The Project Gutenberg eBook of Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3, by Gino Capponi

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Title: Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3

Author: Gino Capponi

Release Date: February 1, 2022 [eBook #67296]

Language: Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DELLA REPUBBLICA DI FIRENZE V. 2/3 ***

STORIA DELLA REPUBBLICA DI FIRENZE. TOMO SECONDO.


STORIA
DELLA
REPUBBLICA DI FIRENZE

DI
GINO CAPPONI.

SECONDA EDIZIONE RIVISTA DALL’AUTORE

Tomo Secondo.

FIRENZE,
G. BARBÈRA, EDITORE.

1876.


Depositata al Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio per godere i diritti accordati dalla legge sulla proprietà letteraria.

G. Barbèra.

Gennaio 1875.


SOMMARI DEL TOMO SECONDO.

Libro Quarto.
 
Capitolo I. — Tumulto de’ Ciompi. — Michele di Lando. [An. 1378.] Pag. 1
 
Tirannia del magistrato di Parte guelfa. — Delle prestanze, e modi creati a ripartirle. — Monte comune, e sue vicende; giochi di Borsa. — Grasso vivere e scioperato. — Dissidio tra le Arti maggiori e le minori: Arte della lana. — Salvestro dei Medici gonfaloniere [1º maggio 1378]. — Disegni audaci dei Capitani della Parte. Bettino da Ricasoli. — Benedetto Alberti leva il rumore: le Arti con le loro insegne vengono in Piazza; arsioni di case; Lapo da Castiglionchio: ruberie; congiure nella più minuta plebe. Gli Otto rimasti in ufficio soffiano in quell’incendio. Rivelazioni d’un congiurato. — La plebe in arme; nuove arsioni: espugnano il palazzo del Potestà; strage d’un bargello. — Petizioni sovvertitrici vinte per forza: la plebe a furia entra in Palagio [22 luglio]. — Michele di Lando gonfaloniere. — Gli Otto rimasti in Palagio, ne sono poi cacciati dalla plebe: Giorgio Scali. — Bandi e provvigioni della nuova Signoria. — L’infima plebe viene in Piazza [fine d’agosto] e fa eleggere a suo modo la Signoria nuova. Poi si raduna in Santa Maria Novella, e torna in Piazza con petizioni che alcuni di loro, salendo le scale, vogliono imporre alla Signoria. Michele di Lando, presa una spada, gli assale e persegue giù per la scala. Poi monta a cavallo, e percorre la città gridando morte ai traditori. Si combatte intorno al Palagio, ma i Ciompi sono vinti e dispersi. — Michele di Lando finisce l’ufizio: gastighi ai Ciompi.
 
Capitolo II. — Governo delle Arti minori, che indi passa nelle maggiori. — Racquisto d’Arezzo. [An. 1378-1387.] 37
 
[vi]
Stato della città. — Congiure, trame, sospetti, condannagioni: sono tratti a morte Piero degli Albizzi, Donato Barbadori ed altri chiari cittadini. — Alberico da Barbiano forma la prima Compagnia Italiana di ventura. — Carlo di Durazzo piglia la signoria d’Arezzo. — Provvedimenti e leggi tiranniche in Firenze. — Giorgio Scali e Tommaso Strozzi, seguiti da minuti artefici, si pongono sopra alle leggi. — Le Arti si levano, e Giorgio è preso e decapitato [gennaio 1382]. — L’Arte della lana e le altre maggiori vengono in Piazza: si fa Parlamento e balìa numerosa per la riforma dello Stato. — Abolizione delle due Arti nuovamente aggiunte: le maggiori ottengono il maggior numero negli uffici: le Arti minute insieme coi Grandi invano cercano opporsi. — I malcontenti di tutte le parti, uniti insieme, destano altri tumulti. — Arezzo viene alle mani d’Alberico da Barbiano, poi di Enguerramo di Coucy francese che la vende ai Fiorentini; altri acquisti, e ordinamento del governo in quella Provincia. — Esilio di Benedetto Alberti, e bando a tutta quella famiglia. — Nuovi ordinamenti a più ristringere il Governo.
 
Capitolo III. — Nimistà e guerre con Giovan Galeazzo Visconti. — Costituzione d’un governo d’ottimati. [An. 1387-1402.] 62
 
Giovanni Galeazzo Visconti si fa signore di Milano. — Sue conquiste oltre Po. — Manda soccorsi ai Senesi, i quali insieme co’ Perugini erano in guerra con Firenze per le cose di Val di Chiana. — Dichiara guerra ai Fiorentini, i quali mandano Giovanni Aguto al soccorso di Bologna e poi di Padova. L’Aguto si avanza di là fino all’Adda. — Discesa in Lombardia del Conte d’Armagnac assoldato dai Fiorentini: questi muore sotto alle mura d’Alessandria, rotto e disfatto da Iacopo del Verme capitano del Visconti [25 luglio 1391]. — L’Aguto per grande maestria perviene in Toscana, dov’era già entrato Iacopo del Verme. Dopo lunga scherma tra’ due eserciti, una pace si conchiude. — Iacopo d’Appiano uccide Piero Gambacorti e occupa la signoria di Pisa. — 1393. Maso degli Albizzi gonfaloniere. — Nuova riforma in modo più stretto. — Bando a tutta la famiglia degli Alberti. — Fanti genovesi assoldati e messi a guardia della Piazza. — Gli artefici fanno capo a Vieri de’ Medici, il quale rifiuta stare con loro. — Rinaldo Gianfigliazzi umiliato, Donato Acciaiuoli messo in accusa e sbandito [1396]. — Due congiure successive per uccidere Maso degli Albizzi. — Gastighi e molte famiglie battute; finale proscrizione contro a tutta quella degli Alberti. — Negoziati con Roma, con Napoli, con Francia e Germania contro al Duca di Milano. — Roberto re dei Romani scende in Italia [1401]. — Processioni dei Penitenti bianchi. — Giovanni Galeazzo per battaglia entra in Bologna e stringe con le armi da ogni parte la Toscana. — Morte di Giovanni Galeazzo [3 settembre 1402].
 
Capitolo IV. — Acquisto di Pisa. [An. 1402-1406] 92
 
[vii]
Morto Giovanni Galeazzo, lo Stato di Milano viene a disfarsi. — Gabriele Maria, figlio non legittimo, ha in eredità Pisa, ma costretto mettersi in protezione dei Francesi che erano in Genova. — Vari negoziati del Maresciallo di Bouciquaut governatore di questa città co’ Fiorentini per la signoria di Pisa. — Questi poi l’hanno in vendita dal Visconti; ma i Pisani si levano e cacciano i Francesi, dopo di che il Maresciallo cede la Cittadella ai Fiorentini. — Tosto il popolo di Pisa invade anche questa, e vi si rafforza: comincia la guerra tra Pisa e Firenze in più luoghi combattuta con grande passione: virtù di Sforza Attendolo, condottiero che stava coi Fiorentini. — Questi cercano avere Pisa per fame. — I Pisani si danno al Duca di Borgogna, ma non perciò hanno soccorso dai Francesi. — Giovanni Gambacorti, che era come signore in Pisa, ottiene accordo a lui molto largo: i Fiorentini, a’ 9 d’ottobre 1406, entrano nella città affamata e ne pigliano la possessione. — Diceria di Gino Capponi ai notabili di Pisa. — Allegrezza e feste a Firenze, dove portano il volume delle Pandette. — Crudeli provvedimenti per vuotare Pisa d’abitatori. — Condizione disperata di quella città. — Effetti venuti da quell’acquisto alla Repubblica di Firenze.
 
Capitolo V. — Concilio di Pisa. — Guerra con Ladislao re di Napoli. — Acquisto di Cortona e di Livorno. [An. 1407-1421.] 120
 
Ladislao re di Napoli invade le terre della Chiesa. — Piglia in protezione Gregorio XII, nuovo papa, contro all’antipapa Benedetto XIII. — I Fiorentini inimicati con Gregorio consentono alla riunione in Pisa d’un Concilio per terminare lo scisma. — Il Concilio, deposti i due papi, n’elegge un terzo, Alessandro V [giugno 1409]: questi essendo morto l’anno seguente in Bologna, a lui succede Baldassarre Cossa col nome di Giovanni XXIII. — Ostilità tra Ladislao e i Fiorentini. — Discesa in Italia di Luigi d’Angiò. Ladislao cede ai Fiorentini Cortona; poi nuova guerra e minaccia grande contro allo Stato di Firenze; Ladislao muore a’ 6 agosto 1414. — Viene a Firenze Filippo Scolari fiorentino, detto Pippo Spano, gran personaggio presso a Sigismondo in Ungheria. — Sigismondo, fatto imperatore, promuove il Concilio che s’adunò in Costanza l’an. 1414. — Deposti i tre Papi contendenti, viene eletto pontefice Martino V, di casa Colonna, il quale piglia dimora in Firenze. — Male contento dei Fiorentini, si parte [1420] dopo avere quivi ricevuto l’ubbidienza di Giovanni XXIII; morte di questo e sue relazioni co’ principali di Firenze. — Felice stato della città. L’Arte della seta arriva qui a uno splendore altrove ignoto. — Cercavano farsi potenti sul mare, al che i Veneziani si contrapponevano. Galere mandate in Egitto e in altri luoghi. Trattati per causa di traffici co’ Grimaldi di Monaco e con altre famiglie Genovesi. — 1421. La Repubblica di Firenze compra Livorno da quella di Genova. — Grandi spese fatte, mantenendo alto il credito dei Libri del Monte. — Fondazione dello Spedale degli Innocenti. — Riforma degli Statuti per opera del giureconsulto Paolo da Castro.
 
Capitolo VI. — Guerra con Filippo Maria Visconti. — Niccolò da Uzzano, Giovanni de’ Medici, Rinaldo degli Albizzi. [An. 1422-1428.] 146
 
[viii]
Qualità di quello Stato: persecuzione contro la famiglia degli Alberti. — Arti per mantenere lo Stato piuttosto con la virtù degli uomini che delle leggi. — Venezia ad essi era esemplare, ma non potevano agguagliarlo. — Maso degli Albizzi. — Niccolò da Uzzano. — Giovanni de’ Medici. — Lagnanze, accuse. — Creazione del Consiglio dei Dugento. — Filippo Maria Visconti signore in Milano. — Trattato da lui proposto ai Fiorentini. — Questi per accomandigie e protezioni tengono la media Italia. — Entrano in guerra col Visconti e sono rotti a Zagonara [1424, 24 luglio]. — Grande malcontento per le gravezze. — Fanno chiudere le Confraternite, nelle quali erano spiriti popolari. — Radunanza in Santo Stefano; discorso attribuito a Rinaldo degli Albizzi. — La parte dei Medici comincia a mostrarsi; consigli di Niccolò da Uzzano. — Altre sciagure in Romagna. — Pratiche in Italia; circospezione dei Veneziani; Lorenzo Ridolfi. — Grande Lega contro al Visconti [27 gennaio 1426]. — Firenze soccorre i fuorusciti Genovesi; virtù di Tommaso Frescobaldi. — Fatti gloriosi del Carmagnola per i Veneziani in Lombardia. Battaglia di Maclodio, dove le armi del Duca sono rotte dai Veneziani e Fiorentini. — Pace conchiusa [18 aprile 1428]. Venezia distende il suo dominio fino all’Adda.
 
Capitolo VII. — Catasto. — Ribellione di Volterra. — Guerra di Lucca. [An. 1427-1433.] 178
 
Formazione del Catasto [1427]; come fosse popolarmente chiesto, come passasse nei Consigli. — Regole minute per fare il Catasto. — I Volterrani, come distrettuali, negano esservi assoggettati. — Durezze dei Fiorentini; ribellione di Volterra presto gastigata. — Niccolò Fortebracci promuove le occasioni ad una guerra contro Paolo Guinigi signore di Lucca. — Morte di Giovanni de’ Medici. — Neri Capponi, poi l’Albizzi e tutta la parte dei Medici stanno per quella guerra. — Rinaldo, che era uno dei Commissari, per disgusti avuti si parte dal campo [18 marzo 1429]. — Disegno del Brunelleschi per allagare Lucca, male riuscito. — Antonio Petrucci senese, restaura la difesa di Lucca. — Francesco Sforza, entrato in Lucca, s’impadronisce della persona di Paolo Guinigi e delle ricchezze, mandatolo a morire prigione in Pavia. — Niccolò Piccinino viene in soccorso dei Lucchesi; assale il campo Fiorentino, che è messo in rotta [2 dicembre 1430]. — Congiura in Pisa d’un Gualandi. — I Fiorentini fanno intorno a Lucca grande difesa contro al Piccinino, il quale, scorrendo la Toscana, reca ad essi grandi mali; guerra mossa contro al Duca dai Veneziani e Fiorentini. — Battaglia navale a Portofino; prodezza di Raimondo Mannelli: fatti di arme in Lombardia. — Battaglia di Maclodio; Niccolò da Tolentino sostiene la guerra pei Fiorentini felicemente. — Passaggio per la Toscana dell’Imperatore Sigismondo. — Pace col Visconti [10 maggio 1433].
 
Capitolo VIII. — Esilio e ritorno di Cosimo de’ Medici. [An. 1433-1434.] 202
 
[ix]
Popolarità di Cosimo dei Medici. — Parti e opinioni diverse nella Repubblica; parere attribuito a Niccolò da Uzzano. — Rinaldo degli Albizzi, Neri Capponi, Legge degli Scandalosi. — Contegno di Cosimo. Questi, chiamato in Palagio, è chiuso in carcere [7 settembre 1433]. — Parlamento, Balìa, nuove leggi, sentenza contro a Cosimo e Averardo de’ Medici. — Cosimo, dopo un mese di prigionia, è mandato a Padova in confine. — Acquista dall’esiglio maggiore favore, ed è onorato come principe dai Veneziani. — Guerra in Romagna. — Signoria amica ai Medici, cita a comparire [26 settembre] l’Albizzi ed altri. Questi si arma; dubbi consigli degli uomini principali. — Era in Firenze Eugenio IV, che s’intromette per un accordo. Rinaldo degli Albizzi, in quello fidatosi, licenzia gli armati per lui. — 29 settembre. Parlamento e Balìa che richiama il Medici e bandisce Rinaldo e pochi altri. — Cosimo e il fratello, prima fermatisi in Ferrara ed accompagnati sino ai confini da gente del Duca, rientrano in Firenze a dì 6 ottobre 1434.
 
Capitolo IX. — Gli studi classici in Firenze; grande incremento delle Belle Arti. [An. 1378-1434.] 227
 
Decadenza sollecita delle latine lettere: abbandono degli studi classici. — Primo il Petrarca diede moto alla ricerca degli antichi scrittori: promosse lo studio anche del greco, e seco il Boccaccio. Istituzione in Firenze l’anno 1360 d’una cattedra di greco, prima in Occidente. — Coluccio Salutati e sua grande fama. — La lingua volgare fu allora trascurata dai letterati, ma progrediva nell’uso dello scrivere familiare. — Franco Sacchetti e sue Novelle. — Il Pecorone di ser Giovanni Fiorentino. — Cronisti: Marchionne Stefani, Piero Minerbetti, Gino e Neri Capponi, Iacopo Salviati, due Buoninsegni, Giovanni Morelli, Goro Dati, Bonaccorso Pitti. — Scrittori ascetici e morali: frate Giovanni Dominici. — Leonardo Aretino: sua Istoria di Firenze, suoi Commentarii e traduzioni di autori greci. — Studio fiorentino: Emanuele Crisolora v’insegna il greco, an. 1396: Lorenzo Ridolfi e Marcello Strozzi spiegano leggi; Paolo Minucci insegna il diritto feudale; Paolo da Castro fu ordinatore dello Statuto fiorentino; il cardinale Francesco Zabarella e Fra Leonardo Dati maestri in teologia; Filippo Villani e Giovanni da Ravenna tennero la cattedra per l’illustrazione della Divina Commedia. — Cessò lo Studio l’anno 1421. — Niccolò da Uzzano aveva lasciato l’eredità sua per un Collegio di cinquanta alunni, ma il testamento non fu eseguito. — Molti uomini ricchi s’adopravano a cercare e a fare copiare libri latini e greci, fra tutti insigne Palla Strozzi: Ambrogio Traversari, monaco autorevole per dottrina, tradusse dal greco autori antichi. — Niccolò Niccoli e sua famosa biblioteca. — Poggio Bracciolini da Terranova, cercatore indefesso e soprattutti fortunato di libri classici: sua Istoria fiorentina, trattati latini e lettere. — Nei letterati era corruttela; migliori gli artisti, ed il secolo non tutto guasto. — Masaccio e frate Giovanni Angelico pittori. — Luca della Robbia e sua famiglia, loro bassorilievi di plastica verniciata. — Filippo Brunelleschi, Cupola del Duomo, chiese di Santo Spirito e di San Lorenzo, Palazzo dei Pitti. — Donatello e sue opere di scultura. — Lorenzo Ghiberti: porta maggiore di San Giovanni ed altre sue opere in bronzo e orificerie.
[x]
 
Libro Quinto.
 
Capitolo I. — La Repubblica sotto a Cosimo de’ Medici. — Altra guerra contro Lucca. — Concilio di Firenze. — Niccolò Piccinino in Toscana. — Acquisto di Borgo San Sepolcro e del Casentino. [An. 1434-1441.] 245
 
Nuovo indirizzo dato al Governo. — Grande numero di sbanditi: Palla Strozzi. — Arte usata da Cosimo. — Congiure, condanne. — Guerre intorno a Roma e nella Marca. Pace col Visconti. — I Genovesi in battaglia di mare fanno prigione il re Alfonso d’Aragona: poi scosso il giogo del Visconti, hanno soccorsi dai Fiorentini. — Eugenio IV prima di lasciare Firenze consacra la nuova chiesa di Santa Maria del Fiore. — Niccolò Piccinino entra in Toscana mandato dal Duca; pei Fiorentini vi entra Francesco Sforza: la guerra si rompe di nuovo in Lombardia: i Fiorentini assaltano Lucca e acquistano Montecarlo. — Viluppi della politica italiana: i Fiorentini costretti fare pace con Lucca. — An. 1439, Concilio in Firenze per l’unione tra la Chiesa Greca e la Latina. — Arti di Filippo e del Piccinino. Lo Sforza mandato dai Fiorentini al soccorso dei Veneziani. Guerra tra’ due grandi condottieri. Il Piccinino accompagnato dai fuorusciti fiorentini passa in Toscana. — Sua grave rotta sotto Anghiari [29 giugno 1440]: egli e i fuorusciti abbandonano la Toscana. — Morte di Rinaldo degli Albizzi. — I Fiorentini acquistano Borgo San Sepolcro e il Casentino cacciandone la famiglia dei conti Guidi. — 1441. Pace col Visconti.
 
Capitolo II. — Interne cose della Repubblica. — Balìa del 1444. — Guerra del re Alfonso in Toscana. — Guerre in Lombardia. [An. 1441-1450.] 275
 
Uccisione di Baldaccio d’Anghiari. — Cosimo de’ Medici e Neri Capponi. — Sono rifatte le Borse nelle quali entrano nuovi uomini. Famiglie di Grandi riammesse agli uffici ma poche per volta. — Al Catasto abolito viene sostituita una Decima Scalata, per la quale un maggiore aggravio cadesse su’ ricchi. Frequente ripetizione di quella gravezza. Arbitrio nell’imporla: modi per impoverire gli avversari ed arricchire alcuni amici: Monte delle Doti. — Lagnanze ed accuse contro a quello Stato. — Nuova Balía, nuovo squittinio, famiglie escluse dagli uffici, revisione delle antiche leggi. — Guerre tosto riaccese nella Marca. — Francesco Sforza diviene genero del duca Filippo. — Fine di Niccolò Piccinino. — Alfonso d’Aragona entrato in Toscana combatte Piombino, poi ritiene Castiglione della Pescaia. — Niccolò V si fa mediatore di una pace che si trattò in Ferrara. — 1447. Morte di Filippo Maria Visconti. — Milano costituitosi in Repubblica e per vari inganni ora difeso e ora oppugnato dai Veneziani e da Francesco Sforza, cede infine a questo che l’anno 1450 si fa proclamare duca di Milano.
[xi]
 
Capitolo III. — Amicizia con Francesco Sforza duca di Milano. — Nuova Balìa e nuovo Catasto. — Vecchiezza e morte di Cosimo de’ Medici. [An. 1450-1464.] 297
 
Cosimo dei Medici si era tenuto sempre amico Francesco Sforza. Motivi personali che egli ne aveva e motivi pubblici. Pericoli dalle ambizioni dei Veneziani ed ora da quelle del re Alfonso d’Aragona. — Sovvenzioni allo Sforza col danaro della Repubblica. — Difficoltà incontrate da Cosimo nei Consigli e nella opinione popolare. — Arti usate da lui e dalla sua parte: magistrati fatti a mano. — I Bolognesi chiamano un giovane del Casentino a governare la città loro col nome di Santi Bentivoglio. — Si rompe la guerra dai Veneziani e dal re Alfonso contro al nuovo Duca di Milano ed ai Fiorentini. — 1452. Viene in Firenze Federico imperatore. — Ferdinando figlio del re Alfonso scende in Toscana, ma per breve tempo. — Guerra in Lombardia. — I Fiorentini chiamano Renato d’Angiò all’impresa di Napoli: questi, senza aver fatto cosa di conto, torna in Francia. — Costantinopoli è preso dai Turchi, 1453. — Pace di Lodi, 1454. — Morte del re Alfonso. — Ingiustizia in Firenze delle tasse: Giannozzo Manetti. — Arti di Cosimo per nascondere la sua potenza. — 1457. Morte di Neri Capponi. — Grande e terribile uragano. — 1458. Rinnovazione del Catasto. Nuova forma che piglia la guerra tra’ pochi e i molti. Condanne. — Abbassamento del Potestà, gli onori di Capo dello Stato essendo attribuiti al Gonfaloniere. — Potenza e vanità di Luca Pitti: accorgimento del vecchio Cosimo. — Pio II in Firenze. — Grandi feste. — Morte dell’arcivescovo Sant’Antonino. — 1464. Pio II muore in Ancona, dove aveva chiamato una grande Crociata contro ai Turchi. — 1º agosto. Morte di Cosimo dei Medici. Sue qualità, sue ricchezze, magnificenza di edifizi, servigi resi da lui alle lettere ed alle arti.
 
Capitolo IV. — Piero di Cosimo de’ Medici. [An. 1464-1469.] 331
 
I principali di quello Stato, ma ciascuno con diversi pensieri, cercano abbassare la potenza di Piero dei Medici: i Magistrati tornano ad essere tratti a sorte. — 1466. Per la morte di Francesco Sforza le due parti vengono a guerra scoperta, gli avversari di Piero de’ Medici negando sovvenire con danari alle necessità del nuovo duca Galeazzo Maria, e ciascuna armandosi dentro la città e avendo aderenti fuori. La vita di Piero è insidiata, ma questi poi col tirare a sè Luca Pitti, ripiglia lo Stato con l’esilio dei suoi nemici. — I Veneziani muovono contro alla Toscana, ma segretamente, il vecchio capitano Bartolommeo Colleoni insieme co’ fuorusciti di Firenze. Viene con esso a battaglia Federigo conte di Urbino, Capitano della Lega. Scontri per terra e per mare: parole del Duca di Milano: infine, 1468, Paolo II fattosi arbitro della pace, la impone a tutti gli Stati d’Italia. — Acquisto di Sarzana. — Grandezza principesca della Casa Medici: educazione di Lorenzo: sue visite alle Corti d’Italia, e fama ch’egli si acquistava: suo matrimonio. — 3 dicembre 1469. Morte di Piero de’ Medici.
[xii]
 
Capitolo V. — Giovinezza di Lorenzo e di Giuliano de’ Medici. — Ribellione di Volterra. — Congiura de’ Pazzi; morte di Giuliano. [An. 1469-1478.] 353
 
Lorenzo capo effettivo dello Stato. — Venuta in Firenze del Duca di Milano: grandi sontuosità, grandi feste. — Consigli del Popolo e del Comune aboliti. Consiglio dei Cento, nel quale entravano i più fidati: pure difficoltà grandi a far passare le nuove leggi, a scemare il numero delle Arti, a vendere i beni della parte Guelfa che diventò Magistrato per la cura delle opere pubbliche. Fiducia riposta da Casa Medici negli Accoppiatori che presiedevano alle tratte. Bargello per il contado con uomini armati. — Ribellione dei Volterrani offesi da Lorenzo per un suo privato interesse: grande radunamento di forze contro a quella città che si rende a patti, violati crudelmente dai vincitori. — 1471. Sisto IV nuovo papa, e sua famiglia. — Pratiche per fare Giuliano cardinale: sua giostra. — Nuovi ordini a vie più stringere il governo: cessa il Capitano del Popolo, l’Esecutore degli Ordini di Giustizia ridotto a Bargello, imposte al Potestà le sentenze ch’egli deve pronunziare. — Uccisione di Galeazzo duca di Milano, 26 dicembre 1476. — Sisto IV. Girolamo Riario. Francesco dei Pazzi. Offese di Lorenzo contro alla famiglia dei Pazzi. — Francesco Salviati arcivescovo di Pisa. — Iacopo dei Pazzi capo di questa famiglia. — Francesco s’intende in Roma con Girolamo Riario, ed essi fanno il Papa consentire alle pratiche per una mutazione di Stato in Firenze. — Apparecchi alla esecuzione della congiura. Venuta in Firenze del giovane cardinale Raffaele Riario. I congiurati si fermano nel pensiero d’uccidere i due fratelli in Duomo la domenica 26 aprile 1478. — Francesco dei Pazzi trafigge a morte Giuliano: Lorenzo da due altri congiurati ferito nel collo, si rifugia in sagrestia. — L’arcivescovo Salviati con altri va in Palagio per occuparlo; Iacopo de’ Pazzi con una frotta di armati viene in Piazza, ma niuno lo segue; molto popolo amico ai Medici accorre. Dentro al Palagio i congiurati sono presi; l’Arcivescovo con altri appiccato alle finestre, dalle quali è il rimanente gettato in Piazza. Lorenzo dalle finestre di casa sua si mostra al popolo. La plebe infuria. Francesco dei Pazzi colto nel letto suo è condotto in Palagio ed appiccato con gli altri; quanti dei Pazzi trovarono, tutti uccisi. Il vecchio Iacopo de’ Pazzi, colto nella fuga, è portato ad appiccare anch’egli in Palagio: la plebe fa del suo cadavere nefando ludibrio. — Condanne contro alla famiglia dei Pazzi. — Di Giuliano dei Medici nacque un figlio che divenne poi Clemente VII.
[xiii]
 
Capitolo VI. — Guerra con Sisto IV. — Lorenzo de’ Medici a Napoli. [An. 1478-1480.] 380
 
Contegno di Sisto IV dopo avuta la notizia di quei tristi fatti: più tardi le ire si accendono in Roma e in Firenze. Breve di scomunica e di persecuzione contro a Lorenzo dei Medici; la città è interdetta: richiami e scritture contro al Breve; Lorenzo invoca soccorso dai Principi della cristianità. — Cominciano le ostilità: Breve del Papa, a cui risponde pubblicamente Lorenzo in Palagio. Gli è data una guardia di dodici armati. — Guerra in Toscana. — Proposta del Papa rigettata. Favore di Luigi XI per Lorenzo: negoziati in Italia e fuori. — Diviene la guerra sempre più difficile: la città stracca, minaccia voltarsi contro a Lorenzo. Questi, mancandogli alleati certi, delibera arditamente di gettarsi in braccio al re Ferrando suo nemico. — 6 dicembre 1479. Espone in Pratica ristretta il suo consiglio e parte per Napoli: varie impressioni di questo fatto nella città, che rimane quieta. — Lorenzo in Napoli si guadagna favore in Corte e nella città. Lunghezze del Re; partenza improvvisa di Lorenzo, alla quale tiene dietro il trattato della pace. Letizia in Firenze. — Il Duca di Calabria venuto a Siena fa mostra di volerne occupare la signoria. — I Turchi in Otranto; al che Alfonso lascia la Toscana, andato a combatterli con sua molta gloria. — I Fiorentini mandano a chiedere assoluzione, la quale il Papa solennemente concede.
 
Capitolo VII. — Governo di Lorenzo. — Moti diversi e indi pace universale. — Morte di Lorenzo. [An. 1480-1492.] 403
 
Balía eletta senza le forme consuete di Parlamento. Formazione di un Consiglio Maggiore con autorità sovrana. A questo o a parte di esso appartenga la scelta dei minori uffici. — Ordine dei Settanta, anch’esso permanente e da rinnovarsi dentro sè stesso: aveva le attribuzioni d’un Senato da stare a fianco della Signoria: da questo dovevano uscire gli uffici più rilevanti. — Riforma del Catasto ridotto a imposizione progressiva. — Provvedimenti circa al Monte Comune e a quello delle Doti, nei quali il servirsene che i Medici facevano di continuo aveva condotto grandi disordini. — Liberazione d’Otranto. — Guerre del Papa e dei Veneziani contro Ferrara, e del Duca di Calabria unito a Lodovico Sforza e ai Fiorentini nel Patrimonio e nella Romagna e in Lombardia. — Pratiche per la convocazione di un Concilio. — Pace separata di Sisto IV. — Dieta in Cremona dei collegati contro a’ Veneziani, dove andò Lorenzo dei Medici. — Pace di Bagnolo. Morte di Sisto IV, 1484. — Mutazioni in Siena col favore di Lorenzo. — Guerra co’ Genovesi per Sarzana e acquisto di Pietrasanta. — Congiura in Puglia dei Baroni, e guerra intorno a Roma; indi pace. — Sarzana riacquistata: Lorenzo de’ Medici in campo. — Uccisione di Girolamo Riario; moti nella Romagna. — Grande favore di cui godeva in Roma Lorenzo: maritaggio d’una sua figlia con Franceschetto Cibo. Giovanni de’ Medici fatto Cardinale. — Pace universale in Italia. — Grandezza e fama di Lorenzo. — Sua famiglia. — Sue arti di Governo. — Come si giovasse del denaro pubblico; cerca di rinnalzare Pisa. — Di quante cose fosse centro la Casa Medici, e quali uomini vi convenissero. — Malattia e morte di Lorenzo. Parvero con lui avere termine le felicità d’Italia.
[xiv]
 
Capitolo VIII. — Scienze, Lettere ed Arti sotto il governo repubblicano di Casa Medici. [An. 1434-1494.] — La lingua toscana diviene italiana. 430
 
Ampliazione degli studi. I Greci in Firenze: Accademia Platonica iniziata nei tempi di Cosimo. — Marsilio Ficino. — Francesco da Diacceto continuatore della sua scuola. — Cristoforo Landino: suoi libri latini. — Leone Battista Alberti scrittore ed artista. — Sant’Antonino. — Giannozzo Manetti dotto in ebraico. — Segretari della Repubblica, Matteo Palmieri, due Marsuppini, Bartolomeo Scala, due Accolti. — Filippo Bonaccorsi, Paolo Cortese. — San Bernardino da Siena predicatore popolare. — Enea Silvio Piccolomini, papa col nome di Pio II; suo vario ingegno e sue opere. — Paolo Toscanelli consultato dal Colombo; suo gnomone. — Cenni sopra Leonardo da Vinci, Fra Luca Pacioli. — La pittura dopo Giotto. — I Ghirlandai, i due Lippi, Benozzo Gozzoli, Sandro Botticelli. — Andrea del Verrocchio: Mino da Fiesole e altri scarpellini che divennero scultori. I due da San Gallo, il Sansovino e il Cronaca, architetti. — Un poco più tardi. Fra Bartolommeo da San Marco e Andrea Del Sarto segnano il colmo nell’antica scuola della pittura fiorentina. — Maso Finiguerra, il Botticelli e Antonio Pollaiolo incisori in rame. Oreficeria, miniature in cartapecora. — Poesia sul finire del quattrocento. Feo Belcari, il Burchiello. Il Morgante di Luigi Pulci. — Angelo Poliziano. Girolamo Benivieni. — Lorenzo de’ Medici.
 
I letterati del quattrocento poco stimavano il volgare e poco l’usavano. Nemmeno ai sommi del secolo precedente facevano grazia: scrivevano latino o latineggiavano l’italiano. — La lingua nell’uso familiare progrediva, nell’uso dei dotti si era impoverita. — Non era il toscano mai stato parlato in modo solenne così da rendersi autorevole a tutta l’Italia: quindi nei libri mancò il magistero che viene ad essi dalla parola viva; e mancò a questa l’autorità e quella maggiore cultura che viene dai libri. — La sola Toscana ebbe cultura che bastasse fin dal principio della lingua a svolgerla in tutta l’ampiezza sua: nelle altre provincie più era da fare, e quello che si fece rimase dialetto. I dialetti grecizzanti delle provincie meridionali si discostavano dal toscano meno di quelli nei quali era mistura celtica. — Alla fine del quattrocento era già nata la stampa, che fu nuovo organo alla diffusione della parola: si fecero in varie città d’Italia edizioni dei sommi toscani. — Da questa provincia uscivano intanto libri atti a farsi popolari, come il Morgante e i libri italiani del Landino. Allora si cominciò a scrivere per tutta Italia in lingua toscana: questa deve tra i non Toscani all’Ariosto l’essere divenuta universale alla nazione. — Niccolò Machiavelli e Francesco Berni scrittori sommi. — Ma subito dopo l’Italia decadde; il nostro livello tra le altre nazioni discese ad un tratto: il popolo di Toscana meno operando, inventava meno; mancò la fiducia, mancò lo stimolo alle volontà; v’era in Italia poco da fare. — Mancò nei libri quello che si impara fuori dei libri; vennero i letterati, sparve il cittadino. — La [xv] lingua toscana non tenne mai signoria vera. Quello era il tempo dei grammatici che sono i fisiologi della lingua, come i fisiologi sono i grammatici della vita: viveano le lettere di basse facezie e nobiltà false. — Più tardi la scuola di Galileo rialzò la Toscana per oltre un secolo. — Ma quando in Italia si cercò l’unione anche nel fatto della lingua, apparve in questa la mancanza d’un’autorità sovrana ed egualmente da tutti ubbidita. — La lingua in Italia sarà quello che sapranno essere gli Italiani.
 
Appendice di Documenti.
 
I. Provvisione del 21 luglio 1378, approvata nei consueti Consigli a’ 21 e 22 471
Altra Provvisione dell’11 settembre 1378, approvata c. s. a’ dì 11 e 12 476
Altra del 28 settembre 1378, approvata il 28 e 29 480
 
II. Provvisione del 21 gennaio 1381 dall’Incarnazione 487
Altra Provvisione dello stesso giorno 488
Altra Provvisione come sopra 490
Altra Provvisione come sopra ivi
Provvisione del 22 gennaio 1381 dall’Incarnazione 492
Altra Provvisione de’ 23 gennaio 1381 come sopra 496
Altra del 24 gennaio ivi
Provvisione del 27 febbraio 1381 come sopra 499
Provvisione del 15 marzo 1381 dall’Incarnazione approvata negli opportuni Consigli a’ dì detto e a’ dì 16 502
 
III. Parlamento generale del 19 ottobre 1393 504
Provvisioni della Balìa, creata nel suddetto Parlamento, de’ 20 ottobre 1393 507
Altre Provvisioni della Balìa, come sopra, de’ 21 ottobre 514
 
IV. Lettere della Signoria concernenti all’acquisto e alla conservazione di Pisa. 1402-1407 518
 
V. Ordine degli Uffici della Repubblica di Firenze 524
Descrizione delle feste di San Giovanni 531
 
VI. Elenco delle Commissioni di Rinaldo degli Albizzi per il Comune di Firenze 535
 
VII. Tre lettere della Signoria di Firenze a Neri Capponi, oratore a Siena, per il caso di Brolio. Ottobre 1434 542
[xvi]
 
VIII. Istruzione di Sisto IV a messer Antonio Crivelli mandato suo al re Ferrando. Risguarda le cose di Città di Castello, tenuta da Niccolò Vitelli 544
 
IX. Confessione di Giovan Batista da Montesecco relativa alla Congiura de’ Pazzi 547
 
X. Istruzione di Sisto IV a messer Antonio Crivelli mandato suo al re Ferrando; scritta mentre Lorenzo era tuttora a Napoli e il Re si vedeva già inclinato ad accordarsi con lui. Febbraio 1480 559
 
XI. Lettera contenente le istruzioni e consigli di Lorenzo de’ Medici al figlio Giovanni, quando fatto Cardinale, andava a Roma nel marzo 1492 564

[1]

STORIA DELLA REPUBBLICA DI FIRENZE.

LIBRO QUARTO.

Capitolo I. TUMULTO DE’ CIOMPI. — MICHELE DI LANDO. [AN. 1378.]

Abbiamo sul fine del precedente Libro, dov’è rimasta la narrazione dei fatti civili, mostrato come le due contrarie parti andassero innanzi ciascuna per sè, fatte all’ultimo più temerarie, e dividessero la Repubblica. Mentre era delitto parlare d’accordi e osservare l’Interdetto, dal canto loro i Capitani della Parte guelfa nei due mesi di settembre e ottobre 1377 più infierivano nelle ammonizioni, le quali ruppero ogni freno quando la parte che voleva la guerra col Papa non valse a reggere nel proposito: da quel tempo fino a luglio 1378 leggo essere state ottantasette le ammonizioni, che spesso colpivano intere famiglie.[1] Aveano trovato i Capitani un cotal modo pel quale venivano a rimanere in ufficio durante un anno, essi o i più stretti aderenti loro; quel fare le borse donde traevansi gli uffici, e poi sovente nemmeno starsene alla sorte, facilitava gli arbitrii: uno era tratto dei Ventiquattro, dai quali secondo la Riforma del 66 dovevano essere approvate le sentenze, e se non piaceva, levarsi [2] una voce tra i preposti allo squittinio: «Io l’ho veduto andare in villa:» la polizza era rimessa dentro; e così via via, finchè non uscisse tale che fosse a grado loro. Guidava la Parte una consorteria di pochi, dei quali i nomi si trovano registrati: Lapo da Castiglionchio, anima e capo di tutta la setta. Avevano anche fatto un Gonfalone con l’antica arme del re Carlo, ed a portarlo un Gonfaloniere che fu Benghi Bondelmonti; ripigliavano le antiche forme che inaugurarono la Repubblica, quasichè volessero tutta ora metterla nella Parte. Le sentenze pronunziavano di notte, o fosse per ischifare tumulti, o ad accrescere il terrore pigliando sembianza di segreto tribunale. Nessuno poteva tenersi sicuro, e non bastava essere guelfo (come dicevano) più di Carlomagno; ai caporali quando passavano, ed ai cagnotti o aguzzetti loro, un trar di berretta più che alla Signoria: gli impauriti cercavano riscattarsi o per moneta o per favore, e facendo parentadi o disfacendoli, per avere scampo a sè stessi o protezione.

A chi legga queste cose ed i cronisti generalmente abominare la furia dell’ammonire come una proscrizione che desse nel sangue, potrebbe sembrare che un divieto di quella sorta non fosse cosa pari al terrore ch’ella ispirava, ed agli effetti che ne seguirono. Ma era entrata la vita pubblica in questo popolo così addentro, che a non avere parte allo Stato pareva essere come nulla.[2] Inoltre le leggi non avevano imparato per anche a difendere l’universale dei cittadini e fare a tutti le parti eguali: tenere lo Stato importava pagar meno; ed era mestieri procacciarsi l’amicizia d’un qualche possente a fine di avere sorte più equa nella distribuzione di quelle gravezze, le quali [3] erano personali.[3] Invano più volte si aveva cercato formare una Tavola o Catasto delle possessioni per via di portate che ognuno facesse dei propri suoi beni, ma fu attraversato dai più ricchi perch’erano sempre i più favoriti; e ad ogni passo nacquero tali difficoltà, che il provvedimento buono fu abbandonato come impossibile. Infino dal secolo XIII era stato tentato l’Estimo degli immobili, o almeno comandato; ed una prova ne venne fatta l’anno 1355, la quale al solito riuscì male.[4] Aveva anche il Duca di Calabria nel 1326 ordinato stimare l’entrata che avesse ciascuno così degli stabili come dei mobili e guadagni; ma pur questa diede luogo a grandi lagnanze, nè in tale modo fu ritentata.[5] Vedremo or ora intorno a ciò una petizione, la quale però aspettò ancora una cinquantina d’anni prima di avere adempimento.

Era l’entrata della Repubblica, siccome vedemmo, trecento migliaia di fiorini d’oro all’anno: le spese ordinarie, quaranta migliaia di fiorini, senza contare la spesa dei soldati e le opere pubbliche: ma non bastava l’avanzo alle imprese del Comune, dove andavano quelle ingenti somme, le quali ci è occorso in più luoghi di notare: a queste era molto frequente necessità sopperire per via di prestanze e imposte sopra alle ricchezze dei mercanti o di altri singoli cittadini. Aveano cercato modi, a dir vero, non male acconci per l’assegnazione della somma che ognuno dovesse pagare secondo le facoltà sue. Partivano in quattro ciascun Quartiere della città, come era per le Compagnie, nominando per ciascuna divisione sette [4] settine di probi uomini, le quali dovessero ognuna da sè determinare la somma che fosse da imporre, a loro giudizio, per ogni capo di cittadino. Le liste venivano dipoi trasmesse ai frati Romitani di Santa Maria degli Angeli o ad altri frati, i quali dovevano da ogni settina togliere via le due maggiori e le due minori tassazioni, pigliando il medio che resultasse dalle tre altre, e il medio poi di tutte le settine a questo modo insieme sommate; questa era la quota di che ciascuno venìa gravato.[6] Si trova che il primo debito della Repubblica fosse creato inverso gli anni 1222-26 a tempo dei Consoli, e quando era tuttavia sotto l’Imperiale soggezione; ma questo debito, che avea d’interesse venticinque per cento all’anno, pare che fosse mano a mano diminuito ed in quarant’anni estinto. Ma era contuttociò impossibile che non v’entrasse l’arbitrio, e ai renitenti veniva fatta intimazione a pagare, andando per ultimo fino a guastare le case: al che non si venne per avere fatte condizioni da tirare co’ larghi profitti la cupidigia dei prestatori. Chi dava cento aveane merito un danaio al mese, che è il frutto del cinque; ma per ogni cento scrivevano altre due centinaia in assegnazioni sulle gabelle, talchè la rendita annuale veniva nel fatto a essere del quindici. Fecero insino dal 1345 un libro dov’erano descritti per alfabeto i nomi de’ cittadini ch’aveano prestato; gli chiamarono i Libri del Monte, nel quale vennero a purgarsi i debiti vecchi ch’avea la Repubblica: montava la somma a fiorini 503,864.[7] Provvidero anche alla diminuzione successiva dei debiti del Monte, formando con certe assegnazioni di gabelle sulla farina e sul pane quella che ora si chiama Cassa d’ammortizzazione, la quale si vede ch’esisteva già nell’anno 1369; nel quale tempo furono tratti da quella i danari che si doveano [5] pagare all’imperatore Carlo IV, con che però fossero immediatamente rimborsati. E nell’anno 1371, elessero Quattro ufficiali deputati alla sopraindicata diminuzione dei debiti del Monte, i quali avessero facoltà di comprare cartelle o titoli di credito da chi volesse farne la vendita, prescrivendo le condizioni ed il modo.[8] Ordinarono che i danari del Monte fossero esenti da ogni condannagione nè potessero per alcun titolo essere staggiti, nemmeno per dote, nè far si potesse contro a quelli esecuzione: ma le vendite o le trasmutazioni dei crediti iscritti sul Monte fossero libere a ciascuno per semplice carta di notaio, e gli scrivani del Monte ponendo sul libro il nome del nuovo creditore sottentrato alle medesime condizioni. Frequenti erano tali vendite, variando il prezzo come variavano i mercati; e l’interesse del danaro pe’ grossi guadagni che si avevano dal trafficare tenendosi alto infino al venti per cento e più:[9] sembra le vendite dei capitali iscritti sul Monte ordinariamente si facessero in tal modo, che il cento di capitale si avesse per trenta, scendendo il prezzo fino al venticinque; e nei peggiori momenti, fino al quindici e al disotto. Ma qui è da notare che il primo sovventore avea dalla Repubblica triplicato il capitale e l’interesse; il che avvenne a questo modo. Sul Monte erano danari dal tempo del Duca di Calabria (1327) a ragione di cinque per cento l’anno; ed era pena la testa chi desse o pigliasse più di cinque per cento l’anno, ed era pena la testa chiunque parlasse, proponesse o mettesse partito di muovere o mutare l’interesse o il capitale del Monte. Poi alla guerra de’ Pisani l’anno 1362 non si trovava chi volesse prestare [6] a cinque per cento, e chi era sforzato se ne teneva gravato forte; ma danari bisognavano: laonde ser Piero di ser Grifo notaio delle Riformagioni, che era uomo molto saputo in tali cose, trovò questo modo; che a chi prestasse cento fiorini ne fosse scritti trecento, cosicchè di cento avesse quindici di frutto: fu chiamato il Monte dell’uno tre.[10] In tanto variarsi del privato e del pubblico capitale non vuolsi tacere come avessero inventato gli ingegni sottili dei Fiorentini quello che oggi suole appellarsi Gioco di Borsa: compravano il titolo com’era sul libro a un dato prezzo da pagarsi in capo ad un anno; poi voltatolo il compratore in testa sua, più volte vendeva o ricomperava nel corso dell’anno, secondo che il prezzo dei crediti sul Monte o rincarasse o rinvilisse: talchè la Repubblica, cercando frenare (com’io credo) il tristo gioco, pose gabella due per cento ad ogni permutazione.[11] A Firenze era usuale vizio l’usura vorace, ch’è fomite alle civili guerre, e a quella andavano molti capitali tolti alle arti e alla mercatura.

Così erano cause potentissime di turbazioni a questo popolo di Firenze, oltre all’arbitrio esercitato dai pochi su’ molti nel distribuire le gravezze, il troppo grasso e la smodata cupidità di ricchezze, e per gli ingordi guadagni e il largo vivere, agitato incessantemente questo popolo sin giù nel fondo dai molti e rapidi rivolgimenti della fortuna. Pei quali in breve non si trovavano più famiglie di anticata ricchezza, e il terzo erede non possedeva i beni lasciati dall’avolo [7] suo;[12] gli antichi grandi ridotti a vivere della cultura del suolo e il maggior numero poveramente in contado, ruinati essi ed i contadini dalle guerre e dalle gravezze.[13] Ma in Firenze le calamità pareano crescere questo popolo, tirando in su la più bassa plebe ai godimenti e alle ambizioni di città libera e opulente. Quindi negli antichi e maggiori cittadini era un continuo temere la plebe, e in questa un levarsi su su da cento anni, bramosa d’invadere ed agguagliare ogni cosa e di occupare i primi luoghi. Abbiamo già scritto come la peste del 1348 avendo fatto che i superstiti si ritrovassero ad un tratto ricchi, i lavoranti cessassero dagli usati mestieri o rincarassero le mercedi, volendo per l’abbondanza dei guadagni per sè ogni più cara e delicata cosa, con generale irrequietezza e disordine nel comun vivere. Il quale durava, per testimonianza di Matteo Villani, tuttora nel 1362; nulla potendo le leggi che ad ogni tratto si rinnovavano, sempre inutili a contenere le spese dei mortori e delle nozze e gli abbigliamenti delle donne; continuando quel grasso vivere, sebbene in quegli anni fosse una grande carestia, in mezzo alla quale «festeggiava e vestiva e convitava il minuto popolo come se fossero in somma dovizia e abbondanza d’ogni bene.[14]» E nonostante che i rettori con le gabelle ed i cari prezzi ai quali avean fatto salire ogni cosa s’ingegnassero di porre un freno in bocca al popolo, questi non se ne curava, portando le spese allegramente e andando innanzi [8] in quel suo vivere scioperato. Lo stesso Matteo, comunque fosse buon popolano, si lascia andare a molto dure parole quando scrive, che a frenare l’ingrato e sconoscente popolo più utile era la carestia che la dovizia. Tanto era in quelli anni accesa la guerra tra ’l grasso popolo e il minuto.

Ma gravissimo dissidio sotto altri nomi divideva le Arti minori dalle maggiori, mentre che insieme queste e quelle partecipavano al governo. Avevano queste per sè la potenza del capitale e del sapere, quelle il numero ed il lavoro de’ vari mestieri nelle piccole botteghe. Delle sette Arti maggiori la prima era dei giudici e notai, alunni di scuole dove regnava l’autorità; con l’Arte dei medici andavano gli speziali, mercanti grossi di droghe e di spezierie venute dall’Asia; e un’altra ve n’era pel commercio delle pelli: nell’Arte del cambio gli uomini danarosi, possenti all’estero e di grande accesso nelle cose degli Stati non che nella corte del Papa ed in quelle di Francia e d’Inghilterra e di Polonia, e d’Ungheria, e nell’Oriente in molti luoghi. A quei tempi l’Arte della seta non era per anche salita al colmo; e decadeva quella appellata di Calimala, che riduceva a perfezione i panni francesi. Teneva fra tutte le altre il sommo luogo l’Arte della lana, che noi troviamo esercitare nella città un primato d’autorità e di fiducia; e basti dire che fu commesso a lei soprintendere alla edificazione del Duomo. Firenze è piena tuttavia delle insegne di quell’Arte, poste sopra a case dove erano i suoi lavorii o godeva essa dei privilegi. Sola tra le Arti aveva un giudice forestiero, di cui non andava la giurisdizione infino al sangue nè alla corda, ma con facoltà di porre in carcere ed in ceppi.[15] Grande potenza veniva poi a cotesta Arte dall’avere essa a lei soggetto un grande numero d’arti minori e di mestieri, da quei che servivano alle [9] prime conciature della lana infino alle ultime finiture. Cotesti non erano in proprio nome rappresentati, o i loro collegi dipendevano da quello della principale Arte, che adoprava quei mestieri avendo in mano tutto lo spaccio della mercanzia, e regolando i salari e le condizioni del lavoro con grande arbitrio su’ lavoranti. Le ventuna Arti generalmente esercitavano la tutela di altre più minute, le quali aveano loro collegi ma soggetti a quello della principale Arte che alle inferiori dava il nome: nel 1300 però vedemmo che settantadue mestieri aveano consoli chiamati a dar voto in caso grave, le Arti essendosi divise a quel modo perchè più espresso fosse il parere della città. Di quei mestieri il maggior numero andava con l’Arte della lana, che n’ebbe infino a venticinque; e questi, per la moltitudine degli artefici e per avere occasioni continue di lagni da’ grossi mercanti, troviamo essere del minuto popolo la parte più viva e alla Repubblica minacciosa. A tutti costoro il Duca d’Atene avea dato consoli e rettori; i quali diritti subito perderono alla cacciata del Duca: e noi vedemmo nel 1345 i pettinatori e scardassieri mettersi a capo d’una congiura per l’accrescimento dei salari;[16] questi medesimi vedremo ora destare un tumulto e farsi autori d’un rivolgimento pel quale rimane fino a’ dì nostri celebre il nome degli scardassieri fiorentini.

Odiosi com’erano i Capitani di Parte guelfa, gradiva però a molto numero dei popolani avergli seco a terminare la guerra col Papa: cessata questa, parve il campo farsi più sgombro ai dissidii antichi ed ai pensieri di libertà. Contro al palagio della Parte stava il palagio della Signoria, dove erano però sempre molti devoti alla setta la quale stringeva con mano valida e impediva l’intera macchina dello Stato: ma era setta, e fuori stava a dir così tutta la Repubblica; una tratta [10] di Signori ed una legge che si vincesse contraria agli ordini della Parte guelfa, bastavano a rompere tutta quell’opera faticosa, congegno di pochi ma senza solido fondamento. Il primo di maggio 1378 si prevedeva che uscirebbe Gonfaloniere di giustizia Salvestro dei Medici: quale si fosse cotesto uomo, io non lo so; con l’iniziare il sovvertimento dello Stato fu primo autore alla grandezza di sua famiglia, ma bene io credo che in lui non fosse valore pari a quelli effetti che da lui nacquero: grande non era, nè affermerei che fosse egli buono e schietto; quello che appare in lui d’incerto serve (cred’io) a definirlo. I Capitani, a premunirsi da un cosiffatto Gonfaloniere, nè arrischiandosi d’ammonirlo, da prima cercarono, perch’egli avesse divieto, che uno de’ suoi congiunti sortisse ufficio minore, usando a tal fine il gioco facile delle borse. Dipoi sventata cotesta trama, ed egli essendo entrato Gonfaloniere, vennero seco alle agevolezze, promettendo che nessuno sarebbe ammonito il quale non fosse veramente ghibellino; e per la conferma delle ammonizioni, più di tre volte non si potesse girare il partito: di tali promesse nè il popolo si appagava, nè i governatori della Parte aveano in animo mantenerle. Quindi nei segreti consigli loro altro macchinavano, e in ciò convenivano, che fosse con le armi da occupare il Palagio, e col mezzo solito delle balíe fermare lo Stato in mano agli uomini della Parte guelfa. Ma sul tempo discordavano, essendo consiglio di Lapo da Castiglionchio troncare gli indugi: prevalse la sentenza di Piero degli Albizzi, il quale voleva si aspettasse il San Giovanni, quando gli uomini del contado venivano a folla nella città; ed essendo costumanza della Signoria andare a vedere il palio nelle case degli Alessandri, ch’erano parte di quelle degli Albizzi,[17] il Palagio rimaneva quasi vuoto, [11] sicch’era facile occuparlo: in Firenze, chi aveva il Palagio aveva lo Stato. Già era vicino il dì dell’esecuzione: le parti si fanno sicure le cose, e i Capitani più inalberati aspettandosi che un Giraldi e un altro a loro male accetto sarebbero tratti a sedere nel collegio, deliberarono ammonirli. Tra loro passò, ma poi recato ai Ventiquattro non si vinceva, sebbene fosse girato più volte: e già era mezza notte e alcuno faceva cenno di partirsi, quando Bettino da Ricasoli, che presiedeva ai Capitani, s’alzò, andò all’uscio e quello serrato tolse le chiavi e vi si pose a sedere sopra, con un gran giuro affermando che si vincerebbe: così alla fine per istanchezza passò il partito, dopo essere girato più di venti volte. Furono gli ultimi ammoniti.

