vuota può sempre trovare un pigionale nuovo.

— Oh Maurizio — esclamò la signora Anna alquanto risentita, e facendo atto di alzarsi in piedi — basta di ciò. Voi sapete quanta libertà abbiate in questa casa, e come io vi consideri più che di famiglia: ma ogni confidenza ha un limite, e io non posso concedervi queste supposizioni sul conto di Evelina. Sermoneggiate me quanto vi piace, ma lasciate stare quell'angiolo.

— Via, non siate cattiva — rispose il vispo vecchietto, tenendo la signora Anna pel lembo dell'abito e non permettendole di muoversi dalla seggiola. — Rispetto la vostra tenerezza di nonna, e non vi dirò per questa sera nulla più sul conto di Evelina. Ma senza insistere sul caso speciale, vi ripeto che degli angeli ne ho visti perder l'ali parecchi, e molte virtù naufragare, e molte altre salvarsi per un accidente; che so io! per un soffio di vento o per un raggio di sole.

[124]

— Che cosa c'entrano il vento ed il sole?

— Oh se c'entrano! — soggiunse il signor Maurizio, stropicciandosi le mani — volete proprio che ve la racconti la storia d'un raggio di sole?

La signora Anna sorrise, die' una rapida occhiata all'orologio che stava sulla consolle e segnava le dieci e mezzo, e poi, voltasi al suo interlocutore: — Avete una voglia matta — rispose — di narrare una delle vostre storielle che sono assai più numerose de' giorni dell'anno. Posso concedervi tre quarti d'ora. Ma patti prima, mio caro. Voi avete l'abitudine delle impertinenze, e io non ne voglio; avete certi frizzi di cattivo genere, e io non amo sentirli; onde, o voi state nei termini, o andate a raccontare le vostre frottole al caffè od al casino.

— Accetto le condizioni. E anzi perchè non vi sia il caso che io le dimentichi, vi prego ogni volta ch'io stessi per uscire di strada, di richiamarmi all'ordine come se voi foste il presidente di un'assemblea. — Si guardò attorno, e, adocchiato sul tavolino un paio di forbici, le sospinse fino alla signora Anna, dicendole: — Questo sarà il vostro campanello. Quando voi alzerete queste forbici, capirò che bisogna ch'io renda più castigate le mie espressioni.

— Siete pure il gran fanciullone — sclamò la signora Anna. — Ora parlate.

— Adagino, adagino. Ho pur io una condizione da imporvi.

— Sentiamola un po'.

[125]

— Che quando io serbi quei modi di gentiluomo che mi prescrivete, voi mi lascerete andare sino al fondo della mia storia, anche se per avventura si trattasse di cosa che vi fosse già nota.

— O come potrebbe essere?

— Chi sa? Non è poi impossibile che l'abbiate udita a raccontare da qualchedun altro.

— E in questo caso voi vi sta a cuore di farne la seconda edizione?

— Mi sta.

— Ebbene, sia pure come vi aggrada.

— Ho la vostra parola?

— Ma sì, ma sì: vi occorre altro?

— Datemi la mano?

— Dio buono! Quante formalità! Si direbbe che voleste iniziarmi a qualche loggia massonica. Eccovi la mano.

La signora Anna porse al Dardi una manina che l'età non aveva nè troppo dimagrata nè troppo ingrassata; una manina giovine, se si potesse usare questa frase, tanto ne erano ben tornite le forme, e morbide e delicate le tinte, e pieni di una nervosa irritabilità i movimenti. Il lepido vecchio parve molto compiacersi di quella stretta, e poich'ebbe tenuta per alcuni secondi nella sua destra la destra della signora Anna si soffiò due volte il naso, e si raschiò la gola come chi si accinge a una perorazione accademica. Ella intanto, da avveduta massaia, accendeva la macchina del tè, dicendo scherzosamente:

[126]

— Perchè non accada ch'io pigli sonno durante la vostra chiacchierata, mi preparo a bevere una seconda tazza.

— Questa disgrazia non accadrà, maligna che siete, me ne fo mallevadore. E comincio. Vi avviso però che quello ch'io faccio è il racconto d'un racconto. Un amico a cui la faccenda è toccata, me la narrò in tutti i suoi particolari. È una storia vera, capite?

— Oh che bella verità, passata per due filtri; quello dell'amico e il vostro!

— La storia rimonta a poco meno di quarant'anni addietro — continuò il signor Dardi senza preoccuparsi dell'interruzione. — Il mio amico che ora è vecchio come me.... e come voi, era allora giovane e bello com'ero io.... e come eravate voi in quel tempo.

— Questo non ha che fare.

— Egli aveva da poco finito i suoi studi all'università lasciandovi fama d'ingegno piuttosto vivace che peregrino, di coltura piuttosto varia che profonda. Comunque sia, in un tempo nel quale alle università si studiava pochissimo, egli poteva ragionevolmente passare tra i giovani più valenti, e quelli ch'erano tali davvero lo accoglievano a braccia aperte nei loro crocchi ove il suo buon umore costante contribuiva a tener allegra la brigata. E, fra parentesi, vi contribuiva anche un po' la sua borsa, perchè egli era ricco e gli studenti ricchi possono contarsi come le mosche bianche. In complesso era davvero [127] una eletta brigata di giovani, disseminatasi poscia qua e là secondo le necessità della vita o i capricci del caso. Per una di quelle bizzarrie che non sono sì rare, il mio amico s'era legato di più intimo affetto con quello che, fra tutti gli altri del gruppo, si discostava maggiormente da lui pel carattere. Quanto egli era festevole e spensierato, altrettanto l'amico suo era serio e meditabondo, nè la tempra del loro ingegno era meno dissimile di quella della loro indole. L'uno andava qua e là succhiando il miele da tutti i fiori, amava la poesia, la musica, la pittura; l'altro coltivava con assiduità piuttosto germanica che italiana gli studii filosofici, giuridici, storici. Ma, singolare a dirsi eppur vero, quegli che possedeva una natura d'artista aveva un fondo di scettico incorreggibile, l'altro sotto le gelide apparenze celava una buona fede da non potersi immaginar la maggiore. Quanto alla severità della sua indole, e alla rigidezza claustrale de' suoi costumi, vi basti sapere che non c'era mai stato caso, mentre eravamo studenti insieme all'università....

— O che cosa c'entrate voi?

— Avete ragione. Adopero la prima persona credendo di far parlare il mio amico.

— Che amicizia! La vi fa persino dimenticare la vostra identità personale, come dicono nei giornali di giurisprudenza di mio marito. Proprio come Oreste e Pilade!....

— Via, mi fate perdere il filo con le vostre malignità. Che cosa dicevo? Ah dicevo che gli sforzi [128] fatti per addomesticarlo erano falliti, che non era stato possibile di renderlo soggetto alle debolezze della sua età! A ventitrè anni, egli era....

La signora Anna mosse un momento le forbici e il signor Maurizio cambiò metro.

— Ma ciò poco importa. Nemmeno le quistioni politiche, e qui spero che mi lascerete parlare, lo preoccupavano più che tanto. In quel tempo singolare nella quale dalle poesie del Baffo e del Buratti (oh non fate smorfie perchè le avrete lette anche voi) si passava alle liriche del Berchet; e alla porta dei teatri e delle sale da ballo vi aspettava talora la sedia di posta che doveva condurvi allo Spielberg, in quel tempo in cui pareva non esservi posto nella vita che per la farsa e per la tragedia, il nostro originale era riuscito a tenersi ugualmente lontano dalle seduzioni del mondo elegante e da quelle allora assai più nobili, ma assai più pericolose, delle società segrete. E non era diffidenza, chè, come dissi, il suo animo era alieno dai sospetti; e non era viltà, chè egli non aveva sortito natura codarda; era soltanto quella sua grande passione dello studio che soverchiava in lui gli altri affetti e gli altri pensieri, e lo rendeva noncurante di molte cose che esercitavano un fascino sulla comune dei giovani.

Potete immaginarvi come rimanessero i suoi compagni quando seppero un giorno ch'egli era perdutamente innamorato. Come! E di chi? Queste domande correvano di bocca in bocca, e per uno o [129] due giorni tutti malignavano dicendo: Sta a vedere che grossa corbelleria egli ha commesso!

Egli! — interruppe la signora Anna. — Abborro gli anonimi.

— Volete proprio che ci mettiamo in regola con lo stato civile? Ebbene: il mio amico lo chiameremo Ugo, e all'amico del mio amico imporremo il nome di Alberto. Alberto adunque, poichè di lui si parla in questo momento, non aveva commesso quella grossa corbelleria che gli si attribuiva. Certo egli aveva avuto un gran torto ad innamorarsi sul serio, ma almeno non s'era appigliato nè ad una brutta, nè ad una civetta, nè ad una stolida; com'era pur verosimile in un uomo che aveva sì poca pratica di queste faccende.

— O che non aveva forse gli occhi codesto signor Alberto?

— Occhi da erudito, mia cara Anna, buoni da decifrar palinsesti, e capaci di fermarsi con maggior compiacenza sopra un'iscrizione in lingua sanscrita che sulle forme divine della Vergine di Milo. A ogni modo, la fanciulla amata da Alberto era tale da affascinare qualunque anima d'artista. Non ve ne farò la descrizione. Mi basterà dirvi che gareggiavano in lei la bellezza, l'ingegno e la grazia. Era una grazia schietta, spontanea, che spirava da tutta la persona come l'olezzo dal fiore, era un ingegno vivo, elegante, poetico, era una bellezza piena a un tempo d'abbandono e di fuoco, di soavi malinconie e di celesti sorrisi... E quella [130] fanciulla non aveva, io credo, che sedici a diciassett'anni....

— Ih! come vi riscaldate: si direbbe che parlaste di una vostra innamorata di ieri.

— Cara mia, le cose paiono vicine o lontane secondo che sono più o meno scolpite nella memoria....

— Parlerete, io spero, della memoria del vostro amico.

— Certamente, — rispose il signor Maurizio con disinvoltura, quantunque quella inchiesta suggestiva lo avesse un po' sconcertato. — Ma io mi investo ne' casi suoi.

— Siete pure il prezioso amico, — insinuò con un filo d'ironia la signora Anna. — Ma, a proposito, il nome di questa Dea?

— Diamole nome Giulietta.

— O c'è un Romeo?

— Può darsi: non precipitate.

— Già capisco tutta la vostra storia peregrina. È uno dei soliti innamoramenti.

— Ma per carità, mi avete promesso di non interrompermi. Lasciatemi adunque tirare innanzi. La bella Giulietta, sorpresa dalla dichiarazione di un giovine ch'ella aveva conosciuto il dì innanzi, cominciò coll'esserne sgomenta, ma poi quella sua anima delicata e gentile non potè a meno di rispondere a un affetto così vivo ed onesto, così rispettoso nella sua violenza, e così lusinghiero per l'amor proprio di lei. In generale anche le donne leggiere e che non vanno pazze per l'ingegno piegano il capo [131] dinanzi al buon successo: e Alberto era fra i giovani più celebrati della università e tra quelli a cui si augurava un più splendido avvenire. L'indole severa del suo intelletto e dei suoi studi non era invero tale da affascinare una giovinetta sedicenne, ma d'altronde come respingere un uomo del suo valore? Come ributtarlo da sè, s'egli, tra mille, aveva scelto lei, modesta ed oscura? Ecco perchè la fanciulla, pur non dividendo l'entusiasmo del suo amante, porse orecchio benevolo alle sue parole e promise a sè stessa che col tempo lo avrebbe ricambiato di uguale trasporto. Come si rimovessero gli ostacoli frapposti dalla famiglia, come il matrimonio si concludesse quando Alberto aveva appena ricevuta la laurea, sono cose di cui non mette conto tener parola. Eppoi sapete ch'io non posso scendere a troppo minuti particolari per non tradire il segreto che mi è confidato. Questo bensì vi dirò, che gli amici di Alberto, dopo le sue nozze, si sentirono sollevati da un gran peso sullo stomaco, perchè egli li aveva noiati fuor di misura co' racconti della sua gelosia, de' suoi dubbi e delle sue escandescenze. In alcune anime l'amore scende come una pioggia benefica sulla terra preparata a riceverla; le compie, le rallegra, le avviva, le fa capaci di spargere intorno a sè una gioia pacata e serena: in altre invece esso irrompe come l'uragano sopra un suolo granitico in cui l'acqua non filtra lentamente ma s'arresta alla superficie formando larghe pozze e rigagnoli: anzichè assimilarsi al loro organismo, l'amore crea in [132] queste anime uno stato inquieto, morboso, e toglie alle loro manifestazioni quel gentile riserbo, quella verecondia soave che le mostra ricordevoli oltre che del proprio pudore anche del pudore dell'essere amato. Alberto era, nelle sue confidenze, pettegolo, indiscreto, qualche volta persino brutale; tanto lo sgomentava la trasformazione esterna che s'era operata in lui, tanta era la disarmonia, da lui non perfettamente compresa, fra questa passione e il resto dell'esser suo.

«Allorchè egli divenne marito, le tendenze ingenite del suo animo e del suo ingegno ripresero il disopra. Come coloro che, dormendo, ricevono una impressione fisica che si mesce ai loro sogni, tantochè quando si svegliano, ogni altra parte del sogno svanisce fuori di quella impressione che è viva e reale, così Alberto, ritornato in sè stesso, vide dileguarsi l'incanto che lo aveva posseduto e solo restargli a fianco, bella e gentile, più che desiderata compagna, la moglie. Ambizioso per indole, Alberto scorgeva in lei piuttosto un inciampo che un aiuto alla sua carriera, e gli mancava l'arte di nascondere ciò ch'egli sentiva. Giulietta invece, la quale, come accade alle fanciulle virtuose, aveva, dopo il matrimonio, preso a voler più bene che mai all'uomo che aveala fatta sua, rimase profondamente mortificata di questo cambiamento, ma col riserbo misto di dignità ch'era il fondo del suo carattere non si faceva scorgere e chiudeva in sè il suo dolore. Tanto inesperta da non prevedere ciò che era avvenuto, ella non [133] sapeva per anco, a malgrado della sua intelligenza, scoprire i mezzi di ripararvi. Non sapeva ancora che, mescolandosi agli studî ed alle aspirazioni di suo marito, divenendo un valido sussidio de' suoi lavori, ella avrebbe potuto riafferrare quell'amore che le fuggiva. Le afflizioni senza lamento non hanno nemmeno la sodisfazione d'essere intese dagli altri, o, se sono intese, porgono un facile appiglio a chi vuol far le viste di non avvedersene. Chi non si lagna non soffre, dice l'egoista, e chi ha la vita troppo affollata di occupazioni è spesso egoista. Il tempo che è la stoffa del lavoro e della produzione è anche la stoffa dei sentimenti. Se chi nulla fa nulla aggiunge al capitale materiale della società, chi non riposa mai non aggiunge nulla al suo capitale di gentilezza e di simpatia. A ciò gli economisti non hanno pensato.

«Non erano corsi due mesi dalle nozze, che Alberto e Giulietta vivevano in un'orbita diversa: egli tutt'inteso a' suoi studî; ella in una solitudine malinconica che lasciava buon giuoco ai pellegrinaggi della sua fantasia. Quantunque non ne andasse pazza, avrebbe gradito i piaceri delle sue coetanee: i teatri, le feste, i ritrovi geniali; ma suo marito o non aveva agio di condurvela, o conducendovela, si rincantucciava con tanto di muso in modo da toglierle tutto il divertimento. Nondimeno, ella avrebbe potuto passarsene. Spirito culto, riflessivo, tranquillo, ella anelava essenzialmente a quella felicità che nasce dal continuo scambio d'impressioni e di pensieri [134] tra due persone che si apprezzano e s'amano, e, sposandosi, aveva creduto che questa felicità non dovesse mancarle. Vedendosi delusa nella sua aspettazione, si trovava simile a chi s'accorge a mezzo il cammino d'aver smarrito la via, nè sa qual nuovo sentiero debba prendere per arrivare alla meta. Intanto compieva di per sè la manchevole educazione del chiostro, faceva disordinatamente, febbrilmente, accatastando lettura su lettura, gli studî ch'ella aveva sperati comuni con suo marito. Già libri non ne mancavano nella sua nuova dimora.

«Aveva, più che le abitudini, gl'istinti dell'eleganza, e abbenchè uscisse di rado assai, era sempre accuratissima nel vestito e nell'acconciatura. Questa sua innata eleganza ella aveva saputo infondere non in tutta la casa, ma in uno stanzino che era il suo nido, il suo tempio. Era uno stanzino appartato del primo piano a cui si giungeva anche per una scaletta laterale che da un andito contiguo metteva in giardino. Le pareti d'un azzurro chiaro erano fregiate di stucchi bianchi, e pure a stucchi era il palco leggiermente arcuato....»

La signora Anna si scosse e chiese:

— O come sapete voi tutti questi particolari?

— Oh bella! Me li ha detti l'amico. Ma vi prego di non farmi perdere il filo del racconto. La finestra del gabinetto (ve n'era una sola, ma grande) dava sul giardino cinto da un muro basso, e di là dal quale erano altri giardini più vasti, più signorili, con bellissimi abeti. In un punto la verdura era men fitta [135] e lo sguardo indovinava un ampio orizzonte. I mobili.... debbo parlare anche dei mobili?

— Come siete noioso! Lasciateli lì i mobili, e venite al punto.... O se non volete venirci presto, smettiamo, chè già capisco che non val la pena di continuare.

— Via, non v'impazientite. L'avete forse intesa ancora questa storia? A ogni modo dovete stare ai patti e lasciarmi dire. Sarebbe la prima volta che manchereste alla vostra promessa.

— È vero. Proseguite, ma senza digressioni.

— Sarà difficile, perchè non è mio costume. La mia fantasia va sempre caracollando e mai al galoppo. Ella ama far sosta qua e là, e cogliere i fiori pendenti dagli arbusti lungo la via: le corse precipitose alla Mazeppa non son fatte per lei.... Però torniamo a bomba, lasciando stare i mobili. Vi chiedo grazia soltanto per una biblioteca d'acero a lustro, piccina, graziosa, elegante, che era l'altare di quel tempietto, tutto silenzio e raccoglimento. La giovine vi teneva i suoi libri, una cinquantina di volumi al più, ma scelti e legati con ottimo gusto. Ed ella stava lì soletta le lunghe ore del giorno, ora leggendo, ora fantasticando alla finestra, certa, o quasi, di non veder giungere suo marito fino all'ora del pranzo. Visite ne faceva poche, e quindi poche ne riceveva, perchè le era troppo tedioso il sentirsi dire che una sposina non doveva fare una vita così ritirata, e perchè abborriva da quel sistema comodissimo che hanno tante mogli di lasciar sparlare dei loro mariti senza negare nè assentire.

[136]

«Il mio amico che abbiamo detto di chiamar Ugo non abitava la medesima città, ma veniva di tratto in tratto a visitare il suo compagno di studî, ed era accolto festosissimamente anche dalla Giulietta che vedeva una volta tanto una faccia aperta e gioviale. In quelle sue visite che non solevano durar più di tre o quattro giorni egli alloggiava sotto il tetto di Alberto, portandovi un soffio di vita, un'eco del mondo esterno a cui quella casa pareva chiusa del tutto. Ugo era elegante, frequentava i teatri, le società, e quindi non gli mancavano mai argomenti da discorrere. Figuratevi! Erano quelli i tempi della Pasta a della Malibran, della Norma e dell'Otello. La Giulietta, che amava tanto la musica, non aveva mai potuto persuader suo marito ad uscir per una settimana da quella loro misera cittadina di provincia e condurla a vedere gli spettacoli della capitale. Onde, quando Ugo gliene parlava, ella sentiva venirsi l'acquolina in bocca, e pendeva de' suoi labbri con una curiosità piena di emozione. Non c'è da maravigliarsi di questa parola. A que' tempi in Italia i trionfi musicali destavano un vero entusiasmo. Lo dissi già prima; non c'erano che due cose da fare: o cospirare, o divertirsi; o andare in carcere, o andare a teatro.... semprechè non si preferisse di andare in entrambi i luoghi. Alberto chiamava frivolezze questi discorsi, ma, in ogni modo, poichè egli aveva ottimo cuore, riceveva l'amico suo a braccia aperte, e quando questi gli diceva a tu per tu ch'egli aveva torto a trascurare sua moglie, giovine, bella, [137] adorna di tutte le virtù, gli dava un mondo di ragioni, scusandosi soltanto col pretesto delle sue mille faccende e della serietà de' suoi studi. Comunque sia, la presenza d'Ugo, ch'era forse uomo un po' leggiero, ma certo vivacissimo e pronto d'ingegno, era una vera provvidenza per quella casa. Per la Giulietta, egli non provava che una viva amicizia, e poi la sincera e devota affezione che lo legava ad Alberto avrebbe soffocato nell'animo di lui ogni altro sentimento. Quanto maggiore la sicurezza tanto maggiore la confidenza: confidenza fraterna, e quasi infantile.... Io non capisco, la mia cara amica, perchè andiate agitandovi sulla sedia, mentre non mi sembra di dir cosa che sia o possa parervi sconvenevole punto. Perciò vi supplico che ve ne stiate buona e tranquilla, poichè la mia eloquenza, per mantenersi, vuole il raccoglimento dell'uditorio.

— Siete un grande originale — rispose la signora Anna, sorridendo fuggevolmente. — E se vi dessi una tazza di tè, non mi risparmiereste la seconda metà della vostra storia?

— Accetto la tazza, ma continuo.

La signora Anna die' una scrollatina di testa come se volesse dir nuovamente: Che matto! e versò il tè al suo lepido interlocutore.

— Un giorno — riprese il signor Maurizio tra un sorso e l'altro — il mio amico arrivò in casa d'Alberto inatteso, e quindi più festeggiato che mai. Si deliberò di fare pel dì seguente (ch'era una domenica) una escursione a una villa poco discosta, e si [138] passò la sera pregustando il divertimento del domani. La Giulietta non era mai stata più ilare, nè Alberto più espansivo, nè Ugo più amabile....

— Ve l'ha detto lui?

— Sicuro!

— Beati gli uomini franchi!

— Al mattino del dì appresso (era in primavera avanzata, poco importa il mese) Ugo fu in piedi all'ora stabilita, e fece la sua toilette con grande accuratezza e sollecitudine vicino alla finestra aperta della sua stanza che dava anch'essa sopra il giardino. Faceva un bellissimo tempo: però l'orizzonte non era tutto sereno, e qualche nube percorreva il cielo con insolita rapidità a simiglianza di persona affaccendata. La moda di quarant'anni addietro, e voi lo sapete meglio di me, non era la moda dell'anno 1870, e se il mio amico vi comparisse dinanzi acconciato nella foggia di quel dì, voi non potreste certo trattenere una sonora risata. Un cappello di paglia con cupola alta e larghe tese orizzontali, un vestito color caffè con le maniche attillatissime e col bavero di smisurata altezza, una cravatta bianca che si attortigliava al collo come il serpente del Laocoonte, e che scendeva a riempire tutto lo sparato del panciotto chiaro di fondo e stampato di gran fioroni gialli, un paio di calzoni d'una tinta sentimentale stretti alla gamba ecco a un dipresso il figurino del mio amico in quel giorno memorabile. E in quel giorno, ve lo assicuro io, egli era bello, e aveva ben ragione di sorridere guardandosi nello specchio. La giovinetta che acquista [139] la coscienza della propria bellezza non può vincere un vago presentimento di arcani pericoli, e in mezzo all'orgoglio del sapersi regina chiede talvolta a sè stessa se il suo scettro non sarà bagnato di lagrime. Nei mille occhi che l'affisano, nelle mille labbra che si muovono a susurrarle una parola gentile, ella indovina un'insidia al suo pudore, alla pace dell'animo suo; insidia che tanto più la sgomenta quanto più le versa nel cuore un'incognita voluttà. L'uomo invece, a torto o a ragione, non è assalito da questi scrupoli: l'avvenenza è per lui un dono che non ha mistura d'amarezza; un sorriso non gli fa salire i rossori sul volto, uno sguardo non gli fa chinare la fronte. Nel suo aspetto raggiante è la gioia del dominio o la certezza della conquista; sulla sua bocca sta il grido di Schiller — Ich bin ein Mann, wer ist es mehr? Io sono un uomo, chi lo è più di me?

«Ecco ciò che Ugo, contemplandosi nello specchio, andava in quel mattino ripetendo a sè medesimo.

«Mise il capo fuori della finestra, aspirò a larghi tratti l'aria frizzante della campagna, e cominciò a solfeggiare la deliziosa romanza dell'Anna Bolena:

Oh! non voler costringere

A finta gioia il viso,

Son belle le tue lagrime

Siccome il tuo sorriso,

con quel che segue. Proprio sotto della sua finestra un'imposta si aprì, e un bel visino arrovesciato apparve sul davanzale. Era Giulietta.

[140]

« — Bravissimo — esclamò la giovane con quella sua vocina melodiosa ed insinuante.

« — Oh diamine! già vestita, — rispose Ugo balzando subitamente, senza saperne il perchè.

« — Ma certo; e già nel mio santuario — soggiunse Giulietta accennando al suo gabinetto da lavoro e da studio. — Quegli che non è pronto è Alberto, il quale, per miracolo, vuol terminare una scrittura prima di partire. Anzi dovreste fare una bella cosa, andare a sollecitarlo voi stesso; già a me non abbada. — Guardò l'orologio e disse. — Sono le sette e mezzo. Mi pare che bisognerebbe mettersi in carrozza fra un'ora. Andate, andate, — Fece un cenno garbato col capo, sorrise in modo da mostrare, certo senza volerlo, una doppia fila di denti candidi come l'avorio, e sparì.

«Vi sono cose curiosissime a questo mondo. Ugo aveva visto Giulietta un centinaio di volte, e la gli era sembrata, come a tutti, un'assai avvenente donnina; ma, bella come in quel momento, egli non l'aveva trovata mai. Del resto, bella o brutta, egli non ci aveva che fare. Si guardò un momento nello specchio, e scorse un leggiero rossore diffuso nelle sue guance; onde divenne ancora più rubicondo, perchè arrossì di avere arrossito. Nondimeno, obbediente al comando ricevuto, fece in quattro salti le scale, e andò nello studio dell'amico.

«Alberto era difeso da un intero sistema di fortificazioni. Aveva dinanzi a sè un tavolino su cui i libri stavano ammonticchiati l'uno sull'altro sino ad altezze [141] portentose; ai lati due scaffali pieni anch'essi di libri e di scartafacci. La poderosa persona era sprofondata in una scranna a bracciuoli assai bassa e larga, foderata di pelle nera, e tre o quattro sedie appoggiate al tavolino con le due gambe anteriori all'aria come persone svenute costituivano le opere avanzate della fortezza. Alquanto miope, egli teneva la testa china in modo da toccar quasi col naso la carta; con le dita sudicie d'inchiostro si carezzava i capelli che parevano acquistare a poco a poco delle dimensioni spropositate come il can barbone di Fausto.

«Ugo non potè trattenersi dal ridere quando entrò nella stanza. Ma Alberto non si scompose menomamente, e rivolto all'amico: «Vuoi udire — gli disse — questo passo d'una memoria sulla legislazione mineraria che debbo mandare stasera all'Antologia di Firenze? Io muovo dalla considerazione che il possessore del soprassuolo....

« — Senti — interruppe Ugo — la tua considerazione sarà giustissima, ma mi pare che non sarebbe mal fatto di rimettere la legislazione mineraria ad un altro giorno, e di disporsi alla partenza. Si fa, o non si fa questa gita?.... Ebbene: che cosa c'è?

« — Nulla, nulla — rispose Alberto, sollevando alquanto il capo e ravviando la chioma disordinata — penso alla grande mutazione che si è fatta in te da qualche tempo a questa parte. Tu non ti appassioni più per niente, e basta discorrerti di una questione seria perchè tu mi scappi di mano come un'anguilla. O dove sono i bei giorni nei quali si passavano insieme [142] lunghe ore a ragionare de' nostri studi? Allora si trovava pur la maniera di vincere il tuo scetticismo. Lasciatelo dire... tu ti sciupi, l'aria della città ti fa male, la vita elegante ti ammazza l'intelligenza, gli amici scipiti ti riducono al loro livello....

«Così dicendo tuffò la penna d'oca nel calamaio, e poi la portò con tanto impeto sulla carta che ne cadde una grossa goccia d'inchiostro, la quale imbrattò tutto il foglio. Con la rapidità del lampo, Alberto vi corse sopra con la lingua, locchè finì col dare a quella macchia l'aspetto di una stella cometa.

« — Grazie pe' miei amici, che sono, o erano almeno, anche i tuoi — disse Ugo con un grande inchino. — E a proposito di che mi fai questa patetica perorazione? Io capito qui a ricordarti un impegno che hai preso iersera con me e con Giulietta... capito anzi per ordine di lei...

«Alberto fece una piccola smorfia col labbro, tantochè l'altro soggiunse:

« — Non ti darà noia, spero a sentirti parlar di tua moglie?

« — Hai ragione, hai ragione: il torto l'ho io che mi sono ammogliato... E non mica per lei — continuò poscia in un tuono di onesto candore — ...... non mica per lei che è un angiolo, ma per me che non ero fatto pel matrimonio. Ho bisogno di studiare io, ho bisogno di farmi una riputazione.... altro che di andare a spasso con donne.»

La signora Anna si morse le labbra, e proruppe:

— Proprio così diceva?

[143]

— Proprio così. Vi fa maraviglia forse?

— Punto, punto: continuate.

Il signor Maurizio non se lo fece ripetere un'altra volta e riprese.

« — Ma Ugo era invece un uomo estremamente compito, e lascio pensare a voi se rimproverò il suo amico di queste sue parole. Fatto si è che, a capo di cinque minuti, Alberto che s'era ritto in piedi ed era uscito fuori delle sue fortificazioni, pose una mano sul braccio di Ugo (che la sbirciò con inquietudine per vedere se fosse sporca d'inchiostro) e concluse così il suo discorso: «Fammi questo piacere; sinchè io termini di scrivere, e in meno d'un'ora spero d'essere sbrigato, va a tener compagnia alla Giulietta, e pregala che mi scusi, e dille che dopo verrò con voi altri, e staremo tutta la giornata di buon umore. E non si parlerà più di cose serie....»

«Le ultime parole furono pronunciate spingendo leggiermente Ugo verso l'uscio, tantochè questi capì l'antifona, e se la svignò.

«Egli si avviò per un corridoio che conduceva ad un salottino, dal salottino passò in un'altra stanza, ascese pochi gradini, e si trovò dinanzi a un gabinetto che aveva l'uscio aperto. Era quello il soggiorno preferito da Giulietta. Ella sedeva con un libro in mano volgendo il dorso alla porta in modo da non poter vedere chi entrava. Però, al suono dei passi d'Ugo, girò rapidamente la testa, si fece rossa, e disse:

« — Oh! siete qui?

[144]

« — Appunto; e non dovevo rendervi conto della mia ambasciata?

« — È vero: e dunque?

« — Vuol finire un lavoro, ma promette che in un' ora sarà sbrigato.»

«Giulietta scrollò leggiermente le spalle in atto di impazienza, mormorando: « — Sempre così.»

«Vi fu un momento di silenzio, durante il quale Ugo fisò uno sguardo abbastanza lungo sulla simpatica donnina. «Vergini e spose, griderei io, se per avventura fossi un predicatore, diffidate degli sguardi lunghi. Gli occhi che cominciano a guardare con curiosità finiscono a guardare con desiderio e allora...» Ma qui non siamo in chiesa, e posso risparmiarvi il sermone. Vi dirò piuttosto che la mia Giulietta, sempre cara e leggiadra, era quel giorno più seducente che mai. Ella indossava un abito di mussolina lilla, col corpetto tagliato sul davanti dell'incollatura e guernito intorno intorno di una trina sottile e candidissima, la quale armonizzava col roseo della fresca carnagione. Una lista di raso violetto oscuro, movendo dal punto in cui si chiudeva il corpetto, scendeva sino alla cintura snella, attillata e stretta da un nastro della medesima stoffa e del medesimo colore: indi bipartivasi, e così divisa in due si prolungava sul dinanzi fino alla base del vestito. Le maniche erano secondo la moda d'allora, rigonfie nel mezzo e strettissime ai polsi. Ella era calzata....»

— Per carità, Maurizio, si direbbe che aveste copiato un figurino — interruppe la signora Anna.

[145]

— Se non volete saperne della calzatura, mi permetterete almeno di parlarvi dei capelli, neri, lucidi, e fini ch'erano una maraviglia a vedersi. Essi non erano imprigionati in una di quelle bizzarre acconciature che si usavano allora, ma si sollevavano a buffi sul fronte, per ricader poscia dietro la nuca in apparente disordine e avvolgersi intorno ad un bel pettine di tartaruga, così piccino ch'io non so — diceva il mio amico — come esso potesse essere argine sufficiente a quel mare in tempesta. Un bocciuolo di rosa che era tra i primi della stagione, colto forse il mattino stesso da una pianticella precoce, faceva capolino al lato sinistro poco sopra l'orecchio, staccandosi con leggiadro contrasto dalla tinta delle chiome d'ebano. In verità, avere una sposa così, e preferirle la legislazione mineraria come faceva il nostro amico, è un peccato imperdonabile, pel quale non v'è al mondo sufficiente penitenza.

« — Ebbene, prendete una sedia — disse Giulietta — e fatemi un po' di conversazione. Se no, io finisco col perder l'uso della parola... Non siete mica dotto voi? — soggiunse poscia con una specie di sgomento infantile.

« — Non sono davvero — rispose Ugo sorridendo. — Ma, perdonate, non ista a voi di mostrarvi tanto sospettosa della dottrina, cinta come siete da biblioteche e, quel che più vale, con un libro in mano....

In fatti ella aveva sulle ginocchia un volumetto socchiuso sull'indice, nell'atto di chi interruppe solo momentaneamente una sua lettura.

[146]

« — Ah! questo libro — ripigliò la giovine — è un libro anche per voi che siete poeta.

«E glielo porse aprendolo appunto alla pagina su cui teneva il dito.

«Ugo lesse.

«O mes lettres d'amour, de vertu, de jeunesse,...»

« — Les feuilles d'automne; una primizia — disse poi continuando a leggere.

« — Una primizia affatto. L'ebbi ieri dal libraio. Io non me ne intendo, ma mi pare tra le più belle cose di Vittore Hugo. Ma quel mio benedetto Alberto non ci ha gusto per questa roba: ha sfogliato il libro in fretta e in furia, e poi lo gettò in un canto senza che si capisse se gli sia piaciuto sì o no.

« — Ha torto.

« — Non è vero? — proruppe vivamente Giulietta — ha grandissimo torto, perchè la poesia, quando è bella, è qualche cosa che tocca l'animo e ci fa più grandi e più buoni. Vedete; io non so stancarmi di leggere quei versi che vi stanno sotto gli occhi, e (mi direte fanciulla) ho frugato nei miei vecchi quaderni, e provai quello che prova il poeta....

« — Sì, ma egli richiama i suoi diciott'anni, e voi, se è lecito investigare l'età di una donna, li avete appena sentiti suonare....

« — Forse — rispose Giulietta — ma in noi la vita è più precoce, e i nostri quattordici anni corrispondono ai vostri diciotto. O le soavi fantasie, o i cari sogni de' miei quattordici anni! Lungo i corridoi del [147] convento, nel giardino, sotto il pergolato, a braccietto d'un'amica o in frotte di cinque o sei seguite a stento dal passo grave e ammonite invano dalla voce nasale d'una monaca gialla e stecchita; che schietta allegria, che ridda irrequieta di speranze, di desiderii, d'affetti! Come si deludeva la disciplina claustrale, come si subiva senza rancore e senza tedio quella sequela interminabile di pratiche religiose che ci erano imposte! La campana del convento veniva ad ogni tratto a interrompere il corso dei nostri pensieri ma non ne lacerava la tela. Le fantasie accarezzate dell'anima sotto i rami frondosi delle acacie e dei carpini, mentre il vento mormorava, e gli uccellini, cantando, saltavano d'arbusto in arbusto, ci seguivano poscia pei bruni corridoi e sui rustici banchi della chiesa. Nelle penombre delle ampie navate, nel raggio di luce che, scendendo dal finestrone a colori, andava a spezzarsi sul fusto d'una colonna o sugli angoli d'un confessionale, c'era un mondo misterioso ed affascinante che riempiva di sè il nostro spirito, che ci faceva sorridere e piangere quasi tutto ad un tempo. Le labbra mormoravano intanto la solita salmodia, ma la mente era altrove, il prete cantava messa, ma noi stavamo più compunte di viso che d'anima. E, si sospirava alla cara libertà, e al calar della sera, guardando il muro che ci contendeva tanta parte dell'orizzonte, si gridava tra noi fanciulle — O non cadrà mai quel maledetto muro, o non potremo mai andare dove ci piace e adoperare a pro di qualche cosa e di qualcheduno tutto quello che sentiamo qui dentro?

[148]

— E chi avrebbe voluto esser Giovanna d'Arco, e chi santa Teresa, e chi Laura o Beatrice, perchè, di contrabbando, erano entrati in convento Dante e Petrarca, e, Dio cel perdoni, anche l'Ariosto....

«Giulietta s'interruppe un istante, arrossì leggermente e poi ripigliò: — E si diceva: la bella cosa che dev'essere l'avere un poeta che sia tutto per voi, e vi scriva de' versi che passeranno all'immortalità; onde, dopo tanti secoli il vostro nome confuso col nome di lui ricorra frequente su mille labbra gentili e faccia piangere de' cari occhi malinconici! E come dev'esser bello il morire per esso, lo spirare l'ultimo fiato fra le sue braccia!... oh insomma quante deliziose sciocchezze si dicevano in quel tempo!...

«La giovine, discorrendo, si era accesa singolarmente nel volto e l'ondeggiare delle bianche trine sul petto mostrava quant'ella fosse agitata.

«Ugo non sapeva che rispondere, perplesso dinanzi a questa volubile facilità di parola, ma guardava trasognato la sua interlocutrice che gli appariva sotto una luce affatto nuova.

« — E in quell'età — proseguì ella, abbassando la tendina per ripararsi dal sole che cominciava ad entrar nella stanza — in quell'età la penna corre spontanea sulla carta per riprodurvi le idee che vi germinano nella mente, spesso puerili, ma più spesso generose; maligne giammai, poichè a me pare che il tempo della malignità principî quando si principia a dubitare di sè. Credere in sè medesimi vuol dire credere anche negli altri..... — Tacque un momento, [149] giocherellò col fiocco della tendina, quindi bisbigliò a mezza voce... — E poi?

«Ugo, sempre più attonito, insinuò timidamente: — O sareste divenuta scettica, così presto?

Ella scosse il capo con una certa espressione di tedio, e disse: — Che so io?... vorrei vedere l'effetto che produrrebbe ad uno il diventar più piccolo della persona, se mai questo fenomeno fosse possibile. Io tengo per fermo che sarebbe un effetto analogo a quello che si prova nel sentirsi diminuir l'animo e l'ingegno. Ciò accade a me. Sì, sì; non istudiate una galanteria; ciò accade a me con una progressione che mi sgomenta. La mia immaginazione s'è fatta sterile, il mio cuore alberga dei rancori, dei sospetti che un giorno non avrebbero potuto allignarvi.

« — O Giulietta — proruppe Ugo — voi sposina di pochi mesi, voi che avete raggiunto ciò che dev'esser l'ideale di una fanciulla par vostra, unendo la vostra sorte alla sorte d'un uomo degno di voi, avete già di questi scoramenti nell'anima?

«Ella sorrise tristamente, dicendo:

« — Ma sono scorata appunto perciò, appunto perchè, avendo conseguito ciò che dovrebbe essere la felicità, mi sento oppressa da una malinconia nuova e invincibile. Ho unito la mia sorte a quella d'un uomo che avrebbe onorato del suo nome ben altra donna che me. Eppure, che sono io nella sua vita? Ho io saputo prendere il posto della più piccola fra le sue ambizioni?... O miei poveri sogni, come siete svaniti! — E accompagnò la frase con quel gesto [150] della mano, e quel movimento delle labbra con cui suolsi accennare a una cosa che sfuma.

«Io vorrei pigliare a quattr'occhi il più virtuoso uomo che vi sia sulla terra, intendiamoci bene, un uomo che abbia vissuto, e che in omaggio a una virtù ideale non abbia soffocato tutte le proprie passioni, vorrei avere sovr'esso una potestà che lo inducesse a nulla celarmi, e vorrei chiedergli quale effetto egli proverebbe sentendo una donna attraente e leggiadra lagnarsi, in un istante di soave abbandono, della sua esistenza coniugale. Scommetto cento contr'uno ch'egli mi risponderebbe che nella sua prima impressione vi fu un lampo di gioia satanica. Egli l'avrà prontamente repressa, io l'ammetto, e qui sta la differenza tra l'uomo onesto e chi non è tale; ma non avrà potuto far sì che quelle rivelazioni non lusingassero il suo amor proprio, non gli aprissero l'anima a una speranza colpevole. Questa donna che vi mette a parte delle sue sofferenze ha dunque un alto concetto di voi, questa donna che vi parla del vuoto del suo cuore crede dunque che voi potreste riempirlo!... Mia cara amica, Ugo era virtuoso, ma uomo... Ed ora permettetemi di prendere un'altra tazza di tè.»

La signora Anna si era fatta pensosa: appoggiando il gomito al tavolino sosteneva con una mano il capo, e con l'altra moveva macchinalmente le forbici che le stavano dinanzi.

— E non potreste venire a dirittura alla morale della vostra storia?

— Oibò, oibò — rispose il signor Maurizio aprendo [151] la chiavetta della macchina e chinandosi alquanto a guardar con occhio di compiacenza lo spillo dorato che si precipitava nella tazza. — Protesto contro chi mi volesse togliere la parola. — E continuò: — Ugo era virtuoso ma uomo, ho detto poco fa. E quello stato cominciava a riuscirgli piuttosto imbarazzante. D'altronde a una certa età vi è una paura che assedia l'uomo: è la paura d'essere ridicolo. Ora, prendetevela col mondo finchè volete, ma non vi è dato negarmi che un giovinotto il quale si lascia sfuggire il destro d'insinuarsi nell'animo d'una bella donna passa per ridicolo presso alla grande maggioranza de' propri simili.

« — Povera Giulietta! — egli mormorò dolcemente avvicinandosele alquanto.

«Ella lo guardò, e poi gli chiese:

« — Non sarete mica così se prenderete moglie voi?

« — Se trovassi una Giulietta, no certo.

«La giovine si fece rossa rossa e vi fu un istante di silenzio. Indi balzò subitamente dalla sedia e disse:

« — Scendiamo in giardino. Sentite come fa fresco.

«Ugo la precedette officioso nell'andito, aprendo per lei l'uscio a vetri che dava sulla scaletta. Scesero entrambi.

