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LA VITA ITALIANA NEL RISORGIMENTO
(1831-1846) II.


LA
VITA ITALIANA
NEL
RISORGIMENTO

(1831-1846)


SECONDA SERIE

II.

LETTERE, SCIENZE E ARTI.

Antonio Rosmini. Antonio Fogazzaro.
Alessandro Manzoni. Enrico Panzacchi.
Giuseppe Mazzini e il pensiero filosofico. Arturo Linaker.
La poesia patriottica e Giovanni Berchet. Guido Mazzoni.

FIRENZE
R. BEMPORAD & FIGLIO
CESSIONARI DELLA LIBRERIA EDITRICE FELICE PAGGI
7, Via del Proconsolo

1899.


PROPRIETÀ LETTERARIA

RISERVATI TUTTI I DIRITTI.

Gli editori R. Bemporad & Figlio dichiarano contraffatte tutte le copie non munite della seguente firma:

firma manoscritta

Firenze. Tip. Cooperativa. Via Pietrapiana, 46.



INDICE


[5]

ANTONIO ROSMINI

CONFERENZA
DI
ANTONIO FOGAZZARO.

[7]

Signore, Signori,

Nel maggio del 1897, dopo le feste roveretane per il centenario di Antonio Rosmini, io scendevo dal Trentino per le gole precipitose che versano alla mia pianura i larghi fiotti del Brenta. L'eguale fragore delle acque nel profondo mi ripeteva parole tristi che tutte, prima, non intesi, preso, rapito com'ero nello spirito dalla violenza di tante immagini recenti, che mi riconducevano a Rovereto. Gaia nel vento e nel sole la bianca città: alto, lucente un diadema di nevi sulle montagne che la guardano: vie gremite di gente festosa: archi, fontane, ghirlande, musiche: raggianti volti di apostoli e discepoli del Rosmini convenuti da ogni parte d'Italia: fiori pioventi dai balconi, favolosamente, sul capo di tanti metafisici punto giovani, punto eleganti o avvezzi, come rosminiani, a tutt'altra pioggia: [8] sale accademiche parate a festa, immagini glorificate di don Antonio, stormi di cravatte bianche e di abiti neri, discorsini eleganti di oratori ufficiali, discorsoni trionfali di oratori illustri: uditorii quali un conferenziere ambizioso li sogna, vibranti a ogni tocco di parola calda, pronti a cogliere ogni dolcezza nascosta in inviluppi di parole prudenti: uditorii di dame, di cavalieri, di popolo e di ombre, sì, anche di ombre perchè noi, sognatori, vedevamo nella sala tre nebulose tiare di fantasmi, le tiare di Pio VIII, di Gregorio XVI e di Pio IX, protettori di Rosmini, e vedevamo gli amici suoi più illustri, il pugnace vecchio Bonghi in prima fila, il cieco vecchio Tommasèo molto più indietro e, peritoso sulla soglia, il gran vecchio Manzoni. Ci vedemmo pure il signorile aspetto del marchese Gustavo di Cavour e qualcuno di noi giura avergli veduto accanto il volto di un antico giornalista e collega, in certo modo, di redazione del Rosmini, un caro paterno volto impresso nel cuore di noi tutti, sorridente allora, fra bonario e malizioso, di quest'arguzia pensata: «l'abate e io non andavamo d'accordo in tutto ma però siamo stati collaboratori nel Risorgimento

Assorto in queste immagini non udii che tardi la insistente parola triste del fiume. «È finito» [9] mi diceva «è passato, il vostro sottile fascio è già disperso, il picciol vento rosminiano già cade lasciando il mal tempo di prima.» Ebbene, no. Non tutto il suono della commemorazione centenaria si è dileguato invano malgrado certi meditati silenzii che le si fecero intorno. E prima che io ne ragioni, lasciatemi ricordare ciò che per la fama di Antonio Rosmini hanno fatto in altri tempi i suoi avversari. L'odio implacabile di costoro ha servito per un disegno provvidenziale a preservare dall'oblìo delle moltitudini il nome del sublime filosofo che le moltitudini non possono intendere. I colpi menati sull'opera bronzea di lui diedero non altro che suono e faville vive del nome percosso. Il bavaglio posto ai sacerdoti rosminiani giovò ai loro persecutori, quanto la cuffia del silenzio giovò ai Borboni; per l'uomo che taceva gli stessi strumenti di tortura gridavano. Così avvenne che il nome di Antonio Rosmini, quarant'anni dopo la morte di lui e fra generazioni affatto incuriose di filosofia, fosse fra i nomi noti a ogni persona civile. Ma era uno di quei nomi vuoti e morti, che le persone civili portano in mente magari per tutta la vita senza curarsi mai di ricercarne il perchè, di saper bene quali creature umane li abbiano portati. Quando si parlò del centenario molti si accorsero di questa [10] loro ignoranza, molti convennero nelle sale dove si tenevano conferenze su Rosmini, ascoltarono attenti e ne uscirono più curiosi di prima. Se quest'uomo era stato un grande cattolico, perchè tante condanne del Sant'Ufficio, tanto veleno di odium theologicum? Perchè nè Pontefice nè cardinali nè vescovi si movevano a rendergli onore? Perchè venivano a recitarne l'elogio dei signori vestiti da borghesi e tante poche tonache si vedevano negli uditorii? Ma se non era tale perchè lo avevano tre Papi lodato pubblicamente e come aveva egli potuto fondare un ordine religioso? Per quale follìa si eran fatte suonare dopo la sua morte tutte le campane di Stresa mentre il Ministero presieduto dal Conte di Cavour partecipava l'evento alle corti d'Europa? Chi era in fondo quest'uomo e sopra tutto, qual è il valore della sua filosofia per la vita? — Queste curiosità sono il miglior frutto della commemorazione centenaria, e se per lunghi anni provvidero alla fama del roveretano i persecutori che neppur la morte placò, adesso tocca a noi suoi fratelli, sorti al cadere d'un secolo come ad un segno di comando, provvedervi. A chi c'interroga intorno a Rosmini mai non s'è abbastanza risposto; e io stesso che già più volte, altrove, parlai di lui, mi felicito di poterne parlare adesso qui, dove le ceneri disperse [11] di un rogo infame dopo quattro secoli si raccolgono, si riaccendono, s'innalzano, ricompongono in una fiamma di gloria la figura del grande frate che protestò morendo di appartenere alla Chiesa trionfante; alla stessa Chiesa che serba un simile trionfo, nel secolo futuro, ad Antonio Rosmini.

***

Poco prima del passaggio ch'egli chiamò «unirsi al suo fine» Rosmini disse a Manzoni: «È il tempo della mèsse. Il lavoratore è ricompensato quando la mèsse arriva.» Io mi figuro che in qualcuna delle ultime sue notti il battere monotono delle onde alla riva di Stresa gli abbia ricordato i passeggi vespertini di un tempo lungo il lago, le conversazioni piacevoli col suo don Alessandro, con lo Stampa, con il Cavour, con il Bonghi, le ore sue più serene scomparse per sempre. E mi figuro che a poco a poco la visione solenne dei morenti sia sorta nell'ombra davanti agli occhi suoi, ch'egli abbia veduto passare come fantasmi silenziosi per uno specchio le immagini della propria vita, dalle più recenti alle più lontane, le immagini del tempo in cui aveva seminato, coltivato con assiduo studio, consultando i venti e le nuvole, la mèsse finalmente [12] matura. Gli ultimi anni tribolati dai patimenti: una gran gioia, l'assoluzione delle sue opere denunciate a Roma: una grande angoscia, l'attesa della sentenza: più lontano le bufere del '49 e del '48, Gaeta, Napoli e Roma, le angherie della politica borbonica, la fede serbata al Papa, le faccie ostili dei cortigiani pontificii, le ore date tra tanti trambusti al commento di San Giovanni, i terribili giorni di Roma, i suoi vani consigli patriottici e liberali, l'assassinio di Rossi, il suo nome acclamato dal popolo, il potere offertogli e subito deposto, per obbedienza, ai piedi del Santo Padre: più lontano, la missione avuta dal Piemonte, il triste pranzo con Carlo Alberto a Vigevano fra il disordine di un esercito in rotta, l'incontro con Gioberti: più lontano, i lunghi anni di preghiera, di meditazione e di lavoro, l'Istituto della carità e il Sistema della verità, i segni ottenuti, riguardo al primo, del volere divino e gl'intimi lampi in cui gli era stato rivelato il secondo: più lontano, la sua giovinezza pensosa e ardente, Milano e Padova, la gioia secreta e l'ansia dei disegni che maturavano nella sua mente: più lontano ancora, le care montagne, le care acque della natia Rovereto, l'adolescenza sua fervida di affetti, di alti pensieri, di pietà, la subitanea visione, in via della Terra, di un sublime [13] principio di scienza, e la casa, la dolce casa paterna dove bambino aveva cominciato ad amare prima ancora che a intendere: tutto questo egli rivide rapidamente nel suo patire sereno, e anche occulte battaglie, segrete glorie dell'anima, volte e raggianti verso l'altro mondo e che nessuno in questo conobbe mai. Come avrà egli giudicato allora la propria vita? Io penso che standovi dentro egli non ne abbia veduto l'aspetto di severa dignità e grandezza in cui apparve agli uomini, ma che ne abbia veduto con soddisfatta coscienza i fondamenti, la compagine, l'ordine sapiente, il lume centrale. Il lume centrale della vita di Rosmini è un lume di ragione. Tutta l'opera sua intellettuale, tutta l'opera sua morale, la sua carità, la sua fede risplendono di ragione. Egli ha glorificato la ragione umana. Non la oppose alla fede, ma dimostrò con essa che vi ha una prima fede naturale, anteriore a ogni religione, una fede necessaria per la quale uno crede senza prova possibile, una fede sulla quale la ragione sorge e sta. Non si appagò di descrivere questo nesso indestruttibile della ragione con la fede, ma lo visse. Il comune della gente suole opporre la ragione al cuore, e stima fredde le nature in cui la ragione è potente. L'anima di Rosmini, tutta ordine e misura, non fu più fredda che non lo sia [14] stata l'anima dove sorse, tutta ordine e misura, la concezione della Divina Commedia. Dante e Rosmini posero il principio della ragione umana fuori di lei. Allo stesso modo che l'occhio, nel primo aprirsi, è fatto veggente dalla luce, l'uomo è fatto intelligente, secondo Rosmini, da un raggio nel quale intende che le cose sono e ch'egli stesso è; lo intende e lo crede, senza dimostrazione possibile. Rosmini riconobbe la ragione propria da questo raggio, lo risalì con uno slancio di passione intellettuale, si convinse che gli veniva da un Infinito vivente e amò l'Infinito vivente con un sentimento di cui il sentimento filiale fu per esso pallida immagine. Lo amò in sè stesso, lo amò nelle cose a cui diede l'essere, lo amò nell'ordine che diede alle cose. Lo amò con quella sete di annientarsi che anche l'amore terrestre conosce quando è tanto forte da voler creare un Dio. E n'ebbe pure i ritorni di esigente passione. Afferrò una volta la penna e per la gioia di vedere le parole vive dell'anima sua scrisse: «Infinito, ti domando l'infinito.»

Però non fu mistico. La sua ragione imperiosa glielo vietò. Pregò, fece pregare mesi e mesi, più ore ogni giorno, per aver qualche segno della volontà Divina circa il luogo dove pose la prima sede del suo Istituto. Ecco, due amici suoi, senza [15] sapere l'uno dell'altro, vengono a dirgli che han pensato, Dio sa perchè, ad un colle presso Domodossola. Un mistico avrebbe detto senz'altro: «Il Signore mi vuole a Domodossola: andiamo.»

Invece Rosmini mandò a vedere, secondo ragione, se il luogo era adatto. Anche l'umiltà sua era secondo ragione. Sconfinatamente umile rispetto a Dio, non parlò mai con dispregio del proprio intelletto, divino dono, nè della opera propria. Non conobbe questa specie di superba umiltà. E sapendo che tutto il suo bene gli veniva da Dio, ebbe onesta coscienza della propria grandezza morale. L'uomo umile che in una sala d'albergo sorrise e tacque mentre un suo inferiore lo tacciava di vanità per una nappina troppo grossa, e, impugnate le forbici, gliel'assottigliava, fu in pari tempo magnanimo, parlò schietto a Pontefici e a Re, alzò la fronte e la voce per quello che a lui parve giusto, e contro accuse di errore scese risoluto in campo. La natura ne aveva fatto uno schermitore formidabile, pronto alla risposta quanto alla parata, un ragionatore acuto, duro e tagliente, un maestro d'ironia. Si represse a tutta forza. Appena gli sfuggì qualche lampeggiante puntata della quale certi amici di piccolo animo si dolevano con esso. Egli rispondeva umile, si faceva piccino ai piccini senza tuttavia [16] ceder loro un atomo solo del diritto e del dovere di difendere virilmente la verità. Lo zelo del vero lo accendeva e non lo accendeva l'amor proprio. All'amor proprio disordinato non permise una sola parola mai. Quando morì il professore Tarditi, fu trovato nelle sue carte certo scritto di pedagogia. Era di suo pugno e fu pubblicato per suo. In fatto egli aveva copiato un manoscritto del Rosmini tuttora inedito. Rosmini seppe e tacque. Certo gli parve disordinato amor proprio far valere sull'idea ragioni di proprietà personale. Gli bastò che, liberata, parlasse.

L'amore di Dio non gli assiderò gli altri. Tutti gli amori che sono nell'ordine della natura umana lo infuocarono. A nove anni, ancora come Dante, conobbe l'amore che ha più del terrestre e più del divino. Parve a Nicolò Tommasèo che di questo fatto, da lui asserito, permanesse nella mente dell'uomo grande un'orma profonda, un particolare dilatamento di visione. Represse il fuoco dell'amore, e se qualche minore ordine appare nella sua natura n'è causa, penso, la calcata fiamma che deviando dall'amore rapì l'animo di lui nelle fervide amicizie. Quanti amici ebbe e con quale passione li amò! Giovinetto ancora, medita un'associazione di amici spirituali per la gloria di Dio, ne fa un ideale, un [17] sogno. La gioia di sapere che uno sperato compagno del suo sogno sarebbe venuto ad abitare Rovereto è tale ch'egli ne scrive: «mi empie, mi ravviva, mi anima, mi affuoca.» Fatto uomo, non è men pronto all'affetto. A Milano, in casa del conte Mellerio, s'incontra con Loewenbruck, un prete francese pieno di fuoco e di zelo religioso, tuttavia disforme da lui, posta la comunanza di fede e di propositi, quanto è possibile. Il fuoco di Loewenbruck è fiamma scoperta che va fluttuando ad ogni vento; il fuoco di Rosmini è fiamma nascosta e ferma dentro un vaso di alabastro, fiamma che non si sdegna nelle forme sue ma che illumina. Quando Loewenbruck, dimentico di promesse date, non comparisce all'eremitaggio dove Rosmini lo aspetta, questi gli scrive e gli riscrive sino a sei volte senz'averne risposta; supplica, ripete come non altro desideri che stringere l'amico fra le sue braccia. A quanti gli domandano aiuto, consiglio, conforto, Rosmini si prodiga: e con quale ardore! Da 15 a 20 mila lettere esistono tuttavia di lui. Fin sul letto di morte, fra i dolori più crudeli, fra gli slanci della preghiera e le immagini del mistero imminente, amò i suoi amici. Quando Alessandro Manzoni entrava nella sua camera, gli occhi suoi raggiavano di luce immortale. «Manzoni sarà sempre [18] il mio caro Manzoni» gli sussurrò egli una volta «nel tempo e nell'eternità.» E gli afferrò, gli baciò ambe le mani. Manzoni si ritrasse quasi sgomento, si volse, con impeto umile, e baciò i piedi del santo amico. «Ella fa questo» disse il morente «perchè non ho più la forza d'impedirlo.» Poche ore ancora, e un silenzio solenne si fece nella camera, sul letto di Antonio Rosmini rimase la sua spoglia sola. Manzoni si alzò, afferrò un volume, la terza cantica della Divina Commedia, impresse forte la bocca sulle pagine eterne, baciò il suo Rosmini nel paradiso, si unì terzo, in quell'avido bacio, agli spiriti più grandi che Iddio abbia donato, pieni di Lui, all'Italia.

Dopo Dio e la Chiesa, Rosmini amò sopra ogni cosa la patria. Mentre Giuseppe Mazzini e pochi seguaci suoi congiuravano per un'idea che parve sogno ed era germe, Rosmini, solitario, sdegnoso di ogni via torta o coperta, pieno di fede nella potenza del pensiero, afflitto dalle dissensioni che travagliavano la patria sua discorde perchè divisa, e perchè divisa debole, infingarda, si proponeva di richiamarla all'unità intellettuale. Era in lui la passione di Petrarca e di Dante, la fiamma che balena, con rapida vicenda, dall'amore allo sdegno e dallo sdegno all'amore, come balena e si trasmuta dall'azzurro [19] al vermiglio, dal vermiglio all'azzurro la luce di certe stelle. Talvolta, parlando dell'Italia, neppure vuol proferirne il nome, la chiama «nazione dormiente.» Talvolta insulta la «vecchia fanciulla che va recitando lezioni apprese alle scuole altrui» e con rapido trapasso dall'insulto all'amoroso appello «sorgi,» le dice «tendi all'unità intellettiva che, se lo vuoi, non ti può esser contesa, e diverrà allora fortissima la tua sciagurata bellezza.» Combattendo la dottrina di errore imperante in Italia nel tempo di Gioia e di Romagnosi, il sensismo, egli aveva, senza dubbio, il supremo proposito di strappare a un antico sofisma la sua veste nuova, ma era pure suo proposito di allontanare gl'italiani da una filosofia che innalzando i sensi alla dignità di soli maestri del vero, riusciva a distruggere ogni fede nell'assoluta giustizia, in un ordine ideale delle cose collegato a principii immutabili e quindi nel diritto eterno alla indipendenza e alla libertà; da una filosofia tendente a diffondere la concezione materialistica e utilitaria dell'universo, a perpetuare il tristo sonno in cui giaceva la patria nostra quando, nell'ombra, il suo agitatore infaticabile al nome del popolo univa il nome di Dio e nella luce, Rosmini, ministro più grande di un ideale più intero, preparava la prima pietra del suo sistema, il [20] Saggio sulla origine delle idee. Ma Rosmini non credette aver soddisfatto con libri di metafisica il suo debito verso l'Italia. Allorchè gli parve esser venuto il momento di scendere dalle altezze vertiginose della speculazione filosofica per farsi maestro e consigliere alle moltitudini che udiva fremere nel basso, scese. Scese come Mosè con un tesoro di sapienza conquistato su cime nascoste al popolo da impenetrabili nubi. Parlò della Chiesa al clero cattolico, parlò dell'Italia agl'italiani. Il manoscritto Delle cinque piaghe della Chiesa, pronto da molti anni, fu consegnato al tipografo Veladini di Lugano nel 1847. L'opuscolo La costituzione secondo la giustizia sociale, con l'appendice sulla unità d'Italia, uscì nei primi mesi del 1848. Niente di più infuocato sgorgò mai dalla sua penna. Il fuoco che prevale nello scritto religioso è fuoco di sdegno. La tirannia dei governi che si atteggiavano a protettori della Chiesa cattolica per atterrirla, l'affliggente mediocrità dei vescovi, la ignoranza del basso clero, la separazione del popolo dai suoi pastori, la profonda indifferenza pubblica furon soggetto di pagine sfolgoranti a quest'uomo che passava ogni giorno più ore nella preghiera e nella meditazione religiosa, che si umiliava sino a ministrare ai suoi fratelli di religione quando pranzavano, [21] a usar la granata in loro servizio; che venerava la Santa Sede tanto da desiderar di cadere in qualche lieve errore per aver poi la gioia di sottomettersi. Io ho citato altrove una di tali pagine ma non posso a meno di rileggerla qui. È una invettiva contro i libri di teologia usati al suo tempo nei seminari: «libri dove tutto è povero e freddo: dove l'immensa verità non comparisce che sminuzzata, e in quella forma in che una menticina l'ha potuta abbracciare, e dove all'Autore, spossato nella fatica del partorirla, non è restato vigore d'imprimere al libro altro sentimento che quello del suo travaglio, altra vita che quella d'uno che sviene; libri a che il genere umano, uscito dagli anni della minorità fanciullesca, volge per sempre le spalle poichè non vi trova sè stesso nè i suoi pensieri nè i suoi affetti, e a cui tuttavia si condanna barbaramente e ostinatamente la gioventù che pur col senso naturale li ripudia, e che bene spesso per un bisogno di cangiarli in migliori cade nella seduzione di libri corrompitori o acquista un'avversione decisa agli studi o da lungo patir violenza nello stringimento delle scuole prende un odio occulto, profondo, che dura quanto la vita, contro i maestri, i superiori tutti, i libri e le verità stesse in quei libri contenute.» Voi avete udito, signori. Sono [22] parole di un Santo a cui fu cara la libertà della coscienza e della parola cristiana fuori dei confini del dogma, nel campo aperto alle opinioni, che nessuna tirannia di parte religiosa o politica ebbe nè può avere in suo arbitrio mai.

Qui è, in fondo, il segreto delle inimicizie mortali che nel seno stesso della Chiesa cattolica germinarono, covarono, insorsero, mal piegarono al comando di Pio IX, attesero con pazienza feroce il loro giorno e, quando venne, fecero di quest'uomo, de' suoi scritti, del clero a lui devoto, rabbiosamente, tutto lo strazio che poterono. Ciò fu attribuito alle fallite speranze di un Ordine religioso che ambiva contare Antonio Rosmini fra i suoi, al dispetto di quest'Ordine per il nuovo Istituto da lui fondato e per le dottrine morali difese nel Trattato della coscienza contro moralisti cari alla Compagnia. Queste spiegazioni bastavano forse un tempo; adesso le credo insufficienti. La causa vera, fondamentale, permanente dell'odio implacabile onde una parte della Chiesa persegue ciò che battezza, quasi con un nome di eresia, rosminianismo, è l'opera data senza tregua da questa parte a spogliare la coscienza e la parola cattolica delle loro legittime libertà, a fare della Chiesa una specie di grande monarchia dispotica e militare, tanto più potente [23] quanto più silenziosa; ed è la resistenza invitta ch'essa trova nello spirito di Rosmini tuttavia vivente nei suoi libri e nei suoi discepoli: vivente e immortale.

Nell'altro opuscolo prevale il fuoco dell'amore. Correvano i primi mesi del quarantotto ed era per tutta Italia una primavera delle anime, un calore nuovo di sentimenti fraterni, un rinverdire di speranze immense. Rosmini teneva nella sua scrivania, fin dal 1822, un progetto di costituzione. Lo riprese, ne fece un progetto di Statuto per il Santo Padre. Alcuni Cardinali amici suoi lo volevano a Roma. Il Papa non aveva parlato e Rosmini non si mosse da Stresa, mandò il progetto con una lettera e scongiurava che non si affrettasse nulla, che a nessun patto si prendesse una costituzione di tipo francese. Gli amici insistevano, gli dicevano che il Papa stava leggendo con soddisfazione le Cinque Piaghe, che lo vedrebbe volentieri. Ma il Papa taceva e Rosmini non si mosse.

Intanto gli avvenimenti mutavano faccia: il Papa, di bellicoso diventava pacifico, e tutta Italia ne fremeva. Rosmini ne fu atterrito. Divinò tosto, nella sua mente sovrana, che rifiutando di mover guerra all'Austria, Pio IX segnava la fine del potere temporale dei Papi. La guerra all'Austria era un dovere [24] del principe; se il Pontefice giudicava non poterlo compiere, il mondo avrebbe detto che gli uffici della signoria terrena non sono conciliabili con gli uffici della signoria spirituale. Ciò non piaceva a Rosmini. In politica Rosmini era insieme un idealista e un pratico. Il suo ideale fu l'unità della patria; il senso pratico gli rappresentò la difficoltà di stringere frettolosamente in un solo Stato popolazioni fatte disformi dalla storia più ancora che dalla natura e la difficoltà creata dal dominio temporale del Pontefice. Gli parve che al desiderio comune di una Italia libera e potente, alle condizioni del popolo italiano partito fra sei principi e una signoria straniera, alla dignità e allo splendore della Santa Sede si sarebbe provveduto bene istituendo una Lega italiana, affidandone al Pontefice la presidenza d'onore e il governo effettivo a una dieta sedente in Roma, composta per due terzi di rappresentanti del popolo e per un terzo di rappresentanti dei principi i quali, a cominciare dal Santo Padre, avrebbero promulgato costituzioni identiche. Sottoponendo il Santo Padre all'autorità suprema della dieta, Rosmini sperava ottenere da lui che almeno per la fede giurata al patto federale, quando la dieta avesse deliberato di romper guerra all'Austria, egli obbedisse.