Già si appressava il termine della Signoria nella quale era Gonfaloniere di giustizia Salvestro de’ Medici. A lui dicevano: Tu volesti medicare il male, e hai dato il lustro alla Parte; ed egli: Noi l’acconceremo il giorno in cui sarò proposto. S’intese con molti ragguardevoli cittadini, e ragunatisi in segreto deliberarono una Petizione perchè fossero riposti gli Ordini della giustizia contro a’ grandi: da questa vollero cominciare per assaggiare, e per vedere se quei della Parte facessero movimento, e perchè quasi tutti i grandi abbracciando l’occasione si erano dati all’ammonire. Saputo in città che nuove cose si preparavano, quando fu dato nella campana, subito i Capitani furono alla Parte; dove, richiesti, andarono molti grandi e popolani dei loro, con panziere e stocchi celati sotto alle vesti: ma poi che udirono che la petizione non toccava altro, parve la meglio lasciar fare per allora, sebbene taluni proponessero di trarre fuori il gonfalone della Parte e così armati farsi innanzi. In questo però, la petizione messa a partito non si vinceva nei Collegi pei molti amici che avea la setta, e cinque n’erano de’ Priori: il perchè Salvestro per venire alla [12] intenzione sua, fingendo che fosse per una sua comodità, uscì dall’udienza, e andato nella sala dove il Consiglio del popolo era già tutto radunato ed aspettava, cominciò a dire: «Savi del Consiglio, io voleva questo dì sanicare questa città dalle malvage tirannie de’ grandi e possenti uomini, e non sono lasciato fare, chè i miei compagni e Collegi non lo consentono; poichè veggo che al ben fare non sono creduto nè ubbidito come Gonfaloniere di giustizia, io me ne voglio andare a casa mia: fate un altro Gonfaloniere in mio luogo, e fatevi con Dio.[18]» A queste parole tutti quelli del Consiglio si levarono ritti romoreggiando; ed egli uscito dalla sala andava giù per la scala, ma lo ritennero, e non fu lasciato andare. Grande era il rumore; ed un calzolaio pigliò per il petto Carlo degli Strozzi, che dopo l’Albizzi ed il Castiglionchio primeggiava nella Parte, dicendogli: «Carlo, Carlo, le cose anderanno altrimenti che tu non ti pensi, e le vostre maggioranze al tutto conviene che si spengano.» In questo punto Benedetto degli Alberti fece il mal passo e dalla finestra cominciò a gridare: «Viva il Popolo!» ed a quelli ch’erano in piazza: «Gridate tutti, Viva il Popolo!» Il perchè di subito il romore si levò per la città, serraronsi le botteghe e stettero chiuse tutto il dì vegnente; la gente s’armava, e stavano guardie tutta la notte per la città.

Il giorno di poi tutte le Arti si ragunarono, ciascuna nelle botteghe sue, e tra loro elessero certi sindachi, i quali andarono in Palagio a praticare co’ Priori e co’ Collegi; ma nulla si fece, chè non erano d’accordo. Il martedì, ch’era l’antivigilia di San Giovanni, le insegne delle Arti a gonfaloni spiegati cominciarono a venire in piazza com’era ordinato, gridando Viva il Popolo e Libertà. Quei del Palagio diedero allora balìa generale ai Priori ed ai Collegi, e a’ Capitani di [13] parte, a’ Dieci di libertà e agli Otto di guardia e ai predetti sindachi, di riformare la terra, levando via gli ordini di cui munivasi Parte guelfa. Ma intanto che ciò si faceva, e che nella piazza già erano molti gonfaloni delle Arti; muoverne uno e dietro altri, e andare alle case di messer Lapo da Castiglionchio presso al ponte Rubaconte: vi misero fuoco, ma rubarle non poterono perch’egli aveva la notte sgombrato ogni cosa,[19] e fuggitosi in Santa Croce, vestito da frate, riuscì a scampare in Casentino: di lì andò a Padova, indi a Roma, dove fu uomo di grande affare presso al Papa ed al Re di Puglia. Dipoi stando tutto il giorno in quell’esercizio, arsero le case di Piero degli Albizzi e de’ suoi nipoti e quelle di Carlo degli Strozzi e dei Cavicciuli e dei Siminetti e di Migliore Guadagni, ed il palagio dei Pazzi e la loggia e le case dei Buondelmonti, e Oltrarno quelle dei Canigiani e dei Soderini e dei Serragli: ruppero dipoi tutte le carceri del Comune e fuori trassero i prigioni. In quel medesimo dì uno di plebe minuta, posto un cappello sopra una lancia, seguito da molti andava per la città facendo danni e ruberie; cui altri s’aggiunsero con l’insegna della libertà, e tutti insieme entrati a forza nel convento dei Romiti degli Angeli, dove molti cittadini avean sgombrato le loro sostanze, vi rubarono danari e gioielli e robe, stimati centomila fiorini; e due frati vi morirono. Similmente alcuni del quartiere di Camaldoli e di San Frediano, andati al convento di Santo Spirito a rubare, avrebbero fatto qui danno grave; ma uno dei Priori, Piero di Fronte, lanaiolo, armato a cavallo gli sopraggiunse in sulla piazza: il quale salvava con molta sua lode anche la Camera del Comune, che certi ribaldi volevano ardere. Infine i Signori, [14] udito che alcuni Fiamminghi tessitori voleano muoversi per rubare, avendo mandato per la città i gonfaloni delle Compagnie in arme, quattro ne fecero impiccare, uno per quartiere, in cui s’abbatterono; e così cessarono le ruberie venendo la notte.

Il primo di luglio entrava in ufficio la nuova Signoria, nella quale fu Gonfaloniere Luigi Guicciardini: non si osservarono quella volta le solennità usate del suonare le campane e del sermonare in sulla ringhiera, ma tutto si fece nella sala del Consiglio; ed il Palagio stette serrato con gente d’arme, e guardia in sulla piazza. Salvestro de’ Medici fu a casa accompagnato con grande onore, e correvano le vie di gente che fargli volea riverenza. Avevano quelli della passata balìa avviata l’opera dello smunire (come dicevano) gli ammoniti, e dichiarare ribelli e fare dei grandi; tra’ quali fu Piero degli Albizzi confinato a trenta miglia dalla città. Le quali cose furono quietamente per alcuni dì continuate dai nuovi, e questi e quelli a sè dando privilegi principalmente del portare arme, talchè in Firenze oltre a cinquecento cittadini portavano l’arme. Nè per tuttociò le Arti minute si contentarono; e fecero sindachi, due per Arte a comune difensione, volendo godessero quelle medesime preminenze ch’erano date alla balìa: convenivano segretamente nelle botteghe adunando armi, guardie si facevano dalle due parti nella città. Ad attizzare viepiù l’incendio si aggiungevano gli smuniti, i quali dovevano stare tre anni fuori d’ufficio, e quelli che ancora smuniti non erano; tutti questi faceano insieme da centottanta tra cittadini e famiglie di cittadini. Quindi ottennero che le ammonizioni a un tratto fossero tolte via, e che gli uffici della Parte fossero tutti mutati e le borse rinnovate. Più giorni trattaronsi coteste cose in Palagio coi sindachi delle Arti, ed a mala pena si vincevano avendo contrari il maggior numero nei Collegi, intantochè tali che in palese facevano contro alle [15] petizioni degli artefici, gli confortavano sottovoce viepiù animandoli all’impresa.

Il giorno 18 dello stesso luglio fu senza gran festa pubblicata la pace col Papa; ma ciò nonostante gli Otto erano tuttavia rimasti in Palagio (sebbene avessero fatto mostra di volere lasciare l’ufficio) e soffiavano in quell’incendio, usando il destro che avevano dal magistrato, ma non palesi come altri capi della parte popolare: a tutti innanzi andavano gli ammoniti non per ancora riabilitati, che tanto erano Ghibellini, quanto odiavano Parte guelfa, oramai fatta comodo arnese di cui si valevano gli ottimati. Quindi promossa dai popolani la guerra col Papa; e noi vedemmo all’apparire del grande dissidio che era nel seno della Repubblica, favoreggiato il riconoscimento della imperiale supremazia dai più amatori del viver libero. Oggi volevano restaurare l’egualità come nel 43, quando il popolo si levò d’addosso una tirannide forestiera e la molestia dei grandi; al quale effetto contrapponevano le Arti minute alle maggiori, affinchè il numero prevalesse. Ma quando tu chiami la forza del popolo a fare impeto nelle vie, il vero popolo non risponde; e vedi uscire una moltitudine cui si pertiene diverso nome, la quale non puoi nè dirigere, nè contenere, e che travalica ogni tuo disegno. Avevano da principio chiamato le Arti, ma dietro a queste venne la turba di coloro che non hanno (come in Firenze diciamo) nè arte nè parte, e quella plebe di mal vissuti che sempre abbondano in città opulente, anche più astiosi che affamati. Costoro avevano già tentato fare tumulti e ruberie alla cacciata dei grandi, ma erano soli a quella mossa, allora essendo bene uniti il grosso popolo ed il mezzano; ora il mezzano ed il minuto levati insieme veniano a dare come un titolo ed una scusa a quei più infimi, che pur vogliono innanzi a sè una idea che gli rinnalzi o che gli assolva, e cui si credano ministrare. Non mai le sêtte, comunque sieno forti di numero [16] e d’audacia, hanno potere per sè medesime, se non si annestino a un’idea comune ch’esse intervengono a guastare; nè la plebe di per sè piglierebbe animo alle ribellioni, se non avesse fuori di lei un vessillo da seguire, che a lei ne desse autorità. Le Arti minute chiamate in piazza aveano fatto un mese innanzi quel dato numero di arsioni che prima erano designate; e gli stessi rubatori che la virtù di Piero di Fronte avea riuscito a contenere, troviamo ch’ebbero una insegna da mano ignota d’uomo possente,[20] e diceano fare vendetta pubblica. Ora, non pochi tra’ primi autori di quei tumulti tardi cercavano un qualche modo alla composizione e pacificare la città; ma gli uomini delle più minute Arti erano mal soddisfatti, e peggio d’essi gli ammoniti, e gli strumenti dei mali fatti, a sè temevano il gastigo che sopra i deboli suol cadere: sapevano essere armi in Palagio ed un Bargello di rinomata ferocità, e che soldati si radunavano.

Quindi avevano cominciato tra loro ad intendersi i fattori (oggi diremmo braccianti) delle Arti minori e molti delle maggiori, e quelli che arte per sè non facevano, e tutto quel fondo che sopra dicemmo di minuto popolazzo: audaci pel numero e pronti a ogni cosa erano gli uomini di quei mestieri, i quali viveano soggetti al collegio dell’Arte della lana: a questi aveva il Duca d’Atene dato consoli ed un’insegna, dov’era un Angiolo dipinto, e si chiamavano i Ciompi; nome corrotto, secondo trovo, da quel di Compare che ad essi davano francescamente i famigliari del Duca. Furono insieme fuori la porta San Pier Gattolino in certo luogo detto il Ronco, e fecero loro sindachi o caporali [17] a comune difensione, con gran sacramenta legandosi ad essere gli uni con gli altri alla vita ed alla morte; e si baciarono in bocca, inviando alle case dei loro pari a dare il giuramento ed a ricevere promissioni. Di questo i Signori ch’erano in Palagio non avevano sentore infino a’ 19 luglio; quando per avviso ad essi recato che il dì seguente la terra si doveva levare a rumore e che facessero tosto, avendo mandato a pigliare un Simoncino dalla porta di San Pier Gattolino, detto Bugigatto; come lo ebbero in Palagio, il Proposto se ne andò con lui nella cappella dinanzi all’altare, e lo interrogò di quel trattato. Simoncino disse: Signor mio, ieri io con altri, in tutto dodici, ragunati nello Spedale dei preti di via San Gallo, e avendo fatti venire altri minuti artefici, si determinò che domani sulla terza si dovesse levare il rumore, com’era dato ordine per certi sindachi che noi facemmo più dì sono. E sappiate, signor mio, che noi siamo infiniti congiunti insieme, ed evvi fra noi degli artefici bene assai, e de’ buoni; ed ancora ci è grandissima parte degli ammoniti, i quali si sono molto profferti. Domandò il Proposto: anche che questa gente si levi, che voglion’eglino dalla Signoria? Vogliono, continuava Simoncino, che i mestieri soggetti all’Arte della lana abbiano consoli e collegi loro, nè riconoscano l’ufficiale che per piccola cosa li tormenta, nè aver a fare co’ maestri lanaioli, che molto male li pagano e del lavorío che vale dodici ne danno otto. Ed anche vogliono avere parte nel reggimento della città, e che d’ogni arsione e ruberia fatta non si possa contro essi conoscere in alcun tempo. Domandò il Proposto se alcun cittadino popolano o grande fosse loro capo; nominò alcuni; chiesto poi d’altri, non volle dire. Il Proposto allora fattolo bene guardare, ragunò i compagni e narrò il fatto: era dopo cena ed insieme presero partito di chiamare i Gonfalonieri delle compagnie, i quali innanzi che si potessero avere era già notte. [18] E di presente consultandosi co’ Dodici e con gli Otto della guerra e co’ sindachi delle Arti ch’erano in Palagio a trattare co’ Signori, deliberarono di mandare pe’ Consoli delle Arti; i quali venuti, consigliarono che si facesse venire in piazza le genti dell’armi, e che vi fossero in sul dì; e che i Gonfalonieri andati a casa facessero armare tutti quelli del gonfalone, ognuno il suo, e anch’essi venissero in piazza armati co’ gonfaloni spiegati. E intanto aveano mandato lettere alle leghe e comunanze per il contado, e a’ conti Guidi, nell’Alpe ed in altri luoghi, perchè mandassero con prestezza genti il più che potessero. Parve altresì di mettere Simoncino nelle forze del Capitano, e che fosse tanto martoriato ch’egli dicesse tutto il vero: posto sulla corda, confermò il detto, aggiugnendo che Salvestro dei Medici era capo e guida di questo trattato; e diede i nomi di due suoi compagni che ne sapevano più di lui: questi, pigliati la notte stessa, confermarono di tutto punto la confessione del primo, e che ogni cosa nella città era già in ordine alla esecuzione per la mattina seguente a terza.

Accadde che un Niccolò degli Orivoli essendo in Palagio a racconciare l’orologio, s’accorse ai gridi che Simoncino era tormentato; di che subito se ne andò a casa sua da San Frediano, e armossi e uscì gridando: Levatevi, i Signori fanno carne. Un di Camaldoli cominciò a dare nella campana del Carmine, e la gente di là armatasi conveniva dov’era prima dato l’ordine; in un subito, e di campana in campana, tutta Firenze suonava a stormo. Primi quelli da San Pier Maggiore, poi altra brigata giù per Vacchereccia vennero in piazza, dove erano forse ottanta lance di gente dell’arme discesi a piedi e con le barbute in testa; ma non si mossero, e dicevano: dateci delle vostre insegne e de’ vostri cittadini, ed aiuteremo quando il popolo sia con noi: dei Gonfalonieri nessuno veniva in soccorso dei Signori, com’era ordinato. Ben v’era taluni [19] che sarebbono voluti andare e s’erano mossi; ma Tommaso Strozzi e Giorgio Scali gli rattennero, e ad uno che disse com’egli voleva per sè andare ad ogni modo, gli volsero contro la furia del popolo: due soli più tardi vennero in sulla Piazza con Giovenco della Stufa e Giovanni Cambi; ma nulla poterono. Avevano i Signori la notte mandato per Salvestro dei Medici e dettogli come fosse egli infamato d’essere capo alla congiura; del che Salvestro si scusava, bensì confessando che lo avevano ricercato. Poi quando la gente in Piazza ingrossava, gridando gli fosse renduto Simoncino e gli altri prigioni, sebbene taluno dicesse «Rendiamoli sì ma in due pezzi;» il Gonfaloniere volle che fossero lasciati andare. E quei del Palagio mandarono lo stesso Salvestro e Benedetto degli Alberti, Benedetto di Carlone pianellaio e Calcagnino tavernaio a intendere quello che il minuto popolo si volesse; e vi andò uno anche dei Signori, Guerriante Marignolli. Usciti, viddero che i più ardenti si avevano tolto il Gonfalone dal palazzo dell’Esecutore, e con esso innanzi facevano arsioni e danni e mali, consentendo quelli ch’erano stati mandati fuori ad acquietare il tumulto, ma viepiù lo raccendevano: ed ai Signori venivano e rapportavano, che costoro voleano purgare il peccato delle ammonizioni; ma, fatto un poco, resterebbero.[21] Imperocchè arsero prima la casa del Gonfaloniere Luigi Guicciardini, poi d’un altro Albizzi e di quel Simone Peruzzi che abbiamo noi più volte ricordato, e di ser Piero delle Riformagioni e d’un Ugolino lanaiolo e di due Ridolfi e d’un Castellani e di un Corsini e d’altri; altre disfecero, per non appiccare il fuoco a’ vicini: e poi andarono e misero fuoco al palagio dell’Arte della lana, e ne cacciarono l’ufficiale. Ma perchè pure non si dicesse questa volta che andavano rubando, avevano uomini [20] preposti a badare che ogni cosa fino alle più preziose fosse gettata nel fuoco; e narra lo Stefani avere veduto dare d’una lancia nelle spalle a tale che aveva rubato un pezzo di carne salata e nol voleva gettare. Molti seguivano per paura, siccome avviene, quelli che ardevano; e ciò faceano per non essere arsi, perchè bastava che uno gridasse: A casa il tale, e subito era fatto. Ora ecco uno strano capriccio di popolo: pigliavano cittadini, chi per amore e chi per forza, e gli armavano cavalieri; il popolo aveva diritto a ciò fare, ed era usanza, cerimonia molto solenne nella città: primi Salvestro de’ Medici e Tommaso Strozzi, e Benedetto ed un altro degli Alberti, e gli Otto della guerra e Giorgio Scali ed altri assai, fra tutti sessanta: due ve n’era delle Arti minori, che uno scardassiere e un fornaio. Il popolo vago di novità, correndo qua e là, menava taluni e levavagli a dignità di cavalleria, dei quali prima era stata arsa la casa o ardeva in quel tempo, siccome avvenne al gonfaloniere Guicciardini: chi aveva paura di essere arso mandava in piazza chi gridasse, Facciamolo cavaliere: muovevansi al grido, e andavano per lui e lo portavano di peso: era il più strano viluppo che mai si vedesse.

Speravano molti che nella festa e nell’allegrezza del fare cavalieri il popolo si quietasse, ma non avvenne: e sulla sera più migliaia di gente minuta accampati da San Barnaba mandarono alle Arti perchè venissero ordinati sotto a’ gonfaloni loro a formare certe petizioni da portare alla Signoria. Quelli delle Arti che mossi gli avevano, si cominciavano a pentire, perchè tutti i loro fattori s’eran messi nella turma, e tardi s’avviddero che male avean fatto; chi v’andò e chi vi mandò, per tema i più, e tale gonfalone non era seguito da più di sei uomini. Gli artefici e il popolo a fatica s’accordavano sulla materia delle petizioni; infine convennero che delle due parti ciascuna desse la sua, e insieme armati le presentassero. Avevano [21] anche mandato la notte in Santa Croce per la cassa delle imborsazioni, che la volevano ardere; ma i Signori, questo presentendo, l’avevano trafugata. Sul far del dì venne una piova che tale niuno si ricordava; durò fino a terza e correva le vie: la gente del popolo battuti dall’acqua, che aveano vegghiato, si riposavano e pensavano; allora gli astuti guidatori loro, con la paura dei mali fatti, gli conducevano a far peggio: venuti in Piazza vi rizzarono le forche, dove appiccarono e sbranarono crudelmente ser Nuto Bargello: di lì andati al palagio del Potestà, e combattutolo due ore, l’ebbero a patti; e senza offendere il Potestà, bruciarono tutte le scritture che trovarono in Palagio e i libri e statuti dell’Arte della lana, e della Grascia: poi ne andarono a’ Signori con le petizioni, le quali erano a questo modo. Si contentavano da principio che le arti soggette all’Arte della lana avessero consoli, e questa più non dovesse avere ufficiale forestiero: volevano ora che i pettinatori, scardassieri, vergheggiatori e lavatori ed altri che lavoravano nella lana, e similmente che i tintori, i barbieri, i sarti, i cimatori, i pettinagnoli, i cappellai avessero consoli e tra loro due priori, e che le quattordici Arti che prima avevano due priori ne avessero tre, e così il terzo degli altri uffici di dentro e di fuora. Appresso volevano che si facesse l’estimo delle possessioni e degli averi entro sei mesi; che il Monte non rendesse più interesse, ma solamente il capitale in dodici anni, traendo a sorte i creditori da rimborsare, cosicchè alla fine dei dodici anni i creditori del Monte fossero tutti pagati del capitale che v’era iscritto, venendo a perdere l’interesse. Che non si mettesse più prestanze da indi a sei mesi, e in quelle che poi si mettessero, chi fosse tassato da quattro fiorini in giù, pagasse venti soldi di piccioli, e chi da quattro fiorini in su, mezzo fiorino per ogni fiorino d’oro: il ch’era un principio alla scala o progressione delle imposte, che indi i Medici [22] praticarono. Appresso, che niuno di questi minuti potesse nel tempo di due anni essere condannato per alcun debito da fiorini cinquanta in giù. Che agli ammoniti si togliesse ogni divieto, e loro fosse agevolato l’essere smuniti; che gli sbanditi, eccetto i ribelli, fossero ribanditi, e che si levasse via la pena de’ membri, i condannati pagando la multa senza condizione. Che d’ogni eccesso fatto e commesso dai 18 giugno fino a questo dì non si potesse conoscere per alcun rettore sotto gravissime pene a chi accusasse di queste cose in tempo alcuno, o condannasse. Che a qualunque fossero state arse e atterrate le case in questi rumori passati, fosse privato in perpetuo degli uffici, o almeno per dieci anni (questa era invero bella giustizia, e nuovo titolo di delitto). Che la piazza di Mercato Vecchio non pagasse più di trecento fiorini d’oro l’anno, cioè la descheria dei beccai, e quelli andassero a benefizio di messer Giovanni di Mone biadaiolo che era degli Otto, ed oggi fatto novello cavaliere. Che Guido Bandiera scardassiere, fatto cavaliere novello perchè fu uno de’ primi che levò il rumore ed ora si era portato bene in rubare e ardere, avesse de’ beni de’ rubelli fiorini due mila d’oro. Che messer Salvestro de’ Medici, per potere sostentare sua milizia, avesse le pigioni del Ponte Vecchio, che sono fiorini 600 o più l’anno. Chiedevano per ultimo favori ad altri degli amici loro, bando ai contrari e pene novelle o aggravamento delle antiche.[22]

[23]

Quel che importassero tali petizioni, ciascuno sel vede. Avute le quali, subito i Signori fecero radunare i Collegi ed il Consiglio del popolo; ai quali essendo presentate, furono vinte senza alcuna diminuzione o mutazione.[23] I gonfaloni delle Arti e il popolo degli artefici tutti armati erano sulla piazza, le grida andavano fino al cielo; e perchè si penò un poco a radunare il Consiglio, si mossero a furia e andarono oltr’Arno per ardere le case di due de’ Priori; e così avrebbono fatto, se non che innanzi che le affuocassino fu loro venuto a dire che le petizioni erano vinte. Venuta la notte, si ridussero nel palagio del Potestà, quanti ve ne potè capire: già nella sera, quando i fanti dei Signori tornavano da serrare le porte della città, il popolo minuto si fece loro innanzi e tolse le chiavi: il che fecero perchè avevano sentito dire che i Signori facevano venire fanti forestieri in loro soccorso. Il dì seguente, che fu giovedì 22 luglio, suonò la mattina a Consiglio di Comune: i Gonfalonieri delle Arti e il Gonfalone di giustizia ed [24] il popolo minuto vennero in piazza; il rumore tale che nulla s’udiva quando le petizioni si leggevano a’ consiglieri: furono vinte senza indugio, e il Consiglio licenziato. Ma quelli montati allora per questo in maggior furore, gridavano che volevano entrare in Palagio, e che i Signori se ne uscissero. Uno di questi, Guerriante Marignolli, già si era partito d’allato i compagni dicendo voleva scendere giù a guardare che il popolo non entrasse; ma presa la porta, difilato uscì di Palagio. Quando il popolo e le Arti viddero che Guerriante se ne andava a casa, cominciarono a gridare: Scendanne tutti, noi non vogliamo che siano più Signori. Allora venne Tommaso Strozzi nell’Udienza, e disse come Guerriante se n’era ito a casa sua; per questo il popolo e Arti al tutto vogliono che voi altri Signori tutti ve n’andiate a casa. I Signori smarriti deliberarono significare ciò ai Collegi e agli Otto a fine d’intendere la loro volontà. Quivi essendo tutti a cerchio, fu da uno di loro esposto il caso; niuno sapeva pigliare partito, ed i Collegi piangevano, chi si torceva le mani, chi si batteva il viso; gli Otto si mostravano tristi e dolenti: fuori gridavano, che i Signori se ne andassero e gli Otto rimanessero in Palagio, altrimenti che la città andrebbe a fuoco ed a sacco; e che se di subito non ne uscissero, piglierebbono le loro mogli e i loro figliuoli, e in loro presenza gli ucciderebbono: tutte queste minaccie usavano come era loro insegnato dire. Benedetto Alberti, venuto alla Signoria, propose che due del popolo delle Arti venissero su a risiedere come Priori insieme con loro; il che essendo facilmente consentito, egli e Tommaso andarono giù a trattare col popolo; il quale non volle, dicendo: noi abbiamo fatto tante offese a questi Signori, che noi non ci potremo mai più fidare di loro. I Signori guardavano pure che un qualche accordo si facesse, che rimanessero in Palagio con amore e volontà del popolo e delle Arti. Ma gli Otto e i Collegi consigliarono che [25] per manco male se ne andassero: dei Signori due, Alamanno Acciaiuoli e Niccolò del Nero Canacci, dissero che per loro non intendevano eglino uscire, e chi voleva andare se ne andasse; il Gonfaloniere piangeva la moglie ed i figliuoli; gli altri Signori stavano che parevano tutti morti. Non era persona che gli confortasse nè che a loro si profferisse; ed anzi molti di quei che erano giù nella Corte, venivano su e supplicavano se ne andassero: così era abbandonata quella Signoria. La famiglia del Palagio si era nascosta nelle camere degli Otto, ed i fanti venuti a richiesta della Signoria stavanle contro; e già buona parte del popolo minuto era entrato nel Palagio. Il Gonfaloniere, partitosi da’ compagni, se ne andò a Tommaso Strozzi e a lui si raccomandò; Tommaso il prese e trasselo di Palagio e lo menò a casa sua. Gli altri Priori e i Gonfalonieri e i Dodici anch’essi se ne andarono. L’Acciaiuoli e Manetto Davanzati venuti nell’Udienza, come viddero essere quivi soli, si tennero morti; e infine avviatisi anch’essi giù per le scale, fecero dare al Proposto delle Arti le chiavi della porta; la quale fu aperta, e il popolo irruppe ed entrò in Palagio.

A tutti innanzi era un pettinatore di lana chiamato Michele di Lando, e la sua madre vendeva stoviglie;[24] egli in pianelle o scarpette e senza calze, portando in mano il gonfalone. Salite le scale si fermò ritto a mezzo la scala dell’Udienza dei Signori, e qui fu gridato a voce di popolo Gonfaloniere di giustizia: rispose voleva; e volle, e tosto pigliò animo dal magistrato, con grande ardire e intendimento, essendo quel giorno egli solo come signore della città, e tenne il [26] Palagio, e scrisse lettere e comandamenti. Il seguente dì fatto suonare a pubblico Parlamento, fu in piazza confermato Gonfaloniere fino a tutto agosto, e data balía a lui ed agli Otto ed ai sindachi delle Arti, quanta ne avesse tutto il popolo, di riformare la città e di fare nuovi Priori e i dodici Buonuomini e i Gonfalonieri delle compagnie. I quali essendo messi in ufficio con le solennità consuete, insieme agli altri della Balía ed a Salvestro de’ Medici e a Benedetto degli Alberti, crearono subito tre nuove arti e consolati, la prima de’ sarti, farsettai e cimatori e barbieri, la seconda de’ cardatori e tintori, la terza dei Ciompi o popolo minuto; il che fu segno ad altri mestieri, che erano sudditi delle principali Arti, di levarsi contro a’ maggiori loro, e ai discepoli contro ai maestri; che fu cagione di fieri scandali. Aveano da prima, col consiglio di ambasciatori venuti da Perugia e da Bologna, voluto alle Arti maggiori mantenere la preminenza; ma di ciò il popolo non si contentava: e quindi provviddero che la Signoria fosse divisa per terzo sì che nel priorato fossero tre delle Arti maggiori, tre delle minori, tre delle nuove Arti aggiunte, avendo ognuno di questi tre ordini alla sua volta il Gonfaloniere della giustizia. Credevansi gli Otto rimasti in Palagio d’aver essi la balía di fare ogni cosa, e che potessono eleggere i Signori a mano; tanto che avevano già mandato a dire a messer Giorgio Scali ch’egli era fatto de’ Priori e che venisse in Palagio: ma quando il popolo l’udì nominare, disse non lo voleano, e che voleano essere Signori loro: egli si tornò a casa.[25] La plebe che aveva il suo Michele di Lando, poteva far senza il nobile Giorgio Scali; nè fu bastevole [27] questo disinganno all’ambizione di Giorgio, che ebbe indi a porvi anche la vita. Costui d’antica famiglia de’ grandi, ma fatto di popolo, fu di sottile ingegno e di gran vedere, ardito e molto intramettente nelle cose dello Stato; ammonito l’anno 1375, la città se ne turbò. Egli, quand’era Gonfaloniere l’anno 1374, aveva posta una legge per la quale i grandi non potessero avere tenuta o possessione che avesse fedeli e vassalli, ma che fossero costretti di farne vendita al Comune dentro certo tempo: la quale legge fu rivocata.[26]

Correva frattanto il mese d’agosto, a fine del quale doveasi eleggere nuova Signoria da cominciare al tempo usato. Per questa fecersi gli squittinii; ai quali intervennero, oltre ai già detti, i Dieci di libertà ed i nuovi Capitani della parte e gli Otto della Mercanzia, di questi essendosi accresciuto il numero, sì che ne fossero sempre due delle Arti minori: ma in quello squittinio prevalsero le Arti di nuovo aggiunte ed il popolo minuto, gli altri tenendosi in disparte per tema o disdegno, o a bello studio allontanati. Gli Otto frattanto e i sindachi delle Arti, e gli altri che avevano in mano lo Stato si cercavano perpetuarlo, e a sè arrogavano preminenza del portare armi, ed onori, e salari ed uffici dentro e fuori, tra loro stretti in consorteria fin da principio di quei tumulti,[27] e volendo che nessuna riformagione valesse, se prima non fosse dai sindaci deliberata. Il povero popolo era arrabbiato di fame, perchè le botteghe quasi stavano serrate, e se stavan aperte non lavoravano; onde a chetarlo si prese modo di dare uno staio di grano per bocca a chi ne volesse, e si diedero a far venire biade in città: posero prestanze ai cittadini di quaranta mila fiorini, poi di venticinque mila, com’era voluto nelle petizioni [28] di sopra esposte; levarono l’interesse ai capitali del Monte, e che d’ora in poi nessun Monte si facesse, ma che si facesse un estimo a tutti i cittadini; mandarono uomini pel contado a confortare i contadini, ad essi scemando le stime il terzo, e ne assoldarono dalle tre miglia in qua. Confinarono per le città d’Italia trentuno dei capi del vecchio Stato; ch’era vendetta e sicurezza, ed era anche modo di far danari da compire le prestanze, per le multe che ogni tratto i confinati pagavano, costretti ogni dì presentarsi all’ufficiale della terra dove risiedevano: per il che erano di continuo trovati in fallo e condannati.[28]

Più altre provvisioni si fecero tutto quel mese di agosto: prima ordinarono mille balestrieri per la difesa della città; se nascesse qualche rumore, vietarono mostrarvisi in arme e persino lo sparlare contro allo Stato e contro al popolo minuto: si adoperarono a recuperare ovunque i danari del Comune o le poste debite, rimettendo però le penali, e a tenere la città provvista; concessero agli antichi sbanditi qualche giorno di stare in città e farsi togliere il bando: le signorie private di luoghi forti nel contado sottoposero alla ubbidienza del Comune: cercavano insomma quella violenza di cose comporre a stato fermo e regolare sotto a nuove leggi, per fare andare come la forza anche il diritto in mano al popolo degli artefici.[29]

Quello che impedisce cotesti governi popolari, è il non potergli fare tanto larghi che sempre non sieno monchi e imperfetti: popolo siamo noi tutti, ma pure in ogni popolo vi è una parte il cui diritto consiste nell’essere quanto è possibile governata bene, perchè se vi ponga le mani da sè, costretta accorgersi di non saper fare altro che male, si spinge innanzi in quello [29] che sa, ch’è la sola opera del disfare. Non era in Firenze via da contentare i più feroci e infatuati: radunatisi di loro circa due mila in San Marco nei giorni ultimi d’agosto, vennero alla Piazza de’ Signori, e con essi alcuni d’ogni Arte co’ gonfaloni loro, quali appiccarono alla ringhiera, eccetto quello del minuto popolo che sempre era portato attorno. La turba empieva tutta la Piazza e la ringhiera de’ Signori, sopra la quale si affaccendava a scrivere petizioni, ch’erano leggi da presentare immantinente alla Signoria. L’uno diceva al giovine del notaro: Scrivi, Gasparre, io voglio così; l’altro gli ponea la spada alla gola e stracciava la scritta, e ponevangli un foglio in mano e diceva: Scrivi; e l’altro vi fregava su le dita e diceva: Vuole star così. Chi domandava che i libri del Monte si ardessono; chi gridava «Viva il popolo!» e chi «Siano morti i sindachi!» ed il rumore ed il parlare loro parea un inferno:[30] così ne uscirono certe leggi, le quali furono il giorno dopo vinte ne’ Collegi. Contenevano, che i sindachi delle Arti (autori primi di quel rivolgimento) fossero cassi e tolta loro ogni provvisione; che niun cavaliere (e pure i novellamente fatti) fossero abili agli uffici; che a Salvestro dei Medici fossero tolte le botteghe del Ponte Vecchio, ed a Giovanni di Mone la Piazza di Mercato; che di maleficio fatto insino a quel dì non si conoscesse, nè di potere essere costretti per alcun debito, tanti anni, nè in persona nè in avere.

In tale scompiglio e a questo levarsi dell’ultima plebe avrebbero avuto bel gioco e comoda occasione gli antichi grandi; e convien dire fossero discesi a estrema bassezza, poichè nessun moto si trova facessero a loro pro; dove se ne tragga il fatto oscuro di un solo, che fu Luca de’ Firidolfi da Panzane, del ceppo dal quale si erano divisi quelli da Ricasoli. Costui [30] narra di sè stesso, come egli cercasse pertinacemente la vendetta contro uno de’ Gherardini che gli aveva ucciso un parente, e poi la compiesse per via di un assalto al campanile della chiesa di Santa Margherita a Montici, dove lungamente si era difeso il misero Gherardini. Bene cotesto Luca dovette essere dei più malvagi ed avventati; e come colui che adoperato dalla Repubblica in cose di guerra aveva ottenuto essere fatto di popolo e cavaliere, stava sulla Piazza seguito da quasi tutti gli sbanditi ribanditi; quivi si fece tôrre la cavalleria che aveva dapprima, tagliare li sproni, e rifare cavaliere del minuto popolo che da lui, come anche nelle scritture pubbliche, si trova chiamato Popolo di Dio, ed alle volte Popolo Santo.[31] Poi liberarono due prigioni di recente fatti e gli menarono a baciare sulla piazza l’insegna dell’Agnolo; dicendo all’uno «ringrazia Dio ed il popolo di Dio che t’ha liberato,» e che facesse fare una bottega d’arte di lana di fiorini tremila: disse farla di sei mila, e tutti a grido: «questi è buon uomo, però volevangli fare male.» Condusse a casa tutta la ciurma, ed aprì la cella e gli fece bere, che il caldo era grande; egli entrò in casa e dietro se ne uscì, che a lui parve mill’anni. Poi Luca ne andò con tutta la ciurma al palagio della Parte, e volle tôrre il gonfalone; ma quando al popolo ch’era sulla piazza fu ciò rapportato, nacque rumore che s’egli avesse levato su altro gonfalone, il loro Agnolo non sarebbe nulla, e che à loro non dovea bisognare gonfalone de’ Guelfi, chè ’l popolo era tutto guelfo. Gridarono: s’egli ce lo reca, sia tagliato a pezzi. I suoi, lasciando Luca, ne andarono sulla piazza; ed egli co’ suoi novelli sproni [31] dorati si dileguò; chè se lo trovavano, male sarebbe egli capitato.

La sera andarono a Santa Maria Novella e chiesero quivi luogo dove stare; fu loro assegnata la grande Cappella nel secondo chiostro. Rimasti la notte, dissero al Priore desse loro certi buoni frati che avessero a consolarli per l’anima e per il corpo: rispose il Priore, che non aveva frati da ciò, se eglino dapprima non consolassero sè medesimi; ed altre buone parole. Le quali udite, si strinsero insieme, e chiesero a lui frati onesti e di buona vita, che gli ammaestrassero ed insegnassero fare cose utili e buone. Alcuni n’ebbero, e praticando co’ frati dei modi, l’uno diceva, l’altro si levava, l’altro interrompeva; e, secondo disse chi fu ad intenderli, «peggio era che la zolfa degli Armeni.» In questo cercare pietosi conforti, pochi erano gli ipocriti: i molti credevano col vendicare le ingiustizie usare un diritto; a loro dicevano essere negate le giuste mercedi, e grossi guadagni dati a quei pochi fortunati che pure ambivano di chiamarsi popolo. Nelle arti è viva sempre la guerra pei salari, e quindi viziato in sè medesimo un governo fondato sulle arti. Marchionne Stefani, sebbene tenesse parte popolare, aggrava i Ciompi, mostrando credere a chi disse: volere essi correre la terra, rubarla e uccidere tutti i vecchi e buoni uomini, e tôrsi la roba loro; quindi murate e steccate le bocche delle vie, ridurre la città a piccolo compreso, ed ivi farsi forti, poi vendere la città; chi disse al Marchese di Ferrara, e chi ad un Bartolommeo Smeducci da Sanseverino, il quale trovavasi allora in Firenze per cose di guerra; essi con la roba andarsene a Siena.[32] Nè forse mancarono di [32] tali disegni in taluno dei più tristi. Ma nell’effetto (come apparve anche dal processo che loro poi si fece addosso) era solo questo: aveano creati già prima otto ufficiali loro, due per Quartiere, chiamati gli Otto di Balía di Santa Maria Novella, con mero e misto impero; e sedici altri pure del popolo minuto, ogni Gonfalone uno, i quali fossero il Consiglio loro. Questi ed altri che si eleggessero successivamente di priorato in priorato, volevano stessero in Palagio, e niuna cosa che toccasse alla città, senza di loro potesse farsi; e quando fosse deliberata da essi oltre che dai Priori, potesse andare ai Collegi ed ai Consigli. Pensarono altri provvedimenti di questa sorta, nei quali non era altro vizio se non quello di rendere al tutto impraticabile il governo, e guerra mettere nel Palagio.

Aveano gli Otto mandato ad ogni Arte inviassero loro due consoli o artefici, co’ quali voleano trattare del modo del reggimento della città. Ai quali poi fecero alcune proposte, non in forma di consiglio, ma dicendo: così ci pare e vogliamo; e quelli uditele, si ritrassero. Sentendo poi gli Otto suonare a Consiglio, vennero alla piazza con grande moltitudine di popolo minuto in arme, e con gran rumore dicendo: noi vogliamo sapere chi è tratto de’ Priori. Qualunque era tratto, si mandava a domandare se piaceva loro o no; e quelli gridare: straccia, straccia; ovvero: buono, buono. Feciono stracciare cui loro parve, e però la tratta si penò a fare sino a sera. Volle anche il popolo ammonire, serbando pur sempre le antiche forme della Repubblica; ma questo modo così tirannico del fare la tratta dispiacque eziandio a qualunque del popolo minuto che avesse sentimento. Dipoi mandarono gli Otto in Palagio certe petizioni, con ordine ai Priori di tosto riceverle, e sonare a Parlamento perchè venissero confermate: risposero questi, che il mercoledì, primo settembre, dovendosi fare Parlamento per l’entrata de’ nuovi Priori confermerebbero ogni [33] loro ordine compiutamente; e fatto venire il frate col messale, giurarono. Tra gli altri ordini era questo: che potessero i consoli delle Arti co’ loro consigli privare degli uffici del Comune chiunque volessero; ed è da notare che nei consolati e nei consigli delle Arti quasi non erano che discepoli, essendo i maestri tolti via quando furono arse e rinnovate le borse. Vi era di mezzo altra circostanza che più toccava nel vivo; questa cioè, che gli uomini della Balía passata si avevano fatto assegnare doni e onorificenze, chi l’una cosa chi l’altra: Michele di Lando, la potesteria di Barberino e cento fiorini per un cavallo e pennone e targa. Si trova[33] che avesse Michele mandato a praticare con loro perchè gli lasciassero o i doni o l’ufficio, e che infine si arrecasse al solo pennone, così promettendo fare ogni cosa a modo loro. Mi duole ciò fosse di lui creduto; ma non poteva egli oramai più stare a bottega di scardassiere, ed era la chiesta di una tra le potesterie minori, piccola cosa; ed il porre innanzi gli onori al guadagno è prova d’animo dignitoso. Egli con l’avere fermato l’impeto popolare e ricondotta la quiete in città, ardito nei fatti, grazioso ne’ modi, avea gran seguito e favore presso ad ogni maniera di gente. La mattina dell’ultimo dì d’agosto gli Otto di Santa Maria Novella mandarono in Palagio due di loro, e tosto fecero rassegnare innanzi a sè i Priori nuovi e vecchi, perchè giurassero; e se al primo cenno non rispondevano, subito «ove sei?» con tanta arroganza che parevano Signori. Allora Michele, ricordandosi ch’egli era Gonfaloniere da usare le mani, andò a pigliare una spada, e con quella gridando raggiunse uno degli Otto e gli diede in sulla testa, poi lo inseguì giù per la scala dandogli sempre; e questi nel cadere trovò un frate di quei del Palagio, che saliva recando del vino, cosicchè all’urto il povero frate [34] andò col capo all’indietro e morì. Michele percosse l’altro degli Otto con lo stocco, i due rincorrendo fino ad una sala, che si chiamava dei Grandi; appena lo poterono raffrenare che non gli uccidesse; i due furono presi e custoditi in Palagio sotto alla scala.

Intanto la piazza s’empiva di gente. Aveva dapprima invaso il terrore gli animi de’ mercatanti; chi si fuggiva in contado, chi nelle castella o città vicine, sgombrando le robe: se non che i Signori la notte aveano dato ordine che la mattina seguente le Arti traessero in arme alla piazza co’ gonfaloni loro, e fatto venire fanti dal contado e richiamato i fuggenti. Benedetto Alberti stava co’ Signori, e Giorgio Scali aveva la guardia della torre del Palagio; Salvestro dei Medici non trovo allora che si mostrasse. Ma già suonavano le campane di quelle parrocchie dove abitavano i Ciompi che ultimamente si raccolsero a San Frediano. E la campana dei Signori suonava a martello, chiamando le Arti che già traevano alla piazza. Michele di Lando uscito in questo dal Palagio montò a cavallo, avendo seco Benedetto da Carlona pianellaio; e dalla Piazza con molto seguito, e facendosi portare innanzi il Gonfalone della giustizia, andò a Santa Maria Novella, dov’egli credeva trovare i Ciompi: questi con la loro insegna dell’Agnolo erano intanto venuti in Piazza ed assediavano il Palagio, mentre da più lati giugnevano le Arti, e già tenevano le bocche di tutte le vie. Allora soppraggiunse Michele di Lando, che aveva percorsa gran parte della città gridando: «Vivano le Arti e il Popolo, e muoiano i traditori che volevano recare a Signore il reggimento della città.» Tornava alla Piazza con molta più gente che non si partì. Allora i Signori mandarono a dire a tutte le Arti dessero le insegne, chè le voleano in sul Palagio: le Arti, come fu ordinato, subito le mandarono; ed i Priori le misero onoratamente alle finestre della Sala del Consiglio: negarono i Ciompi dare quella dell’Agnolo; [35] e mentre i Signori con la loro gente cercavano torla, s’appiccò zuffa; dalle finestre gettavano pietre addosso ai Ciompi ch’erano sulla ringhiera, l’urto del popolo gli premeva; questi allora cominciarono ad arretrarsi per la via de’ Magalotti, dove sopraggiunti da un’altra compagnia che gli feriva di costa, andarono in rotta: pochi ne morirono, a chi non si difese non fu detto nulla. La sera e la notte le Arti vittoriose andavano per Camaldoli e per i borghi della città; ma i Ciompi s’erano dileguati chi per le case, chi nel contado, e chi per Arno usciti fuori nei campi. I pochi e deboli alle volte fanno breve sorpresa ad una città, perchè la stessa miseria loro incute negli altri qualche rispetto; guardagli in faccia e’ si dispergono, frustrati ancora delle giustizie per cui levaronsi da principio.

La mattina del primo settembre i nuovi Signori presero l’ufficio senza le solennità usate, ma con la guardia delle sedici Compagnie, ch’erano in Piazza grande brigata, e di cento lance di gente d’arme che allora erano in Firenze. Michele di Lando non volle uscire alla ringhiera nel consueto luogo, ma nella Sala d’udienza diede il Gonfalone in mano al nuovo eletto ch’era dei Ciompi; ed egli co’ suoi compagni andarono a casa privatamente: ebbe Michele l’onorificenza del pennone e della targa ed a lui fu confermata la potesteria che gli era assegnata, e i doni e gli uffici a qualcun altro de’ suoi[34] che avesse dato mano alla vittoria contro alla setta di quei di Santa Maria Novella. Ma i nuovi Signori la stessa mattina assieme ai Collegi ed alle Capitudini delle Arti, e al grido di quelli ch’erano in piazza, deliberarono: che l’Arte dei Ciompi, ultima aggiunta, fosse abolita; che il Gonfaloniere e un altro Priore i quali erano del minuto popolo, [36] chiamati uno il Tira l’altro il Baroccio, fossero cassi; che rimanessero le due altre Arti di nuovo create, sicchè le minori fossero sedici, rimanendo le maggiori sette; che dei Priori fossero quattro delle maggiori Arti e cinque delle minori, le quali avessero nella stessa proporzione la maggioranza nei Collegi, e che dei due ordini ciascuno avesse alternamente il Gonfaloniere. Poi consigliatisi con alcuni savi e discreti cittadini a questo effetto richiesti in Palagio, annullarono le esenzioni del portare armi ed il respiro di due anni dato ai debiti sotto una certa data somma; renderono a favore dei creditori del Monte il pagamento dell’interesse, dal che i danari del Monte i quali valevano tredici per centinaio, salirono in pochi giorni a ventiquattro. Fecero eletta di sessantaquattro ufficiali a fare l’estimo degli averi di ciascun cittadino; rinnovarono la taglia di mille fiorini posta a Lapo da Castiglionchio, chi lo desse morto o vivo; conservarono a Salvestro de’ Medici l’entrata sulle botteghe del Ponte Vecchio, ed a Giovanni di Mone quella del Mercato. Crearono Otto per la guardia della città, ma senza balía, e che esercitassero la vigilanza su’ forestieri. Riformarono il Consiglio del popolo in quaranta cittadini per quartiere, e in simile numero il Consiglio del Comune, con più dieci grandi per ogni Quartiere; con che in ciascuno dei Consigli le Arti maggiori e le minori avessero parte eguale. Ordinarono che in avvenire i Capitani di parte guelfa fossero undici, due magnati, quattro delle Arti maggiori, e cinque delle minori, dividendosi con la stessa proporzione gli uffici e collegi e consigli della Parte.[35] Annullarono le cavallerie date in mezzo al tumulto; ma resero il grado nell’usato modo a trentun cittadini per lo più delle maggiori case, i quali prestarono il solito giuramento,[36] [37] e cavalcarono per la terra con popolare solennità. Sostituirono al Gonfaloniere levato d’ufficio un rigattiere, e Giorgio Scali entrò nel numero dei Priori. Resero alle Arti i gonfaloni che per sospetto si tenevano appiccati alle finestre del Palagio, e le Arti vennero e se li portarono con grande festa ed allegrezza. Gli Otto che avevano governata la guerra col Papa lasciarono alla fine, dopo tre anni, l’ufficio. I due di quelli altri Otto di Santa Maria Novella, che furono presi poichè Michele di Lando gli ebbe feriti, andarono a morte per sentenza pronunciata contro gli autori dell’ultima sedizione; dei quali furono condannati nella persona e negli averi una trentina ch’erano contumaci. Coteste giustizie facevansi in nome d’un governo d’artigiani: il popolo, come in Firenze natural signore, non volle sapere di feccia plebea; ed io non so quale altro popolo al pari di questo valesse a reggere sè medesimo, qualora avesse trovato forme a ciò adatte, e fosse stata vera e sincera l’egualità su cui fondavasi la Repubblica.[37]

Capitolo II. GOVERNO DELLE ARTI MINORI, CHE INDI PASSA NELLE MAGGIORI. RACQUISTO D’AREZZO. [AN. 1378-1387.]

Ma era impossibile ad uno Stato di troppi ed improvvidi e ciascuno bisognoso, mantenere la fiducia di sè medesimo ch’è principio come di forza, di libertà cui fanno guerra fiera e continua le paure: quanti più sieno i partecipi, tanti più sorgono gli avversari. Accade sovente nelle intestine divisioni, che mentre a [38] una parte di quei che furono vincitori non sembra d’avere mai fatto abbastanza per la oppressione dei contrarii, ad altri il fatto riesca troppo e sieno pronti a rinunziare, per desiderio della pace, alla vittoria conseguita; perchè alla fine tutti abbiamo bisogno di tutti, e questo che spesso diventa lievito di discordia nelle umane società, è pure vincolo che non si disfacciano. Qui era un popolo di artefici, ed i mestieri più penuriosi facevano guerra alle officine che gli adoprano, e al capitale, strumento primo alla produzione del lavoro, ed ai commerci che lo alimentano; così i braccianti, per ottenere a forza mercedi più eque, veniano a perdere il lavoro. Oltre ai mercanti fatti ribelli e a quelli che aveano per arte o paura cessato le industrie e a quelli che dentro contrariavano lo Stato, aveva il popolo degli artefici respinto da sè anche una parte di sè medesimo; e i più forti per audacia, ribelli anch’essi, ora si accostavano a quelli che innanzi avean chiamato tiranni loro e facean causa con gli spossessati. Nei primi tempi della Repubblica le Arti maggiori facilmente dominavano con la potenza e col senno il nuovo popolo che sorgeva, ma tuttavia disciplinato dall’antica suggezione; ora ambe le parti, fatte procaci ed intemperanti ciascuna per sè, non avean modo a ricomporsi. Nel breve governo delle Arti minori vedremo continue da una parte le congiure, dall’altra i sospetti, le esorbitanze, ed il sangue versato a spegnere i sospetti; nei quali conati vedremo la vita di questo popolo consumarsi, imperocchè il popolo quando una volta abbia assaggiato il governarsi tutto da sè, riesce più agevole a lasciarsi governare, quasi egli sia fatto a somiglianza di certe piante le quali come hanno portato il fiore periscono: ma benchè il popolo qui perdesse la vita politica, Firenze fu sempre città popolana sotto ogni forma di reggimento.

Nei primi anni, quando ebbe avuto più fermo assetto questa Repubblica, ci occorse notare come al [39] promuovere la potenza, al fare le imprese e a tutto insomma il governo dello Stato, sembrasse tutta partecipare la comunanza dei cittadini, essendo tra molti divisa l’autorità, nè per il corso di molti anni alcun nome ricordandosi che sopra agli altri si elevasse. Ma col procedere dei tempi troviamo il contrario, e già cominciano pochi nomi a farsi innanzi e a tirare quasi dietro sè tutta la narrazione, ch’è primo indizio al disfacimento, quando anche lento, delle repubbliche. Avea bisogno la moltitudine di capi esperti che la guidassero, e gli ambiziosi di lei facevano strumento abile ai disegni loro. Conducevano lo Stato coloro medesimi ch’aveano condotta e preparata la mutazione; Giorgio Scali che fra tutti ebbe più audaci pensieri, Tommaso Strozzi della famiglia stessa ond’era Carlo che fu tra’ sommi sul magistrato di Parte guelfa, Benedetto degli Alberti che fra tutti era il più veramente popolare; e accanto ad essi alcuni altri sorti di plebe, e posti in alto dai moti recenti, per indi sparire senza ricordo nelle istorie. Salvestro de’ Medici, quale se ne fosse la cagione, figurò poco nel nuovo Stato; Michele di Lando, o fosse in lui necessità o senno, rimase in disparte: ma quegli antichi Otto che aveano fatto la guerra col Papa e avuta gran mano nel sovvertimento dello Stato, rimasero quindi a parte di esso e n’ebbero beneficii: uno di loro, Andrea Salviati, fu il secondo Gonfaloniere dopo Michele di Lando; allora la volta del supremo magistrato dovendo tornare alle Arti maggiori, secondo gli ordini nuovamente posti.

