*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 49429 ***
MEZZO SECOLO DI PATRIOTISMO
MEZZO SECOLO
DI PATRIOTISMO
SAGGI STORICI
DI
R. BONFADINI
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1886.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Riservati i diritti di traduzione.
Milano. Tip. Treves.
[v]
AL NOBILE CARLO D'ADDA
SENATORE DEL REGNO.
Caro amico,
A te, che mi precedi negli anni, nell'autorità
e nel sapere, dirigo questo mio volume,
che vorrebbe richiamare i vecchi alle vigorose
emozioni della loro giovinezza e radicare
nei giovani il rispetto per le antiche
operosità e pei patriotismi antichi.
Apparteniamo entrambi ad un'epoca, in cui
la foga del vivere consuma e getta molto
pasto all'oblìo. Auguriamoci che non consumi
almeno più di quanto produce, e che dall'oblìo
si salvi, dov'è possibile, il bene. Dimentichiamo
pure il male, o piuttosto perdoniamolo.
Il perdono è più virile dell'oblìo.
M'è accaduto più volte, scrivendo questo
volume, di pensare alle rapide evoluzioni che
possono compiere, sotto la pressura degli interessi,
le amicizie politiche.
Noi siamo stati per mezzo secolo accaniti
avversari di un Impero, al quale ci legano
[vi]
ora vincoli d'alleanza, che credo leali e che
spero durevoli.
Ciò non mi ha impedito di evocare, come
le abbiamo sentite, le impressioni di quel cinquantennio
e di tradurle col linguaggio e
colla logica di quegli anni. La storia, a parer
mio, non si può scrivere che così. Giacchè i
fatti perderebbero la metà dei loro veri e dei
loro insegnamenti, se si volessero costringere
alle stesse metamorfosi che possono subire,
e sono libere di subire, le idee. Il rispetto per
gli uni non turba l'adesione alle altre. Molto
più che fra popoli intelligenti nessuna lotta
politica dura mai oltre la scomparsa della
causa giusta che la rendeva necessaria. E gli
Italiani sono un popolo intelligente. Sanno
lottare al bisogno; ma lottano, secondo i consigli
del Vangelo, perchè il peccatore si converta,
non perchè muoja.
In questi pensieri e in questi desiderj so
di averti compagno; e ciò mi lascia sperare
che se il mio povero libro avrà censori severi,
non gli mancherà l'indulgenza del tuo
giudizio. In ogni caso, lo scriverlo e lo stamparlo
non mi sarà stato inutile; poichè mi
avrà permesso di esprimerti pubblicamente,
malgrado la tua fiera modestia, il molto bene
che penso di te.
Sondrio, 8 marzo 1886.
Tuo aff.
R. Bonfadini.
[vii]
INDICE.
I.
Francesco Melzi e il periodo italiano.
(pag. 1 a 56).
L'unità e la trinità del periodo. — Il Primo Console a
Milano. — Le nuove idee. — I nuovi ordinamenti. — Il Comitato
di Governo. — G. Battista Sommariva. — Corrotti e
corruttori. — Carlo Porta e Francesco Melzi. — La Consulta
di Lione. — Un'assemblea parlamentare operosa. — L'apogeo
di Bonaparte. — Melzi e Talleyrand a Lione. — Una seduta
solenne. — La Repubblica Italiana. — Gli antecedenti di Francesco
Melzi. — Il contino a Parigi. — L'ingresso del Vice-Presidente. — Il
governo di Melzi. — La lotta contro l'intrigo. — I
generali francesi. — Alto sentire ed alto linguaggio. — L'Impero. — Eugenio
Beauharnais. — Napoleone a Milano. — I
delirj del dispotismo. — I consigli del duca di Lodi. — Un
vero uomo di Stato.
II.
Giuseppe Prina e la fine dell'epoca Napoleonica.
(pag. 57 a 128).
Il metodo e la fatalità nella storia. — Il primo Regno
d'Italia. — Splendori e violenze. — Le previdenze di Melzi. — Lo
scroscio. — Il duca di Lodi e il principe Eugenio. — I
[viii]
partiti politici a Milano nel 1814. — Gli austriaci, i conservatori,
gli italici. — Federico Confalonieri e l'avvocato Traversi. — Il
programma del duca di Lodi. — Il conte Diego
Guicciardi. — Le rimembranze austriache a Milano. — Il
Guicciardi in Senato. — La seduta del 17 aprile. — La protesta
dell'aristocrazia milanese. — Nel cortile del Senato. — Il
conte Carlo Verri e i prodromi della rivoluzione. — La
fine del Senato. — La piazza di S. Fedele e la casa del
Prina. — Pellegrino Rossi ed Alessandro Manzoni. — L'eccidio
del 20 aprile. — Giuseppe Prina e le sue qualità. — La
plebe e l'aristocrazia. — Il generale Pino. — La condotta
leale di Eugenio Beauharnais. — Un episodio ignoto e un
documento inedito. — L'istinto della situazione. — I tumulti
e le rivoluzioni.
III.
Confalonieri e i processi politici.
(pag. 129 a 196).
I rapporti fra l'individuo e la società. — Le pressioni
dell'ambiente. — Un'epoca di repressione e di transizione. — Milano
e l'Austria dopo la restaurazione. — Il quieto vivere. — Ancora
il Manzoni. — Le società segrete e le polizie
dei governi. — I delatori e le vittime. — La Prineide. — La
cospirazione del 1821 e il conte Federico Confalonieri. — Una
sfinge. — I Confalonieri dei secoli scorsi. — Le prime
mosse del conte Federico. — Teresa Casati Confalonieri. — Il
Confalonieri ed Eugenio Beauharnais. — Alle prese colla
diplomazia europea. — L'imperatore Francesco d'Austria. — Il
programma italiano di Federico Confalonieri. — Ugo Foscolo. — I
viaggi e le iniziative. — Il Conciliatore e il conte
Luigi Porro. — Illustri stranieri a Milano. — Il processo dei
Federati. — Il principe Della Cisterna. — Giorgio Pallavicino
e Gaetano Castillia. — Il barone Salvotti e la Commissione
[ix]
inquirente. — Il maresciallo Bubna. — Audace contegno del
Gonfalonieri. — Suo arresto. — Un processo iniquo. — La fermezza
di un imputato. — I Confalonieri a Vienna. — L'Imperatore
e l'Imperatrice. — La grazia e la berlina. — Il
colloquio col principe di Metternich. — Un uomo di Stato e
un delegato di pubblica sicurezza. — I prigionieri dello
Spielberg. — Le Memorie autografe di Federico Confalonieri. — La
religione e l'amnistia. — Il Confalonieri in America. — A
Parigi e a Vichy. — Ritorno di Confalonieri a
Milano. — La generazione del 1821. — I funerali del conte.
IV.
Il quarantotto e le cinque giornate.
1.
LA PREPARAZIONE.
(pag. 197 a 257).
L'Europa del 1886. — Due caffè distrutti dal rinnovamento
edilizio. — Il caffè della Peppina. — Gli adepti della
Giovane Italia. — Giuseppe Mazzini. — La sua influenza, i
suoi difetti, le sue virtù. — Il caffè della Cecchina. — L'aristocrazia
liberale. — I profughi milanesi. — Cesare Correnti. — Carlo
Cattaneo. — Il federalismo riformatore e la rivoluzione
unitaria. — La metamorfosi di Carlo Cattaneo. — Il
suo deplorabile opuscolo sull'Insurrezione di Milano. — Carlo
Alberto e i profughi del 21. — Un re patriota. — I
primi rintocchi della rivoluzione. — Gli scienziati a Milano. — Pellegrino
Rossi al Conclave. — L'elezione del nuovo
Pontefice. — La lama di coltello e la bottiglia di Champagne. — Le
riforme e la popolarità di Pio IX. — Metternich
e Radetzki. — Una città in entusiasmo. — Le dimostrazioni. — Gli
scritti rivoluzionarj. — Il Comitato. — Gli studenti liceali. — I
giovani d'oggi. — Il cardinale Gaisruck. — Il
conte Bolza. — L'arcivescovo Romilli e il suo ingresso. — Le
[x]
irritazioni dell'autorità militare. — La politica del principe
di Metternich. — G. B. Nazzari e la Congregazione
Centrale. — Il conte di Ficquelmont e Fanny Elssler. — L'astensione
dal tabacco. — Le prime provocazioni e il conte
di Neipperg. — La sera del 3 gennaio 1848. — L'assassinio
per le vie. — Il conte Gabrio Casati al palazzo Marino. — Monsignore
Opizzoni e il conte Vitaliano Borromeo. — Il
partito conservatore e l'alta burocrazia. — Il Procuratore
camerale Enrico Guicciardi. — Lo stato d'assedio. — L'inspirazione
di una donna.
2.
LA RIVOLUZIONE.
(pag. 259 a 332).
I tre stadj di un movimento. — La preparazione materiale. — Carlo
Alberto e Nino Bixio. — Il conte di Castagneto. — Carlo
D'Adda a Torino. — La storia di un biglietto. — I
preparativi a Milano. — La concordia degli animi. — Giuseppe
Sandrini. — Le autorità governative dopo la rivoluzione
di Vienna. — In casa di Cattaneo. — La politica del
Municipio. — Il 18 marzo 1848. — Il primo sangue e il
primo proclama. — Angelo Fava e Carlo Cattaneo. — La
prima barricata. — Il sistema finanziario dell'epoca. — Uno
per tutti e tutti per ciascuno. — Le campane a stormo. — La
questione diplomatica. — Il conte Francesco Arese. — Enrico
Martini ed Alessandro Manzoni. — La dichiarazione di
guerra. — Gl'inviati milanesi nel Consiglio dei Ministri. — La
questione politica e il programma municipale. — Le idee
giuste e le idee ingiuste di Carlo Cattaneo. — Il Governo
Provvisorio e il Comitato di Guerra. — La questione strategica. — Il
discentramento e Luigi Torelli. — Ogni giornata
ha il suo carattere. — Luciano Manara. — I combattenti borghesi. — Le
sorprese e le incertezze del maresciallo Radetzki. — Le
trattative per l'armistizio. — Il barone d'Ettinghausen
[xi]
e il conte Marco Greppi. — Una risposta di Vitaliano
Borromeo. — L'opinione del ministro della guerra sull'armistizio. — La
seconda trattativa. — Giuseppe Durini, Achille
Mauri e Carlo Cattaneo. — L'opinione dei combattenti. — I
no della storia. — Ciò che è vero e ciò che è giusto nella
questione dell'armistizio. — Le cause della ritirata dell'esercito
austriaco. — Orgogli e delusioni.
V.
Il decennio di resistenza.
(pag. 333 a 410).
Le tristezze del 1849. — I pensieri di Milano. — La resistenza. — Gli
emigrati. — Il partito albertista. — Cesare Giulini
ed Emilio Dandolo. — Carlo Tenca e il Crepuscolo. — Il
partito d'azione. — Attilio De-Luigi e Carlo De-Cristoforis.
Emilio Visconti-Venosta. — Nobili, borghesi, popolani. — Il
vuoto intorno ai nemici. — I duelli. — Annetta Olivari e le
bastonature. — Il Comitato Centrale repubblicano. — Il prestito
di Mazzini. — La morte del Vandoni. — Il colpo di
Stato in Francia. — Il Piemonte risorge. — I Comitati provinciali
lombardi. — Antonio Lazzati a Mantova. — Morte
eroica di Giuseppe Pezzotti. — Il processo di Mantova. — Antonio
Lazzati e Luigi Castellazzo. — L'Impero in Francia
e il conte di Cavour. — La decadenza del partito repubblicano. — Il
6 febbraio 1853. — Illusioni e trepidazioni. — I
consigli della ragione. — I capi ed i gregarj. — Gli effetti
del 6 febbraio. — L'indirizzo all'imperatore d'Austria. — La
ricomposizione dei partiti. — Prevalenza della politica moderata
in Milano. — La fine dell'influenza mazziniana. — La
reazione militare. — Il Congresso di Parigi e la mutazione
della politica austriaca in Lombardia. — L'Imperatore a Milano. — Il
conte Archinto e Cesare Cantù. — I conservatori
milanesi e il loro programma. — L'arciduca Massimiliano e
[xii]
i suoi consiglieri. — Il duca Lodovico Melzi. — Programmi
e illusioni dell'arciduca. — Le inquietudini del conte di Cavour. — Il
barone di Burger e il maresciallo Giulay. — La
nascita dell'arciduca Rodolfo. — Massimiliano a Vienna. — I
consigli del duca Melzi. — Le incertezze della situazione. — La
virtù nazionale. — La morte del maresciallo Radetzki. — I
funerali di Emilio Dandolo. — Gli entusiasmi cittadini. — Il
coro della Norma. — L'emigrazione militare in Piemonte. — L'ingresso
di Vittorio Emanuele e di Napoleone
III chiude la storia municipale lombarda. — La nuova
Italia e la morale dell'opera.
[1]
FRANCESCO MELZI
E IL PERIODO ITALIANO.
[3]
Quel brano di storia milanese e lombarda
che corre dalla battaglia di Marengo alla catastrofe
del Regno italico nel 1814 è stato, nei
confusi ricordi popolari e negli studj superficiali,
considerato quasi come un tutto omogeneo,
fondato sugli stessi principj, fertile degli
stessi beneficj, illustrato dai medesimi nomi e
dalle stesse tradizioni di governo.
Nulla di più inesatto che questo modo di apprezzare
quei tre lustri di storia. Essi hanno
invece, come l'odierna cultura ha bene stabilito
e sviscerato, tre stadj distinti di legislazione
e d'influenze, tre fisonomie politiche notevolmente
diverse.
La prima epoca va dal ritorno degli eserciti
[4]
francesi fino alla Consulta di Lione; la seconda
dalla Consulta di Lione alla proclamazione dell'impero
napoleonico; la terza dalla proclamazione
dell'impero al 20 aprile 1814.
La prima è l'epoca dei dubbj, delle confusioni,
delle incertezze, delle precarietà governative,
ed è la seconda Repubblica Cisalpina,
conservatrice in teoria, anarchica in realtà, di
poco superiore alla prima per disciplina di
menti e d'indirizzo. La seconda epoca comprende
gli anni della Repubblica Italiana, il
vero periodo ricostruttore, sollecito dei principj
e degli interessi, dei costumi, delle leggi,
della pubblica dignità. Al terzo periodo, quello
che la precisa dizione storica chiama propriamente
Regno d'Italia, corrisponde il movimento
più spiccato della legislazione, dei lavori pubblici,
degli ordini militari, ma insieme il principio
d'una nuova corruzione, che lima e sfata
la libertà. Dallo stadio dell'intrigo e dell'agitazione
infeconda si passa a quello dell'operosità
onesta e dell'austera semplicità, per giungere
allo stadio finale della magnificenza e dell'eccesso.
Il malato guariva, ma il convalescente
abusava della rifatta salute, e il cambiamento
dei medici non riusciva sempre a vantaggio
dell'igiene preservatrice.
[5]
L'organismo politico e amministrativo della
prima epoca era stato deliberato e applicato
negli otto giorni in cui Bonaparte rimase a
Milano, dopo Marengo.
Egli era stato accolto in Milano coll'eguale
entusiasmo, ma non si presentava più colle
stesse forme e cogli stessi caratteri. In quell'esistenza
straordinaria, destinata ad un'attività
di corpo e di spirito che ci sembra ancora
un enigma, tre anni dovevano bastare a meravigliose
trasformazioni. Infatti, non era più
il generale Bonaparte; era il Primo Console;
un'altra fisonomia, fisica e morale; un altro indirizzo;
una volontà egualmente energica, ma
diretta a scopi diversi; un'intelligenza egualmente
intuitiva, ma fatta più matura da più
larghe esperienze; un uomo insomma che era
passato dalle ipotesi dell'ambizione alle sue
più sterminate realtà; che aveva divorato gli
ultimi brani di una rapida giovinezza e che si
presentava a trent'anni sulla scena del mondo
con tre titoli nuovi aggiunti alla Campagna
d'Italia: l'Egitto, il 18 brumale e Marengo.
Si vede subito che un altro sistema politico
si elaborava nella mente del vincitore. Le sue
parole ai magistrati cittadini, ai parroci, suonavano
la più recisa condanna delle antiche
[6]
demagogie del triennio. “Qu'on respecte les
prêtres„ scriveva al Talleyrand “c'est le seul
moyen de vivre en paix avec les paysans italiens.„
Affermava, con intera saviezza di programma
politico, doversi riorganizzare come libera
e indipendente la Repubblica Cisalpina,
doversi rispettare l'esercizio della religione cattolica
e punire ogni specie di oltraggio contro
i suoi ministri e i suoi riti, doversi rispettare
le proprietà di tutti senza eccezione, essere vietato
usare denominazioni proprie a risuscitare
divisioni ed ire di parte. Un proclama
comparso in quei giorni sul Moniteur diceva:
“Peuple cisalpin, dès que votre territoire sera
délivré de l'ennemi, la république sera réorganisée
sur les bases fixes de la réligion, de l'égalité
et du bon ordre.„ Dell'antica trilogia repubblicana
non era già più rimasta che l'eguaglianza.
La religione e il buon ordine erano
parole nuove, sorte dopo il 18 brumale.
I nomi erano per Bonaparte guarentigia delle
cose; e nella Consulta legislativa, a cui spettava
l'incarico di redigere le prime leggi di
urgenza e di preparare la Costituzione definitiva
della Repubblica, pose il Marliani, il Testi,
il Luosi, il Serbelloni, il Moscati, il Caprara,
il Mascheroni, il Lamberti, il Cicognara, tutte
[7]
le notabilità di scienza, di nascita e di carattere
che la politica del triennio aveva potuto
offendere o disgustare. Fece riaprire l'Università
di Pavia, chiusa durante i furori del precedente
periodo e vi chiamò o vi richiamò alle
cattedre i nomi più splendidi dell'intelligenza
contemporanea, Gregorio Fontana, Lorenzo Mascheroni,
Alessandro Volta, Antonio Scarpa,
Vincenzo Monti, Tommaso Nani.
Altri provvedimenti prese sulle materie militari
e di finanza; buoni, come al solito, i primi;
duri, come al solito, i secondi; ma in quei giorni
non ci si badava; la gioja d'essere o di credersi
per sempre liberati da Russi e da Giacobini
rendeva indulgenti sulle questioni di tasse.
Il prestigio di Bonaparte era ancora maggiore
che durante il triennio, perchè il genio era
eguale, il potere cresciuto e la sua politica offendeva
minori interessi. Quel rispetto per la
religione conciliava alla repubblica patrizi e
popolani senza riserva. Gli entusiasmi non cessavano,
e crescevano le adesioni pensate. Un
incidente, in apparenza spregevole, rivela questa
mutazione in certe classi sociali. Nel 1796,
un tenore dalla voce bianca, l'idolo della gioventù
aristocratica, Marchesi, aveva osato rifiutarsi
al generale Bonaparte che mostrava
[8]
desiderio di udirlo[1]; nel 1800 si offerse egli
stesso di cantare, e il Primo Console obliò generosamente
l'antico rifiuto. Anche la Grassini,
celebre prima donna del tempo, cantò in un
concerto alla Scala così meravigliosamente, che
Bonaparte volle riudirla in palazzo. Pur troppo,
se il generale s'era modificato, l'uomo non era
rimasto tal quale. La situazione psicologica subiva
anch'essa un processo di rivolgimento.
Giuseppina Bonaparte ebbe torto in quell'ora
di essere a Parigi e non qui.
Però il Primo Console aveva fretta. Non poteva
più abbandonarsi agli ozj eleganti di Mombello
o allo studio paziente degli affari d'Italia.
L'Europa cominciava a cadergli sulle braccia,
ed all'Europa non poteva pensare che da
Parigi. Partì il 25 giugno, lasciando a Milano
organismi pubblici appena abbozzati, una Consulta
legislativa piena di zelo ma soverchiata
dall'incerta e larga responsabilità, una Commissione
esecutiva troppo numerosa e poco omogenea,
il generale Petiet come Ministro straordinario
[9]
e quasi tutore della rinata Repubblica;
uomo debole, incerto della propria azione, poco
persuaso della sua autorità, e che perciò non
sapeva usarla nè contro le corruzioni dei politici
indigeni, nè contro gli abusi e gli arbitrj
dei comandanti militari francesi, Brune, Massena,
Murat.
Queste cause di male cominciarono subito a
svolgersi con pessimi effetti, ed agli otto giorni
di ordine e di lavoro che il Primo Console aveva
così bene inaugurati seguirono venti mesi d'un
governo fiacco, oscillante, senza prestigio e senza
base; governo che se non potè dirsi affatto tristo,
fu solo perchè due altri, di tanto peggiori,
lo avevano preceduto.
La Consulta legislativa diede bensì notevoli
esempj di attività intelligente e feconda. Rimise
in pieno vigore le leggi emanate durante
il triennio, eccettuate però le leggi deplorabili
di finanza e di culto. Revocò gli ordinamenti
politici e i sequestri illegali ordinati durante
i tredici mesi; mantenendo però i giudicati già
eseguiti, le successioni già verificate, i pagamenti
e i contratti fatti secondo le leggi pubblicate
nel periodo intermedio. Era un sistema
savio e liberale, soprattutto per tempi, in cui
il cassare con un tratto di penna tutto un insieme
[10]
di ordinamenti e di diritti acquisiti pareva
l'inevitabile concetto legislativo sorgente
da ogni mutamento di governo, da ogni predominar
di fazione.
I diritti civili furono poi subito argomento
importante di studio per la Consulta. E dopo
un solo anno si potè a buon conto pubblicare
il Regolamento Giudiziario, unificazione salutare
e progresso insperato sugli antichi sistemi,
prevalenti nelle varie provincie del nuovo Stato,
e anteriori per la massima parte alle stesse riforme
prodotte dai libri del Filangieri e del
Beccaria. Si pubblicò un'amnistia generale pei
delitti politici, poi la legge 23 fiorile, anno 9.º
sull'ordinamento amministrativo e territoriale
della Repubblica. I provvedimenti militari furono
spinti colla massima alacrità. Legge sulla
guardia nazionale, legge sulla gendarmeria nazionale,
legge sull'ampliamento della scuola militare
di Modena; e finalmente la legge 8 brumale
sulla coscrizione militare, novità ardita e
non subito apprezzata dalle moltitudini, avvezze
fino allora a vedere nella milizia o lo stromento
di una tirannia straniera o il triste rifugio degli
infingardi e dei mercenarj.
Ma a questo primo ripiglio dell'iniziativa italiana
nell'opera riformatrice, non corrispondeva,
[11]
anzi contrastava acremente l'azione del potere
esecutivo.
Questo a poco a poco s'era venuto restringendo
in mano agli elementi più inetti. Il Melzi
rifiutava ostinatamente di farne parte, per manifesta
sfiducia dei precarj ordinamenti, e continuava
anzi a restare in Ispagna, donde non
si decise ad uscire se non pei replicati inviti
del Primo Console che lo volle a Parigi. A Parigi
stava pure l'Aldini, inviato per trattare
riduzioni di tributi e repressioni di angherie
militari. Priva dei due intelletti maggiori, delle
due esperienze politiche più consumate, il potere
esecutivo lombardo andò a tentoni, finchè
un decreto del plenipotenziario Petiet mutò ad
un tratto la Commissione esecutiva in Comitato
di Governo e lo compose di tre soli fra
gli antichi commissarj, un Ruga, Francesco
Visconti-Ajmi, e Gio. Battista Sommariva, di
Lodi.
Giusto era forse il concetto di rendere meno
numeroso il Consiglio esecutivo, ma ne guastò
affatto i risultati la scelta infelice degli uomini,
dovuta alle peggiori influenze da cui il
Primo Console non seppe quella volta abbastanza
schermirsi.
Francesco Visconti non era per verità uomo
[12]
disonesto, e abbandonò il potere appena vide
che i suoi colleghi ne facevano stromento di
corruzioni. Ma per l'alta carica non aveva titoli
sufficienti d'ingegno; forse dovettero parer
tali al generale Berthier, influentissimo presso
Bonaparte, e che, più costante del suo padrone,
continuava a considerare la contessa Visconti
come l'ideale della bellezza italiana.
Il Ruga, portato egli pure da influenze femminili,
ebbe meno scrupoli del suo collega, e
quando uscì dal governo era dieci volte più
ricco che quando v'entrò.
Ma chi passò ogni misura di scandali nel
salire, nel restare e nello scendere dal potere
fu Gio. Battista Sommariva, che, impersonando
in sè stesso il triumvirato, adunò anche sul
proprio capo tutta la responsabilità di quella
malaugurata amministrazione.
Nato barbiere e fattosi, per sorprese di tempi,
avvocato, s'era buttato nel moto politico, imbrancandosi
naturalmente fra i gruppi più romorosi
e più estremi. Per influenza della Società
popolare era stato nominato segretario generale
del Direttorio cisalpino, ed esercitava
così sugli ordini di governo una specie di sindacato
costante, in nome e per gl'interessi della
democrazia scapigliata.
[13]
Al sopraggiungere degli Austro-Russi, il Sommariva
era corso a Parigi, e lì s'era accostato
a tutti gli elementi equivoci della gran Babilonia,
s'era perfezionato nella conoscenza dell'intrigo,
nel maneggio degli uomini e nei segreti
della corruzione. Così aveva ottenuto la
confidenza e l'appoggio di alcuni fra i più alti
personaggi del tempo, fra gli altri del Talleyrand
e del generale Murat, che non erano
troppo schifiltosi sulle qualità morali dei loro
amici.
Forte di queste aderenze parigine e di quella
furberia che ai mestatori tien luogo sempre
d'ingegno, spadroneggiò presto nel Comitato di
Governo; ostentò apparenze moderate e lasciò le
briglie sul collo a' suoi antichi amici, perchè facessero
rivivere le ire e le mascherate del triennio;
parlava linguaggio pomposo d'indipendenza,
ma ai generali francesi, protettori e complici
suoi, accordava ogni più insana domanda:
governò male insomma per cinica risoluzione,
sapendo che soltanto dal malgoverno possono i
cattivi cittadini trarre impunità e occasioni di
turpi lucri.
Così dal centro partiva la corruzione e intorno
al centro si allargava. Egli aveva segreti legami
d'affari con un banchiere Marietti e con
[14]
un giojelliere ebreo, Formiggini; i quali scontavano
al 40 per 100 i boni rilasciati dallo stesso
Sommariva per somministrazioni e per debiti
dello Stato.
Mentre a Parigi l'Aldini e il Serbelloni trattavano
col Primo Console per ridurre a due milioni
mensili la contribuzione militare della Repubblica,
il Sommariva la stipulava con Petiet e
con Murat in una cifra di 2,700,000 lire. Si moltiplicarono
misure finanziarie repentine e rovinose;
vendite di beni demaniali, lotterie, imposizioni
di guerra, prestiti sulle famiglie più
ricche, senza criterj direttivi, senza guarentigie
di pubblicità; veri agguati notturni, da cui
le popolazioni uscivano impoverite e i governanti
arricchiti. Il ministro della guerra, Pietro
Teulié, avvocato milanese, datosi per inclinazione
alle armi e divenuto uno dei generali
più valenti dell'esercito napoleonico, aveva dovuto
dimettersi per la sua resistenza agli avidi
appaltatori militari, che il capo del governo,
per solidarietà d'affari, turpemente proteggeva.
Si può pensare che conseguenze dovesse produrre
siffatto indirizzo governativo. Tutti ne
abusavano, a seconda dei loro istinti, di prepotenza,
di vaniloquio o di avidità. Brune e
Massena avevano ricominciato le loro estorsioni;
[15]
il generale Miollis faceva rizzare un albero di
libertà e diceva che questo avrebbe fatto rivivere
le virtù, le scienze, le belle lettere e
le arti. Il generale Varrin si faceva sborsare
440 lire al giorno pel suo pranzo; chiedeva
approvvigionamenti anticipati pel doppio della
forza che aveva sotto le armi; lacerava in faccia
al presidente dell'amministrazione provinciale
i documenti che questi allegava a sostegno
delle sue ragioni.
Questa situazione non era ignota al Primo
Console, a cui denunciavano fatti e chiedevano
provvedimenti Paolo Greppi, Ferdinando Marescalchi,
Antonio Aldini. E a quest'ultimo rispondeva
Bonaparte: “So che laggiù le cose
vanno molto male; non si commettono che bestialità
e si ruba a precipizio. Quella è gente
nata in uno stato mediocre, che si è messa in
testa di fare una gran fortuna, profittando del
posto.... Scrivete loro ch'io so bene tutte le loro
bricconate e che creerò una Commissione per
esaminarle.„
Ma intanto le altre cure del vasto Stato assorbivano
il vasto intelletto; e il Sommariva,
corazzato contro ogni severità di parole, continuava
ad accrescere, coi metodi di corruzione,
i complici d'oggi, che sperava potessero diventare
[16]
gli ajuti dell'indomani. Lasciava quindi
sempre maggiore libertà alle passioni, impunità
maggiore ai disordini. I liberatori si atteggiavano
da capo a conquistatori; e Carlo Porta
flagellava di profondi sarcasmi i facili trionfi
cittadini della milizia francese.
Onde Francesco Melzi, che conosceva i suoi
paesi e i suoi tempi, scriveva al Primo Console,
parlando dei Russi: “ils seront bien plus
tôt oubliés que les Français; celui qui opprime
et qui tue brutalement blesse encore moins que
celui qui humilie.„ E infatti erano ricominciate
le vendette personali. L'ajutante generale Hector,
nel traversare piazza Fontana, veniva colpito
da coltello al cuore; altri ufficiali subivano qua
e là dal ferro notturno dei popolani la conseguenza
dei rancori politici o più verosimilmente
la pena di galanti misfatti. Il paese insomma era
travagliato da una profonda malattia morale, e
minacciava ricadere nell'odio per la libertà.
La Consulta di Lione ci trasse da queste abbiezioni
e inaugurò veramente in Lombardia il
periodo della ristorazione morale.
Fu una curiosa pagina di storia italiana e
che vorrebb'essere illustrata più largamente di
quanto non s'è fatto sinora.
[17]
Raccogliere la rappresentanza politica di un
paese in una città straniera; elaborarvi tutto
intero un organismo di Stato per questo paese;
discutervi lo Statuto fondamentale; eleggervi
come capo di questo paese un generale pure
straniero, che era nel tempo stesso il primo
magistrato della Repubblica in cui questa riunione
avveniva; e datare da tutto questo guazzabuglio
la prima vera epoca di libertà e d'indipendenza
pel paese che si lasciava tranquillamente
così regolare, sono fenomeni che bisogna
giudicare solamente coi criterj di quell'età;
straordinarj come i tempi, come gli eventi,
come l'uomo che li dominava e li correggeva.
Tutto andava male in Lombardia e bisognava
quindi tutto rifare. Chi poteva rifar tutto non
era che un uomo, Napoleone Bonaparte. Egli
però non poteva far solo e doveva fare rapidamente.
Non poteva assentarsi dalla Francia,
dove le sue mani movevano tutte le fila d'un
febbrile riordinamento amministrativo; non poteva
restare a Parigi, dove i rappresentanti
italiani si sarebbero trovati in mezzo a troppe
e troppo vivaci influenze. Bisognava che alle
nuove istituzioni presiedessero gli uomini migliori,
e che svanisse tra questi ogni gelosia
personale, ogni dissidio d'idee. Si doveva dare
[18]
al nuovo Stato tutta la forza che deriva da
un'amministrazione autonoma, e impedire nel
tempo stesso che il suo governo, staccato da
ogni potente legame, si trovasse rimpetto a
grosse complicazioni europee come
Nave senza nocchiero in gran tempesta.
Questo complesso di cose difficili e necessarie
fu sciolto in un modo che allora non si poteva
pensar migliore, mediante i Comizj di
Lione. Questa città, a mezza via fra Milano e
Parigi, dove non giungevano nè le influenze
corruttrici del governo cisalpino, nè i propositi
dominatori delle consorterie parigine, parve e
fu veramente adatto luogo per quel convegno
fra gli elementi italiani e gli elementi francesi,
da cui doveva nascere il nuovo Stato repubblicano
dell'alta Italia. Vi giunsero, nel cuore
dell'inverno, frammezzo a intemperie che avevano
reso pericolosi tutti i passaggi delle Alpi,
parecchie centinaja di rappresentanti, nominati
dal governo, dalle città, dalle provincie, dalle
università, dalle camere di commercio, dai tribunali,
dagli ecclesiastici, dalla guardia nazionale;
vi stettero un mese e mezzo, suddividendosi
in comitati, lavorando, discutendo, consigliando,
[19]
studiando miglioramenti di cose ed
elenchi di nomi.
Quel congresso presentò in embrione tutti i
fenomeni buoni e i fenomeni cattivi che costituiscono
il regime parlamentare; ma i fenomeni
buoni vi prevalsero perchè erano alte le correnti
del patriottismo. Vi apparvero ambizioni
puerili che furono dissipate dalla serietà; vi si
tentarono intrighi che si ruppero contro l'onestà.
Il Prina, il Guicciardi, il Mariani, lo Strigelli,
il Marescalchi vi guadagnarono o vi accrebbero
la loro riputazione come oratori e
come uomini di Stato. Lo zelo e la rapidità nel
fare erano gli elementi costitutivi di quel patriotismo
serio che la personalità del generale
Bonaparte aveva saputo trarre dai ruderi delle
parole e modellare a sapiente energia.
Certo, parrebbe incredibile ai nostri giorni,
così saturi di abuso e di scetticismo in fatto di
riunioni e di commissioni e di rappresentanze,
che di 452 cittadini eletti a formar parte della
Consulta di Lione, 450 si siano recati al loro
posto e vi siano rimasti fino all'ultimo giorno.
E sarà sempre un'umiliazione pei nostri meccanismi
parlamentari il ricordare che quell'Assemblea
costituente di 450 deputati, venuti da
diverse provincie, nuovi per la massima parte
[20]
a pubblici affari, non illuminati da giornali politici
o da comitati elettorali, abbia trovato
in sè stessa tanta forza e tanta virtù da deliberare
e votare, con utile effetto e con perfetta
tranquillità, un'intera legislazione politica, in
un tempo minore di quello che oggi basterebbe
appena per discutere un bilancio dei lavori
pubblici.
Il Primo Console arrivò a Lione la sera dell'11
gennajo 1802. La Consulta vi era già radunata
da un mese; egli s'era attardato in Parigi
per dare le ultime spinte ai negoziati intrapresi
coll'Inghilterra e che dovevano condurre alla
posticcia pace d'Amiens. Arrivò come un trionfatore,
come un sovrano. Era allora in tutta la
forza del suo genio, al colmo della sua popolarità.
La campagna d'Italia, il riordinamento
della Francia, la savia pace stipulata a Luneville
avevano circondato il suo nome di un'aureola
che più fulgida potè sembrare di poi, non
mai più serena nè più meritata. Aveva saputo
domare l'anarchia senza elevarsi a tirannide,
stravincere senza abusare della vittoria, ricostituire
in due anni un paese, sfasciato da così
lungo imperversare di guerre e di fazioni. Pochi
uomini ricordava la storia, di cui l'ingegno
avesse in sì breve tempo lasciata sì vasta
[21]
orma. Onde la gratitudine toccava all'entusiasmo,
e chi non amava, ammirava. Sei mesi dopo,
la Francia gli avrebbe dato il Consolato a vita,
e due anni dopo, l'Impero; ma fin d'allora il
potere di Bonaparte non aveva altri limiti che
la sua moderazione. Sventuratamente, questa
doveva durare assai meno che il suo splendore.
La città di Lione aveva in quei giorni aspetto
fantastico; Milano vi si era rovesciata, e i Francesi
guardavano con simpatica meraviglia ad
alcuni fra i nostri concittadini d'illustre nome,
all'astronomo Oriani, al Cagnoli, al Moscati, al
Bossi, pittore, al Longhi, incisore, ad Alessandro
Volta, all'arcivescovo Filippo Visconti, che,
vecchio di 82 anni, aveva superato le Alpi e
non doveva più rivederle[2]. Oltre ad essere
provvisoriamente la capitale lombarda, Lione
pareva quasi divenuta, per una settimana, anche
la capitale della Francia. I prefetti e le
autorità di venti dipartimenti vi si trovavano
raccolti ad aspettare l'arrivo del Primo Console.
Una parte della guardia consolare v'era
[22]
stata inviata da Parigi; la gioventù lionese
aveva costituito per quella occasione un corpo
di cavalleria d'onore dalle ricche armi e dalle
brillanti uniformi. Generali e ministri erano
accorsi da Parigi, da Milano, da Marsiglia; e
più solenne di ogni spettacolo la vista dell'esercito
d'Egitto, reduce in quei giorni dalla
sfortunata epopea; laceri e gloriosi avanzi di
Arcole, di Rivoli e delle Piramidi, arrivati a
Lione in tempo da vedere nel più alto grado
della potenza e dello splendore il generale che
li aveva guidati a vincere alle foci del Nilo
come alle sorgenti del Po.
Il Primo Console era atteso già da più giorni.
La popolazione bivaccava nelle campagne per
timore di perdere l'ora dell'arrivo; la cavalleria
lionese caracollava da quarantotto ore sulla
strada maestra; la città splendidamente illuminata;
gli animi ebbri. Quando la carrozza
comparve, un lungo urlo: viva Bonaparte lo accompagnò
fino al palazzo municipale. Colà scese,
accompagnato da Giuseppina e dal giovinetto,
non ancor principe, Eugenio. Ricevette il dì
dopo i magistrati della città, le autorità civili
e militari dei dipartimenti, lo stato maggiore
dell'esercito d'Egitto, i membri della Consulta,
presentatigli dal Marescalchi. A questi ultimi
[23]
parlava in lingua italiana, seduzione per italiani
grandissima. La sera fu in teatro, ove rappresentossi
la Merope. Poi, la notte appresso,
ad un ballo, a cui Giuseppina e le signore del
suo seguito comparvero abbigliate di sole stoffe
lionesi.
In pochi giorni, col suo meraviglioso istinto
d'affari, e sugli schiarimenti che otteneva dal
Marescalchi, dall'Aldini, dal Melzi, dal Talleyrand,
fu interamente edotto delle cose trattate
e conchiuse, delle difficoltà che restavano ad
appianare. V'era stata lunga e sorda lotta fra
le idee che voleva applicare all'Italia il Talleyrand
e quelle da cui non dipartivasi Francesco
Melzi. Prevalsero le ultime che ottennero
l'aperto suffragio del Primo Console. Il Talleyrand
voleva Stato piccolo, costituzioni vecchie,
principe fiacco; Melzi insisteva per istituzioni
nuove, per ampio Stato governato da principe
illustre. Il ministro cortigiano insinuava che
Giuseppe Bonaparte sarebbe stato un egregio
presidente della nuova Repubblica, e lo schietto
cittadino rimbeccava con fine spirito: “l'existence
des archiducs a toujours suivi, jamais
précédé celle des rois dans les familles souveraines.„
Egli voleva il Primo Console a capo
del suo paese, perchè in lui solo aveva trovato,
[24]
fra la turba degli statisti contemporanei, concetti
politici affini ai suoi e l'autorità necessaria
per farli prevalere. Non voleva uno Stato
satellite che girasse intorno all'orbita del pianeta;
poichè un uomo solo era grande e a tutti
pareva necessario, voleva che quello, e non altri,
assumesse, dopo la responsabilità del creare,
quella del dirigere e del mantenere.
Sicchè volse tutta l'influenza sua e quella
de' suoi amici a far sì che la Consulta acclamasse
il Primo Console a Presidente; e la Consulta,
che già aveva designato nel Melzi il proprio
candidato[3], misurando da quell'alto disinteresse
la forza della sua convinzione, si piegò
unanime a quel desiderio e incaricò un Comitato
speciale di esprimere a Bonaparte la preghiera
dei rappresentanti italiani.
Fu nella solenne adunanza del 26 gennajo che
lo scioglimento politico si annunciò.
La Consulta era completa. Il Primo Console
v'intervenne come a seduta reale, accolto da
grandi applausi, e andò a sedersi nella parte
più elevata della sala, accompagnato dalla
sua famiglia, dai ministri Talleyrand e Chaptal,
[25]
da un gran numero di generali, da venti
prefetti, da quattro consiglieri di Stato. Quando
l'acclamato Presidente si alzò per parlare, nell'ampia
sala non s'udiva un respiro. Si afferravano
le parole, s'indagavano gl'intenti. Bonaparte
parlò in lingua italiana, con pronuncia
netta e vibrata. Il suo discorso, abilmente conciso
e improntato di quella grandiosa semplicità
che distingueva il suo dir pubblico, toccava
delicatamente molte corde e ne trattava altre
con aspra franchezza. Si vedeva ch'egli s'era
ricordato di parlare ad Italiani, ma di parlare
in mezzo a Francesi.
Sulla questione capitale della Presidenza disse
senza ambagi: “non ho trovato fra voi nessuno
che avesse ancora abbastanza diritto sulla
pubblica opinione, che fosse abbastanza superiore
ad ogni spirito di località e che avesse
resi tanto grandi servigi alla patria, da potergli
affidare la carica di Presidente.... mi sono
quindi determinato ad aderire al vostro voto,
e, finchè le stesse circostanze lo vorranno, io
m'incaricherò del pensiero dei vostri affari.„
Sul programma di governo, soggiungeva poi
con sintesi sagace, e profonda: “voi non avete
che leggi particolari ed avete bisogno di leggi
generali; il vostro popolo non ha che costumi
[26]
locali ed è necessario che acquisti costumi nazionali;
voi finalmente non avete armate e le
potenze che potrebbero diventar vostre nemiche
ne hanno di molto forti.... Ma voi avete
tutto ciò che può produrlo; una popolazione
numerosa, campagne fertili, e l'esempio che in
tutte le circostanze vi ha dato il primo popolo
dell'Europa.„
Era difficile che tali parole, pronunciate in
così straordinarie circostanze e da così straordinario
oratore, non commovessero ad alto grado
gli animi dei convenuti. Il discorso del Primo
Console fu interrotto ad ogni periodo da clamorosi
e vivissimi applausi. L'affetto della patria
vibrava in tutti quei cuori. Li avvolgeva
l'atmosfera della grandezza, il sentimento dell'avvenire.
Parlarono il cittadino Mariani, il
cittadino Prina, l'arcivescovo Codronchi. Si lessero
gli articoli della Costituzione. Si aspettava
con ansietà la proclamazione del nome del Vicepresidente
che, in forza dell'art. 49, Titolo VIII,
era di libera ed assoluta scelta del Presidente.
Il Primo Console, con una di quelle mosse efficaci,
di cui possedeva il segreto, levossi, chiamò
a sè il conte Melzi, lo abbracciò e lo collocò
a sedere al suo fianco; poi, presolo per la
mano, lo additò all'Assemblea come quegli in
[27]
cui riponeva piena fiducia e lo proclamò Vicepresidente
della Repubblica Italiana. Il nome dell'uomo
e il nome dello Stato accrebbero gli entusiasmi;
qualche memoria del tempo pretende
perfino che gli applausi al Melzi soverchiassero
quelli dedicati a Bonaparte. Ad ogni modo il
Primo Console poteva essere contento dell'opera
sua. Aveva reso tutti contenti. Non gli doveva
accader più nel corso successivo della sua meravigliosa
carriera.
Francesco Melzi aveva quarantotto anni allorchè
assumeva così alto incarico di governo
frammezzo a così alte difficoltà. Avrebbe potuto
dirsi nella pienezza delle sue facoltà morali
e fisiche, se queste ultime non avessero già
cominciato ad essere offese da frequenti attacchi
di gotta.
Figlio del conte Gaspare e di Teresa d'Eril,
damigella spagnuola del seguito della governatrice
Rosa di Harrach, aveva appena 21 anni,
quando Maria Teresa lo nominò fra i decurioni
municipali, tratta dalla grande riputazione che
in paese s'era già levata di lui per l'ingegno
pronto e l'amabile vivacità. Era stato educato,
come la massima parte dei patrizj d'allora, in
un collegio di gesuiti, a Modena; ed aveva dovuto
[28]
resistere, con sagacia e volontà maggiore
degli anni, alle pressioni ed alle seduzioni
di quei terribili educatori, che, indovinando
le forti qualità del loro allievo, avevano
concepita la speranza di chiuderlo nel loro bruno
sodalizio.
Nella gioventù milanese ottenne presto quella
prevalenza che non isfugge all'ingegno, soprattutto
quando è sorretto dalla ricchezza. Era
l'idolo delle riunioni gaje, l'oracolo delle adunanze
pensose. Cognato di Pietro Verri, che
aveva sposato in ultime nozze sua sorella Vincenza,
era legato per mezzo suo a quel manipolo
di preclari intelletti, che, ormai sul tramonto,
si vedevano con soddisfazione rivivere
in quel giovane forte, serio e gentile. Non era
stato esente da un vizio, pur troppo caratteristico
delle società eleganti, quello del giuoco;
anzi vi si era abbandonato con una forza che ad
alcuni amici pareva minacciosa pel suo avvenire.
La nobiltà della sua indole doveva trionfare
della bassa tentazione. Un giorno si trovava
al verde, e si recò a chiedere duemila
scudi in prestito ad un amico in cui riponeva
grande fiducia. L'amico glieli rifiutò nettamente.
“Sarebbero pochi„ gli rispose “pel conte
Melzi; sono troppi per un giuocatore.„ Il giovane
[29]
fu così tocco della severa risposta che abbandonò
le bische e non giocò più.
Auspicj femminili lo trassero dalla vita brillante
e spensierata dei circoli cittadini, per avviarlo
a più vasti orizzonti. Primeggiava allora
fra le gentildonne milanesi la marchesa Paola
Castiglioni, colta e gentile Egeria di ogni Numa
dell'epoca, la cui riputazione di eleganza, di
bellezza e di spirito, consacrata nei serali convegni,
traversò due generazioni per giungere
ancora intera e vivace fino a quella che immediatamente
ci ha preceduti.
Francesco Melzi, che allora chiamavano il
contino, non era fra gli amici della marchesa il
più trascurato. Anzi fu lui ch'essa volle compagno
in un viaggio che intraprese in Francia;
ed essa gli dischiuse l'ingresso in quelle celebrate
riunioni parigine, dove, sotto la gonfia
dottrina degli enciclopedisti, romoreggiavano i
nuovi e minacciosi ardimenti degli uomini del
terzo Stato. Fra quel meraviglioso turbinío di
stranieri non si smarrì l'ingegno del Melzi,
non ancora trentenne. Vi conobbe il D'Alembert,
il Diderot, l'Helvetius, il Marmontel, il barone
di Holbach, Vittorio Alfieri. Stette con
loro come uomo a cui fosse famigliare qualunque
forma di attività intellettuale. E non parve
[30]
piccino fra quei giganti; tanto che madama di
Stael, nelle sue Considerazioni sulla Rivoluzione
Francese, ebbe a scrivere di lui: “non esserci
stato mai uomo più distinto, neppure in Francia,
pel sapore della conversazione, e nessuno
averlo mai superato nell'arte di conoscere ed
apprezzare tutti quelli che sostenevano una
parte sulla scena politica.„
L'indole tutta italiana del Melzi non si sformò
al contatto dei ribollimenti francesi. Chè anzi
grave materia di esperienza e di studio trasse
egli dallo spettacolo vivo di quella nazione, fra
cui si elaborava tanta mole di novità. E pur
tenendo l'animo aperto alla seduzione per ciò
che v'era in quei concetti di generoso e di
grande, l'acuto senno ne misurava il pericolo e
intravedeva già, dietro il fascino delle parole,
la futura intemperanza delle cose.
Innamoratosi dei viaggi e del largo osservare,
dopo la Francia percorse la Spagna, il Portogallo,
sopratutto l'Inghilterra, studiando ed
annotando costumi, istituzioni, uomini, arti,
paesi. Tornò, come cinquant'anni dopo il conte
di Cavour, ammiratore della costituzione inglese,
e convinto non essere possibile ad una
nazione acquistare ordini e forze di libertà
senza il beneficio principalissimo dell'indipendenza,
[31]
cui egli giudicava fin d'allora doversi
indirizzare il desiderio e lo sforzo di quanti
amavano possedere, come le altre nazioni, una
patria.
Così, nudrito di fatti e di pensieri nuovi, che
lo rendevano, per intelletto e per carattere, singolarmente
idoneo a cose di Stato, Francesco
Melzi aspettava gli eventi.
Quando apparvero, soverchiando d'un tratto
ogni argine di dottrina e di ragione, non si
sgomentò. Resistette alla fiumana demagogica
come doveva resistere più tardi al torrente del
cesarismo. Ai giacobini fu subito in uggia perchè
non si umiliava dinanzi a loro. Lo accusarono,
nel loro stile barocco “di mettere il capo
nel cielo e i piedi nell'inferno per essere nel
centro degli affari[4].„ Non era vero. Nessuno
più del Melzi era schivo di chiedere ed assumere
importanza politica. Più tardi fu anzi
questo un difetto che il paese poteva a buon
diritto rimproverargli. Ma allora come poi, dir
male degli uomini virtuosi era pei viziosi il
modo più sicuro e più spiccio di salire in grazia
alle turbe e far loro dimenticare le proprie
magagne. I malvagi strepitavano, il Melzi taceva;
[32]
era una prova evidente del torto di quest'ultimo
e della ragione dei primi. Così fu imprigionato,
sbandito, richiamato.
Non era però il Melzi tal uomo che dello
sfregio a sè fatto tenesse broncio al paese. Onde,
non appena la prevalenza degli uomini onesti
cominciò a risorgere e seppe essere richiesti i
suoi servigi, non pose tempo in mezzo a prestarli;
e, come addetto ai Comitati di governo,
come inviato diplomatico a Rastadt, come consigliere
di Bonaparte a Mombello, come inviato
a Parigi, come promotore e ordinatore della
Consulta di Lione, sollecito in ogni occasione
degli interessi e della dignità del paese, ben
presto riebbe quella fiducia e quella stima che
i suoi concittadini non gli ritolsero poi per
tutta la vita. Tanto è vero che popolarità durevole
ed unicamente apprezzabile non si acquista
col blandire ogni traviamento di moltitudini,
per istrapparne un facile applauso, ma
coll'uniformare sempre la propria condotta ai
dettami di quella onesta coscienza, la quale allora
solo è fallace quando s'impaurisce o si
fiacca per biasimi non meritati.
Tali erano i precedenti dell'uomo che il 7 febbraio
1802 entrava in Milano, per assumere,
con istituzioni nuove, le redini di uno Stato,
[33]
in cui tutto era sconvolto e tutto era da mutare
e da rinnovare. Le accoglienze, com'era da
aspettarsi, furono assai festose e sincere. Da
un pezzo la Repubblica s'agitava nel vuoto;
indispettita della larva di governo cattivo che
possedeva; ignara se ne avrebbe avuto uno migliore;
incerta fino agli ultimi giorni se dalla
Consulta di Lione le sarebbero giunte fortune
o delusioni.
“Quel contino se la caverà con onore„ aveva
scritto Vittorio Alfieri, appena udita la nomina
di Melzi a Vice-presidente. Ed era, più che il
pensiero, la speranza di tutti; essendo tutti
ansiosi di uscire dal lungo provvisorio e dalla
lunga anarchia. Era inoltre confortato il sentimento
pubblico dall'idea che questa volta l'omaggio
suo non si volgeva ad uno spagnuolo,
nè ad un francese, nè ad un tedesco, nè ad un
russo. Erano dei secoli che un italiano non appariva
più come capo, come guida politica di
una così grossa e bella compagine di popolazioni
italiane! Onde l'istinto nazionale si sentiva
rialzato nella sua dignità e si aprivano gli
animi a speranze maggiori di maggiori compagini.
L'arte e la poesia celebravano a gara l'auspicato
rinnovamento.
[34]
La Costituzione di Lione, firmata da Bonaparte,
da Melzi, da Marescalchi e da Guicciardi[5],
si deponeva nell'Archivio pubblico, dove
tuttora si trova. Andrea Appiani aveva disegnato
una medaglia, il Manfredini ne incideva
un'altra, Ugo Foscolo pubblicava la sua veemente
Orazione a Bonaparte, Vincenzo Monti
cantava le lodi del nuovo magistrato e lo chiamava
il mio Melzi, a cui rivola
Della patria il desío.
E il Melzi, serio e severo, perchè preoccupato
della grave responsabilità, entrava da Porta
Vercellina, in una carrozza preceduta e seguita
da brillante accompagnamento di magistrati,
di militari, di popolo. Il generale Pino era
nella carrozza con lui; il generale Murat era
corso ad incontrarlo a capo dello stato maggiore;
nell'ultimo posto, ed obliato da tutti,
chiudeva umilmente il corteggio — rappresentanza
viva delle ironie della sorte — quel generale
Despinoy, che sei anni prima aveva trattato
i milanesi con tanta impertinenza e che
[35]
aveva fatto arrestare, con brutalità soldatesca,
Francesco Melzi.
Qui comincia il periodo dell'attività politica
e della responsabilità per l'uomo insigne che
s'era fino allora mantenuto nei più facili confini
del consiglio e della censura. E non è piccola
lode sua, non è prova leggiera delle sue
alte qualità di Stato il poter dire che Melzi
uscì con intatta, anzi con cresciuta riputazione,
da questo periodo, che è sempre così pericoloso
e spesso così fatale per le ambizioni politiche.
Non ci è dato poter qui giustificare questa
asserzione. Per essere fedeli alle necessità ed
alle proporzioni del nostro studio, dobbiamo
respingere da tutte le parti argomenti e fatti
che ci si affollano innanzi alla mente; dobbiamo
chiudere gli occhi por non vedere il periodo,
per dimenticare la moltiplicità degli ostacoli
vinti, delle riforme cominciate, delle leggi
votate, dei lavori compiuti; dobbiamo resistere
alla tentazione di uscire dall'atmosfera
dell'uomo per entrare in quella delle cose. Ed
è qui soprattutto che sentiamo l'insufficienza
del metodo che ci siamo imposti: è quì che
dobbiamo chiedere scusa ai lettori se la parola
[36]
sarà impotente a condensare in un capitolo
la materia di un libro e se a questa irta contraddizione
fra lo spazio e l'intento ciascuno di
essi crederà sacrificate quelle speciali rimembranze
e quelle glorie speciali, — militari, legislative,
edilizie, — onde s'è composta fra noi la
ricca e simpatica tradizione dell'amministrazione
italiana.
A questa ha presieduto per più di tre anni
Francesco Melzi, rialzando veramente in ogni
pubblica azienda quel concetto alto e morale
che s'era perduto durante gli ultimi rivolgimenti,
e mettendo le basi a quasi tutte le istituzioni
che i nove anni successivi del Regno
italico avrebbero potuto svolgere e perfezionare.
Il governo di Melzi fu veramente un complesso
di uomini, rispettabili nella vita privata,
capaci nella vita pubblica, pieni di zelo
e di attività salutare. Bonaparte gli aveva dato
fin da Lione due soli collaboratori, lo Spanocchi,
Gran Giudice, magistrato di severa dottrina
e d'incorruttibile probità, e Diego Guicciardi,
Segretario di Stato, amministratore sagace e
ricco di espedienti, che delle persone e delle
cose lombarde aveva conoscenza profonda e
precisa.
Intorno a questo nucleo raccolse presto il
[37]
Melzi gli altri elementi di cui aveva bisogno;
e si ajutò di Carlo Verri e del Villa per gli
affari interni, di Pietro Moscati per l'istruzione
pubblica, di Prina e di Veneri per le finanze,
di Bovara e di Giudici per gli affari del culto;
all'importante dipartimento delle pubbliche costruzioni
venne allora e durò poi lunghi anni
quel conte Paradisi, sotto la cui amministrazione
furono compiute così gigantesche opere
stradali ed idrauliche, ed alla cui scuola si
educarono ai futuri prodigi tanti giovani illustri,
fra cui la nostra generazione non può dimenticare
Elia Lombardini e Pietro Paleocapa.
Soprattutto al concetto morale badava il Melzi,
e faceva convergere a rialzarlo tutti i suoi
discorsi e l'opera sua. “L'uomo libero„ scriveva
al parroco di Magenta “non è che l'uomo
probo.„ E pubblicava, dover sopravvivere a
tutte le divisioni passate quella sola che ponesse
un muro di bronzo fra gli uomini onesti
e quelli che non lo sono.
Gli erano dunque fieramente avversi tutti
quegli elementi equivoci, che nel primo triennio
e dopo la battaglia di Marengo avevano fatto
sulle finanze pubbliche così turpi speculazioni.
Il Sommariva, congedato con severa frase dal
Melzi, ordiva intrighi a Parigi per isbalzarlo.
[38]
Aveva tentato perfino di mettere contro di lui
l'influenza ancora efficace di Giuseppina, facendole
offrire dal suo complice Formiggini
una collana del valore d'un milione. Giuseppina,
onestissima malgrado la sua vanità, respinse
il dono, che sotto altre apparenze poteva
ricordare il famoso episodio fra Maria Antonietta
e il cardinale di Rohan. Ebbe minori
scrupoli il Talleyrand, che ritenne, senza chiederne
la provenienza, un orologio a brillanti
del valore di ottantamila lire.
Questo intrigo poteva essere tanto più pericoloso
in quanto s'ajutava di tutte le ostilità,
segrete o palesi, a cui la politica schiettamente
italiana del Melzi dava pretesto. Giuseppe Bonaparte,
che attribuiva all'opposizione sua di
non essere Presidente della Repubblica Italiana,
ostentava grandi accoglienze al Sommariva, che
aveva sposato un'antica amante di Gian Giacomo
Rousseau e che teneva in sua casa corte bandita
per equivoci commensali, orpellando colle nuove
ricchezze l'antica volgarità. Fra i generali, avvezzi
all'impunità degli abusi, l'irremovibile severità
del Vice-presidente suscitava fieri lamenti.
Se n'era fatto il più romoroso banditore Giuseppe
Lechi, uomo altrettanto immorale quanto valoroso,
non molto dissimile per torbida indole dal
[39]
fratello Galeano, tiranno di Bormio. Il generale
Marmont non era schivo dal prestar mano
a queste corruttele, che venivano ad allacciarsi
intorno al comandante supremo dell'esercito
francese a Milano, Gioachino Murat; cuore onesto,
ma debole, che dal suo grado militare e
dalla sua stretta parentela col Primo Console
traeva un certo disdegno d'essere in qualunque
paese il secondo, e a cui non era difficile persuadere
che gli spettasse esser primo.
Un pettegolezzo letterario, a cui questa coalizione
d'interessi aveva saputo dare le proporzioni
d'una congiura, complicava la situazione
e accresceva gl'imbarazzi del Vice-presidente.
Da Parigi venivano ordini fulminanti,
richieste di processi contro Cicognara, contro
Magenta, contro Teuliè, per alcune poesie d'un
capitano Ceroni, che affettava ostilità giacobine
contro il governo del Primo Console. Il quale
s'avviava già, per insensibile pendio, su quello
sdrucciolo di despotismo violento, in fondo al
quale doveva pochi anni dopo trovare la fine
della sua grandezza. Scriveva al Melzi, ordinandogli
di sfrattare dallo Stato una dama milanese,
la signora Fossati, perchè teneva circolo
serale di elementi non favorevoli al regime
francese. E per queste minutaglie politiche si
[40]
accalorava tanto da scrivere: “la faiblesse du
Gouvernement à Milan passe tout ce qu'il est
possible de concevoir.„
Melzi resistette a queste molteplici bufere
con severa e tranquilla dignità. “Le général
Murat„ scriveva al Primo Console “a couvert
de son nom cette trame odieuse„, e se ne appellava
alla stessa sorella di Bonaparte, Carolina
Murat, donna di maggior senno e di maggiore
energia del marito.
Degli intriganti parigini scriveva col più
grande disdegno e si meravigliava che presso
le alte influenze del Governo avesse “le plus
grand jeu la faction de l'ancien gouvernement
qui est celle des voleurs.„
Circa le violenze poi che Bonaparte imponeva
o consigliava contro avversarj politici,
rispondeva: “je crois fermement qu'il y aurait
de la folie à combattre les folies, les erreurs,
les passions des hommes par la force, car la
force leur donne un caractère extrêmement plus
dangereux par la réaction qu'elle provoque. Je
crois également qu'il est juste et nécessaire de
punir les actes ou faits qui portent un caractère
criminel. Toute ma conduite a été réglée
sur cette distinction.„
Non vi pare di veder qui riassunta con linguaggio
[41]
preciso e liberale, fin dal 1802, quella
famosa teoria del prevenire e del reprimere,
che alcune ingenuità dottrinarie considerano
come un trovato di tempi così recenti?
Il Melzi chiudeva finalmente le sue corrispondenze,
respingendo alteramente qualunque sospetto
intorno alla sua lealtà, ed offrendo, come
un primo ministro odierno, le sue dimissioni.
“Comme il serait aussi injuste qu'absurde d'accuser
ma loyauté, ainsi il serait au-dessous de
moi de descendre à la justifier.... J'avais pu
sacrifier mon existence et mon repos au bonheur
de ma patrie; mais je n'ai ni le courage
ni l'envie de sacrifier mon bonheur à de viles
intrigues.„
Bonaparte, reso ai sentimenti nobili e giusti
da questa fiera dignità dell'amico suo, gli diede
intera soddisfazione sopra ogni argomento. Cacciò
da Parigi il Sommariva e i complici suoi,
scrisse a Murat, biasimando la sua ostilità contro
Melzi e dicendogli: “vivez bien avec lui.„
Al Cicognara, al Magenta, al Teuliè restituì,
dopo poco tempo, libertà ed onori. Non accettò
naturalmente le dimissioni offertegli, dicendogli
anzi: “il est impossible qu'avec la confiance
que je vous accorde, vous éprouviez aucune
tracasserie.„ E, avendogli anche più tardi, sotto
[42]
un altro accesso di stanchezza e di gotta, ridomandate
il Melzi le sue dimissioni, Bonaparte
gli rispondeva con una delle sue frasi sovrane:
“vous êtes engagé dans la lice; il faut désormais
que vous mouriez au milieu des hommes
et des embarras du gouvernement des nations.„
Di questa tempra alta e veramente liberale
del Melzi si potrebbe trovare la traccia in
ognuna delle sue lettere, in ognuna delle sue
disposizioni di governo. Era un ingegno equilibrato
e coerente, che non aveva nessun pregiudizio
di tempi e in parecchie cose preludeva
a progressi futuri.
