FOSCOLO
MANZONI, LEOPARDI
SAGGI
DI
ARTURO GRAF
AGGIUNTOVI
PRERAFFAELLITI, SIMBOLISTI ED ESTETI
E
LETTERATURA DELL'AVVENIRE
(Ristampa)
TORINO
Casa Editrice
GIOVANNI CHIANTORE
Successore ERMANNO LOESCHER
—
1920
Proprietà Letteraria
Torino — Tipografia Vincenzo Bona (13500).
ALLA MEMORIA
DELL'UNICO MIO FRATELLO
OTTONE
CHE A ME IN OGNI COSA PREVALSE
FUORCHÈ NEL FAVORE
DELLA FORTUNA
[3]
Molto fu scritto intorno alle Ultime lettere di Jacopo Ortis, e da molti, che con varii intendimenti, con criterii di giudizio o dissimili solo o a dirittura contrarii, con disposizione d'animo quando avversa e quando benevola, ne indagarono la origine e la storia, ne scrutarono la intenzione e lo spirito, ne notarono le qualità buone e cattive. Ne scrisse a più riprese il Foscolo stesso, il quale pochissimo amico del criticismo in teoria, da lui, come da altri, giudicato un vero e pessimo flagello delle lettere, fu più volte, in pratica, forzato a fare il critico di sè stesso, e ad esporre pubblicamente le ragioni e i propositi dell'arte sua; e se è provato oramai ch'egli affermò circa il suo romanzo assai cose non vere, è fuor di dubbio altresì che dell'indole de' personaggi, del procedimento dell'azione, della moralità della favola recò alcuni giudizii che per aggiustatezza ed acume non furono sorpassati da chi ne prese a ragionar dopo lui. Su taluno de' suoi giudizii tuttavia ci sarebbe molto a ridire, e più ci sarebbe a ridire su certi giudizii di critici posteriori, anche sommi. Io non intendo già di riprendere e gli uni e gli altri ordinatamente in esame, e confrontarli e discuterli, chè sarebbe lavoro lungo, minuto e fastidioso; ma avendo riletto di questi giorni il romanzo, e ancora molte altre cose foscoliane, e il Werther per giunta, ho pensato di gittar sulla carta [4] alcune considerazioni suggeritemi da quella lettura, dalle quali può darsi che o l'uno o l'altro di quei giudizii riceva o correzione o compimento.
Fra i molti dubbii che le Ultime lettere possono sollevare nell'animo di un lettore non più giovane, non appassionato, non disattento, è questo forse uno dei principali: Com'è che Jacopo s'innamora? Data la condizione dell'animo suo, quale egli stesso la viene manifestando, è cosa naturale, è cosa conforme alle leggi da cui è governata la nostra vita morale, che l'amore s'insinui in quell'animo? e che s'insinui in esso con tanta prontezza e senza contrasto? e che se ne insignorisca a quel modo? L'innamoramento di Werther, il quale per tanti rispetti si riscontra con l'innamoramento di Jacopo, ci appare cosa in tutto verisimile e naturale; ma Jacopo non è Werther; e che anzi sia profondamente diverso da quello ognuno può conoscere da sè, anche se ignori le giustissime osservazioni che il Foscolo stesso ebbe a fare sulla grande disparità loro; e anche se sappia ciò che inutilmente esso Foscolo da prima tentò di occultare, avere cioè Jacopo, sino dal tempo della prima orditura del romanzo, avuto il suo prototipo in Werther[2].
Jacopo non ha se non ventitrè anni quando scrive la lettera con cui principia il romanzo. Egli è assai giovane d'anni, ma da questa in fuori non si direbbe esservi in lui altra giovinezza. Dell'antecedente sua vita poco accenna egli stesso, e noi non intendiamo bene perchè sia così invecchiato innanzi tempo; ma ben ci avvediamo che molto visse con la mente e col cuore, e che giunto all'età in cui gli altri [5] giovani si affacciano alla vita, egli, per contro, è oramai maturo alla morte. Vedete l'anima sua da quali pensieri, da quali affetti è presa e soggiogata. Egli odia quel mondo in cui appena si può dire che abbia mutati i primi passi; insorge contro la società de' suoi simili, che tutta gli par fondata sull'ingiustizia e retta dalla menzogna; dispera di tutta la razza umana, irreparabilmente malvagia, codarda, infelice; non crede alla scienza, indagatrice oziosa d'inutili veri. Ha un senso doloroso, profondo, perpetuo della propria e della universale miseria, della disperata vanità di tutte le cose. Nell'ardente e commossa fantasia gli si colora il sogno d'una felicità ch'egli nè cerca, nè spera, fatto conscio ormai dell'universa illusione, e che patria, gloria, amore, virtù non sono se non fantasmi. A sorreggerlo, quasi con la lusinga di non so quale orgogliosa e solitaria grandezza, gli entra nell'animo una opinione, per cui egli si stima un tratto in tutto diverso dagli altri uomini, e diviso da essi e da ogni loro opera e cura; ma anche di questa illusione si ravvede, e conosce, e confessa di non essere altro che uno dei tanti figliuoli della terra, ingombro di tutte le passioni e le miserie della sua specie. Non nega Dio; ma lo teme più che non l'adori; e non sa se il cielo badi alla terra, e non sa se qualche cosa dell'uomo sopravvive alla morte. E la morte egli aspetta tranquillamente quando la stima vicina; ma se gli appaja ancora lontana, eccolo che smania di cacciarsi un coltello nel cuore, o che solo s'acqueta dimenticandosi d'esser vivo.
Ora, così fatto giovane vede Teresa, la divina fanciulla, della quale forse nemmeno il nome gli era noto innanzi, e il vederla e il sentirsene preso gli è un punto solo, e frutto dell'averla veduta il tornarsene a casa col cuore in festa. Io non domando già se sia possibile ciò, perchè i limiti del possibile, quando si tratta della natura dell'uomo, sono troppo incerti e mal noti; ma domando se l'autore abbia ciò giustificato abbastanza, e se abbia condotto l'avvenimento in guisa da lasciare appagato l'animo di chi legge, senza suscitarvi dentro alquanta di quella perplessità e di quella ritrosia che, secondo i casi, o si risolvono in un vago e quasi inconsapevole scontentamento, o provocano la critica precisa e consapevole. E a me, se ho a dire il vero, pare che non abbia.
Intendo, se non tutte, parecchie delle ragioni che mi si possono opporre. L'anima di Jacopo non è così distrutta come può sembrare a primo aspetto. Il processo della dissoluzione è bensì cominciato in lei, è anche andato molt'oltre, ma non ha però compiuto il suo corso, [6] non è nemmeno giunto a quel segno di là dal quale nessuna ripresa di vita o di speranza è più possibile. Molte energie durano in Jacopo, le quali, pur essendo dannate a morire tra breve, non vogliono ancora morire. Considerate che il suo intelletto e il suo cuore sono in pieno dissidio fra loro; considerate ch'egli è un vortice di contraddizioni. Se lo guardate da un lato, egli vi appare quale un pessimista disperato e incurabile; se lo guardate da un altro, egli si dà a conoscere per un entusiasta focoso e indomabile. Ha in conto di fantasmi, gli è vero, la patria, la gloria, l'amore, la virtù; ma la illusione non è ancor tanto lontana da lui che una qualche riverberazione non gliene rimanga nell'animo; e quei fantasmi egli adora, e per quei fantasmi egli spasima. S'infiamma di generoso entusiasmo leggendo Plutarco; si scioglie in dolcissime lagrime leggendo il Petrarca; e mette la compassione sopra tutte le altre virtù; e lo rapisce lo spettacolo della viva natura; e lo empie quasi di un senso di religiosa venerazione lo spettacolo della bellezza e della grazia muliebre. Egli è così lontano ancora da quell'atonia in cui si sommerge lo spirito caduto d'ogni speranza e orbato d'ogni fede, che sente sempre dentro di sè un demone che l'arde, lo agita, lo divora. E il suo cuore non è un cuor morto; anzi è un cuore che non può soffrire un momento, un solo momento di calma, e che, ove gli manchi il piacere, ricorre tosto al dolore. Chi dirà che un sì fatto uomo, il quale, per giunta, fa assai più stima della passione che non della ragione, non sia più in grado d'innamorarsi? Chi dirà che un animo aperto a tanti altri affetti debba esser chiuso all'amore? Forse domani, o doman l'altro, egli non si potrà più innamorare; ma oggi egli può innamorarsi ancora.
Queste ragioni hanno la loro forza, e non possono essere negate. Gli è certo che Jacopo si trova in una condizione d'animo duplice e ambigua; ch'egli passa alternatamente da uno stato a un altro stato contrario; e che se nell'uno sembra impenetrabile all'amore, nell'altro sembra tutto aperto all'amore. Nè questa è maniera di contraddizione che ripugni alla umana natura, la quale può ricevere, e riceve tuttodì, infinite altre contraddizioni, onde molto di romanzesco e di drammatico si deriva nella vita di ciascun uomo. Dirò di più, che quando incomincia il romanzo di Jacopo, c'è una ragione particolare dispositiva perchè Jacopo s'innamori. Jacopo ha perduto la patria e con essa la occasion principale e il principal fine di ogni sua operosità. Egli ha come un vacuo nell'anima, e la naturale tendenza ch'è in ciascuno di noi a ristorare in qualche modo il perduto, promuove [7] ed agevola quanto può colmare quel vacuo. Perduta una ragione di vivere, l'istinto ne sollecita un'altra, che la possa supplire. Con la patria ancora incolume, forse Jacopo non si sarebbe innamorato, o il suo amore sarebbe stato d'indole più temperata, e circoscritto entro più angusti confini: con la patria disfatta, Jacopo s'innamora a guisa d'uomo perduto, perchè innamorarsi è vivere; e l'amore cresce in lui prepotente e smodato.
Non perchè dunque Jacopo s'innamori potrà essere rimproverato al Foscolo di non avere osservato la verisimiglianza e d'esser venuto meno alle naturali convenienze del suo soggetto; anzi al Foscolo stesso noi potremo credere quando afferma che esso Jacopo è presentato tale qual era, ne' casi della sua vita, nell'età ch'egli aveva, nelle sue opinioni e passioni, e in tutti i moti tempestosi dell'anima sua; e gli potremo credere senza andare troppo minutamente a cercare se diceva in tutto in tutto il vero quando scriveva ad Antonietta Fagnani: Mi sono fedelmente dipinto con tutte le mie follie nell'Ortis; e quando scriveva a madama Bagien che i Francesi, leggendo tradotte le Ultime lettere, avrebbero potuto conoscere tutti i sentimenti e tutte le idee di lui. Non di avere immaginato un personaggio e un'azione inverisimile accuseremo il Foscolo, ma bensì di non aver saputo scorgere tutte le molte difficoltà del suo soggetto; di non avere avuto sempre a mano l'arte che si richiedeva a fare della pittura di quel personaggio e del racconto di quell'azione un tutto sempre coerente e intelligibile, tale da ottenere senza fatica il pieno assentimento dei leggitori. Il romanzo ci presenta certi effetti e certe conclusioni, ma delle cause di quelli e delle premesse di queste non porge idea abbastanza chiara. La passione e l'azione si svolgono presso a poco alla maniera di un ragionamento a cui sieno state tolte più e più proposizioni intermedie, necessarie a legare e compiere il senso. Il racconto rimane come ingombro di nodi insoluti: la motivazione è insufficiente; e tropp'altre cose mancano in esso, le quali non tutte si può pretendere che sieno supplite dalla fantasia del lettore, per quanto si voglia fare del lettore intelligente un collaboratore dell'autore. Appunto perchè Jacopo ci appare duplice, avremmo voluto che la storia dell'amor suo ritraesse un po' più particolarmente e un po' più fedelmente il contrastare di quei due uomini che si affrontano in lui, e il soverchiare e il ritrarsi quando dell'uno e quando dell'altro. Tale quale si legge, la storia sembra esser quasi di un solo dei due anzichè d'entrambi; il che parrebbe giustificato qualora, in [8] virtù appunto dell'amore, l'uno riuscisse a sloggiar l'altro; ma giustificato non può parere quando si vede che i due seguitano a contrapporsi ed a contrastare sino alla fine. Insomma, essendo questo dell'Ortis un romanzo psicologico, mi sembra che lasci desiderare una più diligente, più sottile e più ricca psicologia. Il Foscolo avrebbe forse potuto supplire, almeno in parte, al difetto con porre a fronte di Jacopo una Teresa meno eterea, meno astratta, meno incomunicabile; una Teresa che non fosse una immagine dipinta, buona solo ad essere adorata in silenzio, ma donna viva e parlante; una Teresa che, pur rimanendo fermissima nel suo proposito di virtù, avesse saputo in qualche modo farsi incontro al povero Jacopo, e mutare di tanto in tanto in un dialogo l'eterno e disperato soliloquio di lui. Parlando con Teresa, Jacopo avrebbe potuto dire a schiarimento dell'esser proprio assai cose le quali non riesce a scrivere all'amico Lorenzo. Ma il Foscolo cadde ancor egli in questo errore di credere che per fare di una donna un oggetto in tutto degno di ammirazione convenga farne una essenza angelica, una idea, un'astrazione; per figurare la donna perfetta cancellare la donna. Questo errore gli può essere perdonato facilmente; ma non così facilmente gli può essere perdonata la opinione, da lui mantenuta negli anni provetti, che questa impalpabile Teresa sia creatura superiore alla Carlotta del Werther, per quanto alcune osservazioni ch'egli viene facendo intorno a quella Carlotta possano parere giuste e ingegnose[3]. E la astrattezza essendo carattere, non della sola Teresa, ma di tutti più o meno, i personaggi del romanzo, i quali (notava il De Sanctis) appariscono sulla scena come i primi schizzi su di un cartone, disegni appena sbozzati e rimasti in idea, si vede come sempre più venisse tolto a Jacopo il modo e l'opportunità di esplicare e chiarire tutta quella parte di sua vita interiore che noi a fatica possiamo andar congetturando e indovinando.
Certo, fare che egli stesso la venisse esplicando e chiarendo, o altri per lui, era cosa di somma difficoltà; e non è da meravigliare che il Foscolo, giovanissimo quando compose il romanzo, o non l'avvertisse tutta, o non riuscisse a vincerla; e, del resto, non so veramente s'egli ebbe mai, nemmeno negli anni maturi, le particolarissime [9] qualità d'ingegno che ci sarebbero volute al bisogno, e che mai non mancarono al Goethe. Ma gli è certo altresì che se il Foscolo fosse riuscito a mettere, per questa parte, nel suo romanzo, ciò che vi manca, il suo romanzo non avrebbe dato argomento a un altro sfavorevole giudizio, il quale non può essere notato d'ingiusto, sebbene non mi paja scevro di qualche esagerazione.
Il De Sanctis, parlando del romanzo da par suo, scriveva: «Siamo alla fine del quinto atto; la catastrofe è succeduta, pubblica e privata; al protagonista non resta che puntarsi la spada nel petto come Catone, o, come un personaggio di Alfieri, cacciarsi un coltello nel cuore per versare il sangue fra le ultime strida della patria. Qui comincia il libro: qui, dove cala il sipario, comincia la rappresentazione». E soggiungeva che «il suicidio era già compiuto nell'anima»; e che «la tragedia non ci è più: ci è una situazione lirica nata dalla tragedia»; e che «una situazione così esaltata nel suo lirismo, non può troppo protrarsi senza che la diventi monotona e sazievole»; e che «una situazione così tesa fin dal principio potea dar materia ad un canto, com'è la Saffo; non se ne potea cavare un romanzo, se non stirandola e riempiendola di accessori fortuiti, non generati intrinsecamente dal fatto»[4]. Chiunque abbia letto il romanzo senz'essere trascinato egli stesso da un po' di quella passione che trascina il protagonista, conoscerà che c'è molto del vero in queste parole, ma forse non tutto il vero. Che da quella situazione, benchè tanto tesa sin da principio, si potesse pur ricavar un romanzo, anche senza inzepparlo di accessorii fortuiti, a me sembra certissimo. Che nel Werther ci sia, come nota lo stesso De Sanctis, una storia psicologica molto più abilmente svolta che non nell'Ortis, io concedo assai di buon grado, nè parmi si possa negare; ma che nell'Ortis non ci sia punto storia psicologica, e che per contro vi stagni la palude e l'acqua morta, non mi pare si possa asserir con ragione. Proponete quella stessa stessissima situazione ad uno dei sottilissimi nostri, e talvolta troppo sottili romanzieri psicologi, e vedrete s'e' saprà cavarne una storia psicologica, e se anzi non c'è pericolo che ne cavi troppa. Anche nell'Amleto la situazione è tesissima sin da principio, ed è sempre sostanzialmente la stessa dal primo all'ultimo atto; eppure guardate [10] che macchina di dramma seppe formarci sopra lo Shakespeare. E quanti altri esempii a questo proposito si potrebbero ricordare opportunatamente! La colpa dunque fu assai più del Foscolo che della situazione; e del resto nell'opera stessa del Foscolo c'è più romanzo e più storia psicologica che a primo aspetto non paja. Appunto quando il racconto incomincia, incomincia pel protagonista un ordine nuovo di casi, che susciteranno nell'anima sua nuove passioni, e lui trarranno a nuovi cimenti. Egli era dannato, perduto, finito; ma ecco che in quella vita già prossima a spegnersi irrompe una subitanea, non preveduta energia; e questa energia è l'amore, la più rigogliosa e trasformatrice di quante mai ne può ricevere l'anima umana. Che avverrà di Jacopo? Il poeta ci dice che Jacopo era «suicida per indole d'anima e per sistema di mente»; ma anche ci dice che l'amore cominciò a «ristorar dolcemente» quell'anima, e ad adescarla «in segreto di care speranze», e a spargervi dentro alcun poco di refrigerio; e che le due passioni, la politica e l'amorosa, sostennero «d'alcuna speranza per diciotto mesi quel giovine disperato». Dunque, sia pure per poco, la situazione è mutata. Dunque c'è materia a romanzo. Jacopo stesso consiglia il suicidio all'uomo cui più non rimanga ragione di vivere; ma come si potrà dire che manchi ragion di vivere all'uomo innamorato, tanto che duri in lui qualche speranza dell'amor suo? «La catastrofe», ci dice ancora il poeta, «non che volerla occultare, è manifestata sin dalle prime pagine e dal titolo del volume», e ciò è vero; ma non tanto vero che molti dubbi non possano nascere in noi intorno a ciò che Jacopo sarà per fare: e ogni nuovo dubbio è come una nuova via aperta all'azion del romanzo. Però mi pare che avesse qualche ragione il Carrer quando diceva che nel Werther «il caso è regolare», mentre «nell'Ortis ha una grande individualità, ed ora si arresta e fa mostra di dare addietro, ora va a balzi impetuosi e divora in un attimo lunghissima via». Che farà Jacopo? Amando con tanta passione Teresa, permetterà egli che altri gliela tolga? E sapendosi riamato da Teresa permetterà ch'ella viva infelicissima tutto il tempo della vita sua a fianco di un uomo aborrito? E se Jacopo, a furia di pensarci su, riuscisse a persuadersi che il signor T. e il signor Odoardo e gl'interessi e la quiete di quella famiglia non meritano ch'egli faccia il sacrificio del proprio amore e della vita? E se scrutando un po' a fondo certe sue riluttanze morali, e discutendo certi suoi scrupoli, riuscisse a scoprire non essere cosa gran fatto morale che una fanciulla [11] dia la mano di sposa ad un uomo quando ha già dato il cuore ad un altro, e che la osservanza di una promessa già fatta non è in tal caso tanto morale quanto potrebbe sembrare a chi confonde la morale col formalismo farisaico? E se in un momento di ebbrezza, trovandosi soli e senza alcun sospetto, Jacopo e Teresa imitassero senza alcuna meraviglia da parte del lettore, il presumibile esempio di Paolo e di Francesca? E se dopo di ciò Jacopo portasse via Teresa per andar a morire insieme con lei in qualche luogo ignoto e lontano? Oppure se Jacopo ammazzasse Odoardo, come gliene viene la tentazione? O se, colto da un furor pazzo e bestiale, ammazzasse, oltre al rivale, anche l'amata e il padre di lei e poi sè stesso?
Come si vede, non sono poche le congetture che il lettore, anche sapendo che Jacopo finirà con l'ammazzarsi, potrebbe formare; nè io ho preteso di numerarle tutte. E se mi si concede che almeno alcune di esse sono tali che il lettore non ha ragione di ricusarle prima d'esser giunto alla conclusione, mi si dovrà ancora concedere che il cammino dell'azione non sia poi così rigorosamente e immutabilmente prescritto come parve al De Sanctis, e che, almeno in potenza, sia nel romanzo alquanta più storia psicologica ch'ei non disse.
Un altro non lieve difetto fu rimproverato al romanzo del Foscolo: quello di menare ostentatamente di fronte due grandi e ben diverse passioni, le quali sembrano doversi intralciare e impedire a vicenda: la politica e l'amore; e di chiudere in sè quasi due anime, delle quali l'una non troppo sappia dell'altra. E anche qui bisogna riconoscere che il rimprovero non manca d'esser giusto. Non so se mai vi sia stato lettore delle lettere dell'Ortis, il quale non abbia ricevuto un pochin di noja da quell'alternarsi di sfoghi politici e di sfoghi amorosi, da quella, non so se dire crudezza o improntitudine, con cui l'una passione s'intraversa nell'altra; e che non abbia desiderato, o che il patriota fosse meno acceso di Teresa, o che l'innamorato fosse meno caldo della patria. Dicono che quella duplicità di passione scema l'interesse invece di accrescerlo, disperde l'attenzione, raffredda il sentimento; e certo non dicono male. Dicono ancora che nel Werther è assai più interezza ed unità; e credo dican benissimo. Già il Foscolo sentì la forza della censura, e nella Notizia bibliografica [12] cercò di rispondervi. «Che poi due passioni così diverse», egli scriveva, «quali pur sono il furore di patria e l'amore, possano ardere simultaneamente nell'anima d'un solo individuo, e tutte due si manifestino spesso in uno stesso periodo e, talvolta, in una sola frase, è fenomeno naturale e può ammettere spiegazione; ma sì strano a ogni modo, che se fu alcuna rara volta mostrato in una o due scene di qualche tragedia non deve essere ripetuto per duecento e più facciate in un libro: e chi disse che quelle lettere hanno due anime, le censurò con argutissima verità». Ciò nondimeno, alquanto più oltre reca parecchi argomenti co' quali s'ingegna di far vedere, non solo che le due passioni possono, a un tempo stesso, capire nella stessa anima umana; ma, ancora, che nel caso particolare dell'Ortis deriva dal concorso loro più d'un effetto per cui l'azione rimane, in alcune sue parti, meglio giustificata e chiarita. Della possibilità del concorso egli poteva recare in prova, oltre che l'esempio di Giulio Cesare e l'autorità del Montaigne, come fa, anche l'esempio suo proprio, dacchè nel tempo appunto in cui attendeva a dar l'ultima forma al romanzo, egli, perduto dietro alla Fagnani, scriveva l'Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione[5]. Quanto poi al giovamento che l'azione del romanzo trae da quel concorso, io veramente credo che avrebbe potuto essere di molto maggiore se maggiore fosse stata, anche in questo caso, l'arte del poeta; o che, almeno, avrebbe potuto essere molto minore il danno, se, per esempio, il poeta avesse scritto il romanzo quando invece scriveva, molto più maturo di anni e di animo, la Notizia bibliografica.
Se non che si può forse dire a difesa di quel concorso una cosa che non cadde in mente al Foscolo. Le due passioni sono veramente legate nell'idea del romanzo assai più di quanto appajano legate nella narrazione. Infatti, se Jacopo non avesse perduta la patria; se la condizione dell'Italia non fosse quale egli la vien descrivendo nelle sue lettere, i casi della vita di lui potrebbero prendere tutt'altra [13] piega, riuscire a tutt'altro fine. Profugo, sprovveduto, insidiato, egli non può sperare, e non può quasi desiderare, di ottenere Teresa in isposa; ma perchè non avrebbe potuto e desiderare e sperare di ottenerla se non fosse stato nè profugo, nè sprovveduto, nè insidiato? L'esser ella di famiglia nobile, ed egli di plebea, poteva dar luogo a difficoltà, ma forse non invincibili, malgrado delle idee del padre. Dunque una ragione politica è quella, se ben si guarda, che prima condanna l'amore di Jacopo a una fine infelice. Da altra banda, se diversa fosse stata la condizione dell'Italia, il padre di Teresa non avrebbe avuto bisogno di schermirsi da pericolosi sospetti, e di assicurare la sorte propria e di tutta la famiglia imparentandosi col marchese Odoardo. Dunque una ragione politica è quella che condanna Teresa al sacrificio. Come scindere in tale condizione di cose la politica dall'amore? Come non confondere in una sola sventura le due sventure che fanno sanguinare il cuore del giovane? Questi non può pensare alla fanciulla amata senza che la sua mente subito corra alle più forti ragioni che gliene contrastano il possesso, e perciò alla patria; e non può pensare alla patria senza che la sua mente subito corra all'ultimo danno che gli viene dalla rovina di quella, l'impossibilità, cioè, di ottenere la fanciulla amata. Così l'anima sua rimbalza perpetuamente da Teresa alla patria, e dalla patria a Teresa.
Se il lettore non s'avvede della necessità di questo giuoco doloroso, e s'impazienta, e grida che propriamente Jacopo non sa quel che si voglia, la colpa non è già tanto della situazione, quanto dell'autore, che non seppe adoperarvi attorno gli avvedimenti opportuni.
Che il Foscolo sia stato un campione ardentissimo e indomabile del classicismo quando già il classicismo piegava alla fine, è cosa così universalmente risaputa, e tante volte ripetuta, che il ricordarla e il ripeterla ancora potrebbe parere peggio che ozioso. Anche lasciando di considerare quelli tra' suoi migliori componimenti poetici ov'egli trasfuse veramente un'anima greca; anche mettendo da banda quelle innumerevoli lettere sue, e quelle tante altre sue prose, dove i ricordi classici d'ogni maniera ricorrono con così fitta e spesso così importuna frequenza da stancar ogni lettor più longanime; basta [14] ricordare la sua dottrina intorno alla lirica, e la sua dottrina intorno alla tragedia, per dover subito riconoscere che l'Italia non ebbe altro classico più classico di lui, e che il Monti, nonostante il sermone sulla mitologia, deve contentarsi di venirgli secondo. Perciò non è a meravigliare s'egli ebbe in odio il romanticismo; se nel Gazzettino del Bel Mondo diede addosso a quei giovani che «cavalcando i destrieri nuvolosi di Odino... rompono lance in onore della poésie romantique»; e se prendendo occasione dal Carmagnola del Manzoni, di quel Manzoni a cui non aveva altra volta risparmiata la lode, fece fronte alla nuova scuola in modo non meno risoluto che disdegnoso.
Ma un dubbio nasce in chi legge le opere ed esamina la vita di questo singolare poeta e singolarissimo uomo. Fu proprio il Foscolo così interamente e sostanzialmente classico quale ce lo vengono predicando? Non ebbe lacune il suo classicismo, non ebbe inquinamenti? E per ispiegarci meglio: se alcuno venisse a dirci che per entro al classicismo del Foscolo serpeggia più di una vena di romanticismo, direbb'egli cosa da doverglisi rinfacciare come un'eresia? Non credo. E primamente, per parlare in generale, nessun classicista mai fu tutto classico, perchè non è possibile ad un uomo moderno farsi greco, latino, pagano, checchè la credula e sciocca albagia si possa andar persuadendo in proposito. I classicisti non furono classici che per approssimazione e in variabile misura, secondo che riuscirono, più o meno, a conformare al modo antico il modo loro di pensare e di sentire, e la loro arte all'arte antica. Nè vi fu classicista mai per quanto classico, che non desse luogo dentro di sè a molte, benchè non confessate, o non sapute, modalità mentali del suo tempo, tutt'altro che classiche. Poi, quanto al Foscolo in particolare, mi sembra si possa dire che l'indole sua e la vita gli dovevan permettere anche meno che ad altri di esemplare in sè pienamente l'antico. Ora io credo che il Foscolo ebbe parecchio del romantico, non solo negli anni suoi giovanili, ma anche dopo, e per tutto il tempo della non lunga sua vita; e credo che certi atteggiamenti romantici fossero congeniti in lui, e, più dei classici, connaturali all'indole sua. E anche questo è argomento che si collega con le Ultime lettere.
Per ciò che spetta agli anni giovanili non vi può essere incertezza. Sappiamo che dal Cesarotti egli imparò ad ammirare i poemi di Ossian, e che ebbe care le lugubri fantasie di Edoardo Young, le quali rivivono in alcuni dei primi suoi versi, come la elegia In morte di Amaritte, e quella intitolata Le rimembranze. Altre sue brevi poesie [15] di quel tempo (1796-1797), quali il sonetto che incomincia: «Quando la terra d'ombre è ricoverta», e gli sciolti Al Sole, hanno un colorito romantico che non può sfuggire a nessuno. Veniamo alle Ultime lettere. Sono esse o non sono romantiche? Facendo tale domanda si fa quasi implicitamente quest'altra: È, o non è romantico il Werther? Per rispondere basterà ricordare che il giovane Werther, il quale antepone Ossian a Omero, è non solo un personaggio romantico, ma a dirittura come il capostipite di tutta una famiglia romantica; che aveva ragione il Lessing quando diceva che nessun giovane greco o romano si sarebbe innamorato e poi ucciso al modo di Werther; che l'aveva quasi madama di Staël, quando a proposito della forma epistolare data dal Goethe al suo romanzo, diceva che gli antichi non pensarono mai a dare così fatta forma alle loro finzioni (e scordava le Eroidi di Ovidio, il quale fu considerato come un precursor dei romantici); e finalmente che il romanzo del Goethe fu uno dei libri che più accesero la fantasia a Giovanni Ludovico Tieck, romanticissimo fra i romantici. Perciò, con esso, il Goethe ajutò senza dubbio alcuno e promosse quella scuola romantica di fronte alla quale mutò poi e rimutò atteggiamento.
È a lamentare che sieno andati perduti certi pensieri del Monti intorno all'Ortis, perchè forse si sarebbe potuto rilevare da essi che certe vestigia dell'audace scuola boreal egli le aveva sapute scorgere nel romanzo, e perchè forse ci sfogava attorno un qualche poetico e classico risentimento. Ma anche senza il suo ajuto, ognuno può vedere per questa parte più che non bisogni. Indubitatamente le Ultime lettere sono scrittura d'inspirazione e d'intonazione romantica, sebbene non vi si riscontri questo aggettivo fatale, che per ben due volte compare nel Werther. Romantico è in esse il carattere e il tono della passione; romantico quel considerar la ragione come cosa men alta e men degna del sentimento; romantico il modo di vedere, di sentire, di ritrar la natura; romantica tutta la storia di Lauretta; romantica l'enfasi e l'esagerazione del linguaggio, che sempre trasmoda nel lirico; romantica la fusion dell'autore col personaggio di cui narra la storia. E se qua e là ci si abbatte in quelle lettere a qualche frasca o zerbineria mitologica; e se in un luogo sbucan fuori non so che najadi o ninfe; e se Jacopo si scalmana dietro agli eroi di Plutarco; ciò non basta a togliere al libro il carattere romantico che per tanti rispetti gli si appartiene. E se quell'inframmettente del Sassoli si deve biasimare per avere voluto finir di suo, e malamente, [16] quel primo saggio dell'Ortis che fu la Vera istoria di due amanti infelici, lasciato a mezzo dal Foscolo, non potrà già, a parer mio, biasimarsi d'averne franteso e alterato il carattere, quando nella seconda parte dà luogo a quell'Ossian che non l'aveva potuto trovar nella prima e ci stiva tanto del Young quanto ce n'entra. Aggiungasi che le Ultime lettere furono in Italia, come il Werther in Germania, uno dei libri più cari alla gioventù romantica, quello, fra tutti, che aperse (è il Foscolo stesso che rammaricandosene ce ne assicura) più profonde ferite nel petto delle fanciulle patetiche[6].
Ora, il romanticismo delle Ultime lettere è un indice del romanticismo del Foscolo. Intendo che sì fatta asserzione può suscitare molte e non lievi obbiezioni, ma non tali, credo, che la buttino a terra. Di che romanticismo del Foscolo, si dirà, andate voi ragionando, se del 1800 è l'ode per la Pallavicini, e del 1802 quella per l'Amica risanata, pregne l'una e l'altra di mitologia e di spirito greco? E non è del 1803 la versione di Callimaco? E non è del luglio del medesimo anno la lettera a Giambattista Niccolini giovinetto, nella quale il Foscolo dice, tra l'altro, che i classici sono le sole fonti di scritti immortali? Ora son quelli per l'appunto gli anni in cui il Foscolo rivede il suo romanzo, lo conforma meglio col Werther, lo riduce a lezione definitiva, lo stampa intero.
Il tema è delicato, e se ne vuol discorrere con circospezione, e intendersi bene. Io non dico già che il Foscolo fosse un romantico: dico ch'egli ebbe del romantico nel modo di sentire, di pensare, di atteggiarsi, di vivere; e che l'anima sua, capace, come egli stesso ne avverte, di molte contraddizioni, somiglia a un fiume formato dal concorrere di più acque, varie d'origine, di temperatura e di colore e non anche fuse insieme. E molto più romantico certamente sarebb'egli riuscito se non fosse stata tutta classica la sua educazione; e se dalla qualità di greco non avess'egli creduto di ricevere come una particolarissima obbligazione e consacrazione di classicità; e se dai casi e dalle tristi esperienze della vita, e dal disgusto di quanto si vedeva d'attorno egli non fosse stato, dirò così, quotidianamente risospinto [17] verso l'antico. Le quali ragioni tutte, del resto, non valsero ad impedire che qualche sottil vena di romanticismo s'infiltrasse nei Sepolcri, e che la Ricciarda riuscisse una tragedia riboccante di romantici orrori[7]; e non tolsero al poeta, la cui fede classica appar molto scossa negli ultimi anni, di dire, parlando delle Grazie, che forse un giorno in altri suoi versi non si sarebbero più vedute le deità dei Gentili.
Chi voglia farsi un'idea del romanticismo giovanile del Foscolo, basta ponga mente a due cose: l'una, che la prima materia del romanzo la porsero le lettere a quella Laura intorno a cui si fecero già tante congetture e tante dispute; l'altra, che le lettere ad Antonietta Fagnani si riscontrano in moltissimi luoghi, come fu notato, con le lettere del romanzo. Quante movenze, quante espressioni, quanti riscaldamenti romantici in quelle lettere alla Fagnani, la quale era, lei, tutt'altro che romantica! Prima di tutto, la passione, stimolata dì e notte dalla fantasia, esacerbata dalla riflessione, artificiosamente incalzata di là da' suoi termini naturali, intricata nelle peripezie di romanzesche avventure, con ostentazione di mistero, sospetto d'inimicizie coperte, ansietà di tradimenti, repentagli di duelli, ruggiti di rabbia e dì dolore, aspettazione di morte, minacce di suicidio. Chè il Foscolo ebbe tutto il tempo di vita sua il desiderio, e dirò pur l'ambizione, di uno di quegli amori smisurati, fatali, mortali, che tutti i romantici sognarono; e fra tanti ch'ei n'ebbe, non n'ebbe uno solo mai che veramente fosse di quel carattere, checchè ne possa egli dire e voler far credere nelle sue lettere amorose, e sebbene parecchi degli amori suoi, anche prima di quello colla Fagnani, fossero stati romanzeschi a segno da meritargli da colei il soprannome di romanzo e romanzetto ambulante. Poi quella mostra vanagloriosa e quel come culto di una infelicità maggiore di ogni altra infelicità, e nel tempo stesso più nobile di ogni altra, e più recondita, e più fatale, disperata di soccorso, perpetua, inintelligibile ai profani, ajutata da un'arte crudele e squisita di esulcerare le proprie piaghe, chè l'arte di Jacopo, mentre le Lettere di Jacopo sono, a detta dello stesso Foscolo, il libro del cuore del Foscolo. Onde quel [18] parlar sempre, e sino alla sazietà, di delusioni irreparabili, e di contraddizioni fra il sentimento e l'esperienza, e di un sentir troppo intenso e profondo, e di anima che divora il corpo, e di cuore che è eterna causa di pianto, e di un tempo presente divorato col timor del futuro; e quelle notti insonni, popolate di fantasmi, e quell'orror pei viventi, e quello stemperarsi continuamente in lacrime, e il piacere dell'infortunio, fratel carnale della pindemontiana e anglogermanica gioja del dolore (joy of grief; Wonne der Thränen), e l'oppio e il digiuno, e il pugnale liberatore. Poi anche la incurabile melanconia che lo possedette fin da fanciullo; quella stessa pensosa e poetica melanconia, che più antica assai dello Chateaubriand, dal quale Teofilo Gautier la voleva scoperta o inventata[8], giudicata dal Cesarotti uno dei caratteri del genio, celebrata in Italia dal Bertola e dal Pindemonte, derisa dal Parini, fu, vera o finta, uno dei contrassegni particolari d'infiniti romantici, molti dei quali dovettero invidiare al Foscolo la magra e melanconica persona, di cui sembra che questi inorgoglisse, pure conoscendosi brutto. «Le melanconie», egli diceva, «non mi lasciano che di rado, ed io ne godo ch'esse alberghino meco»[9]. E alla melanconia s'accoppiava una vaghezza di sentimenti patetici e di patetiche viste, onde il poeta si congratulava con l'amica, perchè un ritratto di lei, sebbene poco somigliante, pure serbava tutto tutto il suo caro e patetico atteggiamento. Aggiungete poi un grande disprezzo per quella stupidità che si chiama saviezza, un odio orgoglioso per ogni maniera di volgo, un gesto da fulminato impenitente, una ostentazione di animo imperterrito, e per soprammercato, [19] i rimorsi di Didimo Chierico, e poi ditemi, se in mezzo alle molte contraddizioni, e ai non pochi vacillamenti, non vi pare di riconoscere nel Foscolo uno di quei bei tenebrosi di cui andò tanto superba l'arte romantica, e se non vi fa pensare a qualcuno di quei personaggi misteriosi e fatali in cui s'incarnò Giorgio Byron.
Quanto sono venuto dicendo riguarda in più particolar modo il Foscolo giovanissimo, ma si può seguitare a dire, almeno in parte, anche del Foscolo meno giovane, e del Foscolo non più giovane.
Mettiamo in sodo un primo fatto importante, ed è che, comunque il poeta possa giudicare, negli anni maturi, il romanzo della sua giovinezza, e dolersi del malo esempio che molti potevano averne ricevuto, e dire che gli rincresceva d'averlo scritto, quel romanzo non gli esce più dalla mente e dal cuore, e sempre egli lo viene ricordando, l'un anno dopo l'altro, nelle sue lettere e sempre egli si riconosce, e si compiange, e si ammira nel povero Jacopo. Nel 1806, scrivendo all'Albrizzi, si firmava il tuo Ortis. Nel gennajo del 1806, scriveva alla Marzia: «Mi sento l'animo come nel tempo ch'io scriveva l'Ortis»; e un'altra volta le diceva che se avesse potuto scrivere un altro Ortis gli sarebbe parso di star meglio, e sarebbe forse guarito. Nel 1812 ricordava al Pellico il nostro povero Ortis. Nel 1813, trovandosi in uno dei suoi tanti travagli amorosi, scriveva al Trechi: «Sigismondo mio, il povero Ortis è morto»; e morto non era se riviveva in lui. Essendo in Isvizzera nel 1815 e nel 1816, si faceva scrivere al nome di Lorenzo Alderani, il supposto amico e quasi fratello di Jacopo, e con quel nome si sottoscriveva, e di quel nome si serviva anche in istampa. Curava nuove edizioni del melanconico libricciuolo, dolendosi degli errori e di altri guasti che ne avevan deturpate parecchie, lamentando le traduzioni cattive, compiacendosi delle buone; e ad alcune copie della stampa di Londra, del 1817, poneva in fronte una lettera a Samuele Rogers, ove dice tra l'altro: «Io in questa operetta cerco alle volte e riveggo il mio cuore quale era uscito di mano della natura». E quale in sostanza egli conservò sempre, come par quasi che presentisse Melchiorre Cesarotti, quando, nel 1802, gli scriveva a proposito di essa: «Veggo purtroppo ch'è l'opera del tuo cuore; e ciò appunto mi duol di più, perchè temo che [20] tu ci abbia dentro un mal cancrenoso e incurabile». Altri, come l'abate Luigi di Breme e madama Bagien, lo chiamano Ortis, ce pauvre Ortis, e pare a me dicessero più giusto che non facesse egli stesso, quando in una lettera del 1820 alla Russel, e in uno dei frammenti del romanzo autobiografico, chiamava l'Ortis suo amico e suo sfortunato amico. Perciò non ha torto il Chiarini quando dice che un fondo di Jacopo Ortis rimase nel Foscolo per tutta la vita, e che il Foscolo «fu molto più Jacopo Ortis del suo eroe»; e aveva torto la contessa d'Albany quando negava così senz'altro che il suicidio di Jacopo Ortis fosse una ragione per credere al suicidio del Foscolo. Si può qui considerare un bel caso dell'influsso che alle volte un libro esercita sulla persona e su tutta la vita del proprio autore.
Nel 1795, il poeta giovinetto, avvolto di un'elegante melanconia, si deliziava spesso mormorando i patetici versi di Ossian: il poeta maturo si burlò degli ossianeschi, e sentenziò che «la materia dell'Ossian dissente tanto da' nostri costumi e dalle nostre idee poetiche, che l'imitarlo riescirebbe ridicola affettazione»; ma non per ciò se ne scordava, e in una lettera del 1814, alla contessa d'Albany, trascriveva alcuni versi della traduzione cesarottiana, serbati nella memoria, e ripetuti a lenimento del dolore che gli divorava l'anima, e a schermirsi dagl'irritamenti della fortuna.
La melanconia séguita a essere compagna inseparabile del poeta maturo com'era stata del giovane; anzi prende nome e qualità di melanconico genio, e il poeta, che ammira la melanconia della Bibbia, gode in pari tempo di poter dire: il mio amico Amleto. Quella certa smania di singolarità che la contessa d'Albany gli rimproverava nelle sue lettere, e ch'egli un po' stizzosamente negava, era male congenito in lui, del quale, o non seppe, o non volle guarire mai, e che appare per più rispetti somigliantissimo a quella teatralità di cui tanti romantici, anche non zazzeruti, ebbero a far pompa[10]: onde forse l'ammirazione sua per il Byron, levatosi come un «Achille giovinetto tra uno stuolo di eroi più provetti»: pel nuovo Euforione cui anche [21] il Goethe applaudiva, e che le opposte tendenze dei classicisti e dei romantici pareva dover conciliare in un'arte più comprensiva e più alta. E sempre l'uomo provato da tanti disinganni e da tanti dolori mostrò di porre, come avrebbe potuto fare il più romantico dei romantici, la passione al disopra della ragione; e sempre l'anima sua, benchè inaridita (come a lui piaceva di dirla), fu straziata da fatali ricordi, e si dibattè nel tumulto dei sensi e degli affetti, nella febbre e nel delirio di una passione forsennata; e sempre le sue lettere d'amore, specie se scritte a donne pallide, patetiche, sibilline, fatali, donne funestamente a lui care, sono come pezzate di colori romantici, tassellate di espressioni romantiche, riboccanti di romantica mestizia. Leggete ciò che delle notturne angosce, cagionategli da un nuovo rimorso, egli scriveva alla Donna gentile nel marzo del 1816, e leggete il Manfredo del Byron, e poi dite se l'uomo reale non sembra appartenere con l'immaginario a una stessa famiglia.
Il De Sanctis avvertì, e con ragione, un elemento romantico in quei Sepolcri in cui Ippolito Pindemonte trovava, anch'egli con ragione, troppe antiche memorie; ma l'elemento romantico è nell'anima stessa del Foscolo. Che importa che il poeta non se ne avveda, o nol voglia confessare? Che importa ch'egli stia nel 1814 più mesi senza leggere altro che Omero? Che importa che nel 1823 scriva: «I moderni sono troppo ciarlieri per me», e sempre torni agli antichi? Egli ha in fronte uno stigma romantico che non può cancellarsi. Come i romantici, egli è un rivoluzionario che grida tutto essere da rifare in arte. Come i romantici, o almeno come i più dei romantici, egli non riesce a fermare in sè quel perfetto equilibrio della ragione e del cuore, ch'è una condizione principale dell'arte classica, e che egli in arte vagheggia, non senza contraddire a sè stesso. Come i romantici, egli s'intrude sempre nell'opera propria, nè saprebbe intendere il Goethe quando sentenzia che una cosa deve essere l'opera, e un'altra cosa, affatto distinta, il poeta. Aggiungasi che egli, se avversò Chateaubriand, col quale ebbe pure più di una somiglianza, se derise la Staël, fu amico e lodatore sincero di parecchi romantici, fra' quali tutti basterà ricordare il Pellico; e che quando fu fondato il Conciliatore, il giornale della nuova scuola, egli promise, sia pur freddamente, di scriverci, mentre il Monti al giornale moveva guerra prima ancor che nascesse. Chi ponga mente a tutto ciò, non potrà poi troppo meravigliarsi di quella esagerazione del Lampredi, che, nel Poligrafo, chiamò Ugo Foscolo il corifeo dei romanticismo; anzi [22] lo accusò d'aver preso del romanticismo la parte men sana e d'averla resa perniciosissima, generalizzandola.
Il Foscolo è molto difficile da conoscere e da giudicare, e tale difficoltà fu da lui stesso avvertita; ma non tanto difficile tuttavia che non si possa attraverso alle sue molte contraddizioni, per entro a quel misto di dandy e di bohème che si nota in lui, scoprire i caratteri principali e i principali stati dell'agitatissima anima sua. Il Byron lo definiva uomo antico. A me il Foscolo sembra uomo assai moderno sotto l'antica vernice. Tra l'altro, egli mostra apertamente in fronte l'incancellabile suggello che Gian Giacomo Rousseau impresse in tante altre fronti[11]; e credo che se invece di nascere nel 1778 fosse nato vent'anni più tardi e avesse avuto intorno meno impacci di tradizioni e di scuola, egli avrebbe avuto il suo posto non più tra' classici, ma tra' romantici. Peccato che non abbia scritti i parecchi altri romanzi ch'ebbe in mente, da' quali forse altri e maggiori indizi si sarebbero potuti ricavare! Che se il romanticismo avesse a definirsi, come piacerebbe a qualcuno, prevalenza di soggettismo e trionfo di lirismo, chi più romantico del Foscolo?
[25]
Alessandro Manzoni passò sempre, in Italia e fuori d'Italia, per caposcuola del romanticismo italiano. E non senza ragione, di sicuro, chi consideri che nella lettera allo Chauvet sulle unità drammatiche noi abbiamo il documento più cospicuo di quella letteratura polemica; nella lettera a Cesare D'Azeglio il catechismo, per così dire, di quella dottrina; nei Promessi Sposi, nelle tragedie, negl'inni sacri, quanto di meglio quella letteratura produsse in Italia. Se non che, dal tenere, così senz'altro, e in modo, direi, assoluto, il Manzoni capo di quella scuola, possono nascere, e nacquero infatti, e [26] nascono tuttavia, alcune pregiudicate opinioni che, specie se spalleggiate da un po' di avversione o di predilezione istintiva, non lasciano rettamente intendere l'uomo, nè l'opera sua, nè quella scuola stessa di cui si vorrebbe vedere in lui l'espressione più sicura e più piena. Il Manzoni fu romantico, senza dubbio; ma non quel romantico che molti si dànno ad intendere; e capo del romanticismo italiano egli non può esser detto senza accompagnare quel titolo periglioso di molte avvertenze, distinzioni e restrizioni, che ne scemano d'assai la portata, o ne mutano non poco il carattere. I giudizii sommarii non valgono nulla, neanche in letteratura. Del resto il Manzoni, come il Lamartine, ricusò sempre il nome, l'ufficio e le brighe del caposcuola; e se il Pieri, una volta, lo chiamò dispettosamente corifeo del romanticismo italiano; e se altri dopo il Pieri, gli diedero quello stesso, o altro simile titolo; ebbe pur sempre ragione il Mamiani di dire che il presunto e acclamato capitano procedette sempre solo[13]. E di ciò si ha, fra tant'altre, una prova nel fatto che il Manzoni favorì bensì il Conciliatore, ma non vi scrisse; astensione che per un caposcuola del romanticismo non lascia d'essere un po' curiosa.
Parlare del romanticismo è, anche ora, cosa molto difficile, per quanto appajano sedate, se non ispente affatto, le passioni che già resero un tempo difficilissimo il parlarne. Perchè la difficoltà non nasceva tutta dall'impeto e dal contrasto di quelle passioni, le quali non lasciavano veder chiaro nella questione; ma nasceva, e in certa misura nasce ancora, dall'oscurità, dall'estensione, dal viluppo della questione stessa. Più forse di ogni altra dottrina letteraria, in dottrina romantica, presa nel tutto insieme, appare a primo aspetto una agglomerazione di parti malamente coordinate, e talvolta anche repugnanti fra loro; sparsa di certe larve d'idee che, speciose in vista, non si possono poi ridurre a forma definitiva e pensabile; intralciata di troppi di quei giudizii che il Manzoni, parlando d'altro, [27] dice nati «prima sul labbro che nella mente, e che svaniscono a misura che uno li contempla con attenzione». Se n'ha una prova in quelle tante, troppe, definizioni che del romanticismo si diedero e si dànno, e che tutte, qual più, qual meno, tornano inadeguate e vaghe, specie se pretendano di far colpo con certa stringatezza e recisione aforistica che il soggetto non comporta (il romanticismo è il liberalismo nell'arte, lo spiritualismo nell'arte, il vero nell'arte, il trionfo del lirismo, il soperchiare del soggettivismo, il disordine della fantasia, il senso del mistero, la forza dell'aspirazione, ecc.)[14] e se n'ha una prova anche maggiore nel vedere parecchie di quelle definizioni contraddirsi e negarsi a vicenda.
Ad ogni modo, sono lontani i tempi in cui Vittore Hugo, non convertito per anche alla nuova fede, poteva dire che classico e romantico sono parole senza senso, e il Guerrazzi ripetere in Italia: «Io non vorrei profferire nemmen i nomi di classici e di romantici, dacchè per sè stessi non significano nulla». Veramente quei nomi qualche cosa significano, e noi, ora, sempre più li veniamo intendendo, sempre più discerniamo le cose e le idee significate per essi, e le attinenze, conseguenze e ragioni loro. Contraddizioni e incertezze nella dottrina ce ne furono anche troppe, ma dovute, la più parte, alla natura stessa delle cose, le quali vanno per la lor china, come la necessità ne le porta, nè si curano di accondiscendere alle dottrine perchè le riescano più facilmente, di primo tratto, chiare, intere, bene spartite e coerenti.
Risalendo ai principii e guardando un po' dall'alto, si vede ciò che non si può vedere dal basso. I nuovi indirizzi dell'arte e le dottrine che li accompagnano, e alle volte li precedono, sono determinati più e meno (non mai del tutto) da moti molto più vasti e più profondi, effettuatisi già, o che si vanno effettuando, negli ordini della vita e del pensiero. Il romanticismo non fa eccezione a questa che è legge costante e generale; ma esce in qualche modo dall'ordinario, e si stringe a certo gruppo di casi particolari, ove quel nuovo indirizzo si vede essere (sempre più e meno) l'effetto, non di moti concordi e cooperanti, ma di moti discordi e contrastanti, e come la risultante di più forze divergenti. Si vedono comunemente nel romanticismo [28] gli effetti della reazione politica e religiosa; ma non ci si vedono, o ci si vedono molto meno, gli effetti di quello spirito contro cui s'armò la reazione, di quello spirito che concepì e operò i grandi rivolgimenti del secolo scorso[15]. La inclinazione religiosa e mistica che l'arte romantica manifesta sin dal suo nascere; quella infatuazione pel medio evo; quel sentimento di patria e di nazione fatto più permaloso e più acuto, sono frutto di reazione senza dubbio; ma quel vago, inquieto e talvolta protervo desiderio del nuovo; quell'avversione acre all'autorità ed alle regole; quella baldanza critica e battagliera; quel proposito democratico; quel confondere i generi come si eran confuse le classi, son frutti dello spirito stesso del secolo XVIII. Qual meraviglia se il romanticismo, formato, dirò così, di un intreccio di forze contrarie, mostra in sè più di una contraddizione? Se mentre esalta il sentimento sopra la ragione, si serve della ragione per buttar giù il classicismo, con procedimenti non troppo dissimili da quelli che i filosofi avevano usato contro la fede? Se mentre riconsacra le patrie, scioglie inni all'umanità? Se mentre ripone Dio sugli altari, prepara le vie all'incredulità e al satanismo, correggendo esso stesso il detto di Enrico Heine, che il romanticismo sia un fior di passione nato dal sangue di Cristo? Vedere in queste incoerenze e in questi dissidii non altro che sintomi di debolezza e d'inettitudine non è ragionevole. Essi, piuttosto, sono sintomi di vita operosa, combattuta e profonda. Giudicar l'arte e la dottrina che li accolsero in sè fatti di scadimento e di [29] esaurimento, senz'altro, è erroneo. Il romanticismo ebbe molte parti vive e vitali; alcune vitali tanto che vivono ancora, anzi, pajono, mutati i nomi, prender nuovo vigore. Il romanticismo fece ciò che non poteva più, per nessun modo, il classicismo: rappresentò la coscienza dei tempi nuovi nella molteplicità mutabile de' suoi aspetti, nel tumulto e nel contrasto delle sue numerose tendenze, nel lutto insieme dell'agitata e tormentosa sua vita. Fu qualche cosa più che la epizoozia schernita dal Monti.
Del resto quando nella dottrina del romanticismo si sia fatta la cernitura degli elementi avventizii, scioperati, caduchi, e siasi cercato alquanto sotto la superficie, non si stenta molto a trovare un nucleo saldo e incorruttibile, formato dal concetto di un'arte che, non più dell'antica, ma più di quella che s'affanna a rifare l'antica, scaturisca dall'intimo della psiche, e viva del vivo, traendo spirito e norma dal veramente sentito e dal veramente pensato, anzi che dagli esempii e dai precetti; sia, per così dire, immanente e non derivata. Questo concetto, dal quale vennero al rivolgimento letterario della fine del secolo scorso e di parte del presente alcuni caratteri non troppo dissimili da quelli che contraddistinguono il rivolgimento religioso del secolo XVI; questo concetto, che formò pure il nucleo del realismo, è di tutta giustezza e inoppugnabile. E se il romanticismo traviò poi in tanti errori e in tanti eccessi, traviò, non già per averlo troppo osservato, ma bensì per non averlo osservato abbastanza. E se, notando l'atteggiamento diverso che il romanticismo ebbe a prendere tra le varie genti d'Europa, e come quella diversità diventi alle volte contrasto e contraddizione, si volesse inferirne che quel principio non è nè immutabile nè unico, s'inferirebbe il falso, quando la diversità, il contrasto e la contraddizione nascono appunto dall'essere quell'unico e costante principio applicato a condizioni di vita e di coltura profondamente diverse, e da quella mescolanza di elementi e di tendenze a cui ho accennato poc'anzi. Un solo e supremo principio estetico e letterario, e molte e varie contingenze e tendenze particolari, ecco perchè ci fu un romanticismo comune e generico, e ci furono tante specie di romanticismo quanti i paesi in cui allignò.
Sebbene Hermes Visconti abbia definito crocchio sopraromantico il crocchio che intorno al 1820 si adunava in casa del Manzoni, pure gli è indubitato che il romanticismo italiano, specie quello che in Milano ebbe espressione più ragionevole e vita più rigogliosa, fu di sua natura molto temperato, molto conciliativo: tanto temperato e [30] tanto conciliativo che, appunto in quell'anno, nella lettera allo Chauvet, pubblicata poi il 1822, il Manzoni stesso era tratto ad esprimere il dubbio non avessero i romantici italiani a udirsi rimproverare di non essere abbastanza romantici. Egli per primo non dovette sembrare a molti abbastanza romantico. A ragione, o a torto? Ecco appunto la questione che io vorrei esaminare e discutere. Che è a dire del Manzoni considerato nel romanticismo generale europeo? Che è a dire del Manzoni considerato nel romanticismo particolare italiano? Quanto al romanticismo italiano, leggonsi parole del Manzoni che proverebbero pieno e perfetto in quegli anni medesimi l'accordo suo con gli scrittori del Conciliatore, di cui erano stati soppressi i fogli ma non le idee. In principio del 1821, scrivendo al Fauriel, egli li chiamava suoi amici e compagni di patimenti letterarii, amis et compagnons de souffrance littéraire[16], e certamente li aveva per tali. Ma era poi l'accordo così pieno e così perfetto come si parrebbe da quelle parole? Ci sono molte ragioni per credere che no. E il disaccordo, forse assai leggiero in principio, non s'andò aggravando col tempo? Ci sono molte ragioni per credere che sì.
Prima di tutto, il Manzoni ebb'egli da natura un temperamento che possa dirsi di romantico, di romantico schietto, di romantico risoluto? Tale domanda non è senza importanza. Per aderire scientemente a una dottrina o religiosa, o politica, o filosofica, o letteraria, e più per farsene banditore e campione, è necessaria una certa costituzione psichica, una certa complessione morale, varia secondo la varia indole della dottrina stessa e simile (sino a certo segno) in tutti coloro che quella dottrina professano. Ciò va inteso con molta discrezione, con molta larghezza, ed è vero solamente di coloro che abbracciano le dottrine a ragion veduta, con intendimento, con sincerità, con deliberato proposito. Quanto ai molti più che si [31] caccian lor dietro, o perchè allettati da una qualsiasi lusinga di un qualsiasi guadagno, o perchè trascinati dall'andazzo e dalla voga, o perchè usi di porsi alle calcagna del primo che passi e faccia loro cenno, essi non han bisogno d'avere per quelle nessuna inclinazione vera e naturale, e possono, anzi, averci ripugnanza. La fazione, la confessione, la scuola sono formate da quei primi e guaste da quei secondi. Vengono i primi e iniziano, poniamo, un'arte per quanto è possibile nuova: vengono i secondi, e frantendendo, esagerando, adulterando, corrompono e disfanno l'opera di quelli, pur dandosi aria di ajutarla e di compierla. Tutte le scuole letterarie, per non parlar d'altre, conobbero questo flagello; ma nessuna forse più della romantica.
Ora, venendo al Manzoni, io credo si possa dire che la sua costituzione psichica, la sua complessione morale, furono appunto quali si richiedevano a intendere appieno e abbracciare risolutamente il principio primo e sostanziale del romanticismo secondo ho cercato di adombrarlo; furono solo in parte quali occorrevano per accondiscendere ad alcuni altri principii, importanti ancor essi, ma subordinati; non furono in nessun modo quali ci sarebbero volute per acconciarsi a tutto quel guazzabuglio d'idee, d'immaginazioni, di sentimenti, che pajono formar parte integrante della dottrina, ma che della dottrina propriamente sono o negazione, o caricatura.
Spero, nelle pagine che seguono, di riuscire a chiarir tutto ciò; ma si può far sin da ora, agevolmente, una osservazione abbastanza significativa. Se si raccolgono come in un gruppo i maggiori poeti romantici francesi, inglesi, tedeschi, si nota fra loro, a dispetto delle dissomiglianze a volte molto notevoli, come un'aria comune di famiglia: se s'introduce in quel gruppo il Manzoni, il Manzoni sembra un estraneo.
La ricerca di quella che il Taine chiamava facoltà maestra o cardinale può essere in taluni casi molto difficile, e anche molto delusiva, ma non mi par tale nel caso del Manzoni. Chi disse primo (poi fu ripetuto da molti) che il Manzoni è lo stesso buon senso fatto persona, disse bene, ma non disse abbastanza; e chi quel buon senso ragguagliò al senso comune errò grossamente. Gli è vero che il Manzoni stesso parla a più riprese, con molto rispetto, del senso comune, e lo invoca; ma non è da dimenticare ciò che in un luogo dei Promessi Sposi egli scrive a proposito dell'opinione generale circa il malefizio degli untori: che il buon senso «se ne stava nascosto [32] per paura del senso comune»[17]. Tra senso comune e buon senso è poca amicizia; e il buon senso è come una virtù domestica dello spirito, la quale fa gran servizio nelle occorrenze ordinarie della vita, ma fuor di lì, o ne fa poco, o non ne fa punto. Col buon senso si evitano molti errori, e si ripara a molti mali spiccioli; ma per volere le cose grandi, e più per farle, il buon senso non basta: ci vuole un senso più alto, più ardito, più avventuroso, che non si adombri così facilmente d'un paradosso, che non ricalcitri quasi istintivamente ad ogni ver che ha faccia di menzogna, e non tema ogni momento di perder piede. Povero il novatore che avendo buon senso non abbia altro. E il Manzoni fu novatore quieto, ma novatore grande.
Il buon senso occupa i gradi mezzani della ragione, e il Manzoni sale dai mezzani ai più alti. Egli è uom di ragione per eccellenza. Con ciò non voglio già dire che la ragione in lui sia perfetta (e in chi mai fu perfetta?): voglio dire che è mirabile per acutezza e per vigoria, che sta in cima del suo spirito, che sopraintende a tutta la sua vita intellettuale e morale, e la promuove e la regola. La mente del Manzoni è delle meglio ordinate, proporzionate, equilibrate che io conosca; perspicace quanto prudente, agile quanto salda; metodica ma non sistematica; vaga del rigore logico, ma schiva d'ogni logica rigidezza. Il Manzoni sa che il vero sapere non si acquista se non procedendo dal noto all'ignoto; che il metodo è uno per ogni cosa; che gli errori di metodo sono sempre gravi; che la curiosità sincera dev'essere accompagnata dal dubbio ponderatore e dar agio all'esame accurato, perchè l'osservar poco è appunto il mezzo più sicuro per concluder molto; che non bisogna lasciarsi affascinare dalle ipotesi, ma procedere sempre con utile e ragionata diffidenza[18]. C'è forse bisogno di dire che questa così affinata e cauta ragione non ha troppa somiglianza con quella che il secolo XVIII alzò sugli altari? e che abbiam qui una forma di ragione più alta e più sincera? Ma poi, c'è forse bisogno di soggiungere che anche questa ragione più [33] alta e più sincera ha le sue debolezze e le sue esagerazioni? Notato il buono, notiamo anche il men buono.
Il Manzoni è di sua natura, sopra ogni altra cosa, un ragionatore, e sebbene muova consuetamente dal fatto e dalla osservazione, pure, come quei filosofi di cui serbò un qualche poco gli andamenti, anche dopo averne rinnegate le dottrine, non lascia di cader qualche volta nello abuso del ragionar troppo. Egli è un ragionatore molto ingegnoso e molto sottile, ma, qua e là, un pochin troppo ingegnoso e un pochin troppo sottile. Conosce assai bene i sotterfugi e i tranelli del pensiero e della parola, e sa guardarsene, ma non sempre, ma non in tutto. Per dire un esempio, nel discorso sopra il romanzo storico, il ragionamento pende talvolta nel sofistico, l'argomento diventa cavillo; e chi legge non può schermirsi interamente dal dubbio che l'autore abbia scritto, più che per altro, per fare una sua esercitazione dialettica, e per misurare le proprie forze di atleta logico[19]. Così ancora, nel Dialogo della invenzione non mancano alcune di quelle trappole di parole cui accenna uno degli interlocutori; e non mancano neanche altrove, sebbene nessuno meglio del Manzoni sappia che i traslati sono traditori, e che le parole, se non ci si bada bene, menano fuori di strada[20]. Non sempre chi ragiona bene ha ragione, e più d'una volta il Manzoni, per volere ragionare troppo, finisce ad aver torto; e allora non gli giova d'andare in collera contro coloro che negano l'applicabilità de' principii a tutte le loro conseguenze, e dicono espressamente pericolosa la logica[21]. Che l'accusa di troppa sottigliezza potesse, una volta o l'altra, venirgli da qualche banda, pare l'abbia sospettato egli stesso, perchè, quasi a pararsene, lasciò scritto: «j'ai remarqué que l'on appelle assez souvent subtiliser, ce qui pourrait s'appeler en d'autres termes: toucher le point de la question»[22]. E sta bene; ma un pochino di don Ferrante c'è in don Alessandro, sia detto con la discrezione dovuta: e c'è anche un poco di quel soverchio rampollar di pensieri sopra [34] pensieri che, se non dilunga a dirittura il segno, fa talora perplesso e lento chi ci tende. Abbiamo in ciò la confessione dello stesso Manzoni: habemus confitentem reum.
Ma il difetto è pur sempre lieve; e, tutto sommato, s'ha a riconoscere che il Bonghi giudicò rettamente quando disse che «nella mente del Manzoni la facoltà del ragionare esatto era delle maggiori»[23]. Chi ben guardi troverà la manifestazione di quella facoltà non meno nei Promessi Sposi che negli scritti d'indole critica e dissertativa. Il Manzoni non si contentò mai di cosa che, oltre al desiderio, non appagasse in pari tempo la ragione[24]; e credo che il Bonghi cogliesse anche una volta nel segno quando il cattolicismo di lui faceva dipendere, almeno in parte, da un vivo bisogno di logica e serrata coordinazione.
Ora dunque, se il Manzoni è, essenzialmente, un uomo razionale e ragionante; e se la ragione innalza sopra tutte le facoltà umane; e se della ragione usa continuamente, e qualche volta abusa; si vede come sin dal bel principio egli venga a contraddire, non solo a uno dei progenitori massimi del romanticismo, quale fu il Rousseau, che mise il sentimento sopra la ragione, ma ancora a tutti quei veri e proprii romantici della fine del secolo scorso e del primo ventennio di questo che, con a capo Guglielmo Schlegel, per amor di misticità, mossero, larvata o palese, guerra alla ragione.
Il Manzoni è un osservatore, un pensatore, e diciam pure un filosofo: quanto diverso in ciò (e non in ciò solo) da quello Chateaubriand che si vantava di essere antifilosofico sino alla superstizione! Egli, il Manzoni, si duole invece di esser capitato a vivere in una età forse la più antifilosofica, che ci sia mai stata. E il più curioso si è che la sua filosofia, appoggiata com'è alla fede, e informata al più puro idealismo rosminiano, alle volte lascia scorgere un'aria di viso come di positivismo, e par che si scordi del rispetto dovuto alla metafisica, da lui stesso celebrata del resto in più occasioni quale il supremo [35] sapere da cui ogni altro dipende. La parola positivo sdrucciola con molta frequenza dalla penna che scrisse la Morale cattolica e gl'Inni sacri.
Il Manzoni fu un filosofo, ma non un sognatore; e, pur troppo, non di tutti i filosofi si può dire altrettanto. La sua psicologia, la sua estetica, la sua morale recan sempre l'impronta di un pensiero vigoroso non meno che ponderato, il quale agevolmente si allarga dal particolare all'universale, assorge dalle contingenze ai principii. E così la sua critica, secondata da una forza di analisi che giustamente il De Sanctis giudicò potentissima e straordinaria[25]. E notisi che della critica, e non solo di quella corrente, egli non era già troppo tenero; anzi ne diffidava, conscio dei pericoli che fa correre all'arte e ad altro. I suoi giudizii sono sempre acuti, sempre lucidi, quasi sempre giusti: giustissimi, per ricordar qualche esempio, quelli sulla Eneide, sull'Italia liberata del Trissino, sull'Henriade del Voltaire: assai meno giusti, ma non ingiusti del tutto, quelli sul Tasso, sull'Alfieri, sul Leopardi. Quando ha da giudicare, egli sa, il più delle volte, sgombrar l'animo d'ogni passione, scordarsi d'ogni altro interesse che non sia quello del vero, levarsi a un'assoluta imparzialità. Possono farne fede i giudizii da lui pronunziati su Giuliano l'Apostata e sul Robespierre, dov'eran tante e così forti ragioni che potevan sedurlo ad esser men giusto. Le osservazioni ond'egli usava postillare i margini dei libri che leggeva sono come un commento perpetuo fatto da uno spirito che non è possibile soggiogare nè con la forza, nè con l'inganno.
La ragione del Manzoni si compone e si adagia nelle forme più geniali del senno, onde nascono a un tempo la moderazione e la modestia: la moderazione, che è il frutto del veder largamente e sotto ogni aspetto le cose; la modestia, che è il frutto del veder chiaramente e molto addentro in sè stesso. Piacque a taluno mettere in dubbio, se non la moderazione, che non si poteva, la modestia del Manzoni: a torto; perchè, com'ebbe a dire il Pope, want of modesty is want of sense; e l'uomo può serbarsi modestissimo anche se si conosca di molto superiore a molti. Si può dubitare piuttosto se egli non abbia ecceduto un pochino e nell'una e nell'altra virtù, e se conoscendo, [36] come certamente lo conosceva, il Molière, non avrebbe dovuto ricordare un po' più quei due versi del Misanthrope:
La parfaite raison fuit toute extrémité
Et veut que l'on soit sage avec sobriété.
La saggezza fu forse la sola cosa in cui il Manzoni non seppe esser sobrio abbastanza.
Chi, seguitando questo discorso, credesse di poter andar oltre sicuramente, e sentenziare che nel Manzoni la ragione non lascia luogo al sentimento e alla fantasia, s'ingannerebbe a partito. Nel Manzoni il sentimento è vivo, vario, delicato, eccitabile, ma vigilato molto da presso, e tenuto in soggezione. Parla con misura e di rado, non perchè sia tardo di lingua, o abbia poco da dire, ma perchè non gli è permesso di parlare se non a tempo e luogo. Cresca sino a certo segno, ma non isperi uscir mai di pupillo, e, sopratutto, non isperi far del grande, e arieggiare alla passione. Se Gian Giacomo fece della passione una delle virtù cardinali, anzi la virtù suprema, buon pro gli faccia, e all'autrice di Lélia similmente, e a quanti vanno lor dietro. Al Manzoni, il fare della passione virtù, dando nome di forza alla debolezza, sembra, fra tante altre miserie umane, miseria grandissima. Certo, si farebbe presto a provare che il Manzoni inclina un po' troppo all'error contrario, e non s'avvede abbastanza che se le passioni non sono virtù, le virtù, senza l'ajuto di un po' di passione, rischiano facilmente di dar in secco, e l'arte, senza un po' di quell'ajuto, rischia di morir di languore; ma ciò, ora come ora, importa poco, mentre importa assai di notare che anche per questo rispetto il Manzoni s'accorda assai male con que' tanti romantici vecchi, nuovi, novissimi, che posero la passione in cielo, e fecero dell'arte la forma eletta della sua manifestazione sopra la terra. Il Manzoni, non solo non vuole ciò, ma non vuole nemmeno che il sentimento si stemperi e snaturi in quella uniforme, fluida, oziosa sentimentalità che par fatta apposta per accogliere i germi della passione, fomentarli, farli germogliare e fruttificare. Ciò che lo Chateaubriand chiamò le vague de la passion ripugna non meno a quel suo bisogno imperioso di precisione e di chiarezza che al suo criterio morale: onde ben disse il Goethe quando disse che il Manzoni ha sentimento, ma non sentimentalità. I romantici parlano sempre di cuore che intende, di cuore che sa, di cuore che presente, di cuore che insegna: il Manzoni scrive: «Certo, il cuore, chi gli [37] dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un po' di quello che è già accaduto»[26]. Se, prima di comporre, a vent'anni, la delicata elegia che comincia col notissimo verso:
J'ai dit à mon cœur, à mon faible cœur.
Alfredo De Musset fosse ricorso per consiglio al Manzoni, gli è molto probabile che il Manzoni paternamente gli avrebbe detto: Comandate un po' a cotesto chiacchierino di cuore di tacere, e interrogate la ragione. Gli è vero che per l'arte sarebbe stata una disgrazia se il giovane poeta avesse ascoltato il consiglio.
Chi per fantasia intende l'attitudine a saltare di palo in frasca e la inettitudine a tessere logicamente e serratamente la tela delle idee; certa vaghezza del sogno accompagnata a certa intolleranza della realtà; un amore istintivo alla dissipazione e un orrore non meno istintivo dell'ordine; quegli potrà dire con asseveranza che il Manzoni ha poca fantasia, o non ne ha punta. Ma chi crede che la fantasia, o se la vogliamo chiamare con nome più acconcio, la immaginativa sia la facoltà inventrice e divinatrice per eccellenza; la facoltà che colma le lacune del reale, o quelle che a noi pajon tali; la facoltà che ajuta potentemente a conoscere e interpretare il reale, e opera la esaltazione del reale nell'ideale; quegli dirà, con sicurezza di dir giusto, che il Manzoni ebbe molta immaginativa, e di primissimo ordine. Nei Promessi Sposi di quella fantasia non v'è ombra, o quasi; ma di questa immaginativa n'è assai, e non so in quante altre opere dette d'immaginazione se ne trovi altrettanta[27]. Anche per questo rispetto, tra i romantici in genere e il Manzoni il consenso è scarso. Quelli si vantano di lasciar le briglie sul collo alla fantasia; questi non cessa mai di farle sentire il morso. E così, veramente, chiede la ragione.
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Sanno tutti che il Manzoni fu, non solo un curioso di storia, come ce ne sono tanti, ma ancora un indagatore, e un indagatore quanto più si possa desiderare paziente, diligente, perspicace. Egli ebbe in grado eminente quello che si potrebbe addimandare il senso della storia; senso delicatissimo, complicatissimo, che suppone tutto un complesso di virtù intellettuali ed affettive, ma vuole poi, di soprappiù, quel sentimento di larga, anzi di universale simpatia, che abbracciando tutti i tempi, e tutte le lunghe sequele dei casi, e le forme e le mutazioni della vita, ci pone in grado di coesistere in certo qual modo con la umanità tutta quanta e di rivivere la intera sua vita. Chi abbia vigor di pensiero, copia di dottrina, felicità d'indagine, potenza di parola a tutto narrare e tutto descrivere, e non allarghi l'animo in quel sentimento, potrà scrivere libri mirabili di materia storica, ma non iscriverà la storia. Per dire le sciagure degli uomini, non basta conoscerle, bisogna sentirle.
Perchè ebbe assai vivo e sicuro il senso della storia, il Manzoni intese sempre ottimamente che non è storia quella che non muove dai fatti. Il Rousseau scrisse in principio del suo Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes: «Commençons par écarter tous les faits»; e il Fichte soggiunse: «Nulla al mondo è più stupido di un fatto»; e il Royer-Collard mise in rilievo la conseguenza: «Il fatto è ciò che v'è di più spregevole». Tutto l'opposto pel Manzoni. Egli ha pei fatti il più grande, il più sincero, il più costante rispetto; dico rispetto e non idolatria, perchè nessuno sa meglio di lui che «una serie di fatti materiali ed esteriori, per dir così, foss'anche netta d'errori e di dubbi, non è ancora la storia», e che i fatti bisogna interpretarli e giudicarli con qualche cosa ch'è superiore ai fatti[28]. Perciò avrebbe voluto accoppiati insieme il Muratori e il Vico, gl'intenti generali nella moltitudine delle notizie positive[29]. Anche il Michelet voleva il Vico, ma si scordava poi di accompagnarlo col Muratori.
[39]
Se avesse voluto, il Manzoni poteva riuscire uno storico di primissimo ordine, e forse era questa la vocazione sua più vera e più forte. Nessuno vede ed intende meglio di lui i moti delle cose e degli uomini; il contrasto, il cozzo, l'intreccio degli avvenimenti, degli interessi, delle idee; le lontane derivazioni; i lontani influssi e come nascan gli errori; e come muojano le verità; e perchè l'una gente trionfi e l'altra rovini. Nessuno meglio di lui sa la vita e l'anima delle moltitudini, e le forze che le governano. La psicologia delle folle non ha interprete più ingegnoso e più sicuro di lui; ed è perciò che la descrizione della carestia e la descrizione della peste nel romanzo sono pagine di storia incomparabili. Nessuno, finalmente, è nei giudizii più acuto e più equo; lode grande se si pensa quant'è difficile mettere insieme l'equità e l'acutezza per modo che, non solo l'una non noccia all'altra, ma l'una all'altra soccorra.
Tutto questo discorso non è, come potrebbe sembrare, una digressione. Un certo amore alla storia direi che fa parte integrante della fede romantica. Quel desiderio di verità che, si voglia o non si voglia, è uno dei principii motori del romanticismo, e quello appunto per cui il romanticismo più strettamente si lega a tutto il pensiero del secolo XVIII, non poteva, mentre volgevasi a tutte le altre specie della realtà, non volgersi anche alla realtà storica. A ciò poderosamente ajutavano i nuovi studii: il concetto fecondo di una storia che non fosse più semplice biografia di principi e nudo racconto di battaglie: la paziente ricerca e l'attento esame dei documenti; l'antichità scórta in più vera luce; il medio evo quasi scoperto. È noto che entrambi gli Schlegel furono appassionatissimi di storia, e non meno appassionati di loro furono molti altri romantici: ma se la passione durò lungamente, non durò lungamente, pur troppo, quello spirito di vigilanza, quella probità di ricerca, quel bisogno di esattezza, senza di cui la passione, abbandonata a sè stessa, può far poco bene, anzi suol far molto male. Sanno tutti che cosa sia diventato il medio evo nelle ricostruzioni poetiche de' più dei romantici; e giacchè m'è venuto ricordato il medio evo, sarà questo il luogo di notare che il Manzoni non partecipò punto di quella infatuazione per esso che fu tanto comune ai romantici d'ogni paese, e divenne uno dei contrassegni più caratteristici di tutta la scuola. Veramente nei principii fondamentali della scuola non v'è nulla che giustifichi il detto di Madama di Staël: «Le nom de romantique a été introduit nouvellement en Allemagne, pour désigner la poésie dont les chants des troubadours ont été l'origine, [40] celle qui est née de la chevalerie et du Christianisme»[30]. Che romantico rimandi a romanzo, e però a quella che nel medio evo fu detta Romania, e però al medio evo stesso, e ai trovatori, e ai cavalieri, erranti e non erranti, è verissimo; ma è altrettanto vero che quel nome fu assai malamente scelto, e peggio imposto alla scuola, perchè non esprime punto ciò che avevano in mente gl'iniziatori di essa, consapevoli e inconsapevoli, o lo esprime in modo parziale ed erroneo, escludendo dalla denotazione il mondo germanico, che non fu mai romanzo, e il mondo moderno, che non è quello dei cavalieri e dei trovatori. Comunque sia, o perchè così suggeriva quella credenza cristiana ch'ebbe nel medio evo il suo massimo rigoglio, o perchè così persuadeva l'avversione a quella paganità classica che nel medio evo fu più risolutamente negata, o più universalmente ignorata, fatto sta che il medio evo (quale medio evo!) diventò il caval di battaglia, per non dire il ponte dell'asino, del romanticismo europeo, e che cavalieri, castellane, paggi, menestrelli, giullari, torri merlate, palafreni bardati, cimieri impennacchiati, furono il sogno e l'incubo, la delizia e l'affanno di quanti ebbe poeti (voglio dire bardi, scaldi e trovatori) il romantico regno.
Ma non del Manzoni. Il Manzoni mise sì in tragedia la storia di Desiderio e di Adelchi, ma dopo aver fatto sulla età cui quella storia appartiene gli studii raccolti e condensati nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia. Niente dunque di quel medio evo posticcio, lezioso, ridicolo, e niente di quella infatuazione puerile e fantastica. Se gli Schlegel, se Giuseppe De Maistre, se tanti altri esalteranno il medio evo sopra ogni altra età della storia, e sogneranno di potervi tornare, egli, che le conosce tutte, e conosce l'umana natura, lascerà che si sfoghino, e, senza far chiasso, riderà delle pazze paladinerie, e chiamerà cronicaccia la cronica del monaco di San Gallo, e scriverà nel romanzo, a proposito dei cavalieri erranti: «Bello, savio ed utile mestiere! mestiere, proprio, da far la prima figura in un trattato d'economia politica»[31]. Egli loda molto e il Berchet e il Grossi; ma chi vorrà credere che il trovatore errante per la selva bruna del primo e il Folchetto del secondo avessero a dare un gran gusto al creatore di don Abbondio e di Perpetua? e chi, piuttosto, non vorrà credere che la trobadoric'arpa gli riuscisse altrettanto [41] nojosa quanto la cetra classica, ed anzi più? Quell'oh gioja! che il buon Pellico profferì il giorno in cui gli toccò la ventura (durante un poetico rapimento, s'intende) di leggere sopra un macigno, nella sacra valle del Chiusone, i nomi d'Eudo e di Tancreda, quell'ingenuo oh gioja! vi pare che avrebbe mai potuto uscire dalle argute labbra del Manzoni? E vi pare che il Manzoni avrebbe mai voluto far molti vezzi a quella buona comare che, a detta del Carrer,
Vien d'un albero all'ombria
A colloquio colle fate;
Col giullare sulla via,
Nei castelli col magnate,
e dovrebb'essere, salvo errore, la Poesia? Vedremo, tra poco, che sentimenti nutrisse il Manzoni verso la poesia in genere; ma a buon conto s'ha da notare che tra' suoi versi non è neppur una di quelle romanze che così poco hanno in sè di romanzo, e neppur una di quelle ballate che della ballata non ebbero altro mai se non il nome.
Il Manzoni ebbe dunque assai più senso storico che non la più gran parte dei romantici, assai più di Gualtiero Scott, che, di solito, non va oltre le apparenze; e parlando segnatamente del romanziere e del poeta si può forse dire che n'abbia avuto sin troppo. Il Carmagnola fu più che mediocremente guasto dalla troppo fida e severa ossequenza alla storia, e di questa troppo fida e severa ossequenza è documento memorabile il Discorso intorno al romanzo storico. Si sa a quali conclusioni venga in esso l'autore, e non è ora il caso di ripeterle: bensì è da avvertire ch'egli è di tanti romantici il solo che combatta, proprio di proposito, e con assai vigorosa argomentazione, una specie di componimento che a' romantici fu sempre carissimo, e al quale egli stesso legò indissolubilmente il proprio nome e la propria gloria; e che se le ragioni del Guerrazzi, del Tenca e del De Sanctis valsero a rompere quell'argomentazione, non però valsero a distruggerla affatto[32]. Notisi che qualche dubbio circa la legittimità [42] del connubio della poesia con la storia egli deve averlo avuto assai per tempo. In fatti, nella Lettera sulle unità drammatiche, egli considera la poesia come un'avvivatrice della storia; concede che si possa nel dramma, sino ad un certo segno, «compléter l'histoire.... imaginer même des faits là où l'histoire ne donne que des indications»; ma, quanto al romanzo, nota già che esso è per natura inclinato al falso, e ne parla con leggiera, ma non però dubbia, intonazione di sprezzo[33]. I dubbii non dovevano essere cessati nel gennajo del 1821, quando, pur lodando al Fauriel «ce système d'invention des faits, pour développer des mœurs historiques», lo pregava di dirgliene il suo parere[34]. Probabilmente quei dubbii tacquero, o furono fatti tacere, durante la composizione del romanzo; ma dovettero ricominciare a farsi sentire assai presto, e un bel pezzo prima che il Manzoni scrivesse il Discorso, lo che fu nel 1845. Nel 1847 il Lamartine pubblicava l'Histoire des Girondins, e l'autore dei Trois Mousquetaires, rapito dall'entusiasmo, gridava: «Lamartine a élevé l'histoire à la dignité du roman!»
Quella vivezza e acutezza di senso storico che abbiamo notata, la disposizione che lo spirito ne riceve a soffermarsi più particolarmente e con predilezione sulle cose e sui fatti umani, e una certa consuetudine che nasce da quella disposizione, dànno ragione, in parte almeno, della qualità ch'ebbe il sentimento della natura nell'autore dei Promessi Sposi. Il Manzoni fu tutt'altro che chiuso alle impressioni della natura; ma sempre ebbe più l'occhio alle anime che alle cose. Nel romanzo la scena dei luoghi, o è accennata soltanto, o è dipinta con tale rapidità di tocco e sobrietà di colori che a molti può non in tutto piacere. La descrizione del lago e delle sue rive, quali li poteva contemplare don Abbondio quella tal sera di novembre, è tutta raccolta in una pagina e mezzo; il bosco, ove Renzo fuggiasco passò quella mala notte, voi ve lo vedete d'intorno, pauroso, folto, attraversato qua e là da un raggio di luna, ma non sapete come succeda il miracolo, tanto è poco il numero delle parole adoperate a farvelo vedere. E non solo il Manzoni sorpassa volentieri alle cose, ma le lascia anche nel proprio esser loro, ben distinte da ciò che è umano. In altri termini, egli ignora, o non cura, l'arte di cui non s'avvisarono gli antichi (qualche eccezione non conta) e della quale troppo [43] usarono e si gloriarono i romantici, di dare anima e sentimento alle cose, e di chiamarle a intimo colloquio con le anime umane. La natura è dal Manzoni trattata classicamente, e non è questo, come vedremo, il solo caso in cui s'abbia a notare nel Manzoni una tendenza classica, o un classico procedimento.
Il romanticismo fu, tra l'altro, un ritorno alla fede; uno studio di mostrar falsa e di scalzare la inveterata opinione, espressa in modo più particolarmente reciso dal Boileau, che i fatti e i dogmi del cristianesimo ripugnino alle forme e alle trasposizioni dell'arte; un desiderio e una sollecitudine di conciliare appunto quello con questa. Perciò lo Chateaubriand scrive il Genio del cristianesimo. Degli eccessi di reazion clericale che accompagnarono quel ritorno: gli Stati cristiani riassoggettati tutti dal Lamennais alla indiscutibile sovranità del Pontefice; il Pontefice proclamato da Giuseppe De Maistre dogma capitale della fede cattolica (le dogme capital du catholicisme est le souverain Pontife), ecc., ecc.; non è qui da discorrere. Molti romantici furono cristiani; molti furono cattolici; qualcuno dal cristianesimo o dal cattolicismo si condusse a grado a grado, come l'Hugo, a un vago deismo o panteismo; parecchi, per altre vie, riuscirono da ultimo all'ateismo. Il Manzoni fu cattolico, ma dopo essere stato razionalista. In ciò egli somiglia, per tacer d'altri, allo Chateaubriand; ma quanto diverso dallo Chateaubriand sott'altri aspetti! Quanto l'autore dei Promessi Sposi è più veramente, intimamente, sostanzialmente cristiano che non l'autore dei Martiri! Questi orgoglioso ed acre; quegli modesto e mite. Questi stuzzica e accende la passione; quegli la attutisce e la spegne. Da taluno fu messa in dubbio la sincerità del sentimento cristiano nel Manzoni; ma debbo confessare che non ne intendo troppo il perchè. Può darsi (io per altro nol direi) che il cristianesimo degl'Inni sacri riesca un po' scolorito, un po' freddo; ma quello dei Promessi Sposi? I Promessi Sposi sono opera e testimonio di una coscienza tutta cristiana, profondamente cristiana, penetrata dello spirito dell'evangelo sino negli ultimi suoi recessi; e però non si trova in essi nessuna di quelle tante piccole contraddizioni, piccole defezioni, piccole sconvenienze che si posson notare, [44] e furon notate, nelle opere dello Chateaubriand. Certo il Manzoni non pensò mai a fare del Papa il dogma capitale del cattolicismo; ma ciò attesta, oltrechè la rettitudine della sua mente, anche la rettitudine della sua fede. E da questa fede vengono principii e norme non meno alla politica che all'arte di lui.
Fate che lo spirito evangelico si accompagni con quel vivo e giusto sentimento della realtà storica di cui s'è parlato testè, e avrete l'idea democratica e il sentimento democratico del Manzoni, quali prorompono negl'Inni sacri, nel celebre coro dell'Adelchi, nei Promessi Sposi. È un'idea molto larga, ma, nel tempo stesso, molto rigorosa; è un sentimento molto caritatevole, ma, nel tempo stesso, molto cauto. Certi spiriti di democrazia il romanticismo doveva (con molte eccezioni, restrizioni e contraddizioni, gli è vero) manifestarli sino da' suoi principii, e ciò per parecchi motivi. Prima di tutto essi erano, in parte, retaggio non alienabile di quel secolo xviii al quale, come s'è visto, il romanticismo è congiunto assai più strettamente che non paja; poi il sentimento cristiano, in quel suo rinnovarsi, s'aveva di necessità a penetrare alquanto di quella evangelica pietà e di quell'evangelico rispetto verso gli umili che il sentimento stesso, quando divenga consuetudine e tradizione, lascia troppo facilmente e troppo volentieri in disparte; poi, ancora, la semplicità e naturalezza di quegli umili aveva a piacere a chi era sazio dell'artifiziato, dell'aulico, dell'accademico; poi, finalmente, l'amore alla realtà, e, in ispecie, alla realtà storica, non poteva non fare che gli occhi e le menti si raccogliessero sopra quella che è la più vasta e viva delle realtà umane, il popolo co' suoi bisogni, le sue passioni, i suoi patimenti, le sue fedi. Molti romantici dunque (sarebbe un grande errore dir tutti) furono, se non democratici, nel proprio senso della parola, demofili, o popolari; e lasciato da banda l'uomo alterato e travisato dalle raffinatezze cortigiane e non cortigiane, cercarono, nè più nè meno di quanto abbiano poi fatto i realisti, l'uomo schietto e comune. Lodevole sentimento e lodevol proposito, ma che in pratica riesce assai difficile contenere entro gli angusti termini del giusto e del ragionevole. Il Manzoni, anche in questo diverso da troppi, seppe contenerveli con sapiente risolutezza. Egli ama il popolo, ma non l'adula; ne sostiene le ragioni, ma non ne stuzzica le passioni: lo vuol felice, ma non superbo. Diffida in sommo grado di certe formole, di certi aforismi. Dice, per bocca d'Agnese, che tutti i signori hanno del pazzesco: ma si burla dell'apotegma; Voce di [45] popolo, voce di Dio; e le giustizie delle moltitudini stima le peggiori che si facciano al mondo[35].
I romantici vollero letteratura popolare, e il Bürger giunse a dire che la poesia popolare è la sola vera poesia, e l'Hugo, in quel suo linguaggio immaginoso, che ufficio del poeta è trasformare la folla in popolo. Per questo rispetto si può dire che il Manzoni fu più romantico di tutti i romantici, e coerente più di tutti; perchè fu popolare non solo nella invenzione e nel fine, ma nello stile, nella lingua, e nella dottrina stessa della lingua, facendo alleanza col Porta, rifiutando la prosa poetica, e sino a un certo segno, ma non quanto si crede, la lingua poetica.
Il romanticismo favorì e promosse per un verso l'individualismo, e anzi da taluno il romanticismo fu definito, se definizione può dirsi, una esplosione d'individualismo. Come definizione regge benissimo. Non so come un tal fatto possa conciliarsi con quella innovata idea della storia cui accennavo di sopra, con la sollecitudine per le tradizioni e le usanze comuni, col concetto di una letteratura popolare, e, sopratutto, con l'umiltà cristiana. Mi par di vederci una grande contraddizione; ma non può esser còmpito mio (nè so di chi potrebbe esser còmpito) lo scegliere tutte le contraddizioni del romanticismo, piccole, grandi e mezzane. Fatto sta che una certa continuata e impertinente ostentazione di sè, quello che un Francese direbbe l'étalage de la personnalité, quello che uno psichiatra potrebbe chiamare l'esibizionismo letterario, è male cui van soggetti moltissimi romantici, male che nei più si mantiene abbastanza remissivo e tollerabile, ma che in alcuni diventa a dirittura smodato ed odioso. Non serve far nomi che tosto corrono alla mente di ognuno. Ora, anche di questo male andò immune il Manzoni. Non credo ch'egli giungesse a dire col Pascal: le moi est haïssable; ma gli è certo che di sè non parla se non il meno possibile: e se lascia intendere sùbito, molto chiaramente, di volere esser lui, di non essere punto disposto a lasciarsi stordire dai chiassi e trascinare dalla corrente, leva anche sùbito altrui il sospetto ch'egli voglia drizzarsi sopra un piedestallo, atteggiarsi a nume od a mostro.
L'esagerato e permaloso individualismo fu una tra le molte cause di quello che dissero male del secolo; male pressochè del tutto [46] ignoto, sott'altro nome e altre sembianze, agli uomini delle età che furono dopo l'antica e innanzi alla presente, e serbato forse agli avvenire assai più di quanto altri sperino o dicano. In mezzo alla dilagante giocondità del secolo scorso, esso si manifestò da prima con le forme tenui e coi miti caratteri della melanconia, nata dalla sensitività tormentata e alterata, e a poco a poco crebbe e si esacerbò, riuscendo da ultimo nei parossismi di Renato, di Manfredo, di Rolla, di tant'altri. Questo male diventò un tempo mal comune, o, a dir meglio, comune ostentazione, perchè son sempre pochi quelli che lo possono provar davvero e grandemente; e anche in Italia s'ebbe il flagello degl'imberbi fatali, pallidi, capelluti, e delle geroglifiche donne, scherniti sulle scene, inchiodati alla gogna dal Giusti.
Il Manzoni non fu ammalato di questo male, sebbene egli fosse, in un certo senso, un gran pessimista. Quel male non può andar disgiunto dal pessimismo; ma il pessimismo, o, almeno, un certo pessimismo può aversi senza quel male, o, almeno, senza talune forme di quel male. Il Manzoni non conobbe, o non patì a lungo la melanconia; non già perchè la vita riposata e normale ne l'abbia preservato, ma perchè l'animo suo non la riceveva. Egli non condusse nè la vita dolorosamente inquieta dello Chateaubriand, nè la vita dolorosamente quieta del Leopardi; ma nè i grandi dolori si richiedono a far l'uomo triste quand'egli sia da natura inclinato alla tristezza, nè la vita del Manzoni fu così scevra di grandi dolori da torgli occasione e modo di diventar triste. Anzi a renderlo tale avrebbero potuto bastare e parer troppi, quand'egli fosse stato di altro temperamento, gl'incomodi della salute, e gl'impedimenti al lavoro che troppo spesso gliene venivano. Giovinetto, ritraendo sè stesso, aveva scritto:
m'attristo spesso;
Buono al buon, buono al tristo, a me sol rio;
ma forse scrisse a quel modo per ossequio all'usanza; forse fu stato d'animo superficiale e passeggero. Certo si è, non solo che egli non languì mai sotto il peso di quella formidabile noja di cui lo Chateaubriand era gravato e gravava le spalle de' suoi personaggi come d'un manto di non so quale regalità decaduta; nè conobbe i laceramenti, l'amara sazietà, i torbidi spiriti di ribellione dei personaggi del Byron e del Byron stesso; ma che fu, tutta la vita, se non lieto, sereno, e di una compostezza d'animo veramente assai più classica che romantica. Egli fu grande ammiratore del Goethe, di cui doveva molto [47] piacergli, tra l'altro, la equanimità gagliarda, la tranquillità luminosa; ma non so davvero come e quanto gustasse il Werther.
E pure, dicevo, il Manzoni fu pessimista in un certo senso, e non deve far meraviglia che fosse. San Francesco di Sales, che fu buon cristiano, scrisse una volta che la tentazione di attristarsi d'essere al mondo è una tentazione assai forte. Io non so se questa tentazione egli sia riuscito a vincerla sempre; ma so che l'ebbero molti altri buoni e santi cristiani, e debbo pur credere che tutti quelli che non vedevano l'ora di volare in cielo, o poco o molto dovessero attristarsi d'essere quaggiù, perchè l'uomo naturalmente s'attrista d'essere in un luogo quando gli piacerebbe molto d'essere in un altro.
Considerate, di grazia, che una certa forma di pessimismo scaturisce spontaneamente, e non può non iscaturire, dal proprio centro della dottrina cristiana, da quell'idea d'un mondo corrotto e maledetto sin dalle origini, caduto in balìa di malvage potenze, redento sì, ma redento da tale che dice il suo regno non essere di quel mondo, e solo fuor di quel mondo, in un lontano avvenire, in una incognita patria, promette la restaurazione degli umani destini e il finale trionfo del bene. Quale gloriosa e salutare speranza, ma quanto combattuta, e da quanti pericoli circondata! Non udite voi il lungo gemito di tutte le creature sonar cupamente nelle parole di san Paolo? E il grido di tutti i santi che, come san Paolo, chiedono in grazia la morte per esser con Cristo? E gl'incalzanti epifonemi di un Pascal, descrivente l'eccesso delle umane miserie e il terrore dell'infinito? Capisco: non è il pessimismo buddistico, nè quello dello Schopenhauer o del Leopardi, poichè mette capo in una grande speranza; ma è o non è, almeno per quanto concerne il mondo di qua, una maniera di pessimismo, e sommamente dolorosa, e sommamente terribile? E non è dottrina cristiana la formidabile dottrina della predestinazione?
Il Manzoni è cristiano, e come cristiano è pessimista in questo senso: e forse quella indolenza sua, rimproveratagli le tante volte da tanti, nasce in parte, senza ch'ei se ne avvegga, dal sentimento profondo della disperata vanità di tutte le cose, di una comune sciagura sempre rinascente e sempre irreparabile: sentimento che si risolve in questa invariabile domanda: a che pro? Ma più ancora che alla meditazione dell'idea cristiana pare a me che il suo pessimismo derivi da quella sua così vasta e chiara e continuata visione della vicenda storica nel tempo e nello spazio. Egli sa che non vi può essere [48] se non poca giustizia nel mondo, perchè glielo dicono le Scritture; ma sopratutto il sa perchè vede ciò che Renzo non vede, la giustizia offesa e conculcata in mille modi, continuamente, sfacciatamente, violentemente, in alto e in basso, nelle cose grandi e nelle cose piccole, per interesse, per furore, o per semplice gusto. Egli sa che la virtù è soggetta a mille prove, a mille pericoli, perchè così vuole la legge del riscatto e della giustificazione; ma sopratutto il sa perchè vede che scopertamente, o di soppiatto, la virtù è sempre schernita, insidiata, perseguitata. Egli sa che non vi può essere felicità nel mondo, perchè il mondo è valle di lacrime, nel bujo della quale splende solo, come s'esprimono le Sacre Carte ed egli ripete, una speranza piena d'immortalità; ma sopratutto il sa perchè vede gli angosciosi rivolgimenti, le formidabili sciagure, le immani rovine della storia, e le orde umane rovesciarsi le une addosso alle altre, furenti di cupidigia, sitibonde di sangue, e alla guerra tener dietro le carestie, e alle carestie tener dietro le pesti, e le tenebre dell'errore e della paura avviluppare ogni cosa. I Promessi Sposi si chiudono, se non colle parole, col concetto di questa sentenza: Non isperate d'essere contenti davvero.
Non so se il Manzoni avesse meditate ed intese le non troppo chiare disquisizioni di Federico Schlegel intorno all'ironia ed al suo officio nell'arte: so che quella sua ironia, così sottile e pur così indulgente, è un modo d'espressione di quel suo pessimismo.
La vivezza del sentimento religioso condiziona nel Manzoni taluni principii d'estetica romantica che, per nascere e prender forza, non abbisognavano dell'ajuto di quel sentimento, ma ravvolti, per così dire, in esso, ne ricevevano nuovo vigore, e raffermavansi con risolutezza più intollerante e più battagliera e recisione anche troppa.
Il principio che voleva il vero e il reale nell'arte non poteva, negli animi che l'accoglievano, scompagnarsi da un senso più o meno vivo d'avversione per la mitologia pagana, e, se non per l'arte classica, per la imitazione dell'arte classica. Il Manzoni cominciò classicheggiante, come tanti altri, e invocò Apollo e le Muse e le Grazie, e salì con la fantasia gli ardui gioghi di Pindo e di Parnaso, bevve al pegaseo fonte, e vagheggiò la Gloria, figlia del Tempo e di Minerva, [49] sospir di mille amanti; ma rinnegò ben presto e, sembra, senza stringimento di cuore, quei numi d'Atene, da' quali Carlo Tedaldi Fores, venuto al punto della conversione, non sapeva staccarsi senza tristezza e senza lacrime; e mai non conobbe quel sentimento di dolce rammarico che allo Schiller inspirava il canto degli Dei della Grecia, e al Leopardi quello delle Favole antiche, e al De Musset quei teneri versi dei Vœux stériles:
Grèce, ò mère des arts, terre d'idolâtrie,
De mes vœux insensés éternelle patrie,
J'étais né pour ces temps où les fleurs de ton front
Couronnaient dans les mers l'azur de l'Hellespont.
Il Manzoni appunto di quella idolatria si sente offeso, appunto quella, come cristiano, detesta, e ne vorrebbe spenta sin la memoria. L'Ira d'Apollo, scherzo composto in sul primo accendersi della guerra fra classici e romantici, ha carattere essenzialmente letterario, esprime un concetto in tutto conforme al comune; ma più tardi, e non molto più tardi, l'avversione del Manzoni crebbe a segno da diventare odio, e pareggiare quello degli antichi cristiani, e vincere lo stesso aborrimento espresso dallo Chateaubriand con tanto ardore e tanta impetuosità di parole. In fatti, nella famosa lettera a Cesare D'Azeglio (22 settembre 1823), egli, dette le ragioni per le quali a lui, come agli altri romantici, sembra assurdo, nojoso, ridicolo l'uso della mitologia, soggiunge: «Ma la ragione, per la quale principalmente io ritengo detestabile l'uso della mitologia, e utile quel sistema che tende ad escluderla, non la direi certamente a chicchessia, per non provocare delle risa, che precederebbero e impedirebbero ogni spiegazione; ma non lascierò di sottoporla a lei, che se la trovasse insussistente, saprebbe addirizzarmi, senza ridere. Tale ragione per me è, che l'uso della favola è vera idolatria»[36]. E séguita, recando le ragioni che lo fan pensare a quel modo.
Per ciò che spetta alla imitazione dei classici, dichiara egli stesso di nutrir «sentimenti molto più arditi, molto più irriverenti» che non la più parte dei romantici, e di nutrirli, principalmente, perchè «la parte morale dei classici è essenzialmente falsa»; perchè negli scritti loro manca di necessità «quella prima ed ultima ragione, che è stata una grande sciagura il non aver conosciuta, ma dalla quale è stoltezza [50] il prescindere scientemente e volontariamente»; perchè egli non può nè vuole chiamar suoi maestri «quelli che si sono ingannati», e ingannerebbero lui pure[37]. Che cosa avrebbe mai detto il Tasso se avesse potuto udire, il Tasso di cui il Manzoni reca altrove gli argomenti contro l'uso della mitologia?
Dichiarazioni di questa sorte ci mettono un po' d'inquietudine addosso. A che dovrebbero poi riuscire? Esse ci fanno ricordare di quel sant'Andoeno che nel secolo VII chiamava scellerati Omero e Virgilio; di Leone, abate di san Bonifacio e legato apostolico, scrivente, nel X, ai re Ugo e Roberto di Francia che i vicarii e i discepoli di san Pietro non vogliono avere a maestri Platone, Virgilio, Terenzio, e gli altri del filosofico bestiame, neque ceteros pecudes philosophorum; e non voglio dire ci facciano ricordar di Teofilo, vescovo di Alessandria, che buttava nel fuoco quanti libri d'idolatria gli capitavano nelle mani. Tutti i romantici schietti detestarono più o meno il Rinascimento, e si capisce che non lo potevano amare; ma non c'è egli ragion di credere che il Manzoni lo detestasse più degli altri, e troppo più del bisogno? Abbiam trovato già tante volte, in cose meno importanti, un Manzoni meno romantico dei romantici, che ci dispiace trovarlo in questa romantico ultra, e da mandare a braccetto nientemeno che con Giuseppe De Maistre; ma che s'ha a fare? diremo di lui ciò ch'egli ebbe a dire del suo Bortolo: quel Manzoni era fatto così; se ne volete un altro, fabbricatevelo.
Cioè, no: era e non era fatto così; era insomma di una cotal fattura intricata e complessa, da non poterci veder chiaro sempre. Questo nemico dei classici ha del classico qualche volta (ne abbiamo avuto già qualche indizio), e più di quanto altri possa credere, e dove altri non immagina. Il Carducci notò con ragione, e negl'Inni sacri e in altre liriche, movenze classiche del verso e della strofe, e purissima delineazion virgiliana nelle immagini, e altro ancora[38]; e gli è un fatto che il Manzoni non dimenticò mai (e forse se ne confessava come di un peccato) quelli cui egli stesso aveva dato nome di prischi sommi. Da giovane celebrò Omero in versi divenuti immortali; da vecchio, in prosa, disse di Virgilio cose mirabili. Guardate il Manzoni sotto certo aspetto, considerate per bene certi caratteri dell'arte sua, ed egli vi parrà il più classico dei romantici.