Furono quegli anni senza guerra fuori, ma le congiure dentro lo Stato mai non cessavano, gli sbanditi essendo uomini dei più facoltosi e di maggiore autorità, che non tenevano il confine; ma forti ancora delle aderenze le quali avevano per l’Italia, di continuo praticavano tornare in patria nell’antico grado, ed ogni giorno se lo credevano: v’erano i Ciompi, rimasti fuori, che aizzavano quei di dentro. Già nei primi [40] mesi, avuto sentore di certe pratiche o congiure, altri settantasei cittadini ebbero bando, e a due fu tagliato il capo. Molti più erano gli indiziati; ma per non fare troppo gran fascio, il processo fu abbuiato; e i nuovi Signori attesero invece a riunire la città per via di nuove imborsazioni, rendendo più eguale fra tutte le Arti la distribuzione degli ufficii, e per le inferiori o Arti più minute scemando il numero degli imborsati; massimamente togliendo via quei molti fattori o discepoli o compagni, che prima tenevano il luogo dei maestri, e dove stava il maggior male. Cercarono anche di rinnovare le antiche leggi contro a’ forestieri, facendo che niuno il quale non fosse della città o del contado avesse ufficii; ma era legge odiosa troppo, che parve come un ammonire, e andò a terra con poco effetto. Nè la concordia fu durevole, e poco dipoi venne scoperta un’altra congiura, per la quale furono decapitati sette cittadini, altri essendosi posti in salvo; tra’ quali uno Strozzi ch’era Priore di San Lorenzo, e quel Guerriante Marignolli che noi vedemmo, quando era della Signoria, male tenere il grado suo. Venne la volta poi di Giannozzo Sacchetti, fratello al Novelliere, ed egli medesimo autore di laudi e d’altre pie composizioni; onde fu chi tenne con plausibili argomenti falsa l’accusa per cui Giannozzo perdè la vita.[38]

Era disceso in Italia dall’Ungheria Carlo di Durazzo di Casa d’Angiò a cacciare la regina Giovanna di Napoli: appena era egli giunto in Padova, si misero attorno a lui con Lapo da Castiglionchio i fuorusciti; ed al Re pareva meglio potersi assicurare dei Fiorentini, se la Repubblica tornasse in mano dei vecchi amici di parte guelfa, usi al governo e di più credito nelle Corti. Troviamo essere in quegli anni dalla popolare diffidenza aggiunti nelle ambascerie ai [41] chiari uomini bassi artefici; mistura da essere gradita poco a quei Principi ai quali andavano: per queste cose avevano favore appresso a Carlo i fuorusciti. Intanto i Ciompi fuggiti a Siena ed a Bologna s’intendevano con quei di dentro: era in Firenze grande bisbiglio e avvisi di trame che s’ordissero dentro e fuori; scriveano pei canti i nomi sospetti; chi accusava i magistrati di connivenza, chi voler far morire gente per nimicizie private, chi l’una cosa e chi l’altra. E già una mano di sbanditi da Siena pel Chianti aveano tentato di sorprendere Figline. Furono creati nuovi Otto di guardia, tra’ quali troviamo Michele di Lando stovigliaio (il mestiere della madre); e guardia si faceva molto diligente nella città e nei dintorni; dove sulla fine del 1379, senza averne prima sospetto, trovarono Piero degli Albizzi; intantochè altri ribelli di minor nota ma che erano stati dei maggiori della città, in altri luoghi furono presi, e tosto dati al Capitano che gli condannasse. Negava questi; essendo allora coscienza dei giudici non proferire condanne senza la confessione dell’accusato, ma poi tenere per buona quella che fosse cavata di bocca per forza di prolungati tormenti. Intorno al Palagio tumultuava la moltitudine, e la città era sotto l’arme; Benedetto degli Alberti salì al Capitano, e disse che il popolo voleva la morte dei prigionieri. Allora Piero, con forte animo volto ai compagni, mostrò il pericolo che ne anderebbe alle famiglie loro, e che essi in niun modo non camperebbero ma sarieno tagliati a pezzi come cani: mandarono al Giudice dicesse loro quel che dovessero confessare, e ch’erano presti. Quegli rispose che ne lasciava il pensiero a loro: deliberati morire, lo pregarono onestasse la condannagione il più che potesse, e confessarono chi una cosa e chi l’altra; tantochè il Capitano diede loro (come dicevano) il comandamento dell’anima; e cinque ch’erano stati dei primarii cittadini di Firenze, tra’ quali Bartolo Siminetti [42] e uno Strozzi, e con essi altri di oscuro nome, perirono insieme a Piero degli Albizzi. Di lui si narra che facendo egli pochi anni prima un grande convito, gli fu presentata una scatola di confetti sotto ai quali era nascosto un chiodo; fu interpretato che dovesse conficcare la ruota della fortuna, della quale era egli sul colmo. Ed un altro cittadino di molta stima e non ignoto ai nostri lettori, perdeva la vita nei giorni medesimi: questi fu Donato Barbadori che, solito andare nelle maggiori ambascerie, stava in Padova appresso a Carlo, dov’ebbe accusa d’avere cenato con gli sbanditi; il che bastò perchè gli fosse tagliato il capo. Continuarono però sempre le trame, o vere o sospettate, e ne seguirono altre morti.[39]

A questi tempi un fatto nuovo s’era in Italia manifestato. Le Compagnie d’oltramontani, che a noi recarono tanti mali, già si andavano consumando, senza che altre sopravvenissero; e noi vedemmo Compagnie minori di gente nostrale vaganti ai soldi delle città; quando un gentiluomo lombardo, Alberico da Barbiano dipoi Conte di Belgioioso, ne formava una che sotto nome di Compagnia di San Giorgio divenne celebre, e fu educatrice prima delle armi Italiane, tali quali erano a quel tempo. Del resto, quei nuovi condottieri di milizie anch’essi non ebbero nè fede nè patria che le armi loro giustificassero, non erano meno rapaci e crudeli di quel che fossero gli stranieri, e qual pro ne avesse l’Italia non so; quel che a lei fecero noi vedremo. Nella primavera del 1380 la Compagnia di San Giorgio era venuta su quel di Siena, dove si erano riparati in grande numero fuorusciti delle principali case di Firenze, e molti dei Ciompi che ivi erano iti a lavorare, Siena reggendosi in quelli anni a governo popolare. Costoro persuasero agevolmente la Compagnia, che non aveva che fare, a muovere contro allo [43] Stato di Firenze: discese pertanto nella Val di Pesa; ma poichè in Firenze non avvenne alcun movimento come gli usciti speravano, passò in Val d’Elsa, e indi sulle terre dei Pisani e dei Lucchesi, pure aspettando buona occasione: ma poi che udirono che in Firenze aveano chiamato Giovanni Aguto, ed i Capitani della Parte si profferivano di condurre genti d’arme a loro spese; la Compagnia per Maremma si condusse a Roma. Ivi papa Urbano aveva sollecitato Carlo di Durazzo perchè scendesse contro alla regina Giovanna, che molto favoriva l’Antipapa; e Carlo essendo venuto a Rimini e di là in Toscana, ebbe Arezzo in signoria per fatto d’alcune possenti famiglie; dove mentre egli dimorava, i Fiorentini gli mandarono ambasciatori; uno dei quali, Giovanni di Mone, quel popolano che noi vedemmo salito essere molto in alto, fu ivi ucciso dai fuorusciti. Al che essendosi la città commossa, crearono nuovi Otto di guerra, e con modo insolito ma già usato dai Veneziani, altri Otto per la pace; i quali avendo mandati nuovi ambasciatori, fu stretto accordo pel quale il Re si obbligava non offendere in modo alcuno i Fiorentini; e questi dal canto loro promettevano non dare aiuto alla Regina, e imprestare a Carlo quaranta mila fiorini, da scontare sugli ultimi pagamenti dovuti ad Urbano per la conclusione della pace. Dopo di che Carlo di Durazzo entrò nel Reame e n’ebbe la possessione, avendo rinchiusa in carcere la Regina e il tedesco marito suo.

Ora tornando alle interne cose, mi piacerebbe che tutto il vivere di questa città in quelli anni di predominio delle Arti potesse scorgersi a minuto, perchè da un popolo come questo si avrebbe tale insegnamento che raro incontrasi nelle storie. A riconquistare i diritti loro, si ponean sopra al diritto altrui; e nel correggere le ingiustizie e porre un freno alle violenze, violenti erano ed ingiusti. Al che si aggiungano i viluppi delle private passioni, e più aguzzate le cupidigie [44] mentre col sovvertimento delle industrie era cresciuta la povertà; e a trovare ordine che soddisfacesse, conati ognora più impotenti e più eccessivi ed irragionevoli. Era un continuo ingerirsi delle Arti minori nelle cose del Palagio a esercitarvi un sindacato, quanto più incerto di sè medesimo, tanto più ingiusto e diffidente. Nè bastava loro l’andare in Palagio a imporre le leggi, che ci volevan anche desinare: contro di che fu ordinato che niuno potesse desinare co’ Priori, se non ne avesse licenza per partito vinto di sei fave nere. Sebbene fossero più di mille allo squittinio per la Signoria (che prima erano soli trecento), e che attorno ai magistrati fossero sempre dei popolani, qualunque volta uscisse un nome che agli artefici non soddisfacesse, o pretendevano si stracciasse, o facean prove di nuovi ordini pe’ quali credessero chiudere ogni adito ai nemici loro, e a sè pigliare tutto lo Stato. Al che ottenere per vie pacifiche frequenti erano le consultazioni; parve qualcosa avere fatto quando venti popolani di chiare famiglie furono messi tra’ grandi, e trentanove privati d’ufficio, intantochè venti ch’erano tra’ grandi vennero ammessi dentro al popolo. Contro ai ribelli atroci leggi, gli odii essendo inveleniti più che mai sempre dai sospetti; voleano tôrre loro i beni e farli andare in altre mani per creare loro addosso nuovi nemici: con questo fine avevano formata una balía d’Otto ufficiali a fare le vendite, designando essi i compratori e a ciò forzandoli quando non volessero: agli stessi Otto era imposta multa se dall’ufficio si ritraessero. Da quelle vendite decretarono che dieci mila fiorini fossero tolti ed assegnati a promuovere la uccisione dei ribelli in ogni forma e via e modo che agli Otto paresse, intantochè erano posti nuovi rigori contro a chi osasse di richiamarli. Gli ammoniti erano dei più accesi, e molto potevano tuttavia sempre in quello Stato, risuscitando essi le passioni che prima s’erano eccitate quando fu guerra contro alla Chiesa; alla [45] quale perchè era promesso di restituire i beni venduti, trovarono modo a compensare i compratori togliendo ai Cherici le prestazioni ad essi dovute per vari titoli dallo Stato,[40] e privarono del beneficio di riavere le possessioni quelli ecclesiastici che negassero ai compratori i sacramenti. Anche cercavano leggi nuove a ordinare le gravezze, cosicchè i poveri se ne vantaggiassero; ma in quanto ai modi non s’intendevano, ciascuno volendo tirare l’acqua al suo mulino, come si legge in Marchionne Stefani, ch’ebbe le mani in quello Stato, e anch’egli aveva il mulino suo. Posero ancora gravezze nuove, che tosto furono abolite; il nuovo estimo era fatto, e mai non ebbe esecuzione: ridussero il Monte a quel solo capitale che fu sborsato dai creditori, togliendo a questi il beneficio d’essere iscritti per due o tre volte quel ch’era pagato, e mantenendo l’istesso frutto del cinque per cento in luogo del quindici che i creditori soleano averne:[41] veniva ad essere spogliazione; e, come è a credere, durò poco. Oltreciò vollero gli artefici che fosse disfatta e riformata la moneta spicciola, dal che venisse a scemare il prezzo del fiorino d’oro; ed era ciò a vantaggio loro, perchè i mercanti vendeano a fiorini e pagavano le manifatture a soldi:[42] i lanaioli e tutti quelli che vivevano di rendite perdeano assai nella differenza. Intanto nelle arti e nel maneggio di esse era ogni cosa scompaginato: [46] i tintori e quelli altri mestieri tolti alla suggezione dei lanaioli aveano briga con essi continua; ed i lavori cessavano. Le famiglie facoltose così vedendosi soverchiate o per sè temendo, si ritraevano per le ville, tanto che ad esse fu imposta multa se non tornavano in città. A questo modo le condizioni dei braccianti peggioravano, ed i guadagni al minuto popolo venendo a perdersi ogni giorno più, moltiplicavano i provvedimenti pe’ quali il male più si aggravava, e la miseria cresceva, e il vizio con essa e il gioco e le usure, e frequenti le uccisioni per odii di parte o per vendette private,[43] contro alle quali facevano leggi ma tutte inutili e impotenti.

Erano molti, come si è detto, da prima i capi che avevano insieme guidato il popolo ad occupare lo Stato; ma perchè ciascuno a fine dei conti faceva per sè, ben tosto vennero a dividersi, ognuno di essi pigliando il luogo che a lui davano l’audacia o le forze o la capacità sua. Tommaso Strozzi e Giorgio Scali si erano spinti più innanzi, sempre così da essere quasi che principi nello Stato. Tenevano seco per loro arnesi o ministri o (come gli appellavano) scorridori, molti artefici minuti, massime delle due Arti nuove, ai quali aveano fatto dare licenza di portare arme: costoro ad altro non attendevano che a seminare scandali e a minacciare questo o quello e a fare accusa. Talchè i buoni uomini e mercanti si cominciarono a destare; e già Benedetto degli Alberti si era spiccato da quelli altri, biasimando i modi che a loro vedeva tenere piuttosto tiranneschi che civili. Occorse ne’ primi dell’anno 1382 che uno degli Scorridori soprannominato lo Scatizza, uomo di pessima condizione, accusò Giovanni Cambi ed altri gonfalonieri di Compagnie che più francamente s’erano scoperti, cercando così farli [47] cacciare dal reggimento. Ma colui fu preso dal Capitano, ch’era un messer Obizzo degli Alidosi signori d’Imola, e confessò il falso dell’accusazione. Per quante pratiche si facessero, il Capitano anzichè liberare lo Scatizza, mostrava intenzione di farlo morire. Tommaso e Giorgio, bene accorgendosi che per loro ne andava ogni cosa, di notte con molti assalirono armata mano il palagio del Capitano; il quale veggendosi così sforzato, andò ai Signori e depose la bacchetta in segno di volere lasciare l’ufficio: quelli riebbero lo Scatizza. Il che sentendosi per la terra il seguente giorno, i consoli delle Arti con molto seguito andarono ai Signori a dolersene e a confortarli, loro profferendosi ad ogni bisogno; esortarono il Capitano a ripigliare l’ufficio, esercitandolo francamente, e lo riposero in palagio: Giovanni Aguto era sulla piazza con trecento armati a cavallo. Subito allora il Capitano, mandata fuori la sua famiglia, fece pigliare Giorgio Scali, il quale non s’era voluto fuggire sebbene da molti fosse avvertito. Era di coloro che stanno col popolo, perchè non vogliono o non sanno adattarsi con gli eguali, e quello si credono avere strumento sicuro e valido nelle mani loro. Fidando in sè e nel caldo del favore che prima godeva, quando fu richiesto per andare dal Capitano, rispose che anderebbe volentieri: giunto alla piazza, udì molte voci contro lui gridare giustizia. Era in sul vespro: al far del giorno gli fu tagliata la testa sopra il muro del cortile; e quivi egli, che era stato il primo in Firenze, rimase più ore, senza alcuno adornamento e senza nemmeno avere uno sciugatoio che lo cuoprisse.[44] Tommaso [48] Strozzi, scampato a Mantova, trapiantava in quella città un ramo della sua famiglia. Indi un corazzaio, Simone di Biagio, il quale era stato dei più furiosi in quei tumulti, e seco un figlio ed alcuni altri, furono morti e strascinati crudelmente per le vie.

Non così tosto le maggiori Arti e tutto il popolo facoltoso viddero il ceto dei braccianti abbandonare o gastigare egli medesimo i suoi capi, bene s’accorsero ch’era tempo alla mutazione dello Stato. La stessa mattina, e fatte appena le esecuzioni, si levò in piazza grande rumore, ciascuno gridando Vivano i Guelfi: allora sopraggiunse l’Arte della lana in arme tutta, e di coloro che erano appellati buoni cittadini e delle maggiori famiglie e quasi d’ogni casa guelfa tanto gran numero che non vi capivano. Fra loro d’accordo ordinarono una petizione e la recarono ai Signori, contenente la riforma della città e il ribandimento degli sbanditi ed altre cose: al che i Signori fecero suonare a Parlamento per ispazio di due ore, e in questo mezzo innanzi alla porta del Palagio procederono all’usata ed inevitabile cerimonia di creare cavalieri circa una ventina dei più grossi popolani. Quando fu restato di suonare, fatto il Parlamento, si deliberò che i Signori e Collegi e i due Capitani di Parte, e due della Mercanzia, e due de’ Dieci di libertà, e due cittadini guelfi per ciascuno dei sedici gonfaloni, insieme avessero tutta la Balía in nome del popolo e del Comune di Firenze. Fatto il Parlamento, si levò l’insegna della Parte che fu data in mano a Giovanni Cambi, colui che per l’accusa avuta dallo Scatizza diede occasione a tutto quel moto; ed egli con seco il Capitano e i cavalieri novelli e con la gente dell’arme e molto popolo cavalcò per la città, gridando tutti: «Vivano i Guelfi e l’Arti.» L’altro dì quelli della Balía radunati in Palagio deliberarono la nuova forma di reggimento, i lanaioli e seguaci loro tuttora essendo in piazza armati: nel priorato sieno [49] quattro delle maggiori Arti e quattro delle minori, ma il Gonfaloniere, ch’era il nono, sempre sia tratto delle maggiori; dei sedici Gonfalonieri e dei Dodici buoni uomini, degli Otto di Guardia e de’ Dieci di Libertà, sempre per le Arti maggiori uno più della metà; lo stesso pei capitani e priori della Parte e pel Consiglio del popolo; ma in quello del Comune tra i due ordini doveva essere parità, i magnati rimanendo quivi nel numero conosciuto. Inoltre contiene quella provvisione, che gli sbanditi e carcerati per causa di Stato dopo il 18 giugno 1378 sieno assoluti, e che riabbiano i beni loro, ma non possano tornare per tutto il mese prossimo di febbraio: che i fatti grandi dopo quel giorno ed i privati dell’ufficio o messi a sedere, vengano restituiti e tolto ad essi ogni divieto; che sieno gli ordini contro ai grandi rimessi come avanti il 78; che le due Arti di nuovo aggiunte sieno annullate, disfatte le case o residenze loro, con che però dei dieci consoli dell’Arte della lana due sieno sempre delle Arti soggette, e gli altri otto lanaioli.[45] Il terzo dì furono arse in Palagio le borse del priorato degli uffici.

Tuttociò andava contro alle quattordici Arti minori, le quali scorgendo avere annullato le due nuove Arti scemava loro le forze, e dubitando che il simile non fosse poi fatto a loro, subillate anche dagli smuniti i quali ad ogni intemperanza tenevano mano, si ragunarono tutti alle loro residenze con intenzione di venire armati in Piazza co’ gonfaloni, per farsi forti contro agli avversari loro. Ma non poterono, perchè avendo ciò presentito l’Arte della lana e l’altre maggiori, con rinforzo di villani che aveano chiamati, furono in Piazza prima di loro; cosicchè essendo venuti alcuni delle minori Arti, cioè beccai e vinattieri, furono cacciati con mal commiato ed alcuni morti. Venivano su [50] per quei nuovi ordini le famiglie de’ mercanti grossi, odiate dai grandi per antiche nimicizie: avrebbero questi volentieri dato mano alla gelosia degli artefici; se non che gli Otto di guardia, i quali n’ebbero qualche sentore, provviddero che di bel nuovo s’armasse l’Arte della lana con le altre maggiori e buon numero di cittadini; e radunatisi in Mercato Nuovo, con bandi e altre dimostrazioni fecero capire ai grandi e agli artefici che attendessero ai fatti loro. Dopo di che per alcuni giorni la città fu quieta, essendo venuta novella, che una compagnia d’Arezzo era entrata nel contado, cacciata ben tosto e inseguita dall’Aguto.

Una lunga confusione regna nei fatti che indi seguirono. A noi proviene in qualche parte dalla narrazione dei cronisti che si fa oscura con l’addentrarsi nei più minuti avvolgimenti: ma era continua necessità in uno stato di quella sorta. Fondato sulle Arti, voleva comporsi nella fratellanza, la quale è anima delle industrie: tale era il pensiero incessante dei migliori, dei buoni uomini, di coloro che mantenendosi non interamente servi alle private cupidità, pur sempre amavano come loro proprio il comun bene, e nei quali stava quel grande fascio della comunanza che era la forza e la salute di questo popolo di Firenze. Il quale popolo comprendeva, a dir così, tutta la città e si distendeva nel contado, avendo in parte annichilato ma in maggior parte tirato a sè ogni elemento che discordasse; i grandi erano impotenti, la plebe scarsa: quello che in antico e, pur diciamolo, tra molte altre nazioni moderne plebe si chiama, e tale è, qui era popolo educato dalle antichissime tradizioni e da cento anni di libertà e dagli esercizi dell’ingegno e da quel senso del bello in cui si comprendono il vero ed il buono, e onde hanno gli animi gentilezza. Così mentre era studio continuo ma sempre vano, trovare forme ordinatrici d’una egualità che voleva essere troppo vasta, era impedito il soverchiare di sola una [51] parte sulle rimanenti; e in mezzo pure alla ferocia quasi legale che da per tutto era un avanzo del paganesimo, qui dagli eccessi delle passioni, frequente il ritorno a una certa temperanza che il male attenua o corregge, e che pure lo impediva dallo sconvolgere questo popolo comunque mobile e disordinato. Chi guardi infatti alle discordanze che dividevano la città, chi alla mancanza di buone leggi che forma dessero allo Stato, e alle incessanti perturbazioni che lo agitavano, male saprà intendere certa serena giocondità ch’era nel vivere di Firenze, e che apparisce dalle scritture. Lo stesso insorgere contro ai vizi fiero e continuo, pure manifesta non rara essere già nel popolo quella bontà che non era guasta dalle ambizioni immoderate, e salute era del comun vivere. Così cresceva e prosperava una città della quale forse niun’altra fu ordinata peggio. Lo stesso acume degli ingegni scalzava giù dai fondamenti ed infiacchiva ogni autorità, negando credito ai magistrati; le botteghe dividevano col male intendersi la Repubblica, e la Repubblica le botteghe; parea vittoria l’ottenere una debole maggiorità ne’ magistrati e ne’ consigli, ciascun magistrato in sè avendo la mistura degli elementi i più discordi, senza che niuno de’ vari ordini avesse intera la vita sua e una sua propria rappresentanza: nel congegno dello Stato mancava affatto ogni contrappeso, nelle ingerenze de’ magistrati tutto era arbitrio e confusione; questo avea fatto la gelosia nutrita in tutti e contro a tutti dal sentimento della egualità; la forza istessa di questo popolo era fiacchezza della Repubblica. Nel tempo al quale siamo ora giunti, le Arti minori contro alle maggiori quasi dividere si potessero, stavano in guerra: queste voleano tale una forma di reggimento dove il sapere e la ricchezza e il grande seguito prevalessero, ma non soffrivano si mettessero troppo innanzi quelle schiatte che fra tutte erano prepotenti e che appellavano le famiglie; i Ciompi si [52] erano accostati ai grandi, entrambi essendo dai mezzani del pari oppressi, o fuorusciti; i grandi cercavano per ogni modo e come la occasione dava, nelle aderenze coi sommi o dal malcontento della plebe, a sè medesimi una via da porre un piede dentro allo Stato con l’abolire gli antichi ordini, i quali stavano contro a loro; e gli ammoniti oggi rimessi, col farsi parte a sè medesimi e da sè soli una setta nuova e un nuovo scandolo nello Stato, mostravano essere non tutte ingiuste quelle accuse, per le quali erano stati esclusi nei tempi andati dal reggimento. Quindi nei fatti la confusione.

Continuava la Balìa creata negli ultimi giorni del gennaio 1382, e mentre attendeva a formare gli squittinii secondo gli ordini nuovamente posti, il Capitano di guardia, troppo arrendevole alle suggestioni dei più eccessivi tra’ vincitori, procedeva ad inquisire contro a’ seguaci di Giorgio Scali e contro gli autori della mossa dei beccai; o tali fossero o sospetti. Laonde nei primi giorni del febbraio più di ottanta cittadini ebbero bando o confine in vari luoghi d’Italia: abbiamo i nomi, e tra questi ultimi era Salvestro dei Medici confinato per cinque anni a Modena,[46] e altri di coloro i quali volevano più essere popolari, e inoltre non pochi dei bassi mestieri. Ma ciò non bastava nè ai grandi percossi dal rigore delle leggi, nè a quelle famiglie che mal sopportavano stare nei termini della egualità, nè agli sbanditi del 78, che troppe avevano da esercitare vendette; costoro volevano risuscitare le ammonizioni o fare anche peggio, avendo seco di quella plebe la quale era stata più volte battuta, e che trae dietro facilmente ad ogni bandiera perchè ella è sempre tra i malcontenti. Costoro insieme vennero in piazza ai 15 di febbraio, recandosi innanzi un gonfalone di Parte guelfa; ed era tra’ primi quel Carlo [53] Strozzi, che fu ingiuriato dal calzolaio nel 78:[47] sulla piazza era il Capitano di guerra Giovanni Aguto con molti soldati a piedi e a cavallo, ma non fece mossa; e quelli cresciuti in maggior numero, imponevano continuasse la Balìa per tutto febbraio, ed ai centotre che la tenevano si aggiungessero altri quarantatre cittadini, i nomi dei quali portavano scritti; e inoltre voleano fossero tosto deliberate certe loro petizioni, delle quali era questo il tenore: Che tutti i condannati confinati o inquisiti per questo ultimo rivolgimento, sieno dichiarati ribelli; e che all’incontro gli sbanditi ribanditi e i danneggiati nel 78 sieno ristorati dei danni sofferti, e ai grandi tolto ogni divieto, e levati di Palagio gli smuniti i quali fossero negli uffici o nei consigli; che nella Signoria fossero sei delle maggiori Arti e tre delle minori, con la stessa proporzione riducendo la parte di queste negli altri uffici e nei collegi; che fossero ai Ciompi restituite le balestre ad essi tolte nel 78; che i debiti per le prestanze da un fiorino in giù siano ridotti a venti soldi, e dato termine a pagare; che avessero piena assoluzione i maleficii commessi in questi ultimi giorni, e (cosa incredibile) quelli pure che si commettessero tutto quel dì infino all’ora di mezzanotte. Qui erano, come ciascun vede, le famiglie le quali voleano più ristringere lo Stato, gratificando alla plebe; e nel numero dei quarantatre erano i primi e più insigni nomi, insieme a pochi bassi artefici. Fu suonato a Parlamento, dal quale voleano fossero decretate le petizioni; ma Coluccio Salutati cancelliere della Repubblica, opponendo la illegalità del fatto, tirava in lungo; e quell’impeto si raffreddava; e già l’Arte della lana con molti buoni [54] uomini e mercanti veniva in Palagio, dicendo in palese che bastavano alla Balìa i primi eletti, e nulla ci avevano che fare gli altri quarantatre. I quali furono tolti via, ma per la meglio convenne delle cose dimandate alcuna concedere, quella cioè che risguardava al numero dei Priori; ed a ristorare gli sbanditi si fece un qualche provvedimento; e pei danari del Monte, dove erano tre centinaia ne scrissero due, cosicchè il frutto scendesse al dieci per cento; inoltre fecero che chi fosse stato dei maggiori uffici dopo il 1312, o egli o il padre o l’avolo suo, non si potesse per alcun modo nè ammonire nè dichiarare sospetto alla Parte: così per allora le cose parvero acquietarsi.[48]

Il primo di marzo pigliava l’ufficio con grande apparato una nuova Signoria, nella quale erano usciti molti delle famiglie primarie, un Ricci, un Pepi, un Peruzzi, un Acciaiuoli, e messer Rinaldo dei Gianfigliazzi Gonfaloniere; con essi erano tra’ Priori, un calzolaio ed un beccaio. Avvenne che alcuni degli smuniti fossero tratti a certi piccoli uffici, del che i contrari si adombrarono tosto, e sapevasi che le Famiglie faceano venire gente di contado: si levò rumore a’ 10 di marzo e n’erano autori gli sbanditi ritornati, i quali aveano sollevato i Ciompi: innanzi portavano un gonfalone di Parte guelfa, ed altri delle Arti si avevano tolti e dati in mano a uomini dei loro; fu detto gridassero «viva le ventiquattro Arti» che era un volere la restituzione delle tre minute di fresco abolite. Andavano per la terra, avendo da prima arsa la casa d’un Ciardo vinattiere[49] ch’era stato decollato come seguace di Giorgio Scali: infine si trassero sopra il monte della Costa di San Giorgio, quivi facendo segno di afforzarsi; e il Capitano del popolo pare che fosse d’accordo con loro: e la brigata s’ingrossava anche [55] di cittadini ch’erano andati a fine di contenerli, e intanto ad udire da loro quello che domandassero. Veniano dall’altra parte alla Piazza in molto numero i buoni uomini e mercanti; il Gonfaloniere già s’armava, volendosi muovere con essi incontro ai sediziosi, ma fu ritenuto; infine taluni dei cittadini andati in sulla Costa, essendo entrati mezzani e suonato a Parlamento, per meno male furono concordati alcuni punti; cioè: privare in perpetuo gli smuniti d’ogni ufficio, e che gli sbanditi riavessero i beni e le condannagioni pagate e la valuta delle case arse; fossero date ricompense al Capitano e ad uno dei Beccanugi fattosi capo a quei tumulti; che a discrezione del Capitano venissero confinati venticinque cittadini, tra’ quali troviamo confinato a Chioggia Michele di Lando: gli storici posteriori a coro vituperano la popolare ingratitudine. In Firenze erano grandi mormorii, e dopo tre giorni le Arti si fecero forti, e avendo di nuovo co’ Gonfaloni della giustizia e della parte corse le strade sgombrate allora dalla brigata dei Ciompi, tanto operarono che altra Balìa fu eletta per la quale vennero annullate la maggior parte delle concessioni fatte, ed a sei tolto il confino (tra’ quali non era Michele di Lando) e a tutti gli altri agevolato: il prode Michele tornato più tardi moriva in Firenze a’ 31 luglio 1401, e fu sepolto in Santa Croce.[50] Due mesi dopo altro tumulto nasceva, fu detto a istigazione di un Adimari; ma venne in breve ora con le armi represso, e alcuni Ciompi decapitati. Intanto erano gli smuniti di continuo sospettati; e se uno di loro fosse tra’ Priori, gli altri da lui si guardavano per quella nota di ghibellino, e non tenevano con lui colloquio di cose segrete; se alcun rumore nascesse dove entrasse uno smunito, si diceva per città che gli ammoniti ghibellini uccideano i guelfi. I grandi erano careggiati dai popolani maggiori, che [56] non gli voleano però lasciare troppo pigliare del campo; ed i grandi se lo conosceano, ma per lo migliore si stringevano con essi: poi v’erano artefici più temuti nella Piazza che rispettati in Palagio, i quali faceano sollevare ad arme chi a loro piacesse; ma la temperanza dei buoni uomini impediva la baldanza di coloro che per avere gli uffici si metteano innanzi a tutti gli altri, il che dicevano farsi segno: e niuno in Firenze si fece mai segno, che non fosse saettato.[51]

Vedemmo Arezzo essere tenuto in possessione da Carlo, novello re di Napoli: un Vicario di lui avendo a fine di pace fatto rientrare nella città i Tarlati e gli Ubertini e gli altri oramai da quarant’anni fuorusciti di fazione ghibellina, questi con la potenza di fuori e le aderenze che aveano dentro ne divennero come padroni così da costringere gli amici stessi del Re a fuggirsi nella rôcca. I quali sapendo il conte Alberigo da Barbiano ed altre masnade stare ne’ confini di Perugia, lo chiamarono che gli aiutasse a racquistare la terra. Parve a lui meglio farne suo prò, ed occupata la diede in preda a’ suoi soldati, che la misero a sacco e vi dimorarono più mesi, infinchè essendosi contra loro fatta lega delle città di Toscana, si condussero nel Regno. Scendeva in Italia, a questi tempi, di Francia con grande forza di cavalli il Duca d’Angiò, chiamato dalla regina Giovanna di Napoli suo figlio adottivo e successore nel regno, d’onde egli veniva a cacciare Carlo di Durazzo: mandava per tutte le città d’Italia con larghe profferte, pure che seco si collegassero. E dall’altra parte Carlo alla Repubblica ricordava l’antica amicizia, ed essere il Duca d’Angiò venuto per la oppressione di papa Urbano e della Chiesa, egli aderendo all’Antipapa che avea dimora in Avignone. Non potean altro i Fiorentini che starsi neutrali; ma Carlo aveva grande favore nelle [57] famiglie che più salivano in potenza, talchè a soccorrerlo senza fare altra più aperta dimostrazione fu trovato questo modo, che licenziato Giovanni Aguto ne andasse a Roma con danari che i Fiorentini gli aveano dati in nome del Papa. Così l’Aguto passò a Napoli, e fu grande aggiunta alle forze di quel Re; ma di ciò si tenne molto offeso il Duca d’Angiò, e scrisse in Francia perchè fosse fatta rappresaglia sopra alle robe ed alle persone dei mercanti fiorentini. L’anno dipoi 1384 un’altra grossa Compagnia di Francesi venne a rinforzo del Duca d’Angiò: la conduceva Enguerramo Signore di Coucy, il quale disceso di Lombardia in Toscana, prima si fermava presso a San Miniato, poi su quel di Siena, dove i fuorusciti d’Arezzo veniano a lui con la promessa di fargli occupare quella città per le intelligenze che avevano dentro. Accettò l’offerta, ed occupò Arezzo non senza battaglia contro a’ cittadini che validamente la difesero; ma non prima ne fu egli al possesso, che giunse novella essere in Puglia venuto a morte il Duca d’Angiò: dal che ebbe fine quella impresa che si faceva per lui, ed i Francesi d’Arezzo, che a tornare in Francia abbisognavano di moneta, pensarono vendere ai Fiorentini quella città. Più volte avevano questi avuto discorsi di vendita dai vari che l’avevano occupata, e fin dai Tarlati; nè certo si stavano dal fare disegni sulle fortune d’Arezzo, ora che lo Stato di Firenze era venuto in mano di pochi ai quali importava rialzare se stessi con le imprese di fuori, e che avevano a condurle assai maggiore abilità. Dunque il Coucy vendeva Arezzo per quaranta mila fiorini d’oro: quanti degli Aretini fossero allegri di quel mercato noi non sappiamo; questo bensì, che se ne fecero in Firenze grandi allegrezze e giostre e luminarie; ma si trova che avessero speso intorno solamente alla città d’Arezzo duecento mila fiorini. Il bello si fu che nell’atto di cessione diceva il Coucy donare Arezzo ai Fiorentini pel grande amore e devozione [58] che avevano essi portato sempre alla Reale Casa di Francia, e perchè avevano posseduta più anni prima quella città: per un altro atto del giorno stesso i fiorini, ch’erano la somma di tutto il negozio, veniano al Coucy per essersi egli astenuto da ogni danno sopra le terre della Repubblica: Iacopo Caracciolo, il quale teneva pel re Carlo tuttavia la rôcca d’Arezzo, la cedè subito. Così la Repubblica di Firenze venne in possessione della città d’Arezzo e del suo contado e sue dipendenze. Donato Acciaiuoli, Commissario per i Fiorentini, condusse con molta sua lode le pratiche per l’acquisto; e ricevuto l’atto di dedizione, ordinava poi tutto il governo del nuovo Stato: abbiamo a stampa gli atti e i documenti a ciò relativi nella più volte lodata collezione dei Capitoli del Comune di Firenze.[52] Molte grosse terre di Valdichiana vennero tosto in balìa dei Fiorentini, sebbene Lucignano e Monte Sansavino fossero più a lungo disputate dai Sanesi: Marco Tarlati cedeva Anghiari con più castella di Val di Tevere: poi tutte le altre fino a Pietramala, antico nido di una famiglia tanto nemica dei Fiorentini, vennero in mano della Repubblica; alla quale si diedero pure in accomandigia gli Ubertini e quei di Montedoglio ed i Faggiolani ed altri, d’onde ebbero i Fiorentini breve guerra col Conte d’Urbino. E quindi anche venne a pigliare contro essi grande ira papa Urbano, sebbene lui solo riconoscessero vero papa, nè mai piegassero alle sollecitazioni di quel d’Avignone ch’era protetto dai Re francesi. In questo tempo ebbe termine la guerra tra Veneziani e Genovesi tanto grandiosa e memorabile, la quale ha nome di guerra di Chioggia. Amedeo Conte di Savoia era stato arbitro per la pace, quei principi essendosi allora ingeriti per la prima volta nei fatti d’Italia. Ai Veneziani era imposta la demolizione dei castelli costrutti da essi nell’isola di [59] Tenedo, con l’obbligo intanto e finchè non attenessero la promessa di depositare in mano al Comune di Firenze centocinquanta mila fiorini d’oro in tante gioie; il che fu occasione a qualche vertenza prima che il fatto restasse compiuto.[53]

Nell’estate del 1383 era di nuovo la peste entrata in Firenze, dove morivano fino a due e tre e quattrocento persone al giorno, ma più di giovani e fanciulli, che d’uomini e femmine di compiuta età. Fuggiva chi poteva, e si temette, partendosi i ricchi, la gente minuta non si accozzasse co’ malcontenti e facesse novità. Quindi per legge imposero una multa a chi se ne andasse, e col ritratto di questa soldarono gente. Imperocchè gli uomini delle famiglie primarie che già tiravano a ristringere in pochi lo Stato, aveano continue intelligenze co’ nuovi capitani delle Compagnie che in oggi erano italiani, e come nobili fuorusciti o privati nelle città loro del grado che ambivano, poneansi di grande animo ai servigi degli ottimati, che già in questi anni prevalevano per tutta Italia generalmente. Il popolo intanto aveva perduta nei passati sconvolgimenti la superbia di sè stesso, e il commercio della seta venuto in grande auge negli ultimi anni di questo secolo, insieme alle nuove ricchezze creava nuove dipendenze, e un adagiarsi nei godimenti nei quali gli animi si rendevano parati e docili a ogni signoria. I Ciompi riapparvero dopo il 1382, ma come stracchi per mosse brevi che gli mostravano di già vinti; e quella parte ch’era venuta su, fortificavasi ogni giorno con le aderenze di fuori e con le pratiche al di dentro, così da rompere ogni ostacolo. In Siena il Governo che da più anni era nelle mani del popolo basso, tornò all’ordine dei Nove che si componeva [60] de’ più alti cittadini: la parte che in Firenze si mantellava col nome guelfo, in Siena promosse questa mutazione nello Stato, mandandovi anche ambasciatori sotto pretesto di cercare la concordia; e celebrò il fatto col suonare le campane e coi falò e le armeggerie, sebbene a molti quelle cose dispiacessero, come fatte alla oppressione loro.

Uno degli ambasciatori mandati a Siena era Benedetto degli Alberti che dapprincipio non voleva, ma gli fu risposto andasse a Siena o a confine; onde nell’ambasceria tirando in senso contrario a quello dei suoi colleghi, venne a rendersi più maleviso alla parte che reggeva, cui pareva essere Benedetto un grande ostacolo da rimuovere. La famiglia degli Alberti (diversa dai Conti dello stesso nome, signori antichi delle castella in Val di Bisenzio che poi furono de’ Bardi) era in Firenze potentissima per le ricchezze, vivendo splendida sopra le altre e guadagnandosi con le limosine e la larga benignità dei costumi il favore popolare. Niccolò Alberti moriva l’anno 1377 ricco, si diceva, di sopra a trecento migliaia di fiorini che il padre suo aveva acquistati con la mercatura per varie parti della cristianità, massimamente dei panni francesi e delle lane dell’Inghilterra. Ebbe egli esequie magnificentissime, nelle quali più di cinquecento poveri lo piansero alla bara, senza contare quei molti altri nascostamente beneficati che lui piangevano per le case.[54] Quando nel 1384 si festeggiava l’avvenimento di Carlo di Napoli alla corona d’Ungheria, gli Alberti fecero apparato di torneamenti e di giostre che bene potevasi convenire ad ogni gran principe. Benedetto godeva il favore che a lui davano le ricchezze, l’autorità delle cose fatte, e certa sua prudenza facile nei consigli; talchè lo troviamo lodato, sebbene fosse egli nel 78 primo a chiamare il popolo in Piazza, avesse [61] poi cercata la morte di Piero degli Albizi, poi fosse ministro a quella di Giorgio Scali. Un parente suo di nome Cipriano, quando fu tratto Gonfaloniere se ne adombrarono gli avversari; e s’egli avesse voluto usare il grande seguito che aveva presso agli artefici, si temette potesse volgere la Repubblica. Avvenne dipoi l’anno 1387 che essendo uscito gonfaloniere un Filippo Magalotti, il quale aveva per moglie una figliuola di Benedetto, ma non arrivava ai 45 anni, età voluta pe’ gonfalonieri, fu al Magalotti vietato pigliare l’ufficio e invece sua tratto Bardo Mancini. Di che fu tumulto e creata una Balìa, nella quale entrava lo stesso Benedetto per essere uno dei gonfalonieri di compagnia. Pur nonostante quella Balìa privava d’ogni ufficio tutta la famiglia degli Alberti, eccetto pochi ch’ebbero grazia, e confinava Benedetto fuori delle cento miglia.[55] Questi esulò in Genova; poi andato a visitare il Santo Sepolcro, nella tornata moriva in Rodi, d’onde il corpo suo portato in Firenze ebbe solenni esequie in Santa Croce. Così fino all’ultimo il nome suo rimase in pregio, per quale merito non sappiamo. Così avendosi d’in su gli occhi levato quell’uomo e abbassata quella schiatta di cui potessero più temere, confinarono oltre quell’Adimari che assai co’ Ciompi se la intendeva, taluni del popolo più minuto; e per sempre posero a sedere intere famiglie, tra le quali erano gli Scali, i Covoni, i Mannelli, i Rinuccini. Il dì medesimo vennero alla Piazza molti di case possenti con fanti armati, e domandavano che altri fossero levati di Firenze come fautori degli ammoniti, dei fuorusciti e dei ghibellini; al che i Signori, armati anch’essi in quel frattempo di gente a [62] piedi ed a cavallo, non consentirono; ma questo si ottenne, che tutti coloro i quali avessero nell’85 vinto il partito, entrassero senza altra solennità nelle borse; talchè v’entrarono più di trecento uomini e molti garzoni e fanciulli: cotesto era vizio da più anni usato, che i reggitori vi mettessero dei figli loro e discendenti che non giungevano all’adolescenza, ed allo squittinio venivano nomi di tali che erano nelle fasce.[56] Deliberarono che le minori Arti, le quali avevano prima il terzo nel priorato ed in altri uffici, avessero il quarto, e salvo alcuna particella, la quale era data ai grandi, tutto il resto alle sette maggiori; e a queste le grosse potesterie ed i vicariati: imposero pene gravissime ai forestieri se accettassero alcuno ufficio della città. Da ultimo fecero anche una borsa separata dei più confidenti a quello Stato così ristretto, dei quali almeno in ogni priorato ne fossero due; gli chiamavano i Priori del Borsellino, dappoichè il popolo di Firenze pareva oramai ridotto a quel solo usato sfogo del motteggiare. Il Gonfaloniere che tante cose aveva fatte, ebbe in dono un cavallo coverto con le armi della Parte guelfa ed altre nobili onoranze.[57]

Capitolo III. NIMISTÀ E GUERRE CON GIOVAN GALEAZZO VISCONTI. COSTITUZIONE D’UN GOVERNO D’OTTIMATI. [AN. 1387-1402.]

Quando avvenivano queste cose, la Repubblica vedeva già incontro a sè una guerra di grande pericolo, [63] essendosi posta innanzi sola per la difesa delle città libere contro alla più vasta e ambiziosa Signoria che insino allora fosse in Italia. La potenza dei Visconti, benchè si reggesse nel nome di Bernabò, era divisa tra due fratelli; dei quali Galeazzo essendo morto, ebbe a successore il figlio Giovanni Galeazzo che avea titolo di Conte di Virtù, giovane di smisurata ma coperta sete d’impero, e che s’ingegnava con la dolcezza dei costumi, col biasimare le guerre e in ogni cosa mostrarsi di quieta natura, tirando a sè l’amore dei popoli, addormentare i sospetti del feroce Bernabò, cui pareva essere il nipote timido e inerte ed inclinato alle arti di pace ed alle opere di devozione. La fama andava dietro al giovane, ed era opinione che Bernabò lo volesse giugnere; ma Galeazzo anticipò, ed avendo con sottile inganno preso lo zio che gli andava incontro sopra una via maestra, lo chiuse in carcere, e indi a pochi giorni lo fece morire: le città, le armi e le ricchezze della grassa Lombardia, subito ubbidirono a Giovanni Galeazzo. Egli pauroso della persona sua, quanto era audace nelle imprese per altri condotte, vivendosi chiuso e cinto d’armati nel castello di Pavia, sapeva dirigere con singolare accorgimento le pratiche insieme alle militari spedizioni; non faceva pace che in sè non covasse più semi di guerra, nè guerra senza essere pronto a giovarsi degli accordi. Grande contesa era tra ’l Signore di Verona e quello di Padova; Giovanni Galeazzo, dopo lunghi avvolgimenti, dichiaratosi pel Carrarese, ebbe Verona ponendo fine alla signoria degli Scaligeri; dipoi Vicenza, e per sopraggiunta voltosi contro a Francesco da Carrara che aveva tradito, assalì Padova l’anno 1388. I Veneziani, badando solo a quel grande odio ch’essi portavano ai Carraresi, e per allora avendo massima di non impacciarsi troppo dei casi di terraferma, avevano lasciato estendersi le armi e la potenza del Visconti fin sulle sponde dell’Adriatico. Quel da Carrara, per [64] lunghi casi e miserevoli sottraendosi all’iniquo vincitore, scampò in Firenze a lui benevola.[58]

Ma era Giovanni Galeazzo di coloro ai quali non basta sola un’impresa, e dove non abbiano alle mani cento fila, temono incontro agl’ignoti eventi d’essere côlti alla sprovveduta, nè alla loro indole soddisfanno. Aveva disegni anche sulle cose di Toscana; e ad un ambasciatore fiorentino disse volere mutare titolo, e fu inteso che divisasse egli farsi re.[59] Nè a ciò mancavano le occasioni: in pezzi l’Italia, ed all’intorno imperi deboli; armi vendereccie, ed egli copioso di tanta moneta che nessun principe l’agguagliava:[60] Napoli consunta da interminabili guerre e di nuovo minacciata, la Chiesa divisa. Contro a Firenze erano accesi dopo l’acquisto d’Arezzo i sospetti dei vicini, che un governo ora stretto in pochi vedeano fatto più aggressivo; Perugia aveva nelle sue mura chiamato il fiero Papa Urbano, e cacciato quella parte che più aderiva ai Fiorentini. Questi, padroni di tutte le altre terre e fortezze di Val di Chiana, aveano costretto a porsi sotto al vassallaggio loro il Signore di Cortona, il quale da prima era censuario dei Senesi; teneano pratiche in Montepulciano, dove eccitata una ribellione contro alla Repubblica di Siena, occuparono la terra co’ loro soldati siccome arbitri nel dissidio; poi fatti venire in Firenze ambasciatori dei Montepulcianesi, questi come di soppiatto la descrissero nel libro della Camera della Repubblica,[61] chè in palese non si ardiva fare ai Senesi cotale onta. Quindi, a meglio assicurarsi, fatte venire in Toscana certe compagnie straniere le quali giravano per l’Italia cercando pane, le mandò sotto bandiera libera a minacciare i Perugini e a fare danni [65] su quel di Siena. I Senesi allora chiesero d’aiuto il Signore di Milano, il quale bramoso di porre le mani nelle cose di Toscana, mandava loro alla sfilata ed a più riprese tre migliaia di soldati sotto le insegne di Giovanni d’Azzo degli Ubaldini rinomato capitano, e di Giantedesco dei Tarlati,[62] entrambi nemici capitalissimi sopra tutti della Repubblica di Firenze. Così era guerra tra ’l più possente signore d’Italia e la Repubblica (tranne Venezia) più possente, senza che alcuna delle due parti spiegasse in campo le sue bandiere. Lucignano fu ripresa ed altre castella tolte ai Fiorentini: sotto la bicocca di San Giusto alle Monache nel Chianti vennero per la prima volta in questa parte d’Italia adoperate le bombarde.[63] Poco dipoi Giovanni d’Azzo infermò e in Siena venne a morte. Grande era frattanto la sospensione degli animi all’appressarsi d’una guerra, la quale sembrava volere invadere tutta Italia; ed il vecchio Piero Gambacorti, usando l’antica amistà co’ Fiorentini, con grande animo attendeva a procurare un accordo: godeva di molta autorità presso gli altri principi e signori per la prudenza e bontà sua; talchè alla fine gli riuscì farsi mediatore d’una lega, per la quale a Pisa intervennero ambasciatori del Duca di Milano, dei Fiorentini e dei Senesi e delle altre città di Toscana, e dei Signori di Lombardia e di Romagna in molto numero.[64] Non fu stipulata mai nell’Italia confederazione tanto vasta, nè tanto solenne, nè tanto inutile per gli effetti che tosto svanirono. Montepulciano, cagione prima della guerra, non fu ai Senesi restituita che fintamente, ed in Siena stessa [66] una ribellione fu tramata co’ nobili fuorusciti per introdurre ivi le masnade che i Fiorentini teneano sempre nei luoghi all’intorno, mentre che i Senesi viepiù si stringevano al Signore di Milano: il quale cacciava indi a pochi dì dalle sue terre i Fiorentini, e facea ritenere Giovanni Ricci che andava in Francia ambasciatore, maltrattandolo e negando poi restituirlo, perchè l’anno innanzi avea caldamente orato in Consiglio contro al Visconti e (diceva questi) messo a partito di avvelenarlo.[65] Fidava poi molto nelle corruttele, trovandosi avere egli comprato in Firenze stessa la rivelazione di alcuni segreti per mille fiorini d’oro da un Bonaccorso di Lapo ch’era stato due volte Gonfaloniere: confessava costui la colpa, onde ebbe bando e fu dipinto per traditore. Inoltre il Visconti con le pratiche di dentro e co’ soldati di fuori studiavasi tôrre a Piero Gambacorti la signoria di Pisa, ed ai Fiorentini ribellare Samminiato e più castella su quel di Arezzo, dando mano ai signori antichi ed ai gentilotti, i quali n’erano spossessati. Infine la guerra dalle due parti era protestata nella primavera dell’anno 1390.