Quando riordinò l'Università di Bologna,
nominò alla cattedra di lingua e letteratura
greca una colta signora, Clotilde Tambroni. Costituì
vigorosamente il servizio pubblico dell'innesto
del vajuolo, disciplina ancora così discussa
e così timidamente accettata, che Lorenzo
d'Orlando scriveva qualche anno prima
al conte Giberto Borromeo: “Mi rallegro con
V. E. dell'esito felice d'una operazione tanto
pericolosa come è l'innesto del vajuolo.„
Sollecito di cultura pubblica, incoraggiava di
sussidj e di commissioni Ugo Foscolo, Francesco
Soave, Andrea Appiani, Canova. Ordinò
l'Esposizione annuale periodica di Brera; stabilì
[43]
dodici pensioni pei giovani artisti che si
recavano a Roma; destinava fondi dello Stato
a incoraggiare la grandiosa pubblicazione dei
Classici Italiani; sussidiava del proprio una
splendida edizione dei celebri scritti militari
del bolognese Francesco Marchi.
Delle grandi necessità politiche poi aveva un
sentimento alto e sicuro. Patrocinava in ogni
occasione l'ingrandimento territoriale della Repubblica,
la cui mostruosa conformazione, prima
dell'annessione del Veneto, diceva fonte di gravi
danni e pericoli. Agli ordinamenti militari poneva
tutto il suo zelo, e fin dalla prima riunione
del Corpo Legislativo, aveva scritto nel
suo Messaggio, con intonazione affatto napoleonica:
“Poichè le armate d'Europa riappresero
il cammino d'Italia, è pur forza sovvenirvi che
a' suoi soldati apprese l'Italia un giorno le vie
del mondo.„
Dopo tre anni di un'amministrazione governata
con tanta prudenza e tanto affetto, ecco
un nuovo turbine che scende dalle Alpi, l'Impero.
Un giorno, Francesco Melzi è invitato a recarsi
senza indugio a Parigi dal Primo Console
Presidente. La novità della richiesta fa presagire
[44]
gravissimo abboccamento. Parte, lasciando
il governo al Gran Giudice, colla raccomandazione
di consultare negli affari importanti il Moscati
e il Guicciardi. Giunge a Parigi a tarda
notte, è subito condotto alla presenza del Console,
e rimangono quattro ore in segreto colloquio.
Quando ne usciva, la nuova rivoluzione
politica era stabilita, la Repubblica Italiana diventava
il Regno d'Italia, Napoleone I cingeva
la sua corona e nominava Vicerè il suo figlio
adottivo, il colonnello Eugenio Beauharnais.
È la terza fase del periodo italiano che ora
incomincia: fase che ha usurpato, nella tradizione
storica, tutta la gratitudine dovuta all'intero
periodo, soltanto per quella fatale preferenza
che l'uomo accorda sulle felicità oneste
e tranquille alle glorie tragiche ed alle romorose
sventure.
Nulla si mutava in apparenza, tranne i nomi,
gli spettacoli e le uniformi; in realtà, delle
due basi fondamentali su cui fino allora il governo
s'era fondato, la saviezza e l'energia, la
prima cominciava ad affondarsi, e la seconda,
abbandonata dalla sua compagna, assumeva
sempre più uno solo degli aspetti sotto cui suole
presentarsi, quello della violenza.
Ad un uomo, invecchiato negli affari e nelle
[45]
difficoltà politiche, come Francesco Melzi, succedeva
un giovane di 23 anni, inesperto degli
uomini, voglioso di piaceri e di gloria, che, soverchiato
dalla immensa grandezza del genitore,
non si permetteva di discutere il menomo dei
cenni suoi.
Giacchè questa fu veramente la differenza caratteristica
fra la Repubblica e il Regno. Nella
prima, agli ordini impensati, talvolta impetuosi
del Presidente era efficace correttivo la prudente
fermezza del Vice-presidente; nel secondo,
le volontà imperiose e precipitose del
Re erano aggravate dalla leggerezza e dalla
inesperienza del Vicerè. L'equilibrio era rotto
fra l'autorità lontana e la saviezza vicina; questa
spariva, quella cresceva; e gli eccessi napoleonici,
spintisi, per la rottura dei freni, alla
ricerca dell'universale e dell'impossibile, preparavano
sordamente la riscossa dell'odio nelle
popolazioni balestrate da così mobile tirannia.
Napoleone, divenuto imperatore, scese due
volte ancora dalle Alpi a Milano; ma egli pure
aveva subito la sua terza trasformazione. Non
era più il generale Bonaparte, vivace, entusiasta,
colla patria sul labbro e l'amore nel cuore;
non era più il Primo Console, pensoso, gentile,
prudente nel parlare e savio nell'operare; era
[46]
un uomo ingrassato di corpo e irrigidito di
animo, freddo, altiero, preoccupato di cerimonie
e di etichette, insofferente di ogni contraddizione,
duro cogli uomini, ineducato colle signore;
il cui linguaggio era forza, la cui politica
era forza; un uomo che credeva legge
morale il suo capriccio, e giustizia la collera, e
impertinenza la verità, e felicità del mondo la
sua soddisfatta ambizione.
L'antico giacobino era imbarazzato sotto il
manto imperiale. Lo portava talvolta con un
fasto di cattivo gusto, talvolta se ne spogliava
con soldatesca ruvidezza. Metteva la dignità
nell'essere brusco anzichè nell'essere cortese.
Sentenziava sopra ogni materia, e sovente, su
quelle di cui era digiuno, spropositava. Si fece
incoronare con pompe teatrali, con isfoggio di
carrozze dorate, di cavalli bianchi, di mantelli
d'ermellino, di corone, di scettri, di globi d'oro.
Obbligava i parroci a vegliare di notte, nel
rigido inverno, sulle porte delle chiese, per incensarlo
quand'egli passava in carrozza chiusa.
Aveva sulle braccia l'Europa, il blocco continentale,
la prigionia del Papa, e rimproverava
la marchesa Busca, figlia del suo amico Serbelloni,
perchè si era presentata un giorno alla sua
Corte collo stesso abito che portava il dì prima.
[47]
Questo sovrano, tutto a sbalzi e ad effetti,
sterminato di genio e innamorato di forme, dava
ad Eugenio consigli eccellenti in cose di governo,
ma poi, giunto a Parigi, li dimenticava affatto
e gli fulminava ordini e decreti in aperto contrasto
coi consigli di prima. Gli diceva a Milano:
“supremo interesse per voi è di ben
trattare gl'Italiani:„ e da Parigi gli scriveva:
“abbiate per divisa: la Francia innanzi
tutto[6].„ Dall'antica dicitura presidenziale:
“Je vous conseille, je crois nécessaire, je trouve
convenable„ era passato alla formola pura e
semplice del padrone: “je veux, je vous ordonne.„
Prescriveva da Parigi la dislocazione
dei corpi d'esercito e la quantità di vino che
doveva bere la vice-regina incinta. Negli ultimi
anni, il suo despotismo era divenuto veramente
un delirio, ed ogni traccia di genio spariva
dietro il linguaggio brutale che usciva dal suo
pensiero malato. Sopprimeva, con un tratto di
penna, una delle istituzioni fondamentali dello
Stato, il Corpo Legislativo; dava ordine che si
fucilasse Andrea Hofer, violando le promesse
fattegli all'epoca del suo arresto; in lotta
col Papa, scriveva ad Eugenio di fare appiccare
[48]
un librajo che ne pubblicava le encicliche,
di mitragliare alla menoma apparenza
di movimenti cittadini, di fucilare chi distribuisse
coccarde papaline, fossero anche dei cardinali.
Le istruzioni che mandava al principe
Eugenio, per mezzo del maresciallo Duroc, respiravano
una cinica frenesia di potere. “Si
vous demandez a S. M. ses ordres ou son avis
pour changer le plafond de vôtre chambre, vous
devez les attendre; et si, Milan étant en feu,
vous les lui demandez pour l'éteindre, il faudrait
laisser brûler Milan et attendre les ordres...[7]„
Ci volevano questi ebbri furori per paralizzare
i beneficj sorti dagli ordini precedenti e
gli splendori che erompevano a scatti dal genio
disordinato. Dal 1802 al 1814, la vita di
Milano era stata grandiosa. Sentiva per la
prima volta, da Lodovico il Moro in poi, gli
effetti di una vera preminenza politica e civile.
Era la capitale di un grande Stato, che negli ultimi
anni comprendeva ventiquattro dipartimenti
ed una popolazione aggirantesi intorno
a sette milioni. Dopo tanti anni di vita umile,
[49]
isolata, ora compressa, ora fanatica, ma sempre
secondaria, il popolo milanese respirava
in un ambiente largo, importante; vedeva i
grandi personaggi passeggiare per le sue vie;
si sentiva legato, per autorevoli solidarietà, coi
grandi affari d'Europa. Lo spirito pubblico,
vivo e intelligente, si metteva a livello de' nuovi
destini. Elaborava uomini politici e generali
d'esercito, che tenevano con onore il loro posto
in quella meravigliosa generazione europea.
La conversazione sociale e i discorsi popolari
trovavano pascolo educativo in fatti nuovi e
memorabili, che li svezzavano dall'antico pettegolezzo.
Ora si vedeva aprire la via del Sempione,
ora sorgevano le fondamenta dell'Arco
di Piazza d'Armi, ora si metteva mano alla
facciata del Duomo, ora si scavavano navigli
e canali, a favore di Milano, di Pavia, di Mantova,
di Brescia. Oggi era l'incoronazione di
Napoleone, domani il matrimonio del Vicerè.
Un giorno si discorreva dell'annessione al Regno
delle provincie venete o marchigiane, un
altro giorno del famoso decreto di Milano intorno
al blocco continentale; poi le glorie dei
nostri militari infiammavano d'entusiasmo; si
udiva con dolore ed orgoglio che al Teuliè
morto a Colberg l'esercito francese innalzava
[50]
un monumento; s'era altieri che Napoleone
avesse detto ad Aldini: “gl'Italiani ridiventeranno
i primi soldati d'Europa.„ Splendidissime
feste celebravano il ritorno dalle campagne
germaniche dell'eroica divisione di Pino.
E dal fondo della Spagna giungevano altre notizie
del valore italiano, tenuto alto dal Palombini,
dal Severoli, dal sergente Bianchini. Il
principe Eugenio, non felice negli affari, presiedeva
meglio alle feste e sosteneva bravamente
le guerre. La sua Corte era il regno dell'eleganza
e dello splendore; vi teneva uno scettro
indisputato quella donna squisita di bellezza e
di bontà che era la Vice-regina Amalia di Baviera;
e intorno ad essa brillavano di splendori
proprj alcune gentildonne universalmente
ammirate; la marchesa Litta, la contessa Parravicini,
la contessa Arese; apparve più tardi
in quelle sale, e vi portò un profumo di fiera
amabilità quella gentile Teresa Casati-Confalonieri,
predestinata ad essere di un cupo e pietoso
dramma la vittima e l'eroina.
In tutto questo periodo di romori e di magnificenze,
Francesco Melzi tiene silenziosamente
ma efficacemente il posto suo. L'austero vecchio
vede esplicarsi e allargarsi le conseguenze
dell'onesta attività da lui impressa alle cose
[51]
pubbliche, e se ne compiace; vede i pericoli
che preparano allo Stato le passioni sfrenate
o frivole de' suoi condottieri, e si rammarica
di non poterli evitare; vede le popolazioni cementarsi,
malgrado ciò, in una forte ed omogenea
comunanza di vita politica, e ne trae lusinghiere
speranze per un avvenire ch'egli non
è destinato a vedere.
L'imperatore Napoleone non gli scema, anzi
gli accresce dimostrazioni d'amicizia e di stima.
Gli aveva proposto in moglie la sorella Paolina,
vedova del generale Leclerc; onore che
Melzi declinò con grande riconoscenza e con
maggiore prudenza. Quando la Repubblica fu
tramutata in Regno, Napoleone lo nominò Gran
Cancelliere Guardasigilli, coll'onorario di trentasei
mila franchi; poi gli accordò, unico fra
tutti gli Italiani, uno dei grandi feudi della
Corona, col titolo di duca di Lodi e un
appannaggio di duecento mila lire. Quando
venne a Milano nel 1807, andò con grande
ostentazione a visitare il Melzi nel palazzo
Serbelloni, e non permise che l'illustre gottoso
si alzasse dalla sua seggiola per riceverlo.
Le lettere poi che Napoleone scriveva da
ogni angolo dell'Europa all'antico amico suo
[52]
respirano sempre la più grande benevolenza e
la più solida stima. “Je vois avec peine que
vôtre santé n'est pas aussi bonne que vôtre
tête.„ “Depuis que vous gérez les affaires de
l'État son administration s'est considérablement
ameliorée.„ Al principio del 1812, sul punto
d'intraprendere la campagna di Russia, Napoleone
sente il bisogno di avere intorno alla lontana
Italia informazioni sicure, ed ordina a
Melzi di fargli ogni giorno un rapporto sulla situazione
del Regno. Nell'archivio della famiglia
si conserva il protocollo di queste relazioni
giornaliere, che, senza offendere l'autorità diretta
del Vice-re, servivano forse, nel concetto
dell'imperatore, a controllarne l'inesperta politica.
Fu detto che Francesco Melzi fosse stato assai
offeso di vedersi, negli onori supremi del
nuovo Regno, posposto ad un giovinetto senza
titoli come Eugenio Beauharnais, e che il suo
contegno riservato negli ultimi anni movesse
da questa causa.
Tutti i precedenti dell'uomo, i suoi carteggi
col principe Eugenio e la sua condotta all'epoca
della finale catastrofe dimostrano come
questa supposizione non regga. Può darsi che
Melzi sentisse abbastanza alteramente di sè da
[53]
credersi meglio indicato e meglio atto del principe
Beauharnais a dirigere, sotto e contro Napoleone,
gli affari italiani. In ogni caso, era
una opinione che sarebbe stato solo a non avere
fra gli uomini intelligenti al di qua delle Alpi.
Ma nessuna attitudine sua autorizza il sospetto
che questa opinione lo avesse, nè prima nè poi,
reso più indifferente alle cose del Regno o meno
zelante a rimuovere, d'innanzi al principe Eugenio,
le difficoltà del Governo.
La severità del carattere si univa in lui all'artritide
per allontanarlo da quelle pompe e
da quelle pubblicità, onde troppo si compiaceva
la giovanile spensieratezza del figlio di Giuseppina.
Ma dei doveri della sua carica non fu dimentico
mai e, quando vennero i tempi grossi,
non risparmiò ad Eugenio consigli insieme affettuosi
e severi, che, seguiti, avrebbero forse
dato alle cose del Regno un avviamento migliore
e prevenuta la tragedia del 20 aprile 1814.
Intorno a questa, ed alle cause, dirette o indirette,
che la produssero, c'intratterremo con
qualche larghezza nel successivo capitolo.
Francesco Melzi sopravvisse pochi mesi a
quella funesta rivoluzione.
Ridottosi a vita privata, alternava i soggiorni
[54]
fra il palazzo di Milano e l'artistica villa che
s'era fabbricata a Bellagio; riceveva pochi e
sicuri amici; discorreva con essi di questioni politiche
e di riforme educative[8]; si spense, religiosamente
tranquillo, il 16 gennajo 1816. Uomo
di carattere antico e di cultura moderna, che
discende politicamente in retta linea dai grandi
personaggi milanesi dei secoli antecedenti, dal
Simonetta, dal Morene, da Bartolomeo Arese;
austero come il primo, intelligente come il secondo;
come il terzo, bramoso di conciliazioni
fra le asprezze del tempo. Liberale di dottrina,
perchè vissuto in mezzo ad abusi nobiliari ed
a corruttele plebee, tenne sempre alti, innanzi a
sè, interessi di paese, non di fazione; e per
[55]
quelli non esitò ad affrontare nei pubblici uffizj
Maria Teresa come i Giacobini, come il Primo
Console, come l'Imperatore. Governò tempi di
rivoluzione con guarentigie di conservazione; e
dopo di lui bisogna giungere fino al conte di
Cavour per trovare un altro italiano che abbia
retto, con eguale autorità, compagine eguale di
popoli appena riuniti. Ebbe a programma di
rinnovazione la politica nazionale più unitaria
che i tempi avessero consentito; come programma
di conservazione, adottò un sistema
di governo che non usciva dai limiti e non si
perdeva per via; religione senza fanatismo,
libertà senza frasi, disciplina senza pedanteria,
ordine senza violenza, un gran sentimento di
dignità dello Stato, una resistenza tranquilla
ma severa alle tirannie che discendono e a
quelle che salgono.
Nel complesso, può dirsi in Italia il creatore
del partito liberale moderato negli ordini di
governo; poichè, prima di lui, s'era governato
o con riforme di principi assoluti o con assolutismi
di apostoli democratici; e, se oggi vivesse,
avrebbe poco a mutare degli scritti suoi,
poco a modificare de' suoi metodi e de' suoi
principj nelle questioni di Stato.
Quando morì, l'imperatore Francesco, pauroso
[56]
della sua scomparsa come della sua presenza,
vietò che i giornali ne annunciassero
la morte. Era logico il sovrano straniero, desiderando
di cancellare dall'affetto dei contemporanei
e dalla memoria dei posteri il cittadino
che aveva tratto governo riparatore da
rivolgimento d'indipendenza. Ma non sarebbero
logici i concittadini suoi, se a sentimenti affatto
contrarj non dessero affermazione più decisa
e più risoluta.
Milano ha tuttora un debito verso Francesco
Melzi d'Eril, duca di Lodi. E noi ci uniamo al
desiderio già espresso da un valente illustratore
di storia patria[9], augurandoci che la nuova
magistratura cittadina metta fra i cómpiti suoi
quello di trarre dalla prossima riforma edilizia
della città l'occasione di onorare in faccia ai
posteri con durevole forma la memoria dell'unico
milanese che nel corso dei secoli abbia
governato sette milioni d'Italiani con metodi
di libertà.
[57]
GIUSEPPE PRINA
E LA FINE DELL'EPOCA NAPOLEONICA.
[59]
Si seguono ordinariamente due metodi nello
studiare la storia. L'uno (ed era il metodo caro
sopratutto agli antichi) considera l'uomo come
fattore esclusivo dei fenomeni storici, come l'arbitro
dei fatti e dei casi. Con questo metodo,
la storia diventa in certo modo un dramma od
una epopea. Lo svolgimento dei destini storici
dipende dalla passione d'un uomo, da un affetto
di donna, da un'eccentricità. Si può sostenere,
per esempio, con questo metodo, che
la Repubblica Romana è perita perchè Cesare
aveva dei debiti da pagare; che l'Austria esiste
perchè il pugnale di un fanatico, Ravaillac,
ha spento trecent'anni fa il più formidabile dei
suoi avversarj; che la riforma religiosa è divenuta
[60]
potente in Europa perchè un Re libertino
ha veduto due begli occhi in volto ad Anna
Bolena. È un'esagerazione, che spegnerebbe ogni
fede nelle ragioni del progresso e della civiltà.
Poi è venuto Bacone, è venuto G. B. Vico,
è venuto Herder. La storia ha cessato d'essere
un caso ed è diventata una legge; dalle peripezie
del dramma è passata all'angolosa rigidezza
della filosofia. Quello che accade, è accaduto
perchè doveva accadere; lo svolgimento
storico segue teorie prestabilite, malgrado e
contro ogni risoluzione umana; non è più il libero
arbitrio che regge la storia, è la fatalità.
Siamo qui in un'altra esagerazione; e bisogna
reagire, in nome del vero, contro le inflessibilità
sistematiche, così dell'uno come dell'altro
metodo. Cinquant'anni di storia non rappresentano
che un atomo nello svolgimento dell'umanità;
ma rappresentano la fortuna o la sventura
di due intere generazioni, ed è possibilissimo
che il genio o il vizio d'un uomo diano
a questi cinquant'anni un avviamento buono
o fatale. La storia non è nè tutta dramma, nè
tutta legge; nè tutto metodo, nè tutta fatalità;
non devia, per capriccio d'uomini anche potenti,
dalla successione logica de' suoi sviluppi; ma
non è neanche così rigida ne' suoi contorni da
[61]
non lasciare gran posto alle virtù o agli errori,
alla previdenza od alla spensieratezza degli uomini.
Se fosse altrimenti, non varrebbe neanche
la pena di studiarla; bisognerebbe incrociare
le braccia e invocare il destino, a scusa
delle nostre viltà.
Studiare la storia vuol dunque dire: esaminare
quanta parte di responsabilità abbiano i
casi e quanta gli uomini nello svolgimento o
troppo tardo o troppo rapido delle grandi leggi
morali; formarsi un giusto criterio delle situazioni
storiche comparabili o affini; e cercare
alla filosofia e alle scienze sociali il mezzo di
coordinare il moto degli uomini a quello degli
eventi, il segreto di quelle prudenze e di quelle
tolleranze, per cui a questo duplice moto, irresistibilmente
fatale, possano essere risparmiati
gli urti, cagioni quasi sempre di dolori, talvolta
di catastrofi.
Riflessioni di questa natura si presentano
spontanee alla mente, quando si volge lo studio
all'epoca fortunosa che si chiuse colla rivoluzione
del 20 aprile 1814. Giacchè in poche
catastrofi storiche si possono vedere e sceverare
più chiaramente le forze per così dire
eruttive degli avvenimenti; pochi esempj valgono
più di questo a mostrare come la passione
[62]
degli uomini abbia turbato, credendo di
aiutarla, l'elaborazione degli effetti.
Eccederebbe troppo le proporzioni ordinarie
di questi nostri saggi storici il riassumere, anche
nella forma più breve, il processo evolutivo
del primo Regno d'Italia. Creazione capricciosa
e artificiale, come tutte quelle che uscivano
quasi settimanalmente dal genio sfrenato
e politicamente infecondo del primo Napoleone;
un complesso di casi e di uomini, costretti ad
assumere forma plastica e quasi compatta sotto
l'influsso di quella potente volontà, aveva dato
però a questo organismo politico una fisonomia
così forte e così spiccata, da lasciare grandi
speranze di una solidità maggiore e più duratura.
Aveva cominciato con quattro milioni d'abitanti
e quattordici dipartimenti lombardi ed
emiliani; vi si erano aggiunti man mano otto
dipartimenti veneti, tre dipartimenti marchigiani,
un dipartimento tirolese; aveva ormai
raggiunto i sette milioni d'abitanti; era lo Stato
più forte d'Italia, dopo il regno di Napoli. Possedeva
un'amministrazione oculata e sopratutto
energica; s'era fatto, dai ruderi delle legislazioni
anteriori, un codice di leggi chiare, efficaci,
[63]
assai previdenti; contava una plejade
d'uomini distinti in ogni ramo di scienza, di arti,
di pubblica e pratica attività; aveva un esercito
nazionale di 80 mila uomini, condotto da
brillanti generali, al cui valore e alla cui disciplina
Napoleone, giudice non indulgente di
questioni italiane, aveva reso più volte sincero
omaggio[10]; vedeva sorgere od ampliarsi, per
avvedute iniziative di governo, istituzioni pubbliche
di alto e progressivo indirizzo, il Monte
Napoleone, le Università di Pavia e di Bologna,
le Accademie di Belle Arti, il Conservatorio di
musica, il Collegio reale delle fanciulle. I lavori
pubblici, così edilizj, come stradali ed
idraulici, ebbero allora un impulso, per lo innanzi
non ricordato mai; dalla strada del Sempione
ai canali navigabili del Mincio e del Po,
dalla facciata del Duomo all'arsenale di Venezia,
dal parco di Monza alla villa di Stra, tutto
il Regno era invaso da una febbre di costruzioni,
condotte con larghi criterj e con isplendida
munificenza. La politica finanziaria del
governo era fiscale, ma non taccagna. Si faceva
pagare, ma si spendeva.
[64]
A questo bagliore di prosperità materiale
faceva duro contrasto la mancanza di libertà
politica. L'arbitrio governativo era enorme;
la polizia onnipotente; la noncuranza di ogni
garanzia legale di ordine politico trasudava,
per così dire, da tutti i pori dell'Amministrazione
suprema. Un dì era Melchiorre Gioja che
si sfrattava dallo Stato per avere scritto un
opuscolo timidamente disapprovatore dei ministri
in carica; un'altra volta era un giornalista,
il Lattanzi, che si chiudeva — orribile a dirsi — in
uno spedale di pazzi, per aver osato rivelare
un segreto di governo che sarebbe stato
pubblico otto giorni dopo[11]; una sentenza politica
d'inaudita implacabilità colpiva il comune
di Crespino e lo poneva per un anno fuori della
legge, a discrezione di un brigadiere di gendarmeria,
per aver accolto con applausi, durante
la guerra, un drappello di nemici giunto
ad impadronirsene.
Che più? il Corpo legislativo, stabilito dal
terzo Statuto costituzionale del Regno, avendo
voluto discutere un progetto di legge sul Registro,
mandato da Parigi, e domandare qualche
[65]
modificazione alla tariffa, l'imperatore Napoleone
prescrisse al Vicerè che riproponesse
tal quale il progetto al Corpo legislativo e lo
facesse votare senza ulteriore disamina. E malgrado
che dalla servilità di quell'assemblea
avesse ottenuto quanto voleva, allorchè gli fu
presentato il successivo bilancio, in cui era naturalmente
impostata la cifra delle spese pel
Corpo legislativo, si risparmiò anche la fatica
di un decreto di soppressione; si limitò a cancellare,
con un tratto di penna, la cifra assegnata
a quel capitolo, e del Corpo Legislativo
in Italia non si parlò più. Vi sostituì, due anni
dopo, un corpo più ossequioso, di funzioni consulenti
e d'indole non elettiva, il Senato.
Di questo miscuglio di beni e di mali aveva
la responsabilità ufficiale un giovane di animo
generoso e di molta inesperienza politica, Eugenio
Beauharnais.
Assunto a Vicerè d'Italia in un'epoca, in cui
pareva che la incredibile grandezza della fortuna
napoleonica dovesse vincere ogni legge
di tempo, il principe Eugenio s'inchinò coll'affetto
d'un figlio e colla devozione d'un discepolo
a quella grandezza, e pose ogni zelo nel
secondarne gl'intenti, le volontà, il delirio.
Persuaso che in quella intelligente tirannia
[66]
stesse il segreto del governo delle nazioni, ubbidì
come Napoleone voleva essere ubbidito,
disapprovando talvolta in cuor suo la violenza
di quei comandi, cercando spesso addolcirne la
pratica esecuzione, assumendone sempre, con
molto disinteresse, la diretta responsabilità.
Esposto alle facili seduzioni della vita in quegli
anni in cui l'austerità non invoglia, ebbe
un primo periodo in cui teneva volentieri per
sè le soddisfazioni del governo, ne lasciava i
pesi e gli affari al suo segretario Méjean. Offese
colle prime molte suscettività, come il
segretario offendeva dal canto suo molti interessi.
Verso gli ultimi anni del regno, divenuto
più serio e più pensoso, reagì nobilmente contro
quelle prime spensieratezze giovanili, gettandosi
nelle cose militari, dove mostrò talenti
distinti e raccolse plauso ed onori. Ma neanche
lì risparmiò raccolta di avversarj, scoppio di
rancori, addensati da rivalità di campo o da
misure di disciplina. Nel complesso, non era
odiato, ma era impopolare; impersonava diffidenze,
pericoli, antipatie che avevano cagioni
varie, non tutte e non le più gravi imputabili
a lui; nè bastava a rompere questa corrente
la dolce influenza della Vice-regina, Amalia di
Baviera, a cui le tradizioni dell'epoca attribuiscono
[67]
concordi lo scettro della gentilezza e
della virtù.
Fra queste gare e queste influenze si veniva
peggiorando lo spirito pubblico, a cui era venuta
meno la saggia impulsione di Francesco
Melzi. Infatti, il Gran Cancelliere, ridotto dal
nuovo regime a funzioni di parata piuttosto che
a direzione d'affari, perdeva sempre più l'occasione
di esercitare sui suoi concittadini quell'influenza
salutare che per tanto tempo la sua
esperienza e il suo carattere gli avevano mantenuto.
Il personale francese del gabinetto di
Eugenio era geloso di lui. Più ancora del conte
Méjean lo astiava un favorito del principe, Antonio
Darnay, nominato, in uggia alla pubblica
stima, Direttore generale delle Poste, e che
non si peritava di abusare dell'ufficio suo per
disuggellare le lettere e sorprendere i segreti
dei cittadini.
Melzi, troppo altiero per scendere ad avversarj
così minori di lui, si limitava ad offrire
al Vicerè i suoi consigli, sempre assennati, ma
non sempre accolti con quella serietà di propositi
con cui erano dati. Egli vedeva le condizioni
del Regno farsi sempre più gravi e ne
avvertiva il pericolo. Fin dal 1811, più di 250
aggressioni a mano armata sulle pubbliche vie,
[68]
più di cento invasioni nelle case private, con assassinj
e ferimenti, dimostravano a che debole
filo tenesse la pubblica sicurezza, il sintomo
ordinario da cui si può giudicare il pregio di
un governo.
Quando comincia la campagna di Russia, e
il principe Eugenio deve partire per l'esercito,
conducendo seco il fedele Méjean, le cure dello
Stato ricadono forzatamente sulle spalle del
Duca di Lodi, la cui corrispondenza col Vicerè
e coll'Imperatore diventa più minuta e più frequente.
E, quando giungono le prime notizie
dell'immane disastro, che piomba nel lutto
tante migliaja di famiglie italiane, Melzi non
esita ad informare Eugenio della molta concitazione
di animi che si manifesta a Milano e
dell'avversione che comincia a destare una politica
così spensieratamente ed ostinatamente
guerriera.
In cosiffatte circostanze, le preoccupazioni
del Vicerè si rivolgevano alla Corona di Ferro,
e scriveva a Melzi (il 7 novembre 1813) che
“se si dovrà evacuare il territorio e ritirarsi
a Torino, incarichi Pino di recarsi a Monza e
trasportare in salvo la Corona ferrea.„ Poi,
da Verona (il 27 novembre) risponde agli avvisi
di Melzi una lettera piena di amarezza,
[69]
quantunque non priva di alti sentimenti. “Sono
abbastanza sicuro del mio carattere per garantire
che quelli che non avranno ferito che me
non avranno motivo d'accorgersi che io mi sovvenga
dei loro torti.... Io meritavo meglio di
quello che ho ricevuto.... mi rimarrà, ne son
certo, la stima degli uomini che, come voi,
hanno potuto e voluto valutare le mie intenzioni
e giudicare le mie azioni. L'opinione di
questi mi basta[12].„
Ma il vecchio uomo di Stato non s'illudeva
più da assai tempo intorno alla crisi del sistema
napoleonico. E invano l'imperatore gli
scriveva da Parigi il 18 novembre (1813): “J'ai
ici 800,000 hommes en mouvement et, quelque
chose qui arrive, les Autrichiens ne resteront
point maîtres de l'Italie[13].„ Melzi accettava
con rispettoso silenzio queste ultime confidenze
del genio morente, ma non si lasciava avvolgere
in quelle deliranti speranze.
Sicchè il 1.º febbrajo 1814, il principe Eugenio,
che fronteggiava sull'Adige le schiere nemiche,
riceveva dal Gran Cancelliere una lettera
grave, che conteneva gravi consigli. Lo
[70]
scongiurava a differire il richiamo dei figli
unici nella nuova coscrizione militare “pour
calmer la douleur des nombreuses familles qui
y sont interessés.„ Gli pareva che importasse
“dans l'heure qu'il est„ di allontanare “tout
sujet de desagrément autant qu'il est possible,
et de ne pas laisser à l'ennemi l'occasion de se
concilier l'affection du peuple, en exécutant lui
quelques jours après ce que nous aurions pu
executer quelques jours avant[14].„ Soggiungeva
il Melzi: “l'expérience des mois passés nous
a prouvé que sur dix hommes qu'on appelle, il
y en a six ou huit qui deviennent réfractaires
et grossissent la masse des assassins„; tanta
era già divenuta la ripugnanza del popolo al
servigio militare e tanta già l'impotenza amministrativa
a renderlo obbligatorio! Nè alle
sole questioni militari si limitavano i suoi consigli,
ma sentendo già profondo anche il malcontento
finanziario, gli suggeriva di condonare
parecchie quote non soddisfatte di un prestito
forzato che alcuni mesi prima, dal suo
quartier generale di Caldiero, il Vicerè aveva
decretato, e che il Melzi affermava “malissimo
basato fin dal principio.„ Fu inutile. Stimolato
[71]
dalle pressioni dell'Imperatore, Eugenio
metteva la sua forza nell'obbedirgli, nel racimolare
ad ogni costo, per le ultime sue disperate
campagne, armi, denari, soldati.
Gli è in queste circostanze che avviene e si
annuncia lo scroscio del sistema napoleonico.
Desiderato da molti, previsto da pochi, questo
scroscio è cagione per tutti di una incertezza
che s'avvicina allo sgomento. S'era così avvezzi
a girare intorno a quel sole! Il suo sparire dovette
fare su quelle generazioni l'effetto che cagiona
una caduta nel vuoto. Eppure l'Europa
s'avanzava tutta in armi, accintasi a debellare
un uomo; e le nazioni allibite non sapevano a
chi confidarsi, tra quella fiumana di principi
che, traendosi dietro un milione di soldati, parlavano
un linguaggio novo di pace, di nazionalità,
e quel colosso che si sprofondava in silenzio,
guizzando lampi di gloria, tra le bufere
scatenate dall'irrequieto suo genio.
Fu verso la metà d'aprile che giunsero a
Milano e in Lombardia le prime notizie dei
risultati finali della campagna del 1814 e
della capitolazione di Parigi. E sotto l'impulso
di quella gran commozione cominciò subito
a svolgersi un dramma politico, che doveva
[72]
finire, dopo tre giorni, in una così turpe
tragedia.
Milano era rimasta, per la condizione delle
cose, quasi priva di quelle forze complessive di
governo che, nei momenti supremi, sono la guarentigia
dell'ordine pubblico. I ministri erano
uomini fiacchi, avvezzi alla continua e costante
direzione che veniva da Parigi, incapaci di assumere
responsabilità e iniziative pari alle
nuove difficoltà. Le forze militari v'erano scarsissime
e delle meno efficaci. Tutto l'esercito
valido e validamente organizzato era stato naturalmente
chiamato al campo sotto gli ordini del
Vicerè. Al campo era il ministro della guerra,
generale Fontanelli; e in Milano, oltre qualche
drappello di dragoni e di veliti, erano rimasti
i convalescenti, i picchetti di guardia e
una quarantina di granatieri; più numerosa di
tutti la Guardia Civica, forza equivoca ed oscillante
nei giorni d'interno commovimento.
Il Vicerè poi, costretto dalle mosse combinate
degli Austriaci e di Murat, s'era ritirato
lentamente dall'Isonzo all'Adige, dall'Adige al
Mincio, e, ridottosi in Mantova, aveva, al primo
annuncio della catastrofe di Parigi, conchiuso
col maresciallo Bellegarde l'armistizio di Schiarino-Rizzino,
che fu sottoscritto il 16 d'aprile.
[73]
Di questa Convenzione militare Eugenio aveva
comunicato le basi fondamentali al Gran Cancelliere
fin dal dì prima. Gli aveva scritto che
ciascun esercito avrebbe mantenute le proprie
posizioni, e che due deputati avrebbero dovuto
portare ai Sovrani Alleati l'espressione dei desiderj
di indipendenza e di buon governo. Gli
suggeriva d'incaricare Prina, Fontanelli o Testi
di siffatta missione, e raccomandava ad ogni
modo che si scegliessero fra rappresentanti appartenenti
alle due sponde del Po. Si offriva,
se i due deputati fossero passati per Mantova,
di dar loro commendatizie per l'imperatore
Francesco.
Ma già fin dall'11 aprile i dispacci di Melzi rivelavano
maggiori preoccupazioni e proponevano
risoluzioni più radicali. Egli affermava necessario
di convocare i Collegi Elettorali, far loro
proclamare l'indipendenza del Regno, che, ratificata
poi dal Senato, sarebbe divenuta una
base forte e legale di riassetto politico anche
in faccia alle potenze coalizzate[15].
Questa iniziativa, afferrata allora con vigore
pari alla previdenza, avrebbe probabilmente
evitata la crisi milanese e reso possibile il regno
[74]
indipendente d'Eugenio. Differita, fu, — come
sempre avviene — impugnata come arma
efficace dagli avversarj, e al 20 aprile la petizione
pubblica per la riunione dei Collegi Elettorali
divenne il pretesto della rivoluzione. Il
principe Eugenio portava forse all'eccesso un
sentimento generoso, quello della lealtà. Perciò
non seppe mai prestarsi alle sollecitudini, atte,
nel pensiero di Melzi, a rendergli negli ultimi
giorni quella popolarità che la sua costante obbedienza
all'Imperatore gli aveva fatto perdere,
e che era pure così necessaria in quell'ora
per le nuove combinazioni politiche. Ed era nel
medesimo intento che Melzi aveva invano insistito
perchè la Vice-regina, prossima al parto,
rimanesse a Milano, invece di recarsi a Mantova.
La sua presenza nella città, dov'era a
tutti simpatica, era certamente una forza di
governo, che il Gran Cancelliere, così privo di
altre, considerava assai efficace. La nascita eventuale
d'un principino, che sarebbe stato milanese
fin dal primo giorno, avrebbe potuto disegnare
il grato principio d'una soluzione avvenire; e
ad ogni modo pareva al Melzi che, rimanendo
la principessa Amalia in Milano, un gran freno
ne avrebbero sentiti i propositi di violenza che
già cominciavano a buccinarsi.
[75]
Ma a questi prudenti ed austeri consigli nessuno
badava più. L'Imperatore avrebbe voluto
che la Vice-regina andasse a Parigi per isgravarsi;
il maresciallo Bellegarde le suggeriva
Monza; Eugenio naturalmente la desiderava
presso di sè, ed ella partì da Milano alla fine
di marzo. Melzi non potè che esprimere schiettamente
al Vicerè la dolorosa impressione che
quella partenza aveva lasciato nella società milanese.
Nondimeno il duca di Lodi, vero uomo di Stato
se mai ne fu, non rinunciava, per le debolezze
o per le esitazioni di Eugenio, a quella che gli
pareva la soluzione politica più favorevole agli
interessi della sua patria. Teneva fiso lo sguardo
alla monarchia nazionale sotto la famiglia Beauharnais,
come all'unico modo di salvare un po'
d'indipendenza e di libertà, frammezzo alla tempesta
di cui tutti gli Stati d'Europa erano più
o meno minacciati. Voleva quindi che, subito
dopo firmato l'armistizio, Eugenio venisse a Milano.
Sentiva crescere l'onda intorno a sè, e
gli pareva d'essere solo a vederla, impotente,
solo, a respingerla. “J'ai dû me convaincre
(gli rispondeva il 17) que ces têtes sont dans
une confusion inconcevable et tout-à-fait incapables
de se mettre au niveau des circonstances;
[76]
ceux-même qui ont voulu aider ont contribué
plutôt à gâter les affaires[16].„ Nè gli
risparmiava, con franca parola, gli ultimi ammonimenti.
“V. A. va devenir Italien, et Elle
doit l'être uniquement, c'est la seule manière de
réussir ici. En bon et fidèle serviteur je ne lui
cache pas qu'en gardant ces Français autour
d'Elle, Elle partagerait, sans la mériter, la haine
qu'on leur porte[17].„
Ma Cassandra era, come al solito, inascoltata,
e l'ora della violenza giungeva. Abbandonato,
o quasi, dal Vicerè, poco sorretto da ministri
impreparati agli eventi, insidiato da rivalità
occulte e da una polizia già scossa e pusillanime,
il duca di Lodi si trovò soverchiato dall'audacia
dei partiti politici, che dalla situazione
della capitale, in momenti di un così
grande sfascio d'autorità, traevano naturalmente
un'influenza maggiore e più appassionata.
Per audacia e risolutezza d'intenti prevaleva
il partito austriaco puro, di cui erano a un
tempo gli stromenti e gl'inspiratori principali
il conte Ghislieri, bolognese, e un conte Gambarana,
pavese. Questi non avevano scrupoli;
[77]
erano in corrispondenza diretta col principe di
Metternich e col quartier generale austriaco;
cospiratori innamorati di assolutismo, accettavano
per ora la parte di delatori e di organizzatori
d'una rivolta, la cui fine sanguinosa è
lecito credere non fosse lontana dalle loro supposizioni.
Nel paese appartenevano a questo partito pochi
signori tenaci di vecchio e nuovo legittimismo;
di cui i più capaci e più noti erano il
conte Alfonso Castiglioni e il conte Giacomo
Mellerio.
Un'altra e più numerosa frazione dell'aristocrazia
milanese si lasciava pure adescare da
simpatie austriache, ma non scendeva a propositi
di tumulti e di violenza. Erano uomini
quieti, d'ordine, di affari, il vero partito conservatore
religioso del tempo; aveva sopratutto
nel Senato i suoi principali rappresentanti, il
conte Diego Guicciardi e il conte Carlo Verri.
Contro questi stavano i così detti Italici, nobili
e borghesi che s'erano, per varie cagioni,
non tutte politiche, inaspriti col Vicerè, e che
speravano trovare, nello sconvolgimento europeo,
una forma di governo che rispettasse l'indipendenza
del regno d'Italia, mutandone il
capo. Non erano però d'accordo sulla sostituzione,
[78]
com'erano d'accordo sulla negazione. Alcuni
avrebbero volontieri veduto succedere all'odiato
Beauharnais un altro personaggio franco-italiano,
Gioachino Murat; altri fantasticava un
re nazionale nel generale Domenico Pino, a cui
la vanità naturale e l'esempio dei marescialli
francesi non lasciava forse parere affatto assurda
la speranza di una corona. Le frazioni
politiche del partito accarezzavano soluzioni diverse;
l'una accettava un principe austriaco,
con separata costituzione pel Regno; l'altra
aveva posto gli occhi sopra un principe inglese,
il duca di Chiarenza, il secondo dei dodici figli
di Giorgio III, e sperava con ciò di attirarsi
la protezione e le simpatie di lord Castelreagh,
l'onnipotente diplomatico della coalizione
europea. Nè mancavano, come vedremo
più tardi, altri progetti più serj, ma piuttosto
individuali che di partito.
I personaggi più attivi fra questi gruppi erano
senza dubbio il conte Federico Confalonieri e
l'avv. Traversi; ma l'uno, aristocratico altiero
e liberale, carattere rigido e forte, uomo d'istinti
piuttosto che di combinazioni, camminava per
la sua via, mosso da una vivace ambizione personale
che non si disgiungeva da un alto sentimento
di patria, accettando alleanze piuttosto
[79]
che ricercandole; l'altro, vecchio ed astuto
mestatore d'affari, volgare d'animo come d'ingegno,
stretto in solidarietà di intrighi politici
con una moglie avida di ricchezze e di onori,
commensale e nel tempo stesso insidiatore del
ministro Prina, non aveva ripugnanze nè di
mezzi, nè di scopi, nè di alleati; e pare che su
lui principalmente ricada la responsabilità di
cupi accordi col conte Gambarana, mediante i
quali, Austriaci ed Italici lasciarono poi tacita
libertà di tumulto all'orda sanguinaria del 20
aprile.
Un quarto o quinto partito caldeggiava invece
la nomina del principe Beauharnais, sottraendolo
come sovrano indipendente ad ogni
vincolo verso la Francia o verso la famiglia
del vinto Imperatore. Era il partito di gran
lunga men numeroso e pochissime aderenze noverava
tra i nobili milanesi. Aveva l'esercito
per sè, ma l'esercito era lontano, e subiva, quantunque
valoroso, l'umiliazione della sconfitta.
Aveva per sè i ministri, ma erano uomini impopolari,
e perchè di un passato troppo ligio
all'Imperatore e sopra tutto, bisogna dirlo, perchè
estranei a Milano, essendo modenesi il Luosi,
il Vaccari, il Veneri, bolognesi l'Aldini e il
Marescalchi, novarese il Prina. L'autorità maggiore
[80]
a questo partito veniva dal Cancelliere
Guardasigilli, il duca Melzi d'Eril, uomo che
naturalmente a tutti sovrastava per la grandezza
della situazione personale, per la integrità
del carattere, per la lunga e profonda
esperienza delle cose di Stato. Sgraziatamente,
l'abbiamo già detto, l'influenza del duca di Lodi
sopra i suoi concittadini era sminuita; lo vedevano
poco e lo avevano facilmente dimenticato;
ai giovani pareva troppo vecchio, ed ignoravano
che nelle questioni politiche l'età giovanile
è piuttosto feconda di impeti che di
energie.
Infatti fu da questo vecchio acciaccoso e solitario
che partì la prima iniziativa virile, in
tanta disgregazione di propositi; una iniziativa,
che, se fosse stata secondata dalla fiducia pubblica
come era stata concepita dal privato intelletto,
avrebbe probabilmente dato alle sorti
del regno italico quella forma d'indipendenza
che invano si fantasticava per altre vie.
La sera del 16 aprile, un avviso di convocazione
chiama il Senato ad una seduta straordinaria
pel giorno dopo. Si buccina per la città
che trattasi di un messaggio del duca di Lodi
per invitare il principe Eugenio ad assumere il
[81]
titolo di Re d'Italia. La notizia commove gli
animi e dà la stura all'agitazione dei partiti.
Gli ostili si rinfocolano nelle ire, contestano la
competenza del Senato, deplorano, colla consueta
ipocrisia dei partigiani, la sorpresa di
siffatta convocazione. Quasichè la sorpresa maggiore
non venisse dalla capitolazione di Parigi
e quasichè in politica la peggiore delle sorprese
non fosse quella di lasciarsi sorprendere!
I senatori, di ogni partito, accorrono numerosi,
e il presidente, conte Veneri, raccomandando
il segreto sugli oggetti posti all'ordine
del giorno, dà comunicazione al Senato del
messaggio di Melzi.
Questi proponeva, dopo gli opportuni preamboli,
che il Senato inviasse all'imperatore d'Austria
una deputazione, coll'incarico di richiedere
la sua mediazione presso le potenze alleate,
affinchè: 1.º cessassero tutte le ostilità nel territorio
italiano; 2.º fosse consacrata e riconosciuta
l'indipendenza del Regno; 3.º fosse riconosciuto
Re il principe Eugenio, le cui virtù
e la cui onorata condotta avevano meritato l'amore
del popolo e la stima dell'Europa.
L'iniziativa di Melzi era piena di avvedutezza
politica. Sapeva egli, per le sue vaste relazioni
personali, che l'imperatore Alessandro
[82]
di Russia era favorevolissimo al Beauharnais[18].
Rivolgendosi direttamente all'imperatore d'Austria,
metteva questi nella necessità di consultare
il suo imperiale alleato; il cui sicuro consenso
rendeva poi difficile all'Austria di accampare
per proprio conto pretese territoriali.
D'altronde, una deputazione consimile stava per
partire, in nome dell'esercito, secondo uno dei
patti dell'armistizio conchiuso il giorno 16 col
maresciallo Bellegarde. Questa doppia dimostrazione,
che avrebbe additata una completa
concordia degli elementi civili e militari del
Regno in favore del principe Eugenio, non poteva
[83]
non fare una grande impressione sui governi
alleati, compromessi dalle loro magniloquenti
dichiarazioni di rispetto per la nazionalità
e l'indipendenza degli Stati. E finalmente,
approfittando subito della simpatia che aveva
destato la condotta leale ed onesta del Vicerè,
in confronto di quella subdola ed ambiziosa del
re di Napoli, si rendeva più facile che, data la
disposizione delle potenze a conservare in Italia
almeno una delle dinastie uscenti dalla famiglia
napoleonica, la scelta cadesse piuttosto
su quella di Beauharnais che su quella di Murat.
In un paese che avesse serbato, insieme col
desiderio vago dell'indipendenza, un concetto
serio e giusto delle situazioni politiche, il programma
di Melzi avrebbe dovuto trovare un
incoraggiamento larghissimo nel paese ed una
votazione unanime fra i suoi rappresentanti. Ma
non fu così. Svegliatosi per le questioni di materiale
interesse, l'intelletto del paese s'era attutito
circa le questioni di Stato. Il dispotismo
napoleonico aveva irrigidito ogni elasticità di
pensiero pubblico. Gli uomini politici erano
spariti; non erano rimasti che degli amministratori
e dei legulej.
L'opposizione scattò subito, dopo finita la
lettura del messaggio di Melzi; e ne fu l'oratore
[84]
più autorevole e più accanito il conte Diego
Guicciardi.
Quest'uomo, già s'è detto, aveva riputazione
di essere nel Senato il capo del partito austriaco;
n'era effettivamente al di fuori uno dei capi.
Però non bisogna credere che allora questa denominazione
avesse il significato odioso e antinazionale
che ebbe più tardi. È una delle abitudini
che rendono più confusa la storia e più
difficile l'indagine critica quella di attribuire
parole di un'epoca a fatti di un'altra. Si creano
delle storpiature morali, non dissimili da quelle
di cui si renderebbe colpevole un artista che
dipingesse Cleopatra col guardinfante o Carlo
Magno colla parrucca di Luigi XIV.
A settant'anni di distanza, poche pagine possono
essere utilmente impiegate a delineare la
fisonomia di un uomo che fu tra i più operosi
e i più influenti del tempo suo.
Ambizioso quanto attivo e sagace, fertile
nelle difficoltà politiche di espedienti e di transazioni,
ricco d'ingegno più che di cultura, di
una esperienza d'affari da pochissimi superata
in quei giorni, il Guicciardi s'era mescolato di
buon'ora ai pubblici negozi, e sotto tutti i regimi
aveva tenuto un posto importante.
Nato a Ponte, in Valtellina, era stato fino
[85]
dai primi anni spettatore della sordidissima
dominazione che i Grigioni esercitavano sul
suo paese. Ne divenne tra i più caldi a volerne
scuotere il giogo, e concepì il pensiero di allacciare
con solidi nodi alle provincie italiane
della sottoposta valle del Po, una provincia rimasta
fino allora pressochè digiuna di tradizioni
italiane, sebbene teatro di lunghe ed
acerbe lotte, combattute, pel dominio d'Italia,
da Svizzeri, da Francesi, da Spagnuoli, da Tedeschi.
Quel pensiero lo seguì per tutta la vita
e poteva certo bastare, in tempi così agitati,
ad occupare tutte le facoltà di una mente attivissima.
Le rivolture cisalpine del 1796 fornirono ai
patrioti valtellinesi la cercata occasione di sottrarsi
al vassallaggio d'oltr'Alpi; e fu principalmente
per le influenze del Guicciardi che
il generale Bonaparte aderì allora ad emancipare
la Valtellina, Chiavenna e Bormio, dichiarando
quei territori irrevocabilmente uniti
alla Repubblica Cisalpina.
D'allora potè datare il Guicciardi l'ingresso
nella vita politica più larga e più attiva. Piacque
dapprima a Bonaparte, gran nemico degli ideologhi,
che ne fece un ministro dell'interno, per
controbilanciare il vuoto frasario demagogico
[86]
degli amministratori cisalpini. Ai Comizi di
Lione, il Guicciardi fa, dopo il Melzi, nominato
direttamente dal Primo Console come Segretario
di Stato della nuova Repubblica Italiana; onore
diviso unicamente con quell'altro eminente magistrato
che fu il Gran Giudice, Spanocchi.
Nè fra così alte vicende obliava il Guicciardi
gl'interessi della sua provincia nativa, a cui
seppe mantenere, contro ogni sforzo di emule
diplomazie, l'irrevocabilità dell'annessione italiana.
Questo affetto di montanaro ostinato
spiccava anzi nel Guicciardi così evidente, che
partecipandogli l'alto grado a lui conferito,
Bonaparte credeva necessario di scrivergli:
“vous n'appartenez plus à aucun département.
N'ayez jamais en vue que l'interêt et la politique
de la République entière„[19].
Melzi non amava Guicciardi, e non lo nascondeva.
Sicchè, fattisi difficili i loro rapporti
personali. Napoleone collocò Guicciardi alla
Consulta di Stato. Ma costituitosi poco dopo
il Regno d'Italia, lo volle ritornato a capo di
un dicastero, e gli affidò la direzione generale
della Polizia. Bisogna dire, ad onore del Guicciardi,
che in tali funzioni egli non seppe interamente
[87]
prestarsi alle sfrenate volontà del
sovrano. Uomo pratico, voleva la moderazione;
uomo onesto, voleva la legge. Onde scadde dalla
fiducia dell'Imperatore, che gli tolse la Direzione
della Polizia e gli inflisse, con metodo
imitato spesso dappoi, la dignità di senatore
del Regno.
Voltandosi all'Austria, contro il sistema francese,
Diego Guicciardi non poteva dunque dirsi
nè un ingrato, nè uno spensierato. Aveva servito
con zelo il governo da cui era stato beneficato.
Caduto quello, ricuperava il sentimento
della sua indipendenza politica, e credette scorgere
nell'Austria, vale a dire nel più forte dei
governi allora segnalati sull'orizzonte, la sola
potenza capace di guarentire i due scopi politici
che gli erano cari: il mantenimento della
Valtellina nel regime lombardo ed una libertà
onesta pel Regno. L'avvenire ha dimostrato che
s'ingannava almeno per metà. Ad ogni modo,
la sua evoluzione politica suscitò allora e mantenne
intorno al suo nome fino agli ultimi
tempi un ambiente di sfiducia, a cui s'ispirarono
con troppa ingiustizia alcuni scrittori
contemporanei. Dopo l'avversione del Melzi,
incontrò quella del Marescalchi; e irosamente
ostile gli fu sopra tutti Ugo Foscolo, che lo
[88]
chiamava con suo sarcasmo: l'uomo valtellinese,
e che avrebbe dovuto, più d'ogni altro, essere
indulgente verso le debolezze dell'epoca.
In realtà, il Guicciardi, che tante antipatie
s'era nella vita pubblica ingrossate contro,
aveva fra le pareti domestiche riputazione di
animo buono e probo, cui sempre giustificarono
legami di affetto famigliare vivi e durevoli. Ma
il Guicciardi era figlio del suo tempo ed aveva
subìto, non corretto, l'ambiente in cui era vissuto.
La mobilità degli eventi, avendo educato
tutta la generazione sua ad un certo scetticismo
utilitario, — che ora torna di moda, — non
gli permise di mostrare, nella sua vita
pubblica, ciò che si è convenuti di chiamare
carattere; ma sarebbe ingiusto affermare, col
Foscolo, che in quella non si fosse proposto
se non utili individuali. No, il Guicciardi aveva
il sentimento del paese, il concetto della vita
politica. Non gli sacrificava con larga generosità
le sue convenienze personali e famigliari,
ma non può dirsi che abbia cercato queste a
ritroso della sua coscienza di uomo pubblico.
Gli è che il Guicciardi non poteva propriamente
dirsi un uomo moderno. Per l'educazione,
per le tradizioni, per le necessità degli eventi
contro cui ebbe a lottare, egli apparteneva a
[89]
quella scuola di statisti italiani, che dal Macchiavelli,
dal Morone, da Vittorio Amedeo avevano
imparato l'evoluzione dei metodi come
unico avviamento ai successi del bene. La saldezza
delle convinzioni politiche, divenuta,
sotto l'influenza dell'odierno liberalismo, quasi
guarentigia e sinonimo della onestà degli uomini
pubblici, non poteva sembrare qualità
egregia di governo in tempi, in cui contro la
prepotenza dei dominatori unico schermo era
l'astuzia, ed unica preoccupazione quella di assicurare
quanto più si potesse delle vite e delle
sostanze dei sudditi contro l'imperversare delle
mutabili tirannie. Onde accadeva sovente che
uomini di rette intenzioni e di vita illibata
serbassero, nei loro rapporti politici, andamenti
così incerti e così brusche mobilità, da eccitare
la riprovazione di chi non abbia l'indulgenza,
naturale allo storico, per le incoerenze
di cui ogni epoca è necessariamente feconda.
Il programma austriaco del Guicciardi poteva
dunque essere, e fu, un errore; ma non era un
traviamento.
Dell'Austria non s'aveva allora fra gli uomini
di governo quel concetto che dopo il 1815
divenne popolare in Italia. Il Guicciardi non
l'aveva conosciuta che come potenza estera, e
[90]
gli uomini di parte sua in Milano ne ricordavano
il mite regime teresiano e leopoldino come
un ideale di autonomia, in confronto delle prepotenze
repubblicane e imperiali piovuteci dalla
Francia. Quegli uomini mancarono piuttosto,
e mancarono affatto, dell'esperienza politica,
che s'acquista unicamente colla meditazione
e colla lettura. Furono vittima di quella illusione,
che seduce sempre le menti volgari,
di credere che un partito o un governo, abbandonato
ad un dato punto della vita, sia rimasto
immobile e si possa riprendere e ripresentare
colle stesse forme e cogli stessi caratteri,
allo stesso punto in cui s'è lasciato.
Il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo
che non vede, non sente, non istudia le modificazioni
che intorno a lui e in sè stesso
cagiona la forza delle cose o lo spirito dei
tempi, non sa immaginare che si sia mutato o
in bene o in male quel partito, quel governo,
quel sistema che da un pezzo ha perduto di
vista. S'ostina a respingerlo o a ribramarlo,
sulla base delle passate nozioni, inconscio dello
squilibrio che vi può essere fra la sua ricordanza
ed il vero; e quando poi la fortuna dei
[91]
casi lo ripone in contatto con quella forma,
desiderata o abborrita, dei tempi andati, s'accorge
con sorpresa che quella forma è mutata,
che ha subìta, affrettata, compiuta quella stessa
evoluzione benefica o disastrosa da cui egli
credeva che fosse rimasta lontana od immune.
Questo complesso di circostanze e di idee,
unito probabilmente ad un senso di gelosia e
ad un ricambio di antipatia pel duca di Lodi,
unito ad una certa sfiducia dell'uomo d'affari
per quella vaghezza di teorie e quella imprecisione
di scopi che distinguevano il partito
degli Italici puri, pose risolutamente il Guicciardi
campione della resistenza contro il programma
savio e patriottico esposto al Senato
nella seduta del 17 aprile.
Rifar qui la storia di quella discussione parlamentare
non sarebbe forse inutile, ma sarebbe
certamente assai lungo; nel complesso,
la sua intonazione fu meschina e rivelava la
pochezza dei valori intellettuali rimasti in
quella assemblea. È, del resto, uno dei fenomeni
più volte ripetutisi nella storia, che, alla
vigilia delle grandi crisi, l'eloquenza parlamentare
si trovi quasi sempre inferiore all'urgenza
delle situazioni o schiacciata da quelle. Invece
di affrontare la discussione delle cose, si affronta
[92]
quella delle apparenze; invece di trarre
i fatti dalla necessità delle parole, si cerca di
oscurare i primi sotto il viluppo delle seconde.
Il Guicciardi, secondato dai suoi, combattè
innanzi tutto con mozioni d'ordine; mostrò dubitare
che il Guardasigilli avesse facoltà di
convocare straordinariamente il Senato; gli
contestò il titolo di rappresentante dello Stato,
mentre, a suo credere, lo era soltanto del governo;
propose, vecchio espediente d'ogni nuova
contesa, la nomina di una Commissione per
istudiare l'argomento. Propostosi un Comitato
segreto, per discutere subito l'affare e prendere
una deliberazione, il Guicciardi si oppose
di nuovo, sostenendo che un Regolamento organico
del 1809 non consentiva al Senato il
metodo dei comitati segreti.
Per uscirne, fu deciso che una Commissione,
secondo il suggerimento di Guicciardi, si nominasse
seduta stante e che il Senato fosse riconvocato
la sera stessa alle otto per udirne
la relazione. Guicciardi fu eletto naturalmente
a far parte della Commissione, e fu incaricato,
col Verri e col Dandolo, di recarsi dal duca di
Lodi per udirne schiarimenti e notizie.
Questo colloquio e le gravi e dignitose parole
del vecchio uomo di Stato parvero scuotere
[93]
la Commissione; la quale, scelto a relatore
il Dandolo, accettò e propose al Senato
l'invio della Deputazione, dirigendola però a
tutte le Potenze Alleate e sostituendo alla domanda
esplicita del trono pel Vicerè un elogio
cauto ed insignificante delle sue virtù. Questo
inciso aveva, nella sua forma ipocrita, una significazione
anche maggiore di indifferenza per
la persona del Principe; e in tal modo lo commentò
Carlo Verri, lasciando intendere che dubitava
fossero i voti della nazione favorevoli
a lui. L'imminenza del voto decisivo scosse i
senatori del partito vicereale, e il Vaccari, il
Paradisi, il Prina sostennero energicamente la
forma del messaggio Melzi, facendo notare a
ragione che, escludendo la domanda del principe
a Re, lo scopo del decreto e della Deputazione
si risolveva in una inutilità. Al che
Guicciardi rispose, che essendo, per gli Statuti
Costituzionali del Regno, erede diretto della
corona d'Italia il figlio legittimo dell'imperatore
Napoleone, i senatori, che erano tali in
forza di quegli Statuti, non potevano chiedere
un altro Re. Il ragionamento era rigido, ma
non era leale; giacchè a nessun uomo di senno
poteva sembrare possibile che la coalizione lasciasse
un trono al successore immediato dell'uomo
[94]
contro cui s'era rovesciata; e si ricadeva
nel sofisma e nel bizantinismo, rifiutando di
riconoscere la situazione di fatto per aggrovigliarsi
nelle situazioni di forma.