[51]
Ne volete un'altra prova, un po' leggiera, a dir vero, ma che pure ha il suo peso? Cercate un po' quale
Corrispondenza d'amorosi sensi
passi tra il Manzoni e la luna. Tale invito pare una celia e non è. Quando il Carducci fece del sole un simbolo del classicismo, e della luna un simbolo del romanticismo, accennò poeticamente una relazione vera, per quanto ideale[39]. Che i romantici, dopo aver rinunziato, e per sempre, al culto di Artemisia e di Diana, per poco non ne instaurarono un nuovo, è noto anche troppo. Il sole cominciò a venir loro in uggia, a parer loro un pochino volgare: la luna invece, specie se velata da un lembo di nuvola discreta, come accortamente insinuava uno dei loro, molto più amabile, più spirituale e più interessante. Perciò la presero a confidente, inspiratrice e consolatrice loro, la celebrarono in tutte le lingue e su tutti i toni, la mescolarono a tutte le umane faccende, la consacrarono regina della poesia non meno che della notte, e inventarono la sinfonia della luna un bel pezzo prima che lo Zola inventasse la sinfonia dei formaggi. Sinfonia per sinfonia, mi par meglio la loro, benchè meno gustosa. Quella che un secentista malcreato aveva ardito chiamare frittata del cielo, diventò il volto pensoso che dall'alto dei cieli scruta il mistero dell'ombre e degli oceani. Gli amica silentia lunae di Virgilio si mutarono in intimi ed arcani colloquii; e già il Meli, ch'è tutt'altro che un romantico, poneva sulle labbra del suo Dafni questo saluto:
Li placidi silenzii,
All'umidu to raggiu
Di la natura parranu
L'amabili linguaggiu.
A tia l'amanti teneru
Cu palpiti segreti
La dulurusa storia
Mestissimu ripeti;
e già Ippolito Pindemonte confessava:
Oh quante volte il giorno
Insultai col desio del tuo ritorno!
[52] e soggiungeva:
Perchè sola ti vede,
Sola l'ignaro vulgo in ciel ti crede:
Ma il Riposo, la Calma,
Del meditar Vaghezza,
Ogni Piacer dell'alma,
La gioconda Tristezza,
E la Pietà con dolce stilla all'occhio,
Ti stanno taciturne intorno al cocchio.
Non so se dal giorno in cui il Goethe disse alla luna: Tu sciogli da ogni laccio l'anima mia! sino a quello in cui il Longfellow la rassomigliò a uno spirito glorificato, ci sia stato poeta, o poco o molto romantico, o grande o piccino, che per la luna non abbia spasimato, o finto di spasimare. E tante ne dissero tutti costoro, e così stucchevolmente si ripeterono, che non è da stupire se da ultimo venne chi per beffa la paragonò a un punto sopra una i, e chi le diede della celeste paolotta.
Parecchie saranno state, cred'io, le ragioni di quel romantico invasamento; ma, forse, la più generale fu questa. Nella psiche romantica domina il sentimento, e il sentimento è, di sua natura, come già da gran tempo notarono gli psicologi, vago, fluttuante, indefinito, specie poi se si dissolve in sentimentalità. Nella psiche romantica domina ancora la fantasia, che similmente è vaga, fluttuante, indefinita. Sotto il pallido raggio lunare gli aspetti delle cose si scolorano, si stemperano, si smarriscono, e si prestano meglio alle interpretazioni del sentimento e alle trasformazioni della fantasia.
Sia come si voglia, fatto sta che il Manzoni non amoreggia con la luna nè punto nè poco. Abbiamo qua e là, nel romanzo, un villaggio rischiarato dalla luna, un lago terso e tranquillo in cui la luna si specchia, un bosco attraversato dai raggi della luna; ma sono tocchi rapidi e sobrii anche troppo, e che non importano sentimento, nè espresso, nè sottinteso. Non sono questi, davvero, i chiari di luna dello Chateaubriand o di Vittore Hugo. Quella rapidità, quella sobrietà, potrebbe essere indizio di amore tepido; ma il guajo è che vi sono indizii d'irriverenza. La faccia badiale di don Abbondio, nella quale spiccano, al lume d'una lucerna, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, il Manzoni la rassomiglia a un dirupo sparso di cespugli coperti di neve e illuminati dalla luna. All'osteria, dove il povero Renzo piglia quella memorabile bertuccia, il Manzoni dà per insegna la Luna piena. Il Pindemonte le avrebbe dato per insegna il Sole raggiante.
[53]
Ora gli è tempo di dire più in particolare qualche cosa dell'arte del Manzoni.
Il fondamento di essa arte è il vero, e segnatamente il vero morale. «Allora le belle lettere saranno trattate a proposito quando le si riguarderanno come un ramo delle scienze morali», scriss'egli in certe sue Note estetiche[40]. Il vero morale primeggia; ma egli vuole pure ogni altra maniera di vero, e non si tiene punto sicuro che ve ne sia qualcuna cui l'arte non possa o non debba accostarsi. Nella lettera sulle unità drammatiche leggiamo: «On peut bien, sans péril, condamner a priori tout sujet qui n'aurait pas la vérité pour base, mais il me semble trop hardi de décider, pour tous les cas possibles, que tel ou tel genre de vérité est à jamais interdit à l'imitation poétique; car il y a dans la vérité un intérêt qui peut nous attacher à la considérer malgré une douleur véritable, malgré une certaine horreur voisine du dégoût»[41]. Il Manzoni sembra aver fatta sua la massima del Boileau: rien n'est beau que le vrai; ma allargandola tanto da farci capire anche il brutto, di cui legittima l'acconcia e sensata rappresentazione.
Ma chi dicesse che il vero, oltre ad essere il fondamento dell'arte manzoniana, ne è anche la norma suprema ed unica, rischierebbe molto, parmi, di dire il falso. Esaminiamo un po' la famosa formola: l'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo, che il Manzoni introdusse nella lettera al D'Azeglio, e che molti anni dopo cancellò, senza dircene le ragioni, e senza nemmeno darci modo d'indovinarle. In questa formola abbiamo tre termini, e finchè v'è accordo fra essi, tutto va bene; ma se l'accordo manca, non si sa più come la vada. Mettiamo da banda l'interessante, che, come è l'ultimo dei tre termini, così ancora è il meno importante, e badiamo agli altri due. Sarebbe molto desiderabile che l'utile e il vero andassero, in questo povero mondo, sempre d'accordo; ma è altrettanto notorio che non sempre vanno. Che cosa succederà dunque quando l'utile vorrà a un modo e il vero dirà a un altro? A quale dei due bisognerà [54] darla vinta? Un realista sincero e zelante risponderà senza esitare: il vero è sempre utile, anche se non paja; ma il Manzoni che in parecchie altre cose è, come vedremo, più realista di molti realisti, in questa non può essere, e non concederà mai e poi mai che certe turpitudini si possano dire o descrivere per la sola ragione che le son vere. Diremo dunque che il supremo principio dell'arte manzoniana sia l'utile, inteso, non occorre avvertirlo, com'egli lo poteva e doveva intendere? Nemmeno questo, se ci pensiamo bene, potremo dire. V'è qui, parmi, un nodo un po' difficile da sciogliere, e forse fu questa difficoltà la ragione che persuase il Manzoni, divenuto sempre meno affermativo, e sempre più circospetto, a cancellar le parole che lo formavano. Quanto a noi, per trarci d'impaccio, potremo forse dire che il Manzoni intese il vero a un dipresso come lo intese Alfredo de Vigny nelle sue Réflexions sur la vérité dans l'art, e che formatasi nella mente una specie di gerarchia di veri, prescrisse che quelli di sotto avessero sempre a cedere a quelli di sopra.
Senza andare a cercar altro, riconosciamo che fondamento dell'arte manzoniana è il vero, e che questo medesimo vero,
L'arido vero che de' vati è tomba,
è pure fondamento dell'arte romantica in genere. Cioè, diciamo meglio: avrebbe dovuto essere; perchè i primi e i secondi romantici lo gridarono a' quattro venti; ma poi e quelli e questi, veduto come a voler fondare sul vero bisogni star sodo, e durar fatica molta, ebbero per più comodo e più spediente di fabbricare sul falso, e di quell'interessante, che avrebbe dovuto essere soltanto il mezzo, fecero, senz'altro, bravamente il fine. Il Manzoni stesso, nella lettera al D'Azeglio, accenna a questo che si contenta di chiamare errore; ma non insiste, e non s'indugia a chiarire la contrarietà di opinioni che anche per questo rispetto doveva essere fra lui e alcuni suoi compagni di patimenti letterarii, e più particolarmente forse fra lui e il Berchet[42].
Chi dell'utile fa lo scopo e del vero la materia dell'arte, va da sè che ricuserà e condannerà il concetto espresso con la famosa formola: l'arte per l'arte; concetto che da Platone agli estetici di jeri e di oggi ebbe tanti amici quanti nemici, e tanti, senza dubbio, seguiterà ad averne in appresso. A quella formola il Goethe s'accostò da [55] vecchio; ma il Foscolo la negò implicitamente ed esplicitamente. Per bocca del Lenau la Poesia risponde fiere parole a chi la invita a uscir di solitudine, a rinunciare al sogno, a por sè stessa al servigio di una causa; e si dice ben risoluta a fare il piacer proprio. L'Hugo, dopo aver detto che nel giardino della poesia non v'è frutto vietato, si ravvide, e disse che il poeta è un servitore del vero e dev'essere utile, e scrisse:
Honte au penseur qui se mutile;
Et s'en va, chanteur inutile,
Par la porte de la cité!
Ma lo stesso suo portabandiera, il Gautier, non era più di questa opinione quando esclamava: «La muse est jalouse; elle a la fierté d'une déesse et ne reconnaît que son autonomie». A che moltiplicare nomi ed esempii? Il Manzoni considerò sempre l'arte come dipendente da qualche cosa che è superiore all'arte.
E sta bene; ma a essere considerata in tal modo l'arte corre pure qualche pericolo. Può avvenire che l'artista, guardando un po' troppo fisso in quella cosa superiore, si disgusti del reale e del vero, se ne diparta, ne perda il senso, e insieme con l'arte sua si smarrisca dietro idealità esagerate, che, per poco che si lascino in balìa di sè stesse, diventano vacue e puerili. Che molti romantici finiron con perdere affatto il senso del reale e del vero, e annegaron nel sogno, è cosa tanto universalmente nota che basta un cenno a ricordarla. Il realismo fu appunto una reazione a quel male; ma di quel male il Manzoni rimase immune; e poichè il realismo non tardò poi molto a traviare ancor esso, a cadere in un romanzesco diverso dal precedente, ma non migliore di quello, a promuovere una specie d'idealismo a rovescio, si può davvero dire che il Manzoni fu più realista di molti realisti. E ciò non deve sembrare punto strano, se si pensa che i principii fondamentali del romanticismo non ripugnano ai principii veramente fondamentali del realismo, e che il Manzoni osserva molto fedelmente quelli, e molto rigorosamente gli applica. Egli scrive: «je crois ne dire qu'une vérité très simple, en avançant que la poésie ne doit pas inventer des faits». E ancora: «cette nécessité de créer, imposée arbitrairement à l'art, l'écarte de la vérité et le détériore à la fois dans ses résultats et dans ses moyens»[43]. Si può contraddire in [56] modo più chiaro e più risoluto ad Aristotele e a Platone? E che cosa potrebbe dir di meglio, o di peggio, un realista di professione? E quando dice che l'inventar fatti è «ce qu'il y a de plus facile et de plus vulgaire dans le travail de l'esprit, ce qui exige le moins de réflexion, et même le moins d'imagination»[44], non anticipa il Manzoni concetti e giudizii espressi poi con molta più burbanza, con molta più saccenteria, dai maestri e dai curatori del realismo contemporaneo?[45]. Checchè altri possa credere o dire, il Manzoni ha pochi pari nel senso del reale, e giustamente il De Sanctis ne fece la osservazione. I Promessi Sposi sono, tutto sommato, un romanzo realistico nel miglior senso della parola, e più di certi romanzi del Balzac, il quale tutti sanno come troppe volte siasi tuffato nel romanzesco, e in un romanzesco di pessima lega. Sul finire del maggio 1822, il Manzoni scriveva, parlando del suo libro al Fauriel: «Quant à la marche des événements, et à l'intrigue, je crois que le meilleur moyen de ne pas faire comme les autres, est de s'attacher à considérer dans la réalité la manière d'agir des hommes, et de la considérer surtout dans ce qu'elle a d'opposé à l'esprit romanesque»[46]. Non so davvero quanto quel modo di non far come gli altri potesse piacere ai romantici.
Il Manzoni detesta il romanzesco, detesta cioè una cosa di cui i romantici erano divenuti molto teneri. Sino dal 1804, il Senancour, che fu uno dei primi romantici francesi, avvertiva, in un luogo del suo Obermann, che romantico e romanzesco, non solo non vogliono dire lo stesso, ma anzi vogliono dire il contrario; e aveva ragione, o, per lo meno, avrebbe dovuto aver ragione. Se non che i romantici fecero [57] poi quanto bisognava, e più di quanto bisognava, per giustificare il detto del Pagani Cesa, il quale sentenziò che romantico e romanzesco sono in sostanza tutt'uno[47]. I romantici furono, generalmente parlando, grandi ammiratori del Tasso, e cooperarono la parte loro a raffermare ed esagerare la leggenda di lui: il Manzoni, per contro, ne faceva poca stima, e si meravigliava che il Goethe avesse potuto sceglierlo a protagonista di un dramma. Le ragioni di quella grande ammirazione e di quel quasi disprezzo furono senza dubbio parecchie; ma il carattere romanzesco e del poema e del poeta ebbe ad essere, credo, una delle principali.
Il Manzoni ha vivo ed acuto il senso del reale perchè ha sana la mente, e non soggiace a quelle perturbazioni affettive che non lasciano vedere nè uomini nè cose quali son veramente. La consueta sua calma gli permette di considerare attentamente gli uni e le altre quanto è necessario per vederli sotto ogni aspetto e conoscerli bene: la consueta sua rettitudine lo pone in grado di giudicarli con equità; e il gusto che gli procurano la chiara visione e la sicura conoscenza della realtà non lascia ch'egli s'invaghisca di chimere e di sogni. Senza quella calma, senza quella rettitudine, senza quel gusto, non vi può essere vero realismo.
Nei Promessi Sposi è realistica quella che chiameremo la favola; sono realistici i personaggi, o perchè presi in quella mezzanità che per essere più comune sembra anche essere più reale, o perchè, se pure escono da quella mezzanità, nulla mostrano di più o di meno che umano; sono realistiche, e meravigliosamente realistiche, le narrazioni e le descrizioni della carestia, della sommossa, del passaggio delle soldatesche, della pestilenza, della casa di don Abbondio, della casa e della vigna di Renzo, e tante e tant'altre. Di un po' romanzesco, nel vero senso della parola, parmi nei Promessi Sposi non ci sia altro, o quasi altro, che la misteriosa e criminosa tresca della monaca e di Egidio.
Se poi si viene a discorrere di quello che dicesi ambiente, ed è [58] uno degli elementi della realtà sulla importanza del quale ha più battuto la scuola realistica, non fa quasi bisogno di ricordare quanto nei Promessi Sposi ne sia accurato lo studio e fedele la riproduzione, almeno per quanto spetta all'ambiente morale e sociale. Che vuol dire tener conto dell'ambiente? Non altro, se non riconoscere e porre in rilievo la connessione che i fatti particolari hanno coi generali, i fuggevoli coi duraturi o costanti, la dipendenza dei primi dai secondi, la ragione e il modo di prodursi di quelli. Ora, io non so se in nessuno dei romanzi realistici più decantati si vegga con tanta consequenza e tanta costanza quanta nei Promessi Sposi il fatto particolare provocato, condizionato, generato in certo modo dal fatto generale; la storia di pochi uomini offerta come un caso della storia di tutto un popolo. «Les mémoires qui nous restent de cette époque présentent, et font supposer une situation de la société fort extraordinaire. Le gouvernement le plus arbitraire, combiné avec l'anarchie féodale et l'anarchie populaire; une législation étonnante par ce qu'elle présente et par ce qu'elle fait deviner, ou qu'elle raconte; une ignorance profonde, féroce et prétentieuse; des classes ayant des intérêts et des maximes opposées; quelques anecdotes peu connues, mais consignées dans des récits très dignes de foi, et qui montrent un grand développement de tout cela; enfin une peste, qui a donné de l'exercice à la scélératesse la plus consommée et la plus déhontée, aux préjugés les plus absurdes, et aux vertus les plus touchantes, etc. etc... voilà de quoi remplir un canevas; ou plutôt voilà des matériaux qui ne feront peut-être pas déceler la malhabileté de celui qui va les mettre en œuvre... A cet effet, je fais ce que je puis pour me pénétrer de l'esprit du temps que j'ai à décrire, pour y vivre; il était si original que ce sera bien ma faute, si cette qualité ne se communique pas à la description». Così scriveva il Manzoni al Fauriel nella importantissima lettera testè citata; ma quando pure non ci fosse stata questa dichiarazione dell'autore, e il Cantù non avesse scritto quel suo noto commento storico al romanzo, ogni colto lettore potrebbe riconoscere agevolmente da sè nel romanzo stesso, non solo lo studio perseverante, coscienzioso, minuto di una età che non è certo tra le più conosciute, ma ancora la evocazione meravigliosa e potente; e non so davvero se altro ve n'abbia in cui la storia riviva con pari illusione di realtà e di presenza, e in cui, a dispetto pure di qualche sproporzione od eccesso, realtà e finzione sieno più intimamente, più organicamente [59] fuse. Parve anzi a taluno che di storia ce ne sia persin troppa, non solamente in quelle parti del racconto, ov'essa appare, dirò così, in forma propria ed esplicita, come nelle descrizioni, dal Goethe giudicate troppo lunghe, della sommossa e della peste; ma in quelle ancora ov'essa è implicita, e fittamente intessuta con la propria azione del romanzo; e che questa propria azione del romanzo sia governata un po' troppo insistentemente da quella che chiameremo azione generale della storia. Ma, di grazia, può essere questo veramente un difetto? e se difetto, può essere difetto da rimproverare a un romanzo storico? e a un romanzo storico di carattere così spiccatamente realistico?
Intendo come a più d'uno la qualificazione di realista data al Manzoni possa sembrare inopportuna, data con un po' d'arbitrio, e quasi per un impegno. Come? diranno: realista il Manzoni, che ogni po' si caccia tra' suoi personaggi e interrompe il racconto con le osservazioni e con l'ironia? realista il Manzoni, inventore di Lucia e di Federigo Borromeo? Eh sì, realista: non mica, intendiamoci, nel pieno, o comune significato della parola, ma pure realista, e in molte cose più realista di molti realisti. Del resto, vediamo un po'. Questo dovere imposto allo scrittore di non frammischiarsi ai proprii personaggi, di non lasciarsi scorgere nell'opera propria, da quale principio d'arte supremo, perpetuo, incontrovertibile, si fa scaturire? L'avete proprio questa opinione che l'opera d'arte possa essere, o almeno parere, un'opera della natura, fatta non si sa come, non si sa da chi, anzi nata e non fatta, e contraddistinta, tutto il più, da un nome vano senza soggetto? E quando l'autore di un libro, il voglia egli o nol voglia, sel creda o non sel creda, si svela e si dà a conoscere in tante altre maniere: e quando in ogni carattere che dipinge, in ogni avvenimento che narra, in ogni frase che scrive, vi grida, come Emilio Zola vi grida: io son io, in carne e in ispirito, con queste facoltà, con queste tendenze, con questo concetto della vita e questo sentimento delle cose; e si mescola in mille modi con quella realtà ch'egli pretende rappresentarvi nell'inafferrabile vero e proprio suo essere, e in mille modi la altera (il mondo veduto attraverso a un temperamento), non v'accorgete voi che ha del pedantesco, che ha dell'ingenuo, che ha del puerile il dirgli: tu non t'hai da far vedere qui dentro; tu non userai mai in prima persona il pronome ed il verbo? Voi affermate che quando l'autore si lascia vedere a quel modo e parla a quel modo, nasce spontaneamente in chi legge il sospetto [60] ch'egli non sia in tutto sereno ed imparziale, ma acconci, muti, travisi variamente il vero per amore a un qualche suo preconcetto, per indulgenza a una qualche sua passione, o per altra ragion così fatta. E sta bene: ma se l'autore non si fa vedere, sarà poi tolto a quel sospetto ogni modo di nascere? e non ci sono cento altre maniere di sincerarsi quando il sospetto sia nato? Il parlare in prima persona non trae mica con sè la necessità di mentire; e il parlare in terza non è mica guarentigia di verità. Non vi accorgete anzi che per isballarle grosse, senza che altri vi possa dare sulla voce, il modo più sicuro, il più comodo è appunto quella ostentazione di oggettività assoluta ed invariabile? Del resto, come un romanzo non diventa realistico per ciò solo che l'autore si tien nascosto dietro a' suoi personaggi, così un romanzo non cessa di essere realistico per ciò solo che l'autore si lascia a quando a quando vedere tra essi. Provatevi a leggere un romanzo del Balzac, e vedete se vi riesce di scorrerne dieci pagine senza dar di petto nel Balzac. E si tratta di un pontefice massimo del realismo!
Che il Manzoni non s'indugia molto a ritrarre gli aspetti delle cose esteriori; che parlando di quei paesi del lago non si cura di attenersi strettamente e minutamente al vero; che non approfitta della sommossa, e della peste per descriverci dieci volte Milano, di giorno, di notte, e quando fa sole e quando piove; che non ispende molte parole per informarci del caldo e del freddo, del secco e dell'umido, della calma e del vento, tutto ciò è verissimo; ma resta a sapersi se sia questo un difetto, e quanto abbia guadagnato la letteratura realistica dalla bella qualità opposta a questo difetto. Può darsi che il Manzoni si mostri in tutto ciò un po' troppo scarso, un po' troppo restio, e dico può darsi perchè non ne sono propriamente sicuro; ma gli è per altro certo ch'egli fa benissimo, e opera da realista sensato, a non lasciarsi sopraffare e soffocare dalle cose, come la più parte dei romanzieri russi, e parecchi non russi, e che da questo suo modo di operare viene al romanzo e ai lettori di esso vantaggio non piccolo.
Il Manzoni inventò Lucia e Federigo Borromeo; anzi inventò quella e non inventò questo; perchè se il Federigo da lui ritratto non è tutto il Federigo storico, è parte rilevante e vera di quello. Chi ha qualche pratica con la storia dei santi vede che Federigo è un santo, come, grazie al cielo, ce ne furon degli altri, e parecchi, se non moltissimi. Chi è incapace di virtù nega la santità, come chi è incapace di coraggio nega l'eroismo. Lucia è un po' raggentilita, un poco [61] stinta, se così posso esprimermi, ma molto più vera che non si creda, e, ad ogni modo, tirata in su non più di quanto infiniti personaggi di romanzi realistici sieno tirati in giù. Oltre di che è da dire che il Manzoni, nel formare i caratteri, riesce alquanto più realista (nientemeno!) del Balzac, il quale, di solito, forma i personaggi suoi tutti di un pezzo, e rimettendo in opera il vieto procedimento classico, segno di tante censure, li accende di una passione unica, che è il principio unico e la ragione unica di tutto quanto essi dicono e fanno; mentre il Manzoni forma complicatamente i suoi, e li mostra, il più delle volte, quali sogliono essere in natura, composti di elementi discordi, combattuti da contrarie tendenze. Fra Cristoforo e l'Innominato manifestano questa lor condizione nel fatto stesso della conversione, così com'è motivata, predisposta, condotta. Federigo è un santo che ha molte parti, molti aspetti, e che il povero don Abbondio non riuscirà mai nè a indovinare, nè a intendere. L'Agnese è di certa natura tutt'altro che semplice. Renzo avrebbe molte buone ragioni per essere preso tutto di una passione unica e fisso in un solo pensiero, e per non volere pensare ad altro; e pure, sebbene l'amore, anzi l'amore contrastato, sia sempre (e dev'essere) presente in tutto ciò ch'egli pensa, dice ed opera; sebbene si vegga ch'esso è come la molla secreta che lo fa muovere, e lo spinge, senza ch'egli possa darsene conto, a farsi predicatore di riforme e seguitator di sommosse; pure, dico, egli conserva, da povero contadino, la facoltà di prendere parte a una quantità di cose che non sono il suo amore, e non hanno troppa attinenza col suo amore. Don Abbondio pare che sia nato al mondo per aver paura, e non conosce altra consigliera che la paura, e c'è da stupire che la paura non l'abbia ammazzato in qualche incontro, un bel pezzo prima dell'incontro coi bravi. La paura si può dire che sia la sua coscienza. Ciò nondimeno se voi riuscite a togliergli un tratto quella paura di dosso, anzi di dentro, come, per una volta tanto, ci riescono gli avvenimenti, voi vedete fiorir d'improvviso un don Abbondio non più veduto, ma non impreveduto, e che, sebbene tanto diverso dal solito, non contraddice a quello, anzi è un nuovo aspetto di quello. Ora aggiungete a tutto ciò che i personaggi dei Promessi Sposi mostrano d'avere fra loro quel collegamento, e gli uni sugli altri quel reciproco influsso, che lasciano pur vedere i personaggi del Balzac, nei migliori suoi romanzi.
Con questo non voglio già dire che l'arte del Manzoni non discordi assai volte da quella dei realisti ordinarii, ma credo che dovrebbe rincrescere [62] se non discordasse. I realisti ordinarii, quelli sopratutto dell'ultima maniera, si sa che hanno soppressa nell'opere loro la composizione, sotto pretesto che la natura non ce la dà. Ci sono dell'altre cose parecchie che la natura non ci dà, e che noi, appunto per questo, andiam procacciando con istudio, con fatica, con pericolo. Veramente la natura s'è sempre ostinata a non volerci dare nè fabbriche, nè statue, nè quadri, nè spartiti, nè romanzi. A taluno potrebbe forse venire il sospetto che a decretare quella soppressione i realisti sieno stati ajutati, non diremo spinti, da quel naturale desiderio ch'è il desiderio di scampar fatica; ma poichè tale sospetto potrebb'essere temerario ed ingiusto, basterà notare che in nessuno degl'intenti loro, qual che si fosse la ragione che li moveva, i realisti riuscirono così bene come riuscirono in questo. Molti dei loro romanzi pajono un effetto del caso, e si potrebbero applicar ad essi le parole con cui certo personaggio di una commedia francese senza scioglimento accomiatava gli spettatori: il n'y a pas de raison pour que cela finisse....; e ci si potrebbero aggiungere queste altre: il n'y avait pas de raison pour que cela commençât. Non così il romanzo del Manzoni. La composizione di esso potrà esser guasta in certe parti da digressioni un po' troppo lunghe; l'equilibrio ne potrà rimanere turbato; ma, tirate le somme, bisogna pur riconoscere che il romanzo, com'è fortemente immaginato, così è anche fortemente composto; che esso è dotato, a dispetto delle digressioni, di coerenza e di compattezza mirabili; che è un'opera, non del caso, ma dell'arte, nel più alto e schietto significato della parola. Parve a taluno che nei Promessi Sposi non ci sia altra unità che la unità morale: io credo ci sia pure la unità logica, e anche (ma qui bisognerebbe discutere) la unità estetica.
Per questi, e per alcuni altri rispetti, il Manzoni è romantico e non realista. Di fronte alla realtà, il romanticismo fu più attivo che non il realismo. Esso concedeva all'arte molto che il realismo le nega: esso voleva la composizione, la concentrazione, la scelta, e quella che il Taine chiamò convergenza delle impressioni. Mi sembra che molti comincino ora ad avvedersi che il realismo fece male a disvoler tutto questo.
[63]
Non abbiamo ancora finito di discorrere degli effetti che vengono all'arte manzoniana dall'avere il Manzoni tolto a fondamento di quella il vero.
Va da sè ch'essa aborrirà quasi istintivamente tutte quelle forme del fantastico, del lugubre, del mostruoso, del terribile, che gl'Inglesi designarono con la denominazione espressiva di german horrors, e che non sono poi cosa talmente germanica che non si trovi anche, in qualche misura, fuor di Germania, o natavi spontaneamente, o trattavi dalla curiosità o dalla moda[48]. In Italia se n'ebbe un andazzo, a dispetto del clima, delle consuetudini, degli umori; venutovi primamente (se non vogliamo tener conto di alcune più remote e più comuni origini medievali e cristiane) coi poemi di Ossian, con le Notti del Young, con la poesia sepolcrale. Nei Sepolcri del Foscolo se ne vede qualche traccia, e anche nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis; e sino dal 1805, Luigi Cerretti, vecchio ormai, si scagliava contro il depravato gusto di coloro che esultavano «in dipingere gli abbracciamenti del delitto colla morte, e il fragor con cui piombano nel baratro tenebroso»[49]. Non so se queste parole alludano, come parrebbero, a una qualche traduzione o imitazione, che già corresse l'Italia, della famosa Leonora del Bürger; ma so che il Cerretti avrebbe potuto ripeterle, e allungarle, e inasprirle qualche anno più tardi, quando saltò su il Berchet, nella Lettera semiseria di Grisostomo, a proporre alla imitazione degl'Italiani appunto quella Leonora e, di giunta, il Cacciator feroce dello stesso poeta. A dir vero, lo stesso Berchet, in quella che faceva la proposta, esprimeva pure il dubbio che le due poesie, fondate, come sono, sul meraviglioso e sul terribile, non [64] avessero a incontrare gran fatto il gusto degl'Italiani; e già il Londonio aveva sentenziato disdegnosamente che le romantiche melanconie del settentrione non potevano allignare in Italia, e ne dava grazie al cielo, alla ridente natura, all'indole del popolo[50]. Ma che non possono, anche contro il cielo e la natura e l'indole, la sazietà del consueto, il desiderio del nuovo, la voga? I germanici, e, per amor di giustizia, soggiungeremo, gli anglici orrori trovarono favore anche in Italia, e persino quelli di cui Anna Radcliffe rimpolpettava romanzi vi ebbero cure di traduttori e plauso di lettori e più di lettrici. Onde il povero Monti, già presentendo la fine di ogni cosa, piangeva le Grazie fugate dai lemuri e dalle streghe, e le ombre d'Ettore e di Patroclo soppiantate dai romantici spettri, e che il solo tetro si chiamasse bello: e alzando il dito verso quella malaugurata e scelerata Leonora, gridava:
Di fe' quindi più degna
Cosa vi torna il comparir d'orrendo
Spettro sul dorso di corsier morello
Venuto a via portar nel pianto eterno
Disperata d'amor cieca donzella,
Che, abbracciar si credendo il suo diletto,
Stringe uno scheletro spaventoso, armato
D'un oriuolo a polve e d'una ronca:
Mentre a raggio di luna oscene larve
Danzano a tondo, e orribilmente urlando
Gridano: pazïenza, pazïenza[51].
Scrivendo al D'Azeglio nel 1823, il Manzoni diceva che per romanticismo in Italia s'intendeva comunemente «un non so qual guazzabuglio di streghe, di spettri, un disordine sistematico, una ricerca dello stravagante, una abiura in termini del senso comune»; e soggiungeva: «un romanticismo insomma, che si è avuto molta ragione di rifiutare, e di dimenticare, se è stato proposto da alcuno; il che io non so»[52]. Quell'io non so è di troppo, e per caso noi cogliamo il nostro Don Alessandro in una delle sue non rarissime bugiole o dissimulazioni innocenti. Don Alessandro sapeva benissimo che, in una certa misura, quel romanticismo era stato proposto, e che, in misura alquanto maggiore, era anche stato attuato; ma sapeva pure, e voleva [65] si sapesse, che da lui quel romanticismo non doveva aspettarsi nè ajuto, nè incoraggiamento, nè indulgenza[53]. Avviso ai compagni di patimenti letterarii e a quanti altri potessero averci interesse. Quelle particolari mostruosità poi che furono le mostruosità della scuola satanica, il Manzoni detestò da quanto il Niccolini, che le detestò con tutta l'anima.
Badate che nelle parole riferite pur ora il Manzoni accenna anche al disordine sistematico e alla ricerca dello stravagante, due cose ancor esse molto contrarie alla conoscenza e alla rappresentazione del vero; l'una, perchè mette tutto sossopra, l'altra, perchè tutto travisa. Nella Lettera sulle unità drammatiche il Manzoni scrisse: «Il est hors de doute que la sagesse vaut mieux que l'extravagance; et même que celle-ci ne vaut rien du tout»[54]. Avrebbe potuto dir meglio il Boileau? E non vi pare anzi che tra il Boileau ed il Manzoni ci sia alle volte sin troppo accordo? Non so perchè mi ricorra nella mente la sentenza di Edgardo Poe: non esservi bellezza senza stranezza.
Per essere giusti bisogna dire che quei due malanni, se c'erano (e c'erano) anche in Italia, non però vi mostravano quel carattere maligno che altrove, nè come altrove ci si eran diffusi. Le stravaganze del romanticismo tedesco, derise dal Goethe, l'Italia, o non le conobbe, o se ne liberò molto presto. Ciò che nel 1829 il Thiers diceva del romanticismo francese: «Ses goûts fantasques et puérils font le ridicule de notre temps», non si sarebbe potuto dire del romanticismo italiano, forzato a stare in cervello e a rigar dritto (e fu ventura nella disgrazia) dai molti guai a cui bisognava pensare e, possibilmente, rimediare. L'aver dovuto in Italia far arme delle lettere nocque in più modi all'arte, ma all'arte stessa anche in più modi giovò, poichè non le lasciò nè agio nè possibilità di buttarsi al singolare e all'inaudito, e di ammattire dietro all'esempio del romanticismo francese, del quale ebbe a dire il Gautier, narratore e giudice benevolo: «Développer librement tous les caprices de la pensée, dussent-ils choquer le goût, les convenances et les règles; haïr et repousser autant que possible ce qu'Horace appelait le profane vulgaire, [66] et ce que les rapins moustachus et chevelus nomment épiciers, philistins ou bourgeois; célébrer l'amour avec une ardeur à brûler le papier, le poser comme seul but et seul moyen de bonheur; sanctifier et déifier l'Art regardé comme second créateur: telles sont les données du programme que chacun essaye de réaliser selon ses forces, l'idéal et les postulations secrètes de la jeunesse romantique»[55]. Cogliamo anche questa occasione di notare che il romanticismo italiano, se fu molto meno rigoglioso, fu anche molto più savio del forestiero; che perciò in Italia la reazione realistica non irruppe con l'odio, col furore, con la violenza onde fu accompagnata altrove; e che il Manzoni poteva dissentire dal romanticismo italiano assai meno di quello dovesse dissentire dal romanticismo forestiero, pur dissentendo parecchio anche da quello.
Chi ama da senno il vero, aborre da tutto quanto possa, in uno o in un altro modo, o poco o molto, alterarne la schiettezza, falsarne la espressione. L'arte che voglia proprio esser vera dev'esser sincera e dev'esser semplice; deve cioè ricusare tutti quegli artifizii e lenocinii del linguaggio, dello stile, della trattazione, che se anche non alterano, dirò così, sostanzialmente il vero, lo alterano formalmente; se non nel principio suo, nei suoi effetti. Veritatis simplex est oratio, lasciò scritto Seneca. Essa diffida in sommo grado di quelli che diconsi ornamenti, e fra' suoi precetti, anzi fra' principali, scrive anche questo: il puro necessario: tutto ciò che non è necessario è nocivo. Quod ultra est, a malo est. Ecco perchè il Manzoni è così schietto e così semplice e così naturale, pur riuscendo così fine e così efficace. Il Manzoni non abusa mai del pittoresco, tanto abusato da' romantici d'ogni risma; anzi nel colore, come nel disegno, è tanto sobrio da potere, alle volte, parer troppo. Il Manzoni, l'abbiam già notato, gusta poco la prosa poetica. Il Manzoni gusta anche poco la lingua poetica, che non è da confondere col linguaggio poetico, e il Sainte-Beuve gliene fa rimprovero; ma qui è da notare ch'egli l'avversò meno di quanto si creda, come provano certe sue lettere al Borghi. In una, scritta nel giugno del 1828, egli osserva che orde è forse voce troppo nuova per la poesia; in un'altra, del febbrajo dell'anno seguente, che trionfata è triviale; in una terza, dell'aprile dell'anno medesimo, che banchettare non fa buon suono.
[67]
Ma checchè il Manzoni pensasse della prosa poetica e della lingua poetica, gli è certo ch'egli preferiva la prosa alla poesia, e che la ragione principale del suo preferir quella a questa era, a un dipresso, la seguente: la prosa è, in tesi generale, il linguaggio del vero; la poesia è, in tesi generale, il linguaggio della finzione. I romantici, per contro, mostrano sempre una spiccata tendenza a mettere la poesia sopra la prosa.
Questo punto è degno di attenzione particolare.
Qualcuno che non conoscesse nè le tragedie, nè gli inni, nè le poesie giovanili del Manzoni, potrebbe dire: il Manzoni preferiva la prosa alla poesia perchè non si sentiva, e non era poeta: chi si sente ed è veramente poeta, preferisce la poesia alla prosa. Chi conosca quelle composizioni, o ne conosca almeno una parte, non dirà più così di sicuro.
Riconosciamo pure (e dopo quanto s'è detto innanzi non ci costerà troppa fatica) che le potenze dello spirito più particolarmente richieste al poetico officio non sono quelle che primeggiano nel Manzoni; riconosciamo ch'esse sono in qualche modo soggiogate da altre; ma riconosciamo, in pari tempo, che quelle potenze ci sono, e han molto vigore, ed operano molto speditamente. L'anima del Manzoni fu certo più aperta alla luce del vero che alla luce del bello, sebbene anche a questa sia stata aperta assai bene; e la condizione di poeta pare che voglia piuttosto il contrario, o almeno, che l'anima le riceva entrambe egualmente: e dico entrambe, perchè le son due propriamente, e non una, come s'è voluto far credere.
Da giovane il Manzoni sentì ancor egli la vocazione poetica (dico vocazione e non fregola) e rifuggendo dalle tetre scuole mortificatrici dell'ingegno e corruttrici del gusto, e da maestri che più tardi sarebbesi vergognato d'avere a discepoli, s'addusse franco al sorso de l'Ascrea fontana, e cercò dei prischi sommi, e ne fu preso di tanto amore che gli pareva di vederli e conversare con loro. Lo rodeva il dubbio che Carlo Imbonati, la cui memoria egli onorava allora di quasi religioso ossequio, come un esempio impareggiabile di umanità [68] virtuosa e gentile, avesse curata poco da vivo la divina de le Muse armonia, e da lui si faceva rispondere in sogno:
Qualunque
Di chiaro esemplo, o di veraci carte
Giovasse altrui, fu da me sempre avuto
In onor sommo;
e nella sua bocca poneva le lodi dell'Alfieri e del Parini, e di quel sovrano
D'occhi cieco, e divin raggio di mente,
Che per la Grecia mendicò cantando[56].
Dell'anno 1809 è l'Urania, ch'è tutto un inno alla poesia, e dove il poeta si consacra tutto alle muse, le quali, fuggitive dai laureti achei, presero stanza in Italia:
A queste alme d'Italia abitatrici
Di lodi un serto in pria non colte or tesso;
Chè vil fra 'l volgo odo vagar parola
Che le Dive sorelle osa insultando
Interrogar che valga a l'infelice
Mortal del canto il dono. Onde una brama
In cor mi sorge di cantar gli antichi
Beneficj che prodighe a l'ingrato
Recâr le Muse[57].
Allora il suo desiderio più vivo e la più cara speranza erano di vedersi aggiunto un giorno al drappel sacro dei poeti d'Italia[58], al quale fu poi aggiunto veramente, ma senza che il suo desiderio ci entrasse per molto; anzi un pochino contro sua voglia, s'è vero che a farvelo aggiungere ajutarono per la parte loro anche quelle poesie giovanili ch'egli rifiutò più per le cose che dicevano che pel modo, meno perfetto, con cui le dicevano.
Quand'è che l'animo di questo innamorato cominciò a raffreddarsi? Sarebbe difficile il dirlo. Da giovanissimo, e poi per certo tempo più tardi, egli vagheggiò una specie di poesia realistica, molto diversa da quella di cui il Cerretti seguitava a predicare essere il furore la suprema ragione. Nel sermone a Giovanni Battista Pagani, ch'è del 1804, il poeta così si confessa all'amico:
[69]
Or ti dirò perchè piuttosto io scelga,
Notar la plebe con sermon pedestre,
Che far soggetto ai numeri sonanti
Opre antiche d'eroi. Fatti e costumi
Altri da quei ch'io veggio a me ritrosa
Nega esprimer Talia[59].
Queste ultime parole in ispecie son degne di qualsiasi più risoluto e più rigoroso realista. Diciasette anni più tardi, nel gennajo del 1821, e in una lettera al Fauriel, il Manzoni esprime la opinione che la poesia debba dire ciò che si pensa e ciò che si sente nella vita reale[60]; e in altra lettera, senza data, al medesimo amico, parla ironicamente del bel principio «que tout ce qui est vague, fabuleux, confus est poétique de sa nature, et que lorsqu'on ne sait rien sur un sujet, il faut en parler en vers»[61]. O prima o poi egli dovette vagheggiare una poesia ragionevole, come la voleva il Johnson. Leggasi questa sua riflessione: «A chi dicesse che la poesia è fondata sulla immaginazione e sul sentimento e che la riflessione la raffredda, si può rispondere, che più si va addentro a scoprire il vero nel cuore dell'uomo, più si trova poesia vera»[62]. Se non che, molto per tempo egli dovette cominciare a negar credenza a quel detto dello Shelley, che i poeti possono significare il vero al pari e meglio di coloro che scrivono in prosa; e al giudizio di Aristotele, quando sentenziò essere la poesia più filosofica e, in un certo senso ideale, più vera della storia[63]. Onde, sino dal 1829, nella Storia della Colonna Infame, si burlava del privilegio arrogatosi dai signori poeti di dire ogni cosa che loro salti in capo, o vera o falsa che sia[64]; e nel giugno del 1832 scriveva ad un Coen, il quale s'era fissato di lasciare i negozii per darsi alle lettere: «E, come le storture trovan meglio da appigliarsi e da spiegarsi in un linguaggio straordinario, fantastico e di convenzione, così i poeti hanno in questa miseria (del fare d'una passione una virtù) la maggior parte [70] e il più cospicuo luogo»[65]. Vero è che poi, nel 1845, dirà la poesia usare un linguaggio insolito perchè ha cose insolite da dire[66].
Come intendesse il Manzoni la unione, o l'alleanza della poesia con la storia, abbiamo già in parte veduto. Quella deve conformarsi e obbedire a questa. Se nel Michelet il poeta nuoce allo storico, nel Manzoni lo storico nuoce al poeta.
A poco a poco l'antico amore, non solo s'intepidiva, ma diventava, prima indifferenza, poi avversione. Ecco il Manzoni trovar gusto in notare i difetti, i peccati, gli svantaggi della poesia, e l'irreparabile e non lacrimabile suo decadimento. «La poesia ha anche questo bel vantaggio, d'essere come forzata a prendersi delle licenze», dirà egli in una delle citate lettere al Borghi[67]. E in quella lettera al Coen: «Badi che i poeti vanno scemando d'autorità come di numero (di numero poi!); e l'essere con tutto ciò cresciuto quello de' lettori fa sì che alla venerazione sottentri il giudizio; e son giudicati ogni dì più con questa ragione, che, se le cose dette da loro fanno per loro soli e non importano all'umanità, son cose da non curarsene; se importano, bisogna veder come sien vere»[68]. Altro che la divina armonia del carme in morte dell'Imbonati, e gli entusiasmi e gli ardori dell'Urania! Altro che la divina concitazione del genio e la sapienza ispirata decantata dal Foscolo! Ed era il tempo felice e memorabile in cui i romantici francesi andavano in gloria perchè dicevano di aver ritrovate le fonti vive della poesia, e sgombratene le scaturigini dagli sterpi e dai sassi, ne lasciavano correre in copia, fra le turbe assetate, le onde vivificatrici e sonore. Nel novembre del 1845 il Manzoni, in una lettera al Giusti, del quale pure ammirava l'arte e l'ingegno, par che si spassi a fare il novero di tutti gli scapiti a cui la poesia, la signorona vecchia, andò soggetta nel corso dei tempi, e fattolo, soggiunge, burlandosi: «Dunque lavora, chè fai sul tuo; e accresci l'entrata della padrona, agl'interessi della quale prendo una gran parte, anche per il gran bene che le ho voluto in gioventù»[69]. In gioventù, avete inteso?
Quando, nei Promessi Sposi. detto che cosa s'intenda per poeta dal volgo di Milano e del contado (e, si poteva aggiungere, d'altri siti: [71] populus sanos negat esse poetas, scriveva melanconicamente Ovidio dal Ponto): quando, dico, il Manzoni butta lì quella sua interrogazione biricchina: «Perchè, vi domando io, cosa ci ha che fare poeta con cervello balzano?»[70] ognuno capisce che nella opinione del Manzoni ci ha che fare non poco; e più lo capisce, quando in un altro luogo del romanzo legge, in coda a un ricordo del famoso sonetto dell'Achillini: Sudate o fuochi, ecc., queste parole: «Ma è un destino che i pareri dei poeti non siano ascoltati: e se nella storia trovate de' fatti conformi a qualche loro suggerimento, dite pur francamente ch'eran cose risolute prima»[71]. Altro che i veggenti, e i precursori, e gli apostoli! Altro che i convertitori delle folle in popolo! Altro che il drappel sacro!
Ma, quando scriveva il romanzo, il Manzoni era ancora in vena di scherzo: più tardi non credo che in sì fatto argomento avrebbe scherzato a quel modo. Più tardi egli nutrì per la poesia un po' (non saprei dir quanta) di quell'avversione sospetta e stizzosa che brontola nelle parole del Bossuet e del Pascal, e la nutrì, in parte almeno, per le ragioni medesime. Orazio disse la poesia amabilis insania: venne tempo in cui quell'amabilis dovette parer di troppo all'autore della Morale cattolica. Perciò io penso che sieno del Manzoni assai giovane questi pensieri, tolti di tra i suoi Pensieri varii: «La poesia, stromento di criterio della bontà delle azioni. Alcuni fatti giustificati in prosa, non potrebbero mai divenir soggetto di encomio poetico. Fate un po' dei versi in lode della tratta dei negri, della St-Barthélemy, degli auto da fé, del tribunal rivoluzionario del '93, ecc., cose in favor delle quali si è pur ragionato in prosa. La poesia sembra allontanarsi dalla vita reale più della prosa, e all'opposto, rigettando le formule generali, convenute di quella, essa sovente si move, e si addirizza insieme alle più intime, primitive sensazioni, ai particolari in cui quelle si risolvono, che quelle non rappresentano. E appunto nei casi del genere suddetto, la prosa giustificatrice si serve di quelle formole, ecc.»[72]. La prosa giustificatrice! quale attributo! dunque la poesia direbbe il vero meglio della prosa?
Se al detto sin qui voi aggiungete che il Manzoni, non solo ebbe in uggia il romanzesco, lo stravagante, il mostruoso, ma ancora ogni [72] meraviglioso soprannaturale, da quello della fede in fuori; ch'egli non sentì punto il bisogno, tanto sentito dai romantici, di sostituire all'antica una nuova mitologia; che si mostrò sempre molto severo per tutte le credenze superstiziose, poetiche o non poetiche; se osservate ch'egli non si diletta punto di portenti e di miracoli; che nei Promessi Sposi non v'è altro meraviglioso, se non quello di un ordine divino che si lascia scorgere dietro al disordine umano; che il miracolo vi è sempre interno, occulto, immanente, e si compie nelle anime o pervade la storia; che però quello delle noci narrato da fra Galdino si risolve in ironia manifesta; voi avete sott'occhio tutti gli elementi, le movenze e i caratteri dell'arte manzoniana, quali sono prodotti, determinati, condizionati da quel vero che il Manzoni aveva preso a fondamento dell'arte sua, e che fedele al monito dell'Imbonati:
Il santo vero
Mai non tradir,
egli osservò sempre nei pensieri, nelle parole, nelle opere.
Nella dottrina romantica il Manzoni distinse molto opportunamente due parti, l'una negativa, positiva l'altra; quella assai più larga, più consistente e più precisa; questa assai più ristretta, più sconnessa e più indeterminata[73]. Per la parte negativa, si può dire ch'egli s'accordi in tutto con la scuola; per la parte positiva, si accorda molto meno, e qualche volta non si accorda punto. Del resto, in questa seconda parte, anche gli altri romantici discordavano spesso fra loro. Avveniva della dottrina romantica ciò che di tutte le dottrine, dove la parte critica è sempre più valida e più coerente della dogmatica.
Come ogni altro romantico vero, il Manzoni detesta, ricusa e schernisce tutte quelle regole d'arte che non sono «fondate sulla natura, necessarie, immutabili, indipendenti dalla volontà de' critici, trovate, non fatte»[74]. Con l'acume suo consueto egli scopriva nelle regole arbitrarie un trovato della pigrizia e della inettitudine: «C'est une singulière [73] disposition que celle que nous avons à nous forger des règles abstraites applicables à tous les cas, pour nous dispenser de chercher dans chaque cas particulier sa raison propre, sa convenance particulière»[75]. «Il n'y a ni règles, ni modèles», dirà più tardi l'Hugo, «ou plutôt il n'y a d'autres règles que les lois générales qui planent sur l'art tout entier, et les lois spéciales qui pour chaque composition résultent des conditions d'existence propres à chaque sujet». Il Manzoni aggiungeva: «in fatto d'arte, un precetto non può essere altro che l'indicazione d'un mezzo»[76]; e con tutti i romantici credeva che le regole non fondate in natura (alle fondate in natura chi ha fior di senno non sogna di ribellarsi) fossero state «un inciampo a quelli che tutto il mondo chiama scrittori di genio; e un'arme in mano di quelli che tutto il mondo chiama pedanti»[77]. Documento insigne dell'avversione sua a quelle, e, in pari tempo, dell'acutezza e potenza della sua critica estetica, rimane la lettera sulle famose unità drammatiche[78].
Il Manzoni è ancora schiettamente e deliberatamente romantico nella dottrina drammatica, e specialmente quando sostiene che tutta la struttura del dramma, e il moversi de' personaggi in esso, e la vicenda degli avvenimenti, devono dipendere dalla natura dell'azione; e quando ammira ed esalta lo Shakespeare sopra tutti i drammaturghi antichi e moderni. La sua dottrina drammatica, in sostanza, non è diversa, o è poco diversa da quella di Guglielmo Schlegel, del De Vigny, dell'Hugo.
Il Manzoni è inoltre romantico risoluto quando vuole si sostituisca il concreto all'astratto, il particolare al generale, l'uomo vero al fittizio, ecc.; ma non è più romantico, o è un romantico irresoluto, e che fa molte riserve, rispetto ad altri postulati, ad altre tendenze dell'arte nuova.
Così rispetto a quella mescolanza del tragico e del comico, dello scherzevole e del serio, che preconizzata nel secolo XVII da Lope de Vega, nel secolo XVIII dal Diderot, dal Voltaire e dal Lessing, de' quali tre, il secondo la biasimò dopo averla lodata e il terzo la lodò dopo averla biasimata; effettuata nel dramma lacrimoso, [74] o commedia patetica, o tragedia borghese che voglia dirsi, era divenuta un canone principale dell'estetica romantica, un pezzo prima che l'Hugo scoprisse nel cristianesimo la fusione armonica del grottesco e del sublime. Il Manzoni, prudente sempre, non la condanna; ma esprime un dubbio: «je pense», scrive egli nella già tante volte citata lettera sulle unità, «comme un bon et loyal partisan du classique, que le mélange de deux effets contraires détruit l'unité d'impression nécessaire pour produire l'émotion et la sympathie; ou, pour parler plus raisonnablement, il me semble que ce mélange, tel qu'il a été employé par Shakespeare, a tout-à-fait cet inconvénient. Car qu'il soit réellement et à jamais impossible de produire une impression harmonique et agréable par le rapprochement de ces deux moyens, c'est ce que je n'ai ni le courage d'affirmer, ni la docilité de répéter... Mais, pour rester plus strictement dans la question, le mélange du plaisant et du sérieux pourra-t-il être transporté heureusement dans le genre dramatique d'une manière stable, et dans des ouvrages qui ne soient pas une exception? C'est, encore une fois, ce que je n'ose pas savoir»[79]. Nei Promessi Sposi, per altro, la mescolanza c'è, ed è anzi carattere notabile di quel libro, che ne ha tanti altri notabili; e se ne potrebbe discorrere a lungo, se il tempo lo concedesse.
Si sa che i romantici furono più che mediocremente presi da quella dolce mania descrittiva che il Mérimée pose così argutamente in canzone, e che i realisti ebbero dai romantici in fedecommesso. Al Manzoni quella mania non s'attaccò. Si sa pure che i romantici, stanchi di quello che chiamavano vaniloquio classico, formarono il proposito di dire, non più parole, ma cose, e fermi in esso cominciarono alcuni, anzi molti, a curar le parole un po' meno di quanto si richieda alla giusta ed efficace significazion delle cose. Il Manzoni, che anche in ciò la sa lunga, cura moltissimo le cose, e per curarle a dovere, cura anche moltissimo le parole.
Chi legge le opere del Manzoni con l'attenzione dovuta, ogni po' incontra pensieri che un romantico dei soliti non vorrebbe far suoi, parole che un romantico dei soliti non direbbe. E così dev'essere; perchè, come s'è veduto, il Manzoni ha una costituzione di mente molto diversa da quella dei romantici presi in generale e il Manzoni si tiene stretto e fedele ai soli principii fondamentali del [75] romanticismo; e il Manzoni riman fuori affatto dei traviamenti della dottrina romantica e dell'arte romantica. Perciò s'indovina che moltissimi romantici, dei maggiori e dei minori, non gli dovevano andar troppo a sangue[80]. Riservato e benevolo come egli è, non lo dice; ma si capisce che avrebbe avuto da dir per un pezzo, se avesse voluto incominciare e non fermarsi. Solo una volta, scrivendo al Cantù, che nel 1833 aveva dato fuori il saggio intorno a Victor Hugo e il romanticismo in Francia, uscì sul conto del grande poeta francese in queste moderate parole: «I giudizii vostri sono benevoli, ma non adulatorii, come troppi altri. È un ingegno forte, ma disordinato. Le situazioni, le sa trovare; e, trovate, le sa usare (come dite voi exploiter?), ma non guarda se siano ragionevoli.... Voi dite all'autore delle parole savie: facciano almeno frutto su certi giovani di qui, e principalmente di oltre Enza»[81]. Queste sono parole piene di temperanza e modestia mirabile, perchè non si può immaginare diversità, anzi contrarietà di natura maggior di quella che passa tra colui che le pronunziava e colui per cui erano pronunziate; e si sa che i diversi, e più i contrarii sono da natura pochissimo disposti a giudicarsi vicendevolmente con temperanza e con modestia, anzi pur con giustizia. L'Hugo è capo incontestato del romanticismo francese; il Manzoni è considerato capo del romanticismo italiano: ora, chi leggesse le opere dell'uno e dell'altro, e non sapesse più là, non immaginerebbe mai e poi mai che le due scuole che li acclamano capi possano denominarsi col medesimo nome.
Per definire vie meglio l'indole del Manzoni e dell'arte sua, non sarà male che ci soffermiamo alcuni istanti a fare tra l'Italiano e il Francese un po' di raffronto.
Ma prima di tutto una dichiarazione e una protesta, come usavano farne que' buoni autori del tempo andato che, non dalle parole dei censori soltanto, ma anche dalle lor proprie, volevano assicurati i leggenti [76] non esservi nelle opere loro nulla contro la santa fede cattolica, nè contro prencipi, nè contro buoni costumi.
Io ammiro profondamente il Manzoni, e ammiro, non meno profondamente, l'Hugo; e fo così poco conto dei detrattori morti del primo come dei detrattori vivi del secondo. Entrambi mi pajono grandi; e se talvolta l'uno mi par più grande dell'altro, ciò avviene solo perchè fissando io un po' troppo intentamente lo sguardo nell'uno dei due, l'altro lo perdo un pochino di vista. Facciamo una supposizione. Supponiamo che per decreto di un nuovo fato il Manzoni e l'Hugo non fossero più entrambi concessi alla gloria di questa povera umanità, ma l'uno di essi soltanto, e che quest'uno dovess'essere da noi prescelto: io, per la mia parte, come cittadino di questa patria italiana, non potrei non dire: Ebbene, ci sia lasciato il Manzoni; ma, come cittadino del mondo, non saprei che risolvere. E dopo ciò, veniamo al proposito nostro.
L'Hugo è di temperamento sanguigno; il Manzoni è di temperamento nervoso. Quegli serba e mostra in tutto il poderoso suo essere come un resto di esuberanza e d'impetuosità primitiva, certe come vestigia di una umanità non ancora attenuata e ammansita dal lento lavoro dei secoli; questi dà a conoscere in tutto il delicato suo essere l'ostinato lavoro della disciplina, gli effetti dell'adattamento e dell'assuefazione; e si può quasi dire che ogni antico istinto è perduto in lui. L'Hugo fu rassomigliato a un titano, e non infelicemente; se non che, qualche volta par che si sformi e degradi nel ciclope: il Manzoni par quasi un santo, ma un santo che, qualche volta, pende verso l'asceta.
L'Hugo ebbe uno spirito audace, turbolento e superbo; il Manzoni, come fu osservato argutamente dal Tenca, «un'intelligenza che si schermisce quasi paurosa di sè medesima». Quegli fu sempre sicuro di sè, ed ebbe per incontrastabile e per sacra ogni sua opinione, ogni parola; questi sempre dubbioso, e sempre restio a profferir giudizii e sentenze; di maniera che, in molti casi, e singolarmente ne' più importanti, il costrutto del suo ragionare era questo: nego tutto, e non propongo nulla[82]. Quegli fu (chi nol sa?) vanissimo, e nella ostentazion di sè stesso attinse almeno i primi gradi del ridicolo: pensò d'essere, e così si denominò, una fiaccola accesa dinanzi alla umanità [77] brancolante nel bujo, un preparatore di nuovi destini, un redentore di mondi; ed accettò, anzi chiese l'adorazione: questi spinse la modestia inaudita e favolosa sino a dirsi inetto a cosa alla quale tutti si stimano idonei, a fare, cioè, il deputato, e da sè si chiamò uomo inconcludente, e ricusò gli omaggi, e fu, nel ricusarli, più d'una volta sgarbato. L'uno fu l'uomo di tutte le pubblicità, di tutti gli ardimenti, e mescolò la fragorosa voce tra di profeta e di tribuno a tutte le voci e a tutte le bufere del secolo, e più d'una volta le dominò tutte dall'alto; e apparve bello e splendente d'antico eroismo quando dalla sommità di uno scoglio, di mezzo al tumulto di un oceano perpetuamente sconvolto, osò sfidare, maledire, deridere l'avversario coronato e onnipotente; l'altro fu uomo di solitudine e di silenzio, e solo con mano circospetta e parco gesto sparse negli animi alcuni semi che poi germogliarono. Ebbero entrambi alto senso di pietà per tutte le umane miserie; ma la pietà del poeta che gridava ai quattro venti:
Je hais l'oppression d'une haine profonde,
e che scrisse questo mirabile verso:
Fais en priant le tour des misères du monde,
fu più operosa: quella dell'altro fu forse più caritatevole, perchè abbracciava oppressi ed oppressori ad un tempo.
L'Hugo fu così cattivo ragionatore come fu buon poeta, e volle far del filosofo a dispetto della natura, che avevagli dato il pensar vasto e magnifico, non il pensar chiaro e preciso; e però la sua metafisica rimase sempre, come fu detto, une métaphysique rudimentaire. Come il Manzoni avesse per questo rispetto, e mirabili, le qualità che mancarono all'Hugo, abbiam veduto a suo luogo. Ciò nondimeno bisogna pur riconoscere che l'Hugo, non solo comprese molte cose, ma molte ancora ne presentì; che egli riuscì a tradurre meravigliosamente in fantasmi parecchi concetti filosofici; e che il suo pensiero si muove attraverso la intera creazione con una forza e un'agilità di cui sono pochissimi esempii. Chi vuol vedere la differenza che passa tra la virtù critica dell'Hugo e la virtù critica del Manzoni, confronti il Saggio del primo sopra Shakespeare con la Lettera del secondo sopra le unità drammatiche, o col Discorso intorno al romanzo storico.
In arte l'Hugo tende al romanzesco, al paradossale, al mostruoso; [78] trionfa nell'antitesi; dice che la vera poesia consiste nell'armonia dei contrarii; fa cominciare dall'apparizion del grottesco una nuova èra del mondo; detesta la sobrietà, che gli pare virtù da servitore e non da poeta; produce, fin che vive, con abbondanza miracolosa, e lascia, morendo, tanto d'inedito quanto potrebbe bastare a più d'un vivo; il Manzoni detesta il romanzesco, il paradossale, il mostruoso; fugge l'antitesi; dice che la poesia dev'essere tratta dal cuore, deve esprimersi non solo con sincerità, ma, ancora, con semplicità, e che una delle più belle facoltà sue si esercita nell'attirar l'attenzione sopra fatti morali che non si potrebbero osservare senza ripugnanza[83]; non s'impaccia col grottesco, bastandogli il brutto; ha la sobrietà, anche letteraria, in conto di assai buona virtù; produce poco, e cessa quasi di produrre essendo ancor giovane, e quando molt'altro si aspettava ancora da lui.
I Promessi Sposi vincono, a mio parere, e di molto, Notre Dame de Paris, i Misérables, i Travailleurs de la mer e tutti gli altri romanzi dell'Hugo; ma l'Hugo è, sempre a parer mio, e sebbene ci sia in lui non poco del Cavalier Marino, assai maggior poeta del Manzoni; ed è tale perchè la sua coscienza è una coscienza essenzialmente poetica, perchè egli pensa consuetamente per via d'immagini e di fantasmi, perchè sente e giudica poeticamente la vita ed il mondo. L'anima del poeta, quale egli l'ha e la vuole, partecipa della natura del dio panteistico, penetra e si spande in tutte le cose, attraverso ai tempi e agli spazii.
O poëtes sacrés, échevelés, sublimes,
Allez et répandez vos âmes sur les cimes,
Sur les sommets de neige en butte aux aquilons,
Sur les déserts pieux où l'esprit se recueille,
Sur les bois que l'automne emporte feuille à feuille,
Sur les lacs endormis dans l'ombre des vallons!
. . . . . . . . . . . . . . .
Si vous avez en vous, vivantes et pressées,
Un monde intérieur d'images, et de pensées.
De sentiments, d'amour, d'ardente passion,
Pour féconder ce monde échangez-le sans cesse
Avec l'autre univers visible qui vous presse!
Mêlez toute votre âme à la création.
[79]
Perciò egli non ha nè ripugnanze nè ritrosie che gli facciano escludere cosa alcuna dagli sterminati dominii della poesia. Adora la natura con quello stesso fervor religioso con cui adora l'umanità, e spazia attraverso a tutti i secoli, a tutti i climi, a tutte le storie, raccogliendo con egual reverenza e con egual compiacimento, nello instancabile verso, le voci e gli echi della Giudea e dell'ultimo Oriente, di Grecia e di Roma, dei castelli e delle corti medievali, della odierna piazza tumultuante, accoppiando miti classici a leggende cristiane, spingendo dietro ai passi degli antichi Re e degli antichi profeti i cavalieri erranti e le lacere plebi.
E quanto al romanticismo più propriamente, l'Hugo voleva che l'arte romantica fosse una specie di foresta vergine, quanto più si possa dire diversa da quel bene spartito e ben pettinato giardino di Versailles, a cui paragonava l'arte classica: il Manzoni non voleva foresta vergine e non voleva nemmeno il giardino di Versailles; voleva, direi, un giardino inglese.
Giunti a questo punto possiam fare, in due parole, un po' d'epilogo, e dire, o piuttosto ripetere, che il romanticismo del Manzoni non è quello che d'ordinario si crede; che esso è più e meno del comune, secondo che si guardi ai principii o alle deviazioni; che far del Manzoni il capo del romanticismo italiano è, per molti rispetti, giusto, ma non così giusto come lasciarlo solo nel luogo ov'egli stesso s'è posto, e dove, pur troppo, sembra che abbia a rimaner solo un bel pezzo.
Questo pur troppo, che m'è sdrucciolato dalla penna, si trascina dietro un po' di coda.
Col vento che tira non ci sarebbe da meravigliare se qualcheduno saltasse su un dì o l'altro a gridare di punto in bianco: Già che si torna a tante cose, torniamo anche al Manzoni, cioè al suo modo d'intender l'arte e di praticarla. Un tal grido potrebbe trovare molte orecchie aperte, ed echeggiare in molti spiriti, per più ragioni, e tra l'altre per questa, che in fatto di letteratura, e non di letteratura soltanto, noi (dico noi, così di qua come di là dall'Alpi) siamo finalmente riusciti alla confusione babelica. Il realismo, con le sue due varietà del verismo e del naturalismo, dopo aver tutto occupato il traffico nazionale ed internazionale, s'è ammazzato da sè, a furia d'intemperanza [80] e d'insensatezza. Il plasticismo dei Parnassiani fu rovinato il giorno in cui si fece, o, per dir meglio, si rifece la non difficile scoperta che le arti di cui esso aveva voluto appropriarsi il magistero e l'officio, fanno molto meglio ciò ch'esso fa molto peggio. Lo psicologismo dei così detti anatomisti d'anime è venuto terribilmente a noja a furia di analisi infinitesimali, di rilievi micrometrici, di arzigogoli e di sofismi. I decadenti sono forse decaduti un po' troppo. Gl'impressionisti non impressionano abbastanza. Il preraffaellismo pittorico e letterario è, più che altro, un capriccio e un giuoco di artisti a spasso. Il simbolismo, fra tanti simboli, non lascia bene intendere che si voglia. Si sente picchiare agli usci un idealismo nuovo; ma non ci ha detto ancora quale sia il suo ideale.
Così che confusione grandissima, d'onde stanchezza, malumore, inquietezza, e, se non volontà, voglia di un qualche avviamento ragionevole e di un qualche rinnovamento: condizione di spiriti e di cose molto favorevole a chi con avvedutezza, con coraggio, con forza si mettesse alla testa delle turbe esitanti, e, senza voltarsi indietro, gridasse con aria inspirata: Seguitemi; o a chi, voltandosi indietro, con aria compunta suggerisse: Torniamo al Manzoni.
Ora, che cosa significherebbe un ritorno sì fatto? Sarebb'esso un bene? sarebb'esso un male? e come s'avrebbe a fare?
Il ritorno al Manzoni dovrebbe significare primamente detestazione e rifiuto di tutte quelle forme e tendenze d'arte che il Nordau, nel suo notabile libro sulla degenerazione presente, ha con esagerazione manifesta, ma non senza giusto motivo, considerate e condannate come immorali, insensate e perniciose; corrompitrici, nonchè delle anime, dell'arte stessa; nate esse stesse dalla degenerazione, e sollecitanti e aggravanti la degenerazione. Dovrebbe poi significare ritorno alla ragione, alla sincerità, all'onestà; restaurato il senso della realtà, della convenienza, della misura; l'arte rimessa in armonia coi grandi interessi umani; la semplicità, la naturalezza, sostituite alla preziosità e alla stravaganza; un linguaggio piano, terso, dritto, efficace, sostituito agli avviluppamenti, agl'imbellettamenti, agli sdilinquimenti della locuzione e dello stile.
Ciò posto, qual è quel uomo di sano intelletto che, per tutti questi rispetti, non giudicasse un bene, e un gran bene, il ritorno al Manzoni? Ma qual è, d'altra banda, quell'uomo di sano intelletto, il quale non volesse avvertire, in pari tempo, che il ritorno pieno, cieco, incondizionato, sarebbe sicurissimamente un male, e un gran male?
[81]
Abbiam veduto che il Manzoni si accosta in più occasioni, e in più modi, alle scuole fiorite dopo il romanticismo. Egli è realista quanto si può, ragionevolmente, desiderare che sia. Egli è molto migliore psicologo di molti psicologisti che forse lo sdegnano. Egli usa nel descrivere quella proprietà e precision di linguaggio che mostran la via al plasticismo. Egli da molte bande rompe i confini del romanticismo comune. Perciò facilmente, e da molte bande, si può tornare a lui, e ci si può trovar d'accordo con lui; ma questa stessa facilità può riuscire pericolosa, se altri dimentichi che il Manzoni non risponde, non può rispondere, in fatto d'arte, a tutti i nostri giusti desiderii, a tutti i nostri legittimi bisogni.
Certo, il Manzoni è un artista vero, un artista grande; e sono ben poco accorti coloro che, sotto quegli andamenti suoi, così semplici e bonarii, non iscorgono l'arte meravigliosa e squisita, che sempre illuse e sempre disperò gl'imitatori; ma bisogna pur dirlo, la sua natural timidezza gli nocque, gli nocquero i troppi rispetti, e i troppi scrupoli, e le troppe esitazioni. Non tutta l'arte fu in lui; e quella che fu, egli intese a restringere entro confini un po' troppo angusti, a farla men padrona di sè e de' suoi movimenti di quanto possa piacere a chi ha dell'arte il culto libero e vivo. Quella tendenza si fece in lui sempre più imperiosa e più forte con gli anni; e forse, insieme con la cresciuta incontentabilità, fu tutto un nodo di renitenze e di ripugnanze religiose e morali quello che gli strinse l'animo, e lo ridusse, tanto innanzi tempo, alla inoperosità ed al silenzio. L'arte ha bisogno di libertà; il che non vuol già dire, come pur giova credere a tanti, che le si debbano concedere tutte le licenze. La sobrietà le giova; ma non l'astinenza; e il cilizio la uccide. Non è necessario che l'arte sia presuntuosa, impertinente, sfacciata; ma non è bene che sia tutta e sempre troppo modesta, docile, casalinga. Può impersonarsi in Beatrice; non deve impersonarsi in Lucia; e Lucia non deve vietare a Saffo di lasciarsi vedere e di parlare. Tutto ciò che nell'anima umana, e nella vita umana, è passione impetuosa, disordinata e traboccante energia, ribellione santa e superba, splendore e pompa di bellezza e di fortuna, sogno, stranezza, mistero, l'arte del Manzoni non l'espresse, e, veramente, non lo poteva esprimere; ma non c'è ragione perchè l'arte non lo esprima; anzi lo deve esprimere. Se si va dietro al Manzoni di dopo i Promessi Sposi, si rischia molto di riuscire alla negazione dell'arte.
Il Manzoni mise fuori dell'arte, e volle quasi sbandita dalla coscienza, [82] tutta una parte di umanità, tutta una età della storia, il mondo antico e pagano: ma l'arte si muove liberamente nel tempo e nello spazio, e una delle virtù sue più mirabili consiste nel potere rifar vivo ciò ch'è morto, presente ciò ch'è remoto, e deve sdegnare ripugnanze che, comunque nate e cresciute, offendono lei e offendono l'umanità tutta quanta. Invano romanticismo e realismo, concordi in questo, ci contendono l'antico. Noi ripenseremo e ravviveremo nell'arte anche l'antico, e la stessa mitologia; non più al modo puerile dei classicisti, fingendo presente un passato irrevocabile; ma facendo scaturire una vena di alta e d'inesauribile poesia dallo scontro di un passato che l'anima sente passato con un presente che l'anima sente presente. Nulla v'è più poetico delle memorie: nulla più poetico di un mito ellenico ripensato da una coscienza del secolo XIX, e più, credo, del XX.
Torniamo al Manzoni per la lingua; ma non lo seguitiamo in ogni suo passo, e non ci fermiamo ad ogni sua fermata. Facciamo pur getto della langue marbrée dei decadenti; invochiamo un nuovo Molière che volga in burla il nuovo langage précieux e ne faccia perdere il gusto; accettiamo di buon grado la lingua piana, schietta, comunemente intesa, che il Manzoni adopera e raccomanda; ma non assoggettiamo troppo duramente l'artista letterario al giogo pesante dell'uso; ma non dimentichiamo che la lingua atta ad esprimere il pensiero e il sentimento di tutti può non essere interamente atta ad esprimere il pensiero e il sentimento di alcuni; ma lasciamo che lo scrittore possa talvolta forzar l'uso della lingua, come il pensatore forza l'uso del pensiero; e lasciamo ch'egli cerchi, disotterri ed inventi per produr nuove impressioni, per ispianar la via a nuove idee.
Torniamo alla prosa del Manzoni, e imitiamola, se siamo da tanto; ma non crediamo però che sia tutta perfetta, e conveniente a tutte le materie. Prosa mirabile, senza dubbio, e rara troppo nella nostra letteratura, anzi unica, ma un pochino povera di colore e di suono, e che si risente un po' troppo della riservatezza e della timidità del suo autore.
Torniamo al concetto che il Manzoni ebbe di una letteratura popolare, che tragga vivezza, forza, fecondità dall'essere in istretta comunione col sentimento e con la vita del popolo: sarà questo il modo migliore di combattere il nuovo bizantinismo; ma riconosciamo che, come non tutta la musica può essere popolare, così non tutta la [83] letteratura può essere popolare; e che quando vengano a mancare certe forme dell'arte più squisite e più peregrine, tutta l'arte pericola, tutta l'arte decade.
Torniamo ai Promessi Sposi, perchè la sazietà e il disgusto di tanta letteratura pazza, sconcia, brutale, quanta ne dilagò per l'Europa in questi ultimi anni, ci rende forse più che mai disposti a gustarne le immortali bellezze. Torniamo ai Promessi Sposi, e ridiventiamo magari manzoniani, ma con discernimento e con misura, senza preoccupazioni estranee e dannose all'arte, senza ricadere in quella cieca e stupida idolatria contro cui, sono più che vent'anni, si levò giustamente il Carducci. Torniamo ai Promessi Sposi; ma badiamo che se essi sono, com'ebbe a dire il De Sanctis, una «pietra miliare della nostra nuova storia», la nostra storia ha pure altre pietre miliari, e che questa non deve esser l'ultima, non deve segnar fine alla via. Torniamo ad essa, non per fermarci, ma per ritrovare la strada smarrita.
[87]
Lessi già in più di un libro, e udii dire da molte persone, fra le quali non mancavano critici patentati, che il carattere dell'Innominato pecca d'inverisimiglianza e d'inconsistenza; che il Manzoni, nel colorirlo e nell'atteggiarlo, non addimostrò quel conoscimento sottile e profondo della umana natura, del quale porgono così larga testimonianza molti altri caratteri del suo immortale romanzo; che in ispazio di una notte, o poco più, un uomo non può rinnegare tutto sè stesso, non muta essere, non si trasforma di scelerato in santo; che il ravvedimento dell'Innominato somiglia troppo ad uno di quegli espedienti sbrigativi di scena mercè dei quali si spinge al fine desiderato un'azione che di per sè non potrebbe arrivarci[85].
Tali, o poco dissimili affermazioni, specie se accompagnate da quel tono di saccenteria imperativa con cui, molte volte, la critica supplisce alla ragion che non ha, possono far colpo sull'animo di chi si lascia impressionare facilmente, o non è preparato abbastanza a discuterle; ma non credo, davvero, che sieno responsi d'oracoli, e [88] non vi si possa contrastare. E poichè esse s'appuntano contro un libro il quale (checchè siasi detto e fatto) non è men vivo oggi di quello fosse mezzo secolo fa, e domani potrebbe essere anche più vivo di oggi; contro un romanzo il quale, dileguata oramai, o stando per dileguare, l'affannosa tregenda di tanti romanzi veristici, realistici, naturalistici, nati, intristiti, morti nel corso di pochi mesi, o di qualche anno, appare agli occhi degli spassionati, comunque credenti o miscredenti, più vero, più reale, più naturale di tutti essi; io non credo possa parere fatica sprecata quella di discuterle un tantino, e di cercare quale sia la loro sostanza e quanta la ragionevolezza.
Un primo dubbio da chiarire è questo: possono o non possono accader nell'uomo mutamenti interiori e repentini tali, che il pensare, il volere e l'operare di lui prendano, a muover da certo punto, in modo risoluto e durevole, un indirizzo in tutto diverso da quello seguito prima, e, talora, a quello di prima contrario? I fatti rispondono anticipando le dottrine, e rispondon che sì. Innumerevoli sono, a cominciar da San Paolo, i casi di subitanea conversione e di subitaneo ravvedimento; e se di molti si può dubitare che seguissero proprio così come la tradizione li narra, non è possibile dubitare di tutti. Chi prima avversava una fede, se ne fa, inaspettatamente, seguace; chi si ravvoltolava nelle sozzurre, si leva ed è mondo: i persecutori si trasformano in patroni; i carnefici invocano il martirio. Quanti furono che, come l'apologista Arnobio nel III secolo, e Santa Chiara da Rimini nel XIII, si convertirono per aver creduto d'udire una voce dal cielo che li ammoniva! Quanti che da un umile atto, da un'unica parola di carità, furono richiamati indietro, tolti da quella via di perdizione su cui stavano per muovere gli ultimi passi! Giovanni Colombini, che prima fu tristo uomo e mondano, e poi istitutore dei gesuati e santo, si ravvide un giorno leggendo per caso, mentre gli allestivano il desinare, la Vita di Santa Maria Egiziaca, gran peccatrice e grandissima penitente. Jacopone da Todi, veduto il cilicio che, sotto le ricche vesti, copriva il corpo della moglie morta, nauseò le vanità tutte ond'erasi compiaciuto, disse addio al mondo, diventò il giullare di Dio. Di Corrado, fratello del duca Lodovico d'Assia, e cognato di Santa Elisabetta d'Ungheria, si narra che fosse uomo oltre ogni dire superbo e violento. Nel 1232 poco mancò che non ammazzasse di propria mano, in pieno capitolo, l'arcivescovo di Magonza. Un giorno, trovandosi egli nel suo castello [89] di Tenneberg, in compagnia di molti seguaci, i quali tutti, dal più al meno, eran con lui di un animo e di un procedere, una donna di mala vita osò chiedergli l'elemosina; e avendola egli trattata assai duramente, con rinfacciarle la sozzura ond'era lorda, quella non rispose se non dipingendo la miseria e l'orrore della propria vita. Scosso dalle parole della peccatrice, il superbo riprenditore passò la notte in angosciosa vigilia, fatto subitamente conscio di sè, ripensando il passato e l'avvenire, considerando quant'egli fosse più malvagio e più vile di lei, e più di lei immeritevole di perdono. La mattina di poi seppe che molti de' suoi seguaci e ajutatori avevano pur passata la notte a quel modo; e allora, fatto proponimento di mutar vita, si recarono da prima, tutti insieme, al santuario di Gladenbach, poi a Roma, a ottenervi la remissione dei loro peccati. Ho riferito un po' per disteso questo esempio, perchè si può notare in esso qualche conformità col caso dell'Innominato; ma tralascio di recarne altri, parendomi che non bisognino[86].
Del suo personaggio dice il Manzoni, che un nuovo lui, cresciuto a un tratto terribilmente, era sorto a giudicare l'antico. Come poteva sorgere questo nuovo lui? Come può dentro ad un uomo nascerne, per così dire, un altro, che si sovrappone e talvolta si sostituisce al primo? Così al cardinal Federigo, come alla buona donna che va a tôrre Lucia in castello, il Manzoni fa dire che Dio ha toccato il cuore all'Innominato; e fa dire al popolo che la conversione dell'Innominato è un miracolo. E questa a dir vero è la spiegazione più ovvia e più semplice che ne possa dar quella fede che immagina un intervento della Provvidenza divina in tutti i fatti, sien essi naturali o umani, di cui non si scorga palese a primo aspetto la cagione, il principio, lo svolgimento. Ed è questa la spiegazione che meglio appaga la mente degli uomini dal Manzoni rappresentati nel suo romanzo, e, con certe modalità, la mente ancora dello stesso Manzoni; ma non è, di certo, la sola che se ne possa dare; e non è a creder che, rifiutata questa, il fatto della subita conversione appaja, o inaccettabile, o inesplicabile, mentre può escogitarsene un'altra, che il Manzoni stesso deve avere, per lo meno, intravveduta, [90] e che forse avrebbe potuto parergli, esaminandola alquanto, non dirò sufficiente, ma quasi sufficiente. Il mio assunto è questo: che il Manzoni delineò e colorì il carattere, narrò la storia del suo personaggio per modo, che il fatto del costui ravvedimento si può intendere come l'esito naturale di tutto un processo psichico naturale; come una peripezia che non contraddice, ma si conforma alle leggi psicologiche, ed in ispecie a quelle che governano la formazione, la consistenza, le variazioni del carattere; come un fenomeno insomma che può avere del mirabile, ma che ad esser chiarito non abbisogna punto della ipotesi del miracolo[87].
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Studii oramai non più nuovi hanno dissipati molti errori e molte illusioni circa la presunta identità e la presunta immutabilità della persona morale umana. L'Io, quell'Io che fu creduto un tempo indivisibile e invulnerabile, fisso in mezzo al perpetuo rigirarsi delle immagini, delle idee, degli affetti, come il punto matematico nel centro della ruota, fu veduto spostarsi e scorrere, e sdoppiarsi, e sfaldarsi in mille guise. Furon vedute nella stessa persona fisica, più persone morali, quando solo diverse, quando affatto contrarie, incalzarsi a vicenda, e l'una sopraffare e soppiantar l'altra con certa regola di ritorno e d'alternazione, e l'una non serbar ricordo dell'altra, e un uomo stesso esser più uomini in uno. Fu veduto sotto l'influenza della suggestione, o sotto quella del magnete, l'uomo trasmutarsi d'indole; perdere in certa qual maniera sè stesso; detestare quanto aveva prediletto, prediligere quanto aveva detestato; pensare, volere, operare ciò che in condizione propria e normale non avrebbe mai pensato, voluto, operato. L'anima apparve, come il corpo, un organismo delicato e complesso e mobile, perpetuamente in corso di farsi, disfarsi, rifarsi; e il carattere non sembrò più quella congegnatura rigida e stabile ch'era stato tenuto in passato.
Che una di quelle che si dicono, e non a torto, crisi morali possa, se profonda e gagliarda abbastanza, mutare intimamente un carattere, è cosa riconosciuta dai più, e non difficile da spiegare, quando si pensi che così fatte crisi turbano, più o meno, l'equilibrio delle forze interiori, ne alterano l'aggiustamento e la coordinazione, sprigionano occulte energie, dànno moto e vigore a tendenze rimaste insino allora sequestrate e dormenti. Ma può anche darsi che la crisi produca un mutamento grande nel modo di pensare, di volere e di operare di un uomo senza troppo mutarne il carattere; senza provocarvi, cioè, una vera sostituzione di elementi fondamentali nuovi a elementi fondamentali vecchi; senza scomporre quell'assodata compagine di facoltà maestre, di passioni maestre, di tendenze maestre entro cui, per così dire, la vita dello spirito si scomparte e s'inquadra. L'uomo si torrà dalla via insino allora battuta, e, risolutamente, prenderà a batterne un'altra, o divergente da quella, o anche opposita a quella; ma procederà per la via [92] nuova mosso in somma, nel fondo, da quelle stesse energie che già lo fecero camminar nell'antica, e serbando fors'anche l'andatura di prima. Si vedrà, poniamo, il soldato impaziente e impetuoso, mutato in santo, portare la tonaca, a un dipresso, come un tempo la cotta d'armi; serbare sotto il cappuccio un cipiglio non molto dissimile da quello ch'era solito lasciar vedere sotto la celata, e muovere alla conquista del cielo con, in parte almeno, i procedimenti usati nella espugnazione delle città. Fanfulla frate e Fanfulla guerriero sono sempre in sostanza lo stesso Fanfulla[88].
Non tutti i tempi sono egualmente favorevoli al prodursi delle grandi crisi morali, sia della prima, sia della seconda maniera che ho ricordata; ma favorevolissimi tra tutti son quelli ne' quali segua alcun generale e profondo rivolgimento delle cose umane e degli umani pensieri, con sostituzione di nuovi ad antichi ordini, instaurazione di nuove credenze o restaurazione d'antiche, innovamento grande d'arti o di scienze. Onde il vero, se bene inteso, delle parole di Origene, quando afferma che Dio nella prima età della Chiesa soleva, con segni e con visioni, produrre negli animi umani súbite commozioni e repentini travolgimenti.
A chi tanto conosca di storia quanto si richiede a mezzana cultura io non ho bisogno di dire come e per qual cagione i tempi dell'Innominato fossero favorevoli a sì fatte crisi, specie se d'indole religiosa. Ch'egli passi per una crisi per cui molti altri passarono, e prima e dopo di lui, non è da meravigliare; ma bisogna vedere com'ei ci passi, e notare, innanzi tutto, che la crisi sua è, non della prima, ma della seconda maniera. In fatto, dopo il ravvedimento, egli appare sì un uomo nuovo, ma non già così nuovo come sembra a primo aspetto; anzi, nel nocciolo, rimane, direi, l'uom di prima; e non può non rimanere, perchè il ravvedimento suo (così mi sforzerò di provare) nasce, per molta parte, da quelle stesse qualità e forme del suo carattere che in passato fecero di lui un superbo, un prepotente, un malvagio.
[93]
Vediamo, in prima, quale sia il carattere del nostro personaggio.
«Fare», narra il Manzoni, «ciò ch'era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz'altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch'eran soliti averla da altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui. Fino dall'adolescenza, allo spettacolo ed al rumore di tante prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno e d'invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione, anzi n'andava in cerca, d'aver che dire co' più famosi di quella professione, d'attraversarli, per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli alla sua amicizia. Superiore di ricchezze e di seguito alla più parte, e forse a tutti d'ardire e di costanza, ne ridusse molti a ritirarsi da ogni rivalità, molti ne conciò male, molti n'ebbe amici; non già amici del pari, ma, come soltanto potevan piacere a lui, amici subordinati, che si riconoscessero suoi inferiori, che gli stessero alla sinistra».
Già da queste parole si possono rilevare gli elementi essenziali e le fattezze più spiccate del carattere dell'Innominato. La facoltà maestra di quest'uomo è la volontà, una volontà potentemente organata e indomabile, che coordina, disciplina, unifica tutta la vita interiore; una volontà secondata dall'ardire e dalla costanza. Egli è uno di quei forti perseveranti il cui esempio acquistò fede al detto volere è potere, e certo non uno dei minori. Egli è uno di quegli atleti pugnaci che soggiogano e foggiano a lor talento gli uomini e le cose in mezzo a cui vivono, ma che sono anche atti, a un buon bisogno, a soggiogare e rifar sè medesimi. Quest'uomo nutre in sè due passioni principali che fanno muovere la sua volontà, e dànno indirizzo e norma alle azioni: un orgoglio irrepugnabile e uno sfrenato amore d'indipendenza.
Certo, prima del ravvedimento, egli è un malvagio; ma la malvagità di lui non è, direi, originaria, costituzionale, immediata. È piuttosto una malvagità avventizia, accidentale, secondaria; promossa bensì dalla tracotanza e dall'orgoglio; ma nata, più che da [94] altro, da un senso di disagio e di disgusto, dallo spettacolo di quelle tante prepotenze, di quelle tante gare, di que' tanti tiranni, che gli aveva acceso dentro un sentimento misto di sdegno e d'invidia. Ora lo sdegno, quello sdegno, in altra condizione di tempi e di luoghi, e quando non gli fosse mancato alcun ajuto opportuno, avrebbe potuto divenir principio di tutt'altro volere e di tutt'altra vita.
Egli fece il male; ma non si vede propriamente in lui quella dilettazione istintiva e continuata e coerente del male che suole esser propria de' veri e grandi scelerati. La forza sua, di solito, «era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di capricci superbi»; ma non sempre era od era stata tale. «Accadde qualche volta che un debole oppresso, vessato da un prepotente, si rivolse a lui; e lui, prendendo le parti del debole, forzò il prepotente a finirla, a riparare il mal fatto, a chiedere scusa; o, se stava duro, gli mosse tal guerra, da costringerlo a sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più pronto e terribile fio. E in quei casi, quel nome tanto temuto e aborrito era stato benedetto un momento: perchè, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel compenso qualunque, non si sarebbe potuto, in que' tempi, aspettarlo da nessun'altra forza, nè privata, nè pubblica». Quando una società non dia luogo se non a due condizioni d'uomini, soverchiatori in alto, soverchiati in basso, gli è quasi impossibile che gli orgogliosi, i forti, i violenti non si sforzino di essere piuttosto tra' primi che tra' secondi, e non riescano, anche se non isprovveduti di qualche virtù, malvagi affatto. L'Innominato diventò tiranno; un pochino, e forse molto, per gusto proprio; ma più per non essere tiranneggiato da altri: e seguì a lui ciò che di solito segue a chi si pone sullo sdrucciolo del mal fare, dove un passo ne tira un altro, e bisogna andar sino in fondo.[89] Il male è un terribile consequenziario, e le colpe [95] hanno come una tendenza a innanellarsi l'una nell'altra e formare una strana catena, che più s'allunga e più si fa tenace. La sterminata catena delle colpe sue l'Innominato può scorrere con lo sguardo tutta intera, anello per anello, «indietro indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza»: la peccaminosa sua vita si svolge come un sorite insino al giorno in cui egli s'avvede che le premesse son false. In quel giorno il ravvedimento si compie.
Questo ravvedimento ha una occasione immediata e una preparazione remota.
L'occasione immediata la porge la vista di Lucia, rannicchiata in terra... raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava tutta; la porgono quel suo rizzarsi inginocchioni, e quel giunger le mani, e quelle semplici parole: son qui: m'ammazzi; lo spettacolo doloroso della debolezza innocente, che, sopraffatta ed offesa dalla violenza, non insorge, non impreca, ma si umilia, e chiedendo misericordia, perdona. A quella vista, a quelle parole, il fiero uomo non può non avvedersi di una come sproporzione mostruosa, ch'è tra la forza adoperata da lui, e la condizione di colei contro cui l'ha adoperata. E quella sproporzione deve apparirgli come una viltà, tanto più spiacente al suo orgoglio, quanto il suo orgoglio è più rigido e il suo coraggio più schietto; quel coraggio, che per addimostrarsi nella forma sua più risoluta e più piena aveva bisogno del pericolo vicino e del nemico a fronte. Forse per la prima volta in sua vita egli sente in confuso che la violenza rimpicciolisce l'uomo, sebbene, a primo sguardo, paja ingrandirlo; sente che la generosità è ancor essa una forma della forza, anzi è la forma più magnifica; sente come una mal definita vergogna, naturale in uomo nobile e d'alti spiriti, d'inferocire [96] contro chi non è in grado nè di offendere, nè di difendersi, simile a quella da cui avrebbe potuto esser colto un cavaliere antico in sull'atto d'assaltare con l'armi un inerme. E di quella vergogna nasce una certa esitazione, come un leggiero smarrimento, che gli traspare dal volto, che gli stempera il suono della voce, e di cui Lucia ben s'avvede. In cospetto di un nemico forte e superbo egli sarebbe rimasto l'uomo di prima e di sempre; al che accenna egli stesso, quando di Lucia va dicendo tra sè: «Oh perchè non è figlia d'uno di que' cani che m'hanno bandito! d'uno di que' vili che mi vorrebbero morto! che ora godrei di questo suo strillare; e in vece...» In vece, in cospetto di quella povera creatura che mai non l'offese, e contro cui non ha, egli, nè può avere, ragione d'odio o di sdegno alcuna, l'uomo violento si sente disarmato, perplesso, e come involto in un viluppo mal cognito di pensieri e di sentimenti, nel quale più non sa rinvenirsi. E più debbono crescere la irresolutezza e la vergogna di lui l'angosciosa instanza e la sommessa fiducia con cui la poveretta gli si raccomanda, ricordandogli ch'e' può ordinar ciò che vuole e dispor come vuole, e che tutto dipende da un suo cenno; scongiurandolo di non soffocare una buona ispirazione; mostrandosi persuasa ch'egli ha buon cuore, che sentirà compassione di lei, che non vorrà farla morire. Qui segue un fatto psichico delicatissimo, ma pressochè necessario, data la natura dell'uomo, nobile intimamente, e non intimamente ribalda. Egli è uso a concedere ajuto a chi ne lo chiede. Un segno della sua potenza, di quella potenza ch'è manifestazione ed esplicazione della volontà sua e del suo orgoglio, fu sempre la prontezza con cui concesse altrui la protezione invocata. Ne soccorse tanti, a ragione o a torto, in sua vita! perchè proprio a Lucia dovrebbe ora ricusar la sua grazia? Forse per rispetto all'impegno preso con Don Rodrigo? Ma, dirà egli stesso, chi è Don Rodrigo? E l'uomo forte e superbo si sentirà naturalmente inclinato ad imporre la volontà propria piuttosto al potente che al debole. Fare stare a segno i potenti e i prepotenti era una sua passione antica.
Lucia ha prodotto nell'animo dell'Innominato una impressione profonda e nuova. L'immagine di lei lo persegue, non lo lascia prender sonno: a un certo punto egli grida: «Non son più uomo, non son più uomo!» Ma s'inganna così pensando e dicendo. Egli è uomo ancora, e, nella sostanza, è lo stesso uomo di prima. Lucia non ha fatto se non isconnettere e dissestare alquanto la compagine dello spirito di [97] lui, in guisa che vi si possa inserire alcun che di nuovo, e gli elementi del carattere possano stringersi in nuova coordinazione[90].
Ma il ravvedimento, cui porge immediata occasione Lucia, ha pure una qualche preparazione remota. Per essere esatti, bisogna dire che da Lucia la compagine psichica dell'Innominato riceve un colpo sodo e repentino; ma che, già da più tempo, quella compagine aveva cominciato ad allentarsi leggermente, in virtù di un lavorio sordo e profondo, non avvertito per altro segno che per un po' di stanchezza e un po' d'inquietudine. Se ne ha la prova nella precipitazione con cui egli aveva accettato di far rapire Lucia per conto di Don Rodrigo, e in quel porsi subito nella condizione di non potere più dare addietro, di dover mantenere a ogni costo l'impegno, come usa far l'uomo che cominci a dubitare di sè, e a sè stesso non voglia mancare. Già aveva cominciato «a provare, se non rimorso, una cert'uggia delle sue scelleratezze»; già queste opprimevano d'un peso incomodo, se non la sua coscienza, almeno la sua memoria. Data a Don Rodrigo la parola che lo legava, aveva provato, non pentimento, chè ancora questo non gli poteva entrare nell'animo, ma dispetto. «Una certa ripugnanza provata ne' primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto, tornava ora a farsi sentire. Ma in que' primi tempi, l'immagine d'un avvenire lungo, indeterminato, il sentimento d'una vitalità vigorosa, riempivano l'animo d'una fiducia spensierata: ora all'opposto, i pensieri dell'avvenire erano quelli che rendevano più noioso il passato. — Invecchiare! morire! e poi?» — Cominciava ad avere certi momenti d'abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, nei quali quel Dio che egli non s'era mai curato nè di riconoscere nè di negare, gli gridava dentro: Io sono. Cominciava a sentirsi come perduto in una gran solitudine muta ed oscura, senza famiglia, senza amici veri, senz'alcuna dolcezza, con troppo passato dietro di sè, con troppo poco avvenire dinanzi. La fibra corporea è salda ancora e vigorosa; ma la fibra morale è spossata un tantino; ed egli se ne potrebbe avvedere dallo sforzo che gli costa il volersi in tutto serbar quel di prima e dal non potervi riuscire.
Questa poca spossatezza (chè molta ancora non è) ci lascia intendere come quell'animo, già così saldo e quadrato, possa aprirsi [98] a impressioni e ad influssi che appena appena, in altri tempi, l'avrebbero tocco e sfiorato. Le nature forti, ch'è quanto dire le nature autonome, non cedono alla suggestione, la quale, considerata sotto certo aspetto, è, come fu notato acconciamente, una trasmutazione, mercè la quale un organismo meno attivo tende ad armonizzarsi con un organismo più attivo. Or ecco che noi vediamo l'animo dell'Innominato lasciarsi penetrare alquanto dalla suggestione, a far manifesto che la sostanza sua non è più così intera e compatta come fu innanzi. Quel duro metallo è come serpeggiato di screpolature sottili. Il Nibbio ha confessato al padrone d'aver sentita pietà di Lucia, quella pietà che, se uno la lascia prender possesso, non è più uomo. E la pietà di quel bestione del Nibbio divien suggestiva pel padrone, che vi ripensa vegliando, e ripensandovi, ripete le parole di quello: uno non è più uomo; è vero, non è più uomo! Così quelle parole della povera Lucia: Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia! tornano, nel silenzio della notte, a sonargli all'orecchio, non con quell'accento d'umile preghiera, con cui erano state proferite, ma con un suono pieno d'autorità, e che insieme induceva una lontana speranza.
Sciocchezze come quelle che allora gli tolgono il sonno, già altre volte, egli dice, gli erano passate pel capo, e s'erano poi dileguate, senza lasciar segno del loro passaggio; ma quelle di ora non si dileguano, perchè Lucia ha dato loro occasione di ficcarsi più addentro nell'anima turbata, e di far quasi un nodo da non potersi più sciogliere. Una nuova coscienza era già spuntata in quell'anima, e già due volte aveva fatto udir la sua voce, quando, alla risoluzione che l'Innominato stava per prendere, di porre senz'altro Lucia nelle mani di Don Rodrigo, aveva opposto un no preciso e imperioso. Con rapido, irresistibile processo, quella coscienza si slarga, si rafforza, s'illumina; nello spazio di una notte essa appare organata e compiuta, perchè gli elementi tutti onde doveva formarsi preesistevano già, sebbene oppressi e dispersi, nello spirito entro a cui si produce. Allora essa si fa incalzante e leva alta e paurosa la voce. Che ne può, che ne deve seguire?
[99]
Da prima un formidabile combattimento interiore, un cozzo di pensieri e di sentimenti contrarii, uno spingersi innanzi e un subito dare addietro, un volere e un disvolere, uno sperare e un disperare, un essere e un non essere. L'Innominato non è già più quel di prima; ma non è, nè può essere ancora, quello di poi. «Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desideri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt'a un tratto restio per un'ombra, non voleva più andare avanti. Pensando alle imprese avviate e non finite, in vece d'animarsi al compimento, in vece d'irritarsi degli ostacoli (chè l'ira in quel momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento dei passi già fatti. Il tempo gli s'affacciò davanti vôto d'ogni intento, d'ogni occupazione, d'ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l'ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo». E l'ossessione cresce, cresce l'angoscia: tutto l'irreparabile e mostruoso passato gli si risolleva dinanzi, lo preme, lo avvolge, lo affoga. Finalmente il rimorso addenta con zanne di belva quel cuore che fu sì gran tempo invulnerato e invulnerabile. Vinto dalla disperazione, l'uomo che non temè mai di nessuno e di nulla ha terror della vita, terror di sè stesso, impugna un'arme, cerca, rimedio estremo, la morte; ma in quella appunto un nuovo pensiero, un nuovo e più orribile dubbio, il gran dubbio di ciò che possa esser di là, gli guizza nell'anima, gli ferma la mano, gli mostra chiuso fors'anche quell'unico scampo, lo piomba in un'angoscia più disperata e più nera. «Lasciò cader l'arme, e stava con le mani ne' capelli, battendo i denti, tremando».
Crisi violenta in uomo violento, ma che appunto perchè violenta, non può troppo durare; e non può troppo durare contro una volontà che se ha mutato, per dir così, di quadrante, è rimasta tuttavia diritta e inflessibile come prima.
Fu detto la volontà essere il germe della morale, e fu detto il vero. Non si dà forte morale senza forte volere; nè il rimorso e il pentimento possono essere molto gagliardi in animo non gagliardo. [100] Le nature salde ed intere, gli uomini che si dicono tutti d'un pezzo non s'adattano ai lunghi tergiversamenti, non s'appagano de' ripieghi, detestano l'indeterminato e l'ambiguo. L'Innominato non è di razza di simulatori; non armeggia di sofismi, non cerca scuse e accomodamenti, non inganna sè stesso. A sè stesso egli fu consentaneo sempre: non può patire di sentirsi scisso interiormente, fatto miserabil teatro di una oscura anarchia che pare una sfida al suo talento di dominazione, alla sua forza, al suo orgoglio. Egli soffre; ma non è di tal tempra che possa e voglia aspettare a lungo, passivamente, la cessazione della sofferenza. Di quello stato vergognoso, non men che crudele, gli bisogna uscire risolutamente e presto; e se ad uscirne non gli offre via sicura la morte, bisognerà che gli offra via sicura la vita. Trovata la via, egli ci si metterà con la risolutezza ordinaria, col consueto ardimento, senza più fermarsi, senza più voltarsi indietro.
Accade spesso ai violenti, in cui sia pari all'orgoglio il bisogno e il sentimento della indipendenza, di ribellarsi a quegli stessi principii a cui conformarono lungamente la vita, quasi riconoscendo in quelli una forza tirannica che li soggioghi. Ripensando alla sua vita passata, alla lunga sequela di colpe che s'intreccia ai suoi giorni, l'Innominato può pensare a una quasi necessità e fatalità di delitto, natagli dentro senza che egli stesso ne possa intendere la ragione; ma un sì fatto pensiero deve, di per sè solo, bastare a ferire il suo orgoglio, a sferzare la sua volontà. Come? egli che tutto potè ciò che volle, non potrà dare alla propria vita un nuovo indirizzo, una regola nuova? non potrà trionfare di sè stesso dopo aver trionfato di tutti e di tutto? non potrà riscattarsi da quella malvagia potenza che già sì gran tempo lo tenne soggetto, e che minaccia di farlo suo schiavo in eterno? Come? egli che si ribellò a Dio per impazienza di servitù e per impeto di tracotanza, dovrà servire al diavolo senza fine? dovrà, egli insofferente d'ogni ritegno, patire un perpetuo castigo in un carcere disperato? E di tutto il suo volere e operare dovrà esser questo il fine ed il frutto, durar ne' secoli de' secoli suddito vinto e impotente di vinto e impotente signore?
Oh, no! La fede, che appena rinasce, può essere ancora nell'Innominato assai fievole e incerta; può essere ancora in lui poco acceso lo zelo del bene, poco vivo e risoluto il desiderio della espiazione; ma già tutta la sua persona morale, sollecitata dalle antiche energie, dagli stimoli antichi, insorge contro quella oscura e maligna tirannide, si [101] accampa in un atteggiamento di sforzo supremo e magnifico; non ancor preparata alla preghiera e all'umiliazione, pronta già, come sempre, alla sfida e al combattimento. In questo nuovo Capaneo la superbia non è per anche ammorzata; ma, dopo essersi volta a sfidare i numi, si volge ora a sfidare gli avversarii dei numi. Questo nuovo Farinata ha lo inferno in gran dispitto già prima d'entrarvi.
L'indole dell'Innominato non è di quelle che diconsi impulsive, la cui nota più spiccata sembra essere la instabilità; e l'anima di lui non può durare a lungo in una condizione d'atonia morale. Egli non è uomo in cui possa il capriccio, che presto vanisce senza lasciar segno di sè: in lui non si vedono se non impulsioni durevoli, coerenti, coordinate; volizioni che muovono da uno stabile principio, e tutte vanno diritte e spedite al segno. Egli sente per maniera d'istinto ciò che Plutarco espresse con belle parole: potere la volontà fare un eroe o un dio d'un uomo simile ad una belva. Avvertita la necessità del ravvedimento, l'Innominato senz'altro si ravvede; e comincia il ravvedersi come si conviene alla natura sua passionata, focosa e violenta. I desiderii di lui sono intensi e indomabili, e vogliono essere appagati presto e per intero. Presa la risoluzione di liberar Lucia, egli par che frema dell'indugio, e che voglia acchetar sè stesso col dire: «La libererò sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate». La sua diventa una rabbia di pentimento: l'impulsione degenera in ossessione, sforza alle opere, non soffre ritardo.
Col sorgere del nuovo giorno, l'anima già in parte mutata s'apre a nuovo mutamento, e ciò in grazia di una seconda occasione, diversa molto dalla prima, che ho accennata, ma non meno acconcia e propizia di quella.
Che l'uomo antico perduri, per molta parte, nel nuovo, anche dopo la battaglia di quella notte, ci è mostrato da un fatto. Uno scampanio festoso risuona e si propaga nell'aria. L'Innominato salta fuori del letto, corre a una finestra, guarda giù nella valle, e vede [102] di molta gente che s'accoglie e s'avvia, «tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un'alacrità straordinaria». E le sue prime parole son degne del bandito superbo: «Che diavolo hanno costoro? che c'è d'allegro in questo maledetto paese? dove va tutta quella canaglia?» Ma saputo che cagione di quello scampanare e di quello andare, e di tutta quella festa è il cardinale Federigo Borromeo, altre ne pronunzia, delle quali, parte esprime un senso di dispetto nato dal contrasto fra l'allegrezza di quella canaglia e il rodimento proprio, e, più confusamente, dal contrasto fra la condizion di quell'uomo, verso cui tutti corrono, e la condizion di lui Innominato, da cui tutti rifuggono; parte esprime la speranza che quell'uomo possa dire anche a lui una di quelle parole che consolano, dànno la pace e l'allegrezza. L'angosciosa notte che ha passata vegliando deve avergli cresciuto nell'anima il terror della solitudine, deve averlo fatto più accessibile a quell'influsso di suggestione che sempre muove potente dall'operare delle moltitudini. Vanno tutti a vedere il cardinal Federigo; ebbene, ancor egli ci andrà, dopo aver lasciate per Lucia parole amorevoli che la rassicureranno. Il proposito di liberare Lucia, e il proposito di visitare il cardinale s'integran l'un l'altro.