In questo mezzo Francesco da Carrara, condotto com’era da infaticabile passione, aveva potuto ritorre Padova al Visconti con grande letizia di quei cittadini; e Verona per subito movimento scuotendo il giogo che la opprimeva, stava tra ’l porsi in libertà o richiamare un fanciullo rimasto in vita degli Scaligeri. Nelle quali divisioni bentosto accorrendo le armi di Giovanni Galeazzo, spensero nel sangue della infelice città la ribellione; e avendo impedito che Vicenza si muovesse, si spinsero innanzi infin sotto Padova a soccorso del Castello, il quale tuttora si teneva pel Visconti. Cotesti fatti vennero in punto a rinnalzare alcun poco gli animi de’ Fiorentini, i quali avendo in Toscana molta guerra intorno a Siena e ad Arezzo, [67] vedevano anche pericolare Bologna, antica difesa delle città guelfe contro a’ Signori di Lombardia. Richiamarono con grande fretta Giovanni Aguto, ch’era sempre in Puglia ai servigi della vedova di Carlo di Durazzo, e assoldarono Rinaldo Orsini buon capitano, che avendo appena raccolte sue genti moriva all’Aquila; ma l’Aguto per vie nascoste sottraendosi alle armi nemiche, era giunto con due mila lance al soccorso di Bologna; intorno alla quale Iacopo del Verme, principale capitano del Visconti, con forte esercito campeggiava, assistito dal favore di presso che tutti i signorotti di Romagna, che stavano col più forte. L’Aguto, riuscendo con grande maestria a prevalere in molti assalti di qua dal Po, conduceva infine le armi sue a Padova, costringendo il marchese di Ferrara, il quale inclinava verso il Signore di Milano, a porsi in lega co’ Fiorentini. Già intorno a Padova era giunto un altro soccorso, ma insufficiente: il Carrarese aveva mosso contro al Visconti il duca Stefano di Baviera, marito a una figlia dell’ucciso Bernabò, e i Fiorentini gli aveano dato ottantamila fiorini perchè scendesse in Italia con dodicimila cavalli: scendeva con la metà del promesso numero, e bastato solamente alla riscossa di Padova, ritornava quindi in Germania senz’altro effetto, o non volesse o non sapesse o anch’egli fosse corrotto dall’oro di Giovanni Galeazzo. L’Aguto, avendo inutilmente tentata Vicenza e Verona che trovò essere ben guardate, potè spingersi però infino all’Adda, sulle cui sponde celebrarono i Fiorentini correndo i palii, com’era usanza, il dì solenne di san Giovanni.[66]

Quivi aspettava in forte sito il Capitano della Repubblica infinchè a lui si congiungesse un altro esercito che scendeva contro al Visconti giù dalle Alpi. Dappoichè le Sicilie furono date in Regno ad una famiglia [68] di Francesi, più non cessarono questi d’immischiarsi nelle faccende d’Italia, ed ora un altro Duca d’Angiò rivendicava con le armi le ragioni della spossessata regina Giovanna, della quale era fatto erede. Bene i Fiorentini si tennero fuori da tale contesa, invano adopratisi a conciliarla con che il figliuolo del Duca d’Angiò sposasse la figlia rimasta di Carlo di Durazzo: e quando cercarono dal re di Francia Carlo VI aiuto nella guerra di Lombardia, proponeva questi due condizioni; riconoscessero come legittimo e vero papa quel suo d’Avignone, e al Re pagassero un tributo ancorchè minimo, onde avesse egli alcun titolo a pigliare i Fiorentini in protezione. Rifiutarono, perocchè l’una delle due cose importava incostanza nella fede, e l’altra diminuzione di libertà. Ma si apriva loro in Francia altra via, e senza obblighi verso il Re; appresso a lui poteva molto il fratello Duca d’Orléans, recente marito a una figlia di Giovan Galeazzo, a quella poi tanto ricordata Valentina, dalla quale cento anni dopo un altro ramo di Re francesi pretendeva tenere un diritto al ducato di Milano. L’oro del suocero accresceva la potenza di quel Duca d’Orléans, contro del quale stavano gli altri principi del sangue, e acerbo nemico il Duca di Borgogna: questi volendo abbassarne la grandezza, metteva innanzi il conte Giovanni d’Armagnac, la cui sorella sposa a Carlo primogenito di Bernabò Visconti non si dava pace di vederlo privato ed esule e insidiato sempre. Incitava essa quindi il fratello a pigliarne la vendetta, e quel di Borgogna faceva che sotto le insegne di lui si raccogliessero in gran numero i soldati allora dispersi di certe bande che aveano prima desolato le provincie intorno al Rodano e alla Loira.[67] I Fiorentini somministrarono all’Armagnac in due paghe centocinque migliaia di fiorini, e molti più ne promettevano quando avesse [69] condotto a fine l’impresa. Scendeva costui ne’ piani di Lombardia con la forza di quindicimila cavalli, ed era dato ordine si congiugnesse con Giovanni Aguto, che stando sull’Adda divisava farglisi incontro verso Pavia. Non sia chi si vanti più animoso dei Francesi, ma era in Italia più arte di guerra; scorrevano quelli pei grassi piani di Lombardia fidatisi andare a facile preda:[68] ma era consiglio d’Iacopo del Verme guardare le terre, tra le quali avendo munita quella di Alessandria con forte presidio ed all’insaputa dei nemici, questi crederono espugnarla tostochè se l’ebbero incontrata sulla via, mentre muovevano giù da Asti. Discesi a terra per dare l’assalto, lasciarono addietro i loro cavalli; addosso ai quali venuto ad un tratto il Capitano del Visconti, gli prese o disperse, e quindi volgendosi con la sua buona e grossa mano di uomini d’arme, percosse incauta e sprovveduta l’oste dei pedoni, la quale già era impegnata fortemente contro ai soldati della Fortezza. Fu grande la rotta che toccarono i Francesi, e la fuga sparpagliata senza cavalli e senza capo; imperocchè l’Armagnac, vinto dal caldo ch’era eccessivo il giorno 25 luglio 1391 e dall’angoscia dell’animo, avendo bevuto molta acqua, fu colto da un subito accidente, del quale moriva il giorno dipoi. È da vedere come la morte di questo Signore venga narrata prolissamente dal cronista francese Froissart, il quale alle volte ti sembra storico e alle volte romanziere. Dei fuggitivi presi in caccia dai soldati d’Iacopo del Verme quanto distendesi il Piemonte infino alle Alpi, molti rimasero prigionieri; uccisi molti altri per le strade di Savoia, e quindi giù pel Delfinato [70] insino al Rodano e alla Senna, dove gli avanzi di quelle terribili bande già tanto crudeli non trovavano pietà, pochi e miseri e mendichi tornati essendo alle loro case.[69]

I Capitani del Visconti nella letizia di tanta vittoria condussero senza porre tempo in mezzo le armi loro sopra l’Adda, sperando avere facilità quivi di rompere Giovanni Aguto; che sarebbe stato fiaccare del tutto le forze nemiche e porre termine alla guerra. Ma questi già vecchio e prudentissimo capitano, appena sentita la rotta dell’Armagnac, ritraendosi alcun poco e con buon ordine lentamente fin verso Cremona, quivi sostenne con suo vantaggio un primo assalto, e poi varcato co’ nemici sempre addosso l’Oglio ed il Mincio, indi pe’ confini di Verona e di Vicenza pervenne con frettoloso cammino sulle terre padovane, facendosi spalla di Francesco da Carrara che teneva la città. Ma era suo fine portare l’esercito alla difesa di Toscana; al che gli restava ultimo e più difficile impedimento il fiume dell’Adige, intorno al quale era il terreno allagato dai nemici che sempre a tergo lo inseguivano: passò tra le acque felicemente,[70] e avendo amiche le terre estensi e le bolognesi, ebbe poi facile e sicura la via fin dentro ai confini di Toscana. Quivi era di lui ansietà eguale al desiderio, imperocchè Iacopo del Verme già vi era disceso a grandi giornate per l’Alpe di Lunigiana, ed era già intorno a Lucca ed a Pisa, mentre l’Aguto da Pistoia, passato l’Arno, gli venne a chiudere le vie di Siena e di Firenze ponendo il campo a Samminiato. Era consiglio d’Iacopo del Verme andare a Siena battuta forte dai Fiorentini che ivi tenevano, sotto Luigi da Capua figlio del conte [71] d’Altavilla, un esercito di quattromila cavalieri e duemila fanti tra italiani e tedeschi consueti a’ soldi d’Italia: e quindi lasciando l’Aguto a’ suoi fianchi, per la via di Volterra girò a Siena, dove ingrossatosi delle genti che potè ivi raccorre e forte di sopra a diecimila cavalli, si condusse voltando indietro a Poggibonsi. Quivi l’Aguto già era accorso a guardare il passo, ma non parendogli di bastare contro al troppo grande numero dei nemici, si chiudeva nelle castella; ed intanto quelli a file serrate procedendo per la valle d’Elsa, in due o tre giornate vennero nel piano di Pistoia. L’Aguto, seguendogli, poneva il campo vicino a loro presso Tizzana, dove grande aiuto gli sopravvenne di genti del contado di Firenze e di collegati; chè sola Bologna aveva mandato duemila cavalli e quattrocento balestrieri. Quindi al Capitano del Visconti parve ritrarsi inverso Lucca; lo inseguiva l’altro, e avendo colta in sulla Nievole la retroguardia sprovveduta, l’assalì e percosse con suo grande vantaggio, avendo anche preso Taddeo del Verme che la comandava, congiunto del Capitano.[71] Ma qui per allora finiva la guerra: il Doge di Genova Antoniotto Adorno aveva più volte mandato a Firenze proposizioni di pace, della quale era molto desideroso Piero Gambacorti, ed a promuoverla s’adoprava il nuovo papa Bonifazio IX; Giovan Galeazzo era pronto sempre a vantaggiarsi per via d’accordi. Infine elessero le due parti a comuni arbitri l’Adorno in suo proprio nome, e il Gran Maestro di Rodi Ricciardo Caracciolo legato del Papa, e terzo arbitro il Comune e popolo di Genova. Pronunziarono insieme il lodo; per cui rimase a Francesco da Carrara Padova, ch’era il principal momento di quella contesa, con che al Visconti pagasse per cinquant’anni diecimila fiorini l’anno: i fuorusciti di Siena, tra’ quali nobilissime famiglie i Malavolti ed i [72] Tolomei, riavessero i beni, ma senza però tornare in patria, il che volevano con grande istanza i Fiorentini; le castella si rendessero dalle due parti; ed al Visconti non fosse lecito mandare sue genti in Toscana, se non quando patissero offesa i Perugini o i Senesi che a lui erano collegati. Nei pochi mesi di quella guerra i Fiorentini aveano speso un milione e duecentosessantaseimila fiorini d’oro, secondo che scrive Lionardo Aretino avere trovato nei Libri della Camera del Comune. I cittadini aveano pagato tanti danari, che quasi niuno poteva più pagare, e molti erano rimasti deserti. Aveva il Comune sì grande il debito, che presso che tutte le rendite sue ne andavano a pagare l’interesse del Monte; e quindi stretti dalla necessità, fecero molti provvedimenti ad accrescere le entrate e diminuire l’interesse, i quali erano contro alla fede data, e molti cittadini ne ricevettero grandi danni; ma pur sel patirono. Tra le altre cose fu ordinato si ritenesse ogni anno la quarta parte dell’interesse, e coi danari ritenuti gli ufficiali del Monte comperassero dai creditori al minor pregio che potessero i titoli iscritti, a fine di scemare via via la somma del debito posato sul Monte, secondo che era, siccome vedemmo, antica usanza nella Repubblica.[72]

Ma non cessavano le offese, perchè cessasse la guerra; gli odii restavano e i sospetti, e i disegni concetti prima si maturavano più in segreto; nè mai le paci in quella età davano quiete, poichè le bande di soldati licenziati seguitavano per conto loro correndo le strade a fare guasti ed imporre taglie pel riscatto delle terre, al che d’ordinario tenevano mano coloro medesimi che prima gli ebbero assoldati. Parve quindi necessario ai Fiorentini, conchiuso appena l’accordo del quale assai si dolevano, di nuovo ristringere coi Bolognesi e coll’Estense e col Signor di Padova l’antica [73] lega; cui s’aggiunsero alcuni Signori delle terre della Chiesa, e quello di Mantova in sugli occhi del Visconti, che in modo crudele ne faceva rappresaglia dentro alla stessa Toscana. Piero Gambacorti usava ogni industria durante la guerra a schermirsi dal Visconti, pur sempre restando fedele amico alla Repubblica, per le cui forze si manteneva nello Stato, costretto però fin anche a impedire le mercanzie tra Pisa e Firenze, quando Iacopo del Verme girava in arme attorno a Pisa. Finita la guerra, a lui parve essere sollevato, ma ignorava l’infelice quello che in casa gli si tramasse. Era il popolo di Pisa come sempre ghibellino, così da gran tempo in molta paura della Repubblica di Firenze: ciò dava gran presa ai disegni del Visconti, il quale si aveva guadagnato ultimamente Iacopo di Appiano, scellerato uomo, che lo stesso Gambacorti si aveva allevato in grembo e fattolo suo cancelliere e confidente d’ogni più occulto pensiero suo. Alle denunzie ripetute che lui mostravano traditore non volle credere il buon vecchio: infine l’Appiano armatosi un giorno sotto colore di difesa contro ai Lanfranchi nemici suoi; quindi alla scoperta sotto agli stessi suoi occhi, facea trucidare colui dal quale teneva egli tanti benefizi e tutto l’essere suo. Pigliava poi subito la signoria di Pisa, tenendola ai cenni di Giovanni Galeazzo, che mandovvi anche soldati suoi.

In Firenze era, come vedemmo, da oltre dieci anni il reggimento nelle Arti maggiori, e i savi uomini e discreti si rallegravano al vedere tornata l’antica e buona forma della Repubblica, esclusa la plebe, e a ogni Arte dato il luogo suo, in quelle essendo la preminenza che più valevano pel sapere e per la ricchezza, e che alle altre davano il lavoro: scrive un cronista, che pareva essere tornati in via di verità. Ma già era il tempo dei governi popolari trascorso, e un secolo s’appressava di costumi signorili, d’imprese [74] più vaste che voleano governi stretti, di forze raccolte in mano di pochi: nelle Arti maggiori sorgeano famiglie insieme capaci d’in sè comprendere tutta la Repubblica, battuti gli uomini che tiravano alla parte popolare o fosse a studio d’ambizione o per amore di egualità. La riforma dell’87 manteneva nei pochi lo Stato con la formazione delle Borse e col rigore degli squittinii pressochè tali da impedire l’incertezza delle tratte; ma perchè fosse governo stabile, mancava tuttora una forza che bastasse contro ai ritorni frequenti sempre delle popolari sedizioni, e che agli uomini del Palagio in ogni evento si assicurasse il dominio della Piazza. Quello che Giano della Bella aveva fatto nel 1293 armando il popolo contro a’ grandi, volevano ora cento anni dopo contro al popolo i nuovi ottimati, usciti da esso e da lui tuttora non bene divisi; patrizi in abito cittadino costretti cercare giù nel popolo le armi, non che i titoli e il diritto, e pur sempre essere popolani.

Era tratto pei mesi di settembre e ottobre 1393 Gonfaloniere di giustizia Maso degli Albizi, nato da un fratello di Piero che aveva sì alto levata la grandezza di quella famiglia: la memoria dello zio e quella stessa crudele morte che egli incontrava con dignità, davano a Maso aderenze grandi; e bene era egli uomo da usarle, avendo appreso nel lungo corso dei cittadini rivolgimenti come per mezzo del popolo si possa il popolo governare; uomo tutto fiorentino e sopra ad ogni altro capace a reggere quello Stato secondo che davano le condizioni di esso, le quali giammai non ebbe in animo di alterare. A’ 9 di ottobre, s’udì che avevano due sbanditi rivelato certe intelligenze di dentro con quelli che erano in Bologna, a fine di rendere lo Stato al popolo delle ventiquattro Arti. Di tali pratiche ve n’è sempre là dove sieno fuorusciti, e una denunzia viene in punto quando più giovi a chi governa farsi arme e scusa di un pericolo a meglio [75] opprimere gli avversari. Allora essendo per quell’accusa tre artigiani presi e tormentati, dissero cose vere e non vere, e nominarono come fautori di quel trattato Cipriano ed altri degli Alberti che rimanevano in città: i quali essendo subito dati al Capitano che gli esaminasse, nulla confessarono. La domenica veniente, 19 ottobre, suonò a parlamento, al quale andarono molti giovani di grandi famiglie: fu data balìa prima a trentaquattro cittadini e poi ad altri in maggior numero eletti in Palagio dai Signori e dai Collegi, e i più da coloro che erano in sulla piazza, forse mille uomini che se ne stavano serrati presso alla ringhiera, dove i Signori erano scesi; costoro gridavano: «questo vogliamo, e questo no.» Elessero Capitano di guardia Francesco Gabbrielli d’Agubbio (famiglia che sempre si vede chiamata a fare le opere più violente); ordinarono che si potesse dai Signori e dai Collegi soldare più genti d’arme che prima non fosse lecito, ed imporre per via di prestanza danari senza che il partito andasse ai Consigli. Le borse antiche si rivedessero, e se alcuno fosse tratto per Gonfaloniere che non piacesse, altri fosse posto in luogo suo, ma rimanendo egli dei Priori; tra i quali fossero tre almeno di quelli scritti nel borsellino: il Gonfaloniere di giustizia, perchè avesse più autorità, vollero fosse in età almeno di 45 anni, il quale termine fu d’allora in poi tenuto fermo: il magistrato di Parte guelfa tornasse com’era prima del 1378, salvochè non avesse un Gonfaloniere suo, ma fosse retto da Capitani come era in addietro; e mantenuta la provvisione di quell’anno, per cui si toglieva a quel magistrato l’odioso diritto dell’ammonire o condannare chicchessia per ghibellino, che fu cagione di tanti scandali;[73] ma che non era più necessaria, lo Stato essendo oggimai tolto di mano al [76] popolo degli artefici. Al quale effetto usarono anche un’altra industria; giovani nobili o gentiletti si facevano matricolare nelle arti minute, e in quelle così veniano ad essere principali.[74]

Ma qui ebbe principio una molto violenta persecuzione durata più anni contro a quella famiglia degli Alberti che prima era stata toccata con tanta riserva o quasi timidità, talchè uno solo d’essi, ma il più famoso, moriva in esiglio. Ora, qualunque si fossero gli odii di parte o più veramente quei personali di Maso degli Albizi, quanti rimanevano degli Alberti, eccetto un solo co’ suoi discendenti, ebbero bando a distanze grandi, chi in qua chi in là, in Rodi, in Fiandra, a Barcellona; costretti dare malleverie o sodamenti per l’osservanza del confino e pagare multe; con proibizione di vendere i beni loro o di obbligarli in modo alcuno, perchè mentre gli uomini avevano bando, gli averi di nulla gravati restassero a discrezione della Repubblica.[75] In seguito vennero fatti di popolo molti di famiglie grandi, ma che attenevano personalmente ai nuovi ottimati; tra’ quali Bettino da Ricasoli, che nel 78 si era mostrato nell’ammonire così ostinato e poi era stato uno dei ribelli: molti del popolo vennero fatti grandi, ed altri banditi o dannati a carcere perpetua, e uccisi taluni. Ma quello che fu poi tutto il nerbo di quello Stato il quale pigliava allora solido fondamento, fecero il Comune soldasse trecento fanti e dugento balestrieri genovesi, i quali abitassero vicini alla piazza e di quella stessero [77] alla guardia: scrissero poi due mila cittadini atti nell’arme e dei loro più confidenti, ai quali diedero una sopravesta con l’insegna della Parte guelfa; questi divisi per gonfaloni aveano loggie dove al bisogno si radunasse ciascun gonfalone, ed ai non iscritti in quella milizia era vietato portare armi, pena la testa.[76] A benefizio ed a richiesta dell’Arte della lana, ch’ebbe gran mano in questi fatti,[77] e nella quale erano gli Albizzi potentissimi, si decretò che per cinque anni fosse proibita l’entrata dei panni forestieri, eccetto d’alcuni pochi luoghi designati.

Mentre si facevano tali cose e in mezzo al rumore durato più giorni, una parte degli artefici ch’erano armati in sulla piazza piena di gente andarono a casa del Capitano del popolo, e tolto il pennone tornarono in piazza gridando «Viva il Popolo e le Arti:» ma gli altri, corsi loro addosso, fecero ad essi gridare «Viva il Popolo e Parte guelfa;» al che negandosi due di quelli, furono morti; e nella piazza più non s’udì altro che una voce. I Priori per la meglio avevano dato l’insegna dei Guelfi e quella del Popolo a due molto cari ed autorevoli cittadini, Donato Acciaioli e Rinaldo Gianfigliazzi, i quali non erano interamente di parte loro, ma si tenevano di mezzo e non volevano ricadere nelle Arti minute. Allora di queste andarono molti a Vieri de’ Medici, che rimaneva con un Michele de’ parenti di Salvestro; volevano togliesse l’insegna del Popolo, che tutti sarebbero andati con lui, dicendo che meglio d’ogni altro cittadino la doveano aver loro due: ma benchè molti si adoprassero a questo effetto, ed in più modi, ricusò Vieri e stette a casa, o fosse in lui poca ambizione o [78] bontà o prudenza. Ma fu tenuto che se i Medici avessero allora voluto essere cogli artefici, molti scoprendosi che non si ardivano, era gran pericolo che la città non rimanesse sotto le branche di quella famiglia: parole quasi divinatrici in bocca di tale il quale non vidde dipoi quelle branche davvero stringere la Repubblica.[78] Così finivano i due mesi memorabili del gonfalonierato di Maso degli Albizi; e pe’ due che furon ultimi dell’anno 1393 veniva tratto gonfaloniere, o piuttosto scelto, Niccolò da Uzzano, grande cittadino, il quale vedremo per molti anni insieme con Maso governare quello Stato che a senno di pochi reggeva dipoi, non senza gloria, la Repubblica.

Rimanevano da umiliare o da percotere due soli, Donato Acciaioli e Rinaldo Gianfigliazzi, che da principio diedero mano a quello Stato, ma pure voleano governo più largo, e a quella setta non aderivano la quale infine era venuta ad occuparlo. Il Gianfigliazzi, perchè era uomo che si contentava tenersi di mezzo, avea promesso ad un Alberti una sua figlia; del che adombrandosi quei dello Stato, gli Otto di guardia gli comandarono con gravi minaccie disfacesse il parentado, ed egli ubbidiva: ma la fanciulla amava il giovane ed altri non volle: talchè abbassato messer Rinaldo ch’ebbe gran biasimo della rotta fede, ed egli essendo poi negli uffici anche adoperato da chi reggeva, diedero questi consentimento che il matrimonio si facesse. Ma di altra tempra e di ben altra autorità era Donato Acciaioli, il più eminente cittadino che avesse Firenze sì per la famiglia che il gran Siniscalco aveva levata sopra alle private condizioni, e sì per il grado che tenea Donato nella Repubblica, dove le maggiori ambascerie o commissariati ed i negozi di più rilievo a lui venivano confidati; l’acquisto d’Arezzo teneano che fosse opera sua. Franco [79] ne’ consigli, severo ed anche aspro talvolta riprenditore, non temeva egli l’egualità perchè sicuro in sè medesimo, che tra gli eguali sarebbe primo: i suoi contrari invidiosamente lui chiamavano duca e principe. Nei primi tempi si teneva egli non alieno dallo Stato, e fu anche nel 1395 Gonfaloniere, e andò a Milano ambasciatore. Ma sul principio del 96 veduta la setta vie più ristringersi con la esclusione dei meno amici o confidenti, e accadendo quella volta essere tratta una Signoria dov’erano tali cui l’Acciaioli credeva potersi fidare, a lui parve essere momento da riformare lo Stato ampliando le borse con la restituzione di coloro che n’erano stati di recente tolti via, sebbene fossero meritevoli. Si apriva di questo con taluni de’ Priori e con un figlio del Gonfaloniere di casa Ricoveri; ma quelli risposero, come spauriti, non essere cose le quali fossero da toccare; e il giovine al padre riferì il tutto. Al Gonfaloniere e agli altri parve che il caso volesse rimedio, ed ai capi della setta parve da cogliere l’occasione. Fu eletta una pratica di Dodici cittadini, ed uno era (consueta astuzia in questi casi) Donato stesso; il quale chiamato con gli altri in Palagio, vi andò; ma tutti presente lui si riguardavano come da uomo di già sospetto, e uno disse apertamente che il male era dentro e che doveasi prima tôrre. Fu quindi rinchiuso nella camera del Frate, e gli altri andavano e venivano, e chi in un modo e chi nell’altro lo consigliavano; amici falsi lui stringevano a confessare la colpa. Qui varie e dubbie relazioni lasciano incertezze intorno a quel fatto, e non mancò chi la disse guerra incontro mossagli per invidia.[79] Donato istesso, in una lettera che dipoi scrisse alla Signoria, non bene si vede se non potesse dei fatti suoi dire ogni cosa, o non volesse troppo allargarsi nell’accusare i potenti che l’oppressero, o quei [80] più bassi che lo tradirono: forse irritato e messo al punto, aveva egli minacciato venire alle armi; forse i paurosi a lui devoti e i più avventati gli consigliavano di munirsi, e intanto andavano per città spargendo voci di sedizione. Tra’ suoi contrari, i più feroci voleano fosse dannato a morte; e vi ha chi dice avere egli scampato la vita col rendersi in colpa e domandare perdonanza in ginocchioni senza cappuccio davanti a’ Signori. Ebbe egli invece confine a Barletta per venti anni; e la Signoria scriveva pubbliche lettere al fratello di lui Agnolo Acciaioli, ch’era Cardinale, escusandosi della necessità in che era stata di dare bando al principale suo cittadino, per avere egli cercato, e (quando in altro modo non si potesse) per via della forza, mutare lo Stato e gli ordini della Repubblica. Con l’Acciaioli furono condannati Alamanno di Salvestro ed altri dei Medici, ed artefici di minor conto.[80]

Tra gli sbanditi erano molti rotti alle zuffe cittadinesche, dall’esiglio inferociti, e pronti ad ogni temerità. La Lombardia n’era piena, e molti spiavano in Bologna le occasioni; otto dei quali (v’era un Adimari dei Cavicciuli, un Ricci, un Medici, un Girolami) chiamati da uno dei Cavicciuli di dentro, dopo essere due dì stati occulti in Firenze, uscirono insieme per uccidere Maso degli Albizzi, la cui morte si credevano bastasse a mettere la città in arme. Avevano spie, dalle quali udito che Maso era entrato da San Piero nella bottega d’uno speziale, corsero quivi; ma non trovatolo, e per la via stessa tornando indietro in Mercato Vecchio, uccisero due giovani figli di cittadini a loro nemici; e ritrattisi di quivi pure, per la grande calca si fermarono nella Loggia degli Adimari che aveva nome la Neghittosa, gridando al popolo che gli [81] attorniava: «Serrate le botteghe, e seguitateci; chè non pagherete più prestanze e non avrete più guerra.» Non bastò; ed essi ch’erano andati giù per la via de’ Servi, quando ebbero avviso di gente armata che là muoveva, si rifuggirono in Santa Maria del Fiore, quivi entrati per le tetta delle nuove costruzioni; e là rinchiusi ed assediati, furono presi la sera, e tosto decapitati a piè dei loro palagi stessi.

Qui ai tempi precorrendo per non dividere la materia, narreremo come in appresso avendo un altro dei Cavicciuli rivelato avere saputo da un altro dei Ricci d’una più vasta congiura che s’ordiva con gli usciti, furono presi gli accusati, dai quali si seppe come dovessero molti rientrare in Toscana segretamente e pel greto d’Arno invadere la città; dove uccidendo i fanti che stavano a provvigione della Repubblica, avriano comodo d’ammazzare i reggitori, ed a foggia loro mutare lo Stato. Su di che essendo gli accusati presi, ebbero mozza la testa, salvo uno cui fu perdonato alle lacrime del padre, onorato cittadino che da Venezia corse a pregarne in ginocchioni la Signoria. Dipoi uno degli Alberti che si tenea quieto, ma fu denunziato da un monaco il quale diceva avergli tenuto mano, ebbe condanna ma non della testa perch’egli negava, sebbene il monaco molto lo aggravasse. Allora volendo a tali pratiche porre un termine, fecero balía di novanta cittadini, quindi altra balía, per le quali ebbero bando sei degli Alberti e sei dei Ricci e due dei Medici, tre degli Scali, due degli Strozzi, Bindo Altoviti, un Adimari e molti di plebe: con essi anche furono chiamati ribelli i Conti di Bagno e quei di Modigliana e gli Ubertini, i quali s’erano un’altra volta levati contro alla Repubblica. Dipoi furono messi a sedere tutti i Medici, tranne pochi, e tutti i Ricci, e più Alberti confinati.[81] Ma contro a questa famiglia [82] si trovano pel corso di più anni estese o aggravate le condanne, poi fatte comuni a quanti portassero quel nome, del quale nessuno infine poteva, senza essere ucciso per taglia di mille o più fiorini, farsi trovare dentro alle dugento miglia dalla città di Firenze; aggiungendo che nessuno di questa famiglia il quale fosse in età di sedici anni o che in avvenire a quella giugnesse, potesse in Firenze rimanere. Tutte le case degli Alberti si vendessero, togliendo da quelle le armi della famiglia, e la loro loggia fosse rasata a terra: chi togliesse donna degli Alberti o in quella casa ponesse una figlia, pagasse di pena mille fiorini d’oro: niun cittadino o suddito della Repubblica potesse nel raggio di dugento miglia farsi loro socio di commercio o fattore; e quando fosse, dovesse ritirarsi dentro a sei mesi. Continuava quella persecuzione per tutta intera un’età d’uomo: quando poi furono morti quei vecchi nei quali vivevano più fieri gli odii della parte loro, e quando gli Alberti non più si temevano, vennero questi gradatamente riabilitati.[82] Ora è da tornare ai fatti esterni della Repubblica.

Era morto sul principio del 1394 presso Firenze in Polverosa Giovanni Aguto, molto onorato dalla Repubblica:[83] la quale vedeva i migliori capitani tutti stare col Visconti, e fra tutti erano i più insigni Alberico e Giovanni da Barbiano. Guerreggiava questi su quel di Ferrara con Azzo da Este contro al marchese [83] Niccolò, al quale avevano i Fiorentini mandato soccorso d’oltre quattrocento lance; le quali unite alle forze del signor di Faenza Astorre Manfredi, ponevano assedio al castello di Barbiano, lungamente prolungandosi in quelle parti la guerra. Da un’altra banda, alcune compagnie di fuorusciti Perugini entrate in Toscana si erano messe intorno a Gargonza, e con l’appoggio dei Senesi, molto infestavano Val di Chiana: in Pisa l’Appiano fortificatosi con aiuti più o meno palesi di Giovan Galeazzo minacciava Lucca, la quale si venne più a ristringere co’ Fiorentini. Per le quali cose bene era guerra tra le due parti, ma perchè a Firenze giovava stare sulle difese, ed al Visconti l’occulta guerra soleva fruttare assai meglio della campeggiata, gli ambasciatori andavano e venivano scambiando le accuse, ma senza cessare le professioni della amicizia; tantochè infine si foggiò anche un simulacro di lega, con la solita bugia d’opporsi alle bande dei venturieri, quasichè fossero essi soli la cagione per cui la pace veniva turbata. Frattanto Giovan Galeazzo s’era fatto duca di Milano, avendo comprato cotesto titolo per moneta dall’abietto imperatore Vinceslao, che da principio aveva offerto ai nemici del Visconti il poco valido suo aiuto.

La Repubblica, mentre onorava per ambasciatori il nuovo Duca nelle magnificenze di Milano, più era sollecita a cercargli nimicizie; frequenti andavano gli oratori nei vari Stati anche d’oltremonti, e Coluccio Salutati scriveva lettere infiammate, sì che il Visconti soleva dire che la penna di Coluccio era a lui peggio che una spada: i mercanti fiorentini sparsi pel mondo attizzavano odii contro al tiranno di Lombardia. Ma nell’Italia non erano forze bastanti ad essergli contrappeso, e quindi Firenze dovette sè fare centro di ogni cosa, usando le industrie e l’acutezze degli ingegni, e confortata dall’antiveggenza di quei mancamenti che la gran possa del suo nemico in sè medesima [84] troverebbe.[84] In Puglia il giovane Ladislao, figlio rimasto del re Carlo di Durazzo sotto la tutela di Margherita sua madre, avea da combattere la sparsa guerra dei Baroni di parte contraria; e i Fiorentini, ai quali premeva fortificare quel Regno, a lui cercavano l’amicizia del Papa, levando via certi scandali e salvatichezze ch’erano nate tra loro, e procurando il maritaggio di Giovanna sorella di lui con Sigismondo novello re d’Ungheria, perchè ricongiunte insieme le forze di quei due Regni, assicurassero lo Stato di Napoli contro alla parte che favoriva gli Angiovini di Provenza. Andarono a questo fine ambasciate a Roma, e a Gaeta dove era Ladislao, o a Buda dell’Ungheria: dal Papa nemmeno ebbero il soccorso che Bonifazio poteva dare, essendo gran parte delle terre della Chiesa ribelli, da poi che gli stessi Fiorentini le avean chiamate venti anni prima a libertà; e ora prestavano questi mano contro al Papa ai Perugini, mentre che Roma tumultuando si governava pei suoi Banderesi.[85] Cercato avrebbe Bonifazio a sè difesa contro [85] al Visconti da una lega che a lui sarebbe parsa potente abbastanza, qualora Venezia in quella fosse intervenuta; e i Fiorentini in questo mezzo a lui dispiacevano chiamando aiuti dai Re francesi che mantenevano l’osservanza dello scismatico d’Avignone e lui studiavansi di promuovere. La Repubblica inviava quell’anno 1396 ambasciatore a Parigi Maso degli Albizzi, cui si aggiunse poco di poi Buonaccorso Pitti; dopo lunghi negoziati a’ 29 settembre strinsero lega, che fu di nome, col re Carlo VI alienato della mente: ma di Francia non veniva pure un soldato,[86] ed i Fiorentini doveano scusarsi appresso al Papa ed a Ladislao col dire che, aveano in tutto salvato le ragioni loro nelle condizioni dell’accordo; e mandarono a Venezia Niccolò da Uzzano perchè dichiarasse che nella lega con Francia non voleano fare nè per l’Antipapa nè per il Duca d’Angiò, nè contro alla libertà d’Italia.[87] Bene il Visconti opponeva ai Fiorentini meglio essere che gli Italiani si tengano Italia, che [86] lasciarci pigliare piede ai Francesi;[88] ma egli frattanto cercava condurre il Re dei Romani ed altri principi Alemanni contro a’ Francesi,[89] che nell’Italia di già avevano messo piede per altra via; imperocchè Genova, cui tanto mare ubbidiva ma che di sè stessa non bene tenne la padronanza, temendo cadere un’altra volta sotto al Visconti, s’era data al Re di Francia.

Il Duca frattanto, il quale teneva in Toscana piede fermo a Siena ed a Pisa, fatte oramai sue dipendenti, aveva mandato in quest’ultima città i due Conti da Barbiano con cinquemila soldati ad infestare i Lucchesi, i quali vivevano sotto Lazzaro Guinigi in amistà con la Repubblica di Firenze; e questa avendo a soccorso loro inviato sue genti e sprovveduto San Miniato, uno dei Mangiadori fuorusciti, di furto entratovi, uccideva il Commissario fiorentino, ma era dal popolo ricacciato;[90] e il conte Alberico scorreva da Siena fin sotto le mura di Firenze a Pozzolatico ed a Signa, guastando il contado. Era la guerra già denunziata, sebbene anche prima e fin dall’ottobre 1395 per un consiglio di Richiesti fosse fatta deliberazione di opporsi al Visconti, e creati i Dieci di balía e condotto gente d’arme e chiesto l’aiuto de’ Bolognesi e degli altri collegati di Romagna. Imperocchè il nodo di tutta la guerra già era in Mantova assalita con grande sforzo dal Duca, il quale da prima con gravi barconi ed artiglierie fatte scendere giù per il Mincio, avea rotto i ponti ed i serragli della fortezza; la quale tuttavia resistendo per la difesa delle lagune, e i Fiorentini avendovi in più tempi mandato fino a millesettecento lancie sotto Carlo Malatesta, mentre all’incontro molto ingrossavano le genti del Duca, fu a [87] Governolo grande battaglia e gran rotta dei Ducheschi, ma scarso il frutto pei collegati, il Malatesti avendo ricusato spingere innanzi la guerra. Venezia allora la prima volta entrava in lega, ma con l’intendimento di farsi arbitra della pace, siccome colei che fino a quel tempo, o nulla ambiva in terraferma, o solamente la ruina dei Carraresi, intanto piacendole si logorassero le due parti.[91] Aveva cercato che in lei facessero compromesso; al che negandosi il Visconti, fu stretta la lega, con questo però, che da sè soli i Veneziani potessero fare pace o tregua anche pei collegati, i quali dovessero il fatto loro ratificare: imposero quindi nel maggio del 1398, e innanzi d’averla con gli altri convenuta, una tregua per dieci anni; tanta era in Italia già da quel tempo l’autorità della Repubblica di Venezia.[92] In Pisa era morto Iacopo d’Appiano, avendo sepolto pochi mesi prima il figlio Giovanni capace a reggere quello Stato, il quale cadeva nell’altro suo figlio di nome Gherardo, uomo da poco; e già il Visconti con la frode e con le armi aveva tentato occupare le fortezze; laonde Gherardo, perchè alla casa degli Appiani nessuna infamia mancasse, vendeva al Duca Pisa per duecento mila fiorini d’oro, col riservarsi la signoria di Piombino, che indi rimase nei discendenti di lui: indarno i miseri Pisani avevano offerto pagare essi la moneta e riscattarsi a libertà. Peggio fece Siena, che di proprio moto si diede al Duca in servitù; il che era già stato deliberato fino dall’anno 1391, ma non ebbe esecuzione, sinchè ora fu vinto nel Consiglio generale; le guerre avevano e le contenzioni ridotta in miseria quella nobile città, diserto lo Stato e quasi vuoto d’abitatori.[93] A quel tempo stesso Perugia e Assisi erano venute sotto il dominio del Duca, invano il Papa ed i Fiorentini [88] a ciò essendosi contrapposti; Lazzaro Guinigi signore di Lucca era ucciso a tradimento da un suo proprio fratello ad istigazione del Vicario in Pisa del Duca, il quale dava indi mano a Paolo della famiglia stessa che pigliò la signoria, e lunghi anni poi la tenne: il Conte di Poppi, quello di Bagno, gli Ubertini si diedero al Duca; il Signor di Cortona s’accordò con lui: guerra minuta di correrie da questi facevasi in Casentino e nel Chianti; e gli sbanditi del 93, cui piaceva scaldarsi a quel fuoco, lo attizzavano più che mai.[94] Allora una pace in Pavia fu conchiusa dai Veneziani, a questa obbligando anche gli altri collegati secondo il patto che aveano posto; del che i Fiorentini si dolsero assai:[95] ma pace non fu, siccome tregua non era stata, e sempre i danni continuavano. Anche la peste era venuta fieramente a percuotere la città, da quella fuggendosi grande numero di cittadini; infuriò in Roma nei mesi del giubbileo di quell’anno 1400, e dipoi corse tutta Italia.

Qui è luogo a dire di quella devozione dei Bianchi penitenti, la quale venuta d’oltr’Alpe, era entrata per Genova e Lucca in Toscana l’anno precedente: Compagnie d’uomini e di donne, fanciulle e fanciulli, coperti di panni lini bianchi, andavano a molte migliaia nove dì processionando con l’insegna del Crocifisso innanzi; cantavano laudi, chiamavano pace e misericordia, facevano rappacificare le genti tra loro: sicure le andate anche nelle terre le quali soleano tenersi nemiche: pareva proprio cosa di Dio. Venute in Firenze di tali Compagnie da’ luoghi vicini, ebbero il vitto dalla Repubblica e molte limosine: e quando forse quaranta mila dei Fiorentini vollero fare lo stesso, provvidde la Signoria che oltre al Vescovo, il quale andava con loro, avessero guide che gli ordinassero per contrade e regolassero ogni cosa affinchè [89] scandalo non nascesse; e a loro non permisero dilungarsi molto fuori di città, dentro alla quale doveano ogni sera tornare ad albergo. Usciva bensì con altri il Vescovo di Fiesole; ai quali aggiugnendosi per la via molti del contado, si radunavano in Figline venti mila persone o più; i quali andati fino ad Arezzo, di là tornarono, dentro i nove dì: era due mesi continuata in Toscana quella devozione.[96]

Nell’anno 1401 la Repubblica, via più sentendo intorno a sè crescere i pericoli da ogni parte, dappoichè i Signori di Mantova[97] e di Ferrara segretamente si erano accordati col Visconti, ed in Pistoia i Cancellieri aveano cercato fare mutazione dello Stato, si volse al nuovo Imperatore: questi era Roberto conte Palatino di Baviera, creato nel luogo del deposto Vinceslao. E lui sapendo essere voglioso di avere dal Papa confermazione del grado, mandatogli Buonaccorso Pitti ambasciatore, praticarono affinchè scendesse contro al Visconti in Italia, con la promessa di cento mila fiorini subito ed altri novanta mila durante la guerra: prometteano anche un’altra egual somma in prestanza; e Roberto confermava i privilegi alla Repubblica prima concessi da Carlo IV, ma con maggiore ampiezza, e quella volta senza trattare di censo. Scendeva egli dunque a Trento, e presso Brescia avendo avuto piccolo scontro ed infelice con le milizie del Visconti, perchè il Duca d’Austria e l’Arcivescovo di Colonia subitamente lo abbandonarono, venne a Padova con poche genti, indi a Venezia. Qui pretendeva il pagamento dei novanta mila fiorini che rimanevano; alla fine, contentatosi d’averne sessantacinque mila [90] (a lui recati da Giovanni de’ Medici, ch’era mercante ricchissimo), tornò a Padova e ivi si fermò, finchè veduto che altre genti non gli venivano nè danari, si ricondusse in Alemagna: questo fine ebbe la discesa dell’imperatore Roberto in Italia.[98] Ma già era prossima a cadere in mano del Duca l’ultima e la maggiore amica dei Fiorentini, Bologna. L’anno innanzi era divenuto di questa signore Giovanni Bentivoglio, avendo cacciata la parte dei Gozzadini; il quale a malgrado le lusinghe del Visconti s’era collegato ai Fiorentini, persuadendosi che appresso al popolo ne acquisterebbe favore. E da principio gli tornò bene; ma non sì tosto l’Imperatore ebbe sgombrato l’Italia, Giovan Galeazzo facea radunare sotto Bologna il maggior nerbo delle forze sue con otto mila cavalli, dov’erano molti dei più riputati italiani condottieri, e a capo di tutti Alberico da Barbiano: guidava le genti fiorentine e bolognesi un Bernardo delle Serre guascone, che i nostri familiarmente appellavano Bernardone. Fu grande battaglia e memorabile per quei tempi presso Bologna a Casalecchio, dove i collegati essendo rotti ed il Capitano preso, i soldati vincitori e i fuorusciti con essi insieme si sparsero nella città: quivi molta e sanguinosa fu la zuffa cittadina, infin che ucciso il Bentivoglio, il Duca pigliava la signoria libera di Bologna, contro al volere dei fuorusciti ai quali aveva altro promesso. Dei commissari fiorentini che erano al campo, uno per ferite moriva; l’altro, Niccolò da Uzzano, prigione del Duca fu quindi a spese della Repubblica riscattato per cinque mila fiorini.

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Prima d’allora non mai Firenze si vidde condotta in pericolo così vicino: lo Stato è vero non era tocco, ma da ogni parte chiuse le vie alle amicizie ed ai commerci, le città suddite minacciavano fare sommossa; il contado stracco per le gravezze, e nel Mugello i contadini davano mano a quei dell’Alpe, dove gli Ubaldini nemmeno allora affatto spenti, anch’essi levavano la cresta insieme a quanti fossero male contenti della Repubblica; le ricolte tutte fuori senza difesa pei campi, e nella città non era roba per due mesi: temevasi anche di quei di dentro, e due mila Ciompi dai Dieci furono assoldati, più per trarli fuori che per fiducia che in loro avessero, e mandati a guernire le castella.[99] In su quei primi non fu la guerra con vigore proseguita da quei del Duca, e rimediossi pure in qualche modo; ma credeva egli di affamare la città e così averla a discrezione: si diceva ch’egli volesse in Firenze farsi coronare re d’Italia. Quand’ecco di subito mutare le sorti per un evento cui la sagacità di lui non fu capace a provvedere. Giovan Galeazzo fuggendo la peste, ne fu colto in Marignano dove morì a’ 3 di settembre 1402, quando era signore del più grande Stato che fino ai dì nostri fosse in Italia. Fu egli però oltre al dovere magnificato, siccome colui che tutti vinceva nelle arti comuni, ma da quelle non si discostava, più atto ad usare le forze altrui che a farsi padrone degli animi, senza virtù di soldato nè armi proprie e paesane, uomo da pigliarsi a brani l’Italia ma non da tenerla nè insieme comporla: regolato nell’amministrazione quanto magnifico nelle opere, lasciava di sè due molto splendidi monumenti, il Duomo di Milano e la Certosa presso Pavia.[100]

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Capitolo IV. ACQUISTO DI PISA. [AN. 1402-1406.]

Per il testamento di Giovan Galeazzo andava lo Stato diviso tra due figli, dei quali il primogenito Giovanni Maria, ch’era in età di tredici anni, ebbe il Ducato di Milano con le città poste tra ’l Mincio e il Ticino, e inoltre Piacenza, Parma, Bologna, Siena, Assisi, Perugia. Pavia rimaneva come sede e come titolo al secondo nato Filippo Maria, con quelle città le quali stanno ai due fianchi della Lombardia verso il Piemonte e la Venezia. Un terzo figlio, ma non legittimo, Gabriele Maria ebbe Pisa in successione, e Crema, la quale il Duca potesse riscattare per moneta. Sebbene usanza del Visconti fosse dividere le città considerandole nella successione come tanti patrimoni ciascuna per sè, provvidde Giovan Galeazzo a mantenere quanto per lui si potesse unito lo Stato, avendo anche fatto che i due minori fratelli tenessero in feudo le città loro siccome parte del Ducato di Milano. Ma era lo Stato senza armi proprie, i popoli stanchi dalle gravezze; nelle città, le antiche parti risuscitavano, mosse dai nobili che in ciascuna erano soliti dominare, e che ora oppressi dai Visconti mettevano innanzi il nome guelfo: così aveano levato il capo i Rossi a Parma, i Fogliani a Reggio, ed a Bergamo i Suardi, i Benzoni a Crema, gli Scotti a Piacenza; Ugolino dei Cavalcabò, rioccupando la signoria di Cremona e avuto rinforzo d’armi fiorentine, pigliava Lodi, di là scorrendo fin sotto alle mura di Milano; intanto che i Rusca ed il popolo con essi muovevano Como a feroce ribellione, che le armi vennero ad estinguere. Ciascuna città faceva per sè, ma in sè divisa: sul capo a tutte stava un’altra forza dispersa, [93] vagante, divisa anch’essa ma sola valida, i condottieri delle armi mercenarie, i quali levati da Giovan Galeazzo a grande stato, perdevano ora la sicurezza delle paghe e la fiducia delle imprese; mandati essi a comprimere le ribellioni, di queste facevano il loro pro: ed in tale modo ebbe occupata Facino Cane la signoria d’Alessandria; ed Ottobuon Terzo prima facendo coi Rossi a mezzo, poscia ingannandoli, riduceva Parma tutta a sua propria devozione: Brescia, dopo essersi prima data al Carrarese, venne alle mani di Pandolfo Malatesta. I Fiorentini ch’erano giunti per molte lunghezze a stringere lega col Papa nei giorni quando morì Giovan Galeazzo, continuavano guerra stracca intorno a Perugia e intorno a Siena ed in Romagna. Aveano condotto Alberico da Barbiano, al quale si univa con le genti pontificie il troppo famoso cardinale Baldassarre Cossa; e insieme avendo portata la guerra fin sulle rive del Po, ecco giugnere a Firenze la mala novella che il Cardinale si era accordato coi Visconti, avutone in prezzo l’abbandono di Bologna, che subito venne a lui dal popolo consegnata: Perugia ed Assisi tornarono anch’esse alla devozione del Pontefice. Aveano cercato i Fiorentini che Bonifazio non ratificasse quell’accordo; indugiò il Papa, e quindi offerse di rintegrare la prima lega e l’amicizia con la Repubblica.[101] La quale intanto pigliava vendetta di quei signorotti che a lei si erano ribellati, ampliando il dominio con la distruzione dei Conti di Bagno, e avendo acquistato da quel lato degli Appennini anche Castrocaro, e nelle Maremme Castiglione della Pescaia, importante sito da stare a guardia contro a’ Senesi. Nè questi mantennero al nuovo Duca la soggezione, [94] ma raccostando il governo agli ordini popolari, ed avendo richiamato i fuorusciti, fecero pace (sebbene ciò fosse a mala voglia) co’ Fiorentini.[102] E in questo mezzo Francesco da Carrara, uscito di Padova occupava con le armi Verona, dicendo tenerla per conto d’un ultimo bastardo di casa Scaligera; ma questi però da indi a poco venne a morte, non senza infamia del Carrarese; contro del quale i Veneziani movendo allora una grande guerra, ebbero infine Padova e lui a discrezione, e per iniqua ragione di Stato avendo nel carcere ucciso Francesco e due suoi figli, a sè aprirono così la strada alle conquiste ed alle guerre in terraferma. Pareva frattanto la signoria dei Visconti al tutto disfarsi per interne commozioni mosse dai nobili malcontenti; quindi in Milano lunga sequela di fatti atrocissimi, i quali mi piace non avere obbligo di narrare; e infine la vedova Duchessa, reggente pe’ figli, chiusa in castello e messa a morte: era essa nata di Bernabò, e dopo regnato diciassette anni con l’uccisore del padre suo, venne al fine stesso.[103]

Nel mese di novembre 1403 giungeva in Pisa il nuovo signore Gabriele Maria Visconti, e seco la madre Agnese Mantegazza. Cominciò male, essendo accolto con poca festa nella città, la quale era esausta dalle guerre precedenti, nè poteva egli trarne danaro a volontà sua; cosicchè in capo a pochi giorni fatti pigliare alcuni cittadini più facoltosi sotto colore che a lui volessero tôrre la città, ad un Agliata e a due altri fece tagliare la testa, altri condannando in più migliaia di fiorini, pena la vita se dentro un mese non gli avessero messi fuori;[104] altri, dopo averli bene smunti, mandò a confine: talchè i Pisani cercavano modo come [95] liberarsi d’un tale signore, il quale vedeano essere uomo di poco senno e poche forze nè da potere avere aiuti di Lombardia. I Fiorentini teneano l’occhio a queste cose; e da un uscito di Pisa avendo i Dieci di balìa avuto avviso come agevolmente si potesse entrare in città per una porta murata, ma il muro era debole e sottile, mandarono genti segretamente nel mese di gennaio con isperanza di occupare la terra; se non che la trovarono ben guardata e il popolo in arme, perchè il traditore si venne a pentire e increbbegli della sua patria e disse ogni cosa; talchè per allora falliva il disegno: ma bene pareva a Gabriele Maria stare troppo male tra’ Pisani, che a morte l’odiavano, e i Fiorentini, contro ai quali non bastava egli alla difesa di quel suo stato pericolante. Era in Genova governatore pel Re di Francia il maresciallo Giovanni Le Maingre detto Bouciquaut, e i nostri lo chiamavano Bucicaldo: ignoro se primo a lui si volgesse Gabriele Maria per darsi a Francia in protezione, o se il Francese molto ambizioso di più distendere le radici nel cuore d’Italia avviasse pratiche a tal fine, eccitato anche dai Genovesi, i quali temevano se Pisa cadesse in mano dei Fiorentini, averne perdita pe’ commerci loro. Fatto è che il Visconti si rendè vassallo al Re di Francia, cui doveva in segno d’omaggio presentare ogni anno un destriere e un falcone pellegrino; ma quel che più era, gli diede in possesso i castelli di Livorno, di gran momento dappoichè il mare col discostarsi lasciava in secco il Porto antico dei Pisani. Mandava pertanto Bucicaldo a Firenze intimazione di cessare ogni offesa contro alla città di Pisa, la quale era divenuta cosa del Re. Di ciò si turbarono molto gli animi dei Fiorentini; vedevansi tôrre Pisa di bocca e venire addosso la potenza de’ Francesi. Quindi per allora chiamandosi offesi, e pigliando tempo, mandarono a Genova ambasciatori a Bucicaldo; mandarono in Francia a richiamarsene al Re stesso. Ma quegli frattanto, vie più [96] sdegnato per quel ricorso, facea sequestrare le robe in Genova dei Fiorentini, per oltre a centomila fiorini d’oro, e ad essi vietava usare il porto di Talamone perchè fossero costretti valersi di Genova o d’altri scali in suo dominio. Vennero infine le mercanzie rese e tolto il divieto; ma la Repubblica fu costretta fare tregua coi Pisani per quattro anni, che a Firenze parve durissima condizione.[105]

Durava lo scisma nella Chiesa: in Avignone all’antipapa Clemente VII era succeduto infino dall’anno 1394 uno spagnuolo, Pietro da Luna, che prese nome di Benedetto XIII; e poichè le armi dei Francesi erano entrate in Italia, ed in Genova il governatore gli mostrava una fede da soldato,[106] si confidò Benedetto a vantaggiare la parte sua: quindi spediva suoi Legati infino a Roma; dove accolti male, com’era da credere, vennero chiusi nella fortezza di Castel Sant’Angelo. Intanto moriva papa Bonifazio, e in mezzo alle gravi perturbazioni della città di Roma gli fu eletto successore il cardinale Cosimo Migliorati col nome d’Innocenzio VII, e con la promessa solenne di fare ogni cosa per la cessazione dello scisma, fino a deporre la tiara i due contendenti, se a tal fine s’accordassero. E Benedetto era venuto per Marsiglia e Nizza infino a Genova, che Bucicaldo riceveva in ubbienza, a ciò abbassandosi un Cardinale di casa Fieschi ed il Vescovo della città: quindi usando la debolezza di Gabriele Maria, ottenne che in Pisa questi comandasse il riconoscimento di Benedetto, il quale aveva fatto anche disegno venirvi della persona sua; [97] ma voleva le castella, egli insieme e Bucicaldo avendo disegni, comunque vari e mal fermi, sulle cose di Toscana. Ambiva questi che il Re suo acquistasse anche la signoria di Pisa, incitato come sembra dal duca d’Orléans, il quale era allora quasi che reggente del regno di Parigi, e forse cercava con la Valentina, moglie sua, fare in Italia a sè uno stato. Ma Bucicaldo, non credendosi avere forze a ciò sufficienti, e temendo per l’unione con la ghibellina Pisa non venisse questa parte a farsi in Genova prevalente, volgeva l’animo ad una qualche sorta di componimento con la Repubblica di Firenze; al che spingevalo Benedetto nella speranza di trarre questa a porsi sotto all’ubbidienza sua con l’esca di Pisa. Si aggiugneva che Francesco da Carrara trovandosi allora a dure strette, molto avrebbono i Genovesi e Bucicaldo avuto caro di procacciargli soccorso; e questo voleano fosse un altro prezzo da imporre alla cupidità della Repubblica di Firenze. Ondeggiava Bucicaldo variamente in questi pensieri, temendo l’odiosità dell’opprimere una città ed un signore che a lui erano confidati; dal che odio gli verrebbe nella Corte di Parigi da quella parte la quale stava contro all’Orléans ed a lui. I Fiorentini, tra ’l Re di Francia e il duca d’Orléans e Bucicaldo ed i Pisani e Gabbriello e Benedetto, cercavano fare segretamente i fatti loro, o almanco svilupparsi dell’impedimento della tregua che a forza avevano consentito.[107]

La prima apertura del pensiero che Bucicaldo e Benedetto avrebbono avuto della vendita di Pisa venne in Firenze per una lettera che Buonaccorso degli Alderotti mercante in Genova scriveva privatamente a Gino Capponi correndo il giugno 1405. La quale essendo subito comunicata da questo ai Signori ed a pochissimi cittadini, fu preso partito che Gino andasse a Genova come per altre faccende, e lì vedesse [98] qual fondamento avesse la cosa. Andava Gino, e fu a discorso con l’Alderotti, poi con Bucicaldo, il quale chiedeva dapprima quattrocentomila fiorini d’oro, che la metà fosse spesa nel soccorrere a Francesco da Carrara; chiedeva inoltre che la Repubblica ubbidisse a Benedetto; e interrogato da Gino qual modo terrebbe per avere Pisa e quindi poterne fare cessione, disse l’avrebbe prestamente nelle mani col favore del suo Papa. Rimasero, cercasse quegli di avere Pisa e poi del resto si aggiusterebbero: con queste parole tornò a Firenze Gino Capponi. Nel tempo stesso parendo a Gabriele Maria d’essere appiccato con la cera nella signoria di Pisa, mandò a dire a Maso degli Albizzi che avrebbe con lui voluto parlare segretamente; per il che Maso andato un giorno come a diporto alla sua villa di Montefalcone, si condusse con apparenza di pesca per Arno infino a Vico Pisano; dove abboccatosi col Visconti non vennero a nulla, perchè Maso metteva innanzi discorsi di vendita, e quegli di lega che lo rinforzasse nello Stato.[108]

Ma non così tosto il popolo di Pisa ebbe sentore di queste cose, bene accorgendosi che il fine sarebbe cadere per ogni modo in servitù, si levò in arme ai 21 luglio sotto la condotta di un Ranieri Zacci e venne in piazza, dove ebbe lunga battaglia con le genti del Signore, le quali infine si dovettono ritrarre in cittadella, quivi assediate dal popolo e chiuse con fossi e steccati; intantochè altre uscite fuori ed accogliendosi in Ripafratta, di là correvano il contado ed infestavano la città con isperanza di racquistarla. Gabriele Maria si era condotto in Sarzana, città sua; e la madre andata in Genova a trattare per la cessione col Maresciallo, e di là tornata in cittadella, qui venne a morte d’una caduta. Cotesto levarsi del popolo aveva storpiato i disegni dei Fiorentini e di Bucicaldo, [99] il quale metteva nella cittadella un centinaio di genti d’arme francesi prima che i Pisani chiudessero il fosso, e cercò pure mandare in Pisa altri soldati e vettovaglie e fornimenti sopra una nave che dai Pisani fu combattuta in foce d’Arno e presa, e le genti francesi rotte, e fatto prigione un nipote dello stesso Maresciallo. Del che pigliava egli grande sdegno, e si rendè facile prima agli accordi con Gino in Livorno, indi alla finale conclusione con Gabriele Maria in Sarzana, dov’erano andati da Firenze altri ambasciatori, e due Genovesi pure intervennero commissari. Il domestico scrittore delle memorie di Bouciquaut molto si adira co’ Pisani per la ribellione che aveano fatta contro al legittimo Signore loro, che gli trattava, secondo lui, amorosamente; notando com’era vizio delle genti d’Italia mutare spesso signoria; e dice essere dal tradimento loro, quando rubata la nave a lui presero il nipote, stato condotto il Maresciallo a fare la vendita. Della quale ben si vede come avesse grande bisogno egli di scusarsi per l’odiosità del fatto, e dissimula i discorsi che n’erano prima stati tenuti, e vuole poi dare ad intendere come nel trattato fossero clausule per le quali veniva la stessa Repubblica di Firenze a mettersi sotto la protezione dei Re francesi. Il che non era nè poteva essere com’egli vanta; ma io credo gli scrittori fiorentini nemmeno dicessero ogni cosa di quel fatto. Ebbero questi la cittadella e le altre fortezze, pagando dugentomila fiorini a Gabriele Maria Visconti che riteneva Sarzana, ed a Bucicaldo rimaneva in possessione Livorno: promettevano poi di soccorrere Padova; e fu la ruina ultima del Carrarese questa fiducia che lo rattenne dal fare accordo co’ Veneziani: alcune cose anche promisero intorno a papa Benedetto. A’ 31 agosto 1405 pigliava Gino la tenuta della cittadella per carta segnata da un commissario di Bucicaldo.[109]

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Le più sostanziali differenze tra ’l racconto di Bucicaldo e quello di Gino, consistono in ciò: che il Maresciallo dopo avere esposto come avesse egli molto esortato i Pisani perchè tornassero in fede al legittimo Signore loro, aggiugne questi essersi dati al Re di Francia direttamente come avean fatto i Genovesi, ed egli essere alla perfine nè senza molta esitazione condisceso ai desiderii loro, a ciò consentendo Gabriele Maria con promissione di altri compensi dal Re di Francia: il Maresciallo essere andato a ricevere in Livorno la sommissione dei Pisani, e questi avere con insigne tradimento ucciso sue genti, delle quali poche si condussero nella fortezza di Pisa; e quindi assalita in foce d’Arno la nave con tutte le robe che il Maresciallo avea spedite per fare in Pisa l’entrata sua. Continua mostrando la perfidia dei Pisani, i quali trattavano tuttavia sempre darsi al Re; e al tempo stesso ai Fiorentini ed ai Genovesi proponevano di unirsi tutti contro a’ Francesi, ed uccidere quanti ve n’era in Pisa e in Genova e in Livorno. Dopo di che avendo Gabriele Maria fatto l’accordo co’ Fiorentini, al quale voleva che il Maresciallo consentisse, questo lo comunicava tosto ai Pisani, e intimava loro si dessero a lui dentro due giorni, se non volevano andare in mano de’ Fiorentini. Negarono essi, ed il Maresciallo patteggiò allora con gli inviati dalla Repubblica di Firenze: avesse questa la Signoria di Pisa facendone omaggio al Re di Francia, dichiarandosi uomini ligi della Corona; rimanesse Livorno in piena signoria del Re; ubbidissero i Fiorentini a Benedetto, promettendo sotto certe condizioni combattere anche il Papa di Roma, se dentro sei mesi non fosse accordo tra i contendenti. Il quale trattato ebbe ratificazione solenne dal Re, ma eseguito non fu mai, perchè i Pisani con le armi si opposero, e la Repubblica di Firenze dopo la perdita della cittadella si tenne sciolta: il che afferma Gino espressamente, [101] ed il Maresciallo non contradice, nè muove accuse alla Repubblica fiorentina di fede mancata: tace bensì affatto la ripresa della cittadella che aveano fatta i Pisani, come tace i negoziati avuti in principio per la vendita a’ Fiorentini, e per l’aiuto a Francesco da Carrara; delle quali cose ben poteano essere stati discorsi più o meno espressi, ma pur vi furono. I Fiorentini dal canto loro credo tacessero le parole corse circa a una sorta di vassallaggio verso il Re di Francia per la signoria di Pisa; e in quanto risguarda alle cose dello scisma, Gino confessa «certa intenzione di dare la ubbidienza a papa Benedetto; il che e come non bisogna qui altrimenti specificare, perchè poi si perdè la cittadella e vennero a variare i tempi.»

