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ISTORIA CIVILE DEL
REGNO DI NAPOLI VOLUME II


ISTORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

DI

PIETRO GIANNONE

VOLUME SECONDO

MILANO
PER NICOLÒ BETTONI
M.DCCC.XXI


INDICE


[5]

STORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

LIBRO QUARTO

I Longobardi non altronde, che da' Goti riconoscono la loro origine, e la penisola di Scandinavia fu dell'una e dell'altra gente la comune madre: regione, che a dovere fu da Giornandes appellata Vagina gentium, e che può meritamente vantarsi di avere prodotti tutti quelli Principi, che lungamente le Spagne, buona parte delle Gallie, e sopra tutto l'Italia signoreggiarono, la quale ancorchè veggasi di questi tempi sottratta dal dominio de' Goti, ben tosto ricadde sotto quello de' Longobardi; e, questi poi mancati, sotto i Normanni, che pure vantano la medesima origine[1]. I Gepidi, che dalla prosapia de' Goti discesero, usciti da quella penisola insieme co' Goti, alla Vistola fermaronsi[2]: indi superati i Borgognoni, si avanzarono, come narra Procopio, nell'una e nell'altra riva del Danubio, dove furono a' Romani infesti per le varie [6] incursioni e scorrerie, che fecero in quella regione, secondo che scrive Vopisco. Finalmente regnando in Oriente Marziano Imperadore, avendo discacciati gli Unni dalla Pannonia, quivi fermarono le loro sedi. Egli è altresì appresso sì gravi Scrittori costantissimo, che divisi fra loro i Gepidi, da questa divisione ne sursero i Longobardi: ond'è, che Salmasio[3], rende a noi testimonianza d aver egli in alcuni antichi libri Greci, non ancora impressi, osservato, che i Gepidi si nomavano Longobardi: Gepidae, qui dicuntur Longobardi: e Costantino Porfirogenito Imperador di Costantinopoli, dall'istoria di Teofane (quegli, che dai Greci fra il numero de' Santi fu venerato) trascrisse ancora, che dalla divisione de Gepidi sursero i Longobardi[4].

Chi parimente di lor facesse memoria egli è Prospero Aquitanio Vescovo di Reggio, che scrisse innanzi Paolo Varnefrido Diacono d'Aquileja: parla egli di questi Longobardi, dando loro la medesima origine, i quali dalla Scandinavia, giunti a lidi dell'Oceano, avidi di nuove sedi, primieramente sotto Ibone, ed Ajone loro Capi vinsero i Vandali, e si dissero Vinili, cioè vaghi, non avendo allora alcuna ferma sede; ma da poi avendo eletto per loro Re Agilmondo, dopo avere scorse varie regioni, finalmente nella Pannonia si fermarono. Dopo Agilmondo ebbero successivamente per loro Re, Lamisco, Leta, Ildeoc, Gudeoc, Claffo, Tato[5], e dopo questi Valtau; del qual Principe [7] appresso altri non fassi memoria, siccome colui, che regnò picciol tempo, ed in continue guerre. Succederono poscia Vaco, Audoino e finalmente Alboino, quello che, avendo stabilito con Narsete una ben ferma e stretta pace ed amicizia, fu poi riserbato alla conquista d'Italia.

Come questi Popoli prendessero il nome di Longobardi, non bisogna volerne più di quello, che con molta assicuranza ne scrisse Paolo Varnefrido[6], cioè, che questi Vinili si dissero Longobardi per la lunghezza delle loro barbe, le quali con tanto studio serbavansi essi intatte dal ferro; imperciocchè, secondo il lor linguaggio, lang non significa altro, che longa, e baert, barba: nel che s'accordano Costantino Porfirogenito,[7] Ottone Frisingense[8], Cuntero[9], e Grozio.

So che alcuni moderni Scrittori, non contenti di quel che sì antichi e gravi Autori rapportano, hanno voluto ricercare in altri paesi l'origine di questi Popoli, ed il nome de' Longobardi non dalla lunghezza delle loro barbe, ma, come credette l'Abate della Noce[10], dalla lunghezza delle loro alabarde, ed altri altronde, esser derivato.

Alcuni niegano essere dalla Scandinavia usciti, ma dalla interior Germania; dicono che molto prima di quel che narrasi della loro uscita da quella penisola, de' Longobardi fecero menzione Strabone, Tacito, Tolomeo [8] e Patercolo[11], come di Popoli, che nella interior Germania viveano, onde il nome loro essendo più antico, non dalla barba lunga, come dice Paolo Varnefrido, ma altronde uopo è che derivi. Il nodo con molta facilità fu sciolto dall'incomparabile Ugon Grozio[12]; poichè questo nome non significa altro, che uomini di barba lunga, come lo riconobbero tutti i Germani, e Varnefrido istesso: ora i nomi di questa sorte, che derivano da' varj abiti ed aspetti, sogliono ora appresso un Popolo, ora presso ad un altro in varj luoghi, ed anche in varj tempi distantissimi, secondo che appare la novità e stranezza, nascere e spandersi tra quella gente, la quale della novità si maraviglia. Presso a' Germani, come narra Tacito, era cosa usitatissima farsi crescere i capelli e la barba, nè solevan quelli tosarsi, se non dopo sconfitta l'oste nemica; ma qualora avveniva, che un grande stuolo d'uomini compariva in altra regione con un aspetto assai nuovo e strano, certamente che presso a coloro eran denominati per quel nuovo e strano aspetto, onde eran sorpresi; e quindi non è maraviglia, se quella novità, ora in un luogo, ora in un altro avesse prestata occasione al nuovo nome: che fuvvi di comune tra Domizio Enobarbo, Federico Barbarossa, ed alcuni famosi Corsari di questo nome? Niente, se non che, essendo simili d'aspetto, fu anche a lor comune il nome. Ogni ragion vuole adunque, che in sì fatte cose crediamo a' vecchi Scrittori, e delle cose de' Longobardi precisamente a Paolo Varnefrido, che ancorchè nato in Italia, fu d'origine Longobardo, il quale [9] è l'unico, ed il proprio Scrittore de' fatti loro. Ove manca questo Scrittore, possiam ricorrere ad Erchemperto, e dopo costui agli altri Scrittori contemporanei, che non ne mancano[13]; onde saviamente n'ammonisce Grozio, che dobbiam credere a' vecchi, quando questi nuovi Scrittori nulla ci recan di più credibile e di più certo; e tenere co' primi, che i Vandali, gli Ostrogoti e Vestrogoti, i Gepidi ed i Longobardi, tutti alla Scandinavia debbiano la loro origine.

Ma ciò che siasi, egli è presso a tutti costante, che i Longobardi, dopo avere scorse varie regioni di Europa, finalmente nella Pannonia si fermarono, la qual provincia fu da essi dominata per 42 anni, e si contano da Agilmondo fino ad Alboino dieci Re, sotto i quali vissero. Nel Regno d'Alboino, essendo stato mandato in Italia Narsete da Giustiniano per discacciarne i Goti, che sotto Totila avevan riacquistata quella provincia, egli essendo già molto tempo prima in lega co' Longobardi, mandò Ambasciadori ad Alboino, dimandandogli soccorso contra i Goti. Allora fu, che Alboino gli mandò una eletta banda di guerrieri, i quali aiutassero i Romani contra i Goti[14]. Costoro, passando per lo golfo del mare Adriatico, vennero in Italia; e fu la prima volta, che questi Popoli videro queste belle contrade, e in una di queste nostre province, cioè nel Sannio, ponessero il piede, come diremo. Uniti intanto co' Romani, vennero a battaglia co' Goti, essendo loro riuscito di rompergli in quella battaglia, ove rimase Totila ucciso, carichi di [10] molti doni e vincitori ritornarono alle proprie stanze; ed in tutto il tempo, che i Longobardi possederono la Pannonia, furono in aiuto de' Romani contra i nemici de' medesimi, e Narsete mantenne e conservò sempre una stretta e fedel amicizia con Alboino; onde non fu a lui impresa molto difficile allettarlo (per vendicarsi del torto fattogli da Sofia moglie dell'Imperador Giustino) a venire alla conquista d'Italia, siccome colui al quale erano altresì note le ricchezze di questa provincia, e le molte altre prerogative, onde era fornita. Risolse intanto questo Principe, agli inviti di Narsete, di mettersi egli in persona alla testa del suo esercito, ed avendo anche per questa impresa sollecitato l'aiuto degli Sassoni, lasciata la Pannonia agli Unni (donde questa provincia prese poi il nome d'Ungheria) con legge, che se per qualche sinistro accidente non gli riuscisse l'impresa per cui partiva, e gli bisognasse ritornare, dovessero restituirgli ciò che loro si lasciava, si pose co' suoi Longobardi e loro famiglie, e co' Sassoni ed altri popoli in cammino, e nel mese d'aprile dell'anno 568, regnando nell'Oriente Giustino Imperadore, entrarono in Italia[15]. Trovavasi allora questa provincia sprovista d'ogni aiuto, e divisa in tante parti per la nuova forma, che Longino, Esarca di Ravenna l'avea data; onde potè Alboino in un tratto occupar Aquileja con molte terre [11] della provincia di Venezia; ed in questo stesso anno 568 prese anche Friuli, capo di questa provincia, e quivi fermatosi l'inverno, ridotta quella in forma di Ducato, ne creò Giulfo, suo nipote, Duca. Ecco l'origine ed il nome del Ducato Forojuliense, che fu il primo, costituito da' Longobardi nella provincia di Venezia.

Tolta da Alboino questa provincia a' Greci, passò nel seguente anno 569 ad occupar Trivigi ed Oderzo; indi, lasciatosi addietro Padova, Monte Selice, Mantova e Cremona, sorprende Vicenza, Verona e Trento, e l'altre Terre di quella provincia; e secondo che queste città venivan in suo potere, così a ciascuna di esse, oltre a lasciargli un valido presidio de' Longobardi, vi creava un Duca, che la reggesse. Questi Duchi nel lor principio, a somiglianza de' Duchi di Francia, che ci descrive Paolo Emilio[16], non furono, che semplici Uffiziali o Governadori di città, e la lor durata pendea dall'arbitrio del Principe, che gli creava.

[12]

CAPITOLO I Di Alboino I, Re d'Italia, che fermò la sua sede regia in Pavia; e degli altri Re suoi successori.

Non furono nel seguente anno 570 minori gli acquisti, che Alboino fece nella Liguria: avendo egli passato il fiume Adda, tosto prende Brescia, Bergamo, Lodi, Como e tutte l'altre castella della Liguria insino all'Alpi; indi all'impresa di Milano, capo della Provincia, s'accinge, che dopo breve assedio si rende alle sue armi. Passata questa città sotto il suo dominio, i Longobardi subito gridarono Alboino Re di Italia, e con acclamazioni giolive per tale lo salutarono, dandogli l'asta, ch'era allora l'insegna del Regio nome. I riti e le cerimonie, che si praticavano da queste Nazioni nella creazione de' loro Re, non erano, che d'innalzare l'eletto sopra uno scudo in mezzo all'esercito[17], e con acclamazioni gridarlo e salutarlo Re, dandogli in mano l'asta, in segno della Real dignità. Questo fu il principio del Regno de' Longobardi in Italia sotto Alboino I, Re d'Italia, ma XI. Re de' Longobardi, se tra la serie de' loro Principi, che ressero la Pannonia, vuolsi anche annoverare Valtau, che regnò poco, ed il suo Imperio fu molto contrastato. Noi, a' quali nulla giova tener conto de' Re della Pannonia, lo diremo, in questa Istoria, I. Re di Italia, e secondo quest'ordine nomineremo gli altri suoi successori: e dal mese di gennaro di questo anno [13] 570 numereremo il principio del Regno d'Alboino e de' Longobardi in Italia, non dalla loro entrata, come hanno fatto altri, che fu nell'anno 568. L'Abate Bacchini nelle sue Dissertazioni sopra il libro Pontificale di Agnello Ravennate, avverte; che due epoche si debbono stabilire per togliere ogni confusione; l'una presa dall'entrata de' Longobardi in Italia nel 568 ai 2 di aprile; l'altra dal cominciamento del Regno di Alboino in Italia, che corrisponde a' 29 di dicembre dell'anno 568. Con queste due epoche mostra le ragioni, per le quali s'ingannò il Baronio, che fa morire Alboino nel 571 dopo tre anni e mezzo di Regno assegnatigli da Paolo Diacono, e difende il chiarissimo Sigonio, censurato da Camillo Pellegrino, intorno a questo particolare, confrontando esattamente i computi dell'uno e dell'altro dal suddetto anno primo del Regno de' Longobardi fino alla morte di Rotari, seguita nel 671, secondo Paolo Diacono ed il Sigonio, i quali mirabilmente convengono.

Ma che che ne sia, non essendo del nostro instituto esaminar tanto sottilmente i tempi, Alboino avendo ridotta la Liguria sotto la sua dominazione, con non minor felicità nell'altre vicine Province stende il suo dominio. Assedia Pavia; per la difficoltà del sito, non essendogli riuscito di prenderla, vi lascia nell'assedio parte del suo Esercito, e col rimanente invade l'Emilia, la Toscana e l'Umbria. Prende molte città della Emilia, Tortona, Piacenza, Parma, Brissello, Reggio e Modena. La Toscana è quasi tutta in sua potestà; e passando nell'Umbria, occupa in prima Spoleto, città un tempo quanto antica, altrettanto nobile, che se bene da' Goti fosse stata ruinata, era stata nulladimeno da poi da Narsete restituita al suo stato primiero, [14] e da Alboino non solo conservata, ma fu adornata ancora d'altre prerogative, avendola fatta metropoli dell'Umbria, la quale ridotta da lui in forma di Ducato, a Spoleto la sottopose, dove costituì Duca Faroaldo, che ne fu il primo Duca[18]; e quindi poi il Ducato Spoletano cominciò a celebrarsi, e sopra gli altri si rendè cospicuo, onde fra gli tre famosi Ducati de' Longobardi fu annoverato; e così parimente dava intanto Alboino all'altre città ancora i loro Duchi, che l'amministrassero, come aveva fatto nelle province di Venezia e della Liguria. Ma disbrigato questo Principe dall'impresa di queste città, fece tantosto ritorno all'assedio di Pavia, ed alla fine dopo il terzo anno, ridusse questa alla sua ubbidienza, ed ancorchè fieramente sdegnato contro a' suoi cittadini, per tanta resistenza usatagli, pensasse di passargli tutti a fil di spada, persuaso nulladimeno dagli stessi Longobardi del contrario, se ne ritenne, ed entrato nella città, fu da tutti per Re acclamato e salutato. E quivi, come in città forte ed opportuna, volle stabilire la sua sede Regia; onde poi avvenne, che durante la dominazione de' Longobardi in Italia, Pavia fosse sopra tutte le altre sue città innalzata per capo e metropoli di tutto il Regno d'Italia.

Alboino per gli tanti e sì veloci acquisti, credendo aver già ridotta l'Italia sotto la sua signoria, portatosi a Verona, volle celebrarvi un solenne convito. Teneva questo Principe per moglie Rosmonda figliuola di Comundo Re de' Gepidi, al quale, in una battaglia, colla vita aveva tolta anche la Pannonia, e spinto dalla sua fiera natura, fece del teschio di Comundo fare una [15] tazza, nella quale, in memoria di quella vittoria, solea bere[19]: essendo dunque Alboino in questo convito divenuto allegro, avendo il teschio di Comundo pieno di vino, lo fece presentare a Rosmonda Regina, la quale dirimpetto a lui sedeva, dicendo a voce alta, che voleva in tanta allegrezza avesse ella bevuto con suo padre; la qual voce fu come una ferita nel petto della donna; onde deliberata di vendicarsi, sapendo, che Almachilde, Nobile longobardo, e giovane feroce, amava una sua damigella, trattò con costei, che celatamente desse opera, che Almachilde in suo cambio dormisse con lei: ed essendo Almachilde, secondo l'ordine della damigella, venuto a ritrovarla in luogo oscuro, giacque, non sapendolo, con Rosmonda, la quale dopo il fatto se gli scoperse, e dissegli, ch'era in suo arbitrio, o ammazzare Alboino e godersi sempre di lei e del Regno, o esser morto dal Re, come stupratore della moglie. Consentì Almachilde di ammazzare Alboino; ma dapoi che eglino l'ebbero ucciso, veggendo, come non riusciva loro di occupare il Regno, anzi dubitando di non esser morti da' Longobardi, per l'amore che ad Alboino portavano, con tutto il tesoro regio se ne fuggirono in Ravenna a Longino, dal quale furono onorevolmente ricevuti. Ma Longino, riputando essere allora il tempo comodo a poter diventare, mediante Rosmonda ed il suo tesoro, Re de' Longobardi e di tutta Italia, conferì con lei questo suo disegno, e la persuase ad ammazzare Almachilde e pigliar lui per marito: il che da lei accettato, ordinò una coppa di vino avvelenato, e di sua mano la porse ad Almachilde, che assetato usciva del bagno, il quale come [16] l'ebbe bevuta mezza, sentendosi commovere le viscere, ed accorgendosi di quel ch'era, sforzò Rosmonda a bere il resto; e così in poche ore l'uno e l'altro di loro morirono, e Longino restò privo della speranza di diventare Re.

§. I.  Di Clefi II Re d'Italia.

I Longobardi intanto, morto Alboino che regnò tre anni e sei mesi, dopo averlo amaramente pianto, raunatisi in Pavia principal sede del suo Regno, fecero Clefi loro Re[20]; uomo quanto nobile, altrettanto di spiriti altieri, e crudele, il quale appresso Ravenna riedificò Imola stata rovinata da Narsete, occupò Rimini, e quasi infino a Roma, ogni altro luogo; ma nel corso delle sue vittorie morì per mano d'un suo famigliare, non avendo regnato, che diciotto mesi. Fu Clefi in modo crudele, non solamente contra gli stranieri, ma eziandio contra i suoi Longobardi, che questi sbigottiti della potestà regia, punto non curarono d'eleggersi subito altro Re; ma per dieci anni continui vollero più tosto a' Duchi ubbidire; ciascun dei quali ritenne il governo della sua città e del suo Ducato con piena facoltà e dominio, non riconoscendo come prima l'autorità Reale, o altro supremo dominio. Questo consiglio fu cagione, che i Longobardi non occuparono allora tutta l'Italia, e che Roma, Ravenna, Cremona, Mantova, Padova, Monselice, Parma, Bologna, Faenza, Forlì e Cesena, parte si difesero un tempo, parte non furon mai da loro conquistate; imperocchè il non avere Re, gli fece men pronti alla [17] difesa; e poichè di nuovo il crearono, divennero (per essere stati liberi un tempo) meno ubbidienti e più facili alle discordie fra loro. La qual cosa, prima ritardò le loro conquiste, e da poi in ultimo fu cagione, che fossero d'Italia cacciati.

Non dee qui tralasciarsi di notare con Camillo Pellegrino[21] l'error fatto già comune tra' moderni Scrittori, i quali seguitando il Sigonio, o qualche altro Scrittore più antico di lui, credettero, che i Longobardi abbominando la potestà Regia, mutassero la forma del Regno, e che, morto Clefi, creassero allora trenta Duchi, fra i quali fu diviso il loro Regno, perocchè chi attentamente considererà le parole di Paolo Varnefrido[22], che di questa mutazione favella, scorgerà, che i Longobardi, morto Clefi, trascurando di elegger subito il loro Re, forse atterriti della crudeltà di quel Principe, e spaventati dall'infelice fine, ch'ebbero Alboino e Clefi, seguitarono a vivere sotto i loro Duchi: i quali non furono allora la prima volta istituiti per dar nuova forma e mutar l'antica del Regno loro, ma fin da' tempi del Re Alboino e di Clefi si ritrovavano già eletti, secondo l'usanza de' Longobardi presa da' Greci, che dopo la conquista delle città, per governo delle medesime vi destinavano un Duca siccome in fatti lo stesso Varnefrido ne accerta, che nella morte di Clefi si ritrovavano preposti come Duchi, al governo di Pavia, Zaban: a quel di Milano, Alboino: di Bergamo, Vallari: di Brescia, Alachi: di Trento, Evin: del Friuli, Gisulfo: ed oltre a costoro nell'altre città a' Longobardi soggette, v'erano trenta [18] Duchi, a ciascun de' quali il governo d'esse era commesso. Per la qual cosa, dall'essersi differita l'elezione del Re, non altra novità fu introdotta, se non che, siccome prima questi Duchi erano a' Re in tutto subordinati, e come suoi Ministri dipendevan da' loro cenni; essendo poi per lo spazio di dieci anni mancati li Re, ciascun il Ducato a se commesso governava con assoluta potestà ed arbitrio: cagione che fu di tanti disordini, e che da poi gli fece pensare ad elegger di comun consiglio e parere Autari figliuolo di Clefi, perchè agli incessanti danni facesse argine e desse ristoro. Nè dee altresì tralasciarsi, che, conforme n'accerta lo stesso Varnefrido, non trenta furono questi Duchi, come comunemente si crede, ma giunsero fino al numero di 36 dicendo espressamente questo Scrittore, che trenta furon destinati al governo delle altre città, oltre a' sei, de' quali aveva egli fatta menzione, cioè de' Duchi di Pavia, di Milano, Bergamo, Brescia, Trento, e Friuli. Del Ducato di Benevento non si fa parola, come quello, che non era stato ancora istituito, continuando tuttavia queste nostre province nel dominio de' Greci sotto Tiberio successor di Giustino, il quale dopo anni 12 d'Imperio era per soverchi travagli morto, ed in suo luogo creato Tiberio, che occupato nella guerra de' Parti, non poteva sovvenir l'Italia, nè impedire i progressi de' Longobardi.

Le cose di costoro, durante questo interregno, ancorchè andassero alquanto prospere, per quel che riguarda alle guerre, che fecero a' Greci, avendo nell'anno 579 colle nuove conquiste di Sutri, Bomarzo, Orta, Todi, Amelia, Perugia, Luccoli, ed altre città ingrandito lo Stato; nulladimeno tosto s'avvidero, che [19] volendo in sì fatta guisa tener diviso il lor Reame, non poteva durar lungamente; imperocchè essendosi data, per qualche discordia fra essi insorta, facile e pronta occasione d'essere assaliti da Nazioni straniere, conobbero con manifesto lor danno, di quanto nocumento fosse questa loro divisione: perchè assaliti da Franzesi, avevan da questa Nazione avute molte strane rotte; e oltre a ciò, ad istigazione del Re di Francia, si ribellarono tre Duchi[23]. Aggiugnevasi a tutto questo, ch'essendo nel 584 morto Tiberio Imperadore il qual avea retto sette anni l'Imperio, lodevole più per la sua pietà cristiana, che per la prudenza militare, e succedutogli Maurizio di Cappadocia suo Capitano, al quale egli aveva sposata una sua figliuola: Principe, e per valore e per prudenza di gran lunga superiore a' suoi predecessori, Giustino e Tiberio; costui considerando seriamente i gravi danni, che i Longobardi gli aveano portato in Italia, pensò porre in opera tutti i mezzi possibili per discacciargli; e considerando altresì, che non era peso delle spalle di Longino (la cui fedeltà erasi ancor resa sospetta) di poter venire a capo di questa impresa, lo richiamò a se, ed in suo luogo, con nuovo esercito, nello stesso anno 584, mandò per Esarca in Ravenna Smaragdo[24], uomo in guerra esercitatissimo e prudentissimo, e fece Duca di Roma un tal Gregorio, a cui fu il governo del romano Ducato commesso, ed insieme fece Maestro di soldati in Roma Castorio; poichè avevano i Greci in costume di tener nelle città, oltre al Duca, anche il Maestro de' soldati, che ne tenesse cura; onde è, [20] che in Napoli, la quale lungo tempo sotto l'imperio de' Greci si mantenne, oltre al Duca, leggiamo ancora esserci stato questo altro Uficiale.

Giunto Smaragdo in Ravenna, non tardò guari a porre in opera i suoi disegni: fece egli, che Doctrulfo, uomo in guerra espertissimo, si ribellasse da' Longobardi, e passasse alla sua parte: e non molto da poi prese Brissello, ed all'imperio de' Greci lo sottopose. E mentre Smaragdo faceva questi progressi in Italia, non cessava intanto Maurizio di prender altri mezzi, per discacciar da questa provincia i Longobardi: procurava egli con ogni studio tirar alla sua parte i Franzesi, e finalmente gli venne fatto per via di denaro, d'indurre Childeberto Re di Francia a mover guerra a' Longobardi, i quali temendo allora ragionevolmente del gran danno, che per questo apparecchio e confederazione poteva lor venire di là dell'Alpi, e considerando, che non d'altra maniera potevasi a tanti mali riparare, e resistere agli sforzi de' Franzesi e de' Romani, se non col rimettersi sotto il dominio di un solo: subito radunati, crearono di comun consentimento per loro Re Autari figliuolo di Clefi nell'anno 585.

§. II.  Di Autari III. Re d'Italia.

Fu Autari un Principe di tanto valore e prudenza che di gran lunga avanzò Alboino; ed i suoi progressi in Italia furon tanti, che a lui debbon i Longobardi la lunga durata del Regno loro in Italia per lo spazio di ducento anni; poichè, appena egli assunto al Trono, cinse di stretto assedio Brissello, e per punir con memorando esempio la fellonia di Doctrulfo, pose [21] in opera tutti i suoi sforzi, per averlo nelle mani; imperocchè questo tradimento avealo renduto in modo sospettoso, che temè sempre fin che regnò, che gli altri Duchi non facessero a lui il somigliante, tanto che fu più agitato nel trovar modo di recare i suoi Duchi all'ubbidienza, che nel resistere agli sforzi dei suoi nemici. Questi fu un Principe cotanto savio e prudente, che più d'ogn'altra cosa pensò a' mezzi, per li quali potesse darsi al suo Regno un più decoroso aspetto e una più stabil forma di governo. Instituì in prima, che i Re longobardi, a somiglianza degl'Imperadori romani, si dovessero nomar Flavii, siccome egli volle esser chiamato, perchè dal suo esempio i successori tenessero questo pronome, che da poi tutti gli susseguenti Re longobardi felicemente usarono[25]. E considerando, che i Duchi avvezzi per lo spazio di dieci anni a governar con assoluto imperio e potestà i loro Ducati, mal soffrirebbero, che avesse loro a togliersi ogni autorità e dominio, ed esser ridotti all'antico stato; affinchè s'evitassero maggiori disordini, e non si venisse all'armi; compose con molta prudenza le cose in questa maniera[26]: che ciaschedun di loro desse al Re, ed a' suoi successori la metà de' dazj e gabelle, perchè servisse a sostenere il regio decoro e la real maestà, e che dovesse nel regal palazzo trasportarsi: l'altra metà se la ritenessero per impiegarla nel governo de' Ducati loro, per le spese e soldi di Ministri, ed altri bisogni: lasciò loro il governo e l'amministrazione delle città, delle quali erano stati Duchi instituiti, ritenendosi però il dominio e [22] la suprema ragione ed autorità regia, con legge, che venendo il bisogno, dovessero subito esser pronti ad assisterlo colle loro forze ed armi contra i suoi nemici; e se bene potesse privargli del Ducato, quando più gli piaceva; nulladimeno Autari mai non volle dar loro de' successori, se non quando o fosse estinta la loro maschile stirpe, o quando se ne fossero resi immeritevoli per qualche gran fellonia commessa[27].

§. III.  Origine de' Feudi in Italia.

Ecco donde trassero in Italia origine i Feudi, i quali a somiglianza del Nilo, par che tenessero tanto nascosto il lor capo, e così occulta la loro origine, che presso a' Scrittori de' passati secoli riputossi la ricerca tanto difficile e disperata, che ciascheduno sforzandosi a tutto potere di rinvenirla, le diedero così strani e differenti principj, che più tosto ci aggiunsero maggiori tenebre ed oscurità, che chiarezza. Non è però con tutto questo da avanzarsi tanto, e dire che i Longobardi fossero stati i primi ad introdurgli e che ad imitazione di essi le altre Nazioni gli avessero poi ne' loro dominj ricevuti poichè nell'istorie di Francia, secondo che rapporta il Papiniano franzese Carlo Molineo[28], de' Feudi si trova memoria sin da' tempi del Re Childeberto I, e ne' loro annali, e presso Aimoino[29] e Gregorio di Tours[30] pur si [23] legge il medesimo. Si legge ancora, che intorno a questi stessi tempi del Re Autari, anzi undici anni prima, nel Regno di Childerico I, e propriamente nell'anno 574, Guntranno Re privò Erpone del suo Ducato, dandogli[31] il successore; e Paolo Emilio[32], e Giacomo Cujacio[33] ne accertano, che avevano pure i Re di Francia questo stesso costume di crear nelle città i Duchi ed i Conti; e siccome da principio, quando ciò s'introdusse, era in arbitrio de' Re di cacciarnegli, quando più loro piaceva, s'introdusse poi una consuetudine, che non si potessero privare dello Stato, se non si provava d'aver commessa qualche gran fellonia. E finalmente gli stessi Re con giuramento confermavangli in quelli Stati, de' quali per loro cortesia gli avean fatti Signori. Egli è vero che nel principio, come s'è detto, questi Duchi, e Conti non erano, che Governadori di città, ma poi si diedero non in Uficio, ma in Signoria[34].

Ed in vero nè i Romani, nè i Greci, nè altri qualunque antichi Popoli riconobbero giammai altre dignità, che gli Ordini, e gli Uficj: furono gli antichi Franzesi, e questi Popoli settentrionali, i quali stabilendosi ne' paesi altrui, inventarono i Feudi, e per conseguenza la terza spezie di dignità, ch'è la Signoria. Non è però, che in qualche maniera questa invenzione non cominciasse per gl'Imperadori romani[35], i quali per assicurar maggiormente le frontiere dell'Imperio solevano a' Capitani ed a' soldati, che si erano segnalati [24] nelle conquiste, conceder in ricompensa delle lor fatiche alcune terre poste in quelle frontiere, delle quali ne avevano tutto l'utile, tanto che questa concessione la chiamarono beneficium: e ciò perchè con più coraggio e valore fossero obbligati a continuar la milizia, difendendo le proprie terre; ut attentius militarent, propria rura defendentes, come dice Lampridio[36].

Quel che non potrà porsi in dubbio si è, che quasi ne' medesimi tempi le Genti settentrionali, i Franzesi nella Gallia, ed i Longobardi nell'Italia, introdussero i Feudi[37], seguendo forse queste due Nazioni l'esempio de' Goti, che come vuole il nostro Orazio Montano[38], furono i primi a gettarvi i fondamenti. Carlo Molineo[39] vuole, che i Franzesi fossero stati i primi ad introdurgli nella Gallia, da' quali l'appresero i Longobardi, che l'introdussero poi in Italia, e propriamente in Lombardia, donde poi si sparsero in Sicilia, e nella nostra Puglia; e crede, che in queste nostre regioni i primi ad introdurgli fossero stati i Normanni venutici dalla Neustria, che ora diciamo Normannia; ma i nostri maggiori molto prima della venuta dei Normanni conobbero i Feudi; ed i primi che gl'introdussero nella provincia del Sannio, e nella Campagna furono i Longobardi: province, che furono le prime ad essere conquistate da' Longobardi; e la Puglia e la Calabria gli riceverono più tardi da' Normanni, come quelli, che ne discacciarono interamente [25] i Greci, presso a' quali l'uso de' Feudi non era conosciuto, come vedrassi con maggior distinzione nel progresso della predente istoria.

Egli è però ancor vero, che tutto il loro accrescimento, e tutte le consuetudini e leggi, che da poi intorno ad essi furono introdotte e promulgate, si debbono a' Longobardi, che in Italia gli stabilirono, e lor diedero certa e più costante forma[40]; onde perciò s'innalzaron tanto, che in appresso tutte l'altre Nazioni, non con altre leggi e costumi, che con quelli de' Longobardi, vollero regolare le loro successioni, gli acquisti, le investiture, e tutte l'altre cose a' Feudi attenenti; donde ne sorse un nuovo corpo di leggi, che feudali appelliamo: ma di ciò a più opportuno luogo favelleremo, quando de' libri loro, che oggi nel nostro Regno formano una delle principali parti della nostra giurisprudenza, ci tornerà occasione di più diffusamente ragionare.

Dopo avere Autari in sì fatta guisa soddisfatti i suoi Duchi, non tralasciò di provedere a' bisogni del suo Regno, e sopra tutto a far, che in quello la giustizia e la religione avesse il dovuto luogo[41]. Volle che i furti, le rapine, gli omicidj, gli adulterj, e tutti gli altri delitti fossero severamente puniti. Si spogliò e depose il Gentilesimo, ed abbracciò la religione cristiana da' Longobardi non prima ricevuta, i quali ad esempio del loro Re passarono per la maggior parte nella nuova religione del loro Principe. Ma la condizione di que' tempi, e l'esempio assai fresco de' Goti fece che non la ricevessero pura ed incorrotta, ma [26] parimente contaminata dall'Arrianesimo: il che cagionò che essendo i loro Vescovi arriani, molti disordini e discordie insorsero fra essi ed i Vescovi cattolici, che erano nelle città a lor soggette.

Non minori furono i progressi d'Autari nel valore militare, che nella prudenza civile; ricuperò ben tosto Brissello, e perchè nell'avvenire più non potesse esser ricetto de' suoi nemici, gittò a terra e demolì le forti mura, che lo cingevano. Ma sopra tutto la sua prudenza e valore si dimostrò, allorchè, avendo già Childeberto Re di Francia passate l'Alpi con potente esercito, egli conoscendosi inferior di forze, e che non poteva ostargli in campagna, ordinò a' suoi Duchi, che munissero le loro città con forti presidj, e senza uscir da' loro recinti, aspettassero sopra le mura il nemico; la qual condotta ebbe sì prospero avvenimento, che Childeberto considerando, che impresa molto lunga e difficile era di porre l'assedio a tante città, tosto si piegò alle lusinghe d'Autari, il quale aveagli mandati Ambasciadori con ricchissimi doni, per rimoverlo da quell'impresa, ed a mandargli la pace, siccome in fatti l'ebbe; onde poi nacquero le forti doglianze di Maurizio Imperadore, il quale altamente dolendosi di questa mancanza di Childeberto, non lasciò di continuamente sollecitarlo, o che gli restituisse l'immense somme di denaro, che aveasi preso per far la guerra a' Longobardi, ovvero osservasse la promessa di tornar di nuovo in Italia a combattergli; e furono così continue, e spesse queste querele di Maurizio, e questi rimproveri, che alla fine mosso Childeberto dagli stimoli d'onore, deliberò di ritornare in Italia con esercito più potente di quello di prima. Allora fu che Autari diede l'ultime prove del suo valore, perchè [27] seriamente considerando, che doveansi impiegar tutte le forze, e far gli ultimi sforzi per abbattere questo potente inimico, affinchè nell'avvenire non venisse più inquietato il suo Regno da' Franzesi, e per lo costoro esempio se ne ritenessero ancora l'altre Nazioni: deliberò di disporre la milizia in altra guisa di ciò, che aveva prima fatto. Volle dunque prevenirlo, ed andargl'incontro in campagna aperta, ed avendo raunato da tutto il Regno i suoi eserciti, animogli ad impresa, quanto dura e difficile, altrettanto gloriosa, e che sarebbe cagione, se riusciva, di dare una perpetua pace e tranquillità al suo Regno: incoraggiava i suoi Longobardi a dar l'ultime pruove del lor valore: ricordava le tante vittorie riportate sopra i Gepidi nella Pannonia, avere essi per la fortezza de' loro animi soggiogata l'Italia: e finalmente che non trattavasi ora, come prima, di guerreggiar per l'Imperio, o per l'ingrandimento di quello, ma per la libertà propria, e per la salute di loro medesimi. Furono queste parole di tanto stimolo a' Longobardi, che toccati nel più vivo del cuore, datosi il segno della battaglia, ne' primi attacchi si portarono con tanto valore ed intrepidezza, che si vide tosto inclinar l'ala nemica; onde prendendo maggior animo per così prospero cominciamento, l'incalzarono con tanta ferocia e valore, che ridussero i Franzesi ad abbandonare il campo, e a cercare nella fuga lo scampo. Fugati dunque e dispersi i nemici, molti restarono presi ed uccisi, moltissimi, che fuggendo la loro ira si nascosero, di fame e di freddo perirono. Per così celebre e rinomata vittoria, il nome di Autari si rendè illustre e luminoso per tutta l'Europa, e vedutosi già libero dalle incursioni di straniere genti, pensò a soggiogare il resto d'Italia, ch'ancor era in mano de' Greci.

[28]

CAPITOLO II Del Ducato beneventano: e di Zotone suo primo Duca.

Aveva Autari, ciò, che non fecero i suoi maggiori, soggiogata quasi tutta l'Italia citeriore; toltone il Ducato romano e l'Esarcato di Ravenna, che allora veniva governato da Romano[42], avendone poco prima l'Imperador Maurizio levato Smaragdo, tutto il resto era in sua mano; ma restavagli ancora da conquistare la più bella e preclara parte d'Italia, cioè quella parte e quelle province, che oggi compongono questo Regno di Napoli. Infino a questi tempi eransi queste province mantenute sotto l'Imperio degl'Imperadori orientali, che le governavano secondo quella forma, che da Longino v'era stata introdotta: avevan quasi tutte le città più principali il lor Duca: Napoli aveva il suo, Sorrento, Amalfi, Taranto, Gaeta e così di mano in mano l'altre, tanto che quello, che ora è Regno, intorno all'amministrazione, in più Ducati era distinto, tutti però immediatamente sottoposti all'Esarca di Ravenna, e dopo costui agl'Imperadori d'Oriente; e se bene nella forma del governo tenessero apparenza di Repubblica, nulladimeno è somma sciocchezza il credere, che fossero così liberi, che non riconoscessero l'Imperadore d'Oriente per loro Sovrano, sotto [29] la cui dominazione vivevano: quantunque per la debolezza degli Esarchi di Ravenna, e per la lontananza della sede imperiale, il governo de' Duchi si rendesse un poco più libero e pieno, tanto che sovente arrivavano infino a manifeste fellonie, con ribellarsi dal loro Principe, la qual cosa più volte tentaron di fare i Duchi di Napoli, come più innanzi nel suo luogo diremo.

Queste province, come quelle ch'erano più lontane da Pavia, sede de' Longobardi, e che potevano, in caso che fossero assalite, ricever tosto soccorsi per mare, onde sono quasi tutte circondate, con picciolissimi presidj da' Greci eran guardate; onde Autari espertissimo Principe, pensò dalle province mediterranee cominciare le sue conquiste; e lasciandosi in dietro Roma e Ravenna, delle quali non così di leggieri potevasi venire a capo, avendo nella primavera di quest'anno 589 nel Ducato di Spoleti unito il suo esercito, fingendo di dirizzare il suo cammino in altre parti, di repente lo torse e nel Sannio si gettò. Colti così all'improvviso i Greci, entrarono in tale stordimento e costernazione, che senza molto contrasto venne fatto ad Autari di conquistare in un tratto tutta questa provincia, e finalmente Benevento, città, come credette il Sigonio, fin da questi tempi capo e metropoli del Sannio. Indi si narra, che questo Principe al calore di sì ragguardevole conquista, spingesse oltre il suo cammino, e traversando tutta la Calabria insino a Reggio scorresse, città posta nell'ultima punta d'Italia lungo il mare, e che quivi, essendo ancor a cavallo, percotendo colla sua asta una colonna posta ne' lidi di quel mare, dicesse: Fin qui saranno i confini dei [30] Longobardi[43]: ond'è, che l'Ariosto de' fatti di questo glorioso Principe cantando, disse, che

...... Corse il suo stendardo

Da' piè de' Monti al Mamertino lido.

Narrasi ancora, che ritornato a Benevento, riducesse quella provincia in forma di Ducato, e che ne creasse Duca Zotone, ed a' due celebri Ducati di Friuli e Spoleti v'aggiungesse il terzo, il quale col correre degli anni si rendè tanto superiore agli altri due primi, quanto questi sopravanzavan gli altri Ducati minori d'Italia.

Ma poichè del principio ed instituzione del Ducato beneventano non è di tutti conforme il parere, e questo Ducato dee occupare una gran parte della nostra Istoria, per lo spazio di 500 e più anni, siccome quello, il quale non solamente per la durata, ma per la sua ampiezza, si stese tanto che abbracciò quasi tutto quel ch'è ora Regno di Napoli, non rincrescevol cosa doverà perciò essere, che di esso più partitamente si ragioni.

Il Ducato di Benevento credesi comunemente, che da Autari in questo anno 589 fosse stato la prima volta instituito, e che Zotone ne fosse stato creato Duca da questo stesso Principe. Passa per indubitato presso a tutti gl'Istorici, che questo Zotone fosse il primo Duca di Benevento; ma chi ve l'avesse fatto, ed in quali tempi, non e di tutti concorde il sentimento. Carlo Sigonio[44]; e Volfango Lazio[45], non avendo ben esaminate le parole e la frase usata da [31] Paolo Varnefrido[46], quando di questa instituzione favella, tennero costantemente per la costui autorità, che fosse stato instituito da Autari in questo stesso anno, ch'egli conquistò il Sannio e Benevento, creduto da essi in questi tempi capo di questa provincia; ma dal modo istesso, con cui ne parla Varnefrido, che non con fermezza, ma con un putatur, refertur, fama est, se ne disbriga, e da ciò, che ne viene da lui soggiunto, che Zotone tenne il Ducato di Benevento venti anni: il che non s'accorderebbe colla serie delle cose da poi avvenute, e colla cronologia de' tempi degli altri Duchi che seguirono, se da questo anno 589 si volessero cominciare a numerare i venti anni dal Ducato di Zotone; perciò alcuni altri, fra i quali Scipione Ammirato nelle dissertazioni dei Duchi e Principi di Benevento, ed Antonio Caracciolo[47], hanno cominciato a dubitare, se si dovesse ne' tempi più antichi fissar l'epoca di questo Ducato. Ma ciò, che poi loro fece rifiutar deliberatamente la opinione tenuta dal Sigonio e dal Lazio, fu l'autorità di Lione Ostiense[48], il quale ancorchè fiorisse trecento anni dopo Varnefrido, non con incertezza, ma con molta asseveranza scrisse nella sua Cronaca, secondo l'edizione napoletana, che i Greci ritolsero ai Longobardi Benevento nell'anno 891 dopo trecento venti anni, da che Zotone ne fu Duca; onde secondo l'Ostiense, il principio del Ducato di Zotone dovrebbe riportarsi nell'anno 571 o siccome vuole l'Ammirato all'anno 573 il quale per accordarlo colla serie delle cose accadute da poi, e colla cronologia degli altri [32] Duchi tenuta dall'istesso Varnefrido, emenda il luogo dell'Ostiense, e vuol che si legga, non trecento venti, ma trecento diciotto: in guisa, che secondo il parere di costoro, il Ducato beneventano prima, che Autari conquistasse il Sannio, ed alquanti anni dopo la venuta d'Alboino in Italia, ebbe il suo principio. Altri trovarono l'origine di questo Ducato in tempi più lontani, cioè nell'istesso anno 568 quando Alboino, uscito dalla Pannonia, venne alla conquista d'Italia, e che oltre alla provincia di Venezia, una banda di Longobardi s'inoltrasse infino a Benevento, e quivi fermati, eleggessero Zotone per loro Duca: il che comprovano per un catalogo antico de' Duchi e Principi beneventani fatto da un ignoto Monaco del monastero di S. Sofia di Benevento, che va innanzi all'istoria dell'Anonimo Salernitano, ove questo Scrittore dice[49]: Anno ab Incarnatione Domini quingentesimo sexagesimo octavo, Principes coeperunt principari in Principatu Beneventano, quorum primus vocabatur Zotto, al quale dà egli ventidue anni di Ducato, non venti, come Varnefrido.

Ma non finisce qui la varietà de' pareri, nè si contentano i più diligenti investigatori di questo principio, ma un altro più remoto, ed in tempi più lontani se ne cerca: questo viene addittato da Lione Ostiense medesimo nella sua Cronaca, nella quale se bene, giusta l'edizione napoletana, si legga, che corsero trecento venti anni, da che fu creato Zotone Duca infino all'anno 891, che fu da' Greci riacquistato Benevento; nulladimanco il suo originale, che si conserva nell'Archivio cassinese, è molto discorde dall'edizione napoletana; [33] poichè ivi si legge, che da Zotone insino all'anno 891, non 320 ovvero 318, ma ben 330 anni passarono: conformi a questa lezione sono l'edizioni di Venezia, quella di Parigi, e l'ultima data fuori dall'Abate della Noce: l'una e l'altra molto più appurate, che quella di Napoli intorno al numero degli anni, in guisa che secondo questo conto, bisognerà confessare, che il Ducato di Benevento avesse il suo principio da Zotone nell'anno 561. Ma sembrerà senza alcun dubbio cosa molto strana e assai nuova, che in questo anno si dovesse dire di essersi instituito quel Ducato, quando verrebbe ad aver il suo principio sette anni prima, che i Longobardi usciron dalla Pannonia per l'impresa d'Italia; e quando i Greci dominavano con vigore tutte le province della medesima.

In tanta varietà, a noi giova seguitare il parere del diligentissimo Camillo Pellegrino[50], Scrittore accuratissimo, e che con più diligenza di tutti gli altri trattò di proposito questo soggetto: parere, che vien sostenuto da ciò, che sull'arrivo de' Longobardi in Benevento ci lasciò scritto Costantino Porfirogenito: Autore, ancorchè alquanto favoloso intorno a ciò che scrive della venuta de' Longobardi in Italia; nulladimeno in mezzo delle sue favole riluce pure qualche raggio di vero, che può in cosa tanto difficile e dubbia additarci il cammino per trovare il principio e instituzione di questo Ducato. Narra questo Scrittore[51], che chiamati i Longobardi da Narsete in Italia, questi venissero con le loro famiglie in Benevento, [34] ma che non ammessi da' Beneventani dentro alla città, fuori delle mura si fabbricassero le loro abitazioni, e con ciò venisse a formarsi una picciola città, che fino da' suoi tempi riteneva ancora il nome di Città nova: e che quivi fermati, ne' tempi seguenti loro venisse fatto per inganno d'entrare in Benevento armati, e posta sossopra la città, uccidessero tutti i cittadini, e che preso Benevento scorser da poi per tutta la provincia, e la sottoposero al dominio de' Longobardi, e stendessero il loro Imperio dalla Calabria infino a Pavia, toltone le città d'Otranto, Gallipoli, Rossano, Napoli, Gaeta, Sorrento ed Amalfi.

Ciò che narra costui, che i Longobardi usciti da Benevento stendessero il loro Imperio per tutta Italia, ben si vede esser favoloso, e contrastare a tutta la istoria, dalla quale abbiamo, che usciti dalla Pannonia sotto Alboino, i primi acquisti furono nella provincia di Venezia, e da poi tratto tratto nella Liguria, nell'Emilia, nella Toscana e nell'altre province. Favola eziandio è ciò, che dice della Città nova, la quale molto tempo dopo la venuta d'Alboino in Italia, cioè ducento anni appresso, fu da Arechi per timor de' Franzesi costrutta, come diremo a suo luogo. Ma ciò, che questo Autore narra de' Longobardi, che sotto Narsete si ricovrarono in Benevento, non è certamente favoloso; poichè, da quel che si è di sopra narrato, è costantissimo, che Narsete, prima dell'invito fatto ad Alboino, e della universal loro trasmigrazione, in quasi tutte le sue guerre soleva valersi in Italia de' Longobardi; nè fu questa la prima volta, che furono da lui chiamati: gli ebbe ausiliari nella guerra contro a Totila, e siccome dice Varnefrido, avvegnachè dopo aver riportata quella vittoria, carichi [35] di molti doni, fossero stati rimandati alle proprie stanze, in tutto il tempo però, che possederono la Pannonia, furon sempre in aiuto de' Romani; onde è molto probabile, che quantunque Narsete gli licenziasse, non però tutti ritornassero alle paterne case: ma che intorno all'anno 552 ovvero 553 molti di essi, ritenuti dall'amenità del paese, in Italia si fermassero, ed a guisa di predoni andassero vagando ora in questo, ora in quell'altro luogo, del che Procopio ancora rende testimonianza; e che in fine spontaneamente, o pure per comandamento di Narsete per tenergli in freno, e per impedire que' disordini, che l'andar così dispersi cagionava, fosse stata loro assegnata per abitazione la città di Benevento; e che poi nell'anno 561 l'avessero occupata, nella qual azione avessevi avuta la principal parte Zotone lor Capo. Così da quest'anno potremo dire con l'Ostiense, che cominciassero i Longobardi a dominar Benevento sotto Zotone, perchè infino all'anno 891, nel quale furon discacciati dai Greci, corsero appunto trecento trenta anni: ma non già, che in questi tempi si fosse instituito il Ducato, e che quando la dominazione de' Greci era in questa provincia vigorosa e potente, avessero quei pochi Longobardi potuto ridurre il Sannio in forma di Ducato, e stabilirvi Zotone per Duca. Per accordare poi gli anni del Ducato, che Varnefrido dà a Zotone, colla serie de' fatti, e cronologia degli altri Duchi successori tenuta da quest'istesso Scrittore, bisognerà porre per primo anno di questo Ducato l'anno 571, cioè, quando essendo entrato già Alboino in Italia, e conquistate più province, fatti più audaci que' Longobardi ch'erano in Benevento, scossero apertamente il giogo de' Greci, e ribellandosi da loro, avessero occupata la [36] regione convicina, e n'avessero poi in questo anno 571 creato Zotone della lor propria gente Duca, il quale per così oscuro principio avesse cominciato a governargli. Venuto poscia Autari ad invadere la nostra Cistiberina Italia, ed avendo al suo dominio sottoposta l'intera provincia del Sannio, trovando Benevento occupato da' Longobardi, i quali ubbidivano a Zotone lor Duca, ne confermò a costui il governo, e fattolo tributario, come furono in appresso tutti i Duchi di Benevento a' Re Longobardi, lasciò quel Ducato sotto la sua amministrazione; onde avvenne, che presso a' Scrittori il principio del Ducato di Zotone si prese, non dal tempo, che Autari occupò il Sannio, e ridottolo in forma di Ducato, lo commise al suo governo; ma dal tempo, che Zotone cominciò per quegli oscuri principj, e per questo ordine di cose ad avere il governo di Benevento, e di que' Longobardi, che, come narra Porfirogenito, prima l'aveano occupato.

Il Ducato adunque di Benevento da sì bassi e tenui principj ebbe il suo nascimento: qual narrasi, che sortirono ancora le più celebri Repubbliche, ed i più famosi Principati del Mondo: col correr poi degli anni, non pur agguagliò quello di Spoleti e di Friuli, ma di gran lunga superogli, e lo vedremo un tempo occupare quasi tutta l'Italia Cistiberina, anzi verso Settentrione stendere i suoi confini, più di quel che presentemente verso quella parte si stende il nostro Regno. Incominciò da que' pochi Longobardi, che sotto Narsete in Benevento si fermarono; e sopra sì deboli fondamenti pian piano venne da poi ad introdurvisi quella politia e quella forma di governo, che sotto i Duchi successori di Zotone per più secoli si mantenne. [37] Autari fu il primo, che gli diede più stabile e certa forma, e che cominciò a dilatare i suoi confini; imperocchè tutta la provincia del Sannio sottopose egli a questo Ducato; e come vedremo, gli altri Re longobardi suoi successori per mezzo de' Duchi maravigliosamente l'accrebbero. Benevento ebbe la fortuna d'esser capo e metropoli di un tanto Ducato, non per elezione, nè perchè forse nel Regno d'Autari questa città s'innalzasse tanto sopra tutte le altre città di quelle province, che poi dominò, onde forse per questa sua eminenza avesse avuto d'anteporsi a tante altre: vi erano nel Sannio altre città non meno celebri ed antiche, come Isernia, Boiano ed altre; ed assai più ragguardevoli ve n'erano nella Campagna; all'incontro Benevento quantunque a tempo de' Romani fosse stata una delle più celebri Colonie, che avesse quella Repubblica; nulladimeno per le invasioni dei Goti patì sovente di quelle calamità, che soglion nascere da sì strani ravvolgimenti, nè in tempo di costoro riteneva più quella sua antica dignità, anzi sotto il Regno di Totila per aver fatto demolire questo Principe le sue mura[52], si ridusse in istato pur troppo lagrimevole. Fu dunque per certo fato, e per sua prospera fortuna, che Benevento, costituita sede di questo Ducato, si rendesse da poi capo e metropoli delle province a se vicine; ma questo pregio lo venne ad acquistar molto da poi. Ben ne' tempi, nei quali scrisse Varnefrido, avea questa città innalzata la fronte sopra tutte l'altre; ma questo fu due secoli dopo il Regno d'Autari. Per la qual cosa, quando questo Autore, descrivendo le diciassette province di [38] Italia, e collocando nel Sannio Benevento, nomò questa città capo delle province circonvicine, ciò disse avendo riguardo a' tempi, che scriveva, ne' quali la sede di questo Ducato s'era resa amplissima e ricchissima, e Benevento fu innalzato ad esser capo non pur d'una, ma di molte province, come del Sannio, della Campania, della Puglia, della Lucania e de' Bruzj, o in tutto, ovvero in parte, come appresso diremo. Siccome tutto a rovescio, quando questo Scrittore collocò Benevento nel Sannio, ciò non fece riguardando i tempi, ne' quali dominarono i Longobardi, ma tenne presente la vecchia descrizione d'Italia de' tempi degli antichi Sanniti, poichè secondo l'altra più recente di Augusto, come ce n'assicura Plinio[53], Benevento non nel Sannio, ma nella Puglia era collocato; e nelle altre descrizioni seguite appresso, si vide questa città posta dentro a' confini della Campania; ond'è che negli atti di Gennaro, quel Santo Vescovo di Benevento, oggi primo tutelare di Napoli, osserviamo, che patendo egli il martirio sotto Diocleziano, fu al Preside della Campania, cui appartenevasi, commesso quell'affare. E ritroviamo ancora, che Ausonio favoleggiando di coloro, che mutarono sesso, e narrando che in Benevento non avea molto tempo, che un giovanetto divenne femmina, chiamò Benevento città Campana.

Nec satis antiquum, quod Campana in Benevento

Unus epheborum virgo repente fuit.

E per questa ragione nell'Itinerario, che s'attribuisce ad Antonino, il confine della Campania si figge ad Equo Tutico, che secondo l'osservazione di Filippo [39] Cluverio[54], è quella città, che noi oggi volgarmente chiamiamo Ariano, posta più in là di Benevento; come sono le parole dell'Itinerario: A Capua Equo Tutico M. P. LIV. ubi Campania limitem habet. Caudit M. P. XXI. Benevento M. P. XI. Equo Tutico M. P. XXI.

Nè per altra ragione ancora avvenne, che i Beneventani, come s'è detto, posero più marmi cogli elogi de' Consolari della Campania, siccome altresì facevano i Campani, i Napoletani e le altre città, che dal Consolare della Campania eran governate. Da' quali documenti manifestamente apparisce, per qual ragione l'altro Gennaro pur Vescovo di Benevento, essendo anch'egli intervenuto nel Concilio di Sardica celebrato nell'anno 347, e correndo allora il costume di sottoscriversi i Vescovi col nome della propria città e della provincia, ove quella era posta, si fosse ivi sottoscritto in questa forma: Januarius a Campania de Benevento.

Non altrimente fece Varnefrido, quando ci descrisse le diciassette province d'Italia, rappresentandole siccome le ritrovò nella notizia dell'uno e dell'altro Imperio, fatta sotto Teodosio il Giovane intorno l'anno del Signore 440, poichè ne' suoi tempi le province di Italia, ancorchè ritenessero i medesimi nomi presso agli Scrittori, come anche facciamo oggi, che per ostentar erudizione nello scrivere, non pur ricorriamo a' tempi di Teodosio, ma a più alto principio volgendoci, diamo i nomi a ciascuna delle dodici nostre province, che oggi compongono il Regno, secondo erano ne' tempi della libera Repubblica, con nomare i [40] loro Popoli, Sanniti, Lucani, Hirpini, Salentini e simili; nulladimeno era variata in tutto la loro amministrazione, e fu divisa l'Italia in più Ducati, che non furono prima province; onde avvenne, che di quello, che ora è Regno, e che prima non era diviso, che in quattro province, se ne fossero da poi formate dodici, che acquistarono altri nomi ed altri confini, come nel proseguimento di questa Istoria vedremo.

Or ritornando in cammino, l'istituzione di questo Ducato, se si riguardano i suoi bassi principj, fu a caso, non ad arte, in Benevento stabilita, siccome furono non solo tutti gli altri Ducati minori da' Longobardi in diverse città istituiti, ma quel di Friuli ancora, e l'altro di Spoleti; e siccome sogliono essere tutte le altre cose di questo Mondo: che se si riguarda la lor origine, sorte a caso da tenuissimi principj si innalzano al sommo, ove poi giunte, uopo è che retrocedano, ed allo stato di prima ritornino, come portano le leggi delle mondane cose; leggi indispensabili, alle quali l'umana sapienza non vale ad opporsi, nè a darvi riparo. Non è però, che stabilite col correre degli anni le fortune de' Longobardi in Italia, avendo i loro Re scorto, che il perpetuare con lunga serie tanti Ducati, sarebbe tener troppo diviso il loro Regno, non pensassero da poi d'estinguerne moltissimi, e ritener quelli solamente, che potevano più giovare alla conservazione dello Stato. In fatti Varnefrido istesso ne accerta, che a' suoi tempi molti erano estinti, non facendo questo Scrittore ne' seguenti anni della sua istoria menzione d'altri Ducati, se non di quello di Trento, di Turino, di Bergamo, di Brescia e di questi altri tre, che sopra tutti s'estolsero, cioè di Spoleti, di Friuli e questo di Benevento.

[41]

Nè egli è fuor di ragione il credere, che questi ultimi tre sopra tutti gli altri si fosse procurato avanzargli, perchè stando così distribuiti, veniva il Regno a conservarsi con più sicurtà, ed a poter estendere assai più oltre i suoi confini: imperocchè essendo situato il Ducato del Friuli all'ingresso dell'Italia, si potesse quindi con maggior prontezza resistere alle incursioni di straniere genti, che tentassero invaderla: dall'altro di Spoleti, collocato in mezzo l'Italia, si potesse con più facilità contrastare a' moti de' Romani e de' Greci, da' quali in Ravenna e in Roma fortificati, venivan sovente con varie scorrerie molestati: ed il terzo di Benevento era posto a reggere l'inferior parte d'Italia, donde si potesse fare argine a' Greci stessi, ed a' Romani, da' quali spesso per questi lati marittimi erano assaliti, ed in continue guerre esercitati. Per la qual cosa Matteo Palmerio[55] accuratamente ci rappresentò la politia e forma del governo de' Re longobardi, quando disse, che avendo costituita la loro Reggia in Pavia, avevano varj Principati per Italia distribuiti, a' quali preponevano i Duchi; fra' quali i più cospicui, e per successione osservati, erano quel di Friuli nell'ingresso dell'Italia, l'altro di Spoleti posto quasi nell'umbilico di quella, ed il terzo di Benevento per regger l'inferior parte della medesima; dappoichè questi tre Ducati furono sempre a' Re sottoposti, e con uno spirito e colle medesime leggi si governavano, formando una sola Repubblica, ed in questa maniera stabiliti si renderon più celebri, e pian piano stendendo i lor confini (nel che sopra tutti gli altri [42] s'avanzò quel di Benevento) poterono lungamente conservare in Italia il dominio de' Longobardi.

Nel registrare i fatti de' Duchi di Benevento noi seguiremo l'ordine de' tempi, e degli anni tenuto dal diligentissimo Pellegrini, come quegli ch'è più accurato di tutti gli altri, eziandio dello stesso Varnefrido; e ponendo noi il principio del Ducato di Zotone nell'anno del Signore 571 non nell'anno 585, come fece Varnefrido, il quale però confessa ancor egli, che il di lui dominio durò anni venti, tempo certamente che è il più sicuro: verremo perciò a mettere il suo fine nell'anno 591 non nel 605 o nel 598 come fa il Sigonio. Laonde quel che questo Scrittore narra del sacco, e della preda di Crotone, che indubitatamente sortì nell'anno 596, non sotto Zotone, ma sotto Arechi suo successore avvenne; donde manifestamente si veggono gli abbagli, che nascono, e de' quali non si avvide l'istesso Sigonio, se si voglia fissare il principio del Ducato di Zotone, com'ei fece, nell'an. 589 poichè il fine del suo Ducato, e la sua morte avrebbe egli dovuto porre nell'anno 609 dopo scorsi li 20 anni, non come fece, nel 598, nel qual anno non ne sarebbon passati più che nove del suo Ducato.

I fatti di Zotone primo Duca di Benevento non meritano commendazione; poichè appena ritornato Autari in Verona, dopo aver sottoposto il Sannio al suo Ducato, e lasciatone a Zotone il governo, ci diede saggi ben chiari della sua rapacità, ed ancora della poca sua religione, per quanto dal seguente fatto si può comprendere. Il monasterio Cassinese, 60 anni prima edificato da S. Benedetto, così per la fama del suo fondatore, come per la santità e dignità de' Monaci, assai celebre al Mondo, aveva tirato a se la [43] munificenza di vari Principi, che con donazioni grandissime avevanlo meravigliosamente arricchito: Zotone uomo avarissimo, co' suoi Longobardi, avido di queste ricchezze, improvvisamente di notte l'assalì, e non contento della preda, e d'averne tolto tutto ciò, che più di pregevole v'era, devasta e getta a terra l'edificio; e mentre i Longobardi sono tutti intenti alla preda, ebbe campo Bonito, che n'era allora Abate, di fuggir con i suoi Monaci in Roma, ove accolti con molta benignità da Pelagio Papa, ed assegnate loro alcune stanze vicino Laterano, quivi si fabbricarono essi un monastero, dove per cento trenta anni si formarono, e rimase intanto quel monastero di Cassino abbandonato per tutto questo tempo, infinochè Petronace ai conforti di Gregorio II, ne prese cura. Costui avendovi ridotti molti Monaci e Nobili, che l'elessero Abate, rifece l'abitazione, e lo restituì alla pristina dignità.

Il sacco di questo monastero non può porsi in dubbio, che da Zotone fu commesso non molto tempo prima della sua morte, verso la fine di quest'anno 589 come quello, che accadde sotto Pelagio Papa, il qual morì nell'anno 590, non molto innanzi che S. Gregorio M. scrivesse i suoi Dialoghi, ne' quali, facendo menzione di questo sacco, lo narra come d'un successo di fresco accaduto[56]; ed è costantissimo, come accuratamente osservò il Baronio, che S. Gregorio scrisse i suoi Dialoghi nell'anno 593, onde si vede apertamente l'errore di Varnefrido, che pone questo fatto nell'anno 605, e l'altro di Sigiberto, che questa [44] devastazione vuol che sia seguita nell'anno 596, non avvertendo il testimonio certissimo di S. Gregorio, e quel che si raccoglie dalla Cronica di Lione Ostiense; ciò che meriterebbe un più lungo discorso, ma supplirà quello dell'Abate della Noce[57], che esaminò con molta diligenza questo punto.

CAPITOLO III. Di Agilulfo IV. Re de' Longobardi; e di Arechi II. Duca di Benevento.

Mentre queste cose accadevano nelle nostre province, Autari non avendo potuto ottener per moglie la sorella di Childeberto Re di Francia, la quale fu da questo Principe sposata a Recaredo Re di Spagna da poi che ebbe costui abbracciata la fede cattolica, e con memorabil esempio discacciato l'Arrianesimo da' suoi Regni; rifiutato dunque Autari da Childeberto, dimandò a Garibaldo Re de' Bajoari la figliuola Teodolinda per isposa: femmina prudentissima, le cui eccelse virtù dovranno sovente rammentarsi in questa Istoria; ed avendola nell'anno 590 sposata in Verona, fu da poi questo Principe intrigato in una nuova guerra co' Franzesi; poichè Childeberto volendo restituirsi nel perduto onore per la sconfitta ricevuta gli anni precedenti, ritornò con potente esercito in Italia, e fu tanto il terrore delle sue armi e le promesse, che molti Duchi longobardi si ribellarono: si diede al suo partito Minolfo Duca di Novara, Gandolfo Duca [45] di Bergamo, e Valsari Duca di Triviggi. Narrasi[58], che in questi tempi, occupata Pavia da Papio Duca de' Franchi, ne avesse questa città preso il nome, che oggi tuttavia ritiene, e fossesi abolito l'antico di Ticinum. Ma non fu più felice dell'altre questa impresa de' Franzesi, poichè infestato il loro esercito dal morbo di disenteria, essendosi Autari con suoi Duchi ben munito nelle sue Piazze, i Franzesi, ancorchè per tre mesi andassero vagando per l'Italia, alla fine incrudelendo il morbo, furon astretti ritornare alle paterne case; onde Autari prese il tempo opportuno di far dimandar la pace a Childeberto da Guntrando Re di Francia zio del Re Childeberto, il quale si frappose per trattarla: ma non passò guari, che Autari fu tolto a' mortali, poichè partitosi da Verona per Pavia, gli fu data una bevanda attossicata[59] onde finì la vita in settembre di questo stesso anno 590, dopo aver regnato in Italia poco men che sei anni. I Longobardi intesa la morte del loro Principe, tosto raunati in Pavia, pensarono all'elezione del successore, ed intanto mandarono Ambasciadori a Guntrando, dandogli avviso di questo successo, e insieme a pregarlo, che proseguisse i suoi uficj interposti per trattar la pace con Childeberto suo nipote: ma venutosi all'elezione d'un nuovo Principe, non parendo loro d'averne alcuno, che fosse ben atto a sostener questa dignità, deliberarono, che Teodolinda gli governasse, e a colui ch'ella s'eleggesse per marito fra i Duchi, si conferisse la regal dignità. Fra i Duchi longobardi era allora al Ducato di Torino preposto Agilulfo, Principe di sangue ad Autari congiunto, ed in cui alla bellezza [46] del corpo s'accoppiava anche quella dell'animo veramente regio, e adatto a qualunque governo: Teodolinda fra tanti trascelse costui, che con universal giubilo, stabilite le nozze, fu da tutti per Re proclamato.

Fra le molte e pregiate doti di Teodolinda, non fu riputata la minore in questi tempi, essere stata ella zelantissima della religion cattolica, nella quale era allevata e nudrita, onde ne divenne carissima a S. Gregorio M. il quale le mandò i quattro libri delle Vite de' Santi, che avea composto, siccome quegli, che la conosceva affezionata alla fede di Cristo, non meno che costumatissima ed eccellente in tutte le buone arti; e ancorchè fossero riusciti vani tutti i di lei sforzi per ridurre Autari, suo primo marito, a rinunziare l'Arrianesimo; nulladimeno credè non dover ritrovare in Agilulfo la stessa durezza, non solamente per le sue pieghevoli e dolci maniere, ma molto più per la gratitudine d'averlo al Trono innalzato: abbraccia per tanto Agilulfo la religion cattolica, e seguitando i Longobardi l'esempio del loro Principe, moltissimi di loro detestarono, chi il Gentilesimo, altri l'Arrianesimo, de' quali eran infetti, e renderonsi cattolici; e potè tanto in Agilulfo il zelo di questa religione, che a' conforti di Teodolinda rifece molti monasterj, e molte chiese ristorò, le quali per le passate guerre eran poco men, che distrutte, e donò a quelle molte possessioni, restituendo l'onore e la riputazione a' Vescovi, i quali, quando i Longobardi erano nell'errore del Paganesimo furono in depressione, ed abbietti[60].

[47]

§. I.  Di Arechi II. Duca di Benevento.

Nel Regno di Agilulfo, conforme al conto del Pellegrini, in quest'anno 591 accadde la morte di Zotone Duca di Benevento, celebre più per la sua rapacità e per lo memorabil sacco del monastero Cassinese, che per altro; onde per la costui morte fu dal Re Agilulfo nel Ducato di Benevento eletto Arechi congiunto per consanguinità a Gilulfo Duca del Friuli[61]. Secondo la politia introdotta da Autari nel Regno de' Longobardi in Italia, non solevan questi Duchi levarsi, se non o per fellonia, o per morte; e dopo la morte venne anche ad introdursi, di anteporre a qualunque altro i figliuoli del morto, se il Re gli reputava abili: così veggiamo, che dopo il lungo Ducato di questo Arechi, che durò cinquant'anni, succedè nello stesso Ajone suo figliuolo; e accadendo di morire il Duca senza figliuoli, il Re, o eleggeva altri in luogo suo, ovvero estingueva il Ducato, senza surrogarvi successore. Il che s'osserva essersi cominciato a praticare negli ultimi anni del Regno di questo Principe: ciocchè facevano essi per ragion di Stato, fomentata dall'ambizione de' Duchi, i quali bene spesso tentavan di scuotere il giogo della dipendenza, e rendersi assoluti; onde furon obbligati a pensare di sopprimere, quando potevano, molti di questi Ducati, tanto che pian piano gli ridussero a ben pochi, ritenendo solamente quelli, che potevano, come s'è di sopra osservato, giovare alla maggiore sicurità e custodia del Regno. Tanto maggiormente, che i Re longobardi [48] non meno per le guerre esterne di straniere Nazioni, quanto per quelle, che venivan mosse dai loro proprj Duchi, erano in continue sollecitudini ed angustie, come si è veduto nel Regno d'Autari, e potrà osservarsi in questo d'Agilulfo, il quale dopo avere nell'anno 600 di nostra salute, fatta la pace co' Romani, e dopo avere ristabilita la lega con Teodiberto nuovo Re di Francia, ebbe a combattere coi suoi Duchi, ch'eransegli ribellati, e con memorando esempio sconfitti che gli ebbe, senza che potessero trovar perdono, privò di vita tre di loro, Zangrulfo in Verona, Gandolfo in Bergamo, e Varnecauso in Pavia.

Per questa ragione, mancando per morte o per fellonia alcuno di essi, o procuravan surrogarvi altri, della cui fedeltà ed amore eran ben certi, come fece Agilulfo, quando morto Eoino Duca di Trento, surrogò in quel Ducato Gondoaldo uomo cattolico, ed insigne per la sua pietà[62]: ovvero non curavan darvi successore, siccome avvenne al Ducato di Crema, al quale, morto Cremete senza figliuoli, non se gli diè successore[63].

Il Ducato beneventano sotto il governo d'Arechi, che fu il più lungo di quanti mai ne furono, durando cinquant'anni, dal 591 infino al 641 stese molto i suoi confini, tantochè secondo Paolo Emilio[64], ed altri Scrittori, i suoi termini da un lato s'estesero insino a Napoli, e dall'altro sino a Siponto, la qual città dopo il Ponteficato di Gregorio M. si rendè anche a' Longobardi, ed al Ducato beneventano fu aggiunta. [49] Nè infino a questi tempi allargò egli tant'oltre i suoi confini, quanto fortunatamente gli distese poi negli anni seguenti, allorchè abbracciaron quasi tutto quello, ch'è ora Regno di Napoli. Nè perchè i Longobardi sotto questo Duca di Benevento, che secondo l'Epoca del Pellegrino non potè esser certamente Zotone, ma Arechi, avesser presa e saccheggiata la città di Crotone, e fatti quivi molti prigionieri, dovrà dirsi, che fin da questi tempi i suoi confini verso Oriente si fossero stesi sino a Crotone; poichè il costume dei Longobardi era, quando loro non riusciva di conquistar Piazze, nelle quali potessero mantenervisi, e lasciarvi presidio, di scorrere a guisa di predoni il paese e saccheggiarlo, con portarsi seco i paesani, che riducevano in cattività, e n'esigevan grosse somme per gli riscatti: come appunto avvenne a' Crotonesi, che per ricomprarsi fu d'uopo sborsar gran denaro; e da una epistola di S. Gregorio M., ove, deplorandosi la cattività de' medesimi, si leggono gli sforzi, che da questo Pontefice si facevan per riscattargli, si conosce chiaramente, che presa ch'ebbero questa città, dopo averla saccheggiata, carichi della preda, si condussero con esso loro molti nobili, non perdonando, nè ad età nè a sesso, e la lasciarono, nè vi posero presidio, essendo allora molto lontana da' confini del loro Ducato, ed in mezzo all'altre città de' Greci loro inimici. Fu questo un costume praticato anche fra' Cattolici, i quali ancorchè non riducessero in servitù i presi, solevano nondimeno custodirgli infino che non fossero con denaro riscossi: di che rendono a noi testimonianza gravissimi Autori[65]. Non dee perciò riputarsi [50] acerbità o furor de' soli Longobardi, i quali, parte Gentili, ed altri Arriani, praticassero lo stesso co' loro nemici. Così anche sotto Zotone, non perchè dessero il sacco al monastero Cassinese, s'allargò in quel tempo questo Ducato tanto verso quella parte, come si stese da poi: e per questa ragione ancora più sconcio error sarebbe, se fin da' tempi d'Autari Re volessimo dire che il Ducato beneventano si fosse disteso sino a Reggio, perchè Autari infino a quest'ultima parte facesse correre il suo stendardo; poichè da questo stesso e da ciò che narrasi aver detto questo Principe quando coll'asta percosse quella colonna, che fin quivi dovea egli stendere i confini del suo Regno, si conosce manifestamente, che allora tutti que' luoghi erano, come furono per molto tempo da poi, sotto la dominazione degl'Imperadori d'Oriente.

Ecco come quello, che ora è Regno di Napoli, in questi tempi non riconosceva, come prima un sol Signore ed un sol Principe, ma ben due. Il Ducato beneventano ubbidiva al suo Duca immediatamente, e per lui al Re de' Longobardi. La Puglia e la Calabria; la Lucania ed i Bruzj; il Ducato napolitano; quelli di Gaeta, di Sorrento, di Amalfi, e gli altri Ducati minori, a' loro Duchi immediatamente, e per essi all'Esarca di Ravenna, e agl'Imperadori di Oriente.

[51]

CAPITOLO IV. Del Ducato napoletano, e suoi Duchi.

Poichè nel Ducato napoletano abbiamo de' Duchi, che lo ressero, una continuata serie, e fu quello, che solo restò esente dalla dominazione de' Longobardi, e che poi, estinti gli altri Ducati minori, abbracciò molte città ch'eran in quelli comprese, onde perciò si rendè anche più cospicuo, non sarà fuor di proposito, che parlando de' Duchi di Benevento, nel tempo stesso si parli di quelli di Napoli; perchè si conoscano in ciò le vicende delle mondane cose, come per le continue guerre, ch'ebbero questi popoli, i Beneventani co' Napoletani, avanzandosi sempre più il Ducato di Benevento, quel di Napoli all'incontro, e la dominazione de' Greci in tutto il resto dell'altre province venisse ad estenuarsi: e come da poi siasi veduto, che del Ducato di Benevento appena siane a noi rimaso vestigio, ed all'incontro Napoli si fosse innalzata tanto, sino ad esser non pur Capo di un picciol Ducato, quale era, ma Capo e metropoli d'un vastissimo e floridissimo Regno, qual oggi con ammirazione e stupore di tutti si ravvisa.

Il Ducato napoletano, che nel suo nascere ebbe angustissimi confini, la città sola di Napoli colle sue pertinenze abbracciando, ne' tempi di Maurizio Imperadore d'Oriente, fece notabili acquisti: poichè questo Principe aggiunse stabilmente al suo dominio l'isole vicine, come Ischia, Nisida, e Procida, nella cui possessione confermò i Napoletani, siccome scrive S. [52] Gregorio M.[66]. S'aggiunsero da poi Cuma, Stabia, Sorrento, ed Amalfi ancora, la quale insino a' tempi di Adriano Papa, e di Carlo M. fu del Ducato napoletano, come è chiaro per una epistola di quel Pontefice rapportata dal Pellegrini; tanto che ridotto questo Ducato quasi in forma d'una provincia, venne volgarmente chiamato anche Campania: onde sovente il Duca di Napoli dicevasi Dux Campaniae, come S. Gregorio[67] chiama Scolastico Dux Campaniae; ed altrove[68] Gudiscalco Dux Campaniae. Questa abbracciava molte città di quel lido, che a' Napoletani, ed al lor Duca eran soggette; ed i Vescovi di queste città solevan perciò appellarsi Vescovi Napoletani; ond'è, che sovente nell'epistole di questo Pontefice[69] si legga: Episcopis Neapolitanis.

Non potè stendere più oltre i suoi confini verso Occidente, Settentrione, o Oriente; poichè il Ducato beneventano già verso quelle parti stendeva, fatto potente, le sue forti braccia: Capua col suo territorio infino a Cuma, ed a' lidi, che non han porto, di Minturno, Ulturno, e Patria, detta anticamente Linterno, era già passata sotto la dominazione de' Longobardi. Non molto da poi stesero i Longobardi i confini del Ducato beneventano infino a Salerno; e molte altre città verso Oriente insino a Cosenza, con tutte l'altre terre mediterranee furono a' Greci tolte; ed anche questo Ducato napoletano sarebbe passato sotto il dominio de' Longobardi, come passarono nel correr degli [53] anni tutte l'altre città mediterranee del Regno, e da poi le marittime ancora, toltone Gaeta, Amalfi, Sorrento, Otranto, Gallipoli, e Rossano, se due cagioni non l'avessero impedito; ciò sono il non essere i Longobardi forniti di armate di mare, nè molto esperti agli assedj di Piazze marittime; e per aver i Napoletani, per ragion anche de' loro siti, ben fortificata Napoli, e l'altre piazze marittime a loro soggette. Tanto che potrà meritamente vantarsi Napoli col suo picciolo Ducato, che nonostante d'esser passate sotto la dominazione de' Longobardi quasi tutte le città del Regno, toltone quelle poche dianzi rammemorate, e d'essersi renduti i Longobardi signori di quasi tutto ciò, che ora è Regno, non poterono però mai soggiogar affatto i Napoletani, ancorchè da poi negli ultimi anni a' Principi di Benevento fossero fatti tributarj, come nel progresso di questa Istoria diremo: in guisa che non è condonabile l'error del Biondo[70], che scrisse, i Longobardi non molto tempo dopo il governo de' 36 Duchi avere soggettata Napoli.

Al Ducato napoletano solevansi mandare i Duchi per reggerlo, o da Costantinopoli a dirittura dagl'Imperadori d'Oriente, o pure, quando il bisogno non permetteva d'aspettar molto tempo, che venisse da parti sì remote, l'Esarca di Ravenna, ch'era allora in Italia il primo Magistrato degl'Imperadori greci, soleva egli mandarvelo.

Ne' tempi, ne' quali siamo sotto il Ducato di Arechi, imperando in Oriente Maurizio, essendo Napoli senza Duca, e meditando Arechi insieme con Arnulfo Duca di Spoleti assalirla, S. Gregorio M. a cui molto importava [54] la sua difesa, e che invigilava per gl'interessi dell'Imperadore contro a' Longobardi, dubitando che costoro conquistando il resto d'Italia, ch'era in poter de' Greci, finalmente non soggiogassero Roma ancora, scrisse[71] nel 592 con molta sollecitudine a Giovanni Vescovo di Ravenna, perchè affrettasse l'Esarca a mandar prestamente in Napoli il Duca per difenderla dall'insidie d'Arechi, poichè altrimente egli senza dubbio la vedeva perduta.

E da un'altra epistola[72] di questo stesso Pontefice data nell'anno 599 osserviamo, che non molto tempo da poi fu mandato in Napoli per Duca Maurenzio, il quale con tanta vigilanza si pose a custodir questa città, che oltre ad averla munita con valido presidio, costrinse anche i Monaci a far la sentinella sopra le mura, senza perdonar nemmeno a Teodozio Abate, onde fortemente se ne dolse Gregorio[73], e perchè l'affliggeva oltre alle sue deboli forze, e perchè avea mandato ancora molti soldati ad alloggiare in un monastero di Monache, costringendo Angela loro Badessa a ricevergli.

Ma essendo stato l'Imperador Maurizio scacciato dall'Imperio nell'anno 602 da Foca, questi si fece acclamare Imperadore dall'esercito nella Pannonia, e giunto in Costantinopoli, vi fu riconosciuto, e fece morire Maurizio co' suoi figliuoli; ed avendo mandato il suo ritratto in Roma, fuvvi parimente acclamato Imperadore, con consenso anche di S. Gregorio, che io riconobbe in Roma, come avea fatto in Costantinopoli [55] il Patriarca Ciriaco. Foca dunque assunto al Trono, in luogo di Callinico, ch'era stato da Maurizio sostituito a Romano, mandò di nuovo in Ravenna per Esarca Smaragdo[74], ed in Napoli per Duca Gondoino.

Per la morte di Gondoino, fu mandato da Foca in Napoli per Duca Giovanni Compsino constantinopolitano, quegli, che violando la fede al suo Principe, tentò rendersi assoluto signore della città a se commessa; poichè essendo stato ucciso nell'anno 610 Foca[75], e succeduto nell'Imperio Eraclio suo competitore, non potendo i Ravignani sofferir la superbia e le gravezze di Giovanni Lemigio[76] nuovo Esarca, mandato nell'anno 612 da Eraclio in Ravenna, preser le armi, e tumultuando, con gran concorso di popolo, giunti al palazzo, l'uccisero insieme co' suoi Giudici. Pervenuto questo fatto a notizia di Giovanni Compsino Duca di Napoli, pensò non dovere aspettar miglior occasione per impadronirsi della città; onde tantosto per se occupolla, e con forte presidio munilla contra gli sforzi, che temeva dell'Imperador Eraclio, il quale in fatti, avvisato de' tumulti di Ravenna, e della fellonia di Compsino, mandò subito in Italia per Esarca Eleuterio[77] Patrizio e suo Cubiculario, uom prode di mano, e più di consigli. Questi avendo composti i romori in Ravenna, passò con sufficiente esercito in Napoli, dove entrato pugnando, uccise il Tiranno, riducendola come prima sotto la dominazione [56] d'Eraclio, e lasciatovi nuovo Duca, vincitore in Ravenna fece ritorno[78].

Non ha del verisimile l'opinione del Summonte, o ciò che egli suspica, che il nuovo Duca lasciato in Napoli da Eleuterio, fosse quel Teodoro, che si porta fondator della chiesa de' SS. Pietro e Paolo, già posta nel quartier di Nido: poichè l'iscrizione greca, che in un marmo ivi si leggeva, e nella quale si nominava per fondator di quella chiesa Teodoro Console e Duca, portando la data della IV indizione, viene a cadere in tempi più bassi, cioè nell'anno 717, nel quale tempo governò questo Duca, come da valenti uomini è stato osservato; ed all'incontro è vero, che Eleuterio fu mandato da Eraclio in Ravenna nell'anno 616 dove poco più di due anni tenne l'Esarcato; poichè nell'anno 619 vi fu mandato Isacio Patrizio per suo successore[79].

Su questa fellonia di Compsino sono stupende le favole, che i nostri moderni Scrittori hanno inventate: dicono che questo Duca dopo aver occupato Napoli si rendesse ancor signore della Puglia e della Calabria, e d'altri luoghi del nostro Regno: che di più se n'avesse fatto incoronare Re, e che prima andasse a Bari a farsi coronare della corona del ferro, e poscia in Napoli con quella dell'oro: e che perciò egli fosse il primo, che s'avesse usurpato il titolo di Re di Napoli, aggiungendo che i Normanni da poi, coll'esempio di questo I. Re di Napoli, vollero pure farsi prima coronare in Bari colla corona del ferro, e poi [57] in Palermo con quella dell'oro[80]. Sono tutti questi racconti sogni d'infermi. Nè mai Compsino s'insignorì della Puglia e della Calabria, nè d'altre province, le quali per la maggior parte erano passate in questi tempi sotto la dominazione de' Longobardi. Invase egli Napoli solamente colle sue pertinenze; e Paolo Varnefrido[81] narra, che dopo non molti giorni ne fu cacciato da Eleuterio Patrizio. Gran cose dovea far costui in così breve tempo, domando non pure i Greci, ma i Longobardi allora potentissimi; nè presso ad Autori di conto si legge mai, che s'avesse fatto incoronare Re; cosa anche più ridicola è il dire, che fosse andato fino a Bari a prender la corona di ferro, e poi in Napoli quella d'oro; essendo tutto favoloso ciò che si narra di questa coronazione di ferro in Bari, nè da alcuno de' nostri Re mai praticata, come si vedrà chiaro ne' seguenti libri di questa Istoria.

CAPITOLO V. Di Adalualdo ed Ariovaldo, V. e VI. Re de' Longobardi.

Ridotta già la dominazione de' Greci in Italia a declinazione grandissima, tentarono i Longobardi sotto il Re Agilulfo finire di interamente discacciargli da tutte l'altre regioni, ch'erano a lor rimase; nel che conferiva molto l'aver i Longobardi in gran parte (seguitando l'esempio di Agilulfo) deposto, chi il Gentilesimo, [58] e moltissimi l'Arrianesimo, ed abbracciata la Religion cattolica, ciò che gli rendè a' provinciali meno odiosi, ed il lor dominio men grave e pesante. In fatti ad Agilulfo, che de' Re Longobardi fu il primo ad abbracciar questa religione, e che in tutto il corso di sua vita lasciò monumenti di molta pietà e munificenza verso le chiese e monasterj, si dee che lungo tempo il Regno si mantenesse in pace; poichè egli morto, lasciando per successore Adalualdo suo figliuolo, che ancor vivente l'aveva per suo Collega assunto al Trono; questi seguitando l'esempio di suo padre, e molto più imitando Teodolinda sua madre, che nel regnare volle averla per compagna, ridussero le fortune de' Longobardi in istato così placido e tranquillo, che niuno strepito di Marte turbò la loro pace ed il loro riposo: e sotto costoro furono rinovate le chiese, e fatte molte donazioni a' luoghi sacri[82].

Ma non potè molto Adalualdo goder di tanta quiete; poichè nell'ottavo anno del suo Regno, avendogli mandato l'Imperador Eraclio per Ambasciadore un tal Eusebio per trattar seco della pace e d'altre cose rilevanti, questi o per proprio consiglio, o pure per comandamento avuto dal suo Signore, mentre il Re usciva dal Bagno, gli porse una bevanda come a lui salutifera, la qual bevuta, cominciò ad uscir di senno, e ad impazzire[83]: il che scorgendosi dall'accorto Eusebio, diedegli a sentire, che dovesse per sua maggior sicurtà far morire i più potenti Longobardi. Questo consiglio, come giovane e stolto, essendo da lui abbracciato, fece uccider tosto dodici Nobili dei primi; la qual cosa scorgendo gli altri Longobardi, e [59] veggendo non istar essi più sicuri dalla stolidezza di costui, avendo eccitato un gran tumulto, e gridandolo per empio e tiranno, lo discacciarono dal trono insieme colla Regina Teodolinda sua madre, ed in suo luogo riposero Ariovaldo Duca di Turino, che aveva per moglie Gundeberga sorella di Adalualdo.

Questo successo divise i Longobardi in due fazioni: Ariovaldo era sostenuto da que' Nobili, che tumultuarono, a' quali s'erano aggiunti tutti i Vescovi delle città di là del Pò, che a tutto potere studiavansi con altri d'ingrossare il lor partito. Adalualdo dall'altra parte era aiutato da Onorio Pontefice romano, il quale aveva forte cagione di sostenerlo, così per riguardo di Teodolinda, alla cui pietà doveva molto la Religione cattolica, come anche perchè Ariovaldo era da' Cattolici abborrito per l'eresia arriana, in cui era nato e cresciuto; e fu tanta l'opera d'Onorio, che tirò a se anche Isacio allor Esarca in Italia, ed obbligollo a restituir nel Trono Adalualdo con potente esercito. Proccurò anche toglier dal partito di Ariovaldo quei Vescovi, che lo favorivano, minacciandogli, che non lascerebbe impunita tanta loro scelleratezza; ma non veggendosi ridotta a compiuto fine l'opera d'Isacio, e morto opportunamente Adalualdo di veleno, ottenne finalmente Ariovaldo il Regno, ed essendo egli infesto a' Cattolici, cagionò in Italia non leggieri disturbi.

Nel Regno di costui, non passarono molti anni, che Teodolinda vedendosi così abbietta e priva d'ogni speranza di ricuperar la pristina dignità regale, piena di mestizia, d'estremo dolore venne a morte nell'anno 627: Principessa, e per le eccelse doti del suo animo, e per la sua rada pietà, degnissima di lode, e da annoverarsi fra le donne più illustri del Mondo, [60] la quale non meritava esser posta in novella da Giovanni Boccacci nel suo Decamerone[84].

Ariovaldo regnò altri nove anni dopo la morte di Teodolinda, e morì, senza lasciar di se stirpe maschile, nell'anno 636. Per la qual cosa i Longobardi, convocati i Duchi, pensarono di crear un nuovo Re, nè vedendo chi dovesse innalzarsi al Trono, diedero a Gundeberga, come avevan prima fatto a Teodolinda, il poter ella creare per Re colui, che si eleggesse per marito. Gundeberga, come donna prudentissima e molto savia, elesse per suo marito e Re, Rotari Duca di Brescia, in questo stesso anno 636, secondo il computo del Pellegrini.

CAPITOLO VI. Di Rotari VII. Re; da cui in Italia furono le leggi longobarde ridotte in iscritto.

Rotari fu un Principe, in cui del pari eran congiunti un estremo valore ed una somma prudenza; ma sopra tutto fu grande amatore della giustizia; e se alcuna ombra di colpa rendè non chiari i suoi pregi, fu l'essere macchiato dell'eresia arriana; onde avvenne, che a' suoi tempi in molte città d'Italia erano due Vescovi, l'un cattolico e l'altro arriano[85].

Questo Principe fu il primo, che diede le leggi scritte a' suoi Longobardi[86], dal cui esempio mossi gli altri Re suoi successori, surse, col correr degli [61] anni, in Italia un nuovo volume di leggi, longobarde chiamate, le quali nel Regno nostro ebbero un tempo tal vigore e dignità, onde fu forza, che le leggi romane retrocedessero. Ma prima che delle leggi longobarde facciam parola, convenevol cosa è, che si vegga lo stato, nel quale a' tempi di questo Principe, e de' Re suoi successori si era ridotta la giurisprudenza romana in Italia, e nelle province che oggi compongono il nostro Regno, ed in quali libri era compresa.

Giustiniano Imperadore, ancorchè avesse proccurato sparger per Italia i suoi volumi, e strettamente avesse comandato, che aboliti tutti gli altri, quelli solamente per Italia si ricevessero insieme colle sue costituzioni Novelle; nulladimeno l'autorità de' medesimi quasi si estinse insieme con lui; poichè egli morto, e succeduto Giustino, inettissimo Principe, ricadde Italia di bel nuovo in mano di straniere genti; e toltone l'Esarcato di Ravenna, il Ducato di Roma, que' piccioli di Napoli, Gaeta, d'Amalfi, ed alcune altre città marittime di Puglia, di Calabria e di Lucania, i Longobardi dominavano in tutte l'altre sue province, senza che gli altri Imperadori, che a Giustino succederono, molta cura si prendessero di ricuperarle, e tanto meno delle leggi di Giustiniano; anzi non vi mancarono di coloro, come si dirà a suo luogo, che o per invidia, o per emulazione cercarono anche nell'Oriente d'estinguerle affatto. S'aggiungevano in oltre, che presso a' Longobardi, per le continue guerre ira di essi accese, il nome de' Greci era abbominatissimo, e tutto ciò, che da loro procedeva, con somma avversione era rifiutato e scacciato. Quindi nacque, che se bene a' provinciali permettessero l'uso delle leggi romane, [62] ed a' Romani di poter sotto le medesime vivere, con tutto ciò vollero, che quelle apprendessero dal Codice di Teodosio: onde presso i Longobardi fu in più stima e riputazione il Codice Teodosiano, che quello di Giustiniano[87].

Al che s'aggiungeva l'esempio de' Vestrogoti, che signoreggiavano allora la Spagna, i quali contenti del Codice fatto per ordine d'Alarico, e del Novello compilato dalle leggi de' Vestrogoti ad imitazion di quello di Giustiniano, non riconoscevan i costui libri.

S'aggiungeva ancora l'esempio de' Franzesi, i quali insino a' tempi di Carlo il Calvo, non riconobbero altre leggi romane, se non quelle, ch'erano racchiuse nel Codice Teodosiano, o nel suo Breviario fatto per ordine d'Alarico[88]. Anzi Carlo M. stesso, volendo ristorar la giurisprudenza romana, che a' suoi tempi era ridotta in istato pur troppo lagrimevole, posposti i libri di Giustiniano, si diede a riparare il Codice di Teodosio, e ad emendarlo, come mostrano quelle parole aggiunte al Commonitorio d'Alarico, che va innanzi al Codice Teodosiano: Et iterum anno XX. regnante Carolo Rege Franc. et Longobard. et Patritio Romano. E fu tanta la cura di questo glorioso Principe, ed il rispetto che tenne di questo Codice, che molte leggi di esso volle trasferire ne' suoi Capitolari[89].

Ne' tempi di Carlo il Calvo par che in Francia si cominciassero a sentire le leggi di Giustiniano, come mostrano gli Autori di quell'età, i quali spesso allegando [63] le leggi di Giustiniano, delle Teodosiane taciono: così Hincmaro di Rems: Et Sacri Africae Provinciae Canones, et lex Justiniana decernunt[90]: ed altrove[91]: Leges Justiniani dicunt. Il che comprovasi da quel che Giovanni Italo[92] scrisse di Abbone padre di Odone Cluniacense, il quale Justiniani Novellam memoriter tenebat. Se bene non mancarono nei tempi seguenti Autori, i quali anche si valsero della autorità, non meno de' libri di Giustiniano, che delle leggi Teodosiane, come fecero Ivone di Chartres[93], Graziano ed altri.

In Italia solamente studiavansi i Pontefici romani di mantenere l'autorità delle leggi di Giustiniano e degli altri Imperadori d'Oriente, mostrando di quelle somma stima e venerazione. Erano i loro disegni di sostenere in Italia a tutto potere l'autorità degl'Imperadori greci con riconoscergli per Sovrani, perchè in cotal guisa potessero far contrappeso alle forze dei Longobardi, e tener divisa l'Italia tra due eguali potenze, acciocchè l'una intraprendendo sopra l'altra, Roma non cadesse sotto la servitù dell'una, o dell'altra. Amavano essi meglio l'imperio de' Greci, perchè questi, come lontani, non erano in istato di badar molto ad impedire i loro progressi e disegni, che avevano d'impadronirsi di Roma; e perciò quando i Longobardi avanzavansi tanto, onde si potesse temere, che finalmente non occupassero quella città la cui perdita sarebbe stata seguita dalla lor ruina, ricorrevan tosto [64] a' Greci, perchè s'opponessero di tutto potere a' loro sforzi. In effetto S. Gregorio M. che, come s'è detto, era molto sollecito, che i Greci non fossero in tutto discacciati d'Italia, portava somma venerazione alle leggi degl'Imperadori d'Oriente, e sopra tutto a quelle di Giustiniano, delle quali sovente valevasi, e delle Novelle più frequentemente, com'è manifesto appresso Graziano e ne' Decretali[94]. Questo istituto ancora ritennero da poi i successori, e fra gli altri Gregorio III[95], Niccolò I, Lucio III, Giovanni VIII[96], ed altri rapportati da Dadino Alteserra[97]. Per questa cagione seguitando Lione IV i vestigi de' suoi predecessori, scrisse quell'epistola, che si legge in Graziano[98] all'Imperadore Lotario I, in cui lo prega a conservare la legge romana: Vestram flagitamus clementiam, ut sicut hactenus Romana lex viguit absque universis procellis, et pro nullius persona hominis reminiscitur esse corrupta; ita nunc suum robur, propriumque vigorem obtineat. Ond'è che Ivone di Chartres[99] disse: Dicunt enim instituta legum Novellarum, quas commendat, et servat Romana Ecclesia: e che poi siasi veduto gli Ecclesiastici, così nel novero degli anni per la lor minore età, come in molte altre cose, seguire le leggi romane. Quindi i libri di Giustiniano nel Ducato romano ebbero in questi tempi maggiore autorità e vigore, che nell'altre parti d'Italia: siccome l'ebbero [65] in Ravenna[100] sede dell'Esarcato de' Greci, onde narrasi[101], che in questa città si fosse lungamente conservato quel volume de' Digesti, che ora chiamiamo Inforziato, a cui i Ravignani solevano ricorrere per la decisione delle loro cause: ond'è che a ragione potè conchiudere Ermando Conringio[102], che in Italia prima di Lotario II, Juris Romani, et quidem maxime Justinianei, usus aliquis arbitrarius superfluit exiguus ubivis; frequentior tamen Romae, inque aliis Exarchatus locis, quam in Regno Longobardico, Novellarum praecipua fuit auctoritas in rebus Ecclesiasticis nonnullis.

Ma i Longobardi per le ostinate e crudeli guerre, ch'ebbero co' Greci, se bene ad esempio de' Goti lasciassero vivere i provinciali colle leggi romane, non da altri libri, se non dal Codice di Teodosio, e dal Breviario d'Alarico, vollero, che quelle s'apprendessero, ed avessero forza e vigor di legge, imitando anche in questo la pratica de' Goti; nè infino ad ora per sessantasei anni, da che vennero in Italia, ebbero essi per loro legge alcuna scritta[103], ma governavansi solamente secondo i loro costumi, e secondo quegli istituti, che tramandati, come per tradizione da' loro maggiori, con molta osservanza e religione mantenevano.

Rotari adunque fu il primo, che assunto al Trono, dopo avere ingrandito il suo Reame coll'acquisto delle Alpi Cozzie e di Oderzo, pensò a dare anche le leggi scritte a' suoi Longobardi.

[66]

La maniera, colla quale i Re longobardi stabilivano le loro leggi, fu cotanto commendata da Ugon Grozio[104], che antepone in ciò i Longobardi a' Romani stessi: questi sovente dall'arbitrio d'un solo ricevevano le leggi, il qual le mutava e variava a sua posta; onde tutto ciò che al Principe piaceva, ebbe vigor di legge. All'incontro i Re longobardi non s'arrogavano soli questa potestà, ma nello stabilirle vi volevano ancora il parere e consiglio de' principali Signori e Baroni del Regno: e l'Ordine del Magistrato vi aveva ancora la sua parte; nè altrove stabilivansi, che nelle pubbliche assemblee a questo fine convocate, nelle quali non s'ammetteva all'uso di Francia l'Ordine ecclesiastico, ma solo l'Ordine de' Signori e de' Magistrati: nè la plebe appresso loro faceva Ordine a parte, ma secondo che scrisse Cesare dell'antica Gallia: Plebs plane servorum habebatur loco, quae per se nil audet, nullique adhibetur Concilio.

Avendo adunque Rotari, secondo l'Epoca di Camillo Pellegrino, nell'anno 644 intimata una Dieta in Pavia, ragunati quivi i Signori e Magistrati, stabilì molte leggi, le quali fece egli ridurre in iscritto, ed inserille in un suo editto, che fece pubblicare per tutto il suo Regno, non altrimente, che fece Teodorico Ostrogoto, quando pubblicò il suo per tutta Italia, del quale nel precedente libro si è fatto menzione. Fra gli altri monumenti dell'antichità, che serba l'Archivio del monastero della Trinità della Cava dell'Ordine di S. Benedetto, il qual dopo quello di M. Cassino è il più antico, che abbiamo nel Regno; evvi un Codice membranaceo da noi con proprj occhi attentamente [67] osservato, scritto in lettere longobarde, dove non solamente gli editti de' Re longobardi (cominciando da questo di Rotari) ma anche degl'Imperadori franzesi e germani, che furono Re d'Italia, vi sono inseriti. In questo editto di Rotari dopo il proemio, che si vede trascritto anche dal Sigonio[105] nella sua Istoria d'Italia, si leggono i titoli di ciascun capitolo, ed il primo comincia: Si quis hominum contra animam Regis cogitaverit: e questi terminati, siegue la conchiusione dell'editto in cotal guisa: Praesentis vero dispositionis nostrae Edictum, etc.[106]. Seguono da poi le leggi, ovvero capitoli, secondo il numero de' titoli precedenti, e contiene questo editto trecento ottantasei capitoli, ovvero leggi. Il Compilatore dei tre libri delle leggi longobarde, che vanno ora impressi nel volume delle Novelle di Giustiniano, prese da questo editto di Rotari le leggi, delle quali compilò quasi interamente il primo e secondo libro: e nel terzo libro due o tre se ne leggono di questo Re, siccome diremo più distesamente, quando della compilazione di quel volume delle leggi longobarde ci tornerà occasione di favellare.

L'esempio di Rotari fu imitato da poi dagli altri Re longobardi suoi successori, come da Grimoaldo, Luitprando, Rachi ed Astolfo: ma di tutte questi Re niuno lasciò tante leggi, quante Rotari, essendo, come s'è detto, il lor numero arrivato insino a 386. Fece egli pubblicare il suo editto in questo anno 644 che fu l'ottavo del suo Regno, per tutte le province, che erano sotto la sua signoria, e sopra tutto nel Ducato [68] beneventano, che avendo allora stesi assai più i suoi confini, era riputato la più ampia e nobil parte del Regno d'Italia.

CAPITOLO VII. Di Ajone e Radoaldo, III. e IV. Duchi di Benevento.