«Ai due pilastrini dell'ultimo gradino erano due vasi di geranii. Giulietta si abbassò con la persona ad odorarne i fiori cosparsi di rugiada: i capelli bruni le svolazzavano sul collo candidissimo, le trine ondeggianti lasciavano indovinare allo sguardo le curve dilicate [152] del seno. Una panchina di marmo si trovava all'altro capo del giardino sotto un padiglione d'acacie. Giulietta prese là via più breve per giungervi, attraverso un praticello smaltato di margherite: l'erba era umida, ond'ella raccolse le vesti, e le tenne sollevate alquanto sopra il piede. Si assise sulla panchina e Ugo le fu vicino. Di repente cominciò a soffiare un vento gagliardo, e delle grandi masse di nubi si videro avanzarsi rapidissime sull'orizzonte. Il sole brillava per poi tornava a nascondersi un istante in uno squarcio azzurro del firmamento, poi faceva capolino di nuovo, sinchè scomparve del tutto. Gli alberi dondolavano il capo con un gemito sordo, la polvere saliva con un moto turbinoso, le gallinelle sbucando dai cespugli correvano sbigottite a ripararsi nel pollaio. Ugo e Giulietta si affrettarono a rientrare in casa: stettero in forse se prendere un'altra scaletta che metteva allo studio di Alberto, ma questi comparve sulla soglia per assicurare le imposte sbattute, e fe' loro segno che lo lasciassero ancora un poco tranquillo. Onde ritornarono dond'erano venuti, con una mano tenendosi uniti, con l'altra facendosi scudo agli occhi contro la polvere. Quand'ebbero salito i pochi gradini che conducevano al gabinettino di Giulietta, si volsero indietro un istante come per guardare l'insieme dello spettacolo.... Io non so se tutti lo provino, ma mi sembra che il trovarsi all'aperto allo scoppiare d'un uragano abbia un fascino indescrivibile... Si direbbe che la vita fisica si raddoppi. Spirar quell'aria frizzante e piena d'elettricità che v'investe la persona e gli abiti, veder tutte [153] le cose mutar tinte e contorni secondo l'oscurarsi o schiarirsi del cielo, e il rabbonire, o l'imperversare del vento, essere, insomma, in mezzo a tutta quella commozione della natura, vi fa provare, non so perchè, un senso d'orgoglio. È un orgoglio irragionevole, lo capisco, perchè in fin dei conti non si compie menomamente un atto di coraggio, ma non sarà la sola cosa di cui non si possa rendersi ragione a questo mondo.

«I due giovani non poterono rimanere a quel mondo che pochi secondi. La temperatura s'era fatta più rigida, il cielo più buio, la pioggia sembrava imminente, e anzi aveva principiato a caderne qualche grossa goccia isolata. Si ritirarono di nuovo nello stanzino di Giulietta, e si posero un istante al davanzale della finestra, rapiti in apparenza nella scena che avevano dinanzi agli occhi, ma in fatto assorti in ben altri pensieri. Pure nemmen lì poterono trattenersi, quantunque agli ultimi lembi dell'orizzonte ricomparisse il sereno, e la pioggia avesse cessato; tanta era ancora la furia del vento.

« — Che tempo indemoniato! — disse Giulietta con un accento di vaga inquietudine.

«E si ritrasse alquanto.

« — È vero, — rispose Ugo seguendola.

«La finestra si chiuse con impeto e poco mancò che le impannate non andassero in frantumi. La rosa che Giulietta aveva intrecciata ai suoi capelli cadde a terra col gambo spezzato. Si chinò a raccoglierla, ma Ugo era stato più pronto di lei e l'aveva ghermita, [154] dicendo: — Lasciatela a me. — Intanto l'uscio, che fino a quel punto aveva serbato un'assoluta neutralità, si serrò per propria iniziativa con grande furia e fracasso.

«Giulietta si scosse impaurita, tanto che il suo compagno stimò opportuno di sorreggerla.

«Ella si svincolò, e disse con voce rotta e velata: — O Dio, si soffoca. — Fece alcuni passi verso la porta, smarrita, confusa; poi si arrestò ad un tratto e ruppe in un pianto dirotto.

« — Giulietta, Giulietta, che avete mai? — esclamò Ugo correndo a sostenerla.

«Fece un debole tentativo per allontanarlo da sè, ma quindi ristette come persona sfiduciata delle proprie forze e si lasciò condurre sul divano.

« — Giulietta, Giulietta, perchè piangete? — continuò a chiedere Ugo, piegandosi su di lei, e sfiorandole con la bocca i capelli.

«Ella sollevò alquanto il viso, egli si abbassò un poco di più: le loro mani s'erano intrecciate, le loro labbra stavano per toccarsi; quand'ecco... il più virtuoso e impertinente raggio di sole che si sia mai cacciato nei fatti altrui inondò d'un tratto la stanza.

«Una bomba che scoppia in mezzo a un gruppo di soldati non produce un effetto più subitaneo. Quasi nello stesso punto Giulietta ritrasse il viso vergognosa, sgomenta, supplichevole, e Ugo, rizzandosi con la persona, lasciò andare la mano di lei ch'egli teneva nella sua mano. Molti e molti anni dopo egli mi confidava i pensieri che gli erano passati [155] nell'anima in quell'istante solenne. Vi sono di questi momenti che decidono dell'avvenire, e nei quali le impressioni più disparate si succedono, si accumulano, si combattono nella mente con la rapidità della folgore, lasciandovi un solco che il tempo non potrà cancellare. E abbenchè la vecchiezza inesorabile lo abbia raggiunto, infiacchendogli le membra, imbiancandogli la chioma, Ugo rivive ancora a quei sentimenti, a quelle impressioni. Egli la vede ancora, la donna bellissima, com'ella era in quel giorno, spaventata, indifesa contro le seduzioni che ella infantilmente aveva evocate, la vede ancora con la chioma disordinata, con gli occhi pieni di lacrime, di voluttà, di terrore, con le labbra scolorite, tremanti, che parevano dire: — Se tu non hai pietà di me, io non ho più forza per resistere. — Ugo rammenta ancora la lotta breve ma terribile ch'egli dovette durare, quando a fronte della sperata ebbrezza dei sensi, egli pensò all'ignominia di cui stava per macchiarsi sorprendendo la virtù di una soave ed ingenua creatura, al disprezzo eterno ch'egli avrebbe provato di sè medesimo se avesse tradito l'ospitalità di un amico d'infanzia, al lutto che sarebbe piombato per colpa sua in quella casa. Due voci gli parlavano al cuore: l'una gli diceva — osa — l'altra lo ammoniva — fuggi. — Beato lui che udì la voce più onesta, beato lui che, composto il volto a una dignità dolce a un tempo e severa, potè fisar con ferma pupilla la smarrita giovinetta, e prendendole ambe le mani, esclamar — Perdonate. — Uscì frettoloso [156] di quella stanza senza più guardar indietro a sè, e sceso nello studio dell'amico suo subì pazientemente la lettura della sua memoria sulla legislazione mineraria, facendo le viste di approvarla quantunque avesse ben altro pel capo. Il tempo minaccioso aveva fatto metter da parte la gita ideata, onde Ugo ed Alberto s'intrattennero a lungo di vari argomenti. Non oserei dire che le risposte d'Ugo fossero tutte a proposito, ma l'altro era così dolcemente maravigliato di poter discorrere de' suoi soggetti favoriti che non s'accorgeva nemmeno delle distrazioni del suo interlocutore. Il fruscio d'una veste femminile interruppe quel colloquio, e una vaga e spigliata personcina comparve sulla soglia. Era Giulietta. Ugo impallidì, ma quand'ebbe posto gli occhi sulla donna leggiadra, vide ch'ella non serbava più traccia del passato turbamento, ch'ella era tornata la semplice e leale Giulietta del tempo addietro. E si propose di non esser da meno di lei. Ella si fece strada in mezzo a quella grande confusione di seggiole, e venne direttamente verso suo marito che, infatuato nella discussione com'era, avrebbe avuto una voglia matta di corrucciarsi, ma fu disarmato dalla bellezza di lei e da un certo che di malinconico che v'era nel suo sorriso.

«Giulietta pose una mano sulla spalliera della seggiola e guardando gli scartafacci pieni di scancellature che stavano in disordine sul tavolino, chiese:

« — Si potrebbe sapere che cosa hai scritto di bello questa mattina?

[157]

«Egli si girò con mezza la persona, e fisando sua moglie con faccia sorridente, le porse l'ultimo foglio che aveva vergato, e le disse:

« — Guarda.

« — Oh, Dio buono — esclamò Giulietta — chi vuoi che possa capir nulla in mezzo a tutti questi sgorbi?

« — E bisogna pur che capiscano — rispose Alberto — perchè questo manoscritto, come tu lo vedi, deve andare a Firenze.

« — Impossibile, impossibile; ce ne va di mezzo il tuo decoro.

« — Carina mia, convien fare di necessità virtù. Sai pure che non ho segretario.

«Giulietta si chinò verso suo marito, e bisbigliò a mezza voce:

« — E se mi provassi io medesima a copiare questi tuoi geroglifici? Tu lodavi tanto la mia calligrafia.

«Alberto la guardò trasognato.

« — È la prima volta che tu mi fai una di queste offerte.

« — Perchè è la prima volta che tu mi fai una di queste confidenze.

« — Ma parli proprio sul serio?

« — Serissimamente.

«Alberto, egoista come tutti gli uomini affaccendati, non se lo fece dire due volte, ma dando anzi una più larga interpretazione alle parole di lei, soggiunse vivamente:

«Sei la più cara e gentile sposina del mondo. Dunque sarai proprio il mio segretario?

[158]

« — Veramente non avevo detto questo — osservò ella con grazia — ma, insomma, non voglio dire di no.

« — Ah mio caro Ugo — proruppe Alberto fuori di sè per la contentezza — quando tu capiti in casa mia ogni cosa mi va a seconda.

«Ugo scrollò le spalle un po' infastidito da questo complimento, e la Giulietta si fece di porpora. Ma Alberto, da buon marito, non vi pose mente, e fu per tutto il giorno d'una festività insolita ed esemplare, manifestata in ispecial modo nella disinvoltura con cui lasciò mettere in canzone da Ugo i suoi difettucci d'erudito. E in Ugo, lo si vedeva a mille miglia, l'allegria non era mica di schietta lega. Mordace per indole, egli condiva in quella occasione i suoi frizzi con qualche granellino di dispetto. Bisogna scusarlo. Certo egli si era levato con onore da una grande difficoltà, certo egli doveva, per esser imparziale seco medesimo, confortarsi nel plauso della propria coscienza; ma via, siamo sinceri, alla sua età non son già quelle le vittorie che si accolgono con entusiasmo. A quella guisa che le città non fanno luminarie per ricevere un esercito il quale si sia ritirato spontaneamente da un assedio ingiusto, i giovinotti di venticinque a ventisei anni non menano troppo scalpore d'un'avventura lasciata andare per riguardi di moralità. Malissimo, direte voi, e avrete ragione; ma il mondo è così e non lo si cambia.

«Si accomiatò da Giulietta con una cordialità senza affettazione e con un riserbo senza imbarazzo. Aggiunger [159] parole sarebbe stata una goffaggine, e nè dall'una parte nè dall'altra si fece allusione all'accaduto.

«Però Ugo lasciò scorrere parecchi mesi prima di rivedere i suoi amici, per quanto Alberto lo sollecitasse con lettere frequenti, e si maravigliasse del suo strano contegno. Finalmente, non senza peritanza, cedette all'invito. Alberto era sempre lo stesso; espansivo, affettuoso, ma in pari tempo pieno di sè, e de' suoi studi, e della sua crescente riputazione, e beato di poter lasciar sdrucciolare fuori delle tasche del soprabito o dei calzoni le lettere degli uomini illustri che mantenevano seco una corrispondenza epistolare. Giulietta invece appariva grandemente mutata. Forse ella era meno florida e men bella di prima, ma una calma più soave le si diffondeva sul volto; forse il suo sguardo era meno affascinante, ma più fermo e più sicuro. Si capiva ch'esso non ondeggiava più fra cento immagini vaporose e sfumate, ma mirava invece a una meta, a uno scopo.

«Stava assai di rado nel suo antico salottino, e invece soleva trattenersi lunghe ore nello studio di Alberto che ormai aveva bisogno di lei. E quello studio aveva cangiato interamente aspetto. Non v'era più lo spaventevole disordine del tempo addietro, nè le sedie con le gambe all'aria, nè i libri sparsi in confusione sulla tavola come le rovine d'una città devastata, nè la parete tutta piena di macchie d'inchiostro. Un occhio attento, una mano discreta avevano saputo riparare a questi guai, e rimettere i libri nei [160] loro scaffali, e ridar pace e simmetria alle sedie, e regolare i bruschi movimenti della penna di Alberto che quando si trovava fra le sue dita aveva un fremito nervoso e mandava spruzzi d'inchiostro da tutte le parti. Insomma in quella stanza si sentiva il soffio vivificatore della donna.

«E la donna c'era; raccolta, composta, per lo più taciturna, quantunque serena; ella era lì aiutando suo marito senza ostentazione e senza pedanteria, e assegnando a sè una parte femminile e modesta; quella del buon angelo della casa. Il suo ingegno naturalmente perspicacissimo s'era nudrito di nuove cognizioni vivendo in quell'atmosfera di studi; ma ella non lo lasciava parere, e nulla aveva perduto della semplicità d'una volta.

«Allorchè il mio amico fu per prender congedo, Alberto gli strinse la mano, e gli disse:

« — Fra sette mesi ci sarà una persona di più in casa nostra. Ricordati che tu devi esser padrino al neonato.

«Ugo esitò un istante, ma quando s'incontrò nello sguardo calmo e sicuro di Giulietta capì che il passato era svanito per sempre, che quel cattivo quarto d'ora non sarebbe mai ritornato. Se la sua vanità fu punta, la sua coscienza ne rimase più tranquilla, e rispose di sì.... Ah, cara Anna, ma se non ci fosse stato quel raggio di sole?... Oh! nel corso della sua vita ormai lunga e volgente al suo termine, se sapeste quante volte l'amico mio si è indirizzato questa domanda; se sapeste quante volte egli ha benedetto [161] quel raggio di sole che salvò lui dalla colpa e una cara persona dall'onta, che gli permise di guardare l'amico suo senza vergogna e di stringergli la mano senza rimorso.»

La signora Anna, ch'era stata silenziosa ed immobile per alcun tempo, si scosse, e disse con una certa emozione.

— Ma al vostro amico non è mai venuto in capo che la virtù di quella donna potesse resistere anche senza l'aiuto d'un raggio di sole? Egli la stima sì poco da voler ascrivere a un caso fortuito s'ella non macchiò il suo onore, s'ella non tradì la sua fede?

— Cara Anna — rispose il signor Maurizio — voi avete nella vostra piccola biblioteca un romanzo ch'è tra i più belli che si pubblicassero in questi ultimi anni, Monsieur de Camors. Rileggetevi l'episodio della signora Lescande, buona, vereconda, tenerissima di suo marito, eppur così miseramente caduta. Non sempre la purezza dell'animo e la severità dei principi bastano a salvare la donna, che è tanto meno preparata alla difesa quanto più è inconscia del male. La donna sregolata cerca la colpa, ma s'avvede quand'ella viene; la donna onesta la fugge, ma non riconoscendo nè gli aspetti ch'ella riveste, nè le sorprese ch'ella prepara, la incontra talvolta per via allorchè stima d'esserne le mille miglia lontana. Date per compagna alla virtù una operosità feconda e contenta di sè, e ne avrete fatto una rocca inespugnabile.

— Or via — disse la signora Anna con un garbato movimento del capo, e prendendo la mano al [162] suo interlocutore — or via, gettiamo la maschera. Voi avete voluto darmi una lezione rifacendo, un po' a vostro modo, una storia di quarant'anni addietro. La mia memoria è meno felice della vostra, e vi confesso che molti degli incidenti da voi narrati, o mi sono sfuggiti, o non mi sembrano d'una scrupolosa esattezza. Nondimeno, la lezione io me l'ero meritata, e ve ne ringrazio. La Giulietta di cui parlate può avere avuto un momento di debolezza, ma non ebbe e non avrà mai riluttanza a confessare i propri errori. La Dio mercè, essi non sono di quelli che hanno bisogno d'esser ravvolti d'un pietoso mistero. Ella non si rammentava d'essere stata salvata da un raggio di sole, ma si rammenta bensì che non trovò la pace dell'animo finchè non diede uno scopo alla propria esistenza, un sicuro indirizzo ai propri pensieri. È vero, Maurizio; sotto la vostra buccia di scettico si nasconde un animo nobile ed elevato, e non è la prima volta ch'io debba far tesoro dei vostri consigli. È vero, i pericoli che minacciavano Giulietta quarant'anni fa, minacciano forse oggi Evelina, e non tutti gli uomini possono aver la lealtà del vostro Ugo...

— Dite piuttosto che non sempre capita un raggio di sole così a proposito.

— Non ischerziamo: lasciatemi credere piuttosto che i due personaggi del vostro racconto avevano entrambi abbastanza virtù da arrestarsi sull'orlo del precipizio....

— Ma di che diamine andate discorrendo da mezz'ora [163] a questa parte? — saltò a dire il professore Everardo che aveva chiuso in quel punto una sapientissima dissertazione sull'habeas corpus inglese, e che finalmente stava per alzarsi dalla seggiola.

— Oh bella — rispose sorridendo il signor Maurizio — si discorreva d'un milione di cose. E si diceva, oltre al resto, che il marito della tua nipote ha un grandissimo torto.

— E quale, di grazia? — soggiunse Everardo, avvicinandosi.

— Quello di somigliarti;... di ricordarsi di tutto, fuorchè di avere una moglie.

— Ma io di mia moglie me ne sono ricordato.

— Ah sì — interpose la signora Anna — da quando ella si è risolta a farti da segretario.

— E perchè Evelina non potrebbe far lo stesso con suo marito?

— Lo farà, lo farà: vedrò io medesima di persuaderla. Me ne ha consigliato Maurizio.

— Pare impossibile — osservò il Professore — Maurizio con quell'affettazione di spensieratezza ha sempre de' buoni consigli da dare.

— Sicuro, e se fossi stato in tempo di darne uno a te e a tuo nipote, vi avrei dato quello di non prender moglie.

— E perchè?

— Perchè siete bravissime persone, arche di scienza, membri di più accademie, insigniti di più ordini, ma non siete nati per fare i mariti. Via, non ti corrucciare — concluse il signor Maurizio, levandosi da [164] sedere, e mettendo una mano sulla spalla del professore Everardo — gli uomini grandi vedono troppo di lontano, son presbiti, e invece per esser mariti bisogna veder da vicino, esser miopi.

— L'ho sempre detto anch'io — osservò con gravità il commendatore Brullo, aspirando una grossa presa di tabacco.

— C'era da scommettere — borbottò il signor Maurizio — che l'aveva detta lui anche questa!

Il dottor Belgini, imperturbabile come Farinata degli Uberti, disse dopo essersi raschiato in gola:

«Del resto, caro professore, io non sono certamente della vostra opinione sul carattere e le origini dell'habeas corpus....

La signora Anna guardò alla sfuggita l'orologio e stimò opportuno di chiamare a raccolta:

— Signor Belgini, del vostro habeas corpus parlerete un altro giorno: intanto, se non vi dispiace, venite tutti a bevere una tazza di tè.

Si avvicinarono al tavolino, e con dottrinale posatezza sorbirono la bibita aromatica preparata dalla padrona di casa.

Nell'uscire, Maurizio si fece all'orecchio della signora Anna e in tuono semiserio le disse:

— Ricordatevi del raggio di sole.

[165]

LA GAMBA DI GIOVANNINO

Io non avevo nulla di serio da rimproverare all'Adele....

(Prego il lettore di credere che non sono io, autore, che parlo; in quanto a me, quest'Adele non la ho conosciuta nemmeno di vista. Parla il signor Roberto Cefali, ingegnere e possidente, marito della signora Adele).

Io non avevo nulla di serio da rimproverare all'Adele; l'Adele non aveva nulla di serio da rimproverare a me, ma non potevamo soffrirci. Ossia, bisogna esser giusti, ero io che non potevo soffrir lei; l'Adele era così flemmatica da non esser nemmeno capace di una vigorosa antipatia. Discorrendone co' miei amici, io la chiamavo poggiapiano, non già perchè la credessi fragile. Dio guardi, ma perchè nel muoversi, nell'aprir la bocca, la mi aveva sempre l'aria d'una persona che ha paura di romper qualche cosa.

Confesso ch'ero un giovine alquanto leggero; m'ero ammogliato spensieratamente e adesso mi atteggiavo a vittima del matrimonio. Alla mia età, col mio ingegno (scusate la modestia), col mio titolo di dottore in matematica, con una discreta sostanza, con [166] un'indipendenza assoluta (chè pur troppo i miei genitori eran morti da un pezzo) avrei potuto far la prima figura nel mondo, senza quella benedetta consorte che non aveva un filo d'ideale. Basti dire che durante la luna di miele, quando avevo l'ingenuità di leggerle i miei versi, non ci fu mai caso di strapparle un grido d'ammirazione. Non vorrei che questa fosse stata la prima origine della mia antipatia. Si dice sempre: Cherchez la femme. Io direi: cercar la donna va benissimo, ma non è male cercar la ragione delle cose anche nella vanità umana. Vanità ferita, vanità soddisfatta, ecco la sorgente di tanti amori e di tanti odi. Come vedete, diventando vecchio, son diventato filosofo.

Insomma era difficile trovare un connubio più annoiato del nostro. Quando eravamo insieme, l'Adele ed io, ci si sbadigliava in faccia ch'era un piacere a vederci. L'arrivo di Giovannino non cambiò questa situazione interessante; tutt'altro. L'Adele volle esser la balia del suo bambino; si fece camera a parte durante il tempo dell'allattazione, e poi non si provò nessun bisogno di tornar alle prime abitudini. Tocca a lei a parlare, — dicevo io nella mia sapienza, mentre cercavo fra le quinte del teatro numerose distrazioni al mio talamo solitario. Ma l'Adele non parlava; oh sì era dura più d'un macigno. Come la maggior parte delle mogli virtuose, le bastava d'aver un figliuolo.

Bisogna confessare che Adele amava il suo Giovannino e ne aveva grandissima cura; gli era sempre intorno a lisciarlo, a mutarlo di biancheria, a farlo [167] saltare sulle ginocchia. A me pareva ch'ella giocasse alla bambola. Io nutrivo per mio figlio un affetto pieno di dignità; ero un uomo troppo superiore alle svenevolezze. I grandi sacrifizi, le grandi virtù, quelle le capivo benissimo e mi ci sentivo adattato... ma il secolo è tanto prosaico! E sì che Giovannino cresceva bene; a tre anni e mezzo era bello, vispo, un vero bocciuolo di rosa che avrebbe fatto la delizia d'un uomo più serio di me. Ma io gli badavo poco; anche quel bimbo, poveretto, mi pareva complice dell'esaurimento della mia fantasia. Nè egli mi faceva troppo feste; non aveva in bocca che la sua mamma. Con l'Adele ci bisticciammo appunto a proposito di Giovannino, nè ricordo nemmeno perchè, tanto la ragione era futile. Una parola tira dietro l'altra. — La bella vita che si fa insieme! — disse l'Adele. — E allora ognuno se ne vada dalla sua parte, — risposi. — Oh quanto a me, — ella soggiunse. Io colsi la palla al balzo e spiattellai la mia idea di separazione; ella divenne un po' pallida, ma quando seppe che tutto si compirebbe in silenzio e che le avrei lasciato Giovannino fino a dodici anni, senz'altro obbligo che di mandarlo da me quindici giorni ogni sei mesi, concluse che, forse, per me, era meglio così. Io compii il suo pensiero. — Meglio per tutti e due. — Poi continuai: — Bisognerà scrivere a tuo padre che ti venga a prendere. — Gli scriverò io stessa domani. — Non occorre dirgli tutto. — No, certo; gli dispiacerebbe. — Si trova un pretesto. La tua salute... il bisogno d'un po' d'aria nativa... anche a Giovannino [168] il cambiamento farà bene... — Oh, Giovannino non può star meglio di così. — Non importa, son cose che si dicono... Una volta arrivati, a grado a grado, si mettono le faccende in chiaro.

Ella non rispose, ma parve persuasa delle mie osservazioni. Io uscii leggero come una piuma. Ero sul punto di riacquistar la mia libertà, e pensavo al miglior modo di usarne. Ormai m'era concesso tutto fuorchè prender moglie. E questa impossibilità non m'era affatto sgradevole. Del resto, io non intendevo certo di nasconder il mio stato coniugale; non ero poi un furfante a questo segno. Ma lo ripeto; l'essenziale era l'esser libero. La presenza di Adele, che, a parlar sinceramente, era tutt'altro che brutta, mi tagliava i nervi e le ali. Fatalità!

I miei amici, tutti scapoli, si congratularono meco della mia risoluzione. A questa bisognava venirci; quando non si sta bene insieme il meglio è dividersi — fu la profonda sentenza d'un dottorino in filosofia ch'era il Solone della brigata. Poi ognuno disse la sua. Il più vecchio tra noi aveva trentadue anni; io, ammogliato con un figlio, non ne avevo che ventisette. M'ero sposato a ventidue anni e mezzo, prima ancora d'aver compiuto gli studi universitari. Si può dar di peggio? — A quell'età non si è responsabili delle proprie azioni, — disse il nostro sapiente. — Verissimo, non si è responsabili.

La mia coscienza era tranquilla, il mio spirito era elastico come non era stato da un pezzo. Voglio esser sincero; quella sera si sturò una bottiglia di sciampagna [169] in onore della mia emancipazione, si bevette a' miei futuri trionfi letterari. Chi poteva dubitare di questi trionfi? Gli altri, forse; io no sicuramente.

Ero uscito di casa subito dopo desinare; rientrai a notte avanzata. Con mio grande stupore mia moglie mi venne incontro.

— Giovannino è caduto, — diss'ella, — e ha riportato una terribile contusione a un ginocchio.

— Caduto? Come? Dio buono!... I bimbi... si sa... bisogna avere un po' d'attenzione.

— Non ne ha colpa nessuno, — ella rispose calma ma seria. — Chiamai subito il medico.

— Soliti casi. Bastava un bagno d'arnica.

— Non è vero... Il medico dice che bisogna star a vedere...

— Oh!... I medici...

— Ha fatto una fasciatura e tornerà domattina.

— Roba da nulla... Perchè stai alzata?

— Perchè quel benedetto bimbo non s'è quietato un momento.... Sentilo come strilla.... Vado di là.... Vuoi vederlo?

— Adesso mi pare inutile... Lo vedrò domani.

E mi ritirai nella mia camera ch'era all'angolo opposto dell'appartamento. Ne chiusi bene i due usci in modo da non sentir rumore di sorta, e dopo essermi spogliato, mi cacciai sotto le coperte.

— Le donne! — riflettei tra me, — fanno un chiasso d'inferno per ogni bazzecola. E i medici gettan olio sul fuoco... Tutto per darsi aria d'importanza, tutto per tirar acqua al proprio mulino... Il mondo è pieno d'egoisti.

[170]

Stirai le braccia voluttuosamente, mi acconciai meglio il guanciale sotto la testa, e non istetti molto ad addormentarmi, persuasissimo di tre cose: primo, che Giovannino non s'era fatto quasi niente; secondo, che l'Adele aveva esagerato il male apposta per darmi noia; terzo, che io ero la sola persona savia ed equanime della famiglia.

La mattina, alzatomi abbastanza tardi, mi recai nella camera di Giovannino, dove mia moglie aveva vegliato tutta la notte. Giovannino si lamentava sommessamente, ma era rosso in viso, e aveva un po' di febbre.

Il medico esaminò la gamba, ch'era tutta gonfia intorno al ginocchio, e ordinò l'applicazione delle sanguisughe.

— C'è frattura? — io chiesi.

— Frattura, no...

— Quando non c'è frattura.... — diss'io gravemente.

— Oh! — rispose il dottore. — Ci son contusioni peggiori delle fratture.

— Che strambo gusto hanno i medici di metter le pulci nell'orecchio! — io pensai.

Ad ogni modo, finchè non ci si vedeva chiaro, non era possibile scrivere a mio suocero che venisse a prendersi l'Adele.

E Giovannino non migliorava punto. Era sempre gonfio, non poteva appoggiare la gamba in terra, non poteva muoversi senza provare uno spasimo. Avvezzo com'era a correre e a saltar tutto il giorno, [171] doveva essere una gran pena pel povero piccino quello starsene duro stecchito nel letto o sul canapè. Pochi giorni avevano bastato a fargli perdere i suoi rosei colori, a infossargli le guancie, a illanguidire i suoi occhi vivi e lucenti. L'Adele non si moveva più dal suo fianco, faceva di tutto per tenerlo allegro, e ogni volta ch'io uscivo mi diceva: — Porta dei balocchi nuovi a Giovannino. — E lo diceva come la cosa più naturale del mondo, come se fosse proprio un obbligo per me di andar in persona nei negozi dei giuocatoli, e come se tra me e lei non si fosse ormai d'accordo di separarci. Dal canto mio che dovevo fare? Comperavo i balocchi a dispetto delle grasse risate de' miei amici. Altro che l'emancipazione! Questa malattia di Giovannino era pure un brutto contrattempo.

La cosa andava in lungo. Il medico curante desiderò un consulto, e chiamammo uno tra più distinti chirurghi del paese, il quale, dopo molti preamboli, concluse che s'era formato un tumore, che il bambino doveva aver tendenze linfatiche, che occorreva per lo meno una cura lunga, e altre allegrezze consimili.

Da quel momento la gamba del povero Giovannino fu martoriata in tutte le maniere. Empiastri, vescicanti, tagli, iniezioni caustiche, ogni mattina c'era una nuova tortura.

Era uno strazio superiore alle mie forze, tantochè quando veniva il dottore, io sentivo un bisogno prepotente di prender aria. Mia moglie, beata lei, col [172] suo carattere flemmatico poteva assistere alla medicatura, tener ferma la gamba del povero malato, e meritarsi il titolo d'infermiera modello. Quand'io, addolorato davvero dalle sofferenze del bambino, lasciavo scapparmi dal labbro due o tre imprecazioni, ella trovava ancora il modo di sorridere, e di dire: Che ci si guadagna a prendersela con la Provvidenza?

Del resto io non mi meravigliavo della sua calma ma della sua robustezza fisica. A primo aspetto, la si sarebbe giudicata piuttosto una donna gracile, ma conveniva pur ch'ella avesse una fibra d'acciaio per non ammalarsi vegliando quasi tutte le notti, standosene sempre chiusa fra quattro muri. Ero molto più patito io che pure mi coricavo regolarmente ogni sera e passavo fuori di casa la maggior parte della giornata. Questione di temperamento, di nervi: mia moglie non aveva nervi.

Erano passate quattro settimane dacchè Giovannino s'era fatto male alla gamba, e il nefasto tumore che gli si era formato non accennava menomamente a guarire. I due medici alla cura si mostravano un po' imbarazzati a rispondere alle nostre interrogazioni; speravano che tutto sarebbe finito bene, ma dovevano convenire che la cosa tirava assai in lungo, e che s'erano manifestate delle complicazioni inattese. Su un milione di cadute che fanno i bimbi, appena una porta simili conseguenze. Questo colpo di fortuna era toccato a noi.

L'Adele, seria ma tranquilla, espresse il desiderio di sentire un terzo parere. Questa volta si ricorse a [173] un chirurgo celeberrimo d'un'altra città, uno di quegli omenoni le cui parole valgon tant'oro. E lo dico senza metafora.

Egli esaminò per un'ora buona la gamba di Giovannino, toccando, premendo, introducendo la sonda senza misericordia. Giovannino avrebbe fatto pietà ai sassi. Io sudavo freddo e dovetti uscir di camera a tre riprese. Mia moglie, tenendo strette le mani del povero martire, non faceva un movimento, non diceva una parola. Aveva gli occhi asciutti, le labbra inchiodate.

Dopo l'esame locale vi fu l'esame generale che parve dar risultati soddisfacenti. Malgrado delle sue tendenze linfatiche, Giovannino era robustissimo. I tre medici si ritirarono in un angolo della camera a conferir tra loro; poi suggerirono d'accordo una nuova cura. Se non riuscirà nemmen questa.... — disse il dottor Allinori, ch'era l'ultimo chiamato.

— Allora? — chiese mia moglie con un filo di voce.

— Allora sarà necessario pensare a qualcos'altro — soggiunse il chirurgo senza spiegarsi di più.

Quand'egli s'accomiatò, io lo seguii nell'andito, gli misi in mano un biglietto di banca di grosso taglio, e susurrai: — Ebbene?

— Eh, si fa un altro esperimento...

— Ma non crede che se ne verrà a capo?

— Speriamo di sì... Se no bisognerà prendere un partito estremo...

— Quale?

[174]

— Oh!... Adesso è inutile... Se ne riparlerebbe...

— No, dica dica... Quale partito?

Il dottor Allinori abbassò la voce.

— L'amputazione.

S'intese un grido represso. Era mia moglie. Ella ci era venuta dietro in punta di piedi, e perchè l'andito era buio, aveva potuto avvicinarsi inavvertita e sentir la terribile parola pronunziata dal dottore.

— Signora, signora, — disse costui dolente dell'accaduto. — Non si sgomenti... Sono eventualità remote... Noi medici dobbiamo preveder tutti i casi.

L'Adele si era già ricomposta.

— Lo so, — ella rispose. — Ma tornerà, non è vero?

Si stabilì che il dottor Allinori sarebbe tornato di lì a quindici giorni. E intanto si sperò nella nuova cura.

L'idea dell'amputazione era orribile. Io non riuscivo nemmeno a concepire quel demonietto di Giovannino senza una gamba. E dire che quelle sue belle coscie di rosa e di latte, que' suoi polpacci sodi erano il grande orgoglio di sua madre, la quale, appena capitava un conoscente, non sapeva far di meglio che alzare il gonnellino del bimbo e magnificarne le forme piene e rotonde. Tutte cose ch'io avevo apprezzate poco finchè Giovannino era sano, ma che apprezzavo moltissimo oggi che la fatalità veniva a colpir così crudelmente la povera creaturina. Sì, lo confesso, ora soltanto cominciavo a provar davvero il sentimento della paternità; la gamba [175] di Giovannino m'apparteneva; io non dovevo permetter che il ferro d'un chirurgo la tagliasse. E cercavo di tirar dalla mia parte mia moglie, di strapparle una feroce, una decisiva protesta contro la barbarie che si tramava a nostro danno. Ella si contentava di rispondere: — Speriamo che non ce ne sia bisogno.

Giovannino non soffriva sempre. Egli aveva i suoi lucidi intervalli, in cui rideva, scherzava come una volta. Avevamo fatto fare apposta per lui una carrozzetta a molle, da tirarsi a mano, ch'era una maraviglia. E quando il tempo era bello, lo si conduceva in giardino e anche fuori di casa, ed egli beveva avidamente l'aria libera e il sole, e si deliziava nel profumo dei fiori e nel volo capriccioso delle farfalle, egli che, fino a poco tempo addietro, era una farfalla ed un fiore. Bisognava tenerlo fermo sul sedile, perch'egli, dimenticando il suo male, avrebbe voluto ogni momento saltar giù e mettersi a correre come facevano gli altri fanciulli. O perchè doveva egli esser diverso dagli altri fanciulli? Del resto, egli non aveva alcuna coscienza della gravità del suo stato. Calcolava sempre di alzarsi domani, di tornar domani quello ch'era una volta. La sua mamma secondava queste fantasie; io, quand'ero presente a tali discorsi, duravo fatica a frenar le lagrime. Allorchè la bambinaia era stanca di tirar la carrozza, Adele, ch'era la sola ad aver autorità sul piccolo malato e che doveva quindi stargli sempre a fianco per impedir ch'egli si movesse, mi diceva: — Roberto, [176] mettiti un po' tu al posto della Lisa. — Io obbedivo, e principiavo a far confidenza con mio figlio. Era pur bello Giovannino! Il vento scompigliava sulla sua candida fronte i suoi ricciolini biondi e tingeva in rosa le sue guancie pallide. Gli occhi perdevano per un istante la loro espressione di sofferenza e riacquistavano un raggio dell'antica luce. I suoi braccetti sottili si agitavano con voluttà e le sue manine battevano una contro l'altra.

— Com'è bello! — esclamai un giorno davanti all'Adele.

— Oh! — ella rispose. — Adesso?

E le sue pupille s'inumidirono e parvero guardar nel passato.

Ella intendeva dire: — Una volta era bello!

E io una volta ci badavo appena!

Ogni mattina, anche quando non veniva alcuno dei dottori, l'Adele medicava la gamba del bimbo, ed ella si disimpegnava dell'ufficio delicato con una sicurezza, con una calma, con una sollecitudine ammirabili. Si sarebbe detto ch'ella fosse vissuta dieci anni in un ospitale come assistente chirurgica. Era innegabile; mia moglie aveva le sue buone qualità, ed era per lo meno strano ch'io volessi separarmi da una donna simile, mentre tanti mariti... basta.... Ma d'altra parte, c'era quella benedetta incompatibilità di carattere. E poi la separazione era desiderata dall'Adele quanto da me!... Beninteso che non si poteva pensarci finchè durava la malattia di Giovannino. Quand'egli fosse guarito, sarebbe stata altra [177] cosa.... Ma se non fosse guarito?... Era una idea ch'io respingevo da me, ma che tornava inesorabilmente ad angosciarmi.... Se non fosse guarito?... Certo allora la separazione sarebbe stata ancora più facile; che vincolo avrebbe tenuti stretti l'Adele e me?... Se non fosse guarito?... Oh! Era orribile!

Io che non mi sentivo in grado di star presente alla medicatura, domandavo sempre all'Adele: — Dunque? — Ma pur troppo nè da lei, nè dai medici mi riusciva ottenere una risposta favorevole.

La nuova visita del dottor Allinori ebbe un risultato sconfortantissimo.

— Pur troppo non c'è nessun miglioramento, — egli disse, rispondendo agli sguardi ansiosi dell'Adele e di me.

E tentennò il capo e discorse sottovoce co' suoi colleghi.

— Si può aspettare ancora un poco, — egli concluse prendendomi da parte. — Chi sa?... La natura fa miracoli.... Ma se il miracolo non viene, è inutile, bisogna ricorrere all'ultimo mezzo che suggerisce la scienza.

Gli altri assentirono.

— L'amputazione! — esclamai.

La tremenda parola m'abbruciava la lingua e io attorcigliavo rabbiosamente il fazzoletto intorno alle dita.

Mia moglie non tardò a raggiungerci. Ella aveva indovinato tutto. Mi pose la mano sulla spalla, e bisbigliò:

— Coraggio!

[178]

Era lei che faceva coraggio a me!

— Urgenza vera non ce n'è, — riprese il dottor Allinori. — Ma non bisogna attender che il male sia eccessivamente progredito, se non si vuol trovare il corpo esausto di forze.... Io devo esser qui di nuovo verso la fine della ventura settimana, e allora....

— Sono poi sicuri di salvarlo con l'amputazione? — interruppe mia moglie con voce più ferma di quella che avrei avuto io.

— La sicurezza assoluta non si ha mai, ma si può avere una sicurezza relativa.... Se il bambino non fosse robusto, se tutti i suoi visceri non fossero sani, se il male che gli si è manifestato non avesse avuto una causa traumatica, confesso che non oserei consigliar questa prova.... che è grave.... Ma insomma, nel caso nostro, un sessanta per cento di probabilità favorevoli ci deve pur essere.

— Un sessanta per cento! — diss'io cupamente. — E gli altri quaranta?

— Caro ingegnere, — ripigliò il dottore, — siamo in burrasca e non dobbiamo farci illusione.... Un sessanta per cento di probabilità favorevoli val meglio che un novantanove per cento di probabilità sfavorevoli.

— Dunque non c'è altra uscita? — chiesi di nuovo con l'angoscia nell'anima.

— Se in otto o dieci giorni non nasce una crisi benefica, non ne vedo altre, — replicò il dottore. — Almeno questo è il mio parere. Che ne dicono i miei colleghi?

[179]

I suoi colleghi dicevano quello che diceva lui. Parevano due pappagalli.

Non ne potevo più e uscii dalla camera, mentre mia moglie ripeteva al dottore Allinori:

— Dunque lei tornerà nella settimana ventura?

Nella giornata colsi un momento in cui Giovannino dormiva per parlare a quattr'occhi con l'Adele.

— No, no, — dissi, — i medici possono predicar finchè vogliono, noi non dobbiamo lasciar tagliare la gamba a Giovannino. Farne uno storpio, farne un infelice... no, no, non lo dobbiamo assolutamente.

— Ma se ci muore?

— Sarà una disgrazia, sarà una disgrazia immensa, ma non avremo commesso una barbarie.... Non lo avremo sacrificato al nostro egoismo....

— Roberto! Roberto! E si può lasciarlo morire? — ella proruppe con un grido straziante.

Io volevo risponder di sì, ma invece mi presi la testa fra le mani e la scossi con violenza.

— Maledetta la medicina, maledetti i medici. Tutti ignoranti, tutti impostori, tutti ciarlatani!... Uno non ce n'ha da essere a modo?

A un tratto scattai dalla sedia esclamando con logica ammirabile:

— Voglio consultarne un altro ancora.... sarà il quarto.... Tanto fa.... Andrò a cercarlo in capo al mondo, se occorre.

L'Adele non mi contraddisse, ma evidentemente ella non isperava nulla da questo nuovo consulto ch'io ero deciso a fare, non sapevo ancora con chi.

[180]

Passò qualche giorno prima ch'io fissassi le mia scelta fra le tre o quattro celebrità che m'erano state additate. Diedi finalmente la preferenza a uno ch'era allora in gran voga e che abitava in Firenze, e risolsi di fare una corsa io stesso in quella città affine di condurlo meco.

— Portami un gingillo nuovo da Firenze, — disse Giovannino.

Egli aveva intorno a sè una collezione di giocatoli, parte interi, parte sciupati. C'era una dozzina di soldatini di piombo, c'eran fantocci che a dar loro una spinta facevan prodigi acrobatici, e agnelli belanti, e sorci che si caricavano e correvano per la camera, c'era un convoglio di strada ferrata, un paio di cavalli zoppi, un pesce dalle squame d'argento, un teatrino cogli scenari a colori, una cucina di stagno, alcune scatole di cubi da costruzione, una lanterna magica coi vetri rotti, tutta roba accumulata giorno per giorno in questi mesi di malattia. Ma qualunque cosa Giovannino ci avesse chiesto, l'Adele ed io ci saremmo gettati nel fuoco per contentarlo. Io gli promisi il gingillo nuovo, ed egli mi baciò sorridente. Era magro, era pallido. Povero Giovannino! Quel sorriso su quel volto bianco e sparuto mi fece un senso!...

— Torna presto, — mi raccomandò l'Adele accompagnandomi fino alla scala.

— Posdomani son qui.... E tu, se c'è qualche cosa di nuovo, telegrafa all'Albergo del Nord.

— S'intende.

Ci stringemmo la mano senz'aggiunger parola. In [181] verità nessuno avrebbe creduto che noi fossimo due coniugi risoluti a dividersi.

Il diavolo ci aveva messo la coda. Io avevo fatto i conti senza la politica; il mio Ippocrate era senatore, e come tale si trovava a Roma. In quel momento devono essermi scappate fuori delle grandi eresie. Devo essermela presa coi medici senatori, e fin qui manco male, ma poi devo aver imprecato anche al trasporto della sede del governo a Roma, e, Dio non voglia, persino al regime parlamentare.

Stetti un po' perplesso sul da farsi, ma m'ero tanto incaponito nell'idea di questo consulto che finii per prendere il treno diretto per Roma. Naturalmente, prima di partire, telegrafai all'Adele affinchè non si mettesse in pena pel mio ritardo.

A Roma, un nuovo contrattempo. Era domenica e il mio grand'uomo era andato a pigliar aria a Frascati. Lo si aspettava di ritorno la sera a mezzanotte. E io fin dalle undici ero nel suo salottino a contare i minuti. A mezzanotte e un quarto il luminare della scienza medico-chirurgica italiana arrivò e parve bastantemente annoiato di trovar gente in casa sua. Quando gli ebbi esposto il motivo della mia venuta e la mia intenzione di condurlo meco:

— Impossibile, — egli disse, — assolutamente impossibile. Domani va in discussione al Senato il codice sanitario, e io devo sostenere il lavoro della Commissione di cui faccio parte.

— Ma posdomani?

— Oh non son cose che si spicciano in un giorno, — egli [182] rispose con una cert'aria, come se volesse dire: «da che mondo viene?» Poi soggiunse, guardando verso un uscio che doveva esser quello della sua camera da letto: — Mi dispiace....

Io non sapevo risolvermi ad andar via, e volli almeno riferire succintamente il caso, e sentire un parere.

— Quando non si vede il malato, — egli disse, — è molto difficile pronunciarsi. Ma la cura seguìta mi par la migliore. Lei è benissimo appoggiato.... il dottor Allinori sopratutto è un uomo di polso.... Dissentiamo su alcuni principii fondamentali della scienza, ma nel resto siamo d'accordo.... In questo caso poi avrei fatto anch'io come lui.