Sei giorni dopo aveva il popolo dei Pisani racquistata la cittadella, che per essere abbastanza forte di mura e di torri e per la guardia che v’era dentro, non fosse stata trascurataggine dei capitani, poteva reggere all’assalto di genti d’arme pratiche e valenti, non che d’un popolo.[110] Ma forzata appena certa postierla in sito debole, i Pisani con le scale su per le mura tumultuariamente v’entrarono dentro, e tutta l’arsero e guastarono, eccetto le torri le quali poteano fare custodia alla città. In Firenze, come giunse la novella, fu grande sgomento; ai cittadini pareva fosse ad un tratto caduto un velo sugli occhi; guardavansi muti, a ognuno pareva tutta sua propria la sciagura, tanta era la passione d’aver Pisa. Un Raffacani, che avea la guardia della cittadella, ebbe gastigo; Andrea Vettori, che fuori di Pisa teneva il campo ma non potè giugnere a tempo, fu assoluto.[111] Una troppo baldanzosa [102] ambasceria de’ Pisani venuta a Firenze raccendeva gli animi, e quindi con frettolosi provvedimenti s’attese alla guerra. In Pisa, da che fu morto Piero de’ Gambacorti, dominava la parte contraria, detta dei Raspanti; di buono animo richiamarono un Giovanni Gambacorti co’ Bergolini; le due parti fecero insieme gran sacramento, baciaronsi in bocca; ma durò poco. Giovanni tolse in pochi giorni la signoria per sè e pe’ suoi, uccisi i capi dei Raspanti; un Piero Gaetani di quella setta, il quale avea Laiatico ed altre castella, cedeva queste per danari alla Repubblica di Firenze, della quale divenne soldato, nè restava dal fare ai Pisani danni in Val d’Era e nelle colline. Al Gambacorti aveva dato presso taluni favore l’essere quella casa in amicizia coi Fiorentini, dai quali speravano più agevole componimento: a tale effetto il Gambacorti scriveva lettere in Firenze chiedendo salvocondotto per gli oratori di Pisa, i quali aveano da trattare di certe cose: fugli risposto specificasse le condizioni; e nulla si fece perchè la Repubblica teneva già Pisa come cosa legittimamente sua, poichè l’avevano comperata, e sempre poneva nelle soprascritte: «Al Capitano e Anziani della nostra città di Pisa.[112]» Era cresciuta la Repubblica di Firenze francando gli uomini attorno a sè da ogni legame di vassallaggio; ora ammetteva che un signore vendesse un popolo, e di tal mercato faceasi titolo alla possessione di città libera e gloriosa: cotesto titolo ai Pisani non parve buono e resisterono.

Quindi attendevano a fare genti; ma pure temendo soli non reggere quella guerra, mandarono chetamente sopra una loro galea quattro ambasciatori al re Ladislao, chiedendo pigliasse la città loro in protezione; e sulla galea erano molte robe di grande valuta, che [103] i cittadini di Pisa metteano in Napoli a salvamento:[113] ma il Re aveva fatto promessa ai Fiorentini di non impacciarsi nelle cose di Toscana, e che essi lui non impedissero de’ fatti di Roma, nei quali aveva grandi disegni, che in altro luogo dovremo esporre. Così andò a vuoto quella speranza: e pure falliva quella che i Pisani avevano posta in Agnolo della Pergola soldato da essi, e dovea menare seicento cavalli; ma i Fiorentini co’ danari fecero tanto, che Lodovico Migliorati nipote del Papa, il quale si trovava nelle terre di Siena, quivi assalisse alla sprovveduta quelli che si erano fatti innanzi; ai quali rubando armi e cavalli gli lasciò andare, egli pago della preda, e i Fiorentini d’avere tolto a’ Pisani quel soccorso. Un altro menavane Gaspare dei Pazzi, il quale veniva da Perugia con cent’ottanta lance, ma i Fiorentini avutone spia mandarono buon polso di genti in Volterra sotto la condotta di Sforza Attendolo da Cotignola, perchè al passare gli sorprendesse; e questi avendoli côlti in Maremma vicino a Massa, gli pose in rotta, cosicchè vennero in sua balía cinquecento dei cavalli dei nemici; scamparono il Pazzi e l’Abate di san Paolo di Pisa ed il Vescovo de’ Gambacorti, ch’erano insieme con quelle genti. Ma i Pisani la difesa loro contavano stesse nell’aver tempo lungo a sostenere l’assedio, perchè gli assalti poco temevano, la città essendo forte di mura, e unito il popolo a non volere la signoria dei Fiorentini. Premeva loro a questo effetto sopra ogni cosa il provvedersi di vettovaglie, ed ebbero danno fra tutti gravissimo allora quando una galera che aveano mandata a recarne di Sicilia, tornando carica, ed avuta caccia dalle galere dei Fiorentini, sotto la torre di Vada fu presa ed arsa, rendendo insigne la virtù di un Piero Maringhi, il quale esule da Firenze e proponendosi col valore suo di [104] racquistare la patria, si gettò a noto così armato com’egli era, nè per ferite si ritraeva finchè non la vidde in fiamme tutta: a lui fu tolto il bando, e n’ebbe premi e lode. In questo mentre Peccioli ed altre terre di Val d’Era vennero in mano dei Fiorentini, e la Verrucola fu espugnata per subito assalto, e Vico Pisano cinto d’assedio che poi sostenne con molte battaglie fin quasi al fine di quella guerra. Nelle Maremme i conti Gherardesca di Montescudaio, ed in Lunigiana alcuni dei Malaspina si erano dati alla Repubblica di Firenze; la quale teneva pure in tutela il giovane figlio del morto Signore di Piombino, avendo mandato Filippo Magalotti a governare quello Stato e l’isola dell’Elba che ne dipendeva.

A mezzo il gennaio, che per noi si conta 1406, furono creati nuovi Dieci di balía, tra’ quali erano dei più eminenti cittadini di Firenze. Maso degli Albizzi e Gino Capponi andarono al campo, dov’erano a soldo mille cinquecento lance (cavalli quattromila cinquecento) e mille trecento fanti e balestrieri genovesi, e marrajoli e palajoli in grande numero, e mulattieri e buoi per trascinare legname, e maestri d’ogni ragione. Fu prima cura dei Commissari assicurare le vettovaglie a sè, togliendole ai Pisani: male s’era provveduto infino allora, e si credettero quasi costretti a levare di là l’esercito per il mancamento della panatica, non ostante che molto danaro fosse andato per le incette; ma nulla poi vi si trovò. Laonde senz’altro e con migliore partito mandarono voce per la riviera e per le terre circostanti, essere il campo del Comune di Firenze sotto alle mura di Pisa, al quale ciascuno che mandasse roba fosse sicuro e libero, e potesse quella vendere come a lui pareva e piaceva senza decima o gabella. A questo modo abbondò il pane, del quale fu in pochi giorni grandissima la dovizia. Si aggiungevano le prede che ogni giorno facevano le galere dai Fiorentini soldate a Genova ed in [105] Provenza: tenevan essi ben guardate le foci dell’Arno con grosse bombarde su per il filo dell’acqua; cosicchè di ventidue navi le quali andavano cariche a Pisa, non poche furono prese e le altre si dispersero qua e là, i padroni essendosi partiti con le loro fuste, cosicchè a Pisa nulla ne venne. I Fiorentini aveano posto il campo sotto a San Piero in Grado, e prima cercarono se qualche modo vi fosse di abbarrare l’Arno così da impedire l’acqua che non iscorresse, il che era allagare la città di Pisa; ma per consiglio degli ingegneri, a’ quali parve la riuscita essere incerta e la spesa troppa, abbandonarono quel pensiero. Aveano sull’Arno due forti bastìe legate da un ponte, il quale prima d’essere ultimato, da una grossa piena venuta nel maggio fu portato via. Al che i Pisani essendo accorsi popolarmente con grande furia, diedero assalto alla bastìa ch’era della parte loro e nemmeno essa bene armata. Nè a soccorrerla era modo, il fiume correndo grosso e precipitoso per la piena, se lo Sforza, egli della persona sua con memorabile ardimento (ed uno simile gli dovea più tardi costare la vita) non si gettava nel fiume con due soli famigliari su piccola barca, e riscaldando la pugna e poi da altri seguito, non avesse dato grande terrore ai Pisani. Nè però cessava la battaglia fino alle mura di Pisa, in cima alle quali saliva parte degli aggressori: ed uno sbandito di Firenze, il quale serviva pure nel campo, scalava tra’ primi le mura; e lì azzuffandosi con uno di quelli di dentro e insieme abbracciatisi, poichè dibattuti si furono assai, amendue caddero a terra dalla parte di dentro: ma più infelice egli del Maringhi, cadeva morto col suo nemico. Allora essendo Maso e Gino tornati in Firenze, nel campo erano Matteo dei Castellani, Vieri Guadagni, Niccolò Davanzati, e Iacopo Gianfigliazzi: Iacopo Salviati guidava le genti le quali attendevano ad impedire che in Pisa non entrasse roba, massimamente di verso Lucca, dove il signore, [106] Paolo Guinigi, poco aggradiva che i Fiorentini tanto ingrossassero a’ suoi fianchi.[114] Avvenne dipoi che tra lo Sforza ed il Tartaglia, primi e più insigni tra’ condottieri, nascesse dissidio, tale che a Firenze non credeano i cittadini potersi comporre, temendo che uno dei due, secondo la fede usata dei soldati di ventura, mutasse a un tratto bandiera e soldo. Fu mandato Gino, amicissimo ad ambedue; il quale partito di Firenze la mattina dei 21 giugno di buon’ora, si condusse in campo la sera stessa; e nel giorno dopo composte le cose, venne all’offerta di San Giovanni ai 23, che è la vigilia del dì solenne. Udito l’accordo e in quale modo s’era fatto, ciascuno andò con gran piacere all’offerta, credendosi aver Pisa nelle mani. Il modo fu questo; che lo Sforza, disgiunto dall’altro, ponesse il campo di qua da Pisa in sulla riva destra dell’Arno, dando mano a quelle genti le quali erano sotto a Vico, e meglio stringendo così la città, contro alla quale stava un’altra brigata di genti in sulla riva sinistra; e i due campi erano congiunti da un ponte di legname in sulle barche, venendo così la città ad essere chiusa d’ogni parte, e impedito che v’entrasse nè roba nè gente.

Al Gambacorti parendo avere perduta ogni speranza di soccorso per terra o per mare, e solamente essere ridotto in sulla fede del suo popolo e in sulla fortezza delle mura, cominciò a volere scemare nella città le bocche inutili della gente non atta alla guardia, perchè la vivanda alle braccia utili più bastasse, e più si venisse a prolungare la guerra sì che a Firenze ne increscesse. Ma i Commissari ordinarono per pubblici bandi, che qualunque uscendo di Pisa venisse nelle forze degli assediatori fosse impiccato: si contentavano da principio di fare scorciare i panni alle donne, e suggellate con la bolla del giglio in sulle [107] gote, per forza farle tornare in Pisa. Dipoi non giovando questo, s’aggiunse fare tagliare loro il naso, ed appiccare qualche uomo in luogo che quelli della città lo potessono vedere.[115] «Molti (uomini e femmine e fanciulli), perocchè quelli di dentro non gli volevano lasciare dentro tornare, si stavano allato alle mura, ed erano morti; e le femmine che uscivano erano ancora dentro ripinte, suggellate nella testa con ferri affocati; e gridando e chiamando misericordia non erano intesi, nè voluti nè dentro nè di fuori; e così standosi tra le mura della città e il campo, mangiavano delle erbe come le bestie, e moriano di fame:[116]» crudeli opere e nefande; ma così tra loro si odiavano i popoli. Mentre attendevano i Pisani a consumare quello ch’era dentro, il Gambacorti scese a pensare a’ suoi vantaggi. Prima erano venuti due de’ Gambacorti a trattare con Matteo dei Castellani, ch’era nel campo; dipoi veniva ai Commissari un Gasparre da Lavaiano, col quale accozzatisi più volte, erano quasi che rimasti d’accordo dei patti, quando una sera dal campo viddero in Pisa fare gran festa e falò, tantochè dubitarono che vi fosse entrata gente: poi fatto giorno vidersi le insegne del Duca di Borgogna poste in sulle torri di Pisa, e l’arme sua dipinta alle porte; ed un araldo venne nel campo a notificare come Pisa era del Duca, ed a comandare che ciascuno dovesse partirsi. Il quale araldo fu con le mani legate gettato in Arno; ma o non lo avessero legato bene o ch’egli co’ piedi sapesse notare, il poveretto scampò, e andato a compiere l’ufficio suo in Firenze e a dolersi dell’ingiuria, fu mandato via. A Bucicaldo aveano scritto di Francia rompesse co’ Fiorentini, ed operasse con la forza perchè l’assedio fosse tolto. Ma quegli rispose che ciò non potrebbe senza [108] disonore di spergiuro, e che inoltre la potenza dei Fiorentini era tale che ci vorrebbe assai grande numero di genti d’arme, e pecunia molta; delle quali cose difettava. Così all’infuori di lettere e di messi, dei quali in Firenze non tennero conto, altro non fu: e Gino Capponi scrive, che dubitando il Maresciallo non gli venisse ordine di levare dal soldo dei Fiorentini quanti erano uomini a lui sottoposti, avvisò fossero questi ricondotti con giuramento di non partirsi per comandamento che ne avessero; il che si fece tosto per pubblico consentimento del Maresciallo: ma questi afferma che dei Francesi molti si partirono per non cadere nella disgrazia del Duca e dei signori di quella Corte. Dichiara inoltre, che il Re avendo rotto l’accordo fatto prima coi Fiorentini, erano questi verso lui disciolti da qualunque obbligo o promessa. Gli ambasciatori mandati in Francia furono ivi ritenuti, ma più mesi dopo senz’altro aggravio liberati.[117]

A questo modo era passata la cosa infino a mezzo settembre: allora Giovanni Gambacorti essendo tornato al pensiero dell’accordo, mandava nel campo un altro suo uomo, Bindo delle Brache, il quale di notte segretamente era ammesso nella casa dove alloggiavano i Commissari Gino Capponi e Bartolommeo Corbinelli, che l’uno e l’altro erano dei Dieci. Sapevano essi che Pisa bentosto caderebbe per la fame; dal che era segno, tra molti altri, che Bindo veniva sempre digiuno, e dopo cenato avrebbono voluto egli ed il compagno portar seco qualche pane; ma Gino diceva: [109] «portatene in corpo quanto volete, chè altrimenti non ne avrete tanto che vi tenga in vita pure un centesimo d’ora.» Ma benchè avessero quella sicurezza, pensavano pure che ad acquistare Pisa per assedio si penava qualche dì di più; il quale indugio avea pericoli, e che la città sarebbe andata a sacco senza rimedio: quindi parve loro tornasse al Comune più conto averla salva e buona, che guasta e deserta. Fermarono i patti, dei quali Gino era andato a conferire co’ Dieci a Firenze: i patti furono, che messer Giovanni desse in mano de’ Commissari la cittadella ed i contrassegni delle rôcche; avesse fiorini tremila d’oro e la signoria di Bagno, per la quale fosse egli raccomandato al Comune di Firenze; gli rimanessero le isole di Capraia, della Gorgona e del Giglio, e per Andrea Gambacorti la rôcca di Sillano; tutti fossero cittadini di Firenze, nella quale avessero tre case, e fossero esenti da gravezze e gabelle nè potessero per debiti essere costretti: in benefizio dei Pisani non si scrisse nulla. Per l’esecuzione dei quali patti se gli doveano dare venti statichi, i quali stessero dentro alla rôcca di Ripafratta nelle mani di messer Luca del Fiesco capitano delle genti fiorentine, e di Sforza e del Tartaglia condottieri. I venti erano giovani delle principali case di Firenze, tra’ quali Cosimo dei Medici e Neri Capponi figlio del Commissario, che l’uno e l’altro toccavano appena l’anno diciottesimo. I Commissari, i Capitani e i Condottieri si radunavano quindi alla Casa Bianca sulla riva d’Arno a fine di consigliare il come ed il modo (nel caso che Pisa si avesse per patti) d’entrarvi senza che ella andasse a ruba ed a sacco. Nel che differivano, tra loro sempre mali amici, Sforza e il Tartaglia; chè l’uno voleva s’entrasse in Pisa per la porta dei Prati, come in luogo più largo e meno facile alle offese, e l’altro per quella di San Marco giù per il Borgo. Grande era la contesa tra’ Capitani, quando Gino levatosi disse: «voi [110] ci avete alcuna volta dato ad intendere di vincere Pisa per forza, e ora che noi vi facciamo aprire qual porta voi volete, e voi dubitate: avete paura voi di gente assediata ed affamata? non più novelle, noi vogliamo che s’entri per San Marco, e date modo ciascuno di voi che s’entri come se si dovesse entrare in Firenze, o il difetto de’ vostri uomini porteranno le persone vostre.» Alle quali parole, uno dei condottieri Franceschino della Mirandola avendo risposto: «voi ci fate un aspro comandamento e stretto; ma se il popolo contra noi si levi, non volete voi che s’entri a ogni modo?» Gino a fatica gli lasciò finire le parole, e con impeto e furia se gli volse e disse: «Franceschino, Franceschino, se il popolo si rivolgerà, noi vi saremo come tu, e comanderemo e a te e agli altri quello che sia da fare; e non ci andare più tentando o rompendo il capo, chè noi vogliamo che si faccia quanto per noi v’è comandato.»

Andò a Firenze allora Gino, e parlò prima co’ Dieci e co’ Signori soli; poi ai Signori ed ai Collegi disse: «Magnifici Signori, Iddio ha permesso che Pisa venga alla vostra signoria; ed essa è in tanta necessità delle cose da vivere, che pare a noi essere certi che voi l’avrete in venti dì, come siamo certi d’avere a morire: ma così accadendo non veggiamo come la terra non vada a saccomanno, con le arsioni e ruberie e adulteri che a quello seguitano. Ma voi potete averla per patti: sta ora alle Vostre Signorie a pigliarla per uno de’ due modi, qual più v’aggrada; che se a patti eleggerete volerla, l’avrete senza lesione alcuna nè ruberie o altro atto disonesto: e nel cospetto di Dio ne acquisterete merito, ed appresso le strane genti perpetua fama.» Sulle quali cose tenuto Consiglio, unitamente dissero a voce viva volerla per patti. E dipoi messa a partito tra’ Signori, Collegi e Dieci, di quarantasette ch’erano a sedere vi fu quarantasei fave nere ed una bianca. Al che tutti gridarono ad [111] una voce: rimettasi un’altra volta, acciocchè si possa dire essere stati tutti d’una volontà e che nessuna ce ne sia bianca; e così fatto, trovarono essere tutte le fave nere.

Allora Gino tornò in campo, e sottoscrisse l’accordo; gli Statichi giunsero da Firenze agli 8 d’ottobre, i quali doveano essere posti sotto la guardia dei Capitani in Ripafratta perchè si potesse ire a pigliare la tenuta della città; se non che i giovani malvolentieri vi andavano, che avevano gran voglia d’essere all’entrata in Pisa: del che ebbero grazia, avendo Gino e Bartolommeo promesso per loro si costituirebbero il dì seguente, e i Capitani se ne fecero debitori al Gambacorti. All’alba del giorno 9 di ottobre 1406, digià essendo per alcune centinaia di fanti occupata la porta San Marco, ciascuno del campo fu a cavallo, e ordinate le schiere con le bandiere spiegate del Giglio e di Parte guelfa, e con gli stendardi del Capitano e dei condottieri, giunsero al levare del sole in sulla porta di Pisa, dov’era messer Giovanni Gambacorti con un verrettone in mano, il quale pose in mano a Gino e disse: «questo vi dò in segno della signoria di questa città, la quale è il più bel gioiello ch’abbia l’Italia; e me di quello che abbia a fare avvisate.» Seguirono oltre tanto che giunsero in piazza, dove il capitano Luca del Fiesco armò cavaliere Iacopo dei Gianfigliazzi che teneva l’insegna del Giglio: fu fatta gran forza dello stesso anche a Gino ed a Bartolommeo, ma non vollero. Era la piazza gremita di fanti e di cavalli, che non vi si capiva; donde sfilarono tutte le brigate armate, e andarono per la città pigliando lungo cammino. I cittadini maravigliati si facevano alle finestre, che pochi aveano prima saputo di quell’entrata: vedevansi gli uomini e le donne smunti e quasi paurosi guatare. Alcuni dei soldati avevano recato pani di campo, e ne buttavano dove avessero veduti assai fanciulli alle finestre, i quali si [112] gittavano a quel pane come uccelli rapaci; ed i fratelli insieme si azzuffavano, e mangiavano con tanta rabbia che a vederli era una pietà. Poi venne in Pisa, com’era dato l’ordine, pane e farina in buona quantità; e ogni cittadino che poteva, corse non guardando a prezzo; fu detto che molti per mangiare con troppa rabbia, nè credendo mai torsi la fame, morissero. Non si trovò in Pisa grano nè farina; solo vi era un poco di zucchero e un po’ di cassia e tre vacche magre; ogni altra cosa v’era mangiata per necessità insino a corre l’erba delle piazze e seccarla e farne polvere e poi focacce; il pane che mangiavano i Priori era di lin seme. Bartolommeo da Scorno aveva comprato un quarto di staio di grano che pesava libbre diciotto e pagato fiorini diciotto d’oro larghi. E la mattina dell’entrata sentendo ciascuno potere avere del pane mandò per un sacco del detto pane, il quale nella sala di casa gittato innanzi alla famiglia sua ch’era di trenta bocche, i fanciulli gridarono: Babbo, ne avremo noi anche a merenda? tanto erano usi a patir la fame.

Tornati in piazza, i Commissari entrarono in palagio dov’erano i Priori a piè delle scale, i quali a Gino ed a Bartolommeo diedero le chiavi delle porte della città, e Neri di Gino per giovanile allegrezza le prese in mano. Furono i Priori fatti ritrarre, e di palagio si partì ognuno, salvo i Commissari con le brigate loro; e le bandiere del Comune di Firenze furono appiccate alle finestre del palagio. Al che Gino, ricordandosi d’una bandiera che i Pisani aveano tolta sul principio della guerra e che trascinata a vitupero per la città era indi stata posta a ritroso nel Duomo di Pisa; mandò ivi a rialzarla e poi con grande compagnia e festa di trombetti recarla in palagio, dove fu con le altre posta alle finestre. Mandarono quindi trecento cavalli a pigliare le castella del contado di Pisa, delle quali niuna fece resistenza, e tutte le terre mandarono in Pisa a fare le debite sommissioni.

[113]

Gino allora volendo rassicurare gli animi dei cittadini, ai quali pareva un miracolo che la terra non fosse ita a sacco, e non potevano credere che ella ancora non andasse, tal che la mattina le robe si davano per la metà della valuta; mandò per tutti i più notabili cittadini, e raunati nella sala del Palagio, si levò e disse queste parole che ognuno intese: «Onorevoli cittadini, noi non sappiamo se pe’ vostri peccati o pe’ nostri meriti Iddio vi abbia condotti sotto la signoria del nostro Comune, la quale con grandissimi spendii e con grandissima sollecitudine abbiamo acquistata; e per le vostre discordie questa vostra città è ridotta in tali termini, che infino che la città di Firenze non diminuisse, ogni volta saremo atti a conquistarvi di nuovo; e nonostante questo, siamo in animo disposti con ogni sollecitudine conservare l’acquistato, con morte e con perpetuo sterminio di chi tentasse il contrario. E quando voi penserete delle cose passate, e quante volte voi siete stati cagione di mettere la nostra città in pericolo della sua libertà, conoscerete voi essere stati ricettacolo di qualunque è voluto venire in Toscana, e colla compagnia degli Inghilesi fatto ardere e dibruciare i nostri contadi, intesovi coi Visconti di Milano, ed a loro dato ogni aiuto e favore per offendere e sottomettere la nostra città, infino a patire voi d’essere venduti a messer Giovan Galeazzo, e sopportare la sua signoria per offendere noi: e così molt’altre offese e ingiurie potremmo raccontare. Ma perchè a voi sono benissimo note, le trapasserò. E per rispetto delle quali vedrete che il nostro Comune non poteva fare di meno che s’abbia fatto, a volere vivere sicuro di suo stato; nè a voi debbe dispiacere tale signoria, perocchè i nostri magnifici ed eccelsi Signori ci hanno comandato, che con ragione e giustizia noi vi governiamo fino a tanto ch’altri manderanno al vostro governo: e già per effetto potete avere veduto, che avendovi noi vinti per assedio, ch’eravate [114] ridotti in tanta estremità che vi conveniva o morire di fame o aprirci le porte in questi tre giorni, e questo a noi era benissimo noto. Ma noi piuttosto abbiamo voluto fare cortesia a messer Giovanni Gambacorti di fiorini cinquantamila per avere la città con patti, acciocchè con ragione si sia potuto rimediare che non siate iti a sacco; chè se avessimo aspettato e non voluto concordia, noi avevamo la città, e i soldati il sacco, il quale dicono che di ragione non debbe essere loro vietato: e voi avete veduto che non altrimenti sono entrati dentro, che se religiosi stati fussono; chè solo una minima ruberia o estorsione non s’è inteso che sia stata fatta ad alcuno. Del che certo noi medesimi ce ne rendiamo grandissima maraviglia, che qualche scandalo non sia nato alla moltitudine grande della gente che ci è; e non altrimenti che se nella propria città di Firenze avessimo avuto a fare la mostra, e con molta più onestà si sono portati, che quivi non arebbono fatto: chè, se altrettanti frati osservanti ci fussono entrati, più scandalo certo ci sarebbe stato. La cagione perchè al presente noi vi abbiamo qui raunati, principalmente si è per confortarvi della Signoria del nostro Comune, dalla quale non secondo l’opere fatte per voi pel passato contro a quello, ma siccome buoni figlioli sarete benignamente trattati. Appresso, per rendervi sicurtà, che voi e ogni altro vostro cittadino stia sicuramente, e che di niente dubiti, nonostante alcun delitto o eccesso o bando per qualunque cagione, o commesso da oggi indietro, ed etiam nonostante alcun patto fatto con messer Giovanni, de’ rubelli ch’egli ha voluto per patto (il quale patto di ragione non procede, come a luogo e tempo sarete avvisati). E se a nessuno fosse fatta cosa alcuna non dovuta, venga sicuramente a dolersene, e così vi comandiamo, e vedrete che per effetto se ne farà tale punizione che sia esempio ad ognuno, e non fia sì piccola ingiuria, che le forche quali abbiamo [115] fatte rizzare in più luoghi per la città, e i ceppi e mannaie che già in sulla piazza sono in punto, si adopreranno contro a chi facesse quello che non dovesse. E a questi Capitani e Condottieri che ci sono, abbiamo comandato, che se di loro brigata alcuno farà cosa non dovuta, la imputeremo fatta da loro propri, e che alle proprie persone daremo quella medesima punizione che meriterebbe chi commessa l’avesse; sicchè state di buona voglia, e di niente dubitate. Vogliamo eziandio che le vostre botteghe e d’ogni altro s’aprano, e che attendiate a fare le vostre faccende, traffichi e mercatanzie sicuramente sopra di noi. Crediamo ancora che sia utile, che voi provvediate di mandare a’ piè de’ nostri eccelsi Signori una solenne ambasciata con pieno mandato a riconoscerli per vostri signori; e bench’essi sieno disposti benignamente verso di voi, pure tale andata fia cagione di confermarli nel loro proposito: e anche potrete loro raccomandarvi della riforma, che al presente si ha a fare di questa città; del che non può essere che utilità grandissima non ve ne segua.»

Finito che Gino ebbe di dire, si pose a sedere; al quale, com’era prima ordinato, un Bartolo da Piombino rispose parole (un Pisano non avrebbe) di abietta sommissione, di pentimento delle offese fatte alla Repubblica di Firenze, e di smaccata gratitudine perchè la città non fosse andata a saccomanno. Questa lunghissima diceria irta di testi latini, ripigliando le parole che Gino avea dette, esortava nominare gli ambasciatori i quali andassero ai Signori di Firenze con pieno mandato a fare umili raccomandazioni circa l’assetto che ai sopradetti Signori piacesse dare a questa loro città di Pisa. E dopo ciò, fatto suonare a parlamento, furono eletti venti ambasciatori tra cavalieri, dottori e capitani i più onorevoli che avesse la città, i quali andassero a rappresentarsi ai Signori. Gino fu eletto Capitano di Pisa per otto mesi, e Bartolommeo [116] Corbinelli Potestà per sei, i quali avessero il governo;[118] quindi a ordinare tutte le cose e dare forma al nuovo acquisto elessero dieci, i quali furono chiamati i Dieci di Pisa.

Non è da dire se a Firenze, tosto che seppero la novella, fosse gran festa. Tre sere fecero fuochi in città e nel contado, tre dì processioni e rendimenti di grazie a Dio nel maggior Tempio. Mandarono avvisi per tutta Italia; e dai Signori in accomandigia e dai vicini e dagli amici vennero ambasciate a congratularsi col Comune. Celebrarono in sulla piazza di Santa Croce una ricca giostra, un’altra ne diede il Signore di Cortona venuto in Firenze, un’altra fu a spese dei Capitani di Parte guelfa. Grande lo sfoggio della magnificenza negli abbigliamenti delle donne, e gli statuti contro al lusso non mai furono osservati meno:[119] era Firenze in sul colmo allora d’ogni opulenza e felicità. Molto anche si tenne onorata di quel celebre volume delle Pandette di Giustiniano, che aveano i Pisani portato da Amalfi tre secoli prima per concessione di Lotario imperatore, e Gino Capponi recava in Firenze:[120] il quale volume sebbene non fosse (come fu creduto lungamente) solo in Italia a risuscitare ne’ tempi d’Irnerio lo studio delle Romane leggi, fu però tra’ pochissimi esemplari tenuti siccome testi autorevoli del diritto. Quindi riporlo negli armarii loro parve a’ Fiorentini premio tra’ più nobili della vittoria conseguita, siccome ai Pisani venirne spogliati fu [117] lungo dolore, nè d’altro si tennero ingiuriati maggiormente, nè più abbassati nella opinione degli uomini allora volti agli studi d’erudizione e alla ricerca d’antichi Codici. Oltre alle Pandette, vennero in Firenze certe Reliquie tenute in grande venerazione dai Pisani. Questa pratica del togliere alle città vinte le reliquie dei loro Santi non era nuova ai Fiorentini; avea recato d’Arezzo in Firenze Donato Acciaioli quella di San Donato: intorno a che uno storico non si dimentica classicamente di ricordare la simile usanza che aveano i Romani, che non lasciarono se non per obbrobrio ai Tarentini gli Dei sdegnati.[121]

Quindi con grande sollecitudine si diedero in Pisa a fabbricare fortezze in più luoghi, bene avveggendosi fin d’allora quella essere la sola via d’assicurarsene. Oltreciò ritennero gli ambasciatori in Firenze, dove obbligarono trasferirsi quanti erano in Pisa cittadini di più conto sia per le ricchezze, sia per il grado e pel valore. Andavano a Pisa dalla Signoria le liste di quelli ch’erano da levare, o soli o con le famiglie loro; condotti a Firenze, era ordinato si rassegnassero ogni mattina al Potestà. Viveano, secondo scrive Giovanni Morelli, decorosamente mesti, e praticando coi Fiorentini mostraronsi bella ed onorata cittadinanza: ma il Capponi, perchè fu lento alla esecuzione del duro comando e alle preghiere cedeva, ebbe rimproveri molto acerbi. Sinchè le fortezze fossero compiute, cercavano Pisa rimanesse vuota quanto più fosse d’abitatori; temeano scendessero nella città i contadini in troppo gran numero, e vi abbondasse la vettovaglia più che non facesse alla necessità giornaliera.[122] [118] Non poche famiglie delle maggiori avevano spatriato, le più a Napoli ed in Sicilia, dove illustri casate ritengono sempre nomi che furono di Pisana origine. Col venir meno i capitali, co’ ceppi a’ commerci, con la oppressione delle leggi, con l’impaludamento di quelle pianure, la nobile Pisa cadde in miserabile fortuna: si trovano privilegi dati a tedeschi mercatanti, i quali vi andassero siccome in vuota città a esercitare le industrie loro.[123] Ma ciò non bastava; e la paura facea crudele contro ai Pisani la Repubblica di Firenze più anni ancora dopo la conquista.[124] Le istorie di Pisa cessano al cadere della indipendenza. Un Cronista pisano di quegli anni i quali corsero fino alla disperata ribellione del 1494, nulla registra fuorchè i nomi dei castellani e poche altre cose: due volte sole sente allegrezza quando la peste, vendetta di Dio, colse da prima i Genovesi e i Fiorentini dipoi;[125] città infelice, più non viveva che agli odii memori de’ suoi danni.

Quello ed il precedente anno aveano in Italia veduto private della indipendenza loro tre illustri città, Pisa, Verona, Padova; i novelli Stati già cominciavansi a comporre, e già la struttura interna d’Italia andava a quella abortiva forma d’onde uscì guasta la vita nostra. Ma la Repubblica di Venezia, siccome più forte, trattava i sudditi anche delle città grandi con più sapiente dignità, e questi a lei tennero fede costante; Pisa e Firenze non seppero altro che farsi male, spettacolo empio tra due popoli vicini. Ma era guerra disuguale; dappoichè Pisa tutta vivendo sulle marine, avea perduto con la signoria di queste l’antica [119] possanza; nè un popolo ghibellino trovava favore tra gli altri popoli dell’Italia, dov’egli si stava come disagiato: avvenne poi che Firenze avesse da oltre cento anni maggiore ventura di forti uomini e d’ingegni. L’acquisto di Pisa non bastò a comporre la Toscana, ma diede a Firenze la sicurezza di sè medesima e de’ suoi traffici: la Repubblica avrebbe però d’allora in poi abbisognato, col farsi più grande, di migliori ordini a frenare le private cupidigie e le ambizioni fatte più audaci. Scrive Gino Capponi ne’ suoi Ricordi, come i savi uomini di Firenze avessero preveduto innanzi l’acquisto, che la grandigia e riputazione de’ cittadini del Reggimento, cioè di quei pochi nei quali stava, sarebbe mancata; ma chi ne fu operatore (aggiunge egli, a sè accennando) ebbe riguardo al bene universale. Se vero bene fosse non so, ma era necessità; era di quelle necessità che le passioni a sè stesse fanno, e sulle quali, perchè rivengono quasi uniformi nei casi simili, fonda i suoi calcoli la politica, e la storia i suoi canoni. Certo s’ampliarono i commerci ed il largo vivere, le possessioni dei Fiorentini parvero essere più sicure: queste che si trovano ammontare a venti milioni di fiorini d’oro, e i capitali sul Monte presso che a cinque milioni, crebbero il quarto dopo avuta Pisa.[126] Ma crebbero anche le imprese fuori e le spese dentro; e insieme con esse quelle civili disuguaglianze che sono perdita della libertà.

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Capitolo V. CONCILIO DI PISA. — GUERRA CON LADISLAO RE DI NAPOLI. ACQUISTO DI CORTONA E DI LIVORNO. [AN. 1407-1421.]

Cento anni prima sarebbe stata quella vittoria dei Fiorentini tenuta vittoria del popolo guelfo per tutta Italia; ma ora l’Italia nemmeno sapeva più essere guelfa: divisa la Chiesa per la continuazione dello scisma, e il nome dei Papi e quello di Roma caduti sì al basso, che un Re di Puglia credette aggiugnere ai suoi dominii quella città come finitima e vacante, senza che Italia se ne risentisse. Era il giovine Ladislao, che avendo respiro dagli Angiovini di Provenza e vago d’imprese, poichè gli falliva quella d’Ungheria, perduto retaggio della famiglia del re Roberto, si voltò a Roma ed all’Italia. Avendo suoi complici i Colonna ed i Savelli, possenti baroni, attizzava le discordie allora continue tra Innocenzio VII che aveva il Vaticano, ed il popolo di Roma il quale teneva secondo i patti il Campidoglio. Attorno stava con le sue genti il Re che aveva pure tentato d’occupare la città, ma ributtato popolarmente per aspra battaglia, vidde frustrati i suoi disegni fino alla morte del Papa, la quale avvenne sulla fine di quell’anno 1406. A lui successe Angelo Corraro veneziano, che si chiamò Gregorio XII; ma era elezione condizionata a che dovess’egli immediatamente praticare si radunassero i due collegi per la cessazione dello scisma; e dove non fosse per tale modo egli confermato papa, lasciasse la tiara, della quale si tenesse frattanto custode o solamente procuratore. Di ciò in Firenze abbiamo autentico documento; ma la Repubblica si era un poco intinta con quel di Avignone, e quindi per altre più strette cagioni s’allontanarono da Gregorio. [121] Aveva egli fin dai primi giorni scritto lettere a Benedetto, e Benedetto a lui, perchè tra essi e tra’ Cardinali di ambe le parti un convegno si fermasse, il quale dopo assai lunghe pratiche fu appuntato in Savona: e Gregorio si partiva da Roma e chiese venire in Firenze, ma dalla Repubblica schivato con belle parole, si fermò in Siena. Quivi a lui furono ambasciatori di molti Principi, e chi l’una cosa e chi l’altra gli diceva: Gregorio prestava orecchie facili a coloro che a lui mostravano il gran rischio di porsi in Savona sotto la mano del Re di Francia e dell’Antipapa suo; chiedea guarentigie e difese che bastassero: intanto però si mosse e venne fino a Lucca, mentre Benedetto era disceso in Porto Venere. Così da vicino era un andare e venire, e uno scambiarsi di condizioni poste all’accordo, che lo rendevano ogni dì più arduo; perchè nelle pratiche, se l’uno si accostasse, l’altro si scostava; e le due parti, anzichè intendersi, viemaggiormente si dividevano.

Allora s’udiva come Ladislao con forte esercito assalita Ostia e andato poi contro a Roma stessa, era ivi entrato con intelligenza di Paolo Orsini che in nome del Papa tenea la città, mostratosi connivente lo stesso Legato che venne a Lucca senz’altro dire. E Bucicaldo in que’ giorni stessi avea nel porto di Genova armate tredici galere, a qual fine s’ignorava; le quali uscite, mentre aspettavano in Porto Venere il mare propizio, giunse la novella che Ladislao era entrato in Roma: al che tosto le galere tornarono in Genova, scoprendosi allora o almeno essendo tenuto per certo l’intendimento che Bucicaldo avrebbe avuto di collocare colle armi sue Benedetto in sulla cattedra di San Pietro. Certo è però che Gregorio in Lucca approvò il fatto di Ladislao più che col silenzio, e ne mostrò allegrezza, rompendo in quel punto i negoziati, ed a viso aperto dichiarando sè essere solo e vero Papa. I Fiorentini di tal mutazione accusavano un concittadino [122] loro, Giovanni Dominici, che era l’anima de’ suoi consigli: a tutti riusciva quella caparbietà troppo nuova in uomo già vecchio e tenuto fino allora di mite natura, senza orgoglio nè ambizione, pel quale concetto lo avevano scelto. Ma il grado assunto e la controversia lo aveano mutato, e la persuasione del diritto in lui radicata pigliava calore e tenacità di fede; nella quale si venivano a travestire la compiacenza dello imperare gustato, e l’insofferenza d’umiliarsi in faccia ai men degni dopo le scambiate contumelie, facendosi come traditore della parte che intorno a lui s’era andata formando e che a resistere lo incitava. Dichiarò a un tratto volere fare altri quattro Cardinali; il che da coloro che stavano seco si gridava essere contro la solenne promessa data: non vi badò, e fece i Cardinali nuovi, tra’ quali era il Frate Giovanni Dominici, ed un altro pure fiorentino Fra Luca Manzuoli della regola degli Umiliati, vescovo di Fiesole.[127] Vietò agli antichi uscire da Lucca, e a Paolo Guinigi signore della città faceva istanza non gli lasciasse; ma i Cardinali, tutti fuorchè uno, deliberati di abbandonare Gregorio, trovarono modo di condursi a Pisa;[128] e quei rimase con cinque soli, mentre al maggiore numero che da lui s’erano separati, altri si vennero ad aggiugnere di quelli che stavano in comunione con Benedetto. Il quale poichè in grande sinodo nazionale la Chiesa di Francia gli aveva tolta l’ubbidienza, non si tenendo più sicuro nella riviera; montò con pochi suoi aderenti in sulle navi, prima fuggitosi in Perpignano, poi a stabile residenza in un monastero dell’Aragona patria sua. E i Cardinali [123] delle due parti, dopo lunghe conferenze avute in Livorno, deliberarono insieme aprire un Concilio, al quale chiamarono in Pisa pel giorno 25 di marzo del prossimo anno 1409 i vescovi e il clero da ogni parte della cristianità, scrivendo ai Principi con invitazione di farsi in quello rappresentare, affinchè avesse autorità d’universale consentimento. La Repubblica non senza contrarietà di consigli, e dopo aver procurata consultazione solenne di quanti erano in Firenze dotti e maestri ne’ sacri canoni, diede licenza si radunasse in Pisa il Concilio, pel quale si vidde stare la coscenza del mondo cristiano; e a’ Fiorentini parve che fosse «restituire la Chiesa in quello che prima l’avevano offesa, avendone grazia appresso a Dio e onore del mondo e fortezza dello Stato.[129]» Questo pensare, ch’era nel popolo, reggeva l’animo dei potenti, offrendo un mezzo a contenere le ambizioni di Ladislao che minacciavano la Toscana.

Era palese oramai l’accordo tra questo Re e Gregorio papa. Aveva quegli invidiosamente chiesto ai Fiorentini il passo per due migliaia delle sue genti, che in Lucca andassero a tutela del Pontefice. Al che si negava la Repubblica, ma diede scorta a Gregorio di soldati, quando da Lucca si recò in Siena, ritrattosi quindi più tardi a Gaeta: ma in Siena, dov’egli creò altri nove Cardinali, fu detto avere al Re concessa l’occupazione delle terre della Chiesa, questi avendogli somministrato ventimila ducati d’oro, dei quali il Papa aveva necessità per proprio suo sostentamento. Vedeano pertanto i Fiorentini sè in odio al Re per il Concilio chiamato in Pisa, e distendendosi le armi sue da tutta la Marca sino ai confini della Toscana, ben prevedevano si volterebbero contra loro. A lui mandarono prima in Roma ambasciatori; ed egli essendo tornato in Napoli, altri ne inviava alla [124] Repubblica.[130] Cercava il Re trarre seco in lega i Fiorentini, che rifiutarono pertinacemente: bene usando parole amiche, giustificaronsi del favore prestato al Concilio, da lui richiedendo lasciasse andarvi i prelati del suo regno; e tra’ motivi del permesso dato, mettevano quello d’evitare che se il papa in altro luogo si eleggesse, ne uscisse un papa oltramontano. Mostrarongli anche certa segreta scritta che i Cardinali avevano fatta obbligandosi di conservarlo, qualunque di loro divenisse papa, nella possessione del regno di Napoli. A questo rispose Ladislao, che i suoi prelati non manderebbe al Concilio, e della scritta dei Cardinali si curava poco, dicendo com’egli fuori del Reame teneva Roma ed altre terre che non voleva lasciare. In quanto a Roma, gli ambasciatori consentivano la ritenesse; ma si dolevano di Perugia, siccome avvìo alle cose di Toscana, circa le quali parlarono alto. Era tra essi Bartolommeo Valori, uomo d’assai grande estimazione nella città; il quale al Re, che gli domandava con che genti si potrebbono difendere avendo egli la maggior parte dei capitani d’Italia a soldo, rispose: con le vostre medesime; bastava pagare più grossa moneta, che alla Repubblica non mancava.

A questo modo si separarono; ed il Re moveva da Perugia, recandosi prima nelle terre dei Senesi, facendo gran pressa con belle parole per avergli seco. Ma i Senesi quella volta tennero il fermo, e furono anzi più franchi assai e più efficaci nel resistere dei Fiorentini. Al Re andarono altri ambasciatori, e ne mandava egli in Firenze; ma poichè vidde nulla ottenere, voltando il passo, fece impeto nelle terre della Repubblica. Prima ebbe tentato Arezzo; ma ritrovatolo [125] ben difeso, andava per tutta la Valdichiana dando il guasto alle ricolte senz’altro fare, talchè per dileggio dai contadini era appellato il Re Guastagrano. Aveva Cortona mutato signore, l’antico essendo stato ucciso da un altro dei Casali, che i Fiorentini pure cercavano di mantenere incontro al Re;[131] ma il popolo di Cortona, facendo giustizia del nuovo Signore, lasciò entrare nella città i soldati di Ladislao: il Commissario fiorentino, andato al soccorso, rimase prigione con le sue genti; ed il Casali finiva in Puglia sotto dura guardia. Vennero allora ambasciatori dei Veneziani a interporsi per la pace, cui le due parti si rifiutarono: la guerra però non ebbe seguito per allora, il Re essendo tornato in Napoli ed i Fiorentini stando contenti alle difese. Aveano fatta sul mare perdita d’una grossa nave, la quale portava le lane d’Inghilterra ed altre merci per grandissimo valsente, predata all’entrare del Porto Pisano. Il che essendo riuscito danno gravissimo ai commerci, la Repubblica più attendeva con ogni industria a provvedersi di navi sue, delle quali era dato il comando a un Andrea Gargiolli nato in Firenze da un ser Nardo notaio da Settignano. Cercavano anche di voltare al mare le braccia del basso popolo dei Pisani, ai quali era imposto tenere ciascuno in casa un remo, da essere chiamati a ogni bisogno sulle galere.[132]

Al giorno dato si radunava in Pisa il Concilio, nel quale sederono ventidue Cardinali, quattro Patriarchi, novantadue Arcivescovi o Vescovi presenti, e più che altrettanti avean mandato Procuratori; ottantasette Abati, i Generali e Priori di molti Ordini religiosi, i Deputati di tredici Università, e grande numero di Maestri in teologia. Gli ambasciatori del Re di Francia, d’Inghilterra, di Sicilia, di Polonia, d’Ungheria, di molti Principi e Repubbliche e del Popolo Romano: [126] vi andarono quelli di Roberto imperatore, e gli inviati di Ladislao che prima stavano per Gregorio, da lui essendosi anche i Veneziani separati, tranne i diocesani d’Aquileia dov’egli fu Patriarca. Solo in Italia che fino all’ultimo gli aderisse fu il Signore di Rimini Carlo Malatesta, per la prodezza nelle armi e per l’ingegno chiaro fra tutti allora i Principi dell’Italia: gli ambasciatori del Re d’Aragona, venuti a protestare per Benedetto, se ne andarono dileggiati dal popolo dei Pisani, allora un poco risollevati per l’affluenza di tante genti e di tanta signoria. Dopo avere nei mesi d’aprile e maggio dichiarato quello essere universale Concilio e ordinatone il procedimento, citati avendo a comparire innanzi ad esso i due contendenti; a’ 5 di giugno nel Duomo di Pisa, ed in presenza di molto popolo, pronunziarono ambedue essere decaduti d’ogni potestà, e per l’ostinata resistenza chiariti scismatici e fuori della Chiesa: dissero il Concilio stare in permanenza fino a che non fosse eletto un nuovo Papa, il quale dovesse continuarlo per la forma della Chiesa. Indi a’ 15 dello stesso mese si formarono i Cardinali in conclave, ed ai 26 elessero papa Pietro Filargo da Candia arcivescovo di Milano, che pigliò nome di Alessandro V: si tennero altre poche sessioni sotto la presidenza del nuovo Papa; ma poichè molti dei Padri s’erano dipartiti, pronunziava quegli la dissoluzione del Concilio, il quale dovesse in tre anni radunarsi per altra nuova intimazione.[133]

Di quella ardita e affatto insolita risoluzione che il Collegio dei Cardinali avea pigliata, motore primo fu il cardinale Baldassarre Cossa napoletano, che molti anni era stato uomo di guerra e di mare, fiero nemico a Ladislao. Il nuovo Papa era pur egli avverso a quel Re: sappiamo, quand’era arcivescovo di Milano, [127] avere negato, solo egli tra’ Cardinali, sottoscrivere la carta per la quale promettevano di mantenere Ladislao nel Regno.[134] Con esso avevano fatto lega i Fiorentini, ed a lui molto aderiva quella parte per cui reggevasi la città: chiamarono insieme di Provenza Luigi d’Angiò; il quale disceso con piccole forze in Pisa mentre ivi sedeva il Concilio, ebbe dal papa Alessandro l’investitura del Regno di Napoli e il Gonfalone di Santa Chiesa; ma sebbene avesse poche navi, la Repubblica non permise entrasse nel Porto che con una sola.[135] Muovevano insieme l’Angiovino ed il Cossa, Legato in Bologna, e il Capitano dei fiorentini, per Val di Chiana in verso Roma; e il Papa intanto, per timore della peste che in Pisa era entrata, venne a Prato, indi a Pistoia, soggiornato ivi alcuni mesi. Era in Toscana per Ladislao il Conte di Troia; il quale veduto appressarsi tante genti, si ritrasse infino a Roma, qui afforzandosi col favore di molti dei Principi romani i quali stavano per il Re. Castel Sant’Angelo riteneva sempre la bandiera della Chiesa e da quel lato Paolo Orsini, ch’era pagato dai Fiorentini, apriva l’entrata alle genti della Lega. Tentarono vincere il Ponte Sant’Angelo e farsi padroni del grosso della città ch’era chiamato la grande Roma; d’onde ributtati con molta perdita e non si credendo avere forze bastanti, il re Luigi ed il Legato si partirono; questi recatosi presso al Papa, e quegli in Francia a levare genti, per indi tornare a primavera con maggiore oste e con migliore fortuna.

Intorno a Roma stavano sempre Paolo Orsino e il Capitano dei Fiorentini Malatesta dei Malatesti signore di Pesaro. Questi, passato il Tevere, si cercava un adito nella città dall’opposto lato, ma senza utile, perchè i [128] paesani gli stavano contro e la città era ben guardata; infinchè l’Orsino con l’intelligenza d’un popolano di nome Lello, che levò il popolo a rumore, vi potè entrare nei giorni ultimi di quell’anno 1409: e tosto dopo da un’altra porta vi fece ingresso il Malatesta con le insegne spiegate del Giglio; di che a Firenze molto si tennero onorati, perchè i Romani da principio volevano entrasse con le insegne della Chiesa. Avuta Roma, credeva ciascuno che il Papa v’andasse; del che i Fiorentini a lui facevano grande istanza: ma tale non era il volere del Legato, che in tutto guidava l’animo del Papa, e lo condusse in Bologna; dove rimasero a malgrado le supplicazioni di tutto il popolo dei Romani, finchè nel maggio del 1410 venuto a morte Alessandro V, a lui si fece eleggere successore lo stesso Legato col nome di Giovanni XXIII; uomo capace del sommo grado, se quello di Papa fosse da tenere con le arti profane ch’erano pessime a quel tempo. Aveva già di prima il Cossa in Bologna come un principato suo, ampliato in Romagna con la oppressione di quei piccoli Signori che dominavano le città. Di là dirigeva le mosse nella Marca e negli Abruzzi: e già navigando verso Italia il re Luigi con grandi forze, parea la guerra molto più valida riaccendersi. Ma le galere di questo, divise con poco accorgimento ed incontratesi presso allo scoglio della Meloria con tutta l’armata di Ladislao, furono disperse e molte prese, mentre Luigi s’era già venuto a porre in sicuro dentro al porto di Piombino: l’Isola d’Elba era caduta in mano anch’essa di Ladislao. Ciononostante potè Luigi con molti indugi condursi a Roma nell’ottobre di quell’anno.