Il Ducato di Benevento, per la morte accaduta nell'anno 641 d'Arechi, che cinque mesi prima di morire avea associato al Ducato Ajone suo figliuolo, da costui era governato[107]; ma conoscendolo il padre di poco senno, e men atto a sostenere questo peso, lo raccomandò, morendo, a Radoaldo e Grimoaldo figliuoli ambedue di Gisulfo già Duca del Friuli, i quali nella sua Corte erano stati allevati e ritenuti. Eran questi amati da Arechi, come propri figliuoli, e gli aveva anche sostituiti al Ducato in mancanza d'Ajone suo figliuolo. Tenendo adunque il Ducato di Benevento Ajone sotto la cura di questi due fratelli, cominciarono la prima volta a farsi sentire in queste nostre contrade gli Schiavoni.

Erano gli Schiavoni originarj della Sarmazia europea, di qua e di là del Boristene; e seguendo l'esempio e le orme degli altri Popoli barbari, s'avanzarono fin alle rive del Danubio, e le valicarono sotto l'Imperio di Giustiniano[108]. Gettatisi poi nell'Illiria, ne occuparono finalmente una gran parte, particolarmente quella, che sta tra la Drava e la Sava, tirando verso [69] l'Occidente, chiamata ancor oggidì dal loro nome Schiavonia.

Questi calando dalla Dalmazia, che già avevano occupata, sbarcati a Siponto, cominciarono a depredare la nostra Puglia. Ajone intesa l'irruzione degli Sclavi nella Puglia, la quale era stata in gran parte al Ducato beneventano aggiunta, unite al meglio che potè alquante truppe, andò in assenza di Radoaldo prestamente per combattergli; ma venuto presso al fiume Ofanto all'armi, cadde in un fosso, dove sopraggiungendo gli Schiavoni lo ammazzarono[109]. Non tenne Ajone più il Ducato di Benevento, toltone i cinque mesi, che regnò insieme col padre, che un solo anno; ma lui morto, trionfando gli Sclavi della vittoria riportata sopra il medesimo, sopraggiunse opportunamente con valide forze Radoaldo, il quale investitigli con incredibil valore gli sconfisse e disperse; e dopo aver sì fortemente vendicata la morte d'Ajone, al Ducato di Benevento fu assunto con Grimoaldo suo fratello, conforme all'istituzione d'Arechi, il quale ed a se ed al figliuolo avea provveduto di successore.

Resse questo Principe il Ducato beneventano insieme con Grimoaldo suo fratello cinque anni. Invase costui altre regioni de' Greci, e presso Sorrento portò le sue armi: assediò questa città, sforzandosi di prenderla per assalto; ma i Sorrentini respinsero le sue truppe, incoraggiti anche da Agapito loro Vescovo; onde Radoaldo sciolse l'assedio, e Sorrento fu liberata[110].

Governando costoro il Ducato di Benevento, s'intesero [70] la prima volta di queste province, che ora compongono il nostro Regno, le nuove leggi scritte dei Longobardi, pubblicate da Rotari col riferito suo editto: quindi le città del nostro Regno, che in quel Ducato eran comprese, ed i nostri provinciali, ancorchè quelle per li soli Longobardi fossero state fatte, cominciarono pian piano ad apprenderle e rendersele famigliari tanto, che ne' tempi seguenti bisognò, che le romane cedessero e si conservassero solo come antiche usanze presso alla plebe, la quale è l'ultima a deporre le leggi ed i costumi de' suoi maggiori; siccome più innanzi vedremo.

Morto Radoaldo in Benevento nell'anno 647, restando al governo solo Grimoaldo di lui fratello, tenne costui il Ducato anni sedici, senza però comprendervi gli altri anni cinque, che avea regnato col fratello.

CAPITOLO VIII. Di Grimoaldo V. Duca di Benevento: delle guerre da lui mosse a' Napoletani: e morte del Re Rotari.

Grimoaldo V. Duca di Benevento fu un Principe d'animo sì grande e intraprendente, che non contento d'aver distesi i confini del suo Ducato, e riportate molte vittorie sopra i Napoletani e Greci, aspirando sempre ad imprese più alte e generose, finalmente dal suo destino fu esaltato al Trono, e resse il Regno d'Italia, dopo i sedici del suo Ducato, altri anni nove.

Mentre fu egli Duca di Benevento, ebbe sovente [71] a combatter co' Napoletani; ed in questi tempi si narra esser accaduto ciò, che Paolo Varnefrido[111] rapporta, di aver egli impedito a' Greci il sacco della Basilica di S. Michele posta nel monte Gargano, e d'avergli interamente sconfitti. Vien riferito ancora, che quindici anni da poi, asceso già al regal Trono in Pavia, avesse un'altra volta sconfitti i Napoletani, e che questi per tale avversità, tocchi nel cuore, avessero mutata religione, e da' Gentili ch'erano, avessero abbracciata la Religione cristiana, siccome narrano l'Autore degli Atti dell'Apparizione Angelica[112], e l'ignoto Monaco Cassinese[113].

Ma poichè questi successi variamente dagli Scrittori si narrano, alcuni a' Saraceni imputando ciò, che Paolo ascrive a' Greci; altri, con manifesto anacronismo, più indietro portando questi successi, gli fingono a' tempi di Teodorico e d'Odoacre, quando i Longobardi non erano ancora in Italia conosciuti; ed altri con maggior verità l'attribuiscono a' medesimi Longobardi; perciò sarà a proposito più distesamente mostrare, che non i Greci, o i Napoletani, ovvero i Saraceni, ma i Longobardi diedero il sacco a quel santuario, e che la conversione dal Gentilesimo al Cattolichismo, la quale a' Napoletani s'imputa, dee a' Longobardi beneventani, non già agli altri attribuirsi.

Il monte Gargano, posto nella Puglia sopra Siponto dirimpetto all'isole Diomedee del mare superiore, oggi dette di Tremiti, nome ancor egli antichissimo, e da [72] Tacito[114] usato, fu prima renduto celebre al Mondo da Virgilio e da Orazio; ma da poi a tempo di Gelasio I. Pontefice romano, fu assai più rinomato per la maravigliosa apparizione in questo luogo accaduta dell'Arcangelo Michele; e discacciati d'Italia i Goti dall'Imperador Giustiniano per Belisario e Narsete, ed all'Imperio d'Oriente finalmente restituita, fu incredibile la venerazione de' Greci verso questo Santo. Non vi ebbe città così nella Grecia, come in Italia, che non gli fabbricasse tempj e non gli dirizzasse altari. Narra Procopio[115], che da Giustiniano nella sola città di Costantinopoli gli furon molti nuovi tempj eretti, ed altri antichi rifatti: il cui esempio imitarono ancora l'altre città greche d'Italia. In Napoli massimamente la di lui venerazione fu maravigliosa, avendogli i Napoletani innalzato ancor essi un tempio, che poi secondo il rito della Chiesa romana, fu in tempo di S. Gregorio M. dedicato, e lo stesso Pontefice di questa dedicazione in una sua epistola fa memoria[116]. Di molti altri Imperadori greci, e particolarmente di Eraclio si narra lo stesso, i quali di ricchi e preziosi doni arricchirono quel santuario: in guisa che non potrà porsi in dubbio, che i Napoletani per lungo tempo a' Greci congiunti, non avessero una pari religione e venerazione a questo Arcangelo portata: ed il voler imputare i Napoletani in questi tempi d'infedeltà e d'idolatria, egli è un error così grande, che la sola cronologia de' Vescovi cattolici di questa città, [73] e ciò che nel precedente libro si è narrato, può renderlo manifesto e indubitato.

All'incontro è certissimo, che quando i Longobardi ritolsero a' Greci l'Italia, non altra religione professavano, se non quella de' Pagani, e molti l'Arrianesmo, e quantunque nel Regno d'Agilulfo, seguendo i Longobardi l'esempio del loro Principe, avessero molti di essi lasciato l'Arrianesmo e l'Idolatria; nientedimeno perseverando gli altri Re suoi successori nell'Arrianesmo, fu cagione, che i Longobardi, e particolarmente que' di Benevento tornaron di nuovo nei primi errori, de' quali non finiron d'interamente spogliarsi fino all'anno 663, quando, fugato Costanzo Imperadore per opera di S. Barbato Vescovo di Benevento, alla religion cattolica furon convertiti, come quindi a poco diremo.

È altresì notissimo a chi attentamente considererà l'istoria de' Longobardi di Paolo Varnefrido, che questo Scrittore, siccome furono tutti gli altri di tal Nazione, per esser longobardo, si è studiato a tutto potere di scusare i suoi da questa nota d'infedeltà, e dagli errori d'Arrio; anzi in tutto il corso della sua istoria non favellò mai della religione, che tennero questi Popoli, tanto che nemmeno della loro conversione per opera di S. Barbato alla cattolica credenza ne dice parola, per fuggire di non esser costretto a far menzione degli antichi errori, come accuratamente notò il diligentissimo Pellegrino[117].

Quindi nella storia sua molte cose sono imputate a' Greci, che da' Longobardi si commisero, siccome [74] con verità osservò anche il Cardinal Baronio[118]: e chiarissimo documento ne farà questo stesso successo: conciossiachè è affatto incredibile, che i Greci cotanto veneratori di quel santuario avessero potuto avere un animo così perverso, come e' dice, di saccheggiarlo, e che perciò venuti all'armi co' Longobardi, fossero da costoro stati distolti di così esecrando e sacrilego eccesso. Tutto al rovescio è da credersi, che andasse la bisogna, ed appunto come ce la descrive il Pellegrini[119], cioè che i Longobardi contendendo co' Greci della possessione di quel luogo, dopo una lunga ed ostinata pugna, finalmente fosse loro riuscito di vincere i Greci, e siccome quelli ch'eran già avvezzati a somiglianti scelleratezze, ciocchè essi sotto Zotone avevan altra volta fatto nel monte Cassino, vollero Sotto Grimoaldo replicar nel monte Gargano, saccheggiando quel santuario, che ricco per varj doni de' Greci potè invitar la loro rapacità a quel sacrilegio. Ed in fatti dagli atti medesimi di S. Barbato Vescovo di Benevento, che non ancora impressi si conservavano nel monastero delle Monache di S. Gio. Battista della città di Campagna, e che furono da poi da Giovanni Bollando[120] dati alla luce colle sue note, e parte d'essi si veggono ora anche impressi nell'ottavo volume di Ferdinando Ughello[121], si vede con chiarezza, che quella Basilica patì allora in realtà il sacco: tanto è lontano, che fosse stato impedito dai Longobardi beneventani, restando così incolta e desolata, ut nec sedulum illic officium persolvi possit, come [75] dice S. Barbato. Nè cominciò a restituirsi al suo antico lustro, se non quindici anni da poi, quando discacciato Costanzo da' Longobardi, a' conforti di Barbato abbracciarono la Religion cattolica, deponendo l'Infedeltà; la qual conversione all'Autore degli Atti dell'Apparizione Angelica, essendo parimente Longobardo, piacque ancora d'addossarla a' Napoletani greci come vedremo più innanzi: ciò che maggiormente confermerà quanto ora si è detto.

E per questa stessa ragione si vede, che vanno eziandio errati coloro[122], i quali vogliono imputare i Saraceni di ciò, che Paolo Varnefrido narra de' Greci; scrivendo essi, che Grimoaldo nel monte Gargano in questi anni del suo Ducato avesse combattuto co' Saraceni, i quali volendo saccheggiar quel santuario, furono da Grimoaldo sconfitti e debellati; poichè questa guerra fu, come Varnefrido la scrive, tra' Longobardi e Greci, e non co' Saraceni, i quali in questi tempi non erano ancora venuti a depredare queste nostre province; e poi quando ci vennero, non nel Gargano, ove non mai si fermarono, se non negli ultimi tempi, ma nel Garigliano sua aliquando domicilia habuerunt, come dice il Pellegrino. Nè è vero, che fu impedito il sacco, perchè seguì veramente; onde la sconfitta, che si narra data a' Saraceni nel Gargano da Grimoaldo, è ugualmente favolosa di quell'altra, che dal Summonte e da altri vien riferita di aver ricevuta in Napoli da S. Agnello Abate, in tempo che questi Popoli in Italia non erano stati ancora conosciuti; nè il nome loro era stato in queste nostre parti peranche inteso.

[76]

Ma mentre i Longobardi beneventani sono occupati in queste guerre co' Greci napoletani, accadde nell'anno 652 in Pavia la funesta morte di Rotari Re, il quale morendo lasciò erede e successore nel Regno Rodoaldo suo unico figliuolo, non restando altri della sua virile stirpe, che questo unico rampollo. Resse Rotari sedici anni il Regno con tanta prudenza e giustizia, che tra i Principi più illustri della terra fu meritamente annoverato; e dall'aver egli lasciato in libertà i suoi sudditi di poter vivere in quella religione, che volessero, permettendo, che in quasi tutte le città del suo Regno vi fossero due Vescovi, l'un cattolico e l'altro arriano, diede questo pernizioso esempio nuovo stimolo agli empj Politici di confermare la loro massima, che il Principe non dovesse molto impacciarsi della religione de' sudditi, nè sforzargli a dover credere, e professar quella, ch'egli reputasse la più vera: onde Bodino[123] difensor di questa perversa dottrina, all'esempio di Teodosio M. di cui crede, che avesse medesimamente permesso a' suoi sudditi simile libertà di coscienza, senza curarsi punto se fossero arriani o cattolici, non si dimenticò d'aggiunger questo altro di Rotari, il quale permise lo stesso. Non è però da tralasciarsi di notar qui di passaggio l'errore di questo Scrittore, che reputò Teodosio M. essere stato Autore di quella legge[124], la quale quantunque nel Codice Teodosiano portasse in fronte così il nome di Teodosio M. come l'altro di Valentiniano II, egli è però costante presso a tutti gli Scrittori, che Autore di quella ne fosse Valentiniano, il quale [77] per impulso dell'Imperadrice Giustina sua madre, e ad istanza de' Goti arriani, residendo in quell'anno in Milano la fece pubblicare, contro alla quale declamò tanto S. Ambrogio Vescovo di quella città; ed è altresì noto, che ancorchè gl'Imperadori reggessero allora l'Imperio diviso in occidentale ed orientale, nulladimanco il costume era, che le leggi, che si promulgavano o dall'uno, o dall'altro, portavano in fronte i nomi di tutti coloro, che governavano allora l'Imperio: ciocchè osserviamo ancora ne' marmi; ed infiniti altri esempj ne somministra il Codice stesso Teodosiano, siccome fu anche osservato dal diligentissimo Jacopo Gotofredo[125], il quale dell'istesso errore notò Francesco Baldovino, che per quella iscrizione credè parimente, che Teodosio M. fosse stato autore di quella legge.

CAPITOLO IX. Di Rodoaldo, Ariperto, Partarite e Gundeberto, VIII, IX, X e XI Re de' Longobardi.

Siccome nel lungo e savio Regno di Rotari, le cose de' Longobardi andarono molto prospere in Italia, così il molto breve e sconsigliato di Rodoaldo suo figliuolo, e più la discordia de' suoi successori pose le loro fortune in pericoloso stato. Rodoaldo, ancorchè Varnefrido rapporti aver regnato cinque anni, appena governò solo un anno; poichè avendo stuprata la moglie d'un certo Longobardo, fu dal marito ammazzato; [78] e ne' suoi cinque anni di Regno, Paolo annoverò quelli, quando regnò insieme col padre, che lo fece suo collega.

Essendo mancata per tanto la maschile stirpe di Rotari, raunati i Longobardi per creare un nuovo Re, elessero Ariperto figliuolo di Gundoaldo fratello di Teodolinda. Tenne costui il Regno de' Longobardi nove anni, secondo Varnefrido[126]; nè in tutto il corso del suo Imperio l'istoria rapporta cosa di lui degna di memoria, se già non se gli volesse ascrivere a lode l'opinione, che di lui avevasi, che fosse alla religione cattolica assai inclinato contro all'esempio di Rotari e del figliuolo Rodoaldo.

Morì nell'anno 661 Ariperto, e lasciò di se due figliuoli, Partarite e Gundeberto, tra i quali partì con pessimo consiglio il Regno. Così Gundeberto tenne la sede del suo Regno in Pavia, e Partarite nella città di Milano: che fu cagione, onde a Grimoaldo nostro Duca di Benevento s'offerse l'opportunità di scacciare ambedue dalle loro sedi, e di rendersi signore di tutto il Regno; poichè nata fra' due fratelli discordia e odio grandissimo, ciascuno cercava d'occupare il Regno dell'altro; onde non contento Gundeberto di sua sorte, vennegli talento di tener solo l'intero Regno, e discacciarne il fratello: ma non fidandosi delle proprie forze, mandò Garibaldo Duca di Torino a Grimoaldo Duca di Benevento, perchè a questa impresa l'aiutasse, promettendogli in premio la sorella per moglie.

Ma il Duca di Torino tutto altro espose a Grimoaldo, e tradendo il suo Signore, lo persuase a non [79] dover trascurare d'approfittarsi di questa discordia, che poteva porgli in mano il Regno; nè durò molta fatica a persuaderlo: onde preso dall'avidità di regnare unì, come potè il meglio, alquante truppe, e lasciato in Benevento per Duca Romualdo suo figliuolo, verso Pavia incamminossi. Giunto a Piacenza spedì a Gundeberto coll'avviso della di lui venuta Garibaldo, il quale fatta l'imbasciata, volle in oltre persuaderlo a dovergli andare incontro; e se pure avesse di qualche cosa sospettato, poteva sotto le regali vesti armarsi di corazza; dall'altro canto con inaudita perfidia avvertì Grimoaldo, che si guardasse bene di Gundeberto, poichè armato veniva ad incontrarlo. Credette Grimoaldo al traditore; e tanto più stimò vero il sospetto, che essendosi poi incontrati, tra i saluti e gli abbracciamenti, toccò veramente esser Gundeberto di corazza armato, onde punto non dubitò che tutto si fosse apparecchiato per ucciderlo, nel quale impeto sfoderando la spada lo trafisse, e morto lo distese a terra, ed in un subito occupò il Regno, facendosene signore. Aveva allora Gundeberto un picciol figliuolo chiamato Ramberto, il quale secretamente fu trafugato da' suoi fidati, e fatto diligentemente allevare: nè Grimoaldo si curò molto di averlo in mano, perciocchè era ancora bambino.

Non così tosto ebbe di questo successo avviso Partarite, che pien di paura, con celerità grande lasciando in abbandono lo Stato, Rodolinda sua moglie, e Cuniperto picciolo suo figliuolo, se ne fuggì, e sotto Cacano Re degli Avari ricovrossi. Grimoaldo preso ch'ebbe Milano, confinò in Benevento Rodolinda e Cuniperto, e passato da poi in Pavia, fu proclamato Re dagli stessi Longobardi nel fine di questo anno [80] 662, ed avendosi sposata la sorella di Gundeberto con estrema allegrezza di tutti, rimandò carico di doni l'esercito in Benevento, e seco ritenne solo alcuni suoi più fidati, che innalzò poi a' primi onori del Regno.

CAPITOLO X. Di Grimoaldo XII. Re de' Longobardi, di Romualdo VI. Duca di Benevento; e della spedizione Italica di Costanzo Imperador d'Oriente.

Mentre Grimoaldo regnava in Pavia, e Romualdo suo figliuolo in Benevento con tanta felicità, ecco che lor s'appresta una guerra oltramodo travagliosa e crudele, la quale portava il pericolo sommo d'esser dai loro Stati interamente discacciati. Infino a qui gl'Imperadori greci poco curando delle cose d'Italia, e contenti solamente d'avere in lei l'Esarcato di Ravenna, il Ducato di Roma, e quelli di Napoli, di Gaeta, e d'Amalfi, con alcune altre città della Calabria e dei Bruzj, niun pensiero prendevansi di restituirla al loro Imperio. L'Imperador Eraclio appena potè contenere i Longobardi ne' loro limiti, perchè interamente non finissero di scacciare d'Italia i Greci; ma morto costui nel mese di maggio dell'anno 641 lasciò per successore Costantino suo figliuolo; fu allora veduta la sede di Costantinopoli in tante revoluzioni, che non potè pensare alle cose d'Italia; conciossiachè Costantino non istette più sul Trono, che quattro, o [81] second'altri[127], sei mesi, avendolo fatto morire Martina sua madrigna, per mettervi Eracleone suo figliuolo. Ma questi ne fu cacciato in capo a sei mesi, e relegato insieme con sua madre. Costanzo, figliuolo di Costantino, gli succedè nell'anno 642, in tempo del quale l'Imperio d'Oriente cominciò ad aver qualche respiro. Questo Principe s'invogliò talmente di riunire l'Italia all'Imperio d'Oriente, che reputò indegnamente portar la corona di quell'Imperio, se non avesse d'Italia affatto i Longobardi discacciati: e fu tanta l'ardenza sua in eseguire questo disegno, che non soddisfatto di mandarvi Capitani per questa impresa, volle egli stesso, lasciando in abbandono la sede di Costantinopoli, portarsi in persona in queste nostre contrade, e porsi alla testa dell'esercito: cosa veramente nuova, nè altre volte accaduta, essendo stata questa la prima volta, che fu veduto un Imperador d'Oriente portarsi in Italia ed in Roma. La novità e stravaganza del qual fatto diede molto da pensare per iscovrire i consigli e le cagioni di tal mossa.

Alcuni credettero, che avendo egli scelleratissimamente ammazzato Teodoro suo fratello, il quale sovente con immagini tetre e formidabili lo spaventava, agitato da sì funeste larve, proccurasse allontanarsi da quella città, e da que' luoghi a lui già fatti odiosi e funesti[128]. Altri attribuivano questa sua mossa all'odio, che i Costantinopolitani portavangli per aver egli abbracciata l'eresia de' Monoteliti, e che perciò proccurasse trasferir la sede dell'Imperio in Roma. Ma i più sensati Autori, fra i quali sono Anastasio Bibliotecario [82] e Varnefrido[129], dicono che non per altro si fu mosso, se non per la cupidità di ricuperare l'Italia, e per la speranza di potere con le sue forze discacciare da questi luoghi i Longobardi. Perciò nella primavera di questo anno 663, apprestata una grande armata di mare, da Costantinopoli partissi, e verso Taranto dirizzò il cammino. Molte città di queste province, che ora formano il nostro Regno, tenevansi tuttavia ne' tempi di Costanzo sotto la Signoria dei Greci, i quali oltre al Ducato napoletano, e agli altri Ducati minori, vi avevano parimente molte altre città marittime della Calabria, siccome Taranto altresì, non ancora da' Longobardi beneventani occupata. Giunto Costanzo in questa città, e sbarcatevi le sue truppe, alle quali unironsi poi i Napoletani, verso Benevento dirizzossi. Questa non aspettata comparsa de' Greci pose da principio in tanta costernazione e spavento i Beneventani, che molte città della Puglia furon da essi abbandonate: onde con leggier contrasto potè Costanzo prender e devastar Lucera, città da Siponto non molto lontana: ma non potè già far lo stesso di Acerenza per esser posta in fortissimo luogo: e non volendovi consumare più lungo tempo, andossene prestamente a campo sotto Benevento, e di stretto assedio la cinse.

[83]

§. I.  Di Romualdo, VI. Duca di Benevento.

Romualdo Duca di Benevento vedutosi in questo stato, tosto spedì Gesualdo suo Balio al Re Grimoaldo suo padre in Pavia, perchè gli mandasse validi soccorsi: ed intanto i Longobardi beneventani, ancorchè da' Greci fosse più volte stata assalita la città, sempre però gli ributtarono, ed alle volte ancora gli assalirono ne' proprj alloggiamenti con varie sortite, e per ogni parte danni e rotte considerabili gli diedero: nella difesa della quale città, non conferì poco l'opera di Barbato Prete, e poi suo Vescovo, il quale declamando sempre, che di questi mali eran puniti i Longobardi beneventani con guerre sì crudeli, perchè non ancora avean deposta la superstizione de' Gentili, ed alcuni l'Arrianesimo; tanto fece, che ridusse quei popoli a deporre l'Idolatria, e ad implorare per lo scampo delle imminenti calamità il divino aiuto e la protezion de' Santi: e ad esser da poi persuasi, che ne fossero scampati per opera divina. Ma mentre Costanzo era in questo assedio, ecco che il Re Grimoaldo vien di persona con potente esercito a soccorrere il figliuolo; ed in tanto manda Gesualdo a dargli avviso che stasse di buon animo, ch'egli era ben tosto per liberarlo. Ma l'infelice, giunto al campo nemico, mentre tenta di gettarsi dentro l'assediata città, fu preso e portato innanzi all'Imperador Costanzo, il quale sentendo, che Grimoaldo già sen veniva con forte esercito a soccorrere il figliuolo, e ch'era già vicino, turbossene grandemente: e risoluto di levar l'assedio, tentò, perchè sicuramente potesse farlo, e potesse anche ricavarne qualche onesta condizione di pace, che [84] Gesualdo tutto al rovescio esponesse a Romualdo l'ambasciata; onde fattolo condurre sotto le mura, il costrinse a chiamar Romualdo, al quale voleva egli che dicesse di non potere in conto alcuno venir suo padre per soccorrerlo; ma Gesualdo con animo intrepido e forte, veduto Romualdo sopra la muraglia, con alta voce, perchè tutti i Greci, ch'eran presenti, anche il sentissero, gli disse: Sta forte, e di buon animo, o Signore, e non ti smarrire; ecco tuo padre è già vicino con potente esercito per tuo soccorso, e questa notte al fiume Sangro dee esser giunto. Ben ti raccomando la mia cara moglie, ed i miei cari figliuoli perchè son certo, che questi ribaldi Greci mi faran tosto morire[130]. Sdegnato fieramente Costanzo per così generoso e magnanimo atto, fecegli tosto mozzare il capo, che con una briccola il fece buttar dentro le mura della città. Il Duca Romualdo presolo ed affettuosamente baciandolo, di molte lagrime il bagnò, così onorando la singolar sua virtù, e l'amor del suo fedele, con fargli inoltre dare sontuosa e nobile sepoltura.

Temendo perciò l'Imperadore della venuta di Grimoaldo, sciolse l'assedio, e mentre verso Napoli, sua città, frettoloso si avvia, il Conte Mitula di Capua nel cammino diede al suo esercito una grande rotta al fiume Calore, che non poco l'afflisse: e giunto finalmente in Napoli con animo di voler quindi passare in Roma, essendosi esibito Saburro, che gli dava il cuore, se l'Imperadore lasciasse sotto al suo comando ventimila soldati, di debellar tutti i Longobardi, e riportarne certa vittoria; Costanzo glieli concedette, e [85] lasciollo sul passo di Formia, che ora dicono esser Castellone, o Mola di Gaeta, almeno perchè gli servissero per tener a freno il nemico, che andando egli in Roma, lasciavasi indietro. L'esercito di Saburro era misto di Greci e di Napolitani, Popoli che furon sempre rivali ed implacabili nemici de' Beneventani, e co' quali ebbero sempre crudeli ed ostinate guerre. Era Grimoaldo giunto in Benevento, quando intese i vanti di Saburro, ed i disegni de' Greci, e fu per andarvi egli di persona per combattergli; ma pregato da Romualdo suo figliuolo, che a lui commettesse questa impresa, bastandogli il cuore di vincergli, egli ne fu contento, e gli diede una parte del suo esercito. Con intrepidezza incomparabile affrontò Romualdo l'esercito nemico, e mentre fieramente si combatte, ed era ancor dubbia la pugna, ecco che un Longobardo, Amelongo nomato, ch'era solito di portar la lancia innanzi al Re, con animo forte, coll'istessa lancia percosse un Cavalier greco con tanta forza ed empito, che levatolo da sella l'alzò all'aria in alto, e per sopra il suo capo lo fece precipitare in terra. Per così valoroso fatto tanto terrore e spavento entrò ne' Greci che vilmente abbandonando il Campo, dieronsi a fuggire, ed i Longobardi seguitandogli fecero di loro strage crudelissima, e piena vittoria ne riportarono. Romualdo pien di gioja, trionfando, in Benevento tornossene, ove accolto dal padre e da' Beneventani con applauso grande, da tutti, come liberator della Patria e dello Stato, fu onorato e commendato. Intanto l'Imperador Costanzo quando vide vana ogni sua opera, parendogli essere fuori di ogni speranza di superare i Longobardi, perchè all'intutto non paresse inutile la sua venuta in Italia, pensò, pieno di cruccio andare in Roma [86] ove, ancorchè fosse stato accolto con molti segni di stima e di venerazione da Vitaliano romano Pontefice, in dodici giorni, che vi dimorò, non attese ad altro, che a spogliarla de' più ricchi ornamenti, che vi ritrovò, e toltone quanto eravi di più rado, d'oro, d'argento, di bronzo, e di marmo, e fattolo imbarcar ne' suoi legni per condurlo in Costantinopoli, egli per cammin terrestre tornossene a Napoli, e quindi a Reggio, ove la terza volta furono le sue truppe da' Beneventani battute: indi a Sicilia portossi; quivi essendo egli dimorato qualche tempo, fu in Siracusa, mentre si lavava nel bagno, nell'anno 668 da' suoi stessi miseramente ucciso[131]; e le sue inestimabili prede e ricchezze, che da Roma e da altri luoghi aveva raccolte, capitate in mano de' Saraceni, non già in Costantinopoli, ma in Alessandria furon condotte.

Ecco qual fine, per se e per li Greci funesto, ebbe l'impresa di Costanzo, il qual promettendosi di restituire l'Italia al suo Imperio, rendè più prospere le fortune de' Longobardi: spedizione quanto infelice per li Greci, a' quali mancò poco, che non fossero interamente scacciati d'Italia, altrettanto avventurosa e prospera per li Longobardi, i quali maggiormente stabiliti ne' loro Stati, a niente altro da poi furono intenti, che a discacciare i Greci da quelle città, ch'essi ancor ritenevano. Per queste illustri vittorie Romualdo ampliò poi tanto il Ducato beneventano, che discacciati i Greci da Bari, Taranto, Brindisi, e da tutti que' luoghi della Calabria, che oggi Terra d'Otranto diciamo, gli ridusse al solo piccolo Ducato di Napoli e di Amalfi, ed Otranto. Gallipoli, Gaeta, e ad alcune [87] altre città marittime de' Bruzj, che oggi Calabria ulteriore chiamiamo.

Queste furono le memorabili rotte, che gl'Istorici in questi tempi narrano essersi date da' Beneventani a' Napoletani, ne' quali per opera di S. Barbato i Longobardi beneventani abbandonarono interamente l'Idolatria e la superstizione: il culto della religione cattolica tenacemente abbracciando. La qual conversione, volendo a sommo studio tener nascosta Varnefrido e lo Scrittore degli atti dell'Apparizione Angelica nel monte Gargano, ambedue di nazione longobarda, perchè con ciò non si scovrisse, che sino a questi tempi i Longobardi avevan ritenuto il Gentilesimo, di ciò, ch'essi fecero, n'imputarono i Napoletani, i quali, come si è veduto, e di quel santuario, e della fede cattolica erano riverenti e tenaci. Nè maggior pruova di questo potrà aversi, se non dagli Atti di S. Barbato istesso, dati ora alla luce dal Bolando, e dall'Ughello[132], il quale Santo, dopo aver persuaso al Duca di Benevento ed a' Longobardi, per opera divina, e dell'Arcangelo Michele essere scampati da tante calamità, questi, deposto ogni rito pagano, ed abbracciata la religion cattolica, lo elessero per Vescovo di quella città; ed avendogli il Duca profferto molti e ricchi doni, il santo Vescovo gli rifiutò, persuadendo a Romualdo, che que' doni offerisse alla Basilica del monte Gargano, la quale, a cagion del preceduto sacco, essendo rimasa incolta e men frequentata, proccurasse egli renderla più culta, e col suo esempio la venerazion di quel luogo a' suoi Longobardi instillasse; ed inoltre che tutto ciò, ch'era nel tenimento [88] del Vescovato Sipontino alla sua sede beneventana sottoponesse, perchè que' luoghi allora incolti, posti sotto la sua cura, meglio da lui potessero custodirsi e governarsi; siccome da Grimoaldo fu fatto. Quindi nacque, che fin da questi tempi di Vitaliano, romano Pontefice, il Vescovato di Siponto, e la cura della Basilica garganica alla sede beneventana si appartenne; com'è pur manifesto da alcune epistole di Vitaliano Papa a Barbato istesso dirette, rapportate da Mario Vipera nel libro primo della sua Cronologia de' Vescovi ed Arcivescovi beneventani, onde da poi ne' tempi seguenti lungamente si è veduta la Chiesa sipontina e la garganica a' Vescovi beneventani soggetta, insino che, ruinando già il Principato di Benevento, fu a Siponto dato il suo Arcivescovo, alla cui cura ritornarono assolutamente queste Chiese, come, quando della politia ecclesiastica di questi tempi ci tornerà occasione di trattare, più distesamente diremo.

Per questa cagione crebbe la venerazione di questo santuario appresso i Longobardi beneventani, tanto che per lor protettore lo riconobbero, e siccome i Longobardi Subalpini ebbero per loro protettore il Precursor di Cristo, i Longobardi spoletani S. Sabino Vescovo e Martire; così i nostri Longobardi Cistiberini ebbero l'Arcangelo Michele[133]; onde si fece poi che tutte le vittorie, che ne' seguenti tempi riportarono i Beneventani sopra i Napoletani, come che sovente accadute, siccome fu questa agli otto di Maggio, giorno dell'Apparizione Angelica, tutte l'attribuirono [89] all'intercessione di questo lor protettore[134]. Quindi parimente si manifesta l'error di coloro, i quali, ignari di questi fatti, riportano indietro questi avvenimenti sino a' tempi di Teodorico ostrogoto, e vedendo che ancor prima di que' tempi erano i Napoletani cattolici, vollero, che ciocchè diceasi de' Napoletani infedeli, dovea intendersi de' Vandali, che allora sotto Odoacre eran congiunti a' Napoletani contra i Goti.

§. II.  Venuta de' Bulgari: ed origine della lingua italiana.

Ma ritornando al Re Grimoaldo da noi in Benevento lasciato, questo Principe, vedendo già tutte a terra le fortune de' Greci, da poi ch'ebbe premiato Mitula Conte di Capua, al quale oltre ad aver data per isposa una sua figliuola, per la morte di Zotone, lo fece anche Duca di Spoleti, a Pavia sua regal sede si restituì. Mentre quivi è tutto inteso a gastigar la fellonia di Lupo Duca del Friuli, ecco che viene a lui Alezeco Duca de' Bulgari[135], il quale abbandonando, nè si sa per qual cagione, i suoi proprj paesi, entrato pacificamente in Italia co' suoi Bulgari, offre a Grimoaldo il suo servigio, cercandogli di voler abitare co' suoi in qualche luogo, che gli destinasse del suo dominio. I Bulgari erano usciti da quella parte della Sarmazia asiatica, ch'è bagnata dal fiume Volga; e dopo avere traversati tutti que' vasti paesi, che si stendono da questo fiume fin alle bocche del Danubio, lo passarono per la prima volta al tempo dell'Imperador [90] Anastasio, e diedero spesso grandissimi guasti alla Tracia ed all'Illirico, e stabilironsi finalmente lungo il Danubio, in quel tratto di paese, che comprende le due Misie con la picciola Scizia, che vien detta oggidì Bulgaria dal nome di questi Popoli.

Il Re accoltolo benignamente, pensando potergli molto giovare a soccorrere e ajutare suo figliuolo contra i Greci, lo mandò in Benevento a Romualdo, al quale impose, che a lui colla sua gente assegnasse alcuni luoghi del Ducato beneventano, ove potessero abitare. Il Duca Romualdo graziosamente ricevendogli, diede per loro abitazione molte buone città di quel Ducato, cioè Sepino, Bojano, ed Isernia, con altre città e territorj vicini: ma volle, che lasciato il titolo di Duca (come che que' luoghi glieli assegnava, non in Signoria, nè perpetualmente), chiamar si facesse per l'avvenire Gastaldo, riputando forse ancora cosa inconveniente, che non avendo egli altro titolo, che di Duca, potesse anche un altro a se soggetto ritenerlo. Quindi anche avvenne, che diviso il Ducato beneventano in più Contee, essendo tutte al Duca di Benevento soggette, non avessero altro nome coloro, ch'erano destinati al governo delle medesime, che di Conti o di Gastaldi, e ritenessero que' luoghi, come dice Cujacio, Jure Gastaldiae, non perpetuo, proprioque Feudi Jure[136].

Ed ecco in questo anno 667 introdotta nel nostro Regno una nuova Nazione di Bulgari: gente, che per molti secoli abitò in quelle contrade, che ora Contado di Molise chiamiamo, e che se bene cento cinquanta e più anni da poi, quando Varnefrido scrisse la sua [91] istoria, avessero appreso il nostro comune linguaggio italiano, non aveano però ne' tempi di quest'Istorico ancora perduto l'uso della lor propria favella; come egli rapporta nel lib. 5 de' gesti de' Longobardi al capo 11, nel qual luogo dovrà notarsi, che scrivendo egli, che i Bulgari ritenessero nella sua età il proprio linguaggio, se bene parlassero ancora latinamente, quamvis etiam latine loquantur, non perciò dovrà intendersi, come si diedero a credere alcuni[137], che favellassero colla lingua latina romana, la quale ne' tempi, ne' quali scrisse Varnefrido, cioè verso il fine del nono secolo, era già andata presso al comune in disusanza, e solo nelle scritture, ma molto corrotta, era ritenuta: ed un'altra nuova popolare e comune, dalle varietà e mescolamenti e confusioni di tante straniere lingue colla latina cagionata, erasi già in Italia introdotta, che Italiana appellossi.

Nè bisogna dubitar punto, se in questa stagione avesse la lingua italiana preso piè e vigore, essendo ella più antica che altri non crede. Fin da' tempi di Giustiniano Imperadore attesta Fornerio[138] essersi in Ravenna stipulato istromento, conceptum eo fere sermone, quo nunc vulgus Italiae utitur. Costantino Porfirogenito pur ne' suoi tempi verso l'anno 910 chiamò Città nova Benevento e Venezia[139]. L'Autore degli Atti di Alessandro III presso il Cardinal Baronio[140], riferendo l'ingiurie dette dalle donne Romane ad Ottaviano Antipapa, dice che lo chiamavano lingua vulgari: smanta compagno. Ne' tempi poi di Federico II, [92] già era comunissima, e resa ormai già vecchia: oltre di quel Romito calabrese, che secondo narra Riccardo di S. Germano[141] andava gridando: Benedittu, laudatu e santificatu lu Patre: Benedittu, laudatu, e santificatu lu Fillu: Benedittu, laudatu, e santificatu lu Spiritu Santu, dell'istesso Federico, d'Enzio suo figliuolo bastardo, di Pietro delle Vigne, e di tanti altri di quel secolo, si leggono molte composizioni dettate in italiana favella.

Questa venne dagli Scrittori di questa età, e delle seguenti ancora, detta anche Latina; poichè si usava comunemente da que' medesimi antichi provinciali, che Latini o Romani, per distinguergli o da' Greci, o dai Longobardi, o dall'altre Nazioni, che vennero in Italia, erano appellati, il linguaggio de' quali, prima della corruzione, era il prisco latino; onde è che non solo Paolo Varnefrido, ma appo gli Scrittori molto a lui posteriori, il parlar latino comune e popolare, era lo stesso che il volgar italiano. Così Ottone frisingense[142] loda i Longobardi de' suoi tempi già fatti Italiani, per l'eleganza del sermon latino, cioè dell'italiano, col quale parlavano così bene ed espeditamente. Nè in questi tempi il nostro idioma italiano altro nome avea, che di volgar latino: tale fu appellato nella fine del primo capitolo di Ser Brunetto. Così anche latine loqui presso Dante Alighieri, Petrarca[143], e Giovanni Boccacci[144], sono detti coloro, i quali non del prisco latino, ma col sermon nostro italiano parlavano, [93] come accuratamente osservò anche il diligentissimo Pellegrino[145].

E da questa residenza, ch'ebbero varie Nazioni in molte parti del nostro Regno, è nata quella tanta diversità di linguaggi, ancorchè tutti parlassero italicamente, che oggi osserviamo nelle nostre province. Imperocchè fermati i Bulgari per più secoli in quelle città, ancorchè essi a lungo andare renduti già Italiani, deponessero il sermon proprio, ed il popolare linguaggio apprendessero, e l'antico cedesse al comune italiano; nientedimeno questa mescolanza di due Nazioni in un medesimo luogo portò, che l'italiano, se ben superiore, rimanesse alquanto contaminato; ed oltre alle nuove parole di quella straniera Nazione, quell'aria, o accento, o pur vocabolo dello straniero ritenesse. Così anche nell'altre parti del nostro Regno, come nel Sannio e negli Apruzzi, ove i Longobardi più lungamente si mantennero, lasciarono, oltre a' vocaboli, un'impressione diversa dalla comune italiana favella. Ed in quelle regioni, ove i Greci lungo tempo dominarono, come in alcune città della Calabria, ed in Napoli particolarmente, ancor oggi si ritiene molta aria di quel parlare, e si ritengono ancora molti vocaboli: nè è mancato chi di essi abbia voluto tesserne lungo catalogo, come fece il Capaccio[146] dei vocaboli greci ritenuti anche oggi da' Napoletani, e de' quali nel comun parlare si vagliono. E non essendo finita qui la novità e varietà delle straniere genti, che invasero il Regno, ma succeduta una Nazione all'altra in varj tempi, ed anche in varie regioni di [94] esso; quindi nacque il tanto vario e strano mescolamento, che oggi si vede.

Anche gli Arabi, o sieno Saraceni, lasciarono a noi la lor parte: questi fermati prima nel Garigliano, indi sparsi per le Calabrie, per la Puglia, ed in Pozzuoli, lasciarono fra noi varie parole, come per darne un saggio, sono quelle di Meschino, Magazzino, Maschera, Gibel, che significa monte; onde Gibel l'Etna per eccellenza s'appellò, e poi corrottamente Mongibello, dicendosi due fiate lo stesso; ed altre. E vi è, chi scrisse, che la rima data a' versi, non altronde, che dagli Arabi l'avessero prima i Siciliani e poi gli altri Italiani appresa, e che la portassero anche alle Spagne; e Tomaso Campanella, in conferma di ciò, ne recava in testimonio una canzone schiavona, ove ciò s'affermava, e ch'egli a memoria recitar soleva: donde poi l'appresero l'altre province d'Europa, ed arrivasse sino in Germania, siccome vedesi da quel Poema, o sian versi rimati d'Otfrido, che visse sotto Lodovico Pio, il qual crede Antonio Mattei[147], che fosse il più antico Scrittore, che oggi riconosca la Germania. Anzi, come vedremo ne' seguenti libri di questa Istoria, non altronde, che dagli Arabi venne a noi la filosofia, la medicina, la matematica e l'altre discipline, che per più secoli tennero occupate le nostre Scuole.

Ma essendo poi a' Longobardi, a' Greci, a' Saraceni succeduti i Normanni, e dapoi i Svevi, i Franzesi, gli Spagnuoli, gli Albanesi, e chi nò? si venne per questo, ancorchè tutte le nostre province ritenessero [95] la medesima italiana favella, a quella diversità e mescolanza, che ora vediamo con tanta maggior maraviglia, quanto che non vi è luogo, benchè picciolo, che fosse nel Regno, che o nell'aria o nell'accento, e sovente ne' vocaboli non differisca, e dall'altro non si distingua: ma di ciò sia detto a bastanza, e forse non mancherà occasione di ragionarne altrove ad altro proposito.

§. III.  Leggi di Grimoaldo, e sua morte.

Liberato intanto Grimoaldo da tutti gli sospetti e dalle cure militari, nel sesto anno del suo Regno fu tutto rivolto a' studj della pace, ed a ristabilire con nuove leggi il suo Imperio. Le leggi di Rotari per ventiquattro anni, da che furon promulgate, avevano nell'Italia poste profonde radici; a quelle cominciavano ad accomodarsi non pure i Longobardi, per li quali erano state fatte, ma i provinciali medesimi, ancorchè loro non fosse stato mai interdetto l'uso delle romane. Ma col correr degli anni, come suole accadere, fu osservato non essersi per le medesime proveduto a tutto ciò che era di mestieri, e molte di esse, venendosi all'uso ed alla pratica, sembravano alquanto dure e crudeli[148]. Quindi Grimoaldo, prudentissimo Principe, volendo riformar in parte l'editto di Rotari, ed accrescerlo d'altre leggi, che gli parvero più utili, convocati, come era il loro costume, nell'anno 668, che fu il sesto del suo Regno, i Longobardi e loro Giudici, all'editto di Rotari aggiunse nuove leggi, e riformò le già fatte, ed un nuovo editto promulgò [96] con questo proemio: Superiore pagina hujus Edicti legitur, quod adhuc annuente Domino memorare poterimus, de singulis causis, quae praesenti non essent adfictae in hoc Edicto adjungere debeamus, ita ut causae, quae judicatae, et finitae sunt, non revolvantur. Ideo ego Grimoaldus vir eccellentissimus, Rex gentis Longobardorum, anno, Deo propicio, sexto Regni mei, mense Julio, Indictione undecima, per suggestionem Judicum, omniumque consensum, quae illis dura, et impia in hoc Edicto visa sunt, ad meliorem sensum revocare praevidimus[149].

Questo editto di Grimoaldo si legge nel mentovato Codice Cavense dopo quello di Rotari, e non contiene più che undici capitoli, i cui titoli questi sono. I. Si quis hominem nollendo occiderit. II. Ut causae finitae non revolvantur. III. De servo, qui 30 annos servivit. IV. De 30 annorum libertate. V. De culpa servorum. VI. De 30 annorum possessione. VII. De successione nepotum. VIII. De uxoribus dimittendis. IX. De crimine uxoris. X. Si mulier, aut puella super alia ad maritum intraverit. XI. Si ancilla furtum fecerit. Dopo i quali sieguono i capitoli, o vero le leggi.

Il Compilatore de' tre libri delle leggi longobarde, inserì ancora alcune di queste leggi di Grimoaldo nel primo e secondo libro, sino al numero di sette. La prima si legge nel libro primo sotto il tit. de furtis, et servis fugacibus; la seconda sotto il tit. de culpis servorum; la terza nel libro secondo sotto il tit. de [97] eo, qui uxorem suam dimiserit; tre altre nello stesso libro sotto il tit. de praescription. e la settima nel medesimo libro secondo sotto il tit. qualiter quisque se defendere debeat.

Dopo avere Grimoaldo così bene adempiute le parti d'un ottimo Principe, ecco che per un accidente stranissimo è tolto a' mortali; poichè avendosi fatto salassare nel braccio, dopo nove giorni del salasso, mentre egli fa forza in caricando un arco, gli si apre la vena, nè con tutti gli argomenti possibili potendosi chiudere, esangue se ne morì nel nono anno del suo Regno, che cadde nel 672 dell'umana Redenzione. Fu Grimoaldo fornito d'ogni rara virtù, e per la sua sagacità e singolar accortezza meritamente fu al Trono portato: Principe, che volle anche per la sua pietà lasciar di se lodevole ed onorata memoria; poichè se bene nell'eresia d'Arrio fosse nato e cresciuto, a' conforti di Giovanni Vescovo di Bergamo, uomo di singolar bontà e dottrina, l'abbominò, abbracciando la religion cattolica; nè contento di ciò, molte chiese rifece, ed altre di nuovo costrusse, fra le quali celebre fu quella dedicata ad Alessandro nell'isola di Dulcheria, e l'altra in Pavia al Santo Vescovo Ambrogio[150]. E fu questo esempio così memorando, che gli altri Re suoi successori furon tutti cattolici, e si estinse in lui l'Arrianesmo appo tutti i Longobardi in Italia.

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CAPITOLO XI. Di Garibaldo, Pertarite, Cuniperto, ed altri Re e Duchi di Benevento, infino a Luitprando.

Lasciò Grimoaldo, oltre a Romualdo, che regnava in Benevento, un altro piccolo suo figliuolo Garibaldo nominato, al quale lasciò morendo il Regno. Non fu Romualdo Duca di Benevento al regal solio assunto, ancorchè maggior nato, poichè era comunemente riputato suo figliuol bastardo. Ma Garibaldo non potè molto goderlo, perchè appena innalzato al Trono, Pertarite, ch'esule dimorava in Francia, avuta novella della morte di Grimoaldo, tosto venne in Italia, ove appena giunto, accolto con incredibile contentezza da moltitudine grande de' Longobardi, passò in Pavia. Quivi fugato Garibaldo, che non più, che tre mesi dopo la morte del padre avea regnato, fu da' Longobardi nel Regno restituito; ed avendo richiamata a se Rodolinda sua moglie e Cuniperto suo figliuolo, che in Benevento, in lungo esilio eran dimorati, resse da poi il Regno con tanta quiete e giustizia, che nè violenze, nè ruberie, nè tradimenti furono nel suo governo intesi.

Assunse questo Principe nell'anno 680 per compagno nel Regno Cuniperto suo figliuolo, il quale, morto finalmente Pertarite, nell'anno 690, continuò solo a governarlo. Fu però la sua quiete e tranquillità alquanto interrotta per Alahi Duca di Trento, il quale invase il Regno; ma ne fu ben presto il Tiranno fugato, e Cuniperto vittorioso seguitò ad amministrarlo [99] con la pristina ed antica quiete. Morì Cuniperto nell'anno 703, lasciando per successore al Regno Luitperto unico suo figliuolo ancor infante, e perciò lasciollo sotto la cura d'Asprando uomo di chiara nobiltà, ma sopra tutto di grande prudenza e saviezza. Fu Cuniperto, come dice Varnefrido, un Principe di rada e maravigliosa venustà, e di costumi soavissimi, d'audacia singolare, ed uomo cattolico e di somma pietà, tanto che il Regno de' Longobardi non fu veduto insino a qui mai in tanta pace e tranquillità, quanto nel Regno suo e di Pertarite suo padre.

§. I.  Di Grimoaldo II, Gisulfo I, Romualdo II, Adelai, Gregorio, Godescalco, Gisulfo II e Luitprando Duchi di Benevento.

Intanto al Ducato di Benevento, essendo morto Romualdo nell'anno 677, era succeduto Grimoaldo II, suo figliuolo, al quale lasciò il Ducato molto più grande, avendolo accresciuto colle conquiste di Taranto, Brindisi, Bari e di tutta la regione d'intorno, che tolse egli all'Imperador d'Oriente. Ma si godè Grimoaldo poco il suo Ducato, poichè appena finì tre anni, ne' quali insieme con Gisulfo suo fratello avea regnato, che sopraggiunto dalla morte lasciò suo fratello solo nel Ducato.

Gisulfo tenne il Ducato beneventano, noverandovi i tre anni che regnò con suo fratello Grimoaldo, anni diciassette; e cominciò solo a reggerlo nel fine dell'anno 680. Questi fu, che a tempo di Gio. V, Pontefice romano, intorno all'anno 685, secondo il computo del Pellegrino, devastò la Campagna romana.

Ma morto Gisulfo nell'anno 694 succedette al Ducato [100] Romualdo II, suo figliuolo, e mentre egli reggeva Benevento, fu da Petronace restituito al suo antico lustro il monastero Cassinese. Il Ducato di Romualdo fu ben lungo, durando ventisei anni, e travagliò molto i Napoletani, togliendogli Cuma: ma i Napoletani istigati da Gregorio II, Pontefice romano, ben tosto, militando sotto il loro Duca Giovanni, glie lo ritolsero, e molta strage de' Longobardi fu fatta[151].

A Romualdo nell'anno 720 successe Adelai, che non regnò più, che due anni. Di costui fu successore Gregorio, che tenne il Ducato anni sette, e morto nell'anno 729 fu assunto al Ducato Godescalco, che poco men, che quattro anni lo resse.

Succedè nell'anno 732 Gisulfo II di questo nome, il quale per ammenda del sacco di Zotone, arricchì il monastero di monte Cassino di molti poderi, e di immensi doni accrebbe quel luogo; furongli allora donati que' luoghi e terre dello Stato di S. Germano, che col correr degli anni, accresciuto d'altre donazioni, lo renderon tanto ricco, che i loro Abati fatti Signori di più vassalli, vennero in tale altezza, che mantennero truppe a' loro stipendj.

Resse Gisulfo il Ducato beneventano anni diciassette: Principe di molta pietà, e liberalissimo verso le chiese, alle quali fece profuse donazioni, e molte ne costrusse, fra le quali celebre fu quella di S. Sofia, che in Benevento da' fondamenti eresse. Morì nel fine dell'anno 744, e suo successore fu Luitprando ultimo, che fu Duca di Benevento. Questi tenne il Ducato anni otto e mesi tre, e lui morto nell'anno 758 fu da' Baroni beneventani, e dal Re Desiderio [101] sostituito Arechi suo genero, quegli che, estinto già il Regno de' Longobardi in Italia per Carlo M. fu il primo a mutare il Ducato di Benevento in Principato, e che nuova politia introducendovi, di molti Conti e Gastaldi empiè il suo Stato; e che lasciando il titolo di Duca, prese quello di Principe, e fattosi ungere da' suoi Vescovi, volle assumere la corona, lo scettro e la clamide, e tutte l'altre insegne regali: i cui fatti egregi ci somministreranno abbondante materia nel sesto libro di questa Istoria.

§. II.  Di Luitperto, Ragumberto, Ariperto II e Asprando Re de' Longobardi.

Intanto nel Regno d'Italia a Luitperto, che non regnò più che otto mesi, era succeduto Ragumberto. Questi era Duca di Torino, e fu figliuolo del Re Gudeberto, che lo lasciò molto piccolo, quando fu egli ucciso dal Re Grimoaldo. Invase costui il Regno per la minorità di Luitperto, e finalmente lo scacciò dalla sede.

A Ragumberto, che morì nell'istesso anno, succedè Ariperto II, di questo nome suo figliuolo, di cui si narra aver confirmato alla Chiesa romana il patrimonio delle Alpi Cozie; ma egli fu da poi fugato e morto da Asprando, il quale occupò il Regno: e questi essendo parimente morto dopo tre mesi, lo lasciò a Luitprando suo figliuolo, nel cui tempo germogliarono que' mali, che furon non molto da poi cagione della translazione del Regno d'Italia da' Longobardi a' Franzesi, donde nacque il principio del dominio temporale in Italia de' romani Pontefici, e nacquero tante e sì strane mutazioni in queste nostre province, [102] che per la novità e grandezza de' successi meritano, che, dopo aver narrata la politia ecclesiastica di questi tempi, si riportino al seguente libro della nostra Istoria.

CAPITOLO XII. Dell'esterior politia ecclesiastica nel Regno de' Longobardi, da Autari insino al Re Luitprando; e nell'Imperio de' Greci, da Giustino II insino a Lione Isaurico.

Grandi che fossero stati in questi tempi i progressi de' Patriarchi di Costantinopoli in Oriente, non aveano però infin ad ora stesa la loro patriarcale autorità sopra queste nostre province. Cominciavano bensì pian piano, sostenuti dal favore degl'Imperadori, a metter mano in alcune chiese poste in quelle città, che ancor ubbidivano all'Imperio greco. Prima introdussero di dar a' Vescovi il titolo d'Arcivescovo, poichè non essendo questo nome di potestà, come il Metropolitano, ma solo di dignità, fu cosa molto facile a' semplici Vescovi d'ottenerlo, ed a' Patriarchi di Oriente di darlo. Così leggiamo, che sin da' tempi dell'Imperador Foca, che resse quell'Imperio dall'anno 602 in fino al 610, cominciarono i Patriarchi di Costantinopoli, secondo il solito fasto de' Greci, a dare a molti nostri Vescovi delle città, che a loro ubbidivano, questo spezioso nome d'Archivescovo, come fecero, non senza collera e sdegno de' romani Pontefici, con quello d'Otranto, di Bari, e da poi anche con [103] quel di Napoli[152]. Questi furono i primi passi, che diedero in queste nostre parti: ma in Oriente per essere state le altre città patriarcali occupate da' Barbari, e posti a terra que' tre Patriarchi, tanto che non potè di lor conservarsi continuata successione, si rendè il costantinopolitano più altiero e fastoso. Quindi Giovanni il Digiunatore, che fu eletto Patriarca di Costantinopoli nell'anno 585, imperando Maurizio, prese il fastoso titolo di Patriarca Ecumenico.

Ma dall'altra parte non erano minori i progressi del Patriarca di Roma in Occidente, sicchè non si potesse contrastare a tanta alterigia, e far contrappeso a tanta potenza. E sopra ogn'altro in questi medesimi tempi erasi la Cattedra di Roma grandemente innalzata per la santità e dottrina di Gregorio il Grande, che nell'anno 590 vi sedette. Questo Pontefice mantenne l'autorità e diritti della sua sede, e fece valere la sua autorità in tutto Occidente: si oppose al Patriarca Giovanni, non approvando il titolo fastoso d'Ecumenico, come ambizioso, e che riguardava a diminuire la potestà e la giurisdizione degli altri Vescovi; onde fu il primo, che volle nomarsi e sottoscriversi Servo de' servi di Dio, per opporlo al titolo fastoso d'Ecumenico del Patriarca di Costantinopoli[153].

Proccurò ancora a questo fine mantenersi nella grazia degl'Imperadori d'Oriente, di cui egli si professava suddito[154], poichè Roma ubbidiva a que' Principi, e per rendersi a coloro benemerito, si oppose sempre a' sforzi de' Longobardi, vegghiando non pure alla difesa di quella città, ma di tutte le altre, e di [104] Napoli particolarmente, perchè si fosse mantenuta in Italia la Signoria degl'Imperadori d'Oriente, per fare contrappeso alle forze de' Longobardi, che aspiravano alla universal Monarchia di tutta Italia, e discacciarne da quella affatto i Greci. Soccorreva perciò i popoli colle sue grandi liberalità: e nel sacco che i Longobardi diedero a Crotone, ove ridussero que' cittadini in cattività, egli s'adoperò tanto con opere e con uficj, che ne furono riscattati. Attese perciò con vigilanza particolare alla cura delle chiese d'Italia e di Sicilia, e di tutte queste nostre province, le quali come prima non riconoscevano altro Patriarca, che lui, e gli altri romani Pontefici suoi successori. Così veggiamo, che per le ordinazioni de' Vescovi di Sicilia, di Napoli, di Capua, di Miseno, di Benevento, della Puglia, della Calabria, della Lucania e dell'Apruzzo, a lui si ricorreva, e le contese insorte per l'elezioni da lui si terminavano. Pose ancora tutta la sua applicazione agli affari della Chiesa universale, e s'affaticò non solo d'estinguere la divisione, ch'era nella Chiesa tra i Latini ed i Greci, ma eziandio per liberar l'Affrica dallo scisma de' Donatisti: e mandò il Monaco Agostino co' suoi compagni in Inghilterra per convertire que' Popoli. Pose ogni studio, perchè per mezzo di Teodolinda i Longobardi, deposta l'Idolatria e l'Arrianesmo, passassero nella fede cattolica. Vietò nondimeno di costringere gli Ebrei colla violenza a farsi Cristiani. E sopra tutto attese alla conservazione della disciplina ecclesiastica, e di fare osservare inviolabilmente i canoni in tutte le chiese, tenendo per fermo, che in ciò massimamente risplendesse la potestà e l'autorità, che gli concedeva il Primato della sua sede.

[105]

Le medesime pedate furon calcate da' successori di Gregorio; poichè se bene, morto costui nell'anno 604, gli succedesse Sabiniano, che non tenne quella sede più di cinque mesi e vent'uno giorni; succeduto che vi fu Bonifacio III, questi, come che era stato lungo tempo Nunzio appresso l'Imperador Foca successore di Maurizio, aveva colla sua prudenza trovato modo d'insinuarsi nella di lui grazia; e se dee prestarsi fede ad Anastasio, Beda, Varnefrido, ed a molti altri Autori, nella pretensione, nella quale erano entrati i Patriarchi di Costantinopoli intorno al Primato sopra tutte le chiese, ottenne Bonifacio da Foca rescritto, con cui dichiaravasi, che la Chiesa romana dovesse avere il Primato sopra tutte le chiese, e 'l solo Pontefice romano avesse portato il titolo di Patriarca Ecumenico: il che narrasi fosse stato fatto dall'Imperador Foca in odio di Ciriaco Patriarca di Costantinopoli, ch'era succeduto a Giovanni il Digiunatore nell'anno 596, e ben presto morì.

Bonifacio IV, che succedè al III, proccurò anche egli mantenersi nella grazia dell'Imperadore contra i Longobardi, onde ottenne da Foca il tempio del Panteon, ch'era in Roma, per farne una chiesa, come fece, ch'e quella che ora chiamano la Rotonda, dalla sua figura. Tutti gli altri suoi successori tennero questo stesso tenore, ed il Pontefice Vitaliano, allorchè l'Imperador Costanzo venne in Roma l'anno 663, lo accolse con molti segni di stima e di rispetto: siccome fecero tutti gli altri romani Pontefici, che stettero sempre fermi nell'ubbidienza degl'Imperadori d'Oriente contra i Longobardi, insino a Lione Isaurico, il quale volendo sostenere l'errore degli Iconoclasti contra gli sforzi de' Pontefici Gregorio II e III, pose tutto [106] in disordine, come si vedrà nel libro seguente di questa Istoria.

Dall'altra parte i Longobardi, quantunque per la maggior parte idolatri, ed altri arriani, non turbarono la pace delle nostre chiese, e sotto la cura de' Pontefici romani, così come prima erano, le lasciarono. Il Re Autari verso l'anno 587 depose il Paganesimo, ed abbracciò la religione cristiana, ma, seguendo l'esempio de' Re goti, la ricevette imbrattata dell'eresia arriana. I Longobardi ad esempio del loro Re fecero il medesimo; quindi lasciandosi a' provinciali intatta la loro religione, si videro in alcune città d'Italia due Vescovi, l'uno arriano che presedeva a' Longobardi convertiti, l'altro cattolico che governava le Chiese cattoliche de' provinciali. Le nostre province però non videro questa difformità; poichè quelle che ancor rimanevano sotto l'ubbidienza degl'Imperadori d'Oriente erano tutte cattoliche: l'altre che passarono sotto la dominazione de' Longobardi, ritennero intatta quella medesima religione, che i Goti, e sopra tutto il gran Re Teodorico loro avea conservata; nella quale il Re Autari, e gli altri Re suoi successori, le mantenne. A tutto ciò s'aggiunse da poi la pietà della Regina Teodolinda, donna religiosissima e cattolica, la quale, ancor che col suo primo marito Autari non le fosse riuscito di far loro deporre l'Arrianesimo, con Agilulfo però suo secondo marito potè tanto, per le grandi obbligazioni, che a lei professava, che gli fece abbracciar la religione cattolica; ond'è che S. Gregorio M. cotanto si mostra obbligato a questa Principessa, alla quale dedicò i suoi quattro libri delle Vite dei Santi[155], e tante affettuose epistole di lui si leggono [107] piene d'encomj, e di lodi dirette a questa Regina[156]. Quindi avvenne, che molti Longobardi, seguendo l'esempio del loro Principe, si rendessero ancor essi, cattolici, e perciò molte chiese e monasterj nel Regno di Agilulfo fossero edificati[157]: donate perciò molte possessioni a' medesimi, e che i Vescovi, che prima nelle città di Longobardia eran depressi, fossero stati sollevati, ed in sommo onore avuti. E quantunque nel Regno di Ariovaldo, perfido Arriano che ad Agilulfo succede, fossesi turbata quella pace, che Agilulfo gli avea data; nulladimanco succeduto poi al Trono Rotari, Principe, ancorchè arriano, di piacevoli costumi, e che lasciò in libertà di vivere, così i Longobardi, come i provinciali, con quella religione, che essi volessero, ritornarono le cose nella pristina quiete e tranquillità, nella quale maggiormente si stabilirono sotto il Regno di Ariperto, molto propenso ed inclinato alla religion cattolica.

Ma poscia i nostri Cistiberini longobardi furono i primi a lasciare affatto l'Arrianesimo, mercè di due illustri Vescovi, Barbato di Benevento e Decoroso di Capua. Barbato dopo la sconfitta, che i Longobardi beneventani sotto il loro Duca Romualdo diedero ai Greci, purgò quella Nazione non men dell'Idolatria, che dell'Arrianesimo, e divennero tutti cattolici. Il simile avvenne de' Longobardi capuani per Decoroso loro Vescovo; tanto che in tutte quelle province, che eran passate sotto il loro dominio, l'Arrianesimo presso a' Longobardi istessi restò affatto abolito. Le altre regioni, che ancor duravano sotto i Greci, ancorchè [108] l'Oriente spesso partorisse dell'eresie e degli errori intorno a' dogmi: onde mal s'accordavano quelle chiese con queste nostre d'Occidente, e sopra tutto in questi tempi per quella de' Monoteliti; nientedimeno la vigilanza de' romani Pontefici, sotto la cui custodia e governo ancor duravano, fece sì, che non rimasero di quegli errori le nostre chiese contaminate.

Ma non molto da poi, ciò che avventurosamente avvenne a' nostri Cistiberini longobardi sotto Romualdo Duca di Benevento, accadde a' Longobardi Subalpini sotto Grimoaldo Re d'Italia: questo Principe, fattosi cattolico, favorì tanto le Chiese, ed ebbe tanta avversione alla dottrina degli Anziani, che estinse affatto in tutta Italia l'Arrianesimo. Quindi s'accrebbero le tante lor ricchezze: donde parimente ne nacque la sregolatezza della maggior parte de' Cristiani, e lo scadimento della disciplina ecclesiastica.

Questi Principi longobardi, ad esempio di tutti gli altri Principi dell'Occidente e degl'Imperadori d'Oriente ancorchè fatti cattolici, mantennero però nei loro dominj quelle medesime prerogative e preminenze, che i Re goti ritennero, per quel che s'attiene all'esterior politia ecclesiastica; ed avvegnachè i Pontefici romani facessero valere la loro autorità in Occidente; nulladimanco i Principi, e spezialmente nella Francia e nella Spagna, vollero, fra l'altre cose, autorizzare colle loro leggi ed editti i Sinodi provinciali, che in questo secolo furono assai frequenti, e di lor ordine fatti convocare, per dar riparo agli abusi, ed alla corrotta disciplina e sregolatezza degli Ecclesiastici. Dall'altra parte gl'Imperadori d'Oriente non pur seguitavano le vestigia de' loro predecessori, ma presero molta parte negli affari della religione, non potendo [109] i Pontefici romani farvi tutta quella resistenza, che avrebbono voluto. L'Imperador Maurizio, calcando le medesime pedate degli altri Imperadori suoi predecessori, promulgò legge proibente, che i soldati si ricevessero ne' monasterj: S. Gregorio[158] si doleva della legge, ma non attaccava la potestà del Legislatore, e con molta riserva esagerava, che quella fosse ingiusta, e contra il servigio di Dio: quasi che volesse con ciò impedirsi agli uomini il cammino d'una maggior perfezione. Maurenzio nostro Duca di Napoli obbligava i Monaci a far le sentinelle per guardia della città, e ripartiva le truppe per l'alloggio in ogni quartiere, non perdonando nè anche a' monasterj di donne, di che parimente abbiamo le doglianze di questo Pontefice[159].

In Oriente gli Imperadori disponevano pure delle diocesi e delle metropoli, e regolavano i Troni e le precedenze, accrescevano ed estenuavano le pertinenze de' Metropolitani a lor talento. E dall'altra parte i nostri Duchi di Benevento fecero il medesimo nel lor ampio Ducato: a richiesta di Barbato Vescovo di quella città, il Duca Romualdo unì al Vescovato di Benevento quello di Siponto: ecco le richieste di Barbato a Romualdo, come si legge ne' suoi atti: Si munus, e' dice, tuae salutis offerre studes, unum impende beneficium, ut B. Michaelis Archangeli domus, quae in Gargano sita est, et omnia, quae sub ditione Sipontini Episcopatus sunt, ad sedem Beatissimae Genitricis Dei, ubi nunc indigne praesum, in omnibus subdas; et quoniam absque cultoribus omnia depravantur, unde [110] nec sedulum officium persolvi potest, melius a nobis disposita ubi proficient in salutem. Romualdo assentisce a questa dimanda, e ne gli fa diploma: Illico Princeps viri Dei consentit petitionibus, eo ordine, ut fati sumus, et sicut mos est, per PRAECEPTUM Genitrici Dei universa concessit; et ut resonet in futurum, anathematizaverat, qui contra haec agens irritam hanc facere voluerit concessionem. Ciò che da poi volle Barbato, che anche se gli concedesse da Papa Vitaliano; poichè de' romani Pontefici (a' quali il Sannio e la Puglia, come Province suburbicarie, appartenevansi) uffizio era d'unire e separare le lor Chiese; siccome sovente erasi praticato dal Pontefice Gregorio, che nell'anno 592 unì la Chiesa di Cuma a quella di Miseno[160], ancorchè tal unione poco durasse; ed erasi praticato nell'altre Province suburbicarie. Perciò appresso Vipera ed Ughello[161] si legge il Breve di Vitaliano diretto al Vescovo Barbato, ove fra l'altre cose si leggono Concedentes tibi, tuaeque praefatae Reverendissimae Beneventanensi Ecclesiae, Bibinum, Asculum, Larinum, et Ecclesiam Sancti Michaelis Archangeli in Gargano, pariterque Sipontinam Ecclesiam quae in magna inopia, ei paupertate esse videtur, et absque cultoribus, et Ecclesiasticis officiis nunc cernitur esse depravata cum omnibus quidem eorum pertinentiis, et omnibus praediis cum Ecclesiis, ec. Onde avvenne che da questi tempi di Papa Vitaliano, la Chiesa Sipontina fosse unita a quella di Benevento, e che i Vescovi beneventani nel corso di molti anni finchè di nuovo quella non fu separata, si dicessero anche Vescovi di Siponto.

[111]

Non fu per tanto, così nelle province, ch'eran passate sotto la Signoria de' Longobardi, come in quelle ch'erano rimase sotto i Greci, variata la politia ecclesiastica; ma per ciò che s'attiene a questa parte, fu ritenuta quella stessa forma, che tennero sotto i Goti Re d'Italia, e sotto Giustiniano e Giustino Imperadori d'Oriente.

§. I.  Elezione de' Vescovi, e loro disposizione nelle città di queste nostre province.

I Vescovi erano ancora eletti dal Clero e dal Popolo, ed ordinati dal Pontefice romano, come prima; ma i Principi, come se dal Popolo fosse a loro devoluta tal potestà, nell'elezione ne volevano la maggior parte; onde ne nacque, che facendo essi eleggere alcuni, che non avevano nè meriti, nè scienza, nè capacità, erano le Chiese mal governate. Dal registro dell'epistole di S. Gregorio si legge, che il Pontefice romano, esercitando nelle nostre Chiese l'autorità sua di Metropolitano insieme, e di Patriarca, non pur ordinava gli eletti dal Clero e dal Popolo ma regolava l'elezioni, diffiniva le contese, che forse insorgevano, e sovente spogliava i Vescovi delle loro sedi, quando gli conosceva immeritevoli. Così de' Vescovi di Napoli leggiamo, che tenendo nell'anno 590 la Cattedra di Napoli Demetrio, fu costui per li molti e gravi suoi delitti nel seguente anno scacciato da Gregorio, il quale dopo averlo deposto, scrisse al Clero e agli Ordini di questa città, cioè a' Nobili ed al Popolo, che in luogo di Demetrio n'eleggessero un altro; ed intanto egli vi mandò il Vescovo Paolo a regger quella Chiesa, insino che a quella non si fosse dato il successore. [112] I Napoletani si trovavano così ben soddisfatti di Paolo, che scrissero al Pontefice, pregandolo, che l'avesse lor dato per Vescovo: Gregorio prese tempo per deliberare, ed intanto avendo Paolo nel Castello di Lucullo, che oggi chiamiamo dell'Uovo, ricevuto un affronto da alcuni servi d'una Dama napoletana chiamata Clemenzia, pregò Gregorio che lo facesse ritornar presto alla sua Chiesa; onde i Napoletani, non convenendo fra loro nella elezione d'un lor cittadino, e scorgendo che Paolo non l'avrebbe accettato, elessero Florenzio Sottodiacono del Papa, che allora si trovava in Napoli: ma questi tosto scappò via, e fuggì in Roma rifiutando il carico; tanto che Gregorio scrisse[162] a Scolastico Duca di Napoli, esortandolo a convocare i Nobili ed il Popolo della città per l'elezione d'altra persona; e, quella eletta, mandassero il decreto in Roma, perchè potesse ordinarla: dicendogli ancora, già che due volte aveano eletti uomini stranieri, che se non trovavan fra' cittadini persona idonea a tal carica, almeno eleggessero tre uomini savj e da bene, a' quali tutti gli Ordini dassero la lor facoltà, e gli mandassero in Roma, affinchè, facendo le veci della città, venuti in Roma, potessero insieme col Pontefice consultare, e far sì che finalmente trovassero persona irreprensibile, nella quale consentissero, e stante la loro elezione potesse il Papa ordinarla, e mandarla alla vedova Chiesa.

Consimile epistola[163] scrisse Gregorio a Pietro Sottodiacono della Campagna, che reggeva il patrimonio di S. Pietro di questa provincia, al quale incaricò, [113] che facesse convocare il Clero della Chiesa di Napoli, imponendogli, che parimente eleggessero due o tre di loro, a' quali dassero tutta la facultà, e gli mandassero in Roma, dove uniti con gli altri rappresentanti la Nobiltà e 'l Popolo, si potesse trattar dell'elezione ed ordinazione del nuovo Vescovo.

Chiamavasi questa elezione per compromissum, la quale soleva praticarsi ne' casi di divisione e di discordie, acciocchè, unendosi la volontà ed i suffragi di molti in due o tre persone savie, potessero quelle, per evitare i tumulti, senza contrasto, elegger colui, che stimassero più meritevole e degno[164]: in cotal maniera fu in fine da' Compromessori eletto in Roma, nel mese di Giugno dell'anno 593, Fortunato, ed ordinato che fu dal Papa, se ne venne in Napoli, dove fu da' Napoletani suoi figliuoli cortesemente ricevuto, e resse questa Chiesa per molti anni con tanta prudenza e vigilanza, che ne fu da Gregorio sommamente commendato, leggendosi perciò molte sue epistole dirizzate a questo Vescovo[165].

Morto Fortunato, per dargli successore insorsero nuovi contrasti; ed essendosi divisi i suffragi, due Vescovi dal Clero e dal Popolo furono eletti: un partito elesse Giovanni Diacono, l'altro Pietro parimente Diacono. Tosto si ebbe ricorso al Pontefice Gregorio perchè fra i due eletti, quello che reputasse il più degno confermasse ed ordinasse. Ma niun di essi piacque: Giovanni fu notato d'incontinenza, perchè teneva una figliuola, testimonio di sua debolezza: [114] Pietro come usurajo e troppo semplice, fu riputato indegno ed inutile; onde fu rescritto a' Napoletani, che eleggessero altri, come poi fecero[166].

Questo medesimo costume vediamo praticato nell'elezioni de' Vescovi capuani, di Cuma, di Miseno, di Benevento, di Salerno, d'Apruzzi, e di tutte le altre Chiese di queste nostre province, che come suburbicarie, al Pontefice romano s'appartenevano: Palermo ancora, Messina, e l'altre Chiese di quell'isola, poichè la Sicilia fu anche Provincia suburbicaria, serbavano il medesimo istituto.

L'elezione, secondo il prescritto de' canoni, dovea cadere in uno, che fosse della Chiesa stessa, o a quella incardinato, non già di altre Chiese, e solo quando fra' cittadini non si trovava persona idonea, il che rade volte accadeva, ricorrevasi agli stranieri, i quali fossero o nella pietà, o nella prudenza e dottrina eminenti. Così leggiamo che Gregorio, dovendosi eleggere il Vescovo in Capua, discordando i Capuani nell'elezione, ed alcuni facendo nomina di soggetti stranieri, col pretesto, che de' nazionali non vi fosse persona degna, rispose che ciò parevagli molto strano, e che per tanto facessero migliore scrutinio sopra de' loro cittadini, e se veramente ne pur uno ve ne fosse degno, allora avrebbe egli provveduto di persona meritevole.

Per la morte di Liberio, Vescovo di Cuma, accaduta nell'anno 592, quest'istesso Pontefice mandò Benenato Vescovo di Miseno a governarla infino che non se gli dasse il successore. Discordavano i Cumani per l'elezione, intendendo alcuni elegger persona d'altra [115] Chiesa; ma Gregorio fece sentire a Benenato, che non permettesse far eleggere persona straniera, se non nel caso, che a lui costasse non esservi fra' Cumani uomo alcuno meritevole d'essere innalzato a quella dignità.

Quest'istesso vedesi praticato nell'elezione del Vescovo di Palermo. Per la morte di Vittore era rimasa vedova quella Chiesa: S. Gregorio vi mandò tosto Barbato Vescovo di Benevento, perchè la governasse fin tanto che si fosse dato il successore[167]. I Palermitani discordi nell'elezione d'un nazionale, pensavano eleggere Cherico straniero; se gli oppose Gregorio, e scrisse a Barbato, che non permettesse che si eleggesse persona d'altra Chiesa, nisi forte inter Clericos ipsius Civitatis nullus ad Episcopatum dignus, quod evenire non credimus, poterit inveniri.

In tal maniera si facevano l'elezioni de' Vescovi, quando volevasi attendere l'antica disciplina della Chiesa, ed il prescritto de' sacri canoni. Così ancora avrebbe dovuto farsi l'elezione del Vescovo di Roma dal Clero e dal Popolo, nè aveano in ciò da impacciarsene gli Imperadori d'Oriente. Ma cominciavano già in questi tempi i Principi ad occupare le ragioni del Popolo e del Clero in queste elezioni: sia per timore, sia per compiacenza, sovente colui era eletto, che al Principe piaceva. Gl'Imperadori d'Oriente, come padroni di Roma, aveano gran parte nell'elezione dei Papi, ch'erano loro sudditi, e fu anche introdotto costume, che senza lor commessione niuno potesse esser ordinato: onde l'eletto dovea mandare in Costantinopoli a richiederne il consenso o la permissione [116] dell'Imperadore[168]. Scrive Paolo Varnefrido[169], che quando, dopo la morte di Benedetto Bonoso, fu nell'anno 577 innalzato a quella sede Pelagio II, perchè Roma in que' tempi era cinta di stretto assedio dai Longobardi, nè alcuno poteva uscire da quella città, non potè Pelagio mandare in Costantinopoli all'Imperadore perchè v'assentisse, onde fu ordinato Pontefice senza commessione del Principe: levati poi gli impedimenti, solevano i Pontefici romani mandar lettere agl'Imperadori, nelle quali, allegando gl'impedimenti avuti, cercavano di scusarsi, e che alla fatta ordinazione consentissero. San Gregorio il Grande eletto Papa, ricusando d'esserci, scrisse all'Imperadore Maurizio, istantemente supplicandolo, che non prestasse il suo assenso all'elezione; ma l'Imperadore che tanto si compiacque dell'elezione, non volle farlo[170].

Nelle nostre province pure i nostri Principi nell'elezione de' Vescovi delle loro città vi vollero la lor parte. Così leggiamo alcuna volta esser accaduto nell'elezione de' Vescovi di Benevento, come fu l'elezione di Barbato nell'anno 663, seguita per opera del Duca Romualdo. De' Vescovi napoletani pur lo stesso si legge, e particolarmente del Vescovo Sergio, il quale dal Duca di Napoli Giovanni, fu, dopo la morte di Lorenzo, innalzato a quella sede: ma questi casi avvenivano fuori d'ordine. La disciplina era che l'elezione s'appartenesse al Clero ed al Popolo, siccome l'ordinazione al romano Pontefice.

La disposizione de' Vescovi in queste nostre province era la medesima de' secoli precedenti. E per quel [117] che s'attiene alla loro autorità e giurisdizione, la loro conoscenza era ristretta come prima nelle cause ecclesiastiche, dove procedevasi per via di censura: non avevano giustizia perfetta, non Tribunali, non Magistrati, e la loro cognizione non più si stese di quella che Giustiniano avea lor data in quella sua Novella[171]. Intorno all'onore e potestà era l'istessa, e circoscritta da' medesimi confini. Erano nelle città Vescovi solamente, non avea alcun d'essi acquistato ancora autorità di Metropolitano: nè alcuno sotto di se avea Vescovi suffraganei e dipendenti; ma ciascuno de' Vescovi reggeva la sua Chiesa ed il Popolo a se commesso. Non ancora i Patriarchi di Costantinopoli aveano invase le Chiese nostre, sicchè alcune ne avessero potuto render metropoli, ed innalzare i loro Vescovi a Metropolitani, con sottoporle al Trono di Costantinopoli, siccome fecero da poi nell'imperio di Lione Isaurico, e degli altri Imperadori d'Oriente suoi successori: solo, come si è detto d'alcuni Vescovi delle città all'Imperio greco soggette, cominciavano, secondo il fasto de' Greci, ad esser decorati del nome di Arcivescovi, non senza sdegno però de' romani Pontefici, i quali riprendevan acerbamente que' Vescovi, che lo prendevano[172].

Alcuni credettero, che il Vescovo di Napoli prima di S. Gregorio M. o almeno da questo Pontefice, fosse stato innalzato agli onori di Metropolitano e di Arcivescovo. Lo provano da quella iscrizione, che si legge nel decretale[173], sotto il titolo de statu Monac. ivi: Gregorius Archiepiscopo Neapolis; e sotto l'altro [118] de religiosis domibus, ivi Gregorius Victori Archiep. Neap. Ma chi non vede la manifesta scorrezione del Codice vulgato, poichè negli emendati la prima si legge così: Gregorius Fortunato Episcopo Neapolitano, siccome anche legge Gonzalez[174]: e la seconda: Gregorius Victori Neapolis Episcopo? Oltrechè nel registro dell'epistole di S. Gregorio riconosciuto ed emendato in Roma, donde quel testo si dice trascritto, questo titolo non si vede; nè tra l'epistole di S. Gregorio si legge questa decretale, che si dice indirizzata a Vittore. Quindi i nostri più accurati Scrittori, come il Caracciolo[175], e 'l Chioccarelli[176], riprovarono con molta ragione questa lor credenza, ed in tempi posteriori pongono l'elevazione di questa sede in metropoli.

Altri dalla disposizione, che presero queste nostre province nel Ponteficato di Gregorio, presero argomento, che fin da questi tempi si fosse Napoli fatta metropoli. Napoli, essi dicono, avea in questi tempi il suo Duca: l'altre città Conti e Governadori. Il Duca secondo la politia dell'Imperio presedeva a più città della provincia, che compongono il Ducato. Il Conte presedeva ad una città sola; ond'è che nelle leggi degli Vestrogoti si dice Duca di provincia, e Conte di città; e Fortunato al Conte Sigoaldo gli dice:

Qui modo dat Comitis, det tibi jura Ducis.

Regolarmente dodici città erano a' Duchi sottoposte, e queste città si nomavano Contadi, onde il Duca presideva a dodici Conti, siccome notò Pietro Piteo [119] per quel luogo d'Aimoino: Pipinus domum reversus, Grifonem more Ducum duodecim Comitatibus donavit; e Camillo Pellegrino[177] a cagion di molti esempj, che si leggono appresso Gregorio Turonese nella sua Appendice. Quindi Guglielmo Durando osservò, che adattandosi la politia della Chiesa a quella dell'Imperio, le città ducali ebbero gli Arcivescovi, e le Contee i Vescovi, avendo corrispondenze gli Arcivescovi co' Duchi, ed i Vescovi con li Conti. Così Napoli, fatta ora città ducale, ed il suo Ducato, ancorchè fin qui non molto si stendesse come si stese da poi, abbracciando nulladimanco le città vicine intorno al Cratere, siccome Pompei, Erculano, Acerra, Nola, Pozzuoli, Cuma, Miseno, Baja ed Ischia; potè in questi tempi divenir metropoli, ed il suo Vescovo rendersi Metropolitano.

Ma siccome egli è vero, che la politia di queste nostre chiese col correr degli anni si andava adattando alla disposizione o politia dell'Imperio, come vedremo ne' secoli seguenti; nientedimeno ne' tempi nei quali siamo, alla disposizione de' Ducati, siano dei Longobardi, siano de' Greci, non si adattò la politia ecclesiastica: e la disposizione delle nostre chiese, e di quelle d'Italia fu tutta diversa: onde fallace argomento è questo di dare ora Arcivescovi alle città ducali. Puossi vedere in questi tempi città più cospicua ed eminente in queste nostre regioni quanto Benevento, capo di un Ducato così vasto, che abbracciava molte province, e sede de' Duchi beneventani? e pure il suo Vescovo non era Metropolitano, nè Arcivescovo, avendo acquistato questa prerogativa molto [120] tempo da poi, cioè nell'anno 969 nel Ponteficato di Giovanni XIII come diremo. Spoleto capo d'un altro insigne Ducato, non ebbe Arcivescovo. Brescia, Trento ed altre città di Longobardia decorate dai Principi longobardi con titoli di Ducati, non ebbero in questa età, ma molto dapoi, i loro Arcivescovi; anzi nè Brescia, nè Spoleto l'acquistaron mai. Gaeta ebbe pure il suo Duca, ma non giammai Arcivescovo. Capua, Bari, Reggio, Salerno città cospicue, e molte altre di quelle regioni, che ubbidivano a' Greci, non ebbero se non nel decimo secolo, ed altre in tempi più posteriori, i loro Metropolitani da' romani Pontefici; ancorchè i Patriarchi di Costantinopoli altramente ne disponessero, come ne' seguenti libri diremo. Non fu dunque Napoli, come lo confessano l'istesso P. Caracciolo, ed altri nostri Scrittori, fatta metropoli in questi tempi. Fu ella adorna di questa dignità nel decimo secolo, nel Ponteficato di Giovanni XIII, dopo Capua e Benevento, come diremo a suo luogo: non tutte l'altre chiese di queste nostre province aveano ancora ottenuto questa prerogativa: erano soli Vescovi coloro, che presidevano alle città per grandi ed illustri che fossero, e sede de' Duchi. Egli è però vero, che col correr degli anni, innalzandosi alcune città ad esser capo e metropoli o d'un Ducato, o d'un Principato; e cominciando nel decimo secolo i Pontefici romani ad esercitare in queste nostre province nuove ragioni Patriarcali, con ergere i Vescovi a Metropolitani in mandandogli il pallio; la politia e disposizione ecclesiastica venne ad adattarsi e a corrispondere alla politia dell'Imperio.

Egli però è altresì vero, che fin da questi tempi s'incominciarono a gittare i fondamenti della nuova [121] politia così dell'Imperio, come del Sacerdozio. Così da questi tempi vediamo, che al Vescovo di Benevento s'unirono le chiese di Siponto, di Bovino, Ascoli e Larino. Al Vescovo di Napoli quelle di Cuma, Miseno e Baja s'appartenevano; non già che i Vescovi di queste città lo riconoscessero per Metropolitano, ma per onore della città ducale, e come loro metropoli, per quel che riguardava la politia dell'Imperio, gli accordavano i primi onori, poichè tra' Vescovi di quel Ducato era riputato il primo. Col corso degli anni, oltre al Ducato di Benevento e quello di Napoli, sursero ancora il Ducato di Capua e l'altro di Salerno, i quali con quello di Benevento s'innalzarono poi a' Principati. Amalfi ebbe in appresso anche il suo Duca, siccome Sorrento, e si eressero in Ducati. Bari poi ebbe anche il suo Duca. Alcune città della Puglia e della Calabria, de' Bruzj e Lucania, fatte parimente capi e metropoli di quelle regioni, si renderono più cospicue dell'altre; onde secondo la politia dell'Imperio, ricevettero poi i Metropolitani, ed i Vescovi delle città minori di quelle province rimasero lor suffraganei. Quindi avvenne, che quanto più si stendeva il lor Ducato o provincia, più suffraganei avessero: e per questa cagione, poichè il Ducato beneventano distese più di tutti gli altri i suoi confini, il suo Arcivescovo ebbe tanti Vescovi suffraganei, che sopra tutti gli altri Metropolitani oggi ne ritiene in gran numero. Quindi ancora è avvenuto, che il Principato di Salerno, se non quanto quel di Benevento, avendo pure molto ampliato i suoi confini, il suo Arcivescovo ancor egli ritenesse molti suffraganei: e quel di Capua per la stessa ragione anche moltissimi. Ed all'incontro il Ducato di Napoli, quello [122] di Sorrento e l'altro d'Amalfi, come che molto ristretti, non avessero così numeroso stuolo di Vescovi suffraganei, siccome gli altri Metropolitani delle altre città di queste nostre province; come osserveremo quando della lor politia ecclesiastica degli ultimi tempi ci sarà data occasione di trattare.

Ecco adunque qual fosse la disposizione e la Gerarchia ecclesiastica di queste nostre province in questa età. Il romano Pontefice, come Metropolitano insieme e Patriarca: Vescovi, Preti, Diaconi, Sottodiaconi, i quali già in questi tempi eransi ligati al celibato, ed il lor ordine posto nel rango de' maggiori ordini: Acoliti, Esorcisti, Lettori ed Ostiarj.

Sentironsi ancora negli Scrittori di questi tempi, e sopra tutto nell'epistole di S. Gregorio i Preti Cardinali, i Diaconi Cardinali, e Sottodiaconi Cardinali; e molte chiese avere avuti di questi Cardinali, come oltre alla romana, quella d'Aquileja, di Ravenna, di Milano, di Pisa, di Terracina, di Siracusa; e nelle nostre province ancora, come le chiese di Napoli, di Capua, di Benevento, di Venafro e forse ogni altra. Ma in questi tempi, siccome ben pruovano Florente e Baluzio[178], ed è chiaro dalle epistole stesse di S. Gregorio, questi Cardinali non erano che Preti, Diaconi, o Sottodiaconi stranieri, i quali erano uniti ed affissi, o come diciamo inzeppati ad una certa chiesa, la quale unione, chiamavano incardinazione, e questo unire dicevano incardinare; poichè per questo inzeppamento si univa colui a quel corpo, come nel suo cardine; in guisa che non più straniero, ma proprio di quella chiesa riputavasi, e nomavasi perciò Incardinato, [123] ovvero Cardinale; nome che se bene nella sua origine non denotava dignità o superiorità alcuna, si intese poi ne' seguenti secoli risonare cotanto magnifico e fastoso, che s'è proccurato negli ultimi tempi uguagliarlo al nome Regio; e coloro che n'erano adorni, di pareggiargli a' più potenti Re della terra.

Sursero egli è vero in questi tempi, anche in Occidente, varj Uficiali, ed altri nomi si intesero, come di Cimeliarca, di Rettore, Cartularj ed altri; e nella chiesa d'Oriente altri più assai, di cui lungo catalogo abbiamo appresso Codino[179] e Leunclavio[180]. Ma questi Uficiali per lo più sursero per la cura che si dovea avere della temporalità delle chiese e delle loro ricchezze. I Vescovi per la pietà de' Principi e dei Fedeli profusi in donare alle loro chiese, si diedero a costruirne altre di nuovo, o con maggior magnificenza; e singolarmente i nostri Vescovi napoletani[181], siccome di tutte le altre chiese di queste province molte n'ingrandirono nelle loro città, e moltissime nuovamente ne costrussero: quando prima i vasi erano di legno, di vetro, o di creta; le vesti sobrie e tutti gli altri ornamenti semplici, e schietti; ora i vasi divengono d'oro e d'argento, le vesti ricche e pompose, e gli ornamenti tutti preziosi e magnifici; perciò bisognava che ad uno del Clero si dasse il pensiero di custodirgli, ed averne esatta cura e provvidenza; quindi il Custode appresso noi[182] fu chiamato Cimeliarca, ed appresso i Greci[183] Magnus vasorum custos. [124] Ebbe la chiesa di Napoli il suo Cimeliarca, siccome ancor oggi lo ritiene, ma con impiego diverso: l'ebbero ancora le altre chiese di queste nostre province; ancora quelle di Roma, di Ravenna ed in fine l'ebbero tutte. Le possessioni, i poderi, e l'ampie loro rendite poste ancora in paesi remoti e distanti, ricercavano particolar persona, che avesse di lor cura e pensiero; quindi sursero i Rettori, de' quali sovente S. Gregorio favella, che aveano il governo de' patrimonj delle chiese; ed in conseguenza i Cartularj, gli Economi ed altri Uficiali. Ma tutti questi Uficj nacquero per le temporalità delle chiese, non già che fossero gradi gerarchici, e che punto s'appartenessero al suo potere spirituale.

§. II.  Monaci.

Non meno le chiese che i monasterj renderonsi in questi tempi più spessi e magnifici, e i loro Monaci più numerosi. I Longobardi, come suole avvenire nei primi ardori delle novelle religioni, abbracciata che ebbero la religione cattolica romana, furono in queste nostre province assai più profusi colle chiese e monasterj, che i Greci, cristiani vecchi. Il Re Agilulfo, fatto cattolico, molti monasterj rifece per l'Italia, ed altri nuovi ne costrusse. Il Re Ariperto fu così profuso nel donare a' monasterj, alle chiese, e particolarmente alla romana, che per la restituzione degli ampj e grandi poderi, che le fece nell'Alpi Cozzie, onde tanto in quella provincia crebbe il patrimonio di S. Pietro, diede occasione ad alcuni di credere, che la provincia tutta dell'Alpi avesse Ariperto donato alla Chiesa romana.

[125]

I nostri Duchi di Benevento, ancorchè sotto Zotone I, Duca pagano e idolatra, il monastero Cassinese avesse patito quel miserando sacco; nulladimeno, abbracciato che poi ebbero per opera di Barbato il cattolichismo, favorirono le chiese ed i monasterj: tantochè, rifatto il monastero nell'anno 690 da Petronace, i Duchi di Benevento lo arricchirono grandemente, e fra gli altri Gisulfo II d'immensi doni e di grandi poderi l'accrebbe. Que' luoghi e quelle terre poste nello Stato di S. Germano passarono in gran parte in dominio di quel monastero; tanto che poi col correr degli anni, accresciuto per altre ampie donazioni, si rendè cotanto ricco e possente, che i loro Abati, fatti Signori di più terre e vassalli, vennero in tale stato, che mantenevano a loro stipendj eserciti armati, come ne' seguenti secoli vedremo.

Per ciò i monasterj dell'ordine di S. Benedetto, renderonsi più numerosi nel Ducato beneventano, che abbracciava in que' tempi ciocchè ora diciamo i due Apruzzi, il Contado di Molise e Capitanata, quasi tutta la Campagna, e buona parte della Lucania, della Puglia e dell'antica Calabria, Taranto, Brindisi e tutto quel larghissimo paese, che gli è intorno[184]. Molti e d'uomini e di donne ne furono in queste province nuovamente eretti nel Regno de' Longobardi: in Benevento ne' tempi di S. Gregorio ne leggiamo moltissimi[185]: il monastero di Monache di S. Nazario Martire; l'altro a quello vicino de' Frati di S. Maria ad Olivolam; e a' tempi di Grimoaldo V Duca di Benevento leggiamo quello di S. Modesto, arricchito da [126] Grimoaldo di grandi possessioni[186]; e Teodorata, moglie del Duca Romualdo suo figliuolo, fuori le mura di Benevento fondò un monastero di donne ad onore di S. Pietro Apostolo. L'esempio de' Principi fu da poi seguitato da' loro sudditi benestanti, così longobardi, come provinciali, tanto che nel Ducato beneventano per tutte quelle province che esso abbracciava, i monasterj di S. Benedetto si videro in questi tempi più numerosi, che nel secolo precedente.

Nel Ducato napoletano, ed in tutte quelle città, che a' Greci ubbidivano, ancorchè molti altri di questo Ordine se ne fossero nuovamente costrutti, nulladimanco il numero de' monasterj così di uomini, come di donne posti sotto la regola di S. Basilio era maggiore: Napoli n'ebbe molti, come si è veduto nel precedente libro: non erano meno frequenti in Otranto, Brindisi, Reggio, e così in tutte l'altre città della Calabria e de' Bruzj.

Fu per tanto lo Stato monastico non men che nella Francia e nell'Alemagna, ed in tutte l'altre parti di Occidente, steso ed arricchito in queste nostre province; tantochè già gli Abati e monasterj cominciavano a pretendere di scuotere il giogo de' Vescovi, ed a dimandare de' privilegi e dell'esenzioni per rendersi in libertà. Se sono veri gli atti del Concilio, che si narra aver tenuto S. Gregorio in Roma nell'anno 601 in favore de' Monaci, fu in quello stabilito, che i Monaci dovessero avere la libertà di eleggere il loro Abate, e di scegliere un Monaco della lor comunità, o d'un altro monastero: che i Vescovi non potessero trarre Monaci da un monastero per fargli Cherici, ovvero [127] per impiegargli alla riforma d'un altro monastero senza il consenso dell'Abate: che i Vescovi non dovessero impacciarsi nel temporale de' monasterj; nè celebrare l'uficio solenne nella chiesa de' Monaci, nè esercitarvi alcuna giurisdizione. Per tutte queste cagioni lo stato monastico si rendè fin da questi tempi considerabile, e cominciò non poco ad alterare lo stato civile e temporale de' Principi, i quali in vece di fare argine a tanti acquisti, più tosto gli accrescevano colle loro immense donazioni.

§. III.  Regolamenti ecclesiastici.

I canoni che in varj Concilj furono stabiliti in questo settimo secolo in Occidente, e particolarmente in Toledo ed in Francia, ripararono in gran parte la sregolatezza della maggior parte de' Cristiani, e la disciplina degli Ecclesiastici, ch'era in declinazione. Furono ancora avvalorati dagli editti de' Sovrani; e S. Gregorio gran Pontefice riparò in Italia la cadente disciplina delle nostre chiese: vegliò sopra la conservazione di quella, e s'applicò tutto a fare osservare inviolabilmente i canoni in tutte le chiese. Scrisse perciò una gran quantità di lettere ne' quattordici anni del suo Pontificato, le quali contengono una grandissima copia di decisioni sopra il governo, e la disciplina della chiesa.

Se si voglia aver per vero ciò che scrisse il Baronio di Cresconio Vescovo d'Affrica, e ciò che i più gravi Autori dicono della collezione d'Isidoro Mercatore, niuna collezione di canoni fu fatta in questo settimo secolo. Il Baronio credette che il Vescovo Cresconio fiorisse intorno a' tempi di Giustiniano Imperadore, [128] onde la sua ampia raccolta de' canoni fu per ciò da noi rapportata nel libro precedente. Se poi si voglia seguire l'opinione di Doujat[187], riputata vera da Pagi[188], ed abbracciata ultimamente da Burcardo Gotthelf Struvio[189], la collezione di Cresconio caderebbe in questo luogo, come quella, che secondo il sentimento di costoro si fece intorno l'anno 670 in questo settimo secolo. Quella di Isidoro Mercatore bisognerà certamente riportarla al libro seguente, poichè questo Scrittore fiorì nell'ottavo secolo, l'anno 719.

Se si volesse farne Autore Isidoro di Spagna, Vescovo di Siviglia, certamente che questo sarebbe il suo luogo: sedè egli in quella Cattedra dopo la morte di suo fratello Leandro, a cui succedè verso l'anno 595 e la governò quasi per lo spazio di quaranta anni; ma è cosa certa, che non ne fu egli il Compilatore, così perchè in quella raccolta si rapportano molti canoni stabiliti in varj Concilj tenuti in Toledo molto tempo dopo la sua morte, che accadde nell'anno 636, ed alcune epistole di Gregorio II e III, e di Zaccaria[190], che sederono nella Cattedra di Roma nell'ottavo secolo; come anche perchè tra le molte opere che si numerano di questo insigne Scrittore, niuno ha fatta menzione di questa raccolta[191].

[129]

§. IV.  Beni temporali.

Le tante profuse donazioni, che non men da' privati, che da' Principi di tempo in tempo s'erano fatte alle Chiese nel corso poco men di due secoli, furon cagione che le Chiese, non men che il Principe ed i privati avessero i loro particolari patrimonj. Le possessioni ampissime, che acquistarono non pur nel distretto delle loro città, ma anche in lontani paesi, onde tante rendite e frutti se ne ritraevano, le appellavano patrimonj, secondo l'uso di que' tempi, ne' quali le possessioni di qualunque famiglia, e i retaggi pervenuti da' loro maggiori, si chiamavano il patrimonio di quella. Così ancora chiamavasi patrimonio del principe quel fondo, ch'ei possedeva in proprietà, e per distinguerlo, non meno da' patrimonj de' privati, che dal Fisco dell'istesso Principe, si nominava sacrum patrimonium, come si legge in molte costituzioni del Codice di Giustiniano[192]: ciò che da poi ne' nuovi Regni in Europa stabiliti, fu detto domanio regale. Per queste istesse cagioni si diede poi il nome di patrimonio alle possessioni di ciascuna Chiesa: così nell'epistole di S. Gregorio si veggon nominati non solo i patrimonj della Chiesa romana, ma anche il patrimonio della Chiesa di Ravenna, il patrimonio della Chiesa di Milano, il patrimonio della Chiesa di Rimini e di molte altre. Le Chiese di città grandi, come di Roma, Ravenna e Milano come città imperiali, e dove abitarono Senatori, grandi Uficiali, ed altre persone illustri, acquistarono patrimonj non pur dentro [130] i loro confini, ma in diverse parti del Mondo. Le altre Chiese poste in città minori, come fra noi Napoli, Benevento, Capua, Salerno, Bari, Reggio e tante altre, e che avevano abitatori di fortune mediocri, e tutte riposte ne' loro confini, non avevano patrimonj fuori del loro distretto.