E a visitare il cardinale egli va com'uno che sia portato per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno. Al primo incontrarsi con quello, egli non potrà reprimere in cuor suo un sentimento di stizza e di vergogna superba; ma sarà come l'ultimo ribollimento delle antiche passioni, come l'ultima ribellione dell'uomo antico al nuovo. L'uomo nuovo ha ereditata la volontà dell'antico, e se ne giova per combattere questa suprema battaglia, riportare questa suprema vittoria. Il cardinal Borromeo, il quale mostra di sapere assai bene che le testimonianze di stima sono tra le forme più efficaci di suggestione, quando si tratti di educare o di convertire, il cardinal Borromeo di quel fatto s'avvede, e parla della sicurezza d'animo, della volontà impetuosa, della imperturbata costanza dell'Innominato come di qualità e d'energie, da cui può venir tanto bene in avvenire quanto male già venne in passato, e fa vedere Dio glorificato da un nuovo uso di quelle, e l'Innominato stesso più grande assai nella virtù di quanto sia stato mai nella colpa. Il cardinal Borromeo non tenta di spezzare quella volontà che già da sè stessa si volge al bene, e non tenta nemmen di deprimere quell'orgoglio, cui le grandi imprese debbon [103] piacere naturalmente. La conversione dell'Innominato s'ha da compiere in grazia di quella volontà e di quell'orgoglio: il pianto dirotto che manifesta la conversione compiuta, scioglie in lui ogni avanzo di malvagia passione; non iscioglie quella volontà rettificata, quell'orgoglio purificato.
L'Innominato può farsi cortese ed umile con Don Abbondio, prima quando gli cede il passo, poi quando gli tiene la staffa; può chinare la fronte fin sulla criniera della mula quando passa davanti alla porta spalancata della chiesa; può con lo sguardo atterrato e confuso chieder perdono a Lucia, e ajutarla, con una gentilezza quasi timida, a entrare in lettiga; ma non si creda che quell'animo sia svigorito, che il leone sia diventato un agnello. Già nello andar su al castello, egli aveva, solo con le occhiate, fatto intendere a' suoi bravi di non muoversi; il che vuol dire che quelle occhiate serbavano l'espressione e la forza di prima. Ajutato Don Abbondio a rimontar sulla mula, risalito egli stesso a cavallo per accompagnare i suoi protetti e tornare a Federigo, egli riappare quello di un tempo: il suo sguardo ha ripreso la solita espressione d'impero, e Don Abbondio avverte tra sè che a tenere a segno i bravi non ci vuol meno di quella faccia lì. Al cardinale e ai commensali egli si mostra ammansato senza debolezza, umiliato senza abbassamento.
Il discorsetto che la sera stessa fa ai bravi, e il tono con cui lo fa, mostrano quanta parte dell'uomo antico persista nel nuovo. Ai bravi non doveva parere ammansato e umiliato gran che. «Per quanto vari e tumultuosi fossero i pensieri che ribollivano in que' cervellacci, non ne apparve di fuori nessun segno. Erano avvezzi a prender la voce del loro signore come la manifestazione d'una volontà con la quale non c'era da ripetere: e quella voce, annunziando che la volontà era mutata, non dava punto indizio che fosse indebolita. A nessuno di loro passò neppur per la mente, che per esser lui convertito si potesse prendergli il sopravvento, rispondergli come a un altr'uomo. Vedevano in lui un santo, ma un di que' santi che si dipingono con la testa alta e con la spada in pugno». E che della spada avrebbe ancora, a un buon bisogno, saputo servirsi, e' lo mostra al calar delle bande alemanne, quando s'appressa pericolo di invasione e di guerra.
Se si potesse fare, senza andar troppo per le lunghe, sarebbe forse opportuno ora mostrare come la conversione di fra Cristoforo, mentre somiglia per certi rispetti alla conversione dell'Innominato, sia, per [104] altri, molto diversa da quella[91]; e perchè Don Abbondio, ch'è, per così dire, il rovescio dell'Innominato, rimanga, anche dopo la solenne predica del cardinal Federigo, quello di prima, quello di sempre.
Per concludere: l'Innominato diventa un santo in virtù di quelle stesse energie che già fecero di lui un demonio. Dopo la conversione gli elementi essenziali del suo carattere non si può dire che sieno mutati: la forza non è più violenza, ma rimane pur sempre forza. Volendo parlare per metafora, e sorpassando alquanto il giusto segno del vero, si potrebbe dire che l'antico tempio rimane, quanto a struttura e a proporzioni, immutato; che solo vi si adora un nuovo Iddio. In altri casi, profondamente diversi da quello che abbiamo sin qui esaminato, com'è nuovo il Dio, così è nuovo il tempio.
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Il Manzoni fu, tra l'altro, un grande umorista; il più grande ch'abbia prodotto l'Italia; uno dei più grandi che sien nati al mondo. Tutto in lui cooperava a renderlo tale: la bontà dell'animo e l'acume della mente; la vivezza del sentimento e la mancanza di sentimentalismo; la chiara visione delle cose del mondo e la inoperosità; lo scetticismo che non esclude la fede e la fede che non diventa credulità. Il Manzoni è un grande umorista perchè è un realista e un idealista al tempo stesso; ha, cioè, vivo il senso del reale e chiara la nozione dell'ideale. L'umore scaturisce appunto dal cozzo del reale e dell'ideale, quando avvenga in una mente equilibrata e serena: perciò, nè il realista puro, nè il puro idealista lo possono avere. Fu detto da taluno che l'umorismo è inconciliabile col sentimento cristiano; ma se l'umorismo nasce da contrasto fra l'ideale e il reale, e se richiede certo sentimento della necessaria imperfezione della umana natura, e ancora della universa vanità delle cose finite, non si vede dove possa stare la ragione della inconciliabilità; e se si considera che l'umorismo suppone la simpatia e la pietà, sembra che il sentimento cristiano debba piuttosto favorirlo che contrariarlo. E di vero, l'umore è assai più dei moderni che degli antichi; e il Cervantes, il Swift e lo Sterne furono buoni cristiani (anzi parroci gli ultimi due); e Gian Paolo, il quale espressamente definì l'umore un comico romantico, disse non potersi dare umore senza l'idea dell'infinito. L'umore è affatto opposto all'ironia, alla parodia, al sarcasmo, come già ebbe a notare lo Schopenhauer: perciò il Swift non è sempre umorista; il Voltaire è di rado; e bisogna andar cauti [108] nel dire che Arrigo Heine sia. L'umore non esclude punto in chi l'accoglie il sentimento della superiorità propria, anzi lo richiede; ma questo sentimento dev'essere senza burbanza e senza asprezza, quale si conviene a uno spirito che, tutto intendendo, tutto perdona. Pardon's the word to all, dice un personaggio dello Shakespeare, e perdonare sempre, sempre, tutto, tutto, sono le ultime parole di Fra Cristoforo. Il Manzoni non pretende di dominare i proprii personaggi con lo scherno e col disprezzo, come usa il Flaubert. Egli si studia di tenersi allo stesso loro livello, si contempla in essi, e sempre, quando ride di quelli, ride anche un pochino di sè. L'umore non nasce se non negli spiriti più possenti, più aperti, più generosi; esso è forse la forma più alta di cui si possano velare l'umana sensitività e l'umano giudizio.
Dei personaggi dei Promessi Sposi parecchi sono abitualmente e sostanzialmente umoristici; altri diventano in certe occasioni[92]. Renzo riesce umoristico durante quel suo primo soggiorno a Milano. Così gli uni come gli altri, mentre dànno esempio di debolezze più propriamente e più strettamente individuali, dànno anche esempio di umana debolezza in genere; onde il lettore che li guarda e gli ascolta e tien loro dietro, nel punto stesso che si abbandona lietamente al riso, non può tenersi dall'esclamare o dal sospirare, con un leggiero spunto di melanconia: umana fragilità! umana miseria!
Ma di tutti que' personaggi il più umoristico è sicuramente Don Abbondio. Anzi, dopo l'inarrivabile ed unico Don Chisciotte, divenuto oramai una specie di entità morale necessaria allo spirito umano e all'umano discorso, credo sia Don Abbondio il personaggio più profondamente umoristico della universa letteratura. E questo, perchè?
Cominciamo dal dire che noi, a ragione o a torto, vogliamo bene a Don Abbondio. Non si dà forse lettore dell'immortale romanzo che al primo accenno che il povero curato sta per rientrare in iscena non si senta tutto esilarare di dentro e non affretti con benevola e giuliva impazienza il momento di rivederne l'aspetto e di riudirne la voce. Gli vogliam bene istintivamente, perchè ci diverte e ci rallegra; [109] ma non gli vogliamo bene per questa ragione soltanto. Le sue disgrazie, che sono in parte immaginarie, non ci rattristano, perchè prevediamo che non gli faranno gran male, e che un uomo come quello non può essere serbato a nulla di tragico e nemmeno di epico; ma ci rincrescerebbe se lo dovessimo vedere in un pericolo grande davvero, maltrattato sul serio, schernito più del ragionevole: e quando pure siam forzati a dirgli che ha torto, che si conduce male, sentiamo di doverglielo dire con moderazione, con bonarietà, senza contristar troppo quella sua canizie, e facendoci forza perchè il rimprovero non vada a finire in una risata. Noi vogliamo anche bene a Don Abbondio per sè stesso, quale la natura e i casi l'han fatto: e com'è, a parer mio, di tutta evidenza che gli voleva bene il Manzoni, il quale sembra che non si sapesse risolvere a lasciarlo in disparte; e come (questo conta ancor più) gli volevano bene coloro stessi a cui aveva con la sua condotta procurato tanti dispiaceri. Renzo e Lucia non son contenti se non sono maritati da lui.
E perchè siamo in tanti a volergli bene? Perchè sentiamo che Don Abbondio non è cattivo, e che a riuscire a dirittura un bravo uomo forse non altro gli manca che un po' di coraggio, e che il coraggio, chi nol sa? uno non se lo può dare. Gli è chiaro che se dipendesse da lui solo Don Abbondio non farebbe male a una mosca. Se dipendesse da lui, e se bastasse il desiderio, Don Abbondio vorrebbe tutti tranquilli, tutti contenti, ed essere l'amico di tutto il genere umano, e che la terra non fosse una valle di lacrime, ma come un'anticipazione del paradiso; dove si potrebbe poi andare con comodo, il più tardi possibile. A desiderar tutto questo ci vuol poco, ma a volerlo e a procacciarlo gli è un altro pajo di maniche. Ad ogni modo, un tal desiderio è già per sè stesso una bella cosa; e il povero Don Abbondio che l'ha, e vede intorno a sè tanti che non l'hanno; tanti che, senza necessità, mettono il mondo a soqquadro; che hanno a noja il bene stare; che potrebbero andare in paradiso in carrozza e preferiscono andare a casa del diavolo a pie' zoppo, Don Abbondio può, con qualche ragione, stimarsi migliore di molti altri, vantarsi del suo buon cuore, e credere sinceramente con Perpetua (le illusioni sono facili in queste materie, e le esagerazioni ancor più) credere che se pecca è per troppa bontà. Gli è certo che Don Abbondio odia tutti i birboni, non solo perchè son diavoli, che non lasciano in pace nessuno, capaci di mandare di quelle imbasciate ai [110] poveri curati, ma perchè sono birboni, nemici di Dio, e andranno tutti all'inferno. Il cardinale gli rinfaccia di avere ubbidito all'iniquità, ed è vero, pur troppo. Ma intendete bene, ubbidito. Dall'ubbidire al far di suo ci corre. Allorchè, avendo ancora nelle orecchie le minacce dei bravi, gli balena l'idea che avrebbe potuto suggerire a quei signori di portare ad altri la loro imbasciata, e cioè a Renzo, o ad Agnese, o a Lucia, che fa Don Abbondio? caccia via quell'idea, perchè s'accorge che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore dell'iniquità è cosa troppo iniqua. E quando pensa che ad altri potrebbe parere ch'egli volesse tenere dalla parte dell'iniquità, che dice il malcapitato? Oh santo cielo! Dalla parte dell'iniquità io! Per gli spassi che la mi dà!
Di gran bugie dice Don Abbondio a quel povero Renzo; ma perchè le dice? forse per gusto? le dice per salvar la pelle; e se gli uomini si contentassero di mentire solo quando corrono pericolo della vita, la verità non avrebbe bisogno di star di casa in un pozzo. Del resto, tenete per certo ch'egli sarebbe contentissimo se potesse veder contenti Renzo e Lucia. Di Lucia, quando sa del tiro che le han fatto, e va (sia pure di mala voglia, a cavallo) a torla di prigione, egli sente pietà, e pensa a tutto ciò che quella povera creatura deve aver patito, e le viene innanzi con un viso, anche lui, tutto compassionevole, sebbene sia nata per la sua rovina. Di Renzo dà buone informazioni al cardinale, e, più tardi, si raccomanda, a chi può, perchè gli sia tolta anche quella cattura di dosso. Morto Don Rodrigo, cessato ogni pericolo, ecco saltar fuori, non un Don Abbondio nuovo, ma un Don Abbondio che prima non si poteva vedere, nascosto come era nel vecchio; un Don Abbondio garbato, bonario, amorevole, di una piacevolezza e di una festività da non credere; che vuole a ogni costo maritar lui i due giovani, a cui, in fondo, aveva sempre voluto bene, e ne cura paternamente gl'interessi, sebbene gliene avessero fatti dei tiri... Pur troppo! pur troppo! son que' benedetti affari che imbroglian gli affetti. Ma, direte, si rallegra che Don Rodrigo sia morto. Eh, chi non se ne rallegrerebbe? Se ne rallegra, ma, certamente, gli perdona, e loda Renzo d'avergli perdonato. Loda anche la peste e dice che quasi quasi ce ne vorrebbe una ogni generazione; e perchè? perchè è quella che spazza via tanti birboni. Spazza via anche molti galantuomini; ma s'intende che Don Abbondio non parla per loro. Don Abbondio celebra con tutta sincerità le glorie dei galantuomini, e il successore di Don Rodrigo, [111] tanto diverso da questo, gli sembra, non più soltanto un galantuomo, ma a dirittura un grand'uomo. Don Abbondio non è un malvagio, e se un po' di fiele in corpo lo ha anche lui, quel po' esclude l'assai, e chi non ne ha punto getti la prima pietra. Se lo conoscesse malvagio davvero, il cardinale non gli parlerebbe come gli parla; non si contenterebbe, sembra, di accennar solamente a una possibile remozione da quell'ufficio di cui Don Abbondio ha tradito i doveri.
Ma Don Abbondio è un egoista. Sicuro, ch'è un egoista; ma bisogna distinguere. L'egoismo è di molte maniere: da quello umile e accidioso di chi lascia sistematicamente andare l'acqua alla china, a quello tronfio e furioso di chi mette il mondo sossopra. Da Taddeo e Veneranda si va su su, per gradi, sino a Marozia e a Napoleone. L'egoismo di Don Abbondio è un egoismo povero, timido, mingherlino, casalingo, pedestre. Considerate, di grazia, il concetto ch'egli s'è formato della felicità, i suoi bisogni, i suoi desiderii. Si può essere più modesto e più discreto? Don Abbondio non vuol ricchezze, non sogna onori, non si cura di vantaggi. Curato di campagna è, curato di campagna morrà; contento dell'oscuro suo stato, sebbene i curati sieno servitori del comune, condannati a tirar la carretta. Che ai cardinali si dia della signoria illustrissima o dell'eminenza, a lui che può importare? Che può importare a lui che vescovi, abati, proposti, canonici s'arrabattino e s'azzuffino per un titolo, e che il papa li contenti o non li contenti? Gli uomini son fatti così; sempre voglion salire, sempre salire.... Ma Don Abbondio non vuole nè salire nè scendere; Don Abbondio vuol rimanere dov'è, senza cercar nessuno, senza chiedere altro che d'esser lasciato vivere, felice di sgattajolare, di rimpiattarsi, d'essere piccolo, oscuro, negletto, di non essere veduto e neanche saputo. Oh se fossi a casa mia! ecco il grido che gli prorompe dal fondo dell'anima e che veramente compendia tutte le sue aspirazioni.
I grandi egoisti vorrebbero tutto per loro, e, o con l'astuzia, o con la forza, pigliano dell'altrui quanto più possono, e giungono persino a dolersi che non ci sia che un mondo solo da conquistare. Don Abbondio non vuole conquistar nulla; nemmeno il paradiso, perchè spera che il buon Dio glielo darà senza farlo troppo stentare. Don Abbondio non solo non prende e non desidera la roba altrui, ma a chi la tiene ingiustamente non domanda nemmeno la roba propria; e perda il fiato Perpetua a dargli del baggeo. Che questa non sia generosità pura, d'accordo; ma che non abbia altra ragione [112] se non il desiderio di scansare le brighe e le dispute, non pare. Se Don Abbondio ci tenesse tanto alla roba, se ci tenesse come ci tengono gli avidi, qualche sfogo con Perpetua lo dovrebbe pur fare (e già ben altri ne aveva fatti!), e non contentarsi di dire che que' ch'è andato è andato. Lo vogliono avaro, e tirano fuori la storia delle venticinque lire dovute da Tonio, e della collana d'oro data in pegno, e quelle sollecitazioni e quegli ammonimenti: Tonio, ricordatevi: Tonio, quando ci vediamo per quel negozio? e quel modo di contar le berlinghe nuove, voltandole e rivoltandole, e quella maniera di aprir l'armadio, riempiendo l'apertura con la persona. Ma tutto ciò prova che questa volta almeno Don Abbondio vuol avere il suo, e che Don Abbondio è sospettoso: che sia poi anche avaro, quel che si dice avaro, non prova. Le venticinque lire Tonio le doveva per fitto di un campo, diciamo meglio, del campo, probabilmente unico, di Don Abbondio, e pare le dovesse da un po' di tempo. Ora, notate che Don Abbondio non si fa dare un soldo d'interesse: è così che fanno gli avari? E vi pare che se fosse uno di quegli avari bollati ed autentici, Don Abbondio potrebbe consegnare tutto il suo tesoretto a Perpetua, e lasciare che la lo vada a sotterrar da sola (perchè gli è chiaro che ci va sola) appiè del fico? Non dunque avarizia propriamente, ma apprensione parsimoniosa e gretta d'uomo che non sa procacciare, non sa ajutarsi, e perciò tien di conto quel poco che ha, e quando la soldatesca gli ha disfatta la casa, pena un pezzo a rifar usci, mobili, utensili con denari presi in prestito.
Quali sono per Don Abbondio i piaceri della vita? un desinaretto gustoso, ma senza pretese; un fiaschetto di vino sincero (più di una botticina già non ne aveva); una passeggiata per quei viottoli, da' quali si vede il lago; un po' di lettura, quando le circostanze non sieno tali da lasciargli appena testa d'occuparsi di quel ch'è di precetto; un buon chilo, un buon sonno; e basta. Questi piaceri non si possono godere senza quiete, e perciò la quiete è per Don Abbondio la condizione prima e sine qua non della felicità, quella che dev'esser mantenuta e tutelata con ogni studio contro i nemici così interni come esterni. Nemici interni Don Abbondio non ne dovrebbe avere, e non ne avrebbe, se dipendesse dalla sua sola natura. Egli è nato per essere l'amico di sè medesimo, sempre in pace con sè stesso; ambizioni, gelosie, dubbii tormentatori, rimpianti amari, rodimenti secreti, son tutte diavolerie ch'egli non conosce, o non dovrebbe conoscere, nemmeno di nome. Se ne ha, gli son venute di fuori. [113] Il mondo, ecco il grande nemico; anzi ecco l'accolta e la confederazione di tutti i nemici. Come si fa a conservare la propria quiete in un mondo pien di furore e di trambusto, che di quiete non ne vuol sapere? Si ha un bel tirarsene fuori, mettersi da banda, lasciare che ci pensi chi ci ha da pensare, dire che gli ecclesiastici non devono mischiarsi nelle cose profane, sentenziare che la patria è dove si sta bene. Trovarla, quella patria! Il mondo non vi lascia tranquilli; se voi lo fuggite, ecco che vi viene a cercare e vi tira in ballo. Per quanto s'ingegni, Don Abbondio non può fare che, per un verso o per un altro, qualcuna di quelle innumerevoli punte di cui il mondo è armato come un istrice, non lo frughi e non lo punzecchi. Ed ecco perchè Don Abbondio si rode, e ha, di solito, quella faccia tra l'attonito e il disgustato. Ma quella faccia non l'ha sempre, e anzi non è la faccia sua naturale. Come appena la burrasca è passata, Don Abbondio si rasserena, prende un'aria gioviale, ride, scherza, dice che s'ha a stare allegri il più che si può; e a questo fine si capisce che una delle sue grandi regole dev'essere di non rimestare le cose vecchie, che non han rimedio. Perpetua è morta di peste. Povera Perpetua! Credete voi che Don Abbondio n'abbia a fare il panegirico, intenerirsi, amareggiarsi? Se viveva, questa è la volta che si maritava. È morta. Non ci pensiamo più. Dio l'abbia in gloria.
La più gran virtù che secondo Don Abbondio gli uomini possano avere è, in comune con le mule, d'essere quieti. E per questo, se i birboni gli danno molto travaglio, i santi gliene dan poco meno, e si vede che Don Abbondio non vorrebbe avere da fare nè con gli uni, nè con gli altri. La santità è rinunziamento di sè medesimo, zelo operoso del bene, spirito di sacrifizio; in una parola, eroismo. I santi come Fra Cristoforo e Federigo Borromeo meritano d'essere chiamati campioni e atleti di Dio. Ma appunto questi atleti e campioni hanno coi facinorosi una somiglianza molto sgradevole. Non possono star tranquilli essi, e non vogliono lasciar tranquilli gli altri. Sempre sono in orgasmo e in faccenda, tira di qua, premi di là, vogliono rifare il mondo; e lascian poi alle volte le cose più imbrogliate di prima. E il bello, anzi il brutto, si è che non fanno nessun conto della propria vita, e pochissimo dell'altrui, quando si tratta di far trionfare il bene. Sono un gran tormento! Ma poi sono anche curiosi: purchè frughino, rimestino, critichino, inquisiscano; anche sopra di sè. E come si scaldano la fantasia! Un malandrinaccio [114] viene a dire che s'è convertito, e loro gli buttano le braccia al collo: quella, a casa degli uomini di giudizio, si chiama precipitazione. E le conversioni? Sono una gran bella cosa. Nessun dubbio: Don Abbondio vorrebbe che tutto il mondo si convertisse (nè per questo è poi necessario di diventar santi); ma uno non si può convertire quietamente? senza far tanto chiasso? senza scomodar tanta gente?
Agnese, stizzita, pensa che Don Abbondio ha sempre sacrificati gli altri; questo è un po' troppo. Bisognerebbe dire che sempre, quando s'è trattato di scegliere tra il sacrificio proprio e l'altrui, Don Abbondio ha scelto l'altrui. Brutto egoismo, ma non del più brutto. E a renderlo men brutto sta il fatto ch'egli non se ne conosce colpevole; e non conoscendosene colpevole, può con tutta sincerità, se non con buona ragione, meravigliarsi della durezza degli altri, e che ognuno pensi solamente a sè, e che tutti abbiano così poco cuore; e stimarsi in credito verso Renzo e Lucia; e dire con un'aria compunta di tribolato ch'è il suo pianeta che tutti gli abbiano a dare addosso. L'egoismo di Don Abbondio è assai più un egoismo passivo che un egoismo attivo. Considerate che quasi tutti i suoi peccati sono peccati di omissione.
Ed ora veniamo a quella che non è la sola, ma certamente è la cagione massima e incessante d'ogni suo procedere.
Don Abbondio è egoista per paura. Don Abbondio nacque (su di questo non può cader dubbio) con la paura in corpo, e la paura gli s'accrebbe via via, per lo spettacolo delle cose del mondo, per la praticaccia (non oso dire esperienza) della vita, pel sentimento acuto, insistente, angoscioso, d'essere come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro; ed egli (anche su di questo non può cader dubbio) non fece mai il menomo sforzo per vincerla, o, almeno, per non lasciarla crescere. La paura è la parte meglio organata, più viva e più stabile della sua coscienza; tanto che, quand'egli non abbia proprio altro da fare, come durante quei giorni passati nel castello dell'Innominato, essa, insiem col breviario, gli tiene compagnia e gl'impedisce di annojarsi.
La paura riesce sempre comica quando si lasci scorgere dove non è pericolo, o quando al pericolo non paja proporzionata, o comechessia si comporti in modo disdicevole al tempo, al luogo, alle persone, all'occasione. La paura di Don Abbondio è comica perchè è esagerata, permanente, intrattabile, spesso spesso allucinata e chimerica. [115] Direi ch'è la paura integra e totale, perchè non si vede come Don Abbondio possa essere mai affatto sgombro di paura, e qual cosa al mondo sia così piccola e innocua che non possa in un qualche momento far paura a Don Abbondio. Perpetua trova le parole giuste quando scappa a dire: Se ha poi paura anche d'esser difeso e aiutato... L'esempio di Don Abbondio conferma in parte l'opinione del filosofo scozzese Dugald Stewart, il quale disse la paura un male della fantasia. La fantasia di Don Abbondio non s'impressiona dei soli pericoli presenti e reali, ma ne immagina molti di possibili e di remoti, e in ogni cosa fiuta il malanno, sospetta l'insidia. Ricevuto quel terribile avvertimento dei bravi, Don Abbondio, dopo lungo travaglio e laceramento di spirito, riesce a prender sonno; ma che sonno! che sogni! Bravi, Don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate. Sin qui nulla di strano. In questo caso quella povera fantasia edifica, per così dire, sul sodo; ma molte altre volte, anzi il più delle volte, fabbrica in aria. L'Innominato s'è convertito: ha fatto benissimo; ma sarà poi convertito davvero? e, dico, si mantiene? L'Innominato si mette la carabina ad armacollo: Ohi! ohi! ohi! cosa vuol farne di quell'ordigno costui? L'Innominato ha dato le prove della sua conversione: sia ringraziato il cielo! ma se quella marmaglia di bravacci venisse a sapere?..... se s'immaginassero che fosse stato lui, Don Abbondio, a convertirlo?... se presi da un furore bestiale, per vendicarsi, lo martirizzassero?...[93] E Don Rodrigo? che dirà mai di tutta quella faccenda Don Rodrigo?... E se monsignore venisse a sapere tutto l'imbroglio del matrimonio?... Ah! vedo che i miei ultimi anni ho da passarli male! Risoluto, prima di tutti e più di tutti, di fuggire davanti all'esercito invasore, vede, in ogni strada da prendere, in ogni luogo da ricoverarsi, ostacoli insuperabili e pericoli spaventosi. E gli si riaffaccia l'idea del martirio. E gli rispunta dentro il dubbio circa la conversione dell'Innominato. E gli viene il sospetto che l'Innominato voglia fare il re e scendere in campo a far la guerra anche lui, col duca di Savoja, col duca di Mantova, con la Spagna e con l'imperatore. E sogna assalti e battaglie, per quanto giuri a sè stesso che in una battaglia non ce lo coglieranno; e si vede preso tra due fuochi. In mezzo alla desolazione [116] e al lutto della peste gli dà ancor noja la cattura di Renzo, e pensa che questi potrebbe fare qualche sproposito da rovinar lui e sè stesso insieme.
La paura di Don Abbondio è sempre composta di più paure diverse, le quali, quando non sieno manifestate, son sottintese, appunto come possono essere sottintese molte idee in un periodo steso da un uomo di garbo. Queste molte paure non riescono mai a comporsi in una maniera stabile di equilibrio o di dipendenza. Sono in un rimescolamento continuo, si rincorrono, si urtano, si dànno il gambetto. Quella che un momento fa era la prima, adesso è l'ultima; quella ch'era in coda appare in testa. Talvolta entrano l'una nell'altra, come le favole indiane e le scatole giapponesi. Mentre ha indosso quella paura così grande per dover andare in compagnia dell'Innominato, ecco che dentro a quella paura grande se ne caccia una piccola (dato che di piccole per Don Abbondio ce ne possano essere), la paura che la mula abbia dei vizii.
La paura di Don Abbondio diventa anche più comica quando si vede che quelle tante cautele e quelle tante furberiole ch'essa gli vien persuadendo, non solo non bastano a preservarlo da' guai, ma anzi lo fanno incappare in qualche guajo più grosso di quelli che avrebbe voluto fuggire. Facendo di tutto per non avere impicci, egli è sempre negl'impicci. Don Abbondio non s'era fatto prete per vocazione; s'era fatto prete con la speranza di vivere con qualche agio e quietamente, mettendosi in una classe riverita e forte, e non gli era mai passato per il capo che a fare quel mestiere pacifico ci fosse bisogno di coraggio. Quando, udita quell'umile confessione: «Torno a dire, monsignore, che avrò torto io... Il coraggio, uno non se lo può dare», il cardinale chiede a Don Abbondio: «E perchè dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che v'impone di stare in guerra con le passioni del secolo?», Don Abbondio non può non pensare tra sè che, appunto, quel ministero egli lo aveva scelto per non avere a far guerra a nessuno, e con la speranza che nessuno volesse farla a lui. E quando il cardinale, insistendo, gli domanda: Perchè questo coraggio, che vi mancava, non l'avete chiesto a Dio, che certamente ve l'avrebbe dato?, Don Abbondio potrebbe rispondere con tutta sincerità che non pensò a chiedere a Dio una cosa di cui credeva di non avere affatto bisogno. Ora, Don Abbondio, fattosi prete per amor della pace e per evitare i pericoli, viene a trovarsi, appunto perchè è prete, nel più gran travaglio, e nel più gran pericolo di tutta la sua vita. [117] Per fuggire a questo pericolo, Don Abbondio tradisce il proprio officio, inventa pretesti per non maritare i due giovani, si rassicura alquanto sentendosi più esperto delle cose del mondo, più accorto che non un ragazzone che pensa alla morosa; ma poi tanto male gli viene del suo stesso rimedio, ch'egli si pente d'averlo adoperato, ed esclama: gli avessi maritati! non mi poteva accader di peggio. Quando coloro ch'eran fuggiti all'appressarsi dei lanzichenecchi tornano alle loro case, Don Abbondio è l'ultimo a seguirli, l'ultimo ad abbandonare l'asilo che così liberalmente a tutti aveva offerto l'Innominato, e questo per la speranza di assicurarsi meglio da' mali incontri: la conseguenza si è che i primi tornati in paese gli portan via anche quel poco che i lanzichenecchi gli avevan lasciato. Ha dunque ragione Perpetua di dire che s'egli avesse un po' di coraggio avrebbe assai meno guai; ma che ci fan le parole? il coraggio uno non se lo può dare.
La paura di Don Abbondio non è solamente comica, com'è quella di Sancio Panza; è anche umoristica, e in grado superlativo. Don Abbondio e Sancio son tutt'e due paurosi, ma la paura si atteggia in ciascun di essi diversamente e in diverso modo si appalesa. Sancio non pensa a nascondere la propria, ad accattarle scuse, ad ammantarla di decoro. Egli la lascia vedere qual è, indipendente affatto dalla ragione, subitanea ne' suoi investimenti, vile troppo nelle dimostrazioni e negli effetti. Sancio parla molto e volentieri, e con certa sensatezza grossolana, di solito; ma non gli viene in fantasia di fare il chiosatore e l'interprete della propria paura e di raziocinarvi attorno. Egli se la lascia venire addosso come un accesso di terzana, e quando gli è passata, dà una scrollatina e non ci pensa più. Don Abbondio che, o poco o molto, sa di latino, e deve, se non altro per l'uso della confessione, avere qualche famigliarità con le sottigliezze della casistica, e vorrebbe pur sapere chi fu Carneade, Don Abbondio tiene un altro procedere. Egli converte la paura in prudenza, anzi in sapienza; riesce a farsi di una debolezza una virtù, di una vergogna un onore. Initium sapientiae timor Domini: non si può, slargando un poco il concetto, pensare che la sapienza consiste appunto nella paura? Altri l'ha fatta ben consistere nell'inerzia, e altri ancora nell'ignoranza. Gran giudizio bisogna avere, e gran pazienza, chi vuol vivere in questo mondo e tirare innanzi! Credere di potergli tener testa, di vincerlo, di mutarlo, è idea da matti. Non sapete quanto il mondo è più forte di voi? Non sapete che ha il diavolo dalla sua? Dunque? Dunque per non uscire con l'ossa rotte bisogna tenersi in una specie [118] di neutralità disarmata, tergiversare, dissimulare, scansare, inchinarsi, cedere, nascondersi, e, in caso di necessità estrema, mettersi col più forte[94]. Ricordate che tornando bel bello dalla passeggiata, per quella stradicciuola di montagna, Don Abbondio, prima d'incontrarsi coi bravi, buttava con un piede verso il muro i ciottoli che gli facevano inciampo al cammino? si può credere che sieno stati quelli i soli ostacoli che in sessant'anni di vita egli abbia rimosso da sè con animo deliberato, con fare risoluto.
Don Abbondio finisce che forse non sa più nemmeno d'essere quel pauroso che tutti vedono in lui. Oltre di ciò, dato alla paura il titolo di prudenza e di sapienza, egli non ha più nessuna ragion di nasconderla; anzi ne ha parecchie di lasciarla vedere, come una virtù da farsene bello, e acquista il diritto di censurare chi non si regola come lui, chi manca di giudizio, chi compera gl'impicci a contanti. La propria paura, o prudenza che s'abbia a dire, Don Abbondio l'ha in conto di cosa, non solo ragionevole e confacente, ma legittima e giusta; e perciò strasecola quando il cardinale gli dice sul viso che anche a costo della vita avrebbe dovuto fare il proprio dovere: «Monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire». Quanto questa paura è diversa da quella che così poveramente (bisogna proprio dir così) fu descritta da Teofrasto! quanto è diversa da quella che porse inesauribile materia di riso sulle scene antiche e moderne!
Ma la paura di Don Abbondio tocca il più alto grado dell'umore quando noi consideriamo com'essa contrasta con quel carattere sacerdotale che dovrebbe essere il proprio carattere di lui, con quell'officio che egli tiene assai più che non l'eserciti. Qui abbiam risoluto, anzi violento, il contrasto fra il reale e l'ideale; e per questo rispetto il colloquio fra Don Abbondio e il cardinale, colloquio che parve alquanto lunghetto, alquanto fuor di proposito, a più d'uno, è di capitale importanza, e serve mirabilmente a dare spicco ai due personaggi, a compierne l'immagine morale. Meno ancora che al soldato, è lecito al prete d'aver paura. Il prete parla (o dovrebbe parlare) in [119] nome di una potestà talmente superiore ad ogni potestà terrena; ha (o dovrebbe avere) un'idea così sicura e così efficace della santità del dovere; stima (o dovrebbe stimare) così poco ogni bene e vantaggio mondano e la vita medesima; spera (o dovrebbe sperare) un premio talmente superiore a tutto quanto può perder quaggiù; che qualsiasi atto o pensiero di viltà in lui appare una contraddizione irriducibile, un controsenso, un assurdo. Ora, Don Abbondio è la negazione vivente, parlante, operante dello spirito sacerdotale, quale appunto il cardinale l'intende, e quale dev'essere inteso. Don Abbondio dovrebbe somigliare in qualche modo, sia pur lontano, al cardinale; e non solo non gli somiglia, ma ne dissomiglia tanto che non arriva mai nè a capirlo, nè a indovinarlo.
Così stando le cose, com'è che Don Abbondio non ci diventa odioso? Com'è che quelle stesse mancanze che, commesse da un altro, provocherebbero il nostro biasimo, e non altro che il nostro biasimo, commesse da lui provocano il nostro riso, e quasi non altro che il nostro riso? Perchè saremmo così poco indulgenti con altri e siamo così indulgenti con lui? La ragione è facile a dire. Don Abbondio è uno di coloro a cui si perdona volentieri perchè veramente non sanno quello che fanno. Se egli mancasse al proprio dovere avendo di quel dovere un'idea chiara e precisa; se facesse il male sapendo con certezza di fare il male; noi non avremmo più qui nè un personaggio umoristico, nè un personaggio comico, avremmo un personaggio tragico, o semitragico. Don Abbondio rimane comico ed umoristico a dispetto di tutto, perchè se ha degli scrupoli, se ha qualche piccolo rimorso, crede in bonissima fede di farli tacere con quel suo argomento che quando si tratta della vita...; argomento che a suo modo di vedere (e presumibilmente anche di altri) non ammette replica. Don Abbondio riman comico ed umoristico perchè voi vedete ch'egli è un fanciullon tanto fatto, a cui qualcuno, non si sa chi, insegnò a dir messa, e che a sessant'anni sonati, nonostante i suoi vanti di accortezza, egli è quasi quel medesimo fanciullone che potev'essere a venti. Come vorreste fare a prendervela con uno cui Perpetua fa lezione tutto il santo giorno, ammonendo e rimbeccando, rinfacciandogli d'essersi ridotto a segno che tutti vengono, con licenza, a..., risolvendo, nell'ora del pericolo, di prenderlo per un braccio, come un ragazzo, e di trascinarlo su per una montagna? con uno che s'accorge, tra meravigliato e stizzito, che le ragioni del cardinale sono le ragioni stesse di Perpetua? con uno che, starei per dire, ha fatto il prete senza [120] saperlo? Le parole che sentiva, eran conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d'una dottrina antica però nella sua mente, e non contrastata.
Don Abbondio è in qualche modo il rovescio di Don Chisciotte. Don Chisciotte è sempre pronto ad adempiere i proprii doveri chimerici, checchè gliene avvenga: Don Abbondio cessa di adempiere i proprii doveri reali alla prima minaccia di un pericolo. Don Chisciotte, per troppo animo, passa oltre il segno: Don Abbondio, per manco d'animo, non ci arriva. Don Chisciotte si trincera nell'ideale e non vede più il reale: Don Abbondio si trincera nel reale e non vede più l'ideale. Ma Don Chisciotte e Don Abbondio hanno anche una parte in comune. Entrambi vivono in un mondo pel quale non son fatti e che si burla di loro. Ad entrambi le cose riescono al contrario dell'intenzione.
A finire di rendere umoristica la figura di Don Abbondio abbiamo il fatto che colui che la formò e le diè vita v'infuse dentro qualche parte di sè. Non paja questa una proposizione temeraria, e tanto meno irriverente. Gli umoristi non sarebbero più umoristi se volessero esclusi sè stessi da quel riso ch'e' suscitano e comunicano altrui. Il Manzoni mise di sè più e meno in parecchi de' suoi personaggi: in Don Abbondio mise della propria inoperosità, della propria esitazione, del proprio amor della quiete, del proprio orror degl'impicci; e basta. Ci mise delle sue debolezze; non ci mise nessuna delle sue virtù[95],
[121]
Quello di Don Abbondio è uno dei caratteri più meravigliosi che l'arte abbia mai creati; di una coerenza e consistenza rara; di una vivezza, di una sincerità, di un'evidenza impareggiabile; senza rabberciature, senza rinfianchi posticci. L'animo del lettore vi penetra e vi si assesta come una mano in un guanto. Ognuno sente che Don Abbondio dev'essere stato sempre lo stesso; ognuno è persuaso che egli rimarrà sempre lo stesso. «No signore, no signore», dice quella furbacchiona dell'Agnese al cardinale, «non lo gridi, perchè già quel ch'è stato è stato; e poi non serve a nulla; è un uomo fatto così: tornando il caso, farebbe lo stesso». E noi ne siam più che sicuri, nonostante la compunzione di cui lo vediamo penetrato dopo la predica del cardinale, e nonostante quella sua promessa, fatta proprio con animo sincero in quel momento: «Non mancherò, monsignore, non mancherò, davvero».
I casi, gl'incontri e le situazioni in cui viene a trovarsi Don Abbondio sono i più felici che si possano immaginare, non per lui poveraccio, ma per mettere in mostra e sviscerare il suo carattere. I bravi, Renzo, Perpetua, l'Innominato, il cardinale, Agnese, lo forzano a scoprirsi da tutte le parti, a diventar trasparente come un [122] vetro; e non v'è godimento che superi questo di poter guardare un'anima per di fuori e per di dentro, senza che pure una menoma particella ne rimanga occulta od oscura. La struttura della persona morale è in Don Abbondio così perfetta che finisce a suggerire la struttura della persona fisica e a mettervela davanti agli occhi. La figura di Don Abbondio non è descritta, e nemmeno, a dir proprio, abbozzata: appena un cenno qua e là come per caso: due folte ciocche di capelli, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, sparsi su una faccia bruna e rugosa. Riavutosi dalla peste, Don Abbondio appare come una cosa nera, pallido e smunto, con due povere braccia che ballan nelle maniche, dove altre volte stavano appena per l'appunto. E questo è il tutto. Quanti altri romanzieri avrebbero impiegate le due e le tre pagine per ritrarcelo intero quel prete, dalla testa ai piedi, senza lasciarne una sola fattezza! Ma col Manzoni non c'è bisogno. Qui l'anima crea il suo corpo; e noi vediamo, proprio vediamo, un Don Abbondio tozzo e corpulento, che suda e sbuffa a montare sopra una mula, con una facciola tonda, con una espressione bonaria, quando non gliela rannuvoli la stizza o la paura, con un portamento sommesso, con un'andatura stracca e impacciata: così come, dal più al meno, lo videro tutti coloro che lo ritrassero col pennello o col bulino[96].
Don Abbondio è riuscito uno di quei tipi estetici di cui si dice con ragione che hanno in sè molta più verità che non l'essere vivo e reale, fatto d'ossa e di polpe. E Don Abbondio è diventato uno di quei simboli di cui noi ci gioviamo, parlando, per significare una condizione di umanità che non si potrebbe significare altrimenti senza molte parole. Perciò Don Abbondio è immortale.
[125]
Le idee estetiche del Leopardi non sono sistematicamente ordinate, non formano un corpo di dottrina compiuto e coerente; ma sono, nulladimeno, in armonia fra di loro; governano, entro certi limiti, il sentimento e il pensiero di lui, e, sino ad un certo segno, ne spiegano l'arte. Il poeta nè si arroga di risolvere, nè a dir vero si propone il problema estetico; non istituisce indagini particolari; non tenta analisi sottili; ma pone alcuni principii, enunzia alcune opinioni, ch'egli non troppo si cura di conciliare con la rimanente sua credenza filosofica, e non sono forse con essa troppo conciliabili. Il poeta, ch'è sensista e materialista in tutto il rimanente di quella sua credenza, ci si scopre idealista in estetica. Il poeta che in tutt'altro è un pessimista, riesce quasi in estetica un ottimista.
Prima di esporre le idee estetiche del Leopardi, prima di ricercare la qualità e la estensione del suo sentimento estetico, sarà opportuno che noi ci formiamo un concetto sommario della costituzione psichica di lui, senza rinunziare però a far di essa quel più particolare e minuto studio che a volta a volta potrà essere richiesto dall'argomento. Ricordo, sebbene possa parere superfluo, che le credenze e le dottrine di ciascun uomo, e le stesse mutazioni di quelle, sono sempre determinate e condizionate dalla struttura e dall'atteggiamento [126] della psiche, e che la psiche, di cui ci è ignoto il principio e l'essenza, opera, per dirla col linguaggio dei matematici, in funzione dell'organismo corporeo, dell'ambiente fisico e morale, dei casi e delle esperienze della vita.
Non si dà tipo psichico puro, coeguale in tutto all'uno o all'altro di quegli schemi che la psicologia immagina per comodità di classificazione e di studio. Il Leopardi è manifestamente un intellettuale; ma non un intellettuale schietto: bensì un intellettuale appassionato. Intellettuale egli è perchè vive moltissimo nel pensiero e poco o punto nell'azione, e il pensiero esercita per sè stesso, senza assoggettarlo a un fine pratico qualsiasi; ma poichè soffre, si lamenta, si ribella troppo più di quanto s'addica a un intellettuale risoluto, egli, sott'altro aspetto, si dà a conoscere quale un sensitivo. E sensitivo è; di quella delicatissima, esagerata, morbosa sensitività che di ogni più lieve tocco si offende, e d'onde si genera nella psiche uno stato di sentimentalità abituale, intendendo con tal nome certa mescolanza e fluidità di sentimenti vaghi, teneri, dolorosi, immaginosi, che non si appuntano in nessun oggetto particolarmente determinato e chiaramente percepito, ma si rigirano in sè medesimi e in sè medesimi si consumano.
Lo spirito del Leopardi non si può veramente dire uno spirito unificato. Le tendenze divergenti e contrastanti sono in esso assai numerose, e se l'arte ci guadagna, la ragione ci perde. L'intelletto è nel poeta, sino ad un certo segno, sistematizzato ed autonomo; ma sistematizzato ed autonomo è pure in lui il sentimento; e i due sistemi e le due autonomie non troppo si accordano fra di loro. Così, mentre l'intelletto si chiude affatto e per sempre al sogno della felicità, il cuore, a più riprese, si riapre a quel medesimo sogno; mentre l'intelletto appetisce il vero, il cuore lo rifiuta; mentire l'intelletto predica la rassegnazione, il cuore la sdegna. Senza quella troppa e troppo indocile sensitività, il Leopardi sarebbe stato uno spirito essenzialmente logico: così come la natura e la vita l'han fatto, egli è uno spirito in cui la contraddizione abbonda, anzi è abituale ed organica. Di ciò ognuno si può persuadere agevolmente considerando quanto diversi, anzi contrarii, sieno certi giudizii suoi concernenti gli uomini in genere, le donne in ispecie, le cause della umana infelicità, la natura, ecc., nei molti casi in cui, per ragion di tempo, quella diversità e quella contrarietà non possono imputarsi a un moto generale dello spirito, a un rivolgimento profondo delle dottrine. [127] Ma la contraddizione per noi più notabile è quella in cui egli si viene ripetutamente avviluppando nel far giudizio del vero e della scienza: giacchè, ora detesta il vero, come quello che distrugge con la face consumatrice i sogni leggiadri; e dice la notizia di esso contrarissima alla felicità; e lo chiama fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d'animo, iniquità e disonestà di azioni, e perversità di costumi; e biasima gli uomini d'averlo voluto, colla curiosità incessabile e smisurata, penetrare e conoscere; e vitupera la ragione, dicendola carnefice del genere umano; mentre per contro celebra ed esalta l'ameno errore, i fantasmi consolatori, gl'inganni fortunatissimi, gli errori antichi necessari al buono stato delle nazioni civili: ora, invece, riconosce che il vero ha suoi diletti, ancor che triste; e compiange l'uomo dei campi, perchè ignaro d'ogni virtù che da saper deriva; e dice che, dopo il bello, il vero è da preferire ad ogni altra cosa; e afferma di non cercare altro più fuorchè il vero; e deride i sogni vani e le antiche fole insieme con le speranze di futura felicità e le magnifiche sorti e progressive, che pur dovrebbero essere, anche per lui, anzi più per lui che per altri, ameni errori, fantasmi consolatori, inganni fortunatissimi; e rinfaccia al secolo d'avere sentito dispiacere del vero, e d'avere abbandonato vilmente il risorto pensiero, solo per cui fu vinta in parte la barbarie,
e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
E questa civiltà era stata da lui maledetta con i sentimenti stessi del Rousseau, come un tradimento fatto alla Natura, come un errore che non può andare senza infinito accrescimento d'infelicità e senza vergogna. E ad essa accennando aveva esclamato: Che cosa è barbarie se non quella condizione, dove la natura non ha più forza negli uomini?
Noi qui vediamo l'intelletto e il sentimento alle prese fra di loro a volta a volta, e quando l'uno quando l'altro, incalzare o recedere, stringersi e sopraffarsi a vicenda. Il Pascal era riuscito a fermare assai più e legare in unità il proprio spirito quando scriveva quelle memorabili parole: «L'homme n'est qu'un roseau, le plus foible de la nature, mais c'est un roseau pensant. Il ne faut pas que l'univers entier s'arme pour l'écraser. Une vapeur, une goutte d'eau, suffit pour le tuer. Mais quand l'univers l'écraiseroit, l'homme seroit encore [128] plus noble que ce qui le tue, parce qu'il sait qu'il meurt; et l'avantage que l'univers a sur lui, l'univers n'en sait rien»[97].
Sappiamo dallo stesso Leopardi che in certi tempi, crescendogli il male, anzi i mali ond'era travagliato, egli diveniva pressochè incapace di attenzione, tanto da non poter tener dietro a chi leggesse, nè scrivere cosa alcuna, nè fissar la mente in nessun pensiero di molto o poco rilievo[98]. Ciò nondimeno, d'ordinario, egli dovette essere in sommo grado capace, così di attenzione spontanea, come di attenzion volontaria[99]; d'onde poi deriva attitudine spiccatissima ed inclinazione allo astrarre. Dell'attenzione spontanea parmi facciano testimonianza le ingegnose ed acute osservazioni e la molta maturità di senno onde son piene le prime sue lettere, scritte quand'egli non era per anche uscito di Recanati. Della volontaria fanno prova irrefragabile la qualità e la estension degli studii, la perseveranza e il discernimento adoperatovi, e più che tutto l'arte sua, dove non è cosa mai che appaja abbandonata al solo istinto o alla fortuna. Se son veri certi racconti, il Leopardi da giovane s'immergeva alle volte sì fattamente ne' proprii pensieri da perdere affatto il sentimento di quanto gli stava e gli avveniva dattorno[100]. Qualcuno, badando alle più consuete preoccupazioni del poeta, e come il pensiero che inspira e sorregge la sua poesia tenda quasi a ridursi in un motivo unico, potrebbe facilmente congetturare in lui certa inclinazione malsana al monoideismo, e cioè a fermar stabilmente l'attenzione sopra un'unica idea; ma se non si può negare che quella inclinazione ci sia stata, specie in certi tempi, non si può da altra banda non riconoscere, considerando i moltissimi abbozzi ed accenni di opere dal poeta divisate o ideate, che quella mente era usa di vagare per una copiosissima varietà di obbietti e di temi, per tutto il creato e per tutto lo scibile.
Non dovrebbe, parmi, negarsi che l'attenzione di lui non si fissi talvolta in modo da arieggiare le forme morbose della fissità; la qual cosa del resto facilmente interviene ai melanconici e più agl'ipocondriaci; [129] ma non si dovrebbe però dimenticare che in ciò, come in altro, molti sono i gradi intermedii tra il normale e l'anormale, e che una certa ossession dell'idea e del fantasma è abituale, anzi necessaria, non meno allo scienziato che all'artista, e che senz'essa non si darebbe nè scienza nè arte. La poesia intitolata Il pensiero dominante parrebbe a prima giunta rivelar nel Leopardi una vera e propria idea fissa, da cui quella togliesse il nome e la contenenza. Alcuni versi di essa descrivono veramente la condizione dell'uomo di cui una sola idea imperiosa abbia occupata e soggiogata tutta la psiche, votandola quasi d'ogni altro elemento, spogliandola d'ogni altra forma:
Come solinga è fatta
La mente mia d'allora
Che tu quivi prendesti a far dimora!
Ratto d'intorno intorno al par del lampo
Gli altri pensieri miei
Tutti si dileguâr. Siccome torre
In solitario campo
Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.
Ma questo pensiero dominante non è altro che il pensiero d'amore, il quale, dove raggiunga un certo grado di vivezza e di forza, opera quasi sempre a questo medesimo modo nell'animo degl'innamorati. Cercando nei versi e nelle prose del Leopardi, e più specialmente nelle lettere, non è difficile trovar segni e indizii di una qualche soverchia fissazion della mente, più o meno durevole. Il 23 giugno 1823 egli scriveva da Recanati al Jacopssen: «Pendant un certain temps j'ai senti le vide de l'existence comme si ç'avait été une chose réelle qui pesât rudement sur mon âme. Il m'était, toujours présent comme un fantôme affreux; je ne voyais qu'un désert autour de moi, je ne concevais comment on peut s'assujettir aux soins journaliers que la vie exige, en étant bien sûr que ces soins n'aboutiront jamais à rien. Cette pensée m'occupait tellement, que je croyais presque en perdre la raison»[101].
Dall'attenzione dipende per molta parte la memoria. Il Leopardi ebbe (la storia de' suoi studii e gli scritti ne fanno fede) memoria potente, sicura, tenace, e da giovane parve anche per questo rispetto sì fattamente meraviglioso, che l'abate Cancellieri ne fece espresso [130] ricordo nella Dissertazione intorno agli uomini dotati di gran memoria. Si sa con quanta agevolezza egli imparasse le lingue; e se errò il Puccinotti dicendolo versato anche nella tedesca[102] gli è pur certo che tra antiche e moderne ne conobbe un buon numero, e di parecchie fu mirabilmente padrone. Non però è da credere che il Leopardi possedesse la memoria totale e universale, che non fu posseduta mai da nessuno, e non è ente psichico, ma entità psicologica; nè si dà propriamente la memoria in genere, ma bensì tante memorie specificate e diverse quante sono le categorie del sensibile e del pensabile. Il Leopardi ebbe vivissima memoria delle idee, e forse non vi fu idea, da quella del numero a quella del fatto sociale e storico, che mai la trovasse indocile o lenta. Ebbe vivissima pure la memoria dei sentimenti; e volentieri inclinerei a credere che intervenisse a lui, in maniera anche più risoluta, ciò che interviene a taluni, ne' quali il sentimento ravvivato per virtù di memoria riesce più intenso di quello spontaneo provato in origine. Sempre che il poeta ripensa alla sua Silvia, morta nel fior degli anni, e si sovviene delle tradite speranze, un affetto lo preme acerbo e sconsolato, ed egli si torna a dolere di sua sventura[103]. Il più del tempo egli vive nel dolce rimembrare, e soggiornando in Pisa, dà a certa via il nome di Via della rimembranza. Un solo dolce ricordo sarebbe bastato a rendere felice tutta la vita dell'infelicissimo Consalvo, e le Ricordanze sono un canto e un pianto dell'anima che tutta si raccoglie nell'appassionata contemplazione di un passato irrevocabile. Queste due forme della memoria ben si convengono al nostro poeta, il quale abbiamo riconosciuto essere un intellettuale e un sensitivo al tempo stesso. La memoria delle sensazioni fu certamente in lui meno valida e meno pronta; ma di ciò sarà a dire più innanzi. Qui resta a notarsi che la memoria del poeta fu (nè potev'essere altro) scarsamente [131] popolata di quelle multiformi immagini cui solo può fornire la lunga, continuata e varia esperienza di una vita operosa e il libero e vigoroso esercizio di tutte le facoltà e potenze ond'è costituita la umana persona.
Come la memoria dipende dall'attenzione, così la fantasia dipende dalla memoria; onde, quali le forme e i temperamenti della memoria, tali pure le forme e i temperamenti della fantasia. Il Leopardi ebbe da natura fantasia agile e viva; nè gliela poterono mortificare i lunghi e pazienti studii di erudizione e il meditare ostinato; nè molto gliela estenuarono i mali. Fanciullo ancora, sappiamo com'egli immaginasse intricate favole di cavalieri, di battaglie e d'incantamenti e intrattenesse per lunghi giorni i compagni de' suoi sollazzi. Tornato la terza volta, nel novembre del 1828, al detestato soggiorno di Recanati, egli risalutava quelle vaghe stelle dell'Orsa che tante immagini un tempo e tante fole gli avevano suscitate nella mente, e accennando altri oggetti delle antiche sue contemplazioni, che pensieri immensi, esclamava,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio![104]
Chi non sia dotato di viva e fervida fantasia, malamente può vivere solitario; e il Leopardi, sebbene conoscesse la solitudine esser dannosissima agli uomini del suo temperamento, che sempre «si bruciano e si consumano da loro stessi»[105], della solitudine si piacque oltre modo, facendone argomento di alcuni tra' suoi canti migliori; e sebbene sin dal luglio del 1819, nella famosa lettera scritta al padre in occasione della tentata fuga, parlasse dei tormenti di nuovo genere che gli procacciava la strana immaginazione[106], pur nondimeno sempre del caro immaginare si dilettò grandemente, trovando in esso una delle maggiori e più fide consolazioni della sua vita. Certo, la fantasia non fu nel Leopardi così ricca, varia, lussureggiante, colorita, come fu nel Byron, o nello Shelley, o nell'Hugo, [132] o in altri poeti molti che si potrebbero ricordare; ma una ragione di ciò fu accennata parlando della memoria di lui, e richiamerà novamente la nostra attenzione in luogo più acconcio.
Che il Leopardi non sia ciò che gli psicologi più recenti dicono un volitivo, è manifesto ad ognuno; ma altro è riconoscere questo, altro è asserire che il Leopardi patì di abulia dichiarata e congenita. Innanzi tutto, a riguardo di questa, come di ogni altra qualità del nostro poeta, è sommamente necessario distinguere nella storia di lui un prima e un dopo, senza di che si risica troppo di scambiare l'avventizio per l'iniziale, e di confondere col principio la fine. Se non v'è forse vita d'uomo esente da peripezia, non v'è forse altra vita in cui la peripezia sia stata così profonda e molteplice come fu nel Leopardi. Da fanciullo questi non difettò certamente di volontà, chè anzi le memorie di quel primo tempo ce lo fanno conoscere protervo, prepotente, soverchiatore. Molti versi della sua giovinezza sono versi di eccitamento e di ribellione, e tra le opinioni da lui più costantemente osservate, in verso e in prosa, in pubblico ed in privato, è pur questa, che l'operare vince di gran lunga in nobiltà il meditare e lo scrivere; onde in uno de' più tardi componimenti suoi, quello che prende titolo dall'amore e dalla morte, celebrava l'amore, che suscita o ridesta ne' petti il coraggio, e per la cui virtù
sapïente in opre,
Non in pensiero invan, siccome suole,
Divien l'umana prole.
Non nego che questa opinione gli possa essere stata suggerita in parte dagli ammaestramenti e dagli esempii di quell'antichità in cui gli era tanto dolce rivivere; ma è da credere che il suggerimento non avrebbe operato nell'animo di lui, se l'animo, per certa sua propria e naturale disposizione, non fosse stato inclinato a riceverlo. Il fermato, e per poco non effettuato proposito della fuga, difficilmente si potrà conciliare con una volontà debole e incerta, specie se si considera che il giovane che vi si accinse non era uno sventato, anzi conosceva benissimo e la forza, ancora assai grande, di quella paterna autorità contro la quale insorgeva, e i pericoli d'ogni maniera e le traversie che certamente avrebbe dovuto affrontare. E gioverà ricordare che mentre i giovani di poco animo e d'indole remissiva sono lieti d'aver nel padre chi spiani loro la via [133] della vita e risparmii le fatiche maggiori e i maggiori ardimenti, il Leopardi, stimando la tutela paterna oppressiva di que' liberi spiriti che fanno atti gli uomini alle cose nobili e grandi, ebbe in conto di fortunati (e osò scriverlo) quei figliuoli che, perduto per tempo il padre, dovettero fare, senz'altro ajuto, da sè. Quanto alla tentazion di suicidio, a cui il poeta andò così lungamente soggetto, noi non siamo in grado di dire con sicurezza se l'averla sempre patita senza mai soggiacervi sia indizio di una volontà troppo debole che non riesce ad attuarsi, o di una volontà ancor tanto forte da poter frenare l'impulso[107]; ma indipendentemente dalla maggiore o minore forza della volontà, gli animi molto delicati, e di un sentire molto squisito, non possono non rimanere turbati ed offesi dalla idea di quella violenza che sempre e di necessità accompagna la volontaria soppression della vita, sia quella d'altri o la propria: e chi può dire quanta forza l'orrore di così fatta violenza possa avere avuto nell'animo del poeta che non volle contemplare la morte se non sotto le sembianze della bellezza e della pietà? Riconosciuto nel Leopardi un intellettuale, e ricordato una volta per tutte che gl'intellettuali non sogliono essere uomini d'azione, e, per ciò stesso, non uomini di volontà gagliarda, spiegata, molteplice (sebbene la volontà non si eserciti nell'azione soltanto), parmi si debba pur riconoscere che la volontà di lui fu in origine più che mediocremente valida, ancorchè, secondo ebbe a confessare egli stesso, mutabilissima[108]. Dopo di che s'ha da riconoscere ancora che s'andò a poco a poco affievolendo e stemprando, sia pel crescere lento e profondo di una pecca ereditaria, sia pel consecutivo insulto di mali sopravvenuti, sia pel graduale consolidarsi e prevalere della idea pessimistica. So che quest'ultima cagione non sarà accettata da coloro che giudicano il pessimismo stesso essere tutto e sempre effetto di depressione psichica e di detrimento organico, e quasi una denunzia, comunque espressa, del mancamento della vita. Non è qui il luogo d'entrare in una controversia assai disputata e sulla quale pende, e penderà [134] per lungo tempo ancora, il giudizio. Io mi contento di dire che se quella che chiamano miseria o paupertà fisiologica predispone naturalmente[109] l'animo a formarsi un concetto pessimistico della vita, nol predispongono di certo a formarsene un concetto ottimistico quelle dottrine della scienza che, sfatando l'antico errore, mostrano l'uomo perduto in mezzo alle forze della natura, soggetto a quelle stesse leggi a cui son soggette le creature inferiori e le infime, spogliato infine d'ogni ragione di arroganza e di orgoglio; che c'è una corrente di pessimismo la quale ha nella scienza le prime sue scaturigini[110]; che si dànno esempii di pessimismo baldanzoso e giocondo alla maniera del Nietzsche; che il pessimismo buddistico è sereno, anzi giulivo; e che accanto al pessimismo dell'inerzia appare il pessimismo dell'azione. Ciò avvertito a mo' di parentesi, non si può non concedere che Giacomo Leopardi fu negli anni maturi uno di quegli irresoluti e di quei timidi ond'è parola nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri[111]; sia pure che a produrre quella irresolutezza e timidità concorressero efficacemente, com'egli stesso afferma, l'abito dialettico e la riflession prolungata.
Il Leopardi ebbe alto e forte il sentimento di sè, quello che gl'Inglesi chiamano self-feeling. Fanciullo ancora, presentendo la futura grandezza, l'annunziava nell'Appressamento della morte; e molti sono i luoghi degli scritti suoi, e più specialmente delle lettere, ove egli quel sentimento fa manifesto; sia con l'esprimere orrore della mediocrità; sia col far conoscere un desiderio forse smoderato e insolente di gloria e il proposito di farsi grande ed eterno coll'ingegno e collo studio; sia, infine, col risolvere di non inchinarsi mai a persona del mondo, e di non curare il giudizio nè il disprezzo altrui. [135] La già citata lettera al padre, e l'altra al Broglio, scritta in quella occasione medesima, sono per questo rispetto un documento notabilissimo, anzi forse un documento unico, se si pensa che colui che le scriveva era un giovane di poco più che vent'anni. A quel medesimo sentimento è da ridur la baldanza (ove a torto taluno non vide se non un espediente retorico) con cui il giovane poeta chiede l'armi per combattere egli solo i nemici della patria; e l'orgoglio ancora con cui si atteggia ad avversario indomabile di quel destino che in modo affatto insolito (tale è la sua credenza) lo persegue e percuote: e quello ancora che gli fa desiderare, dovendo essere infelice, infelicità piena ed intera. Egli volle ritrar sè medesimo in quel prode che la mano vincitrice del fato
Indomito scrollando si pompeggia,
Quando nell'alto lato
L'amaro ferro intride,
E maligno alle nere ombre sorride[112].
Nè contraddicono punto a quel sentimento, anzi per diverso modo ne dànno a conoscere la persistente e tormentosa acutezza, le parole ch'ogni tanto egli si lascia uscire di bocca, quando dice di cominciare a disprezzare la gloria, di aver perduta ogni illusione sul proprio valore, di accordarsi oramai con l'universale che lo disprezza. Parole appunto di chi in troppo alto e geloso modo sente di sè! Angoscioso sentimento di una psiche sempre presente a sè stessa e ammalata di consapevolezza eccessiva! Certe forme di pessimismo non ne vanno mai scompagnate.
Fu un genio il Leopardi? Molti lo affermano, qualcuno lo nega; e non è questo uno di quei dissensi che si possano comporre recando in mezzo prove ben definite e irrefragabili. Dalla intelligenza mezzana e comune all'ingegno ed al genio si sale per gradi, starei per dire infinitesimali, e non v'è strumento che segni il punto del preciso trapasso dal primo al secondo, dal secondo al terzo. Quegli stessi che per lunga tradizione e quasi universale sono giudicati genii massimi, e di cui si suol dire che recano in fronte il marchio divino ed indelebile, non poterono soggiogare in tutto la instabile fortuna dei giudizii umani; e le vicende cui andò soggetta, col mutare dei tempi e [136] degli umori, la fama di un Omero e di un Aristotele, di un Dante e di uno Shakespeare, lo provano, parmi, abbastanza. Non è possibile dare del genio una definizione che non si smarrisca più o meno in formole monche od incerte, e non si raccomandi, da ultimo, assai più all'intuito che alla ragione. Abbiam dismesso il concetto mitico o metafisico del genio; ma non gli abbiamo per anche sostituito il naturalistico e positivo. Errore grave mi sembra esser quello di taluni che solo criterio e sola misura del genio vogliono la utilità, e sentenziano non meritare nome e fama di genii, se non coloro che recarono agli uomini alcun insolito beneficio, strepitoso e grande: e sembrami errore, non tanto perchè il giudizio della utilità è incertissimo, e soggetto, nel corso della storia, a moltissime mutazioni, quanto perchè il beneficio può assai volte, come c'insegna la storia di molte invenzioni e scoperte, essere opera più del caso che dell'intendimento. Le ragioni del genio vogliono esser cercate nel soggetto da prima, nell'oggetto di poi; ma nel far giudizio e dell'uno e dell'altro, è da guardare soltanto alla singolarità e alla grandezza, e non alla utilità; dacchè ci sono genii benefici e genii malefici, e tutte quasi le religioni credettero a un genio del male. Che il primo Napoleone sia stato un genio benefico par difficile a dimostrare; ma più difficile ancora che non fosse un genio. Io vorrei contentarmi di dire: Genio è colui che addimostra una straordinaria potenza interiore, operando cose che non erano preparate, o erano solo scarsamente preparate dal precedente lavoro delle generazioni; che corona il faticoso e lento edifizio della tradizione o lo abbatte; che in far ciò dà a divedere un massimo di autonomia e un minimo di dipendenza; che si trascina dietro un numero grande di spiriti comuni, i quali lo acclamano maestro e rivelatore, e che riesce a far da solo, per intrinseca e necessaria virtù di natura, ciò che i molti e gl'infiniti insieme associati non potrebbero fare[113]. Vedo bene le [137] deficienze e le incertezze di questa che non oso chiamare una definizione; ma non me ne soccorre altra che meglio mi appaghi, e questa, qual ch'essa sia, può bastare al bisogno presente.
Stimo doversi dire un genio il Leopardi perchè la precocità e la estensione de' suoi studii fanno manifesto uno straordinario vigor d'intelletto; perchè il singolare autodidascalismo rivela uno spirito singolarmente autonomo; perchè la dottrina filosofica di lui, o buona o cattiva ch'ella sia, è, per la più parte, frutto della sua mente, senza veri precedenti in Italia, e con poche, e dal poeta ignorate, attinenze fuori d'Italia[114]; perchè la poesia creata da lui è, a dispetto d'ogni influsso e riverbero greco, latino, petrarchesco, o d'altra maniera, che vi si scorga per entro, poesia nuova in Italia e nel mondo, per quanto può esser nuova una poesia che vien dopo altra poesia e insieme con altra poesia. Come nei cieli della poesia inglese il Byron, così nei cieli della poesia italiana appare subitaneo e inopinato il Leopardi, simile ad una di quelle comete che scaturiscono improvvise dalla profondità dello spazio, e luminose solcano il firmamento, fuori d'ogni tracciato e cognito cammino. Se mai può dirsi d'uomo nato da altro uomo, e vivente nella società de' suoi simili, ch'egli sia originale, del Leopardi si dovrà dire che fu originalissimo. Egli rinunziò la fede in che era nato e cresciuto, e nella quale perseverarono tutti, o quasi tutti, i suoi; e la rinunziò giovanissimo; e non già, come fu sospettato dal padre e da altri, ad istigazion del Giordani, ma per atto spontaneo e spontanea risoluzione di ragione in cimento. Quella che fu detta sua conversione letteraria avvenne, non per ammaestramento o consiglio altrui, ma per virtù di meditazione [138] e di esame e di una tutta propria resipiscenza[115]. Se tanto non basta a far riconoscere il genio, non so che altro possa bastare.
Per mia ventura io non ho da impelagarmi in una delle più vessate questioni dei nostri giorni, quella delle relazioni e colleganze che passano fra il genio, la degenerazione e la pazzia. Io non ho bisogno di schierarmi (e in coscienza non potrei) nè con coloro che affermano essere il genio una vera e propria psicosi, anzi una forma larvata di epilessia, nè con coloro che di sì fatta affermazione molto si stupiscono e più si adontano. A dir vero, le conclusioni mi pajono tratte un po' a precipizio, così dall'una parte come dall'altra, scambiate spesso le prime parvenze per prove, con definizioni improprie, con criteri incerti, con metodo arrischiato, e spesso più con desiderio di vincere l'avversario, che di accertare il vero. Il problema è oscurissimo tra quanti se ne possono proporre alla umana ragione. Veggo bene come assai volte il genio sia accompagnato dalle stimate della degenerazione, dai turbamenti di una mutevole psicosi; ma la ragione ultima e certa e la regola di quell'accompagnamento mi rimangono occulte, e diffido non men di me che d'altrui, sapendo quanto è difficile, e come spesso fallace, la investigazione delle cause, e come pieno d'insidie il ragionamento. E forse noi non intendiamo ancora i fatti della vita e della psiche in genere tanto che basti a lasciarci penetrare la natura del genio.
Ma non occorre che il problema sia risoluto ne' suoi termini generali per iscorgere nei singoli casi il certo e il vero dei fatti e delle concomitanze e conseguenze loro. Il caso particolare del Leopardi fu recentemente studiato con diligenza d'indagine, con acume di raziocinio, e con circospezione, non dirò intera, ma rara nella più [139] parte dei cultori di questi studii, in un libro ch'ebbe biasimi e lodi, e che io, sinceramente, credo più meritevole d'essere lodato che biasimato[116]. Non tutte certo le opinioni e le prove e i ragionamenti e i giudizii che vi sono prodotti mi pajono tali da doversi accettare[117], chè a molti anzi credo si debba contraddire risolutamente; e nelle pagine che precedono, fu già implicitamente contraddetto a qualcuno, e in quelle che seguono sarà, implicitamente o esplicitamente, contraddetto a qualche altro; ma la conclusione generale cui da ultimo perviene l'autore, quando afferma di riconoscere nel grande Recanatese le stimate della degenerazione e della psicopatia, e i sintomi gravi di una nevrastenia cerebro-spinale, mi sembra tratta legittimamente, necessaria, inoppugnabile.
E non intendo davvero perchè tanti se ne sieno risentiti come di una ingiuria fatta al poeta, e abbiano gridato alla profanazione e al sacrilegio. Similmente si gridò contro ai presunti profanatori della memoria del Tasso, e i gridatori non ebber ragione, nè può essere profanazione nel ricercare e dire la verità. Non è punto dimostrato che la malattia sia condizione necessaria del genio; ma che il genio possa meravigliosamente vivere e operare accanto e dentro alla malattia, e di essa giovarsi, è provato da esempii senza numero. Lo stesso Leopardi, se tornasse al mondo, non contrasterebbe troppo a certi giudizii che di lui ora si fanno. Parlando della terribile melanconia che lo perseguitava in Roma, come già lo aveva perseguitato [140] in Recanati, e doveva perseguitarlo anche altrove, egli scriveva, nel dicembre del 1822, al fratello Carlo: «Non nego però che questo non venga in gran parte dalla mia particolare costituzione morale e fisica»[118]. Già sin dall'aprile del 1817, se non prima, egli aveva imparato a conoscere la melanconia ostinata, nera, orrenda, barbara, che lima e divora, e collo studio s'alimenta e senza studio s'accresce, tanto diversa da quella che partorisce le belle cose, più dolce dell'allegria[119], melanconia da lui in altri tempi provata. Passati molti anni, nell'aprile del 1829, egli si lagnava che la melanconia sua fosse divenuta oramai poco men che pazzia[120]. Nel Dialogo di Tristano e di un amico, Tristano, ch'è, come ben s'intende, lo stesso Leopardi, dice di non sapere se i sentimenti suoi nascano, o meno, da malattia, ma soggiunge che il corpo è l'uomo[121]; e già molt'anni innanzi, ne' versi alla sorella, il poeta aveva esclamato che in gracile petto non si chiude anima pura. Contro l'opinion di coloro che stimano il genio consistere in un temperamento e in un equilibrio di tutte le potenze interiori, egli stimava difficilmente potersi far cose grandi dall'uomo «in cui le qualità dello spirito sieno bilanciate e proporzionate fra loro; se bene elle fossero o straordinarie o grandi oltre modo»[122]; e però sembra credesse essere certa sproporzione, o eccesso, o deformità che si voglia dire, se non la condizione essenziale del genio, una delle condizioni sue più principali e necessarie.
Degno di lode mi sembra ancora il libro del Patrizi in quanto obbedisce a intendimenti naturalistici, e oppone una critica informata a soli principii scientifici (comunque erronea talvolta nella pratica) alla critica sentimentale, ch'è la peggiore delle critiche, anzi la negazion d'ogni critica; e non esito a dire che un utile avvertimento viene da esso ai letterati di professione, i quali s'avrebbero a persuadere oramai che la storia, la biografia e la critica letteraria non possono d'ora in avanti far di meno dei lumi e degli ajuti della psicologia normale e patologica, e, più in generale ancora, della biologia.
Dal Patrizi dissento in parte nella questione, ancor essa tanto [141] controversa, del pessimismo leopardiano. Ho detto già di non credere che il pessimismo sia, tutto e sempre, una suggestion metafisica della impotenza fisica, un puro fenomeno psicastenico; sebbene riconosca assai volentieri l'inevitabile riverbero delle condizioni organiche sul colore della filosofia[123]. Che tale sia stato in parte e, se si vuole, in molta parte, il pessimismo del Leopardi, consento, e in qualche modo fu consentito anche da lui; perchè non fu egli così saldo in ribattere la opinion di coloro che prima cagione d'ogni sua filosofia dicevano essere i proprii suoi mali, che una consimile opinione non portasse alcuna volta egli stesso. Nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, questi, ch'è pur sempre, sott'altro nome, il poeta, parla della propria disposizione, cioè dell'avere in fastidio la vita, e del conoscere che tutto è menzogna, illusione e vanità, come di cosa che a lui proviene, in buona parte, da qualche mal essere corporale[124]. E al Giordani aveva scritto sino dal giugno del 1820, durante un breve tempo, in cui gli era sembrato di potersi pur riavere: «Ma se bene anche oggi io mi sento il cuore come uno stecco o uno spino, contuttociò sono migliorato in questo ch'io giudico risolutamente di poter guarire, e che il mio travaglio deriva più dal sentimento dell'infelicità mia particolare, che dalla certezza dell'infelicità universale e necessaria»[125].
Ma il pessimismo non è di una sola maniera, nè ha, checchè possa dirsi in contrario, una origine sola: e se quello del Leopardi è prodotto, per una parte assai rilevante, dalla stessa sua complessione fisica e psichica, e per un'altra parte, certo non piccola, dai casi della vita, è pur prodotto in qualche misura dall'intelletto e dalla ragione. Ciò non dovrebbe, parmi, essere così recisamente negato da quegli scienziati, che avendo fatto il possibile per provare che non v'è intelligenza nelle origini e nella universa vita del mondo, [142] hanno per ciò stesso contribuito a far sì che il mondo appaja spregevole e divenga intollerabile all'intelletto. Dall'affrontarsi del razionale e dell'irrazionale nasce una forma di pessimismo immediata e necessaria, perchè la ragione, che non può negare sè stessa, non può, nell'atto in cui si afferma, non negare il suo contrario. Un mondo irrazionale, o tale presunto, deve di necessità apparir cattivo alla ragione; come deve apparir cattivo al sentimento un mondo spoglio di sensitività; e cattivo, se non pessimo, a tutto l'uomo un mondo che contrasta agl'istinti e alle aspirazioni proprie della umana natura. Questo pessimismo prorompe immediatamente dalla coscienza, e non v'è mente che, pervenuta a certo grado di elevatezza e di amplitudine, non ne sia capace, e può accompagnarsi con un'indole naturalmente gioconda, e durare in mezzo a condizioni di vita, per quanto è possibile, riposate e felici. Quando lo Shakespeare definisce la vita un'ombra che cammina; e l'assomiglia a un povero commediante, che si pavoneggia e struscia sulla scena un momento, e poi più non s'ode; e la dice una favola recitata da un idiota, tutta piena di frastuono e di furore, vuota di senso e di ragione; e quando afferma che noi siam fatti di quello onde son fatti i sogni, e che la nostra picciola vita è tutta fasciata di sonno[126]; è egli proprio necessario ch'altri sia un paranoico, un lipemaniaco, un ipocondriaco, un degenerato per intendere le parole di lui e assentire al giudizio? Un certo pessimismo nasce spontaneamente dall'intelletto fatto autonomo[127]; e se a questo pessimismo non diamo, per distinguerlo da ogni altro, lirico, religioso, politico, il nome di filosofico, che molti in fatti gli ricusano, non so davvero con qual altro nome e' si possa ragionevolmente chiamare. Che si possa anche questo ridurre, così senz'altro, alla malattia e all'impotenza, non vedo e non credo[128].
[143]
Il pessimismo del Leopardi fu, in parte, pessimismo filosofico. La contraddizione fra l'idea e la realtà, fra la ragione e la natura fu da lui chiaramente espressa in una lettera al Giordani, con queste notabili e testuali parole: «.... questa è la miserabile condizione dell'uomo e il barbaro insegnamento della ragione, che, i piaceri e i dolori umani essendo meri inganni, quel travaglio che deriva dalla certezza della nullità delle cose sia sempre solamente giusto e vero. E se bene, regolando tutta quanta la nostra vita secondo il sentimento di questa nullità, finirebbe il mondo, e giustamente saremmo chiamati pazzi, in ogni modo è formalmente certo che questa sarebbe una pazzia ragionevole per ogni verso, anzi che a petto suo tutte le saviezze sarebbero pazzie, giacchè tutto a questo mondo si fa per la semplice e continua dimenticanza di quella verità universale, che tutto è nulla. Queste considerazioni io vorrei che facessero arrossire quei poveri filosofastri che si consolano dello smisurato accrescimento della ragione, e pensano che la felicità umana sia riposta nella cognizione del vero, quando non c'è altro vero che il nulla; e questo pensiero, ed averlo continuamente nell'animo, come la ragione [144] vorrebbe, ci dee condurre «necessariamente e direttamente a questa disposizione che ho detto; la quale sarebbe pazzia secondo la natura, e saviezza assoluta e perfetta secondo la ragione»[129].
Perciò non mi pajono aver ragione nemmanco coloro i quali asseriscono il pessimismo del Leopardi essere pessimismo lirico puro e semplice, tutto formato cioè di quel sentimento, o di quella mescolanza di sentimenti, che i Tedeschi dicono Weltschmerz, e da taluno in Italia fu chiamato dolore universale. Il pessimismo del Leopardi è moltiforme: lirico, empirico, civile, filosofico; e negli schemi d'inni cristiani che il poeta tracciava negli anni dell'adolescenza sono segni patenti di pessimismo religioso. Lirico è il pessimismo che il poeta esprime in tanti suoi versi, e quando per bocca di un pastore errante dell'Asia esclama:
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
Ma civile era apparso il pessimismo dei primi canti; e il pessimismo che si serba empirico finchè si contenta di affermare l'eccesso e la universalità del male, diventa filosofico allorquando passa ad affermare la necessità ineluttabile di esso e la impossibilità del rimedio. Perciò mi pare avesse ragione il Caro quando diceva che il Leopardi dà del problema della vita una soluzione da cui è cancellato, per quanto è possibile, il sentimento prettamente individuale, e che quella soluzione egli innalza ed allarga sin là dove incomincia la filosofia; e conclude con questo giudizio: «Par ce trait, que nous voulions mettre en lumière, il se distingue nettement de l'école des lyriques et des désespérés, où l'on a prétendu le confondre; il n'a qu'une parenté lointaine avec les Rolla qui l'ont réclamé pour leur frère: il les dépasse par la hauteur du point de vue cosmique auquel il s'élève; il a voulu être philosophe, il a mérité de l'être, il l'est»[130]. Di questa stessa opinione doveva essere ancora lo Schopenhauer, [145] quando giudicava nessuno mai aver trattato il tema del dolore e della nullità della vita così profondamente ed interamente come fece il Leopardi[131]. Resterebbe a vedersi se il Leopardi, il quale notò «che molte conclusioni cavate da ottimi discorsi non reggono all'esperienza»[132]; e si fece beffe della filosofia aprioristica[133]; e disse di non ignorare «che l'ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta si è, che non bisogna filosofare»[134]; e non immaginò nessuna metafisica; e non iscrisse nè il romanzo dell'io, nè quello dell'idea, nè quello della volontà; e disse tutto essere arcano fuor che il nostro dolore; non sia più vero e maggior filosofo di molti che tengono largo, e forse troppo largo, posto nella storia della filosofia antica e moderna.
Se, togliendoci fuori dalle angustie e dalle intolleranze delle scuole, noi teniamo essere filosofo colui che si affatica a formarsi un concetto generale della vita e del mondo; colui che, avido di verità, si sforza di conoscerla, senza riguardo alcuno al vantaggio proprio o d'altrui, e che, conosciutala, ancorchè se ne senta offeso, ancorchè se ne lagni, la manifesta e mantiene, sfidando biasimi, dileggi e pericoli; se, dico, tale sia il nostro giudizio, dovremo dire che il Leopardi, a dispetto di ogni mancamento o incertezza della sua dottrina, fu un filosofo, e che non si può, senza ingiustizia, negargli di filosofo il nome[135].
[146]
L'uomo non ha veramente altro desiderio che della felicità, e non desidera e non ama la vita se non quanto la reputa strumento o subbietto di quella. Scopo, non pur principale, ma unico della vita è il piacere; e il vivere, per sè stesso, non è bisogno, perchè disgiunto dalla felicità non è bene. Tale in sostanza il pensiero del Leopardi, quale si trova chiaramente espresso in molti luoghi delle poesie e delle prose[136]: e questo pensiero bisogna aver presente per ben intendere la estetica di lui.
Quanto è naturale nell'uomo il desiderio della felicità, altrettanto la infelicità è necessaria. «Certo l'ultima causa dell'essere non è la felicità; perocchè niuna cosa è felice»[137]. «Nessuna cosa credo sia più manifesta e palpabile, che l'infelicità necessaria di tutti i viventi. Se questa infelicità non è vera, tutto è falso, e lasciamo pur questo e qualunque altro discorso»[138]. Il poeta credette alcun tempo che della infelicità propria fossero in tutto o in parte colpevoli gli uomini [147] stessi[139]; ma la opinione in cui da ultimo si fermò fu che la infelicità nasce, non già da umano pervertimento, ma da necessità di natura[140]. La sciagura umana è irreparabile, e non ha conforto altro che il riso[141]. La felicità è impossibile anche per un momento solo; tale il concetto del Dialogo di Malambruno e di Farfarello. Non è possibile non patir sempre, sia per fatto degli uomini, o per fatto della natura; tale il concetto del Dialogo della natura e di un Islandese. La infelicità è maggiore negli animi più eccellenti; tale il concetto del Dialogo della natura e di un'anima. E la vita è così fatta che non si potrebbe per nessun modo sopportare, se non fosse ogni poco interrotta dal sonno: «Tal cosa è la vita, che a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte»[142]. Ciò nondimeno, dicendo che tutti gl'intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri sono occupati dalla noja[143]; e che la vita allora riesce veramente cara, quando, scampatala da un pericolo, ci par quasi di ricuperarla[144]; e che il solo modo che gli uomini abbiano di gustare quella tanta felicità che può loro toccare in sorte si è di rinunziare alla felicità[145]; il poeta viene a riconoscere che sono nella vita alcuni piaceri (sebbene affermi il piacere esser figlio d'affanno e il diletto non altro che un uscire di pena[146]), e che la vita può essere, sia pure in qualche menoma parte, goduta, e che una qualche felicità, sia pure scarsa, stentata, fuggevole, vi può trovar luogo.
E in fatti il poeta, ancorchè dica la vita inutile miseria e spoglia [148] di qualsiasi frutto[147], pure enumera alcuni beni ond'essa vita è consolata: primo fra tutti la giovinezza, poi l'amore, poi ancora le dolci illusioni, i felicissimi inganni, i fantasmi consolatori. Qui ci s'apre naturalmente il passo a discorrere delle idee estetiche di lui.
L'amore fu pel Leopardi, più che altro, una fervente, ossequiosa ed estatica ammirazione della bellezza sensibile; e in ciò si differenzia notabilmente da altre forme dell'amore ideale, o, come suol dirsi, platonico, ove si ostenta di non curare e di non istimare la veste corporea e caduca dell'anima. Tale ammirazione può raccogliersi da molti luoghi degli scritti del poeta, cui l'amore della bellezza già faceva scordare negli anni giovanili l'amor della gloria[148]. Beltade onnipossente è maestra d'alto affetto[149]; sembra rivelare alto mistero d'ignorati Elisi[150]; però che un caro sguardo è tra le cose mortali la più degna del cielo[151], e la bellezza è, fra noi, come una viva immagine del cielo, e una fonte inenarrabile d'eccelsi, immensi pensieri e sensi.
Beltà grandeggia, e pare,
Quale splendor vibrato
Da natura immortal su queste arene,
Di sovrumani fati,
Di fortunati regni e d'aurei mondi
Segno e sicura spene
Dare al mortale stato[152].
E' pare dunque che il Leopardi, il quale sino dall'aprile del 1819 scriveva al Giordani non trovare altra cosa desiderabile nella vita se non i diletti del cuore e la contemplazione della bellezza[153], giudicasse spettare alla bellezza la dignità suprema, sopra quanto può essere dall'uomo sentito, compreso, immaginato, ammirato. In ciò egli si rivela indubitabilmente poeta, e molti furono in ogni tempo i poeti, e generalmente parlando, gli artisti, che giudicarono nel medesimo modo. Udiamo Alfredo De Musset:
[149]
Or la beauté, c'est tout. Platon l'a dit lui-même:
La beauté sur la terre, est la chose suprême.
C'est pour nous la montrer qu'est faite la clarté.
Rien n'est beau que le vrai, dit un vers respecté;
Et moi, je lui réponds, sans crainte d'un blasphème:
Rien n'est vrai que le beau, rien n'est vrai sans beauté[154].
E udiamo il Baudelaire: «C'est cet admirable, et immortel instinct du beau, qui nous fait considérer la terre et ses spectacles comme un aperçu, comme une correspondance du ciel... Ainsi le principe de la poésie est, strictement et simplement, l'aspiration humaine vers une beauté supérieure...»[155]. Un filosofo pessimista, il Hartmann, dice la bellezza essere come l'aureola della vita, e non potere avere altro scopo se non di consolare della sventura necessaria e irreparabile. Qual altro scopo è più grande e più utile?
Emanuele Kant scopriva maggior bellezza in un semplice ornato che nella bellissima fra le donne, perchè la bellezza di costei è perturbata da un elemento di finalità. Oh aberrazioni del preconcetto e del sistema! Certamente il Leopardi non vide a quel modo. Per lui la più alta forma della bellezza è per l'appunto la bellezza muliebre. Ma qui è subito necessaria un'avvertenza, molto importante a ciò che dovrà esser detto più innanzi. La bellezza che il Leopardi vagheggia nella donna non è cosa esistente per sè ed in sè; è anzi il riflesso, e come la individuazione, di una bellezza più alta, che il poeta ateo chiama divina; di una vera e propria idea di bellezza, che sarebbe senz'altro una delle idee di Platone, se il poeta non la dicesse talora figlia della propria mente. Se come Dante fosse stato [150] credente, il Leopardi, come Dante, avrebbe detto essere la donna adorata
una cosa venuta
Dal cielo in terra a miracol mostrare.
Rileggansi quei noti versi dell'Aspasia:
Raggio divino al mio pensiero apparve,
Donna, la tua beltà!
Vagheggia
Il piagato mortal quindi la figlia
Della sua mente, l'amorosa idea.
Che gran parte d'Olimpo in sè racchiude,
Tutta al volto, ai costumi, alla favella
Pari alla donna che il rapito amante
Vagheggiare ed amar confuso estima.
Or questa egli non già, ma quella, ancora
Nei corporali amplessi inchina ed ama.
Da questi versi già si rileva che il Leopardi, in estetica, fu un idealista, a quello stesso modo (conformità notevole) che fu un idealista Alfredo De Vigny.
E non poteva esser altro. Il giovinetto che, ignaro ancora dell'acerbo indegno mistero delle cose,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira[156].
s'avvede ben presto che la vita è vedova di bellezza, che il vero è brutto; e quello stesso bello ch'egli aveva pur tanto ammirato nella natura, gli si sforma ed offusca allo sguardo. Alfredo De Musset, nella poesia testè citata, loda il Leopardi di casto amore per l'aspra verità, e di questo amore dice ispirato il poeta; ma noi abbiam veduto come fluttui l'animo del Leopardi nel far giudizio del vero; e qui è pur forza riconoscere che, più particolarmente come poeta, egli pone in diretto contrasto il vero col bello, e questo esalta, quello deprime[157]. Il vero distrugge i sogni leggiadri, spoglia il verde alle cose, [151] dic'egli nella canzone al Mai; il vero è il maggior contrario del bello, soggiunge nella Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto[158]. Altrove, alquanto più remissivo, scriveva: «Certamente il vero non è bello. Nondimeno anche il vero può spesse volte porgere qualche diletto: e se nelle cose umane il bello è da preporre al vero, questo, dove manchi il bello, è da preferire ad ogni altra cosa»[159].
Ma che è insomma il bello? Il Leopardi non s'arrischiò mai di darne una definizione, e certo vide essere impossibile di trovarne una che appaghi così il sentimento come la ragione. Non tentò nemmeno di scoprire o d'inventare un canone di bellezza, e non indagò a quali condizioni dell'organismo fisico per un verso, dell'organismo psichico per un altro, risponda la impressione che produce in noi la bellezza e il godimento che ne deriva. L'estetica non aveva ancora cercato nella fisiologia e nella psicologia le nuove sue basi; e quella che, fondata tutta nella metafisica, era sorta e fioriva in Germania, si può dire che nemmen di nome fosse nota in Italia; dove opera capitale in sì fatta materia erano pur sempre i ragionamenti Del bello, di Leopoldo Cicognara, stampati la prima volta in Firenze l'anno 1808. In questo libro si dà qualche contezza delle dottrine del Kant, ma così scarsa e superficiale come poteva darla un uomo che diceva desiderabile un'esatta versione dal tedesco delle opere metafisiche del sig. Kant per poter bene conoscere le sue idee su questo argomento: e il Lessing, il Winckelmann, lo Schiller vi sono nominati appena. La estetica tedesca cominciò a penetrare in Italia soltanto verso il 1820, per opera dei romantici[160].
Il Leopardi non dice che cosa sia il bello: egli si contenta di dire che cosa il bello non è. Il bello non è il vero. Ma poichè il vero è ben altra cosa che la natura[161], potrebbe darsi che il bello fosse la natura. Questo credette il Leopardi nel tempo in cui scriveva al Giordani: [152] «Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo»[162]; e questo ancora seguitò a credere per un pezzo; ma come più ebbe a riconoscere nel mondo la scena ove si esercita
il brutto
Poter che ascoso a comun danno impera,
e nella natura una nemica; più si tolse da quella credenza, e finì che disse poco essere il bello che la natura ci offre[163]. E il bello non è l'utile, anzi è il suo contrario; almeno finchè per utile s'intende ciò che dagli uomini comunemente s'intende: e qui è curioso notare come il Leopardi venga a trovarsi d'accordo col Kant, con lo Schiller, con lo Spencer, per non nominarne altri. Quello Spettatore Fiorentino che il poeta ebbe un tratto in animo di pubblicare, doveva esser formato tutto d'idee negative e riuscire un giornale affatto inutile[164]. Ma qui, per una inversione di ragionamento che trova la sua piena giustificazione nella dottrina pessimistica del poeta (in altre dottrine pessimistiche non la troverebbe, o la troverebbe più difficilmente), l'utile diventa inutile e l'inutile utile. La vita tutta quanta essendo, insieme col mondo in cui si produce e si agita, una grandissima e disperatissima inutilità, ne viene di conseguenza che inutilissime sono le operazioni e preoccupazioni tutte in cui gli uomini si vengono tuttodì travagliando, con isperanza di far guadagno e di fruire da ultimo della felicità faticosamente acquistata; e che solamente utili sono quelle cose e fatiche, le quali arrecando qualche diletto, fanno sì che gli uomini scordino i mali loro e quasi non sappian di vivere. Non avendo la vita, per sè medesima, pregio alcuno, è stolta affatto l'opera di coloro che, senza giovarla altrimenti, si studiano di farla più lunga[165]; e solo meritano gratitudine coloro che riescono ad alleviarne in qualche misura il peso e il fastidio. I travagli hanno questo di buono, che non lasciano luogo alla noja, e non dan tempo all'uomo di considerare la nullità della vita; ma poi hanno questo di reo, che a prezzo di dolore ricomperano il benefizio; la qual cosa non fanno i diletti che diconsi inutili. Sì fatti pensieri sono [153] dal poeta espressi con molta frequenza, con parole pronte e incisive. Rileggansi tra l'altro, a questo proposito, i primi venticinque o trenta versi della poesia A Carlo Pepoli, e un passo di lettera al Giordani, ov'è affermato che il dilettevole è utile sopra tutti gli utili[166], e il già citato preambolo allo Spettatore Fiorentino, ove occorrono queste parole: «Lasciamo stare che, lo scopo finale di ogni cosa utile essendo il piacere, il quale poi all'ultimo si ottiene rarissime volte, la nostra privata opinione è che il dilettevole sia più utile che l'utile»[167].
Ammesso ciò, non solo la letteratura sarà da stimare più utile che tutte, quante sono, le scienze politiche e sociali, dette dal poeta discipline secchissime[168]; ma le arti in genere saranno da avere in assai maggior conto che le scienze in genere, e che l'altre forme tutte, comunque preconizzate, dell'umano lavoro, e dovrannosi riverire ed amare come sole alleviatrici e consolatrici della nostra sciagura. Ed ecco che con ciò riman fermato e definito così l'oggetto, come il fine e l'officio di quelle che il poeta, giovanissimo ancora, aveva chiamate care arti divine[169].
Oggetto principalissimo, per non dire unico, delle arti sarà il bello; e poichè il bello è il contrario del vero, saranno le vaghe e dolci immaginazioni che velano il vero, e parano all'uomo, se non la conoscenza, la vista impura[170] di esso. L'artista vive per rivelar la bellezza. «Lieto, lietissimo vi voglio sempre, o mio Giordani, chè a questo ci hanno a servire gli studi e la considerazione del Bello che tutto giorno ci sforziamo d'imitare»[171]. Non è però che il Leopardi voglia affatto escluso il brutto dall'arte, chè anzi, su questo punto, egli aveva già contraddetto al Giordani, affermando che l'arte lo deve pur conoscere e ritrarre, e ricordando che Omero, e Virgilio, ma sopra tutti Dante, non l'avevano sempre schifato, e che il [154] brutto, imitato dall'arte, da questa imitazione piglia facoltà di dilettare[172]. Ma insomma, egli mostra di dilettarsene poco, e non ci fissa su l'occhio, e non ne ragiona volentieri, inconsapevole della nuova importanza ch'esso stava assumendo nella dialettica di Giorgio Hegel e nella fantasia e nell'arte dei romantici.
Non è sempre vero quanto affermano alcuni, che i pessimisti sono poco disposti a veder bellezza nelle cose reali, e inclinati a cercarla nelle sole finzioni[173]. Ciò non si potrebbe dire, nè di un filosofo pessimista quale lo Schopenhauer, nè di un poeta pessimista quale il Leconte de Lisle; ma si può ben dire con la dovuta misura e circospezione, di molti; ed è consentaneo alla loro natura e alla loro credenza. Da giovane il Leopardi pensò (probabilmente senza troppo discutere con sè stesso e ripetendo opinione divulgatissima) che ufficio delle belle arti sia d'imitare la natura nel verisimile[174]; e vedremo ch'egli a così fatta imitazione non rinunziò mai, e che anzi ebbe sempre l'occhio alla realtà, per modo da dare ai critici occasione e motivo di parlare del verismo e del realismo di lui; ma, considerata debitamente ogni cosa, non si può negare che il Leopardi si compiaccia più della finzione che della realtà, com'è in più particolar modo provato dalle Operette morali, dove le posizioni e i temi sono, pressochè sempre, non pure ideali, ma fantastici ed impossibili; e come è ancora provato dalle parole di quella curiosa confessione che una volta il poeta fece al Jacopssen, di fuggire, cioè, durante la veglia, le donne che aveva vagheggiate nel sogno[175].
Studii del bello, affetti, immaginazioni, illusioni, il Leopardi vuole che tutti insieme si adoperino a conforto della infelicità nostra[176]. Egli vive in un perpetuo desiderio di dilettose immagini, rimpiange i dolci sogni della fanciullezza, non sa darsi pace della giovinezza [155] perduta e delle care illusioni perdute con quella. Non v'è poeta che non abbia pianta la giovinezza; ma le ragioni del pianto non sono le stesse per tutti: e certo i più lamentarono perduta con essa la facoltà di godere, anzichè la facoltà d'ingannarsi; e qualcuno, come lo Chateaubriand, non tanto dilesse la giovinezza, quanto detestò la vecchiaja, vedendo in essa quasi una ingiuria e uno sfregio alla dignità ed al decoro della persona. Il Leopardi non altra felicità propriamente persegue con l'inutile desiderio se non quell'una, in cui l'anima, soggiogata dal possente errore e dagli ameni inganni, deliziosamente si abbandona, ignara dell'acerbo indegno mistero delle cose, inconscia quasi di sè.
Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s'apre
Al guardo giovanil questa infelice
Scena del mondo e gli sorride in vista
Di paradiso[177].
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; chè per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so[178].
Senza affetti e senza errori gentili la vita è notte a mezzo il verno[179]; e dileguata la giovinezza, la vita appare abbandonata e scura, e non si colora più mai d'altra luce, e l'uomo è fatto estraneo alla terra[180]. Sopra tutte le cose è da aborrir la vecchiezza, perchè chiusa alle care illusioni; e da aborrir sono i vecchi, che la giovinezza già per sè fuggitiva si studiano di spegner nei giovani[181]. Però Consalvo è lieto di morire in sul fior dell'età.
«Finalmente questo mondo è un nulla, e tutto il bene consiste nelle care illusioni», scriveva in età di ventidue anni il Leopardi al Brighenti[182]. E non molti giorni innanzi aveva scritto al Giordani: «Io non tengo le illusioni per mere vanità, ma per cose in certo modo sostanziali, [156] giacchè non sono capricci particolari di questo o di quello, ma naturali e ingenite essenzialmente in ciascheduno; e compongono tutta la nostra vita»[183]. In questa opinione durò egli poi lungamente, salvo qualche contraddizion passeggiera di tanto in tanto, e salvo ancora che in certi tempi verità e menzogna egli involse nello stesso disdegno. Non sarà fuor di luogo notare che il fratello Carlo fu in ciò dello stesso sentire di Giacomo. In una lettera che il primo scriveva al secondo ai 16 di dicembre del 1822, si legge: «In conclusione si è sempre detto, che le città grandi non sono fatte per l'uomo di sentimento, ma nemmeno le città piccole, e nemmeno il mondo: le pays des chimères est en ce monde le seul digne d'être habité»[184].
Ma qui nasce un dubbio che, date certe contraddizioni del pensiero leopardiano, non è agevol cosa risolvere. D'onde provengono nell'animo umano queste benedette illusioni, che sole dànno pregio alla vita, e sole ne temperano la infelicità? Nella lettera al Giordani testè ricordata il poeta scriveva: «Io credo che nessun uomo al mondo in nessuna congiuntura debba mai disperare il ritorno delle illusioni, perchè queste non sono opera dell'arte o della ragione, ma della natura; la quale expellas furca, tamen usque recurret, Et Mala perrumpet furtim Fastidia victrix»[185]. E così in molte altre occasioni lodò la natura quale soccorritrice di lieti inganni e di felici ombre, e perchè, con benefica impostura, si studiò di occultare e di trasfigurare agli uomini la parte maggiore della infelicità loro[186]; ma una lode di tal maniera, se suona bene sulle labbra di un discepolo del Rousseau, non può non disdire sulle labbra di tale a cui giudizio essa natura fu madre in parto ed in voler matrigna, e di tutt'altro curante che del male nostro o del bene, e tale insomma che, discordando affatto dalle nostre vaghe immagini, e chiusa ad ogni pietà, ci danna irreparabilmente al dolore[187].
Essendo che la natura, secondo si ragiona nel Dialogo della natura [157] e di un'anima, è una specie di essere medio, intermediario fra il destino e le creature, potrebbe darsi che le illusioni ci scaturissero da una qualche fonte soprammondana e soprannaturale; fossero alcun che di simile alle idee tipiche di Platone. E a sì fatto concetto sembra che si conduca alcuna volta il poeta; sebbene non sia possibile intendere come dal brutto
Poter che ascoso a comun danno impera
emani il bello, fluiscano le sole consolazioni che all'uomo sia dato sperare. Ma noi contentiamoci di venir notando le varie conformazioni del pensier del poeta, e non pretendiamo, chè sarebbe impresa disperata, sciogliere le contraddizioni in cui esso si viene avvolgendo. Pongasi mente a que' versi della canzone Alla sua donna ove il poeta invoca ed esalta, non una donna reale, non una donna idealizzata, ma propriamente l'idea della donna[188]: che dice il poeta?
Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s'anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.
Abbiamo qui, al modo stesso che nell'Aspasia, l'archetipo, da cui riceve, o potrebbe ricevere, forma e vita e movimento la cosa reale e sensibile: e il poeta medesimo avverte, fra il serio e lo scherzoso, che forse è quella una delle idee di Platone[189], e da ultimo esce in questo saluto:
Se dell'eterne idee
L'una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l'eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
[158]
O s'altra terra ne' superni giri
Fra' mondi innumerabili t'accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T'irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d'ignoto amante inno ricevi.
Da questa poesia all'Aspasia corsero all'incirca dieci anni[190]: onde si vede che l'accostamento del Leopardi a Platone non fu nè accidentale, nè passeggiero.
Ed ecco ora il Leopardi e lo Schopenhauer, senza sapere l'uno dell'altro, giungere per diverse vie a un punto medesimo, accordarsi nel medesimo pensamento. Com'è noto, lo Schopenhauer immagina che la volontà crei primamente i tipi ideali, i quali calandosi poi nelle cose acquistano esistenza individuata e concreta. Il bello non è nella cosa, ma nella idea, che si apprende per la contemplazione estetica; e oggetto proprio ed essenziale dell'arte è l'idea, e vero suo officio manifestare l'idea; la quale, secondo che lo Schopenhauer si piace di affermare e di ripetere, va intesa appunto come la intendeva Platone: onde la scienza è il modo aristotelico di guardare le cose, l'arte il modo platonico[191]. E il Leopardi e lo Schopenhauer vengono a trovarsi d'accordo (cosa da quest'ultimo non desiderata di certo) con Giorgio Hegel, il quale afferma non altro essere il bello se non la manifestazione dell'idea nell'opera d'arte. Le illusioni e i fantasmi accarezzati e glorificati dal Leopardi si possono considerare come disegni e archetipi di cose che l'uomo vorrebbe che fossero e non sono.
Ma vengano in origine dalla natura, o vengano d'altronde, le illusioni allignano nell'animo umano, e ricevono conformazione e colore dal sentimento e dalla fantasia. Di qui il grande valore che il Leopardi riconosce a entrambe queste potenze, di cui non si stanca di dire le lodi. Al Giordani scriveva nel marzo del 1820 di non arrivare «a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo»[192]. E al Jacopssen nel giugno del 1823: «En effet, il n'appartient qu'à l'imagination [159] de procurer à l'homme la seule espèce de bonheur positif dont il soit capable. C'est la véritable sagesse que de chercher ce bonheur dans l'idéal, comme vous faites. Pour moi je regrette le temps où il m'était permis de l'y chercher, et je vois avec une sorte d'effroi que mon imagination devient stérile, et me refuse tous les secours qu'elle me prêtait autrefois»[193]. Il che non era poi tanto vero, se nel febbrajo del 1828 poteva scrivere da Pisa alla sorella: «Vi assicuro che in materia d'immaginazioni mi pare di esser tornato al mio buon tempo antico»[194]; al tempo cioè in cui altamente si scandolezzava dei poeti e delle poetesse di Roma che persino i nomi ignoravano di genio, d'immaginazione, di sentimento, e di ciò al fratello Carlo scriveva indignate parole[195]. Dal caro immaginare derivava egli l'una parte (derivando l'altra dal dolce rimembrare) delle maggiori e più schiette sue gioje; e se pure gli avvenne di dire una volta:
dell'imago,
Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago[196],
egli è nondimeno da credere, dopo quanto siamo venuti notando, che di nessun vero si appagasse mai tanto quanto delle immagini che gli creava la fantasia. Di qui una conseguenza importante: facoltà creatrice dell'arte sarà, a giudizio del nostro poeta, per eccellenza la fantasia.