[25]

La guerra all'Austria era il sogno di Rosmini. A fronte di privati offensori, Rosmini si ricordò sempre ch'era Ministro di un Dio di pace, e imparò il perdono da Lui che fu mite e umile di cuore. A fronte degli offensori della verità Rosmini sempre si ricordò di avere a maestro il Divino che sui farisei girò lo sguardo con ira e ai profanatori del tempio fu acerbo. A fronte di un governo che chiamò violatore della nazionalità, della giustizia, della moralità, della libertà naturale, Rosmini si ricordò sempre di servire il Dio degli eserciti. L'Austria era per lui la grande nemica della Chiesa e della patria. La protezione che il governo austriaco esercitava per fini tirannici sulla Chiesa gli parve oltraggiosa e odiosa come la protezione offerta da don Rodrigo a Lucia. Rispetto e libertà, non protezione, voleva egli per la sua Chiesa. Indipendenza e libertà voleva per la sua patria. Poichè solo si potevano ottenere in giusta guerra, Rosmini la predicò, e poichè con l'Austria non potevano gl'italiani misurarsi se non uniti, predicò ai principi e ai popoli d'Italia l'unità, minacciò di rovina coloro che rendessero l'unità impossibile.

Non valendo a persuadere il Pontefice renitente alla guerra, Rosmini concepì un vasto disegno nell'intento di liberare la Lombardia e il Veneto senza [26] guerra. Da grande uomo di Stato egli aveva letto nel libro del destino la futura unità germanica. Previde che si sarebbe compiuta a benefizio di un principe protestante. Questo era un pericolo per la Chiesa. Consigliò che il Santo Padre appoggiasse con tutte le sue forze le aspirazioni unitarie del popolo tedesco e la risurrezione del trono imperiale tedesco dentro la reggia di Casa d'Austria per ottenere da questa, in compenso, l'abbandono delle sue provincie italiane. Il trionfo del gran disegno avrebbe soddisfatto due popoli e raffermato il potere vacillante del Pontefice. Ma fortunatamente queste ultime parole non erano scritte nel libro del destino. Pio IX non aveva Ministri atti a concepire divisamenti così grandi nè a eseguirli; e non chiamò Rosmini. Lo chiamò invece, in un'ora dolorosa, dopo i disastri delle armi piemontesi, il governo di Re Carlo Alberto.

Rosmini, posposta ogni cura del corpo malato e stanco, posposte le antiche consuetudini di vita nascosta e di studio, corse a Torino, conferì con i Ministri che lo volevano negoziatore in Roma di una Lega per la guerra, chiese un mandato più largo, ne segnò i confini con ferma parola. Si accese una discussione. Vi era nella sala, fra i consiglieri del Re, il più grande e fiero antagonista del Roveretano, [27] l'uomo che gli aveva scagliato non meno di tre grossi volumi col titolo: Errori filosofici di Antonio Rosmini e contro il quale Rosmini aveva scritto: Vincenzo Gioberti e il Panteismo. In tutta Italia e anche oltre le Alpi, durante il papato di Gregorio XVI, grande amico e protettore di Rosmini, era corso il suono di questo conflitto fra i due più potenti ingegni che tenessero allora il campo nelle regioni superiori del pensiero; conflitto fatto più acerbo dall'accanimento dei discepoli; tanto acerbo, che si disse Papa Gregorio essere intervenuto a reprimere il soverchio ardore di un dignitario della Chiesa avverso al Rosmini. Il momento era solenne, e quel che accadde fu bello. Quando Rosmini rifiutò il mandato ristretto ad un'alleanza offensiva con Roma e chiese tranquillamente poter trattare di tutto che riputasse utile all'Italia e alla Chiesa, i ministri sbigottirono. Com'era possibile abbandonarsi a tal segno nelle mani dell'abate? Allora Vincenzo Gioberti parlò. «Ascoltate Rosmini,» diss'egli «fate come Rosmini vuole.» Momento epico, parole in cui si sente con un brivido la grandezza di quei due uomini, la grandezza pure della patria cui tutto donavano, la grandezza di Dio che li riempiva, nel sacrificio, di sè. Rosmini uscì della sala per andar incontro a giorni terribili e amari, [28] all'insuccesso della sua missione e de' suoi consigli, ai tumulti del popolo di Roma, alla fuga del Pontefice, alle persecuzioni borboniche, Gioberti ne uscì incontro a un destino più atroce, ad accuse di tradimento, a una caduta clamorosa, alla morte in un paese straniero. Io li vedo attraversar frettolosi, dopo la seduta, piazza Castello, passare accanto al Palazzo Madama, Certo nè l'uno nè l'altro potè immaginare che per effetto di luttuosi avvenimenti cui l'uno e l'altro avrebbe preso parte, bene salito un giovine principe sul trono del padre, male ricondotto un vecchio principe sul suo proprio, risorte le prostrate speranze della patria, meno di tredici anni dopo si sarebbero veduti uscire insieme da quel palazzo, raggianti, proclamato appena re d'Italia il figlio di Carlo Alberto, due vecchi amici di Rosmini, Camillo di Cavour e Alessandro Manzoni.

***

Signori, io mi sono studiato di rappresentarvi la figura morale di Antonio Rosmini e ora mi pento di avere spese troppe parole a dire l'inesprimibile. Misero artefice di periodi, mi umilio davanti a un vecchio analfabeta che servì Rosmini e cui domandai [29] in Rovereto che mi descrivesse il suo venerato don Antonio. «Ecco» mi rispose «quando io qui per casa lo incontravo, anche senza ch'egli parlasse, solo a guardarlo, era una predica.» Altro non mi disse, altro non gli chiesi. Poco prima, la baronessa Adelaide Rosmini mi aveva mostrato in un cortiletto la finestra dov'ella nascosta dietro un cortinaggio, soleva guardar nella camera del cognato, spiare il volto di lui orante. «Una cosa di Paradiso» mi disse la vecchia signora. Aggiungete a questi silenzi certe brevissime parole che ora vi ripeterò. Nel 1848, essendo Rosmini in Roma, appena si seppe che il Papa lo voleva Cardinale, disegno troncato poi dal coltello che uccise Rossi, un altro suo vecchio fidatissimo servitore, uomo semplice fra i semplici, andò diritto dal Papa. «Santo Padre,» gli disse «non vogliate far cardinale il mio padrone che non è nato per questo.» Compiuta la bella impresa, si presentò subito a Rosmini. «Signor padrone, sono stato dal Papa e gli ho detto di non far lei Cardinale, perchè lei non ci è nato.» «Avete ragione» rispose Rosmini, sorridendo «ma non mi pare che toccasse proprio a voi di andarlo a dire al Papa.» Aggiungete finalmente le tre parole ch'egli rispose, sul letto di morte, a Manzoni singhiozzante: «che faremo noi [30] senza di lei?» «Adorare, tacere, godere.» Voi ne sapete ora di questo spirito soave, umile, fine, profondo, più che non ve ne possano apprendere volumi di panegirici.

La santità sua fu radice e misura dell'altezza intellettuale ch'egli raggiunse. Vide la verità con il cuore puro prima di vederla con il genio. Questo fu straordinario. La nutrice di Rosmini giudicò ch'egli avesse a diventare un gran santo, perchè lo vide sorridere al momento del lavacro battesimale. Chi l'udì chiedere a due anni perchè mai l'improvviso bagliore di un lume oltre ad accecarlo gli facesse provare una scossa interna, avrebbe potuto divinare il grande filosofo. Conviene risalire ai Padri della Chiesa per incontrare altre nature umane così magnificamente ordinate nella trina unità dell'intendere, dell'amare, del volere. Il cuore di Rosmini è illuminato di ragione, il suo genio è illuminato di amore. Egli è avido di tutto il vero e tutto lo intende. Si profonda nell'algebra, è capace di pensare, viaggiando, un metodo nuovo per sciogliere le equazioni di secondo grado. Si profonda nella fisiologia, e i suoi compagni di Università lo antepongono al professore. Conosce l'ebraico, legge speditamente i papiri greci di Ercolano, intende il tedesco di Hegel. Porta senza parere una erudizione immensa. [31] Nella filosofia del diritto cita 450 opere e non è uomo da citare di seconda mano. Non sdegna di leggere romanzi nè di studiare i fenomeni dell'ipnotismo. Indaga la natura divina, profunda Dei, con la potenza che si può vedere nella Teosofia: scruta profunda hominis, le regioni più oscure della natura umana, con l'acume che si può vedere nel Trattato della Coscienza. È insieme artista e poeta. Adora la pittura, afferma che se avesse più vite ne darebbe una intera ai pennelli. È poeta per il fuoco del sentimento, per il fervore dell'immaginazione. Nel verseggiare è minore di sè stesso; nell'illuminare la prosa d'immagini e di similitudini è uguale a sè stesso; nel creare sui confini della scienza umana ipotesi da gettar nell'ignoto, è maggior di sè. La sua concezione dell'universo fu concezione di credente, di filosofo e di grande poeta. Gli piacque credere nella generazione spontanea per dedurne che ogni atomo di materia è animato dall'origine, che la vita esiste già nella polvere prima di manifestarsi in un organismo. Tutto l'universo era per lui vivente, ma creato. Si figurava l'atomo in una forma piramidale che permette al principio animatore d'imprimergli un moto vorticoso. Al principio spirituale animatore attribuì la potenza di organizzare la materia, dottrina che [32] trova un appoggio nei fatti ipnotici, nell'azione straordinaria che durante lo stato ipnotico un atto dello spirito esercita sull'organismo. Dieci anni prima che uscisse il libro di Darwin sull'origine delle specie ardì accennare all'ipotesi di un corpo animale fatto uomo invece della famosa statua di fango. Anche divinò, senza esperienze, i fenomeni telepatici. «Io sospetto» scrisse nella Psicologia «che nell'amicizia e nell'amore le anime stesse si sentano, le anime stesse esercitino scambievolmente qualche loro azione misteriosa.»

L'opera sua filosofica intera, tanto profonda nelle fondamenta, tanto solida nella struttura, tanto irradiata da intimi fulgori di sentimento e di fantasia, è veramente un poema sacro, in capo al quale si avrebbero a iscrivere le parole del suo autore ad Alessandro Manzoni: «Ciò ch'è divino e che luce nel seno del mistero è come il comune alimento pel quale il poeta e il filosofo vivono immortali.» Mi è impossibile, signori, esporvi il disegno di questo edificio che si chiama Sistema della Verità, e che Rosmini promise, sorridendo, di compiere in paradiso. Mi è altrettanto impossibile tralasciar d'indicarvene la pietra angolare. Malgrado la santità e il genio di Rosmini, malgrado le opere sue, la istituzione di un Ordine religioso, i servigi resi all'Italia, i suoi discepoli [33] non avrebbero affrontato battaglie, umiliazioni e dolori: noi non ci saremmo raccolti in suo onore a Rovereto, nè io parlerei ora di lui per la terza volta se si trattasse della fama d'un uomo, dell'onore di una tomba e non della gloria di una verità. La pietra angolare del sistema filosofico di Rosmini è la dimostrazione che l'idea dell'Essere è il principio della intelligenza. L'idea dell'Essere, mediante la quale l'uomo può giudicare che le cose hanno la qualità di essere, ossia che sono, è il lume della ragione. È un lume implicito nel primo giudizio che l'uomo proferisce, quindi precede la prima sensazione di cui il soggetto ha coscienza, è anteriore alla intelligenza umana perchè la crea. L'Essere non è altro che la verità. La verità è dunque anteriore alla intelligenza umana perchè la crea. Appunto questo è il beneficio immenso che ci ha fatto Rosmini. Ha dato a tutti noi la visione razionale dell'Essere assoluto ossia la certezza razionale che vi è una verità infinita ed eterna, indipendente dall'uomo, origine della ragione umana; che le verità parziali, apprese dalla ragione umana nel lume del primo vero, non sono quindi proiezioni di lei, non peccano per un vizio radicale, insanabile, di relatività, ma sono certe in noi e fuori di noi. Questa è una grande forza che Rosmini ci ha dato contro lo scetticismo e le [34] sue conseguenze. Il nostro dovere è di usarne, e urge, nell'ora presente, che noi ne usiamo perchè nell'ora presente la gente si burla dei filosofi, è vero, ma nello stesso tempo gli uomini e anche le donne fanno più che mai della filosofia per conto proprio. Ne fanno con pochissimo studio, con pochissimo sapere, e la maggior parte di queste filosofie private, nè solide, nè serie, riesce a base di scetticismo, il quale, nascosto o palese, si ripercote poi sulle energìe vitali e le abbassa. L'ora presente somiglia all'ora passata di quel sensismo contro il quale Rosmini insorse. La dottrina ch'eleva i sensi a soli maestri del vero ed esclude quindi l'assoluto, è alquanto scossa in teoria, ma il suo potere è tuttavia grande nel campo della politica dove si manifesta come opportunismo e regge la condotta di tutti i partiti con l'expedit e il non expedit; è grande nel campo del diritto penale, dove sostituisce il concetto di difesa al concetto di giustizia; è grande nel campo della scienza, dove nega il soprasensibile; è grande nel campo dell'arte, dove consacra i sensi a soli maestri della bellezza. Tutte queste manifestazioni di una dottrina di errore, noi, discepoli di Rosmini, siamo chiamati a combattere, ciascuno nel proprio campo e Rosmini non ci ha dato solamente un terreno fermo sul quale far testa, ci ha pure dato [35] norme sicure per l'azione. Mettere in opera la verità: ecco la formola della morale rosminiana; dovunque e sempre corrispondere con l'azione alla verità: ecco la legge che noi dobbiamo proporci di seguire come uomini di scienza e come uomini di azione, come pensatori e come artisti. Operare la verità, per un artista, non è altro che conoscere con la mente la natura dell'arte e riconoscerla con l'opera. In questo concetto rosminiano, io, come artista, mi sono sentito libero dispositore della bellezza che appare ai sensi nella luce del sole e anche in certo modo negativo, nell'ombra; della bellezza che appare alla ragione nella luce del vero e del bene, e anche, in un certo modo negativo, nell'assenza di essi: della bellezza ch'è nella stessa anima mia come specchio della bellezza esterna, come idea, come fantasma, come amore. E se la visione delle cose belle conduce per via di ragionamento il discepolo di Rosmini a credere in un Essere vivente ch'è bellezza e dal quale ogni bellezza discende, il poeta perviene di slancio a tal fede nel palpito che l'oscuro tocco di questo Essere vivente gli suscita in cuore, come Shelley, rapito amante, cantò.

[36]

***

Signori! Io chiudevo pochi mesi addietro un mio breve studio su Antonio Rosmini esprimendo il voto che per opera di qualche ricco munifico o di qualche gruppo di uomini devoti alle dottrine del Roveretano sorgesse in Italia una cattedra di filosofia rosminiana. Permettetemi di ripetere questo voto davanti a voi. Uscendo dalla cripta del tempio di Stresa dove dorme la spoglia mortale dell'uomo che tanto vide e tanto amò, che tanta gloria diede alla Chiesa ed ebbe da infelici ministri di lei tanto dolore, pensavo a profetiche parole sue piene di fede nel trionfo del suo sistema: «Conviene che io muoia e marcisca sotterra. Allora sarà il tempo.» E pensavo quanto è da invocare nello stato presente d'Italia che quest'ora suoni. A minor prezzo che non si sarebbe sperato quando in faccia al golfo poetico dove Stresa siede tendevan la gola da Laveno i cannoni austriaci, l'unità politica della nazione si ottenne. Ma l'unità intellettuale che Rosmini, severo e acceso, ammoniva dover precedere l'altra, è più che mai desiderio e sogno. Unità intellettuale perfetta neppure si spera, neppure è compatibile [37] con le condizioni della civiltà presente; tuttavia i dissidii che più fiaccano la mole malferma del nostro Stato e più turbano le anime potrebbero felicemente comporsi secondo principii di libertà e di verità, se un largo consenso avvenisse nelle dottrine di quell'uomo grande. Lavoriamo a creare un tale consenso e possano, nel 1955, per il centenario della sua morte, i nipoti nostri ascendere alla tomba di Stresa, là dove più ride Italia, dire ginocchioni a Rosmini che finalmente la sua patria cara non è soltanto una, felice, forte di leggi e di armi, ma è anche una nel concetto del diritto e del dovere, nell'intelletto e nella pratica della libertà.

[39]

ALESSANDRO MANZONI

CONFERENZA
DI
ENRICO PANZACCHI.

[41]

Signore e Signori!

I.

Qualcuno di voi forse ricorda che l'anno passato, nella conferenza che ebbi l'onore di tenere in questo stesso luogo, rilevai, a proposito di Alessandro Manzoni, la opinione mia intorno al romanticismo, considerato nel periodo in cui aveva raggiunto il suo momento più operoso, tanto fra noi quanto in Europa.

Eravamo nel 1821, e Manzoni scriveva al Conte Cesare D'Azeglio: «Per me il romanticismo ha compiuto la sua vicenda, e ormai sarebbe un bene che non se ne parlasse più, e non mi dorrei se anche il nome andasse in dimenticanza.» E invero, ciò che egli poteva fare l'aveva già fatto: soppressione delle così dette unità aristoteliche nel dramma, bando alle mitologie gentilesche, bando alla troppo servile e pedissequa imitazione degli autori classici; predilezione [42] ormai consacrata per argomenti d'indole nazionale e per quelli che attengono all'intimità dello spirito. Erano notevoli inoltre nella conquista del romanticismo certi atteggiamenti di forma, e una spiccata predilezione di tutto ciò che aveva un po' del vago e del fantastico. Ma, soggiungeva poi il Manzoni, io credo che oltre tutto ciò bisogni indagare un carattere più intimo e più profondo che è nel moto detto romanticismo, qualche cosa che sopravviverà a lui anche quando esso rimanga un nome vano nella storia letteraria e che gli permette fin d'ora di guardare l'avvenire come suo. Consiste questo in un più grande ravvicinamento dello spirito alla natura per mezzo dell'osservazione diretta, dello studio intenso, dell'ispirazione spontanea e geniale.

A questa massima il Manzoni ha informato tutta la sua opera. Appena che egli esce di puerizia, e abbandona gl'imparaticci classici e le servili imitazioni del Monti o del Parini, fin dai versi in morte di Carlo Imbonati, scritti come sapete nel 1805, egli dà all'arte una base intima, psicologica: «Sentire e meditare.» Poi vengono gl'Inni, poi le Tragedie, dove si comprende subito che l'unità di luogo e di tempo non è rimossa a semplice pompa di emancipazione: non sono dei vincoli di meno che il poeta domanda, sono limiti più alti, per improntare tipi [43] schiettamente umani e raccogliere nel dramma il quadro di un'epoca.

Da ultimo viene il romanzo, il quale fu cominciato a meditare dal Manzoni nel 1821, data per tanti rispetti memorabile nella vita del nostro poeta, perchè proprio in quell'anno sprigiona l'inno patriottico del Ventuno, perchè in quell'anno egli inalza all'urna di Napoleone un canto che non morrà. Nel 1821, il Manzoni comincia a ruminare la prima idea, a porre le prime linee del suo grande lavoro, che sarà terminato all'incirca nel 1826. Ed è nel romanzo, o Signori, che noi troviamo la conferma e la illustrazione piena di quel profondo concetto che egli aveva dell'arte e della letteratura; è nel romanzo che mostrò tutta intera la originalità dell'artista, perchè se nella lirica egli si schiude vie nuove come idee e come sentimento, quanto alla forma letteraria (i critici arguti e acuti non hanno mancato di rilevarlo) noi troviamo sempre qualche cosa di composito, di ondeggiante, di ambiguo tra il vecchio e il nuovo. Nel romanzo invece, pare di entrare in un'altra atmosfera; è la modernità e nel tempo stesso la personalità dell'ingegno e del criterio artistico del Manzoni, che si rivelano in tutta la loro potenza e in tutto il loro splendore. Se, come nota giustamente Gaetano Trezza, nelle altre opere [44] il Manzoni procede alla testa del movimento letterario contemporaneo, col romanzo egli precorre di lungo tratto i suoi tempi. Non è più un'evoluzione, o Signori, è un salto fenomenico, che a considerarlo ora a tanta distanza di tempo, ed a compararlo colle vicende successive della letteratura, e specialmente della letteratura narrativa, pare senz'altro un miracolo.

Gaetano Negri, nella bella conferenza che tenne sul Manzoni a Lecco, ha detto: «Se verista vuol dire un poeta amante di verità, se naturalista vuol dire un artista che s'ispira direttamente alla natura e mutua e trae da lei tutte le sue ispirazioni, senza porre nessun diaframma d'impedimento e di perturbazione tra il fatto organico e vivente, e la sua ingenua ed energica significazione; se verista e naturalista vogliono dire queste cose, nessuno è stato verista e naturalista prima di Alessandro Manzoni.» E il Negri ha detto il vero. Avanti che cominciasse Balzac, dieci anni prima che nascesse Gustavo Flaubert, venti anni prima che nascesse Emilio Zola, Alessandro Manzoni in Italia poneva senza pompa di formule, senza esagerazione di sistema le grandi basi della letteratura e dell'arte moderna. E abbiatene una riprova in questo: quando apparvero i Promessi Sposi non ebbero subito quell'accoglienza [45] trionfale che altri riscosse meritamente, per esempio l'Ivanhoe di Walter Scott. L'Ivanhoe veniva dopo molti altri romanzi che avevano procacciato gran fama al narratore scozzese, e tutto quel trasporto del pubblico facilmente si comprende. Non furono le ultime copie della prima edizione dei Promessi Sposi rubate e disputate colla spada come quelle del Gil-Blas: ma nella coscienza degli uomini più illuminati di quel tempo indusse un'impressione profonda. Il Visconte di Chateaubriand che pure era l'autore dell'Atala e dei Martiri disse: « Walter Scott è grande, ma Alessandro Manzoni è qualche cosa di più.» Wolfango Goethe che allora pontificava nella pienezza degli anni e della gloria, dal suo trono di Weimar su tutto quanto si produceva in Europa, disse, letto il romanzo e pure trovandolo censurabile per certi squilibri che vi aveva introdotto il troppo amore della scrupolosa narrazione storica, disse che rappresentava qualche cosa di meglio di quanto si era scritto fino ai suoi giorni in fatto di romanzi. E soprattutto notevole o Signori, è l'opinione di un filosofo dal quale si può dissentire, ma che tutti riconoscono come uno dei fondatori della scienza moderna, anzi come colui che ha dato nome a ciò che la scienza moderna inalbera a mo' di vessillo glorioso, il rigore della osservazione [46] naturale. Augusto Comte, l'autore della «Filosofia positiva» nel sesto volume delle sue opere, seguendo il suo magistrale concetto delle tre epoche, dice: «Noi siamo entrati nell'epoca positiva, nell'epoca dell'esame diretto e spassionato dei fatti, ma ci siamo entrati solamente col pensiero scientifico. Tutte le discipline collaterali secondano lentamente questo moto; per esempio, le discipline sperimentali sono entrate nel periodo positivo, ma la letteratura di tutti i popoli d'Europa è ancora improntata, è ancora intonata, per così dire, alla vecchia scuola del periodo mistico, metafisico.» Il Comte fa pochissime eccezioni, cita pochissimi libri, e, notate, nessun libro francese; ma conclude la sua breve enumerazione ricordando come ultimo libro uscito i Promessi Sposi e giudicandolo un libro sintomatico, un libro di significazione universale, un libro di cui i contemporanei non possono ancora apprezzare tutto il valore, ma che rappresenta proprio l'avvento della osservazione, il contatto immediato, sincero e genuino dell'artista con la natura; inizia insomma, letterariamente, quel terzo periodo che egli considera come il termine della evoluzione psicologica e intellettuale della civiltà europea.