Fra tutte le Chiese delle città imperiali, la Chiesa romana fu quella, che avea acquistati in questi tempi più ampj e vasti patrimonj, non pur in Italia, ma anche nelle province più remote d'Europa[193]. Nel Ponteficato di Gregorio il Grande, come si raccoglie dalle sue lettere, ebbe la Chiesa romana ampio patrimonio in Sicilia, scrivendo questo Pontefice a Giustino Pretore di quella isola, la quale da lui reggevasi per l'Imperio d'Oriente, che proccurasse far togliere ogni indugio per lo trasporto d'alcuni grani raccolti dalle possessioni del patrimonio di S. Pietro, ch'e' voleva in Roma, ove ve n'era penuria. E poichè queste possessioni eran molte, ed alcune divise in pezzi, secondo le donazioni, che da' Fedeli di volta in volta eransi fatte, per ciò rescrive a Pietro Sottodiacono Rettore di quel patrimonio, ch'essendone state domandate alcune in enfiteosi, talora se n'era contentato, e talora non l'avea permesso. Ebbe ancora la Chiesa romana il patrimonio in Affrica, onde Gregorio rende infinite grazie a Gennadio Patrizio ed Esarca di quella provincia, che pur si teneva per l'Imperadore d'Oriente, ch'essendo molti luoghi di questo patrimonio stati abbandonati da' coltivatori, egli, mandandovi molti di que' popoli da lui vinti, avessegli grandemente ristorati. Avea anche patrimonio in Francia, [131] alla cura del quale avendo Gregorio preposto un Prete, il cui nome fu Candido, lo raccomanda caldamente non meno alla Reina Brunichilda, che al Re Childeberto suo figliuolo l'anno 596, mostrando che quel carico innanzi di Candido era stato raccomandato a Diniano Patrizio; anzi scrive a Candido a qual uso quelle entrate si dovessero dispensare; e verso il fine del suo Pontificato, l'anno 604, raccomandò quel patrimonio ad Asclepiodato Patrizio de' Galli. Ebbe eziandio patrimonio in Dalmazia, a cui era preposto Antonio, ovvero Antonino Sottodiacono.

In Italia, ed in queste nostre province ancora ebbe la Chiesa romana molti patrimonj. Nella provincia dell'Alpi Cozie ebbe un ben ampio patrimonio, che occupato per molto tempo da' Longobardi, fu da poi restituito alla medesima dal Re Ariperto nel Ponteficato di Giovanni VII, scrivendo Paolo Varnefrido: che Ariperto Re de' Longobardi restituì la donazione del PATRIMONIO dell'Alpi Cozie appartenente alla sede appostolica, ma per molto tempo stato levato dai Longobardi; e mandò a Roma questa donazione scritta con lettere d'oro. La qual donazione al dir dello stesso Autore fu da poi confermata dal Re Luitprando, dicendo: In quel tempo il Re Luitprando confermò alla Chiesa di Roma la donazione del PATRIMONIO dell'Alpi Cozie. Nell'Esarcato di Ravenna pur S. Pietro ebbe il suo patrimonio, anzi nel Pontificato di S. Gregorio vi fu lite tra lui, ed il Vescovo di Ravenna per li patrimonj d'ambedue le Chiese, che s'accomodò anche per transazione. Nel nostro Ducato beneventano pur ebbe la Chiesa romana il suo patrimonio. L'ebbe in Salerno, l'ebbe in Nola, dove scrisse [132] S. Gregorio[194], che delle rendite di quello si sovvenisse alla povertà di certe Monache. L'ebbe ancora in Napoli, dove, come si vede da alcune epistole[195] di questo Pontefice, da Roma mandavansi i Rettori che n'avessero cura, a' quali buona parte delle loro rendite imponeva, che dispensassero a' poveri. Furono in Napoli Rettori di questo patrimonio successivamente Pietro, Teodino, Antemio ed altri, tutti Sottodiaconi della Chiesa romana. Questi in Napoli aveano le loro Diaconie costituite, le quali erano certi luoghi, ovvero Stazioni, in cui il Sottodiacono Rettore del patrimonio soccorreva i poveri della città, e dispensava a quelli l'elemosine: a somiglianza di Roma, la quale avea molte di queste Diaconie[196]. L'ebbe in fine in alcune altre città di questa provincia della Campagna: l'ebbe in Apruzzo; l'ebbe nella Lucania, e nella Calabria ancora.

I Vescovi di queste sedi maggiori, siccome anche dell'altre minori, per far rispettare maggiormente le possessioni delle loro Chiese, solevano dar loro il nome del Santo, che quella Chiesa avea in ispezial venerazione: così la Chiesa di Ravenna nominava le possessioni sue di S. Apollinare, e quella di Milano di S. Ambrogio, e la romana diceva il patrimonio di S. Pietro in Sicilia, in Affrica, in Francia, in Dalmazia, in Calabria, in Apruzzo, in Benevento, in Napoli ed altrove; non altrimenti che a Venezia le pubbliche entrate si chiamano di S. Marco. Così ancora le Chiese delle città minori, per fine di maggior rispetto, nomavano i loro patrimonj col nome del Santo, che [133] esse avevano in più divozione, come Napoli il patrimonio di S. Aspremo, Benevento di S. Barbato, Brindisi di S. Leoci: e poi Amalfi di S. Andrea, Salerno di S. Matteo, e così di mano in mano tutte le altre.

Ma egli è ben da notare, che questo nome di patrimonio, che la Chiesa di Roma avea in quelle province, non significava qualche dominio supremo, o qualche giurisdizione della Chiesa romana, o del Pontefice, ch'avesse sopra tali patrimonj: erano essi a riguardo de' Principi, nelle cui province stavan collocati, come tutti gli altri particolari patrimoni sottoposti alla giurisdizione, ed al dominio eminente di quel Principe, dentro al cui Stato quelli erano. Tentarono egli è vero alcuni Ecclesiastici della Chiesa romana di farvi dell'intraprese, ma riusciron vani questi pensieri, ed i lor disegni. Poichè ne' patrimonj dei Principi, quando non erano assegnati a' soldati, era posto un Governadore con giurisdizione per le cause che intorno a quelle possessioni potevan nascere, per la più facile esazion delle lor rendite, e per lo costringimento de' debitori: queste istesse ragioni tentarono usurpare alcuni Ecclesiastici ne' patrimonj di quella Chiesa: volevano farsi ragione per se stessi, e farsi la giustizia colle mani proprie, e non ricorrere al pubblico giudizio de' Magistrati; ma S. Gregorio istesso prudentissimo e saggio Pontefice riprese questa introduzione, e comandò e proibì sotto pena di scomunica, che non si facesse: nè i Principi ne' loro dominj vollero in conto alcuno tollerarla.

Pagavano perciò le possessioni ecclesiastiche i tributi al Principe, come tutti gli altri patrimonj dei privati, siccome manifestamente appare dal Can. si [134] tributum, ch'è di S. Ambrogio[197]: ed è chiaro che l'Imperador Costantino Pogonato nel 681, concedè esenzione da' tributi, che la Chiesa romana pagava per lo patrimonio di Sicilia e di Calabria. E l'Imperador Giustiniano Ritmeno successor di Costantino, nel 687 remise il tributo, che pagavano i patrimonj d'Apruzzo e di Lucania. Queste indulgenze da tributi ottennero i Pontefici romani dagl'Imperadori d'Oriente, finchè fra essi fu buona amicizia e corrispondenza; ma quando da poi per le novità insorto nell'Imperio di Lione Isaurico, nacquero tra i Pontefici romani, e gl'Imperadori d'Oriente quelle acerbissime contese che saranno il soggetto del seguente libro, le quali finalmente proruppero in manifeste sedizioni ed inimicizie; Lione Isaurico nel 782, non pur non gli fece franchi, ma tolse alla Chiesa romana i patrimonj di Sicilia e di Calabria, e gli applicò al suo Fisco. E gli Scrittori, che narrano questi successi, rapportano che questi patrimonj confiscati rendevano d'entrata tra tutti, tre talenti e mezzo d'oro in ciascun anno[198], che fanno in nostra moneta (per non far minuto conto sopra la varietà delle opinioni quanto precisamente corrisponda ad un talento) la somma di 2500 scudi, ed il patrimonio di Sicilia, anche molto ampio, non rendeva più di scudi 2100 l'anno.

Da questi patrimonj, che teneva la Chiesa romana in varie province, dove sovente gli Ecclesiastici, quando [135] lor veniva in acconcio, si usurpavano ancora qualche giurisdizione nelle cause a quelli appartenenti, ne nacque tra' Scrittori de' tempi più bassi quell'errore, e fu data poi agli altri, che seguirono, occasione di crederlo, e di tesserne altre favole: cioè, alla Chiesa romana s'appartenessero la provincia dell'Alpi Cozie, la Sicilia, il Ducato beneventano, il Ducato spoletano, parte della Campagna, e tante altre province, perchè in quelle vi avea il suo patrimonio, confondendo il patrimonio, che avea nell'Alpi Cozie, colla provincia istessa: l'altro che teneva nella Sicilia colla stessa isola: il patrimonio beneventano, col Ducato: il patrimonio salernitano, con quel Principato: il patrimonio napoletano e gli altri che teneva nella Campagna, colla provincia istessa, e così delle altre province. Nel qual errore non possiamo non meravigliarci esservi fra gli altri caduto, anche il nostro Scipione Ammirato[199], per altro diligentissimo Istorico, il quale colla testimonianza di Paolo Varnefrido istesso volle darci ancor egli a sentire, che la dominazione del Re Ariperto conteneva la restituzione e conferma delle Alpi Cozie, che fece quel Principe a Papa Giovanni VII quando dalle parole di sopra da noi rapportate di questo Scrittore si vede chiaro, che si parla del patrimonio delle Alpi Cozie, non già di quella provincia, che abbracciava gran tratto di paese, e si stendeva insino a Genova, ornata di tante città e terre, che sarebbe stolidezza il credere aversene voluto quel Principe, in tempi per altro molto gelosi e sospettosi, spogliare e donarla a' Pontefici romani, confederati allora [136] cogl'Imperadori d'Oriente, implacabili nemici dei Longobardi.

Questo equivoco ancora scopriremo, quando delle cotanto celebrate donazioni di Carlo M. e di Lodovico Pio ne' loro tempi avremo occasione di ragionare, dove vedremo, che ciò che in esse si legge di Napoli, Salerno e sopratutto di Benevento, volendosi pure riputar per vere, non già de' loro Ducati e Principati, ma de' patrimonj, che la Chiesa romana teneva in queste province, favellano; i quali secondo il costume che correva allora, dagl'Imperadori, che successivamente dominarono nel Regno d'Italia, furon per mezzo de' loro Precetti confermati e conceduti alla Chiesa romana, siccome del patrimonio beneventano fece Ludovico Pio nel 817 con Papa Pascale I, che poi fu di nuovo confermato e conceduto da Ottone I e da Ottone Re di Germania suo figliuolo a Giovanni XII nel 962, non già del Ducato ovvero della città di Benevento, la quale è certo che venne in poter della Chiesa nell'anno 1052, con titolo di permuta fatta da Errico II, figliuolo di Corrado, con Papa Lione IX, colla Chiesa di Bamberga, come al suo opportuno luogo diremo.

Cotanto fu in questi tempi l'accrescimento de' beni temporali delle nostre Chiese, e sopra tutto della Chiesa di Roma loro maestra e condottiera: e, secondo la situazione dello stato presente, maggiori acquisti se ne vedranno ne' secoli avvenire.

Multiplicate le chiese ed i monasterj, vie più s'accrebbe il culto de' Santi, delle loro reliquie, e loro immagini. I santuarj, e sopra ogni altro quello del monte Gargano non men da' Greci, che da' Longobardi, erano più frequentati, ed arricchiti di preziosi doni. [137] I miracoli vie più crescevano, ed oltre alle prediche ed a' sermoni, cominciavano già a tessersi di loro infiniti racconti, ed a raccogliersi in volumi, e S. Gregorio ne pubblicò molti ne' suoi quattro libri de' Dialoghi, che dedicò alla Regina Teodolinda. Si accrebbero nelle chiese le feste, l'ottava di Natale, quella dell'Epifania, l'altra della Purificazione, dell'Annunziazione della Vergine, della sua morte, della sua natività, e finalmente quella di tutti i Santi. A pari del culto e della divozione crebbero le ricchezze, promettendosi anche i Fedeli da' Santi, non pur conseguimento di beni spirituali, ma anche di temporali, di sanità, di abbondanza, di ricchezza, buoni successi ne' traffichi e ne' negozj, nelle navigazioni, e ne' viaggi terrestri.

Da tanti e sì diversi fonti che cominciavano a scoprirsi, vie più s'accrescevano alle Chiese le possessioni ed i retaggi; e la cagione era, perchè se, come scrisse il nostro Ammirato, essendo la religione un conto che si tiene a parte con Dio, e avendo i mortali in molte cose bisogno di lui, o ringraziandolo de' beni ricevuti o de' mali scampati, o pregandolo che questi non avvengano, e che quelli felicemente succedano; necessariamente siegue, che de' nostri beni o come grati o come solleciti facciamo parte, non già a lui che non ne ha bisogno, ma a' suoi tempj ed a' suoi Sacerdoti; quanto più dovettero allora crescere i doni e le offerte, quando s'ebbe a tenere non pur un sol conto con Dio solamente, ma con tanti Santi, dall'intercession de' quali promettevansi i Fedeli queste medesime cose; ed essendo tanto cresciuto il lor culto e venerazione, ed eretti per ciò in lor nome più monasterj e tempj, e multiplicati i loro santuari, [138] ben poteron per conseguenza tirar la gente ad offerir loro, ed a' loro tempj ancora e Sacerdoti, in maggior copia, e doni e ricchezze. Cominciossi ancora a donare, non pur alle Chiese, ma a' Parrochi, a' Preti, e ad altri Ministri per li loro sacrifici, a fin di liberare l'anime de' loro defonti dal Purgatorio[200]; onde surse, al creder di Mornacio[201], l'autorità che s'assumevano di fare i testamenti a coloro, che morivano intestati; di che altrove ci tornerà occasione di ragionare.

Mantennero le nostre Chiese intorno alla distribuzione delle rendite e beni loro temporali, il medesimo istituto di dividergli in quattro parti, una al Vescovo l'altra al Clero, la terza a' poveri, e la quarta per la chiesa materiale. Della Chiesa di Napoli, che sin dai tempi di S. Gregorio sotto il Vescovo Pascasio teneva un Clero numeroso, contandosene fin a cento ventisei, oltre a' Preti, Diaconi, Cherici peregrini; abbiamo dall'epistole di questo Pontefice[202], che trascurando Pascasio di distribuire, come si conveniva a' poveri ed al Clero le rendite di quella chiesa, fu costretto egli a far la distribuzione, e riserbando la porzione al Vescovo, vi stabilisce ciò che dovesse somministrarsi al Clero ed a' poveri, imponendo anche ad Antemio suo Sottodiacono, ch'era Rettore del patrimonio di S. Pietro in Napoli, che unitamente col Vescovo sopraintendesse a dividere, secondo il bisogno de' poveri, la quantità del danaro, e tener modo anche secondo la sua prudenza di distribuirlo a tempo opportuno.

[139]

La Chiesa di Benevento tenne ancora quest'istesso costume di dividere le sue rendite in quattro parti. S. Barbato suo Vescovo non volle in ciò dipartirsi dal prescritto de' canoni, e ne' suoi Atti si legge, che da poi che il Duca Romualdo arricchì la sua Chiesa di tanti doni, ed alla quale unì quella di Siponto, volle con particolar providenza stabilire in perpetuo questa distribuzione, la quale si dovesse tenere sempre ferma nella sua Chiesa: ecco ciò che in quegli Atti[203] si legge: Impetratis omnibus ut poposcerat vir Sanctus non est oblitus mandatorum Dei: in quatuor partes cunctum Ecclesiae redditum omni tempore sanxit fideliter dispartiri, unam egentibus, secundam his, qui Domino sedulas in Ecclesiis exhibent laudes, tertiam pro Ecclesiarum restauratione distribui, juxta quartam suis peragendis utilitatibus Episcopus habeat; et hactenus sicut ab eo disposita sunt, in praesenti cuncta videntur.

Questo medesimo istituto tennero tutte l'altre Chiese di queste nostre province, le quali per altro erano in ciò commendabili, poichè non era fraudata a' poveri la lor porzione, ed i Vescovi praticavano co' peregrini quell'ospitalità, che i canoni gli obbligava a mantenere.

FINE DEL LIBRO QUARTO.

[140]

STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO QUINTO

Luitprando Re de' Longobardi, avendo nell'anno 711 fermato il soglio del suo Regno in Pavia, siccome i suoi predecessori avean fatto, cominciò a dar saggi grandissimi della sua bontà e prudenza civile. Egli, imitando suo padre e gli altri Re suoi predecessori, nella religion cattolica fu costantissimo, ed alla di lui pietà dee Pavia l'ossa gloriose d'Agostino; poichè egli le vendicò dalle mani de' Saraceni, dopo avergli discacciati da Sardegna, dove trovavasi il prezioso deposito. Egli, seguendo l'esempio di Rotari e di Grimoaldo, volle eziandio esser partecipe della gloria di savio facitor di leggi: poichè nel primo anno del suo Regno, avendo in Pavia, secondo il costume, ragunati gli Ordini del Regno, ordinò altre leggi, e l'aggiunse agli editti di Rotari e di Grimoaldo[204]; nè di ciò [141] ben soddisfatto, ne' seguenti anni, secondo che il bisogno richiedeva, altre ne stabilì: tanto che fra i Re longobardi, dopo Rotari, Luitprando fu quegli, che più di ogn'altro empiè il suo regno di leggi.

§. I.  Leggi di Luitprando.

Molte leggi di questo Principe piene di somma prudenza ed utilità sono ancor oggi a noi rimase nel volume delle leggi longobarde, ma nel Codice membranaceo Cavense si leggono interi i suoi editti, donde le prese il Compilatore di quel volume. Ivi si legge il suo primo editto, che e' promulgò nel primo anno del suo Regno, contenente sei capitoli, fra' quali il primo ha questo titolo de successione filiarum. Si leggono ancora gli altri editti, che e' fece ne' seguenti anni: poichè nel quinto del suo Regno ne promulgò un altro, che contiene sette altri capitoli: nell'ottavo, dieci: nel decimo anno, cinque: nell'undecimo, trentatre: nel decimo terz'anno, cinque: nel decimoquarto, quattordici: nel decimoquinto, dodici: nel decimosesto, otto: nel decimosettimo, tredici: nel decimonono, tredici: nel ventunesimo, nove: nel ventesimosecondo, quattro: nel ventesimo terzo, cinque: ed alcuni altri ne promulgò negli anni seguenti. Di maniera che le leggi di questo Principe, siccome vengono registrate nello stesso Codice, che si conserva nell'Archivio della Cava arrivano al numero di cento cinquantadue, alle quali nel Codice suddetto si veggono aggiunti sette altri capitoli, i cui titoli o sommarj sono: I. De Mercede Magistri. II. De Muro. III. De Annona. IV. De Opera. V. De Caminata. VI. De Fumo. VII. De Puteo.

[142]

Di queste leggi solamente 137 furono inserite nel volume delle leggi longobarde dal suo Compilatore. Nel primo libro se ne leggono 48, e nel secondo 89, poichè nel terzo non ne abbiamo. La prima che si legge nel primo libro è sotto il tit. de illicito consilio: l'altra sotto il tit. 8: nove altre se ne leggono sotto il tit. de homicidiis: un'altra sotto quello de Parricidiis: un'altra sotto il titolo decimoquarto dell'istesso libro: quattro sotto quello de injuriis mulierum: tre nel titolo decimosettimo: una sotto il tit. de Sedictione contra Judicem: altra nel titolo decimonono: un'altra sotto quello de pauperie: quattro nel titolo vigesimoterzo: dodici sotto quello de Furtis, et servis fugacibus: una sotto il tit. de Invasionibus: un'altra sotto il vigesimonono: altra sotto il tit. de raptu mulierum: un'altra sotto quello de fornicatione: tre sotto il tit. de adulterio: una nel titolo trigesimo quarto: e l'altra sotto quello de Culpis servorum, ch'è l'ultima del primo libro.

Nel secondo ne leggiamo assai più insino ad ottantanove: due sotto il titolo secondo: una sotto il terzo: tre nel quarto: una nel quinto: altra nel sesto: un'altra nel settimo: otto sotto il tit. de prohibitis nuptiis: una nel nono: un'altra nel decimo: altra nell'undecimo: tre sotto quello de conjugiis servorum: altra sotto il titolo decimoterzo: un'altra sotto quello de donationibus: un'altra sotto il tit. de ultimis voluntatibus: tre sotto il ventesimo: sedici nel tit. de debitis, et guadimoniis: una sotto quello de Treugis: due sotto il ventesimo quinto: un'altra sotto il ventesimo sesto: altra sotto quello de depositis: altra sotto il tit. de rebus intertiatis: sette nel tit. de prohibita alienatione: due sotto il trentesimo: una sotto quello de prohibita [143] alienatione servorum: quattro sotto il tit. de praescriptionibus: due sotto quello de Evictionibus: quattro sotto l'altra de Sanctimonialibus: due nel tit. de Ariolis: quattro sotto il tit. de Reverentia Ecclesiae, seu immunitatibus debita: cinque sotto l'altro, qualiter Judices debeant: una sotto il tit. de consuetudine: un'altra sotto quello de Testibus: quattro sotto il tit. qualiter quis se defen. deb.; ed una in quello de perjuriis, ch'è il penultimo titolo del libro secondo.

Nel terzo, leggi di Luitprando non abbiamo, come quello che per lo più fu composto dalle leggi di quegli Imperadori, che l'Italia, come successori de' Re dei Longobardi signoreggiarono, dopo avergli da questa provincia discacciati: tutto che alcune pochissime leggi di Rotari, di Rachi e di Astolfo pure i Compilatori v'inserissero. Alcune altre leggi di questo Re possono vedersi appresso Marcolfo[205] e Goldasto.

Ma la saviezza che mostrò questo Principe in comporre il suo Regno con sì provide leggi, e tutti gli altri suoi pregi fur non poco oscurati dalla soverchia ambizione di dominare, e dal desiderio estremo di stendere i confini del suo Regno, oltre a quello, che i suoi predecessori gli avean lasciato, la quale portò egli tanto avanti, che finalmente cagionò ne' suoi successori la ruina dell'Imperio de' Longobardi in Italia; poichè non contento di aver ritolto al Pontefice romano il patrimonio delle Alpi Cozie che poco innanzi il Re Ariperto avea confermato alla Chiesa romana, invase anche il patrimonio sabinense; e tutto intento ad approfittarsi, e ad investigar qualunque opportunità d'ampliare il suo dominio, secondando gli [144] avidi consigli con una presta, e destrissima esecuzione, gli venne fatto d'allargare grandemente il suo Regno sopra le rovine de' Greci. Tanto che la sua potenza rendutasi ormai sospetta a' Pontefici romani, finalmente veggendo costoro depressa, e poco men che estinta in Italia l'autorità degl'Imperadori d'Oriente, e non fidandosi più de' Greci, ch'erano divenuti loro capitalissimi nemici, pensarono alla maniera, che ora diremo, di ricorrere alle forze straniere per abbassare Imperio sì grande.

§. II.  Novità insorte in Italia per gli editti di Lione Isaurico.

Reggeva in questi tempi l'Oriente Lione Isaurico, il quale, calcando le orme di Bardane soprannomato Filippico (che fu il primo Imperador d'Oriente, che cominciò a muover guerra alle immagini) era chiamato Iconomaco, come colui, che fuor d'ogni misura e sopra tutti gli altri avea quelle in odio ed abbominazione; poichè persuaso, con abbatterle di discacciar l'Idolatria, che credette per l'adorazione e culto delle medesime essersi introdotta nel Cristianesimo, si prometteva felicità nel suo Imperio; ed in premio di sì magnanima e pietosa impresa, come e' la riputava, lusingavasi di dovere colla prosperità de' successi stendere il suo Imperio, reintegrargli l'Italia da' Longobardi occupata, ed alla pristina dignità e grandezza restituirlo. Nè mancò chi, per accrescer l'inganno e la lusinga con presagi ed augurj alcune volte dal caso confermati, glie ne promettesse facile e sicuro adempimento; e la politica di questo Principe, la quale non può negarsi, che non sia stata grande, rimase [145] da sì vani vaticinj delusa e schernita; imperocchè non ponderando egli, che appresso i Popoli, e particolarmente agl'Italiani, sì strana e nuova impresa dovea eccitar turbolenze e tumulti grandissimi, siccome coloro, i quali, avvezzi già per molto tempo nelle chiese ed altrove a venerar quelle immagini, e a promettersi per l'intercessione de' loro prototipi felicità non meno spirituali che temporali, non potevano i loro animi, percossi da sì strana novità, non riempiersi di grandissimo orrore in veggendo ardere per mano di uomini vilissimi, con sommo disprezzo abbattere, ed in minutissimi pezzi frangere quelle statue, che da loro maggiori con ugual pietà e magnificenza erano state ne' tempj, e su le porte delle città a pubblica venerazione collocate.

Nè certamente avrebbe giammai mente d'uomo potuto investigare novità più rimarchevole o più penetrante di questa, per mettere in iscompiglio le province tutte dell'Italia; avvegnachè l'altre eresie, non avendo avuto niente del popolare e del tragico, ancorchè si fossero diffuse per la mente degl'uomini, e precisamente l'arriana, non portarono nel disseminarsi tanti tumulti e sconcerti, quanti ne dovea suscitar questa, la quale non poteva porsi in effetto, se non per mezzo di modi strepitosi, d'incendj, d'abbattimenti, e per altri tragici avvenimenti. Lione, come Principe prudente e savio, sul principio tenne perciò modi soavi e placidi; proccurò prima con ragioni e scongiuri persuader negli altri quel ch'egli credeva; poi veggendo che ciò niente giovava, diede fuori un editto, col quale non si comandava altro se non che si togliessero le immagini da que' luoghi soliti, dove trovavansi [146] riposte per esservi adorate, e si collocassero nelle sommità de' tempj, ove non potessero ricever culto, nè adorazione alcuna. Ma avendo da poi scorto negli animi di molti dell'orrore, anzichè avversione a cotali suoi ordinamenti, preso da stizza e da furore, rompendo ogni maggior indugio e deponendo qualunque moderazione, imperversò tanto nell'impresa, che fatto unire il Senato, con pubblica dichiarazione ordinò, che tutte le immagini fossero abbattute, e che nè pur una ne fosse permessa dentro alle chiese di Costantinopoli: essendo egli persuaso, che quanto più tardasse a condurre a suo fine questa eroica e gloriosa operazione, tanto più sarebbe tardato a riceverne il premio, conforme alle concepute idee.

In Oriente a questo disegno dell'Imperadore si opposero Germano Patriarca di Costantinopoli, e S. Giovanni Damasceno; ma Lione fece deporre Germano, e nel 730 fece metter in suo luogo Anastasio. Sono alcuni che scrissero, che facesse ancora colla forza eseguire in Costantinopoli l'editto, con far ardere e rovesciare tutte le immagini, e tutto ciò ch'era di rado e pellegrino in quella città, e che alla vista di tutto il Mondo facesse anche abbattere la statua del Salvatore, che s'innalzava sopra la gran porta del palagio imperiale, fatta ivi ergere da Costantino il Grande; altri riputano favoloso ciò che si narra dell'abbattimento della statua del Salvatore, e vogliono che in questi principi Lione non imperversasse tanto. Che che ne sia, egli voleva far valere il suo editto, e che s'eseguisse non meno in Costantinopoli ed in Oriente, che in tutte le altre province dell'Occidente, ch'erano rimase sotto il suo dominio. Comandò per tanto gagliardamente a' suoi Uficiali, ch'eran destinati al governo [147] di quelle, che facessero nelle città a loro soggette eseguir l'editto, e sopra ogni altro impose a Scolastico Patrizio, che si trovava allora Esarca di Ravenna, che facesse eseguire puntualmente i suoi ordini, con far rovesciare in quella città tutte le immagini, senza permetterne alcuna.

Ma in Occidente, e particolarmente in Italia non pure non fu ubbidito l'editto, ma vennero i Popoli in tanto abborrimento di quello, che apertamente proruppero in manifesta sollevazione. I Principi dell'Occidente che non erano sotto il di lui Imperio, i longobardi Re d'Italia, ed i nostri Duchi di Benevento lo detestarono, nè vollero che ne' loro dominj si ricevesse: questa stessa avversione era ne' Popoli soggetti all'Imperio greco; nè tutti i sforzi degli Uficiali, che volevan in tutti i modi farlo eseguire, poterono giammai nulla spuntare contra l'ostinata universale repugnanza. Niente valsero in Roma, ed in tutto il Ducato romano; niente nel Ducato napoletano, e negli altri Ducati e città che ubbidivano agl'Imperadori di Oriente. Anzi l'Esarca Scolastico in Ravenna, volendo con violenza obbligare quel Popolo all'osservanza dell'editto, cagionò più gravi e dannevoli disordini; poichè, avendo comandato che a viva forza si rovesciassero in quella città l'immagini, eccitò tali tumulti, che il Popolo, spinto a manifesta rivolta contra l'Imperadore, ridusse la cosa in tale estremità, che finalmente i Ravignani passarono sotto la dominazione di Luitprando. Imperocchè questo accortissimo Principe, che invigilava sempre ad ingrandire il suo Regno a danni dell'Imperadore, avendo intesa la sollevazione di coloro, portò subito l'assedio a quella città, e strettala per mare e per terra, dopo avere sconfitta l'armata [148] navale de' Greci, che veniva per soccorrerla, se ne rendè in pochi giorni padrone[206]: molte altre città dell'Esarcato tantosto renderonsi a lui; e finalmente ridusse l'Esarcato in forma di Ducato, ed agli altri Ducati de' Longobardi aggiunse questo, dandogli nuova forma, e ne creò Duca Ildeprando suo nipote (quegli che poi fu innalzato al soglio reale), al quale, essendo ancor fanciullo, diede per Direttore Peredeo Duca di Vicenza.

Reggeva in questi medesimi tempi il Ponteficato romano Gregorio II di questo nome, il quale era succeduto a Costantino nella sede di Roma l'anno 714. Questi sebbene, unito co' Romani, si fosse grandemente opposto a' disegni di Lione; nulladimanco avendo sospetta, come ebbero sempre i suoi predecessori, la potenza de' Longobardi, non poteva soffrire che il loro Regno sotto Luitprando, Principe ambizioso, si stendesse tanto, che finalmente potesse portar la ruina della sua sede e del Pontificato. Per questi rispetti, come fece l'altro Gregorio, invigilava sempre agl'interessi degl'Imperadori greci, che tenevano in Italia, e proccurava che le loro forze non declinassero, affinchè potessero opponersi a' disegni de' Longobardi, e fosse l'autorità loro ritegno e freno a tanta potenza: perciò si oppose al Duca di Benevento, ed ajutò i Greci napoletani, perchè Cuma non fosse da' Longobardi beneventani soggiogata. E quantunque per aversi egli dovuto opponere agli sforzi di Lione in queste novità dell'abbattimento delle immagini, fosse stato dall'Imperadore indegnissimamente trattato, sino a minacciarlo di volerlo scacciare dalla sua sede, e di mandarlo [149] in esilio[207]; con tutto ciò, posponendo le private ingiurie alla pubblica causa, dirizzò tutti i suoi pensieri per impedire la rivolta de' Popoli d'Italia, che a lui ubbidivano, e per difendere le terre dell'Imperio dall'invasione de' Longobardi.

Non aveva egli in Italia Principe vicino a chi potesse ricorrere per poter contra coloro far argine. Le sole forze de' Greci non bastavano: la Repubblica di Venezia solamente, che da tenuissimi principj surta, in questi tempi erasi renduta di qualche considerazione in Italia, vi restava, tanto che l'Esarca ivi erasi salvato; si raccomandò, e si rivolse per tanto Gregorio a' soccorsi de' Veneziani, ed avendo scritto una bene forte lettera ad Urso lor Duce, tanto fece ed operò co' suoi uficj, che finalmente ridusse i Veneziani a ristabilir l'Esarca in Ravenna, la quale essi con tanta celerità ritolsero a' Longobardi, che Luitprando da Pavia non potè mandarvi soccorso: furono dunque i Longobardi scacciati, rimanendo Ildeprando prigione in mano de' Veneziani, e Peredeo, mentre fuggiva, fuvvi miseramente ucciso.

Credette il Papa, che Lione sarebbe stato riconoscente d'un servigio tanto considerabile; onde si mise a sollecitarlo più fortemente che mai per lettere[208] affinchè abbandonasse la sua impresa. Ma fu ben deluso Gregorio nelle sue speranze, poichè questo Principe, a cui era noto, che Gregorio più per proprio suo interesse, che per l'Imperio, erasi mosso in suo ajuto, irritato vie più in veggendo, che e' continuasse d'opporsi sempre più al suo disegno, e che con manifeste rivolte si tentasse scuotere il suo dominio; e conoscendo [150] la fermezza del Papa, che l'avrebbe impedito per sempre, pensò seriamente a rimovere ogni ostacolo; e vedendo che sarebbe stata cosa difficile di venirne a capo colla forza, pensò di ricorrere alle arti ed al tradimento. Il Ducato romano, come s'è più volte detto, durava in Italia sotto la sua dominazione, e da lui si mandavano i Duchi a Roma per reggerlo. Era in questi tempi Duca di Roma Maurizio: a costui diede segretissimi ordini di favorire tre suoi Uficiali, che si ritrovavano in Roma, li quali, insidiando la vita del Pontefice, avevano data parola a Lione di condurlo in Costantinopoli vivo o morto; ma non riuscito a costoro il disegno, e pensando l'Imperadore, che dalla negligenza de' suoi principali Uficiali fosse stato frastornato, inviò nell'anno 725 Paolo Patricio in Italia per comandar in Ravenna in qualità d'Esarca[209], al quale incaricò questo fatto, ed allora i tre congiurati, tenendosi sicuri d'una potente protezione, si affrettarono di fare il disegnato colpo: ma prima che ne venissero all'esecuzione, la congiura fu scoperta da' Romani, vigilantissimi alla conservazione d'un Pontefice, ch'essi avevano tanto caro; ed avendone incontanente arrestati due, gli fecero subito morire; e l'altro che colla fuga erasi posto in salvo dentro un monastero, quivi rendutosi Monaco finì i giorni suoi.

Intanto il nuovo Esarca, che veniva sollecitato da Lione con premurosissimi ordini di trovar ogni strada per aver in mano il Papa, vedendo riuscir vane tutte le sue arti ed insidie, perchè il Papa era troppo bene guardato da' Romani, finalmente impaziente d'ogni indugio [151] si risolse d'impiegar la forza aperta per mantener la parola, che egli aveva data a Lione di mettergli nelle mani Gregorio[210]. Ragunò dunque più presto che gli fu possibile alcune truppe, raccolte parte da Ravenna e parte dell'armata, ch'egli teneva in piedi, per essere sempre in istato di difendersi dagli insulti de' Longobardi vicini, e le mandò ad unirsi agl'Imperiali, ch'erano in Roma più deboli, con ordine di menar via il Papa, e di condurlo a Ravenna.

Ma Luitprando, scaltro ed accortissimo Principe, ancorchè si tenesse offeso da Gregorio, il quale aveva suscitati i Veneziani contro di lui per fargli perdere Ravenna, come la perdette, deliberò in questa necessità di soccorrere il Papa ed i Romani contra i Greci, acciocchè, tenendo in bilancio i due partiti, per gli aiuti più o meno forti, che lor avrebbe somministrati secondo le occasioni, venissero in questa divisione a poco a poco ad indebolirsi e gli uni e gli altri, onde potesse poi della lor debolezza approfittarsi. Diede per tanto pronto ordine a Governatori delle Piazze, ch'egli aveva ne' contorni di Ravenna e di Roma, d'unirsi a' Romani, i quali con si valido soccorso trovandosi più forti di quelli dell'Esarca, gli fermarono vicino Spoleto, e costrinsongli finalmente ad abbandonar la loro impresa, e a ritornare in Ravenna.

Lione intanto, il quale per altro nell'arte del regnare e del dissimulare non era cotanto inesperto, ancorchè vedesse essergli sì mal riuscita la forza ed il tradimento, lasciossi talmente trasportar dalla collera, che non curando i danni gravissimi, che poteva [152] portar seco una risoluzione tanto bizzarra, come era quella che egli volle prendere, quando men dovea, credette che l'autorità sua per se sola e disarmata, avrebbe fatto senza fatica ciò che non potè eseguire coll'armi e colle insidie: perciocchè trascurato ogni rispetto, e consigliandosi solamente colla sua passione, reiterò quanto intempestivamente, altrettanto con molta veemenza e fervore gli ordini all'Esarca di far pubblicare ed eseguire in Roma, ed in tutte le città del suo Imperio, che teneva in Italia, l'editto, che poco anzi aveva in Costantinopoli formato. Conteneva l'editto, come s'è detto, che si togliessero dalle chiese tutte le immagini, come tanti Idoli: prometteva di più ogni sorte di favore al Papa, purchè ubbidisse, ed all'incontro lo dichiarava reo e decaduto dal Ponteficato, nel caso che ricusasse.

Non fu veduta mai più pronta, nè più generale, nè meglio concertata risoluzione di quella, che si fece per tutto e principalmente a Roma, subito che vi fu pubblicato questo editto.

Gregorio assicurato già degli animi di tutti disposti in suo ajuto, assicurato ancora da' Longobardi, e vedendo che Lione non osservava più nè misura, nè modo, e che attaccava già apertamente non pur la sua persona, ma anche la religione; si risolse d'impiegare alla prima tutta l'autorità sua pontificale, e le armi spirituali del suo ministero per impedire, che un così detestabile editto non fosse ricevuto in Italia. Cominciò a scomunicare solennemente l'Esarca, e tutti i di lui complici. Poi mandò lettere appostoliche ai Veneziani, al Re Luitprando, ed a' Duchi de' Longobardi, ed a tutte le città dell'Imperio, per le quali gli esortava a tenersi saldi ed immobili nella fede cattolica, [153] e ad opporsi con tutte le forze all'esecuzione di questo editto.

Queste lettere fecero tanta impressione sopra gli spiriti, che tutti i Popoli d'Italia, benchè di partiti differenti, e che spesso fra di loro guerreggiavano, come i Veneziani, Romani e Longobardi, s'unirono tutti in un sol corpo, animato d'un medesimo spirito, che gli fece operare di concerto per difender la fede cattolica e la vita del Papa, protestando tutti insieme di voler conservarla sino ad esporre la propria per una causa sì gloriosa. Ma come è difficile nel calore d'un primo moto di conservar eziandio nel bene le giuste misure, che egli dee avere; non si tennero nei limiti d'una legittima difesa: perocchè non solo i Romani e quelli di Pentapoli, ch'è oggidì la Marca d'Ancona, presero le armi, e s'unirono a' Veneziani, che furono i primi ad armarsi, ma portando più innanzi il loro zelo, scossero apertamente il giogo. Non contenti d'aver abbattute le immagini di Lione, non vollero più conoscerlo per loro Imperadore, e si elessero da loro stessi nuovi Magistrati per governarsi nell'interregno, che pretendevano fare di propria loro autorità. Andarono anche più avanti, e portarono finalmente la cosa quasi all'ultima estremità; perciocchè eran risoluti di creare un altro Imperadore, e di condurlo a Costantinopoli con una potente armata, per metterlo nel luogo di Lione; ma il Papa non riputando questo consiglio opportuno, nè proprio di quel tempo, lo rifiutò, e vi si oppose in maniera che non ebbe nessuno effetto[211].

Ma questo non impedì il destino di Lione, che terminò [154] finalmente di fargli perdere in Italia l'Esarcato di Ravenna, il Ducato di Roma, e mancò poco che non perdesse il Ducato di Napoli, e con esso tutta la sua autorità in Italia: perocchè sollevati i Popoli, tantosto si divisero in fazioni e partiti. In Ravenna Paolo Esarca n'avea guadagnato molti, o per vile compiacenza, o per interesse, o per la speranza di salire in posti maggiori. Ma il contrario, che sosteneva il Papa, più forte e numeroso, non potendo soffrire l'Esarca, si sollevò, ed insorta una furiosa sedizione, anzi una spezie di guerra civile, tra i due partiti, presero l'armi per distruggersi l'un con l'altro. La fazione de' cattolici, come più forte, essendo nel conflitto rimasa superiore, fece strage grandissima di tutti gli Iconoclasti, senza risparmiar nemmeno l'Esarca, che fu ammazzato in questo tumulto. Queste furono le cagioni, le quali fecero perdere agl'Imperadori d'Oriente molte città della Romagna, ch'eran dell'Esarcato, e tutte l'altre città della Marca, che si renderono a Luitprando Re de' Longobardi. Imperocchè questo scaltro Principe, il quale non era per altro entrato in questa guerra, che per profittar dell'occasione d'ingrandirsi a' danni degli uni e degli altri, non mancò di tirar tutto il vantaggio, ch'egli poteva sperare di questa rivolta, e di far valere il pretesto della religione, secondo la massima della politica umana per conseguire i suoi fini. Fece dunque comprendere a questi Popoli, da una parte, che non potrebbono mai conservar la religione sotto un Imperadore non solamente eretico, ma ancora persecutore degli Ortodossi; e che dall'altra erano troppo deboli per resistere alle forze d'un sì potente Principe, dal quale potrebbono essere attaccati in un tempo, in cui altri [155] interessi sarebbon forse d'impedimento a' loro amici di soccorrergli: dimodochè quelle città, non seguitando in questo movimento se non i consigli, che lor venivano ispirati dall'odio e dal timore mischiati di zelo e d'amore per la religione, dopo avere scosso il giogo dell'Imperio, si misero sotto l'ubbidienza del Longobardo. Documento che può mostrare a' Principi quanto possa nell'animo de' Popoli la forza della religione, e da ciò apprenderanno non potersi quella alterare, senza pericolo di violentemente scuotere fino da' primi cardini gli Stati da loro governati.

§. III.  Il Ducato napoletano si mantenne nella fede di Lione Isaurico.

Mancò poco che, ciocchè i predecessori di Luitprando per lungo corso di anni e di guerre non poteron conseguire, egli in un tratto non ne venisse a capo, occupando il Ducato napoletano, come avea fatto di molte città dell'Esarcato di Ravenna. Era il Ducato di Napoli, come si disse, governato da un Duca, che anche da Costantinopoli solevan mandare gl'Imperadori Orientali, a' quali era sottoposto. Nei tempi di Lione governava questa città per l'Imperadore, Esilarato successore di Giovanni, il quale spinto da precisi ordini di Lione, sollecitava i Popoli della Campagna a ricevere l'editto, ed a seguitare la religione del loro Principe: aveva medesimamente subornati uomini per fare ammazzare il Papa, promettendo loro grandi ricompense, se facessero questo colpo, che egli diceva esser assolutamente necessario per riposo d'Italia. Questa esecranda viltà scoperta da' Napoletani, devotissimi che furono sempre de' Pontefici, e tenacissimi [156] in sostenendo la dottrina della Chiesa romana, parve loro così orrenda e mostruosa, che chiudendo gli occhi ad ogni altra considerazione, fuorchè a quella, che animava la loro indegnazione alla vendetta di questo attentato, presero le armi, ed eccitato avendo turbolenze e tumulti, rivoltaronsi contra il Duca Esilarato il quale, non avendo di che far loro resistenza in una sì generale sollevazione, l'ammazzarono insieme con Adriano suo figliuolo; e ad uno de' suoi principali Uficiali, ch'essi accusarono d'aver composto un sedizioso scritto contra il Papa, parimente tolsero la vita[212].

Ma i Napoletani non portarono più avanti il loro sdegno, nè mancarono alla fede dovuta al loro Principe, come fecero l'altre città, nè vollero avere alcuno ricorso a' Longobardi, i quali sebbene avessero subito aperti gli occhi a sì bella opportunità, nulladimeno i Napoletani, per non irritar maggiormente lo sdegno dell'Imperadore, o come è più verisimile, essendo sempre stato fra questi due Popoli per le lunghe e continuate guerre, odio implacabile, non vollero usare tanta viltà, di sottoporsi a' Longobardi, avuti da essi sempre per fieri ed implacabili nemici. Tanto che non riuscì a Luitprando, nè a' Longobardi beneventani di potersi approfittar di sì bella occasione. Per cotale modo si mantenne questo Ducato (quando tutte le altre Signorie che gl'Imperadori orientali tenevano in Italia cominciavan a mancare) saldo e costante nella ubbidienza del suo Principe: onde in luogo d'Esilarato, sostituendosi Pietro per Duca di questa città, continuarono essi a vivere sotto l'Imperio de' Greci, [157] infinattanto che da' Normanni non fu il lor Ducato, dopo il corso di molti e molti anni, a' Greci finalmente tolto, come diremo ne' seguenti libri.

Lione stordito alla notizia d'una sì generale rivoluzione, in vece di levar la cagione d'un sì gran male, non fece altro, che maggiormente inasprirlo, fin a renderlo incurabile; ciocchè finalmente fecegli anche perdere il Ducato di Roma, senza speranza di più ricuperarlo: e che l'avrebbe anche interamente spogliato di quello di Napoli, e di tutta l'autorità sua in Italia, se la costanza de' Napoletani, e l'avversione ch'essi tenevano a' Longobardi, non l'avesse impedito. Egli imperversando sempre più contro alla vita del Pontefice, credendolo autore di tutti questi mali, subito ch'ebbe intesa la morte di Paolo Esarca, e la sollevazione della Campagna contra il Duca di Napoli, mandò nell'anno 727 l'Eunuco Eutichio in Ravenna in qualità d'Esarca[213], uno de' più scellerati uomini della terra, e de' più atti ad eseguire le più empie e più difficili imprese. Si sforzò costui di corrompere i Governadori delle Piazze, ch'erano sotto la dominazione de' Longobardi ne' contorni di Napoli e di Roma, solamente per obbligargli a dissimulare, ed a non far tutto quello, che potrebbero per difendere il Papa; ma non ebbe questo vile artificio tutto il successo, ch'egli n'aspettava; poichè un uomo mandato da questo Eunuco segretamente a Roma, fu preso da' Romani, e trovatolo carico degli ordini espressi dell'Imperadore a tutti i suoi Uficiali di porre a rischio ogni cosa, per ammazzare il Papa, furono per [158] porlo in pezzi, se Gregorio non l'avesse impedito, contentandosi solo di scomunicare Eutichio[214].

§. IV.  Origine del dominio temporale de' Romani Pontefici in Italia.

Trovavasi veramente Gregorio in angustie grandi, poichè se bene Luitprando co' Longobardi mostrava di difenderlo contra gli sforzi di Lione, conosceva però assai bene, che questo zelo lo dimostravano non tanto per di lui servigio e conservazione, quanto per approfittarsi sopra l'altrui discordie; per la qual cagione non aveva in che molto fidarsi di loro, come l'evento il dimostrò. Quindi i Romani, abbominando dall'un canto l'empietà di Lione, alla quale voleva tirargli per quel suo editto, e dall'altro essendo loro sospetta l'ambizione di Luitprando, che non cercava altro in questi torbidi, che d'impadronirsi del Ducato romano; si risolsero finalmente, scosso il giogo di Lione, mantenersi uniti sotto l'ubbidienza del Papa, al quale giurarono di volerlo difendere contra gli sforzi e di Lione e di Luitprando. Questa fu l'origine, e questi furono i primi fondamenti che si buttarono, sopra de' quali col correr degli anni venne a stabilirsi il dominio temporale de' Pontefici romani in Italia. Cominciò il lor dominio da questo interregno, che fecero i Romani, i quali liberatisi da Lione, erano tutti uniti sotto il Papa lor Capo, ma non già ancora lor Principe.

Ma non perchè tanta avversità a' suoi disegni scorgesse [159] Eutichio, si perdè d'animo a proseguire il suo disegno; imperocchè rifatta, come potè meglio, la sua armata, si portò in Ravenna, e durando ancora le fazioni in quella città, gli fu facile, veggendosi i suoi partigiani soccorsi con sì valide forze, ricuperarla, e ridurre i Ravignani nella fede del suo Principe. Questi, ponderando che tutta l'Italia era per lui perduta, e che non potrebbe mai opprimere il Papa e l'ostinazione de' Romani, sempre che Luitprando era per soccorrergli; impiegò tutta la sua destrezza e politica per distaccar questo Principe dagl'interessi del Pontefice e de' Romani, ed obbligarlo ne' suoi. Erasi in questo incontro ribellato a Luitprando, Trasimondo Duca di Spoleto, e trovandosi Luitprando impiegato a reprimere la costui fellonia, ardeva di desiderio di farne aspra e presta vendetta. Si era ancora il Re accorto, per la risoluzione ferma de' Romani di darsi al Papa, che niente potrebbero giovargli con essi le arti e le lusinghe per tirargli alla sua ubbidienza, ma che restava la sola forza per far questo colpo. Per questi rispetti offerendogli l'Esarca il suo esercito per reprimere prima la fellonia di Trasimondo, come che non per altri fini s'era intrigato in questa guerra, che per approfittar delle occasioni, ch'ella gli avrebbe somministrate di tirare grandi vantaggi o dall'una o dall'altra parte: non ebbe Eutichio a durar molta fatica per tirarlo ne' suoi disegni; per questo dimenticatosi dell'obbligo, ch'egli aveva co' Romani, e della parola da lui data di difendere il Papa e la religione contra gl'insulti dell'Imperadore, accettò queste offerte, e conchiuse con Eutichio il trattato, il quale in fatti congiunse tosto la sua armata a quella del Re, e seguitollo alla guerra, ch'egli andò a portare contra il Duca di Spoleti suo [160] ribelle; la quale non durò troppo, poichè Trasimondo restò così sorpreso di questa colleganza, la quale non aspettava punto, che subito che Luitprando fu arrivato innanzi Spoleti, venne a gittarsi a' di lui piedi, chiedendogli perdono, e l'ottenne: fu medesimamente ristabilito nel suo Ducato, facendo di nuovo al Re a giuramento, e dandogli ostaggi della sua fedeltà.

Mancata così tosto l'occasione d'impiegar le armi contra ribelli, in adempimento del trattato con Eutichio, furon quelle voltate contra i Romani, e venne Luitprando con le due armate a presentarsi sotto Roma, accampandosi nelle praterie di Nerone, che sono tra 'l Tebro, e la chiesa di S. Pietro, dirimpetto al Castel S. Angelo. Presentendo Gregorio l'apparecchio di Luitprando, aveva fatto munire, come potè il meglio, la città di Roma; ma scorgendo che mal colla forza poteva resistere a tanto apparato di guerra, avendo innanzi agli occhi l'esempio del Duca di Spoleti, che colle preghiere ottenne dalla pietà di Luitprando quel che non avrebbe potuto sperar colle armi; volle imitarlo, e senza consultar la prudenza umana, la quale non poteva mai persuadere, ch'egli fosse andato a mettersi nelle mani de' suoi nemici, senza grandi precauzioni, e senza aver ben prima prese le sue misure; accompagnato dal Clero e da alcuni Baroni romani andò egli stesso a trovare il Re. Sorpreso Luitprando da quest'atto non preveduto, non potè resistere agl'impulsi della cortesìa, che gli erano molto naturali, e di riceverlo con tutto il rispetto dovuto alla santità della vita, ed all'augusto carattere del sovrano pontificato. Allora fu che Gregorio, pigliando quell'aria di maestà, che la sola virtù suprema, accompagnata da una sì alta dignità, può ispirare, [161] cominciò con tutta la forza immaginabile temperata con una grave benignità a spander i fiumi d'eloquenza, rimproverandogli la fede promessa; il torto che faceva alla religione, della quale era tanto zelante, e ponendogli avanti gli occhi i danni gravissimi, che poteva apportare al suo Regno, se mancasse di protegger la Chiesa; lo scongiurava a desistere dall'impresa, altrove le sue armi rivolgendo. Luitprando o tocco internamente da' stimoli di religione, o che vedesse in quell'istante molte cose, ch'egli non aveva considerate nell'ardore della sua passione, o perchè, siccome gli uomini non sanno essere in tutto buoni, nemmeno sanno essere in tutto cattivi; rimase così tocco di queste dimostranze di Gregorio, che senza pensare, nè a giustificar la sua condotta, nè a cercare scusa per metter in qualche modo a coperto l'onor suo, gettossi alla presenza di tutti a' di lui piedi, e confessando il suo errore, protestò di voler ripararlo allora, e di non mai soffrire per l'avvenire, che si facesse alcun torto a' Romani, nè che si violasse nella di lui persona la maestà della Chiesa di cui era egli padre e Capo. Ed istando l'Esarca che s'adempiessero gli ordini dell'Imperadore[215], non solo non vi diede orecchio, ma per dare al Papa un più sicuro pegno della sua parola, pregollo che andassero insieme nella Basilica di S. Pietro, la qual era ancora in quel tempo fuori delle mura della città, e quivi in presenza di tutti i Capi della sua armata, che l'avevano seguitato, fattosi disarmare, pose sopra il sepolcro dell'Appostolo le sue armi, la cinta e la spada, il bracciale, l'ammanto regale, la sua corona d'oro ed una croce [162] d'argento; supplicò da poi il Papa, che ricevesse nella sua grazia l'Esarca Eutichio, di cui non potevasi più temere, quando non avesse l'ajuto de' Longobardi. Gregorio sperando sempre, che Lione avrebbe un dì riconosciuti i suoi errori, acconsentì a questa dimanda, dimodochè ritiratosi Luitprando coll'esercito ne' suoi Stati, l'Esarca fu ricevuto in Roma, e trattennevisi qualche tempo molto quieto in buona intelligenza col Papa; in guisa che, essendo succeduto medesimamente in questi tempi, che un impostore, il quale facevasi chiamar Tiberio, e che vantavasi della stirpe degli Imperadori, aveva sedotti alcuni Popoli della Toscana, che lo proclamarono Augusto[216]; Gregorio che non trascurava occasione d'obbligarsi Lione, veggendo che l'Esarca n'era entrato in pensiero per non avere forze bastanti ad opprimerlo, si maneggiò tanto appresso i Romani, che l'accompagnarono in questa guerra contra il Tiranno, il quale fu assediato e preso in un castello; donde fu mandata la di lui testa all'Imperadore.

Ma Lione indurato sempre più, portò la sua passione fino all'ultime estremità, perchè in Oriente, ove era più assoluto il suo Imperio, e che non aveva chi se gli opponesse, riempiè di stragi, di lagrime, e di sangue il tutto: fece cancellar quante pitture erano in tutte le chiese: indi fece pubblicar un ordine, col quale s'incaricava a tutti gli abitanti, principalmente a quelli, che avevan cura delle chiese, di riporre nelle mani de' suoi Uficiali tutte le immagini, acciocchè in un momento potesse purgar la città, facendole bruciare tutte insieme. Ma l'esecuzione riuscendo strepitosa, [163] non perdonandosi nè a sesso, nè ad età; fu questa finalmente la cagione, che, senza speranza di racquistarlo, fece perdere a Lione ed a' suoi successori ciò che restava loro in Occidente. Imperocchè il Papa, disperando all'intutto la riduzione di questo Principe, e temendo che un giorno non si facesse nelle province d'Occidente ciò, che egli vedeva con estremo dolore essersi fatto in quelle d'Oriente; rallentò quel freno che e' per lo passato avea tenuto forte a non permettere, che i Romani scotessero affatto il giogo del lor Principe, ma lasciando al loro arbitrio di far ciò, che volessero, approvò finalmente quello che egli insino allora erasi sempre studiato impedire, e ciò che i Popoli aveano già cominciato a fare da loro stessi; onde i Romani, tolta ogni ubbidienza a Lione, si sottrassero affatto dal suo dominio, impedendo che più se gli pagassero i tributi, e s'unirono insieme sotto l'ubbidienza di Gregorio come lor Capo, non già come lor Principe.

Alcuni nostri Scrittori, per l'autorità di Teofane, Cedreno, Zonara, e di Niceforo, Autori greci, e che fiorirono molto tempo dopo di Gregorio, Paolo Varnefrido ed Anastasio Bibliotecario, rapportano che i Romani, scosso il giogo, elessero Gregorio per lor Principe, dandogli il giuramento di fedeltà; e che il Papa, accettato il Principato di Roma, ordinasse a' Romani, ed a tutto il resto d'Italia, che non pagassero più tributo all'Imperadore, e che di più assolvesse dal giuramento i vassalli dell'Imperio; scomunicasse con pubblica e solenne celebrità l'Imperador Lione; lo privasse non pur de' dominj, che egli avea in Italia, ma anche di tutto l'Imperio: e che quindi fosse surto il dominio independente del Papa sopra di Roma e [164] del suo Ducato: che poi per la munificenza di Pipino e di Carlo M. si stese sopra l'Esarcato di Ravenna, di Pentapoli, e di molte altre città d'Italia.

Gli Scrittori franzesi, fra' quali l'Arcivescovo di Parigi P. di Marca[217], e que' due celebri Teologi Natale e Dupino[218], niegano che Gregorio savio e prudente Pontefice avesse dato in tali eccessi; le epistole di questo stesso Pontefice[219], Varnefrido, Anastasio Bibliotecario, Damasceno, l'epistole ancora di Gregorio III, e di Carlo M. a Costantino ed Irene, convincono per favolosi questi racconti; per la testimonianza de' quali tanto è lontano, che Gregorio avesse scomunicato Lione, accettato il Principato di Roma, sciolti i vassalli dell'Imperio dal giuramento e dai tributi, e deposto l'Imperadore, che anzi ci accertano che Gregorio, ancorchè in mille guise offeso, fosse stato sempre a Lione uficioso e riverente, ed avesse in tutte le occasioni impedite le rivolte de' popoli, e proccurato, che non si sollevassero contro al lor Principe. Si oppose, egli è vero, agli editti di Lione per l'abolizione delle immagini, comandando che non s'ubbidissero, ed esortando quel Principe, che lasciasse il disegno in cui era entrato; ma appresso sì gravi Autori non si legge, che lo scomunicasse. Il primo Pontefice romano, che si diè vanto di aver adoperati i suoi fulmini sopra le teste imperiali, fu il famoso Ildeprando Gregorio VII, come noteremo a suo luogo, non già Gregorio II. Ciò che più chiaro si manifesta per quello, che scrive Anastasio[220], narrando che avendo [165] Lione deposto dal Patriarcato di Costantinopoli. Germano, per non aver voluto acconsentire all'editto, e sustituito Anastasio Iconoclasta; dice egli che Gregorio scomunicò bene sì Anastasio, perseverando nell'errore, ma che all'Imperadore solo sgridava con lettere, ammoniva, esortava, che desistesse dall'impresa, non già che lo scomunicasse, come scrisse di Anastasio. Più favolosa è la deposizione, che si narra fatta da Gregorio; poichè questo Pontefice riconobbe Lione per Imperadore finchè visse; e lo stesso fece il suo successore Gregorio III, il quale comunicò col medesimo e di lui si leggono molte lettere dirizzate all'Imperadore piene di molta umanità e riverenza. Anzi tanto è vero che lo riconobbe sempre per tale, che le date delle sue lettere portano gli anni del suo Imperio, come è quella di Gregorio dirizzata a Bonifacio, Imperante Domino piissimo Augusto Leone, Imperii ejus XXIII[221].

I nostri moderni Scrittori latini, tratti dall'autorità di que' Greci, riceverono come vere le loro favole; ma non avvertirono, che dovea preponderare assai più l'autorità de' nostri antichi latini Scrittori, che fiorirono prima, e che narravano cose accadute in tempo, ed in parte da loro non cotanto rimota e lontana. Non avvertirono ancora, che i Greci di quegli ultimi tempi, oltre al carattere della loro nazione, che gli ha sempre palesati al Mondo mendaci e favolosi, erano tutti avversi alla Chiesa romana, e per commover gli animi di tutti ad odio, e per recar invidia a' Pontefici romani, gli rappresentarono al Mondo per [166] autori di novità e di rivoluzioni, imputando ad essi la ruina dell'Imperio d'Occidente, accagionandogli di novatori, ambizioni, usurpatori dell'autorità temporale de' Principi: e che mal imitando il nostro Capo e Maestro Gesù, fossero divenuti, da Sacerdoti, Principi.

Le favole di questi Greci scismatici furono poi con aridità e con applauso ricevute da' moderni novatori e da' più rabbiosi eretici degli ultimi nostri tempi. Essi ancora, per l'autorità di costoro, vogliono in tutti i modi, che veramente Gregorio scomunicasse Lione, che assolvesse i vassalli dell'Imperio dal giuramento, che deponesse l'Imperadore, ordinasse che non se gli pagassero i tributi, e che da' Romani ribellanti essendogli offerta la Signoria di Roma, avesse accettato d'esserne Signore, onde ne divenisse Principe. Spanemio[222], fra gli altri, si scaglia contra gli Scrittori franzesi, che hanno per favolosi nella persona di Gregorio questi racconti: dice che essi scrivendo sotto il Regno di Lodovico il Grande, han voluto negar questi fatti, ne sub Ludovico M. in Romano Pontifice hujusmodi potestatem agnoscere viderentur: ma essi intanto vogliono che fossero veri, per farne un tal paragone tra Cristo S. N. ed il P. Romano. Cristo, volendo quella innumerabile turba, tratta da' suoi miracoli, farlo Re, tosto fuggì, e loro rispose, che il suo Regno non era di questo Mondo: il Papa, avendo i ribellanti Romani scosso il giogo di Lione, ed offerto il Principato a Gregorio, tosto acconsentì, e ne divenne Principe. Cristo espressamente comandò che si pagasse il tributo a Cesare: il Papa ordinò che non si pagassero [167] più i tributi a Lione; per queste e simili antitesi, per queste vie, non tenendo nè modo, nè misura, han prorotto poi in quella bestemmia di aver il Papa per Anticristo.

Or chi crederebbe, che i più parziali de' Greci scismatici, ed i maggiori sostenitori di questi rabbiosi eretici, sieno ora i moderni Romani e gli Scrittori più addetti a quella Corte? Questi, ancorchè ad altro fine, pur vogliono, che Gregorio avesse scomunicato Lione, avesselo deposto comandando che non se gli pagasse il tributo, e quel che è più, che offerendosegli il Principato da' ribellanti Romani l'avesse accettato; onde surse il dominio temporale de' romani Pontefici in Italia. Ecco, per tacer degli altri, come ne scrive il nostro istorico Gesuita Autor della nuova Istoria Napoletana[223]: Tum tandem Romani Orientalis Imperii jugum excusserunt, Gregorium Dominum salutarunt, eique Sacramentum dixerunt, etc. Gregorius oblatum ultro Principatum suscepit: quem non arma, non humanae vires, artesque, sed populorum studia anno 727, auspicato contulerunt. Questo principio appunto vorrebbero gli Eretici dare al dominio temporale de' Papi, fondarla su la fellonia de' Romani, e che Gregorio mal imitando Cristo N. S. avesse accettato il Principato, ed il Servo de' Servi fosse divenuto Signore. Ma per quel che diremo più innanzi, si conoscerà chiaramente, che se bene da questi deboli principj cominciasse, non fu però che il Papa acquistasse allora la Signoria di Roma, ma ben molti anni in appresso: nè con tutto l'interregno che far pretesero i Romani di loro propria autorità, mancarono affatto [168] gli Uficiali dell'Imperador greco in Roma: e possiamo con verità dire, che i primi acquisti furono nell'esarcato di Ravenna, in Pentapoli, e poi nel Ducato romano, per quelle occasioni, che saremo or ora a narrare, non già nella città di Roma.

§. V.  Primi ricorsi avuti in Francia da Papa Gregorio II, e dal suo successore Gregorio III.

L'Imperador Lione avvisato di questi successi di cotanta importanza, imperversando assai più contro al Pontefice, confiscò immantenente tutti i patrimonj che in Sicilia, nella Calabria, e negli altri suoi Stati possedeva la Chiesa romana; e già s'apprestava con potente armata di punire la fellonia de' Romani, ridurre l'altre terre al suo Imperio, e prender aspra vendetta del Papa, ch'ei reputava l'autore di tutte queste rivolte; per la qual cosa Gregorio conoscendo, che un colpo di tanta importanza avrebbe potuto cadere sopra di lui, ed opprimerlo, se non fosse stato sostenuto da una potenza, che potesse opporsi con vigore a quella di Lione, pensò di scegliere un protettore, dove trovasse tutto il sostegno e l'appoggio necessario. Non poteva fidarsi de' Longobardi, de' quali con lunga sperienza aveva conosciuti i disegni, e provata l'infedeltà. I Veneziani, benchè zelantissimi per la difesa della Chiesa, non erano ancora così ben forti in Italia, per contrastare soli a tutte le forze del greco Imperadore, particolarmente quando fossero in diffidenza de' Longobardi, ch'erano fastidiosi vicini. E in quanto alla Spagna, ella era in un lagrimoso stato in quel tempo, e poco men che tutta oppressa da' Saraceni. Risolse per tanto d'aver ricorso alla potenza de' Franzesi, la [169] cui costanza nella fede cattolica era stata sempre fermissima. Erano questi già da più di quindici anni governati da Carlo Martello, il quale, per la insufficienza e poco spirito del Re, assunto al primo onore del Regno di Maggiordomo della Casa reale, reggeva con assoluto arbitrio quel Reame, e fatto celebre per mille gloriose spedizioni di guerra nelle Gallie e nella Germania, e sopra tutto per la memorabile sconfitta data a' Saraceni ne' campi di Turone, era reputato universalmente il primo Capitano, ed il vero Eroe del suo tempo.

A questo gran Principe mandò Gregorio, ciò che nissun Papa avea ancora fatto, una magnifica ambasceria con molti belli doni di divozione per ricercarlo di soccorso contra gli attentati di Lione, e di ricevere i Romani e la Chiesa sotto la di lui protezione[224]. Furono i Legati ricevuti da Carlo con onori straordinarj, e con magnificenza degna del più augusto Principe del suo secolo; e in poco tempo fu conchiuso il trattato, per cui obbligavasi Carlo di passare in Italia per difendere la Chiesa ed i Romani, se venissero ad essere attaccati da' Greci o da' Longobardi: ed i Romani all'incontro di riconoscerlo per loro protettore con deferirgli l'onore del Consolato, come altre volte aveva fatto l'Imperador Anastasio al gran Clodoveo, da poi ch'ebbe sconfitti gli Vestrogoti. E rimandati i Legati pieni di ricche donativi, e soddisfatti d'una sì felice negoziazione; Gregorio non avendo più che temere per la Chiesa, alla quale lasciava un così potente protettore, finì i giorni suoi nell'anno 731, con fama d'un Pontefice di rare ed [170] eminenti virtù, che gli fecero meritare sopra la terra gli onori, che non si rendono se non a' Santi del Cielo.

Successe nel Pontificato Gregorio III, di cui altri[225] scrissero, essere stata questa legazione mandata a Carlo Martello, per occasione, che Luitprando, sconfitto Trasimondo Duca di Spoleti, che di nuovo erasi a lui ribellato, profittando al solito delle vittorie, si fosse portato ad invadere di bel nuovo il Ducato romano, irritato contra Gregorio III, che avea accolto il ribelle, e si fosse avanzato a porre la seconda volta l'assedio a Roma, e che non essendo al Papa giovate le preghiere e l'eloquenza, come al suo predecessore, finalmente al soccorso di Carlo si fosse rivolto, per la cui mediazione ottenne, che Luitprando contento solo di quattro città, sciogliesse l'assedio, e lasciasse a' Romani ed al Papa Roma col rimanente di quel Ducato. Che che sia di ciò, egli è certo, che per questi ricorsi cominciarono i Franzesi ad intrigarsi negl'interessi d'Italia, per li quali con reciproco ajuto e cospirando ciascuna delle parti a' proprj avanzamenti, finalmente discacciati i Longobardi, furon essi veduti dominare l'Italia; essersi da' Merovingi nella stirpe di Carolingi trasferito il Reame di Francia; ed all'incontro i Pontefici romani essersi stabiliti in Roma, e nel Ducato romano, con molta parte ancora dell'Esarcato di Ravenna e di Pentapoli: come più innanzi diremo.

[171]

§. VI.  Costantino Copronimo succede a Lione suo Padre; e morte di Luitprando Re de' Longobardi.

In tanta turbazione essendo le cose d'Italia, e con varj accidenti sempre più deteriorando le forze dell'Imperadore Lione, era solamente rimasa quivi una immagine della sua autorità. L'Esarcato di Ravenna, scantonato in gran parte dalle conquiste de' Longobardi, già minacciava la total rovina senza speranza di riaversi: il Ducato romano era nelle mani de' Romani e del Pontefice lor Capo, a' quali ubbidiva; e se bene rimanessero ancora in Roma alcuni vestigi della sopranità, tenendovi ancora Lione i suoi Uficiali, vi era nondimeno il suo Imperio così debole, che ben mostrava di dovere in breve rimaner affatto estinto: nel solo Ducato napoletano, nella Calabria, e ne' Bruzj, e nelle altre città marittime del Regno, che non ancora erano pervenute nelle mani de' Longobardi beneventani, esercitava egli il pieno potere e dominio. Ma morto Lione Isaurico in quest'anno 741 e succeduto nell'Oriente Costantino Copronimo suo figliuolo diedesi l'ultima mano alla fatal ruina; poichè Costantino non avendo niente delle buone qualità, che aveva avuto suo padre, lo superò infinitamente nelle ree; e se si voglia in ciò prestar fede a' greci Scrittori, egli fu il più scellerato e sozzo mostro che avesse giammai avuto la terra[226]. Appena si vide solo Imperadore, che imperversando assai peggio di suo padre contra le immagini, diede fuori un editto, col quale non solamente condannava le immagini de' Santi, ma [172] proibiva d'invocargli, e di dar loro titolo di Santo, e portando più avanti il furore, imperversò ancora contra le loro reliquie, sino ad ordinare i maggiori oltraggi e disprezzi del Mondo. Perseguitò per tanto i difensori delle immagini, e mandò per questa cagione molti Vescovi in esilio. Ma si rendè vie più empio, e da tutti abborrito per l'odio da lui conceputo contro alla Madre di Dio, proibendo che si celebrasse festa alcuna a di lei onore, e che non s'implorasse l'ajuto di Dio per la di lei intercessione, asserendo non aver ella nessun potere nel Cielo, nè sopra la terra.

Questa esecranda impietà, unita alle tante altre peggiori praticate in appresso, ed a tanti abbominevoli suoi vizj, lo rendè così odioso a' sudditi, che non pur gli fecero perdere quell'ombra di dominio, ch'e' teneva in Roma ed in Ravenna, ma mancò poco che non perdesse insieme tutto l'Imperio.

Era nell'istesso anno, che morì Lione, trapassato anche Gregorio III, ed assunto al Pontificato Zaccaria: debbe a costui la Chiesa romana molto più, che a' due Gregorj, il dominio temporale, che sopra le spoglie dell'Imperio greco seppe parte ristabilire, e molto più acquistare; imperocchè questi appena assunto al trono, mandò Legati a Luitprando a chiedergli le quattro città, che per la mediazione di Carlo Martello erangli state lasciate quando la seconda volta sciolse da Roma l'assedio. E se bene da Luitprando fossero i di lui Ambasciadori ricevuti con onore, e n'avessero riportata qualche speranza per la restituzione, con tutto ciò Zaccaria, vedendo l'affare mandarsi in lungo, volle anche egli imitar Gregorio II, e portatosi di persona con tutto il Clero romano a ritrovare [173] il Re, ricevuto da costui con istraordinarj segni di stima, furono così forti ed efficaci i suoi uficj, che non solamente ottenne dalla pietà di questo Principe la dimandata restituzione, ma stabilita tra loro la pace per venti anni, riebbe ancora il patrimonio sabinense, e molti altri acquisti fece oltre ad ogni sua espettazione. E fu cotanto fortunato questo Pontefice appresso Luitprando, ed in tanta sua buona grazia, che avendo in questi ultimi tempi del suo Regno, di riposo impaziente, conforme al suo natural costume, voluto attaccar di nuovo Ravenna, Eutichio Esarca, essendo ricorso alla mediazione del Papa, operò costui tanto con Luitprando, che fecelo astenere da quella impresa, e restituire anche alcuni luoghi occupati, e prima d'ogni altro Cesena.

Ma ecco, che mentre queste cose succedono in Italia, Luitprando dopo aver regnato 32 anni, finì i giorni suoi in Pavia nel mese di luglio dell'anno 743[227]. Morte quanto improvvisa, altrettanto a' Longobardi dolorosissima, da' quali non abbastanza compianto, con solenne pompa fu sepolto nel tempio di S. Adriano Martire in Pavia con elogio ricolmo di eccelse lodi[228]. Principe, se ne togli la soverchia ambizione del dominare, fornito di tutte le perfezioni desiderabili in un Re, o per la pace o per la guerra: egli Capitano quanto valoroso, altrettanto fortunato nelle sue imprese, dilatò i confini del suo Regno[229], e nudrito sin da fanciullo in mezzo all'armi, non avea niente di fiero e di feroce, anzi cortesissimo ed inchinato [174] sempre ad usar clemenza, anche verso coloro, che l'avevano offeso: egli savissimo, fu più abile di quanti erano del suo Consiglio. Le sue leggi tutte savie e prudenti; e quantunque non avesse coltivato il suo spirito collo studio delle buone lettere, aveva egli pure trovato da se stesso nel suo proprio fondo tutta la forza e sottigliezza d'un Filosofo.

Della sua pietà verso Dio restano ancora insigni monumenti: egli magnifico in fondando grandi chiese e belli monasterj, de' quali Varnefrido[230] rapporta il numero, ed ancora oggi in Lombardia se ne ammirano i vestigi: egli casto, e misericordioso co' poveri, e d'un così buon naturale, che di quanti Principi longobardi ressero l'Italia, meritamente a lui tutti gli Scrittori rendono il vanto maggiore. Lasciò il Regno ad Ildeprando suo nipote, che negli ultimi anni di sua vita volle anche averlo per compagno: ma durò poco la costui Signoria; poichè appena scorsi sette mesi[231], che i Longobardi, non potendo per la sua inettitudine promettersi di lui felice e buon governo, lo discacciarono dal solio; ed in suo luogo innalzarono Rachi Duca del Friuli, Principe adorno di nobili virtù, e d'incomparabile pietà.

[175]

CAPITOLO I. Di Rachi Re de' Longobardi, e sue leggi.

Rachi con incredibile piacer di tutti assunto al Trono regale nell'anno 744, diede ne' primi anni del suo Regno saggi ben chiari del suo animo quieto, ed inchinevole ad ogni studio di pace, poichè fermò con Zaccaria la pace, che avea Luitprando pochi anni prima pattovita; e seguitando l'esempio degli altri Re longobardi, volle anche aggiungere nuove leggi a quelle de' suoi predecessori, ed ammollire il rigore, che in alcune di esse era ancor rimaso. Egli avendo convocati in Pavia nell'anno 745, gli Ordini del Regno le stabilì, e per un suo editto, secondo il costume dei suoi maggiori, le fece promulgare per tutto il suo Regno. Questo editto ancora si legge intero nel più volte mentovato Codice Cavense, il qual contiene undici capitoli. Il primo comincia: Ut unusquisque Judex in sua Civitate debeat quotidie in judicio residere: e l'ultimo ha questo tit. de Arimanno quomodo cum Judice suo caballicare debeat. Da questo editto nove sole leggi prese il Compilatore, le quali abbiamo nel volume delle leggi longobarde. Tre ne abbiamo nel primo libro, una sotto il tit. de Seditione contra Judicem, e due sotto l'altro de Invasionibus. Nel libro secondo ne abbiamo quattro: una sotto il tit. de Debitis, ed guadimoniis; un'altra nel tit. de praescriptionibus; altra sotto il tit. de Officio Judicis: un'altra sotto quello: Qualiter quis se defendere debeat; e due altre nel terzo libro, una sotto il tit. de his, qui secreta [176] Regis inquirunt; e l'altra sotto quello, ubi interdictum sit Legatum alicui mittere, ove con sommo rigore vien proibito mandar Legati senza licenza del Re a Roma, Ravenna, Spoleti, Benevento, in Franzia, Baviera, Alemagna, Grecia e Navarra.

Ma Rachi dopo aver così ben coltivati gli studj della pace, e sì ben composto il suo Regno con sagge e provide leggi, non passarono molti anni, che gli intermise; e preso dall'ambizione di dilatare i confini del Regno, come avea fatto il suo predecessore, volle imitarlo; il perchè posto in piedi l'esercito portò in Pentapoli la guerra, e presi alcuni luoghi di quella regione, s'inoltrò nel Ducato romano, e finalmente cinse Perugia di stretto assedio[232].

In questi tempi fu, che Zaccaria Pontefice romano ebbe occasioni sì prospere, che lo portarono ad imprese cotanto rinomate ed eccelse, che meritamente il suo nome dee andarne glorioso sopra tutti gli altri Pontefici romani; imperocchè seppe gettar fondamenti tali e sì profondi per distender l'autorità ed il dominio della sua sede, che a niun altro in appresso venne mai così acconciamente fatto.

§. I.  Translazione del Reame di Francia da' Merovingi a' Carolingi.

Dopo la morte di Carlo Martello, Pipino e Carlomanno suoi figliuoli presero il governo del Regno franzese. Childerico ultimo Re della prima stirpe non riteneva altro per la sua dappocaggine, che il solo nome regio; ma scorsi sei anni, Carlomanno rinunciando [177] al fratello il governo, accompagnato da molti Franzesi se ne venne a Roma, ed acceso di fervente zelo di religione, volle che Zaccaria l'ascrivesse nel numero de' Cherici; indi ritiratosi nel monte Soratte vi fondò un monastero, che volle dedicare a S. Silvestro Papa, narrandosi che in Soratte fosse stato questo Pontefice nascosto in tempo delle sue persecuzioni, prima che Costantino M. ricevesse la Religione cristiana. Ma essendo questo luogo di continuo frequentato da' Franzesi, che venivano o di proposito, o di passaggio a visitarlo, volle per distaccarsi affatto da tutti gl'interessi del secolo, ritirarsi in monte Cassino, ove consecratosi a Dio si fece Monaco[233].

Rimase intanto solo a reggere la Monarchia di Francia Pipino, con quello stesso arbitrio ed autorità colla quale Carlo Martello suo padre aveva governato, anzi maggiore; poichè Childerico III, ultimo che fu della stirpe de' Merovingi, per la sua sciocchezza ed inettitudine era stimato meno degli altri Re suoi predecessori, i quali intorno a cento anni non avevano avuto altro, che il nome regio, sofferendo vilmente la reggenza de' Maestri del Palazzo, che n'avevano tutta l'autorità. All'incontro Pipino per le nobili sue maniere, e per le sue gloriose azioni aveva tirato a se gli animi di tutti i Franzesi, i quali di buona voglia avrebbero riconosciuto più tosto per loro Re lui, che Childerico Principe stupido ed inetto. Non trascurò Pipino sì bella occasione di trasferir il Reame di Francia dalla stirpe del gran Clodoveo nella sua Casa, e adoperovvi ogni più fina industria. Ma se bene i Franzesi secondassero i suoi disegni, non volevano [178] però per se stessi farlo: persuasi di non avere questa autorità di trasferire il Reame dalle mani del legittimo erede, in altra Casa, nè per se soli liberarsi dal giuramento della fedeltà, che avean dato al lor Principe. Pipino ponderando l'arduità del fatto, e che Carlo Martello suo padre, ancorchè formidabile ed illustre per tante vittorie, non aveva avuto ardimento di tentarlo; e pensando altresì, che tanta e sì nuova impresa non per altro modo avrebbe potuto rendersi meno strepitosa, anzi commendabile, che col ricorrere all'autorità della sede appostolica, riputata sin da questi tempi il Seminario d'ogni virtù e d'ogni santità, la quale, se non avesse approvato il fatto, avrebbe potuto concitargli contro tanti inimici, ch'egli non avrebbe potuto colle sue forze abbattere; pensò con somma prudenza sotto il manto dell'autorità della medesima coprire la deformità del fatto; e mandato in Roma al Pontefice Zaccaria il Vescovo Vardsburgense, fece da costui esporgli il desiderio suo, e di tutti i Franzesi, richiedendolo del suo parere, se per la comune utilità del Regno sarebbe ben fatto di trasferire lo scettro da uno stupido Re in Pipino prode e saggio Principe[234]. E dopo avergli il Vescovo dimostrato, che approvando egli questa traslazione, s'acquisterebbe maggior gloria, che Carlo Martello d'avere trionfato de Saraceni, lo richiese d'interporre l'autorità sua, e di sciorre dal giuramento i Franzesi, perchè potessero innalzar al trono Pipino. Questa fu la pubblica ambasciata del Legato, ma le secrete istruzioni erano, di promettere al Papa, se assentiva, di difenderlo contra tutti i suoi nemici, e spezialmente [179] contra i Longobardi, da' quali potrebbe stare sicuro, che non solamente non gli farebbe far oppressione, ma di proccurar maggiori avanzi alla sua sede.

Zaccaria non trascurò punto sì bella ed opportuna occasione, ove si dava campo di mostrare insieme, e la grandezza della sua autorità, e di stabilire non solo il dominio temporale, che cominciava a tenere in Italia, ma di stenderlo più oltre nel Ducato romano, e nell'Esarcato di Ravenna. Non solamente dunque consigliò, che potessero farlo, ma perchè rimanesse ai posteri un solenne documento dell'autorità sua, aggiunse del suo anche un decreto, col quale annullando il Regno di Childerico, come Re insufficiente, e liberando i Franzesi dalla religione del giuramento, ordinò che in suo luogo fosse Pipino sustituito. I Franzesi ottenuto che l'ebbero, ragunatisi a Soissons, scacciato dal Regno Childerico, e ridotto questo povero Principe a farsi Monaco, con rinchiudersi dentro un monastero, elessero Pipino, e lo fecero solennemente incoronare per Bonifacio Arcivescovo di Magonza, dal quale ancora ricevè la sacra unzione, acciò ch'ella il rendesse più venerabile a' suoi sudditi, e fu il primo Re di Francia che l'usasse.

Alcuni Scrittori franzesi, e largamente Dupino[235], dimostrano, che i Franzesi mandarono quest'ambasciata a Zaccaria per consultarlo solamente come Dottore e Padre de' cristiani, e che d'altro non lo ricercassero, salvo che del suo avviso ed approvazione, per rendere la loro elezione più plausibile a tutta la Cristianità, e quindi che Zaccaria non facesse altra opera, che dare il suo parere o consiglio. Altri per [180] l'autorità di Eginardo[236], di Reginone, degli Annali stessi di Francia, rapportano, che questo Papa non si ritenne solo di approvar quest'elezione, ma, come egli è facile di far più di quello che vien richiesto, allor che vale ad estendere ed allargare la propria autorità, volle anche passar più innanzi, cioè ad ordinarlo, e farne decreto; il che però essi dicono, che non apportasse a loro per l'avvenire niuna conseguenza o pregiudizio, come si rendè chiaro quando ducento trenta sett'anni da poi i Franzesi elessero di comun consentimento, ed incoronarono Ugone Capeto, scacciandone Carlo di Lorena, ch'era il legittimo erede della stirpe di Carolingi, senza che fosse d'uopo di consultarne il Papa, come erasi fatto per Pipino. Che che ne sia, egli è certo, che questi rispetti e trattati passarono allora fra Zaccaria e Pipino: quegli d'assentire alla traslazione del Regno, che Pipino pretendeva fare sortire nella sua Casa, e di prestargli ogni ajuto, come fece; questi all'incontro di proteggere la sede appostolica, e difenderla contra i suoi nemici, e particolarmente contra i Longobardi, con proccurarle maggiori vantaggi[237]. Ciò che lasciò in dubbio, se maggior beneficio avesse riportato la sede appostolica da Pipino e dalle armi, che impugnò per difenderla contra gli sforzi de' Longobardi, e di ristabilire il suo temporal dominio in Italia; o veramente Pipino dalla autorità di quella sede, la quale fu a' Franzesi cotanto propizia, che rendè i suoi discendenti padroni d'Italia, ed agevolò il discacciamento de' Longobardi da quella.

[181]

§. II.  Rachi abbandona il Regno, e fassi Monaco Cassinese.

Intanto Zaccaria, mentre ancora non aveva conchiusi questi trattati con Pipino, non trascurava gli interessi della sua sede con Rachi, il quale trascorso nel Ducato romano, e nel suo tenimento, aveva, come si disse, cinta Perugia di stretto assedio, e minacciava ulteriori progressi. L'Imperadore lontano, e delle cose d'Italia non curante; l'Esarca impotente a segno, che appena poteva difendersi in Ravenna, tanto era lontano, che potesse ostargli; altro non restava a Zaccaria per isgombrar questo turbine, che ricorrere alla sua autorità, ed al proprio valore dell'animo. Preso dunque ardire, volle egli con decoroso accompagnamento portarsi di persona nel campo, ove Rachi era presso alle mura di Perugia: ivi da questo Principe accolto con molto onore, fu tanta la forza e veemenza del suo dire, che istillò in Rachi affetti così vivi di pietà e di religione, che tosto questo Principe non solo abbandonò l'assedio di Perugia, ma alquanti castelli di Pentapoli, che aveva occupati, immantenente gli rendette. E fu il colpo sì profondo, che un anno da poi, preso dalla maestà del Pontefice, e vinto da occulta forza di religione, volle passare in Roma con Tasia sua moglie e Ratruda sua figliuola a visitarlo, e quivi prostrato a' suoi piedi, rinunciando al Regno, volle farsi Monaco insieme colla moglie e figliuola; e preso l'abito dalle mani del Pontefice, ritirossi in monte Cassino a finire i suoi giorni in quel monastero sotto la regola di S. Benedetto: seguirono il di lui esempio Tasia e Ratruda, le quali, [182] avendo a proprie spese eretto dalle fondamenta, non molto distante da Cassino, un magnifico monastero di vergini, ivi vestito l'abito monastico, menarono santamente la loro vita[238].

Menò Rachi il resto de' suoi anni nel monastero Cassinese. Principe memorando per aver amministrato il Regno con tanta prudenza e moderazione, e con sì provide leggi ch'egli promulgò: ma molto più renduto immortale e commendabile nella memoria degli uomini per averlo deposto con tanti segni di pietà e di religione; ond'è che i Monaci di quel monastero lo venerino oggi per Santo. Ne' tempi, ne' quali Lione Ostiense compose la sua Cronaca, si vedea vicino quel monastero una vigna, che, come narra Lione[239], era comunemente chiamata la vigna di Rachi, dicendo que' Monaci che Rachi l'avesse piantata e coltivata. L'Abate della Noce[240], poi Arcivescovo di Rossano, nel tempo che vi fu Abate, fece ricercar questo luogo, che lo trovò tutto incolto: vi fece rifar la vigna, di cui non era rimaso vestigio, e fecevi anche fabbricar una Chiesetta in suo onore.

Giovanni Villani Fiorentino[241] portò opinione, che quella statua di metallo, che ora si vede nella piazza di Barletta, fosse stata da' Longobardi beneventani eretta a questo Principe, ch'e' chiama Eracco: l'autorità di questo Istorico fece anche credere a Beatillo[242], e quel ch'è più, all'Abate della Noce[243], e ad [183] alcuni altri, che quella veramente fosse di Rachi: ciocchè, se si riguarda l'estensione del Ducato beneventano di questi tempi, non sarebbe stata cosa impossibile; conciossiacchè estendendo da questa parte i suoi confini, oltre Siponto, insino a Bari, veniva quella terra ad esser compresa nel Ducato beneventano, il quale ancorchè tenesse i suoi particolari Duchi, a' quali immediatamente s'apparteneva il suo governo; nulladimanco costituendosi il Regno de' Longobardi in Italia, non pure per quel tratto di paese, che ora chiamiamo Lombardia, e per gli altri Ducati minori, ma sopra tutto per que' tre celebri Ducati, di Spoleto, di Friuli e questo di Benevento, maggiore di tutti gli altri, i quali erano subordinati a' Re dei Longobardi che tenevano la loro sede in Pavia, non sarebbe stata cosa molto strana, che i Longobardi beneventani avessero a Rachi loro Re innalzata quella statua.

Ma due ragioni fortissime convincono per favolosa ed erronea l'opinione del Villani. Sembra primieramente affatto inverisimile, che i Longobardi beneventani una statua così grande e magnifica avessero voluto collocarla in Barletta: terra in quest'età piccola e di niun conto, e posta quasi ne' confini del lor Ducato, e non in Benevento città metropoli, ovvero in qualch'altra città magnifica di quel Ducato, che ne ebbe molte, non a Capua, non a Salerno, non a Bari e non a tant'altre. Barletta prima non era, che una torre posta nel mezzo del cammino fra Trani e la città di Canne, cotanto rinomata per la celebre rotta data quivi da Annibale a' Romani: ella serviva per alloggio de' passaggieri, e, com'è uso, teneva per insegna una Bariletta. La comodità del sito, essendo [184] sette miglia discosto dall'una e sette dall'altra di queste due città, tirò a se alcuni de' lor cittadini ad abitarvi, onde poi il luogo prese il nome di Barletta, e crescendo tuttavia gli abitatori sotto l'Imperio di Zenone, e nel Pontificato di Gelasio, S. Sabino Vescovo di Canosa la giudicò luogo opportuno, dove si fabbricasse una chiesa per la divozione degli abitanti, come fu eretta in onore di S. Andrea Appostolo. Narrasi ancora che trovandosi Papa Gelasio nel monte Gargano per lo miracolo dell'Apparizione di S. Michele, Gelasio, a preghiere del Vescovo Sabino, intorno l'anno 493 calasse a consecrarla insieme con Lorenzo Vescovo di Siponto, Palladio di Salpi, Eutichio di Trani, Giovanni di Ruvo, Eustorio di Venosa e Ruggiero Vescovo di Canne; e fatta questa consecrazione, di tempo in tempo crescendovi gli abitanti, divenne una buona terra, passando dalla città di Canne ad abitare in essa per maggior comodità molti cittadini. Tale era lo stato di Barletta nel Regno di Rachi: crebbe poi, e cominciò a prender forma di città molti secoli appresso; e sotto il Regno de' Svevi, Manfredi a cui fu molto cara questa parte di Puglia, ed ove soleva per lo più risedere, onorolla sovente, e vi fece qualche dimora mentr'era tutto inteso alla fabbrica del nuovo Siponto, che dal suo prese il nome di Manfredonia. Innalzata da questo Principe potè poi insorgere contra Canne sua madre, e contendere con lei de' confini e del territorio, che per molti anni ebbero comune; onde Carlo I d'Angiò per togliere via le contese, che soglion per ciò nascere fra' vicini, fece partirgli[244]: fu cinta allora di mura, e furo per [185] ordine di questo Re inquadrate le strade, e fatte le porte. Fu fatta poi sede degli Arcivescovi di Nazaret, e ridotta in quella magnificenza che oggi si vede. Giovanni Villani, che fiori nel Regno di Carlo II d'Angiò, e di Giovanna I sua nipote, in tempo che Barletta era già divenuta una delle città ragguardevoli della Puglia, credendola ancor tale nel Regno di Rachi, e vedendo giacere nel Porto di quella città questa statua, che i Barlettani chiamavano corrottamente, siccome chiamano ancor oggi, di Arachio, credette che fosse di questo Re longobardo. Donde anche si vede l'errore di Scipione Ammirato[245], il quale scrisse, che questa statua fosse stata da' Barlettani dirizzata ad Eraclio Imperadore in segno di gratitudine, per avere quell'Imperadore per comodità de' Mercatanti fatto il Molo nella loro città; quando ne' tempi d'Eraclio, Barletta era piccola terra, ed il Molo fu fatto molti secoli dopo Eraclio da' cittadini barlettani, i quali non prima dell'anno 1491 trasportarono quella statua, che mezza fracassata giaceva nel porto, dentro la città nella piazza dove sta oggi, accomodandovi le gambe e le mani, nel modo, che ora si vede.

L'altra ragione, che convince non essere quella statua di Rachi, è il volto che ci rappresenta tutto raso, l'abito greco che veste, e l'avere in una mano la Croce e nell'altra il Pomo, simbolo del Mondo. Questi segni, siccome provano esser quella una statua di qualche Imperadore d'Oriente, così dimostrano non essere di Rachi, o di qualch'altro Re longobardo. Nel tante volte rammentato Codice Cavense, ove sono gli editti de' longobardi Re d'Italia, veggonsi alcuni ritratti miniati [186] d'alcuni di questi Re, autori di quegli editti, i quali ancorchè malfatti, e secondo le dipinture di quei tempi, sconci e goffi, nulladimanco ci rappresentano i volti con barba lunga, gli abiti lunghi con clamide e scettro, non già Croce, nè Pomo, e colla corona sul capo. Quindi non è fuor di ragione il credere per vera l'antichissima tradizione de' Barlettani, i quali la riputano statua d'Eraclio Imperador d'Oriente.

Questi, dicono essi, per la divozione grandissima portata non pur da lui solo, ma da tutti gli altri Imperadori suoi predecessori all'Arcangelo Michele, al quale eransi in Costantinopoli eretti tanti tempj ed altari, essendosi a' suoi dì renduto così celebre il santuario del monte Gargano, e cotanto famoso, che tirava a se la munificenza de' più potenti Re della terra: volle ancor egli mandare ad offerire a questo tempio molti doni, e fra gli altri la sua statua, acciocchè si rendesse eterna la memoria del culto, che e' rendeva a quel Santo. Aggiungono, che la nave, la quale questi doni conduceva, sbattuta nell'Adriatico da' venti e da procelle, fosse naufragata in quel mare vicino ai lidi di Barletta, dove la statua giaciuta per lungo tempo nell'acque, fossesi a lungo andare poi scoverta, indi portata al lido, e propriamente nel porto di quella città, ove mezza fracassata giacque ancora per altro lungo tempo; finalmente i Barlettani nell'anno 1491 l'avessero trasportata dentro la città, e collocata in quel luogo, dove ora si vede. Certamente la barba rasa, l'abito greco e corto, la Croce ed il Pomo, la dimostrano d'un qualche Imperadore d'Oriente; la fama, la tradizione, il viso, conforme a quello, che scrivono d'Eraclio, il nome, ancorchè corrotto, col quale fu sempre nomata da' Barlettani, la fanno, non [187] senza ragione, credere che fosse di questo Imperadore.

(Cedreno parlando dell'Imperador Eraclio narra, che sebbene prima d'essere stato innalzato al Trono, si avesse fatta crescer la barba, nulladimanco, fatto Imperadore, se la fece radere, siccome dice in Heraclii Anno I, quod Imperator factus, barbam raserit, quam aluerit ante).

L'opinione del Mazzella[246], il quale credette questa statua essere dell'Imperadore Federico II, è cotanto falsa ed inetta, che sarebbe consumare inutilmente il tempo a convincerla per ripugnante a tutta l'Istoria.

CAPITOLO II. Di Astolfo Re de' Longobardi: sua spedizione in Ravenna, e fine di quell'Esarcato.

I Longobardi, tosto che Rachi si fece Monaco, sustituirono nel solio del Regno Astolfo suo fratello: Principe prode di mano, e più di consiglio, il quale avendo portato il suo Regno all'ultimo periodo della grandezza; questo stesso cagionò la sua declinazione, e la ruina de' Longobardi in Italia. Mostrò nel principio del suo governo sentimenti di moderazione e di quiete: confermò con Zaccaria la pace altre volte stabilita con Luitprando e con Rachi suo fratello, ed accordò al medesimo tutte quelle condizioni, che coi suoi predecessori erano state pattuite. Questo Pontefice, [188] dopo aver con Astolfo stabilita la pace, e dopo aver così prosperamente composti gl'interessi della sua sede, uscì da questa mortal vita nell'anno 752. Pontefice, a cui molto debbe la Chiesa romana, che seppe far tanto per la di lei grandezza, e per l'augumento della sua autorità: egli lasciò a' suoi successori fondamenti molto stabili e ben fermi, onde con facilità poterono da poi condurre la lor potenza in tutte le parti d'Occidente a quella grandezza, che finalmente si rendè a' Principi sospetta, ed a' Popoli tremenda.

Morto Zaccaria, il Clero e Popolo romano sustituirono Stefano II, ma questi non tenne più quella sede, che tre o quattro giorni; perocchè oppresso da grave letargo per tre giorni continui, nel quarto rendè lo spirito. Tosto ne fu eletto un altro, anche Stefano nomato, il quale dagli antichi Scrittori viene appellato anche II, non avendo ragione del suo predecessore, che morì senza esser consecrato: poichè in questi tempi l'elezione sola non dava il Papato, ma la consecrazione; onde se alcuno eletto moriva innanzi d'esser consecrato, non era posto nel catalogo e numero de' Pontefici: così veggiamo, per tralasciar altri, che Erchemperto ed Ostiense[247] chiamano questo Stefano II, e non III. Al presente però si tiene per articolo, contra quello che l'antichità ha creduto, che per la sola elezione de' Cardinali il Papa riceva tutta l'autorità; e per ciò gli Scrittori di questi ultimi tempi si sono travagliati per metter in numero, ed in catalogo questo Stefano, laonde è loro convenuto mutare il numero agli altri Stefani seguenti, [189] chiamando il secondo terzo, ed il terzo quarto, e così fino al nono, che lo dicono decimo, con molta confusione tra gli Scrittori vecchi e nuovi, nata solo per interesse di sostenere questo articolo.

Questo Pontefice assunto al trono, imitando i vestigi de' suoi predecessori, mandò dopo tre mesi del suo Pontificato Legati ad Astolfo con molti doni, perchè con lui ristabilisse quella pace, che già con Zaccaria aveva fermata; Astolfo la ratificò e fu accordata per 40 altr'anni.

Ma questo Principe, che non nudriva nell'animo pensieri meno ambiziosi di quelli di Luitprando, aveva fermata questa pace col Papa, acciocchè non potesse il medesimo frastornargli i disegni, che aveva di sottoporre al suo dominio Ravenna con tutto il resto dell'Esarcato, che ancor era in mano de' Greci, e che veniva governato dall'Esarca Eutichio. Avea egli per questa impresa, da che fu innalzato al Trono, per lo spazio di due anni sotto altri colori unite tutte insieme le sue forze, e rendutele più poderose che mai; e scorgendo che Costantino Copronimo, il quale in questi tempi aveva assunto per compagno al Trono Lione suo figliuolo, era distratto in altre imprese nella Grecia e nell'Asia, e che punto non badava alle cose d'Italia, nè volendo avrebbe potuto sì tosto soccorrerla; si mosse in un subito con tutte le sue forze contra Eutichio, ed a Ravenna capo dell'Esarcato dirizzò il suo cammino, cingendo di stretto assedio quella imperial città. Eutichio colto così all'improvviso, mal potendo sostener l'assalto, nè a tanta forza resistere, gli convenne per tanto render la Piazza, e con quella ogni speranza di ricuperarla; poichè lontano da qualunque soccorso, e sproveduto di gente e di [190] danaro, abbandonando ogni cosa se ne ritornò in Grecia. Ad Astolfo, presa Ravenna, con facilità si renderono tutte le altre città dell'Esarcato e di Pentapoli, e trionfando de' suoi nemici, unì al suo Regno l'Esarcato di Ravenna, per cui tante volte i suoi predecessori s'erano indarno affaticati, i quali ora perditori, ora vincitori, mai non poterono interamente e stabilmente unirlo alla lor Corona, senza timore di perderlo: come fortunatamente accadde ad Astolfo, ed alla felicità delle sue armi.

Ecco il fine dell'Esarcato di Ravenna, e del suo Esarca: Magistrato che per lo spazio di 183 anni aveva in Italia mantenuta la potenza e l'autorità degli Imperadori d'Oriente: fine ancora del maggior lustro e splendore di quella città, la quale da Onorio e da Valentiniano Augusti, posposta Roma, avendo avuto l'onore d'esser perpetua sede degl'Imperadori, e dappoi degli Esarchi, a' quali ubbidivano i Duchi di Roma, di Napoli e di tutte l'altre italiche città dell'Imperio, e che i suoi Vescovi contesero con quelli di Roma istessa della maggioranza; ora ritolta da' Longobardi a' Greci, mutata fortuna, e ridotta in forma di Ducato, non fu da essi trattata da più, che gli altri Ducati minori, onde il Regno de' Longobardi era composto: origine che fu della sua fatal ruina, e dello stato in cui oggi la veggiamo. Marquardo Freero[248] nella Cronologia ch'ei tessè degli Esarchi di Ravenna, da Longino primo Esarca sotto Giustino II, infino all'ultimo, che fu questo Eutichio, scrisse che questo Esarcato durò 175 anni; ma dal computo degli anni, ch'e' medesimo ne fa, si vede, che essendo, [191] com'egli stesso dice, cominciato da Longino nell'anno 568 e finito in Eutichio, dopo aver Astolfo presa Ravenna secondo lui nell'anno 751, durò l'Esarcato non già 175 ma ben 183 anni. E secondo coloro, che portano la caduta di Ravenna nell'anno 752 l'Esarcato durò 184 anni.