Ben lo fecero notare Prina e Luosi, proponendo
una nuova dizione che riservasse almeno
il diritto eventuale del principe Eugenio. Guicciardi
non cedette su nessun punto; ed essendosi
venuti ai voti, piuttosto per istanchezza
che per esaurimento della discussione, come accade
nelle sedute parlamentari notturne, quasi
tumultuariamente il Senato approvò a grande
maggioranza il progetto della Commissione,
nominando il Guicciardi e Luigi Castiglioni a
deputati presso le potenze alleate. E i due deputati,
accettato, sebbene a malincuore, l'incarico,
e forniti dal duca di Lodi delle commendatizie
necessarie presso i governi europei, partirono
infatti da Milano il giorno susseguente
e si trovarono in Mantova la sera del 19.
La seduta del 17 aprile ebbe un contraccolpo
immediato sull'attitudine dei partiti in Milano.
I cospiratori del partito austriaco, visto che
nel Senato il governo era ridotto ad una piccola
minoranza, decisero di approfittare della
circostanza per sollecitare quella rivolta di
[95]
piazza, che doveva, nel pensier loro, rendere
inevitabile l'intervento dell'esercito austriaco
e quindi la definitiva occupazione, a tutela dell'ordine
pubblico.
Gli Italici poi, indispettiti perchè nel Senato
stesso neanche una voce si fosse levata a sostenere
il loro programma, rivolsero i loro
sforzi contro il Senato stesso, considerandolo,
nella loro cecità, come l'unico ostacolo al
trionfo della parte loro. Fra due partiti, chiaritisi
ostili ad un terzo, una coalizione per
distruggere è presto fatta. Gli Austriaci accordarono
il loro appoggio e le loro firme ad una
protesta che gli Italici presentavano, contro la
deliberazione del Senato, per domandare l'immediata
convocazione dei Collegi Elettorali,
come unica legittima rappresentanza del Regno.
Gli Italici dovettero tollerare, con trista e
tacita complicità, l'agitazione popolare che il
Ghislieri, il Gambarana e il Traversi organizzavano
con torbidi elementi chiamati dal Pavese
e dal Novarese.
La protesta in favore della convocazione dei
Collegi Elettorali era imponente per la stessa
moderazione con cui era redatta, pel numero
e per la qualità delle firme ond'era accompagnata.
Il primo nome sottoscritto era quello del
[96]
generale Domenico Pino, e dietro a lui venivano
tutti i nomi più noti dell'aristocrazia e dell'alto
commercio, i Porro, i Trivulzi, i Confalonieri,
i Fagnani, i Borromei, i Visconti, i Greppi, i
D'Adda, i Cicogna, i Rasini, i Mellerio, i Sormani,
i Trotti, i Brambilla, gli Arese, i Ciani,
i Busca, i Silva, i Bossi, i Giovio, i Serbelloni,
i Crivelli, i Castiglioni, gli Scotti, i Castelbarco,
i De-Capitani, i Balabbio, i Besana,
i Barbò; v'era il presidente del Consiglio comunale,
conte Gian Luca Della Somaglia; vi
erano il podestà di Milano, conte Durini, e tutti
i Savj municipali; v'erano le illustrazioni intellettuali,
Carlo Porta, il Monteggia, il Cagnola,
Carlo Rosmini, e un giovane già alto nella
riputazione cittadina, Alessandro Manzoni.
Questo documento parve atto così grave e
così pieno d'incognite minaccie a Carlo Verri,
uomo di animo retto e fermo, non indegno dei
suoi illustri fratelli, che si recò senza indugio
a casa del duca di Lodi, supplicandolo a prendere,
come depositario del supremo potere,
misure di previdenza. Fu inutile; il duca di
Lodi, prostrato da un accesso di gotta, ingannato
dai rapporti di una polizia che s'era
fatta complice dei turbolenti, forse persuaso in
cuor suo che ogni cosa precipitava e non
[97]
v'erano più probabilità di salute, non volle
far nulla. Era fatale che la catastrofe succedesse[20].
La mattina del 20 aprile era il giorno ordinario
delle riunioni del Senato; e, malgrado
l'eccitazione popolare, che già si annunziava,
il presidente Veneri non ebbe il coraggio di
sospendere la convocazione. Pioveva; e i senatori
s'avviavano nelle loro carrozze verso il
palazzo dove solevano radunarsi.
E allora, in quel palazzo dove oggi accorrono
gli studiosi del tempo antico a frugare le polverose
cartelle degli Archivj di Stato, in quel
cortile dove un imperatore di bronzo aspetta,
colla stessa imperturbabilità di cui fu simbolo in
vita, che si risolva il quesito di giustizia storica
e di libertà politica agitato intorno al suo nome,
accadde la seguente scena. Quando le carrozze
dei senatori si fermavano dinanzi al vestibolo,
[98]
un uomo d'alta statura, domestico di una casa
signorile, montava sopra uno sgabello, si accostava
allo sportello e gettava alla folla il nome
del senatore, dando egli stesso il segnale dei fischi
o degli applausi, secondochè il personaggio
appartenesse o no al partito vice-reale. La
folla era variopinta: v'erano giovani delle
primarie famiglie, con ombrelle di seta, v'erano
lacchè, popolani, faccie truci come di sicarii
assoldati, e perfino, asserisce il Coraccini, delle
dame di Corte. Quando giunse la carrozza del
conte Verri, fu accolta da applausi, voltisi
poi in fischi nel salire lo scalone; e il senatore
vide distintamente il conte Federico Confalonieri
dare il segnale degli applausi. La
folla cresceva ad ogni momento, e assumeva,
come avviene, aspetto più minaccioso e propositi
più torbidi dal maggior numero. Mentre
il Senato, appena riunitosi, cominciava la lettura
della protesta e delle firme, un capitano
Marini fece annunciare che la Guardia Civica
chiedeva di voler presidiare essa il Senato,
invece dei soldati di linea. Era il primo procedimento
metodico della rivoluzione. I senatori,
già sgomentati di questi preliminari, non seppero
neanche dare risposta. E il capitano Begnino
Bossi, del partito italico, rimandando
[99]
senza contrasto il picchetto di linea e i dragoni
ch'erano di servizio, fece occupare dalla
Guardia Civica il cortile e le scale. Voleva
dire, e volle dire infatti, che la turba fosse
padrona d'invadere le scale e i cortili con assai
maggiore libertà di prima. Il romore della
sommossa cominciò allora a penetrare nella
sala senatoria, e il pallore degli uscieri avvertì
del crescente pericolo. Il conte Carlo Verri,
affidato alla notorietà del suo nome e della
sua famiglia, si offrì di uscire e di arringare
la turba. Lo fece infatti e più volte, man mano
che si udiva ingrossare il tumulto. Ma ad ogni
arringa sua, vedeva più inquieta e più cupa
l'attitudine della folla, respinta più in alto
la guardia, sempre più occupati dai tumultuanti
gli accessi e le scale del palazzo. La
terza volta che si presentò sul pianerottolo
dello scalone, vide che ogni freno era spezzato;
che l'invasione delle sale era imminente.
Gli ufficiali della Guardia Civica gli si strinsero
intorno, dicendosi pronti ad esporre la
loro vita per salvarlo; egli, impotente a farsi
udire frammezzo agli urli, agitò un fazzoletto
bianco e visto poco lungi il conte Confalonieri,
lo chiamò ad alta voce per nome, invitandolo
ad esporre i lamenti e i desiderii dell'assembramento.
[100]
Furono poche parole, ma chiare: che si
convochino immediatamente i Collegi Elettorali
e che si richiami la Deputazione del Senato.
Poi, gli urli proruppero come prima e più di
prima, e assunsero quel tono foriero delle imminenti
violenze: abbasso il Vicerè! abbasso il
Senato! che si sciolga la seduta!
Il Confalonieri si pose a lato del Verri,
quasi per fargli scudo della sua momentanea
popolarità, e lo accompagnò fino all'uscio della
sala, rimanendo sul limitare. Nell'interno poi
della sala, tutto il Consiglio era scompigliato;
i senatori, sbigottiti, non idonei per
tempra ad affrontare somiglianti tempeste, non
chiedevano altro senonchè si cedesse. Il Verri
confermò loro che, senza un'immediata adesione
ai desiderii della folla, non si poteva
guarentire la salvezza del Senato. Non v'era
bisogno di più forti scongiuri. Un senatore
stese il decreto, di forma semplicissima: il Senato
richiama la Deputazione, riunisce i Collegi
Elettorali, e la seduta è sciolta. Il presidente
Veneri appose la firma; siccome la folla già
batteva all'uscio ed occorreva pubblicare il
decreto, tutti i senatori e gl'impiegati si posero
a scriverne copie, che poi venivano gettate
e diffuse tra il popolo tumultuante.
[101]
Questa risoluzione salvò probabilmente i
senatori da un possibile eccidio; i capi della
cospirazione riuscirono a calmare per un istante
le turbe, tanto che i senatori potessero, sgusciando
ad uno ad uno, sfilare lungo i corritoi,
tra gli urli e i fischi di quella plebe sfrenata.
Poi cominciò il saccheggio. Il ritratto di Napoleone,
dipinto da Appiani, fu bucato dalla
punta di un ombrello e gettato sul lastrico
della via. Poi, tavoli, sedie, usci, specchi,
stufe, persiane, le carte d'archivio e i libri
della biblioteca, tutto fu rovesciato, divelto,
rotto in frantumi, buttato dalla finestra.
La prima parte della Rivoluzione era compiuta;
il Senato era esautorato, sgominato,
poteva dirsi abolito. Gli ostacoli che parevano
gravi al partito italico s'erano superati. Ma
restava l'altra metà del programma; quella
che stava più a cuore del partito austriaco
puro; e anche questa, poche ore dopo, era inesorabilmente
e atrocemente compiuta.
Bisogna ora che ci trasportiamo col pensiero
in altra parte della città; sopra un'altra area,
pure oggi immemore della tremenda tragedia, i
cui edifici sono consacrati a quanto v'ha di sereno
e di nobile nel consorzio umano, la religione,
l'arte, l'amministrazione cittadina, l'ospitalità.
[102]
La piazza di S. Fedele non aveva allora nè
quell'aspetto regolare nè quella sufficiente ampiezza
che oggi le si riconosce. L'edificio in
cui trovasi l'albergo della Bella Venezia si
protendeva allora assai più innanzi, con un
massiccio quadrato, diviso dal prolungamento
della via del Marino dalla casa Imbonati, divenuta
ora teatro Manzoni.
La facciata poi si prolungava tanto verso
il palazzo Marino da lasciare adito ad una
viuzza strettissima ad angolo retto colla via
del Marino; tanto stretta quella viuzza che,
come nota il compianto Cusani, obbligò il
celebre architetto di Tomaso Marino a costruire
questa fronte del suo palazzo senza
euritmia; cosa che ognuno può verificare od
avrà verificato, notando che la porta centrale
ha otto finestre a diritta e soltanto sei a sinistra,
per potere collocare quella porta d'ingresso
in faccia alla contrada dell'Agnello e
sottrarla all'oscura strettoia, per cui nessun
rotabile avrebbe potuto passare.
Era quello il palazzo che la dizione pubblica
chiamava la casa del Prina; e dove quella
immaginazione popolare malata, che è propria
di tutti i tempi e resiste a tutte le logiche
della civiltà, vedeva ammucchiati sterminati
[103]
tesori. Il ministro delle finanze abitava infatti
in quella casa, che non era sua, ma che il Demanio
aveva comperata dall'Ospitale Maggiore.
E lì, fin del mattino, era un via vai di gente,
che, avendo sentore dei preparati tumulti,
instava perchè il ministro cercasse fuori di
casa un asilo.
Uno sconosciuto gli s'era presentato, porgendogli
un biglietto anonimo, in cui lo si
consigliava a lasciar tosto Milano; due segretari
del ministro, Pavesi e Pioltini, lo esortavano
a nascondersi, temendo per sè stessi
e per lui; il parroco di San Fedele si offriva
di celarlo in modo sicuro nel sotterraneo della
chiesa; suo cugino, l'abate Prina, professore
a Pavia, stava presso di lui un quarto d'ora
prima che la folla irrompesse, e lo supplicava
a fuggire secolui, avendo pronta a poca distanza
una vettura preparata a tal uopo.
Fosse imprevidenza, irresolutezza o coraggio,
il Prina non badò a nessuno di questi avvisi
e non si mosse di casa[21]. La fatalità lo traeva.
Trentaquattro anni dopo, un altro ministro,
egli pure avvertito dei sicarii che lo attendevano,
[104]
non volle mutare la sua via e corse incontro
alla morte: Pellegrino Rossi. Ed aveva
egli pure alcune spiccate analogie col ministro
delle finanze del Regno d'Italia; entrambi
uomini rigidi, aspri, inflessibili, tenacissimi;
entrambi alteri dispregiatori di popolarità;
entrambi ultimi sostenitori di un potere che
cadeva con essi.
Quando la turba ebbe finito di trionfare
delle suppellettili del Senato, una certa irresolutezza
si manifestava nell'attitudine sua; voleva
evidentemente una vittima; e già s'era
mossa, per cercarla, verso il palazzo del duca
di Lodi, quando una voce autorevole, forse
spinta — chi lo sa? — da un desiderio onesto
di stornare per un pericolo incerto e remoto
un pericolo certo e prossimo, gettò nella turba
il nome di Prina. Dio solo sa a quest'ora se
quella sia stata la voce del conte Federico Confalonieri.
Certe accuse, non basta che siano ripetute
dai contemporanei, perchè debbano supporsi
vere. L'epoca nostra ce lo insegna troppo.
Guai se il giudizio dei posteri su alcuno dei
più illustri contemporanei nostri fosse basato
sulle audaci improntitudini di alcuni giornali!
Comunque sia, quella voce bastò a fermare
la turba, che si precipitò invece, come un torrente
[105]
devastatore, verso la nuova direzione e
il nuovo nome additato ai suoi cupi disegni.
Giunse sulla piazza di S. Fedele, quando il
cugino di Prina, visti inutili i suoi tentativi,
aveva spinto il ministro in una delle ultime
cameruccie dell'ultimo piano, gettandogli un
abito da prete; ridiscendendole scale, scontrò
la ciurmaglia che già le saliva.
Ognuno ha innanzi alla memoria quelle pagine
sublimi del romanzo immortale, in cui
Alessandro Manzoni descrive la sommossa
del 1628 e l'assalto dato alla casa del Vicario
di provvisione, che era, fra parentesi, Lodovico
Melzi, un antenato del duca di Lodi. È fama
che l'ispirazione di quelle pagine si dovesse
all'impressione lasciata nell'autore dall'eccidio
del 20 aprile che succedeva a pochi passi dalla
sua contrada. Certo è che gli episodii si rassomigliano
tutti; l'inferocir della plebe, la
viltà degli eccitamenti, l'intervento delle scale
e dei martelli demolitori, l'assenza di forza
pubblica, la pietà generosa e impotente di
alcuni cittadini. Soltanto, al povero Prina
mancò l'aiuto di Ferrer.
Un Colombo, trovatello, falegname addetto
al teatro della Scala, si vantò finchè visse
d'avere scoperto il ministro in quella stanzuccia
[106]
dove stava infilandosi le calze e l'abito
da prete, nella speranza che il travestimento
potesse salvarlo. Mentre gli uomini pratici
della turba rompevano gli scrigni e mettevano
in tasca i titoli di credito, il rozzo operaio, più
violento, ma forse meno spregevole, pensava
alla vendetta personale, che probabilmente gli
avranno fatto credere giusta.
L'infelice ministro è ruzzolato giù per le
scale, gettato da manigoldi fuori di una finestra
verso la contrada del Marino, e raccolto
da altri manigoldi sulla punta delle ombrelle
e dei bastoni. Un manipolo di pietosi — ce
n'è sempre, in questi casi, per l'onore
dell'umanità — lo accerchia, finge d'essere il
più accanito contro di lui e lo attira nell'interno
della casa Imbonati. Renzo doveva essere
tra questi. Ma i sicari prezzolati avvertono il
tentativo e non lo lasciano compiere. Prina è
strappato di nuovo dal suo rifugio, condotto
a spinte, a busse, a colpi d'ombrello lungo la
viuzza già accennata, tra la sua casa e il palazzo
Marino; lo si trascina verso l'angolo di
S. Fedele e lì la turba imbocca, schiamazzante
e feroce, la via di S. Giovanni alle Case
Rotte. Invano tentano alcuni generosi di placare
quelle iene; il frate, poi cardinale Orioli, ajo
[107]
del marchese Lorenzo Litta-Modignani, il celebre
cantante Filippo Galli dal suo balcone,
Ugo Foscolo dalla piazzetta della Scala spendono
invano la loro pietà, la loro voce, la loro
eloquenza; soltanto quel drappello di generosi
che non aveva rinunciato alla sua speranza — bisogna
nominare fra questi, a titolo d'onore,
un cameriere di G. Domenico Romagnosi, Angelo
Castelli — riuscì per la seconda volta a
spingere la vittima trascinata entro una porticina
che metteva nel cortile di un mercante
di vino, Perelli, quasi di fronte alla casa, dove
ora si trova la libreria Pirola.
Nascosto lì, dietro un mucchio d'assi del
falegname Bonfanti, il misero Prina, già livido
di ferite, vide passare per l'ultima volta innanzi
a' suoi occhi la speranza dell'esistenza. Avrebbe
potuto salvarlo il caffettiere Borrani, aprendo
un usciolo che dal cortile metteva nella sua
bottega e ad altre case; ma il caffettiere ebbe
paura del saccheggio e si rifiutò. Avrebbe potuto
salvarlo il generale Pino, coll'impiego di
pochi soldati che avessero fatta una punta energica
in mezzo agli assassini, che sono sempre
vili. Ma il generale Pino si divertiva sulla
piazza ad arringarli, gli assassini, in luogo di
disperderli; e gli assassini udivano l'arringa,
[108]
ridevano sul viso all'arringatore e proseguivano
il loro truce divisamento.
Dopo un'ora di questa inutile aspettativa,
avendo la turba già rotta la porta e invaso il
cortile e ammucchiato delle fascine per incendiare
la casa, il Prina rinunciò nobilmente
all'esistenza, uscì dal suo nascondiglio
e si diede nelle mani dell'orda inferocita.
Qui ebbe luogo una scena d'orrore che soverchia
ogni più atroce concepimento di fantasie
sbrigliate. La storia è talvolta più crudele
dell'immaginazione. L'infelice uomo fu
da un colpo di martello sul viso rovesciato a
terra, fu legato pei piedi sopra un asse e trascinato
in quella foggia lungo le vie, col capo
che rimbalzava sullo sconnesso selciato della
città. La pioggia dirotta e il cader della notte
dovevano aggiungere orrore a quella scena sinistra,
certamente rischiarata dalla luce sanguigna
delle torcie di resina, più che dai pallidi
fanali cittadini dell'epoca. Giunta la folla,
briaca d'urli e di sangue, dinanzi all'ufficio
del Demanio, sulla piazzetta del Cordusio,
rizzarono contro il muro quel semivivo lacerato,
lo denudarono, e cercavano sfondare la
bottega di un vicino droghiere, per trarne
acqua ragia ed abbruciare il cadavere coll'edificio.
[109]
Erano i precursori del petrolio politico.
Quando Dio volle, un picchetto di Guardia
Civica comparve sulla piazzetta e sgominò gli
assassini. Fu slegato e adagiato nel cortile
del Broletto quell'informe avanzo d'uomo; era
morto; ma i chirurghi che lo visitarono non
seppero rinvenire, fra tante e così orribili contusioni,
una ferita mortale; s'era spento di
spasimo e di angoscia.
Tal fine ebbe, per una spensierata coalizione
di passioni, il conte Giuseppe Prina,
novarese, uomo che ad alcuni difetti, di forma
più che di indole, univa qualità preziose di
amministratore e di ministro. Era dal 1791 nei
più alti uffici della finanza; dal 1802 ministro,
prima della Repubblica italiana, poi del Regno
d'Italia. Nel 1797 aveva salvato le finanze
del Regno di Sardegna, provocando, con una
misura allora assai coraggiosa, la vendita dei
beni ecclesiastici. Nel 1798, era uscito dal potere
perchè si rifiutò di emanare un decreto
fraudolento, con cui si voleva far perdere alla
carta monetata due terzi del suo valore nominale.
Questi due atti bastano a dimostrare quale
fosse il vigore e l'integrità del suo carattere.
[110]
Come ministro delle finanze del Regno d'Italia,
l'unica pecca sua fu un'eccessiva devozione
personale all'imperatore Napoleone, alle cui
esigenze di danaro non seppe resistere come doveva.
Del resto, portava negli affari una grande
oculatezza, una rigidità che contrastava colle
abitudini dell'epoca e coll'amabilità che lo distingueva
nella vita privata. Basava il suo sistema
finanziario sulle imposte indirette piuttosto
che sulle dirette; queste caricava moderatamente
per potere, nelle frequenti occasioni di guerre,
trarne aumenti straordinari di facile applicazione
e che gli parevano allora giustificati dal
rialzo dei prezzi che la guerra produceva, a
favore dei proprietari fondiari. Così fu che
nel 1805 e nel 1806 potè spingere l'imposta
fondiaria da 48 a 60 centesimi, senza che paresse
opprimente, e nel 1813 si fece dare
un'anticipazione di due centesimi e mezzo,
che l'estimo fondiario potè sopportare senza
troppo disagio. Aveva immaginato il dazio
della macina, ma vi rinunciò quando vide le
enormi vessazioni a cui avrebbe dato adito
quella forma d'imposta. Immaginò e tenne
fermo il bollo; e fu l'imposta che lo rese
più impopolare, quella che fu presa a pretesto
del suo sterminio. Del resto, la regolarità
[111]
della sua amministrazione era esemplare; i
suoi resoconti, ch'egli, con esempio nuovo,
rendeva pubblici ogni anno, erano modelli di
chiarezza, di semplicità e di esattezza nei risultati;
gl'impiegati del suo ministero non
erano esuberanti; frammezzo alla rovinosa politica
dell'Imperatore, aveva potuto consacrare
in nove anni settantacinque milioni, somma
per allora enorme, ad opere pubbliche nell'interno
del Regno; le spese di esazione, sopra
un bilancio di centocinquanta milioni, non
superavano l'8 ½ per cento. Era insomma,
come cittadino, un uomo della vecchia scuola,
che preferiva il concetto di giustizia a quello
di libertà; come ministro, un finanziere sullo
stampo di Colbert e del barone Louis, che
credeva la severità verso gli individui guarentigia
necessaria dell'imparzialità verso il
pubblico. Morì per non essersi saputo persuadere
che, in un momento di vertigine, una
città mite e gentile, governata da magistrati
e da generali, potesse cercare nel cadavere
d'un ministro la prova della sua attitudine a
reggersi come Stato liberale e indipendente.
La catastrofe del 20 aprile ebbe un'eco dolorosa
in tutta la Lombardia, e la pietà per la
vittima non tardò a prevalere, dietro la guida
[112]
di un poeta gentile, che vendicò col vernacolo
popolare il popolare traviamento di quella giornata[22].
Sopra Milano pesò per lungo tempo
la cupa tradizione di quella tragedia. Eppure,
bisogna essere giusti, Milano non ne è responsabile
che per metà. Tutto dimostra ormai che
la maggior parte dei saccheggiatori e degli assassini
era stata chiamata da fuori; dentro, pur
troppo, erano gl'inspiratori, e questi la storia
deve cercarli e punirli piuttosto nelle classi
colte che nelle classi popolari della città.
La plebe milanese si trovò spinta al delitto
dall'esempio attivo di altre plebi rovesciatesi
in mezzo a lei e dalla colpevole tolleranza di
uomini d'alto grado ch'essa era avvezza a rispettare.
È un cumulo di responsabilità, maggiori
o minori, di prima o di poi, d'influenza
o di acquiescenza, che ormai nessuno può togliere
più ad una parte dell'aristocrazia milanese
del 1814. Tanto è vero che subito dopo
molti sentirono la necessità di scolparsi, di giustificarsi,
di discutere. Gli stessi coalizzati, come
avviene dopo un delitto o dopo una sventura,
si sconfessarono l'un l'altro, rispettivamente
[113]
alle singole ingerenze prese da ciascuno in quella
settimana di storia. Il generale Pino, il conte
Confalonieri, il conte Guicciardi, il conte Giovio,
il senatore Armaroli scrissero tutti e subito
intorno a quei fatti, e non tutti li scrissero nel
modo istesso. Carlo Verri lasciò pure le sue
memorie autografe; memorie che non sempre
combaciano colle altre scritture dei contemporanei,
e che soltanto da due anni furono
pubblicate. Il Confalonieri protestò fieramente
contro i sospetti da cui si vedeva assalito, si
appellò alla sua educazione, alla stessa riputazione
sua di nobiliare alterigia, per negare gli
atti volgari e violenti a lui attribuiti; invocò
il giudizio e la stima del duca di Lodi, che questi,
in una sua lettera, pacatamente accordò[23].
[114]
Vere od erronee quelle accuse dominarono per
lunga pezza la vita successiva del Confalonieri;
il quale, nelle sue irrequiete cospirazioni, nell'attività
che pose ad ogni sviluppo d'istituzioni
politiche ed educative, nella stessa audace
noncuranza con cui affrontò nel 1821 l'arresto
ed il processo che facilmente avrebbe
potuto schivare, parve all'opinione pubblica
invaso da un fervido desiderio di espiare con
patriottiche sofferenze un pensiero di colpa o
di rimorso. La sua lunga e nobile prigionia, la
fiera calma del suo contegno in quel colloquio
col principe di Metternich, che ci ha rivelato recentemente
il biografo di Gino Capponi[24], hanno
raggiunto quello scopo, se mai lo cercava; ed
oggidì il nome di Federico Confalonieri è un
nome che suona onore d'Italia, è il nome di
[115]
un generoso che non si può rammentare senza
emozione e senza rispetto.
Quanto al generale Pino, la sua situazione
innanzi alla storia è tutt'altra. Pino s'è difeso
con molti opuscoli contro le imputazioni che
gli vennero mosse; ha creduto dimostrare la
propria energia, asserendo di essere stato traverso
la folla, alla casa del Prina, mentre era
invasa, di non avervi trovato il ministro e di
aver dovuto respingere degli insulti.... alle sue
decorazioni. Ma i fatti sono questi.
Già fin dal mattino del giorno 17, dopo la
prima seduta del Senato, il generale Pino
aveva avuto un lungo abboccamento segreto
con Giacomo Luini, direttore generale della Polizia;
e il giorno 20, quando già la sommossa
si disegnava, Giacomo Luini aveva mandato
fuori di Milano due compagnie di truppa regolare
a difendere il passaggio del Ticino.... che
nessuno assaliva. E poche ore dopo, nel fitto
della Rivoluzione, Giacomo Luini si nascondeva
presso il conte Giberto Borromeo, uno dei capi
del partito favorevole all'Austria.
Quando il generale Bianchi-d'Adda, facente
funzione di ministro della guerra, dopo l'assalto
al palazzo del Senato, incaricò Pino di
assumere il comando di tutte le forze ed ordinò
[116]
al capitano Vercellon di mettersi, con una quarantina
di uomini, a disposizione del prefetto
della polizia dipartimentale, Giovanni Villa,
fu un ajutante del generale Pino che intimò a
quello squadrone di retrocedere in castello,
mentre già la folla cominciava a fuggire, al
primo avanzarsi di quei granatieri per la via
di S. Giuseppe.
L'intendente di finanza, Frigerio, che teneva
duecento guardie doganali a propria disposizione
nel locale di S. Giovanni alle Case Rotte,
proprio nel centro della sommossa, mandò a
chiedere a Pino la facoltà di farle uscire, garantendo
di vincere il tumulto e di liberare il
ministro. Il generale Pino non gli diede risposta.
Ed il fatto era udito pochi anni dopo, raccontato
dallo stesso Frigerio, da una persona
vivente degna di tutta fede.
Non basta; il giorno dopo, essendosi arrestati
parecchi sicarj, che volevano continuare le turbolenze,
Pino ordinò al generale Paini che fossero
tosto rimessi in libertà, e fu destituito il
prefetto Villa, che aveva cominciato i processi,
malgrado gli ordini datigli di non far nulla.
E finalmente, quando tre giorni dopo, i generali
Teodoro Lechi, Paolucci e Palombini
vennero a Milano, nella speranza di persuadere
[117]
Pino a reagire contro gli avvenimenti e a tentare
una resistenza armata contro l'Austria, si
udirono cinicamente rispondere dal loro collega!
“la faccenda fu assai ben condotta, giacchè
se volevasi una vittima, bastò una sola, nè fu
scelta male.„
Quando sopra un uomo pesa la responsabilità
di questi fatti e di queste parole, lo storico
non ha più un processo da fare, ha un giudizio
da pronunciare.
Colla giornata del 20 aprile fu raggiunto veramente
lo scopo della Rivoluzione e distrutta
ogni base su cui poggiava il primo Regno d'Italia.
V'ebbero bensì tumulti e resistenze e saccheggi
anche il dì dopo; ma la stessa facilità
con cui fu repressa in quel giorno l'azione delle
turbe sguinzagliate a disordini, prova quanto
sia stata colpevole l'autorità pubblica nella
tolleranza del giorno prima.
Eugenio Beauharnais seppe il 21 mattina,
per un corriere speditogli durante la notte dal
ministero della guerra, le prime notizie della
Rivoluzione milanese. Aveva appunto spedito
al generale Pino l'abbozzo di un decreto veramente
esemplare per la legalità e lealtà delle
sue disposizioni. In esso riconosceva cessati i
[118]
propri poteri, per l'abdicazione dell'imperatore,
da cui li aveva ricevuti; proponeva l'immediata
convocazione dei Collegi elettorali e la formazione
di un Governo provvisorio, presieduto
dal duca di Lodi.
Le notizie di Milano ruppero bruscamente,
con ogni sua speranza, ogni previdenza sua.
Leale verso il paese, come lo era stato verso
Napoleone, respinse le istanze di Teodoro Lechi,
dirette a far marciare sopra Milano una
parte dell'esercito, per ripristinarvi la sua autorità;
pubblicò un proclama all'esercito ed
uno al popolo italiano, congedandosi da entrambi
con generose parole; e al duca Melzi
scriveva, con mesta amarezza: “tous mes devoirs
ont cessé... je n'ai plus d'ordres à donner.„
Sette giorni dopo la strage di Milano, il principe
Eugenio, soddisfatti nobilmente tutti i doveri
suoi, partiva da Mantova per Monaco, ricevendo
i saluti commossi de' suoi antichi compagni
d'arme, e accompagnando la convalescente
Vice-regina, alla quale poco tempo prima
aveva detto, lagnandosi di offerte che mettevano
a prezzo la sua lealtà: “Oh stanne
certa, giammai io sarò Re!„ E non lo fu mai
infatti; ma gli ultimi giorni del suo comando
in Italia dimostrarono che, una volta libero da
[119]
prepotenti influenze — alle quali, per più ragioni,
gli riusciva difficile sottrarsi — avrebbe
potuto essere un sovrano illuminato e di alte
qualità.
Le aveva probabilmente indovinate Francesco
Melzi, patrocinando con tanta intelligenza e con
tanto disinteresse la soluzione politica, che il
20 aprile 1814 gli soffocò nel tumulto e nel
sangue. Intorno alla qual soluzione, parecchie
opposizioni furono mosse, fondate sulla presunzione
che mancasse di base pratica, dirimpetto
all'attitudine ed alla preponderanza assunta in
Italia dall'Austria.
Il condannare, come utopie, programmi che
si sono spezzati contro la brutalità degli eventi
è una filosofia facile pei programmi a cui questa
brutalità ha invece giovato.
Certo, è abbastanza grave per lo storico il dover
talvolta spiegare le cause di ciò che succede,
perchè non si abbia ad esigere da lui
che cerchi le ragioni di ciò che non è accaduto.
E le leggi che reggono, a grandi distanze, i
destini dei popoli possono essere così previdenti
nella loro complicazione, da rendere più
utile una soluzione momentaneamente cattiva,
come necessario avviamento alla miglior soluzione
avvenire, da nessuno prevista.
[120]
Tuttavia, a dimostrare le probabilità ragionevoli
che aveva, nel 1814, il programma politico
del duca di Lodi, crediamo opportuno aggiungere
alle considerazioni già esposte un documento
nuovo; di cui non sembra abbiano
avuto cognizione, nè il Cusani, ne il Du Casse[25],
nè lo stesso Melzi D'Eril[26], che certamente
lo avrebbero inserito, in tutto o in parte,
nelle loro diligenti e voluminose pubblicazioni.
È una lettera, d'indole riservatissima, che il
principe Eugenio scriveva il 18 gennaio 1814
al duca di Lodi, e in cui gli dava ragguaglio
d'una trattativa segreta, rimasta, crediamo, tale
anche per gli stessi storici successivi[27]. Preferiamo
riprodurre intero il documento, anzichè
citarne dei brani a spizzico, affinchè i lettori
possano giudicare da loro stessi del carattere
e dell'importanza di questo episodio.
Monsieur le Duc de Lodi.
Je me fais un plaisir de vous informer, mais pour vous
seul, de ce que j'ai tenté depuis deux jours, et qui malheureusement
ne m'a pas réussi.
[121]
Un peu inquiet de tous les rapports que je recevais sur
les intentions du roi de Naples, je me suis servi d'une occasion
qui m'était offerte par le hasard, pour faire tâter
l'ennemi, et voir s'il ne serait pas disposé à un armistice.
Dans la conversation qui a eu lieu, et qui avait en apparence
un objet bien différent de celui que je voulais atteindre,
l'Aide de Camp du Général Bellegarde a exprimé,
même au nom de son Général, les sentiments les plus honorables
pour ma personne; il a ensuite témoigné quelque
étonnement que l'Empereur ne m'eût pas autorisé à traiter
définitivement pour l'Italie. Il a ajouté: “l'Empereur sait
pourtant bien les intentions des alliés sur l'Italie. Ces intentions
ont fixé nos limites à l'Adige. Mais si on ne traite
pas ici, nous serons obligés d'aller en avant; l'Empereur
perdra certainement toute l'Italie, puisque nous sommes
plus nombreux que vous et que d'ailleurs le roi de Naples
est décidement notre allié; et vous comprenez bien que si
nous nous emparons de l'Italie, les conditions proposées aujourd'hui
ne pourront plus être les mêmes.„
Mon Aide de Camp a répliqué:
“Mais puisque votre intention n'était pas de passer
l'Adige, pourquoi marcheriez vous en avant? peut-être le
prince consentirait-il à conclure un armistice qui nous laisserait
vous et nous dans le statu quo, pour un temps quelconque,
pendant lequel il est probable que la paix serait signée.„
L'officier autrichien a repris:
“Oh cela n'est pas possible. Le Duc de Bellegarde se
croirait bien autorisé à conclure un armistice avec le vice-roi
aux conditions qui lui ont déjà été proposées; mais il
[122]
ne l'est pas et ne le serait certainement pas aux conditions
dont vouz parlez.„
La conférence a fini là. Je me suis fait devoir d'en informer
l'Empereur. Je n'ai pas besoin de vous dire que
pour mon compte je ne sortirai jamais de la ligne qui
m'est tracée par mes devoirs et par mes serments.
Il faut donc que nous nous abandonnions aux évenéments
et que nous reportions nos espérances sur les négociations
de Bâle. D'ici là, je ferai certainement tout ce
qui sera en mon pouvoir pour garantir d'une invasion toute
la partie du Royaume qui n'a pas encore été touchée, et
je ne désespère pas d'y réussir.
Les dernières nouvelles que j'ai reçu de Naples m'autorisent
à croire que le Roi pourra bien être entraîné à signer
un traité avec l'ennemi, mais qu'il persiste dans le
réfus de porter ses armes contre le troupes de l'Empereur.
D'un autre côté, les lettres les plus récentes de l'Allemagne
et de la Suisse confirment les espérances de paix. — Sur
ce, Mons. le Duc de Lodi, je vous renouvelle les assurances
de mon estime particulière, et je prie Dieu qu'il
vous ait en sa sainte garde.
Écrit à notre quartier général de Verone, le 18 janvier 1814.
Eugène Napoléon.
Monsieur le duc de Lodi,
En réfléchissant à la lettre que je vous ai adressée hier,
il m'est venu une idée que je vous confie et dont vous
ferez l'usage que vous jugerez convenable. Ne pensez vous
pas que vous feriez bien d'écrire vous même à S. M. à
[123]
peu prés dans le sens de la note que je joins â cette lettre?[28]
Vous êtes mieux placé que moi pour dire tout cela,
parce que vous êtes mieux à portée que moi de juger de
l'intérieur. Au reste, vojez et ne faites que ce que vous
jugerez convenable. Sur ce, ecc., ecc.
Qui appajono palesemente due fatti: 1.º che
l'abbandono della Lombardia all'Austria non
era in quell'epoca acconsentito, e che soltanto
la catastrofe del 20 aprile allargò le ambizioni
territoriali austriache, paralizzando naturalmente
le resistenze degli alleati; 2º che gl'interessi
del regno italiano erano fatalmente sacrificati,
finchè Napoleone regnava, agli interessi
francesi, e che urgeva svincolare gli uni
dagli altri, dando alla dinastia italiana una base
indipendente, come il Melzi voleva. Il primo
fatto dimostra dunque la possibilità, il secondo
la saviezza del suo programma. Eugenio non
volle, o non osò, nel gennajo 1814, assumere
la responsabilità di conchiudere questa pace,
senza il permesso dell'Imperatore; ma dalle
sue lettere traspira l'amarezza di non poterlo
fare e la preoccupazione dell'avvenire. Questo
avvenire avrebbe ancora potuto essere salvato,
quando il duca di Lodi trasmise al Senato di
[124]
Milano il suo messaggio del 17 aprile; poichè
le condizioni militari non erano mutate, non
erano mutate le disposizioni delle potenze, e la
caduta di Napoleone rendeva liberissimo il
principe Eugenio di assumere quella responsabilità
che nel gennajo gli era parsa troppo
temeraria.
Crediamo non occorrano più numerose ragioni
a giustificare storicamente e politicamente
la condotta di Francesco Melzi. In quell'ora,
egli ebbe certamente l'istinto della situazione,
e se avesse trovato nel Senato la cooperazione
rapida ed energica che i momenti esigevano,
l'eccidio di Prina si sarebbe potuto evitare, e
con esso il dominio austriaco che pesò per nove
lustri sulle contrade lombarde.
Sarebbe stato, per la futura unità italiana, un
bene od un male? È un'altra “ardua sentenza,„
che neanche i “posteri„ saranno mai, crediamo,
in grado di pronunciare.
Quanto a Milano, la parabola del suo destino
si compieva rapidamente.
I tentativi di reagire contro l'eccesso e di
trarre a carattere italiano le conseguenze della
Rivoluzione, si ruppero presto contro l'attività
dei cospiratori austriaci e contro la forza ineluttabile
[125]
delle cose. Invano si costituì, a guisa
di governo provvisorio, una Reggenza di cittadini
milanesi; invano questa Reggenza inviò
deputati alle grandi potenze, chiedendo il regno
separato e la Costituzione speciale. Confalonieri
si udì rispondere da lord Castelreagh che contro
il paterno governo dell'Austria era una
pretesa eccessiva il chiedere delle guarentigie;
e, poco più d'un mese dopo l'assassinio del
Prina, il maresciallo Bellegarde aveva preso
possesso di Milano in nome dell'imperatore
d'Austria, legittimo ed assoluto sovrano.
V'è qualche insegnamento a trarre da questi
fatti? se v'è, crediamo sia questo: che i grandi
commovimenti popolari, quelli che lasciano
traccie, sono quasi sempre il portato di cause
morali, anche quando pigliano a pretesto moventi
d'indole semplicemente economica. I popoli
sopportano facilmente anche gravi imbarazzi
della vita pratica, quando hanno la coscienza
che l'anima loro è libera; al contrario,
se si sentono soffocata od uccisa la libertà, non
sempre ne traggono lungo conforto dal benessere
amministrativo.
La Rivoluzione francese ha cominciato colle
grida contro i monopoli del grano; ma il primo
atto di forza che il popolo ha potuto fare, non
[126]
l'ha rivolto contro i fornai, lo ha lanciato contro
la Bastiglia. L'insurrezione inglese contro
gli Stuardi ha cominciato dal rifiuto di Hampden
a pagare un'imposta; ma il processo di
Carlo I non fu incoato e condotto a fine per
pretesti di ordine amministrativo; fu una reazione
violenta contro lo spregio dei diritti e
delle libertà popolari.
Gli è che vere rivoluzioni, rivoluzioni che
producano effetti, non si fanno se non sono
promosse o condotte da classi pensanti. Non è
il braccio, è l'idea quella che cagiona nell'ordinamento
degli Stati mutazioni profonde e durature.
Quando il braccio solo si move, si producono
tumulti, non rivoluzioni; e l'eroe si
chiama allora Masaniello, non Cromwell, non
Mirabeau, non Cavour.
Il primo Regno d'Italia ha, colla sua completa
negazione di libertà politica, coalizzate
contro sè stesso le classi pensanti e le classi
popolane, unitesi in un giorno nefasto nella
trista spensieratezza dell'odio che non ragiona.
È un errore ed un pericolo che il secondo Regno
saprà certamente evitare. Noi non sappiamo
per quali prove la nostra generazione sarà chiamata
a passare e di che intoppi lo sviluppo
del movimento italiano troverà ancora a sè dinanzi
[127]
sbarrata la via. Quello che speriamo ed
auguriamo è che in nessun caso queste prove e
questi intoppi potranno piegare a catastrofi, se
da un lato le classi popolari sapranno non ispingere
la tentazione della violenza fino agli orrori
della crudeltà, e se dall'altro le classi
pensanti non abuseranno della passione politica
fino a calpestare il sentimento morale.
[129]
CONFALONIERI
E I PROCESSI POLITICI.
[131]
Si possono studiare in due modi, sotto due
aspetti diversi, i rapporti fra un individuo ed
una società.
La forma più generalmente studiata, quella
che seduce per una maggiore precisione di
cause ed uno svolgimento più evidente d'effetti,
è l'influenza che un uomo esercita sull'ambiente
in cui vive, sull'epoca da cui sorge.
La forza dominante, in questi casi, appartiene
all'individualismo sulla collettività. È il genio
che si sprigiona dalle mistiche profondità dell'umanesimo,
e combatte e vince fenomeni universali,
trasformandoli intorno a sè, obbligandoli
a percorrere traccie diverse, a subire leggi
[132]
nuove, che talvolta si prolungano bene al di
là del tempo e dell'ambiente.
Aristotele, Dante, Bacone da Verulamio
creano e modificano ambienti sociali nella filosofia,
nella letteratura, nella scienza; Giulio
Cesare, Carlo Magno impongono al mondo organismi
politici, la cui influenza durerà ben
più lungamente che la vita degli individui
creatori.
Si capisce che questi fatti colpiscano fortemente
l'immaginazione degli scrittori; e che
una folla di osservatori si stringa intorno a
queste esistenze privilegiate, che appunto per
la loro scarsità e pei forti contorni della loro
fisonomia sono facili ad esaminare e a descrivere,
se non facili ad imitare.
Ma ben diverse e più complesse sono le questioni
e gli studi, allorchè si passa all'influenza
che la collettività esercita sull'individualismo;
allorchè si esamina in qual modo agisca un'epoca,
con quale forza prema un ambiente sull'educazione,
sulle attitudini, sugli istinti, sul
pensiero dell'uomo che vi nasce e vi cresce.
Quanti uomini di genio sono soffocati da
un'epoca di compressione? quante intelligenze
lucide sono sviate o rese incerte da un'epoca
di transizione? quanti caratteri robusti ed interi
[133]
diventano tiranni od ipocriti, sotto la piegatura
lenta e costante d'una società frolla,
o bacchettona, o crudele? Terribili quesiti,
che devono renderci bene indulgenti nel giudicare
gli uomini, ben cauti nell'attribuire esclusivamente
all'indole loro, deficienze o contraddizioni
od eccessi, che talvolta a questa indole
furono inoculati da forze estranee, da impulsi
irresistibili di responsabilità collettive.
Un uomo può nascere con attitudini spiccate
alla scienza od alla letteratura; gli basterebbe
un incoraggiamento, un alito di libertà per
segnare forse una traccia durevole nei campi
dell'intelletto. Invece, si trova in mezzo ad un
ambiente di compressione o di scetticismo; un
censore ignorante gli mutilerà il suo primo
libro; un'accademia formalista gli screditerà il
suo trovato; avrà una fiera lotta da sostenere
contro un editore avido od un pubblico arido;
il genio in formazione si sentirà sfiduciato,
schiacciato; l'homunculus si rimpiatterà nel suo
germe; Tommaso Grossi farà rogiti di protesto
cambiario; Piatti morirà povero e senza fama.
In ogni forma di attività questo fenomeno
può manifestarsi; ogni carriera, ogni genio può
essere alle prese colle rigide tenacità di un
ambiente, può soccombere sotto la mole di
[134]
un'epoca o di una società. Bonaparte, luogotenente
d'artiglieria, trova innanzi a sè il mondo
ridotto a frantumi, e diventa il genio della
guerra per ricostruirlo a vantaggio suo; Cavour,
scrittore di riviste, vede questo mondo bramoso
di uscire dai ceppi antichi, e diventa il
genio della politica per ricostruire la sua patria
a vantaggio della libertà. Supponiamo che quelle
due forze, quei due intelletti bisognosi d'azione
avessero dovuto svolgersi nell'ambiente chiuso
e tirannico in cui s'è trovata l'Europa dal 1815
al 1830; forse Bonaparte sarebbe divenuto colonnello
nell'esercito del re di Francia; e il
conte di Cavour avrebbe potuto aspirare al
posto di direttore generale delle gabelle.
Se applichiamo criteri indagatori consimili alla
storia milanese che va dall'eccidio del Prina
agli albori del 1848, ci sarà forse più facile
trovare la ragione dell'esaurimento politico in
cui era caduta questa città, dove il periodo teresiano
aveva prodotto gli eminenti economisti
e giuristi del secolo scorso, e dove il periodo
napoleonico s'era illustrato di Francesco Melzi,
degli amministratori e dei generali, sorti con lui.
Quella fu un'epoca insieme di repressione e
di transizione; di repressione in politica, di
[135]
transizione nei costumi e nelle idee. Fu allora
che cominciarono a sostituirsi abitudini di fusione
sociale alle rigide distinzioni di classe
dei tempi scorsi. Disparvero allora gli ultimi
codini, le ultime parrucche, le ultime calze di
seta bianca, gli ultimi spadini, le ultime giubbe
ricamate e arabescate; l'abito rappresentò coll'esterna
uniformità quella comunanza di pensieri
e d'interessi che nobili e borghesi traevano
dalla eguale umiliazione politica; nelle
case, ai ritrovi pomposi, ai balli cadenzati, ai
mobili pieni d'oro e di angoli, succedettero
forme più famigliari, preferenze sempre maggiori
per le comodità e le vivacità della vita.
Gli ultimi Arcadi morivano, uccisi dal ridicolo,
sotto i colpi di quell'audace scuola boreal
che tutto l'ingegno di Vincenzo Monti non
era bastato a respingere ed a sfatare. Si
sentiva tutto all'intorno un mondo che si sfasciava;
e tra i ruderi del vecchio e l'ossatura
del nuovo, gli spiriti erravano dubitosi, si slanciavano,
retrocedevano, ripiegavano; la società
lottava contro sè stessa per uscire dal passato,
e si spaventava qualche volta d'avere già fatto
troppo larghi passi verso il futuro.
Politicamente poi, il timore e il silenzio erano
divenuti i capo-saldi della vita cittadina, della
[136]
prudenza borghese. Dopo quelle sterminate catastrofi
che avevano segnalato gli ultimi anni
del regime napoleonico, dopo le coscrizioni
doppie o anticipate che avevano spopolate e
addolorate le pareti domestiche, dopo l'impressione
di terrore che aveva lasciato negli spiriti
l'ultima giornata del Regno Italico, s'era
prodotta in paese una sete di tranquillità e di
pace che nulla valeva a saziare.
Volevano corsi e carrozze e teatri e giornali
di mode e sonni tranquilli e gendarmi per le
contrade. L'Austria soddisfaceva ed ajutava
questo indirizzo dello spirito pubblico. Venuta
qui con larghe promesse d'indipendenza e di
libertà, si accorse presto che poteva smentirle
impunemente, e lo fece. In Europa le lasciavano
ogni arbitrio, nel paese non trovava sufficiente
scatto di opposizione. Ci diede il Codice civile
e la Cassa di Risparmio, un Vicerè e una Vice-regina
che facevano ballare e trottavano sul
corso in tiro a sei, cantanti e ballerine di cartello,
giornalisti che si accapigliavano per la
Taglioni o per la Cerrito, gendarmi e poliziotti
in abbondanza, sulle strade maestre, agli angoli
delle vie, sotto i fumosi lampioni ad olio di
noce, sugli impalcati delle vetture postali.
Sotto questo regime gli uomini che avevano
[137]
avuto l'abitudine dei discorsi politici si racchiudevano
nel silenzio; i giovani ne sentivano
difficilmente il bisogno; la polizia era divenuta
la maggiore istituzione europea, e il principe
di Metternich voleva sapere da Vienna di che
cosa si discorresse sotto i platani del bastione
o nei palchi del teatro alla Scala. A poco a
poco, il regime europeo ci soverchiò e s'impose.
L'Austria, che aveva vinto Napoleone,
parve divenuta la potenza invincibile, eterna,
a cui l'Italia non sarebbe sfuggita più.
Si accettò la vita com'era. Si andò ai balli
del Governatore, del Vicerè. Gli ufficiali austriaci,
che ci avevano liberati dalla canaglia
del 20 aprile, avevano forme cortesi, si accettarono
cortesemente. Si leggevano i giornali ufficiali,
la Gazzetta di Milano, la Biblioteca Italiana;
più sovente i giornali musicali e teatrali, il Figaro,
il Pirata; più tardi l'Indicatore e l'Eco della
Borsa; i più rivoluzionari, leggevano il Journal
des Débats. Ai giovani che crescevano, i padri, sfiduciati
di cose vecchie e paurosi di cose nuove,
raccomandavano prudenza, circospezione, rispetto
ai superiori; il discorso di politica non
si affrontava che sotto voce, fra gl'intimissimi,
con mille reticenze di fatti e di nomi; si troncava
presto, come di argomento che implicasse
[138]
disgusto o pericolo; si parlava della Spagna
o dell'Algeria, non dell'Italia. Le generazioni
crescevano in quest'afa, sotto questa pressione,
e perdevano a poco a poco ogni memoria, ogni
coscienza di sè.
Com'era possibile uscire da queste molteplici
difficoltà, vincere la compressione, sovrapporsi
alla transizione, e riprendere in Lombardia la
tradizione dei grandi caratteri e dei grandi
intelletti?
Lo tentò e vi riuscì, con intero successo, un
uomo solo, Alessandro Manzoni. Ma vi riuscì,
allontanandosi da ogni complicità, da ogni attinenza
colla politica contemporanea; vi riuscì,
creando una letteratura nuova e potente, sotto
cui i dominatori non avevano potuto indovinare
nè punire l'alto sentimento di patria; vi riuscì,
rigettando il suo genio fra le tenebre dei secoli
precedenti, per trovarvi corruttele e discordie
da flagellare, virtù ed audacie da segnalare,
ad esempio dei tempi suoi.
Però intorno e al di sotto di lui, il pensiero
politico, la vita pubblica trovavano pastoje
difficili a superare, vincoli impossibili a rompere.
Quei pochi, fra cui si conservava il fuoco
sacro, o avanzi gloriosi del periodo militare
napoleonico, o giovani sdegnosi di curvare la
[139]
loro vita all'ossequio ignominioso dell'epoca,
si riunivano, discutevano, deploravano, cercavano
di sperare. Impotenti all'azione, si buttarono
alla cospirazione; necessità dolorosa nei
governi di servitù, deplorabile piaga nei liberi.
Quelle forme, quei segreti, quelle iniziazioni
mistiche o paurose, ch'erano state fino allora
espedienti per dare importanza ai mediocri od
ai pessimi, cominciarono ad essere la seduzione
dei cittadini migliori. Le società segrete pullularono,
si moltiplicarono, si frazionarono secondo
gli scopi, secondo le difficoltà materiali
o morali d'ogni singolo centro. L'Italia fu piena
di loggie, di vendite, di giuramenti, di motti,
di segni di croce, di emblemi, di spade incrociate,
di parole incomprensibili scritte col sangue
o colla chimica. Tutti gli elementi di qualche
valore intellettuale o di qualche vigore patriottico
si ascrissero, per illusione di libere
solidanze, ai frammassoni, ai carbonari, agli
adelfi, ai federati, più tardi alla Giovane Italia.
Le polizie non tardarono a fiutare i pericoli, a
scoprire i misteri, e in ognuna di quelle illuse
consorterie penetrarono elementi infidi, agenti
diretti; che si acquistavano naturalmente fiducia,
per essere sempre i più pronti e i più
arditi nel manifestarsi.
[140]
Così l'organismo sotterraneo italiano cessava
d'essere pericoloso pei governi e diventava invece
un pericolo continuo pei patrioti. Il loro
elenco, il loro censimento ufficiale stavano sul
tavolino di tutti i direttori di polizia; i quali,
ad ogni stormir di fronda, lanciavano i loro
agenti a impadronirsi delle fila di congiure
appena abbozzate, talvolta neanche pensate. E
così passavano per le carceri, per le torture,
per le forche uomini egregi, responsabili d'un
biglietto ricevuto o d'un nome dato, ma che
suscitavano colla loro riputazione o colla loro
virtù i timori di un dispotismo, oscillante sulla
stessa base della sua onnipotenza.
La storia d'Italia diventava null'altro che
un protocollo di processi politici; la città del
Parini e del Manzoni diventava l'ignobile anticamera
d'una schiera di sbirri e di inquisitori,
fra i quali erano destinati a trista celebrità
un Trevisani, un Torresani, un Bolza, un
Pachta, uno Zajotti, un Salvotti.
Il falso visconte di Saint-Aignan provocava
e poi denunciava la cospirazione militare milanese
del 1815; un Torelli complottava nel
1831 e poi svelava i complotti; il Boccheciampe
tradiva, dopo averla incoraggiata, l'audace spedizione
dei fratelli Bandiera; Attilio Partesotti
[141]
s'insinuava nelle grazie di Giuseppe Mazzini
e svelava all'Austria i nomi e i progetti dei
mazziniani.
Infinita fu la schiera dei giovani deboli e
degli uomini forti che da queste insidie e da
questi terrori furono tratti a rompere la vita
e l'ingegno contro le sbarre di una fiera prigione.
Per non parlare che dell'alta Italia, il
processo del 1815 avvolse Teodoro Lechi, Giovanni
Rasori, Filippo Demester, Pietro Varese
e una dozzina dei loro compagni; il processo
del 1818 condusse a duro carcere, fra molti altri,
Antonio Villa, Antonio Solera, Fortunato
Oroboni, e quei due maschi caratteri di Felice
Foresti e di Giovanni Bachiega. Poi venne il
processo del 1820 contro Melchiorre Gioja, Domenico
Romagnosi, Silvio Pellico, Piero Maroncelli,
il conte Giovanni Arrivabene ed altri.
Poi si arresta, come emissario d'una setta
straniera, Alessandro Andryane; poi nel 1821
il Confalonieri, il Pallavicino, il Castillia, Pietro
Borsieri, Andrea Tonelli. Poi, altri processi
nel 31, nel 33, nel 35, e sfuggono all'arresto
Pietro de Luigi, Francesco Arese, e sono presi
con altri, Luigi Tinelli, uno Zambelli, Gabriele
Rosa e Cesare Cantù.
La resistenza era tutta concentrata nelle classi
[142]
superiori, fra i nobili soprattutto e fra i letterati.
Le masse popolari non avevano ancora,
come più tardi, aperte le loro fibre al fremito
dell'indipendenza. Si commovevano alle sofferenze
dei patrioti; ma non erano indifferenti
alle feste dei persecutori. Subivano gli effetti
dell'epoca di transizione. E l'imperatore Francesco
e il principe di Metternich potevano, malgrado
i processi iniqui e le più inique condanne,
venire due o tre volte a Milano, senza
che la moltitudine osasse turbare con atti di
disapprovazione gli spettacoli e le luminarie.
Soltanto uno studente dell'Università di Pavia,
Tommaso Grossi, rispose nel 1819 alla sfida del
viaggio imperiale, con una vigorosa e felicissima
satira in dialetto popolano, la Prineide,
che girò manoscritta e fu subito su tutte le
bocche.
Fra questi tentativi politici, il più grave per
la larghezza del disegno, per la qualità dei cospiratori,
per le conseguenze che ne rimasero,
fu certamente quello del 1821. E fra le vittime
del tentativo, la figura più altera, la personalità
più drammatica, il nome rimasto nella tradizione
popolare e nel quesito istorico come il
vero protagonista di quel dramma affannoso fu
[143]
un patrizio milanese, il conte Federico Confalonieri.
Pochi uomini al tempo nostro sono stati più
discussi di lui; pochi hanno avuto più devota
schiera d'amici, più larga corrente di antipatie.
Era nato al dolore e alla tragedia, come altri
nascono all'idillio o all'amore. In tutte le fasi
della sua vita, ha una pagina strana, che non
lo porta mai al trionfo, ma che lo leva dal comune
degli uomini. Giovane, è involto nei cupi
andamenti di una rivoluzione che mette capo
al delitto; sette anni dopo, gli si addossa la
responsabilità di un altro movimento che mette
capo a sconfitte e a supplizj; passa i quindici
anni della sua virilità fra le nude pareti di
un tetro carcere, amareggiato da ogni specie
di sofferenze fisiche e di torture morali; muore,
come pochi muojono, durante un viaggio, di
pieno inverno, senza conforto di parenti o d'amici,
in un albergo di villaggio, sulla cima del
S. Gottardo. Il mistero s'è assiso, come dicono
i poeti, al suo capezzale; lo offende nel 1814,
lo perseguita nel 1821, esce con lui dallo Spielberg
nel 1836, non lo risparmia nemmeno fra
le pareti domestiche, in mezzo all'atmosfera di
eleganza e di affetto che per pochi anni Teresa
Casati ha potuto creargli intorno. È suo
[144]
destino che lo si possa credere atto a cose
grandi, capace di cose odiose. Nel complesso è
una sfinge, contro cui non hanno cessato mai
di scrosciare i venti e le tempeste, ma che resiste
immota alle offese e che forza i viaggiatori
del deserto a volgersi per guardarla e per
occuparsi di lei.
Ora può dirsi giunto il tempo d'interpretare
l'enigma di questa sfinge? possono dirsi vicini
i posteri ad afferrare i confini di questa personalità,
a strappare dalle pieghe dell'anima sua
qualcuno fra i segreti, onde si compone e continuerà
a comporsi la storia psicologica dell'ente
umano?
Forse certi fenomeni dell'atavismo potrebbero
essere utilmente invocati ad esplicare alcuni
lati dell'indole di Federico Confalonieri.
Apparteneva al più antico patriziato milanese,
senz'altro forse alla famiglia più antica;
poichè, senza voler rimontare alla tradizione
di S. Eustorgio, vi sono documenti del secolo
ottavo, da cui appare già il privilegio dei Confalonieri
di accompagnare nel loro ingresso gli
arcivescovi di Milano. Fra i membri di quella
prosapia parecchi avevano avuto vicende strane.
Un Corrado, dopo avere appiccato incendj, s'era
pentito, vedendo condannarsi alla morte un
[145]
povero contadino pel delitto suo, ed era corso
a chiudersi in un eremo, presso Noto, dove
stette 36 anni e d'onde uscì beato, poi santo.
I Confalonieri furono alleati di Carlo Magno e
di Federico Barbarossa. Nel secolo XIII Stefano
Confalonieri va ad appostarsi sulla strada
di Barlassina ed uccide di sua mano, per fanatismo
d'eretici, quel Pietro inquisitore che
la Chiesa ha poi canonizzato col nome di S. Pietro
Martire. Non vi sarebbe dunque a meravigliare
se dall'insieme di queste tradizioni gentilizie
uscisse nel conte Federico un tipo rigidamente
aristocratico, duramente accentuato, e
in lotta continua fra istinti vigorosi di ribellione
e vaghe aspirazioni a misticismo religioso.
Durante il Regno Italico, Federico Confalonieri
non ci appare che sotto le sembianze eleganti
d'un giovane della buona società. È il
migliore cavallerizzo, il re delle danze, l'oracolo
nelle questioni di buon gusto, di spirito,
di duelli. Il Cantù ha pubblicato in un suo libro
pieno di sbalzi: il Conciliatore e i Carbonari,
alcuni versi di Giovita Scalvini, da cui appare
la grande seduzione che esercitava il giovane
Confalonieri sugli uomini.... e sulle donne. Teresa
Casati, bellissima e dolcissima fanciulla,
gli rompe coll'amor suo la vita da scapolo. Ed
[146]
egli è felicissimo di quell'amore; la giovane
coppia conserva il primato delle simpatie cittadine;
la Vice-regina vuole la sposa Confalonieri
a sua dama di corte, e lo sposo vi acconsente
senza entusiasmo.