Dopo sì luminose testimonianze, voi capirete, o Signori, che si rende sempre più arduo per me, il [47] parlarvi non del tutto indegnamente di questo libro, anche se si tenga conto del breve tempo che mi si è conceduto. Vi contenterete dunque, che io tocchi come di volo l'argomento, soffermandomi qua e là nei punti che per avventura creda più caratteristici e più adatti alla vostra attenzione. Che cos'è questo romanzo? Una storia molto comune. Un giorno il Manzoni, raccontano, leggendo certe gride e certi bandi del governo di Lombardia nel secolo XVI, contro i bravi e contro i vagabondi, vide che fra tante altre cose a cui era comminata una pena c'era l'impedimento al matrimonio. Allora cominciò fra sè a fantasticare: qui si potrebbe trarre fuori un racconto. E tanto s'invaghisce di quest'idea, che lascia da parte una tragedia d'argomento classico, lo Spartaco, dove voleva effondere tutto il suo amore di libertà, tutte le sante ribellioni del civismo contro le tirannie, le oppressioni d'ogni genere che allora gravitavano sull'Italia, e si mette a pensare questo romanzo. Ma sceglie un soggetto molto umile. Due poveri contadini lombardi si amano, vogliono sposarsi; ma in quel paese così ben governato dagli spagnuoli c'è un signorotto a cui piace la contadina e vorrebbe farla sua. Incarica i suoi bravi di intimidire il curato, e il curato si ricusa al matrimonio. E qui le peripezie senza fine.

[48]

Secondo il primo concetto pare che il romanzo dovesse finire molto asceticamente. Lucia nella notte del terrore passata nel castello dell'Innominato, consacra la sua verginità alla Madonna; contro quest'ostacolo non vi è riparo. Il romanzo finisce. Lucia entra in un convento; ed il povero Renzo porta il suo dolore nella lontana Alemagna, essendosi arruolato per disperazione in una delle tante bande di lanzi, che scorazzavano l'Italia. Per fortuna dicono che monsignor Tosi, il quale aveva il governo allora della coscienza molto pia e molto timorata del Manzoni, allontanò un poco il suo rigore. Allora il romanziere indulse alla ragione estetica più liberamente, e venne fuori dalle sue fantasie l'intelaiatura del romanzo, come fortunatamente l'abbiano ora sotto gli occhi.

II.

Il romanzo si divide in tre periodi, e comprende due anni: dal 1628 al 1630. Comincia la sera del 7 novembre 1628 colla passeggiata di Don Abbondio.

Ma avanti ch'io prosegua, permettetemi, o Signore, una domanda: avete mai letto i Promessi Sposi?... Non intendo di offendervi con questa domanda. Voi sapete che un giovane di molto ingegno [49] e del quale avete ammirato in questa sala la cultura e l'eloquenza, qualche settimana fa ingenuamente confessava al pubblico, scrivendo un bellissimo articolo, che era arrivato alla virilità senza aver letto i Promessi Sposi. Quindi io, parlando, dovrò tener conto di due ipotesi, di quella parte del mio pubblico cortese che ha letto i Promessi Sposi e di quella parte che per caso non li avesse letti. Se non li aveste letti, io vi consiglio a leggerli; e prevedo allora che li rileggerete, perchè intorno ai Promessi Sposi del Manzoni si può dire quello che dicono gli spagnuoli del Don Chisciotte del Cervantes: che si può non leggerlo, ma una volta letto bisogna leggerlo una seconda volta. Il racconto dunque comincia colla passeggiata di Don Abbondio, in quel vespro memorabile del 7 novembre 1628, e la prima parte va fino alla fuga di Lucia a Milano. Qui si chiude il primo periodo. Poi viene la seconda parte che è tutta occupata dai grandi avvenimenti della guerra per la successione di Mantova, la peste e via discorrendo. Questa la parte incriminata dal Goethe il quale scriveva al Cousin e diceva all'Eckermann: «Peccato che il Manzoni si sia abbandonato troppo alla compiacenza di narrare questi fatti! Egli mi ha l'aria di un uomo che esamina nella luce, poi ad un tratto entra in un pezzo d'ombra. Ma a [50] breve andare egli percorre questo tratto d'ombra e risale e riesce nella luce gloriosa.» Finalmente la terza parte va dalla morte di Don Rodrigo, oppure dal rinvenimento che il povero Renzo fa di Lucia in mezzo agli orrori del Lazzeretto, e si protrae fino al matrimonio dei due fidanzati che si compie alla fine «in quel benedetto giorno» là proprio in quella chiesa e per opera proprio di quel prete Don Abbondio, che per i suoi codardi timori era stato origine di tutti quegl'incidenti e di tutti quei dolori.

III.

Qual è il gran merito di questo romanzo? Perchè ed in che questi Promessi Sposi rappresentano quell'atmosfera nuova che Augusto Comte riconosceva in essi, e per quali titoli iniziano un'epoca letteraria? Perchè tanti ingegni di prim'ordine non hanno dubitato di considerare i Promessi Sposi come una grande pietra miliaria nella storia dello svolgimento del pensiero artistico e letterario non soltanto italiano ma di tutti i paesi civili? Vi sono certi maestri di scuola ai quali pare di aver detto tutto quando hanno detto: i Promessi Sposi sono un gran bel libro perchè sono un quadro storico, vivo e veridico [51] delle condizioni d'Italia e specialmente della Lombardia sotto l'ampolloso, fiacco e depravato governo di Spagna. Ebbene, io protesto con tutta l'anima contro questa maniera di giudizio: con giudizi di questo genere (e se ne emettono tanti ogni giorno!) si sposta completamente la questione, si turbano, si sconvolgono le categorie. Dei quadri storici veridici e completi ve ne sono molti in tutte le letterature che valgono i Promessi Sposi. Ha un bellissimo quadro storico, per esempio, delle condizioni d'Italia alla morte di Lorenzo De' Medici, il Guicciardini. Il libro della conquista normanna di Giacomo Thierry, alcuni periodi di storia inglese del Macaulay, certe pagine sfolgoranti di Tommaso Carlyle che vi mettono sotto occhio la rivoluzione francese, sono bellissimi quadri storici, che, per tale rispetto? valgono meglio di qualunque romanzo. Ma il romanzo dei Promessi Sposi, è un'altra cosa. Quando siamo nel campo dell'arte, l'elemento tecnico, l'elemento scientifico sarà, se volete, il fondamento di tutto quest'organismo vivente e palpitante, ma la sua forza vera, quella per cui si differenzia e costituisce una categoria a sè, consiste in una somma speciale di valori estetici ai quali aderisce la ragione, ai quali aderisce la fantasia ammirando gaudiosamente, ai quali aderisce il cuore umano sorridendo [52] piacevolmente. I Promessi Sposi sono una grande opera d'arte per tutto questo complesso di elementi, raccolti in magistrale unità. Dato il prestigio magico che nessuna mente umana saprà mai definire; data, insomma, l'abilità dell'artista e dello scrittore, quello che era soltanto quadro storico si converte davanti a noi in un quadro ideale che ci tocca, che ci commuove, che ci diverte, che ci esalta; e questo quadro ideale non arriverete mai ad equipararlo con la scienza. S'intende che anche la storia può essere benissimo un'opera d'arte; ma la storia che qui concorre a formare il romanzo non è essa che forma l'opera d'arte. Ed io non dubito di affermare, o Signore, che il romanzo dei Promessi Sposi potrebbe essere molto meno storico ed anche più bello di quello che è; come potrebbe essere molto meno bello ed essere anche più storico.

Certe confusioni sarebbe ora di bandirle per sempre. Anzi, dacchè abbiamo toccato questo tasto, fermiamoci un momento. Se c'è qualche cosa che si possa censurare nella macchina dei Promessi Sposi è appunto un certo squilibrio e un certo soverchiare dell'elemento storico. Fu questo il portato dello spirito un po' meticoloso del Manzoni, perchè il gran lombardo che ricordava tutti i placiti dell'antichità, qualche volta si dimenticava di [53] un detto sapientissimo: cave a consequentiariis. Una volta che egli aveva preso in mano un argomento, una volta che colla sua testa così sottile e così tormentatrice di sè stessa arrivava a porre certe basi e certe premesse, egli non si contentava di andare fino all'ultimissima conseguenza, ma passava il segno. Sapete in fatto quello che gli accadde? Un bel giorno dopo aver ruminato entro di sè tutte le ragioni pro e contro sul come fondere insieme l'elemento storico e l'elemento fantastico ed inventivo, sapete come concluse il Manzoni? Concluse che si credette in obbligo di sacrificare il suo capolavoro e quasi si pentì di averlo scritto! Dunque tutta quella esattezza storica nella quale i pedanti hanno voluto trovare il maggior pregio dei Promessi Sposi non è nè l'unico nè il principale fondamento della nostra ammirazione. Qui invece troviamo un legittimo appiglio alla nostra critica.

Oh! no, Signore, il principio inesauribile della nostra ammirazione è nelle qualità essenzialmente estetiche che Alessandro Manzoni ha profuso nelle pagine del suo romanzo: lo troviamo in quel quadro ideale al quale ho accennato più sopra. Qui egli è veramente grande, perchè tocca le parti più nobili, più delicate, più spirituali dell'animo nostro.

[54]

IV.

Numeriamone alcune: per esempio l'ironia e l'umorismo: quale grande ironista il Manzoni, quale umorista incomparabile!

Carlo Cattaneo lasciò scritto che forse nessuno scrittore aveva mai saputo fondere in un amplesso la musa della satira e la musa della pietà. L'irenismo e l'umorismo del Manzoni sorvola su quello di tanti altri scrittori, perchè, dato il suo sorriso e talvolta anche dato il suo sogghigno, che potrebbe parere crudele, noi sempre vi sentiamo palpitare una profonda pietà umana, che investe l'animo dell'artista e che lo fa pietoso di quei dolori, di quei difetti e di quelle miserie che egli ha fatto segno alla sua ironia e alla sua satira.

L'ironia manzoniana consiste quasi sempre nel fare intravedere, senza formalmente indicarlo, il contrasto che è tra l'apparenza e la sostanza delle cose, tra i nomi e i fatti. Prendete un esempio: alle prime pagine del romanzo il povero Don Abbondio, incontra i due bravi che gli fanno quella tale minaccia. Chi sono questi bravi? I bravi erano dei malviventi, o sfaccendati o di proposito birboni, che [55] si mettevano allo stipendio di qualche signorotto, vendevano la loro pelle e si facevano ministri delle loro prepotenze e dei loro soprusi. Ma come mai in una società civile e governata da leggi potevano esistere dei bravi? Oh la società civile aveva provveduto perchè bravi non ci fossero!... E qui il Manzoni comincia una narrazione la quale, all'apparenza, somiglia un brano arido di memoria erudita. Sì: le società, il governo provvedevano, avevano anzi provvisto da un pezzo. Difatti fino dal 1582 (vedete bene che le cose vanno indietro e che il male dura da molto tempo) l'illustrissimo ed eccellentissimo signor Duca Don Carlo d'Aragona, Principe di Castel Vetrano, Duca di Terranuova, ecc., vieta (qui l'autore legge la grida) nel modo più assoluto il mestiere di bravo, stigmatizzandolo e minacciandolo delle più grandi pene affinchè la mala pianta sia subito estirpata. Ma, prosegue sempre in vena di umile cronista il Manzoni, pare che questa grida non producesse tutti gli effetti desiderabili, perchè appena sei mesi dopo ecco che vien fuori un'altra grida.... pene anche più gravi con nomi anche più rimbombanti, con minacce. Ah, questa volta poi i bravi saranno stati estirpati.... Ma nossignori!... Passano uno dopo l'altro governatori intestandosi sempre con quella filza di nomi gentilizi, [56] ripetono sempre le medesime minaccie ognuna delle quali pare che debba indubitatamente estirpare la genìa dei bravi.... ma poi, conclude il Manzoni, pare che dei bravi ce ne fossero ancora, perchè Don Abbondio viene fermato da due di questi.

L'ironia del Manzoni è fatta appunto di questa bonomia, la quale penetra a fondo e ricerca le più intime facoltà dell'essere nostro per modo che non solo la ragione ma anche il sentimento si mette dalla parte dell'ironista; e questo ironista ci sentiamo obbligati ad amarlo. Anzi vi dirò di più; quest'ironia continua, onde il Manzoni persegue tutte le fasi del suo racconto, produce un curioso effetto nella immaginazione di noi lettori, ed è che il vero protagonista del romanzo non è Renzo, non la buona Lucia, non fra Cristoforo, non l'Innominato, non il Conte Zio, non Federigo. Il vero protagonista dei Promessi Sposi è lo stesso Manzoni, il quale è sempre lì colla sua faccia bonaria e arguta ad effondere la sua ironia e il suo umorismo, a dare a tutti gli avvenimenti che si succedono una specie di suggello personale, nel quale e per il quale i caratteri e gli avvenimenti del romanzo assumono davanti alla nostra fantasia un significato così vivo, così parlante, così palpitante. E questo, diciamolo di passaggio, prova una volta di più (se mai ce ne [57] fosse bisogno) quanto siano sciocchi coloro i quali avrebbero voluto elevare a regola fissa, anzi a dogma indeclinabile la consuetudine che l'autore debba sempre nascondersi dietro il proprio racconto, e guai se un momento si arrischia a far capolino! Dobbiamo lasciare a tutti più ampia libertà. Proscrivere l'intervento diretto dell'anima dell'autore stesso nel racconto, la significazione del suo pensiero, l'effusione del suo sentimento, sarebbe un diminuire il gran campo dell'arte, un rompere, uno spezzare una delle corde che vibrano più simpaticamente nelle narrazioni delle gioie e dei dolori della famiglia umana. Un'altra grande qualità manifesta il Manzoni nel suo racconto, ed è la sobrietà. Egli sorse e scrisse in un periodo che fu detto il periodo dello sforzo e della tempesta. C'è qualche cosa di agitato e di violento, che si rispecchia nello stile degli scrittori. Gli scrittori passano volentieri il segno, esorbitano facilmente, qualunque sia il tema che essi trattano. Il Manzoni invece si accampa sereno in mezzo a tutti questi agitati: e tra l'enfasi del Foscolo nell'Ortis, e le declamazioni dello Chateaubriand nei Martiri, spiega una meravigliosa sobrietà.

Io paragonerei il suo romanzo ad un gran quadro di pastello, dove il colore è molto sobriamente distribuito, [58] ma questa sobrietà fa poi sì che quando arriva il momento delle pennellate ardimentose, queste hanno un rilievo ed una potenza formidabili. 11 padre pio e glorioso della prosa moderna era stato Gian Giacomo Rousseau a cui tutti avevano attinto; e lo stesso Manzoni non di rado ci fa ricordare che anch'egli ha letto il Rousseau. Ma quanto egli, anche in questo, si differenzia dagli altri! Con Gian Giacomo Rousseau tutti hanno esagerato, per esempio, l'intervento della natura nei racconti; e la esagerazione dura ancora; anzi in alcuni romanzieri modernissimi l'esagerazione è arrivata ad un punto, che ormai non si può più tollerare. Sono capaci di fermarvi a mezzo di un tragico avvenimento, per descrivervi il vento che brontola per di fuori, la luna che splende sul lago, o per descrivervi minutamente i giuochi di riflesso e d'ombra che fa un raggio di sole entrando fra i drappi di una portiera. Alessandro Manzoni ebbe certamente un concetto più sobrio e più vero dell'intervento della natura nei racconti umani. Egli pensò, e giustamente, che l'azione della natura sopra di noi è immanente; noi la sentiamo sempre questa natura che ne circonda, i suoi fenomeni e le sue leggi; ma una cosa è sentirla, altra è avvertirla. Il contadino, per esempio, che vive sempre in mezzo ai campi, avrà nell'anima il caldo e [59] lo splendore del suo sole, sente nelle vene vibrare l'aria salubre del colle e del piano, ma non date mai al contadino meditazioni e contemplazioni sentimentali della natura, perchè mostrereste di non conoscerlo. Più l'uomo è in diretto contatto della natura, più egli si ferma a quella immanente impressione sopra di lui, e meno dà luogo a considerazioni riflesse. Il Manzoni, nel descrivere, ubbidisce sempre a questa legge. Ma quando arrivano certi momenti nei quali c'è proprio bisogno di far avvertire la unità vivente e indissolubile dell'uomo col luogo dove è nato, dove si è svolta la sua mente e il cuore, dove ha palpitato il primo palpito d'amore, dove ha avuto i primi terrori e le prime speranze, allora ecco che interviene la descrizione manzoniana; ed è così viva, così esatta, così potente nella sua sobrietà, che voi subito avvertite che quella descrizione non è inutile perchè completa e corona il dramma vivente che si sta svolgendo. Ricordatevi la descrizione del cielo di Lombardia, la mattina seguente all'orrida notte che il povero Renzo ha passata alla campagna, tra il freddo e la paura, fuggendo da Milano.

[60]

V.

E dite lo stesso di tutti gli altri sentimenti che governano i personaggi del racconto. Nei Promessi Sposi, per esempio, dove si passa a traverso a tante iniquità, dove la ragione e il cuore tante volte hanno motivo di ribellarsi, voi trovate che delle imprecazioni e dell'invettiva è fatto un uso moderatissimo. Appena un momento nel palazzotto di Don Rodrigo al termine del famoso dialogo fra lui e fra Cristoforo. Quando il ribaldo signorotto, non contento di avere meditato un'iniquità osa ancora alla presenza del frate di affermarla con una cinica alterigia, allora fra Cristoforo alza e inalza inveendo la mano che Rodrigo afferra di subito.... Ma egli non la dimenticherà più mai; quella mano alzata egli la vedrà ancora, sogno della notte terribile in cui dormendo avrà i presentimenti della peste che già hanno invaso il suo miserabile corpo. Poi via. Il frate è tornato padrone di sè; e il racconto rientra nella sua pacata sobrietà, nel suo andamento tranquillo. Ma quanto risalto, quanta potenza viene appunto da questa tonalità abitualmente calma [61] quando vengono quei rari momenti in cui l'autore assurge e si libra a qualche affermazione potente.

E così dite dell'enfasi. Voi l'enfasi non la trovate mai nei Promessi Sposi, e sì che di enfasi e di voli enfatici erano piene le carte ai tempi del Manzoni. Ho ricordato lo Chateaubriand e Ugo Foscolo, il quale era pure uno degli autori che il giovine Manzoni aveva letto e ammirato e che dominavano sul gusto dei lettori. Appena un momento, quando sono in presenza il Cardinale Federigo e l'Innominato l'enfasi si fa sentire. Il Cardinale parla a questo terribile uomo un linguaggio di ragione animato, ordinato, calmo. Ma quando si avvede di avere espugnato le ultime resistenze di quell'anima, quando vede la terribile testa dell'uomo del delitto chinarsi umiliata e vinta sopra le sue spalle, quando sente che le lacrime del peccatore pentito scorrono silenziose sulla castità della sua porpora, allora l'anima del sacerdote si effonde ed alza a Dio un'apostrofe, che potrebbe parere di una tonalità un po' inverosimile, ma non è. Voi sentite invece in quel momento l'uomo, anzi il prete, che ha l'anima piena della lettura dei libri sacri, del Vangelo, delle omelie; e parla a quel modo perchè sente a quel modo, nè potrebbe diversamente parlare. E così dite del patetico. Il [62] patetico aveva tante occasioni di sprigionarlo e farlo trascorrere a grandi fiotti, attraverso la sua narrazione. Ma se l'avesse fatto, io penso, la narrazione non avrebbe avuto nemmeno un decimo dell'efficacia che ha sull'animo nostro. Disse bene Cicerone: «le lacrime presto inaridiscono». Guai allo scrittore che abusa delle lacrime! Nelle emozioni più vive e profonde c'è qualcosa di sacro; e un vero artista deve accostarsi ad esse con rispetto e con mano sobria. L'anima umana ama di nascondere quello che è in lei di più intimo e di più geloso. Anche nei Promessi Sposi arriva il momento in cui il patetico trascorre. I due poveri giovani non hanno potuto raggiungere il loro intento. Si lasciano persuadere dalla buona vecchia a sorprendere Don Abbondio, a maritarsi per forza o per frode. Ma il vecchio prete, sorpreso in canonica, reso audace dalla sua paura, butta il tappeto del tavolino addosso alla timida Lucia e le impedisce di dire le parole sacramentali. Per il matrimonio mancato cresce in loro la paura di Don Rodrigo. La difesa di fra Cristoforo non basta più. Lo stesso Cristoforo dice: «Via figliuoli, non c'è tempo da perdere.... Andate.» E se ne vanno di notte, montano sopra una barca e si allontanano lungo il fiume per raggiungere la sponda opposta del lago. È una notte tranquilla, la luna illumina tutto [63] il paese. I disgraziati profughi, seduti nel fondo della barca, hanno l'anima occupata di terrore e tristezza. Lucia guarda dalla barca, vede il palazzotto di Don Rodrigo che lassù a mezza costa pare un ribaldo che in mezzo a dei poveri addormentati vegli meditando un delitto. La fanciulla ritrae inorridito lo sguardo e come per consolarsi cerca giù giù nel paesello la sua casa, e arriva a scoprire la cima dell'albero del fico che le sovrasta, e a scoprire la finestra della sua cameretta verginale.... Allora uno schianto di lacrime esce dal cuore di Lucia. Abbassa il volto sulla palma della mano, appoggia il gomito sulla sponda della barca e rimane silenziosa.... Allora il poeta interviene: «Addio, monti sorgenti dall'acque....» Chi di voi non ricorda quel passo delizioso per averlo letto o nel romanzo o in qualche raccolta? Ma notate che il Manzoni par quasi voglia farsi perdonare questo suo momentaneo abbandono di sentimentalità, e subito ammonisce il lettore: Badate, questi non furono veramente i pensieri della buona Lucia e degli altri due; saranno stati di quel genere. E quasi con una nota ironica verso sè stesso, il poeta rimette la narrazione nel suo naturale andamento e nella sua intonazione normale. Confrontate questo addio poetico col pietoso racconto di Cecilia, la povera madre che porta le figlioline morte sul [64] carro dei monatti. Avrete la medesima arte meravigliosamente efficace nella sua sobrietà.

VI.

Come ha trattato il Manzoni nel suo romanzo la passione d'amore?

Qui ci sarebbe da fare un libro. Si può sapere, domandava stizzito Luigi Settembrini, di che colore fossero gli occhi di Lucia Mondella? Non li alza mai! Il Manzoni, difatti, non spende nemmeno una linea a descriverci fisicamente la bellezza di Lucia; anzi di questa stessa bellezza ci indurrebbe quasi ad essere dubitosi; perchè, quando arriva già sposa di Renzo in quel di Bergamo, anche perchè l'avevano troppo decantata, cominciano le comari e i giovanotti del paese a tagliare a forbici doppie su questa tanto decantata bellezza, dicendo «ch'era una contadina come tant'altre.» E non fu senza grande stizza di Renzo, il quale andò in un altro paesello, dove ebbe la compiacenza di sentir dire: «Avete veduto quella bella baggiana che c'è venuta?» Certo è che in questo tema dell'amore il Manzoni procede con una cautela tanto strana, che qualche volta c'irrita. Si direbbe che egli ne ha paura!

[65]

Vi è però una donna che esercita un certo fàscino sulla mente, sulla fantasia e, direi quasi, nei sensi, del Manzoni: ed è Gertrude, la Monaca di Monza. Quella «bellezza delicata e sfiorita», quegli occhi nerissimi che alle volto hanno lampi audaci, alle volte si raccolgono in una meditazione fredda o triste, quella fronte bianchissima, il cui candore gareggia con la bianchezza immacolata del velo, quella slanciata figura femminile, ma un poco curva e quasi raccolta in sè stessa, che ha movimenti scomposti sotto la sua tonaca monacale, questa donna, io vi ripeto, deve avere esercitato un certo fàscino sull'animo del Manzoni; e non ve lo dico a caso. Se anderete a Milano, e a Brera, nella sala tutta dedicata alla gloria e ai manoscritti del Manzoni, esaminate i manoscritti dei Promessi Sposi. A proposito della Monaca troverete delle cose interessantissime. Per esempio c'è un punto in cui il padre provinciale che accompagna Lucia, al solito sprofondandosi in inchini ripete sempre: — Madre, madre! — E la monaca lo interrompe: «Ma che madre!» Poi rimasta sola ripete a sè stessa: «Bella madre!» Quanto significato in quel grido prima, poi in quel breve monologo! E quella nerissima ciocca di capelli che scappa fuori del soggólo come un'attestazione d'indisciplina, come una protesta [66] della vita, del senso, della volontà contro tutte le forze cospirate dell'albagìa, del sangue, dei pregiudizi sociali che hanno gettato quella disgraziata in un chiostro, come una protesta contro la crudeltà delle forbici della tonsura!... Anche quella ciocca di capelli finisce col persuadervi quanto l'autore ha carezzata questa figura e come se ne sia pericolosamente invaghito.