§. I.  Spedizione d'Astolfo nel Ducato romano.

Astolfo dopo sì grande e gloriosa impresa, ripieno d'elatissimi spiriti minacciava già di stendere il suo Imperio sopra gli altri miseri avanzi, che restavano in Italia all'Imperador de' Greci: egli impadronito dell'Esarcato di Ravenna, credendosi succeduto a tutte quelle ragioni, che portava seco l'Esarcato, le quali erano, la maggioranza e la sovrana autorità sopra il Ducato di Roma e di tutto il resto; pretendeva di dovere anche dominare le città del Ducato romano, e molto più la città di Roma, nella quale agl'Imperadori d'Oriente, dopo l'accordo fatto da Luitprando con Gregorio II, era rimaso ancor vestigio della loro superiorità, tenendovi tuttavia i loro Uficiali. Minacciava per tanto le terre del dominio della Chiesa, e Roma stessa, e rotti e violati i tanti trattati di pace stabiliti da' Re, e da' suoi predecessori co' romani Pontefici, mosse il suo esercito verso Roma, ed avendo presa Narni, mandò Legati al Pontefice con aspre ambasciate, dicendogli che avrebbe saccheggiata Roma, e fatti passare a fil di spada tutti i Romani, se non si fossero sottoposti al suo Imperio, con pagargli ogni anno per tributo uno scudo per uomo[249]. A sì terribile [192] ambasciata tutto commosso il Papa, tentò placarlo per una Legazione cospicua di due celebri Abati, che fiorivano in quel tempo; gli spedì l'Abate di monte Cassino, e l'altro di S. Vincenzo a Volturno, e gli accompagnò con molti e preziosi doni, incaricando loro, che proccurassero, e con ragioni e con preghiere, rammentandogli la pace poco prima firmata, di persuaderlo a non romperla, e voltare altrove le sue armi[250].

Aveva il Pontefice sin dal principio dell'irruzione di Astolfo sopra Ravenna, prevedendo questi mali, fatto inteso l'Imperador Costantino de' disegni de' Longobardi, e sollecitatolo a mandare all'Esarca validi soccorsi per impedirgli; ma Costantino volendo coprire la sua debolezza sotto il manto dell'autorità, dando a sentire che questa sola bastasse per rimovere i Longobardi da tale impresa, mandò, in vece di eserciti, un gentiluomo della sua Camera chiamato Giovanni Silenziario, con ordine al Papa di farlo accompagnare con sue lettere ad Astolfo per obbligarlo a rendere ciò, ch'egli aveva preso[251]. Furono dal Papa spediti non sole lettere, ma Legati ancora ad accompagnar Giovanni; ma arrivati in Ravenna ove Astolfo dimorava, ed espostogli l'imbasciata di restituire ciò che egli s'avea preso, fu intesa da quel Principe con riso, e tosto ne furono rimandati senz'alcun frutto, come ben potevano immaginare; per la qual cosa s'incamminarono i Legati del Papa insieme con Giovanni a dirittura in Costantinopoli per supplicar di nuovo l'Imperadore in nome del Papa di venir egli stesso [193] con poderosa armata in Italia per salvar Roma, e gli altri avanzi rimasi al suo Imperio in Italia, che i Longobardi tentavano tuttavia di rapirgli. Ma Costantino ch'era intrigato in altre guerre, e che non badava ad altro, che per un nuovo Concilio, che in quest'anno 753 avea fatto unire di 338 Vescovi ad abbattere le immagini, non era in istato d'intraprendere altre brighe co' Longobardi. Perciò vedendo Stefano che in vano si ricorreva a Copronimo[252], il quale non poteva nè meno difender se stesso da Longobardi, e ch'era molto lontano per protegger la sua Chiesa: e che all'incontro Astolfo, entrato coll'esercito nel Ducato romano, devastava tutto il paese; e minacciava stragi e servitù a' Romani, se non si rendevano a lui; si risolse finalmente ad esempio di Zaccaria e de' due Gregorj di ricorrere alla protezione della Francia, e d'implorare l'ajuto di Pipino. Mandò nascostamente un suo messo in Francia, per cui espose a Pipino le sue angustie, e ch'egli desiderava venir di persona in Francia, se gli mandasse Legati, per potersi quivi condurre con sicurtà. Pipino non mancò subito di mandargli due de' primi Uficiali della sua Corte, Rodigando Vescovo, ed il Duca Antonio per condurlo in Francia. Giunti il Vescovo ed il Duca in Roma, ritrovarono, che l'esercito de' Longobardi, dopo avere presi tutti i castelli ne' contorni di Roma, era in procinto d'investir quella città; e che ritornati i due Legati del Papa con l'Inviato dell'Imperadore da Costantinopoli, niente altro avevan riportato da costui, se non un secondo ordine al Papa d'andar egli in [194] persona a ritrovar Astolfo per sollecitarlo a restituir Ravenna, e le altre città da lui occupate. Non vi era alcuna apparenza, che questa andata potesse riuscir di profitto, e pure il Pontefice volle ben ancora ubbidire, per far l'ultimo esperimento di poter piegar quel Principe; ma quando vide che al vento si gittava ogni opera, e che Astolfo, il quale gli aveva insieme proibito di parlargli d'alcuna restituzione, faceva tutti gli sforzi suoi per fermarlo, lasciossi finalmente condurre dagli Ambasciadori di Pipino in Francia.

§. II.  Papa Stefano in Francia: suoi trattati col Re Pipino; e donazione di questo Principe fatta alla Chiesa romana di Pentapoli, e dell'Esarcato di Ravenna tolto a' Longobardi.

Giunto il Pontefice in Francia, fu accolto da Pipino con ogni segno di stima e di venerazione: l'adorò come Pontefice e padre della Cristianità, e gli rendè i maggiori onori che si potessero rendere a' più potenti Re della terra. Espose Stefano i suoi bisogni al Re, e l'angustie nelle quali i Longobardi l'avean ridotto, dimandogli il suo ajuto e protezione, offerendosi all'incontro d'impiegar tutta l'autorità della sede appostolica in suo vantaggio. Allora Pipino, affinchè si rendesse più venerando a' suoi sudditi, e per maggiormente stabilire il Regno di Francia nella sua persona e nella sua posterità, volle che Stefano colle sue mani lo consecrasse Re, ed insieme che i due suoi figliuoli Carlo e Carlomanno ricevessero parimente da lui l'unzione sacra, siccome seguì nella [195] Chiesa di S. Dionigi[253]. All'incontro Pipino, oltre ad assicurarlo, che avrebbe frenato l'ardire de' Longobardi, e fattigli restituire i luoghi occupati nel Ducato romano, gli promise ancora, ch'egli avrebbe scacciato Astolfo dall'Esarcato di Ravenna e da Pentapoli, e, tolti al Longobardo questi Stati, gli avrebbe non già restituiti all'Imperio greco, a cui s'appartenevano, ma donati a S. Pietro ed al suo Vicario. Stefano lodò la magnanima offerta, che si faceva con tanta profusione dell'altrui roba, esagerandola ancora come molto profittevole per la salute della sua anima; onde da Pipino ne fu stipulata e giurata la promessa della donazione, facendola firmare anche da' suol figliuoli Carlo e Carlomanno.

Questa promessa di futura donazione, nel caso fosse riuscito a Pipino di scacciare i Longobardi dall'Esarcato, e da Pentapoli, non abbracciava che questi Stati. Lione Ostiense[254] confuse ciò che Anastasio Bibliotecario avea scritto della donazione fatta poi da Carlo M. a Papa Adriano, con questa promessa di Pipino a Papa Stefano. Anastasio narra[255], che Carlo M., confermò, e pose in effetto ciò che Pipino suo padre avea promesso, anzi che accrebbe la paterna donazione, e dice, che da Carlo con nuovo instromento furono donate a S. Pietro, ed al suo Vicario molte città e territorj d'Italia per designati confini, incominciando da Luni città della Toscana, posta ne' confini della Liguria, con l'isola di Corsica, e calando nel Sorano e nel monte Bordone abbracciava Vercetri, Parma, [196] Reggio, Mantova e Monselice, ed insieme tutto l'Esarcato di Ravenna, siccome fu anticamente, colle province di Venezia e d'Istria; e tutto il Ducato spoletano e beneventano. Lione[256] (come avvertì anche l'Abate della Noce[257]) parlando nel capo 8 della donazione di Pipino, si serve di queste istesse parole d'Anastasio, che riguardano la donazione di Carlo suo figliuolo: e quando poi nel capo 12 tratta de' fatti di Carlo e di questa sua donazione, non numera, come Anastasio, i luoghi e le città; ma come se Carlo non avesse fatto altro, che solamente confermare quella di Pipino, col supposto che quella abbracciasse tutti que' luoghi da lui nel 8 capo descritti, dice che Carlo bono, ac libenti animo aliam donationis promissionem instar prioris describi praecepit. Ma che questa donazione di Pipino non abbracciasse altro che Pentapoli, e l'Esarcato di Ravenna, che dovean togliersi ad Astolfo, si conosce chiaro dall'esecuzione, che ne fu fatta dall'istesso Pipino, quando, come diremo, calato in Italia, e toltigli al Longobardo, ne fece dono alla sede appostolica, scrivendo l'istesso Lione[258], che Pipino simul cum praefato Romano Pontifice Italiam veniens, et Ravennam, et viginti alias Civitates supradicto Aistulfo abstulit, et sub jure Apostolicae Sedis redegit.

Si convince ciò ancora dalla Cronaca del monastero di S. Clemente dell'isola di Pescara, che ora impressa leggiamo nel sesto tomo dell'Italia Sacra d'Ughello, dove narrandosi quest'istessi successi di Papa Stefano con Pipino, si legge che Pipino avendo scacciato Astolfo, [197] e liberata Ravenna, la donò con venti altre città a S. Pietro. Quando poi questo Autore favella della donazione di Carlo, dice che questo Principe restituit Beato Petro, quae pater ejus dederat, et Desiderius abstulerat, ADDENS etiam Ducatum Spoletanum, et Beneventanum ec. Ma quanto sia vero ciò che Anastasio narra della donazione di Carlo M. volendo che abbracciasse la Corsica, il Ducato di Spoleto, il Beneventano, le Venezie, l'Istria, e tanti altri luoghi, non mai presi, nè posseduti da Carlo, lo vedremo più innanzi, quando di quella ci tornerà occasione di favellare.

Accordati che furono questi trattati tra Stefano e Pipino, questi, essendo il Papa rimaso in Francia presso di lui, immantinente interpose i più fervorosi uficj con Astolfo perchè restituisse i luoghi occupati, e gli replicò ben tre volte: ma nulla giovando nè preghiere nè minacce, finalmente stimolato dal Papa, si risolvette di marciare con tutte le sue truppe in Italia contro di lui, e seguitato da Stefano, sforzando il passo delle Alpi, fugò l'esercito d'Astolfo, che se gli opponeva, e l'incalzò sino alle porte di Pavia, dove assediollo, costringendolo finalmente a dure condizioni, con obbligarlo, ricevuti innanzi gli ostaggi, a promettere di rendere le terre della Chiesa da lui occupate nel Ducato romano: gli tolse Ravenna con venti altre città, ed in quest'anno 754, la aggiunse al dominio di S. Pietro[259], e prestamente in Francia si restituì.

[198]

Ma non fu così tosto ritornato Pipino in Francia, che Astolfo, poco curandosi degli ostaggi, che aveva dati in mano di Pipino, che rompendo tutti i giuramenti da lui fatti, venne con tutte le forze del suo Regno a piantar l'assedio innanzi a Roma, dopo aver dato un terribil guasto ne' contorni. Allora Stefano vedendosi ridotto all'ultima estremità, ebbe ricorso al suo protettore nella maniera più forte e compassionevole che potesse mai farsi: gli scrisse quelle tre lettere, che ci restano ancora[260], le più veementi e le più sommesse, che si possano immaginare: e con esempio nuovo le scrisse sotto nome di S. Pietro a cui erasi fatta la donazione, indirizzandole al Re, a' di lui due figliuoli, ed a tutti gli Ordini della Francia, di questo tenore: Petrus vocatus Apostolus a Jesu Christo Dei, vivi filio, ec. Viris excellentissimis Pipino, Carolo, et Carolomanno tribus regibus ec. dove introducendo questo Appostolo a parlargli così: Ego Petrus Apostolus dum a Christo, Dei vivi filio, vocatus sum supernae clementiae arbitrio, ec.[261], si serve in quelle di tutti i più prestanti scongiuri da parte di Dio, perchè lo soccorra, che facendo altrimenti sarà alienato dal Regno di Dio, e fuori dalla vita eterna, movendo tutto ciò ch'è più atto a scuotere un cuore cristiano.

Men di questo sarebbe bastato per obbligar Pipino a ripigliar quanto prima le armi. Aveva già ragunate le sue truppe alla prima novella venutagli de' movimenti d'Astolfo; e con quelle incamminatosi di nuovo verso l'Italia, ruppe l'esercito d'Astolfo, che aveva [199] voluto contrastare a' Franzesi il passaggio delle Alpi, ed avendogli minacciato l'estrema sua rovina, se durasse nell'impresa, obbligò Astolfo a levar l'assedio da Roma già tre mesi durato, e di buttarsi dentro Pavia col resto delle sue truppe.

Intanto Costantino Copronimo avvisato di questi trattati avuti sopra i suoi Stati fra Stefano e Pipino, e che Astolfo cedeva l'Esarcato di Ravenna a Pipino, per darlo al Papa; mandò tosto due Ambasciadori al Re Pipino perchè glielo restituisse, come appartenente all'Imperio: intesero questi a Marsiglia, dov'erano venuti da Roma con un Legato del Papa, di aver già Pipino passate l'Alpi, e sconfitto l'esercito de' Longobardi; perciò l'un de' due pigliando più velocemente innanzi il cammino, mentre l'altro tratteneva il Legato, si portò sollecitamente appresso il Re Pipino, che non era molto lontano da Pavia nel procinto d'assediarla.

Fu l'Ambasciadore tosto introdotto all'audienza del Re, nella quale dopo aver esaltato Pipino per le due vittorie da lui riportate sopra i Longobardi, nemici comuni dell'Imperio e della Francia, e commendate altamente le gloriose sue gesta, espose in nome del suo Principe l'ambasciata[262]: esagerò, l'Esarcato essere senza alcun dubbio dell'Imperio, usurpatogli da Astolfo, il quale pigliava tutte l'occasioni d'ingrandirsi a' danni de' suoi vicini, mentre il suo Principe faceva la guerra a' Saraceni: che poichè il Re l'aveva ritolto dalle mani di questo usurpatore, era giusto che rimettesse anche nelle mani dell'Imperadore ciò che era suo: che finalmente il Papa era suo suddito, e [200] che lasciandolo godere tranquillamente quanto gli era stato dato dagl'Imperadori, e da' privati per mantener la sua dignità, non sarebbe cosa giusta, ch'egli usurpasse ancora le terre del suo Sovrano: essere del resto Costantino, il quale in questo non dimandava altro, che la giustizia, prontissimo a praticarla anch'egli dal suo canto: e che poichè il Re aveva già fatte grandi spese in questa guerra, gli offeriva in rifacimento tutto quello, ch'egli avrebbe potuto desiderare da un Imperadore ugualmente liberale e riconoscente.

Pipino, a cui non giunse nuova questa imbasciata, e che aveva preveduto ciò che dovrebbe l'Ambasciadore dimandargli, umanamente gli rispose: appartenere l'Esarcato al vincitor de' Longobardi, i quali l'avevano Jure belli conquistato, come aveano fatto anche i loro predecessori d'una gran parte d'Italia sopra gli Imperadori greci: essere medesimamente cosa nota, che la maggior parte di que' Popoli, indotti sforzatamente a mutar religione, s'erano dati al Re Luitprando: che così presupponendo il diritto de' Longobardi, del quale non era luogo di dubitare più che di quello de' Franzesi, i quali avevano conquistate le Gallie sopra i Romani e Vestrogoti, era molto sicuro del suo proprio; poichè egli aveva costretto Astolfo per via delle armi a cedergli l'Esarcato, del quale andava a mettersi in possesso per la medesima via: che poi essendone padrone, n'avea potuto disporre a suo arbitrio e volontà[263]. Ed aveva trovato espediente di darne il dominio al Papa, perchè in quello la sede cattolica violata per tante infami eresie de' Greci, si mantenesse intera; e l'ambizione ed avarizia de' Longobardi [201] non l'occupasse; per le quali considerazioni egli aveva prese l'armi contra coloro, che opprimevan la Chiesa[264]: che per tutti i tesori del Mondo non avrebbe mutata risoluzione, e che manterrebbe contra tutti il Papa e la Chiesa nel possesso di tutto ciò ch'egli aveva loro donato.

Rimandato per tanto senza voler sentir altra replica su l'ora l'Ambasciadore, andò a por l'assedio innanzi Pavia, e lo strinse così forte, che Astolfo ridotto a non poter più resistere, fu costretto a dimandargli la pace, la quale ottenne a condizione, che mettesse prontamente in esecuzione il trattato dell'anno precedente e restituisse le città dell'Esarcato, dell'Emilia oggi detta Romagna, e della Pentapoli, che diciamo Marca d'Ancona[265], nelle mani di Eulrado Abate di S. Dionigi, da Pipino destinato suo Commessario. Ciocchè fu eseguito prontamente; imperocchè destinati anche da Astolfo i Commessarj, Fulrado avendo fatto uscire dall'Esarcato, e dagli altri luoghi tutti i Longobardi e ricevuti gli ostaggi di tutte le città, andò a portarne le chiavi al Papa, ch'egli pose sopra il sepolcro de' Santi Appostoli colla donazione di Pipino instrumentata con tutte le solennità e forme necessarie, e ch'egli aveva fatta anche sottoscrivere da' due suoi figliuoli Carlo e Carlomanno, e da' primi Baroni e Prelati della Francia. L'Esarcato, se dee prestarsi fede al Sigonio[266], abbracciava le città di Ravenna, Bologna, Imola, Faenza, Forlimpopoli, Forlì, Cesena, Bobbio, Ferrara, Comacchio, Adria, Cervia, e Secchia. [202] Tutte furono consignate al Papa, eccetto che Faenza e Ferrara.

Pentapoli, ovvero Marca d'Ancona, comprendeva Arimini, Pesaro, Conca, Fano, Sinigaglia, Ancona, Osimo, Umana, ora disfatta, Jesi, Fossombrone, Monfeltro, Urbino, il territorio Balnense, Cagli, Luceoli ed Eugubio con li castelli e territorj appartenenti alle medesime, come appare dal privilegio di Lodovico Pio, col quale vien confermata questa donazione di Pipino: della verità del quale si parlerà a suo luogo.

Il Pontefice ricco di tante città e dominj, all'Arcivescovo di Ravenna commise l'amministrazione dell'Esarcato; ond'è che alcuni scrissero, che gli Arcivescovi di quella città s'intitolavano anche Esarchi, non già come Arcivescovi, ma come Ufficiali del Papa, già Principe temporale. Ecco per dove i Papi hanno cominciato a divenir potenti Signori in Italia, congiungendo al Sacerdozio il Principato, e lo Scettro alle Chiavi. Perocchè la donazione di Costantino M., particolarmente intorno a ciò che riguarda Roma e l'Italia, per quel che si disse nel secondo libro di questa Istoria, e per ciò che i più dotti Istorici, Giureconsulti e Teologi tengono per indubitabile, fu grossamente finta da un solenne impostore del decimo secolo; o come Pietro di Marca, molto prima ne' tempi di Adriano e di Carlo Magno. Nè quantunque si volesse supponere per vera, ebbe ella alcun effetto: essendosi veduto che gl'Imperadori e gli altri Re stranieri, che a coloro succedettono, ne furono da quel tempo sempre padroni. Nè i Papi vi pretendevano altro, che quegli patrimonj, che vi possedevano per munificenza di alcun Principe o privato per la loro sussistenza donatigli, come si disse, e siccome appunto [203] tengono oggi gli altri Ecclesiastici i loro negli altri Stati per tutta la Cristianità. Pipino veramente fu quegli, da poi che i Papi s'ebbero aperte sì opportune vie per rendersene meritevoli, che dalla bassezza d'una fortuna sì mediocre gli arricchì delle spoglie de' Re longobardi e degl'Imperadori greci, donando loro città e province: che se voglia il vero confessarsi, fu delle medesime liberalissimo, come sogliono essere tutti coloro, che niente del proprio, ma dell'altrui profondono. Queste spettavano in verità a Costantino Imperador d'Oriente; e se voglia dirsi giusta questa donazione, dovea esser fatta non da Pipino, ma da Costantino, di cui erano: onde perciò alcuni[267] scrissero, che questa donazione fosse stata fatta sotto nome di Costantino; e quindi esser nata la favola della donazione di Costantino M. Da questo tempo cessarono i Pontefici nelle loro epistole e diplomi notare gli anni piissimorum Augustorum, come prima facevano. Assicurati che furono del patrocinio dei Franzesi, scossero ogni ubbidienza agl'Imperadori di Oriente, nè vollero esser riputati più loro sudditi: ma all'incontro questa grandezza de' Pontefici romani riuscì a Pipino tanto profittevole, che portò al suo figliuolo Carlo, che gli succedè, non pur il Regno d'Italia, discacciandone i Longobardi: ma l'Imperio d'Occidente, che il Papa volle far risorgere nella persona di Carlo, come nel seguente libro diremo.

I Franzesi, oltre a voler esser riputati autori della grandezza e del dominio temporale della sede appostolica, ciocchè non può loro contrastarsi, s'avanzano più, con dire, che di tutte queste città da Pipino alla [204] Chiesa donate, ne avessero i Papi il solo dominio utile; siccome il Sigonio in più luoghi della sua istoria non potè negarlo; rimanendo la sovranità appresso Pipino e gli altri Re di Francia suoi successori; essendo cosa manifesta, essi dicono, che i discendenti di Pipino v'ebbero la sovrana autorità, la quale essi esercitavano in quasi tutta l'Italia. E non fu che lungo tempo da poi, che i Pontefici romani divennero Sovrani di quelle province, come ancora di Roma; non per la pretesa cessione, che l'Imperador Carlo il Calvo fece de' suoi diritti, ragioni e preminenze; ma per la decadenza dell'Imperio, da che fu limitato e racchiuso nella sola Alemagna, in quella maniera appunto, che tanti altri Principi d'Italia possedono al dì d'oggi legittimamente la sovranità, ch'essi si hanno acquistata sopra l'Occidente.

Pietro di Marca[268] fa vedere come, e su quali fondamenti a poco a poco i Pontefici romani a lor trassero la sovranità sopra Roma: ciocchè non fu certamente in questi tempi. Egli dice, che ceduto che fu da Pipino l'Esarcato di Ravenna al romano Pontefice, per ragion del medesimo appartenevasi anche a lui la soprantendenza ed il governo di Roma, non altrimente che s'apparteneva all'Esarca di Ravenna, sotto il quale erano posti tutti i Ducati de' Greci e quello di Roma ancora: la sovranità s'apparteneva agl'Imperadori di Oriente, l'amministrazione agli Esarchi: quindi i romani Pontefici come Esarchi la pretesero. Ma creati Pipino e Carlo Magno Patrizj di Roma, importando 'l Patriziato l'aver cura di quella città, si videro insieme il Papa e 'l Patrizio prendere il governo [205] di quella, siccome s'osservò nella persona di Papa Adriano e di Carlo Magno. Essendo poi morto Adriano, ed in suo luogo creato Lione III, questi lasciò a Carlo l'intera amministrazione, il quale da Patrizio innalzato alla dignità d'Imperadore, essendo con ciò passata anche a Carlo la sovranità di Roma, i Pontefici più non s'intrigarono nel governo di quella; insinochè, decadendo pian piano l'autorità degli Imperadori successori di Carlo in Italia, finalmente Carlo il Calvo non si fosse nell'anno 876 spogliato d'ogni sua ragione, cedendo alla sede appostolica la sovranità di Roma ed ogni suo diritto. Quindi è che Costantino Porfirogenito[269] descrivendo i Temi di Europa, e lo Stato di quella del suo secolo intorno all'anno 914 dica, che Roma si teneva da' romani Pontefici jure dominii. Quindi cominciò il costume ne' diplomi di notarsi gli anni de' romani Pontefici, quando prima ciò era de' soli Principi ed Imperadori.

L'Abate Giovanni Vignoli ne' nostri ultimi tempi, cioè nell'anno 1709 ha dato in luce un libretto intitolato: Antiquiores Pontificum Romanorum denarii, ove contro a questa opinione, che tengono i Franzesi, si sforza dimostrare, che il Senato e Popolo romano, dopo avere scosso il giogo degl'Imperadori d'Oriente, si fosse sottoposto a' romani Pontefici, riconoscendogli come loro Sovrani, e che non pure il dominio utile ritennero di Roma, ma anche il supremo. Pretende [206] ricavarlo dalle monete, che si trovano de' Pontefici, e quantunque ve ne fossero più antiche, nulladimanco riguardandosi solo quelle, che ancora si veggono, queste cominciano da Adriano I, e furono continuate a battere da Lione III e dagli altri suoi successori. Ed ancorchè alcune d'esse, come quelle di Lione III e d'altri romani Pontefici portassero anche il nome degl'Imperadori, come di Carlo M, di Lodovico, di Ottone e d'altri; tantochè per quest'istesso si diede occasione a Le-Blanc franzese di comporre un trattato col titolo di Dissertazione Istorica sopra alcune monete di Carlo M, di Lodovico Pio e di Lotario, e de' loro successori battute in Roma; con le quali vien confutata l'opinione di coloro, che pretendono, che questi Principi non abbiano mai avuta in Roma alcuna autorità, se non col consentimento de' Papi; contuttociò il detto Abate Vignoli si studia dimostrare, che molte monete de' Papi non ebbero il nome degl'Imperadori, come una di Giovanni VIII la quale è solamente segnata del nome di questo Pontefice. Che che ne sia, l'opera di Le-Blanc fa vedere quanto poco sicura sia l'opinione del Vignoli, e molto più fondata quella de' Franzesi.

§. III.  Leggi d'Astolfo, e sua morte.

Astolfo intanto, ancorchè da sì strane scosse sbattuto, non restava però di volger i pensieri alla conservazione del suo Regno: egli non aveva mancato per nuove leggi riordinarlo, aggiungendone altre a quelle de' suoi predecessori, e variandole ancora secondochè stimava più utile ed opportuno a' suoi tempi; [207] avendo per tanto in Pavia nel quinto anno del suo Regno convocati da varie parti i principali Signori e Magistrati del suo Regno, seguendo gli esempj de' suoi predecessori, promulgò un editto nel quale molte leggi stabilì. Pure abbiamo quest'editto d'Astolfo nel Codice Cavense per intero, che contiene ventidue capitoli: il primo comincia: Donationes illac, quae factae sunt a Rachis Rege, et Tassia conjuge. L'ultimo ha per titolo: Si quis in servitium cujuscumque pro bona voluntate introierit. Alcune di queste leggi, il Compilatore del volume delle leggi longobarde le inserì in que' libri: tre se ne leggono nel primo libro: una sotto il tit. de Scandalis: l'altra sotto il tit. de Exercitalibus; ed un'altra sotto quello de Jure mulierum: quindici nel lib. 2, una sotto il tit. 4, un'altra sotto quello de Successionibus, altra sotto il tit. de ultimis volunt.. un'altra sotto il tit. 20, due sotto il tit. de Manumissionibus, due altre sotto quello de Praescriptionibus, e sette sotto il tit. Qualiter quis se defendere deb. E nel lib. 3 ancor se ne legge una sotto il tit. 10 ch'è l'ultima de' Re longobardi; poichè Desiderio suo successore, e nel quale s'estinse il Regno, passando ne' Franzesi, applicato a cure più travagliose, non potè d'altre leggi fornir questo Regno, che infelicemente ebbe a lasciare.

Ma mentre questo Principe dopo aver per dura necessità restituito l'Esarcato e tante altre città, è tutto intento a meditar nuovi disegni per vendicarsi della oppressione de' Franzesi, e di riordinar nuovamente la guerra, essendosi un giorno portato alla caccia, spinto da un cignale, ovvero, com'altri rapportano, casualmente sbalzato da cavallo, o come dice [208] Erchemperto[270], percosso da una saetta, il caso fu per lui cotanto fatale, che in pochi giorni rendè lo spirito, lasciando in quest'anno 756 il Regno pieno di calamità e di sospetti, non avendo di se lasciata prole alcuna.

CAPITOLO III. Il Ducato napoletano, la Calabria, il Bruzio, ed alcune altre città marittime di queste nostre province si mantengono sotto la fede dell'Imperadore Costantino e di Lione suo figliuolo.

Grandi che fossero state le scosse, che gl'Imperadori d'Oriente ebbero in Italia, il Ducato napoletano, che allora, stendendo più oltre i suoi confini, abbracciava anche Amalfi, il Ducato di Gaeta, quasi tutta la Calabria e 'l Bruzio, rimaser fermi e costanti nell'ubbidienza de' loro antichi Principi: perduto l'Esarcato e tutto ciò che in Italia ubbidiva all'Imperio greco, non per ciò mancò il dominio degl'Imperadori d'Oriente in queste nostre parti. I Napoletani si mantenevano sotto l'ubbidienza de' loro Duchi, chiamati ancora Maestri di soldati, siccome sotto gl'Imperadori d'Oriente erano appellati i Duchi[271]. Questi era un Magistrato greco, che da Costantinopoli soleva destinarsi. [209] Fuvvi in questo secolo Teodoro nell'anno 717 di cui questa città serba anche vestigio, portandosi egli per fondatore della chiesa de' SS. Pietro e Paolo, ora disfatta, siccome dimostrava la lapida che prima ivi si leggeva, ed oggi nella chiesa di Donnaromata. Fuvvi Esilarato. Fuvvi intorno a questi tempi, dopo la morte d'Astolfo, Stefano, il quale avendo per dodici anni governato con tanta prudenza il Ducato di Napoli, morta sua moglie, fu anche fatto Vescovo di questa città.

Nel tempo che Stefano reggeva Napoli in qualità di Duca, avendo l'Imperador Costantino nell'anno 753, come si disse, fatto convocare un Concilio in Costantinopoli di 338 Vescovi, questi stabilirono in quello Concilio un decreto contro l'adorazione delle immagini. Costantino e Lione suo figliuolo associato all'Imperio, fecero per mezzo de' loro editti valere il decreto per tutto Oriente, ed impiegarono anche la forza per l'osservanza di quello: tentarono anche di farlo valere in Occidente, donde nacquero que' disordini e rivolte che si sono vedute: renderonsi per ciò più aspre ed irreconciliabili le contese, e s'inasprirono più l'inimicizie, che passavano allora tra' Pontefici romani, e gl'Imperadori d'Oriente: era in quest'anno 757 morto Papa Stefano, il quale ebbe per successore Paolo. Questi non meno, che i suoi predecessori, era odioso agl'Imperadori d'Oriente, i quali s'erano impegnati a far valere il decreto di quel Concilio, anche nel Ducato napoletano e negli altri luoghi, che ancor rimanevano in queste province sotto la loro ubbidienza. I Napoletani ancorchè avversi ad eseguirlo, come quelli che erano più di tutti gli altri popoli di Italia attaccati all'adorazione delle immagini; nulladimanco [210] perchè ciò non s'imputasse a loro disubbidienza, proccuravano in tutto il rimanente mostrarsi tutto riverenti ed esatti in aderire al volere e potestà dei loro Signori; laonde essendo in questi tempi accaduta la morte del lor Vescovo Calvo, ed essendo stato dal Pontefice ordinato Paolo Diacono della Chiesa di Napoli suo molto amico e familiare, ripugnava l'Imperadore per esser costui aderente al Papa, che fosse ricevuto in quella Chiesa, come quegli che avrebbe in Napoli fatti riuscir vani i suoi disegni di far ricevere il decreto del Concilio di Costantinopoli. I Napoletani aderirono in ciò al volere del loro Imperadore e de' Greci, ed impedirono perciò l'andata di Paolo in Roma per farsi consecrare dal Papa: scorsi nove mesi, Paolo di nascosto andò in Roma, ed il Papa immantenente lo consecrò; ma tornato a Napoli, narra Giovanni Diacono, nella Cronaca de' Vescovi di questa città, che i Napoletani suoi cittadini per l'aderenza che aveano co' Greci, non lo vollero ricevere dentro la città, ma tenuto fra di loro consiglio, lo mandarono fuori, nella chiesa di S. Gennaro, posta non molto lontana dalla città, dove stette per lo spazio di quasi due anni; non mancando intanto così il Clero, come il Popolo universalmente d'ubbidirlo ed averlo come lor Pastore, disponendo egli senza ostacolo delle cose della Chiesa, e facendo ivi tutte le funzioni pontificali. Intanto i Nobili, scorgendo che per l'assenza di un tanto lor Pastore, la città languiva, si risolsero tutti finalmente d'introdurlo nella città, e con molta letizia e celebrità andarono a prenderlo, e l'introdussero nel Vescovato, dove, dopo avere governata la sua Chiesa per due altri anni, finì i giorni suoi. Si scusarono essi coll'Imperadore, allegando [211] di non potere maggiormente soffrire la vedovanza della Chiesa.

Per la morte di Paolo i Napoletani elessero nell'anno 764 l'istesso Duca Stefano per lor Vescovo: questi ancorchè eletto Vescovo, non lasciò il Ducato, ma lo governò insieme con Cesario suo figliuolo, che l'assunse per suo collega. Cesario premorì all'infelice padre; onde Stefano continuò solo il governo fin al 791, anno della sua morte. Teofilatto gli succedette nel Ducato. Costui era suo genero, come quegli che s'avea sposata Euprassia sua figliuola; ed avealo anche, dopo Cesario, fatto suo collega, onde morto Stefano, restò egli solo Console e Duca. A Teofilatto succedette nel fine di questo secolo Antimio[272], di cui si narra, che nel tempo del suo Consolato avesse costrutta in Napoli la chiesa di S. Paolo Appostolo, ed il monastero de' SS. Quirico e Giulitta. Questi furono i Duchi che ressero in quest'ottavo secolo il Ducato napoletano per gl'Imperadori d'Oriente, a' quali ubbidiva. Furono anche nomati Consoli. Ma come i Duchi di Napoli si chiamassero anche Consoli, niuno de' nostri Scrittori, per quel ch'io ne sappia, ebbe curiosità di saperne la cagione.

Il nome di Console, dagl'Imperadori romani e da poi dagl'Imperadori d'Oriente tenuto in tanto pregio, e del quale essi s'adornavano, negl'ultimi anni dell'Imperio greco, fu da costoro disprezzato e finalmente affatto tralasciato. Il vedere, che di quello valevansi anche i Principi da essi riputati barbari ed usurpatori dell'Imperio, glie lo fece deporre. Carlo M. per mostrare esser egli succeduto a tutte le ragioni e preminenze [212] degli antichi Imperadori d'Occidente, ne' suoi titoli se ne fregiava: il simile fecero tutti gli altri Imperadori franzesi suoi successori: al costoro esempio lo stesso fecero gl'Imperadori italiani Berengario Duca di Friuli e Guido Duca di Spoleti[273]. In fine sino i Saraceni, da poi ch'ebbero acquistata la Spagna, ad esempio degl'Imperadori di Costantinopoli, vollero pure chiamarsi Consoli. Abderamo Re de' Saraceni in Ispagna, che cominciò a regnare in Cordova nell'anno 821, Maomat suo figliuolo e successore nel Regno, secondo che ce n'accertano l'opere di S. Eulogio[274], ne' loro diplomi notavano non meno gli anni del loro Imperio, che del Consolato. Anzi nel nono secolo della Chiesa, siccome nell'Oriente gl'Imperadori creavano altri Consoli onorarj, così i Re saraceni non solo se medesimi, ma anche i principali Magistrati del loro Regno chiamavano Consoli[275]. Quindi nacque che secondo il fasto de' Greci, questi non potendo comportare che titolo sì spezioso fosse usurpato da Nazioni straniere e barbare, si proccurò avvilirlo, e davanlo a' loro Magistrati, ancorchè di non molto eminente grado, insino che essi poi, secondo che prova l'accuratissimo Pagi[276], intorno l'anno 933 non lo deponessero affatto; donde avvenne che un'ombra ed immagine di quella dignità e titolo rimanesse in molti loro Uficiali, e si vedesse così diffuso in tanti Ordini, anche di persone private.

I Saraceni solevano dar questo nome agli Ammiragli di mare; onde poi avvenne che coloro ch'erano preposti agl'Emporj ed a' Porti, si chiamarono Consoli; [213] e Codino[277], Pachimere[278] e Gregoras[279] osservano, che il Magistrato de' Pisani e degli Anconitani, che dimoravan in Costantinopoli, eran chiamati Consoli. Quindi il Consolato di mare, e quindi negli Autori della bassa età, rapportati nel Glossario di Dufresne, questo nome lo vediamo sparso nelle Comunità, tra' Giudici, e varj Ordini di persone, insino agli artegiani. Non dee dunque sembrar cosa nuova e strana, se in questo ottavo secolo il nome di Console proprio degl'Imperadori, e prima cotanto illustre e rinomato, si senta nelle persone de' Duchi di Napoli, Uficiali ch'erano dell'Imperio greco, al quale questo Ducato ubbidiva.

CAPITOLO IV. Di Desiderio ultimo Re de' Longobardi.

Per la morte d'Astolfo, non avendo di se lasciata prole, e Rachi suo fratello ancorchè vivo, essendosi fatto Monaco, rimase il Regno vacante. Desiderio Duca di Toscana, che Astolfo, oltre ad avergli dato questo Ducato, l'avea ancora fatto Contestabile del Regno, non trascurò l'occasione, co' voti de' suoi Longobardi toscani, di farsi proclamare Re. Rachi avendo ciò inteso ne arse di sdegno; e diede in tali eccessi, che in tutti i conti voleva uscir dal monastero, e rinunciando al Monacato, ritornare al Regno: nè mancò chi questa sua risoluzione favorisse, e proccurasse di farla venire [214] ad effetto: ma Desiderio essendo ricorso a Stefano Pontefice romano, a chi offerse in ricompensa Faenza, Ancona, Secchia e Ferrara, città che non erano state restituite da Astolfo, se in questa congiuntura l'ajutasse; seppe far tanto questo Papa con Rachi, che finalmente lo fece quietare, e deporre que' suoi pensieri d'uscire dal monastero, ed in premio della sua mediazione ricevè da Desiderio le città promessegli: e poco dopo avere stabilito nel Regno Desiderio, finì Stefano i giorni suoi a' 26 d'Aprile di quest'anno 757. Pontefice, a cui la Chiesa romana dee molto più che a' suoi predecessori, che seppe ampliarla di sì belle città e Stati, e che lasciò le fortune della medesima in tanta prosperità, che i suoi successori non mancarono d'approfittarsene, come fece Paolo che gli successe, e dopo lui un altro Stefano, ma molto più Adriano, che ridusse per trattati avuti con Carlo M. la sua potenza in più alto grado, come di qui a poco vedremo.

Desiderio dopo due anni del suo Regno volle ad esempio de' suoi predecessori assumere per collega Adalgiso suo figliuolo: ma non passò guari che sospettando il Pontefice Stefano III o sia IV, il quale a Paolo succedette, de' di lui andamenti, e credendo ogni sua mossa in pregiudizio de' proprj Stati, cominciarono i soliti sospetti, e le consuete gelosie fra di loro. Finalmente ruppero in aperta discordia, poichè avendo il Re Desiderio fatto conferire l'Arcivescovado di Ravenna ad un certo chiamato Michele suo fedele e domestico, Stefano lo fece scacciare da quella sede. Il Re per vendicarsene fece cavar gli occhi a Cristofano ed a Sergio mandati dal Papa in Pavia per domandare le facoltà che appartenevano alla Chiesa di Roma; [215] e prevedendo dove avrebbero dovute andare a terminar queste discordie, proccurava di congiungersi strettamente co' Franzesi, perchè non così volentieri dassero questi a' continui inviti de' Pontefici orecchio: era in questi tempi già morto Pipino, ed i suol figliuoli Carlo e Carlomanno avendosi fra di loro diviso il Regno, se ben concordi in prima, non così da poi senza gelosia regnavano; Desiderio reputò per sua sicurezza stringer parentado con questi due Principi offerendogli due sue figliuole per moglie. Stefano avendo ciò presentito, scrisse immantenente per distornar queste nozze una molto forte lettera a Carlo e Carlomanno, minacciandogli se v'acconsentissero, anathematis vinculum, et aeterni cum diabolo incendii poenam[280]. Ma non ostante i suoi sforzi, si sposarono felicemente le due sorelle figliuole ambedue del Re Desiderio, il quale seppe così bene impegnar Bertrada madre di Carlo e Carlomanno, che per impulso della medesima si conchiusero i matrimonj. Il dispiacere del Pontefice non fu minore del contento di Desiderio, il quale credeva in cotal maniera avergli chiusa ogni strada di soccorsi. Ma questa alleanza non durò guari, poichè non mancarono modi di far sì, che Carlo ripudiasse la Principessa sua sposa, sotto pretesto d'esserle scoverta un'infermità, che la rendeva inabile d'aver figliuoli: nè alla stranezza del fatto mancò il presidio e l'autorità della legge, perchè furono presti molti Vescovi a dichiarar il matrimonio nullo, ed a permettere che Carlo l'anno seguente si sposasse Ildegarda di Svevia. Si accese per questo ripudio d'ira e di sdegno il Re Desiderio; ed essendo accaduta poco tempo da poi la morte di Carlomanno, la Regina Berta [216] rimasa vedova con due figliuoli, temendo di non star sicura in Francia, e che Carlo non insidiasse la vita de' suoi nepoti, come aveva loro tolto il Regno, andò precipitosamente a gettarsi co' figliuoli tra le braccia di Desiderio suo padre, il quale ricevè di buon animo quest'occasione per potersi un giorno vendicar di Carlo, che gli aveva poco innanzi rimandata la figliuola.

Tentò Desiderio, postisi in mano i figliuoli di Carlomanno, di formar un potente partito, e di mettere la Francia in divisione e sconcerto, perchè occupata ne' proprj mali non potesse pensar alle cose d'Italia. Era intanto, morto Stefano, stato eletto nel 772 Adriano I, il quale sul principio del suo Pontificato trattò con Desiderio di pace, e tra loro fermarono convenzione di non disturbarsi l'un coll'altro: perciò Desiderio credendo, che questo nuovo Pontefice fosse di contrarj sentimenti de' suoi predecessori, pensò, per meglio agevolar i suoi disegni, d'indurlo a consecrare i due figliuoli di Carlomanno per Re: impiegò quanto potè, e quanto seppe con preghiere e promesse per obbligarlo di venire ad ungere questi due Principini, ed a fargli riconoscere per Re dell'Austrasia. Dall'esempio di Pipino e de' suoi figliuoli erasi già pian piano introdotta tra' Principi cristiani la cerimonia della consecrazione, la quale appresso i Popoli era riputata come una marca e nota del Principato, e che quelli, i quali fossero stati unti, dovessero riputarsi per Re giusti e legittimi, ed esser da tutti conosciuti per tali. Ma Adriano che internamente covava le medesime massime de' suoi predecessori, e che non meno di coloro aveva per sospetta la potenza de' Longobardi in Italia, non volle a patto alcuno disgustarsi il Re Carlo, ed a' continui impulsi, che gli dava Desiderio, fu sempre immobile. [217] Onde questi sdegnato, e finalmente perduta ogni pazienza, credendo colla forza ottener quello a che le preghiere non erano arrivate, invase l'Esarcato, ed in un tratto avendo presa Ferrara, Comacchio e Faenza, designò portar l'assedio a Ravenna. Adriano non mancava per Legati di placarlo, e di tentare per mezzo degli stessi la restituzione di quelle città; nè Desiderio si sarebbe mostrato renitente a farlo, purchè il Pontefice fosse venuto da lui, desiderando parlargli, e seco trattar della pace. Ma Adriano rifiutando l'invito, ed ogni uficio, si ostinò a non voler mai comparirgli avanti, se prima non seguiva la restituzione delle Piazze occupate. Così cominciavano pian piano i Pontefici romani a niegare a' Re d'Italia que' rispetti e quegli onori, che prima i loro predecessori non isdegnavano di prestare. Desiderio irritato maggiormente per queste superbe maniere di Adriano, comandò subitamente, che il suo esercito marciasse in Pentapoli, ove fece devastar Sinigaglia, Urbino e molte altre città del patrimonio di S. Pietro sino a' contorni di Roma. Questo fu che accelerò il corso della fatal ruina dei Longobardi; perchè Adriano non mancò tosto di ricorrere in Francia, e dimandar non pure soccorsi da Carlo, ma invitar questo Principe all'acquisto del Regno d'Italia; e perchè tenevan i Longobardi chiuse tutte le strade di terra, spedigli per mare un Legato a sollecitar la sua venuta.

Non mancò Desiderio all'incontro, subito che fu avvisato di questo ricorso, di mostrare al Re Carlo l'inclinazione, ch'egli diceva di aver tenuto sempre alla pace con Adriano, altamente dolendosi della costui durezza, che avendo egli offerta la pace, e dimandato di parlargli, aveva ricusato di farlo; nè cessava in oltre [218] con lettere a varj Principi, e con pubblici manifesti difendersi dall'accuse d'Adriano, il quale lo pubblicava appo i Franzesi per distruttor della Toscana, per barbaro, inumano, fiero, crudele, dipingendolo reo di molti delitti; tanto che per purgarsene, si trovò Desiderio nella necessità di spedir Legati a Carlo in Francia, ed assicurarlo ch'egli avrebbe fermata ogni pace col Papa, e rendutogli ciò ch'e' poteva da lui pretendere.

Ma Carlo, che non aspettava altro, che sì bella opportunità di vendicarsi di Desiderio, il quale con tenere in suo potere i suoi nepoti, tentava dividergli il Regno, e che non poteva aspettar miglior occasione per discacciar d'Italia i Longobardi, ricevè con incredibil contentezza l'invito fattogli da Adriano. Egli trovavasi allora (per le tante vittorie riportate in Aquitania ed in Sassonia) tutto glorioso e formidabile in Tionvilla su le sponde della Mosella: quivi ricevè il Legato del Papa, e diede insieme audienza agli Ambasciadori di Desiderio, da' quali subito disbrigatosi, con rimandargli indietro senza niente conchiudere, accettò con sommo piacer suo la proposta del Pontefice, e tosto ponendosi alla testa d'un poderoso esercito, sforzò il passo dell'Alpi in due luoghi, tagliando a pezzi que' Longobardi, che lo difendevano.

Desiderio dall'altra parte accorse anch'egli in persona col suo esercito per impedirlo; ma incalzato da Carlo, fu il grosso del suo esercito disfatto, e costretto a ritirarsi, onde risolse di difendersi in Pavia, ove si chiuse. Carlo non mancò subito di strettamente assediarla, e fra tanto con una parte delle truppe sforzò Verona, dentro della qual città erasi ritirato Adalgiso per difenderla, insieme con Berta, ed i due suoi figliuoli. Quando questo Principe videsi stretto, disperando [219] della fortuna di suo padre, e di poter difendere quella Piazza, se ne fuggì, prima che ella cadesse in poter di Carlo, e dopo esser andato lungo tempo ramingo, vedendo finalmente, che tutto era perduto per li Longobardi, salvossi per mare in Costantinopoli, ove fu dall'Imperador Lione, figliuolo di Copronimo, con molto piacere ricevuto sotto la sua protezione. Que' di Verona subito che videro uscir Adalgiso dalla Piazza, si diedero in poter di Carlo, il quale presa Berta coi suoi figliuoli, tosto gli mandò in Francia, senza che siasi potuto saper da poi ciocchè seguisse di questi due infelici Principi, de' quali non s'è mai più sentito parlare. Tutte l'altre città de' Longobardi sovvertite per opera e macchinazione del Pontefice, da loro stesse renderonsi a Carlo. Restava Pavia solamente, la quale difesa da Desiderio si manteneva ancor in fede.

Carlo, cinta ch'ebbe Pavia di stretto assedio, volle passar in Roma alle Feste di Pasqua: gli eccessi d'allegrezza, che mostrò Adriano, gli onori, che gli furon fatti da' Romani e dal Clero, guidando ogni cosa il Pontefice, furono incredibili. Fu salutato Re di Francia e de' Longobardi insieme, e Patrizio romano, incontrato un miglio fuori delle porte di Roma da tutta la Nobiltà e Magistrati, e dal Clero in lunghi ordini distinto con croci ed inni ricevuto: dopo gli applausi e le feste, si venne a ciò che più importava. Fu tosto dal Papa ricercato Carlo a confermar le donazioni di Pipino suo padre, che aveva fatte alla Chiesa di Roma: non volle costui esser molto pregato a confermarle, come fece di buona voglia, e facendone stipular nuovo strumento per mano di Eterio suo Notajo, sottoscritto da lui, da tutti i Vescovi ed Abati, da' Duchi e da [220] tutti que' Grandi ch'eran seco venuti, super Altare B. Petri manu propria posuit, come dice Ostiense[281].

Anastasio Bibliotecario, come si è detto, molto ingrandisce questa donazione di Carlo: oltre all'Esarcato di Ravenna e Pentapoli, vi aggiunge l'isola di Corsica, tutto quell'ampio paese che da Luni calando nel Sorano e nel monte Bordone abbraccia Vercetri, Parma, Reggio, Mantova e Monselice, le province di Venezia e d'Istria, ed il Ducato di Spoleti e di Benevento. La Cronaca del monastero di S. Clemente narra, che Carlo aggiunse alla donazione di Pipino solamente questi due Ducati. Sigonio poi, e gli altri più moderni Scrittori, di ciò non ben soddisfatti, aggiungono il territorio sabinense, posto tra l'Umbria ed il Lazio, parte della Toscana e della Campagna ancora. Pietro di Marca[282], ciocchè dee recar più maraviglia, tratto anch'egli da' vanagloriosi Franzesi, che cotanto ingrandiscono questa donazione, per magnificar in conseguenza la liberalità franzese, vi aggiunge tutta la Campagna, e con essa Napoli, gli Apruzzi e la Puglia ancora, additando con ciò l'origine delle nostre papali investiture. Altri vi aggiungono anche la Sassonia da Carlo allora soggiogata; di più, che facesse anche dono di province non sue, e che non acquistò giammai, cioè della Sardegna e della Sicilia; e che sopra tutte queste province e Ducati s'avesse egli solamente riserbata la sovranità. Ma, e gli antichi annali di Francia, e la serie delle cose seguenti, ed il non averci potuto l'Archivio del Vaticano dare l'istromento di questa donazione, dal quale n'escono tanti altri d'inferior dignità, [221] dimostrano per favolosi tutti questi racconti, e convincono, che Carlo non fece altro che confermare la donazione di Pipino dell'Esarcato e di Pentapoli. Ed intanto alcuni scrissero, che l'avesse anche accresciuta, perchè molti luoghi dell'Esarcato e di Pentapoli, che da' Longobardi erano stati occupati, insieme co' patrimonj, che la Chiesa romana possedeva nel Ducato di Spoleti e di Benevento, nella Toscana, nella Campagna, ed altrove, ch'erano stati parimente occupati da' Longobardi, fece egli restituire. Ed in questi sensi Paolo Emilio[283], e gli altri Autori dissero, che Carlo non solo avesse confermati i doni di Pipino suo padre, ma anche accresciuti: ciò che si convince manifestamente dall'istoria delle cose seguite appresso; poichè Carlo sotto il nome del Regno d'Italia si ritenne la Liguria, la Corsica, Emilia, le province di Venezia e dell'Alpi Cozie, Piemonte, ed il Genovesato, che avea tolti a' Longobardi, e fatti passare sotto la sua dominazione: nè si legge che questa parte d'Italia fosse stata mai posseduta da' Pontefici romani.

Molto più chiaro ciò si manifesta dal vedersi, che que' tre famosi Ducati, del Friuli, di Spoleti, ed il nostro di Benevento mai non furono posseduti da' romani Pontefici: come nel seguente libro di questa Istoria si conoscerà chiaramente, cioè che questi tre Ducati ebbero i loro Duchi, nè Carlo vi pretendeva altro, che quella sovranità, che v'avevano avuti i Re longobardi suoi predecessori, anzi i nostri Duchi di Benevento scossero affatto il giogo, e si sottrassero totalmente da lui, negandogli qualunque ubbidienza, e vissero liberi ed independenti; nè la città di Benevento, se non molti, [222] e molti anni appresso fu cambiata colla Chiesa di Bamberga, e conceduta alla sede di Roma, ma non già il suo Ducato, che fu sempre posseduto da' nostri Principi.

Dall'aver Carlo fatti restituire i patrimonj, che la Chiesa romana possedeva nell'Alpi Cozie, nel Ducato di Spoleti, e di Benevento, nacque l'errore di quegli Scrittori, i quali confondendo il patrimonio dell'Alpi Cozie colla provincia, il patrimonio di Benevento col Ducato beneventano, dissero che Carlo donò a S. Pietro que' Ducati, e quella provincia. Così ciò che nell'epistole d'Adriano si legge de' Ducati di Spoleti, e di Benevento donati a S. Pietro, non d'altro, se non di questi patrimonj si dee intendere; siccome quando l'Imperador Lodovico Pio, Ottone I. e l'altro Ottone Re di Germania confermorono a Pascale I, ed a Giovanni XII, i patrimonj beneventano, salernitano, e napoletano, siccome anche fece l'Imperador Errico IV. a Pascale II, non altro intesero se non di quelle terre e possessioni, che la Chiesa romana, come patrimonio di S. Pietro possedeva in queste nostre province, che anche i nostri antichi chiamarono justitias ecclesiae[284]. Solo dunque l'Esarcato di Ravenna, Pentapoli, [223] ed alcuni luoghi del Ducato romano passarono nel dominio della Chiesa di Roma, riserbandosi il Re Carlo la sovranità; anzi in Roma stessa, e nel Ducato romano eran ancora in quelli tempi rimasi vestigi della dominazione degli Imperadori d'Oriente, i quali tuttochè deboli vi tenevano tuttavia i loro Uficiali, ed erano ancora riconosciuti per Sovrani, infinochè a' tempi di Lione III, successor d'Adriano, non si pose il Popolo romano sotto la sede, e soggezione del Re Carlo, che vollero anche da Patrizio innalzare ad Imperador romano. Niente dico dell'isole di Sicilia e di Sardegna non mai da Carlo conquistate, le quali furon lungamente possedute dagl'Imperadori Greci, infinchè i Saraceni non gliele rapirono.

Carlo adunque, dopo aver in cotal guisa soddisfatto il Papa ed i Romani, fece ritorno al campo appresso Pavia, nè restandogli altra impresa, che di ridurre quella città sotto la di lui ubbidienza, pose ogni sforzo per impadronirsene, perchè quella presa, essendo capo del Regno, non restasse altra speranza a' Longobardi di ristabilirsi nelle città perdute. La strinse perciò più strettamente, e togliendole ogni adito di poter esser soccorsa, Desiderio che sin all'estremo proccurò difenderla, essendo la gente afflitta non men dalla fame che dalla peste, che tutta la consumava; finalmente in quest'anno 774 fu costretto di render la Piazza, [224] se stesso, sua moglie, e i di lui figliuoli alla discrezione di Carlo, che fattigli condurre tutti in Francia, finirono quivi i giorni loro in Carbia, senza che mai di loro si fosse inteso più parlare. Così Carlo in una sola campagna si rendè padrone della maggior parte d'Italia, ma non già di quelle province ond'ora si compone il nostro Regno, non del Ducato beneventano, nè di quel di Napoli, nè dell'altre città della Calabria, e de' Bruzj, che lungamente si mantennero sotto la dominazione degl'Imperadori d'Oriente, come vedremo nel seguente libro.

Ecco come cominciarono i romani Pontefici a trasferire i Regni da gente in gente: quindi avvenne, che calcandosi con maggior espertezza e desterità le medesime pedate da' loro successori, si rendessero ai Principi tremendi: i quali per avergli amici, poco curando la sovranità de' loro Stati, e la propria dignità, soggettavansi loro insino a rendersi ligi e tributarj di quella sede. Ecco ancora il fine del Regno de' Longobardi in Italia: Regno ancorchè nel suo principio aspro ed incolto, pure si rendè da poi così placido e culto, che per lo spazio di ducento anni che durò, portava invidia a tutte l'altre Nazioni. Assuefatta l'Italia alla dominazione de' suoi Re, non più come stranieri gli riconobbe, ma come Principi suoi naturali; poichè essi non aveano altri Regni, o Stati collocati altrove, ma loro proprio paese era già fatta l'Italia, la quale per ciò non poteva dirsi serva e dominata da straniere genti, come fu veduta poi, allorchè sottoposta con deplorabili e spessi cambiamenti a varie Nazioni, pianse lungamente la sua servitù. Questa era veramente cosa maravigliosa, dice Paolo Varnefrido[285], [225] e con esso lui l'Abate di Vesperga, che nel Regno de' Longobardi non si faceva alcuna violenza, non sortiva tradimento, nè ingiustamente si spogliava, o angariava alcuno: non eran ruberie, non ladronecci, e ciascuno senza paura andava sicuro, dove gli piaceva. I Pontefici romani, e sopra tutti Adriano, che mal potevano sofferirgli nell'Italia, come quelli che cercavano di rompere tutti i loro disegni, gli dipinsero al Mondo per crudeli, inumani e barbari; quindi avvenne che presso alla gente e agli Scrittori dell'età seguenti, acquistassero fama d'incolti e di crudeli. Ma le leggi loro cotanto sagge e giuste, che scampate dall'ingiuria del tempo ancor oggi si leggono, potranno esser bastanti documenti della loro umanità, giustizia e prudenza civile. Avvenne a quelle appunto ciò, che accadde alle leggi romane: ruinato l'Imperio non per questo mancò l'autorità e la forza di quelle ne' nuovi dominj in Europa stabiliti: ruinato il Regno de' Longobardi, non per questo in Italia le loro leggi vennero meno.

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CAPITOLO V. Leggi de' Longobardi ritenute in Italia, ancorchè da quella ne fossero stati scacciati: loro giustizia e saviezza.

Le leggi de' Longobardi, se vorranno conferirsi colle leggi Romane, il paragone certamente sarà indegno, ma se vorremo pareggiarle con quelle dell'altre Nazioni, che dopo lo scadimento dell'Imperio signoreggiarono in Europa, sopra l'altre tutte si renderanno ragguardevoli, così se si considera la prudenza e i modi, che usavano in istabilirle, come la loro utilità e giustizia, e finalmente il giudicio de' più gravi e saggi Scrittori, che le commendarono. Il modo che tennero e la somma prudenza e maturità, che praticarono i Re quando volevan stabilirle, merita ogni lode e commendazione. Essi, come s'è veduto, convocavano prima in Pavia gli Ordini del Regno, cioè i Nobili e Magistrati; poichè l'ordine Ecclesiastico non era da essi conosciuto, nè avea luogo nelle pubbliche deliberazioni, e nè meno la plebe, la quale, come disse Cesare parlando de' Galli, nulli adhibebatur consilio: si esaminava quivi con maturità e discussione ciò che pareva più giusto ed utile da stabilire: e quello stabilito, era poi pubblicato da' loro Re negli editti. Maniera, secondo il sentimento di Ugon Grozio[286], forse migliore di quella, che tennero gl'Imperadori stessi romani, le cui leggi, dipendendo dalla sola volontà [227] loro, soggetta a varj inganni e soggestioni, cagionarono tant'incostanza e variazioni, che del solo Giustiniano vediamo d'una stessa cosa aver tre, e quattro volte mutato e variato parere e sentenza. Presso a' Longobardi prima di pubblicarsi le leggi per mezzo de' loro editti, erano dagli Ordini del Regno ben esaminate e discusse; onde ne seguivano più comodi. Il primo, che non v'era timore di potersi stabilire cosa nociva al ben pubblico, quando v'erano tanti occhi e tanti savj, a' quali non poteva esser nascosto il danno, che n'avesse potuto nascere. Il secondo, ch'era da tutti con pronto animo osservato ciò che piacque al comun consentimento di stabilire. E per ultimo, che non così facilmente eran soggette a variarsi, se non quando una causa urgentissima il ricercasse: come abbiam veduto essersi fatto da que' Re, che dopo Rotari successero, i quali se non facto periculo, e dopo lunga esperienza conoscendo alcune leggi de' loro predecessori alquanto dure ed aspre, e non ben conformarsi a' loro tempi, renduti più docili e culti, le variavano e mutavano col consiglio degli Ordini. Il qual sì prudente e saggio costume lodò anche e commendò presso a' Sueoni, popoli del Settentrione, quella prudente e saggia donna Brigida, a cui oggi rendiamo noi gli onori, che non si danno se non a' Santi.

Se si voglia poi riguardare la loro giustizia ed utilità, e prima di quelle leggi accomodate agli affari e negozj de' privati, ed alla loro sicurità e custodia, come sono i matrimonj, le tutele, i contratti, le alienazioni, i testamenti, le successioni ab intestato, la sicurezza del possesso, non potremo riputarle se non tutte utili e prudenti.

Per li matrimonj molte provide leggi s'ammirano [228] nel libro secondo di quel volume[287]. L'ingenuo non s'accoppiava con la libertina, nè il nobile coll'ignobile; quindi essendo i Re collocati sopra la condizione di tutti; quelli morti, le loro vedove non si collocavan poi con altri, se non eran di regal dignità decorati. Ma Giustiniano prese Teodora dalla scena con gran vituperio del Principato. Quelli che non eran nati da giuste nozze, non si creavano Cavalieri: non eran ammessi al Magistrato, anzi nè meno a render testimonianza. Le profuse donazioni tra' mariti e mogli eran vietate: prudentissima fu perciò la legge di Luitprando, colla quale fu posto freno al dono mattutino, che solevan i mariti fare alle mogli il mattino dopo la prima notte del loro congiungimento, che i Longobardi chiamavano morgongap[288]; solevan sovente i mariti d'amor caldi, allettati da' vezzi delle novelle spose, donar tutto: Luitprando[289] proibì tanta profusione, e stabilì che non potessero eccedere la quarta parte delle loro sostanze. E per gli esempj che rapporta Ducange, si vede che per tutto l'undecimo secolo fu la legge osservata. Ed è veramente nuovo e singolare ciocchè l'Abate Fontanini nel suo libro contra il P. Germonio rapporta di alcuni atti, che pubblicò d'una notizia privata dell'anno 1162, nella quale si legge, che un tal Folco da Cividale del Friuli dona a Gerlint sua moglie tutto il suo, omnia sua propter pretium in mane quando surrexit de lecto. Gli adulterj erano severamente puniti; le nozze fra' congionti, secondo il prescritto, non men delle leggi civili, che de' canoni erano vietate; e Luitprando[290] istesso rende [229] a noi testimonianza, che fu mosso a vietarle anche con sue leggi: Quia, com'e' dice, Deo teste, Papa Urbis Romae, qui in omni Mundo caput Ecclesiarum Dei, et Sacerdotum est, per suam epistolam nos adhortatus est, ut tale conjugium fieri nullatenus permitteremus.

Alcuni s'offendono, che in questo secondo libro delle leggi de' Longobardi[291] si legga permesso il concubinato, vietandosi solamente, che in un istesso tempo si possa tener moglie e concubina, non altrimente, che due mogli, essendo anche presso a' Longobardi vietata ogni poligamia. Ma tralasciando che quella legge fu di Lotario, non già d'alcuno de' Re longobardi; questa maraviglia nasce dal non sapere che presso ai Romani il concubinato fu una congiunzione legittima[292], non pur tollerata, ma permessa, ed era perciò detto semimatrimonium, e la concubina era chiamata perciò semiconjux[293], e lecitamente l'uomo poteva avere per sua compagna o la moglie o la concubina, non però in un medesimo tempo e moglie e concubina insieme, perchè questa era riputata poligamia, non altrimente se tenesse due mogli[294]. Questo istituto fu continuato anche dappoichè per Costantino Magno l'Imperio abbracciò la nostra religione, il quale ancorchè ponesse freno al concubinato, non però lo tolse; ed appresso i Cristiani di più Nazioni d'Europa, per molti secoli fu ritenuto; di che fra gli altri ce ne rende certi un Concilio di Toledo, ove fu parimente stabilito, che l'uomo sia Laico, sia Cherico d'una sola debba contentarsi o di moglie o di concubina, [230] non già che possa ritenere in uno stesso tempo tutte due[295]. Ma vietatosi poi nella Chiesa latina a' Preti affatto di aver moglie, ed in conseguenza di tener anche concubine, poichè gli Ecclesiastici per la loro incontinenza non potevan vivere soli, si ritennero le concubine: fu per isradicar questo costume in varj Concilj severamente proibito loro di tenerle: non ebbero queste proibizioni gran successo, e furon di poco profitto: rada era l'osservanza; ed i Preti non potevano a patto alcuno distaccarsene: furono perciò replicati i divieti: non vi era Concilio che si convocasse, che con severe minacce non inculcasse sempre il medesimo, detestandosi il concubinato, e predicandosi peggior dell'adulterio, dell'incesto, e più grave d'ogni altro vizio. Quindi nelle seguenti età il nome del concubinato, che prima era riputato una congiunzion legittima, fu renduto odioso ed orrendo in quella maniera, ch'oggi si sente. Nel Regno d'Italia non pur presso a' Longobardi, ma anche quando passò sotto la dominazione de' Franzesi, durava ancora l'istituto de' Romani. Appresso alcune altre Nazioni d'Europa era anche il concubinato riputato legittimo, e Cujacio testimonia, che anche a' suoi tempi era ritenuto dai Guasconi, e da altri popoli presso i Pirenei[296]. In Oriente per le Novelle di Basilio Macedone[297], e di Lione, fu il concubinato proibito; ma quelle non ebbero alcun vigore nelle province d'Europa, come quelle ch'erano state sottratte dall'Imperio, ed ubbidivano [231] a' loro Principi independentemente dagl'Imperadori d'Oriente: ciocchè meriterebbe un discorso a parte, ma tanto basterà per ciò, che riguarda il nostro istituto.

Intorno alle tutele, furon dati savj provvedimenti: eran i pupilli raccomandati ugualmente agli agnati, che a' cognati: ma de' pupilli nobili il principal tutore era il Re[298]. Quindi appresso noi nacque l'istituto di darsi dal Re il Balio a' Baroni, e prendersi da lui le lettere del Baliato. Davano ancora alle donne per la loro imbecillità un perpetuo tutore, ch'essi chiamavano Mundualdo, il quale s'assomigliava in gran parte al tutore cessizio de' Romani antichi, sotto la cui autorità eran sempre le donne di qualunque età fossero, ed ancorchè a nozze passassero: ond'è che ancor oggi in alcuni luoghi del nostro Regno sia rimaso di loro alcun vestigio.

Ne' contratti, l'equità e la giustizia fu unicamente ricercata: i contratti de' maggiori, diffinendo la maggior età nell'anno decim'ottavo, eran ben fermi, nè alle restituzioni soggetti. I creditori, ed i compratori erano sicuri di non esser fraudati e delusi per le tacite ipoteche, e per gli occulti fedecommessi; imperocchè si facevan passare tutti i contratti, le vendite, i pegni, i testamenti stessi sotto gli occhi, ed avanti i Magistrati, ed al cospetto del Popolo. L'ordine di succedere ab intestato era semplicissimo: colui ch'era più prossimo in grado, era l'istesso che l'erede, eccetto solamente che i figliuoli, e' lor descendenti erano preferiti a' genitori.

I giudicj, che appresso i Romani eran tratti in immenso [232] con grave dispendio delle proprie sostanze, e cruccio dell'animo, appo i Longobardi eran brevi e meno travagliosi. La temerità de' litiganti era frenata da' pegni, e dalle pieggiarie. A' Giudici niente era più facile e spedito: nelle quistioni di fatto portava l'attore i suoi testimoni, ed il reo i suoi, e colui guadagnava, che dal suo canto avea di lor maggior numero ed autorità. Nelle cose dubbie ed ambigue si ricorreva alla religione de' giuramenti; questo si dava al reo, ma con molto riguardo, cioè se produceva testimonj di provata fama, che deponessero ed attestassero della di lui probità e religione, e che essi volentieri crederebbero al suo giuramento[299]. Rade eran le quistioni di legge, e se pur accadevano, non dagli infiniti volumi degl'Interpetri, ma da' semplici e piani detti delle lor leggi, dal giusto e dal ragionevole prestamente eran decise. Pronto era il remedio nelle perturbazioni di possesso, e subita la restituzione, andando il Giudice co' testimonj in sul luogo a conoscer dello spoglio, e ad immantenente ripararlo.

Nella cognizion criminale de' delitti erano due cose saggiamente osservate. La violazione della ragione e società pubblica, e di quella del privato. Per questo due multe furono introdotte: coll'una si riparava al danno del privato, che chiamarono Vedrigeldium, cioè quel che si dava per lo taglione; coll'altra si riparava alla pubblica pace, che dissero per ciò Fedra, e si dava al Re, o al comune di qualche città. Commenda Ugone Grozio[300] questo lor istituto di non spargere il sangue de' Cittadini per leggieri cagioni, ma solo [233] per gravissime e capitali. Ne' minori delitti bastava, che per danaro si componessero, ovvero che il colpevole passasse nella servitù dell'offeso, in cui s'era peccato.

I beni de' condannati erano salvi a' loro figliuoli, nè stavano soggetti a confiscazioni. Nelle cause criminali non ammettevano appellazioni, nè questo portò a Grozio alcuna maraviglia, come non debbono altri averla; poichè i Pari della Curia con somma religione e clemenza de' lor pari giudicavano. Quindi presso di noi nacque l'istituto, che le cause capitali de' Baroni non potessero decidersi senza quelli, che diciamo Pares Curiae.

I riti e le solennità ch'essi usavano nelle manumissioni, e nell'adozioni eran conformi a' lor costumi feroci e guerrieri. Le manumissioni come c'insegna Paolo Varnefrido si facevano per sagittam, le adozioni per arma, siccome le alienazioni per glebae festucaeve conjectionem in sinum emptoris.

Dispiacque a molti quell'antica consuetudine dei Longobardi, che in alcune cause dubbie ed ambigue e ne' gravi delitti se ne commettesse la decisione alla singular pugna di due, che chiamiamo duello. Fu veramente il duello antica usanza de' Longobardi, che poi passata in legge, fu per molto tempo praticata non pur da loro, ma da molte altre Nazioni, le quali da' Longobardi l'appresero. In fatti l'istorie loro sono piene di questi duelli; e memorando fu quello di Adalulfo, che di adulterio aveva tentata la Regina Gundeberta[301], ed avutane ripulsa, per vendicarsene, ricorse al Re Arioaldo suo primo marito, al quale accusandola [234] falsamente, che insieme con Dato Duca della Toscana gl'insidiasse la vita ed il Regno, fece imprigionare quella infelice Principessa. Di che offeso Clotario Re di Francia, dal cui sangue discendeva, mandò Legati ad Arioaldo con gagliarde richieste di dover tosto liberarla; al che avendo il Re risposto, ch'egli aveva cagioni giustissime di tenerla prigione, e negando i Legati ciò che s'imputava alla Regina, affermando che mentivano gli Autori di tal impostura; finalmente Ansoaldo uno di essi richiese al Re, che per duello il dubbio dovesse terminarsi. Vennero alla pugna Cariberto per la Regina, e l'impostore Adalulfo pel Re, nella quale restando l'ultimo vinto, fu la Regina liberata, e restituita al suo antico onore. Questo genere di purgazione fu cotanto commendato presso a tutte le Nazioni, che Cujacio[302] dice, che anche fra' Cristiani, così nelle cause civili, come nelle accusazioni criminali fu il duello lungamente praticato, ed i nostri Franzesi Normanni, finchè tennero questo Regno, sovente l'usarono. Era ben da' Re longobardi istessi riputato un esperimento fiero ed irragionevole; ma assuefatti que' Popoli lungamente a tal usanza, e reputando minor male per placar l'ira e lo sdegno di quegli animi feroci, commetter l'affare al periglio di pochi, che di vedere ardere di discordie civili le intere famiglie, loro non parve grave, se non necessario il ritenerlo. Luitprando Principe prudentissimo ben lo conobbe, ma ad esempio di Solone, che dimandato se [235] egli avesse date le migliori leggi che aveva saputo agli Ateniesi, rispose le migliori, che potevan confarsi ai loro costumi, così egli in una sua legge altamente dichiarò questi suoi sensi, dicendo che ben egli era incerto del giudicio di Dio, e molti sapeva che per duello senza giusta causa restavan perditori, ma soggiunse: Sed propter consuetudinem gentis nostrae Longobardorum legem impiam vetare non possumus[303]. La religione cristiana tolse poi questa usanza, ma non si veggono tolte le radici, onde con tanta facilità cotali effetti germogliano: ella è nata per isradicarle interamente, ma noi medesimi siamo quelli, che le facciamo contrasto, e frapponghiamo impedimenti. La tolsero poi gli altri Principi, e presso a noi l'Imperadore Federico II, e più severamente gli altri Re suoi successori.

Dispiacque ancora quell'altro genere di prova del ferro rovente, dell'acqua fervente, ovvero ghiacciata[304]; ma di ciò non debbono imputarsi i soli Longobardi, ma tutte l'altre Nazioni d'Europa, e più i Cristiani nostri, i quali lungamente lo ritennero e l'abbracciarono più tenacemente; imperocchè credettero derivare il costume da Mosè istesso, il quale comandò che si dasse alle donne imputate di stupro certa pozione per conoscere il loro fallo, o l'innocenza. Non fu dunque maraviglia se i Longobardi, portando la cosa più avanti, ne stabilissero anche sopra ciò delle leggi, per le quali comandarono che per determinare le liti, si servissero anche de' vomeri infocati, ovvero dell'acqua fredda, o bollente. S'aggiunse, perchè l'error durasse e tal costume [236] si ritenesse, la credulità e stupidezza degli uomini, i quali eran così persuasi e certi di questa pruova, che sovente diedero facile e sicura credenza a ciò che gli Storici o altri, che se ne spacciavan testimonj, ne favoleggiavano, e per cosa certa gliele descrivevano. Nè mancarono di raccontar fatti veramente strani e maravigliosi, non perchè essi veri fossero in realtà, ma prodotti da una fantasia sì fortemente accesa, che faceva lor vedere uomini posti dentro il fuoco non ardere, e buttati dentro i fiumi non sommergersi. Celebre appresso gl'Istorici è quel fatto accaduto ne' tempi d'Ottone a quella innocente Contessa, che accusata falsamente dall'Imperadrice sua moglie, se ne purgò con un ferro rovente, da cui non fu tocca.

(I più accurati Scrittori riputano favolosi tutti questi racconti dell'Imperatrice moglie d'Ottone, e della pruova del ferro rovente. Intorno a che son da vedersi coloro, che vengono rapportati da Struvio in Syntag. Hist. Germ. in Ottone, pag. 371).

Ma assai più celebre e memorabile è quell'altro ai tempi d'Alessandro II, accaduto in Firenze, di Pietro Aldobrandino, che uscì al cospetto di tutto il Popolo immune e salvo dalle fiamme, onde acquistonne il nome di Pietro Igneo. Non senza ragione adunque Federico Imperadore tra le sue leggi militari stabilì ancora, che questa pruova si praticasse nelle cause dubbie, come Radevico e Cujacio[305] testificano. Ma conosciutasi [237] da poi, seriamente pensandovi, la sua incertezza, e che molti innocenti ne riportavano pena maggiore di quella, che anche legittimamente convinti per rei non avrebbero potuto temere, e che all'incontro ne uscivan liberi i colpevoli; e che con troppo ardimento si pretendesse tentar i giudicj divini, fu da' romani Pontefici proibito. E Cujacio[306] rapporta, che questo costume nella Lombardia cominciò prima di tutti gli altri paesi a mancare, e ad andare in disusanza. Presso a noi andò parimente in obblivione, ed ancorchè i Baresi lungamente ritenessero l'usanze de' Longobardi onde il libro delle loro Consuetudini fu compilato; pur confessano, che sin da' tempi del Re Rugiero era già tal costume affatto mancato: Ferri igniti, aquae ferventis, vel frigidae, aut quodlibet judicium, quod vulgo paribole nuncupatur, a nostris civibus penitus exulavit[307].

Parve anche a molti fiero e crudele quel costume di render cattivi i Cristiani, e riceverne per la libertà riscatti, come s'è veduto che fecero co' Crotonesi, e con altre genti delle città, ch'erano in poter de' Greci loro nemici: del che altamente si querelava S. Gregorio M. Ma questo costume, siccome fu narrato nel precedente libro, era allora indifferentemente da tutti praticato: nè mancano Scrittori che lo difendono per giusto.

Per queste cagioni leggiamo noi ne' più gravi Autori [238] cotanto commendarsi sopra tutte le straniere Nazioni la longobarda per gente savia e prudente, e che meglio di tutte le altre avesse saputo stabilire le leggi, con tanta perizia ed avvedimento dettate. Niente dico di Grozio[308] che perciò tante lodi l'attribuisce, niente di Paolo Varnefrido. Guntero Secretario che fu di Federico I Imperadore, e famoso Poeta di que' tempi, così nel suo Ligurino cantò de' Longobardi.

Gens astuta, sagax, prudens, industria, solers,

Provida consilio, legum, Jurisque perita.

Nè lo stile, con cui furono quelle leggi scritte, è cotanto insulso ed incolto come pur troppo lo riputarono i nostri Scrittori: ben furono elle giudicate dall'incomparabile Grozio degno soggetto delle sue fatiche e de' suoi elevatissimi talenti: aveva ben egli apparecchiato loro un giusto commentario, siccome dell'altre leggi dell'altre Nazioni settentrionali, così ancora di queste de' Longobardi. Ma pur troppo presto tolto a noi da immatura morte, non potè perfezionarlo. È bensì a noi di lui rimaso un Sillabo[309] di tutti i nomi e verbi, ed altri vocaboli de' Longobardi, per cui si scuoprono i molti abbagli presi da' nostri Scrittori, che vollero interpretarle; e Giacomo Cujacio[310] ne' suoi libri de' Feudi, i quali in gran parte da queste leggi dipendono, sovente ne mostra molte voci delle medesime reputate dalla comune schiera per barbare ed incolte, ed a cui diedero altro senso, essere o greche, o latine, o dipendere con perfetta analogia da queste lingue: così quella voce arga, che s'incontra [239] spesso in queste leggi, riputata barbara, e che i nostri vogliono che significhi cornuto, come fra gli altri espose Maxilla nelle Consuetudini di Bari[311] che da queste leggi in gran parte derivano, presso a Paolo Varnefrido[312] non significa altro che inerte, scimunito, stupido, ed inutile, e la voce deriva dal Greco argòs, che appo i Greci significa lo stesso, come dice Cujacio[313], e lo conferma coll'autorità di Didimo. E ciò che sovente occorre in questi libri astalium facere, non vuol dir altro che ingannare, e mancare al Principe o al Commilitone del suo ajuto e soccorso, mentre nella pugna ne tiene il maggior bisogno, ed è in periglio di vita. Così ancora farsi una cosa asto animo, come sovente leggiamo in queste leggi, da voce latinissima deriva ch'è il medesimo, che d'animo vafro ed ingannevole: Plauto in Poenulo.

Mea soror ita stupida est sine animo asto.

Ed Accio appresso Nonio:

Nisi ut asta ingenium lingua laudem.

Parimente quell'altra voce Strige, che in queste leggi s'incontra, e che presso a Festo è l'istesso, che malefica, si ritrova ancora in Plauto in Pseudolo

Strigibus vivis convivis intestinaque exedunt.

che i Longobardi con voce propria della Nazione chiamarono anche Masca, ed oggi noi chiamiamo Maga o Strega.

L'uso del talenone dichiarato da Festo, Vegezio, ed Isidoro, viene anche nettamente spiegato da queste [240] leggi[314]. Il talenone, come anche spiega la legge, non era altro, che una trave librata sopra una forca di legno, per la quale si tirava con secchi l'acqua dai pozzi.

Il chiamare le donne non casate vergini in capillo non altronde deriva, che dall'istituto de' Romani, i quali distinguevan le vergini da quelle, che avean contratte nozze, perchè queste velavano il lor capo, ed all'incontro le vergini andavan scoverte, e mostravano i loro capelli.

Galeno credette che i cavalli, e, toltone i cani, ogni sorta di quadrupedi non potessero esser mai rabbiosi. All'incontro Absirto, e Hierocle Mulomedici[315], e Porfirio ancora contra il sentimento di Galeno scrissero, che potevan ancora quelli esser rabbiosi. I Longobardi in queste loro leggi[316] ricevettero l'opinione di costoro, e rifiutarono come falsa quella di Galeno. Molt'altri consimili vestigi di loro erudizione si scorgono in quelle, e molte altre voci di questo genere, che ad altri sembrano barbare, quando traggon la loro origine dalla greca o latina lingua, e sono sparse in questi libri, che non accade qui tesser di loro più lungo catalogo: ciascuno per se potrà avvertirle, e potrà anche osservarle nel Sillabo, che ne fece Grozio del quale poc'anzi si fece da noi memoria.

[241]

I.  Leggi longobarde lungamente ritenute nel Ducato beneventano, e poi disseminate in tutte le nostre province, ond'ora si compone il Regno.

L'eminenza di queste leggi sopra tutte le altre delle Nazioni straniere, e la loro giustizia e sapienza potrà comprendersi ancora dal vedere, che discacciati che furono i Longobardi dal Regno d'Italia, e succeduti in quello i Franzesi, Carlo Re di Francia e d'Italia lasciolle intatte; anzi non pur le confermò, ma volle al corpo delle medesime aggiungerne altre proprie, che come leggi pure longobarde volle, che fossero in Lombardia, e nel resto d'Italia che a lui ubbidiva, osservate.

Egli ne aggiunse molte altre agli editti de' Re longobardi suoi predecessori, che stabilì non come Imperadore o Re di Francia, ma come Re d'Italia, ovvero de' Longobardi. E siccome la legge longobarda non ebbe vigore presso a' Franzesi, così ancora la legge salica o francica non fu da Carlo, nè da' suoi successori introdotta in Italia; onde si vede l'error del Sigonio[317], il quale tre leggi vuole, che nell'Imperio de' Franzesi fiorissero in Italia, la romana, la longobarda e la salica. Se non se forse volesse intendere, che appo i soli Franzesi, che vennero con Carlo in Italia, quella avesse forza e vigore. Pipino suo figliuolo e successore nel Regno d'Italia, e gli altri Re ed Imperadori che gli succederono, come Lodovico, Lotario, Ottone, Corrado, Errico e Guido, non pur le mantennero intatte ed in vigore, ma altre leggi [242] proprie v'aggiunsero; e quindi nacque che l'antico Compilatore di queste leggi raccolse in tre libri non pur le leggi di que' cinque Re longobardi, ma anche quelle di Carlo M. e degli altri suoi successori insino a Corrado, che come Signori d'Italia le stabilirono, le quali tutte leggi longobarde furon dette.

Ma presso di noi per altre più rilevanti cagioni furono mantenute, e lungamente osservate. Nel Ducato beneventano, che abbracciava la maggior parte di queste nostre province, che ora compongono il Regno, sotto i Re longobardi loro autori, furono con somma venerazione ubbidite. Questo Ducato ch'era ancor parte del Regno loro, si reggeva colle medesime leggi. I Re avevano la sovranità di quello, ed i Duchi che lo governavano erano a loro subordinati, e Desiderio ultimo Re vi avea creato, come s'è detto, Duca Arechi suo genero. Ma mancati in Italia i Re longobardi, non per questo mancarono nel Ducato beneventano i Duchi; anzi Arechi, come diremo nel seguente libro, toltasi ogni soggezione de' Franzesi, lo resse con assoluto ed independente Imperio. Volle di regali insegne ornarsi con scettro, corona e clamide, e farsi ungere, ed elevare in Principe sovrano, lo mantenne perciò esente da qualunque altra dominazione; onde maggior piede e forza presero in questo Ducato le leggi longobarde, le quali poi si ritennero costantemente da tutti i Principi beneventani successori. E diviso da poi il Principato, e moltiplicato in tre, cioè nel beneventano, salernitano e capuano, che abbracciavano quasi tutto il Regno, maggiormente si diffusero le leggi longobarde. Il Ducato napoletano, e le altre città della Calabria e de' Bruzj, Gaeta, ed alcune altre città marittime, che anche da poi durarono [243] per qualche tempo sotto la dominazione de' Greci, ricevettero più tardi queste leggi. Questi luoghi, come soggetti agl'Imperadori d'Oriente, si governavano colle leggi loro; e quali queste si fossero, sarà esaminato nel settimo libro, ove delle loro Novelle, e delle tante loro compilazioni faremo parola. Ma discacciati che ne furono i Greci da' Normanni, e ridotte tutte queste province sotto il dominio d'un solo, i Normanni ai Longobardi succeduti, ritennero le loro leggi, e le diffusero per tutto, anche nelle città, che essi tolsero a' Greci, come vedremo ne' seguenti libri; onde avvenne che dall'essere state queste leggi mantenute in Italia sotto altri Principi, che non erano longobardi, lungamente quelle durassero, e mettessero più profonde radici in queste nostre province. Quindi avvenne ancora che sebbene si lasciassero intatte le leggi romane, e che ciascuno potesse vivere sotto quella legge o romana o longobarda ch'e' si eleggesse[318]; nulladimeno per più secoli la fortuna delle longobarde fu tanta, che bisognò, che le romane cedessero. Poichè essendo in Italia, e nelle nostre province introdotti in più numero i Feudi, e per conseguenza più Baroni, i quali non con altre leggi vivevano, che con quelle de' Longobardi, si fece che tutti i Nobili, al loro esempio, vivessero colle medesime leggi; onde toltone gli Ecclesiastici, i quali anche per esecuzione dell'editto di Lodovico Pio[319], viveano (di qualunque Nazione si fossero) colle sole leggi de' Romani, queste appo gli altri, come per tradizione, e come per antico costume ebbero uso e vigore: ed essendosi per l'ignoranza del [244] secolo trascurati tutti i Codici, ove eran registrate, si rimasero presso alla gente vulgare ed ignobile, la quale così nelle leggi, come nell'usanze è l'ultima a deporre gli antichi istituti de' loro maggiori, come più minutamente vedremo ne' seguenti libri.

E quindi parimente nacque, che nel nostro Regno a riguardo delle nuove costituzioni, che s'introdussero da poi da altri Principi normanni, suevi e franzesi, la legge longobarda fu detta Jus commune, siccome quella de' Romani[320]; ma con questa differenza, che il Jus comune de' Longobardi era il dominante, ed in più vigore, quello de' Romani di minor autorità ed al quale ricorrevasi quando mancassero le longobarde: e ciò nemmeno sempre ed indistintamente. Per questa cagione avvenne ancora, che la legge longobarda fosse allegata ne' Tribunali, commendata da tutti e riputata fonte ancora dell'altre leggi, che si andavano da' nuovi Principi stabilendo. Così veggiamo che i Pontefici romani spesso ne' loro decreti se ne valsero, e l'approvarono[321]. La legge feudale, che oggi appresso tutte le Nazioni d'Europa è una delle parti più nobili del Jus commune, non altronde, che dalle leggi longobarde ricevè il sostegno, e sopra le quali è fondata, come non solo fra' nostri scrissero Andrea d'Isernia, ed il Vescovo Liparulo, ma l'avvertì ancora l'incomparabile Ugon Grozio.

Le costituzioni stesse di Federico II, del nostro Regno, quasi tutte dalle leggi de' Longobardi procedono, come, oltre a' nostri, scrisse anche Grozio[322], [245] ed è per se medesimo palese. Le consuetudini di Bari dalle leggi longobarde derivano, come diremo, quando della compilazione di quel volume ci tornerà occasione di favellare.

Ma ciocchè non dee tralasciarsi, e che maggiormente fa conoscere l'autorità loro, ed il credito, col quale lungamente si mantennero in queste nostre province, egli è il vedere, che restituita già la giurisprudenza romana nell'Accademie d'Italia ne' tempi di Lotario II, dopo l'avventuroso ritrovamento delle Pandette di Amalfi, e posto ancor piede nella nostra Accademia a' tempi dell'Imperador Federico II, non per questo mancò l'uso e l'autorità delle medesime. Anzi i nostri Scrittori allora più che mai posero la maggior cura e studio in commentarle; non altrimente che fecero Gregorio ed Ermogeniano, i quali allora compilarono i loro Codici, per li quali proccurarono che l'antica romana giurisprudenza non si perdesse, quando videro che Costantino M, colle nuove leggi tirava a distruggere l'antiche de' Romani gentili. Così veggiamo che le fatiche postevi da Carlo di Tocco commentandole, non furon fatte, se non a tempo di Guglielmo Re di Sicilia; e quell'altro Commento che abbiamo delle medesime d'Andrea da Barletta Avvocato fiscale, che fu dell'Imperador Federico II, mostra più chiaramente, che sino a' tempi di questo Principe, le leggi longobarde nel nostro Regno alle romane erano superiori; e più ancora ne' tempi posteriori, per l'altro che vi fece Biase da Morcone, che fiorì sotto il Re Roberto.

[246]

Nella considerazione delle quali cose se per un poco si fossero fermati i nostri Scrittori, a' quali l'istoria fu sempre inimica, e che non fece loro distinguere i tempi, come in ciò si conveniva: non avrebbono ricolmi i loro commentarj d'infinite sciocchezze, insino a dire (non sapendo quali si fossero gli Autori di queste leggi) ch'elle furono fatte da certi Re, che si chiamavano Longobardi, cioè Pugliesi, i quali venuti dalla Sardegna, prima si fermarono nella Romagna, ed indi passarono nella Puglia, come scrissero Godofredo, Baldo, Alessandro e Francesco di Curte, e quel ch'è più strano, seguitati da Niccolò Boerio, che volle più tosto credere a questi sogni, che dare orecchio alla vera istoria.

Nè Luca di Penna, seguitato da poi, come spesso accade, inconsideratamente da Caravita, Maranta, Fabio d'Anna, e da altri nostri Scrittori, avrebbe avuta occasione di declamar tanto contra il Jus de' Longobardi, e di chiamarlo asinino, barbaro ed incolto, e feccia più tosto che legge. Egli diceva così, perchè non seppe distinguere i tempi, ne' quali scriveva, dai secoli trascorsi, ne' quali queste leggi furono reputate le più colte e prudenti di quante mai ne fiorissero in Italia: e' scrisse ne' tempi ultimi sotto il Regno di Giovanna I, dalla quale nell'anno 1366, fu creato Giudice della Gran Corte, quando avanzandosi sempre più l'autorità, e lo splendore della legge romana, cominciava già fra gli Avvocati a disputarsi qual delle due leggi dovesse prevalere; onde è che egli trovando altri, che, contra il suo sentimento, contendevano a favor delle longobarde, si scagliava contro di loro, cumulando di tante ingiure queste leggi. E non fu, se non a' tempi degli Aragonesi, che queste leggi dal [247] nostro Regno finalmente con disusanza mancassero affatto, e le romane si restituirono, come buon testimonio è a noi Matteo degli Afflitti, il quale se bene dica, che a' suoi tempi non vide mai, che ne' nostri Tribunali le leggi de' Longobardi prevalessero a quelle de' Romani, testifica però di avere inteso dagli Avvocati vecchi, che ne' tempi antichi fu osservato il contrario. Ma delle vicende e varia fortuna di queste leggi, non mancheranno nel progresso di questa Istoria più opportune occasioni di lungamente ragionare.

CAPITOLO VI. Della politia ecclesiastica.

Le Chiese d'Occidente si videro in questo ottavo secolo, in grandi disordini, e quella di Roma, che dovea esser chiaro esempio per l'altre, fu la più disordinata. Morto che fu Paolo nell'anno 767, invase la Cattedra Costantino fratello di Totone Conte di Nepi: questi con violenza, e per via di trattati si fece prima elegger Papa; e poi fecesi ordinar Sottodiacono, Diacono e Vescovo: alcuni Ufficiali della Chiesa di Roma, non potendo soffrire questa violenza, ricorsero a Desiderio Re de' Longobardi, ed avendo ottenuto braccio, ritornarono a Roma con una truppa di genti armate. Totone gli assalì, ma nel combattimento essendo rimaso ucciso, Costantino fu scacciato, ed in suo luogo fu eletto Filippo Sacerdote e Monaco; ma non essendo stato trovato abile al posto, fu costretto ritirarsi in un Monasterio, e Stefano IV, fu di comun consenso eletto nel mese d'Agosto dell'anno 768. Dopo [248] la costui elezione, Costantino fu ignominiosamente deposto, e trattato d'una maniera crudele, fu posto prigione, e gli furono cavati gli occhi: Stefano non trovandosi ben sicuro, inviò un deputato in Francia, a fine di far regolare quanto apparteneva agli affari della Chiesa di Roma. Carlo e Carlomanno a' quali il Deputato, dopo la morte del loro padre Pipino, consegnò le lettere, inviarono dodici Vescovi in Roma, i quali adunatisi in un Concilio, con un Vescovo d'Italia, confermarono Stefano, e dichiararono nulla l'ordinazione di Costantino. Stefano restò pacifico possessore di questa sede: ma poi insorte per l'elezione dell'Arcivescovo di Ravenna, e per altre cagioni rapportate di sopra, gravi discordie tra lui e Desiderio, questi, portando l'assedio a Roma, esercitò ivi tanto rigore, che il Papa pien di spavento se ne morì il primo dì di Febbrajo dell'anno 772, lasciando successore Adriano.

Non minori disordini accadevano nell'elezione delle altre sedi minori. I favori de' Principi, le violenze, i negoziati, e le simonie vi avevano la maggior parte. La disciplina era quasi che all'intutto mancata, vi era molta ignoranza e molta licenza fra i Vescovi e fra i Cherici. Non vi era dissolutezza, che non commettevasi, tenevano femmine in casa, andavano alla guerra, si arrolavano alla milizia, militando sotto gli altrui stipendj, e scotendo il giogo, non ubbidivano più ai loro Vescovi. I Pontefici romani, divenuti potenti Signori nel temporale per la donazione fatta alla Chiesa di Roma da Pipino, e da Carlo suo successore, cominciarono sopra i Principi a stendere la loro potenza: Zaccheria per aver avuto gran parte alla traslazione del Regno di Francia ne' Carolingi, ed Adriano [249] del Regno d'Italia ne' Franzesi, reseli tremendi. Si pensava con maggior sollecitudine alle cose temporali, che alle divine e sacrate; e seguitando gli altri Vescovi il loro esempio, venne a corrompersi, ed a mancare affatto l'antica disciplina.

Dall'altro canto i Principi del secolo vedendo tanta corruzione, s'affaticavano a tutto potere alla riforma del Clero e della Chiesa; ed oltre a ciò, dandosi loro così opportuna occasione, s'intrigavano molto più che prima nell'elezione de' Vescovi, e degli altri Ministri della Chiesa, ed a disporre delle loro entrate. Lione Isaurico, e gli altri Imperadori d'Oriente suoi successori, volevano esser tenuti per moderatori non meno della politia ecclesiastica e della disciplina, che dei Dogmi ancora, promulgavano editti intorno alla adorazione dell'immagini, e toltone il solo ministerio del sacrificare, essi volevan esser riputati i Monarchi, e Presidenti delle Chiese; presidevano a' Sinodi, e lor davano vigore: davano le leggi, e componevano gli ordini ecclesiastici, soprastavano alle liti ed a' giudicj de' Vescovi e de' Cherici, alle elezioni che doveano farsi nelle Sedi vacanti, e ne' suffragi che doveano darsi: trasferivano i Vescovi da una sede ad un'altra: abbassavano ed innalzavano le Cattedre a lor modo, dal Vescovado al Metropolitano ed Arcivescovado: disponevano essi i gradi, ed i Troni per la gerarchia: partivano le diocesi a lor modo, ed ergevano le Chiese in nuovi Vescovadi o Metropoli. Quindi cominciossi il disegno d'attribuire al Patriarcato di Costantinopoli molte Chiese con toglierle a quello di Roma, siccome nel seguente secolo fu ridotto a compimento; le tolsero infra l'altre, come diremo a suo luogo, la Sicilia, la Calabria, la Puglia, e la Campania, le [250] quali quel Patriarcato ritenne, finchè per l'opera dei nostri Normanni, e particolarmente del nostro Rogiero I, Re di Sicilia, non si fossero restituite a quello di Roma: maggiori stravaganze si videro ne' seguenti tempi nella declinazione del loro Imperio, quando proccurarono interamente sottoporre il Sacerdozio all'Imperio, intorno a che potranno vedersi Giovanni Filosaco[323], e Tommasino[324], che distesamente ne ragionano.

I Principi d'Occidente, ancorchè non osassero tanto, nondimeno collo spezioso pretesto di riparare alla difformità del Clero, ed alla perduta disciplina, s'intrigavano assai più di ciò che importava la protezione, e la tutela delle lor Chiese; anzi ne' primi anni di questo secolo, non meno che gli Ecclesiastici, deformarono lo stato di quelle. Carlo Martello, dopo aver preso il governo del Regno di Francia, in vece d'apportar rimedio a' disordini che regnavano, si pose in possesso de' beni delle Chiese; donò le Badie, ed i Vescovadi a' laici; distribuì le decime a' soldati; e lasciò vivere gli Ecclesiastici ed i Monaci in maggiore dissolutezza.

In Italia ed in queste nostre province, che ubbidivano a' Duchi di Benevento, i Re ed i Duchi longobardi per le continue inimicizie, che tenevano coi romani Pontefici, fautori prima de' Greci e poi dei Franzesi, cagionarono non minore deformità. Il Re Desiderio per le contese avute col Pontefice Stefano IV intorno all'elezione fatta da lui di Michele in Arcivescovo di Ravenna, fatto scacciare dal Papa, per [251] vendicarsene fece cavar gli occhi a Cristofano ed a Sergio, uomini del Papa, e poi fece anche morir Cristofano, ed intimorì di maniera il Papa, che gli accelerò la morte.

Furono i Longobardi non meno che i Goti, e gli Imperadori d'Occidente suoi predecessori, molto accorti a ritenere tutti i diritti, che lor dava la ragion dell'Imperio. Il dichiarare le Chiese per Asili, e prescriver le leggi per quali delitti potessero i sudditi giovarsi dell'asilo, e per quali il confugio ad essi non giovasse, era della loro potestà. Il Re Luitprando, imitando gl'Imperadori d'Occidente, de' quali ci restano molte loro costituzioni nel Codice di Teodosio e di Giustiniano a ciò attinenti, stabilì ancor egli, che gli omicidi, ed altri rei di morte non potessero giovarsi dell'asilo[325]. Impone a' Vescovi, Abati, e ad altri Rettori delle chiese o monasterj, di non ricettargli, di non impedire il Magistrato secolare volendogli estrarre, e se daranno mano a fargli fuggire o occultargli, ovvero ad impedire, che non siano estratti, loro si prescrive ancora pena pecuniaria di 600 soldi[326]. Ritennero ancora i nostri Re longobardi la ragione di stabilire leggi sopra i matrimonj[327], di vietargli con chi l'onestà o parentela o affinità recava impedimento: diffinire l'età di contraergli: dichiarare l'illegittimità delle nozze, degli sponsali, e della prole, e di stabilire tutto ciò che riguarda il maggior decoro ed onestà di quelli; com'è chiaro dalle loro leggi[328].

[252]

Gl'Imperadori d'Oriente a' quali ubbidivano in questi tempi il Ducato napoletano, gran parte della Calabria e della Puglia, e molte città marittime di queste nostre province, parimente inimici de' romani Pontefici esercitavano sopra le chiese delle città a lor soggette assoluto arbitrio. Costantino e Lione suo figliuolo volevano far valere in quelle i loro editti per l'abolizione delle immagini, non vollero far ammettere Paolo eletto Vescovo di Napoli come aderente al Pontefice, e fecero che i Napoletani non lo ricevessero dentro la lor città. Nè fu veduta maggior diformità nella Chiesa di Napoli, che in questi tempi: si vide nel medesimo tempo Stefano, che n'era Duca, e che come Ufficiale dell'Imperadore teneva il governo del Ducato, morta sua moglie, essere stato eletto Vescovo, e non deponendo l'antica carica, amministrare insieme le umane e le divine cose. Morto che fu, e succeduto nel Ducato Teofilatto suo genero, dovendosi venire all'elezione del nuovo Pastore, Euprassia figliuola di Stefano e moglie di Teofilatto crucciata contra il Clero che avea mostrato della morte di suo padre gran contento ed allegrezza, giurò che non avrebbe fatto eleggere niun di loro per Vescovo; ed il Duca suo marito, sia per non contristarla o per avarizia, faceva perciò differire l'elezione; tanto che i Napoletani attediati della lunga vedovanza della lor Chiesa, andarono uniti insieme e Clero e Popolo a gridare avanti il ducal palagio, che loro dassero per Vescovo chi volevano. Allora Euprassia tutta d'ira e di furore accesa prese dal Popolo un uomo laico, chiamato Paolo e loro il diede per Vescovo: nè alcuno avendo ardire di contrastarle, presero Paolo, lo tosarono e l'elessero Vescovo, il quale gito a Roma, il Pontefice per [253] la corruttela del secolo non ebbe alcuna difficoltà di consacrarlo e confermarlo[329].