Verso gli ultimi mesi del Regno, Federico
Confalonieri comincia ad assumere atteggiamento
politico. Non accetta un ufficio di Corte
che Napoleone gli destina[29]; si astiene dallo
intervenire ai ricevimenti del Vice-re; parla
alto e forte contro le follíe dell'Impero e le
sue guerre sterminatrici. Al 20 aprile, ha già
fisi sopra di lui gli sguardi del pubblico, ed
ogni suo passo è spiato, ogni mossa giudicata,
piuttosto con diffidenza che con simpatia. È considerato
già come il capo del partito italico;
e si separano tanto da lui i capi della soluzione
austriaca, il Verri, il Guicciardi, l'Armaroli,
quanto egli cerca separarsi dal Melzi, dal Prina,
dai capi della soluzione eugeniana. Come accade
in tutte le giornate di tragiche commozioni,
le accuse e le difese s'incrociano e non
riescono a illuminare la scena. Il Verri asserisce
di averlo visto nel cortile del Senato dare il segnale
di applausi, ed egli afferma in un
[147]
opuscolo[30] “nessuno potrà asserire d'avermi visto
prender parte a que' clamori, sia di plauso,
sia d'improbazione.„ L'Armaroli attribuisce a
lui personalmente l'atto brutale di avere traforato
coll'ombrello il ritratto dell'Imperatore dipinto
dall'Appiani e di averlo buttato dalla finestra;
e il Confalonieri risponde[31], denunciando
al pubblico lo scrittore come “un vile calunniatore„
e protestando di “non avere mai posto,
nell'aula del Senato, in quella giornata, il piede.„
Abbiamo visto come il duca di Lodi, uscendo
dal suo cauto e silenzioso riserbo, rispondesse
ad una lettera del Confalonieri, chiamando
“uomini più che imprudenti„ i pubblicatori
di quelle accuse contro di lui.
Certo, il Confalonieri agì in tutta quella giornata
con impeti giovanili, dei quali pareva che
il rancore, un rancore fiero e personale contro
il principe Eugenio, fosse l'inspiratore. E s'è
molto almanaccato, allora e poi, intorno a questo
rancore. Gli si cercarono ragioni speciali,
molto intime, punto politiche. Si sono immaginate
imprudenze, passioni, vendette, di carattere
medioevale.
[148]
Il nome, la gentilezza, la riputazione morale
di Teresa Confalonieri ci pare che bastino a
collocare simili supposizioni fra quelle troppo
abusate a spiegare i fatti politici coll'elemento
fantastico.
Può darsi che Federico Confalonieri fosse geloso.
Lo si è quando si ama e quando non si
ama. In tal caso, Dio gli ha riserbata una punizione
ben grave. Ma dall'essere geloso ai cupi
drammi che la tradizione popolare ha raccolto
intorno a quell'altera figura, ci corre assai. Il
principe Eugenio Beauharnais era un vagheggino;
Teresa Confalonieri era bellissima; Federico
era marito ed era orgoglioso; il dramma
umano è lì, ma tutto induce a credere che sia
stato unicamente lì. Ora, non basta una semplice
galanteria di modi o di linguaggio a spiegare
il contegno del Confalonieri verso il Vicerè.
Un uomo dell'educazione e delle abitudini
del conte non poteva spingere all'odio qualche
momentanea irritazione per preferenze usate da
un principe ad una bella signora, in un'epoca
in cui le relazioni sociali non s'inspiravano a
claustrali rigidità. D'altronde vi sono lettere
del Confalonieri a sua moglie, da Parigi, nel
maggio 1814, in cui si esprime intorno ad Eugenio
nei termini della maggiore franchezza e
[149]
intimità; con quell'accento verace di comunanza
negli affetti e nei giudizj, che certo non
avrebbe potuto usare, se il principe ormai spodestato
fosse stato, in qualunque tempo, fra lui
e sua moglie una causa di dolorosi rapporti. Si
compiace con essa, p. es. perchè alla famiglia
Beauharnais non sia stata riserbata, nelle trattative
diplomatiche, nessuna principauté. Le dà
ragguaglio d'un incontro fortuito avuto con lui
nell'anticamera di lord Castelreagh; e le aggiunge
scherzosamente: “Sostenni però la dignità
della mia rappresentanza, ed egli certo
trovavasi più di me imbarazzato.„ Un'altra
volta, invitato a pranzo dal maresciallo Berthier,
vi trova il conte Méjean, segretario di
Eugenio, che gli dice essere stato il principe
assai spiacente di non aver veduto da lui nessuno
della Deputazione Italiana. E il Confalonieri
risponde calmo “che una Deputazione
politica non poteva agire individualmente e
che anche la semplice urbanità doveva cedere
alla posizione gelosa in cui si trovava, dovendo
rispondere di sè alla nazione.„
Tutta questa corrispondenza insomma, dettagliata,
intima, affettuosa, dimostra che nessuna
nube gettava tra Federico e Teresa il
nome del principe Eugenio. Sicchè è forza cercare
[150]
una ragione veramente politica alla condotta
sdegnosa ed ostile del Confalonieri verso
il più alto rappresentante del regime napoleonico
in Italia. A questo regime egli era e
s'era manifestato profondamente avverso. Come
tutta la gioventù non militare del tempo suo,
disperava di un'ambizione che nessuna strage
poteva disarmare. Quella nuova Iliade aveva
stancato; il nome di Napoleone, ancora pieno
di prestigio sugli uomini di guerra, aveva cessato
di rappresentare, innanzi agli uomini di
pace e di governo, nessuna speranza di benessere
o di stabilità. Dopo la campagna di Russia,
un lutto profondo aveva regnato nelle famiglie
lombarde; di ventisette mila Italiani ascritti al
grande esercito, soltanto mille rivedevano, col
generale Pino, la patria; altri ventidue mila erano
rimasti fra le zolle insanguinate di Spagna.
Le guardie d'onore, meno cinque, erano tutte
perite[32]. Non bastava la gloria a consolare tante
madri. Onde la coscienza pubblica, attonita a
questo duello fra un uomo e l'Europa, non osava
più ricordarsi dell'idolo antico, a cui l'adorazione
aveva pur troppo insegnata la via del
male; e si allontanava da quel gigante, sotto
[151]
i cui passi, come sotto quelli del dio d'Omero,
tremava la terra.
V'è una lettera di Confalonieri a sua moglie,
da Parigi, pochi giorni dopo l'atto di abdicazione,
in cui parla quasi con ira dell'uomo “che
ha fatto scannare centomila vittime in sostegno
di tutt'altra causa che la loro propria.„
Era veramente la nota dominante, il grido di
dolore dell'epoca.
E se a questa ragione di alta politica, un'altra
dovesse unirsene d'indole personale, a giustificare
l'antipatia che il Confalonieri nutriva
pel Vicerè, non la cercheremmo in un amore ferito,
ma in un'ambizione offesa. Il principe Eugenio
aveva offerto al conte Federico di essere
suo grande scudiere; e l'offerta dovette singolarmente
umiliarlo. Al giovane altiero, che si sentiva
un valore politico ed era forse troppo impaziente
di politiche attività, quel posto di Corte,
che gli dava il diritto o l'obbligo di cavalcare
sul corso alla portiera del Vicerè, parve piuttosto
un insulto che un segno di favore. Rifiutò
sdegnosamente, e forse di lì muovono i primi impulsi
alla sua tenace ostilità. Da una lettera sua
alla moglie e da un'altra a lui scritta da Lodovico
De Breme traspare quanto orgoglio venisse
offeso da quell'incauta proposta vicereale.
[152]
Ad ogni modo, dopo la fatale giornata del
20 aprile, e malgrado l'incerta fama che ne rimane
su lui, l'influenza politica del Confalonieri
diventa subito grande.
La Reggenza Provvisoria di governo, tratta
dal solo partito austriaco, lo sceglie fra i deputati
inviati a patrocinare presso le potenze
alleate le sorti del Regno. Ed egli, più giovane
di tutti, è il capo morale della Deputazione,
l'oratore incaricato di affrontare le
questioni più delicate, i colloqui più decisivi.
Questa prima missione politica è piena di
onore pel conte Federico. Il brillante ordinatore
dei minuetti milanesi si muove come un
diplomatico esperto frammezzo a quella plejade
di imperatori e di marescialli. Non è imbarazzato,
non è timido, non è provocante. Vede
giusto fino dal primo giorno e non s'illude, nè
illude. Il suo colloquio con lord Castelreagh,
in cui quel plenipotenziario inglese gli annuncia
chiaro e tondo che la Lombardia è
data senza condizioni all'Austria, è stato già
pubblicato[33]; ma non sono pubblicate ancora
le molte lettere sue da Parigi alla moglie,
in cui la informa della situazione di Parigi
[153]
e de' suoi colloqui coi sovrani di Russia e
d'Austria.
È appena giunto, e scrive il 4 maggio: “Milano
è nell'inganno. Egli è ben doloroso il doverne
sortire, quando l'inganno è dolce.... Un
mese prima eravamo ancora in tempo per far
qualche passo alla nostra politica esistenza; or
non ci resta che ad implorarla. Ci verrà essa
accordata? l'Austria è l'arbitra, la padrona assoluta
dei nostri destini. Non trattasi più di
domandare alle Alte Potenze costituzione liberale,
indipendenza, Regno, ecc. Trattasi d'implorare
ciò che un padrone ci vorrà accordare.„
Assiste all'ingresso in Parigi di Luigi XVIII,
e, meravigliato degli entusiasmi che l'accompagnano,
scrive con vibrate parole: “Stordita
nazione, ha bisogno d'esser condotta colla catena
e col flagello! 24 anni di disastri non
l'hanno ancor resa alla ragione. Ma l'orgoglio,
ma la vanità francese è bassa.... si ubbidisce
tremando a chi parla una lingua straniera....„
I suoi abboccamenti coll'imperatore Alessandro
e coll'imperatore Francesco sono di
notevole interesse storico. Alessandro riceve
gl'inviati milanesi come illustri italiani, non
come Deputazione. È garbato, ma breve e laconico,
quasi per impedir loro affatto d'entrare
[154]
in materia. Invano il Confalonieri e Alberto
Litta prendono due volte la parola; egli la
tronca con altiera urbanità sul labbro degli
oratori, dice loro delle cose graziose e li congeda
coi complimenti d'uso. Forse il contegno
dell'imperatore Alessandro sarebbe stato diverso,
se la Deputazione milanese avesse avuto
il mandato di sollecitare una soluzione favorevole
al principato indipendente di Eugenio
Beauharnais. Questa soluzione avrebbe avuto
tutto il favore dello Czar, che all'imperatrice
Giuseppina lo aveva caldamente promesso. E
forse in quel punto Federico Confalonieri avrà
dovuto pensare come l'essere giovani e audaci
non basti sempre a risolvere bene i gravi argomenti,
e come il vecchio Melzi avesse avuto,
nel suo tentativo politico di un mese prima,
intuito più giusto e avvedimenti più sagaci
de' suoi.
Quanto all'imperatore Francesco, le sue accoglienze
sono egualmente cortesi, ma la sua
volontà è inflessibile. “Voi mi appartenete per
diritto di cessione e per diritto di conquista,
vi amo come miei buoni sudditi, e come tali
niente mi starà più a cuore del vostro bene;„
ecco le prime parole con cui l'Imperatore accoglie
la Deputazione lombarda. E il Confalonieri
[155]
scrive alla moglie: “nulla vi ha di lusingante
e di paterno che non ci abbia detto
in più di mezz'ora di amichevole conferenza,
ma egli parlava da padrone, nè vi era luogo
a patti.„ Richiesto se almeno acconsentiva che
la Corona di Ferro brillasse sul suo capo, unitamente
alle altre, ma dalle altre staccata, rispose:
“Io non ho progetti ambiziosi, mi occuperò
di questa idea, desidero assai farvi contenti;
Regno Italico no, perchè io non ispingo
le mani a quello che può essere d'altri.„ E cercava
in quei giorni di spodestare la dinastia
di Savoja!
Alle richieste di Confalonieri per un esercito
indigeno, per lo sviluppo degli stabilimenti
sorti durante il periodo italiano, per la restituzione
dei capi d'arte involati sotto il periodo
francese, rispondeva evasivamente: “Lo veggo,
avete bisogno di una Corte; vi manderò un
Arciduca; sarà ammogliato.„ Quanta meschinità
di criterj in così grande sommovimento
di cose!
L'Imperatore desiderava però compromettere
più a fondo i delegati milanesi; diceva loro
che desiderava vederli altre volte per valersi
dei loro lumi. Al che rispondeva con prudente
fermezza il Confalonieri che “la Deputazione
[156]
non poteva allontanarsi dallo scopo per cui
era stata mandata, senza avere nuove istruzioni.„
È rimasta nelle tradizioni storiche di quei
giorni una grande oscurità intorno alla vera
soluzione che il partito italico avrebbe voluto
dare alle cose del Regno. Si conosce il programma
dei Mellerio e dei Ghislieri, l'Austria
assoluta; si conosce quello dei Verri, dei Guicciardi,
della Reggenza, l'Austria con guarentigie
amministrative; si conosce quello dei Melzi,
dei Paradisi, dei generali italiani, il Regno
autonomo colla dinastia di Beauharnais. Ma
qual era il programma di Confalonieri, che a
nessuno di questi aderiva e che di tutti s'era
guadagnata l'ostilità?
Nessuno storico, a nostra conoscenza, l'ha finora
accennato; ma fra le carte della famiglia[34]
si trovano accenni ad una soluzione, che
il conte Federico era forse allora solo a credere
possibile, e che i tempi resero più tardi la soluzione
trionfante. “Stiano gl'Italiani uniti„
[157]
scrive alla moglie fino dal 13 maggio 1814 “non
presentino che un solo voto, si dimentichino
quel fatale e malinteso patriottismo di città
per non servire che al patriottismo di nazione;
pronuncino pure i loro sensi altamente, energicamente,
li facciano giungere fin qua, e la
loro causa non è ancor disperata.„ E più tardi
scrive: “Bando alle idee municipali e pregiudicate;
la miglior consistenza di uno Stato è
legata colla sua compattezza e conveniente linea
di confini. Le città non possono essere
tutte capitali; e una città grande di uno Stato
grande val meglio di una capitale in uno Stato
piccolo. Se nel sistema delle reintegrazioni, la
Casa di Savoja, già la più forte dell'Italia nordica,
dovesse divenirlo di più, è meglio appartenerle
che aumentare il numero o far parte
dei frazionarj Ducati italiani.„
Da queste lettere spunta veramente un programma;
un programma forse — come il diplomatico
di Scribe — unitario senza saperlo.
Ma l'uomo che fin dal 1814 vedeva nella Casa
di Savoja, allora negletta ed umiliata, la soluzione
dell'avvenire; l'uomo che, affrontando
con largo animo la questione municipale, intuiva
le discordie del 1848 e le concordie del
1859; l'uomo che fin d'allora consigliava a Milano,
[158]
splendida capitale d'un grande Stato, di
abdicare, per intenti superiori di nazione, ad
orgogli che potevano sembrare legittimi, — quest'uomo
doveva unire ad un forte intelletto
politico un alto sentimento di convenienza e
di generosità[35].
Chiuse le trattative e stabilito irrevocabilmente
il destino della Lombardia, Confalonieri
non volle spiccarsi da Parigi senza visitar Londra.
La sua riputazione vi era giunta prima di
lui, ed egli ebbe ovazioni dal partito liberale
e dai membri dell'opposizione parlamentare,
malcontenta già del trattato di Parigi e della
condotta, piena di assenso a tutte le avidità
imperiali, che vi aveva tenuto lord Castlereagh.
Non volendo aggiungere pretesti a lotte politiche
[159]
in paese straniero, Confalonieri tornò subito
a Milano. Vi prese atteggiamento di altiera
disapprovazione per la condotta governativa
dell'Austria e per la sleale dimenticanza
delle sue promesse. Fu il rigido regolatore del
piccolo partito nazionale rimasto in Milano;
ed ebbe crude parole per le debolezze di amici
suoi, del Pecchio fra gli altri e di Ugo Foscolo;
col quale corsero sfide, perchè il suo contegno
verso le autorità austriache non gli era parso
così indipendente com'egli giudicava che il
Foscolo avrebbe dovuto serbarsi. E forse dobbiamo
alla severità morale del Confalonieri se
quell'alto ingegno s'è potuto in quei giorni
fermare sulla china pericolosa verso cui l'avviavano
le spensierate prodigalità della sua vita
gaudente; e se, determinandosi ad emigrare in
Isvizzera e a Londra, trovò poi modo di rialzarsi
a dignità di lavoro e di riconquistare l'amicizia
dello stesso Confalonieri e degli altri
liberali che a Milano ne avevano deplorata
l'incerta condotta.
Dopo un anno di questa vita milanese, piena
di virtù, di riflessioni, forse di pentimenti, il
Confalonieri si decide a viaggiare; viaggia
colla consorte, viaggia solo, con amici, percorre
l'Italia, la Svizzera, e da capo la Francia
[160]
e l'Inghilterra. Viaggia con molta serietà d'intenti,
coll'animo sempre aperto alla patria e
all'avvenire. Monsignor Pacca, governatore di
Roma, annunciando a chi vi poneva interesse
il passaggio per le Romagne del conte e della
contessa Confalonieri, notava che a Roma e a
Bologna essi frequentavano “la più cattiva
compagnia.„ Voleva dire gli uomini che aspiravano
a rivolgimenti d'indipendenza.
A Napoli il Confalonieri conosce i Poerio,
i Carrascosa, i Cuoco, i Rossaroll e quei due
generali Pepe, di uno dei quali, Guglielmo,
scrive con tacitiana sentenza: “divenuto famoso
senza essere nato a fama.„
In Toscana si stringe di nobile amicizia
con quel Gino Capponi che è stato per tre
generazioni il modello degli Italiani a cuor
largo e a politica generosa. In Isvizzera visita
gli istituti di Fellemberg e di Pestalozzi
e vi si innamora delle questioni didattiche e
dei metodi educativi. In Inghilterra studia
tenacemente le istituzioni liberali; è ricevuto
a braccia aperte da lord Holland, il patriarca
dei liberali inglesi, e un fratello del Re, il
duca di Sussex, lo inscrive nella loggia di
Cambridge.
In Francia, si lascia attrarre dal vecchio
[161]
Buonarroti nell'ambiente delle società segrete;
nelle quali accetta di entrare, quasi con scettico
disdegno, ricusando i giuramenti e gli
altri vincoli della setta. È accolto ospite gradito
nella compagnia del venerando Lafayette,
e vi conosce i Broglie, i Dupin, i Constant, madama
di Stael e Larochefoucault-Liancourt e
Degerando e Alessandro Laborde. Dappertutto
dove va, lo sentono uomo di valore e lo trattano
come tale.
Al suo ritorno da questi viaggi, il suo nuovo
programma è stabilito. “Federico mio„ gli
aveva scritto in quei giorni un amico, profondo,
si vede, nella conoscenza degli uomini
“soffoca l'invidia colle azioni o l'invidia soffocherà
te colle parole[36].„
E il Confalonieri agisce. Raduna un gruppo
d'amici, colti, operosi, devotissimi all'Italia
ed a lui. Si mettono a patrocinare nuove idee,
ad iniziare progressi nuovi, introducono macchine
per lavorare il lino, assettano la prima
filanda a vapore, fanno solcare da un piroscafo
di prova il lago di Pusiano, tentano in un palazzo
di Milano[37] il primo esperimento d'illuminazione
[162]
a gas. Il Confalonieri chiede al governo
il permesso di aprire scuole popolari
fondate sul sistema del mutuo insegnamento;
sistema allora molto in voga per iniziative
inglesi e francesi, ma del quale, come sovente,
poteva rivendicarsi l'invenzione ad un nostro
italiano, quel Castellino di Lecco la cui memoria
è ricordata da una lapide municipale
sopra una casa della via Alessandro Manzoni.
Il Governo accordava dapprima volentieri il
permesso, ma poi, sospettoso degli scopi e visto
il gran numero di scuole che si fondavano,
ritirò l'autorizzazione e ne decretò la chiusura.
Intanto, la novità aveva servito ad allacciare
molte relazioni, ad agitare questioni d'istruzione
pubblica, a mettere in evidenza la cultura
e l'amor del paese che nutrivano i liberali.
Il Confalonieri s'era posto in corrispondenza
per tali imprese con uomini distinti
d'ogni parte d'Italia, col Mompiani di Brescia,
col conte Giovanni Arrivabene di Mantova; s'era
fatto presentare per lettera da Gino Capponi
a Carlo Alberto, principe di Carignano.
Per allargare e rassodare questo movimento
di spiriti che doveva, secondo i suoi promotori,
preludere a rinnovazioni politiche, si fondò
un giornale, il Conciliatore; macchina di nazionalità
[163]
e di progresso, di cui s'era avuto cinquant'anni
prima l'inspirazione nel Caffè, e
di cui si avrebbe avuto trent'anni dopo nel
Crepuscolo una gloriosa ripetizione.
Il conte Luigi Porro-Lambertenghi era il
braccio destro di Confalonieri in tutto questo
tramestio. Anzi fu lui che sostenne le spese
della pubblicazione e ne diresse gli andamenti.
E con lui sul Conciliatore scrivevano,
con pensieri rinnovatori, Gian Domenico Romagnosi,
Giuseppe Niccolini, Silvio Pellico,
Lodovico De Breme, il Sismondi, Ermes Visconti,
Pietro Borsieri, Giuseppe Pecchio,
Giovanni Arrivabene, Giovanni Rasori, Filippo
Ugoni, Giovanni Berchet, tutto lo
stato maggiore dell'ingegno lombardo, da cui
sarebbero usciti i martiri e gli esuli del patriotismo.
Questo simpatico sodalizio ridava a Milano
un po' di tono; si usciva ancora una volta dai
discorsi volgari per muoversi in un'atmosfera
di novità intellettuali[38]; in casa Trivulzio, in
casa Porro, in casa Confalonieri, in casa Ciani,
in casa Arconati si raccoglievano a piacevoli e
[164]
dotte conversazioni i più distinti e i più intelligenti
cittadini; non vi mancavano illustri
stranieri, che ricercavano con premura l'ingresso
a quei circoli, — e lord Byron e M. Necker
e lord Brougham e Schlegel e il chimico
Davy e il duca di Richelieu. Lo stesso comandante
supremo dell'esercito austriaco in Italia,
il maresciallo Bubna, frequentava quelle sale
del patriziato; dacchè era e si manifestava volentieri
uomo di progresso; e nel paese, piuttosto
che l'elemento militare, si avversava in
quell'epoca l'elemento civile austriaco, perchè
il vero colpevole delle smentite promesse e
degli abusi della polizia.
Questa non tardò infatti a fermare il moto
e a perseguitare i motori.
Nell'ottobre del 1819, il Conciliatore veniva
soppresso; nell'ottobre dell'anno successivo,
si arrestavano Pellico, Gioja, Romagnosi, — il
processo dei Carbonari — e non s'era che
al principio; l'anno seguente, le carceri si
riaprivano per nuovi illustri, e cominciava il
mostruoso processo dei Federati.
A questa setta avevano politicamente aderito
il Confalonieri e gli amici suoi lombardi; mentre
la Carbonerìa aveva maggiormente invaso le
Provincie venete, marchigiane e napoletane.
[165]
In queste ultime l'insurrezione era scoppiata
nell'estate del 1820, e nell'inverno successivo
cominciava a rumoreggiare in Piemonte.
Sui primi di marzo, parte da Parigi per Torino
il principe Della Cisterna, gentiluomo nobilissimo
e rispettabile, padre di quella che fu
regina di Spagna e consorte ad Amedeo di
Savoja. Un avviso segreto al conte Lodi, ministro
della polizia, gli partecipava che in un
doppio fondo della carrozza da viaggio del
principe si sarebbero trovate carte compromettenti.
La carrozza è visitata, e le carte si
trovano. Si cominciano i primi arresti, lo stesso
principe Della Cisterna, che parve estraneo
alla congiura ordita per mezzo suo, il colonnello
Ettore Perrone e il marchese di Priè. Quegli
arresti provocano agitazioni, e a furia di spinte
e di controspinte si giunge a quel movimento
militare, il cui insuccesso procurò a Carlo
Alberto così lunghe amarezze.
Il Confalonieri non voleva essere inerte spettatore
delle novità piemontesi. Ma era malato
di febbre e non poteva viaggiare. Incaricò due
giovani amici suoi, Giorgio Pallavicino e Gaetano
Castillia, di recarsi a Torino a proporre
accordi. Quelli andarono, videro il generale
[166]
Della Torre, parlarono a Carlo Alberto, e tornarono
persuasi che non v'erano sufficienti forze
militari per attaccare gli Austriaci. Saputo ciò,
il Confalonieri disdisse prudentemente in Lombardia
ogni disposizione di moto, e scrisse
anzi, trasmessa dal Pecchio, una lettera al
conte di San Marzano, sconsigliandolo dal
tentare invasioni inefficaci al di qua del Ticino[39].
La polizia austriaca aveva notato questi andirivieni
e stava in agguato. Fra le carte trovate
nella carrozza del principe di Cisterna,
v'erano indirizzi di varj personaggi italiani, e
fra i lombardi si raccomandava Federico Confalonieri.
Bastava perchè fosse attentamente
vigilato, come si vigilavano il Pallavicini e il
Castillia. Questi era inoltre sospetto per frequenti
relazioni sue colla Spagna, allora in
[167]
auge presso i congiurati per la sua Costituzione
del 1812 e per l'appoggio che dava loro in Torino
l'inviato diplomatico conte Bardaxi. Sopra
un anello che il Castillia portava in dito,
si potè leggere un motto che fu subito considerato
come linguaggio settario: leggi e non Re;
Italia c'è. Si decide una perquisizione nella
casa di Castillia e il commissario Bolza trova,
involta in una camicia, una lettera scritta ad
Emanuele Marliani, noto liberale italiano, allora
in Ispagna. Ciò basta perchè il Castillia
venga imprigionato; ma non basta perchè si
scoprano complici e fatti. Per alcuni giorni si
va a tentoni; interrogando a destra e a sinistra,
specialmente delle signore.[40]
Allora l'imperatore Francesco istituisce, per
avviare il processo, una Commissione straordinaria
inquirente, affidandone la direzione all'acuto
ed accanito Salvotti. Questi ottiene dal
consigliere Pagani, direttore di polizia, una relazione
scritta, per incarico suo, da Carlo Castillia,
fratello dell'arrestato, che, avendo fatto
parte di una seduta cospiratoria in casa di Pecchio,
con Benigno Bossi, Borsieri e il conte
[168]
Arrivabene[41], ne aveva dato alla polizia i
ragguagli ed informava su molte cose attinenti
alla rivoluzione piemontese allora soffocata. Il
processo comincia a prendere proporzioni e l'inquietudine
si sparge fra i liberali.
Forse però sarebbe stato difficile procedere ad
altri arresti, essendo il Pecchio fuori di Stato,
se al marchese Giorgio Pallavicino, giovane di
caldi sensi e di animo generoso, non fosse balenata
una ispirazione che soltanto la mente
affatto inesperta poteva fargli credere di antica
virtù.
Supponendo che il Castillia fosse arrestato
pel suo viaggio in Piemonte, si reca difilato
dal direttore di polizia e gli dice: “Gaetano
Castillia fu da me trascinato in Piemonte; se
quel viaggio è riputato delitto, io solo sono il
delinquente; io solo adunque sono meritevole
di pena.„
È facile pensare che l'atto inconsiderato del
marchese Pallavicino doveva perdere lui ed
altri, non salvare nessuno. Per quel giorno lasciarono
ritornare l'incauto giovane a casa e
tesero le loro reti. La sera dopo, mentre il Pallavicino
è nell'atrio del vecchio teatro Re, si
[169]
vede a un tratto dirimpetto il conte Bolza, ai
lati due gendarmi travestiti, e un altro commissario
Cardani, che, con un sorriso sulle labbra,
da disgradarne quello dei birri a Renzo,
al momento di mettergli i manichini, gli dice
rispettosamente: “signor marchese, il direttore
generale di polizia vorrebbe dirle una sola
parola.„
È la frase d'obbligo del tempo e del caso. Il
Pallavicino non resiste, nè può resistere. Due
giorni dopo, condotto innanzi alla Commissione
inquirente, il Salvotti gli mostra sopra un pezzo
di carta la firma del Confalonieri e gli dice che
ha saputo da un esame suo tutte le circostanze
della cospirazione. L'insidia volgare riesce; al
giovane, già percosso di dolore e di stupore,
richiamano alla memoria la madre sua che lo
adora. Uno de' commissarj, con cinico inganno,
dichiara d'averla or ora lasciata tutta convulsa
ed in pianto. Il Pallavicino ha scritto egli stesso,
con molta lealtà, la confessione di quel terribile
quarto d'ora. “In quel momento io perdei
l'uso della ragione; farneticavo, sopraffatto dal
dolore.... caddi nel laccio.„
La deposizione del Pallavicino allarga il processo;
si fanno arresti a Pavia, a Brescia, a
Mantova. Invano lo sventurato, ravveduto dalla
[170]
commozione e dall'inganno, cerca ritrattarsi,
confondere i giudici, fingendosi pazzo e ostinandosi
lungamente in questa finzione. Era
troppo chiaro che una pazzia venuta dopo non
poteva infirmare deposizioni fatte prima che
quella sopraggiungesse.
Nella città intanto cresceva l'inquietudine, e
tutti gli occhi si volgevano al Confalonieri, ritenuto
il capo e l'anima di ogni cosa. Si arrestavano
intorno a lui il Borsieri, il Tonelli, il
colonnello Arese, ed egli non si moveva. Aveva
fatto costruire nella sua alcova una scala segreta
che metteva ad un abbaino, e aspettava.
Invano gli amici lo esortavano a mettersi in
salvo. Il maresciallo Bubna, trovatosi una sera
colla contessa Confalonieri nel palco della duchessa
Visconti di Modrone, le disse con marcato
accento: “perchè il conte Federico non
si reca in campagna? mi pare che l'aria libera
gli farebbe gran bene.„ Vuolsi che la stessa
moglie del maresciallo, dama di squisita educazione,
avesse pregato, piangendo, la contessa
Confalonieri a voler allontanarsi da Milano con
suo marito.
Fu inutile. Quanto più pareva che il governo
austriaco esitasse a mettere la mano sul gran
[171]
colpevole, tanto più questi pareva ostinarsi a
sfidarne le esitazioni. Era il pensiero che la sua
fuga avrebbe potuto rendere più grave e più
manifesta la colpa de' suoi amici nel carcere?
Era, come fu più volte supposto, l'inconscio desiderio
di un'espiazione patriottica per le responsabilità
del 1814? Era, come altri gli
rimproverarono, l'orgoglio di un uomo che si
atteggiava a potenza, e che diceva, come
Danton alla vigilia del suo arresto: non oseranno?
La sera del 31 dicembre 1821, Federico e
Teresa sono soli in un gabinetto, nella loro casa,
ora Lattuada, tra la via Romagnosi e il Monte
di Pietà. Entra improvvisamente il solito conte
Bolza con due commissarj. Vogliono solamente
rovistare alcune carte, ma il Gonfalonieri ha
visto nel cortile birri appiattati e comprende
che l'ora del dolore è suonata. Teresa dà al
marito in uno sguardo un poema di conforti,
di ricordi e di addii. E mentre il commissario
affetta di visitare lo scrittojo, Federico chiede
il permesso di mutarsi d'abiti, entra nello spogliatojo
ed apre l'usciuolo della scaletta segreta.
Al remore, che non può interamente dissimularsi,
il Bolza si precipita nella camera da letto,
un altro commissario mette una pistola alla gola
[172]
della contessa Confalonieri, gendarmi e birri
entrano nelle stanze e inseguono su per le scale
il fuggitivo. Questi giunge in tempo a calare
dietro di sè la pesante botola che copriva la
scaletta e si slancia verso il cancello dell'abbaino
che ogni sera rimaneva aperto. Un urlo
d'angoscia! il cancello è chiuso e la chiave non
è sull'uscio.
Invano fruga con febbrile ansietà; invano
scuote le rigide barre e cerca con disperato
sforzo di sgretolare i mattoni; il tetto, lo spazio,
la libertà son lì a due passi le sue mani
vi si distendono traverso alle sbarre; ma la
botola si risolleva; gli sbirri accorrono, si abbattono
sulla loro preda; Federico Confalonieri
dà un mesto addio al mondo, alla libertà, alla
sua Teresa; è prigioniero.
Nessuno potè mai spiegare in qual modo la
via di salvezza preparata con tanta cura si sia
trovata al momento del bisogno così fatalmente
ostruita. Un agente di casa Confalonieri asserì
per molti anni che soltanto per misura di sicurezza
interna, il maggiordomo di casa, ignaro
del vero scopo di quell'apertura, avesse, qualche
giorno prima, fatto chiudere il cancello.
Nella famiglia durò lungamente la tradizione
che un servitore, da poco tempo assunto, e boemo
[173]
di nascita, avesse in quel mattino chiuso
il cancello e nascosto la chiave.
Il processo del conte Confalonieri è una delle
maggiori iniquità giuridiche di cui siano fecondi
i moderni tribunali straordinarj. Nulla fu rispettato,
nè le forme, nè la coscienza, nè i diritti
del prigioniero. L'insidia e la ferocia ne
vegliano le ore, durante il carcere d'inquisizione
e durante quello di pena.
Domanda un Codice penale, e gli viene rifiutato.
Esige, a tenore di legge, che due probiviri
assistano agli interrogatorj per la regolarità
del processo, e gli destinano due giudici
tratti dal seno della Commissione straordinaria
inquirente. Convintosi una volta della falsità
di una deposizione presentatagli a firmare, la
riassume nella sua risposta protocollata, ed il
giudice gli straccia sul viso deposizione e protocollo,
perchè non ne rimanga traccia negli
atti. Si cerca interrogarlo di notte, rompendogli
il sonno; durante accessi di febbre; subito
dopo qualche colloquio colla moglie, da cui esca
addolorato o commosso[42].
[174]
I capi d'accusa sono quattro. Gli contestano:
1.º di avere mandato ad annodare intelligenze
col principe di Carignano; risponde di averlo
fatto soltanto per gli scopi del mutuo insegnamento
e sfida a produrre lettere che parlino
d'altro; 2.º di essere notato fra le carte sequestrate
al principe della Cisterna come l'individuo
di maggiore influenza a cui far capo in
Lombardia; risponde, non avere avuto corrispondenze
di sorta, non essere responsabile di
supposizioni o di opinioni che altri esponga sul
conto suo; 3.º di essere entrato in conciliaboli
diretti ad assassinare il maresciallo Bubna; risponde
sdegnoso che le relazioni di amicizia
personale esistente fra lui e il maresciallo lo
avrebbero fatto correre in sua difesa se lo avesse
supposto minacciato da altri; 4.º di avere insistito
perchè i rivoluzionarj di Torino entrassero
in Lombardia; risponde, provando d'avere
scritto al San Marzano, per isconsigliarlo vigorosamente
dal passare il Ticino.
Sopra nessun punto è debole, in nessun argomento
[175]
si lascia vincere dallo sconforto. È
un inquisito che mette in contraddizione i suoi
giudici, non lascia mettere sè. Non accusa nessuno,
ma si scolpa d'ogni imputazione[43]. Un
tribunale onesto avrebbe dovuto dimetterlo per
mancanza di prove. La Commissione straordinaria
lo condannò a morte.
Ma lo si voleva condannare. Volevano che
non isfuggisse allo Spielberg la sua maggior
preda; che Milano fosse percossa di terrore, vedendo
troncato il suo più alto papavero. Un
inquirente novizio, un giorno che Salvotti era
assente, gli aveva detto: “Della reità sua, signor
conte, nessuno può dubitare; ma il trovarne
le prove è un affare imbrogliato. Per
condannare tutti gli altri a morte, abbiamo
[176]
prove più del bisogno; ma se non si potesse
condannar lei, che cosa direbbe il pubblico?„
Un altro giorno finalmente lo stesso ingenuo gli
dice: “Il Salvotti ha studiato tutti questi giorni
il suo processo, e questa mattina era tutto contento,
dicendo d'averla trovata anche per lei.„
Che cosa aveva trovato questa tigre contenta?
null'altro ancora fuorchè la lettera scritta
al San Marzano per distoglierlo dalla spedizione.
È quella il capo d'accusa, l'argomento che lo
fa condannare a morte. Il Salvotti trova che
non era scritta con buono spirito. “Le intenzioni„
risponde calmo il Confalonieri, “le vede
Iddio. La mia lettera ha servito ad impedire
l'impresa e non a favorirla. Ecco tutto quello
che posso dire[44].„
Gli episodj che seguono la condanna del Confalonieri
sono strazianti. Bisognerebbe possedere
la tavolozza di Ary Schäffer o la penna
dell'autore dell'Ildegonda per descrivere le emozioni
di quell'infelice famiglia, la costernazione
del pubblico sentimento; per interpretare quell'immenso
dolore e quell'immensa pietà.
[177]
Il vecchio padre Vitaliano, la giovane sposa,
il fratello Carlo, il giovinetto cognato Gabrio
Casati partono precipitosamente per Vienna il
2 dicembre (1823); il cupo imperatore li fa aspettare
fino al 24; e sceglie la vigilia di Natale
per ricevere, non Teresa, che non volle veder
mai[45], ma il padre e i due giovani e annunciar
loro che ha confermato la sentenza di morte.
Il vecchio padre è per isvenire dal dolore a
così crudele notizia. Gabrio Casati, forte della
sua giovinezza e della sua innocenza, parla,
prega, scongiura; e il Tiberio austriaco risponde
freddo e sentenzioso: “valga l'esempio di siffatto
castigo a voi giovane e a tutta la lombarda
gioventù, perchè abborriate dalle congiure.
[178]
Se vi preme di abbracciare anche una
volta il congiunto, correte precipitosi a Milano.„
E quelli corrono, e con essi corre la sventurata
Teresa, a cui l'imperatrice Carolina, confondendo
le proprie lagrime colle sue, aveva promesso
che insisterebbe colla maggior seduzione
presso l'imperiale marito.
E insiste infatti, e nella notte del Natale,
giovata da un dubbio sulla legalità del processo
e dalla ingrata impressione fatta sulla
città e sull'aristocrazia viennese dall'implacabile
linguaggio dell'Imperatore, ottiene che
una staffetta sia spedita a Milano coll'ordine
di sospendere l'esecuzione. La previdenza tutta
femminile dell'imperatrice le fa aggiungere l'invio
di una seconda staffetta; e infatti è questa
che giunge in tempo, essendosi l'altra attardata
per via.
Però, crudele perfin nel bene, Francesco II
impedisce alla consorte di partecipare questa
notizia alla Teresa, che viaggia con tanta angoscia
nell'animo, mentre una parola avrebbe
potuto lenirla d'assai.
A Milano sa che Federico è ancor vivo, ma
non può rivederlo. Si raccolgono firme per un
indirizzo all'Imperatore, e la città commossa
ne offre a centinaja, prima fra queste quella
[179]
di Alessandro Manzoni. Gabrio Casati riparte
a furia per Vienna, con queste firme, colle preghiere
di grazia del Vicerè, dell'arcivescovo
Gaisruck, di Maria Luigia, duchessa di Parma.
E finalmente l'Imperatore, mosso piuttosto da
pressioni viennesi che da preghiere italiane,
faceva grazia della vita e permetteva che a
Teresa fosse accordato un ultimo colloquio collo
sposo infelice. Non permise però, — cuore di
marmo, — che a Federico rimanesse un cuscino,
trapunto dalle sue mani e su cui essa aveva
versato tutta un'intimità di baci e di lagrime,
atta a consolare per molti anni nella sua carcere
il derelitto!
Il 20 gennajo 1824, i condannati, graziati
della vita, furono esposti alla berlina fuori del
palazzo criminale. Soldati e gendarmi circondavano
il triste impalcato, e pur troppo non
mancava una folla di mascalzoni e di baldracche
all'ignobile esposizione[46]. La città fu quel
[180]
giorno sotto l'incubo del terrore e dell'angoscia;
le porte dei palazzi signorili rimasero
chiuse; nessuno uscì per visite o per passeggio;
al teatro della Scala i palchi furono coperti
di nero. S'aprì quel giorno tra il governo
austriaco e l'aristocrazia milanese un largo
solco, che a poco a poco doveva diventare un
abisso.
Prima di essere rinchiuso in quella cella sepolcrale
dove gli restavano a passare altri dodici
anni di vita, il conte Federico Confalonieri
doveva però subire un'altra prova, sottoporsi
ad un'altra insidia politica.
Il Tabarrini ha già pubblicato in un suo
libro intorno a Gino Capponi quel brano delle
memorie inedite di Confalonieri, in cui narra
il suo colloquio a Vienna col principe di Metternich.
È una pagina epica. Quel potentissimo
uomo che si presenta al suo prigioniero come
[181]
eguale innanzi ad eguale, che gli discorre lungamente,
come uomo di Stato ad uomo di pensiero,
che fa balenare innanzi a' suoi occhi tutti
i miraggi della vita, dell'eleganza, del grado
sociale, dell'influenza politica, per istrappare
a questo prigioniero una rivelazione, una parola,
su cui l'uomo potentissimo fonda tutta
una speranza di sistemi e di combinazioni, — è
un episodio storico degno di Polibio o di Tacito.
Quella parola, richiesta con tanta ansietà, il
prigioniero non l'ha pronunciata. Si voleva da
lui qualche cosa che compromettesse Carlo Alberto,
che permettesse a' suoi nemici di chiudere
ogni avvenire di regno a un principe italiano
che pel quarto d'ora aveva contro di sè
il sospetto e la sventura, ma nel quale l'Austria,
infallibile nell'odio suo, presentiva da lungi il
futuro determinato nemico. Federico Confalonieri
ebbe in quell'ora nelle mani il destino
d'Italia. E lo salvò; coll'intuizione del patriota,
se non con quella del genio; lo salvò, sacrificando
sè stesso, la sua gioventù, la sua gioja
domestica. Il principe di Metternich gli offrì
invano un colloquio liberatore coll'imperatore
Francesco. Quel beneficio dell'augusta presenza,
che il capo di un grande impero negava così
duramente alla virtuosa moglie di un nobile
[182]
gentiluomo, egli l'avrebbe accordato volentieri
a quello stesso gentiluomo, fattosi delatore.
Ma il forte italiano ruppe i cupi disegni che
sorridevano all'Imperatore e al ministro, e l'avvenire
di Carlo Alberto fu libero. Il principe
di Metternich si congedò dal suo interlocutore
come un carnefice dalla sua vittima. “Signor
conte„ gli disse colla più ironica disinvoltura
“debbo intervenire ad un ballo e non posso
farmi aspettare. Mi dispiace ch'ella si ostini a
voler seguire diversa via.„ E, accendendo ad
un doppiere il suo zigaro colla massima indifferenza,
s'inchinò come avrebbe fatto a Milano
nel palazzo Confalonieri, ed uscì dalla
stanza.
Il richiudersi di quell'uscio dovette certamente
essere pel conte Federico un istante di
tremenda emozione. Aveva avuto un'ora di illusione
dei vecchi tempi, degli urbani colloquj;
ora gli si aprivano anni di umiliazioni, di fame,
di catene. Quell'austero carattere non si piegò.
Da quell'abboccamento il ministro usciva rimpicciolito,
il prigioniero ingrandito. Il primo
era un uomo di Stato che si tramutava in delegato
di pubblica sicurezza, il secondo era un
ribelle che si tramutava in uomo di Stato. Il
primo s'avviava, uscendo da quella stanza, ai
[183]
balli, ai congressi, a tutte le voluttà della vita,
ma era e si sentiva vinto da quel pallido galeotto,
che, avviandosi invece verso le regioni
dello squallore, constatava ancora una volta in
faccia alla storia l'impotenza della tirannide
contro la virtù[47].
Del lungo martirologio di Confalonieri allo
Spielberg possono avere esatta nozione tutti
quelli che hanno letto i libri di Pellico o di
Maroncelli o di Andryane o di Giorgio Pallavicino.
[184]
Divenuto un numero, come tutti gli altri,
Francesco imperatore li trattò tutti insieme
coll'eguale squisitezza del tormentare[48]. Aveva
nel proprio gabinetto il piano di quelle prigioni
e credeva uno dei più sacri doveri dell'eccelsa
dignità sua dirigere personalmente la gradazione
di sofferenze de' suoi prigionieri. A lui si
doveva ricorrere per aumentare o diminuire la
razione di fagiuoli che si accordava ai condannati.
Egli permise, dopo mesi di atroci dolori,
che si amputasse la gamba a Piero Maroncelli.
Ci volle un chirografo imperiale per munire il
calvo capo di Costantino Munari d'una parrucca
di pelo di cane. Il passero addomesticato,
che era divenuto l'amico del prigioniero Bachiega,
gli fu sequestrato, poi restituito, morto,
per ordine dell'Imperatore. Fu egli che fece
rinchiudere Giorgio Pallavicino in una cella
con un matto furioso. Confalonieri pativa di
asma e l'imperatore d'Austria fece togliere un
cuscino disotto al capo dell'uomo che era stato
ambasciatore presso di lui. La mente si confonde
a pensare quanta ferocia può accumulare
un odio politico nel cuore di un uomo che ha
moglie, che ha figli, che prega Iddio! Perfino
[185]
questo conforto del pregare era stato avvelenato
al Confalonieri; ed egli, uomo di fede cattolica,
dovette astenersi dalle pratiche religiose,
perchè il sacerdote delle carceri ne approfittava
per ispingerlo a confidenze, a rivelazioni, ad
accuse contro Carlo Alberto.
Le discipline carcerarie erano vigilanti e rigorose;
però gli affetti ch'egli aveva lasciato
fuori del carcere si coalizzavano con efficacia
ed erano riusciti a regolare un piano di fuga
che aveva le maggiori probabilità di successo.
Venutone a cognizione, il Confalonieri si dice
avesse chiesto se al suo compagno di cospirazione
e di carcere, Filippo Adryane, sarebbe
pure stato concesso il mezzo di fuga. Rispostogli
che la combinazione non poteva estendersi
ad altri, senza certezza d'insuccesso, ricusò
di approfittare solo di questo sforzo d'amici.
La salute della contessa Confalonieri si
aggravò del nuovo eroismo e del nuovo dolore.
Scrisse in carcere le sue Memorie; dieci fascicoli
di carattere fitto che non si possono
guardare senza emozione, pensando al luogo
dove furono scritte e alle lagrime che avranno
costato.
Le dirigeva, con affettuose parole, alla consorte
Teresa, di cui certo in quegli anni avrà
[186]
apprezzato l'amore più che in ogni altra epoca
della sua vita.
Si struggeva dal desiderio di poterla rivedere,
e lo sperava. Ma un giorno entra nel suo
carcere un commissario ruvido e impettito.
“Numero sette„ gli dice “S. M. l'Imperatore
si degna di farvi sapere che vostra moglie è
morta.„ La pagina che segue nelle sue Memorie
a questo annuncio è straziante. Cessa di
scrivere perchè non ha più il Nume che lo inspirava.
Nelle ultime pagine, le sue riflessioni
si volgono di preferenza ad argomenti spirituali.
Quando Francesco muore, e il suo successore
spalanca, non senza restrizioni, le porte
delle prigioni politiche, Confalonieri è un uomo,
come Pellico e più di Pellico, avvolto nell'atmosfera
di un misticismo religioso profondo.
Sicchè dovette certo suonargli gradita l'epigrafe
apposta ad un libro che trovò a Gradisca,
inviatogli dal suo condiscepolo e quasi
fratello, Alessandro Manzoni.
“Che può l'amicizia lontana per mitigare
le angosce del carcere, le amarezze dell'esiglio,
la desolazione di una perdita irreparabile?
Qualche cosa quando preghi; chè,
se sterile è il compianto che nasce nell'uomo
e finisce in lui, feconda è la preghiera che
[187]
vien da Dio e a Dio ritorna. — Milano, 23
aprile 1836.„
Rispettiamo l'evoluzione di queste coscienze,
che, dopo 15 anni di colloquio col proprio dolore,
hanno trovato una via. Quante cose, al
mondo, sembrano diverse, guardate al lume
della solitudine e della sventura!
Federico Confalonieri fu, nell'ultima fase
della sua vita, uomo e patriota alto d'istinti,
com'era stato nella prima. Il carcere non lo
aveva domato, la libertà non lo sbilanciò. Condottosi
in America, vi trovò accoglienze così
romorose quali non potevano convenire al suo
carattere chiuso ed austero. Vi era stato preceduto
da un articolo dell'Edimbourg Rewiew
che ne faceva altissime lodi. Più, v'era conosciuto
e assai popolare il nuovo libro di Pellico:
Le mie prigioni, la cui traduzione si leggeva
anche nei più meschini abituri. Il Confalonieri
fu dunque accolto con quegli entusiasmi,
di cui la razza anglo-sassone non cede in
alcune occasioni il privilegio alle razze latine.
Lo chiamavano il martire del miglioramento
umano; lo pregavano di benedire, di battezzare
i bambini; domandavano al suo cameriere qualcuno
dei suoi grigi capelli.
Il proscritto milanese si sottraeva, come e
[188]
quando poteva, a simili pubblicità. Studiava,
secondo l'antica abitudine, uomini, istituzioni,
movimento scientifico; e v'è una sua lunga
lettera, in cui parla delle nuove applicazioni
dell'elettricità, e suppone, con notevole preveggenza,
che questa forza debba potere in seguito
adoperarsi pei trasporti e per l'illuminazione.
In America trova Pietro Borsieri, suo compagno
di sventura, e lo soccorre con fraterna
larghezza; trova il principe Luigi Bonaparte,
che lo colma di gentilezze, e vi risponde con
severo riserbo.
Torna in Europa, va a Parigi, e Luigi Filippo
lo sbandisce entro ventiquattro ore dal
regno, per compiacere alle richieste dell'ambasciatore
d'Austria.
Questi pretendeva che il Confalonieri avesse
violato uno dei patti dell'amnistia concessagli,
cercando di vivere in Europa. E lasciava che
questa sua accusa si diffondesse, tanto che un
giornale, il Temps, la raccolse per conto suo e
stampò un articolo abbastanza ingiusto per l'esule
milanese. Il Confalonieri non accettò di
sopportare in silenzio questa duplice ostilità.
Scrisse al Temps una lettera dignitosa per rivendicare
i suoi diritti e ristabilire la verità
[189]
delle cose[49]. L'incidente destò rumore; parve
indegno che due governi si unissero per togliere
[190]
ad un uomo la libertà del suo domicilio;
e il ministero francese, spaventato dalle fiere
proteste dell'opposizione parlamentare, revocò
il suo decreto.
A Vichy s'incontra per la prima volta,
dopo lo Spielberg, con Giorgio Pallavicino; e
fra quei due uomini, così duramente provati
dal destino, la prima impressione è piuttosto
d'imbarazzo che di simpatia. Le origini del
processo pesavano sulla loro memoria. Ma quel
broncio, in terra straniera, fra due vecchi patrioti,
addolorava un giovane patriota, e Carlo
D'Adda si prese l'assunto di ravvicinarli e
riconciliarli. Strano a dirsi, non fu il Confalonieri
l'uomo di cui si dovettero vincere le
esitazioni.
L'amnistia del 1838 riapre al profugo illustre
le mura della sua Milano, ed egli vi
trova le antiche amicizie, risaldate dal rispetto
che impongono le sofferenze nobilmente patite.
Trova la situazione politica migliore di quella
che vi aveva lasciata; perchè la rivoluzione del
1830 ha data una nuova sconfitta alla reazione;
e perchè il suo sacrificio e quello dei suoi compagni
ha ingagliardita la fibra popolare, rialzando,
colla virtù dell'esempio, le coscienze
prostrate. L'antico prigioniero è affranto, malaticcio,
[191]
solitario, aspro di umore e di carattere;
ma il rispetto dei patrioti e dei giovani lo accompagna;
quando passa a cavallo, dinanzi al
ginnasio di S. Marta, gli scolari escono per
vederlo e si scoprono il capo dinanzi a lui;
Giuseppe Mazzini gli scrive: “fin dai miei
primi anni di gioventù ho imparato a stimarvi
e ad amarvi.... Parmi che uomini come voi debbano
essere serbati non solamente a patire, ma
a fare. E parmi che le occasioni non mancheranno.„
Sventuratamente, quando le occasioni vennero,
Federico Confalonieri non v'era più. V'è
e rimane la fama di lui, che per l'insieme dei
fatti e per lo sdrucciolo delle odierne moralità
politiche, bisogna sperare sia più vicina a crescere
che a diminuire.
Quella generazione del 1821, resa sacra dal
patriotismo, non possedeva nel suo complesso
i requisiti necessari al còmpito che i tempi
duri le avevano assegnato. Fra uomini colti e
miti, come il Pellico, come l'Arrivabene, come
l'Arconati, e giovani facilmente avventati,
come il Pallavicino, il Trecchi, il Borsieri,
soltanto Federico Confalonieri ebbe tutte le
qualità del cospiratore, del capo di parte,
dell'uomo di Stato. La generosità dell'indole
[192]
sua è provata dalla grande solidità degli affetti
che a molte persone superiori seppe inspirare.
Dove si trovava era il primo, e nessuna
gelosia turbava questa sua preminenza. Le lettere
che gli scrivono Silvio Pellico, Lodovico de
Breme, Pellegrino Rossi, il Mompiani, gli Ugoni
sono calde di una vera amicizia. Teresa Casati
crea per lui una leggenda di amor conjugale.
Il Mazzini e il Manzoni lo amano di pari affetto.
Alessandro Andryane gli dedica un culto
idolatra. Quando i condannati camminano verso
lo Spielberg, circondano lui d'ogni dimostrazione
di simpatia e di rispetto. Il commissario
che il conduce scrive: “sentivano essi
ogni sua fisica e morale alterazione, nè di altro
si occupavano che dello stato del Confalonieri[50].„
Un uomo che si concilia da persone così diverse,
e in così diverse situazioni, sentimenti
così profondi, doveva essere uomo di qualità
superiori; la sola energia del carattere non
sarebbe bastata a giustificarli. Forse le occasioni
soltanto gli mancarono per essere un
uomo grande. L'ambiente di compressione e
l'epoca di transizione dovettero unirsi per
[193]
impedirgli maggiore svolgimento di facoltà e
di azione[51].
Quando il Confalonieri morì, i suoi funerali
servirono al popolo ed alla nobiltà milanese di
occasione per confondersi insieme sulla piazza
di San Fedele e compiere la prima di quelle
dimostrazioni politiche, alla cui serie doveva
seguire l'ammirabile concordia delle cinque
giornate. E certo quel generoso spirito dovette
essere lieto nell'infinito che il suo cadavere
giovasse a così fecondo suggello delle sue speranze.
Era stato, vivendo, il martire; doveva
essere, morendo, il profeta del patriotismo.
[194]
V'è qualche sintesi a trarre, in vantaggio
dei tempi nostri, dall'insieme doloroso e glorioso
dei fatti che siamo venuti esponendo o
riassumendo? Se v'è, potrebb'essere questa.
Per uno di quei contrasti che non sono nella
storia infrequenti, sotto un regime assetato di
despotismo e di vigliaccheria s'era educata
una generazione di uomini forti e liberi che ci
hanno preparata la patria. Ora che la patria
l'abbiamo, siamo insofferenti d'ogni difetto di
cose, e c'immaginiamo di poterli tutti correggere,
improvvisando, contro ogni difetto, ordinamenti
e decreti. Mutiamo il metodo; volgiamo
l'intento nostro a fare dei caratteri e
[195]
non dei decreti. Quando avremo i primi, trarremo
anche da decreti mediocri effetti buoni.
Ma se ci ostineremo esclusivamente intorno
ai secondi, lasciando che dietro ad essi sorgano
generazioni fiacche e prive di fede, avremo
fatto una patria somigliante a quei busti di guerrieri
a cavallo che si ammirano nelle nostre armerie
medio-evali. Le corazze saranno lucide, i
gambali perfetti, gli elmi eleganti; soltanto, il
cavallo sarà di legno, e le brune armature nasconderanno
il vuoto.
[197]
IL QUARANTOTTO
E LE CINQUE GIORNATE.
[199]
Tocchiamo coi nostri studi ad epoche d'indagazione
scabrosa, e più che mai sentiamo
quanto sia difficile il camminare per ignes.
Parlare della rivoluzione del 1848 senza poterne
fare la storia; ricordare fatti di uomini
vivi e di uomini morti, colla certezza di non
poter rendere nè a tutti i vivi, nè a tutti i
morti quel giusto omaggio che richiederebbe
giorni e volumi; esporre questa mezza storia
e questi mezzi ricordi a giovani che non hanno
sentita di quegli eventi neanche l'ultima onda,
ed a vecchi, a cui non disdirebbe la frase del
poeta: quorum pars magna fui; ecco certamente
un'impresa che, come soverchia le nostre forze,
così dovrebbe soverchiare il nostro coraggio.
[200]
Senonchè un altro pensiero ci risospinge; ed
è che dopo avere osato evocare dal loro silenzio
tanti e così diversi tipi storici milanesi,
da S. Ambrogio a Federico Confalonieri; dopo
avere, per quasi tre volumi, agitata la face dei
dolori e delle discordie che ingemmarono il
nostro passato; potrebbe sembrare una ingiustizia
od una viltà il chiudere questo colloquio
coi nostri lettori, senza tentare di farli rivivere,
almeno per un'ora, in quella sola epoca
di combattimento che fu una gloria per tutti, — in
quel solo periodo, già pur troppo così
lontano, in cui gli animi e i cuori dei nostri
concittadini si sono trovati, per molti mesi,
uniti da un solo pensiero, scaldati da un solo
affetto.
L'Europa del 1886 muove per vie affatto diverse
da quelle su cui ci eravamo incamminati
trentasette anni fa. Quelle parole d'indipendenza,
di nazionalità, di libero scambio, di fratellanza
sociale, che allora ci facevano battere
il cuore, sono divenute parole antiquate, idee
puerili, sulle quali discende l'olimpico sorriso
di compassione o di scetticismo degli uomini
pratici. Oggi la nazionalità si seppellisce sotto
i protocolli diplomatici di Londra o di Berlino;
l'indipendenza si porta per l'Asia o per
[201]
l'Africa a colpi di cannone; il libero scambio
fa innalzare a regni ed a repubbliche barriere
di dogane protezioniste; la fratellanza sociale
si esplica, sotto repubbliche e sotto regni, cercando
i modi per cui s'impedisca agli operai
stranieri di cooperare coi nazionali nei prodigi
del lavoro e dell'industria.
Quelle parole hanno avuto però la loro storia.
Forse potranno riaverla. Ad ogni modo, è
quando l'egoismo degl'interessi materiali corrode
le società e “mena gli spirti nella sua
rapina„ che bisogna irrigidirsi dal lato opposto
e tenere alta la fiaccola degli ideali. A
questi — tosto o tardi — ritornano le nazioni,
quando giunge l'ora del dolore e della sventura.
Allora piace intrattenersi colle nobili ombre,
e trarre da nobili tradizioni la lena per
rifare il cammino. E si comprende allora — tardi — come
debba vedere disalvearsi presto
i fiumi della sua prosperità materiale un popolo
che lasci inaridire le fonti della sua morale
dignità.
[202]
I.
LA PREPARAZIONE.
Fra gli abituri che il rinnovamento edilizio
di Milano ha trovato sul suo passaggio e che
ha irrevocabilmente sacrificato ai tardi orgogli
delle vie possibilmente larghe e passabilmente
diritte, pochi ormai ricordano due bottegucce
da caffè, tanto modeste da non avere quasi
neanche un nome proprio, e che perciò si rifugiarono
dietro il nome vezzeggiativo delle singole
proprietarie.
L'una esisteva dietro gli attuali portici occidentali
della piazza del Duomo tra le distrutte
vie del Falcone e del Cappello, e si chiamava
il caffè della Peppina; l'altra stava
quasi di fronte al maggior Teatro, in quel massiccio
di case che si dovette abbattere per
[203]
preparare il giardino dove sorge il monumento
a Leonardo da Vinci, e si chiamava il caffè
della Cecchina.
Chi avesse frequentato, con ispirito di osservazione,
quei due bugigattoli, negli anni
che corsero dal 1840 al 1848, vi avrebbe spesse
volte notato due gruppi d'amici, stretti a colloqui
più intimi degli altri avventori; facilmente
occupati a sfogliare giornali, a commentarli
vivacemente, a ricevere e leggere biglietti,
a scrivere risposte, a mandare e ricevere messaggeri.
E forse un osservatore superficiale,
pensando alle abitudini del tempo, all'età di
quegli avventori, all'ubicazione dei due stabilimenti,
avrebbe potuto immaginarsi che tutta
quell'attività giovanile avesse per ultimo risultato
i sorrisi delle ballerine e delle cantanti
che passavano dinanzi al caffè della Cecchina
o di deità anche minori che brulicavano
nei paraggi del caffè della Peppina.
Eppure proprio in quei due bugigattoli si
venivano preparando audacie grosse, e le due
società intime che avevano scelti per le loro
confidenze i tavolini di quei due caffè rappresentavano
su per giù due diverse scuole di
movimento politico, che riunendosi avrebbero
provocato la rivoluzione del 1848.
[204]
La schiera che si radunava al caffè della Peppina
usciva direttamente dalle numerose fila
della Giovane Italia; e quando v'era a dibattere
qualche argomento più geloso o più pericoloso
dei soliti, si trasportava nella casa di uno dei
suoi più intelligenti e più risoluti centurioni,
Attilio De Luigi, dimorante in una delle vie
curve e deserte dell'antica Milano, S. Ambrogio
dei Disciplini. Lì complottavano, con maggiore
o minore efficacia, ma con intera devozione
e con intero sacrificio di sè; e l'osservatore
vi avrebbe potuto notare, tra gli altri, il
dottor Pietro Maestri, allora direttore della
Casa di Salute a Porta Nuova, e Alberico Gerli,
conosciuto nelle intimità rivoluzionarie col nomignolo
di Pepe, e due giovani, che mescolavano
la matematica colla politica, Giovanni
Cantoni ed Angelo Tagliaferri, e quel fiero
Pezzotti, che prometteva ai compagni di uccidersi,
se fosse stato arrestato, e doveva più
tardi mantenere la parola; vi bazzicavano, con
minore frequenza, ma con eguale attività di
preparazione, un altro matematico, già più alto
nella scienza che negli anni, Francesco Brioschi,
e due giovani, destinati a lunga e dolorosa
sanzione di patriottismo, Giuseppe Finzi e il
dott. Antonio Lazzati.
[205]
La Giovane Italia era rimasta ormai la sola
fra le società segrete di carattere militante,
dopo il naufragio che avevano fatto, colle sconfitte
del 18, del 20, del 21 e del 31, i carbonari,
i federati, gli adelfi. L'aveva fondata,
nel 1832, un giovane, il cui nome cominciava
ad essere influentissimo sugli elementi patriottici,
Giuseppe Mazzini.