Aveva un esercito fiorentissimo di capitani i più famosi di quella età: nel principio della guerra lo seguitava il grande maestro ed istitutore delle italiane milizie Alberico da Barbiano, il quale essendo venuto a morte presso Perugia, rimanevano i due più famosi tra’ suoi discepoli, Sforza Attendolo da Cotignola e [129] Braccio da Montone perugino, che lungamente poi divisero le armi italiane. Allora stavano ambedue nell’esercito del Provenzale: Braccio era ai soldi dei Fiorentini, prestata avendo l’anno innanzi opera egregia in Valdichiana. Sforza viveasi male soddisfatto e malfermo nella fede verso il re Luigi, le paghe facendo spesso mancamento a lui come agli altri capitani della Lega, cosicchè il pondo di tutta la spesa per lo più cadeva sulla Repubblica di Firenze.[136] La quale trovandosi pel malcontento dei cittadini in molto grave difficoltà, l’astuto Re coglieva il punto e la tirò all’esca d’avere Cortona: vedeva il suo maggiore nemico, come straniero, nulla potere senza i danari dei Fiorentini e senza avere un suo proprio stato, donde a lui fossero aperte le vie nel cuore d’Italia. Avea pertanto più mesi innanzi mandato a Firenze privatamente Gabriele de’ Brunelleschi che stava in Napoli a’ suoi servigi, uno di que’ tanti nobili fiorentini che andavano fuori cercando fortuna. Avute da esso le prime aperture, la Signoria inviava al Re ambasciatore Giovanni Serristori; e il Brunelleschi frattanto andava e veniva portando parole: de’ quali discorsi il più strano era, che i Fiorentini mentre facevano pace col re Ladislao, ponevano condizione di mantenere ai servigi dell’Angiovino le seicento lance promesse a lui per la Lega. Ma già i termini di questa erano prossimi a scadere: ed oltre Cortona, che pure sarebbe difesa valida dello Stato, i maggiorenti della città vi guadagnavano di fare cessare le accuse e i lamenti del popolo di Firenze pei danni e le spese di quella guerra. Ai primi dell’anno 1411 fu quindi conchiusa in Napoli per mezzo di Agnolo Pandolfini la pace, comune anche ai Senesi; ed i patti furono, che il Re non s’impaccerebbe nè di Roma nè di alcun’altra terra inverso Toscana, tranne Perugia, ch’egli terrebbe ma senza offesa dei Fiorentini; [130] ai quali doveva restituire le lane e robe predate in sulla nave, ed oltre ciò vendere per il prezzo di sessanta mila fiorini Cortona; in che era la somma di tutto il negozio. A Firenze parve bella cosa avere Cortona, quattro anni soli o poco più dopo l’avere acquistato Pisa, per danaro entrambe; poichè era costume allora in Italia di vendere le città: si fecero feste, e i potenti dello Stato crebbero in fama per quell’acquisto.[137]

Non era però quel trattato senza un qualche mancamento di fede promessa; ma il Papa ed il re Luigi d’Angiò accettarono le scuse che la Repubblica fece loro, o comprendessero la necessità in che era posta, o giovasse loro ad ogni evento non alienarsela: oltreciò la violazione di una Lega per acquistare una città non era cosa di cui potessero allora i Principi adontarsi. Avea Luigi lasciata Roma, e nel traversare la Toscana, accolti in Prato gli ambasciatori che la Repubblica gli inviava, si fece da questi accompagnare in Bologna dov’era il Papa. Il quale ai preghi di lui cedendo, e bramoso di sopravvedere da sè medesimo quella guerra, consentì recarsi in Roma seco; dove entrambi giunsero nel mese d’aprile. Quel che importava, era condurre a un tratto insieme i Capitani ad una grande giornata, sperando la vittoria desse modo a guadagnare sul nemico le paghe mancate insino allora ai Capitani. Fu la vittoria conseguíta presso Ceprano a Roccasecca, e fu al di sopra d’ogni speranza; ma perchè la preda era il fine d’ogni cosa, mentre attendevano a rapirla, ciascuno volendo essere primo, e [131] la confusione quindi facendosi molto grande; il re Ladislao ebbe agio di ritirarsi in luogo sicuro, dove rifatto di gente e sopra ogni cosa di danari, per via di questi ricomperava le robe e gli stessi soldati che erano prigionieri: tal che ebbe a dire, che il primo giorno dopo la rotta correa pericolo della corona e della vita, il secondo giorno solamente della corona, e nel terzo era ridivenuto sicuro d’entrambe. Ben potea dirlo, chè il re Luigi senz’altro fare si tornò a Roma, quindi in Provenza; nè più altra mossa fece egli contro a Ladislao: questi ed il Papa si accordarono per intromessa della Repubblica; la quale fece allora pace co’ Genovesi, che avendo scosso il giogo di Francia, e collegatisi a Ladislao, vedeano di malavoglia i Fiorentini armare navigli e farsi padroni di tanta parte del mar Tirreno.

L’insufficienza della vittoria di Roccasecca era imputata dai collegati a Paolo Orsino loro capitano, spesso traditore, e che avendo possessione di città e di feudi nel reame di Puglia, godeva se i due contendenti si consumassero l’uno l’altro, bisognosi entrambi di lui, entrambi invalidi ad opprimerlo. Quindi nei mesi che seguitarono alla pace, essendosi Ladislao dato a raccogliere nuove genti, le spingeva d’intesa col Papa verso la Marca di Ancona, dove l’Orsino tenea castelli e in quelli erasi afforzato. Continuava l’espugnazione e l’esercito del Re ingrossava, quando all’improvvista mutando cammino lo condusse sotto alle mura di Roma, intanto che le sue galere appresentatesi innanzi le bocche del Tevere, salivano il fiume. In quella sorpresa Giovanni XXIII non ebbe che fare; ed i Romani che avean promesso gagliarda difesa, rompendo le mura pochi giorni dopo presso alla porta San Sebastiano, lasciarono entrare il Re vincitore. Fuggivasi il Papa a mala pena, ed aveva chiesto posarsi in Firenze; ma la Repubblica, pur volendo usare inverso di Ladislao tale un mezzano temperamento, fece che il Papa alloggiasse [132] fuori della porta a San Gallo al monastero di Sant’Antonio detto del Vescovo; donde più tardi faceva ritorno in Bologna; la quale città, che nell’assenza di lui avea fatta ribellione, tornava adesso all’ubbidienza sua.

Ma il Re covava grandi disegni sulle cose di Toscana, della quale prometteva ai suoi soldati l’acquisto; e fece sacco nella città di Roma di tutte le robe e delle merci dei Fiorentini, sebbene avesse per bando pubblico i mercanti sicurati. Cercò tirare ai danni loro anche il marchese Niccolò d’Este; ed il giovine Francesco Sforza, che in Ferrara dimorava (il padre avendo poco innanzi mutato bandiera), fu a quella pratica mediatore, la quale poi non ebbe effetto. Frattanto però abbisognandogli guadagnare tempo, teneva a bada i Fiorentini ed il Papa co’ negoziati dei quali era solenne maestro: chiedeva cose impossibili; una lega nella quale i Veneziani fossero compresi, e la concessione in vicariato di Roma e delle altre città della Chiesa di già occupate dalle armi sue. In quello stesso anno 1413 era disceso in Italia Sigismondo imperatore, come tra poco vedremo; e la Repubblica di Firenze, bisognosa pure di provvedersi contro a Ladislao, mandava in Trento a Sigismondo ambasciatori; ma questi, che aveva altre faccende in Italia, metteva innanzi certe proposte cui la Repubblica era impossibile consentisse. Dicea Sigismondo: se io la rompo con Ladislao, cui sono amico, e’ mi bisogna affatto distruggerlo, e Voi datemi a ciò mano. Quest’era un fare di nuovo l’Italia mancipio ai Cesari d’Alemagna.[138]

Il Re aspettava la primavera dell’anno seguente 1414, quando per molte confiscazioni fatte nel Reame, per estorsioni, per vendite dei beni della Corona, e per altri violenti modi avendo raccolta grande somma di [133] danaro, da Napoli, dove si era tornato con un esercito fiorentissimo di quindici mila cavalli, moveva a Roma primamente, e quindi innanzi per le terre della Chiesa; dirittamente accennando contro a Firenze, ma pure sempre con le arti solite contentandosi addormentare i Fiorentini per via d’un accordo. Conchiuse difatti con essi una lega, firmata in Assisi a’ 22 giugno da Agnolo Pandolfini, che v’andò un’altra volta ambasciatore: ma fu di questa vario il giudizio nella città, bene sapendosi da ciascuno non essere quello altro che un breve respiro; e quanto valesse una lega conoscevano.[139] Era in Firenze grande il terrore; ma il Re infermato in Perugia e di là fattosi portare in Roma e giù pel Tevere e per il mare fino a Napoli, qui moriva nell’età di trentasette anni a’ 6 d’agosto, in mezzo a dolori atrocissimi di morbo, che alle genti parve nuovo, e conseguenza dei vizi suoi. Per essere senza figli, andò la Corona alla sorella di lui, che fu la seconda Giovanna. Firenze, condotta a gravissimo pericolo, scampò ad un tratto per quella morte, come le avvenne quando morirono Arrigo VII e Castruccio e Giovanni Galeazzo; ma più di quest’ultimo era da temere Ladislao, che prode della persona conduceva da sè la guerra, solo tra’ Principi i quali avessero da gran tempo turbato Italia con le armi.[140]

Dopo la morte di Ladislao pareva l’Italia tacersi dinanzi alla prossima riunione del Concilio che preoccupava tutte le menti; facevano forza le nazioni oltramontane, e la Germania massimamente in tutto quel fatto dispiegava passioni più vive e più duro animo ed ostile. Sigismondo imperatore, infaticabile nel promuovere [134] quell’assemblea, cercava farsene in mezzo a tutti moderatore; che fu la gloria del suo regno. Continuando le tradizioni della famiglia di Lucemburgo e ponendosi ad esempio Arrigo VII suo bisavolo, tentava rialzare l’Impero in Italia, conciliando alla sua l’opera dei Pontefici. Già fino da quando era semplice re d’Ungheria, avea fatto egli i primi passi per accostarsi al nuovo papa Giovanni XXIII, con intromessa dei reggitori della Repubblica di Firenze, ai quali inviava l’anno 1416 Filippo Scolari detto Pippo Spano, suo tesoriero e capitano in Ungheria, e fino a che visse principale uomo in quello Stato. La stessa famiglia erano gli Scolari e i Buondelmonti,[141] dei quali il ramo donde uscì Filippo avendo seguíto col nome mutato parte ghibellina, era caduto in povertà. Quindi lo Scolari da giovane andava pei commerci in Ungheria, dov’erano molti cambiatori e mercanti fiorentini;[142] e fattosi largo appresso quel Re per la perizia nel fare d’abbaco, ebbe dipoi con la contea di Temesvar titolo di Spano e comando d’armi e governo di provincie. Fatto ricchissimo, innalzava a dignità in quel regno Matteo suo fratello e Andrea Scolari che fu vescovo di Varadino; e per lui non pochi Fiorentini, tra’ quali uno della famiglia antichissima dei Lamberti o Lamberteschi, tennero grado in Ungheria, perduto da essi dopo la morte dello Spano. Mandato Filippo, la Repubblica faceva difficoltà a riceverlo come divenuto straniero e potente, e come di sangue e d’animo ghibellino. Ma egli tenendo corte bandita, col largo spendere [135] e con la magnificenza de’ costumi acquistò grazia tra’ cittadini della patria sua. Era già stato nell’Ungheria edificatore munificente di chiese e luoghi donati al culto; commise in Firenze a Filippo Brunelleschi la costruzione d’un Oratorio presso la chiesa di Santa Maria degli Angeli, del quale si veggono tuttora le mura di forma ottagona elegantissima per le proporzioni: ma o fosse colpa del fratello, siccome fu detto, o che la Repubblica rivolgesse i danari al mantenimento delle guerre, non fu quell’opera mai compiuta. Matteo Scolari, eletto despòto di Rascia,[143] teneva in Firenze un palagio sontuoso.

Nell’anno 1411 era stato lo Scolari capitano d’una forza di dodici mila cavalli ungheresi, che Sigismondo fatto imperatore mandava a combattere contro alla Repubblica di Venezia. Bramava aprirsi per tale modo la via in Italia, e ripigliare su i Veneziani l’Istria e la Dalmazia, ad essi venduta dal re Ladislao per poca moneta; solo frutto ch’egli ritraesse di quella corona della quale si era fatto in Zara nei suoi primi anni incoronare. Occupava lo Scolari agevolmente le terre del Patriarcato d’Aquileia, ch’erano allora tutto il Friuli; ma sui confini dei Veneziani trovata dura la resistenza, continuava presso a due anni la guerra inutile, che fu cessata per via d’una tregua, rimanendo la Dalmazia in possessione dei Veneziani: e questi infine acquistarono anche il Friuli. Ebbe accusa lo Scolari d’avere servito meglio l’Italia patria sua che l’Imperatore suo padrone, il quale però avendogli serbata infino all’ultimo amicizia, dimostrò vana tale accusa. La Repubblica di Firenze avea mandato agli 8 novembre 1413 Gino Capponi a Venezia, perchè inducesse con ogni sforzo i Veneziani a trattare di pace con Sigismondo, il quale era in Lodi e seco il Papa desideroso di quella pace.[144] Scese in Italia Sigismondo, [136] e tutto rivolto alle cose del Concilio, fu in Lodi raggiunto dai tre Legati di Giovanni XXIII, mandati a fine di ordinare la convocazione. Premeva al Papa sopra ogni cosa la scelta del luogo che non fosse in Alemagna, e quando ai Legati diede l’ultima licenza teneva in mano sopra una carta descritti i nomi delle città in cui potessero consentire; poi (come al pigliare le grandi risoluzioni pare che la volontà sparisca, e l’uomo sia vinto da una forza superiore) stracciò la carta, e diede loro mandato libero. Fu scelta Costanza, città dell’Imperatore, e Giovanni da quel punto si vidde innanzi la sua condanna. Troviamo dicesse a Bartolommeo Valori: «che debbo fare, se haggio uno fato che mi ci tira?[145]» Egli e Sigismondo s’abboccarono in Lodi stesso, e tra quella ed altre città di Lombardia rimasti insieme per oltre un mese, mandarono fuori gli editti e le bolle per la intimazione del Concilio al primo di novembre 1414. A me non ispetta narrare l’istoria di quella fra tutte memorabile assemblea, dalla quale essendo annullate nuovamente le ragioni di Gregorio e Benedetto, venne Giovanni costretto a rinunziare il pontificato; ma poi fuggitosi, e volendo insorgere contro ai decreti dell’assemblea, fu da quella condannato e messo in carcere. Indi procedendo alla nominazione d’un altro Papa, lo stesso Concilio costituitosi in conclave elesse agli 11 di novembre 1417 il cardinale Oddo Colonna, che pigliò nome di Martino V: dopo di che il Concilio alcuni mesi continuato, senz’altro effetto si scioglieva; ed il Papa mosse in verso l’Italia, con intenzione di venire a porre sua stanza in Firenze. A lui mandava la Repubblica in Milano una molto solenne ambasciata di primari cittadini, a capo dei quali Fra Leonardo Dati Generale dei Predicatori, uomo assai chiaro in quella età.[146]

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La grande assemblea del mondo cristiano si era divisa per cinque nazioni, principio solenne alla formazione degli Stati, condanna all’Italia non mai più guasta e più disfatta. In Lombardia tale una misera condizione, tale uno strazio che il peggiore mai non si vidde; ai Signori antichi aggiunta la peste di quei fortunati Condottieri che ivi e in Romagna e nel Reame e dappertutto vagando per fare a sè acquisto di città e così a’ Principi agguagliarsi, veniano a confondere e a turbare più che mai lo stato d’Italia, già in sè medesimo sì intricato. Il reame di Puglia ubbidiva ad una donna molle ed inetta, e che andava in cerca essa medesima a chi ubbidire, drudi o mariti o altri che fosse. Si era sposata ad un francese, dal quale tenuta come prigioniera, tentò rinalzarsi per la virtù militare di Sforza da lei fatto contestabile del Regno: questi conduceva in Roma di nuovo le armi napoletane, cacciandone l’altro grande condottiero di milizie che fosse in Italia a quella età, Braccio dei Fortebracci da Montone perugino. Aveva costui prima espugnata con dura guerra la città sua, divenuta quindi sede a uno Stato che egli andava distendendo con armi felici per le terre della Chiesa. Era Martino giunto in Firenze a’ 25 di febbraio 1419,[147] non avendo terra che fosse sua, ma in quel tumulto di cose cercando rifarsi lo Stato con la sola forza del nome pontificale, e usando a pro suo le divisioni tra’ contendenti: al che gli giovava lo stare in Firenze, città posta in mezzo alle terre della Chiesa e a Braccio allora molto amica. Questi sarebbesi contentato ritenere in feudo le città dell’Umbria, al quale effetto venne in Firenze, dove prestò al Papa omaggio [138] superbo; conduceva seco tutta la possa delle armi sue che avevano vinto lo Sforza a Viterbo, gloriose e splendenti di ogni ricchezza, egli facendo l’entrata in mezzo ai due Signori di Camerino e di Fuligno, seguìto da molti deputati di città che a lui erano fatte suddite. Il popolo di Firenze ammirò Braccio, e in quella grandezza i modi affabili di lui valevano a conciliargli favore; laddove Martino, che già da oltre un anno in Firenze dimorava senza gran seguito nè possanza e senza splendore di cose fatte, perdè al confronto, venuto essendo come in uggia alle mobili fantasie di questo popolo. I ragazzi scriveano su’ muri e per le strade canterellavano: «Papa Martino non vale un quattrino — o un lupino; Braccio valente vince ogni gente.[148]» Il Papa sdegnato contro la città, ne partì a’ 9 settembre 1420; prima avendo consacrato l’altare maggiore ed altre parti allora compiute del tempio di Santa Maria Novella, dov’era alloggiato, ed innalzato la Sede fiorentina a grado e a titolo Arcivescovile.

Innanzi era a lui venuto a fare atto di sommissione il deposto Papa Giovanni XXIII: sedeva Martino in mezzo ai Cardinali in Concistoro allorchè l’altro inginocchiato davanti a lui confessò essere lui solo vero ed unico pontefice; pel quale atto veramente cessava del tutto lo scisma durato ben quarant’anni, poichè Gregorio aveva accettato i decreti di Costanza, e Benedetto vivea con pochi ostinatamente chiuso nel suo refugio d’Aragona, sottratta anch’essa alla ubbidienza sua. Ma il Cossa da molti era creduto che non avesse ceduto in Costanza se non per forza; veniva quindi tolto ogni dubbio dalla spontanea sommissione che egli faceva in un luogo libero, e con espressioni le quali apparvero tanto più sincere quanto più erano decorose. Il Rinuccini, [139] che v’era presente, le riferisce a questo modo. «Radunava io solo il Concilio; ma faticai sempre a pro della Santa Romana Chiesa; quel che sia il vero tu ben conosci: io vengo alla Santità tua, e quanto posso mi rallegro della tua assunzione e d’essere io in libertà.[149]» Qui senti parole che uscivano rotte da grande passione: altero e violento e nei primi anni fortunato, gli era mancata ogni vigoria dal punto in cui si trovò in faccia, nella più augusta delle assemblee, alla coscenza della cristianità. I suoi nemici gli aveano dato bestiali accuse ed inverosimili; rimase in Firenze oggetto a molti di compassione, e in capo a sei mesi quella vita tanto logora si consumava: ebbe in San Giovanni la sepoltura ed un monumento, opera elegante di Donatello, dove anche si legge essere egli stato Papa. Avea qui grandi e possenti amici, ai quali dovette la libertà sua, perchè Martino avea cercato farlo in Mantova imprigionare. Giovanni de’ Medici più volte avea a lui Pontefice prestato danari; e da ultimo per la liberazione sua pagò trentacinquemila fiorini; del che ci rimangono i documenti e le scritture. È falso la Casa dei Medici essersi impinguata con le ricchezze lasciate dal Cossa che facea modesto nè molto ampio testamento, e pure ai lasciti l’eredità non bastava; e tra’ creditori era anche la Casa degli Spini, banchieri antichi dei Pontefici. Esecutori del testamento furono, oltre a Giovanni de’ Medici, Bartolommeo Valori, Niccolò da Uzzano e Vieri Guadagni, nel cui banco erano depositati i denari i quali al Cossa appartenevano.[150]

Correvano sempre alla città di Firenze prosperi anni, che i migliori forse non ebbe ella mai, ed il bel vivere italiano qui solo e a Venezia pareva raccogliersi. [140] Non mai la Repubblica fu retta dentro così ordinatamente, nè più in Italia rispettata, essendo venuta a capo di molte imprese felici; possente d’industrie opulentissime e di traffici, fiorente per le arti le quali salivano allora al sommo d’ogni bellezza: fu cominciata la fondazione della Cupola del Duomo, e messa al posto la porta maggiore del Battistero di San Giovanni. Le manifatture s’innalzavano a dignità di Arti belle, massime per i lavori d’oro filato e battuto, e per gli smalti dai quali ebbe celebrità l’Orificeria, fattasi scuola ai sommi artisti. Ma in quanto risguarda solamente la ricchezza, è da notare che il commercio della Seta aveva avuto col principiare del secolo XV tale incremento ch’era in Firenze fra tutti gli altri il più lucroso. I velluti, i broccati, i drappi a oro toccaron l’apice della perfezione; veniano richiesti dai Principi e nelle Corti, intanto che drappi di minore pregio andavano in grande quantità per molte parti d’Europa e dell’Asia, sorgente amplissima di profitti. Nè però cessava l’arte della Lana da quella ampiezza in cui la vedemmo durante il secolo precedente. «I Fiorentini mandavano ogni anno a Venezia panni sedicimila, i quali erano consumati nella Barberia, nell’Egitto, nella Sorìa, in Cipro, in Rodi, nella Romania, in Candia, nella Morèa e nell’Istria; ed ogni mese conducevano a Venezia settantamila ducati di tutte sorte mercanzie, che sono all’anno ducati ottocentoquaranta mila e più; cavandone lane francesi e catalanesi, cremisi, stame, sete, ori, argenti filati e gioie.[151]» Parole del Doge Tommaso Mocenigo, che poco innanzi di rendere l’anima, l’anno 1423, si compiaceva di presentare ai concittadini suoi lo stato fiorente in cui lasciava la sua Repubblica; maggiore di troppo della Fiorentina quanto alla ricchezza ed alla possanza, ma bene altrettanto ad essa inferiore per quello che spetta [141] alle opere dell’ingegno, e addietro per anche nella coltura delle Arti belle.[152]

Studiavansi molto ampliare i commerci; al quale effetto dappoichè furono divenuti signori di Pisa, attendevano alle cose del mare, ed ambivano di possedere un naviglio che fosse proprio della Repubblica, la quale era solita infino allora di assoldare galere forestiere. Elessero quindi Consoli del mare, ufficio che noi vedemmo essere altra volta istituito nella guerra che fu co’ Pisani per conto di Talamone: sei furono i Consoli eletti l’anno 1421,[153] e primo tra essi Niccolò da Uzzano: avevano obbligo di curare la fabbricazione di due grosse galere di mercanzia e sei delle sottili per guardia. La prima galera fu l’anno dipoi varata con grande solennità; e perchè al mare la gioventù s’avviasse, posero in quella dodici giovani di buone famiglie. Andò in Alessandria la prima galea, dove era disegno aprire un traffico di spezierie e di altre merci, veduto i guadagni che ne ritraeva la Repubblica de’ Veneziani. A tal fine inviarono ambasciatori al Soldano un Federighi e un Brancacci, i quali ottennero che la nazione fiorentina potesse avere in Alessandria Consolo, Chiesa, Fondaco, Bagno e ogni altra cosa che avesse domandato per la sicurezza dei mercati e mercanzie e per decoro della nazione.[154] Avevano [142] anche per la facilità dei commerci ridotto il Fiorino al peso di quel di Vinegia, e fu chiamato Fiorino largo di galea. Ma una siffatta, come ora si direbbe, concorrenza avendo destato gelosia nei Veneziani; questi, pochi anni dopo, richiesti di lega dai Fiorentini, vollero patto che nessuna galea o altro legno de’ nostri potessino navigare ne’ mari che portano ad Alessandria. Tardi giugneva a queste cose la Repubblica di Firenze, invano tentando succedere alla grandezza ch’ebbero i Pisani e al favore del quale avevano questi goduto;[155] nè potè farsi mai potente sul mare, dove però grandi erano le industrie private dei Fiorentini ed i guadagni che si facevano alla spicciolata e che la Repubblica molto adoperavasi a proteggere: talchè le istruzioni che si davano agli ambasciatori contengono molte raccomandazioni di privati cittadini e dei traffici e interessi loro. Troviamo mandassero in quelli anni stessi ambasciatori nella Morèa, dove tuttora gli Acciaiuoli avevano ducato, ed in altre parti del Levante: altri ne andarono a Maiorca. Facevano partire per sicurezza dei mercanti due galere grosse da mercato nel mese di febbraio e due altre nel settembre per Fiandra e Inghilterra, a cura dei Consoli del mare che un’altra galera tenevano pei viaggi di Romanìa. Un’altra recava panni in Ragusa e ne riportava oro, pellami ed altre merci.[156] La Repubblica molto ebbe da fare in Liguria co’ Grimaldi signori di Monaco, i quali tolse in accomandigia insieme co’ Fieschi. [143] Avevano questi terre in Lunigiana, che fronteggiavano le possessioni della Repubblica di Firenze. Era mestiere dei Grimaldi signori di Monaco rubare in sul mare, e uno d’essi dichiarava che Monaco essendo terra di nessun provento, il signore non vi camperebbe senza aiutarsi della pirateria; chiedeva pertanto se gli pagasse una pensione a titolo di riscatto, ed i Fiorentini pattuirono dargli ogni anno millecinquecento fiorini d’oro.

Dei commerci e d’ogni impresa dei Fiorentini sul mare natural sede era la città di Pisa, dove anche avevano decretato che risiedessero due tra’ Consoli del mare, essendo ivi edifizi e pratica sufficiente alla costruzione delle navi. Pur non ostante noi troviamo la Repubblica nulla fermare intorno al luogo per l’arsenale, fosse gelosia di Pisa o che veramente il Porto Pisano, già mezzo interrato, non fosse capace a farne emporio di commerci. Al che s’accorgevano essere atto Livorno, castello fondato prima dai Pisani a guardia delle marine loro; ma intorno al castello per la comodità della rada crescevano gli edifizi, e già da più anni pigliava importanza. Venduto ai Francesi, come noi vedemmo, lo tennero essi finch’ebbero Genova; ma questa essendosi rivendicata in libertà l’anno 1412, Livorno divenne come una briglia che i Genovesi voleano tenere sul collo a Firenze, che non acquistasse potenza sul mare. Ma Genova istessa pericolando bentosto per le risorgenti ambizioni dei Visconti, chiedeva soccorso ai Fiorentini, che da principio ponevano condizione avere Livorno per vendita; se non che i Genovesi chiedevano prezzo che parve troppo alto, e per due anni si fu sul tirare; infinchè Genova, più che mai stretta per terra e per mare, vendeva Livorno per centomila fiorini d’oro alla Repubblica di Firenze a’ 30 di giugno 1421. Portavano i patti, che in Pisa e in Livorno godessero i Genovesi le usate franchigie, e che dovessero i Fiorentini caricare [144] sopra navi genovesi le merci di transito. Si fece in Firenze grande allegrezza di quell’acquisto, pel quale compievasi l’impresa di Pisa, e parvero aperte le vie del mare ai Fiorentini.

Avevano speso nelle guerre precedenti, secondo si trova, undici milioni e mezzo di fiorini d’oro. «Nella guerra col Papa dal 1375 al 78, due milioni e mezzo di fiorini; nelle tre guerre col Visconti, sette milioni e mezzo; e in quella di Pisa un milione e mezzo, senza contare le altre minori guerre in quel frattempo.[157]» Ma non era il credito dei libri del Monte venuto meno; cosicchè in questo correano a impiegare i danari loro anche i signori forestieri: tra gli altri vi ebbe depositato in quegli anni ventimila fiorini Giovanni re di Portogallo, del quale il figlio secondogenito per nome Don Pietro, più tardi veniva in Firenze, dopo aver corso altre provincie d’Europa: apparve leggiadro e costumatissimo cavaliere, e fu alloggiato nel palagio di Matteo Scolari fratello allo Spano.[158] Essendo la pace dopo la morte di Ladislao quasi dieci anni continuata, i libri del Monte a poco a poco si alleggerivano con venire parte delle prestanze a restituirsi, perchè nella pace le rendite del Comune sovrabbondavano alle spese. Le quali prestanze, sebbene riuscissero quand’erano imposte molto gravose a’ cittadini, siccome vedremo, pure all’universale non erano causa di povertà, perchè delle spese fatte e dei danari che uscivano, la maggior parte ritornava spandendosi dentro al minuto popolo, che anzi che perdervi se ne avvantaggiava.[159] Così era in [145] quegli anni prosperata la città, la quale s’ornava di elegantissimi edifici e di opere d’arte a spese dei cittadini; i quali non furono mai tanto larghi nel sovvenire co’ lasciti e con le pie fondazioni ai bisognosi: nel che io non so se altre città pure in Italia a questa nostra si agguagliasse. Fu allora fondato lo Spedale per i fanciulli esposti, col nome di Santa Maria degli Innocenti, a cura dell’Arte di Por Santa Maria, che era l’Arte della Seta, e col soccorso di donazioni fatte da privati cittadini. Rinaldo degli Albizzi cedeva per tenue prezzo il locale da fabbricarvi il vasto edifizio, di cui fu architetto Filippo Brunelleschi: ebbe dal Comune i privilegi medesimi che aveva il grande Spedale per gli infermi in Santa Maria Nuova, e prosperò assai ne’ tempi che seguitarono.[160] Nè vuolsi omettere la grande riforma e correzione degli Statuti del Comune di Firenze, commessa per opera degli uffiziali del Monte, l’anno 1415, a Paolo da Castro insigne giureconsulto ed a Bartolommeo De Volpi da Soncino, con l’assistenza di nove notari e procuratori; grandiosa raccolta, che divisa in cinque Libri, pigliava in quell’anno vigore di sola ed unica legge di questo Comune, essendo aboliti gli antichi Statuti, salvo le [146] Balíe degli anni dopo al 1381, che furono mantenute, e salvo gli Ordini della Parte guelfa. Venne pubblicata per le stampe non prima dell’anno 1783, quando ella cessava di aver valore altro che storico, in tre grossi volumi in-4; i quali sebbene contengano spesso insieme confusi gli Ordinamenti e le Provvigioni di tempi diversi, hanno ampia materia da utilmente consultare quanto alla struttura della Repubblica ed agli uffici ed ai giudizi ed alle pene, e in quanto ancora ai costumi di questo popolo, e alla ragione di molte cose che dai racconti degli scrittori non bene vengono dichiarate.[161]

Capitolo VI. GUERRA CON FILIPPO MARIA VISCONTI. — NICCOLÒ DA UZZANO, GIOVANNI DE’ MEDICI, RINALDO DEGLI ALBIZZI.[AN. 1422-1428.]

Lo stato di pochi, pel quale reggevasi allora Firenze, aveva in quelli anni toccato il colmo di sua grandezza. Fondato nel 1382 con l’abbassamento delle Arti minori; ordinato nell’87, dopo la prima cacciata degli Alberti, con le leggi poste da Bardo Mancini; munito d’armi e d’ordini più stretti da Maso degli Albizzi nel 93; avea nel corso di quarant’anni tenuto a freno la potenza del Visconti, felicemente condotto a fine due guerre pericolose, acquistato Pisa, Livorno, Arezzo, Montepulciano, Cortona; che poco più era l’antico dominio. Rimosso ogn’impaccio d’avversarii dentro, non mai tanta quiete fu compagna di tale prosperità. [147] Regnava l’ordine, il che all’universale permette almeno il beneficio della libertà civile, della quale facilmente i più si contentano, qualora non siano troppo stranati dalle imposte. Pochi erano quelli che dominavano, e non molti furono gli oppressi; non si abbondò nelle uccisioni, le quali producono odii più acerbi ed inestinguibili: Maso degli Albizzi, che fu principale autore d’ogni cosa, pare comprendesse come nei casi politici i morti risuscitano. Un altro solo e tra’ più oscuri della casata degli Alberti fu decapitato: ma negli anni 11 e 12 avendo trovato (così dice il bando) che la famiglia degli Alberti aveva di nuovo tentato congiure, una sentenza mandò esuli tutti di quella famiglia sino ai fanciulli nelle fascie, che le altre condanne avevano risparmiato: con essi andarono un Ricci e uno Strozzi. Che tutto ciò debba attribuirsi all’odio personale di Maso degli Albizzi, può indursi anche dalla circostanza, che dopo alla morte di lui cominciarono le condanne degli Alberti a essere gradatamente revocate, o in qualche parte attenuate con quello studio e con quell’arte di cui sono capaci i Governi che stanno ristretti in mano di pochi.[162]

Pure quello Stato altro non era che un fatto mantenuto a grande studio da più anni, e, come nota sapientemente Donato Giannotti, lo reggeva la virtù dei capi, non la bontà delle leggi; violava insino alle apparenze d’egualità cittadina, nè aveva potuto trovarsi radici giù dentro alla stessa costituzione della città. Manteneva degli antichi ordinamenti della Repubblica quello che avevano di peggiore, il trarre a sorte i magistrati, ed in ciascuno fino ai sommi porre insieme gli elementi tra sè più contrari, ma sì che sempre il maggior numero stesse con gli uomini che reggevano, cosicchè ogni deliberazione usciva divisa e in ogni voto [148] era un dileggio. Le Arti minori contavano sempre in ogni collegio un piccol numero di rappresentanti, chiamati a dare voti inutili se ai possenti uomini non si accostassero. Ma queste e tutta generalmente la costituzione delle Arti aveva dismesso l’antica sua forza, e, se oso pur dirlo, la verità di sè stessa, quando sotto ai Ciompi si aggregarono le Arti nuove, ed una ne fecero degli uomini senza lavoro. Dipoi vedemmo giovani ricchi farsi scrivere alle Arti minori, strumenti egregi alle corruttele, che già d’ogni parte s’insinuavano negli artefici. Col tanto ampliarsi delle industrie già il capitale era ogni cosa, e la ricchezza imprimeva il moto a una gran macchina di lavoro, della quale erano gli opranti come pezzi che non avevano vita politica di per sè. In questo secolo XV le Arti maggiori e le minori e i loro Consoli o le Capitudini già nei congegni della Repubblica erano fatte un nome vano; più non v’era altro che ricchi e poveri; le borse erano fatte a mano, per ogni ufizio una borsa propria;[163] ed in quelle della Signoria e dei Collegi e maggiori ufizi, che ad ogni tratto si riformavano, la sola regola consisteva anco di nome nel mantenere gli stessi uomini e famiglie ch’erano state prima in ufizio: pigliare gli uomini prima dell’82 era allargare il reggimento; pigliare quelli dell’87, o più ancora del 93, era un ristringerlo più che mai. Nè il magistrato di Parte guelfa serbava più nulla di quella sua vecchia e trasmodante potenza, dacchè fu arnese contro ai guelfi, cioè agli uomini popolani, usato dai grandi o dalle famiglie che in fatto ai grandi s’accostavano. Battuto nel 1378 e rottagli in mano quell’arme logora delle ammonizioni, venne in discredito; e noi troviamo nei primi anni del quattrocento il palazzo e i Capitani della Parte guelfa tanto essere vilipesi, che non si trovava chi volesse [149] nella grande solennità cittadina andare con loro all’offerta in San Giovanni:[164] mancava una forza ed un ingombro nella Repubblica.

La quale avrebbe pe’ nuovi tempi abbisognato di forme nuove, e quel che non era se non accozzo quasi fortuito di pochi uomini e di famiglie che aveano incontro famiglie ed uomini poco disuguali, quel ch’era un fatto, avria voluto munirsi d’ordini e di leggi che forma dessero allo Stato. Agli ottimati che lo tenevano, stava in quel secolo più che mai dinanzi agli occhi grande esemplare la Repubblica dei Veneziani, cui molto ambivano d’agguagliarsi, ma nulla avevano a tal fine: nulla in Firenze si accomodava a quella forma di reggimento, la quale in Venezia può dirsi che uscisse giù dalle viscere di quel popolo, e avesse forti dalla natura i mezzi acconci a mantenerlo. Venezia teneva fin dalla sua cuna tradizioni principesche nel Doge che n’era stato per più secoli signore, e sempre re in piazza, sebbene con poca autorità nei Consigli,[165] teneva con certe regali apparenze tuttora il popolo in ossequio, e stava a petto degli altri principi. Venezia aveva un patriziato di stampa latina, le cui origini si annestavano alla istessa formazione ed a tutto il crescere d’una città per ogni conto maravigliosa e dalle altre singolare. Avea commerci più che industrie, e commerci d’oltremare che stanno in pochi; le possessioni dei suoi patrizi erano le navi, quasi castelli dove un solo capo i vassalli costringeva a dura opera e forzata. Nei marinari la stessa necessità di salvarsi contro a pericoli incessanti impone ubbidienza continua, docile, assoluta; tornati a casa, i marinari null’altro cercano che riposo, nè mai riuscirono strumento facile ai tumulti. I quali in Venezia erano vietati per fin dalla stessa struttura della città, che dalle acque tramezzata rendea malagevoli i popolari [150] adunamenti, talchè a tenerla era bisogno di pochi armati; nè questi facevano alcun pericolo allo Stato, che dentro Venezia non mai ricettava quelle milizie forestiere di cui si valeva per le guerre e per la guardia delle provincie di terraferma.

Firenze ebbe in tutto condizioni differenti: avea con Venezia comuni soltanto le antiche scaturigini del sangue etrusco, e più che altrove inalterate da innesto germanico le latine tradizioni; talchè nei due popoli una cert’aria di fratellanza traspare tuttora. Ma il popolo di Firenze, più mobile e arguto e più inclinato allo speculare, voleva reggersi a democrazia; e se ora pendeva da pochi ottimati, non era per altro che per l’impotenza naturale all’altra forma di reggimento; e il popolo aveva più che le apparenze tuttavia sempre della sovranità. Era pei governanti un lavoro senza fine formare le borse, poi regolare le tratte ai magistrati ed ai collegi, ed ai consigli, ed agli ufizi di dentro e di fuori, secondo giovasse alla parte che reggeva; le molte pratiche e le regole che si adopravano minutissime serbavano certe loro peculiari e vive e affatto popolari locuzioni a noi trasmesse dai cronisti.[166]

Erano capi di quel governo Maso degli Albizzi, Gino Capponi, Niccolò da Uzzano, co’ quali stavano Bartolommeo Valori, Matteo Castellani, Palla Strozzi, Lorenzo Ridolfi, Nerone di Dionigi Neroni, Lapo Niccolini; altri minori giù giù scendendo formavano come la piramide di quello Stato. Maso degli Albizzi venne a morte l’anno 1417, forse della peste frequente in quel secolo e che era di nuovo entrata in Firenze:[167] nato l’anno innanzi la mortalità del 1348, avea nel vigore della giovinezza veduto molte cose avverse, le case sue abbruciate, lo zio decapitato, sè stesso bandito, parte de’ suoi consorti sciamati aver preso altre [151] armi ed altro cognome. Richiamato a casa dappoichè l’impero fu tolto di mano ai Ciompi, tutte le cose se gli voltarono in favore: ed egli rimase come principe nella città, tenendo quel grado non solamente dalla ricchezza e autorità della casa, ma dalla prudenza sua e da quella civile modestia, per la quale fu contento essere grande più che parere; talchè il suo nome, che indi rimase lungamente celebrato, si trova confuso infinchè egli visse a quello degli altri più qualificati cittadini. Avea scelto per impresa un Bracco col muso serrato, la quale vedevasi incisa sopra al suo sepolcro in San Pier Maggiore: con essa voleva significare, che non si debba fare rumore innanzi al tempo.[168] Il quale precetto osservava egli costantemente, e lo Stato andava senza divisioni che apparissero: le offese che altrui recasse velava, poi con le piacevolezze temperava; contento impedire agli altri d’offenderlo, faceva le viste d’ignorare i mali umori i quali egli avesse destati in altrui; gli amici dubbi provvedeva non gli divenissero aperti nemici. Gino Capponi gli fu denunziato come se volesse mutare lo Stato; Maso rinviava l’accusatore alla Signoria, la quale gli fece mozzare il capo: tra quei che reggevano non parve mai rotta l’unione, vivevano sempre tra loro familiarmente.[169]

Moriva nel 1421 anche Gino Capponi: a questi sopravvisse Niccolò da Uzzano, sebbene già vecchio. Questi non si era levato sì alto per la potenza della casa, la quale rimasta fino allora nei castelli, non avea sèguito in città, ma pei servigi da lui prestati alla Repubblica lungamente; nè credo Firenze avesse mai cittadino che lo agguagliasse per la grande autorità dal senno di lui esercitata nei Consigli, frenando i più audaci e a sè conciliando col mite animo gli avversi. Girava il partito sì tosto che avesse Niccolò parlato, egli essendosi prima inteso con gli altri potenti, dai [152] quali poi fosse fatto vincere il parere che insieme avessero accordato. Imperocchè «molti erano eletti agli ufizi e pochi al governo,» questo risedendo in quanto alla forma dei Collegi e ne’ Consigli; dove si veniva però a cose fatte nelle botteghe, negli scrittoi e nelle cene dei maggiori cittadini; degli altri essendo pressochè inutile la parola, concessa a mostra di libertà.

Il quale stato della Repubblica ci viene descritto da Giovanni Cavalcanti, autore di storie[170] che assai volte adopreremo. Abbiamo da esso la viva pittura di un Consiglio di richiesti al quale intervenne. «Il Gonfaloniere, uomo di dolce condizione e di grossa pasta, avendo in principio fatta la proposta e quindi messosi a sedere, lette le carte, chi disse una cosa e chi un’altra; erano i pareri assai differenti: mentre la turba consigliava, Niccolò da Uzzano dormia fortemente e nulla udiva di quelle cose, non che le intendesse. Infine, o che il sonno avesse in lui finito il suo corso o che lo avessero tentato perchè si svegliasse, tutto sonnolento salì alla ringhiera, ed esposto quello che fosse da fare, gli altri confermarono il suo detto.» Il Cavalcanti, di casa grande, era in quel numero come Capitano della Parte guelfa e non come cittadino stimato nè accetto al Palagio, dove pare sedesse allora la prima volta. «L’ingrata e plebea moltitudine (così egli scrive) niente o poco ci volevano alle preminenze del Comune in compagnia, e ci tenevano addietro, dicendo che avevamo a purgare la potenza ed i peccati de’ nostri antichi, se peccati erano; e se pure alcuno di noi eleggevano, sceglievano uomini disutili e molli, che stavano ristretti agli scamuzzoli di sotto le loro mense.» Questo l’antico nobile chiama modo tirannesco e non vivere politico nella città di Firenze.[171]

Era nella parte popolare venuto in grandezza Giovanni [153] dei Medici chiamato di Bicci, non del ramo stesso dal quale uscirono Salvestro e Vieri, ma ebbe da questo ereditata la temperanza, e fu dell’altro meglio avveduto e più fortunato. Trovossi da giovane in povertà, essendo la casa dei Medici battuta con le altre della parte popolare: aveva poi fatto a sè medesimo la fortuna sua col mercatare, esercitando l’arte del Cambio felicemente, così da essere divenuto non che il più ricco cittadino di Firenze, forse anche d’Italia. Vecchio, ora godevasi la grazia popolare che aveva dal nome e dalle ricchezze e che egli nutriva con quell’accortezza che ha sede nell’animo, disposto ai savi e miti consigli e in tutto alieno dalle violenze. Fuggendo le sêtte, in Palagio non andava se non chiamato; e fondò così alla sua casa una grandezza per sè non cercata. Riammesso a godere gli uffici della Repubblica e avendo la mano nelle maggiori faccende, usciva Gonfaloniere l’anno 1421; al che fu scritto che Niccolò da Uzzano avesse in animo di attraversarsi: ma fatto è che il gonfalonierato suo passava innocuo e tranquillo.[172]

Motivo alle accuse contro alla parte dominatrice erano le guerre, le quali dicevasi da questa accese e mantenute a fini privati; intollerabili le prestanze, che sempre cadevano disugualmente sugli avversi e sopra il grosso dei cittadini quieti e senza parte, laddove a’ pochi ed agli aderenti loro venivano i guadagni e la gloria delle imprese, e il sèguito che si faceva ogni dì maggiore per le accresciute necessità. Quindi grandissime le lagnanze. «L’uno nominava chi era stato la cagione della sua gravezza, dicendo: e’ sa bene che mi è impossibile pagare sì sconcia cosa: s’egli appetiva il mio luogo, perchè non me lo chiedeva egli in vendita? e per meno del giusto pregio glielo avrei dato. L’altro diceva: e’ m’annoverano i bocconi, e, non che [154] mi voglino lasciare il bisogno, ma mi niegano il necessario, solo per indurre la mia famiglia a disonore e peccato.» I luoghi, cioè le possessioni appetite, dovevano essere massimamente quelle dei grandi; o almeno a queste io credo accenni con più passione il Cavalcanti, che abbiamo noi finquì trascritto.[173] Le quali accuse molto aggravarono per la guerra contro a Ladislao; e Maso degli Albizzi ebbe taccia di avere condotta alla oppressione de’ suoi contrari la falsa pace che precedette alla morte di quel Re.[174] Laonde nel 1411 fu ordinato un altro Consiglio, ch’ebbe nome del Dugento perchè si compose di dugento cittadini, senza del quale non si potesse far guerra nè cavalcata fuori del dominio, non fare leghe nè confederazioni, non tenere stipendiati più di cinquecento lance e mille cinquecento tra balestrieri e palvesari, non pigliare in nome del Comune terra o fortezza, e non ricevere alcuno in accomandigia e protezione. Di queste cose vinto che fosse il partito nella Signoria, doveva proporsi al Consiglio del Dugento; e in questo approvato pe’ due terzi almeno, andare a un Consiglio di cento trentuno, che si componeva de’ Collegi e di altri ufficiali e di cittadini aggiunti, e poi al Consiglio del Popolo, e in ultimo a quello del Comune.[175] Era, come ciascun vede, un rendere più che mai difficile ed incomodo quel già sì intricato roteggio della Repubblica; ma erano infine gli uomini stessi che sempre deliberavano, perchè al Consiglio del Dugento doveano essere imborsati quelli che fossero stati essi o i padri loro ne’ maggiori uffici dopo al 1381, o come diceano veduti, [155] cioè tratti a quelli uffici, o solamente chiamati abili e imborsati.

Dopo la morte di Giovanni Galeazzo era co’ Visconti cessata la guerra per un tacito consentimento tra le due parti, e per l’impotenza nella quale erano di rinnovellarla i due figli lasciati dal Duca in età minore: vedemmo dipoi lo Stato disfatto, ed essi medesimi senza libertà della persona oppressi da quegli stessi condottieri che gli tenevano in tutela. Ma ucciso nell’anno 1412 il maggiore figlio Giovanni Maria, portento di crudeltà in età ancora quasi imberbe, Filippo Maria pigliò la corona ducale rialzandone assai la potenza, nè occorre a me dire per quale serie d’iniquità: brutto del corpo e basso di animo, teneva nel resto delle qualità del padre suo, ma senza quel tanto ch’esse avevano di magnifico. Per vari modi e con artifizi lenti usando l’ossequio che aveva Milano alla casa dei Visconti, e bene sapendo valersi de’ condottieri che assai di buon grado s’acconciavano con quella casa, aveva nell’anno 1419 racquistato al suo dominio presso che tutte le città Lombarde, teneva assedio contro a Brescia venuta in mano dei Veneziani, ed avea disegni sopra Genova, della quale era Doge Tommaso di Campo Fregoso, cittadino egregio, valente ed abile a difenderla. Per tale impresa importava al Duca non tenere ostilità dalla Repubblica di Firenze, dove egli mandava grande ambasciata con la richiesta di fermare con patti solenni la pace durata tra loro più anni: e i patti erano, che nè egli s’ingerisse nelle cose di qua della Magra e del Panaro, nè i Fiorentini al di là. A quella proposta si divisero i pareri, e nei Consigli della Repubblica fu molto grave disputazione;[176] prevalsero quelli che volevano la pace, avendoli [156] mossi l’ingordigia di Livorno, per cui giovava lasciare Genova nelle strette. Pareva che fosse glorioso dividere i Fiorentini col Duca la parte d’Italia la quale è posta di qua dal Po, siccome avendo racquistata Brescia divideva egli co’ Veneziani la parte al di là: godeansi avere libero il campo e consentito alle ambizioni cui si erano molto i Fiorentini lasciati andare; ed ai caporioni dello Stato pareva, qualora Filippo Maria mancasse ai patti, potere a lui più giustificatamente muovere guerra, nè si direbbe che l’aveano fatto per comandare e per arricchirsi. Qui pure l’esempio della Repubblica di Venezia seduceva quelli ottimati; quasi che avessero eguale la forza dei chiusi Consigli, e un popolo docile al pari di quello, e pingue l’erario delle entrate d’oltremare con poco bisogno d’aggravare i cittadini.

Siffatte ambizioni gonfiavano, dopo gli acquisti recenti, assai l’animo dei Fiorentini, i quali tendevano a rotondarsi lo Stato: e mentre il reame di Puglia, invaso dagli Angiovini di Provenza che Martino V vi ebbe chiamati, invaso poi tosto dal re Alfonso d’Aragona cui s’era Giovanna dissennatamente confidata, non potea reggersi in sè stesso; e mentre che in quelle bruttissime guerre i due grandi condottieri Braccio e Sforza erano implicati, finchè vi trovarono ambedue la morte; i Fiorentini tenevansi libero il mezzo d’Italia, sul quale avevano in quelli anni distese le braccia. Dei piccoli Principi che allora cingevano gli Stati della Repubblica, non pochi si erano dati ad essa in protezione. Da un lato i Marchesi del Monte Santa Maria ed i Conti Guidi di Dovadola, non che gli ultimi resti dei Tarlati; e in Romagna gli Alidosi, nell’Umbria i Trinci di Foligno, erano anch’essi raccomandati della Repubblica; cui s’era dato con egual titolo Guid’Antonio conte di Montefeltro e d’Urbino, con tutte le terre in sua dipendenza. Aveva, siccome vedemmo, in tutela gli Appiani di Piombino, [157] dove ciascun anno andava per ivi amministrare il governo uno dei più qualificati cittadini di Firenze; e molti dei rami in cui dividevansi i Malespini di Lunigiana venivano anch’essi in dipendenza della Repubblica; potendosi dire così veramente che ella distendesse in fatto il dominio sino al fiume della Magra. Facevansi tali accomandigie generalmente per cinque o sei o per dieci anni, dopo dei quali, se nulla accadesse, venivano rinnovate.[177]

Frattanto le armi del Duca di Milano aveano costretto Genova a darsegli in potestà; così che però i cittadini da sè governassero le cose di dentro come facevano per l’innanzi. Per quell’accordo Tommaso di Campo Fregoso ebbe la signoria di Sarzana; la quale città essendo posta di qua della Magra, parve essere stato da Filippo rotto il confine che per la pace egli medesimo avea posto (siccome dicevano) tra la potenza lombarda e la libertà toscana. Aveva egli anche per accordo col Legato di Bologna mandato sue genti a difendere quella città contro all’assalto dei Bentivogli; che fu tenuta come un’altra e più manifesta violazione della pace. Dal che cercava egli di scusarsi per ambasciatori mandati a Firenze; ma intanto negava l’entrata in Milano a quelli che aveangli i Fiorentini inviato, dicendo veniano di luogo ammorbato, per essere in Toscana allora la peste.[178] In questo mezzo accadde che Giorgio Ordelaffi signore di Forlì lasciasse morendo il figlio Tibaldo sotto la tutela di Filippo, la quale parendo sospetta alla madre, ch’era di casa degli Alidosi, trafugò in Imola il fanciullo; ma fu costretta restituirlo, dappoichè il popolo di Forlì preferì stare alla osservanza del testamento dell’Ordelaffi; e il Duca volendo non al tutto discuoprirsi, mandava le genti del Marchese di Ferrara [158] ad occupare la terra. Su questo in Firenze per lunghe consulte fu deliberato di muovere guerra, sebbene a molti paresse il farla pericoloso, e nulla potervi la Repubblica acquistare per la vicinità della Chiesa; talchè d’ogni impresa, comunque felice, non altro avrebbesi che l’aggravio. Giovanni de’ Medici si legge avere biasimato quella guerra e insieme con lui Agnolo Pandolfini; ma pure Giovanni fu coll’Uzzano tra i primi Dieci creati a fine di governarla. Elessero questi Pandolfo de’ Malatesti capitano, il quale muovendo all’espugnazione di Forlì, trovò che le genti del Duca guidate da Agnolo della Pergola, avendo occupata Imola e mandato l’Alidosi prigione in Milano, facevano forza per avere Zagonara, castello pel quale era loro necessario aprirsi la via a soccorrere Forlì. Muovevano pertanto contro alle duchesche le genti dei Fiorentini per lungo cammino e fatto malagevole dalle pioggie, tantochè giunsero a Zagonara co’ cavalli stracchi: e la pioggia seguitava, che non più i campi si conoscevano dalle vie; ed essi per dare l’assalto ai nemici erano costretti andare nel fango sino alle ginocchia. Carlo Malatesta, ch’era lì a’ fianchi di Pandolfo suo fratello, e contro al parere di Lodovico degli Obizzi aveva persuaso quella mossa, valorosamente combattendo su un grosso cavallo, invano incuorava i suoi che stavano in troppo grande disavvantaggio contro a’ nemici freschi e ordinati in forte sito. La rotta fu grande; Carlo Malatesta preso, Lodovico degli Obizzi ed uno degli Orsini morti; fuggiva Pandolfo col suo siniscalco Niccolò da Tolentino.[179]

Di quella rotta fu molto grande in Firenze lo sbigottimento, e più nei maggiori cittadini che temevano per sè, come quelli che avevano addosso tutto l’odio della guerra e il carico d’una impresa fallita, che pagare bisognava facendo danaro per via di prestanze, [159] cui non sapevano come provvedere. Avevano imposto, per un così detto prestanzone rinnovato più volte nel corso di pochi mesi, novecento migliaia di fiorini d’oro;[180] ed inventato un Monte nuovo per le fanciulle e per i fanciulli da maritare, dove i superstiti guadagnassero sopra le somme decadute per le morti di coloro sul capo dei quali erano stati posti in comunanza, che è modo vizioso e meritamente riprovato.[181] Chiamarono quindi un Consiglio di richiesti più largo che prima non fossero soliti, perchè non bastava empirlo di quelli che assentivano ogni cosa, ma quando è bisogno che paghino tutti, bisogna che tutti pure siano rappresentati. Degli uomini antichi prima non volevano sapere, ma ora sforzati si volsero a quelli che avevano ributtato; ed era tra gli altri Rinaldo Gianfigliazzi, che da quarant’anni figurava nello Stato, vecchissimo allora ma sempre vigoroso così da essere adoprato pure in quegli anni nelle ambascerie; ed uomo di mezzo, come noi vedemmo, e voce da essere ascoltata. Nel Consiglio erano molti giovani, dai quali nulla non si cavava: si alzò Rinaldo e rinfrancò gli animi non meno a speranza di salute che a difesa di giustizia; disse il segreto di quelle guerre: «Voi non avete perduto nulla del vostro, anzi hanno perduto coloro che erano creditori de’ vostri soldi, co’ quali medesimi soldi ne avrete altrettanti più freschi e più forti, perchè chi ha del pane, mai non gli manca cane. Solo in una cosa consiste il vostro rimedio, cioè di non volere che le borse degli uomini impotenti abbiano a pagare quello che non vi si trova e non vi è rimaso. A chi ha da pagare si [160] pongano le gravezze e si risquotano. È più ragionevole difenda il Comune chi ha gli onori e gli oneri del Comune, che chi è escluso dagli onorevoli luoghi della Repubblica. Soldisi gente a piè ed a cavallo, e stiesi alle difese.[182]» Chiamarono venti cittadini a porre le nuove gravezze, per le quali veniva il carico degli uomini potenti cresciuto di cinque soldi per lira: ai quali pareva essere entrati in disperato laberinto, vedeano la guerra andare in lunghezza, e gli spendii dovere uscire dalle loro borse: chiederono sgravio, il quale più volte fu messo a partito e molta pugna se ne fece, ma non si potè mai vincere per alcun modo, perchè gli artefici e il numero dei cittadini di poco stato erano cagione che non si vincesse. Veduto il che, cercarono rendere odiosa la gravezza; e diedero autorità ai messi e berrovieri di portare arme; e degli oltraggi che facessero ai debitori del Comune non si potesse conoscere. Dal che avvennero disordini gravi; ed un Francesco Mannelli, tra gli altri, fu ferito sconciamente.