In tanta corruttela, ed essendo giunte le cose in tale estremità, si scossero finalmente non meno i Prelati della Chiesa, che i Principi del secolo a darvi qualche riparo: in Francia morto Carlo Martello, avendosi diviso il Regno Carlomanno e Pipino suoi figliuoli, benchè non avessero la qualità di Re, formarono il disegno di operare in guisa, che fosse in qualche modo riformata la disciplina. Carlomanno Principe d'Austrasia fece nel 742 convocare un Concilio in Alemagna e vi pubblicò col consenso de' Vescovi molti regolamenti per riforma della disciplina e de' costumi: vietò agli Ecclesiastici d'andare alla guerra: ordinò a' Curati di essere sottomessi a' loro Vescovi: fece degradare e mettere in penitenza alcuni Ecclesiastici convinti di delitti d'impurità: e nell'altra adunanza, che l'anno seguente fece tenere in Lestines vicino a Cambray, oltre di aver confermato tutto ciò, vietò ancora gli adulterj, gl'incesti, i matrimonj illegittimi e le superstizioni pagane.

Pipino Principe di Neustria si affaticò parimente dal suo canto perchè la disciplina ecclesiastica fosse riformata: fece tener un'adunanza di 23 Vescovi e molti Grandi del Regno in Soissons nell'anno 744, nella quale furono confermati i canoni de' Concilj precedenti, ed ordinato che inviolabilmente fossero osservati: che in ogni anno dovessero convocarsi i Sinodi, che i Sacerdoti dovessero esser soggetti a' loro Vescovi, che i Cherici non potessero aver femmine nelle lor case, eccettuatene le loro madri, sorelle e nipoti; [254] nè i laici vergini a Dio sacrate. Ne' seguenti anni 752, 755, 756, e 757, furono tenute altre consimili adunanze, nelle quali si stabilirono altri regolamenti sopra i costumi. E Carlomanno sopra ogn'altro quasi ogni anno fece tener queste adunanze, nelle quali parimente furono stabiliti molti capitulari per mantenere la disciplina, rinovando gli antichi canoni, e facendo de' nuovi regolamenti sopra i pressanti bisogni della Chiesa. Queste adunanze non erano propriamente Concilj: elle non erano composte solamente di Vescovi, ma eziandio di Signori e di Grandi del Regno convocati da' Principi. I Vescovi stendevano gli articoli per la politia ecclesiastica, ed i Signori per quello apparteneva allo Stato; e poi erano autorizzati e pubblicati da' Principi, affinchè avessero forza di legge. Questi articoli erano chiamati Capitoli ovvero Capitolari. E questa fu la maniera, colla quale era regolata la disciplina della Chiesa di Francia e di Alemagna sotto la seconda stirpe di que' Re in questo secolo.

In Italia furono parimente da alcuni Pontefici romani stabiliti molti canoni per riparo della caduta disciplina. Papa Zaccheria tenne perciò due Concilj in Roma, uno nell'anno 743, composto d'intorno a quaranta Vescovi d'Italia, ove fu rinovata la proibizione fatta tante volte a' Vescovi, a' Sacerdoti ed a' Diaconi di abitare insieme con femmine, e dati altri provvedimenti; l'altro nel 745, composto di sette Vescovi e d'alcuni Sacerdoti, dove furono discusse alcune accuse fatte a' Vescovi, e trattati alcuni dogmi intorno all'idolatria, e dichiarato che molti Angioli che venivano invocati, erano i loro nomi ignoti, e che non si sapevano se non i nomi di tre, cioè Michele, Raffaele [255] e Gabriele. Anche in Aquileja Paolino suo Vescovo nell'anno 791, tenne un Concilio, ove, dopo una confessione di fede, stabilì quattordici canoni sopra la disciplina de' Cherici, sopra i matrimonj, e sopra le obbligazioni delle Monache, e sopra altri bisogni.

In Oriente, da poi che l'Imperadrice Irene prese il governo dell'Imperio, si pensò a ristabilir la disciplina: prese risoluzione di far ragunare un nuovo Concilio per esaminare ciò che l'altro, fatto tenere da Costantino Copronimo nell'anno 753, avea stabilito intorno al culto delle immagini. Ne diede ella avviso al Pontefice Adriano, che vi condescese, e vi mandò due Sacerdoti per tenervi il suo luogo. L'adunanza del Concilio cominciò in Costantinopoli nell'anno 786, ma essendo stata turbata dagli Ufficiali dell'esercito, e da' soldati eccitati da' Vescovi opposti al culto delle immagini, fu trasferita in Nicea l'anno 787.

I Legati del Papa vi tennero il primo luogo, Tarasio Patriarca di Costantinopoli il secondo, i Deputati de' Vescovi d'Oriente il terzo, dopo essi Agapeto Vescovo di Cesarea in Cappadocia, Giovanni Vescovo di Efeso, Costantino Metropolitano di Cipri, con 250 Arcivescovi e Vescovi, e più di cento Sacerdoti e Monaci. Vi assisterono ancora due Commessarj dell'Imperadore e dell'Imperadrice, ed in più azioni fu lungamente dibattuto il dogma del culto delle immagini, e stabiliti sopra ciò molti regolamenti. Non meno che a' dogmi, fu provveduto sopra la disciplina ecclesiastica per 22 canoni: fu data norma all'esame de' Vescovi, prescrivendosi di non poter esser ammessi se non fossero atti ad ammaestrare i Popoli, e se non sapevano [256] il Salterio, il vangelo, l'epistole di S. Paolo ed i canoni. Si dichiarano nulle tutte l'elezioni de' Vescovi o Sacerdoti fatte da' Principi, e l'elezione d'un Vescovo si commette a' Vescovi convicini. Si procede severamente contra i Vescovi, che ricevessero denari per deporre ovvero fulminar le scomuniche. Si ordina che tutte le chiese, ed i monasterj debbiano avere i loro Economi: che i Vescovi e gli Abati non possano senza necessità vendere o donare le tenute delle loro chiese e monasterj. Che non debbano le loro case vescovili, e monasterj fargli servire per osterie. Che un Cherico non possa essere ascritto a due chiese, che i Vescovi e gli altri Ecclesiastici non possano portare abiti pomposi. Si proibisce la fabbrica degli oratorj, ovvero cappelle, se non vi si possiede un fondo sufficiente per somministrar le spese. Si vieta alle femmine d'abitare nelle case de' Vescovi, ovvero nei monasterj d'uomini. Si proibisce di prendere cosa alcuna per gli Ordini, nè per l'ingresso ne' monasterj, sotto pena di deposizione a' Vescovi ed a' Sacerdoti; ed in quanto alle Badesse ed agli Abati che non sono Sacerdoti, di essere cacciati da' monasterj; permette però a coloro che sono ricevuti ne' monasterj, ovvero a loro parenti, il donar volontariamente o denajo o altro, sotto la condizione però, che que' donativi debbano rimanere a' Monasterj o che colui che v'entra vi dimori o che n'esca, quando i Superiori non siano cagione della loro uscita. Si vieta il far monasterj doppj d'uomini e di femmine, e si comanda, che rispetto a quelli che sono già stabiliti, i Monaci e le Monache debbano abitare in due case diverse e che non possano vedersi, nè aver familiarità insieme. Si proibisce a' Monaci il lasciar i loro proprj monasterj [257] per andarsene in altri: e per ultimo il mangiar insieme con femmine, quando ciò non fosse necessario per lo bene spirituale, ovvero per accogliere qualche parente, oppure in occasione di viaggio.

Tali e tanti provvedimenti, perchè la caduta disciplina in qualche modo si ristabilisse, fur dati in questi tempi; dove i vizj abbondavano, bisognavano molte leggi per reprimergli; ma questa non era bastante medicina a tanti mali: a questo fine alcuni Vescovi per riformar il lor Clero, fecero vivere i loro Preti in comune dentro un chiostro ed alla lor vigilanza è debitrice la Chiesa dell'Ordine de' Canonici Regolari, del quali Crodegando, Vescovo di Metz, sembra essere stato l'Institutore, ovvero il Restauratore. Le Chiese delle nostre province, le quali, parte ubbidivano agli Imperadori d'Oriente, parte a' Duchi longobardi, furono perciò alquanto rialzate, ma non tanto sì che per la barbarie ed ignoranza del secolo, non si vedessero per anche disordinate, e pochi vestigi in quelle rimanessero dell'antica disciplina.

§. I.  Raccolta de' canoni.

In quest'età bisogna collocare la collezione d'Isidoro Mercatore o sia Peccatore: ella è latina ed è compilata di varj canoni de' Concilj tenuti in Grecia, in Affrica, in Francia ed in Ispagna, e di molte lettere decretali di più Papi, insino a Zaccheria che mori nell'anno 752[330]. Davide Blondello[331] fa vedere l'impostura in molte di queste epistole attribuite a [258] varj Papi di cui non sono, e Pietro di Marca[332], ancorchè condanni il modo troppo aspro tenuto da questo Autore, non è però che non confessi la supposizione e l'impostura. Si disputa ancora dell'autore di questa collezione: Hinemaro[333] Arcivescovo di Rems ne fece autore Isidoro di Siviglia, e narra che Ricolfo Vescovo magontino, il quale tenne quella Chiesa dall'anno 787 insino all'anno 814, dalla Spagna la portasse in Francia, dove sotto il Regno di Carlo M. ne furono fatti molti esemplari e sparsi per tutto. Ma da ciò che si disse nel precedente libro e da quello che ne dice l'istesso Baronio e Marca, non può farsene autore Isidoro Vescovo di Siviglia, il qual morì nell'anno 636, quando questa collezione abbraccia anche l'epistole di Zaccheria morto nel 752. Altri[334] perciò l'ascrivono ad Isidoro, Vescovo di Sepulueda, che morì nell'anno 805, il qual, seguendo il costume di que' tempi, ne' quali i Vescovi per umiltà solevano sottoscriversi ne' Concilj, ed altrove Peccatori, si fosse detto perciò Isidoro Peccatore e che poi per vizio degli Amanuensi in alcuni esemplari di questa collezione in vece di Peccatore, si leggesse Mercatore. Emanuel Gonzalez[335] rapporta, che questa collezione di Isidoro Mercatore fu pubblicata sotto nome d'Isidoro di Siviglia per darle maggior autorità o perchè realmente da costui fosse cominciata un'altra collezione, ridotta poi a compimento da Mercatore, con averci [259] inserite molte altre epistole sino a' tempi di Zaccheria.

Non solo in questi tempi fu veduta sorgere questa nuova collezione di Isidoro; ma anche se ne vide un'altra sotto nome di Capitoli di Papa Adriano, che in Francia fu divulgata da Ingilramno Vescovo di Metz l'anno 785. Ma questa raccolta, secondo che ci testifica Hincmaro[336] di Rems, non fu ricevuta nel rango de' canoni, di che è da vedersi Pietro di Marca[337]. Anche in Roma, in questo medesimo secolo, fu fatta un'altra raccolta di formole antiche, intitolata: Diurnus Romanorum Pontificum, della quale si servivano solamente i Papi nelle loro spedizioni.

§. II.  Monaci e beni temporali.

I nostri Principi ed i Signori grandi non cessavano di far delle donazioni considerabili alle Chiese, ed a fondare de' nuovi monasteri, ed arricchire i già costrutti. Fu veramente questo il secolo de' Monaci: l'ignoranza e la superstizione non men de' laici, che de' Preti era nell'ultimo grado: solo ne' Monaci eravi rimasa qualche letteratura, onde con facilità tiravano per le orecchie la gente a ciò ch'essi volevano: i tanti miracoli, le tante nuove divozioni inventate a qualche particolar Santo, l'istruir essi per l'ignoranza e dissolutezza de' Preti il Popolo, operò tanto che tirarono a se la divozione e rispetto di tutti. Il Re Luitprando costrusse non pur da per tutto dove soleva dimorare, molte chiese, ma anche ben ampj monasterj. Costui [260] edificò il monastero di S. Pietro fuori le mura di Pavia, che a' tempi di Paolo Varnefrido[338] per la sua ricchezza si chiamava Cielo d oro. Edificò ancora in cima delle Alpi di Bardone il monastero di Berceto; ed oltre a ciò fabbricò in Holonna un tempio con mirabil lavoro in onore di S. Anastasio Martire, dove fece anche costruire un ampio monastero. Egli con molta magnificenza per tutti i luoghi ordinò chiese, e fu il primo che dentro il suo palazzo edificò un oratorio dedicato al Salvatore, ordinandovi Sacerdoti e Cherici, i quali ogni giorno vi cantassero i divini ufficj. Quindi cominciarono appo noi a rilucere con maggior dignità e splendore le cappelle regie, le quali da' Sommi Pontefici arricchite poi di molte prerogative ed esenzioni per compiacere a' Principi, che gliele richiedevano, non meno esse che i loro Cappellani s'elevarono cotanto, quanto ravviseremo ne' seguenti libri di quest'Istoria.

I nostri Duchi di Benevento, seguitando l'esempio de' loro Re, non meno in Benevento, che in tutto il loro ampio Ducato ne fondarono de' nuovi ed arricchirono i già costrutti, e sopra ogni altro quello di monte Cassino. Arechi ingrandì quello di S. Sofia in Benevento e di profuse donazioni lo cumulò. A questi tempi nel 707, fu costrutto da que' tre famosi Nobili longobardi beneventani Paldo, Taso, e Tato il famoso monastero di S. Vincenzo a Vulturno[339] con tanta magnificenza, che ne' seguenti tempi quasi emulo di quello di monte Cassino, innalzò i suoi Abati a [261] tanta dignità, ch'erano adoperati ne' più importanti affari della sede di Roma, e de' più potenti Signori di Occidente. Non meno in questo Ducato, che nel napoletano, e nelle altre città sottopposte agl'Imperadori d'Oriente, i monasterj si multiplicarono, non pure quelli sotto la Regola di S. Benedetto, che di S. Basilio, non solamente degli uomini, che delle donne. In Napoli, Stefano Duca e Vescovo costrusse molte chiese e più monasterj, dotandogli d'ampj poderi e rendite; così quello di San Festo Martire, ora unito a quello di San Marcellino; come l'altro di S. Pantaleone, di cui oggi non vi è vestigio; e restituì in più magnifica forma quello di S. Gaudioso[340]. Antimio Console e Duca ne fondò altro, quello de' SS. Quirico e Giulitta, la chiesa di S. Paolo, che la congiunse col monastero di S. Andrea; e così anche fecero non meno i Vescovi e Duchi di Napoli, che gli altri Ufficiali e Prelati delle altre città di queste province, onde ora si compone il Regno; i quali possono osservarsi nella laboriosa opera dell'Italia sacra d'Ughello. Crebbero perciò i Monaci, e le loro ricchezze in immenso; e non minore fu l'accrescimento della loro autorità e riputazione a cagion dell'ignoranza negli altri, e delle lettere che nel miglior modo che si potè in tanta barbarie, fra loro si conservavano.

Fondati perciò tanti monasterj, i Monaci cotanto arricchiti, e vedutisi in tanta elevatezza, tentarono ora più che mai di scuotere affatto il giogo de' Vescovi. Cominciarono, egli è vero, nel precedente secolo i monasterj ad esenzionarsi dalla giurisdizione de' Vescovi, [262] ma ciò, secondo narra Alteserra[341], non si usava che di radissimo.

(Ne' precedenti secoli furon rarissime le esenzioni de Monaci, ed Isaaco Alberto Archiet. pag. 595 crede, che il primo Abate esente, fosse stato quello del monastero Lirinense, a cui dal Concilio Arelatense III fosse stata conceduta la prima volta esenzione intorno l'anno 455).

L'esempio che in questo secolo diede Zaccheria col monasterio di monte Cassino fece che gli altri di tempo in tempo si rendessero tutti esenti. Lo splendore nel quale era il medesimo in questi tempi, trasse a se tutto il favore de' romani Pontefici, i quali come se fossero presaghi, che da quello, come dal cavallo trojano, ne doveano uscire tanti Pontefici suoi successori, non mai si stancarono di cumularlo di privilegi e di prerogative. Lo rendevano più augusto essersi ivi resi Monaci, oltre a Rachi, Carlomanno, e tanti altri personaggi regali ed illustri; perciò ristabilito col favore de' due Gregorj II e III da Petronace in quella magnifica forma, Zaccheria, emulando i suoi predecessori, volle di maggiori preminenze arricchirlo. Volle egli di sua man propria consecrarlo, ed ivi portatosi con tredici Arcivescovi, e sessantotto Vescovi, rendè più augusta e magnifica la consecrazione. Furono i Monaci pronti a richiederlo, che sì famoso ed illustre monastero dovesse esentarsi affatto dalla giurisdizione del proprio Vescovo, nella cui diocesi era; Zaccheria volentieri gli concedè ampia esenzione, e ne spedì privilegio, col quale non solo quel monastero, ma tutti gli altri appartenenti a quello ovunque posti, [263] fossero esenti e liberi dalla giurisdizione di Tutti i Vescovi, ita ut nullius juri subjaceat, nisi solius Romani Pontificis, come sono le parole di Lione Ostiense[342]. Oltre a ciò lo decorò ancora d'altre preminenze, che in tutti i Concilj l'Abate Cassinense sopra tutti gli altri Abati sedesse, e prima degli altri desse il suo voto; ch'eletto da' Monaci dovesse consacrarsi dal Pontefice romano; che il Vescovo entrando nella sua dizione, non potesse celebrare, nè far altra pontifical funzione, se non fosse invitato dall'Abate, o dal Proposito; che non gli fosse lecito esiger decime da lui, nè interdire i suoi Sacerdoti, nè chiamarli a' Concilj sinodali; che gli Abati di questo monastero potessero tener ordinazioni, consecrar altari, e ricevere per qualsisia Vescovo il Crisma. Gli confermò ancora con suo precetto la possessione di tutti que' beni, che per munificenza di tanti Principi longobardi, e di varj Signori avea acquistati. Gli altri Pontefici successori, seguitando le medesime pedate, accrebbero questi privilegi, de' quali l'Abate della Noce[343] ne ha tessuto un lungo catalogo.

Gli altri monasteri sotto altre Regole, ed i loro Abati di non inferior fama e valore con facilità impetravano da' romani Pontefici d'esser ricevuti sotto la protezion di S. Pietro, ed immediatamente sotto alla soggezion pontificia, perchè questa esenzione accresceva in gran parte la lor potenza, e portava grande estensione della loro autorità appresso tutte le Nazioni dell'Occidente; poichè costruendosi tuttavia grandi e numerosi monasteri, [264] retti da Abati di gran fama, i quali per la lor dottrina oscuravano i Vescovi, nacque infra di loro qualche gara; onde gli Abati per sottrarsi dalla loro soggezione ricorrevano al Papa, e tosto impetravano esenzioni, con sottoporsi immediatamente sotto alla soggezion pontificia. Ne ricevevano oltre a ciò altri privilegi, di far essi li Lettori per i loro monasteri, d'esser ordinati da' Corevescovi, e tanti altri. Quindi nacque che il Pontificato romano acquistasse molti defensori della sua autorità e potestà; poichè ottenendo i Monaci tanti privilegi e prerogative, per conservarsegli erano obbligati di sostener l'autorità del concedente; il che facendo ottimamente i Monaci, ch'erano i più letterati del secolo, non passarono molti anni, che si videro tutti i monasteri esentati. Ed in decorso di tempo i Capitoli ancora delle Cattedrali, essendo per la maggior parte regolari, co' medesimi pretesti, impetrarono anch'essi esenzione: e finalmente le congregazioni Cluniacense e Cisterciense, tutte intere furono esentate con gran augmento dell'autorità pontificia, la quale veniva ad aver sudditi proprj in ciascun luogo, ancorchè da Roma lontanissimo, li quali nell'istesso tempo ch'erano difesi e protetti dal Papato, scambievolmente erano i difensori e protettori della sua potestà. S. Bernardo, ancorchè Cisterciense, non lodava l'invenzione, e di tal corruttela, ne portava spesso le doglianze non pur ad Arrigo Arcivescovo di Sens[344], ma ammoniva l'istesso Pontefice Eugenio III a considerare, che tutti erano abusi, nè si doveva aver per bene, se un Abate ricusava di sottomettersi al Vescovo, ed il Vescovo al Metropolitano. Riccardo [265] Arcivescovo di Cantorbery[345] pur lo stesso esclamava con Alessandro III. Ma costoro che non ben intendevano questi tratti di Stato, non furono intesi, nè alle loro querele si diede orecchio; anzi ne' tempi posteriori, battendosi la medesima via, si procedè più avanti; poichè da poi gli Ordini mendicanti non solo ottennero ogni esenzione dall'autorità episcopale, e generalmente ovunque fossero; ma anche facoltà di fabbricar chiese in qualunque luogo, ed in quelle eziandio ministrar sacramenti: e negli ultimi secoli s'era tanto innanzi proceduto, che ogni privato Prete con poca spesa s'impetrava un'esenzione dalla superiorità del suo Vescovo, non solo nelle cause di correzione, ma anche per poter esser ordinato da chi gli piaceva, ed in somma di non riconoscere il Vescovo in conto alcuno; e quantunque nel Concilio di Costanza alle calde e ripetute querele del famoso Gersone[346] moltissime esenzioni s'annullassero, ed ultimamente nel Concilio di Trento[347] si proccurasse a tanti eccessi qualche compenso; non sono però da poi mancati modi alla Corte di Roma, di far ricadere la bisogna, salva l'autorità del medesimo, in quello stato, che oggi tutti veggiamo.

Questi ingrandimenti dello stato monastico portarono non solo a' Monaci grandi ricchezze, ma in conseguenza assai più alla Corte di Roma, ove finalmente vennero quelle a terminare. Si proccurava non solo favorire gli acquisti, e tener sempre aperte le scaturigini, ma con severi anatemi proibir le alienazioni, e scagliargli ancora [266] contro chi ardiva di turbar l'acquistato. Per l'ignoranza e superstizione de' Popoli i pellegrinaggi erano più frequenti: l'orazioni ed i sacrificj a fin di liberar l'anime de' loro defonti dal Purgatorio, erano vie più raccomandati, e molto più praticati. Si vide per ciò in questo secolo una gran cura del canto, de' riti, e di ben ufficiare: le campane cominciarono ad esser comuni in tutte le chiese e monasteri; e le particolari devozioni a' Santi, de' quali eransi composte innumerabili vite e miracoli, tiravano molti a donare alle lor chiese e monasteri. Ma i Monaci non contenti di ciò, favoriti da' Pontefici romani, invasero anche le decime dovute a' Vescovi ed a' Parrochi da' loro Parrocchiani. Pretesero, e l'ottennero da' creduli devoti, che impiegandosi essi assai meglio che i Preti alla cura delle loro anime, come quelli che più esperti sapevan far delle prediche e de' sermoni, ed istruirgli nella dottrina cristiana, le decime non a' Parrochi, ma ad essi dovessero pagarle; ed in effetto per lungo tempo vi diedero un guasto grandissimo non inferiore a quello che v'avea dato in Francia Carlo Martello; tanto che bisognò ne' secoli seguenti penar molto a ritorglierle, e restituirle a' proprj Preti, a' quali s'erano involate.

Niun'altra provincia del Mondo, quanto il nostro Reame, ha fatto conoscere quanto importava a Roma la ricchezza de' Monaci: le maggiori commende, i più grandi benefizj ch'ella oggi dispensa a' suoi Cardinali, e ad altri suoi Prelati per mantener la pompa e lo splendore della sua Corte, non altronde dipendono, ed hanno la di loro origine se non da queste profusioni de' nostri Principi, e de' nostri Fedeli. I monasteri più ricchi perciò si videro dare in commende: quelli che il tempo consumò, sono rimasi fondi di tante rendite [267] che ora ne traggono, e le entrate di que' tanti monasteri, di che ora appena se ne serba vestigio, tutte in Roma vanno a colare. Quindi i Pontefici romani gareggiando co' Principi, siccome quelli investono i loro fedeli de' Feudi, così essi a' suoi conferiscono benefizj: e siccome per la materia feudale ne è surto un nuovo corpo di leggi, così per la benefiziaria se n'è fatta una nuova giurisprudenza, che occupa tanti volumi, quanti ne ha occupati la feudale; ma di ciò a più opportuno luogo.

FINE DEL LIBRO QUINTO.

[268]

STORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

LIBRO SESTO

Il regno d'Italia trapassato da' Longobardi a' Franzesi sotto la dominazione di Carlo Re di Francia, che da ora avanti si dirà anche Re d'Italia, ovvero dei Longobardi, non fu da questo Principe in niente alterato intorno all'amministrazione e sua politia; egli non ne pretendeva altro, se non che si reggesse con quell'istessa forma, che lo ritrovò: dispose che sotto le medesime leggi romane o longobarde, secondo che a ciascuno piaceva vivere, si vivesse; anzi alle longobarde aggiunse altre sue proprie. Non inquietò i Greci sopra quelle città de' Bruzj e della Calabria, che ancora ubbidivano agl'Imperadori d'Oriente: nè intraprese alcuna cosa sopra il Ducato napoletano, nè sopra l'altro d'Amalfi e di Gaeta, a' Greci appartenenti. Sopra i tre famosi Ducati del Friuli, di Spoleti e di Benevento non ne pretendeva altro, che siccome prima erano a' Re longobardi sottoposti, e da costoro ricevevano [269] le leggi, formando col rimanente d'Italia una Repubblica; così anche riconoscessero lui per Re d'Italia, protestando di voler lasciare ad essi tutto quel potere ed autorità, che avean goduto ne' tempi dei Re longobardi suoi predecessori. L'Esarcato di Ravenna, Pentapoli, e poi il Ducato romano, ritenendosi solo la sovranità, furono alla Chiesa di Roma aggiudicati. Tutte l'altre province, come la Liguria, l'Emilia, Venezia, la Toscana, e le Alpi Cozie si ritenne egli con nome di Regno[348], ch'è quella parte d'Italia, che poi fu detta Lombardia.

Lasciò agli altri minori Duchi il governo libero de' loro Ducati, contento sol del giuramento, che gli prestavano di fedeltà; nè trasferiva da essi ad altri il Ducato, se non per fellonia, ovvero se senza figliuoli mancassero: e questa traslazione quando si faceva in un altro fu detta investitura, onde nacque, che i Feudi non si concedevano se non per investitura, come s'osservò da poi negli altri Feudatarj e Vassalli, ne' Conti Capitani, ed altri che si dissero Valvasori. Le città di quelle province, che componevano il suo Regno, chiamato poi Lombardia, eran governate da' Conti, ai quali ogni giurisdizion concedette. Ne' confini del Regno erano preposti per lor custodia parimente questi Magistrati, da' quali alcuni vogliono, che sorgesse il nome de' Marchesi; poichè chiamando i Franzesi ed i Germani i limiti Marche, i Conti ch'erano preposti al governo de' medesimi si dissero anche da poi Marchesi, quantunque altri altronde dicono esser quella voce derivata, come diremo più innanzi. Questi erano gli ordinari Magistrati preposti al governo delle città, [270] e de' confini del Regno. Vi erano ancora alcuni altri Magistrati estraordinarj, a' quali concedendosi maggior autorità e giurisdizione di quella solita darsi a' Conti, invigilavano da per tutto all'amministrazione del Regno, e chiamaronsi Messi. Divise egli, e distinse i campi di ciascheduna città, che sotto i Longobardi erano pur troppo confusi; ch'era sorgiva di tante liti di confini fra' popoli: egli assegnò a ciascuna i proprj, e per lo più seguitando la natura, per limiti si valse dei monti, delle paludi, de' fiumi, de' rivi, valli, o altri confini perpetui e durabili, acciocchè il tempo non gli variasse, ed a lungo andare non si confondessero.

Volle, che le città ancora gli prestassero giuramento di fedeltà; ed impose alle medesime, a' Feudatarj, alle Chiese ed a' monasteri certa spezie di tributo, che dovessero pagarlo, particolarmente quando di Francia il Re calava in Italia: questi tributi furon detti foderum, paratam, et mansionaticum, i quali da poi, per generosità del medesimo e de' suoi successori, in parte furono tolti, ed altre volte in tutto rimessi. Volle ancora che in Italia si ritenesse qualche simulacro di libertà; e siccome l'istituto praticato in Francia era, che quando il Re aveva da deliberar sopra cose gravissime, e che concernevano gli affari più rilevanti dello Stato, convocava tutti gli Ordini del Regno, l'Ordine ecclesiastico, e quello de' Baroni e Magnati, così egli introdusse anche in Italia; onde sempre che quivi ritornava, soleva egli convocare un general Parlamento di Vescovi, Abati, e di Baroni d'Italia, nel quale delle cose del Regno più gravi si deliberava. I Longobardi non riconoscevano che un sol Ordine di Baroni e Giudici. I Franzesi a tempo di Carlo M. due, Ecclesiastico e Nobiltà, [271] poichè il terzo Ordine fu da' Franzesi aggiunto da poi. La qual consuetudine durò in Italia insino a' tempi di Federico I Imperadore, ond'è che appresso gl'Imperadori d'Occidente, quando calavano in Italia, solevan spesso convocar queste adunanze, e sovente presso Roncaglia, luogo non molto distante da Piacenza[349], ove molte leggi promulgarono, come si vedrà nel progresso di quest'Istoria più partitamente.

Composte in cotal maniera da Carlo le cose d'Italia, lasciando in Pavia un valido presidio, ritornossene nell'anno 774 in Francia, ove parimente fe seco condurre Desiderio con sua moglie per render più maestosi i suoi trionfi. Ciascuno avrebbe creduto che l'Italia sotto la dominazione di un tanto Principe, e quando le armi de' Franzesi eran per tutta Europa cotanto gloriose e formidabili, avesse dovuto durar lungamente in una quieta e tranquilla pace. Ma i tre famosi Duchi, quello del Friuli, l'altro di Spoleto, e sopra tutti il nostro Duca di Benevento, sdegnando di sottoporsi a' Re stranieri, e reputando mal convenire al loro grado, se, estinto il Regno de' Longobardi in Italia, a' Franzesi dovessero ubbidire, si risolsero scuotere, in tutto, il giogo; ed il dominio ch'essi sotto i Re longobardi aveano de' loro Ducati, da dipendente ch'egli era, renderlo assoluto e sovrano. Erano ancora favoriti da Adalgiso figliuolo di Desiderio, il quale ritiratosi in Costantinopoli appresso l'Imperadore greco, da cui era stato onorato col titolo di Patrizio, tenendo secrete intelligenze co' medesimi, avea impegnato l'Imperadore a somministrar loro una flotta per venire in Italia.

[272]

Il primo fu Rodgando Duca del Friuli, il quale, mentre Carlo stava implicato nella guerra co' Sassoni, gli tolse ogni ubbidienza, e con titolo di Sovrano le città del suo Ducato si sottopose. Ma il Re sbrigato dalla guerra Sassona, e ritornato in Francia, considerando questo fatto poter essere di pessimo esempio, se non reprimevansi in sul principio queste rivolte; volle egli calar di nuovo in Italia, e sopra Friuli giunto con potente armata, sconfisse l'esercito del rubello, e preso Rodgando, con terribile esempio gli fe troncar il capo. Non concedè ad altri il Ducato, ma per allora l'estinse, ed al suo Regno aggiunse le città del medesimo, dando a ciascuna i Conti, che le amministrassero, siccome aveva fatto a tutte le altre città di Lombardia. Ecco il fine del Ducato del Friuli, il primo che fu a sorgere sotto Alboino: il primo ancora a rimaner estinto per Carlo M. Egli è però vero, se dee prestarsi fede a Paolo Emilio[350], che Carlo da poi restituì questo Ducato, creandone Duca un tal Errico franzese; ma non ebbe lunga durata, nè poi si è inteso tanto di quello parlare, quanto dell'altro di Spoleto, e del nostro di Benevento.

Ildebrando Duca di Spoleto spaventato da sì terribile esempio, e mosso dalla prosperità di Carlo, che aveva riportate ancora innumerabili vittorie, e nella Spagna e nella Sassonia, stimò meglio, rendendogli onori straordinari, mantenersi nella sua grazia, e sottoporsi a lui come aveva prima fatto co' Re longobardi suoi predecessori.

[273]

CAPITOLO I. Del Ducato beneventano, sua estensione e politia.

Solamente il ducato di Benevento, ciocchè parrà forse incredibile, non potè da sì potente e glorioso Principe esser domato; questo solo restò esente dalla dominazione de' Franzesi, ancorchè Carlo e Pipino suo figliuolo fatto Re d'Italia da suo padre, vi avessero più volte impiegate le loro forze, e tutta la loro industria. Ma se si considererà lo stato florido di quello, la sua estensione, e le forze dove era arrivato in questi tempi, non parrà nè strano nè maraviglioso, se non potè conquistarsi da' Franzesi.

Reggeva il Ducato di Benevento, quando Desiderio ed i Longobardi furono vinti in Italia, Arechi suo genero; nè mai si videro i suoi confini distesi tanto, quanto sotto il Regno di costui: abbracciava quasi tutto ciò che ora diciamo il Regno di Napoli: e toltone Gaeta, il Ducato napoletano, che da Cuma insino ad Amalfi non estendeva più oltre il suo dominio, ed alcune città de' Bruzj e di Calabria, che ancora ubbidivano agl'Imperadori d'Oriente, tutto era a' Longobardi beneventani sottoposto. Secondo i confini che gli prefigge l'accuratissimo Pellegrino[351] si distendeva dalla parte d'Occidente insino a' confini del Ducato romano e di Spoleto; abbracciava Sora, Arpino, Arce, Aquino e Casino; ed avrebbero anche i [274] Longobardi per questa parte esteso più oltre i suoi termini, se i Pontefici romani ora con doni, ora con preghiere non l'avessero impedito, e fatti desistere da ulteriori progressi.

Dalla parte di mezzogiorno aveva per confine Gaeta; non mai questa città fu a' Longobardi sottoposta: era siccome molte altre città marittime per anche rimasa sotto l'Imperio de' Greci[352]; e sebbene Carlo Magno l'avesse tolta a' medesimi, e come soleva usar delle spoglie de' Greci, n'avesse fatto un dono alla Chiesa romana; nulladimeno da poi cooperandovi Arechi, fece costui tanto, che ritornasse di nuovo in mano de' Greci; onde nacquero le tante querele d'Adriano[353] R. P. presso Carlo M. contro i Beneventani. Ma non passarono molti anni, che i romani Pontefici vigilanti a ritenere ciò che una volta hanno acquistato, pretesero, che appartenesse a loro, tanto che Gio. VIII, ancorchè fosse da' Greci posseduta, non ebbe riparo di concederla a Pandolfo Conte di Capua; e Terracina che parimente fu al Consolare della nostra Campagna sottoposta, siccome si è veduto, ed a' Greci appartenevasi, pure passò a' romani Pontefici, di che altrove ci sarà data occasione d'un particolar discorso. Distendevasi contuttociò da questa parte il Ducato beneventano insino a Cuma, abbracciava Minturno, Volterno e Patria, dagli antichi detta Clanium, luoghi non molto remoti da Capua, che era già passata sotto la dominazione de' Duchi di Benevento, e che dai Conti, i quali essi vi mandavano, era amministrata e [275] retta. Invasero ben una volta i Beneventani, e presero anche Cuma, ma, come si disse, furono da' Napoletani con molta strage respinti, e glie la ritolsero. Non poterono prender Miseno, ancorchè non molto lontano da' lor confini; non l'altre città del mar Tirreno. Stabia, Sorrento ed Amalfi, le quali al Ducato napoletano eran in questi tempi unite; ma tutte le altre città e luoghi mediterranei della Campagna passarono, lino da' tempi del Duca Grimoaldo, sotto il Ducato di Benevento, come Tiano, Gaudio, Sarno, Nola, che in questi tempi chiamavasi Cimeterium, e Salerno ancora. Estendeva ancora da Salerno i suoi confini oltre Cosenza: toltone Acropoli ed il Promontorio, che ora volgarmente chiamiamo Capo della Licosa, e gli altri luoghi marittimi con Reggio, che rimasero sotto l'Imperio de' Greci; tutti gli altri luoghi mediterranei della Lucania e de' Bruzj, Pesto, Conca, Cassano, Cosenza, Laino, e altre città, al Ducato beneventano erano sottoposte.

Non minore fu la sua estensione verso Oriente: un tempo Autari portò le vittoriose sue insegne insino a Reggio, ma fu questa, come si disse, una scorreria simile a quella che i Longobardi fecero da poi in Cotrone. Fu questa punta d'Italia conservata sempre dai Greci, nè oltre a Cosenza e Cassano stesero i Longobardi beneventani da questa parte il lor Ducato; ma dall'altra parte occuparono anche Taranto, e tennero ancora gran parte della Calabria, e toltone Gallipoli ed Otranto, s'estesero sino a Brindisi.

Nel Settentrione occuparono tutta la Puglia non pur mediterranea, ma marittima ancora, da Bari sino a Siponto, ed il promontorio Gargano con tutta la regione adiacente era sotto la lor dominazione. Per [276] questa parte il lor dominio non potè stendersi nell'isola di Tremiti, perchè non avendo i Longobardi forze marittime, non potè cadere in lor potere. L'ebbe poi Carlo M, e vi mandò in esilio Paolo Diacono. Stendeva verso questa parte più oltre i suoi confini, poichè oltre a' luoghi mediterranei della Puglia, come Lucera, Termoli, Ortona, ed altri luoghi marittimi, e tutta quella parte che oggi appelliamo Apruzzi, tutto era sottoposto a questo Ducato, Chieti colla regione adiacente, e tutti gli altri luoghi mediterranei di quella parte del Sannio, che poi si disse Contado di Molise come Supino, Bojano, Isernia, ed altre città, e tutto il Contado de' Marsi, che con quello di Sora confinava.

Ecco fra quali confini si racchiudeva il Ducato beneventano; lo componevano quasi che tutte quelle quattro province, onde fu questa parte d'Italia divisa da Costantino M. e dagli altri Imperadori suoi successori, la Campania, il Sannio, la Puglia e la Calabria, la Lucania ed i Bruzj; in breve, toltone il Ducato napoletano, Amalfi, Gaeta, ed alcune altre città marittime della Calabria e de' Bruzj, abbracciava tutto ciò che ora diciamo Regno di Napoli, e delle dodici province, che oggi compongono questo Regno, nove nel Ducato beneventano eran comprese; queste sono oggi Terra di Lavoro, il Contado di Molise, Apruzzo citra, Capitanata, Terra di Bari, Basilicata, Calabria citra, e l'uno, e l'altro Principato. Meritò per tanto questa parte per la sua estensione esser chiamata dai Greci, ed anche da' Scrittori latini di quest'età, Italia Cistiberina, ed i Greci solevan appellarla ancora Longobardia minore, per distinguerla dalla maggiore, che nella Gallia cisalpina di qua e di là del Po da' Longobardi [277] era dominata, e che ancora oggi ritiene il nome di Lombardia. Così la chiamarono Costantino Porfirogenito[354]; Cedreno in più luoghi, e Zonara in Basilio Macedone; e Porfirogenito ne' suol Temi[355], parlando dell'irruzione de' Saraceni in Bari, la chiamò semplicemente Longobardia. Quindi avvenne, ch'essendo Benevento innalzato ad esser capo d'un sì vasto Ducato; come Pavia, da' Latini detta Ticinum, era capo e sede de' Re longobardi; fosse ancora questa città, per esser capo della Longobardia minore, chiamata da' latini Scrittori di questa età e della seguente parimente Ticinum, come mostra l'accuratissimo Pellegrino nella prefazione all'anonimo[356] Salernitano.

Meritò anche in questi tempi da Paolo Diacono[357] esser chiamato Benevento città opulentissima, e capo di più province: città reputata allora la più culta e la più magnifica di quante n'erano in queste nostre province; e molto più estolse il suo capo, quando Arechi, avendovi da presso costrutta Città nova, la rendè più ampia, e d'abitatori più numerosa. E quando in Italia eran le lettere quasi che spente; e toltone i Monaci, presso gli altri vi era una somma ignoranza, Benevento solamente in mezzo di tanta barbarie, seppe nel miglior modo che potè mantener la letteratura. Narra l'anonimo Salernitano[358], che ne' tempi dell'Imperador Lodovico, in Benevento fiorivano trentadue Filosofi: Tempore quo Ludovicus praeerat Samnitibus, triginta duos Philosophos Beneventum habebat: non [278] già come osservò il diligentissimo Pellegrino, che questi fossero veramente tali, ma secondo il costume di quei tempi, erano chiamati Filosofi tutti coloro che professavano lettere umane. Il nostro Paolo Varnefrido Diacono della Chiesa d'Acquileja fu per la sua letteratura di stupore a Carlo M., e quantunque essendo egli attaccato a' suoi Longobardi l'avesse tante volte offeso, lo risparmiò sempre in considerazione della sua dottrina, nè altro gastigo gli diede, che di mandarlo in Tremiti esiliato. Dal nome dunque di tal magnifica città prese il suo quest'ampio Ducato, e quindi avvenne ancora, che da Lione[359] Ostiense si appellasse provincia di Benevento, ovvero assolutamente Benevento, come fu anche chiamato da Erchemperto[360]: quindi presso l'anonimo Salernitano, que' Vescovi che si mandarono da Arechi ad incontrar Carlomanno per trattenere il suo rigore, si dissero Beneventani Antistites, non altrimenti che presso S. Gregorio M. Neapolitani Episcopi eran chiamati coloro, che alle Chiese del Ducato napoletano erano preposti.

Portò ancora questa estensione, che intorno all'amministrazione dovesse darsi nuova politia, e diviso il Ducato in minori province, che si dissero Contadi o Gastaldati, di ciascuna partitamente dovesse prendersi governo, e che le città del Ducato si commettessero alla cura di più Ufficiali, non potendosi immediatamente dal solo Duca amministrarsi; perciò furono molte di esse concedute in ufficio ed amministrazione a' primi Magnati e Signori longobardi, che nelle armi s'erano segnalati e distinti, chiamati Conti o Castaldi, [279] inferiori però a' Duchi da' quali eran dependenti; e quindi in queste nostre contrade sursero i Conti. Sin da' tempi di Grimoaldo, Mitola, essendosi così ben portato nella guerra contro Costanzo, fu in premio del suo valore fatto Conte di Capua da Grimoaldo, come si è detto: così da tempo in tempo molte città di questo Ducato furono a' Conti concedute, perchè le reggessero con piena, ma dipendente autorità; nè dal governo ed amministrazione delle medesime eran rimossi, se non per fellonia, o per morte, e poi col correr degli anni venne a costumarsi, che se non rimaneva estinta la loro maschile stirpe, non si trasferiva il Contado in altra famiglia.

In cotal maniera cominciarono presso di noi ad introdursi i Contadi ed i Feudi: prima il Contado non denotava Signoria, ma Ufficio: si chiamavano Conti, perchè il loro particolar ufficio era di presedere alle Comitive, ovvero ceto d'uomini che si mandavano in qualche espedizione: rendevano ancor ragione, e presedevano a' pubblici giudicj, e nelle liti fra' Popoli a lor sottoposti amministravan giustizia, siccome è chiaro nelle leggi longobarde[361]. Si dava a costoro il governo delle città e delle regioni convicine, in Ufficio, non in Signoria: alle volte si concedeva il Contado durante il corso della lor vita, altre volte a certo e determinato tempo; ma con tutto ciò i Principi longobardi solevano in ogni anno confirmargli, per tenerli sempre dubbj ed incerti, ed affinchè non potessero per la certezza di non poter esser rimossi macchinar cosa in pregiudicio dello Stato. Ma quando per lunga esperienza eransi assicurati della loro fedeltà, e che il [280] Contado a lor commesso era stato da loro amministrato con somma rettitudine e giustizia, s'introdusse che ciò che prima erasi loro conceduto in Ufficio, il Principe, a cui s'eran resi cotanto benemeriti, gliela concedesse in Feudo ed in dominio, non trapassando però la loro persona; e quindi, come notò assai a proposito il nostro Marino Freccia[362], il Contado non passava agli eredi: da che procede onde sovente nelle antiche carte leggiamo appellarsi taluno Comes et Dominus, denotandosi con ciò, che la Contea che prima eragli stata conceduta in Ufficio, aveala per suoi segnalati servigi e fedeltà ottenuta anche in Feudo ed in Signoria. Col correr degli anni poi fu introdotto, che passasse il Feudo a' proprj figliuoli, non però giammai agli eredi, compassionando lo stato di coloro i quali, morto il padre, togliendosi loro il Feudo, si sarebbero in un tratto veduti cadere in un'estrema miseria e povertà, la quale non ben si unisce colla nobiltà del sangue, anzi quella deturpa ed affatto estingue. Ecco, come prima delle altre, che ubbidivano a' Greci, cominciarono in queste province sottoposte a' Principi longobardi beneventani, i Feudi e le Contee. Si multiplicaron perciò in appresso in buon numero nel Ducato beneventano i Contadi ond'era quello diviso: il primo fu il Contado di Capua, che, come diremo, divenne poi un ben ampio e nobil Principato: s'intesero i Contadi di Marsi, di Sora, il Contado di Molise, l'altro d'Apruzzi, di Consa, e molti altri, che poi diedero il nome alle province, nelle quali ora il Regno è diviso. Si videro perciò i Principi di Benevento per lo numero de' suoi Conti in maggior [281] splendore: molti se ne annoveravano, da quali traggono l'origine alcune delle più illustri famiglie del Regno: i Conti d'Aquino, i Conti di Tiano, di Penna, d'Acerenza, di S. Agata, d'Alife, d'Albi, di Bojano, di Cajazza, di Calvi, di Capua, di Celano, di Chieti, di Consa, di Carinola, di Fondi, d'Isernia, di Larino, di Lesina, di Marsi, di Mignano, di Molise, di Morono, di Penna, di Pietrabbondante, di Pontecorvo, di Presenzano, di Sangro, del Sesto, di Sora, di Telese, di Termoli, di Trajetto, di Valve e di Venafro; tantocchè, siccome di Carlo M. dicevasi essere stato il più grande facitor de' Paladini, così de' nostri Principi beneventani i più grandi facitori de' Conti.

Eransi ancora introdotti sin dalla venuta d'Alezeco, Duca de' Bulgari, i Castaldati: i Castaldi eran minori a' Conti, e siccome notò accuratamente l'incomparabile Cujacio, non eran propriamente Feudatarj: erano come Custodi, e che ricevevano le città o ville jure gastaldiae, non li ricevevano jure feudi, quasi che perpetuamente dovessero godere del beneficio; ma loro se ne dava il governo e l'amministrazione a tempo, colla clausola sin tanto che ci piacerà, ed era in arbitrio del concedente toglierla quando che gli piaceva, siccome fece Grimoaldo quando ad Alezeco concedè Supino, Bojano, Isernia ed alcuni luoghi intorno in Castaldato, e volle perciò che non Duca, ma Castaldo fossesi nomato; onde leggiamo sovente presso Erchemperto[363] ed Ostiense, che coloro che d'una città eran fatti Castaldi, ambivano poi farsi Conti, come lo pretese Atenulfo, che di Castaldo ch'era di Capua, coll'ajuto di Atanasio Vescovo e Duca di Napoli, si [282] fece Conte di quella[364] città. Quindi si vede chiaramente, che l'ufficio de' Castaldi non era di così vile condizione, e che fosse solamente ristretto al governo delle case regali, o siano Corti, ovvero ville e poderi; ma solevan darsi ancora alle città. Solevano anche questi a' quali si commetteva la custodia de' poderi e delle ville, dirsi altresì Castaldi, e di questa spezie parlano le leggi longobarde in più luoghi[365], e le nostre leggi feudali ancora: venne anche a darsi questo nome a coloro che avevano il governo de' poderi degli Ecclesiastici, che da Urbano II[366] si chiamano amministratori delle robe ecclesiastiche, onde i monasteri anche delle Monache ebbero i loro Castaldi, come, oltre di più antichi esempj rapportati dal Pellegrino, ne può essere a noi buon testimonio Gio. Boccaccio, del cui ufficio, in premio delle sue continue fatiche, ne fu anche onorato Masetto da Lamporecchio da quelle Monache; con tutto ciò Castaldi ancora eran chiamati coloro, ch'erano a particolari città preposti con pubblica autorità, ed alla cura e governo civile delle medesime invigilavano; ed oltre alla custodia delle cose pubbliche, solevano anche presedere ne' giudicj, onde perciò erano ad essi costituiti i salarj dal pubblico, ed assegnate alcune rendite, che nelle nostre leggi feudali si dice essere a loro dovute nomine Gastaldiae. Era di lor ufficio parimente a' Popoli soggetti render ragione e sovrastare, non altrimente che i Conti, nei giudicj e nelle liti amministrar loro giustizia, come è chiaro dalle leggi longobarde[367]; ciò che essi non [283] solevan fare senza il voto d'uno, o più Giureconsulti[368] ch'erano gli Assessori: onde il costume che nel nostro Regno vige di dar gli Assessori, o siano Giudici a' Governadori, trae più antica origine di ciò che altri credettero. Anzi i Castaldi, oltre della civile potestà, ebbero alcun tempo anche la militare, come è chiaro per una legge di Rotari[369], e da ciò che narra Anastasio Bibliotecario della guerra di Cuma, nella quale dal Duca di Napoli furono uccisi quasi trecento Longobardi col loro Castaldo, che gli guidava, e che aveva il pensiero di quell'impresa: onde se non voglia aversi per vero quel che dice Cujacio della differenza di questi Castaldi co' veri Feudatarj, cioè che questi come Custodi erano a tempo costituiti, non perpetuamente, non si sapranno distinguere con segni più chiari i Conti da' Castaldi.

E se bene Camillo Pellegrino, non piacendogli il sentimento di Cujacio, avesse proccurato di distinguergli con dire, che quantunque i Castaldi convenissero co' Conti in molte cose, nulladimeno il proprio loro ufficio era d'aver cura delle cose pubbliche, derivando ciò dall'etimologia del nome Guast ed Halden, voci dell'idioma tedesco, del quale sovente i Longobardi servironsi[370], che non denota altro, che Hospitium tenere, come notò Vito Amerpachio nelle note a' Capitoli di Carlo M., e l'ospizio non denotando le case private, ma le pubbliche ed il Pretorio del Magistrato; perciò egli portò opinione, che la particolar cura del Castaldo, essendo delle cose pubbliche, non delle familiari e delle private, per questo si distinguesse dal Conte; [284] nulladimeno ciò che siasi di questa derivazione, ed ancorchè nell'origine fosse stato solamente questo l'ufficio de Castaldi, essendo da poi stati anche preposti alle città intere, con altri luoghi adiacenti, ed avendo come si è veduto avuta tutta la potestà, così civile che militare, siccome l'ebbero i Conti; sempre queste due cariche si confonderanno fra loro, se non diremo, che l'una era a tempo e l'altra perpetua, e conceduta proprio jure Feudi: e se bene nel principio convenissero anche in questo con li Conti, nulladimeno in decorso di tempo i Conti non erano se non per fellonia o morte privati del Contado; e poi si vide che lo tramandavano anche nella loro stirpe maschile. Vi era anche un altro marchio ond'eran distinti, poichè il titolo di Contado denotava dignità, quello di Castaldo ufficio, onde sovente nell'antiche carte leggiamo: dignitate Comes; munere Gastaldus.

Fu per tanto il Ducato beneventano diviso in più Contadi e Castaldati, come in province, siccome è manifesto dal capitolare di Radelchisi principe di Benevento. Non è appurato presso gli Istorici il lor numero, e quanti fossero: i più insigni però furono quel di Taranto, di Cassano, di Cosenza, di Laino, di Lucania, ovvero Pesto, di Montella, di Salerno, e quel di Capua: i più distesi furono quelli di Capua, e di Cosenza, quello di Capua si stendeva verso Occidente insino a Sora: l'altro di Cosenza all'incontro insino a S. Eufemia, e Tropea. Fuvvi ancora il Castaldato di Chieti, che abbracciava molte città e terre, l'altro di Bojano co' luoghi adiacenti istituito da Grimoaldo nella persona di Alezeco Bulgaro, che dopo ducento anni fu da Guandelperto[371] posseduto. Passò questa prerogativa [285] da Bojano in Molise luogo vicino, onde fu prima detto il Contado di Molise, e da poi provincia del Contado di Molise, il qual nome oggi peranche dura. Eravi quello di Telese, l'altro di S. Agata, d'Avellino, di Acerenza, di Bari, di Lucera, e di Siponto, ed in somma a quasi tutte le città più cospicue di questo Ducato erano i Castaldi, ovvero Conti preposti; nè si tenne nella loro distribuzione alcun conto dell'antica politia o disposizione delle province secondo la divisione fattane sotto Costantino, e degli altri suoi successori: quella mancò affatto, ed altra nuova ne surse.

In tale floridissimo stato era il Ducato di Benevento, quando in Pavia furono i Longobardi vinti e debellati. Nè languiva presso i Longobardi beneventani la disciplina militare: essi venivano perpetuamente esercitati da' Greci napoletani, co' quali sempr'ebbero fiere ed ostinate guerre, sempre vigilando i Longobardi di ridurre sotto la loro dominazione il Ducato napoletano, siccome avevano già fatto di quasi tutte l'altre parti di quelle province, che ora compongono il nostro regno; nel che maggiormente rilusse la fortezza ed il valore de' Napoletani, che dovendo sempre combattere con forze diseguali, e da contrastar con inimico quanto vicino, altrettanto più numeroso e potente, gli resistè con tanta intrepidezza e valore, che non poterono i Beneventani aver questa gloria di sottoporsi quel Ducato; e non se negli ultimi tempi se lo renderono tributario. Sarà dunque ancor bene, dopo aver mostrato in quale stato erano i Longobardi beneventani, quando i Re loro furon d'Italia scacciati, che ancora si parli della fortuna e dominio de' Greci, che ancor ritenevan [286] in queste parti, e che poi ritennero, non altrimente che i Beneventani, da poi che Carlo M. si fece Re dell'Italia.

CAPITOLO II. Del Ducato napoletano, sua estensione e politia.

L'Imperio di Oriente da poi che fu da' Barbari invaso, i quali resi padroni dell'Egitto, dell'Affrica, della Siria, della Persia e dell'altre gran province dell'Asia, lo restrinsero all'Asia minore, alla Grecia, alla Tracia, e ad una picciola parte d'Italia coll'isole vicine, non tenne più conto dell'antica distribuzione delle sue province, e cambiato nella sua forma, nuove divisioni s'introdussero: fur quelle cambiate in molti distretti più o meno grandi, a' quali fu dato il nome di Temi, i quali avevano i loro Governadori particolari. Costantino Porfirogenito[372] ne compose due libri: nel primo annoverò i Temi, ovvero province dell'Asia, che erano diciassette: nel secondo quelli d'Europa, ed il loro numero era di dodici. Fra i Temi d'Europa il X è la Sicilia, e l'XI la Longobardia. Chiamavano così i Greci questa picciola parte ch'era a lor rimasa in Italia, secondo il proprio fasto e costume di ritenere almeno nel nome ciò che altri avean di quell'Imperio occupato; del rimanente così la Longobardia maggiore sotto i Franzesi, come la minore sotto i Longobardi beneventani, era già trapassata. Le terre [287] che Costantino[373] novera sotto il Tema di Longobardia, che ubbidivano all'Imperio d'Oriente, sono quelle del Ducato di Napoli, la qual città egli decora perciò con titolo di metropoli, essendo capo d'uno non dispregevol Ducato, e l'altre dell'antica Calabria, che ancor ritenevano. I Bruzj e con essi Reggio, Girace, Santa Severina, Cotrone ed altre terre, quibus Praetor Calabriae dominatur, come sono le sue tradotte parole[374], al Tema di Sicilia vengono attribuite.

Da poi che in Italia restò estinto l'Esarcato di Ravenna, ch'era il primo Magistrato, che in queste parti occidentali ancor ritenevano gl'Imperadori d'Oriente, e dal quale tutti gli altri Ducati eran dependenti, non essendo a' Greci rimaso altro in Occidente, che la Sicilia, la Calabria, il Ducato di Napoli, quello di Gaeta, ed alcune altre città marittime, istituirono per l'amministrazione e governo di queste regioni un nuovo Magistrato, che essi chiamavano Patrizio, ovvero Straticò; ed a ciaschedun Tema si mandava un particolar Patrizio per governarlo. Costantino[375] medesimo in quell'altro suo libro de Administrando Imperio, mescolando come suole i fatti veri co' favolosi, e niente ricordandosi di ciò che avea scritto nel secondo libro de' suoi Temi, dice che sin da che la sede dell'Imperio fu trasferita in Costantinopoli, furono dall'Imperadore costantinopolitano mandati in Italia due Patrizj, de' quali uno sovrastava al governo della Sicilia, della Calabria, di Napoli e d'Amalfi; l'altro al governo di Benevento, di Capua, di Pavia, e degli altri luoghi di quella provincia; e che ciascheduno ogni anno pagava [288] i tributi al Fisco dell'Imperadore: soggiunge ancora, che Napoli era l'antico Pretorio de' Patrizj, che si mandavano, e chi governava questa città, avea ancora sotto la sua potestà la Sicilia; e quando il Patrizio giungeva in Napoli, il Duca di Napoli andava in Sicilia. Quantunque questo racconto repugnasse a tutta l'istoria, poichè trasferita la sede imperiale in Costantinopoli, l'Italia non da' Patrizj, ma da' Consolari, Correttori e Presidi, tutti sottoposti al Prefetto d'Italia o a quello di Roma, era governata, e non se negli ultimi tempi di Giustino Imperadore fu mutata la sua politia, essendovi da Longino introdotti i Duchi, e stabilito in Ravenna l'Esarcato, nè poi il Duca di Napoli s'impacciò mai al governo della Sicilia; andando questo Ducato compreso insieme coll'antica Calabria col Tema della Longobardia; nulladimeno, ciò ch'egli dice, che il Patrizio, che si destinava per la Sicilia, aveva anche l'amministrazione ed il governo della Calabria, e di tutti gli altri luoghi che ancor si tenevano per gl'Imperadori d'Oriente, se si riguardano i tempi, ne' quali siamo di Carlo M., non è mica favoloso.

Dall'ampiezza fin ora rapportata del Ducato di Benevento, sarà facile il conoscere ciò ch'era rimaso a' Greci nella antica Calabria e ne' Bruzj e quanto si estendesse il Ducato napoletano e l'altro di Gaeta, che pur sotto la loro dominazione per lungo tempo rimase. Nella Calabria antica ritenevano i Greci in questi tempi, dopo aver perduto Taranto e Brindisi, solamente le città di Gallipoli e d'Otranto; ma nei Bruzj ritennero, oltre a Reggio, molte altre città, Gerace, Santa Severina, Cotrone, ed altre terre di quella regione. Rimasero ad essi ancora Amantea, Agropoli, [289] ed il Promontorio, che oggi diciamo Capo della Licosa. Tutti questi luoghi ancorchè avessero Magistrati particolari, da' quali venivano immediatamente governati, furono in questi tempi interamente attribuiti al governo del Patrizio di Sicilia, poichè prima solamente i Bruzj del Mediterraneo, o Mare inferiore di qua del Faro andavano colla Sicilia, come vicinissimi: imperocchè gli antichi Calabri del Mare superiore, che diciamo oggi Adriatico, siccome ancora Napoli ed Amalfi, non eran di quel Tema, ma come disse l'istesso Porfirogenito nel libro 2 de' suoi Temi, al Tema di Longobardia s'appartenevano; ma da poi avendo i Greci perduto Taranto e Brindisi, e (toltone Gallipoli ed Otranto) tutte le altre terre della Calabria antica; le città ch'essi ritennero in questa provincia, con quelle che loro rimasero ne' Bruzj, ed in quella parte della Lucania antica, che oggi chiamiamo Calabria citra, e nel Ducato napoletano, furono pure al Tema di Sicilia attribuite[376], insieme con Gaeta; onde il Patrizio destinato al governo di quello avea, come dice Porfirogenito, anche la soprantendenza della Calabria, di Napoli e d'Amalfi; il che quantunque sembri strano per Amalfi e per Napoli, di Gaeta però non può dubitarsene, costando ciò dall'Epistole d'Adriano R. P. il quale, avendogli Carlo M. ceduta Gaeta, che poco prima avea tolta a' Greci, ed avendo Arechi proccurato che si restituisse a' medesimi, scrivendo egli a Carlo M., si lagna de' Longobardi beneventani, chiamandogli nefandissimi, perchè confederati col Patrizio di Sicilia avean sottratta dal suo dominio quella città, e sottopostala [290] a quel Patrizio, che risedeva allora in Gaeta[377]. Nè l'accuratissimo Pellegrino potè negare, rapportando questo luogo d'Adriano, che al Patrizio di Sicilia, ed al suo governo s'appartenevano in questi tempi, oltre di quell'isola, molte altre città ancora di qua del Faro, delle quali avea la soprantendenza. Anzi di Napoli pur si narra, ch'essendo per la morte d'Antimio, che succedè a Teofilo nel Ducato napoletano, surta lite intorno all'elezione del nuovo Duca; essendosi i Napoletani divisi in fazioni, bisognò per sedarla ricorrere, non già all'Esarca di Ravenna, come faceasi prima, ma per esser quello mancato al Patrizio di Sicilia, il quale per quietare que' romori vi mandò Teoclisto per lor Duca; ma ben tosto costui ne fu levato dall'Imperadore, poichè pervenute le notizie in Costantinopoli di queste contese, subito fu mandato per Duca Teodoro Protospatario, al quale bisognò che Teoclisto cedesse il luogo. Donde ricava il Capaccio, o qual altro si fosse l'Autore dell'Istoria di Napoli, che i nostri Duchi o solevan mandarsi da Costantinopoli a dirittura, o eleggersi da Napoletani ed aspettare dall'Imperadore la confirma dell'elezione da essi fatta: ciò che Camillo Pellegrino ha troppo ben chiaramente dimostrato.

Da questa soprantendenza, che in questi tempi vediamo nella persona del Patrizio di Sicilia sopra queste regioni di qua del Faro, credo io, se in cose cotanto oscure sia lecito oltre avanzare le conghietture, che sia poi derivato presso a' nostri Principi Normanni e Svevi il costume di chiamar questa parte di qua del Faro anche col nome di Sicilia; onde poi i romani [291] Pontefici, per maggior distinzione, avessero chiamato questo Regno Sicilia citra, e l'altro Sicilia oltre il Faro. Certamente sin da' tempi de' Normanni questo nome di Sicilia fu comune ad ambedue questi Regni; e se non vi è errore in quella carta rapportata dall'Ughello[378] di Rogiero Normanno, che fu fatta nell'anno del Mondo 6623, cioè intorno l'anno di Cristo 1115 ed istromentata in idioma greco a favor della chiesa di Santa Severina in Calabria, si vede che sin da que' tempi fu usato il nome di Sicilia citra farum, siccome sono le parole di quella, chiamandosi Rogiero Comes Calabriae, et Siciliae citra farum. Ciò che poi seguitarono i nostri Re normanni, e comunemente i Svevi, vedendosi che presso que' Re sotto il nome del Regno di Sicilia non men quella isola che questo nostro Reame era compreso: di che altrove se ne avrà un più lungo discorso.

Nè qui è da tralasciare un'altra forte conghiettura dell'accuratissimo Pellegrino, che suspica quindi esser nata la mutazione, e 'l trasferimento de' nomi di queste due province, cioè che quella che, secondo l'antica distribuzione, era chiamata il Bruzio e parte della Lucania, fossesi da poi appellata Calabria; ed all'incontro l'antica, perdendo il suo nome vetusto, prima Longobardia o Puglia e da poi Terra d'Otranto e Terra di Bari fosse stata chiamata; poichè come abbiamo detto, i Greci prima della venuta di Costanzo Imperadore in Benevento, ritenendo la Sicilia ed i prossimi Bruzj, ed estendendosi la lor dominazione oltre Cosenza in tutti que' lidi insino ad Agropoli e nelle città marittime della Campagna, in Amalfi, Sorrento, Stabia, [292] Napoli, Cuma insino a Gaeta da questa parte del Mare inferiore; e dall'altra parte del Mare superiore ritenendo quasi che tutta la Calabria antica e le città marittime della medesima, Taranto, Brindisi, Otranto e Gallipoli insino a Bari; tutti questi luoghi in due Temi gli descrissero ed in due province furono divisi. La I fu la Sicilia ed i vicini Bruzj. La II comprendeva tutti gli altri luoghi ancorchè molto disgiunti e fra lor divisi, che sotto il nome di Calabria antica e da poi di Longobardia, che allora era la più ricca e distesa provincia da essi posseduta, eran designati. Ma rotto Costanzo da Grimoaldo, e fugato il suo esercito, portò questa sconfitta, come si vede, quasi che l'intera rovina de' Greci in quella provincia, poichè toltone Gallipoli ed Otranto, tutte le città della Calabria così mediterranee, come marittime furono da Romualdo Duca di Benevento occupate, ed al suo Ducato stabilmente aggiunte. Quindi avvenne, che gli Imperadori che a Costanzo succederono, secondo il solito fasto de' Greci, perchè non apparisser diminute o minori le province del loro Imperio, e perchè non interamente erasi perduta l'antica Calabria, restando loro Otranto e Gallipoli, ritennero sì bene l'istesso nome, ma lo trasportarono ne' vicini Bruzj. E poichè la sede de' Pretori di questa provincia era stata dai Greci costituita in Taranto, essendo questa città passata in mano de' Longobardi beneventani, bisognò trasferirla altrove, ed in parte ove la lor dominazione era più ampia, onde tra' Bruzj in Reggio fu quella traslatata; e quindi, ritenendosi l'istesso nome di Calabria, ed essendosi Reggio costituita sede del primo Magistrato che governava quella provincia, si fece che anche il Bruzio acquistasse il nome di Calabria, che [293] poi parimente s'estese nelle parti della Lucania, onde bisognò ne tempi seguenti dividerla in due province, che furon dette di Calabria citra ed ultra; ed in cotal guisa da' Greci fu il Bruzio chiamato Calabria. I Longobardi, come suole accader tra' vicini, al loro esempio, que' luoghi mediterranei che nel Bruzio possedevano, chiamarono anche Calabria, ed i luoghi che da Taranto insino a Brindisi essi avevan tolti a' Greci della antica Calabria, non più con questo nome, ma di Puglia l'appellarono, come adiacenti alla antica Puglia ch'essi già possedevano: ed i Greci all'incontro ciò ch'essi aveano perduto nella Calabria antica nel Mar superiore, e che in mano de' Longobardi era passato, non più Calabria ma Longobardia chiamarono: ed ecco come si perdè affatto il nome antico di quella provincia e come ad un'altra fosse stato trasferito.

Tale era in questi tempi la distribuzione e politia, che i Greci ne' luoghi che eran lor rimasi in queste province, praticavano. Ma quale fosse in questa età lo stato del Ducato napoletano e sin dove stendesse i suoi confini, e come avesse potuto contrastare per la libertà co' Beneventani, è di bene che qui partitamente se ne ragioni.

Era il Ducato napoletano dopo Teodoro, del quale si fece memoria, e dopo Sergio, Crispano, Giovanni, Esilarato e Pietro, che successivamente l'aveano governato, passato in questi tempi sotto l'amministrazione di Stefano Duca e Console, quegli, che come si disse nel precedente libro, morta sua moglie, fu anche da' Napoletani eletto e da Stefano III confermato Vescovo di Napoli, il quale per questa nuova e differente dignità non depose la cura e governo del Ducato, ma solo per conforto e sostegno della sua vecchiaia [294] proccurò dall'Imperador Costantino figliuolo di Irene, che allora imperava nell'Oriente, che gli fosse dato collega e successore Cesario suo figliuolo, come l'ottenne; ma non potè, siccome l'ebbe per collega, averlo per successore, perchè toltogli nel più bel fiore degli anni da immatura morte, lo rendè padre infelice al Mondo; nè mancò per rimostranza del suo dolore erigergli un tumulo, ove in versi acrostici, ne' quali in que' tempi era riposto tutto l'acume e perizia dei Poeti, pianse la sua sciagura, ed innalzò le lodi ed i pregi del suo diletto figliuolo. Vedevasi prima la lapide di questo tumulo nel cimiterio di S. Gennaro fuori le mura di questa città; ed ora non già è dispersa, come credette il novello Scrittore dell'Istoria Latina di Napoli, ma per caso incerto si ritrova trasferita in Salerno, e propio nella chiesa de' minori Conventuali; e se non avea egli mai letto il Chioccarelli[379], Camillo Pellegrino e 'l Mazza, che lo rapportano, poteva egli vederla co' propri occhi in Salerno, da Sorrento non molto lontana.

Sotto il Governo di Stefano, i confini di questo Ducato si stendevano verso Occidente insino a Cuma: l'isole Enaria, che oggi diciamo Ischia, Nisita e Procida con gli altri luoghi marittimi di quel contorno, Pozzuoli, Baja, Miseno e le favolose foci della palude Stige col lago d'Averno e' Campi Elisi, eran compresi nel suo dominio. Abbracciava ancora verso Mezzogiorno le città marittime di quella riviera, Stabia, che ora diciamo Castellamare, Sorrento ed Amalfi ancora coll'isola di Capri.

[295]

Amalfi non pure in questi tempi d'Arechi, ma insino a' tempi di Sicardo Principe di Benevento era con Sorrento ancor nel Ducato napoletano compresa. Non ancora erasi dal medesimo staccata, come fu da poi che facendo un Ducato a parte, stese i suoi confini tanto, che ne divenne uno Stato il più florido e potente che vi fosse in queste contrade, essendosi i lor cittadini renduti per la nautica i più famosi e rinomati presso a tutte le Nazioni dell'Oriente, come ci tornerà più opportuna occasione di favellarne altrove. Insino ad ora e per molti anni appresso, se non vogliamo andar dietro le frasche, pascendoci di vento, è chiaro essere stata Amalfi al Ducato napoletano unita, ed a' Duchi di Napoli sottoposta; poichè uno de' sforzi e degli attentati che praticò Arechi sopra il Ducato napoletano, fu l'impresa che mosse contro gli Amalfitani, che con potente armata cinse di stretto assedio, incendiando tutti i luoghi aperti posti nel Contorno d'Amalfi; e se non fossero accorsi i Napoletani a difender quella città, ch'era del lor Ducato, e con incredibile valore non avessero fugati e dispersi i Beneventani, che parte presero in battaglia e moltissimi n'uccisero, certamente gli Amalfitani sarebbero stati vinti e soggiogati da Arechi. Adriano, che mal sofferiva queste intraprese de' Longobardi beneventani sopra i Greci, ne diè del successo distinti ragguagli a Carlo M., e si legge oggi il giorno questa sua epistola[380], nella quale apertamente chiama gli Amalfitani del Ducato napoletano, e che perciò i Napoletani accorsero in loro ajuto.

Ne' tempi di Sicardo Principe di Benevento, Amalfi [296] non altrimente che Sorrento era al Ducato napoletano sottoposta, come è manifesto dal Capitolare di questo Principe impresso fra gli altri monumenti de' nostri Principi longobardi da Camillo Pellegrino, ove Sicardo promette al Duca di Napoli di voler osservare quelle capitolazioni, che dopo una fiera guerra stabilirono, così per Napoli, come per le città sue, cioè per Sorrento, Amalfi e per tutti gli altri castelli, che erano al Duca di Napoli soggetti. E presso Erchemperto[381] pur si legge, che il Duca di Napoli mandò gli Amalfitani a combattere contro i Longobardi capuani per far cosa grata al Principe di Salerno, con cui erasi confederato contro i Capuani. L'anonimo Salernitano nell'istoria non ancora impressa, in più luoghi ciò passa per indubitato, anzi dice che gli Amalfitani avevano i Conti annali, che ogni anno eran preposti al governo della città, ed a' Duchi di Napoli eran sottoposti, come ne rende a noi anche testimonianza l'accuratissimo Pellegrino. Egli è però certo, che da poi Sorrento passò sotto la dominazione de' Longobardi, perchè leggiamo, che Landulfo creò un suo figliuolo Duca di questa città[382].

Ma verso Oriente e Settentrione sin dove il Ducato napoletano stendesse i suoi confini, non avremo molto da dilungarci; poichè non potè da questa parte il Ducato stendere più oltre ne' luoghi mediterranei i suoi confini, come già tutti occupati da' Beneventani; e Capua ch'era in loro potere restringeva molto i suoi termini per questo lato, siccome dall'altra parte Nola, Sarno, e Salerno erano altresì da costoro dominati [297] Potè solo ritenere quelle campagne ed alcuni luoghi d'intorno, che dal presidio della città e dal valore delle loro armi poterono esser difesi. Solamente Nocera, che ora diciamo de' Pagani, città mediterranea si mantenne sotto il Ducato napoletano, tanto che nell'anno 839 Radelchisio Principe di Benevento avendo mandato in esilio Dauferio, questi in Nocera andossene, utpote Urbi tunc Juris Ducatus Napolitani, come dice il Pellegrino[383]: non altrimente che i Romani, i quali esiliati soddisfacevano all'imposta pena con portarsi in Napoli e nell'altre città federate. Le città marittime di questa contrada erano sostenute, perchè difese dal mare, ed erano per ragion de' loro siti inaccessibili a' Longobardi, che d'armate navali eran privi, donde avvenne che i maggiori conquisti gli facessero sopra le città mediterranee.

Ritenne ancora questo Ducato una politia consimile a quella di Benevento, poichè le città del medesimo ebbero i loro particolari Rettori, da' quali immediatamente venivano amministrate, che pure si dissero Conti, ed a' Duchi di Napoli eran subordinati: d'Amalfi lo scrisse l'Anonimo Salernitano; del Conte di Miseno ne rende a noi certa testimonianza S. Gregorio M., il quale in una epistola[384] fa memoria di questo Conte: di Sorrento, Stabia, Cuma e degli altri luoghi, ancorchè presso gli Autori non se ne incontri alcun vestigio, egli è però da credere, che da simili Magistrati fossero stati anche governati. Certamente dal Duca di Napoli fu istituito il Conte d'Aversa ne' tempi de' Normanni, perchè i Normanni, fondarono questa città. Ma questi Conti non eran Feudatarj, [298] come nel Ducato beneventano; erano semplici Ufficiali ed a certo tempo, perchè i Greci non conobbero Feudi; onde nacque che la provincia della Calabria e 'l Bruzio, come Napoli, conobbero più tardi, che quelle che componevano il Ducato beneventano, i Feudi. Ma con quali leggi Napoli col suo Ducato, e le altre città che ubbidivano agl'Imperadori d'Oriente si reggessero in questi tempi, se per quelle di Giustiniano, le cui Pandette si ritrovarono poi in Amalfi ovvero per le leggi degli altri Imperadori d'Oriente suoi successori, ci tornerà altrove più opportuna occasione di favellare, quando delle nuove compilazioni fatte dagl'Imperadori d'Oriente ad emulazione di Giustiniano dovremo far racconto.

Ecco lo stato, nel quale erano queste province, che oggi compongono il Regno di Napoli, quando Carlo Re di Francia, dopo aver vinti e debellati i Longobardi in Pavia e posto fra ceppi il Re Desiderio ultimo che fu di quella gente, assunse il titolo di Re d'Italia e de' Longobardi, onde per questa ragione pretendeva sopra il Ducato beneventano esercitar tutta quella sovranità, che gli altri Re longobardi suoi predecessori vi avevan ritenuta.

[299]

CAPITOLO III. Come Arechi mutasse il Ducato beneventano in Principato, e tentasse di sottraersi affatto dalla soggezione de' Franzesi.

Arechi, a cui Desiderio avea sposata Adelperga sua figliuola e creatolo Duca di Benevento, ciò che aveva egli sofferto con suo suocero e ciò che gli altri suoi predecessori usarono con gli Re longobardi, non volle sofferir con Carlo, e sdegnando di sottoporsi ai Principi stranieri ne scosse ogni giogo, e fidato nelle forze del suo Stato e negli animi de' suoi Longobardi da Duca, ch'egli era nomato, volle assumere il titolo di Principe, per mostrar con ciò più chiaramente i suoi sensi, ch'erano di voler essere libero, non ad altri sottoposto. Egli fu il primo, che Principe di Benevento si dicesse, e fu la prima volta che in queste nostre province s'introdusse questo titolo, di cui se si riguardi l'antichità è posteriore a quello di Duca, di Conte o di Marchese, ma se la sua dignità e prerogative, di gran lunga è superiore a tutti gli altri. L'Anonimo[385] Salernitano, se bene non favoloso, come a torto lo reputa il Baronio[386] in alcuni fatti, d'ingegno però e di dottrina puerile, narra ad Arechi, quando era in vita privata, essere avvenuto un prodigioso accidente, per cui fugli presagita questa nuova dignità di Principe, alla quale egli doveva essere innalzato: [300] dice egli che mentre un giorno nella chiesa di S. Stefano, ch'era posta nell'antica Capua, s'erano col Duca Luitprando, che allora reggeva Benevento, radunati molti Baroni longobardi, i quali secondo la loro usanza eran tutti cinti di spada; tra gli altri fuvvi anche Arechi allora giovanetto, e postosi ciascuno a fare orazione cominciò Arechi in voce bassa a recitar il Miserere; e quando venne a quel versetto: Spiritu principali confirma me, sentì tutta tremar la sua spada, come se alcuno la agitasse: pien di spavento e di paura, dopo finita l'orazione, Arechi narrò a' suoi amici il successo. Allora proruppe uno di essi riputato il più saggio, e sì gli disse: Non sarai per uscire di questa instabil vita, per quanto io preveggo, avanti che il Signore non t'innalzi ad una principal dignità. Il che da poi, come soggiunge l'Anonimo, comprovò l'evento, poich'essendo mancato Luitprando, tutti gridarono Arechi Principe di Benevento, ed a dignità sì illustre l'innalzarono.

Ma si sollazzi chi vuole coll'Anonimo con queste ed altre simili puerilità, delle quali è ripiena la sua istoria, egli è costante presso Erchemperto[387], Ostiense[388] e presso tutte le cronache che abbiamo de' Duchi e de' Principi di Benevento, che Arechi fu il primo che appo noi titolo di Principe s'arrogasse. Non si contenne in questo solo, ma per dimostrar maggiormente il suo assoluto imperio volle d'insegne regali adornarsi: si coprì con clamide ed ammanto regale, strinse lo scettro e si cinse di corona il capo: e perchè nulla mancassegli di regia dignità, si fece anche ungere da' suoi Vescovi, siccome i Re di Francia e [301] di Spagna facevano, ed in fine de' suoi diplomi ordinò che si notasse la data, nella quale erano stati spediti in questo modo: Dat. in Sacratissimo nostro Palatio. E siccome nelle solenni acclamazioni degl'Imperadori cristiani il costume era di ponere le loro immagini nelle chiese, nelle quali queste cerimonie solevan farsi, così anche Arechi fece collocare i suoi ritratti coronati nelle chiese del suo dominio, e con assoluto ed independente arbitrio cominciò a reggere queste province. S'arrogò anche il potere di far leggi, ed oggi giorno ancor leggiamo i suoi Capitolari, nei quali molti regolamenti stabilì: in alcuni capi conformandosi alle leggi longobarde, in altri derogando alle medesime; e ciò che i Re longobardi fecero in tutta Italia, volle praticar egli nel suo Principato.

Nel Codice cavense altre volte riferito, fra gli editti de' Re longobardi, se ne legge anche uno di questo Principe, che contiene diciassette capitoli. Il primo comincia: si quis homo, e l'ultimo finisce: si quis hominum. Camillo Pellegrino[389] lo trascrisse per intero nella sua istoria de' Principi longobardi, annotandovi in che quello si conforma, ed in ciò che differisca dalle leggi longobarde. L'esempio d'Arechi seguitarono da poi gli altri Principi suoi successori come Adelchi, Sicardo, Radelchiso ed altri, come si vede da' loro Capitulari impressi dal medesimo[390]: onde in queste nostre province alle leggi de' Re longobardi s'accrebbero quelle de' Principi di Benevento, per le quali venivano amministrate, e secondo le medesime i Giudici componevan le liti e amministravan [302] giustizia. Il deliberar delle guerre, o delle leghe e delle paci, al Principe Arechi era riserbato, molte ne mosse a' Napoletani, moltissime ne sostenne co' Franzesi; fornir di Magistrati ed Ufficiali il suo Stato; tener cura della giustizia; coniar colla sola sua immagine le monete, e tutte le maggiori e più supreme regalie egli solo s'arrogò e ritenne: in breve tutta la cura dello Stato così nel politico, come nel militare con tutti i diritti di sovranità ad Arechi fu trasferita.

Carlo Re di Francia, il quale dopo aver nell'anno 781 dichiarato Pipino suo figliuolo per Re d'Italia, in altre imprese era intrigato, avendo inteso che Arechi avea scosso il giogo, e che arrogatesi tutte le regali insegne come Sovrano dominava Benevento, stimolato anche da Adriano P. R. al quale queste intraprese de' Beneventani erano pur troppo sospette, ritornò nell'anno 786 con potente armata in Italia; e da poi nel mese d'Aprile dell'anno seguente 787, scorrendo sopra il Principato di Benevento, minacciava anche quella città di stretto assedio. Ritrovavasi in questo anno 787 Arechi anche egli intrigato in una guerra, che sopra i campi Nolani aveva mossa a' Napoletani, onde intesa la venuta di Carlo, il quale con formidabile esercito devastava i suoi Stati, conchiuse tosto la pace co' Napoletani, per sospetto che questi non s'unissero co' Franzesi, e concedè loro alcune sovvenzioni, ovvero, Diaria, come le chiama Erchemperto[391] nella Liburia e Cemiterio, campi che sono intorno Nola fertilissimi e di frumenti e di vini.

Giunto per tanto sopra Benevento l'esercito franzese [303] Arechi prima gli fece valida ed ostinata resistenza, ma non potendo bastare le sue forze ad innumerabile oste, che a guisa di locuste dalle radici rodeva ciò, che paravasi innanzi, munito, come potè meglio, con forti ripari Benevento, ritirossi in Salerno; e fu allora che questo Principe di torri eccelse e mura fortissime cingesse questa città, e che pensassero i nostri Longobardi a fortificarsi nelle città marittime per trovare scampo dall'irruzione de' Franzesi, da' quali non stavano sicuri nelle mediterranee, siccome in quelle di mare, per non avere i Franzesi allora armate marittime, per le quali l'avessero potuto assalire: reso accorto ancora dall'esempio di Desiderio, che per non aver avuto un simile scampo, restò miseramente in Pavia prigione. L'esercito di Carlo intanto devastava il paese è giunto insino a Capua scorreva da pertutto, inferendo danni gravissimi alle campagne ed ai Capuani sopra ogni altro. Allora Arechi posponendo l'amore de' suoi proprj figliuoli alla salute de' suoi sudditi, mandò molti Vescovi beneventani ad incontrar Carlo, ed offerendogli per ostaggi Grimoaldo e Adelghisa suoi figliuoli, gli fece da' medesimi dimandar la pace. Sono pur troppo graziosi, e perciò da non tralasciarsi i colloqui, che l'anonimo Salernitano[392] fa passare tra Carlo e questi Vescovi, i quali rinfacciati dal Re com'essi ardivano comparirgli davanti, dopo aver unto e posta la Corona sul capo d'Arechi lor Principe, non gli seppero dar altra risposta, se non che pieni di paura si prostrorono colla faccia per terra avanti i suoi piedi: il pietoso Re, deposta ogni collera, umanamente trattògli, facendogli alzare [304] e da poi ch'essi furono surti, disse loro: Io veggo i Pastori, ma senza le loro pecore: al che i Vescovi prendendo dall'umanità di Carlo pur troppa fiducia, non ebbero alcun ritegno di rispondere: Venne il Lupo, e ha disperso le pecore; il Re dimandò, qual fosse questo lupo, ed essi risposero: tu se' quegli. Finalmente dopo mille seccaggini lo pregarono, che contento degli ostaggi desse loro pace e risparmiasse la salute ad Arechi ed ai suoi Popoli: ma replicandogli Carlo ch'egli non poteva arrestarsi dal cominciato cammino, avendo giurato di non voler più vivere, se col suo scettro non fiaccava il petto ad Arechi. Allora un di loro chiamato Rodoperto Vescovo di Salerno, allegandogli in contrario l'esempio del giuramento d'Erode, lo consigliava a rompere il giuramento dato, del che il Re non ben pago chiese loro miglior consiglio; i Vescovi cercarono di deluderlo; poichè gli promisero di dargli in mano Arechi, purchè adempiuto il giuramento lo lasciasse regnare ne' suoi Stati. Mentre Carlo con desiderio era portato da' Vescovi di qua e di là perchè si adempiesse da loro la promessa, finalmente lo fecero entrare nella chiesa di S. Stefano, e quivi mostratagli una ben grande immagine d'Arechi, che era in un angolo della Chiesa, ecco Arechi, dissero, che tu cerchi. Allora il Re tutto pieno d'ira e di rabbia minacciò volergli mandare in esilio in Francia, se non attendevano ciò ch'avean promesso; ma i Vescovi tutti atterriti, prostrati di nuovo a terra cominciarono a dimandar misericordia e cercando con molti passi della Scrittura rattemperare il suo sdegno, narra l'Anonimo, che tanto efficacemente adoperaronsi, che in fine giunto il Re rabbioso sopra il ritratto d'Arechi, percotendolo fortemente [305] collo scettro che teneva in mano, e dandogli più colpi nel petto e nel capo, ove era dipinta la corona e ridottolo in più pezzi, dicesse: Questo avverrà a colui, che sopra di se s'arroga ciò che non gli è lecito: e fatto questo, i Vescovi prostrati di nuovo gli chiesero per Arechi la pace. Carlo in fine, ad intercession di tanti gliela concedette. Creda chi vuole queste puerilità dell'Anonimo, egli è però costante appresso Erchemperto che Carlo non passò oltre di Capua, e quivi contento degli ostaggi fermò la pace con Arechi, e lasciogli il Ducato beneventano come lo reggeva. I patti furono, che Arechi s'obbligasse prestargli ogni anno certo tributo: che per ostaggi restassero in suo potere Grimoaldo e Adelghisa suoi figliuoli; e se gli consegnasse il suo tesoro: tutti gli furono accordati; e Carlo mandando un suo Gentiluomo in Salerno, ove Arechi dimorava, a firmargli, furono tosto eseguiti e consegnati al Re gli ostaggi col tesoro. Fece poi il Re ritorno in Francia e seco portonne Grimoaldo, ma Adelghisa fu per molte preghiere restituita in Salerno al suo genitore. E se ciò è vero, com'è verissimo, che Carlo M., non passasse oltre a Capua, e quindi ritornato in Francia, non facesse più ritorno in queste nostre parti, non so dove s'abbia Scipion Mazzella trovato, che Carlo, siccome fece in Parigi ed in Bologna, avesse in Salerno nell'anno 802 istituito quel Collegio, quando questa città non passò mai sotto la sua dominazione, ma fu sempre il sicuro ricovero de' Principi beneventani nelle tante guerre ch'ebbero da poi con Pipino, lasciato dal padre Re d'Italia.

Ma non così tosto il Re Carlo da Capua fu dilungato ed in Francia restituito, che Arechi, poco curandosi [306] de' pegni dati, cominciò a trattar leghe con Costantino figliuolo d'Irene Imperadore d'Oriente, e fra di loro erano già venuti ad una stretta confederazione contro di lui; poichè Arechi aveva mandato suoi Ambasciadori in Costantinopoli cercando ajuto da Costantino, ed insieme l'onore del Patriziato; e ciò che più importava cercogli ancora il Ducato napoletano con tutti i luoghi appartenenti al medesimo, e che con valide forze gli mandasse Adalghiso suo cognato figliuolo del Re Desiderio, che come si disse erasi ricovrato in Costantinopoli, da poi che suo padre fu fatto prigione da Carlo; promettendogli egli all'incontro di voler sottoporsi, ciò che non voleva far con Carlo, al suo imperio, e di vivere all'usanza de' Greci, così nella tonsura come nelle vesti[393].

In effetto Costantino, abbracciando il partito, mandò subito due suoi Legati in Napoli perchè lo creassero Patrizio, i quali gli recarono le vesti intessute d'oro, la spada, il pettine e le forbici, perchè di quelle Arechi si coprisse e si tosasse, come aveva promesso: nè altro da lui richiese, se non che gli si dasse per ostaggio Romualdo altro figliulo d'Arechi. Giunti gli Ambasciadori in Napoli furono da' Napoletani ricevuti con solenne apparato, cum Bandis, et Signis, dice Adriano[394]; ma furono guasti tutti questi disegni per due intempestive morti. Morì, mentre queste cose trattavansi, nel mese di luglio di quest'anno 787 Romualdo promesso all'Imperadore per ostaggio, la cui morte immatura accelerò quella dell'infelice padre, e non a bastanza pianto da' Beneventani; il loro Vescovo Davide al suo tumulo erettogli, scolpì que' versi, che [307] vengono rapportati da Camillo Pellegrino[395] ne' tumuli de' Principi longobardi. Poco da poi fu seguita questa morte da quella d'Arechi suo padre, il quale dopo aver regnato in Benevento trent'anni, nel seguente mese di Agosto di quest'istesso anno, fu tolto a' Beneventani in tempo, quando era più a loro necessario, lasciandogli in istato così deplorabile, che rimanendo senza chi li reggesse, furono, come diremo, da dura necessità costretti ricorrere alla benignità di Carlo, sottomettendosi a lui, con condizioni troppo dure e pesanti, purchè rimandasse loro Grimoaldo, ch'e' teneva in ostaggio. Lo piansero perciò i Beneventani amaramente, e gli eressero un maestoso tumulo nella loro città, ove Paolo Varnefrido, che dopo il suo esilio erasi quivi ricovrato, pianse ancor egli la loro sciagura, e lodò l'eccelse virtù di questo Principe in molti versi, che pur leggiamo presso Pellegrino. Ci restano ancora di questo Principe alcune leggi, che veder si possono ne' suoi Capitolari impressi dal medesimo Autore; fra le quali non dee passarsi sotto silenzio quella, per cui vietò le Monache di casa chiamate altramente Bizoche. Aveale nel suo Regno il Re Luitprando ammesse, anzi in una sua legge[396] commendava l'istituto. Ma Arechi avendo scoverto che sotto quel velame si contaminavano di mille laidezze e libidini, sotto gravi pene tolse l'abuso, ed ordinò che fossero chiuse dentro monasteri. Fu Arechi un Principe assai magnanimo e generoso, ed in lui di pari gareggiavano la pietà, la giustizia, la fortezza e tutte le altre virtù. Egli con somma magnificenza [308] ridusse a fine in Benevento il tempio di S. Sofia da Gisulfo incominciato. Eresse due superbi palagi, uno in Benevento, l'altro in Salerno, cingendo questa città d'alte torri, e ben forti mura. Fu amante delle lettere, e careggiò molto i Letterati di que' tempi avendogli in somma stima ed onore. Accolse con molti rispettosi segni Paolo Varnefrido, quando fuggito da Tremiti, ove da Carlo M. era stato esiliato, ricovrossi in Benevento: lo ricevè benignamente, e l'ebbe tra' più cari e fedeli suoi amici; onde Paolo in segno della sua gratitudine compose quell'elogio che fece scolpire nel suo tumulo.

CAPITOLO IV. Di Grimoaldo II Principe di Benevento, e delle guerre sostenute da lui con Pipino Re d'Italia.

I Beneventani, morto Arechi, mandarono Ambasciadori al Re Carlo a dimandargli con molta sommissione e preghiere Grimoaldo, i quali giunsero in tempo, quando non erano stati ancora scoverti al Re i trattati, che Arechi avea avuti con Costantino Imperador d'Oriente, de' quali non, se non dopo un'anno, ne fu avvisato dal Pontefice Adriano, che gli aveva scoperti per mezzo d'un Prete capuano chiamato Gregorio[397], per la qual cosa poterono con minore difficoltà tirare il Re ad assentire alle loro dimande, concedendo Grimoaldo per loro Principe, ma innanzi che partisse volle legarlo con questi patti: Ch'egli facesse [309] radere a' suoi Longobardi le barbe: che nelle scritture e nelle monete prima si ponesse il suo nome e da poi quello di Grimoaldo: e che da' fondamenti facesse abbattere le mura di Salerno, d'Acerenza e di Consa.

(Queste parole della pace tra Carlo M. e Grimoaldo II Principe di Benevento sono conformi a ciò che scrisse Erchemperto in Chronico: Chartas quoque nummosque nominis sui caracteribus superscribi jusserat..... in suis Aureis ejus nomen aliquandiu figurari placuit. Questo articolo di pace ricevè maggior fermezza e lume, e nell'istesso tempo spiega nettamente quella moneta d'oro di Carlo M., rapportata da Mr. Le Blanc, che diede a più d'uno de' nostri Antiquari gran travaglio, per intenderne le iscrizioni, poichè portando da una parte il nome di Carlo M., e dall'altra quello di Grimoaldo, credendo, che si volesse dinotare Grimoaldo Re de' Longobardi, ed i tempi non concordando, si videro in maggiori inviluppi. Queste monete si coniarono così, in esecuzione di questa pace; ed il nome di Grimoaldo dinota questo Principe di Benevento, e non già Re alcuno di Longobardi. Nel Museo Cesareo di Vienna fra le altre monete d'oro, che conserva, si vede ancor questa di indubitata fede ed antichità).

Moneta

[310]

Assai maggiori condizioni e più dure avrebbe potuto il Re esigere da Grimoaldo, essendo in suo potere. Ma questi tornato in Benevento, e ricevuto con infinito giubilo da' Beneventani, per qualche tempo fece correre le monete e le scritture col nome di Carlo, mostrandosi, per assicurarlo maggiormente delle sue promesse, in questi rincontri voler da lui dipendere, se bene della demolizione di quelle Piazze non se ne parlasse: anzi Grimoaldo per togliere ogni sospetto che mai potesse aversi di lui, da poi che Carlo scoprì i trattati d'Arechi suo padre, avendo già l'Imperador Costantino mandato nell'anno 788 in Sicilia Adalgiso con alquante truppe, perchè passato in Calabria, coll'aiuto de' Beneventani si facesse gridar Re d'Italia, crucciato ancora l'Imperador greco con Carlo, il quale avendogli promessa una sua figliuola per moglie, mutato consiglio, gliel'aveva poi niegata: Grimoaldo non solo non volle concorrere co' disegni di Adalgiso suo zio, ma avvisando Pipino di queste intraprese, pensò meglio unirsi con lui e con Ildebrando Duca di Spoleto mandato da Pipino, e fu allora che l'infelice Adalgiso, dopo essere sbarcato con molti Greci in Calabria, pugnando valorosamente, fugato e vinto il suo esercito, restasse fra le spoglie preda dell'inimico, che postolo ne' tormenti, lo fece spietatamente con morte crudele spirare l'anima, come narra il Sigonio[398]. Ma il continuator d'Aimoino[399], Maimburg[400] e coloro, che han letto in greco Teofane, scrivono, che colui che fu fatto morire ne' tormenti non fu Adalgiso, ma Giovanni Generale dell'armata dei [311] Greci; poichè questo miserabile Principe salvossi dalla battaglia, e ritornò con poco seguito a Costantinopoli dove invecchiò; e cedendo finalmente alla sua fortuna non meno che il padre, passò ivi quietamente il resto della sua vita nella dignità di Patrizio; com'è il solito destino de' Principi spogliati, de' quali coloro a cui hanno ricorso, si contentano per ordinario di compatir la disgrazia, conservando loro un vano titolo di ciocchè sono stati, senza che ardiscano o che possano o, quando il potessero, che vogliano intraprendere di ristabilirli, abbracciando altri interessi, che stimano esser loro più considerabili e profittevoli.

Grimoaldo intanto se bene per togliere ogni sospetto a Pipino ed a Carlo suo padre, posposta ogni ragion di sangue e di natura, fossesi in cotal guisa portato, non depose però dal suo cuore gl'istessi sentimenti del padre, e di volgere tutti i suoi pensieri come potesse giungere a reggere il Principato di Benevento con autorità assoluta ed independente; non pensava più alla demolizione di Salerno, d'Acerenza e di Consa secondo le capitolazioni stabilite con Carlo, e pian piano nelle monete e nelle scritture faceva tralasciare il nome di Carlo; e per aversi sposata Vanzia nipote dell'Imperador greco dava di se maggiori sospetti. Si venne perciò a nuova guerra co' Franzesi, e tanto più ostinata, quanto che Carlo distratto altrove, Pipino giovane spiritoso ed ardente, essendo egli rimaso in Pavia Re d'Italia, non poteva soffrire in conto alcuno quest'imperio assoluto, che Grimoaldo s'arrogava del Principato di Benevento: non passarono perciò molti anni, che Pipino nel 793 gli mosse incontro innumerabile oste de' suoi Franzesi, che di ogni intorno lo cingevano e gli minacciavano guerre [312] crudeli. Pensò allora Grimoaldo di placarlo con rimovere ogni ombra di sospetto, che si potesse avere della sua persona per cagione d'aversi poco prima sposata Vanzia. Ripudiolla come sterile, e con inaudita inumanità la fece per forza condurre in Grecia alle proprie case. Ma niente giovarono a Grimoaldo queste simulazioni ed astuzie, poichè Carlo, oltre di aver comandato a Pipino di combatterlo, gli avea anche in suo soccorso mandato Lodovico suo fratello, che dall'Aquitania, ove era, si condusse in Italia, ed unite le loro milizie furono sopra il Principato di Benevento: fu per più anni guerreggiato ferocemente, e narra Erchemperto[401], che sebbene Carlo co' suoi figliuoli, che aveva già costituiti Re, e con immensi eserciti avesse proccurato impiegar le sue più valide forze per soggiogar Grimoaldo e' suoi Longobardi beneventani, non per tutto ciò sotto questo valoroso Principe potè porre in effetto i suoi disegni; anzi sovente attaccatasi ne' suoi eserciti la peste, bisognò che pien di scorno se ne ritornasse. Solamente dopo il corso di sette anni, e dopo tante fiere ed ostinate contese gli riuscì negli anni 800 ed 801 prender Chieti in Abruzzo con alcuni luoghi d'intorno; e se bene nel seguente anno prendesse ancor Lucera in Puglia fu questa ben tosto da Grimoaldo ricuperata, e vi fece prigione anche Guinichiso, Duca di Spoleto, con tutto il presidio, che qui Pipino per guardia di quelle città aveva lasciato. In breve in tutto quel tempo che Pipino regnò in Pavia, e Grimoaldo in Benevento, narra Erchemperto[402], che fra essi non fuvvi un sol momento di pace; imperocchè erano questi due Principi [313] amendue giovani, ed alle guerre propensi, ciascuno impegnato con tutte le forze che aveano a sostener il proprio punto. Pipino per vedersi cinto di tanti prodi e valorosi Capitani e d'eserciti poderosissimi: Grimoaldo sostenuto con forze pari da' suoi più grandi Baroni, e per le molte città, ch'e' s'aveva pure munite e presidiate, deludeva gli sforzi dell'inimico, e per più dispregio mostrava far poco conto de' suoi eserciti. Soleva spesso Pipino mandar Legati a Grimoaldo con queste ambasciate: Volo quidem, et ita potenter disponere conor, ut sicuti Arichis genitor illius subjectus fuit quondam Desiderio Regi Italiae ita sit mihi et Grimoalt. A quali proposte riponeva in contrario Grimoaldo questi versi.

Liber, et ingenuus sum natus utroque parente.

Semper ero liber, credo, tuente Deo.

In cotal guisa Grimoaldo finchè regnò in Benevento ripresse l'ardire e le forze de' Franzesi. Morì questo invitto Principe nell'anno 806 senza lasciar di se prole maschile, poichè Gotofredo suo figliuolo, di cui nella chiesa di S. Sofia in Benevento si vede il tumulo, rapportato anche dal Pellegrino[403], premorì a lui. I Beneventani dopo averlo amaramente pianto, gli alzarono, non meno che ad Arechi, un magnifico tumulo, celebrando e scolpendo in quello le sue eccelse virtù e famose gesta. Fu non meno co' Franzesi che co' Greci sempre vittorioso, ed i versi posti nel suo tumulo[404] dimostrano ancora il suo valore contra [314] i Franzesi, i quali non poterono darsi vanto di averlo soggiogato giammai.

Pertulit adversas Francorum saepe phalangas,

Salvavit Patriam sed, Benevente, tuam:

Sed quid plura feram? Gallorum fortia Regna

Non valuere hujus subdere colla sibi.

CAPITOLO V. Carlo M. da Patrizio diviene Imperador romano: sua elezione, e qual parte v'ebbe Lione III romano Pontefice.