Di fede ardente, di vita immacolata, di pensoso
ingegno e di stile concitato, il Mazzini
pareva ordito veramente di quella stoffa di
cui si fanno gli apostoli. Dedicatosi giovanissimo
alla disciplina delle congiure, non seppe
uscirne più per tutta la vita, e nella seconda
parte di questa meritò il rimprovero di avere
qualche volta sacrificato la realtà dello scopo
all'amore del mezzo. La sua comparsa nel moto
politico italiano era stata veramente una scossa
di pila elettrica. Aveva dato alla società che
fondava un intento assoluto di unità nazionale;
programma che abbiamo visto inalberato anche
trent'anni prima da pensatori e da uomini
di Stato, ma a cui egli s'era buttato con maggiore
speranza d'ogni altro e con quella efficacia
di proselitismo che gli veniva dalla parola
ardente, dall'aspetto simpatico, dall'onnipotente
patrocinio femminile. Quei suoi primi
[206]
pensieri, raccolti poi in tre volumi, sotto il titolo:
Scritti letterarj d'un italiano vivente, avevano
ottenuto un grande successo, specialmente
fra i giovani, ai quali parevano aprire orizzonti
nuovi e larghi, meravigliosamente dissimili
dai metodi compassati di letteratura, di filosofia
e di critica, a cui si tenevano fedeli i professori
dei licei e delle università. Quei nostri
giovanili intelletti trovavano a tante cognizioni
vaghe, a studi pedanti, troppe volte contrastati
dal bigliardo, uno scopo nuovo, imprevisto,
tratteggiato con enfasi, — la patria. Non
era più l'arte per l'arte. La patria era il faro
a cui doveva giungere la navigazione affannosa:
l'Italia una e libera, il nodo a cui si allacciavano
con iscopi pratici gli studj morali,
i progressi fisici, le indagini di storia e di geografia.
Con questi ideali nell'animo si studiava
di più, e lo studio allargava, colle simpatie pel
Mazzini, l'aderenza a' suoi concetti politici, a'
suoi organismi di setta.
Così cresceva l'influenza del grande agitatore
genovese, che fu per alcuni anni lo spauracchio
di tutte le polizie d'Europa. Uomo,
che ha lasciato dietro a sè una fama assai contrastata,
piuttosto, oseremmo dire, per colpa
dell'ambiente che sua. Certo, la contraddizione
[207]
umana non mancò in lui. Ebbe un indirizzo
filosofico di alto spiritualismo, e lasciò troppe
volte che dal suo labbro o dalla sua mano
uscissero incoraggiamenti, diretti od indiretti,
all'assassinio politico. S'era dichiarato pronto
a sacrificare per l'unità della patria i suoi impulsi
repubblicani, ed è morto nemico implacabile
della monarchia che aveva fatto l'Italia.
Passerà nella storia come un gran cospiratore
che non aveva attitudini di governo, e crediamo
che in questa, come in altre occasioni, la storia
s'ingannerà. Il Mazzini aveva attitudini di
governo; lo ha provato per pochi mesi, reggendo
a Roma in situazione difficilissima, con
sagacia e moderazione maggiori di quelle che
gli si attribuivano. Forse anzi una esperienza
più lunga di governo fu la sola cosa che gli
sia mancata, per trarre interamente nell'orbita
di una salutare efficacia le qualità politiche in
lui sepolte sotto una mistica fraseologia. Come
cospiratore, era improvvido ed impotente. Riceveva
e dava confidenza, con una facilità di
cui troppe volte abusarono le astute polizie.
Non sapeva conservare il segreto. I suoi biglietti,
i suoi indirizzi, le sue giaculatorie venivano
sovente in possesso dei commissarj e
dei gendarmi, prima che delle persone a cui
[208]
erano dirette. Credeva ciecamente ad ogni informazione
che gli dipingesse sollevamenti
pronti, e se ne valeva per prepararne altrove,
sulla base di queste ingannevoli cooperazioni.
È l'influenza personale di Mazzini che ha
giovato alla patria; il suo ingegno pieno di
slancio, il suo prestigio di esule; e soltanto
una scuola fanaticamente innamorata d'ogni
cosa sua ha potuto confonderne le egregie qualità
del cuore e dell'animo con quegli sforzi
inorganici, che erano invece il difetto o l'eccesso
della sua inesperienza pratica.
A Giuseppe Mazzini l'Italia deve memoria
grata e rispettosa per la vita austera, pel lungo
esiglio, per l'instancabile apostolato dell'unità
politica, per l'alto intento dato ai giovanili
intelletti; non per le sue cospirazioni, che non
sono riuscite mai, in nessuna parte d'Italia,
dalla Calabria alla Valtellina; che dai moti
savojardi del 1833 al 6 febbraio 1853 hanno dischiuso
innanzi tempo il sepolcro a giovani
ed illusi patrioti, gettando sempre piuttosto
impacci che ajuti sul sentiero del risorgimento
nazionale.
Tornando da questo illustre infelice ai più
modesti casi del caffè della Cecchina, bisogna
dire che in questo si raccoglieva un'altra
[209]
schiera agitatrice, non meno generosa e non
meno intelligente della prima, ma uscita da
tutt'altro ambiente e inchinevole a soluzione
diversa. Lì si adunavano specialmente i giovani
delle famiglie ricche e patrizie, che sottraendosi
alle influenze, generalmente retrive, dei
vecchi genitori, guardavano al di là del Ticino
cercandovi alleati contro la dominazione straniera.
L'osservatore che fosse venuto in questi
paraggi da quelli del Falcone, avrebbe facilmente
riconosciuto fra gli avventori della Cecchina alcuni
dei giovani più eleganti e nel tempo stesso
più colti che brillassero nella società milanese:
Carlo e Giovanni D'Adda, Giovanni Curioni,
Carlo Taverna, i fratelli Guy, Alessandro Porro,
i fratelli Prinetti, i fratelli Jacini, Rinaldo e
Cesare Giulini della Porta. Questi giovani, per
patriotismo e per tradizione politica, venivano
in retta linea dalla generazione del 1821; avevano
quasi tutti conosciuto e rispettato il Confalonieri,
dalla cui vita e dalle cui sventure
traevano un esempio alto e quasi un desiderio
di patriottici sacrifici. Il loro programma era
sopratutto l'indipendenza; ma, determinati a
raggiungerla per ogni via, preferivano certamente
quella che loro additavano i tentativi
del 1821 e che da alcuni anni pareva schiudersi
[210]
a maggiori probabilità per l'attitudine
nuovamente assunta da quell'altro illustre infelice
che fu Carlo Alberto, re di Sardegna.
Dopo le amnistie imperiali, erano ritornati
in patria, oltre i prigionieri dello Spielberg,
altri milanesi distinti che le persecuzioni di
polizia avevano per alcuni anni costretto a vivere
o a Parigi o a Londra o a Ginevra o a
Bruxelles. I Battaglia, i Majnoni, i Rosales,
Ignazio Prinetti, Francesco Arese, avendo vissuto
lungamente nei centri maggiori della società
politica europea, portavano a Milano le
impressioni ultime e vere del loro esiglio; un
desiderio cresciuto di far partecipare la loro
patria ai vantaggi di quella vita larga e intellettuale
a cui s'erano avvezzi; e insieme
l'intonazione di una politica non meno rivoluzionaria
ma più moderata, di quella politica
che essi avevano veduto riuscire in Francia
e nel Belgio a conciliare le guarentigie della
monarchia con quelle della libertà.
Fra questi due gruppi principali d'azione,
di cui l'uno penetrava colle sue influenze tutta
la parte viva e popolare della città, l'altro avvinceva
alla causa dell'indipendenza i potenti
interessi e le vaste aderenze interne ed estere
[211]
dell'aristocrazia lombarda, tenevano una situazione
speciale due notevoli individualità, due
uomini indipendenti allo stesso modo, ma per
diversa ragione, da organismi compatti, — Carlo
Cattaneo e Cesare Correnti.
Ingegno facile e largo, indole simpatica piena
di scatti, di seduzioni, di entusiasmi e di mobilità,
scrittore vibrato ed efficace di proclami,
di opuscoli, di bollettini e di almanacchi, dai
quali l'opportunità politica e il pensiero patriottico
uscivano di mezzo a frasi nuove, a
concisioni nervose, a mistiche oscurità e ad
audaci eleganze, Cesare Correnti s'era buttato
di buon'ora nel movimento e vi stava come
uomo determinato a non uscirne senza vittoria.
Amico a moltissimi, esercitava su tutti un
ascendente che alcuni accettavano dall'ingegno,
altri dalla vivace parola, altri da un'attività
giunta allora al suo colmo. Che avesse
un programma ben definito, nessuno lo saprebbe
dire; forse l'ingegno coltissimo non lasciava
nascoste a lui le difficoltà che ogni programma
in quei giorni presentava e che altri non osava
neanche studiare. Ad ogni modo, voleva fortemente
l'indipendenza, la rivoluzione; e questo
contribuì forse ad accrescere la sua influenza
e la sua popolarità; perocchè la gran
[212]
massa della popolazione, per una certa spensieratezza
generosa che fu il carattere distintivo
di tutta quell'epoca, costringeva volentieri
ogni programma nella sola formola del
mandar via gli Austriaci.
Questa conformità, non facile ad ottenersi,
fra un uomo di pensiero e una folla di azione,
fece del Correnti in quei giorni la personificazione
più complessa del movimento. Se la rivoluzione
del 48, contro la natura sua e la
spontaneità de' suoi scoppj, avesse potuto darsi
il lusso di un capo, forse sarebbe stato lui.
Certo s'è ben lontani dal poter dire che abbia
fatto ogni cosa, ma nessuna cosa importante
s'è fatta senza di lui. I vecchi si fidavano del
suo ardore, i giovani della sua dottrina. Quella
stessa natura di letterato e d'artista, che lo
rendeva schivo di politiche rigidità, lo metteva
in grado di stare con molti e di agire su tutti
con intento di accordo e di cooperazione. Fra
il caffè della Peppina e quello della Cecchina
era il vincolo naturale, la transizione più utile
e più accettata. Coetaneo e condiscepolo degli
uni, coi quali aveva divise, sui banchi universitarj,
le aspirazioni della Giovane Italia, era
accettissimo agli altri, per l'ingegno elegante
e per le intime relazioni personali che aveva
[213]
contratte coi Giulini, con Alessandro Porro,
con Francesco Visconti-Venosta. E se agli uni
portava l'assicurazione che il programma albertista
non avrebbe impedito alla nobiltà milanese
di spendere denari e sangue per la battaglia
nazionale, garantiva altresì agli altri
che nessun vincolo di setta avrebbe frastornate
quelle combinazioni che portassero aiuto di
armi fraterne e di monarchie militari a un popolo
desideroso di combattere e incapace di
eccessi. Negli ultimi tempi, questa azione sua,
giovata man mano da altri elementi, da altre
giovani e simpatiche individualità, da Enrico
Besana, da Francesco Simonetta, da Manfredo
Camperio, da Luciano Manara, era giunta a
risultati completi; sicchè i due centri d'agitazione
patriottica si erano, per così dire, fusi
in uno solo; o, meglio, s'erano sminuzzati
e moltiplicati in altrettanti sub-centri, che,
pure annodandosi a quei due principali, assumevano
ciascuno iniziative proprie e preparazioni
speciali; certi tutti che qualunque impulso,
qualunque energia, qualunque imprudenza,
avrebbe trovato negli altri centri intera
solidarietà, animi disposti ad affrontare responsabilità
e pericoli, comunque creati.
Tutt'altra attitudine aveva assunto, e a tutt'altri
[214]
impulsi intendeva l'animo, Carlo Cattaneo.
Era uomo di vasta cultura, di molta operosità
intellettuale, di carattere integro ma diffidente.
Come il Correnti, era estraneo a spiccati
sodalizj politici; ma mentre il Correnti
lo era perchè avrebbe bramato essere con tutti
d'accordo, il Cattaneo ne rifuggiva perchè
persuaso di avere con pochi solidarietà di opinione.
Questi pochi si radunavano la sera da
lui: discorrevano molto di scienza e meno di
politica; erano gente di studio, piuttosto che
di azione; antichi scolari di Gian Domenico
Romagnosi, filosofi, economisti, giuristi, innamorati
di cultura pubblica e di quesiti morali,
ma che un certo orgoglio d'intelletto teneva
in parte disgiunti dalle impressioni vivaci ed
ingenue a cui la moltitudine si abbandonava
con giovanile ebbrezza.
Politicamente, il Cattaneo era agli antipodi
da Giuseppe Mazzini. Dove questi voleva unità
d'Italia, congiure, impeti di popolo, idealità
generose, ma sfumate, di educazione patriottica,
quegli voleva ordinamenti di Stati piccoli,
energie amministrative sostituite a slanci
rivoluzionarj, svolgimento di questioni pratiche
e di interessi positivi, di canali irrigatorj,
[215]
di legislazione commerciale, di finanze
precise.
Sulla questione di repubblica o di monarchia,
il Cattaneo non aveva allora rigidezza di accentuazione.
Vi fu un'epoca, dopo l'amnistia del
1838, in cui parve fortemente inchinevole ad
accettare istituzioni autonome e liberali da un
principe della dinastia d'Absburgo. E da alcuni
articoli suoi sugli Annali Universali di Statistica
e sul Politecnico questa disposizione si lasciava,
tra il prudente viluppo delle frasi, chiaramente
additare. In uno scritto, p. es. del
marzo 1839, intorno alla piazza del Duomo, che
cominciava a ventilarsi dopo l'incoronazione
dell'imperatore Ferdinando, scriveva con uno
spirito da cui ogni aspirazione repubblicana
pareva esclusa: “Il nome di regno, sovrapposto
alle ristrette signorie dei tempi andati,
divenne una parola di riordinamento e di concordia;
e la Corona Ferrea, non più controversa
reliquia d'età remote, divenne già due
volte, fra i penetrali del Duomo, segno vivo
di forza e di unità.„ Non vi pare di udire un
Crispi di quarantasei anni fa, esclamare colla
stessa inspirazione di patriotismo: La monarchia
ci unisce, la repubblica ci divide? Delle due
volte in cui questa Corona Ferrea era stata, secondo
[216]
il Cattaneo, segno vivo di forza e di unità,
una volta s'era posata sopra un capo francese,
l'imperatore Napoleone; ma l'altra non s'era
posata che sopra un capo austriaco; o Giuseppe
II, o Ferdinando I; due epoche diverse, ma
una sola dinastia. Rincarava poi sulle stesse
idee e sulle stesse disposizioni, soggiungendo:
“Una piazza del Duomo, degna del tempio e
della città, e del più bello ed ubertoso fra i
regni d'Europa, è divenuta un desiderio universale.
E la rappresentanza civica interpretò
questo pubblico voto, deliberando appunto di
aprire una piazza del Duomo e d'inaugurarla
col nome del Principe regnante e a memoria
del giorno solenne nel quale assunse la nostra
nazionale Corona.„
Gli è che veramente, più della repubblica o
della monarchia, l'idea politica fondamentale
del Cattaneo era lo Stato piccolo, la federazione,
l'autonomia. Spirito liberale per eccellenza,
gli pareva di scorgere nelle grandi agglomerazioni
politiche un pericolo per gli svolgimenti
individuali, e, tenero di questi, contro
quelle diventava feroce. Non si avvedeva che,
restando largo nella questione scientifica, diventava
angusto nella questione politica; poichè
tutta l'Europa andava di corsa verso le grandi
[217]
unità, e a non voler inaugurare programma di
reazione contro l'indirizzo europeo, bisognava
necessariamente, non opporsi ai grandi Stati,
ma cercare i modi di far camminare i grandi
Stati colle ragioni della libertà.
Si capisce come, dominato da questi concetti,
il Cattaneo vivesse, nei mesi che precedettero
le cinque giornate, sotto la tenda. Non aderiva
alla parte democratica che voleva l'unità mazziniana;
non accettava dalla parte aristocratica
il progetto del regno dell'Alta Italia.
Forse si gettò alla repubblica per odio di
questo; poichè era veramente odio l'opposizione
ch'egli moveva a tutto quanto sentisse
di albertismo, di piemontese, di unione territoriale
coi paesi al di là del Ticino. Nessuno
discuteva con maggior passione di lui certe
questioni irritanti, su cui si cercava allora da
tutti di scivolare: monarchia o repubblica, fusione
immediata o dilazione, Statuto o Costituente,
Milano o Torino. Pareva che preferisse,
per una certa asprezza dell'animo, ingrandire
d'un tratto tutte le difficoltà d'una soluzione
ch'egli era impotente a sostituire.
S'era fatto da ultimo il vero patrocinatore,
il capo d'un programma municipale, d'uno
Stato Lombardo, tutt'al più d'uno Stato Lombardo-Veneto.
[218]
Era ammiratore dell'antico Regno
d'Italia, su cui aveva cognizioni nette e
profonde, e il suo ideale dell'avvenire non si
allontanava molto dall'ideale di quel passato.
Il Piemonte in quel passato non entrava e però
non trovava posto nel suo avvenire. Quando
scoppiò, come un fulmine, l'insurrezione milanese,
egli stava scrivendo il primo numero di
un giornale, che intitolava Il Cisalpino. Perfin
col nome voleva affermare la risurrezione di
una compagine territoriale, in cui soltanto egli
vedeva tradizioni buone di jeri e speranze migliori
per l'indomani.
Chiediamo scusa se ci attardiamo intorno a
questa fisonomia, che fu a quell'epoca una delle
più discusse, e che fu più tardi una delle più
ammirate. Appunto perciò ci pare che meriti
quello studio largo a cui gli uomini superiori
hanno diritto. Giacchè non è uno dei fenomeni
meno strani che hanno segnalato la rivoluzione
delle Cinque Giornate, questa metamorfosi
che ha prodotto nell'organismo politico
di Carlo Cattaneo. Ha trovato un uomo calmo,
a istinti pratici, scrittore moderato sotto governo
autocratico, l'ha lanciato per alcuni giorni
in una specie di fornace ardente, e ne lo ha
tratto scrittore furibondo contro governo liberale,
[219]
uomo politico a forti passioni, consigliero
insieme al Mazzini di audacie nazionali, che
un patriota non dubbio come Giorgio Pallavicino
dovette combattere, che un uomo come il
generale Garibaldi dovette respingere come eccessive[52].
Non si potrebbero veramente credere usciti
dalla stessa penna e dallo stesso ingegno gli
scritti anteriori al marzo 1848 e alcuni degli
scritti suoi posteriori, segnatamente quell'opuscolo
sull'Insurrezione di Milano, che fa così
grave torto alla serietà ed all'equanimità del
suo criterio politico.
Negli scritti della prima fase è un ingegno
pieno di pensieri; che li svolge con logica vigorosa
e mirabile chiarezza di esposizione; che
trae dalla scienza europea tutto il meglio ed il
nuovo, lo assimila con potente elaborazione, e
lo riassume pe' suoi concittadini in opuscoli ed
articoli di rivista, certo i più efficaci e i più
attraenti del tempo suo. Nella seconda fase è
uno scrittore pieno di violenza, che pare abbia
[220]
perduto il senso delle cose vere e dei fatti possibili;
un uomo a cui la foga della passione ha
fatto obliare i caratteri che distinguono dal
libello il dolore patriottico. Nella prima fase
è un benemerito educatore del pubblico; da cui
la generazione contemporanea impara a staccarsi
dagli antichi metodismi scientifici e a
coordinare tutte le conquiste intellettuali ad
un nesso civile e patriottico; nella seconda fase,
par diventato l'eco d'ogni volgare aberrazione,
il fantastico interprete di quelle illusioni e di
quelle millanterie politiche, verso le quali affettava
negli anni antecedenti un disdegno intellettuale
niente dissimulato.
Quale fu la genesi, l'evoluzione di questa
mente preclara, or troppo solitaria, or troppo
cacciatasi nella folla?
Certo il Mazzini, per esempio, non iscrisse
nulla che rasenti contro Carlo Alberto il linguaggio
a cui s'è creduto autorizzato il Cattaneo.
Il Mazzini, che nella sua famosa lettera
a Carlo Alberto gli aveva promesso d'essere
nella liberazione d'Italia insieme a lui, ripeteva
anche nell'autunno del 1848, che se il Piemonte
riprendeva la campagna, lo avrebbe aiutato. E
con ciò dimostrava, da uomo politico superiore,
di non credere a tutta quella leggenda d'intrighi,
[221]
di viltà e di tradimenti, che intorno a
Carlo Alberto s'era ammucchiata, e che ricorda,
per la malata credulità dello spirito pubblico,
gli untori del 1630.
Invece il Cattaneo, bollente d'ira dalla prima
all'ultima pagina, crede tutto o scrive come se
a tutto credesse. Per lui è inganno regio il passaggio
del Ticino, tradimento la perdita delle
battaglie, malvagia intenzione la venuta del Re
a Milano, durante la ritirata finale. I membri
del municipio, del governo provvisorio, sono
faccendieri, ciambellani, servi di Corte; sono infidi,
tentennanti, traditori i generali dell'esercito
piemontese. Aveva gridato il 24 marzo,
giorno dell'ingresso delle truppe regie in Lombardia:
viva il Piemonte, infamia a Carlo Alberto[53];
chiude il suo libro, nel settembre 1848
colla frase: il Piemonte non è necessario.
Par di sognare a leggere oggi, dopo tanta
esperienza, da un uomo di tanto ingegno, così
grandi fantasticherie. Parla di centomila Italiani
che sarebbero venuti, senza i Principi, a
combattere la guerra di Lombardia; al Comitato
di Difesa, negli ultimi giorni, raccomanda
come prima e suprema di tutte le difese, nientemeno
[222]
che questo: “chiudere le porte, e rompere
sotto pena di morte ogni comunicazione
coll'esercito del re, lasciandolo operare nella
campagna come gli convenisse[54].„ Insomma,
è il linguaggio d'un uomo in delirio di rivoluzione,
e tale parve a quel venerando Giovanni
Arrivabene, quando s'intese dire da lui: “Arrivabene,
buone nuove; i Piemontesi sono stati
battuti; ora saremo padroni di noi stessi[55].„
Appare tanto più eccentrica questa implacabilità
del Cattaneo contro Carlo Alberto, quando
si pensa che, proprio in quei giorni, Carlo Alberto
era attorniato e acclamato quasi con entusiasmo
da quegli stessi patrioti ai quali sarebbe
spettato il maggiore diritto, pei casi del
1821, di essere assai guardinghi nella loro amnistia.
Giacinto di Collegno e Moffa di Lisio, cospiratori
di quell'epoca e condannati per quella,
erano ministri suoi e nella sua politica intimità.
Giorgio Pallavicino, così atto per l'indole
sua e per le acerbe sventure a diffidare
del principe al quale s'era nel 1821 inutilmente
avvicinato, patrocinava con generoso impulso
[223]
l'immediata annessione delle provincie lombarde
alla corona di Carlo Alberto. E Giovanni
Berchet, un altro dei processati e degli esuli,
l'autore delle fiere strofe che assalivano il Carignano,
supplicava in quei giorni gli amici
suoi perchè si stringessero intorno al severo
e mistico Re, ch'egli onorava ora pel suo energico
patriottismo, quanto lo aveva nel passato
percosso di sospetti e di versi.
Infatti questo re, in uggia a molti, indovinato
da pochi, celatosi per molti anni quasi a
sè stesso, usciva dal proprio paludamento, e si
presentava sulla scena, attore preparato a delusioni
e a catastrofi, risoluto dopo tante esitazioni,
liberale dopo tante influenze di clericato.
Giacche egli pure era un patriota; e doveva
darne presto la prova nella più alta misura
del sacrificio. Non era una religione come
il Mazzini, non era un sentimento come il Correnti,
non era una dottrina come il Cattaneo;
il suo era un patriottismo da principe, non
meno vivo perchè si debba presentare sotto
forme frenate, più difficile perchè deve affrontare
maggiori responsabilità. Un principe ha
naturalmente il dovere di cercare che una bandiera
di libertà innalzata a vantaggio d'altri,
non provochi pericoli contro l'indipendenza dei
[224]
sudditi proprj. Uomini come il Cattaneo, come
il Correnti, come il Mazzini potevano balzare
in mezzo ad armi e a congiure, senza che una
sconfitta danneggiasse di molto i paesi che spronavano
a mutamenti. Un uomo come Carlo Alberto
doveva badare che moti intempestivi non
aggiungessero in Italia agli Stati già servi
quello che i suoi maggiori avevano, nel corso
dei secoli, agglomerato e difeso contro durevoli
servitù.
I tempi e i documenti hanno già sparso una
luce assai più benevola intorno alla parte che
spetta a Carlo Alberto nel sobbalzo costituzionale
del 1821. È ad augurarsi che interamente
chiara riesca a produrla, nella pubblicazione
che sta preparando, l'autorevole ingegno
di Domenico Berti. Ad ogni modo, se
quei fatti avevano reso la situazione personale
di Carlo Alberto dolorosa in faccia ai liberali
italiani, l'avevano anche resa in faccia all'Austria
ed alla reazione europea addirittura pericolosa.
I tentativi del principe di Metternich per
dare al duca di Modena, invece che alla linea
di Carignano, l'eredità di Savoja, non avevano
smesso un istante. Abbiamo visto prima d'ora
l'acuta ed insidiosa insistenza con cui s'era
[225]
cercato dal vecchio diplomatico di strappare
al Confalonieri prigione qualche segreto che potesse
giovargli contro il Carignano. E forse era
una reazione di razza contro questi tentativi,
che aveva spinto un re di puro assolutismo
come Carlo Felice, a protestare contro ingerenze
austriache e a riconciliarsi interamente
col principe di Carignano, in quel celebre colloquio
al letto di morte, il cui segreto non fu
sino ad ora svelato.
Quando salì al trono, poco dopo la rivoluzione
francese del 1830, gli occhi di tutti i
principi italiani e di tutti i despoti europei
si posarono con grande sospetto sopra di lui.
L'Austria, dal Ticino, teneva l'indice pronto
sull'acciarino de' suoi fucili. Carlo Alberto aveva
bisogno di regnare per appellarsi alla storia
contro i torti della leggenda; e regnò, ostentando
in faccia a questa Europa ostile ipocriti
furori di reazione, come i Borboni di Napoli
avevano ostentato dieci anni prima ipocriti
amori di liberalismo. La storia giudicherà
quale di queste due ipocrisie abbia avuto
dai fatti successivi maggiori scuse. Onde s'ebbero
allora i violenti processi del 1833 e la
prevalenza nelle regioni del governo di uomini
freneticamente assoluti, il Della Torre,
[226]
il Della Scarena, il conte Solaro della Margherita.
Ma appena la situazione europea permise
qualche alito di liberalismo, e in Italia cominciò
una pubblica opinione a preoccupare dei
fatti proprj ciascun governo, la politica di Carlo
Alberto si accentuò con lento ma sicuro cammino
verso la guerra d'indipendenza.
Già nel 1838, all'epoca dell'incoronazione,
Carlo Alberto non aveva voluto venire, cogli
altri sovrani d'Italia, a Milano. Nel 1840, rifiutava
d'inserire nella Gazzetta Ufficiale del
Regno una dichiarazione del governo austriaco,
il quale minacciava di intervenire in qualunque
territorio italiano dove scoppiassero dei movimenti.
Nel 1844, diede al suo ministero una
spinta liberale assai notata, chiamando a reggere
gli studi Cesare Alfieri, le finanze Ottavio
Revel e l'interno Luigi Desambrois, nomi che
si sarebbero ripetuti con lode anche durante
l'epoca statutaria. Nel 1845 iniziava contro
l'Austria una lotta economica, nella quale i
sali ed i vini erano pretesto per affermare con
altere parole l'indipendenza della politica sarda.
Nel 1846 riceveva Massimo d'Azeglio, parlandogli
linguaggio italiano; e più tardi, salito
Pio IX sulla cattedra di S. Pietro, scriveva al
[227]
marchese Villamarina: “Una guerra d'indipendenza
nazionale che si unisse alla difesa
del Papa, sarebbe per me la più gran fortuna
che mi potesse toccare.„ Frattanto il Gioberti,
il Balbo, il Durando pubblicavano i loro libri,
per allora audacemente patriottici. Ilarione
Petitti e Camillo di Cavour scrivevano di strade
ferrate come di avviamenti a solidanza italiana,
si fondavano l'Associazione Agraria e l'Antologia
italiana, in cui gli uomini di pensiero scrivevano
e parlavano liberamente; si udivano
insomma i primi rintocchi della rivoluzione.
Queste notizie cadevano l'una su l'altra sugli
animi già commossi in Milano, ed ognuna
aggiungeva un'esca al fuoco, un proselite al
movimento. Nè soltanto le cose del Piemonte
agitavano, ma fatti e notizie piovevano da ogni
parte, dall'Italia come dall'Europa; nascevano
in casa. Sorto il pensiero dei Congressi scientifici
nelle varie città, Milano l'ebbe nel 1844;
e lo presiedette, con intenti e destinazione piuttosto
di politica che di scienza, il conte Vitaliano
Borromeo. Molti Piemontesi erano venuti
allora a Milano; il Petitti, amicissimo di Alessandro
Porro, presentò ai nostri gli amici suoi,
e il Brofferio fece stupire per la vivacità e la
[228]
libertà dell'ingegno. I Piemontesi del 1844 fecero
affatto dimenticare le diffidenze del 1821
e il programma della Cecchina cominciò a prevalere
su quello della Peppina.
Poi spesseggiarono le notizie più gravi e i
commovimenti di carattere europeo. L'occupazione
di Cracovia e le stragi, — pensatamente
provocate dal governo austriaco, — dei proprietarj
polacchi, indebolivano tanto in Europa la
politica del principe di Metternich quanto aumentavano
la ragionevolezza delle nostre proteste
e la simpatia che la nostra causa inspirava.
Nella Svizzera, la guerra del Sonderbund dava
trionfo agli elementi liberali, e si guardava con
inconscia speranza a quelle milizie vincitrici
così vicine, a quegli ufficiali così propensi a
guerra di libertà. L'anno 1846 era stato, per
condizioni climateriche, assai sventurato; il
prezzo dei grani accennava a bisogno di classi
popolari; e le nostre signore, doppiamente entusiaste
per la carità e per la politica, raccoglievano
denari, cucivano abiti, portavano soccorsi
negli ospedali e nelle case, frammischiando
alla parola del conforto quella parola della concordia
ch'era nell'animo di tutti e che si rivolgeva
contro un nemico impotente a trattenerla
su labbra gentili.
[229]
Finalmente la morte di Gregorio XVI viene
a stappare l'ultima valvola del movimento italiano.
Il 13 giugno 1846 s'era aperto il Conclave
e il 15 era già nominato il nuovo Papa.
La pressione dello spirito pubblico era stata
così viva che il consesso cardinalizio aveva
dovuto ubbidirle. Quella politica papale tutta
a processi, a sbirri e a sanfedisti, che era stata
lo sforzo di Gregorio XVI, non poteva reggere
più. Tutti lo sentivano, ma nessuno osava dirlo.
L'osò uno statista italiano, che l'ingegno suo
e l'amicizia di Guizot avevano fatto ambasciatore
del governo francese. Pellegrino Rossi,
complimentando il Conclave, in nome del corpo
diplomatico, uscì dalle forme tradizionali fino
a dire “essere miserabile la situazione degli
Stati Romani, gravi i falli del governo passato,
urgenti i bisogni del popolo, necessarie le riforme.„
Chiuse augurandosi, in nome degli Italiani
e del corpo diplomatico “che il Conclave
scegliesse un uomo capace di comprendere la
grandezza del tempo e la volontà delle popolazioni.„
Un tale linguaggio sulla bocca di un tale
uomo era fatto per produrre molta impressione
sugli eccelsi elettori. Videro che bisognava far
presto e sceglier bene. Abbandonate le antiche
[230]
gare e gli antichi partiti, il Conclave si divise
subito in due schiere: l'una che voleva un
Papa riformatore, l'altra che voleva un Papa
di resistenza. Il cardinal Lambruschini era il
candidato di quest'ultima schiera; gli altri
erano incerti tra il cardinal Gizzi e il cardinale
Mastai. Parendo più probabile la scelta
del primo, l'ambasciatore d'Austria si affrettò
a buon conto a valersi del suo privilegio per
escluderlo. E un biglietto ricevuto dal cardinal
Lambruschini sotto la doppia etichetta d'una
bottiglia di Champagne, lo incoraggiava a lottare,
poichè era in viaggio il cardinale Gaisruck
arcivescovo di Milano, che avrebbe col
suo grande ascendente rafforzata la schiera
conservatrice.
Ma, poichè è destino che in ogni cosa debba
cercarsi la femme, anche il cardinale Bernetti,
di parte liberale, riceveva, nel manico cesellato
d'un coltello da tavola, da cui si strappava
la lama, un altro biglietto d'una principessa
romana, amica sua, in cui lo pregava
a votare e far votare pel cardinale Mastai[56].
[231]
La lama di coltello vinse la bottiglia di
Champagne; e la parte riformatrice del Sacro
Collegio votò compatta pel Mastai-Ferretti con
36 voti sopra 51. Le premeva di non lasciar
giungere cardinali avversari. E infatti il cardinale
Gaisruck passava in quel giorno i confini
della Toscana. Aveva in tasca l'esclusione
austriaca pel cardinale Mastai. Quante cose diverse
al mondo se il cardinale Gaisruck fosse
partito da Milano un giorno prima!
Il nuovo papa Pio IX giustificò subito, coi
suoi primi andamenti, le speranze che la sua
elezione aveva destate. Riforme, amnistie, larghezze
di stampa e di riunione, parole di pace
e di progresso che uscivano da quelle labbra,
da quelle sale, risuonavano per tutta la penisola
e afforzavano dappertutto il programma
dell'indipendenza e delle riforme interne. In
sei mesi, Pio IX era l'uomo più popolare d'Italia;
non v'era angolo di paesuccio dove il
suo ritratto non fosse appeso alle pareti; non
v'era donna o fanciullo che non portasse medaglia
o anello o ciondolo coll'immagine sua.
Tutto si faceva coll'invocazione, sotto il patrocinio
di Pio IX; e nulla può dare un'idea del
fremito di emozione che corse dalle Alpi all'Etna,
quando s'udì che dal Vaticano il Pontefice
[232]
aveva detto ad alta voce: benedite, gran
Dio, l'Italia.
Fu un terribile quarto d'ora pel vecchio e cocciuto
principe di Metternich, il quale diceva
al marchese Ricci, inviato sardo: che al mondo
aveva tutto preveduto, — tranne un Papa liberale.
Proprio questa tegola gli cadeva sul
capo; ed egli non potè renderne men grave il
colpo. Mandava a Roma esortazioni e ammonimenti
che il cardinale Gizzi, Segretario di Stato,
riponeva sotto il calamajo. Sperando meglio
dall'antica violenza, ordinò al maresciallo Radetzki
di occupare la cittadella di Ferrara,
come avvertenza minacciosa di non lontano intervento.
Fu peggio che mai. Protestò virilmente
il Papa; protestò la diplomazia; Carlo Alberto
offerse le sue truppe a Pio IX, per respingere
gl'invasori; principi e popoli italiani furono
d'accordo contro l'Austria e a favore del Papa;
Radetzki dovette sgombrare la cittadella occupata,
e questo nuovo scacco della politica di
reazione finì di eccitare al più alto grado l'entusiasmo
delle popolazioni.
Allora si produsse in Lombardia un fenomeno,
che non ha il suo simile nella storia. Un popolo
schiavo che diventa libero per la forza
[233]
della sua fiducia. Una città che diventa un sol
uomo; e quest'uomo che diventa un fanciullo,
colla sua spensieratezza, col suo coraggio, colla
sua innocente allegria.
Quella gran potenza dell'Austria faceva ridere.
Se ne burlavano i monelli nelle strade,
la sfidavano spose e fanciulle dai loro balconi
o nei ritrovi pubblici. Ogni giorno se ne inventava
una. Dopochè la religione aveva sanzionata
la politica di liberazione, e il clero milanese
s'era unito di cuore ai propositi ed ai
preparativi della popolazione, tutto parve lecito,
nessuna cosa imprudente o impossibile.
Un giorno veniva da Roma notizia di qualche
liberalità del Pontefice, e le signore comparivano
subito in teatro coll'abito bianco e
giallo. Era la notizia della costituzione di Napoli?
tutti gli uomini portavano in un batter
d'occhio il cappello alla calabrese. La polizia
proibiva i cappelli, e tre giorni dopo tutti vestivano
abiti di velluto-cotone della fabbrica
di Vaprio. Che cosa voleva dire? nulla; ma la
polizia se ne inquietava ed era una ragione per
farlo. Chi desse queste istruzioni, chi regolasse
queste dimostrazioni, non si sapeva e non si
cercava di sapere. Erano nell'aria, nell'istinto,
nel cuore. Uno sconosciuto vi mormorava nell'orecchio:
[234]
domani a Porta Nuova, e si andava
a Porta Nuova; vi mettevano nelle mani un
bigliettino: stasera in piazza del Duomo, e la
piazza del Duomo si stipava di gente. A far che?
non sempre lo si sapeva; nulla, molte volte;
ma questa concordia di voleri, questa facilità
di comunicazioni e di diffusione era una gran
disciplina. Bisognava pure sapere se ad un dato
momento, se nell'ora del bisogno, del pericolo,
i direttori di una rivolta avrebbero potuto contare
sulla popolazione, sull'attitudine sua a moversi,
a credere, ad ubbidire. A ciò giovavano
le dimostrazioni. E chi le pensava o le dirigeva — se
erano pensate o dirette — compieva ufficio
serio e patriottico; esercitava a manovre
senz'armi un popolo a cui presto le armi dovevano
darsi.
Per non so quale costituzione italiana, si disse
un giorno che la domenica successiva bisognava
andar tutti in Duomo all'ultima messa. La polizia
fece spargere voce che avrebbe mandato
travestiti trecento satelliti, i quali, al menomo
grido, avrebbero menato le armi a dritta e a
sinistra. Forse diecimila cittadini si assieparono
in Duomo, un migliajo di donne, nobili e
popolane; e sulla piazza, dinanzi al palazzo
vice-reale, erano puntati i cannoni, intorno e
[235]
dinanzi ai quali si fermavano, con disdegnosa
noncuranza, i cocchj dei dimostranti.
Il governo fremeva; aveva soldati e bombe
e forche e guardie di polizia, e non riusciva
ad impedire una dimostrazione, a spaventare
un monello. Domandava a Vienna che cosa si
dovesse fare, e da Vienna rispondevano, meravigliandosi
che non sapesse fare. Voleva trovare
ad ogni costo il Comitato che metteva in
tutto questo subbuglio la città. Si disse allora — o
probabilmente un bello spirito immaginò — che
un cittadino, affermando ad un commissario
di polizia la sua conoscenza dei segreti
del Comitato, lo avesse condotto sulla
guglia del Duomo, e di là, mostrandogli il circuito
delle mura, gli avesse detto: eccovi il
Comitato! Si stampavano e s'introducevano libri,
pubblicazioni, che il governo sapeva distribuite
a migliaja e che non riusciva a sequestrare.
Le poesie del Giusti, gli scritti del Mazzini, del
Guerrazzi uscivano da tipografie clandestine.
Il Nipote del Vesta-Verde creava a un linguaggio
convenzionale che gli Austriaci non capivano e
che al popolo dava tono e speranze. Il Correnti
scriveva l'Austria e il suo avvenire, il Torelli
i Pensieri sull'Italia (Anonimo Lombardo), Anselmo
Guerrieri, l'Austria e la Lombardia, Luigi
[236]
Sala intimava, in un opuscolo Un ultimo consiglio
all'Austria, le condizioni a cui avrebbe potuto
il movimento rivoluzionario rallentare del
suo cammino e della sua energia.
E il governo non sapeva nulla, non trovava
nulla. Arrestava a tentoni, sbandiva ora l'uno
ora l'altro, credendo di colpir giusto. Frugava
nomi tra la borghesia e la nobiltà; ora mandava
a domicilio coatto Ignazio Prinetti e Manfredo
Camperio; ora deportava il conte Rosales,
il marchese Soncino, il principe Falcò.
Ma il Comitato non si trovava; le dimostrazioni
continuavano; i monelli crescevano d'audacia
e d'impunità. Sulla porta della casa Arconati,
dove abitava il maresciallo Radetzki,
s'era scritto, proprio a ridosso della sentinella:
appartamento d'affittare; ogni notte l'Uomo di
pietra era fregiato di motteggi e di bosinate;
infamia a Bolza, fu trovato una mattina inciso
in pietra dinanzi alla porta della sua casa; da
un balcone di un palazzo disabitato sul corso
di Porta Romana penzolò per molte ore un pomo
appeso ad un filo, colla leggenda sopra un cartello:
il pomo è maturo.
Gli studenti liceali erano oggetto di molta
sorveglianza; ma era materia difficile a plasmare.
Un giorno, nel liceo di Porta Nuova,
[237]
compare con gran solennità il conte Folchino
Schizzi, Direttore delle Scuole; Achille Mauri,
che faceva la sua lezione, cessa di parlare senza
scendere dalla cattedra. E noi zitti e attenti.
Il conte Schizzi, dopo un preambolo, ci spiega
che il governo non può approvare, — probabilmente
per le condizioni dell'Europa — l'abitudine
da noi presa di portare la fibbia del
nastro dei nostri cappelli a sinistra piuttosto
che a dritta. In un baleno le fibbie furono
slacciate e i nastri piovvero a dozzine sul pavimento.
Il conte Schizzi si ritira in buon ordine.
Ma il giorno dopo s'era inventato di portare
il cappello senza nastro e di strisciare a
rovescio una parte del pelo, in modo da sembrare
una piuma. La polizia s'inquietò ancora
di queste piume. Rinunciammo ai cilindri e
adottammo il cappello all'Ernani. Si sarebbe
continuato così per mesi ed anni.
I giovani, a cui l'esperienza odierna dei pubblici
affari è stata maturata dalla fortuna di libertà
già fatte e di più facili studj, potranno
certamente sorridere di queste politiche e di
questi entusiasmi. Ma gli uomini che vi sono
passati attraverso, colla coscienza di aver preparato
con quegli entusiasmi la possibilità delle
future politiche, una cosa sola desidererebbero:
[238]
poter cambiare qualche anno di vita con una
settimana di quella sublime spensieratezza; con
un giorno di quella forte voluttà della patria,
cui nulla allora turbava, — nè tarlo di sfiducia,
nè ire implacabili di fazione, nè presagio
d'incredibili indifferenze.
Stanca di far ridere, l'Austria cercò di far
piangere. E vi riuscì. Quello a cui non riusciva
mai, era d'impedire, di trattenere.
In tutto l'anno 1847 di collisioni sanguinose
non v'era stata che un'occasione, l'8 settembre,
quando si celebrò con grande solennità civile e
chiesastica l'ingresso dell'arcivescovo Bartolomeo
Romilli.
Il cardinale Gaisruck era morto alcuni mesi
prima; austriaco di nascita e di convinzioni,
ma uomo assennato, benevolo, conciliante, largo
nelle idee religiose e nel consorzio sociale. Lo
si diceva, — con fondamento — figlio illegittimo
dell'imperatore Leopoldo; certo del padre
aveva le tradizioni prudenti e riformatrici
nelle questioni ecclesiastiche. Voleva i preti in
chiesa; avverso ai conventi, che nella sua diocesi,
finchè visse, non lasciò pullulare, teneva
in casa sua riunioni settimanali, di uomini e di
signore. Migliore nel complesso del successore
[239]
suo; ma questi era italiano, era nominato da
Pio IX; bastava perchè destasse senz'altro l'entusiasmo
o le forme pensate dell'entusiasmo.
L'illuminazione, la folla, le grida diedero sui
nervi alla polizia. Viva il Papa, era allora un
grido fazioso, ma era quello che sopratutto i
popolani ripetevano con maggiore frequenza. Il
direttore generale Torresani se ne aperse coll'antico
stromento d'ogni iniquità poliziesca, il
conte Bolza. Questi era uomo spregevole; padre
di famiglia, viveva in concubinato e lasciava
che la moglie si procurasse compensi; spartivano
gli utili. Il governo austriaco se ne serviva,
ma lo dipingeva sinistramente; in un rapporto,
trovato in seguito, fra gli atti della Direzione
generale di Polizia si dice di lui: “Suo idolo
è il danaro, da qualunque parte venga, poco
importa; napoleonista fanatico sino al 1815, dopo,
austriaco in egual grado, e domani turco, se
entrasse Solimano in questi Stati; capace d'ogni
azione, tanto contro il nemico, quanto contro
l'amico; non si conosce la sua morale nè la
sua religione.„ Turco non divenne, perchè Solimano
non era venuto; ma è morto vecchissimo,
pochi anni fa, a Menaggio, in odore di repubblicano.
Il Bolza era però uomo risoluto e non recedeva
[240]
da nulla. Appostò parecchie dozzine di
satelliti nel cortile dell'arcivescovado, e quelli,
ad un ordine dato, uscirono sulla piazza Fontana
e calarono sulla folla fendenti di daghe.
La folla, inerme, reagì; l'arcivescovo, inorridito,
scese tra il popolo a rimpiangere, a benedire;
e la scena si ripetè per due giorni. Parecchi
rimasero feriti, uno fu morto. Il municipio denunciò
i fatti al Governatore, protestò altamente
contro i soprusi della polizia. S'incoarono processi
contro arrestati, e i processi finirono, — pure
essendo tribunali austriaci — colla condanna
di agenti di polizia.
Nel complesso, quei fatti non ebbero altra
conseguenza che di stringere in maggiore solidarietà
le masse popolari coi patrizj e coi borghesi,
di rendere più intenso ed universale il
proposito della rivoluzione.
Visto che quel sangue non era bastato, si deliberò
versarne in maggior copia. E poichè della
polizia trionfavano i tribunali, entrò di mezzo
l'esercito ad assumere francamente il cómpito
dell'assassinio.
Il maresciallo Radetzki da lungo tempo domandava
sussidio di truppe e poteri militari
straordinarj, per sostituire quella che gli pareva
fiacca politica dell'autorità civile, del Governatore,
[241]
del Vicerè. Si vantava che avrebbe
fatto rinnovare a Milano le stragi di Tarnow;
e infatti s'era inviato a Pavia per contenere
gli studenti il colonnello Benedek, trucemente
mescolatosi in quelle stragi, e a Brescia si mandava
un giudice Breindl, fratello al noto carnefice
degli insorti polacchi.
Ma il Metternich si baloccava in dispacci.
Aveva pensato e scritto per quarant'anni che
gl'Italiani erano impotenti a battersi, e non voleva
all'ultima ora ammettere d'essersi potuto
ingannare. Per far qualche cosa mandò un diplomatico,
il conte di Ficquelmont. E se ne attendeva
mirabilia. Sono veramente miserabili
le istruzioni che dettava, in circostanze così
imponenti, il principe di Metternich. Al Vicerè
scriveva essere chiaro che “le Gouvernement
lombardo-vénitien reste paralisé s'il lui manque
l'élément politique et diplomatique. Il fallait
donc offrir à Vôtre Altesse le concours de
la diplomatie, et c'est pour cela que le comte
de Ficquelmont a été mis à votre disposition.
Je n'aurais pas pu faire un meilleur choix.„
A questo inviato poi, che doveva essere il tocca
e sana del Governo lombardo-veneto, dava norme
e informazioni meravigliose per ingenuità. Lo
incaricava, a quei lumi di luna, di “chercher
[242]
à faire rentrer le Piémont dans notre alliance.„
Trovava tutto il guajo in due cose: l'influence
du club des Lions e le manque d'action gouvernementale
chez ceux qui sont chargés de gouverner.
Dichiarava che se avesse governato a Milano,
non avrebbe esitato — coraggio antico — a
chiudere il club; e, quanto al secondo guajo,
ordinava con un decreto una Conferenza giornaliera
a Milano, composta del Vicerè, del Ficquelmont,
del generale Wratislaw, del Torresani
e del barone Salvotti; metteva questa Conferenza
in relazione diretta con un'altra che si
teneva a Vienna sotto la presidenza del conte
di Hartig. E, avendo così regolato con due organismi
burocratici l'action gouvernementale, credeva
d'essersi liberato della rivoluzione.
Questa intanto aveva preso, dalla missione
stessa del Ficquelmont, un avviamento anche
maggiore. Agli antichi centri d'agitazione patriottica,
della borghesia, del patriziato, del clero,
dei popolani, se n'era aggiunto un altro, l'ultimo
al quale si avrebbe potuto pensare, l'unico che
mancava: l'alta burocrazia, il partito conservatore.
L'Austria non aveva più nessuno per sè.
Alla Congregazione Centrale, larva rappresentativa
di città e di provincie, che aveva
posto e grado e uniforme di magistratura governativa,
[243]
un bergamasco, il consigliere Giovan
Battista Nazzari presentò formale istanza perchè
“scegliesse una Commissione, composta
d'altrettanti deputati quante sono le lombarde
provincie, incaricata di redigere un rapporto
sulla condizione del paese e sulle cause del malcontento
del popolo.„ Come si vede, la proposta
era discreta. Una Commissione! quante non se
ne nominano al dì d'oggi? Pure, la situazione
era così piena di brage, che l'atto parve audacissimo
e destò un altro entusiasmo. La Congregazione
Centrale accolse subito la proposta;
le Congregazioni speciali delle varie provincie
vi fecero adesione; il Governatore tentò
invano di snaturare la proposta; Nazzari tenne
fermo, e al suo domicilio furono portati quattro
mila biglietti di visita. Il maresciallo Radetzki
dichiarò che quei quattro mila biglietti
esigevano quaranta mila soldati.
La mozione, discussa e votata dalla Congregazione
Centrale, conchiudeva a quella domanda
di Costituzione speciale pel Lombardo-Veneto
che il generale Bellegarde aveva promesso fin
dal 1814 e che era stata così slealmente dimenticata.
Ma il principe di Metternich aveva, sulla
questione lombarda, altre idee. Scriveva al conte
[244]
di Ficquelmont[57]: “Voulez-vous un jugement
de ma part que vous n'avez peut-être point
encore entendu prononcer, et qui, à mon avis,
renferme la vérité sur l'une des grandes fautes
commises par notre Gouvernement dans ses relations
avec ses administrés italiens? vous le
trouverez dans ce peu de mots: “Nous les
avons ennuyés.„ Le peuple qui veut le panem
et circenses ne veut pas être ennuyé. Il veut être
gouverné avec une main ferme et amusé.„
E per tradurre in pratica un programma così
solennemente annunciato, il principe di Metternich
e il conte di Ficquelmont deliberavano
la grave risoluzione politica di mandare a Milano....
Fanny Elssler, prima ballerina nel teatro
alla Scala.
A questa gran macchina politica rispose uno
dei soliti inviti anonimi, di cui amiamo citare
un brano perchè ci riconduce nel più fitto di
quel singolare movimento:
AI MILANESI.
“Un altro sacrificio, fratelli! Bisogna assolutamente
astenersi dal teatro alle rappresentazioni
[245]
dell'Elssler. Cedete il luogo ai Tedeschi
che vorranno applaudirla anche in nome
nostro. L'Elssler fu benefica verso i poveri, ed
abbiasi tutta la riconoscenza, non il sacrificio
del nostro decoro. Perchè non si possa dire: i
Milanesi furono vinti dai vezzi di una ballerina,
è necessario esserne lontani. La silfide può diventare
una sirena ed ammaliarvi. Il silenzio
di mille può essere guasto dall'applauso di
pochi.„
È inutile soggiungere che il consiglio fu rigorosamente
rispettato. La Elssler danzò ad
esclusivo uso e consumo degli ufficiali austriaci.
L'impresa della Scala fu una delle prime vittime
del patriotismo. In una di quelle sere non s'aprirono
che quattro palchi e si fecero nove biglietti.
Una sera soltanto, gran folla e grande
allegria; tutti i palchi pieni di dame. Gli ufficiali
austriaci non sapevano che pensare di
questa novità; — era giunta la notizia dell'insurrezione
di Palermo. Il teatro tornò vuoto il
giorno dopo.
Fu ai primi di gennajo che il dramma volse
a tragedia.
La dimostrazione escogitata pel primo giorno
dell'anno era di carattere più serio delle altre.
[246]
Bisognava astenersi dal fumare, per danneggiare
anche ne' suoi cespiti più vitali la finanza
degli oppressori. L'invito che a quest'uopo era
stato diramato s'appoggiava ad argomenti curiosissimi.
Diceva fra le altre cose: “mal s'addice
il fumo del tabacco fra le dolci aure olezzanti
dei fiori d'Italia.„ La rettorica fu perdonata
al Comitato in grazia della politica.
Non era un pensiero nuovo. Già fin dal 1760
in Lombardia s'era adottato per alcuni giorni
questo partito per dimostrare l'antipatia che
suscitava la Ferma Generale. In America, la
rivolta delle colonie inglesi era appunto cominciata
con un'agitazione di questa natura,
astenendosi di prendere il thè per non pagare
la gabella che lo aggravava. In ventiquattr'ore,
come al solito, il nuovo espediente fu conosciuto
in tutta la Lombardia, e dappertutto, come al
solito, vi si obbedì. Vecchi ed ostinati fumatori
buttarono sulla via le loro provvigioni di
zigari e da un'ora all'altra quella che pareva
abitudine impossibile a sradicarsi completamente
cessò.
Più che il danno, l'ira tolse ogni lume di moderazione
alle autorità militari. Senza accordi nè
col Fiquelmont, nè col Governatore, nè col Vicerè,
trattarono Milano come paese di conquista.
[247]
Il primo giorno, si limitarono a fare sfoggio di
zigari sulle labbra dei loro ufficiali. A questi
la moltitudine non si oppose; erano le persone
in abito civile che s'invitavano, prima colle
buone, poi colle brusche, a gettare lo zigaro.
Solamente a un atto provocante di un giovane
capitano, uscito da magnanimi lombi, che sulla
porta di un caffè[58] affettava di cacciarsi in
bocca tre o quattro zigari, fu risposto con una
ceffata che ruppe fra i denti gli zigari al petulante
ufficiale. Era il conte Gustavo di Neipperg,
figlio di quell'Adamo Adalberto, conte
di Montenuovo, che trent'anni prima aveva
consolato de' suoi omaggi la moglie, non ancor
vedova, del prigioniero di Sant'Elena.
Il secondo giorno, torme di sgherri travestiti,
di canaglia uscita dalle prigioni, percorsero,
provocando, le vie, a zigaro acceso, gettando il
fumo negli occhi ai passanti. Alcuni si schivarono,
altri reagirono; vi furono baruffe, arresti,
ma tutto finì senza sangue. Al terzo giorno, si
sguinzagliarono le torve brutalità. Lo Stato
Maggiore distribuì trentamila zigari alla guarnigione;
poi, venuta la sera, lanciò granatieri,
[248]
croati, ussari, dragoni per le vie della sventurata
città, con istruzione di fumare, di obbligare
altri a fumare, di provocare, di usare
delle armi. Si può immaginarsi che risultati
doveva produrre in quei cervelli ottusi, in quei
corpi ebbri, il consiglio d'essere turbolenti, — il
disordine imposto in nome della disciplina.
Fu una terribile sera, il cui ricordo, oggi
ancora, a 38 anni di distanza, ci scuote l'animo
come la visione di una tregenda.
Quei cittadini passeggiavano tranquilli, colle
spose al fianco, coi bimbi innanzi, sui noti
selciati pacificamente percorsi da quarant'anni.
Irrompevano soldati, a due, a dieci, a cinquanta
insieme raccolti. Uscivano da un vicolo, da
una bettola, affrontavano, inseguivano, gridando,
agitando braccia, sguainando sciabole,
bestemmiando. Le famigliuole fuggivano, le
botteghe si chiudevano, le lampade municipali
illuminavano di fioca luce la scena. E in quella
semi-oscurità accaddero cose orrende. Giovanetti
che si vollero obbligare ad accendere
uno zigaro, e che, resistendo, vennero colpiti
di bajonetta; uomini inoffensivi, padri di famiglia,
operaj che tornavano dal lavoro, inseguiti,
gettati a terra, percossi di piatto e di
punta. Il terrore faceva fuggire alcuni, l'ira
[249]
e il coraggio facevano resistere altri. Ma erano
inermi contro armati, pochi contro molti. La
zuffa era breve. Poi s'udiva lontano, dal fondo
della via, sorgere e crescere un romore noto
e pauroso: la cavalleria. E questa giungeva a
galoppo, spazzava le contrade, calpestava i
caduti, feriva di lancia chi non era pronto a
schermirsi. Poi, i dragoni dai mantelli bianchi
si allontanavano, e restavano sulla via deserta,
oscura, i poveri feriti, i poveri morti.
Pajono racconti da far paura ai bimbi, e
son cose vere! Nessuna parte della città fu
risparmiata da questi assassinj. A Porta Comasina,
a S. Angelo, a S. Celso, all'Orso Olmetto,
sul corso dei Servi. Chi scrive s'è trovato
con un amico appiccicato ad uno spigolo
della chiusa profumeria di Pasquale Scandelari
nella Galleria De Cristoforis, mentre un
centinajo di granatieri ungheresi l'avevano
invasa e la percorrevano con libertà forsennata.
Ebbimo urti e bestemmie e fumo negli occhi,
ma nessuna offesa. Un quarto d'ora dopo, a
due passi di lì, il settuagenario Manganini,
consigliere d'appello e amico del Torresani,
ebbe il capo spaccato da un fendente di sciabola.
Altrove, trovossi nella folla investita, e
perì di lancia, il cuoco del conte di Ficquelmont[59].
[250]
Nella Piazza dei Mercanti, un sicario
immergeva un pugnale nei cuore ad un fabbro-ottonajo,
perchè aveva preso le difese d'un
ragazzo maltrattato. Si disse allora e si stampò
sulle bugiarde effemeridi che erano stati trenta i
feriti in quella occasione. Si sa oggi, pei documenti
raccolti, che furono cinquantanove le
vittime dell'eccidio, cinque morti sul colpo.
La carneficina del 3 gennajo ebbe un'eco immensa
in Italia. In Milano fu veramente il
boute-selle, il rullo di tamburo della rivoluzione.
Dal Piemonte Roberto d'Azeglio, autorevole
personaggio, rispose, con un brindisi ad una
società di fabbri-ferraj, augurandosi che presto
non avrebbero solamente usato il ferro come
industria, ma come arma contro nemici assassini.
A Torino, a Genova, a Firenze, si fecero
solenni funerali per le vittime di Lombardia;
e accorrevano in grande uniforme i ministri e
i diplomatici presso le Corti; da Vicenza, da
Verona, da Treviso, dove i funerali erano impossibili,
giungevano soccorsi in denaro e indirizzi
di fratellanza; le contesse Bentivoglio
e Michiel sfidavano a Venezia le ire poliziesche,
[251]
facendo pubblicamente questue pei feriti di
Milano; a Roma, la principessa di Belgiojoso
organizzava splendide esequie, a cui interveniva
in pompa il gran dignitario ecclesiastico milanese,
monsignor Borromeo.
Ma dove le proteste suonavano ancora maggiori
di virtù e di efficacia, per l'aperto pericolo,
era nella stessa città.
Il conte Gabrio Casati, podestà di Milano,
non aveva potuto sfuggire nella giornata del
3 gennajo alle improntitudini della sbirraglia.
Preso in mezzo da una pattuglia, mentre alzava
la voce contro le ignobili provocazioni,
fu trascinato a pugni e a calciate di fucili.
Riconosciuto, lungo la via, da un delegato di
pubblica sicurezza, non volle essere posto in
libertà, ma esigette d'essere condotto innanzi
al Direttore generale, barone Torresani, perchè
vedesse come agivano i suoi dipendenti. Uscito
di lì, corse dove sperava poter trovare pronti
gli elementi d'una deputazione, al Casino allora
dei Nobili, oggi dell'Unione. Quattordici
o quindici persone ivi raccolte lo seguirono
tutte, fra le quali ricordiamo Carlo D'Adda,
Cesare Giulini, Manfredo Camperio, Enrico Besana.
Andarono al vicino palazzo Marino, dove
alloggiava il conte di Ficquelmont. Appena
[252]
entrati nel cortile, le porte si chiudono e si
trovano in mezzo ad un vero accampamento,
che li guarda con bieca ostilità. Pochi minuti
dopo, ecco scendere dallo scalone lo stesso
conte di Ficquelmont, accompagnato dal governatore,
conte di Spaur. Gabrio Casati si avanza
come capo della deputazione ed espone con
vive parole lo stato della città e l'eccidio che
vi si consuma. Aggiunge fiere ed eloquenti parole
il conte Cesare Giulini Della Porta. I due
alti dignitarj rispondono imbarazzati, con parole
incoerenti: “certo è deplorabile... daremo
ordini... ma la colpa è degli individui che provocano
le autorità.„ Qui s'ode una voce, quella
di Carlo d'Adda che domanda con tono fra l'ironico
e lo sdegnoso: “forse che il cuoco del
signor conte di Ficquelmont era d'accordo con
noi per provocare gli Austriaci?„
Il giorno dopo, le proteste diventano ancora
più solenni e più gravi. Il venerando arciprete
del Duomo, monsignor Opizzoni, vecchio di
85 anni, si presenta al Vicerè e gli dice: “Altezza,
ho visto a' miei tempi i Russi, i Francesi
e gli Austriaci invadere come nemici la nostra
Milano; ma un giorno come quello di jeri non lo
vidi mai; si assassinava per le strade, il mio ministero
mi obbliga a ripeterlo, si assassinava.„
[253]
Il conte Vitaliano Borromeo, fregiato del
più eccelso ordine cavalleresco dell'Austria,
scriveva al Vicerè che se non si dava soddisfazione
al paese avrebbe restituito il Toson d'Oro,
macchiato di sangue. E l'arcivescovo, predicando
dal pergamo del Duomo, diceva: “unite
le vostre preghiere alle mie, onde quelli che
ci governano siano più giusti e serbino modi
più umani.„
Forse ancora più significativo e più caratteristico
della situazione era il contegno assunto
dalle stesse autorità civili austriache, dagli
uomini più miti del partito conservatore.