Te punge e move
Studio de' carmi e di ritrar parlando
Il bel che raro e scarso e fuggitivo
Appar nel mondo, e quel che, più benigna
Di natura e del ciel, fecondamente
A noi la vaga fantasia produce,
E il nostro proprio error. Ben mille volte
Fortunato colui che la caduca
Virtù del caro immaginar non perde
Per volger d'anni; a cui serbare eterna
La gioventù del cor diedero i fati;
Che nella ferma e nella stanca etade,
Così come solea nell'età verde,
In suo chiuso pensier natura abbella,
Morte, deserto avviva[197].
[160]
In questi notabilissimi versi sono indicati l'oggetto, o vogliam dire la materia, e il fine e l'officio dell'arte. L'arte ritrae il bello, e più propriamente il bello creato dalla fantasia; l'arte abbella la natura e la vita. Per il Leopardi, come per lo Schopenhauer, essa è una consolatrice, una emancipatrice, sia pur momentanea. I pessimisti essendo, se non per sentimento, per logica necessità, nemici della natura, non possono non essere grandi amici di quell'arte che li trae fuori del peggiore dei mondi possibili, e li trasporta in ispirito nel migliore dei mondi immaginabili. Però l'arte, agli occhi dei pessimisti, non può essere quel giuoco che parve allo Schiller e allo Spencer: anzi, sebbene sia un inganno, o appunto perchè un inganno[198] è la cosa più seria, diciam pure la sola seria, che la vita ci offra. L'arte non fa, come comunemente si predica, della realtà una finzione; ma fa, per contrario, della finzione una realtà. Il Baumgarten, discepolo del Leibniz, e inventore di questo nome di estetica da lui dato alla scienza del bello, tenendosi stretto all'ottimismo dommaticamente rigido del suo grande maestro, giudicava superba, perversa, ingiuriosa alla divinità l'arte eterocosmica, l'arte, cioè, che presume, fingendo, di creare un mondo migliore di quello esistente; e il Kant fu dello stesso sentire; e dello stesso sentire doveva essere Dante, quando formava il concetto di un'arte che, essendo a Dio quasi nipote, e però figlia della natura, questa
quanto puote
Segue, come il maestro fa il discente[199].
Per contro l'arte eterocosmica dev'essere quella a cui i pessimisti si sentono maggiormente inclinati; i quali difficilmente potranno consentire a Platone che l'arte sia di gran lunga inferiore alla natura, e più volentieri staranno con quei filosofi che la prima, considerata quale opera dello spirito, pongono risolutamente sopra la seconda, considerata quale opera di cieche energie; e, generalmente parlando, la forma d'arte verso cui inclineranno, sarà tanto più eterocosmica, quanto maggiore disgusto essi proveranno della vita e del mondo; salvo che per deliberato proposito non vogliano giovarsi [161] dei sussidii dell'arte per far vedere e sentire vie meglio la disperata miseria dell'una e dell'altro[200].
Il Byron, sul punto di partir per la Grecia, d'onde non doveva più fare ritorno, diceva d'avere abbracciata la poesia per non sapere che altro fare di meglio, e in ogni tempo fece più stima assai dell'azione che dell'arte. L'animo del Leopardi dovette ondeggiar lungamente fra contrarii giudizii, e non quietarsi mai del tutto in nessuno. Quando scriveva da Roma nel novembre del 1822 al fratello Carlo: «Ho bisogno d'amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita»[201], gli è probabile ch'egli ponesse l'azione, il moto e il fervor della vita, sopra l'arte; ma quando, dimenticate oramai le Termopile, e dimenticato Simonide, nel luglio del 1828, alludendo al conte Andrea Broglio, morto ancor egli in Grecia, scriveva al padre: «Io non sapeva che il suo fanatismo l'avesse portato ad andare ad esporre la vita per causa e patria non sua»[202] gli è probabile ch'ei portasse tutt'altro giudizio; sebbene fosse l'anno appunto in cui si rallegrava d'esser tornato, in materia d'immaginazioni, al suo buon tempo antico.
Qui pare ci si discopra un'altra contraddizione del Leopardi. Se officio dell'arte, anzi sua propria ragione, si è di mitigare la nostra sciagura, di farcela in qualche parte scordare, sostituendo un mondo di dilettose finzioni a questo mondo di tormentosa realtà, e restaurando nella fantasia le care illusioni che la vita viene tuttodì disfacendo; perchè non si conforma a questo fine l'arte di lui? perchè la sua poesia si ostina a farci vie più consci del mal che ci strugge, e sempre ci ripone sott'occhi l'aborrito vero, e invece di ricrear le illusioni si appaga di piangerle? Non dovrebbe appunto la sua [162] poesia essere come quella divina arte della musica, di cui dice egli stesso che sembra rivelare alto mistero d'ignorati Elisi? La domanda par ragionevole, e che non lasci luogo a risposta; ma ci si può rispondere; e la contraddizione non è così acuta come può a prima giunta sembrare.
Premettiamo una osservazione d'indole generale. Un poeta pessimista può certo, facendo tacere la voce del proprio dolore, appartandosi in qualche modo e per qualche tempo dalla propria dottrina, produrre una poesia dove non appajano se non immagini dilettose e serene, non respirino se non sentimenti dolci o vivificanti, e la stessa natura sia ritratta con lieti e chiari colori, fuori, per così dire, dell'ombre consuete del suo proprio pensiero: nè si può asserire che una poesia così fatta manchi in tutto al Leopardi. Ma bisogna pur riconoscere che le altre arti, e in più special modo la musica, possono servire a cotal dissimulazione del vero assai meglio e assai più che non l'arte della parola. La parola ha significazione troppo determinata e precisa, e più che ogni altro segno di cui possa giovarsi lo spirito umano a palesare sè stesso è legata al vero; onde torna difficile al pessimista, sia pur egli poeta, mentire un mondo tutto ideale con quelle stesse parole con cui, da altra banda, viene descrivendo e giudicando il mondo reale. Non v'è frase musicale che propriamente affermi o impugni alcun che; non v'è per contro proposizione che non asserisca il vero (accertato o presunto), o nol contraddica; e però gli è quasi impossibile che il poeta pessimista non iscopra nella propria poesia la propria credenza, non vi lasci scorgere la preoccupazion sua consueta, non vi porga testimonianza di sè. Si sforzi egli pure, come il Leconte de Lisle, di riuscire oggettivo, sereno, impassibile; la sua poesia ritrarrà sempre del colore della sua anima, sarà sempre, in un modo o in un altro, un documento di pensier pessimistico.
Ciò premesso in generale, vi sono, per quanto spetta al Leopardi in particolare, altre osservazioni da soggiungere. Può dirsi, non senza ragione, che la sua poesia ritrae troppo del colore della sua anima, ripete, troppo insistentemente, la dottrina pessimistica di lui; e qualcuno potrebbe prenderne argomento a giudicare che più conferisca all'arte l'ottimismo, quando si sforza di attirar l'attenzione sul bello delle cose, che non il pessimismo, quando d'altro non si cura che di metterne in mostra il brutto. Ma primamente è da considerare che l'arte, quando troppo si diletti delle belle finzioni, e solo [163] in formar quelle si eserciti, corre pericolo di mancare al proprio suo fine, e di riuscire, non alleviatrice, ma aggravatrice dell'umano dolore, facendo che l'uomo, per ragion del contrasto, sempre più si disgusti e s'infastidisca di quella realtà in cui è pur forza che viva, e che il pessimista, rifugiandosi tutto nel sogno inattuabile, divenga sempre più pessimista. Per contro, la poesia che esprime dolore universale tende, favorendo la simpatia, a consolare tutti i sofferenti, conformemente all'antico adagio solamen miseris socios habuisse malorum[203]. Avvertì Seneca nulla farci tanto sentire che noi siam membri di un solo corpo quanto la comunanza e universalità del dolore; e veramente la morale non può trovare altra base che sia più vera e più salda di questa. Così appunto la intese il Leopardi, quando nella Ginestra prese a esortar gli uomini a stringersi in lega contro l'avversa natura; dove inaspettatamente vediamo scaturire dal pessimismo un principio d'azione. Ma c'è altro a dire. Quando per condizioni di tempi e di coltura il vero non si può più oltre celare, non tanto giova che l'arte lo contraddica, quanto che lo rattemperi. Se il vero è amaro per sè, condito in molli versi tornerà meno amaro. Se non restaura illusioni, che la conoscenza del vero ha irreparabilmente disfatte, il nostro poeta una almeno ne tiene viva, e non la men nobile, e non la meno benefica: quella della bellezza. I suoi versi sono, chi può negarlo? i più disperati che mai si scrissero; ma poche volte al mondo se ne scrissero di più belli. Il dolore che così intensamente li affanna, è mitigato e come incantato dal fascino onnipossente della bellezza; e non v'è pessimismo che tenga; dov'è tanta bellezza, non può non essere godimento. Anche una volta l'arte trionfa della natura; l'uomo, del suo destino. Che importa se i pensieri son tristi, se il vero piange e sospira?
Our sweetest songs are those that tell of sadest thougt.
Non isfuggì alla perspicacia del Goethe che l'artista si libera di molta parte della sua pena quando riesce ad estrinsecarla, a realizzarla nell'opera d'arte. Scrivendo il Werther egli guarì del male onde Werther perisce. I poeti consolano e deprecano col canto i proprii [164] dolori. Il Leopardi, esprimendo in versi immortali la disperazione della vita, si consolò alcuna volta di vivere; e tutti coloro, che, soffrendo dello stesso suo male, leggeranno con puro animo que' versi, ne riceveranno il medesimo beneficio. La bellezza li avvolgerà del suo lume, li penetrerà del suo calore, medicherà le loro ferite, trasmuterà per un giorno, o per un'ora, il loro dolore in dolce, tenera, appassionata letizia.
L'arte è opera del genio, il quale nel fervore dell'entusiasmo la concepisce e la crea. Dove non è entusiasmo, arte non nasce. Disse una volta il Beethoven a Bettina Brentano: l'artista vero non piange, ma è pieno di entusiasmo. No; l'artista vero può piangere e ridere; ma se, piangendo o ridendo, non fosse pien d'entusiasmo, non sarebbe vero artista. L'entusiasmo è un'accensione di animo innamorato e una esaltazion di potenza. Non si ama a freddo nè la donna, nè l'arte: i frigidi sono esclusi in perpetuo dal regno dell'amore. Sia che si voglia della frigidità fisiologica del Leopardi in materia d'amore[204], in materia d'arte egli frigido non fu davvero. Ho già recato alcuni luoghi di lettere, ov'egli parla dell'entusiasmo come di cosa affatto necessaria alla vita: se ne potrebbero recare degli altri. Il Leopardi [165] non avrebbe mai consentito a quella opinione del Baudelaire che disse: «L'inspiration c'est une longue et incessante gymnastique». Egli sa, per propria esperienza, quanto il genio debba allo studio perseverante, alla meditazione, all'esercizio; ma non può però credere che il genio altro non sia se non una lunga pazienza. Il genio è per sè stesso, o non è. Se è, la lunga pazienza lo può fecondare, nutrire, corroborare, correggere; se non è, la pazienza, per quanto lunga, non può farlo nascere. Il Leopardi parla del genio come di cosa stupenda, incomprensibile e che trascenda la umana natura; e ciò ch'ei ne dice, ricorda più d'una volta ciò che ne dice lo Schopenhauer, il quale lo ammira e lo celebra senza fine, sebbene lo giudichi anch'egli quasi prossimo alla pazzia[205]. Il genio consiste, secondo il Leopardi, in una maggiore intensione di vita, ed è contraddistinto da una particolare finezza d'intelletto e vivacità d'immaginazione, le quali fan sì ch'esso abbia poca signoria di sè stesso, e, sopraffatto dalla grandezza delle proprie facoltà, incontri continuamente mille dubbietà nel deliberare, e mille ritegni nell'eseguire; sia poco atto a provvedere alle minute necessità della vita, e necessariamente infelice[206]. Lo Schopenhauer mostra di essere sostanzialmente della stessa opinione quando dice che il genio, il quale consiste in un eccesso d'intelletto, è di sua natura irrequieto e insaziabile, nemico della ragionevolezza pedestre e del senso comune, soggetto alla passione, emancipato (?) dalla volontà. Pel Leopardi, come per lo Schopenhauer, la fantasia è strumento meraviglioso e necessario del genio. Per entrambi, ciò che più particolarmente contraddistingue il genio si è la intuizione, la divinazione. Il genio poetico sembra fosse giudicato dal Leopardi il più alto e mirabile. I poeti lirici, in uno istante, «scuoprono tanto paese, quanto ne sanno scoprire i filosofi nel tratto di molti secoli», dic'egli nella Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto[207]. Il Carlyle, rifacendo uno del poeta e del profeta, esclama: «Entrambi penetrano il sacro mistero dell'universo, quello che il Goethe chiama secreto aperto»[208].
Vediamo ora quale sia, se così è lecito esprimersi, il campo estetico [166] del nostro poeta, o, per usare altri termini, quanto giri e che chiuda il cerchio delle sue impressioni estetiche e dell'estetico suo godimento. Tutti sanno che anche in ciò passano tra gli uomini differenze grandissime; e che, mentre per i più quel cerchio si volge breve in sè stesso, e per molti tanto si rinserra che quasi si riduce in un punto, per alcuni pochissimi tanto quasi si allarga quanto il cerchio del sensibile e dell'intelligibile. Per non citare altri esempii che di poeti, il cerchio estetico di un Dante sta al cerchio estetico di un Savioli, o di un Vittorelli, come, nel nostro sistema solare, l'orbita di Nettuno all'orbita di Mercurio.
Prima di tutto è da riconoscere un fatto. La estensione del campo estetico è determinata quanto allo insieme, in ciascuno di noi, dal grado della recettività, dalle attitudini, dalla complessione fisica e psichica: e il godimento estetico è più o meno variato, largo ed intenso, secondo ch'è maggiore o minore la generale capacità nostra rispetto al piacere. Complessioni diverse, capacità diverse, dànno luogo a inclinazioni e dottrine diverse[209]. Suppongansi due uomini, di cui l'uno abbia i sensi corporei, e specialmente i superiori, assai validi, pronti ed acuti, e l'altro gli abbia, per contro, deboli, tardi ed ottusi; l'uno, vigoroso e vigile senso morale; l'altro, rilassato e neghittoso; l'uno sia più ricco di fantasia che di ragione; l'altro, più di ragione che di fantasia: i loro campi estetici saranno necessariamente diversi, diversa in ciascuno la natura e la misura del godimento, diverse, in ultimo, le dottrine ch'essi potranno venire ideando. Fra la estensione del campo estetico e la estensione del godimento estetico passa (è quasi superfluo il notarlo) strettissima relazione; ma a un campo d'impressioni assai esteso può corrispondere un debole grado di godimento, e, per contro, a un campo d'impressioni più ristretto può corrispondere un grado di godimento molto più intenso. Estensione ed intensione non sono sempre in ragione diretta fra di loro; ma non sono nemmeno necessariamente in ragione inversa, sebbene in molti casi possano essere. Un dilettante può gustare tutte le arti, e di ciascun'arte tutte le forme, e godere di tutte moderatamente: un artista di professione può non gustare che l'arte propria, ma di [167] quella godere intensissimamente. Da altra banda può avvenire che l'una forma di godimento promuova l'altra, e l'azione e reazione dell'una sull'altra produca come una generale elevazione di potenza. In un Goethe la estensione del godimento sembra accrescere la intensione; e il Rinascimento nostro ci offre esempii mirabili di corrispondenza diretta fra la estensione del campo estetico e la intensione del godimento estetico, e di feconda fusione del dilettante e dell'artista in uno.
Qual è il campo estetico del Leopardi, e come circoscritto? Dovrò più innanzi, parlare di proposito dei sensi corporei di lui; ma qui è da notare che, fatta eccezion dell'udito, egli non ebbe sensi molto validi, e che scarse furono in lui l'energie della vita di relazione. Nel campo estetico del Leopardi terranno minor luogo le impressioni derivate immediatamente dai sensi, dal movimento, dallo sforzo, ecc., e di ciò si vedranno, sino ad un certo segno, gli effetti nell'arte sua.
Il Leopardi sentì molto, come vedremo, la musica, ma non molto le arti figurative e l'architettura. Nella canzone Sopra il monumento di Dante egli parla con calore delle care arti divine, ricorda con isdegno l'opre divine degl'italici ingegni tratte a misera schiavitù oltre l'Alpi, invita il guasto legnaggio a mirare, insieme con le ruine che fan testimonio dell'antica grandezza,
E le carte e le tele e i marmi e i templi;
ma non si vede che tele e marmi e templi, in Roma, in Firenze, in Pisa, o in qual si voglia altra città, abbiano mai prodotto nell'animo suo una grande impressione; e il silenzio delle sue lettere a questo riguardo è veramente curioso e significativo. La grandezza e la magnificenza di Roma destarono in lui assai più sgomento che ammirazione. «Il materiale di Roma avrebbe un gran merito se gli uomini di qui fossero alti cinque braccia e larghi due. Tutta la popolazione di Roma non basta a riempire la piazza di San Pietro. La cupola l'ho veduta io, colla mia corta vista, a 5 miglia di distanza, mentre io era in viaggio, e l'ho veduta distintamente colla sua palla e colla sua croce, come voi vedete di costà gli Apennini. Tutta la grandezza di Roma non serve ad altro che a moltiplicare le distanze, e il numero dei gradini che bisogna salire per trovare chiunque vogliate. Queste fabbriche immense, e queste strade per conseguenza interminabili, [168] sono tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d'essere spazi che contengano uomini»[210]. «Credi, Carlo mio caro, che io son fuori di me; non già per la maraviglia, chè quando anche io vedessi il demonio non mi maraviglierei: e delle gran cose che io vedo non provo il menomo piacere, perchè conosco che sono maravigliose, ma non lo sento, e t'accerto che la moltitudine e grandezza loro m'è venuta a noia dopo il primo giorno»[211]. Bada a dire un gran male dei Romani, così maschi come femmine, e in ispecie dei letterati, che pur gli avevano fatto accoglienze onorevoli; ma di quelle ruine, il cui spettacolo sembra che tanto avrebbe dovuto affarsi alla disposizione dell'animo suo e all'indole della sua coltura; di quelle ruine che inspirarono tanti grandi poeti, il Leopardi non fiata[212]. E similmente non fiata nè di tele, nè di marmi, nè di templi. Solo una volta scrive celiando al fratello Carlo: «certo che il parlare a una bella ragazza vale dieci volte più che girare, come fo io, attorno all'Apollo di Belvedere o alla Venere capitolina»[213].
[169]
Ma riconosciuta questa tepidezza nel Leopardi, non vorrei che altri la dicesse a dirittura freddezza, e credesse il poeta chiuso affatto a ogni impression di quell'arti che per gli occhi parlano al cuore e alla mente. Sin dalle prime lettere scritte al Giordani il Leopardi mostrava curiosità grande di vedere ciò che quegli veniva scrivendo intorno ad opere di scultura e di pittura, e una volta chiedeva all'amico se un'opera del Cicognara (e senza dubbio alludeva alla Storia della scultura) poteva tornargli utile[214]. Quelle parole al fratello Carlo non s'hanno a prendere troppo sul serio. Esse non possono significare in bocca di un giovane di ventiquattr'anni ciò che forse significherebbero in bocca d'uom più maturo; e del resto provano che il poeta non aveva omesso d'andare a girare intorno ai capilavori dell'arte antica. E qui è a notare che il Leopardi sembra abbia gustata più la scultura che la pittura, più la forma che il colore. Uno de' suoi più vivi desiderii, andando a Roma, era di conoscervi il Canova, e uno de' suoi dispiaceri più grandi fu di saperlo già morto da un mese quand'egli vi giunse: onde al Giordani scriveva: «Che ti dirò di Canova? Vedi ch'io son pure sfortunato, come soglio, poichè quando aveva pure ottenuto, dopo tanti anni e tanta disperazione, d'uscire dal mio povero nido e veder Roma, il gran Canova, al quale principalmente era volto il mio desiderio, col quale sperava di conversare intimamente e di stringere vera e durevole amicizia col mezzo tuo, appena un mese avanti il mio arrivo in questa città piena di lui, se n'è morto»[215]. Chi pensi il carattere e i temi dell'arte canoviana, potrà facilmente supporre che a far nascere e crescere nell'animo del Leopardi l'ammirazione pel grande scultore, erede e rinnovatore dell'arte greca, valsero non poco gli studii e il grande amore dell'antichità; ma valse di certo, per la sua parte, il senso delle belle forme.
Comunque sia, di nessun pittore parlò il Leopardi come parlò del Canova; e mentre, ne' suoi versi, di pitture non è quasi parola, se non in quel fuggevole accenno delle Ricordanze alle dipinte mura, [170] ai figurati armenti e al sol che nasce su romita campagna; alcune delle migliori poesie traggono la inspirazione e l'argomento da opere di scultura, sia immaginate, sia vere; e così, oltre alla canzone Sopra il monumento di Dante[216] abbiamo le due: Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai suoi; e Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima. Notisi che in queste due ultime poesie il poeta associa alla bellezza femminile, ch'è per lui la più alta forma della bellezza, quella tra le arti che, dopo la musica, è da lui più gustata; ma abbiam già veduto, e in seguito vedremo anche meglio, che la musica similmente egli trova modo di associare a quella bellezza, attribuendo ad entrambe la stessa virtù rivelatrice di arcane beatitudini. Una osservazione ancora a questo proposito. Altra è la bellezza della donna, altra la bellezza dell'opera d'arte; altre le ragioni della commozione che produce in noi la prima, altre le ragioni della commozione che produce in noi la seconda; ma non è possibile avere così vivo senso della bellezza della persona umana, com'ebbe il Leopardi, senz'avere in pari tempo un qualche senso delle arti figurative. Al Leopardi, più che il senso interno, fece difetto l'esterno. Gli occhi vulnerati e stanchi non concedevano al poeta tutto il godimento di cui l'animo sarebbe stato capace; e più di una volta, per certo, egli si tenne dallo andar ricercando ciò che non avrebbe potuto contemplare senza preoccupazione e tormento. Però scriveva da Firenze a Pietro Brighenti: «Firenze non sarebbe certamente il luogo ch'io sceglierei per consumar questa vita. Ma durando ancora la mia debolezza degli occhi, e però non avendo io ancora potuto vedere le tante cose rare e notabili di questa città, mi fermo tuttavia qui, perchè, se partissi, il viaggio sarebbe stato quasi inutile»[217]. Lo Schopenhauer che questa miseria non conobbe, nè la più parte dell'altre che afflissero il cantore della Ginestra, fu, in Germania e in Italia, e pertutto ov'ebbe a trovarsi, un appassionato e diligente visitatore di chiese, di gallerie, di musei: e da quadri e da statue, che più d'una volta gl'inspirarono versi, trasse argomenti a conferma delle proprie dottrine. Alcune arti il Leopardi amò presso [171] a poco a quel modo che amò le donne, platonicamente vagheggiandole nella fantasia; ma questo amor gli fu caro, ed egli pensava con angoscia al tempo in cui
Ogni beltate di natura o d'arte
diverrebbe inanime e muta al suo spirito[218].
Se ricordiamo che l'arte del ballo fu definita una scultura mobile e vivente; se consideriamo che quest'arte sembra inventata a bella posta per accrescere seduzione e dare ogni maggiore spicco alla bellezza e alla grazia muliebre; intenderemo perchè tanto piacesse al Leopardi lo spettacolo coreografico: nè ci meraviglieremo che al fratello Carlo scrivesse: «Ti dico in genere che una donna nè col canto nè con altro qualunque mezzo può tanto innamorare un uomo quanto col ballo; il quale pare che comunichi alle sue forme un non so che di divino, ed al suo corpo una forza, una facoltà più che umana... Insomma, credimi, che se tu vedessi una di queste ballerine in azione, ho tanto concetto dei tuoi propositi anterotici, che ti darei per cotto al primo momento...»[219].
Del sentimento che della natura ebbe il nostro poeta intendo parlar più oltre di proposito, e vedremo allora quanto esteso e di che natura fosse il godimento estetico di lui rispetto a quella. Vediamo per ora altre parti del nostro argomento.
Nel campo estetico del Leopardi il passato ha, senz'alcun dubbio, più parte che il presente; più il pensiero e il sentimento che la sensazione. Le dolcezze maggiori egli le deriva dai ricordi e dalle immaginazioni; ma per quanto si sdegni contro il vero, ha pur vivo il senso di quella che dicesi bellezza intellettuale e non men vivo il senso della bellezza morale. Nessun poeta mai parlò della virtù con accento più appassionato e più sincero, pur giudicandola con Bruto una vana larva, cui si volge a tergo il pentimento. Alla sorella Paolina scriveva nel gennajo del 1823: «la virtù, la sensibilità, la grandezza d'animo sono non solamente le uniche consolazioni de' nostri mali, ma anche i soli beni possibili in questa vita»[220]. Era opinione sua «che la condizione dei buoni sia migliore di quella de' [172] cattivi, perchè le grandi e splendide illusioni non appartengono a questa gente»[221]. Ed è notissima quella stanza dei Paralipomeni della Batracomiomachia, i quali son pure composizione degli ultimi anni del poeta, morto oramai a ogni altra fede, a ogni altro amore:
Bella virtù, qualor di te s'avvede,
Come per lieto avvenimento esulta
Lo spirto mio: nè da sprezzar ti crede
Se in topi anche sii tu nutrita e culta.
Alla bellezza tua ch'ogni altra eccede,
O nota e chiara, o ti ritrovi occulta,
Sempre si prostra: e non pur vera e salda,
Ma imaginata ancor, di te si scalda[222].
Ecco la virtù intesa come una forma della bellezza, anzi come quella bellezza che vince ogni altra; ed ecco la morale che il Leopardi talvolta confuse con la sensitività e la pietà[223], identificata, quasi alla maniera del Fichte e del Herbart, con la estetica.
Del gusto del Leopardi per la poesia fanno dimostrazion sufficiente la vita e le opere, e non mancherà altra occasion di discorrerne: basti qui fare un cenno del piacere vivissimo che quella gli dava, e sempre gli diede, sino quasi all'estremo suo giorno. Il 30 d'aprile del 1817 scriveva al Giordani: «Non mi concede ella di leggere ora Omero, Virgilio, Dante e gli altri sommi? Io non so se potrei astenermene, perchè leggendoli provo un diletto da non esprimere con parole, e spessissimo mi succede di starmene tranquillo, e, pensando a tutt'altro, sentire qualche verso di autor Classico che qualcuno della mia famiglia mi recita a caso, palpitare immantinente e vedermi forzato di tener dietro a quella poesia»[224]. Passati da quel tempo quasi vent'anni, il poeta augurava, come la più grande delle venture, al Pepoli di poter diventare canuto amante della poesia, cioè di seguitare ad amarla da vecchio come l'amava da giovane.
Il Leopardi ebbe vivo e profondo il sentimento del sublime. Il [173] Bruto Minore, l'Infinito, il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, la Ginestra, lasciano nell'anima una impression di sublime che più non si cancella; e così pure qualcuna delle prose, come il Cantico del gallo silvestre. Sublime il concetto che il poeta ha del perpetuo flusso delle cose, e il suo rappresentarsi la vita come un conflitto tragico fra il destino e l'uomo. Fu da qualcuno asserito che chi ha il senso del sublime non può avere il senso del ridicolo. Lo Shakespeare li ebbe entrambi in grado eminente. Non dirò che il Leopardi, attissimo a sentire il tragico, sentisse egualmente il ridicolo e il comico: le satire sue sono a volte acute e mordaci, ma non fanno ridere. Tuttavia un certo senso del comico non gli si può negare, il quale più specialmente si lascia scorgere in taluna delle sue operette morali, come la Scommessa di Prometeo e il Copernico. Certo, per questo rispetto, ei non si potrebbe paragonare ad Arrigo Heine. Può essergli in qualche modo paragonato per l'ironia; ma non conobbe, come il tedesco, sebbene affermi di conoscerla, quella che si rivolge contro il proprio suo autore. E non si può dire che molto conoscesse l'umore, il quale potrebb'anche essere definito un senso del comico nel tragico, e che a giudizio del Bahnsen, il più intero forse e conseguente dei pessimisti, è la sola forma di pensiero e di sentimento che convenga all'uomo superiore[225].
Il campo estetico di ciascun di noi varia continuamente, si allarga, si restringe, si offusca, si rischiara, è in istrettissima relazione con l'età, le occupazioni, lo stato d'animo, la salute, l'ambiente fisico e morale. Quello del Leopardi variò molto e spesso, e s'andò restringendo e offuscando più presto di quanto suole avvenire nel corso normale della vita. E con esso variò la natura e la misura del godimento estetico.
Il Leopardi, sebbene fu infelicissimo, non fu però di quegli estremi infelici che non pajono aver senso se non del dolore, e tanto solamente vivono quanto soffrono. Il Leopardi fu, per non breve numero d'anni, e anche sotto l'aggravarsi del male, largamente capace di quelli che si addimandano piaceri superiori; e giustamente così si addimandano, [174] perchè, come già osservava il Maupertuis, durano più degli altri, e perchè (come nota uno scrittore contemporaneo) si possono più agevolmente e più a lungo far rivivere nella memoria[226]. Dalla stessa sua complessione il Leopardi, a cui gli stoici del resto insegnavano a disprezzare i piaceri volgari, era inclinato a cercare soltanto i piaceri superiori: e qui si vede come certo stato abituale di debolezza organica, e certo grado di malattia, possano, dando certo necessario indirizzo alle occupazioni e alla vita, favorire il genio e le sue manifestazioni.
Senza voler punto escludere i piaceri inferiori, gli è tuttavia fuor di dubbio che i piaceri superiori sono in estetica i più importanti, sono i piaceri estetici per eccellenza. Il Leopardi non gustò tutto il possibile piacere estetico, nè v'è uomo atto a tutto gustarlo; ma quel tanto, e fu pur molto, ch'egli gustò, gustò lungamente, profondamente. E da ciò ebbe a venire non poco sollievo a' suoi mali; e fors'egli, che ogni altro piacere ebbe in conto di negativo, non fu lontano dalla opinione del Hartmann che, contraddicendo allo Schopenhauer, assevera l'indole positiva del piacere estetico. Non m'indugerò a noverare gli elementi di sì fatto piacere nel Leopardi, bastandomi di avvertire che il fantastico, il sentimentale, l'associativo, prevalgono, a mio credere, su tutti gli altri.
Nel terzo e quarto capitolo del Parini il Leopardi considera ed enumera le condizioni che si richiedono a poter gustare il piacere estetico. Ci vuole innanzi tutto quella interezza d'animo e quella sensitività, che, non solamente vengono a mancare con gli anni in ciascun uomo, ma sono ancora scemate, secondo l'opinion del poeta, dalla scienza, dalla esperienza, dalle infermità e dalle altre traversie della vita. Gli antichi gustarono quel piacere assai meglio di noi, perchè «ad essere gagliardamente mosso dal bello e dal grande immaginato, fa mestieri credere che vi abbia nella vita umana alcun che di grande e di bello vero, e che il poetico del mondo non sia tutto favola»[227]. Chi vive in città grande difficilmente potrà ricevere dalla natura o dalle arti «alcun sentimento tenero o generoso, alcun'immagine sublime o leggiadra. Perciocchè poche cose sono tanto contrarie a quello stato dell'animo che ci fa capaci di tali diletti, quanto la conversazione di questi uomini, lo strepito di questi luoghi, lo spettacolo della magnificenza [175] vana, della leggerezza delle menti, della falsità perpetua, delle cure misere, e dell'ozio più misero, che vi regnano»[228]. Ancora, per essere capace di quel godimento, l'animo dev'essere riposato, sgombro di male passioni e di basse preoccupazioni, e sopra tutto aperto e penetrabile. Il poeta ebbe ad osservare più di una volta che anche agli animi meglio disposti da natura a ricevere que' sentimenti teneri e generosi, quelle immagini sublimi e leggiadre, «intervengono moltissimi tempi di freddezza, noncuranza, languidezza d'animo, impenetrabilità, e disposizione tale, che, mentre dura, li rende o conformi o simili agli altri detti dianzi, e ciò per diversissime cause, intrinseche o estrinseche, appartenenti allo spirito o al corpo, transitorie o durevoli»[229]. Di ciò ebbe a fare esperienza lo stesso poeta, e ne lasciò documento così nelle lettere come nei versi, e più di proposito nel Risorgimento.
A chiudere questo capitolo possono venire opportune alcune brevissime considerazioni generali suggerite dal detto sin qui. Il Leopardi è in estetica un intellettualista. La dottrina del puro bello formale, quale comunemente s'intende, non può essere dottrina sua. Per lui, ciò che dicesi contenenza, non solo non può essere, com'è per la scuola realistica in genere, e per la herbartiana in ispecie, indifferente; ma è anzi la cosa capitale, il proprio subbietto dell'arte; sebbene poi egli curi tanto la forma e la tecnica quanto la neglesse la scuola hegeliana. Per questo rispetto egli si accorda con lo Schopenhauer e col Hartmann. Agli hegeliani si accosta quando pone il bello della fantasia, o vogliam dire dell'arte, sopra il bello della natura; ma se ne allontana di molto quando al bello astratto e generale prepone l'individuato e concreto. Egli è anche da dire un ottimista estetico tutte le volte che giudica bello il mondo considerato in se stesso; tale cioè, secondo il concetto dello Schopenhauer e del Hartmann, che, preso quale oggetto di pura e disinteressata contemplazione, produce in noi più impressioni piacevoli che dispiacevoli. Il Bahnsen è un pessimista anche in estetica. Da ultimo è da notare che pel Leopardi l'estetica e l'edonistica sono strettamente congiunte: le care illusioni hanno un doppio valore, eudemonistico ed estetico; le arti non hanno altro fine che di mitigare l'umana infelicità.
[176]
Di tutte le arti, la musica forse è quella che più vale a temperare ed assopire il dolore, a rasserenar l'animo, e a trarlo in certa quale maniera fuori del mondo e fuor di sè stesso. Gli antichi simboleggiarono la sua virtù di penetrazione e la quasi onnipotenza del fascino nel mito di Orfeo, che si trae dietro, al suono della lira, le fiere e le piante e i sassi; e nei miti affini di Amfione e di Arione. Pitagora conobbe in lei una possente medicina, non meno del corpo che dell'anima; e molti riscontri ha nelle storie il caso di Saulle, di cui Davide calmava le furie con le note dell'arpa. Platone e Aristotele la giudicarono parte nobile ed importante della educazione; e tutte le religioni se ne giovarono più e meno; e più che tutte il cristianesimo, in quell'arduo e delicato suo magistero di allacciare, penetrare, conquidere gli animi. Gli antichi Egizii posero la musica tra le divinità. Apollo inventò la lira, Minerva il flauto, Pane la siringa; Santa Cecilia divenne l'avvocata e la protettrice dei musici. Le sfere si girano al suono di una armonia ineffabile: il paradiso cristiano echeggia di perpetui e dolcissimi canti; e dalla terra talvolta i puri e gli eletti gli ascoltano in un rapimento, e nell'ora della morte ne ricevono consolazione e letizia suprema.
Il Leopardi sentì vivamente, squisitamente la musica; ma poichè non tutti coloro che la sentono molto la sentono a un modo, bisogna vedere in che modo il Leopardi l'abbia sentita. Nessun'altr'arte sembra gli procurasse mai emozioni così profonde, godimento così pieno ed intenso. «La musica, se non è la mia prima, è certo una mia gran passione, e dev'esserlo di tutte le anime capaci di entusiasmo», scriveva egli nell'aprile del 1820 al Brighenti[230]. Tale passione non fu conosciuta dal padre, il quale anzi ostentava un certo disprezzo pei [177] trilli e le cavatine; nè si sa che l'abbia conosciuta la madre, la quale, del resto, dovendo attendere al governo non meno del patrimonio che della famiglia, non avrebbe di certo potuto secondarla, quando pure l'avesse avuta; ma fu passione comune alla più parte dei figliuoli. Di Carlo sappiamo che una volta corse a piedi (e c'è un bel tratto) da Recanati ad Ancona pel solo gusto di udirvi la Malibran; e in una sua lettera al fratello leggiamo: «A Sinigaglia io bolliva d'idee e di sensazioni, e il canto della Lorenzani m'insegnava nuovi segreti del cuore»[231]. E di questa o di altra cantante pare s'innamorasse[232]. La Paolina si dilettò molto di musica e ne fu anche molto intendente. Luigi, il quartogenito, che non ebbe mai il capo allo studio, e morì giovane di ventun anno, accoppiava il gusto della musica a quello del tornio, e sonava, dicono, molto bene un flauto di bossolo che s'era fabbricato da sè.
Della virtù pressochè soprannaturale della musica parla più distintamente il Leopardi in due delle sue poesie; cioè nell'Aspasia, e in quella intitolata Sopra il ritratto di una bella donna, scolpito nel monumento sepolcrale della medesima. Nella prima leggiamo:
Raggio divino al mio pensiero apparve,
Donna, la tua beltà. Simile effetto
Fan la bellezza e i musicali accordi,
Ch'alto mistero d'ignorati Elisi
Paion sovente rivelar.
Nella seconda:
Desiderii infiniti
E visïoni altere
Crea nel vago pensiere,
Per natural virtù, dotto concento;
Onde per mar delizioso, arcano
Erra lo spirto umano,
Quasi come a diporto
Ardito notator per l'Oceàno:
Ma se un discorde accento
Fere l'orecchio, in nulla
Torna quel paradiso in un momento.
In entrambi i componimenti il poeta accosta la musica alla bellezza, e all'una e all'altra attribuisce la stessa virtù. Nel primo l'accostamento [178] è immediato: nel secondo il poeta accenna agli effetti della musica dopo aver detto di quelli della bellezza che pajon segno e sicura spene
Di sovrumani fati,
Di fortunati regni e d'aurei mondi.
Disse il Leibniz la musica essere un secreto esercizio aritmetico dell'anima, la quale conta senza saper di contare[233]; e il Kant poneva fra le arti belle la musica solo in grazia dei rapporti matematici che passan fra i suoni, e dall'occulto apprendimento di tali rapporti credeva nascesse il piacere. Lo Stendhal affermò quello della musica essere piacere puramente fisiologico. Uno scrittore musicale di molto grido, Edoardo Hanslick, ebbe a sostenere, ora è quasi mezzo secolo, in un libro che fece molto romore, e suscitò molte dispute, non ancora finite, la musica non avere altra sostanza e altro contenuto che di suoni, e non doversi proporre, nè di esprimere, nè di far nascere sentimenti[234]. Senza voler punto entrare nella difficilissima e forse mal posta questione[235], gli è certo che il Leopardi non si accorda con nessuno di costoro, mentre s'accorda con altri, ch'ebbero della musica altro sentimento ed altro concetto. Lo Schiller disse la musica esprimere l'anima; lo Schelling, contener essa le forme delle idee eterne; Giorgio Hegel, essere il suo dominio superiore a quello della vita reale; il Lamennais, significare la musica i tipi eterni delle cose; il Vischer, esser essa lo stesso ideale. Il Beethoven giudicava le rivelazioni della musica superiori a quelle della filosofia; e il Gounod, ricordando una rappresentazione dell'Otello del Rossini, alla quale aveva assistito nella sua fanciullezza, scriveva: «Il me sembla que je me trouvais dans un temple, et que quelque chose de divin allait m'être révélé». Il Carlyle definì la musica una specie di linguaggio inarticolato e imperscrutabile, il quale ci guida sino all'orlo dell'infinito, e ci lascia, per un istante, spingere nell'abisso lo sguardo; e il Poe disse che nella musica vien fatto all'animo umano di creare bellezza soprannaturale.
Con tutti costoro ben s'accorda il Leopardi; e più ancora s'accorda [179] forse con lo Schumann e col Berlioz, nella fantasia dei quali l'immagine della donna amata si compenetrava e fondeva con la immagine musicale. Ma più che con essi tutti consente (ed è cosa che vuol essere da noi particolarmente notata) con lo Schopenhauer, col quale in tante altre cose, senza saperlo, consente. Lo Schopenhauer fu appassionatissimo di musica, e ne scrisse con mente di filosofo e cuore di artista. La disse arte meravigliosa; la più possente delle arti; quella che immediatamente esprime il volere, cioè il principio essenziale ed universale che si appalesa nelle singole e individuate esistenze; quella che ci fa penetrare sino al cuore delle cose; occulta filosofia. Egli disse ancora il mondo potersi chiamare una musica corporata; e la musica parlare a noi di altri mondi e migliori; rivelarci da lungi un paradiso inaccessibile; essere la panacea di tutti i mali[236]. Poeta e filosofo esprimon quasi le stesse idee, parlan quasi lo stesso linguaggio.
Notiam di passata che di tutte le arti la musica è quella che deve meglio confarsi allo spirito e al sentimento dei pessimisti, se pure la inclinazione dell'animo non è scemata in essi dalla imperfezione degli organi. Le altre arti, senza poterne escludere nemmen la poesia, troppo ritengono dell'aborrita realtà, e, per quanto facciano, non è possibile mai che se ne emancipino in tutto. La musica si scioglie da ogni servaggio d'imitazione, e crea un mondo libero e nuovo ch'è tutto in lei, e realizza ed esprime, con magistero miracoloso, tutto ciò che negli animi nostri è più vago, più lieve, più occulto. Sembra davvero talvolta che essa si redima, se non dal tempo, dallo spazio, dalla ferrea legge di causalità, dalle condizioni tutte dell'essere transitorio e finito. Alcune vecchie leggende, ove si narra di rapiti e di estatici che, ascoltando una musica arcana, vissero secoli, stimandoli ore, esprimono immaginosamente questa cara illusione.
Abbiamo veduto come il Leopardi accompagni insieme la bellezza muliebre e la musica, e ne faccia quasi una coppia estetica. Se la donna appare agli occhi suoi più seducente nella danza che nel canto, non è già che anche nel canto non gli appaja seducentissima. Egli non può ripensare alla Silvia senza riudire quel dolce canto di lei, onde
Sonavan le quïete
Stanze e le vie dintorno;
[180]
e se ricorda come la Nerina (non importa ora cercare se la Nerina e la Silvia sieno due persone diverse o una sola) iva danzando, splendente di gioja e del caro lume di giovinezza, si duole di non più udir quella voce, di cui bastava un lontano accento a scolorargli il viso. Vagando per la campagna la notte, il giovane poeta aveva sussultato, udendo improvvisamente l'arguto canto d'ignota fanciulla:
qualor nella placida quïete
D'estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L'erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all'opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze
L'arguto canto, a palpitar si move
Questo mio cor di sasso[237].
E se più tardi il poeta ebbe ad innamorarsi di Marianna Brighenti, valentissima cantatrice che lasciò le scene quando appunto la fama di lei più veniva crescendo, chi vorrà non credere che in quell'innamoramento avesse parte la musica, che fu galeotta di tanti altri amori?
Il Leopardi non ebbe voce da spendere nel canto, non sonò nessuno strumento, non conobbe punto la tecnica musicale; e non tanto godette di ciò onde assai volte più sogliono godere i musicisti di professione, cioè a dire dei suoni per sè e della composizione e degli accenti loro, quanto delle idee e dei sentimenti che quelli possono mettere in moto. Il piacer suo nasceva, la più gran parte, dal complicato e secreto lavoro delle associazioni psichiche, e la musica egli giudicava con i soli criterii del sentimento e della fantasia: ciò che spiega alcune particolarità del suo gusto.
Certo, un'anima dotata d'intenso e profondo sentimento musicale non può non rimanere offesa da tutto che offende l'arte diletta; onde,
se un discorde accento
Fere l'orecchio, in nulla
Torna quel paradiso in un momento;
ma quell'anima può anche, in determinate condizioni, compiacersi di una musica rudimentale e difettosa, purchè gliene vengano le suggestioni [181] opportune, purchè si lasci tradurre in linguaggio di associazioni. Secondo congiunture di tempi, di luoghi, di sentimenti e d'immaginazioni, uno di questi organetti che vanno scerpando per le vie le composizioni dei grandi e piccoli maestri, può straziare o accarezzare un orecchio delicato; può strappare altrui un grido d'indegnazione, o spremere dagli occhi le lacrime. Il Leopardi fu, sembra, prontissimo a ricevere la suggestion musicale, anche quando provenisse da povera fonte, e tenace poi nel serbarne il ricordo. Ne abbiamo un bello e curioso esempio in questi versi della Sera del dì di festa:
Ahi per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell'artigian che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello:
E fieramente mi si stringe il core,
Al pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia.
. . . . . . . . . . . . . . .
Nella mia prima età, quando s'aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s'udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
Notisi come quel rozzo canto che passa nella via, e lontanando muore, súbito sollevi la mente del poeta alla considerazione di tutto ciò che passa e muore nel mondo; ond'egli ricorda gli avi famosi e il grande impero di Roma, e finalmente conclude:
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Errerebbe a mio giudizio di grosso chi in tutto questo, invece di un procedimento di associazioni, che nell'animo del Leopardi è spontaneo e naturalissimo, non vedesse altro che una volata lirica e un artifizio retorico. Qui l'impression musicale deriva la massima parte del suo valore estetico dall'abituale contenuto della coscienza[238].
[182]
E così in molti altri casi. Nelle Ricordanze, udendo il suon dell'ora che dalla torre del borgo gli arreca il vento, il poeta rammenta:
Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin.
Nella canzone Alla sua donna sono ricordate
le valli ove suona
Del faticoso agricoltore il canto;
e nel Tramonto della luna il canto del carrettiere che saluta
con mesta melodia
L'estremo albor della fuggente luce
Che dianzi gli fu duce.
Egli è certo dunque che nella musica il Leopardi dovette pregiare, non tanto i miracoli di una maestria consumata, la ostentazion di una virtuosità rigogliosa, creatrice e vincitrice di ostacoli, le complicazioni e le pompe teatrali; quanto l'arcano e dolce linguaggio che parla alle anime, l'intima virtù suscitatrice di sentimenti ineffabili e di estatici sogni: non tanto un'arte governata da principii e da regole, quanto una magia atta a celare o trasfigurare l'aborrito vero. In Roma, in Firenze, altrove, egli ebbe molte occasioni di assistere allo spettacolo dell'opera, e ne fa ricordo in taluna delle sue lettere; ma non ne parla con quell'ammirazione con cui parla del ballo. Da Roma scrisse una volta al fratello Carlo: «Abbiamo in Argentina la Donna del Lago, la qual musica eseguita da voci sorprendenti è una cosa stupenda, e potrei piangere ancor io, se il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso»; ma si lagnava della intollerabile e mortale lunghezza dello spettacolo, che durava sei ore[239]. A Bologna, dagli amici si lasciava tirare all'opera[240]; ma a Firenze non andò ad ascoltare il [183] Danao del suo concittadino Persiani, perchè i suoi occhi in teatro pativano troppo[241]. Ma oltre il disagio degli occhi, c'erano probabilmente altre ragioni. L'animo del poeta doveva sentirsi meno aperto alle impressioni dell'arte divina in un pubblico teatro, in mezzo al barbaglio dei lumi, al cinguettio di un uditorio frivolo e distratto, alle indecorose pompe della vanità; in luogo insomma dove non è possibile vero raccoglimento: e più di una volta forse gli parve quella una profanazione. A creder questo m'induce un luogo del Parini, notabile, non solo rispetto al sentimento che il poeta ebbe della musica in particolare, ma ancora rispetto al sentimento ch'ebbe dell'arte in generale. Quivi egli comincia dicendo: «Io penso che le opere ragguardevoli di pittura, scultura ed architettura, sarebbero godute assai meglio se fossero distribuite per le province, nelle città mediocri e piccole; che accumulate, come sono, nelle metropoli: dove gli uomini, parte pieni d'infiniti pensieri, parte occupati in mille spassi, e coll'animo connaturato, o costretto, anche mal suo grado, allo svagamento, alla frivolezza e alla vanità, rarissime volte sono capaci dei piaceri intimi dello spirito». Poi, dopo un'altra giusta osservazione circa la sazietà che producono troppe bellezze adunate insieme[242], soggiunge: «Il simile dico della musica: la quale nelle altre città non si trova esercitata così perfettamente, e con tale apparato come nelle grandi; dove gli animi sono meno disposti alle commozioni mirabili di quell'arte, e meno, per dir così, musicali, che in ogni altro luogo»[243].
Ippocrate serbò ricordo di un certo Nicanore, che cadeva in deliquio alle note di un flauto. Una sensitività musicale così esagerata è assai rara, sebbene se ne conosca qualch'altro esempio; ma dovrebbe, sembra, trovarsi più facilmente fra coloro in cui suol essere più eccitabile il sentimento e più viva e pronta la fantasia; cioè fra gli artisti in generale. Ora, è frequentissimo il caso che gli artisti appunto (fatta eccezione, s'intende, dei musicisti) siano poco aperti [184] alla impressione musicale, e poco se ne dilettino: il che potrebbe essere effetto di una specificazione soverchia delle facoltà estetiche e di una troppo esclusiva applicazione di esse a una data forma di arte e a quella soltanto. Fu notato che i pittori sogliono avere più senso musicale, e più inclinano alla musica che gli scultori e gli architetti; ma fu sempre notato che molti letterati e poeti non hanno punto nè quella inclinazione, nè quel senso. Il Balzac detestava la musica; il Gautier preferiva il silenzio; i De Goncourt e il Maupassant si confessavano sordi, ecc. ecc.[244].
Ma sono molti anche gli esempii contrarii; e lasciamo stare che nell'antichità, e poi ancora nel medio evo, finchè musica e poesia durarono congiunte, e formarono quasi un'arte sola e una sola professione, difficilmente i poeti avrebbero potuto essere nemici o noncuranti della musica. Numerosissimi luoghi della Commedia mostrano che Dante ebbe della musica un senso squisito; e ben se ne avvide il Giordani, il quale meditò (quante mai cose meditò e non fece il Giordani!) di scrivere un saggio sopra Dante e la musica. Ogni qual volta parla di canto, di dolci note, di armonie d'organi, il poeta ne parla a guisa d'uomo cui l'arte dei suoni inebbria e rapisce l'anima. L'amoroso canto di Casella, che solea quietar tutte sue voglie, consola ancora, là, sulla prima sponda del purgatorio, l'anima tanto affannata dal terribile viaggio[245]. Il Petrarca, che compose le dolci sue rime ajutandosi col suono e col canto, scriveva dalla solitudine di Valchiusa all'amico Francesco de' SS. Apostoli: «Che dir degli orecchi? Canti, suoni, armonie di corde o di liuti, ond'io già provai tanta dolcezza, che si parea rapirmi fuor di me stesso, qui non avvien che si sentano»[246]: e nel De remediis utriusque fortunae fa che il Gaudio ostinatamente enumeri in contradditorio con la Ragione tutte le dolcezze che derivano dalla musica[247].
Che lo Shakespeare fosse un appassionato di musica tutti quasi i suoi drammi ne fanno fede; e un appassionato fu, come di ragione, [185] il Metastasio, che se ne intendeva assai, e cantava, e componeva, e i suoi versi lo dicono anche troppo. Un appassionato il Goethe non fu, ma pure gustò l'arte del Mendelssohn, che, fanciullo, era andato a trovarlo, e ammirò il Beethoven. Il Klopstock ebbe orecchio finissimo e la musica lo faceva andare in estasi. Il Byron non poteva udire musica tenera o dolorosa senza sciogliersi in lacrime. Il Moore e lo Shelley hanno ciascuno una poesia intitolata Music; e il primo, che per ridurre i proprii versi a maggior perfezione usava cantarli, dice il linguaggio parlato esser languido e povero a paragon della musica[248]; e il secondo rassomiglia il proprio cuore, assetato di musica, a un fiore morente, assetato di rugiada[249]. Nella Lucie di Alfredo De Musset leggiamo:
Fille de la douleur, Harmonie! Harmonie!
Langue que pour l'amour inventa le génie!
Qui nous vins d'Italie, et qui lui vins des cieux!
Douce langue du cœur, la seule où la pensée,
Cette vierge craintive et d'une ombre offensée,
Passe en gardant son voile et sans craindre les yeux!
Qui sait ce qu'un enfant peut entendre et peut dire
Dans tes soupirs divins, nés de l'air qu'il respire,
Tristes comme son cœur et doux comme sa voix?
On surprend un regard, une larme qui coule;
Le reste est un mystère ignoré de la foule,
Comme celui des flots, de la nuit et des bois!
Il Manzoni, quando compose il Cinque Maggio, costrinse la moglie a sonargli il pianoforte, quasi per due giorni di séguito.
Dell'Hugo fu detto che detestasse la musica; ma prima di dar fede a chi lo disse, conviene leggere con qualche attenzione una poesia intitolata Que la musique date du XVI siècle, la quale è nella notissima raccolta dei Rayons et ombres, e conta non meno di 222 alessandrini. Comincia il poeta chiedendo agli amici: Qual è di voi che, sentendosi oppresso dalla tristezza, non abbia trovato nella musica consolazione e conforto? Poi, in versi meravigliosi, che non hanno riscontro in nessun'altra letteratura, descrive, rifà il vasto, vario, ponderoso canto dell'orchestra, il moltiforme miracolo della sinfonia.
[186]
Écoutez, écoutez! du maître qui palpite,
Sur tous les violons l'archet se précipite.
L'orchestre tressaillant rit dans son antre noir.
Tout parle. C'est ainsi qu'on entend sans les voir,
Le soir, quand la campagne élève un sourd murmure,
Rire les vendangeurs dans une vigne mûre.
Comme sur la colonne un frêle chapiteau,
La flûte épanouie a monté sur l'alto.
Les gammes, chastes sœurs dans la vapeur cachées,
Vidant et remplissant leurs amphores penchées,
Se tiennent par la main et chantent tour à tour,
Tandis qu'un vent léger fait flotter alentour,
Comme un voile folâtre autour d'un divin groupe,
Ces dentelles du son que le fifre découpe.
Ciel! voilà le clairon qui sonne. A cette voix
Tout s'éveille en sursaut, tout bondit à la fois.
La caisse aux mille échos, battant ses flancs énormes,
Fait hurler le troupeau des instruments difformes,
Et l'air s'emplit d'accords furieux et sifflants
Que les serpents de cuivre ont tordus dans leurs flancs.
E bisognerebbe citar tutto, sino alla fine. Cosa davvero curiosa! il Leopardi, appassionatissimo di musica, di strumenti musicali non parla; non mostra di prediligerne alcuno; non nota affinità particolari fra certi sentimenti e il suono dell'uno o dell'altro di essi. La voce umana dovette parergli di molto superiore ad ogni istrumento.
Se a non pochi poeti fece difetto il sentimento musicale; se altri l'ebbero, come il Leopardi, assai vivo e profondo; che cosa dobbiam noi pensare delle relazioni che passano tra la poesia e la musica, e della somiglianza, o dissomiglianza loro? Dobbiam noi seguitare a ripetere col Marini, che ridiceva quanto cent'altri avevano detto,
Musica e poesia son due sorelle[250];
o dobbiam finalmente risolverci a dire che tra le due ci può essere conoscenza, ed anche amicizia, ma non consanguineità? Un critico francese contemporaneo si sforzò di provare che quelle relazioni non sono già così strette come comunemente si crede, e che la somiglianza è pochissima, o nulla. Egli esce a dire assai risolutamente: «autant la musique moderne ressemble, au point de vue du rythme, à la poésie-musicale des Grecs, autant elle diffère, à tous les points de vue, de [187] la poésie moderne». E soggiunge: «Toute assimilation de la musique à la poésie est aujourd'hui une simple figure de rhétorique, une chimère ou une idée dangereuse»[251]. Parmi che l'autore dica cosa per molti rispetti giusta, ma che ecceda alquanto nel suo giudizio. La somiglianza che fu in antico, quando le due arti vivevano strettamente congiunte, non mancò mai del tutto dopo che quelle si furono separate, e dura, in una certa forma, tuttavia, come ne fanno fede il comun sentimento e il comune linguaggio. Le due arti hanno, e il critico lo riconosce: «un instrument commun, la voix humaine (dont l'orchestre n'est qu'une extension), et un point de recontre d'ailleurs un peu indécis: le rythme»[252]. Nei versi una musica c'è, e quanta sia, e come efficace, si vede allora che si scompongono i versi e si riducono in prosa. Il buon Baretti consigliava appunto di far così a chi li volesse giudicar rettamente; ma un procedimento sì fatto, se agevola il giudizio del valore logico di una poesia, rende impossibile il giudizio del valore poetico. Aggiungasi che la poesia, perchè se ne senta tutto l'effetto, non bisogna contentarsi di leggerla mentalmente, ma ad alta voce, e, se occorre, declamarla; e la declamazione è già un mezzo canto, cioè una mezza musica, perchè importa continua variazione di tono, di movimento, di colorito, e trae valor dal metallo, dall'impasto e dalla estensione della voce[253]. Un maestro della difficilissima arte del leggere, Ernesto Legouvé, biasimando severamente la stolta usanza di coloro, che, quando leggono versi, fanno il possibile perchè non pajano versi, ma prosa, scrisse: «Puisqu'il y a un rythme, faites sentir le rythme! Quand les vers sont peinture et musique, soyez, en les lisant, peintre et musicien! Que de passages où le pathétique lui-même naît de l'harmonie![254]». Si può dire che la declamazione è un'arte diversa dalla poesia, pur diventando, in certe occasioni, sussidiaria di quella; ma mentre non [188] intendo che razza d'arte possa essere la declamazione presa in sè stessa, separatamente cioè dal discorso poetico (versi o prosa), non intendo nemmeno come si possa fare arte diversa e sussidiaria di quello speciale procedimento o metodo da cui un'altr'arte viene a ricevere il suo maggior possibile valore e la maggior possibile significazione. La poesia non è un'arte muta come la pittura, la scultura, l'architettura; la poesia è un'arte parlata, un'arte sonora, come la musica. E se è assurda la pretensione di coloro che vogliono fare della poesia una musica, e non altro che una musica; non è già assurdo che, come il musicista si giova di certi strumenti per produrre certe impressioni, così il poeta si giovi di certi suoni per produrre certi effetti. E poichè non tutte le lingue sono musicali egualmente, riman confermato, anche per questo capo, che non tutte le lingue sono egualmente poetiche.
Fu asserito già da più d'uno che gli oratori possono trarre dallo studio della musica beneficio non piccolo: ma se è vero ciò; se è vero quanto più in generale afferma lo Spencer, che, cioè, la musica reagisce sulla parola parlata; non si capisce perchè dallo studio, o almeno dal natural sentimento della musica, non avessero ad avere qualche beneficio anche i poeti. A riuscire poeta non è necessario gustare la musica; troppi esempii lo provano. Ma non credo sia del tutto indifferente che il poeta la gusti o non la gusti; nè credo possibile che dall'amore o dall'avversione un qualche effetto non derivi all'arte sua. Non so sino a qual segno il poeta che gusta la musica possa avere miglior senso del ritmo poetico, e formar versi di miglior suono, a paragone del poeta che non la gusta; ma credo che quello che la gusta sia tratto, se non altro, a esprimere con la propria poesia piuttosto certi sentimenti che certi altri, e quei sentimenti in ispecie che meglio si affanno alla musica, e furon perciò detti musicali.
Un'ultima osservazione. Avvertì Salomone nei Proverbii: «Simile a colui che tolga ad uno la veste in una fredda giornata, o versi l'aceto nelle ferite, è colui che ad uomo triste canta allegre canzoni». Nulla è più vero. I melanconici non amano se non la musica melanconica, e detestan la gaja. Ma è pur da ricordare che l'intelletto, l'eterno curioso, può far vincere all'uomo moltissime ripugnanze. Il Leopardi preferì, senza dubbio alcuno, la musica triste, anzi si deve tenere per fermo che non amò se non quella; ma ciò non gli tolse già d'andare ad ascoltare in Roma un'opera buffa, che non gli piacque [189] punto[255], e in Napoli il Socrate immaginario, musicato dal Paisiello, che gli piacque moltissimo[256]. Se si pensa alla diversa impressione che la melodia e l'armonia producon nell'animo, è da credere che il Leopardi inclinasse più alla prima che alla seconda.
Qui, forse più che altrove, bisogna distinguere nella vita di Giacomo Leopardi un prima e un dopo, essendo questo della natura un sentimento che varia moltissimo, con la età, le occupazioni, le esperienze, le vicende, la salute dell'uomo.
Se dovessimo credere alla tarda testimonianza di Antonio Ranieri, il poeta avrebbe nutrito per la campagna un «odio ingenito»; nessun altr'uomo avrebbe «tanto odiato la campagna quanto Leopardi la odiava»[257]. Un tempo fu creduto al Ranieri ogni cosa sul conto del Leopardi; ora non gli si vorrebbe creder più nulla. Anche in ciò, probabilmente, la via giusta sarà la via di mezzo tra l'uno e l'altro eccesso. Può essere che negli ultimi anni della sua travagliatissima vita il Leopardi prendesse in avversione la campagna, come tante altre cose aveva già prese in avversione; ma ciò non prova punto ch'egli l'avesse odiata sempre; e il Ranieri ebbe sicuramente torto di parlare di odio ingenito; e anche più torto hanno coloro che tiran fuori la testimonianza del Ranieri per asserire che il Leopardi non ebbe vero sentimento della natura.
Da giovane anzi, quando, innamorato di solitudine, fuggiva coloro da cui era fuggito, e accusava la luna se lui scopriva all'altrui sguardo, o altri al suo; quando si doleva d'aver conosciuto le cittadine infauste mura e l'umano consorzio; quando scriveva la Vita solitaria e il Passero solitario; il Leopardi amò la campagna e amò la [190] natura. Della patria sua non altro gli piaceva che lo spettacolo dei colli e dei campi, con gli Apennini da una banda e il mare dall'altra; ma quello piacevagli soprammodo e lo consolava di tanti disgusti. «Quando io vedo la natura in questi luoghi che veramente sono ameni (unica cosa buona che abbia la mia patria) e in questi tempi spezialmente, mi sento così trasportare fuori di me stesso che mi parrebbe di far peccato mortale a non curarmene.....»[258]. Di sì fatto amore non è capace chi non sappia vivere in solitudine; e chi della solitudine si piace non è quasi possibile che non inclini a quell'amore. Ho già ricordato un luogo del Parini ove il poeta dice di non intendere come chiunque vive in città grande, eccetto se non trapassi il più del tempo in solitudine, possa mai ricevere dalle bellezze della natura «alcun sentimento tenero o generoso, alcun'immagine. sublime o leggiadra»[259]. Chi legge con qualche attenzione alcune poesie del Leopardi non può non sentirvi quel particolar tuono di famigliarità e di tenerezza che solo può nascere dalla convivenza stretta, dalla lunga consuetudine.
Ora si noti che la età in cui gli uomini più si sentono attratti dalla natura non suol essere l'età della giovinezza. I giovani, troppo curiosi di conoscere il mondo umano e la vita, troppo desiderosi di accaparrar l'avvenire, tendono spontaneamente colà dov'è maggiore frequenza e varietà di uomini, ove la vita è più intensa e molteplice; alle grandi città. Essi sono di loro natura così inquieti e mutabili, che malamente si possono accordare con la quieta e non mutabil natura; e il muto linguaggio di questa è così disforme dal loro, che essi, o non lo intendono, o poco l'ascoltano. Lo stesso Leopardi quante volte non lamentò di dover consumare l'età verde, l'unico fior della vita, nel natio borgo selvaggio,
intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper![260]
quante volte, conscio di sè, appassionato di gloria, non desiderò la città grande, il vasto e popoloso teatro, dove l'uomo può farsi vedere [191] e conoscere, raccogliere il plauso ed il premio che gli è dovuto! L'età migliore per amar la natura, e per fruire del suo consorzio, è quella prima e ancor verde stagione della vecchiezza, quando l'uomo, conosciuti gl'inganni e le vanità del mondo, sciolto dalle passioni, ma non esausto di sentimento, sereno, ma non anneghittito, desidera la pace, ed è tuttora in grado di abbellirla con l'affetto e la fantasia[261].
Il Leopardi da giovane amò la natura, e l'amò come Werther, in solitudine, senza amici, con un senso di dolce melanconia, con un intero e tenero abbandono, e in una maniera di vaga ed estatica contemplazione, che non esclude la visione degli aspetti parziali e particolari, ma non lascia che alcuno di essi spicchi troppo fra gli altri[262]. C'è in una lettera ormai famosa, scritta dal nostro poeta al Giordani ai 6 di marzo del 1820, da Recanati, un passo che nessuno si meraviglierebbe di leggere in una lettera del giovine Werther. «Sto anch'io sospirando caldamente la bella primavera come l'unica speranza di medicina che rimanga allo sfinimento dell'animo mio; e [192] poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro, un bel raggio di luna, e sentendo un'aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo. E in quel momento dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla quale ero certo di ritornare subito dopo, com'è seguìto, m'agghiacciai dallo spavento, non arrivando a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo; delle quali cose un anno addietro si componeva tutto il mio tempo, e mi facevano così beato, non ostante i miei travagli»[263].
La riflessione può venir distinguendo nel sentimento e nel godimento della natura tre modi, i quali difficilmente nella pratica possono rimanere dissociati del tutto; anzi, con varia proporzione, si associano fra di loro, e mutuamente si condizionano. La natura può essere goduta: sensualmente, da chi ne guardi sopratutto gli aspetti; sentimentalmente, da chi si finga con essa certa comunione di affetti e di vita; intellettualmente, da chi ne indaghi e ne ravvisi l'ordinanza e l'essere. I poeti e gli artisti, in genere, sono quelli che ne godono sensualmente e sentimentalmente; gli scienziati e i filosofi, in genere, sono quelli che ne godono intellettualmente.
Io non ho a tesser qui una storia del sentimento della natura, mostrando quale e quanto sia stato nell'antichità, poi nei tempi di mezzo, poi nei tempi moderni; e perchè si abbia in conto di sentimento assai più moderno che antico; e come le vicende della civiltà l'abbiano condotto a quella condizione e a quel grado in cui lo vediamo al presente. Così fatte storie non mancano, e di molti de' maggiori poeti s'andò ricercando, da trent'anni a questa banda, qual fosse propriamente il sentimento della natura. Perciò, tralasciando ogni altra considerazione generale, vengo a dire del sentimento del Leopardi in particolare, e, prima di tutto, cercherò di definirne il temperamento e il carattere.
Il Leopardi, secondo porta l'indole sua, non contempla la natura quale semplice soggetto conoscente, ma bensì quale soggetto [193] conoscente e appassionato. Egli non gusta, direbbe lo Schiller, la natura nel modo ingenuo, ma nel modo sentimentale, in quanto che viene associando le impressioni di quella coi sentimenti, le preoccupazioni e i ricordi proprii, o interpretando la natura secondo sè stesso. Il modo del suo sentimento si scosta affatto dal classico, e si assimila molto al romantico, quale fu descritto da madama di Staël: «Un nouveau genre de poésie existe dans les ouvrages en prose de J.-J. Rousseau et de Bernardin de Saint-Pierre; c'est l'observation de la nature dans ses rapports avec les sentiments qu'elle fait éprouver à l'homme. Les anciens, en personnifiant chaque fleur, chaque rivière, chaque arbre, avaient écarté les sensations simples et directes, pour y substituer des chimères brillantes; mais la Providence a mis une telle relation entre les objets physiques et l'être moral de l'homme, qu'on ne peut rien ajouter à l'étude des uns qui ne serve en même temps à la connaissance de l'autre»[264]. Questo giudizio è giusto. L'uomo non potè sentir sè nella natura, trasfondersi in lei, se non dopo averne espulse le anime divine che tutta la occupavano. Ciò appunto ebbe a notare lo Chateaubriand, quando disse la mitologia essere stata quella che tolse agli antichi di vedere e dipingere la natura come i moderni la vedono e la dipingono. Riman da avvertire che l'uomo il quale solo vede la natura attraverso i proprii affetti, non la conosce gran che meglio dell'uomo che solo la vede attraverso le proprie immaginazioni; e che la natura non è meno alterata dall'antropomorfismo del sentimento che dall'antropomorfismo del mito. Il sentimento che abbiam detto romantico, allora tocca l'estremo suo grado quando l'uomo si sente quasi confuso con la natura, non sa più da essa discernersi. Chiedeva il Byron: Non sono le montagne e l'onde e i cieli una parte di me e dell'anima mia, com'io di loro?
Are not the mountains, waves and skies, a part
Of me and of my soul, as I of them?
Al Leopardi parve talvolta di sentirsi confuso co' silenzii del solitario luogo, dove, sedendo immoto, consumava l'ore obblioso del mondo, inconscio quasi di sè[265].
[194]
Il Leopardi amò da giovane la natura di un amore che molto s'assomiglia all'amore ch'ei nutrì per la donna. Il Leopardi ebbe da natura un'anima amante, guastatagli poi dalla esperienza, e più dal male. Parlando di sè sotto nome di Eleandro, egli dice: «Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva»[266]. Leggansi quei primi, indimenticabili versi delle Ricordanze, e si vegga quanto affettuosa e dolce e piena fosse stata la comunione e la confidenza di lui con la natura, quando, fanciullo ancora, passava le sere contemplando le vaghe stelle dell'Orsa,
ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna;
e distraeva l'occhio dalle luci del cielo, che tante fole gli creavano nel pensiero, per vagheggiare la lucciola errante appo le siepi e in sull'aiuole, e porgeva l'orecchio al sussurro che levavano al vento
I viali odorati ed i cipressi
Là nella selva.
Quelle prime impressioni non gli si dileguarono dalla memoria mai più. Desto assai per tempo all'amor della donna, egli aveva, a diciannov'anni, dimenticato, insieme con l'amor della gloria e degli studii, anche quello della natura:
Quando in dispregio ogni piacer, nè grato
M'era degli astri il riso, o dell'aurora
Queta il silenzio o il verdeggiar del prato[267];
ma poi aveva, come il Goethe, amato in cospetto della natura, chiamando lei testimone di quella vita nuova e di quella nuova letizia, a cui si sentiva nascere; versando nel materno seno di lei quell'onda di felicità che gli traboccava dall'anima; confondendo insieme i due amori:
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti
E quinci il mar da lunge, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Ciò ch'io sentiva in seno[268].
[195]
Il Passero solitario, l'Infinito, la Vita solitaria, composizioni tutte della prima giovinezza del poeta, nate, la prima, nell'aprile del 1818, l'altre due l'anno successivo, esprimono in vario modo un sentimento medesimo. Nella prima è la tenerezza che mette ne' cuori la primavera, la quale
Brilla nell'aria e per li campi esulta;
è l'allegrezza delle creature festeggianti il lor tempo migliore. Nell'altre due la contemplazione della natura suscita un pensier panteistico, provoca lo smarrimento dell'anima nell'infinito mare dell'essere:
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura[269].
E il pensier suo s'annega in quella immensità, e gli è dolce naufragare in quel mare. Svegliato dal sole nascente, che
I suoi tremuli rai fra le cadenti
Stille saetta,
egli sorge, e benedicendo s'affaccia allo spettacolo delle cose:
E sorgo, e i lievi nugoletti e il primo
Degli augelli sussurro, e l'aura fresca,
E le ridenti piagge benedico.
La natura gli addimostra ancora alcuna pietà, sebbene gli sovvenga di giorni in cui ell'era verso lui assai più cortese; e a quella pietà egli si fa incontro, e, come pellegrino stanco, posa il capo in grembo all'antica madre e in lei s'addormenta.
[196]
Talor m'assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d'un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, nè batter penna augello in ramo,
Nè farfalla ronzar, nè voce o moto
Da presso nè da lunge odi nè vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto, e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, nè spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Co' silenzi del loco si confonda[270].
Qui la natura è ancora la madre antica e benefica. Qual de' suoi figli può non amarla, se essa tutti gli ama? Udite Vittore Hugo:
Ainsi, nature! abri de toute créature!
O mère universelle! indulgente nature!
Ainsi, tous à la fois, mystiques et charnels,
Cherchant l'ombre et le lait sous tes flancs éternels,
Nous sommes là, savants, poètes, pêle-mêle,
Pendus de toutes parts à ta forte mamelle![271]
La natura che il Leopardi ritrae ne' suoi versi non è nè molto spettacolosa, nè molto variata. Egli non potè approvvigionarsi d'immagini vivendo, come il Rousseau, in mezzo alle austere bellezze dell'Alpi e sulle rive di un lago meraviglioso, o correndo, come lo Chateaubriand, il Byron e lo Shelley, le terre ed i mari. Il grande paesaggio romantico, quale lo amava l'autore della Nuova Eloisa, il paesaggio formato di monti scoscesi, di tenebrose foreste, di torrenti, di cascate, di abissi, non è dipinto, nè abbozzato da lui; e del resto il gusto di esso, che da non molto era sorto in altre regioni d'Europa, non era per anche penetrato in Italia, dove troppo gli contrastavano un senso educato ad altre bellezze e la tradizione classica[272]. I monti e il mare appajono appena, alla sfuggita, in [197] qualche verso. Le sibilanti selve, l'atro bosco, sono indicati con un'unica pennellata. Vere e proprie descrizioni, particolareggiate, colorite, minute, simili a quelle che così frequenti s'incontrano in tanti poeti moderni, e più che negli altri forse, negli Scozzesi, non s'incontrano in lui; ma io non posso credere ch'esse sole rivelino un forte e puro sentimento della natura[273]. Il Leopardi non va erborando come il Rousseau, non osserva la natura delle rocce come il Goethe, non è curioso di pompe e di contrasti di colore come il Leconte de Lisle. Il sentimento ch'egli ha della natura è, starei per dire, un sentimento diffuso, rispondente a una visione di aspetti generici, non di aspetti specifici[274]. Se si tolgono que' pochi versi della Vita solitaria, ov'è tratteggiato il lago cinto di piante taciturne, i tre dell'Inno ai Patriarchi, ov'è dipinto il sole che, dopo il diluvio, emerge dalle nuvole, e alcuni della Ginestra, ove il poeta fa apparire un istante l'arida schiena dello sterminator Vesevo e i campi dell'impietrata lava, non si trova nelle poesie di lui altra descrizione di cui un pittore possa far quadro. Non una volta il Leopardi descrive una scena di paese per sè stessa. Egli, o non ha la percezione completa dello spettacolo naturale, o, avendola, subito comincia a lavorarvi attorno, astraendo e associando; e gli è solo in grazia di questo processo doppio di astrazione e di associazione che un paesaggio può ridursi a non sembrar altro che uno stato d'animo, come disse l'Amiel (un paysage quelconque est un état de l'âme)[275].
Piante e animali il Leopardi guarda fugacemente, senza curarsi di ritrarne in modo distinto e particolare gli aspetti e la vita, come uomo che l'occhio e l'animo abbia rivolto ad altro. Nella Vita solitaria e nell'Infinito fa cenno di piante, ma non dice che piante sieno; e se nell'Ultimo canto di Saffo ricorda il murmure de' faggi, e nelle Ricordanze i cipressi, e nella Ginestra l'arbusto da cui il componimento s'intitola, sono, questi, esempii assai rari di designazione specificata [198] e concreta. Certo, il Leopardi non ebbe col mondo vegetale la dimestichezza grande ch'ebbe, per citare un esempio, il Lenau. Non so se in tutti i versi di lui s'incontrino più di due o tre nomi di fiori. Quanto diverso, per citare un altro esempio, dal Keats, il quale diceva che il diletto più intenso della vita egli aveva provato osservando crescere i fiori!
Gli animali tengono nella poesia del Leopardi un po' più di luogo. Le lepri danzanti al raggio della luna, ricordate nella Vita solitaria; la gallina della Quiete dopo la tempesta, che, cessata la pioggia, torna sulla via e ripete il suo verso; la cauta volpe della canzone A un vincitor nel pallone; la rondinella vigile del Risorgimento; la serpe che si contorce al sole, e il coniglio che torna al covil cavernoso, e la capra pascente sulle città sepolte, della Ginestra; mostrano una osservazione alquanto più attenta, un animo più impegnato. Degli uccelli, in più particolar modo, parla il Leopardi con manifesto compiacimento, e uno de' suoi scritti di prosa s'intitola appunto Elogio degli uccelli. Di questo maggiore interessamento del Leopardi per gli animali parmi vedere una ragione nel fatto che egli, mentre riconosceva fra l'uomo e il bruto una certa comunanza, espressa negli ultimi versi del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, stimava il bruto molto più felice dell'uomo. Non è per questo da credere ch'egli ricevesse nell'animo quel sentimento di universa fratellanza a cui giunsero per diversissime vie San Francesco d'Assisi, lo Schopenhauer, lo Shelley (cor cordium!). Nè quello interessamento giunse mai a inspirargli un canto da poter mettere in qualche modo a riscontro del bellissimo che lo Swinburne intitolò alla rondine, della Mort du loup del De Vigny, della Mort du lion e di tant'altri del Leconte de Lisle. Il Leopardi non manifesta mai in modo esplicito quel fanatico desiderio, comune a molti poeti, di potersi trasformare in uccello, in fiore, in nuvola, ecc.[276].
Il Leopardi, quando pure avesse avuto miglior virtù visiva che non ebbe, non sarebbe mai riuscito un pittor di paese. Le scene che egli ci fa passare rapidamente davanti agli occhi, sono quasi tutte [199] assai larghe, hanno alcun che di sbiadito e di vago, son formate di poche linee e di pochi colori: spaziosi cieli sereni; vasti campi soleggiati; un'apparita lontana di monti turchini; un lembo di mare all'orizzonte; una spiaggia fiorita; un lucido fiume serpeggiante in fondo a una valle; un deserto illuminato dalla luna: tutto ciò nominato, ma non descritto. Veri paesaggi di un miope che non volle mai portare gli occhiali, e nel cui animo subito le immagini si trasformano in sentimenti. La mite scena idilliaca di ridenti piagge, che il poeta benedice nella Vita solitaria, era già apparsa nel Passero solitario:
e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il sol che tra lontani monti
Dopo il giorno sereno
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Sotto il sole
Brillano i tetti e i poggi e le campagne[277].
Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna,
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
. . . . . . . . . . . . . . . .
Ecco il sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville[278].
La luna empie di sua pallida luce la notte senza vento:
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna[279].
C'è uniformità, c'è indeterminazione nel descritto, ma non povertà nel sentito. Più che lo spettacolo della natura, il Leopardi ci dice il sentimento che quello spettacolo suscita in lui: e quel sentimento è vivo. Dal notare più particolarmente e determinatamente gli aspetti delle cose lo ritenne, senz'alcun dubbio, una condizione del senso, ma anche una condizione dell'animo, e forse in notabile misura [200] quella preoccupazione dell'infinito e dell'eterno che da molti luoghi de' suoi scritti si vede essere stata in lui profonda e prepotente. Indugiamoci alcuni istanti a considerare questo punto. Tutti hanno a mente quei pochi versi dell'Infinito, composti dal poeta nell'anno ventunesimo di sua età. Appena ha egli fermati gli occhi su quella siepe, porto l'orecchio allo stormire di quelle piante, che il suo pensiero si leva a volo attraverso il tempo e lo spazio, e che la sua mente si riempie, spaurita, di quello che il Pascal diceva silence éternel des espaces infinis. Il Leopardi ha molto viva ed intensa la nozione astratta del tempo e dello spazio. In una nota giovanile del poeta trovasi questo curioso cenno, che si riferisce agl'Idillii: «Galline che tornano spontaneamente la sera alla loro stanza al coperto. Passero solitario. Campagna in gran declivio veduta alquanti passi in lontano, e villani che scendono per essa si perdono tosto di vista; altra immagine dell infinito»[280]; ove merita considerazione quella idea d'infinito così accostata a immagini concrete e minute. Un canto che si allontani per la via richiama alla mente del poeta la forza eterna del tempo e il dileguare di tutte le cose[281]; e il tacito infinito andar del tempo è tormento al pensiero dell'errante pastore dell'Asia. La vanità del tutto è infinita.
L'amore del Leopardi per la natura fu, in quegli anni, un amore parte idilliaco, parte elegiaco, molto diverso da quello tutto impetuoso e tragico del Byron, e molto diverso ancora da quello tutto tripudiante e ditirambico dell'Hugo. Le cose gli parlavano sommessamente all'anima un arcano linguaggio, penetrato di dolce e tenera mestizia; ed egli nelle cose trasfondeva, con effusione ignota agli antichi, l'anima propria. E in natura non era altro oggetto che così traesse a sè gli occhi e l'anima del poeta come faceva la luna. Sono pochi i canti di lui per entro ai quali non ispanda la luna il suo pallido e mesto chiarore e l'irresistibile fascino; nè questo avviene fortuitamente, o per forza di esempii; ma è effetto di naturali armonie, di corrispondenze secrete. Sonvi stati dell'anima nostra i quali trovano rispondenza meglio adeguata in uno sfolgorante meriggio, e stati che meglio adeguata la trovano nel placido irradiamento lunare. Il [201] sole, scoprendo troppe cose alla vista, e troppo contornate e rilevate, e i sensi tutti quasi sopraffacendo con quel fervore e tumulto di vita ch'ei suscita, nuoce al raccoglimento e alla meditazione, impedisce, sino ad un certo segno, il moto degli affetti teneri e delicati. In contrario modo opera la luna. Lasciando immerse le cose in una semiombra diafana, che, con renderle meno vistose, di quanto attenua l'azione loro sul senso, di tanto l'accresce sulla fantasia, la luna, parte scoprendo, parte velando, non solo favorisce il moto di quegli affetti, e suscita, insieme con le ricordanze, il popolo alato dei sogni, e inclina a quella mite melanconia che sempre ci penetra, ogni qual volta l'anima nostra si ritrovi con sè medesima e come disgiunta dal mondo; ma ancora, spiccando presso che sola, fra le sembianze semispente e confuse, ne' cieli solitarii, pare che attiri a sè gli occhi e lo spirito, inviti alla effusione e alla confidenza. Il sole, divinità vittoriosa e superba, fa chinar gli occhi al suo adoratore. La luna si lascia guardare e par che ci guardi. Il sole è luce più universale e più pubblica (immensi lux publica mundi, disse Ovidio), e sembra aver troppe faccende, e che non possa, padre della vita e suscitator delle opere (vivo cuncta calore fovens), dar retta a noi. Quand'egli appare sull'orizzonte, tutto si desta, si commuove, si agita. La luna regna sulla quiete della natura, e non pare abbia altra occupazione che di risplendere in cielo. Il silenzio delle cose a noi sembra silenzio di lei (amica silentia lunae), atta ad intenderci, disposta ad ascoltarci. Ed è per questa ragione che la poesia dolce e melanconica, la poesia dei dubbiosi desiri e dei rimpianti soavi ed amari, vagheggiò sempre la luna; ed è per questo che gl'innamorati e gl'infelici di tutti i tempi l'ebbero cara, e piansero, contemplando il suo candido volto, lacrime di tenerezza o d'affanno; dacchè la luna ha un volto che il sole non ha[282].
[202]
Chi ama la natura come il Leopardi l'amò, con la disposizione d'animo che nel Leopardi abbiam conosciuta, amerà di particolare amore la luna, perchè in lei, più facilmente che in qualsiasi altro oggetto della natura, immaginerà quel senso umano, quella reciprocazione d'affetto a cui agogna il suo cuore. Nei versi e nelle prose del nostro poeta non troviamo, a dir vero, nessuna di quelle meravigliose, affascinanti pitture di scene illuminate dalla luna alle quali sono indissolubilmente legati i nomi di Bernardino De Saint-Pierre e dello Chateaubriand; ma nessun altro poeta al mondo fu più invaghito di lei, nè con più grazia e sentimento parlò della sua casta e dolce bellezza. Graziosa, cara, diletta, aurea, benigna, candida, vezzosa, intatta, vereconda, sono gli epiteti con cui egli la saluta ed invoca. Lo spectral moon dei poeti inglesi sembra essergli sconosciuto; sconosciuta la luna ipocondriaca, lugubre e diabolica del Lenau, e la sfregiata e grottesca, derisa dal De Musset. Agli occhi suoi, come agli occhi del contemporaneo suo Enrico Neele, la luna è eternamente bella, for ever beautiful. Non mai stanco di contemplarla, egli la vede pendere sulla selva, veleggiare fra le nubi, guardar giù dai cieli sereni,
Dominatrice dell'etereo campo[283],
[203]
questa flebile umana sede; vede il bianco suo raggio (Il biancheggiar della recente luna), al cui mite splendore danzan le lepri nelle selve, posar queto, per entro la notte chiara e senza vento, sui tetti e in mezzo agli orti, e scoprire alla vista lieti colli e spaziosi campi. Quasi fanciullo ancora, egli veniva, già piena l'anima d'angoscia, e velati gli occhi di pianto, a intrattenersi con lei:
O graziosa luna, io mi rammento
Che or volge l'anno, sovra questo colle
Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
. . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . chè travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta luna[284].
Loderà egli sempre il vezzoso suo raggio, e lunge dagli abitati lochi e dall'umano consorzio, avrà lei sola compagna ed amica:
Me spesso rivedrai solingo e muto
Errar pe' boschi e per le verdi rive,
O seder sovra l'erbe, assai contento
Se core e lena a sospirar m'avanza[285].
Quanta più dolcezza e intimità in questi versi che in quelli di Labindo, che non molt'anni innanzi aveva esclamato:
L'amica luna con l'argenteo raggio
Placidamente mi percuote il ciglio,
E d'ignota dolcezza il cuor mi cinge[286]!
Quanta più che nei versi del Pindemonte:
Steso sul verde margo
D'obblio soave ogn'altro loco io spargo.
Quai care ivi memorie
Trovo de' miei prim'anni,
Quai trovo antiche storie
De' miei giocondi affanni![287]
Per trovar cosa che loro somigli, bisogna andarla a cercare in alcune [204] stanze di versi brevi, dove il Goethe saluta la luna, che lo accarezza con lo sguardo amico[288].
E come il poeta, così le creature della sua fantasia, ch'egli viene avvivando del proprio spirito. Bruto, presso a darsi la morte, apostrofa la luna, che placida sorge dal mare irrigato di sangue[289]; e Saffo saluta, per l'ultima volta, il
verecondo raggio
Della cadente luna[290].
Il pastore errante per le sconfinate pianure dell'Asia parla ancor egli alla eterna peregrina, alla giovinetta immortale, alla vergine luna (fanciulla, nei poemi di Ossian), ch'è sì pensosa; e immagina ch'ella possa intendere il perchè delle cose, sapere che sieno, ed a che, vita, morte, dolore, vicenda, e quale il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito infinito andar del tempo[291].
Già prossimo a quella fine cui tanto aveva sospirata, il poeta, riandando col pensiero l'età giovanile, e volendo dare immagine del come la giovinezza, dileguando, si lasci dietro oscura e desolata la vita, prese argomento dalla giovinetta immortale, dalla compagna e consolatrice antica, e il Tramonto della luna fu il penultimo, e forse l'ultimo canto che gli uscì dal petto affaticato.
V'è una poesia del Leopardi, in cui tutto ciò che io sono venuto dicendo sin qui vedesi attestato dallo stesso poeta, brevemente, ma chiaramente; ed è quella che s'intitola Il risorgimento. Il giovane, non ancora trentenne, era caduto in una specie di sonnolenza, che facevalo, non turbato, ma tristo, e vedovo d'ogni dolcezza, morto al [205] dolore, morto all'amore, voto di desiderio e di speranza, simile, nell'april degli anni, a chi trascini
dell'età decrepita
L'avanzo ignudo e vile.
La vita gli apparve allora dispogliata ed esanime, la terra inaridita, chiusa in un gelo eterno, deserto il giorno, più che mai buja e solitaria la notte, spenta in cielo la luna, spente le stelle. Più non gli toccavano, come per lo passato, il core, il verso della rondine, il canto dell'usignolo, il suono della squilla vespertina, l'ultimo raggio del sole fuggitivo; nè valevano a trarlo dal duro torpore due pupille tenere e il tocco di una mano candida e ignuda. In un sol punto ei s'era chiuso all'amor della donna, all'amore della natura, alla vita: fatto estraneo agli esseri tutti, languiva e moriva di quella solitudine e di quel gelo, nella disperata impotenza di amare. Pure si scosse e si riebbe, e l'anima rinata, in cui s'era miracolosamente raccesa la luce de' giorni e degli affetti giovanili, incontanente corse a riabbracciar la natura e a bearsi degli antichi amori.
Siete pur voi quell'unica
Luce de' giorni miei?
Gli affetti ch'io perdei
Nella novella età?
Se al ciel, s'ai verdi margini,
Ovunque il guardo mira,
Tutto un dolor mi spira,
Tutto un piacer mi dà.
Meco ritorna a vivere
La piaggia, il bosco, il monte,
Parla al mio core il fonte,
Meco favella il mar.
Il Leopardi era nato con questo amore nell'anima; e questo amore doveva diventare per lui, come ogni altro amor suo, fontana di amaritudine. Ma finchè tal non divenne, fu per lui fontana di consolazione. Non era ancor giunto il tempo in cui egli doveva fermarsi nella credenza che poco bello ne offre la natura, e porre la bellezza creata dalla fantasia sopra
Il bel che raro e scarso e fuggitivo
Appar nel mondo[292]:
[206]
anzi poteva con Saffo esclamare:
Bello il tuo manto, o divo cielo; e bella
Sei tu, rorida terra;
e giudicar vezzose le forme, anzi infinita la beltà della sempre verde natura[293]. Sia qui ricordato che lo Schopenhauer, come fu un ardentissimo ammiratore della bellezza dell'arte, così ancora fu un ardentissimo ammiratore della bellezza della natura[294]; e che di questa seconda bellezza il Leopardi sentì la virtù consolatrice e serenatrice, come la sentì lo Schopenhauer, che la celebrò con calde parole[295]. Un tempo fu veramente il Leopardi un ottimista estetico.
Allorchè noi ci abbandoniamo all'incantamento della natura, e ci sentiamo in viva e stretta comunione con lei, siamo tratti, senza quasi avvedercene, ad attribuire ad ogni suo aspetto un valore di simbolo. La natura allora non parla più ai sensi soltanto; parla ancora all'intelletto ed al sentimento; e mentre così penetra in noi, sembra che ci riveli a noi stessi. In nessun'altra poesia, forse, questa simbolica della natura appare così varia e spiegata, e diciam pure insistente e tormentosa, come in quella del Wordsworth; ma non è poeta che in qualche maniera non l'abbia avvertita e significata. Nè poteva mancar nel Leopardi. Il passero solitario è un simbolo del solitario poeta. La quiete che succede alla tempesta vuol dire che il piacere è figlio d'affanno, che uscir di pena è diletto fra noi, che la vana gioja è frutto del passato timore,
onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita aborria.
Il tramonto della luna è un simbolo del dileguare della giovinezza, dopo la quale
Abbandonata, oscura
Resta la vita;
e già il medesimo simbolo aveva scorto il poeta nel tramonto del sole, il quale tra lontani monti
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
[207]
La lenta ginestra è una immagine dell'uom forte e saggio, che non mentisce a sè stesso, non si umilia codardamente, nè stoltamente insuperbisce; non sogna meravigliosi destini, troppo impari all'esser suo, alle sue deboli forze.
Il sentimento che della natura ebbe nella prima sua giovinezza il Leopardi, non poteva perpetuarsi nell'animo di lui, non poteva nemmeno durar molto a lungo; chè troppo lo venivan tentando e premendo, dall'una parte la malattia, dall'altra la riflessione. Se il tempo lo concedesse, potrei venir dimostrando come pur negli anni in cui serbava il carattere idilliaco ed elegiaco, esso fosse assai diverso, per esempio, dal sentimento ingenuamente credulo del Wordsworth, e da quello tutto pieno di misticità e di unzione, e un po' melodrammatico, del Lamartine. Sin da quegli anni primi, il Leopardi meditava troppo, scrutava troppo, era troppo inquieto interiormente. Per godere della natura in modo schietto e pieno, non bisogna interrogarla con soverchia insistenza, non bisogna volerle strappare a forza il suo secreto. Il pastore errante dell'Asia manifesta, fra il 1829 e il 1830, uno stato d'animo che doveva già essere antico nel nostro poeta:
E quando miro in ciel arder le stelle,
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
L'inquietudine che prova il pastore, il poeta l'aveva, già da tempo, provata:
Ed io pur seggio sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente; ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Ma, s'io giaccio in riposo, il tedio assale.
Per godere della natura in modo schietto e pieno, bisogna che Fausto possa dire: Indugiati, o istante: tu sei così bello!
Nell'animo del Leopardi, all'antico entusiasmo tenne dietro ben presto la delusione: l'amatore s'avvide di esser solo ad amare, e che quel seno a cui stringevasi delirando era immobile e freddo. La natura, già da lui per errore immaginata benefica e saggia, dispensatrice [208] di libertà e di letizia agl'inquieti suoi figli[296]; la natura, salutata da Gian Paolo Richter col nome di amante, dal Byron con quello di tenerissima fra le madri; la natura è indifferente, se pure non è malefica. Quest'amara parola, questo grido angoscioso, corre per mezzo i versi e le prose del poeta come un soffio di vento per mezzo una selva sonora, che tutta la riempie di gemiti e di querele.
Nè scolorò le stelle umana cura[297].
Dalle mie vaghe immagini
So ben ch'ella discorda:
So che natura è sorda,
Che miserar non sa.
Che non del ben sollecita
Fu, ma dell'esser solo;
Purchè ci serbi al duolo,
Or d'altro a lei non cal[299].
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Ch'alla formica.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede[300].
La delusione provata dal poeta dinanzi a questa indifferenza ingiuriosa [209] della natura è in tutto simile a quella del rapito amante, il quale s'avvegga non essere nel petto della donna adorata nemmeno una scintilla d'amore. Ciò che più lo turba e l'offende e lo accora, non è già l'umana sciagura considerata in sè stessa, ma quell'inganno fatto all'amore, ma la violazione e il miserabile scempio degli errori gentili e delle ingenue credenze che ci fioriscon nell'anima. Egli è l'amante tradito e schernito, cui sanguina il cuore al pensiero dell'inganno sofferto. Parlando alla Silvia, morta, delle immaginazioni soavi e delle speranze di un tempo, egli non può frenare un grido straziante, in cui il rimprovero è vinto e come affogato dal pianto:
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?[301]
Questo stesso pensiero, acuto e doloroso, di una speranza suscitata e delusa, di una promessa fatta e non mantenuta, rispunta frequente ne' versi del poeta. Il giovinetto s'affaccia alla vita ed al mondo col volto ridente, col cuore giubilante, e chiedendo amore, si offre tutto all'amore; ma lo attende da presso il disinganno, giacchè piacque alla madre temuta e pianta
che delusa
Fosse ancor della vita
La speme giovanil; piena d'affanni
L'onda degli anni: ai mali unico schermo
La morte[302].
La natura è chiusa all'amore e alla pietà, e
Ben presto l'offeso amatore si conferma nella opinione che la natura sia, non solo indifferente, ma a dirittura malvagia. E anche questo è un effetto dell'amore deluso. Il poeta, quando si contenta di [210] filosofare, sa che la natura, negli atti suoi, a tutt'altro attende che a procacciare il bene o il male degli uomini; ma quando porge l'orecchio al sentimento che gli si rammarica dentro, non regge più in quel disinteressato giudizio, e immagina un'antica natura onnipossente che lo fece all'affanno[304] e un cielo che si diletta delle umane sciagure[305], e un
brutto
Poter che ascoso a comun danno impera[306].
Chiama la natura crudele, empia madre[307], dura matrice, colei
che de' mortali
È madre in parto ed in voler matrigna[308],
e solo per ironia la dice cortese[309] ed amante[310]. Lei sola accusa operatrice e rea d'ogni male, e contro di lei, che pene sparge a larga mano, e che, simile a fanciullo invitto,
Il suo capriccio adempie, e senza posa
Distruggendo e formando si trastulla[311],
vuole confederati gli uomini tutti, stolti troppo e scelerati, quando, invece di stringersi in guerra comune contro la comune nemica, volgono gli uni in danno degli altri quell'armi che solo dovrebbero adoperarsi a difesa di tutti. Il poeta ha smesso d'andare dietro al Rousseau. Egli non rinfaccia più agli uomini la imperdonabile colpa e il grande errore d'essersi staccati dal materno seno della natura e d'avere trasgredite le sue santissime leggi.
La delusione tanto è più amara, quanto è più vivo e imperioso il bisogno della felicità, e luminoso il sogno ch'esso viene suscitando nell'anima; e spesso accade che quel desiderio, il quale dal giudizio non si lascia vincere, e, morendo la speranza, non muore, tanto più trafigga e travagli quanto meno spera e consegue. Le anime alle quali [211] ciò incontri mal si rassegnano, e il Leopardi mal si rassegna. Desto da un altro, lungo vaneggiamento, egli esclama:
contento abbraccio
Senno con libertà;
e
Qui neghittoso immobile giacendo,
Il mar, la terra e il ciel miro e sorrido[312];
ma egli mente a sè stesso. I dilettosi inganni, partitisi dalla mente, gli stan pur sempre confitti nel cuore; e s'egli talora li deride in altrui, in sè lungamente li piange, e quante volte li richiami nella memoria, e' gli torna a doler di sua sventura.
O speranze, speranze, ameni inganni,
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; chè per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so;
e ad essi pensando, e che di cotanta speme ora più non gli avanza se non la morte, sente che non può consolarsi al tutto del suo destino[313]. Perito l'inganno estremo, egli così favella al proprio cuore:
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra[314];
ma quei beati errori egli séguita a vagheggiare pur sempre, come in passato gli aveva vagheggiati. Mosso da un sentimento in cui nulla è di arcadico, e troppo diverso da quello che al Monti dettava il sermone Su la mitologia, egli aveva rimpianto il sogno antico di una natura viva e animata, passionata e pensosa, allora quando
Vissero i fiori e l'erbe,
Vissero i boschi,
e
Conscie le molli
Aure, le nubi e la titania lampa
Fur della umana gente, allor che ignuda
Te per le piagge e i colli,
[212]
Ciprigna luce, alla deserta notte
Con gli occhi intenti il viator seguendo,
Te compagna alla via, te de' mortali
Pensosa immaginò[315].
Allora alla natura il poeta chiedeva s'ella fosse ancor viva:
Vivi tu, vivi, o santa
Natura? vivi e il dissueto orecchio
Della materna voce il suono accoglie?
e a lei raccomandò, poscia che vote erano le stanze d'Olimpo, questa dolorosa famiglia umana:
Tu le cure infelici e i fati indegni
Tu de' mortali ascolta,
Vaga natura, e la favilla antica
Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi.
E se de' nostri affanni
Cosa veruna in ciel, se nell'aprica
Terra s'alberga o nell'equoreo seno,
Pietosa no, ma spettatrice almeno[316].
Intorno a quel medesimo tempo un altro poeta poneva in bocca a una creatura della sua fantasia presso a poco la stessa domanda:
Quoi donc! n'aimes-tu pas au moins celui qui t'aime?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mes yeux moins tristement verraient ma dernière heure,
Si je pensais qu'en toi quelque chose me pleure.
Chi parla così è un adoratore della natura, giunto al suo ultimo dì. Egli sta per passare, ma sa che la natura non passa; e scioglie, morendo, un inno alla vita immortale e universa.
Triomphe, . . . . . . . . immortelle Nature,
Tandis que devant toi ta frêle créature,
Élevant ses regards de ta beauté ravis,
Va passer et mourir! Triomphe! Tu survis!
Que t'importe? En ton sein, que tant de vie inonde,
L'être succède à l'être, et la mort est féconde!
Egli vorrebbe sì che la natura fosse conscia di lui, dacchè nessuno spirito mortale mai intese meglio e comprese la gran voce di lei.
[213]
Plus je fus malheureux, plus tu me fus sacrée!
Plus l'homme s'éloigna de mon âme ulcérée,
Plus dans la solitude, asile du malheur,
Ta voix consolatrice enchanta ma douleur.
Ma egli non si duole di avere a dissolversi in quella che lo produsse alla vita, alla luce; anzi quasi voluttuosamente abbraccia la morte che all'onde, all'aria, alla terra, agli elementi tutti, restituirà il corpo e l'anima insieme. Il poeta non pensava come la creatura della sua fantasia. Per lui non erano vote le stanze d'Olimpo. Egli si chiamava Alfonso De Lamartine[317].
Tuttochè conscio della indifferenza della natura, il Leopardi non mai cessò in tutto d'amarla. Ben sa il poeta ch'ella discorda dal pensier suo, che è sorda e vota d'affetto; ma pur da lei ebb'egli il vago immaginare e la virtù de' beati errori: e il dono di lei nè dal tempo, nè dal fato, nè dalla stessa verità gli può più esser rapito.
Proprii mi diede i palpiti
Natura, e i dolci inganni.
Sopiro in me gli affanni
L'ingenita virtù;
E ancora di tanto in tanto, dopo così lunga esperienza e convinzion del contrario, ripullula in lui l'antica immaginazione di una natura dotata di mente e di cuore, e se non pietosa, conscia almeno di sè e di noi.
Come, ahi come, o natura, il cor ti soffre
Di strappar dalle braccia
All'amico l'amico,
Al fratello il fratello,
La prole al genitore,
All'amante l'amore: e l'uno estinto,
L'altro in vita serbar?[319]
Nella stessa Ginestra, in quel supremo e terribil canto, dove, quasi [214] insiem con la vita, il poeta esala il suo finale pensiero, e grida il verbo funereo in che tutta s'assomma e si ristringe la sua filosofia, tra le invettive e le imprecazioni da lui scagliate alla natura, rispunta, come un raggio nel bujo, l'antico amor giovanile, e ancora lampeggia nelle dolci parole, penetrate di tenerezza e di mestizia, con cui egli saluta l'odorata pianta
di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna;
e il fior gentile, che quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor manda un profumo
Che il deserto consola.
E questo è forse più proprio e più degno d'innamorato vero, che non può giungere a odiare del tutto mai l'oggetto dell'antico amor suo. Ond'è da notare, per questo rispetto, una diversità grande fra l'autore della Ginestra e un altro, non tanto grande, ma pure assai ragguardevole, poeta pessimista, Alfredo De Vigny. Veramente Alfredo De Vigny teme e odia la natura, e l'animo proprio manifesta con dure parole. La natura così vanta sè stessa:
Je roule avec dédain, sans voir et sans entendre,
A côté des fourmis les populations[320];
Je ne distingue pas leur terrier de leur cendre,
J'ignore en les portant les noms des nations.
A tale vanto il poeta sente riempiersi il cuore di amarezza e di aborrimento, e distogliendo lo sguardo dalle crudeli bellezze che lo avevano abbagliato un istante, esclama:
C'est là ce que me dit sa voix triste et superbe,
Et dans mon cœur alors je la hais et je vois
Notre sang dans son onde et nos morts sous son herbe,
Nourrissant de leurs sucs la racine des bois.
Et je dis à mes yeux qui lui trouvaient des charmes:
«Ailleurs tous vos regards, ailleurs toutes vos larmes,
Aimez ce que jamais on ne verra deux fois».
[215]
Vivez, froide Nature, et revivez sans cesse
Sous nos pieds, sur nos fronts, puisque c'est votre loi;
Vivez et dédaignez, si vous êtes déesse,
L'homme, humble passager, qui dut vous être un roi;
Plus que tout votre règne et que ses splendeurs vaines,
J'aime la majestè des souffrances humaines;
Vous ne recevrez pas un cri d'amour de moi[321].
In questi versi è accennato un fatto la cui conoscenza pare che necessariamente debba avvelenare il sentimento della natura, e menomar d'assai, se non togliere a dirittura, il godimento che a noi può venire dalla contemplazione delle sue bellezze. L'occhio che passa oltre a quella prima parvenza, subito scopre nell'ombra un aspetto mostruoso e cruento, che non può non agghiacciar l'anima di terrore. Quella compostezza, quella serenità, quel riso che c'incantano e c'innamorano a prima faccia, sono una maschera, una menzogna, una frode. Sotto la vaga superficie luminosa e dipinta è uno strazio eterno ed oscuro, un orror senza nome di creature angosciate, che per vivere un'ora s'insidiano a vicenda, si azzuffano, si dilaniano, dànno la vita in perpetuo olocasto alla morte, spremono dalla morte la vita. La natura ci si discopre allora quale un Moloch immane, inesorabile, inappagabile, che crea a sè medesimo, senza fine e senza riposo, le ostie dolenti di un sacrificio infinito. Come serbar vivi nell'animo allora i sensi di fiducia e di amore? come più vagheggiare quelle bugiarde bellezze? come impedire che il sentimento della natura si rabbui, e tutto, per così dire, si rapprenda in un orrore della natura? Perdette per sempre il gusto della primavera quel poeta ch'errando pei campi in un mattino di maggio, imprevedutamente pensò che ad ogni passo ch'ei mutava fra l'erbe, centinaja di creature, nate appena, perivano sotto il suo piede, senza ch'ei le vedesse nemmeno.