Mentre che i Franzesi sotto Pipino con tanta ferocia ed ardire guerreggiavan co' Beneventani sotto Grimoaldo, Carlo M., dopo aver debellati i Sassoni, e scorsi molti luoghi del vasto Imperio, fermossi finalmente nell'anno 795 in Aquisgrana, della qual città per l'amenità del sito e de' suoi luoghi cotanto si compiacque, che di un nobilissimo tempio adornolla: quivi trovandosi, gli fu recata novella della morte di Adriano accaduta in Roma l'anno 796. Fu da Carlo inconsolabilmente pianto, e fu tanto il dolore che n'ebbe, che volle anche manifestarlo per un elogio da lui medesimo composto, che fece porre al suo sepolcro. Intese ancora poco da poi, che il Popolo e Clero romano aveva in suo luogo eletto Lione Prete Cardinale, che Lione III, fu detto: da costui gli fu data parte della sua elezione per suoi Ambasciadori, dimostrandogli ancora la sua mente, ch'era, seguitando i vestigi de' suoi predecessori, di non voler riconoscere altro che lui per protettor suo e della Chiesa; [315] di vantaggio come Patrizio, ch'egli era di Roma, gli mandò lo stendardo della città con molti altri doni, pregandolo nel medesimo tempo di mandare un dei Signori della sua Corte per ricevere da parte sua il giuramento di fedeltà, che gli presterebbe il Popolo romano[405], il quale da lungo tempo aveva cominciato a scuotere il giogo de' Greci, e voleva già assolutamente liberarsene. Carlo accettò li donativi e l'omaggio che gli rendeva la prima città del Mondo, e scelse il suo genero Anghilberto, per ricevere il giuramento de' Romani, che lo riconobbero per loro Signore: ed in fatti, per questi trattati avuti da Lione con Carlo, il Patriziato mutossi in dominio, e da questo tempo fu, ch'egli esercitò in Roma il diritto di Sovrano, rendendovi giustizia per suoi Commissari e per se stesso, come fu avvertito saviamente da Pietro di Marca[406]: ed oltre a ciò, usando della sua regal munificenza e generosità, mandò al Papa per Anghilberto una gran parte di que' tesori immensi, ch'egli avea guadagnati nella guerra contra gli Unni, da lui poco prima felicemente terminata per la conquista della Pannonia: ed in tutti i rincontri che gli s'offerirono, emulo di Pipino suo padre, pose tutto il suo studio ad ajutarlo nelle persecuzioni che sofferse, e di proteggere ed innalzar quanto più potè la Chiesa romana, come aveva fatto con Adriano suo predecessore, poichè avendosi Lione inimicati Pascale e Compolo nipoti d'Adriano e molti principali Signori di quel partito, che mal sofferivano, che il nuovo Pontefice innovasse molte cose fatte da Adriano, costoro oltre [316] d'averlo accusato e fatto reo di molti e scellerati delitti, non potendone mostrar poi documenti per provargli; un giorno mentr'era in una pubblica e sacra funzione tutto inteso, gli corsero sopra, e presolo gli diedero più colpi mortalissimi, lo strascinarono per le strade, e si sforzarono di cavargli gli occhi e di troncargli la lingua; ma riparatosi come potè meglio, fu dopo molte ferite, tutto bruttato di sangue, chiuso nel monastero di S. Gerasimo in una stretta prigione; ma liberato da poi da' suoi parteggiani, ed accorso in suo ajuto Guinigiso Duca di Spoleto, questi dopo averlo condotto in Spoleto, lo mandò in Francia a Carlo insieme con molti Vescovi ed altri Nobili, che vollero seguirlo nel viaggio. Fu ricevuto da Carlo in Paterbona con uguale stima, che fu da Pipino suo padre ricevuto Stefano, trattandolo con infinito onore e somma magnificenza, ove Lione ebbe campo di mostrare la sua innocenza, ciò che a torto aveva sofferto, ed in che falsamente era stato da' suoi nemici accusato.

Ma nell'istesso tempo i suoi congiurati in Roma, per l'assenza del Pontefice fatti più altieri, non mancarono di opporsi a' sforzi di Lione: essi mandarono a Carlo molte accuse, per le quali mostravano Lione reo di molti e gravi delitti. Parve al Re rimandarlo in Roma accompagnato magnificamente, per doversi ivi conoscere giuridicamente i meriti di questa causa, e lo fece accompagnare da dieci Commissari, due Arcivescovi, cinque Vescovi e tre Conti e molti Franzesi, per conoscere di questo negozio. Fu ricevuto il Papa in Roma con solenne applauso e molta pompa; e venendosi all'esame de' carichi che gli eran dati da Pascale e Campolo e da' loro complici, per iscusar [317] l'esecrando attentato da essi commesso nella sua persona; non provandosi niente de' delitti, de' quali veniva imputato, i Commissari di Carlo mandarono gli accusatori sotto buona guardia al Re. Erasi Carlo, dopo aver gloriosamente trionfato degli Unni, incamminato già verso Italia, invitato da Pipino, il quale mal poteva solo abbattere la alterigia di Grimoaldo, che il Principato di Benevento reggeva già con libero ed assoluto imperio: e giunto in Italia volle essere di persona in Roma per conoscer di questa causa, e render al Papa quella giustizia che egli dimandava.

Fu da Lione a' 24 novembre di questo anno 799, dal Clero e dal Popolo romano ricevuto Carlo con segni di venerazione e di stima, i maggiori che potevan mai praticarsi: e fatto questo Principe, dopo alquanti giorni del suo arrivo, raunare nella chiesa di S. Pietro gli Arcivescovi, Vescovi ed Abati e tutti i Signori romani e franzesi, assiso egli col Pontefice in questa grande Assemblea, fece esaminar questa causa e proccurò che si facesse esatta discussione de' delitti, de' quali era stato Lione accusato; ma non essendovi dall'una parte pruova alcuna, nè alcun testimonio che si presentasse per sostenere queste calunnie, e dall'altra protestandosi tutti i Prelati, non dover la Santa Sede ed il Papa esser giudicato da nessuno, e che toccava a lui stesso di giudicarsi; allora il Pontefice disse, che seguendo le vestigia de' suoi predecessori, egli era tutto pronto di giustificarsi nella medesima maniera, che coloro avevano fatto più d'una volta: perciò il giorno seguente, montando egli sopra la tribuna, tenendo in mano il libro de' santi Vangeli, nel cospetto di tutti, volle con solenne giuramento, come innocente purgarsi, altamente protestando e giurando se essere innocente [318] di tutti i delitti impostigli da' suoi persecutori. Sopra di che tutta la chiesa rimbombò dell'acclamazioni di una sì augusta Assemblea, che ricevè questa protesta e giuramento del Papa come un Oracolo, che l'assicurava pienamente della sua innocenza. Così Lione essendosi giustificato appresso tutti, ciò ch'era la cosa che Carlo M. stimava più importante, fu rimesso ad un'altra Assemblea il giudicio di Pasquale e de' di lui complici.

Ma questo Pontefice riconoscendo da Carlo tanti beneficj, pensò più seriamente come potesse rendergline quella gratitudine che meritavano[407], e come in avvenire potesse la Chiesa romana star più che sicura della sua protezione e del suo aiuto, giacchè dagl'Imperadori d'Oriente non era più che sperarne, anzi molto da temerne. Allora fu, che si pose in opra il più bel ritrovato che mai si potesse uom immaginare, a fin di render questo Principe più tenuto che mai alla Sede appostolica; e che si proccurasse da poi da' Pontefici romani una funzione che non essendo in questi tempi reputata altro, che una pura e semplice cerimonia, d'interpretarla per una delle più potenti ragioni del dominio temporale, ch'essi vantan tenere sopra tutto il Mondo cattolico, e che gli adulatori di quella Corte seppero tanto ben colorire ed inorpellare, che lo persuasero per più secoli a quasi tutta l'Italia ed a molte parti ancora dell'Occidente. Questo fu d'innalzar Carlo da Patrizio ch'egli era, in Imperadore romano, ciò che dissero la traslazione dell'Impero dell'Occidente ne' Franzesi; e che in verità non fu altro nella persona di Carlo, che d'un [319] volersi assumere un nome più spezioso ed augusto, il che gli altri Re d'Italia come Teodorico pure avrebbero potuto farlo, ma non vollero mai porre in effetto.

Alcuni Scrittori francesi[408] vogliono darci a credere, che Carlo fosse stato, ad esempio di Teodorico, anche alieno di curarsi questo spezioso titolo, e che Lione, cotanto a lui obbligato, guidando questa cosa, avesse concertato il tutto co' Romani e con gli altri Popoli, che allora si trovavan in Roma, senza che Carlo niente ne sapesse, di acclamarlo Imperador romano, mentre egli nelle feste del santo Natale dovea condursi in chiesa, e ponergli la clamide e la corona imperiale, come si fece; ma ciò lo credano i più semplici, e coloro che ignorano le circostanze, che precederono a questo fatto; poichè Carlo per altri riscontri che ci restano nell'istorie[409], è manifesto che ambisse questo titolo, dovuto per altro a' suoi meriti ed al suo vasto Imperio, che avevasi, parte per ragion di successione, parte per armi conquistato, come qui a poco diremo.

Certamente il gran Teodorico Re d'Italia avrebbe forse con maggior ragione potuto assumere questo titolo d'Imperador d'Occidente, nel che avrebbe avuto anche il consentimento di Lione Imperador d'Oriente; ma egli, come si è detto nel libro terzo di questa Istoria, deponendo l'abito gotico, non già d'imperial diadema, ma di regie insegne volle coprirsi, e Re dei Goti e de' Romani volle esser proclamato: e narra Procopio, che a questo Principe solamente il nome d'Imperadore, ch'egli non volle assumere, mancava, ma che in realtà era tale, così se si riguardava la sovranità [320] del suo Imperio, come l'estensione de' suoi dominj. Egli non solo, ad esempio degli altri Imperadori d'Occidente, aveva stabilita la sua sede in Ravenna, dominando quindi tutta l'Italia; ma tenne ancora sotto la sua dominazione la Sicilia, la Rezia, il Norico, la Dalmazia colla Liburnia e l'Istria ed una parte dei Svevi, e quella parte della Pannonia ov'era Sigetino e Sirmio. Riteneva ancora parte della Gallia, per la quale co' Franzesi venne sovente alle armi; e per ultimo reggeva, come tutore d'Amalarico suo nipote, la Spagna: onde se a Teodorico fosse venuta voglia di assumer questo titolo, e portarsi in Roma a farsi porre la corona dal Papa, ch'era suo suddito, e farsi ungere, come cominciarono ad usare in appresso i Principi cristiani da' suoi Vescovi, si sarebbe anche detto, che i Pontefici romani trasferiron da' Romani l'Imperio d'Occidente ne' Goti, come si dice ora di questa traslazione da essi fatta ne' Franzesi.

Ma perchè si vegga chiaramente che per questo fatto niente altro s'acquistò a Carlo che il solo nome di Imperador romano, niente più gli diedero o potevano dare i Romani ed il Papa, che tale lo acclamarono, che questo titolo, il quale non portò a lui ragione alcuna sopra gli altri Stati e Regni d'Occidente, i quali per lungo corso d'anni furono sotto la dominazione d'altri Principi; egli sarà bene di ponderare, che molto tempo prima, che questo Principe fosse nomato Augusto, l'Imperador greco aveva già perduto il dominio di quasi tutte le province d'Occidente, le quali jure belli erano passate sotto la dominazione d'altri Principi e di Carlo medesimo per la maggior parte; tanto che per questa acclamazione, siccome egli non si fece più ricco, così niente per lei si tolse all'Imperador [321] d'Oriente, nè agli altri Principi sopra i loro Reami e Stati ch'essi possedevano.

Aveva già Carlo discacciati da Italia i Longobardi, che n'erano Signori, e al suo Imperio aveala soggettata. Roma, che un tempo fu sede dell'Imperio di Occidente, sin dal tempo di Lione Isaurico avea cominciato a scuotere il giogo, e se bene lungo tempo i Greci v'avessero tenuta un'ombra di lor signoria, erasi quella finalmente data a Carlo M., che ne ricevette il giuramento di fedeltà per Anghilberto, come narrano i più gravi Istorici; e prima d'assumer questo titolo aveva esercitato in essa le ragioni di Sovrano, come può esser ben chiaro a chi riflette l'accuse date a Lione; poichè se bene lasciasse i Romani vivere colle proprie leggi e sotto i medesimi Magistrati, però la potestà suprema era come Patrizio a lui riserbata, e la ritenne da poi come Imperadore; e l'Esarcato di Ravenna, sede che prima fu degl'Imperadori d'Occidente e poi degli Esarchi, primo Magistrato in Italia degl'Imperadori d'Oriente, ancorchè tolto a' Longobardi, fosse stato conceduto alla Chiesa romana, si ritennero però in quello così Pipino, come Carlo le ragioni della sovranità e del dominio eminente: in breve quasi che tutta Italia, toltone queste nostre province, era già passata sotto la dominazione di Carlo prima dell'assunzione di questo titolo. Parimente egli è certo, che questo Principe per successione e per conquista possedeva tanto di dominio nell'Occidente, quanto non ebbe mai nessuno Imperadore dal tempo della divisione dell'Imperio; poichè oltre alle Gallie, dove egli regnava per successione come Re di Francia, aveva conquistata parte della Spagna insin'all'Ebro. Per lo medesimo diritto di conquista possedeva l'Istria, la [322] Dalmazia, tutta la Pannonia sino a' confini de' Bulgari e della Tracia, ed ancora tutta la Dacia continente, la Valachia, Moldavia e Transilvania. E se egli non ebbe la Spagna di là dall'Ebro, e quella parte dell'Affrica, ch'era dell'Imperio d'Occidente, prima che i Vandali, e lungo tempo da poi i Saraceni, se ne fossero impossessati, aveva egli dall'altra parte ciò che i Romani non poterono mai conquistare, cioè tutta quella vasta estensione di paese, ch'è tra 'l Reno e la Vistola, l'Oceano settentrionale ed il Danubio, divisa ora tra tanti Principi, città libere e Repubbliche, di cui una sola parte compone ciò che si chiama oggi giorno l'Imperio romano: ed Eginardo[410] scrive, che i Re che dominavano allora nella G. Brettagna, gli erano talmente sommessi, che nelle loro lettere lo chiamavan sempre lor Signore, con sottoscriversi di lui servidori e sudditi.

Vacando dunque per tre secoli l'Imperio d'Occidente, e diviso in tanti Principati e Regni, essendosene molti uniti nella persona di Carlo, parte per ragion di successione, e moltissimi per diritto di conquista, tanto che arrivò a posseder in Occidente molto più che gli altri Imperadori Occidentali, e precisamente que' che vi furono da Onorio insino ad Augustolo, non deve per questa parte riputarsi cosa molto impropria e strana, se i sudditi di Carlo, ciò ch'egli era in realtà, avessero voluto anche proclamarlo Imperadore, e dargli quest'augusto titolo ben proprio e corrispondente al suo vasto Imperio, che teneva in Occidente. In effetto questo nome non dal solo romano Pontefice, che guidò questa azione, gli fu dato, nè [323] solamente da' Romani, ma da tutti i Popoli di varie nazioni, che portò seco Carlo in Italia. Narrano Paolo Emilio[411] e molti altri Scrittori più antichi di lui, che questo Principe fu accompagnato in Italia, non solamente da moltissimi Signori franzesi, ma da infiniti altri di nazioni diverse, che a lui ubbidivano, Sassoni, Borgognoni, Teutonici, Dalmazj, Bulgari, Pannonj, Transilvani ed altri.

Ed è anche presso a' medesimi certissimo, che dopo il terzo dì che fu discussa la causa di Lione, essendo quello in cui celebravasi il giorno Natalizio di Nostro Signore, si portò questo Principe nella chiesa di S. Pietro a solennizzarlo con grande apparecchio, ed entrò in essa accompagnato dal Papa e molti Prelati e Magistrati romani, e seguitato da tutti i Signori franzesi e romani e da tutto il corteggio degli altri, ove ritrovò un'infinita moltitudine di Popolo non sol romano ma mischiato di tante altre Nazioni. Mentre Carlo orava a piè del sepolcro de' Santi Appostoli, il Papa, che per quest'effetto teneva pronto ed apparecchiato il manto imperiale ed una ricca corona d'oro, da poi ch'ebbe Carlo finita la preghiera, diede segno a' Magistrati romani ed a que' Baroni, che erano intorno, e che stavano intesi di ciò che doveasi fare, e postogli la corona sul capo con tutti gli altri cominciò a gridare: A Carlo Augusto da Dio coronato, grande e pacifico Imperador de' Romani, vita e vittoria[412]: e risonando queste voci in ogni cantone, tutti insieme come di concerto, il Papa, il Senato, i Romani, i Franzesi ed il Popolo misto di tante nazioni, in una voce ed in un medesimo spirito, si misero a gridare [324] con tutta la lor forza la medesima cosa, ch'essi ripigliarono sino a tre volte[413]. Sedata che fu l'acclamazione del Popolo, Lione, che aveva apparecchiato ogni cosa per una sì augusta cerimonia, gli diede l'unzion sacra, non mai più per l'innanzi ricevuta da niun Imperadore d'Occidente, e lo vestì d'un lungo ammanto imperiale alla romana: unse ancora Pipino, che si ritrovò presente a questa funzione, come Re d'Italia: e da poi che Carlo ricevè dal Papa, dal Senato e da tutti gli altri che vi furono presenti, tutti gli onori soliti praticarsi verso gli antichi Imperadori romani, riconoscendolo per lor Sovrano, egli all'incontro giurò, che sarebbe stato sempre Protettore e Difensore della Santa Chiesa romana per quanto saprebbe e potrebbe: da indi in poi, deposto il titolo di Patrizio, prese quello d'Augusto e d'Imperadore, ch'egli trasmise alla sua posterità[414].

Ecco ciò che si chiama traslazione dell'Imperio di Occidente a' Franzesi, dal cui fatto niente possono ricavare i Pontefici romani per sostentar le altre loro pretensioni; perchè se bene Lione, come uno de' principali della città di Roma, avesse guidata quest'azione, a cui più d'ogni altro ciò importava, per obbligar maggiormente Carlo a protegger la sua Chiesa, e venisse con ciò intieramente a cedere tutto quello, che i suoi predecessori s'aveano guadagnato sopra Roma, è però, presso coloro che sono intesi dell'Istoria Augusta, noto abbastanza, che non altrimente si solevano [325] acclamare anticamente gl'Imperadori romani. Le acclamazioni si facevano dal Popolo e da' soldati, ma da alcuni privati era a lor proposta la persona, che essi doveano acclamare. Niun però sognò d'attribuire l'elezione a que' pochi, che proponevan la persona e non al Popolo ed a' soldati, che lo gridavano ed acclamavano Imperadore; ed inoltre queste acclamazioni denotavano non solo il presente, ma anche l'antecedente consenso del Popolo. Molto meno potranno sostentar le loro pretensioni per la coronazione ed unzione che Carlo ricevè per Lione; poichè crediamo esser oggi mai a tutti notissimo, queste essere pure cerimonie, che non s'appartengono punto alla sostanza dell'Imperio, in guisa che potesse dirsi, che chi le fa, dia con esse l'Imperio o il Regno. Furono queste cerimonie introdotte da' Principi cristiani, forse seguendo l'esempio degli antichi Re della Giudea, che usavano farsi ungere da' Sacerdoti; ed i primi, che l'introdussero in Occidente, furono i Re di Spagna e quelli di Francia, seguitati da poi dagli altri, il che gli Orientali anche abbracciarono[415]. In Francia il Re Cristianissimo dal Vescovo di Rems riceve questa cerimonia. In Ispagna quel Re dall'Arcivescovo di Toledo. I Re d'Italia solevan farsi ungere ed incoronare dagli Arcivescovi di Milano: quei d'Inghilterra dall'Arcivescovo di Cantorberi: quei d'Ungheria dal Vescovo di Strigonia: e gli altri Re ciascuno da' suoi Vescovi: infino il nostro Arechi, come si è veduto, Principe di Benevento, volle farsi ungere e coronare da' suoi Vescovi beneventani: e sarebbe privo d'ogni [326] buon senso chi dicesse che da questi Vescovi si facessero, o costituissero tanti Principi, Re o Imperadori.

Anche in Oriente nel sesto secolo Giustino Imperadore si fece coronare da Giovanni[416] Patriarca di Costantinopoli: eppure questo Imperadore dopo sei anni volle essere di nuovo incoronato da Giovanni R. P. Molti Principi non una, ma più volte vollero usar queste cerimonie: Pipino padre di Carlo M. si fece ungere la prima volta da Bonifacio Arcivescovo di Magonza; e tre anni da poi da Stefano R. P. Carlo stesso ben due volte fu unto ed incoronato, ed imitando suo padre fece far l'istesso a' suoi figliuoli Pipino Re d'Italia e Lodovico Re dell'Aquitania[417]. Queste cerimonie adunque non danno Imperj o Regni, ma suppongono colui che le vuole già Imperadore o Re; siccome non minor vanità sarebbe, dal giuramento che diede Carlo di voler essere Protettore e Difensore per quanto potrà della Chiesa romana, ricavarne alcun frutto, come se quello fosse stato un giuramento di fedeltà o di ligiomaggio, come alcuni hanno pur sognato.

Ma siccome i Pontefici romani niente possono ricavar da questo fatto; molto meno ne potè ricavar Carlo stesso o gli altri Imperadori suoi successori da sì augusto e spezioso titolo, rispetto agli altri Principi, che a lui non eran sottoposti. Niuna ragione potè di nuovo recarsegli a riguardo degli altri: e perciò quei Principi ritennero i loro Reami liberi ed independenti, onde non ragione vantano esser veri Monarchi, ed i loro Stati vere Monarchie: perciò i Re di Spagna, [327] che liberi ed assoluti Signori furono sempre de' loro Reami, vantano con ragione il Regno loro esser Monarchia, nè per conto alcuno all'Imperio d'Occidente sottoposto. Il Regno d'Inghilterra, dicono i Franzesi e con essi Gujacio[418], che un tempo salutò l'Imperio come Feudatario, ma gl'Inglesi, e per essi Arturo Duck[419] costantemente lo niegano. Carlo istesso, siccome tutti gli altri Imperadori suoi successori, usarono in Italia la loro Sovranità e Signoria, non perchè forse questo titolo d'Imperadore portasse loro questa ragione, ma come Re d'Italia ch'egli era, e siccome furono i suoi successori, i quali si fecero per ciò in Milano acclamar per tali, ed ungere ed incoronare da quello Arcivescovo; ed aggiunsero alle leggi longobarde altre lor proprie, non come Imperadori, ma come Re d'Italia e successori de' Re Longobardi. Venne sì bene in pensiero a Carlo M., come narra Paolo Emilio[420], d'unire all'Imperio la Francia e sottoporla alle leggi di quello, ma i Grandi di Francia abborrirono tal unione: Cur milites tuos, dicevano, Regnum tuum, Franciam tuam, Imperii provinciam facere studes Imperioque subjicere? Ond'è che i Franzesi pretendono, che più tosto l'Imperio fosse membro della Monarchia franzese, che la Francia dell'Imperio.

Che che ne sia, egli per quel che riguarda il nostro instituto, è da notare, che Carlo M., con tutto questo suo augusto titolo d'Imperadore, niente rilevò sopra il nostro Ducato di Benevento, sopra quel di Napoli, e sopra ciò che ritenevano ancora i Greci in [328] queste nostre province; ond'è che questo Regno dall'Imperio novellamente surto d'Occidente fu riputato sempre diviso ed independente, e perciò con ragione vanta i pregi d'una vera Monarchia. Si renda più che mai Augusto e con titoli e con fatti eccelsi Carlo M., che all'incontro Grimoaldo Principe di Benevento non vuol al suo Imperio sottoporsi. Le guerre mosse da lui e dal suo figliuolo Pipino contro Grimoaldo, ora più che mai proseguono ostinate e crudeli; e Grimoaldo altamente si protestava di voler esser sempre libero così come egli era nato, resistendo sempre a tutti i Franzesi ed a Pipino impegnato per abbatterlo, e di ridurre, benchè invano, sotto la sua dominazione Benevento. E non pure i Popoli di quelle città del nostro Regno, ch'erano rimase sotto l'Imperio de' Greci, non riconoscevano Carlo per Imperador romano, reputando questo titolo proprio dell'Imperador di Costantinopoli; ma gli stessi Beneventani erano ancora di ciò persuasi, tanto che l'Anonimo Salernitano non merita que' rimproveri dal Pellegrino, se nella sua istoria, introducendo que' Vescovi che davano questo titolo a Carlo M. dice, che essi glie lo davano, perchè così lo chiamavano tutti i suoi Corteggiani e quella gente che portava seco; poichè, e dice, non può in niun modo chiamarsi Imperadore, se non colui, che presiede nel Regno romano, cioè costantinopolitano: e che i Re di Francia allora s'usurpavano quel nome, che essi prima non avevano mai avuto[421]: nome che per lunga serie d'anni fu sempre contrastato a' successori [329] di Carlo dagl'Imperadori d'Oriente; poichè se bene l'Imperadrice Irene e poi Niceforo avessero proccurato tener alleanza con Carlo, e regolando i termini dei due Imperj, per porvi ben fermi limiti, e per togliere ogni occasion di contesa, avessero riputato avere il Principato di Benevento, come un confine ed una barriera, e col trattato che fu tra di loro conchiuso, avessero confermato il titolo d'Imperadore a Carlo M., nulladimeno gl'Imperadori d'Oriente successori di Niceforo, rompendo tutti i preceduti trattati, mossero ai di lui successori non solamente guerra per le province, che pretendeano essere state tolte al lor Imperio, ma anche per questo nome d'Imperadore, che non vollero a patto veruno accordargli; nè mai Imperadori o Re d'Italia, ma solamente Re di Francia erano da essi nomati. Anzi l'Imperadore Basilio, avendogli i Legati del Pontefice Adriano II recate alcune lettere, nelle quali il Re Lodovico si chiamava Imperadore; ordinò che si radesse in quelle il nome d'Imperadore, e mandò un suo Legato a Lodovico, al quale per sue lettere esortò, che per l'avvenire s'astenesse dal nome d'Imperadore; ma alle querele di Basilio, Lodovico rispose con una ben grave e forte lettera, che vien rapportata dal Baronio[422] ne' suoi Annali e da Federico Morelli[423] nelle note a' Temi di Costantino Porfirogenito, il quale pure, imitando l'esempio di Basilio suo avo, non diede mai nome d'Imperadore a' successori di Carlo, chiamandogli semplicemente Re di Francia. Rimasero adunque queste nostre province, sin dal tempo che risorse il nuovo Imperio d'Occidente, distaccate ed [330] independenti dall'Imperio, quando lo tennero i Franzesi, e molto più quando ristretto in una parte della Germania, pervenne in mano degli Alemanni e d'altre Nazioni, come chiaramente vedrassi nel corso di questa Istoria.

Carlo intanto, mandati che ebbe ad intercession di Lione in esilio i suoi accusatori (poichè egli l'aveva condennati a pena capitale) trattenendosi nel principio di quest'anno 801 in Roma, partì poi da questa città nel mese d'Aprile, e portossi in Pavia, dove volle agli editti de' Re longobardi suoi predecessori aggiungere nuove leggi, che allo stato presente d'Italia fossero più conformi e necessarie. Molte altre leggi stabilì intorno alle cose ecclesiastiche, praticando all'uso di Francia, di convocare prima di promulgare, non pur l'Ordine de' Nobili, de' Magistrati e de' Giudici, come facevano i Longobardi, ma anche l'Ordine ecclesiastico de' Vescovi, Abati ed altri Prelati della Chiesa; poichè in questi tempi l'Ordine del Terzo Stato non era ancora entrato in Francia a parte ne' comuni affari e deliberazioni[424]. Queste sue leggi, ch'egli stabilì in Pavia come Re d'Italia, si leggono ancora nel Codice Cavense dopo gli editti degli altri Re longobardi suoi predecessori: ond'è che ne' tre libri delle leggi longobarde il compilatore de' medesimi v'inserì anche alcune di quelle, fra le quali una[425] ve n'è, dove non meno a' Romani si lasciano intatte le loro leggi, e che secondo quelle dovesser vivere, che a' Longobardi le loro; e testifica Carlo Sigonio[426] conservarsi anche in Modena queste leggi, rapportando il proemio delle medesime [331] consimile a quelli che i Re longobardi solevan preporre a loro editti. Ciò che i Goti ed i Longobardi chiamarono Editti, i Franzesi appellarono Capitolari. Furono così chiamati, perchè, come dice Doujat[427], erano disposti per capitoli, ovvero capi. Al di loro esempio gli altri Principi chiamaron pure le loro leggi Capitolari: anche i nostri Principi longobardi, con tutto che fieri ed ostinati nemici de' Franzesi, non si sdegnarono in ciò imitargli; onde le leggi che nel Principato di Benevento furono stabilite da que' Principi, Capitolari si dissero; e presso Camillo Pellegrino si leggono perciò i Capitolari d'Arechi, di Sicardo, di Radelchisio e d'altri Principi beneventani.

Non pure lasciò Carlo intatte le leggi romane e le longobarde, ma, per quanto la condizione di que' barbari ed oscuri tempi comportava, si sforzò di restituire la giurisprudenza romana in qualche lustro. Si riconosceva questa e si racchiudeva non già, come si è veduto, da' libri di Giustiniano, de' quali in questi tempi in Occidente poca era la notizia e molto minore l'autorità; ma dal Codice di Teodosio e dal suo Breviario compilato per Alarico: e quantunque distratto da varie militari cure, e per la mancanza de' Professori e per l'ignoranza del secolo, non potesse ridurre ad effetto il suo desiderio, emendò però come potè meglio il Breviario d'Alarico, donde la legge romana era nel Foro a' Giudici allegata.

[332]

L'esempio del padre imitò Pipino Re d'Italia: ci restano ancora di lui i suoi Capitolari[428], che come Re d'Italia promulgò, i quali parimente dopo gli editti de' Re longobardi leggiamo nel mentovato Codice Cavense: molte sue leggi perciò da quelli estratte, vediamo inserite nel volume delle leggi longobarde[429]: donde si vede chiaro, che le leggi che Carlo e gli altri Imperadori d'Occidente suoi successori stabilirono come Re d'Italia, e che si vedono inserite nel Corpo delle leggi longobarde, ebbero in Italia forza e vigore, non perchè fatte come Imperadori, ma come Re d'Italia ch'essi erano. Così Pipino che non fu mai Imperadore (onde devono emendarsi nel volume delle leggi longobarde quelle iscrizioni, che portano alcune sue leggi d'Imperator Pipinus) perchè vivente l'Imperador Carlo suo padre era stato costituito Re d'Italia, fece perciò come tale le sue leggi, le quali in essa ebbero tutto il vigore, e fra le leggi longobarde de' Re furono annoverate.

Morì Pipino sul fine dell'anno 810 da poi che Carlo suo padre avea conchiusa in Aquisgrana la pace con Niceforo, e morì assai giovane in età di trentatre anni, l'anno 29 del suo Regno, non lasciando che un figliuolo naturale chiamato Bernardo in età di dodici in tredici anni, il quale due anni da poi fu dall'avo creato Re d'Italia.

Un anno appresso, sul fine del 811, trapassò ancora Carlo primogenito dell'Imperadore, a cui il padre [333] avea destinata la Francia colla Turenna ed una parte del Regno di Borgogna, e morì senza lasciar figliuoli: di maniera che de' tre figliuoli che egli avea destinati per successori ne' suoi Stati, non gli rimase che Lodovico Re dell'Aquitania; perciò associollo all'Imperio, e lo fece coronare in Aquisgrana nel mese di settembre dell'anno seguente 813. Morì pure in fine, dopo aver regnato 47 anni in età di 70 l'invitto Carlo, Principe che riempiè il Mondo della sua fama, e che meritamente acquistossi il soprannome di Grande: morì in Aquisgrana l'anno 814 il dì 28 del mese di gennajo, lasciando per suo successor dell'Imperio e dei Regni di Francia, di Aquitania e di Germania Lodovico suo figliuolo, soprannomato il Pio, ovvero il Buono, e Bernardo suo nipote Re d'Italia.

CAPITOLO VI. Di Grimoaldo II, Sicone e Sicardo Principi di Benevento; della pace che formarono co' Franzesi, e delle guerre che mossero a' Napoletani.

Intanto al Principato di Benevento, per la morte accaduta nel 806 di Grimoaldo senza lasciar di se prole maschile (poichè Gottifredo era a lui premorto), era stato innalzato un altro Grimoaldo, che fu suo Tesoriero, onde con manifesto errore il Sigonio reputò un solo Grimoaldo questi due. Fu questi un Principe di genio tutto diverso dal suo predecessore, di soavi costumi, e molto alla pace inchinato, il quale per liberar il suo Stato dalle continue scorrerie de' Franzesi, si risolse di pattuire con quelli una ben ferma [334] pace, ed essendo morto Pipino, mandò a questo fine suoi Legati all'Imperadore, il quale non ancora avea dichiarato Re d'Italia Bernardo suo nipote. Carlo che si trovava allora distratto contro i ribellanti Bretoni, e contro gli Schiavoni, vi diede orecchio, e contentandosi del tributo offerto da Grimoaldo, fermò con lui la pace[430]. Da questo tempo innanzi il Principato di Benevento rimase tributario agl'Imperadori d'Occidente come Re d'Italia, ed i Beneventani per lungo tempo furono in pace con i Franzesi.

Diede Grimoaldo all'incontro la pace a' Napoletani: questi due Popoli, Beneventani e Napoletani, furono quasi sempre in contese, e non mancavano, come emoli e vicini continue occasioni di guerre. Questo Principe pose fra loro pace: ma il di lui destino portò, che quella non guari durasse, per un'occasione che saremo a raccontare. Governava in questi tempi il Ducato napoletano per l'Imperador Lione soprannomato l'Armeno, Teodoro Duca e Maestro de' soldati, il quale fermata ch'ebbe la pace con Grimoaldo, amministrava il Ducato con somma quiete e tranquillità; ma un nobile beneventano chiamato Dauferio e per difetto di lingua soprannomato il Balbo, di torbido ingegno e di spiriti ambiziosi turbò pace sì tranquilla; poichè questi con somma ingratitudine congiurando contro Grimoaldo, da cui in molta stima era tenuto, eragli venuto in pensiero, dovendo passar questo Principe, mentre approssimavasi a Salerno, per un ponte di sbalzarlo e precipitarlo in mare[431]: ma scopertasi la congiura, passando egli sano e salvo il ponte, fece imprigionar tosto i congiurati: Dauferio che non ritrovossi [335] presente, ciò conosciuto, tosto si pose in fuga, e verso Napoli s'avviò, dove da' Napoletani fu accolto, ed il Duca Teodoro lo ricevè sotto la sua protezione. Se ne offese a dovere il Principe Grimoaldo, onde per vendicar questi torti, ragunato all'istante come potè meglio le sue forze così terrestri, come marittime, verso Napoli incamminossi, e giunto vicino alle mura, vide opporsi a lui molta gente, che tutti erano in arme per ributtarlo. Allora Grimoaldo tutto acceso d'ira e di sdegno tentò ostinatamente di combatterla. Si pugnò ferocemente e per mare e per terra, e fu tanta la strage de' Napoletani, che per sette e più giorni sì videro l'acque del lido del mare bruttate del sangue de' morti, narrando Erchemperto[432], che sino a' suoi dì in terra si vedevano i tumuli de' cadaveri degli uccisi, essendo restati sul campo cinquemila morti in quella battaglia: solamente il Duca Teodoro e l'infame Dauferio scamparono dalla battaglia salvi, e datisi in fuga ed inseguiti, riuscì loro finalmente porsi dentro le mura della città; ma non perciò trovarono quivi riposo, poichè piene d'ira e baccanti colle armi alle mani furono inseguiti dalle donne napoletane, i mariti delle quali eran rimasi uccisi nella precedente battaglia, ad alta voce sopra di essi gridandogli per traditori ed infami, e che rendessero loro i mariti, già che per essi erano stati morti, avendo mossa così ingiusta guerra a' Beneventani. Intanto Grimoaldo inseguendo i fuggitivi giunse insino alla Porta Capuana, che trovatala chiusa, col suo stocco la percosse, nè quivi era chi potesse resistergli. I Napoletani serrate tutte le porte, dentro le mura si chiusero [336] della città, pensando a difendersi come si potea il meglio. Sedati intanto per opra del Duca i tumulti e gli schiamazzi delle donne, cominciò a maneggiarsi la pace, e fu cotanta la destrezza e l'efficacia di Teodoro, che placato Grimoaldo, Principe per altro mitissimo e molto inclinato alla misericordia, gliela concedette: si contentò per ammenda d'ottomila scudi d'oro e che gli fosse restituito Dauferio; e fu tanta la sua clemenza, che non solo gli perdonò tutti i tradimenti e ribaldarie, ma anche l'accolse nella sua grazia e nel pristino favore.

Ma il destino di questo Principe non finì qui per perderlo; poichè non così tosto Grimoaldo fu salvo di questa congiura, che pochi anni dapoi glie ne fu ordita un'altra irreparabile, per la quale finalmente riuscì a' congiurati d'ammazzarlo. Capi di questa congiura furono Radechi Conte di Consa e Sicone Castaldo d'Acerenza. Era Sicone uomo di gran autorità in Spoleto, e per doversi opporre a' disegni di Pipino era entrato in sua disgrazia; onde di lui temendo, ricovrossi come in sicuro asilo a Benevento, ed accolto dal Principe Radechi lo creò Castaldo d'Acerenza, lo nudrì presso di lui con tanta affezione e grazia che lo pose in isperanza di doverlo lasciare suo successore[433]: Grimoaldo suo figliuolo l'amò anche; ma vedutosi egli da poi posposto a questo il Grimoaldo, di mal animo lo sofferiva, aspirando sempre al Principato: unitosi perciò con Radechi, tese insidie a questo infelice Principe, il quale fu ucciso da costoro nell'anno 817, ed in suo luogo, guidando il tutto Radechi, fu da' Beneventani al Principato di Benevento [337] innalzato Sicone ancorchè straniero. Radechi pentitosi poscia d'una tanta scelleratezza si rendè poco da poi Monaco in Monte Cassino[434].

§. I.  Di Sicone IV Principe di Benevento.

Sicone quarto Principe di Benevento, per regger con più sicurtà e stender più oltre il suo Principato sopra i Napoletani, nel primo anno del suo regno ristabilì di nuovo la pace già prima fatta da Grimoaldo co' Franzesi, ed in quest'anno 818 confermolla con Lodovico il Buono, il quale, per la morte di Bernardo, era succeduto anche nel Regno d'Italia, promettendogli parimente il tributo. Da poi dal suo genio torbido ed ambizioso fu portato a movere aspra e crudel guerra a' Napoletani, avendo intanto assunto per Collega Sicardo suo figliuolo, a cui diede per moglie la figliuola di Dauferio[435].

Il pretesto si narra che fosse, per aver i Napoletani discacciato Teodoro loro Duca, molto suo stretto e caro amico, e per aver eletto in suo luogo Stefano. Cinse Napoli per mare e per terra di stretto assedio, infinchè buttata a terra una parte della muraglia verso il mare, per quivi già meditava col suo esercito entrar trionfando; e sarebbegli certamente riuscito allora, ciò che i suoi predecessori non poteron mai conseguire, di sottopor Napoli al suo Principato, se l'astuzia e l'inganno del Duca Stefano e de' Napoletani non fossero stati pronti; poichè avendogli il Duca dimandata la pace, con offerirgli la città, che si rendeva già al vincitore, gli chiese che per allora si trattenesse d'entrarvi, [338] potendo ciò fare la mattina del giorno seguente nella quale avrebbe più gloriosamente potuto entrar trionfando[436]: ed acciocchè Sicone prestasse a lui tutta la fede, gli mandò per ostaggi pegni assai cari, la propria madre e due suoi figliuoli. Gli credette Sicone, e mentre s'apprestava la mattina del seguente giorno per entrar nella città tutto fastoso e trionfante, i Napoletani presto presto, la notte che si frappose, rifecero la muraglia e tutti la mattina per tempo si fecero veder pronti alla difesa. Arse di rabbia e di sdegno Sicone con Sicardo suo figliuolo, nè lasciarono di batter la città più ferocemente e con maggior ostinazione per obbligarla a rendersi. Ma ostinati ugualmente i Napoletani, respinsero con ugual ardire e ferocia gli assalti: tanto che per molto tempo appresso durò questa guerra vie più ostinata e crudele. I Napoletani da dura necessità costretti, e vedutisi negli estremi perigli, finalmente pensarono di ricorrere agli aiuti di straniere forze: lontani eran gli aiuti dell'Imperador d'Oriente, il quale implicato in altre imprese a tutto altro avea l'animo rivolto, che di soccorrer Napoli. Risolsero per tanto di ricorrere al presidio de' Franzesi; ed avendo mandato a sollecitar l'Imperador Lodovico, furon loro dal medesimo somministrati, aiuti e ancorchè piccioli, nulladimeno furon tali, che per qualche tempo poterono prolungare la difesa e render vani gli sforzi di Sicone. Ma poichè da questi Principi stranieri, come distratti in cose più premurose, non si continuavano i soccorsi, e dall'altra parte in Sicone non si vedeva per niente scemata la ferocia e l'ostinazione; non potendo i Napoletani sostenere [339] più lungamente l'assedio, proccurarono per mezzo del loro Vescovo Orso di trattar la pace con Sicone, con quelle condizioni meno dure che si potesse. Fu tale l'efficacia ed il modo di questo Prelato, che portatosi da Sicone, tanto lo pregò, che finalmente gliela concedette con questi patti: che da allora avanti dovessero i Napoletani pagar a' Principi di Benevento ogni anno il tributo, che chiamarono Collatam: e che il corpo di S. Gennaro, Vescovo che fu di Benevento, che i Napoletani tenevano nella sua Basilica fuori le mura, e ch'egli si avea già tolto, seco nel potesse portare in Benevento. Furono accordati i patti e dati gli ostaggi; con solenne giuramento promettendo il Duca ed i Napoletani di pagar ogni anno il tributo infra loro accordato. Ecco come rimase il Ducato di Napoli tributario al Principato di Benevento, siccome fu per molti anni appresso nel tempo degli altri Principi suoi successori. Sicone fece ritorno in Benevento, ove seco con gran tripudio condusse il corpo di S. Gennaro, che ivi per molto tempo fu venerato[437]. Altri aggiungono, che il Duca Stefano fosse stato scacciato da Napoli e che per opra di Sicone fosse stato fatto uccidere da' Napoletani stessi, i quali in suo luogo crearono Buono per lor Duca.

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§. II.  Prima invasione de' Saraceni in queste nostre Contrade.

Intorno a questi medesimi tempi (narra Erchemperto Scrittor contemporaneo) cominciarono le scorrerie de' Saraceni in queste nostre contrade; poichè venuti dall'Affrica, a guisa di sciami d'api ingombrando la Sicilia, dopo aver preso Palermo, e devastate le città e terre di quell'isola, oltrepassando il mare, assalirono queste regioni, e prima in Taranto sbarcati, portarono a' Greci e poi a' Longobardi beneventani tante rivoluzioni e disordini, che miseramente afflissero queste nostre province.

Li Saraceni egli è certo, che sono venuti da quegli Arabi, che erano discesi da Ismaele figliuolo della fantesca Agar, i quali per questo furono chiamati Ismaeliti ed Agareni; perciò, per coprire questa origine che veniva loro rimproverata, presero un nome più onorevole e si chiamarono Saraceni, come se Ismaele loro padre fosse venuto di Sara moglie d'Abramo: così ne discorre un Autor greco[438], benchè i dotti[439] nella lingua e nell'istoria arabica stimino, che gli Arabi abbian preso questo nome da una delle più nobili parti del loro paese nominato Sarac. Altri dissero, che gli Arabi presero il nome di Saraceni dal modo di vita pastorale e vagante, che menavano in campagna fra le arene infelici della Beriara, i quali secondo l'invito del pascolo mutavano abitazione.

(Ma Adriano Relando, nella sua Palestina [341] illustrata [440], crede che gli Arabi chiamavano Saraceni questi Popoli, perchè abitavano ne' luoghi rivolti ad Oriente, ed Eduardo Pocockio in Notis ad Abulfaraium p. 34 dice lo stesso, che i Saraceni universalmente siano li stessi, che Orientali, onde Ludewig in Vita Justiniani M. C. 8. §. 138 num. 847 pag. 585, confermando lo stesso, scrisse: Sharak Oriens, Saraceni Orientales universim incolae praesertim Arabiae).

Avanti a Maometto erano divisi in molti piccioli Regni, e professavano anche differenti religioni: gli uni avevano abbracciato il Giudaismo, erano gli altri Sammaritani; ve ne fu medesimamente de' Cristiani, e la maggior parte erano Pagani. Ma da poi che nell'anno 623 questo Impostore ebbe pubblicata la sua legge e stabilita a forza d'armi, tutti finalmente la riceverono e si sottomisero al di lui Imperio, riconoscendolo non meno per Padrone che per Profeta.

Dopo la morte di questo famoso Impostore, accaduta nell'anno 632, i Principi arabi di lui successori gettandosi sopra le terre dell'Imperio, si renderono in pochi anni padroni della Palestina, Giudea, Siria, Fenicia e dell'Egitto. Impadronironsi poi della Mesopotamia, di Babilonia e della Persia: indi fatti più potenti e formidabili, v'aggiunsero l'Armenia, donde si diffusero nelle province dell'Asia minore: e fatti anche potenti in mare conquistarono le isole di Cipro e di Rodi; dall'altra parte verso Mezzo giorno, passati dall'Egitto in Affrica, ne scacciarono facilmente i Greci e vi presero in fine Cartagine. Quindi rendutisi Signori di tutto il paese in pochissimo tempo, e rinforzati da quella moltitudine innumerabile di Mori [342] affricani, i quali abbracciarono il Maomettismo, presero l'opportunità, che loro si presentò d'invadere la Spagna.

Passati anche dall'Affrica in Sicilia posero nell'anno 820 in iscompiglio quell'isola, e con incendj e saccheggiamenti menavano in cattività i Cristiani. Distesero le leggi dell'Alcorano sopra tutte le province debellate: da Abubekir, Alì Mortozà, Omar ed Odonan che furono i primi successori di Maometto ed espositori del suo Alcorano, ne uscirono le quattro Sette: l'una fu abbracciata dagli Arabi e Mori; l'altra dai Persiani; la terza da' Turchi; e l'ultima da' Tartari.

Dalla Sicilia sbarcati a Taranto ne discacciarono i Greci, e posero in ispavento e terrore quella regione; ma maggiori furono le calamità, quando per le discordie interne de' nostri Principi furono da essi chiamati per ausiliarj; onde tutto andò in ruina e desolazione come più innanzi narreremo.

Avea intanto l'Imperador Lodovico in una Adunanza generale tenuta in Aquisgrana nell'anno 817 associato all'Imperio Lotario suo primogenito, dichiarandolo anche Re d'Italia; ed a' due altri suoi figliuoli, a Pipino diede l'Aquitania, ed a Lodovico la Baviera. Confermò poi questa divisione nell'anno 821 in un'altra Adunanza tenuta in Nimega; ma entrata, per questa divisione, nella famiglia regale grave discordia, l'Imperio si rese molto indebolito, tanto che a lungo andare, uscito dalle mani de' Franzesi, si vide ristretto in una parte d'Alemagna sotto Principi d'altre nazioni. S'aggiunse ancora, che Lodovico dopo aver divisi i suoi Stati fra i suddetti tre figliuoli natigli da Ermengarda, casatosi con Giuditta sua seconda moglie, n'ebbe da questa un altro nomato Carlo, al quale, [343] a persuasione della medesima, fu assegnata da principio l'Alemagna, la Rezia e la Borgogna; e poichè ciò diminuiva la parte degli altri, eglino se ne mostrarono mal soddisfatti: origine che fu di sì crudeli ed aspre guerre tra costoro contro il proprio padre e la madrigna, che posero sossopra non men la Francia che l'Alemagna. La morte poi di Pipino Re d'Aquitania accaduta nell'anno 838 tornò a sconvolgere l'Imperio, che si vedea alquanto in riposo; poichè avendo questi lasciato due figliuoli Pipino e Carlo, l'Imperadrice Giuditta avea stabilito di privargli del Regno d'Aquitania e di dividerlo fra il suo figliuolo Carlo e Lotario, senza farne parte a Lodovico di Baviera. Ma Lodovico, postosi alla testa delle sue truppe, tentava impedire questi disegni; e dall'altra parte gli Aquitani gridarono per loro Re uno de' figliuoli di Pipino; ed all'incontro l'Imperador Lodovico vi accorse e vi fece riconoscere per Re Carlo in un Adunanza tenuta in Chiaramonte: poi lasciata sua moglie e suo figliuolo Carlo in Poitiers passò in Aquisgrana e di là entrò in Turingia e costrinse Lodovico a riritirarsi in Baviera. Convocò poi un'Adunanza in Vormes, dove infermossi ed essendosi fatto trasportare in un'isola dirimpetto ad Ingelheim vicino a Magonza, finì quivi i suoi giorni a' 20 giugno dell'anno 840, mandando prima di morire a Lotario la corona, la spada e lo scettro, insegne della dignità imperiale, che rinuziava ad esso.

Ci rimangono ancora dell'Imperador Lodovico il Pio, come Re d'Italia, alcuni suoi Capitolari, che volle aggiugnerli a quelli di Carlo M. suo padre ed agli editti degli altri Re d'Italia longobardi suoi predecessori, e si leggono nel mentovato Codice Cavense [344] insieme con quelli di Lotario suo figliuolo e successore nell'Imperio, e nel Regno d'Italia, stabiliti nel Pontificato di Papa Eugenio II. Stefano Baluzio raccolse molti altri Capitolari di Lodovico il Pio, che come Imperadore fece in Aquisgrana, nè si dimenticò di questi, che da lui stabiliti come Re d'Italia fra le leggi longobarde s'annoverano[441].

Intanto i nostri Principi beneventani, ancorchè avessero fermata co' Napoletani quella pace, non durò guari che non si venisse di nuovo a romperla, ed a ritornarsi agli atti ostili. Col pretesto che i Napoletani fossero pigri e lenti a pagargli il tributo si rinnovò coll'istesso Principe Sicone la guerra, la qual continuò fin ch'egli visse. Morì Sicone nell'anno 832, dopo aver regnato in Benevento quindici anni, ed i Beneventani gli ersero un magnifico tumulo, in cui in molti versi esaltarono i suoi gloriosi fatti, che posto avanti la porta della chiesa Cattedrale di Benevento ora si legge presso Camillo Pellegrino fra gli altri tumuli de' Principi longobardi[442].

§. III.  Di Sicardo V Principe di Benevento.

Sicardo suo figliuolo, che ancor vivente suo padre fu partecipe del Governo, gli successe nel Principato, il quale vedutosi solo a regnare, volle nella ferocia e crudeltà di gran lunga superar suo padre. Proseguì la guerra co' Napoletani col pretesto, che non gli pagavano il tributo, i quali però gli fecero tal resistenza sotto Buono lor Duca, a Stefano succeduto, ch'essendosi [345] i Beneventani fortificati in Acerra ed Atella, diroccarono questi castelli e posero in fuga il presidio. Durante il breve Ducato di Buono, che non fu più d'un anno e mezzo, sotto l'Imperio di Teofilo, il quale per la morte di Michele il Balbo suo padre reggeva allora l'Oriente, le cose de' Greci in queste nostre regioni e nella Longobardia Cistiberina andarono assai prospere[443]; ma morto questo Duca nell'anno 834 ritornarono i Napoletani nell'antiche angustie: perciò essi piansero amaramente una tanta perdita, e rizzarongli in memoria del lor dolore un magnifico tumulo, ove in versi acrostici colmarono di eccelse lodi le sue virtù ed il suo infinito valore, per avere respinti i Beneventani, ancorchè formidabili e, per forze, di gran lunga a' Napoletani superiori, e discacciatigli da Atella e da Acerra, luoghi ch'essi avean così ben muniti e fortificati. Questo tumulo ancor oggi si vede in Napoli nella chiesa di Santa Maria a Piazza nel quartiere di Forcella, e vien anche rapportato dal Chioccarelli[444] e dal Pellegrino nell'Istoria de' Principi longobardi. Morto Buono fu creato Duca Lione suo figliuolo, il quale non governò più il Ducato di Napoli che sei mesi; poichè tosto ne fu scacciato da Andrea suo suocero.

Ma siccome i Napoletani per poco goderono le tante virtù di Buono, così all'incontro i Beneventani per molto ebbero a sofferire la crudeltà e gl'inumani costumi di Sicardo; poichè questi datosi in braccio a Roffrido suo cognato, figliuolo che fu dell'infame Dauferio, il quale d'iniquità sormontava il padre, per li [346] rei consigli di costui si portò così crudelmente co' Beneventani, che gli pose nell'ultima disperazione. Per le sue ingannevoli arti e modi accorti avevasi Roffrido posto in mano il cuore di Sicardo, e ridottolo in tanta servitù, che niente operavasi senza il suo consiglio. Roffrido fu l'autore di tutte le scelleratezze adoperate da questo Principe: egli in prima colle sue arti fallaci l'indusse senza cagione veruna a mandar a perpetuo esilio Siconolfo fratello di Sicardo: fece imprigionare quasi tutti i Nobili beneventani, e molti condennare a morte: e ciò per fine sì reo, affinchè Sicardo abbandonato così da' congiunti, come da' suoi Baroni, essendo interamente posto nelle sue mani, potesse un dì più facilmente farlo morire, ed egli occupare il Principato. Per questi medesimi perversi disegni fece, che Sicardo facesse tosare i capegli a Majone suo cognato ed in un monastero lo chiudesse; fece strangolar Alfano, il più fedele e forte, ed il più illustre uomo che avesse quell'età; tanto che i Beneventani, non potendo più soffrire tanta indignità e sì dura tirannia, finalmente furono risoluti di trovar modo d'uccidere il proprio lor Principe.

Intanto da Sicardo con ugual ardore si proseguivano le guerre co' Napoletani, i quali non potendo a lungo andare sostener le forze d'un sì potente e crudel nemico, si risolsero finalmente per mezzo del loro Vescovo Giovanni, accoppiandovi anche l'autorità di Lotario I, Imperatore ed insieme Re d'Italia, a chi erano ricorsi, di ristabilir di nuovo la pace co' Beneventani. L'opera e l'industria del Vescovo Giovanni fu cotanto efficace, che se bene da Sicardo non potesse ottener pace perpetua, l'ottenne però per cinque anni. Al che Sicardo ne men sarebbe venuto, se Andrea, [347] che allora governava il Ducato napoletano, avendo chiamato in suo ajuto i Saraceni, non l'avesse per timore de' medesimi fatto venire a concluderla[445]: siccome l'evento lo rese chiaro, perchè rimandati che n'ebbe Andrea i Saraceni, Sicardo cercava differirne la conchiusione: ma essendo ricorsi i Napoletani a Lotario, vi mandò questi Contardo, il quale operò, che la pace fosse con effetto stabilita (dopo il corso di sedici anni di continua e crudel guerra) nell'anno 836, e furono di buona fede accordati i patti con Giovanni Vescovo ed Andrea Duca.

L'istromento di questa pace o sia il Capitolare di Sicardo fatto per la medesima, noi lo dobbiamo alla diligenza di Camillo Pellegrino[446], dove molte cose notabili s'incontrano intorno a' riti ed alle leggi di questi Popoli. Si rende ancora per questo istromento manifesto quanto in que' tempi si stendessero i confini del Ducato napoletano e quali fossero i luoghi adiacenti ed a quello soggetti. Si vede chiaro, che oltre a Sorrento ed alcuni altri vicini castelli, abbracciava anche Amalfi: che i patti e le convenzioni si regolavano secondo le leggi longobarde, che in questi tempi erano la ragion dominante. Si conviene ancora espressamente, che i Napoletani, siccome avean promesso in vigor dell'altra pace firmata con Sicone padre di Sicardo, continuassero a pagare a' Principi di Benevento ogni anno il solito tributo, altrimente che potessero essere pegnorati. Che fra questi due Popoli vi fosse, durando i cinque anni della pace, perfetta amicizia, e che vicendevolmente non s'impedissero i [348] loro negozj e traffichi, fossero per mare o per fiume o per terra: che si restituissero con buona fede i fuggitivi dell'una e dell'altra parte e le loro robe: e molte altre capitolazioni ivi si leggono, che non fa mestieri qui rapportare.

Conchiusa questa pace, narrasi, che i Saraceni da Sicilia sbarcati a Brindisi occupassero quelle città e depredassero i luoghi convicini, ma accorsevi tosto Sicardo per reprimere questa irruzione; ancorchè fosse stato ne' primi incontri rispinto, ristabilito meglio il suo esercito, di nuovo andò ad assalirgli; onde vedendo i Saraceni non poter resistere, datovi prima il sacco, bruciarono Brindisi, e fatti schiavi molti di que' cittadini, co' medesimi e con la preda fecero in Sicilia ritorno.

Narrasi ancora, che intorno a' medesimi tempi, surte fra gli Amalfitani gravi discordie, molte famiglie di quella città fossero andate ad abitare in Salerno, dove da Sicardo furono benignamente accolte; il quale approffittandosi della congiuntura, e vedendo quasi vota quella città d'abitatori, le medesime truppe, che egli avea unite contra i Saraceni, le drizzò per l'assedio d'Amalfi, e rompendo la pace fatta co' Napoletani ritornò a devastare i confini di questo Ducato: di che Andrea Duca fieramente sdegnato, vedendo non poter colle proprie forze reprimere la ferocia del nemico, spedì di nuovo Ambasciadori all'Imperador Lotario, pregandolo di nuovi soccorsi: (ricorrevasi agl'Imperadori d'Occidente, poichè da quelli d'Oriente, per le rivoluzioni della Corte di Costantinopoli, niente potea sperarsi, ed i soccorsi eran molto tardi e lontani) Lotario benignamente ricevutigli, rimandò in Napoli Contardo: ma questi quivi giunto, trovò ch'era cessato [349] ogni pericolo per la morte opportunamente accaduta di Sicardo[447], il quale da' Beneventani stessi era stato poc'anzi ucciso; poichè questo Principe imperversando vieppiù contro i medesimi, e dando l'ultime pruove della sua tirannide ed estrema avarizia, diede in eccessi orribili. Per avidità di denaro carcerò Deusdedit celebre Abate di monte Cassino: spogliò molte Chiese e monasteri de' loro poderi. Tolse per violenza a molti Nobili ed anche a gente di minor condizione le loro sostanze; ed insultò di stupro una nobilissima matrona beneventana. A tutto ciò s'aggiungeva la superbia di Adelchisia sua moglie, e l'ignominia alla quale espose molte matrone beneventane, che le fece denudare con esporle in pubblico per ludibrio della gente, per vendetta che un dì fu lei per casualità veduta nuda da un beneventano.

Ridotti per tanto i Beneventani nell'ultima disperazione, si risolsero d'ucciderlo, ed avendo ben disposti i mezzi, fu il tiranno da' suoi più domestici trucidato l'anno 839 con giusto compenso; poichè siccome Sicone suo padre fece uccidere Grimoaldo, così Sicardo suo figliuolo riportò condegna pena della colpa del padre e delle sue crudeltà e scelleratezze. Non fu pianto da' Beneventani, e perciò di lui non si legge tumulo alcuno in fra gli altri de' Principi beneventani. Morto adunque il tiranno, fu concordemente eletto per Principe di Benevento Radelchisio, che fu Tesoriere di Sicardo, Principe di nobili maniere e di costumi d'ogni virtù adorni: nel cui Principato cominciarono le cose de' nostri Longobardi a declinare, non pure per le scorrerie di straniere nazioni, ma [350] molto più per l'interne discordie de' Principi stessi longobardi, onde si vide finalmente questo Principato diviso in tre Dinastie: origine che fu della caduta dei Longobardi in queste nostre province, come, dopo aver narrato la politia ecclesiastica di questi tempi, si vedrà nel seguente libro di questa Istoria.

CAPITOLO VII. Politica ecclesiastica delle Chiese e Monasteri del Principato beneventano.

Divisa la Chiesa greca dalla latina, e vie più crescendo le occasioni d'una irreconciliabile separazione, e rimanendo sotto l'Imperio greco molte città di queste nostre province, si vide la politia delle nostre Chiese non in tutte uniforme, ma molto varia e discorde: secondando la politia della Chiesa quella dell'Imperio. Il Regno d'Italia trapassato da' Longobardi franzesi sotto Carlo M., che fu eletto ancora Imperadore d'Occidente, era governato da questo Principe non tanto con questo spezioso titolo, quanto come Re, ed amava non meno intitolarsi Re d'Italia, ovvero dei Longobardi che di Francia ed Imperadore. Quindi, ancorchè i nostri Principi beneventani si opponessero alla sovranità, ch'egli come Re d'Italia, e succeduto in luogo de' Re longobardi, pretendeva sopra il Principato di Benevento; nulladimanco il titolo d'Imperadore il rendè da poi più Augusto e più tremendo; e le occasioni, che si presentarono così a lui, come agl'Imperadori Lodovico e Lotario suoi successori, [351] resero i nostri Principi longobardi beneventani agli Imperadori d'Occidente tributari; onde avvenne, che la politia di tutte le Chiese, ch'erano dentro i confini d'un sì vasto ed ampio Principato, s'adattò a quella dell'Imperio d'Occidente, ed alla disposizione che Carlo M. e gli altri Imperadori suoi successori diedero alle Chiese occidentali, delle quali, anche di quelle ch'erano dentro il Principato di Benevento, ne presero cura e protezione. Furono in conseguenza le Chiese di questo Principato sottoposte alla Chiesa latina, e dal Patriarca d'Occidente come prima erano rette e governate: in niente potendo in quelle prevalere il potere e l'ambizione del Patriarca d'Oriente.

Carlo M. adunque eletto Imperadore d'Occidente, e rendutosi per li segnalati servigi prestati alla Chiesa romana cotanto di lei benemerito, spinse Adriano e Lione III, romani Pontefici, a ricolmarlo de' più grandi onori, che si fossero giammai intesi. Fuvvi una vicendevol gara fra essi di liberalità e cortesia. Carlo in profondere province, città, giurisdizione ed altri beni temporali: i Pontefici all'incontro lo ricompensavano di beni spirituali. In cotal guisa terminaronsi a confondere le due potenze, e quando prima i confini che le separavano eran ben chiari e distinti, si resero da poi assai più confusi ed incerti: onde dai savj[448] fu creduto, che Carlo M. venne assai più di quel che fece Costantino M. ad accelerare non meno la ruina della potestà politica dell'Imperio, che della Chiesa stessa, corrompendo vie più la sua antica disciplina.

[352]

Quantunque il Baronio[449] e Pietro di Marca[450] riputino favoloso il Concilio lateranense, che Sigeberto[451] narra essersi convocato da Adriano in Roma, da poi che Carlo ebbe trionfato del Re Desiderio, creduto per vero da Graziano[452] che seguì la fede di Sigeberto, dove narrasi essersi conferita a Carlo M. la potestà d'eleggere il Papa ed ordinare la Sede appostolica; nulladimanco, se a Carlo non fu tal facoltà espressamente conceduta da Adriano per quel Sinodo, siccome fece da poi Lione VIII a Ottone I, ebbe egli in effetto quella ragione, che niun Papa senza il suo consenso e permesso potesse consecrarsi: siasi ciò introdotto per consuetudine, come dice Floro Magistrato[453] che visse ne' tempi di Lodovico Pio: siasi per concessione di Papa Zaccaria, come credette Lupo Ferrariense[454]: sia perchè non volle egli esser riputato meno degl'Imperadori d'Oriente, i quali erano in possesso di confermare il Papa eletto, nè poteva esser consecrato, se prima l'Imperadore non l'approvava; egli è certo, che Carlo disponeva della Sede appostolica a suo modo, con compiacimento degli stessi romani Pontefici, li quali volentieri lo permettevano, così per rendersi grati a Carlo per li tanti e sì segnalati beneficj ricevuti, come anche per togliere affatto ogni speranza agl'Imperadori d'Oriente di racquistare sopra la Chiesa di Roma questa preminenza, della quale, perduto l'Esarcato e Roma, n'erano stati spogliati.

[353]

Stabilì per tanto Carlo l'elezione del Pontefice romano nella stessa guisa appunto com'era stabilito, quando gl'Imperadori d'Oriente dominavano Roma, cioè che fosse il Papa eletto dal Clero e dal Popolo, ed il decreto dell'elezione fosse mandato all'Imperadore, il quale se l'approvasse fosse l'eletto consecrato. Morto Carlo, li suoi successori Lodovico Pio e Lotario si mantennero in questo possesso; e quantunque alle volte i Papi eletti dal Clero e dal Popolo si fossero fatti consecrare, senza aspettar decreto dell'Imperadore, come accadde nell'elezione di Pascale; nulladimanco questi mandò tosto a scusarsi con Lodovico figliuolo di Carlo, che non era ciò proceduto per sua volontà, ma per forza del Popolo, che così aveva voluto. Restituì bensì Lodovico per suoi capitolari la libertà dell'elezioni non pur de' Papi, ma di tutti i Vescovi; ma non perciò derogò all'assenso ed all'approvazione del Principe, come ben pruova l'Arcivescovo di Parigi[455]; anzi questo insigne Scrittore, per la testimonianza di Floro Magistro, Autore contemporaneo, dimostra che Lodovico sempre fu richiesto dell'assenso, nè permetteva la consecrazione senza il suo permesso, rapportando ancora, che dopo l'anno 820 essendo stato eletto Gregorio IV non fu prima ordinato, se non da poi che il Legato di Cesare giunto a Roma non esaminò l'elezione: tanto è lontano ciò che alcuni ingannati dall'apocrifo C. Ego Ludovicus[456], dissero, che Lodovico avesse rinunziata questa facoltà di confermare il Papa eletto. Essendo ancor certo, che non pur Lodovico, ma anche Lotario di lui figliuolo e Lodovico II suo nipote confermarono tutti i Papi [354] eletti nelle loro età[457]: e non se non quando s'estinse in Italia la posterità di Carlo M. nell'anno 884 Adriano III fece decreto, che il Pontefice si consecrasse senza l'Imperadore.

Si prese anche Carlo pensiero d'ordinare le Chiese d'Occidente con suoi Capitolari, convocando di sua autorità i Sinodi, dove fece intervenire non meno i Prelati della Chiesa, che i Signori del secolo, stabilendovi regolamenti non meno per lo temporale, che per la disciplina delle Chiese stesse, facendo egli diverse leggi ecclesiastiche per la distribuzione delle rendite e possessioni delle Chiese e delle decime: rinovando molti degli antichi canoni, ch'erano andati in disuso.

Ma assai maggiore autorità s'assunse Carlo, eletto che fu Imperadore, intorno all'elezione ed ordinazione de' Vescovi, ed il tutto fece con permessione degli stessi romani Pontefici. Restituì egli bensì la libertà a' Popoli ed al Clero d'eleggere li Vescovi, ma prescrisse loro più leggi intorno all'elezione: che dovessero eleggere uno della propria Chiesa o Diocesi: che i Monaci dovessero eleggere l'Abate, dal loro proprio monastero; e con autorità della Sede appostolica, e consenso dei Vescovi fugli ancora attribuito, che dopo eletto il Vescovo o l'Abate si fossero presentati all'Imperadore, e quando fossero da lui approvati, dovess'egli investirgli, dando loro il Pastorale e l'anello[458], e poi dovessero essere consecrati da' Vescovi vicini: donde nacque la ragione delle investiture, per cagion delle quali ne' seguenti secoli sursero tante discordie e contese tra i Papi e gl'Imperadori.

[355]

L'intento suo era, rendendosi in cotal guisa ligi i Vescovi e gli Abati, stabilir meglio il suo Imperio, e contenere i suoi sudditi con più stretti legami nell'ubbidienza. Perciò egli, oltre di aver cotanto innalzata la Chiesa romana, e resala signora di tante città e terre, arricchì anche l'altre Chiese e monasteri di baronie, di contadi e di ben ampj e ricchi Feudi, rendendogli signori temporali de' luoghi ove tenevano i loro benefizj, con unire alla dignità spirituale la temporale, come a quella accessoria e dependente: ed investivagli per la temporalità con l'anello e col Pastorale, ricevendone perciò il giuramento e l'obbligo di molte prestazioni ed angarie, anche del servizio militare, come qualunque altro Feudatario: ciò che da Guglielmo Malmesberiense[459] fu riputato un saggio tratto di fina politica, dicendo che Carlo omnes pene Terras Ecclesiis conferebat, consiliosissime perpendens, nolle sacri Ordinis homines tam facile quam laicos fidelitatem dominii sui rejicere. Praeterea, si laici rebellarent, illos posse excommunicationis auctoritate et potentiae severitate compescere.

Accrebbe Carlo eziandio la conoscenza de' Vescovi, e molto più di quello di Roma: concedè loro Territorio ed il Jus carceris[460], del quale i Pontefici prima di Carlo M., non erano in Roma stessa stati mai in possesso: e gli altri Principi a sua imitazione lo concedettero a' Vescovi delle loro città. Ordinò Carlo di vantaggio ne' suoi Capitolari, che indistintamente tutti i Cherici e Monaci o Monache non potessero essere accusati avanti il Magistrato secolare, ma solamente [356] avanti il Vescovo; e nel civile che potessero dimandar la remissione d'ogni causa innanzi al Vescovo[461]. Questo privilegio fu poi generalmente in ogni causa civile e criminale confermato dall'Imperador Federico I, e la sua ordinanza fu incorporata nel Codice di Giustiniano[462], tanto che passò in legge comune; onde nacque poi quella distinzione, che vi erano due generi d'uomini, Cherici e Laici; i Laici erano subordinati alla giurisdizione secolare, ed i Cherici all'ecclesiastica. E se la bisogna fosse rimasta a questi termini, sarebbe stata comportabile; ma in decorso di tempo, oltre ad essersi la giustizia ecclesiastica maravigliosamente accresciuta per le cagioni, che si noteranno nel progresso di questa Istoria, i Papi ed i Vescovi, a' quali per privilegio de' Principi fur conceduti e Feudi e giurisdizione, spogliarono i Principi dell'investiture ed assensi nelle loro elezioni, e si ritennero i Feudi e la giurisdizione, vantando di vantaggio, che non per loro concessione o privilegio, ma per diritto divino esercitavan essi giurisdizione sopra le persone ecclesiastiche.

I medesimi favori, morto Carlo, furono continuati da' successori del suo sangue all'Ordine ecclesiastico, e Lotario I gli concedè giurisdizione sopra i loro Patrimonj, concedendo a richiesta degli Abati e degli altri Preposti alle Chiese un Giudice particolare in quel luogo, che chiamavasi Difensore, il quale avesse la conoscenza delle cause, proibendo al pubblico Magistrato di potervisi ingerire[463].

[357]

Da questo mescolamento di potenze vicendevolmente comunicate fra' Principi del secolo e Prelati della Chiesa, ne nacquero in questo secolo e nel seguente quei tanti disordini e mostruosità: si videro i Vescovi ed i maggiori Prelati frequentare le Corti de' Principi ed esser de' loro consigli: guidare come Feudatarj truppe d'eserciti armati: impacciarsi ne' governi e nelle consulte di Stato: nè in questi tempi era riputata deformità il vedersi, che chi era Vescovo di Napoli ne fosse insieme Duca; e quello di Capua essere insieme Vescovo e Conte di quella città; ciò che fece loro tener a vile ogni altro esercizio delle cose sacre e spirituali.

Quindi nelle province, che nel Principato di Benevento erano comprese, come tributarie agl'Imperadori d'Occidente, seguitandosi la medesima politia, cominciarono i monasteri e le Chiese ad acquistar Feudi e Baronie; poichè prima di Carlo Magno i Re longobardi nè a' Monaci, nè a' Cherici concedevan Feudi[464], riputando non ben ciò convenire al loro stato; ma i Pontefici romani non vi trovarono niun inconveniente, nè ricusarono la liberalità di Carlo nè degli altri Principi, i quali a sua imitazione di molti Feudi e Contadi arricchirono le Chiese e monasteri; ed avendo avuto l'ordine Arnoldo da Brescia di sostenere, che i Feudi non si potevano concedere alle Chiese, fu nel Concilio di Laterano condennato per eretico[465].

Non fu riputato inconveniente, che la potenza temporale sia annessa e resa accessoria e dependente dal [358] Sacerdozio, e che le Chiese e monasteri investiti dei Feudi, per ciò che riguarda la temporalità, riconoscessero per signor Sovrano il Principe, dal quale n'erano investiti, e per ciò che s'appartiene alla spiritualità ed in tutte l'altre cose il Sommo Pontefice loro Capo e Moderatore. Quindi in decorso di tempo si videro, particolarmente nella Germania[466], più Vescovi, Abati e Priori essere Signori temporali delle città, villaggi e luoghi, dove i loro benefizj erano situati, ne' quali fanno essi esercitare in nome loro, e sotto la loro autorità tutta la giustizia civile e criminale come signori laici. E sembrando cosa molto strana, che per se medesimi esercitassero la giustizia criminale, la fanno esercitare da' loro Ufficiali, li quali per le ordinanze del nostro Regno, non altrimenti che si pratica in Francia, devono essere Laici. Per la qual cosa queste loro Signorie temporali si governano colle medesime regole, che le altre che sono in mano de' Secolari, e non ci si può niente notare di particolare, se non che queste essendo fra i beni ecclesiastici, non sono nè vendibili, ne ereditarie, ma restano perpetuamente attaccate co' benefizj; donde dipende, affinchè la sovranità, che vi tiene il Principe, non riesca inutile ed infruttuosa, togliendosele per ciò ogni speranza di devoluzione, che siano obbligati a tutte quelle prestazioni, che gli altri Baroni sono tenuti, esigendosi perciò in vece di rilevj, i quindennii[467], e riputandosi in ciò come tutti gli altri Feudatarj. Quindi parimente deriva, che presso di noi, secondo l'uso di Francia, le appellazioni, che s'interpongono nelle cause di queste [359] loro giustizie temporali, vanno innanzi a' Magistrati regali, non davanti a' Superiori ecclesiastici[468]: e che le cause debbano essere decise secondo le nostre Costituzioni ed ordinanze del Re e de' costumi de' luoghi, non già secondo il diritto canonico[469].

Il primo fra noi, che per concessione de nostri Principi longobardi abbia posseduto castelli e Baronie, fu il monastero di M. Cassino, onde a ragione il suo Abate oggi vanta essere egli primo Barone del Regno, e che ne' Parlamenti generali fra tutti i Baroni gli appartenga il primo luogo[470]. Marino Freccia[471], dando forse credenza alle favole di Pietro Diacono[472], continuatore della Cronaca di Lione Ostiense, scrisse, che Giustiniano Imperadore avesse donato a questo monastero più città e terre del Regno; quando Lione, che nella sua Cronaca par che non avesse avuto altro in pensiero, che far un inventario di tutte le donazioni e concessioni fatte a quel monasterio da varj Principi e Signori, e da persone private ancora, di cose anche di picciol momento, non ne fa alcun motto: tralasciando che Pietro Diacono accenna privilegi non pur di Giustiniano, ma anche di Giustino seniore, che regnò in Oriente, quando i Goti dominavano tutta l'Italia, e quando S. Benedetto non ancora era passato nella nostra Campagna, e gito a Cassino.

(Niccolò Alemanni nelle note ad Historiam Arcan. Procop. c. 6, dove questo Istorico rapporta, che Giustino [360] per non sapere scrivere fecesi formare certo istromento di legno per sottoscrivere i Diplomi, per lo quale potesse esprimere con quattro sole lettere la sua firma, accuratamente ponderò, che i Diplomi di Giustino, che diconsi conservarsi nell'archivio di Monte Cassino, avendo l'intiero suo nome, siano apertamente apocrifi, dicendo: Audieram in Archivio Cassinensi haberi Justini Diplomata ejusdem manu consignata: ex quibus formam illarum quatuor literarum excipere, earumque longitudinem latitudinemque et apicum ipsorum ingenium summa, qua fieri potuisset industria adamussim exprimere, tibique Lector proponere constitueram. Sed perfertur ad me ibi Justini nomen integrum esse. Quare diplomata, quae aliis etiam de causis suspectae fidei olim Baronio visa sunt, ex hoc Procopii loco imposturae jam quisque facile convincat).

Gisulfo Duca di Benevento, come fu detto, fu il primo che di Castelli e Baronie arricchì questo monastero; onde in decorso di tempo per munificenza d'altri Principi si vide signore anche della stessa città di Cassino, e posseder eziandio Feudi in altre province, come in Calabria il Cetraro, nel Contado di Molise S. Pietro di Avellana, nell'Apruzzi Serra dei Monaci e molti altri in altri luoghi, di cui il Registro di Bernardo Abate e la Cronica di Lione sono buoni testimonj. Quindi gli Abati del monastero Cassinense agli Imperadori d'Occidente, da' quali, secondo il costume, si proccuravan le conferme o sian Precetti, chiamati anche Mundeburdj delle precedute concessioni, prestavano il giuramento di fedeltà, siccome fecero con Lotario II Imperadore, riputandosi perciò quel [361] monastero Camera imperiale[473]: e nella divisione seguita del principato di Benevento tra Radelchisio e Siconolfo, fu perciò eccettuato questo monastero, come immediatamente posto sotto la protezione dell'Imperadore: ed Errico VI concedè all'Abate Rofrido privilegio, esentandolo dalla prestazione di soldati, alla quale come Feudatario era obbligato: ciò che poi non fece il Re Guglielmo il Buono: il quale nella spedizione di Terra Santa, ricevè da questo monastero sessanta soldati e ducento servienti[474].

Non meno i monasteri dell'Ordine di S. Benedetto, che tutti gli altri, in decorso di tempo sotto i nostri Principi normanni, si videro Signori di castelli e Baronie. Cacciati intieramente da queste nostre province i Greci, e l'uso de' Feudi disseminato da per tutto, anche i monasteri sotto l'Ordine di S. Basilio, e sotto altre Regole ebbero Feudi. Quello di S. Elia dell'Ordine di S. Basilio ebbe la terra di Carbone intorno al civile. Gli Abati di S. Marco in Lamis, di S. Demetrio e tanti altri: gli Ordini di S. Giovanni gerosolomitano, di S. Stefano e moltissimi altri di diverse religioni, che possono vedersi presso Ughello, tengono Baronie.

Non meno de' monasteri, le nostre Chiese e' Vescovi ne furono ampiamente arricchiti. L'Arcivescovo di Salerno possedè un tempo le terre dell'Olibano e di Monte Corvino: quello di Taranto la terra delle Grottaglie intorno al civile: l'altro di Consa pure nel civile le terre di S. Menajo e di S. Andrea. L'Arcivescovo di Bari ebbe un tempo Bitritto, Cassano, Casamassima, [362] Modugno, Laterza ed altre terre[475]: quello di Brindisi la terra di S. Pangrazio: quello di Reggio ritiene ancor oggi li castelli di Bova e Castellace: e l'altro di Otranto altre terre. Il Vescovo di Lecce S. Pietro in Lama, a Vernotico ed altri Feudi. Il Vescovo di Bojano dominò un tempo la terra di S. Polo: quello di Tricario la terra di Montemuro; e molte altre Chiese, come quella di Cassano, di Teramo, di S Niccolò di Bari ed altri molti Feudi e Castelli possedono; le quali per non tesserne qui un più lungo catalogo, possono vedersi ne' volumi dell'Ughello della sua Italia sacra. Per la qual cosa quantunque nel nostro Regno lo Stato ecclesiastico non faccia Ordine a parte, come in Francia, ne' Parlamenti generali intervengono i Vescovi e gli Abati per mezzo de' loro Proccuratori, ma come dell'Ordine de' Baroni e de' Signori, non già dell'Ordine ecclesiastico.

Questa era la Politia delle Chiese e de' monasteri in questo nono secolo del principato di Benevento, dipendenti come prima dal Patriarca d'Occidente, ed alla Chiesa latina in tutto uniti. Lo Stato monastico si vide sempre più in maggior splendore e grandezza: molti altri monasteri dell'Ordine di S. Benedetto tuttavia in quello vi si andavano ergendo per munificenza de' Principi beneventani e degli Imperadori stessi d'Occidente. Surse nell'anno 872 per Lodovico Imperadore il monastero di S. Clemente nell'isola di Pescara dell'Ordine di S. Benedetto[476]. Nel Gargano e presso Siponto quelli di Calena e di Pulsano, de' quali ora appena serbasi vestigio.

Benevento si vide anche ornata d'un nuovo santuario; [363] poichè i Saraceni avendo occupata la Sicilia, e devastando nel 831 l'isola di Lipari, ove narrasi che fin dall'India fossero state trasferite l'ossa dell'Appostolo Bartolomeo, violarono anche il sacro deposito, e gettate per terra le gloriose ossa, furono per revelazione dello stesso Santo, da un certo Monaco raccolte e da Lipari in Benevento trasportate[477]; il Principe Sicardo le accolse con somma stima e venerazione, e per lungo tempo furon ivi adorate; ed i Beneventani persuasi, che non fossero state poi da Ottone trasferite in Roma, rendono a quelle tuttavia i medesimi onori ed adorazioni.

I.  Politia delle Chiese del Ducato napoletano e delle altre città sottoposte all'Imperio greco.

Ancorchè nella Chiesa greca non si osservasse tanta deformità e rilasciamento de' costumi e cotanta ignoranza, quanto nella latina, ne' Preti e ne' Monaci; nè i suoi Vescovi, nè gli Abati si fossero veduti possedere Castelli e Baronie, poichè i Greci non conobbero Feudi; nulladimanco assai maggior discordanza in quella si ravvisava per l'ambizione del Patriarca di Costantinopoli, e per la dottrina che sosteneva difforme in alcuni dogmi a quella che insegnava la Chiesa latina, discordante ancora da quella sopra alcuni punti di disciplina, oltre a' riti varj e diversi; onde la divisione si rendè maggiormente ostinata e irreconciliabile. Impugnavano i Greci il primato del Vescovo di Roma, al quale volevano preferire o per lo meno render uguale quello di Costantinopoli. Insorsero perciò vari contrasti [364] intorno a' confini de' loro Patriarcati, e quello di Costantinopoli invase perciò molte province, che s'appartenevano al Patriarcato di Roma. Fuvvi gran contrasto sopra la Bulgaria, pretendendo i Patriarchi di Oriente, ch'essendo stato quel paese tolto a' Greci, e prima governato da' Vescovi greci, al Patriarca di Costantinopoli doveva esser soggetto: ebbero in ciò anche il favore dell'Imperador Basilio e di Lione suo figliuolo, che avea associato all'Imperio; onde la Bulgaria, non ostante le opposizioni ed i protesti de' Legati del Papa, fu aggiudicata a' Greci e cacciati i Vescovi e' Sacerdoti latini.

L'ambizione de' Patriarchi di Costantinopoli, favoriti dalla potenza degl'Imperadori d'Oriente, tolse al Patriarcato d'Occidente molte altre Chiese, le quali al trono di Costantinopoli furono attribuite; onde nacque, che siccome fu fatta nuova descrizione delle province dell'Imperio d'Oriente, partendolo in più Temi, dei quali Costantino Porfirogenito compilò due libri; e nuova descrizione degli Ufficiali del Palazzo e della Camera costantinopolitana, de' quali Codino[478] e Giovanni Curapalata[479] tesserono lunghi cataloghi; così per ciò che s'attiene alla politia della Chiesa greca e del Trono costantinopolitano, i loro Patriarchi proccurarono dagl'istessi Imperadori d'Oriente, che si facesse nuova descrizione, così delle Chiese sottoposte al Trono costantinopolitano, molte delle quali eransi tolte al Trono romano, come degli Ufficiali della gran Chiesa di Costantinopoli, de' quali similmente Codino [365] e Curapalata ed altri presso Leunclavio[480] rapportano i nomi e gli uffici: affinchè quelle Chiese, che si tolsero al Patriarcato d'Occidente, facendosi per autorità imperiale tal disposizione, ovvero Notizia, rimanessero stabilmente affisse e dipendenti dal suo Trono.

Comunemente si crede, che intorno all'anno 887, a' tempi di Lione soprannominato il Filosofo, da poi che il Patriarca Fozio fu scacciato dalla Cattedra di Costantinopoli, si fosse fatta tal disposizione; e Leunclavio[481] fra le novelle di Lione il Filosofo la rapporta; ma Lione Allacci[482] sostiene, che quella fosse fatta alcuni anni prima nel 813 nell'Imperio di Lione Armeno: che che ne sia, si vede per questa disposizione, quanto in questi tempi avessero i Patriarchi d'Oriente stesa la loro autorità sopra molte Chiese, e particolarmente sopra quelle di queste province, che prima s'appartenevano al trono Romano, come province suburbicarie.

Nilo Archimandrita cognominato Doxapatrius in un suo trattato De quinque Thronis Patriarchalibus[483], ch'egli scrisse nell'anno 1143 a Roggiero I nostro Re di Sicilia, per una occasione, che sarà da noi rapportata, quando de' fatti di questo Principe ci toccherà ragionare, fa vedere quanto prima possedeva il romano Patriarca, e ciò che poi fugli tolto da quello di Costantinopoli. Possedeva, egli dice, tutta l'Europa, le Spagne insino alle colonne d'Ercole coll'isole dell'Oceano [366] Occidentale, le Gallie, l'isole Britanne, la Pannonia, tutto l'Illirico, il Peloponeso, gli Avari, i Sclavi, i Sciti insino al Danubio, la Macedonia, Tessalonica, la Tracia insino a Bizanzio, la Mauritania, l'isole del Mediterraneo, Creta, Sicilia, Sardegna e Majorica. Tutta l'Italia, cioè superiores Alpes, et quae ultra eas extenduntur: nec non inferiores Gallias, quae Italiae sunt, sive Lombardiam, quae nunc dicitur Longibardia, et Apuliam et Calabriam et Campaniam omnem et Venetiam et Provincias, quae ultra sinum Hadriaticum se se effundunt. Haec omnia, e conchiude, Romano subdebantur.

Ma da poi al Trono costantinopolitano furono sottomesse molte province e città non meno d'Oriente, che d'Occidente. I Metropolitani di Tessalonica e di Corinto si sottoposero al Patriarca di Costantinopoli, e molti altri Metropolitani ed Arcivescovi seguitarono il loro esempio: Sicilia praeterea, e' soggiunge, et Calabria se Costantinopolitano supposuerunt, et Sancta Severina, quae et Nicopolis dicitur.

Sicilia autem universa unum Metropolitam habebat Syracusanum: reliquae vero Siciliae Ecclesiae Syracusani erant Episcopatus, etiam ipse Panormus et Therma et Cephaludium et reliquae.

Calabria quoque unum Metropolitam Rheginum, reliquas vero Ecclesias Episcopatus Rheginus sibi vendicabat.

Taurianam, in qua Sancti Fantini Monasterium est.

Bibonem, cujus locum occupavit Miletum.

Constantiam, quae Cosentia nunc dicitur et reliquos omnes Calabriae subjectos.

Erat et Sancta Severina Metropolis, habens et ipsa sub se varios Episcopatus.

[367]

Callipolim: Asyla Acherontiam et reliquas: et sunt hae Ecclesiae descriptae in Tacticis Nomocanonis sub Throno Constantinopolitano.

Adnexae itaque Siciliae, Calabriae, Sanctae Severinae Sedes Throno Constantinopolitano, a Romano avulsae: quemadmodum et Creta, sub Romano cum esset, sub Constantinopolitano facta est. Nihilominus Pontifex viles quasdam partes et Episcopatus nonnullos in Sicilia et Calabria habere deprehenditur. Metropoles enim et urbes in eadem illustriores et digniores, Constantinopolitanus possidebat usque ad Francorum adventum; intendendo de' Normanni, i quali avendo discacciati i Greci da queste province, restituirono al Trono romano tutte queste Chiese, le quali a quel Patriarcato s'erano da' Greci tolte, come al suo luogo diremo.

Sic etiam, soggiunge Nilo, in Longobardia et Apulia et in omnibus his Regionibus, maritimas Metropoles antea possidebat Constantinopolitanus, reliquas Romanus, ut Regiones illae per partes possiderentur. Namque Melodus ac Poeta Dominus Marcus, Hydruntum a Constantinopolitano missus fuisse comperitur. Cum autem universae Longobardiae Ducatus, quae vetus Hellas erat, sub Imperatore erat Constantinopolitano, Papa vero separatus sub aliis Gentibus vivebat, propterea Patriarca Ecclesias obtinebat; num Brundusium et Tarentum a Costantinopolitano Sacerdotes accipiebat; idque nullum latet.

Conforme a quanto scrisse Nilo è la disposizione ovvero Notizia de' Metropolitani e de' Vescovi a costoro suffraganei, sottoposti al Trono costantinopolitano, descrittaci dalla Novella di Lione rapportata da Leunclavio. Egli ne fece tal Pianta, con questo ordine.

[368]

Ordo praesidentiae Metropolitanorum, qui subsunt Apostolico Throno Constantinopolis, et subjectorum eis Episcoporum.


Novera tutti i Metropolitani co' loro Vescovi suffraganei, ed in primo luogo colloca il Metropolitano di Cesarea di Cappadocia: nel secondo l'Efesino dell'Asia, e di mano in mano tutti gli altri sino al numero di LVII Metropoli. Nel XXXII luogo vien collocato il trono di Reggio, ovvero di Calabria coi suoi Vescovi suffraganei in cotal guisa.

XXXII Rhegiensis, sive Calabriae.

Nel luogo XLIX vien collocato il trono di S. Severina co' suoi Vescovi suffraganei.

[369]

XLIX. Severianae, Calabriae.

Si pongono appresso quelle metropoli, le quali non hanno Trono a se soggetto, cioè non han Vescovi suffraganei, e fra le altre nel LV luogo si pone Otranto.

Ed in fine separatamente si noverano i Metropolitani co' Vescovi lor suffraganei, che furon tolti al Trono romano e sottoposti al costantinopolitano: quelli che furon tolti dalle diocesi d'Occidente, si osserva essere i Metropolitani di Reggio in Calabria, e di Siracusa in Sicilia.

Avulsi a Dioecesi Romana, jamque Throno Constantinopolitano subjecti Metropolitani, et qui subsunt eis Episcopi, sunt hi.

[370]

Sub Syracusano, Siciliae.

I Greci non potendo alle volte innalzar i Vescovi in Metropolitani, perchè forse loro non veniva in acconcio toglier le Chiese all'antico Metropolitano vicino ed attribuirle al nuovo, solevano quando volevan ingrandire alcun Vescovo, decorarlo col nome d'Arcivescovo, del quale (essendo solo di dignità, non di potestà, come il nome di Metropolitano) coloro che n'eran fregiati, non acquistavano altro, che un maggior splendore e prerogativa sopra gli altri Vescovi di quella provincia, a' quali negli onori erano preferiti ed anteposti: Quosdam Antistites, dice Balsamone, non propterea vocari Archiepiscopos, quod Episcoporum Principes et Ordinatores sint: sed quod primi Episcoporum habeantur[484]. Quindi nella disposizione delle Chiese [371] sottoposte al Trono di Costantinopoli, oltre a' gradi dei Metropolitani, si legge nell'istessa novella di Lione, ed anche nel libro delle Sentenze Sinodiche impresso pure da Leunclavio[485] un catalogo d'Arcivescovi sottoposti al Patriarca d'Oriente, ed infra gli altri al luogo XIV si legge l'Arcivescovo di Napoli, e dopo lui quello di Messina in questa maniera.

Archiepiscopatus.

La politia ed il governo delle Chiese del Ducato napoletano, come compreso nella Campagna, provincia Suburbicaria, s'apparteneva di ragione al Patriarca di Roma, il quale in effetto, com'è manifesto dall'Epistole di S. Gregorio M., vi esercitava tutte le ragioni patriarcali, ancorchè nel politico e temporale all'Imperio d'Oriente s'appartenesse; ma da poi i Patriarchi di Costantinopoli, favoriti dalla potenza degl'Imperadori greci, cominciarono a trattar i Vescovi di Napoli, come di città metropoli d'un non dispregevol Ducato, con fastosi e resplendenti titoli di Arcivescovi, ed attribuir loro molti onori e prerogative, per le quali sopra tutti gli altri Vescovi del Ducato fossero distinti. Si è veduto come Sergio Vescovo di Napoli dal Patriarca costantinopolitano ricevè la prerogativa d'Arcivescovo; ma ripreso dal Pontefice romano, pentitosi dell'errore, impetrò da costui il perdono[486].

[372]

Si opponevano a tutto potere i romani Pontefici a queste intraprese de' Patriarchi di Costantinopoli, ma dopo Lione Isaurico e Costantino Copronimo Imperadori d'Oriente, crescendo vie più la divisione fra queste due Chiese, e resi più audaci i Patriarchi costantinopolitani, per la potenza e favore degl'Imperadori, implacabili nemici de' romani Pontefici, pretesero che i Vescovi di quelle Chiese che erano rimase sotto l'Imperio greco, dovessero riconoscergli per loro Patriarchi; da essi dovessero ricevere le Bolle della Confermazione e della Consecrazione, ed in tutto ciò che riguardava lo spirituale dovessero ubbidirgli, siccome nel temporale ubbidivano agl'Imperadori d'Oriente. E quantunque Bari, Taranto, Brindisi ed altre città della Puglia e di Calabria si vedessero ora sotto la dominazione de' Principi longobardi: nulladimeno, essendogli state poi da' Greci, ritolte e ritornate sotto l'Imperio d'Oriente, come diremo ne' seguenti libri, i Greci parimente soggettarono le Chiese di quella città al Patriarcato di Costantinopoli.

La Chiesa di Napoli adunque, se voglia riguardarsi ciò che osarono i Patriarchi costantinopolitani, fin da questi tempi fu renduta arcivescovile, non già metropolitana, perchè da que' Patriarchi sol per onore fugli dato quel titolo di dignità. In Metropoli fu eretta poi nel decimo secolo da Giovanni romano Pontefice, come diremo al suo luogo; e per questa cagione nelle Novella di Lione e nel libro delle Sentenze Sinodiche, Napoli non vien posta nel numero delle metropoli subordinate al trono di Costantinopoli, ma fra quello [373] degli Arcivescovadi, che il Patriarca d'Oriente pretendeva a se soggetti. Del rimanente, toltone questo onore e questa pretensione che vi aveano, non s'avanzarono alla Consecrazione, poichè i Vescovi di Napoli eletti ch'erano dal Clero e dal Popolo, andavano come prima in Roma a farsi consecrare da' romani Pontefici.

Da ciò nacque, che la Chiesa di Napoli, non essendosi mai separata dalla Chiesa latina, ed all'incontro essendo in città a' Greci sottoposta, e per lo continuo commercio che avea co' Popoli orientali, frequentata da' Greci, ebbe Sacerdoti e Cherici dell'uno e dell'altro rito: due Capitoli, l'un greco[487] e l'altro latino; e più Parocchie e Chiese non men latine, che greche furono erette, le quali a questi tempi ed a tali occasioni, non già a quelli di Costantino M. devono riportarsi. Si noveravano insino a sei greche Chiese parrocchiali, quella di S. Giorgio ad Forum: l'altra di S. Gennaro ad Diaconiam: le chiese de' SS. Giovanni e Paolo: di S. Andrea ad Nidum: di S. Maria Rotonda e di S. Maria in Cosmedin[488]: nelle quali i Sacerdoti secondo il rito greco celebravano i sacrificj ed i divini uffici, i quali ne' dì stabiliti unendosi co' latini nella maggior Chiesa, con promiscui riti, e canto latino e greco lodavano il Signore[489].

Dall'aver avuto Napoli due Cleri, un latino e l'altro greco, credette il nostro Chioccarelli[490], che in Napoli vi fossero parimente stati due Vescovi, l'un [374] greco e l'altro latino, non altrimenti di ciò, che narrasi di Cipri a tempo di Papa Innocenzio IV d'aver avuti due Arcivescovi un latino e l'altro greco: così egli interpretando gli atti della vita di S. Attanasio Vescovo di Napoli. Ma ciò ripugna a tutta l'istoria ed a' tanti cataloghi che abbiamo de' Vescovi di questa città; ne' quali non mai si legge tal deformità nella Chiesa di Napoli; onde il P. Caracciolo[491] riprovò quest'errore, e spiegò l'ambiguità degli atti di quel Santo, compilati per Pietro Diacono Cassinese, che diedero la spinta maggiore al Chioccarelli di così credere.

Il Vescovo adunque di Napoli, ancorchè decorato dal Patriarca di Costantinopoli con nome di Arcivescovo, sopra i Vescovi del suo Ducato non esercitava ragione alcuna di Metropolitano, gli precedeva solamente nell'onore e in dignità, come Vescovo di città Ducale; ed in quest'età i Vescovi del suo Ducato erano Cuma, Miseno, Baja, Pozzuoli, Nola, Stabia, Sorrento ed Amalfi: in decorso di tempo, Sorrento ed Amalfi furono innalzate a metropoli; e Cuma, Miseno, Baja e Stabia distrutte. Ma se Napoli perdette queste città, resa poi anch'ella metropoli, acquistò Avversa edificata da' Normanni, Ischia, Acerra, Nola e Pozzuoli, che lungo tempo al suo Trono furono suffraganei.

Nelle altre nostre Chiese delle città, sottoposte al greco Imperio, maggiore autorità fu veduta esercitarsi da' Patriarchi di Costantinopoli, e particolarmente nella Chiesa di Reggio, di S. Severina e di Otranto: e da poi ch'ebbero i Greci ricuperato Taranto, Brindisi e [375] Bari ed altre città di Puglia e di Calabria, la medesima autorità in quelle vi pretesero esercitare.

Costituirono Reggio metropoli, e gli attribuirono, come si è veduto, tredici Vescovi suffraganei. Eressero in metropoli S. Severina, ed al suo Trono sottoposero cinque Vescovi. Al Metropolitano d'Otranto non assegnarono Trono; ma a' tempi di Niceforo Foca intorno l'anno 968, sedendo nella Chiesa di Costantinopoli Policuto Patriarca, gli furono dati i Vescovi d'Acerenza, di Turcico, di Gravina, di Matera e di Tricarico per suffraganei, la consacrazione de' quali, come narra Luitprando Vescovo di Cremona[492], volle che al Metropolitano d'Otranto s'appartenesse; e dilatò cotanto Niceforo i confini di questa metropoli e 'l rito greco, che comandò che in tutta la Puglia e la Calabria, i divini uffici non più latinamente, ma in greco si celebrassero; ed ampissimi altri privilegi furono a quello conceduti, che possono vedersi appresso Ughello nella sua Italia Sacra[493].

Brindisi e Taranto, da poi che furono restituite all'Imperio greco, dice Nilo, a Constantinopolitano Sacerdotes accipiebant.

Ritolte anche da' Greci a' Saraceni e Longobardi, Bari, Trani ed altre città della Puglia, si videro parimente le Chiese loro sottoposte a quel Patriarca. Teodoro Balsamone nell'esposizione ch'egli, regnando l'Imperador Andronico Paleologo il Vecchio, fece delle Sedi al Patriarcato di Costantinopoli sottoposte, oltre le orientali, novera tra le occidentali la Chiesa di Bari [376] nel numero 31, quella di Trani nel 44, quella d'Otranto al 66 e quella di Reggio in Calabria al 38.

Quindi, secondo che ci testificano il Beatillo[494] e 'l Chioccarelli[495], nell'Archivio del Duomo di Bari si conservano molte greche Bolle originali spedite dai Patriarchi di Costantinopoli agli Arcivescovi di quella città, per le quali agli Arcivescovi eletti si conferma l'elezione: ciò che durò per tutto il tempo che Bari (renduta anche metropoli d'uno non dispregevol Ducato, dove il Magistrato greco fece sua residenza) fu colla Puglia al greco Imperio soggetta, e fin che da questa provincia i Greci non furono scacciati da' nostri valorosi Normanni. Quindi è che ancor oggi serbino tutte queste città molti vestigi di greci riti e costumanze; e ritengano ancora molti nomi greci denotanti dignità ed uffici, come Reggio ancor ritiene il Protopapa, ed altre città i Cimiliarchi ed il Clero non men latino, che greco. E quindi eziandio avvenne, come notò anche Lione Allacci[496], che per lungo tempo nel nostro Regno la dottrina della Chiesa orientale si vide anche sostenuta da' Monaci, particolarmente dell'Ordine di S. Basilio, nel che si rendè celebre appresso noi il famoso Barlaam, di cui a suo luogo farem parola.

Quando gli Ottoni imperavano in Occidente, fu tentato da questi Imperadori togliere nella Puglia e nella Calabria questa servitù dalle nostre Chiese, e ridurle tutte come prima sotto il Patriarca d'Occidente. Fu spedito perciò intorno l'anno 968 all'Imperadore Niceforo Foca Luitprando Vescovo di Cremona, ma con [377] inutile ed infruttuoso successo: poichè questa riduzione di tutte le nostre Chiese al Pontefice romano, stava riserbata a' nostri Principi normanni, i quali avendo dalla Sicilia e da queste nostre province discacciati non meno i Saraceni che i Greci, renderonsi cotanto benemeriti della Chiesa di Roma, che oltre agl'importanti altri servigi a lei prestati, unirono tutte le nostre Chiese, com'erano prima, sotto la cura e disposizione del romano Pontefice, al quale di ragione si appartenevano, come si vedrà ne' seguenti libri di questa Istoria.