— Ma adesso? Che farebbe adesso?

— Eh, ritengo che farei l'amputazione.

— Si alzò dalla sedia, mi accompagnò cortesemente fino all'uscio, rifiutò qualunque compenso per le sue chiacchiere e mi diede la buona notte.

Di lì a un paio di settimane, forse, se avessi ancora avuto bisogno di lui, avrebbe potuto venire... Grazie tante.

— Bel costrutto ch'io avevo cavato dal mio viaggio a Roma! Ero assente di casa da quattro giorni e non sapevo nulla di Giovannino. L'Adele, anche volendo telegrafarmi a Roma, non avrebbe saputo dove dirigermi il dispaccio, perch'io m'ero dimenticato di dirle ove andavo ad alloggiare. Le inviai un altro telegramma annunziandole che rinunciavo per forza al nuovo consulto e che mi rimettevo tosto in cammino per [183] ripatriare. Mi facesse trovar notizie alla stazione di Firenze.

Alla mattina presi la prima corsa per l'Alta Italia. Fatalità su fatalità! Un disgraziato ritardo a Orte ci fecer perder la coincidenza a Firenze. Bisognava aspettare cinqu'ore.

Trovai alla stazione un telegramma così concepito:

Non ci sono guai. Ti attendo. Hai ricevuto un altro dispaccio che ti spedii due giorni fa all'Albergo del Nord?

Adele.

Un altro dispaccio? Non seppi resistere alla curiosità di leggerlo e presi un fiacre che mi conducesse al Nord. Avevo tempo d'avanzo d'andare e tornare. Ecco il dispaccio che s'era incrociato col mio e che quindi era stato spedito prima che l'Adele sapesse della mia partenza per Roma:

Il dottore Allinori, il quale anticipò la sua venuta, dice che non c'è più tempo da perdere. Torna subito, subito, subito.

Queste parole mi misero la morte nell'anima. Cos'era successo di nuovo? È vero che il dispaccio posteriore era molto più tranquillante, ma in ogni modo, senza una grave ragione, Adele non mi avrebbe scritto così.

Non c'era tempo da perdere! Ciò significava che era necessario di far tosto l'amputazione, quell'orribile, [184] quell'abbominevole amputazione! E mi si chiamava ad assistere a tanto strazio, si voleva ch'io fossi presente mentre si storpiava mio figlio!

Non c'era tempo da perdere! E intanto io avevo fatto perdere due giorni con la mia gita a Roma, e ne facevo perdere un terzo colla mancata coincidenza di Firenze! Mi pareva di vederlo il dottor Allinori, in camera del malato, coi suoi strumenti di tortura in mano, non aspettando altro che la mia venuta per tagliare senza misericordia.

E se non ci fosse più tempo davvero? Se i miei indugi fossero stati fatali? Se ormai io non avessi che da veder morire Giovannino? Volli persuadermi di nuovo che era meglio vederlo morto che storpio, ma non ci riuscii. Anzi mi adirai meco stesso per le mie esitanze passate e dicevo:

— Sì, sì, lascerò che gli facciano l'amputazione, lascerò che gli facciano tutto quello che vogliono pur che me lo salvino.

Viaggiai in uno stato d'inquietudine, d'ansietà ch'è facile immaginare. Alla stazione non c'era nessuno; infatti non si sapeva con che corsa sarei arrivato.

Giunto a casa, salii le scale in un lampo. Adele m'aveva sentito e m'era venuta incontro sul pianerottolo. Il suo aspetto mi fece paura, ella era bianca come un cencio lavato.

— Ebbene? — chiesi con voce soffocata.

— Ora dorme. Speriamo.... Entra.... Dio, povero Roberto, come hai la cera scomposta!

[185]

— E tu Adele, se ti guardassi nello specchio.... Ma cos'è nato? Dimmi tutto.

— Adesso; vieni dentro.

Mi lasciai condurre macchinalmente in salotto da pranzo.

— Avrai fame, — osservò l'Adele andando verso la credenza.

— No, non ho fame, non ho nulla. Voglio saper la verità vera su Giovannino. Dov'è il dottore Allinori?

— È partito.

— Come partito? Bisogna richiamarlo subito. Non c'è tempo da perdere, me l'hai telegrafato tu stessa.... Non mi oppongo più, sai, non mi oppongo più all'amputazione....

— Ah no! — ella esclamò con un accento di gioia che mi parve molto singolare, in quell'istante, alla vigilia d'una prova così terribile.

— Ma facciamo presto, — soggiunsi. — Voglia il cielo che non si sia aspettato anche troppo.

— Roberto, — ripigliò l'Adele afferrandomi tutte due le mani, — tu mi perdonerai dunque?

— Perdonarti? Perdonarti che? Parla per amor del cielo.... C'è qualche disgrazia che non osi parteciparmi?

— No, te lo giuro, disgrazie no.... Anzi....

— Sei così imbarazzata.... Oh insomma voglio veder Giovannino.

E mi svincolai a forza da lei.

— Un momento, — ella gridò. — Ascolta.

[186]

Mi trattenni sulla soglia.

— Ti telegrafai a Firenze che il dottor Allinori diceva non esserci tempo da perdere, e, aggiungevo: torna subito, subito, subito.

— Sì.

— Quel telegramma non l'hai ricevuto allora?

— No. Ero partito per Roma, e lo trovai al mio ritorno, di passaggio per Firenze.

— Esso s'è incrociato con un dispaccio tuo che mi annunziava appunto questa partenza per Roma senz'indicarmi dove potessi farti avere mie notizie.

— È vero; l'avevo dimenticato.

— Pensa com'io rimanessi apprendendo che, invece di tornare immediatamente, ti allontanavi.

— È stata una fatalità.

— Il dottor Allinori aveva consentito a rimanere un giorno, ma non più d'un giorno, perchè serii impegni lo chiamavano altrove. Poi c'era urgenza.... le cose s'erano aggravate nella settimana.... d'ora in ora poteva formarsi la cancrena.

Io cominciavo a presentire il vero, ma non avevo forza di articolare una parola. Ero tutt'orecchi, respiravo appena.

Mia moglie continuò:

— Mi si disse: signora Adele, si sente in grado di prender sopra di sè una grande responsabilità?

— Dio! Credo d'aver capito.

— Ma me lo salveranno? — io gridai. — E i medici tutti e tre d'accordo: Sì, glielo salveremo, vedrà. Abbia fede in noi, abbia fede nella Provvidenza.... [187] Se non ci lascia fare, quello è un bambino morto. Morto! Intendi, Roberto? Morto!

— E tu?

— Io risposi: la grande responsabilità me l'assumo. Facciano.... Ti vien male, Roberto?

— No. Continua.... L'amputazione?

— Fu eseguita or sono due giorni.

L'Adele era ritta davanti una seggiola tenendosi forte alla spalliera. Io mi copersi il viso con le mani ed esclamai:

— Povero il mio Giovannino! Povera creatura! E ha potuto resistere?

— Gli si fece respirare il cloroformio. Egli mi guardò co' suoi begli occhi pieni d'affetto e di sgomento, e mi disse: «Mamma, cos'è questo? No, mamma, no.» Scosse il capo due volte, alzò la mano come chi vuol scacciar via un insetto molesto, e poi cadde in un letargo. Allora....

— Oh taci. Eri presente?

— Volevano mandarmi in un'altra camera. Figurati se ci sono andata. Rimasi là sino alla fine, pochi minuti, un secolo, non so.... Vidi tutto, sentii tutto.... oh il suono stridulo di quella sega l'ho qui nell'anima.... quel sangue lo vedrò scorrer sempre, sempre.... E quando l'operazione fu terminata, e quella povera gamba che aveva tanto patito fu gettata in un angolo come un inutile arnese, oh te lo giuro, credetti che la mia forza d'animo m'abbandonasse e fui lì lì per cadere come corpo morto. Ma mi sostenne un pensiero. Giovannino era assopito; [188] bisognava farlo rinvenire. Non dovevo esserci io, la sua mamma? Ce ne volle a svegliarlo, sai. Due volte i medici si guardarono muti; io guardavo loro; che momenti! che spasimo! Alla fine il bimbo mosse un poco le braccia, aperse a fatica gli occhi e mi cercò, oh mi cercò subito. «Mamma, non voglio più quel cattivo odore.»

— Ma alla gamba non si sentiva uno strazio?

— No.... allora no.... Più tardi....

— Oh basta, basta....

E mi misi a piangere come un fanciullo.

— Adesso, — ella soggiunse per consolarmi, — egli non sente quasi più dolore; s'è rassegnato alla perdita della sua gamba; dice: «Brutta gamba, han fatto bene a buttarti via.»

Io seguitavo a piangere.

— Proprio non mi perdoni? — ella riprese timidamente.

— Perdonarti? — io proruppi. — Perdonare io a te?... Sei tu che devi perdonarmi, Adele....

E avrei continuato. Ma ella m'impose silenzio.

— Non una parola di più, Roberto, non una parola, per carità.... almeno finchè Giovannino non sia fuori di pericolo.... Sei convinto che ho agito pel meglio e mi basta. Qualunque cosa tu soggiungessi, mi sarebbe oggi di cattivo augurio.

— E questo pericolo fino a quando durerà?

— Altri otto, altri dieci giorni, non si può dire con precisione. S'è avuta tanta pazienza, abbiamone ancora.

[189]

················

Gli otto, i dieci giorni passarono, non senza che di tratto in tratto Giovannino ci desse qualche ragione d'inquietudine e mettesse in pensiero i medici. Ma, in capo a due settimane, ogni traccia di febbre svanì, e il sedicesimo giorno, un mercoledì, oh me lo ricorderò sempre, il dottor Allinori, che era venuto a visitare il suo piccolo malato, strinse la mano a mia moglie in aria di trionfo, esclamando:

— Non glielo avevo detto, signora Adele, che lo avremmo salvato? Metta dunque il suo cuore in pace dopo tante burrasche; il suo Giovannino è salvo. Pur troppo egli crescerà senza una gamba, ma crescerà sano e diverrà un bel ragazzo ugualmente. — Quindi, indirizzandosi a me, soggiunse, da quell'uomo franco ch'egli era: — E lei, ringrazi sua moglie; senza la signora Adele, il fanciullo sarebbe morto da un pezzo.

Io n'ero tanto convinto che mi voltai verso l'Adele dispostissimo a gettarmele ai piedi. Dovetti invece correre a sostenerla. Le sue forze che avevano così mirabilmente resistito al dolore, sembravano non saper resistere alla gioia. Alle parole del medico, ella era divenuta prima rossa, poi bianca come la cera: s'era sforzata di sorridere, di dir qualche cosa, ma invano. Fu allora che, sentendosi mancare il terreno, ella cercò un appoggio, e sarebbe caduta s'io non fossi stato pronto a sorreggerla.

— Non sarà nulla, sarà la commozione, — disse [190] il dottore, facendole, fiutare una boccetta d'ammoniaca.

Ella si risentì, si passò la mano sulla fronte e susurrò con un filo di voce. — È una cosa del momento.... Ma son così debole, così stanca.... Andrei a letto.... Non c'è Norina?

— La chiameremo, ma intanto son qua io.

E la condussi quasi di peso nella sua camera, ove non c'era che un letto, ove da quattro anni ella dormiva sola come una fanciulla, come una vedova, peggio ancora, come una ripudiata. La spogliai con l'aiuto della Norina, e coricata che fu, le rassettai io stesso le coltri intorno alla persona, e sedetti accanto al suo capezzale.

— Veglierò io, — dissi alla cameriera, — andatevene pure.

Vegliai tutta la notte, pensando a Giovannino ch'era guarito, ahimè, a qual prezzo! all'Adele che stava forse per ammalarsi, ma sopratutto pensando alle colpe enormi che avevo sulla coscienza, e all'impossibilità di espiarle.

Io aveva potuto disprezzar l'Adele, aveva potuto preferirle delle donne da trivio, avevo potuto proporle una separazione!

Ella aveva finito col prender sonno; il suo respiro, affannoso sul principio, s'era fatto a poco a poco calmo e regolare: l'espressione della sua fisonomia era tranquilla; eppure io ero tanto inquieto! Ogni dieci minuti m'alzavo dalla sedia e andavo e guardar l'orologio dell'Adele ch'era posato sul cassettone [191] vicino al lume da notte, e il suo uniforme tic tac, non so perchè, mi riempiva di tristezza. Tic tac, tic tac. I secondi succedevano ai secondi, ma le pulsazioni nel mio cuore eran molto più rapide!

Era strano. Non mi pareva d'esser degno di trovarmi a quell'ora nella camera di mia moglie, che era pur stata la mia camera nuziale, ma ch'io avevo stolidamente abbandonata. Quel profumo di donna onesta che spirava intorno m'involgeva tutto, mi penetrava per tutti i pori. Io carezzavo con la mano il semplice vestito dell'Adele gettato attraverso la spalliera d'una poltrona, toccavo la sua biancheria raggomitolata a' piedi del letto e involontariamente il mio pensiero correva ad altre alcove men pure, piene di una luce insidiosa, piene d'odori acuti, inebbrianti, sotto i quali s'indovinava però l'aria putrida e malsana. Vedevo agitarmisi davanti agli occhi le turpi visioni di nudità procaci, di veli ingialliti dai vapori della bettola, d'abiti dissimulanti le rattoppature sotto i lustrini, e mi vergognavo all'idea d'essermi ravvoltato in quella sozzura, io, marito, io, padre! La mia donna, la madre del mio bambino era lì, ma non avrei osato d'alzare un lembo delle sue coperte, non avrei osato deporre un bacio sulle sue labbra, più caste di quelle d'una vergine. Le ero vicino perchè la credevo malata; ma ella avrebbe potuto, svegliandosi, cacciarmi via e dirmi: Che libertà ti prendi? che fai, di notte, accanto al mio letto?

L'alba cominciava a penetrar nella camera attraverso [192] le imposte socchiuse, e affacciandosi alla finestra si vedeva l'orizzonte listarsi di rosa. Un po' prima delle sei, l'Adele si mosse, aperse gli occhi e scorgendomi ritto al suo capezzale, diede un sobbalzo. — Tu, Roberto. Che ora è?

— Son quasi le sei.

— Ti sei alzato così presto?... Giovannino forse non istà bene?

— Giovannino ha sempre dormito, Giovannino dorme sempre come un angelo, — io risposi accostando l'orecchio all'uscio della camera attigua ove c'era il fanciullo con la bambinaja.

— E allora, — ella soggiunse cercando di raccapezzarsi, — non capisco.... Perchè sei qui?

— Ma tu come stai? — io chiesi.

— Oh.... Adesso mi ricordo.... Jersera debbo aver avuto un capogiro.... Ormai è passato.... Era una cosa da nulla.... Non c'era ragione che tu ti alzassi prima di giorno.

— Non mi sono alzato, — dissi timidamente,

— Com'è? dov'eri? Eri uscito di casa?

— Ero.... qui.

— Sei rimasto qui tutta la notte?

Non risposi nulla, ma il mio silenzio valeva quanto una risposta affermativa.

— Oh.... Roberto! — ella esclamò. — E mi fissò in viso i suoi belli occhi inteneriti.

Non ne potei più e mi gettai in ginocchioni appiedi del letto e, rompendo in singhiozzi, dissi tutto quello che mi stava sull'anima da tanto tempo. Le [193] parole non me le rammento; so che non mi risparmiai nessun'accusa, che non tacqui nessuna bruttura della mia vita. E davo all'Adele i titoli più dolci: la chiamavo angelica, santa, divina, la dicevo salvatrice di nostro figlio, degna d'un uomo che avesse saputo comprenderla mentre io....

Ella faceva di tutto per calmarmi.

— No, Roberto, non è vero, ho avute le mie colpe anch'io; ero fredda, ero sprezzante, mi pareva di abbassarmi a confessarti il bene che ti volevo.... la disgrazia del nostro Giovannino ci avrà corretti tutti e due.... Ci ameremo di più e in questo amore intenso cercheremo tutti e due l'espiazione dei nostri peccati....

L'Adele parlava de' suoi peccati!

— Non mi respingi dunque? — io insistevo. — Non la esigi tu stessa la separazione...?

Ella non mi lasciò finire la frase. Chinandosi con mezza la persona dalla sponda del letto, mi cinse il collo con le sue morbide braccia; i suoi lunghi e folti capelli, sprigionatisi dalla cuffia che li teneva stretti, scesero a lambirmi le spalle, le sue lagrime si confusero con le mie, mentr'ella ripeteva con voce commossa:

— Povero Roberto, hai patito tanto anche tu in questi mesi!

I primi raggi del sole tremolavano sulla parete, una luce allegra innondava la stanza; di fuori gli uccelletti salutavano la primavera. E la primavera esultava nel mio cuore.

[194]

***

Son passati da quella mattina degli anni parecchi. Giovannino porta con disinvoltura la sua gamba di legno; è di statura piuttosto alta, di viso bellissimo, di umore uguale e sereno, è buono, è intelligente, è studioso. Alla scuola lo proclamano sempre il primo della classe; i suoi condiscepoli lo adorano, i suoi professori lo amano e lo stimano ed egli dice con un po' di baldanza: — Posso far quel che voglio, fuorchè il militare. — È l'unica allusione ch'egli faccia alla sua disgrazia.

Giovannino ha dei fratelli minori, vispi, sani, con tutte le loro membra intatte, e si può credere se l'Adele e io abbiamo cara quest'allegra nidiata di bimbi ch'è la miglior prova della nostra riconciliazione. Eppure, quando sentiamo batter sul pavimento la gamba di Giovannino, c'invade una tenerezza più profonda, una corrente elettrica passa attraverso di noi e ci ravvicina. Noi ci sforziamo di non mostrar nessuna preferenza, ma Arturo, ch'è il più malizioso dei nostri figliuoli, dice qualche volta: — Oh se parla Giovannino, gli si dà sempre ragione.

Il nostro primogenito ricambia liberalmente l'immenso affetto de' suoi genitori. Forse egli predilige un poco sua madre. E come potrebb'essere altrimenti? Le impressioni della prima infanzia non si [195] scancellano; sua madre lo adorava quand'io affettavo verso di lui una indifferenza superba; e nella sua lunga infermità, chi lo assistette, chi vegliò al suo letto, chi seppe sorridergli, pur avendo la morte nell'anima?

Cinta da un ambiente di simpatia, l'Adele ha smesso l'eccessivo riserbo che la faceva apparir fredda e insignificante. Non v'ha nessuno ormai che non pregi la rettitudine e la sicurezza del suo criterio, e quando in casa mia si raccolgono alcuni amici fidati, è invalsa la consuetudine di lasciare a lei l'ultima parola in quasi tutte le discussioni. E la sua parola è sempre così temperata, così giusta!

Io ho trentacinque anni; ella ne ha trentadue, e ci amiamo come due sposi novelli, anzi nel caso nostro, ben più che quando eravamo sposi novelli. E dire che fummo in procinto di separarci! Ah! Giovannino non saprà mai che miracoli la sua gamba abbia fatto.

[196]

IL FRATELLO DEL GRAND'UOMO

Il signor Isidoro non è un grand'uomo, proprio no. Nessuno tra' suoi intimi amici ha mai arrischiato una proposizione così temeraria, nessuno tra' suoi conoscenti ha mai avuto il più lontano sospetto d'una cosa simile. Ma se il signor Isidoro non è un grand'uomo, egli è fratello di un grande uomo, e questa fortunata combinazione lo toglie alla sua oscurità. Il commendatore senatore Filiberto, fratello del signor Isidoro, è uno tra i personaggi più imbottiti di titoli che vi siano in Italia, e bisogna confessare che questi titoli egli non li deve alla fortuna, ma al merito. S'egli è oggi un pezzo grosso, è divenuto tale a forza d'ingegno, di studio e di perseveranza, e anche riconoscendogli i suoi difettucci conviene fargli di cappello e dire che egli è figlio delle sue opere. I suoi lavori scientifici gli apersero le porte delle principali accademie, la sua eloquenza gli aperse la carriera politica ov'era destinato a salire ai primi posti, gli eccelsi servigi resi al paese fregiarono il suo petto di croci.

Se il signor Isidoro non fosse stato fratello di un [197] commendatore e senatore, egli sarebbe cresciuto tranquillamente in mezzo alle cassette di petrolio, ai barili di acciughe e alle botti di zucchero della sua casa Claudio Ferrarecci e figli, negozianti in più rami, casa fondata dal nonno suo, il signor Claudio, e continuata sotto la medesima ragione dai discendenti di costui. Tutt'al più il signor Isidoro avrebbe obbedito alla sua naturale inclinazione pavoneggiandosi dinanzi ai suoi avventori e trinciando giudizi sulle cose del giorno nella cameretta blù del caffè al Mercurio Risorto, ordinario convegno dei più cospicui rappresentanti del commercio locale.

Ma il signor Isidoro è fratello di un grande uomo, e ciò gli impone obblighi speciali e lo sforza a sollevarsi sopra le cassette di petrolio, i barili di acciughe e le botti di zucchero, e a tener d'occhio la situazione.

Sarebbe errore gravissimo il credere che il periodo più brillante dell'anno sia pel signor Isidoro quello in cui suo fratello viene a riposarsi in grembo della famiglia. Certo, in siffatte occasioni, il signor Isidoro si tiene stretto quanto più può ai panni del commendatore e senatore, e allorchè gli è a fianco saluta gli amici con un benevolo cenno della mano e con un sorrisetto di superiorità. Certo, in quell'epoca meglio che mai, egli può allargare la cerchia delle sue conoscenze, perchè il commendatore Filiberto incontra naturalmente per via molte persone autorevoli; e l'altro, se non è ancora in relazione con esse, tanto si agita, si dimena, si raschia, si soffia [198] il naso, da attrarre la loro attenzione e da costringere il commendatore ad aprire una proposizione incidente e a dire a bocca stretta: Mio fratello. Il signor Isidoro s'inchina, ammiccando con l'occhio, come a significare: Egli è celebre, io no, perchè non ho voluto.

Soddisfazioni magre. In complesso, quando c'è il commendatore senatore, il nostro signor Isidoro è sacrificato, è schiacciato. Tutta la luce si concentra sul grand'uomo e a lui ne resta pochina davvero. Poi gli tocca tacere, e che supplizio è per lui! Poi gli tocca assentire ogni volta che il fratello parla, e anche questo gli pesa, perchè nel resto dell'anno egli dice sempre: Io sono indipendente.

Senza contare un'umiliazione più grossa. Talora, anche in mezzo della strada, il commendatore Filiberto, volendo conferire con qualcheduno, lo manda via senza tanti preamboli, e il signor Isidoro dopo uno di questi brutti congedi si trova assai sbilanciato. Qualcheduno, vedendolo, gli chiede maliziosamente: — E vostro fratello? — Avevo un affare e ho dovuto lasciarlo — egli risponde scambiando le parti. Ma la bugia gli lega la lingua, ed egli incespica, diventa rosso e coglie il primo pretesto per svignarsela.

È ben altra cosa quando il commendatore Filiberto è alla capitale. Allora il signor Isidoro diventa il legittimo rappresentante del grand'uomo, allora porta le ambasciate di lui a Caio ed a Tizio, ha ingresso libero dal prefetto, dal sindaco, dai giornalisti. [199] E coi cittadini autorevoli per posizione o per influenza ama mostrarsi in pubblico, e li visita in teatro, e delizia della sua conversazione le loro consorti, nè abbandona il palco finchè non ha potuto in un modo o nell'altro affacciarsi al parapetto ed esser ben sicuro che trenta o quaranta individui almeno l'han visto. Le signore arricciano il naso e non nascondono la loro noia ai rispettivi mariti, ma i rispettivi mariti sono uomini pubblici, e il signor Isidoro è fratello di un uomo pubblico, di un uomo grande, influente, che ha lo zampino nei ministeri, ch'è un po' ombroso e con cui non bisogna guastarsi.

— Bella seccatura questi uomini grandi! — dice la consorte del sindaco, che ha la lingua lunga.

La prefettessa, più prudente, si guarda attorno e soggiunge a bassa voce. — Io li venero e li rispetto, ma vorrei che fossero figli unici.

Del resto, il commendator Filiberto non tien mica in gran conto il fratello e non gli affida mai uffizi i quali richiedano un singolare acume d'ingegno. L'indole degli incarichi è, su per giù, la seguente: consegnare in proprie mani una lettera chiusa, annunziare che il commendatore arriverà in tal giorno alla tale ora, e fissare un abboccamento, portare qualche rettifica alla redazione di un giornale. Ma il signor Isidoro attraversa la città come una nube grave di fulmini e sa dare a ogni inezia le apparenze di affari di stato.

— Novità? — gli si chiede per via vedendolo così misterioso e impettito.

[200]

— Ma!... Io non so nulla.

— Queste elezioni, eh?

— Chi può farsi un criterio?... C'è una confusione....

— Confusione grande, non è vero?

— Altro!... Vengo via adesso dal Prefetto dopo una conferenza di un'ora.

— Nespole! Di un'ora?

— Sì... Oh!... Chiacchiere!... Quel benedetto uomo non mi lascerebbe mai andarmene pei fatti miei.... Io gli dico sempre: Tu sei un individuo meraviglioso, lavori tanto e trovi anche tempo da far queste lunghe cicalate.

Scopo del signor Isidoro, come si capisce, è quello d'incastonare nel discorso il pronome personale tu, a testimonianza della sua dimestichezza col Prefetto.

Pur si vorrebbe ricondurre la conversazione sul primo terreno. — Dunque, di queste elezioni, che dice il signor Prefetto?

— Uhm!... Sa... dice e non dice....

— Capisco.... Lei non vuol parlare....

— Oh non creda! — interpone il signor Isidoro facendo il bocchino da ridere. E si accommiata lietissimo di lasciare nel suo interlocutore la convinzione ch'egli sappia molte cose, ma non voglia parlare.

Talvolta lo si ferma per domandargli notizie del grand'uomo.

— E il commendatore sta bene?

— Bene, grazie.

[201]

— E non lo si vedrà per ora da queste parti?

Il signor Isidoro piega la testa da un lato, la sprofonda nella spalla, alza le due mani fino all'altezza delle orecchie, e tenendole aperte con le palme in fuori dice: — Mah!

— Potrebbe farmi il piacere, — prosegue timidamente l'altro guardandosi le punte delle dita — di fargli pervenire una lettera?... A mandargliela sciolta.... m'intende già.... uomini come il suo signor fratello ne ricevono ogni giorno a dozzine, e molte vanno a finire nella paniera.... Invece per mezzo d'un fratello che gode.... meritamente.... di tanta influenza.... è un'altra cosa.

Il signor Isidoro fa il prezioso, solleva dubbi, scrupoli, obbiezioni, ma finisce col lasciarsi persuadere, e conclude: — Insomma, mi mandi la lettera.... Vede, se ho fatto difficoltà non è per la cosa in sè.... ma pare che si voglia esercitare pressione....

— Dio guardi....

— E io invece non ho mai voluto ingerirmi in nulla.... Non ho voluto favori, nè onorificenze....

— Se avesse voluto....

— Non dico questo.... ma infine.... Gli è che io preferisco l'oscurità.... Basta, siamo intesi....

Detto ciò, il signor Isidoro si allontana pomposamente, superbo di vedere sollecitata la sua protezione.

Il signor Isidoro legge dalla prima all'ultima riga i discorsi che suo fratello pronuncia in Senato, legge i fogli politici tanto ministeriali che di opposizione, e se in questi ultimi vede qualche volta tartassato il [202] grand'uomo, spiega una temperanza, un'equanimità da lasciare edificato l'uditorio.

— Io non appartengo a nessun partito.... io sono indipendente.... non guardo in viso a nessuno, io.... Mio fratello è una bravissima persona, ma anch'egli i suoi errori li avrà commessi.... Io non ho certo tutte le sue opinioni, nemmen per idea, e posso dire che nelle occasioni gli ho detto l'animo mio, e in qualche caso egli non ebbe a dolersi di avermi abbadato.... Non lo dico già per vantarmi.... Tutto dipende dal non essere uomo di partito....

— Sicuro; il partito rovina tutto, — osservano, sorseggiando il caffè i sapientoni del Mercurio Risorto.

Durante un cosidetto rimpasto ministeriale si diffuse la voce che il commendatore Filiberto potesse esser chiamato a formar parte del Gabinetto. Bisognava vedere il signor Isidoro in quei giorni. Che maestà olimpica nella sua persona, che gravità piena di significato nelle sue frasi, che eloquenza nei suoi saluti e nelle sue strette di mano!

Gli adoratori del sole che sorge gli si affollavano intorno più ossequiosi che mai, serii s'egli era serio, faceti s'egli era faceto, sollecitanti il suo patrocinio con lo sguardo e con le parole.

— Chiacchiere dei giornali, — diceva l'egregio uomo, — tutte chiacchiere.... Non c'è nulla di positivo.... Mio fratello non si è ancora deciso.... Ha scritto anche a me per domandare il mio parere.... Io sono franco.... l'ho sconsigliato....

— Oh.... questo poi....

[203]

— Ma, caro signor Isidoro....

— Sì, sì.... Il potere?.. Brighe, fastidi.... niente altro.... Esser servi di tutti, avere una folla di nemici, vedersi messi in berlina per le gazzette, ecco ciò che significa stare in certi posti.... Meglio l'essere oscuri, mille volte meglio.... Almeno io la ho sempre pensata così.

Ma mentre parlava in pubblico su questo tuono, il signor Isidoro scriveva due volte al giorno al senatore commendatore per eccitarlo a romper gli indugi, ad accettare il portafoglio, a dar questo nuovo lustro al nome dei Ferrarecci.

La combinazione ministeriale in cui doveva entrare il commendatore Filiberto andò fallita, e svanirono con essa le splendide prospettive del signor Isidoro. Egli cercava di fare il disinvolto e diceva: — Meglio così.... L'avevo sconsigliato anch'io....

Quindi riscaldandosi da sè, come avviene sovente, egli si scagliava contro la politica. — Io predico sempre a mio fratello che si ritiri, che di gloria ne ha ormai abbastanza, che avrebbe diritto di riposarsi.... Tanto e tanto nessuno gli è grato perchè si ammazza lavorando da mattina a sera.

Però quando un giorno un suo conoscente gli fece la burletta di dirgli a bruciapelo: — Mi assicurano di aver letto in un giornale che tuo fratello rinuncia a tutti i suoi uffici e rientra nella vita privata, — il signor Isidoro divenne bianco come un cencio lavato, corse prima a casa a veder se ci fossero lettere del commendatore, poi al caffè a leggere [204] i fogli e non ebbe pace finchè non acquistò la certezza che in quella notizia non c'era ombra di vero.

Eppure, alla stretta dei conti, che cosa ci guadagna il signor Isidoro dalla posizione di suo fratello, se in tanti anni non è stato fatto nemmeno cavaliere della Corona d'Italia? Non inarchi le ciglia, gentile lettrice; pare impossibile, ma è così. Il commendatore Filiberto, scrupoloso com'è, vedrebbe malvolentieri accordato a un membro della sua famiglia uno speciale favore che si potesse ritenere attribuibile all'influenza di lui. Meglio quindi non recargli questo dispiacere, perchè se il dare una croce costa poco, il non darla costa ancora meno.

Infine, siam giusti, il signor Isidoro è persona discreta. Gli basta farsi credere depositario di segreti che non ha, stromento di concessioni che non può ottenere, gli basta sopratutto poter seccare il prossimo all'ombra della riputazione fraterna. E in quest'ultimo punto egli riesce a maraviglia, ve lo assicuro. Ci riesce quando vi trova per la strada e quando viene a visitarvi a casa, ci riesce quando vi dice le sue opinioni e quando vi domanda le vostre, ci riesce quando è loquace e quando è taciturno, quando parla grave e quando vuol essere arguto, quando è lusinghiero e quando è accigliato. Dio buono! Ho paura che ci riesca anche quando inspira le pagine d'uno scrittore. Signora lettrice, se si è annoiata davvero, non se la pigli meco, ma ne dia la colpa a lui, al fratello del grand'uomo. Egli ha tanti di questi peccatacci sulla coscienza che si può affibbiargliene un altro senza rimorso.

[205]

IL COLPO DI STATO DI CLARINA

Quando Clarina se ne avvide, cominciò coll'esserne stupita, poi gliene dispiacque, e finalmente, a forza di pensarvi, giudicò che la cosa era naturalissima, che doveva farsi, e doveva farsi anzi per mezzo suo.

— Se ne avvide? E di che? E che modo di raccontare è questo?

Il lettore ha ragione. Mi pento, e comincio secondo le regole....

················

Il salotto da pranzo non è nè troppo grande, nè troppo piccolo, è ammobiliato senza lusso, ma con discreta eleganza: un lume a petrolio in mezzo alla tavola vi spande un sufficiente chiarore.

Regna un silenzio profondo, interrotto soltanto dal crepitar della fiamma nel camminetto. In una poltrona vicina alla tavola è sdraiato il signor Emilio bell'uomo che a vederlo non mostra più di quarant'anni, sebbene abbia già qualche capello grigio in testa, e qualche piega un po' risentita sulla fronte. Del resto, ha fisonomia, oltre che simpatica, intelligente [206] e leale. Tiene, in bocca il sigaro, in mano una gazzetta, ma nè fuma, nè legge.... il rêve, come dicono i Francesi, o el fila caligo, come si dice espressivamente in Venezia. Dirimpetto a lui, e fissandolo ad ogni tratto senza lasciarsi scorgere, è seduta la Clarina, avvenente ragazza sui diciotto, seppure li ha, con occhi pieni a un tempo di vivacità e di dolcezza, labbretti di rosa fatti apposta per sorridere e per dare e ricever baci, e folti capelli di color castagno, colore che dai poeti (ad eccezione dell'Aleardi nell'Ora della mia giovinezza) non si vuol celebrare, ma che incornicia in guisa mirabile un leggiadro visino. È pallida alquanto, ma non datevi pensiero, io non ho punto intenzione di farvela morir tisica, e se fu malata, oggi sta perfettamente. Infine, ho l'onore di presentarvi l'Angelica, zitellona che ha compito ormai i nove lustri, che tiene il quid medium tra la cameriera e la dama di compagnia, che ha visto nascere la Clarina e morir la povera mamma di lei, e che è trattata a buon dritto come un membro della famiglia. Oltre all'affetto sviscerato pe' suoi padroni, l'Angelica va distinta per tre qualità; un abborrimento smisurato pel matrimonio, una tenerezza grandissima per un pingue gatto soriano che porta il nome singolare di Artaserse (nome impostogli dalla padroncina in un momento di fervore per la storia di Persia) e un'abitudine inveterata di dormire tutte le sere d'inverno dalle sette alle otto col sullodato animale sulle ginocchia nella stanza ove stanno Clarina e suo padre, a cui l'Angelica dice di voler tener [207] compagnia. Altro che compagnia! Ella dorme come un serpente boa dopo che si è ben pasciuto. In questo momento però ella è tuttora svegliata, quantunque il capo cominci a divenirle grave, e il silenzio, in lei inusato, accenni all'approssimarsi di Morfeo. Il gatto Artaserse con occhi semichiusi le sonnecchia in grembo, e solo di quando in quando mette fuori la lingua a leccarsi i baffi, umidi ancora di qualche ghiotto manicaretto; le corse precipitose e un miagolio erotico di altri gatti sul tetto delle case vicine rompono la quiete della stanza. L'Angelica dà un balzo sulla sedia con notevole incomodo del tranquillo Artaserse il quale si sente minacciato nella sua posizione. Nondimeno la bestia, se oso chiamar così un quadrupede tanto stimato, ritrova presto il suo centro di gravità, e l'Angelica cacciandogli la mano entro il morbido pelo e carezzandogli il muso con quell'espansione che non volle usare con nessun uomo al mondo, esclama: — Beato te, Artaserse, che non hai di queste seccature! — Il ben pasciuto animale non si preoccupa dell'allusione offensiva, ma torna a socchiudere gli occhi, e a russare. Il signor Emilio sorride fuggevolmente, e la fanciulla dà una scrollatina di spalle.

Suonano le sette all'orologio dell'andito. È l'ora in cui l'Angelica e il suo micio sogliono addormentarsi davvero, è l'ora delle confidenze tra padre e figliuola.

Ma stasera le labbra di entrambi sono suggellate. Tic tac, tic tac; battono i secondi, passano i minuti, [208] le ultime bragie scoppiettano nel camminetto, i due dormienti empiono la stanza del loro grave respiro, ma la Clarina ed il signor Emilio non dicono una parola.

Finalmente Clarina si alza dal suo posto, comincia col dare un'occhiatina al termometro appeso alla parete vicino alla credenza, poi fa un rapido cambiamento di fronte, e sfiorando appena il tappeto co' suoi piedini leggieri, va a sedersi accanto al signor Emilio, gli mette un braccio intorno al collo, gli leva di bocca il sigaro e di mano il giornale e bisbiglia: — Babbo.

Egli alza su lei il viso atteggiato a infinita dolcezza, le ravvia con la mano i bruni capelli sulla fronte, e dice: — Clarina mia, ti senti proprio bene stasera?

— Come un pesce. O perchè sono un po' pallida mi crederesti ancora malata?

— Dunque non c'è proprio più nulla, nulla?

— Ma nulla affatto. Vuoi vedermi ballare?

— Eppure, via, non me lo nascondere, non sei del tuo umore consueto.

— Oh bella! A vederti così serio gli è naturale. Me ne sono accorta, sai....

— Di che? — interruppe il signor Emilio, arrossendo subitamente.

— Del tuo cangiamento d'umore, — rispose Clarina, facendosi rossa alla sua volta.

— Ah!... — esclamò egli, come se fosse sollevato d'un peso. — T'inganni, Clarina.

[209]

— No, babbo, è così.... Oh ma io non sono indiscreta; so che non ami di essere interrogato su questo proposito, e mi taccio.... È un tuo difetto, ma ci vuol pazienza. Del resto, è vero, non son ilare nemmeno io... Penso....

— A che cosa?...

— Non saprei spiegarlo, è una folla di pensieri che mi si accumulano in mente.... Ma, prima di tutto, penso ad una che non ho conosciuta....

— A tua madre, povera Clarina?

— Sì, babbo, e quando rifletto che sei rimasto così solo....

— Solo, bimba mia? Non ci fosti sempre tu?

— Oh è un'altra cosa, — mormorò la fanciulla, chinando gli occhi a terra, e mettendosi un dito sul labbro. — Chi sa ch'io non sia invece un inciampo?...

— Clarina, — proruppe con accento severo il signor Emilio, — t'ho io mai dato il diritto di parlarmi così? Vaneggi forse stasera?

— Babbo, babbo, non prendere in mala parte le mie parole, — disse supplichevole la vezzosa giovinetta, chiudendogli la bocca con un bel bacio. — Credimi, ho tanti peccati verso di te.... Voglio dire.... ma mi lasci proprio cominciar da principio?

— Su, parla, la singolare fanciulla che sei.

— Son quindic'anni e più, non è vero? da quella sera? La povera mamma così bella, e buona, e giovine, domandava di me. — La Clarina dorme, — le dissero. Ella sorrise con mestizia, susurrò a fior di labbra: — Or ora dormirò anch'io, — si volse dolcemente [210] sul fianco, portò la mano sotto il capo, e si addormentò.... per sempre.... Nella stanza contigua, pargoletta di due anni e mezzo, dormivo io pure, ma d'un sonno diverso.... Ero io pure piegata da un lato, avevo io pure la mano sotto la testa, precisamente come lei.... Me lo disse tante volte l'Angelica.... Tu, poichè tentasti invano di rianimar co' tuoi baci quella tua cara, ti trascinasti fino alla mia cameretta, e là, abbandonata la persona sopra una sedia vicino al mio letticciuolo, posasti il capo stanco sulla mia coltrice, cercando nelle linee del mio viso le sembianze della povera estinta, e sentendo nel mio respiro un alito della sua vita. L'Angelica, occupata in più tristi cure, non venne mai nella stanza, tanto solitaria, tanto fievolmente rischiarata, quanto la stanza vicina era piena di moto e di luce sinistra. L'alba, penetrando attraverso le persiane, trovò me dormente e te vigile accanto, e quand'io mi svegliai, fu per te il mio primo sorriso che, subito dopo, per quel che mi assicurano, si mutò in pianto dirotto. Vedendo poscia altri bimbi in condizioni simili, mi parve capire che in quell'età la sventura non s'intende, ma s'indovina.... non si sa perchè si pianga, ma si sente bisogno di piangere.... Tutti codesti particolari io li ebbi in parte da te, in parte dall'Angelica; se non son veri, dimmelo....

— Sono verissimi, ma non so perchè tu mi faccia questo discorso.... Sono ricordi penosi....

— Devi permettermi di parlare: ho il cuore che mi trabocca.... Quando siamo rimasti così, tu ed io, [211] tu avevi venticinque o ventisei anni; t'eri ammogliato giovanissimo. Eri bello, gagliardo, intelligente, operoso; potevi avere il mondo per te, potevi ricominciare la vita come si ripiglia una strada un momento interrotta.... ma c'ero io, così gracile, eppure così insuperabile intoppo...,

— Oh! Clarina....

— Si, intoppo. Perchè nessuno si frapponesse a noi due, tu hai voluto rimanere solo, perchè io non dovessi subire le vicende di una esistenza avventurosa, tu ti sei negato il soddisfacimento di ogni onesta ambizione: potendo essere, pur che tu lo volessi, felice e celebre, hai prescelto di essere derelitto ed oscuro.... Oh lo so, lo so quello che tu vuoi dire: che il mio amore ti compensava di tante altre cose.... E fino a un certo punto lo credo anche.... ma non è tutto.... io ero cresciuta amandoti di un amore appassionato, ma sospettoso, egoista. Non solo credevo di poter bastare a quanto v'era d'affetto nell'anima tua, ma mi pareva anzi che tu non avessi diritto a domandare di più; che tu dovessi appagarti de' miei sorrisi, divertirti de' miei giuochi, andar pazzo pe' miei capricci. Ero superba, ma ero anche gelosa di te. I giorni che tu venivi a prendermi a scuola erano per me giorni di festa. Quando t'inchinavi a baciarmi in presenza delle mie compagne, io mi guardavo intorno pavoneggiandomi tutta, come se volessi dire alle altre: — Quale è di voi che abbia un così bel babbo? — Vedi; tu hai conservato la tua elegante persona, sei ancora un [212] bell'uomo, non c'è che dire (non ridere!) ma c'è qualche impertinente filo bianco nei tuoi capelli, c'è qualche grinza sulla tua fronte. Allora, dieci, o dodici anni fa, eri nel tuo pieno splendore....

— Oh che bimba! — disse il signor Emilio, carezzandole i capelli.