Eppure, tanto può in noi la bellezza, che la conoscenza non basta a sottrarci al suo fascino. Essa ci scende per gli occhi al cuore, ci soggioga e ci conquide. Essa fa divampare l'amore; e l'amore, notò il Leopardi, è la più vivace e possente delle illusioni, dacchè resiste alla stessa forza dissolvente del vero. Lo Schopenhauer scorge benissimo quell'aspetto cruento e mostruoso della natura, e s'indugia a [216] descriverlo; ma, nondimeno, come appena torna a pascere lo sguardo delle care sembianze, egli esclama: Quanto è bella la natura! E così, o in poco diverso modo, credo, il Leopardi. Egli scopre nella natura, o dietro a lei, il brutto potere ascoso, e lo spettacolo delle cose non può non rimanere alquanto aduggiato da quella grande e impenetrabile ombra. Agli uomini del medio evo la natura apparve talvolta come una grande ossessa, violata e posseduta dallo spirito delle tenebre: al Leopardi la natura appare da ultimo come posseduta e contaminata dal brutto potere; ma questo brutto potere non è un demone capriccioso e fantastico; è un fato costante e indefettibile; e all'anima dell'uomo moderno non può non venire un senso di sicurezza, di rassegnazione e di quiete, dal sapere che la natura è retta da leggi, dure sì, ma inflessibili e certe. A ogni modo il Leopardi non molto si sofferma a contemplare l'aspetto mostruoso e cruento della natura; e se il godimento che da quella egli riceve va scemando col tempo, va scemando men per questa che per altre ragioni.
A poco a poco il suo sguardo si distoglie dalle sembianze più graziose e si fissa sulle più austere. Il sentimento, d'idilliaco ed elegiaco ch'era in principio, tende a diventar tragico, e alle serene e leggiadre immagini delle prime poesie succedono, da ultimo, le tetre e terribili della Ginestra. L'anima del poeta s'è venuta infoscando sempre più, e spontaneamente cerca gli aspetti che meglio si armonizzano col suo stato.
Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care,
Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Tali parole, molt'anni innanzi, il poeta aveva fatto sonar sulle labbra di Saffo disperata e già vicina a cessar nella morte il suo tormento; ma con parole in tutto simili avrebbe potuto, più d'una volta, il poeta esprimere il sentimento suo proprio, e allora in ispecie che volgeva nell'anima il tema e i versi della Ginestra[322]. Nella Ginestra non più verdi rive, non più campi e colli irradiati dal sole; ma l'arida schiena [217] del formidabil monte, e campi cosparsi di cenere e coperti di lava impietrata, e il mare fatto specchio al bagliore dell'igneo torrente, e il bipartito giogo e la cresta fumante nel cielo, in fondo al deserto foro della dissepolta Pompei, infra le file de' mozzi colonnati, e un ricordo dell'
erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de' mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
E qui ancora una suprema, larga visione del cielo stellato: ma quanto diversa da quella delle Ricordanze, quanto anche diversa da quella del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia! Nelle Ricordanze il poeta ragiona con le stelle, e ricorda i secreti colloquii e le dolci effusioni di un tempo. Nel Canto notturno l'inquieto pastore, vedendole ardere nel cielo, chiede a che sieno, che operino. Nella Ginestra il poeta, sedendo la notte sulle desolate piagge, mira in purissimo azzurro fiammeggiar le stelle dall'alto e specchiarsi nel mare,
e tutto scintille in giro
Per lo voto seren brillare il mondo;
mira le nebulose senza fine remote; e l'uomo, con tutti i suoi sogni superbi, e la terra che il regge, gli si dissolvono in nulla, e un pensiero lo assale, in cui non sa se il riso prevalga o la compassione. Questa fruizione, sia pur dolorosa, degli aspetti austeri o terribili della natura segna nel sentimento una gradazione tutta moderna, e come l'ultima forma di esso.
Abbiam notato che nella poesia del Leopardi non si hanno i grandi spettacoli sceneggiati della natura, il paesaggio alla Rousseau. La storia del paesaggio è, in parte, la storia di quel gusto della solitudine che, con caratteri affatto proprii, s'è venuto manifestando ne' tempi moderni, ben diverso da quello che in altri secoli trasse gli uomini nei deserti e li rinchiuse negli eremi. Oramai i pittori non sentono più affatto il bisogno di avvivare con la presenza dell'uomo, e nemmeno con quella degli animali inferiori, le scene mute, ma non morte, di paese, e dopo aver ritratto sulle tele la zona media della montagna, ritraggon ora la superiore, i picchi desolati, dove non è più lembo di verde, le giogaje marmoree, i ghiacciai. Quell'amor della solitudine che guidò il filosofo di Ginevra a scoprir la natura e, [218] nella natura, il grande paesaggio romantico, non mancava, come ben sappiamo, al Leopardi; ma il grande paesaggio romantico non fu dal Leopardi ritratto. Alle ragioni di tal mancamento, additate sopra, bisogna aggiungerne un'altra. La complessione delicata e l'affranta salute non avrebbero conceduto al poeta di affrontare la più rude e selvaggia natura per cercarvi occasione di estetico godimento. Obermann poteva bene proporsi di valicare il San Bernardo senz'ajuto di guide, cominciar l'ascensione quasi al sopraggiungere della notte, smarrirsi nelle tenebre e nella neve, correre dieci volte pericolo di morte, e, nulladimeno, provare al vivo la grande jouissance toute particulière que suscitait la grandeur du péril[323]. Egli era robusto del corpo, per quanto ammalato dell'anima. E ben poteva lord Byron rinnovare la prodezza dell'antico Leandro, e passare a nuoto l'Ellesponto, o, impresa più difficile ancora, la foce del Tago. Nulla di simile poteva il Leopardi. Tutto un aspetto della natura, tutto un ordine d'impressioni, gli dovevano rimanere sconosciuti in perpetuo.
Le variazioni cui nel Leopardi andò soggetto il sentimento della natura non furono già così regolarmente consecutive nel tempo come forse appajono in queste pagine. La vita di uno spirito non soffre mai quelle partizioni certe e recise che nella storia di esso possono tornare o necessarie o opportune. Il Leopardi non mutò in un dì, e nessuno muta in un dì. La storia di lui fu veramente piena di corsi e di ricorsi; e molte volte egli ebbe a tornare a quel sentimento o a quel pensiero da cui s'era creduto allontanato per sempre. Come tornò ad amare ripetutamente la donna, dopo essersi creduto morto all'amore, così tornò a vagheggiar la natura, dopo averla accusata e maledetta. L'anima umana è come il mare. Ogni giorno, nel doppio suo moto di flusso e di riflusso, il mare scopre e ricopre quelle medesime sponde, che solo nel giro di lunghi secoli s'alzan del tutto fuor del suo grembo, o del tutto si sommergono in esso. Un poeta tedesco, che ebbe col Leopardi più di una somiglianza, e fu un grande adoratore della natura, Giovanni Hölderlin (1770-1843), scrisse una volta: «Morti gli aurei sogni della giovinezza, fu morta per me la natura»[324]: per Giacomo Leopardi la natura non morì in tutto mai.
[219]
Il Leopardi strinse in intima unione l'amore, la bellezza, la morte: è questa una delle singolarità più caratteristiche del poeta cui Alfredo De Musset salutò col nome di sombre amant de la Mort.
Due cose belle ha il mondo:
Amore e morte.
dice Consalvo: e
Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
Ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
Altre il mondo non ha, non han le stelle,
dice il poeta nella canzone che appunto s'intitola Amore e Morte. Nella quale tre cose son degne di più particolar nota: una certa personificazione e figurazione della morte; un'associazion della morte con l'amore; un intenso desiderio di morte.
La morte è
Bellissima fanciulla,
Dolce a veder, non quale
La si dipinge la codarda gente;
ed è genio divino e benefico che
ogni gran dolore.
Ogni gran male annulla,
e sol esso pietoso dei terreni affanni. Onde il morire non è dolore, [220] ma dolcezza, come già avvertiva il poeta nelle Ricordanze[325], e come più espressamente dirà nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie[326]. E l'uomo di alto animo, che sente la gentilezza del morire, al morir non ripugna, ma piega addormentato il volto nel virgineo seno della fanciulla bellissima[327]. E la morte è l'unico fine dell'essere[328].
Quella figurazione della morte non è nuova. I Greci immaginarono una Morte sorella del Sonno (fratello propriamente, come la lingua loro portava), ed ambo i gemelli rappresentarono talvolta in grembo alla Notte, loro madre comune, e la Morte usarono di figurare somigliantissima al Sonno, in sembianza di un giovane genio alato, con nell'una mano una torcia arrovesciata e nell'altra una corona di fiori. Tali, secondo fu primamente avvertito dal Lessing, le rappresentazioni più proprie dell'arte figurativa; ma i poeti diedero assai volte alla morte aspetto tetro e terribile. Nell'Alceste di Euripide essa appare sotto figura di sacrificatore infernale, in veste negra, con un coltello fra le mani. E Ovidio non pensava di sicuro all'avvenente sorella del Sonno quando scriveva il verso:
Omnibus obscuras injicit illa manus;
nè Orazio, quando la dipingeva volante sull'ali tenebrose; nè Seneca, quando l'armava di avidi denti.
Nel medio evo la comune credenza, le arti figurative e la poesia concordemente rappresentano la morte sotto forma di scheletro. Armata o disarmata, essa è colei che in un tempo solo annunzia la sentenza, assalta ed uccide. Suoi caratteri sono la orridezza mostruosa, e la malvagità o schernitrice, o crudele. Perchè prevale allora una figurazione così tetra ed orribile? Quale mutazione di credenze e di sentimenti la spiega?
[221]
Agli antichi la morte parve cosa naturale, compresa nell'ordine primo e costitutivo dell'universo. Gli dei sono di lor natura immortali; gli uomini sono di lor natura mortali; se pure, come Titone, non ricevono la immortalità in dono dai numi.
Omnia mors poscit. Lex est, non poena perire,
dice un verso attribuito a Seneca. Pei cristiani la morte è appunto il contrario; non una legge, ma una pena. Essa appartiene, non all'ordine, ma al disordine dell'universo. Dio creò l'uomo immortale; e l'uomo si rese mortale, trasgredendo il precetto divino. La morte è il frutto del peccato, il quale fu una ribellione contro la divinità, e conseguentemente una negazion della vita, essendo Iddio la fonte unica d'ogni vita; ed è ancora, in certo qual modo, una creatura del diavolo, poichè il diavolo fu quegli che la introdusse nel mondo e ne la fece signora[329]. I sette peccati capitali sono i sette peccati mortali, e l'eterna dannazione è la seconda morte. Una morte così concepita ed intesa non poteva vestirsi agli occhi degli uomini di sembianze nè belle, nè decorose.
A prima giunta, per altro, non ben si comprende perchè dovesse rivestirle così orribili ed obbrobriose come si vide di poi. Il sentimento che della morte ebbero i primi cristiani fu molto dolce e sereno, tutto irraggiato di speranza e di amore. Morendo per la redenzione degli uomini, Cristo aveva nobilitata la morte, l'aveva purgata dell'antica infamia e fattone quasi una ministra del cielo, come l'angelo dell'antica credenza giudaica: risorgendo vittorioso dal sepolcro, l'aveva spogliata degli antichi terrori, e di regina mutatala in serva. I simboli che fregiano le tombe degli antichi cristiani non lasciano vedere nulla di tetro: sono simboli di speranza e di pace: l'áncora, la colomba, il ramo d'olivo, il pavone, la nave; e le iscrizioni dicono che il defunto dorme, riposa, vive in Dio. I luoghi di sepoltura si chiamano cimiterii, cioè dormitorii, o anche concilia martyrum. «In christianis, mors non est mors, sed dormitio et somnus appellatur», scriveva San Gerolamo in una delle sue epistole. La tomba è propriamente una culla, e il giorno della morte prende il nome di dies natalis. Qual meraviglia se Sant'Ambrogio scrive un trattatello De bono mortis?
[222]
Ma a mano a mano che il sentimento religioso si infosca, e sulla speranza prevale il terrore, i simboli perdono dell'antica serenità, le figurazioni della fantasia si pervertono; ed ecco finalmente la morte apparire in figura di scheletro scarnato, o di sformato cadavere, a piedi o a cavallo, armata di falce o di spada, o di clava, o di spiedo; munita di reti o di funi; la quale assalta gli uomini da sola, o a capo di numeroso esercito, li lega, gli strazia, li uccide, oppure, con amaro scherno, dal papa e dall'imperatore all'ultimo paltoniere, li mena in volta negli spaventosi suoi balli. Questa morte è un vero e proprio demonio, uscito primamente dall'inferno; fido alleato e ministro di Satana; un diavolo giustiziere, se vuolsi, ma desideroso di nuocere quanto più può, crudele al pari degli altri diavoli e beffardo com'essi. E tanto è vero ch'essa fu tenuta in conto di un diavolo, che nel tedesco Heldenbuch si vede il pagano Belligan (e secondo la comune credenza del medio evo, i pagani adoravano i diavoli) adorare un idolo della morte. Ciò nondimeno, un ricordo delle serene immaginazioni antiche rimane in quelle gentili leggende ascetiche della età di mezzo, ove si vede la morte dei fratelli di un chiostro essere prenunziata dal fiorire di un giglio, dallo spegnersi di una lampada, dal suono spontaneo delle campane.
La morte ritratta dal Milton nel decimo libro del suo poema è tuttavia la morte mostruosa figurata dalla fantasia de' tempi anteriori. Prima che Satana seducesse gl'incauti ospiti del paradiso, la Colpa, figlia e incestuosa moglie di lui, e la Morte, figliuola d'entrambi, sedevano insieme sul limitare d'Inferno. Compiuta la seduzione, insieme esse muovono alla conquista del mondo, giacchè l'una non può andar senza l'altra. La Morte è come l'ombra della Colpa:
La morte è un'ombra sparuta (meagre shadow; non già scarnata forma, come tradusse Andrea Maffei), o piuttosto è uno sfasciato, cavernoso carcame (this mau, this wast unhide-bound corps, che il Maffei molto liberamente tradusse: Quest'arido carcame e il ventre [223] vuoto). Ella è armata di una clava che fa pietra di ciò che tocca; e cavalca, quando le piaccia, un cavallo scialbo: il suo sguardo ha la stessa virtù ch'ebbe il volto della Gorgone. Ella e la madre sua sono due cani infernali.
A noi ora non giova d'andar rintracciando in altri poemi di sacro argomento immagini e descrizioni da raccostare o da contrapporre a quelle del poeta inglese: gioverà piuttosto notare, a conferma di quanto s'è detto del carattere diabolico di quella Morte, che, come ci fu, nella popolare mitologia cristiana, il diavolo ingannato e deriso dall'uomo, così ancora ci fu la Morte ingannata e derisa. E la ragione è pur sempre la stessa, ed è da cercare nella ferma credenza del cristiano che il diavolo e la morte, essendo nemici di Dio, non hanno se non una potestà apparente e passeggiera, e saranno da ultimo, checchè facciano o tentino, i soli veri burlati. Ond'è comune a tutti i popoli cristiani la novella dell'accorto prete, o dell'accorto villano, che con certa astuzia relega la morte sopra un albero, o in granajo, e per più anni non la lascia esercitare il suo officio nel mondo[331].
Difficilmente nei poeti profani del medio evo, anteriori alla prim'alba del Rinascimento, si troverebbe parola benevola adoperata in parlar della morte.
Morte villana, di pietà nemica,
Di dolor madre antica,
esclama Dante, dopo molt'altri che alla morte avevan dato appunto quel titolo di villana[332]. Ma col fiorire del dolce stil nuovo, e della dottrina d'amore che l'accompagna, cominciano i poeti d'Italia a far palese un sentimento novello e ad usare un nuovo linguaggio. E prima lo stesso Dante, poi il Petrarca, conoscono una morte ammansata e raggentilita dall'amore e dalla donna. Nella canzone Morte, poich'io non truovo a cui mi doglia, Dante aveva scongiurata la morte di non uccidere la donna che con seco ne portava il suo cuore, [224] e l'ammoniva che, uccidendo lei, avrebbe discacciata virtù, tolto a leggiadria il suo ricetto, e ad amore la sua bella insegna[333]. Il Petrarca, detto come la Morte avesse trionfato nel volto di Laura, soggiungeva:
Partissi quella dispietata e rea,
Pallida in vista, orribile e superba,
Chè 'l lume di beltate spento avea[334].
Ma così per l'uno come per l'altro poeta, la morte doveva acquistare nobiltà nuova, e come nuova virtù, dall'essere stata nelle donne loro; e già Guido Cavalcanti l'aveva detta gentile. Dante, immaginando morta Beatrice, esclama: «Dolcissima morte, vieni a me e non m'essere villana; però che tu dei essere gentile, in tal parte se' stata! or vieni a me che molto ti disidero; e tu 'l vedi ch'i' porto già lo tuo colore». E in verso
Morte, assai dolce ti tegno:
Tu dei omai esser cosa gentile,
Poi che tu se' ne la mia donna stata,
E dei aver pietate e non disdegno.
Vedi che sì desideroso vegno
D'esser de' tuoi ch'io ti somiglio in fede.
Vieni, chè 'l cor te chiede[335].
Non solamente la morte non può fare amaro il dolce viso di Laura; ma il dolce viso di Laura può far dolce la morte, che in quello appar bella, e dopo la partita di colei incomincia a farsi dolce[336].
Questo fu abbellimento, diciam così, aristocratico; ma ce ne fu anche uno popolare, probabilmente più antico. San Francesco chiamò la morte sora corporale. In certe novelline popolari sparse su tutta la faccia d'Europa, comparisce una morte comare (o compare, se così chiede la lingua) che tiene a battesimo il figliuolo di un pover uomo, e, alla maniera di una fata benefica, lo colma di doni. La ragione del sentimento popolare che suggeriva sì fatte immaginazioni appar manifesta in una delle fiabe tedesche raccolte dai fratelli Grimm[337]. Un pover uomo, cui nasce un tredicesimo figliuolo, [225] va in cerca di un compare. Incontra il Padre Eterno, che gli si profferisce; ma egli lo ricusa, dicendo che il Padre Eterno dà tutto ai ricchi e lascia morire di fame i poveri. Incontra il diavolo, e nol vuole, perchè ingannatore e cattivo consigliero. Incontra finalmente la Morte, e questa si toglie, perchè ricchi e poveri, grandi e piccini, tratta tutti al medesimo modo. La morte sola è giusta in un mondo ingiusto: aequo pulsat pede. Questo concetto è espresso in un gran numero di proverbii.
Ma la morte rabbellita e raggentilita da Dante, dal Petrarca e da altri che si potrebbero venir ricordando[338], non è ancora la morte bella e gentile del Leopardi. Quella diventa bella e gentile per una specie di grazia che dalle angeliche donne scende sopra di lei: questa è di sua natura, ab origine, bella e gentile, assai più di quanto la potessero immaginare gli antichi. Come nei primi secoli della fede Cristo e i martiri santificarono la morte; così, nei tardi, le belle e amorose donne la mansuefecero e illeggiadrirono; ma il Leopardi immagina una morte al cui divino stato non bisogna nè illeggiadrimento, nè santificazione. Nelle Sacre Carte la morte è detta regina degli spaventi; e il La Rochefoucauld avvertì: Le soleil ni la mort ne peuvent se regarder fixement; e nel mistero del Byron, Caino non osa mirar l'aspetto di colei che dal padre gli fu descritta spaventosa ed atroce. Ognuno può guardare in volto la bellissima fanciulla immaginata dal Leopardi.
Il pessimismo dispoglia la morte de' suoi terrori. Se la vita è brutta, bisogna, per contrapposto, che la morte sia bella. Se la vita è dolore, bisogna che la morte, la quale cessa ogni dolore, appaja pietosa e benefica, e riesca fors'anche a dirittura piacevole. Fu pensiero comune tra' Greci che la morte è rimedio a tutti i mali[339]; come potrebbe non essere fra' pessimisti? Fu da taluni, non pessimisti, creduto piacevol cosa il morire: come non inclinerebbe a tale credenza il Leopardi?[340] Il Novalis, idealista e mistico, giudicava la [226] malattia e la morte piaceri della vita (gioia di morte, disse una volta Cino da Pistoja), e il morire atto di altissima filosofia: perchè non avrebbe il Leopardi esclamato:
Bella Morte, pietosa
Tu sola al mondo dei terreni affanni[341]?
Dante e il Petrarca fecero questa esperienza, che la morte non uccide l'amore, anzi lo trasforma e lo suggella. Beatrice e Laura morte sono, pei loro poeti, assai da più che non fossero vive. La morte ha loro largita una seconda vita, assai più alta e migliore della prima, le ha divinizzate, ha trasposto l'amore da esse inspirato e sentito dal terreno al celeste, dal temporale all'eterno. Dacchè elle son morte, tutta la vita e tutta l'anima degl'innamorati poeti s'appuntano in loro. Orfeo scese all'inferno per ritrovare Euridice; per ritrovare le donne loro Dante e il Petrarca si sforzeranno di salire al cielo. A più che quattro secoli di distanza il Novalis rifà la stessa esperienza. Perduta la sua Sofia, egli si sente trasfigurare e trasumanare, si strania sempre più dal mondo di qua per accostarsi sempre più al mondo di là, invoca la morte quasi con formole di scongiuro magico, vuol morir giovane per appresentarsi all'amata florido di salute, circonfuso di letizia. Manfredo scende nel regno di Arimane per rivedere Astarte.
Ma la speranza e la fede che sono nel cuore di Dante, del Petrarca e di colui che fu detto il Profeta del romanticismo, non possono essere nel cuor del Leopardi. Pel poeta della Ginestra la morte non è un intermezzo nel dramma dell'amore, è la catastrofe ultima, con cui il dramma si chiude per sempre. Chi voglia bene intendere ciò, faccia un confronto fra la poesia del Leopardi intitolata Il sogno e il canto o capitolo secondo del Trionfo della Morte, da cui quella è inspirata. In molte delle sue rime il Petrarca narra come rivedesse Laura in immaginazione o nel sogno, e in molte Laura gli dice che lo aspetta in cielo, e che gli fu dura solo per la salute d'ambedue, e gli rasciuga gli occhi molli di pianto, e attentamente ascolta e nota la lunga storia delle sue pene, piangendo con lui, e tanta dolcezza [227] gli apporta quanta uomo mortale non sentì mai[342]. Ma in nessun altro luogo si trova ciò così largamente e teneramente espresso come nel secondo del Trionfo della Morte. La notte stessa che seguì al suo salire in cielo, Laura, sul far dell'alba, appare al poeta incoronata di gemme orientali, gli porge la già tanto desiata mano, se lo fa sedere a canto all'ombra di un lauro e di un faggio, e il tenero e pietoso colloquio incomincia[343]. Viv'ella, o è morta?
Viva son io, e tu se' morto ancora,
Diss'ella, e serai sempre, finchè giunga
Per levarti di terra l'ultim'ora.
Ed egli: È sì gran pena il morire?
Rispose: Mentre al vulgo dietro vai
Ed a l'opinion sua cieca e dura,
Esser felice non pô' tu già mai.
La morte è fin d'una pregion oscura
Agli animi gentili; agli altri è noja
Ch'hanno posta nel fango ogni lor cura.
Duole, sì, l'affanno della morte, ma più la tema de l'eterno danno; chè la morte non è se non un sospir breve; e a lei fu mansueta la morte; ed ella, a quel passo più lieta
Che qual d'esilio al dolce albergo riede.
Finalmente, alla domanda del poeta, s'ell'abbia mai sentita alcuna pietà di lui, ella, lampeggiando di un dolce riso, confessa il suo amore, e fa manifesta la ragione de' suoi rigori, la quale fu di togliersi a lui breve tempo a fine di poter essere con lui nella eternità.
Quanto diversi i pensieri, le credenze e però i sentimenti espressi nella elegia del Leopardi! Anche a lui appare in sul mattino quella che prima gl'insegnò amore, ma trista gli appare,
[228]
e quale
Degl'infelici è la sembianza.
Appressando la destra al capo di lui, e sospirando, ella gli chiede se viva e se ancor serbi di lei alcuna ricordanza. Il poeta non si avvede alla prima ch'ella è morta, e la va interrogando: lo lascerà ella un'altra volta? e che le avvenne? e che la strugge internamente? Ma súbito la infelice fanciulla lo fa avveduto del vero:
Son morta, e mi vedesti
L'ultima volta, or son più lune.
E quand'egli le domanda se mai ebbe in core favilla d'affetto o di pietà per l'amante infelice, affinchè ne lo soccorra almeno la rimembranza ora che loro è tolto il futuro, quella non cela il sentimento antico, e gliene porge in pegno la mano, ch'egli, palpitando d'affannosa dolcezza, ricopre di baci. Ma a qual pro? Ella gli ricorda ch'è morta, ch'è fatta ignuda di beltà, e che non è più luogo all'amore:
E tu d'amore, o sfortunato, indarno
Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
Nostre misere menti e nostre salme
Son disgiunte in eterno. A me non vivi.
E mai più non vivrai: già ruppe il fato
La fè che mi giurasti.
E pronunziate queste estreme parole, si dilegua.
Allo stesso modo Consalvo sa di perdere Elvira per sempre, di partirsi da lei per sempre; ma egli sente pure di dover molto alla morte, la quale ruppe il nodo antico alla sua lingua, e gli ottiene da Elvira la prima, sola ed ultima prova d'amore; quel bacio che a lui finalmente fa credere di non essere indarno vissuto, e segna l'unico giorno felice della sua vita. Ond'egli muore contento e con ragione esclama:
Due cose belle ha il mondo:
Amore e morte.
Nel Sogno la morte pon fine all'amore: nel Consalvo la morte fa manifesto e quasi appagato l'amore, e gli ultimi
Palpiti della morte e dell'amore
si confondono nel medesimo petto. In un quadro di Nicola Meldermann [229] si vede la morte che sorprende due innamorati e violentemente ne scioglie l'amplesso: nel Consalvo la morte stringe il nodo che sciorrà subito dopo.
Ma la morte che con l'amore qui fortuitamente s'incontra, pronuba inaspettata, ha pur con l'amore, secondo il pensier del Leopardi, affinità di natura, ed è fra loro concordanza d'intenti. Dall'amore
Nasce il piacer maggiore
Che per lo mar dell'essere si trova;
la morte
Ogni gran male annulla.
Dunque, rispetto al fine ultimo della vita, che pel Leopardi non può essere, come abbiam veduto, se non la felicità, esse operano conformemente. Ancora, chi è fortemente preso d'amore, non cura la vita, affronta ogni periglio, e sente in petto un nuovo desiderio di morire:
Tanto alla morte inclina
D'amor la disciplina.
Disse in un luogo lo Schopenhauer di non intendere perchè certe coppie d'innamorati, che potrebbero, sciogliendosi da ogni ritegno, e posponendo ogni altra considerazione, godere felicemente dell'amor loro, eleggano piuttosto di finire insieme l'amore e la vita[344]. Il Leopardi pensò a sciogliere in qualche modo questa difficoltà, dicendo che l'uomo innamorato, dappoichè conosce fatta inabitabile a sè la terra
senza quella
Nova, sola, infinita
Felicità che il suo pensier figura;
e presente in suo cuore le procelle che per ragione di quella desiderata felicità gli si susciteranno contro; brama sottrarsi a tanto travaglio e raccogliersi in porto. A commento delle quali cose tutte è pur da notare che l'amore, quando sia molto gagliardo, importa dedizione incondizionata, annientamento di sè in altrui, come di asceti in Dio; una morte a tutto quanto non sia l'oggetto della sua adorazione: e che l'atto generativo, il quale è il fine primo e ultimo (per [230] quanto alcune volte occultato) dell'amore, importa, come sanno i fisiologi, un processo organico di disintegrazione, ch'è quanto dire un principio di morte; onde per alcuni animali di efimera vita l'ora dell'amore e l'ora della morte fann'uno.
Il desiderio della morte non fu sentimento ignoto agli antichi; e ne fanno fede molte testimonianze di poeti, alcune dottrine di filosofi, e certe sanzioni di legislatori. Gli stoici glorificarono il suicidio. Egesia di Cirene fu detto il consigliator della morte, e Cicerone scrisse: Tota philosophorum vita commentatio mortis est. Seneca, in una delle sue epistole, biasima il desiderio della morte: Nihil mihi videtur turpius quam optare mortem; ma in altra scrittura persuade quel desiderio ai felici, anzi ai felicissimi: Felicissimis mors optanda est. I magistrati di Massilia e dell'isola di Ceo pubblicamente concedevano la cicuta a coloro che provavano aver giusta ragione di voler morire; e furon celebri quei sodali della morte che nell'antica Alessandria deponevano, levandosi da un banchetto, il fardello della vita[345].
Ma col mutar delle età esso muta forma e carattere: non è men frequente e più intenso. Infelix ego homo, esclama San Paolo, quis me liberabit de corpore mortis hujus? e in altra occasione: Mihi enim vivere Christum est, et mori lucrum: parole ripetute poi da infiniti. E chi non sa che si dovettero cercare ripari e rimedii alla smania del martirio?
Nei tempi modernissimi tale sentimento appare assai più diffuso, non dirò che nei primi secoli del cristianesimo, ma che in tutti i secoli dell'antichità pagana, e una intera letteratura è nata da esso.
Ma col mutar delle età esso muta forma e carattere: non è nei Greci quale poi nei cristiani; non in questi ed in quelli quale ora nei moderni. Al pagano, il desiderio della morte era, generalmente parlando, instillato da una infelicità ben definita, la quale avvelenava, non la vita in genere, ma solo una particolar vita; e però i magistrati di Massilia e di Ceo volevano dimostrato il diritto alla morte. Nel cristiano, il desiderio della morte temporale formava come dire il rovescio del desiderio della vita eterna, era inseparabile da esso, e, a rigore, più che desiderio di morte, dovrebbe dirsi desiderio di vita. Nell'uomo moderno esso nasce, quanto alla forma sua più caratteristica e più notabile, dal sentimento della irreparabile nullità [231] della vita, e dalla convinzione che la vita, generalmente considerata, non meriti d'esser vissuta.
Or poserai per sempre,
Stanco mio cor . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . .
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
. . . . . . . . . . . . . . .
Al gener nostro il fato
Non donò che il morire[346].
Non andremo cercando nei fratelli spirituali del Leopardi, quali la finzione o la realtà li produsse, la variata espressione di questo medesimo sentimento, e ci contenteremo di notare quanto il desiderio della morte sia stato lungo e tenace nel nostro poeta. Già nel 1817 egli era stato vicino ad ammazzarsi per disperazione d'amore. Nel luglio del 1819, scrivendo al Giordani, diceva di voler gittare in breve la vita; e in una lettera del dicembre, allo stesso, di sentirsi morto in questo deserto del mondo[347]; e qualche settimana più tardi, ne' versi Ad Angelo Mai scriveva:
Morte domanda
Chi nostro mal conobbe e non ghirlanda.
Nella Vita solitaria il poeta si augura pronta morte, e accenna al ferro liberatore. Nelle Ricordanze parla e riparla della invocata morte:
E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio.
[232]
Bruto fa l'apologia del suicidio; Porfirio ne sostiene la legittimità[348]; Saffo emenda in sè stessa il fallo del cieco dispensator de' casi. Se
È funesto a chi nasce il dì natale[349],
ben allora soltanto l'uomo si potrà dire felice, quando la morte lo sani di ogni dolore[350].
Molti poeti espressero profondo terror della morte; il Baudelaire scrisse:
J'ai peur du sommeil comme on a peur d'un grand trou,
Tout plein de vague horreur, menant on ne sait où;
Je ne vois qu'infini par toutes les fenêtres[351].....
Al Leopardi quel terrore non istrinse il petto:
Giammai d'allor che in pria
Questa vita che sia per prova intesi,
Timor di morte non mi stringe il petto.
Oggi mi pare un gioco
Quella che il mondo inetto,
Talor lodando, ognora abborre e trema,
Necessitade estrema;
E se periglio appar, con un sorriso
Le sue minacce a contemplar m'affiso[352].
Piuttosto gli strinse il petto il timore di dover vivere a lungo, e così fatto timore espresse più volte. In Napoli, essendo già prossimo alla sua fine, lo tormentava il pensiero d'avere a vivere forse un'altra quarantina d'anni. Parole, parole! potrebbe dire qualcuno: immaginazione di poeta che s'infinge di non temere ciò che teme realmente, e di desiderare ciò che in verità non desidera. Non in tutto parole, non in tutto immaginazione. Anche senza l'ajuto degli argomenti di Epicuro, l'uomo può ridursi a guardar la morte con occhio sereno, può giudicarla un bene e come un bene desiderarla.
Nel novembre del 1819 il Leopardi credette d'aver perduto perfino [233] il desiderio della morte[353]; ma fu errore, simile a quello che gli fece credere a più riprese d'essersi chiuso alla bellezza e all'amore. Egli non istette mai lungo tempo senza nutrire quel desiderio nel petto; e però nella poesia che tutto raccoglie e rafferma il suo pensiero in sì fatto argomento, egli poteva scrivere una dozzina d'anni più tardi:
E tu cui già dal cominciar degli anni
Sempre onorata invoco,
Bella Morte, pietosa
Tu sola al mondo dei terreni affanni
Se celebrata mai
Fosti da me, s'al tuo divino stato
L'onte del volgo ingrato
Ricompensar tentai,
Non tardar più, t'inchina
A' disusati preghi,
Chiudi alla luce omai
Questi occhi tristi, o dell'età reina[354].
Qui la morte è salutata regina e dea; e così la salutò un altro poeta pessimista, il Leconte de Lisle:
. . . Divine mort, où tout rentre et s'efface,
Affranchis-nous du temps, du nombre et de l'espace,
Et rends-nous le repos que la vie a troublé.
Il Leopardi meritò veramente il nome di amator della morte, e di amatore fedele. Che se ne' suoi versi e nelle sue prose troviamo qua e là qualche amara parola, non dobbiamo vedere in ciò più infedeltà di quanta siam usi vedere nelle querimonie e nei dispetti degli innamorati. Nella canzone All'Italia la morte è detta passo lacrimoso e duro; e abisso orrido immenso la dice l'errante pastore dell'Asia. Nella Palinodia vecchiezza e morte son giudicate miserie estreme. Ma che perciò? Il gallo silvestre, il quale richiama gli uomini dal sonno alla vita, promettendo loro per più tardi quella morte in cui sempre e insaziabilmente riposeranno, il gallo silvestre canta essere la morte l'ultima causa dell'essere, il solo intento della natura[355].
Il Baudelaire, che teme e odia la morte, deturpa e disonora la morte: il Leopardi, da vero amatore, l'abbellisce e la india. E ciò [234] prova in lui, fra l'altro, un invincibile senso e bisogno di bellezza. Egli par che s'avvegga talvolta che la natura non si curò di velare di amabili sembianze la morte, e domanda perchè di tanto almeno non sia stata generosa ai mortali:
Ahi perchè dopo
Le travagliose strade almen la meta
Non ci prescriver lieta? anzi colei
Che per certo futura
Portiam sempre, vivendo, innanzi all'alma,
Colei che i nostri danni
Ebber solo conforto,
Velar di neri panni,
Cinger d'ombra sì trista,
E spaventoso in vista
Più d'ogni flutto dimostrarci il porto?[356]
Ma ciò che la natura non fece, fa il poeta, e la morte diventa per opera sua
Bellissima fanciulla
Dolce a veder.
Solo in due casi si diparte il poeta da questi sentimenti e da queste immagini, e sente orrore e terror della morte: quand'essa ci strappa dalle braccia un essere amato; e quando incrudelisce in giovinezza e in beltà, e scerpa il fiore delle nuove speranze. Il poeta apostrofa la natura:
Come potesti
Far necessario in noi
Tanto dolor, che sopravviva amando
Al mortale il mortal?
A sè medesimo si può bene desiderare la morte; ma ai proprii cari non già, la cui dipartita fa l'uomo scemo di sè stesso[357]. Il poeta sente nelle proprie sue carni quegli angosciosi brividi, quei sudori estremi che travagliarono la cara e tenerella salma della donna adorata[358], spasima pel chiuso morbo che uccise la Silvia[359].
[235]
La canzone Per una donna malata di malattia lunga e mortale incomincia:
Io so ben che non vale
Beltà nè giovanezza incontro a morte,
E pur sempre ch'io 'l veggio m'addoloro.
La morte è per sè stessa benefica;
ma sconsolata arriva
La morte ai giovanetti, e duro è il fato
Di quella speme che sotterra è spenta[360].
Ad Amore e Morte il poeta pone come epigrafe il verso di Menandro:
Muor giovane colui che al cielo è caro;
ma la sorte di chi muor giovane, se appar felice all'intelletto, non può non empiere di pietà il petto più saldo e più costante.
Mai non veder la luce
Era, credo, il miglior. Ma nata, al tempo
Che reina bellezza si dispiega
Nelle membra e nel volto,
Ed incomincia il mondo
Verso lei di lontano ad atterrarsi;
In sul fiorir d'ogni speranza, e molto
Prima che incontro alla festosa fronte
I lugubri suoi lampi il ver baleni;
Come vapore in nuvoletta accolto
Sotto forme fugaci all'orizzonte,
Dileguarsi così quasi non sorta,
E cangiar con gli oscuri
Silenzi della tomba i dì futuri.
Questo se all'intelletto
Appar felice, invade
D'alta pietade ai più costanti il petto[361].
Il poeta rimane esterrefatto quando vede distrutto dalla morte il miracolo della bellezza[362], e non sa darsi pace delle speranze innanzi tempo recise:
Quando sovvienmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura[363].
[236]
Ciò nondimeno, come per Dante amore e cor gentil sono una cosa, similmente sono pel Leopardi una cosa cor gentile e desiderio di morte. In un gruppo famoso il Thorwaldsen mostrò abbracciate la Morte e l'Immortalità: il Leopardi, non potendo questo, mostrò abbracciati la Morte e l'Amore[364], degnò la Morte di stato divino, ne fece una delle due belle cose del mondo.
Questo titolo potrà sembrare un po' strano a coloro che giudicano classicismo e romanticismo cose talmente nemiche e contraddittorie da non potere, in un medesimo animo, l'una accompagnarsi con l'altra; e a coloro che avendo sempre udito a parlare del Leopardi come di un purissimo classico, non possono credere che siavi in lui alcun che di non classico: ma nè il classicismo e il romanticismo sono così esclusivi l'uno dell'altro come da molti si stima; nè il Leopardi è propriamente quale da molti s'immagina.
Del classicismo del Leopardi s'è tanto parlato che qui se ne potrà far giudizio senza troppo lungo discorso, e senza ripetere cose ripetute assai volte, e note oramai universalmente. I primi studii del poeta ebbero l'avviamento strettamente classico che gli studii dei giovani solevano ancora avere a que' tempi; e la così detta conversione letteraria di lui fu, più tardi, in massima parte, un ritorno spontaneo alle pure fonti dell'eloquenza e dell'arte antica. Tutti sanno di quegli scritti che lo fecero venire in fama di filologo valentissimo in Italia e fuori d'Italia; tutti sanno delle versioni dal greco e dal latino, e di quelle odi greche, e di quell'inno a Nettuno, che, contraffatti da lui, furono scambiati per sinceri dagl'intendenti. Critici diligenti e minuti [237] notarono nei versi e nelle prose di lui i moltissimi luoghi che a ragione o a torto (non sempre a ragione di sicuro) si possono credere suggeriti o inspirati dalle due letterature di Grecia e di Roma; e fu ne' suoi versi distinta una prima maniera, che sarebbe latina, da una seconda, che sarebbe greca; e tutta greca fu detta la prosa; e come il Manzoni fu salutato capo della scuola romantica in Italia, così della classica fu salutato capo il Leopardi, fatto dell'uno il contrapposto e la negazione dell'altro. Egli stesso, il poeta, ebbe a dire, non una, ma più e più volte, che, a paragon degli antichi, i moderni scrittori gli parevano o piccoli, o poveri, o falsi.
Il sentimento che Dante, ponendo il piede sulla soglia dell'età nuova, esprimeva nel verso
Lo secol primo quant'oro fu bello,
il Leopardi nutrì lungamente nell'animo, e con assai più desiderio e fervore che non potess'essere nel maggior padre di nostra favella. Innamoratissimo di bellezza, egli credette che della bellezza gli antichi avessero avuto miglior senso di noi, e fattone più retto giudizio. Innamoratissimo di virtù, credette gli antichi fossero stati più virtuosi, e per questo, e per altro ancora, assai più felici; onde all'età presente, pessima sott'ogni aspetto, non altro può rimanere che il desiderio[365]. Nascevagli talvolta un dubbio, che questo esaltare il passato a paragon del presente possa essere effetto di mera illusione[366]; ma la illusione tenevasi cara e non sapeva spogliarsene. Ricordando i vetusti divini, a cui natura parlò senza svelarsi, egli prorompe in un grido di desiderio e di rimpianto:
Oh tempi, oh tempi avvolti
In sonno eterno![367]
e sciogliendo un inno ai patriarchi,
molto
Di noi men lacrimabili nell'alma
Luce prodotti,
egli, salutata in passando l'erma terrena sede ove fu commessa la [238] prima colpa, assai più loda l'aurea età, la quale non fu sogno d'antichi poeti, ma felicità vera, per troppo breve tempo conceduta ai mortali[368]. Tanto ride agli occhi di questo innamorato di giovinezza la giovinezza del mondo: tanto lo invaghisce il dolce lume della bellezza!
E già lamentava (sin da quel tempo!) la decadenza degli studii classici in Italia. Di Roma diceva che il latino vi si studiava un po' più che nell'Italia alta, ma che il greco v'era quasi sconosciuto, «e la filologia quasi interamente abbandonata in grazia dell'archeologia»[369]. Ma in nessun'altra città d'Italia lo studio delle lingue e delle lettere classiche vedeva così negletto come in Milano, dove difficilmente, a quanto si afferma, si sarebbe potuta trovare «una edizione di un classico greco o latino, posteriore al 5 o al 6 cento»[370]: e della causa dell'antichità facendo in certo qual modo la propria, diceva non essere il suo nome in Firenze, in Torino, in Bologna, in Napoli, «così profondamente disprezzato come nella dotta e grassa Lombardia»[371]. V'è qualche esagerazione in questi giudizii; ma è da por mente che in quegli anni appunto Milano era diventata come la metropoli del romanticismo italiano. Di ciò non sembra s'avvedesse allora il Leopardi, il quale badava a dire che in Milano non si parlava d'altro che lingua e poi lingua, e che in ciò consisteva tutta la letteratura milanese[372], e che in Lombardia non era quasi altro studio che di pedanterie[373]. Egli aveva gli occhi e l'animo così fissi nell'antichità che mal poteva discernere e peggio poteva giudicare ciò che gli si moveva da presso e allo intorno; e se faceva disegno di scrivere un romanzo storico, lo vagheggiava sul gusto della Ciropedia; e se meditava di narrare le vite dei più eccellenti capitani e cittadini italiani, si proponeva modelli Cornelio Nepote e Plutarco[374]. Ciò nondimeno, quando la Grecia insorse, vendicandosi in libertà, e, in grazia delle antiche memorie, l'ellenismo ribollì in petto [239] ai letterati di tutta Europa, non si sa che il Leopardi si scaldasse molto; e anzi il modo ond'ei parlò della morte del Broglio, in una lettera che ho già avuto occasione di ricordare, lascia credere che si scaldasse pochissimo[375].
Il 20 di gennajo del 1821, il Giordani scriveva a Ferdinando Grillenzoni: «Io sono del suo parere quanto a Leopardi: e l'animo e le meditazioni e le letture di quel rarissimo e stupendissimo giovane son troppo classiche: è impossibile che divenga romantico»[376]. Passi per le letture e le meditazioni; ma quanto all'animo, c'è a ridire. Romantico il Leopardi non diventò; ma ben fu avvertito dal Carducci che se il Manzoni «ridusse a mano a mano alla determinatezza classica e alla più netta rappresentazione del reale il vaporoso e divagante romanticismo», il Leopardi per contro «romantizzò, per così dire, la purità del sentimento greco»[377]. Certo il Leopardi si sarebbe sdegnato se a qualcuno fosse venuto in mente di chiamarlo un romantico; ma ciò non prova ch'egli non avesse del romantico alcune parti, senza ch'ei sel sapesse. Anche il Byron ebbe a sdegnare quel nome. Nel marzo del 1818 il Leopardi mandò allo Stella la prima parte di un Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, ovvero intorno alle osservazioni del Cav. Ludovico di Breme sulla poesia moderna[378]; ma quella prima parte non fu mai stampata, e la seconda non fu mai scritta; e dalla lettera con cui il poeta accompagnava l'invio all'editor milanese si comprende soltanto ch'egli non la pensava come l'autore delle Osservazioni[379]. In sul principio del 1810 il poeta volgeva in mente un trattato della condizione allora [240] presente delle lettere italiane, il quale avrebbe dovuto porgere «il fondamento e la norma di qualunque cosa» gli fosse avvenuto di comporre in séguito[380]; e a più riprese ne rivedeva ed allargava il disegno, lasciandone memoria nelle sue carte e in parecchie lettere, come di cosa che gli stesse molto a cuore; ma senza andar mai più in là che il disegno. Ci doveva, tra l'altro, discorrere dell'andamento preso dalia letteratura verso il classico e l'antico, giudicandolo buono, anzi necessario, in generale ed entro certi limiti, «ma inutile e dannoso senza l'unione della filosofia colla letteratura, senza l'applicazione della maniera buona di scrivere ai soggetti importanti, nazionali e del tempo, senza l'armonia delle belle cose e delle belle parole...». Ci si doveva raccomandare lo studio delle letterature moderne, per sapere dov'è che noi le possiamo imitare. Ci si doveva ancora dimostrare «la necessità di adattarsi al gusto corrente», «la falsità di ciò che forse si giudica, che il buon gusto non si possa trovare in libri nazionali e da contemporanei, l'uso costante di tutti i grandi scrittori di scrivere per il loro tempo e la loro nazione, o greca, o latina ecc.... la discordia tra le nostre opere e quelle degli antichi, che vogliono imitare, quando queste erano pel tempo loro, e le nostre per il tempo degli antenati, quando a volerli imitare doveano effettivamente essere per il presente ecc.»[381]. Questi pensieri, maturati e messi in carta, secondo si ha ragion di credere, dopo il 1823, sono probabilmente alquanto disformi da quelli espressi nella prima parte del Discorso testè citato; ma quanto disformi, non siamo in grado ora di dire. Comunque sia, se si toglie l'approvazione data a quell'andamento della letteratura verso il classico e l'antico, io quasi non iscorgo in essi opinione o giudizio in cui i romantici d'allora non potessero e non dovessero consentire: e quando il poeta ricorda in più particolar modo che gli antichi scrissero pei tempi loro, e che i moderni, volendoli imitare davvero, dovrebbero scrivere pei proprii, sembra d'udire il discorso di quegli apostoli della nuova scuola i quali dicevano i Greci e i Latini essere stati i romantici dell'antichità. Chi giudicasse il Leopardi un romantico in veste classica esagererebbe di certo; ma chi dicesse che il classicismo di [241] lui fu più di forma che di sostanza, e che egli non fu quell'antico che a primo aspetto può parere altrui, direbbe cosa, a mio credere, che ha molte parti di vero. Se non fu un romantico, il Leopardi ebbe in sè del romantico assai più di quanto potesse egli immaginare, assai più di quanto fu giudicato da altri.
A persuadersene gioverà esaminare: 1º, l'uso che il poeta nostro fece della mitologia; 2º, certi sentimenti e abiti mentali di lui; 3º, certe opinioni e inclinazioni, certi giudizii e propositi: 4º, certi elementi e caratteri d'arte. Da sì fatto esame si parrà, fra l'altro, la gran forza di penetrazione di quelle idee madri del romanticismo, le quali s'insinuarono più e meno anche in ispiriti che non parevan fatti per doverle in alcun modo ricevere, e la gran forza di diffusione, e direi quasi d'intossicazione ch'ebbero allora que' sentimenti. Al qual proposito è pur da ricordare che, prima d'essere una dottrina e una pratica d'arte, il romanticismo fu un'affezione degli animi, e, ancora, che il romanticismo non fu di una sola maniera, ma di parecchie.
Cominciamo dall'uso della mitologia, dacchè fu la mitologia (classica, s'intende) quella che diede modo alle due fazioni di meglio distinguersi e contrapporsi, e che provocò le battaglie, non dirò più importanti, ma più accanite e spettacolose. I classicisti vogliono conservata all'arte la mitologia greca e latina, senza di cui credono l'arte non possa sussistere: i romantici la vogliono affatto sbandita, magari per sostituirgliene un'altra. Non dico già che l'amore o l'odio alla mitologia basti a formare il classicista o il romantico; ma che la mitologia e l'antimitologia diventano per le due contrarie fazioni quasi segnacolo in vessillo.
Ora, qual uso fa della mitologia il Leopardi? Un uso affatto diverso da quello dei classicisti ortodossi. Il Foscolo e il Monti (non immuni, del resto, nè l'uno nè l'altro, da romantica lue) trattano la mitologia come cosa vera e presente; viva, non già solo nella memoria e, tutto il più, nel sentimento, ma ancora nella credenza. Essi invocano gli dei dell'Olimpo come se veramente fossero devoti alla lor religione, e ne narrano i casi come se fossero avvenuti davvero. Il Leopardi considera il mito come cosa irreparabilmente passata e perduta, e appunto perciò lo rimpiange; rimpiange, cioè, le belle e dolci fantasie per la cui virtù parve vivere la natura e conversare con l'uomo. Il canto Alla primavera o delle favole antiche è documento mirabile di quel giudizio e di quel sentimento, a cui nessun [242] romantico, che abbia fior di ragione, può voler contrastare. Tale rimpianto ricorre con molta frequenza nei poeti moderni; ma troppo avrebbe disdetto a classicisti puri, i quali non potevano, senza strana contraddizione, deplorare la morte di ciò che fingevano vivo e s'ingegnavano di tener vivo[382]. Ora tra alcuni di quei moderni e il Leopardi è, per tale rispetto, questa diversità, che essi, nel mito, lamentano piuttosto la perduta bellezza, il Leopardi piuttosto la perduta illusione. Non volendo moltiplicare i raffronti, mi contenterò di un pajo. Il Keats incomincia il suo poema Endymion con un saluto alla bellezza. Il Leconte de Lisle, come già Alfredo De Musset, si rammarica di non essere nato in Grecia nel tempo antico.
Iles, séjour des Dieux! Hellas, mère sacrée!
Oh! que ne suis-je né dans le saint Archipel
Aux siècles glorieux où la Terre inspirée
Voyait le ciel descendre à son premier appel![383]
Questo desiderio nasce in lui dall'amore e dall'entusiasmo della vittoriosa Bellezza, innanzi al cui altare avrebbe voluto prosternarsi adorando. Nel carme intitolato Hypathie, il poeta, esaltando la paganità a fronte del cristianesimo, esclama:
l'impure laideur est la reine du monde,
Et nous avons perdu le chemin de Paros.
Les Dieux sont en poussière et la terre est muette:
Rien ne parlera plus dans ton ciel déserté.
Dors! mais vivante en lui, chante au cœur du poète
L'hymne mélodieux de la sainte Beauté.
Un'altra poesia, intitolata La source[384], finisce con questi versi:
Telle que la Naïade en ce bois écarté
Dormant sous l'onde diaphane,
Fuis toujours l'œil impur et la main du profane,
Lumière de l'âme, o Beauté!
[243]
Il Leopardi non usa del mito come di un tema di supposta credenza; ma ne usa talvolta come di una parabola e di un simbolo, nel quale infonde pensieri e sentimenti moderni; conscio, con lo Schelling, della universa significazione e del perpetuo valore di esso; conscio ancora della duttilità sua, la quale lo pone in grado di ricevere, mutando i tempi e le civiltà, nuova forma e spirito nuovo. Con ciò il Leopardi fa cosa interamente legittima, e praticata da molti poeti di questo secolo, che certamente non furono classicisti. Basti ricordare per tutti Vittore Hugo, del quale è noto il mirabile uso che del mito antico, in più maniere variato, seppe fare nella Légende des siècles e altrove. Di sì fatto uso, del resto, il Leopardi non si giova ne' versi, ma solo in taluna delle prose, quali la Storia del genere umano, il Dialogo di Ercole e di Atlante, la Scommessa di Prometeo; e non è possibile non avvertire la diversità grande che per questo rispetto passa tra lui e alcuni poeti modernissimi, specie inglesi, ne' cui versi il mito ellenico rifiorisce frequente a canto alla leggenda arturiana o alla saga settentrionale.
Delle antiche immagini e dell'antico linguaggio mitologico alcune tracce rimangono nel Leopardi, come per forza di tradizione e di consuetudine. Febo, titania lampa, ciprigna luce, offeso Olimpo, Olimpo che piove a distesa, disperato Erebo, erinni, alto consiglio di numi, troviamo qua e là ne' suoi versi: ma sono rari nantes, formule puramente verbali, che non possono far rivivere il mito, e quasi, passate in una specie di comune linguaggio, più non lo suppongono. Perciò aveva ragione Giuseppe Belloni, quando, proprio nella sua brutta Anti-mitologia, ricordava con lode il nome del Leopardi, come di uno che avesse intese le buone ragioni dei romantici, e s'opponesse alle usanze assurde dei classicisti:
Leopardi,
Forte in alti pensieri, inni già intuona,
Che se fien gravi all'ammollito orecchio
Della plebe vivente, saran fiamma
Alla età che succede; e cammin nuovo
Segna a chiunque la virtude ha cara[385].
E non dimentichiamo che nella Ginestra il poeta si ride della illusione [244] degli uomini che favoleggiarono gli autori delle universe cose discesi in terra per cagion loro, e schernisce i rinovellati sogni; dove, se non manca una frecciata al cristianesimo, non ne manca una nemmeno alla mitologia. E ricordiam di passata che nella Scommessa di Prometeo si parla con assai poca reverenza delle muse e degli altri dei, e che di Prometeo si narra un'avventura troppo più realistica che mitica.
Dopo quanto s'è veduto del sentimento della natura nel Leopardi, parmi si possa legittimamente concludere che quel sentimento ha del romantico assai più che del classico, o dobbiam lasciare di distinguere fra sentimento classico e sentimento romantico della natura. Romantica quella tenerezza accorata, che potrebb'essere una variante del délire champêtre del Rousseau; romantica, più tardi, quella diffidenza angosciosa che il Leopardi manifesta a fronte della natura; e sconosciute, così l'una, come l'altra, agli antichi, sebbene per tutt'altra ragione che quella immaginata dallo Schiller. I classicisti, sebbene si sciacquassero sempre la bocca con quel loro canone dalla imitazione della natura, sentirono, generalmente parlando, la natura assai poco. E qui vien forse opportuna un'altra osservazione. Un uomo del settentrione e un uomo del mezzodì, un germano e un latino, non gustano la natura alla stessa maniera. Quegli sente in più particolar modo ciò che parla all'anima; questi in più particolar modo ciò che parla ai sensi: per il primo la natura è quasi un simbolo o un'allegoria; pel secondo è, sopratutto, una festa e uno spettacolo. Il primo sogna di più; il secondo vede di più. Il sentimento che il Leopardi ha della natura è, parmi, più settentrionale che meridionale, più germanico che latino, e, per ciò appunto, più romantico che classico: ed è curioso notare come in quelle terzine dell'Appressamento della morte, che sono del 1816, tendesse all'ossianico. Che quella quasi adorazione che per la luna ebbe il Leopardi è cosa romanticissima sotto ogni aspetto, non fa quasi bisogno di avvertire, bastando ricordare come le origini di quel nuovo culto sieno legate ai nomi di Ossian, di Edoardo Young e di Werther. Romantica finalmente è, in un certo senso, una delle ragioni che muovono il Leopardi a cercar la natura; ed è quella stessa che già aveva mosso il Rousseau, Werther, lo Chateaubriand, Obermann, ecc., e cioè l'avversione all'umano consorzio e il disgusto della civiltà.
Fermiamoci a considerare un istante questo sentimento. La misantropia [245] non fu trovata certo dai moderni; anzi doveva già essere antica nel mondo quando l'ateniese Timone ne diede un esempio rimasto memorabile nelle storie. I cristiani, più tardi, trovarono modo di conciliarla con l'amor del prossimo, e nei deserti e nei chiostri se ne fecero strumento e via di salute. I sentimenti umani hanno tutti uno svolgimento e una storia, ma è disagevole talvolta conoscerne le variazioni e seguirne i trapassi. E così di questo sentimento della misantropia. Direi che nel pagano antico esso dovesse nascere di regola da esperienza di nocumento sofferto nella persona o negli averi, o da timore di tal nocumento. Plutarco e Luciano ci rappresentano Timone spinto alla misantropia dalla ingratitudine e malvagità degli amici. Nel cristiano nasceva piuttosto da timore di seduzione e di contaminazione. Quoties inter homines fui, minor homo redii, lasciò scritto Seneca, che doveva, nella leggenda, diventare un amico di San Paolo, e quasi un seguace della dottrina dell'Evangelo. Il cristiano, certo, non odiò il proprio simile, ma lo temè, come quello che poteva toglierlo a Dio, e s'allontanò volentieri dalla creatura per meglio accostarsi al creatore; e son senza numero quegli asceti che abbandonarono i genitori, il conjuge, i figliuoli per essere più sicuri di ritrovarsi con loro nel regno dei cieli. L'uomo moderno, divenuto troppo eccitabile e sensitivo, e diciam pure troppo soggettivo, pare che de' proprii simili tema più che altro il rude e disaggradevole contatto, e si offenda della disformità loro, e aborrisca da quella conversazione che lo toglie a sè stesso e non lo lascia gustare tutto quel godimento di sè, di cui posson farlo capace l'alta e squisita cultura, la contemplazione e l'analisi. Facilmente ancora egli s'immagina d'essere troppo superiore a quella condizione di civiltà e a quelle istituzioni in mezzo alle quali la fortuna l'ha fatto nascere, e prende a disamare un consorzio pel quale stima di non essere fatto, immaginandone un altro più amabile e degno.
Dar giudizio della misantropia del Leopardi non è cosa facile, chè anche per questa parte sono molte contraddizioni nel nostro poeta. Di ventun anno scriveva degli uomini: «Vorrei non conoscerli, così scellerati come sono»[386]. Più tardi, per bocca di Tristano, giudicava gli uomini «codardi, deboli, d'animo ignobile e angusto»[387]: e, rinnovando la sentenza dell'Hobbes, diceva la vita sociale una lotta di [246] ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno[388]; e che la natura ha inspirato negli animali l'odio de' proprii simili, e che naturalmente l'animale odia il suo simile[389]. Il Dialogo di Ercole e di Atlante è tutto in disprezzo delle cose umane; la Scommessa di Prometeo vuol fare intendere che l'uomo è il più imperfetto, malvagio e spregevole degli esseri creati. Il poeta chiama il proprio secolo il secolo della morte[390], deride i trovati e le macchine[391], dice il mondo presente essere nelle mani dei mediocri[392], anzi tenere il campo la nullità[393], si burla della sapienza dei giornali, delle masse, della perfettibilità infinita, delle scienze economiche, morali e politiche e di tutte le altre belle creazioni di questo secolo di ragazzi[394]. Definito «il mondo una lega di birbanti contro gli uomini da bene e di vili contro i generosi[395],» voleva guerra ad oltranza; e già sino dal giugno del 1821 aveva scritto al Brighenti: «Ciascuno è nemico di ciascuno e dalla sua parte non ha altri che sè stesso... Del resto, o vinto, o vincitore, non bisogna stancarsi mai di combattere e lottare e insultare e calpestare chiunque vi ceda anche per un momento... Il mondo è fatto al rovescio, come quei dannati di Dante... E ben sarebbe più ridicolo il volerlo raddrizzare, che il contentarsi di stare a guardarlo e fischiarlo»[396]. E chi sa quant'altro ci sarebbe da aggiungere se si conoscessero quelle parecchie centurie di Pensieri che rimangono ancora inedite e occulte.
Ma a questi giudizii e a questi sfoghi altri se ne possono opporre di carattere affatto contrario. Il 17 dicembre 1819 scriveva al Giordani: «Era un tempo che la malvagità umana e le sciagure della virtù mi movevano a sdegno, e il dolore nasceva dalla considerazione della scelleraggine. Ma ora io piango l'infelicità degli schiavi e de' tiranni, degli oppressi e degli oppressori, de' buoni e de' cattivi; e nella mia tristezza non è più scintilla d'ira, e questa vita non mi par più degna di esser contesa»[397]. Negli sciolti al Pepoli biasima [247] l'egoismo. Nel Dialogo di Timandro e di Eleandro dice di non poter odiare nessuno, nemmeno chi l'offende, anzi di essere «del tutto inabile e impenetrabile all'odio»[398]. In una lettera al Brighenti si legge: «Ma viviamo, giacchè dobbiamo vivere, e confortiamoci scambievolmente, e amiamoci di cuore, chè forse è la miglior fortuna di questo mondo. La freddezza e l'egoismo d'oggidì, l'ambizione, l'interesse, la perfidia, l'insensibilità delle donne che io definisco un animale senza cuore, sono cose che mi spaventano»[399]. E nel XXXII dei Pensieri si dice che chi ha più intelletto ed esperienza meno disprezza; che sciocchi sono coloro i quali per troppa stima di sè disprezzano gli altri; e che «l'uso del mondo insegna più a pregiare che a dispregiare». Quale luogo l'idea umanitaria tenga nella Ginestra non è bisogno di ricordare: bensì parmi voglia essere ricordato che pel Leopardi, come per lo Shelley, unico fondamento della morale è la simpatia, che nasce dalla sensitività.
Contraddizioni in tutto simili a queste sono frequentissime nei romantici, a cominciare da quel Gian Giacomo Rousseau che del romanticismo dee dirsi il massimo institutore: e nel romanticismo sono da distinguere come due correnti, che talvolta vanno disgiunte e in direzioni contrarie, tal'altra in assai strano modo si confondono insieme; una corrente che diremo filantropica, e una corrente che diremo misantropica. Il bel tenebroso fugge la compagnia de' proprii simili; non parla di essi se non con amarezza e con disdegno; come molti altri degli eroi di quel Byron che difficilmente si potrebbe dire se fu più filantropo che misantropo, o più misantropo che filantropo. René disse: La foule, ce vaste désert d'hommes. Saint-Preux aveva detto: J'entre avec une secrète horreur dans ce vaste désert du monde. E l'Adolphe del Constant soggiunse: «Je ne me trouvais à mon aise que tout seul, et tel est, même à présent, l'effet de cette disposition d'âme, que dans les circonstances les moins importantes, quand je dois choisir entre deux partis, la figure humaine me trouble, et mon mouvement naturel est de la fuir pour délibérer en paix»[400]. Il Leopardi [248] chiama il mondo formidabile deserto[401]. Il nano misterioso di Gualtiero Scott non può sopportare la vista de' proprii simili: il Leopardi accusa la luna se umani aspetti scopre al suo sguardo[402].
Di tale disposizione dell'animo lo stesso Leopardi ebbe a notare alcuna cagione quando disse che gli antichi non considerarono mai «la generalità degli uomini civili, che noi chiamiamo società o mondo», quale «nemica virtù», e «certa corruttrice d'ogni buona indole, e d'ogni animo ben avviato»; e che la educazione presso gli antichi era pubblica e comune; presso i moderni, per contro, segregata e solitaria[403]; e ancora quando disse essersi la stirpe umana, per gl'insegnamenti della verità, dissipata in tanti popoli quanti uomini[404]; ov'è manifesto accenno al soverchiante individualismo. Checchè sia di ciò, certo si è che quella disposizione dell'animo fu propria di moltissimi romantici. Il Taine fa cenno di uno scritto della Edinburg Review dell'ottobre 1802, nel quale si attribuivano comunemente ai romantici «les principes antisociaux et la sensibilité maladive de Rousseau, bref un mécontentement stérile et mysanthropique contre les institutions présentes de la société»[405].
Fu già notata da molti la somiglianza morale che il Leopardi ha con Werther, con René, con Jacopo Ortis, con Obermann, persino con Rolla, e con quanti sono i rappresentanti maggiori di quella modernissima disposizione e temperie d'animo che nel presente secolo fu detta appunto malattia del secolo. Gli è certo che il Leopardi ha comuni con essi molti sentimenti, molti gusti e molte idee; e poichè essi sono, con più o meno consapevolezza di chi gl'immaginò e descrisse, vere e predilette creature del romanticismo, ne viene di conseguenza che anche il Leopardi, se fosse personaggio immaginario anzichè reale, potrebbe essere una creatura del romanticismo. Facciamo una rapida enumerazione di questi altri comuni stati di animo. [249] Trattandosi di cose che ogni colto lettore ha presenti allo spirito, e che nulla hanno d'astruso e di recondito, non sarà necessario d'indugiarsi troppo per via, nè di far molti raffronti.
Ho già toccato della sentimentalità del Leopardi. Se accettiamo la distinzione che lo Schiller fece della poesia ingenua e sentimentale, quella attribuendo agli antichi, questa ai moderni; distinzione che può dar luogo ad alcune obbiezioni, ma che non è nè arbitraria, nè vana; non possiamo non riconoscere che la poesia del Leopardi appartiene piuttosto alla seconda che alla prima specie: e se ricordiamo che la sentimentalità fu sempre considerata come una delle più spiccate qualità dei romantici e dell'arte loro, dovremo pur riconoscere che il Leopardi, per la forma generale e, dirò così, diffusa e vaga del sentimento, è assai più romantico che classico. Gli è vero che una certa forma di sentimentalità fu nel secolo scorso (e pare strano a dire) favorita dalla stessa filosofia della ragione, almeno in quanto voleva essere filosofia umanitaria; ma è da notare altresì che la filosofia del secolo scorso favorì in più maniere il romanticismo, un pezzo prima che questo si stringesse in alleanza con l'idealismo tedesco o col cristianesimo; del che si potrebbero recare le prove, non fosse il rischio di andar troppo per le lunghe. Il Rousseau fu un gran ragionatore, un gran sentimentale e, come s'è detto, uno degl'institutori massimi del romanticismo; e Giuseppe Montani, che fu uno dei romantici nostri più intelligenti e ferventi, fu pure un grandissimo ammiratore del Leopardi, e, come il Leopardi, un discepolo dei filosofi francesi.
Se da questo sentimento generale e diffuso passiamo ai sentimenti specificati e definiti, ne troviamo nel Leopardi parecchi, che certo non appartengono ai soli romantici, dacchè nessun sentimento può tutto appartenere a un tempo solo, a una generazione sola; ma sono, specialmente se contrassegnati da certi caratteri, assai più proprii dei romantici che dei classici.
Della melanconia del Leopardi non dirò altro, avendone già detto a sufficienza in altro luogo. Ricorderò solo che la melanconia dolce; quella che già da oltre mezzo secolo i romantici levavano a cielo con le lodi; quella che lo stesso Goethe gustò con delizia (Wonne der Wehmuth; Trost in Thränen), fu detta dal Leopardi più dolce dell'allegria[406].
[250]
Il rimpianto, quello che i francesi dicono regret, non fu molto famigliare agli antichi, i quali, se poco vissero con la fantasia nel futuro, meno ancora vissero nel passato. Ulisse si scioglie in lacrime udendo dalla bocca di Demodoco la propria sua storia; e così Enea, ricordando la patria; ma la loro è commozion viva e passeggiera, che non aduggia l'animo, non lo svigora nel desiderio vano dell'irrevocabile. Ovidio, dal Ponto, evoca senza fine il ricordo di Roma e de' suoi gaudii; ma Ovidio fu detto un romantico del secolo d'Augusto. L'animo del Leopardi si strugge nel rimpianto. Gli antichi ebbero in pregio e in onore, più che ogni altra età della vita, la virilità gagliarda e operosa: i romantici per contro, e con essi il Leopardi, predilessero e celebrarono gli anni in cui più può la illusione, e l'anima, non ancora allacciata e vinta dalla realtà, può abbandonarsi liberamente nelle braccia del sogno. Lo Chateaubriand adorò la propria giovinezza, e inconsolabilmente ne pianse la perdita. Il Leopardi pianse la propria quando, amara e deserta, era ancora presente; la pianse anche più quando fu dileguata; ma sopratutto pianse la fanciullezza e colla fanciullezza disse finita la vita «per tutti quelli che pensano e sentono»[407].
Il Leopardi che patì terribilmente la noja, disse nessuna cosa essere della noja più ragionevole; e che «la noia non è se non di quelli in cui lo spirito è qualche cosa»; e che «la noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani»[408]. Opinione che avrebbe scandalizzato un antico, ma non il Pascal[409], non i romantici. Non ci fu quasi romantico che non volesse essere partecipe di questa sublimità. «Je crois que je me suis ennuyé dès le ventre de ma mère», gemeva, non senza compiacimento, lo Chateaubriand; e René: «je ne m'apercevais de mon existence que par un profond sentiment d'ennui». Del tedio della vita, che comincia, si può dire, a prender forma moderna nell'anima di messer Francesco Petrarca, non accade discorrere. Il Leopardi l'ebbe comune con tutta una schiera numerosissima di romantici; e questo sentimento, quanto lo avvicina senza ch'egli se ne avvegga, ai cristiani, tanto lo discosta dai pagani. Il Leopardi non espresse per l'ascetismo cristiano l'ammirazione di [251] cui lo stimò degno lo Schopenhauer; ma giudicò degnissimi di lode i pensieri e le sentenze di Cristo intorno al mondo, e in più particolar modo avvertì: «Il mondo nemico del bene, è un concetto, quanto celebre nel Vangelo, e negli scrittori moderni, tanto o poco meno sconosciuto agli antichi»[410]. E all'ascetismo cristiano lo raccostano ancora l'avversione alla scienza, ch'egli ha comune col Werther, e l'opinione che sia vana, e oziosa veramente, ogni umana operazione.
Se alla sentimentalità vaga e diffusa, al particolar sentimento della natura, al rimpianto abituale, aggiungiamo quel desiderio smanioso ed acuto che il Leopardi ha dell'amore, considerato da lui, e dalla più parte dei romantici, come unica o suprema fonte di felicità sopra la terra, si vede che il Leopardi dà al cuore una preminenza che gli antichi non pensarono a concedergli, e che invece gli fu universalmente conceduta dai romantici. Dai tristi e cari moti del core riconosce il poeta ogni dolcezza di vita;
e quando gli sembra di non avere più nulla a sperare sopra la terra, dice al proprio cuore:
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra[412].
Or chi non sa che per Werther, come pel Rousseau, il cuore è tutto? E come Werther il Leopardi si diletta delle lacrime, e come il Rousseau celebra il Leopardi la sensitività. Nel suo cormentalismo il Maroncelli stabilisce tra core e mente una certa eguaglianza o un certo equilibrio: il Leopardi dà al cuore la primazia e il sopravvento.
Quel senso dell'indefinito e dell'infinito che noi troviam nel Leopardi, com'è cosa assai più cristiana che pagana, così ancora è cosa assai più romantica che classica. Rileggasi la breve poesia del Leopardi intitolata appunto L'Infinito, e confrontisi con questo [252] passo di una nota lettera del Rousseau: «Bientôt de la surface de la terre j'élevais mes idées à tous les êtres de la nature, au système universel des choses, à l'être incompréhensible qui embrasse tout. Alors l'esprit perdu dans cette immensité, je ne pensais pas, je ne raisonnais pas, je ne philosophais pas; je me sentais, avec une sorte de volupté, accablé du poids de cet univers, je me livrais avec ravissement à la confusion de ces grandes idées, j'aimais à me perdre en imagination dans l'espace; mon cœur resserré dans les bornes des êtres s'y trouvait trop à l'étroit; j'étouffais dans l'univers; j'aurais voulu m'élancer dans l'infini»[413]. A queste parole, e a quelle del poeta italiano, molti riscontri si potrebbero trovare, per una parte nel Pascal, per un'altra nello Chateaubriand e in numerosi romantici d'ogni lingua.
Ancora sente di romantico nel Leopardi la grande importanza e dignità che, sia nella vita, sia nell'arte, egli riconosce alla fantasia, giudicata facoltà superiore alla ragione; e il concetto quasi mitico ch'egli si forma del genio; e quell'ardor d'entusiasmo, che fu, nel romanticismo, una reazione contro il razionalismo freddo e tagliente. Che se poi ricordiamo essere stato il romanticismo definito da alcuni un eccesso di soggettivismo, e pensiamo quanta fu, e di che maniera, la soggettività del Leopardi, non potremo non venire nella conclusione che, anche per questo rispetto, il Leopardi fu assai men classico che romantico. Quella soggettività permalosa si dà anche a conoscere, se non erro, nel fatto che il poeta non esercitò, da quella di poeta e di studioso in fuori, altra professione. Intendo bene che la ragion prima e principale di ciò è da cercare nell'affranta salute; ma ce ne fu probabilmente un'altra. Già il Petrarca ebbe a considerare la professione, il cómpito determinato e tirannico, quale una menomazione dell'uomo. Il Rousseau non potè mai assoggettarsi a un officio stabile. Werther dice gli impieghi, occupazioni da cenciosi. René, Obermann, non si sa che cosa facciano. Rolla non ha imparato a far nulla:
[253]
Il eut trouvé d'ailleurs tout travail impossible:
Un gagne-pain quelconque, un métier de valet,
Soulevait sur sa lèvre un rire inextinguible[414].
Il Leopardi s'ammazzò col lavoro, ma col lavoro libero[415]. Il suo esagerato soggettivismo doveva ripugnare ad ogni altra maniera di occupazione, e come quel soggettivismo è romantico, così ancora sono romantici la perpetua preoccupazion di sè stesso e la particolar forma di lirismo che ne derivano. Che più? Se ci abbisogna qualche indizio di satanismo, nemmen questo manca. Tra le carte lasciate dal Ranieri si trova l'appunto di una specie d'invocazione ad Arimane che comincia con le parole: Re delle cose, autor del mondo, e dove il poeta si vanta d'essere stato di Arimane il maggior predicatore e l'apostolo della sua religione[416].
Se molto di romantico troviamo in certi sentimenti e abiti mentali del Leopardi, molto ancora troviamo in certe sue inclinazioni e opinioni, in alcuni giudizii e propositi che più direttamente riflettono la letteratura e l'arte.
Sino dalla prima sua giovinezza egli si mostra risolutamente avverso alla imitazione, e tiene la originalità in grandissimo conto. Ora, che altro facevano i classicisti se non predicar del continuo che gli antichi non potevano essere superati, e che perciò la più savia cosa che i moderni potessero fare era d'imitarli? e che altro i romantici se non gridare che la imitazione rovinava la poesia, e che non è vera poesia dove non è originalità, cioè spontaneità, cioè inspirazione propria e sincera? Il 10 dicembre del 1810 il Leopardi scriveva al Giordani: «Dimmi se l'opera del Monti va innanzi, e il poema [254] dell'Arici se lo stimi da qualche cosa. Io non l'ho già veduto, eccetto alcuni versi. Dico sinceramente che m'hanno confermato nella opinione ch'io n'avea. In sostanza Omero, Virgilio, l'Ariosto, il Tasso hanno scritto poemi eroici, e fatta una strada. Qualunque italiano si metta alla stessa impresa, già non pensa neppure in sogno di correre un altro sentiero. E non dico solamente un altro sentiero in grande, ma neanche nelle minuzie. E quando l'Arici arrivasse anche a darci un altro Tasso, non bastava quello che avevamo?.... In Italia è morta anche la facoltà d'inventare e d'immaginare, che pareva e pare tuttavia così propria della nostra nazione»[417]. Ricordiamoci a questo proposito che il Keats diceva essere l'invenzione la stella polare della poesia, e che lo Shelley definiva la poesia la espressione della immaginativa[418].
Allo stesso Giordani il Leopardi scriveva e riscriveva che tutto era da rifare in Italia in materia di letteratura; la lirica, la quale gli pareva non fosse anco nata tra noi; la tragedia, di cui l'Alfieri aveva insegnata una forma sola; l'eloquenza poetica, letteraria e politica; «la filosofia propria del tempo, la satira, la poesia d'ogni genere accomodata all'età nostra, fino a una lingua e a uno stile, ch'essendo classico e antico, paia moderno e sia facile a intendere e dilettevole così al volgo come ai letterati». Voleva rifatto il di fuori e il di dentro della prosa, e si doleva che la fortuna gli avesse tolto ormai persino la «speranza di mostrare all'Italia qualche cosa ch'ella presentemente non si sappia neanche sognare»[419]. Se ne togliamo quello stile, ch'essendo classico e antico, paja anche moderno[420], che cosa è qui che dovesse spiacere ai romantici? Non dicevano essi per l'appunto che tutto era da rifare in letteratura? E bene o male, che non è da discuterne ora, non rifecero essi, o, almeno, non tentarono di rifare ogni cosa?
[255]
L'idea di una letteratura civile non è, di certo, propria de' soli romantici, sebbene appartenga anche a loro; ma si può ben dire che sia tutta loro nei tempi moderni l'idea di una letteratura popolare. Il Leopardi, che giudicava dovere le lettere dipendere dalla filosofia, e credeva non poter essere nazione dove non sia letteratura[421], volle letteratura civile e volle letteratura popolare. Le sue proprie parole tolgono ogni dubbio in proposito. Già in quelle prime sue lettere al Giordani egli accennava ad una letteratura non segregata dal popolo, e al Montani in quello stesso tempo scriveva: «per corona de' nostri mali, dal seicento in poi s'è levato un muro fra i letterati ed il popolo che sempre più s'alza, ed è cosa sconosciuta appresso le altre nazioni. E mentre amiamo tanto i classici, non vogliamo vedere che tutti i classici greci, tutti i classici latini, tutti gl'italiani antichi hanno scritto pel tempo loro, e secondo i bisogni, i desideri, i costumi e sopra tutto il sapere e l'intelligenza de' loro compatriotti e contemporanei»[422]. Il poeta deve scrivere per il volgo, e la letteratura dev'essere utile, ripeteva egli poco di poi[423]; e nel già ricordato disegno di uno scritto sulla condizione delle lettere italiane affermava novamente esser necessario «di render qui, com'è già totalmente altrove, popolare la letteratura vera italiana, adatta e cara alle donne e alle persone non letterate», e batteva sulla «necessità di libri italiani dilettevoli e utili per tutta la nazione»[424]. Perciò parlava con disprezzo di quella letteratura che tutta consisteva in far sonetti e versi latini[425]; e vagheggiava di scrivere libri atti a muovere gl'italiani e rigenerare la patria, vite del Kosciuszko e del Paoli, ecc. Forma molto acconcia a tal fine parevagli quella del romanzo storico e della biografia; e pensava l'autore di sì fatti libri dovere avere tutte le virtù dello storico, senza però volere far opera storica propriamente, ma esortativa, anche ajutandosi colla «possibile piacevolezza dei racconti»[426]. Voleva letteratura dilettevole, parendogli che «il privare gli uomini del dilettevole negli studi» fosse «un vero malefizio al genere umano»[427]. Giunse persino a dissuadere [256] dal far versi, perchè esercizio frivolo e da servire ai tiranni[428]. Veggasi ora se queste opinioni e questi propositi contrastino alla celebre formola: l'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo[429].
Fu notato da un pezzo che il Consalvo, a cominciare dai nomi dei personaggi (non importa sapere se presi in qualche luogo, e dove), è cosa tutta romantica; e il Carducci scoperse un lembo di romanticismo persino ne' versi alla sorella Paolina. E che diremo di quella Storia di un'anima che il Leopardi avrebbe voluto comporre? Sotto questo titolo di sapore prettamente romantico, doveva venir fuori un «Romanzo che avrebbe poche avventure estrinseche e queste sarebbero delle più ordinarie; ma racconterebbe le vicende interne di un animo nato nobile e tenero, dal tempo delle sue prime ricordanze fino alla morte»[430]. Una specie di Werther, come si vede.
Nella questione della lingua certo non si può dire che il Leopardi consentisse in tutto coi romantici, ma nemmeno si può dire che dissentisse in tutto da loro. Giovanissimo, egli aveva giudicata la lingua italiana sovrana, immensa, onnipotente, di gran lunga superiore alla francese; ma già sentiva, contro la opinion del Giordani, di dovere attingere alle fonti popolari[431]. Più tardi gli entrava qualche dubbio [257] circa l'assoluta superiorità della lingua italiana; e contro la comune opinione dei puristi e dei classicisti, s'avvedeva «che anche la notizia di più linghe conferisce mirabilmente alla facilità, chiarezza e precisione del concepire»[432]; e pensava di scrivere un libro intorno alle lingue meridionali, cioè greca, latina, italiana, francese e spagnuola, e di farlo con criterii di filosofo e non di cruscante. Gli era venuto a grandissima noja quell'eterno battagliare che si faceva in Italia intorno alla lingua senza risolver mai nulla, e si raccomandava allo Stella perchè non lasciasse sapere a nessuno che gli compendiava il Cinonio, temendone infamia di pedante, e d'esser posto dal pubblico «onninamente, e per viva forza, in quella classe, dalla quale», con le parole e con gli scritti, aveva «tanto cercato di separarsi»[433]. Sentiva, ciò nondimeno, il gran bisogno che l'Italia avesse una lingua adatta ai tempi e alle necessità della nazione; onde, mentre voleva che gli scrittori d'Italia fossero italiani e non barbari, voleva pure si sciogliessero una buona volta dai lacci di quel purismo che viveva, anzi languiva, segregato dal mondo, e il Vocabolario avessero in conto di consigliere e d'ajutatore, non di tiranno[434]. Del resto, sino dal novembre del 1820, diceva, come avrebbe potuto dire un qualsiasi romantico, che gli studii suoi oramai cadevano, non sulle parole, ma sulle cose[435].
I romantici furono grandi preconizzatori della prosa poetica. Il Leopardi fu d'avviso che la bella prosa dovesse aver sempre del poetico: diceva che nelle operette morali aveva voluto fare poesia in prosa, e considerava come possibile una epopea in cui la prosa fosse adoperata in luogo del verso[436].
Dopo tutto ciò parmi sia da credere che il Leopardi, sebbene scrivesse alla sorella Paolina: «Il 25 luglio 1830 ho rovinata coll'Europa [258] la letteratura per un buon secolo»[437], non fosse poi tanto avverso ai romanticismo; e che veramente non fosse è provato ancora dalle sue relazioni con l'Antologia, e da certi giudizii suoi sopra alcuni dei più grandi scrittori del tempo.
L'Antologia, sebbene desiderasse di conciliare le due scuole contrarie, fu nello spirito e nell'indirizzo essenzialmente romantica, e fece, con più temperanza, in Italia quello che il Globe in Francia. Il Vieusseux stimava, o (ch'è più probabile) diceva di stimare pura questione di parole la questione dei classicisti e dei romantici; ma nella Rassegna da lui diretta sostenevano strenuamente le ragioni della nuova scuola il Montani, che il Lampredi chiamava l'Achille e il Rinaldo dei romantici, il Tommaseo e altri parecchi; e sta di fatto che i giornali letterarii d'allora più fidi alla causa del classicismo, davano assai volentieri addosso all'Antologia, non sempre per ragioni letterarie, a dir vero, ma, insomma, anche per quelle. Sollecitato infinite volte dal Vieusseux a scrivervi come e di che più gli piacesse, il Leopardi nell'Antologia non istampò se non un saggio delle Operette morali[438]; ma non è quasi lettera sua al Vieusseux stesso ove non si leggano grandissime lodi di quello ch'egli apertamente chiamava il miglior giornale d'Italia[439], mentre non celava punto il proprio disprezzo per la Biblioteca Italiana, con la quale ben presto si ruppe, e pel Giornale arcadico, entrambi avversarii fierissimi del romanticismo. Dava ancora grandissime lodi al Tommaseo, prima che si guastassero[440], e al Montani, senza aspettare che questi abjurasse: e il Montani, levando a cielo i versi del Leopardi, malmenati dagli arcadi[441], affermava di udire in essi «la voce di un fratello di Werther»[442]. Il precetto che nell'Antologia dava il Tommaseo, combattendo [259] la mitologia: «scrivere come il cuore li detta; e scrivere a giovamento dei più», non poteva non avere l'assentimento di quel Leopardi di cui abbiamo riferite pur ora parole in tutto consone a queste.
Notinsi ora alcuni giudizii del nostro poeta sopra scrittori contemporanei. Il Goethe, che fu tanto benevolo ai romantici italiani, gli piaceva poco. In una lettera al Puccinotti, del 5 giugno 1826, leggiamo: «Le memorie del Goethe hanno molte cose nuove e proprie, come tutte le opere di quell'autore, e gran parte delle altre scritture tedesche; ma sono scritte con una così salvatica oscurità e confusione, e mostrano certi sentimenti e certi principî così bizzarri, mistici e da visionario, che, se ho da dirne il mio parere, non mi piacciono veramente molto»[443]. Il Goethe un mistico e un visionario! Strano troppo che al possibile autore della Storia di un'anima non avesse almeno a piacere il Werther; ma è da ricordare che il Leopardi non seppe di tedesco.
Seppe d'inglese; e se nomina lo Scott senza dirne nè bene nè male[444], parla invece con molta ammirazione del Byron, nel quale, com'è noto, lo stesso Goethe vedeva armonizzate e fuse le due tendenze, classica e romantica. Nella lettera al Puccinotti testè citata il Leopardi scriveva: «Veramente questi è uno dei pochi poeti degni del secolo, e delle anime sensitive e calde come la tua»[445]. Dell'Hugo, il quale, dopo aver fatto tanto chiasso in Francia, cominciava a farne anche in Italia, non una parola[446].
[260]
Del Monti, nella poesia del quale il Tommaseo doveva andar poi rintracciando le infiltrazioni romantiche[447], il Leopardi ebbe, in tempi diversi, assai diverso concetto. In sul finire del 1818, stampate in Roma le due canzoni All'Italia e Sul monumento di Dante, il giovane poeta le dedicò entrambe con parole di somma reverenza a colui che, con pochissimi altri, sosteneva l'ultima gloria della patria. Più tardi, senza che si possa con precisione dir quando, diede del Monti un giudizio che discordava notabilmente da quello tutto ammirativo dell'universale, lodandone sì le doti della immaginativa e del verseggiare, ma soggiungendo poi subito che gli mancava «tutto quello che spetta all'anima, all'affetto, all'impeto vero e profondo, sia sublime, sia massimamente tenero»; dicendolo un poeta dell'orecchio e non del cuore; biasimando sopratutto la «ributtante freddezza e aridità» con cui andava «in traccia di luoghi di classici greci e latini, di espressioni, di concetti, di movimenti classici, per esprimerli elegantemente»; e accusandolo di non far quasi altro che tradurre i classici[448]. Che cosa avrebbe potuto dire di più un romantico?
La divinizzazione che del Manzoni fece il Tommaseo nell'Antologia, e propriamente nel fascicolo d'ottobre del 1827, parve eccessiva al Leopardi[449]; ma non così le giuste, e pur grandi lodi che altri gli davano; e fra i lodatori fu più volte egli stesso. Il 23 d'agosto del 1827, lette, anzi udite leggere solo poche pagine dei Promessi Sposi, scriveva allo Stella che in Firenze le persone di gusto trovavano il romanzo «molto inferiore all'aspettazione», mentre altri lo lodavano[450]; ma pochi giorni dopo, agli 8 di settembre, allo stesso Stella scriveva: «Io qui ho avuto il bene di conoscere personalmente il signor Manzoni, e di trattenermi seco a lungo: uomo pieno di amabilità e degno della sua fama»[451]. Il Mamiani riferì un giudizio del Leopardi sui Promessi Sposi, sfavorevole nei rispetti civili, ma non [261] in quelli dell'arte[452]; e ai 25 di febbrajo del 1828 lo stesso poeta scriveva al Papadopoli: «Ho veduto il romanzo del Manzoni, il quale, non ostante molti difetti, mi piace assai, ed è certamente opera di un grande ingegno; e tale ho conosciuto il Manzoni in parecchi colloqui che ho avuto seco a Firenze. È un uomo veramente amabile e rispettabile»[453]. Nel giugno prometteva al fratello Pier Francesco, ch'era, come il padre Monaldo, grande ammiratore del Manzoni, di portare da Firenze a Recanati tutte le opere dello scrittore lombardo, meno il romanzo che quei di casa già possedevano[454]; e in quello stesso mese scriveva al padre: «Ho piacere che ella abbia veduto e gustato il Romanzo cristiano di Manzoni. È veramente una bell'opera; e Manzoni è un bellissimo animo e un caro uomo»[455].
Non ci sfugga un giudizio, non più sopra uomini, ma sopra una città, il quale può avere anch'esso qualche importanza nel caso presente. Pisa piaceva molto al poeta, che la giudicava «un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico» ch'egli non aveva mai veduto l'uguale[456]. Non sappiamo quanto contribuisse a fargli piacere quel misto così romantico ciò che di medievale conserva ancora l'antica città; ma gli è certo che il poeta non addimostrò pel medio evo quella predilezione che fu comune ai romantici; nè possono bastare a far fede del contrario i pochi versi della canzone ad Angelo Mai dov'esso è ricordato con desiderio:
O torri, o celle,
O donne, o cavalieri,
O giardini, o palagi! a voi pensando,
In mille vane amenità si perde
La mente mia.
Ricordiamoci ch'erano i tempi in cui l'ammirazione per l'Ariosto era divenuta in Inghilterra infatuazione bella e buona. Può ben darsi [262] che in quei pochi versi sia corso qualche influsso romantico; ma è da notare in generale che la poesia storica, tanto cara ai romantici, la poesia intesa a risuscitare il passato in forme colorite e svariate, non ebbe l'amor del Leopardi, come non l'ebbe quello che chiamarono esotismo[457]. Ma coi romantici s'accordava per un altro verso il Leopardi, volendo che la poesia esprimesse di proposito il sentimento, il cuore.
Nell'arte del Leopardi, intendendo ora più propriamente per arte l'insieme dei mezzi atti a significare pensieri, sentimenti e fantasmi, di romantico c'è invero ben poco. Come i romantici d'Italia e di fuori, il Leopardi tende a sciogliersi dalle tradizionali pastoje ritmiche e metriche: come quelli d'Italia e di Inghilterra ha in pregio lo sciolto: come quelli d'Italia pare che non gusti molto il sonetto, che in Inghilterra tornava in onore; ma certo non gli passò mai pel capo di comporre nè una romanza nè una ballata all'uso romantico; nè ebbe cara la rima così come l'ebbero cara i romantici; nè si piacque del decasillabo e dell'ottonario, usati dai romantici a profusione; e l'ottava non adoperò se non in componimento satirico. In più cose discordò dai romantici affatto, specialmente dai francesi. Considerò le parole innanzi tutto come segni d'idee, e non le cercò per sè stesse, attribuendo loro qualità da poter essere gustate, in certo qual modo, oltrechè con l'orecchio, anche con la vista e col tatto; non corse dietro alle onomatopee; non esagerò l'arte di cromatizzare i periodi; non credette che la virtù somma dello stile stesse nel pittoresco[458]. Fu sobrio, come, del resto, il maggiore dei romantici nostri; e se desiderava una «vera prosa bella italiana, inaffettata, fluida, armoniosa, propria, ricca, efficace, evidente, pura», stimava fosse «da cavarsi da' trecentisti, dagli altri scrittori italiani, da' greci quanto a moltissime forme, da' latini quanto a moltissime così forme come parole»[459]; e riuscì nelle prose sue terso, trasparente, perspicuo, ma un po' freddo, e non tanto moderno di sicuro quanto avrebbe voluto, e senza punto di quel disordine, di quegli ardimenti, di quegli ardori [263] di cui più si compiacevano i romantici. Ancora il Leopardi cura la composizione quanto i romantici la trascurano, e se quelli molte volte abbozzano, egli sempre finisce; e sa, non meno nei versi che nelle prose, contemperare entrambi gli elementi della inspirazione, il personale e l'impersonale, con senso della proporzione e con aggiustatezza che da quelli non si conobbe.
Dopo di ciò possiamo concludere. Se è vero, com'è verissimo, che il romanticismo non tanto consiste nella qualità dei tempi presi a trattare, quanto nel modo di sentire e di concepire, e che si può, come il Byron e l'Hugo, riuscire romantici anche trattando temi classici; sarà altresì vero che il Leopardi, guardato nella psiche, è assai più romantico che classico: e se è vero che l'arte classica, a paragone della romantica, è fatta essenzialmente di misura, di compostezza, di euritmia, di sobrietà, di chiarezza, sarà altresì vero che il Leopardi, guardato nell'arte, è assai più classico che romantico.
Ma dell'arte del Leopardi mi accingo ora a dire più di proposito e più distesamente.
Chi dicesse che l'arte di ciascuno artista prende vita e movimento da tutta quanta la persona fisica e psichica che la crea; che quale è la complessione e l'indole di ciascuno, tale ancora si è l'arte; direbbe cosa senz'alcun dubbio verissima, ma non direbbe forse, tutta la verità. Gli è certo che l'artista, sia egli pittore, scultore, o architetto, o musico o poeta, fa l'arte sua, non solamente co' proprii pensieri e co' proprii sentimenti, ma ancora co' proprii sensi, co' proprii nervi, col proprio sangue, con tutto sè stesso; e che l'arte sua varia, talvolta dall'uno all'altro giorno, secondo che varia la composizione e l'equilibrio degli elementi e delle forze onde la instabile sua persona continuamente si forma e si sforma. Natura povera, arte povera; natura esuberante, arte esuberante. Studiando le tele di Raffaello, di Michelangelo, del Rembrandt, noi possiamo, sino ad un [264] certo segno, giungere a conoscere il temperamento e l'indole di Raffaello, di Michelangelo, del Rembrandt. Se di Dante non fosse giunta sino a noi nessun'altr'opera, nessuna notizia biografica, noi, leggendo la Commedia, potremmo intendere che maniera d'uomo egli fosse; anzi il poema ce lo può far conoscere meglio che non possa la biografia più accurata e più minuta. Vittore Hugo è tutto ne' suoi versi. Se un uomo potess'essere privo affatto di carattere e attendere a un'arte, l'arte di lui sarebbe affatto priva di carattere; onde gl'imitatori, che hanno poco carattere, producono arte senza suggello, mentre i genii, che son tutti carattere, producono arte originalissima, anche quando s'approprian l'altrui. Ciò che diciamo ambiente è potentissimo, premendo per così dire tutto all'intorno, a conformare l'arte; ciò nondimeno esso propriamente non preme e non opera se non mediatamente, attraverso l'organismo mentale e corporeo dell'artista. Ma non per questo si può dire che conosciuto quel doppio organismo, sia pur conosciuta, in ogni sua qualità, l'arte che ne proviene; dacchè, per una parte, è impossibile in pratica, e nelle presenti condizioni del nostro sapere, fare il computo degl'innumerevoli eccitamenti e delle innumerevoli inibizioni che di continuo si producono nell'anima dell'artista; e, per un'altra, quelle idee che l'uomo riceve per virtù di ragione, essendo indipendenti, almeno entro certi limiti, dalla complessione e dall'indole, possono operare sull'arte in modo disforme dall'indole e dalla complessione, o anche in contrasto con esse. Che la terra gira intorno al sole e non il sole intorno alla terra, è verità che può piacere agli uni e dispiacere agli altri, ma che, dimostrata, entra nello spirito, così dell'uomo sanguigno come del linfatico, così del robusto come del gracile, e che entratavi, opera sì in conformità di quelle nature che l'hanno ricevuta, ma opera ancora in conformità di sè stessa. Persuasosi, per via di ragionamento, della verità di certe dottrine, Gustavo Flaubert rinnegò i proprii gusti, e deliberatamente esercitò l'arte in contraddizione co' proprii istinti e con le proprie inclinazioni.
Venendo al Leopardi, noi possiamo avvederci, prima ancora d'instituire una qualsiasi indagine, che a questo instabile e delicato organismo fa difetto il copioso e fervido torrente sanguigno che corse per le vene dell'Hugo, e fanno difetto l'eroiche energie e la salda tempra di un Byron. Per contro notiamo subito in lui la prevalenza del sistema nervoso e, in ispecie, dell'organo del pensiero, dove si può dire che la maggior somma di vita del poeta s'accentri. Fu detto, [265] non senza ragione, che il cervello usurpò in lui tutte le energie, defraudò tutte l'altre funzioni dell'organismo. Perciò fu il Leopardi, come abbiamo notato, un intellettuale, e fu di quella piccola schiera di poeti che, come Lucrezio, Dante, il Goethe, cercarono avidamente la scienza; sebbene egli, dopo averla raggiunta, la dovesse giudicar perniciosa.
L'uomo di vulnerata e povera complessione, cui le forze bastino appena a sostenere giorno per giorno la vita, o piuttosto a tenere indietro la morte, bada naturalmente più a sè che al fuor di sè, tende più a raccorsi che a spandersi, più a segregarsi che ad accomunarsi, dacchè ogni più leggiero cimento, ogni più picciol discapito può tornargli di danno irreparabile. E il mondo, giudice frettoloso e spensierato, avventa accuse di durezza d'animo e biasimi d'egoismo, dove non è veramente se non apprensione e dolore. Ma se quell'uomo abbia in misero corpo alto e poderoso intelletto, egli uscirà per virtù di pensiero dalla solitudine sua, e dentro all'angosciosa coscienza di sè rifarà la coscienza del mondo; e se nacque poeta, assurgerà dai gradi di un lirismo essenzialmente sentimentale ed elegiaco a quelli, non di una vera e propria epopea, ma di una comprensione epica delle cose; e se non gli verrà fatto d'incarnarsi in una molteplicità di creature drammatiche, individuatamente configurate e distinte, riuscirà ad intendere e a rappresentarsi nella mente il procelloso dramma della vita.
La natura poetica del Leopardi fu essenzialmente idilliaca ed elegiaca, onde quelli cui egli pose da prima il nome d'idillii sono, fuor d'ogni dubbio, i suoi componimenti migliori. Il Leopardi non ebbe mai, nemmeno quando pensò d'averla raggiunta, quella che si potrebbe chiamare calma epica, e quella specie di epica equanimità la quale permette all'uomo di giudicar delle cose indipendentemente dalla considerazione del bene e del male che a lui in particolare può derivarne. Ciò nondimeno bisogna pur riconoscere che il Leopardi ebbe quella che chiameremo veduta epica del mondo; giacchè se il suo sguardo si fissa un po' troppo alle volte sovra un particolare aspetto di quello, molte altre volte ne percorre tutti gli aspetti e tutti gli abbraccia nella connessione e universalità loro. La opinione espressa da taluno che il Leopardi non sarebbe riuscito poeta se fosse stato meno infelice, e che la infelicità appunto è quella che lo fece poeta, è contraddetta, oltrechè dai primi saggi dell'adolescente, che quella infelicità non aveva ancor conosciuta, anche da uno studio un po' [266] attento che si faccia della sua posteriore poesia[460]. Bensì quella infelicità avrà cooperato a dare alla poesia di lui alcuni caratteri particolari, e a infonderle, per così dire, tanto di spirito lirico quanto gliene sottraeva di epico. Certo, non si riesce ad immaginare un Leopardi autore di una vera e propria epopea (i Paralipomeni della Batracomiomachia non sono se non satira), come non si riesce ad immaginarlo autore di un dramma (i tentativi giovanili non contano), nè di un romanzo (salvo che fosse il romanzo di un'anima).
Il mondo poetico del Leopardi è, come quello di ogni altro poeta, determinato e condizionato dalla complessione fisica e psichica, dall'ambiente, dagli studii, dai modi e dalle vicende della vita. Si deve credere, senza possibilità di errare, che quel mondo sarebbe riuscito o poco o molto diverso da quel che vediamo, non solo se il Leopardi avesse avuto altro corpo e altro spirito, ma ancora se il Leopardi non fosse vissuto in Italia, e in quella Italia della prima metà del presente secolo; se avesse atteso ad altri studii, o studiato altrimenti; se avesse vissuto più intensamente, più variamente, più dilettosamente che non visse. Insomma è la vita, presa nel significato suo più multiforme e più largo, quella che produce l'arte; e bene il seppe lo Shelley, il quale riconosceva di dovere la propria inspirazione poetica alla molteplicità e varietà delle cose vedute, de' sentimenti provati, de' pericoli corsi. Togliete dalla vita di Dante l'amor per Beatrice, l'esilio, la povertà, la peregrinazione dolorosa, e torrete di mezzo al tempo stesso la Divina Commedia. Il tema e l'indole delle grandi opere d'arte si patiscono e non si scelgono.
Non si può dire che il mondo poetico del Leopardi sia angusto, dacchè talvolta tanto si estende quanto il tempo e lo spazio e fa uno con l'universo; ma s'ha pur da riconoscere, messo in disparte ogni preconcetto, ch'esso è un po' povero di fatti e di forme, non molto variato, non molto colorito. E qui parmi si vegga più direttamente [267] l'effetto della fisica costituzion del poeta, e delle sue povere fortune, o diciamo del tenore di vita comandato da quelle. Se il mondo poetico di lui è quale il vediamo, non è già da credere che sia tale per ineluttabile influsso dell'idea pessimistica che dall'alto lo domina, e pel fatto del pessimistico sentimento che tutto lo penetra. Poeta pessimista e poeta uniforme non sono termini correlativi, sì che l'uno supponga l'altro. Il verbo pessimistico può essere enunziato in modo immediato e aforistico, come il Leopardi suol fare, e può essere significato per via di persone, di azioni e di simboli, come altri poeti pur fecero. Lo Chateaubriand fu in sostanza un pessimista in veste cristiana; ma fu un pessimista che visse assai, amò assai, godette assai, militò, gareggiò, viaggiò mezzo mondo, navigò sui fiumi d'America, errò nelle foreste vergini, cercò in Roma ed in Grecia le vestigia delle divinità pagane e in Palestina quelle di Cristo; e però non è meraviglia se (ajutandolo, anzi movendolo da prima, che ben s'intende, la facoltà naturale) egli potè, nella poetica prosa, far rivivere tante cose, sfoggiarvi tanta pompa d'immagini e di colori: al quale proposito osserva giustamente il Sainte-Beuve: «le peintre allait faire sa palette et amasser ses couleurs»[461]. Altrettanto si deve dire del Byron. Anche l'autore del Don Giovanni giudicò la vita uno stolto ed inutile sogno; ma egli, quel sogno volle (e potè) sognarselo tutto, con quanta più mutazione fosse possibile, con la maggior possibile intensità; e di quel sogno ritrasse nella lirica, nel poema, nel dramma, le infinite parvenze fuggevoli. Onde il suo pessimismo dà vita a un'azion sceneggiata, piena di tumulto e di clamore, di tenebre cupe e di fulgori abbaglianti, dove par quasi di assistere alla subitanea creazione e alla novissima rovina di un mondo. Il Leconte de Lisle non fu meno pessimista del Leopardi; ma il pessimismo di lui, pur concordando nelle conclusioni tutte con quello dell'autore della Ginestra, si figura e si atteggia in tutt'altro modo: e mentre l'uno rende immagine d'una ignuda statua marmorea d'alcun nume di Grecia, l'altro rende immagine d'un qualche gigantesco idolo dell'Oriente, che, sovraccarico di gemme d'ogni colore, seduto sopra un'altare di metalli preziosi, protenda, in mezzo alle pompe tutte della terra e del cielo, la mostruosa e spaventosa sua ombra. Più che nella filosofia, [268] può il pessimismo, nell'arte, mutar forma, atteggiamento e voce: tragico, romanzesco, impetuoso ed atroce nel Byron; amaro, petulante, beffardo nel Heine; ingenuo, elegiaco, melodrammatico nel De Musset; deforme e delirante nel Baudelaire.