FINE DEL LIBRO SESTO.

[378]

STORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

LIBRO SETTIMO

Lo scadimento de' nostri Principi longobardi e 'l rialzamento de' greci, le scorrerie de' Saraceni ed i tanti mali e calamità che ci portarono in queste nostre province, faranno il soggetto di questo libro. Saremo per narrare avvenimenti pur troppo funesti ed infelici, che le ridussero in una forma assai misera e lagrimevole. I Principi longobardi per discordie interne fra lor divisi, desolarono i loro Stati. Le loro discordie renderono più vigorosa l'autorità degl'Imperadori d'Occidente, i quali da tributari renderongli feudatari. I Saraceni dall'altra parte, chiamati da' nostri Principi stessi, finirono di devastargli. Il Principato di Benevento tutto sconvolto e diviso in pezzi, diede pronta occasione all'altre nazioni, approfittandosi di tante rivoluzioni e disordini, d'esser per ogni lato invaso, e di soffrire la Signoria d'altri Popoli, che finalmente lo soggiogarono. Origine di tanti mali fu la protervia [379] de' Capuani, ma molto più la malvagità di Landulfo lor Castaldo.

I Capuani intesa ch'ebbero l'elezione di Radalchisio in Principe di Benevento, ne furono mal soddisfatti; temevano che questo Principe non dovesse comportare la lor malvagità, e molto più ne temeva Landulfo. Era costui incolpato, che fosse inteso d'una congiura, che Adelchisio figliuolo di Roffrido avea macchinata contra Radalchisio, il quale avendola scoverta, fece buttar da una fenestra Adelchisio, e cercava aver nelle mani Landulfo, di che questi avvisato, tosto scappò via, e fuggissene. Dall'altro canto Siconolfo fratello di Sicardo era sotto duro carcere stato confinato da suo fratello; ma non molto da poi scappato dalla prigione, e tenuto occulto per molto tempo da Urso Conte di Consa suo cognato, finalmente in Taranto ricovratosi, quivi dimorava; e Radalchisio tosto che fu innalzato al Principato di Benevento, avendo mandato in esilio Dauferio, fece, che costui portatosi in Nocera, ch'era città del Ducato di Napoli, cominciasse a sollecitare i Salernitani, perchè si unissero con Landulfo Conte di Capua contro Radalchisio, e portassero al soglio Siconolfo fratello di Sicardo[497].

In fatti i Capuani, avendo tirato anche al lor partito alcuni Beneventani, chiamarono da Taranto Siconolfo, e lo fecero venire in Salerno, dove accorsi non meno i Capuani che i Beneventani, lo acclamarono, e l'elessero Principe in quest'anno 840. Landulfo s'unisce con lui, occupa Sicopoli, e nell'istesso tempo fanno stretta lega co' Napoletani, i quali di null'altro desiderosi abbracciarono volentieri la congiuntura per [380] vendicarsi de' Beneventani loro antichi ed ostinati nemici. Siconolfo rendutosi più animoso per l'accrescimento di tante forze, ed insignoritosi di Salerno, dopo aver rotto l'esercito di Radalchisio, occupa in un tratto tutta la Calabria e gran parte della Puglia, ed al suo Imperio la sottopone; indi voltando le vittoriose sue insegne verso Benevento, molte città e castelli di quel contorno prese, e finalmente ebbe anche ardire, portato dal corso di sì prosperi successi, di assediar Benevento stesso; ma animosamente respinto da' Beneventani tornossene in Salerno.

§. I.  Divisione del Principato di Benevento, donde sorse il Principato di Salerno.

Radalchisio veduto sconvolto il suo Stato, pien di rabbia e di furore mosse tutte le sue forze contra Siconolfo, altamente giurando di non voler più vivere se non lo sterminava dalla terra; ma scorgendo che le proprie forze e de' suoi Beneventani non eran bastanti per reprimere un tanto nemico, che alla giornata acquistava maggior vigore; trasportato dal suo furore, niente curandosi de' mali gravissimi, a' quali esponeva il suo Stato, volle a tanti mali applicar rimedj peggiori. Eran, come si disse, dalla Sicilia calati per nostro danno molti Saraceni, i quali sotto Calfo lor Capo devastavano la Japigia ed i contorni di Bari. Reggeva questa città, per Radalchisio, Pandone: a costui comandò, che avesse in suo ajuto chiamato i Saraceni: e Pandone ubbidendogli fece venir molte truppe, le quali collocò per quartiere fuori le mura di Bari a' lidi del mare; ma i Saraceni accorti seppero ben tosto approfittarsi della congiuntura, poichè [381] riguardando il presidio della città ed i siti che potevan superare, all'improvviso una notte per alcuni luoghi nascosti entrarono dentro Bari, dove fecero stragi inaudite de' Cristiani, ed occuparono la città. Così Bari da' Longobardi passò sotto la Signoria de' Saraceni, ed i Greci ne discacciarono poi i Saraceni e per lungo tempo la dominarono.

Radalchisio, a cui dall'un canto premeva abbattere Siconolfo, e che implicato in questo impegno, mal avrebbe potuto soffrir altra guerra contro i Saraceni per discacciargli da Bari, dissimulò il fatto, e volle con tutto ciò avergli per ausiliarj; l'invita perciò a combattere contro Siconolfo, onde unite alle sue forze quelle de' Saraceni cominciarono così fiera ed ostinata guerra, che miseramente afflissero queste nostre regioni: poichè Siconolfo dall'altra parte, con non disugual rabbia e furore volle opporsi a' sforzi di Radalchisio per qualunque maniera. Resistè a' primi incontri, e perchè niente mancasse ad accelerar la ruina d'amendue, con peggior consiglio chiamò anche in suo ajuto da Spagna i Saraceni. Non si videro in queste nostre contrade stragi più crudeli e spaventose, che quelle che furon fatte a questi tempi da' Saraceni, così dell'una come dell'altra parte: Capua fu da' medesimi ridotta in cenere; molte città arse e distrutte; e que' che residevano in Bari, avendo occupato Taranto, devastarono la Calabria e la Puglia, e giunsero fino a Salerno ed a Benevento. Tutto era pieno di stragi e di morti, e scorrevano i Saraceni come raccolto diluvio, inondando i nostri ameni campi. Continuarono queste calamità per lo spazio di dodici anni: tanto che i Beneventani stessi, conoscendo le loro miserie, tardi avveduti de' loro errori, furono [382] costretti, acciocchè calmasse una sì fiera tempesta, a ricorrere agli ajuti de' Franzesi, perchè fugando i Saraceni, si proccurasse la pace fra questi due Principi.

Reggeva in questi tempi l'Imperio d'Occidente e l'Italia, come si è detto, Lotario Imperadore, il quale aveva eletto Re d'Italia Lodovico II suo figliuolo, che poi nell'Imperio gli succedette. Il Re Lodovico fu umilmente richiesto da Landone Conte di Capua figliuolo di Landulfo, da Adimaro e da Bassacio illustre Abate di Monte Cassino (che in quest'incontri fu da Siconolfo più volte saccheggiato) perchè portatosi nel Principato di Benevento con potente armata discacciasse i Saraceni, e ponesse pace fra que' due Principi: Lodovico ancorchè giovanetto, punto da stimoli di gloria, facilmente assentì alle loro dimande, e tosto in Benevento portossi; ove fugati come potè meglio i Saraceni, e confinatigli in Bari già loro sede, purgò da questa peste l'altre province di Benevento. Indi interponendovi la sua autorità, fu tutto inteso ad accordar que' Principi, che finalmente gli ridusse ad una ferma concordia, dividendo infra di loro tutta la provincia di Benevento in due parti, onde furon d'uno fatti due Principati: quello di Benevento fu ritenuto da Radalchisio, l'altro di Salerno a Siconolfo fu confermato, ambidue questi Principi giurando fedeltà a Lodovico, che finalmente come lor Sovrano riconobbero. Ecco come queste Province, toltone il Ducato napoletano e quelle città che agli Imperadori greci ubbidivano, furono rese soggette agl'Imperadori d'Occidente, i quali come Re d'Italia vi pretesero esercitare quelle ragioni, che i Re longobardi vi possedevano.

Queste furono le perniciose conseguenze, che riportarono [383] i nostri Beneventani per le guerre civili, che infra di loro vollero movere e sostenere. I. Di riconoscere Lodovico per lor Sovrano, e giurargli fedeltà, ciò che l'istesso Carlo M. e Pipino suo figliuolo non poteron conseguire da Arechi e da Grimoaldo. E se bene l'altro Grimoaldo terzo Principe di Benevento, Sicone e Sicardo, che gli succederono, si fossero renduti tributarj a' Franzesi, non però s'avanzarono tanto di rendersi feudatarj. Il che quantunque non avesse tolto, ch'essi non restassero Sovrani de' loro Principati, perchè la fedeltà giurata e l'assistenza in guerra non diminuisce nè la libertà del vassallo in se medesimo, nè parimente la potenza assoluta ch'egli stesso ha sopra i suoi sudditi; non può negarsi però che non abbassi e diminuisca il lustro dello Stato sovrano, il quale senza dubbio non è sì puro, nè sì maestoso, quando è soggetto a queste cariche; tanto che Bodino[498] tenne opinione, che se bene i Principi tributarj, o in protezione, debbano riputarsi Sovrani, non è però che i Feudatarj s'abbiano a riputar tali; del che ci tornerà altrove maggior opportunità di ragionare. II. Di vedersi un Principato partito in due, il che per conseguenza portò la seconda divisione, sorgendo l'altro di Capua, onde bisognò che finalmente ruinasse e fosse preda dell'altre nazioni. III. Di aversi proccurato ancora una molestissima spina dentro le lor viscere, come furono i Saraceni, i quali stabiliti in Bari non passò guari, che di bel nuovo inondarono ambedue i Principati, tanto che non bastando le proprie forze, fu d'uopo spesso ricorrere alle straniere per reprimergli, e con ciò render più potente l'autorità che in essi s'aveano acquistata i Franzesi.

[384]

Fu fatta questa divisione nell'anno 851 tra Radelchisio e Siconolfo, nella quale intervennero anche quasi tutti i Conti e Castaldi del Principato di Benevento, e moltissimi di loro, insieme con questi due Principi, vollero firmarla. Si legge ancor oggi presso il Pellegrino il Capitolare fatto da Radelchisio di questa divisione, ove i confini di questi due Principati distintamente vengono descritti.

Sotto il Principato di Salerno furono compresi molti Castaldati e Castelli: Taranto, Latiniano, Cassano, Cosenza, Laino, Lucania, da altri detta Pesto, Consa, Montella, Rota, Salerno, Sarno, Cimiterium, Furculo, Capua, Teano, Sora e la metà del Castaldato di Acerenza per quella parte, ove è congiunto con Latiniano e Consa.

Tra Benevento e Capua fu assignato per confine S. Angelo ad Cerros, che s'estende per la Serra di monte Vergine insino al luogo detto Fenestella. Tra Benevento e Salerno fu designato per limite il luogo detto alli Pellegrini: fra Benevento e Consa fu dato per limite Staffilo.

Partita in questa maniera l'intera provincia di Benevento, venne la parte boreale, che finisce col mare Adriatico, a rimanere a Radelchisio Principe di Benevento. La parte meridionale, che termina col mar Tirreno, a Siconolfo Principe di Salerno. Quindi Salerno, divenuta sede de' Principi, cominciò ad estollere il suo capo sopra le altre città di questa provincia, città in questi tempi molto forte e munita, per averla Arechi, come si disse, fortificata e di validissime torri e muri cinta, onde potè averla per asilo e presidio in tutte l'avversità della fortuna.

[385]

Furono ancora in questa divisione accordati molti patti, fra' quali i più importanti e principali furono, di promettere Radelchisio per qualunque occasione di non turbar il Principato di Salerno, e riconoscere per Principi legittimi Siconolfo, e dopo la sua morte quello ch'egli eleggerà per suo successore: di congiungere insieme le forze per discacciar da' loro Stati i Saraceni: che fra' Popoli dell'uno e l'altro Principato non debba praticarsi niuna ostilità, ma permettersi a ciascuno d'abitar ove lor piace, e far ritorno alle proprie città e castelli ove tengono domicilio, e ciascuno con quiete godersi delle proprie sostanze: che non debba darsi niuna molestia a coloro che dal Principato di Salerno vorranno portarsi al Santuario di S. Michele nel Monte Gargano, compreso nel Principato di Benevento, ma lasciargli passare senza contraddizione e senza dannificargli: che tutti i Vescovi, Abati ed ogni altro Cherico d'inferior grado debbano ritornar a' Vescovadi delle loro proprie Diocesi ed alle loro Chiese e monasterj; e se saranno renitenti, nè porteranno legittime scuse, si obbligheranno a ritornar per forza alla loro residenza, così i Vescovi, come tutti gli altri Cherici, eccetto però quelli, che serviranno al Principe in Palazzo, ovvero quelli che per forza fossero stati Chericati: che tutti i Monaci e Monache ritornino a' loro monasterj, ove prima abitarono, eccetto coloro che per volontà d'altri ivi entrarono per forza, e quelli che servissero nel Palazzo: che di tutte le robe delle Chiese, de' Vescovadi e monasterj, che vivono sotto Regola, ovvero degli Spedali, se ne prenda ragione, e secondo il lor valore si tassi il censo solito a contribuirsi al Principe; eccetto però i monasteri di Monte Cassino e di [386] S. Vincenzo a Volturno, li quali stando sotto l'immediata protezione dell'Imperador Lotario e del Re Lodovico suo figliuolo, debbano ritener interi i loro privilegi, prerogative e primato; eccettuatone ancora le robe degli Abati e Canonici, che servono nel Palazzo. Molte altre capitolazioni furono accordate, promettendo ciascuno con solenni giuramenti l'osservanza, interponendovi anche per maggior stabilimento, l'autorità imperiale, e dando anche parola a Lodovico, che fu presente, ed a Lotario suo padre, chiamandolo anche essi nostro Imperadore (per lo giuramento dato di fedeltà) di fedelmente custodirle. Fermata la pace furono restituiti i prigionieri, a Siconolfo fu restituito Pietro figliuolo di Landone, e Poldefrit figliuolo di Pandulfo; ed all'incontro a Radelchisio furono renduti Adelgiso e Ladelgiso suoi figliuoli e Potone suo nipote. E Lodovico, parendogli aver sedate le rivoluzioni di queste province, in Francia tornossene.

Stabilita che fu questa pace, non potè molto goderne il frutto Siconolfo Principe di Salerno, poichè non passò guari, che in quest'istesso anno 851 dalla morte prevenuto, non potè dar maggiore stabilimento al suo novello Imperio. Morì Siconolfo primo Principe di Salerno, dal giorno che fu acclamato Principe, che fu nel 840, dopo dieci anni e pochi mesi d'inquieto e perturbato Regno, che col suo estremo valore seppe stabilire; ma morì al piacere di poter godere del frutto de' suoi tanti sudori. Lasciò Sicone suo unico figliuolo ancor lattante, erede nel Principato, e diedegli per Tutore Pietro[499].

Alcuni mesi da poi accadde parimente la morte di [387] Radelchisio; nè mancarono i Beneventani di ergergli un superbo tumulo, ove in molti versi celebrarono le sue virtù. Il medesimo fecero a Caretruda sua moglie, dalla quale Radelchisio ebbe dodici figliuoli: Radelgario fu in suo luogo al Principato eletto, che lo resse pochi anni, e morì nell'anno 854, e i Beneventani gli eressero pure un gran tumulo[500]: Ajone[501] altro suo figliuolo fu Vescovo di Benevento; Adelghiso, morto suo fratello, fu il suo successore: gli altri furon Conti e valorosi Capitani.

Ma ecco intanto che nell'anno 852 i Saraceni, che in Bari fermarono la lor sede, inondando la Puglia e la Calabria, s'avanzarono insino a Salerno e Benevento, nè per reprimere tanto impeto bastavano le forze di Radelgario e di Sicone. Bisognò che di nuovo si ricorresse a Lodovico, e perciò furono destinati i due celebri Abati Bassacio di S. Benedetto, e Giacopo di S. Vincenzo, i quali avendo esposto a Lodovico le crudeli stragi, che i Saraceni sopra i Beneventani facevano, lo pregarono che tosto venisse per discacciargli, offerendosi all'incontro i Beneventani di dichiararsi suoi fedelissimi servi, e di dargli autorità di soggettargli anche a qualunque infimo de' suoi[502]. Lodovico tosto venne in Italia, e verso Bari incamminossi; ma i Capuani e' Salernitani, scordatisi delle promesse, avendo sottratto ogni lor ajuto necessario per agevolar l'impresa contro i Saraceni, s'erano nascosi: del che fortemente sdegnato Lodovico, essendosi [388] accorto della loro infedeltà, gli trattò aspramente; e vedendo, che Sicone per la tenera sua età era inetto al Governo, commettendo il Principato di Salerno sotto il Governo d'Ademaro, valoroso ed illustre Capitano, figliuolo di Pietro sopraddetto[503], egli tornossene in Francia, seco conducendo Sicone ancor infante.

Ecco come i nostri Principi longobardi cominciarono a sentire il giogo gravoso della altrui dominazione, che arrivò insino a disporre de' loro Stati e trasportargli da una in altra famiglia; poichè Ademaro non molto tempo da poi, nell'anno 856, morto Sicone, cominciò ad usurparsi assolutamente il Principato, che lo tenne per sei anni ancorchè non finiti, insino all'anno 871, quando a persuasione di Landone Conte, e di Landulfo Vescovo di Capua, fu imprigionato da Guaiferio, che gli succede, figliuolo di Dauferio il Balbo, e da poi nell'anno 866, ritornato l'Imperador Lodovico II nella cistiberina Italia, gli furono cacciati gli occhi[504].

[389]

§. II.  Origine del Principato di Capua.

Peggiori furono i mali che seguirono, per essersi Capua staccata dal Principato di Salerno, poichè Landulfo Castaldo di Capua, non più al Principe di Salerno, a cui era il suo Castaldato sottoposto, secondo la divisione fatta con Radalchisio, volle ubbidire, ma resosi Signore di quello, d'un Principato vennesi a farne tre, quello di Benevento, l'altro di Salerno ed il terzo di Capua; e se bene Landulfo non volle assumere il titolo di Principe, ma di Conte, onde da lui cominciò la serie de' Conti di Capua; nulladimeno reggeva il suo Contado con assoluto arbitrio; ed essendo morto egli nell'anno 852, Landone suo figliuolo che gli succedè, resse anche il Contado tredici anni e nove mesi con assoluto ed independente Imperio. Costui dall'antica Capua, chiamata anche Sicopoli, trasportò gli abitatori nella nuova, ch'eresse nell'anno 836 presso il ponte Casilino, tre miglia distante dall'antica; ed è quella che ora munita con forti torri e muri, è riputata il più valido propugnacolo del Regno.

L'altro Landone suo figliuolo, terzo Conte di Capua, resse il Contado non men dell'avo e del padre con independenza da' Principi di Salerno, ed in cotal guisa nell'avvenire per lunga serie di Conti amministrandosi questo Contado con assoluto arbitrio, rimase distaccato da' due Principati di Benevento e di Salerno. Anzi si legge[505], che Landulfo nell'ultimo giorno di sua vita, mentr'era per spirare, chiamò a se i suoi [390] figliuoli, e lasciogli questo precetto, che avessero proccurato sempre di nudrir discordie e risse tra il Principe di Benevento e quello di Salerno, perchè, altrimente facendo, essi non potevan sperar che lungamente potessero conservarsi lo Stato da lui sopra le spoglie di questi due Principati acquistato, se fra questi Principi fosse stata pace e concordia. In fatti i figliuoli osservarono diligentemente il precetto paterno, con tutto che contrario fosse a quello che Cristo diede a' suoi Discepoli; poichè morto che fu, scossero, come s'è detto, affatto il giogo, ed in niun modo vollero più ubbidir a Siconolfo Principe di Salerno, e sopra tutti Landonulfo, uno de' figliuoli suddetti, gli fu sempre contrario ed ingrato; e questo precetto non solamente essi l'osservarono, ma lo tramandarono nella loro posterità, come un perpetuo fedecommesso, lasciandolo per retaggio a' loro successori[506].

Così diviso il Principato di Benevento, fu nuova politia introdotta, e nuovi disordini incominciarono a confondere e porre sossopra queste nostre province, perchè tra questi Principi cominciando le gare e l'inimicizie, sovente si videro ardere di guerra, e contro di essi convertendo le loro armi, diedero a' Franzesi nuove occasioni di spessi ritorni, ed a' Saraceni di combattergli e di farsi più potenti in que' luoghi, che essi avevano occupati. Nè finirono qui i disordini, imperocchè i Napoletani approfittandosi di queste divisioni, e resi perciò più restii a pagar a' Beneventani il tributo, perchè sovente soccorsi da' Principi rivali, [391] si resero più animosi, e continuarono per ciò fra di loro più irreconciliabili e crudeli le ostilità.

Peggiore fu la politia che tratto tratto s'introdusse in appresso, perchè se bene prima il Principato di Benevento era distinto in più Contadi e Castaldati, ciascuno però si governava coll'istesso spirito, e da un sol Principe dipendevano; ma dopo i Principi di Benevento, quei di Salerno, e sopra tutto i Conti di Capua, fra i loro figliuoli divisero i Castaldati e' Contadi, onde d'ogni Principato si fecero più Contadi, ed i Conti, ancorchè sottoposti, cominciarono a governare per se stessi; onde si videro in tante guise moltiplicati i Feudi nel nostro Regno. Così Landulfo, Conte insieme e Vescovo di Capua, divise il Contado di Capua con tanta imprudenza tra i figliuoli di tre suoi fratelli, che in ogni tempo infra di loro insorsero risse e guerre inestinguibili[507].

§. III.  Spedizione dell'Imperador Lodovico contra i Saraceni: e sua prigionia in Benevento.

Di tanti sconcerti ben se ne profittarono i Saraceni, che da Bari spesso inondando la provincia di Benevento, ed a sangue e fuoco tutto mettendo, obbligarono i Beneventani a ricorrere a' Franzesi. Anzi mal potendosi difendere colle proprie forze e con quelle de' Franzesi, ricorsero ancora ad altri aiuti; poichè Majelpoto Castaldo di Telese, e Guandelperto Castaldo di Bojano con sommissione e preghiere si ridussero a ricorrere sino a Lamberto Duca di Spoleti per [392] reprimere le forze de' Saraceni, i quali pure non ostante tutti questi aiuti posero sossopra i loro Castaldati e gli sconfissero.

Fu pertanto bisogno a' Beneventani e a' Capuani ricorrere di nuovo all'Imperador Lodovico, il quale tosto calando per Sora in Benevento, fu incontrato dagli Ambasciadori di molte città, implorando il suo aiuto. Venne anche ad incontrarlo Landulfo Vescovo insieme e Conte di Capua, che al fratello Landone III Conte di Capua era succeduto, co' suoi nepoti. Fu ricevuto da Guaiferio, che ad Ademaro succedè in Salerno; e finalmente da Adelghiso in Benevento.

Così Lodovico resosi in quest'anno 867 potente per le proprie forze e per quelle de' nostri Principi longobardi, verso Bari indirizzando il suo esercito; sconfisse i Saraceni, imprigionò Seodam loro Re, espugnò Bari, che fu restituita al Principe di Benevento, prese Matera, presidiò Canosa, e portò le vincitrici sue armi fino a Taranto, ove i Saraceni s'erano fortificati, cingendo questa città di stretto assedio; indi pien di gloria e tutto trionfante a Benevento fece ritorno. E spinto dal corso di sua fortuna pretese ancora sopra gli Amalfitani e sopra il Ducato istesso di Napoli esercitare la sua Sovranità, prendendo la protezione, e prestando aiuti ora agli uni, ora agli altri: di che offeso a dovere Basilio il Macedone Imperador d'Oriente, a cui il Ducato napoletano e gli Amalfitani ubbidivano, si dolse acremente di Lodovico, querelandosi de' suoi modi imperiosi, che praticava sopra que' Popoli, quasi che volesse soggettargli al suo Imperio. Lodovico, a cui non conveniva nelle presenti congiunture attaccar nuove brighe co' Greci, per sedare l'animo di Basilio, scrissegli una ufficiosa lettera, [393] nella quale protestava, ch'egli niente era per imprendere sopra il Ducato napoletano appartenente all'Imperio greco, e che unicamente per soccorrere gli oppressi erasi intrigato in quegli affari.

Ma mentre Lodovico dimorava in Benevento, accaddegli un incontro non altre volte inteso nelle persone degl'Imperadori d'Occidente. I Franzesi resi boriosi per la fortuna presente, nè sapendo reprimere l'impeto di quella, malmenavano i Beneventani, trattandogli con alterigia e pur troppo crudelmente: ciò che mal potendo sofferire, scossero finalmente Adelghiso lor Principe a pensare di torsi l'indegno giogo; ed avendo Lodovico dentro la loro città, presero risoluzione d'arrestarlo e farlo prigione. Altri rapportano, che Adelghiso fu a ciò mosso non tanto per gli stimoli de' suoi Beneventani, quanto per gl'impulsi che gli venivan dati dall'Imperador Basilio, a cui niente piacevano i tanti progressi di Lodovico, del quale mostravasi per le accennate cagioni mal soddisfatto: che che ne sia, trovandosi Lodovico aver licenziato il suo esercito, dimorava dentro Benevento con poca guarnigione, onde nel mese d'agosto di quest'anno 871 improvisamente fu arrestato da' Beneventani e posto in sicuro carcere[508]: furono occupate le di lui robe, e i Franzesi ch'erano in sua guardia, dopo essere stati spogliati, furono astretti a fuggire. Lodovico fu per quaranta giorni tenuto prigione, nè si pensava a liberarlo, se non che avendo inondato di nuovo i Saraceni la provincia di Salerno, e cresciuto il lor numero a trentamila, posero l'assedio a Salerno, dando terrore a tutti i Principi longobardi e ad Adelghiso [394] Principe di Benevento sopra ogni altro. Fu in tanta revoluzione di cose liberato Lodovico: ma volle Adelghiso, che prima sotto solenni giuramenti promettesse, in tutto il tempo di sua vita di non mai più entrar ne' confini di Benevento, nè di ciò che avea sofferto in quest'incontro prender contro i Beneventani mai vendetta: il che Lodovico promise multis adiunctis execrationibus, giurando sopra le reliquie de' Santi e sopra i Santi Evangeli di Dio.

Partì Lodovico da Benevento nell'uscir di quest'istesso anno 871, ed in Veroli fermossi per undici mesi nel qual tempo portatosi in Roma prese la Corona per mano d'Adriano II nell'anno 872, prima di morir questo Pontefice, come vuol Aimoino[509]; ancorchè alcuni moderni Scrittori nell'anno precedente vogliano che fosse stato da Adriano incoronato. Lodovico ancorchè prendesse ora la Corona, era stato però assunto all'Imperio sin dall'anno 856, quando Lotario Imperadore suo padre resosi Monaco, divise l'Imperio fra tre suoi figliuoli, assegnando a Lodovico Roma ed Italia; a Lotario l'Austrasia, onde poi si disse Lotaringia; ed a Carlo la Borgogna, come fu detto.

Ancorchè Lodovico con solenni giuramenti avesse promesso di non mai entrar ne' confini di Benevento, non fu però che nell'entrar dell'anno 873 non rompesse questi patti, ed insino a Capua con forte armata non s'inoltrasse.

Siccome in questi tempi la forza della religione era in vigore ne' petti de Principi, e non mai, o di rado si violavano i giuramenti; così all'incontro avean cominciato, sin da Gregorio II e Zaccaria, i Pontefici [395] romani a trovar modo di romper questi lacci, e prosciogliere le loro coscienze: donde nacque la facoltà, che poi non pure i P. R. ma anche i Vescovi s'assunsero, dell'assoluzione de' giuramenti ne' giudicj ed altrove. Si renderono perciò, anche per quest'altro verso, a' Principi tremendi e necessari, non altrimenti, che per le dispense ne' matrimoni, le quali prima dai Principi si concedevano. Lodovico, a cui non dava il cuore di far ritorno in Benevento contra i giuramenti fatti, fu tosto soccorso da Giovanni VIII, che ad Adriano II poco prima era succeduto, il quale dichiarando non poter essergli d'ostacolo i giuramenti dati così per forza e con tanta indegnità, l'assolvè di tutte le promesse fatte a' Beneventani. Vi è chi scrive[510], che Lodovico con tutta l'assoluzione ottenuta per non esser riputato spergiuro, non volle egli porsi alla testa del suo esercito, ma in suo luogo, usando fraude a se medesimo, che vi avesse sostituita la Regina sua moglie Engilberga, e che in suo nome, e sotto la sua autorità si guerreggiasse. Venne in Capua, e nel passar diede strane rotte a' Saraceni confinandogli a Taranto: fu per vendicarsi d'Adelghiso, e tentò di occupargli Benevento, e perciò altri scrissero che intimorito se ne fuggisse nell'isola di Corsica; ma o che non gli riuscisse, come narra Erchemperto, o che frappostisi molti Conti ed il Papa istesso per accordargli, fu fra di loro conchiusa pace, ed Adelghiso con quelli del suo partito nella grazia di Lodovico furon reintegrati. Landulfo Conte insieme e Vescovo di Capua fu anche ammesso nella grazia e familiarità [396] di Cesare, il quale somministrò in quest'incontri validi soccorsi contro i Saraceni.

Fu cotanta la familiarità che acquistò Landulfo presso l'Imperadore, che oltre d'aver conseguito dal medesimo i primi onori, pretese da lui, che la provincia intera di Benevento a lui si concedesse, e che Capua fosse innalzata ad esser metropoli: il che, come narra Erchemperto[511], non potè ridurre ad effetto, poichè Capua non prima dell'anno 968 ricevè questa prerogativa da Giovanni XIII Pontefice romano: e Benevento un anno da poi dall'istesso Pontefice fu eretta in metropoli; essendosi da poi in queste nostre regioni introdotto, che non più i Principi, ma i P. R. con innalzar i Vescovi in Metropolitani, innalzavano le città in metropoli, di che altrove ci tornerà più opportuna occasione di ragionare.

Lodovico dopo esser dimorato un anno in Capua ed in queste nostre contrade, e date anche molte e strane rotte a' Saraceni, nell'anno seguente 874 passò in Francia per non mai far più ritorno in queste nostre parti; poichè in quest'anno come alcuni notarono o nel seguente, come gli annali di Francia, ed i moderni Autori tengono, in Francia, non già in Milano, finì i giorni suoi. Principe gloriosissimo, ed a cui molto devono queste nostre province, che se non l'avesse soccorse tante volte, per le sì spesse e grandi inondazioni de' Saraceni, sarebbero tutte e stabilmente cadute sotto la loro dominazione. Abbiamo di questo Principe molti vestigi di pietà, per molti monasteri dell'Ordine di S. Benedetto da lui fondati nell'Apruzzi, de' quali Lione Ostiense non si dimenticò nella sua [397] Cronaca. La donazione o sia conferma delle precedenti donazioni di Pipino e di Carlo M. fatte alla Chiesa romana, non a questo Lodovico, come credette l'Abate della Noce[512], ma a Lodovico Pio figliuolo di Carlo M. dee attribuirsi, il quale la fece a Pascale I R. P. nè quella abbraccia più di quanto Pipino e Carlo donarono, com'è manifesto dalla cronaca di Lione.[513].

Per la morte accaduta di Lodovico in quest'anno 874 ovvero nel seguente, si conosce chiaramente l'errore di coloro, i quali credettero, che Lodovico avendo ritolto Bari a' Saraceni, l'avesse restituita a Basilio Imperador d'Oriente: poichè i Saraceni, partito che fu Lodovico da Italia e restituito in Francia, tosto usciti da Taranto, ov'erano stati confinati, tornarono a depredar Bari ed i luoghi vicini; onde i Baresi nell'anno 876, morto già Lodovico, non potendo più sopportare la crudeltà de' medesimi, dimorando in Otranto Gregorio Straticò di quella città, lo chiamarono e l'introdussero co' suoi Greci in Bari, siccome narrano Erchemperto[514] e Lupo Protospata[515].

[398]

CAPITOLO I. Carlo il Calvo succede nell'Imperio d'Occidente; nuove scorrerie de' Saraceni, accompagnate da altre rivoluzioni e disordini.

La morte di Lodovico portò tali sconvolgimenti, che non pur queste nostre regioni, ma molte parti d'Italia afflissero, e di nuove calamità le riempierono. Da Carlo M. insino ad ora non s'erano eccitate turbe per la successione dell'Imperio. I testamenti de' Principi, mandate via tutte le dubbietà e le tante sottigliezze d'oggi, con somma venerazione erano ricevuti da' successori: ciò che essi ordinavano era prontamente eseguito; e bastava, che o in vita o in morte l'Imperador regnante designasse il suo successore o l'assumesse per Collega, perchè si osservasse il suo volere, come legge inviolabile. Così leggiamo che Carlo M. facesse con Pipino e Lodovico; Lodovico con Lotario, e finalmente Lotario con l'altro Lodovico. Infino ad ora per eleggere l'Imperadore in Occidente non era mestieri convocar Assemblee o Comizj: solo per una semplice e pura cerimonia introdotta già per costume, si ricorreva a' Pontefici romani per la consecrazione ed incoronazione. Ma non avendo Lodovico di se lasciata prole maschile, cominciarono a gara i Franzesi ed i nostri Italiani, ad aspirare a sì sublime dignità. In Francia due furono i più ostinati pretensori, amendue zii del defonto Lodovico, Carlo il Calvo Re di Francia figliuolo di Giuditta e fratello di Lotario padre di Lodovico, e Lodovico Re di Germania [399] fratello dell'istesso Lotario, al quale, secondo la divisione, fatta era toccata la Germania e parte della Lorena, che pochi anni prima s'avevan di buon accordo divisa col suo fratello Carlo.

Altre volte nel corso di quest'Istoria abbiamo in molte occasioni veduto, che le contese de' Principi finalmente han sempre terminato in augumento della dignità ed autorità de' Pontefici romani, ma se in altra congiuntura è avvenuto, in questa precisamente si è ciò più chiaramente veduto. Poichè contendendo questi due Principi dell'Imperio d'Occidente, bisognava, perchè alcun d'essi restasse vincitore, che due cose prima dell'altro competitore proccurasse, cioè di esser il primo ad entrar armato in Italia, e per seconda, di proccurarsi il primo la benivolenza del Papa, perchè tosto agevolasse l'opra colla solennità dell'incoronazione, funzione che appresso i Popoli era stimata il segno più certo dell'assunzione al Trono imperiale. Carlo il Calvo appena avvisato della morte del nipote, non frappose dimora alcuna ad entrar tosto in Italia, e fu più sollecito, che suo fratello Lodovico, il quale se bene avesse mandato prima Carlo il Grosso suo figliuolo ad impedir il passaggio a Carlo, e poco dopo Carlomanno altro suo figliuolo, tardi però giungendo, nulla poterono; di che Lodovico fortemente sdegnato, egli col suo terzo figliuolo Lodovico invase la Francia, portando ivi la sua collera, ostinatamente combattendola.

Intanto Carlo il Calvo approssimatosi a Roma, avendo sollecitato il Pontefice Giovanni VIII ad agevolar il suo disegno, questo Papa non volle perdere sì bella congiuntura, onde potesse dal suo canto ricavarne anche i suoi vantaggi per se e per la sua [400] Sede. Dopo aver portati alla sua volontà i Romani, mandò due Vescovi ad invitar Carlo, che tosto entrasse in Roma a prender la Corona imperiale, ch'egli tenevagli apparecchiata, avendolo scelto sopra tutti gli altri pretensori. Carlo venne a Roma, e nella Basilica Vaticana con gran applauso e solennità fu il giorno di Natale dell'anno 875 incoronato da Giovanni, ed Augusto acclamato; giurando all'incontro di portar sempre le sue armi contra i nemici della Sede, e difenderla con tutte le sue forze. Il Papa per questo fatto volle appropriarsi assai più di quello, che gli altri suoi predecessori avean fatto in congiunture simili, perchè se è vera quella orazione, che di lui si legge presso il Sigonio[516] fatta a' Vescovi, parla in maniera, come se Carlo assolutamente da lui avesse ricevuto l'Imperio, e che la sua elezione totalmente a lui s'appartenesse; onde da ora in poi fu riputato e preteso da' Pontefici romani, che il titolo d'Imperadore fosse un puro e sincero benefizio del Pontefice, e cominciarono per questo a noverar gli anni dell'Imperio dal giorno della Consecrazione pontificia: tanto che non ebber ritegno i successori di rinfacciar agl'Imperadori d'Occidente, l'Imperio esser loro benefizio, di che ci tornerà altrove più acconciamente di ragionare.

Si narra ancora, che Carlo riconoscente di tanti benefizj avuti dal Papa in questa occasione, oltre di aver con preziosi doni arricchita la Basilica di S. Pietro, avesse anche ceduta al Papa la sovranità, che gli altri Imperadori franzesi suoi predecessori ritennero sempre sopra Roma, e che non prima di questo tempo [401] passasse questa città sotto l'independente ed assoluto dominio del Papa; ma tutti questi racconti si rendono favolosi da ciò, che gli Ottoni Imperadori d'Occidente praticarono sopra Roma, come si vedrà più innanzi.

Disbrigato che fu Carlo da Roma, seguitando il costume degli altri Re d'Italia, passò in Pavia, ed ivi dall'Arcivescovo di Milano, come fecero i suoi predecessori, volle prender la Corona regale, e Re di Italia fu acclamato: quindi non molto da poi nella medesima città molti regolamenti stabilì per lo buon governo della medesima.

Potè Carlo intanto finchè visse godersi senza contrasto l'Imperio, e il Regno d'Italia, e quello di Francia, perchè Lodovico Germanico suo fratello, essendo morto in Francfort il dì 28 agosto dell'anno 875, lasciò ampia materia a' suoi figliuoli di guerreggiare per altre imprese. Lasciò Lodovico tre figliuoli, fra quali, secondo il dannabile costume introdotto in Francia, si divisero il Regno paterno. A Carlomanno toccò la Baviera, la Boemia, la Carintia, la Schiavonia, l'Austria ed una parte dell'Ungaria. A Lodovico, la Franconia, la Sassonia, la Frisia, la Turingia, la Bassa Lorena, Colonia e molt'altre città sulle sponde del Reno. A Carlo il Grosso, l'Alemagna, dal Meno sino all'Alpi, e l'altra parte della Lorena.

Ma ecco, mentre Carlo Imperadore regge la Francia e l'Italia, che i Saraceni, i quali da Lodovico II erano stati confinati a Taranto, tornarono di bel nuovo ad infestare queste nostre province e scorrendo sin sopra Bari, minacciavano stragi e ruine all'altre province ancora. Furono obbligati perciò i Napoletani, gli Amalfitani e i Salernitani, non avendo a chi ricorrere, [402] per sottrarre i loro Stati dalle imminenti irruzioni, alle quali essi colle proprie lor forze non potevano far argine, di trattar co' Saraceni, come meglio poterono, la pace, la quale non vollero costoro ricevere, se non sotto condizione, che dovessero con le proprie unire le loro armi, affinchè insieme aggiunte, sopra il Ducato romano e contro Roma istessa potessero portarle: fu accordata la lega con sì dure condizioni[517]; di che avvisato il Papa Giovanni VIII tosto ricorse all'Imperadore, il quale in suo ajuto mandogli Lamberto Duca di Spoleto e Guido suo fratello. Venne il Papa istesso in quest'anno 876 accompagnato da' medesimi in Napoli, ed in queste nostre parti, guidando egli l'impresa. Fu questa la prima volta, che si videro i Papi alla testa d'eserciti armati, per cagion per altro apparentemente pietosa, per reprimere la ferocia de' Saraceni, che tentavano sconvolgere i loro Stati e metter sossopra il Ponteficato. Usò Giovanni tutti i suoi sforzi per romper questa lega, e tirare alla sua parte questi Principi, che s'erano collegati co' Saraceni; e fu tale l'opera sua con Guaiferio Principe di Salerno, che non solo lo distaccò dalla lega, ma contra i Napoletani ostinati fecegli voltar le armi.

Era in quest'anno Duca di Napoli Sergio, il quale per aver imprigionato Attanasio suo zio, Vescovo di Napoli, era nell'indignazione di molti: costui non volle in conto alcuno distaccarsi da' Saraceni, non ostante l'increpazioni del Papa; fu perciò il medesimo immantinente scomunicato da questo Pontefice, e gli mosse contro Guaiferio, il quale combattè co' Napoletani, [403] e fattone ventidue prigionieri, il Papa fecegli tutti decapitare[518].

Era Vescovo di Napoli in questi tempi Attanasio fratello di Sergio, che all'altro Attanasio suo zio era nella cattedra succeduto, il quale per fare cosa grata al Papa, conculcando tutte le leggi del sangue e della natura, portato anche dall'ambizione, imprigionò il proprio suo fratello e cavatigli gli occhi lo presentò al Papa in Roma: Giovanni gradì molto il dono, e fattolo rimanere a Roma, finì quivi miseramente la sua vita[519]. Proccurò da poi Attanasio, che in luogo di Sergio fosse egli eletto Duca, e così con esempio non nuovo, si vide Attanasio insieme Vescovo e Duca di questa città. Fu quest'Attanasio uomo di torbidi pensieri, e che durante il suo governo inquietò gli altri Principi suoi vicini, e pose sossopra queste nostre province. Egli per salvare il proprio Ducato, posposto ogni rispetto, ancorchè fosse in dignità Vescovile, portato dalla sua ambizione, non ebbe alcun ritegno di rinovar la lega co' Saraceni; gli apparecchiò quartieri presso Napoli, e gli unì co' Napoletani, mandando in iscompiglio i Beneventani, i Capuani ed i Salernitani, iscorrendo insino a' confini di Roma, ove non vi era cosa indegna, che non si tentasse, tutto depredando.

Il Papa ciò vedendo fulminò contro Attanasio i suoi anatemi terribili, nell'anno 881 lo scomunicò, lo maledisse, e secondo ciò che narra Erchemperto, l'istesso fece a Napoli città sua: di che ne rendono a noi testimonianza [404] le stesse epistole di questo Pontefice, che ancor ci restano[520]. Scomunicò eziandio gli Amalfitani[521]. Il medesimo sarebbe avvenuto a' Salernitani ed a Guaiferio lor Principe, se atterrito da tali fulmini non si fosse distaccato dalla lega. E vedendo di vantaggio il Papa inondar con pieni torrenti i Saraceni per tutti i lati, scrisse anche più lettere e mandò più legati a Carlo il Calvo, al quale ricordando i benefizj fattigli, lo stimolava instantemente, che tosto, ad esempio del suo predecessore Lodovico, calasse in Italia con potente armata per discacciargli, altrimente tutto sarebbe andato in rovina, e caduta in man dei Barbari Roma, con irreparabil ruina della sua Sede, di cui egli avea giurato esserne difensore.

Questi esempj dovrebbero far ricredere a molti esser poco sicura l'opinione di coloro, che scrissero gl'Interdetti generali locali non essere più antichi de' tempi di Gregorio VII, e che questo Pontefice fosse stato il [405] primo, che gli avesse introdotti nella Chiesa, castigando così i Popoli per le scelleratezze de' Principi; poichè se è vero ciò che narra Erchemperto, che fiorì intorno a questi medesimi tempi, o poco da poi, la città di Napoli patì veramente tal disavventura per li perfidi e scellerati costumi del suo Vescovo e Duca, che obbligò i Napoletani a far lega co' Saraceni. Oltre che, tralasciando più antichi esempj d'altri paesi, abbiamo noi un altro esempio illustre nel Principato di Benevento, dove Errico II Imperadore, avendovi posto per reggerlo Pandolfo, perchè i Beneventani non vollero ubbidirlo, l'Imperadore che andava di concerto con Papa Clemente, proccurò l'anno 1010 che il Pontefice scomunicasse i Beneventani; nè furono assoluti, se non dieci anni da poi, quando Lione IX che a Clemente succedè, venuto in Benevento, non togliesse l'Interdetto.

Ma nell'istesso tempo che Carlo s'apparecchiava di calare in Italia per soccorrere il Papa, giunto con picciol numero di truppe in Pavia, dove il Papa venne a trovarlo, ecco che Carlomanno lo previene e calato egli in Italia con potenti eserciti, tentò di scacciarne il Calvo, aspirando all'Imperio ed al Regno d'Italia. Carlo sorpreso di tal mossa, ripigliò il cammino verso la Francia, e giunto all'Alpi, assalito da una febbre, non senza sospetto di veleno, finì quivi i giorni suoi nel dì 6 del mese d'aprile dell'anno 877, in età di 54 anni: il suo corpo fu seppellito a Vercelli, e sette anni da poi fu portato in S. Dionigi.

[406]

§. I.  Maggiori disordini e calamità in queste nostre province per la morte di Carlo il Calvo, ne' tempi di Carlomanno.

Morto il Calvo, e succeduto in Italia Carlomanno, s'accrebbero i disordini e le calamità; poichè Carlomanno non potendo soccorrere le nostre Province, per essere impiegato in altre imprese, i Saraceni imperversando assai più, misero il tutto in iscompiglio e desolazione.

S'aggiunse ancora la discordia de' nostri Principi stessi; poichè i Capuani per la morte accaduta di Landulfo nell'anno 879 si divisero in fazioni. Lasciò costui più nepoti, i quali accelerarono maggiormente la ruina di questo Contado, perchè fra di loro egualmente se lo divisero. A Pandonulfo Conte di Capua, che gli succedè, toccò Tiano e Casamirta, che altri dicono Caserta. A Landone, Berolassi e Sessa. All'altro Landone, Calinio e Cajazza[522]: e così vennero d'uno Stato a farsene molti divisi in più pezzi, che portò finalmente la ruina de' nostri Principi longobardi, perchè infra di lor divisi le cose terminarono in fazioni e guerre intestine, onde diedesi pronta occasione alle altre Nazioni d'approfittarsi de' loro sconcerti e disordini. Sorse perciò anche quell'antica consuetudine appresso i medesimi, di non preporre il primogenito nelle successioni de' Feudi agli altri fratelli minori, ma ammetter tutti egualmente[523], contro [407] l'istituto de' Franzesi, che per non dividere i Stati, al primogenito gli deferivano; e quindi in questo nostro Regno s'introdusse quella distinzione, che nelle successioni, alcuni Feudi si regolavano secondo il jus de' Longobardi, altri secondo il jus Francorum, che prevalse finalmente come più provvido e saggio, come a più opportuno luogo diremo.

E se bene a Pandonulfo fosse stata da Giovanni VIII conceduta Gaeta, non furono però i Capuani così dolci nel trattar i Gaetani, che perciò non ne sorgessero nuovi sconcerti e ravvolgimenti, siccome in tutto il suo Stato; tanto che dopo tre anni ed otto mesi ne fu Pandonulfo cacciato, ed eletto in suo luogo nell'anno 882 Landone, il quale, governando inettamente Capua, non durò più che due anni a reggerla; poichè datosi con ciò occasione ad Atenulfo suo fratello d'invaderla, fece sì questo valoroso e prode Capitano, che discacciandolo nell'anno 887 ristabilì in miglior forma il Contado di Capua, e portato dal corso della sua fortuna, fu al Principato di Benevento innalzato, venendo con ciò ad unirsi questi due Stati dopo il corso di molti anni, in una medesima persona, come diremo.

Non minori furono i disordini nel Principato di Benevento, perchè Adelghiso, mentre tutto festante ritorna in Benevento dopo la presa del castello Trabetense, che alcuni dicono essere Trivento, per una congiura fu da' suoi nepoti ed amici crudelmente ucciso nell'anno 878, dopo aver dominato in Benevento anni 24 e mezzo: quindi di questo Principe non si legge [408] alcun tumulo, come degli altri appresso Pellegrino. Si legge però presso il medesimo un suo Capitolare, ove molte leggi stabilì, alcune conformi alle antiche dei Re longobardi, altre difformi alle medesime.

Nacquero perciò disordini gravissimi nello Stato, perchè succedutogli nel Principato Gaideri suo nipote, figliuolo di Radelgario, che per forza d'ambizione ne escluse Radelchi figliuolo primogenito dell'ucciso Adelghiso, i Beneventani dopo due anni e mezzo lo deposero e mandarono prigione in Francia, portando al soglio Radelchi figliuolo, come si disse, d'Adelghiso; ma non tardò guari, che Gaideri fuggito di Francia, si ritirò in Bari, sotto la protezione de' Greci; poichè questa città, la qual era prima governata da' Castaldi che vi mandavano i Principi di Benevento, perchè si vide sovente in mano de' Saraceni, considerando che i Beneventani per più volte l'aveano perduta e che non potevano difenderla contro le spesse incursioni de' medesimi, era in questi tempi passata sotto il dominio de' Greci, perchè i Baresi, come fu detto, si diedero a Gregorio Straticò, che chiamarono da Otranto, città che pure era ritornata sotto la dominazione de' Greci[524]. E portatosi per ciò Gaideri in Costantinopoli all'Imperador Basilio, fu da costui ricevuto cortesemente, concedendogli il governo per tutto il tempo di sua vita della città d'Oria, donde non cessò mai di molestare i Beneventani, che da quel dominio l'aveano scacciato[525].

Nè Radelchi, combattuto da tante altre parti, potè molto godersi del suo Principato, poichè insorta non [409] molto da poi guerra tra Napoletani ed Amalfitani da un canto, e tra Capuani e Beneventani dall'altro, tutto andò in confusione: e dopo il dominio di pochi anni ne fu scacciato nell'anno 883, e posto in suo luogo Ajone suo fratello[526]. Ma nè pure questo Principe potè molto godersi e con tranquillità il suo Stato, poichè preso da Guido Duca di Spoleto, sebbene per opera de' Sipontini, che in questo incontro mostrarono gran fedeltà al lor Signore, fosse stato sprigionato e restituito a Benevento, Gaideri che la città d'Oria teneva, gli mosse contro i Greci, co' quali ebbe spesso a combattere. E morto dopo sette anni di Regno perturbato, succedutogli nell'anno 890 Orso suo figliuolo, che non avea più che dieci anni, si diede l'ultima mano alla ruina de' Principi longobardi in Benevento; e che finalmente presa questa città da' Greci, passasse da' Longobardi, dopo 330 anni che la tennero, sotto la dominazione di Lione Imperadore d'Oriente figliuolo di Basilio; poichè questo Principe fortemente crucciato contro Ajone, e stimolato da Gaideri, nel seguente anno 891 mandò un'armata formidabilissima in queste nostre regioni sotto il comando di Simbaticio Protospatario per debellar Benevento, il quale cinta che l'ebbe di stretto assedio, dopo tre mesi se ne rese Signore insieme con altri luoghi del suo dominio, scacciandone l'infelice Orso, che non più d'un anno l'avea tenuta. Così Benevento dopo 330 anni, da Zotone primo Duca insino ad Orso, passò sotto gl'Imperadori d'Oriente, e venne governata per un anno dall'istesso Simbaticio, che la conquistò; dopo [410] il quale fuvvi mandato dall'Imperadore per successore Giorgio Patrizio, che insino all'anno 895 la governò.

§. II.  Calamità nel Principato di Salerno.

Ma più gravi e lagrimevoli furono le calamità di Salerno, la quale più volte invasa da' Saraceni, sostenne le più crudeli stragi e scorrerie non mai intese, tanto che furon più volte obbligati i suoi cittadini colle intere lor famiglie andar cercando ricovero altrove. Non bastarono i Saraceni solamente, ma a loro danno s'unirono anche i nostri Principi medesimi, e sopra tutto il nostro Duca di Napoli Attanasio, il quale unito con que' Barbari devastò tutto il suo paese, riducendo il Principe Guaimaro, che a' Guaiferio suo padre era nel Principato di Salerno succeduto nell'anno 880, in tali angustie, che per far argine a tante inondazioni, non bastando le proprie forze, fu da dura necessità costretto di ricorrere insino ad Oriente agli aiuti degl'Imperadori Lione ed Alessandro figliuoli di Basilio, da' quali fu opportunamente soccorso[527]: ed oltre a ciò, gli spedirono una bolla d'oro, rapportata anche dal Summonte[528], colla quale gli confermarono il Principato di Salerno nella guisa appunto, che era stata fatta la divisione tra Siconolfo e Radelchisio[529].

Non fu veduto al Mondo uomo più perfido ed infido [411] di questo Attanasio, il quale, ora facendo lega co' Saraceni, ora distaccandosene secondo il bisogno, pose in iscompiglio queste nostre province; quando i Saraceni inondavano i Principati vicini, e con felicità portavano le loro armi da per tutto, egli per ispegnere l'incendio, che vedeva negli altrui Stati, temendo che non s'inoltrasse infino alla propria casa, proccurava unirsi co' Principi vicini con dar loro soccorso: quando poi per qualche strana rotta data loro da' Greci o dai Principi longobardi, mancava il timore, s'allontanava da questi e riunivasi co' Saraceni. Così una volta accadde, che tenendo in quartiere molte schiere di Saraceni alle radici del Vesuvio, mandò sin in Sicilia a chiamar Suchaim Re, perchè facendosi de' medesimi Capo gli guidasse; ma essendogli avvenuto da poi, che costui cominciò a devastar il proprio paese, e a fare a' Napoletani oltraggi e danni insopportabili, commosso da sì fiero turbine, tosto pensò d'unirsi e far lega con Guaimaro Principe di Salerno e con li Capuani per discacciargli, siccome in fatti gli riuscì. Narra Erchemperto[530], che in quest'incontro fu punto Attanasio da' stimoli di coscienza, e che pensasse far questa lega per discacciargli, affinchè anche per sì pietosa impresa potesse meritar dal Papa l'assoluzione dalle censure, delle quali egli e Napoli sua città, sin dal mese d'aprile dell'anno 881 era stato legato.

Così per l'ambizione e per le gare de' nostri Principi, non videro queste province, che ora compongono il Regno, tempi più calamitosi di questi, ne' quali [412] erano combattute insieme e lacerate non men da' propri Principi, che da straniere nazioni. Pugnavano insieme i Beneventani, i Capuani, i Salernitani, i Napoletani, gli Amalfitani ed i Greci; e quando questi stanchi de' propri mali cessavano, eran sempre pronti ed apparecchiati i Saraceni, i quali sparsi da per tutto, ed avendosi in più luoghi del Regno stabiliti ben forti e sicuri presidj, nel Garigliano, in Taranto, in Bari e finalmente nel Monte Gargano, afflissero così miseramente queste province, che non vi fu luogo ove non portassero guerre, saccheggiamenti, calamità e morti; onde non pur i due più celebri e ricchi monasteri di Cassino e di S. Vincenzo più volte ne patirono desolazioni e incendj, ma queste istesse calamità furono sofferte anche da città più cospicue e da province intere.

Non era donde sperar aiuto e ricever soccorso; poichè le forze degl'Imperadori d'Oriente eran lontane e deboli. Molto meno era da sperarne dagl'Imperadori d'Occidente: morto Lodovico II che si rese celebre al Mondo per avergli tante volte scacciati da queste province e confinatigli nell'ultime città, non poteva alcun promettersi da' suoi successori soccorso, perchè Carlo il Calvo che gli succedè, impedito da Carlomanno suo competitore, ad altro fu uopo che drizzasse le sue armi. E Carlomanno, che, morto il Calvo, per tre anni tenne il regno d'Italia, come quello che aveva altre imprese per le mani, per aversi dovuto opporre a' sforzi di Lodovico il Balbo figliuolo del Calvo, che per se lo pretendeva, non potè pensare a queste nostre remote parti.

S'aggiunsero alle presenti altre calamità in tutta Italia; poichè per la morte del Calvo, stando vacante [413] l'Imperio, ancorchè Carlomanno tenesse il regno d'Italia, che con molta celerità occupollo, Lamberto Duca di Spoleto sorprese Roma, e pretese dal Papa la Corona imperiale. Il Pontefice fuggì in Francia, e soccorso da Lodovico III detto il Balbo, volendo ricompensarlo per tanti beneficj prestatigli in quest'occorrenza, lo consecrò in Francia Imperadore, e lo fece acclamare Augusto. Ma Lodovico, ancorchè acclamato Imperadore, non ebbe in Italia dominio alcuno, ritenendo il Regno Carlomanno; e si vide il Regno d'Italia nella persona di Carlomanno, ancorchè egli non fosse Imperadore. Ciò che maggiormente rende chiaro e manifesto quel che spesse volte abbiam notato in quest'Istoria, che gl'Imperadori d'Occidente, risorto l'Imperio, non dominarono Italia come Imperadori, ma come Re ch'essi n'erano; nè Carlo M. aggiunse all'Imperio l'Italia, siccome non fece membro del medesimo la Francia; e le leggi loro che per l'Italia furono lungamente osservate e che alle longobarde furon aggiunte, non come Imperadori, ma come Re della medesima ebbero tutto il vigore. In fatti gli antichi nostri Scrittori nel Catalogo delle leggi longobarde, noverando le leggi de' Re d'Italia, dopo quelle stabilite da' Re longobardi, numerano l'altre di Pipino sino a Corrado, come Re, non come Imperadori.

S'unirono però ben tosto queste due supreme dignità nella persona di Carlo il Grosso: poichè morto nell'anno 880 Carlomanno suo fratello, con incredibil sollecitudine si portò in Italia, ove accolto benignamente dagl'Italiani fu dall'Arcivescovo di Milano, secondo il costume, per Re d'Italia incoronato ed unto; e non molto da poi richiamato da Giovanni in Italia, prese da questo Pontefice, nel giorno di Natale dell'anno [414] 881, la Corona imperiale, e fu Augusto proclamato.

Ben fu Carlo il Grosso spesse volte chiamato dal Papa perchè soccorresse queste province, che erano tuttavia da' Saraceni malmenate, e ben egli sin a Ravenna a questo fine portossi; ma bisognò che tosto ritornasse in Francia, ove lo richiamavano mali più gravi, e più perniciose ruine. Fu in questi tempi, che la prima volta i Popoli normanni si ferono sentire, li quali usciti dall'ultima Scandinavia, scorrendo e mettendo sossopra la Francia, portarono l'assedio insino a Parigi, tanto che finalmente per quietargli bisognò assegnar loro per sede la Neustria, quella provincia che insino ad oggi per essi ritiene il nome di Normannia.

Peggiori furono i sconvolgimenti in quel regno per le contenzioni insorte dopo la morte di Lodovico Re di Francia, e poi di Carlomanno suo fratello; le quali finalmente trasportarono l'Imperio da' Franzesi agli Italiani. Allora fu che, vedendo i nostri italiani ruinata e divisa la Francia, cominciarono a pensare, che se Carlo il Grosso venisse a mancare senza lasciar di se stirpe maschile, non bisognava badar ad altro, ch'eleggere un Imperadore italiano, affinchè non essendo distratto in altri governi ed in paesi lontani, potesse meglio reggere l'Italia e difendere la Sede appostolica, la quale per spesse incursioni de' Saraceni insino alle porte di Roma, sovente erasi veduta in pericoli gravissimi; riputando in Italia l'antico valore non esser per anche estinto; e che ben v'erano personaggi tali a chi potesse appoggiarsi questa dignità. Persuasero perciò ad Adriano III, che allora reggeva la Sede appostolica, d'interporre a lor richiesta (se [415] dee prestarsi fede al Sigonio[531], che ne rapporta le parole) questo decreto: Ut moriente Rege Crasso sine filiis, Regnum Italicis Principibus una cum titulo Imperii traderetur. Siccome in fatti morto nel mese di gennajo dell'anno 888 questo Imperadore, il quale nella sua sola persona aveva unito i tre più insigni regni d'Europa, Germania, Italia e Francia, e che perciò uguagliò le grandezze di Carlo il Grande: postisi in su i nostri Italiani, di far ricadere presso la lor nazione il regno d'Italia e l'augusto titolo d'Imperadore, e pensando con ciò ristabilir meglio le sue province, portarono nelle medesime tali sconvolgimenti e tali disordini, che non fu veduta mai l'Italia così miseramente afflitta e travagliata per le discordie interne de' Popoli e per la perfidia e scelleratezza dei Principi, se non in questi tempi, ne' quali giacque sotto i Berengarj ed i Guidi, l'un Duca del Friuli e l'altro di Spoleto, come più innanzi diremo.

[416]

CAPITOLO II Dello stato nel qual eransi ridotte in questi tempi la giurisprudenza e l'altre discipline; e delle nuove compilazioni delle leggi fatte per gl'Imperadori di Oriente.

Ecco lo stato infelice e lagrimevole nel quale erano ridotte queste nostre province nel declinar del nono secolo; ed avesse piaciuto al Cielo, che qui fossero terminate le loro sciagure: sarebbe veramente impertinenza pretender in tempi sì rei, che le discipline fra tanti sconvolgimenti si fossero mantenute nella loro purità e nettezza. Tutto era disordine, tutto confusione: solamente in Roma, nel che tutta l'obbligazione devesi a' romani Pontefici ed a' Monaci e Cherici, si ritenne qualche letteratura, e la lingua latina non rimase affatto estinta, almeno nelle scritture. Quindi avvenne, che gli uomini di lettere fossero stati poi chiamati Cherici, siccome gl'illetterati si nomavano Laici; onde nacque, che presso gli Scrittori della più bassa età, come in Dante, in Passavanti ed in altri, per Cherici intendevansi i Letterati e per Laici gl'idioti. Nel che tanto più sono degni di commendazione, quanto che se bene Gregorio I. R. P. avessegli vietato d'impiegare i loro studj sopra Gentili autori, per cancellare ogni memoria dell'antiche discipline, e quindi con molto calore rampognasse Didicrio Vescovo di Vienna, perchè insegnava la Gramatica[532], pure tra tante inondazioni, [417] la Chiesa romana, per quanto la condizione de' tempi comportava, ritenne qualche reliquia della gentile erudizione, la quale altrimente sarebbe affatto perduta e posta in obblivione[533]. Chi crederebbe, che la filosofia, la medicina, l'astrologia e tant'altre scienze, i Saraceni l'avessero in questi tempi fra noi fatte risorgere per lo studio che gli Arabi posero sopra i libri d'Aristotele, di Galeno e d'altri Autori, onde Averroe, Avicenna, e tanti altri si resero cotanto celebri e rinomati? Quindi nelle nostre Scuole per lungo tempo si videro le discipline, la filosofia e la medicina sì malamente trattate; e posti in dimenticanza tanti altri insigni Filosofi, tener solo Aristotele il campo e contaminarsi anche per ciò la teologia, la matematica e tutte l'altre scienze, come diremo a più opportuno luogo.

E per ciò che riguarda la nostra giurisprudenza, erano iti in bando i libri di Giustiniano, ed in Italia quasi che sconosciuti, e la legge romana sol per tradizione era rimasa nell'infima plebe, ch'è l'ultima a deporre gli antichi istituti e le leggi de' suoi maggiori: solamente le Novelle di Giustiniano erano dagli Ecclesiastici ritenute, e dai R. P. sovente allegate[534]; e del Codice Teodosiano, come quello che fu da Carlo M. tenuto in conto ed emendato, avevasi qualche uso. All'incontro le leggi longobarde erano le dominanti, alle quali aggiunte le altre, che da questo Principe e dagli altri suoi successori come Re d'Italia erano state promulgate, si dava tutta l'autorità e tutto il vigore [418] ne' nostri Tribunali; e secondo quelle ogni lite era terminata.

E poichè tratto tratto eransi già introdotti in queste nostre province i Feudi in più numero, cominciarono quindi a sorgere le Consuetudini, non già leggi feudali, poichè il primo che avesse fra noi sopra de' medesimi promulgata legge scritta fu Corrado il Salico, come diremo. Le loro regole ed usi per la maggior parte eran tratti, come s'è detto, dalle leggi longobarde; ma vi ebbero parte ancora le leggi e le costumanze d'altre nazioni: da' Sassoni e Turingi la perpetua esclusione delle femmine dalla loro successione: da' Normanni e Borgognoni il costume di preferire i primogeniti: dagl'istessi Normanni l'uso di pagare i rilevj nelle rinovazioni delle antiche investiture. Da' Longobardi l'anteporre la donzella, che chiamavano in capillis, alla sorella maritata e dotata, ne' luoghi ove le femmine (come nel nostro Regno) son capaci di Feudi. Dai medesimi Longobardi l'uso de' sacramentali; e il determinato numero de' dodici, non tanto da' Longobardi, quanto da' Ripuarj, fu derivato. Parimente la necessità d'avere ad intervenire i Pari della Corte così nelle nuove investiture, come ne' giudicj di privazione dei Feudi, dagli Alemanni i nostri maggiori l'appresero: siccome le loro successioni, secondo le consuetudini de' luoghi si regolavano, non già per leggi scritte, onde la ragion di succedere divenne così varia e diversa; quindi i compilatori di questo dritto saggiamente le dissero Consuetudini: del che ci tornerà occasione di un più lungo discorso, quando della compilazione dei Libri feudali farem parola. Quindi parimente avvenne, che la legge romana declinasse tanto e sol fra la plebe come antica usanza si ritenesse; perchè riempiendosi [419] queste nostre province per la multiplicità de' Feudi, di non mediocre numero di Baroni, erano solamente le leggi longobarde, e queste Consuetudini feudali, le quali in gran parte dalle medesime derivano, riverite ed osservate, ed era quasi come un marco di nobiltà in coloro, i quali secondo la legge longobarda, e non romana, viveano. Ed ancorchè Carlo M., Pipino, Lotario e Lodovico avessero lasciato in libertà a' provinciali di vivere sotto quella legge che volessero, per la maggior parte però la longobarda era eletta. S'aggiungeva ancora, che le donne maritandosi, se pure viveano sotto la romana, dovean poscia vivere sotto la longobarda, secondo la quale regolarmente viveano i loro mariti, del che presso Doujat[535] n'abbiamo un chiarissimo e singolar esempio.

Ma le leggi longobarde e le Consuetudini feudali aveano solamente in quelle province, ch'erano sottoposte a' Principi longobardi, tutta la loro forza e vigore; poichè insino a questi tempi, non l'aveano ancora acquistata nel Ducato napoletano, ed in tutte quelle città e luoghi dove ancor durava l'Imperio dei Greci, i quali non riconobbero le longobarde, e perciò nè meno i Feudi. Forse perciò alcuno stimerà, che almeno in questi tempi nel Ducato napoletano, in Amalfi, Gaeta, ed in tutte quelle regioni sottoposte a' Greci si vivesse secondo le leggi di Giustiniano, e tanto più in questi tempi, ne' quali i Greci avean ritolti molti luoghi a' nostri Principi longobardi, e Bari, Taranto e Benevento eran ritornati sotto la loro dominazione.

Ma resterà sorpreso quando intenderà, che i Libri [420] di Giustiniano non ebbero minore disavventura in Oriente di quella s'avessero in Occidente, e perciò nè meno da quelle città e province che lungo tempo si mantennero sotto l'Imperio de' Greci, furono riconosciuti. Questo nacque parte per dappocaggine di Giustino, che a Giustiniano successe, ma molto più per invidia che ebbero gli altri Imperadori successori alla gloria di Giustiniano, i quali proccurarono per mezzo di nuove Costituzioni e Novelle, e di nuove compilazioni di oscurare i suoi libri. E poichè la maggiore scossa, che riceverono, fu in questo medesimo nono secolo, nel quale siamo, quando nell'anno 870 l'Imperador Basilio, e poco da poi Lione e Costantino suoi figliuoli ordinarono quella cotanto celebre compilazione de' Basilici; perciò sarà bene, che delle tante compilazioni fatte da' Greci e delle opere de' loro Giureconsulti, i quali intorno a questo soggetto impiegarono le loro fatiche, qui distesamente se ne ragioni; donde si scorgeranno le vere cagioni perchè le leggi di Giustiniano, così nel Ducato napoletano, come in tutte l'altre città a' Greci sottoposte, non avessero avuto quel vigore e quella autorità, la quale fu veduta poi in queste regioni avere, quando risorte in Italia ai tempi di Lotario II, ed esposte nelle nostre Accademie, acquistarono poi ne' nostri Tribunali quella forza, che ogn'un ora vede. E mi lascio tanto più volentieri condurre a farlo in questo luogo, in quanto che rincrescendomi tra tante sciagure e miserie andarmi più ravvolgendo, si possa prendere alcun respiro con le lettere, che in Grecia non erano in questi tempi, come in Italia, affatto mancate e spente.

[421]

I.  Nuove compilazioni di leggi fatte in Grecia; e qual uso ebbero fra noi in quelle città, che ubbidivano a' Greci.

I Libri di Giustiniano, cioè le compilazioni delle Pandette, del Codice e dell'altre costituzioni Novelle, morto il suo autore, presso a' Greci medesimi riceverono sì strane mutazioni, che finalmente mandati in bando, non in quelli, ma in altri volumi contenevasi il dritto de' Romani. In Oriente accadde questa loro oblivione principalmente per due cagioni; la prima per le tante altre nuove Costituzioni, che da' seguenti Imperadori (incominciandosi da Giustino il Giovane dall'anno 566, insino a Michele Paleologo nell'anno 1260) furono da tempo in tempo promulgate, per le quali spesso variandosi e correggendosi ciò che Giustiniano aveva stabilito ne' suoi libri, cagionarono tali cangiamenti e novità, che i Professori e gli Avvocati, quelli abbandonati, s'attaccarono ad esse, come quelle nelle quali era riposto ciò che per l'uso del Foro bisognava e per la decisione delle cause, nulla curando de' Codici di Giustiniano, alle leggi de' quali per le tante correzioni da poi seguite, poco o nulla autorità si dava, e perciò l'uso delle medesime andava mancando.

L'altra cagione furono le tante altre collezioni, ovvero compilazioni da poi fatte, alcune più ristrette, altre più ampie, dagli Imperadori successori, le quali oscurarono quelle fatte da Giustiniano. Le collezioni più ristrette, essendo di varie sorti, acquistarono perciò diversi nomi: altre furon dette Prochira, cioè Promptuaria: altre Enchiridia, cioè Manualia: alcune [422] altre Ecloghe, cioè Delectus, ovvero collezioni di cose più scelte, dette ancora Sinopsis, Epitome, cioè compendj. Le collezioni più ampie quasi tutte sortirono un istesso nome di Basilici, cioè Imperiali, non come credettero alcuni, che prendessero tal nome da Basilio Imperadore, che fu il primo a comporle. Presso i Greci Basileos è l'istesso, che Re o Imperadore, perciò le collezioni, che contenevano le loro Costituzioni, si dissero Basilici, cioè Imperiali.

E per quanto s'attiene alla prima cagione delle tante Costituzioni imperiali, per togliere le confusioni bisogna dividerle in due classi. Quelle stabilite da Giustino il Giovine sino all'Imperador Basilio il Macedone e suoi figliuoli, è duopo separarle dalle posteriori promulgate dopo Basilio, le quali prima vagando sotto il nome di Novelle, furono finalmente raccolte insieme, serbandosi per lo più l'ordine de' tempi ne' quali furono stabilite.

Si numerano dieci Imperadori, da' quali furono le prime promulgate: essi furono Giustino il Giovane, Tiberio parimente il Giovane, Eraclio, Costantino V Pogonato, Lione III Iconomaco, Lione V Armeno, Teofilo e Basilio Macedone con Lione e Costantino suoi figliuoli. Per quarant'anni dopo la morte di Giustiniano sotto gli Imperadori Giustino, Tiberio e Maurizio, i libri di Giustiniano, così latini come furon dettati, ebbero in Costantinopoli, nell'Accademie e nel Foro tutta la loro autorità e vigore[536]; ma succeduto nell'Imperio d'Oriente Foca, inettissimo Principe, costui, siccome non seppe reprimere le invasioni di tante straniere nazioni [423] che gran parte del suo Imperio occuparono, nè tampoco seppe conservare le leggi; onde se bene non affatto fosse mancata l'autorità de' libri di Giustiniano, si videro però trasformati e trasportati in idioma greco, e da' greci Giureconsulti, come nuovo corpo di legge greca, riputati; dal quale e dalle Novelle, che tuttavia andavansi stabilendo, erano nel Foro le leggi allegate; onde in Oriente i Codici di Giustiniano cominciarono a perdere l'antico vigore[537].

Ma scossa maggiore ricevettero per le tante altre Costituzioni Novelle, che seguirono in appresso dopo Basilio e' suoi figliuoli. Si noverano sino a diciassette Imperadori, che nel corso del loro Imperio le stabilirono. Questi furono Costantino VIII Porfirogenito, Romano Lecapeno il Vecchio, Romano Porfirogenito il Giovane, Niceforo II Foca, Basilio il Giovane, Romano IV Argiropilo, Zoe Imperadrice, Isaacio Comneno, Michele VII Duca, Niceforo Bononiate, Alessio Comneno, Giovanni Comneno, volgarmente detto Calogiovanni, Emanuele Comneno, Alessio III Comneno, Isaacio Angelo, Giovanni III Duca, che regnò nell'Asia minore ed in Nicea, mentre i Franzesi tennero Costantinopoli, e Michele Paleologo, che, discacciati i Latini, recuperò Costantinopoli.

La notizia di queste Novelle non se non dopo molti secoli pervenne a noi, quando restituite in Francia ed in Italia le discipline e l'erudizione, furono dalle tenebre alla luce del Mondo esposte, non da un solo e insieme, ma poco a poco da più eruditi Scrittori, amatori dell'antichità. Non ebbero esse alcuna forza o autorità in queste nostre contrade nè a' tempi nei [424] quali furono pubblicate, per essere quasi tutte locali e attinenti al governo di Costantinopoli e dell'altre città dell'Oriente, nè da poi che in Italia furono restituiti i libri di Giustiniano; poichè ne' volumi antichi, i quali tratto tratto cominciarono ad esser ricevuti prima nell'Accademie d'Europa, e poi per la forza della ragione, ne' Tribunali, non vi si leggevano. I nostri primi restauratori non ebbero di quelle alcuna notizia, e dopo molti secoli furono da alcuni eruditi rinvenute, i quali le tradussero in latino, e poi proccurarono che s'aggiungessero alle nuove edizioni, che da tempo in tempo occorreva fare de' vulgati Codici. Molte ne fece dare in luce Eimondo Bonafede, moltissime altre Giovanni Leunclavio e Carlo Labbeo, e gran parte d'esse possono leggersi così greche, come latine appresso Leunclavio, e nel Corpo di Dionisio Gotofredo, il quale parte per interpretamento d'Errico Agileo, parte di Bonafede, le unì a' suoi volumi. Per queste cagioni mal farebbe chi di quelle oggi volesse valersi ne' Tribunali nostri per le decisioni delle cause, non avendo esse mai acquistato vigor di legge in queste nostre parti; e lo stesso si dice de' Basilici[538]. Ben sono degni di lode chi dalle tenebre cavandole ove giacean sepolte, hannole date fuori alla luce del Mondo, perchè sovente rischiarano quelle già ricevute, e danno maggior lume a ciò che concerne l'istoria de' tempi e de' fatti di quelle Nazioni; e questo sol uso ed utilità dalle medesime e da' Basilici potrà aversi, nè debbon i nostri Giureconsulti da quelli altro promettersi. Così molte Novelle di questi Imperadori abbiamo intorno a' costumi e greche usanze, [425] e per altre consimili cose a' Greci appartenenti, promulgate per alcuni luoghi e città di certe e determinate province, che altrove non ebbero nè vigore, nè autorità alcuna[539].

Sopra tutti gli altri Imperadori d'Oriente, non vi fu chi tante Costituzioni promulgasse, e molte cose innovasse, quante Lione VI figliuolo di Basilio. Questi fu un Principe amantissimo delle buone lettere, il quale per lo studio e somma perizia delle leggi, dell'istoria e della filosofia, acquistossi, ad imitazione d'Antonino, il cognome di Filosofo. Si contano di questo Imperadore 113 Novelle divolgate intorno l'anno 890, che Agileo trasportò nella latina favella; ma quasi tutte non ebbero altro uso, nè altra autorità che ne' Tribunali di Costantinopoli, e moltissime nei tempi stessi di Lione andarono in disuso[540]. Restano di questo Principe molti monumenti della sua dottrina e del suo amore verso le buone arti, come sono i tanti libri che compose, e che sottratti dall'ingiuria de' tempi, lungo tempo nella Biblioteca Palatina ed in quella di Costantinopoli si sono serbati. Egli scrisse molti libri dell'Apparato e Disciplina militare, che meritarono esser trasportati nella lingua latina ed italiana: un libro della Caccia, vari Oracoli e Vaticini di Roma e di Costantinopoli, ed alcune Operette teologiche ed istoriche; ma soprattutto la maggior sua cura ed applicazione fu intorno allo studio delle leggi, perchè emulo di Giustiniano, ciò che questi fece a Teodosio il Giovane, volle render a lui per le nuove compilazioni e per li suoi Basilici e Promptuari, che [426] insieme con Basilio suo padre, per oscurar in tutto la fama di Giustiniano, ridusse in miglior ordine ed in più nobile forma[541].

Il primo adunque (per venire alla seconda cagione dello scadimento de' libri di Giustiniano) che vie più interruppe il corso alla legge di Giustiniano per mezzo di nuove collezioni, fu Basilio Macedone. Basilio essendo stato con istrano esempio di fortuna nell'anno 866 acclamato Imperadore, fu un Principe d'animo grande, il quale avendo più volte debellati i Saraceni, ristabilì colla sua prudenza l'Imperio, ch'era stato ruinato da Michele suo predecessore; ed avendo associato all'Imperio Costantino, e nominati Cesari Lione ed Alessandro suoi figliuoli, diede poi nell'anno 879 il titolo d'Imperadore a Lione. Avendosi per le sue magnanime imprese acquistata gran fama, entrò nei disegno di emulare la gloria di Giustiniano, e per mezzo di nuove compilazioni oscurare il suo nome ed i suoi libri: ordinò per tanto nell'anno 870 (associando anche a quest'opera Costantino e Lione suoi figliuoli) che si compilasse un Prontuario, ovvero, come i Greci lo chiamarono Prochyron di leggi, nel quale si restringessero in breve da molti volumi, i fonti più principali della legge, onde derivavano i rivoli minori. Secondo ciò che testifica Armenopolo[542], era ristretto in quaranta Titoli, non in sessanta come Cujacio scrisse; e fra i Codici manuscritti leggesi ancor oggi nella Biblioteca Vaticana, dove dalla Palatina fu trasportato. Corre sotto il nome, ora di Basilio, di Lione e di Costantino, ora sotto il nome [427] di Lione e Costantino solamente, ed ancora sotto il solo nome di Lione, con varie e diverse prefazioni; onde è molto probabile, che da Lione il Filosofo fosse quest'opra di Basilio ritrattata ed in miglior forma ridotta.

Non soddisfatto Lione d'aver in miglior forma ridotto il Prochiro di suo padre, e d'aver empiuto l'Oriente di tante sue Novelle, diede fuori anche gli Epitomi della legge, opera assai elegante, la quale componevasi di pure definizioni e di regole; ma maggior fu il suo studio e pensiero nella fabbrica de' Basilici: fu questa grand'opra compilata intorno l'anno 886, distinta in sessanta libri, e per maggior comodità divisa in sei volumi. Narra Cedreno essersi cominciato questo lavoro da Basilio, ma il suo compimento lo ricevè da Lione suo figliuolo, il quale per opra di Sabbaticio Protospataro (forse colui, che come dicemmo, venne in queste nostre parti mandato dall'Imperadore per discacciare i Saraceni) la fece promulgare, come dopo Matteo Blastare, scrisse Antonio Augustino.

Ciò che si fece in questa nuova compilazione non fu altro, se non che serbandosi per lo più l'istesso ordine delle leggi tenuto da Giustiniano, prendendosi anche la materia da' suoi libri, da' suoi tredici editti e dalle Costituzioni Novelle così sue, come de' seguenti Imperadori sino a Basilio; si risecò tutto quello, che fu reputato soverchio, e fu tolto quel che per l'uso de' tempi posteriori era andato in desuetudine; ed all'incontro aggiunto ciò che per le nuove Costituzioni de' seguenti Imperadori era stato stabilito: per la qual opera in sei volumi racchiusa, ed in 60 libri divisa ne sorse un nuovo corpo di leggi, Basilici detto, che [428] in greca lingua distesero: in maniera, che ciò che Giustiniano di ciascuna materia separatamente aveva trattato in più libri, cioè nelle Istituzioni, nelle Pandette, nel Codice e ne' libri delle Novelle, fu collocato sotto un medesimo titolo, serbandosi però quasi l'istesso ordine, che a Triboniano piacque tenere intorno alla disposizione delle materie.

Questi furono i Basilici, e si dissero Priori, perchè la faccenda non finì qui; poichè Costantino VIII figliuolo di Lione cognominato Porfirogenito volle pure intorno a questo soggetto impiegar la sua cura e la sua maggior applicazione: non meno di suo avo e di suo padre fu mosso Costantino da stimoli di gloria, e col medesimo disegno di abolire affatto la memoria de' libri di Giustiniano[543]. Egli nella giurisprudenza e nell'istoria volle di se dar saggio d'uomo, a cui le lettere erano sommamente a cuore. Ritrattò l'opra de' Basilici, l'emendò in molte sue parti, e nell'anno 920 ne fece dar alla luce del Mondo un'altra di repetita prelezione più espurgata e corretta, e volle esserne riputato egli l'autore, e che de' Basilici Priori non più se ne avesse conto, ma che nel Foro e nelle Scuole, questi suoi, che perciò si dissero Posteriori, avessero tutto il vigore, ed andassero per le mani dei studiosi e de' Causidici d'Oriente. In effetto questa nuova compilazione de' Basilici fu nell'Oriente conosciuta, e rimase per fondamento del Jus greco insino alla fine dell'Imperio de' Greci[544], e fu riputato Costantino per primo autore de' medesimi, siccome dopo Luitprando riputollo Erveo. Questi furono sempre [429] riputati i veri libri de' Basilici, a' quali l'istesso Costantino ha fatto precedere un nuovo Prochyron, ovvero introduzione, la quale oggi giorno si vede; e sono quelli, che dopo il corso di tanti secoli per l'industria e diligenza d'alcuni benemeriti della nostra giurisprudenza, prima da Genziano Erveo, ed ultimamente con maggior accuratezza da Annibale Fabrotto furono a noi restituiti[545], e sopra i quali gl'Interpreti greci posero il loro studio in commentargli ed illustrargli per mezzo delle loro insigni fatiche.

Non minor fama acquistossi questo Principe per l'altre famose sue opere, che pur oggi ci restano intorno all'istoria, avendo fatto raccorre in un corpo tutti gl'Istorici, disponendogli per 53 luoghi comuni, ancorchè l'istoria di Porfirogenito, come fu consueto stile de' Greci, in molte parti si reputi favolosa, siccome in più luoghi di questi nostri libri si è potuto vedere.

S'affaticarono intorno a questi Basilici molti Interpreti greci, in maniera che essi ebbero in Oriente non minor turba di Commentatori greci, che i libri di Giustiniano, da poi che furono risorti in Occidente, ebbero di Commentatori ed espositori latini. Cujacio ne annovera moltissimi, Stefano, Niceo, Taleleo, Isidoro, Eustazio, Eudossio, Calociro, Sesto, Callistrato, Lione, Foca, Modestino, Domnino, Gobidas, Cumno, Giovanni, Agioteodoreto, Doxapater, Gregorio, Garidas, Bestes, Bafio e Teofilo: a' quali Freero aggiunge Patzo, Teofilitzen, Fobeno, Teodoro Ermopolita, Demetrio e Carlofilace. In quali precisi tempi questi fiorissero non può dirsi cosa di certo. [430] Contuttociò se voglia numerarsi Taleleo tra i Giureconsulti, che commentarono i Basilici, bisognerà dire, che fosse questi un altro Taleleo, e non quegli che molto prima fiorì a' tempi di Giustiniano, della cui opera, come si è da noi altrove detto, si valse nella fabbrica delle Pandette.

Così ancora un altro Stefano bisogna che fosse questi, e non già quegli, che per comandamento dell'istesso Giustiniano sparse i suoi sudori intorno a' Digesti, i quali anche furono da lui tradotti in greca favella; nè questi Teodoro e Isidoro potevan esser quelli, che molto tempo prima furono da Giustiniano impiegati tra que' diciassette alla fabbrica de' latini Digesti.

Molto meno quel Teofilo, che insieme con Triboniano e Doroteo compose l'Istituzioni: e quel Foca, uno che fu de' dieci preposti alla fabbrica del latino Codice. Di Callistrato e Modestino non accade por dubbio, ciascun sapendo, che questi Giureconsulti fiorirono molto tempo prima di Giustiniano istesso, non che del Porfirogenito. Per la qual cosa se non si dirà, che furono più Giureconsulti in diversi tempi co' medesimi nomi, non possono certamente questi annoverarsi tra gl'Interpreti de' Basilici: ancorchè alcuni di essi si fossero prima affaticati intorno a' volumi di Giustiniano trasportandogli nella greca favella, siccome (se dee prestarsi fede a Matteo Blastares rapportato da Antonio Angustino)[546] fece Stefano delle Pandette, oppure Taleleo, secondo che credono Suarez[547] e Struvio[548], e siccome Taleleo stesso fece del Codice; l'esempio de' quali imitarono poi Cirillo nei [431] Digesti, Teodoro nel Codice, e Teofilo nelle Istituzioni.

Oltre di questi, ne furono altri d'incerto nome: fuvvi l'Anonimo, Basilico, che Cujacio crede esser l'Interprete del medesimo contesto de' Basilici, Evantiofanes, cioè il Conservatore delle leggi fra lor discordi, ovvero dell'antinomie, che il Vescovo Vasionense crede esser Fozio, il quale nel suo Nomocanone scrive aver composto un simil libro[549].

Autore di quella diffusa parafrasi, che va sotto nome d'Indice, Cujacio crede esser Doroteo; ma Gotofredo stima esser quella opera di diversi, di Basilico e di Bafio, di cui Costantino si valse, ed appo cui non fu riputato meno, che Triboniano appresso Giustiniano, il quale molte cose a quell'Indice aggiunse.

Fu per tanto appresso i Greci, non meno di quello, che fu da poi presso a' Latini, lo studio delle leggi de' Romani in Oriente coltivato. Perciò infra di loro sorsero molti a commentarle ed a variamente interpretarle, poco curandosi de' divieti di Giustiniano, che non permise altro, che le versioni in lingua greca e' Paratitli, alcuni vi aggiunsero scolj, parafrasi e glose: altri ancora non s'astennero di caricarle di pienissimi commentarj; ma i monumenti di queste loro opere non han per noi veduta mai la luce del giorno, e la maggior parte delle medesime, o dal tempo sono state a noi involate, o pure oggi si serbano tra le Biblioteche de' Principi e d'altri uomini eruditi. Quelle opere, che divolgate vanno ora per le mani degli uomini, sono il Nomocanone di Fozio Patriarca di Costantinopoli, il quale quasi in quest'istessi tempi [432] fu dato fuori alla luce nell'anno 877, e diviso in 14 titoli, a' quali Teodoro Balsamone aggiunse i suoi scolj.

Evvi l'Ecloga de' Basilici, che Sinopsi ancora da alcuni è chiamata: alcuni presso Cujacio[550] suspicano esserne stato autore Romano il giovane figliuolo di Porfirogenito e nipote di Romano Lecapeno, che imperò circa l'anno 962. Fu quest'opera ritrovata da Giovanni Sambuco nel nostro Taranto[551], città ai tempi di Romano a' Greci sottoposta. In Otranto parimente per la medesima cagione, narra Antonio Galateo[552], che Niceta Filosofo Otrantino, poi Monaco di S. Basilio, dalla Grecia raccolse molti Codici, e ne arricchì la Biblioteca di quel monastero, che posto sotto la regola di S. Basilio, non molto lontano da Otranto, si rese in queste nostre parti assai chiaro e cospicuo.

Giovanni Leunclavio fece imprimere questa Ecloga in Basilea l'anno 1575, e tradussela in lingua latina; e Carlo Labbeo v'aggiunse le emendazioni ed osservazioni[553]. Presso a Leunclavio[554] stesso si legge ancora un'altra Sinopsi di Michele Attaliates Proconsole e Giudice, fatta nel 1070 per ordine di Michele Duca Imperadore, che va attorno sotto il nome di Prammatica. Poco da poi nell'anno 1071 Michele Psello illustre per la perizia delle leggi e della filosofia compose un'altra Sinopsi in versi politici, che al medesimo Imperador Michele dedicolla.

Finalmente Costantino Armenopolo Giudice Tessalonicense [433] intorno l'anno 1143, imperando Emanuel Comneno, diede fuori l'Epitome delle leggi civili, che prima in greco si fece stampare in Parigi nell'anno 1540 da Adamo Suallembergo; fu poi tradotto in latino, ed impresso nell'anno 1547 e 1549 da Bernardo Rey, e di nuovo da Giovanni Mercero in Lione nell'anno 1556 serbasi ancora manoscritto nella Biblioteca Vaticana e nella Palatina[555].

Cujacio anche a tutti questi aggiunse il trattato di Eustazio Antecessore de Temporum intervallis, che tra le sue opere vedesi impresso. Antonio Augustino, Freero ed altri ci diedero la notizia di consimili altri scritti di Greci[556]; e Leunclavio ci diede molte leggi militari, rustiche e nautiche, siccome Carlo Labbeo i Paratitli.

Da che si raccoglie, che nell'istesso tempo, che in Italia appo i Latini lo studio delle leggi romane per le incursioni de' Saraceni e d'altre Nazioni, e per le discordie de' nostri medesimi Principi era ito in bando, all'incontro i Greci lo coltivarono con somma diligenza insino agli ultimi tempi, che Costantinopoli passò sotto Nazioni barbare, e che l'Imperio d'Oriente patì l'ultimo eccidio. E se bene le loro fatiche non le impiegarono sopra i libri di Giustiniano, non è però, che non lo facessero sopra le altre compilazioni fatte da poi ad emulazione del medesimo, la cui materia trassero da' libri suoi, ancorchè non poco ne togliessero e molto più vi aggiunsero.

Per queste cagioni avvenne, che se bene il Ducato napoletano e molte altre città marittime di queste Province si mantennero lungamente sotto l'Imperio dei [434] Greci, contuttociò non fossero stati i libri di Giustiniano ricevuti; e se ne' tempi di Lotario II Imperadore si trovarono le Pandette in Amalfi, non fu perchè ivi come città un tempo del Ducato napoletano, e soggetta agl'Imperadori d'Oriente, fossero state riputate come Corpo delle loro leggi, per le quali gli Amalfitani si governassero, ma si trovarono in quella città per l'occasione delle spesse navigazioni, che gli Amalfitani facevano in Costantinopoli, da poi che per l'eccellenza dell'arte nautica e per li continui traffichi si fecero conoscere per tutto Levante; poichè in altro modo, siccome di loro non vi era rimaso vestigio nell'altre città di queste province ai Greci soggette, il medesimo sarebbe avvenuto in Amalfi; e quel che dice il Summonte e con maggior asseveranza Francesco de' Pietri, che ancora in Napoli furono trovate le Pandette, è una bugia così sfacciata, ch'è gran maraviglia, come si possa trovare in un uomo fronte tanto dura, che senza appoggio d'alcuno Scrittore, che lo dicesse, non abbia un poco di rossore di francamente affermarlo. Solamente per le Epistole di Ivone Carnotense e dal Decreto di Graziano possiamo dire, che in Francia nel decimo ed undecimo secolo, se ne vedesse andar attorno qualche altro esemplare, allegando sovente Ivone nelle sue Epistole[557], e Graziano nel suo decreto i Digesti non meno, che le Istituzioni, le Novelle ed il Codice[558]. In queste nostre province, che ora compongono il Regno, prima del loro rinvenimento in Amalfi, furono a questi tempi ignoti; e presso a' nostri Principi longobardi [435] le leggi loro erano le dominanti, nè delle romane s'ebbe altro riscontro, se non quanto per tradizione era rimaso tra i provinciali, e quanto dal Codice di Teodosio, emendato per Carlo M., potevano raccorre.

Egli è però verisimile, che più tosto nell'ultima Calabria s'avesse qualche uso de' Basilici, e dell'opere di que' greci Giureconsulti poc'anzi annoverati; giacchè in Taranto, Giovanni Sambuco ritrovò l'Ecloga de' Basilici, ed il Galateo n'accerta, che in Otranto nel monastero de' Monaci di S. Basilio molti libri greci furono, anche dopo espugnata Costantinopoli, trovati e trasportati da poi in Roma nella Biblioteca Vaticana; ond'è da credere che in Napoli e nell'altre città a' Greci sottoposte, avessero tenuta più forza le Novelle Costituzioni promulgate dopo Giustiniano dagli ultimi Imperadori d'Oriente, e queste loro ultime compilazioni, onde formossi il jus Greco, che i libri di Giustiniano, e che forse le Consuetudini napoletane da queste ultime leggi de' Greci, non già dall'antiche (come suspicò il Summonte) traessero la loro origine, siccome, quando ci tornerà occasione di favellare della compilazione delle medesime, noteremo.

Ciò si dice in riguardo della condizione di questi tempi, ne' quali i Greci aveano racquistata maggior forza in queste province; poichè essendosi da poi indebolite presso di noi le loro forze, e particolarmente nel Ducato napoletano, ov'eravi rimasa solamente una ombra dell'autorità degl'Imperadori d'Oriente, osservandosi che i Duchi con pur troppo independente arbitrio governavano questo Ducato; e molto poi quando i Normanni vi comparvero, da' quali furono finalmente i Greci discacciati; allora non si tenne più conto di [436] costoro, e molto meno delle loro leggi; ed i Napoletani pur troppo a' Longobardi vicini, s'adattarono alle loro leggi ed alle antiche romane, non già alle greche, siccome fecero tutte l'altre Province, ond'ora si compone il Regno; poichè essendo stati i Greci discacciati da' Normanni, e ritenendo questi le leggi longobarde, vollero che in tutti i luoghi si osservassero non meno le romane, che le longobarde, dando a queste maggior autorità e vigore. Anzi si vide, che prima della venuta de' Normanni, nella pace fatta nell'anno 911 tra Gregorio Duca di Napoli con Atenulfo Principe di Benevento, rinovata da poi nell'anno 933 dal Duca Giovanni suo nipote con Landulfo I, fu infra l'altre cose accordato, che nelle cause o discordie, che potessero mai sorgere tra' Longobardi e Napoletani, si giudicasse absque omni dilatione secundum legem Romanorum, aut Longobardorum, absque malitiosa occasione[559]. Siccome praticavasi nell'altre Province e città del Regno, nelle quali non meno le romane, che le longobarde erano da' provinciali nelle loro contese osservate, leggendosi presso Lione Ostiense[560], ch'essendo intorno l'anno 1017 insorta lite avanti il Principe di Capua tra 'l monastero di M. Cassino co' Duchi di Gaeta e Conti di Trajetto, intorno al dominio di alcune terre e di alcune selve ne' confini d'Aquino; fu da' Giudici, che intervennero nella cognizione di tal causa giudicato a favore di M. Cassino tam ex Romanis legibus, quam ex Longobardis. E da due libelli, ovvero notizie di due sentenze profferite a' tempi de' Normanni, il primo dell'anno 1149 [437] sotto il Re Roggiero, ed il secondo dell'anno 1171 sotto il Re Guglielmo, i quali pure dobbiamo alla diligenza di Camillo Pellegrino[561], si vede, che la legge longobarda era da tutti abbracciata, e secondo quella si giudicavano le cause, dandosi l'ultimo luogo alla romana; ciocchè da poi anche sotto Principi d'altre Nazioni, che ressero quel Regno, fu per lungo tempo osservato, come nel corso di quest'Istoria negli opportuni luoghi anderemo notando.

CAPITOLO III. Il Regno d'Italia da' Franzesi passa negl'Italiani. Maggiori rivoluzioni perciò accadute in queste nostre province; e rialzamento del Ducato d'Amalfi.

Morto Carlo il Grosso senza lasciar di se prole maschile, risoluti i Principi italiani di non far uscire dalle loro mani il Regno d'Italia ed il titolo d'Imperadore, posero ogni lor cura di farlo cadere nelle loro persone: sopra gli altri Berengario Duca del Friuli, e Guido Duca di Spoleto, ambedue di forze uguali, ed ajutati da numerosi partiti aspirarono al Regno: non potè tentarlo il nostro Principe di Benevento, siccome in altri tempi assai meglio di loro avrebbe potuto eseguirlo, essendosi veduto in quanta declinazione fosse il suo Principato, che diviso in tante parti, avea patito tante calamità e disordini. Berengario adunque e Guido, affinchè tra di loro non nascesse disordine, e l'uno non impedisse l'altro nei [438] loro disegni, si proposero due differenti imprese: Berengario d'invadere l'Italia, e Guido la Francia. Adunque morto Carlo, Berengario ajutato da' suoi tosto senz'alcun contrasto occupò il Regno d'Italia, poichè i Franzesi sostituiron tosto Eudone Conte di Parigi tutore di Carlo il Semplice, che poi fu Re di quel Reame; onde Guido vedendosi escluso, tornatosene in Spoleto cominciò a pensare come potesse scacciarne Berengario, il quale già pacificamente entrato in Pavia s'avea fatto, secondo il costume, incoronare da Anselmo Vescovo di Milano, avendo in quella città collocata la sua sede Regia, siccome i suoi predecessori avevan fatto. Guido intanto, avendosi proccurato il favore del Pontefice e de' Romani, accresciuto anche di numeroso partito, si fece da' suoi contro Berengario salutar Re d'Italia. Così con pessimo e pernizioso esempio si vide l'Italia divisa in due partiti, ed i Popoli divisi in contrarie fazioni due Re riconobbero. Ancorchè la causa di Berengario fosse più giusta, nulladimeno il partito di Guido per lo favore del Pontefice e de' Romani s'accrebbe assai, onde posta in piedi una potente armata, uscito da Spoleto fu tutto inteso a scacciar il nemico di sede. Fu guerreggiato per ambedue ferocemente, e dopo i successi di dubbia guerra, fu finalmente Berengario rotto e costretto a sgombrar dal Regno. Guido entrato in Pavia, nell'anno 890 con molta facilità s'insignorì di tutta la Lombardia, ed essendo stato acclamato da tutta Italia, fu portato nel seguente anno 891 anche alla sede Imperiale; poichè venuto in Roma fu da Stefano R. P. incoronato Imperadore, ed Augusto proclamato. Così dopo tanti ravvolgimenti si vide l'Imperio nelle mani degl'Italiani; e Guido riconoscente [439] di così segnalati servigi, narrasi, che avesse confermato al Pontefice tutte le donazioni ed i privilegi, che Pipino, Carlo M., e Lodovico Pio aveano conceduto alla Chiesa romana.

Fu allora, che tornato in Pavia, secondo il costume degli altri Re d'Italia, avendo convocato gli Ordini ecclesiastici e de' Nobili, molti privilegi alle Chiese e città concedette; e per istabilire in più perfetta forma lo stato del suo Regno d'Italia, molte leggi in Pavia in questo anno 891 nel mese di maggio promulgò. Di Guido Imperadore ci restano ancora oggi nel volume delle leggi longobarde altre sue leggi, che i compilatori delle medesime vollero anche in quel volume unire, siccome quelle che furono da lui stabilite come Re d'Italia, le quali ebbero nella medesima tutta la lor forza e tutto il lor vigore; una se ne legge nel libro primo sotto il titolo De Convitiis; un'altra nel medesimo libro nel titolo De Invasionibus; l'altra nel libro secondo nel decimo titolo; un'altra nel medesimo libro sotto il titolo De Successionibus; e due altre nel libro terzo sotto il duodecimo e terzodecimo titolo.

Per la morte accaduta in quest'istesso anno 891 di Stefano V R. P. s'accrebbero in Italia e Roma maggiori sconvolgimenti, perchè eletto in suo luogo Sergio, altri del partito contrario elessero Formoso; e siccome Guido favoriva il partito di Sergio, così all'incontro Berengario s'era dichiarato per Formoso. Era Berengario ricorso agli ajuti di Arnolfo Re di Germania, figliuol naturale di Carlomanno, dichiarato parimente per lo Papa Formoso, perchè unite le sue forze alle proprie gli ricuperasse il Regno; e questo Principe che aspirava all'Imperio d'Occidente, ricevè [440] l'occasione con piacere, e mandò in Italia Zuendebaldo suo figliuolo con potente armata; ma niente poterono questi sforzi contro Guido, perchè dopo varj incontri, rimaso sempre perditore, bisognò che alla perfine Zuendebaldo, abbandonando l'impresa, in Germania facesse ritorno, e Guido per questa vittoria tutto altiero associò seco all'Imperio Lamberto suo figliuolo.

Ma non potè molto Guido godersi di tanta fortuna, perchè Berengario ritornato di nuovo in Vormazia, ove Arnolfo aveva fatto convocar una Dieta, tanto seppe adoperarsi, che dispose questo Principe a calar egli in persona in Italia per discacciar Guido, e riporre lui nel regno d'Italia; siccome per questa volta gli riuscì, perchè preso Bergamo, e dandosi da poi a lui senza molto contrasto i Milanesi, que' di Pavia e di Piacenza, e mandato Ottone in Milano, avo che fu del Grand'Ottone, di cui sovente ci accaderà far memoria, restituì Berengario nel regno, e Guido col suo figliuolo fuggendo verso Spoleto, furono dalle vincitrici sue armi inseguiti. E morto poco da poi Guido nell'anno 894, per un repentino vomito di sangue, potè Berengario assodarsi meglio nella sua sede; laonde fermatosi in Pavia, a ristabilir il suo Regno era tutto rivolto.