Ma qui si ferma. Sopprime lunghi passi nel manoscritto, che risguardano la Monaca e poi comincia a trattare sul serio la grande questione, dicendo: «Insomma questo amore uno scrittore deve o non deve trattarlo?» E intanto, siccome egli era finissimo tormentatore di sè stesso, il Manzoni sente bisogno di dar forma ai propri giudizi, ai propri scrupoli, intavolando un dialogo fra sè e un supposto lettore; e questo dialogo è tutto ciò che si può immaginare di più curioso e importante. In conclusione il Manzoni dice: «Dato che le parole, dato che le idee e le immagini sono principio ed eccitamento di azioni, io non mi sento di promuovere nei miei libri questa misteriosa passione dell'amore. E sapete perchè? Perchè io sono convinto che l'amore sia buono in sè, ma che nel mondo ce ne siano almeno seicento volte di più di quanto abbisogna per la conservazione della nostra riverita specie.» Certo la [67] differenza è grande, a questo proposito, tra il Manzoni e i romanzieri dei nostri giorni. Che contrasto con certi romanzi che probabilmente, o Signore, sono sul vostro tavolino e che leggete con tanta avidità! Io qui non critico, osservo. In quelli invece, abbiamo una preoccupazione, un'orientazione completamente opposta. Non solo l'amore non è temuto e evitato o lievemente trattato, ma diventa il grande, l'unico bisogno del romanziere. Nei romanzi che avete letto ieri o leggerete domani, voi fino dalle prime pagine vi accorgerete come le qualità dei personaggi e l'impostura di tutto il racconto siano coordinate ad un'unica e grande scena d'amore, che avverrà quanto prima: e questa scena voi la prevedete e la presentite andando di pagina in pagina; e voi l'aspettate, voi la volete.... E quando questa scena si è compiuta sotto gli occhi della vostra fantasia, con maggiore o minore audacia secondo il temperamento dei diversi romanzieri, voi sentite improvvisamente che il volume vi si appesantisce fra le mani; voi sentite che il racconto ha già dato tutto ciò che poteva e voleva dare!... La linea equatoriale è già stata valicata!... Il libro seguita perchè il racconto vuole avere uno svolgimento e un fine, ma il lavoro è finito con questa grande scena erotica, che è il clou di tutto il libro.

[68]

VII.

Adesso io toccherò molto brevemente degl'imitatori del Manzoni e del suo romanzo. Ve l'ho già detto, Signori, sui Promessi Sposi bisognerebbe fare un ciclo di conferenze, dove ognuno prendesse un personaggio, un episodio. Allora con coscienza tranquilla si potrebbe dire d'aver trattato questo tema per noi così caro, poichè si tratta del libro più glorioso che ha dato l'Italia al mondo in questo secolo; e ce ne sono pochi degni di potergli stare accanto. Quando avete preso Dante, l'Ariosto, il Tasso, e il Petrarca, metteteci subito vicino i Promessi Sposi e non osate mettervi altri libri perchè scapiterebbero.

E scapiterebbero sovrattutto i suoi imitatori. Perchè il Manzoni non ha avuto successori degni di lui, o Signore? La risposta ve la darebbe, se fosse qui, uno dei personaggi del Manzoni, quel Don Ferrante, il quale, perchè aveva nel cervello tutta la filosofia di Aristotile, credeva che con quella si spiegasse tutto. Ed egli spiegherebbe forse anche questo fatto; ma io, che non sono Don Ferrante non ve lo posso dire. Accennerò a un grande difetto della nostra schiatta italica, questo proprio bisogna convenirne; [69] ed è la furia dell'imitazione. Appena uno fa una bella cosa, eccoci tutti dietro non ad ispirarci, non ad emularlo, ma a decalcare servilmente sopra le sue formule, a ripetere fino alla stucchevolezza, fino alla noia ciò che quello ha con un rapido accenno d'invenzione posto innanzi ai nostri sensi e ai nostri occhi.

Certo è, o Signore, che quando s'incontrarono Walter Scott e Manzoni, e Walter Scott complimentava l'autore italiano lombardo del suo lavoro, Manzoni modestamente disse: «I Promessi Sposi sono opera vostra» accennando allo studio che Manzoni aveva fatto del romanziere scozzese. E allora lo Scozzese con arguzia gentilissima rispose: «In questo caso i Promessi Sposi sono il mio miglior romanzo.» Non si poteva più cortesemente rispondere.

Ma Alessandro Manzoni non avrebbe certamente potuto dire una cosa simile nè al Grossi, nè al Cantù, nè al d'Azeglio, nè al Carcano e nemmeno a quell'Ippolito Nievo, in cui forse era riserbato all'Italia un grande romanziere, se giovine ancora non fosse scomparso nel Mediterraneo quando si sfasciò il vecchio bastimento dove egli salpava dalla Sicilia all'Italia. Passiamo dunque su questi imitatori; rendiamo loro il merito che hanno, ma convinciamoci [70] che rispetto al gran modello essi sono pallide ombre. Dimentichiamo gl'imitatori e torniamo al maestro! Torniamo a questo grande, che tanta luce ha diffuso sulla prosa e sulla poesia italiana; torniamoci senza feticismi, anzi come disse opportunamente nel suo recente volume Arturo Graf, torniamoci rinfrancati e fortificati da quella stessa libera critica che per venti anni abbiamo fatto al lavoro immortale di Alessandro Manzoni, specialmente per opera di Giosuè Carducci. Torniamo come vi è tornato lo stesso Carducci, il quale da ragazzo lesse per cinque volte i Promessi Sposi, poi pareva che non volesse più leggerli; ma l'anno passato interrogato da un amico che cosa leggesse, disse: rileggo i Promessi Sposi; e quando con una concezione gagliarda volle ricongiungere la poesia e l'arte al suo principio morale e civile e stringere la mano del vecchio Parini, sentì che il gran Lombardo alzava la sua e aveva diritto, e voleva essere anche egli in quella stretta immortale. Tornate al Manzoni massimamente voi, giovani; tornateci, ripeto, senza feticismi, con libero ossequio, per attingere specialmente da lui il senso nobile, geniale, umano dell'arte, di quest'arte alla quale ora tutti si prosternano con inni paradossali come ad unica Deità della vita.... Parole, parole, parole!...

Quando siamo al fatto, questa Augusta, Divina, [71] quest'anima dell'anima umana, noi la vediamo ancora trascurata per le alcove, per i manicomi, per i postriboli, come se tale fosse un suo destino ineluttabile, e come se la sua tanto decantata libertà non fosse che la fatale selezione del male.

[73]

GIUSEPPE MAZZINI E IL SUO PENSIERO FILOSOFICO

CONFERENZA
DI
ARTURO LINAKER.

[75]

«In noi tutti, figli del secolo XIX, v'ha del Titano e dell'Amleto a un tempo. Cominciamo dal credere esclusivamente in noi stessi e finiamo col non credere più in cosa alcuna; due fasi dell'anima che dipendono dalla mancanza d'una fede santa e comune. La vita, così diseredata, ci sfugge in linea spezzata, a traverso una successione di scosse, ora sfiorando il cielo, ora immergendosi nel fango, invece di spandersi forte e calma nella sventura come nella ventura. Il Titano cade fulminato dalla forza delle cose: Amleto si accascia sotto il peso dell'idea.... Solo il credente rimane in piedi come vecchia querce solcata dalle tempeste.... Triste e silenzioso, egli prosegue senza codardo sconforto il compito della sua giornata. Ei sa che il fiore dell'anima sua, la speranza, non può espandersi se [76] non al di là di quella culla di trasformazione, che quaggiù vien chiamata tomba

Questo, con un tratto Michelangiolesco, l'ideale della vita che Mazzini tracciava: non Titano, non Amleto, ma credente in una fede santa e comune!

A lui la madre non sussurrò imprudentemente all'orecchio con un bacio: sii felice! A lui il padre non disse: sii ricco! Ma la madre al primo svegliarsi della sua intelligenza avevagli detto: sii buono e puro! sii forte: impara a soffrire!

E la memoria della madre egli benedisse! Benedisse, in mezzo alle dure prove della vita, l'educazione avuta.

Gli uomini del 21 che, profughi dall'Italia, andavano a combattere e a morire per la libertà della Spagna, avevano lasciato profonda impressione in lui, giovinetto di 16 anni; aveva intraveduto che si doveva e si poteva lottare per una fede santa e comune, la libertà della patria!

L'immagine di que' proscritti gli stava dinanzi; e, in mezzo alla irrequieta, tumultuante vita degli studenti, era cupo, assorto, invecchiato precocemente; vestiva sempre di nero, sembrandogli portare il lutto della patria; ed era talmente fuori di sè per la lettura dell'Ortis, che la buona madre temette del suicidio del figlio!

[77]

Sono fasi che la tempestosa anima de' giovani traversa: belle, quando la causa dello sconforto è una grande, una santa idea; tristi, quando è l'egoismo insoddisfatto, una smodata brama di godere non appagata, la stanchezza della vita!

Una donna, la madre dei suoi amici Ruffini, lo riconciliò colla vita, gl'infuse, accanto all'amore per la patria, la fede religiosa! Bisogna leggere le pagine affettuosamente belle del Lorenzo Benoni per aver un'idea del Mazzini studente all'Università, uscito dalla sua crisi di scetticismo.

Giovanni Ruffini scrisse del Mazzini quando già s'era staccato politicamente da lui; ma nell'anima sua era rimasto un ricordo che non si cancella mai, il ricordo puro, poetico della giovinezza.

Il Mazzini (ch'egli chiama Fantasio) era per lui il giovane più affascinante che avesse conosciuto. La sua testa era assai ben modellata; spaziosa e prominente la fronte; gli occhi neri morati mandavano lampi. L'espressione della sua faccia grave e quasi severa era addolcita da un sorriso soavissimo; era bello e facondo parlatore: e, se si fosse incalorito in una disputa, era ne' suoi occhi, nel gesto, nella voce un fàscino irresistibile. Magro e gracile di corpo, aveva un'anima infaticabilmente attiva. Appassionato amatore d'ogni libertà, l'anima [78] sua fiera spirava un indomabile spirito di rivolta contro ogni tirannia ed oppressione. Buono, affettuoso, liberale....

Questo è il ritratto del Mazzini studente.

Dante e Alfieri, Shakespeare e Byron, Goethe e Schiller riscaldavano l'anima sua. Dante però era l'autore prediletto da lui: dal 1821 al 1827 egli l'aveva profondamente studiato, e aveva imparato a venerarlo come padre della nazione; lo commentava ad un nucleo di giovani scelti, d'intelletto indipendente, anelanti a nuove cose, che si raggruppava intorno a lui. Il nome d'Italia che sì frequente ricorre nel poema, diventava sacro per loro, e destava i palpiti del loro cuore.

Il suo primo scritto, sull'Amor patrio di Dante, lo mandò all'Antologia che non lo pubblicò: lo fece inserire poi nel Subalpino Niccolò Tommasèo, che nel culto di Dante aveva pure attinto forti ispirazioni.

«O Italiani (esclama il Mazzini in quell'articolo), studiate Dante! non su' commenti, non sulle glosse, ma nella storia del secolo in che egli visse, nella sua vita, nelle sue opere!»

Ed imparò da Dante come si serva alla patria finchè è vietato l'operare, e come si viva nella sciagura!

[79]

Egli era nato letterato! S'affaccendavano alla sua mente visioni di drammi e romanzi storici senza fine e fantasie d'arte, che gli sorridevano come immagini di fanciulle carezzevoli a chi vive solo. Ma, a che l'arte? Senza patria e libertà si potevano avere profeti d'arte, non arte. Il problema era essenzialmente politico: bisognava avere una patria! «L'arte italiana fiorirà sulle nostre tombe!»

Così sperava; e fu letterato geniale, e critico profondo, come mostrò in un suo magistrale discorso il compianto Nencioni nostro.

Allora, nella lite che ferveva fra classicisti e romantici, il Mazzini e i suoi amici si schierarono per il romanticismo; ma la controversia letteraria era per loro convertita in politica. Basta mutare alcune parole per avvedersene; l'indipendenza in fatto di letteratura era il primo passo ad altra indipendenza.

L'Indicatore Genovese, povero, modesto, innocente foglio d'avvisi, accolse gli scritti di quei giovani: i principali eran del Mazzini sui Promessi Sposi, sulla storia del Botta, sul Monti, sulla storia dello Schlegel, sulla Battaglia di Benevento.

Riviveva il Conciliatore. Chiunque avrebbe scorto [80] che la letteratura era pretesto! Al Guerrazzi il Mazzini in quelle pagine aveva detto: «da te l'Italia è in dritto di attender molto, e scrivi; snuda la viltà del delitto, colpisci con quadri di terrore i fiacchi a' quali il rimprovero è poco.» E il Guerrazzi scrisse! Nel Monti aveva pianto non solo l'autore delle cantiche in morte di Ugo Bassville e del Mascheroni, ma anche l'autore della Proposta, che diè l'ultimo crollo alla schiavitù in fatto di lingua. Allo Schlegel, che rimproverava all'Italia di non aver poesia nazionale, risponderà la colpa non esser degli scrittori, e faceva sperare che la macchia sarebbe stata lavata. Del Foscolo vaticinava che un giorno l'Italia gli avrebbe eretto un monumento d'amore, e lo avrebbe riposto fra i grandi delle nazioni. E la profezia s'è avverata!

11 governo Sardo finì anch'esso per comprendere le tendenze del Foglio d'annunzi e soppresse il giornale, che tornò a rivivere a Livorno come Indicatore Livornese.

E là il Mazzini scrisse sul Faust del Goethe, sulle Fantasie del Berchet, sull'Orazione del Foscolo a Bonaparte, sulle tendenze d'una Letteratura europea, sull'Esule di Pietro Giannone.

Nel Faust egli vede la rappresentazione di un'intera epoca che sta per chiudersi. Faust è il genio [81] isolato: Faust cade nello sconforto, bestemmia l'alto concetto che lo spirito nutre di sè, le illusioni dell'immortalità, l'entusiasmo, la speranza, la pazienza! Rovinato, sfumato il mondo intellettuale, il mondo materiale è l'unico che rimanga alla sua smania di attività; vuol godere, ed eccolo in lega con Mefistofele, che pone a fine dell'esistenza il piacere, l'egoismo! Il genio isolato e l'egoismo si uniscono; il genio vuol liberarsene, ma non può; dissecca la sorgente della celeste voluttà per lasciarlo in braccio a' traviamenti delle tenebre. Il genio così trasformato disprezza gli uomini a cui si crede superiore: la sua potenza è pel male; trascina al delitto l'improvvida, la fragile creatura.... Margherita! Faust è fra gli uomini, non per gli uomini: erra in mezzo ad essi solitario e senza oggetto come lo straniero in mezzo a gente che non intende la sua favella! Vae soli!

***

Signore! Questa non è che una pallida e troppo rapida sintesi di quelle caldissime e potenti pagine colle quali il Mazzini ritrasse il Faust del Goethe, in cui cercò e trovò un gran pensiero filosofico. Ma, esclama, v'ha un affetto che può salvare le [82] anime della tempra di Faust dal regno di Mefistofele; puro quanto l'amor filiale, vasto quanto l'universo, sublime quanto il pensiero di Dio; che commuove ogni fibra, che santifica ogni pensiero, un affetto che può bastare a un'intera esistenza, che dovrà formare il carattere di questo secolo, fonderà quella concordia di voti e di opere che mancava all'epoca scorsa, ritratta da Faust. «Dovrò io nominarlo (chiude così quel suo splendido studio il Mazzini) dovrò io nominarlo parlando a' miei fratelli Italiani?»

A quale affetto alludesse, lo comprese il governo Toscano che, per non essere inferiore, ne' gusti letterari, al governo Sardo, soppresse l'Indicatore.

E allora il Mazzini mandò i suoi articoli all'Antologia di Firenze. Gli uomini che si accoglievano attorno a Gino Capponi e al Vieusseux parevano timidi a lui, giovane pieno d'impeti: ma li amava perchè d'animo italiano. E con loro si unì.

Nelle pagine di quel glorioso giornale, soppresso nel 1833 per ordine dell'Austria e della Russia, scrisse animosamente parlando del dramma: «Siamo diseredati di dramma per le stesse ragioni per le quali siamo diseredati di storia: e, finchè quelle ragioni non cessino, dovremo star paghi a lavori più o meno fecondi di critica.»

[83]

Le ragioni si comprendevano. Gl'Italiani non avevano patria. Avere una patria! Questa l'idea del Mazzini: la Grecia aveva fatto la sua rivoluzione: perchè non l'avrebbe fatta l'Italia? La Grecia aveva avuto la sua Etaria: perchè non l'avrebbe avuta l'Italia? E il Mazzini aveva steso un piano particolareggiato d'un'Etaria Italiana, approvato dai suoi compagni. Ma l'aver potuto, dopo lungo tempo e molte difficoltà, essere iniziato all'ordine de' Carbonari insieme a Iacopo Ruffini, lo distolse da questa idea.

Il Carbonarismo, sperava, sarebbe divenuto la Etaria Italiana.

Non ammirava il simbolismo complesso, i gradi gerarchici; anzi, tutto quell'apparato lo faceva sorridere di compassione, specie le tremende prove dell'iniziamento che, in sostanza, eran grottesche. Vedeva nella Carboneria un corpo invecchiato, ma ancora potente per le sue filiazioni numerose in ogni classe di cittadini.

Venne in Toscana a conoscere i suoi collaboratori letterarî: Carlo Bini, F. D. Guerrazzi, Enrico Mayer, Pietro Bastogi; le amicizie letterarie eran divenuti legami politici; il Mazzini, elevato a' gradi superiori dell'Ordine, aveva accumulato gli affiliati fra i giovani; ma, poco dopo le giornate di luglio [84] a Parigi, i governi, insospettiti, scopersero l'associazione: non mancarono le spie, i delatori. Giuseppe Mazzini fu arrestato e chiuso in una cella della fortezza di Savona!

Là, fra cielo e mare, due simboli dell'infinito e la vista delle Alpi, le più sublimi cose che la natura ci mostri, confortato da' canti del pescatore che arrivavano fino alla sua cella, egli meditò il disegno della Giovine Italia. Al prigioniero fu lasciata la Bibbia, un Tacito, un Byron. Forse perchè la Bibbia era un libro religioso; Tacito perchè latino e il latino non aveva fatto mai paura; Byron perchè inglese e la polizia non sospettava di libri inglesi, tanto meno de' poeti!

Que' tre libri lesse, rilesse, meditò nella solitudine del carcere: un po' di tutt'e tre ritroviamo ne' suoi scritti, specie nello stile.

Un'immensa speranza balenava nell'anima del prigioniero. Roma, pensava, ha avuto due grandi civiltà. La Roma della Repubblica conchiusa dai Cesari aveva solcato dietro al volo dell'Aquila il mondo noto coll'idea del Diritto, sorgente della Libertà. Poi era risorta più grande di prima co' Papi, centro accettato d'una nuova unità, che levando la legge dalla terra al cielo sovrapponeva all'idea del diritto l'idea del dovere comune a tutti, e sorgente [85] quindi dell'eguaglianza. La terza Roma, la Roma del popolo Italiano, doveva dare una terza, e più vasta unità che, armonizzando terra e cielo, diritto e dovere, avrebbe parlato non agl'individui, ma ai popoli una parola di associazione insegnatrice, ai liberi ed uguali una parola della loro missione quaggiù.

Il nuovo lavoro doveva essere morale, non solo politico, religioso non negativo; basato sui principî non sull'interesse; sul dovere, non sul benessere. Egli aveva sempre dinanzi la figura di Faust; bisognava annientare l'egoismo, infondere questa nuova vita a Faust; poichè, anche in alcuni suoi amici, specie nel Guerrazzi, vedeva lo scetticismo che uccide!

Liberato dalla fortezza di Savona, posto nel bivio di abitare una piccola città del Piemonte o di andare in esilio, scelse quest'ultimo; e tutta la sua vita dovette ripetere questa triste parola: «esilio!» «Colui (aveva scritto nel 1829 quasi presentendo il suo fato) colui che primo inventò questa pena, non aveva nè madre, nè padre, nè amici, nè amante. Egli volle vendicarsi sulle altrui teste, e disse agli uomini suoi fratelli: siate maledetti dall'esilio com'io dalla fortuna.... siate orfani.... io vi torrò tutto fuorchè un soffio di vita, perchè possiate ramingare, [86] come Caino, nell'universo col chiodo della disperazione nel petto!»

Si reca a Ginevra, poi a Lione, poi in Corsica, poi a Marsiglia. E di là scrive la lettera a Carlo Alberto: là riprende l'antico disegno meditato nel carcere di Savona, la fondazione della Giovine Italia.

La Giovine Italia doveva seguire vie differenti dalla Vecchia Italia, che egli vedeva attraverso a Filippo Buonarroti ed ai Carbonari.

Quindi non v'immaginate simbolismo, non cerimonie tremende, terrorizzanti solo gl'ingenui, non un'interminabile gerarchia; non voleva riprodurre ciò che già v'era e che l'aveva fatto sorridere: ricordava le commedie di cui era stato testimone; dalla pistola che doveva esplodere e non esplodeva alle riunioni de' congiurati chiusi ne' loro neri mantelli, che, al tocco della campana di mezzanotte, si riunivano per proclamare la punizione d'un rivelatore di segreti, e via via fino alle scene nella prigione di Savona, in cui il Da Passano, percuotendolo sulla testa, l'aveva iniziato non so a quale suprema dignità.

Due gradi soli: iniziati e iniziatori: gl'iniziati non avevan facoltà di affiliare; gl'iniziatori . Congreghe, nome desunto da' ricordi di Pontida, i nuclei [87] di direzione: un comitato centrale all'estero per dirigere l'impresa e stringere vincoli fra l'Italia e gli elementi democratici stranieri. In ogni città un ordinatore: i viaggiatori mettevano in rapporto gli affiliati col Comitato centrale. Simbolo dell'associazione, un ramoscello di cipresso; il motto: Ora e sempre; la bandiera, il tricolore italiano; da un lato la scritta Libertà, Uguaglianza, Umanità, indicanti la missione internazionale italiana; dall'altro Unità, Indipendenza indicatrice della missione nazionale. Dio e l'Umanità formula per le relazioni esterne: Dio e il popolo per i lavori riguardanti la patria.

Vedete che, più che un'associazione politica, la Giovine Italia è sistema religioso e morale. Nella mente del Mazzini non doveva essere setta o partito, ma credenza e apostolato: doveva chiudere il periodo delle sètte e iniziar quello dell'associazione, d'una vita operosa e rigeneratrice.

Le idee della Giovane Italia eran palesi e pubblicate in un giornale che portava questo titolo.

In quel giornale il Mazzini scongiurava la gioventù d'Italia a tralasciar di scrivere inezie e canzoni d'amore e rivolgere invece la letteratura a promuovere l'utile del popolo con sacrificî d'ogni genere: a cominciare dall'istruzione elementare, a [88] diffondere l'insegnamento popolare, a viaggiare, a portar di paese in paese, di villaggio in villaggio, sui monti, alla mensa del coltivatore, nelle officine degli artigiani l'educazione, la persuasione delle sante parole di libertà. Dio e il popolo! Ecco la formula mazziniana. Il popolo è l'eletto di Dio a compiere la sua legge, legge d'amore, d'eguaglianza, di emancipazione universale.

Era una religione nuova! E il codice della Giovine Italia, dettato in stile biblico, rassomigliava ad un codice religioso. La gioventù che aveva sete d'ideale amò questa Etaria Italiana: e, come sulle orme del fraticello d'Assisi cresce la gente poverella,

Dietro allo sposo; sì la sposa piace,

crescono ogni giorno, si affratellano gl'iniziati della Giovine Italia, gli scritti si propagano; da Marsiglia, chiusi dentro botti di pece, i fascicoli della Giovane Italia arrivano nella Penisola; son ristampati da tipografie clandestine, si moltiplicano: le polizie ne hanno sentore, raddoppiano la vigilanza, le spie; si dissuggellano le lettere per scoprire le fucine rivoluzionarie.

E la gran fucina che impensierisce i governi d'Italia era una povera stanzuccia dove, fra le strette [89] della miseria, Mazzini, Lamberti, Usiglio, G. B. Ruffini lavoravano al giornale e dirigevano il moto.

«Furono dal 1831 al 1833 due anni di vita giovane, pura e lietamente devota come la desidero alla generazione che sorge!» esclamava nel 1861 Mazzini. E poteva esser lieto dell'opera sua. La parte eletta della nuova generazione italiana, pendeva da lui, giurava con lui, era affratellata nelle idee della Giovine Italia. I profughi del 31 da Parma, da Bologna, da Modena, lo raggiungevano a Marsiglia. Niccola Fabrizi, Celeste Menotti, Usiglio, Gustavo Modena, Lamberti, Melegari, Carlo Bianco, Giuditta Sidoli.