— Ma, — continuò imperturbata la Clarina, — ma se tu poi pigliavi sulle ginocchia un'altra fanciulla, e anch'ella per quel tuo fascino arcano ti sorrideva festosa, non ti so dire quanta stizza io provassi. Già te ne sarai accorto, perchè io non facevo complimenti.... Un giorno solenne per la mia vita fu quello in cui, divenuta ormai grandicella (aveva, credo, dieci anni) potei uscire di casa attaccata al tuo braccio. Mi conveniva stare un po' in punta di piedi, ma avrei fatto altro che quello! Io ritengo che mi sarei fatta volentieri precedere per le vie da un tubatore che annunziasse ai popoli la grande novella. Ben se ne rammenta l'Angelica che sa quali esigenze io avessi in quel dì pel vestito e l'acconciatura. A forza di star dinanzi allo specchio mi persuasi (vedi vanità) che, se io andavo superba del mio cavaliere, tu non potevi scontentarti della tua dama. Lungo la strada s'incontravano signori e signore a cui tu facevi bellissime scappellate, mentre io salutavo con un sorriso di degnazione. Mi ricordo di aver tossito due volte passando dinanzi alla fruttaiola che stava sull'angolo per richiamar la sua attenzione sull'importante spettacolo. Ma la volgarissima [213] donna occupata a smerciare un panierino di fragole, non se ne diede nemmeno per intesa. Dopo quel giorno io non credo d'averti lasciato tranquillo una settimana. Bisognava far sempre quella famosa passeggiata, bisognava sempre mostrarsi al colto pubblico. Già io non sapevo nemmeno concepire che tu potessi desiderare un miglior trattenimento di quello del condurmi a passeggio, e quando tu mi adducevi un'occupazione, o un impegno, io mi annuvolavo subitamente. Era però ben altra cosa se qualche sera tu ti proponevi di rimanere in casa a tenermi compagnia. Allora, s'era d'estate, ci mettevamo sul bel terrazzo che dà in giardino, lì in mezzo a quelle piante di limoni che spandono una sì grata fragranza; e, s'era d'inverno, stavamo qui in questo salottino, proprio come adesso, senonchè l'Angelica allora non pigliava sonno così facilmente. Ed io t'interrogavo sul passato, e tu mi parlavi della mamma, e me la descrivevi con tanta evidenza che mi pareva sempre d'averla dinanzi agli occhi, bella, elegante, gioconda. E ad ogni uscio che s'apriva e a ogni fruscìo di veste che mi feriva l'orecchio mi pareva impossibile che non dovesse esser lei, proprio lei che mi venisse dinanzi e dicesse: — Son qui, Clarina. M'hai aspettata un pezzo, non è vero? ma ormai starò sempre, sempre con te. — E così del suo soffio e della sua immagine io avevo popolato la casa, e spesso mi faceva l'effetto come s'ella fosse davvero con noi.... E allora m'accorsi che le mie gelosie eran per lei, che io dovevo custodire [214] in nome di lei le pareti domestiche da ogni intromissione profana. Con questo pensiero mi parve di nobilitare il mio ufficio di guardiana ombrosa ed arcigna. L'Angelica mi secondava benissimo, e tengo per fermo che due creature meno ospitali di noi non potessero trovarsi in tutta Italia, a cercarle col lumicino. Non puoi immaginarti che profonda antipatia io sentissi per quella signora Agliani che è poi andata a stabilirsi in Torino. Con la scusa ch'eravamo condiscepole con la sua bimba, e che per cagion nostra, vi eravate incontrati più volte alla scuola, ella t'invitò a farle visita.... che sfacciataggine!... e poi, sempre per accompagnare quella sua figliuola lunga e sottile come un giunco, ella veniva ogni momento nel nostro giardino, e raccontava ch'era vedova, senz'appoggi, col cuore vuoto, ecc., ecc. Che cosa me n'importava a me di questa roba? Basta, babbo, purchè tu non mi sgridi, ti confesserò che un giorno instigai l'Angelica a metterle farina invece di zucchero nella tazza del caffè....

— Oh che sgarbata! — disse il signor Emilio tra il serio e il faceto.

— Più tardi l'Angelica mi raccontò che la signora Agliani aveva messo gli occhi su te per farsi sposare, ma che tu non hai voluto nemmeno pensarci per cagion mia.... Eppure, babbo, quando di fanciullina divenni ragazza, e si svegliaron in me nuove fantasie e nuove idee, e mi si affacciarono agli occhi i languidi barlumi d'un mondo ancora inesplorato, e sentii l'irrequietezza dei quattordici a quindic'anni, [215] principiai ad accorgermi che per te dovevano esservi altri orizzonti, altri desiderii, altre speranze. Ma il primo movimento dell'animo mio non fu generoso: fu un accrescimento di sospetti. Mi pareva sempre che tu dovessi dirmi da un momento all'altro: — Cara la mia Clarina, io ti voglio un gran bene, ma tu non mi basti. — E se tu parlavi a bassa voce con l'Angelica, e se facevi ridipinger le stanze, o ricevevi un'ambasciata inattesa, io ero lì con tanto d'occhi e d'orecchi nella paura di una rivelazione sgradevole. Oppure entravo nella mia cameretta, e pensavo alla mia mamma, e piangevo....

— Sciocchina! — interruppe il signor Emilio. — Perchè immaginarti ciò che non era? O, in ogni modo, perchè non venir franca da me, e dirmi: — Babbo, nessun altro deve entrare in casa nostra: Clarina non lo vuole!

— Ah! Perchè? Perchè? Perchè in mezzo a tutto io sentivo una specie di rimorso del mio egoismo; e avrei voluto esser più buona, più ragionevole, più generosa.... ma non c'era caso.

— Andiamo bimba mia, datti pace, io ti voglio bene ugualmente, e se tu mi hai preso per confessore, io ti assolvo. Ti basta?

Con queste parole, il signor Emilio diede un gran bacio a Clarina e fece atto d'alzarsi. Ma ella premendogli la mano sulla spalla gli impedì di muoversi dicendo.... — Chè? Chè? Siamo ancora al principio....

— Al principio, di che cosa?

[216]

— Oh bella! del mio racconto.

— Davvero? Parla allora.

— Ti ricorderai che la mia selvatichezza aveva qualche eccezione. Due anni fa io andavo ancora al collegio. Ero una delle alunne più grandi e quindi più saggie, di quelle che ricevono le confidenze delle maestre e tentano d'isolarsi dalle loro condiscepole. In quel tempo appunto si allontanò dalla scuola per prender marito quella bella e sentimentale signora Adelina che c'insegnava il francese e la musica. Io ero vissuta con lei in qualche dimestichezza, e anzi ci fu un tempo ch'ella esercitava su di me un fascino irresistibile. Non so che cosa nasca in voi altri uomini quando siete adolescenti; so che in noi giovinette accade spesso di provare un non so che di romantico, d'ineffabile per qualche persona del nostro sesso che riempie alcune delle condizioni del nostro ideale. Ci dispiace quasi di non essere uomini per poter dirle: — Se siete malinconica, io cercherò di farvi sorridere; se siete sola, io vi terrò compagnia; se avete bisogno d'affetti, io v'amerò; Ecco la parola.... l'ho detta.

— Sai, Clarina, che stasera per una ragazza....

— Parlo troppo, non è vero? Me ne accorgo anch'io, ma bisogna che tu mi lasci parlare.... Oh la signora Adelina! Con quella persona svelta, con quegli occhi neri, grandi, soavi, con quell'aspetto così gracile, con quel viso così pallido! Ah il pallore e la gracilità, non lo nego, avevano gran parte nella mia simpatia. Ci sarebbe voluto poi di tratto [217] in tratto qualche leggero colpo di tosse, e non già una malattia di consunzione, (Dio guardi!).... ma una lontana minaccia. Da questo lato la signora Adelina era alquanto restìa a compiacermi, ella non aveva mai un dolore di capo, mai un po' di languore, ed era fornita di un grande appetito. Nondimeno, io l'ero sempre ai panni, e m'aspettavo ogni giorno che dovesse accaderle qualche strepitosa avventura. Perciò, in mezzo a tutta la mia ammirazione, non volevo condurla troppo spesso a casa, parendomi che nulla dovesse resistere alla sua virtù affascinatrice.... Fetonte non fece un maggior capitombolo di quello che io mi facessi un giorno che la signora Adelina mi chiamò da parte annunciandomi ch'ella voleva dirmi qualche cosa in segreto. Mi preparai a una rivelazione straordinaria, orgogliosa fuor di misura dell'onore di cui mi si credeva degna. Supponevo che vi sarebbero lagrime, svenimenti e singhiozzi, e, quanto a me, ero già commossa in anticipazione. La signora Adelina mi condusse nel salotto ove la direttrice soleva ricevere le famiglie delle alunne, e ivi con faccia più ilare ch'io non avrei voluto, mi disse:

— Dunque, la mia bimba, ci lasciamo.

— Oh! — fec'io con voce tremula.

— Sì, cara, io mi marito. Il mio sposo non è nè troppo giovine, nè troppo bello, ma è benestante, ha fondi propri, ha uno stato assicurato, e io non potevo aspettarmi meglio di così..... Che cos'hai, Clarina?

[218]

— Nulla.... il dispiacere della vostra partenza. — balbettai confusa.

— Coraggio, coraggio! — rispos'ella ridendo — verrai a trovarmi a X.... nella nostra farmacia....

Di male in peggio. Quest'uomo nè bello, nè giovine, era anche farmacista! E Adelina acconsentiva a sposarlo, e Adelina non si strappava i capelli, e Adelina non isveniva nelle mie braccia!...

T'assicuro, babbo, che questo fu uno de' maggiori disinganni della mia vita.

— Senti, Clarina, — interruppe il signor Emilio, — tu racconti le cose con bastante buon garbo, ma io non so intendere ove tu voglia riuscire.

— Pazienza, e arriveremo. Quindici giorni dopo la partenza della signora Adelina giunse nella scuola la istitutrice che doveva sostituirla. Grande curiosità nelle alunne; soddisfazione poca. Già era impossibile agguagliare la signora Adelina. La nuova venuta, la signora Fanny, doveva essere più vicina ai trenta che ai venti, e dicevano anzi che anche i trenta li avesse passati. Il tipo di lei non era perfettamente italiano, e invero era nata di madre inglese. Era piuttosto alta della persona, aveva gli occhi azzurri, e i capelli biondi che le scendevano in lunghe anella sul collo. Questa dei capelli era forse la sua maggior bellezza, era certo l'unica sua vanità. Il suo volto era alquanto affilato, e aveva un fondo di malinconia: sulla sua fronte era la traccia di molti dolori patiti, mista a un non so che di risoluto e virile che imponeva il rispetto. Vestiva [219] semplice, quasi dimessa, e non mi ricordo d'aver visto mai un colore smagliante nel suo abbigliamento. Poichè ella adempiva egregiamente all'ufficio suo, e, da questo lato, convien dirlo senza reticenze, era di gran lunga superiore alla signora Adelina, non tardò a conciliarsi la stima di tutta la scuola. I suoi modi dolci, benchè un po' riservati, l'assennatezza de' suoi discorsi da cui traspariva una cultura fuor del comune ne facevano un perfetto contrapposto della signora Adelina così gaja, così giovanilmente spensierata, così proclive a scherzare con noi.

Avvezza a chiedere la tua opinione su tutto, e a farne un grandissimo conto, t'interrogai anche riguardo alla signora Fanny, dopo un primo colloquio che tu avesti seco. Tu mi rispondesti con breviloquenza telegrafica.

— Ti pare una signora di garbo?... io chiesi.

— Molto — fu la tua risposta.

— E bella?

— Punto.

Era quello ch'io desideravo. La signora Fanny, donna di assai garbo, ma punto bella, poteva essere ammessa in casa nostra. Clarina decideva così nella sua onnipotenza. E così avvenne. Siccome io lasciavo allora la scuola, la signora Fanny avrebbe continuato a darmi lezioni di lingua inglese e di musica. Quanto più io la conoscevo, tanto più la compagnia di lei m'era gradita e istruttiva, e perchè tu pure avevi agio di apprezzarla nei frequenti colloqui, una certa dimestichezza si andò formando tra voi. Oh! [220] Quantunque siano passati ormai tanti mesi non dimenticherò mai una sera del penultimo autunno....

— Quale, Clarina?

— La signora Fanny veniva anche allora come viene adesso spessissimo a visitarci verso le otto. Quella sera faceva un tempo magnifico, spirava un'aria mite, il cielo era d'una limpidezza cristallina. Sedemmo tutti e tre sul terrazzo. Di discorso in discorso, tu fosti tratto a raccontare del tuo matrimonio e della tua felicità così presto svanita. Incuorata dalla tua espansione, la signora Fanny volle ricambiartene con uguale confidenza e ti narrò d'un suo unico amore finito miseramente. Ella era stata più infelice di te, perchè non aveva convissuto nemmeno un giorno con la persona diletta. Una palla a San Martino le aveva ucciso sul colpo il fidanzato: ella non aveva potuto nè chiudergli gli occhi, nè deporre un fiore sulla sua tomba. Era una storia semplice come la tua: nulla di singolare, nulla di fantastico; ma questi due dolori così schietti e sinceri che per un momento si mischiavano insieme nello sfogo delle confidenze reciproche avevano in sè una potenza ammaliatrice contro cui io non sapevo resistere. Mentre voi parlavate, io piangevo in un angolo del terrazzo. Tu ti alzasti pel primo e porgendo la mano alla signora Fanny le dicesti: — Abbiamo tutti e due delle memorie da custodire, una specie di fuoco sacro da alimentare: ciò forma fra noi un vincolo fraterno. — Ella non rispose nulla, ma strinse la mano che tu le offrivi, passandosi [221] il fazzoletto sugli occhi. Poi si alzò anch'ella dalla sedia, venne presso di me e mi baciò in fronte. Io le gettai le braccia al collo abbandonandole il capo sulla spalla, e lasciai sgorgare le mie lagrime liberamente.... Tu eri rientrato nella stanza....

Oh come io mi sentivo meglio dopo quel vostro colloquio! S'era formato tra voi un legame che nulla turbava, che non feriva nessuna delle mie ricordanze, che non destava nessuno dei miei timori. Il cammino della mia vita, dal quale tu avevi con tanta sollecitudine sviato gli ostacoli e le amarezze, mi era reso ancora più facile: io avevo un altro braccio a cui appoggiarmi, un altro cuore in cui versare ciò che traboccava dal mio.... Egoista! Egoista! Sciocca ed egoista!

— Perchè ti accusi in tal guisa, Clarina? Ciò che ti rese tanto felice non esiste ancora? Non siamo sempre ottimi amici, la signora Fanny ed io? Non ti vuol ella il bene d'una volta? E che può farti pentire se tu cerchi in sì caste emozioni la tua felicità?

— La mia felicità? Ma sono io sola sulla terra, ma non ho obblighi che con me stessa, ma non ho da guardar che a me sola? E tu non ci sei per nulla nella mia vita?

— O che c'entro io in tutto ciò?

— Senti, babbo, bisogna proprio che tu non mi giudichi male da quel che ho fatto sinora... Adesso mi son ravveduta....

— Ma tu parli per indovinelli, Clarina.

— Mi spiegherò, purchè tu mi lasci discorrere [222] tutto d'un fiato, purchè tu non m'interrompa, e non faccia nè ih, nè oh, nè esclamazioni di sorta alcuna.... Tu ti ricordi benissimo il caso stragrande che si fece da te e dall'Angelica della mia ultima malattiuccia.... Quanto a me ritengo che non ci fosse il menomo pericolo....

— Oh ce n'era, ce n'era — uscì a dir vivamente il signor Emilio, rannuvolandosi in viso, e stringendo a sè la ragazza come per tema di qualche novella insidia. — Non lo disse forse anche il medico?

— Bella ragione! Ma ciò poco monta. Fatto si è che pareva non dovessero esservi nè cure, nè riguardi sufficienti per me. E io te ne ringrazio, sai, e ne ringrazio anche l'Angelica la quale per una figliuola non avrebbe potuto fare di più. In quei giorni la signora Fanny veniva spessissimo a informarsi di me, a salutarmi, e vedendo quante brighe tu e l'Angelica vi davate per amor mio, e come vi negavate il sonno e il riposo, s'offerse a dividere in giusta misura con voi le fatiche e le veglie. O perchè ella cogliesse meglio nel segno, o perchè fosse di carattere meno apprensivo, fatto si è ch'ella era molto più tranquilla, e quindi poteva con minor dispendio di forze prestare opera efficacissima. Ella volle rimanere parecchie notti nella mia stanza, sempre fedele esecutrice delle prescrizioni del medico, sempre indovinando ogni mio desiderio. Quand'io la vedevo pender su me e rassettarmi le coperte, e bagnarmi le tempie infuocate dalla febbre e guardarmi con que' suoi occhi intelligenti e tranquilli, e calarsi giù [223] giù sul mio capezzale fino a che qualche riccio dei suoi capelli biondi veniva a sfiorarmi la fronte, mi pareva come se la povera mamma vegliasse lei presso il mio letto.... Già la malattia aveva traversato quella che voi chiamate la crisi, e piegava verso una soluzione felice; nondimeno io mi sentivo immensamente debole: i miei giorni trascorrevano in lunghi sopori, i miei occhi s'aprivano a fatica, ond'io scorgevo, come attraverso un velo di nebbia, gli oggetti che mi passavano innanzi, e, pure avendo la coscienza di quanto mi avveniva d'intorno, non sapevo uscire dalla mia condizione d'inerte spettatrice....

Era una di quelle notti. La signora Fanny aveva a poco a poco lasciato cader la testa sulla sponda del mio letto: ella dormiva vicino a me: io sentivo il suo dolce respiro aleggiarmi tepidamente d'intorno, io sentiva la fragranza della sua morbida chioma diffusa. La lampada da notte posta sopra un tavolino in un angolo spargeva una luce tremula e fioca nella stanza, allungando talora con guizzi improvvisi l'ombra delle sedie, degli armadi e del letto. L'uscio si aperse. Eri tu, nè me ne meravigliai: quelle tue visite erano cosa solita. Ti approssimasti in punta di piedi, mi mettesti la mano sulla fronte; poscia, inchinandoti lieve lieve su me, mi baciasti a fior di labbra la bocca. La signora Fanny era sempre assopita. Tu rimanesti alcuni secondi immobile a contemplarci; poscia ti vidi abbassarti di nuovo e deporre rapidamente un bacio sopra i capelli di [224] lei. — (Qui Clarina pose la mano sulla bocca del signor Emilio che voleva parlare). — Ti rizzasti con un moto subitaneo, sospettoso quasi, e uscisti dalla camera.... Quello ch'io provai non so dirtelo:... al primo istante fu maraviglia....

— E di che mai, Clarina? — interruppe il signor Emilio, allontanando la mano con la quale ella voleva chiudergli le parole in bocca. — Seppur quello che credi aver visto non è un parto della tua fantasia, che cosa vi sarebbe da stupire se io mi fossi lasciato vincere dall'emozione vedendo un'estranea far teco le veci di madre?

— No, babbo.... Il dì appresso, quando il medico ti disse che potevi smettere ogni apprensione, ti vidi nella tua contentezza baciar l'Angelica quantunque avesse attorno un grande odor di cipolla, e perfino la zia Lena quantunque fosse più brutta del consueto; ma era un altro modo di baciare....

— Orsù Clarina, tu fai discorsi inutili, e anche un poco sconvenienti per una ragazza.

— Ci vuol pazienza. Ho incominciato, e bisogna che dica tutto, e che tu ascolti tutto. Descrivere lo stato dell'animo mio in quella notte, dopo che tu uscisti della mia stanza, sarebbe impresa assai assurda. Dissi che il mio primo sentimento fu di maraviglia. È vero. La dimestichezza formatasi tra la signora Fanny e te non aveva mai passato quel limite oltre al quale comincia la galanteria. V'era nella vostra amicizia un non so che di contegnoso che pareva dire. — Fino a questo punto, sì; più in là, [225] no. — Alla meraviglia (perchè dovrei negarlo?) successe un granellino di rancore verso la signora Fanny. La donna ch'io amavo senza sospetto, la donna alla quale io avevo parlato e contavo parlare tante volte ancora della mia mamma, s'intrometteva invece fra me e lei, distruggeva il mio bel sogno, diveniva una rivale di quella che io non avevo mai conosciuto, ma che avevo imparato da te ad amare con tutte le potenze dell'anima. Io sentivo sotto le palpebre chiuse gli occhi gonfiarmisi di lacrime, io sentivo affollarsi nella mia mente i rimproveri che avrei indirizzato alla signora Fanny, appena ne avessi avuto la forza. Ma in verità, questa forza l'avrei mai avuta? Non sarei stata disarmata dalla dolcezza e dalla serena mestizia del suo volto? Da quella fronte severa che il dolore aveva potuto solcare, ma che la vergogna non aveva mai fatto arrossire?

Nel mentre io m'abbandonavo a queste fantasie, ella si era svegliata, quasi vergognosa che il sonno l'avesse colta, e dopo d'essersi piegata su di me per veder s'io dormiva (e, tra per la mia debolezza, tra per gli affetti che si combattevano nell'animo mio, io fingevo davvero di dormire) guardò l'orologio, tolse la lampada da notte dal tavolino e schiudendo le invetriate la posò sul davanzale e la spense: indi, aperti alquanto i registri delle persiane, lasciò entrare nella stanza un po' d'aria e di luce. Appoggiata allo stipite della finestra, stette colà qualche minuto, immobile, ritta, pensosa, stringendo sul petto [226] la veste discinta.... I primi chiarori dell'alba facevano risaltare di più il pallor naturale del suo viso, la brezza mattutina agitava lievemente i suoi biondi capelli che le scendevano giù pel collo in vago disordine. Nel fissarla attentamente, con un occhio a cui le inattese rivelazioni di quella notte accrescevano la virtù indagatrice, io m'accorsi che, se la signora Fanny non era bella, le traccie della bellezza v'erano ancor sul suo viso, ma sepolte, per dir così, sotto lo strato che vi avevano deposto i lunghi anni di patimenti. E non so s'io m'ingannassi, ma mi pareva che qualche lampo almeno di quell'avvenenza dovesse brillar nuovamente, solo che la gioia tornasse nell'anima alla poveretta. A che pensava ella in quell'istante? Forse a' bei sogni di fidanzata quando ella intrecciava la ghirlanda pel suo giorno di nozze? Forse al campo sanguinoso di san Martino ove il suo diletto cadeva per non rialzarsi mai più? O sospirava vedendosi omai al confine estremo di giovinezza, con le rose del volto sfiorite, con l'anima deserta d'affetti, e costretta a viver sempre d'una memoria? O sentiva un arcano bisogno d'amare, d'essere amata prima che il tempo inesorabile gliene contendesse perfino la speranza?.... Povera signora Fanny! Una lacrima le colava lentamente dal ciglio: ella si passò la mano sulla guancia per asciugarla, poi si tolse bruscamente alla sua fantasia, e tornò da me. Io feci le viste di svegliarmi allora, e pentita d'aver, fosse pure un istante, accolto nel mio cuore de' sentimenti ingenerosi verso di lei, [227] feci uno sforzo supremo, e presa la mano ch'ella mi tendeva, la portai alle labbra coprendola d'ardentissimi baci.

— Calmati, calmati, Clarina mia, — mi diss'ella, — perchè agitarti così?

— Perchè sento, — io risposi, — che non potrò mai renderle la centesima parte di quello che ella ha fatto per me.

— E che ho fatto, piccina? Non è mica un merito quello di volerti bene. E poi, noi altre vecchie zitelle, dobbiamo pure affezionarci a qualcheduno. E quando vediamo soffrire delle creature giovani, leggiadre come tu sei, ci pare, assistendole, di assistere i figli che avremmo potuto avere.

Sedette vicino a me, carezzando la mano che io lasciavo cader penzoloni dal letto, e non aggiunse parola.

— Io era ancora troppo debole per continuare il colloquio, ma fissavo con occhi intenti quel suo volto pensoso, e quand'ella si alzò nuovamente, e dinanzi allo specchio ricompose alquanto il suo abbigliamento e ravviò sulla fronte i capelli disordinati, io le tenevo sempre dietro con lo sguardo e, più ancora, con l'anima. E pensavo agl'incidenti di quella notte, e a un'altra esistenza isterilita in gran parte per colpa mia. Si, v'era un'altra persona che s'avvicinava a quello stadio della vita in cui le maggiori dolcezze non sono più che una memoria ed un desiderio, v'era un'altra persona che per me aveva logorato i suoi anni più belli, compressi i suoi palpiti più ardenti, anticipato [228] l'età in cui ogni passione si spegne naturalmente... Oh babbo: ho bisogno di dirtelo? Quella persona eri tu. Espiare i miei torti, riparare a due sventure in un tempo, qual nobile impresa non era la mia? Quanto più io ero stata fino allora sospettosa, egoista, tanto più sentivo corrermi l'obbligo di essere ormai il buon angelo della casa, di farmi uno stromento di quella felicità che avevo voluto impedire. Ebbene, babbo, da quell'istante io non ebbi altro pensiero. Ciò che tu provassi per la signora Fanny ormai io lo sapevo....

— Ma tu t'inganni, Clarina, ma tu deliri, — proruppe il signor Emilio, visibilmente commosso.

— No, non m'inganno e non deliro, e nulla potrebbe sradicare questo convincimento dall'animo mio. Quello ch'io non potevo sapere ancora con ugual sicurezza era ciò che pensasse la signora Fanny. Da quell'istante, usando un'arte ond'io non mi credevo capace, spiai accortamente ogni suo atto, ogni parola, ogni sguardo.... e infine....

— Infine, che cosa? — chiese il signor Emilio, mal potendo nascondere la sua agitazione.

— Zitto! — gridò Clarina, tendendo l'orecchio.

Il campanello di strada aveva suonato, il gatto Artaserse con un immenso e incivile sbadiglio si era ritto sulle quattro zampe arcuando portentosamente la schiena, tanto da parere un dromedario, l'Angelica s'era scossa ella pure, dicendo con rara ingenuità: — Oh!... hanno suonato.... Ero lì lì per addormentarmi.... — Intanto s'intese aprire e poi chiudere [229] l'uscio della scala, e un passo di donna si fece sentire nell'andito.

— E proprio la signora Fanny, che viene a farci la sua solita visita, — disse Clarina, muovendosi in fretta per andarle incontro.

— Bada, Clarina, — interpose serio serio il signor Emilio, — che non voglio fanciullaggini. E tutta la tua cicalata di questa sera dev'esser come non avvenuta.... Già, io uscirò di casa.... — E si alzò in piedi, inquieto, turbato.

— Un momento, un momento, — susurrò la vispa ragazza, con accento deciso.

Era appunto la signora Fanny, vestita a bruno, e con una fascia di lana violetta intorno al capo e alla bocca.

— Come siete rossa in viso, signora Fanny! — esclamò Clarina, aiutandola a levarsi d'intorno lo scialle e la fascia. — Fa proprio freddo fuori?

— Si gela.

— Ebbene; si metta presso al camminetto. Su, Angelica, falle posto.

La zittellona si levò un po' brontolando, e tenendo fra le braccia il preziosissimo micio che dava segni non equivoci di disapprovazione.

Mentre la signora Fanny stava per sedersi, la Clarina disse con indifferenza e come se si trattasse d'una cosa da nulla:

— A proposito, signora Fanny, la sa la notizia?

— Quale?

— Che il babbo è sul punto di riprender moglie.

[230]

Queste parole caddero nella stanza come un fulmine, e gli effetti da esse prodotti ebbero un carattere di contemporaneità che non si può rendere nella narrazione.

— Misericordia! — gridò l'Angelica esterrefatta, lasciando cadere il pingue Artaserse, che, sorpreso dell'insolito trattamento, corse a rifugiarsi sotto la credenza soffiando in un modo affatto ostile.

Il signor Emilio die' un balzo prorompendo in tuono di rimprovero: — Clarina!

Ma intanto la signora Fanny era divenuta bianca come un lenzuolo, e aveva afferrato convulsamente con una mano la spalliera della seggiola, mentre si passava e ripassava l'altra mano sugli occhi, come per diradare la nebbia che vi si andava addensando.

Clarina le fu addosso in un attimo, e gettatele le braccia al collo (la signora Fanny s'era lasciata cader sulla seggiola) le disse con lacrime dirotte: — Oh perdona; lo sapevo che tu dovevi essere la mia mamma. Era il babbo, cattivo, che, pur volendoti bene, non si persuadeva a niun costo di ciò ch'io avevo indovinato....

La signora Fanny mise un grido ineffabile, e questa volta svenne davvero.

Le furono tutti attorno, l'Angelica che non capiva sillaba dell'avvenuto, il signor Emilio, ormai inabile a simulare, e di null'altro sollecito che di confermare le indiscrezioni della figliuola, e la Clarina finalmente, giuliva, trionfante, come un generale che ha vinto una battaglia.

[231]

Il resto ve lo potete immaginare. Solo vi dirò che, al finire di quella sera così piena di emozioni, il signor Emilio, abbracciando teneramente Clarina, le disse: — Sai che il tuo si può chiamare un colpo di Stato?

— Lo so, ma se fossero tutti di questo genere, il mondo non avrebbe a lagnarsene.

[232]

DUE ORE IN FERROVIA

Io non sono azionista di nessuna società ferroviaria, non ho garantito (ci mancherebbe altro,) il prodotto chilometrico di nessun tronco, non mi appassiono troppo nelle questioni del riscatto e dell'esercizio governativo, non ho un trasporto straordinario per le frasi di metodo sul fischio della locomotiva che è l'araldo della civiltà, ecc., ecc.; eppure vi dico: viaggiate in strada ferrata. Non c'è un modo migliore di raccogliere osservazioni, di tener desta la fantasia. E non è punto necessario di accingersi a viaggi lunghi, di andare da Venezia a Pietroburgo e da Pietroburgo a Parigi. Basterà di tanto in tanto una breve corsa di un paio d'ore.

Se volete seguire per intero il mio consiglio, prendete il biglietto di seconda classe e scegliete i treni omnibus. Vi spiego subito il perchè. La terza classe è troppo incomoda; troppi uomini che sanno d'aglio, troppe donne sgangherate, troppe galline che legate insieme per le zampe e cacciate sotto i sedili fanno uno strepito d'inferno. La prima è troppo compassata; troppi Inglesi che consultano la guida del Baedeker e il dizionario tascabile, troppi senatori e deputati [233] che discorrono di politica, troppi banchieri, troppi conti, troppi baroni. Nella seconda classe invece trovate la maggior varietà di tipi, quindi la più ricca fonte di osservazioni.

Quanto al treno omnibus, per chi non ha fretta, esso è di gran lunga il migliore. Coi treni diretti la compagnia non si muta che a grandi intervalli; invece coi treni omnibus è un continuo succedersi di figure diverse, come per effetto di una lanterna magica.

— Ma, — direte voi, — se s'incontra una compagnia piacevole che gusto c'è a mutare?

Questa domanda mostra in chi la fa una grande inesperienza del vero carattere del viaggio in ferrovia dal punto di vista ond'io amo considerarlo. Anche astraendo dal fatto che le compagnie piacevoli non sono le più comuni, è indubitabile che l'impegnarsi in un dialogo nuoce al raccoglimento necessario all'osservazione.

Nel viaggio di ferrovia, come io lo intendo, è utilissimo il non imbattersi in nessuna persona di conoscenza, e l'andare a rilento prima di mettersi a conversare cogl'ignoti. Il carattere dei proprii simili s'indovina meglio quando tacciono che quando parlano con gente veduta per la prima volta. E, in strada ferrata, il meglio che si può fare a questo scopo è di rannicchiarsi in un angolo, aprire un libro e guardar di sottecchi. Non è poi una grande indiscrezione; a ogni modo è una indiscrezione che, qual più qual meno, commettono tutti. Che in compartimento si sia in quattro, in otto o in dieci, è certo che questi [234] otto, sedici o venti occhi s'incontreranno con piglio scrutatore.

Si principia sempre nella stessa maniera. Le sacchette, le valigie portatili, gli ombrelli, gli scialli sono collocati alla meglio sulla reticella, le donne raccolgono le sottane, gli uomini si stringono quanto più possono, qua e là è bisbigliato qualche scusi sommesso, a cui succede un cerimonioso oh la prego; poi tutti si lagnano della Società ferroviaria che vuole stipare la gente nei carrozzoni come le sardelle in barile, tutti rilevano con impaziente ironia gli interminabili gridi di partenza senza partir mai; c'è l'uomo arguto che paragona la macchina che si provvede d'acqua ai cavalli a cui si dà la biada; c'è la donna di spirito che al sentir il campanello, al cui suono si parte davvero, dice con un sorriso pretenzioso: Ecco il campanello della messa. Finalmente il convoglio esce dalla tettoia e si stabilisce un certo silenzio. Guardiamo un po' intorno a noi.

Trovo a questo proposito i ricordi d'una gita recente. Chi è quella signora dall'aria sentimentale, seduta presso il finestrino a sinistra con un libro in mano? Prima di tutto un'occhiata di sbieco al libro. Se non si può vedere il titolo contentiamoci per ora dei connotati esteriori. Formato in-12.º, coperta gialla; ahimè! indizio gravissimo, sulla coperta una macchia d'unto. La lettrice dovrebbe essere una cameriera. La letteratura della cucina ha quasi sempre questo segno caratteristico. Una cameriera? Eppure le vesti sono abbastanza eleganti. Si, ma quando le si osservi [235] con un po' di attenzione si vedrà che sono vesti piuttosto fruste; senza dubbio gli abiti usi della padrona. Però il vis-a'-vis maschile (un giovinotto in calzoni caffè e latte e panciotto bianco a fiori lilla) non ha questi sospetti o è superiore ai pregiudizi di casta e comincia a slanciare alla viaggiatrice certi sguardi di fuoco che fanno temere un incendio. Il primo raggio di sole che entra nella carrozza dà appiglio alla conversazione: — Vuole tirare la cortina?... Aspetti.... Ecco qua. — Poi c'è un buffo di vento importuno. — Vuol chiudere il vetro? — Se non disturba a lei. — Anzi, le pare? Ecco fatto. — Questi due sono messi in movimento. Lasciamoli stare.

Proprio di fronte a me c'è un bellimbusto in guanti chiari che par poco soddisfatto della compagnia. Nella signora che legge egli ha fiutato la cameriera e non vuole sprecare per essa le sue occhiate da conquistatore, nè si degnerebbe a ogni modo di competere con quel tipo di garzone di negozio che le fa la corte; la sua vicina immediata ha una circonferenza di due metri e una buona quarantina d'anni sulle spalle, e una giovine che è con lei e siede alla mia sinistra è magra e gialla come una carota. Il bellimbusto, esaminate tutte queste cose, si leva i guanti. Fra la signora magra e la cameriera patetica siede un uomo di mezza età e in occhiali, che tiene spiegata davanti a sè la Gazzetta dei Prestiti. Dirimpetto a lui, il numero dei quattro si compie con un vecchietto sudicio e tabaccone che va mangiando ciambelle e raccoglie e beccola le briciole che gliene cadono giù pei calzoni.

[236]

E il treno cammina, e gli alberi piantati lungo la strada paiono correrci incontro rapidamente, e i fili del telegrafo per una strana illusione ottica sembrano alzarsi e abbassarsi a vicenda, e i cantonieri ritti, impalati dinanzi alle loro garette, fanno il segnale d'obbligo, e la macchina fischia, rallenta il suo corso e si ferma alla prima stazione. Movimento. La signora grassa e la signora magrissima discendono. Un oh di soddisfazione esce da tutti i petti. Si amerebbe che scendesse anche il vecchietto sudicio, ma egli rimane e seguita a mangiar ciambelle e a raccoglierne le briciole con la punta del dito bagnata sulla lingua. Restano due posti vuoti. Chi li prenderà? La gente passa davanti allo sportello e guarda dentro. Poi si ritira. Non le piace la compagnia. Il bellimbusto è inquieto e pare in forse di cambiar vagone. Quand'ecco il conduttore che precede due passeggieri e addita loro i due posti. Entra prima un signore maturo e urta nelle gambe della cameriera esageratamente protese verso quelle del suo vis-a'-vis. Al signore maturo tien dietro una giovinetta vispa, saltellante, vestita di percalle bianco e celeste, la quale con un passo di grazia evita l'ostacolo che arrestò un istante il suo signor padre e viene a sedersi proprio vicino al giovinotto elegante. Costui si ricompone, infila di nuovo i guanti e prende un atteggiamento pari alla circostanza. Il convoglio si muove. Il giovinotto, prima di riaccendere il sigaro che si è spento, chiede alla sua vicina se il fumo la disturba, e la vicina risponde con un garbatissimo — No, grazie.

[237]

Il signor padre intavola un discorso con la persona grave che ha in mano la Gazzetta dei Prestiti. La questione d'Oriente è il tema della conversazione. — Povero Abdul Aziz! Dicono che si sia suicidato, ma chi ci crede? — Lo avranno ammazzato, non ne dubiti. In Turchia si ammazzano tutti i sultani — dice il lettore della Gazzetta dei Prestiti, che è stato a Costantinopoli e conosce gli usi orientali. — Quell'Ignatieff — osserva l'altro con aria di mistero — voleva farla ai Turchi. — Sì, e i Turchi l'hanno fatta a lui. — C'è l'Inghilterra. — Un osso duro — Altro! — L'Inghilterra vuole l'integrità dell'impero ottomano. — Se la vuole! ha letto l'articolo dello Standard, organo di Derby? — No signore. — Lo legga e vedrà. — Brutti affari. Perchè la Russia pesca nel torbido. Gran potenza anche la Russia. — Cospetto! — Ma in mare l'Inghilterra la supera. — Non si può dir nulla come andrà a finire. — Non si può dir nulla. — Il meglio è stare a vedere.

Mentre i due politicanti deliberano di stare a vedere, il bellimbusto cerca di attaccar conversazione con la ragazza vestita di percallo, ma non riesce a cavarle di bocca che monosillabi. Allora egli si studia di produrle impressione in altra maniera, estrae di tasca un libro, e se lo pone sulle ginocchia in modo che la vicina ne veda il frontispizio e capisca che è un libro francese. Quando egli è ben convinto che la giovinetta ha acquistato questa importante cognizione, egli si mette a leggere, di tratto in tratto ripiega il volume sull'indice della destra e guarda nel [238] vuoto come persona che medita. Ma non c'è caso; la fanciulla non gli abbada e invece interrompe il padre nel bel mezzo delle sue disquisizioni politiche per chiedergli se prima di uscire di casa si sia ricordato di ordinare alla serva che dia da mangiare al canarino.

Il mangiatore di ciambelle ha lasciato cadere la testa sulla spalliera del sedile e dorme con la bocca semiaperta e con la barba piena di briciole. La cameriera e il suo galante continuano a intendersela molto bene e colgono ogni occasione per toccarsi le mani. Il giovinotto chic comincia a invidiare la sorte del compagno di viaggio meno esigente.

Nuova fermata e cambiamento di scena su tutta la linea. Discendono padre e figliuola, la cameriera, il bellimbusto, l'uomo della Gazzetta dei Prestiti e il vecchietto sudicio. Si resta per un momento in due: il don Giovanni di cucina ed io. Il don Giovanni di cucina, dopo aver seguito con l'occhio sin fuori della stazione la cameriera patetica, vede ch'io non posso certo risarcirlo di tanta perdita, e si rannicchia di malumore nel suo cantuccio.

Secondi avanti, grida il conduttore; sei posti vuoti. Ed ecco in primo luogo due signore in lutto strettissimo, poi una famigliuola di tre persone, marito, moglie e un bimbo di tre anni. Il marito mette a posto una sacchetta, una valigia di cuoio spelata, due ombrelli, uno sciallo, una cappelliera di cartone. Senza dubbio è un impiegato traslocato. Per due volte egli porta macchinalmente la mano al taschino del panciotto, e la ritira con un gesto che non tradisce la [239] più schietta soddisfazione dell'animo. Si rischia poco a scommettere che il pover'uomo ha impegnato in questi ultimi giorni l'orologio. La moglie ha un cerchio ribelle, che per quanto ella faccia, prende le più strambe posizioni e tiene alzata la gonna fino al collo del piede. Non ci guadagna proprio nulla. Il piede della signora è brutto per sè ed è reso ancora più brutto da un paio di stivali da uomo. Saranno stivali dimessi dal marito. Il bimbo che sarebbe bellino non brilla neppur esso per buon gusto nell'abbigliamento. Invece c'è da scommettere che egli non istarà mai fermo, e comincia a cascarmi addosso appena il convoglio si rimette in moto. Poi piagnucola perchè non è presso al finestrino, nè può vedere gli alberi. Affine di chetarlo, lo faccio venire nel mio angolo, lo sollevo ritto sul sedile e lo tengo perchè non cada. Ma di lì a un minuto gli viene una voglia irresistibile di tornar dalla mamma e senza cerimonie eseguisce il gran passaggio sulle mie ginocchia. Scandalo e scuse dei genitori. Il marito mi conferma a bassa voce che è un impiegato traslocato. Non osa lagnarsi del suo destino perchè teme lo si traslochi un'altra volta. Tanto e tanto bisogna ringraziare il cielo che non sia accaduto di peggio. Era a Treviso e va a Lecce. Una bagatella di oltre a mille chilometri di distanza: ma se lo mandavano in Sicilia?

Mentre lo ascolto distratto, la mia attenzione si ferma sulle due signore vestite a bruno. Son giovani ancora, non però giovanissime, e hanno un aspetto triste e patito. Non parlan nemmeno fra di [240] loro e tengono il viso basso e il velo calato. A un punto una d'esse, come per un segnale convenuto, tocca con la mano il ginocchio dell'altra, e alzando il velo spinge la testa fuori del finestrino. La sua compagna fa lo stesso. Vinto dalla curiosità, guardo anch'io da quella parte. Non vedo sulle prime che una lunga distesa di campi; poi fissando la pupilla in lontananza, mezzo nascosta da una macchia d'alberi, discerno a fatica una casetta bianca sormontata da una banderuola metallica che scintilla ai raggi del sole. È là che le due donne appuntano gli sguardi, nè li rimuovono finchè la casetta bianca non scompare dall'orizzonte. Allora una d'esse, la più giovine, quella che ha l'aspetto più addolorato, si porta rapidamente una mano alle labbra e invia un bacio alla cara visione. Poi entrambe riabbassano il velo e ritirano il capo nell'interno della carrozza. Quella stessa che inviò il bacio passa, sotto il velo, il fazzoletto, e si copre gli occhi. Intanto il mio vicino discorre del progetto Depretis sul miglioramento della sorte degl'impiegati, ma io non gli do retta. Penso al dramma intimo di cui le due viaggiatrici abbrunate portano seco il facile segreto, penso alla casetta bianca ove pochi giorni addietro qualcuno dava l'ultimo addio alla luce, penso a questo atto così universale, così costante della morte, eppur sempre così nuovo, così misterioso, così terribile.

— Adesso non si può; a momenti, alla prima stazione — dice la signora impiegata al suo bimbo. Il bimbo strilla un poco, quindi s'acqueta e ripiglia [241] i suoi pellegrinaggi da una parte all'altra della carrozza. Fa caldo, la conversazione s'interrompe, le teste diventano pesanti, gli occhi hanno una tendenza a socchiudersi. Quand'ecco il silenzio è interrotto da una fiera protesta del giovinotto dai calzoni color caffè e latte, il quale, mentre sonnecchiava, sentì lungo le gambe una impressione assai poco gradevole e incolpa del fatto il fanciullo, che ad avvalorare i sospetti, si trova precisamente da quella parte.

I genitori si profondono in iscuse, ma la vittima non si calma così presto.

— Non si conducono in viaggio bambini di questa età.

Questa proposizione stravagante fa montar la mosca al naso al Travet.

— Oh sì.... Anzi un funzionario traslocato non condurrà seco la prole.

— E allora bisogna sorvegliarla, — replica il giovinotto guardando con stizza i suoi calzoni caffè e latte che presentano l'aspetto di una carta geografica.

Questo era il punto vulnerabile, e l'impiegato slancia un'occhiata fulminea alla sua metà che stava catechizzando il fanciullo e brontolava quasi parlando a sè stessa. — Sorvegliare.... sorvegliare.... Son cose presto dette... Un folletto di tre anni.... Vorrei che il signore fosse al mio posto.

— Sicchè, a sentir la signora, dovrei ringraziare... chieder scusa io.

E giù un'altra occhiata alle gambe.

[242]

— Non dico questo; anzi scusi, ma santo Iddio, senza un po' di pazienza a questo mondo.... Ce ne abbiamo tanta noi impiegati.... E poi, stia certo, non lascia macchia....

Il battibecco minaccia di non finir più quando il fischio della locomotiva annunzia l'avvicinarsi di un'altra stazione. Era quella a cui dovevo scender io e per buona ventura della famiglia del Travet anche il giovinotto, vittima del fatale accidente.

— Corpo di Satanasso! — esclama costui levandosi in piedi e guardando sempre quei benedetti calzoni. — Come si fa adesso?

— Perdoni, non ha un plaid? — dico io intervenendo nella questione.

— Sì, signore.

— Lo tenga in modo che le cada sul davanti.... Così.... Benissimo.... Adesso non si vede nulla.

— Ma un bel gusto, sa, con questo caldo a tenersi il plaid fino ai piedi.