Il conte Giorgio Giulini, padre di Cesare,
era uno dei patrizj che nel 1814 avevano contribuito,
nella Reggenza di Governo, alla ristorazione
del regime austriaco. Ed egli era
stato incaricato dal conte di Ficquelmont di
presentargli, insieme coll'avvocato Robecchi,
un rapporto sullo stato degli animi e sulle misure
da prendersi. Questo rapporto era finito
e copiato il 1.º gennajo. Lo presentarono il
giorno 4 con un breve poscritto che i due onorandi
cittadini chiudevano così: “Il sangue
scava un abisso fra governanti e governati.
Questi possono essere ancora compressi dalla
forza brutale; ma il regno della forza è breve.„
[254]
Il cav. Decio, consigliere di Governo, presentò
le sue dimissioni, allegando di non voler
più oltre servire sicarj. Il Delegato Provinciale
Bellati, uomo di studj e di coscienza, firmò la
protesta pei fatti del 3 gennajo, aggiungendovi
una frase dolorosa: “colui che diventò
infame pel suo troppo attaccamento al governo
austriaco.„ Più vigoroso di tutti, nella schiera
dell'alta burocrazia, fu il Procuratore Camerale
Enrico Guicciardi[60], che, armandosi d'un articolo
elastico del Regolamento organico, denunciava
al Governatore i Capi supremi della polizia
e dell'esercito come responsabili, per abuso di
competenza, degli ultimi fatti; e domandava,
con alto sentimento del proprio ufficio, che la
sua denuncia fosse mandata a Vienna, qualora
il Governatore non si sentisse abbastanza autorizzato
a provvedere, contro questi abusi, da sè.
Quella protesta, che infatti venne spedita a
Vienna, è un atto notevole per la novità ardita
e per l'acuta esposizione dei criterj d'indole amministrativa
e politica. Voleva essere, secondo le
forme burocratiche, un atto d'ufficio contenente
“rispettose osservazioni.„ Ma a giudicare che
[255]
tono avesse assunta in quei giorni, fra impiegati
italiani e superiorità austriache, una “rispettosa
osservazione„ basterebbero questi periodi:
“.... oltre l'abuso della forza di polizia
è intervenuta la forza militare per uccidere e
ferire in seguito a provocazioni del genere di
sopra da me indicato, per parte di molti militari,
od isolati, od uniti in numero ben sensibile„.
E altrove: “.... A sedare i disordini
si è usata la forza di polizia e la forza militare.
Come la medesima siasi usata, è troppo
noto all'E. V. Si commisero degli atti che la sola
barbara legge di guerra scuserebbe in una città
presa d'assalto.„ Chiudeva dicendo: “L'intervento
della forza militare, non richiesta da
V. E., costituisce per subordinato avviso del
procuratore camerale, un abuso di competenza
delle attribuzioni esclusivamente demandate
dalle Sovrane Patenti all'E. V. perchè fa sottomettere
alla polizia militare queste provincie,
da S. M. assoggettate unicamente alla polizia civile„[61].
Che cosa fu risposto a tutte queste proteste?
[256]
Il Guicciardi fu immediatamente destituito;
gli fu negato ogni diritto a pensione e tolta
anche la facoltà di esercitare privatamente
l'avvocatura. Il Vicerè pubblicava il 5 gennajo
un proclama ipocritamente mellifluo, nel quale
deplorava “che la condotta dei cittadini paralizzasse
le sue più fondate speranze di ottenere
dal trono di S. M. benigni provvedimenti.„ Il
Comando Militare faceva leggere il giorno 6
alle truppe un Befehl (ordine del giorno) nel
quale lodava “l'obbedienza e la fermezza mostrata
dai militari nella giornata del 3 corrente.„
L'imperatore Ferdinando pubblicava
“non essere inclinato a fare ulteriori concessioni;
fidarsi unicamente nella fedeltà e nel
valore delle sue truppe.„ Finalmente, al giorno
22 febbrajo giunge l'ultima risposta e l'ultima
concessione — la proclamazione dello stato d'assedio
col giudizio statario. Il Vicerè, il Governatore,
le alte autorità di governo partivano o
stavano per partire; il Regno Lombardo-Veneto
era consegnato senza guarentigie nelle mani
dell'inflessibile maresciallo, che aveva detto,
a proposito dei casi di gennajo: tre giorni di
terrore, trent'anni di pace.
[257]
Qui ha termine lo stadio di preparazione, e
comincia lo stadio della rivoluzione, di cui ci
occuperemo più innanzi.
In tutto questo cupo periodo, un solo atto di
bene scende dalle eccelse regioni del governo
straniero.
Da Vienna arriva un giorno un plico suggellato
all'ufficio che dirigeva la colletta apertasi
pei feriti del 3 gennajo in casa Borromeo.
Conteneva diecimila lire, e le mandava l'imperatrice
d'Austria, quella Maria Anna, figlia
di Vittorio Emanuele I, re di Sardegna, morta
due anni or sono.
Ci par bene e giusto ricordare che da una
donna, da una italiana, da una principessa di
Casa Savoja era partita in quei giorni, frammezzo
a così truce ribollir di passioni, l'unica
inspirazione alta di politica e di umanità.
[259]
II.
LA RIVOLUZIONE.
Un moto popolare di natura politica ha bisogno,
per essere efficace, di tre diversi stadj
o fenomeni: la preparazione morale, la preparazione
materiale e l'azione. Sopprimiamo la
prima, avremo ordinariamente un tumulto; sopprimiamo
l'ultima, resteremo nei limiti di una
congiura; togliamo la preparazione materiale,
cadremo, nove volte su dieci, in una ribellione
repressa.
Il moto milanese del 1848 fu una vera e propria
rivoluzione, coronata di successo, perchè
non gli è mancato nessuno dei tre fenomeni
necessarj.
Abbiamo visto quanta preparazione morale
[260]
avessero ammassata gli anni anteriori al 1848;
dal 18 al 23 marzo l'azione non poteva essere
più decisa e più vigorosa; ma il primo trimestre
dell'anno aveva veduto svolgersi una preparazione
materiale, che sarebbe ingiusto dimenticare,
perchè non ebbe minori ostacoli nè
minore virtù.
Infatti, le brutalità del 3 gennajo ebbero
questo effetto immediato, di persuadere i direttori
del movimento che la preparazione morale
era completa e di spingerli a tutt'uomo
verso la preparazione materiale. Della popolazione
non si poteva più dubitare. Aveva chiaro
l'istinto della situazione rivoluzionaria, aveva
dimostrato di possedere in grado eminente il
desiderio e l'intelletto della disciplina. Occorreva
quindi stringere accordi rivolti a scopi
pratici, avvicinarsi con altre operazioni al momento
decisivo, che le occasioni avrebbero determinato.
Rinnovatesi a Pavia le stragi di Milano, una
circolare segreta avvertiva che, per evitare
nuovo sangue, si sarebbe posto fine alle dimostrazioni
di carattere pubblico. “Adesso possiamo
aspettare senza vergogna„ diceva; e infatti
si aspettò, ma con una aspettazione piena
di febbrile energia.
[261]
L'intento della concordia s'era ormai raggiunto
al di là d'ogni previsione patriottica. I
popolani ardevano dal desiderio di vendicare
i loro morti e feriti, e traevano da questo
stesso desiderio una fiducia, che nulla poteva
scuotere, nei misteriosi scrittori dei bollettini.
La parte più conservativa del patriziato aveva
smesso, dopo il 3 gennajo, ogni esitazione; il
conte Vitaliano Borromeo aveva voluto conoscere
di persona Cesare Correnti, e in un colloquio
tenuto in casa del marchese Anselmo Guerrieri,
patrizio di scuola mazziniana e di larghissime
aspirazioni, s'erano appianate le ultime
difficoltà, schiarite e accettate le ultime
modalità del programma.
Bisognavano denari, armi, alleanze; i tre
nervi, le tre basi d'ogni guerra.
Le collette raccolte in casa Borromeo avevano
fruttato più di 150 mila lire; primo fondo
che servì a comperare utensili e mantenere
operaj, ad organizzare un po' di spionaggio e di
stazioni nelle campagne. Ma non era quella
pel momento la maggiore preoccupazione. I
forzieri del patriziato si sapevano pronti ad ogni
richiesta, e infatti, appena sorsero le occasioni
opportune, furono visti gareggiare di liberalità
[262]
e il duca Litta e il conte Arese e il duca Scotti
e il marchese Arconati e il conte Annoni e il
duca Visconti di Modrone e quanti insomma
avevano pari all'antichità della stirpe o alla
tradizione del patriotismo la larghezza del
censo[62].
Di alleanze non si poteva cercarne che al di
là del Ticino. Un solo Stato in Italia aveva
esercito valido e politica indipendente; un solo
sovrano aveva mostrato da qualche tempo comunanza
di aspirazioni coi rinnovatori lombardi.
Carlo Alberto aveva infatti mantenuta ed accentuata,
col progredir degli eventi, la situazione
politica e personale da lui presa in Italia.
Era sempre il Re cauto, ma deliberato, che
fronteggiava l'Austria nella questione italiana.
Non aveva smesse ancora le forme assolute di
governo, ma se ne valeva per moversi più liberamente
nell'orbita sua, con intonazioni democratiche,
di cui forse un ministero costituzionale
non gli avrebbe lasciato libertà. Visitando
[263]
Genova, durante il Congresso degli scienziati,
s'era lasciato avvicinare, senza titubanza,
da un giovane, non illustre allora, ma caldo di
patriottismo, che ponendogli la mano ardita
sulle briglie del cavallo, gli aveva detto, con
voce squillante: “Maestà, bisogna prepararsi
a combattere.„ Era Nino Bixio. Assai più
tardi, recandosi a Casale per inaugurarvi congressi
d'agricoltura, aveva detto a Lorenzo
Valerio: “Quando l'ora sarà suonata, monterò
a cavallo e combatterò per la patria come
Sciamyl combatte nel Caucaso.„
Coi patriotti lombardi aveva sempre conservato
indirette comunicazioni, specialmente per
opera del suo segretario particolare, il conte
di Castagneto, uomo di specchiata probità e di
lealissimi sensi, a cui l'Italia deve, per quel
periodo, una parte notevole della riconoscenza
che sembra avere esclusivamente serbata per
altri. Col Castagneto carteggiavano da parecchi
mesi alcuni rappresentanti del patriziato,
segnatamente il conte Gabrio Casati, col quale
si dibattevano, senza chiasso, parecchie delle
questioni fondamentali che l'unione presagita
del Piemonte e della Lombardia metteva in
primissima linea. Dopo il 3 gennajo, parve che
a queste relazioni indirette fosse necessario
[264]
sostituire azione più viva; che all'orecchio di
Carlo Alberto dovesse giungere, con maggiore
frequenza ed intimità, la parola di chi fosse
più attivamente mescolato a tutta la situazione
lombarda degli ultimi tempi.
Carlo D'Adda fu scelto a questa missione;
ed egli recossi, secondo il desiderio degli amici,
a Torino, dove il conte di Castagneto lo accolse
con grande simpatia e lo presentò senza
indugio a Carlo Alberto. Furono relazioni curiose
quelle che si stabilirono allora fra questo
Re di diritto divino ed un inviato, senza credenziali,
d'un Comitato senza poteri. Carlo
D'Adda saliva ordinariamente dal Re in ore
eccentriche, in abito dimesso, condotto dal Castagneto
per usci secreti, per corridoj polverosi,
come un ladro... o come un adultero. Il
Re lo riceveva ad ogni richiesta, accettava
senza esitazione questi andamenti cospiratorj,
voleva informazioni di persone e di fatti, dava
assicurazioni, non si sdegnava di consigli.
Uscito di lì, ripigliava la maschera severa, il
linguaggio riservato e l'occhio freddo del monarca
legittimo. Nessuno avrebbe indovinato
il patriota sotto quella rigida fisonomia di Re;
pochi si sarebbero accorti del Re, intrattenendo
famigliarmente il patriota.
[265]
Nessuno ha finora raccontato pubblicamente
un aneddoto caratteristico.
Un giorno, si aspettavano a Novara certe
condotte di polveri, che dovevano essere tragittate
in Lombardia. Le polveri non erano
giunte col tramite per cui dovevano essere
state inviate. Carlo D'Adda riceve un biglietto
dal Comitato di Novara; un biglietto, scritto secondo
lo stile di quei giorni, come l'impeto dettava,
in fretta e in furia: “Nulla è arrivato,
Carlo Alberto ci tradisce, come nel 1821.„
D'Adda si reca difilato dal Castagneto e il Castagneto
lo conduce difilato dal Re. Ma v'è
Consiglio di Ministri, e il Re non può assolutamente
ricevere. La cosa pareva al D'Adda pressante.
“Vuol far passare quel biglietto nelle mani
di Sua Maestà?„ gli dice il conte di Castagneto.
L'inviato milanese lo guarda meravigliato; ma
l'aspetto severo, sicuro, dell'uomo non gli permette
dubbio. E il biglietto crudele, naturalmente
anonimo, è portato, in una busta, sul
tavolino del Re. Dieci minuti di aspettazione,
diciamo pure di ansia. Poi, un servitore gallonato,
riporta, chiuso in un'altra busta, lo stesso
biglietto, con un breve poscritto di mano reale:
“Caro D'Adda, ho dato ordine in questo punto
che le polveri partano.„
[266]
Quel biglietto è andato smarrito. Oggi sarebbe
uno dei documenti più importanti e più
curiosi della rivoluzione italiana.
Le polveri non si potevano adoperare senza
le armi da fuoco. E a questo pure si pensò in
quei due mesi; e se molto non potè farsi, certo
si fece assai più che non consentissero le difficoltà
e i rischj gravissimi dell'impresa, più
che non sia comunemente noto per le pubblicazioni
uscite intorno a quei fatti.
Nelle case dei cittadini saranno stati un trecento
fucili da caccia, non più; poche pistole,
pochissime armi da punta e da taglio; la vigilanza
sulle botteghe d'armajuolo grandissima,
e tale da non potersi eludere senza provocare
immediate misure di cittadino disarmo. Si dovette
dunque ricorrere all'importazione od alla
riduzione di armi vecchissime ed inservibili,
esistenti in casse o in soffitte, talune fin dall'epoca
del primo Regno d'Italia. Pure, in poco
tempo parecchie case di Milano furono tramutate
in depositi d'armi; quasi tutte si munirono
almeno di una per le sperate battaglie. I
giovani del club della Cecchina trovarono modo,
a peso d'oro, d'introdurre in città cento carabine
inglesi e se le distribuirono. In casa
Trotti, in casa Porro, in casa Dandolo, in casa
[267]
Spini, nelle case Prinetti, Simonetta, Besana,
in cento case v'era accolta di fucili e di pistole;
Alessandro Antongini aveva riempiuto
d'armi un magazzino fuori porta; ma il difficile
era introdurle, e non si potè farlo che lentamente,
senza giungere in tempo a farlo completamente.
Si recavano i giovani, come a sollazzo,
nelle osterie suburbane: rientravano, con
apparenze gioconde, portando sotto il tabarro
invernale o sotto il panciotto una canna, un
calcio, una baionetta, i grilletti, tutte insomma
le varie parti del fucile che si sarebbero più
tardi ricomposte. Vera giudizio statario; ma
chi vi badava? talvolta i pezzi non combaciavano,
e la vita s'era arrischiata per nulla; si
ritornava il giorno dopo a prendere i pezzi che
combaciassero. Si diceva che queste armi erano
male fabbricate, che sarebbero scoppiate in
mano agli insorgenti nel giorno della battaglia.
E altri giovani si prendevano il rischio e il
compito di verificare le cose. Andavano in una
cascina suburbana, proprietà d'un patrizio, il
cui nome non permetteva sospetti austriaci, il
conte Mellerio. S'erano procurati la doppia
complicità patriottica d'un fittabile e d'un armajuolo;
provavano le armi, facevano accomodare
quelle che apparivano difettose, le reintroducevano
[268]
su carri agricoli, preparate e impagliate
come peri o albicocchi.
Nelle case poi, smessi gli usati passatempi,
le signore fabbricavano cartuccie, gli scienziati
preparavano projettili e cotone fulminante; gli
esercizi d'arme e lo studio dei manuali militari,
delle opere di Iomini, di Montecuccoli,
di Dufour, avevano sostituito i componimenti
rettorici e la lettura dei trattati politico-legali
pubblicati dai professori dell'Università di Pavia.
Luciano Manara, Carlo de Cristoforis, Francesco
Simonetta attingevano a questi studj coscienza
di attitudini e di responsabilità militari;
li seguivano, per ardore di belliche discipline,
giovani minori d'anni, ma eletti di mente,
Pietro Rasnesi, Emilio ed Enrico Dandolo, e
quel simpatico e vivace ingegno di Emilio Morosini,
che avrebbe certamente occupato un posto
notevole nella vita politica contemporanea
se una palla francese non gli avesse spezzato,
sulle mura di Roma, il giovane cuore.
Dei vivi non parliamo; son molti e prodi. Parlandone,
offenderemmo lunghe e silenziose modestie,
provocheremmo vibrazioni importune
di commossi ricordi. D'altronde agli uomini
di quell'epoca una coscienza rimane intera:
quella di non dovere, in così grande solidarietà
[269]
di fatti, rammaricarsi di nulla e di nessuno.
Un popolo intero era riuscito a vincere la
legge delle eccezioni; e in un tempo in cui il
segreto della patria era su tutte le labbra, non
si ebbe ad arrossire nè di una corruzione nè
di una viltà. Nessun'epoca della storia dimostrò
più validamente come un gran sentimento
patriottico equivalga a un gran sentimento morale.
Tutta questa agitazione non era sfuggita e
non poteva sfuggire ai dominatori. Sicchè non
mancavano tentativi di seduzione, indagini,
sorprese, perquisizioni. Ma la complicità di
tutti era all'erta contro i pericoli di ciascuno.
E quando la polizia si moveva, un istinto, un
Nume invisibile indicava dove sarebbe andata
a scendere. Il vetturino allungava la strada, il
portinaio alzava la voce perchè udissero al
primo piano, il monello correva ad avvertire
un amico, il cameriere non aveva la chiave
d'un uscio, la cuoca offriva alle guardie un
manicaretto, gl'inquilini aiutavano, le carte
sparivano, le armi uscivano o per gli abbaini
o per le fogne; e la polizia ritornava il più
delle volte convinta d'essere stata mistificata,
ma, come il demone della Basvilliana:
[270]
Vuota stringendo la terribil ugna.
Quando l'Austria fu stanca di queste inutili
attività, venne finalmente il decreto che ordinava
le perquisizioni generali e l'immediato
disarmo, sotto le pene del giudizio statario.
Ma allora era già scoppiata la rivoluzione francese
del 24 febbrajo, era già stato proclamato
lo Statuto di Carlo Alberto. Dappertutto in
Europa suonava il dies iræ. Giuseppe Sandrini,
segretario del Governo, che aveva intelligenze
coi liberali, trovò modo di far differire di alcuni
giorni il principio delle perquisizioni.
Quei giorni bastarono perchè scoppiasse la rivoluzione
di Vienna e perchè a Milano giungesse
il 17 mattina la notizia che gli studenti
e i Polacchi avevano fatto le barricate e che il
principe di Metternich abbandonava, ramingo,
la capitale dell'Impero.
Qui comincia veramente il periodo attivo
della rivoluzione.
Le notizie di Vienna, producendo in Milano
sulle varie autorità e sui gruppi cittadini eguale
commozione, avevano mosso impressioni e risoluzioni
assai diverse.
[271]
L'autorità governativa civile era piombata
addirittura nello scoraggiamento. Il Vicerè, subodorando
gli eventi, aveva lasciato la città
fino dal giorno prima. Il Governatore Spaur, il
conte di Ficquelmont lo avevano preceduto a
Vienna per altri provvedimenti. Restava solo
in Milano a sostenere una sterminata responsabilità
il Vice-presidente del Governo, conte
O'Donnell, burocratico di buoni istinti, ma affatto
inadeguato a tempi e cose difficili. Aveva
fatto subito pubblicare un telegramma da Vienna,
annunciante che s'era abolita la censura e che
pel giorno 3 luglio sarebbero state convocate
le rappresentanze lombardo-venete. Sperava che
questo avrebbe calmata la popolazione, e l'accese.
Parvero promesse ridicole, e lo erano. Annunciavano
però una debolezza politica del governo
straniero e il momento opportuno per
approfittarne.
Sulle autorità militari l'impressione fu alquanto
diversa. Persuaso che Milano fosse inetta
a sforzi militari e che il terrore sparso nelle
giornate di gennajo avesse fiaccata efficacemente
ogni reazione cittadina, il maresciallo
Radetzky s'adagiò nella fiducia che le concessioni
di Vienna avrebbero, almeno per qualche
tempo, dato un altro indirizzo alla pubblica
[272]
agitazione. In questo senso parlò a' suoi ufficiali
e li prevenne che non dessero importanza
a prossime adunanze di popolo perchè sarebbero
state dimostrazioni di gioja e di fiducia
nelle autorità. Non avevano veramente di queste
illusioni ne il Torresani nè i suoi commissarj
di Polizia; ma posti fra lo scoraggiamento
dell'autorità civile e le ingenue speranze dell'autorità
militare, si sentivano recisi i nervi
ad ogni iniziativa di lotta.
Per questa triplice inazione, la cittadinanza
fu, nei giorni 17 e 18, interamente padrona del
campo. E in tutto il giorno 17, e nella notte
dal 17 al 18, fu per la città, in tutte le riunioni
private, un gran discorrere di quello che s'avesse
a fare il giorno dopo, un grande incrociarsi
di proposte, di piani, di accordi, di messaggi,
di combinazioni.
V'erano tre opinioni, tre metodi principali
in contrasto.
Carlo Cattaneo si manteneva risolutamente
fedele all'attitudine presa. Non credeva opportuno
e non giudicava fertile di successo un
movimento armato. Estraneo a tutte le dimostrazioni[63]
che s'erano fatte, e favorevole, tra
[273]
queste, soltanto a quelle di carattere più conservativo,
come ai reclami delle Congregazioni
e delle Camere di Commercio, voleva che si
facessero passi più larghi su quella via, ma non
fuori di quella[64]. Non credeva che esistessero
armi, disposizioni, attitudini militari. In
una riunione che si tenne, la sera del 17, in
casa sua, alla presenza del Brioschi, del Gadda,
di Enrico Cernuschi, di altri, manifestò schiettamente
questa opinione sua; sconsigliò pronunciamenti
popolari di carattere rivoluzionario;
disse doversi approfittare dei casi di Vienna
per “stringere il governo alla vita„ per “tenere
i nemici nel duro e spinoso campo della
legalità„ per “estorcere immantinenti all'attonito
governo quanto più si potesse di armamenti
e di libertà„[65]. Con questi intendimenti
preparava il primo numero del giornale
che avrebbe pubblicato il giorno dopo, e certo
l'avrebbe scritto da par suo.
A siffatto metodo, che in circostanze ordinarie
sarebbe parso il più savio e il più sicuro,
[274]
non s'acconciavano gli uomini del partito d'azione,
i giovani che da tanti mesi arrischiavano
la loro vita per adunare elementi d'insurrezione
e di lotta. Temevano questi, — e a
ragione, — che dopo tanti eccitamenti dati alle
classi popolari, inalberare il vessillo della prudenza
proprio nel momento in cui tutto pareva
favorire quello dell'audacia, avrebbe ingenerato
sfiducie o diffidenze difficili poi a dissipare più
tardi. E d'altronde, il moto di Vienna poteva
essere represso; una nuova reazione succedere
nell'indirizzo del governo, e precipitare quelle
misure di disarmo che si erano fino allora così
fortunatamente evitate. A queste idee s'inspiravano
i crocchi più attivi e più numerosi
della città, e in una riunione tenutasi, pure in
quella sera, nella trattoria del Rebecchino, alla
presenza di Angelo Tagliaferri, del dott. Pietro
Lazzati e di altri, Cesare Correnti aveva
promesso pel giorno dopo novità grosse ed
ardite.
Una terza schiera si proponeva d'agire con
misti temperamenti. Si raccoglieva intorno al
Municipio e specialmente al Podestà, conte Gabrio
Casati, che per le sue molte aderenze cittadine,
per le sue relazioni col governo piemontese,
per la condotta vigorosa tenuta nelle
[275]
giornate del settembre e del gennajo pareva
l'uomo adatto a capitanare programma di cose
nuove.[66] Far capo al Podestà, funzionario di
nomina governativa, a nessuno doveva parere
programma rivoluzionario. Nel tempo stesso, la
scomparsa o lo sgomento delle altre autorità
civili, autorizzava lo stesso Podestà ad assumere
iniziative e poteri nell'interesse della
pubblica sicurezza. Il Municipio si sarebbe tramutato
man mano da autorità cittadina in autorità
politica, senza provocare immediate ostilità
militari e guadagnando alcuni giorni di
tempo, per disporre l'insurrezione e sollecitare
gli ajuti dell'esercito piemontese.
Come di solito accade, le risoluzioni prese
[276]
non rispondevano a nessuna rigidità di programma;
lasciavano al tempo, ai casi, all'energia
delle persone gli svolgimenti dell'avvenire.
All'alba del 18, ciò che era stato possibile
di concertare fu concertato. Nel pomeriggio, la
popolazione si sarebbe agglomerata per le vie;
avrebbe accompagnato, senz'armi, una deputazione
municipale che si sarebbe recata dal Broletto
al palazzo di governo per chiedere riforme
d'urgenza; poi si sarebbe pubblicato un proclama,
si sarebbero aperti gli arruolamenti per
una guardia civica; poi si sarebbe veduto.
Alle due pomeridiane il programma era già
sorpassato. La folla che accompagnava Gabrio
Casati al palazzo di governo aveva tutta quella
concitazione, quel fremito che non permette
indugi, che non tollera transazioni. La rivoluzione
era già nell'ambiente. Il Podestà era vestito
di nero, con una coccarda tricolore all'occhiello,
fra quattro pompieri non armati; lo
precedeva una bandiera dai colori nazionali;
forse ventimila persone lo seguivano. I balconi,
le finestre, i tetti delle case si riempivano di
uomini, di signore, già deliranti di entusiasmo,
che agitavano fazzoletti, buttavano coccarde,
gridavano: “viva l'Italia.„ I monelli s'arrampicavano
sulle colonne, sui cornicioni. “Abbasso
[277]
gli uomini„ si gridava dalla folla; e gli uomini
scendevano, ingrossavano il corteo, e le
donne applaudivano, e la commozione patriottica
prorompeva.
Il primo sangue fu versato innanzi alla porta
dello stesso palazzo. Allo apparire sul ponte
di S. Damiano, di quella folla imponente, due
sentinelle avevano commessa l'imprudenza di
scaricare il fucile. Un tal Zafferoni, studente,
uscito di seminario, cavò una pistola di tasca
e ne uccise una; l'altra fu trapassata d'un colpo
di bajonetta. Poi la moltitudine invase il palazzo;
il conte Giulio Porro Lambertenghi ebbe
la presenza di spirito di chiudere a chiave l'appartamento
dove stava, colla sua famiglia, la
contessa Spaur ed impedì probabilmente qualche
deplorevole eccesso[67]. Enrico Cernuschi
stanò il Vice-presidente O'Donnell, che cercava
nascondersi, e lo condusse in una stanza dove
Gabrio Casati, Anselmo Guerrieri, Marco Greppi,
Antonio Beretta, Carlo Taverna, il Correnti,
il Clerici, l'Oldofredi stavano deliberando.
Fu lì che il povero rappresentante del governo
austriaco firmò, tramortito, i tre famosi
decreti laconici, che istituivano la guardia civica,
[278]
destituivano la Direzione di Polizia, e incaricavano
il Municipio di provvedere alla pubblica
sicurezza. E di lì, ottenuti questi decreti, si
restituiva la Deputazione municipale al Broletto,
conducendo seco prigioniero il conte O'Donnell;
allorchè, giunta a mezzo la via del Monte Napoleone,
una scarica partita da un drappello
di soldati appostato al sommo della contrada,
uccise un popolano, Pietro Rainoldi; la folla
si sbandò gridando armi e correndo a cercarne;
il Casati ed i suoi si chiudevano nella casa
Vidiserti, divenuta per dodici ore il quartier
generale dell'insurrezione.
Mentre queste cose accadevano. Cesare Correnti
aveva scritto il primo proclama che domandava
una Reggenza provvisoria del Regno,
la libertà della stampa e la riunione dei consigli
comunali per la nomina dei delegati all'Assemblea
nazionale. Il difficile era di trovare
in quei momenti un tipografo abbastanza
coraggioso da stampare siffatto proclama. Due
amici di Correnti s'incaricano della cosa; vanno
dal tipografo Guglielmini e gli mostrano il
manoscritto. Il tipografo resiste, reagisce, ricorda
le disposizioni del giudizio statario, dichiara
che non cederebbe fuorchè alla violenza.
Subito fatto. I due amici estraggono tranquillamente
[279]
un pajo di pistole e le appuntano al
petto del tipografo, che allora passa il manoscritto
in stamperia. Ohi ha conosciuto di persona
questi due sicarj, questi uomini facinorosi
così pronti alla violenza ed al sangue, dovrà
stupirsi sapendo che portavano il nome di due
fra i più colti e più miti uomini di lettere
del tempo nostro: Giulio Carcano ed Angelo
Fava. Haec mutatio dexteræ excelsi, avrebbe potuto
dire anche in questa occasione il cardinal
Federigo[68].
Ritornava da questa spedizione Angelo Fava
quando trovò nel vicolo di Bagutta Carlo Cattaneo
[280]
che s'avviava verso la contrada del
Monte.
Il fiero dottrinario s'era bisticciato il mattino
con alcuni amici suoi che volevano trarlo
nel movimento. Chiedeva quanti combattenti
avessero, quanti fucili, quali capi. E quelli rispondevano,
colla fede dell'entusiasmo, che
tutta la città sarebbe sorta, che v'era il Comitato,
che v'erano fucili e più se ne attendevano
dal Piemonte. E quegli replicava scettico:
“andate prima a vedere se sono arrivati„[69].
Non s'erano potuti intendere ed egli era andato
dallo stampatore a consegnare il manoscritto
del suo giornale. Angelo Fava lo ferma
e gli chiede de' suoi propositi per la giornata.
“Quando i fanciulli scendono in piazza,„ risponde
Cattaneo “gli uomini vanno a casa.„
Angelo Fava corse a casa egli pure; da buon
cattolico, fece udire una messa ai suoi allievi,
Dandolo e Morosini; poi li baciò, li vide armarsi,
scendere sulla via; prese un fucile e
scese con essi.
Il primo combattimento ebbe luogo al ponte
di S. Damiano. Dopo quella tumultuosa invasione
[281]
del palazzo e dopo il suo sgombro, un
drappello di soldati, furiosi per l'uccisione
delle due sentinelle, s'era raccozzato e dal bastione
di Monforte minacciava penetrare nell'interno
della città. In fretta e in furia s'innalzò
la prima barricata a ridosso del ponte.
Tavoli, sedie, travi, mattoni, il selciato delle
vie, tutto servì a costruire quella prima difesa,
a cui tante centinaja dovevano seguitarne. Una
buona donna cala da un terzo piano un suo
mobiluccio e raccomanda che glielo si guasti
il meno possibile. Passava sul ponte un carro,
pieno di bariletti, quali vuoti, quali ancor pieni.
In un attimo, il carro è rovesciato e i bariletti
si accatastano l'uno sull'altro, a duplice uso,
di terrapieno e di feritoja. Strilla il bottajo,
che vede sciupata in un baleno la merce a cui
forse aveva consacrati gli ultimi suoi risparmj.
E quei reclami non sembrano, neanche in quella
pressura di casi, privi di ragione. Qualcuno fa
appello, come s'usava in quei giorni, alle borse
guernite. Son lì presso, e sentono questo appello,
due patrizj che aiutavano a fare la barricata.
Giacomo Visconti Ajmi si fruga nelle
tasche, non ha che sessanta lire e le dà; il
conte Litta-Modignani straccia una pagina dal
suo portafoglio, vi scrive un bono per L. 6000
[282]
e lo porge al suo vicino, Antonio Lazzati, perchè
se ne serva per quel caso e per casi analoghi.
Era il sistema finanziario delle cinque
giornate che s'inaugurava.
Da questo punto la storia perde la sua traccia
e cominciano gli episodj. Ciascuna contrada
ha il suo, ciascun quartiere la sua epopea, ciascuna
casa il suo prode. Inutile cercar di riassumere
in quadri sinottici o in rubriche cronologiche
centoventi ore di febbre d'una città;
impossibile delineare i sussulti, le depressioni,
i delirj, i periodi, le allucinazioni. Se ogni
sintesi è ardua, quando i fatti escono da volontà
prefinite e disciplinate, eccede addirittura
l'umano intelletto, quando si tratta di
iniziative individuali, sparse, indipendenti, uniche
nello scopo, ma affatto slegate nei mezzi
e nel tempo. Le cinque giornate milanesi furono
come l'assedio di Troja; Ajace che combatte
da un lato; Diomede che resiste altrove;
Ettore che è vinto in una terza località; Minerva
sola vede tutto dall'alto dell'Olimpo, e
scende dove la traggono le sue simpatie. Dove
appariva un nemico, cominciava un combattimento;
ogni edificio dove si chiudeva un drappello
determinava un assedio. E l'ansia di
quelle lotte parziali, di quei certami quasi individuali
[283]
riempiva il tempo, l'attività d'ogni
quartiere, d'ogni contrada, e non permetteva di
allargare a movimenti d'insieme un'offensiva
che ciascuno concentrava con energie personali
intorno a sè. Pochi abbandonavano, per informazioni,
per intelligenze col quartier generale,
la barricata che avevano difeso, la caserma che
avevano conquistato, l'amico che s'erano visti
cadere allato. Ciascuno pensava, combattendo
e vincendo, che tutti gli altri, vicini e lontani,
avrebbero saputo combattere e vincere. Quando
v'era un'ora di tregua, si rafforzava una barricata
sfasciata dal cannone o se ne alzava un'altra
venti metri più in là. E al nemico che si
allontanava d'altrettanto, trasportando morti
e feriti, rispondeva una nuova scarica dei combattenti,
un nuovo urlo di gioja dai tetti delle
case, dove uomini, donne, fanciulli, noncuranti
delle granate che fendevano l'aria, tenevano
pronti vasi, tegole, mattoni, projettili, per lanciare
sui nemici, a piedi o a cavallo, che tentassero
riprese offensive. E allora quei venti
metri di terreno rappresentavano una grande
conquista, equivalevano ad una grande vittoria.
E si spiccavano messaggieri per annunciare al
Comitato questo trionfo; e il Comitato, che riceveva
nel tempo stesso venti di questi annunci,
[284]
li riassumeva in un proclama che presagiva
dappertutto successi definitivi; e questi
proclami, affissi sulle muraglie o sulle barricate,
destavano nuovi entusiasmi, determinavano impeti
più vigorosi e un'altra conquista di avamposti
nemici.
Tutte le case erano aperte ai combattenti;
di notte come di giorno. Quando s'aveva fame
o sete, s'infilava il primo uscio e si trovava
un domestico che vi offriva del pane, una fanciulla
che vi porgeva da bere. Le distinzioni,
le antipatie della vita erano sparite dinanzi al
gran pensiero, al gran desiderio di tutti; il
popolano aveva dimenticato le invidie, il ricco
non aveva più esclusivismi nè ripugnanze. Vitaliano
Borromeo faceva la guardia alle barricate
con una bajonetta ed una pistola; Giorgio
Trivulzio era ferito da una fucilata al ponte
di S. Celso; la signora Beretta, visto cadere
ferito un giovane popolano in mezzo allo spesseggiare
della mitraglia, stava per lanciarsi
essa a raccoglierlo, se quattro altri popolani
non l'avessero prevenuta. Non un furto disonorava
quella fraterna e illimitata larghezza
di ospitalità. Le grandi case dei Belgiojoso, dei
Trivulzio, dei D'Adda, dei Beretta, dei Borromeo
erano divenute istituti di pubblica necessita;
[285]
vi si fondevano palle da fucile, vi si conducevano
feriti da fasciare, prigionieri da custodire,
provvigioni e munizioni da distribuire;
e le gentili padrone di casa, fattesi per l'occasione
infermiere, carceriere e magazziniere,
sorreggevano dei loro entusiasmi le cose difficili,
correggevano le cose dure colla loro bontà.
Per questo s'è potuto vivere e vincere in
quei giorni; perchè gli elementi simpatici dominavano
colla loro influenza le incognite del
pericolo e del terrore; perchè la gentilezza patrizia
e la virtù popolare, affratellate in un
santo pensiero di resistenza, creavano un ambiente
di patria così alto, così sereno, che gli
uomini vi combattevano colla gioja sul viso,
vi morivano colla speranza sul labbro.
La battaglia cittadina s'è continuata per cinque
giorni sotto questi auspicj, in mezzo a queste
effervescenze; dominate a loro volta da un
altro fenomeno costante, universale, di effetto
strano, ma irresistibile; il romore delle campane
a martello, che per cinque giorni e per
cinque notti, da tutte le torri della vasta città,
interpretò, per così dire, l'anima guerriera della
popolazione; romore ora stridente, ora cupo,
pieno di vibrazioni e di minaccie; che di notte
irritava i nemici, di giorno incoraggiava i cittadini;
[286]
una specie di tam tam selvaggio che nè
bombe, nè mitraglie valevano a far tacere; la
fanfara delle barricate, — che portava lontano,
fra le campagne e i villaggi, un grido di soccorso
ed un appello all'esempio, — che piombava
sugli Austriaci come un suono pregno d'ignoti
spaventi, colla sua implacabile e fantastica
continuità.
Alessandro Manzoni ha scolpito in una delle
sue grandi pagine il linguaggio della campana
notturna, che atterrisce i bravi e libera Menico.
Moltiplicate quell'effetto per cinque giorni
e per cinque notti, unitelo al rombo dei cannoni
e al crepitare della moschetteria, ed avrete
una pallida impressione di quel molteplice
scampanío.
Dal labbro dei nemici si potrà, anche meglio
che da qualunque descrizione, ritrarre il meraviglioso
spettacolo di quelle giornate. “Milano
è sconvolta dalle fondamenta„ scriveva il maresciallo
Radetzki al conte di Ficquelmont
“la natura di questo popolo mi sembra per
incanto trasformata.„ E due ufficiali austriaci,
fatti prigionieri a San Celso e chiusi in una
anticamera, udendo di un forte assalto che i
loro compagni davano in quel punto ad una
delle barricate maggiori, espressero il desiderio
[287]
di poter seguire da una finestra le fasi del
combattimento. Al vedere quelle barricate imponenti,
che si alzavano ai secondi piani delle
più alte case, quel formicolio di combattenti
e di difensori, quel coraggio con cui si affrontava
la morte, quei balconi e quei tetti pieni
di offensori e di offese, all'udire quelle grida
umane, quei rintocchi del bronzo, quegli spari
d'archibugio che s'incrociavano, partendo dalle
finestre, dalle vie, dai tetti, dagli spiragli delle
cantine, i due prigionieri si ritrassero attoniti
nell'interno della stanza, dicendo: “Misericordia!
e il maresciallo crede di poter riprendere
questa città!„
Si capisce come, in una situazione siffatta, i
partiti e i gruppi sorti di poi abbiano potuto
sbizzarrirsi a reclamare, ognuno per sè, le
glorio maggiori. Gli orizzonti erano molti e
divisi, e ciascuno si onorava giustamente del
proprio, credendolo più vasto o più importante
degli altri. Probabilmente tutti i partiti furono
veri nei fatti esposti a merito proprio; soltanto
può darsi che nessuno sia stato esatto nell'esporre
quelli a merito altrui. Ed anche può
accordarsi a tutti la mitigante della buona
fede; giacche, non essendovi stata mai una situazione
dominante, molti possono credere d'essere
[288]
stati i soli od i primi a far ciò che altri
pure, tratti dagli stessi casi e dalle stesse necessità,
avevano già fatto in altri luoghi, senza
che gli uni potessero sapere degli altri.
Lo storico solo può rendere a tutti ragione
severa ed imparziale; può dire che il popolo
è stato sublime di coraggio e di devozione;
che le classi medie e patrizie hanno gareggiato
di energia direttiva, non risparmiando
nè vita, nè ricchezze, nè responsabilità. Lo storico
può dire che, come esigeva Nelson alla
vigilia della battaglia di Trafalgar, tutti hanno
fatto in quei giorni il loro dovere; può e deve
dire di più, — che chi volesse scemare ad alcuno
fra gli attori di quella rivoluzione qualche
briciolo del loro patriottismo non riuscirebbe
ad altro che a far dubitare del proprio.
Queste le impressioni, questi i caratteri generali
della rivoluzione milanese.
Chè se si volesse tentare di riassumere in
qualche modo con metodi sintetici quella moltiplicità
di episodj, bisognerebbe forse raggrupparli
intorno a tre questioni fondamentali; la
questione strategica, la questione politica, la
questione diplomatica.
L'ultima può esaurirsi senza molte complicazioni.
[289]
Non ebbe e non poteva avere altro
intento che l'ajuto del Re e dell'esercito piemontese.
Al primo rompere delle fucilate, il giorno 18,
l'idea di spedire immediatamente a Torino
persona di fiducia per annunciare il moto di
Milano e chiedere l'intervento, era balenato agli
uomini di senno, qualunque fosse la loro opinione
politica. Enrico Cernuschi, fin dalla prima
riunione in casa Vidiserti, ne aveva fatto formale
proposta[70]. Ma già lo aveva prevenuto
Luigi Torelli, che s'era recato dal conte Francesco
Arese, sollecitandolo ad incaricarsi di
questa necessaria missione.
L'Arese, messo alle strette dagli amici, rinuncia
a malincuore alla lotta in cui sperava
essere attore. Si reca da una cognata[71] e le
consegna una forte somma in denaro, con ordine
di distribuirne a quanti si presenteranno a
richiederne per bisogni patriottici. Poi, si ficca
in un carrozzino e corre alla più vicina barriera.
Riesce a passarla, alcuni minuti prima
[290]
che le porte si chiudano; ma al Ticino trova maggiori
ostacoli, li supera e giunge a Torino la
sera del 19.
Prima però ch'egli potesse adempiere la sua
missione, il Re, avuto sentore del movimento,
aveva mandato a chiamare Carlo D'Adda,
che, ricevendo notizie per altra via, le aveva
comunicate a Carlo Alberto insieme colle più
vive preghiere per un immediato intervento.
Il Re non gli aveva nascosto la risoluzione
di venire alla guerra, ma gli soggiungeva scherzando
“sicchè dovrò andare a Milano a proclamare
la Repubblica.„ “Certo è, Sire„ rispondeva
il D'Adda “che la Repubblica sarà
proclamata se Vostra Maestà non parte.„ Erano,
su per giù, le stesse parole che due giorni dopo
il Cattaneo stampava nel suo proclama: “la
parola gratitudine è la sola che possa far tacere
la parola repubblica.„ Da che si vede
come, in situazioni diverse, uomini diversissimi
giudicassero pure con eguali criterj.
Subito dopo questo discorso, il conte Enrico
Martini era stato inviato a Milano con una
missione confidenziale, ed era già partito quando
il conte Arese si presentò il 19, a tarda ora, e
fu ricevuto dal Re.
A quell'egregio patriota ripetè Carlo Alberto
[291]
con maggior precisione quello che già aveva
detto al D'Adda e al Martini; anzi lo invitò
a venire la mattina seguente nella piazza Castello
per vedervi sfilare, avviata alle frontiere,
la brigata delle Guardie[72].
Dopo aver veduto anche il ministro degli
affari esteri e dopo avere assistito a quella
consolante sfilata, l'Arese ripartiva immediatamente
per Novara, sperando poter rientrare in
Milano. Ma trovati ostacoli assai maggiori, e sapendo
che il Martini aveva istruzioni più precise
delle sue, insofferente d'ozio, si mischiò ad
una colonna di volontarj improvvisati, varcò
con essi il Ticino poco lungi da Oleggio e si
diresse verso la città bloccata, non più diplomatico,
ma bersagliere.
Intanto Enrico Martini s'era aggirato per
molte ore intorno alla cinta esterna dei bastioni,
senza trovar modo d'entrarvi. Finalmente,
la mattina del 21, combinatosi col signor
Angelo Cattaneo, commesso delle gabelle, che
doveva portare del sale alle caserme in città,
si travestì da garzone del magazzino, si caricò
d'un sacchetto di sale, e potè non senza ostacoli
[292]
e rischi, penetrare fino al quartier generale,
presentando le sue commendatizie.
Il Re desiderava due cose: che una mossa
d'insorgenti o di disertori trascinasse il nemico
a qualche violazione del territorio sardo:
che gli venisse spedito un indirizzo, firmato da
quanti più si potesse cittadini notabili per
censo, per intelletto, per ufficj coperti, per influenze
personali. Enrico Martini aggiungeva
di suo, che si costituisse subito un Governo
Provvisorio, col mandato di offrire a Carlo Alberto
il dominio della Lombardia.
Quest'ultima proposta parve a tutti ancora
intempestiva e non fu da nessuno accettata.
Lo furono le due prime; e mentre alcuni fra i
combattenti s'incaricavano di combinare una
finta presso alla frontiera, Achille Mauri stese
l'indirizzo, che fu portato subito da parecchi
in giro per le case e fra le barricate, raccogliendo
in poche ore parecchie centinaja di
firme. V'era tra queste il nome di Alessandro
Manzoni, che al conte Martini diceva: “prevenga
Sua Maestà che se la mia firma è un
po' tremolante, non è perchè io abbia paura,
ma perchè sono vecchio.„ Parole che ricordano
le altre celebri dell'antico maire di Parigi,
Bailly, quando, trascinato alla ghigliottina in
[293]
gennajo, diceva: “je ne tremble pas de peur,
mais de froid.„
Queste trattative erano necessarie per attutire
un po' i romori della diplomazia europea;
che a Torino pareva ostile ad ogni intervento
piemontese; tanto che lo stesso ministro della
nuova Repubblica Francese consigliava prudenza,
e il ministro d'Inghilterra, signor Ralph
Abercromby aveva in quei giorni dipinto al
suo governo sotto cattivo aspetto la missione
del conte Arese. Ad ogni modo, l'indirizzo
non fu portato a Carlo Alberto che il giorno 23,
poichè nè il 21 nè il 22 era stato possibile al
conte Martini di sorpassare i bastioni. E il 23
mattina, come si sa, Milano era libera.
Le prime notizie di questa liberazione erano
ancora giunte, dai paesi tra Milano e il Ticino,
a Carlo D'Adda. E il Re lo aveva ancora
mandato a chiamare per saperle; poichè erano
tempi in cui i semplici cittadini conoscevano
le cose prima dei governi. Giungono intanto
gli speciali inviati del Governo provvisorio
lombardo; Enrico Martini col suo indirizzo, e
il conte Annoni con una lettera di Gabrio
Casati pel conte di Castagneto, in calce alla
quale Pompeo Litta, storico e veterano delle
campagne napoleoniche, aveva aggiunto questo
[294]
poscritto pel Re: “J'attends mon astre, è una
medaglia che mi fu spedita e da me pubblicata.
Le occasioni sono straordinarie e perciò rare.
È la Provvidenza, è Iddio che le manda. Possiamo
rifiutarci?„
Carlo Alberto lesse questo poscritto con
molta emozione e incaricò Castagneto di esprimere
all'illustre patriota i suoi sentimenti.
Frattanto una grande agitazione invadeva
Torino. In quel giorno stesso, era comparso
sul Risorgimento, il periodico del patriziato
liberale piemontese, quell'energico articolo di
Camillo Cavour che incominciava: “L'ora suprema
della dinastia sabauda è suonata.„ Già
i volontarj s'organizzavano e partivano in
colonne da varie parti del Regno. Il ministero,
frenato sempre dalla diplomazia, esitava
ancora a lanciare la dichiarazione di
guerra. E la moltitudine, desiderosa di risoluzioni
governative, s'assiepava intorno al palazzo
reale, domandando notizie.
Era notte fatta, e la folla cresceva. Allora
Carlo Alberto, questo re dalle forme rigide e
compassate, esce sul balcone, avendo da un
lato il Martini, dall'altro il D'Adda, con due
valletti che portano, a sinistra e a dritta, le
torcie. E lì, dal balcone, di notte, con questo
[295]
apparato, a quella folla clamorosa, che all'inconsueta
apparizione si chiude in un silenzio religioso,
il Re annuncia con brevi parole la liberazione
di Milano, e prendendo l'estremità di
una fascia tricolore che il D'Adda portava ai
fianchi, l'agitò con gesto sicuro intorno al suo
capo, come simbolo di una bandiera sventolata.
Equivaleva, in quell'ora e da quell'uomo, a una
dichiarazione di guerra. L'urlo d'entusiasmo che
si levò da quella folla in delirio è più facile
immaginarlo che descriverlo.
Poi, non essendo questa folla ancor soddisfatta,
Carlo D'Adda scende alla porta; vi trova
una carrozza a due cavalli che stava attendendo
uno degli ospiti del palazzo; sale sul predellino
del cocchiere, e in piedi, sventolando un fazzoletto,
patriottico novelliere, snocciola lì per lì
le notizie più diffuse e gli ultimi particolari
della liberazione di Milano. E allora la folla è
soddisfatta e si scioglie.
Fu nella stessa sera che il Re convocò il Consiglio
dei Ministri, per notificare la deliberazione,
già da lui presa, della guerra immediata
e per redigere il proclama da indirizzarsi alle
popolazioni lombarde.
A quel Consiglio furono invitati i due inviati
milanesi, Martini e D'Adda; e bene intonava
[296]
la situazione il vedere fra quelle Eccellenze,
tutte gravi, tutte in uniforme, due giovani
in abito da viaggio o da camera, che portavano
la coccarda tricolore al posto degli ordini cavallereschi
e dei medaglioni.
Il conte Sclopis leggeva ad alta voce lo schema
del famoso manifesto; e il Re, volgendosi ai due
milanesi, a preferenza che agli altri ministri,
diceva loro: “va bene così?„ Interpellati direttamente,
quelli credettero dover esporre la
loro opinione. Nel manifesto si faceva accenno
alla protezione di Dio, ma non si parlava punto
di Pio IX. Carlo D'Adda si levò a suggerire
che non mancasse in quel solenne documento
il nome dell'uomo, allora così acclamato, sotto
la cui invocazione tanti sacerdoti e tanti popolani
s'erano battuti. L'osservazione parve
giusta e l'inciso relativo a Pio IX fu inserito
nel manifesto[73].
[297]
Della questione politica, durante le cinque
giornate, si può sbrigarsi anche in minori
parole.
Il Municipio, posto dagli avvenimenti di fronte
a una situazione così piena d'ignoto e grossa
di responsabilità, ebbe fin da principio un concetto
fondamentale generico: uscire il meno
possibile dalla legge; posarsi fra la città e il
governo militare come autorità tutrice e intermedia,
che non ostentasse risoluzioni implacabili,
ma che rigettasse su altri la colpa d'uno
stato di guerra, contro cui era ben necessario
che la popolazione si premunisse.
Per ciò, ad una prima brutale intimazione
del maresciallo Radetzki, che la sera stessa
del 18 marzo, alle 6 e mezzo pom. ordinava al
Municipio di pubblicare immediatamente un
proclama di biasimo e di disarmo, sotto pena
[298]
di bombardamento e con una spavalda allusione
a centomila uomini e a duecento cannoni, Gabrio
Casati rispondeva con molta e savia tranquillità:
“Quanto il Municipio ha operato precedentemente,
lo ha fatto d'accordo col Capo
attuale del Governo civile. La Congregazione
deve quindi riservarsi fino a domani per deliberare;
ed intanto interessa l'E. V. a sospendere
ordini, atti a null'altro che a partorire
danni incalcolabili per tutti.„
Non era infatti nè il primo nè il secondo
giorno d'un movimento, il cui risultato pareva
ancor dubbio ai più animosi, che il Municipio,
tutore naturale della città, dovesse spogliarsi
interamente d'ogni mezzo e d'ogni possibilità
di una futura influenza mitigatrice. Di
audaci la città in quei giorni non aveva difetto;
ed era pur bene che, seguendo le costanti
oscillazioni dei fatti umani, s'incaricasse qualcuno
di tener deste le ragioni della prudenza.
Sicchè al mattino del giorno 20, senza mutar
nome, nè dare alla propria autorità intonazioni
ufficialmente provocatrici, il Municipio si aggiunse
sei collaboratori, che parevano ed erano
richiesti dalla maggior mole d'affari venuta a
cadere sulle spalle della civica magistratura.
Scelse a tal uopo il conte Francesco Borgia, il
[299]
generale Teodoro Lechi, Alessandro Porro, Enrico
Guicciardi, Anselmo Guerrieri e Giuseppe
Durini.
Era così riuscito ad evitare fino allora nel
centro dirigente dell'insurrezione la questione
politica. Chi ve la portò fu, proprio in quel
giorno stesso, Carlo Cattaneo, apparso nelle
sale del quartier generale dopo due giorni di
un'astensione gelosamente mantenuta e quasi
accentuata.
Fu assai rimproverata al Cattaneo questa sua
tarda partecipazione ad un movimento, in cui
molti altri cittadini, di minore ingegno e di
minore influenza, avevano fin dal primo giorno
risolutamente gettata la loro responsabilità.
Forse questo rimprovero non è giusto. L'esitazione
del Cattaneo non moveva da mancanza
di patriottismo; bensì da minor fede
nell'opportunità, nel consenso, nei mezzi della
rivoluzione. Era un'opinione, già lo abbiamo
detto, assai rispettabile, e che autorizzava per
lo meno l'uomo da cui partiva a non assumere
inziative da lui giudicate imprudenti. E non
torna a suo biasimo, sibbene a sua lode se,
esaminati gli andamenti di quei due giorni, e
convintosi forse che ad ogni modo era giunta
l'ora di spingere a fine quanto non s'era potuto
[300]
da principio trattenere, il Cattaneo abbia
creduto dover uscire dalla sua inazione ed offrire
ai capi del movimento l'ajuto del suo consiglio
e della sua attività.
Dove il Cattaneo ebbe torto fu nell'accentuare
immediatamente un dissidio politico; e nello atteggiarsi
quasi a censore ed a giudice degli
uomini che fino allora, senza e prima di lui,
avevano accettato, in faccia ad un nemico implacabile,
quel posto d'onore e di pericolo che
la forza delle cose, se anche non l'ingegno eminente,
aveva loro additato.
Il Cattaneo portò un'idea e posò una questione.
Quella era buona, questa era ingiusta.
L'idea era di costituire un nucleo direttivo,
esclusivamente preoccupato delle cose di guerra,
lasciando in disparte ogni argomento relativo
ad ordinamenti politici. E la proposta fu subito
accolta, restando anzi il Cattaneo stesso
investito di siffatto incarico, col Cernuschi, col
Terzaghi, con Giorgio Clerici.
Ma egli aveva anche sollevata una questione
di nomi. Diffidava così dei membri del Municipio
come dei loro collaboratori. Per lui, Casati
cercava un padrone; Durini e Porro erano
cortigiani; non voleva i Giulini, i Strigelli, i
Borromei, perchè i loro padri, trentacinque anni
[301]
prima, erano stati coll'Austria contro Beauharnais;
trattava con un disdegnoso epiteto Enrico
Guicciardi, che in quell'ora istessa i generali
austriaci cercavano a morte, invadendogli
la casa e cacciandone, tra le fucilate, i molti
e piccoli figli.
Era strano che un pensatore come Cattaneo
facesse così ricadere sui figli, secondo la teoria
biblica, le colpe dei padri. Ed era anche più
strano che proprio in quei giorni egli credesse
necessario scoraggiare con dure parole quei
giovani, di cui appunto il patriottismo aveva
dovuto superare una prova maggiore, vincendo
tradizioni di famiglia e vincoli di paterna autorità.
Ad ogni modo, nè il Cattaneo trovò intorno
a sè adesioni bastevoli a rovesciare le influenze
che non gli parevano buone, nè gli uomini da
lui combattuti posero il menomo ostacolo all'azione
ed al patriottismo di chi li combatteva.
Il Comitato di Guerra e la Commissione Municipale
coesistettero, durante il combattimento,
senza intralciarsi; altri comitati anzi furono
istituiti per disciplinare le sussistenze, la polizia,
le finanze; la Commissione Municipale
accentuò meglio ogni giorno la sua trasformazione
politica, e finalmente, ricostituitasi il
[302]
giorno 22, sotto forma e nome di Governo Provvisorio,
ne proclamava i nuovi componenti. Casati,
Borromeo, Durini, Pompeo Litta, Strigelli,
Giulini, Antonio Beretta, Marco Greppi, Alessandro
Porro e Anselmo Guerrieri. Cesare Correnti
era nominato Segretario Generale; e, secondo
la richiesta dello stesso Cattaneo, Pompeo
Litta era destinato a presiedere un nuovo
Comitato di Guerra, a cui si aggiungevano il
Lissoni, il Ceroni, il Carnevali, Luigi Torelli.
Fu nello stesso giorno che il Governo Provvisorio,
posto fra diverse esigenze, emanò quel
proclama che doveva più tardi essere cagione
di tanti contrasti: “A causa vinta i nostri destini
verranno discussi e fissati dalla nazione.„
In quell'ultimo giorno la concordia politica
era già piuttosto nei sottintesi che nei propositi.
Ad ogni modo, il dissidio sorse e si mantenne
nella piccola cerchia degli uomini che
governavano, turbò ed agitò assai più tardi gli
uomini che combattevano.
In questi risiedeva davvero la questione strategica
della rivoluzione; questione difficile a cogliere,
forse impossibile a precisare, ma intorno
a cui si svolsero pure gli episodj principali e
i più numerosi delle cinque giornate.
[303]
Uno dei caratteri più salienti di quella strategia
fu l'assoluta mancanza di capi strategici.
Nei primi due giorni non ve ne fu neanche il
tentativo; al terzo giorno ne apparve uno, degnissimo,
Augusto Anfossi, che, appena nominato,
cadde morto all'attacco del Genio Militare.
Teodoro Lechi, vecchio generale napoleonico,
era stato nominato comandante di tutte le forze
insurrezionali, ma era stato fatto prigioniero al
Broletto, fino dal primo giorno del movimento.
Al quarto giorno si cercò dal Consiglio di
Guerra sostituire in qualche modo il generale
in capo. Senonchè, rispettabilissimi per patriottismo
e per intelletto, quegli uomini parevano
l'ironia del nome, nessuno d'essi avendo
fatto la guerra. D'altronde, i loro ordini non
sempre giungevano, traverso alle barricate,
dove importava che giungessero. E se giungevano,
non sempre erano obbediti; conseguenza
del tipo necessariamente autonomo e
dei molteplici ambienti di quella battaglia.
L'ottimo Torelli racconta a questo proposito
un incidente occorsogli e che basta a dipingere
intera quella situazione strategica.
Era stato nominato Direttore delle pattuglie,
e in tal qualità si recava nel quartiere di
Porta Ticinese per esaminare un posto. Al piede
[304]
d'una barricata due individui armati lo arrestano.
Declina il suo nome e il suo grado. “Ma
che capo di pattuglie?„ rispondono “che Governo
Provvisorio? Noi riceviamo i nostri ordini
dal Comitato di casa Trivulzio e non da
altri. Venga con noi.„ E il Direttore generale
di tutte le pattuglie dovette farsi riconoscere
da un gentiluomo di casa Trivulzio, perchè i
popolani di Porta Ticinese lo lasciassero in libertà.
Questo era davvero discentramento.
L'istinto della difesa e il senso comune supplivano
a questa mancanza di direzione centrale.
Ogni mattina il bisogno suggeriva l'attitudine
e ciascun giorno aveva la propria destinazione.
Senza disposizioni di Stato maggiore,
può dirsi che in tutte le parti della città il
programma di quei cinque giorni fu identico.
Il 18 fu una sorpresa; l'insurrezione parve
un problema a quelli stessi che l'avevano incominciata;
la sera e la notte passarono in una
completa incertezza sul carattere, sulle proporzioni,
sulle conseguenze del moto.
Il 19 cominciò la difesa; fu la giornata classica
delle barricate; ogni quartiere le innalzò
coi mezzi e colle materie che aveva sotto mano,
nei punti da cui si poteva più facilmente respingere
la cavalleria o paralizzare l'artiglieria.
[305]
I seminaristi adoperarono i loro letti e i lastroni
del Corso; al teatro alla Scala, le sedie
e le panche della platea; a Porta Romana, le
carrozze di Corte trovate nella soppressa chiesa
di S. Giovanni in Conca; agli archi di Porta
Nuova i materiali di fabbrica del cominciato
palazzo d'Adda; al Cordusio, i bollettarj e le
balle di carta degli ufficj di finanza; a S. Vicenzino,
lastre di granito e terra e attrezzi di
ferro, legati con solide catene attraverso la
via. Si lasciava un pertugio della larghezza
d'una persona; vi si metteva un uomo di guardia,
perchè domandasse una parola d'ordine....
che tutti sapevano; e al buon umore ambrosiano
non era mancata l'idea di collocare sulla
cima della barricata il gatto tradizionale del
proverbio lombardo[74].
Il 20 potrebbe dirsi la giornata della preparazione;
si vollero sgombri i posti nemici collocati
nell'interno della città; il Duomo, il palazzo
di Corte, la Direzione di Polizia, il Broletto,
le caserme. Fu in quel giorno che il conte
[306]
Bolza venne trovato nascosto in un abbaino
sotto un mucchio di fieno, allibito e contraffatto
per la paura. Forse in quell'ora gli passarono
dinanzi alla corrotta coscienza le molte
vittime sue e il povero Confalonieri da lui
ghermito con funesto ghigno in un altro abbaino.