Delle Arti che prima erano forza della città, cadute al basso (come vedemmo) le Capitudini, rimanevano le Confraternite religiose, antica e sempre molto vivace istituzione che in ogni tempo mantenne in Firenze le forme e gli ordini popolari. Più tardi i Medici, fatti principi, assai penarono a ridurle pazienti e docili alla servitù: ma ora stavano contro gli ottimati, in quelle facendosi congreghe segrete, e lì si sfogavano le ire popolari, e ordivansi trame contro allo Stato. Cosicchè furono insino dall’anno 1419 levate via e chiuse le Compagnie laicali in città e fuori per un miglio attorno, con pene rigorose. Dessero i libri e le scritture al cancelliere del Comune, i mobili venduti e distribuito il danaro ai poveri; i luoghi che [161] fossero atti si riducessero ad abitazione, gli altri si serrassero; e se alcun prete o religioso fomentasse simili adunanze, vollero che fosse procurato col Papa di privarlo de’ benefizi e mandato fuori del dominio.[183] Ma perchè tutti questi rigori, secondo il solito, non bastavano, troviamo in quest’anno 1426 trattarsi del modo come impedire che risorgessero congreghe siffatte contro ai termini delle provvisioni poste.[184]

Ma quanto facessero per tali industrie era nulla, se non pervenissero a ridurre in pochi lo Stato, che era il fine d’ogni cosa, levando di mezzo quei cittadini d’ogni colore i quali s’erano dovuti ammettere per necessità a fare numero nei Consigli; perchè gli ordini della Repubblica a ogni modo erano popolari, nè industria bastava, se le antiche forme non si alterassero e lo Stato venisse al tutto e scopertamente in potestà degli ottimati, grandi o di popolo che si fossero. Quindi, con permesso del Gonfaloniere Lorenzo Ridolfi, ordinarono d’essere insieme una mattina in Santo Stefano settanta dei più eminenti cittadini; tra i quali (secondo si legge) Rinaldo di Maso degli Albizzi, che tutti vinceva per eloquenza, parlò così: «Le vostre discordie vi hanno dato a compagnia chi già ad altro tempo non sarebbono stati tolti per sufficienti famigli de’ vostri maggiori: dimenticate le ingiurie che fossero intra voi, ed accordatevi al popolare reggimento ed al comune utile. Voi siete il Consiglio di questa città; adunque quello che per voi si farà, farà il Comune, perchè il Comune siete voi. In antico per dispetto de’ nobili e degli antichi popolani, ciascuno ha fatto nuovo rimbotto, e aggiunti tanti novissimi e meccanici nelle borse, che ora le loro fave è tal numero che le vostre non ottengono. Io vi ricordo [162] che sempre in tutti i popoli è grandissimi odii tra’ nobili e meccanici cittadini. Nonostante che qui tra noi non sia quella gentilezza che per li savi si conchiude, ma noi siamo gentili appresso a chi noi ci abbiamo fatti compagni; chi è venuto da Empoli, chi di Mugello, e chi c’è venuto per famiglia, ed ora ce li troviamo per compagni al governo della Repubblica. Ed almeno stessono contenti a quello che eletti gli abbiamo, ma e’ ci tengono per servi, e loro essere i signori. Se si ragiona di guerra, eglino la confortano e tra loro dicono: noi non possiamo perdere; però che se la guerra vinciamo, noi siamo al governo appresso di loro, ed empianci le borse; se si perde, che è a noi? conciossiachè niente o poco ci costa, perocchè le nostre botteghe hanno altrettanto d’uscita quanto d’entrata; possessione ne’ danari di Monte nostri non si trovano e non abbiamo. Aggiungono ancora un’altra ragione, e dicono il vero: quando c’è le guerre, la città è sempre abitata da moltitudine di soldati a piede e a cavallo; chi viene per acconciarsi e chi s’è acconcio; chi per le sue paghe e chi per fare la mostra; e così tutta la terra sta sempre piena di gente bellicosa, la quale conviene che ogni sua necessità compri; là ove gli artefici ne stanno grassi e bene indanaiati. Savi cittadini, la guerra dei lupi sempre fu ed è pace degli agnelli; e’ dicono essere gli agnelli, e voi i lupi; e però niun partito, il quale voi ordinate e desiderate che si faccia, non vogliono vincere con le loro fave, anzi desìano e cercano il vostro disfacimento. Che amore credete voi che gli abbiano alla Repubblica coloro a cui mai costò nulla? Eglino non sanno quasi chi essi si sieno; come possono avere amore ad altrui coloro che non l’hanno a loro medesimi? Io ho veduto venire il villano di contado, e dirgli il figliuolo: quando venisti e quando ne andate? per le quali parole pare che più tosto ami che se ne vada, che non ami che ci venisse. Ancora di quelli [163] ho veduti che hanno vietato al padre che non lo manifesti per figliuolo, però che non vogliono che si sappia che il padre sia bifolco o agricolo. Adunque, che amore credete abbiano a voi e alla vostra Repubblica quelli i quali non l’hanno alle loro medesime case? Niuna differenza è al nascere e al morire dal gentile al villano; ma ne’ costumi sono differenze, e massimamente nell’amare; il gentile ama, il villano teme: dico che dal villano all’artefice è poca differenza. C’è poi tra tante ragioni una massima, conciossiachè l’origine della vostra signoria distendeva il contado dal Galluzzo a Trespiano, e ciò che avete d’avanzo possono dire non essere di vostra ragione; anzi di coloro, di cui questi veniticci furono già fedelissimi vassalli. Adunque l’amore è piuttosto nelle origini dei vostri nemici che non è nella vostra Repubblica, e così naturalmente sono desideratori del vostro rovinamento. Sicchè provvedete; che vi è tanto più necessario, che bisogno vorrebbe già essere provveduto. Signori cavalieri, e voi valorosi cittadini, non vedete voi ch’egli hanno poste le gravezze trasordinatamente a tutti voi, i quali avete in mano le redini della Repubblica? E vedete le ingiuste poste, le quali per voi si comprende non le potere soddisfare. Avete addimandati non nuovi modi, ma antichi ed usati da lunghe consuetudini. In simili condizioni di trasordini si è sempre usato lo sgravio, acciocchè quelle poste che sono fuori del ragionevole, si correggano e rechinsi al ragionevole per lo sgravio. E niente hanno voluto acconsentire; innanzi vogliono contaminare l’antico consueto dello sgravio, che ottenerlo colle fave alla civile usanza. Non sapete voi che la lunga consuetudine si ritrova in tra le leggi? E chi dalla legge si parte, rinunzia al ben vivere ed alla civile libertà? Per certo voi potete vedere come in tutto cercano il vostro disfacimento e quello della vostra Repubblica. Credete voi che non tengano a mente la crudeltà de’ loro padri, [164] e che non sappiano quanto la loro perfidia si distese sopra il sangue de’ vostri maggiori? Cercate i conventi de’ frati, e trovereteli pieni di corpi e di carogne de’ vostri antichi; guatate il muro del Capitano, che ancora ritiene le note del sangue di tanti valenti cittadini, i quali erano sufficienti per le loro mani tutta lingua latina essere giustamente governata. Qual cosa ci fu che non fosse piena di pianto e di lamento di vedove e di pupilli? Tutta la città era piena di oscuri vestimenti con volti tutti lagrimanti e pieni di dolorosi aspetti. Non sentiste voi le voci delle misere madri, degli orfani e de’ pupilli gridare e dire: non vi fate compagni coloro che ci hanno tolti i nostri sposi e i nostri padri, i quali furono l’onore e la gloria di questa Repubblica. Qual via o qual contrada sapete voi, che ancora non vi rinnovelli delle reliquie delle loro arsioni? Perchè col fuoco le loro furie l’arsero e disfecero. Quaranta maledetti mesi tennero in servitù questo popolo! tanti sbanditi, tanti confinati, ed ancora con veleni nobili cittadini falsamente feciono morire, e tali con le coltella perirono, e non era cittade che non fusse piena de’ vostri antichi: chi v’era in esilio, chi per isbandito e tale per rubello: e così le stranie patrie abitavano. Piacciavi perdio di non volere stare pertinaci nelle vostre discordie, acciocchè quelle non sieno più l’esca che accenda il fuoco, il quale fu spento da quel vostro cittadino di Bardo Mancini. Voi ci avete misto i campi di Figline e di Certaldo e di cotali luoghicciuoli, con assai disutili schiatte; e venutici colla bottega al collo, hanno tenuto in mano il vostro gonfalone. Ancora avete aggiunto a questi così fatti mostacci, ammoniti ed originali ghibellini i quali sapete che sempre furono nemici del guelfo reggimento; e addietro avete lasciato i nobili della vostra città. Questo dite che fate per le incomportabili superbie che usavano i loro antichi: la superbia non si niega che non sia abbominevole a [165] comportare, ma e’ non è minore il fastidio presente della stolta plebe, che si sia la preterita superbia degli antichi e de’ nobili. Diremo noi che sia superbia incomportabile quella di colui che è nato de’ Bardi, se desidera di essere maggiore che il nipote di Piero Ramini, e il figliuolo di Silvestro fornaio? Non è egli più giusta cosa, che quegli che è nato de’ Rossi sia sopra quello dello Stucco, che quello dello Stucco sopra lui? o che quel seggio sia negato a’ Frescobaldi, che è conceduto allo Stuppino? Senza che non contendono questo, ma desiderano egualità con tutti, e non maggiorità di persona. Dico, che queste non sono superbie, ma più tosto ragioni naturali e comandate dalla grandigia e dalla nobiltà della Repubblica; avvegna dio che, da quanti più nobili è governata la Repubblica, tanto è più nobile la Repubblica. E nientedimeno i nobili addietro avete lasciati, e i vostri nemici per le vostre sfrenate volontà vi avete fatti compagni. Dico che a voler tutti i vostri benefizi conservare, è da dar modo che le borse si vuotino delle maladette pravità de’ mali uomini. Sapete che la terra è compartita in tre generazioni d’uomini, cioè scioperati, mercatanti ed artefici. Avete le leggi de’ vostri antichi, che nel numero de’ Signori sia due delle Arti minori, e gli altri sieno delle sette maggiori Arti e scioperati mescolatamente; e per simile modo e ne’ Collegi. Ma il Consiglio del popolo, dov’è il tutto delle volontadi, e dove si conchiude tutte le cose del Comune, vi è delle ventuna Arte, sette delle maggiori, e quattordici delle minori. Adunque vedete, che le due parti vi è delle minori e il terzo delle maggiori; così la legge non è obbedita, e però non vi riescono le vostre volontadi, perchè naturalmente vi sono nemici e hanno le fave nelle mani. E’ si vuole le quattordici minori Arti recare a sette, e che il numero degli artefici seguiti lo scemo delle Arti: dico là dove sono due artefici, torni ad uno, ed a quel mancamento vi si aggiunga [166] le maggiori Arti e i Scioperati. Questo vi sia assai abile a fare: come uomini nuovi, non intendono quello che si fanno, se non quando comprendono fare il vostro disfacimento. Noi il senso della legge e la volontà nostra faremo trarre a un medesimo fine: sempre la chiosa di colui che ha fatto il testo va innanzi a tutte le altre; ed è ragionevole, avvegnadio che tutte le leggi, per efficaci e giuste che sieno, stanno soggette alla forza: chè sempre la spada nell’ultimo è il competente giudice. Ed è tra voi la forza e il dominio sopra la gente dell’arme, per l’asprezza della presente guerra: che avremo se non a soldare due tre migliaia di fanti, e mostrare di voler fare una segreta cavalcata in accrescimento della Repubblica, e quelli in un deputato giorno, sotto colore di fare la mostra, condurli in sulla maestra piazza a far pigliare le bocche per le quali gente plebea vi potesse noiare? E chi ha il governo, adoperi le fave col favore della spada, e per questa via si verrà alle desiderate conclusioni. Qui non resta se non a dare il modo a seguire l’ordine ed eleggere il tempo abile a tanto fatto. Se mestiero fosse la mislèa, vi è debito non fuggirla, ma seguitarla. A che ricorreranno queste vili Capitudini? I fornai si armeranno di pale, e con le vostre schiave ne faranno cordoglio; e così altri coi loro trafficatori si compiagneranno della vostra gloria. Però in tutto vi si prega, e me con voi insieme, a dare il modo che gli uomini degni abbiano gli onorevoli luoghi del Comune; e che questi veniticci stiano alle loro articelle a esercitare gli alimenti necessari a nutricare le loro famiglie, ed in tutto dal governo della Repubblica escluderli siccome seminatori di scandali e di discordie. E se nessun altro più ottimo rimedio ci vedete, prego si manifesti; e quanto più presto, meglio: e quello che è più utile, perdio, con tutta sollecitudine si faccia.»

A questo parlare tutti alzarono le mani al cielo, [167] lodando Dio e messer Rinaldo; e tutti si volsero a Niccolò da Uzzano, mostrando talento d’udire il parere di Niccolò quanto aveano mostrato piacere del consiglio di Rinaldo. Ma il grande Anziano lodando il fatto, una cosa aggiunse: «Voi sapete come la famiglia de’ Medici è stata sempre capo e guida della plebe. Ora voi vedete Giovanni di Bicci essere capo di tutta la famiglia, ed è sostegno e guida degli artefici ed ancora di più mercatanti, i quali reputano lui padre non che di tutte le Arti minori, ma delle maggiori sostegno e campione. Io consiglio che chi si sente a lui intimo, lo richiegga di recarsi alla nostra intenzione, ed ogni volta che questo sia senza nulla di dubbio, faremo tutto quello che il valente cavaliere ha consigliato.» A queste parole ciascuno s’accordò; e messer Rinaldo fu chiamato a richiedere Giovanni de’ Medici alla loro congiura. Andò Rinaldo ed espose il fatto; al quale Giovanni si negava risolutamente, com’era da prevedere; e biasimandolo forte: «Donde cavate voi (disse) che i sollevamenti de’ popoli sieno pace e tranquillità de’ cittadini? Se il vostro padre vivesse, ei non avrebbe voluto che il popolo fosse del suo luogo rimosso se non per abilità de’ poveri uomini; e se voi tenete a mente i suoi portamenti, direte questo medesimo essere così.» Qui annoverò alcuni benefizi che Maso avea fatti a pro degli infimi, ed i freni posti alle soperchierie dei potenti. Aggiunse: «Volete ora voi ritrovarvi a disfare con insopportabile ingiuria, tanti benefizi del vostro eccellente padre verso questo popolo? Io v’annunzio per vostro avviso che quando eglino avessino acconci loro, che egli sconceranno voi e me e gli altri buoni uomini di questa città. Io, come ho trovo il popolo, così il voglio lasciare; ed ancora ne conforto voi che il simile facciate.» Giovanni accennava ai grandi, che avrebbono sconciato ben tosto tutta la parte dei popolani e tutti gli ordini dello Stato. Nè credo l’Uzzano altra replica si aspettasse, [168] nè altra volesse, avversi ambedue ai modi violenti a cui Rinaldo parve inclinare. L’Uzzano esortava si ripigliasse lo Stato come aveva fatto Maso degli Albizzi nel 93, serrando le borse senza più fare rimbotti, cioè senza chiamarvi per via di partiti altri nuovi cittadini; voleva che fosse rinnovata la balía ogni dieci anni regolarmente, innanzi cioè che avesse potuto alterarsi quello Stato, perchè le balíe non uscissero di mano ai capi di esso, nè aprissero mai le vie degli uffici ad altri che ai loro. Bramava accostarsi quanto più potesse ai modi e alle forme della Repubblica veneziana: andava però con passi malfermi, secondo imponevano le troppo diverse condizioni; e in certo suo scritto pare consigli ringiovanire le decadute istituzioni della Parte guelfa, tornare cioè ai modi antichi, soli possibili in questo popolo com’egli era.[185] Giovanni voleva anch’egli serbare le forme antiche della Repubblica, null’altro cercando a sè ed ai suoi che il favore popolare.

Ma una parte si formava intorno a lui non consenziente, e i figli suoi Cosimo e Lorenzo gli facevano rimprovero del non mostrarsi più vivo, stimolati anche da un Averardo di Alamanno de’ Medici, uomo cupido e ambizioso. Dai quali Giovanni qualche rara volta si lasciava condurre in Palagio; ma rifiutandosi, quanto a lui, ad ogni cosa per cui potesse nascere divisione nella città. Diceva: «Per me io voglio attendere alle mercanzie dalle quali ebbi ogni grandezza, e da quelle in fuori la Repubblica non mi glorifica; [169] perchè quand’io ero indigente, non che la Repubblica mi alzasse, ma cittadino non ci era che mi conoscesse o che non mostrasse di non avermi mai veduto.» Giovanni di Bicci e Niccolò da Uzzano, ambedue vecchi, s’adopravano a contenere ciascuno i suoi; ma troppi già erano ai quali giovava la guerra aperta, e che cercavano ad essa cogliere le occasioni. Erano in Palagio due Cancellieri; che l’uno, ser Paolo di Lando Fortini, era tutto degli Uzzani, e l’altro, ser Martino di Luca Martini, stava co’ Medici. Per il che cercando quegli rimuoverlo dall’ufficio, ottennero questi che invece ser Paolo fosse levato: l’anno dipoi fu casso il Martini; del che si legge il vecchio Giovanni avere avuta grande afflizione.[186]

Questo è il solo fatto di cui si trovi nei minori Cronisti alcun cenno, ma basterebbe anche solo a mostrare già essersi scoperta la parte de’ Medici, Rinaldo a quella dichiaratamente avverso, avverso ma cauto Niccolò da Uzzano. Di tutto ciò noi però teniamo conto accurato, perchè della grande mutazione che indi avvenne cerchiamo indagare con ogni studio le prime origini, oscure in gran parte. Ma quanto alle cose fin qui dette ci corre obbligo di dichiarare tutto il racconto essere fondato sopra la nuda testimonianza d’un solo autore contemporaneo, ch’è Giovanni Cavalcanti: da lui traeva il Machiavelli non che la materia del quarto suo Libro, bene spesso le parole, senza che per altri libri o documenti crescesse lume a questi fatti.[187] La radunanza in Santo Stefano e i discorsi [170] che vi si tennero, non hanno per noi altro mallevadore che il Cavalcanti, alla cui autorità non vorremmo starcene alla cieca; e quell’arringa che egli poneva in bocca a Rinaldo, sembra esprimere a dir vero anzi i concetti degli antichi grandi che i propri dell’Albizzi. Ma perchè assai bene e con linguaggio molto nervoso ci mette innanzi le divisioni che erano in seno della Repubblica, credemmo potesse riuscire utile all’istoria; e quando ai lettori fosse apparita troppo lunga, saremmo ingannati del nostro giudizio. Inoltre il fatto dell’essersi allora qualcosa agitato, riceve conferma per altri indizi, sebbene lievi, che a studio potemmo altrove raccogliere.[188] Torniamo al seguito del racconto.

Ai reggitori di quello Stato, sebbene intorno si ammontassero le difficoltà, non mancò l’animo; e rifatti di danaro pei balzelli pur quella volta riscossi, pigliarono a soldo quanti poterono Capitani che fossero al caso da restaurare quella guerra. Fidavano molto nelle armi Braccesche, nelle quali era il conte Oddo, giovinetto che dopo la morte del padre suo Braccio aveva seco governatore di tutte le imprese Niccolò Piccinino, che fu il migliore tra i discepoli di Braccio, e dopo lui tenne la condotta di quelle armi: bramò egli fare un’impresa segnalata contro a Faenza, mosso da uno de’ Manfredi, ribelle che si era posto ai servigi della [171] Repubblica. Sperava favore costui nei villani delle valli del Lamone, i quali vedemmo un’altra volta quanto potessero; ma perchè i soldati non attendevano che a rubare, gli furono contro, e chiudendo i passi, misero in rotta quei predatori, uccidendo il misero e pro’ giovinetto, che bello della persona e franco nelle armi s’era valorosamente diportato. Rimase prigione il Piccinino, e fu menato nella città di Faenza: quivi egli riusciva con le persuasioni a voltare quel Signore, sicchè lo condusse a entrare in lega co’ Fiorentini. I quali però venivano successivamente a perdere quante fortezze e terre aveano in Romagna, alcuna di esse abbandonate con poca difesa per viltà dei Commissari che le tenevano: per il che apparve tanto più eminente la virtù di Biagio del Melano; il quale, mancatogli ogni mezzo alla difesa della rôcca di Monte Petroso e pure negando renderla, e i nemici con animo di costringerlo avendo appiccato il fuoco all’intorno; Biagio si fece ai merli, e gittate prima a terra quante avea robe in casa leggere e morbide, vi gettava sopra i propri suoi figli di piccola età, i quali furono dai nemici pietosamente raccolti, ed egli lasciossi perire in mezzo a quelle fiamme anzichè rendere la fortezza: il nome di lui fu molto in patria celebrato, e la Repubblica provvedeva splendidamente ai rimasti figli del preclaro cittadino. In Val di Tevere Capitano era Bernardino detto della Carda, di quella casa degli Ubaldini la quale, avendo perduto lo Stato per lunghi assalti dei Fiorentini, serviva ad essi ora per la necessità di vivere colla spada, com’era l’usanza dei signori castellani: da costui nacque (la madre s’ignora) quel Federigo che risuscitò la casa dei Montefeltri e fu il migliore dei Principi di quel secolo. Avea Bernardino incontro le forze dappertutto vittoriose di Guido Torello e d’Agnolo della Pergola, dai quali essendo colto in Anghiari, fu messo in rotta e andò prigione in Lombardia: e frattanto il Piccinino, [172] per indugi che i Dieci posero a soddisfarlo di certe pretese, lasciò allo spirare della sua condotta per sempre i servigi della Repubblica; alla quale, come capitano del Visconti, fece poi soffrire gravissimi danni.[189]

Tante rotte successive e tante perdite avean messo in grave angustia i Fiorentini; dai gioghi alpestri della Romagna fino alla valle di Chiana scoperto lo Stato delle più valide sue difese con tanto studio acquistate, incerta la fede de’ Signori circostanti, e Siena e Lucca male disposte perchè in sospetto esse medesime delle ambizioni della Repubblica. Bisognosa di soccorso, cercava essa quindi con ogni industria procurarselo. Sigismondo imperatore avea differenze col duca Filippo; tantochè avendo speranza condurlo in Italia contro lui, gli mandarono ambasciatori, fidando anche molto nel favore dello Spano. Ma essendo Sigismondo tuttora in guerra ed in assai mala inclinazione verso la Repubblica dei Veneziani, riusciva inutile ogni pratica.[190] Al Papa era andato due volte Legato Rinaldo degli Albizzi, e dimorato in Roma più mesi,[191] s’ingegnava intimorirlo delle intenzioni che il Duca aveva nel Reame, per le quali praticava segretamente col re Alfonso. Ma il Papa cercava invece condurre i Fiorentini ad una sforzata pace, alla quale il Duca mettea condizioni impossibili ad accettare, null’altro volendo che turbare in ogni modo lo stato d’Italia. Ogni speranza era dunque posta nella Repubblica di Venezia, dov’erano andati prima lo stesso Rinaldo, indi Palla Strozzi, e troviamo che vi andasse Giovanni de’ Medici. Lorenzo Ridolfi, che seguitò a questi e poi vi rimase, penò lungamente a fare capace quella circospetta Signoria della convenienza di pigliare in tempo riparo contro alle aggressioni che addosso a lei [173] si volterebbero quando ella fosse rimasta sola. Si narra che un giorno orando in Senato, Lorenzo dicesse queste parole: «i Genovesi non aiutati da noi fecero Filippo Maria signore; noi derelitti da Voi, e impotenti ad ogni difesa, lo faremo re; Voi, quando non sia rimasto chi possa, benchè volesse, darvi soccorso, Voi lo farete imperatore.» Da prima ottenne il Ridolfi che la Lega venisse accettata in via di massima, continuando pure a negoziare col Duca la pace. Allora in Venezia pervenne il conte Francesco da Carmagnola, grande uomo di guerra, al quale doveva Filippo Maria le sue maggiori vittorie; ma o che il debito pesasse a questo, o che il Carmagnola fosse troppo alto per un principe di quella fatta, si venne tra loro a tale rottura, che il Conte si partiva cercando condurre quante più potesse armi italiane contro a Filippo. Ed era in Venezia nel supremo magistrato Francesco Foscari, che ambizioso d’ampliare il dominio, male s’adagiava in quelle cautele cui era solita la Repubblica: ambedue questi diedero mano possente e valida al Ridolfi, il quale ammesso un altro giorno in Senato, «Se (disse) v’è cara quella libertà di cui s’onora la città vostra, unite le armi vostre alle armi di noi, che pure siamo e vogliamo essere liberi; noi per questa guerra abbiamo già speso più che due milioni di fiorini, venduti per essa i gioielli delle spose e delle figlie nostre; ma pure ancora possiamo con Voi portarne il peso, e noi vi chiediamo d’averlo comune. Tenete a mente, che a duchi ed a re, senato e popolo sono nomi odiosi egualmente, e che hanno animo a disfarli: oggi voi siete di noi più possenti; ma non basterete, vinti noi, contro alle forze di questo Duca, il quale se cerca la nostra ruina, vuole anche poi farsene scala alla vostra, ed alla oppressione di quanti rimangono uomini liberi in Italia.» Fu stretta la Lega, nella quale entrarono il Marchese di Ferrara ed il Signore di Mantova, e il duca Amedeo VIII di Savoia, ed il re Alfonso d’Aragona, [174] e la Repubblica dei Senesi; il Carmagnola supremo Capitano di tutta la guerra, che fu bandita a’ 27 gennaio 1426. Nella quale i Fiorentini avrebbono posto in campo sei mila cavalli e sei mila fanti, i Veneziani da nove mila cavalli e otto mila fanti.[192] Era tra le condizioni della Lega, che fosse in arbitrio dei Signori Veneziani fare pace o tregua secondo che a loro paresse; ed avevano pattuito che a loro dovessero andare tutti gli acquisti che si facessero in Lombardia, quelli di Romagna e di Toscana venendo soli in potestà della Repubblica di Firenze, quando non fossero della Chiesa. Era patto disuguale, la Romagna essendo di ecclesiastica preminenza; ed ai Fiorentini che portavano i due quinti della spesa, quello che avanzasse da guadagnare non si vedeva; ma era minaccia contro al Signore di Lucca, ed io non credo per nulla piacesse cotesta clausola ai Senesi.[193]

L’entrare in campo della Repubblica di Venezia aveva sommosso i Guelfi di Lombardia, che è dire la parte degli artigiani delle città e tutto il popolo campagnuolo, oppresso da quelle castellane Signorie le quali stavano per il Duca. La forza che aveva Firenze trovata quando era capo di Parte guelfa contro a’ piccoli Signori intorno a sè nel contado, stava ora in Lombardia per la Repubblica de’ Veneziani, che bene sapeva usare il vantaggio; cosicchè il passare sotto al dominio di questa, era alleviare la condizione di popoli avvezzi ad imperi soldateschi, i quali per essere in mano di nobili, anche sapevano di straniero. Brescia avea scosso popolarmente il giogo del Duca, e con l’aiuto dei villani che discendevano giù dai monti, faceva aspra guerra contro ai soldati delle fortezze, che unite tra loro da mura grossissime con torri e bastioni, [175] la stringevano;[194] città serbata in ogni tempo alle grandi prove ed al patire gloriosamente. Quivi era dunque allora il nodo di quella guerra, ed i Veneziani vi mandarono il Carmagnola con tutte sue genti, e scrissero ai Dieci perchè avviassero prestamente in Lombardia quelle che la Repubblica di Firenze teneva in Romagna sotto la condotta del Marchese di Ferrara venuto a parte della gran Lega. Filippo Maria dal canto suo richiamava dai confini di Toscana l’esercito; al quale essendo precorsa l’oste fiorentina, contendeva il passo del Panaro, bene alloggiata e fortemente in sulla riva di là: ma i ducheschi, scendendo il fiume, lo passarono a poca distanza, e avuto il soccorso di Agnolo della Pergola, si poterono condurre sicuramente oltre Po, non senza infamia del Marchese di Ferrara, che nulla avea fatto a impedire quella mossa. Ma quella unione delle due Repubbliche latine, che erano i due cardini dell’italica libertà, siccome avea dato ardire e speranza di nuova salute ai popoli di Lombardia, così era dovere che ai Signori dispiacesse; e a quello d’Este pareva essere, tra’ due pericoli, meno grave e innanzi tutto meno odiosa la potenza del Visconti, di quello che fossero o la vicina grandezza della Repubblica di Venezia, o le popolari libertà che i Fiorentini venivano oggi a promuovere in Lombardia.[195]

[176]

A noi non ispetta narrare l’assedio memorabile di Brescia, nè la ferocia popolare contro a’ Ghibellini che teneano le castella, nè le crudeltà di questi, nè l’arte di guerra che dispiegò il Carmagnola, finch’ebbe la terra in capo a otto mesi, facendone acquisto che indi rimase alla Repubblica di Venezia. Intorno a Genova era grande sforzo dei fuorusciti che una volta giungevano fino sotto le mura della città, e si credevano rientrarvi: principali erano il Fregoso e un Fieschi, ch’ebbero aiuto dai Fiorentini di buon numero di fanti sotto la condotta del prode ed infelice Tommaso Frescobaldi, il quale caduto in mano ai ducheschi, e messo alla corda perchè rivelasse la intelligenza che aveva dentro, con forte animo ricusando tradire al nemico i segreti del Comune, morì nei tormenti: la Repubblica dotava due figlie lasciate dal fedele cittadino.[196] Il Papa frattanto s’interponeva per la pace, ed era Legato per esso il buon Cardinale Niccolò Albergati bolognese, il quale credette averla composta;[197] ma era inganno, perchè Filippo che aveva promesso cedere il forte castello di Chiari, faceva assalire i soldati di Venezia ch’erano andati per occuparlo; cosicchè la guerra più fieramente si ripigliava dalle due parti, che ebbero insieme prima ad Ottolengo, poi a Casa al Secco presso Cremona, scontri inutili ma sanguinosi. Filippo istesso, contra suo costume, era venuto della persona sua con grande seguito in Cremona per dare fermezza a’ suoi partigiani e sopravvedere le difese. Nel Po fu battaglia tra’ galeoni del Duca e quelli che i Veneziani avean fatto risalire sotto la condotta di Francesco Bembo, il quale ivi ottenne splendida vittoria. [177] Ed altra più insigne e molto famosa ebbero le genti della Lega presso Maclodio, dove i ducheschi spintisi innanzi per terreni paludosi, in fondo ai quali il Carmagnola s’era cacciato a disegno, si viddero a un tratto chiusa la via dietro per nuovo assalto delle genti soldate dai Fiorentini sotto la condotta di Bernardino della Carda, riuscito di fresco a fuggirsi di prigione, e di Niccolò da Tolentino. Si gridava dinanzi San Marco, di dietro Marzocco, e nel mezzo Duca: del quale l’esercito pareva condotto a ultima ruina, se non avesse il Carmagnola lasciato a una parte dei vinti agio di porsi in salvo; o fosse prudenza, temendo il valore di uomini disperati, o dubbia fede, siccome parve più tardi al Senato di Venezia.[198] Questi, per allora non fattane accusa al suo Capitano, si rese più agevole alla conclusione della pace, per la quale erano andati ambasciatori dei Fiorentini a Ferrara Palla Strozzi e Averardo dei Medici: mediatore sempre il Cardinale di Santa Croce. Il nodo era Genova, che i collegati volevano il Duca lasciasse o la rimettesse in mano del Papa: negò pertinacemente;[199] ma infine l’accordo si fece, avendo il Duca ceduto, oltre a Brescia, del suo territorio, Bergamo e tutta la parte di Lombardia insino al fiume dell’Adda, rimasto confine ai Veneziani finchè durava lo stato loro: e fu all’Italia beneficio quell’acquisto, caduta Milano in mano a stranieri, e Venezia mantenendosi infino all’estremo della sua decrepitezza pur sempre libera e latina. Maggiore cosa fu avere innanzi Amedeo duca di Savoia aggiunto ai suoi Stati Vercelli, stringendo d’allora in poi tra l’Adda e la Sesia il Ducato di Milano. Aveva quel Duca sperato l’acquisto alla sua casa di tutto il Ducato [178] per via di nozze del figlio suo con la figlia unica di Filippo: ma quei negoziati, che poteano pe’ tempi avvenire salvare l’Italia, presso al conchiudersi poi svanirono.[200]

Capitolo VII. CATASTO. — RIBELLIONE DI VOLTERRA. — GUERRA DI LUCCA. [AN. 1427-1433.]

Costò quella guerra contro a Filippo Maria tre milioni e mezzo di fiorini, e aveano di spesa continua settanta mila fiorini al mese.[201] Non poteva la Repubblica oggimai vivere disarmata e non sapeva; entrata anch’essa nel ballo delle ambizioni, minacciata e minacciante, e avendo levato di sè gran sospetto appresso ai popoli di Toscana. Poniamo qui una impresa fatta contro Marradi (sebbene avvenuta alcuni mesi più tardi), per la quale i Fiorentini acquistarono quella terra pel sito fortissima e chiave delle Alpi, cacciandone uno dei Manfredi di Faenza. Ma quella impresa pure ebbe biasimo dai molti che amavano lo stare in pace e con poche spese. Al fare moneta non bastavano gli antichi modi; cagione di scandali il nuovo reparto, nè a rimutarlo si sarebbero chetate le accuse. Aveano cercato già da molti anni descrivere i beni e le entrate di ciascuno, cosicchè non venissero le persone tassate ad arbitrio, ma fatta imposizione sopra gli averi da una legge fissa e con regolate proporzioni: questo domandava, siccome vedemmo, il popolo di Firenze quando si levò nel settantotto; ed anco di prima un estimo o tavola o censimento dei beni, decretato inutilmente, fu messo da parte perchè ai potenti non piaceva [179] cotesta forma d’egualità.[202] Ma oggi essendo di tanto cresciuto il bisogno del danaro, gridavano tutti che si mutassero le gravezze, cosicchè i pochi volta per volta non le ponessero, ma una legge misurata dal parere di tali che usciti di mezzo alla buona popolare comunanza oprassero (quanto era possibile) senza parte. Scrive il Cavalcanti, avere Giovanni dei Medici molto confortato questo modo, egli solo tra’ patrizi e tra i potenti della Repubblica; dal che il Machiavelli passò a dire che Giovanni ne fosse autore e trovatore, essendo ciò stato a lui principio di grandezza. Ma una recente pubblicazione metteva in luce come Giovanni non fosse stato nei Consigli promotore nè grande fautore di quella legge, che fu invece messa innanzi e propugnata da Rinaldo degli Albizzi e da Niccolò da Uzzano.[203] Nei Consigli si veniva, come vedemmo, a cose fatte negli scrittoi e nelle botteghe, talchè i voti erano spesso d’apparenza: l’istoria officiale non è mai l’istoria intera, e non è sempre l’istoria vera. Qui bene sappiamo essere la legge voluta dal popolo, col quale stavasi Casa Medici, e gli ottimati la proposero quando viddero sè fatti inabili a impedirla. Giovanni forse non si teneva certo che la formazione del Catasto in mano ai potenti, che ogni cosa regolavano, portasse quel frutto che il popolo ne sperava; nè della natura sua era il troppo commettersi e sbracciarsi molto; nè poteva essere che tacesse in lui, come in uomo tutto mercante, l’avarizia, sapendo che avrebbe, siccome avvenne, egli pagato assai più di quello che prima soleva. [180] I primi passi di Casa Medici, oscuri e ambigui per sè stessi, ci sono mal noti, nè abbiamo certezza d’avere sincera e intera l’immagine di questo Giovanni. È poi da notare che fu da Cosimo figlio suo il Catasto messo da parte per alcun tempo.

Fu il Catasto decretato a’ 22 maggio 1427. Dichiara il Proemio, seguire la voce e il comune desiderio del popolo di Firenze, non si potendo per lingua nè per iscrittura numerare quali e quanti cittadini avesse l’antica inegualità dei carichi spogliato dei beni, condotti a disperazione o fatti incerti dell’essere loro, privati della patria, o tenuti fuori quei che bramavano di tornarvi; e insomma, di quanti e quanto gravi mali fosse cagione quella inegualità. Ordina che debba ogni cittadino sottoposto alle gravezze del Comune, prima denunziare ciascuno sotto al Gonfalone suo il nome di tutte le persone componenti la sua famiglia, l’età, le industrie o l’arte o mestiere che ognuna d’esse esercitava; e similmente i beni stabili ed i mobili da loro posseduti dentro o fuori il dominio fiorentino e in qualsivoglia parte del mondo, le somme di danaro, i crediti, i traffichi e le mercanzie, gli schiavi e le schiave,[204] i bovi i cavalli gli armenti e le greggie che a loro spettavano: chiunque occultasse alcuna cosa, era soggetto alla confiscazione di quegli averi che non avesse manifestati. Le quali portate fossero poi divise in quattro libri, uno per Quartiere, per cura di dieci cittadini eletti sul numero di sessanta estratti a sorte, e i quali fossero gli ufiziali destinati alla compilazione del Catasto, e a regolare e distribuire le nuove gravezze. Dovevano questi, di tutti gli averi descritti in quei libri, cavare le rendite minutamente capo per capo, e quindi al saggio del sette per cento ridurre le rendite in capitale, di modo che per ogni sette fiorini di rendita se ne ponesse cento di stima, e questa fosse notata [181] in piè di ciascuna posta. Dalla quale stima si doveano detrarre gli aggravi che vi posassero sopra, cioè canoni o livelli ed obblighi e debiti, la pigione delle case da loro abitate e delle botteghe, la valuta delle cavalcature necessarie all’uso loro; e inoltre dugento fiorini di capitale per ogni bocca la quale fossero essi tenuti d’alimentare: col variare il numero di queste persone cresceva o scemava lo stato attivo dei cittadini sopportanti. Il quale essendo così fermato e al netto delle detrazioni, pagasse ciascuno per ogni cento fiorini di capitale dieci soldi, che viene ad essere il mezzo per cento, ossia la decima parte del frutto a ragione del cinque per cento.[205] E se avvenisse che per le detrazioni fatte nulla avanzasse, dovevano gli ufiziali sommariamente imporre al cittadino quella rata, della quale egli andasse d’accordo. In tutto e per tutto al giudizio degli ufiziali doveva starsi, e le quote imposte era vietato correggere o alterare fino alla nuova formazione del Catasto, il quale doveva ogni tre anni essere rinnovato; nè con altra regola distribuirsi gravezze od imposte. Con l’istesso ordine si formarono altri Catasti, cioè dei contadini, delle università delle Arti, dei forestieri abitanti dentro al dominio, e d’ogni persona ordinariamente non tenuta al pagamento delle gravezze.[206]

[182]

È da notare come la scelta d’ufiziali cui tanto arbitrio era dato, venisse commessa primariamente alla sorte: ma fuori di questa, a Firenze non pareva giustizia essere nè egualità, e il contentarsene dimostrava pur sempre un legame di scambievole fiducia nella gran massa della cittadinanza. Contiene la legge ogni sorta di facilità, e di cautele e di riserve a pro dei gravati; e come riusciva dura a coloro ch’erano soliti da sè medesimi esentarsi, così fu allegrezza agli impotenti ed ai poveri o a tutto il popolo universalmente. Vedeano coloro che prima si erano dalle gravezze difesi con la scusa della pompa, ossia del grado il quale erano per gli uffici costretti tenere, essere oggi ricresciuti dall’uno a sei. Niccolò da Uzzano, che mai di prestanza non avrebbe passato i sedici fiorini, fu per il Catasto tassato in fiorini dugentocinquanta; tra’ ricchi, il solo Giovanni dei Medici avrebbe avuto poco divario nella posta. Ma i patrizi dicevano il Catasto non essere giusto: durare essi soli tutte le fatiche a pro del Comune e a mantenere la città grassa; occultare gli altri sovente gran parte di loro ricchezza, e non esserne tassati. Al che dai plebei si rispondeva: «perchè cercate voi dunque gli onori, che poi volete anco esserne rimeritati? e se delle ricchezze sono in persone ignote e meccaniche, e che ne’ traffici non le manifestano e per questo non sono accatastati; rispondesi, che quello avere che frutto non mena, catasto non merita; perocchè voi avete nella legge del Catasto, che in su la rendita si misuri il valsente: così adunque dove non è rendita non è valsente; e però se egli hanno occultato l’avere, e rendita non si vede, catasto non merita.» Aggiungevano: volesse Iddio che il Catasto fosse stato trovato innanzi che la guerra così a gabbo fosse stata presa contro a Ladislao ed alla Casa di Francia, tutrice antica del nome guelfo; la quale guerra fu al Comune causa di spendii e di pericoli.

Ma come accade (bene avverte il Machiavelli) che [183] mai gli uomini non si soddisfanno, e avuta una cosa, non vi si contentando dentro, ne desiderano un’altra; chiedeva il popolo che si riandassero i tempi passati, e veduto quello che i potenti secondo il Catasto aveano dovuto pagare di più, si facessero pagare tanto che eglino andassero a ragguaglio di coloro i quali aveano pagato quello che non dovevano, nè potevano senza che fosse disfacimento loro e dei figliuoli e della casa. Alla quale tanto odiosa dimanda Giovanni de’ Medici troviamo si contrappose. «Se le gravezze (diceva) per l’addietro erano state ingiuste, ringraziare Dio poichè si era ritrovato il modo a farle giuste; sia questo modo pace del popolo e non motivo di divisione alla città; non fu nè esser può che nei popoli e nei governi non siano errori ed ingiustizie: che fate voi figliuoli miei? abbiate pazienza a quello che avete sin qui conseguito, e non vogliate ogni cosa con tanta sottilità vedere; perocchè di filo troppo sottile più spesso la gugliata si rompe: vogliate piuttosto essere creditori che debitori, io dico delle ricchezze di Dio, perchè ci è sopra capo chi ha il giudizio delle cose e la bilancia dei pregi.[207]» Ottenne così che del ragguaglio non fosse altro.

La somma da levare per via del Catasto montava in città a venticinquemila e cinquecento fiorini d’oro; ma erano pôste che ogni tratto si ripetevano: quelle levate al modo antico rendeano ciascuna venti sole migliaia di fiorini, ma ne pigliavano due o più per volta, e nel corso di pochi mesi aveano fatto pagare quarantacinque di tali prestanze:[208] per una guerra di poca spesa qual si fu quella contro Marradi, troviamo levassero un quarto di Catasto. Ma questa era come una tassa permanente e senza la subita odiosità dell’arbitrio, laonde cercavano ampliarla col fare che i distrettuali ed i popoli soggetti fossero anche eglino accatastati; al che i Sangimignanesi ed i Volterrani [184] faceano grandissima resistenza. Diceano: «non siamo a voi sottoposti se non in quanto per nostra volontà volemmo; per nostro arbitrio chiamiamo il Capitano di nostra terra, ed eleggiamo liberamente il Potestà; pochi anni addietro il Capitano per noi si eleggeva e per voi si confermava: la Signoria ai nostri ambasciatori si levava ritta; poi tutti seduti, questi esponevano l’ambasciata.» Fu a loro da prima risposto, per nulla volersi occupare le loro ragioni; ma era perchè non fosse da’ cittadini di Firenze frodato il Catasto, molti avendo beni in quel di Volterra fintamente sotto il nome di uomini volterrani. Infine allegando che la legge del Catasto valeva dovunque avesse il Comune giurisdizione e guardia, e avendo chetati quelli di San Gimignano, tuffarono dentro alle carceri delle Stinche i diciotto ambasciatori Volterrani, e ve li tennero sei mesi; dopo i quali uscirono con promessa di dare le scritte, cioè le portate, perchè il Catasto si facesse. Cosimo de’ Medici, nel quale molto si confidavano i Volterrani e gli altri oppressi o malcontenti, animò prima quelli a resistere, poi gli consigliava dessero le scritte, che non sarebbe altro che pro forma, e non avrebbe esecuzioni.[209] Ma tornati appena gli ambasciatori in Volterra, uno di nome Giusto, col favore di molti plebei, corsa la terra e preso il Capitano, gli tolse le chiavi; poi senz’altro lo lasciava tornare in Firenze. A Volterra tutti stavano con l’armi indosso, i lieti del fatto non si conoscevano dai dolenti per la paura dei Fiorentini. Mandarono per aiuto a Paolo Guinigi signore di Lucca ed a’ Senesi ed in più luoghi; ma perocchè folle pareva l’impresa, da tutti furono ributtati. Ed intanto i Fiorentini a quelle novelle si diedero tosto a raccorre gente d’arme quante ne avessero pronte, inviandole contro a Volterra sotto la condotta di Rinaldo degli Albizzi e di Palla Strozzi [185] commissari: questi liberarono dalla soggezione dei Volterrani gli uomini di Ripomarance e d’altri castelli che se ne tenevano gravati. Già si appressavano alle mura, quando Giusto essendo ucciso a tradimento dai suoi, la parte contraria lasciò entrare i Commissari, chiedendo però di non avere Catasto e di riavere le loro castella. Le quali cose a Firenze da principio non furono assentite, e la città di Volterra fu privata del contado, e fu descritto il Catasto; ma non ebbe effetto, e le castella vennero ad essi restituite due anni dopo nelle strettezze della Repubblica.[210]

Domata così agevolmente la ribellione, le genti condotte dai Fiorentini tornarono ai consueti alloggiamenti; le quali ubbidivano a Niccolò Fortebracci da Perugia, nato da una sorella di Braccio, e primo in quelle armi dopo al Piccinino. Costui, rapace ed irrequieto, veduta fallire a sè un’impresa, nè sofferendo rimanersi ozioso in Fucecchio, dov’egli soleva stare per i Fiorentini a guardia di Pisa e dei confini inverso Lucca; pensò un bel giorno tornargli conto valicare quei confini, predare le terre e fare bottino; al che in Firenze non mancava chi lo incitasse, e sapeva egli ad ogni modo dovere l’impresa riuscire gradita. Ai richiami del Guinigi la Repubblica si tirava fuori col dire non ci essere per nulla, e che era tutta farina del Fortebracci: fu detto ancora che lo stesso ambasciatore Lucchese con insigne tradimento oprasse ai danni del suo Signore; del che ebbe premio dai Fiorentini. Ma intanto in Firenze si tenevano Consigli, e [186] a molti piaceva pigliare l’impresa. Piovevano lettere dei Vicari e Potestà presso ai confini di Lucca circa la mala disposizione delle castella lucchesi che voleano darsi alla Repubblica; scriveva uno d’essi che mandassero delle bandiere, perch’egli aveva già logore due paia di lenzuola a farvi dipingere Gigli colla sinopia.[211] Diceano il Guinigi, oltrechè tiranno, sempre essere stato nemico ed avere quant’era in lui cercato ogni male ai Fiorentini, contro ad essi provocando le armi lombarde; per ultimo avere mandato il figlio giovinetto Ladislao sotto le insegne del duca Filippo Maria quando era in guerra questi con la Repubblica; ora il tempo essere opportuno, l’acquisto facile dappoichè Venezia già si era legata a non soccorrere il Guinigi,[212] nè il Duca poteva per le condizioni della pace: debole essere il tiranno e male accorto e sprovveduto. Indarno i più vecchi, tra’ quali l’Uzzano ed Agnolo Pandolfini, allegavano la ingiustizia e la temerità d’un’impresa della quale ognuno vedeva agevole il principio, e niuno vedeva dov’ella andasse a terminare; nè avere il Guinigi voluto più male alla Repubblica ch’essa a lui, nè mandato il figlio col Duca se non quando lo ebbero i Fiorentini rifiutato con dileggio;[213] a guerra non breve infine gli amici non gli mancherebbero. Ma era in Firenze una manía di conquiste entrata persino giù dentro al popolo:[214] taluni già s’erano divise tra loro le terre dei Lucchesi e i vicariati e le potesterie, talchè [187] nei Consigli chi mettesse innanzi parole di pace non lo lasciavano dire — con tossire, picchiare e spurgare;[215] — di loro spargendo, che avessero dal Guinigi pigliato danari. Privati disegni e occulte pratiche eccitavano la popolare temerità; ma tutto ciò era (scrive un ingenuo popolano) a fine d’indurre viepiù il popolo sotto il giogo. Fu a questo modo contro al Guinigi deliberata la guerra in grande Consiglio di quattrocentonovantotto cittadini, dov’ebbe contrari soli novantanove;[216] e creati i Dieci, ch’era segnale a principiarla.

Era morto in quello stesso anno 1429 Giovanni de’ Medici, lasciando due figli Cosimo e Lorenzo; e di lui vengono riferite nelle ultime ore parole benigne e d’uomo da casa, che ai figli raccomanda sempre di essere popolari, ma non farsi segno al popolo o capi di setta, nè autori di turbazioni alla Repubblica.[217] Troviamo quell’altro prudente vegliardo ch’era Niccolò da Uzzano avere compianto alla morte di Giovanni; ma era l’Uzzano anch’egli sull’orlo della ultima vecchiezza: moriva poi l’anno 1432, egli e Giovanni traendo seco il fiato estremo di tempi migliori e le ultime voci che dessero fede a una repubblica temperata.

Neri Capponi ebbe accusa d’avere spinto a quella mossa il Fortebraccio; il che si credeva per molti in Firenze.[218] Neri stesso viene innanzi a quella accusa nei Commentari che di sè lasciava, là dove allega le parole [188] dette contro alla guerra in Consiglio sul fondamento che era poi sempre bene mostrare clemenza ed allargare le braccia.[219] Ma quelle non erano parole da fare poi troppo gran breccia, e furono dette, per testimonianza dello stesso Neri, innanzi che avesse Niccolò violato i confini de’ Lucchesi. Troviamo anche scritto: quattro cittadini avere preso per sè medesimi quella guerra: il primo di tutti Neri di Gino, quindi Rinaldo degli Albizzi, poi quell’Averardo dei Medici il quale, più ardente di Cosimo, sembra avere tolte a sè le parti di più apparenza; e con loro Ser Martino di Luca Martini, quello che noi vedemmo per fatto dei Medici tenuto in ufizio di Cancelliere, e cassato quindi con grande angoscia di Giovanni. Apparisce egli siccome strumento delle ritorte più segrete di parte medicea; ma noi lo troviamo nel tempo medesimo essere in grande intrinsechezza con Rinaldo degli Albizzi, il quale tutto in lui fidava. Tutto ciò è indizio di molti arcani avvolgimenti: e fatto è che tra i Dieci della guerra, i quali ogni sei mesi mutavano, si trovano uomini dei principali di tutte quelle parti dalle quali usciva poi trasformata sostanzialmente la Repubblica di Firenze.[220] La guerra infine era promossa da tutti variamente gli ambiziosi, poi l’uno sull’altro versando la colpa della mala riuscita: ma in campo andavano di coloro che aveano lo Stato, come più pratichi nelle guerre; e gli altri, temendo la loro grandezza, in ogni cosa gli attraversavano.