— Crederanno che abbia le febbri intermittenti.... Il peggio sarebbe....

— Che si vedesse.... Capisco....

— Dunque dei due mali il minore.... Oh non c'è tempo da perdere.... Qui il treno non si ferma che un mezzo minuto.

— Scende qualcuno? — dice il conduttore affacciandosi allo sportello.

— Sì, due.

E siamo in terra d'un salto.

— Ecco due posti, — ripiglia lo stesso conduttore [243] voltandosi verso due viaggiatori, che dopo essersi accommiatati con molti baci da un gruppo di parenti e di amici cercavano una carrozza di seconda classe in cui salire.

Questi due non lasciano dubbio alcuno sull'esser loro. Sono due sposi novelli. Lo si vede all'aspetto raggiante, al vestito accurato, all'abbandono soave con cui la giovinetta si appoggia al braccio del valido marito. Entrati che sono nello scompartimento essi rinnovano l'addio agli amici e ai congiunti. I loro volti ilari che si toccano quasi nel vano del finestrino fanno un singolare contrasto con le fisonomie malinconiche delle due signore abbrunate: il loro saluto alla lieta schiera che li ha accompagnati alla stazione è ben diverso da quello che le due donne avevano mandato prima alla casetta bianca perduta nella campagna; per la coppia felice l'avvenire è tutto gioia e speranza. Chi sa che vicende le riserbi la sorte?

Il treno s'è dileguato, ma ancora si vede fra gli alberi il suo pennacchio di fumo. È scomparso anche il viaggiatore dai calzoni color caffè e latte. Il guardiano della stazione (una piccola stazione intermedia) mi squadra con curiosità dalla testa ai piedi. Che cosa faccio? Che cosa penso? In verità non faccio nulla, non penso a nulla.... Ma, dopo tutto, in due ore di ferrovia, che avvicendarsi di persone, che contrasto di faceto e di serio, e per chi conosce la voluttà del sorriso e delle lagrime, che miniera inesauribile di sensazioni!

[244]

LA DEMOCRAZIA DELLA SIGNORA CHERUBINA

La signora Cherubina Spiccioli, moglie del signor Innocente Spiccioli, negoziante arricchito alla Borsa, aveva inaugurato da tre venerdì il suo nuovo salotto. Un amore di salotto con tappeto di felpa, tendine di seta, mobili con dorature ed intagli. Sulle cantoniere cento gingilli, sulla mensola un magnifico orologio a dondolo con puttini di bronzo che ne reggevano il disco, pendente dal soffitto una gran lumiera di cristallo; alle quattro pareti quattro nitidissimi specchi di Francia, in cui la signora Cherubina aveva la soddisfazione di vedersi riflessa quattro volte.

La signora Cherubina Spiccioli era anch'essa addobbata sfarzosamente come il salotto e si pavoneggiava sopra una sedia foderata di velluto, appoggiando i piedi sopra un piumino di lana a fiori. Aveva alla destra la signora Veronica Somariva, moglie di un pretore, e alla sinistra la signora Pasqua Orsolini, consorte di un farmacista, vestite entrambe abbastanza dimesse e atteggiate a un ossequio [245] riverenziale che avrebbe dovuto lusingare la vanità della signora Cherubina.

Ma la signora Cherubina era in quel giorno di pessimo umore, perchè la contessa Basili che era la pigionale del primo piano, non le aveva ancora restituita la visita. E il pessimo umore della signora Cherubina si manifestava in escandescenze democratiche.

— Sì — ella gridava inferocita — bisogna finirla con questo sciocco pregiudizio della nobiltà. Chi sono queste schizzinose che non si degnano di stare con noi? Non sono anch'esse di carne e di ossa come noi altre? Vogliono imporci perchè si chiamano marchese, contesse, duchesse? O credono forse che non si sappia che c'è stato l'ottantanove?

— L'ottantanove — interruppe la signora Pasqua — è uscito anche nell'ultima estrazione.

— O signora Pasqua, che dice mai? — esclamò ridendo la signora Veronica ch'era un po' donna di lettere; — non si tratta di un numero del lotto, ma di un anno.

La signora Pasqua si fece rossa, ed estraendo il fazzoletto da un manicotto di pelo di gatto si soffiò romorosamente il naso.

Ma la signora Cherubina, senza curarsi di quest'incidente, continuò, gonfiando la voce:

— E si dice che siamo in un'epoca di libertà, in un'epoca di uguaglianza! È un obbrobrio.... Una casta a parte in questo secolo!.... In nome di che?... Sono più belle di noi?.... Sono più virtuose? Domandiamolo [246] ai loro mariti.... Più eleganti? Io credo che noi altre (parlo di quelle che possono) si vesta come si vestono loro... E noi si paga il conto... E le nostre case (parlo sempre delle famiglie che possono) non sono forse addobbate come le loro?... Mi guardi il cielo dal citarmi ad esempio, ma vorrei sapere se questo salotto non è tale da potervi ricevere chiunque, fosse anche l'imperatore del Mongol!... Un tappeto, signora Veronica, che mi costa la bellezza di sette lire al metro, e il negoziante m'ha giurato che ne vendè uno di simile alla marchesa Liani.... Anche le tendine son tali e quali quelle della baronessa Rodolfi.... Abbiamo lo stesso tappezziere.

La signora Pasqua e la signora Veronica si sdilinquirono in parole d'ammirazione circa al tappeto e alle tende della signora Cherubina.

— No, no — rispose costei schermendosi modestamente. — Dico per dire.... che in fin dei conti noi siamo chic quanto loro, e questa superbia muove lo stomaco... So io quello che ci vorrebbe — ella soggiunse in tuono misterioso e solenne: — Un novantatrè ci vorrebbe.

— Avrà da aspettarlo un pezzo — era sul punto di dire la signora Pasqua considerando che questo numero non era compreso nella cabala. Ma per sua fortuna ella ricacciò le parole nella gola.

— Basta, mi perdonino questo sfogo — ripigliò la signora Cherubina facendosi fresco con un fazzoletto di battista profumato di patchouli — e discorriamo [247] d'altro. Come vanno le feste di ballo al casino?

— Ma! bene — rispose la signora Veronica. — Iersera c'erano cinquantacinque signore... Dovrebbe venirci anche lei, signora Cherubina. Il cavaliere suo marito è socio!

— Sì.... voleva anzi condurmi.... Verrò forse.... Ma non so come sia, le feste di società mi piacciono poco.... Dico il vero, c'è troppa mescolanza... Io sono democratica, mi pare che non ci possa esser dubbio in proposito; ma quel trovarmi a contatto di certa gente.... Via, mi dica che signore di conoscenza c'erano.

— Tanto per non dimenticarmi, c'ero io....

La signora Cherubina chinò leggermente il capo con aria di degnazione.

— E poi?

— C'era la signora Pasqua.

— Oh per me — disse la persona nominata raggomitolandosi tutta per eccesso d'umiltà.

La signora Cherubina fece una smorfia quasi impercettibile.

— Le due Azzolini — continuò la signora Veronica — due belle ragazze.

— Quelle che han per madre una contessa Ruspi di Ferrara? — chiese premurosamente la signora Cherubina.

— Appunto... C'era anche la madre.

— Ah c'era anche lei.... Una donna che si conserva bene....

[248]

— Non dimentichi la signora Coradelli — suggerì la moglie del farmacista alla signora Veronica. — Una sposa.... bellina tanto.

— Quale Coradelli? Sposa di chi? — interruppe la signora Spiccioli arricciando il naso.

La signora Pasqua, intimidita dall'accento e dal gesto della padrona di casa, rivolse alla signora Veronica uno sguardo supplichevole che significava:

— Venga in mio aiuto.

La pretoressa tentennò il capo come persona che comprende essersi toccato un cattivo tasto; pure messa alle strette diede alla signora Spiccioli la spiegazione voluta.

— La moglie di Gaetano Coradelli, il negoziante... quello ricchissimo.

— Negoziante di oggetti di guttaperca! — esclamò la signora Cherubina nel massimo scandalo. — È proprio vero?... E poi si lagnano se non si va alle loro feste?... Ma non c'è una commissione di scrutinio al Casino? Ma accettano dunque il primo venuto purchè paghi sessanta lire all'anno? L'ho sempre detto io che questo è un paese ove non è possibile la vita di società. Io sono democratica, ma questa non la posso mandar giù. Il signor Coradelli!.... Un uomo che vende fianchi artificiali e che cingendo la vita della sua ballerina può riconoscer la roba sua sotto il vestito!...

Espresse queste savie considerazioni, la signora Cherubina Spiccioli si avvolse silenziosamente nella sua maestà di regina offesa.

[249]

— Che continuazione di belle giornate! — osservò la signora Veronica per rianimare il dialogo.

La signora Cherubina non rispose, ma con un cenno del capo mostrò di partecipare all'opinione della sua interlocutrice. Quindi, tornando al suo tema favorito:

— Ecco — soggiunse — se si potesse mettere insieme una società della buona borghesia, una società a modo, come io la intendo.... una società insomma da farla tenere a queste signore contesse e marchese.... rendendo loro la pariglia....

— Col non invitarle — disse la pretoressa.

— Nemmeno una.

In quel punto il servo sollevò la portiera e annunziò la contessa Basili.

La nobil dama insignita di questo nome cospicuo si presentò sulla soglia e fece il più compito inchino che possa immaginarsi.

La signora Cherubina diventò rossa come un gambero cotto, si alzò tutta d'un pezzo, come se le fosse scattata sotto una molla, nella gran furia inciampò prima nel piumino, poi in un lembo del proprio vestito; nondimeno riuscì a mantenersi in equilibrio e corse verso la nuova arrivata. La signora Veronica e la signora Pasqua si levarono in piedi esse pure.

— Contessa — balbettò la signora Spiccioli stentando a trovar le parole, tanto era commossa. — Quale onore!... Ha voluto disturbarsi. Davvero che non osavo sperare.... La prego, s'accomodi.... qui, vicino a me.

[250]

E le additò la sedia davanti alla quale stava ritta la signora Pasqua che dovette cedere il posto e accomodarsi un po' più lontano. La contessa Basili si guardò intorno con l'occhialino, poi disse:

— Prima di tutto ero venuta per fare un dovere.

— Un dovere! che dice mai? — interruppe la signora Cherubina, conservando quella magnifica tinta scarlatta di cui ella si era suffusa al giungere della illustre pigionale del primo piano. — Un dovere?... È tutta bontà sua.

E strinse con effusione la mano alla contessa.

Intanto la signora Veronica e la signora Pasqua allungavano il collo come due colombe in amore per vedere di essere presentate alla gran dama. Ma la gran dama si limitava a guardarle di tratto in tratto con l'occhialino, e la signora Spiccioli non aveva nessuna voglia a far sapere alla contessa che ella era in qualche intimità con la moglie di un farmacista e di un pretore. La contessa era prossima ai quarant'anni, aveva la bocca un po' grande e il naso un po' lungo, usava senza troppo risparmio il nero sulle ciglia e il minio sulle gote, onde un giudice imparziale l'avrebbe detta piuttosto vecchia che giovine, piuttosto brutta che bella. Ma la signora Cherubina era in estasi; nelle orecchie intente, negli occhi umidi e imbambolati, nell'atteggiamento tutto della persona le si leggeva l'ammirazione sconfinata, profonda, simile a quella che un devoto o un artista potrebbe sentire davanti a una Madonna di Raffaello.

[251]

— Lei mi confonde — ripigliò la contessa con un sorrisetto. — Volevo dire che la mia visita aveva anche un altro scopo.

— Un altro scopo?... Parli, signora contessa, mi comandi... ove posso...

— Noi daremo, lunedì quindici, una festicciuola.... senza pretesa... e io sono qui a pregarla di volerci favorire con suo marito.... Sarà per le dieci di sera... Mi dice di sì? — soggiunse la contessa con voce melliflua ed insinuante.

Il ritardo della signora Cherubina nel rispondere dipendeva dall'eccesso della gioia. Essere invitata dalla contessa Basili in persona, alla presenza della signora Somariva e della signora Orsolini che potevano rendere testimonianza del suo trionfo, era tal fatto da togliere il dominio di sè anche a una donna più forte della signora Spiccioli.

— E come potrei dire di no, signora contessa? — ella rispose finalmente con l'accento con cui la Ristori avrebbe potuto declamare la Francesca da Rimini.

— Siamo intesi dunque — ripigliò la contessa. E poi si mise a conversare di cose indifferenti.

La signora Pasqua e la signora Veronica, visti riuscir vani tutti gli sforzi per richiamare l'attenzione della padrona di casa sopra di loro, non tardarono ad accommiatarsi, senza che la signora Cherubina dicesse una parola per indurle a prolungare la loro visita. Dovevano oramai essere persuase della sua superiorità; la loro presenza non giovava più a nulla.

[252]

— Ha visto? — disse la signora Pasqua alla signora Veronica appena furono giù delle scale! — A proposito di democrazia! Ci ha lasciate andare quasi senza salutarci.

La pretoressa schizzava veleno, ma rispose seccamente: — È una indegnità. — Poichè ella era convinta che se non vi fosse stata la moglie del farmacista la presentazione avrebbe avuto luogo per lei. E non oserei affermare che la signora Pasqua, malgrado la sua singolare modestia, non avesse un'opinione analoga a quella della signora Veronica.

— Chi sono quelle due signore? — domandò la contessa Basili alla signora Cherubina quando rimase sola con lei.

— Oh! — disse questa con noncuranza. — Una certa signora Somariva e una certa signora Orsolini... Sa... vecchie conoscenze.

E si affrettò a mutare discorso.

Di lì a qualche minuto la contessa Basili si alzò per andarsene e la signora Cherubina, dopo avere tirato il campanello con tanta forza che gliene rimase in mano la nappa, volle accompagnare l'eccelsa visitatrice sino al fondo dell'anticamera ove le ripetè in mille modi i suoi ringraziamenti. Poi tornò trionfante in salotto e fiutò con ineffabile compiacenza il profumo di muschio che la contessa aveva lasciato dietro di sè. Finalmente, giacchè non le capitavano altre visite, ella passò nel gabinetto attiguo e scrisse una riga alla sarta ordinandole di recarsi tosto da lei.

[253]

La signora Cherubina intervenne sfolgorante di gemme alla festa della contessa Basili ed ebbe la insigne soddisfazione di ballare con parecchi giovinotti della gran società, e di essere presentata ad altre due contesse e ad una marchesa. Onde il nuovo salotto di casa Spiccioli non istette molto a popolarsi di gente comm'il faut, cosa dalla quale la salute della signora Cherubina ritrasse maggior giovamento che non ne avesse ritratto l'anno addietro da un mese di cura alle acque di Recoaro. Nondimeno la signora Cherubina è sempre democratica, e se una contessa non le restituisce presto la visita o non la invita ai suoi balli, ella sente un fremito repubblicano nell'anima e invoca un altro novantatrè.

[254]

LA CONFESSIONE DI DORETTA

— Oh bravo il signor Anselmo, — disse Doretta andando incontro al nuovo venuto e prendendogli le mani nelle sue. — Capita a proposito. Al confessionale io non vado, ma a un vecchio amico di casa, a uno che m'ha visto fanciulla e che può quasi esser mio padre....

— Grazie.

— Di che?

— Di quel quasi.

— A lei insomma, — continuò la giovine, — sono disposta ad aprir intieramente l'animo mio.... Sarà il mio confessore.

— Oh vi pare?

— Lo voglio, lo voglio assolutamente. È il primo servizio che le domando dopo tanto tempo.... Non deve dirmi di no.

— Se credete proprio che sia necessario....

— Necessariissimo. Giudicherà lei.... Sono qui da due giorni a visitare la mia famiglia, e mi si intenta un processo, per iniziativa di mio marito.

— Cara Doretta, — interruppe il signor Anselmo, — non [255] si potrebbe prender la cosa con più flemma? E per esempio non si potrebbe sedere?

— Sediamo pure, — disse Doretta.

Ma seduta che fu, non rallentò la foga del suo discorso. Doretta, come si vedrà, era alquanto ciarliera.

— Sa già di che si tratta.

— Veramente lo so molto poco,

— Lo sa meglio di me. Si tratta del tenentino Baraldi, che dicono mi faccia la corte, e dal quale, a sentirli, io me la lascerei fare di buon grado. Falsità se mai ve ne fu... Io vidi Baraldi per la prima volta tre mesi or sono in Firenze dalla contessa Orelli... cioè non è contessa niente affatto, ma vuol che la chiamino così... ormai non mi accade più di trovare una persona che non sia nobile, e anche la mia serva pretende d'esser cugina dei Peruzzi. Ma torno a bomba perchè non mi piacciono le lungaggini. Ero dunque dalla contessa Orelli, di sera; saremo stati una dozzina di persone al più. La Orelli aveva mal di capo, e il salotto non era rischiarato che da due lumi a carcelles, uno col cappello di carta rosa e l'altro col cappello di carta verde. La padrona di casa, che stava dalla parte del lume verde, pareva un limone acerbo, sua sorella, la Derilleri, che era accanto al lume rosa, pareva una barbabietola. In mezzo c'era una zia con un profilo verde e un profilo rosa, bellissimi entrambi a vedersi. Del resto, la Orelli e la Derilleri son due donne mature che però non vogliono ancora battere in ritirata. Della Orelli tutta Firenze sa che ha una relazione...

[256]

— Ma Doretta!...

— Oh una relazione platonica. Si figuri.... con un consigliere di cassazione. Cosa vuol che facciano i consiglieri di cassazione anche se vanno, come questo, ogni estate a Oropa per la cura idropatica? In quanto alla Derilleri, le attribuiscono, sarà malignità, il vecchio generale Roscio, e la chiamano l'ospizio degli invalidi, perchè vogliono che prima di lui avesse il colonnello in pensione Merilli che ha perduto una gamba a San Martino. Della zia non credo si dica nulla. Ci mancherebbe altro... Con quel viso e quella persona! Una pedante che quando non isputa sentenze s'addormenta in conversazione, e se per caso si risolve a tacere quand'è svegliata, vi fa venir il capogiro a forza di fregarsi le mani una sull'altra come se stesse lavandosele con acqua e sapone.

— Questo però, Doretta, c'entra poco.

— Come, c'entra poco? Anzi c'entra moltissimo, scusi. Alle corte, la sola donna giovine di quel salotto ero io; d'uomini c'erano i due in carica presso le due sorelle, cioè il consigliere di cassazione e il generale, poi un signore, arricchito, a quel che dicono, con tre fallimenti di borsa; c'era un deputato, non so se di destra o di sinistra, ma insulso sicuramente; c'era un letteratino, che Dio ce ne scampi e liberi; c'era Baraldi e c'era mio marito. Levi un po' Baraldi e me, e veda che compagnia. Perchè, mi lasci dire, mio marito è un buonissimo diavolo, ma, via, non sosterrà che non sia noioso.... già è marito; [257] e pare che sia nell'istituzione dei mariti d'esser noiosi. Non tentenni la testa così. Lei, signor Anselmo, non ha voce in capitolo. Bisognerebbe che fosse donna e maritata per una settimana.... vedrebbe! I mariti, anche quando sono piacevoli fuori di casa, sono, in casa, sgarbati e brontoloni. Non c'è nulla che li contenti, nulla che non dia loro l'occasione di far delle cantafère lunghe come l'anno della fame. Ci si aggrappano alle sottane quando vorremmo che andassero via; se ne vanno quando vorremmo che restassero; fanno tutto fuori di tempo. Se poi ci accompagnano a spasso o a teatro hanno un muso lungo due palmi finchè son soli con noi, e non principiano a rasserenarsi che quando vedono le mogli degli altri. Così, alla fin fine, noi donne si sta meno peggio quando si riesce a formare una partita doppia di due mogli e di due mariti. In questo caso ci può essere un chassez-croisez che abbia qualche attrattiva.... Ma guai se il marito vuol restare in un crocchio ove non ci sia altra donna che sua moglie e ci siano invece parecchi uomini. Il signor marito è quello che guasta la conversazione. Pare faccia apposta a metter sul tappeto i temi più scabrosi, più sconvenienti. E se vi son proprio delle cose che non si posson dire ad alta voce, eccolo chinarsi all'orecchio del vicino e susurrargli qualche trivialità; e allora si sente scoppiettare intorno un riso sguaiato che pare uno starnuto di gatti infreddati.

— Mia cara Doretta, voi avete molto spirito, ma mi permettereste di dire una parola?

[258]

— Dica pure.

— Ecco, volevo dire che andando di questo passo non saprò mai più quello che dovevo sapere.... Si sbaglia strada.

— Tutt'altro. O che strada avrei da tenere? Ma basta. Mi spiccierò. Ho descritto l'ambiente in cui mi trovai la prima volta con Baraldi. Era indispensabile. Può immaginarsi se si annoiava anche lui. Il letteratino l'aveva inchiodato in un angolo, e con la scusa che Baraldi si diletta di poesia gli declamava a mezza voce alcuni versi suoi. Alla lunga, quando fu liberato dal suo seccatore, il giovine ufficiale mi si avvicinò e si cominciò a discorrere. Egli mi dipinse coi colori più vivi la sua dolorosa situazione di poco addietro. Il poeta in erba gli stringeva forte il ginocchio fra il pollice e l'indice della destra, e sia pel gran calore che metteva nella recitazione, sia per non alzar troppo la voce, gli si era avvicinato col viso in maniera da fargli sentir troppo il suo alito... e anche qualcos'altro. Era come, diceva Baraldi, se mi fossi trovato nella vicinanza d'una cascata, in mezzo a quella specie di polvere acquea che vi penetra nei panni e nelle ossa... Insomma si rise un po' del letterato, un po' degli altri componenti la società... Avremmo fatto crocchio a parte, ma sfido io, tra quelle mummie! Mio marito mi piantava ogni momento gli occhi addosso; che uggioso! Voleva che mi mettessi a far conversazione con lui? Il giorno dopo Baraldi portò i suoi biglietti di visita: Lodovico Baraldi, luogotenente del [259] Genio. In un angolo la sua brava corona di conte. Quella lì già non mi fa più impressione perchè ormai l'hanno tutti. Dev'esser stampata in precedenza sul cartoncino. Nella settimana il compìto ufficiale venne in persona da me. Era suo dovere. Del resto egli non mi trovò sola. C'era la Rinucci, quella che ha un occhio di vetro e i fianchi di cautsciù, tantochè assicurano che un giorno ne abbia perduto uno per istrada. Sarà e non sarà. Faccio per dimostrare che non vi fu un colloquio a quattr'occhi. Ma la Rinucci è una cattiva lingua, e cominciò subito i suoi cancans. A sentirla, io avevo dato appuntamento al tenente alle Cascine. Bisogna esser proprio brutta com'è lei per inventar simili fandonie. Sicuro ch'io dissi a Baraldi che quando sono a Firenze vado alle Cascine ogni giorno alle quattro.... di qualche cosa bisogna pur discorrere.... Ma che colpa ne ho io se le quattro son parse anche a lui un'ora buona per passeggiare? Io andavo in carrozza, egli andava a piedi; naturalmente le carrozze sul piazzale si fermano, e i pedoni vengono allo sportello a salutar le loro conoscenti. Un giorno solo, tanto per isgranchire le gambe, sono scesa un momento e ho fatto un giro....

— Col tenente?

— Sì, col tenente, e anzi son rimasta scandalizzata a veder la marchesa Dal Pozzo che filava il perfetto amore percorrendo in su e giù un viale sotto il braccio di un onorevole, il quale avrebbe fatto molto meglio ad essere a Roma, ove, per causa [260] di queste distrazioni dei signori deputati, la Camera non è mai in numero.... Però io non mi immischio negli affari degli altri.... Credo d'aver passeggiato dieci minuti.... Se ne fece un chiasso ridicolo.... Proibizione di andare alle Cascine alle quattro, e poi gita a Bologna per passare qualche settimana in famiglia. Adesso un altro casus belli, perchè Baraldi è venuto a Bologna anche lui. O che ci posso far io? Sono il suo colonnello? La gente non ha forse il diritto di viaggiar per le strade ferrate come le pare e piace?... Anche mia suocera, che mi scrive dei sermoni, dovrebbe un po' badare ai fatti suoi e pensare a quello che si dice delle sue debolezze di gioventù.... perchè, quantunque a vederla non si crederebbe, è stata giovine....

A questo punto l'orologio ch'era in salotto cominciò a batter le ore.

— Le tre forse? — chiese Doretta.

— No, le quattro.

— Le quattro! Diamine, diamine! Non posso trattenermi un minuto di più.... Ho ordinato la carrozza per le tre e mezzo....

— Ma, Doretta, adesso tocca a me a parlare....

— Un altro giorno. Oggi è impossibile.... La mia confessione io la ho fatta.

— Però vi osservo, figliuola mia, che avete confessato sopratutto i peccati degli altri.... In quanto ai vostri...

— I miei sono così piccoli che meritano l'assoluzione [261] piena ed intera. E non dubito che persuaderà i miei genitori.

— Un momento....

— Non c'è momento che tenga. Grazie, signor Anselmo, e a rivederci.

E Doretta sgusciò via come una biscia, lasciando con un palmo di naso il suo confessore.

[262]

LO SPECCHIO ROTTO

I.

Patatrac.

Patatin.

Questi due suoni si fecero sentire quasi contemporaneamente una mezz'ora prima del tempo di desinare in casa del signor Pacifico Rosettini, dottore in legge e possidente, e loro tenne dietro un rumoroso pianto infantile. La signora Virginia, seconda moglie del signor Pacifico, la quale sedeva nel salotto da lavoro curva sopra un ricamo; il signor Pacifico stesso che stava preparando una conclusionale; la cameriera Adelaide che apparecchiava la tavola, e due ragazzini fra gli otto e i dieci anni tornati in quel momento dalla scuola e ronzanti intorno alle casseruole della cucina, convennero da vari punti sul luogo dond'era venuto il rumore, e accolsero con differenti esclamazioni e domande un fanciullo che poteva avere poco più di un lustro d'età e che scendeva una breve e agevole scaletta con una guancia più rossa dell'altra, un gran furore negli occhi [263] lacrimosi e i due piccoli pugni stretti in atto di collera e di minaccia.

— Che c'è, Gino?

— Che cosa è stato?

— Hai fatto una delle tue solite?

— Ti sei fatto male?

— Che bambino senza giudizio!

— Via, strapazzatelo per soprammercato.

— Ih! Che strepito!....

In mezzo a questo fuoco incrociato di punti interrogativi ed ammirativi, la signora Virginia s'era chinata sul bimbo, e presolo per disotto le ascelle lo esaminava e palpava da tutte le parti.

— Via, via, non ha nulla, — disse il signor Pacifico.

Intanto il fanciullo singhiozzava — Cattiva nonna.... cattiva....

— Ah! È stata la nonna. Che cosa ti ha fatto?

Gino segnò la guancia sinistra e piangendo con assai più rabbia che dolore, disse: — Mi ha picchiato qui....

— Ti ha dato uno schiaffo?... Ma sarai stato cattivo.... Le avrai messo sossopra la camera.

— Niente.... niente.... È caduto.... solo.... lo.... specchio.

La cameriera, nell'intento lodevolissimo d'esaminare de visu la posizione, aveva salito i pochi gradini della scala che metteva all'appartamento della padrona vecchia e stava già per entrar nella camera ov'era successo il contrasto fra nonna e nipote, quando [264] sentì chiuder l'uscio con molta violenza e dare il chiavistello per di dentro.

— Che basilisco! — ella mormorò fra i denti battendo la ritirata.

— Benedetta donna! — soggiunse la signora Virginia.

— Già, già, bisogna lasciarla sbollire da sè, — disse il signor Pacifico. — Ma badiamo bene che anche Gino va castigato.

— Lo castigo io, — rispose con una certa ansietà la signora Virginia mentre faceva riparo al colpevole con la sua persona.

— Siamo intesi, — replicò gravemente il marito. — Ehi, signorini, che c'è da ridere? Subito in camera fin che suoni il campanello del pranzo. Hanno capito? Ha capito, Giorgio? Ha capito, Roberto?

Queste parole erano indirizzate ai due ragazzi poc'anzi accennati, figli del primo letto del signor Pacifico. Essi si avviarono lentamente alla loro stanza canterellando: — Torototela torototà.

— Mal educati! — brontolò, il signor Pacifico, senza badare che questo rimprovero veniva a ricadere sopra di lui. — Mal educati! — E rientrò nel suo studio.

Gino fu condotto via da sua madre che gli asciugò le lacrime. — Cattivello che sei, perchè sei andato a disturbare la nonna?... Adesso venga qui ad aspettare il castigo.

Il bimbo guardò la genitrice con aria d'incredulità, e in prova del suo ravvedimento, appena giunto nel [265] salotto da lavoro, rovesciò il paniere ove la signora Virginia teneva le sue lane da ricamo.

— Gino, Gino, — gridò la mamma, — vuoi proprio un altro schiaffetto? — E lo minacciò con la mano.

Ma Gino aveva cacciato le gambe entro il paniere e si rotolava sul pavimento con tanta grazia e rideva con sì schietta allegria, che la signora Virginia ebbe una voglia matta di dargli un bacio anzichè uno schiaffo.

Il furbacchiotto capi benissimo le disposizioni materne; quindi non si spaventò punto nel veder la signora genitrice alzarsi dalla seggiola, ma anzi con raddoppiata ilarità levò in aria le gambe con suvvi il paniere tanto da farlo parere una cornucopia rovesciata.

— Domando io, — disse la signora Virginia raccogliendo da terra il suo Gino e pigliandoselo in collo, — domando io come si fa a schiaffeggiare un visino simile.

E continuava, rivolgendosi a un interlocutore immaginario. — Guardate mo; non vi pare che si vedano ancora i segni di quelle cinque brutte dita lunghe ed ossute?... Che orrore!... Picchiarmi il mio Gino....

Nè paga di guardarselo e di baciarlo da tutte le parti, lo portò davanti allo specchio, e contemplandone con infinita compiacenza l'immagine, tornò a dire: — Un bambino simile!

Gino, incoraggiato così, ripetè la frase, — Brutta nonna.

[266]

La madre gli mise una mano sulla bocca. — Non si dicono queste parole.... Mi racconti piuttosto che cos'ha fatto.... Ha rotto lo specchio grande della nonna?

— No.... il piccolo.

— Quello fatto come un o?

— Sì, sì, — rispose Gino, — come un o grande.

— Ma che bravo bambino! — esclamò la signora Virginia. — Conosce già le vocali. — Indi ripigliando un tuono che voleva esser serio: — Ah lei ha rotto lo specchio che somiglia ad un o; così ha fatto gridare la nonna.... la nonna è stata troppo buona, non le ha dato che uno schiaffo solo, io gliene darò due.

Dette queste parole, amministrò al delinquente due schiaffetti piccoli e gentili che arrivando su quelle guancie pienotte diedero un suono grasso e simpatico; indi lo depose in terra e continuò: — Adesso poi bisogna prepararsi a domandar perdono alla nonna. Stia attento e ripeta quello ch'io dico: Signora nonna.... Andiamo, via, Gino.... Signora nonna.

Signora nonna....

— Bravo. Così va bene. Avanti: Le domando scusa....

Le domando scusa....

Di quello che ho fatto....

Di quello che ho fatto....

E le prometto.... Serio, Gino, non bisogna ridere. E le prometto....

E le prometto....

[267]

Che non lo farò mai più. Ha capito?... Che non lo farò mai più.

Che non lo farò mai più.

— Bravissimo. Faccia conto ch'io sia la nonna, si metta lì in fondo, venga verso di me e torni a dir tutto quello che ha detto.

Il bambino con aria grave e marziale si condusse fino alla parte opposta, là si girò tutto di un pezzo e fissò i suoi occhi biricchini in viso alla signora madre. La signora madre guardò lui nella stessa maniera, e ambedue scoppiarono in una sonora risata. La quale risata nel piccolo Gino si prolungava in maniera da impedirgli di fare un passo e da incutere un legittimo timore di serie conseguenze; onde la signora Virginia si alzò e corse alla riscossa del suo rampollo, prendendoselo nuovamente in grembo e dichiarando ad alta voce che un demonietto uguale non vi era stato e non vi sarebbe mai e poi mai.

Questa eccellente lezione di belle creanze fu interrotta dall'annunzio che la minestra era in tavola.

— Dunque, Gino, siamo intesi, — disse la signora Virginia dando la mano al bimbo e avviandosi con esso verso il salotto da pranzo.

Ivi si trovavano Giorgio e Roberto, il primo dei quali aveva già versato un poco di vino sulla tovaglia, e ivi giungeva, contemporaneamente alla moglie e all'indomabile Gino, il signor Pacifico asciugandosi col fazzoletto i sudori e dichiarando che non era possibile immaginarsi la quantità di persone venute al suo studio nel corso della giornata.

[268]

— Come se non bastassero i clienti, — osservava l'egregio signor Pacifico, — ci sono le faccende pubbliche. E non c'è mica caso di lavarsene le mani.... Oh sì!... Vi dicono che bisogna prestarsi pel paese, che bisogna fare, lavorare, ecc. E ora c'è Consiglio provinciale, e ora Consiglio comunale, e poi la relazione sul gaz.... Giorgio, sta quieto.... e poi le ferrovie, e il bilancio.... Roberto, va a vedere che cosa fa la nonna che non viene a pranzo. Insomma, basta avere un grano di cervello in zucca che in questo benedetto paese tocca far tutti i mestieri....

E il signor Pacifico spiegò il tovagliuolo, tornò a passarsi il fazzoletto sulla fronte e si atteggiò a vittima dell'amor di patria. Poscia il suo occhio olimpico degnò abbassarsi al piccolo Gino.

— Lo hai castigato? — egli chiese alla moglie corrugando la fronte.

— Sicuro.

— Così va bene. — E soggiunse: — Si fa pel tuo meglio, caro. Se diventerai un uomo pubblico....

— Scotta, — gridò Gino con voce piagnucolosa, occupandosi più della minestra che degli augurii paterni.

— Soffia, bambino, soffia — suggerì la signora Virginia — Così.... O vuoi che passiamo nell'altro piatto?

— La nonna non vuol venire a pranzo — disse Roberto che rientrava in quel momento in salotto.

— Non vuol venire? Te lo ha detto lei?

— Sicuro. È chiusa in camera. Ho picchiato. Prima [269] non ho inteso che un brontolio.... Poi ho picchiato di nuovo; e lei s'è alzata di dov'era a sedere, perchè ho sentito mover la scranna, e gridò brusca: Chi è la'? Le dissi che ero io e che venivo a ricordarle che il pranzo era in tavola e che l'aspettavamo. — O credete forse ch'io sia sorda e che non abbia inteso il campanello? — ella rispose. — A pranzo non vengo perchè non mi accomoda di venire, e non mi seccate.

Dopo questo sproloquio, Roberto sedette al suo posto e immerse con grande enfasi il cucchiaio nella zuppiera di riso.

Il signor Pacifico fece un viso disgustato, e si rivolse alla moglie: — Prova tu.

La signora Virginia, che in mezzo a' suoi difettucci non aveva fiele di sorta, rinnovò infruttuosamente il tentativo di Roberto; il signor Pacifico ottenne lo stesso risultato, cosa che offese il suo amor proprio, e convenne quindi rassegnarsi a desinare quel giorno senza la nonna.

II.

La signora Paola, che così si chiamava la nonna, aveva settant'anni sonati; ma era ancora assai vigorosa. Il suo passo era franco e sicuro, l'occhio vivo, il volto solcato da pochissime rughe. I suoi capelli erano quasi tutti bianchi, non radi però, chè anzi di poco ne era scemato cogli anni il volume. E docili [270] ancora si bipartivano con bella regolarità sulle tempie dando una maestà severa alla sua fisonomia. Ella era anche buona e caritatevole, la signora Paola, nè in famiglia si mostrava punto esigente come usano talvolta le persone dell'età sua. Anzi se qualcheduno aveva davvero bisogno di lei, se v'erano malati in casa, ella diveniva un miracolo di attività e di abnegazione. Fuori che in queste occasioni si notava in tutto il suo contegno un certo riserbo, un desiderio frequente di solitudine e di silenzio. Non era espansiva nè con la nuora, nè col figlio, nè coi nipoti. Verso questi ultimi era affettuosa, ma senza gli spasimi che le nonne sogliono avere. Il solo Gino, che cacciava il naso dappertutto e non aveva soggezione d'anima viva, penetrava volentieri nel santuario della sua camera e forzava le carezze della rigida matrona. Appunto una di queste visite era finita colla catastrofe dello schiaffo. Che cosa facesse Gino lo sappiamo; non ci siamo però ancora resi ragione dell'impeto subitaneo della signora Paola.

A capacitarcene è forza conoscere qualche fatterello assai semplice.

Alla signora Paola era accaduto ciò che accade a moltissime donne. Come suo figlio aveva avuto successivamente due mogli, così ella aveva avuto due mariti. Era stata fedele all'uno ed all'altro, ma l'amor suo, l'amore della sua anima ardente ella non lo aveva dato che al primo.... O perchè adunque s'era rimaritata? chiederanno i pedanti. Bella domanda. Si fa presto a dire: la vedova che amava sul serio lo [271] sposo non deve rimaritarsi, non deve profanare il santuario delle sue memorie, ecc. ecc. Son frasi. Figuratevi una povera giovinetta che a poco più di vent'anni resta priva del compagno ch'ella si era scelto per tutta la vita. È bella; viver sola non può senza esporsi a cento insidie, a cento pericoli; tornare nella famiglia, s'ella ha ancora famiglia, lo può certamente, ci torna anzi; ma ci starà sempre, ma la sua casa sarà quella ch'era prima? La cameretta ov'ella dormì i suoi sonni di vergine avrà mutato aspetto; nei volti dei suoi genitori non sarà certo scolpito un amore men vivo, sarà forse una tenerezza maggiore, e tuttavia anche l'espressione di quei volti sarà cambiata. Pei fratelli, pelle sorelle ella sarà sempre carissima, ma cara in un altro modo; non glielo si dirà certamente, ma si sentirà che ella porta nella sua vecchia dimora un fardello di tristi memorie.... Non è più la spensierata fanciulla di qualche anno addietro; bisogna usarle speciali riguardi; ella ha ormai un passato di cui non conviene evocare fuor di luogo le ricordanze; in faccia a lei certe allegrezze troppo rumorose non istanno bene.... E poi mettiamo che un'altra sorella abbia un giovine che la corteggi; la vedova non è più la natural confidente di questi amori come quand'era ragazza; adesso ella è una seconda edizione della mamma, severa come lei senz'averne l'autorità. E mamma e babbo e fratelli d'ambo i sessi sono d'accordo a dire ch'è stata una grande disgrazia per tutti che la povera Elisa, o Matilde, o Lucia, comunque [272] si chiami, abbia dovuto rimanere così a quell'età!... E la povera Elisa, o Matilde, o Lucia, che indovina i loro pensieri e non può asfissiarsi col carbone, o perchè i suoi sentimenti religiosi glielo proibiscono o perchè ha paura della morte, dopo aver detto di no tre o quattro volte, si decide finalmente ad accogliere una nuova proposizione di matrimonio, e domandando perdono all'ombra del suo indimenticabile Arturo, o Luigi, o Aristodemo, passa a tentar la fortuna del secondo talamo.

La signora Paola era vissuta da due anni col suo primo marito, due anni di cielo, come si dice in linguaggio poetico. No, non è possibile esser tanto felici. Quando s'era sposata ella aveva sedici anni ed egli ne aveva ventuno, e agli occhi di lei era bello come un Adone, buono come un angelo, e pieno d'ingegno, di brio, di coraggio. Si chiamava Ettore. Non è ben certo ch'egli avesse tutte le qualità attribuitegli da sua moglie; spaventato forse dell'idea di dover col tempo scendere dal piedestallo di gloria su cui ella lo aveva collocato, egli pensò bene di pigliarsi una perniciosa e di morire. Morì lasciandole un bambino di 13 mesi di nome Paride. Benedetta guerra di Troia! Non ce la siamo ancora dimenticata.

Vedova nell'età in cui le altre donne sogliono essere ancora ragazze, la signora Paolina, immersa nella più vera e profonda desolazione, giurò di consacrarsi intera alla memoria del suo Ettore e all'educazione di quel pegno diletto che gliene era rimasto.... [273] Era tutto lui. Negli occhi, nel naso, nei capelli ricciuti!... Guai a chi le parlasse di matrimonio, guai!...

Ma la sventurata Paolina non era per anco rinvenuta dallo sbalordimento di quel primo colpo, quando gliene toccò un altro non meno terribile. Il suo Paride, il suo bimbo, il suo tesoro, la sola sua ambizione, il solo scopo della sua vita, morì anch'egli che non aveva due anni. La morte falcia volentieri le testine bionde. È inutile descrivere lo spasimo della madre. Si temette ch'ella ne perdesse la vita o almeno la ragione. Risentitasi dopo alcuni mesi, si trovò come smarrita nel mondo. Sarebbe andata monaca se il suo Ettore non le avesse lasciato in retaggio un orrore invincibile pei chiostri. Fece adunque quello che fanno le altre donne nella sua condizione; si ridusse presso la sua famiglia, traendovi una vita vegetativa. Ma era di mezzi di fortuna molto ristretti. Il suo Ettore sarebbe diventato sicuramente un grand'uomo, ma gliene era mancato il tempo, e intanto, appunto per estendere la sua conoscenza degli uomini e delle cose, aveva assottigliato la non cospicua dote della moglie.

— Che non mi si venga a discorrere d'interesse — aveva detto la vedova — perchè non voglio saperne. Vergogna!

Così la signora Paola, senz'accorgersene, finì coll'essere a carico della famiglia. Ma queste cose non possono rimaner sempre occulte, e anche la poveretta, per quanto i suoi glielo dissimulassero, alla [274] lunga venne a saperlo. Allora pianti, e sospiri, e disperazioni, e fra lei e suo padre uno di que' dialoghi che sogliono tenersi in simili circostanze.

— Bisogna ch'io veda di rendermi utile, che io faccia qualche cosa.

— Nemmen per sogno, io non te lo permetterò mai.

— In fin dei conti son libera.

— Finchè son vivo io, mia figlia non si abbasserà a lavorar per guadagno.

— Pregiudizii. È necessario che le donne comincino a procurarsi da sè i mezzi della loro esistenza.

— Idee nuove che io non accetto.

— Idee vecchie sono piuttosto le vostre....

— Oh bravissima. Si metta a censurar suo padre. È di moda....

— No, babbo.... io non volevo.... Ah me infelice! Il mio Ettore! Il mio Ettore!

E giù in un pianto dirotto.

Questa scena rinnovata più volte con piccole variazioni finì col produrre singolari cambiamenti nel modo di vedere della signora Paolina, e in capo a quattr'anni di vedovanza, ella, senza nemmeno saper rendersi conto del come, si trovò fidanzata una seconda volta.

Il suo nuovo marito si chiamava Mansueto e l'unico figlio ch'ella n'ebbe, si volle a tutti i costi battezzar per Pacifico. Dal nome in giù era una completa antitesi fra il suo primo e il suo secondo consorte, il suo primo e il suo secondo figliuolo. Il [275] suo Ettore era bello, vivace, aitante della persona, il signor Mansueto era di fisonomia insulsa, piccolo, goffo. Paride prometteva di far onore al suo nome, era nelle fasce un vero angioletto; a due anni, quando soccombette a una malattia di poche ore, camminava già solo, parlava, aveva messo più denti; questo Pacifico invece non cresceva mai, non riusciva mai a reggersi sulle gambe, non imparava nemmeno a dir mamma e babbo, e benchè in complesso fosse sano, era sempre triste e piagnucoloso. Quindi la signora Paola era tratta irresistibilmente ai confronti, e quantunque facesse il possibile per amare il suo rispettabile consorte, e amasse con sincero affetto l'unico frutto di questo suo connubio, il suo pensiero correva al passato. E il passato diventava tanto più bello agli occhi di lei, quanto più larga tratta di tempo ne la divideva, e a poco a poco con le virtù della immaginazione ella se ne era fatta una specie di paradiso terrestre. Ma di questo paradiso, di questa età dell'oro della sua vita non le restavano altre reliquie che due ciocche di capelli ed un piccolo specchio. Due ciocche di capelli recise dalla testa del suo Ettore e di Paride suo nel giorno in cui erano morti, e lo specchio medesimo rotto tanti anni dopo dall'insolentissimo Gino.