È nota la condotta generosa che il popolo
serbò verso di lui e la frase, veramente
alta e inspirata, di Carlo Cattaneo: “se lo ammazzate,
fate una cosa giusta; se non lo ammazzate,
fate una cosa santa.„
Il 21 l'operazione generale è l'attacco. Ciascuna
zona, fattasi le spalle sicure, cerca di
allontanare l'inimico, di allargare e indebolire
la sua cerchia, di respingerlo agli ultimi baluardi
dell'esterna periferia. Questo è già concetto
strategico, e alla sera del quarto giorno
l'operazione può dirsi riuscita; l'esercito nemico,
stanco e scorato, bivacca tutto sulle mura
di Ferrante Gonzaga, ormai cacciato dall'interno
della città.
Finalmente il giorno 22 ha luogo la mossa
definitiva, l'impeto sopra un punto del cordone
nemico, per isfondarlo e romperlo in due, aprendo
il varco alle comunicazioni colle campagne
e colle città insorte di Lombardia. Il Cattaneo
aveva proposto a tal uopo l'attacco di Porta
[307]
Ticinese; fu scelta invece la Porta Tosa, e lì
accadde il combattimento più lungo e più ostinato
dei cinque giorni; dove Luciano Manara
si coperse di gloria pel suo coraggio, dove Antonio
Carnevali immaginava quelle fascine rotolanti,
dietro a cui s'avanzavano i nostri in
fitte schiere; dove si distinsero per freddo valore
il pittore Borgo Carati e Andrea Cazzamini
e il Croff e il Mangiagalli e il Dal Bono
molti vivi.
Quando Luciano Manara, avanzandosi a petto
scoperto contro le palle nemiche, appiccò di
sua mano il fuoco a Porta Tosa, potè dirsi che
lo scopo dell'insurrezione cittadina era raggiunto.
Milano otteneva un risultato che in
tutto il corso dei secoli non s'era visto mai:
rovesciare fuor dalle mura un esercito straniero
che vi si era accampato da anni e fornito di
tutto ciò che ai cittadini mancava: capi, armi,
disciplina, stromenti di distruzione.
Come s'erano lasciati vincere i quattordici
mila uomini del maresciallo Radetzki? da quali
armi s'erano lasciati snidare da tante caserme,
da tanti palazzi, così facilmente difendibili? da
poche centinaja di fucili buoni, da qualche migliaio
di fucili cattivi, da 1523 barricate, dal
suono incessante di cento campane a martello.
[308]
Tutto ciò, ben inteso, aggiunto al valore individuale,
che può essere elemento nuovo o mirabile
in cittadini, ma che è o dovrebb'essere
caratteristica costante e consueta in eserciti
organizzati.
Questi combattenti borghesi potevano classificarsi
in tre categorie. — La prima comprendeva
quei pochi avanzi dell'antico esercito italico
che avevano visto le guerre serie e i generali
giganti. Ma erano per la massima parte
vecchi, acciaccosi e, per le stesse rimembranze
delle molte città conquistate e saccheggiate,
poco inchinevoli a credere nell'efficacia delle
barricate e delle campane a martello. D'altronde,
Teodoro Lechi era stato, come dicemmo, fatto
prigione fin dal primo giorno della rivolta e non
fu liberato che il 23. Pompeo Litta, ballottato
fra il Casati e il Cattaneo, s'ingegnava di metter
pace fra i due, perchè una seconda guerra
non s'aggiungesse alla prima. Il Lissoni, il Ceroni,
il Iacopetti, il Cima si chiamavano ad
organizzare i nuovi istituti militari in formazione,
piuttosto che a dirigere il fuoco delle
contrade. Soltanto Antonio Carnevali, ingegnere
militare distinto, aveva potuto a Porta
Tosa prestare attivamente l'opera sua.
La seconda categoria di combattenti constava
[309]
di uomini che, senza avere partecipato a guerre
importanti, avevano indossato assise militari e
preso parte a combattimenti, in eserciti e paesi
stranieri, o in Ispagna, o in Grecia o in Africa.
Erano pochi, ma si distinsero tutti per coraggio
e per energia. Giuseppe Broggi, tiratore
meraviglioso, aveva, quasi solo, impedito nei
primi due giorni, l'avanzarsi degli Austriaci oltre
i ponti di S. Damiano e del Corso, abbattendo
gli ufficiali superiori, il generale Wocher
fra gli altri. Una palla di cannone lo uccideva
nel pomeriggio del giorno 19. Augusto
Anfossi, dopo avere diretto l'occupazione
degli archi di Porta Nuova e del palazzo del
Genio, moriva di fucilata il giorno 20. Girolamo
Borgazzi, ispettore delle ferrovie, trovava
modo di scalare ben quattro o cinque volte le
mura, per combinare col Comitato di Guerra attacchi
simultanei; e cadeva all'ultimo giorno,
mentre più di quattromila uomini radunati da
lui davano a Porta Comasina l'ultimo assalto.
Il conte Ottaviano Vimercati diresse con fermezza
il giorno 21 un tentativo contro la Porta
Vigentina, che alcune centinaja d'insorti raccoltisi
nelle campagne avrebbero voluto sfondare
per portare soccorsi nella città.
Ma la categoria di gran lunga più numerosa
[310]
di combattenti era quella dei cittadini rimasti
quasi tutta la vita entro le mura della loro
città, e che per la prima volta imparavano a
caricare una pistola o a scaricare un fucile. E
fra questi troviamo Luciano Manara, elegantissimo,
che il soffio di patria tramuta in un eroe
di Plutarco; Giovanni Meschia, lattivendolo,
che, appostato dietro il fumaiuolo d'un camino
a Sant'Eustorgio, uccide ad uno ad uno i soldati
saliti sopra il campanile per moschettare
le vie; Pasquale Sottocorno che, vecchio e
zoppo, correva a portar paglia e fuoco a Manfredo
Camperio, mentre abbatteva con una scure
il portone del Genio; e Giuseppe Guy e Luigi
Stelzi, vittime dei primi giorni; e i Dandolo e
Morosini e Mozzoni, studenti di 18 anni, che
si trovavano dappertutto dove si combatteva
e si moriva, al ponte di Porta Renza, agli
archi di Porta Nuova, al palazzo del Genio, all'assalto
di Porta Tosa.
Che dinanzi a siffatti elementi il maresciallo
Radetzki dovesse trovare difficoltà grosse e lotte
aspre, facilmente si capisce; ma che abbia dovuto
soccombere, co' suoi quattordicimila uomini,
i suoi duecento cannoni, il suo castello
munito e le forti posizioni occupate nell'interno
della città, sarebbe un fenomeno nella storia
[311]
delle guerre quasi eccezionale, se non concorressero
a spiegarlo altre ragioni affatto estranee
alla strategia.
Già era stata una sorpresa per gli Austriaci
come pei cittadini la giornata del 18 marzo. Se
l'insurrezione avesse avuto un capo, nulla sarebbe
stato più facile che impadronirsi d'un
colpo di tutto lo Stato Maggiore austriaco; poichè
il maresciallo, col generale Wallmoden, tre
altri generali e parecchi ufficiali, usciva dopo
il tocco dalla casa Cagnola dov'era la cancelleria
militare, senza il menomo sentore dell'agitazione
che in quella stessa ora aveva già
guadagnato le altre parti della città.
Se ne accorse quando vide chiudersi le botteghe
e scendere i primi armati per le vie. E
allora corse a furia in castello e deliberò la
prima ed unica operazione offensiva di qualche
importanza che in quei cinque giorni abbia potuto
eseguire.
Pensando che alla sede del Municipio sarebbe
stato il focolare della sommossa e la residenza
dei capi, mandò verso sera buon nerbo
di truppe ad accerchiare il Broletto, e dopo
breve combattimento se ne impadronì. Colse
infatti parecchie dozzine di cittadini che stavano
preparando i quadri della guardia civica,
[312]
e li fece trasportare, indegnamente maltrattati,
in castello. V'erano anche tra questi dei personaggi
d'influenza e di conto, il delegato Bellati,
l'assessore Marco Greppi, il generale Teodoro
Lechi, tre conti Porro, Guglielmo Fortis,
Pietro Maestri, un Litta-Modignani, il Brioschi,
il Tagliaferri ed altri. Ma quelli che intorno
al Casati costituivano veramente il nucleo direttivo
del movimento, fermati al palazzo Vidiserti
da quella scarica di fucileria, non avevano
potuto più ricondursi al Broletto, e s'erano
invece trasportati, come in località più
centrale e più difendibile, nel palazzo del conte
Carlo Taverna in Via dei Bigli.
Dopo quella mossa offensiva riuscita a mezzo,
parve che il maresciallo Radetzki avesse rinunciato
ad ogni risoluto disegno di ostilità. Il
secondo giorno lo passò in attitudine piuttosto
di osservazione che di attacco. Lanciava da
ogni largo imbocco di via scariche di plotone,
che uccidevano o ferivano, ma non riuscivano
ad impedire la costruzione delle barricate. Faceva
avanzare drappelli di cavalleria, che retrocedevano
di galoppo alla prima viva fucilata
venuta dai cittadini. Eppure non è dubbio
che, avendo in quel giorno ancora occupate militarmente
tante forti posizioni nell'interno della
[313]
città, e non essendo la difesa di questa nè completata
dall'intero sistema delle barricate nè
spinta, come nei giorni successivi, al più alto
grado dell'energia e della cooperazione universale,
un vigoroso movimento di ripresa che
fosse partito simultaneamente da tutte le porte
della città, aiutato dalla sortita di tutti i presidii
collocati nelle caserme e nei palazzi governativi,
sarebbe bastato, certo non senza molta
lotta e molta strage, a strozzare l'insurrezione.
Ma evidentemente non vi fu nei consigli militari
austriaci in quei giorni nè calma, nè intelligenza.
Lo scoppio così imprevisto di una
così grossa rivolta paralizzò i verbosi ardimenti
del vecchio maresciallo. Forse, le comunicazioni
interrotte gli fecero credere sorpresi e
prigionieri fin dal secondo giorno i corpi di
guardia interni. Certo, pensava assai maggiore
che non fosse la preparazione strategica della
città; poichè al Ficquelmont scriveva: “è chiaro
che direttori militari prestati dall'estero stanno
a capo della sollevazione.„ Era la stessa impressione
che faceva scrivere un dispaccio alla
Presse di Parigi: “25 mille insurgés armés sont
descendus dès le premier jour dans la rue„[75].
[314]
S'aggiungano le notizie di Vienna che, non
lasciando ancora scorgere intere le proporzioni
e le conseguenze del moto, non permettevano
di abbandonarsi ai vecchi criteri di repressione
militare sfrenata, coi quali potevano trovarsi
in aperto contrasto nuovi indirizzi di governo
e di governanti.
Tutto ciò rendeva in quei primi due giorni
pieni di curiosa incertezza gli andamenti dell'autorità
militare. Pareva quasi ansiosa di trovare
ogni pretesto per mostrare spirito conciliativo.
E alla duchessa Litta che, valendosi di
antiche relazioni personali, aveva scritto al maresciallo,
lagnandosi di guasti arrecati dalle
truppe al suo palazzo, rispondeva quegli con
molta umiltà “avrebbe provveduto a che non si
rinnovassero, ma esortare egli pure la duchessa
a non lasciare che le sue genti maltrattassero
o provocassero soldati.„
Finalmente al terzo giorno, quando vede tutta
la città asserragliata e l'insurrezione divampare
minacciosa, si decide a moltiplicare i colpi. Ma
allora si accorge altresì che le munizioni da
guerra non rispondono agli intenti di distruzione.
Quei trentaquattro anni di pace avevano
lasciato un po' di ruggine sui ferri del
dominio straniero. Le racchette fendevano l'aria
[315]
e cadevano sui tetti senza scoppiare; le
bombe scoppiavano con tanto ritardo che,
dopo le prime esperienze, i fanciulli avevano
il tempo di toglierne i luminelli e renderle
innocue.
Forse quest'ultima ragione o le due insieme
spinsero il maresciallo a desiderare proposte
di accomodamento.
E cominciarono allora quelle pratiche per
un armistizio, che diedero così gran pascolo alle
immaginazioni ed alle passioni di parte.
Dai documenti del tempo, dai libri fra loro
comparati e dalle attestazioni dei testimonj superstiti
si può ad ogni modo cogliere intera la
verità anche intorno a questo episodio.
Il maresciallo Radetzki aveva rilasciato sulla
parola uno de' suoi ostaggi, il conte Marco
Greppi, assessore municipale, perchè si recasse
in città e giudicasse della convenienza di venire
a qualche sospensione d'armi. Contemporaneamente
si presentava al quartier generale
di casa Taverna un ufficiale croato, il maggiore
D'Ettinghausen, non già come inviato del maresciallo,
ma coll'offerta individuale di farsi latore
presso il maresciallo stesso “di proposizioni
[316]
che valessero ad arrestare l'effusione del
sangue.„
La Commissione Municipale esaminò la situazione
militare, considerò la situazione politica
e la propria responsabilità. S'era a mezzo
di quel terzo giorno, in cui la rivoluzione non
aveva preso ancora il suo maggior slancio. Per
quanto le barricate fossero quasi dappertutto
compiute, nessun posto importante era stato
occupato; i nemici erano ancora padroni del
tetto del Duomo, della Direzione di Polizia,
del palazzo del Genio, del Gran Comando, di
tutte le grandi caserme della città interna; dal
di fuori non si sapeva nulla; il movimento delle
provincie non si conosceva; nelle campagne
circostanti appena qualche indizio di assembramenti
si notava dall'alto dei campanili; nessuna
notizia dal Piemonte, nessun'altra da Vienna;
non una informazione sicura intorno allo
spirito morale ed all'armamento del nemico
che ci stringeva da tutti i lati. In questo cumulo
d'incertezze, respingere qualunque proposta
di accomodamento parve, e sarebbe stata,
da parte della Commissione Municipale, una
vera temerità. Essa poteva dirsi ancora rimasta
nei limiti del suo primo programma; era
autorità legale, non potere rivoluzionario. Se
[317]
una sconfitta, pur possibile, fosse seguita, quante
maledizioni non sarebbero piombate su quei poveri
capi, responsabili d'una risposta, e che sarebbero
stati accusati d'imprevidenza da quelli
stessi che, dopo il successo, li accusarono di debolezza!
Però, la Commissione Municipale propose
patti larghissimi. La città doveva avere libere
comunicazioni, da tutte le porte, col vicino contado.
Il maresciallo doveva tener chiuse in otto
determinati punti tutte le truppe. La guardia
civica doveva essere organizzata regolarmente;
mantenute tutte le situazioni occupate dai cittadini
e conservato in istato pienamente servibile
il sistema di difesa adottato. Su queste
basi, la Commissione Municipale avrebbe
autorizzato il Podestà a trattare col maresciallo
Radetzki per un armistizio di quindici
giorni.
Al barone d'Ettinghausen queste basi parvero
inaccettabili. E allora la Commissione Municipale,
volendo persuaderlo ch'esse erano le
più moderate, anzi le uniche possibili, dirimpetto
all'ardore guerriero dei combattenti, invitò
nella sala le persone che si trovavano nel
vicino appartamento del Consiglio di Guerra;
ed entrarono infatti Carlo Cattaneo, Achille
[318]
Mauri, Cesare Correnti, Giulio Terzaghi, Faustino
Sanseverino ed Enrico Cernuschi. Esposta
a questi signori la situazione, furono tutti
d'accordo che le basi proposte dal Municipio
erano anche troppo modeste; che i difensori
delle barricate non avrebbero probabilmente
accettato neanche quelle; e Carlo Cattaneo
aggiunse che la conciliazione diverrebbe possibile
soltanto quando il maresciallo acconsentisse
a ritirare dal regno le truppe straniere
e a comporre le guarnigioni con soldati
italiani[76].
Discusso questo punto fra il Cattaneo e il maggiore
croato, questi dichiarò che non avrebbe
osato proporre al maresciallo simili condizioni;
e la Commissione Municipale, facendo
constatare al maggiore che la propria autorità
era naturalmente limitata dalla forza delle cose,
lo incaricò di riferire al maresciallo l'esito del
colloquio, lasciando a lui, se veramente era desideroso
di umani procedimenti, il considerare
se altre basi gli paressero da proporre.
Fu allora che il D'Ettinghausen, sperando di
trovare qualche appoggio maggiore presso gli
[319]
uomini forniti, a' suoi occhi, di più alta responsabilità,
si rivolse al conte Vitaliano Borromeo,
ch'egli considerava, quale dignitario del Toson
d'Oro, come cugino dell'imperatore, e gli domandò
che cosa dovesse dire in suo nome al
maresciallo Radetzki. Cattaneo ha obliato nel
suo libro di riferire la risposta del conte Borromeo,
che fu questa: “Dica al signor maresciallo
che se continuerà la battaglia, i nobili
di Milano sapranno farsi seppellire sotto le
rovine dei loro palazzi.„
Le pratiche per l'armistizio non finirono lì.
Furono riprese per iniziativa dei Consoli esteri
la mattina seguente, il giorno 21; e furono essi
che si presentarono al Castello, preceduti dal
conte Marco Greppi, il quale, andate a vuoto le
trattative del giorno prima, veniva lealmente
a riconsegnarsi. Qui il maresciallo non volle essere
meno magnanimo del suo prigioniero; ma,
ammirando il contegno suo, gli concesse, senz'altre
condizioni, la libertà. E, ristrettosi a
colloquio coi Consoli, li incaricò di portare altre
proposte alla Commissione Municipale.
Senonchè in questo frattempo la situazione
militare e politica s'era mutata d'assai. Nella
giornata antecedente i successi dell'insurrezione
erano cresciuti; erano caduti in mano nostra
[320]
parecchi dei presidj e dei punti militari interni;
s'era cominciato a vedere che i mezzi di
distruzione del maresciallo erano fiacchi; più,
era giunto il messaggio del conte Martini, e il
prossimo intervento dell'esercito piemontese
appariva già una questione di ore. Non trattavasi
dunque più d'un armistizio di due settimane
per lasciar luogo a trattative politiche
o ad istruzioni di Vienna; trattavasi d'un
puro e semplice armistizio militare, limitato a
tre giorni, che ciascuna delle parti combattenti
doveva considerare sotto il solo punto di vista
delle convenienze di guerra.
Queste prestavano pure argomento a discussione.
E discussione vi fu. L'uomo che aveva
visto, fra tutti quei governanti, le maggiori battaglie,
a cominciare da quella d'Austerlitz, il
conte Pompeo Litta, che il Cattaneo aveva
scelto a presiedere il Comitato di Guerra, si
mostrò subito favorevole all'armistizio. Questo
avrebbe dato, si diceva, modo ai nostri di rifornirsi
d'armi e di vettovaglie, di ricomporre
le barricate lacere dal cannone, e sopratutto
avrebbe lasciato giungere l'esercito piemontese
in tempo da offrire battaglia nelle più favorevoli
condizioni. E non è dubbio infatti che
se in quell'ora si fosse trovato fra i generali
[321]
di Carlo Alberto un uomo di genio, in tre
giorni si sarebbe trovato per la via di Piacenza
sulla linea dell'Adda, e l'esercito austriaco,
preso fra quelle fresche schiere e la città
vittoriosa, non avrebbe potuto sottrarsi ad una
catastrofe.
Però non mancavano altre ragioni opposte,
e prima fra tutte l'impossibilità di esercitare
sui combattenti cittadini l'autorità necessaria
per farli desistere, se l'armistizio non fosse stato
nei loro intendimenti. Correnti e Fava, presenti
a quella discussione, suggerirono allora che si
mandassero persone a interrogare, prima di
decidersi, il voto dei combattenti. Furono scelti
a tale incarico il conte Sanseverino, il Mauri,
il Cattaneo, il Cernuschi e il Terzaghi. E non
ebbero a far molta strada, perchè, al primo
sentore delle proposte conciliative, giungevano
da tutti i quartieri della città incaricati speciali,
con raccomandazioni vivissime che non si
scoraggiasse o si sminuisse, con tregue d'incerto
carattere, lo zelo dei valorosi ormai determinati
e certi di vincere.
Ritornati dunque nella sala i delegati, e apertasi
la discussione finale, il presidente Casati
espose i patti proposti. Giuseppe Durini parlò
perchè fossero accolti, ed appoggiò questa opinione
[322]
con alcune parole il conte Borromeo.
Parlò primo contro l'armistizio Achille Mauri,
e parlò con tanta evidenza che subito il Durini
dichiarò di rinunciare alla proposta sua.
Parlarono poi, aggiungendo ragioni contro
l'armistizio, Carlo Cattaneo e Luigi Torelli;
alla votazione che ne seguì, su quindici presenti,
tre soli opinarono per l'armistizio. Il
Casati disse ad alta voce: dunque non si accetta,
e Cesare Correnti portò primo fuori
della sala la notizia del rifiuto, che fu accolta
con grandi applausi e subito fatta conoscere
di barricata in barricata ai combattenti
giulivi.
Queste furono le circostanze fra cui si svolse
il duplice episodio dell'armistizio; circostanze
che abbiamo scrupolosamente vagliate, e sulle
quali non temiamo di essere smentiti da nessuno
dei testimonj o degli attori, fortunatamente
ancor vivi, dell'episodio stesso. Ora
ognuno può agevolmente vedere quanto dovrebbero
allontanarsi dal vero quelli che volessero
adoperare dei morti per inasprire le
passioni dei vivi.
[323]
S'è tentato di sfruttare questo episodio per
rimpicciolire il significato grande del pensiero
di una città. S'è acuito l'orecchio, fra un coro
innumerevole di negative, alla negativa di un
uomo solo, per farne l'onore esclusivo di quest'uomo....
o l'accusa di altri. E il famoso no di
Cattaneo è passato dall'immaginazione politica
di Alberto Mario[77] alle immaginazioni drammatiche
del palco scenico[78].
La storia è tutta composta di sì e di no; ed
un partito politico che abbia lo sguardo nell'avvenire
non ha interesse a confiscare questi
monosillabi che si ritorcerebbero in troppe altre
occasioni contro di esso. Infatti, se dei no si
volessero fare delle bandiere politiche, vi sono
altri partiti che potrebbero reclamare per sè
il no di Vittorio Emanuele al maresciallo Radetzki,
dopo la battaglia di Novara, o il no del
barone Ricasoli ai diplomatici francesi che insistevano
per l'autonomia toscana, o il no del
[324]
generale Lamarmora all'imperatore d'Austria,
che offriva di cedere il Veneto a patto che si
lasciasse sola la Prussia.
Fare di questo no del 1848 il merito d'un solo
cittadino, per quanto illustre, equivale ad abbassare
la meravigliosa unanimità di voleri che fu
il fenomeno caratteristico delle cinque giornate.
Forse che se Cattaneo avesse avuto, in un
quarto d'ora di debolezza, l'inspirazione di sostituire
un sì ad un no, forse che il popolo l'avrebbe
seguito? lo ha seguito forse due giorni
prima, quand'egli voleva, con un altro no, che
si sostituissero agitazioni pacifiche a insurrezione
popolare? Che sugo c'è, quando si hanno
parecchi cittadini a cui far risalire l'onore di
una decisione virile, nel volerla attribuire a
beneficio di uno solo?
È tutta perdita per una nazione l'essere in
pochi, peggio poi l'essere uno solo a veder
giusto. E a noi fa meraviglia come la democrazia,
smentendo di sè stessa la parola e
l'idea, si affanni talvolta a sfrondare essa di
questa gloria la cittadinanza milanese, consultata
ne' suoi combattenti, per farne il patrimonio
esclusivo di un uomo che, quand'anche
ne avesse avuto la volontà, non aveva in quell'ora
il potere di agitare, come Argante, fra
[325]
le pieghe del suo mantello o la pace o la
guerra.
Quanto meglio avremmo provveduto alle ragioni
del vero ed alla dignità della nostra rivoluzione,
se, abdicando almeno per cinque
giorni sopra un secolo alle passioni di parte,
avessimo francamente riconosciuto la lealtà e
il patriottismo di tutti.
Giacchè è un'altra esagerazione, — è un'altra
ingiustizia, dopo avere fatto merito ad uno solo
dell'opinione trionfante, l'avere addossata a
troppi l'opinione sconfitta. Quelle tre o quattro
persone che l'avevano patrocinata erano
uomini rispettabili, di sicuro amor patrio, e i
cui argomenti, se anche non riconosciuti opportuni,
s'inspiravano però a quello stesso programma
d'indipendenza a cui si appoggiava
l'opinione contraria. Negandolo, non si fa della
storia, si scrivono dei libelli.
E il Cattaneo, che nella sua violenta pubblicazione
non rifinisce di chiamare i suoi avversarj
del Governo Provvisorio i servili o i ligi
o i municipali o i ciambellani malcontenti o i faccendieri
regi, dimentica troppo che questi stessi
uomini, poco tempo dopo, respingevano, contro
il desiderio di Carlo Alberto, la pace al Mincio
offerta loro dall'Austria; e ciò per un'altra
[326]
preoccupazione d'italianità, che oggi si può
discutere, che si può forse biasimare, ma che
ad ogni modo moveva da intenti assai diversi
e affatto contrarj a quelli che il Cattaneo costantemente
loro suppone[79].
Guai se l'orgoglio del successo ci fa dimenticare
il quarto d'ora dell'incertezza! guai se
[327]
portiamo nel giudizio postumo sugli eventi politici
quella stessa intransigenza che talvolta è
necessaria per compierli!
Gli uomini che avrebbero accettato l'armistizio
come un modo più sicuro di vincere, non
hanno poi esitato ad assumere intera, coi loro
atti e coi loro nomi, la responsabilità e le conseguenze
dell'opinione contraria, accettata dalla
gran maggioranza. È tutto quello che si può
domandare, in una discussione patriottica,
ad uomini di cuore. Nè la storia giudica minore,
nella spedizione di Marsala, la gloria
di Sirtori, benchè, nel consiglio che la precedette,
avesse espresso opinione contraria all'impresa.
Ci siamo alquanto dilungati intorno a questa
pagina della rivoluzione milanese, perchè ci
pare veramente una di quelle, intorno a cui le
[328]
passioni o i pregiudizj di parte hanno piuttosto
addensato il bujo che cercato il vero.
Ora, noi pensiamo che uno storico — per
minuscolo che sia il suo nome o il valor suo — da
nessuna passione deve lasciarsi investire,
da nessun pregiudizio dominare. Anzi, dove
scorge o gli pare di scorgere un pregiudizio
od una passione, ivi è dover suo accumulare
chiarezza di esposizione e lealtà di argomenti
perchè solo rifulga il vero, che mette al loro
posto uomini e partiti.
Viviamo in un tempo in cui l'indagine universale
chiama alla propria sbarra gli scrittori
del tempo antico, per controllare le loro asserzioni
al lume di una critica inesorabile. Si sono
pubblicati dei volumi per dimostrare inesatto
un passo di Erodoto o appassionata un'affermazione
di Tito Livio. Ci parrebbe dunque di
andar contro allo spirito dell'epoca nostra, lasciando,
per quanto sta in noi, che di cose
accadute meno di quarant'anni fa, mentre son
vive ancora le persone a cui quegli eventi
s'annodano, si radichi senza contrasto un concetto
sintetico pieno d'ingiustizia e di esagerazione.
Le verità che urtiamo del gomito non
debbono esserci meno sacre di quelle da cui
ci dividono duemila anni.
[329]
E tanto più dobbiamo cercare e constatare
lealmente questa verità contemporanea, perchè
il travisarla o l'abbujarla parrebbe non avere
ormai altro scopo che di gettare un'ombra sulla
riputazione di tre o quattro cittadini, a cui
tutti abbiamo riconosciuto onestà di vita e
azione patriottica; mentre un morboso furore
di riabilitazioni umanitarie ci spinge a disseppellire
Tiberio, Lucrezia Borgia e Filippo II
per rifar loro possibilmente fisonomie più dolci
e virtuose.
Di errori nel 1848 se ne fecero più troppi
che pochi; e la storia imparziale li additerà.
Forse nessuno, al suo cospetto, andrà immune
da rimproveri per quello che ha fatto o detto.
È bene dunque cercare fin d'ora che le fonti,
a cui attingeranno gli storici futuri, siano serene,
e che a ciascuno si attribuisca non più
e non meno di quello che ha detto o fatto.
Le cinque giornate toccarono alla più alta
espressione dei loro entusiasmi la mattina del
23 marzo, quando, dopo il terribile cannoneggiamento
dell'intera notte, corse per la città il grido
frenetico che gli Austriaci erano partiti. Fu un'emozione
immensa, insuperabile, il cui ricordo
oggi ancora fa dare un tuffo al sangue; fu la
[330]
frenesia della gioja, che per ventiquattr'ore fece
di Milano una sola famiglia, — che faceva prodigare
a sconosciuti le dimostrazioni d'affetto
ordinariamente serbate all'intimità.
Il maresciallo Radetzki, decidendo di ritirarsi
la sera del 22, ci lanciava però un nuovo
tizzone che avrebbe più tardi ridestata un'altra
delle nostre ardenti discussioni politiche.
Fu l'insurrezione cittadina o la sicurezza dell'intervento
piemontese che consigliò la ritirata
del maresciallo? ecco il tema, che parve
di grande interesse il discutere alla massima
parte di quelli che non avevano combattuto.
Eppure nessuna questione è più oziosa, nessuna
è più chiara. Gli eventi politici non hanno
quasi mai una sola cagione. E quanto sarebbe
odioso il negare che l'insurrezione milanese
sia stata una vera e propria vittoria, altrettanto
sarebbe puerile l'affermare che, senza la marcia
offensiva dell'esercito piemontese, Radetzki
avrebbe dovuto ritirarsi a Verona. Forse nessuno
dei superstiti delle cinque giornate oserebbe
oggi sostenere siffatta tesi.
Nè questa è necessaria alla gloriosa riputazione
di quella battaglia cittadina. La quale,
ripetutasi pochi mesi dopo, e certo con eroismo
non minore, fra le patriottiche mura di Brescia,
[331]
è finita con una tremenda catastrofe, appunto
perchè nessun ajuto d'esercito ha potuto secondare
in campo aperto la difesa delle contrade.
Non torturiamo i fatti per trarne più di quello
che possono dare. Bisogna essere orgogliosi delle
Cinque Giornate, perchè rappresentano una somma
di attività morali e di virtù militari, che il
patriottismo solo ha saputo far sorgere e disciplinare
a splendidi risultati.
Non bisogna però avvezzare l'animo nostro a
credere riassunta la virilità di una nazione in
questi scatti d'audacia; disinganni durevoli seguirebbero
da vicino la passeggiera vanità.
Dopo l'epopea delle cinque giornate, è venuta
pur troppo un'elegia: elegia lunga e dolorosa,
di cui furono in gran parte responsabili
quelli stessi che erano stati fattori dell'epopea.
Vuol dire che nella vita dei popoli, come in
quella degli individui, il dolore tien dietro
presto alla gioja e rompe i facili orgogli.
Quei cinque giorni di virtù, di concordia, di
devozione a grandi ideali partorirono quattro
mesi di fiacchezze, di rancori, di lotte intestine
e ingenerose. Sembrammo indegni di
una libertà che s'era conquistata con tanto vigore.
E la libertà ci abbandonò, infatti, presto.
Ma, fuggendo da noi, sostò al di là del Ticino,
[332]
in mezzo ad una popolazione forte, solidale con
principato gagliardo.
E mentre essa rifaceva istituzioni, armi e
politica, da noi si rifacevano gli animi. Ci persuadevamo
che a popoli moderni l'eroismo non
basta. Imparavamo a nostre spese che alle
virtù necessarie per crearsi una patria bisogna
saper aggiungere, sotto pena di morte, le virtù
necessarie per conservarla.
[333]
IL DECENNIO DI RESISTENZA
(DAL 1849 AL 1859).
[335]
Nulla è più triste del 1849. Fu un'epoca di
squallore del pensiero politico in tutta Italia,
un'epoca di naufragio dei sentimenti ragionevoli
e generosi.
Mentre la reazione od aveva vinto o si preparava
a stravincere, il liberalismo si nascondeva
sfiduciato, e la rivoluzione sperdeva in
audacie, talvolta generose, ma sempre isolate e
insufficienti, le forze materiali e morali che il
pensiero nazionale aveva faticosamente raccolte.
Nessun governo indipendente in Italia, tranne
quel piccolo Piemonte, strozzato dalle indennità
di guerra e dall'occupazione militare austriaca.
Radetzki padrone di Alessandria, D'Aspre
[336]
di Firenze, Oudinot di Roma, Hoyos di
Bologna, Haynau di Brescia; a Milano si bastonavano
le donne, a Napoli s'accoppiavano
Poerio e Spaventa cogli assassini; Garibaldi si
trafugava per tutte le sinuosità dell'Appennino,
traccheggiato da quattro eserciti e da
cinque polizie; Venezia moriva di bombardamento
e di colera; l'Ungheria, svenata, cadeva
bocconi ai piedi dello Czar; e le nostre popolazioni,
tradite nelle loro speranze, vacillanti
nella loro fede, erano malmenate da giornali
e da giornalisti senza pudore, che dopo averle
abbeverate, nei giorni lieti, d'odio e di menzogna,
s'erano rifugiati, nei giorni tristi, fra
le schiere degli oppressori, mescolando il loro
scettico ghigno al romore delle fucilazioni
dei patrioti, da loro aizzati e abbandonati[80].
Alle catastrofi militari s'aggiungeva la catastrofe
intellettuale e morale. Nulla di organico
aveva potuto resistere ai colpi della sfortuna.
Le autorità personali erano sfatate; i
metodi di governo screditati; l'energia rivoluzionaria
si svaporava in proclami, in coccarde,
in feste, in saturnali di palazzo e di
[337]
piazza; si diffidava degli onesti; si credeva ai
birbi, che degli onesti sorgevano accusatori.
Gli elettori politici, traviati dall'orgia delle
idee false, preferivano un Pansoya al conte di
Cavour. I patrioti erano diventati traditori, i
traditori diventavano a loro volta patrioti.
Era insomma un'aberrazione di menti da ricordare
le follíe degli untori, — un palleggiarsi
di accuse e di recriminazioni, che lasciava
nelle maggioranze un infinito disgusto
di cose pubbliche. I partiti politici erano saliti....
o discesi alla più acuta espressione dell'intolleranza.
Monarchici e repubblicani, radicali
e moderati, unitarj e federali parevano
odiarsi fra loro ancora più che non si odiassero
gli stranieri da ciascuno di loro. A Roma
non si accordavano Mazzini e Garibaldi; a
Firenze, Montanelli e Guerrazzi si tenevano il
broncio; in Piemonte spesseggiavano le crisi
ministeriali; Genova insorgeva contro Torino,
Napoli inveiva contro Messina. Lo stesso esercito
piemontese, — l'unica speranza dell'avvenire — era
lacerato dalle fazioni; e una parte
dei soldati non volevano battersi, perchè turbati
da seduzioni clericali, e il generale Ramorino
non si batteva perchè corrotto da seduzioni
repubblicane.
[338]
È facile immaginare che effetti dovesse cagionare
lo spettacolo di quest'anarchia italiana
sulla popolazione milanese, ripiombata,
dopo quattro mesi di romorosa illusione, sotto
un regime reso senza paragone più duro dall'ebbrezza
della vittoria e dal ricordo delle vicendevoli
offese.
Forse anzi fu questa stessa durezza che la
salvò. Fu la terribile realtà delle conseguenze
che produce nella vita dei popoli la rettorica
sostituita all'esperienza, la petulanza sostituita
all'ingegno, che abbreviò meravigliosamente
per Milano, e in genere per tutte le provincie
ricadute sotto la dominazione straniera, il periodo
della convalescenza. Milano si trovò come
un ebbro sotto la doccia. Quel bagno gelato
dissipò in un minuto i fantastici orgogli e le
allucinazioni delle fibre eccitate. La città si
trovò nuovamente di fronte alle altere uniformi
bianche, allo strascico delle sciabole sui
selciati, agli aspri suoni del linguaggio straniero,
alle brutali intimazioni di pattuglie e
di sentinelle, alla pettoruta insolenza di una
bieca e irresponsabile polizia. Comprese che
tutto ciò voleva dire la fine di un'egloga e
il principio di un dramma. Si guardò intorno
e si vide sola. Nessun ajuto possibile
[339]
dall'interno, nessuna speranza, neanche lontana,
da fuori.
Allora Milano rientrò in sè stessa; vide di
essere la sentinella avanzata di un esercito
impotente a riprendere l'offensiva; sentì la
nobiltà della sua missione, la fiera ma gloriosa
inesorabilità del suo dovere. Deliberò di
restare al suo posto, finchè dietro ad essa l'esercito
avesse potuto ricomporsi. Raccolse le
sue forze; non contò i nemici, ma li guardò
in faccia senza paura; e cominciò quella lotta
giornaliera, multiforme, implacabile contro ogni
elemento, contro ogni esigenza di dominio straniero;
una lotta che il conquistatore leggeva
in ogni sguardo e sospettava in ogni parola;
una lotta che avvolgeva in una salda solidarietà
d'affetti e d'intenti tutti i partiti, tutte
le classi, tutti i gruppi della cittadinanza; — quella
lotta che, dal 1849 al 1859, fu una pagina
illustre della virtù nazionale.
Questa lotta fu combattuta da tutti, in tutti
i modi, secondo le forme ed i metodi che a
ciascuno, in ciascuna occasione, parvero preferibili.
Noi non pretendiamo raccontarla, cercheremo
riassumerla nelle sue linee principalissime.
Chi la racconterà — assai più tardi — potrà
essere giusto con tutte le persone; noi
[340]
non potremo ora che essere giusti rispetto alle
cose. Delle persone diremo con sobrietà quello
soltanto di cui siamo sicuri. E non di tutte;
giacchè, naturalmente, nè tutte conoscemmo,
nè di molte sarebbe ancor bene dir tutto. A
quelli che, pur essendo stati in prima linea,
fossero o si credessero dimenticati, mandiamo
fin d'ora schiettissime le nostre scuse. Si vendichino,
dicendo che questo nostro non è
neanche un riassunto, è semplicemente una
sfumatura del poema. Noi non li smentiremo.
Saremo paghi se gli uomini imparziali riconosceranno
la nostra imparzialità, e se diranno
che, avendo pure scritto il vero, abbiamo scritto
soltanto il vero a noi noto.
Caduta, con Venezia, l'ultima fioca speranza
di ripresa politica, l'opinione pubblica milanese
subì un periodo sussultorio, quello che
segue davvicino inevitabilmente le grandi catastrofi.
L'onda commossa continua a spumeggiare
sul lido lungo tempo dopo che la tempesta
in alto mare è cessata. Però il periodo fu breve;
e il partito nazionale si adagiò virilmente nella
considerazione dell'avvenire, frazionandosi, secondo
l'indole delle cose e la fisonomia morale
degli individui, in tre compagini principali,
[341]
che si proposero di camminare, con proprj
metodi, verso l'intento comune dell'indipendenza.
Queste compagini ebbero subito e necessariamente
capi locali, mezzi locali, direzioni indipendenti
e locali. Le autorità intellettuali
che avevano creato il movimento, le influenze
statevi fino allora prevalenti erano tutte sparite.
Gli uomini di maggiore notorietà del precedente
periodo avevano dovuto subire le conseguenze
della sconfitta. Il Cattaneo s'era
ritratto a Lugano, inutilmente e ingiustamente
sdegnoso; il Correnti cercava di rifar programmi
a Torino, accarezzato pel fervido ingegno
e per l'inquieto ideale; Casati, Borromeo,
Arese, Mauri, Burini, Torelli, Guerrieri-Gonzaga,
Giorgio Pallavicino, emigrati volontarj
o forzati, reclutavano aderenze e simpatie fra
i nuclei politici a cui appartenevano, o a Genova
o a Torino o a Parigi. Luciano Manara
era morto eroicamente coll'armi in pugno;
Cernuschi e Maestri, appartati dal movimento
paesano o imbronciati con esso, avevano trovato
a Parigi, con diversa fortuna, nuove occupazioni
e nuove clientele.
Ned era facile allora — come fu possibile
poi — avviare cogli emigrati intelligenze dirette
[342]
e costanti. Oltrechè, le necessità milanesi
esigevano evoluzioni così rapide e così
varie, che ogni direzione da fuori sarebbe stata
inevitabilmente o tarda o inefficace o disastrosa.
Bisognò dunque, sino dai primi giorni,
rifare i quadri; e trarre da nuovi elementi,
presenti sempre ed attivi, le virtù nuove rese
necessarie dalla mutata natura delle difficoltà
e dei pericoli.
Per chiarezza e semplicità di programma,
se non per numero — allora — di aderenti,
primeggiava quel nucleo di giovani patrizj
che avevano risolutamente accettata, fin dal
primo stadio della rivoluzione, l'iniziativa liberale
e la direzione politica della monarchia
piemontese. Si dicevano e si lasciavano chiamare
albertisti, perchè in Carlo Alberto avevano
confidato, come confidavano nel giovane ed
energico suo successore. Conservatori per educazione
e per interessi sociali, non erano men
risoluti di ogni altro a volere, con inflessibile
tenacia, l'indipendenza; ma credevano che per
raggiungerla non fosse di troppo avere per sè
le forze — momentaneamente impacciate — d'un
vecchio Stato, d'un esercito regolare,
d'una illustre e leale famiglia di principi italiani
e costituzionali. L'esperienza delle discordie
[343]
politiche e delle impotenze amministrative
durate nei quattro mesi li avevano
disgustati d'ogni soluzione provvisoria. Nè i
capi, nè i programmi repubblicani, sorti durante
lo stesso periodo, erano lor parsi tali da
dover inspirare invincibili simpatie. Sicchè il
Piemonte restava l'unico faro che illuminasse
di qualche luce il tetro avvenire; ed essi, pur
accettando dai loro amici di programma diverso
ogni necessità di cospirazione o di lotta
contro i governanti stranieri, mettevano la
loro fede negli organismi della monarchia liberale;
coordinavano la loro azione, il loro impulso,
la loro propaganda morale alle situazioni
che vedevano create o accettate da quelli
fra i loro amici rimasti a Torino, per appoggiare
delle loro influenze e rappresentare col
loro nome la continuazione di una politica
d'indipendenza.
Autorevole in questo nucleo per solidità di
studj e di convinzioni era Alessandro Porro,
ingegno calmo e colto, avvezzo a meditare prima
di risolvere, a non pentirsi dopo avere risolto.
Più spigliato d'indole e più mescolato agli
aneddoti sociali ed a vivacità battagliere, Carlo
D'Adda ajutava questo programma di tutte le
intimità che il suo carattere e la sua schiettezza
[344]
gli avevano ottenuto presso la Corte in Torino,
dove Carlo Alberto gli era stato largo di così
patriottici e confidenti colloquj. Uomini gravi
e giovani intelligenti fra i Taverna, fra i Prinetti,
fra i Greppi, fra i Trotti, fra i Litta-Modignani
caldeggiavano simili aspirazioni, alle
quali non mancava l'adesione, piena di modesto
riserbo, dell'uomo più illustre che contasse
in Italia il partito unitario, Alessandro
Manzoni.
Due giovani però spiccavano sopra gli altri,
in questo nucleo politico, pei loro precedenti
e per la vasta azione, — il conte Cesare Giulini
e il conte Emilio Dandolo.
Quest'ultimo, giovanissimo ancora e già ricco
di fama, apportava al gruppo albertista tutto
il profumo della squisitissima indole sua, tutto
il prestigio della leggenda, che cominciava già
a formarsi intorno alle vittime e ai difensori
di Roma. Fratello, più che amico, di Manara
e di Morosini, morti entrambi, si può dire,
nelle sue braccia, Emilio Dandolo aveva potuto
fare, a vent'anni, un'esperienza degli uomini
che pochi sanno acquistare a quaranta,
un'esperienza del dolore, che non lasciava più
in lui nulla di frivolo o di spensierato. Era
stato sulla breccia, coll'armi in pugno, finchè
[345]
in Italia era rimasto un palmo di terra da difendere
contro stranieri. Cessata la lotta, ridiventava
uomo di pensiero ed aveva scritto
un opuscolo: “I volontarj ed i bersaglieri lombardi„
nel quale affrontava con molto coraggio
civile alcuni fra i pregiudizj che avevano
allora più corso fra l'inesperta gioventù
liberale. Il volontario, fido soldato di Garibaldi
e di Medici, non temeva di affermare che solamente
da eserciti regolari doveva l'Italia attendere
la sua liberazione; il valoroso difensore
della Repubblica romana sosteneva vigorosamente
il programma dell'Italia monarchica,
sotto la guida della dinastia di Savoja. Più
tardi, un'altra idea savia e feconda avrebbe
sostenuto, in apparente contrasto coll'azione
sua giovanile, — l'alleanza con quella Francia,
i cui soldati avevano rotta, colle loro palle, la
vita dei più cari amici che avesse al mondo,
suo fratello Enrico, il Morosini, il Manara.
Ma non era da lui che potesse uscire il
grido di un egoismo, o di una passione, pure
larvata da patriottiche ipocrisie. Entusiasta,
come lo s'è a vent'anni, sapeva però discernere
un affetto individuale dal grande interesse
della patria. Sapeva che nelle grosse
questioni di politica internazionale, non sempre
[346]
possono i governi — regni o repubbliche — lasciarsi
guidare dai soli impulsi simpatici. Vedeva
chiaro che gl'interessi della Francia
avrebbero, tosto o tardi, combaciato coi nostri,
e faceva volontieri il sacrificio delle sue rimembranze
ai nuovi bisogni e alle nuove amicizie
del suo paese.
Stringersi oggi a chi si ha combattuto jeri,
o viceversa, è la legge storica di tutte le relazioni
internazionali, l'andamento normale di
quasi tutte le emancipazioni politiche. Guai se,
adottando una politica di fanciulli o di furibondi,
c'immaginassimo che i nemici trovati un
giorno sopra un campo di battaglia vi fossero
perchè ci odiavano! Tramuteremmo l'Europa in
altrettanti campi trincerati quanti sono i popoli
che, in una od altra epoca, si sono affrontati, e
prostituiremmo le alte necessità della patria
dinanzi alle volgari manifestazioni del rancore
o della vendetta.
Uno Stato forte e intelligente prova anzi
una certa voluttà virile nell'avvicinarsi ad una
potenza contro cui s'è lottato sul campo o
nella diplomazia. Le amicizie militari meglio
sorrette dalla reciproca stima nascono ordinariamente,
dopo la pace, fra gli ufficiali che si
sono vigorosamente battuti durante la guerra.
[347]
E se da un governo o da un principe che ci
ha offesi, viene l'istante in cui la patria trae
servigio o vantaggio, la grandezza d'animo
consiste nel ricordarsi di questo, non nel piatire,
come un compratore fedifrago, per scemare il
prezzo d'una merce che s'è chiesta e accettata.
Così comprendeva il patriotismo Emilio Dandolo;
e così, crediamo, lo avrebbe compreso
in ogni futura epoca della sua vita, se non
avesse dovuto soccombere, pochi anni dopo,
al fiero morbo che già in quell'epoca si leggeva
devastatore sull'emaciato e pallido viso.
Per ora, il nobile giovane, in cui l'Italia ha
certamente perduto un uomo politico di prima
riga, si accontentava d'essere un elemento di
coesione e di forza in mezzo a tante cause di
sfiducia e di dissoluzione. Simpatico di persona
e di nome, gentile di modi, vigoroso di animo,
gettato così presto nel vortice delle grandi
emozioni, il Dandolo sentiva che il fragile tessuto
della sua vita si logorava rapidamente.
Questa sicurezza dava ordinariamente al suo
viso una tinta di melanconia, ma nel tempo
stesso — com'è natura del morbo — gli rendeva
più dolce l'indole e più fine l'ingegno.
Di tutti gli amici suoi, — di tutte le amiche — era
l'idolo, e lo meritava. Nessuna cosa,
[348]
può dirsi, facevasi intorno a lui, senza il consiglio
suo. Ed egli della sua influenza non
usava che per cose alte e fiere. Era di quegli
uomini destinati a servire, persin morendo, la
patria che amano.
Lo precedeva d'una decina d'anni il conte
Cesare Giulini Della Porta, che alle stesse doti
di animo e di cuore univa una vasta cultura
appena dissimulata sotto la semplicità del discorso,
una portentosa memoria, punto vulnerata
dalle eccentriche distrazioni in lui proverbiali.
Gentiluomo d'antico stampo e di largo
censo, usava d'ogni forza sua, economica, intellettuale
o sociale, per intenti di patria e di
progresso. Nessuna iniziativa di studj[81], di
beneficenza, di vigore politico, trovava chiusa
la sua borsa o freddo il suo cuore. Le numerose
[349]
relazioni personali ch'egli manteneva e
accresceva con una instancabile corrispondenza,
l'autorità che gli veniva dall'essere stato nel
Governo Provvisorio di Lombardia, la considerazione
di cui godeva in tutta l'aristocrazia
lombarda e il molto bene che gli volevano le
classi popolari da lui beneficate[82], lo rendevano
anche rimpetto al Governo austriaco un
uomo importante; ed egli ne approfittò per
osare quello che altri forse non avrebbe potuto,
ma che, scoperto, avrebbe tolto a lui come ad
altri la libertà e probabilmente la vita.
In tutto il periodo che precedette i movimenti
militari del 1859, fu il conte Giulini il
centro e l'anima di quel vasto movimento di
volontarj che s'avviavano ogni giorno al di là
del Ticino, per accrescere combattenti all'esercito
piemontese e sottrarne alle coscrizioni
nemiche. Giovato dalle molte sue conoscenze
[350]
e dall'affetto che avevano per lui gli affittuarj
e i coloni delle sue varie tenute, il Giulini
aggiungeva a questo lavoro quello di raccogliere
tutti i dati relativi ai concentramenti ed alle
dislocazioni delle truppe austriache; dati quasi
sempre esattissimi e che, trasmessi giornalmente
al quartier generale dell'esercito franco-sardo,
gli furono parecchie volte d'inapprezzabile
aiuto. Sprofondato in questa doppia bisogna
egualmente pericolosa, ma il cui vantaggio pratico
per la causa nazionale era egualmente
chiaro, Cesare Giulini stette fino agli ultimi
giorni in Milano, malgrado che la polizia militare
avesse occhi attenti sopra di lui. Lo si
vedeva nei soliti ritrovi serali, lo si incontrava
per le solite vie coll'abito negletto, il passo
obliquo e il sorriso distratto; ma la mente era
pensosa, il cuore saldo, e tutte le sue nobili
facoltà si concentravano operose in quello che
per allora gli pareva il dover suo e il modo
più immediato di giovare alla patria[83].
[351]
Il programma albertista non era però nei
primi anni diviso da un altro nucleo di giovani
intelligenti e coltissimi, che al Giulini,
al Dandolo, al D'Adda erano congiunti dai più
stretti vincoli di stima e di amicizia personale.
Erano gli antichi avventori del caffè della
Peppina, a cui s'era aggiunta la schiera, anche
più giovane, degli scrittori e dei pubblicisti
maturati alla breve esperienza liberale dei quattro
mesi. Caduta Milano, avevano girovagato
qua e là per l'Italia, scrivendo, cospirando,
stringendo relazioni letterarie e politiche, a
Firenze, a Roma, a Torino. Rientrando, dopo
le catastrofi italiane, sotto il domestico focolare,
sentirono il bisogno di raccostarsi, di riprendere
il filo delle antiche intimità, di coordinare,
se era possibile, la loro singola azione
allo svolgimento di un programma comune.
Quest'ultima ipotesi sembrava e si dimostrò
infatti difficile. Le impressioni individuali non
erano identiche e condussero presto alla formazione
di due correnti patriottiche, concordi
nello scopo, divise nel metodo.
Una prima schiera accettò presto l'indirizzo
che proponeva, con pensato vigore, un uomo
rimasto fino allora piuttosto soldato che capitano,
Carlo Tenca.
[352]
Ingegno più solido che vasto, più preciso che
immaginoso, di convinzioni austere, di alta coscienza
e d'irremovibile tenacità, il Tenca univa
a tutte le fiere qualità della sua origine popolana
l'amore a tutte quelle eleganze d'intelletto,
di studj e di istinti, che sogliono ordinariamente
essere la base educativa delle classi
superiori. Preparato alla politica, come tutta
la gioventù d'allora, dai libri del Foscolo e del
Mazzini, durante i quattro mesi della nostra
effimera liberazione aveva scritto per qualche
tempo nel giornale ufficiale del Governo Provvisorio,
da cui s'era allontanato in seguito per
desiderio di azione politica più indipendente.
Non era stato partigiano dell'atto di fusione
colla monarchia piemontese, e si mostrò severo
censore di parecchie delle disposizioni che, a
quello scopo, s'erano prese o si travedevano.
Quando giunse l'epoca dei rovesci, e si trattò
di sostituire al Governo Provvisorio un Comitato
di Difesa, che assumesse una specie di
potere dittatorio, il Tenca si oppose apertamente
alla prima combinazione, che si basava
sui nomi del colonnello Varesi, del conte Francesco
Arese e di Cesare Correnti. Gli pareva
una combinazione d carattere troppo fusionista,
e fu principalmente per le insistenze sue che
[353]
si procedette ad un'altra combinazione, in cui
entrarono il generale Fanti, il dottor Maestri
e l'avvocato Restelli, rimanendo il Correnti segretario
del Comitato. Dopo l'infausta giornata
del 5 agosto[84], il Tenca, con altri amici suoi
milanesi, s'era condotto a Firenze, dove, seguendo
sempre il concetto della rivincita popolare,
collaborò a giornali e ne fondò, aiutando
talvolta, contrastando più spesso l'indirizzo
governativo, che gli pareva or fiacco or violento,
di quei governanti, in ispecie del Guerrazzi
e del Montanelli.
Nel complesso, lo spettacolo di quei saturnali
politici aveva fatto grande impressione
sul retto ed austero animo suo. Tornava a Milano,
dubitoso della efficacia d'ogni programma
di azione immediata, sconfortato delle prove
fatte, dolorosamente persuaso che, se poco felice
era stata l'iniziativa del principato liberale,
anche peggiore era stata quella delle torbide
democrazie. Sicchè patrocinava un programma
di ricostruzione intellettuale e morale, da lui
posto come base unica e logica d'ogni futura
azione. Disposto a spingere, come gli altri e
[354]
più degli altri[85], il contegno di intransigenza
contro ogni elemento e contro ogni istituzione
d'indole straniera, non credeva però ad efficacia
di congiure e non intendeva mescolarvisi. Voleva
che si lasciasse per allora deporre alla
rivoluzione il suo limo, e che si preparasse,
con civile rinnovamento di studj filosofici, giuridici,
politici, economici, la generazione atta
a governare più tardi con maggiore competenza
e maggiore esperienza l'ulteriore movimento
che i tempi avrebbero consigliato.
All'opinione sua aderirono presto parecchi
fra quelli che a somiglianti discussioni prendevano
parte; e si deliberò la fondazione di
un giornale che a siffatte idee desse tono e avviamento.
Così nacque il Crepuscolo, che fu per
nove anni l'efficace stromento di una vera educazione
pubblica, e di cui scrisse recentemente
la storia uno dei più autorevoli fra i suoi fondatori
e scrittori[86].
Ma questo programma, di cui nessuno disconosceva
[355]
la serietà e l'utilità, sembrò non bastare
ad un'altra schiera di giovani, o più
dominati da un prepotente bisogno di combattività,
o meno disillusi dei primi sull'antico
meccanismo delle cospirazioni politiche. E questi,
raccogliendo intorno a sè gli antichi compagni
e rannodando le antiche fila, deliberarono
di continuare, per loro conto e con loro pericolo,
quei metodi di propaganda rivoluzionaria
che già erano parsi buoni molti anni prima, e
da cui speravano poter trarre ancora utili occasioni
di fortunate audacie.
Così venivano designandosi i tre partiti fra
cui si sarebbero suddivisi, secondo le varie attitudini,
tutti gli elementi politici della città.
Partiti, diversi dagli attuali in ciò, che mentre
questi si combattono con accanimento, quelli
non solo si rispettavano, ma si aiutavano a vicenda;
perchè certi che, qualunque programma
trionfasse, qualunque metodo prevalesse, erano
programmi e metodi di uomini onesti, devoti
all'indipendenza, più che ad ogni altra fisima
di organismi speciali.
I primi avevano il loro programma deciso,
l'unione alla monarchia liberale; i secondi aspettavano
che la monarchia facesse migliori prove,
preparando intanto vigorosi elementi intellettuali
[356]
e morali a una futura amministrazione politica;
gli altri mantenevano la loro fede all'ipotesi
repubblicana, collegandosi ai primi ed ai secondi
ogniqualvolta il concetto dirigente della
resistenza alla dominazione straniera rendesse
necessario accrescere e accomunare le forze.
Principalissimo in quest'ultima schiera, per
vigore d'animo e studio indefesso di ordini militari,
era Carlo De-Cristoforis, un altro audace
di antica tempra, che la prima campagna garibaldina
lasciò cadavere, e che avrebbe forse
emulato, nelle successive, i Sirtori, i Medici, i
Bixio. Gli era eguale per influenza e per attività
quell'Attilio De-Luigi che abbiamo già
visto centro di preparazioni politiche e militari,
prima delle Cinque Giornate. E, senza
notare i moltissimi, ricordiamo fra i molti di
questo nucleo il Pezzotti, il Majocchi, il Gerli,
i Lazzati, il Guttierez, il Piolti de' Bianchi, e
un giovane pavese allora in molta intrinsichezza
coi nostri, Benedetto Cairoli.
Teneva una situazione quasi intermedia fra
questi e il gruppo capitanato dal Tenca, un
altro giovane, di cui cominciava a farsi autorevole
il giudizio e simpatica l'influenza presso
tutti gli elementi patriottici di Milano, — Emilio
Visconti-Venosta.
[357]
Nessuno infatti avrebbe potuto in quell'epoca,
meglio di lui, rappresentare quell'insieme di
movenze che era necessario a tener vivo e continuo
il nesso fra le compagini politiche milanesi.
Accetto al patriziato liberale per le aderenze
famigliari e personali e per una certa
eleganza di educazione che ne lasciava intatta
la solidità; amicissimo al Tenca e a' suoi collaboratori,
fra i quali pigliava un posto notevole
pei suoi articoli magistrali di critica e di
dottrina politica; era nel tempo stesso in intime
relazioni cogli uomini del programma
avanzato, delle cui speranze e delle cui illusioni
era stato fino allora e continuava, fino ad un
certo punto, ad essere partecipe.
Il Visconti-Venosta usciva infatti politicamente
egli pure da quell'ardente atmosfera
dell'apostolato mazziniano, in cui s'era tuffata,
come in un bagno di vapori patriottici, tutta
la generazione del tempo suo. Anch'egli chiamava
Mazzini il maestro e Mazzini gli rispondeva
non sappiamo se figlio o fratello. Aveva
scritto, durante i quattro mesi, sull'Italia del
Popolo, articoli ridondanti di quella fraseologia
mistica ed armoniosa che la scuola mazziniana
traeva, esagerandola forse, dal suo fondatore. E
quando, negli ultimi giorni, cessata la ragione
[358]
dello scrivere, pareva ritornasse l'opportunità
del combattere, il discepolo seguì religiosamente
il maestro in quella colonna di volontarj
a cui l'armistizio Salasco tolse presto ogni occasione
possibile di sacrificio.
Gli avvenimenti del 1849 avevano esercitata
sul pensoso intelletto suo, come su quello del
Tenca, la loro azione o piuttosto la loro reazione.
Più giovane del Tenca, egli durò tuttavia,
più a lungo in quella cerchia di pensieri da
cui aveva prima tratto la sua educazione politica.
Nelle discussioni che s'erano agitate intorno
al futuro indirizzo del partito nazionale,
aveva optato per un programma di cospirazione.
E, pur lavorando cogli amici suoi del
Crepuscolo a creare un ambiente elevato negli
ordini intellettuali, la sua attitudine accennava
ad azione più vibrata e a maggiori
vincoli colla parte democratica ancor dominata
da ideali di popolari riscosse. Così non
fu degli ultimi a caldeggiare la ripresa di
un'agitazione rivoluzionaria disciplinata da
concetti organici; e stancava in quei giorni
le vetture cittadine, recandosi con altri amici
a raccogliere, di casa in casa, i voti per la
costituzione di un Comitato centrale milanese,
che riuscì infatti composto di Attilio De-Luigi,
[359]
di Alberico Gerli, del Pezzetti e di qualche
altro.
Le condizioni, per così dire, strategiche della
lotta che Milano si preparava di nuovo a sostenere,
s'erano mutate notevolmente, — così
in meglio come in peggio — dalle epoche antecedenti.
Dal 1820 al 1844, i combattenti appartenevano
quasi esclusivamente alle classi
nobili o molto agiate della città. Dal 1844 al
1847 era scesa in campo, ricca di forze, anche
la borghesia. Ma la classe popolare, operaia,
era stata fino allora piuttosto spettatrice simpatica
che energica cooperatrice alla lotta. Solamente
negli ultimi mesi innanzi al 18 marzo,
l'entusiasmo bellicoso l'aveva guadagnata; ma
più avevano potuto sovr'essa le mistiche influenze
del papato liberale e le giuste collere
provocate dalla ferocia dell'8 settembre e del
3 gennaio, anzichè una chiara e viva percezione
delle necessità che hanno i popoli di vivere di
vita loro, senza vincolo di esterne dominazioni.
Però i cinque giorni di combattimento e i
quattro mesi di libertà politica avevano prodotto
anche fra le masse popolari un salutare
rivolgimento intellettivo. Ora si affacciavano
alla resistenza, per impulso proprio e per virtù
[360]
di opinione, non solamente per vaghezza di
novità o per adesione a programmi altrui. Avevano
visto riunioni, letto giornali, discusso
governi e governanti; cominciavano a capire
che della libertà erano partecipi, della schiavitù
politica soltanto stromenti o vittime. Sicchè
le schiere nostre aumentavano di densità
e di tutta quella forza che apportano elementi
nuovi e robusti, sopratutto avvezzi, pei casi
precedenti e per la fiducia personale vicendevolmente
cementata, a subire la disciplina, non
a discuterla.