Qualità a primo sguardo notabili della poesia del Leopardi, assai più dovute, credo, a natura che a studio, sono la compostezza, la chiarezza e la sobrietà che alle nature esuberanti sembra men virtù che difetto. Una delle cose che più impressionano di quella poesia è il vedere tanto strazio di dolore in tanto assesto e tanta ponderazione di forma. Non mai in essa uno di quegli artifizii di parole, o stratagemmi d'immagini, intesi a far colpo e stordire il lettore, che sono così frequenti, a cagion d'esempio, nella poesia dell'Hugo. Sempre, per contro, idee facilmente intelligibili, e sentimenti facilmente comunicabili; onde avviene che anche chi non consenta col poeta nei principii e nelle illazioni, intende senza sforzo ogni cosa, e si diletta dell'arte. La poesia del Leopardi è intellettiva e sentimentale; e come intellettiva, rifugge forse un po' troppo dalle immagini, che son quasi il tutto di altri poeti; e come sentimentale, si restringe forse a troppo picciola parte di sentimenti umani. Ma per ciò che spetta alla prima qualità è da dire che il poeta, sebbene maneggi meglio il concetto che l'immagine, non si muta se non di rado in argomentatore; che il primo germe delle sue poesie non è mai un'idea astratta; o, se è, il poeta sa per tal modo fonderla col fatto concreto, col sentimento e la immagine, da far del tutto, almeno nei componimenti migliori, una unità indivisibile; e che l'idea non vi si avviluppa di erudizioni recondite, nè ostenta formule prestigiose od arcane. Per ciò che spetta alla seconda, è da dire che il sentimento non vi si assottiglia soverchio, non si studia di singolarizzarsi, non isdilinquisce e non dilaga in quella troppo fluida e quasi eterea sentimentalità di cui abusa, per citare un esempio, il Lamartine[462]. Ed è l'intima fusione del sentimento con l'idea, e di entrambi con le immagini[463], quella che conferisce tanta e così durevole attrattiva alla poesia del Leopardi; la quale, pure esprimendo, come lo Schelling voleva, l'infinito nel particolare, ed essendo fatta, per molta parte, di rimembranza e di sogno, riesce [269] un tutto concreto, saldo, determinato, evidente, che contrasta in singolar modo, per citare un altro esempio, con la poesia moltivaga, velata, fiorente, folgoreggiante dello Shelley. Poesia smagliante la poesia del Leopardi non è. Difettano in essa i colori spiccati ed accesi, che mal si convengono alla stanchezza, alla tristezza, alla noja; abbondano per contro le mezze tinte, che a quelle condizioni e a quei sentimenti più si confanno; ma vi abbondano senza produr confusione e senza lasciare quella impressione di grigio su grigio di cui un critico si lamenta[464]. Il Goethe faceva poesia di tutto quanto gli arrecasse o piacere o dolore: il Leopardi non fa poesia se non di ciò che gli arreca dolore, nulla essendovi che gli arrechi piacere. Che se in quella poesia si può riconoscere assai volte un pensare e un sentire che ha più del settentrionale che del meridionale; e se, in più particolar modo, quell'accoramento e struggimento che sempre vi si sente, anche se il poeta non l'esprima, hanno somiglianza molta con la Wehmuth e la Sehnsucht dei Tedeschi, e poco allignano in Italia; ogni altra cosa vi è, non dirò greca propriamente, non dirò latina, ma quale sembra che questo cielo e questa natura e quest'indole e storia di popolo richiedano.
Riconosciuto nel Leopardi un certo insieme di stati fisici e psichici costituenti quella che dicono degenerazione, altri crederà di doversi affrettare a cercarne i segni e le riprove nell'arte sua, e forse s'immaginerà di trovarveli agevolmente. Ma qui per lo appunto cominciano le difficoltà grandi, dacchè per quel tanto abusato ed elastico nome di degenerazione non si sa ormai più che cosa si debba propriamente intendere, e non vi sono quasi due dotti che l'usino nello stesso significato, e nella pratica riesce pressochè impossibile fare l'accertamento o il ragguaglio di quelle tante occulte azioni e reazioni, e di que' tanti rinfranchi dell'organismo e fisico e psichico, per cui molte cause rimangono continuamente frustrate de' loro effetti, e l'equilibrio, turbato da una parte, si ricompone da un'altra. Onde, salvo che nei casi estremi e tipici, il giudizio torna assai malsicuro, e facilmente può essere soverchiato dal pregiudizio.
Quanto all'arte del Leopardi sarà opportuna e necessaria una distinzione. Se badiamo a ciò che il poeta dice, non ci sarà malagevole riconoscere i segni di quella malsanità, maggiore e minore secondo [270] i tempi, di cui lo stesso poeta fu conscio: se invece badiamo al modo onde il poeta lo dice, ci sarà, nonchè malagevole, forse impossibile. La poesia del Leopardi può assomigliarsi in qualche modo a una persona che, ammalata di dentro, mostri inalterati i lineamenti del volto e la forma della bellezza. Nei pensieri, e più nei sentimenti, che il poeta vi esprime, la psicosi in vario modo si manifesta; ma vere e proprie idee deliranti non vi si trovano; e sempre nel poeta noi conosciamo un uomo che ordina, collega e governa le proprie idee, e riesce a vedere anche attraverso al proprio sentimento. Nè vi si nota quell'eccesso, sicuramente morboso, dell'egotismo, per cui l'uomo fatto estraneo a tutto che lo circonda, si compiace della mostruosità sua propria, e tanto nel modo di concepire, di sentire e di esprimersi studia e si sforza di riuscir singolare, che si fa da ultimo inintelligibile, nonchè ad altri, a sè stesso. Raccostare quel del Leopardi a certi esempii, direi clinici, di perversione intellettiva, affettiva e morale ond'è troppo copiosa la letteratura contemporanea, sarebbe in sommo grado erroneo ed ingiusto.
Venendo a qualche più particolare e minuto esame, vediamo alcun che dell'arte del Leopardi, prima in attinenza con le funzioni dei sensi, poi in attinenza col pensiero e col sentimento.
Che i sensi, e più propriamente quelli che a ragione si dicono superiori ed estetici, son cosa, in arte, di capitale importanza, è consentito universalmente, per quanto da coloro che gli stimano il tutto dell'arte possano dissentire coloro che non gli stimano il tutto; e per quanto passando d'una in altr'arte, possa l'importanza loro crescere o diminuire. La scultura, l'architettura, la pittura vogliono l'occhio; la musica vuole l'orecchio; e quest'arti mancano, o si pervertono, quando troppo si dilunghino dal senso da cui nacquero primamente e per le quali son fatte. La pittura fu presso a perire in mezzo alla comun decadenza bizantina, quando non più le forme e i colori, ma furono sua materia i simboli e i dogmi. La poesia, ch'è più specialmente arte dell'intelletto e del sentimento, si scioglie tanto da tal dipendenza, che può essere esercitata e gustata anche da chi abbia perduto l'un senso o l'altro, od entrambi; ma non tanto si scioglie che l'esser suo non muti col mutare della condizione di quelli; e della validità e prontezza, o tardità e infermità loro non faccia palese e certa testimonianza.
Che diremo, per questo rispetto, del Leopardi e dell'arte sua?
Cominciamo dalla vista. Sicuramente il Leopardi (lo abbiam già [271] notato) non fu un visuale, o, per lomeno, non fu un visuale poderoso. Luce e colori egli vide assai meno intensamente, non dirò di Dante, che anche in questo è meraviglioso, ma dell'Ariosto, del Goethe, dello Chateaubriand, dello Shelley e di cent'altri. Ognuno può avvedersi che le poesie di lui lasciano, per questo rispetto, una impressione assai più simile a quella di un bassorilievo greco, che a quella di un dipinto del Tiziano o del Rubens. Se avesse atteso alla pittura, si può essere sicuri che il Leopardi non sarebbe riuscito un colorista. Il gran visuale dà naturalmente il grande pittore, se l'attitudine manuale non manchi: e quando e' si consacri alla poesia, anzichè alla pittura, ne vien fuori Teofilo Gautier, che tanto alla poesia sottrasse di pensiero e di sentimento, quanto v'infuse di colore[465]. È da avvertire, per altro, che in tutto ciò bisogna considerare, non soltanto la condizione particolare e propria del poeta, ma ancora l'influsso che può avere esercitato sopra di lui una scuola, certa tradizione d'arte o certa qualità di studii. Che la tavolozza del Leopardi è povera, gli è un fatto[466]; ma non bisogna dimenticare che per lo spazio di un secolo l'Arcadia, sotto pretesto di rinsanire il gusto, aveva fatto il possibile per togliere dalla tavolozza poetica qualsiasi colore.
Il Leopardi ebbe corta vista, e non volle mai far uso di lenti, e sino dalla fanciullezza andò soggetto ad una irritabilità tormentosa, che quando troppo si inaspriva, lo costringeva a smettere ogni occupazione, a fuggire la luce, a viver nel bujo. In tali condizioni, ciò che per gli altri è una festa degli occhi, doveva essere per lui un tormento; e questa è la ragione che gli rendeva odiosi alle volte gli spettacoli teatrali[467], de' quali, come abbiam veduto, ebbe pure talora a compiacersi. Qui è del resto da porre un'avvertenza che riguarda, non la vista soltanto, ma l'udito ancora e il gusto e l'odorato. I sensi possono essere per sè poco validi, e non pertanto la memoria delle percezioni può essere validissima, e molto spedita l'associazione loro; e quando ciò incontri, l'uomo può riuscire un visuale non ostante la imperfezion della vista; un uditivo non ostante la imperfezion dell'udito; laddove i molti animali che hanno assai [272] migliore vista e miglior udito che l'uomo, non possono, per ciò solo, dirsi nè visuali nè uditivi.
Che il Leopardi non sia un visuale forte, è vero; ma che non sia punto un visuale, è falso. Innanzi tutto è da osservare che se egli non vede molto intensamente la luce e i colori, vede molto spiccatamente le forme; e questa è una maniera di visualità molto importante ancor essa; e vuolsi ancora avvertire ch'è più facile ritrarre con le parole la luce e i colori che non le forme e i movimenti. I così detti impressionisti del tempo nostro non veggono più la linea, il contorno, ma soltanto la chiazza di colore. Se non buon colorista, il Leopardi avrebbe potuto riuscire buon disegnatore (e disegnò con garbo da fanciullo), e forse scultore più buono ancora. Non è senza secreta ragione che alcuni componimenti poetici suoi prendono argomento, come s'è già notato, da opere di scultura[468].
Un critico francese afferma risolutamente che il Leopardi «invoque une douzaine de fois la lune dans ses vers, jamais le soleil»[469]. Povera critica! Il sole splende pure talvolta in mezzo a que' versi aduggiati, e spande intorno la divina luce, l'alma luce, l'etereo lume, e colora il cielo delle rose della tacita aurora e delle porpore del tramonto, e arde in pien meriggio, e saettando i tremoli rai, brilla sui campi, e fa rosseggiare il tetto del villanello industre, e naufrago uscendo dalle nuvole antiche l'atro polo di vaga iri dipinge, e
folgorando intorno
Con sue fiamme possenti
Di lucidi torrenti
innonda gli eterei campi. Come e quanto il poeta vedesse la luna l'abbiam già notato; e le stelle dell'Orsa, e le purpuree faci delle rotanti sfere, non furono senza luce e senza vaghezza agli stanchi occhi suoi; a quegli occhi che andavano spiando la notturna lampa tralucente dai balconi, e le ardenti lucerne, e contemplavano da lunge
il baglior della funerea lava
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Il Leopardi non fu così povero visuale ch'e' non prendesse gusto [273] allo spettacolo dei ballo in teatro; e a quello che gli offriva il corso di Roma in tempo di carnovale; e a quello della festa degli addobbi in Bologna; e a quello ancora che presentava in una bella giornata del verno il lung'Arno in Pisa, pien di sole e di gente; e molto non gli rincrescesse di non poter assistere alle feste di San Giovanni in Firenze[470]. E non fu così povero visuale che non riuscisse a far vedere a noi, ne' suoi versi, e la figura di Simonide, in atto di salire il colle e cantar le lodi de' caduti alle Termopili; e la sposa spartana che sull'estinto guerriero spande le negre chiome; e l'eroe vinto dal fato, ma non domo,
Quando nell'alto lato
L'amaro ferro intride
E maligno alle nere ombre sorride;
e ancora la donzelletta che se ne torna col suo fascio dell'erba; e la vecchierella seduta con le vicine sulla scala; e i fanciulli che ruzzano sulla piazzuola; e il legnajuolo che nella chiusa bottega, al lume della lucerna, s'affretta a compiere l'opera; e in tutt'altr'ordine d'aspetti e d'immagini, l'arida schiena del Vesuvio e le rovine della dissepolta Pompei. Che se le donne da lui amate e ricordate non ci appajon dinanzi con lineamenti e atteggiamenti molto spiccati, ciò non vuol già dire che il poeta, grande ammiratore e contemplatore di beltà femminile, come s'è notato, non ne ricevesse dentro abbastanza intensamente la immagine; ma vuol dire che, nell'atto di parlar di loro, il poeta si abbandonava a certi soperchianti moti dell'animo, che importavano altri modi di manifestazione e di espressione. Non bisogna dimenticar mai che il Leopardi è sopratutto un intellettuale e un sensitivo; lo che importa, fra l'altro, che la vivezza delle idee e dei sentimenti superi quella delle sensazioni e delle percezioni; e che queste, senza perciò essere di necessità deboli, servano, più che ad altro, a suggerire e muovere quelli. La immagine della Silvia è appena accennata: negre chiome, occhi ridenti e fuggitivi, sguardi innamorati e schivi, un atteggiamento di persona gentile, che lenta e pensosa ponga il piede sopra una soglia. Ma notisi, per altro, come in quei pochi versi le immagini non ottiche propriamente riescano, per via di associazione, a suscitare immagini ottiche; sicchè da ultimo, la Silvia noi crediam di vederla. La immagine della Nerina si [274] può dire che non sia nemmeno accennata. Quella dell'Aspasia si delinea e si colora un po' più: alle denotazioni vaghe e generiche si aggiungono, in una certa misura, le precise e specifiche. La superba visione, l'angelica forma, è vestita del colore della bruna viola, offre all'altrui sguardo niveo collo, man leggiadrissima, lascia indovinare il seno ascoso e desiato, e appar da ultimo viva e salda,
inchino il fianco
Sovra nitide pelli, e circonfusa
D'arcana voluttà,
in atto di baciare i figliuoli. Qui ci sarebbe materia anche pel pittore, o per lo scultore.
Ma, in generale, il poeta, in cui, ad ogni più lieve stimolo, il sentimento si suscita e s'infervora, o si esacerba, più che indugiarsi a ritrarre, per via di descrizione, gli aspetti reali delle cose, si piace di significare gli effetti prodotti nell'animo da quelli; e a quelli il lettore può poi risalire per la via dell'associazione e dell'induzione. Il poeta, esprimendo il sentimento che in noi desterebbe la vista della realtà, se l'avessimo presente, ci dà modo, con isquisito magistero d'arte, di ritrovare da noi, e quasi di ricreare quella realtà. Sì fatto procedimento appar manifesto, più che altrove, nella canzone Sopra il ritratto di una bella donna, scolpito nel monumento sepolcrale della medesima. Un altro poeta avrebbe forse tentato di far rivivere la bella donna morta e di farcela apparire davanti, descrivendola minutamente: il Leopardi non descrive; ma ricorda quel dolce sguardo, che fece tremare ognuno in cui s'affisò; quel labbro, da cui, come da urna piena, traboccava il piacere;
quel collo cinto
Già di desio; quell'amorosa mano
Che spesso, ove fu pôrta,
Sentì gelida far la man che strinse;
E il seno, onde la gente
Visibilmente di pallor si tinse.
Qui finisce che la donna bellissima si vede, sebbene non una delle sue bellezze sia descritta distintamente; e così pure avviene che di sotto alla rigida e fredda forma marmorea appaja, viva e seducente, la fanciulla del basso rilievo antico sepolcrale[471].
[275]
Di questo medesimo procedimento usa assai volte, non per deliberato proposito, ma per naturale impulso il poeta, quando voglia ritrarre singole cose inanimate, o grandi aspetti della natura. Egli non descrive se non con grandissima parsimonia, e preferisce il suggerire al descrivere. Così, per esempio, nella Vita solitaria, la scena del lago
Di taciturne piante incoronato,
si può appena dire che sia descritta; e se noi, dopo di essercela veduta sorgere con tanta evidenza nella fantasia, cerchiamo ne' versi del poeta la ragione di quella evidenza, rimaniamo stupiti nel riconoscere che essa è dovuta, in grandissima parte, a termini ed accenni negativi (non foglia che si crolli al vento, non onda che s'increspi, non cicala che strida, non uccello che batta penna in ramo, non farfalla che ronzi, non voce, non moto), e a un sentimento tutto negativo del poeta, che, sedendo immoto, quasi sè stesso e il mondo obblia; e nel riconoscere ancora che di quelle immagini parecchie non sono immagini ottiche. Così la ridente campagna cui s'affacciava il poeta al tempo dell'amor suo per la Silvia, non è descritta; ma il poeta ce la suggerisce, quando, accennato al cielo sereno, alle vie dorate, agli orti, al mare, al monte, soggiunge:
Lingua mortal non dice
Ciò ch'io provava in seno.
Così, finalmente, l'erme contrade che si stendono intorno a Roma [276] non sono descritte; ma il poeta ce le fa pur vedere nella Ginestra, quando ricorda il sentimento di cui esse ingombrano l'animo al passeggiero. In quella stessa Ginestra sono, del resto, le più compiute descrizioni che il Leopardi abbia fatte[472].
Certo che se lo paragoniamo con altri poeti, il Leopardi ci potrà parere assai volte descrittor troppo rapido e troppo scarso; ma tale manchevolezza è in lui, giova ripetere, non tanto un effetto della deficienza del senso, quanto della subordinazione del senso al sentimento e all'intelletto; ed è, per più rispetti, condizion necessaria di alcune, a mio credere, maggiori efficienze dell'arte sua. Ad ogni modo gli è cosa ben degna di nota che il Leopardi, anche quando traduce, per così dire, i termini del mondo esteriore in termini del mondo interiore, riesce a conservare alle cose un carattere di realtà e di sodezza che molte volte si desidera invano in poeti che descrivono a lungo e minutamente. Il Lamartine affoga e dissolve nel proprio sentimento le cose. L'Hugo spesso le adultera e sforma, dei proprii sentimenti facendo attributi di quelle. Il Leopardi, suggerendole con l'ajuto de' sentimenti, le lascia intatte. E avvertitamente ho detto quando traduce, perchè non sempre ei traduce; e certi tocchi realistici di una poesia tutta giovanile quale il Primo amore (lo scalpitar dei cavalli nel cortile ecc.); e i quadretti fiamminghi della Quiete dopo la tempesta e del Sabato del villaggio; e qua e là certe descrizioni vere e proprie, come quella della procella notturna nel frammento, giovanile ancor esso, che comincia Spento il diurno raggio in occidente, e quelle della campagna vesuviana e di Pompei nella Ginestra; mostrano che non si può accogliere senza qualche riserbo la opinione espressa con parole molto asciutte dal De Sanctis, che al Leopardi mancasse la virtù rappresentativa del mondo esteriore[473]; e mostrano essere la natura dei genii così mobile e proteiforme da non potersi ridurre entro schemi rigidi e chiusi. Come la vita stessa e come la natura, il genio ripugna alle definizioni troppo precise.
Una cosa bensì parmi si possa ammettere senza contrasto, e cioè che il Leopardi fu più un uditivo che un visuale. Fra tutte l'arti egli, [277] come s'è veduto, predilesse ed esaltò la musica; il che vuol dire che il maggior piacere ch'egli potesse ricevere per la via de' sensi fu quello dei suoni, e che ai suoni era sempre aperto e intento l'animo suo. Oserei dire che ogni qual volta, nel designare e caratterizzare un oggetto, egli ebbe libertà di scegliere fra un epiteto di forma o di colore e un epiteto di suono, l'animo suo spontaneamente e inconsapevolmente inclinò a preferire al primo il secondo; nè però è tolta negli scritti suoi la prevalenza del primo, dacchè noi riceviamo dalle cose assai più impressioni ottiche (di forma o di colore) che acustiche. Così è che il poeta dirà volentieri sibilanti selve, etra sonante, echeggiante arena, ululati spechi, tacita aurora, ecc. ecc.; e volentieri si servirà di termini di suono per far sorgere in noi le immagini delle cose; e di molte cose farà quasi consistere l'anima nel suono; e facilmente da ogni altra sensazione e dai sentimenti e dai pensieri stessi farà scaturire immagini acustiche. Le piante, più che per la via della vista, lo impressioneranno per la via dell'udito, sia che si tacciano sonnolente (tacita selva, taciturne piante), sin che susurrino al vento (l'atro Bosco mormorerà fra le alte mura; — De' faggi Il murmure; — E come il vento Odo stormir tra queste piante; — susurrando al vento I viali odorati ed i cipressi Là nella selva). Dell'onda alpina il poeta noterà l'inudito fragore, e della lava, il suono che rende sotto i passi del pellegrino. Nel silenzio meridiano e nella quiete dei campi sonerà arguto carme d'agresti Pani. La fanciulla della Vita solitaria,
Che all'opre di sua man la notte aggiunge,
è quasi tutta nell'arguto suo canto; e nel suo perpetuo canto è quasi il più della Silvia, e nella gioconda voce il più della gloria. L'artigiano che a tarda notte riede al suo povero ostello; l'altro che, cessata la pioggia viene a guardare l'umido cielo; il carrettiere, sotto l'estremo albor della fuggente luce; il faticoso agricoltore smarrito in fondo alla valle; si dànno a conoscere ciascun col canto; lo zappatore col fischio; l'erbajuolo col grido. I nuovi nati miagolano. E più attraggono l'attenzion del poeta le voci che non gli aspetti degli animali: il canto de' colorati augelli, e in ispecie quello del passero solitario, ond'erra l'armonia per la valle; l'usato verso della gallina: lo scalpitar dei cavalli impazienti; il belare dei greggi; il mugghiar degli armenti; il canto
Della rana rimota alla campagna.
[278]
Sembra che il poeta abbia pronto sempre l'orecchio a cogliere e discernere i suoni più disparati, dai più lievi ai più intensi: un sospirar di vento tra le fronde commosse; un tintinnar di sonagli; un stridere del carro che riprende il cammino; il lieto rumore, che fanno i fanciulli ruzzando sulla piazzuola; il suono delle tranquille opre de' servi: lo strepito del martello e della sega del legnajuolo; la voce delle campane che suonano le ore, o annunziano la festa che viene; un tonar di ferree canne
Che rimbomba lontan di villa in villa;
il cupo rombo del tuono che erra di giogo in giogo. Che non ode e non ascolta il Leopardi, se nemmeno il romorio De' crepitanti pasticcini lascia passare inosservato? I fatti stessi della storia egli s'industria di ricordare e rappresentare mediante immagini e metafore di suono; onde il calpestio de' barbari cavalli sta a significare le invasioni barbariche; la potenza di Roma è raffigurata, oltrechè nell'armi, in un fragorio
Che n'andò per la terra e l'Oceáno;
la disfatta e il terrore dell'Asia, vinta a Maratona, si esprime in uno sconsolato grido; e al grido degli avi, e al suono dei popoli antichi, si contrappone il suono dell'età presente. Il poeta dirà sera delle umane cose e infelice scena del mondo, metafore suggerite da immagini visive; ma dirà pure suono della vita, e ascoltare il flutto dell'ore putri e lente. Affacciandoglisi al pensiero la morte, egli súbito corre con la fantasia
al suon della funebre squilla.
Al canto che conduce
La gente morta al sempiterno obblio.
Tutto ciò basta, parmi, a provare che il Leopardi, se non fu un visuale del tutto povero, fu tuttavia migliore uditivo che visuale.
Delle rimanenti attitudini sensorie del poeta, quali si possono rintracciar ne' suoi versi, non c'è gran cosa da dire. Il tatto vi si accusa appena in pochi epiteti, di cui molle è uno de' più frequenti[474]. Il gusto vi si appalesa principalmente con l'epiteto amaro. L'olfato vi [279] tiene un po' più di luogo con molta uniformità di epiteti generici: primavera odorata, odorate piagge, odorati colli, Eden odorato, selve odorate della ginestra, dolcissimo odore della ginestra, profumo di fiorita piaggia, vie cittadine olezzanti di fiori, fumo de' sigari odorato. La immagine di Aspasia è nella fantasia del poeta associata col ricordo del profumo de' novelli fiori onde erano, certo giorno, tutti odorati gli appartamenti della bella ammaliatrice. Ciò potrebbe provare qualcosa, e trarci magari a discorrere di certe peculiari forme di erotismo, se la povertà degli epiteti notata di sopra non provasse in modo, a mio credere, perentorio che l'olfato non fu molto attivo nel Leopardi. Leggiamo, gli è vero, nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri: «E paragonava universalmente i piaceri umani agii odori: perchè giudicava che questi sogliono lasciare maggior desiderio di sè, che qualunque altra sensazione, parlando proporzionatamente al diletto; e di tutti i sensi dell'uomo, il più lontano da poter esser fatto pago dai propri piaceri, stimava che fosse l'odorato»[475]; ma tutto ciò probabilmente il poeta disse per poter poi soggiungere, aforisma popolare di filosofia pessimistica, che delle cose buone da mangiare l'odore vince ordinariamente il sapore; nè parmi a ogni modo che quelle parole, non suffragate da altro, possano essere prese a documento della iperosmia del poeta[476]. Siamo qui ben lungi da quella iperestesia olfativa di cui si ha così notabile esempio nel Baudelaire; ma siamo anche ben lungi da quella e da altre consimili perversioni sensorie. I sensi deboli del Leopardi danno sensazioni deboli e scarse, ma non pervertite.
Quella che dicono attitudine motiva fu certo scarsa assai nel Leopardi; ma egli non visse già sempre in quello stato d'immobilità e di torpore di cui fanno ricordo la Vita solitaria e il Risorgimento; e se il muoversi gli era di noja, come dice egli stesso, seppe, nulladimeno, [280] ritrarre il moto nelle parole e far muovere i versi. Gli epiteti di moto sono usati da lui con frequenza notabile; ed egli mostra certa inclinazione a rappresentarsi in movimento le cose, e sceglie volentieri, per significarle o rappresentarle altrui, immagini di moto. Egli dirà che la primavera esulta per li campi e il nembo per l'aere; che il tuono erra per l'atre nubi e le montagne; che l'aura, e il canto del passero solitario, errano per i prati e la valle. L'amore è una formidabil possa che tutto avvolge. Lo spirito erra pel delizioso mare della musica come
Ardito notator per l'Oceáno.
Lo sfogo di Saffo in cospetto della natura è tutto pieno d'immagini di moto:
Noi l'insueto allor gaudio ravviva
Quando per l'etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de' Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove, a noi sul capo
Tonando il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra' nembi, e noi la vasta
Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell'onda.
Negli uccelli, ciò che, dopo il canto, più piace al poeta che ne tessè l'Elogio, è quel loro sempre far festa, e eccirintar mille giri, e cangiar luogo a ogni tratto, e volar per sollazzo, e non istare mai fermi, e, insomma, esercitare continuamente il corpo. Al tranquillo raggio della luna egli vede danzare le lepri nelle selve; e, al sopravvenire del giorno, la fiera agitar per le balze la plebe delle minori belve. Vede, sui campi di battaglia, fluttuar fanti e cavalli[477]: vede
intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute.
Il Vesuvio si appresenta alla fantasia di lui essenzialmente quale sterminatore. Il poeta si gioverà pure d'immagini di moto a significare e simboleggiare fatti o morali o storici. Egli dirà l'onda e il turbo degli affetti; dirà che, violento irrompe nel Tartaro chi si dà volontario la morte. L'italica virtù giace divelta nella tracia polve;
[281]
dalle somme vette
Roma antica ruina.
Qua e là irrompono versi che danno impressioni di moto repentine e vivissime:
Prima divelte in mar precipitando,
Spente nell'imo strideran le stelle;
Ma se spezzar la fronte
Ne' rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra.....
Uno dei più vigorosi canti del poeta è consacrato A un vincitore nel pallone. Il poeta ha l'idea della forza, non avendone l'atto[478].
Ora, venendo per questa parte a concludere, stimo si debba dire che nella poesia del Leopardi i sensi non operano così scarsamente come taluno potrebbe credere; sebbene l'intelletto e il sentimento operino assai più; e sebbene l'operazione de' sensi possa sembrare davvero assai scarsa, quando si tragga il Leopardi a confronto con altri poeti. Un grande visuale il Leopardi non è; e se di questo bisognasse altra prova, basterebbe, credo, recare i luoghi delle sue poesie dove si discorre della primavera, e cioè di cosa più che altra mai atta a suscitare immagini visuali; e poi paragonarli con luoghi paralleli di altri poeti. Leggasi il canto che appunto Alla primavera s intitola; leggasi il Passero solitario: ben si sente in que' versi la primavera, ma non molto si vede, perchè il poeta non tanto bada alle sembianze di quella, quanto al pensiero e al sentimento che gli si muovono dentro.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
E questo è tutto, o quasi. Chi voglia aver viva la impressione della dissomiglianza, anzi del contrasto, dei procedimenti e dei modi, e di tutto quel più che potrebbe (non dico e non voglio dire dovrebbe) esserci in quei versi, legga, pur tenendo il debito conto della diversità grande delle nature ritratte, certe poesie del Leconte de Lisle, come La Bernica e L'aurore. Più che un visuale, il Leopardi fu un uditivo.
[282]
Passiamo ora a considerare altri aspetti e altri modi dell'arte leopardiana, e cioè quelli che hanno più propria e stretta attinenza con l'intelletto e col sentimento.
Del modo che teneva nel comporre diede notizia lo stesso poeta: «Io non ho scritto in mia vita se non pochissime e brevi poesie. Nello scriverle non ho mai seguito altro che un'ispirazione (o frenesia), sopraggiungendo la quale, in due minuti io formava il disegno e la distribuzione di tutto il componimento. Fatto questo, soglio sempre aspettare che mi torni un altro momento, e tornandomi (che ordinariamente non succede se non di là a qualche mese), mi pongo allora a comporre, ma con tanta lentezza, che non mi è possibile terminare una poesia, benchè brevissima, in meno di due o tre settimane. Questo è il mio metodo, e se l'ispirazione non mi nasce da sè, più facilmente uscirebbe acqua da un tronco, che un solo verso dal mio cervello»[479]. Questo passo è degno di tutta la nostra attenzione, dacchè ci fa instruiti di cose che importano; non meno alla storia psicologica che all'arte del nostro poeta.
Prima di tutto se ne ricava che il lavoro creativo si divideva nel Leopardi in due parti, o vogliam dire momenti: l'uno rapido e come istintivo, sotto lo stimolo della inspirazione; l'altro lento e consapevole, sotto il governo della riflessione. Non a tutti i poeti interviene il medesimo. Ne sono alcuni che sotto l'impulso della inspirazione si buttano a scrivere, e tiran giù l'opera tutta d'un fiato; come faceva il Byron, che ben di rado tornò sopra qualcuna delle cose sue; e si paragonava da sè stesso a una tigre, che, spiccato il salto, se non raggiunta di primo tratto la preda, stizzita e nojata si rinselva[480]. Altri compongono alla ventura, senza sapere dove vanno a parare, e aspettando che il già fatto suggerisca loro il da fare. Quelli tutto aspettano dalla inspirazione; questi negano che inspirazione ci sia, oppure la fanno consistere in un lungo e paziente esercizio. Ma la inspirazione è un fatto reale dello spirito, non una finzione poetica; e se Platone e Aristotele nel volerla definire si contraddicono, ciò prova che la definizione è pericolosa e difficile. È dessa un moto che si produce nella parte più occulta e più recondita della psiche, e propriamente, da prima, sotto l'orizzonte (siami lecito di togliere in [283] prestito alla scuola herbartiana questa espression metaforica) del pensiero cosciente, nel quale poi, sorgendo, si propaga e si irradia; e, data certa condizione statica e dinamica della psiche, si può credere che nasca ogni qual volta una particolare impressione repentinamente sommuova le energie elementari di quella, e provochi un irresistibile concorso e una spontanea coordinazione di svariati elementi e fattori, formando fuori della coscienza un aggregato, che nella coscienza poi subitamente irrompendo, dà all'uomo la illusione di un picciol mondo che imprevedutamente gli si sia creato dentro, e ch'egli scorge come nella fuggitiva luce di un lampo, senza che gli sia dato d'intenderne la ragione e la genesi. Intorno a questo picciol mondo si viene poi esercitando la riflessione per ridurlo nelle coerenti forme dell'arte.
Il Leopardi che crede, come abbiam veduto, a certa sua inspirazione divinatoria, e riconosce la facoltà nei poeti di scoprire, con sola una occhiata, assai più paese che altri non possano con lungo studio e perseverante attenzione, il Leopardi non allora soltanto comincia a pensare quando si pone a scrivere; ma muove da un concetto repentino e spontaneo, nel quale è già tutto raccolto, come in potenza, l'organismo del componimento futuro; poi, formato in due minuti il disegno e la distribuzione di esso, se ne rimane ed aspetta. Ma non aspetta in ozio, come altri potrebbe credere; che anzi que' lunghi intervalli cui egli accenna, frapposti fra la prima inspirazione e il momento favorevole al comporre, sono tempi di preparazione feconda. Non v'è rimprovero molte volte più ingiusto di quello che da molti suol farsi ad artisti veri e probi, quando, non vedendo opera delle lor mani, gli accusano e biasimano di perdere il tempo nell'ozio. L'artista vero e probo lavora intensamente anche se paja non far nulla; o, a dir più giusto, le idee, i sentimenti, le immagini lavorano dentro di lui (assai volte senza ch'egli sel sappia), e lentamente maturano l'opera d'arte. Non v'è artista, non v'è in più particolar modo poeta, che in una od in altra occasione non abbia dovuto meravigliare di sè, vedendosi inopinatamente tanto cresciuta dentro una sembianza, una idea, a cui, dopo il primo lume che n'ebbe, non sa d'avere altrimenti pensato. Il germe divenne pianta fiorita, senza suo studio o cura. Così è da credere lavorasse di dentro il Leopardi, quando sedeva immobile sotto una pianta, neghittoso in vista, immerso, in apparenza, in una specie di melanconia attonita. Un cervello meccanico non lavora se non col cómpito innanzi, a tavolino; [284] un cervello organico lavora in ogni tempo, in ogni luogo, e nella veglia e nel sonno. Teofilo Gautier diceva di non cominciare a pensare se non quando cominciava a scrivere; ma calunniava sè stesso, non intendendo che, mentre non iscriveva, la sua mente era occupata, sia pure senza addarsene, in raccogliere, elaborare, accrescere, coordinare quelle infinite immagini che formano la sostanza dell'arte sua[481].
Con queste avvertenze si vuol dare orecchio allo stesso Leopardi quando dice (e con frequenza lo dice) d'avere l'animo talmente rotto e fiacco da non esser buono a checchessia, o di non avere altro piacere che nel sonno, e di perdere mezza la giornata nel dormire, e di non poter fissare la mente in nessun pensiero di molto o poco rilievo, e d'essere forzato a un ozio più tristo della morte. Certo che molte volte, come afferma egli stesso, il comporre dovette tornargli di somma fatica, o impossibile affatto; ma anche in ciò non è da dare intera fede ai suoi lagni, divenuti forse un pochino un vezzo, o usati talvolta a schermo di qualche noja, quale quella dello scriver lettere, o l'altra di comporre a richiesta altrui. Anche in tempi pessimi qualche cosa faceva. Il 20 marzo 1820 scriveva al Giordani: «Mi domandi che cosa io pensi e che scriva. Ma io da gran tempo non penso, nè scrivo, nè leggo cosa veruna per l'ostinata imbecillità de' nervi degli occhi e della testa; e forse non lascerò altro che gli schizzi delle opere ch'io vo meditando, e ne' quali sono andato esercitando alla meglio la facoltà dell'invenzione, che ora è spenta negli ingegni italiani». Se non che, detto ciò, poche linee più sotto soggiunge: «Delle Canzoni di [285] cui mi domandi, la prima e l'ultima sono scritte un anno addietro, e per questo i miei sentimenti d'oggidì non gli troverai fuorchè nella seconda uscitami per miracolo dalla penna in questi giorni»[482]. Di tali miracoli ne succedettero parecchi. L'anno 1829, mentre scriveva da Recanati agli amici di non potere far nulla, d'essere un uomo finito, e si riduceva, nel settembre, a farsi scrivere le lettere dalla sorella; il Leopardi componeva, proprio nei mesi peggiori, le Ricordanze, la Quiete dopo la tempesta, il Sabato del villaggio, e, in parte, il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia.
Quanto al concepire poi, l'alacrità sua fu pressochè in ogni tempo meravigliosa: i disegni innumerevoli di scritture da lui lasciati o menzionati fanno testimonianza di uno spirito agile e avventuroso che non si quetava mai. Al Giordani scriveva: «Leggo e scrivo e fo tanti disegni, che a voler colorire e terminare quei soli che ho, non solamente schizzati, ma delineati, fo conto che non mi basterebbero quattro vite»[483]. E al Brighenti: «... i pensieri che mi si affollano tutto giorno nella mente, in questa mia continua solitudine, e a' quali io voglio in ogni modo tener dietro con la penna, non mi lasciano un'ora di bene»[484]. E al Colletta: «I miei disegni letterari sono tanto più in numero, quanto è minore la facoltà che ho di metterli ad esecuzione; perchè, non potendo fare, passo il tempo a disegnare. I titoli soli delle opere che vorrei scrivere, pigliano più pagine; e per tutto ho materiali in gran copia, parte in capo, e parte gittati in carta così alla peggio»[485]. E di nuovo al Colletta, dopo un elenco non breve di alcuni de' suoi castelli in aria: «Voi riderete di tanta quantità di titoli; e ancor io ne rido, e veggo che due vite non basterebbero a colorire tanti disegni. E questi non sono anche una quinta parte degli altri, ch'io lascio stare per non seccarvi di più, e perchè in quelli non potrei darvi ad intendere il mio pensiero senza molte parole»[486].
Gian Giacomo Rousseau lasciò scritto di sè: «Je n'ai jamais pu rien faire la plume à la main vis-à-vis d'une table et de mon papier; c'est à la promenade, au milieu des rochers et des bois, c'est la nuit dans mon lit et durant mes insomnies, que j'écris dans mon [286] cerveau»[487]. Così sogliono comporre i poeti, e così, di solito deve avere composto il Leopardi, se non le prose, i versi; specie ne' tempi in cui, aggravandoglisi l'infermità degli occhi, più gli riusciva malagevole e increscioso lo scrivere. Come il Rousseau, egli fu lentissimo nel comporre; del che fanno prova, oltre alle parole di lui riferite più sopra, anche alcune altre di una lettera al Giordani, ove accenna alla sudatissima e minutissima perfezione nello scrivere, di cui era sommamente studioso, e senza la quale di scrivere non si curava[488]. Ma mentre nel Rousseau quella lentezza fu effetto di certa naturale tardità di pensiero, onde egli stesso si lagna; nel Leopardi fu piuttosto effetto di certa incontentabilità esacerbata; la quale non lascia che il poeta lavori di getto, rimandando a tempo più riposato i racconci; ma, nell'atto stesso del formar l'opera, lo forza a tentare ogni via di ridurla perfetta, sì che poi il lavoro della lima si ristringa alla parte più superficiale e minuta, e sia lavoro, più che altro, di ripulitura. Sappiamo, del resto, che il Leopardi rivedeva con diligentissima cura i proprii manoscritti, e quand'erano troppo infrascati di correzioni, li faceva copiare o li copiava egli stesso.
Inspirazione e riflessione si esercitarono nel Leopardi disgiuntamente, senza che l'una intralciasse o turbasse l'altra, come in molti poeti suole avvenire. Nessuno meglio di lui comprese il valore della inspirazione; ma egli ben conobbe, per altro, che la poesia, ancorchè il genio v'inclini naturalmente, «vuole infinito studio e fatica, e che l'arte poetica è tanto profonda che come più si va innanzi più si conosce che la perfezione sta in un luogo al quale da principio nè pure si pensava»[489].
La poesia del Leopardi è tutta poesia d'occasione; ma non già nel senso che comunemente s'intende, bensì nel senso che s'intendeva dal Goethe, il quale soleva fare poesia di tutto quanto lo colpisse e lo commovesse dentro. Non solo il Leopardi non volle mai far versi a richiesta altrui[490]; ma certamente ancora non si propose mai di far [287] versi, nè mai andò in cerca di argomenti da far poesia. Come abbiam veduto, se l'inspirazione non gli nasceva dentro da sè, più facilmente si sarebbe tratta acqua da un tronco che un solo verso dal suo cervello. È questo uno dei più sicuri segni della vera e grande vocazione poetica; mentre è segno sicurissimo del contrario l'andare a caccia di temi poetici, e il rimanersi irresoluto fra più, e l'aprirsene troppo con altrui, e chieder troppi consigli. Quanti epici e tragici nostri, che da prima deliberarono di comporre epopea oppure tragedia; poi, fermato così in generale il proposito, cominciarono a disputare seco stessi o con altri, se dovesse essere epopea eroica o cavalleresca, se tragedia di soggetto greco o latino o moderno, e quanto potessero emanciparsi dalle regole, quanto ad esse dovessero sottostare! La vera e grande poesia nasce dalla plenitudine della mente e del cuore, e come vena d'acqua che venga su dal profondo, scaturisce e zampilla in alto da sè. Perciò diceva il Leopardi che la smania violentissima di comporre non gliela davano altri che la natura e le passioni[491].
Studiamoci ora d'intendere per qual modo si formi e cresca nell'animo del nostro poeta l'organismo poetico.
Nel breve scritto, già citato, che il Leopardi dettò intorno alle proprie poesie stampate in Bologna nel 1824, leggiamo: «nessun potrebbe indovinare i soggetti delle Canzoni dai titoli; anzi per lo più il poeta fino dal primo verso entra in materie differentissime da quello che il lettore si sarebbe aspettato»[492]. Non è questo, come altri potrebbe credere, un vanto di singolarità vanagloriosa e studiata; è lo schietto riconoscimento di una qualità veramente precipua della poesia di esso Leopardi. Si scorrano con l'occhio quei titoli e si vedrà che assai volte essi sono derivati da cose reali, determinate, concrete, da fatti particolari o anche minuti, mentre poi ne' versi il sentimento si allarga a dismisura, il pensiero s'innalza rapidamente e l'animo del lettore spazia in una immensità alla quale non prevedeva di accedere. Il Leopardi non muove mai dall'astratto, sebbene assai volte vi giunga; nè si vede che la rima o il ritmo, che molto suggeriscono ad altri poeti, a lui suggeriscano cosa di qualche rilievo; nè accade di leggere versi suoi composti a solo fine di svolgere una movenza di stile, o per inquadrarvi una immagine ovvero una formola. La parola, [288] che ha tanta presa sull'animo di tanti poeti; la parola che l'Hugo considerava come una creatura vivente:
Car le mot, qu'on le sache, est un être vivant;
sull'animo del Leopardi può poco, sebbene ei l'abbia in grandissimo conto, e le usi ogni possibil riguardo. Ciò che di solito mette in movimento l'animo di lui, è una impressione viva, un fatto d'esperienza immediata e presente, un sentimento particolare, un particolare ricordo. Per intendere l'effetto, a prima vista sproporzionato, che ne consegue, bisogna por mente alla condizione di quell'animo e alla ordinaria sua contenenza; e, cioè, alla eccitabilità e penetrabilità affatto insolita ond'esso è dotato, e a quel vasto e concatenato ordine di sentimenti e d'idee che ne forma come la trama vivente. Non così tosto si produce in quella psiche uno stimolo, che incontanente vi si propaga per ogni verso, e corre a suscitare i sentimenti dominatori e le idee madri, tutta ponendola in agitazione e in fermento, e provocando di quelle e di queste figurazioni più o meno nuove e complesse: onde avviene che il verso di un passero solitario svegli nel poeta il sentimento angoscioso della solitudine propria, il rimpianto della giovinezza senza frutto consunta, l'apprensione di un tetro e doloroso avvenire; e la vista di una siepe e lo stormire di poche piante siengli eccitamento a fingersi nella mente interminati spazii e sovrumani silenzii, e a meditare insieme il passato e il presente, l'infinito e l'eterno; e il tramonto della luna lo faccia pensoso del dileguare della giovinezza, e, insieme con quella, d'ogni dolce diletto e d'ogni inganno
Ove s'appoggia la mortal natura.
Dicesi che al Beethoven bastasse udire tre note di un uccelletto per isvolgerne tutto un motivo musicale: similmente basta al Leopardi una impressione, un ricordo, una immagine, per isvolgerne tutto un tema poetico; e come non è possibile discernere nel germe la pianta fiorita, così non è possibile in quel primo elemento delle poesie leopardiane divinare di queste gli svolgimenti e i rigogli. E in ciò appunto risiede una delle loro maggiori attrattive, e il secreto di una parte di quel fascino ch'esse esercitano sull'animo del lettore; in quella novità, cioè, e inopinabilità di relazioni remote, che ne dànno come il sentimento di un mondo allargato, ove cessi la oppressione del contiguo, e della causalità insistente e immediata. Ciò può vedersi [289] in tutte quasi le poesie del Leopardi; e se ne potrebbe fare dimostrazione, se il farlo non richiedesse troppo lungo discorso; ma in nessuna si vede così spiccatamente come nella Ginestra; la qual poesia, essendo per più ragioni inferiore a molt'altre, è forse per questa superiore a tutte. Non ve n'è altra, in fatti, in cui la suggestion operi con più forza, e in cui da così modesto principio si svolgano conseguenze così vaste e meravigliose. L'umile pianta che dà il titolo alla poesia è pur quella che da prima eccita l'anima del poeta, il quale dalla contemplazione di lei si leva da ultimo alla contemplazione universa delle storie e dei destini umani e della natura indifferente ed eterna. Se disse il vero lo Schopenhauer, quando disse la poesia esser l'arte di muovere la fantasia con le parole[493], bisognerà riconoscere che pochi poeti furono più poeti del Leopardi, e bisognerà pur riconoscere che, se quanto a ricchezza di fantasia la cede a più d'uno, quanto a vigore ed agilità l'autore della Ginestra non la cede a nessuno.
Qui un dubbio può affacciarsi alla mente: in quale condizione d'animo fu il Leopardi più inclinato a poetare? allorquando più lo premeva il sentimento della propria infelicità, o ne' tempi in cui si sentiva meno infelice? Fu asserito che il poeta fa poesia del dolore che ricorda e non di quello che sente; ch'egli comincia a creare quando cessa di soffrire: ma concedendo che questo avvenga assai volte, non però avviene tutte le volte. Accade non di rado che il poeta cessi di soffrire appunto perchè comincia a creare: nè Ovidio aveva cessato di piangere sopra sè stesso quando scriveva i Tristi; nè Dante aspettò nuovo sorriso di fortuna per metter mano all'eterno poema; nè quando s'accinse a scrivere il Paradiso perduto, aveva il Milton racquistata la visione di quella beatifica luce che con tanto ardore di desiderio, con sì irrefrenabile amore egli invoca in sul principio del terzo suo libro. Il nostro dolore si ammassa sotto la carezza dell'arte; e vestendolo delle pure forme della bellezza, e fuor di noi dandogli vita nell'opra, noi, di tormentatore ch'egli era, ce ne facciamo un amico, e da esso medesimo otteniamo consolazione e conforto. Ben disse lo Chateaubriand che le muse, quando piangono, piangono con un secreto intendimento di farsi belle. Come tanti altri poeti, il Leopardi lenì l'angoscia col canto. Giovava a lui noverare col verso l'età [290] del suo dolore; ed egli conobbe che dolce è il ricordo delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri![494]
Da quanto s'è detto sin qui si può arguire facilmente che nell'intimo lavoro delle associazioni psichiche il Leopardi riesca, come di fatto riesce, assai fine e nuovo, avvertendo tra i sentimenti e tra le idee analogie e colleganze non avvertite da altri, appajando cose a primo aspetto disparatissime. L'associazione per somiglianza, ch'è la maniera più comunale e più ovvia, non manca, nè poteva mancar ne' suoi versi; ma v'è assai meno frequente che non in quelli d'altri poeti; e sempre lontana dal trito e dal triviale. Il Tramonto della luna poggia tutto sopra un'associazione per somiglianza, ma somiglianza riposta, che il poeta discopre sotto il velo delle immediate parvenze, e rende palese ad altrui. Associazioni consimili abbiamo nel Passero solitario, nella Quiete dopo la tempesta, in Amore e morte, nella Ginestra; per non rammentare se non le poesie in cui occorre più spiccata e tiene più luogo. Basta già lo scarso uso della rima a mostrare come l'animo del Leopardi sia poco inclinato all'associazione per somiglianza; la qual cosa è poi dimostrata assai più dalla scarsità veramente notabile delle immagini (qui nel senso retorico), delle metafore, delle comparazioni, delle personificazioni. Delle metafore più rilevate che occorrono ne' suoi versi potrebbe farsi un elenco assai succinto, senza che se ne trovi una sola eccessiva o mostruosa. Eccone alcune delle più notabili: Perchè i celesti danni Ristori il sole; e la fugace ignuda Felicità per l'imo sole incalza; E il naufragar m'è dolce in questo mare; travagliose strade della vita; onda degli anni; unico fiore dell'arida vita. Più scarse ancora le comparazioni. Nella canzone All'Italia quella dei leoni e dei tori è comune e imperfetta. Un'altra ne abbiamo nel Pensiero dominante:
Come da nudi sassi
Dello scabro Apennino
A un campo verde che lontan sorrida
Volge gli occhi bramosi il pellegrino.
Una terza nella poesia Sopra un basso rilievo antico sepolcrale:
Come vapore in nuvoletta accolto
Sotto forme fugaci all'orizzonte.
[291]
Dopo la canzone All'Italia, dove la patria depressa ed afflitta è personificata nel vecchio modo tradizionale; e dopo la canzone Sopra il monumento di Dante, dove, insieme con la patria, sono, tanto o quanto, personificate anche la misericordia e la pace, noi non troviamo, da quelle dell'amore e della morte in fuori, altre personificazioni[495]. Il simbolo è frequente nella poesia del Leopardi, e basterà ricordare quello della ginestra; ma l'allegoria distesa, vera e propria, non vi si trova.
L'associazione per contiguità, ch'è forma spesso volgare ed oziosa di associazione, è rara ancor essa in quella poesia; e veramente poco poteva aggradire a uno spirito critico quale quel del Leopardi, uso a sceverare i dati immediati della esperienza. Ne abbiamo un esempio, a mio giudizio, increscevole, nella Vita solitaria, là dove il poeta a quella bellissima immagine:
O cara luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve,
appicca questo strascico inopportuno:
e duolsi
Alla mattina il cacciator, che trova
L'orme intricate e false, e dai covili
Error vario lo svia.
Il Leopardi predilige, come alla natura dell'ingegno suo si conviene, l'associazione per contrasto, senza però cadere in quell'abuso dell'antitesi e delle opposizioni violente, che forma uno dei caratteri più spiccati della poesia dell'Hugo. Che il Leopardi avesse vivo il senso de' contrarii è mostrato anche dalle sue contraddizioni frequenti; e molte delle sue poesie traggono da un contrasto inspirazione e argomento: nei canti di soggetto patrio e civile, contrasto fra la grandezza passata e la presente abiezione d'Italia, tra la fortuna e la virtù, ecc.; nel canto Alla primavera, e in altri, contrasto fra la felicità degli antichi e la infelicità dei moderni; nell'Ultimo canto di Saffo, nel Consalvo, nell'Aspasia, contrasto fra l'amore e la sorte o la malignità; nella Sera del dì di festa, contrasto fra il desiderio e la speranza del piacere e il disinganno; nella Ginestra, contrasto [292] fra la superbia e la miseria degli uomini: pressochè per tutto e sempre contrasto fra la natura e l'uomo, fra il pensiero e il sentimento, fra la illusione e il vero[496]. Bruto stupisce, vedendo così placida in cielo la luna, mentre Roma precipita:
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu sì placida sei?
Seduto presso a una siepe che gli toglie la vista di molta parte dell'orizzonte, il poeta corre con la mente allo spazio infinito, e a un susurrare di fronde va comparando l'infinito silenzio, e contrappone al presente il passato. L'anima sua, combattuta da un perpetuo dissidio, vede il mondo sotto l'apparenza di un perpetuo dissidio.
E qui è una delle ragioni per cui il poeta così sovente, e così volentieri, si dilunga con la fantasia nel remoto del tempo e dello spazio, risalendo alle prime storie del genere umano e agli antichissimi miti, smarrendosi nella vastità de' cieli stellati; dacchè il remoto, per una facile illusione del sentimento e della immaginativa, ci appare, non solo diverso dal prossimo, ma pure in contrasto con esso, e quasi una negazione di esso. Nessuno meglio del Leopardi conobbe l'affascinante poesia di quel lontano in cui l'anima, prosciogliendosi dalle cure angustiose, sottraendosi alla tirannide delle cose presenti e prementi, ritrova e sente tutta sè stessa, e rinnovata e libera si muove e si espande. E qui ancora è una delle ragioni di quel suo quasi culto delle rimembranze, dacchè ciò che l'uomo ricorda con più tenerezza e di desiderio, sempre contrasta, in una certa misura, con ciò che l'uomo ha o sperimenta attualmente. Se non che s'è dovuto notar da altra banda quanto alle volte il Leopardi si tenga stretto alla realtà immediata e presente. Questa facoltà ch'egli ha di accostarsele e di scostarsene a suo talento acuisce mirabilmente in lui il senso dei contrasti; e dal contemperamento e dalla fusione di qualità che a primo aspetto non sembra si possono insieme accordare, viene alla sua poesia un'attrattiva assai nuova e rara.
L'intellettualità del Leopardi si appalesa ancora nell'uso degli epiteti. Pel versajuolo gli epiteti sono elementi fonici e metrici, che servono [293] sopratutto a compiere e arrotondare il verso: pel poeta più particolarmente sensuale e immaginativo, sono elementi pittorici e musicali che servono a ornare l'idea e a rendere la espressione rigogliosa e sonora: pel poeta più particolarmente intellettuale, sono elementi determinativi che servono a dare all'idea espressa giusta misura e giusto carattere. Il Leopardi non usa mai dell'epiteto come di semplice ripieno o di zeppa. Lascia vedere, bensì, ma più propriamente nelle prime poesie, alcuni esempii di epiteti ripetuti per usanza e per tradizione, dovuti ad automatismo della memoria; ma in generale gli epiteti suoi, in cui è quella parsimonia e quella castigatezza che gli psicologi e gli psichiatri notano come un segno di sanità mentale, sono appropriati ed efficaci. Alcuni, che ricorrono con maggiore frequenza, come ermo, solitario, deserto, romito, quieto, ignudo, eterno, infinito, riflettono la preoccupazion consueta dell'animo suo, e porgono un indice (ma poco sicuro) dello stato somatico, della vita fisica del poeta. Il quale non va mai fanciullescamente alla caccia di quella colorata farfalla ch'è, il più delle volte, l'épithète rare; nè mai usa un solo di quegli epiteti mostruosi ed usurpatori che violentano o contraffanno le cose. Quello che Teofilo Gautier disse trasposizione delle sensazioni è artifizio presso che ignoto al nostro poeta.
Non è questo il luogo per fare uno studio minuto dello stile del Leopardi, studio che richiederebbe, oltrechè molta diligenza e fatica, anche assai tempo: a noi basterà notare di quello stile i caratteri principali.
Lo stile è la fisonomia dello spirito, disse lo Schopenhauer; e di nessun altro scrittore può dirsi questo con più verità che del Leopardi. Qual è, guardato in generale, e tralasciata per ora ogni distinzione fra prosa e poesia, lo stile del Leopardi? «Il suo stile», sentenziò un tempo il De Sanctis, «è come il suo mondo, un deserto inamabile, dove invano cerchi un fiore»[497]. Ma chi mai vorrà acquetarsi a così recisa sentenza? Che i fiori non abbondano in quello stile (e qui, veramente, bisognerebbe distinguere fra prosa e poesia) è verissimo; ma non altrettanto vero che sia quello stile un deserto inamabile. Parecchi anni innanzi il Giordani aveva scritto: «Un perfetto stile dovrebbe avere geometria, pittura, musica. — Nelle prose del [294] Pallavicino e di Leopardi prevale il geometrico. Nel Pallavicino più visibile; meno visibile ma non meno vigoroso nel Leopardi»[498]. Il Giordani diceva più giusto, massime che parlava della sola prosa. Più tardi si vede che il De Sanctis ebbe a considerar meglio questo punto, perchè trovò che il Leopardi introdusse nella prosa italiana quel vigore logico onde troppo aveva difettato insino allora, e le diede «una forma limpida ed evidente, fondata su di una ossatura solida e intimamente connessa, come in un corpo organico»; e scrisse insomma eccellente prosa di tipo intellettuale[499]. Ma ancora parmi si scosti dal vero e dal giusto quando lo stile del Leopardi paragona a uno scheletro ignudo, mentre è scheletro coperto di buone polpe, se non vestito di panni pomposi e di gale. Rimane verissimo che non solamente nella prosa, ma nel verso ancora, è stile costruito essenzialmente dalla ragione, e costruito con quel vigoroso e difficile antivedimento che abbraccia e coordina tutta una lunga consecuzione di frasi e di periodi. Doti principalissime, ma non però sole, di quello stile sono la proprietà, la coerenza, la sodezza, la proporzione, la chiarezza; doti attiche per eccellenza, che non si trovano in quello che dicesi stile florido, ma sono proprie di quello che dovrebbe dirsi stile organico; e che sole pongono lo scrittore in grado di conseguire ciò che, secondo lo Schopenhauer, più si richiede a scrittore veramente buono: forzare il lettore a intendere per lo appunto quel medesimo ch'egli ebbe in mente e volle esprimere con le parole. Il Leopardi considerò «la proprietà de' concetti e delle espressioni» come «quella cosa che discerne lo scrittore classico dal dozzinale», e della chiarezza disse esser essa il primo debito dello scrittore[500]. Ma di queste doti, per quanto importanti, non poteva contentarsi chi voleva rifatto il di fuori e il di dentro della prosa.
Si bada a notare ciò che il Leopardi derivò nel suo scrivere dai Greci, dai Latini, dai Trecentisti (i Cinquecentisti, meno poche eccezioni, egli ebbe in conto di miserabili)[501]; ma si tace del nuovo ch'egli introdusse nello stile italiano, e specie dell'ardimento con cui seppe, più ancora nel verso che nella prosa, scomporre le vecchie forme [295] tradizionali del periodo. A tale proposito egli scriveva al Giordani: «L'arte di rompere il discorso, senza però slegarlo, come fanno i Francesi, conviene impararla dai Greci e dai Trecentisti; ma i Cinquecentisti non pensarono che si trovasse, nè che, volendo esser letti, bisognasse adoperarla»[502].
Abbiamo veduto che cosa il Leopardi pensasse della prosa poetica[503]: notiamo ora che egli espresse grande aborrimento per la prosa «geometrica, arida, sparuta, dura, asciutta, ossuta, e dirò così somigliante a una persona magra che abbia le punte dell'ossa tutte in fuori»; e predilezione grandissima per «quella freschezza e carnosità morbida, sana, vermiglia, vegeta, florida..... che s'ammira in tutte quelle prose che sanno d'antico»[504]. Che se per entro alle prose di lui non ispesseggiano, anzi son rari, i versi; e se non vi si ritrova la varietà di tono e di struttura, la magnificenza, la copia che contraddistinguono alcune canzoni, non però vi manca quell'eloquenza che, com'ebbe a dire lo stesso poeta, nasce spontanea sulle labbra di chi favelli di sè.
Concediamo al Giordani che nello stile del Leopardi tiene il maggior luogo la geometria; ma affermiamo poi risolutamente che delle altre due doti dello stile perfetto da lui accennate, non vi manca (e più propriamente ne' versi) la pittura, e v'è, con assai giusta e ragionevole proporzione, la musica. E notiam qui ancora che, contro la opinione dello stesso Giordani[505], il poeta sostenne essere la poesia alcun che di primigenio e di autonomo, e che non s'ha da essere prima prosatori per poi riuscire poeti[506]: verità incontrastabile, avvertita da quanti mai furono poeti veri e grandi, e che lascia intendere quanto sieno mal consigliati coloro che prima scrivono in prosa ciò che intendon poi di mettere in verso, e perchè un poeta eccellente possa essere prosatore mediocre, e un ottimo prosatore, poeta pessimo[507].
Che il Leopardi abbia dell'armonia poetica un senso acuto e squisito, parmi che ogni lettore non torpido, o non disattento, lo debba [296] senz'altro consentire. Quando, è già qualch'anno, fu fatta in Francia una specie di pubblica inchiesta circa la riforma dell'ortografia, il Leconte de Lisle rispose indignato a chi ne lo domandava, ch'era cosa vergognosa e da barbari volere espellere dall'alfabeto una lettera così piacevole all'occhio come la y; che al poeta occorre, non solamente di udire, ma ancora di vedere i proprii versi: che la strofe ha un suo disegno materiale, per cui, prima ancor dell'orecchio, l'occhio è allettato. Se la visualità può menare così lontano, noi non ci dorremo troppo che il Leopardi sia stato un visuale mediocre. I versi del Leopardi non sono punto fatti per gli occhi, ma bensì moltissimo per l'intelletto e moltissimo per l'orecchio; e, nulladimeno, contano fra i più perfetti che s'abbia, non questa nostra soltanto, ma ogni altra letteratura[508].
I simbolisti di questi giorni, intestatisi di fare della poesia una seconda musica, sacrificano ai suoni le idee, e non più come segni, ma come suoni usano le parole. Se ciò prova in essi vivo e prepotente senso della musica, senso di poesia sicurissimamente non prova. Il Leopardi adopera le parole principalmente come segni, e secondariamente come suoni. Il parlar suo è un parlare il più delle volte immediato e diretto, dove abbonda il vocabolo proprio e scarseggia la perifrasi, e poco o punto si trova di quell'armonia imitativa, che riconosciuta da tempo quale un ripiego d'arte inferiore, va trovando a' dì nostri chi la vuol rimettere in voce di magistero superlativo e squisito. E, per contro, nella poesia del Leopardi molta e viva e intensa armonia generale, prodotta dalla struttura del verso e del periodo poetico, e da disposizione, alternazione, varia intensità e vario colore de' suoni dentro di quelli. Il Leopardi non dimentica mai, o ben di rado dimentica, che la poesia è arte fatta per piacere in un medesimo tempo all'intelletto e all'orecchio; che essa non può pretendere di farsi ascoltare da quello offendendo questo, nè di accarezzar questo trasandando quello; ma che deve con unico, inscindibile, difficilissimo magistero appagar l'uno e l'altro. Egli ricuserebbe la sentenza del Flaubert, che disse: «Un beau vers qui ne signifie rien est supérieur à un vers moins beau qui signifie quelque chose»; ma, sdegnando il verso che suona e che non crea, egli non gradirebbe già [297] il verso che creando non suoni, troppo bene sapendo come il suono in questa arte sia forza creativa, il verbo divino che trae dal nulla le cose.
Che diremo del senso e dell'arte del ritmo nel nostro poeta? So che a taluno, cui pur sembra il Leopardi poeta grandissimo, riesce scarsa per questa parte la virtù del Leopardi. Ma è egli possibile intender poco le ragioni del ritmo e meritar nome di grande poeta? tanto possibile, credo, quant'essere grande poeta e far versi cattivi. Questa non è virtù secondaria, che possa mancare senza che tropp'altre vengano insieme a mancare. Forse la diversità di giudizii non d'altro nasce che da diversità di definizioni. Se per ritmo dovessimo intendere ciò che da alcuni troppo superficiali ragionatori di arte poetica comunemente s'intende, certa perizia, cioè, e certa aggiustatezza nel comporre di più versi la strofe, potrebbe darsi (ma nol concedo) che il Leopardi fosse mediocre maestro di ritmi; ma se, col Diderot, vogliamo intendere per ritmo un'adeguazione e una rispondenza della parola, della frase, del periodo, come suono, come moto, come intensità, alla natura del sentimento e dell'idea, cosa ben diversa, come ognun vede, dall'armonia puramente verbale, e dalla pienezza e rotondità della elocuzione; allora dovremo riconoscere che anche di ritmi il Leopardi è maestro grandissimo[509]. L'arte ritmica di lui si dà a conoscere nella sapiente compaginatura e spezzatura de' versi, nella studiata alternazione degli endecasillabi e de' settenarii in moltissime delle sue poesie, nel giro della frase e del periodo; ove infinite volte parola e pensiero sembrano formare un sol fiume, largo, copioso, magnifico. È ritmo pieno e perfetto, in cui i due elementi, uditivo e motore, si coadiuvan l'un l'altro e si fondono insieme; ed è ritmo sommamente espressivo, che riesce assai volte, imitando, a produrre impressioni meravigliose. Valgano come un esempio fra cento que' versi dell'Ultimo canto di Saffo, ov'è descritto il volgersi per l'aria del polveroso flutto de' Noti, il rumoreggiare del tuono, l'impeto vasto e il tumulto della bufera.
Ma l'intelletto che tutto vede e comprende, il senso squisito dell'armonia, la conoscenza perfetta della varia funzion dello stile, soccorsi dal pieno e sicuro possesso della lingua, da un delicatissimo [298] gusto, che gli rendeva incresciosa la lode non meritata[510], da quella perizia laboriosa e paziente ch'è dote necessaria di tutti i grandi maestri, non fanno ancora tutta l'arte del Leopardi: la quale in nessuna sua parte sarebbe qual è, e rimarrebbe inesplicabile, senza l'opera di quei sentimenti di cui è tutta piena l'anima sua, e nella manifestazione de' quali egli non ebbe, e forse non è per avere rivali: la tenerezza nativa, il dolce rimpianto delle cose perdute, il vano desiderio di quelle che non saranno mai possedute, lo sgomento e l'accoramento delle rovine irreparabili, l'amore cui manca l'oggetto, l'amarezza della delusione, l'entusiasmo del buono e del bello nella disperazione e nel terrore di vivere. Questi sentimenti governano quel senso dell'armonia, e quelli e questo congiuntamente empiono di strazio, d'ardore e di suono, il verso, a cui il giudizio impone equilibrio, compostezza, misura. Per virtù di sentimento il Leopardi, ora si smarrisce nelle cose, ora le cose assume in sè stesso; e chi ben guardi vedrà che il sentimento infine è, non l'unica, ma la prima e più copiosa fonte della sua poesia.
Alcuno potrebbe scorgere, non mai nelle prose, ma talvolta ne' versi di lui, per esempio nella Vita solitaria e nelle Ricordanze, un po' di quella incoerenza che si suole considerare (e non a torto) come uno dei sintomi mentali della degenerazione; ma giova avvertire che la incoerenza poetica non s'ha a giudicare in tutto con gli stessi criterii con che si giudica la incoerenza comune; e, ancora, che quella tanta incoerenza che altri credesse di poter notare nella poesia del Leopardi, facilmente disappare all'occhio di chi sia in grado di penetrare sino ai nessi occulti e profondi di pensiero e di sentimento. E ad ogni modo gli è certo che al Leopardi non manca mai l'arte di produrre quella che il Lotze chiamò la simultaneità delle impressioni molteplici, e il Taine la convergenza degli effetti. E così è più sempre da riconoscere che non sono nell'arte del poeta nostro le conseguenze e i segni di quella psicosi degenerativa che veramente era in lui, riparato il danno da qualcuno di que' misteriosi rincalzi dell'organismo, di cui è facile notare l'effetto, difficilissimo, per non dire impossibile, scrutare il modo e la ragione.
Il Leopardi muove da un'arte tutta di scuola e perviene a un'arte emancipata da ogni scuola. Le reminiscenze erudite e gli espedienti [299] retorici, che ne' primi suoi canti abbondavano, spariscono rapidamente dai successivi, e lasciano libero il campo alla inspirazione propria e spontanea. Il poeta non rinunzia a far suoi in qualche parte i tesori dell'arte antica, e talvolta ancora della moderna, ma rinunzia alla imitazione; chè altro è far suo l'altrui suggellandolo di sè stesso, altro è imitare. Come lo Schopenhauer, il Leopardi vede nell'arte l'opera del genio, e nel genio, la forma dello spirito più originale e più alta. Per quanto possa avere tolto ad altrui, il Leopardi rimane uno dei poeti più originali, non della nostra soltanto, ma di ogni letteratura; e se nella nostra egli appare con alcuna sembianza come di straniero, non è nessuna di cui si possa in tutto dir cittadino. Egli è poeta universale; ed è solo della sua specie. Ci sono poeti maggiori di lui: poeti eguali a lui non ci sono.
Avvertenza. — Erano già stampati i fogli che precedono quando giunse notizia che il Governo, fattosi finalmente consegnare le carte leopardiane lasciate dal Ranieri, delle quali è ripetuto ricordo in questo Saggio, le aveva affidate alle cure di appositi commissarii, che debbono prenderle in esame e fare le opportune proposte per la pubblicazione delle inedite.
[303]
Che c'è ora in letteratura, anzi in tutta quanta l'arte, una vera e propria reazione, la quale si va più sempre allargando, ognuno lo può vedere, solo che giri intorno lo sguardo; che tale reazione si esercita, con più deliberato proposito, contro il realismo e le sue varietà, ognuno può facilmente conoscere, solo che ne consideri gli andamenti e i caratteri generali; che essa finalmente, sia effetto e parte di un'assai più generale reazione che si viene compiendo nel pensiero e nella coscienza del tempo presente è cosa che si potrebbe arguire a priori, e che l'osservazione, anche più superficiale e affrettata, fa manifesto.
Per discorrere della reazione particolare, che diremo letteraria, in modo adeguato del tutto, bisognerebbe prima, senza dubbio, discorrere della reazion generale; cercarne le cagioni e le origini; determinarne la estensione e il carattere; delinearne i procedimenti e le forme: ma sarebbe lavoro assai lungo, da non potersi costringere in poco tempo e poco spazio: e, da altra banda, di tal lavoro alcune parti furono già fatte; altre non si potranno fare se non da chi, dopo noi, guarderà questi moti essendone fuori, da lungi. Basterà qui pertanto accennare, o rammentare, le cose e i fatti più appariscenti.
Guardata nel tutto insieme, la reazion generale appare quale un [304] moto avverso alla scienza positiva e al positivismo filosofico. Il secolo, giunto al suo stremo, si riconverte, sembra, a quell'idealismo che, accompagnando, e in parte promovendo, un'altra reazione, ne diresse gl'inizii. Rinasce, se non propriamente la credenza, il sentimento religioso, o almeno quell'inquieto e pungente senso del mistero che ne fa avvertire il bisogno e lamentare la mancanza. Il misticismo s'intrude anco una volta in quella scienza che l'aveva inesorabilmente sbandito; tenta di adulterarne i principii; si sforza di snaturarne i metodi e di offuscarne i fini: e molti, sdegnando gl'incerti compromessi e i connubii illegittimi, gridano che la scienza è venuta meno alle sue promesse, che il suo regno è finito, che la scienza è fallita.
Non sono certo da disconoscere le molte cagioni di indole sociale e politica, e le intricate, e spesso non belle, ragioni di opportunità e d'interesse che concorrono a produrre quell'effetto; ma sarebbe errore il credere ch'esse sieno sole a produrlo. Che altre pur ve ne sieno, più recondite e men facili a scoprire e ad intendere, scaturienti dal proprio fondo della nostra natura e, forse, della universa natura, è fatto palese, parmi, dalla generalità stessa del moto, dalla molteplicità, varietà e rispondenza delle singole manifestazioni sue, e ancor più, se non erro, dal carattere stravagante e dall'insania più che probabile di alcune di tali manifestazioni. Il teosofismo e il magismo acquistano ogni giorno nuovi seguaci. L'alchimia ha i suoi iniziati e promette di nuovo, con la trasmutazione dei metalli, anche la pietra filosofale. L'astrologia torna in onore, e nella stessa Inghilterra, patria di Bacone da Verulamio e d'Isacco Newton, dello Stuart Mill e dello Spencer, anzi colà più che altrove, si rallegra di numerosi cultori, porge copiosa materia a giornali ed a libri. Credo abbia torto il Nordau, o abbia solo in parte ragione, quando nel nuovo misticismo altro non vede se non l'effetto della degenerazione crescente, o un avvedimento e un ripiego politico[512]. Non sono tutti degenerati per certo i seguaci e i fautori delle nuove, o rinnovate dottrine, e basta ricordare a questo proposito come, tra quelli che lo spiritismo conta in grandissimo numero, ve ne sieno notoriamente alcuni a cui la scienza va debitrice di grandi incrementi, e i nomi dei quali godono di celebrità meritata. Quanto alle ragioni politiche, se quelle che il Nordau viene additando possono, sino ad un certo [305] segno, spiegare il misticismo francese, non potrebbero spiegare egualmente l'inglese, o l'americano.
Giova dire che la scienza stessa riaperse al misticismo la porta il giorno in cui, acquistata più sicura coscienza di sè, veduti meglio i proprii confini, confessò la impotenza propria in cospetto dell'inconoscibile, e ridestò negli animi il senso sopito del mistero avvolgente; il giorno ancora in cui ruppe la lega malamente stretta col materialismo, e rivendicò la piena libertà dell'indagine, fuori delle angustie di qualsiasi preconcetto dottrinario o settario. Giova dire che già da parecchio tempo, in presenza di tendenze avverse, sempre più minacciose e incalzanti, l'individualismo s'è risentito, s'è accampato con nuovo orgoglio e con nuova arditezza, ha spinto sino al paradosso e all'iperbole certe sue pretensioni, le quali, quanto sono repugnanti alla scienza, che abbattendo o livellando gli orgogli umani, disciplina, consocia ed agguaglia, sotto il giogo di una legge ineluttabile e imprescrittibile, potenze, atti e fortune, altrettanto sono inchinevoli a quel misticismo docile e vago che permette, anzi favorisce, ogni intemperanza di sentimento e di fantasia, e ad ogni più oscuro moto dell'animo dà significato come di rivelazione, e concede ad ogni uomo di foggiarsi il mondo a sua posta; quanto contrarie al positivismo, che ci comprime dentro e sotto la natura, altrettanto confacevoli all'idealismo, che ci leva fuori della natura e sopra di essa.
Di quello che negli ultimi tempi fu detto, un po' troppo arrischiatamente e pomposamente, spirito nuovo, una buona parte si può esprimere con le tre sacramentali parole: rinascenza dell'anima, le quali, significando al tempo stesso un desiderio e un proposito, un presente e un avvenire son diventate, esplicitamente o implicitamente, la formola dell'arte nuova.
Delle reazioni in genere, e delle reazioni letterarie in ispecie, non bisogna sgomentarsi troppo, nè troppo dolersi. Tutta la storia umana, dalle origini più remote sino al giorno presente, è fatta di azioni che sono al tempo stesso reazioni, e di reazioni che sono al tempo stesso azioni. Certo, sarebbe molto più profittevole, o, per lo meno, [306] più speditivo, al genere umano procedere per via diritta verso quella qualunque meta che può essere segnata al suo corso; ma vuole la nostra natura, o vuole la natura a noi circostante, che quel corso sia un andare a gangheri, lungo una linea spezzata, o un andare in volta, lungo una spirale, con inenarrabile tedio di quanti s'avvedono (e son pochi) della maniera e qualità del cammino, e con inenarrabil fatica di quanti (e sono tutti) vanno camminando a quel modo, e con incresciosa apparenza, se non con evento vero, di vani, anzi nocivi ritorni. Data la necessità di così fatto andamento, si comprende come la ininterrotta sequela delle azioni e delle reazioni appaja, guardata sotto certo aspetto, non in tutto, ma in parte, quasi una sequela ininterrotta di errori e di correzioni, di colpe e di castighi, di eccessi e di repressioni, e quasi uno sforzo continuo ed alterno e mal proporzionato inteso a stabilir l'equilibrio; per tal forma che ogni errore, ogni colpa, ogni eccesso sia come il termine estremo e fatale di un moto che fu, ne' suoi principii, ragionevole e buono; ed ogni correzione, ogni castigo, ogni repressione porti fatalmente con sè il germe di un male futuro. Come e perchè una reazione possa molto più giovare che nuocere, e un'altra molto più nuocere che giovare; come e perchè l'una appaja atta a venire a capo di tutti i proprii intendimenti e l'altra di alcuni pochi soltanto, o di nessuno, è cosa che dipende da infinite ragioni, da intricatissime contingenze, e che vuol essere indagata volta per volta e caso per caso.
La storia delle lettere, come parte della storia generale umana, è anch'essa tutta quanta tessuta di azioni e di reazioni, nei tempi antichi, in quelli di mezzo, nei moderni, con questo solo divario, che azioni e reazioni appajono tanto più rade e più lente quanto più si risale verso gli antichi, tanto più frequenti e veloci quanto più si scende ai moderni. Se ben ci si guarda, di sotto alla molteplicità degli aspetti e delle movenze particolari, si scorgono alcuni principii generali, i quali non mutano, o mutan ben poco, quanto alla sostanza, e con perpetua vicenda si contrappongono, si combattono, si soppiantano. Come più la civiltà differenzia e si complica; come più si moltiplicano, si compongono insieme e s'intrecciano le forme e le funzioni della vita, più la vicenda spesseggia: ond'è che nell'antichità, e poi nel medio evo, vediamo aver durata di secoli moti che in questa nostra età si misurano a lustri.
La reazione letteraria presente si esercita in più special modo [307] contro il realismo, e più propriamente ancora contro il naturalismo, che fu come la caricatura di quello e l'errore e la colpa e l'eccesso cui quello doveva pervenir fatalmente. Essa si esercita con la scorta di due concetti principali (non oserei dir dottrine) e sotto due nomi principalmente: preraffaellismo e simbolismo; de' quali, il secondo designa un moto di recentissima origine, e il primo un moto di origine notabilmente più antica, ma di novissima voga. E quello e questo hanno, insieme con qualità e tendenze proprie e diverse, qualità e tendenze somiglianti e comuni. Entrambi si oppongono al naturalismo, di cui l'uno schifa più la volgarità e la crudezza, l'altro più l'abuso del particolare e del concreto: entrambi ricusano il così detto plasticismo e l'arte marmorea dei parnassiani: entrambi menan vampo di uno sdegnoso e nobile individualismo: entrambi si dicono e sono idealisti, si separano dalla vita reale, vagheggiano, rimpiangono, risuscitano come possono il medio evo, e più alta e perfetta stiman quell'arte che chiusa ai più, schiva d'ogni contatto, più partecipa della visione e del sogno. La reazione contro il realismo non potrebb'essere più risoluta di così; ma non è poi altrettanto nuova quant'è risoluta, sebbene coloro che in vario modo la menano, o ne sono menati, la stimino cosa novissima e senza esempio. Per non dilungarci troppo nella ricerca dei casi consimili, e guardando a una sola delle molte specie letterarie, basterà ricordare come in questa nostra Europa moderna, nello spazio di pochi secoli, la novella italiana, insieme con le imitazioni che se n'ebbero fuori d'Italia, sia stata soppiantata dal romanzo eroico e pastorellesco dei Francesi; questo dal romanzo picaresco degli Spagnuoli e dal realistico degl'Inglesi; entrambi questi due dal romanzo avventuroso e sentimentale dei romantici, a cui sottentrò il romanzo naturalistico, che incalzato e sopraffatto a sua volta, cedè il campo a un nuovo vincitore. Onesta lotta è, in fondo, la lotta di due principii nemici che si sopraffanno a vicenda, il principio realistico e il principio idealistico.
Della presente reazione letteraria molti si rallegrano e molti si rattristano; e di quelli che si rallegrano non pochi sono uomini usi d'applaudire ad ogni novità, qual ch'essa sia; e di quelli che si rattristano non pochi sono uomini usi di vituperarle tutte, senza curarsi di sapere che sieno. Il critico, avendo finalmente imparato che anche in letteratura la mutazione è necessaria e inevitabile; che il buono, in pratica, non si può sceverare dal reo con quella facilità che nei trattatisti si vede; e che il più delle volte, se non sempre, [308] certa misura di male è condizione a certa misura di bene; il critico, dico, non s'ha da rallegrare nè da rattristare se non a ragion veduta, e questo ancora con certa temperanza onesta e prudente, quale può essere consigliata dal convincimento che il mondo non va già in perdizione per ciò solo che in qualche modo è fatta offesa ai nostri gusti o alle nostre opinioni; e ch'esso cammina per le sue vie, le quali non sempre sono le nostre; e che, ad ogni modo, quando pur sieno, non si sa dove menino. E il critico potrà ragionevolmente rallegrarsi che questa reazione ponga fine al regno, anzi alla tirannide del naturalismo, il quale, da un pezzo già, era troppo trascorso oltre i termini del sensato e del tollerabile. E se gli sarà detto essere le idee e le intenzioni dei novatori molto confuse ed oscure, egli non negherà questo, ma avvertirà che sì fatti rivolgimenti sono mossi assai volte, nei loro principii, da impulsi profondi dell'animo, de' quali l'uomo non ha troppo chiara coscienza, oppure da eventi esteriori, de' quali l'uomo non ha sufficiente contezza; e che però le dottrine intese a spiegarli e giustificarli non mutarono se non tardi, e con fatica, come da innumerevoli esempii è mostrato; e che per questo ancora non si può, in modo sicuro, dalla insufficienza della dottrina far giudizio dell'irragionevolezza del moto. E se da alcun altro gli sarà detto che l'arte dei novatori non produsse insino ad ora nessun'opera eccellente fra le poche mediocri e le molte pessime, egli consentirà pienamente, ma ricorderà in pari tempo che molt'altre volte avvenne il medesimo alle nuove scuole in sul primo loro formarsi; e che il tempo dei primi conati e delle prove avventurose non può essere quello dei capilavori; e che quanto si dice dei novatori di adesso fu pur detto, per citare un esempio, di quei romantici che lasciarono sì più di un'opera grande, ma lasciaronla solo dopo aver fatto credere per un pezzo di non sapere nè che si facessero nè che si volessero. Da altra banda il critico esaminerà con libero intelletto il moto presente, distinguendo ciò che in esso ha sembianza di sano da ciò che non l'ha; cercando se abbia veramente tanto di forza quanto d'irrequietezza; e se dia segno di voler vincere durevolmente (non già pei secoli, si intende), o cedere in brev'ora a contrasti solo momentaneamente rimossi: nè dimenticherà che la ciarlataneria, la scimunitaggine, la pazzia sono cose umane e comuni; che la passione è un fuoco inestinguibile; che la moda è un vento mutevole; che l'esempio trascina e che l'illusione è regina del mondo: nè dimenticherà che la critica è fatta più per interpretare che per guidar l'arte; che [309] il suo compito è il più delicato dei compiti; e che i giudizii suoi sono soggetti a rivedimento in perpetuo.
Con queste norme e con queste cautele vediamo di intendere la natura del preraffaellismo e del simbolismo e di abbozzare un giudizio sul valore della reazione esercitata in lor nome.
Com'è noto, il preraffaellismo nacque in Inghilterra, ma per opera, principalmente, di un Italiano, cioè di Gabriele Dante Rossetti, pittore e poeta, e figliuolo di quel Rossetti che fu, prima e dopo del '30, uno dei principali poeti e promotori della rivoluzione italiana, e lo studio stesso dell'Alighieri volse in servigio della libertà e della patria. Ostentando di anteporre a Raffaello, considerato quale un pervertitore dell'arte, i predecessori suoi, e, di questi, più stimando i più antichi, il preraffaellismo si manifestò da prima e si affermò nella pittura, ma non tardò molto a invadere la poesia, che meglio forse della pittura poteva piegarsi a' suoi intendimenti senza offender troppo il gusto corrente e la tradizione; e definito, nella stessa Inghilterra, una rinascenza dello spirito, o, almeno, del sentimento medievale, fu in tal qualità contrapposto a quella rinascenza dello spirito e del sentimento antico che noi denominiamo, senz'altro, la Rinascenza. Ognuno vede quale affinità venga perciò a palesarsi tra il preraffaellismo e il romanticismo, e, non fossero certe differenze di cui ora dirò, altri potrebbe scambiarlo, senza più, per un rimessiticcio del romanticismo stesso. È noto di che fervido culto i più dei romantici onorassero il medio evo, e come parecchi di essi sognassero di farlo rinascere. Nei primi anni del presente secolo si videro non pochi giovani pittori, scaldata la fantasia dagli entusiasmi romantici, rinnegare come corrotta tutta l'arte della Rinascenza, e rimettersi, in buona fede, alla scuola di Giotto. Tra il fatto di allora e il fatto di ora c'è dunque molta somiglianza, e il preraffaellismo bisogna si contenti di non essere tanto nuovo quanto s'immaginava; ma se i fatti si somigliano, la ragion dei fatti è diversa. Per votarsi al santo medio evo il romanticismo aveva tutta una sequela di ragioni che il preraffaellismo non ha, nè può avere: guerra a quel classicismo di cui il medio evo era stato appunto come una gran negazione, secolare [310] e concreta; ritorno a quella fede di cui il medio evo era tutto impregnato, e di cui aveva per tanti secoli vissuto; desiderio, in Germania, di una grandezza politica di cui porgeva indimenticabile esempio l'Impero; desiderio, in Italia, di una libertà che, dopo i Comuni, non s'era più conosciuta. Il preraffaellismo di queste ragioni salde e positive non ne ha neppur una. Esso nega, ma non si può dir che combatta; vorrebbe gustare le consolazioni e le estasi della fede, ma sente che questa fede gli manca, e non sa come fare a procacciarsela; detesta tutti gli ordinamenti e reggimenti sociali e politici che ci stringono intorno e ci pesano addosso, ma non ne addita di migliori, e, in realtà, non si propone di mutarne alcuno. Esso è l'infingardaggine nell'arte.
Se ben si guarda, si vede che il preraffaellismo nasce in gran parte da una ragione puramente negativa, dal disgusto, cioè, della vita presente e della presente civiltà quale in grado massimo lo sente e l'ostenta il Ruskin[513]. Io sono ben lungi dal credere che tale disgusto sia per sè stesso irrazionale e illegittimo, e che nasca, tutto e sempre, come vorrebbero certi biologi e sociologi, d'insufficienza o di perversione organica, e non altro significhi in fondo se non penuria di quella sovrana virtù, conservatrice d'ogni vita, ch'è la virtù dell'adattamento, ma ad ogni modo un principio puramente negativo qual'è questo non può, quando manchino altre forze e altri ajuti, essere un principio d'arte sicuro e fecondo; e l'arte si condanna da sè stessa all'esaurimento e alla morte quando si diparte in tutto dalla vita reale, dove sono, non tutte, ma le prime e le più copiose sue fonti, e si ritrae e si sequestra nella memoria, nel desiderio, nel sogno d'una vita che fu. Volere che l'arte non rispecchi se non ciò ch'è presente e comune, come fu canone del naturalismo, è grave errore; ma error non men grave è volere che l'arte rispecchi soltanto ciò che è peregrino e remoto: ed entrambi gli errori conducono, per opposte vie, alla menomazione dell'arte. Non nego che la distanza, sia di tempo, sia di spazio, non accresca poesia alle cose, perchè sarebbe negare un fatto reale, conosciuto universalmente, e più che sufficientemente spiegato dalla natura dello spirito e dalle leggi che lo governano; ma dico che la [311] opinione comune di coloro i quali negano esser poesia nelle cose famigliari e vicine, e che s'hanno tuttodì davanti agli occhi e, per dir così, sotto mano, nasce, più che da un giusto vedere, e dal non saper vedere e dal non saper collegare con la vita passata la vita presente e la vita futura: nel che parmi appunto che stia uno degli offici più alti che possano all'arte assegnarsi. Credo che un animo forte e operoso tenda di sua natura, quando abbia troppo in dispetto il presente, piuttosto verso il futuro che verso il passato, e se verso il passato, verso quello soltanto ch'egli immagini potere e dovere rioperar sul presente, e sia davvero, o almeno appaja, maggior del presente. Quando i primi umanisti cominciarono a volger gli occhi all'antichità, e ad accendersi tutti dell'amore di quella, cominciò un grande rivolgimento nel mondo; perchè essi non si lasciarono sopraffare dal disgusto della conosciuta barbarie, nè anneghittirono nello sterile rimpianto della civiltà perduta; anzi con indimenticabile entusiasmo, vogliosi, non già di disertare la vita, ma sì bene di più altamente vivere, diedero opera a ricondurre quella civiltà per entro a quella barbarie, e a rifar col passato il presente: e tale fu l'impeto e la forza e l'intima virtù del moto, che travolse persino que' Papi e quella Chiesa che più avrebbero dovuto avversarlo.
I preraffaelliti non pongono così alta la mira. Essi hanno grande avversione al rinascimento classico, ma non isperano un vero rinascimento medievale, contro cui troppe forze, e irresistibili, si troverebbero collegate. L'esempio dei romantici deve averli ammoniti; e ciò che non potè avvenire dopo il 1815, quando si trovava un Giuseppe De Maistre per iscrivere il famoso libro Du Pape, molto meno potrebbe avvenire ora. I preraffaelliti, del resto, non cercano nel medio evo, mal conosciuto e peggio rassettato, se non un rifugio che li ripari dalla ingiuria de' tempi; una specie di cenobio intellettuale e sentimentale, ove a bell'agio possano, se non appagare, accarezzare quel vago e tenero bisogno d'idealità e di fede che gli affanna e gl'inquieta, e sognare in pace i loro sogni. Il caso loro somiglia per più rispetti al caso di quei raffinati del XVI e XVII secolo, che sazii e fastiditi di cortigianeria e d'artificio, cercarono nuovo sentimento di schiettezza e illusione d'ingenuità nelle pastorellerie. Se non che la semplicità mal riesce ai raffinati. I preraffaelliti, checchè possan credere o dire, sono di animo affatto diversi da quei modelli a cui vorrebbero rassomigliarsi. L'ingenuità, perduta che sia, più non si racquista; [312] e chi, a bello studio, manometta in un quadro le regole della prospettiva, o introduca in un componimento poetico immagini e locuzioni troppo disformi dal sentire e dal favellar nostro, con l'opinione di riuscir semplice e schietto, non riesce in fatto nè schietto nè semplice, ma solamente ridicolo. E poi, messo una volta il piede su questo sdrucciolo, non è quasi più possibile fermarsi: giacchè se a Raffaello sono da anteporre frate Angelico, Taddeo Gaddi e Giotto, perchè a questi non sarà da anteporre Cimabue, e a tutti, come più schietti ancora, e più veramente primitivi, i bizantini? Quando per arte semplice s'intende arte insufficiente, ciò non è punto difficile; ed è perciò che noi vediamo ora, dietro i passi dei pittori preraffaelliti, muovere una schiera di pittori che si potrebbero dir pregiottiani, i quali, intenti a rinnovare in tutto il suo rigore la tradizion bizantina, offrono agli attoniti sguardi de' contemplanti, stecchite figure di vergini, di asceti e di martiri, senza espressione, senza sangue, senza carni, con tale una ostentata (ma non in tutto ostentata) ignoranza dell'anatomia, del drappeggiamento, del colore e di ogni cosa, da fare o strabiliare, o sorridere.
Non perciò vorrò dire che il preraffallismo non abbia prodotto qua e là un qualche effetto buono. In pittura esso ha indubitabilmente contribuito ad affinare novamente il gusto, che s'era un po' troppo ingrossato alla scuola del naturalismo; a risollevare e riconfortare la fantasia che da quella scuola era stata depressa e mortificato un po' più del dovere; a ridare il luogo che gli si compete a quell'elemento ideale senza di cui l'arte a breve andare s'intorbida e s'invilisce. Nè ciò soltanto; chè trasfondendo, senza quasi avvedersene, un sentimento moderno nelle forme e nelle immaginazioni del medio evo, esso ha talvolta prodotto motivi di una venustà rara ed arcana, di una insuperabile acuità d'impressione, e ottenuto trasfigurazioni veramente singolari e potentemente emblematiche della persona umana, e raggiunto in certe composizioni di bizzarra, florida, taumaturgica fantasia tale una fusione della realtà e del sogno quale non credo siasi mai veduta innanzi, nè possa ottenersi maggiore.
In letteratura i suoi meriti mi pajon minori, ma non minori i demeriti. Sembra ch'e' non osi staccarsi dalla poesia e avventurarsi nella prosa, nè che della poesia osi trattar tutti i temi e le forme; e Gabriele Dante Rossetti, del cui valore noi non abbiamo ora a discutere, rimane pur sempre il maggiore de' suoi poeti. Ciò nondimeno, a chi ami l'arte non parrà picciol merito la sollecitudine viva e devota adoperata [313] in restituire l'antico grado e gli antichi onori a quella poesia che dai naturalisti fu tanto sdegnata, e di cui lo Zola osava scrivere: «J'assigne simplement à la poésie un rôle d'orchestre; les poètes peuvent continuer à nous faire de la musique pendant que nous travaillerons»[514]. Anzi i preraffaelliti passarono il segno quando pretesero racquistare alla poesia quel primato che le condizioni presenti della cultura e della vita più non le consentono. Ma di questo più oltre.
Che il preraffaellismo dovesse trovare anche in Italia ammiratori e seguaci, come da molto tempo ve li trovano tutte le novità forestiere, è cosa che non si poteva, sembra, evitare. A tacer dell'effetto che se ne vide in pittura, basterà ricordar quello che se ne vide in poesia, quando su pei giornali letterarii cominciarono a comparire sonetti e canzoni e ballatette e sestine e none rime, rifatte sugli esemplari del Dugento e del Trecento, con atteggiamenti di stile, con impostature e cadenze di versi, con suoni di rime, tratti a grande studio da quell'arte; e insiem con le forme si riaffacciaron que' temi; e la donna angelicata rifece capolino, tutta soave e leggiadra, fra il corriere delle mode e l'articoletto di cronaca; e gli spiritelli d'amore diguazzaron le alucce tra i ghirigori e i cincigli della stampa cortesemente provveduti dal proto; e parve quasi di riudire la voce di Guido Orlandi chiedere con devozione:
Onde si move ed onde nasce Amore?
Qual è 'l su' proprio loco ov'e' dimora?
e Guido Cavalcanti, un po' accigliato, rispondere:
In quella parte dove sta memora, ecc.:
cosa da ricevere con sollazzo e con riso, se, più che da una perversione del gusto, non nascesse da scioperataggine di mente e da grande impoverimento delle facoltà creative. Ma il preraffaellismo, benchè iniziato, si può dire, da un Italiano, e dietro esempii italiani, non sembra che possa avere fortuna in Italia, dove, se alcuna tendenza è che più direttamente derivi dall'indole della nazione, e si confaccia al costume, e li significhi entrambi, quella è dessa per certo che, contrastando [314] allo spirito de' tempi di mezzo, sortì nel Rinascimento il proprio fine e il proprio trionfo: e già per le usanze e gl'ideali di questo vediam rinnovarsi in Italia un'ammirazione e un amore contro cui la dolce mania medievale del preraffaellismo non è possibile che prevalga.
Nè v'è ragione di credere che fuori d'Italia esso abbia a vivere rigoglioso e durare a lungo. Troppe forze lo premono, delle quali è grande errore l'immaginare che sien vicine a dissolversi e a perdersi. Esse anzi acquistano, d'ora in ora, maggior gagliardia, e tutte congiunte ci trascinano sempre più lungi dagli esempii e dai termini di una età alla quale un repentino ripiegar della via può solo per picciol tratto far credere che noi ci andiam raccostando. Nella grande, torbida e impetuosa corrente del pensiero moderno, il preraffaellismo (e altro con esso) non segnerà se non un breve e passeggiero ringorgo. Se non ingannano i segni che del futuro si vedono, esso si dileguerà tra non molto, e il suo nome sarà il nome di una piccola increspatura, non quello di un grande rivolgimento dell'arte.
Il preraffaellismo ha formola chiara e precisa, ma angusta; il simbolismo formola molto più larga, ma anche più incerta ed oscura.
Come nascesse il simbolismo in Francia in questi anni passati, e per opera di chi; e quanta parte s'avessero nel suo nascimento e nelle sue prime imprese un ragionevole bisogno dello spirito e un giusto senso dell'arte; quanta la ignoranza, la sciocchezza, la ciarlataneria, e persino il gusto di burlarsi del prossimo: e come fosse operato, anche in questo caso, l'ordinario miracolo del proselitismo, noi non andrem ricercando. Che cosa esso sia propriamente, e che si voglia, non è facile dire, nè pare che lo sappian gran fatto coloro stessi che lo professano e ne annunziano il verbo. Qualcuno, ripetendo, senza addarsene, vecchie e incompiute definizioni del romanticismo, lo definì l'individualismo nell'arte, oppure la libertà nell'arte; e, veramente, considerato sotto certo aspetto, il simbolismo non parrebbe esser altro che un ricorso di romanticismo attenuato, rimpicciolito, e come dissanguato. Al qual proposito gioverà notare una volta per tutte che il decadere del realismo doveva di necessità dar luogo ad [315] un qualche ravvivamento e risentimento di quel romanticismo che esso da prima aveva combattuto e vinto.
Se l'intento principale è quello che sembra indicato dal nome, il simbolismo dovrebbe, in contraddizione diretta col realismo, che considera e ritrae, o vorrebbe considerare e ritrarre, le cose ciascuna per sè e nel proprio suo essere, considerarle e ritrarle come segni le une delle altre, e più propriamente le minori delle maggiori, le materiali delle spirituali[515]. Sì fatto intento non è già nuovo; anzi è vecchissimo; anzi non sempre fu intento, nel proprio senso della parola, ma, in età più remote, operazione dello spirito affatto istintiva e spontanea. Poesia simbolica è sempre stata nel mondo, e chi volesse andare in traccia del simbolo per entro nell'arte realistica, e agli stessi romanzi del Balzac e dello Zola, durerebbe poca fatica a trovarlo. Son due anni, o poco più, nella rassegna indipendente che s'intitola L'Ermitage, il Saint-Antoine parlò, volendo far servigio alla scuola, del simbolo e dell'allegoria, della leggenda e del mito, distinguendo di ciascuno la significazione e il carattere; ma non si vede ch'egli abbia aggiunto gran che a quanto in proposito era stato detto da un pezzo; e alla nuova scuola avrebbe dovuto premere, non tanto la definizione puramente teoretica del simbolo, quanto una dottrina, o una norma, per la scelta e per l'uso di esso, e alcuna opportuna avvertenza circa il modo migliore di far che agli intenti rispondano i mezzi dell'arte.
Ad ogni modo, appar chiaro che i simbolisti, come già i romantici, non vogliono poesia senza simbolo; e chi desiderasse sapere come la pensassero i romantici a questo riguardo, almeno i francesi, frughi nel parigino Globe del 1829, e troverà uno scritto che gliene darà contezza: e se ode questo o quel simbolista sentenziare che ogni bellezza è, di sua natura, simbolica, si ricordi che Guglielmo Schlegel e Giovanni Herder dissero per l'appunto il medesimo. Nessuno, se non è vinto dal preconcetto o dal fanatismo, vorrà biasimare i simbolisti perchè vogliono poesia simbolica: ma chi poi, se similmente non è vinto dal preconcetto o dal fanatismo, vorrà approvarneli, quando pretendono che fuori di quella non abbia ad essere [316] altra poesia? Non è forse poesia quella che, senza cercare e pensare più là, si contenta di ritrarre poeticamente le cose e di esprimere poeticamente l'anima umana? E son forse pochi, e sono di picciol merito i poeti che coltivarono e accrebbero sì fatta poesia?
Ma non tanto errano i simbolisti in questa loro opinione che non sia poesia senza simbolo, quanto erran nel modo onde fan uso del simbolo, e ne curan l'effetto. Il simbolo non si propone altro fine se non di presentare un termine materiale e particolare in tal forma, e con tale avvedimento, che da esso si possa, anzi quasi si debba, ascendere a un termine o ideale o generale; e perchè tale passaggio avvenga, non in qualsiasi modo, ma in quel determinato modo che il poeta ebbe in mente, e non iscambii, mi si lasci dir così, un recapito per un altro, e non riesca, forse, appunto dove il poeta non volea che riuscisse, bisogna che il primo termine sia presentato in forma determinata, consistente, evidente, perchè, se presentato in forma perplessa, liquescente, nebulosa, potrà dar passo a più termini superiori, tutti diversi forse da quello che il poeta s'era prefisso, e potrà anche non dar passo a nessuno. Se i simboli riescono assai volte affatto vaghi e ambigui, anche quando il primo termine sia chiaro e preciso, figuriamoci quali han da riuscire quando quel termine è incerto ed oscuro. La lonza, il leone, la lupa di Dante son tali che ognuno li raffigura, e pure san tutti quanto varia e discorde sia stata la interpretazione del simbolo di cui essi sono parte: che sarebbe se il lettore non riuscisse a raffigurarli, e dovesse, prima d'ogni altra cosa, trovar gli argomenti per dimostrare che la lonza è una lonza, il leone è un leone, e la lupa una lupa? Ora essendo canone fondamentale della estetica e dell'arte dei simbolisti che le cose non debbono già esser ritratte nitidamente, ma solo adombrate, si vede che ha da seguire de' lor simboli, e s'intende perchè il simbolo appunto è ciò che meno si riesce a scovare nella loro poesia. Nè accade avvertire che qui non si tratta di quella studiata occultazione e di quella voluta ambiguità del simbolo che possono essere consigliate al poeta dalla condizione dei tempi, e dalla considerazione del pericolo a cui egli potrebbe esporsi usando simboli troppo ovvii ed aperti. Dei simboli dei simbolisti nessuna potestà, nè ecclesiastica, nè laica, s'è mai impermalita.
Oltre che per l'uso, o meglio, per la immaginazione dell'uso del simbolo, il simbolismo si contrappone al realismo, e più propriamente al naturalismo, per certa ostentata adorazion di bellezza; per [317] la inclinazione che, ancor esso, ha al medio evo; per l'onore che, rivaleggiando col preraffaellismo, tributa alla poesia.
Veramente non tutti i realisti furono disprezzatori della bellezza. Il Flaubert non si vergognò di dire che la bellezza è il fine vero dell'arte; e scriveva alla Sand: «Je regarde comme très secondaire le détail technique, le renseignement local, enfin le côté historique et exact des choses. Je recherche par-dessus tout la beauté, dont mes compagnons sont médiocrement en quête». E molto tempo innanzi il Balzac aveva scritto in uno dei suoi romanzi (Béatrix) queste testuali parole: «La beauté est le génie des choses». Ma non si può però negare che il realismo intendendo, com'è proprio suo cómpito, alla rappresentazione del reale, anzi di quel reale ch'è più ovvio e comune, e la bellezza essendo cosa piuttosto rara che soverchia nel mondo, non sia tirato naturalmente a trascurarla, e poi a mano a mano, come avviene, ad averla in dispetto. Son note le detrazioni che ne fece la Eliot, e le colpe e i danni che le imputò; ed è noto che il naturalismo la fuggì con altrettanta diligenza con quanta, per un altro verso, cercò la bruttezza. Onde il Mallarmé espresse il desiderio di tutti i simbolisti quando agognò di levarsi a volo
Au ciel antérieur où fleurit la beauté:
ma bisogna pur riconoscere che l'oggetto di quel desiderio è esso stesso un po' troppo anteriore, e si riman troppo nel vago, e che aborrendo i simbolisti da ogni rigorosa e perspicua delineazione di forme, la loro bellezza, quasi, è senza forma, e tanto vana rispetto a quella vagheggiata e ritratta dai Greci quanto è l'ombra rispetto al corpo. Ad ogni modo, per questo amor di bellezza, di cui vanno lodati, i simbolisti contraddicono, non soltanto ai realisti e ai naturalisti, ma ancora ai romantici, i quali un tratto, s'innamorarono anch'essi del brutto, e trovarono in Carlo Rosenkranz chi ne scrisse l'estetica.
Verso il medio evo il simbolismo tende, in parte almeno, per quelle stesse ragioni per cui abbiamo veduto tendervi il preraffaellismo: certa sentimentalità religiosa inappagata e inappagabile, e il bisogno di quella piena libertà della immaginazione e del sogno a cui ogni realtà viva e presente riesce, o poco o molto, d'ostacolo, e che le usanze del viver nostro, e tutta quanta l'affacendata e aspra civiltà di questi tempi, insidiano e premono da ogni banda. E qui [318] è da notare come i simbolisti, sebbene, per vie meglio opporsi ai realisti, ostentino grande amore all'antichità, e s'ingegnino di ritentare qua e là alcuni temi dell'arte antica, pure, dato quel loro immaginare in confuso e dire a mezzo, che non si confà punto col genio classico, e data quella vaga e fluida misticità, che del genio classico è per l'appunto il contrapposto, si trovino assai più a loro agio nel mondo medievale che non nell'antico, in una chiesa gotica che non in un tempio greco, in compagnia di claustrali che non di eroi. Ond'è che noi vediamo riapparire per opera loro, nell'incerta luce del secolo moribondo, tutta la vecchia fantasmagoria romantica di castelli merlati, di chiostri silenziosi, di cavalieri armati cavalcanti per cupe foreste, di re barbuti, di bionde donzelle, di sante e di santi rapiti in estasi. Uno di essi, Ferdinando Herold, intitola certo suo libricciuolo di versi Chevaleries sentimentales, titolo da fare invidia a ogni più zazzeruto e smunto romantico; e il Durtal, uno dei personaggi dell'En route dell'Huysmans, non sogna se non medio evo[516]; e Paolo Verlaine, di cui son noti anche troppo i parossismi alternanti di religiosità e di lascivia, farneticava del medio evo enorme et délicat,
Loin de nos jours d'esprit charnel et de chair triste.
Non già che il medio evo non possa esser fatto rivivere dall'arte, come può esser fatta rivivere l'antichità, chè uno degli offici dell'arte è per l'appunto di prolungar la vita delle cose, e di ridarla, in qualche modo, a quelle che l'hanno perduta; ma il ravvivamento, per non riuscire un giuoco vano e puerile, deve innanzi tutto operarsi in una coscienza che sappia essa stessa serbarsi viva rimanendo moderna, e nelle forme proprie, non dell'attualità, ma del ricordo.