Vincenzo Gioberti, che allora apparteneva alla Giovine Italia col nome di Demofilo, gridava: «Io vi saluto, precursori della nuova legge politica, apostoli del rinnovato Evangelio.... La vostra causa è giusta e pietosa essendo quella del popolo, la vostra causa è santa essendo quella di Dio. Noi ci stringeremo alla vostra bandiera e grideremo Dio e popolo e cercheremo di propagar questo grido!»

Nelle diverse parti d'Italia l'associazione aumentava: a Genova Iacopo Ruffini e i fratelli, Campanella, Elia Benza, Lorenzo Pareto, il conte Camillo D'Adda: in Toscana Guerrazzi. Bini, Mayer, Corsini, Montanelli, Franchini, Matteucci, Cempini figlio [90] d'un ministro del Granduca, Carlo Fenzi, Pietro Bastogi, cassiere; nell'Umbria il conte Guardabassi; nelle Romagne gli uomini più eminenti fra i quali Farini; congreghe a Roma e Napoli; in Piemonte la rete era estesissima: vi appartenevano Depretis, Barberis, Vochieri; in Lombardia i fratelli Ciani, il marchese Gaspare Rosales, la principessa Belgioioso....

Educazione, insurrezione, era il programma della Giovine Italia; la prima insurrezione doveva scoppiare nell'esercito piemontese a Genova, a Torino, ad Alessandria; di lì si sarebbe propagata per tutta l'Italia. Carte trovate in un baule diretto dal Mazzini alla madre, sequestrato, avevan dato la chiave per intendere il disegno della Giovine Italia. Così la congiura fu scoperta: le repressioni odiose e terribili: fucilato Vochieri co' compagni; piene le carceri di prigionieri; Iacopo Ruffini, con un chiodo strappato alle porte del carcere, si aprì una vena del collo e si rifugiò nel seno di Dio, sottraendosi al pericolo di piegare e di far rivelazioni!

La Giovine Italia aveva avuto il battesimo del sangue; e quanto e quale! Mazzini, in contumacia, condannato a morte ignominiosa; Garibaldi pure!

E Mazzini allora volle precipitar l'azione; il 3 febbraio 1834 fu tentata la spedizione di Savoia.

[91]

Anche qui delazioni, tradimenti, disfatta!

Era finito il primo periodo della Giovine Italia, e finito con una sconfitta! Processi, condanne, sgomento in tutti: i più arditi vanno a combattere in Spagna, come Manfredo Fanti e Niccola Fabrizi.

Il Mazzini allora «rimane immerso in un letargo di melanconia; si legge sul suo volto un pallore di morte proveniente dalle pene del cuore!» Così si esprimeva il rapporto d'un traditore messo a lato di Mazzini.

Ma non era di quelle tempre in cui l'abbattimento tolga l'azione; come il ragno paziente ricostruisce la sua tela, e comincia per lui un altro periodo di operosità.

A Berna, cacciati di cantone in cantone eran rimasti Ruffini, Rosales, Melegari, Ciani, Campanella, Gustavo Modena. Altri esuli tedeschi, polacchi si erano uniti a loro, e il Mazzini pensa allora ad una nuova vasta associazione europea.

I primi abbozzi sono scritti in francese, ed hanno, anche più del programma della Giovine Italia, la forma biblica.

Non vi sarà discaro udirne alcuni brani:

«.... La notte della sventura era nera. Un lampo illuminò la scena sulle Alpi e s'intese una voce....

[92]

«La voce chiamava i disgraziati esuli a consiglio.... essi si misero in via.

«Venivano a due a tre sulla vetta della montagna.

«Usci una voce e disse: sono lo spirito di coloro che son morti. Pregateli che Dio sia con voi.

«E tutti colla mano sul cuore pregarono in silenzio i martiri che morirono per le nazioni.

«La voce poi mostrò una fede nuova. Un uomo la scrisse.

«In nome di Dio e pel bene dell'umanità le nazioni si uniscono in un patto di difesa, di soccorso, di fratellanza.

«Piace la nostra fede?

«Sì, risposero quegli uomini e primi posero le basi della Confederazione i Polacchi, gli Italiani, i Tedeschi; là, in vista del Rütli dove tre uomini avean posto le basi della Confederazione Elvetica.»

La Giovine Europa è costituita.

Comprese il Mazzini essere allora un sogno l'azione immediata: la fallita sollevazione del Piemonte, la spedizione di Savoia l'avevano duramente ammaestrato. Bisognava diffondere le idee della Giovine Europa. Cacciato dalla Svizzera co' suoi amici si rifugia a Londra.

È il gennaio del 1837.

La tempesta del dubbio lo assale. Quella fede [93] che l'aveva mantenuto dalla spedizione di Savoia in poi cominciò a essere scossa; l'anima sua fu prostrata in un senso di profonda disperazione.

Le anime una volta affezionate, si ritrassero da lui; alcuni lo sospettarono d'ambizione.

«Udite (scrive disperato alla madre di Ruffini), mia seconda madre, mia prima amica, madre mia d'amore: udite ciò ch'io vi dico, giurando per ciò che abbiamo tutti e due di più sacro, la memoria di un morto: io amo i figli vostri come io li amava quando vi eravamo vicini: li amerò finchè io viva riamato o no, perchè non è in me cessare di amarli; ogniqualvolta ho temuto mutato per me il loro core, ho pianto, letteralmente pianto e non piango per altre cause, ho pianto anche davanti a loro!...»

Allora, si sentì solo nel mondo, solo fuorchè colla sua povera madre lontana e infelice per lui.... Allora in quel deserto s'affacciò il dubbio. Forse egli errava e il mondo aveva ragione: forse l'idea che egli seguiva era sogno.... Si vedeva come un condannato conscio di colpa e incapace di espiazione. Rivedeva in fantasma i fucilati di Alessandria, di Genova, di Chambéry; aveva egli diritto di decidere sull'avvenire e trascinare centinaia, migliaia di uomini, al sacrifizio di sè e d'ogni cosa più cara?

[94]

Dal dubbio tornò repentinamente alla fede.

Noi siamo, riflettè, un pensiero religioso incarnato: abbiamo una missione: che importa se riesca o no? La vita umana non è felicità, è dovere. Dovere di avvicinarsi a Dio coll'opera, incarnare la sua parola, tradurne in atti il pensiero. L'anima è immortale: la morte è trasformazione. Una cagione esterna materiale non può cancellare la vita, scintilla escita dal seno dell'Eterno.

Lo strumento dell'opera s'infrange, ma l'operaio è altrove chiamato ad altra missione!

E, solo, calca per profondo convincimento una via sparsa di triboli, di disinganni, di defezioni, coll'anima aperta all'amore e sempre solo. Non Titano nè Amleto, ma credente!

A Rosales scriveva: «Io non fo riflessioni; a che servirebbero? A mutarmi, a convertire in ira l'amore e sviarmi? Posso disprezzare gl'Italiani ad uno ad uno senza che ciò scemi di un grado ciò che ho nell'anima per l'Italia!»

Tommaso Carlyle lo chiamò utopista; Carlyle derideva le rivoluzioni all'acqua di rose, le pazzie della gioventù che sognava vincere l'Austria coi pugni e le torture di Mazzini nel non poterle infondere la sua fede nel resultato finale.

Mazzini stimava ed amava Carlyle per la sua [95] sincerità, per la sua tendenza verso l'ideale, pel concetto della vita derivato non dalla felicità, ma dal dovere, per l'adorazione del dolore e del sacrificio, per le sue tendenze umanitarie, per l'arte grande con cui rivestiva il suo pensiero; ma da lui dissentiva, perchè l'autore degli Eroi non riconosceva la vita collettiva dell'umanità nel mondo, non vedeva se non Dio e l'individuo, e Dio era per lui rifugio a' dolori senza speranza, piuttostochè sorgente di diritti e di forza.

Se Mazzini, triumviro della Repubblica Romana, avesse vinto, Carlyle lo avrebbe posto tra i suoi Eroi: non lo pose, ma nel 1844 levò la sua autorevole voce in suo favore per protestare contro il turpe fatto commesso dal governo Inglese di dissuggellare le lettere.

«Ho avuto l'onore (disse) di conoscere il signor Mazzini per più anni, e checchè io possa pensare del suo senso pratico e dell'abilità sua negli affari del mondo, posso testimoniare in coscienza a tutti gli uomini che è uomo di senno e di virtù, di veracità genuina, di umanità, di nobiltà di mente, di quegli uomini rari, anzi, unici, in terra, che siano degni di essere chiamati anime martiri, uno di quegli uomini che in silenzio e nella vita d'ogni giorno sanno e praticano quello che s'intende per [96] martirio.» Pochi uomini hanno avuto da Carlyle tale testimonianza.

Ora che si comincia meglio a conoscere l'animo del Mazzini, per le lettere alla madre di Ruffini, al Ruffini, al Melegari, al Mayer, al Rosales, si vede qual martirio fosse il suo.

Non parlo delle miserie con cui visse in Londra nutrendosi di poche patate, tormentato dagli usurai, vendendo i suoi abiti, vivendo in una misera stanza e stendendo a mala pena sul lettuccio le edizioni dantesche, torturandosi per non poter finire la Vita di Foscolo promessa a Giulio Foscolo e alla Magiotti; eran prove che varcava sorridendo: ma ben altro martirio ei provò, quel martirio a cui pochi son preparati. Il martirio del corpo è nulla di fronte a quello dell'anima, la delusione! Le amicizie che credeva avrebbero durato eterne, svanirono come i sogni del mattino.... il suo pensiero, l'opera sua eran fraintesi....

«Se talora (scrive al Mayer), le mie parole hanno amarezza, pensate che ho l'anima ben più amara, che sono povero, che non ho un amico che non mi abbia tradito e che amo come pochi amano i miei fratelli e non li stimo; credo più fortemente che voi non credete nell'Evangelio, nella via che ho [97] scelto, e vedo i migliori, quelli ne' quali io fidava pel trionfo dell'idea scostarsene sempre più.»

E quest'uomo calunniato, perseguitato, dipinto come una specie d'Omar italiano, sanguinario, senza cuore, nemico d'ogni istruzione, che affilava nell'ombre pugnali omicidi, fanatico della forza brutale, a Londra insegnava a leggere e a scrivere la storia patria a molti italiani che disonoravano l'Italia con l'ignoranza, l'accattonaggio, le coltellate. Osteggiato dai preti della Cappella Sarda, lottava aiutato da Filippo e Scipione Pistrucci, da Luigi Bucalossi, poveri ed esuli anch'essi. In mezzo a que' fanciulli che dall'Italia andavano nella capitale britanna a suonare l'organino e a vendere i gessi, egli risentiva la patria co' suoi dolori, le sue miserie, la sua abiezione. Nominava ad essi l'Italia di cui non conoscevano il nome.

Ed era povero ed esule! Fra i tanti bisogni d'Italia, aveva compreso quello d'istruire gl'Italiani fuori della patria. E la patria, allora, non c'era! Oggi gli Italiani redenti dimenticano i loro fratelli sparsi per tutto il mondo, spinti dalla miseria lungi dalla patria, e che offrono miserando spettacolo di loro. La Dante Alighieri, testè istituita, fa bene sperare di sè; ma intanto non arriva che a raccogliere, a stento, poche migliaia di lire!

[98]

Ed ora vediamo un altro lato del Mazzini.

C'è stata per un tempo una specie di leggenda che ce lo rappresenta come un uomo che non abbia mai conosciuto l'amore; la leggenda è sfatata.

Fu detto pure che il suo primo amore sia stato per donna Eleonora Curlo madre de' Ruffini; ma è un amore filiale, passionato sì, come passionato è sempre Mazzini ne' suoi sentimenti; è un amor filiale che ha qualche cosa di mistico e che va sempre più esaltandosi. Il Mazzini

Nel primo giovanil tumulto

Di contenti, d'angosce e di desio

aveva negato Dio, e la signora Eleonora lo aveva ritratto dalla negazione di Dio alla fede. Poi Iacopo Ruffini si uccide, primo martire delle idee del Mazzini, e la madre e l'amico piangono insieme quel povero morto.

Udite, Signore e Signori, l'amor del Mazzini per donna Eleonora: «V'amo (esclama) come una madre, come un'amica, come una santa; v'amo nel passato come l'ente che educò l'anima mia ancora incerta al culto del bello, del buono, della virtù, del dolore, del sacrifizio; v'amo nel presente come la madre di un martire, del primo fra i miei amici, come la creatura più infelice e più meritevole di felicità ch'io mi conosca nel mondo; v'amo nel futuro [99] ed oltre la stessa vita come un angelo che pregherà Dio per me, che si interporrà sempre fra me e la disperazione.»

La passione amorosa, Signore, non ha di queste espressioni!

Un'altra donna il Mazzini amò di vero amore: amore umano, esaltato, fremente di tutte le agitazioni della passione: fu una proscritta che ho già ricordata, Giuditta Sidoli, e che aveva raggiunto nel 1831 gli esuli a Marsiglia.

Si amano con esaltazione; ma ambedue amano la loro idea! E la Sidoli prende il falso nome di Paolina Girard, un'avventuriera, e si fa emissaria della Giovine Italia.

Le amicizie, l'amore, sua madre stessa, tutto, il Mazzini impiegava pel trionfo della causa d'Italia.

La falsa Paolina Girard è spiata, le sue lettere d'amore e quelle del Mazzini, vengono lette dal cinico auditore Bologna, Presidente del Buon Governo a Firenze, col suo sorriso freddo e sarcastico di poliziotto. «I tuoi capelli (scriveva il Mazzini) mi sono stati come il talismano; sei un angelo, sei sublime per me.» E le parlava, dopo altri sfoghi tenerissimi d'affetto, de' suoi compagni d'esilio. «Amami (chiudeva) con tutte le tue forze, dimmelo come nella tua ultima lettera....»

[100]

Ma è un amore infelice! «Piango, gli risponde la povera donna, piango tanto! Ho bisogno di vederti solo per un minuto per lasciar cadere le mie lagrime su di te e dirti che sono stanca di vivere!»

Arrestata, cacciata di Toscana, relegata a Napoli, fuggita di là e rifugiatasi a Lucca, cacciata pure di là, tornata a Firenze, mendicante il ritorno nelle braccia dei suoi figli a Parma, osteggiata dal Duca e dalla famiglia che non le perdonarono mai d'essere stata l'amica e l'emissaria di Mazzini, questa eroina sconosciuta, trasformò l'amore ardente della giovinezza in un'affettuosa amicizia. Assistendo, come fece negli ultimi giorni della vita Gustavo Modena, uno de' primi amici del Mazzini, le parve rivivere coll'uomo amato, ritrovò i ricordi di quei tempestosi ma pur cari giorni d'amore.

Ne' suoi sfoghi melanconici il Mazzini confessava che il suo amore aveva fatto agli esseri da lui amati assai più male che bene.

Affascinava; le donne si affezionavano a lui, tutte, d'un affetto esaltato, mistico.... Quando dovette abbandonare Losanna por Londra, una buona e innocente fanciulla sentì spezzarsi il cuore. Nel silenzio, lentamente, era cresciuto in lei un amore grande per il profugo italiano, pel cospiratore infaticabile: la povera fanciulla diviene malata; i [101] genitori di lei chiamano a Losanna il Mazzini: egli non può, non vuole.... è una dura lotta che sostiene fra la pietà, l'amore, il dovere. «No (grida), io non sono libero davanti a Dio: Giuditta mi ama, io l'amo e le ho promesso di amarla.... Ma quella povera anima soffre....» Ed anche lui soffriva, perchè sentiva che l'avrebbe amata.... e non voleva che morisse!

«Ebbene (scrive allora al Melegari), quello che essa ama in me è la mia fede, il mio amore per l'umanità, per la patria, i miei scritti, la costanza nell'opera intrapresa:... se, per ridarle la pace, voi dovete spogliarmi a' suoi occhi di tutte le mie qualità, strapparle l'aureola di poesia di cui mi circonda, fatelo!»

Signore, questi sono drammi psicologici, sono battaglie interne, dalle quali si può escire vittoriosi, ma si esce sfiniti, ma si esce col cuore straziato!

Il Mazzini esercita quel fàscino che sulle anime gentili esercitano tutti coloro che combattono per una grande idealità: Giorgio Sand lo chiama fratello; vuole che le porga la mano: «Son malata moralmente e fisicamente; ho bisogno di consigli che non ho osato domandare a nessuno, e che voglio da voi!» Ed egli traduce le Lettere d'un viaggiatore, libro che gli era stato come amico e consolatore; [102] scrive la prefazione alla traduzione inglese, proclamando la Sand «la migliore fra le nostre sorelle a cui Dio ha concesso il genio che a lui manca.»

Margherita Fuller, americana, l'amica di Emerson, la nobile donna che curò i feriti alla difesa di Roma, esclama: «Ah! Mazzini, Mazzini! Avrò io l'onore di rappresentare al mondo quanto siete grande?»

Signori, è impossibile, sì mi spinge il lungo tema, ch'io vi accenni, sia pure a larghi tratti, tutta la vita del Mazzini. Fino al 1848 segue un cammino ascendente; è il profeta in cui tanta parte di gioventù ha fede. Appare quel che appariva al comandante la fortezza di Savona — quando guardato a vista gli faceva conoscere di saper tutto quello che avveniva nel mondo — una specie di mago, di genio, di taumaturgo!

Una poesia popolare, credo del Dall'Ongaro, cantava:

Se volete saper dov'è Mazzini

Domandatelo all'Alpi e agli Appennini.

Mazzini è in ogni loco ove si trema

Che giunga ai traditor l'ora suprema.

Mazzini è in ogni loco ove si spera

Versar il sangue per l'Italia intera.

[103]

È la disperazione di tutte le polizie d'Europa, che non arrivano ad atterrarlo.

Dopo il 1849, decade politicamente: nel periodo di raccoglimento, è posto da parte. Egli si unisce con Kossuth, e cercano di far l'alleanza de' popoli, opposta all'alleanza de' re. Mira a trasformar la carta d'Europa, a formargli Stati Uniti, prendendo a base le Nazionalità. L'Austria e la Turchia prevede debban cadere; e le razze slave prendere un gran posto nelle famiglie de' popoli europei, purchè si emancipino dallo tzarismo, sola politica che possa impedire il pan-germanismo.

I disinganni non gli mancarono. Vide in Italia i suoi intenti raggiunti da altri senza e contro di lui: in Germania, in Ungheria formarsi le nazionalità con politica differente dalla sua. Si ritrasse dal movimento con pochi discepoli, sempre agitatore, ma svolgendo principalmente le sue dottrine filosofiche, religiose, sociali. Quasi tutti i suoi antichi amici e compagni di fede si erano stretti alla Monarchia Piemontese.

«Ho la morte nel cuore (scrive ad un giovane amico suo, oggi illustre); io vi portavo un vincolo di simpatie straniere, un po' di fascino esercitato sui giovani d'azione. Potevate giovarvene e spegnermi, annientarmi il dì dopo; non avreste [104] avuto un rimprovero da me, come è vero ch'io esisto!»

Molte profezie sono ne' suoi scritti; molte pagine furon per alcuni

.... savor di forte agrume.

A Napoleone, nello splendore della sua gloria grida: «Un giorno, abbandonato, schernito, maledetto da quei che oggi s'avviliscono di menzogne e di lodi davanti a voi, andrete, vittima espiatrice di Roma, a morire in esilio!»

Allora, lo dissero pazzo!

Di sè affermò che sarebbe alfin venuto a morire in Italia e venne; ma non trovò dintorno a sè che tombe di cari e non più sua madre!

Trovò l'Italia!

Passando da Firenze, colse colle sue mani alcune rose in un giardino e le depose in Santa Croce sulla misera pietra che copre ancora la ossa del cantor de' Sepolcri.

Poi si recò a Pisa, e confortato da profonde amicizie, riposò nella pace della morte la stanca anima!

Lo strumento dell'opera era infranto, ma l'operaio, aveva fede, non sarebbe perito!

[105]

***

Or vediamo particolarmente quali fossero le sue dottrine dalle quali attinse tanta forza per le battaglie della vita!

Come tutti i pensatori, il Mazzini vede immenso il mondo del pensiero puro, del pensiero metafisico e comprende che, senza questo, niente di durevole, di veramente grande si può fare nel campo dell'azione. Certo, Antonio Rosmini costruì un sistema di filosofia più completo, più organico del suo: il Mazzini invece anche più del Gioberti e del Mamiani, consumò le sue forze nello studiare i problemi politici ed economici, e nell'azione!

Il secolo XVIII si era chiuso coll'ateismo materialistico del D'Holbach, col Deismo del Rousseau in Francia, co' successori del Locke in Inghilterra, colla filosofia del Kant in Germania.

Il nuovo si apriva con grandi sistemi metafisici: col panteismo idealistico del Fichte e dello Schelling in Germania, cui terrà dietro il panteismo hegeliano e un ritorno alla filosofia dello Spinoza. In Francia Augusto Comte, dopo aver creato la filosofia positiva, stabiliti i tre periodi teologico, metafisico e positivo, aveva finito col creare una nuova [106] religione: l'essere supremo era l'Umanità. Il sensismo era combattuto da Royer Collard, Jouffroy, Maine de Biran poi da Vittorio Cousin, non estraneo all'idealismo panteistico delle scuole tedesche. E accanto a Vittorio Cousin, l'abate Lamennais che, senz'avvedersene, s'avvicinava alla filosofia dello Schelling. Il Lamennais colle Parole d'un credente aveva rotto colla Chiesa di Roma; e poi aveva dato col Saggio d'una nuova filosofia una vasta sintesi filosofica, la più vasta che in questo secolo abbia avuto la Francia.

In Inghilterra l'Hamilton si faceva notare pel suo Criticismo religioso; Geremia Bentham trionfava colla sua filosofia utilitaria: la Deontologia era divenuta il nuovo codice morale.

Herder, fra i Tedeschi, letterato anche nelle sue opere teologiche e metafisiche, credente, ispiravasi all'alto concetto dell'Umanità, imagine di Dio sulla terra; nell'opera sua Idee sulla filosofia dell'umanità, apparisce come un continuatore di G. B. Vico, vede un miglioramento degli uomini; vede cadere il regno della forza, predice la caduta degli stati fondati sulle conquiste guerriera e religiosa; la riunione per mezzo del Cristianesimo di tutti i popoli in uno solo!

Tutti questi sistemi, specie i panteisti, ebbero [107] influenza sul Mazzini, che apertamente però dichiara di non essere panteista; ma più spiccatamente egli discende dall'Herder e dal Lamennais.

Avversario del Materialismo, sotto tutte le forme esso si presenti, è lontano da un Idealismo eccessivo. Ammette un solo Dio, autore di quanto esiste, del quale il nostro mondo è raggio: la sua legge si manifesta obbiettivamente, nel doppio ordine della natura e della storia dell'umanità; subbiettivamente alla coscienza dell'uomo. E l'uomo, dotato d'intelletto, di volontà, di libertà, può scoprire la legge della vita, conformare gli atti propri all'interpretazione e allo svolgimento della medesima nel seno dell'umanità. L'umanità forma una personalità collettiva che ammaestra e dirige, sotto gli auspicii di Dio, l'opera de' singoli individui e de' popoli, educandoli all'adempimento dei doveri.

Non è panteista: basterebbe per escluderlo l'affermazione del libero arbitrio e la distinzione della personalità umana dal mondo esteriore.

Non deista alla maniera del Wolf e del Lessing, perchè ammette una forma di provvidenza che regola il mondo.

E neppure può dirsi mistico.

La vita per lui non è contemplazione, la vita [108] è missione, è dovere! Pensiero e azione! è la sua formula solenne.

Lo stile biblico delle sue scritture, il potente sentimento religioso, la fede profonda nell'immortalità hanno potuto farlo classificare fra i mistici.

Avverso al materialismo, che solo per un momento attraversò la sua mente, avverso all'egoismo, all'utilitarismo, cerca, ovunque li trova, ausiliari per le sue dottrine.