Ma per la morte di Guido, non per questo cessarono le contese in Italia: imperocchè quelli del suo partito, perseverando ostinatamente nell'impegno, si strinsero con più forti legami con Lamberto suo figliuolo, che in Spoleto erasi ritirato, ed offertogli il loro ajuto, contra Berengario lo sollecitarono.

Nè riuscirono vani i loro sforzi, perchè Berengario abbandonato da' suoi, e premuto da Lamberto, fu costretto [441] lasciar Pavia, la quale tosto fu occupata da Lamberto, ove con gran giubilo de' suoi fu Re acclamato. Ma discacciato Berengario, ebbe costui nuovo ricorso ad Arnolfo, al quale anche era ricorso il Papa Formoso; e stimolato Arnolfo da questi due, fu alla perfine risoluto di calar egli di nuovo in Italia, ove giunto, prende Roma, ne discaccia Sergio e tutti i Sergiani, e dal Papa Formoso si fece nell'anno 896 coronare Imperadore, ricevendo dal P. R. il giuramento di fedeltà. Fu questi il primo Tedesco, che si vide Imperador d'Occidente, dopo i Franzesi e gl'Italiani; e si videro in breve tempo in Italia tre Imperadori, Guido, Arnolfo, e Lamberto, poichè Berengario fin ora fu solo Re d'Italia. Arnolfo perseguitò da poi Lamberto; ma dopo varie vicende, morto il Papa Formoso, e declinando il suo partito, ed all'incontro innalzandosi la fazion contraria, essendo stato eletto Stefano VI, questi sterminò il partito del Papa Formoso, ed annullando tutti gli atti fatti da lui, lo condannò come Simoniaco, e fu da' Sergiani il suo cadavere buttato nel Tevere. Dichiarò nulla l'elezione di Arnolfo in Imperadore, ed all'incontro unse Imperadore Lamberto; ma essendo poi divenuto debile il suo partito, fu Stefano da' Romani posto in prigione, dove fu strozzato sul fine dell'anno 900, ed eletto in suo luogo Romano. Costui rovesciò quanto avea fatto il suo predecessore, fece condennare e dichiarar nullo tutto ciò, che contro Formoso erasi fatto; ed avendo tenuto quella sede pochi mesi, succedutogli Teodoro, questi seguitando l'istessa carriera di Romano, restituì tutti coloro, che Stefano avea discacciati. Non fu mai veduta Roma in tanta confusione e sconvolgimento, che in questi tempi veramente deplorabili. Nè la Chiesa [442] romana si vide in istato cotanto compassionevole, quanto ora, dove i Papi secondo i partiti si eleggevano, e tutti gl'Istorici convengono, ch'ella era in un orribile disordine; e l'istesso Cardinal Baronio dice, ch'era caduta sotto il dominio di due femmine dissolute, che mettevano sulla Sede di S. Pietro i loro drudi, indegni di portare il nome di Pontefici romani, e che perciò la Chiesa stette per molti anni senza Capo visibile, ma che da Cristo Signor Nostro, che non l'abbandonerà mai, era come suo Capo spirituale conservata.

Non minori furono le revoluzioni e' disordini tra' Principi del secolo. Reso grave l'Imperio di Lamberto agl'Italiani, ritornossi di bel nuovo alle sedizioni: fu ucciso Lamberto, e rialzato Berengario, il quale tosto occupò il regno. Ciascuno avrebbe creduto, che almeno ora que' del partito di Lamberto avesser dovuto por fine alle fazioni ed unirsi con Berengario; ma il successo si vide contrario ad ogni espettazione; poichè acciocchè non mancasse l'oppositore, posero in pretensione Lodovico, che regnava allora in Provenza, nipote dell'Imperador Lodovico II, invitandolo che venisse in Italia, promettendogli, che se ne discacciava Berengario, l'avrebbero proclamato Re. Tosto calò Lodovico in Italia, discacciò Berengario, il quale in Baviera ricovrossi, ed essendo stato incoronato Re d'Italia dall'Arcivescovo di Milano, fu anche da poi acclamato Imperadore, e ricevuto con grand'apparecchio da Adelberto Marchese di Toscana.

Intanto Berengario mossosi da Baviera con potenti forze, tornò in Italia, pugnò contro Lodovico, lo imprigionò, e donandogli la vita, gli fece cavar gli occhi. Così rimase solo egli a regnare in Italia: e da poi da Giovanni X R. P. fu coronato Imperadore nell'anno [443] 915. Non si fermò qui l'incostanza degli Italiani: annojati già della dominazione di Berengario, chiamarono Rodolfo Re della Borgogna, e Re d'Italia contro Berengario lo acclamarono; onde infra questi due Principi s'accese aspra e crudel guerra; ed in fine Berengario fu dalle genti di Rodolfo ucciso in Verona. Ma Rodolfo potè poco godersi il Regno, perchè, secondo i disordini portavano e le intestine fazioni, gl'Italiani per dargli oppositore, chiamarono in Italia un altro Principe: fu questi Ugone conte di Provenza, nipote di Lotario Re della Lotaringia. Venuto in Italia, avendo fugato Rodolfo, tosto fu incoronato Re da Lamberto Arcivescovo di Milano nell'anno 926, riordina il Regno, e perchè potesse più lungamente durarvi, sbigottito dagli esempj de' suoi predecessori, si unisce con stretta amicizia con Errico Re di Germania e con Romano Imperadore d'Oriente. Associò da poi al regno Lotario suo figliuolo, affinchè vivendo egli potesse stabilirlo in Italia; ma tutti questi sforzi furono vani: fu richiamato di nuovo Rodolfo, ma questi per non esporsi a nuove vicende non volle venire. Nè perciò mancò a chi si ricorresse: fu elevato a queste speranze Berengario II, nato d'una figliuola di Berengario I, il quale acclamato dagl'Italiani, fu Re contro Ugone proclamato, contro al quale aveano conceputo odio implacabile. Lotario suo figliuolo deplorando l'infortunio di suo padre mosse finalmente i Milanesi a dover almeno accettar lui per sovrano; onde regnò per brevissimo tempo egli solo; ma morto indi a poco nell'anno 949 fu Berengario con Adelberto suo figliuolo Re d'Italia incoronato. Nè qui sarebbero finiti i travagli della misera ed afflitta Italia, se per ultimo gli Italiani spinti dalla tirannia di Berengario, [444] e da miglior consiglio avvertiti, non fossero ricorsi, guidando ogni cosa il Papa, ad un Principe potente e glorioso, che scacciati questi più tosto Tiranni, che Re, dasse tregua a tanti mali: questi fu il Grande Ottone Re di Germania, i cui fatti gloriosi daranno occasione di spesso ricordarlo nel seguente libro di quest'Istoria.

Ecco in che lagrimevole stato giacque l'Italia per più di sessanta anni, da che mancato l'imperio nella stirpe maschile di Carlo M., da' Franzesi fu trasportato negl'Italiani: i quali nell'istesso tempo che abborrivano la dominazione degli stranieri, non sapevano però essi meglio governarsi. Nè vi era chi potesse darvi qualche ristoro, se dagl'Italiani non si fosse trasportata negli Alemanni in persona del Grand'Ottone.

I.  Stato di queste nostre province; e rialzamento d'Amalfi.

Intanto i nostri Principi longobardi ed i Greci che avevano in mano il governo di queste nostre Province, vedendo tutto andar in ruina, nè esservi chi potesse porre freno a' loro ambiziosi pensieri; non mancarono l'uno intraprender sopra l'altro. Il nome d'Imperadore d'Occidente o di Re d'Italia era per essi poco men che estinto, nè nulla di lor prendevan cura o ricevevan timore; quindi il potere degl'Imperadori d'Oriente, cessando quello degl'Imperadori d'Occidente, cominciò in quelle ad acquistar più accrescimento e le forze de' Greci a farsi più considerabili; quindi nacque, che i Greci avendo racquistata buona parte della Puglia e della Calabria, essendosi pure resi padroni di Benevento, tentassero anche di sorprender Salerno: quindi [445] tutto il presidio per opporsi a' Saraceni, siccome prima lo riponevano in quelli d'Occidente, era riposto negl'Imperadori d'Oriente; e che i Principi stessi Longobardi si proccuravan il lor favore, e spesso gli richiedevano dell'onore del Patriziato, dignità in quei tempi maggiore che potesse mai darsi da' Greci: quindi, come s'è detto, Guaimaro Principe di Salerno per meglio assicurar i suoi Stati si fece dagl'Imperadori Lione ed Alessandro confermare il Principato in quella guisa, che a Siconolfo per la divisione fatta con Radalchisio era stato aggiudicato.

Lo stato delle nostre Province nel declinare del nono secolo era tale: il Principato di Benevento pur troppo ristretto ed impicciolito per li Principati di Salerno e di Capua, era in mano de' Greci, e governato da Giorgio Patrizio mandato dagl'Imperadori di Oriente, i quali ora solevano mandare in Benevento gli ufficiali a reggerlo. Ma i Greci per la loro alterigia e fasto, malmenando i Beneventani ridussero costoro a risolversi di scuotere il giogo, ed a discacciargli da quella città.

Il Principato di Salerno era governato da Guaimaro, del qual era stato assicurato dagl'Imperadori Lione ed Alessandro figliuoli di Basilio. Capua ubbidiva ad Atenulfo, il quale avendone scacciato Landulfo e Landone suoi fratelli, se ne fece Conte. Abbracciava il Contado di Capua in questi tempi (secondo che l'ignoto Monaco Cassinense[562], ed Erchemperto n'accertano) tutto ciò che da Caserta e Suessula in lungo si distende insino ad Aquino, e s'estese alle volte sino a Sora; la sua larghezza era da Cajazza [446] insino a' lidi del Mar Tirreno, di qua e di là delle bocche di Linterno, Vulturno e Liri[563].

Buona parte della Puglia e di Calabria era passata sotto la dominazione de' Greci: alle cui città mandavansi i Patrizi, ovvero i Straticò per governarle. Gaeta col suo picciol Ducato a' Greci parimente s'apparteneva, i quali vi destinavano un Duca per reggerlo: lo resse nel 812 il Duca Gregorio, ed in questi tempi n'era Duca Docibile. Napoli col suo Ducato era con independente arbitrio governato da Attanasio, che n'era insieme Duca e Vescovo; ma i confini di questo Ducato si videro a questi tempi molto ristretti, per essersi Amalfi staccata da quello, governandosi da un Duca a parte, che riconosceva l'Imperadore greco per suo sovrano.

Amalfi, di cui alcuni non portano più antica origine, se non che fosse edificata intorno l'anno 600, prima era governata da' Prefetti annali; poi ebbe i suoi Duchi perpetui non altramente che Napoli; e divisa dal Ducato napoletano cominciò pian piano a stendere i suoi confini, ed a governarsi sotto un Duca in forma di Repubblica. Stese i suoi limiti da Oriente sino a Vico vecchio: da Occidente vicino al promontorio di Minerva, e da questo lato s'aggiunsero da poi l'isola di Capri e le due altre de' Galli. Lodovico Imperadore, prendendo la protezione degli Amalfitani contro i Napoletani, di che, come si disse, se n'offese Basilio, assegnò stabilmente ad Amalfi queste isole; quindi leggiamo, che Lodovico mandasse gli Amalfitani a liberar Attanasio Vescovo, ch'era stato fatto prigione da Sergio Duca di Napoli; e per questa ragione, [447] anche per ciò che riguarda la politia ecclesiastica, l'Arcivescovo d'Amalfi, non già quello di Napoli, ebbe per suffraganeo il Vescovo di Capri. Verso settentrione abbracciava questo Ducato la città di Lettere, detta anticamente il castello di Stabia, con Gravanio Pirio, detto ora Gragnano, Pimontio ed il Casale de' Franchi, e da mezzogiorno Amalfi stessa, Scala, Ravello, Minori e Majuri, Atrani, Tramonti, Agerula, Citara, Prajano e Positano.

In decorso di tempo questo Ducato estolse tanto il suo capo, che resisi per la navigazione gli Amalfitani celebri per tutto Oriente, crebbero di forze e di grandi ricchezze: molte guerre perciò mossero e sostennero: s'assunsero il potere di stabilir leggi, che riguardavano i traffichi e' l commercio del mare: onde presso di noi ebbero quel medesimo vigore e forza, che presso i Romani la legge Rodia; e Marino Freccia[564] ci rende testimonianza, che tutte le controversie di navigazioni e di traffichi marittimi dalle leggi amalfitane erano decise. Ed a chi è ignoto la maravigliosa invenzione della bussola doversi a Flavio Gisia, nato in Positano picciol castello di questo Ducato? S'appropriarono ancora la regalia di coniar monete, le quali presso tutte le Nazioni d'Oriente si spendevano: onde renderonsi tanto celebri i tarini Amalfitani, dei quali fassi ancora memoria nelle nostre Consuetudini, ed in molte antiche carte. Dal Corpo loro eleggevano [448] i Duchi, ancorchè dagl'Imperadori d'Oriente eran da poi confermati e fatti Patrizi. Assai più celebri e rinomati si renderono a' tempi de' Normanni, come nel corso di quest'Istoria si vedrà; e si goderono di questa libertà, insino che da Roberto Guiscardo intorno all'anno 1075, debellato Salerno, non fosse stato questo Ducato al suo Imperio aggiunto; ancorchè ritenessero ancora per molto tempo in appresso alcuni vestigi di questa cadente libertà.

Ecco fra quanti Principati e Governi era in questi tempi diviso ciò che ora è un sol Regno. Scorrendo poi da per tutto i Saraceni, che miseramente in ogni parte portavano desolazioni e ruine, non fu meraviglia, se col correr degli anni finalmente cedessero ad una potenza maggiore, per la quale debellati i Greci, i Saraceni ed i Longobardi, si sottoponessero a' forti e valorosi Normanni.

CAPITOLO IV. Del Principato di Benevento ritolto a' Greci; e come a quello si riunì il Contado di Capua.

I Beneventani, come si è detto, mal sofferendo l'aspro e duro governo, che d'essi faceva Giorgio Patrizio, si risolsero sottrarsi dal giogo de' Greci[565]: essi ch'erano avezzi a dominare, fremevano ora vedendosi in servitù; scrissero perciò a Guaimaro Principe di Salerno, che s'aveva sposata Jota sorella di Guido III Duca di Spoleto, che sollecitasse suo cognato a venire [449] in Benevento con potenti forze, perch'essi si sarebbero dati a lui. Non fu questo Guido quegli, che aspirò all'Imperio, e che lungamente contese con Berengario, come gli altri si diedero a credere: fu questi figliuolo di Guido II, Duca di Spoleto, del quale fassi menzione in Erchemperto[566]: poichè siccome si è narrato, Guido Imperadore per un repentino vomito di sangue spirò l'anima nell'anno 894. E Giorgio fu scacciato da Benevento da quest'altro Guido nell'anno 896. Tosto dunque venne Guido in Salerno accompagnato da valorosi soldati, sotto il pretesto di veder sua sorella, e poi sotto Benevento portatosi con sufficienti forze, i Beneventani, che non ne volevano altro che questo, si diedero a lui, scacciandone Giorgio, al quale per cinquemila ducati donarono la vita: così i Greci perderono Benevento, dopo cinque anni che lo presero.

Tenne Guido il Principato di Benevento meno di due anni; poichè avendo fatto ritorno in Spoleto e distratto in altre imprese, deliberò cederlo a Guaimaro suo cognato: Guaimaro tentò d'occuparlo; ma non volendo i Beneventani per li suoi crudeli e pessimi andamenti, ammetterlo, ne avvisarono Adelferio Castaldo d'Avellino, affinchè in istrada gli tendesse aguato e frastornasse i suoi disegni: Adelferio lo sorprese di notte tempo, e cavatigli gli occhi, lo costrinse nell'anno 898 a ritirarsi in Salerno[567]. I Beneventani, ciò inteso, si risolsero restituire nel Principato Radelchi, dal quale gli anni a dietro l'aveano discacciato. Così dopo dodici anni fu Radelchi reintegrato in Benevento l'anno 898.

[450]

Ma perchè non era niente istrutto dell'arte del regnare, per la sua semplicità e dappocaggine, tornò, come altre volte, a perdere il Principato; poichè datosi in braccio di Virialdo, uomo crudele e che pessimamente trattava i Beneventani, tosto di nuovo ne fu scacciato. Egli stimolato da Virialdo diede l'esilio a molti Nobili beneventani, i quali ricovratisi in Capua ed ivi trattati splendidamente dal Conte Atenulfo, seppe tanto questo accorto Principe rendersegli benevoli, che questi cominciarono a pensare come potessero scacciare da Benevento Radelchi, ed innalzare a quel soglio Atenulfo: e se bene tra i conviti e tra i giuochi più volte i Beneventani gli avessero insinuato questo lor pensiero; Atenulfo fingendo ch'essi lo dicessero per burla, penetrando però a dentro la loro voglia, occultamente cominciò anch'egli a pensar i modi da poterne venire a capo.

Affinchè da quest'impresa non fosse distolto da Guaimaro Principe di Salerno, pensò unirsi con costui in istretto parentado, e per una ambasciata molto umile ed affettuosa con preghiere e scongiuri chiesegli per Landulfo suo figluolo la figliuola del Principe Guaimaro Seniore, protestando di voler essergli soggetto, siccome furono i suoi predecessori a' Principi di Salerno[568]; ma erano ributtate tutte queste preghiere per istigazione di Landulfo e Pandone, che scacciati da Capua da Atenulfo loro fratello, in Salerno eransi ricoverati: questi si opponevano milantando fra breve volerlo discacciare dalla sede, che ad essi aveva usurpato, e perciò non si dovesse con lui avere pace. S'univa ancora a costoro Jota moglie del Principe [451] Guaimaro Seniore, la quale sdegnando di dare sua figliuola a Landulfo soleva dire, ch'ella nata di regal stirpe (poichè era figliuola di Guido II Duca di Spoleti) non poteva in conto alcuno imparentarsi con un suo suddito: diceva ella così, perchè i Conti di Capua prima erano soggetti a' Principi di Salerno, poichè nella divisione che si fece di questi due Principati, Capua andò compresa con quel di Salerno e non di Benevento.

Vedutosi perciò Atenulfo così deluso, ruppe ogni indugio, e non riuscitogli questo suo disegno, tentò unirsi con Attanasio Vescovo insieme e Duca di Napoli. Avea questo Duca una sua figliuola Gemma nomata: la chiese per Landulfo suo figliuolo, al che Attanasio tosto acconsentì, e per mezzo di questo legame si strinsero fra loro in una ben ferma e stabile pace[569].

Intanto crescevano i disordini in Benevento, e molti cittadini ancorchè non scacciati, volontariamente la propria lor patria, fuggendo, lasciarono, ed in Capua ricovraronsi; onde multiplicati i Beneventani in Capua cominciarono co' loro parenti ivi rimasi a maneggiare la congiura; ed avendo comunicato il tutto con Atenulfo, armati essi con pochi altri Capuani, che Atenulfo volle condur seco, celatamente si portarono in Benevento, ove coll'intelligenza di color di dentro, entrati di notte nella città la sorpresero, e cinto il Palagio ove era Radelchi, lo fecero immantenente prigione, ed intanto tutti i malcontenti e gli esiliati scorrendo per la città, unitisi in un tratto così i Nobili, come il Popolo, tutti unitamente salutarono Atenulfo [452] loro Principe. Atenulfo vedutosi con tanta conformità di voleri innalzato a grado sì eccelso, non mancò dal suo canto portarsi con tutti con estrema mansuetudine ed umiltà, profondendo molti doni, perchè maggiormente stringesse a lui gli animi de' Beneventani: così Atenulfo da Castaldo ch'era, dopo avere tredici anni come Conte governata Capua, fu in quest'anno 900 fatto Principe di Benevento, unendosi con ciò nella sua persona il Contado di Capua al Principato di Benevento, e di due fattosi uno Stato in una medesima persona; con indignazione d'alcuni del partito di Radelchi, che mal soffrivano esser dominati da uno straniero, com'essi chiamavano Atenulfo, per non essere discendente, nè della stirpe degli antichi Duchi e Principi di Benevento.

Non divise Atenulfo questi Stati, ma si ritenne la stessa politia, nè da qui cominciarono i Principi di Capua, come alcuni credettero, o che perciò il Contado di Capua passasse in Principato: poichè Atenulfo, siccome i suoi figliuoli, furon Principi chiamati, perchè tennero il Principato di Benevento; e se alle volte in alcuni monumenti delle nostre antichità son detti Principi capuani, fu perchè così Atenulfo, come i suoi figliuoli Landulfo ed Atenulfo, che gli succederono, non lasciarono di tenere la lor sede in Capua, dove continuarono la loro residenza; per questo si fece, che tratto tratto secondo l'uso del volgo si cominciassero a chiamar Principi capuani, perchè dimoravano in Capua, ma non già perchè Atenulfo avesse istituito di Capua un nuovo Principato separato da quello di Benevento, siccome si vede chiaro dal concordato fatto tra Gregorio Duca di Napoli e Landulfo ed Atenulfo Principi, rinovato dopo nel 933 [453] da Giovanni nipote di Gregorio, che al zio succedette, ove tra le altre cose si legge: In toto Principatu vestro Beneventano cum omnibus suis pertinentiis: nec in toto Comitatu Capuano: nec in Teano cum pertinentiis suis; ciò che ben pruova Camillo Pellegrino sopra l'Anonimo salernitano.

Atenulfo per istabilir con maggior fermezza il Principato nella sua maschile discendenza, associò tosto a quello nell'anno 901 Landulfo suo figliuolo, il quale da quest'anno insieme col padre lo governò; e dopo esser dimorato per qualche tempo in Benevento, fece ritorno a Capua, ove volle continuar la sua residenza, lasciando il governo di quella città a Pietro Vescovo della medesima, del quale però non potè molto lodarsi, perchè scovrì che costui per macchinazione d'alcuni Beneventani tentava con orribile infedeltà rendersi di quella Signore[570]; onde immantinente Atenulfo ritornato in Benevento, imprigionò i ribelli, e ne discacciò tosto il Vescovo, il quale pien di vergogna si ricovrò a Salerno sotto la protezione del Principe Guaimaro, che per far dispetto ad Atenulfo suo inimical l'accolse e lo provide di ciò che gli era necessario. Per questa cagione la città di Benevento cominciò pian piano a scadere dal suo splendore; perchè la sede de' suoi Principi trasferita in Capua, fecegli molto perdere della sua maestà, e che poi devastata da' Saraceni perdesse ogni pregio ed eminenza; ed all'incontro avvenne che Capua cominciasse a risorgere e si rendesse più sublime.

In questi medesimi tempi ancora accaddero in Salerno disordini grandissimi; poichè i Salernitani male [454] sofferendo l'aspro e crudel governo che d'essi faceva Guaimaro, da poi che da Adelferio Castaldo d'Avellino gli furon cavati gli occhi, tumultuarono apertamente, e ricorsi tutti a Guaimaro suo figliuolo, strepitando ch'essi non potevan più soffrire la crudeltà del suo padre cieco, volevano lui per loro Signore, e così detto, lo presero, e portatolo dentro la chiesa del Beato Massimo, proclamarono Guaimaro per loro Principe[571]; così avendo nell'anno 901 deposto il padre crudele, lungamente sotto il placido governo di suo figliuolo vissero tutto giolivi e festanti: onde è che nelle Cronache de' Principi di Salerno, il primo Guaimaro vien chiamato malae memoriae, ed il secondo suo figliuolo bonae memoriae, non altrimente che presso i Normanni fu detto Guglielmo il Malo e Guglielmo il Buono.

I.  Nuove scorrerie de' Saraceni, e ricorsi per ciò fatti agl'Imperadori d'Oriente.

Intanto i Saraceni, che nel Garigliano s'eran bene fortificati, e che scorrendo da per tutto infestavano il Principato di Benevento ed il Contado di Capua, non potevano da forze minori o uguali essere impediti. Tentò una volta Atenulfo, unitosi con Gregorio Duca di Napoli, che ad Attanasio era succeduto, e con gli Amalfitani, presso Trajetto di sterminargli, ma non riuscitogli il colpo secondo i suoi voti, s'avvide [455] che ogni sforzo sarebbe stato vano, se non s'univano alle proprie le forze straniere. Era vano il ricorrere come prima agli aiuti degl'Imperadori d'Occidente; non minori erano i bisogni di costoro per le tante revoluzioni, nelle quali erano involti: fu adunque con provido consiglio tutto rivolto agli aiuti dell'Imperador Lione, a Basilio suo padre succeduto, il quale allora imperava in Oriente, e spedì in Costantinopoli per questo il proprio suo figliuolo e compagno nel Regno Landulfo, al quale, essendo stato cortesemente ricevuto da Lione, furon promessi tutti gli aiuti, che richiedeva. Non altrimenti che fecero gl'Imperadori d'Occidente, ambivano ora que' d'Oriente soccorrere i nostri Principi, perchè con ciò potessero restituire in queste nostre Province la loro sovranità già abbassata per la potenza di quelli d'Occidente; perciò oltre di far unire un potente esercito per mandarlo in queste Province contro i Saraceni: proccurò ancora Lione rendersi benevoli li nostri Principi con decorargli colla molto stimata in questi tempi dignità del Patriziato: ne ornò perciò Landulfo, siccome fece da poi a Gregorio Duca di Napoli ed a Giovanni Duca di Gaeta.

Atenulfo intanto, essendo Landulfo lontano, associò anche in quest'anno 910 al suo Principato l'altro suo figliuolo, che come lui Atenulfo era nomato; e con molta ansietà attendeva i promessi soccorsi, tutto ardendo di desiderio di sterminare i Saraceni da queste Province; ma furono rotti tutti i suoi disegni da pur troppo importuna ed inaspettata morte. Morì egli in Capua nel mese d'aprile di quest'anno 910, ed alcuni rapportano la sua morte nell'anno seguente nel mese di luglio. Fu in Capua sepolto, e quindi non più in Benevento, ma in Capua si leggono i tumuli [456] de' Principi suoi successori, ove fermarono la loro sede. Finì con danno universale i suoi giorni, dopo aver tenuto Benevento dieci anni, e sei mesi. Principe veramente glorioso, e che seppe colle sue proprie mani fabbricarsi la sua fortuna, e colla sua incomparabile accortezza da semplice Castaldo esser portato al soglio de' Principi di Benevento: ma molto più commendabile per aver proccurato d'unire questi due Stati, Benevento e Capua, acciocchè potessero più lungamente aver durata, e non così prestamente ruinare, come già sarebbe accaduto, e siccome da poi avvenne; e per aver educati i suoi figliuoli con animi cotanto concordi e docili, che con raro esempio dopo la sua morte si videro ambedue con grandissima concordia reggere il Principato senza il minimo disturbo.

Landulfo, che ritrovavasi in Costantinopoli, intesa la morte del padre, tosto in Capua fece ritorno, ove accolto dal fratello Atenulfo, ambedue con mirabile concordia ressero uniti lo Stato, nè vollero, seguitando i consigli del padre, infra di loro partirlo, o che uno presedesse in Benevento e l'altro in Capua, ma ambedue, fermata come prima la loro residenza in Capua, dalla medesima attesero a reggerlo.

Giunse in questo mentre l'esercito mandato dall'Imperador Lione sotto il comando di Nicolò Picigli Patrizio, il quale per assicurarsi vie più dell'animo dei vicini, portò seco da parte dell'Imperadore la dignità del Patriziato a Gregorio Duca di Napoli, ed a Giovanni Duca di Gaeta. Ed avendo congiunto il suo esercito con quello di questi due, e colle forze di Guaimaro Principe di Salerno, accresciuto anche con gran numero di Pugliesi e Calabresi, che erano allora [457] ritornati in gran parte sotto la dominazione de' Greci, pose il campo lungo il Garigliano contro i Saraceni. Giovanni X, o sia XI, come altri scrissero R. P. a cui egualmente premeva l'espulsione di questi Barbari, e che perciò ne avea anche scritte molte lettere all'Imperador Lione, volle anche aver parte in sì gloriosa impresa, e spintovi parimente Alberigo Marchese di Toscana suo fratello, vi corse con molta gente, che fece attendare dall'altra parte del fiume. Il Sigonio[572] credette che Giovanni X, fosse il primo Papa, che fosse veduto alla testa d'eserciti armati; ma non fu questi certamente il primo, poichè, come si è veduto, questo pregio non dee togliersi a Giovanni VIII che fu il primo, lasciando le chiavi, ad imbrandir la spada.

I Saraceni per tre mesi sostennero con estremi disagi quest'assedio, ma finalmente, essendo loro mancata ogni sorte di vettovaglie, portati dalla disperazione, misero fuoco alla loro Fortezza, ed incendiarono tuttociò ch'essi avevano, non perdonando nè meno ai loro tesori, che da vari luoghi, che aveano depredato, ivi avean congregati; poi si diedero tutti stretti insieme a fuggire con maraviglioso impeto per le selve ed a salvarsi su le cime de' monti; ma inseguiti sempre da' nostri ne fu d'essi fatta strage infinita: così in quest'anno 916, secondo ciò che ne scrisse Lupo Protospata[573], furono i Saraceni scacciati dal Garigliano. Ma se bene di questa peste se ne fosse veduta libera questa provincia, non è però che l'avanzo dei medesimi, accresciuto da poi da coloro che sin dall'Affrica [458] vennero, tornati delusi per l'assedio di Roma, che vergognosamente lasciarono, e ricovrati finalmente in Puglia nel Mante Gargano, costruttasi ivi una forte Rocca, non avessero inquietati i luoghi di quest'altra provincia, e che finalmente scorsi insino a Benevento, non dassero a questa città un sacco memorabile, con metter tutto a fuoco: essi fortificati nel Gargano tenevan tutta la Puglia in iscompiglio e le parti ancora vicine.

Non bastarono in questa provincia i soli danni, che i Saraceni inferivano, che vollero i Popoli stessi cagionarsene de' maggiori: poichè i Pugliesi e' Calabresi, mal potendo soffrire il gravoso giogo de' Greci, si ribellarono da essi, e datisi in potere di Landulfo Principe di Benevento, venne questi in isperanza di restituire Bari, e molte città della Puglia al Principato di Benevento, onde contro i Greci rivoltò le sue armi; ma ritornarono ben tosto i Pugliesi ed i Calabresi sotto il dominio de' Greci, poichè questi fortemente cruciati contro Landulfo, si voltarono da poi agli aiuti de' Saraceni stessi, che fecero venire sin dall'Affrica, e nell'anno 919 gli ridussero alla lor ubbidienza, rendendo vani gli sforzi di Landulfo: e perchè la città di Bari sede degli Stratigò, insieme colla Puglia fosse ben retta, vi mandò l'Imperadore un nuovo Stratigò Ursileo nomato, prode e valoroso Capitano, il quale con somma vigilanza alla custodia di questa provincia contro i disegni di Landulfo tutto era inteso: ed essendo finalmente nell'anno 921 stato provocato a combattere da Landulfo, andò egli ad incontrarlo in Ascoli, ove ferocemente combattendosi, fu ne' primi impeti da' Greci preso Landulfo, ma sul meglio del furor della battaglia restò Ursileo ucciso; [459] perciò i Greci avviliti e sconfitti, il Principe non solo ricuperò la libertà, ma riportandone piena vittoria invase la Puglia, la quale poi, secondo che narra Lupo Protospata[574] nell'anno 929, essendosi confederato con Guaimaro Principe di Salerno, proccurò, colle armi già invasa, ritenersela per se, siccome per sette anni la ritenne.

Fu perciò in questi tempi varia la fortuna de' nostri Principi longobardi sopra i Greci: si guerreggiò sovente infra di loro, e presso Matera una volta ferocemente, ove Imogalapto Stratigò restò morto; ed i Greci ora perdenti ed ora vincenti, finalmente se bene ricuperassero dalle mani de' Longobardi la Puglia e la Calabria, non è però, come credette il Baronio[575], che ritogliessero a' Longobardi quella parte della Campagna, che bagna il Vulturno; poichè da' Principi di Benevento, insieme Conti di Capua, fu in questi tempi e da poi sempre ritenuta, come ben lo dimostra Camillo Pellegrino[576]. Così avvenne ancora, che i nostri Principi longobardi con gl'Imperadori greci Romano e Costantino, che a Lione VI succederono, ora furono inimici, ora amici e confederati e dependenti, rendendosi tali con ricevere da essi l'onore del Patriziato. Ben egli è vero ch'essendo ritornata sotto la dominazione de' Greci la Puglia e la Calabria, si restrinsero molto più i confini del Principato di Benevento e di Salerno, di quello che i nostri Principi longobardi tenevan prima, quando il Ducato di Benevento si estese tanto, che come s'è detto abbracciava quasi tutto ciò che ora è Regno di Napoli.

[460]

Il Principe Landulfo regnò insieme col suo fratello Atenulfo II, ventidue anni insino all'anno 932, fu da poi questo Principe discacciato, ed essendosi ricovrato in Salerno, fu da Guaimaro II, suo genero, accolto. Volle però Landulfo, che ne' diplomi si ritenesse e scrivesse ancora il nome di suo fratello scacciato; e perciò in questi tempi, essendo a Gregorio nel Ducato di Napoli succeduto Giovanni suo nipote, fu da costui rinovato il Concordato fatto nell'anno 911 tra il suddetto Gregorio con Atenulfo I, nel quale Concordato Giovanni Console e Duca, promette a Landulfo I e ad Atenulfo II, suo fratello, ancorchè questi si trovasse profugo in Salerno, e ad Atenulfo III, figliuolo di Landulfo I, di non inquietare il Principato di Benevento colle sue pertinenze, nè il Contado di Capua, nè Teano colle sue pertinenze, nè gli uomini di questi Stati, ma continuare fra essi una concorde amicizia: e così all'incontro promettevasi a questi Popoli una stabile e ferma pace, e di giudicare nelle loro cause secundum legem Romanorum, aut Longobardorum; e molti altri patti s'accordarono fra loro secondo le disposizioni delle leggi longobarde; donde, come altrove fu avvertito, si scorge chiaro, che sino da questi tempi presso questi Popoli la legge de' Longobardi era la dominante ed indifferentemente osservata. Notasi ancora in esso la subordinazione e dependenza, ch'ebbero sempre i Duchi di Napoli dagli Imperadori d'Oriente, poichè imperando in questi tempi Costantino e Romano in Costantinopoli, perchè per queste promesse e Concordati non si pregiudicasse dal Duca di Napoli in niente alla sovranità, che in questo Ducato vi ritenevano gl'Imperadori d'Oriente, si [461] soggiunse dal Duca Giovanni: Haec omnia vobis observabimus, salva fidelitate sanctorum Imperatorum.

Morto in Salerno nell'anno 933 Atenulfo II, Landulfo associò al Principato Atenulfo III, suo figliuolo ed un altro Landulfo pur suo figliuolo, che Landulfo II, diremo.

Morì Landulfo Seniore verso l'anno 943 lasciando per successori questi due suoi figliuoli. Ma nell'anno seguente 944 restò solo Landulfo II a regnare. Nè mai Benevento da Capua fu intorno all'amministrazione e governo separato, formando sempre appo costoro una sola Dinastia, ancorchè, per la lor sede che era in Capua, fossero stati appellati Principes Beneventanorum, et Capuanorum[577].

Il Principe Landulfo II, pur in sua vita associò al Principato nell'anno 959 due figliuoli, Pandulfo, che Ostiense e gli altri Scrittori chiamarono Capo di ferro (di cui spesso ci tornerà far memoria per le sue famose gesta, e perchè nella sua persona s'unì anco il Principato di Salerno) ed un altro Landulfo, che perciò lo diremo III, li quali, morto Landulfo II, intorno all'anno 963 gli succederono nel Principato: ma Landulfo III, essendosi diviso col fratello, e toccatogli in sorte il Principato beneventano, fisse la sua sede in Benevento[578]; onde si videro un'altra volta divisi questi due Stati, in Benevento presidendo questo Landulfo, ed in Capua Pandulfo Capo di ferro. Ma da poi nel 969 essendo morto Landulfo III, ancorchè avesse lasciato un suo figliuolo Pandulfo II, nulladimeno Pandulfo Capo di ferro per l'impetuosa brama di dominare, aggiudicò il Principato di Benevento a se ed al suo [462] figliuolo Landulfo IV, escludendone il suo nipote Pandulfo II, il quale però finalmente nell'anno 981, avendone discacciato Landulfo IV, lo ricuperò ed a' suoi posteri lo trasmise, come nel seguente libro diremo.

Nel Principato di Salerno intanto, per la morte di Guaimaro accaduta nell'anno 933[579], era succeduto Gisulfo suo figliuolo. Resse costui con varia fortuna lungamente il Principato; ed a' suoi tempi, secondo che narra Lione Ostiense[580], fu nell'anno 954 scoverto in Pesto città della Lucania il corpo dell'Appostolo Matteo, pure per revelazione del medesimo Santo; ed affinchè Salerno non avesse anche in ciò che cedere a Benevento, ove da Lipari fu trasportato quello di S. Bartolomeo, fu da Pesto trasferito il corpo di S. Matteo in Salerno. Venne a noi, non altrimente che quello, da parti lontanissime: quello dall'India, questo dall'Etiopia, dove patì il martirio: dall'Etiopia narrasi, che fosse stato trasportato fino nella Bretagna, indi in Pesto nella Lucania, e quindi in Salerno[581].

(A' tempi, ne' quali dimorò Gregorio VII, in Salerno, par che si fosse perduta la memoria di questo sacro deposito; poichè, secondo che narra Paolo Bernriedense, nella di lui vita pag. 240 fu scoperto nuovamente il corpo dell'Appostolo da Gregorio, del quale nuovo ritrovamento si fece tanta festa, scrivendo egli, pochi anni prima della sua morte, quella lieta e festevole lettera, che ora leggiamo ne' tomi de' Concilj del Labbe, lib. 8 Ep. 3. Ecco le parole del Bernriedense, il qual favellando del cadavere di Gregorio, che fu sepolto quivi vicino, scrisse: Corpus ejus sepulturae [463] traditum est apud B. Matthaeum Evangelistam, de cujus nova inventione laetabundam scripserat ante paucos annos Epistolam).

Sentiremo ancora in Amalfi venerarsi il corpo di S. Andrea, ed in Ortona quello di S. Tomaso, e pregiarsi in fine molte città del Regno delle ossa e delle reliquie di quasi tutti i santi Appostoli.

CAPITOLO V. Politia ecclesiastica.

Non ricerchi alcuno una vera forma e faccia dello Stato ecclesiastico in questi tempi. La Chiesa era in uno stato compassionevole e in un orribil disordine ed in un caos d'empietà: furono scomunicati Papi da' loro successori, cassati gli atti, ed annullati i sacramenti ministrati da loro: sei Papi scacciati da quelli, che volevano mettersi in luogo loro; e due anche uccisi. Fu fatto Papa da Teodora, famosa meretrice romana, per la fazione che aveva in Roma, uno dei suoi pubblici drudi, che si chiamò Giovanni X. Fu anche fatto Papa in età di venti anni Giovanni XI, ch'era figliuolo bastardo di Papa Sergio morto diciotto anni prima. Papa Stefano VIII, fu da Alberigo fatto sfregiare nella faccia in tal maniera, che non si lasciò mai più vedere in pubblico. Nè i Papi erano più eletti dal Clero, ma la Sede di Roma era divenuta la preda della cupidigia e dell'ambizione. In breve, nacquero in questi tempi tali e tanti disordini ed inconvenienti, che tutti gli Storici convengono, non esservi stati Pontefici, ma mostri: ed il Cardinal Baronio [464] scrisse, che la Chiesa allora stette senza Pontefice, non però senza Capo, restando il suo Capo spirituale Cristo in Cielo, che non l'abbandona.

Può ciascuno da se stesso giudicare, come fossero trattate le altre Chiese d'Italia, e quelle di queste nostre Province, considerando qual dee essere lo stato di tutte le membra nelle gravi indisposizioni del capo. Si è veduto in Capua Landulfo Vescovo insieme e Conte di quella città: in Napoli Attanasio Vescovo e Duca trattar l'arme, guidar truppe d'eserciti armati, far leghe co' Saraceni istessi contro il Papa e gli altri Principi cristiani, e mettere in iscompiglio queste nostre Province. Nè fuori d'Italia stavano meglio queste cose disposte: i Grandi davano i Vescovati a' loro soldati, ed ancora a' fanciulli d'età infantile: Eriberto Conte, zio d'Ugo Capete, fece suo figliuolo d'età di cinque anni Arcivescovo di Rems, e Papa Giovanni X, confermò quella elezione.

Non si mancò con tutto ciò nel decorso di questo nono secolo, e nel principio del decimo di stabilire de' canoni in vari Sinodi per far argine a tanto rilasciamento; ma il tutto in vano, e restarono senza successo e mal eseguiti. Alcuni Vescovi perciò ed eziandio alcune persone private si diedero a far raccolta di questi canoni; ma quasi tutti s'affaticarono sopra i libri penitenziali: surse il penitenziale di Teodoro, di Alitgario e di tanti altri[582]. Vi furono ancora alcune raccolte di canoni, come quella di Jarlando Crisopolitano, intitolata Candela: l'altra d'Isacco, soprannomato il Buono, Vescovo di Langres, di Erardo Vescovo di Tours e di Gualtero Vescovo d'Orleans; [465] ma sopra tutte queste raccolte quella di Reginone Abate di Prom fatta nel 906 per comandamento di Ratbodo Arcivescovo di Treveri fu la più generale, che comprende tutta la legge ecclesiastica, e la più metodica, che si fosse veduta in questi tempi[583]; perciò Burcardo, Ivone di Sciartres ed altri compilatori de' canoni, che l'hanno seguito, se ne sono sovente serviti, e l'hanno quasi che trascritta nelle loro collezioni.

Ma se cotanto scadimento si vide nello Stato ecclesiastico, nella disciplina e nelle cose spirituali, non perciò fu punto scemato l'ingrandimento della giurisdizione e de' beni temporali. I Papi facevano valere la loro autorità non meno sopra i laici per le censure e per le dispense, che sopra i Metropolitani e sopra i Vescovi; fecero nuove disposizioni abbassando i diritti e preminenze de' Metropolitani e dei Vescovi, e vollero anche avere la soprantendenza di tutti gli affari ecclesiastici nelle loro Province e diocesi.

Si ricorreva spesso in questi tempi a Roma, non già per divozione, ma per ottener dispense d'ogni cosa; e l'ambizione e l'avarizia si copriva con la dispensazione appostolica: i divieti che si stabilivano dai canoni in tanti Concilj, servivano per far correre in Roma più gente per ottenerne dispensa; i gradi vietati per lo matrimonio furono stesi per ciò sino al quarto grado; e s'introdusse l'affinità spirituale fra 'l compare e la comare, il figliuolo e la bambina, che anche a' gradi più lontani fu estesa. Ma i Papi, essendo quali abbiam di sopra descritto, dispensavano [466] ogni cosa, ancorchè fosse contro i canoni, e contro gli usi ecclesiastici, nè facevano distinzione di quello che potessero o non potessero, stimando aumento della loro grandezza ogni cosa, che fosse sostenuta da coloro, che vi ricorrevano: questi, se erano potenti, difendevano per loro interesse quello, che impetravano; il Popolo parte per sua semplicità, parte per lo terrore de' potenti, approvava quello che non poteva impedire; onde si stabilì un'opinione, che di qualunque cosa subito, che si avesse la conferma da Roma, ogni errore passato fosse coverto.

Non pochi crederebbono, che la piccola cura la quale si vedeva nell'Ordine ecclesiastico delle cose spirituali, e 'l rilasciamento della disciplina, avesse fatto raffreddar il fervore de' secolari a donar alle Chiese, ed ai monasteri, e si fosse posto fine a nuovi acquisti degli Ecclesiastici; nondimeno non fu così, perchè quanto era diminuita ne' Prelati la cura spirituale, tanto più erano intenti a conservare i beni temporali; ed aveano convertito le armi spirituali della scomunica, che prima s'usava solamente per la correzione de' peccatori, a difesa delle possessioni temporali, ed anche per ricuperarle, se per caso la poca cura de' predecessori l'avesse lasciate perdere. Non si tennero Concilj a questa età, ne' quali, fra l'altre cose, non si pronunziassero delle scomuniche contro coloro che s'impadronivano de' beni della Chiesa, ovvero gli alienavano. Il terrore, che a questi tempi portavano al Popolo le censure, era tanto, che nessuna cosa metteva maggior spavento; ed era cosa mirabile, che i Capitani, ed i soldati, del resto scelleratissimi e senz'alcun timor di Dio, che usurpavano quello del prossimo senza alcun risguardo d'offendere S. D. M., guardavano con gran [467] rispetto, per timor delle scomuniche, le cose della Chiesa. Da questo nacque, che molti di poco potere, desiderosi d'assicurar il suo dalle violenze, ne facevano donazione alla Chiesa con condizione, ch'ella glielo tornasse a dare in Feudo con una leggiera ricognizione. Questo assicurava i beni, che da' potenti non erano toccati, come quelli, il cui dominio diretto era della Chiesa: mancando poi la successione mascolina de' Feudatarj, come spesso avveniva per le frequenti guerre e sedizioni popolari, i beni ricadevano alla Chiesa. Quindi nacque la differenza tra' Feudi dati, ed oblati[584] di cui ben a lungo trattarono Struvio[585], Tomasio ed Erzio[586]. Quindi l'origine delle nostre papali investiture, di cui tratteremo a suo luogo, e quindi finalmente s'introdusse il costume di ricorrere non meno agl'Imperadori ed a' Principi, che a' Pontefici romani, affinchè per mezzo de' loro precetti, detti altramente mundiburdj, difendessero le possessioni poste sotto la lor protezione e custodia, minacciando agli invasori e perturbatori di quelle anatemi terribili, condennando le loro anime in compagnia con quella di Giuda traditore a pena eternale, a' sempiterni incendj dell'Abisso in mezzo a' più neri e tristi diavoli dell'Inferno; servendosi perciò di formole le più spaventose ed orribili.

[468]

In tante confusioni e disordini erano ridotti a questi tempi non meno lo Stato politico e temporale, che l'ecclesiastico di queste Province e di queste nostre Chiese, finchè non potendo più i nostri Italiani ed i Papi stessi soffrire tante calamità e miserie, si risolsero alla fine ricorrere agli ajuti d'Ottone Re d'Alemagna, il Regno del quale, siccome degli altri Ottoni suoi successori, saremo nel seguente libro a narrare.

FINE DEL VOLUME SECONDO.

[469]

TAVOLA DE' CAPITOLI CONTENUTI
NEL TOMO SECONDO

LIBRO QUARTO pag. 5
 
Cap. I. Di Alboino I Re d'Italia, che fermò la sua sede regia in Pavia, e degli altri Re suoi successori 12
§. I. Di Clefi II Re d'Italia 16
§. II. Di Autari III Re d'Italia 20
§. III. Origine de' Feudi in Italia 22
Cap. II. Del Ducato beneventano; e di Zotone suo primo Duca 28
Cap. III. Di Agilulfo IV Re de' Longobardi; e di Arechi II Duca di Benevento 44
§. I. Di Arechi II Duca di Benevento 47
Cap. IV. Del Ducato napoletano, e suoi Duchi 51
Cap. V. Di Adalualdo ed Ariovaldo V e VI Re de' Longobardi 57
Cap. VI. Di Rotari VII Re; da cui in Italia furono le leggi longobarde ridotte in iscritto 60
[470]
Cap. VII. Di Ajone e Radoaldo, III e IV Duchi di Benevento 68
Cap. VIII. Di Grimoaldo V Duca di Benevento: delle guerre da lui mosse a' Napoletani: e morte del Re Rotari 70
Cap. IX. Di Rodoaldo, Ariperto, Partarite e Gundeberto, VIII, IX, X ed XI Re dei Longobardi 77
Cap. X. Di Grimoaldo XII Re de' Longobardi; di Romualdo VI Duca di Benevento; e della spedizione italica di Costanzo Imperador d'Oriente 80
§. I. Di Romualdo VI Duca di Benevento 83
§. II. Venuta de' Bulgari: ed origine della lingua italiana 89
§. III. Leggi di Grimoaldo, e sua morte 95
Cap. XI. Di Garibaldo, Pertarite, Cuniperto, e altri Re e Duchi di Benevento, infino a Luitprando 98
§. I. Di Grimoaldo II, Gisulfo I, Romualdo II, Adelai, Gregorio, Godescalco, Gisulfo II e Luitprando Duchi di Benevento 99
§. II. Di Luitperto, Ragumberto, Ariperto II ed Asprando Re de' Longobardi 101
Cap. XII. Dell'esterior politia ecclesiastica nel Regno de' Longobardi da Autari insino a Lione Isaurico 102
§. I. Elezione de' Vescovi, e loro disposizione nelle città di queste nostre province 111
§. II. Monaci 124
§. III. Regolamenti ecclesiastici 127
§. IV. Beni temporali 129
[471]
 
LIBRO QUINTO 140
 
§. I. Leggi di Luitprando 141
§. II. Novità insorte in Italia per gli editti di Lione Isaurico 144
§. III. Il Ducato napoletano si mantenne nella fede di Lione Isaurico 155
§. IV. Origine del dominio temporale dei romani Pontefici in Italia 158
§. V. Primi ricorsi avuti in Francia da Papa Gregorio II, e dal suo successore Gregorio III 168
§. VI. Costantino Copronimo succede a Lione suo padre, e morte di Luitprando Re de' Longobardi 171
Cap. I. Di Rachi Re de' Longobardi, e sue leggi 175
§. I. Translazione del Reame di Francia da' Merovingi a' Carolingi 176
§. II. Rachi abbandona il Regno, e fassi Monaco Cassinese 181
Cap. II. Di Astolfo Re de' Longobardi: sua spedizione in Ravenna e fine di quell'Esarcato 187
§. I. Spedizione d'Astolfo nel Ducato romano 191
§. II. Papa Stefano in Francia: suoi trattati col Re Pipino, e donazione di questo Principe fatta alla Chiesa romana di Pentapoli e dell'Esarcato di Ravenna, tolto a' Longobardi 194
§. III. Leggi d'Astolfo, e sua morte 206
[472]
Cap. III. Il Ducato napoletano, la Calabria, il Bruzio, ed alcune altre città marittime di queste nostre province, si mantengono sotto la fede dell'Imperadore Costantino e di Lione suo figliuolo 208
Cap. IV. Di Desiderio ultimo Re de' Longobardi 213
Cap. V. Leggi de' Longobardi ritenute in Italia, ancorchè da quella ne fossero stati scacciati: loro giustizia e saviezza 226
§. I. Leggi longobarde lungamente ritenute nel Ducato beneventano, e poi disseminate in tutte le nostre province, ond'ora si compone il Regno 241
Cap. VI. Della Politia ecclesiastica 247
§. I. Raccolta de' canoni 257
§. II. Monaci e beni temporali 259
 
LIBRO SESTO 268
 
Cap. I. Del Ducato beneventano, sua estensione e politia 273
Cap. II. Del Ducato napoletano, sua estensione e politia 286
Cap. III. Come Arechi mutasse il Ducato beneventano in Principato, e tentasse di sottraersi affatto dalla soggezione de' Franzesi 299
Cap. IV. Di Grimoaldo II Principe di Benevento, e delle guerre sostenute da lui con Pipino Re d'Italia 308
Cap. V. Carlo Magno da Patrizio diviene Imperador romano: sua elezione, e qual parte v'ebbe Lione III romano Pontefice 314
[473]
Cap. VI. Di Grimoaldo II, Sicone e Sicardo Principi di Benevento; della pace che fermarono co' Franzesi, e delle guerre che mossero a' Napoletani 333
§. I. Di Sicone IV Principe di Benevento 337
§. II. Prima invasione de' Saraceni in queste nostre contrade 340
§. III. Di Sicardo V Principe di Benevento 344
Cap. VII. Politia ecclesiastica delle Chiese e monasteri del Principato beneventano 350
§. I. Politia delle Chiese del Ducato napoletano e delle altre città sottoposte all'Imperio greco 363
 
LIBRO SETTIMO 378
 
§. I. Divisione del Principato di Benevento, donde surse il Principato di Salerno 380
§. II. Origine del Principato di Capua 389
§. III. Spedizione dell'Imperador Lodovico contro i Saraceni, e sua prigionia in Benevento 391
Cap. I. Carlo di Calvo succede nell'Imperio d'Occidente: nuove scorrerie de' Saraceni, accompagnate da altre rivoluzioni e disordini 398
§. I. Maggiori disordini e calamità in queste nostre province per la morte di Carlo il Calvo, ne' tempi di Carlomanno 406
§. II. Calamità nel Principato di Salerno 410
Cap. II. Dello stato nel qual eransi ridotte in questi tempi la giurisprudenza e l'altre discipline; e delle nuove compilazioni delle leggi fatte per gl'Imperadori di Oriente 416
[474]
§. I. Nuove compilazioni di leggi fatte in Grecia, e qual uso ebbero fra noi in quelle città, che ubbidivano ai Greci 421
Cap. III. Il Regno d'Italia da' Franzesi passa negl'Italiani: maggiori rivoluzioni per ciò accadute in queste nostre province, e rialzamento del Duca d'Amalfi 437
§. I. Stato di queste nostre province, e rialzamento d'Amalfi 444
Cap. IV. Del Principato di Benevento ritolto ai Greci; e come a quello si riunì il Contado di Capua 448
§. I. Nuove scorrerie de' Saraceni, e ricorsi perciò fatti agl'Imperadori d'Oriente 454
Cap. V. Politia ecclesiastica 463

FINE DELL'INDICE.

NOTE:

1.  Jornandes hist. Got.

2.  Grot. in Proleg. ad hist. Got.

3.  Salmas. apud Grot. loc. cit.

4.  Constant. Porphyrog. de Admin. Imperio e. 25 ex historia S. Theophanis. Et Gepides quidem, ex quibus postea Longobardi, atque Avares por successionem oriundi sunt.

5.  Grot. in Prolegom. ad hist. Got.

6.  Paul. Varnefr. I. 1 c. 9.

7.  Constant. Porph. de Them. lib. 2. Thema XI. Longibardia, a promissa barba incolarum dicta est.

8.  Otho Frising. 1. 2 c. 13 de gest. Fred. Imper.

9.  Gunther. 1. 2. Grot. loc. cit.

10.  Ab. de Nuce in Notis ad Chron. Leon. Ostiens. pag. 95.

11.  Tacit. l. 2. Annal. Vel. Paterc. l. 2. hist.

12.  Grot. in Proleg. ad hist. Got. p. 28.

13.  Questi sono l'Anonimo Salernitano, ed altri raccolti da Camil. Pellegr. in hist. Princ. Longob.

14.  Paul. Varnefr. lib. 2 c. 1.

15.  Historiola ignoti Monaci Cassinen. apud Camil. Pell. historia Princ. Longob. P. Varnefr. l. 2. c. 12. Certum est autem, tunc Alboin multos secum ex diversis, quas vel alii Reges, vel ipse caeperat gentibus ad Italiam adduxisse; unde usque hodie eorum, in quibus habitant, vicos Gepidos, Bulgaros, Sarmatas, Pannonios, Suevos, Noricos, aliis, sive hujusmodi nominibus appellamus.

16.  Paul. Aemil. de reb. Franc.

17.  V. Patric. in Marte Gallico c....

18.  Paul. Varnefr. l. 3 c. 7.

19.  Paul. Varnefr. lib. 2 cap. 14.

20.  Paul. Varnefr. lib. 1. cap. 14.

21.  Camil. Pellegr. in Dissert. de Ducatu Benevent. dissert. 1.

22.  Paul. Varnefr. lib. 2. cap. ult.

23.  Paul. Aemil. de reb. Franc.

24.  Marquar. Freher. in Chronolog. Exarc. Raven. apud Leunclavium.

25.  Paul. Varnefr. lib. 3 cap. 8.

26.  Regin. lib. 1. A. 517. Paul. Varnefr. l. 3 c 8. Sigon. de Reg. Italiae, l. 1.

27.  Sigon. de R. Ital. 1. 1. Guido Pancircl. Thesaur. var. lect. l. 1 c. 90. Is Ducibus urbes, dominio supremo sibi reservato, concessit, quas ad stirpem virilem tantum transmitti voluit.

28.  Molin. in Consuet. Paris, tit. 1. C. des Fiefs, num. 13.

29.  Aimoin. lib. 1 cap. 14.

30.  Greg. Turon. hist. Franc. l. 4. cap. 45. V. Alteser. Orig. Feud. c. 1.

31.  Greg. Turon. l. 7 c. 22. et l. 10 §. 19.

32.  P. Aemil. de Reb. Franc. l. 1.

33.  Cujac. de Feud. in princ.

34.  Loyseau Des Off. l. 1 cap. 3.

35.  Molin. in Consuet. Par. tit. des fiefs, n. 11.

36.  Lamprid. apud Loysean Des Off. l. 1 c. 1 num. 104 in fin.

37.  Th. Gragius l. 1 dieg. 5. Jo. Schilterus Com. ad Rub. Jur. Feud. Alem. §. 8.

38.  Montan. in Prael. Feud.

39.  Molin. in Consuet. Paris. tit. des Fiefs. num. 13.

40.  Hornius in Jurispr. Feudal, c. 1 §. 8.

41.  Sigon. de R. Ital. l. 1.

42.  Marq. Freher. in Chronologia, Smaragdus A. 584 Romanus A. 587.

43.  P. Varnef. l. 3 c. 16.

44.  Sigon. de R. Ital l. 1.

45.  Volfang. Laz. lib. 12. de Migrat. gent.

46.  P. Varn. l. 3 c. 16.

47.  Ant. Carac. in Propyleo ad quatuor Chron.

48.  Leo Ostien. Chron. l. 1. c. 48.

49.  Leggesi presso Camil. Pel. in hist. Princ. Long.

50.  Cam. Pel. in dis. de Duc. Ben. dis. 1.

51.  Constant. Porphyr. de Admin. Imp. c. 27.

52.  Procop. lib. ult.

53.  Plin. l. 3 c. 11.

54.  Cluver. in antiq. Ital. l. 4 c. 8.

55.  M. Palmer, in Chron. ad A. 776.

56.  S. Greg. M. l. 2. Dialog. c. 17. Nocturno tempore nuper illic Longobardi ingressi sunt.

57.  Ab. de Nuce Chron. Cas. l. 1 c. 2 in Excur. Chron.

58.  Sigon. de Reb. Ital. l....

59.  P. Varn. l. 3 c. 18.

60.  P. Varnefr. l. 6 c. 2.

61.  Sigon. de Reb. Ital. An. 598.

62.  P. Varnefr. l. 4 c. 14.

63.  Sigon. de Reb. Ital. An. 602.

64.  Paul. Aemil. de Reb. Franc. lib.....

65.  Grot. de Jure belli, et pac. l. 3 c. 7 n. 9. Vinn. Instit. l. 1 tit. 3 §. servi, n. 4.

66.  S. Greg. M. l. 9. Ind. 4. Ep. 53. Cam. Pel. diss. de Finib. Duc. Ben. ad merid. p. 32.

67.  Greg. M. l. 2. Ind. 11. Epis. 1, 2 et 15.

68.  Epist. 12 l. 8. Ind. 3.

69.  Epist. 24 l. 12. Ind. 7.

70.  Blond. Decad. 1. hist. l. 8.

71.  S. Greg. M. l. 2. Ind. 10, Ep. 32. Cam. Pel. in diss. de Duc. Ben. p. 32.

72.  Ep. 74. l. 7. Ind. 2.

73.  Ep. 109 l. 7. Ind. 2.

74.  Marq. Freher. in Chron. Exarc. Rav.

75.  P. Pagi de Consulib. p. 342.

76.  Marq. Freher, loc. cit.

77.  Marq Freher, loc. cit.

78.  Anastas. Bibliothec. in Deus dedit. Cam. Pelleg. in dissert. de Duc. Ben. p. 33.

79.  Marq. Freher. loc. cit.

80.  Beatil. hist. Bar. p. 12 hist. S. Nic. l. 11.

81.  Varnefr. l. 4 c. 10.

82.  Varnefr. l. 4 c. 15.

83.  Sigon. ad An. 623.

84.  Boccac. Gior. 3. Nov. 2.

85.  Varnefr. l. 4 c. 15.

86.  Paul. Varnefr. hist. Long. l. 4 c. 15.

87.  Gotofr. in Proleg. ad Cod. Th.

88.  Altes. rer. Aquitan. lib. 3 cap. 13.

89.  Capitular. Caroli M. c. 18, 4. Addit. et c. 281 l. 6.

90.  Hincm. Rem. ep. 7.

91.  Hincm. in Opusc. advers. Hincmarum Laudonensem.

92.  Jo. Ital. in Vita S. Odon. Abb. Cluniac. Altes. loc. cit. p. 199.

93.  Ivo Epist. 212. Epist. 243, 280.

94.  Gregor. l. 12. Epist. 51 et Epist. 53 l. 11. Novell. 123. Grat. c. 38 c. 11 q. 1 et c. 2 de Testib. c. ult. Nov. 90. V. Alteser. rer. Aquit. c. 16 p. 219, 220 et 218.

95.  Greg. III. c. Lator. de Pignorib.

96.  Jo. VIII. Can. fin. 16. q. 3. Sed venerandae Rom. leges, etc.

97.  Altes. loc. cit. p. 219.

98.  In Decret. Grat. dist. 10 c. 13. Altes. Rer. Aquit. l. 3 c. 14.

99.  Ivo Ep. 280.

100.  Balduin. in Proleg. Comment. in Instit.

101.  Artur. Duck de Usu Jur. civ. l. 1 c. 5 nu. 12.

102.  Conring. De Orig. Jur. Ger. c. 20.

103.  P. Varn. l. 4 c. 44.

104.  Grot. in Proleg. ad hist. Goth.

105.  Sigon. de R. Italiae, lib. 2 ad A. 643.

106.  La conchiusione di questo Editto si legge parimente in Sigonio l. c.

107.  Varnefr. l. 4 c. 15.

108.  Procop. de Bell. Got.

109.  Cam. Pell. in dissert. Duc. Ben. p. 54.

110.  Acta SS. Agapiti, et alior. Surrent. presso Ughello de Archiep. Surrent.

111.  P. Varn. l. 4 c. 16.

112.  Acta Angelica Apparit. presso Surio, to. 5 p. 322.

113.  Historiola Ignoti Monaci Cassin. presso Camil. Pell. hist. Princ. Long. par. 1 p. 97.

114.  Tacit. Annal. 4 c. 71. Juliam Augusti neptem adulterii convictam, projectam ab eo fuisse in Insulam Tremetum haud procul Apulis litoribus, ibique 20 annis exilium tolerasse.

115.  Procop. l. 1 de Aedific. Just. Imp.

116.  Epist. 15 l. 7. Ind. 2.

117.  Cam. Pell. in dissert. fines Duc. Benevent. ad Septentrionem.

118.  Baron. ad ann. 585 n. 2.

119.  Camill. Pell. loc. cit.

120.  Bolland. t. 1. Actor. Sanctor. 3. Pebr.

121.  Ughel. Ital. Sac. t. 8. de Archiep. Benev.

122.  Ciarlan. del Sannio. l. ...

123.  Bodin. de Republ. l. 4 c. 7.

124.  L. ult. C. Th. de Fid. Cath.

125.  Jac. Gotofr. in d. l. ult. et in Prolegom. c. 8.

126.  P. Varnefr. l. 4 c. 18.

127.  Freher. in Cronolog.

128.  Sigon. de R. Ital. ad A....

129.  Varn. l. 5 c. 4.

130.  Varnefr. l. 5 c. 4.

131.  P. Pagi de Consulib. p. 348.

132.  Boland. loc. cit. Ughell. tom. 9. Ital. Sacr. loc. cit.

133.  P. Varnefr. l. 4 c. 5. Cam. Pell. Diss. de Duc. Ben.

134.  Historiola Ignoti Monaci Cassin. apud Cam. Pell. par. I hist. Princ. Longobar.

135.  Varnefr. l. 5 c. 11.

136.  Cujac. lib. 1 de Feud. tit. 1 §. 3.

137.  Ciarlant. nel Sannio, ed altri.

138.  Forn. in notis ad Cass. lib. 10 cap. 7.

139.  Constant. de admin. Imp. cap. 27 et 28.

140.  Baron. An lib. 12 ann. 1154.

141.  Ricc. in Chron. ann. 1232.

142.  Otho Frising. de gest. Frid. lib. 2 cap. 13.

143.  Petrar. nel Trionfo d'Amore, cap. 2 ed altrove.

144.  Boccac. Novel. 2, Giorn. 5.

145.  Camil. Pellegr. in Diss. de Duc. Ben.

146.  Capac. nel Forastier.

147.  Anton. Matthaeus de Criminibus ad L. Juliam Majest. c. 1 nu. 10.

148.  P. Varnefr. l. 5 c. 12.

149.  Si legge nel Codice Cavense, e nel Corpo delle leggi Longobarde, Saliche, Alemanne, ec. dell'edizione di Basilea dell'anno 1557, e presso Sigonio de Reg. Ital. l. 2 ad A. 668.

150.  Sigon. de R. Ital. ad A. 672.

151.  Jo. Diacon. apud Ughell. de Episc. Neap. p. 86.

152.  Paul. Varnefr. Ughell. de Episc. Hydruntin. Beatil. hist. di Bari.

153.  Epist. Greg. M. l. 4. Ep. 80.

154.  Lib. 2. Ep. 62.

155.  P. Varnef. lib.

156.  Gregor. M. l. 3. Ep. 4. et 33 l. 7. Ep. 42.

157.  P. Varnef. l.

158.  Epist. 62 lib. 11.

159.  Gregor. lib. 7. Epist. 74 et 107. Camill. Pellegr. Fines Duc. Ben. ad merid.

160.  Ugh. de Epis. Cumanis.

161.  Ugh. de Epis. Benev.

162.  Ep. Greg. apud Chioc. de Episc. Neap.

163.  Ep. apud Chioc. loc. cit.

164.  Fr. Florens ad tit. de Elect. et El. pot. tit. 4 p. 175 et seq. Jo. a Costa in Sum. ad d. tit. Ant. Matthaeus man. ad jus Can. l. 1 tit. 12.

165.  Ep. Gregor. apud Chioc. loc. cit.

166.  Epist. Gregor. apud Chiocc. loc. cit.

167.  Epist. Gregor. apud. Chiocc.

168.  Anast. Biblioth. in Vigilio. Idem in Pelagio II.

169.  Varnef. lib. 3 cap. 10.

170.  Jo. Diac. Vita S. Greg. lib. 1 c. 39, 40.

171.  Novell. 83 et 123.

172.  Chioc. de Episc. Neap. Anno 730.

173.  Cap. 1 de statu Monac.

174.  Gonzalez d. c. 1 et de relig. domib.

175.  Carac. de Sacr. Eccl. Neap. Monum....

176.  Chioc. de Episc. Neap.

177.  Pellegr. in dissert. de Duc. Benev.

178.  Baluz. in annot. ad Anton. August. in Decreto Grat.

179.  Codin. de Offic. Eccl. Constant.

180.  Leuncl. t. 2. Jur. Graeco-Rom.

181.  Jo. Diacon. de Episc. Neap. Chioc. de Episc. Neap.

182.  Chioc de Episc. Neap.

183.  Codin. Leuncl. loc. cit.

184.  P. Varnefr. l. 6 c. 1.

185.  Ughell. de Episc. Benev. p. 19.

186.  P. Varn. l. 6 c. 1.

187.  Douj. hist. du Droit. Can. par. 1 c. 22.

188.  Pagi in Critica in Ann. Baron. ad A. 827 num. 14.

189.  Struvius hist. Jur. Can. c. 7 §. 11.

190.  Petr. de Marc. de Conc. Sac. et Imp. l. 3 c. 5 num. 2.

191.  V. Gonzalez in Apparatu de orig. et progr. jur. Can. num. 46. V. Hunoldum Plettenbergium Introduct. ad jus Can. c. 11 §. 7.

192.  Cod. Justin. l. 12.

193.  V. Ammirat. ne' suoi Opusc. disc. 7.

194.  Lib. 1. Epist. 23.

195.  L. 5. Epist. 11.

196.  V. Ant. Matthae. manud. ad jus Can. l. 1 tit. 17.

197.  Can. si tributum XI. q. 1.

198.  Theophanes. Appellata patrimonia Sanctorum Principum Apostolorum, qui apud veterem Romam in veneratione sunt, illorum Ecclesiis jam olim persolvi solita, auri talenta tria, et semis aerario publico solvi jussit. V. de Marca de Concord. Sacerd. et Imp. l. 3 c. 11 num. 4.

199.  Ammir. Opusc disc. 7.

200.  V. Bodin. lib. 5. de Rep. c. 2 p. 530.

201.  Mornac. ad l. 1. C. de Sacrosanct. Eccl. Ant. Matth. manud. ad jus Can. l. 2 tit. 1.

202.  Lib. 9. Ep. 29. V. Chioc. de Episc. Neap. in Pascasio.

203.  Si leggono presso Ughel. de Episc. Benev. in S. Barbato.

204.  P. Varnefr. l. 6 c. 58. Bernard. Saccus hist. Ticin. l. 9 c. 5. Sigon. ad A. 713.

205.  Marcul. tit. 55 §. 4. Goldast. tom....

206.  Anast. in Greg. II. P. Var. l. 6.

207.  Sigon. ad A. 725.

208.  Ep. 1 et 2 Greg. ad Leon.

209.  Marq. Freher. in Chronol. Esar. Raven.

210.  Anastas. in Gregor. II.

211.  P. Varn. l. 6. Regino l. 1. Chron. Sigon. ad ann. 726.

212.  Sigon. ad a. 726. Maimb. hist. Iconocl.

213.  Freher. in Chronol. Esarc. Raven.

214.  Sigon. ad ann. 727.

215.  Sigon. ad An. 729.

216.  Anast. Bibliot. in Greg. II.

217.  P. de Marca de Concord. Sacer. et Imp. l. 3 c. 11 num. 2.

218.  Dup. de Antiq. Eccl. disc. diss. 7.

219.  Greg. II. in Ep. 1 ad Leonem.

220.  Anast. Bibliothec. ad A. 658.

221.  Greg. III. Ep. 3 ad Bonifac. P. de Marca de Conc. Sac. et Imp. l. 3 c. 11 num. 5.

222.  Spanem. contra Maimburg. in Histor. Imag. pag. 52.

223.  Gianettas hist. Neap. l. 5 pag. 94.

224.  Zonar. Append, ad Gregor. Turon.

225.  Sigon. ad A. 739.

226.  Sigon. ad A. 741.

227.  Erchemp. p. 5 apud Camill. Pelleg. hist. Princ. Longob.

228.  P. Varn. de gest. Long. l. 6 c. 58 seu 19.

229.  Erch. apud Pelleg. pag. 5 loc. cit.

230.  P. Varn. l. 6 cap. 18.

231.  Erch. apud Pelleg. pag. 5 loc. cit.

232.  Erchemp. apud Camil. Pelleg. pag. 5 loc. cit.

233.  Erchemp. apud Camill. Pellegr. pag. 5 loc cit.

234.  Paul. Aemil. de Reb. Franc.

235.  Dupin. de Antiq. Eccl. disc. dissert. 7.

236.  Eginard. ad A. 750. Hoc anno secundum Romani Pontificis sanctionem etc.

237.  P. Aemil. de reb. Franc.

238.  Erchemp. apud Pell. hist. Princ. Long. pag. 6. Leo Ostiens. Chr. l. 1 c. 8.

239.  Leo Ostiens. Chr. l. 1 c. 8.

240.  Ab. de Nuce ad Ostiens. loc. cit.

241.  Villan. l. 2 c. 9.

242.  V. Beatil. hist. di San Sabino Vescovo di Canosa.

243.  Ab. de Nuce loc. cit.

244.  Registr. Caroli I. An. 1292 et An. 1293. Beltran. descr. del R. di Nap.

245.  Ammir. nel lib. delle Fam. del R. di Nap.

246.  Mazzel. descr. del Regno di Napoli e sue Provin.

247.  Erchemp. apud Pellegr. p. 5. Ostien. lib. 1 cap. 8.

248.  Freh. in Leunclav. tom. 1. Juris Graeco-Roman.

249.  Sigon. ad A. 753.

250.  Erchemp. apud Pelleg. pag. 6 loc. cit.

251.  Anastas. in vita Stephani III.

252.  Anastas. loc. cit. Cernens ab Imperiali potentia nullum esse subveniendi auxilium.

253.  Ostiens. l. 1 c. 8. Pipinum, et duos filios ejus, Carolum, et Carolomannum unxit in Reges Francorum.

254.  Ostiens. l. 1 c. 8.

255.  Anast. in Hadriano.

256.  Leo Ostiens. l. 1 c. 8 et c. 12.

257.  Ab. de Nuce in notis ad Leon. cit. l. c. 8.

258.  Leodict. c. 8.

259.  Leo Ost. l. 1 c. 8. Ravennam, et viginti alias Civitates supradicto Aistulfo abstulit, et sub jure Apostolicae sedis redegit.

260.  Baron. ad A. 755 et tom. 6. Concil. edit. Paris.

261.  Vid. Fran. du Chesne tom. 3 hist. pag. 705 et seq. Alemann. de Pariet. Lateraneus. cap. 10.

262.  Anast. in vita Steph. III.

263.  Anast. l. c.

264.  P. de Marca de Concor. Sac. et Imp. l. 3 c. 11 n. 5.

265.  Anast. l. c. Leo Ostiens. l. 1 c. 8.

266.  Sigon. ad Ann. 756.

267.  Spanem. de Imag. contra Maimburg.

268.  P. de Marca l. 3 c. 11 num. 7, 11 et 12.

269.  Const. Por. de Themat. l. 2. Th. X. Roma Regium deposuit Principatum, et propriam administrationem, ac jurisdictionem obtinuit, eique proprie dominatur quidam suo tempore Papa.

270.  Erchempert. p. 6. Astulphus post haec, in venatione sagitta percussus, mortuus est.

271.  P. Carac. de Sacr. Eccl. Neap. monum. c. 30 sect. 2. Vedi Pellegrino di questi Maestri de' soldati hist. Long. par. 1 l. 9 p. 31. L'Abate della Noce in notis ad Chron. Cassin. l. 2 c. 58 nu. 1057.

272.  Di Antimio V. Chioc. de' Vesc. Nap. p. 78.

273.  P. Pagi de Consulib. p. 370.

274.  S. Eulog. in Memoriali Sanctorum l. 2 c. 1.

275.  Eulog. l. 2 c. 6.

276.  P. Pagi de Consulib. p. 370.

277.  Codin. c. 7 n. 9.

278.  Pachymeres l. 2 c. 32.

279.  Gregoras l. 4.

280.  Tom. 6. Coac. col. 1717.

281.  Ostiens. l. 1 c. 12.

282.  P. de Marca de Concord. Sac. et Imp. l. 3 c. 19 n. 5.

283.  Paul. Aemil. Rer. Franc. p. 18.

284.  Nel diploma della conferma, o sia precetto fatto da Ottone M. al Pontefice nel 962 rapportato dal Baronio An. 962 n. 3 espressamente ciò si legge in quelle parole: Sicuti, et patrimonium Beneventanum, et patrimonium Neapolitanum, et patrimonium Calabriae Superioris et Inferioris. De Civitate autem Neapolitana cum Castellis, et Territoriis, et finibus, et insulis suis sibi pertinentibus sicut ad easdem respicere videntur; nec non patrimonium Siciliae, si Deus nostris illud tradiderit manibus; simili modo Civitatem Cajetam, et Fundum cum omnibus eorum pertinentiis, etc. Binio in Notis ad Conc. Lateran. A. 1112 n. 7. Concil. par. 1 fol. 544 rapporta un consimile precetto dell'Imperador Errico IV fatto a Pascale II, ove pur si legge: Jurejurando firmavit de Apostolici ipsius vita et honore, de membris, de mala captione, de regalibus; etiam patrimoniis B. Petri, et nominatim de Apulia, Calabria, Sicilia, Capuanoque Principatu factis Sacramentis.

285.  P. Varn. hist. Long. l. 3 c. 8.

286.  Ug. Grot. in Prolegom. ad hist. Got.

287.  LL. Longob. l. 2 tit. 4, 5, 6, 7, 8, 9.

288.  Vide Grot. in Lexico.

289.  Luitprando ll. Long. l. 2 tit. 4.

290.  Luitprand. eg. 4 tit. de prob. nupt.

291.  LL. Long. lib. 2 tit. 13 l. 7.

292.  L. si qua illust. C. ad S. C. Orf.

293.  Cujac. in Parat. in Pand. tit. de Concub.

294.  V. Connan. lib. 8 comment. Arnis. de jur. Connub.

295.  Gratian. in Decret. dist. 34 cap. 4 et 5.

296.  Cujac loc. cit. Audio tamen eum retinere districte Vascones, et Pyreneos.

297.  Novel. Basil. Maced. apud Leuncl. Jur. Gr. Roman. lib. 2. nu. 2 tom. 1.

298.  Grot. in Prolegom. ad Hist. Got.

299.  V. Struvium hist. Jur. Crim.

300.  Ugo Grot. in Proleg. ad hist. Got.

301.  Sigon. ad A. 632.

302.  Cujac. lib. 1 de Feud. tit. 1 §. si autem controversia: Et hoc genere purgationis diu usi sunt Christiani, tam in civilibus, quam in criminalibus causis, re omni duello commissa.

303.  Lib. 1 l. 23 tit. 9 de homicid. liber. hom.

304.  V. Struvium histor. Jur. Crimin.

305.  Tertium genus purgationis est periculum aquae ferventis, vel frigidae, vel laminae candentis, quo etiam diu usi sunt Christiani, ducto more, argumento nescio an bono, a potione illa, quam stupri insimulatis mulieribus dari jussit Mores, quod usque eo processit, ut et leges scriptae juberent adhiberi ignitos vomeres, vel aquam frigidam, aut calidum litium dirimendarum causa, ut Longobardae saepe, et militares Friderici Imperatoris apud Radevicum. Cujac. lib. I de Feud. loc. cit.

306.  Cujac. loc. cit. Quod tamen primum omnium exolevit in Longobardia.

307.  Consuet. Bar. Rubr. de Immunit. §. Monomachia.

308.  Ugo Grot. in Prolegom. ad hist. Got.

309.  Questo Sillabo si legge appresso l'Istoria de' Goti di Grozio.

310.  Cujac. de Feud. l. 1, tit. 2.

311.  Maxilla in Consuet. Bar. rub. de Arga. Istud nomea Arga, est Longobardorum, et idem importat, quod vocare aliquem cornutum. Vedi Carlo Du-Fresne in Lexic. Latinobarbar.

312.  Paul. Warnefr. l. 6, c. 8.

313.  Cujac. loc. cit.

314.  LL. Longob. lib. 2 tit. de homicid. liber. hom. l. 24.

315.  De' Mulomedici vedi G. Gotofredo nel Cod. Th. sotto il tit, de Cursu publico.

316.  LL. Longobar. de Pauperie l. 2.

317.  Sigon. de R. Ital. l. 8.

318.  In LL. Longob. l. 2. tit. 58.

319.  Ed. Lud. Pii in LL. Longob. l. 3. c. 37. In LL. Ripuar. cap. Ecclesia pure Romano vivit.

320.  Const. Guliel. Puritatem.

321.  Gregor. c. devotis. 12 qu. 2.

322.  Grot. in Prolegom. ad hist. Got. Jam vero, quae in Regno Neapolitano, Siculoque valent Constitutiones a Federico II collectae; pene omnes fluunt e legibus Longobardorum.

323.  Filosac. de Sacr. Episc. aut. c. 7 §. 7.

324.  Tomasin. Vet. et nov. Eccl. disc. pag. 1 l. 1 c. 52 num. 6.

325.  L. 2. De his qui ad Eccl. confugiunt. tit. 39 l. 2 in. ll. Longob.

326.  L. 4 cit. tit. 39 l. 2.

327.  Launojus Regia in matrim. potest. part. 3 art. 2 c. 7.

328.  LL. Longob. l. 2 tit. de prohibitis nuptiis, l. 2 tit. 1 de sponsalib.

329.  Jo. Diac. de Episc. Neap. Chioc. de Episc. Neap. An. 795.

330.  Doujat Hist. du Droit. Canon. part. I cap. 21.

331.  Blondel. in Pseudo-Isidoro edit. an. 1628.

332.  Marca de Concor. Sac et Imp. lib. 3 cap. 5 num. 1.

333.  Hincmar. in Opusc. cap. 24.

334.  Baron, An. 865. num. 5. Mariana lib. 6 de reb. Hisp. cap. 5. Chronic. Juliani Tol. Paris. edit. a Laurentio Ramires.

335.  Gonzalez in Apparatu de Orig. et progr. Jur. Canon. num. 46.

336.  Hincmar. in Opusc. cap. 24.

337.  P. de Marca loc. cit. num. 4.

338.  Paul. Varnefr. lib. 6 capit. 18.

339.  Ostiens. lib. 1 cap. 4 V. Pellegr. in serie Abbat. Cassin. Theodemar. Vedi Ughel. tom. 6 pag. 470, ove si legge la Cronaca d'Autperto Abate.

340.  Chioc. de Epis. Neap, in Stephano A. 764.

341.  Alteser. Asceticon lib. 7 cap. 12.

342.  Ostiens. lib. 2 cap. 4. V. l'Abate della Noce, che testifica servarsi ancora questo privilegio nell'archiv. Cassin.

343.  Ab. della Noce in Excurs. hist. ad Chron. Ost. lib. 1 cap. 4.

344.  S. Ber. Epist. 42 et lib. 3 de consid. ad Eugen.

345.  P. Blesen. Ep. 68.

346.  Gerson. tract. de potest. Eccles. conf. 10 et de statib. Eccl. consid. 9.

347.  Sess. 14 de refor. c. 4 ed altrove.

348.  Sigon. p. 163 de R. Ital. ipse sibi nomine regni retinuit.

349.  V. Franckenstein dissert. de Majumis, Maicampis, et Roncaliis. V. Dufresne in Lexic.

350.  Paul. Aemil. de reb. Franc.

351.  Pellegr. in Dissert. de Finib. Ducat. Benev.

352.  Costant. Porphyr. de Admin. Imperio, cap. 27. Auctor Itinerarii S. Villibaldi apud Surium die 7 Julii.

353.  Epist. Hadr. 73.

354.  Lib. de Administr. Imp. cap. 29.

355.  Const. Porph. de Them. l. 2. Them. XI.

356.  Pag. 164 num. 9.

357.  Paul. Diac. lib. 2 c. 11 sive 26.

358.  Anonym. Salern. in hist. Longob. apud Pelleg. in praefat. ad Anonym. Benev.

359.  Lib. c. 19.

360.  Erchemp. apud Pell. num. 1.

361.  Lib. 2 tit. 52.

362.  Freccia de Subfeud. pag. 71.

363.  Erchemp. num. 65 et 62. Ostiensis lib. 1 cap. 48.

364.  Erc. num. 62.

365.  Lib. 1 tit. 34 et l. 2 tit. 17.

366.  Causa 1 qu. 3 can. 8 Salvator. Dufresne in Lexic.

367.  Lib. 2 tit. 52 l. 19 ex Pipini Regis constitutione.

368.  Camil. Pell. diss. Duc. Ben. in antiq. Provinc. etc. p. 81.

369.  Lib. 1 tit. 14.

370.  L. 15 tit. 14 l. 1 II. Longob.

371.  Erchemp. n. 29.

372.  Const. Porph. de Thematibus. Imp. Orient.

373.  Const. loc. cit. Th. XI. Neapolis Metropolis.

374.  Const. loc. cit. Them. X.

375.  De Admin. c. 27.

376.  Pellegr. in disser. de Finib. Ducat. Ben. p. 72.

377.  Hadrian. Ep. 73. Pellegr. in Fin. Duc. Benev. ad merid.

378.  Ughel. t. 9. Ital. Sacr. in Archiep. S. Severin.

379.  Chioccar. de Ep. Neap, n. Steph. Camill. Pell. hist. Princ. Long. in Tumul. Mazza de reb. Saler.

380.  Epist. 18.

381.  Erchemp. nn. 26 et 27.

382.  Pellegr. in Serm. Princ. Long.

383.  Pel. in Stem. Princ. Longob.

384.  L. 11. Indit. 6. Epist. 31.

385.  An. Saler. parte 1 num. 3 apud. Pellegr.

386.  Bar. ad An. 787 num. 101. Vedi Pellegr. de Anon. Saler.

387.  Erchemp. num. 2.

388.  Ostiens. l. 1 c. 9.

389.  Pellegr. Capitular. Arech. Principis, pag. 309.

390.  Pellegr. cit. hist. pag. 73 ad pag. 92.

391.  Erchemp. hist. apud Pellegr. num. 2 pag. 26.

392.  Hist. Princ. Long. apud Pellegr. num. 1 pag. 167.

393.  Epist. 44. Hadriani Pontif.

394.  Cit. Epist. 44.

395.  Camill. Pelleg. de Tum. Princ. Longob. pag. 234.

396.  Lib. 2 ll. Longob. tit. 37 l. 1.

397.  Epist. Hadrian. 44.

398.  Sigon. an. 788.

399.  Il Contin. d'Aimo. l. 4 c. 40.

400.  Maimb. hist. Icon. l. 3 an. 775.

401.  Hist. Erchemp. num. 5.

402.  Hist. Erchemp. num. 6.

403.  Pellegr. Tumul. Pr. Long. pag. 283.

404.  Si legge presso il medesimo Aut. pag. 237.

405.  Eginhar. in Annal. A. 796. Sigon. A. 796. Vedi Marca de Concor. l. 3 c. 11 num. 8.

406.  Marca loc. cit. num. 9.

407.  Theophanes in Chron.

408.  Maimb. hist. Iconocl.

409.  Sigon. hist. Ital. A. 800.

410.  Egin. in vit. Carol. Magn.

411.  Paul. Aemil. de Reb. Franc.

412.  Eginhar. A. 802.

413.  Anastasius in vita Leon. III. Ab omnibus constitutus est Imperator Romanorum.

414.  Eginh. in Annal. More antiquorum Principium adoratus est; ac deinde omisso Patricii nomine, Imperator, et Augustus appellatur.

415.  Vedi il Mars Gallicus d'Ales. Patrizio.

416.  Epist. Jo. ad Hormisdam. V. Dupin. de ant. Eccl. disc.

417.  V. Patric. in Marte Gall.

418.  Cujac. l. 1. de Feud. tit. 1.

419.  Arthur Duck De uso, et auct. J. R. l. 2. par. 3. num. 1. c. 8.

420.  Paul Aemil. l. 3. in Car. M.

421.  Anon. Salern. apud Pelleg. par. 1 num. 2 pag. 170. Imperator quippe omni modo non dici potest, nisi qui in Regno Romano praeest; hoc est Constantinopolitano.

422.  Baron. An. tom. 10.

423.  Fed. Morelli in not. ad l. 2. Th. 11.

424.  Loyseau Des Ord. pag. 48.

425.  Lib. 2 tit. 57 lib. 1.

426.  Sigon. ad An. 801.

427.  Doujat hist. Jur. Civ. pag. 60. De' Capitolari di Carlo M. e delle Raccolte fatte da Ansegiso, da Benedetto Levita, e da altri, son da vedersi Baluzio tom. 1. Van. Espen. in hist. Jur. Can. Struv. cap. 6. hist. Jur. German. §. 10, 11 et 12.

428.  Extat Capitulare Pipini Regis Italiae dat. A. 793 apud Balutium t. 1 p. 533. Ejusdem Capitula excerpta ex Lege Longob. pag. 341.

429.  Lib. 2 tit. 57 l. 2 et tit. 59 l. 3. et 4.

430.  Hist. Erchemp. num. 7.

431.  Erchemp. n. 8.

432.  Erchemp. n. 8.

433.  Tumul. Sicon. apud Pellegr.

434.  Erchemp. n. 9.

435.  Pellegr. in Stemm. Prin. Salern.

436.  Erchemp. n. 10.

437.  Erchemp. apud Chiocc. de Episc Neap. an. 818. Princeps Sico S. Januarii Martyris Corpus de Basilica, ubi per longa temporum spatia requievit, elevans, et cum magno tripudio Beneventum regreditur.

438.  Sozom. l. 6 c. 38.

439.  Abrah. Echel. histor. Arab. c. 3 et 5.

440.  Lib. 2 c. 16.

441.  Baluz. tom. 1 pag. 561 et pag. 689.

442.  Pell. Tumul. Princ. Longob. pag. 239.

443.  Cedren. pag. 429. Camill. Pell. in Tumul. Boni, hist. Princ. Long. pag. 326.

444.  Chioccar. de Epis. Neap. A. 818.

445.  Jo. Diac. in Chron. Epis. Neap. in Joan. Ep. 43.

446.  Pell. hist. Princ. Longob. de Capitulari Pr. Sicardi pag. 73.

447.  Camill. Pellegr. l. c.

448.  Richer. Apolog. Jo. Gerson. par. 3 axiom. 36.

449.  Baron. ad A. 774.

450.  Marca de Conc. l. 8 c. 12. V. Maimb. de Casu Imperii, l. 1 ad A. 964.

451.  Sigeber. in Chron. ad A. 773.

452.  Grat. in Decr. dist. 63. C. Hadrianus 22.

453.  Flor. Magistr. Tract. de elect. Episc.

454.  Lup. Ferar. apud P. de Marca loc. cit. num. 9.

455.  P. de Marca l. 8 c. 14.

456.  Decret. Grat. dist. 63 c. 14.

457.  Marca loc. cit.

458.  Richer. Apolog. Jo. Gerson. loc. cit. pag. 191.

459.  Gulielm. Malm. l. 5 de gestis Reg. Anglic.

460.  Richer loc. cit.

461.  V. Loyscau des Off. des Sign. c. 15.

462.  Auth. Statuimus, C. de Episc. et Cler.

463.  Diploma Loth. apud Schilterium Comment. ad Jus Feud. Aleman. c. 1 §. 7. V. Struvium Hist. Jur. publ. c. ult. §. 4.

464.  Duaren. in Comment. ad Consuet. Feud. l. 1 c. 6 n. 28.

465.  Sigon. de Reg. Ital. l. 11.

466.  V. Struvium Hist. Jur. Feud. c. 8.

467.  V. Biscard. in Jur. Respons. de Quinden.

468.  Freccia de Subfeud. l. 3 diff. 15. R. de Ponte dec. 2 n. 1.

469.  V. Loyseau des Sign. Eccl. c. 15.

470.  Abbas de Nuce in Excurs. hist. in c. 5 l. 1. Leon. Ost.

471.  Frec. de Subfeud. l. 1 tit. de Antiq. Regni Stat. n. 57 fol. 53.

472.  Petr. Diac. ad Chron. Cass. l. 4 c. 117 et 118.

473.  Petr. Diac. l. 4 cap. 118.

474.  V. Abb. de Nuce loc. cit.

475.  Beatil. Istor. di Bari.

476.  Ughel. tom. 6 p. 298.

477.  Leo Ost. l. 1 c. 24. Sigebert. ad ann. 831.

478.  Codin. de Offic. Aulae Constant.

479.  Curapal. l. de Officialib. Palat. Constant.

480.  Leuncl. tom. 1. Jur. Graec. Roman.

481.  Leuncl. tom. 1. Jur. Graec. Roman.

482.  Leo Allac. de Eccl. Occid. et Orient. perpet. consens. p. 426.

483.  Fu in gran parte trascritto da Lione Allacci loc. cit. l. 1 c. 10 et c. 24 p. 410 e da Emanuele Schelstrat. Antiq. illustr.

484.  V. Carac. de Sacr. Eccl. Neap. monum. c. 1 sect. 10.

485.  Leuncl. loc. cit. l. 3. Jur. Graec. Rom.

486.  Jo. Diacon. in Chron. Episc. Neap. Ilic dum a Graecorum Pontifice Archiepiscopatum nancisceretur, ab Antistite Romano correptus, veniam impetrat.

487.  V. Capacium l. 1 fol. 57. Franc. Ant. Purpuram Respons. pro Monachis Basilian. in causa praecedentiae cum Monach. Cassin.

488.  V. Eugenium in Eccl. S. Georg. et S. Mariae in Cosmedin.

489.  V. Chioccarel. de Episc. Neap. ad An. 878.

490.  Chioc. loc. cit.

491.  Carac. de Sacr. Eccl. Neap. monum. cap. 35 sect. 2.

492.  Luitpr. Legatio ad Niceph. Phoc. pro Ottonib.

493.  Ughel. de Archiepisc. Hydrun.

494.  Beatil. hist di Bari l. 1.

495.  Chioc. de Epis. Neap. A. 750.

496.  Allac. lib. 2. cap. 17 pag. 828.

497.  Erchemp. num. 15. Ostiens. lib. 1 cap. 23.

498.  Bodin. de Republ. cap. 9.

499.  Pell. Stemm. Pr. Salern.

500.  Questi tumuli si leggono parimente nell'Istoria di Pellegrino.

501.  De quo. Jo. VIII epist. 33 et 157.

502.  Erchemp. num. 20. Et simus, inquiunt, fidelissimi famuli illius, constituatque nos subesse cuilibet ultimo suorum.

503.  Ignot. Cassin. num. 13. Anon. Saler. ined. apud Pellegr.

504.  Chron. Salern. Erchemp. num. 26. Anonim. Salern. inedit. Historiola Ignoti Cassin. n. 23. Ademarius junctus cum Neapolitanis nitebatur quiddam dolose erga suos; ob hoc oculi ejus avulsi, spernitur a Principatu, et Warferius Salerni factus est Princeps. Nam Dominus Ademarius Suram, Arpinum, Vicum Album, et Atinum tradidit Francis, id est Widoni Comiti. In his locis praeerat Landulfus Castaldius, qui dum amisisset loca, prae nimia est tristitia defunctus.

505.  Erchemp. num. 22.

506.  Erchemp. num. 22. Atque suis haeredibus in jus perpetuum, sicut a patre acceperant, reliquerunt.

507.  Erchemp. num. 31.

508.  Erchemp. num. 34. Leo Ostiens. lib. 1 cap. 36.

509.  Lib. 5 cap. 208.

510.  Sigon. de Regn. Ital.

511.  Erchemp. num. 56.

512.  Ab. de Nuce in Indice, ver. Ludovicus.

513.  Leo Ostiens, lib. 1 cap. 16.

514.  Erchemp. num. 58.

515.  Prot. ad A. 875.

516.  Sigon. de Reg. Ital.

517.  Erchemp. num. 39.

518.  Erchemp. n. 39. Octavo die anathematis XXII. Neapolites milites apprehensos decollari fecit: sic enim monuerat Papa.

519.  Erchemp. num. 39.

520.  Epistola 41. Jo. VIII. ove parlando de' Napoletani confederati con i Saraceni dice: Nunc autem vel illis incorrectis existentibus, et ad percutientem se redire nolentibus; vel tibi cum ipsis habitanti, et idcirco a Divinis omnibus pariter sequestrato, quo pacto antequam resipiscentes ad viam salutis et justitiae revertamini, parcere, aut a nexu ecclesiastici vos judicii valemus absolvere? Absolvite ergo vos prius colligationes impietatis et foedus impium, quod cum inimicis Christi habetis compositum, et nos illico misericordiam, etc.

521.  Epist. 22. Virtute S. Spiritus et authoritate S. Petri, cui ligandi et solvendi in coelo et in terra a Domino est concessa potestas, omni sacra communione sancta videlicet Corporis et Sanguinis D. N. J. Christi, vos una cum totius Apostolicae Sedis consensu privavimus et ab Ecclesiae Dei societate separavimus, ut in eadem excommunicatione maneatis, donec resipiscentes ab impia vos paganorum praeda separetis.

522.  Erchemp. num. 40.

523.  Frec. de Subfeud. p. 54. Et isti succedebant Comites in Regno omnes pariter filii, sicut in Lombardia: cum videamus ex historicis, uno eodemque tempore in eodem Comitatu duos et plures Comites, in Comitatu Theani, in Comitatu Venafri, et Aquini, et aliorum.

524.  Pell. in Stem. Princ. Ben.

525.  Erchemp. num. 39, 41, 42, 47, 48.

526.  Erchemp. num. 48, 49.

527.  Erchemp. num. 54.

528.  Summon. tom. 1 pag. 428.

529.  Pellegr. in Stem. Princ. Saler. Professus est in publicis tabulis, concessum sibi ac permissum fuisse suum Principatum ab Graecis Imp. Leone et Alex. sicuti divisus fuerat, inquit, inter Sichonolphum et Radelchisum Principem.

530.  Erchemp. num. 49. Hoc turbine exactus, et ut Apostolicum anathema, quo erat innodatus, a se et urbe sua expelleret, Guaimarium Principem, etc.

531.  Sigon. de Reg. Ital.

532.  Gregor. 9. Epist. 48.

533.  Baco de Verulam. de Augum. scient. lib. 1.

534.  Jo. VIII Epist. 163. V. Struv. hist. Jur. Just. c. 5 §. 7.

535.  Doujat hist. Jur. Civ.

536.  Artur. Duk. de Aut. Jur. Civil. l. 1 cap. 5 num. 2.

537.  Zonar. annal. tom. 3.

538.  Struv. hist. Jur. Graec. cap. 4. §. 2.

539.  V. Cujac. l. 6. obser. c. 10.

540.  Cujac. obs. 17. c. 31. Doujat hist. Jur. Civ. p. 47.

541.  V. Artur. loc. cit. n. 3. et 4.

542.  Harmen in Praefat. 1.

543.  V. Marq. Freher. in Praefat. ad Jus Graec. Rom. Struv. hist. Jur. Graeci, c. 4. §. 2.

544.  Struv. loc. cit.

545.  Di queste edizioni V. Suarez. Notitia Basilicor.

546.  Aug. ad Novel. in Prolegom.

547.  Suar. in Notit. Basil.

548.  Struv. hist. Jur. Graec. c. 4. §. 1.

549.  V. Doujat hist. Jur. Civ.

550.  Cujac. Obs. 6. c. 10.

551.  Arthur. Duck l. 1. c. 5. n. 7. Struv. loc. cit. §. 4.

552.  Galat. de Situ Japygiae.

553.  Struv. loc. cit.

554.  Leuncl. in Jure Graec. Rom.

555.  Struv. loc. cit.

556.  V. Struv. loc. cit.

557.  Ivo Epist. 46, 69, 79, 213, 224.

558.  V. Pancirol. l. 3 c. 2. Struv. hist. Jur. Can. c. 7 §. 17.

559.  L'istromento di questa pace leggesi presso Camil. Pell. Hist. Princ. Long. p. 323.

560.  Ostien. in Chron. l. 2. c. 35.

561.  Pellegr. hist. Princ. Long. p. 251. et 256.

562.  Ignot. Cassin. apud Pellegr. num. 23, et 26.

563.  V. Pellegr. Chron. Com. Capu. p. 142.

564.  Frecc. de Subfeud. pag. 27. In Regno non lege Rhodia marittima decernuntur, sed tabula quam Amalphitanum vocant, omnes controversiae, omnes lites, ac omnia maris discrimina, ea lege, ac sanctione, usque ad haec tempora finiuntur.

565.  Anon. Saler. part. 4 n. 6 apud Pelleg.

566.  Erchemp. num. 74.

567.  Anon. Saler. part. 4 n. 6.

568.  Anon. Saler. part. 5.

569.  Anon. Saler. part. 5. num.

570.  Anon. Saler. part. 5 n. 3.

571.  Leges Bajoariorum Tit. 11 non invalidum Ducem suo e Regno ab filio suo dejici sed Ducem viribus animi, corporisque constantem, atque non caecum, vel non surdum, vetabant.

572.  Sigon. ad A. 1053. Post Joannem X. Pontifex nemo ad bellum prodierat.

573.  Ad. An. 916.

574.  A. 929.

575.  Ad A. 942 num. 11.

576.  Pellegr. ad Lup. Protosp. num. 940.

577.  Pellegr. part. 5 ad Anan. Salernit.

578.  Pellegr. in Stem.

579.  Pellegr in Stem. Princ. Saler.

580.  Ostiens. lib. 2. c. 5.

581.   V. Baron. ad An. 954 et Pagi.

582.  V. Struv. hist. Jur. Can. §. 14.

583.  Baluz. Praefat. ad Anton., August. de emendat. Gratian. 5, 17.

584.  Di questi Feudi oblati, frequentissimi a que' tempi, parlando Beato Renano nel lib. 2. Rer. German. scrisse: Quidam etiam in illo recenti Christianismo res suas Ecclesiae donabant, et rursus agros aut domum in beneficii modum recipiebant ad vitae suae tempus, non citra tamen pensitationem. Nec filius post mortem patris, aut haeres vendicare, sic data, poterat.

585.  V. Struv. Hist. Jur. Feud. c. 8. §. 6.

586.  Thomas. Hert. de Feudis Oblatis.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 50642 ***