La storia di quello specchio si chiude in poche parole.

Esso era una suppellettile di casa della Paolina e stava nella sua camera da letto. Se ne era fatta una festa quando glielo avevano regalato, ed era veramente, [276] nella sua piccolezza, leggiadro e nitidissimo. Ma i pregi esteriori svaniti col tempo non eran quelli che glielo rendessero caro. Era piuttosto l'averlo avuto compagno per tanta parte della vita, l'esservisi vista riflessa in sì diverse condizioni ed età; era poi qualche episodio insignificante in sè, ma prezioso per lei. No certo, ella non dimenticherà mai quel giorno, il giorno delle prime sue nozze, in cui, seduta davanti al suo specchio favorito, ancora in vesta da mattina e mezzo discinta, coll'accappatoio sulle spalle, ella si lasciava acconciare i capelli dalla cameriera, mentre la madre e una vecchia zia la contemplavano estatiche da tutte le parti. Pallida, tremante, ma piena in cuore di una ebbrezza ineffabile e nuova, ella guardava nel suo cristallo come attraverso le lenti di un panorama. E vi vedeva prima di tutto sè stessa, in verità un bel visino, proprio una rosa bianca sbocciata appena e stillante rugiada dai petali; poi, curve sopra di lei in vari atteggiamenti e la cameriera, e la mamma, e la zia; quindi, in un piano posteriore, le suppellettili della sua camera in un certo disordine, il letto sfatto, il suo letto di fanciulla ove ella credeva di aver dormito per l'ultima volta, e le sedie, e l'armadio, e il sofà sul quale era distesa la sua candida vesta di sposa e la sua ghirlanda di fiori di cedro: finalmente, nel fondo, l'altro specchio men limpido ma assai più grande ch'era infisso alla parete e nella cui luce ella si sarebbe di lì a poco mirata tutta intera e in tutto lo splendore del [277] suo abbigliamento nuziale. Ed ecco l'uscio dietro di lei socchiudersi pian piano, e dallo spiraglio far capolino prima un riccio di capelli, poi un naso, un occhio e la punta d'un baffo.

— Che cos'hai? — chiese la madre, la quale non aveva avvertito altro che il rossore improvviso diffusosi sul volto alla Paolina.

Ma la cameriera aveva visto ogni cosa nello specchio e sorrideva senza scomporsi.

La vecchia zia allora si voltò bruscamente e si accorse che qualcheduno aveva cacciato la testa attraverso l'uscio e che quel qualcheduno era nientemeno che il signor Ettore, il promesso sposo.

— Ah signor impertinente! — disse la venerabile matrona con una voce che somigliava al suono di una pentola fessa. — Non sa che non si può entrare?

Troppo tardi! Il nemico aveva sorpreso la posizione. Messosi al posto della cameriera, il signor Ettore s'era curvato sulla sua Paolina, e a lei che, stringendosi quanto più poteva l'accappatoio alle spalle seminude e mettendo un piccolo grido, s'era arrovesciata sulla spalliera della seggiola, aveva stampato un sonoro bacio sulla bocca.

Scossa allo spettacolo e forse rammentando chi sa che cosa, la vecchia zia aveva fiutato in gran furia due prese di tabacco, la cameriera sorrideva in un angolo, e la buona madre, mentre tentava di allontanare lo sposo e di raccomandargli la calma, non poteva trattenere le lagrime. Era un bel quadretto [278] che lo specchio riproduceva con la sua scrupolosa fedeltà e di cui la Paolina non aveva certo agio, in quella voluttà e concitazione dell'animo, di coglier tutti i particolari, ma del quale ella aveva visto, come attraverso una nuvola d'oro, l'insieme.

E così quello specchio le divenne tanto caro che ella volle portarselo seco nella sua nuova dimora. E lo collocò come un fedele e discreto amico nel suo abbigliatoio in mezzo ad altri mobili più belli ed eleganti ma meno simpatici al suo cuore. Dinanzi ad esso ella continuò a pettinarsi, in esso vide riflessa la gioia serena de' suoi tempi felici, in esso vide la ingenua sorpresa del suo bambino quando gli si affacciava di là un'altra immagine infantile, ed egli sporgeva le labbra a baciarla. Mutati i tempi, vide nello specchio le nubi che oscurarono la sua fronte, e le lagrime che colarono dalle sue ciglia, e le rughe che solcarono le sue gote. Tutta la sua vita era passata, ombra fuggitiva, di là. Dalla casa maritale tornò alla casa paterna, da questa entrò sotto il tetto di un nuovo marito, e lo specchio la seguitò sempre come un quadro di famiglia. Ed era un quadro veramente, era tutta la sua galleria domestica, senonchè le figure v'erano evocate da uno sforzo d'immaginazione. Vive sempre nella sua fantasia, esse non pigliavano mai così esatti contorni come nella luce di quel breve e fragil cristallo.

Non maravigliamoci adunque se la signora Paola sta in atteggiamento di profondo dolore dinanzi ai frantumi di quella sua cara reliquia; pensiamo piuttosto [279] quante volte al giorno, più colpevoli assai dell'imprudente bambino, o con una parola acerba, o con un gesto villano, o con un ghigno beffardo, noi turbiamo caste e sante memorie, noi interrompiamo l'opera laboriosa con la quale altri ritesse la tela del suo passato.

[280]

IL PARASSITA INDIPENDENTE

Avete conosciuto il conte Mario Rinalducci?

No! Peccato. Era un carattere originale.

Adesso non lo conoscerete più perchè è morto.

Il conte Mario apparteneva a una famiglia nobile decaduta. Fino a vent'anni crebbe in mezzo agli agi ed alle mollezze, cullato nella falsa opinione d'essere un gran signore, nudrito di una educazione tutta d'apparato, la quale servì piuttosto ad assopire che a svolgere le attitudini naturali del suo spirito. Infatti egli non era uno sciocco; aveva anzi quella versatilità d'ingegno, quella facilità d'imparare, che quando non sono ben dirette, corrono il pericolo di convertirsi in vere disgrazie per chi le possede. Il fanciullo vedendo di poter afferrare con poca fatica quanto gli s'insegna, non istudia; la madre grida al miracolo e porta in processione di casa in casa il suo illustre rampollo, affine di far dispetto alle altre madri sue amiche, le quali non sono beatificate di prole sì cospicua e magnanima.

Il nostro contino imparò superficialmente una gran quantità di cose; a tredici anni faceva versi, nientemeno che versi, strimpellava il pianoforte, biascicava il francese, disegnava un po' di figura, tirava [281] di scherma, ballava, e cominciava persino a corteggiar le signore.

Sedicenne, con la prima lanugine sulle guancia, bello della persona, era il beniamino delle società eleganti; non c'era festa a cui non lo si invitasse, non allegra brigata di giovani onde egli non facesse parte.

Quanto al progresso negli studi, c'era forse un po' di sosta; a tredici anni Mario prometteva di più; nondimeno egli continuava a mandar di pari passo la poesia, la musica, il disegno e gli esercizi ginnastici. In poesia mostrava soverchia indipendenza dalle regole grammaticali, in musica dicevano che qualche volta stuonasse, in disegno offendeva frequentemente la prospettiva, nella scherma era mediocre; perfetto era soltanto nel ballo.

Del resto sua madre ripeteva sempre: — Importa molto che Mario studi! Pur che ci si metta, in un giorno egli fa più strada che gli altri non facciano in un mese.

E suo padre, buon uomo, obeso e torpido, ma non mancante di boria, soggiungeva con una logica tutta sua: — Gli studi regolari convengono a chi non può o non vuole mantenersi indipendente. Mario, grazie al cielo, non avrà mai bisogno di lavorar per guadagno.

Mario aveva vent'anni quando padre e madre gli morirono coll'intervallo di pochi mesi, e il giovinetto venne a scoprire che la sua fortuna, la quale non era stata mai colossale, era sfumata quasi per intero.

[282]

Ma non c'era punto da sgomentarsi, pur di avere un po' di criterio e un po' d'energia. Bisognava uscire da una società frivola e spensierata, mettersi a studiare sul serio una cosa o l'altra e poi cercarsi una professione. A venti anni un uomo senza obblighi di famiglia e non privo di abilità non ha bisogno di quattrini per farsi strada nel mondo.

Però il Rinalducci tenne un diverso cammino. E la colpa ne fu in parte sua, in parte degli amici. Egli aveva una ripulsione istintiva ad accettare una posizione dipendente, a seppellirsi in un ufficio pubblico o privato, a disciplinare la propria attività. A ogni modo, se avesse sentito suonarsi all'orecchio un suggerimento virile, forse si sarebbe risolto a lottare con sè stesso, e quando v'è lotta v'è almeno la speranza della vittoria.... Ma fra coloro che lo circondavano non ve n'era nessuno capace di questo suggerimento virile.

Era tutta gente imbevuta di pregiudizi e la cui affezione per esso era d'indole soltanto egoistica. Un giovine che aveva un bel nome non poteva mettersi a livello d'un impiegatuccio qualunque, figlio del primo mascalzone venuto. E poi, e poi lasciar che Mario uscisse da una società di cui egli era uno fra i principali ornamenti! Chi poteva stargli a petto nel dirigere una quadriglia? Chi sapeva come lui suonare una polka in una di quelle festine improvvisate che divertono tanto? Chi lo uguagliava nel dare le disposizioni per una cena, per una partita di piacere? No, non conveniva assolutamente perderlo. [283] E tutti a fargli ressa d'intorno e a rispondere alle sue lamentazioni, alle sue proteste di voler mutare ambiente, mutar città forse: — Ma via, ti pare?.... Nemmen per idea... in primo luogo povero affatto non sei (gli era rimasto qualche migliaio di lire) non sei in condizioni da doverti cercare un pane da oggi a dimani.... Puoi aspettare, puoi vedere.... Aggiungi che hai anima di gentiluomo e d'artista, vorresti spendere il tuo tempo a registrare atti a protocollo o a scrivere lettere commerciali?... Con tanti amici che hai, col tuo ingegno!... Vergognati! Invece senza fretta tu farai un quadro, scriverai un opera e allora avrai le ricchezze e la gloria....

Nessun consiglio ci viene tanto accetto quanto quello che risponda alle nostre idee, e perciò il contino Rinalducci accolse le espressioni dei suoi amici con trasporti di vero entusiasmo. Egli era commosso fino alle lagrime della bontà che gli mostravano le prime famiglie del paese, della cura con cui esse volevano tutelare il suo decoro. Era impossibile ch'egli agisse contro la loro opinione, ch'egli si mostrasse meno tenero del proprio nome di quel che se ne mostrassero personaggi così illustri quali erano la marchesa C..., la contessa M..., la principessa L..., i conti R..., il contino A..., per non parlare di uno sciame di ragazze tutte deliberate a trattarlo come disertore s'egli abbandonava la buona società.

A ricambiare tanta benevolenza, egli, passati i primi tre mesi di lutto, continuò a dirigere le quadriglie, a dar le disposizioni per le gite di piacere, ad accompagnare [284] alla passeggiata le signore di sua confidenza.... Diede fondo in brevissimo tempo al poco che gli rimaneva, senza che i suoi studi avessero fatto un passo decisivo. Egli cominciò a scoprire che aveva il genio, ma che il suo spirito si ribellava alla tecnica dell'arte, si ribellava al giogo delle regole. Se si fosse potuto fare un quadro senza disegno nè colore, egli avrebbe fatto la Trasfigurazione di Raffaello, se si fosse potuto scrivere un'opera senza le pedanterie del contrappunto, egli avrebbe scritto gli Ugonotti. Malgrado di ciò egli continuava ad esser favorito, festeggiato, carezzato. E quando fu proprio al verde di quattrini, si accorse che non era difficile il far debiti, nè impossibile il trovare nei momenti supremi chi li pagasse. Più di qualche volta l'uno o l'altro de' suoi intimi aveva consentito ad anticipargli alcune migliaia di lire, tanto ch'egli potesse mantenersi in quella posizione indipendente di cui aveva bisogno.... Se Mario non era ben vestito, non lo si poteva ricevere in società, e come fare a meno di lui in società, se nessuno possedeva le sue svariate attitudini?...

Il Rinalducci era in relazione troppo stretta con quelli che lo sovvenivano per sentirsi umiliato dalla loro condiscendenza. — Son cose che si fanno tra amici — egli diceva, e dispostissimo a fare anch'egli altrettanto, si sentiva esonerato dagli obblighi della gratitudine e da quelli del rimborso.

Certo qualche volta gl'imbarazzi eran seri, ma il contino non si perdeva d'animo. A un vilissimo padrone [285] di casa che si era permesso di dargli lo sfratto perchè egli non aveva pagato per tutto un anno la pigione, il nostro eroe rispose per le rime meravigliandosi della sua petulanza e dichiarando ch'egli non era solito a ricevere intimazioni. L'altro non si diede per vinto e replicò con frasi di non dubbio significato. Punto nel vivo, il pigionale ricalcitrante mandò dal proprietario tiranno due giovanotti, intimi suoi, il conte C... e il barone V..., coll'incarico di ottenere una ritrattazione o di fissare le condizioni di una partita d'onore. Ma lo sfidato, quantunque fosse uomo di fresca età e di membra vigorose, ricusò di accomodar la faccenda in questa maniera e rise in faccia ai padrini, i quali, con molta solennità, stesero immediatamente un processo verbale, che diedero alla luce, lasciando giudice dell'accaduto il solito pubblico. E il pubblico, della buona società, sentenziò che il conte Rinalducci e i suoi padrini si erano condotti cavallerescamente, e che il proprietario era un bifolco senza principii di educazione. Ciò non tolse che il nostro zerbinotto dovesse cercarsi un'altro alloggio. E lo trovò per qualche tempo in due stanze d'un palazzo disabitato appartenente a un amico, al quale egli si guardò bene dal pagare alcun fitto, dolendosi soltanto della nessuna comodità del quartiere assegnatogli, quartiere, com'egli diceva, più da servitori che da gentiluomini. — Come pretendere, egli soggiungeva, che io dipinga o scriva musica se ho uno studio privo d'aria e di luce? Vergogna! Che cosa sarebbe costato all'amico X il darmi una stanza migliore?

[286]

Nondimeno il Rinalducci volle rispondere con magnanimità a tanta grettezza, e dipinse a memoria il ritratto del suo ospite, per fargliene una sorpresa nel suo dì natalizio. Il ritratto somigliava all'amico X quanto può somigliare la signora... (quasi mi scappava il nome) alla più bella delle mie lettrici, ma esso parve all'autore un'opera d'arte così perfetta da non potersi pagare nè con l'abbuono di cento pigioni, nè con l'invito a diecimila pranzi. Volle sceglierne egli medesimo la cornice e collocarlo di sua mano nel posto d'onore sulla parete del salotto dai ricevimento. Più di qualcheduno, non iniziato nei misteri del pittore, domandò chi fosse quel brutto ceffo che aveva la bocca storta e guardava losco. E allora il felice proprietario rispondeva in fretta con qualche impiccio: — Una testa di fantasia! Una testa di fantasia!

Col passar degli anni le strettezze del conte Mario aumentavano anzichè diminuire. I suoi creditori, nefanda genia, diventavano più fastidiosi e i sovventori si mostravano invece meno liberali. E poi, a poco a poco, l'ambiente in mezzo al quale egli era cresciuto, si andava spostando e trasformando. I vecchi protettori, amici del babbo e della mamma, morivano, i compagni della sua gioventù prendevano moglie, le ragazze che egli aveva trattate confidenzialmente si maritavano, e non sempre le nuove famiglie erano così benevole a suo riguardo come le antiche. Egli sorprendeva di tratto in tratto qualche gesto impaziente, egli udiva qualche parola amara. [287] egli, il favorito di pochi anni addietro, sentiva, in più d'una occasione, d'esser di troppo. Ma egli aveva acquistato ormai una faccia tosta invidiabile. Anche non invitato si cacciava dappertutto, era riuscito a desinare alla mensa altrui cinque volte per settimana, era riuscito a passare in varie villeggiature due mesi di primavera e due mesi d'autunno. Sempre indipendente, non isdegnava di ricambiare i favori dei suoi ospiti col corteggiarne le mogli, e metteva dalla sua parte le cameriere corteggiando anche loro. Era un bell'uomo, era elegante, e le donne chiudevano volentieri un occhio alle sue debolezze. Suoi implacabili nemici erano i camerieri maschi, perchè non aveva la bassa e servile abitudine di dar mancie e aveva esigenze da principe. Narra la cronaca ch'egli fosse una volta gravemente compromesso dalle rivelazioni di uno staffiere, il quale l'aveva sorpreso nell'atto di consegnare un bigliettino alla sua padrona.

Il conte Mario fu licenziato su due piedi dalla villa ond'egli godeva le delizie, ed ebbe l'intimazione di non presentarsi mai più. Egli si fece un grande onore in questa faccenda sfidando a duello e storpiando lo screanzato ed insofferente marito, ma dovette stringere una nuova relazione per supplire al vuoto prodotto dal disgustoso incidente nel numero de' suoi inviti a pranzo e in quello dei giorni ch'egli passava in villeggiatura.

Si domanderà perchè il conte Mario non ricorresse ad un sistema molto in voga fra i pari suoi: vale a dire ad un ricco matrimonio con una ragazza [288] avariata del suo ceto, o con qualche gobba o sbilenca della borghesia che fosse disposta a scambiare un mezzo milioncino con un po' di blasone.

Quelli che seguirono con una certa attenzione le vicende dell'esimio Rinalducci serbano memoria di quattro proposte di matrimonio che gli furono fatte, cioè:

La contessina A..., 200 mila lire di dote, trentacinque anni, aspetto mediocre. Fuggita a venti anni con un ufficiale di cavalleria, trattenutasi con lui soli otto giorni;

La marchesina B..., 150 mila lire, ventotto anni, non brutta, rea d'un unico atto di distrazione che sventuratamente produsse una piccola conseguenza;

La signorina L..., figlia di un negoziante di chiodi, 300 mila lire. Naso da pappagallo, e un'escrescenza assai pronunziata sulla schiena;

La signorina N..., figlia d'un pizzicagnolo ritirato dagli affari, 350 mila lire, ventisette anni, fianchi posticci, statura eccezionalmente bassa, un neo a forma di cespuglio sulla guancia, eruzioni cutanee assai abbondanti ogni primavera.

Come si vede, l'uno o l'altro di questi partiti avrebbe offerto al conte Mario l'occasione di rimpannucciarsi. I biografi non sono d'accordo sulle ragioni che fecero andare a vuoto i vari progetti; i più benevoli affermano che nel momento di stringere i conti egli cedesse ad una invincibile ripugnanza pell'ignobile contratto; altri citano cause diverse. In un caso, essi dicono, furono i genitori della sposa [289] che ruppero i negoziati, appena il conte Mario domandò un acconto di 10 mila lire sulla dote; in un altro caso una vedova alla quale egli andava debitore di molto, venuta a cognizione di ciò che stava macchinandosi dal suo protetto, riuscì a comperare alcune cambiali sottoscritte dal Rinalducci, e più sollecita della vendetta che del proprio decoro, lo minacciò d'una procedura sommaria ov'egli non si sciogliesse senza indugio da qualunque impegno matrimoniale.

Il conte Mario sentì sbollirsi i suoi ardori per la sposina e tornò a sacrificare all'ara della vedova, ottenendo da lei l'annullamento delle tratte fatali.

Il conte Mario giunse adunque alla matura virilità senza prender moglie e senza diventare nè uno scrittore, nè un pittore, nè un maestro di musica. Era un dilettante mediocre, buono da far madrigali, da disegnar macchiette, da sonare un walzer o una polka in caso di bisogno. Ma tutte queste cose non fruttano quattrini, e alla lunga, seppure egli avesse voluto, gli sarebbe stato ben difficile mettersi al sodo. A quarant'anni tutti ci chiedono: — O che avete fatto fino al presente? Come avviene che vi poniate in cammino nel momento, in cui gli altri arrivano? — E poi — faceva osservare il conte Mario quando sollecitava uno dei soliti prestiti da uno dei soliti amici — e poi, capisci bene, col mio nome, nella mia posizione, non posso accettare il primo impiego che capita. Non dico, se si trattasse di esser direttore d'una banca, d'una compagnia d'assicurazioni, potrei [290] anche pensarci, ma è tutta una camorra, è una indegnità. Gli uffici sono riserbati a Caio perchè è parente d'uno dei consiglieri, a Tizio perchè ha le raccomandazioni di un ricco azionista, del quale sposerà la sorella, a Sempronio perchè ha l'amicizia della moglie del Presidente. Camorra! Camorra! Oh un giorno o l'altro li concierò io per le feste questi aristocratici della Borsa con una satira alfieriana!

Ma la satira alfieriana rimase nella penna al nostro Mario, il quale volse le forze dell'intelletto a trovar mille ingegnose applicazioni alla sua teoria che un amico fosse una mucca da mungere a proprio piacere. Lo svolgimento pratico di questa profonda dottrina gli arrecò per altro non pochi disinganni, che lo convinsero della tristizia degli uomini. — Quale egoismo! — egli sclamava dopo aver subito un rifiuto. — Quale mancanza di cuore! Dirmi di no!...

Poichè alcune delle vecchie relazioni gli andavano via via mancando, egli cominciò ad esser meno esclusivo nella scelta de' suoi conoscenti e ad introdursi anche in alcune famiglie borghesi. Però, nemmeno le nuove conoscenze duravano tutte a lungo, ed egli se ne vendicava diventando più esigente verso quelle che gli rimanevano fedeli o per sincera affezione, o per consuetudine, o per timidezza. Giacchè col crescer degli anni gli era cresciuta in singolar guisa la maldicenza, e molti temevano d'esser fatti segno a suoi strali.

Lo stanzino del caffè ov'egli teneva cattedra aveva acquistato ormai un certo grado di celebrità, e non [291] mancavano gli sciocchi e gli sfaccendati che dicevano — Andiamo un po' a sentire il conte Mario. Ha la lingua un po' lunga, ma le dice con garbo, e non risparmia nè grandi nè piccini. Dopo tutto egli non è uomo di partito, è un carattere indipendente.

Un carattere indipendente! Ecco quello che il conte Rinalducci voleva che gli altri lo giudicassero, ecco quello ch'egli credeva sul serio di essere. Povera indipendenza! Che ludibrio hanno fatto del tuo nome! Tu e la tua sorella libertà siete certo fra le parole più martoriate del dizionario. E tu per lo appunto, o indipendenza, quante volte non mascheri a tua insaputa l'abbietto cinismo, l'egoismo gelato e impudente! Quanti non sono che si vantano indipendenti, perchè non si lasciano vincere da nessun entusiasmo e da nessuno sdegno, perchè in mezzo al turbine delle ambizioni e degli affetti ond'è travolta l'umanità, possono non ambir nulla, e si contentano di appiattarsi in un angolo per iscagliare il dardo avvelenato dei loro sarcasmi su tutti quelli che operano, e pensano, e credono, e amano! Non curare il proprio paese? È indipendenza dalle grettezze della nazionalità. Non tenersi legati dai benefizi? È indipendenza dalla gratitudine. Non rispettare la virtù? È indipendenza dalle pedanterie della morale.

Chiedo perdono della digressione. Il conte Rinalducci, io dicevo, conservava alcuni amici, e questi dovevano supplire anche a quelli che gli erano andati mancando. Non solo egli era il loro assiduo commensale, ma voleva altresì esercitare una influenza [292] sui loro sistemi culinari. Come avviene frequentemente degli oziosi, egli era diventato gastronomo, ed era delicatissimo nei cibi e nei vini. Rivedeva le buccie ai cuochi e ai cantinieri, e toglieva la sua stima ad un padrone di casa che lasciasse portare in tavola un manicaretto non accomodato a dovere o un vino di qualità inferiore. Chi non capiva la virtù del gorgonzola grasso era uno zotico, chi non pregiava la polenta coi beccafichi era un barbaro. Tenne il broncio per due settimane ad una famiglia, che, dopo averlo invitato una mattina a mangiare le beccacce, sciupò questa vivanda prelibata con una salsa sgradevole, salsa da Ostrogoti, com'egli diceva, salsa che era per sè stessa una rivelazione di gusti grossolani e plebei.

Se un buon pranzo era la cosa principale che il conte Mario domandava a' suoi amici, egli non intendeva con ciò esonerarli dall'obbligo di farlo partecipare anche ai loro divertimenti. E non solo egli reputava essere ormai convenuto che ove andavano i suoi conoscenti dovesse, a spese loro, andarsene anch'egli, ma suggeriva egli stesso le gite da farsi, gli spettacoli a cui assistere, e non lasciava pace agli amici finchè non li aveva indotti ad accogliere i suoi progetti.

E in questi suoi suggerimenti non era già ossequioso, mellifluo, ma usava modi conformi a quella indipendenza di carattere ch'era il maggiore suo vanto.

Egli s'era, per esempio, fitto in capo di andare a teatro col signor X. Ebbene, senza tanti preamboli, egli chiedeva: — Si è preso palco per stasera?

[293]

E se il signor X rispondeva, o che non ci aveva pensato, o che aveva voglia di restarsene a casa, egli replicava infastidito: — Come! Non si va a teatro? C'è uno spettacolo di cartello, e si ha il coraggio di non andare a teatro! Vergognatevi di farvi sentire a dire un'eresia simile....

Ma qualche volta il signor X non si vergognava e teneva fermo al suo punto; allora il conte Mario prima di seccare una terza persona scaraventava addosso all'amico ricalcitrante una serie di contumelie accusandolo di mancare di gusto e di gentilezza, e d'essere immeritevole dei favori della fortuna.

Pur non era implacabile e il di appresso si ripresentava, perdonando, alla tavola di chi aveva vituperato la sera.

Del resto, il conte Mario aveva un modo di ricambiare i favori ricevuti. Non era egli un grande artista in potenza? Ebbene egli faceva il ritratto dei figli de' suoi anfitrioni. I fanciulli erano stati sempre il suo forte in pittura, ed egli rammentava con orgoglio le lodi che avevano accolto una testa d'angelo, lavoro della sua adolescenza. Adesso i bambini evocati dal suo pennello somigliavano più ai feti conservati nell'acquavite che agli angioletti dell'Assunta; nondimeno quand'egli aveva condotto a termine una di queste tele preziose, egli si fregava le mani con compiacenza e diceva fra sè: — Adesso il creditore son io.

Se questo convincimento di non dover mai nulla a nessuno fosse sincero o affettato; se quest'aberrazione [294] del suo spirito fosse rotta da qualche lucido intervallo in cui egli si rendesse conto esatto della sua posizione, è difficile a dirsi. Forse nella desolate solitudine della sua casa egli avrà avvertito l'abisso in cui era caduto, ma era troppo tardi. Ormai, la coscienza del vero non poteva infiammarlo a virili propositi, l'energia che gli era mancata nella giovinezza non poteva venirgli nel tramonto della vita. Nè egli si apriva con nessuno. Mormorava degli uomini e delle cose, si lagnava dell'ingiustizia del mondo, inveiva, egli rimasto fra gli ultimi, contro tutti quelli che erano arrivati a una meta, ma confidar le segrete battaglie dell'animo, ma versare i proprii dolori nel cuor d'un amico non era affar suo. Alla società nella quale egli era vissuto egli aveva chiesto il piacere, non lo scambio soave degli affetti e dei pensieri, ed essa non gli aveva dato più di quanto egli s'era atteso da lei.

Ora ella gli forniva i mezzi di sussistenza come si assegna una pensione ad un povero invalido; quanto ai conforti dello spirito, nè ella gliela offriva, nè egli sarebbe stato più capace d'intenderli.

Il tugurio che lo albergava la notte era inaccessibile a tutti fuorchè a una donnicciuola, al servizio d'altri inquilini della stessa abitazione, la quale per pochi soldi al mese consentiva a fargli la stanza. Ma quella donna doveva accudire a' suoi uffici mentre egli era in casa; per tutto l'oro del mondo egli non le avrebbe lasciato la chiave della sua camera, temendo ch'ella potesse, lui assente, condurre qualcheduno [295] fra quelle pareti, testimonio della sua miseria.

Usciva per tempissimo, dopo essersi fatta la barba dinanzi a un frammento di specchio, dopo aver spolverato in tutti i sensi l'unico vestito decente che gli restava; usciva senza uno scopo, senza una meta fissa, cacciato più ch'altro dall'insonnia e dal bisogno di quelle illusioni che gli erano negate dal triste spettacolo del suo covile. Percorreva lento, distratto le vie della città, sostando dinanzi alle mostre delle botteghe, soffermandosi al passar delle belle donnine e seguendole con un lungo sguardo di desiderio forzatamente platonico. Com'erano lontani i tempi in cui le belle donnine, accortesi ch'egli le guardava, si voltavano furtive e sorridevano dietro il ventaglio od il velo! Le belle donnine di quei tempi erano ormai venerande matrone, avevano perduto le rose del volto e la svelta leggiadria delle membra, ma avevano una casa, una famiglia, ma nel sorriso dei loro figliuoli rivivevano ai lieti di della giovinezza; egli invece aveva finto di credere la giovinezza eterna, aveva sperato che i piaceri dei venti anni potessero scaldare un cuor di sessanta, e si trascinava solo, povero, infermiccio... Misero chi non prepara gli alloggi alla vecchiezza che giunge! Esso è simile a chi s'affida di mantener perenne l'estate non vestendo i panni invernali.

Dopo aver passato alcune ore alla bottega di caffè in mezzo agli eleganti ed ai ricchi tanto per credersi ricco ed elegante al pari di loro, il conte Mario [296] andava a pranzo da questo o da quello, saziandosi con un pane e un pezzo di formaggio nei giorni vuoti. La sera rincasava assai tardi, ma non voleva che si discorresse mai del suo domicilio, del quale egli amava dimenticarsi sotto ogni riguardo, compreso quello della pigione.

Il conte Rinalducci, come dissi fin da principio, è morto, e l'onore di ricevere le sue ultime disposizioni toccò al signor Giovanni Battista Smerigli, ricco possidente, ex-consigliere comunale, che conosceva già da vent'anni il nostro eroe e che aveva la soddisfazione di dargli da desinare la domenica, il mercoledì e il venerdì.

Ora, un mercoledì, alle sei in punto, il signor Giovanni Battista Smerigli, trovandosi nel gabinetto da lavoro di sua moglie, guardò prima l'orologio, poi la signora Valentina (era il nome della consorte) e disse: — Per solito Rinalducci a quest'ora è venuto.

— Sicuro, — rispose la signora Valentina senz'alzar gli occhi dal suo telaio da ricamo.

— È stranissimo, — soggiunse il signor Giovanni Battista.

Indi marito e moglie tacquero e lasciarono scorrere in silenzio altri cinque minuti.

— Non capisco, — riprese la signora Valentina dopo questo intervallo.

— Se facessimo intanto portare in tavola? — insinuò timidamente il marito.

— Ti pare? — replicò madama. — Rinalducci [297] andrebbe su tutte le furie. Egli ha dichiarato tante volte che non vuole la minestra fredda...

— E a lasciarla al fuoco la troverà lunga.

— È vero, ma egli ha pur detto che preferisce la minestra lunga alla fredda.

— Gli è che invece io preferisco la minestra fredda...

— Zitto, vergognati. Un commensale di tanti anni!

— Già... anche troppo commensale, — sospirò il signor Giovanni Battista, e avrebbe continuato se in quel momento non avesse sentito bussare all'uscio.

Entrò un servo portando un biglietto. Il signor Smerigli lo prese e disse subito: — È la scrittura del conte Mario. Ma è singolare... In lapis, e tutta di traverso... Pare che gli tremasse la mano... Ah! aspettate, soggiunse il signor Battista rivolgendosi al servo, c'è scritto anche: condannata 50 centesimi. Eccoli...

Il cameriere uscì.

Il signor Smerigli aperse con curiosità il biglietto. La signora Valentina s'era alzata ella pure dalla sedia e leggeva dietro le spalle del marito. Tutto il messaggio consisteva in due righe:

Sto male, fatevi subito accompagnare a casa mia dal latore.

Mario.

[298]

— Diavolo! diavolo! — disse il signor Smerigli. — A quest'ora! come si fa? Senza aver pranzato?...

— Non puoi ricusarti, — osservò la signora Valentina.

— È presto detto, ma io non so nemmeno l'indirizzo preciso di Mario.

— Non c'è il portatore della lettera che deve accompagnarti?

— Sì, sta a vedere se non se n'è già andato...

La signora Valentina scosse il campanello. — La persona che ha portato questa lettera? — ella chiese al servo che si presentò.

— È giù che attende.

— Vedi bene, — riprese la signora Valentina indirizzandosi al consorte.

Il signor Smerigli capì che non c'era rimedio, bevette in piedi una tazza di brodo e uscì brontolando.

Quand'egli fu introdotto nella cameruccia del suo amico, lo trovò disteso sopra un letto senza lenzuola, mezzo vestito, e aggravato per modo che non poteva ormai pronunziar più una parola. Lo assisteva pietosamente una donna attempata, quella stessa che si prendeva cura delle poche sue robe e della sua miserabile stanza.

— Questa mattina, — ella disse, — il conte si era alzato come il solito e m'aveva chiamato a fargli la camera. Poi si pentì e mi ordinò che lo lasciassi solo. A mezzogiorno, non vedendolo uscire, gli chiesi se si sentisse male e se volesse nulla. Mi [299] rispose che stava bene, che non abbisognava di niente e che non lo seccassi... Finalmente un'ora fa, contro l'usanza, suonò il campanello. Lo trovai ansante e che stentava a parlare. Mi diede un biglietto per lei incaricandomi di farglielo aver subito. Io nello stesso tempo feci chiamare un medico che fu qui pochi minuti or sono, tentennò il capo, fece un salasso e disse che tornerà entro mezz'ora.... Santo Iddio!... Chi si sarebbe figurato una cosa simile?... Ancora un uomo fresco....

E la buona vecchia si rasciugò gli occhi col dorso della mano.

Il conte Mario, sebbene non potesse parlare, riconobbe lo Smerigli e gli fece cenno d'avvicinarsi. Indi con grande sforzo tolse di sotto il capezzale una specie di lettera suggellata e gliela consegnò.

— Devo aprire? — chiese il signor Smerigli.

Il moribondo fece un gesto con la mano, come a dire: aspettate.

Tornò il medico e dichiarò che non c'era più speranza. Infatti il pover'uomo morì di lì a poco.

Il mattino successivo, alla presenza di testimoni e nella camera stessa del defunto, il signor Smerigli aperse il piego che aveva ricevuto. In cima alla pagina era scritto in bel carattere rotondo la parola testamento.

Che razza di testamento poteva mai fare uno spiantato come il conte Rinalducci?

Il signor Smerigli lesse ad alta voce:

Lascio al mio amico Giovanni Battista Smerigli l'incarico [300] di farmi seppellire. Desidero funerali decorosi ma senza pompa. Lo stesso amico Smerigli è pure incaricato di far mettere sulla mia tomba una lapide colla seguente semplicissima iscrizione:

Mario conte Rinalducci
d'anni..... mesi.....
Visse e morì indipendente.

— Accetta l'eredità? — chiese il giudice con una certa aria da canzonatura.

— Sì, sì, che vuol farci? — rispose il signor Smerigli, scrollando le spalle. — Ma, Dio l'abbia in gloria, un gran bel seccatore!

[301]

IL MAESTRO DI CALLIGRAFIA

In un istituto scolastico di una città del mondo gli studenti dell'ultimo corso erano occupati nella prova scritta dell'esame di letteratura. La cosidetta sorveglianza era affidata al signor Antonino Bottaro, vecchio professore di calligrafia, che stava per abbandonare la scuola ed andare in pensione. Sorveglianza alla prova scritta vuol dir questo. Un professore, che non è quello della materia su cui si fa l'esame, rimane nella stanza, ove gli esaminandi lavorano, e invigila affinchè essi non si copino i temi a vicenda, non consultino libri, non si passino carte, ecc. ecc. Naturalmente, finchè non si adotti per l'esame il sistema cellulare, tutta questa roba si fa lo stesso in barba al signor professore. Figuriamoci che cosa avviene, quando il sorvegliante è il professore Bottaro, vittima della scolaresca a due titoli; primo, perchè è il professore di calligrafia, secondo, perchè è un pan di zucchero. Nei trent'anni dacchè egli insegnava le leggi della scrittura posata, corsiva, rotonda e gotica con ispeciali applicazioni alla burocrazia ed al commercio, gliene erano toccate d'ogni maniera. Non passava giorno [302] senza che un monello di scolare gli applicasse un codino di carta al bavero del vestito, o segnasse col gesso la sua caricatura sulla tavola nera. Una volta gli si erano messe due ova in cappello tanto da far nascere una frittata al suo coprirsi nell'uscir dalla scuola; un altro giorno si era spalmato di pece il cuscino della poltrona, ov'egli andava a sedersi per correggere gli elaborati. Non parliamo dei suoni infinitamente varii che rallegravano la sua lezione. Mentr'egli si chinava sul quaderno d'uno studente, dall'estremo opposto della panca sorgeva come un miagolio di gatta in amore; egli volgeva lo sguardo da quella parte, ed ecco venir dal fondo come un tubar di colomba o come un trillo acuto di gallo mattiniero: Chichirichì. Il professore rosso come un gambero correva allora verso la cattedra gridando: Or ora faccio una nota a tutti — ed ecco un silenzio sepolcrale seguito da un rumore che simulava il vento e che cominciava lieve, lieve per diventar poi gagliardo e impetuoso e perdersi via via in un gemito impercettibile, come la marcia turca di Beethoven.

Il signor Antonino faceva la nota a tutti, ma prima del termine della lezione la scancellava dopo essersi fatto promettere dai ragazzi che la lezione successiva sarebbero stati buoni come agnellini.

Nè da' suoi colleghi il signor Antonino riceveva segni di particolare deferenza. Sgarbi non gliene facevano sicuramente, ma in fin dei conti, al professor di calligrafia chi ci bada? Nelle conferenze, [303] il Preside, il professore di matematica, il professore di belle lettere, il professore di fisica discorrevano tutti con grande prosopopea; anche il cancelliere voleva dire la sua opinione, ma il professore Antonino o poteva egli avere un'opinione? E quando si trattava di dar le classificazioni finali, se il signor Antonino si lagnava di qualche studente (ed era assai raro che se ne lagnasse) se diceva che il tale non aveva mai scritto una riga durante l'anno, gli altri scrollavano le spalle con impazienza, come a dire: seccatore! smetta! Terminato l'anno scolastico molti professori ricevevano visite dagli alunni, complimenti dai genitori, elogi dai preposti all'Istituto; e ora a questo, ora a quello pioveva dall'alto una croce, ma quanto a lui, al calligrafo, chi lo prendeva sul serio? Non era forse celebre la sua soprascritta a una lettera, che cominciava: All'pregiatissimo? Appena due o tre giovinetti di cuor più tenero degli altri, rammentandosi del grave travaglio che gli avevan dato durante l'anno, gli movevano incontro con viso tra compunto e faceto e dicevano: — Scusi, sa, signor professore, se non fummo sempre tranquilli come avremmo dovuto essere. Egli s'inteneriva subito e diceva: — Ohibò.... ohibò.... Loro... voialtri siete stati buoni..., lo so io quelli che erano i cattivi soggetti... basta... basta... adesso si va in vacanza... a far provvista di giudizio, non è vero... eh?

E dava loro un pizzicotto alla guancia.

L'anno nuovo poi ricominciava la medesima storia.

[304]

Eppure, il professore Antonino non sapeva viver lontano dalla sua scuola. Le vacanze erano per lui una penitenza. Tutta la sua famiglia si riduceva a una sorella nubile più vecchia di lui, sorda e bisbetica, che lo tormentava senza posa affinchè egli domandasse la sua pensione. — Ma — soggiungeva la signora Bettina, che non era un'aquila — ma devi volere la pensione intiera secondo il sistema vecchio, non la pensione di cinque sesti come danno adesso. Tu sei entrato col sistema vecchio e hai diritto di esser trattato con quello. Capisci, babbuino?

Che sua sorella gli desse del babbuino non era alla fin dei conti una cosa che facesse un gran senso al povero professore; tanto e tanto un po' babbuino egli sentiva di essere. Quello che non sapeva perdonare alla rispettabile donzella si era ch'ella tirasse giù a campane doppie contro la scolaresca. E questo livore non era nemmeno cagionato dagli sgarbi che usavano a suo fratello. No, c'era un altro motivo. Un giorno, essendo passata vicino al portone della scuola in un momento che gli studenti ne uscivano, la ragazzaglia, com'ella la chiamava, si era messa a gridare dietro a squarciagola: bella! bella! bella!

La signora Bettina non aveva mai perdonato alla scolaresca questo affronto, nè a suo fratello l'indifferenza con la quale egli ne aveva accolto l'annunzio. Ella che avrebbe voluto un'espulsione in massa! Ella che sarebbe andata in persona dal Preside, se [305] non fosse stata la paura di scontrarsi nuovamente con quei cattivi soggetti!

— Già — brontolava la bisbetica donna — quando si ha la disgrazia di non aver uomini in casa ma pecore (ho detto pecore) non si può nemmeno arrischiarsi di uscire. C'è da far le meraviglie davvero se sono rimasta zitella? Chi viene da te? Ove mi conduci? Almeno se tu lascerai quella maledetta scuola, beninteso con la tua pensione intiera, potrai pensare un poco a tua sorella.

Il professore Antonino ci pativa a sentir questi discorsi, e l'idea di condurre a passeggio sua sorella gli metteva i brividi addosso. Egli non era elegante. Il suo cilindro con un dito di unto, il suo soprabito spelato rispondevano appieno alla sua posizione sociale di pubblico insegnante, ma in fin dei conti egli non aveva un cappello cremisi con piume verdi, nè due ricciolini neri fatti a forma di punto interrogativo ornavano le sue tempie. Dimodochè, anche nelle vacanze, egli trovava mille occupazioni immaginarie per esimersi quanto più spesso gli fosse possibile dall'ufficio di cavaliere servente di madamigella Bettina. Piuttosto, dando fondo a tutti i suoi risparmi egli si rassegnava a mandarla a sue spese dal 15 settembre al 15 ottobre d'ogni anno presso una famiglia di conoscenti che villeggiava a breve distanza dalla città. Ella ci andava un po' a malincuore, quasi facendo un atto di degnazione, perchè si trattava di gente inferiore a lei per educazione; figuratevi, eran le nipoti di un salumaio arricchito; a ogni modo ci [306] andava in vista dell'aria che serviva a calmare i suoi nervi. Poveretta! Era stata sempre così sensitiva.

Intanto il professore passava la giornata a desiderare la riapertura della scuola. Quando aveva dato da mangiare al canarino, quando aveva temperato la penna d'oca con cui teneva dietro assiduamente a tutti i progressi della scrittura gotica e rotonda (pel corsivo aveva accettato la penna di ferro), egli non trovava miglior partito di quello d'andare all'Istituto e di spender due ore nella stanzuccia del signor Bartolomeo, il vecchio bidello. Il signor Bartolomeo era anch'egli un po' brontolone come la signora Bettina, si lagnava del Governo, del consiglio provinciale, del Municipio, del Preside, dei professori, del cancelliere, degli scolari. Ma sopratutto si lagnava della signora Elena, la moglie del Preside, ch'egli aveva visto nascere di povera gente e andar per le strade quasi quasi a raccattar carta, e che ora aveva messo boria e non si degnava nemmeno di salutarlo. Il professore Antonino non sapeva dar tutti i torti al buon Bartolomeo; anch'egli soffriva parte delle umiliazioni che toccavano al bidello, anch'egli aveva notato l'albagia della signora Elena che pareva fargli una grazia a ricambiar con un cenno del capo i suoi umilissimi inchini, ma d'altra parte si adoperava a gettar acqua nel fuoco, a raccomandare al signor Bartolomeo la calma, la pazienza; e, ripeteva l'antico adagio — Chi ha più giudizio lo adoperi... Anch'io se volessi badare a tutto... non solo qui a scuola... ma anche con quella benedetta donna di mia sorella... buonissima [307] creatura del resto... ah insomma tutti abbiamo le nostre.