Si potrà in lui trovare qualche idea dell'Hegel, quando afferma l'umanità eterna, divina, verbo vivente di Dio, religione all'uomo;, il pensiero dello Schelling nell'unione provvidenziale de' disegni di Dio e dei destini dell'uomo; di Beniamino Constant nel riconoscere che il pensiero religioso va congiunto al progresso dell'umanità; del Cousin quando afferma l'eterna e progressiva rivelazione del Creatore nella creatura; dell'Herder specialmente riguardo al Progresso dell'umanità; del Mill, nella critica al Benthamismo, dello Spencer in ciò che riguarda l'evoluzione dell'umanità verso un ideale in cui l'altruismo avrà preso il posto dell'egoismo; ma non è stretto seguace di nessuno; è un pensiero filosofico che doveva sorgere nella prima metà di questo secolo, in una mente e in un cuore come quello del Mazzini.

[109]

Egli afferma avere avuto da Dante la prima ispirazione al suo filosofare, e nelle opere minori del Divino Poeta ritrovar il concetto del Progresso. Ammiratore del Telesio, del Campanella, del Bruno, forse vide in loro più la vita, che la dottrina, che non ebbe maniera di approfondire.

In religione, non è cattolico, non è cristiano; ma molta parte della morale evangelica è ne' suoi Doveri: forse non comprese tutto il valore della sua affermazione quando disse: «Niente ho da togliere alla morale cristiana, ma sibbene alla sua teologia.» E come, nel Cristianesimo, si può staccare la teologia dalla morale? Lo diresti protestante, perchè nega gli intermediari fra Dio e l'uomo; ma il protestantismo è per lui impotente a formar religione; è destinato a morire spezzandosi all'infinito in chiesuole e in sètte.

Vuole l'unità religiosa; ma rigetta il Papato, rigetta le chiese nazionali.

Dove sarà dunque questa suprema autorità religiosa?

Nel Concilio!

Il Concilio dovrà essere adunanza di tutti i credenti per mezzo de' loro mandatari; quello che negli ordini politici dovrà esser la costituente.

«Roma sarà redenta (esclama), Roma diverrà [110] capitale di 25 milioni d'Italiani e diverrà la Roma d'un Concilio che fonderà l'unità religiosa in Europa e porrà fine a tutti gli scismi!» E questa è la vera utopia; il mondo andrà per altre vie; difficile è prevedere l'avvenire religioso dell'umanità, or che vediamo il Buddismo penetrare in Europa. Ma una religione ha bisogno di una fede positiva, concreta, il che manca nel sistema religioso del Mazzini.

Anima d'artista e di letterato, ebbe sempre una speranza che, ritirandosi dalla tempestosa arena politica alla solitudine, potesse consacrare l'ultimo periodo della vita alle lettere, sogno della sua giovinezza; poi, coll'anima inaridita alla gioia dai dolori, dalle delusioni, diciamolo pure, dalla ingratitudine, voleva scrivere un libro sulle idee religiose. Non ne ebbe tempo! Negli ultimi anni dovette combattere l'Internazionale e quella critica filosofica che ci aveva dato la Vita di Gesù e l'Abbesse de Jouarre! Egli combatte Renan, fortemente, colla vigoria giovanile: e quello scritto è come il suo testamento filosofico: uscì, due giorni prima ch'ei morisse, nell'Italia del Popolo.

Si oppose all'individualismo in tutte le sue manifestazioni, in tutte le forme dell'arte. Due termini in ogni questione emergono in lotta, egli dice: l'uomo e l'umanità: e questi termini, queste [111] tendenze sono anche nella musica: si chiamano — Melodia e Armonia — rappresenta la prima l'individualità, l'altra il pensiero sociale. Nell'accordo di questi due termini fondamentali, nella consacrazione di questo accordo ad una santa missione, sta il segreto dell'arte, il concetto della musica europea. Rossini è un titano; Rossini rappresenta però un periodo che ha compiuto il suo intento: il trionfo dell'individualità. Bisogna emanciparsi da Rossini; la musica italiana può isterilire nel materialismo.

Ma, dall'altro campo, la musica tedesca ha Dio, senza l'uomo: rappresenta il pensiero sociale, l'idea senza l'individualità che traduca il pensiero in azione, che sviluppi il concetto: la musica tedesca si consuma nel misticismo.

Presentiva una musica europea, quando i due indirizzi rivolti ad un intento sociale si sarebbero affratellati nella coscienza dell'unità; quando la santità della fede che distingue la scuola germanica avrebbe benedetto la potenza d'azione che freme nella scuola italiana; i due termini fondamentali Dio e l'uomo sarebbero riassunti.

È utopia? si domandava il Mazzini.

Sul nostro labbro corrono spontanei due nomi: quello di Riccardo Wagner e di Giuseppe Verdi.

[112]

A Riccardo Wagner sorrideva questa unione del genio Italiano col genio Germanico; e sperava il suo Lohengrin «l'araldo di queste nozze ideali.»

Giuseppe Verdi, se non ha fatto assolutamente divenir realtà l'utopia del Mazzini, ha dato pure un grande esempio: ha mostrato che l'utopia Mazziniana del 1836 poteva in un tempo non lontano avverarsi.

Ma quell'individualismo nell'arte musicale che egli credeva chiuso, doveva ricomparire e trovare il suo filosofo nel Nietzsche combattente la musica wagneriana ed esaltante il Bizet.

Egli vedeva già nel suo tempo prepararsi i germi d'una filosofia che avrebbe detto: Dio, il mondo delle cose in se, la verità, l'imperativo categorico non esser che fantasmi della nostra imaginazione; la sola realtà conoscibile, il mondo delle nostre passioni; i nostri atti, la nostra volontà, i nostri pensieri esser governati dai nostri istinti, che si riducono ad un solo: la volontà di potere.

Vedeva come un temporale funesto addensarsi sull'umanità, una filosofia che avrebbe affermato la morale una invenzione umana per soddisfare i vari istinti; che avrebbe insegnato a dir sì a ciò che rende la vita più bella, più degna d'esser vissuta; che avrebbe approvato l'errore e l'illusione, se questi [113] allo sviluppo della vita potessero servire; che avrebbe approvato il male, il peccato, se fosse dimostrato che gli istinti, detti cattivi della morale attuale, crudeltà, inganno, audacia, aumentassero la vitalità dell'uomo; che avrebbe negato scienza e moralità se si fosse scoperto che la verità, la virtù, il bene, tutti i valori rispettati e riveriti ora dagli uomini, nuocessero alla vita!

Vedeva una filosofia che avrebbe considerato ogni religione di pietà come degradatrice della stirpe europea e ostacolo alla produzione di uomini superiori, alla evoluzione dell'umanità verso l'Uebermensch, il superuomo; una filosofia che avrebbe combattute le tendenze democratiche, che avrebbe detto: la felicità dell'uomo ha nome «io voglio», quella della donna «egli vuole!»

Per questa filosofia ch'ei vedeva sorgere, la democrazia, suo ideale, diveniva una forma degenerata dello stato; la religione della pietà, una morale da malati; Dio, la verità, il dovere, spariti: l'avvenire dell'umanità posta nel superuomo, nell'ineguaglianza necessaria degli uomini, avente da un lato una casta co' suoi privilegî, i suoi diritti, dall'altro un'altra casta inferiore che deve mantenere le caste superiori e obbedire, conducente una esistenza semi-animale che ha per conforto [114] la Fede e la schiavitù. E al di sopra la casta de' difensori dell'ordine, de' guerrieri, e alla loro testa il Re! E più in alto i savi, i padroni per cui è fatta la morale dell'Uebermensch, di questo Uebermensch che crea la sua morale, la sua verità.

Questa filosofia, invece di affratellare i popoli avrebbe inneggiato alla guerra e veduto con gioia le Nazioni insanguinarsi per l'egemonia del mondo!

Filosofia, che si compendia, nell'also sprach Zarathustra, di Federico Nietzsche il filosofo oggi più letto e studiato dopo Arturo Schopenhauer e Eduard Hartmann, a cui crede ispirarsi una letteratura di moda, che pel momento ha i suoi sacerdoti e i suoi ammiratori.

Quando il Mazzini morì, il Nietzsche non aveva scritto le opere sue maggiori e non era noto che come filologo; ma la tendenza egli l'aveva presentita, temuta e s'era affrettato a combatterla.

E di fronte a questa tendenza individualista e a quella socialista, oppose sempre i doveri degli uomini che sono il riassunto di tutto il suo apostolato religioso, morale, politico, economico. C'è in una forma calda, vibrata, apocalittica, tutta una serie di dottrine da contrapporre alla morale eudemonistica, al Machiavellismo, al Bentamismo, all'opportunismo, alla separazione della morale dalla [115] politica, al socialismo, tutto un sistema da opporre a' libri di Nietzsche e dell'Engels.

Il grande utopista avrà ragione anche nelle sue altre concezioni come ebbe ragione in quella che fu detta Utopia dell'Unità d'Italia? Verrà un giorno un altro Carlyle a proclamare che quell'utopista aveva ragione, che «la sua utopia si è trasformata in una grande e potente realtà?»

Questo l'avvenire deciderà. Il secolo che volge al tramonto lascerà in eredità al futuro molti problemi; e più grandi di tutti, i problemi sociali.

Mente vasta e comprensiva, il Mazzini s'accorse che il vizio de' sistemi stava nel vedere un solo lato del problema umano, una sola faccia del poligono.

La dottrina de' diritti individuali chiudeva un periodo storico; ma era insufficiente e monca. Le classi medie avevano colla Rivoluzione inglese e la Rivoluzione francese, combattuto pe' diritti: conquistati questi, avevan posato, e le moltitudini eran rimaste escluse da' frutti della conquista.

Che cosa sono i diritti, pensa il Mazzini, per chi non ha potenza di esercitarli? Che cos'è la libertà d'insegnamento per chi non ha tempo da consacrare allo studio? A che giova la libertà del commercio, per chi manca di capitali e di credito?

[116]

Colla dottrina de' diritti, dell'utilitarismo del Bentham, colla dottrina della libera concorrenza, i più potenti vincono i più deboli e sprovveduti; la ricchezza si accumula nelle mani di pochi, la miseria cresce nei più; una nuova aristocrazia si vien formando; si crea, non il benessere dei più, ma il lusso di alcuni; si educano gli uomini all'egoismo e all'avidità de' beni materiali.

La moltitudine de' lavoratori è soggetta alla legge fatale dell'offerta e della domanda, alla legge detta dal Marx e dal Lassalle, legge di bronzo: ecco la lotta fra imprenditori e operai!

A tutti questi mali si aggiungono le perturbazioni politiche, derivanti dal sistema degli Stati Europei, i danni economici e sociali de' grandi eserciti.

I mezzi che da' pensatori del suo tempo furono escogitati per rimediare a questi mali, il Mazzini riteneva insufficienti; non le sole Casse di risparmio e altre simili istituzioni filantropiche, perchè (diceva aveva ragione) è difficile l'economia per chi vive nella miseria; non la economia degli ortodossi, perchè mira ad accrescere la ricchezza non a farne un'equa distribuzione; la libera concorrenza, pensava, profitta ai pochi e forti non alle moltitudini lavoratrici.

[117]

Quindi, nè i filantropi nè gli economisti eran per lui atti a risolvere il problema economico, perchè trascuravano l'uomo.

Aveva veduto sorgere i sistemi utopistici dei sansimoniani, de' fourieristi co' falansteri, le idee di Louis Blanc, del Proudhon, il comunismo che accentra nello stato la reggenza economica della società, e il comunismo anarchico, l'apostolo sterminatore, Michele Bakounine.

Nessuno per lui aveva risoluto il problema!

E neppure credeva che avrebbero risoluto il difficile problema le teorie socialiste di Carlo Marx e del Lassalle, nè le teorie dell'Internazionale, perchè reputava difetto massimo di tutti posporre il problema politico e morale al problema economico.

A queste dottrine opponeva ciò che per tanti anni era stato il suo apostolato: il programma della Giovine Italia e della Giovine Europa.

Armonia fra libertà e associazione; al vertice dello stato l'idea della patria: intorno a lei i cittadini uguali per diritti e per doveri; speranza di un equo e prospero avvenire sociale, la cooperazione. La libertà, mezzo non fine; non doversi abolire la proprietà, ma avviare la società verso basi più eque di rimunerazione fra il capitalista e l'operaio; [118] la famiglia, concetto di Dio, doversi render sempre più santa e inanellata alla patria, come la patria all'Umanità.

Signori, oggi in Inghilterra e in Francia questi concetti del Mazzini si studiano con interesse; il concetto delle cooperative trionfa!

In Italia son morti i suoi interpetri, gli apostoli delle sue dottrine; morto Saffi, Quadrio, Campanella; poche anime solitarie (fra le quali fervida sempre d'amore per l'Italia, sua seconda patria, colei che del maestro scrisse degnamente la vita, Jessie White Mario) serbano un culto al Maestro!

Ventura per lui che i malcontenti, gli agitatori di mestiere si sono adunati sotto altra bandiera e che il suo nome non sia più segnacolo in vessillo a partiti turbolenti che, non conoscendolo, tanto era alto per loro, ne fraintendevano le nobili aspirazioni.

Fra le accuse che si muovono al Mazzini non come filosofo, nè come economista, ma al Mazzini uomo, le più insistenti e che ciascuno di voi avrà sentito ripetere, sono di aver sacrificato tante giovani vite, rimanendo egli illeso; di essersi ostinato nel suo ideale repubblicano, creando fatali divisioni nell'Italia risorgente, difficoltà a chi voleva giungere, per vie diverse, all'indipendenza d'Italia.

[119]

Per l'avvenire d'Italia Egli credette necessarie le cospirazioni, il martirio; le religioni, come le nazioni, hanno bisogno de' loro martiri. Risuona ancora quest'aula delle calde parole di Romualdo Bonfadini, colle quali inneggiava al martirio dei Bandiera.

Ma, que' martiri, il Mazzini li piange tutti; non è rettorica il dolore che spira dalle pagine ammirabili sopra Jacopo Ruffini e i Bandiera: è dolore vero che ci commuove, e ci fa anche oggi inumidire il ciglio. I martiri per il Mazzini continuano l'opera loro in un'altra vita... la morte non esiste!

Se Mazzini fosse morto nelle carceri di Genova come Ruffini: fucilato come Vochieri, come i Bandiera: trafitto da armi straniere nelle guerre d'indipendenza del 48, come i professori e gli studenti delle università, o come Pisacane; ferito insieme a tante anime generose, sarebbe stato più grande, perchè il martirio del corpo, ha, per le moltitudini, un gran fascino, ognuno, di qualunque partito, avrebbe portato uno sguardo riverente alla sua memoria.

Il martirologio italiano avrebbe contato un martire di più: ma quanto pensiero fecondo sarebbe mancato!

[120]

Se non ebbe il martirio del corpo, ebbe quello ben più triste, il martirio dell'anima! E l'uomo è preparato più al primo che al secondo; il primo termina in un istante, il secondo dura la vita intera!

E poi vi son tempi in cui bisogna morir come Socrate, altri in cui bisogna combattere come Washington, come Garibaldi; altri in cui ci vuole la penna del pensatore, unita alla spada dell'eroe!

Egli credette di dover compiere una missione; si guardò intorno e non vide nessuno che avrebbe potuto sostituirlo e prosegui, credente, nella sua via triste e silenzioso senza codardo sconforto. «Fo quel che mi pare debito mio (scrisse al Mayer), ma senza entusiasmo o speranza di vita individuale. Benedirei il momento in cui vedessi sorgere altri a predicare la stessa fede ch'io predico per dire è finita e ritirarmi.»

Questo scriveva nel 1849 quando, proclamata la repubblica, era acclamato Triumviro. Morì repubblicano com'era vissuto; non intollerante verso chi, per profondo convincimento, tenne altra via.

«Rimanete (diceva nel 1848), rimanete nelle vie legali, gridate viva Carlo Alberto, esprimetegli gratitudine s'ei fa, ma colla dignità d'uomini che non assorbono tutta la causa in lui.» Però insistette [121] sempre dell'idea che repubblica o monarchia non era questione di forma ma di principio.

***

Il secolo che s'approssima vedrà questa severa figura d'artista, di pensatore, di agitatore, crescere sempre più, sempre più purificarsi. E, come in fondo alla campagna di Roma sorge e s'innalza maestosa la cupola di San Pietro che scompare a chi si ponga sotto di essa, così Mazzini, disconosciuto, calunniato, crescerà nella estimazione de' lontani, sedata l'invidia, l'odio, l'indifferenza de' contemporanei.

Domani, o Signore e Signori, compiono 26 anni dacchè Giuseppe Mazzini è sceso nella tomba; inestinguibili odî e indomati amori hanno già cominciato a cedere il posto a giudizi più sereni. Noi della presente generazione non abbiamo nè gli odî, nè le idolatrie dei nostri padri: abbiamo invece l'amore per chi dette agl'Italiani una patria, per chi aiutò a compiere quello che darà il nome a questo secolo, le nazionalità.

C'inchiniamo riverenti dinanzi a Superga e al Pantheon, come a Santena, a Caprera, a Staglieno.

[122]

Là, dentro la sua tomba granitica, ha finalmente, riposo accanto all'essere che in vita adorò, sua madre, «quest'uomo che (disse scultoriamente Giosuè Carducci) tutto sacrificò, che amò tanto e non odiò mai, che pensò e volle e ricreò una la nazione.»

[123]

LA POESIA PATRIOTTICA E GIOVANNI BERCHET

CONFERENZA
DI
GUIDO MAZZONI.

[125]

Signore e Signori,

Qualche anno fa, nel chiudere una di queste letture fiorentine nelle quali vo ormai militando da veterano, ebbi a citare tra le poche liriche vivaci del secolo XVI la Canzone in laude dei Venzonesi. Concedetemi che di quella chiusa io faccia il principio alla lettura d'oggi.

Nel 1509 i Tedeschi sboccano dalla Pontebba in Italia: i nobili veneziani abbandonano il varco che loro è stato commesso per le difese; ma vi accorre un dottore di Venzone con quaranta de' suoi concittadini; e costoro sorreggono le scorate milizie di San Marco, per tre giorni combattono, aiutati di munizioni da una gentildonna che fonde a ciò le scodelle di stagno e con rischio di vita le reca ella stessa nella battaglia, e ricacciano gl'invasori.

[126]

Eran gionti al stretto passo

Nove milia e più Germani:

Avean preso il monte i cani!:

Ma cacciati fôro al basso

Da quaranta di Venzone.

Su su su, Venzon, Venzone!

Tale il canto allora subito levatosi ad esaltare l'eroica prova fatta dalla virtù italiana che in «tanto piccol bastione» aveva «spinta e esclusa la gente cruda e atroce fuori d'Italia.» Par di sentire il ritornello dell'inno garibaldino. Ed io, qualche anno fa, lette alcune strofe, dicevo: «Un popolo che opera così e canta le sue glorie così, meritava lirici d'arte migliori di quelli del secolo XVI: e perchè li meritava, mutati i criterii dell'arte, li ebbe.»

E proprio a me tocca l'onore di parlarvi oggi di lirici ben più degni che non furono, in genere, que' petrarchisti, que' classicheggianti, e poi que' francesizzanti, più o meno eleganti e ingegnosi, ma senza anima. Subito che il popolo d'Italia fu scosso e sussultò là dentro il secolare sepolcro, e ne risorse con la spada in pugno, se non ancora con l'alloro alle chiome, altri canti ascoltò di speranza e d'incitamento; e li imparò e fe' suoi per le congiure, pe' martirii, per le battaglie. Certo, anche innanzi, [127] dal Cinquecento in giù, si era molto parlato in rima dell'Italia: basti rammentare il Filicaia: «Italia, Italia, o tu cui feo la sorte — Dono infelice di bellezza,» «Dov'è, Italia, il tuo braccio?»; e così via via. Ma che avrebbero mai che fare que' sospiri, anche se fossero tutti sinceri, que' sospiri di cortigiani o di buoni eruditi, con l'enorme voce e co' lapilli ardenti che eruppero dall'Italia, fatta tutta un vulcano? Morivano innocui i sospiri entro una tazza di cioccolata o sulla polvere d'un in-folio; i boati e la lava cacciaron via dalla terra, che gli ondeggiava sotto i piè, lo straniero. Sonetti e canzoni dilettavano, è vero, gli orecchi colti e le fantasie addottrinate co' suoni e con le immagini d'una romanità accademica: ma i canti nuovi confortarono l'esule e il prigioniero, suscitarono nel giovane la bramosia delle congiure o della guerra, mossero e ringagliardirono i muscoli nelle marce, si levarono di tra il fumo delle mischie quasi a guidare «Arcangeli della nuova età» (come il Carducci disse della Marsigliese) le baionette italiane contro gli oppressori.

Non tutti codesti effetti dovremo vedere oggi, perchè il giro prefisso quest'anno alle letture ci rattiene di qua dalle battaglie per l'indipendenza, di qua dal Poerio, dal Mameli, dal Prati, dal Mercantini; [128] ma di tutti sarà facile vedere almeno il germe, nell'esame, sia pur necessariamente rapido, della nostra poesia patriottica nel risorgimento fino al 1846.

I.

La poesia del risorgimento italiano nacque indubbiamente con l'Alfieri; il quale, dopo aver convertito in politico il sentimento civile del Parini, dopo aver mosso su le scene guerra a' tiranni, e aver cantato l'abbattimento della Bastiglia, e averne baciate le rovine con labbro di fervido ammiratore della Rivoluzione, sbigottì degli eccessi, e odiò i Francesi calati e rimasti in Italia non tanto da redentori quanto da spadroneggiatori. Pare che su gli estremi della vita si pentisse, almeno un po', di aver confuso i rancori suoi privati e il disdegno de' fatti brutali con la grande idealità, la grande opera, la grande efficacia, che erano state ad ogni modo e duravano ne' rivolgimenti dal 1789 in poi: ma se quel sentimento lo fe' dubitare, forse, di essere riuscito, nel Misogallo, ostile a torto o troppo; perchè mai avrebbe dovuto rinnegare la dedica del Bruto II al futuro popolo italiano, e il sonetto in cui aveva [129] vaticinato che quel popolo, educato anche da lui medesimo nella coscienza nazionale, sarebbe poi sceso in campo contro i Francesi? Potè rimpiangere di avere scagliato qualche freccia avvelenata, non già di avere ridesti gli animi e poste egli in mano le armi ai soldati dell'Italia sua.

Se non che, mentre l'Alfieri da quella solitudine sdegnosa, e direi misantropica per amor di patria, guardava bieco gli eventi, questi suscitavano intanto per ogni parte della penisola, e più specialmente a Torino, a Milano, a Venezia, a Bologna, le voci de' verseggiatori in due cori discordi, d'ammirazione e amore, di scherno e abominazione. Non mette il conto d'aggiungere che le vittorie del Bonaparte fecero presto tacere quest'ultimo coro, nè, finchè il primo console e l'imperatore durò, più che qualche sommesso borbottìo o qualche maliziosa risata fecero agli orecchi bene attenti la parte commessa un tempo da' Romani agli schiavi ne' trionfi. Fatto sta che avemmo subito, nel 1796, la Marsigliese:

Cittadini, a noi tornati

Son di gloria i fausti giorni;

De' Tiranni insanguinati

La memoria già perì;

e tutto un Parnaso democratico ossia Raccolta di poesie repubblicane de' più celebri autori viventi [130] uscì in luce nel 1801, vantandosi de' nomi (per dir solo i principalissimi) del Gianni, del Fantoni, del Mascheroni, del Foscolo, del Monti. Ne' due volumetti del Parnaso è manifesto, non pure il fatto storico, essere ormai in molti eletti pieno e cosciente il desiderio d'un'Italia unita tutta quanta e indipendente e libera, perfino con Roma capitale, ma anche la tendenza estetica verso espressioni nuove della vita nuova nazionale. Certo vi perdurano i metri consueti alla lirica patriottica de' secoli innanzi, il sonetto meditato, la grave canzone; e non vi mancano le immagini e i nomi della mitologia e della storia greco-romana, cui anzi davano un certo rincalzo gli avvenimenti stessi; ma si fa innanzi ardita e snella ne' settenarii e negli ottonarii la canzonetta, e l'inno vi romoreggia d'incalzanti decasillabi.

Onde ecco scendere sulla Lombardia due nuove Dee, la Fede e la Libertà, sorelle:

Ecco l'aere d'Insubria, e la terra

D'una luce novella risplende;

È la coppia divina che scende

Dai natali soggiorni del Ciel.

L'una Diva sostien la grand'asta

Colla mano ai tiranni funesta;

L'altra copre le membra e la testa

E i bei lumi d'un candido vel....

[131]

Ecco giungonsi amiche le destre,

L'una e l'altra concorde si abbraccia.