D'altro canto, s'aveva però di fronte un avversario
più deciso, più agguerrito, più inesorabile
di prima. Tornando a Milano, dopo la guerra,
l'Austria non aveva più o non fingeva più di
avere illusioni di sorta. Sapeva di rientrare
in una città nemica e di dover restarvi colla
miccia accesa e i cavalli sellati. Ogni ipocrisia
di linguaggio o di nomi era sparita. Gli Schwartzemberg,
i Strasoldo, i Montecuccoli, i Burger
si alternavano, con intonazioni di maggiore o
minor durezza, al potere civile; ma il carattere
intrinseco del governo era e restava una dittatura
militare, temperata soltanto dai varj e
mutabili interessi politici della dinastia imperiale.
Sicchè gli stessi metodi della lotta dovettero
[361]
essere profondamente modificati. Bisognava
evitare assembramenti, che sarebbero
subito diventati facile scopo a cariche di cavalleria.
Le dimostrazioni cessarono, perchè non
v'era più bisogno di affermare la disciplina e
v'era bisogno di risparmiar vite e sangue. Ma
cessarono nelle vie, per durare in permanenza
nei ritrovi e nelle sale private; rinunciarono
ad essere collettive, per diventare più tenacemente
e più audacemente individuali.
Intorno agli elementi austriaci si fece il vuoto.
Gli ufficiali militari, gli alti impiegati del Governo
civile e politico trovarono chiuse le porte
dei ritrovi famigliari e delle associazioni cittadine.
Nei teatri, pochissimi palchi d'affitto
erano aperti all'ufficialità, nessuno di proprietà
privata. Si stipavano nelle sedie chiuse, al di
là della sbarra; e dava già per sè indizio della
situazione morale, quel vedere ogni sera, da
un lato tutte uniformi, dall'altro tutti abiti
neri. Se ad un ballo, ad una cerimonia si prevedeva
l'impossibilità di escludere, per qualunque
ragione, un ufficiale austriaco, il ballo
non si dava, la cerimonia si sospendeva. Ai
balli che davano le alte autorità politiche o
militari, non intervenivano che impiegati o
mogli d'impiegati, costrette dalla pressione ufficiale.
[362]
Se qualche signora della società milanese
osò talvolta od ebbe la debolezza di accettare
alcuno di questi inviti, leggeva subito
la riprovazione sul viso dei conoscenti e degli
amici. Il vuoto si allargava anche intorno a
queste belle colpevoli di peccati veniali. La
necessità della resistenza politica rendeva inesorabili;
si sacrificava al programma anche la
cortesia, anche l'educazione, anche l'amore.
I giovani poi s'erano fatta una legge di non
tollerare, in faccia agli elementi militari, neanche
l'apparenza di una provocazione. Per un
gesto, per una parola, per uno sguardo rivolto
ad una dama, si flagellava l'ufficiale austriaco
d'una fiera parola, d'una osservazione umiliante
che conduceva al duello. Luigi Della Porta
iniziò questa nuova forma di guerra, e ne restò
sventuratamente la vittima. Il Camperio, il
Fadini, il Viola, il Battaglia, il Carcano, altri
ancora si misurarono sul terreno, con varia
vicenda, non transigendo mai, non accettando
scuse, affermando altamente lo scopo e il carattere
di queste contese. Era veramente una
guerra; ma non potendosi combattere, alla moderna,
coi grossi battaglioni, si combatteva,
all'antica, colle zuffe individuali, come i capitani
d'Omero. Nè, a completare la tradizione
[363]
epica, mancava a quei combattenti l'aiuto delle
Dee. Minerva e Venere non scendevano sulla
terra, ma v'erano già. Preludendo ad un concetto
che il generale Garibaldi svolse più tardi
ne' suoi proclami, il sorriso delle donne era
serbato ai forti. L'implacabilità politica non
era meno consueta alle signore che agli uomini;
forse, per l'indole loro, più provocatrice. Certo,
ebbero larga ed onorevole parte in tutta questa
disciplina di affetti e di rigori patriottici. E
fra le gentildonne che tenevano in quell'epoca
riunioni più numerose e più ricercate, non si
possono dimenticare, per la gentile e fiera influenza,
Marianna Trivulzio, Mariquita d'Adda,
Carolina Crivelli, Ermellina Dandolo, Carmelita
Manara. Sopra tutti va ricordato il salotto letterario
e politico di Clara Maffei; dove tutti
gli elementi nazionali od esteri di qualche valore
trovavano libertà d'accesso e intimità di
ritrovi; e dove la padrona di casa, vincendo
per necessità politica l'indole sua, accettava
dai suoi amici quella disciplina d'intransigenza
contro cui protestava la sua costante ed inesauribile
amabilità.
Indispettiti da questa giornaliera implacabilità
di contegno, da questo muro di bronzo che
vedevano elevato fra essi ed ogni agevolezza
[364]
di vita sociale, gli ufficiali reagivano, accentuavano
la loro qualità di conquistatori e padroni, — aiutavano
per ciò solo i desiderj degli
avversarj e il programma della resistenza. Talvolta,
acciecati dall'impotenza, diventavano
brutali, perdevano il sentimento dei loro doveri
di uomini e di gentiluomini.
In uno dei giorni onomastici dell'imperatore
d'Austria, avendo una baldracca, molto intima
cogli elementi soldateschi, Annetta Olivari,
esposto un tappeto giallo e nero sul suo balcone,
posto quasi dirimpetto alla Piazza del Duomo,
lungo l'antica via dei Borsinari, un assembramento
minaccioso di popolani e popolane tentò
invadere quella casa e strappare quella bandiera.
Si fecero degli arresti, e il giorno dopo ufficiali
austriaci non sentirono l'onta di assistere nel
cortile del Castello ai colpi di bastone che furono
applicati sulle ignude reni di due o tre
fanciulle artigiane.
Questi esempj e questi spettacoli esacerbavano
naturalmente l'animo dei popolani, fra i
quali trovò presto cooperatori audaci e sicuri
la frazione politica che mirava a congiure e a
sommovimenti.
Com'è abitudine e necessità di questi programmi,
l'unità dirigente veniva meno. Gli organismi
[365]
rivoluzionarj si moltiplicavano secondo
i gruppi d'amici personali, secondo le diverse
solidarietà sociali da cui partivano. Assumevano
nomi speciali[87], avevano capi molteplici,
che ordinariamente non erano conosciuti dai
settarj minori. I loro scopi, i loro mezzi d'azione
erano esclusivamente locali; abbozzavano
progetti, li mutavano, li abbandonavano, secondo
le diverse esigenze dei singoli avvenimenti
milanesi. Solamente il Comitato Centrale,
che abbiamo visto presieduto da Attilio De-Luigi,
s'era posto in diretta comunicazione con
Mazzini e con quel centro rivoluzionario europeo
che allora dirigeva da Londra una vasta agitazione,
a cui, col Mazzini, partecipavano il
Kossuth, il Ruge, il Sirtori, Ledru-Rollin.
A poco a poco questo organismo di cospirazione
era riuscito a darsi una specie di ordinamento
stabile, mediante sub-centri o Comitati,
che in ogni capoluogo di provincia agivano
secondo le istruzioni del Comitato Europeo. Il
Mazzini osò allora quello che nessun cospiratore
aveva osato prima di lui, e che nessuno
probabilmente oserà più, — aprire un prestito
[366]
rivoluzionario di dieci milioni, con apposite
cartelle, che si collocavano presso i privati di
fede sicura o creduta sicura, dagli agenti dei
Comitati, incaricati poi di spedire a Londra i
fondi raccolti. Non sappiamo quanti di questi
milioni siano giunti nelle casse del Comitato
Europeo; certo se ne devono essere perduti alcuni
per via. Ad ogni modo, il movimento di
persone e di lettere, che un'impresa di questa
natura determinava, non potè lungamente tenersi
celato alle indagini di polizia.
Un tristo, il dottor Vandoni, protomedico
addetto al Governo, denunciò un impiegato
suo, il dottor Ciceri, quale possessore di cartelle
del prestito Mazzini. Il denunciato non
isfuggì al processo ed al carcere. Ma non isfuggì
il denunciatore alla vendetta settaria. In pieno
giorno, nella via del Durino, sotto gli occhi
della famiglia, che dal balcone aspettava il suo
arrivo, Vandoni fa pugnalato e il sicario sparì.
L'indegnazione contro l'ucciso temperò quella
contro l'uccisore; perocchè è triste privilegio
delle situazioni consimili di abbuiare, nell'opinione
pubblica, la limpidezza dei criterj morali.
Però da quel giorno, la tensione politica divenne
ancora più aspra e vibrata. L'autorità
piegò maggiormente a tirannia, la cospirazione
[367]
si sprofondò ne' suoi metodi, il terrore dominò
da una parte e dall'altra le relazioni sociali.
Frattanto accadeva in Francia, il 2 dicembre
1851, il colpo di Stato napoleonico; un'altra
pagina storica che non si può giudicare nè a
tuono di frase nè a lampi di passione; ma che,
indipendentemente da ogni genesi e da ogni
effetto francese, ebbe sulle cose d'Italia e specialmente
sull'attitudine dei Milanesi, un'influenza
immediata e profonda.
Il partito d'azione, che fino allora aveva sperato
nella Repubblica Francese, piuttosto per
istinto che per ragionamento, sentì prepararsi
in Europa una situazione politica nuova, contro
cui l'azione del Mazzini e le sue iniziative sarebbero
state impotenti. Quelli fra i cospiratori — ed
erano di gran lunga i più — ai quali la
Repubblica era parsa non altro che un metodo
per raggiungere l'indipendenza, cominciarono
a raccogliere più severamente i loro pensieri,
a guardare con risorta fiducia verso il Piemonte,
nelle cui sfere governative era apparso
intanto un astro nuovo, pieno di vita, d'incognite
e di speranze, — il conte Camillo di
Cavour. Il gruppo dei patrioti monarchici crebbe
d'influenza e di riputazione; molto più essendosi
saputo che al conte Arese, amicissimo suo,
[368]
il nuovo Presidente di Francia aveva detto,
poche settimane dopo la rivoluzione da lui operata:
“laissez-moi donner un peu d'ordre à la
France, et puis je penserai à l'Italie.„
Frutto di questa doppia modificazione fu la
risoluzione presa dal Comitato Centrale di temperare
per qualche tempo la propria azione e
di invitare i Comitati provinciali a frenare essi
pure l'ardore di eccitamenti, sui quali la polizia
stava già dappertutto in agguato. Fra i Comitati
provinciali lombardi, il più attivo ed ardito
pareva quello di Mantova, presieduto da un
prete pio e deciso, Enrico Tazzoli, e di cui teneva
le fila e le carte Luigi Castellazzo. A Mantova
dunque si credè appunto necessario spedire
un messaggiero di speciale fiducia, per esprimere
interi i concetti del Comitato, e fu scelto
a tal uopo il dottor Antonio Lazzati. Questi
andò, parlò coi membri del Comitato mantovano,
assistette ad una riunione anche più numerosa
in cui le esigenze della situazione furono
ventilate e discusse; ritornò a Milano,
fiducioso che la sua gita dovesse servire a rendere
più cauta e più segreta l'azione dei patrioti.
Invece, poco tempo dopo il suo ritorno, eccoti
spesseggiare le indagini e i sospetti della
polizia. Il primo che si arresta è Pezzotti, uno
[369]
dei membri del Comitato Centrale. Quell'arresto
mette in guardia tutti, ed ognuno dei compromessi
provvede a precauzioni speciali. Ma pochi
giorni dopo[88], il carceriere, entrando nella cella,
vede il suo prigioniero appiccato per un fazzoletto
all'inferriata del carcere. L'infelice giovane,
presago di torture morali più che materiali,
temeva che una reticenza, che una frase
imprudente conducesse gli acuti interrogatori
sulle traccie della cospirazione. Aveva promesso
agli amici che, arrestato, si sarebbe ucciso; — mantenne
la parola. Tali erano e tali si
accettavano in quell'epoca le conseguenze delle
audacie politiche, divenute talvolta in seguito
così impunemente verbose![89]
Pareva che la morte di quell'eroico taciturno
avesse dovuto interrompere le indagini, sviare
gli andamenti dell'autorità. Ma pochi mesi dopo
cominciano arresti, a Mantova, a Verona, a
[370]
Brescia. I Comitati Provinciali forniscono il
maggior contingente alle persecuzioni; qualche
viltà le accresce; la polizia vede e colpisce
giusto; in poco tempo più di duecento patrioti
popolano le prigioni lombardo-venete e si apre
il cupo ed omicida processo di Mantova.
Alle vittime di questo processo, che non è
cómpito nostro riassumere, Milano diede il
contingente minore. Il Cairoli, il De-Luigi, il
Gerli poterono sottrarsi a tempo e distruggere
ogni traccia rivelatrice della loro azione; Lazzati
osò rimanere e fu arrestato con altri dei
suoi fratelli. Prigioniero, non ismentì la sua
fama di robustezza fisica e morale. Fu di quel
glorioso manipolo che col Pinzi, col Cavalletto,
col Pastro, col Mori, con alcuni altri, attinse
all'implacabile negativa la virtù di non dare
nè una traccia nè un nome all'insidiosa ricerca
dell'auditore militare. Condannato, perchè
il segretario del Comitato di Mantova,
Castellazzo, affermò in suo confronto di ravvisare
in lui il messaggiero del Comitato milanese,
sfuggì al patibolo, resistendo sempre
al laccio in cui caddero il Montanari, il Tazzoli
ed altri, — di dir qualcosa per guadagnarsi
la grazia. Ad un uomo contro cui non
s'era potuto provar nulla di grave, la sentenza
[371]
finale attribuì quindici anni di ferri. Stette
chiuso a Josephstadt fino all'amnistia imperiale
del 1857. Ne uscì col Finzi e cogli altri
amici, a tempo per essere di nuovo utili alla
patria, per vederla libera, e per amarla sempre, — se
anche non sempre giusta.
È facile pensare che il tragico risultato di
queste agitazioni[90] contribuì ad allargare
quella evoluzione che già vedemmo disegnarsi
nel pensiero politico milanese. Il consolidamento
del nuovo ordine di cose in Francia,
mediante il plebiscito che creava l'Impero del
10 dicembre 1852, tolse interamente ad ogni
spirito assennato l'illusione che a moti repubblicani
[372]
potesse sorridere eventualità d'appoggio
europeo. Le fila della cospirazione lombardo-veneta
erano interamente sgominate; fuggiaschi
o prigionieri o impiccati i suoi capi. D'altro
canto la politica del Piemonte cominciava a
dimostrare una saldezza ed una saviezza che
s'ammiravano in Europa; e il movimento parlamentare
avvenuto in quel torno di tempo,
con notevole spostamento dei vecchi partiti
politici piemontesi, annunciava già nel conte
di Cavour il capo intelligente e risoluto di un
vero partito nazionale italiano.
L'opinione pubblica milanese non tardò a
divinare la nuova via di salute apertasi innanzi
al paese. L'iniziativa rivoluzionaria autonoma
perdette seguaci; ne acquistò il programma
moderato, che già abbandonava il suo nome
di albertista e preludeva a chiamarsi cavouriano.
Emilio Dandolo rese più frequenti le sue
gite a Torino; il Tenca accentuò nel Crepuscolo
questo indirizzo degli spiriti, mediante
la corrispondenza politica dal Piemonte e i
forti studj di economia rinnovatrice che vi
andò pubblicando Antonio Allievi. Soltanto il
Mazzini, infervorato nei metodi suoi, architettando
da Londra o da Lugano un'Italia artificiale
su cui studiava diagnosi e rimedj punto
[373]
consoni alla verità delle cose, — soltanto il
Mazzini, diciamo, non aderì a nessuna modificazione
di condotta politica. Ricompose alla
meglio i suoi comitati e le sue centurie, sostituendo
ai vecchi e noti vessilliferi dell'idea
repubblicana nuovi luogotenenti, devoti ai
cenni suoi, ma privi di larghe influenze fra le
varie notabilità cittadine. L'organismo rivoluzionario
si restrinse e si sprofondò, invece di
salire e di allargarsi. La setta, impostasi al
partito politico, reclutò nella classe operaja
adepti di forte indole e di forti passioni, come
quell'eroico Sciesa, a cui Milano ha consacrata
una lapide, più giusta di molte altre[91].
Ricominciarono i viaggi di emissarj segreti,
le segrete distribuzioni di stili e di denari. Il
Mazzini, che ad ogni primavera vedeva l'Europa
pronta a mettersi in fiamme, immaginò
che Milano, nel 1853, doveva essere il punto
[374]
da cui l'incendio partisse. E così venimmo alla
fatale giornata del 6 febbrajo.
Ma l'instancabile cospiratore non pensò mai,
fra tanta mole di pensieri, ad un assioma confermato
dagli insegnamenti della storia e dall'esperienza
della sua vita stessa. Le rivoluzioni
che riescono non sono ordinariamente
quelle che si preparano. E la prova delle
Cinque Giornate non era lontana.
Il moto milanese del 6 febbrajo 1853 non
era stato una sorpresa per tutti. Se n'era discussa
l'opportunità, la strategia, la data. Al
generale Klapka il Mazzini l'aveva annunciato
tre giorni prima come una grande rivoluzione.
N'ebbe un fiero dolore quando seppe che era
riuscito un tragico tafferuglio.
Eppure nessuno dei patrioti di qualche esperienza
in Milano aveva creduto che siffatta
congiura potesse ottenere effetti maggiori o
migliori. A tutti aveva inspirata una grande
inquietudine la conoscenza anticipata di così
temerario divisamento. E alcuni avevano cercato
di sconsigliarla, prevedendone vittime inutili
e ribollimento di reazioni militari. Nel
fatto, nessuna preparazione dello spirito pubblico
a rivolture violente; armi poche o punte:
[375]
il Piemonte inteso a febbrile riordinamento
di partiti, di finanze, di esercito; la Francia
nella piena luna di miele d'una reazione politica;
l'Austria armata fino ai denti; l'Europa
sospettosa d'ogni susurro, per timore di propagande
napoleoniche. Ed era in mezzo a queste
condizioni generali europee che il Mazzini si
preparava tranquillamente a scagliare duecento
popolani contro le sentinelle austriache.
Fossero stati duemila, era difficile che la sorpresa
scompigliasse le autorità militari più
di ventiquattr'ore. Il giorno dopo, da Mantova,
da Verona, da Piacenza sarebbero venute truppe
e cannoni a josa. Eravamo ben lontani dalla situazione
specialissima del 1848. L'esercito austriaco
in Italia era forte per numero, per disciplina,
per esatti armamenti. Nè Vienna era
in subbuglio, nè l'Ungheria minacciava, nè
Pio IX benediceva l'Italia. Per sognare che
contro queste avversità estere una insurrezione
improvvisa, e di soli elementi milanesi, potesse
riuscire, bisognava davvero che la mente del
Mazzini navigasse in un pelago sterminato di
illusioni e di fanatismi.
Nè questi nè quelle facevano velo in Milano
agli uomini che fino allora avevano diretta la
politica di resistenza. Vedevano chiaro che
[376]
l'impresa progettata avrebbe finito con lutti e
supplizj. Il Majocchi, audacissimo di pensiero
e d'azione, era assai esitante nel favorirla; gli
antichi combattenti delle Cinque Giornate ricusavano
di parteciparvi; la sconsigliarono
fortemente il dottor Pietro Lazzati, Carlo De-Cristoforis
ed Enrico Besana, patriota d'ogni
occasione, d'ogni coraggio, d'ogni attività[92].
Piolti de Bianchi, sprofondato più d'ogni altro
in quella preparazione, invitò Emilio Visconti-Venosta
a dire le ragioni degli opponenti in un
ritrovo di cospiratori. Ed egli v'andò; parlò
linguaggio di ragione e di patriotismo in mezzo
a gente inebbriata di visioni fantastiche[93]. Non
[377]
fu ascoltato; si ritirò mesto e scorato, colla risoluzione
di uscire da sodalizj, dove la discussione
non era più considerata che come una ribellione
alla volontà di Mazzini. Nondimeno fece
un ultimo tentativo per prevenire la tragedia.
Con Enrico Besana cercò di raggiungere il Mazzini
a Lugano e di persuaderlo a dare il contr'ordine.
Partivano infatti; ma la neve, la
mancanza di vetture, la sorveglianza della polizia
impedirono loro di oltrepassare il confine.
Tornarono inquieti a Milano; il giorno
dopo scoppiava il moto.
Lo aveva disposto, ne' suoi concetti strategici,
un ingegnere Brizzi, emissario mazziniano,
delle provincie meridionali. Avrebbe dovuto
capitanarlo di persona un Assi, fabbricatore
di cappelli, presidente della Fratellanza Repubblicana[94].
Nè l'uno nè l'altro furono visti
nell'ora pericolosa. I popolani reclutati si avventarono
animosi. Si credevano parecchie migliaja, — furono
centocinquanta. Avevano avuto
per istruzione di assalire le sentinelle e pugnalarle;
ne uccisero dieci, ne ferirono cinquantadue;
povere vittime anch'esse della medesima
tirannia, che le traeva dai lontani tugurj
[378]
di Croazia e di Boemia per gettarle contro
odj e vendette, di cui nemmeno capivano la
ragione.
Fu tutto. Due ore dopo, i Corpi di Guardia
erano in pieno assetto di guerra; le pattuglie
di cavalleria spazzavano le contrade; settanta
popolani furono arrestati; sedici, impiccati due
giorni dopo; e fra questi, come sempre, degli
innocenti: Alessandro Scannini per tacer d'altri.
Quel sangue, — degli uni e degli altri — destò
compassione ed orrore; non parve a nessuno
utilmente versato. Ben altra era la lotta
che i combattenti delle Cinque Giornate avevano
cinque anni prima inaugurata; ben altra
quella che sosteneva tutta la cittadinanza milanese,
disdegnando apertamente ogni giorno
relazioni coi dominatori o affrontando colla
spada alla mano ufficiali stranieri, colpevoli
personalmente, perchè liberi di continuare o
di cessare il loro ajuto all'oppressione di un
popolo. A questa lotta di uomini si trattava
ora di sostituire una lotta di fiere; una sfida
tra il pugnale e la corda. Il sentimento pubblico
vi ripugnava; onde l'effetto del 6 febbrajo
fu per alcuni giorni piuttosto di depressione
che di ritempera.
Ne approfittarono senza indugio i governanti,
[379]
racimolando firme ad un indirizzo, che fu spedito
all'imperatore d'Austria, scampato in quei
giorni egli pure a un tentativo d'assassinio
politico. Lo firmarono un centinajo di persone
o appartenenti all'alto patriziato conservatore
o membri di Istituti Pubblici, di Corpi amministrativi
tutelati dal Governo o dipendenti
gerarchicamente da esso; uomini insomma che
non erano stati o avevano cessato di essere
nel moto politico attivo, e che credettero contribuire
con questo atto, non contrario a' principj
morali e religiosi, ad una mitigazione della
reazione politica che andava ferocemente invadendo
tutto il paese.
La condotta di quei firmatarj fu variamente
giudicata; e più tardi i partiti politici, colla
implacabilità che loro è consueta, fecero alcuni
di quei nomi — non tutti — bersaglio a clamorose
invettive. Allora, la situazione terribile
del paese e la commozione degli animi fecero
considerare con indulgenza quell'indirizzo.
Certo, neanche fra quelli che lo firmarono, sarebbe
parso possibile il 5 febbrajo. Visto oggi,
a più di trentanni dall'epoca, con animo sgombro
di passione, se non di affetto, pare piuttosto
un atto di coraggio che di viltà. Nessuno di
quelli che apposero all'indirizzo il loro nome
[380]
poteva temere di essere considerato personalmente
come partecipe, neanche lontano, neanche
involontario, dei truci fatti. Se la reazione avesse
inferocito anche più, su altri e non su loro ne
sarebbero caduti i colpi.
Fu quella dunque — se anche inefficace od
improvvida — una rassegnazione accettata pel
beneficio d'altri e non ostentata pel proprio.
E, del resto, in quell'ora, a Milano, non esigeva
grande fortezza d'animo il tacere o lo
star nella folla. Il difficile era d'uscirne.
Le conseguenze dirette ed immediate del tentativo
furono proprio le più opposte che si
potessero pensare alla speranza ed all'intenzione
di chi lo aveva promosso.
Il partito repubblicano ne uscì fiaccato di
credito e di autorità. Quella terribile inesperienza,
quella spensierata prodigalità di vite
umane indarno sacrificate allontanarono dalle
sue fila il nucleo più numeroso e più intelligente
degli uomini che mettevano lo scopo al
disopra del metodo. In una sua celebre lettera
ad Emilio Visconti-Venosta, il Mazzini mostrò
sentire la necessità di questa ricomposizione
politica; e si congedò da una parte de' suoi
antichi seguaci, esprimendosi con un tono di
[381]
mestizia profetica, sotto cui primeggiava quell'orgoglio
de' proprj pensieri, che gli procurò
più tardi dal generale Garibaldi giudizio così
severo[95]. I patrioti milanesi accettarono senza
esitazione questo distacco dal Mazzini; non
dimenticando i servigi resi dall'uomo e il rispetto
che gli si doveva, ma altrettanto convinti
che r azione sua si trovava ora in completo
disaccordo col pubblico sentimento e non
poteva giovar più agli scopi nazionali, ormai
avviati a soluzione diversa. Il ravvicinamento
fra le tre correnti politiche di cui s'afforzava
il programma di resistenza divenne sempre
più stretto. Gli antichi albertisti trovarono
nell'appoggio di elementi giovani e vigorosi
una ragione a mosse più sicure e a maggiori
ardimenti. Gli antichi repubblicani, scostatisi
dal Mazzini, si confusero colla schiera capitanata
[382]
dal Tenca, da cui soltanto questioni di
opportunità li avevano anche in passato divisi.
D'altronde l'imperversare della reazione militare
aveva costretto i più noti cospiratori ad
allontanarsi da Milano; il De-Cristoforis n'era
uscito, travestito da cocchiere d'un patrizio
beneviso al Governo, il Majocchi, sotto il vano
d'una cassa in un carro pieno di calce. I popolani,
avvezzi all'impulsione delle società segrete,
accettarono quella che loro veniva da
uomini noti e rispettati in paese, dei quali conoscevano
o la vita integra o l'indole generosa.
Senza essere ancora precisamente legati ad
un vero programma comune d'indole politica,
tutti questi elementi cooperarono però d'allora
in poi con vicendevole stima e vicendevole responsabilità.
Si rifaceva, sotto la pressione delle
necessità nazionali, una situazione cittadina
moralmente identica a quella che aveva precorso
le Cinque Giornate; la stessa fiducia
nelle influenze patriottiche moderate; lo stesso
vigore di manifestazioni individuali; il disdegno
egualmente calmo di tutte le affettazioni
di forza che il Governo moltiplicava. Solamente
v'era un'esperienza più seria delle
cose pubbliche, — quella che il dolore aveva
maturata. Si comprendevano e si apprezzavano,
[383]
meglio che nel 48, le relazioni fra gli Stati, le
complesse necessità della politica e della diplomazia.
Il patriottismo era rimasto, la rettorica
era sparita. Non si metteva più la speranza
della liberazione nei Polacchi, nei Magiari,
negli Slavi, nei Rumeni; la si sentiva
nell'attitudine operosa e virile della monarchia
liberale italiana, nella vivace fierezza del suo
grande ministro, nell'insieme — pure sconnesso
e oscillante — della politica napoleonica,
di cui la popolazione milanese, con quell'istinto
che viene dalla cotidiana e indagatrice osservazione
dei sofferenti, presagiva già inevitabile
l'ultimo postulato, — la guerra all'Austria.
Gli studj accennavano ad una rinata robustezza
di fibra intellettuale e si volgevano
ad argomenti di pratica attualità. Il Crepuscolo
dava all'eletto manipolo de' suoi scrittori un
vastissimo campo di affermare criterj nuovi
nel progresso letterario e scientifico; un giovane
di alto avvenire, Stefano Jacini, pubblicava
un libro pensato e fortunato sulle condizioni
agricole ed economiche del paese; alla
Cassa d'Incoraggiamento d'Arti e Mestieri, dov'erano
ancor fresche le feconde iniziative del
Kramer e del Mylius, s'abbozzava un programma
di laboriosità e di rinnovamento industriale,
[384]
sotto l'impulso di Lorenzo Taverna,
di Ignazio Vigoni, di Antonio Allievi, di Guido
Susani.
Così si veniva preparando un'opinione pubblica
illuminata, progressiva, atta a sostenere
o a combattere programmi di governo. L'intransigenza
politica, restando fiera, diventava
effetto di logica più che di passione. Cominciò
allora la prevalenza di quel complesso di metodi
e di pensieri, che fa più tardi battezzato
come politica moderata e che durò in Milano
fin verso gli avvenimenti parlamentari del 1876.
Certo, il Mazzini, dopo quell'epoca, non ebbe
più in Milano l'efficacia da trascinare nè una
massa ne un uomo. Il prestigio delle sue dottrine
era caduto col mutarsi delle condizioni
politiche a cui s'affacciava l'Italia. La sua decadenza
politica era incominciata. Conservò
ancora qualche influenza nelle provincie, dove
la difficoltà di conoscere nelle sue origini e
ne' suoi particolari l'impresa del 6 febbrajo
prolungò di qualche anno le illusioni repubblicane.
Ma il sistema suo di consigliare insurrezioni,
sempre e dappertutto, lasciando credere
che, dappertutto e sempre, vi fossero solidarietà
insurrezionali, unicamente sognate nel
credulo e mistico ambiente in cui egli viveva,
[385]
svezzarono presto anche i più giovani dal metodo
inefficace e antiquato della cospirazione
mazziniana.
Quando sorsero gli avvenimenti del 1859, si
udì con meraviglia che una quarantina d'individui
in Italia aveva protestato contro l'alleanza
francese e contro l'arrivo dell'esercito
che avrebbe combattuto a Magenta e a Solferino.
Parve una monomania come un'altra, e
ne fu discorso per cinque minuti. Poi cominciò
a risplendere l'astro di Garibaldi, e quello del
vecchio profeta si ecclissò. A Samuele era successo
Davide, che uccideva i giganti a colpi
di fionda. Quanto v'era di patriotismo serio e
bollente nella gioventù italiana stette con Davide,
che conduceva a guerre meravigliose e
a smaglianti vittorie. Samuele ebbe il torto di
prolungare, oltre ogni misura, un periodo di
predicazione che gli avvenimenti avevano sopravanzato.
La vecchiaja di Mazzini fu triste.
Ed è triste per tutti che un uomo della
sua fede non abbia potuto passare gli ultimi
anni, tranquillo e rispettato, in quella patria
alla cui formazione aveva pur contribuito.
Non fu colpa certo de' suoi concittadini;
fu sua. E Iddio, in cui egli credeva, gli
avrà certamente perdonato l'eccesso d'orgoglio,
[386]
che è il tarlo della sua fama e fu quello
della sua pace.
La reazione militare che susseguì al tumulto
del 6 febbrajo fu, come accennammo, violenta.
Proclamato lo stato d'assedio e mantenuto
per lungo tempo con tutte le sue rigidezze;
sfrattati tutti gli Svizzeri del Canton Ticino
perchè sospetti di relazioni rivoluzionarie; colpiti
di sequestro i beni dei fuorusciti, anche
di quelli a cui il Governo stesso aveva negato
il ritorno e l'amnistia; chiuse le porte delle
città; proibito il circolare delle vetture; proibito
il suono delle campane; impedito a più
di tre persone il raccogliersi; tutte le spese
militari a carico della città; ronde e pattuglie
ad ogni ora, di giorno e di notte; le sentinelle
ricoverate entro recinti d'inferriate, quasi affettando
di considerare un sicario in ognuno
dei cittadini. Vi furono dei sordo-muti freddati
dalla carabina delle scolte, per non aver potuto
udire nè rispondere al lugubre halt wer
da? (chi va là?) che ad ogni tratto risuonava.
La cittadinanza lasciava passare questi furori
e non mutava contegno. Anzi la disciplina politica
parve degli stessi furori avvantaggiarsi.
Le questioni dei ticinesi e dei sequestri, diventando
[387]
internazionali, provocavano difficoltà diplomatiche,
da cui l'Austria non usciva sempre
con riputazione. Le note piemontesi crescevano
di energia; Vienna e Torino si restituivano a
vicenda i loro ambasciatori, preludio di maggiori
ostilità. Milano si sentiva fatta il nodo
della questione italiana, e sopportava lietamente
le proprie sofferenze, perchè convinta
che queste affrettavano i tempi nuovi.
Tutto ciò ebbe a mutare di punto in bianco
sul principio dell'anno 1857. Allora la Lombardia
parve divenuta il beniamino, il cucco della dinastia
degli Absburgo. L'imperatore Francesco
Giuseppe venne a Milano, preceduto da una
completa amnistia pei prigionieri di Stato;
mostrò intenzioni piene di benevolenza; regalò
milioni, a beneficio di comuni, di terreni inondati,
di teatri, per la costruzione del giardino
pubblico a Milano, per l'erezione di un monumento
a Leonardo da Vinci.
Che cosa era avvenuto? nulla, di carattere
milanese. Ma s'era in questo frattempo combattuta
e terminata la campagna di Crimea;
s'era conchiusa la pace di Parigi; il fiero plenipotenziario
austriaco aveva dovuto subire,
da pari a pari, i rimproveri del plenipotenziario
[388]
piemontese; e la voce mesta ed affranta,
ma interamente presaga, del vecchio principe
di Metternich, aveva esclamato: “il n'y a
plus qu'un diplomate en Europe, mais c'est
le comte de Cavour.„
L'accoglienza simpatica che l'areopago europeo
aveva fatta ai reclami politici del ministro
piemontese contro i governi di Napoli e
di Roma urtava in pieno petto, malgrado le
ipocrisie ufficiali, l'Austria dispotica in Lombardia.
A Vienna sentirono che bisognava mutar
tono per non precipitare le cose, e fu deciso
di sostituire politica di concessioni a politica
di compressioni.
Sfortunatamente — o fortunatamente — apparve
ai centralisti austriaci più facile proclamare
la teoria che mettersi d'accordo sull'entità
e sul numero delle concessioni. I ministri
che avevano accompagnato l'Imperatore
a Milano, discussero lungamente il da farsi.
Non mancarono di rivolgersi per consiglio a
qualche notabilità cittadina, rimasta fuori dal
movimento politico. E il conte Giuseppe Archinto,
gran proprietario, fra i pochissimi che
bazzicassero a Corte, presentò, in nome d'un
gruppo di cittadini, dei quali non si seppe
mai precisamente nè il numero nè la qualità,
[389]
una Memoria sul nuovo ordinamento da darsi
alle Provincie lombardo-venete. Questa Memoria,
a cui pare abbia largamente cooperato
di scritto e di consiglio Cesare Cantù, e che
il re Leopoldo del Belgio aveva veduta e appoggiata,
proponeva molte di quelle istituzioni
autonome che settant'anni prima Pietro Verri
aveva chieste all'imperatore Leopoldo, e che
nel 1848, Carlo Cattaneo considerava come i
capo-saldi del suo programma di riforme nazionali.
Vi si dimostravano i vantaggi dello
scindere amministrativamente il governo delle
provincie italiane dalla centralità dell'Impero;
vi si chiedevano corpi consulenti locali, e
forza militare locale, e impiegati paesani, e finanza
propria, con tributo determinato per le
spese generali della monarchia. Si proponeva
a capo di questa specie di Stato autonomo e
vassallo l'arciduca Massimiliano, fratello dell'Imperatore;
giovane di qualità brillanti e
simpatiche, occupato in quei giorni a trovarsi
una compagna della sua vita, che appunto il
conte Archinto andò poco dopo come ambasciatore
suo, a chiedere alla Corte di Brusselles, — la
principessa Carlotta.
Di tutta questa fantasticheria di riforme, i
ministri austriaci accettarono soltanto quella
[390]
che in fondo lasciava le cose com'erano: la
destinazione dell'arciduca Massimiliano a Governatore
generale del regno Lombardo-Veneto.
Il De Bruck, il Bach, lo Schmerling erano certamente
liberali, ma a casa loro. Qui non sapevano
spogliarsi della solidarietà cogli elementi
militari, i quali persistevano a dire che
la Lombardia era paese di conquista e non
poteva essere trattata come i territorj nazionali.
Al postutto, non avevano torto.
Fu allora che apparve sulla scena politica
un gruppo di conservatori, rimasti fino allora
interamente estranei alle varie oscillazioni del
movimento. E si manifestò con una mossa di
cui è bene indagare le origini e le ragioni;
perchè valse a creare per qualche tempo una
situazione nuova, e minacciò di complicare con
incidenti imprevisti il programma, fino allora
sterile ma immutato, della politica di resistenza.
Erano appena finite, e non interamente, le pratiche
per un nuovo riordinamento delle ferrovie
austro-italiche. S'era divisa la rete complessiva
in due gruppi, e nel Consiglio direttivo della
rete che fu poi detta dell'Alta Italia s'erano voluti
introdurre, per garanzia di molti interessi,
alcuni dei patrizj lombardi e veneti di maggior
[391]
nome e noti per indole conservativa. Il duca di
Galliera aveva proposto per la Lombardia il cognato
suo, duca Lodovico Melzi d'Eril, il conte
Giuseppe Archinto e il conte Renato Borromeo.
Fu in tale qualità di rappresentanti il Consiglio
d'Amministrazione delle Ferrovie che il Melzi e
l'Archinto si recarono a ricevere l'Imperatore
a Venezia. Nel colloquio che necessariamente
dovettero avere, il monarca austriaco, venuto
per essere famigliare, chiese a Melzi perchè i
Lombardi non fossero contenti del governo che
annunciava con larga amnistia le sue intenzioni
rinnovatrici. Stretto dalla necessità di
rispondere ad una domanda che probabilmente
non aveva preveduta, il patrizio milanese affermò
che di queste intenzioni i cittadini non
potevano saper nulla, perchè tra essi e le autorità
politiche s'era innalzata la muraglia
della China. Il motto, data la qualità dei
tempi e degli interlocutori, potè sembrare audace
e come tale fu ripetuto nelle sale dell'alta
società viennese.
Ma quando l'arciduca Massimiliano, accettata
l'alta sua carica, venne a Milano ad assumere
le redini del Governo, si guardò intorno per
cercare su quali elementi cittadini avrebbe
potuto appoggiarsi. Il colloquio di Venezia
[392]
indicava naturalmente fra questi il duca Melzi;
e il conte Zichy, presidente del Consiglio
d'Amministrazione delle Ferrovie, sollecitò vivamente
il duca ad accettare presso il nuovo
Governatore del Regno un posto indipendente
di fiducia, nel quale avrebbe potuto — diceva
lo Zichy — essere utile al paese, rimovendo equivoci
e facendosi interprete di molti bisogni.
I consiglieri intimi dell'Arciduca erano uomini
rispettabili per carattere e per ingegno;
il conte di Bombelles, suo amico e confidente,
il conte Hadig, ungherese, di opinioni assai
liberali, suo primo ajutante di campo, il barone
di Kubeck, suo consigliere diplomatico, che fu
poi ambasciatore a Roma presso il governo
del Re d'Italia. Il conte Andrea Cittadella Vigodarzere
aveva accettato d'essere gran maggiordomo
dell'arciduchessa Carlotta, e il conte
Pietro Bembo collaborava come segretario arciducale
ai progetti di materia economica ed
amministrativa, in cui era abbastanza versato.
A questo onorevole sodalizio, in cui lo si pregava
di entrare, non seppe il Melzi opporre un
rifiuto; e vi stette per diciotto mesi, vedendo
frequentemente l'Arciduca, che gli confidava i
suoi progetti o le sue speranze di riordinamento
italiano.
[393]
Per verità, il fratello dell'imperatore d'Austria
esponeva, circa la sua missione in Italia,
concetti larghi, nei quali è dubbio ancora se
avesse vera fede o semplice compiacenza. Forse
era un po' dell'una e un po' dell'altra, poichè
l'animo suo, naturalmente generoso ma disadatto
a serie meditazioni, oscillava spesso fra
l'utopia e lo scoramento. Rassomigliava in ciò
grandemente al suo amico e protettore — pur
troppo inefficace pochi anni dopo — l'imperatore
Napoleone III.
Politicamente, appoggiava il programma della
federazione, presieduta dal Papa; risalendo alle
aspirazioni italiane di nove anni prima[96], ma
dimenticando che da quell'epoca in poi aveva
mutato il Papa, come aveva mutato l'Italia.
Avrebbe aumentato dei Ducati transpadani il
territorio piemontese; voleva sbarazzarsi, con
una pensione, del duca di Modena; far pratiche
perchè al regno Lombardo-Veneto si aggiungessero
le Legazioni. Pel conte di Cavour diceva
nutrire gran simpatia, e ad una signora molto
[394]
intima di casa Melzi aveva detto, non esser difficile
ch'egli potesse ricevere ospite festeggiato
a Milano il re Vittorio Emanuele. Tanto sognava!
Amministrativamente poi, — e qui ci pare
che la sua buona fede possa essere stata intera, — voleva
molta autonomia, una rappresentanza
del paese in due rami, con forme di
elezione, un grande sviluppo d'istruzione pubblica,
la polizia sottratta ad ogni ingerenza
militare e data ai Comuni, le truppe austriache
limitate alle due grandi fortezze, e nel resto
del territorio guarnigioni italiane con ufficiali
italiani.
Si capisce come un simile programma abbia
potuto esercitare qualche attrazione sul piccolo
gruppo di Italiani che gli si erano avvicinati
e che potevano forse non avere nessuna precisa
nozione delle molte probabilità che già
presentava in quell'ora il programma di una
intiera indipendenza, sotto monarchia nazionale
e con guarentigie parlamentari. Ed è giustizia
ricordare che in quei giorni l'imperatore Napoleone,
quasi arbitro dell'Europa, ostentava
larghissime simpatie per la persona e per la
politica di Massimiliano. Sicchè ad uomini tenutisi
o tenuti al bujo delle pratiche personali
[395]
e quasi della cospirazione diplomatica che il
Cavour conduceva coll'imperatore francese,
poteva sembrare interesse vero di libertà
l'accoglimento di quel largo programma riformatore
che le circostanze mutavano invece
in un pericolo per la formazione della
patria.
E pericolosa veramente per qualche tempo
sembrò al programma unitario l'attitudine assunta
dall'Arciduca in Lombardia. I liberali
milanesi dovettero accentuare anche con maggiore
asprezza il loro contegno intransigente,
involgendovi pur quelli fra i loro concittadini
che ai propositi dell'Arciduca sembrassero poco
o punto piegare. Il conte di Cavour non si
dissimulava le difficoltà che la sua politica
avrebbe potuto trovare in una transazione,
anche di breve durata, fra la popolazione lombarda
e il suo governo. Mandava dire al conte
Giulini: “fate piuttosto mettere Milano in
istato d'assedio.„ E in un colloquio importante,
ch'ebbe luogo in quell'anno tra Emilio
Visconti-Venosta ed Emilio Dandolo, questi
espose lungamente, per espresso incarico del
Cavour, le trattative avviate e le ardite risoluzioni
del Piemonte e gli impegni in cui era
già entrato l'imperatore Napoleone. In quel
[396]
colloquio furono gettate le basi di un'intima e
definitiva adesione dei liberali lombardi al
programma ed alla direzione politica del conte
di Cavour; accordo che andò poi sempre crescendo
e che non fu inutile nè all'unità della
patria nè alla fortuna politica del grande uomo
di Stato.
Una dopo l'altra, venivano poi ad avere sonora
eco in Milano le notizie delle altre parti
d'Italia; la spedizione di Sapri, la questione
diplomatica pel Cagliari, la pubblicazione del
libro Toscana ed Austria, la dichiarazione del
rispettato Manin, che con Garibaldi, con Pallavicino,
con La Farina, innalzava la bandiera:
Italia e Vittorio Emanuele. Tutto ciò rendeva
Milano pensosa e decisa; sentiva essa che finalmente,
e non senza merito suo, la questione
austro-lombarda s'era tramutata in austro-italica;
fiduciosa nella virtù nazionale, aspettava
il futuro, noncurante per esso dei dolori
e dei sacrificj presenti.
Ad una popolazione munita di siffatti antidoti
offriva invano l'Arciduca Governatore i
lenocinj della sua carezzevole amministrazione.
Faceva infatti studiare progetti e miglioramenti
d'ogni natura; largheggiava cogli artisti
e coi letterati; dava splendidi balli.... a quelle
[397]
dieci o dodici ballerine che accettavano d'intervenirvi;
nella speranza d'essere grato al popolo,
sfoggiava eleganze nuove di cavalli, di
equipaggi, di uniformi; e il popolo, acuto e
burlesco, ne storpiava il nome con un bisticcio
di lontano significato: “l'arciduca Mazza-Milano.„
Mandava ogni giorno a chiedere notizie del
Manzoni ammalato; sperando sopra un'occasione
di visita o di colloquio, che il fiero vecchio
non accordò mai. Quando cominciò a discutersi
dal Crepuscolo e nei pubblici ritrovi la questione
dei disastri agricoli nella Valtellina,
pregò Stefano Jacini di scrivere sull'argomento;
e l'opuscolo dell'egregio scrittore fu un'acerba
requisitoria contro l'amministrazione austriaca
in quella provincia. Volendo far qualcosa e
non sapendo che fare, vi si recò di persona
col Bembo e col Valmarana. Da quelle autorità
municipali ottenne fredde accoglienze e vigorosi
reclami. Vi lasciò del denaro, — la solita
goccia d'acqua che è la panacea dei dolori, pei
principi assoluti e per gli amministratori impotenti.
Senonchè queste armi benevole si rintuzzavano
non solamente contro la corazza patriottica
dei milanesi, ma anche contro la disdegnosa
[398]
ostilità degli alti personaggi dell'Impero,
militari e civili.
A Vienna si canzonavano queste velleità liberali
del giovine principe. Il barone di Burger,
suo luogotenente in Lombardia, gli moveva una
sorda guerra e otteneva spesso dal Ministero
imperiale istruzioni affatto opposte a quelle che
l'Arciduca gli soleva impartire. A queste istruzioni
poi l'Arciduca disubbidiva, e una sanatoria
dell'augusto fratello veniva ordinariamente
a por fine a simili conflitti. Ma il prestigio
dell'autorità sua non ne avvantaggiava. Quando
morì il maresciallo Radetzki, e il suo successore
Giulay trasportò da Verona a Milano la
residenza del Gran Comando militare, l'azione
politica di Massimiliano ne subì effetto d'indebolimento.
S'annullò quasi interamente, allorchè
la nascita dell'arciduca Rodolfo diede al partito
centralista dinastico un dominio indisputato
nelle eccelse regioni del Governo imperiale. Fu
agevole persuadere all'imperatore d'Austria che
il programma di Massimiliano, non aiutato neanche
da nessun principio di successo politico,
metteva in pericolo quell'unità dell'Impero
che ormai trovava nel nato erede un nuovo
avvenire di solidità.
L'Arciduca raccolse le sue casse di studii e
[399]
di progetti, e si recò a Vienna, nella speranza
di vincere personalmente gli ostacoli che da
lontano lo trattenevano. Fu accolto cordialmente,
ma non riuscì a far discutere i suoi progetti.
Lo tennero a bada, come uomo con cui
fosse pericoloso inimicarsi, ma di cui fosse inutile
conoscere le idee.
Fu in quell'epoca, nell'estate del 1858, che il
duca Lodovico Melzi, trovandosi a Vienna, manifestò
all'Arciduca la sua intenzione di partire
per Parigi. Massimiliano gli diede una lettera
per l'imperatore Napoleone, sulla quale fu allora
almanaccato fra i giornali politici, avvezzi
a credere sempre fecondo di cose grosse
ogni incidente di carattere italiano.
Nel fatto, quella lettera non aveva altro obbiettivo
che di cortesie e di affari privati dell'arciduca
Massimiliano. Questi però aveva inspirato
di sè tali diffidenze, che il Melzi parve
ambasciatore pericoloso, e il plenipotenziario
austriaco, barone di Hübner, colmandolo di gentilezze,
seppe trovar modo che non vedesse Napoleone
da solo a solo.
Escluso dunque ogni discorso politico, Napoleone
invitò Melzi alle caccie di Fontainebleau,
e frattanto partì per Plombières, dove
ebbe luogo il famoso colloquio col conte di Cavour.
[400]
Di questo colloquio, e della situazione che
si stava preparando agli affari d'Italia, il patrizio
milanese ne potè sapere quanto bastava
a persuaderlo che le iniziative dell'arciduca Massimiliano
mancavano ormai da un lato e dall'altro
di ogni solida base.
Ritornato a Milano, radunò subito i suoi colleghi,
e propose loro di dare le dimissioni, per
non separarsi dal nuovo indirizzo che il paese
seguiva con migliori probabilità di successo.
Anche all'Arciduca espose rispettosamente i
suoi dubbi, e lo pregò a considerare se non gli
convenisse personalmente rinunciare alla sua
missione in Italia, avendo perduto coll'appoggio
dell'imperatore Napoleone la maggior forza
su cui poteva contare per l'esplicazione del suo
programma.
L'Arciduca rispose che la sua fedeltà verso
l'Imperatore d'Austria gli imponeva di continuare
una missione, di cui non si dissimulava
l'inutilità[97]. I conti Bembo e Cittadella dichiararono
che, per riguardi personali, non potevano
abbandonare Massimiliano. Il duca Melzi
[401]
rassegnò per conto proprio il suo incarico a
Corte e si ritirò a Genova fino dopo gli avvenimenti
del 1859.
Tale fu lo svolgimento e la fine di questo
singolare episodio, di cui fu discorso allora e
dopo, nè con perfetta conoscenza di fatti, nè
con perfetta giustizia di apprezzamenti.
Fu assai rimproverata, specialmente al duca
Melzi, la partecipazione a siffatte trattative.
E forse si può credere che non abbia il
duca interamente misurata la responsabilità
impostagli dall'illustre antenato, che aveva sostenuto
quarantadue anni prima così diversa
politica.
È certo però che la condotta degli uomini
pubblici vuol essere considerata in rapporto
alle circostanze, in rapporto all'ambiente che
suole determinarla.
Gli uomini che s'erano lasciati attrarre dalla
soluzione politica impersonata nell'arciduca Massimiliano
avevano posto in prima riga una questione
di riforme liberali, laddove il momento
storico dava la preferenza ad una questione di
agglomeramenti nazionali. Può essere stata da
parte loro mancanza di previdenza, non più. E,
come già abbiamo notato, nessuna ingerenza in
altre politiche, in altre speranze, probabilmente
[402]
ignorate, può aggravare in questo caso la mancanza
di previdenza.
Appunto è dovere di quelli, al cui programma
è stata prospera la fortuna, di non ispingere
più in là del bisogno di lotta la riprovazione
di un programma che è stato sconfitto. Le ipotesi
che valgono a salvare od a perdere una
nazione son molte, e la certezza della vittoria
rade volte soccorre anche i capitani più eccelsi.
Ned era senza preoccupazioni il partito della
resistenza intransigente, pensando all'incerta
fine di una politica, che una mancanza di successo
all'ultimo istante avrebbe potuto far apparire,
nell'opinione delle masse oscillanti, o
meno savia o meno generosa di quello che fu.
Napoleone III avrebbe potuto soccombere al
pugnale di un sicario, la battaglia di Magenta
poteva non essere una vittoria, il conte di Cavour
poteva essere assalito due anni prima dal
morbo che lo spense nel 1861. Ognuna di queste
cause avrebbe obbligato ad una dura sosta il
programma belligero e data, di ripicco, un'auge
impreveduta al programma riformativo. D'altronde,
al partito conservatore, che in ogni
epoca è un numero, in ogni Stato una forza,
in ogni istituzione una garanzia, non poteva
negarsi il diritto di esprimere, col primo spiraglio
[403]
di tolleranza, le proprie idee. Le quali,
a voler essere giusti, rasentavano in quell'ora
piuttosto l'audacia che la timidezza riformatrice;
talchè avrebbero potuto servire perfettamente
di base alla ricostruzione di uno Stato
liberale, se la questione dell'indipendenza non
avesse di tanto soverchiato quella dell'assetto
organico. Ogni partito ha modi proprj di agire,
che non si possono mutare senza distruggere
con essi la stessa fisonomia del partito. E nella
mutabilità dei pensieri e dei casi, vien sempre
l'ora in cui un partito può rendere alla patria
servigi che altri non potrebbero renderle più.
Sicchè, a voler guardare dopo trent'anni, e con
criterj storici, l'episodio dell'arciduca Massimiliano
in Lombardia, non ci pare che la tradizione
italiana debba punto arrossirne. A buon conto
ha dimostrato due cose: che, nella fatale ipotesi
del rovescio di una politica, v'erano pronti degli
elementi per sostituirne un'altra, atta a frenare
le inevitabili reazioni; e che il paese
aveva una fibra così energica e un apprezzamento
così sicuro delle situazioni, da tracciare
direttamente esso la via a' suoi consiglieri e
a' suoi duci. Nel 1848 aveva risposto al Cattaneo:
piuttosto la rivoluzione che le riforme; nel 1857
rispose al Melzi, all'Archinto, al Cantù: piuttosto
[404]
che le riforme, la tirannia. “Nous ne demandons
pas que l'Autriche nous gouverne
bien„ scriveva da Parigi il Manin “nous lui
demandons qu'elle s'en aille.„ Si può oggi e
si poteva allora discutere sulla maggiore o minore
convenienza pratica di questo concetto;
ma non si può negare che il concetto fosse alto,
e che torni a grande onore dell'intelligenza e
della virtù nazionale l'averlo sostenuto in così
diversi periodi con tenacità così fiera.
Le ultime pagine spiccate di questo decennio
di lotta s'aggirano intorno a due tombe, a due
funerali.
Quando morì, sul principio del 1858, vecchio
di novantun anni, il maresciallo Radetzki, alle
pressioni governative perchè il Municipio milanese
onorasse della sua presenza il trasporto
funebre, quei magistrati, pur non eletti dai loro
concittadini, ma nominati dal Governo stesso,
opposero un rigido rifiuto; memori di uno schifoso
decreto del 1853 che poneva a carico del
tesoro municipale le corde adoperate per le impiccagioni
del 6 febbrajo. E v'erano pure fra
quelli uomini, tali che potevano sembrare d'indole
assai temperata per avere firmato in quell'epoca
l'indirizzo all'imperatore d'Austria.
[405]
Ma quando, circa un anno dopo, si sparse per
Milano la notizia che il lungo morbo aveva
finalmente spenta la vita di Emilio Dandolo, la
città si mosse tutta per onorare nel giovane
morto l'eccellenza di quegli affetti e di quegli
ardori da cui i vivi si sentivano penetrare. Fu
invano che la polizia, indovinando questo scoppio
di patriotismo, desse istruzioni severe e scaglionasse
gran forze intorno alla casa, alla
chiesa di S. Babila, lungo il percorso del corteggio
funereo. Forse cinquantamila persone
accompagnarono al cimitero quella nobile bara,
trascinando in un fiotto irresistibile le stesse
guardie incaricate di fermarlo e respingerlo.
Nessuna misura precauzionale della polizia potette
riuscire, nessun divieto suo fu rispettato.
Sul feretro, portato da giovani patrioti e da
intimi della famiglia, Lodovico Mancini ardì
collocare una gigantesca corona di fiori, da cui
spiccavano distintissimi i tre colori nazionali,
e che nessun agente di polizia potè nè trattener
prima, nè ghermir poi. Al cimitero parlarono
con vivaci intonazioni d'attualità politica Antonio
Allievi e Gaetano Bargnani. La polizia
dovette quel giorno lasciar fare e lasciar dire,
perchè impotente a reprimere.
Il giorno dopo, osò più sicura. Mandò a perquisire
[406]
e ad arrestare quelli che trovò, un Carcano,
il dottor Signoroni, Costantino Garavaglia;
si sottrassero a tempo altri, cercati,
come Lodovico Trotti, i fratelli Visconti-Venosta,
Allievi, Bargnani, i fratelli Mancini.
Ma erano più sgomenti gli arrestatori che gli
arrestati. A questi i carcerieri si raccomandavano
per essere perdonati della forzata custodia;
si offrivano di portar loro abiti, cibi, giornali.
La potenza era già passata dal terribile
impero che aveva sul luogo duecentomila bajonette,
a quei giovani inermi che rappresentavano
unicamente un'idea.
Ma l'idea s'inoltrava. Già l'imperatore Napoleone
aveva espresso al barone di Hübner il
dispiacere di non essere più d'accordo col suo
Governo; già il re Vittorio Emanuele aveva
fatto echeggiare l'aula del Parlamento di quel
maschio “grido di dolore„ che scosse dal sommo
all'imo tutta l'atmosfera italiana. Contro queste
due frasi l'Austria inviava cannoni e squadroni
di cavalleria e truppe croate e boeme,
che avrebbero voluto incutere terrore, e che i
milanesi accoglievano con battimani, perchè dinotavano
l'irrevocabilità della guerra. E la
guerra si dichiarava proprio a voce alta nel
teatro alla Scala, dove ogni sera al famoso coro
[407]
della Norma il pubblico della platea e dei palchi
si univa fremente d'entusiasmi, e a cui rispondevano
irritati gli ufficiali austriaci stipati
nelle sedie chiuse, gesticolando minacciosi ed
estraendo a mezzo le sciabole dai foderi[98]. Nè
queste erano guerre che si sarebbero fermate
alle strida; poichè ogni sera ed ogni mattina
i giovani schiamazzatori partivano solitarj o a
drappelli, traversando, dove potevano e come
potevano, il Po o il Ticino o il Lago Maggiore,
per inscriversi nelle file dell'esercito sardo, o
fra i volontarj di Garibaldi, o nelle scuole di
Pinerolo e d'Ivrea.
L'Austria faceva dire alle sue gazzette che
erano settarj, sobillati dalle fazioni anarchiche
o mazziniane; e il conte di Cavour, soffregandosi
le mani, additava nelle sue lettere e ne' suoi
colloquj coi diplomatici europei i più bei nomi
del patriziato storico lombardo, gli eredi dei
Trivulzio, dei Litta, dei Visconti, dei Belgiojoso,
dei Taverna, dei Del Majno, dei Borromei, arruolatisi
[408]
come semplici coscritti nei battaglioni
sardi, e pronti, per sentimento di patria, a portare
sulle loro spalle le fascine pel rancio dei
loro compagni.
In questa attitudine, che l'Austria avrebbe
voluto più rivoluzionaria per poterla colpire,
ma che trovava modo di rendere la rivoluzione
efficace, trasportandola dall'interno all'estero,
durò Milano fino alla battaglia di Magenta
ed al memorabile ingresso di Vittorio
Emanuele e di Napoleone III, dall'arco del
Sempione.
In quell'urlo di entusiasmo, che ai superstiti
dell'epoca servirà sempre di antidoto contro le
indifferenze o le ingiustizie dei posteri, Milano
estingueva, per così dire, il periodo millenario
della storia lombarda e si rannicchiava serenamente
in un cantuccio della futura storia italiana.
E noi chiuderemo a nostra volta la serie
di queste ricordanze, dalle quali avranno
tratto certamente maggior noja i nostri lettori
che noi.
Abbiamo voluto indagare come nascessero e
da chi fossero fecondati in Milano i germi di
quella politica nazionale, che una legge storica
[409]
quasi costante, benchè inavvertita, condusse,
attraverso i secoli, alla fusione dei grandi municipj
italiani nella sintesi di una patria. E
siamo giunti, quasi senza avvedercene, dal 300
al 1859, evocando tipi e studiando caratteri,
di cui ignoravamo noi stessi i contorni e l'influenza.
Noi non affronteremo il problema politico, — se
la nuova Italia abbia fatto ne' suoi ordinamenti
moderni una parte sufficiente a questi
illustri focolari dell'antico senno italiano, — se
abbia tratto durevole virtù di organismo da
quel concetto unitario che le popolazioni hanno
seguito, piuttosto tratte da un alto istinto politico
che da una pensata filosofia.
A noi è bastato lumeggiare in parte il problema
storico, citare innanzi ai contemporanei
gli attori del passato, per trarre da loro la testimonianza
delle necessità che ci hanno spinti
su quella via e delle virtù che ce l'hanno potuta
spianare.
Ed ora che la fatica è finita, abbiamo voluto,
come Renzo, cercare se da questi fatti si possa
imparare qualcosa. E ci par questo: che, nelle
cose pubbliche, il male è facile, il bene difficile;
e che, a voler servire davvero la patria e
non un partito, bisogna diffidare sopratutto di
[410]
quelle conclusioni individuali, che paiono giuste
unicamente perchè rispondono ad una passione, — lottare
contro le impressioni momentanee,
che il pregiudizio ingrossa in ventiquattr'ore,
ma che la ragione impiega degli
anni, — talvolta dei secoli, — a dissipare.
FINE.
MILANO NEI SUOI MOMENTI STORICI
di Romualdo Bonfadini.
Vol. I.
Sant'Ambrogio vescovo e
cittadino. — Lanzone e la
prima Repubblica. — Milano
e il Barbarossa. — I
Torriani e la guerra civile. — Il
Carmagnola e la
fine dei Visconti. — La
Repubblica Ambrosiana. — Cicco
Simonetta e la corte
di Lodovico il Moro.
Lire 4.
Vol. II.
Le prime invasioni e il maresciallo
Trivulzio. — La
congiura italiana del cancellier
Morone. — Il periodo
spagnuolo e i Borromei. — Maria
Teresa e il settecento
in Lombardia. — L'invasione
francese e il general
Bonaparte. — Suwaroff
e la reazione austro-russa.
Lire 4.
Questo volume forma il terzo ed ultimo della serie.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione
minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.
*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 49429 ***