E chiudeva la sua perorazione coll'offrire al signor Bartolomeo una presa di tabacco.

Poi faceva i conti sui giorni che mancavano a riaprire la scuola. E pensava ai suoi colleghi, che non avevano mai l'abitudine di tornare dalla campagna fino a dieci o dodici giorni più tardi del necessario, e pensava a' suoi scolari, furfanti, ma buoni diavoli.

Figuriamoci se nel giorno di cui parliamo egli non abbia mille cose che lo molestino. Quella mattina stessa, cedendo alle istanze della sorella, egli aveva consegnato al Preside la sua domanda pel collocamento a riposo, pregandolo che la facesse pervenire al Governo. Nè la pensione poteva essergli negata, perchè egli aveva tutti i titoli per ottenerla, s'intende nella misura fissata dalla legge, non già in quella pretesa dalla signora Bettina; onde questo era l'ultimo anno che egli esercitava le sue funzioni di professore, e la sorveglianza della quale oggi egli veniva pregato era uno degli ultimi incarichi del suo ufficio.

Il Preside, esternando il suo rammarico per la risoluzione del professore Antonino, gli aveva detto con una gentilezza insolita: — Senza complimenti, professore, se ella non ha voglia di stare in classe tutt'oggi, incarico un altro. Lei ha lavorato pe' suoi giorni abbastanza.

— Oh, cavaliere, le pare?... Anzi... se si tratta di servirla, di essere utile alla scuola... anche dopo.... [308] oh per me già ho sempre voluto un gran bene a quest'Istituto.

— Lo so, lo so, professore,

— Troppo buono, cavaliere... E se ho mancato... non fu per cattiva volontà.

— Mancato?... Oh mi meraviglio, professore. Così fossero tutti.

E il cavaliere Preside gli aveva stretto la mano.

Il professore di calligrafia aveva il cuore gonfio dalla commozione.

— Ho mal giudicato anche il Preside, — egli diceva fra sè, — degnissima persona... Ma! E mi tocca lasciar tutta questa gente che mi vuol bene!

Con che fatica il nostro Antonino tratteneva le lagrime!

E con queste disposizioni d'animo egli era sceso in classe, ove si raccoglievano i suoi persecutori ordinari, umili quel giorno e contriti per l'idea dell'esame; con queste disposizioni aveva inteso dal Preside dettare il tema della prova in iscritto, un tema così difficile, così difficile. Poveri ragazzi! O se avesse potuto far lui l'elaborato per tutti? Ma sì! Non ne capiva nemmeno il titolo. Gran disgrazia essere asini!

Intanto quelle fronti giovanili si corrugavano, quegli occhi per solito così gai si mettevano a guardare in alto, come chiedendo l'ispirazione alle ragnatele del soffitto, quelle labbra vermiglie ordinariamente disposte al sorriso si contraevano con uno sforzo penoso, e le mani avvezze a tante piccole furfanterie andavano ravvolgendosi nei capelli.

[309]

A poco a poco, prima l'uno e poi l'altro, i ragazzi uscirono dallo stato contemplativo, tirarono fuori i libri che non dovevano avere, consultarono i quaderni che dovevano aver lasciati a casa, e finalmente si accinsero a scrivere. Di lì a una mezz'ora si udiva il suono uniforme delle penne di ferro che correvano sulla carta.

— Sia rigraziato il cielo, — disse fra sè il buon calligrafo come sollevato da un gran peso. — Sia ringraziato il cielo! Adesso hanno preso l'aire tutti quanti. Già, bisogna confessarlo, son bravi ragazzi.

Al signor Antonino pareva che, se gli studenti cominciavano a scrivere, l'esito dell'esame fosse assicurato. Scrivessero poi bene o male, poco importava.

Sentendosi un po' le gambe intorpidite egli scese dalla cattedra e si mise a passeggiar su e giù per la classe.

Delle varie file di panche non ne erano occupate che due, cosa del resto naturalissima, inquantochè quella era l'aula destinata al secondo corso e gli esaminandi appartenevano all'ultimo, sempre meno numeroso.

Il professore Antonino dopo aver passeggiato alcun tempo a capo basso e con le mani intrecciate dietro la schiena lungo la corsia che movendo dalla cattedra percorreva longitudinalmente la classe, si fermò prima davanti a una finestra, poi stette alcun poco in contemplazione delle mosche che gironzavano intorno ai vetri, poi cominciò a gettar l'occhio sulle panche vuote e a passar, quasi senz'accorgersene, da [310] una panca all'altra contemplandovi i rabeschi e le iscrizioni che le adornavano.

Le panche della scuola! Chi di noi non se ne rammenta? Chi su quei disadorni sedili non si è, alla fin dei conti, trovato meglio che nelle poltrone a molle ove sdraiammo più tardi la svigorita persona? Senza dubbio le nostre tribolazioni le abbiamo avute anche lì. Quando, interrogati dal professore, non abbiamo saputo rispondere verbo, ed egli, con un sorriso glaciale, ci accennò di sedere e intanto con voluttà crudele disegnò una bella croce nella colonna delle classificazioni di fronte al nostro nome e cognome; o quando, colti in fallo nel meglio di qualche furfanteria, ci sentimmo dire dallo stesso signor professore — Benissimo, scriverò alla famiglia — oh allora il nostro povero corpicino ci stette pure a disagio sulle panche della scuola! e ci siamo messi a piangere, e ci siamo augurati la morte, e abbiamo fatto ridere i nostri condiscepoli da cui non potevamo restar divisi e che pure erano tanto crudeli. Ma erano bufere d'estate. Il più delle volte dopo essere andati a scuola a malincuore, vi ci trovavamo così bene. Se avevamo un professore simpatico, che possedesse una bella voce, un accento caloroso, noi lì tutt'orecchi a sentirlo, si credeva di esser sollevati insieme alla panca chi sa a quali altezze, e i nostri cuori battevano per un palpito nuovo. Era forse sete di gloria, era bisogno indistinto d'amore, chi lo sa? E dove mettiamo gli accurati lavori col temperino che abbiam fatto sulla nostra panca? La [311] scultura in legno deve sicuramente essere stata inventata sulle panche della scuola. Là iniziali che si confondono, geroglifici che s'intrecciano, tentativi di profili impossibili, saggi d'ornato bizzarri, studi di storia naturale audacissimi, solchi che in parte seguono le venature del legno, in parte tengono una direzione opposta e formano una linea tremula come corda di lira pizzicata, cavità profonde e paurose, come se lo studente avesse voluto fare un piccolo pozzo artesiano, un guazzabuglio insomma quale può uscire da cento testoline bizzarre e da cento mani l'una più inquieta dell'altra.

Che se poi uno abbia avuto lunga dimestichezza con la scolaresca, come gli sarà facile animare, vivificare la scena! Ivi stettero a fianco ignari dell'avvenire i più disparati ingegni e i più diversi caratteri, il futuro commesso e il futuro ministro, quegli il cui nome si perderà nella folla e quegli che raccomanderà ai secoli la sua fama. E furono, qual più qual meno, amici tutti, o alla peggio le inimicizie loro durarono poco; chi sa invece che cosa saranno nel mondo? Forse non s'incontreranno mai più, forse s'incontreranno soltanto per osteggiarsi, forse uno finirà col calcare il piede sul collo dell'altro.

Il signor Antonino non aveva mai brillato per una fantasia vivace, e anche nei più belli anni della sua giovinezza, egli poteva dire di non aver provato le schiette gioie dell'immaginazione.

Ma adesso, fissando quelle panche, al cospetto di quegli intagli bizzarri, egli vedeva una quantità di [312] figure disegnarglisi davanti, e moversi, e prendere atteggiamenti diversi, e cento volti dimenticati ripigliar forma e colore. Era la scolaresca di trent'anni confusa insieme.

Ecco un nome. Chi era costui? Il professore Antonino chiudeva gli occhi un momento e poi lo vedeva tal quale lo aveva visto forse dieci o quindici anni prima. È un giovinetto bruno, dai capelli ricciuti, dagli occhi pieni di fuoco, alto, smilzo; sì, sì, è proprio lui. Anch'egli indisciplinato all'estremo. E ora dove è andato mai? Vicino a lui c'era.... chi c'era? Vediamo di raccapezzarci.... Ah sì!.... Da una parte un ragazzino timido che pareva un bimbetto, che non fiatava mai, altro che, pur troppo, nell'ora della calligrafia. Non c'era quanto lui per imitare il miagolio del gatto. Adesso è impiegato alle ipoteche. A sinistra poi.... no, lo scolare di sinistra il professore Antonino non poteva farselo tornare a mente. Ma di dietro invece, nella panca successiva, era tutta una fila di ragazzi che gli pareva aver davanti gli occhi. Che panca terribile era quella! Che demonî! Bisogna però eccettuarne uno il quale sedeva nell'angolo vicino alla parete. C'erano ancora le sue iniziali A. E. Sicuro, si chiamava Angelo Emanuelli, poverino! Era pallido, tossicoloso; d'inverno aveva sempre freddo, d'estate pativa il caldo in modo straordinario. I suoi condiscepoli lo chiamavano agnello e gli amministravano una dose straordinaria di scappellotti. Egli non si lagnava, non serbava rancore ad alcuno, e diligente com'era faceva [313] le lezioni di tutti. Povero figliuolo! È morto. Il signor Antonino si ricordava che alcuni anni addietro nelle vacanze d'autunno, l'Emanuelli era venuto a fargli visita insieme con sua madre, una donna abbrunata, dalla cera pallida e dall'aria stanca come suo figlio.

Una visita in casa del signor Antonino era un avvenimento.

Il professore Antonino era solo; sua sorella, grazie a Dio, si trovava in campagna. Egli corse ad aprire la porta e disse confuso — Caro Angelo.... stimatissima signora.... prego, si accomodino.... — Poi senza nemmeno terminare la frase, volò nella sua camera da letto, e indossato un abito un po' più pulito, si ripresentò rosso come una fanciulla a cui si parli la prima volta d'amore.

— Che onori!... In che cosa posso?... Mi dispiace che trovano tutto in disordine.... Non c'è mia sorella.... (Ci mancherebbe altro che ci fosse — egli soggiunse in cuor suo).

— Per carità, professore, non si dia pena per noi, — disse la signora. — Lei è così buono, che siamo venuti a chiederle un favore.... Angelo fu malato alcuni giorni.... Ora sta meglio, ma non si è ancora liberato dalla tosse....

E Angelo, come per dar ragione a sua madre, tossì un paio di volte.

— Ecco, capisco che la scuola è fatica soverchia per lui, — continuò la signora con un tremito nella voce. — Non voglio sforzarlo.... Siamo stati [314] tanto disgraziati. Veda, vesto ancora il bruno per una figliuola.... E prima, di lei ne ho perduti altri due..... e mio marito anche lui..... sempre dello stesso male.... Ma questo qui bisogna che mi resti — continuò la madre asciugandosi le lagrime e cingendo con un braccio il collo del suo Angelo come se volesse difenderlo.

— Si calmi, signora, si calmi — rispose il buon professore, — posso offrirle un bicchier d'acqua? Ha ragione, ha ragione, non lo mandi più a scuola. Poveri ragazzi! Li ammazzano con questi nuovi sistemi.

— Ecco ciò che volevo chiederle, — ripigliò la signora poichè si fu ricomposta alquanto, — scusi sa, perchè in mezzo a tanti dispiaceri ho quasi perduta la testa.... Il mio figliuolo potrebbe andare intanto due ore al giorno nel banco d'un amico di mio marito buon'anima.... Due ore sole per adesso.... fin che Angelo sia divenuto più forte... gli darebbero quindici lire al mese.... pochine, ma tanto per cominciare.... Senonchè, c'è un guaio; vorrebbero che il ragazzo sapesse scrivere in rotondo, e Angelo dice che non sa, che non lo ha studiato.... Pretesti, forse.

— No, no, — si affrettò a interrompere il professore Antonino, — il rotondo non l'ho insegnato nella sua classe.

— Ebbene, allora vorrei ch'Ella avesse la bontà di dargliene qualche lezione, così per metterlo sulla strada. Il resto lo farà egli da sè....

— Ma sì, ma sì, — sclamò il Bottaro beato di fare un piacere.

[315]

— Noi compenseremo secondo le nostre forze....

— Nemmeno per idea.... non voglio neanche sentirne a discorrere.... No, signora Emanuelli, se parla di compensi si rivolga ad altri.... Angelo verrà da me per una, per due settimane, anche tutte le mattine se può, e vedrà che bel rotondo egli imparerà a scrivere in cinque o sei lezioni.... Siamo intesi, non è vero?

La signora Emanuelli stette alquanto perplessa, tornò a tirar fuori la questione del compenso, ma finì col cedere all'insistenza del professore e disse commossa: — Giacchè il professore è tanto gentile non so come rispondere con un rifiuto. Angelo che dici al professore?

— Grazie, — bisbigliò il ragazzo.

— Nulla, nulla, caro, — replicò il signor Antonino. — Vuoi cominciar domattina?

Angelo guardò sua madre, poi disse: — Sì, professore.

— Allora siamo intesi.

— E il signor Antonino accompagnò fino giù delle scale il suo scolaro e la madre di lui che si profondeva in ringraziamenti.

Angelo Emanuelli prese otto lezioni, poi entrò nel nuovo ufficio, poi venne a fare una visita al professore, poi non lo si vide più.

Il presentimento della povera madre si era avverato. Il ragazzo era morto della malattia dei suoi fratelli e del suo babbo, era morto a sedici anni.

E il professore Antonino lo aveva dimenticato, [316] quando le due iniziali scolpite sulla panca lo richiamarono alla sua memoria. Egli rivide ancora quella fisonomia languida, sparuta, egli intese ancora sonarsi all'orecchio quella tosse secca, insistente, e la voce di quella povera madre, adesso morta anche lei, che diceva: — Ma questo qui bisogna che mi resti.

················

Chi sa fino a quando il professore Antonino sarebbe rimasto immerso in siffatti pensieri se uno scolaro non gli avesse picchiato leggermente sulla spalla!

— Che c'è? — proruppe il Bottaro in tuono meno rimesso del consueto.

— Signor professore, le consegno il mio elaborato, — rispose il ragazzo guardandolo in aria di mezza canzonatura.

— Oh!... Ha ragione.... hai ragione, caro.... Dunque hai finito? — Va, va, che andrà tutto benissimo.

Al primo studente ne successe un secondo, al secondo un terzo, al terzo un quarto e così via via fino all'ultimo.

— Ma bravi, ragazzi, come avete fatto presto quest'oggi!

Il signor Antonino non s'era accorto del tempo ch'era passato mentr'egli stava fantasticando, e non aveva avvertito affatto un'altra cosa, quella cioè che i giovinetti, non disturbati punto dalla sua sorveglianza, s'erano a loro agio consultati, copiati, corretti a vicenda, onde i varii còmpiti si somigliavano fra loro come tanti gemelli.

[317]

················

Uscito l'ultimo studente, il professore Bottaro, col piego degli elaborati sotto il braccio, salì la scala che conduceva in Direzione e consegnò nelle mani del Preside il suo prezioso deposito.

— Grazie, professore, — disse questi con amabilità, — grazie. La pregherò poi d'intervenire alla conferenza per le classificazioni.... Ma che cos'ha che mi pare turbato?

— Scusi, cavaliere, — balbettò il calligrafo, — non so nemmen io che cos'abbia.... Ha già inoltrato la mia istanza?

— No, — rispose il Preside togliendo da un mucchio di carte il documento che gli era stato consegnato nella mattina dal professore. — No, è ancora qui.

— Potrebbe darmela un momento?

— Eccola.

— Se me la lasciasse fino a domani, — continuò timidamente il nostro Antonino. — Vorrei pensarci su.

— Davvero? — disse il Preside, componendo le labbra ad un sorriso un tantino ironico.

— E posto il caso ch'io sospendessi la domanda della pensione fino all'anno venturo, ne avrebbe dispiacere?

— Oh si figuri, — rispose coi denti alquanto stretti l'interrogato. — È dal suo punto di vista.... Mi pare che, poichè la legge le da il diritto al riposo.... Ah se fossi nel caso suo! — sospirò il Preside, [318] guardando macchinalmente il calendario ch'era sul tavolino, come se potesse leggere colà gli anni che gli mancavano a terminare il suo servizio.

— Ah, per lei è un'altra cosa, — ripigliò il professore di calligrafia, che a poco a poco trovava il coraggio e quasi l'eloquenza. — Lei è una brava persona, e quando avesse il riposo, si consacrerebbe a' suoi studi, starebbe in mezzo a' suoi manoscritti, alle sue biblioteche....

Il Preside scrollò le spalle quasi a significare: — Povero grullo! come t'inganni!

— Ma io, — seguì a dire il nostro Antonino, senza badare ai gesti del suo interlocutore, — io che devo fare? Occuparmi in esercizi di calligrafia per mio conto?

— Potrebbe ad ogni modo dar qualche lezione privata....

— E allora è meglio che rimanga qui. Tanto e tanto mi tocca lavorar lo stesso, e qui almeno ho preso affezione all'ufficio.

— Perchè, — incalzò il Preside, — mi pare che questi benedetti ragazzi non si contengano con lei come dovrebbero.

— Si esagera, sa, — ripigliò un po' confuso il signor Antonino, — fanno qualche volta del chiasso, ma è piuttosto colpa mia che di loro. Del resto, vede, nella calligrafia non occorre tutto quel raccoglimento che è necessario nelle altre materie.... Ma, in ogni maniera, quest'anno non c'è stato male. E mi pare ormai che ogni anno andrebbe meglio.

[319]

Il Preside non potè a meno di sorridere. Indi soggiunse a modo di conclusione: — Che vuole che le dica? Ci pensi.


Il professore Antonino ci ha pensato. Egli deliberò di rimettere la sua dimissione all'anno successivo. Scorso il termine fu di nuovo in grandi incertezze, e poi decise di aspettare.

Così egli insegna ancora calligrafia nell'Istituto di ***. Gli studenti continuano a prendersi con lui le solite libertà; i colleghi non lo tengono in nessun conto, la signora Bettina lo strapazza senza misericordia, perchè non lascia la scuola e la scolaresca; anche il bidello, suo abituale confidente, lo consiglia a mettersi in quiete, ma il signor Antonino è ormai convinto, che il giorno in cui egli abbandonerà definitivamente il suo ufficio, si potrà preparargli la necrologia.

[320]

L'OROLOGIO FERMO

Non vedevo Federico Vivaldi da più di quindici anni.

Eravamo stati a scuola insieme; poi come il solito, ciascuno era andato per la sua strada e ci si era perduti d'occhio. Nel 1866 avevo letto il suo nome tra i feriti della fazione di Monte Suello; più tardi seppi ch'egli esercitava l'avvocatura nella sua città natale, una piccola città di provincia. Pareva che non s'ingerisse nelle lotte politiche, poichè non m'era accaduto di sentirlo mai menzionare tra i candidati al Parlamento, o tra i consiglieri provinciali, o tra i pubblicisti, o tra gli oratori dei meetings. Chi sa? Forse, non era nemmeno cavaliere. Come le apparenze ingannano! A scuola gli si sarebbe presagito un luminoso avvenire. Imparava ogni cosa prestissimo scriveva con buon gusto, parlava con facilità, e teneva, se non il primo, uno dei primi posti.

Un affare mi conduceva adesso nella città e nella casa di Federico.

Lo trovai alquanto mutato, ma non era da meravigliarsene; in quindici anni ero ben mutato anch'io. [321] Egli aveva la cera pallida, l'aria trista e patita, la barba e i capelli brizzolati di bianco.

Il nostro incontro fu cordiale ma senza straordinaria espansione. Due uomini che si vedono dopo un lungo intervallo hanno un bel corrersi incontro con entusiasmo; essi sentono subito che le amicizie non si ripigliano dove si sono lasciate.

Federico pareva anche più riguardoso di me.

— Sei stato sempre bene? — gli chiesi.

— Sì, — replicò brevemente.

— E la tua ferita?

— Oh! Una cosa da nulla.

Dall'indole delle sue risposte, e dalla fretta con cui egli entrò a discorrere dell'affare che doveva formar soggetto del nostro colloquio, argomentai ch'egli fosse diventato uno spirito positivo, incapace di far altro da mattina a sera che compulsar codici e di trattar cause. Anzi, Dio mel perdoni, giunsi fino ad accusarlo di calcolar tempo perduto tutto quello che non si può far figurare nelle specifiche.

Egli parlò per più di un'ora esaminando da tutti i lati con molto acume e molta lucidezza la questione che mi aveva chiamato da lui.

Ci mettemmo pienamente d'accordo; dopodichè egli mi chiese licenza di rovistare alcune buste per cercarvi un documento che gli occorreva. — Or ora, se vorrai, usciremo insieme, — egli soggiunse. Lo disse in tuono così freddo che avrei avuto una gran voglia di piantarlo lì, ma in quel paese non conoscevo nessuno; che dovevo fare? Mi alzai da sedere, [322] diedi un'occhiata a una piccola biblioteca che non conteneva nulla di peregrino; quindi mi affacciai alla finestra.

— Che bella vista! — dissi tanto per non restare in silenzio.

— È più bella dall'altra stanza, — osservò Federico che aveva trovato il documento e mi si era avvicinato. — Passa pure.

E, tenendo aperto un uscio, mi introdusse in una camera molto semplice ma molto pulita, dalle cui finestre lo sguardo abbracciava un'ampia distesa di colline e di ville.

— Tu dormi qui? — gli chiesi.

— Sì. È la mia camera da letto.

— Come dev'esser piacevole aprir gli occhi la mattina e vedersi davanti questo immenso orizzonte!

— Voi a Venezia non ci siete avvezzi. Però adesso c'è troppo sole, — egli continuò, — e bisogna abbassar le tendine.

Mentre Federico eseguiva questa operazione i miei occhi si fissarono a caso sopra un orologio a dondolo ch'era collocato su un canterale e che segnava le sei e quindici minuti.

— Oh, — diss'io, — quell'orologio è matto.

— È fermo, — egli rispose in furia come se le parole gli bruciassero la lingua.

Era un orologio di forma antica il cui disco cilindrico poggiava su due colonnine d'alabastro coi piedestalli e i capitelli di bronzo. Sulla mostra di [323] maiolica erano incisi il nome della fabbrica e l'anno di fabbricazione — 1822.

— È un oggetto da museo, — ripresi ridendo, e mi chinai per vederne più da presso il meccanismo. Non so se facessi atto di prendere fra le dita il capo di un cordoncino che pendeva fra le colonne. So che Federico mi afferrò il braccio e mi gridò:

— Non lo toccare! — con tale un accento ch'io mi voltai in sussulto, temendo quasi di aver dato fuoco a una miccia.

— In nome del cielo, che cosa c'è? — esclamai sbigottito.

— Perdonami, — rispose il Vivaldi con voce più calma e tentando di comporre le labbra a un sorriso. — Avevo paura che tu movessi le lancette di quell'orologio.

E mentr'egli pronunziava queste parole, i suoi occhi s'inondarono di lagrime.

Lo guardai commosso ma senza osare d'interrogarlo, giacchè egli non mi sembrava disposto alle confidenze.

Ci fu un buon minuto di silenzio, e mi parve un secolo.

Alla fine Federico incrociò le braccia e si appoggiò alla spalliera di una seggiola volgendosi verso di me.

— Ti ricordi, — egli mi disse, — di venti anni fa quando passammo la domenica e il lunedì della Pentecoste in villa di Fausto Rioni, presso Sacile?

— Sicuro che me ne ricordo, — replicai non intendendo [324] bene ove egli volesse mirare. — Fausto Rioni che adesso è deputato.... Ho perso di vista anche lui.

— E quella nostra salita sul ciliegio, te ne rammenti?

— Aspetta che mi raccapezzi.... ah sì.... sì.

— Era il dopopranzo della domenica. Noi due ci si era rampicati lì in alto e intanto una mezza dozzina di fanciulle stavano a' piedi dell'albero, e gridavano. — Coraggio dunque! Fate le cose a modo. — E noi spiccavamo le ciliegie fin dove si poteva arrivare con le mani, e poi scrollavamo i rami con quanto fiato ci restava in corpo. Era una pioggia di frutti, che le bimbe raccoglievano o nelle falde del vestito o nel grembialino spiegato.... Di quelle bimbe tre erano le sorelle di Fausto, tre erano loro amiche.... La maggiore poteva contare dieci anni.... Era una fanciulla alta, bionda, con due lunghe treccie che le cadevano giù per le spalle.... con due grandi occhi azzurri, pieni di dolcezza e d'ingenuità....

— Oh adesso che ci penso, — esclamai, — l'ho presente anch'io.... Lascia ch'io compia la tua descrizione.... Le sue treccie bionde erano annodate da due fettuccie di seta blu....

— È vero....

— Vestiva un abitino di percallo bianco con fioretti rossi....

— Sì, sì.

— La chiamavano.... Oh! qui la memoria mi tradisce....

[325]

— La chiamavano Virginia.

— Sicuro, Virginia. Ebbene?

— Ebbene, parecchi anni dopo quella fanciulla divenne mia moglie.

Mi guardai intorno. La camera da letto di Federico non era una camera nuziale. Indovinai un lutto domestico.

— È morta.... forse? — chiesi con esitazione.

Il Vivaldi chinò il capo con un cenno affermativo e si portò la mano sugli occhi.

— E da poco tempo? — continuai.

— Oh.... no, — egli rispose, — dal marzo del 1866.

— Povero amico! — diss'io commiserandolo sinceramente e rispettando un dolore che si manteneva così vivo dopo più di nove anni.

— Ma che c'entra in tutto ciò l'orologio, tu mi chiederai? — egli ripigliò dopo una brevissima pausa.

Federico aveva colto il mio pensiero. Io stavo infatti tormentandomi il cervello per iscoprire la relazione fra la morte della Virginia e l'incidente che aveva commosso in modo sì strano l'amico mio.

— Quando la Virginia infermò, — egli disse, — erano sei mesi ch'io l'avevo sposata.... sei mesi di una felicità senza nube.... Da che male ella fosse presa, non lo so; non lo seppero i medici, non lo seppe nessuno.... Ella non soffriva.... moriva a oncia a oncia. Ma non lo credevamo nè lei, nè io, e facevamo di gran disegni per l'avvenire.... Appena ella fosse guarita, avremmo piantato nuove aiuole di fiori nel nostro giardinetto, avremmo rimesso a nuovo, secondo [326] le nostre modeste fortune, una parte della casa. — Per esempio, — ella osservò un giorno ridendo e additando quello che tu chiamavi giustamente un oggetto da museo, — per esempio sarebbe assai bene poter cambiare quell'orologio antidiluviano. — Io le promisi che avremmo fatto apposta una gita insieme a Venezia per comperare una cosa di suo gusto. Ne fu tanto contenta, la poveretta.

Eravamo noi due soli. I suoi genitori erano morti, ero orfano anch'io. Del resto, io non volevo cedere a nessuno il privilegio di vegliare mia moglie. Quante notti sedetti, senza chiuder occhio, al suo letto! Ella si assopiva, poi si destava, mi diceva una parola affettuosa e tornava a cedere al sonno. Per ore ed ore non si sentiva nella camera che suo il respiro e il tic-tac dell'orologio. Quanto a me, se non fosse assurdo, direi che non respiravo neppure, tanto la mia vita era confusa con quella dell'amata creatura che mi languiva davanti.

Una notte che la vedevo più inquieta del solito, le domandai: — Ti reca disturbo il battito dell'orologio?

— Oh no, — rispos'ella, — tutt'altro.

Era un orologio che si caricava ogni otto giorni. Finchè la Virginia era sana, ci pensava lei; durante la sua malattia ero succeduto io nell'ufficio. Ma i patimenti del corpo e le angustie dell'animo mi avevano tolto il giusto concetto del tempo e avevano scompigliato la mia memoria; una settimana caricai l'orologio per due giorni di fila, un'altra me ne [327] scordai affatto. Il 29 marzo del 66 era il giovedì santo. Mi dimenticherò di tutto, non mi dimenticherò mai di quel giorno. Nella mattina la Virginia aveva discorso della Pasqua precedente quando noi ci preparavamo alle nozze, così lieti da non dover invidiare i più gran re della terra. — Saremo felici anche l'anno venturo, non è vero? — ella soggiunse, e per la prima volta mi parve di avvertire nella sua voce un leggero accento dubitativo che mi mise i brividi. Il medico, dopo la sua visita, tentennò il capo, ma non accennò a nessun pericolo imminente. Sulle quattro del pomeriggio la Virginia mi pregò che le sciogliessi i capelli; i legacci le davano molestia. Obbedii, e le sue belle treccie bionde le scesero giù per le spalle. — E pensare che bisognerà tagliarle se guarirò. — Ella vide l'espressione desolata del mio volto e corresse la frase — quando guarirò. — Indi mi disse: — Apri un momento la finestra. È ormai la primavera. — Io mi movevo come un automa senza profferire una parola. — Oh come è bello! — ella esclamò contemplando dal suo letto parte di quell'orizzonte che tu ammiravi poco fa. — Basta, adesso.... Puoi chiudere. — Ella abbassò le palpebre e cadde in un sopore. Le sedetti vicino prendendole una mano che penzolava fuor delle coperte. Il suo alito era lieve lieve; nel suo volto c'era una pace di paradiso. Avrei voluto chiamar qualcheduno, ma mi sentivo come inchiodato sopra la sedia. Andava facendosi buio; la luce che penetrava nella camera attraverso le stecche delle persiane diveniva [328] sempre più debole, l'orologio misurava gli eterni minuti col suo uniforme tic-tac tic-tac.

Ad un tratto il tic-tac cessò.

— L'orologio s'è fermato, — disse la Virginia con voce quasi impercettibile.

Nello stesso tempo ella mise un sospiro, e la sua mano, prima si agitò con un tremito, poi si irrigidì nella mia....

Accorse gente, si accesero i lumi. Virginia era morta. L'orologio, fermo, segnava le 6.15.... Tu piangi, amico mio?... Oh lo so che tu avevi sempre buon cuore.

Federico mi baciò più volte singhiozzando. Quand'egli si fu alquanto calmato. — Non so come le sopravvissi, — egli soggiunse. — Per buona fortuna non tardò a scoppiare la guerra. Corsi subito ad arruolarmi con Garibaldi, invocando una palla che mi togliesse di pena. Sa Iddio se l'ho cercata, ma non trovai che una palla spuria... la quale mi ferì ad un braccio.... Quando potei lasciare l'ambulanza era già sottoscritto l'armistizio.... Tornai a casa ove secondo i miei ordini nessuno aveva toccato l'orologio.... Mi rassegnai a vivere... ma non c'è più gioia per me.... Orsù, vuoi uscire?

Mi offrì un sigaro e mi prese per il braccio.

Allorchè fui sulla soglia non potei a meno di voltarmi indietro. L'orologio, fermo, segnava le 6.15.

[329]

LA LETTERA DI MARGHERITA

È una sera di dicembre. Il signor Massimiliano Nebioli, uomo sui sessanta, che porta parrucca ed occhiali, è seduto con tanto di muso dinanzi alla tavola del salotto da pranzo, e legge la Gazzetta di Venezia, lagnandosi di tratto in tratto perchè il lume a petrolio non fa abbastanza chiaro, o fuma, o scoppietta. La signora Geltrude sua moglie è sprofondata in una poltrona vicina alla stufa e sonnecchia, o fa le viste di sonnecchiare.

Di fuori è un tempo d'inferno. Piove, nevica e soffia un vento di tramontana da intirizzire. È una di quelle notti nelle quali i felici del mondo, ravvolgendosi fra le coltri, mettono filantropiche esclamazioni: — Poveretti quelli che non hanno fuoco da scaldarsi, nè panni da coprirsi, nè un buon bicchiere di vino da rifocillarsi il sangue! Poveretti i poveretti, insomma! — Poi uno sbadiglio, una stiratina di braccia e tutto è finito.

Qualche volta il vento è così forte che ne tremano anche le doppie vetrate del salotto e le tendine di lana si agitano con una leggera ondulazione. La fiamma del lume approfitta di questi momenti critici per dare un piccolo guizzo e il signor Massimiliano [330] brontola più forte e protesta contro la servitù che non sa chiuder bene le finestre.

— Bisogna metter dell'altra legna nella stufa, — egli dice a un certo punto rivolgendosi a sua moglie. Ella che obbedisce a suo marito come un cagnolino, si alza dalla poltrona, tira il campanello, poi torna al suo posto. Un osservatore attento noterebbe due cose: primo, che la signora Gertrude ha gli occhi rossi; secondo, che nel tragitto dalla poltrona al sofà ov'è il cordone del campanello, ella cammina in modo che il suo consorte non possa vederla in viso. Guai a lei s'egli s'accorgesse che ha pianto!

All'appello della padrona è accorsa la Marina, la vecchia cameriera di casa, col naso rosso dal freddo, con le mani conserte sotto il grembiale e con la testa sprofondata fra le spalle, come lumaca che ha ritirate le corna. La Marina non ha neppur lei un viso allegro, effetto forse della stagione.

— Fate dell'altro fuoco, — ordina la signora Gertrude.

— E chiudete meglio le imposte, — soggiunge il signor Massimiliano.

— Ma se son chiuse benissimo, — dice la cameriera.

— Niente affatto; venite qui e sentirete che arietta.

— Sfido io, col vento che c'è fuori. Vorrei che passasse un po' in sala.... Che Siberia!

— È una Siberia anche qui.... Non sapete nè accendere la stufa nè chiudere le finestre.

[331]

La Marina, che ha la lingua lunga, sta per replicare, ma è trattenuta da uno sguardo supplichevole della padrona. Così ella ringhiotte le sue osservazioni, e inginocchiata davanti la portella della stufa caccia della nuova legna tra le brage, e con le molle, col soffietto e un po' anche col fiato, raccende il fuoco, che divampa allegro e rumoroso e illumina la parete.

— Avete aperto il registro, per Dio? — grida in tuono burbero il signor Massimiliano.

— Eh mi pare che se non lo avessi aperto, a quest'ora ci sarebbe già la stanza piena di fumo.

— So che non fate mai nulla a modo, — continua il signor Nebioli per giustificare la sua diffidenza.

Questa volta la Marina non può reprimere un lunghissimo auff, che però, a uno sguardo della signora Gertrude, ella fa terminare in uno starnuto.

Appena ella è uscita, il signor Massimiliano brontola: — Petulante!

Poi torna a immergersi nella lettura della Gazzetta, commentando da sè le notizie: — Arnim fu condannato a tre mesi di carcere. Ci ho gusto. Non c'è modo di governare se non c'è rispetto per l'autorità. Ormai ciascuno vuol fare il suo talento. I popoli non vogliono obbedire ai governi come i figliuoli non vogliono obbedire ai genitori. Bel mondo!

La signora Gertrude trasse un sospiro dal petto.

— Che cosa c'è? — ripigliò il signor Massimiliano. — Hai perduto la parola? Adesso in casa non si discorre che per sospiri.

[332]

— C'è proprio da stare allegri, — insinuò timidamente la signora Gertrude.

— Cominciamo coi soliti piagnistei, — disse l'ameno signor Nebioli, sbattendo con forza la Gazzetta sulla tavola.

— Vedi se non è meglio ch'io mi taccia?

— Meglio niente affattissimo.... Si discorre tranquillamente, quietamente come fanno gli altri... come faccio io.... Ed eccoci da capo a piagnucolare.... Vorrei sapere che cosa ci sia di speciale stasera....

— Nulla, nulla....

— Nulla un cavolo.... sentiamo, via.

— C'è, c'è.... che penso alle belle feste che ci si preparano.

— Oh corpo di un cannone! E ne ho colpa io se passeremo le feste male?

— Chi dice questo?

— Sono io che ho detto alla nostra figliuola di scapparci di casa? Sono io che l'ho gettata in braccio ad uno spiantato, ad un brigante, ad un ladro?....

— Massimiliano per carità, quanto all'essere uno spiantato non c'è dubbio, ma un ladro poi, un brigante.... — osservò la signora Gertrude con un coraggio di cui ella stessa non si sarebbe creduta capace.

Infatti suo marito andò su tutte le furie: — Già lo so che tu lo difendi, già lo so che tu trovi degnissima di lode la condotta di quei due signori.....

— Ma no, Massimiliano, no....

— Ah non è un ladro, non è un brigante.... Sì [333] che è un ladro, è un ladro di fanciulle; sì che è un brigante, perchè assassina una famiglia.... E poi ci sono questi conforti! Quando si mette in campo un tale argomento, quando si ragiona, madama prende le parti dell'avventuriere e della figlia insubordinata.... Avrei voluto vedere io se lei avrebbe consentito a farsi sposare in quella maniera, avrei voluto vedere se il suo signor padre mi avrebbe passato buono un tiro simile a quello di colui! Mi si è pesato e ripesato su non so quante bilancie, e ci mancò poco che non mi si rimandasse pei fatti miei perchè non avevo blasone. La signora era contessa, e ci teneva....

— Oh Massimiliano, come puoi dir questo?

— Ci teneva tanto che il suo più bel sogno era quello di far contessa sua figlia, di darla ad un nobile.... Va là, cara, che l'hai trovato il genero nobile.

— Senti, Massimiliano, hai ragione, sono stati crudeli, sono stati infami, se vuoi, ma quel lasciarli patire... ricchi come siamo.

Il signor Nebioli tornò a scoppiare come una bomba:

— Nemmeno un centesimo non voglio dar loro finchè vivo, no, nemmeno un centesimo.... Quando sarò morto s'ingrasseranno a loro agio.... Già lo so che molti desiderano la mia morte.... Ma io voglio farli aspettare un pezzo, perchè al mondo mi ci trovo benissimo.... Se non fossero questi piagnistei che ho in casa....

E alzatosi dalla seggiola si mise a passeggiare su e giù per la stanza.

[334]

La signora Gertrude si alzò ella pure. Ella era combattuta fra la soggezione straordinaria che le aveva sempre ispirato suo marito, e il convincimento che la severità di lui era eccessiva e ch'ella non faceva opera di buona madre obbedendogli in tutto. Le si spezzava il cuore a pensar che sua figlia, a tanti chilometri di lontananza, non aveva forse modo di render meno squallido il suo desco per le feste del Natale. Ella avrebbe potuto mandarle qualche cosa di soppiatto, ma non sapeva nasconder nulla a Massimiliano, e Massimiliano non voleva neppure ch'ella scrivesse alla ingrata, alla perfida Margherita. E sì ch'egli l'aveva amata tanto questa figliuola, l'aveva fatta regina del suo cuore e della sua casa; burbero con tutti, era stato con lei dolce, compiacente, le aveva prodigato mille doni e mille carezze! E l'amava ancora, ed era soltanto la sua indole puntigliosa e caparbia che gl'impediva di perdonarle. Ma aveva i suoi momenti di debolezza ed erano appunto quelli in cui egli prorompeva con maggiore violenza. Sentendo che il fuoco andava languendo, lo attizzava egli stesso, si scagliava senza misura contro i colpevoli e quando li aveva colmati di vituperii tornava a persuadersi che il loro delitto era stato ben grave. Una donna più avveduta della signora Gertrude, anzichè atterrirsi di queste sfuriate, avrebbe dato loro il vero significato, le avrebbe accolte come sintomi di resipiscenza, e sarebbe tornata vigorosamente alla carica. Ma ella si ritirava subito impaurita e si limitava a piangere in silenzio e di nascosto. Il suo [335] unico conforto era quello di non opporsi a suo marito, di seguire in tutto i suoi desiderii. I deboli non si accorgono mai che anche i despoti hanno qualche volta il desiderio di esser contraddetti, e che se non lo manifestano gli è perchè temono di perdere la riputazione di fermezza a cui devono la loro forza.

A ogni modo quella sera la signora Gertrude era un po' meno timida del consueto. Ed ella si spinse fino a dire con un fil di voce:

— Non si potrebbe almeno per queste feste?...

— No, no, tre volte no, — proruppe il signor Massimiliano dando un gran pugno sopra il pianoforte. Era un pianoforte a coda, di molto prezzo, ch'era stato comperato parecchi anni addietro per la Margherita. Ma dacchè la Margherita se n'era andata, nessuno l'aveva più aperto, nessuno aveva sentito più la sua voce armoniosa. Ora soltanto, al colpo che ne scuoteva tutta la compagine, le sue corde mandarono un gemito lungo lungo, che parve come un richiamo ai tempi fuggiti ed evocò nella malinconica stanza l'immagine della gentile fanciulla.

Le ultime vibrazioni di quel suono si perdevano nell'aria quando si udì una grande scampanellata.

— Chi viene questa sera? — esclamò il signor Massimiliano, fermandosi in mezzo al salotto con l'atteggiamento d'un cane di guardia che sente il calpestio di passi sconosciuti.

Anche la signora Gertrude tese l'orecchio. — Chiudono la porta.

— Quella stupida servitù avrà certo aperto senza [336] veder prima chi sia, — osservò il Nebioli pronto sempre ad interpretare ogni cosa nel modo meno benevolo.

Intanto dal di fuori s'intese una voce: — Non c'è bisogno che mi annunziate. Mi presento da me.

— È la voce del dottor Beverani, — disse la signora Gertrude, pallida ed inquietissima.

— Il dottor Beverani! Che cosa può volere? — masticò fra i denti il signor Massimiliano corrugando la fronte.

Si spalancò l'uscio ed entrò un uomo alto e grosso, col bavero tirato su fino agli occhi, col cappello in testa e con le mani sprofondate nelle tasche della pelliccia. E sulla pelliccia e sulle falde del cappello si andavano liquefacendo larghi fiochi di neve.

— Buona sera! Buona sera! — disse il nuovo arrivato. — Domando scusa se entro così, ma fa un tal freddo che non ebbi il coraggio di levarmi il soprabito nell'andito.

Il signor Nebioli avrebbe avuto una gran voglia di mandare a spasso l'incivile che veniva a colare come una grondaia nel suo salotto da pranzo, ma il dottor Beverani era una persona di riguardo, medico di casa da un pezzo, socio di più accademie, cavaliere di più ordini, e non conveniva usargli scortesia. Inoltre la sua visita non era certo senza grave motivo e destava una legittima curiosità anche nel signor Massimiliano.

Il dottore spiegò tranquillamente sopra una sedia [337] la sua pelliccia, depose sopra un'altra il cappello e poi si appoggiò con la schiena alla stufa.

— Ah qui si respira un'altra aria, — egli esclamò soddisfatto. — Dunque, con più calma, buona sera, signora Gertrude, buona sera, Massimiliano.

La signora Gertrude rispose un timido — buona sera — e suo marito emise alcuni suoni inarticolati.

Però il dottor Beverani non parve curarsi di questo gelido saluto, ed egli continuò: — Beati quelli che possono far salire a forza di legna il termometro a dodici gradi! Fuori siamo a tre o quattro gradi sotto zero.... Fui or ora in una casa di poveri ove c'erano dei bambini che tremavano di freddo da far compassione. Un locale terreno, senza vetri alle finestre, un focolare spento, e lungo una parete due pagliericci senz'altre coperte che di miseri cenci. Su una sedia, ravvolta in uno scialle sdrucito, una vecchia con la febbre addosso. Ha una bronchite di cui potrebbe anche guarire se andasse all'ospedale....

— E perchè non ci va? — chiese il Nebioli infastidito.

— Perchè la mamma dei bimbi è morta l'anno passato, e durante il giorno quando il padre lavora, o chi guarderebbe quelle creaturine? Eh! A chi sta sdraiato nel suo seggiolone vicino al caminetto, la filosofia è facile e con un paio di sentenze si accomoda tutto.... Ma quando le cose si vedono dappresso, allora è un altro paio di maniche.... I comunisti hanno torto, ma nondimeno, una volta all'anno, in inverno, divento comunista anch'io....