Sembra un inno del 1848 per Pio IX. Sapete chi, nel 1796, cantava così? Un seminarista, infervoratosi nel piantare l'albero della Libertà in mezzo al cortile del suo Seminario; e quel seminarista era Giovanni Torti; l'amico del Berchet e del Manzoni; l'autore de' versi che il Manzoni dirà pochi ma valenti; il patriotta che da vecchio esulterà ammirando e cantando in Milano, ben altro che l'albero della Libertà!, le barricate de' cinque giorni gloriosi.

Basti un tale esempio per tutti. E voi mi concederete, a vantaggio vostro, di saltar più anelli della catena che lega strettamente, più assai che non veggano di solito i critici della nostra letteratura, la poesia di quegli anni fortunosi a quella che fu poi detta romantica. Ma di tal saldatura ecco subito una conferma e una riprova: proprio quel Parnaso democratico del 1801 fu ristampato a Bologna da' liberali rivoluzionarii nel marzo 1831, come libro di propaganda, sotto il titolo nuovo d'Antologia repubblicana: e in fine, senza alcuna avvertenza, come normale e giusta continuazione, vi si trovano rime di Gabriele Rossetti e di Giovanni Berchet. Chè il grido gioioso del poeta [132] abruzzese per la rivoluzione napoletana del '20, e il grido incitatore del poeta milanese pe' moti del '30 nell'Emilia e in Romagna, dovevano apparire infatti, quali erano, la risposta che tutto un popolo faceva ormai, unanime e ad una voce sola, a ciò che pochi eletti, su la fine del secolo scorso e su' primi di questo, avevano cantato volgendosi a lui.

Ma se a intendere come Napoli e l'Italia ebbero dal '20 in poi l'arte del Rossetti non occorre quasi altro che tener d'occhio lo svolgersi della lirica dal Metastasio nel Monti, e dal Monti ne' suoi immediati prosecutori, per l'applicazione ai fatti e ai sentimenti politici; mal s'intenderebbe l'arte del Berchet trascurando a questo punto colui che gli fu amico e maestro, Alessandro Manzoni.

Oh come ho goduto, mercoledì scorso, a sentirne in questa medesima sala le lodi, dalla voce eloquente del Panzacchi, a proposito de' Promessi Sposi! Nè per la strettezza dell'ora potè l'amico mio aggiungere alle altre questa lode, che il libro, nel '27, quando uscì, era altamente benefico anche perchè animato di nobile patriottismo. Non sono un'allegoria, come affermarlo sul serio?, i Promessi Sposi: gli Spagnuoli che vi son descritti nostri padroni nel secolo XVII, son essi gli Spagnuoli, [133] e non i Tedeschi del XIX; Renzo è un povero contadino lombardo, non il popolo italiano angariato; e le sue nozze con Lucia, avversate da don Rodrigo e aiutate da fra Cristoforo, non simboleggiano per nulla le nozze del popolo italiano con l'Italia, a dispetto della Santa Alleanza, sotto la protezione del pontefice. No; mettiamo da parte queste chimere. Ma appunto perchè la macchina fantastica del romanzo s'incardina così saldamente nella verità storica, e la Lombardia sotto il mal governo straniero è rappresentata quale veramente fu, miseranda; quanti seppero leggere e ripensarono (che che ne pensasse sulle prime anche il Berchet) si accorsero la lezione del passato valere pel presente e dover valere per l'avvenire: un popolo non può essere felice quando è amministrato dallo straniero. Così i Promessi Sposi apparvero fecondi di bene morale e politico anche al Sismondi e al Giordani; quegli protestante, questi classicheggiante: e contro ciò cui poteva indurli la loro fede religiosa ed estetica verso un'opera d'intendimenti cattolici e di fattura romantica, que' due valentuomini le plaudirono. L'Italia, dissero, di tali libri ha bisogno. E libri tali che neppur la cruda censura austriaca poteva proibire, erano anche per ciò meglio desiderabili ed efficaci; come efficaci, voi lo [134] sapete, riuscirono per la loro semplice verità Le mie prigioni del Pellico. Più d'un censore austriaco de' furbi, io mi credo avrebbe preferito di gran lunga si diffondessero i canti della maledizione anzi che sì fatte pagine innocue della così detta rassegnazione.

II.

Ma tutto il Manzoni, per grande che egli quivi apparisca, non sta entro i Promessi Sposi; nè tutto il pensiero suo politico sta in un consiglio indiretto. Quando nel '27 diè in luce il romanzo, già da un pezzo aveva scritte le liriche e le tragedie, e tutti già lo acclamavano o biasimavano capo di quella scuola romantica che era ormai sinonimo di congiura liberalesca, come scuola classica voleva ormai dire congrega di reazionarii e di spie: tanto fra noi la questione letteraria si era rapidamente snaturata e confusa nella grande questione nazionale. E già allora i prigionieri dello Spielberg si canticchiavano l'un l'altro a consolazione certi versi del Trionfo della Libertà del Manzoni giovinetto; già i nostri giovani imparavano a mente i cori del Carmagnola e dell'Adelchi; già gli amici del poeta [135] sapevano la canzone pel Proclama di Rimini del '14 e l'ode pe' moti del '21.

Al Manzoni, che nel '14 firmò la protesta contro il Senato perchè gli sembrava non doversi invocare dagli stranieri il re, ma adunare i comizi che deliberassero: nel '48 firmò, durante le Cinque giornate, per la strada, sul cappello d'un amico, la petizione a Carlo Alberto perchè occupasse Milano, e s'addolorava poi che la firma, riuscitagli necessariamente tremula in quel disagio, potesse esser creduta tremula per altra ragione; accolse in sua casa il Mazzini, e gli disse: — Noi due siamo forse i più antichi unitarii che conti fra i vivi l'Italia! —: accolse il Garibaldi, e, andandogli incontro, esclamò: — Se mi sento un nulla dinanzi a qualsiasi de' vostri Mille, che sarà dinanzi al loro capitano? —; accettò di esser fatto senatore del Regno d'Italia, e le due volte che si recò a votare furono per la proclamazione del Regno e pel trasferimento della capitale da Torino a Firenze, verso Roma; di Roma libera accettò la cittadinanza onestamente vantandosi delle aspirazioni costanti della lunga sua vita all'indipendenza e unità d'Italia; scrisse parole di reverente encomio per Anita Garibaldi; rifiutò di dettare l'iscrizione pel monumento milanese a Napoleone III, reo di Villafranca [136] e Mentana; al Manzoni, tale e storicamente sì fatto, nessuno può ormai, nè deve, negare un alto sentimento patriottico, non scemato mai dalla fede cattolica altamente sentita, e serbato incolume e puro, sempre, da ogni indegna mistura.

Bene ha narrato Giambattista Giorgini il dialogo tra il Manzoni e il Cavour quando, proclamata la costituzione del Regno, uscirono que' due insieme dal palazzo Madama, e la folla ammirata li applaudì. «Due grandi forze avevano fatto insieme l'Italia. Prima il sentimento a cui s'era inspirata tutta la nostra letteratura, quando, da palestra di verseggiatori eruditi, che era divenuta dopo il Petrarca, tornò a essere nazionale e civile. Secondo, la politica di Casa Savoia. Queste due forze avevano camminato per secoli verso la stessa mèta, ma senza conoscersi, senza sapere l'una dell'altra: anzi l'una dell'altra sospettose e nemiche. I due più grandi rappresentanti di queste due forze che s'eran finalmente incontrate, qui per la prima volta si mostravano insieme, e si stringevano in quel momento la mano.» Il Manzoni, agli applausi, non resse; e nella sua invitta modestia, per istornarli da sè, si volse anche lui al Cavour e si diè a picchiar le mani più forte degli altri. Poi, usciti dalla calca, là ne' Portici, un battibecco: a [137] chi andavano veramente quegli applausi? nessun de' due li voleva per sè.

— Insomma, disse il Manzoni, Ella vorrebbe ch'io dessi ragione al campanaro che, sentendo levare a cielo la predica, si meravigliava che tutti lodassero quello che l'aveva fatta, e nessuno parlasse di lui, che l'aveva sonata. — Sicuro, rispose il Cavour; se il campanaro non l'avesse sonata, nessuno ci sarebbe andato, e il predicatore avrebbe parlato alle panche! —

Già, una buona parte di questa Italia si deve ai poeti! esclamò poi Garibaldi, il poeta che poco innanzi di morire salutava sul davanzale della finestra le capinere, riconoscendo in esse le anime delle sue bambine. Il Cavour e Garibaldi ebbero piena ragione. Fu l'arte che in Italia diffuse e scaldò l'amore alla patria; l'arte in tutte le sue forme, plastiche, figurative, melodiche, letterarie; fin là dove meno si addiceva, nella espressione cattedratica della scienza. Ma di esse forme vi si prestò una più direttamente, la poesia; nel melodramma, nel dramma, nel romanzo (che fu allora più che mai opera di poesia), nella lirica, nella satira. Nè voi crederete che io possa in tempo sì corto parlarvi a fondo di tanto; e vi attenderete da un altro lettore almeno la figura di Giuseppe Giusti e l'esame [138] dell'arte di lui, del quale così nel 1846 scriveva il Berchet ad una ammiratrice di tutt'e due: «Uno sguardo acuto e malizioso sulle magagne del secolo, una forma nuova data alla satira, e un'assenza di tutte le reminiscenze della scuola, uno stile vividissimo, un accozzamento di imagini originali, una lingua tutta fresca; che vuol di più?»

La musica. «Veramente per amare la musica italiana d'oggi e comprenderla con intelletto d'amore (scriveva nel 1828-29 Arrigo Heine) bisogna aver dinanzi agli occhi il popolo stesso, i suoi dolori, le sue gioie.... Alla povera Italia schiava è vietato di parlare, ed ella non può esprimere i sentimenti del cuor suo che per mezzo della musica. Tutto il suo odio contro la dominazione straniera, il suo entusiasmo per la libertà, il tormento della propria impotenza, il mesto ricordo dell'antica grandezza, e poi la debole sua speranza, l'ansioso attendere, la bramosia di soccorso; tutto ciò si nasconde in quelle melodie che dalla più grottesca ebbrezza della vita trascorrono in elegiaca tenerezza e in quelle pantomime che da lusinghevoli carezze prorompono in minaccioso sdegno.» Nè le melodie avevano in sè tale anima, senza che le parole del libretto non si sentissero talvolta sospinte a incauti sospiri, a gridi pericolosi. Si alza fin dall'Italiana in Algeri, già [139] nel 1813, d'accanto a Mustafà che sta per essere nominato Pappataci, la cabaletta patriottica:

...... Ah se pietà ti desta

Il mio periglio, il mio tenero amore,

Se parlano al tuo cuore

Patria, dovere, onor, dagli altri apprendi

A mostrarti Italiano, e alle vicende

Della volubil sorte

Una donna t'insegni ad esser forte.

Pensa alla Patria e intrepido

Il tuo dovere adempi;

Vedi per tutta Italia

Rinascere gli esempi

D'ardire e di valor!

Se questo fu nel melodramma buffo, voi sapete quanto più nel serio: e anche là dove nè il maestro nè il librettista ci avevan pensato, musica e versi divampavano di patriottismo per la volontà sovrana del pubblico, che non pur coglieva a volo ogni allusione, ma occasioni e pretesti inventava da sè. Più ancora, ben s'intende, nel dramma, dove cercata e voluta fu da tanti la diretta o indiretta commozione del sentimento liberale; dallo slancio, fuor di luogo, di Paolo nella Francesca del Pellico:

Per te, per te che cittadini hai prodi,

Italia mia, combatterò se oltraggio

Ti moverà la invidia. E il più gentile

Terren non sei di quanti scalda il sole?

[140]

D'ogni bell'arte non sei madre, o Italia?

Polve d'eroi non è la polve tua?

Agli avi miei tu valor desti e seggio,

E tutto quanto ho di più caro alberghi!

alla profezia di Giovanni da Procida nella tragedia del Niccolini, profezia che il vecchio poeta potè rammentare con nobile orgoglio a Vittorio Emanuele II in Firenze nel 1860:

Qui necessario estimo un re possente;

Sia di quel re scettro la spada e l'elmo

La sua corona. Le divise voglie

A concordia riduca; a Italia sani

Le servili ferite e la ricrei;

E più non sia, cui fu provincia il mondo,

Provincia a tutti, e di straniere genti

Preda e ludibrio. Cesseran le guerre

Che hanno trionfi infami; e quel possente

Sarà simile al sol mentre con dense

Tenebre ei pugna, ove fra lor combattono

Ciechi fratelli; e quando alfine è vinta

Quella notte crudel, si riconoscono

E si abbraccian piangendo!

alla sentenza che divenne proverbiale, nel Giovanni da Procida stesso,

...... Il Franco

Ripassi l'Alpi e tornerà fratello!

a tutto quanto l'Arnaldo da Brescia, dove l'argomento [141] non porge soltanto occasioni ma è esso stesso concepito dal poeta come una macchina di guerra, contro le idee che a lui sembravano dannose, e per la libertà degli ordinamenti e delle coscienze.

Affine al dramma storico fu allora pensato ed eseguito, con la mistura del racconto e del dialogo, quel genere di romanzo di cui il germe spiccatosi da un dramma del Goethe si era svolto così mirabilmente sotto il caldo alito avvivatore dello Scott.

Dianzi ho richiamata per un momento la vostra attenzione a considerare il valore de' Promessi Sposi, anche rispetto al sentimento patriottico; ma come sfuggirei meritata censura di grave dimenticanza se non rammentassi qui i libri del Guerrazzi? La Battaglia di Benevento e L'Assedio di Firenze, ne' quali ei volle di proposito, fondendo insieme il romanzo storico dello Scott co' poemetti epico-lirici del Byron, combattere una battaglia, ebbero su la gioventù l'ardente sapore e i rapidi e convulsi effetti dell'alcool. E dopo di essi piace rammentare i libri del Grossi, del Cantù, del D'Azeglio, di tutt'altro intendimento e di tutt'altra esecuzione: perchè appunto, in tanta varietà di temperamento e di propositi estetici, stupenda riesce la concordia universale a conseguire un fine comune.

[142]

III.

Siamo giunti alla lirica. Delle voci che essa ebbe ne' primi decennii del secolo nostro, due furono le solenni: quella del Manzoni e quella del Leopardi. Ora, se difficilmente si potrebbe immaginare tanta differenza tra due scrittori quanta veramente fu tra l'uno e l'altro di loro; da una parte il romantico, dall'altra il classico; dall'una il credente cattolico, dall'altra il filosofo scettico; un amore ebbero comune, e lo espressero tutt'e due liricamente.

.... L'armi, qua l'armi: io solo

Combatterò, procomberò sol io.

Dammi, o ciel, che sia foco

Agl'italici petti il sangue mio!

esclamava romanamente il povero contino di Recanati, dopo aver da poco dismesso l'abito di seminarista. Poi disperò di tutto e di tutti; o forse credè disperare? Quel dolore mondiale bene il Mazzini vide che celava la ferita profonda d'un dolore personale, ferita esulcerata dalle sorti della patria. Alla quale a ogni modo diede il Leopardi anche i canti pel monumento a Dante, per Angelo Mai, per [143] le nozze della sorella Paolina, per un vincitore nel pallone: augurandole uomini e donne forti, e animatori al bene gli esempii de' grandi nel passato, i conforti de' migliori nel presente. Fin quando, esausto dal male, si diè a deridere nell'allegoria de' Paralipomeni la rivoluzione napoletana del 1820-21, nel narrare la morte eroica di Rubatocchi, dinanzi a quel topolino che si sacrificava alla patria ei fu vinto dal fantasma della virtù che aveva fatto sconfessare da Bruto, e a lei si volse con l'apostrofe fervida: — Santa Virtù! — dove Virtù val quanto Amore di patria. Onde Alessandro Poerio, che doveva morire di piombo austriaco, difendendo egli napoletano Venezia, nel piangere la morte del Leopardi, bene a ragione lo esaltava poeta della patria comune e magnanimo consigliere de' futuri soldati d'Italia; e bene a ragione le polizie proibivano que' canti ribelli e perseguitavano chi li possedesse.

Dal canto suo il Manzoni, con modi e intenti, in tutto il resto, diversi; e già accennai ad alcune delle sue poesie dal Trionfo della Libertà in poi. Chi tanto ammirava l'Alfieri da sdegnarsi, pure amando il Monti, che altri osasse metterli a pari, s'era nel 1814 levato su, in una canzone, contro la memoria delle guerre di Napoleone che aveva [144] tratti fuor d'Italia, per una causa non loro, gli Italiani; e aveva detto, egli il Manzoni, ciò che poco dopo dirà con simile pensiero il Leopardi:

Oh giorni! oh campi che nomar non oso!

Deh! per chi mai scorrea

Quel sangue onde il terren vostro è fumoso?

O madri orbate, o spose, a chi crescea

Nel sen custode ogni viril portato?

Era tristezza esser feconde e rea

Novella il dirvi: un pargoletto è nato.

E al proclama del Murat, l'anno dopo, quel proclama in cui si suscitava dalle Alpi allo stretto di Scilla l'Italia tutta alla indipendenza, aveva dato la canzone, che pur gli rimase interrotta dagli eventi, in cui affermava:

...... Eran le forze sparse

E non le voglie; e quasi in ogni petto

Vivea questo concetto:

Liberi non sarem se non siamo uni;

Ai men forti di noi gregge dispetto,

Fin che non sorga un uom che ci raduni.

L'impresa del Murat fallì; l'Italia cadde tutta, volente o nolente, sotto le unghie dell'Austria, fredde e aguzze. Ma non per nulla i soldati nostri avean combattuto accanto ai Francesi più anni eroicamente; non per nulla quanto la penisola aveva di menti e di cuori aveva meditato e scritto [145] e cantato su la libertà e l'indipendenza nostra. Napoli e il Piemonte insorgono, vogliono la costituzione, la ottengono: i Lombardi sperano che le milizie costituzionali scendano in campo a liberare anche loro, e, affrettandosi incontro, varcano il Ticino.

Soffermati sull'arida sponda

Volti i guardi al varcato Ticino,

Tutti assorti nel nuovo destino,

Certi in cor dell'antica virtù,

Han giurato: Non fia che quest'onda

Scorra più tra due rive straniere;

Non fia loco ove sorgan barriere

Tra l'Italia e l'Italia, mai più!

L'han giurato: altri forti a quel giuro

Rispondean da fraterne contrade,

Affilando nell'ombre le spade

Che or levate scintillano al sol.

Già le destre hanno stretto le destre;

Già le sacre parole son porte:

O compagni sul letto di morte

O fratelli sul libero suol.

Il metro, e un qualche accenno, vi han subito rammentato l'inno del Torti seminarista; ma non mi curavo di farvi osservare ciò (che ha mai che fare, quanto alla forza lirica, l'inno di lui con questo del Manzoni?), e il raffronto, se mai, tende a un'osservazione che dovrem fare più oltre. Qui importa [146] soltanto riconoscere, che il Manzoni, come già per la lirica sacra, nel coro La battaglia di Maclodio, e in questi versi, accettava i metri e le intonazioni de' predecessori suoi, che furon molti tra piccoli e minimi nella poesia della seconda metà del secolo scorso e ne' primi anni del presente: se non che, infondendovi per entro l'anima e l'arte sua superiori, veniva a effetti originali e spesso sublimi.

Sublime è infatti la chiusa, come di rado fu la lirica antica e la moderna:

Oh giornate del nostro riscatto!

Oh dolente per sempre colui

Che da lunge, dal labbro d'altrui,

Come un uomo straniero, le udrà!

Che a' suoi figli narrandole un giorno,

Dovrà dir sospirando: io non c'era;

Che la santa vittrice bandiera

Salutata quel dì non avrà.

Sorrideva poi, da vecchio, il Manzoni quando gli chiedevano se proprio allora, nel '21, avesse composto questi versi profetici, o non piuttosto nel '48 dopo le Cinque giornate; sorrideva, e confessò ch'era stato profeta.

[147]

IV.

I moti del 1820-21 mandarono allo Spielberg il Pellico: e Giunio Bazzoni ne pianse la morte, di cui s'era a torto sparsa la voce, in un'ode allora famosa: là anche mandarono il Maroncelli; ed egli, mentre aspettava l'amputazione della gamba, inviava canticchiando alle aure d'Italia una sua improvvisata canzonetta. Que' moti stessi fecero passare in Inghilterra, tra altri molti, Gabriele Rossetti e Giovanni Berchet.

Scoppiata la rivoluzione, il Rossetti, tra il popolo che glielo chiedeva, aveva improvvisato a Napoli un canto che era divenuto subito popolare. — Oh finalmente siam liberi! — e il facile improvvisatore e librettista eccolo tessere rime in ghirlanda attorno al ritornello tolto dalla canzone del Metastasio a Nice:

Non sogno questa volta,

Non sogno libertà!

Poi un altro canto, del pari improvvisato, per l'alba del 9 luglio 1820, quando il re giurò la costituzione per farsi, come poi si vide, spergiuro:

Sei pur bella cogli astri sul crine!

[148]

Ma di lì a pochi mesi, minacciato di morte come carbonaro, si salvò travestito da officiale inglese e andò a Malta. Dal vascello inglese che lo recava nell'esilio malediva «il re fellone». Poi, a Londra, rabbrividendo sotto la nebbia eterna, rimpiangeva il sole del suo Mezzogiorno; ma quando gli veniva in mente a qual caro prezzo di libertà e umana dignità i suoi concittadini se ne godessero i raggi, preferiva durare a soffrire:

O Britannia venturosa,

Trista nebbia, è ver, t'ingombra,

Ma quest'ombra orror non ha.

Sii di luce ancor più priva

Pur ch'io viva in libertà!

Là a Londra andava, dopo la carcere austriaca, Giovita Scalvini bresciano, che a quel clima non resse, e ne riparò in Francia. Meditava sull'amara lezione, si accorgeva che le congiure non basterebbero a suscitare la nazione tutta, e al poemetto L'Esule affidava così i suoi dolori come gli ammonimenti: — No, l'Italia non leverà l'infermo fianco da terra senza il poderoso braccio della sua plebe. —

E là a Londra, del pari, il modenese Pietro Giannone, che carcerato due volte non aspettò la terza; improvvisatore come il Rossetti, esule come lui. Da Londra, nel '27, è datato il suo Esule, romanzo storico [149] in versi, sui carbonari emiliani, in cui confessava d'aver troppo sovente sacrificato al cittadino il poeta; santo sacrificio, quando l'arte voleva e doveva riuscire arma di guerra. Dopo aver tanti anni tribolato senza casa e senza tetto, senza refrigerio, ostinato nel peccato dell'amore di patria, come bene cantò di lui il Giusti, morì, voi lo sapete (e forse tra voi mi ascolta chi gli fu gentile consolatrice) qui a Firenze, tra noi, nel '72.

E là anche a Londra, Giovanni Berchet. Nato a Milano il 23 dicembre 1783, aveva cominciato la sua vita di poeta, a venti anni, traducendo nel 1807 dall'inglese del Gray le maledizioni e le tremende profezie scagliate dal bardo gallese, superstite a tutti i trucidati compagni, su Odoardo I invasore e carnefice, innanzi di precipitarsi dalla rupe ne' flutti, subito dopo compiuto quel suo canto postremo. Si direbbe un simbolo profetico della Musa dello stesso Berchet. E intanto satireggiava con eleganza su' funerali e sull'amore, secondo la tradizione pariniana, rinnovata allora dallo Zanoia e dal Manzoni medesimo ne' sermoni: ma più gli era giovamento, e nella vita, per gli offici, e nell'arte, per l'avanzamento del gusto, tradurre ancora dagli stranieri, il Visionario dello Schiller, il Vicario di Wakefield del Goldsmith, rimpiangendo nella prefazione di [150] questo libro, che tanto bene potrebbero fare i romanzi, e nol facessero, e che il buffone alle spese della virtù avesse più fortuna che il moralista. Così nel 1809 invocava (e qui l'augurio profetico va sul Manzoni) che l'Italia imitasse pe' romanzi buoni l'Inghilterra. Ora, nel Vicario è una ballata che il Berchet tradusse in polimetro; d'un pellegrino che chiede ricovero a un eremita; e questi, impietosito dal dolore di lui, lo ricetta, lo ascolta, finisce con l'accorgersi che è una fanciulla; ed ella gli narra allora come già derise Edevino che l'amava; onde Edevino disperato andò a morir nel deserto, ed ella ne cerca la tomba a morirvi sopra: naturalmente si riconoscono, e fan pace. Chi pensasse ad alcun che di mezzo tra il Bardo del Gray e l'Edevino del Goldsmith, un poemetto cioè in cui lo spirito del canto politico fosse infuso nella forma d'una ballata affettiva, avrebbe ciò che riuscirono le romanze patriottiche del Berchet.