Della devozione grande che i simbolisti hanno alla poesia si può dire ch'è troppa, ma s'ha pure a darne loro, come s'è data ai preraffaelliti, la debita lode. Quanto è dell'utilità, a coloro che, seguitando una opinione dello Schiller, rinnovata dallo Spencer, dicono l'arte [319] non essere se non un giuoco, tanto più sincero quanto più è inutile, si può rispondere che tutte le arti cui si dà nome di belle son utili, in quanto che, variamente appagando un bisogno della spirituale natura dell'uomo, cooperano a che essa natura si conservi integra e sana nel pieno svolgimento e nell'esercizio armonico di tutte le sue facoltà. Ma v'è a dire anche altro. Lo stesso Spencer mostrò come la musica, suscitando agevolmente negli animi sentimenti a tutti comuni, e armonizzandoli, per così dire, insieme, a quel modo che fa de' suoni, e tutti i sentimenti purgando e affinando che le è dato di esprimere, e ancora adoperandosi a far nascere negli animi men delicati i sentimenti più delicati, sia un istrumento di simpatia efficacissimo e impareggiabile, e però di felicità individuale e sociale; e non si perita di asserire che, per questo rispetto, la musica non riesce meno benefica della scienza[517]. Ma perchè della poesia non si dovrà dire altrettanto? Anch'essa è in grado di accomunar sentimenti, e anzi di accomunarli in quella più determinata forma che alla musica non è consentita: anch'essa è atta a purgarli ed affinarli, e a far sì che i più delicati penetrino a mano a mano negli animi men delicati: e se alla musica, per esser buona a far tutto ciò, lo Spencer pronostica crescente fortuna e sempre più glorioso avvenire, non so perchè non si possa pronosticare altrettanto alla poesia, la quale fa tutto ciò diversamente dalla musica, ma, per certo, non meno bene della musica. Da parecchi già furono notate le benemerenze della scienza in quanto tende ad assicurare, creando una coscienza comune, e assottigliando più sempre il numero delle opinioni discordi e inconciliabili, la pace e la stabilità sociale[518]; ma se la scienza tende in più particolar modo a unificar l'intelletto, la poesia tende in più particolar modo a unificar l'animo, e ciò facendo esercita una azione sociale non meno benefica di quella possa esercitare la scienza[519]. Se così è, perchè mai la poesia dovrebb'essa morire? [320] S'ode dir tuttodì che la scienza ha da uccidere la poesia; ma perchè dovrebbe uccidere la poesia e lasciar vivere la musica? E se l'avvenire preparasse agli uomini condizioni di vita più riposata e più degna della presente, e più libero e nobile uso di quelle potenze dell'anima ch'essi ora, per tanta parte, e in tanti pessimi modi, corrompono, deprimono, logorano, non si può credere che le arti fiorirebbero con nuovo rigoglio, e la poesia non meno, se non più, di ogni altra? Siam grati dunque ai simbolisti, non propriamente della poesia, e scusiamoli alquanto, se, scaldati e trasportati da quell'amore, vedendo nemici dove non sono, inveiscono contro una scienza che non conoscono, e che non ode le loro invettive. Se la poesia non ha a temere del proprio avvenire, la scienza, del proprio, può essere più che sicura.
Quando avremo soggiunto che i simbolisti considerano il sognare ad occhi aperti come la più alta e nobile operazione dello spirito, anzi come la sola in cui esso, ignorando o negando la spiacente realtà, fa manifesta la propria eccellenza, e che non vogliono essere turbati nei loro sogni, avremo sommariamente indicati gl'intendimenti e i confini dell'arte loro. I pittori simbolisti dicono di voler fare, non pitture, ma iconostasi; e i poeti vorrebbero si potesse dir sempre delle loro poesie ciò che di alcune di Efraimo Mikhaël ebbe a dire Edmondo Pilon: «... je les ai dites comme on dit, dévotement, des litanies. Car elles contiennent, en elles, l'essence de la mélancolie inexprimable et de la constante obsession d'un exil loin d'une île heureuse; elles sont le mirage des déceptions constantes d'ici-bas, et elles sont les patènes divinement ciselées où sont enfermés les parfums des sacrifices expiatoires»[520]. Suscitare negli animi un moto e un contrasto di desiderii confusi che non si inaspriscano troppo nel volere il conseguimento del fine loro, di rimpianti che non passino il giusto segno di una mestizia tenera e sconsolata, d'immagini che si dissolvano prima d'essersi in tutto formate, di pensieri indefiniti che passino in una specie di luce crepuscolare e sottentrino l'uno all'altro senza mai collegarsi o coordinarsi fra loro; e con tutto ciò, e con richiami ed accenni impensati, dare agli animi il sentimento e quasi l'allucinazione di un mondo remoto, misterioso, trascendente, irrivelabile, ecco il fine che la poesia simbolista si propone. Vediamo ora quali mezzi essa adoperi per raggiungerlo.
[321]
Questi mezzi sono tre principalmente: l'oscurità, la suggestione, e, mi si passi il vocabolo, la musicalità.
Che dell'oscurità si faccia senz'altro un canone, e un canone principalissimo d'arte, può, a prima giunta, far meravigliare chi non ricordi la innata tendenza che gli uomini hanno a confondere l'inintelligibile con l'eccellente, e a vedere nella insufficienza e perplessità del segno la prova della grandezza e profondità del significato. Di solito, chi parla oscuro, parla così perchè non ha chiare le idee; ma può, senza troppa fatica, far credere di averle talmente poderose e vaste che le parole non le possano esprimere se non a mezzo, e forse neanche tanto. È questa una ragion capitale per cui ci fu sempre poesia oscura nel mondo, più assai di quanta n'avrebbero potuta far nascere il bisogno di non farsi intendere troppo, o d'intendersi fra pochi soltanto, e il desiderio d'esser lasciati in pace; ma non è però la sola.
I simbolisti sono di questo avviso, che tutto quanto produce in noi un pensiero distinto, un'immagine circoscritta, un sentimento specificato, nuoce alla poesia, la quale tanto più risponde al fin suo, e tanto arreca maggior diletto, quanto più rimane nel vago e nell'ombra[521]. Perciò essi detestano la sodezza e la precisione dei parnassiani, e la pienezza e il rilievo de' così detti plastici, e sono, molti di loro, riusciti così tenebrosi e deliquescenti che non v'è uomo che li possa intendere. Provatevi a cavare un costrutto da questi versi del Mallarmé:
Et tu fis la blancheur sanglotante des lys,
Qui, glissant sur la mer des soupirs qu'elle effleure,
A travers l'encens bleu des horizons pâlis,
Monte rêveusement vers la lune qui pleure;
[322] o da questo periodetto di prosa dei Saint-Pol Roux: «Mon être, agglomération de résistance opposée par mon toucher servi de ses frères, s'initie, aveugle du vide, art hiéroglyphe de l'assaut; initiation de la figure par successivement le point, la ligne, l'angle, la courbe». O, ancora, da questi due terzetti di un sonetto in cui pare che Renato Ghil abbia voluto, non so se occultare o dare a conoscere gl'intendimenti dell'arte nuova, e le spirituali sorgenti da cui essa attinge la inspirazione:
Une moire de vains soupirs pleure sous les
Trop seuls saluts riants dans la nuit exhalés,
Aussi haut qu'un néant de plumes vers les gnoses.
Advenu rêve par vitraux pleins de demains,
Doux et nuls à pleurer et d'un midi de roses,
Nous venons l'un à l'autre en élevant les mains.
Se l'arte letteraria dev'essere, d'ora innanzi, l'arte di parlare senza dir nulla, non v'è dubbio che costoro, e con essi altri molti, hanno tócco il sommo dell'arte. Che alcune di tali elevazioni e trasfigurazioni d'anime sieno celie di capi scarichi, può darsi, anzi, pel caso di Arturo Rimbaud, è dimostrato; ma, pur troppo, non tutte sono; e se il Mallarmé si contentò una volta di dire che la chiarezza non è se non una grazia secondaria, i suoi discepoli non furono più così timidi e sentenziarono che la chiarezza è difetto grosso, difetto triviale, e capital nemico della poesia. Parlando di Ernesto Jaubert, autore di una raccolta di versi intitolata Poèmes stellaires, Carlo Maurice, espositore dei principii e banditore delle glorie dell'arte nuova, ebbe a scrivere, sono già alcuni anni: «Et maintenant, comme tous les artistes significatifs de cette heure, le désir de tout dire l'a dissuadé de rien préciser, de rien trop détailler pour la gloire de l'effet total à suggérer, de laisser les choses s'envaguer doucement, d'indiquer l'idée par l'émotion picturale et musicale des sentiments et des sensations»[522]. Proprio il contrario di quanto insegnarono e praticarono i parnassiani, l'un de' quali, il Coppée, espresse uno dei principii fondamentali di tutta la scuola quando disse che la poesia richiede
Un style clair comme l'aurore.
[323]
I simbolisti tutti considerano la suggestione come cosa di capitale importanza in arte, e per essa quasi si gloriano d'avere introdotto nell'arte un principio nuovo; ma nuovo è il nome, non il principio, il quale è quel medesimo che sempre fu scritto nelle Arti poetiche; non dovere il poeta dir tutto, ma qualche cosa lasciar indovinare, e più e meno, secondo i casi e le convenienze. Le secret d'être ennuyeux, lasciò scritto il Voltaire, c'est de tout dire. Lo Spencer, che certo non è un simbolista, nota a questo proposito: «Scegliere, descrivendo una scena, o narrando un fatto, quegli elementi che ne traggono più altri con sè; e, per tal modo, dicendo poco e suggerendo molto, abbreviare la descrizione e la narrazione; tale è il secreto per impressionar vivamente... Bisogna scegliere le idee e le espressioni per tal maniera, che il maggior possibile numero di idee sia espresso col minor possibile numero di parole»[523]. Questa potenza di suggestione le parole non sono sole ad averla: il volto umano è sommamente suggestivo; suggestive sono le stesse cose inanimate; e la musica opera sugli animi nostri, non in grazia della suggestione soltanto, ma in grazia della suggestione principalmente. E delle parole si può notare ch'esse esercitano la suggestiva lor facoltà, non solo come segni, ma anche, in una certa misura, come suoni; d'onde la conseguenza che lo studio de' suoni è parte, non principale, come fu opinione di vuoti retori, ma pure importante dell'arte dello scrivere, specialmente nel verso. Che poi la estensione e la intensità della suggestione dipenda, in parte dalla qualità dello stimolo che la provoca, in parte dalla qualità e dal peculiare stato dell'animo che quella provocazione riceve, è cosa che s'intende da sè e su cui non accade di soffermarsi. I grandi poeti sono soggettivi tutti, e quanto più son grandi, tanto più sono, come Dante, suggestivi. Ma Dante è, nello stesso tempo, il più preciso dei poeti.
I simbolisti hanno dunque ragione quando celebrano le glorie del verso evocatore; ma hanno torto quando dicono che a suggerire più e meglio il poeta deve evitare i concetti precisi, le immagini precise, le parole precise. La precisione dei concetti, delle immagini, delle parole non fa ostacolo alla suggestione, come per innumerevoli esempii si può dimostrare. Valga per tutti quello che ne porge L'Infinito del Leopardi. Abbiamo qui un ermo colle, una siepe che cela [324] all'occhio molta parte dell'orizzonte, un vento che fa stormire, in passando, alcune piante; termini definiti, concreti, che si apprendono senza la menoma esitazione, e sulla cui natura non può nascere il menomo dubbio. La designazione è, certo, sobria e fugace, e il poeta accenna più che non descriva; ma il colle è un colle, la siepe è una siepe, il vento è un vento, le piante son piante; e questi nomi suscitano nei lettori immagini varie sì, secondo i ricordi e le fantasie di ciascuno, e secondo il vario operar delle associazioni, ma definite e chiare e riconoscibili a primo aspetto. Da questi termini concreti il poeta si leva, per virtù di suggestione, agli astratti, e il lettore con esso lui, e ad entrambi s'apre la visione dell'infinito spazio e del tempo infinito, e il pensiero d'entrambi si annega in quella immensità. Nulla si può immaginare più determinato e più chiaro, e come pensiero, e come espressione; e, ciò nondimeno, tale è la potenza di suggestione di quei pochi versi che il core se ne spaura a chi li legge. La poesia che il Longfellow intitolò Il vecchio oriuolo sulla scala, dove la descrizione è, quanto più si possa dire, icastica, suscita nell'animo un vero turbine d'immaginazioni e di affetti; e altrettanto fanno certe poesie del Leconte de Lisle, sebbene lo studio della precisione e della perspicuità vi sia a volte a dirittura soverchio. Certi oggetti e certi aspetti della natura, molto bene determinati e molto chiaramente veduti, un gruppo di stelle scintillanti nel cielo profondo, un accavallamento di nubi accese dai sanguigni bagliori del tramonto, una scena di monti vigorosamente delineata e come scolpita sull'orizzonte, possono rapir l'animo del contemplante in un mondo meraviglioso e infinito di sogni e di fantasie. E non a una nebulosa di cui l'occhio mal discerna i contorni, ma alle vaghe stelle dell'Orsa, e alle luci che sono ad esse compagne, volgeva Giacomo Leopardi il famoso saluto delle Ricordanze, rammentando le tante fole ch'esse gli avevan suscitate nell'animo[524].
Il terzo mezzo usato e preconizzato dai simbolisti consiste nel raccostare quanto più è possibile la poesia alla musica. Che la poesia debba, in parte, quella sua virtù di penetrare, scuotere, appassionare, affascinare gli animi agli elementi musicali che sempre, finchè non perda il proprio suo nome, contiene in maggior o minor copia, [325] è fatto di comune esperienza, avvertito in ogni tempo, e da cui si derivano le regole fondamentali della versificazione. Non pochi dei precetti e degli avvertimenti che si trovano nei trattatisti concernono appunto l'arte di rendere musicale il verso e la strofe; ma i simbolisti non si contentano più di quella tanta musica che insino ad ora era stata introdotta nella poesia, e vogliono fare della poesia quasi una seconda musica, come altri aveva voluto farne una seconda pittura, o una seconda scultura. Paolo Verlaine comincia quel suo breve e curioso componimento cui pose titolo Art poétique, col precetto seguente:
De la musique avant toute chose,
Et pour cela préfère l'impair,
Plus vague et plus soluble dans l'air,
Sans rien en lui qui pèse ou qui pose;
e raccomandata agli artisti di gusto fine quella cara incertezza da cui viene tanta attrattiva alla chanson grise, e raccomandato di preferir sempre le mezze tinte e le sfumature alle tinte risolute schiette, soggiunge:
De la musique encore et toujours!
Que ton vers soit la chose envolée
Qu'on sent qui fuit d'une âme en allée
Vers d'autres cieux à d'autres amours.
I discepoli andarono, come sempre avviene, assai più in là del maestro, e affermarono che la poesia è tutta nel suono, e cominciarono a considerar le parole, non più come segni d'idee, ma come gruppi di suoni, da dover essere scelti, ordinati, composti insieme, non già con un criterio logico qualsiasi, ma con un criterio essenzialmente musicale. E ne nacquero le meraviglie di cui abbiam veduto pur ora qualche debole saggio. E dopo che Arturo Rimbaud ebbe rivelato il gran segreto del colore delle vocali, saltò su Renato Ghil a rivelare, nel suo Traité du verbe, il proprio colore degli strumenti musicali, così di quelli a fiato, come di quelli a tasti e a corda; onde: «Constatant les souverainetés les Harpes sont blanches; et bleus sont les Violons mollis souvent d'une phosphorescence pour surmener les paroxysmes; sur la plénitude des ovations les Cuivres sont rouges; le Flûtes, jaunes, qui modulent l'ingénu s'étonnant de la lueur des lèvres;...» ecc., ecc. Se le vocali hanno ciascuna il suo colore, e se ha il suo colore ciascun istrumento musicale, voi potete, scegliendo e disponendo accortamente le parole, introdurre nel verso [326] tutta una orchestra, e fare di una poesia una sinfonia poetica da mettere accosto al poema sinfonico dei musicisti. Non ci sarebbe che una difficoltà sola. La scienza ha bensì riconosciuto come reale il fenomeno della così detta udizione colorata, ma ha pure riconosciuto ch'esso presenta tante varietà e dissomiglianze quanti sono gl'individui in cui si produce; che la vocale che all'uno dà l'impressione del bianco, dà, all'altro, la impressione del rosso, o del giallo, o del nero; e che per conseguenza non è possibile di fondare sopra di ciò nè un principio nè un espediente dell'arte[525].
Lasciando stare queste pazzie, si può ammettere che la maggior musicalità che i simbolisti s'industriano d'introdurre nella poesia risponda a un bisogno vagamente sentito da molti. Più di un critico accennò alla musica e alla fama del Wagner come a cause determinanti dell'indirizzo preso dai simbolisti; ma, senza voler negare l'efficacia che, anche per questo rispetto, quella musica e quella fama possono avere avuta, è forse da risalire a causa più generale e più remota, anzi a quello stesso complesso di cause a cui è dovuto il novissimo rigoglio dell'arte musicale, e il carattere stesso che la musica, più specialmente nell'opera del Wagner, è venuta prendendo. Se è vero ciò che si dice, e par confermato dall'esperienza, che la musica più fiorisca ne' tempi in cui abbondano sentimenti nuovi, non bene definiti ancora nè sceverati, i quali in essa appunto trovano la espressione loro più adeguata e felice, s'intende come, ricorrendo tempi sì fatti, la poesia possa sentirsi, più del consueto, attratta verso la musica, e chiedere a questa insoliti ajuti. Tale, forse, è il caso della poesia dei simbolisti; nè si può dire che alle tendenze e ai propositi di costoro contraddica, sebbene a primo aspetto possa parere, lo studio con cui essi per l'appunto hanno sovvertito e sovvertono in Francia tutta la metrica. Già il Verlaine aveva imprecato a quella rima che, magnificata dall'Hugo quale vera generatrice del verso, era divenuta pei parnassiani la chiave di volta della poesia tutta quanta:
[327]
Oh! qui dira les torts de la Rime?
Quel enfant sourd ou quel nègre fou
Nous a forgé ce bijou d'un sou
Qui sonne creux et faux sous la lime?
I simbolisti venuti dopo, non solo rinunziarono alla rime opulente et pittoresque, rinnovando e superando le licenze e le trascurataggini di Alfredo De Musset; ma alcuni di essi rimisero in onore l'assonanza, che, dopo il medio evo, era sparita dalla poesia francese; e altri bandirono la rima affatto, creando finalmente quel vers blanc, da noi detto sciolto, di cui la poesia francese era sempre stata creduta insofferente. Inoltre, continuando, per questa parte, l'opera dei romantici e dei parnassiani, essi finirono di sconnettere il vecchio verso architettato e tradizionale, e mandarono sossopra la strofe, accozzando persino versi di due con versi (dobbiamo proprio chiamarli così?) di diciasette sillabe, inventando i versi senza misura, mescolando col verso la prosa, e magari la prosa libera; e quando non trovarono altro da trasformare o da abolire, trasformarono o abolirono la interpunzione. Tutto ciò pare faccia contro alla intenzione stessa dei simbolisti, ma serve, nella opinione loro, a sostituire alle armonie ovvie e volgari armonie recondite e peregrine.
Siami lecito di far qui, di passata, una considerazione circa l'uso della rima. Le avversioni che essa inspira sono vecchie, come sono vecchi gli amori, e, se ne avessi agio, potrei sciorinare un elenco non breve di quanto in varii tempi fu scritto in sua lode o in suo biasimo. Nel secolo scorso i versiscioltai più arrabbiati la vollero morta, ma non riuscirono ad ammazzarla. Non accade rammentare la legittimità delle sue origini storiche e psichiche, e com'essa nasca spontanea e non mica per artifizio. Ridotta in termini pratici, la questione sonerebbe così: Giova o nuoce la rima alla poesia? A tale domanda non si può rispondere in modo generale ed assoluto. Ognuno vede che la rima conviene più a certi temi e meno a certi altri, e che non tutte le forme sono egualmente adatte a riceverla. Che l'uso della rima induca assai volte a falsare o diluire il concetto, e a dire più o meno di quanto s'aveva nell'animo, è vero pur troppo; ma è altrettanto vero che la rima, adoperata con delicatezza ed accorgimento, può dare ai concètti e alle immagini un vigore, una perspicuità, un rilievo, che nessun altro mezzo potrebbe dar loro in egual misura. La parola che cade in rima raddoppia, in certo modo, la propria virtù impressiva; e tocca al poeta sapersi giovare [328] di tal guadagno. Ci sarebbe anche parecchio da dire del beneficio che può arrecare la rima concatenando in più sensibil modo le proposizioni e i concetti, e formando della strofe un tutto indivisibile, le cui parti si richiamano a vicenda e armonicamente si compiono. E molto più ci sarebbe da dire dell'officio ch'essa esercita come elemento musicale, se a far ciò non si dovesse entrare in troppi e troppo sottili discorsi. Certo si è che infinite poesie, di questo e di altri tempi, perderebbero il meglio dell'esser loro, se privati della rima e rifatte in isciolti. Provatevi a togliere al Dies irae il formidabile rinterzo delle sue rime o cupe o squillanti, e mi direte poi che cosa rimane di quella sua misteriosa e sopraffattrice potenza. Così fatti esempii potrebbero essere moltiplicati a migliaia. Ma di un servizio, tutto pratico, che la rima può, in molti casi, rendere al poeta, parmi sia pure da far qualche conto. Ponendo, per una parte, ostacolo alla libera formulazione ed espression del pensiero, e stimolando, per un'altra, la memoria, l'intelletto e la fantasia a vincer l'ostacolo, la rima forza il poeta a soprassedere, e porre un freno alla troppo facile vena e lo forza ad approfondire il proprio soggetto, a voltare e rivoltare, per così dire, il proprio pensiero, guardandone ad una ad una tutte le facce. Che molte volte, durando in questa fatica, si riesca a trovati nuovi, altrettanto felici, quanto impensati, è noto a chiunque abbia composto versi con qualche amore e qualche studio. Non nego che quello stento del cercar la rima non possa alle volte sfreddar l'animo e stancare la inspirazione; ma, se si pensa che il lavoro del concepire, il quale più propriamente richiede l'opera della inspirazione, precede di solito, almeno per la parte più rilevante, il lavoro dell'esprimere; e che il concetto che primo si affaccia alla mente, e la espressione che prima vien sulle labbra non sono, di solito, i più acconci possibili; e che, finalmente, la poesia, come ogni altra arte, deve esser capital nemica della fretta; se, dico, si pensa a tutto ciò, si vede che questa remora della rima non può, anche per questo rispetto, fare tutto il male di cui l'accagionano. Per concludere, parmi si possa dire che, almeno alla poesia lirica, la rima, adoperata a dovere, riesce più di giovamento che di danno, e che il poeta vero, ricco d'inspirazione e d'immaginativa, e padrone di tutti gli espedienti dell'arte sua, saprà far sì che il danno non si avverta, e si avverta molto bene per contro il giovamento.
Fu tempo in cui le singole arti si considerarono come chiuse ciascuna entro confini precisi e inviolabili, con divieto a ciascuna di [329] uscirne e d'invadere in qualsiasi modo il dominio altrui. Di ciò si doleva nei primi anni del secolo il Giordani, scrivendo: «Il nostro secolo si è troppo avanzato in un vizio pessimo di separare le arti, che colla compagnia si ajutano e si avvalorano»; ma poi sopravvennero i romantici, i quali, mescolati i generi, cominciarono a mescolare le arti; e poi sopravvennero altri, che pretesero con la parola far l'opera del pennello e dello scalpello. Quella separazione, troppo rigorosa, noceva; questa confusione, troppo arbitraria, nuoce ancor più. I simbolisti potrebbero aver ragione se si contentassero di cercar nella musica qualche nuovo sussidio alla poesia: hanno torto quando della poesia pretendono di fare una seconda musica, che operi sull'anima allo stesso modo che fa la vera. Checchè si faccia e si dica, ogni singola arte ha un suo proprio modo di rappresentazione e di espressione, nel quale riesce altrettanto perfetta quanto riescono imperfette le altre. La poesia non può fare sugli animi nostri quella stessa impressione che fa la musica, perchè non è la musica e non può essere la musica.
Detto del simbolismo, non quanto se ne potrebbe dire, ma quanto può bastare al nostro bisogno, diciamo ora qualche cosa dei simbolisti.
Il Nordau li giudica tutti sommariamente una brigata di degenerati e d'imbecilli. Tale giudizio è veramente troppo sommario e troppo assoluto: ma anche il temperatissimo Guyau ebbe a riconoscere che i sintomi della degenerazione e della imbecillità abbondano nell'arte loro. Il Verlaine, che fu incontrastabilmente poeta vero (non grande), e che convertitosi di decadente in simbolista, fu il maggior astro del simbolismo, e tale rimane tuttora, il Verlaine fu pure, non dirò un degenerato, perchè tale appellativo è divenuto ormai di troppo larga e confusa significazione, e se ne fa da troppi un uso troppo poco scientifico, ma un mezzo pazzo e un mezzo delinquente, che menò vita di vagabondo, sempre che non l'accolse l'ospedale, o nol murò la prigione. Egli stesso comprese sè e i simili a sè, in una famiglia che denominò dei Saturniani, cioè dei nati sotto il maligno influsso [330] di Saturno; e degli ascritti a cotal famiglia, considerati sotto l'aspetto intellettuale e morale, ebbe a dire:
L'imagination inquiète et débile
Vient rendre nul en eux l'effet de la raison.
I simbolisti si danno volentieri, da sè, il nome di intellettuali, nome che parrebbe significare virtù grande e preminente di pensiero; ma poichè il pensiero in loro è, quanto più si possa dire, povero, debole, informe; ed essi sognano assai più che non pensino, e di questo si vantano; farebbero meglio a chiamarsi, anzichè intellettuali, sognativi. Nella turba grande sono, senza dubbio, alcuni burloni e parecchi ciurmadori; ma i più sono ingenui e di buona fede, e sono, di solito, nature molli, inconsistenti, passive, ludibrio di tutte le impressioni e di tutte le suggestioni; fanciulli, non uomini. Incapaci di vero sapere, perchè nelle loro menti annebbiate non si formano idee lucide e contornate, e molto meno concatenazioni logiche d'idee, detestano per istinto la scienza che gl'inquieta e gli analizza. Incapaci di volere, perchè tiranneggiati da tutti i loro sentimenti e da tutti i loro fantasmi, si ritraggono dalla vita, che è esercizio continuo di volontà, e riparan nel sogno, che è cessazione di volontà, e diventano pessimisti, non per aver giudicata, ma per aver temuta la vita. Nel simbolismo vanno a imbrancarsi tutti coloro che propriamente non sanno che altro fare di sè; malcontenti, impotenti, illusi e delusi d'ogni risma e colore. Ed è naturale che questo avvenga. Quando v'è in mezzo alla civiltà di un popolo, o di più popoli intellettualmente consociati, un'arte saldamente costituita, con caratteri ben definiti, con avviamento sicuro, gli animi perplessi e confusi difficilmente possono farcisi un posto; quando arte così fatta non v'è, quegli animi, respinti da ogni altro esercizio d'opere e di vita, sono attratti dall'arte, che offre loro un asilo, e accarezza, restaura, fomenta mille care illusioni.
Di illusioni i simbolisti ne hanno parecchie, ma due principali: credersi originalissimi e credersi grandissimi. A sentir loro, ciò ch'essi fanno sarebbe cosa affatto nuova nel mondo, non più veduta nè immaginata: ma se poi si guarda un po' da vicino questa lor novità, si vede che essa consiste, in massima parte, nelle copertine dei loro libricciuoli, alluminate e istoriate di simboli indecifrabili; nei titoli che vi stampan su: Moralités légendaires, Neurotica, Les palais nomades, Légendes d'âme et de sang, La voie sacrée, Poèmes stellaires, [331] Le pélerin passionné, L'adolescent confidentiel, ecc., ecc.; nel sovvertire senza nessuna necessità, la grammatica; nell'uso di certi aggettivi, coniati da loro e da loro stimati di sprofondatissima o intraducibile significazione; nello scrivere Avant-dire o Racontars préatables in luogo di Avant-propos o di Préface, e in altre invenzioncelle di questo taglio. Si gloriano di autonomia estetica (così la chiamano); ma è curioso vedere come, avendo pochissima conoscenza delle cose del mondo, e anche minori dei grandi travagli dello spirito, questi originalissimi secondino, senz'avvedersene, molte, o sciocche o morbose tendenze di quella stracca ed esausta classe delle società nostre, che essendosi fatta legge suprema della eleganza, ha in dote inalienabile la miseria intellettuale e la noja. Si stimano incommensurabilmente profondi; ma a formar giudizio della profondità loro e di ciò che in essa si cela, non si può far meglio che trascrivere, tradotte, le parole con cui Alessandro Pope, sin dal 1727, cominciava il quinto capitolo della sua Arte di sprofondarsi in poesia: «Ora io mi avventurerò a porre in carta quello che s'ha da tenere per prima massima e pietra angolare di quest'arte nostra; che chiunque voglia riuscirvi eccellente deve, con ogni studio, fuggire, detestare e rinnegare tutte le idee, usanze ed operazioni di quel pestilenziale nemico del genio, e distruggitore di belle figure, che da tutti è conosciuto sotto il nome di senso comune». Per lungo tempo Stephan Mallarmé fu tenuto da ammiratori e discepoli per un genio smisurato, incomprensibile ed ineffabile, la cui troppa profondità di pensiero e singolarità di sentimento, non potendo accomodarsi della parola, erano sola cagione che egli non avesse pubblicato mai nulla. Finalmente, cedendo alle premurose istanze dell'amicizia, egli pubblicò uno smilzo libercoletto di versi, cui si contentò di apporre il titolo modesto, e non novissimo, di Florilège. Ahimè! da quel giorno il grande maestro cessò d'essere inedito, e, al tempo stesso, d'essere il più grande dei poeti viventi e possibili.
Ma quel vanto di novissima originalità, che i simbolisti si arrogano, riesce addirittura ridicolo, quando siensi notate certe somiglianze ch'essi hanno assai spiccate con altri che furono prima di loro, e che essi, ignorantissimi come sono la più parte, non sanno di avere. Ostentano grande disprezzo pei romantici; ma è a credere che ne ostenterebbero meno, se sapessero quanto somigliano ai peggiori tra quelli. E qui, perchè non paja la mia una calunniosa asserzione, sarà bene di recare qualche altra prova, in aggiunta a [332] quelle che già si son potute rilevare in passando. Un poco innanzi al 1830, data famosa, come tutti sanno, nei fasti del romanticismo francese, Paolo Dubois scriveva nel Globe: «Aussi, remarquez que dans les écrivains qui se produisent aujourd'hui, rien n'est d'instinct ni d'inspiration; tout vient de calcul: l'originalité est un système comme l'imitation; si les uns arrangent et copient l'usé, les autres combinent l'extraordinaire; ils ont l'exagération de celui qui se tend pour atteindre à un effet qu'il rêve, mais dont il n'a jamais senti l'impression en lui-même, ni observé la puissance en autrui. On fait de la religion et des croyances une machine épique ou tragique, sans éprouver pour elles aucune sympathie: on violente la langue parce qu'on n'a qu'un besoin confus d'émotion, et pas une idée claire; et le style, chargé, obscur, prétentieux, dénonce les efforts d'une imagination qui se monte, mais qui ne voit et ne saisit aucune réalité». Qui si parla dei cattivi romantici; ma che cosa, in sostanza, ci si dovrebbe mutare, perchè l'intero discorso s'attagliasse ai simbolisti, alle tendenze e ai procedimenti loro? E quando, nello stesso giornale, leggiamo ciò che Prospero Duvergier scriveva contro il jargon mystique et vaporeux, e Carlo di Rémusat contro lo stile forzato, contorto, contrario a natura, se non badassimo ai nomi e alle date, che ragione avremmo di credere che quelle pagine furono scritte, non contro ai buoni simbolisti di ora, ma contro ai pessimi romantici di allora? Lasciamo i romantici da banda, e non facciamo ingiuria ai laghisti, cercando alcune somiglianze, che pur ci sono, fra l'arte loro e quella dei recentissimi poeti del simbolo: ma sanno questi signori poeti quali somiglianze essi hanno coi marinisti d'Italia, coi gongoristi di Spagna, cogli eufuisti d'Inghilterra, coi preziosi di Francia e con quelli di Germania? Apro un volume di versi del già citato Saint-Pol Roux, e ci trovo, fra molt'altre, queste metafore: péché-qui-tête, che vuol dire bambino nato d'illegittimi amori; cimitière qui a des ailes, che vuol dire uno stormo di corvi; psalmodier l'alexandrin de bronze, che vuol dire sonar le campane; sage-femme de la lumière, che vuol dire il gallo; quenouille vivante, che vuol dire non so bene se il montone o la pecora, ecc., ecc. Che cosa avrebbe potuto desiderar di meglio Baldassarre Gracian, quando si stillava il cervello sul famoso suo libro: Agudeza y Arte de ingenio, o quel buon uomo del Tesauro, quando andava speculando le antiche e le nuove lettere col Canocchiale aristotelico, o sia idea dell'arguta et ingeniosa elocutione che serve a tutta l'arte oratoria, lapidaria et simbolica? E veduta [333] la qualità di queste somiglianze, non appar ridicola all'ultimo segno l'ammirazione che i simbolisti ostentan pei Greci, e la opinione in cui sono, non so come, venuti, d'avere coi Greci appunto una dolcissima comunanza d'arte, di genio e d'intendimenti, rimanendo, ciò nondimeno, originalissimi?
La modestia non è virtù che i poeti abbiano mai molto osservata; ma la opinione, innocua del resto, ch'e' sogliono avere della propria quasi divinità, può essere comportata in pace e scusata, quando abbia il suffragio di opere grandi davvero. Di opere grandi, insino a questo giorno presente, i simbolisti non pare n'abbiano fatte; ma la opinione ch'essi hanno di sè è tale che non potrebb'essere maggiore se ne avessero fatte di grandissime. I simbolisti si atteggiano volentieri a profeti e a redentori, e credendo, in buona fede, di rivelare agli uomini nuova terra e nuovo cielo, si pongono da sè sugli altari, e un po' si meravigliano, un po' si sdegnano di certa noncuranza o tardità che gli uomini pongono in adorarli. Non so se il Maeterlick, paragonato da' suoi ammiratori allo Shakespeare, non s'impermalisca del paragone. Ancora si vantano di non formare una scuola; e credono che ciò provi la potenza e l'autonomia degl'ingegni loro; e non s'avveggono che scuola, nel vero senso della parola, non può formarsi dove non sieno esempii che comandino la imitazione o principii chiari e sicuri in cui possano consentire gli spiriti.
I simbolisti s'immaginano ancora d'essere sociali, e di lavorare alla rinascenza dell'anima, approfondendo i sentimenti, slargandoli, accomunandoli. Come possa durare in sì fatta immaginazione gente che fa della oscurità uno dei grandi principii dell'arte, è davvero impossibile intendere. Poesia oscura è, necessariamente, poesia insociale, sia perchè non può essere intesa da coloro che avrebbero a giovarsene, sia perchè colui che la fa si trae fuori dall'umano consorzio, e rinunzia a quella massima delle comunanze umane ch'è il comune linguaggio. Nè, da altra banda, s'intende come possa essere sociale una poesia che ignora, o disprezza, tutti i comuni bisogni e le comuni operazioni degli uomini, e schifando ogni maniera di contatti, e solo dilettandosi del peregrino, dello squisito, dell'ineffabile, si rifugia per maggior sicurezza nel sogno, dolente di non potersi sollevare sino all'estasi mistica. Fatto sta che i simbolisti sono individualisti nati, e di quel mostruoso e puerile individualismo che, per usare le parole non molto intelliggibili con cui ebbe a magnificarlo Ola Hansson, gonfia a sè stesso incommensurabilmente il proprio [334] mondo e la propria misura: l'individualismo del Nietzsche, il quale non può finire in altro che nella pazzia del Nietzsche.
Di questo individualismo un altro effetto si vede, fuori della poesia. La critica soggettiva, già caduta in tanto discredito, e da molti creduta morta, è richiamata in vita, è rimessa in onore. La considerazione puramente storica dei fatti umani, e il criterio così detto storico, incontrano oppositori molto più numerosi di prima, e comincia un moto contrario a quello che tutto quasi il sapere riduceva e subordinava alla storia. V'è del buono in questa reazione; ma non esito a dire che se v'ha qualche parte il bisogno novamente sentito dagli spiriti di esercitarsi intorno alle cose con quella spontaneità di cui la natura li ha pur dotati, una di gran lunga maggiore ve n'ha: il desiderio di scampare la dura fatica che importa lo studio diligente e severo dei fatti.
Se riandiamo nel pensiero le cose dette, il simbolismo ci parrà, credo, cosa di piccol pregio, quanto al presente, e di scarsa promessa quanto all'avvenire. Esso non mostra nessuna delle qualità che contraddistinguono in arte i rivolgimenti grandi, duraturi e veramente fecondi. Di quante dottrine letterarie apparvero al mondo nessuna forse fu più povera d'idee, più inconsistente, più incerta. I simbolisti si propongono alcuni fini lodevoli, ma non li raggiungono, o perchè non riescono a scorgerli chiaramente, o perchè errano circa ai mezzi che si dovrebbero adoperare a raggiungerli. Vorrebbero restaurato il regno della bellezza; ma si contentano di dire che la bellezza deve anteporsi alla verità, e non si curano di sapere che sia l'una e che l'altra, e se veramente contrastino insieme, e in qual modo e perchè. La loro estetica è la più elementare che possa immaginarsi, e il loro idealismo il più povero e scolorito di quanti mai se ne videro. Vorrebbero restituire alla poesia l'antico lustro e l'antico primato, e la poesia nelle loro mani si attenua e si estenua, si riduce dalle piene armonie di una orchestra al poco e nudo suono di un flauto, diventa una specie d'arte occulta, ieratica o sonnambulica, nota solo a pochi iniziati e praticata in secreto. Vorrebbero ripristinare il concetto stesso dell'arte offeso e menomato dal naturalismo che, consapevole o non, ebbe l'arte in avversione, e tentò porla in discredito, come quella che [335] vuol essere un'azione dell'uomo sopra le cose, e una traduzione della natura secondo lo spirito; ma non riescono se non ad instaurare un artifizio nuovo, peggiore, sembra, di quanti mai ne furono nel passato. Riescono a immaginare alcune (chiamiamole anche noi così) notazioni nuove di sentimenti reconditi o strani; a suscitare talvolta negli animi altrui una inquietudine d'impressioni indeterminate e fugaci; a dare, di rado, della natura un senso più acuto, più doloroso, più intimo che forse non siasi fatto sin qui; ma a fronte di questi scarsi ed incerti guadagni, quante e quanto grandi perdite!
E già forse il moto simbolistico accenna a stremarsi, e fermarsi. Fuori di Francia esso non si allargò molto; e se in Italia bastò a suscitare qualcuno di quei giornaletti che nascono e muojono tutti gli anni a dozzine; a variare un altro po' il gusto delle copertine molticolori; a spremere da magre fantasie alcuni titoli di laboriosa invenzione; a far nascere una piccola messe di versi giovanili che, in un paese dove così pochi versi si leggono, non sono letti a dirittura da nessuno[526]; e a far sì che qualche dabben credenzone accozzasse parole senza senso, o ritentasse l'alchimia del colore delle vocali; bastò a tanto, ma non a più, e non fece altro bene nè altro male[527]. E già in Francia stessa nuove tendenze sorgono contrarie all'arte dei simbolisti; ed Emanuele Signoret, nella rassegna La Plume, parla di una novissima e baldanzosa generazione di poeti, i quali mettono tutti in un fascio i miti, le tradizioni ed i simboli, e buttano ogni cosa nelle gemonie della repubblica letteraria.
Tutto considerato e tutto sommato, si può, credo, concludere che il simbolismo non durerà più di quanto sia durato il decadentismo, dal quale uscì, o il romanismo, con cui è imparentato. Manca ad esso la interna forza che sollevò, impose, diffuse il romanticismo prima, il realismo poi. Esso dileguerà lasciando appena un residuo, [336] simile a liquidi volatili, che svaporando lasciano appena in fondo al vaso, che li contenne, un po' di sostanza colorata; e il merito suo maggiore sarà stato, come giustamente nota il Brunetière, quello di essersi ribellato alla tirannide naturalistica[528]; e l'opera sua andrà a beneficio di qualche nuova tendenza più sensata, più vigorosa e meglio equilibrata.
Se i preraffaelliti e i simbolisti si compiacciono di chiamarsi esteti, non tutti coloro che si chiamano esteti sono preraffaelliti o simbolisti. Chi sono generalmente parlando, gli esteti, e che vogliono?
Sono uomini i quali s'immaginano che il supremo interesse del genere umano, e la ragione ultima della sua esistenza sopra la terra sia la contemplazione della bellezza, e si propongono di vivere, per quanto è possibile, in mezzo alle contingenze della realtà, una vita estetica, una vita, cioè, governata da soli principii estetici, e di cui il sentimento e il godimento estetico formino la principal contenenza e tutta la dignità. Costoro accettano la famosa triade del vero, del bello, del buono, a condizione che il vero ed il buono si rassegnino a lasciarsi incorporare nel bello, o a ricever legge da esso: se a questo non si rassegnano, li lasciano stare, e dei tre termini della triade ne tengono un solo, il bello.
Rien n'est beau que le vrai,
lasciò scritto il Boileau; ma Alfredo De Musset invertì la formola e disse:
Rien n'est vrai que le beau;
e il Verlaine soggiunge:
Le rare est le bon;
finchè, da ultimo, si udì in Parigi un dabben letterato esclamare, a proposito della prodezza di non so più qual dinamitardo: Qu'importe, [337] si le geste est beau? Maestro e duce di tutti costoro, ma con molto più ingegno e molta più coltura che non la massima parte di costoro, è il Ruskin, il quale tentò di fare del culto della bellezza una nuova religione, negando tutta la vita moderna, movendo guerra alle strade ferrate, al telegrafo, ad ogni specie di macchine[529], assoggettando ad essa religione la politica, l'economia, la questione sociale.
Il concetto di una vita estetica, affatto indipendente da tutto che non sia idea e sentimento estetico, non è punto nuovo, e fu genialmente svolto in Germania da Carlo Köstlin; e sarebbe concetto sino ad un certo segno giusto e buono, qualora potesse esplicarsi nella realtà in modo così consequente e pieno come si esplica nel pensiero. Perchè, chi avesse perfetta idea e perfetto senso del bello, potrebbe, sempre sino ad un certo segno, giudicar rettamente e del falso e del disonesto, che sono pur forme del brutto, sebbene sieno anche altro; e il simile si potrebbe dire, variati i termini, di chi avesse perfetta idea e perfetto senso, vuoi del buono, o vuoi del vero.
Ma il guajo si è che nessun uomo d'ossa e di polpe può mai avere, a paragone, sia di uno, sia di altro termine della triade, quella idea perfetta e quel senso perfetto: onde in pratica si vede che chi intende solamente il vero, o solamente il buono, o solamente il bello, non riesce mai uomo in tutto, nè attua la vita nella sua pienitudine; e perchè le cose umane vadan men male essere necessario che gli uomini, per quanto la natura il concede, gl'intendano tutti e tre. E ciò è provato dagli esempii della storia, dove si veggono, a non parlare se non di quanto spetta a bellezza, età invaghite d'arte e di eleganza dare spettacolo di corruzione spaventosa, com'è del nostro Rinascimento; e sommi artisti riuscire, fuori dell'arte loro, uomini riprovevolissimi, com'è di Benvenuto Cellini.
Fra i principii asseriti dagli esteti del tempo presente ce ne son due meritevoli di più particolare attenzione: il principio della bellezza pura, e il principio dell'arte autonoma; non nuovi, del resto, nè l'uno nè l'altro.
Per bellezza pura gli esteti intendono quella ch'è scevra e monda d'ogni elemento di utilità, sciolta da qualsiasi interesse umano: quella che il Winckelmann paragonava all'acqua schietta, priva affatto di sapore. Qui rinasce una grossa e vecchia questione di estetica: si dà [338] bellezza pura? in altri termini, possiam noi provare un sentimento il quale sia tutto estetico, non altro che estetico, e in cui non s'infiltri, per una o per altra via, in uno o in un altro modo, quel generalissimo sentimento che noi diciamo della propria conservazione, e che si specifica in tante e sì svariate forme d'inclinazioni e di avversioni, di desiderii e di paure? Non credo; e parmi che la nuova psicologia e la nuova estetica, che sempre più si viene appoggiando alla psicologia, tendano risolutamente a negarlo.
Sino dal 1868 Ermanno Lotze, facendo la storia e la critica dell'estetica tedesca, osservava che l'impressione estetica prodotta in noi dalle cose non dipende soltanto da ciò che esse sono od appajono, ma ancora da ciò di cui ci fanno ricordare, da ciò che suggeriscono e simboleggiano. Ricorrendo ad un esempio quanto più semplice, tanto più dimostrativo, quello cioè, di una figura geometrica, egli faceva vedere come non sia possibile recare sopra di essa un giudizio estetico, il quale non consideri altro che gli elementi e i caratteri puramente geometrici ond'è formata e distinta. La varia direzione e qualità delle linee di cui una tal figura è composta suscita l'idea e il sentimento di un moto, anzi di più moti, in vario modo cooperanti o contrastanti, e di altrettante forze che quei moti producono; e la natura di quei moti e di quelle forze, e il vario loro atteggiarsi, suscitano un senso vago o di piacere o di disagio. E se dalle forme semplici si sale alle composte e se dallo statico si sale al dinamico, si vede che ogni qualvolta le cose producono in noi una emozione estetica, in questa emozione ha larga parte il sentimento indistruttibile della vita, della conservazione e di un benessere o malessere nostro[530]. Ma si può andare più oltre e trovarvi, dopo il sentimento istintivo della vita, anche un concetto della vita, e un riflesso più o meno largo della coscienza morale. Una fiamma viva che guizzi libera e splendente nell'aria, desta di solito in noi un estetico compiacimento. E perchè? Forse solo per quello splendore che affascina l'occhio? Questo è senza dubbio un fattore di quel compiacimento; ma ce ne sono più altri, e tanti più, quanto più l'anima del riguardante è essa stessa più viva, e, mi si lasci dire così, più flammea. C'è quella nobiltà pronta e continua che ci par segno di libera e incoercibile vita; c'è quel tendere in alto ch'è come un simbolo [339] di elevatezza morale; c'è una immagine di purezza o di purgazione, congiunta a una immagine di potenza. Nella fiamma noi sentiamo in certo modo noi stessi, con molta parte degli affetti, dei ricordi e degl'ideali nostri. Che se, nel punto in cui la guardiamo, ci si affacciasse alla mente il ricordo di un incendio, e dei danni o dei terrori ond'esso ci fu cagione, in quel punto il compiacimento estetico o cesserebbe o scemerebbe di molto. In una parola, il bello e l'utile non possono essere separati in tutto[531].
Taluno potrebbe dire che ciò nasce da vizio non insanabile, per quanto antico, della nostra costituzione mentale, e che come più lo spirito umano diverrà agile e autonomo, più saprà sceverare da ogni altra emozione la emozione estetica, e che a questo appunto dovrebbe tendere in parte la educazione. Chi così dicesse avrebbe forse ragione, purchè intendesse riferirsi a un lontano, e non so quanto lontano, avvenire. Sembra, infatti, esser cosa conforme al processo della evoluzione che la emozione estetica sempre più si sceveri da ogni altra, e si specifichi e determini sempre meglio. Ma, da altra banda, è pur conforme al processo d'evoluzione che, moltiplicandosi e variandosi senza fine gli elementi e i moti della vita interiore, la psiche divenga sempre più suggestionabile, e più suggestivo l'oggetto delle sue contemplazioni, e tutto il moltiforme lavoro delle associazioni più complesso e sollecito. Come un suono ne suscita, in determinate condizioni, parecchi, che armonizzano variamente con esso; così la emozione prodotta in noi dalla sensazione o dalla idea ne suscita parecchie, le quali si compongono, o, a dirittura, si fondono insieme; e la emozione estetica può essere una tra tutte o non essere; ed essendo, può essere così la prima come l'ultima. Noi siam già tali che non è quasi possibile che un sentimento si desti e rimanga in noi solitario; e ciò, si può credere, sarà anche meno possibile per quelli che verran dopo noi. Alla impressione estetica noi ci offriamo con tutta intera l'anima nostra, fatta, com'è di percezioni, d'idee, d'immagini, di sentimenti, di volizioni; e però quella impressione riesce infinitamente varia, secondo la infinita varietà delle anime che si aprono a riceverla, anche quando muova da un oggetto unico, o da [340] più oggetti somigliantissimi fra di loro. E sempre più quella che diciamo emozione estetica appare come l'opera e il prodotto di una collaborazione complicata e molteplice; e sempre più appar manifesto che l'opera d'arte non è propriamente, ma diviene, si fa, o almeno si compie e si determina in quella che il senso e l'intelletto l'apprendono. Onde il sentimento del bello si scopre sempre più irriducibile a un tipo unico e fisso; e si comprende perchè esso appaja più uniforme in mezzo alle civiltà primitive, più moltiforme in mezzo alle tarde.
Ora qui pare che sorga una difficoltà irrisolubile: vuole dunque la legge di evoluzione che il sentimento estetico sempre più si sceveri dagli altri, e vuole, in pari tempo, che sempre più si associ con gli altri? A tale domanda, io quanto a me, non saprei rispondere se non così: nel corso della evoluzione psichica tutti i sentimenti tendono a sceverarsi e specializzarsi, e tutti vanno acquistando, se così posso esprimermi, risonanza più larga e più durevole, e maggior virtù di suggestione e di associazione. Da prima sono, per molta parte, confusi, poi sono collegati. Avviene per essi ciò che per gl'individui componenti una società, i quali, usciti dalla quasi promiscuità primitiva, quanto più s'individuano, tanto più si consociano, tanto più cioè, si rendono dipendenti l'uno dall'altro, e si richiaman l'un l'altro. Un occhio inferiormente organato vede la luce e la distingue dalle tenebre: un occhio superiormente organato separa e vede i colori; ma, in certe determinate condizioni, non può veder l'uno senza vedere immediatamente il suo complementare. Rechiamo un esempio. In origine il sentimento religioso, formato di paura, di desiderio, di speranza, e, in qualche misura, da prima assai scarsa, di amore, è un sentimento promiscuo, il quale si lega e si confonde in mille guise cogl'interessi e le passioni della vita pratica, sia individuale, sia sociale. Il credente invoca il suo dio in tutte le proprie occorrenze, in tutti gli atti proprii, così buoni come cattivi, e, non esaudito, lo vitupera, o gli ricusa l'offerta. La religione è religione di Stato[532]. A poco a poco il sentimento religioso si disviluppa, si determina, si chiarisce, e diventa il puro, o quasi puro sentimento del divino, il quale, essendo molto più semplice dell'antico, è, nondimeno, atto ad impegnare tutta intera l'anima del credente, e [341] a muoverne tutta la vita, così l'interna come la esterna. Il medesimo deve avvenire del sentimento estetico. Checchè sia di ciò, gli esteti hanno torto quando, ora come ora, parlano di bellezza pura, di pura emozione estetica, di puro giudizio estetico: nè la prima si conosce, nè la seconda si dà, nè il terzo è possibile. E Giovanni Herder era insomma nel vero quando diceva belle essere solamente quelle cose che esprimono in qualche modo l'idea della felicità.
Similmente hanno torto gli esteti quando dicono essere l'arte il supremo degl'interessi umani, e in conseguenza di ciò sostengono l'assoluta autonomia e inviolabilità dell'arte. L'arte potrebbe diventare, non il supremo, ma, insieme con la scienza pura, uno dei supremi interessi degli uomini solo quando tutti i molti altri bisogni, da cui la vita degli uomini strettamente dipende, fossero appagati; il che non pare che sia per avvenire così presto. Lunge da me il pensiero di menomare, come che sia, la dignità dell'arte, la quale, se non per altro, per ciò solo che abitua gli uomini a distrarre di tanto in tanto lo sguardo dalle cose immediatamente vicine e a guardare più lontano e più in alto; a interrompere, sia pur per brev'ora, l'esercizio e la preoccupazione del procacciare; e lasciar come deporre la parte dello spirito più torbida e vile ha virtù educativa a nessun'altra seconda. È bene che gli uomini onorino e coltivino l'arte; ma non è bene che se ne facciano un idolo, anzi, l'unico idolo. E coloro che dal gusto o dall'esercizio dell'arte considerandosi come divinizzati, disprezzano ogni altra maniera di umana operosità, e gli altri uomini non hanno nemmeno in conto di simili, nonchè di eguali, danno a conoscere, malamente dissimulata sotto le spoglie della eleganza, una singolare angustia di mente, e di non intendere nemmeno che ciò che essi disprezzano e rifiutano è condizion necessaria alla esistenza di ciò che adorano.
Dal concetto dell'assoluta eccellenza dell'arte nasce il concetto dell'assoluta indipendenza e sovranità sua, espresso nella famosa e tanto abusata formola: l'arte per l'arte. Ora, questa formola, intesa in un modo, è giusta; intesa in un altro è falsa. Se per essa vuol dirsi che l'arte dev'essere l'arte, e non la religione, non la morale, non la scienza, non la politica, si dice cosa vera, o che diventa vera a mano a mano; perchè in origine l'arte andò confusa con tutte quelle altre manifestazioni e operazioni dello spirito; poi, a poco a poco, per virtù d'evoluzione, si andò districando da esse, e accenna a volere, in avvenire, districarsene sempre più, per quanto l'unità [342] della psiche e della vita gliel potranno concedere. La funzione artistica diventa sempre più una propria e ben definita funzione, e lo Zola mostrò di non la intendere, e contraddisse a quella legge di evoluzione di cui si atteggiava a campione, quando dell'arte e della scienza pretese rifare una cosa sola. L'arte può, anzi deve giovarsi della scienza; non deve, nè può confondersi con essa. Ma se per quella formola si vuol dire che l'arte sta tutta da sè, e non ha nulla a spartire col resto delle cose, delle faccende e delle istituzioni umane, si dice cosa, a mio parere, falsissima. Facciano un po' vedere gli esteti puri dov'è nel mondo quell'opera d'arte la quale altro non sia se non opera d'arte, e dove quell'artista il quale siasi contentato di proporsi come unico fine dell'arte sua di suscitar negli animi un semplice sentimento estetico, e non siasi in pari tempo proposto, più o meno chiaramente, più o meno efficacemente, di produr negli animi anche qualche altro effetto. Se guardiamo ai grandi esempii, non ci parrà che essi dieno troppa ragione agli esteti. Che diremo di alcuni dei poeti maggiori? L'autore, o gli autori, dell'Iliade pare abbiano inteso, innanzi tutto, di glorificare il loro popolo. Virgilio volle, sì, nell'Eneide, far opera d'arte, ma volle, anche più, celebrar la sua Roma, e fare un'apoteosi di Augusto. E Dante? che avrebbe risposto Dante a chi gli avesse detto che la Commedia non è se non un'opera d'arte? E lo stesso Orazio, il molle e frivolo Orazio, non ha egli una filosofia, e non si studia d'inculcarla a chi l'ascolta? Le statue greche sono forse pure opere d'arte per noi, ma non furono nel tempo in cui offrivano agli occhi bramosi degli uomini le immagini sacre dei numi e degli eroi. E qui una osservazione non sarà fuor di proposito. Si può dire che le opere d'arte tanto più assumono carattere di pure opere d'arte quanto più sono antiche; quanto più, cioè, sono cancellate, o dimenticate, le attinenze loro coi bisogni e con le operazioni della vita pratica, ed è, per questo rispetto, attenuata la significazione loro.
La scienza può disinteressarsi da tutte l'altre cose umane assai più che l'arte non possa. Anzi, ripetendo a un di presso quanto fu detto del sentimento estetico, si può asserire che l'arte, determinandosi sempre più come propria e distinta funzione, s'ha, sempre più, da tenere in viva e stretta corrispondenza con tutte l'altre funzioni dell'organismo sociale, per esprimere, come fu augurato, tutto l'uomo e tutta la vita.
Nell'organismo animale vi sono organi specializzati, non organi [343] indipendenti; funzioni specializzate, non funzioni indipendenti: anzi vediamo che quanto più l'organismo si complica e si perfeziona, tanto più stretta diventa la mutua dipendenza e la sinergia delle singole parti e delle singole operazioni. Altrettanto, fin dove regge l'analogia, può dirsi dell'organismo sociale, dove non sono organi e funzioni indipendenti, ma organi e funzioni cooperanti, e dove, quella qualunque parte di esso che cessi dal cooperare al fine comune, ch'è la integrità e sanità dell'intero organismo, diviene principio e fomite di turbamento e di malattia. In tesi generale, le funzioni dell'organismo sociale debbono essere tutte coordinate fra loro, e tutte subordinate ad un fine unico, ch'è quello indicato testè: nè ciò fa che sieno meno legittime e meno opportune, nei singoli casi, quelle disarmonie e quelle indisciplinatezze apparenti, che, mentre sembrano contrastare al fine, in realtà ne agevolano e ne accelerano il conseguimento.
L'arte non è una specie di capriccio divino che si sbizzarrisca solitario in uno spazio vuoto. L'arte appartiene alla vita, e non può ignorare la vita, e deve obbedire alla vita. Quel privilegio che gli esteti le vogliono assicurare di poter fare tutto ciò che le piace, e come le piace, non si sa da chi, non si sa perchè le dovrebb'essere conferito; giacchè se essa è, indubbiamente, un'alta operazione dello spirito, non è però, nè può essere, la più alta. Essa deve coordinarsi con l'altre; e quando non si coordini, può, in vario modo, nuocere a tutte, ma nuoce, più che a tutte, a sè stessa. Gli esteti deridono o schifano la scienza, di cui non intendono nè le opere nè lo spirito; ma, nulladimeno, è forza che l'arte accetti quella rettificata immagine e quel nuovo concetto del mondo che la scienza le porge: e se nol fa, e se in qualche modo non ne tien conto, anche allora che si lascia rapire dietro al volo dei sogni e delle più libere fantasie, offende sè stessa e cade nella impotenza e nel ridicolo.
La formola l'arte per l'arte ha dunque una parte di vero e una parte di falso, e la sola formola interamente vera parmi sia questa: l'arte per l'uomo.
Un'ultima osservazione riguardo agli esteti. Il culto appassionato della bellezza ha il suo pregio, ma porta con sè il suo pericolo; un pericolo simile a quello che accompagna lo studio eccessivo della purità e della perfezione morale. A furia di temere il peccato, a furia di voler riuscire perfetto, l'uomo si riduce da ultimo a passar la vita in cima a una colonna, come gli stiliti di santa e gloriosa [344] memoria. Gli esteti sono gli stiliti del tempo nostro. Per meglio contemplar la bellezza, per fuggire la vista delle bruttezze infinite ond'è pieno il mondo, eglino si traggon fuori di ogni umano consorzio, e fan di sè colonna a sè stessi. Che cosa rimanga in costoro di umanità, d'intelletto e di virtù, mostra il delizioso Des Essaintes del romanzo dell'Huysmans.
E ora veniamo alla conclusione.
La reazione letteraria presente, parte di reazione più generale e più vasta, è, come tutte le azioni e reazioni della storia, utile per un verso, dannosa per un altro. Essa ha prodotto sin qui, sarebbe ingiusto il negarlo, più di un buon effetto. Son pochi anni, Emilio Zola scriveva: «J'ai montré que la force d'impulsion du siècle était le naturalisme. Aujourd'hui, cette force s'accentue de plus en plus, se précipite et tout doit lui obéir». «Il est bien évident, en effet, que l'évolution naturaliste va s'élargir de plus en plus, car elle est l'intelligence même du siècle»[533]. La reazione ha sfatate queste speranze di vittorioso e indefinito progresso[534]. Il naturalismo pretese di annichilare la persona dell'artista nella immensità della vita e della natura; la reazione asserì che in arte l'anima dell'artista deve contare, non pur qualche cosa, ma assai, e inclinò, passando il termine del giusto, a considerar l'opera d'arte solo come un segno rivelatore, o un simbolo, dello spirito che la crea. La reazione s'adoperò inoltre a restaurare il senso e il culto della bellezza e dell'arte, e a distogliere lo spirito da quella pura contemplazione storica delle cose umane che potrebbe, a lungo andare, stupefarne la spontaneità e la energia.
Ma la reazione ha prodotto pure, e l'abbiam veduto, più di un [345] effetto cattivo. Essa ha segregato l'arte dalla realtà e dalla vita, le ha scemato moto e vigore, l'ha rituffata in un nuovo bizantinismo, e l'ha distolta dal più vero suo fine, ch'è di far vivere all'uomo, in ispirito, quella più alta, piena ed intensa vita che la realtà da sè sola non può consentirgli. Disse lo Shelley che officio della poesia è ricrear l'universo. Ancora la reazione volle negar la ragione e la scienza; e se l'arte non è un puro esercizio di ragione, come fu creduto un tempo; e se non è quel medesimo che la scienza, come testè si volle far credere, è tuttavia tale che senza l'appoggio e dell'una e dell'altra non si può reggere.
Accennati questi errori suoi e ricordato quanto scarsa ed incerta sia la dottrina con cui s'industriò di fare che paressero verità, si vede subito dove stia la debolezza della reazione presente, e quali probabilità essa si abbia di duraturo successo. Due forze veramente vive e poderose operano ora nel mondo, lo agitano e lo trasformano: la scienza e l'idea sociale. La scienza di cui ingenui avversarii e pii detrattori annunziano il discredito, la bancarotta, la fine, comincia appena, si può dire, l'opera sua moltiforme, e risponde alle accuse e agli scherni disciplinando, beneficando, creando. La idea sociale trascina irresistibilmente a un nuovo assetto le società civili, a un nuovo uso delle umane energie, a una vita nuova. Non faccio pronostici nè congetture circa l'avvenire di quella poesia che s'inspira dell'idea sociale, la riscalda col sentimento, la propugna e la diffonde. Essa è oramai copiosa; ma, bisogna pur confessarlo, di scarso valore artistico[535]. Può darsi ch'essa duri quanto il bisogno che l'ha fatta nascere, e cessi col cessare del turbamento che esprime. Comunque sia, se un'arte ha da vivere nel futuro, non quella certo vivrà che contrasta alle forze massime del mondo moderno, ma quella che saprà armonizzarsi con esse; non quella che si apparta nel sogno, ma quella che si mescolerà con la vita; non quella che rimpiange il passato, ma quella che anticipa l'avvenire. La reazion presente, malgrado suo, non avrà fatto se non ispianare a quell'arte nuova la via.
[349]
I pontefici del realismo sentenziarono: Fuori del nostro canone e della nostra Chiesa non v'è salute per l'arte: la letteratura dell'avvenire, se vorrà vivere, dovrà farsi realista. Il domma, bandito con impareggiabile sicuranza, con provocante scalpore, e con quell'enfasi di linguaggio che sembra volere caparrar la vittoria, s'impose a molti, i quali s'immaginarono essere finalmente entrati in possessione del verbo sacro e indefettibile; ma è, come gli altri dommi tutti, soggetto all'esame e aperto alla critica.
Il realismo di questi ultimi tempi arrecò, senza dubbio, più di un beneficio all'arte in genere e alla letteratura in ispecie, e ha gran torto chi lo nega: l'error suo, spiacente e non perdonabile, fu di volersi accampare, in modo troppo risoluto e troppo impetuoso, come dottrina, armandosi di una intolleranza eccessiva ed astiosa, quale forse non ostentò in egual grado nessuna dottrina passata; vantando una saldezza di fondamenti scientifici, affettando un rigor logico di argomentazione, i quali son cosa assai più di apparenza che di sostanza. Già da molti furono denunciate, insieme con gli eccessi suoi, l'intime e distruttive sue contraddizioni, la inconsistenza di quella che si può chiamare la sua filosofia: prendendo occasione [350] da alcune delle affermazioni più recise e più categoriche de' suoi campioni, io vorrei discutere brevemente, e senza troppo arruffio di ragioni, in queste pagine, i seguenti quesiti: Qual'è la relazione che la letteratura può avere con la scienza? Che sicurezza, o probabilità, c'è che venga a mancare la letteratura detta d'immaginazione? Qual sorte è, presumibilmente, serbata all'idealismo in arte? Quale si può credere che abbia ad essere, in genere, la letteratura dell'avvenire?
Tali quesiti io intendo discutere, non con criterii derivati, come troppo comunemente suol farsi, dal preconcetto, o dal sentimento: ma con criterii di quella luminosa e trionfal dottrina della evoluzione, ch'è la sintesi scientifica e filosofica più compiuta e più alta a cui abbia poggiato insino ad ora lo spirito umano. Se non altro, gli avversarii non potranno rimproverarmi di andare a raccattar gli argomenti in dottrine troppo viete, o non larghe abbastanza. Discorrendo, io mi volgerò, quando all'arte in generale, quando alla letteratura in particolare, secondo dal bisogno o dall'opportunità mi sarà consigliato, e com'anche richiede quell'indissolubile nodo che stringe tutte insieme le arti; ma s'abbia presente che la letteratura, e le varie sue forme, saranno sempre, espresso o sottinteso, il tema mio principale.
E comincio con una negazione.
Io nego che il realismo in arte sia, essenzialmente, come troppo volentieri si dànno a credere i suoi seguaci, un effetto necessario del crescere della scienza e del diffondersi del suo spirito. Se così fosse, il realismo non potrebbe mostrarsi, come nel fatto si mostra, in tempi diversissimi, in mezzo a diversissime condizioni di civiltà, e contraddistinto sempre, su per giù, dagli stessi caratteri. Ebbe letteratura realistica l'antichità; l'ebbe, e di tempra spesso assai cruda, il medio evo; e poichè l'apparir suo nell'antichità e nel medio evo non può essere ascritto a un soverchio di scienza, così l'affermazione che nel tempo presente essa debba l'esser suo per lo appunto al soverchiar della scienza, è una affermazione illegittima, non provata e non probabile. Io non dico già che la scienza non abbia potuto cooperare, per qualche parte, a far nascere il realismo contemporaneo, [351] e a conferirgli alcuno dei caratteri peculiari che più lo distinguono da quello di altri tempi; ma dico che altre ragioni del suo nascere e del suo fiorire ci debbono essere, e che queste ragioni, parecchie delle quali si lasciano scorgere agevolmente, sono, senza dubbio alcuno, di ordine sociale e politico. Nove volte su dieci, a dir poco, il realismo contemporaneo è l'espressione, non già di una particolare coscienza scientifica, ma bensì, di una comunissima forma di brutalità, di cui, chi volesse, potrebbe, senza troppa fatica, rintracciare, fuor di ogni scienza, le colleganze e le origini: e per un letterato realista che abbia qualche coltura scientifica, ce ne son nove almeno che le scienze non conoscono neppure di nome. Troppe volte poi, come i fatti dimostrano, il realismo non è, in pratica, se non la incapacità di astrarre, di generalizzare e persin di pensare, la quale incapacità è, per lo appunto, la negazione della scienza. Quell'arte che in letteratura procede tutta per via di notamenti particolari, di descrizioni minuziose, allineando in serie discontinue gli elementi derivati, senza elaborazione alcuna, dalla realtà immediata, cercando in tutto e sempre l'individuato ed il concreto, aborrendo da ogni generalità; quell'arte che, con la uniforme sovrabbondanza della sua produzione, ha stanca oramai ogni pazienza più valida e sazio ogni più robusto appetito, si muove a rovescio della scienza, la quale, come appena abbia superati i primissimi gradi della evoluzione sua, si costituisce astraendo, e generalizzando si compie.
Ciò premesso, a modo di considerazione generale, io dico, che la pretensione dei realisti, e più specialmente dei capiscuola, di legare insieme con vincoli sempre più stretti, e sempre più intimi, la letteratura e la scienza, e far di quella una coadiutrice di questa, è una pretensione dannosa ed assurda, la quale contraddice ad ogni giusta legge di evoluzione, sia dello spirito, sia della storia. Dei due uffici, sin qui distinti, della letteratura e della scienza, i realisti vorrebbero fare un officio solo, facendo in pari tempo una sola persona del letterato e dello scienziato. Per raggiungere più facilmente lo scopo, essi, con un tratto di penna, aboliscono la poesia ed i poeti. Nous autres hommes de science, dice, senza ridere, Emilio Zola, parlando di sè, e de' suoi colleghi di dottrina; e si sa che per lui e per loro, la letteratura è un'indagine, une enquête, la quale vuol esser fatta con lo stesso metodo delle indagini scientifiche, osservando, comparando, sperimentando, e deve proporsi il medesimo scopo che quelle si propongono, cioè l'accertamento del vero. Non [352] ricorderò a questo proposito l'oramai troppo famoso documento umano: la stupefacente denominazione di romanzo sperimentale, data dai realisti al romanzo di lor fattura, denominazione che fa sorridere chiunque abbia un giusto concetto di ciò che è in iscienza lo sperimento, basta, di per sè, a mostrare la legittimità, e a dar la misura di quella pretensione; mentre da altra banda, moltissima parte di quella lor letteratura, la quale per la materia che adopera, per i procedimenti che usa, per le impressioni che lascia, non si differenzia gran fatto, in sostanza, dalla peggior produzione del romanticismo pervertito e sfigurato, mostra la inanità di quella pretensione stessa, e prova, anco una volta, quanto per mille esempii è provato, cioè, che con le formole non si fanno le letterature, e non si fa nessun'arte.
Ma se la letteratura, tutta e sempre, ha da far quel medesimo che fa la scienza, a che prò una letteratura? Se la scienza è atta per sè stessa, a quel compito di venir costruendo il vero, che bisogno può essa avere dell'ajuto del vostro romanzo? E se non è, come vi pensate di poterla ajutare voi, giovandovi de' suoi stessi principii e de' proprii suoi metodi? Perchè quell'accomunamento di propositi e di lavoro, perchè quella promiscuità? Non contraddicono essi, nel modo più risentito, a quella legge della specificazione delle funzioni e della divisione del lavoro, che è una delle leggi massime, e, in pari tempo, uno dei massimi fattori della evoluzione? E contraddicendo a tal legge, vassi egli innanzi davvero, come pare che i realisti credano, o non piuttosto si torna addietro? In origine scienza, poesia, religione, politica, sono intrecciate insieme, fuse insieme nello spirito e nella vita. A poco a poco, in virtù di un lento e faticoso lavoro di distribuzione, che associa gli elementi omogenei e dissocia gli eterogenei, esse si distinguono e si sceverano, e acquistano, per modo di dire, la nozione, così dei termini entro cui s'hanno a contenere, come delle vie per cui si possono muovere, e delle forme concedute al loro crescere. Gli uffici si separano, e dal patriarca primitivo, che tutti in sè gli accoglieva, nascono a mano a mano, per successivi atti di generazione, il sacerdote, il poeta, il politico, lo scienziato. A lungo andare la scienza si specifica, e la letteratura si specifica: quella rinunzia agli argomenti poetici e alle carezze del sentimento; questa rinunzia al poema didascalico. Se tale è, come indubbiamente è, il moto normale delle cose, con qual mai ragione si arroga il realismo di contrariarlo, e perchè dovrà la letteratura imbozzolarsi, [353] se così posso esprimermi, nella scienza, mentre la scienza vuole, e più sempre vorrà, serbare intero il suo essere e disimpacciati i suoi moti? Immagino bene la risposta: la letteratura, mi si dirà, deve congiungersi con la scienza, e magari perdersi in lei, perchè la scienza è il vero, e tutto deve ridursi al vero. Ma perchè deve tutto ridursi al vero? Sopra il vero, ch'è una semplice relazione tra l'oggetto e il soggetto, c'è appunto l'oggetto, e c'è il soggetto, c'è la vita, c'è l'essere, ch'è quanto dire, in questo caso, l'assoluto. Del sentimento, ch'è sì gran parte di noi, non possiamo già spogliarci come di un abito logoro. La conoscenza del vero è uno dei bisogni dell'umana natura; ma non è l'unico, ma non è nemmeno il massimo: il massimo è il bisogno della felicità. Anzi può dirsi che sia questo il suo solo bisogno, perchè comprende dentro di sè tutti gli altri. Chi dunque afferma che la letteratura dev'essere ridotta alla scienza, cioè al vero, disconosce la umana natura qual'è, e quale tuttavia sarà, per quanto si muti, in un avvenire ancor molto lontano da noi; e pretende di condurre la letteratura al vero, al solo vero, in virtù di un principio falso. Il verismo, tanto orgoglioso del proprio nome, ha per radice un sofisma.
La dottrina dei realisti cozza anche in un altro modo con le leggi della evoluzione. Essa insegna, com'è noto, che lo scrittore deve dissimularsi interamente dietro le cose che narra o descrive, non attraversarsi a queste co' suoi pensieri e co' suoi sentimenti, farsi quanto più può oggettivo. L'officio e il dover suo si è di ricevere in sè le immagini delle cose e di riprodurle con quanta maggior fedeltà gli è possibile; la massima ambizione sua dev'essere di farsi la voce o l'interprete loro: più che scrittore, egli avrebbe a chiamarsi trascrittore. Un'opera letteraria tanto più sarà perfetta quanto più faticherà il lettore a scoprire dentro di essa, o dietro di essa, uno spirito che pensa, soffre, gioisce, si agita. Prima cura dunque, e urgentissimo studio di chi si accinge a scrivere, sarà di soffocare e cancellare la propria natura, e, se così posso esprimermi, di disindividuarsi. Noto è il caso di Gustavo Flaubert, che per obbedire a questo preconcetto fondamentale ebbe, ed egli stesso confessa, a disfare sè stesso, e a piegare, quasi tutto il tempo di sua vita, l'ingegno e l'animo a canoni e a forme di arte per i quali non era nato.
Ora, questo famoso precetto, il quale impone, come condizione necessaria dell'arte, lo smarrimento dello spirito nelle cose, è in piena contraddizione col fatto della graduale e continuata segregazione del [354] soggetto e dell'oggetto, fatto riconosciuto, analizzato, spiegato dalla dottrina della evoluzione. Il soggetto in origine, cioè lo spirito, non ha sicura cognizione di sè stesso, non ben conosce i proprii confini, non si scevera se non con fatica e parzialmente dell'oggetto, cioè dal mondo esteriore. Nella coscienza dell'uomo primitivo la contrapposizione de' due termini, soggetto ed oggetto, è incerta e intermittente, e però egli trascorre del continuo con l'animo nelle cose, e immagina il mondo simile a sè. Non altra è la ragione dell'antropomorfismo, nelle sue molteplici applicazioni. Ma a poco a poco, in virtù di un processo che qui non accade di descrivere, il soggetto si scevera dall'oggetto, la contrapposizione dei due termini si fa più costante e più certa. Nasce allora la scienza, la quale senza quello sceveramento non è possibile; e nata cresce, mentre il processo continua. Perchè dovrebbe ora l'oggetto soverchiare il soggetto, come già questo soverchiò quello? Che ragione ha la letteratura di voler conoscere uno dei termini e ignorare l'altro? Non basta che alla cognizione dell'oggetto sia consacrata tutta una famiglia di scienze, le quali, per ciò appunto, sono essenzialmente oggettive. E se il soggetto non trova modo di esplicarsi e di esprimersi nella letteratura, e, generalmente parlando, nelle arti, dove s'avrà da esplicare e da esprimere? O non ha esso il diritto di esplicarsi e di esprimersi, ed è vostro proposito, negandoglielo, di fargli perdere quella nozion di sè che con sì lunga fatica, attraverso i secoli, è venuto acquistando? Il proposito è irragionevole e vano; ma sappiate a ogni modo che s'ei potesse perderla, perderebbe in un punto medesimo anche la nozion dell'oggetto, di quell'oggetto per la cui primazia combattete. Assai più ragionevole dunque, assai più conforme a quelle leggi della evoluzione che voi così spesso invocate, sarebbe lasciare alla scienza lo studio puramente oggettivo delle cose; alla letteratura, e all'arte in genere, la manifestazione dello spirito e la libera riproduzione delle cose nello spirito; inteso il tutto con la debita discrezione, senza innaturale rigor di termini, senza angustia di preconcetti.
Che la letteratura d'immaginazione, propriamente detta, abbia a mancare in un avvenire più o meno prossimo; che abbia a mancare in più particolar modo, e più prontamente, la poesia, come quella [355] che con predilezione ordinaria accoglie dentro di sè il pensiero fantastico e i sentimenti idealizzati; e che di contro ad esse abbia a vigoreggiar sempre più, ed a crescere, la letteratura sorta dalla osservazione e dall'esperienza, la letteratura del realismo e del naturalismo, è cosa comunemente affermata dai campioni di questa, e affermata in virtù del presupposto che la fantasia si vada a poco a poco svigorendo negli uomini, e che di tanto si ristringa il suo dominio di quanto quello della ragione si allarga. Ora, tale presupposto, su cui tutta l'argomentazione si fonda, non solo non è vero, ma è, adirittura, contrario al vero.
In virtù della evoluzione, tutte le facoltà dello spirito (uso questo nome di facoltà, non perchè proprio, ma perchè inteso generalmente) si afforzano e si affinano, quella cui diamo il nome di fantasia al par delle altre. Lo Spencer ne diede le prove e le ragioni ne' suoi Principii di psicologia[537]. L'uomo inferiore ha, checchè si creda in contrario, pochissima fantasia, e tanta meno ne ha, quanto più basso è il gradino che egli occupa nella scala degli esseri razionali, quanto più la sua coscienza s'accosta per indole e per contenuto alla dormente coscienza dei bruti.
La vivezza, la copia e l'agilità della fantasia crescono in ragion diretta del moltiplicarsi dei concetti e delle immagini nello spirito, della facilità con cui essi s'associano e si dissociano, della potenza di astrarre, di rappresentare e di costruire, ch'è quanto dire in ragione col crescere dello spirito stesso. Tra ragioni e fantasia non c'è quella contrarietà che molti si credono; nè vi può essere, s'è vero, com'è innegabile, che tutt'e due crescono in virtù dello stesso processo armonico di evoluzione.
La scienza senza l'aiuto della fantasia non farebbe un passo. Ogni più semplice esperimento di fisica o di chimica suppone, in chi esperimenta, concetti alle volte assai numerosi di condizioni, di relazioni, di fatti, che non sono già percepiti, o indotti, o dedotti, ma solamente immaginati; ed ogni ipotesi è uno sforzo di fantasia; e certe ipotesi, come quella del Laplace intorno alla formazione del sistema solare, o quella del Darwin intorno alla variazion delle specie, se sono miracoli di analisi e di sintesi scientifica, sono pure miracoli di fantasia, in quanto richiedono una forza rappresentativa, una virtuosità [356] nel collegare i concetti più disparati, quali molti poeti di sicuro non conobbero in egual grado. Lo scienziato, che, mentre osserva o sperimenta, immagina un certo risultamento delle osservazioni e degli esperimenti suoi, e, nel tempo stesso, immagina uno o più altri risultamenti possibili, è, nel più giusto significato della parola, un uomo di altissima fantasia.
So che i sostenitori dell'opposta opinione traggono, o credono di poter trarre, dalle credenze e dalle letterature del tempo andato, confrontate con le credenze e con le letterature del tempo presente, un fortissimo argomento in favor loro; ma la forza di tale argomento è assai più apparente che reale. Certo, nei miti dell'antichità, nelle epopee primitive, nelle leggende medievali, c'è una copia di meraviglioso che andò poi a poco a poco mancando; ma il meraviglioso, per sè stesso, non è prova di fantasia, e quel meraviglioso che nasce essenzialmente da errore, ben lungi dal provar fantasia, prova una certa inerzia dello spirito, ch'è quanto dire mancanza di fantasia. Anche ciò fu dallo Spencer con giusta ragione asserito. Il meraviglioso mitologico antico, e il meraviglioso ascetico medievale, assai più che da una virtù fantastica esuberante, traggon l'origine da una virtù fantastica insufficiente, o per parlare in forma più concreta, da una serie d'errori, nati essi stessi da una condizion passiva dello spirito. Parrà strano a udire, ma la fantasia è piuttosto, e sempre più diviene, nemica anzichè fattrice di errori, perchè agevolando essa il moto delle idee, e mutando e rimutando i congiungimenti e le relazioni loro, impedisce, o non lascia che durino a lungo, quelle tenaci associazioni illegittime che per l'appunto sono gli errori. Il che non vuol già dire, come or ora vedremo, ch'essa sia nemica della finzione.
Il venir meno, dunque, del meraviglioso non implica punto il venir meno della fantasia; anzi, in quanto il meraviglioso nasca da errore, il venir meno di esso importa il crescere della fantasia. I poeti e i romanzieri dei tempi nostri non hanno punto meno fantasia dei poeti dell'antichità, dei novellatori dell'Oriente, degli autori di leggende del medio evo; anzi ne hanno assai più. Le novelle delle Mille e una notte passano per miracoli di potenza fantastica, e pure la fantasia che vi lavora dentro è ben poca cosa in paragon di quella che opera nei romanzi di Gualtiero Scott, del Manzoni, di Alessandro Dumas padre, di Giorgio Sand e di cent'altri, dove si vede un popolo di personaggi immaginati, ciascuno col suo carattere e col suo [357] officio, compiere una quantità di azioni similmente immaginate, e il tutto muoversi con certo ordine, con certa conseguenza, e piegare a certi fini contemplati ancor essi in immaginazione, e comporsi talvolta, per via di relazioni immaginarie, con personaggi, con fatti, con azioni reali, e tutto ciò senza che il romanziere ricorra, per isciogliere il nodo dell'azione, all'ajuto del meraviglioso e del soprannaturale. La forza di fantasia, reminiscitiva e costruttiva, che si richiede a così fatto lavoro è, a dirittura, portentosa, e ve n'ha più in un solo di quei romanzi che non in tutta, quanta è, la letteratura novelliera dell'Oriente.
Ma la fantasia più vigorosa, più pronta e più fine dell'uomo che ha raggiunto gli alti gradi della evoluzione mentale e della civiltà, se tende ad escludere quel meraviglioso ch'è figlio di errore, non esclude già l'altro meraviglioso, che può nascere, e nasce, da una consapevole e voluta associazione d'idee e d'immagini, non corrispondente a nessuna esistenza reale, a nessuna reale relazione di cose. L'uomo allora non soggiace al meraviglioso, ma liberamente il produce, e il godimento che gliene viene tanto è più vivo, quanto più vivo è il senso ch'egli ha della libertà propria in produrlo, e quanto più il meraviglioso così prodotto, smettendo ogni rigidità, alienandosi da ogni imperiosa e ferma credenza, si fa trasmutabile e lieve. Il godimento di lui è doppio, nascendo, in parte, da quei fantasmi creati e contemplati nella libertà dello spirito; in parte, dalla coscienza di quella plastica sua facoltà, agile ed operosa, mercè la quale, egli, con gli elementi stessi che il mondo reale gli porge, crea mondi non reali, ma vivi della propria sua vita, ma obbedienti al voler suo.
Ora, io dico, e non credo si possa impugnare, che il meraviglioso allora solo ottiene pienezza di valore estetico quando siasi disinteressato da ogni credenza oppressiva, quando abbia spezzato ogni vincolo suo con l'errore. Per citare un esempio, le spaventose immaginazioni onde son piene certe leggende ascetiche del medio evo destano negli animi, ora, un'emozione estetica che, certo, non potevano destare negli animi allora, occupati com'erano, e stretti da terrori angosciosi. L'episodio di Francesca da Rimini, nell'Inferno di Dante, è certo assai più gustato da noi che non dai contemporanei del poeta; e ciò non solo perchè s'è affinato in noi il sentimento, ma ancora perchè gli animi nostri, sgombrati dal terrore, e da parecchie sollecitudini di carattere affatto egoistico, sono meglio in grado di contemplarne serenamente la sovrana bellezza.
[358]
Se, dunque, la fantasia con l'evoluzione cresce naturalmente e si afforza, come crescono e si afforzano le altre facoltà dello spirito, e se l'incremento di essa non impedisce, ma favorisce l'incremento delle altre, che ragione c'è perchè gli uomini l'abbiano in avvenire a comprimere, e quale speranza che vogliono farlo? E lasciando stare gli altri benefizii accennati di sopra, perchè dovrebbero gli uomini privarsi dei piaceri che loro ne vengono? In nome di qual religione, o scienza, o morale, o politica? Dire che un abito scientifico della mente, e la consueta conversazione della mente col vero, tendono di lor natura, a escludere quei piaceri, è assurdo, come sarebbe assurdo il dire ch'essi tendono a escludere i piaceri che ne possono dare i sensi, gli esercizii del corpo. L'antagonismo del reale e dell'immaginario cessa come appena l'immaginario sia conosciuto per ciò ch'esso è veramente. Da altra banda il vero non è, nè certo sarà mai, così lieto, che gli uomini non debbano desiderare di ripararsi talvolta, almeno con la fantasia, fuori del vero; e se l'ultimo lembo di libertà che loro rimanga, e che sfugga, o paja sfuggire, alla tirannia delle universe leggi governanti il mondo, essi l'hanno appunto nella fantasia, parmi assai dubbio, e molto improbabile, che se ne vogliano, per amor del realismo, spogliare.
Ma se questa facoltà non ha da morire; se anzi, s'ha da invigorire vie più, in che dovrà essa manifestarsi se non si manifesterà nell'arte? E se ha da manifestarsi nell'arte, chi potrà segnarle i termini e il modo, e dirle: in quest'arte vi si concede; vi si nega in quest'altra? Non v'è realista così intollerante e caparbio che non ammetta il libero esercizio della fantasia in certe arti. Nell'ornato essa fa il piacer suo, e più ancora fa il piacer suo nella musica: ma in altre arti non si vuol ch'ella entri. La pittura e la scultura debbono essere, dicono, la riproduzione esatta, la copia del vero. La letteratura, morta la poesia, dev'essere il romanzo sperimentale. Ma se io ho un fantasma nella mente, dovrò dunque tenermelo dentro, senza che mi sia lecito di farlo conoscere altrui, traducendolo nei colori, nel marmo, nella parola? E se la fantasia può esercitarsi in un rabesco, in una melodia, perchè non potrà esercitarsi in un quadro, in una statua, in un libro? Che intolleranza, che angustia di concetti è cotesta? E parlando della letteratura in più particolar modo, perchè dovrà vietarsi alla fantasia l'uso di quella parola che pure è l'organo di ogni altra facoltà nostra? I realisti affermano più assai di quanto possano ragionevolmente sostenere e provare; e se all'asserzione [359] loro che la letteratura, confondendosi colla scienza, abbia, sempre e in tutto, a cercare e significare il vero, si opponesse l'asserzione che la letteratura, sceverandosi dalla scienza, abbia, soprattutto, a raccogliere e significare i sentimenti e le immaginazioni che ci fioriscon nell'anima, questa seconda asserzione non sarebbe certo men legittima della prima, e assai meglio rispetterebbe l'umana natura.
E ora, se la fantasia non morrà, morrà l'ideale, e cesserà l'idealismo nell'arte, e più specialmente nella letteratura? I realisti affermano che sì, ma senza poter aver in loro suffragio nè la scienza, nè la storia, nè un'ipotesi probabile.
Prima di tutto l'idealizzare è inseparabile dalla natura intellettuale, perchè noi pensiamo, non già le cose, ma le idee. Io posso immaginarmi e sforzarmi quanto voglio; ma, mentre penso di una cosa, e più poi quando esprimo quel mio pensiero con parole, io necessariamente idealizzo, io formo un concetto, o una immagine, i quali sono o poco o molto disformi dall'oggetto che me ne dà argomento. Non v'è realista, per quanto convinto delle sue dottrine egli sia, e per quanto maestro nell'arte, che possa sottrarsi a questa necessità; e s'egli crede pur di potere, e se ne vanta, non fa se non mostrare l'ingenuità propria, e quel difetto di perspicacità e di penetrazione filosofica ch'è difetto di tutta la scuola. Il salto fuor di sè stesso nella realtà assoluta è un sogno. A persuadersene basta, del resto, aprire qualsivoglia romanzo di qualsivoglia grande realista moderno: per esempio, dello Zola. I personaggi tutti ch'egli pone in azione, le cose che descrive, i fatti che narra, sono tutti idealizzati, in un certo senso e in una certa misura; sono assoggettati, in altri termini, a varii e complicati processi di semplificazione, di condensazione, di avvaloramento, dei quali l'autore può non essere consapevole, ma che son pur quelli in virtù di cui i personaggi rappresentati, le cose descritte, i fatti narrati, producono e lasciano negli animi nostri più forte e duratura impressione che non farebbero i veri e reali. Quand'egli descrive un tramonto di sole, descrive, non già il semplice fenomeno fisico, ma bensì l'impressione che quel fenomeno farebbe in uno o più spettatori possibili, e lo descrive con [360] parole che di necessità traggono dietro una lunga sequela di elementi ideali. E la tendenza all'idealizzare dev'essere ben imperiosa in noi, se può tor la mano agli stessi realisti più ostinati e valenti, e trascinarli ad eccessi cui forse non giungerebbero gl'idealisti più audaci. Chi abbia letto Le ventre de Paris del medesimo Zola ricorda quella famosa sinfonia de' formaggi divenuta oramai proverbiale, dove c'è più idealismo (sia pure di cattiva lega) che non in un racconto di fate; e chi abbia letto La bête humaine sa che cosa diventi una vaporiera tra le mani del gran maestro del realismo contemporanei. In molti degli eccessi suoi più noti e più notabili il realismo non è se non un idealismo capovolto.
Si dirà forse che l'ideale è sconfessato e rejetto dalla scienza? sarebbe un altro, non men grave errore. La scienza idealizza continuamente, e non potrebbe far passo se non idealizzasse: idealizza quando, descrivendo una specie di animali o di piante, non tien conto se non dei caratteri tipici, ossia ne presenta il tipo (ciò che per la specie umana non vogliono più fare i romanzieri e i commediografi dei giorni nostri); idealizza quando, per comodo dell'osservazione, immagina o circoscrive un fenomeno fuori delle condizioni sue naturali e consuete. L'astronomo che descrive il moto di rivoluzione dei pianeti intorno al sole, e ne esprime le leggi semplificate, senza tener conto degl'innumerevoli fatti di perturbazione, è, in verità, assai più idealista del poeta, il quale ponga sulla scena un eroe il cui animo non obbedisce ai mille piccoli influssi delle passioni minute, ma solo ad alcuna passione grande, o ad alcuna grande idea, che lo empia di sè, lo guidi, lo faccia vivere e muovere.
La storia non prova punto che la potenza dell'idealizzare, e la tendenza ad idealizzare che ne consegue, vadano scemando nell'uomo; anzi prova il contrario. In fatti, se quella potenza ne presuppone un'altra, ch'è la potenza di astrarre, e se questa seconda potenza, scarsissima nell'uom primitivo, va a poco a poco crescendo lungo il corso della civiltà, come si potrebbe per mille esempii provare, la conclusione si fa manifesta da sè. L'uomo primitivo, e l'uom presente che viva in istato di selvatichezza, non idealizzano propriamente, ma trasvanno e travedono, per insufficienza di percezione e di giudizio. La trasformazione del concetto della divinità attraverso i secoli, la trasformazione che, movendo dall'idolo informe, giunge al dio spirituale, universale, unico, mostra con ottimo esempio come la potenza idealizzatrice sia andata ininterrottamente crescendo. Si [361] crede da' più che nelle letterature antiche in genere sia più idealità che nelle letterature moderne in genere; ma tale credenza è un errore. Gli eroi de' poemi omerici non sono già, o almeno principalmente non sono parto di una mente in cui sovrabbondi la virtù idealizzatrice; ma son piuttosto parto di una mente in cui sovrabbondi la virtù idealizzatrice; ma son piuttosto parto di una mente che non riesce ancora a vedere la natura umana nella complessa sua integrità. Ora, idealizzare, non vuol già dir non vedere, e abbandonarsi all'impressione e all'istinto; ma vuol dire scegliere tra ciò che s'è veduto, tra ciò che s'è giudicato. L'ideale vero e legittimo nasce, non da ignoranza, ma da scienza.
La dottrina dell'evoluzione consacra l'ideale. Se, in fatti, la vita tende, con moto continuato ed ascendente, verso forme più perfette e più nobili, le forme non per anco raggiunte stanno alle raggiunte, nella scala di quel moto, come a termini ideali a termini reali. Se l'uomo si discosta più sempre dal bruto, e se ne discosta in certa direzione, e con certe norme, l'immagine di un uomo ideale appare, senza che noi il vogliamo, e si colora dietro all'uomo reale. E ciò che si dice dell'uomo, può dirsi delle società umane, può dirsi dell'umanità tutta intera. V'è dunque una maniera d'ideale, non pur consentita, ma quasi imposta dalla dottrina dell'evoluzione, il quale ideale altro non è se non l'anticipazione nello spirito di ciò che, in virtù della evoluzione stessa, probabilmente sarà, o prima o poi.
Ma se la facoltà d'idealizzare cresce nell'uomo, e cresce tanto da potersi esercitare, oltre che sul presente, anche sull'avvenire, perchè dovranno le arti, perchè dovrà in particular modo la letteratura ignorarla o negarla? I realisti, che pretendono vietarle il passo, e che pure in certo modo si lasciano, per non poter fare altramente, governare, come abbiam veduto, da lei, i realisti lavorano a ritroso della storia. E lavorano a ritroso della storia quando, di proposito deliberato, cercano nelle società umane presenti, per farne oggetto di descrizione e di racconto, le creature più abbiette, le passioni più brutali, tutti i residui atavistici dell'umanità, tutto ciò che l'umanità progrediente rifiuta a mano a mano e rigetta. Perchè dovrà la letteratura nel presente veder così volentieri il passato e ricusare di veder l'avvenire? E se i sentimenti s'ingentiliscono a poco a poco, e s'ingentilisce con essi la vita, quale fortuna può esser mai serbata a un'arte che vuole a ogni modo rimaner fuori di questo moto? I realisti indissero guerra al bello, ma guerra ingiusta, e che non può [362] condurli a durevole vittoria. Come più la natura umana s'affina, più sensitiva diventa all'influsso della bellezza, e più ripugnante al brutto; e non si può credere che gli uomini vogliano, di loro arbitrio, rinunziare a quel culto del bello da cui vengono alla lor vita i più dolci e più oscuri conforti.
E ora, che cosa si potrà, non dico prognosticare, ma congetturare circa la letteratura dell'avvenire, o l'avvenire della letteratura? La predizione dei realisti s'ha essa da avverare, e l'arte loro, e le loro dottrine estetiche torranno esse il luogo a ogni altra qualità d'arte, a ogni altra dottrina estetica? Dopo quanto siamo venuti dicendo, non mi sembra probabile, per non dire che mi sembra impossibile; e già nel presente non pochi fatti e moltissimi segni mostrano che il moto suo d'espansione sta per esser frenato, che altre tendenze il contrastano. A ciò intende appunto, per tacer d'altro, il recentissimo simbolismo francese. Il realismo potrà essere una delle forme dell'arte nuova; ma, certamente, non sarà tutta l'arte.
Io credo che la letteratura avvenire abbia ad essere una letteratura più larga e più libera che non la presente, una letteratura sciolta dagli eccessivi impacci della critica, sottratta alla opprimente tirannia delle scuole. La critica oggimai soffoca l'arte, sotto il pretesto di ammaestrarla e di guidarla; e le scuole ne fan materia di monopolio, ciascuna per sè. La critica ha la sua ragion d'essere, e il suo officio, e molte cose si potrebbero dire del giovamento che ne deriva, e a cui molti, a torto, non credono; ma essa non deve oltrepassare i termini ragionevolmente segnati alla giurisdizione sua; e mentre il suo compito è di seguitare, accompagnare, interpretare l'arte, non deve pretendere di porsele innanzi, e di farsi seguitare da lei, e far di lei la espressione obbediente de' concetti, preconcetti e postulati suoi proprii. L'arte deve potersi muovere da sè, trovar da sè le sue vie, mercè la virtù iniziale e congenita ch'è in lei, indipendentemente da ogni licenza o rigore di canoni critici. La troppa critica, e troppo invadente, e troppo dommatica, rende l'arte peritosa e perplessa, ne dissecca le fonti.
Le scuole ancor esse hanno la lor ragione e il loro officio, e giovano quando si contengano entro giusti limiti, e si contentino di custodire [363] una tradizione, svolgere un modulo d'arte, e ridurlo a perfezione mediante l'opera successiva di molti; ma si arrogano una ragion che non hanno, usurpano un officio che lor non compete, e nocciono, quando divengano intolleranti, e pretendano unico e incontrastato dominio. La scuola realistica nuoce all'arte e disconosce per giunta l'umana natura, quando vuole sovrapporsi ad ogni altra e regnar sola, nel presente e nell'avvenire. Se mai un concetto unico, una unica formola d'arte, poterono imporsi lungamente ad un popolo intero (come vediamo essere avvenuto un tempo, e in certa misura, nell'antico Egitto), tale possibilità viene ben presto a mancare col procedere e col variarsi della civiltà. L'uniformità dell'arte, ridotta ad un canone solo (come per lo appunto pretende il realismo), richiederebbe prima la uniformità degli spiriti, ridotti a un unico tipo. Ora, tale uniformità, che non si riscontra intera mai, nemmeno tra quelle razze infime dell'umanità le quali men si discostano dalla condizione dei bruti, lascia il luogo, tra le razze più nobili e culte, a una disformità pressochè infinita, la quale va aumentando e facendosi sempre più distinta, come più la civiltà s'innalza e si complica. Ci troviam qui di fronte a un'altra delle massime leggi della evoluzione, ch'è il passaggio graduato e irresistibile dall'omogeneo all'eterogeneo; e se questa è legge che governa, non pure la natura umana, ma tutta l'universalità delle cose, come sarà mai possibile che l'arte le contraddica, riducendosi essa sola all'omogeneo? E come potrà, ad esempio, effettuarsi quella fantasia dei realisti, i quali vorrebbero che tutti i generi letterarii fossero assorbiti, e in un certo modo assimilati dal romanzo, se il processo naturale e storico è, anche in letteratura, appunto il contrario, è, cioè a dire, un processo di successiva separazione e di continuato differenziamento? Anche in questo caso, come in più altri notati, vediamo i realisti lavorare a ritroso della evoluzione, cosa che non fa troppo onore a chi mena tanto vampo di scienza.
Ma, nella stessa disformità degli spiriti, ci sono affinità e somiglianze per cui quelli vengono a raccogliersi in gruppi, e a formare come tante famiglie, più numerose o meno, secondo tempi e condizioni di civiltà, contraddistinte da particolari caratteri psichici, legate in una specie di psichica comunanza, non certo intera ed assoluta, ma viva e pervadente. E ciascuna famiglia ha un suo special modo di sentire e di godere e di giudicare; ha un suo concetto e bisogno d'arte che non sono il concetto e il bisogno d'altre famiglie, [364] sebbene la conversazione vicendevole, e la coltura, possano anche per rispetto all'arte, sino ad un certo segno, accomunarle tutte. Le grandi e disformi e spesso contrarie tendenze dell'arte hanno origine dalla irriducibile diversità degli spiriti, e volere l'uniformità dell'arte mentre aumenta la disformità degli spiriti, è cosa non meno vana che assurda. Si è questa crescente disformità per lo appunto che ha posto fine alla tirannia delle regole. Quando di ciò s'avrà chiara coscienza, verrà necessariamente a mancare la critica partigiana, dommatica, trasmodante; e le scuole non saran più se non famiglie spirituali lontane da ogni irragionevole desiderio d'egemonia; e l'arte sarà libera di espandersi in una molteplicità nuova d'indirizzi e di forme. Il realismo non escluderà l'idealismo, e questo non si adombrerà della presenza e della vicinanza di quello.
La letteratura si farà sempre più varia e molteplice, ed esprimerà tutto lo spirito e tutta la vita, senza ingiuste esclusioni, senza dannose limitazioni di spazio, di tempo, di condizione e qualità. Come più gli uomini assorgono al concetto di umanità, più è necessario che la letteratura facciasi pari all'allargata coscienza loro, e la secondi e la interpreti e la promuova. Cadrà allora l'assurdo ed illiberale divieto opposto alla pittura detta storica, e ad ogni maniera di letterario componimento ove altri s'ingegni di ricostruire, con l'ajuto concorde della scienza e della fantasia, quel passato che, remoto nel tempo, è presente nella memoria; e cadrà il precetto dato alle arti in genere, e alla letteratura in ispecie, di non dovere attendere se non a ciò ch'è ovvio, cognito, immediato; e s'intenderà che ciò che la fantasia vien figurando, e la memoria rappresentando, per ciò solo che vive in noi, ha ragione e possibilità di vivere nell'arte; e s'intenderà che un compito massimo dell'arte possa esser quello di significare appunto ciò che non è ovvio, nè immediato, nè cognito universalmente, ma segregato e recondito e non comunicabile in altro modo.
La letteratura potrà percorrere tutti i gradi dell'essere, rispecchiare tutte le forme, liberamente, spontaneamente, atteggiandosi in vario modo, secondo il variar del suo oggetto. Essa dovrà abbracciare tutta la vita, compreso il sogno delle anime nostre, che non è forse della vita la parte men pregevole e bella. Essa dovrà poter prendere la sua materia per tutto, nel fatto e nell'idea, nel presente e nel passato, nella natura e nell'uomo, in basso e in alto; essere personale e impersonale, soggettiva ed oggettiva. A un solo obbligo [365] non potrà essa sottrarsi, quello d'essere sincera; e finchè sarà tale non mancherà chi ne intenda e ne ammiri le singole forme e diverse, non mancheranno spiriti superiori capaci d'intenderle tutte. E poichè la vita è fatta di realtà e d'idealità insieme, vi sarà una letteratura più comprensiva e più alta, che saprà, conciliandole entrambe, esprimerle entrambe congiuntamente.
Fine.
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Rileggendo le Ultime Lettere di Jacopo Ortis | Pag. 3 | |||
Il Romanticismo del Manzoni | 25 | |||
Perchè si ravvede l'Innominato? | 87 | |||
Don Abbondio | 107 | |||
Estetica e Arte di Giacomo Leopardi: | ||||
Cap. | I. | Della psiche di Giacomo Leopardi | 125 | |
Cap. | II. | Estetica generale del Leopardi | 146 | |
Cap. | III. | Il Leopardi e la musica | 176 | |
Cap. | IV. | Il sentimento della natura nel Leopardi | 189 | |
Cap. | V. | Estetica della morte | 219 | |
Cap. | VI. | Classicismo e Romanticismo del Leopardi | 236 | |
Cap. | VII. | L'arte del Leopardi | 263 | |
Preraffaelliti, Simbolisti ed Esteti | 303 | |||
Letteratura dell'avvenire | 349 |
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Poesie (1893-1906) in-12º di pag. IV-487 con ritratto e fac-simile L. 10 —; legato L. 12 —
Prometeo nelle poesie (è in preparazione la ristampa).
1. Questo breve saggio fu pubblicato la prima volta nella Nuova Antologia, serie III, vol. LVII (1895). Riappare qui accresciuto di alcune brevi note e con qualche leggiero ritocco.
2. Per quanto concerne le relazioni delle Ultime Lettere col Werther, e con taluna delle troppe imitazioni di questo, rimando il lettore ai noti scritti dello Zschech: Ugo Foscolo und sein Roman «die letzten Briefe des Jacopo Ortis» (pubblicato nei Preussische Jahrbücher del 1879 e 1880, e, tradotto, nella Nuova Rivista internazionale, febbrajo e settembre 1880); Ugo Foscolos Ortis und Goethes Werther (nella Zeitschrift für vergleichende Litteraturgeschichte und Renaissance-Litteratur del 1890); Ugo Foscolos Brief an Goethe, Mailand, den 15 Januar 1802 (nel Bericht der Realschule am Eilbeckerwege zu Hamburg 1894). Per le prime traduzioni italiane del Werther, fatte nel secolo scorso, l'una o l'altra delle quali non potè rimanere ignota al Foscolo, vedi Appell, Werther und seine Zeit, 4ª ediz., Oldenburgo, 1896; ov'è da notare per altro che la prima stampa della traduzione del D. M. S. non è del 1796, ma del 1788. Per la storia delle varie redazioni del romanzo foscoliano vedi: Martinetti, Dell'origine delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, Napoli, 1883; Del Cerro, Indagini foscoliane (nella Vita italiana, fasc. 16 gennajo 1897); Chiarini, L'edizione dell'«Jacopo Ortis» del 1798 (nello stesso giornale, fasc. 16 marzo 1897).
3. È pur da ricordare a questo proposito che alcuni (a dir vero pochissimi) critici tedeschi non si peritarono di mettere l'Ortis sopra il Werther; tra gli altri O. L. B. Wolf, nella sua Allgemeine Geschichte des Romans.
4. Nuovi saggi critici, 2ª ediz., Napoli, 1879, pp. 142, 143, 147.
5. Werther non può ammettere che uomo fortemente innamorato pensi ad altro che all'amor suo; ma gli è un fatto che uomini anche perdutamente innamorati possono pensare a molte altre cose collegandole in qualche modo all'amor loro. In quella povera imitazione del romanzo del Goethe che Carlo Nodier compose da giovane, Le peintre de Saltzbourg, il protagonista, Carlo Munster, si lagna di essere proscritto e fuggitivo, d'aver perduto la patria e l'amata. L'Everardo del Lanfrey fu detto dall'autore stesso un Werther della libertà.