[338]

— Tanto fa petroliere, — saltò su il signor Massimiliano, — ma, scusate, non siete venuto a farci visita che per narrar queste malinconie?

— No davvero, per quanto piacere abbia di veder voi e la signora Gertrude, non mi sarei spinto fin qui senza una ragione seria, in mezzo al vento e alla neve.

— Vergine Santa! — esclamò la signora Gertrude — ho in cuore il presentimento di una disgrazia.

— E che disgrazie volete che ci sieno? — urlò suo marito per dissimulare, secondo il solito, con le grida, l'inquietudine che si era impadronita anche di lui. E avrebbe continuato nel medesimo tuono se il dottor Beverani non avesse preso subito la parola.

— No, no, buona signora, — egli disse avvicinandosele e prendendole ambe le mani — non ci saranno disgrazie. Ho uno lettera da consegnare....

— Una lettera? Per me dunque? — interruppe il signor Massimiliano.

— Per voi e per vostra moglie.... La persona che scrive vuol essere sicura che la lettera sia giunta nelle vostre mani.... Ha scritto ancora, e....

— E non voglio veder nulla, — gridò il Nebioli voltandosi da un'altra parte. — Ho capito chi è la persona che scrive; ella è morta per me.

La signora Gertrude avrebbe dato dieci anni della sua vita per trovare un lampo di energia in quel momento, per farsi consegnar quella lettera, per aprirla, per baciarne i caratteri; ma era inutile, ella ormai [339] non sapeva che piangere. E si nascose il volto fra le palme e soffocò i suoi singhiozzi.

Il dottore non ismarrì punto la sua calma alle brusche risposte del vecchio bisbetico, ma estrasse di tasca la lettera e ripigliò: — Voi leggerete questo foglio, Massimiliano.

— Vi dico di no, — rispose costui dando però un'occhiata di sbieco alla sopracoperta che il medico aveva avvicinato al lume.

— O lo lascierete leggere a vostra moglie.

— Nemmen per idea.

— Allora lo leggerò io.... La Margherita me ne dà facoltà.... Fatemi portare una candela perchè alla luce del petrolio io non leggo...

— Vi ripeto, — cominciava il signor Massimiliano, quando il dottore lo interruppe senza riscaldarsi, ma con una certa aria di autorità:

— Io spero che il medico di casa avrà il diritto di farsi portare una candela e di leggere una carta. Signora Gertrude, abbia la bontà di suonare il campanello.

— Non ce n'è alcun bisogno, — disse il vecchio dispettosamente. E rivoltosi a Gertrude: — Se vuole una candela, accendigliela; sulla credenza ce ne sono due.... O che fai lì come una statua? Santa pazienza!

Il dottore teneva sempre la lettera fra le dita; il signor Massimiliano gliela strappò con un impeto subitaneo.

— Sapete dove meriterebbe di andar questa lettera? Nella stufa.

[340]

Quantunque il Beverani fosse certo che una tale minaccia non avrebbe avuto effetto, egli ficcò gli occhi addosso al suo cliente, che pareva magnetizzato da quello sguardo e passava la lettera da una mano all'altra dopo averla tirata fuori dalla sopracoperta ch'egli stracciò in minutissimi pezzi.

Intanto la signora Gertrude faceva inutili sforzi per accendere il lume. Le sue mani tremavano ed ella non riusciva a tener fermi i fiammiferi vicino al lucignolo.

— Lasci fare a me, buona signora, — disse il dottore accostandosele con bontà. — Torni a sedere e si rinfranchi.

— Quella fraschetta ha tempo da perdere, — osservò il signor Massimiliano che aveva spiegato la lettera e l'aveva scorsa rapidamente con l'occhio.

— Dodici facciate fitte! E che scrittura! Figlia pessima in tutto, anche nella calligrafia!

E gettò con aria sprezzante i foglietti sopra la tavola.

— Son qua io, — prese a dire il dottore che si avvicinava tenendo in una mano la candela, e trascinando con l'altra una sedia. — Non m'ero già offerto di farvi io la lettura?

— Se volete leggere, fate il vostro comodo. Nè io, nè mia moglie non aspettiamo lettere, non vogliamo saperne.... Per me riprendo la Gazzetta, — replicò il Nebioli, quantunque con tuono alquanto più rimesso. E sedette fingendo d'immergersi nuovamente nel giornale.

[341]

— Va benissimo, — disse il dottore senza scomporsi. Spinse verso la tavola la poltrona della signora Gertrude, le accennò di prendervi posto, estrasse dal taschino del panciotto un paio di lenti, le inforcò al naso dopo averle forbite col fazzoletto e poi cominciò:

«Caro babbo, cara mamma.

«Dopo tanti mesi torno a scrivervi. So che non mi risponderete e non oso chiedervi che mi rispondiate, ma in ogni modo seppure ho rinunciato alla speranza di ricevere una vostra lettera e forse di vedervi più mai, non voglio lasciarvi credere ch'io mi sia dimenticata di voi, ch'io non vi ami più.

— Si può dare un esordio più pretenzioso? — brontolò il signor Massimiliano alzando gli occhi dalla Gazzetta. — Ancora ha ragione lei.

— Attendete alla vostra politica, — disse il medico. — No, signora Gertrude, non pianga così!

E ripigliò la lettura.

«Son così piena di brighe che Dio sa quando finirò questa lettera che comincio oggi; dunque non vi metto nemmeno la data. A ogni modo voglio ch'essa vi arrivi prima del Natale, prima di quel Natale che mi desta in cuore una folla di pensieri e di ricordanze. Come volano gli anni! Mi par ieri quand'ero bambina e la povera nonna facendo capolino col suo gran cuffione bianco dall'uscio [342] della sua camera, mi chiamava misteriosamente con un cenno del capo e tirava fuori dal cassetto una bambola nuova. Mi par ieri quando si preparava l'albero con la mamma, e i cugini e le cugine venivano a passar la serata in casa nostra. Anche il babbo si metteva di buon umore, e io dicevo a tutti: non è vero che il babbo sia burbero; vedete? egli ride. E ho negli orecchi lo scampanìo delle chiese che mi faceva sognare un mondo nuovo e mi empiva lo spirito di visioni dolci e solenni, onde stentavo tanto a dormire, ed ero così beata della mia veglia! Ahimè! La nonna è morta, i cugini e le cugine si sono dispersi, io ho cessato da un pezzo d'essere una bimba e non sono più con voi altri.

Il signor Massimiliano si raschiò in gola e poi starnutì.

— Felicità! — disse il dottore.

«.... Non sono più con voi altri. Ebbene, babbo e mamma, se non sono più con voi altri, abbiatevi almeno i miei augurii per le feste che si avvicinano e per l'anno che sta per nascere.... Ch'esso vi porti tutte le gioie, ch'esso vi faccia dimenticare tutti i dolori....

— Parole, parole.... Roba che si trova nelle antologie, — esclamò il Nebioli.

«Di questi dolori, lo so, io ve ne ho recato uno grandissimo, ho disposto del mio cuore contro i vostri desiderii e quando vi trovai inflessibili vi ho disobbedito. Era il mio primo atto di ribellione, [343] ma, lo confesso, era un atto ben grave. O genitori miei, se io vi dicessi che per risparmiare le vostre lagrime avrei dato il mio sangue, voi non mi credereste....

— No sicuro.

«Eppure io direi il vero. Ma ciò che non potevo darvi era la mia fede, perchè non si riprende la fede giurata, perchè io amavo Ugo con tutto il trasporto dell'anima mia, come l'amo ancora, come spero di amarlo fino all'ultimo giorno della mia vita. Iddio vorrà concedermi questa grazia, di farmi morire appena o l'amor mio si raffreddi, o si raffreddi l'amor d'Ugo per me.

— Declamazioni da romanzo! ecco che cosa si guadagna a lasciar leggere cattivi libri alle ragazze. Ma mia moglie....

Gli occhi del signor Massimiliano s'incontrarono con quelli della povera donna i quali nuotavano nelle lagrime ed esprimevano una desolazione così profonda ch'egli troncò a mezzo la frase e prese in mano la Gazzetta, sottraendo in tal guisa la faccia agli sguardi indiscreti. Solo si stentava a comprendere com'egli potesse continuare a leggere un foglio, che, tenuto a quel modo, pareva dovesse servirgli da paralume.

Il dottor Beverani fece le viste di non accorgersi di tutte queste manovre e proseguì:

«Del resto, qual sia la mia colpa, per mesi e mesi dopo fatto il gran passo, io sperai nel vostro perdono, sperai che mi avreste riaperte le braccia, attesi una parola vostra, attesi almeno nuove rampogne.... [344] Oh! il silenzio è peggiore assai dei rimproveri.... Basta!... Io non vi accuserò di durezza...

— Già, si scambian le parti, è creditrice lei, — disse il Nebioli senza mutar posizione.

«No, voi siete sempre il mio buon babbo e la mia buona mamma, e io mi figuro di chiacchierar con voi, come facevo una volta, quando tu, babbo, mi conducevi alla domenica in piazza, e quando con te, mamma, si facevano le nostre lunghe passeggiate fino ai Giardini.... Te le ricordi? Con chi esci adesso, la mia povera mamma? Conduci teco la Marina forse?... Oh, nell'inverno, come si ritornava contente a casa! Oh i bei tramonti dietro la cupola della Salute! Qui in questo romitorio a cui non si arriva che dopo due ore di mulo, si va sui cosidetti bastioni, e non c'è altro. Due filari di platani, quattro panche di legno, e intorno montagne da tutte le parti, e giù nella valle campi poveri di vegetazione e un fiumicello che pare un fosso. Il sole ha fretta di andarsene; c'è un monte alto, sassoso, sgarbato che ci affretta la sera almeno di due ore. E quando il sole è sparito, che aria fredda, sottile! Brr!

«Però a passeggiare io ci vado poco. Ugo è così stanco quando viene a casa, e io pure, sapete, sono stanca. Lavoro dall'alba fino a sera.... C'è stata una interruzione, ma ne parleremo dopo.

«Smetto un momento, indovinate perchè? Perchè sento la pentola che bolle e voglio ritirarla dal fuoco.... Vi scrivo dalla cucina.... Altro che il [345] mio studio con le sedie imbottite! Tutto il nostro quartiere consiste in questa cucina e in una cameruccia.

················

«Fra la riga precedente e questa c'è corso un intervallo di due giorni. Non ebbi un minuto di libertà. Ugo fu in letto con un po' di febbre. Egli sapeva ch'io avevo sul telaio una lettera per voi altri e mi sollecitava a finirla, ma io ero così apprensiva che non sapevo tener la penna in mano. Grazie a Dio, tutto è terminato.

«Ah, volevo dire alla mamma che non c'è di meglio per divenir brave massaie che il dover farsi tutto da sè.... Serva io non ne ho, potete immaginarvela; la fantesca della mia padrona di casa viene la mattina, per un paio d'ore; poi rimango io sola. Ho imparato a spazzare, a stirare, a cucinare.... In quest'ultima funzione riesco a meraviglia. Ugo mi dice sempre: se ci fosse la materia prima, che buoni piattini uscirebbero dalle tue mani! Ma quella che egli chiama la materia prima non c'è.... Qualche volta, in confidenza, sui venticinque o ventisei del mese, c'è alla mattina una preoccupazione nuova, curiosa, vale a dire se ci sarà da pranzo. Vi confesso che questo dubbio produce un effetto strano....

— Povera Margherita! — esclamò con voce flebile e con un gemito la signora Gertrude.

Il dottore, sospendendo un momento la sua lettura, [346] rivolse gli occhi dalla parte ove si trovava il signor Massimiliano. Ma egli continuava ad essere nascosto dietro la Gazzetta.

«A ogni modo si arriva al giorno dello stipendio. Un bello stipendio in verità! Con quella gioia della trattenuta ci restano 75 lire e 45 centesimi al mese....

— Peggio per lei! — gridò il Nebioli facendo la voce grossa. — Perchè ha lasciato la sua casa? perchè ha lasciato i suoi genitori?

«E con 75 lire e 45 centesimi al mese un pover'uomo deve insegnare a sessanta bimbi, asini e cocciuti, provvisti di babbi più asini e più cocciuti di loro. Il segretario comunale ha levato il saluto a mio marito perchè non giudicò degno del premio suo figlio che in un anno non aveva ancora imparato a scrivere caro senza l'h. E il sagrestano lo guarda in cagnesco perchè egli osò mettere in burla il suo illustre rampollo, il quale un giorno in iscuola disse che il Tevere è la capitale d'Italia. C'è finalmente il barbiere, che attribuisce la caduta del suo primogenito all'esame a mene consortesche! Ho proprio paura che abbia ragione il brigadiere dei carabinieri, un lombardo, che quando mi vede mi dice sempre: Che la mi creda, signora, l'è minga un paes per lee.

«Ho dovuto, volere o non volere, far la conoscenza delle signore del luogo. Ne conosco una ventina; dieci di esse non sanno leggere affatto; dieci leggono soltanto lo stampato, quattro anche [347] il manoscritto. Che sappiano scrivere non ce ne sono che tre. Al mio arrivo s'è fatto un gran mormorare perchè ero troppo elegante, e un giorno in chiesa, mentre il curato predicava contro il lusso, tutti gli sguardi si sono rivolti su me. Avevo ancora l'abito di piquet violetto che mi hai fatto fare nel settembre dell'anno passato.... Adesso, sta tranquilla, mamma, che non pecco per eccesso di vanità. Ho venduto a un merciaiuolo ambulante il vestito violetto, il mio spillone a mosaico, i miei coralli.... ah i miei coralli m'è costato a venderli; me li avevi regalati tu quando compivo diciott'anni; ma come si fa?... C'erano spese indispensabili, urgenti.... Insomma sono ormai come le altre, quantunque mi facciano l'onore di dirmi che ho qualchecosa che non hanno le altre. Ho il chic, sentenziò la moglie del pretore che sa due parole di francese.

«A proposito di francese, il babbo non mi rimprovererebbe più di aver sempre libri francesi per le mani. Qui non vi sono libri in nessuna lingua quando se ne levi qualche libro di devozione, e la cabala del lotto. Al caffè ci sono due giornali, ma un terzo ne riceviamo noi altri (è l'unico nostro lusso) e indovinate che giornale è? Il Rinnovamento, a cui Ugo s'è fatto associare da un suo amico di costì per compiacermi. Quando quel foglio arriva a questo romitorio dopo due giorni di viaggio, mi par che capiti un amico a darmi novelle della mia Venezia, de' miei parenti, e benedico [348] a chi ha inventato i giornali. Guardo lo stato civile, i matrimonii, le morti, guardo i pettegolezzi, le feste da ballo, le baruffe, le serenate sul Canal Grande, e vivo ancora nella mia piazza, nelle mie calli, nei miei campi, negli sfondi misteriosi de' miei rii. E sento venirmi le lagrime agli occhi, ma le asciugo presto, perchè i poveri, e ormai sono povera anch'io, non hanno tempo da piangere, non hanno tempo da cullarsi in fantasie malinconiche. Adesso poi....

«Ah sì, avevo il capriccio di darvela soltanto per poscritto la grande novella, ma non posso indugiare di più e quasi quasi la penna scrive da sè...

Il dottore Beverani fece una piccola pausa; la signora Gertrude lo guardò con trepida ansietà e il signor Massimiliano tese gli orecchi.

«La grande novella è questa, che al 15 del passato mese di novembre, alle 9 precise di sera, ho dato alla luce un bambino....»

Il Nebioli lasciò cader di mano la Gazzetta, sua moglie si alzò in piedi e appoggiandosi alla spalliera della sedia del medico cercò di leggere nel foglietto ch'egli teneva spiegato davanti; ma i suoi occhi indeboliti e velati dal pianto non vedevano che una gran confusione nella fitta e scapigliata calligrafia della figliuola.

— Un bambino! — esclamò il signor Massimiliano, — come mai?

— Probabilmente come le altre donne, — rispose ironicamente il dottore. — Ma forse dirà ella stessa qualche cosa di più.

[349]

E riprese la frase interrotta.

«...... Un bambino il quale sebbene nato in sette mesi....»

— Quando s'è maritata la Margherita? — chiese il vecchio brontolone in tuono aspro a sua moglie.

— Non lo sai? In maggio, — disse la signora Gertrude.

— Già, il mese.... ah stavo per dirla grossa. Maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre.... Per fare i sette mesi bisogna metterci della gran buona volontà....

— Via, mettetecela, — disse il dottore. E continuò:

«..... Il quale sebbene nato in sette mesi è vispo e robusto e a cui ho dato il nome di Massimiliano.»

Il signor Nebioli fece spalluccie in segno di indifferenza, ma nello stesso tempo si soffiò due volte il naso rumorosamente, e alzatosi dalla sedia si mise a passeggiare per la stanza.

— Massimiliano, — disse con accento commosso la signora Gertrude, — la senti? Gli ha dato il tuo nome.

— Commedie! commedie!

— Dottore, interponga lei una buona parola, — soggiunse a mezza voce la povera donna. Ma egli le accennò ch'era meglio finir la lettura.

«Voi non vi aspettavate di diventar nonni così presto, e giudicherete strano che nelle altre due lettere scrittevi io non vi annunziassi quello che si preparava. È giusto, ma non so perchè, io [350] m'ero fitta in capo di farvi un'improvvisata a cose compiute. Speravo davvero che questa creaturina sarebbe stata un maschio (noi donne siamo tanto sfortunate) e pensavo che forse anche il babbo, se avessi potuto dirgli: ti è nato un nipotino, avrebbe spianato la sua fronte severa. Per amore di lui, babbo, se non per amor mio, perocchè egli, poveretto, colpe non ne ha. Le sue manine sono pure, i suoi occhi sono innocenti come quelli degli altri bimbi; o perchè dunque troverà egli, al suo entrare nel mondo, meno affetto, meno sorrisi, meno baci ad accoglierlo? Se il vostro cuore dev'essermi chiuso per sempre, oh non sia chiuso almeno per esso. Io gli insegnerò ad amarvi, le prime preghiere che i suoi labbri di rosa alzeranno al Signore saranno per voi; fate che io possa dirgli che voi pure gli volete bene, che voi pure qualche volta, tra le pareti della casa ov'io nacqui, pronunciate con dolcezza il suo nome e gli inviate un saluto per mezzo degli uccelli che volano, delle nubi che passano, e lo raccomandate al buon Dio che protegge i bambini.

— Oh dottore, dottore, non ne posso più, — esclamò la signora Gertrude rompendo in un pianto dirotto.

— Già le donne non sanno altro che piangere, — urlò il Nebioli che voleva mostrarsi impassibile. — Lascialo finire, per Dio.... Avanti, avanti, Beverani... La mia signora figliuola ha la penna spedita come la lingua.

[351]

E continuò a misurare in lungo ed in largo il salotto, guardando di tratto in tratto la sua ombra sulla parete e dando segni frequenti di essere molto infreddato.

Il dottore indirizzò una parola affettuosa alla signora Gertrude, indi proseguì:

«Assicurano ch'egli mi somiglia; io non lo so, so che mi par tanto bello. Potete immaginarvi che lo allatto io stessa; a trovare una balia si dovrebbe girar mezza provincia, e poi dove ci sarebbero i quattrini da pagarla? Già in questi paesi è sempre necessario applicare il proverbio: Chi si aiuta Dio l'aiuta. Se la mamma fosse qui, gliene racconterei di curiose circa al gran momento in cui il signorino è nato. Figuratevi che di levatrici non ce ne sono, ma c'è almeno una dozzina di femmine le quali in questi casi offrono i loro servigi e assordano con le loro grida e coi loro consigli. E siccome non vanno d'accordo fra loro, finiscono quasi sempre coll'attaccar briga e col tirarsi per i capelli. Ugo ha dovuto usar la violenza per cacciarle di camera; egli ha dovuto fare una carica a fondo come quand'era soldato di Savoia cavalleria. Quando fummo rimasti soli noi due, egli era pallido, aveva la febbre addosso, e mi chiese: — Margherita, come si fa? Quasi quasi richiamerei qualcheduna di quelle megere. — No, per carità, — gli risposi — spicciamoci fra noi altri. — E stringevo la sua mano nella mia mano, e lo guardavo, ed egli guardava me con occhi pieni di lagrime, e diceva [352] con un filo di voce: — Margherita! Margherita! — Di fuori intanto origliavano all'uscio due o tre delle più ostinate comari e gridavano ad Ugo: Signore, faccia così. — No, faccia in quest'altra maniera. — Insomma, com'egli facesse lo ignoro, so che di lì a poco ho provato una calma di paradiso e ho inteso un vagito che mi disse: sei madre.

«Da quel momento (e passarono omai venticinque giorni) sono come un'altra persona e capisco che tutto quel che si dice dell'amor materno è al disotto del vero, o piuttosto non si può dirne nulla finchè non si è madri. Faccio mille castelli in aria, mi sento più ricca e non desidero ormai che due cose: di ricevere il vostro perdono e di vedere Ugo meno sfiduciato. Egli ha perduto una gran parte del buon umore che gli rendeva tollerabile la sua posizione, si affanna per l'avvenire mio, per l'avvenire del nostro Massimiliano e rimane qualche volta col bimbo in collo senza proferir parola. Ah! sento i suoi passi. Credevo di finir questa lettera oggi, ma la finirò domani.

················

«Ripiglio la penna ancora tutta sbalordita da una risoluzione che abbiamo presa con Ugo,... È una risoluzione assai grave, ma Ugo dice: a mali estremi, estremi rimedi.

«Ieri egli era più mesto del consueto. Andò alla cuna del bimbo che dormiva e si chinò a baciarlo poi mi fissò gli occhi in viso due, tre volte, come [353] se volesse parlare e gliene mancasse il coraggio. — Ugo, gli diss'io in tuono di rimprovero, avresti segreti per me? — Ascoltami, egli rispose, e mi passò il braccio intorno al collo: qui non ci posso più vivere, mi ci logoro la salute e l'ingegno, e del resto m'è insidiato anche lo scarso pane che guadagno. Il segretario comunale e alcuni consiglieri sono miei nemici e cospirano per togliermi il posto e mettere in vece mia una loro creatura che non avrà il torto massimo di essere forestiero. La mia dignità mi costringe a dar le mie dimissioni. — E tu dàlle — io proruppi. Egli sorrise tristamente. — E poi? — E poi, replicai, si cerca un altro nido. — Senti amor mio, egli ripigliò, se per qualche mese, se per qualche tempo io dovessi girare il mondo in traccia di fortuna, credi tu che i tuoi genitori darebbero asilo a te e a nostro figlio?»

— Sì, sì, — esclamò la signora Gertrude fra i singhiozzi.

— Che ne sai tu? — interruppe suo marito con la usata ruvidezza. — Sono io che devo decidere.... Vuoi scommettere intanto che quel Lucifero della nostra figliuola non si degnerebbe d'entrare in casa senza il suo illustre consorte?.... Oh! ma del resto è successo ciò ch'io prevedeva.... è successo appuntino... doveva finire così.... Quando si sposa un disperato, un....

— Volete lasciarmi continuare? — disse il dottore. — Siamo ormai alle ultime pagine!

[354]

«Io debbo essere diventata assai pallida perchè Ugo si affrettò a farmi sedere e mi supplicò che mi calmassi. Ma io m'ero aggrappata alla sua persona e gli gridavo con voce affannosa che non avrei consentito a staccarmi da lui nè per un giorno, nè per un'ora, nè per un minuto, che dovunque egli andasse sarei andata anch'io, che il godere gli agi della casa paterna mi sarebbe parso un delitto, lui lontano, povero, ramingo, che perfino la gioia del vostro perdono mi sarebbe stata tolta non avendolo al fianco.

— Ero sicuro che avrebbe risposto così, — disse il signor Massimiliano. — È nel suo carattere.

— Un bel carattere, confessatelo, — soggiunse il dottore senza staccar gli occhi dalla lettera.

— Ma dunque, per carità, che cosa è succeduto? — chiese ansiosamente la signora Gertrude.

— Or ora vedremo, — replicò il medico.

«La sua fisonomia — così proseguiva Margherita — si fece raggiante, sparirono le nubi della sua fronte, sparirono dalle sue guance i solchi che le assidue cure vi avevano scavato, egli tornò splendido di bellezza e di gioventù come nel primo giorno in cui gli diedi il mio cuore. — Me lo aspettavo, egli disse baciandomi. Tu dunque, fuor che dell'essere divisa da me, non ti sgomenteresti di nulla? — Di nulla. — Mi seguiresti anche fuori d'Italia.? — In capo al mondo. — Hai paura del mare? — No. — Egli trasse allora di tasca una lettera scrittagli da un suo buon amico [355] di Genova al quale egli si era raccomandato per un impiego. Vuoi andare a Buenos Ayres? gli chiedeva l'amico, c'è un posto presso una casa italiana. Diecimila franchi di stipendio e alloggio e vitto per te e per la tua famiglia. Se accetti, preparati a partire col vapore che salpa da qui, il 28 di questo mese.

— Vanno a Buenos Ayres! Vanno in America? — gridò disperatamente la signora Gertrude. — Massimiliano, ciò non è possibile.... Massimiliano, rispondi per carità.

Il signor Massimiliano aveva smesso di passeggiare e s'era avvicinato al dottore. — Taci un momento, Gertrude, — egli disse a sua moglie, — sentiamo il resto.

L'inflessione della sua voce era diversa del solito, egli che non parlava mai che per imporre, pareva quasi voler pregare, sua moglie afferrò una delle sue mani, e coprendola di baci e di lagrime tornò alla carica: — Massimiliano, per carità, dimmi che non lascierai che la tua unica figlia vada in quei paesi remoti....

Il naturale violento del Nebioli riprese il disopra. — Vuoi tacere, per Dio? Vuoi lasciar finire questa disgraziata lettera?

La signora Gertrude aveva tanto l'abitudine di obbedire che non seppe ribellarsi nemmen questa volta; ella fece silenzio, ma continuò a tener stretta nelle sue la mano di suo marito.

«Ho pensato subito a voi, — lesse il dottore con [356] accento commosso, — e dissi ad Ugo: — E i miei genitori? — Non ti hanno essi chiusa la porta della loro casa? egli replicò. — È vero. — Non hanno lasciato senza risposta tutte le tue lettere? — È vero, pur troppo, è vero. Stetti in forse ancora un istante; poi mi decisi. — Accetto e occupiamoci dei preparativi della partenza. — Egli mi gettò le braccia al collo e....

— Ed egli è uno scellerato, — scoppiò come un fulmine il signor Massimiliano svincolandosi da sua moglie e gettando a terra con gran fracasso tutto ciò che gli capitava davanti. — Non gli basta di averci rubata la figlia, vuol portarcela anche di là dai mari, vuol farla morire di fatiche, di stenti.... Un mese dopo il parto, con un bambino da latte, le fa imprendere un viaggio a cui non reggono talvolta nemmeno i più vigorosi. E non c'è galera per questi delitti, e non c'è forca.... Ma voi, Beverani, voi lo compatirete, voi lo difenderete, non è vero? Non si può saperla la vostra opinione?

— La mia opinione, — rispose il medico, — è di leggere la mezza paginetta che manca a compiere la lettera; poi vi dirò quel che farei nel caso vostro.

— Oh ci saranno le frasi d'uso.... Quelle tenerezze ridicole a cui corrisponde sì bene l'effetto.... Morale moderna!

«Egli mi gettò le braccia al collo, — riprese il Beverani rileggendo la frase già letta, — e mi susurrò con un bacio: tu sei un angelo. — No, diss'io, sono una donna che ti ama. Una cosa però [357] è forza che tu mi conceda. Anticipiamo di ventiquattr'ore la nostra partenza e passiamo un giorno a Venezia. Prima di abbandonar l'Europa per non tornarvi forse mai più è necessario che io tenti almeno di vedere un'ultima volta i miei genitori. Egli mi ribaciò e accondiscese al mio desiderio. Abbiamo fatto tutti i nostri conti. Oggi è il 19, sabato. Noi partiremo di qui lunedì e saremo a Venezia mercoledì alle cinque pomeridiane.

— Posdomani? — esclamarono a una voce il signor Massimiliano e la signora Gertrude.

— Mercoledì abbraccierò la mia padroncina — gridò battendo festosamente le mani, la cameriera che s'era introdotta pian piano nel salotto.

Il signor Massimiliano si voltò per sgridarla ma non seppe aprir bocca.

— Non ci sono ormai che due sole righe, — osservò il dottore. E lesse:

«Ci faremo condurre a un albergo, poi verremo da voi, e io non suppongo neppure che non vogliate riceverci, e vi mando in anticipazione mille baci. Ah! la mia lettera è un gran pasticcio, ma non ho più tempo di rifarla perchè ho da attendere ai miei bauli. Addio, addio, anche da parte di Ugo.... Il mio bimbo si sveglia e mi chiama con vagito.... Forse vuol mandarvi a salutare anche lui.

«Margherita.»

— Dunque Margherita sarà qui posdomani... farà il Natale con noi, — disse la signora Gertrude che [358] di tutta la lettera non ricordava ormai che questa notizia e quasi non credeva a sè stessa.

— E viene anche lui? E bisognerà accogliere anche lui? — soggiunse come parlando fra sè il signor Massimiliano. — Quel cane che vuol portarla a Buenos Ayres!...

— Che Buenos Ayres? — interruppe il dottore alzandosi in piedi. — Sapete che vi ho da dire?... Che l'alloggio di vostra figlia e di vostro genero dev'essere la vostra casa e non un albergo, che quando essi sian qui non dovete più lasciarli andar via, che la parte del tiranno l'avete fatta anche troppo a lungo, e che la vostra Margherita l'avete castigata anche troppo.

— Dovevo anzi premiarla?

— La si è maritata a suo modo, e ha fatto male, non c'è dubbio, ma in fin dei conti le ragazze si sposan per loro e non per uso dei genitori e la Margherita trovò almeno un galantuomo....

— Non mi fate dire spropositi, Beverani. Un galantuomo che seduce una fanciulla....

— E la sposa.

— Sì, contando sul perdono del padre babbeo.

— Ci contava tanto poco che stava per andare in America.

— Baie! Non credo più al viaggio in America

— Non ci credete? Allora vi dirò che vostra figlia mi scrive supplicandomi di prestare a suo marito 1000 lire che gli mancano a pagare i posti sul vapore.

[359]

— E voi li presterete?

— Sicuro, a meno che voi non vi decidiate a farla finita, dando a vostra figlia la dote che le avevate destinata e lasciandola vivere agiatamente con lo sposo ch'ella si è scelto.

— O corpo.... E come avviene che tutto questo zelo vi capita da un momento all'altro?

— Mio Dio, perchè trovavo giusto in passato che la condotta di Margherita avesse la sua punizione, e trovo adesso che quella giovine ha espiato largamente i suoi falli.

— Già, voi avete la sapienza di Salomone, — brontolò il signor Massimiliano.

La signora Gertrude era esterrefatta. Ella non aveva mai inteso alcuno a parlare con tanta libertà a suo marito e non sapeva intendere com'egli, malgrado tutto il rispetto pel dottore Beverani, non prorompesse in una di quelle sfuriate che le facevano venir la pelle d'oca.

Ma la cameriera Marina la confortava dicendole, — Vedrà che cede.... Il padrone è così.... A esser conigli non ci si guadagna con lui.... E poi, la padroncina è stata sempre il suo occhio destro.

Il signor Massimiliano fece ancora quattro giri per la stanza torcendo fra le mani il fazzoletto; indi si piantò ritto ed immobile davanti a sua moglie. — Invece di mandar acqua da tutte le parti come una fontana, mi sembra che potreste almeno pensare a far allestire le camere....

— Oh Massimiliano, — esclamò la povera signora, — tu dunque acconsenti?

[360]

— Io? Io! E lei, madama? In tutto il tempo dacchè nostra figlia è partita s'è mai potuto sentir da lei un'opinione franca?... Lamenti, piagnistei, sospiri e niente più di così....

— Ma mi lasciavi forse parlare?

— Via, via, non vi bisticciate, chè s'ha da stare allegri. Beninteso che voglio guadagnarci qualche cosa anch'io. Per la vigilia di Natale verrò a pranzo con voi altri, — disse il Beverani.

— Oh dottore, sia benedetto, venga, venga. Le si deve tutto, — replicò la signora Gertrude prendendogli la mano.

— Come volontieri le darei un bacio! — soggiunse in un trasporto d'entusiasmo la cameriera che adorava la sua padroncina.

— Troppo tardi, Marina, — rispose ridendo il dottore. — Bisognava risolversi vent'anni fa quando ve l'ho domandato....

— Che cosa va a tirar fuori! — replicò la donna facendosi rossa.

— Non c'è punto da arrossire, perchè mi avete detto di no.... Ma voi Massimiliano, non mi offrite niente?

— Scusate, ma non so raccapezzarmi.... Darei la testa nei muri.... Quella lettera, quelle vostre parole... insomma penso alla bella figura che faccio io dopo tante proteste, dopo tante dichiarazioni di fermezza.... Sia pure.... ci vuol pazienza.... Marina?

— Comandi.

— Va a pigliare una bottiglia di Cipro stravecchio.

[361]

— Oh questa è una risoluzione che mi piace. Non c'è quanto un bicchierino di Cipro per far passare le ubbie. Posdomani poi a quest'ora ne beveremo un altro con la Margherita....

— Margherita, Margherita, quanto mi hai fatto soffrire e quanto bene ti voglio ancora! — disse il Nebioli. E si coprì il viso colle palme, e scoppiò in un pianto dirotto, irrefrenabile. Non vi voleva di più per far piangere nuovamente anche la signora Gertrude.

— Sta a vedere che finisco col fare il terzo — osservò il Beverani passandosi la mano sugli occhi.

Per buona ventura entrò intanto la cameriera col Cipro. Aveva ella pure una gran voglia di commuoversi, ma il Beverani la sollecitò a non far bambinate e a sturare la bottiglia senza romperla. Quando il liquore fu mesciuto, il medico vuotò il primo bicchierino gridando: — Alla salute degli sposi e del bimbo!

Il signor Massimiliano si rasciugò in fretta le lagrime e bevette. Dopo di lui la signora Gertrude e la Marina.

— Sia ringraziato il cielo! La pace è fatta! — concluse il dottore.

Era per andarsene quando sentì la mano del Nebioli nella sua.

— Sarà per la povera famiglia di cui ci avete discorso prima, — disse il ruvido vecchio lasciando scivolar fra le dita del medico un biglietto di banca di cinquanta lire. — E fate che preghino....

[362]

— Pei vostri peccati? — chiese il Beverani ch'era un po' scettico....

— No, ma perchè il Signore mi dia la forza di accogliere bene colui.... mi capite.... Vi assicuro.... non so ancora persuadermi....

— Oh si persuaderà, — ripetè il dottore scendendo le scale.

[363]

LA PAGINA ETERNA (MONOLOGO D'UN LETTERATO).

Excelsior (era questo il nome di battaglia d'un giovine letterato) aveva scritto quella sera la sospirata parola fine a' piedi dell'ultima facciata di un nuovo romanzo. E s'era messo poi a svolgere con mano convulsa i 475 foglietti del suo lavoro, ch'egli doveva trasmettere la mattina seguente ad un editore. Egli correva con l'occhio su quelle pagine che gli erano costate tanti mesi di fatiche e di veglie, s'arrestava alquanto sui punti più drammatici, ripeteva ad alta voce alcune frasi, e cercava d'indovinar l'effetto ch'esse produrrebbero nell'animo dei lettori. Intanto passavano le ore, il petrolio si abbassava nella lucerna, e quando Excelsior fu giunto al termine della sua revisione, erano già le due dopo mezzanotte. Egli alzò la testa dalle sue carte, fece puntello delle palme al mento, e rimase a lungo immobile, pensoso. A poco a poco una tristezza infinita gli si dipinse sul viso; egli balzò dalla sedia e si mise a passeggiar concitato su e giù per la stanza.

— E anche tu, — egli esclamò rivolgendo lo [364] sguardo al manoscritto che giaceva sulla scrivania, — anche tu farai la fine dei tuoi fratelli maggiori. Uscirai nel mondo in mezzo a un mormorio lusinghiero; sarai salutato da alcuni articoli benevoli inspirati probabilmente dall'editore; mi procurerai la stretta di mano di qualche lettrice gentile;... e poi.... e poi troverai una sepoltura onorata negli scaffali delle biblioteche. Era dunque per questo ch'io ho tanto meditato, tanto studiato, nudrito con sì grande amore il fuoco sacro dell'ideale? Era per questo che ho assunto il pseudonimo di Excelsior? Meno male che la mia anima è meno orgogliosa del mio nome di guerra!

— C'è pur qualche cosa di tragico nel destino della maggior parte dei libri che passano come ombre davanti agli occhi del pubblico, e pare abbiano sul labbro il grido dei gladiatori romani: Ave, Caesar, morituri te salutant. Morituri! Sì, questa è la parola. Morituri! Ma non sono gladiatori, non lottano prima di morire. Che? Muojon di lattime.

— Ah se quei topi che si chiaman bibliotecari fosser gente di spirito, che salati epigrammi potrebbero fare di mano in mano che ricevono e registrano queste primizie! Dovrebb'esserci per esse una rubrica apposita, come c'è nello stato civile pei nati-morti. Che amara ironia per un libro trovarsi lì con la sua legatura fresca, con le sue carte ancora umide, col suo formato snello, elegante, col suo bel frontespizio che porta una data recentissima, trovarsi lì accanto ai volumi tarlati di qualche secolo addietro, [365] e dover dire: io non ho che un anno, non ho che un mese, un giorno, forse, e son già morto e sepolto, mentre fra quei centenari ci son i giovani eterni, ci son gli immortali!

— C'è dunque fra i libri questa razza d'immortali, ci son questi privilegiati che traversano i secoli col fronte raggiante d'un'olimpica luce, questi amici, questi confortatori di tutte le generazioni?

— Oh se ci sono!

Excelsior diede un'occhiata alla sua biblioteca e non tardò a distinguere, tra la folla degli altri, i venti o trenta volumi di cui egli stesso svolgeva più frequentemente le pagine.

— E il segreto della vostra vitalità, — egli soggiunse riprendendo il suo monologo, — me lo sapreste rivelare? Fra i libri che non si leggono più da gran tempo non c'era nessuno che valesse quanto voi? Non ce ne sarà nessuno tra i libri che si scrivono oggi e non si leggeranno più di qui a un lustro? La fortuna, il caso c'entrerebbe anche nella gloria? O la celebrità è proprio figlia del merito? E s'è così, ond'è spirato il soffio che vi salva dalla putrefazione? Dalla mente o dal cuore? Dall'affanno o dalla gioia? Dall'amore o dall'odio? Dalla fede o dallo scetticismo? Dalla calma o della procella? Chi può dirlo? C'è forse una legge che governi a un sol modo tutti gli uomini, che faccia sbocciar nelle identiche condizioni il fiore del loro ingegno? L'uno trovò nell'intelletto profondo ciò che l'altro trovò nell'anima candida. Per l'uno furono [366] fonte d'ispirazione i dolori provati, gli oltraggi sofferti, il desiderio della vendetta, lo sfregio dell'esiglio, il pungolo della fame; l'altro ha sentito spuntar l'ali alla sua fantasia in mezzo a una quiete profonda, nel santuario della casa, tra il cinguettìo allegro dei bimbi. L'uno si sentiva più grande nella preghiera, l'altro nel dubbio. L'uno aveva bisogno dell'austerità monastica e l'altro aveva bisogno della donna. Ma la donna non significava per tutti la stessa cosa. Era Beatrice, era Laura, ed era Fiammetta. Era la materia e lo spirito. Per molti la donna voleva dire le donne. Goethe e Byron non avrebbero saputo che fare dell'amore ideale che bastò alla musa del Petrarca. Attraverso le più disparate vicende, obbedendo ai più dissimili criteri d'arte, sconcertando i canoni di tutte le scuole, è nato il capolavoro, è nato il libro immortale....

Excelsior si fermò in mezzo della stanza con aria meditabonda, tacque per un momento, e poi come colto da un pensiero improvviso, soggiunse: — Il libro immortale! Non sarebbe più giusto di dire la pagina eterna? Sì, qui è la chiave di tutto. L'immortalità dei libri è spesso una pagina, una sola pagina che l'assicura. Può esser sorridente come il più bel raggio di sole, straziante come il grido d'una madre che ha perduto i suoi figli, calma come una notte serena, tempestosa come l'oceano in burrasca, soave come una musica lontana, violenta come un fiume che irrompe; può essere un inno o una bestemmia; non importa! in quella pagina l'autore ha [367] lasciato una parte della sua anima, o meglio ancora, dell'anima dell'umanità. E quella pagina non muore e pel lungo corso dei secoli, quando un occhio intelligente la guarda, quando uno spirito capace di simpatia si ferma a meditarla, sembra che si rinnovelli il palpito che l'ha dettata, sembra che tra linea e linea ricompaja il sorriso, ricompaja la lagrima che cento e cento anni addietro un uomo ha saputo incarnare in un periodo, in una frase, in una parola! La pagina eterna! Felice chi l'ha scritta! È lei che tiene unite le altre. S'ella mancasse, esse andrebbero disperse come foglie secche, ma poich'ella c'è le altre le si stringono intorno e brillano di luce riflessa. Eppure di uguali a queste ne furono scritte molte, e un tesoro di pensieri fu profuso in cento libri obliati. Ma quei libri son morti perchè non avevano la pagina eterna.

— Ed essa non c'è, io lo sento, — proseguì il giovane con amaro sconforto, — in quei quattrocento settantacinque foglietti che consegnerò domani allo stampatore, non ci fu in quelli che scrissi in passato, non ci sarà in quelli che scriverò in avvenire.... E perchè non ci dovrà esser mai?.... Se rivedessi ancora una volta il mio lavoro... se provassi...

A questo punto il lume, che scoppiettava da un pezzo, die' un vivo barbaglio e poi si spense, mandando un grandissimo puzzo nella stanza. Richiamato al sentimento della vita reale, Excelsior cercò a tastoni i fiammiferi e accese una candela. Indi guardò l'orologio. Erano le quattro, e il nauseabondo odor del [368] petrolio rendeva impossibile di rimaner lì a lavorare. Il giovine si decise a coricarsi, e la pagina eterna gli restò nella penna. Nè seppe scriverla il giorno appresso, nè seppe scriverla più. Ridotto in fin di vita da lì a pochi anni, chiamò al suo letto la donna casta e gentile che stava in cima de' suoi pensieri, e le disse: — Tutti i miei manoscritti, tutti i miei libri son tuoi. Io avrei voluto dedicarti pubblicamente quante son le mie opere, ma perchè legare il tuo nome a un cadavere? Aspettavo sempre la pagina degna di te, la pagina eterna, e la pagina eterna non è venuta.

FINE.

[369]

INDICE

Alla finestra Pag. 1
Le chiacchiere della nonna 75
Nevica 89
Un raggio di sole 112
La gamba di Giovannino 165
Il fratello del grand'uomo 196
Il colpo di stato di Clarina 205
Due ore in ferrovia 232
La democrazia della signora Cherubina 244
La confessione di Doretta 254
Lo specchio rotto 262
Il parassita indipendente 280
Il maestro di calligrafia 301
L'orologio fermo 320
La lettera di Margherita 329
La pagina eterna 363

DELLO STESSO AUTORE:

La Contessina, racconto L. 3 —
Sorrisi e lagrime, nuove novelle 3 50
Dal primo piano alla soffitta, romanzo 3 50
Nella lotta, romanzo. Seconda edizione 3 —
Lauretta, romanzo. Terza edizione 3 50

SOTTO I TORCHI:

Due amici, romanzo.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.






End of the Project Gutenberg EBook of Alla finestra, by Enrico Castelnuovo

*** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK ALLA FINESTRA ***

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www.gutenberg.org Section 3. Information about the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
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state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
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number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
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The Foundation's principal office is in Fairbanks, Alaska, with the
mailing address: PO Box 750175, Fairbanks, AK 99775, but its
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Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to
date contact information can be found at the Foundation's web site and
official page at www.gutenberg.org/contact

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    Dr. Gregory B. Newby
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