Nel novembre del '21 si trovava questi una sera in casa di amici, quando eccovi un commissario di polizia, che trae da parte una signora nota per le opinioni liberali, e l'avverte secretamente, qualsiasi ne fosse la ragione, che il conte Confalonieri sta per essere arrestato. Il Berchet ode l'avviso; sa di che ha da temere anche per sè; corre a casa; fugge, mentre [151] la sorella gli arde tutte le carte; e quando la polizia arriva a perquisire e sequestrare, egli è di là dal confine, in salvo. Quali colpe temeva lo facessero impiccare o dannare al carcere duro? Era stato col Pellico l'anima del Conciliatore, il giornale romantico; aveva aiutato con mille lire dell'Arrivabene a comprare un cavallo per un aiutante di campo di Carlo Alberto!; era de' liberali sospetti già innanzi i moti del '21, sì che il governo gli aveva negato un officio di traduttore. E che d'essere sospetto si meritasse, mostrò indi a poco ne' fatti.

A Londra, impiegato in una casa commerciale di milanesi, sentì subito profondamente ciò che gli esuli italiani fossero allora; e potrebbero essere sue le parole che indi a poco scriveva di là Santorre Santarosa al Panizzi: «L'emigrazione italiana prende, a' miei occhi, un carattere di permanenza; comunque sia, è certo che ha un carattere storico: e siamo tutti debitori all'infelice nazione di cui siamo la parte sagrificata, di ogni nostra opera, di ogni nostro pensiero nell'esilio non meno che se noi fossimo nel fôro di Roma o nei comizi di Modena o di Torino. Possiamo onorare il nome italiano nella Gran Brettagna coll'intierezza della vita, coll'utilità dei lavori, colla dignità dei discorsi e dei costumi, e col sopportare, anzi vincere, la povertà colla costanza [152] e col lavoro.» Ed egli, il poeta, mentre teneva la corrispondenza mercantile, dando più lavoro di quanto il principale benefico volesse, e sfuggendo alla tentazione di farsi troppo amico del Foscolo, che non godeva piena stima per poca dignità di vita, scriveva a conforto suo e a vantaggio della causa italiana I profughi di Parga, cominciati a Milano, e scriveva e pubblicava a più riprese le romanze sotto l'emblema di una lampada in cui una mano versa nuovo olio, col motto alere flammam, e l'altro motto in epigrafe «Adieu, my native land, adieu» (doloroso compendio di dolori e speranze); Clarina, Il romito del Cenisio, Il rimorso, Matilde, Il trovatore, Giulia. Quindi, nel '29, Le Fantasie.

V.

Ciò che, sotto le apparenze di Grisostomo, il Berchet aveva detto nella Lettera semiseria sul Cacciatore feroce e sulla Eleonora del Bürger, che fu nel 1816 l'esplicito programma della scuola romantica in Italia, la poesia dover essere popolare di caratteri e propositi, e tale di modi da riuscire accetta ed efficace ai più, fuor dalla strettezza delle regole viete e della vieta mitologia, in argomento da suscitare [153] gli affetti vivi a scopo di bene; egli stesso cercò di ottenere con que' poemetti e nelle romanze.

Parga, sulla costa dell'Albania di contro a Corfù, per salvarsi dai Turchi si era data agli Inglesi protettori: e questi nel '19 la rivenderono ai Turchi. Il fatto pietoso mosse tutta l'Europa cristiana: il Goethe lo consigliava al Manzoni come argomento adatto a suscitare di per sè quella commozione che sembrava anche a lui potersi desiderare più intensa ne' drammi mirabili del poeta italiano; il Leopardi voleva introdurlo come episodio in una sua canzone alla Grecia; anche il Byron vi pensava su per qualche lirica; e una gentildonna italiana, saputo di tale intendimento dell'inglese, si affrettava a novellarne in prosa.

Avevano que' di Parga dissotterrate le ossa de' morti loro, che non fossero profanate da' Mussulmani; e sopra un rogo di fronde d'olivo le avevano arse; poi, compiuta la sacra cerimonia, s'erano imbarcati per Corfù. Il Berchet esule fa narrar la scena pietosa alla moglie d'un eroe di Parga, che dal rogo ha sottratte le ossa di due fratelli suoi, uccisi dal Turco, e seco le ha recate, e vi spasima su, rammentando la patria perduta: sì che tenta d'uccidersi. Ed è quello il punto più alto esteticamente del poemetto:

[154]

Quando il rogo funereo fu spento

Noi partimmo: — e chi dir ti potria

La miseria del nostro lamento?

Là piangeva una madre, e s'udia

Maledire il fecondo suo letto,

Mentre i figli di baci copria.

Qui toglievasi un'altra dal petto

Il lattante, e fermando il cammino,

Con istrano delirio d'affetto

Si calava al ruscello vicino,

Vi bagnava per l'ultima volta

Nelle patrie fontane il bambino.

E chi un ramo, un cespuglio, chi svolta

Dalle patrie campagne traea

Una zolla nel pugno raccolta.

Noi salpammo: — e la queta marea

Si coverse di lunghi ululati,

Sicchè il dì del naufragio parea.

Ma non è quivi l'intendimento vero del poeta: la scena non è per lui che un mezzo onde cattivare agli esuli tutta la commiserazione de' lettori: a lui importa, quando la commiserazione sia piena, mostrarci a che debba condurre l'amor della patria. L'uomo di Parga è stato salvato, fuor dalle onde in cui si gettò, da un officiale inglese; e da questo ha l'offerta di soccorsi; ed ha l'affermazione del biasimo che ogni onesto inglese diè al governo della turpe vendita di Parga. Ebbene, quell'esule miserrimo respinge l'aiuto. Oh, è ormai guarito [155] l'esule, nè cercherà più sottrarsi al doloroso dovere della vita; piegherà a' lavori più umili de' campi la mano avvezza alla spada; ma non sarà che avvilisca sè e la patria accettando l'oro di chi è d'una patria che ha tradita e venduta la sua!

Forse il dì non è lunge in cui tutti

Chiameremci fratelli, allorquando

Sopra i lutti espiati dai lutti

Il perdono e l'oblio scorrerà.

Ora gli odii son verdi: — e nefando

Un spergiuro gli intima al cor mio;

Però, s'anco a te il viver degg'io,

Sappi ch'io non ti rendo amistà.

C'è soltanto lo sdegno contro la politica de' reazionarii, contro il Castelreagh, per Parga tradita? c'è soltanto la miseria dell'esule che ne' primi tempi là a Londra si trovava in una brutta casa, tra quattro donne brutte da far paura al demonio, come scrisse a un amico, senza conoscenze, senza amicizie, da maledirne l'isola che gli fu poi tanto cara perchè l'uomo v'era più simpatico che altrove e l'unica sede era quella in Europa della cordiale dignitosa ospitalità? Sarebbe, io credo, diminuire l'animo di lui e il peso del suo poemetto, che in un momento d'ira chiamava inezia e avrebbe volentieri venduto a chiunque per quattrocento franchi. Come ne' Promessi [156] Sposi la giusta sentenza su gli Spagnuoli fu giusto avvertimento verso gli Austriaci, così ne' Profughi di Parga il disdegnoso rifiuto del ramingo suona un consiglio di non venir mai a patti col nemico. Può darsi che il Berchet pensasse anche alle promesse fatte e non mantenute da Lord Bentinck quando i collegati ci volevano indurre a sollevarci contro Napoleone; ma, certo, il pensiero suo non va contro l'Inghilterra, va acuto contro l'Austria.

L'Austria feriscono dritte le altre romanze. Uno straniero volenteroso d'ammirare l'Italia è fermato sul Cenisio da un eremita che gli grida: — Maledetto chi s'accosta senza piangere alla terra del dolore! —, e gli descrive la penisola, non lieta ma pensosa, non in plauso ma in silenzio, non in pace ma in terrore, e gli parla del suo Silvio (e voi supplite, Pellico) che langue ne' ceppi del carcere duro; onde

A' bei soli, a' bei vigneti,

Contristati dalle lagrime

Che i tiranni fan versar,

Ei preferse i tetri abeti,

Le sue nebbie, ed i perpetui

Aquiloni del suo mar

come vedemmo che faceva il buon Rossetti, che pure era oppresso dalla nostalgia. Una italiana (e intenderemo [157] Maria Elisabetta, sorella di Carlo Alberto), che ha sposato (nel 1820) un ufficiale austriaco (l'Arciduca Ranieri d'Austria), e ne ha avuto un figlio, piange sopra sè stessa e su lui, vilipesi. Matilde sogna che il padre le voglia dare per forza a marito un altro ufficiale austriaco, e ansa e si sveglia piangendo dal dolore:

.... L'altare,

L'anello è sparito

Ma innanzi le appare

Quel ceffo tuttor;

Ha bianco il vestito,

Ha il mirto al cimiero,

I fianchi gli fasciano

Il giallo ed il nero,

Colori esecrabili

A un Italo cor.

Il trovatore è cacciato via dal castello dove troppo, ma d'amor puro, amò la dama, e sulle soglie si sente scoppiare il cuore: trasparente allegoria dell'esilio. Giulia si vede partire coscritto dell'Austria il secondo suo figlio; e il primo fuggì esule: chi sa che i due fratelli non si abbian poi a trovare l'un contro l'altro! Le Fantasie poi, rappresentando in quadri simmetrici i sogni d'un esule che gli raffrontano i gloriosi fatti del giuramento di Pontida, della battaglia di Legnano, della pace di Costanza, con le [158] veglie giulive, lo scoramento, l'obbrobrio degli Italiani odierni, mirarono a farli vergognare e a suscitarli; e anche in drammi storici ne risonarono con lunga eco i versi possenti.

Federigo? egli è un uom come voi.

Come il vostro è di ferro il suo brando.

Questi scesi con esso predando,

Come voi veston carne mortal. —

Ma son mille! più mila! — Che monta?

Forse madri qui tante non sono?

Forse il braccio onde ai figli fer dono,

Quanto il braccio di questi non val?

Su! nell'irto, increscioso Alemanno,

Su! Lombardi, puntate la spada:

Fate vostra la vostra contrada,

Questa bella che il ciel vi sortì....

Presto all'armi! Chi ha un ferro l'affili,

Chi un sopruso patì, sel ricordi,

Via da noi questo branco d'ingordi!

Giù l'orgoglio del fulvo lor sir!

Una sola di queste poesie, Clarina, può sembrare che abbia altrove la mira: e l'ha. Vuol colpire infatti Carlo Alberto, reputato fedifrago dai liberali del '21. Ma la freccia volava contro lui perchè egli era mancato al cimento nel dì, che pareva fatale, della liberazione.

Perfino ne' giuochi il Berchet aguzzava la punta de' versi contro gli Austriaci: si racconta che una [159] volta, presenti parecchi Tedeschi, improvvisò questa sciarada:

Pongo il primo sul secondo,

Pongo il tutto sotto i piè. [Te-desco].

Nel '18 il Manzoni, mentre ardeva la polemica suscitata dal Berchet con la Lettera semiseria di Grisostomo, aveva immaginato in una scherzosa canzone che Apollo per punire l'audace romantico lo scomunicasse per sempre dal sinedrio de' ricantatori delle formule solite: non più il plettro aurato, non più l'eburnea lira, non più il corridore alato; tutto avrebbe d'allora in poi dovuto ricavare dal suo proprio sentimento. Un gelo, diceva il Manzoni,

Un gel me prese alla feral sentenza;

E sbigottito e pallido

Esclamai: Santi Numi, egli è spacciato!

E come vuoi che senza queste cose

Ei se la cavi? Come può, rispose.

Da ciò che abbiam visto pare che, sommato tutto, non se la cavasse troppo male.

VI.

Nella dedicatoria delle Fantasie il Berchet, come anche accadde al Giannone, si è confessato da sè [160] medesimo in colpa di lesa estetica. Mi son trovato, egli dice, nel conflitto di due sorti di doveri, quelli verso l'arte, quelli verso la patria; e ho creduto fosse onesta cosa la sottomissione dell'amor proprio all'amor della patria. Scuse magre! risponde il critico: se avesse saputo far meglio, certo ch'e' l'avrebbe fatto! Ed è vero. Nè si ha il capolavoro se non quando il poeta e l'uomo si stringano in una sola virtù etica ed estetica insieme. Ma che il Berchet, d'altra parte, fosse nelle sue scuse sincero dimostra almeno una osservazione che quivi aggiunge ad esempio. Ed è che, nel descrivere la battaglia di Legnano, ha fatto parlare a lungo un moribondo, fuor della verisimiglianza. «Lo scoprirmi in fallo per questa parlata sarebbe la cosa del mondo più facile a farsi, se un'altra non ve ne fosse più facile ancora, quella per me di pigliare le cesoie, e tagliar via il corpo del delitto, o d'accorciarlo almeno. E sia lode al vero, due volte ho portate le mani per eseguirlo il taglio, e due volte — lo dirò con una frase tutta di filigrana, rubata al Creso di tali frasi, — due volte caddero le paterne mani. E perchè? Perchè quelle poche ammonizioni contenute nella parlata erano le cose appunto che a me più importava di dire; perchè quelle ammonizioni possono essere come un tocco di campana che svegli altre riflessioni [161] nell'animo de' miei concittadini.» L'Arlecchino dalle cento disgrazie, come sorridendo ei si chiamava, l'uomo che si consolava pensando d'essere stimato almeno un galantuomo, fu dunque galantuomo anche in ciò.

Comunque sia, i difetti dell'arte del Berchet, diseguale spesso nello stile, poco chiaro e poco sottile psicologo ne' Profughi, troppo simmetrico nei sogni delle Fantasie, e via dicendo, son di quelli che appaiono a chiunque legga. E minore artista è nelle sue, del resto utili e opportune, versioni delle Vecchie romanze spagnuole, pubblicate a Bruxelles nel 1837; minore sarebbe riuscito in quel curioso poemetto, rimasto incompiuto, Il Castello di Monforte, donde traspira vivace l'idea anticlericale.

Ma provatevi a leggere ad alta voce, con animo ben disposto, que' versi patriottici, e come vi crescerà via via nella lettura il respiro, come forse vi si veleranno qua e là gli occhi per una lacrima! Tanta è la corrispondenza, e così diretta, tra il sentimento italiano e gli accenti che ne furono inspirati all'esule lombardo. Al quale fu premio il poter dare nell'inno ai moti emiliani e romagnoli del '30 quel saluto alla nostra bandiera che le è rimasto quasi direi consacrato:

[162]

Dall'Alpi allo stretto fratelli siam tutti!

Su i limiti schiusi, su i troni distrutti

Piantiamo i comuni tre nostri color!

Il verde, la speme tant'anni pasciuta;

Il rosso, la gioia d'averla compiuta;

Il bianco, la fede fraterna d'amor.

Premio maggiore, dopo il lungo pellegrinare in Inghilterra, nel Belgio, in Germania, in Francia, veder sventolare quella sua bandiera dai tre colori, per la guerra del 1848-49, nell'Italia sua; vederla sventolare per opera e merito del Piemonte divenuto asilo degli esuli italiani (ed egli vi fu deputato), e delle speranze di tutta l'Italia che ormai ciascun sentiva non poter tardare ad avverarsi, poi che là a Torino la Rivoluzione raccoglieva tante delle sue forze attorno alla Casa di Savoia.

Chi aveva bollato a fuoco nella Clarina Carlo Alberto, subito che lo vide risoluto ormai a capitanare le forze della rivoluzione e a rischiare tutto pur di redimere l'Italia, non titubò. «L'unità assoluta dell'Italia verrà col tempo.... Intanto qui, nella vallata del Po, da Alpi ad Alpi, noi vogliamo uno Stato (e di' pure un Regno) costituzionale, forte, compatto, di un dodici milioni almeno di abitanti, il quale ci salvi adesso e in futuro da qualunque irruzione straniera, sia ch'ella venga da Germania, sia ch'ella venga da Francia.... Fatto una volta [163] questo muro, da Torino a Venezia, nasca quello che vuol nascere in Europa, l'Italia potrà tenersi tranquilla; e se col tempo questa gran base dell'unità dovrà ingrandirsi ancor più, ci penseranno i figli nostri; chè a noi basta di assicurarci il presente e il prossimo avvenire, e di assicurarlo in modo che non impedisca menomamente i più brillanti destini che possano toccare all'Italia nel futuro.... Dunque è Carlo Alberto che noi vogliamo a Re dell'Italia superiore: e che sia io che predico su questo, tu che sai quello che io mi sia, puoi ben credere che la necessità imperiosa e l'amor disinteressato della mia patria me lo consigliano, e non altro.» Così scriveva nell'aprile del 1848.

Tutte le lettere di lui sono insigne documento del suo acume politico, della drittura dell'animo suo: v'è indicata la opportunità, anzi necessità, per l'Italia nuova di comporsi a monarchia se vuol vivere entro l'Europa monarchica; v'è predicata l'alleanza con gl'Inglesi, utile a noi e a loro; v'è perfino predetta, nel giugno 1848, la cessione della Savoia alla Francia: «Pensa un poco se a far tacere quella maledetta Francia non vi sarebbe un mezzo, quello di cedere a lei la Savoia.» Cercavano metterlo su contro Carlo Alberto? rispondeva: «Non tocca a me di fare il panegirico al Re; ma [164] come galantuomo che adora sopra tutto il vero, ti dico che, lasciato stare il passato, del quale siamo rei tutti, e veduto con occhio scrutatore il solo presente, dal cominciare dell'opposizione sua all'Austria fino adesso, Carlo Alberto si conduce davvero in modo schietto, onesto, lodevolissimo. Avresti mai creduto che io dovessi dire di queste parole? Ma a ciascun secondo l'opere sue.» Cercavano, invece, fargli cantare la palinodia della Clarina? rispondeva essere stato il poeta del dolore, non poteva essere quel dell'amore, ma fare per Carlo Alberto ormai assai più e meglio che lodi in versi; aiutarlo in ogni modo a divenire re d'Italia.

Per ciò parve a molti, anche a Giorgio Pallavicino, o codino o rimbambito!

A Firenze era stato nel 1811, e l'aveva trovata quale la celebra la fama; e tutto qui gli piaceva «se ne levi gli abitanti parolai oltremodo, e in generale poco amici dei forestieri, perchè economi, e pieni di tema che le cortesie debbano costar loro due crazie.» Nell'autunno '47 tornò in Toscana ad aiutare i moti liberali, ma nel tempo stesso a frenarli: egli, il poeta de' tre colori, temeva ora non compromettessero, inalberati a dispetto del Granduca, l'avvenire. I tre colori, diceva, sono un anacronismo, e non rappresentano che un'ipotesi: «Lasciamo all'ipotesi la [165] cura di tradurre sè in atto; e allora troverà essa il suo simbolo che le convenga.» Che se l'ipotesi avverata scelse per simbolo proprio il tricolore, non per ciò, chi giudichi spassionato riferendosi a quella data, aveva tutti i torti il Berchet. Ma i fati trassero presto anche lui ad acclamare la bandiera dell'Italia nuova, dell'Italia unita, e qui a Firenze, il 27 marzo dell'anno dopo, sulla piazza di Palazzo Vecchio, dovè arringare i Toscani che festeggiavano le Cinque giornate della sua Milano, e si rallegrò che al mirabile risorgimento ciascuno de' popoli d'Italia avesse apportata la parte sua: Roma l'amnistia e l'onnipossente parola d'amore, Toscana le riforme, Sicilia e Napoli la costituzione, Piemonte il forte esercito tutelare, Milano l'indipendenza senza della quale nè riforme nè costituzioni possono aver vita intera. «Artefici tutti del pari di questo superbo edificio, spetta a voi, o Toscani, il compierlo e il consolidarlo per sempre. Contenti delle nostre libertà che sono pienissime, se saprete virilmente giovarvene.» Dunque, tutti, popoli e principi, stringetevi (proseguiva) in concordia di istituzioni, di voleri, di sentimenti, e correte in armi ad aiutare Carlo Alberto.

Carlo Alberto aveva ormai spiegata al vento la bandiera del verde, del rosso, del bianco, speranza, [166] gioia, fede fraterna d'amore, come il Berchet l'aveva cantata. E nobilmente perdonato dell'offesa, nobilmente da lui stesso rinnegata, il poeta del '21, dopo aver avuta parte nel governo provvisorio della Lombardia, fu deputato due volte al Parlamento subalpino. Raccomandò sempre la concordia intorno allo Statuto, e che non si diminuisse l'esercito: «I rossi per deliberato proposito, i neri per gretta avarizia lo vorrebbero disfatto.... Del resto poi, purchè lo Statuto duri, bene o male non importa, v'è speranza per tutta l'Italia ancora. Duri lo Statuto, si consolidi, e il tempo, o migliore occasione, farà il resto.» Altrove: «Non parlo dell'Italia: chi non ne vede la intera rovina nella ruina dello Statuto piemontese?»

Morì a Torino, divenuta patria sua, di lui lombardo che nel Piemonte già vedeva tutta l'Italia, libera e indipendente, dell'avvenire, il 23 dicembre 1851.

VII.

Signore e Signori,

Impari sarebbe il paragone tra il Manzoni e il Berchet. Quegli non fu meno patriotta e fu troppo [167] più grande poeta di questo; questi fu e si compiacque d'affermarsi sopra tutto un uomo pratico, cioè politico, che, mettendo a servizio della patria il felicissimo ingegno artistico, ottenne effetti immediati, stupendi, di santa commozione e d'eccitazione. Ciò che il Manzoni sentì come massima filosofica e cristiana, e verseggiò con arte somma che gli sgorgava dal sereno pensiero, il Berchet lo sentì come verità pratica, attuabile; e ad attuarlo spese tutto sè stesso. Ben potè il Manzoni, e fu bene che il facesse, dedicare l'ode pel marzo 1821 a Teodoro Koerner, al poeta tedesco morto per la sua Germania in battaglia, contro i Francesi, «nome caro a tutti i popoli che combattono per difendere o per riconquistare una patria.» Il Berchet, di cui il Manzoni sorresse e lodò le prime prove, e in cui ebbe poi sempre piena fiducia, non poteva che dire: — Armatevi e combattete! — Accettò dal maestro più forse, nelle forme dell'arte, che non fu osservato: perfino l'immagine de' fiumi che si confondono insieme, e i ricordi biblici, e il che parve di retorico artificio, voi li ritrovate dall'ode manzoniana nelle Fantasie. Ma non poteva, così diverso com'era, non restare originale. Son monete d'oro quelle del Manzoni; e appunto per ciò era difficile spenderle tra il popolo minuto! bisognava che qualcuno le spicciolasse [168] in argento, e spargesse. Tale l'officio, politico più che poetico, del Berchet; e nessuno dirà che sia, nella storia del nostro risorgimento, piccola parte o merito lieve.

Una delle più belle pagine del Carducci racconta come il lunedì di Pasqua del 1847, mentre tutta la campagna e il mare sfolgoreggiavano intorno e dinanzi nella ridesta pianura, e tutto era fiori, in cielo e in terra, del più bel giallo, del più largo rosso, del più amabile incarnatino, sua madre disse a lui per la prima volta i versi del Berchet:

Su! nell'irto increscioso Alemanno

Su, Lombardi, puntate la spada!

«Come son belli i fiori dei pèschi a primavera! E pure, dopo sentiti codesti versi, non vidi più nulla; o, meglio, vidi tutto nero: avevo una voglia feroce di ammazzare tedeschi.»

Due nomi sacrosanti su tutti ha l'uomo; la madre e la patria. Nessuno a voi chiede, o Signore, di non seguire la moda anche nelle letture; anzi spetta a voi, o gentili, cogliere via via tutti i fiori che l'arte produca; e tanto più, quando sono così fiammeggianti di colore che gli stranieri ce l'invidiano, e siam noi italiani che, anzi che subirla, facciamo noi per un momento la moda a Parigi. Ma ogni [169] tanto vogliate, voi madri al figlio, e voi sorelle al fratello minore, vogliate leggere qualcuna delle poesie del nostro risorgimento. L'Italia ha gran bisogno, pur troppo, di tornare a scaldarsi il cuore là a quell'ardente vampata di patriottismo: e voi fate che nella mente e nell'animo dell'uomo, come accadde al Carducci, si congiungano poi insieme per una forte e nobile lettura i santi ricordi della nazione e della famiglia.

[171]

INDICE

Antonio Rosmini Pag. 5
Alessandro Manzoni 39
Giuseppe Mazzini e il suo pensiero filosofico 73
La poesia patriottica e Giovanni Berchet 123

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

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