6. Il Cesarotti scorse il pericolo e giudicò le Ultime lettere libro immorale. In un breve, ma acuto scritto, intitolalo Werther, René, Jacopo Ortis, Carlo De Rémusat cercò di mostrare che il romanzo del Foscolo è meno immorale di quello dello Chateaubriand e di quello del Goethe (Critiques et études littéraires, nuova edizione, Parigi, 1857, vol. II, p. 125).
7. Nel 1820 l'autore di un articolo pubblicato nella Biblioteca italiana poneva in un fascio l'Ortis, i Sepolcri, la Ricciarda. e scriveva: «Le Lettere di Jacopo Ortis, i Sepolcri, la nuova tragedia presenteranno il tuo nome alla posterità entro una luce funerea».
8. Chi crederebbe di dover trovare le lodi della melanconia nel buon La Fontaine?
Il n'est rien
Qui ne me soit souverain bien,
Jusqu'aux sombres plaisirs d'un cœur mélancolique.
Ma dei piaceri e della dignità della melanconia s'era già fatto beffe da un pezzo il Montaigne.
9. Il Cantù disse il Foscolo «capofila della moderna melanconografia» (Ugo Foscolo, in Arch. storico lombardo, anno III (1876), fasc. 1º, p. 17), ma andò troppo di là dal vero. Scrisse il Pecchio (Vita di Ugo Foscolo, 3ª edizione, Lugano, 1841, pp. 259-60): «Invece di procurare di vincere questo umor melanconico, sembrava ch'ei lo nutrisse, e se ne facesse bello.....». Il Foscolo stesso sentenziò: «La malinconia, dopo la noia, è la più vile infermità dei mortali, perchè è infermità inoperosa, ingrata alla natura, freddissima ne' desideri, fantastica in tutto fuorchè ad illudersi delle promesse della speranza».
10. Giovita Scalvini scrisse a questo proposito (Scritti ordinati per cura di N. Tommaseo, Firenze, 1860, p. 34): «Tutti i suoi gravi movimenti, il suo sogguardare, il suo silenzio, vengono dalla sua testa, calcolatrice degli effetti di tutte queste ciarlatanerie». Scrisse ancora (p. 35): «Foscolo mi sembra abitato da uno di que' Dei che i Germani sentono passare nelle foreste: Foscolo per me è un mistero». E questo appunto il Foscolo voleva; nel quale fu non poca di quella egolatria che contraddistinse infiniti romantici.
11. Chi volesse, potrebbe osservare molte conformità d'indole e di carattere tra il Foscolo ed il Rousseau, senza scapito di quelle che si potrebbero pur notare, sebbene non sieno tanto appariscenti, tra il Foscolo e lo Sterne. Sia ricordato di passata che il Viaggio sentimentale fu scrittura assai cara ai romantici.
12. Questo saggio fu pubblicato la prima volta nella Nuova Antologia, Serie III, vol. LX (1895). Salvo qualche piccola aggiunta e qualche emendazione, esso rimane immutato.
Con questo medesimo titolo: Le romantisme de Manzoni, il signor Vittorio Waille fece stampare in Algeri, nel 1890, un libro, che dato in deposito al librajo Hachette di Parigi, e restituito da questo, dopo non molto, all'autore, fu certo veduto da pochi, e non è più in commercio. Nelle 195 pagine di cui si compone il volume sono molte buone osservazioni, e delle cose nostre ci si discorre con una conoscenza ed una imparzialità che non sono molto frequenti nei libri francesi. Tuttavia mi pare che l'autore esageri quando parla degl'influssi esercitati dal pensiero francese e dall'arte francese sul pensiero e sull'arte del Manzoni, e quando fa di questo, a dirittura, un discepolo del Fauriel e dello Chateaubriand (pp. 24-5, 36, 122-3, 190); e che cada in tale esagerazione, e in alcun altro errore, per non conoscere abbastanza le origini del romanticismo nostro, del quale per altro ritrae molto bene l'indole e gli intendimenti. Che io, salvo la inevitabile conformità di alcuni giudizii, ho trattato in modo affatto diverso il tema già trattato da lui, potrà essere facilmente avvertito da chiunque voglia torsi la briga di confrontare l'uno con l'altro i due scritti. Si può anche vedere nei Preussische Jahrbücher del 1874 uno studio di W. Lang, Alessandro Manzoni und die italienische Romantik.
13. Perciò assai malamente scrisse il Prina (Alessandro Manzoni, Milano, 1874, p. 3) che il Manzoni «capitanò il gran movimento romantico».
14. L'Hugo che definì il romanticismo il liberalismo nell'arte, giunse poi a dire che romanticismo e socialismo sono una sola e medesima cosa.
15. Leggo in un opuscolo tedesco (Die romantische Schule in Deutschland und in Frankreich, von Stephan Born, Heidelberg, 1879, pag. 5): Il romanticismo francese «è scaturito direttamente dalla opposizione alla rivoluzione». Errore. Vedi Larroumet, Les origines françaises du romantisme, in Études de littérature et d'art, Parigi, 1893. Tutto il più si può dire che, durante il suo periodo violento, la rivoluzione francese interruppe, o turbò lo svolgimento normale del romanticismo. Il culto della Dea Ragione contraddice al culto del Dio Sentimento. Per le origini remote del romanticismo italiano, vedi Finzi, Lezioni di storia della letteratura italiana, vol. IV, parte I: Il romanticismo e Alessandro Manzoni, Torino, 1891; Mazzoni, Le origini del romanticismo, in Nuova Antologia, serie III, vol. XLVII, fascicolo del 1º ottobre 1893; Bertana, Un precursore del romanticismo, nel Giornale storico della letteratura italiana, volume XXVI (1895), pp. 114 segg. Per le origini del romanticismo inglese vedi W. Lion Phelps, The Beginnings of the English romantic Movement, Boston, 1893. Parmi strana l'affermazione del Menéndez y Pelayo (Historia de las ideas estéticas en España, t. V. Madrid, 1891, p. 233) che non fosse in Inghilterra romanticismo vero e proprio.
16. Epistolario di Alessandro Manzoni, raccolto ed annotato da Giovanni Sforza, Milano, 1882, vol. I, pag. 200. Vedi anche la lettera del 17 ottobre 1820 allo stesso Fauriel.
17. Cap. XXXII, verso la fine. Più anni dopo, alludendo a tali parole, scriveva al Cantù: «Quella frase non avrei dovuto metterla per rispetto alla teoria del senso comune del Lamennais. Ma giacchè la c'è, la ci stia». E si capisce che non gli dispiaceva punto d'avercela messa.
18. Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica, preambolo e capitolo IV.
19. Vedi in proposito le giuste osservazioni del Tenca, Prose e poesie scelte, Milano, 1888, vol. I, pp. 331, 335, 350.
20. Lettera intorno al Vocabolario, in Opere varie, Milano, 1870, pp. 829, 830. Delle Opere varie citerò sempre in seguito questa stessa edizione.
21. Lettera al Laderchi, 23 giugno 1843. Epistolario, vol. II, p. 105.
22. Dialogue entre un homme du monde et un poëte. Opere inedite o rare, pubblicate da R. Bonghi, Milano, 1883 segg., vol. II, p. 431.
23. Opere inedite o rare, vol. II, p. XI. La morte del Bonghi come fu grave danno per gli studii in genere, così fu grave danno per gli studii manzoniani in ispecie. Colui che curò la stampa delle Opere inedite o rare senza poterne vedere il compimento, aveva da lunghi anni promesso sul Manzoni un libro che per certo sarebbe riuscito capitale, e di cui sarebbe pur prezioso ogni abbozzo o frammento ch'egli avesse potuto lasciarne.
24. Cel dice egli stesso nel Dialogo della invenzione. Opere varie, p. 539.
25. Studio critico che accompagna i Promessi Sposi nella edizione del Barbèra (Collezione Diamante), Firenze, 1888, vol. II, pp. 678, 679.
26. I Promessi Sposi, cap. VIII, p. 156, ediz. di Milano, 1875.
27. Veggasi intorno a ciò il bello scritto del D'Ovidio, Potenza fantastica del Manzoni e sua originalità, in Discussioni manzoniane, Città di Castello, 1886, pp. 37 e segg.
28. Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica, preambolo.
29. Ibid., cap. II. Opere varie, p. 173.
30. De l'Allemagne, parte II, cap. XI.
31. Cap. XXXIII. p. 607, ediz. cit.
32. Vedi più particolarmente le delicate ed acute osservazioni del De Sanctis nel saggio intitolato: La materia dei «Promessi Sposi». La questione del romanzo storico fu discussa in passato anche dallo Zajotti, dal Bianchetti e da altri. Ultimamente la riprese in esame il Cestaro in uno scritto intitolato La storia nei «Promessi Sposi», pubblicato prima nella Nuova Antologia, fasc. del 1º maggio 1892, poi nel volume Studi storici e letterari, Torino-Roma, 1894. Gli argomenti da lui addotti contro le conclusioni del Manzoni sono assai vigorosi.
33. Opere varie, pp. 426, 428, 431.
34. Epistolario, vol. I, p. 202.
35. I Promessi Sposi, cap. XII, p. 231; cap. XXXI, p. 564.
36. Epistolario, vol. I, p. 283.
37. Epistolario, vol. I, p. 291.
38. Bozzetti critici e discorsi letterari, Livorno, 1876, pp. 310-11.
39. Classicismo e romanticismo, nei Giambi ed epodi e rime nuove. Opere, vol. IX, Bologna, 1894, p. 298.
40. Opere inedite o rare, vol. III, p. 168.
41. Opere varie, p. 409.
42. Epistolario, vol. I, p. 307.
43. Lettre sur l'unité de temps, ecc. Opere varie, p. 425.
44. Ibid.
45. Parmi curioso e non inutile recar qui a riscontro alcune opinioni dello Zola, le quali certamente avrebbero ottenuto il plauso del Manzoni: «Le plus bel éloge que l'on pouvait faire autrefois d'un romancier était de dire: Il a de l'imagination. Aujourd'hui cet éloge serait presque regardé comme une critique. C'est que toutes les conditions du roman ont changé. L'imagination n'est plus la qualité maîtresse du romancier» (Du roman. Le sens du réel). Flaubert «est sobre, qualité rare; il donne le trait saillant, la grande ligne, la particularité qui peint, et cela suffit pour que le tableau soit inoubliable» (Du roman. De la description). «Et je finirai par une déclaration: dans un roman, dans une étude humaine, je blâme absolument toute description qui n'est pas, selon la définition donnée plus haut, un état du milieu qui détermine et complète l'homme. J'ai assez péché pour avoir le droit de reconnaître la vérité» (Ibid.).
46. Epistolario, vol. I, p. 242.
47. Sovra il teatro tragico italiano, Venezia, 1826, p. 91. È tuttavia da notare che sin dai primi anni del secolo XVIII in Inghilterra, gli scrittori che dicono della scuola augustea usarono dar nome di romantica ad ogni narrazione o poesia che paresse loro o troppo stravagante, o troppo sentimentale (Lyon Phelps, Op. cit., pp. 18-9). L'Addison, ne' suoi ricordi di viaggio, chiamava romantica una scena di paese che aveva del selvaggio e dello strano (Friedlaender, Ueber die Entstehung und Entwicklung des Gefühls für das Romantische in der Natur, Lipsia, 1873, p. 43).
48. Forse il primo esempio di tali orrori lo diede il Castle of Otranto, romanzo del celebre Orazio Walpole, pubblicato nel 1764. Ebbe grandissima voga, e fu tradotto in italiano, dalla qual lingua l'autore fingeva d'averlo tradotto egli stesso. I primi racconti fantastici di Teodoro Hoffmann sono posteriori ad esso di mezzo secolo, come son posteriori di una ventina d'anni ai più celebri romanzi di Anna Radcliffe.
49. Delle vicende del buon gusto in Italia, orazione recitata nella grande aula dell'Università di Pavia il giorno 3 maggio 1805.
50. Cenni critici sulla poesia romantica, Milano, 1817, pp. 45-47.
51. Sermone sulla mitologia.
52. Epistolario, vol. I, p. 312.
53. Ma vedi forza dell'esempio e dell'andazzo! Lo Stampa, figliastro del Manzoni, afferma che l'autore dei Promessi Sposi fu tentato una volta di scrivere un romanzo fantastico, del quale, per altro, non sa dir nulla (Alessandro Manzoni, la sua famiglia, i suoi amici, Milano, 1885-9, vol. II, p. 183).
54. Opere varie, p. 410.
55. Histoire du romantisme, nuova edizione, s. a., Parigi, Charpentier, p. 64.
56. Versi in morte di Carlo Imbonati, vv. 147 e segg.
57. Versi 36-44.
58. Urania, vv. 9-14.
59. Opere inedite o rare, vol. I, p. 95.
60. Epistolario, vol. I, p. 201.
61. Ibid., pp. 206, 207.
62. Opere inedite o rare, vol. III, p. 197.
63. Aristotele non dice propriamente così; ma tale credo fosse, in sostanza, il suo concetto. Anche lo Schopenhauer giudica la poesia più vera della storia.
64. Opere varie, p. 835.
65. Epistolario, vol. I, p. 448.
66. Discorso intorno al romanzo storico. Opere varie, p. 481.
67. Epistolario, vol. I, p. 393.
68. Epistolario, vol. I, pp. 448, 449.
69. Epistolario, vol. II, p. 144.
70. Cap. XIV. p. 273.
71. Cap. XXVIII, p. 520.
72. Opere inedite o rare, vol. II, p. 480.
73. Lettera a Cesare D'Azeglio. Epistolario, vol. I, pp. 280 segg.
74. Prefazione al Conte di Carmagnola. Opere varie, p. 278.
75. Lettre sur l'unité de temps, ecc. Opere varie, p. 405.
76. Discorso intorno al romanzo storico. Opere varie, p. 494.
77. Lettera al D'Azeglio, Epistolario, vol. I, p. 294.
78. Anche lo Scott, nell'Essay on the Drama, combattè le unità, ma quanto più timidamente e quanto meno acutamente del Manzoni!
79. Opere varie, pp. 413-14.
80. Ond'è che Paride Zajotti poteva, senza contraddizione, lodare profusamente nella Biblioteca italiana il Manzoni e biasimare i romantici.
81. Epistolario, vol. I, p. 477.
82. Lettera a Giorgio Briano del 7 ottobre 1848. Epistolario, vol. II, p. 177.
83. Lettera al Fauriel del 20 aprile 1812. Epistolario, vol. I, p. 124; Lettre sur l'unité de temps, ecc. Opere varie, p. 425.
84. Questo saggio fu pubblicato la prima volta nella Nuova Antologia, Serie III, voi. LI (1894). Lo ripubblico qui con poche e brevi giunte.
85. Tra gli altri il Tommaseo, il quale fu pur quell'ammiratore del Manzoni che tutti sanno, scorse difetto di gradazione nel passaggio dell'animo dell'Innominato dall'un grado all'altro, e pure scusandosi dell'ardimento grande, non si tenne dal suggerire quello che a parer suo andava fatto (Ispirazione e arte, Firenze, 1858, pp. 12-13).
86. Con procedimento egualmente repentino l'uomo può perdere la fede in cui nacque e crebbe e perdurò lungamente. Nel breve spazio di una notte il filosofo francese Jouffroy s'avvide d'aver perduto ogni credenza. Vedi pel fenomeno in genere Ribot, La psychologie des sentiments, Parigi, 1896, pp. 400-3.
87. Il presente scritto porse occasione a un articolo intitolato Due parole sull'Innominato, che Francesco D'Ovidio pubblicò nella Illustrazione Italiana del 27 maggio 1894. In esso il D'Ovidio fa parecchie ottime osservazioni, che per la più parte corroborano le mie; ma su di un punto formalmente mi contraddice, e cioè su questo punto del miracolo. Egli nega che il Manzoni supponesse miracolo alcuno nella conversione dell'Innominato, e reca in prova alcune parole del Manzoni stesso nel romanzo, che pajono escluderlo affatto. Dopo averci pensato su a lungo io credo di poter rimanere nell'antica opinione. Tutto sta intendersi sulla qualità del miracolo. Sono più che persuaso che il Manzoni non poteva pensare a un miracolo quale doveva immaginarselo il sarto, o l'altra buona gente del contado; ma considero da altra banda che un cristiano non può credere che il peccatore si rialzi senza l'ajuto divino; che la dottrina cattolica della predestinazione e della grazia non concede all'uomo abbandonato a sè medesimo altra libertà che la libertà di fare il male; che ogni cristiano schietto riconosce direttamente da Dio ogni suo atto buono; che se è vero il racconto del Carcano, la conversione stessa del Manzoni fu un miracolo; che il Manzoni si diceva richiamato da Dio alla fede, e di quel richiamo rendeva ancor grazie dopo quarant'anni passati (Lettera al Trechi, 29 luglio 1850); che il Manzoni poteva farsi beffe del miracolo grossolano e ridicolo delle noci narrato da Fra Galdino, e negar fede alle apparizioni di Caterina Labourè; ma poteva anche credere a un miracolo che salvasse il Grossi (Cantù, Alessandro Manzoni, reminiscenze, Milano, 1885, vol. I, pp. 330-1). Perciò non posso accordarmi in tutto nemmeno col De Sanctis, il quale scrisse, (I Promessi Sposi, studio critico): «Si vegga con quanta industria il poeta, un fatto così straordinario che il volgo attribuisce a miracolo della Madonna, riconduce nelle proporzioni di un fenomeno psicologico»; e soggiunse poi che il miracolo è affatto estraneo allo spirito del Manzoni. Il Manzoni descrisse, sì, accuratamente il fenomeno psicologico; ma non ricusò di certo l'idea che Dio avesse tocco il cuore all'uomo malvagio. Egli fece un po' come quei capitani di guerra, che preparavano con ogni cura la vittoria, ma poi aspettavano da Dio di ottenerla, e, ottenutala, cantavano un Te Deum. Del resto il miracolo è riconosciuto anche dal cardinal Federigo: «Ma Dio sa fare Egli solo le meraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de' suoi poveri servi». «Dio v'ha toccato il cuore, e vuol farvi suo». «Non ve lo sentite in cuore che v'opprime, che v'agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v'attira.....?». Dio, dice il cardinale, vuol fare dell'Innominato un segno della sua potenza e della sua bontà, uno strumento della sua gloria, ecc. Poteva il Manzoni pensare diversamente? E questa intervenzione di Dio non è essa appunto il miracolo?
88. Ribot, Op. cit., p. 401: «Tout cela, pour le moraliste, est un changement complet, il y a deux hommes; pour le psychologue c'est un changement d'orientation, il n'y a qu'un homme. Il est facile de voir que sous les deux contraires, existe un fond commun, une unité latente; c'est la même quantité ou la même qualité d'énergie employée à deux fins contraires; mais, sans effort, on peut retrouver la chrysalide dans le papillon».
89. Giova qui recare a riscontro il Pensiero XVI di Giacomo Leopardi: «Se al colpevole e all'innocente, dice Ottone imperatore appresso Tacito, è apparecchiata una stessa fine, è più da uomo il perire meritamente. Poco diversi pensieri credo che sieno quelli di alcuni, che avendo animo grande e nato alla virtù, entrati nel mondo, e provata l'ingratitudine, l'ingiustizia, e l'infame accanimento degli uomini contro i loro simili, e più contro i virtuosi, abbracciano la malvagità; non per corruttela nè tirati dall'esempio, come i deboli; nè anche per interesse, nè per desiderio dei vili e frivoli beni umani; nè finalmente per isperanza di salvarsi incontro alla malvagità generale; ma per un'elezione libera, e vendicarsi degli uomini, e rendere loro il cambio, impugnando contro di essi le loro armi. La malvagità delle quali persone è tanto più profonda, quando nasce da esperienza della virtù; e tanto più formidabile, quanto è congiunta, cosa non ordinaria, a grandezza e fortezza d'animo, ed è una sorta d'eroismo». Raccosta a questo i Pensieri LXXV, C, CI, CIX.
90. Nell'articolo già citato il D'Ovidio nota, credo giustamente, che Lucia opera nell'animo dell'Innominato anche in virtù della giovinezza, bellezza e gentilezza sua.
91. Giovanni Vidari, in un saggio intitolato Suor Gertrude, l'Innominato e Fra Cristoforo (nella Rassegna nazionale, 1º e 16 dicembre 1895), avvertì che io non notava la somiglianza che per più rispetti è tra l'Innominato e Fra Cristoforo; ma poi concluse dicendo che essi son diversi nel processo della conversione. Di questa diversità appunto, e non d'altro, io intesi far cenno.
92. In un opuscolo nuziale intitolato L'umorismo nei Promessi Sposi (Firenze, 1895) il Barbi passa in rassegna que' personaggi, nota situazioni e riflessioni umoristiche. Questo breve saggio è, a mia saputa, quanto di meglio siasi scritto sull'argomento; ma ciò che vi si dice di Don Abbondio non mi sembra interamente giusto. Il così detto Commento estetico del Ferranti (Firenze, 1877) è scrittura prolissa e di poco valore.
93. L'idea di un Don Abbondio missionario e martire è una delle idee più comiche che mai cadessero in mente umana.
94. Coloro che sempre ricantano che il Manzoni aperse scuola di rassegnazione, di pusillanimità e di fiacchezza, non han mai pensato, sembra, alla formidabile ironia di quella neutralità disarmata, non capiscono tutto il significato di Don Abbondio, e non sanno che cosa scrivesse dei Promessi Sposi il Mazzini.
95. Sarebbe curioso indagare quanta parte di quelle debolezze e di quelle virtù possa avere ereditato il Manzoni dal proprio avo materno, del quale fu, nonostante qualche dissentimento, ammiratore caldissimo. Ma se della mente di Cesare Beccaria possiamo formarci un concetto abbastanza adeguato leggendo i non molti suoi scritti, dell'animo non possiamo, tanto sono scarse, incerte, contraddittorie le notizie che ce ne son pervenute. I fratelli Verri, che ne tramandaron le più, prima furono amici svisceratissimi di lui, poi nemici arrabbiati, così che noi non riusciamo a veder chiaro tra le lodi sperticate di prima e i biasimi, sicuramente eccessivi, di poi (Vedi uno scritto di A. Venturi, Cesare Beccaria e le lettere di Pietro e Alessandro Verri, nel Preludio, anno VI, 1882, nn. 3-4). Le lettere stesse del Beccaria, comprese le poche pubblicate in questi ultimi anni, non ci ajutano gran fatto. Ciò nondimeno, quel tanto che riusciamo a mettere insieme e ad intendere ci permette di notare tra avo e nipote alcune conformità che di certo non sono casuali. Si può discutere della maggiore o minore originalità delle idee contenute nell'opuscolo Dei delitti e delle pene; ma, se a questo opuscolo si aggiunge il saggio sulle monete, e, meglio ancora, il saggio sullo stile, bisogna riconoscere che il Beccaria ebbe mente di novatore, e, come disse Pietro Verri, testa fatta per tentare strade nuove; una testa dunque come l'ebbe il Manzoni, che di strade nuove ne tentò e ne corse parecchie. Il Beccaria fu profondo algebrista, ed ebbe fantasia vivacissima e prepotente, e fu poeta (buon poeta, assicura l'amico): intendi dunque che, come poi il Manzoni, egli seppe conciliare il rigore e la saldezza della ragione con la libertà e la fluidità dell'immaginativa e del sentimento. Scopriamo nell'avo una vena satirica che ingrossa poi nel nipote. Tutt'e due sono d'indole timida e casalinga, involta in una onesta pigrizia (vedi un opuscoletto nuziale di Paolo Bellezza, La pigrizia di Alessandro Manzoni, Milano, 1897); fuggono il chiasso; non cercano popolarità, sebbene amino il popolo; curano i proprii comodi; lascian vedere un'aria di bonomia (bugiarda in Cesare, secondo afferma Alessandro Verri; ma gli s'ha da credere?); sono inettissimi alle faccende (inattività in agibilibus, troviam detto di Cesare; inetto rebus agendis, disse di sè stesso il Manzoni); scrivono di malissima voglia lettere e ogni altra cosa. «Filosofo senza strepito», scrisse del Beccaria il Cantù, «appena l'Europa s'accorse ch'era un grand'uomo, egli si tacque»: e il Manzoni? Le apprensioni manifestate dall'avo durante quel suo famoso viaggio a Parigi hanno riscontro in altre consimili del nipote. Entrambi non potevano reggere a star soli, ed entrambi stavano mal volentieri in luoghi dove fosse adunata molta gente. Entrambi ebbero amore alla villa. Rimasti vedovi, entrambi si riammogliarono. L'avo disegnò di fare un confronto fra romanzi e storie, e il nipote compose il discorso sopra il romanzo storico. L'avo si meravigliava che la Colonna Infame fosse lasciata sussistere nel bel mezzo di Milano: il nipote scrisse la Storia della Colonna Infame.
96. E il nome di Don Abbondio? Si potrebbe frugare di cima in fondo tutti gli onomastici antichi e moderni senza riuscire a trovarne uno più adatto, più proprio, più raffigurativo. Nomina numina. Il Balzac fu studiosissimo dei nomi dei suoi personaggi, e dicono che il Flaubert andò in gloria il giorno in cui trovò quelli di Bouvard e Pécuchet. Gran brava fregatina di mani dev'essersi data Don Alessandro il giorno in cui gli cadde in mente, o gli capitò sotto, Dio sa come, quello del suo curato. Il Bojardo avrebbe fatto sonare a distesa tutte le campane delle sue terre.
97. Pensées, article I, 6.
98. Epistolario, raccolto e ordinato da Prospero Viani, quinta ristampa ampliata e più compiuta. Firenze, 1892, vol. I, pp. 240, 298, 299, 537; vol. II, p. 276, e in altri luoghi ancora.
99. Mantengo, per ragion di comodo, questa distinzione passata nell'uso degli scrittori, sebbene non la creda psicologicamente troppo esatta.
100. Antona Traversi, Studi su Giacomo Leopardi con notizie e documenti sconosciuti e inediti, Napoli, 1887, pp. 76, 97-8.
101. Epistol., vol. I, p. 454.
102. Appendice all'Epistolario e agli scritti giovanili di Giacomo Leopardi, per cura di Prospero Viani, Firenze, 1878, p. XLVI. Lo stesso poeta ebbe a dichiarare di non sapere il tedesco.
103. Degli amori per la Silvia e la Nerina (non è qui a discutere se questi nomi stieno a indicare due persone o una sola), Carlo Leopardi ebbe a dire che furono assai più romanzeschi che veri. Non so quanta fede s'abbia a dare a tale testimonianza; ma la congettura che il poeta si scaldasse pel ricordo assai più che per la realtà, è congettura tutt'altro che irragionevole, e che potrebb'essere facilmente suffragata di ragioni e di esempii, e che anzi appar probabile quando s'instituisca un confronto fra la canzone Per una donna malata di malattia lunga e mortale e quella A Silvia.
104. Le ricordanze.
105. Lett. al Giordani, 8 agosto 1817; Epistol., vol. I, p. 87.
106. Ibid., p. 216.
107. Scrisse il Foscolo di sè stesso:
Tal di me schiavo e d'altri e della sorte,
Conosco il meglio ed al peggior m'appiglio,
E so invocare e non darmi la morte.
108. Lett. al Giordani, 5 dicembre 1817; Epistol., vol. I, p. 111.
109. Non necessariamente. Paolo Scarron che si denominò da sè stesso un compendio delle miserie umane, scrisse il Roman comique e il Virgile travesti inchiodato in una sedia a bracciuoli, paralitico, attratto, spolpato, sfinito, e durò in tale condizione dall'anno ventesimosettimo o ventesimottavo di sua vita sino al cinquantesimo, che fu quello della sua morte. Il Voltaire, che soleva dire di tener l'anima coi denti, non diventò pessimista nemmen quando fu ridotto a nutrirsi per lunghi anni di solo latte.
110. Farebbe indagine curiosa e istruttiva chi andasse cercando per entro alle dottrine pessimistiche moderne e modernissime la parte contribuitavi dal Copernico, dal Galilei, dal Darwin, ecc.
111. Cap. IV, pp. 274-5, 278-9 della edizione delle Prose curata da G. Mestica, Firenze, 1890, edizione di cui sempre mi varrò per le citazioni in questo scritto.
112. Bruto minore.
113. A tutto ciò non contraddice punto il fatto che il genio non può essere se non il portato di una lunga evoluzione storica, e come la sintesi di tutta una consecutiva e varia vita anteriore. Dante non poteva nascere in Cina, nè il Newton fra gli Ottentoti. Ancora non contraddice al detto di sopra che il genio soggioghi o disciplini le forze altrui e si giovi della loro cooperazione. In un suo recente libro (Psycho-Physiologie du génie et du talent, Parigi, 1897) il Nordau asserisce, un po' timidamente a dir vero, che i genii artistici, o, com'egli li chiama, emozionali, non sono veri genii. Respingo una dottrina che, mentre comprende, senza esitazione, fra i genii l'inventore dell'areostato e quello della locomotiva, tende ad escluderne, e infatti ne esclude, Dante e lo Shakespeare. In quel libro sono assai osservazioni ingegnose ed acute, ma anche molte proposizioni avventate e molti sofismi. Che il genio sorga sulla base organica di un neoplasma non è provato, e quando fosse vero, bisognerebbe poter dimostrare che i genii artistici difettano di neoplasmi per poter poi sentenziare che non sono genii. A p. 157 si afferma che i genii emozionali non esercitano nessun influsso sul mondo dei fenomeni. Dunque le arti non possono nulla sulla coltura, sui costumi, sulla vita dei popoli? E i canti di Tirteo e la Marsigliese non mossero proprio nulla nel mondo?
114. Chi nel pessimismo del Leopardi non vede se non un rivolo sgorgato dai fonti di Lucrezio, mostra d'intendere assai poco e Lucrezio e il Leopardi; e chi a riscontro del pessimismo del Leopardi pone il pessimismo (come fu chiamato) del Petrarca, mostra di saper vedere le somiglianze estrinseche e non le dissomiglianze intrinseche. Dal Rousseau l'autore della Ginestra derivò idee e sentimenti; ma il Rousseau fu tutt'altro che un pessimista.
115. «Io da principio aveva pieno il capo delle massime moderne, disprezzava, anzi calpestava, lo studio della lingua nostra; tutti i miei scrittacci originali erano traduzioni dal francese; disprezzava Omero, Dante, tutti i Classici; non volea leggerli, mi diguazzava nella lettura che ora detesto: chi mi ha fatto mutar tuono? la grazia di Dio; ma niun uomo certamente. Chi m'ha fatto strada a imparare le lingue che m'erano necessarie? la grazia di Dio. Chi m'assicura ch'io non ci pigli un granchio a ogni tratto? nessuno». Lett. al Giordani, 30 aprile 1817; Epistol., vol. I, p. 56. A chi mi opponesse che con questo tornare all'antico il Leopardi dava appunto a conoscere di non essere un genio, essendo proprio dei genii il precorrere e non il rinculare, risponderei con le ragioni addotte di sopra, e soggiungerei che in certi casi il tornare addietro può essere un andare avanti. Gli umanisti andavano avanti tornando addietro.
116. Patrizi, Saggio psico-antropologico su Giacomo Leopardi e la sua famiglia, Torino, 1896.
117. Per esempio, nello studio e nella estimazione della eredità psicopatica e geniale del poeta (capitolo II) le conclusioni cui giunge l'autore pajonmi assai malsicure, dacchè egli considera i fatti e le testimonianze in sè stessi, mentre dovrebbe considerarli nella mutevole significazione che vengono ritraendo dalla condizione dei tempi e dei costumi. Intantochè vige il diritto della primogenitura, e, nelle famiglie nobili, il celibato è imposto al più gran numero dei figliuoli, e la vita pubblica dura piena di trambusto e di pericolo, e i chiostri offrono sicurezza e pace alle nature meno gagliarde, le monacazioni frequenti in una famiglia non possono, così senz'altro, essere notate quali un segno di misticità morbosa. Altro è il significato della violenza, e dello stesso omicidio, in mezzo a una civiltà composta e ad un popolo mansueto, altro in mezzo a una civiltà turbolenta e ad un popolo fazioso e feroce. Le anamnesi lunghe e complicate bisogna interpretarle col sussidio della storia nella quale si svolsero le vite e accaddero i fatti che loro dànno argomento. Ancora parmi che l'autore del libro esageri quando parla di una melanconia attonita (ch'è il grado estremo della melanconia, secondo la definizione degli scrittori), di una paresi motoria e di una paresi mentale del Leopardi.
118. Epistol., vol. I, p. 374.
119. Lettera al Giordani, 30 aprile 1817; Epistol., vol. I, p. 57.
120. Lett. al Vieusseux, da Recanati; Epistol., vol. II, p. 363.
121. Prose, p. 445.
122. Detti memorabili di Filippo Ottonieri, cap. IV; Prose, p. 276.
123. Cf. Patrizi, Op. cit., cap. I. Vedi a questo proposito uno scritto molto acuto, molto sensato e molto equo del Sully (autore del volume Pessimism, a History and a Criticism, Londra, 1887), Le pessimisme et la poésie, nella Revue philosophique de la France et de l'étranger, anno III (1878), vol. I, pp. 392-3, ove non è esclusa la possibilità che i pessimisti (sieno essi ammalati o sani) abbiano ragione. Siami permessa una riflessione. Se il genio nasce di malattia; se una delle funzioni del genio è di scorgere il vero non iscorto da altri; che valore può rimanere al giudizio che accusa di falsità il pessimismo solo perchè lo suppone, come il genio, nato di malattia?
124. Prose, pp. 402-3.
125. Epistol., vol. I, p. 278.
126.
Life's but a walking shadow, a poor player,
That struts and frets his hour upon the stage,
And then is heard no more: it is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.
(Macbeth, a. V, sc. 5).
We are such stuff
As dreams are made on, and our little life
Is rounded with a sleep.
(The Tempest, a. IV, sc. 1).
127. Cf. Paulhan, Esprits logiques et esprits faux, Parigi, 1896, p. 41.
128. Cf. Féré, Impuissance et pessimisme, nella Revue philosophique, anno 1886, vol. II. L'autore, facendo nascere il pessimismo da un disequilibrio massimo fra i desiderii da una parte e la potenza di soddisfarli da un'altra, conclude a un certo punto così: «Il semble donc que se plaindre de tout revienne à convenir que l'on n'est bon à rien». Gli è dir troppo. E, primamente, non bisogna mettere tutti in un fascio i pessimisti coi queruli, coi brontoloni, coi seccatori. Si dànno pessimisti che non si lamentano mai, nemmeno nei libri che scrivono per divulgare o difendere le proprie dottrine. Alfredo de Vigny disse una volta:
Le juste opposera le silence à l'absence.
Et ne répondra plus que par un froid silence
Au silence éternel de la Divinité;
e nel suo Giornale lasciò scritto: «Le silence sera la meilleure critique de la vie». Poi non so come si potrebbero far entrare nella classe di quegli infelici in cui è massimo il disequilibrio tra i desiderii e la potenza di soddisfarli pessimisti dello stampo, non dirò del re Salomone, creduto a torto autore dell'Ecclesiaste, ma di quel califo Abd ur Rahmân, il quale, dopo aver soggiogata quasi tutta la Spagna, e promosse le scienze, le arti, le industrie, i commerci, noverava, pieno d'anni e di gloria, i giorni della propria felicità, e trovava che sommavano in tutto a quattordici; e di quell'Innocenzo III che, essendo stato, dopo Gregorio VII, il più grande instauratore della potenza dei papi, lasciò, a far testimonianza de' suoi pensieri, tre libri De contemptu mundi, sive de miseria humanae conditionis, ben più tetri e più dolorosi di quei del Petrarca; e finalmente di quel Giorgio lord Byron, che fu come un atleta della passione e del piacere, e un eroico scialacquatore della vita. Dei pessimisti allegri non parlo. Qualcuno ebbe a dire, dopo aver fatta una visita a E. von Hartmann, che per fruire dello spettacolo della felicità, bisognava andarlo a cercare nelle case dei pessimisti.
129. Lett. 6 marzo 1820; Epistol., vol. I, p. 254.
130. Le pessimisme au XIX siècle, Parigi, 1879, pp. 38-9. L'autore osservava pure opportunatamente e giustamente che il Leopardi non si soffermò in nessuno dei tre stadii della illusione distinti e descritti dal Hartmann (p. 43).
131. «Keiner jedoch hat diesen Gegenstand so gründlich und erschöpfend behandelt, wie, in unsern Tagen, Leopardi. Er ist von demselben ganz erfüllt und durchdrungen: überall ist der Spott und Jammer dieser Existenz sein Thema, auf jeder Seite seiner Werke stellt er ihn dar, jedoch in einer solchen Mannigfaltigkeit von Formen und Wendungen, mit solchem Reichthum an Bildern, dass er nie Ueberdruss erweckt, vielmehr durchweg unterhaltend und erregend wirkt». Die Welt als Wille und Vorstellung, Ergänzungen; Sämmtliche Werke, Lipsia. 1891, vol. III, p. 675.
132. Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez; Prose, p. 307.
133. Paralipomeni della Batracomiomachia, c. IV, st. 10.
134. Dialogo di Timandro e di Eleandro; Prose, p. 371.
135. Ingiustissimo mi sembra per ogni rispetto il giudizio di O. Pluemacher quando sentenzia che il Leopardi, i cui scritti (secondo lui) sono pedantescamente infrascati di fastidiosa dottrina (?!), non è filosofo, sebbene si atteggi a filosofo, dacchè la conoscenza di alcuni, o anche di molti sistemi di filosofia, non basta a formare il filosofo (Der Pessimismus in Vergangenheit und Gegenwart, 2ª ediz. Heidelberg, 1888, p. 115). Verissimo questo; ma appunto di sistemi di filosofia il Leopardi ne conobbe assai pochi. Il Sully dovette portare migliore opinione del nostro poeta, giacchè riferisce tradotte nel già citato suo libro sul pessimismo (p. 27) le seguenti parole scritte da esso poeta in una lettera al Giordani (lett. 6 maggio 1825; Epistol., vol. I, p. 547): «Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e d'inorridire freddamente, speculando questo arcano infelice e terribile della vita dell'universo». Per altro egli rimpicciolisce il concetto quando arcano infelice e terribile della vita dell'universo traduce unblessed and terrible secret of life, tralasciando appunto quella parola universo da cui viene al concetto stesso massima larghezza e veramente filosofica significazione.
136. Dialogo della Natura e di un'anima; Prose, pp. 85-6; Dialogo di un fisico e di un metafisico, pp. 124-5; Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio famigliare, p. 144; Detti memorabili di Filippo Ottonieri, cap. II, pag. 262; cap. V, p. 289; Versi Al conte Carlo Pepoli, ecc. ecc. Con sentimento affatto contrario a quello del nostro poeta, il Nietzsche ama la vita per sè stessa, anche se infelice. Cf. Brandes, Friedrich Nietzsche, nel volume Menschen und Werke, Francoforte s. M., 1894.
137. Cantico del gallo silvestre; Prose, p. 336.
138. Dialogo di Timandro e di Eleandro; Prose, p. 365.
139. Dialogo di Plotino e di Porfirio; Prose, pp. 427-8. In una lettera al Giordani (30 giugno 1820; Epistol., vol. I, p. 279) il Leopardi aveva detto che tutto quanto è, è contento di vivere, «eccetto noi che non siamo più quello che dovevamo e che eravamo da principio».
140. Paralipomeni della Batracomiomachia, c. IV, st. 24. In una lettera al Giordani (24 luglio 1828; Epistol., vol. II, p. 316), aveva già detto che i popoli «sono condannati alla infelicità dalla natura, e non dagli uomini nè dal caso». Tale appunto è il concetto della Ginestra.
141. Palinodia al marchese Gino Capponi; Dialogo di Timandro e di Eleandro; Prose, p. 365.
142. Cantico del gallo silvestre; Prose, p. 336.
143. Dialogo di Torquato Tasso ecc.; Prose, p. 145.
144. Ultimi versi della canzone A un vincitore nel pallone. Cf. Dialogo di Cristoforo Colombo ecc.; Prose, pp. 309-10.
145. Preambolo alla versione del Manuale di Epitteto; Opere, nuova impressione, Firenze, 1889, vol. II. p. 214.
146. La quiete dopo la tempesta.
147. Le ricordanze.
148. Il primo amore.
149. Nelle nozze della sorella Paolina.
150. Aspasia.
151. Al conte Carlo Pepoli.
152. Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima.
153. Epistol., vol. I, p. 197.
154. Après une lecture, st. VIII. Il Keats aveva detto:
A thing of beauty is a joy for ever.
155. Citato dal Guyau, L'art au point de vue sociologique, Parigi, 1889, pagine 364-5. Il Baudelaire fu, com'è noto, traduttor valoroso e grande ammiraratore del Poe, e dal Poe attinse molta parte delle sue idee estetiche. Nel breve saggio che il poeta americano intitolò The poetic principle, troviamo parole come le seguenti: «An immortal instinct, deep within the spirit of man, is thus, plainly, a sense of the Beautiful..... It is no mere appreciation of the beauty before us, but a will to reach the beauty above..... That pleasure which is at once the most pure, the most elevating, and the most intese, is derived, I maintain, from the contemplation of the Beautiful». Ognuno può conoscere quanto questi concetti somiglino a quelli del Leopardi. Il Poe definì la poesia una creazione ritmica di bellezza.
156. Le ricordanze.
157. Ma non propriamente alla maniera del Monti. Nello scritto pur ora citato, il Poe, dopo aver ragionato del bello e del vero, concludeva: «He must be blind indeed who does not perceive the radical and chasmal difference between the truthful and the poetical modes of inculcation. He must be theory-mad beyond redemption who, in spite of these differences, shall still persist in attempting to reconcile the obstinate oils and waters of Poetry and Truth».
158. Prose, p. 469.
159. Detti memorabili di Filippo Ottonieri, cap. V; Prose, p. 288.
160. Del 1818 è il libro di Andrea Majer, Della imitazione pittorica; dello stesso anno sono le Lettere sul bello ideale di Giuseppe Carpani, Il Saggio estetico di Placido Talia non venne a luce se non nel 1828, e l'Antologia ne fè cenno. I Saggi di Ermes Visconti intorno ad alcuni quesiti concernenti il bello furono stampati nel 1833.
161. Lett. al Giordani, 30 giugno 1820; Epistol., vol. I, p. 279.
162. Lett. 30 aprile 1817; Epistol., vol. I, p. 56.
163. Vedi, riferite dal Hartmann (Aesthetik, Lipsia, s. a., parte II, p. 497-9, 501), le varie opinioni intorno al bello nella natura.
164. Studi filologici, 9ª ristampa, Firenze, 1883, p. 306.
165. Tale è il concetto del Dialogo di un fisico e di un metafisico.
166. Lett. 24 luglio 1828; Epistol., vol. II, p. 316.
167. Sulle relazioni, a torto disconosciute, che passano tra il bello e l'utile, vedi più specialmente Fechner, Vorschule der Aesthetik, Lipsia, 1876, parte I, XV, pp. 203 segg.; Guyau, Les problèmes de l'esthétique contemporaine, Parigi, 1884. cap. II, pp. 15 segg.; Rutgers Marshall, Pain, Pleasure, and Aesthetics, Londra. 1894, pp. 134, 160. 315.
168. Lett. al Giordani testè citata.
169. Nella canzone Sopra il monumento di Dante.
170. Il Risorgimento.
171. Lett. 11 agosto 1817; Epistol., vol. I, p. 91.
172. Lett. 30 maggio 1817; Epist., vol. I, p. 76.
173. Vedi Perez, La maladie du pessimisme; Revue philosophique, anno 1892, vol. I, p. 40.
174. Lett. al Giordani citata qui di sopra.
175. «Plusieurs fois j'ai évité pendant quelques jours de rencontrer l'objet qui m'avait charmé dans un songe délicieux. Je savais que ce charme aurait été détruit en s'approchant de la réalité. Cependant je pensais toujours à cet objet, mais je ne le considérais pas d'après ce qu'il était: je le contemplais dans mon imagination, tel qu'il m'avait paru dans mon songe. Était-ce une folie? suis-je romanesque? Vous en jugerez». Lett. 22 giugno 1823; Epistol., vol. I, p. 455.
176. Lett. al Giordani, 24 luglio 1828; Epistol., vol. II, p. 316.
177. La vita solitaria.
178. Le ricordanze.
179. Aspasia.
180. Il tramonto della luna.
181. Pensieri, CIV; Prose, pp. 597-600. Felice colui, disse lo Shelley, che non disprezzò giammai i sogni della sua giovinezza.
182. Lett. 14 agosto 1820; Epistol., vol. I, p. 289.
183. Lett. 30 giugno 1820; ibid., p. 279.
184. Lettere scritte a Giacomo Leopardi da' suoi parenti, a cura di G. Piergili, Firenze, 1878, p. 48.
185. Epistol., vol. I, p. 278. Le parole in corsivo e in majuscoletto sono così stampate nel testo.
186. A un vincitore nel pallone; Detti memorabili di Filippo Ottonieri, cap. VI (Prose, p. 293); Dialogo di Plotino e di Porfirio (pp. 427-8); Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto (pp. 475-7); Pensieri, XXIX (pp. 519-20) ecc.
187. La ginestra; Sopra un basso rilievo antico sepolcrale; Il risorgimento.
188. Questa la interpretazione del De Sanctis, che impugnata e difesa, or sono alcuni anni, con molto calore, rimane pur sempre, a mio giudizio, la sola plausibile. Del resto, quando pure quella donna simbolica stesse a significare la libertà, o la felicità, o altro simile, per l'argomento nostro sarebbe tutt'uno.
189. Vedi lo scritterello critico che sulle Canzoni stampate in Bologna nel 1824, pubblicò, senza però mettervi il nome, lo stesso Leopardi nel Nuovo Ricoglitore di Milano; Studi filologici, pp. 283-4.
190. Nè dell'una, nè dell'altra è in tutto sicura la data.
191. Die Welt als Wille und Vorstellung, vol. I, §§ 36, 38. Veggasi come il Leopardi nella Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto rilevi il contrario modo tenuto nel filosofare da Aristotele e da Platone (Prose, p. 469).
192. Epistol., vol. I, p. 253.
193. Ibid., p. 456.
194. Epistol., vol. II, p. 280.
195. Lett. 16 dicembre 1822; Epistol., vol. I, p. 375.
196. Alla sua donna.
197. Al conte Carlo Pepoli.
198. Benefico inganno, e perciò in piena contraddizione con la scienza, osserva un altro pessimista, il Bahnsen (Das Tragische als Weltgesetz und der Humour als ästhetische Gestalt des Metaphysischen, Lauenburg i. P., 1877. p. 5).
199. Inf., XI, 103-5.
200. Ben s'intende, del resto, che anche in ciò sono dall'uno all'altro differenze e contrasti. Un pessimista che col Leopardi ebbe non piccola somiglianza, il Senancour, incarnandosi nel protagonista di un suo romanzo, diceva: «La scène de la vie a de grandes beautés. Il faut se considérer comme étant là seulement pour voir. Il faut s'y intéresser sans illusion, sans passion, mais sans indifférence, comme on s'intéresse aux vicissitudes, aux passions, aux dangers d'un récit imaginaire: celui-là est écrit avec bien de l'éloquence». Obermann, nuova edizione, Parigi, 1840, lett. LXXX, p. 434. La prima edizione è del 1804, la seconda del 1833.
201. Epistol., vol. I. p. 362.
202. Epistol., vol. II, p. 314. E così s'accordava col padre, che in una lettera a lui aveva schernita quella eroica morte, chiamando il Broglio brigante volontario e pazzo. Lettere scritte a Giacomo Leopardi dai suoi parenti, p. 261.
203. Trovo questa giustissima osservazione, insieme con quella che la precede, nel già citato scritto del Sully, Le pessimisme et la poésie; Revue philosophique, a. e v. cit., pp. 394, 398.
204. Deliberatamente dico frigidità fisiologica e non psicologica; questa non può essere imputata al Leopardi; e quanto a imputargli la prima, bisogna andar molto cauti; tanto più che il poeta stesso si contraddice, e la materia è intricata e difficile. Credo esageri di molto il Patrizi (op. cit., p. 114) quando scrive: «Egli nutrì sempre il saldo convincimento che gli stati d'animo, attraverso ai quali passò nelle sue relazioni con persone d'altro sesso, fossero al tutto esenti da bisogni fisiologici». Il Patrizi stesso, del resto, riconosce che tali bisogni ebbero parte non piccola nell'amore per la Targioni Tozzetti (Aspasia), e ricorda a questo proposito la testimonianza, anche troppo esplicita, del Ranieri (pp. 119, 120). Che il Leopardi amasse sopratutto l'amorosa idea, e, più che la donna reale, il fantasma che se ne veniva creando nella mente, è un fatto; ma è un fatto frequente nella vita psichica degli artisti, e che non prova tutto ciò che gli si vorrebbe far provare. Sant'Agostino, che fu bene, a suo modo, un artista, amò sopratutto, com'egli stesso ebbe a dire, il sentimento e la fantasia dell'amore (nondum amabam et amare amabam..... quaerebam quod amarem amans amare); ma non per questo si lasciò morir vergine; e il Rousseau, che si innamorava dei proprii fantasmi a tal segno da provarne ebbrezza e delirio, sapeva, a tempo e luogo, riconoscer quelli in creature reali e scendere di cielo in terra, e gustare qualche parte almeno della felicità sognata. È da credere che il Leopardi sarebbe pure alcuna volta riuscito ad imitarlo se avesse trovato donne più caritatevoli. Alfredo De Musset, dopo aver molto amato e troppo goduto, scriveva il Souvenir, per dire, in sostanza, che il sogno dell'amore e il ricordo dell'amore valgono più che l'amore stesso.
205. Vedi più specialmente Die Welt als Wille und Vorstellung, vol. I, § 36; vol. II (Ergänzungen), cap. 31.
206. Dialogo della natura e di un'anima; Prose, pp. 81-3.
207. Prose, p. 467.
208. On Heroes, Hero-Worship and the Heroic in History, Lecture III. The Hero as Poet; ediz. di Londra, 1895, p. 75.
209. Vedi su di ciò Rutgers Marshall, Op. cit., pp. 143-4. Egli parla più propriamente di un campo di godimento (field of pleasure getting): io userò la parola campo a denotare più propriamente la estensione della nostra impressionabilità estetica, considerando il godimento come un fatto consecutivo alla impressione.
210. Lett. alla sorella Paolina, 3 dicembre 1822; Epistol., vol. I, p. 365.
211. Lett. al fratello Carlo, 25 novembre 1822; Epistol., vol. I, p. 360.
212. Ed era prossimo il tempo in cui lo Stendhal, ponendo lo spettacolo di Roma sopra tutti gli spettacoli della terra, doveva scrivere delle impressioni che ne derivano: «Un jeune homme qui n'a jamais rencontré le malheur ne les comprendrait pas» (Promenades dans Rome, 13 août 1827). Chi dunque più del Leopardi avrebbe dovuto essere preparato a riceverle, quelle impressioni? Quattr'anni innanzi ch'egli vi andasse, il Byron aveva salutata Roma come la città dell'anima, alla quale accorrono gl'infelici (Childe Harold, c. IV, st. 78).
Oh Rome! my country! city of the soul!
The orphans of the heart must turn to thee,
Lone mother of dead empires!
Si confrontino le lettere romane del Leopardi con quelle che lo Shelley scriveva nel 1818 e 1819 a Tommaso Love Peacock. L'Osvaldo di madama di Staël «ne pouvait se lasser de considérer les traces de l'antique Rome» (Corinne, l. IV, c. IV).
213. Lett. 5 aprile 1823; Epistol., vol. I, p. 434. Al Foscolo la Venere del Canova inspirava sentimenti e parole da innamorato. Leggasi una pagina dello Shelley ov'è squisitamente descritta la Venere anadiomene (Prose Works, ediz. di Londra, 1888, vol. I, pp. 407-8). L'Apollo del Belvedere inspirò al Sully Prudhomme un sonetto, e la Venere di Milo un lungo e magnifico canto, ove, tra gli altri, si leggono questi versi:
Dans les lignes du marbre où plus rien ne subsiste
De l'éphémère éclat des modèles de chair,
Le ciseau du sculpteur, incorruptible artiste,
En isolant le Beau, nous le rend chaste et clair.
214. Lett. 30 aprile 1817; Epistol., vol. I, p. 64. Il Giordani gli rispondeva (Epistol., vol. III, p. 95): «L'opera del Cicognara mi pare degnissima e necessaria ad una libreria come la sua. Io non dirò ch'ella debba leggerla ora; ma certo una tale raccolta de' monumenti perfettissimi d'arte è una gran cosa: e il non poter nulla giudicare o gustare nelle belle arti sarebbe una grande infelicità; e bellissima cosa avere per giudicarne una guida tanto intelligente come il Cicognara».
215. Lett. 1 febbraio 1823; Epistol., vol. I, pp. 403-4.
216. Affermare non si può; ma non sarei lontano dal credere che la prima mossa a tutto il componimento sia venuta da una fantastica visione del monumento futuro, del nobil sasso a cui tante lacrime avrebbe serbato l'Italia.
217. Lett. 24 luglio 1827; Epistol., vol. I, p. 224.
218. Al conte Carlo Pepoli.
219. Lett. 5 febbrajo 1823; Epistol., vol. I, pp. 408-9.
220. Epistol., vol. I, p. 399.
221. Lett. al Giordani, 30 giugno 1820; Epistol., vol. I, p. 279.
222. Canto VI, st. 47.
223. Vedi la lettera al Jacopssen, 23 giugno 1823; Epistol., vol. I, pp. 454-5. Quivi il poeta dice espresso: «je ne fais aucune différence de la sensibilité à ce qu'on appelle vertu». Se il tempo lo concedesse, sarebbe agevole rintracciar nel Rousseau, anzi nel pensiero del secolo XVIII tutto intero, la origine di sì fatta opinione.
224. Epistol., vol. I. p. 61.
225. Scritto citato. Qualche traccia di umorismo il Leopardi lascia scorgere nella Scommessa di Prometeo e nel Copernico, testè citati, e ancora nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, nel Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggiere e altrove; ma niuno di certo vorrà dire il Leopardi un umorista.
226. Rutgers Marshall, Op. cit., pp. 137 segg.
227. Il Parini, ovvero della gloria, cap. IV; Prose, pp. 189-90.
228. Ibid., pp. 191-2.
229. Ibid., cap. III, p. 184.
230. Epistol., vol. I, p. 270.
231. Lettere scritte a Giacomo Leopardi dai suoi parenti, p. 148.
232. Vedi una lettera di Giacomo del 5 febbrajo 1823: Epist., vol. I, p. 407.
233. Il Preyer capovolse la formola, riconoscendo nell'aritmetica un esercizio musicale.
234. Vom Musikalisch-Schönen, 1ª ediz., Lipsia, 1854; 7ª, 1885. Cf. Panzacchi, Nel mondo della musica, Firenze, 1895. pp. 3-37.
235. Vedila discussa dal Fechner, Op. cit., parte I, pp. 158 segg.
236. Die Welt als Wille und Vorstellung, vol. I, pp. 309-13; vol. II, pp. 511, 512, 523.
237. La vita solitaria.
238. L'Amiel, le cui somiglianze morali col Leopardi non sono nè poche nè lievi, lasciò scritto (Fragments d'un journal intime, 7ª ediz. Ginevra, 1897, volume II, p. 77): «Ce matin, les accens d'une musique de cuivre, arrêtée sous mes fenêtres, m'ont ému jusqu'aux larmes. Ils avaient sur moi une puissance nostalgique indéfinissable. Ils me faisaient rêver d'un autre monde, d'une passion infinie et d'un bonheur suprême. Ce sont là les échos du paradis, dans l'âme, les ressouvenirs des sphères idéales dont la douceur douloureuse enivre et ravit le cœur».
239. Lett. 5 febbrajo 1823; Epistol., vol. I, p. 408.
240. Lett. alla sorella Paolina, 18 maggio 1827; Epistol., vol. II, p. 208.
241. Lett. alla sorella Paolina, 7 luglio 1827; Epistol., vol. II, p. 221.
242. Il Patrizi, Op. cit., p. 142, vede in questi desiderii e giudizii del poeta un segno dell'abituale stanchezza e debolezza di lui. Non a torto, credo; ma errerebbe, parmi, chi non volesse vedervi altro. Quei giudizii e quei desiderii hanno anche una ragione estetica.
243. Cap. IV; Prose, pp. 193-4. Confrontisi con alcune ingegnose pagine del Bourget intitolate Paradoxe sur la musique in Études et Portraits, Parigi, 1889, vol. I.
244. Vedi Arréat, Mémoire et imagination, Parigi, 1895, pp. 60-1. I De Goncourt affermarono che anche il Lamartine ebbe la musica in orrore, ma si può dubitare della verità della loro affermazione. Vedi, per non dir altro, il commento con cui lo stesso Lamartine accompagnò la poesia intitolata Encore un hymne, nelle Harmonies poétiques et religieuses.
245. Purgat., II, 107-11.
246. Lettere famigliari, l. XIII, lett. 8; volgarizzamento di G. Fracassetti.
247. L. I, dial. 23, De cantu et dulcedine a musica.
248.
Music! oh, how faint, how weak,
Language fades before thy spell!
249.
I pant for the music which is divine,
My heart in its thirst is a dying flower.
250. L'Adone, c. VII. st. I.
251. Combarieu, Les rapports de la musique et de la poésie considérées au point de vue de l'expression, Parigi, 1894, pp. XV, XXI.
252. Ibid., p. 284.
253. «Manzoni pensava che dal modo di declamare i versi, esagerando alquanto l'inflessione della pronuncia che ne indica l'espressione, si poteva cavarne embrioni di motivi atti a musicarsi. E recitava a quel modo per dimostrazione alcune strofette del Metastasio». Alessandro Manzoni, la sua famiglia, i suoi amici, appunti e memorie di S. S(tampa) (figliastro del poeta), Milano, 1885-9, vol. II, p. 423.
254. L'art de la lecture, 43ª ediz., Parigi, s. a., p. 124.
255. Lett. al fratello Carlo, 6 gennajo 1823; Epistol., vol. I, p. 390.
256. Ranieri, Op. cit., p. 40.
257. Op. cit., p. 54.
258. Lett. al Giordani, 30 aprile 1817; Epistol., vol. I, p. 61.
259. Cap. IV; Prose, pp. 191-2.
260. Le ricordanze.
261. Lo Chateaubriand fece esperienza del contrario. «Aujord'hui je m'aperçois que je suis moins sensible à ces charmes de la nature..... Quand on est très-jeune, la nature muette parle beaucoup, parce qu'il y a surabondance dans le cœur de l'homme.....: mais dans un âge plus avancé, lorsque la perspective que nous avions devant nous passe derrière, que nous sommes détrompés sur une foule d'illusions, alors la nature seule devient plus froide et moins parlante, les jardins parlent peu. Il faut, pour qu'elle nous intéresse encore, qu'il s'y attache des souvenirs de la société, parce que nous suffisons moins à nous-mêmes.....». (Souvenirs d'Italie, d'Angleterre et d'Amérique, Londra, 1815, vol. I, pp. 23-4).
262. Un'altra eccezione molto notabile alla regola comune ci è offerta da un poeta francese della prima metà di questo secolo, morto giovanissimo, e rimasto per lungo tempo pressochè ignoto, Maurizio De Guérin. Come il Leopardi, questi ebbe orror della folla, amò la natura con sensitività femminea e virginale, solo allora felice quando, vinto da una specie di languor delizioso, poteva abbandonarsi tra le braccia e nel grembo di lei. Lasciò scritte, fra le altre, queste parole: «Quitter la solitude pour la foule, les chemins verts et déserts pour les rues encombrées et criardes où circule pour toute brise un courant d'haleine humaine chaude et empestée; passer du quiétisme à la vie turbulente, et des vagues mystères de la nature à l'âpre réalité sociale, a toujours été pour moi un échange terrible, un retour vers le mal et le malheur». (Journal, lettres et poèmes, nuova edizione, Parigi, 1864, p. 92). Il sentimento di questo poeta per la natura somiglia a quel del Leopardi sotto più di un aspetto, ma ne differisce anche non poco, perchè dà luogo, assai più che quello del Leopardi non faccia, alle impressioni distinte, particolari e minute. Noto di passata che l'amore della solitudine e l'amore della natura andavano insieme congiunti nei seguaci del Budda.
263. Epistol., vol. I, p. 253.
264. De la littérature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales, parte prima, cap. V.
265. Vedi La vita solitaria.
266. Dialogo di Timandro e di Eleandro, Prose, p. 361.
267. Il primo amore.
268. A Silvia. Il De Musset, nella Confession d'un enfant du siècle, cap. IV: «Je passais la journée chez ma maîtresse; mon grand plaisir était de l'emmener à la campagne durant les beaux jours de l'été, et de me coucher près d'elle dans les bois, sur l'herbe ou sur la mousse, le spectacle de la nature dans sa splendeur ayant toujours été pour moi le plus puissant des aphrodisiaques». Per contro la natura guarì dall'amore il Ruskin: e in qual modo? empiendolo tutto di sè e di sè sola; suggerendogli, non solo una dottrina dell'arte, ma una morale, una sociologia, una religione e persino, starei per dire, una metafisica.
269. L'infinito.
270. La vita solitaria.
271. Nella poesia intitolata La vache.
272. Vedi intorno alle origini e alla diffusione di quel gusto Friedlaender, Ueber die Entstehung und Entwicklung des Gefühls für das Romantische in der Natur, Lipsia, 1873; Biese, Die Entwickelung des Naturgefühls im Mittelalter und in der Neuzeit, Lipsia, 1888, cap. XI, Das Erwachen des Gefühls für das Romantische, pp. 322-57.
273. «Strong, pure nature-feeling leads to accurate and minute observation». Veitch, The Feeling for Nature in Scottish Poetry, Edimburgo e Londra, 1887, vol. I, p. 17.
274. Il Patrizi, Op. cit., p. 137, dice che «nel Leopardi il sentimento della natura era avvinto ad idee e non ad imagini». Direi: poco ad immagini, molto a idee e moltissimo ad affetti.
275. Circa alla parte importantissima che spetta all'associazione nelle impressioni che gli spettacoli naturali producono in noi, vedi Fechner, Op. cit., parte 1ª, pp. 123 segg.
276. Maurizio De Guérin (Op. cit., p. 34): «Si l'on pouvait s'identifier au printemps..... se sentir à la fois fleur, verdure, oiseau, chant, fraîcheur, élasticité, volupté, sérénité!» L'Amiel, (Op. cit., vol. II, p. 18): «Dans ces états de sympathie universelle, j'ai même été animal et plante, tel animal donné, tel arbre présent».
277. La vita solitaria.
278. La quiete dopo la tempesta.
279. La sera del dì di festa.
280. Forma parte di quello che il poeta intitolò Supplemento generale a tutte le mie carte; Appendice all'Epistolario e agli Scritti giovanili, a cura di Prospero Viani, Firenze, 1878, p. 238.
281. La sera del dì di festa.
282. Tra le poesie del Longfellow n'è una intitolata Daylight and moonlight. Il poeta dice d'aver letto, durante il giorno, un mistico canto, e di non averne quasi riportata impressione; d'averlo riletto in tempo che la luna, simile a uno spirito glorificato, empieva la notte e l'innondava delle rivelazioni della sua luce, e d'esserselo allora sentito risonar nella mente come una musica.
Night interpreted to me
All its grace and mystery.
Il Lamartine (Poésie ou paysage dans le golfe de Gênes, nelle Harmonies poétiques et religieuses):
Ah! si j'en crois mon cœur et ta sainte influence,
Astre ami du repos, des songes, du silence,
Tu ne te lèves pas seulement pour nos yeux;
Mais, du monde moral flambeau mystérieux,
A l'heure où le sommeil tient la terre oppressée,
Dieu fit de tes rayons le jour de la pensée.
L'Amiel (Op. cit., vol. II, pp. 165-6): «Rêvé longtemps au clair de lune qui noie ma chambre de ses rayons pleins de mystère confus. L'état d'âme où nous plonge cette lumière fantastique est tellement crépusculaire lui-même que l'analyse y tâtonne et balbutie. C'est l'indéfini, l'insaisissable, à peu près comme le bruit des flots formé de mille sons mélangés et fondus. C'est le retentissement de tous les désirs insatisfaits de l'âme, de toutes les peines sourdes du cœur, s'unissant dans une sonorité vague qui expire en vaporeux murmure. Toutes ces plaintes imperceptibles qui n'arrivent pas à la conscience donnent en s'additionnant un résultat, elles traduisent un sentiment de vide et d'aspiration, elles résonnent mélancolie. Dans la jeunesse, ces vibrations éoliennes résonnent espérance: preuve que ces mille accents indiscernables composent bien la note fondamentale de notre être et donnent le timbre de notre situation d'ensemble».
283. Lo Shelley, nella poesia intitolata A calm Winter Night:
Heaven's ebon vault,
Studded with stars unutterably bright,
Through which the moon's unclouded grandeur rolls.
284. Alla luna.
285. La vita solitaria.
286. Il lume della luna ossia l'origine dell'ellera.
287. Alla luna.
288. An den Mond:
Füllest wieder Busch und Thal
Still mit Nebelglanz,
Lösest endlich auch einmal
Meine Seele ganz.
Breitest über mein Gefild
Lindernd deinen Blick,
Wie des Freundes Auge mild
Ueber mein Geschick.
289. Bruto Minore.
290. Ultimo canto di Saffo.
291. Canto notturno di un pastore errante dell'Asia.
292. Al conte Carlo Pepoli.
293. Ultimo canto di Saffo.
294. Se ne ha la prova nel terzo libro dell'opera sua principale. «Wie ästhetisch ist doch die Natur», esclama egli in un luogo (Vol. II, Ergänzungen, cap. 33, p. 462).
295. Op. cit., vol. I, § 38, pp. 232-3.
296.
Non fra sciagure e colpe,
Ma libera ne' boschi e pura etade
Natura a noi prescrisse,
Reina un tempo e Diva.
(Bruto Minore).
Oh contra il nostro
Scellerato ardimento inermi regni
Della saggia natura! I lidi e gli antri
E le quiete selve apre l'invitto
Nostro furor: le violate genti
Al peregrino affanno, agl'ignorati
Desiri educa; e la fugace ignuda
Felicità per l'imo sole incalza.
(Inno ai patriarchi).
297. Bruto Minore.
298. Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, ecc.
299. Il risorgimento.
300. La ginestra. Vedasi, tra le prose, il Dialogo di un folletto e di uno gnomo, e il Dialogo della natura e di un Islandese.
301. A Silvia.
302. Sopra un basso rilievo, ecc.
303. La vita solitaria.
304. La sera del dì di festa.
305. Il sogno.
306. A sè stesso.
307. Palinodia al marchese Gino Capponi.
308. La ginestra.
309. La quiete dopo la tempesta.
310. La ginestra.
311. Palinodia ecc.
312. Aspasia.
313. Le ricordanze.
314. A sè stesso.
315. Alla primavera o delle favole antiche.
316. Ibid.
317. Le pèlerinage d'Harold.
318. Il risorgimento.
319. Sopra un basso rilievo ecc.
320. Il Leopardi nella Ginestra:
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Ch'alla formica.
321. La maison du berger. In un luogo del suo giornale il poeta chiama stupida la natura. L'Amiel, dopo aver prodigato alla natura i più teneri nomi, finisce a scrivere (Op. cit., vol. II, p. 78): «Certes la Nature est inique, sans probité et sans foi».
322. «Dans ces bouleversements qui désolent la nature, il y a un baume pour les plaies du cœur». Nodier, Le peintre de Saltzbourg, Romans, Parigi, 1884, pag. 26.
323. Obermann, ediz. cit., pp. 510-4.
324. Nella poesia An die Natur:
Da der Jugend goldne Träume starben,
Starb für mich die freundliche Natur.
325.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell'imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d'affanno.
326. Prose, pp. 246-8.
327. Amore e morte.
328. Cantico del gallo silvestre; Prose, p. 336.
329. Il buddistico Mâra è, a un tempo stesso, il principe dei piaceri del mondo e il principe della morte, colui che seduce ed uccide.
330. Paradise Lost, l. X, vv. 249-51.
331. Alcun che di simile si ha pure in un racconto ebraico. Qui viene opportuno il ricordo della famosa incisione di Alberto Dürer, dove si vede effigiato un cavaliere che, senza dar segno alcuno di terrore, si trova preso fra il diavolo da una parte e la morte da un'altra.
332. Vedi Augusto Cesari, La morte nella Vita Nuova, Bologna, 1892, pagine 11-12.
333. Il Canzoniere annotato e illustrato da Pietro Fraticelli, Firenze, 1861, pp. 115 e segg.
334. Trionfo della fama, cap. I, secondo la volgata.
335. Vita nuova, cap. XXIII. Cf. l'opuscolo del Cesari testè citato.
336. Sonetti: Non può far Morte il dolce viso amaro, e Spirto felice che sì dolcemente; Trionfo della Morte, c. I.
337. Kinder-und Hausmärchen, N. 44.
338. Per il prolungamento di questa poetica tradizione nel secolo XVI vedi Cesareo, Nuove ricerche su la vita e le opere di Giacomo Leopardi, Torino, 1893, pp. 64-8.
339. Ma non ai tempi d'Omero. Achille nell'Hades confessava ad Ulisse che avrebbe piuttosto voluto essere un bifolco sopra la terra che il re delle ombre sotterra.
340. Vedi I. Della Giovanna, L'uomo in punto di morte e un dialogo di Giacomo Leopardi, Città di Castello, 1892.
341. Amore e morte. Circa il sentimento di beatitudine che l'uomo può provare in sul punto della morte vedi: Egger, Le moi des mourants; Sollier, Moulin, Keller, Observations sur l'état mental des mourants; Revue philosophique, anno 1896, vol. 1.
342. Sonetti: Alma felice, che sovente torni; Discolorato hai, Morte, il più bel volto; Nè mai madre pietosa al caro figlio; Se quell'aura soave de' sospiri; Levommi il mio pensier in parte ov'era; Vidi fra mille donne una già tale; Tornami a mente, anzi v'è dentro, quella; Dolce mio caro e prezioso pegno; Deh qual pietà, qual angel fu sì presto; Del cibo onde 'l Signor mio sempre abbonda; Ripensando a quel ch'oggi il cielo onora; L'aura mia sacra al mio stanco riposo. Canzone: Quando il soave mio caro conforto.
343. Cito dall'edizione curata dal Mestica, Le rime di Francesco Petrarca restituite nell'ordine e nella lezione del testo originario, Firenze, 1896.
344. Die Welt als Wille und Vorstellung, vol. II, (Ergänzungen), cap. 44, pagina 609.
345. Per più particolari vedi De Ridder, De l'idée de la mort en Grèce à l'époque classique, Parigi, 1897.
346. A sè stesso.
347. Lett. 26 luglio e 17 dicembre 1819; Epistol., vol. I, pp. 208, 243. In molt'altre sue lettere manifesta il Leopardi propositi di suicidio. Lett. al fratello Carlo, luglio 1819 (Epistol., vol. I, p. 212); al Brighenti, 7 aprile 1820 (p. 263); allo stesso, 21 aprile 1820 (p. 264); al Perticari, 30 marzo 1821 (p. 324); al Melchiorri, 19 dicembre 1823 (p. 485); ad Adelaide Maestri, 24 giugno 1828 (vol. II, p. 305); al De Sinner, 24 dicembre 1831 (p. 448).
348. Con argomenti che molto somigliano a quelli di Obermann. Confrontinsi con gli argomenti di Werther e di Jacopo Ortis.
349. Canto notturno ecc., ultimo verso.
350. La quiete dopo la tempesta, ultimi due versi.
351. Nella poesia intitolata Le Gouffre. Questo medesimo sentimento espresse il Baudelaire in molti altri suoi versi. Confrontisi con la Comédie de la mort di Teofilo Gautier.
352. Il pensiero dominante.
353. Lett. al Giordani; Epistol., vol. I, p. 240.
354. Amore e morte.
355. Cantico del gallo silvestre, l. cit.
356. Sopra un basso rilievo antico sepolcrale ecc.
357. Ibid.
358. Il sogno.
359. A Silvia.
360. Il sogno.
361. Sopra un basso rilievo ecc.
362. Sopra il ritratto di una bella donna ecc.
363. A Silvia.
364. La nota poetessa francese Luisa Ackermann, in un lungo e bello componimento intitolato L'Amour et la Mort, ritrasse il contrasto dell'Amore e della Morte, quello desideroso di eternità, questa accelerante la fine; quello creator della vita, questa di ogni vita distruggitrice.
365. Detti memorabili di Filippo Ottonieri, capp. IV e VI; Prose, pp. 283-4, 293; e altrove.
366. Pensieri, XXX. Cf. Detti memorabili, cap. V; Prose, p. 288.
367. Ad Angelo Mai.
368. Inno ai patriarchi, o dei principii del genere umano.
369. Lett. al De Sinner, 24 dicembre 1831; Epistol., vol. II, p. 450.
370. Lett. al Melchiorri, 3 ottobre 1825; Epistol., vol. II, p. 27. Era il tempo in cui veniva preparando per l'editore milanese Stella una edizione latina e un'altra latina e italiana di tutte le opere di Cicerone.
371. Lett. allo Stella, 12 marzo 1826; Epistol., vol. II, p. 111.
372. Lett. al Melchiorri testè citata, l. cit.
373. Lett. al padre, 3 luglio 1826; Epistol., vol. II, p. 149.
374. Opere inedite di Giacomo Leopardi pubblicate sugli autografi recanatesi da Giuseppe Cugnoni, Halle, 1878-80, vol. II, pp. 369, 374.
375. Tra le carte del poeta, lasciate dal Ranieri, è una Canzone sulla Grecia; ma non se ne conosce altro che il titolo, ed anzi potrebbe darsi non ve ne fosse altro che l'argomento. Vedi Camillo Antona-Traversi, Il catalogo de' manoscritti inediti di Giacomo Leopardi sin qui posseduti da Antonio Ranieri, Città di Castello, 1889, p. 19. Potrebbe darsi fosse tutt'uno con quella di cui lasciò ricordo in altra sua scheda il poeta (vedi Appendice all'epistolario e agli scritti giovanili, p. 239); nel qual caso avrebbe contenuto una esortazione ai principi, perchè si commovessero ai casi della povera Grecia, e un ricordo dei fatti di Parga.
376. Opere, Milano, 1854-63, t. IV, p. 414.
377. Del rinnovamento letterario in Italia, in Bozzetti critici e discorsi letterari, Livorno, 1876, p. 169.
378. Lett. ad A. F. Stella, 27 marzo 1818; Epistol., vol. I, p. 131. Le Osservazioni del cavaliere Di Breme erano state pubblicate nello Spettatore del medesimo Stella.
379. Quella prima parte è conservata fra le carte lasciate dal Ranieri, e sinora non fu potuta veder da nessuno. Vedi il Catalogo citato, p. 19.
380. Lett. al Giordani, 19 febbrajo 1819; Epistol., vol. I. p. 172.
381. Opere inedite cit., vol. II, p. 371-3. In una sua lettera del 18 luglio 1826 Luigi Stella esortava ancora il Leopardi a scrivere intorno allo spirito della letteratura italiana a que' tempi. Epistol., vol. III, p. 357.
382. Il romanticissimo Obermann, scostandosi dalle opinioni della Staël c dello Chateaubriand riferite di sopra, stimava la mitologia conferir molto al sentimento della natura e all'arte, e non taceva divario, per tale rispetto, fra mitologia classica e mitologia non classica. «Quand les arbres, les eaux, les nuages sont peuplés par les âmes des ancêtres, par les esprits des héros, par les dryades, par les divinités; quand des êtres invisibles sont enchaînés dans les cavernes ou portés par les vents; quand ils errent sur les tombeaux silencieux, et qu'on les entend gémir dans les airs pendant la nuit ténébreuse, quelle patrie pour le cœur de l'homme! quel monde pour l'éloquence!». Lett. LXX, ediz. cit., p. 392.
383. Vénus de Milo in Poèmes antiques.
384. Appartiene arche questa, insieme con Hypathie, ai Poèmes antiques.
385. L'Anti-mitologia, sermone da Giuseppe Belloni, antico militare italiano, indirizzato al sig. cavaliere Vincenzo Monti in risposta di un sermone sulla mitologia da quest'ultimo pubblicato, Milano, 1825, p. 17. Fu questa una delle molte risposte che s'ebbe il sermone del Monti.
386. Lett. al Broglio. 13 agosto 1819; Epistol., vol. I, p. 223.
387. Dialogo di Tristano e di un amico; Prose, p. 442.
388. Pensieri, C.
389. Pensieri, XLVIII, XLIX.
390. Dialogo della moda e della morte: Prose, p. 51.
391. Palinodia ecc.; Proposta di premii fatta dall'Accademia dei Sillografi.
392. Detti memorabili di Filippo Ottonieri, cap. IV; Prose, p. 281.
393. Dialogo di Tristano e di un amico; Prose, p. 453.
394. Ibid.; Palinodia ecc.
395. Pensieri, I.
396. Epistol., vol. I. pp. 337-8.
397. Ibid., p. 242.
398. Prose, p. 359.
399. Lett. 14 agosto 1820; Epistol., vol. I, p. 289. Vedi un'altra lettera di quel medesimo mese, allo stesso, p. 291.
400. Questo Adolphe ha molta somiglianza col Leopardi, col quale ha in comune la melanconia e la timidezza orgogliosa, la noja e quella strana ironia che non ischifa di accompagnarsi con l'entusiasmo. Il De Vigny lasciò scritto nel suo giornale: «Oh! fuir! fuir les hommes et se retirer parmi quelques élus, élus entre mille milliers de mille!».
401. Lett. al Giordani, 17 dicembre 1819; Epistol., vol. I, p. 243.
402. La vita solitaria.
403. Pensieri, LXXXV.
404. Storia del genere umano; Prose, p. 27.
405. Histoire de la littérature anglaise, 2ª ediz., Parigi, 1866-71, vol. IV, pagina 285. Una osservazione. Per opera della civiltà, della specificazione della cultura e della division del lavoro, i nostri simili divengono da noi sempre più dissimili, e i dissimili, se da un sentimento o da un'idea superiore non sono consigliati altrimenti, tendono a segregarsi. Chi si somiglia si piglia e Qui se ressemble s'assemble: se questi proverbii son veri, altrettanto veri sono i loro contrarii.
406. Lett. al Giordani, 30 aprile 1817; Epistol., vol. I, p. 57.
407. Lett. al Giordani, 17 dicembre 1819; Epistol., vol. I. p. 243.
408. Dialogo di Plotino e di Porfirio; Prose, p. 404; Pensieri, LXVII, LXVIII.
409. Vedi Losacco, Il sentimento della noja nel Leopardi e nel Pascal; Atti dell'Accademia reale delle scienze di Torino, 1895.
410. Pensieri, LXXXIV, LXXXV.
411. Il risorgimento. Cf. Le ricordanze.
412. A sè stesso.
413. Troisième lettre à M. de Malesherbes, 26 gennajo 1762. Molte volte, nel corso di queste pagine, si sono notate tra il Leopardi e il Rousseau conformità di pensiero e di sentimento. Altre assai se ne potrebbero notare. Del resto lo stesso poeta avverti tra sè e il filosofo ginevrino certa somiglianza. Vedi Detti memorabili di Filippo Ottonieri, cap. IV; Prose, p. 279. Vedi pure il Pensiero XLIV, dov'è citata una opinione del Rousseau, ma non il nome.
414. Lo stesso De Musset nella Confession d'un enfant du siècle: «Je serai un homme, mais non une espèce d'homme particulière».
415. Non per questo credo si possa parlare di vagabondaggio del Leopardi (Vedi Patrizi, Op. cit., p. 170-1). Il Leopardi diede prove di assiduità e di perseveranza negli studii meravigliose. Nessun paragone è possibile fra lui e un vero e proprio e confesso vagabondo quale il Verlaine. La irrequietezza del Leopardi, quel non potersi trovare a lungo in un luogo senza desiderar di partirsene, quelle frequenti mutazioni di sede, non provano ciò che si vorrebbe far loro provare. «Il viaggiare mi ammazza», scriveva egli al Puccinotti: e «in che luogo si può star contento senza salute?» al fratello Carlo (Epistol., vol. II, pp. 187, 229). Ma ciò richiederebbe più lungo discorso. Parmi, del resto, che la paresi motoria, asserita dal Patrizi (p. 149), mal possa accordarsi col vagabondaggio.
416. Catalogo cit., p. 11.
417. Epistol., vol. I, p. 241.
418. «Poetry, in a general sense, may be defined to be the expression of the imagination». A Defence of Poetry, in principio.
419. Lett. 27 novembre 1818; 19 febbrajo 1819; 20 marzo 1820; Epistol., vol. I, pp. 150, 174-5, 260.
420. Andrea Chénier s'era contentato di dire:
Sur des pensers nouveaux faisons des vers antiques.
E il Pindemonte raccomandava al Foscolo:
antica l'arte
Onde vibri il tuo stral, ma non antico
Sia l'oggetto in cui miri.
421. Lett. al Giordani, 13 luglio 1821; Epistol., vol. I, pp. 339-40.
422. Lett. 21 maggio 1819; Epistol., vol. I, p. 201.
423. Lett. a Venanzio Broglio, 21 agosto 1819, e al Brighenti, 28 maggio 1821; Epistol., vol. I, pp. 233, 334.
424. Opere inedite, vol. 11, p. 371.
425. Lett. al Vieusseux, 21 gennajo 1832; Epistol., vol. II, p. 454.
426. Opere inedite, vol. II, pp. 369-70, 374.
427. Lett. al Giordani, 24 luglio 1828; Epistol., vol. II, p. 316.
428. Lett. al Puccinotti, 5 giugno 1826; Epistol., vol. II, p. 142. Il Leopardi stesso disse di amare «per inclinazione di natura con certa parzialità la poesia»; ma ebbe in conto di «bene meschino letterato quegli che non sapesse scrivere altro che versi». Lett. al Giordani, 30 maggio 1817; Epistol., vol. I, pp. 73-4.
429. Il De Sanctis (Studio su Giacomo Leopardi, 2ª ediz., Napoli. 1894, pagine 182-3) parla di questi disegni leopardiani di letteratura civile e patriottica, ma attinenze col romanticismo non ne rileva. Parmi anzi ch'egli giudichi un po' troppo alla lesta quando dice (p. 244): «Leopardi avea comune con tutti i letterati di quel tempo, massime i classici e i puristi, il disprezzo della moltitudine, l'orrore del volgare e del luogo comune. La poesia dovea essere togata e solenne, sopra alla realtà, e, come diceasi, ideale». Dai luoghi che ho riferiti, quel disprezzo delle moltitudini non appare. Riconosco di buon grado che il Leopardi non addimostra per gli umili quella tenerezza che tanto è notabile in Werther; ma gli umili, in alcune sue poesie, nella Sera del dì di festa, nella Quiete dopo la tempesta, nel Sabato del villaggio, sono ricordati con tutt'altro che con disprezzo.
430. Lett. al Colletta, marzo 1829; Epistol., vol. II, p. 357.
431. Lett. al Giordani, 8 agosto e 30 maggio 1817; Epistol., vol. I, pp. 89, 77. Vedi una breve nota circa i pregi rispettivi dell'una e dell'altra lingua nell'Appendice all'epistolario, p. 246.
432. Lett. al Giordani. 20 novembre 1820; Epistol., vol. I, p. 308. Nel 1816 Carlo Giuseppe Londonio aveva, nella sua Risposta d'un Italiano ai due Discorsi di madama la baronessa De Staël-Holstein, contraddetto al consiglio che costei dava agl'Italiani di molto leggere e tradurre gli scrittori stranieri. Invano aveva giudicato il Goethe che chi conosce una lingua sola gli è come se non ne conoscesse nessuna.
433. Lett. 25 luglio 1826; Epistol., vol. II, p. 153.
434. Lett. al Giordani, 13 luglio 1821; Epistol., vol. I. pp. 339-40. Cfr. De Sanctis, Op. cit., pp. 341-2.
435. Lett. al Giordani, 20 novembre 1820; Epistol., vol. I, p. 308.
436. Dai vari pensieri, Appendice all'Epistolario, p. 248; Lettera al padre, 8 luglio (1831?); Epistol., vol. II, p. 427.
437. Lett. 26 giugno 1832; Epistol., vol. II, p. 487.
438. Nel Num. 61, gennajo 1826.
439. Lett. al De Sinner, 21 giugno 1832; Epistol., vol. II, p. 485.
440. Per tropp'altre prove è risaputo quanto fosse tenace nelle inimicizie il Tommaseo; ma questa mi sembra davvero una delle più curiose. In quel suo libretto: Di Giampietro Vieusseux e dell'andamento della civiltà italiana in un quarto di secolo, Firenze, 1863, del Leopardi non è ricordato neppure il nome. Oh, santa carità dei letterati, anche religiosissimi! e questo aveva scritto, tra l'altro, Bellezza e civiltà!
441. Lett. al Melchiorri, 8 gennajo 1825; Epistol., vol. I, p. 523.
442. L'Antologia, t. XXVIII (1827), fasc. III, p. 273. Qui si discorre dei Versi stampati in Bologna nel 1826. Lo stesso Montani lodò poi i Canti pubblicati dal Leopardi in Firenze nel 1831 (t. XLII, fasc. I, pp. 44-53). Vedi intorno al troppo dimenticato critico Memorie della vita e degli scritti di Giuseppe Montani, Capolago, 1843.
443. Epistol., vol. II, p. 141.
444. Lett. al Vieusseux, 15 dicembre 1828; Epistol., vol. II, p. 341.
445. Non dovette conoscere questo passo di lettera lo Zanella, il quale s'affaticò a dimostrare che il Leopardi aveva letto il Byron, e anche lo Shelley, del quale, per altro, il Leopardi non fa parola. Vedi Percy-Bysshe Shelley e Giacomo Leopardi, nei Paralleli letterari, Verona, 1885, pp. 245 segg. In un sunto di lettura fatta dallo Zdziechowski all'Accademia delle scienze di Cracovia (La poésie de Leopardi considérée dans ses rapports avec les principaux courants littéraires en Europe; Bulletin international de l'Accadémie des sciences de Cracovie, Comptes rendus des séances de l'Année 1892), si legge che il Leopardi non imitò e non ammirò mai il Byron, ma che, ciò nondimeno, le sue prime poesie sembrano inspirate dallo stesso spirito di quello, e che il Leopardi diede la soluzione più larga dei problemi concernenti la vita posti dal Byron (?!). Questo scritterello, così largo di promesse nel titolo, è pieno d'inesattezze e di avventati giudizii. Ci si afferma, tra l'altro, che l'amor di patria fu nel Leopardi cosa effimera, dovuta ad influsso del Giordani.
446. Nel 1832 Cesare Cantù pubblicava nell'Indicatore di Milano il suo saggio Di Vittore Hugo e del romanticismo in Francia, accompagnando molto sensatamente e molto equamente le lodi di qualche biasimo, ma invitando insomma i giovani italiani a prendere esempio dal poeta francese.
447. L'Antologia, t. XXXV (1828), fasc. I, pp. 185-6. Nell'Antologia il Tommaseo si sottoscriveva con le iniziali K, X, Y.
448. Dai varii pensieri; Appendice all'Epistolario, pp. 251-2. Nell'edizione bolognese del 1824 il Leopardi ristampava, rifatta in parte, la dedica al Monti. Mi par ragionevole credere che il severo giudizio sia posteriore a quell'anno.
449. Lett. al Vieusseux. 31 dicembre 1827; Epistol., vol. II. p. 271.
450. Epistol., vol. II. p. 241.
451. Ibid., pp. 234-5.
452. Manzoni e Leopardi; Nuova Antologia, vol. XXIII (1873), p. 763.
453. Epistol., vol. II, p. 278.
454. Ibid., p. 304.
455. Ibid., p. 303. Per altri particolari vedi Benedettucci, Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni, scritto ripubblicato nel già citato volume di C. Antona Traversi, Studj su Giacomo Leopardi. Vedi nello stesso volume un Saggio cronologico di una bibliografia del Leopardi e del Manzoni.
456. Lett. alla sorella Paolina, 12 novembre 1827; Epistol., vol. II, p. 247. Quasi le stesse parole scriveva il poeta al Vieusseux quel medesimo giorno, ibid., p. 248.
457. L'Oriente, tanto sfruttato da una generazione intera di romantici, appare soltanto nell'Inno ai patriarchi, con l'aranitica valle
Di pastori e di lieti ozi frequente.
458. Cf. Marc de Montifaud, Les romantiques, Parigi, 1878, p. 3.
459. Opere inedite cit., vol. II, p. 372.
460. Il Pluemacher scrisse (Op. cit., p. 116): «Il Leopardi è poeta perchè ha ragion di dolersi; ma si sente che se le cose sue andassero bene, se egli potesse avere una sequela di giorni lieti, le ragioni del poetare gli verrebbero meno». E il Patrizi (Op. cit., p. 133): «L'erompere dell'anima lirica coincide in Leopardi colle prime minacce del male al suo benessere». Credo avesse piuttosto ragione il Bouchè Leclerq di scrivere (Giacomo Leopardi, sa vie et ses œuvres, Parigi. 1874, p. 168): «La nature avait fait Leopardi poète. Elle lui avait donné la sensibilité délicate et l'imagination vive dont la réunion constitue le tempérament poétique». Era già un poeta il fanciullo che con lunghi immaginosi racconti intratteneva i suoi compagni di giuoco.
461. Chateaubriand et son groupe littéraire sous l'empire, nuova edizione, Parigi, 1872, troisième leçon, p. 114. Cf. quanto nel capitolo II fu detto della fantasia del Leopardi.
462. A far meglio intendere ciò gioverebbe istituire un raffronto fra le Ricordanze e la Vigne et la maison, poesie di affine argomento.
463. Qui, e il più delle volte altrove, per immagine intendo, non quella dei retori, ma quella degli psicologi, e propriamente quel residuo della percezione che può essere ravvivato nella memoria.
464. Il Pluemacher, Op. e l. cit.
465. Com'è noto il Gautier da prima si consacrò alla pittura, poi l'abbandonò per darsi alle lettere.
466. Patrizi, Op. cit., p. 98. Vedi ivi stesso le osservazioni sulla sensitività cromatica del poeta.
467. Lett. alla sorella Paolina, 19 dicembre 1825; Epistol., vol. II, p. 72.
468. Vedi addietro a pp. 223-4.
469. Krantz, Le pessimisme de Leopardi; Revue philosophique, anno V (1880) vol. II, p. 412 n.
470. Epistol., vol. I, p. 408; vol. II, pp. 149. 246-7. 248. 214.
471. Dell'Aspasia dice il poeta che appar circonfusa d'arcana voluttà. Questa denotazione è assai vaga e generica, ma pure ottiene l'effetto di suscitare il fantasma. E perchè? Perchè, commovendo direttamente in noi il senso erotico e genesiaco, e quel tutto insieme di ricordi e d'immaginazioni che gli suol far compagnia, ci suscita dentro l'immagine della donna più avvenente e più desiderabile di cui sia capace la fantasia di ciascuno di noi. Dante, che fu un visuale poetico forse insuperabile, nel più bel sonetto della Vita Nuova non descrive punto Beatrice, ma accenna soltanto ch'ella fa diventar muta ogni lingua, e dice che,
Benignamente d'umiltà vestuta,
par cosa venuta di cielo in terra, e che dà una dolcezza al core che non la può intendere chi non la prova, e che dal suo volto muove uno spirito soave pien d'amore
Che va dicendo a l'anima: sospira!
eppure, chi dopo aver letto que' quattordici versi, non riesce a vedere l'angelica forma, non so qual altro miracolo di penna o di pennello gliela potrebbe mai far vedere. Dove si nota che la pittura non può far vedere le cose se non ritraendole, e la poesia le può far vedere senza ritrarle; e ciò dovrebbero meditare coloro che credono di avvantaggiar la poesia accomodandola dei mezzi che appartengono alla pittura e privandola de' suoi proprii.
472. La poesia suggestiva, più di quella che chiameremo espositiva o rappresentativa, richiede lettore esperimentato e colto, perchè essa non può suggerire in sostanza se non ciò ch'è già in qualche modo nell'animo nostro.
473. Studio già citato, p. 231. Perciò ebbe giusta ragione il Mestica d'intitolare Il verismo nella poesia di Giacomo Leopardi un saggio inserito nella Nuova Antologia del 1º luglio 1880.
474. Intorno alla sensitività termica e dolorifica del Leopardi vedi Patrizi, Op. cit., pp. 100-1.
475. Cap. II; Prose, p. 260.
476. Vedi Patrizi, Op. cit., p. 100. Quando leggo que' versi:
L'aura di maggio movesi ed olezza,
Tutta impregnata dall'erba e dai fiori;
e quegli altri:
Non avea pur natura ivi dipinto,
Ma di soavità di mille odori
Vi facea un incognito e indistinto;
non posso tenermi dal credere che quel gran naso di Dante fosse dotato di più sottil senso che non quell'altro gran naso del Leopardi.
477. Com'è felice in quel fluttuare anche l'immagine ottica!
478. Scrisse il Patrizi (Op. cit., p. 142) che nell'opera artistica del Leopardi «si discerne sempre l'influenza della sua debolezza». Non direi sempre.
479. Lett. al Melchiorri, 5 marzo 1824; Epistol., vol. I, pp. 496-7.
480. Sul modo di comporre del Byron vedi Elze, Lord Byron, 3ª ediz., Berlino, 1886, pp. 408-11.
481. Leggasi questo passo del giornale di Maurizio De Guérin (pp. 93-4): «J'ai chômé dans l'inaction la plus complète mes six semaines de vacances..... Mais ce repos, cette accalmie n'avait pas éteint le jeu de mes facultés ni arrêté la circulation mystérieuse de la pensée dans les parties les plus vives de mon âme..... Je goûtais simultanément deux voluptés..... La première consistait dans l'indicible sentiment d'un repos accompli, continu et approchant du sommeil; la seconde me venait du mouvement progressif, harmonique, lentement cadencé des plus intimes facultés de mon âme, qui se dilataient dans un monde de rêves et de pensées, qui, je crois, était une sorte de vision en ombres vagues et fuyantes des beautés les plus secrètes de la nature et de ses forces divines». E leggasi ora questo dell'Amiel (vol. I, p. 52): «Oui, il faut savoir être oisif, ce qui n'est pas de la paresse. Dans l'inaction attentive et recueillie, notre âme efface ses plis, se détend, se déroule, renaît doucement comme l'herbe foulée du chemin, et, comme la feuille meurtrie de la plante, répare ses dommages, redevient neuve, spontanée, vraie, originale. La rêverie, comme la pluie des nuits, fait reverdir les idées fatiguées et pâlies par la chaleur du jour. Douce et fertilisante, elle éveille en nous mille germes endormis. En se jouant, elle accumule les matériaux pour l'avenir et les images pour le talent».
482. Epistol., vol. I, p. 261.
483. Lett. 5 gennajo 1821; Epistol., vol. I. p. 313.
484. Lett. 10 settembre 1821; Epistol., vol. I, p. 242.
485. Lett. 16 gennajo 1829; Epistol., vol. II, p. 347.
486. Lett.... marzo 1829; Epistol., vol. II. pp. 357-8.
487. Les confessions, parte prima, l. III.
488. Lett. 4 agosto 1823; Epistol., vol. I, p. 466.
489. Lett. al Giordani. 30 aprile 1817; Epistol., vol. I. p. 62.
490. Nella lettera al Melchiorri poc'anzi citata, scriveva: «Gli altri possono poetare sempre che vogliono, ma io non ho questa facoltà in nessun modo, e per quanto mi pregaste, sarebbe inutile, non perchè io non volessi compiacervi, ma perchè non potrei. Molte altre volte sono stato pregato e mi sono trovato in occasioni simili a questa, ma non ho mai fatto un mezzo verso a richiesta di chi che sia, nè per qualunque circostanza si fosse».
491. Lett. al Giordani, 30 aprile 1817; Epistol., vol. I, p. 60.
492. Studi filologici, p. 282.
493. Die Welt ecc., vol. II, cap. 37. p. 484.
494. Alla luna. La più parte de' suoi canti migliori il Leopardi compose nel detestato soggiorno di Recanati, dove si aggravavano di solito tutti i suoi mali, e dov'egli si sentiva più disperatamente infelice.
495. La natura e la moda nelle Operette morali; il mondo in un dialogo inedito.
496. Che il contrasto forma, in certo qual modo, l'anima della poesia del Leopardi, fu avvertito già da parecchi, e largamente dimostrato da I. Della Giovanna, La ragion poetica dei canti di Giacomo Leopardi, Verona, 1892.
497. Schopenhauer e Leopardi; Saggi critici, 4ª ediz., Napoli, 1881, p. 296. Ma nel già più volte citato Studio, a p. 292, il De Sanctis scrisse: «A Giordani e agli altri letterati potè parere quella prosa un deserto inamabile, e più uno scheletro che persona viva».
498. Abbozzo dell'opera Storia dello spirito pubblico d'Italia per 600 anni considerato nelle vicende della lingua; Opere, t. IX. p. 109.
499. Studio su Giacomo Leopardi, pp. 289, 292.
500. Lett. al Giordani, 30 aprile 1817 e 12 maggio 1820; Epistol., vol. I, pagine 60, 272.
501. Lett. al Giordani, 21 giugno 1819; Epist., vol. I. p. 207.
502. Lett. al Giordani, 12 maggio 1820; Epistol., vol. I. p. 272.
503. Vedi addietro, p. 339.
504. Appendice all'epistolario e agli scritti giovanili, pp. 248-9.
505. Non so se il Giordani si fosse lasciato persuadere dal Vida, il quale prescriveva, a chi volesse divenir poeta, assidua e diligente lettura di Cicerone.
506. Lett. del 30 aprile 1817; Epistol., vol. I, pp. 61-3.
507. Nè ad essa contraddiceva il Leopardi, quando, col Paciaudi, chiamava la prosa la nutrice del verso. Appendice all'epistolario, p. 243.
508. La metrica del Leopardi potrebbe dare argomento a lungo discorso; ma non è qui luogo da ciò. Il tema fu toccato già da parecchi; ma nessuno, ch'io sappia, ne fece trattazione ordinata e compiuta.
509. Per le questioni cui può dare materia il ritmo, vedi Neumann, Untersuchungen zur Psychologie und Aesthetik des Rhythmus; Philosophische Studien X (1894).
510. Veggasi ciò che scriveva al Giordani il 27 di marzo del 1817; Epistol., vol. I. p. 41.
511. Questo saggio fu pubblicato la prima volta nella Nuova Antologia, Serie IV, vol. LXVII (1897).
512. Die Entartung, 2ª ediz., Berlino, 1893, vol. I. pp. 201, 203-5.
513. Ai nuovi spasimanti della natura, epigoni inconsapevoli di Gian Giacomo Rousseau, e, come questo, condannati alle più stridenti contraddizioni, raccomanderei la lettura e la meditazione di quel breve ma succoso saggio cui lo Stuart Mill pose titolo Nature.
514. Lettre à la jeunesse, nel volume intitolato Le roman expérimental, pagina 103. Un officio in tutto simile fu pure assegnato alla poesia dal Nordau.
515. Debbo avvertire che, discorrendo del simbolismo, io prendo la parola simbolo nel suo significato più largo, intendendo per esso, così il simbolo propriamente detto, come l'allegoria: e ciò faccio, non tanto per amore di semplicità, quanto per attenermi all'uso stesso dei simbolisti.
516. Lo stesso Huysmans, l'autore ultrarealista e pornografo di Marthe e di les sœurs Vatard, convertito al cattolicismo, pubblicherà fra breve un romanzo intitolato Cathédrale, e si accinge a scrivere la Vita di Santa Lidvina. Peccato che questa santa donna lasci desiderar qualche cosa sotto il rispetto della celebrità! La buona memoria di Pietro Aretino parmi s'avvisasse assai meglio scrivendo la Vita di Santa Caterina, la Vita di San Tommaso d'Aquino, la Vita di Maria Vergine e la Umanità di Cristo.
517. The origin and function of music, nel vol. II degli Essays, edizione del 1891, pp. 424-6.
518. Vedi tra i recentissimi Fouillée, Le mouvement idéaliste et la réaction contre la science positive, Parigi, 1896, pp. XXVII-XXVIII. Parmi meriti d'essere ricordato che, sino dal 1707, Giambattista Vico affermava, in una delle sue orazioni inaugurali, la virtù della scienza nel togliere la varietà delle opinioni e conciliare l'uomo con l'uomo.
519. Veggasi il libro del compianto Guyau, L'art, au point de vue sociologique, Parigi, 1889, libro di molto valore, sebbene non iscevro d'errori.
520. L'Ermitage, aprile 1894.
521. Alcuni simbolisti italiani ostentano di parlare del De Sanctis, non pure con ammirazione, ma con venerazione. Fanno benissimo; ma non dovrebbero dimenticare ch'egli espresse una sua saldissima e costante opinione quando, nel saggio su Francesca da Rimini, scrisse che quello che non si riesce a capire non merita d'essere capito, e che quello solo è bello che è chiaro.
522. La littérature de tout à l'heure, Parigi, 1889, p. 324.
523. The philosophy of style; Essays, ediz. cit., vol. II, p. 356.
524. Sulla potenza suggestiva delle grandi scene di paese, vedi le belle osservazioni dello Spencer, The Principles of Psycology, 3ª ediz., Londra. 1881. vol. I, cap. VIII, p. 485.
525. Parlo, s'intende, in generale; ma non voglio escludere la possibilità che, tra persone in cui il fenomeno si produce in modo affatto eguale, il fenomeno stesso dia occasione e modo di ottenere certi effetti d'arte. V. Suarez de Mendoza, L'audition colorée. Étude sur les fausses sensations secondaires physiologiques et particulièrement sur les pseudo-sensations de couleur associées aux perceptions objectives des sons, Parigi. 1890.
526. Non mancano in Italia alcuni giovani che sentono altamente dell'arte, ripugnano agli andazzi, e, cercando il nuovo, non credono però necessario di vituperar tutto il vecchio. Se dovessi parlare di loro, parlerei con quella lode che stimo esser loro dovuta.
527. Qualcuno potrebbe obbiettarmi: E le recenti prose e i recenti versi del D'Annunzio? Riconosco in quelle prose e in que' versi l'influsso del simbolismo; ma non per questo ho in conto di simbolista il D'Annunzio. Anzi le più spiccate e veramente proprie sue virtù d'artista mi pajono contrastare al simbolismo e non potersi conciliare con esso. Chi scrisse, per citare un esempio, l'Allegoria dell'autunno, non può non essere un nemico nato della chanson grise.
528. L'évolution de la poésie lyrique en France au dix-neuvième siècle, Parigi. 1894. vol. II, pp. 255-56.
529. Ma non alle macchine tipografiche, con l'ajuto delle quali, fattosi editore di sè stesso, guadagnò molti quattrini!
530. Geschichte der Aesthetik in Deutschland, Monaco, 1868, pp. 74 e segg., 512-14.
531. Tale appunto è la tesi sostenuta dal Fechner, Vorschule der Aesthetik, Lipsia, 1876, dal Guyau, Les problèmes de l'esthétique contemporaine, Parigi, 1884, e, più recentemente ancora, dal Rutgers Marshall, Pain, Pleasure and Aesthetics, Londra, 1894.
532. Vedi in proposito Ribot, La psychologie des sentiments, Parigi, 1896, pp. 301 e segg.
533. Le naturalisme au théâtre, nel già citato volume Le roman expérimental, pp. 141, 147.
534. Fra le tendenze avverse al naturalismo bisogna pure annoverare quella che si manifesta nello psicologismo, e che ha trasformato, negli ultimi anni, il dramma ed il romanzo. Il naturalismo non conosce quasi altra vita interiore se non quella ch'è determinata da cause esterne: lo psicologismo fa conoscere tutta una vita interiore complicatissima, immediatamente determinata dall'azione e reazione degli elementi e dei fatti psichici gli uni sugli altri. Il naturalismo tende a dissolvere l'uomo nell'ambiente; lo psicologismo a circoscriverlo in mezzo a quello.
535. Copiosissima sopratutto in Germania, dove la Deutsche Arbeiter Dichtung e il Socialdemocratisches Liederbuch empiono più volumi. Che nel settentrione d'Europa l'idea sociale s'è quasi insignorita del teatro è risaputo da tutti; e che alcuni dei molti drammi suscitati da quell'idea sono opere d'arte di gran valore non fa bisogno di ricordare.
536. Questo breve scritto comparve la prima volta nella Nuova Antologia, Serie III, vol. XXXIII (1891). Lo ripubblico ora, sembrandomi che le congetture espressevi non sieno state contraddette dai fatti.
537. Principles of psychology, 3ª ediz., Londra, 1881, pp. 531. segg.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.