[189]

Dapprincipio andarono Commissari a governare l’impresa Rinaldo degli Albizzi e Astorre Gianni; dei quali Rinaldo si fermava sotto Lucca, mentre che Astorre poneva un altro campo nelle marine sotto Pietrasanta, cercando chiudere quelle vie d’onde venissero ai Lucchesi le vettovaglie nella città ed i soccorsi di Lombardia. Attese Rinaldo a pigliare le castella per indi accostarsi a stringere Lucca, e aveva già fatto l’espugnazione di Collodi, quando ecco subito cominciare dissensi tra’ capi, e quello scambiarsi d’accuse e sospetti donde ebbe sì mala riuscita quella guerra. Accusavano Rinaldo ch’egli cercasse i suoi privati più che i pubblici vantaggi, e che si facesse mercante di prede per la comodità d’inviarle alla sua villa di Monte Falcone, come aveano detto del padre suo Maso nella guerra contro Pisa. A quello sparlare che si faceva di lui s’accese l’animo di Rinaldo, altiero com’era non che dignitoso. Abbiamo una lettera di lui ai Dieci (18 gennaio): «Io debbo ubbidire ai vostri comandamenti, ma la V. S. dee comandare cose oneste e che si possano sopportare. — Io sono nato nella città e allevato come cittadino, e non come un saccomanno di bosco. Il perchè vi prego, Signori, mi diate licenza ch’io possa tornare a casa a posarmi.» Rispondono i Dieci parole a lui molto onorifiche; e Rinaldo, mandato a Firenze il figlio Ormanno, rivocava la licenza; ma era in città mormorio e bollore, e molto i Dieci erano morsi. Inviarono in campo due di loro, Neri Capponi ed Alamanno Salviati, i quali si trassero addosso ai monti sotto Lucca. Rinaldo, fermatosi nella pianura, conduceva arcani maneggi co’ quali sperava entrare in Lucca. Ma egli co’ Dieci male s’accordava, e contro a Neri aveva sospetti; cosicchè Rinaldo separatosi da loro, per lungo giro si accostava sotto Pisa all’altro campo, d’onde volgendo, e tornato a porsi dal lato opposto presso alle mura di Lucca, espugnava Pontetetto. Ma qui per fastidi e per [190] disagi, la notte col fango a mezza gamba e sempre combattendo, lasciato in penuria di viveri, e per vedersi assottigliato di soldati che a lui venivano tolti, operando virilmente ma sempre dolendosi, e avendo più volte chiesta licenza, la ottenne in fine a’ 18 marzo, nè d’allora in poi ebbe ingerenza in quella guerra.[221]

Diversa alquanto è la narrazione la quale discese negli scrittori di questa guerra contro Lucca; ma noi seguitammo gli irrefragabili documenti che sono le lettere scritte dal campo. Per quegli autori assai più trista celebrità rimase all’altro Commissario Astorre Gianni; e i fatti atroci a lui apposti sarebbero questi. Costui, essendo malvagio uomo ed a vantaggiare la sua Repubblica parendogli essere ogni via buona, predava le terre, i castelli disfaceva, recava ogni danno ai miseri contadini. Al che atterriti gli abitatori di Seravezza, ed ancora forse come antichi guelfi odiando il tiranno Lucchese e avendo amicizie con la Repubblica di Firenze, avrebbono al Gianni mandato ad offrire liberamente l’ingresso nella popolosa valle, dalla quale promettevano aprirgli le vie a fare acquisto di Pietrasanta. Accettò quegli; e occupato subito l’adito angusto a Seravezza, e messo sue genti nei luoghi muniti ch’erano attorno, mandava grida per tutto il paese, che a una data ora si radunassero nella Pieve a udire le leggi che il Comune di Firenze ad essi darebbe, e a giurare fedeltà. Nè prima furono ivi accolti ch’entrando i soldati, fecero prigioni quanti erano dentro, e di lì andarono ogni cosa mettendo a ruba e ad esterminio, le donne a vergogna; faceano crudeli e orribili vituperii. Per la notizia di questi fatti sarebbe Astorre stato richiamato con grande sua infamia; quei di Seravezza, quanto potevasi ristorati.[222] [191] Nessuna conferma di tanta malvagità ci viene da molto credibili documenti: qualcosa era stato contro lui nella opinione dei Dieci; ma pure è scritto, che se avessero lasciato Astorre intorno a Pietrasanta l’avrebbe avuta e chiuso la strada ai soccorsi di Lombardia; che egli fu richiamato con villane lettere per la improntitudine d’Averardo de’ Medici, e con la scusa del rimanere scoperta Pisa. Crediamo noi essere qualcosa di vero in queste asserzioni, e assai più del vero in quelle che contro lui rimasero nell’istoria.[223]

Era fatale che in quell’impresa riuscisse a male ogni divisamento. Recavasi al campo quel mirabile uomo di Filippo Brunelleschi che allora inalzava la grande Cupola in Firenze: ardito com’era in ogni concetto, ma delle opere d’ingegnere non bene pratico, offeriva d’allagare Lucca, voltandovi addosso l’acqua del Serchio per un nuovo argine, e sperandola condurre per via di chiaviche a sua posta. Piacque il disegno ai Magistrati, che furono vinti dal parlare di Filippo, e avevano fretta perchè Lucca si pigliasse dentro al tempo loro; intanto che il popolo si confidava di terminare la guerra in breve ora, e fare acquisto della città, della quale erano tanto cupidi. Invano il Capponi si contrappose al disegno, col dire che il campo sarebbe allagato e non la città, la quale avrebbe in quella guisa, oltre alle mura, difesa d’acque. Non fu ascoltato, e infine anch’egli dovè consentire: ma quando l’argine fu presso a cingere la città, i Lucchesi guastarono la pescaia e ruppero l’argine in più luoghi, cosicchè la predizione di Neri avverandosi, [192] divennero le condizioni degli assedianti di molto peggiori, e il campo, che s’era condotto fin sotto le mura di Lucca, dovette ritrarsi dov’era innanzi, a Camaiore.[224] Ciò fu nel maggio del 1430. Nel giugno seguente mutati i Dieci, andò Commissario tra’ nuovi eletti Giovanni Guicciardini, al quale più tardi fu tolto l’ufficio perchè intorno a Lucca facea mala guardia, e si diceva che i cittadini liberamente uscissero a comprare nel campo stesso degli assediatori.[225]

A chi si piace nei viluppi della politica e considera le cose umane come un gioco di tanto più bello quanto è condotto più sottilmente, parranno quei tempi avere di molto progredito su’ passati, perchè se nascesse d’allora in poi alcun fatto tra due vicine città, tutta l’Italia se ne commuoveva, e di quello variamente pigliavano briga quanti erano principi e repubbliche e condottieri da un capo all’altro della penisola: certo era un principio di sorti migliori, ma era lontano. Aveva Firenze mandato in più luoghi a notificare quella guerra che essa imprendeva contro a Lucca, e le più amiche risposte sarebbono ad essa venute da quello che più avea in animo di tradirla, Filippo Maria Visconti, mentitore fra tutti solenne, e ora di fresco pacificato.[226] Ma era grandissima l’ansietà in cui vivevano i Senesi, nella pace abbandonati, come vedemmo, alle cupidigie male celate dei Fiorentini, e non che offesi dalle macchinazioni di quei che reggevano, messi in canzona popolarmente, come facile conquista [193] a cui bastava il porre mano.[227] Aveano mandato a Firenze ambasciatore un loro insigne cittadino, Antonio Petrucci; il quale ivi essendo non senza dispregio menato in parole, tornato in Siena e persuadendosi che alla città per allora non giovava dichiararsi, ma egli volendo pur venire a’ fatti, prima ne andava in Roma a papa Martino sempre a Firenze poco amico, e col favore di lui raccolta in Maremma e per la riviera di Genova quanta più gente potesse, venne in proprio suo nome e come stipendiato da Paolo Guinigi su quello di Lucca, riuscito a munire di maggior guardia la città. Nel passare aveva ripigliato molte terre dai Fiorentini occupate, lasciando al marchese di Ferrara Castelnuovo ed altri luoghi di Garfagnana, che da principio della guerra questi aveva pigliato per sè. L’assedio però intorno a Lucca stringeva forte, e più valido soccorso dentro era da tutti invocato variamente, secondo portavano le condizioni della città. Recavasi quindi Antonio in Milano, dov’erano andati due nobili Lucchesi, un Trenta e un Buonvisi, a chiedere aiuto, non tenendo fede a Paolo Guinigi che, odiato da molti, vedeano prossimo a cadere; ma offrivano al Duca darsi in protezione a lui, quando egli traesse Lucca dalla cittadina servitù e lei scampasse dall’esterna. Il Duca esitava, e trovo scritto che avesse egli dapprima tentato il Piccinino perchè andasse sotto la coperta di servire Paolo Guinigi in Lucca a torgli la città di mano; al che essendosi Niccolò negato, chiamasse il Duca al brutto ufizio Francesco Sforza, che lo accettava.[228] I Fiorentini aveano mandato a Milano ambasciatore Lorenzo dei Medici fratello minore di Cosimo, ed allo Sforza un Boccaccino Alamanni che gli era amicissimo: nulla ottenevano, perocchè l’impresa [194] già era sul muovere e il conte Francesco, prima fermatosi in Parma a raccorre genti col dare voce ch’egli andasse per suo proprio conto inverso Napoli, quando si trovò in punto, calava ad un tratto giù per la via di Pontremoli, e sforzato i passi e le difese dei Fiorentini, entrò in Lucca nel luglio del 1430: gli assediatori, levato il campo, si ritrassero in Ripafratta. Condusse lo Sforza la guerra infino sotto le mura di Pescia, la quale avendogli fatta resistenza (sebbene l’avessero abbandonata gli ufficiali che la Repubblica vi teneva), egli abbruciate nella Valdinievole alcune castella, tornato indietro, si faceva forte presso alle mura di Lucca, o già guadagnato dall’oro dei Fiorentini o avuto sentore delle pratiche tenute da Paolo Guinigi con questi per dare ad essi Lucca in possessione al prezzo di dugento mila fiorini d’oro. Non io però mi tengo certo che il Guinigi espressamente a quelle pratiche aderisse; ma fatto è, che da quelle avendo ragione ovvero pretesto lo Sforza, e il Petrucci ch’era dentro la città, e quanti in essa nimicavano la signoria del Guinigi, dei quali era capo un Piero Cenami, si misero insieme; e Antonio Petrucci andato una notte a visitare il Guinigi, che di lui non si guardava, lo fece prigione; Piero Cenami levò in arme la città, ed a quel cenno Francesco Sforza pigliava il giovane Ladislao Guinigi che seco era in campo: il padre ed il figlio, così dispogliati della signoria di Lucca e d’ogni ricchezza,[229] furono condotti nella fortezza di Pavia, dove l’infelice Paolo Guinigi tiranno di nome, in fatto però come uomo da poco, men reo che non fossero il maggior numero de’ suoi pari, veniva a morte in breve tempo. Lo Sforza, accordatosi con la Repubblica di Firenze per cinquanta mila fiorini [195] e ritrattosi d’intorno a Lucca, se ne andava pe’ suoi fatti in Lombardia, nè più ebbe mano in quelle cose.[230]

I Lucchesi fatti liberi tentarono, io credo con poca fiducia, l’animo de’ Fiorentini perchè cessassero dalla impresa che aveano tolta contro al tiranno. Era il caso dei Pisani quando si furono liberati da Gabriele Maria Visconti; ma pur questa volta i Fiorentini erano andati troppo innanzi, e si credevano facilmente avere la terra, non bene guardata e molto scarsa di vettovaglie. Fecero risposta benigna a parole, nel fatto dura, ponendo condizione che subito dessero Monte Carlo e Camaiore in via di pegno, il ch’era un volere Lucca nelle mani.[231] Teneano l’animo anche volto a Siena, e al conte Francesco, il quale credevano andasse nel Regno, proposero fare per proprio suo conto l’impresa di Siena, e con lui quindi si aggiusterebbero. Ma questi, alieno dall’impacciarsi nelle cose di Toscana, denunziava il tutto ai Senesi; ai quali non parve più essere tempo da usare rispetti, viepiù irritati da un’insidiosa e falsa ambasciata che ad essi aveano i Fiorentini mandata in quel mezzo.[232] Antonio Petrucci ogni cosa conduceva; il quale essendo in Lombardia, potè agevolmente persuadere al Duca di Milano, che se non voleva manifestamente rompere una pace conchiusa di fresco, mandasse in Toscana sotto altro nome di quei soldati ch’erano a’ suoi cenni; usato modo in quella età. Filippo Maria, siccome vedemmo, aveva allora in protezione la città di Genova, di nome libera; ed i [196] Genovesi mandarono a dire in Firenze, desistessero da ogni offesa contro ai Lucchesi amici loro: della quale intimazione, fatta da uomini servi, non si tenne conto; e Niccolò Piccinino, come licenziato dal Duca e come soldato di Genova, muoveva con quattro mila cavalli e due mila fanti alla volta di Toscana. Il Conte d’Urbino, molle Capitano che di recente i Fiorentini aveano condotto, stavasi accampato presso alle mura di Lucca; dov’egli soffriva, sendo il verno crudo, penuria di viveri per la difficoltà di condurli. Ne avea il Piccinino grande provvigione condotta per mare dalle navi genovesi, e appena giunto volendo farne entrare in Lucca, tentava il guado del fiume del Serchio con tutto in arme l’esercito suo: a fronte gli stava il campo nemico, dal quale una schiera uscita per foraggiare, avendo passato il fiume in un luogo dove le acque erano molto basse, mostrava al nemico la via; per la quale fatto impeto il Piccinino con tutte le schiere, mentre che da Lucca usciti quanti erano capaci alle armi di fianco assalivano il campo sprovvisto e male guardato, lo mise in rotta, cosicchè pochi scampati a fatica non rimasero prigioni. Le donne ed i vecchi dall’alto dei tetti e delle torri di Lucca batteano le palme per allegrezza della vittoria: i Lucchesi celebrarono sempre dipoi con festa solenne, fino al cadere della Repubblica, quel giorno che fu il secondo di dicembre.[233]

Era tra’ minori condottieri i quali ubbidivano agli ordini del Piccinino un Antonio da Pontadera fuoruscito che si diceva Conte, cui parendo essere aperta una via a liberare la patria sua, insieme con molti usciti da Pisa che in Lucca viveano, e co’ villani del territorio e gli abitatori delle piccole castella che gli [197] erano aperte per avere mala guardia,[234] faceva gran pressa al prudente Capitano perchè egli pigliasse l’impresa di Pisa. Ma i luoghi più forti aveano presidio così da volere assedio lungo; e Pisa fortificata con gelosa cura dal non mai cessante sospetto dei Fiorentini, sebbene bramosa di scuotere il giogo, nulla poteva: ed una congiura, della quale s’era fatto capo un dei Gualandi, non ebbe effetto; ed i Fiorentini chiudendo le porte agli uomini del contado, e poi cacciando fuor della città per l’inopia di vettovaglie le donne misere dei Pisani ed i fanciulli, stavano dentro sicuri contro ad ogni assalto che avesse tentato il Piccinino. Laonde questi con sano consiglio voltatosi prima all’acquisto delle Fortezze di Lunigiana che a lui tenevano la strada aperta di Lombardia, scendeva dipoi giù per la pianura nel contado di Volterra; imperocchè i passi della Valle d’Arno gli erano chiusi, quivi essendosi affortificati con molta industria i Fiorentini, che avendo raccolto del vinto esercito molti avanzi, facevano guerra sempre intorno a Lucca, di là spingendosi al racquisto dei castelli di Garfagnana, di Calci e d’altri in quel di Pisa.[235] Ma si era in quel mezzo Siena dichiarata contro a’ Fiorentini, che invano mandavano a ritenerla ambasciatori, e in lega con essa era entrato il Signore di Piombino; e di Lombardia veniva soccorso di nuove genti capitanate dal conte Alberigo di Zagonara. Pe’ Fiorentini stava in Poggibonsi Bernardino della Carda, e aveano condotto Micheletto [198] Attendolo da Cotignola parente di Sforza; al che il Fortebracci, seguendo la solita rivalità delle armi, aveva lasciato i loro stipendi accostandosi al Piccinino. E questi volgendo le sue schiere da Volterra nel territorio di Siena, e di là scorrendo per quel di Firenze, aveva espugnato parecchie castella; e muovendo verso Arezzo, credevasi entrarvi per una congiura, la quale falliva: ma il Piccinino, dopo aver fatto per Toscana gravi danni, veniva dal Duca richiamato in Lombardia per le necessità della guerra che i Veneziani un’altra volta collegatisi co’ Fiorentini gli aveano mossa.[236]

Pel Duca erano i due maggiori condottieri delle armi rivali, il Piccinino e Francesco Sforza; a questo, perchè stesse con lui, Filippo aveva insino d’allora promesso in isposa la figliuola naturale, erede unico ch’egli avesse. Contro ai quali Francesco da Carmagnola menava la guerra con dubbia fortuna e (siccome parve al Senato di Venezia) con dubbia fede: la distruzione che in grossa battaglia fecero i ducheschi d’un grande armamento di navi sul Po, la rotta in Soncino, e invano tentato avere Cremona dai Veneziani molto ambita; queste cose furono imputate a tradimento del Carmagnola, il quale condotto a Venezia con inganno, vi perdè la testa con esecuzione solennemente palese, ma con giudizio segretissimo: delitto inutile (se degli utili ve ne fossero) e sfoggio di cruda ragione di Stato, nella quale non ved’io nulla altro di buono, eccetto il volere con un grande esempio tenere in paura la razza iniqua dei condottieri. Dopo ciò la guerra fu trascinata più mesi: ma innanzi un fatto di mare vuol essere da noi ricordato. I Genovesi tenevano in armi un forte naviglio, contro del quale Venezia aveva mandato sedici galere sotto la condotta di Pietro Loredano, le quali usavano la comodità dei [199] Porti venuti in possesso della Repubblica di Firenze, e avevano seco sei legni sottili armati da questa, che stavano agli ordini di Paolo Rucellai. Si affrontarono le due armate a Portofino con grande impeto, e le due navi capitane erano alle prese, quando Raimondo Mannelli, il quale guidava una galeazza fiorentina, cogliendo il vantaggio del vento, con essa venne ad urtare siffattamente nella genovese ch’ella restò presa, tirando con sè la vittoria de’ collegati: questi guadagnarono otto galere; ma i prigioni, tra’ quali era il capitano Francesco Spinola, condotti prima in Firenze a testimonio della virtù del Mannelli, furono dipoi mandati a Venezia, non senza rammarico e malumore dei Fiorentini.[237] Uniti a Venezia, avevano sempre le seconde parti; dal che oltre all’essere umiliati, vedevano anche i vantaggi della guerra andare a crescere la potenza di quello Stato di cui temevano più che d’ogni altro la soperchianza, perchè la grandezza dei Visconti sapeano mutabile, e in Venezia era perpetuità. Quindi usare i Fiorentini al collegarsi mille cautele, che dai Veneziani maestri in politica erano tratte a loro pro: nè l’alleanza tra le due migliori città d’Italia e tra’ due Stati che primeggiassero per virtù, fu altro mai che una svogliata e ognora breve necessità.

Qui un grande mutarsi fu di Capitani tra le due parti combattenti. Niccolò da Tolentino, che prima era dai Fiorentini andato al Duca, tornava ora, lasciato il Duca, ai servigi della Repubblica; la quale a lui dava il bastone del comando generale, trovata essendosi [200] male soddisfatta di Micheletto. E Bernardino che, ricordando più l’origine toscana degli Ubaldini che le offese a questi recate dalla Repubblica di Firenze, soleva tenere quivi lieta vita, mutò ad un tratto anch’egli bandiera e divenne capitano dei Senesi, i quali aveano messo in catene il conte Alberigo di Zagonara che gli conduceva, e così prigione mandatolo al Duca. Menava la guerra con buona fortuna Niccolò da Tolentino, che prima avendo in Val d’Elsa racquistato con molta battaglia il castello di Linari, e sentendo come le genti del Duca erano a campo intorno a Montopoli e con gran forza l’aveano stretto, portavasi tosto alla liberazione di quel castello; e venuti a zuffa tra la Torre di San Romano e Castel del Bosco, fu ivi per lo spazio di sei in sette ore molto aspro e grande combattimento, sinchè i ducheschi furono rotti, lasciando in preda agli inimici mille cavalli e centosessanta prigioni da taglia e molto numero di fanti a piè. Di là il Tolentino spingeva al racquisto di Pontedera; e avrebbe avuto anche Ponsacco, se non che venne al popolazzo di Firenze gran voglia di fare danno ai Senesi, e costretto egli a recarsi da quel lato, non vi fece altro che guasti inutili. Micheletto avea pure avuto dal canto suo buoni successi contro a Lodovico Colonna, mandato in Toscana dal Duca con rinforzo di nuove genti.[238]

Ma intanto avveniva in Italia maggior cosa. L’imperatore Sigismondo, amico al Visconti, aveva pigliato la corona di ferro in Monza, e la imperiale era convenuto di ricevere in Roma dal nuovo papa Eugenio IV. Giugneva in Lucca, nè i Fiorentini però cessavano dal fare offese alla città guidati da un giovane [201] e molto audace capitano Baldaccio d’Anghiari, fra tutti valente a bene usare le fanterie. Da Lucca recavasi in Siena l’Imperatore con soli ottocento Ungheri, ed una guardia d’altre poche centinaia di soldati avevagli aggiunta Filippo Maria. Voleva dapprima Sigismondo, che a lui andassero due de’ Dieci di guerra; ma fugli risposto, non essere usanza muovere gli uomini di quel magistrato. Aveva ben egli contro alla Repubblica querele assai, e fra tutte massima l’occupazione di Pisa, città ghibellina e solita essere nella bassa Italia principale forza di parte imperiale; alle quali rispondevano i Fiorentini, avere Pisa per giusto titolo, e che la tenevano ad onore di Sua Maestà. Così acquetavasi la Cancelleria; e cosa più grave fu il deliberare, se all’Imperatore dovesse impedirsi la via di Roma, il che potea farsi collegandosi col Papa; ma questi voleva maggiore sussidio di soldati e di moneta che a lui non potessero i Fiorentini somministrare. Sarebbe anche stato uopo condurre a pace i Senesi e avergli seco; pure un accordo stretto col Papa ebbe qualche effetto, ed alcuni scontri così avvennero, dei quali uno di più importanza alla Castellina, dove perirono molti Ungheri. Si erano in quel mentre scoperti trattati contro alla Repubblica in Volterra e in San Miniato. Passava infine Sigismondo, che avrebbe pur anche voluto accordarsi toccando venticinque migliaia di fiorini, e contentandosi venire in Firenze, per quindi senz’altro tornare in Ungheria: ed anche troviamo che avesse passaporto dalla Repubblica di Firenze; tanto era scaduta l’Imperiale Maestà: ma vero è che altri dice, aver egli domandato trecento mila fiorini.[239] Cessato il contrasto, pigliava in Roma Sigismondo la corona: e intanto la pace a’ 10 di maggio 1433 si pubblicava in Ferrara tra ’l Duca di Milano e le Repubbliche [202] di Venezia e di Firenze ed i collegati di ambe le parti, ciascuna tenendo quel che prima possedeva: era conchiusa per la intromessa del marchese Niccolò da Este, che pare tenesse fra tutti in Italia il bell’ufficio di paciere. Da Roma pigliava l’Imperatore la via del mare, ed abboccatosi in Talamone col re Alfonso, quindi recavasi in Basilea, dove un Concilio era adunato a continuare (sebbene avesse poi mala fine) l’opera impresa già in Costanza per la riforma di Santa Chiesa.

Capitolo VIII. ESILIO E RITORNO DI COSIMO DE’ MEDICI. [AN. 1433-1434.]

Al termine della guerra contro Lucca, crescendo le accuse e le ire tra le parti, entrambe cercavano propizia al muoversi occasione. Sappiamo le pratiche di quella dell’Albizzi, che prima essendo all’aggredire, donava a Cosimo anche l’innocenza e con la finale vittoria il silenzio delle arti usate a prepararla. Si legge che mentre viveva tuttora Niccolò da Uzzano, andato un giorno a lui Niccolò Barbadori gli facesse istanza perchè assentisse a tôrre di mezzo per via del bando Cosimo de’ Medici. Al che il vecchio avrebbe risposto motteggiando: «sarebbe a te meglio essere chiamato Barba d’argento, perchè venendo i tuoi consigli da uomo canuto, non porterebbero la ruina ch’io veggo appressarsi a te ed a noi ed alla Repubblica. Ma tu perchè non conosci te medesimo, è ragionevole che tu nemmeno conosca gli altri; il conoscimento di sè stesso bene io so che viene da Dio.» Aggiunse di Cosimo: «quest’uomo è troppo utile al popolo, e massimamente agli spendii delle guerre; non veggo oggi colpa o cagione per la quale stia il popolo quieto al [203] suo disfacimento. Cacciato, andranne egli buono, e tornerà diverso, passando ogni giusto modo di vivere politico; andrà oggi libero, e tornerà obbligato a coloro che lo avranno richiamato, i quali sarà costretto fomentarsi e contentare d’ogni loro voglia. Datti ad intendere, Niccolò, che io ho più volte meco medesimo disputato e per ultimo conchiuso, che meglio è tacere che cominciare sì mortale pericolo nella Repubblica. La parte dei Medici è unita e concorde, e ha il popolo seco; la nostra, divisa, e più per natura che per accidente. Imperocchè sempre tra’ patrizi spicciolati e le famiglie grosse furono aguati sotto apparenze di falsa amistà: Maso degli Albizzi, per indurci nell’odio del popolo, fece nel 1414 la pace col re Ladislao;[240] e noi spicciolati popolani cercavamo il simile contro a quelle schiatte fin dalla congiura contro a Maso nel 1400.» Di questa l’Uzzano avrebbe confessato di essere stato partecipe. Venendo a dire poi di Rinaldo, continuava: «costui non ha più a grado l’amico che il nemico, e ogni uomo ha per cencio; costui non vuole concorrere con verun cittadino, anzi cerca e desidera che ogni cittadino concorra con lui; costui vuole che le sue volontà sieno ricevute dal popolo per leggi, e le altrui cerca si scrivano in cenere, e pongansi dove con maggiore forza soffiano i venti. Il padre fu tutto costante e amichevole a chi la sua amicizia desiderava, costui è voltante e senza fermezza; vedestilo essere con noi de’ principali in Santo Stefano, poi farsi capo con Averardo alle rovine di Lucca, e per essere dei Dieci al tutto gittarsi nelle braccia dei Medici. — Cosimo, dove non fosse lo stimolo e la perversità d’Averardo, piuttosto desidererebbe essere accetto da noi, che amato da loro. Noi, stando a vedere, avremo le due parti del gioco; e soprattutto non abbiamo meno avvertenza alle opere de’ nostri parziali che alle opere [204] di coloro i quali ci tengono avversi: avvisandoti, che dei due qualunque ottenga l’impresa, noi per la scarsità degli uomini, da ciascuno saremo adoperati nel governo della Repubblica; e chi fia principio di scandalo, sarà del suo e dell’altrui disfacimento cagione.[241]» — Queste parole furono scritte dal Cavalcanti, ma verosimilmente non dette nè forse pensate dall’Uzzano: il Machiavelli, trascrivendole sbadatamente, le ha rese immortali.

Occorse a noi di rilevare altra volta come i patrizi spicciolati che s’innalzavano per gli uffici, avessero contro sè quelle famiglie che forti di seguito, di parentele e di aderenze, facevano parte da sè medesime, e cercavano tutta in sè chiudere la Repubblica. Di queste era prima la Casa degli Albizzi; nella quale Piero s’innalzò e cadde, fattosi capo della parte sua; ma seppe Maso rimanere infino alla morte moderatore della Repubblica, della quale intese il Governo meglio che niun altro insino allora avesse fatto, e conservando a sè l’amicizia degli ottimati e dei patrizi, si acquistò quella del popolazzo.[242] Rinaldo, più splendido e ornato d’ingegno, e d’animo forse più franco e diritto, non ebbe prudenza che fosse guardiana delle ricche doti le quali facevano lui primeggiare nella città; netto di presenti, frugale nel vivere, ebbe taccia d’avarissimo; superbo di quella coscenza medesima che egli aveva della virtù sua e disdegnoso di abbassarsi alle arti comuni; ma iroso e mutabile e nei suoi fatti subitaneo, mal seppe tenere il governo della sua parte e di sè stesso:[243] rimasto principe nello Stato dopo la cacciata di Cosimo, nulla fece a mantenere nè a sè la potenza nè alla Repubblica quegli ordini dei quali era [205] egli fra tutti sincero e forte e rigido amatore. Narrano si fosse mostrato severo al padre suo stesso;[244] e un’altra volta noi troviamo che avendo voluto Lorenzo Ridolfi in assai grave congiuntura ristringere in pochi il numero dei richiesti, Rinaldo invece consigliò che s’allargasse, facendo in ringhiera con parole generose il suo consiglio prevalere.[245]

Vedemmo noi come a fare la mala impresa di Lucca Rinaldo e Cosimo s’accostassero: nei primi mesi della quale troviamo Rinaldo ai Cosimeschi familiarissimo,[246] avverso fra tutti a Neri Capponi, che gli era dai Dieci messo come a sopraccapo. Temeva di lui per l’amicizia col Fortebraccio e per il seguito che avea Neri tra gli uomini armigeri della Montagna di Pistoia.[247] I Medici anch’essi temevano il Capponi più che altr’uomo in Firenze;[248] e questi col porsi come fuori delle parti e stare da sè, pigliò sin d’allora certo suo proprio atteggiamento, che ebbe in quei principii qual cosa d’oscuro, ma che a lui diede poi di tenere per la sua propria autorità e pel favore dei cittadini grado e potenza e onorato nome sinch’egli visse, nel nuovo Stato. Già fino d’allora valevano i pochi più della Repubblica; incontro alle quali soperchianze divenivano le stesse [206] leggi strumenti alle parti che abusando le torcevano a loro utile o guastavano. Aveano creato l’anno 1429 il nuovo ufficio dei Conservatori delle leggi, preposti a frenare le baratterìe de’ magistrati, e ai quali dovessero i cittadini ricorrere che si tenessero aggravati.[249] Nell’anno seguente usciva altra legge, la quale ebbe nome degli Scandalosi; gastigava quelli i quali tirassero ai loro disegni gli uffici pubblici, o s’intromettessero in cose di Stato senza commissione e senza averne autorità. Per questa legge fu l’anno 1432 tenuto a confine due mesi in Roma Neri Capponi che, ivi essendo, aveva trattato (a quello che sembra) di proprio suo capo una lega con Eugenio contro a’ Senesi e all’Imperatore.[250] Rinaldo degli Albizzi anch’egli apparisce avere temuto quando si fece quella legge che fosse contro a lui, ma scrive in fine al figlio suo: «lasciala correre.[251]» Molto è poi da notare come nell’anno 1432 Rinaldo fosse in Roma Senatore, ufficio che allora equivaleva a Potestà; onde egli potè avere a Firenze denunziato quei maneggi pei quali a Neri fu dato il confine.[252]

Nei tre anni che durava la guerra di Lucca, i nomi dei Dieci sei volte rifatti non ci lasciano congetturare nè prevalenza dell’una sopra l’altra parte, nè ondeggiamenti tra le due, ma si rinvengono mescolati.[253] Lorenzo dei Medici andava solo ambasciatore a Milano [207] su’ primi dell’anno 1430; due anni dopo, lo stesso Cosimo ambasciatore a Venezia. Questi certamente aveva co’ suoi grande ingerenza nella condotta della guerra e nelle pratiche al di fuori: ma se alla parte contraria a loro in tutto credere si volesse, avrebbono i Medici fatto ogni cosa perchè andasse a male l’impresa, via via facendo richiamare i Commissari che bene operavano, e inoltre tenendo a sè obbligati co’ prestiti e con le comuni ruberie i capitani Micheletto da Cotignola e massimamente Niccolò da Tolentino; il quale era tutto di Cosimo, tanto che gli avrebbe questi fatto da prima lasciare i servigi della Repubblica per andare a quelli del Duca, e poi di nuovo fattolo a sua posta tornare in Firenze.[254] Intanto Lorenzo, venuto in grande intrinsechezza col Duca, lo avrebbe persuaso a mandare genti in Toscana perchè la guerra andasse più in lungo. Tuttociò i Medici avriano fatto perchè i cittadini più trovandosi aggravati, se gli potessero maggiormente legare co’ prestiti e farli mettere allo specchio del libro dei debitori, dal quale essi poi gli ritraevano: oltrechè piaceva a quei tanto danarosi cambiatori prestare al Comune, che era buono impiego; così obbligandosi anche la Repubblica. Ma noi non crediamo la parte dei Medici potesse poi tanto nè volesse tanto male; nè dare possiamo gran fede alla deposizione di quel Tinucci che, dimestichissimo all’Uzzano (com’egli dichiara) innanzi al 1426, brigava dipoi oscuramente co’ Medici per intromessa di Ser Martino, e avvolge in parole confuse ed incerte le accuse più gravi. Dinanzi a lui stava il terrore della fune, o era tirato da larghe promesse, quando egli porgesse materia a procedere contro a colui che nell’istorie troviamo chiamato il non colpevole uomo, perchè fino allora non reo che bastasse a giusta condanna.

[208]

Abbiamo tre lettere di Cosimo istesso:[255] la prima annunzia grande fiducia nella guerra, ma insieme accenna alle male arti per cui taluni s’ingegnavano guastarla.[256] Nelle altre due scritte di Lombardia, dove era andato per fuggire la peste tornata quell’anno 1430 in Firenze, già vede le cose voltare al peggio; e non vorrebbe essere dei Dieci nè andare ambasciatore a Vinegia, come uomo cui giovi tenersi in disparte, e il carico dell’avere fatta muovere quell’impresa nascondere sotto le colpe o gli errori di chi poi l’ebbe condotta a male.[257] Così egli andavasi destreggiando mentrechè durava la guerra e dopo: i suoi lasciava con mettersi innanzi, attendendo quanto a sè ad acquistarsi vie più la grazia delle moltitudini e lode fra tutti di animo temperato: studiavasi molto anche d’accrescersi le ricchezze,[258] dal che a lui veniva favore grandissimo pei larghi imprestiti all’erario pubblico, ed ai privati che a sè legava chiamandoli a parte dei vasti traffici o rendendoli, col fargli liberi dallo Specchio, capaci d’entrare negli uffici dello Stato: già i poveri tutti insieme invocavano a sè il patrocinio di lui, possente a dare ad essi valida mano.

Egli che s’era mostrato sempre vôlto alle cose grandi e di non essere contento al poco, giovane ancora, per fuggire l’invidia era andato al Concilio di Costanza, [209] «dov’era tutto il mondo,» e poi due anni viaggiò gran parte della Magna e della Francia; donde ritornato, si diede a usare con uomini di bassa condizione, ritraendosi dal Palagio: il che diceano facesse per addormentarli, e n’ebbero maggiore sospetto.[259] Avea però anche certe grosse famiglie di grandi a sè congiunte di parentela, tenendo egli in moglie la Contessina dei Bardi signori di Vernio, e Lorenzo suo fratello una dei Cavalcanti, la cui madre era di casa dei marchesi Malespini, e per le sirocchie di lei tirava a Cosimo due possenti casate di popolo, i Giugni e una parte degli Strozzi: seco erano pure il maggior numero dei Buondelmonti, a lui guardando generalmente il ceto dei grandi come a nuova cosa capace di abbattere gli antichi ordini della Parte guelfa, e contentandosi, per avere un grado nella città, di riconoscere un padrone. Ma come parte nella Repubblica, quella dei Medici nemmeno aveva in quei principii nome da lui, e si [210] chiamò dei Puccini[260] da Puccio del quale più sopra dicemmo, e che era fra tutti gli amici di Cosimo il più scaltrito ed intramettente; lui dicono autore de’ più sagaci consigli, e sopra di sè pigliava il carico de’ più odiosi. Cercavasi Cosimo i frutti piuttosto che le apparenze della signoria; il ch’ebbe gli effetti di un’arte finissima, ma era in lui cosa connaturale, innanzi tutto essendo egli sempre fiorentino e popolano, che il bel vivere di Firenze non avrebbe voluto scambiare con gli aspri costumi dei Signori di Lombardia; nè questo era popolo che ciò sofferisse. Affermano tutti, egli essere stato umano e benigno nel continuo della vita; ma quante volte gli paresse tornare a lui conto essere malvagio, non ebbe nè affetti che lo ritraessero, nè forti passioni che lui spingessero oltre al segno: nè raro è tra gli uomini le stesse migliori qualità loro porre al servigio delle meno buone. In lui ogni cosa mirava a fondare la grandezza della Casa sua, ma seco avea complice gran parte del popolo; nè invero può dirsi che Firenze discendesse in bassa fortuna, o che poi cadesse da ogni splendore, sotto a quell’ombra di Casa Medici.[261]

La pace con Lucca e col Visconti non rinnalzava [211] il pubblico credito, caduto a terra negli ultimi anni.[262] Frattanto l’urtarsi delle due parti contrarie tenea guasta la città. Già erano tanto gli antichi ordini trasandati, che dall’un anno si prevedevano le tratte dell’altro; ed un Benedetto cieco predicava quali sarebbero per più anni i Gonfalonieri di giustizia. Chiunque sapeva essere nelle borse impolizzato, sapeva altresì di quali calendi avrebbe potenza di vendicare le sue ire e dare effetto ai suoi disegni. Ad ogni tratta degli ufizi principali, per la città si teneva conto quanti ve n’era dell’una parte e quanti dell’altra; e non era mai tratta di Signori che tutta la città non istesse sollevata, chi con sospetto e chi con isperanza che le cose andassero a suo modo: le forze pareano essere uguali tra le due parti.

Il primo settembre di quell’anno 1433 pigliò il gonfalone Bernardo Guadagni, al quale si disse Rinaldo degli Albizzi avere innanzi pulito lo specchio, perchè la tratta non gli fallisse, e patteggiato con lui quello che fu la ruina della città e di loro stessi. Nè al fatto posero tempo in mezzo. Era Cosimo in Mugello (secondo egli narra in certi Ricordi lasciati da lui),[263] dove era stato più mesi per levarsi dalle contese che dividevano la città; e già mormorandosi di cose nuove, fu scritto a lui tornasse, ed egli tornò a’ dì quattro. Andò il giorno stesso a visitare i Signori, tra’ quali ve n’era amici a lui ed obbligati; e detto loro quello che si diceva, tutti prestamente lo negarono, e che voleano lasciare la terra come l’avevano trovata. A’ cinque ordinarono una pratica di otto cittadini, due per quartiere, tra’ quali erano Cosimo [212] istesso, Rinaldo degli Albizzi e altri de’ maggiori; dicendo voleano col consiglio di questi fare ogni loro deliberazione. A’ dì 7 la mattina, e sotto colore della detta pratica, mandarono per Cosimo; ed egli, sebbene da taluno fosse sconfortato, andò in Palagio:[264] quivi trovò la maggior parte dei compagni, e mentre stavano a ragionare, dopo buono spazio gli fu comandato per parte dei Signori andasse su di sopra, e dal Capitano dei fanti fu chiuso dentro la torre in una cameretta, la quale scrive egli che era chiamata la Barberìa, e tutti gli altri l’Alberghettino. Lorenzo dei Medici era anch’egli di Mugello venuto in Firenze, sentendo il caso; e chiamato dai Signori, andò in Palagio; poi subito si partì e tornò al Trebbio: quivi dall’Alpe di Romagna e d’altri luoghi si radunarono intorno a lui grande quantità di fanti. Niccolò da Tolentino capitano di guerra il dì stesso era venuto da Pisa in arme fino alla Lastra, volendo fare che fosse Cosimo rilasciato; ma perchè temevano gli amici di questo dare occasione a torlo di mezzo, Niccolò fu persuaso tornarsene a Pisa; e Lorenzo, licenziati i fanti, se ne andò a Venezia co’ figli di Cosimo.

Alla presura di tale uomo romoreggiando la città e massime i borghi dove i più poveri abitavano, Rinaldo degli Albizzi era con molta fanteria corso alla Piazza; seco i Peruzzi ed i Gianfigliazzi e tutti quelli della parte loro. Suonò la campana, e a’ 9 settembre si fece Parlamento; i Signori scesero in ringhiera, e Ser Filippo Pieruzzi delle Riformagioni parlò ad alta voce e disse: «o popolo di Firenze, tenete voi che in questa Piazza sieno le due (terze) parti del vostro popolo? Fu risposto: sì di certo, noi siamo le due parti e più. Continuò: siete voi contenti che si faccia uomini [213] di Balìa a riformare la vostra città? Gridarono sì; e al modo stesso, d’ogni altra cosa che il Notaio dimandasse. Questi allora sopra un libello che aveva in mano lesse i nomi di duecento cittadini dei quali doveva la Balìa comporsi, ed i Signori comandato si radunasse per il dì vegnente, risalirono in Palagio.» La Balìa aveva autorità quanta l’intero popolo di Firenze; ma questo limite le fu posto, che le Borse rimanessero, aggiugnendovi de’ nuovi nomi senza cavarne gli antichi, e che il Catasto non si annullasse: ordinava farsi a mano dai Signori gli Otto di guardia, a questi ed al Capitano del popolo concedendo autorità d’inquisire in cose di Stato quanta nei passati tempi avessero mai goduta maggiore: le quali perchè parvero essere esorbitanti cose, molto riuscirono dure a vincere. Dipoi rifecero le borse dei Magistrati e dei Consigli e dei Consoli delle Arti; crearono dieci Accoppiatori i quali traessero a mano il Gonfaloniere di giustizia, e mettessero a loro arbitrio nel borsellino i Priori. Rafforzarono le provvisioni circa la vendita dei beni dei debitori del Comune. Levarono via i Consoli del mare, e fecero che duecento fanti si assoldassero da stare a guardia della Piazza. In quanto a Cosimo, già innanzi che fosse radunata la Balìa aveano i Priori pronunziato contro lui ed Averardo la prima condanna. Abbiamo noi questo singolare documento, dove esposte da prima le colpe di quelli della Casa Medici a cominciare dal 1378, e quindi accusati di gravi macchinazioni Cosimo ed Averardo negli anni passati, e ultimamente apposta loro la guerra di Lucca, la quale fu quasi ruina non solo della Repubblica ma di tutta Italia; appella quei due nemici truculenti e crudelissimi, promotori di stragi d’incendii e d’ogni devastazione, e quale che fosse la diabolica natura loro, tollerati per singolare benignità del popolo fiorentino: questi, perchè la clemenza di questo popolo medesimo rifugge dal sangue, hanno confine di un [214] anno solo, Cosimo a Padova ed Averardo a Genova; ch’è sentenza invero assai mite dopo tanto sfoggio d’accuse contro essi e di feroci parole.[265] Con altra sentenza degli undici, la Balìa prolungava fino a cinque anni il confine di Cosimo e di Averardo, confinava a vari tempi in diversi luoghi Lorenzo ed altri della Casa Medici.

Cosimo intanto dall’alto della torre dov’era rinchiuso udendo più volte suonare a Balìa e la Piazza piena d’armi, viveva in sospetto grandissimo della vita, e non aveva più giorni voluto mangiare altro che un poco di pane temendo veleno. In Palagio non mancava chi cercasse levarsi d’impaccio, facendo morire Cosimo per qualche segreto modo: a questo effetto due de’ Priori e due degli Otto si trova che avessero sollecitato Federigo dei Malavolti da Siena Capitano dei fanti in Palagio, al quale era stato il prigioniero dato in guardia. Ma quegli, com’era di nobile animo, respingeva l’indegna richiesta; e andato a Cosimo e lagnandosi del poco onore che temendo gli faceva, quasi egli che avealo in guardia volesse tenere le mani a una simile scelleratezza, con calde parole tutto lo riconfortò, ed aggiunse: «perchè tu del cibo ti tenga sicuro, mangeremo insieme le cose medesime.» Cosimo con le lacrime agli occhi abbracciò e baciò Federigo, e lieto offerse d’avernegli gratitudine se dalla fortuna gliene fosse data occasione. Un altro giorno Federigo, per dargli piacere, condusse a cena seco un familiare del Gonfaloniere, uomo faceto e sollazzevole che per soprannome era chiamato il Farganaccio; e quando furono alle frutta, Cosimo col piede toccò Federigo e col viso accennò che si partisse: levatosi il quale, come se andasse per alcune cose della mensa e rimasti soli, Cosimo diede un contrassegno al Farganaccio, [215] col quale andasse allo Spedalingo di Santa Maria Nuova per millecento ducati, e pigliandone cento per sè, mille ne recasse al Gonfaloniere, il quale dipoi fu tutto per Cosimo.[266] Questi medesimo ne’ Ricordi suoi racconta con poco divario dei fiorini dati al Gonfaloniere e d’altri ottocento a uno de’ Priori; aggiugne dipoi da vero mercante: «ebbero poco animo, chè se avessero voluto denari, n’avrebbero avuti diecimila o più, per uscire di pericolo.[267]»

Il prolungarsi che faceva senza buon consiglio l’inutile prigionia dimostra già essere disegno fallito quello dell’Albizzi e dei suoi: gli amici molti che aveva Cosimo in Palagio e fuori si agitavano sordamente, nei vincitori e nella parte loro non era fiducia. Cosimo giudica lo tenessero un mese in carcere per due cagioni. La prima, per vincere i voti della Balìa colla minaccia di farlo morire; e l’altra, perchè si credevano che non potendo egli valersi del suo, venisse a fallire; il che non riusciva ad essi, che anzi la Casa dei Medici non perdè credito e da molti mercanti e signori fu loro offerta grande somma di danaro. E nei Ricordi pure si trova: la Signoria di Venezia avere mandato tre ambasciatori a Firenze (e pone anco i nomi), i quali ottennero non fosse offeso nella persona, e concordarono la liberazione sua offrendo tenerlo a Venezia con la promessa che nulla farebbe contro alla Signoria di Firenze. Il Marchese di Ferrara per simile modo facea comandare al Capitano di guardia, ch’era messer Lodovico del Ronco da Modena e suddito suo, salvasse Cosimo se poteva, fuggendo con seco qualora occorresse, senza nulla dubitare.

Infine usciva al 29 settembre la terza sentenza alquanto aggravata dalle prime due, ma lieta a Cosimo perchè ne seguiva la pronta sua liberazione. Fecero [216] dei grandi tutta la schiatta dei Medici, tranne i discendenti di Vieri, privandoli anche degli uffici pertinenti all’ordine dei magnati, ma senza costringerli a mutare casa, quartiere o pieve, nè a dare malleveria. Rilegarono per dieci anni Cosimo a Padova, ed Averardo dei Medici a Napoli, Lorenzo a Vinegia per cinque anni, ed altri di quella Casa in vari luoghi a tempi più brevi. Lasciarono a tutti la proprietà dei loro crediti e capitali: quelli sul Monte vollero che fossero sempre intestati nei nomi loro, ma senza però che gli potessero alienare.[268] A’ 3 d’ottobre lo cavarono di carcere, e fattolo venire innanzi alla Signoria, gli denunziarono il confine; ed egli accettava con allegro animo, offerendo in qualunque luogo fosse alla città, al popolo e alle loro Signorie sè stesso e tutte le sostanze sue. La notte, perchè si sentiva Ormanno degli Albizzi con molti armati essere in Piazza per manometterlo, volle lo stesso Gonfaloniere sotto buona guardia condurselo a casa; dove fattolo cenare, dipoi con la scorta di due degli Otto per la montagna di Pistoia accompagnato da quelli alpigiani e presentato di biada e cera (come solevano agli Ambasciatori), Cosimo usciva dal territorio del Comune. Poco dipoi furono confinati Puccio e Giovanni Pucci, ch’erano suoi principali amici, Bernardo Guadagni, che usciva di Gonfaloniere, andò Capitano a Pisa; e gli altri della Signoria che seco avevano prestato mano a quei fatti ebbero premio d’uffici lucrosi.[269]

Frattanto i pericoli nei quali versava il nuovo Stato parea chiedessero qualcosa d’insolito; troppo aveano osato, da starsene fermi negli ordini consueti: nè Cosimo era tanto uno scandalo da rimuovere, quanto era oggimai col nome e col seguito e con la pietà ch’avea destata, e con la prova contra lui fatta inutilmente, più forte egli solo nel felice esiglio di quello [217] che fosse lo Stato in Firenze. Rinaldo degli Albizzi bene si accorgeva di avere fatto troppo o troppo poco; e ch’avess’egli avuto disegno d’uccidere Cosimo, nè voglio affermare nè al tutto negare, perchè in lui poteano essere impeti di passione ma non le furie dei Signori avvezzi al delitto; nè tra essi due era nimistà indurita, nè dopo la breve e dubbia vittoria, Rinaldo ed i suoi mai diedero segno di volere uscire dai modi civili: questo deve l’istoria mantenere a grande onore di lui e di tutta quella parte.[270] Col rifare gli squittinii, col porre a sedere coloro che erano nelle antiche borse, e con l’arbitrio sulle tratte concesso agli Otto e agli Accoppiatori, cercavano essi non lasciarsi uscire lo Stato di mano: ma questo non si poteva stringere tanto, che al difuori non rimanesse la libertà dei Consigli e dei Collegi; nè questa città dava materia sufficiente a una repubblica d’ottimati. Si avrebbe ciò forse potuto in addietro quando tutte insieme le grosse famiglie di grandi o di popolo si fossero strette ad un concorde volere; il che noi vedemmo Rinaldo degli Albizzi avere cercato, ed era già tardi per le lunghe offese e gli odii scambievoli: ma oggi non poteva questo in lui essere che un desiderio, perchè i grossi popolani divisi in sè stessi e affranti dalla loro vittoria stessa, non erano tali da potersi unire co’ grandi senza esserne oppressi, nè tali da smuovere i fondamenti della Repubblica e fare opera sì difficile. Già erano tutti gli antichi ordini come triturati dal vario percuotersi e confondersi tra loro; e i più tra’ magnati vedeano con gioia prepararsi un’altra forma novella di Stato, la quale avendo sua forza nella plebe, offrisse [218] anche a loro speranza d’alzare su quel fondamento più largo e sicuro una qualche sorta di grandezza.[271] Così vedea l’Albizzi (e non lo taceva) da quella sua stessa potenza uscire il proprio suo disfacimento; al quale già molti chetamente lavoravano di quelli medesimi che prima non soliti stare co’ Medici, s’accostavano ora alla parte che li desiderava. Era un giovane Agnolo Acciaioli in Palagio nelle pratiche per ordinare lo Stato, del quale una lettera a Cosimo venne nelle mani di Rinaldo; scrivevagli crescere ogni giorno il numero di quei che bramavano fosse egli in patria restituito, al quale effetto lo consigliava sopra ogni cosa di farsi amico Neri di Gino, ed aggiugneva che una qualche guerra nascerebbe presto e forse per voglia degli stessi reggitori, nella quale mancando colui ch’era solito di sovvenire con le proprie ricchezze il Comune, sarebbe necessità di farlo subito richiamare. Per questa lettera l’Acciaioli fu preso, e dopo essere stato messo alla corda, andò a confine in Cefalonia, terra dove la famiglia degli Acciaioli avea principato.

La guerra nasceva bentosto da quella necessità che era sempre nei soldati di stare sulle armi, e dalle infrenabili cupidità dei condottieri i quali ambivano farsi principi: le terre della Chiesa offrivano campo fra tutti agevole alle aggressioni. Il conte Francesco Sforza, data voce di andare nel Reame, s’insignoriva di quasi tutta la Marca d’Ancona, e di là scendeva a Todi e a Viterbo, intantochè le armi Braccesche avevano occupato sotto la condotta di Niccolò Fortebracci gran parte dell’Umbria e del Patrimonio di San Pietro insino a Tivoli. Tantochè il Papa stretto a quel modo, [219] si accordava col conte Francesco, al quale concesse il marchesato della Marca, e consentì farlo Gonfaloniere di Santa Chiesa. Furono quindi tra i due Capitani fazioni di guerra, e Niccolò Piccinino anch’egli scendeva con le armi del Duca nel Patrimonio: ma in questo mezzo avendo i Romani levato rumore, cacciarono il Papa, il quale nascosto in vesti mentite e lungo il Tevere inseguíto con le balestre, pervenne ad Ostia, dove con un solo Cardinale montato sopra una galea sottile che v’era della regina Giovanna di Napoli, e di già essendo dai Fiorentini apprestata a suo salvamento un’altra galera in Civitavecchia, pervenne a Livorno. Quivi accolto con grandissime onoranze dalla Repubblica, fece indi solenne ingresso in Firenze, dove fu raggiunto da molti prelati, ed egli rimase a lunga dimora. Intanto Bologna s’era anch’essa ribellata al Papa con l’opera di Battista da Canneto, che uccisi i capi della contraria parte, cacciò il Legato; e perchè il duca Filippo Maria, cui era buona ogni occasione, aveva pigliato i Bolognesi in tutela, parve a’ Fiorentini e alla Repubblica di Venezia non essere caso da starsene fermi: questa inviava nella Romagna Erasmo da Narni più noto col nome di Gattamelata, pe’ Fiorentini andò il loro vecchio Capitano Niccolò da Tolentino, le genti ecclesiastiche ubbidivano al Legato Vitelleschi vescovo allora di Recanati; intantochè a fronte stava il Piccinino con forte esercito di ducheschi. Non era consiglio delle Repubbliche collegate venire a giornata: ma il Piccinino, maestro di guerra, appiccò la zuffa sotto Imola il dì 28 agosto 1434, dove per lunghi aggiramenti condotto a dividersi l’esercito della Lega già male unito sotto al comando di tre capitani, ottenne vittoria per quello che davano i tempi grandissima; avendo con la morte di pochi de’ suoi fatto tremilacinquecento prigionieri, e tra essi il prode Niccolò da Tolentino, il quale condotto a Milano e di là mandato più mesi dopo in Val di Taro, moriva d’una caduta, [220] o come fu detto per ordine del Visconti.[272] Il corpo di lui, recato in Firenze, ebbe più tardi esequie magnificentissime, e l’effigie di lui a cavallo si vede nel tempio di Santa Maria del Fiore.[273]

Per questa rotta, la quale avvenne contro l’opinione di ciascuno, molte ebbero accuse i reggitori della Repubblica; dai quali è da credere che più s’alienassero i Signori Veneziani, propensi al Medici più che a loro, siccome apparve per tutto il tempo della dimora che fece Cosimo in Venezia. Questi, che in Firenze viveva alla pari con gli altri cittadini, era onorato come principe durante l’esilio. A Modena il Governatore del Marchese di Ferrara lo visitò e presentò, e gli fece dare compagnia e guida: innanzi che uscisse dallo Stato, un altro grande gentiluomo del Marchese gli fu inviato con molte offerte. Andò in Venezia, appena giunto, a ringraziare la Signoria di quanto aveva operato per la sua salute, da essa mostrando riconoscere la vita: fu ricevuto con tanto onore e tanta carità che non si potrebbe dire, la Signoria dolendosi degli affanni patiti da lui, e offerendo per ogni suo contentamento la città e le entrate loro. Così egli stesso.[274] A Padova fu alloggiato nella casa di messere Iacopo Donati, bella e fornita lautamente; andavano a fargli offerte uomini della Signoria, ai quali però con le usate cautele fu comandato che fuori nulla ne spargessero. Dipoi, a richiesta di Cosimo, fu a lui permesso dimorare liberamente in qualunque luogo dentro al territorio della Repubblica di Venezia, la quale in Firenze [221] per il suo ambasciatore avvalorò la domanda.[275] Ed egli si stette poi sempre in Venezia, quivi dimostrandosi non che amorevole alla patria sua, benigno inverso coloro stessi che lo avevano sbandito; delle quali cose gli rendeva testimonianza una lettera che a lui scrisse la Signoria di Firenze. Altre poi ne sono a lui di grande commendazione, massimamente di letterati, dei quali troviamo avere egli sempre cercato il favore:[276] e tanta era poi la magnificenza di quell’esule, tante le ricchezze, che egli in Venezia faceva a sue spese edificare da Michelozzo architetto la Biblioteca dei Monaci Benedettini in San Giorgio, secondo appare da una iscrizione che ivi fu posta ad onore suo.[277] Per tanti modi era manifesto ch’egli tornerebbe in patria già come signore e principe dello Stato.

I magistrati aveano ricominciato a farsi per tratte, e poichè le vecchie borse non furon arse, ma rimanevano tramischiate con le nuove, ogni volta si aspettava che uscirebbe una Signoria d’amici a Cosimo: quella che doveva entrare in ufizio il primo di settembre 1434, tale era che gli animi se ne sollevarono diversamente così del popolo come della parte Rinaldesca; ma tutti vivevano sospesi, e temevano questi di perdere; gli altri di non vincere. Gonfaloniere fu Niccolò di Donato Cocchi, uomo nuovo, non ricco e fra tutti volonteroso di farsi innanzi, secondato com’egli era dal maggior numero dei Priori, tra’ quali troviamo quel Luca di messer Bonaccorso Pitti ancora giovane, ma del quale avremo a dire poi le grandezze. Disegno dell’Albizzi era impedire con la violenza l’entrata in [222] ufizio d’una tale Signoria facendo col mezzo del Gonfaloniere che usciva, Donato Velluti, suonare a Parlamento e annullare a voce di popolo la nuova tratta: ma nè gli amici di Rinaldo osarono tanto, e il Cocchi appena entrato in ufizio fece condannare per baratteria e chiudere in carcere l’antico Gonfaloniere. I nuovi Signori scrivevano a Cosimo, apparecchiavano ogni cosa in città e fuori a stringere insieme e ordinare le forze dei molti bramosi di mutare il reggimento, mettevano armi segretamente in Palagio; mentre più apertamente Rinaldo degli Albizzi e i suoi armavano intorno a sè molti dei soldati licenziati ch’erano in Firenze, e dal contado faceano scendere villani: era imminente l’aperta guerra. Quando ad un tratto, a’ 26 settembre la Signoria fornì la Piazza e la ringhiera di fanti, facendo richiedere a comparire in Palagio Rinaldo degli Albizzi, Ridolfo Peruzzi e Niccolò Barbadori: al che subito questi uscirono armati, e seco aveano i Guasconi, i Rondinelli, i Castellani, i Gianfigliazzi e alcuni de’ Bardi con altre famiglie, e i Capitani di Parte e gli Otto di guardia. Rinaldo degli Albizzi aveva più volte con grande istanza chiamato l’aiuto di Palla Strozzi: questi era uomo di alto grado per la possanza della Casa[278] e per gli ufizi esercitati, ma l’ingegno di lui teneva del mansueto e del dolce, più atto ai gentili studi delle lettere che alle sollecitudini dei moti civili. Si narra che un altro buono e caro cittadino, il vecchio Agnolo Pandolfini, avesse da quella mossa inclinante a civil guerra disconfortato lo Strozzi,[279] il quale co’ fanti che aveva raccolti fu contento di guardare le proprie sue case. Troviamo però che tardi venisse sopra un ronzino e coll’accompagnamento d’un solo famiglio[280] alla piazza di Santo Apollinare, [223] dove Rinaldo e i suoi avevano fatto testa, deliberati quant’era in loro di assaltare il Palagio, qualora le forze a ciò avessero sufficienti. Ma non che lo Strozzi, più altri cittadini o mancarono al convegno, o si ritrassero o voltarono. Giovanni Guicciardini non potè muoversi, ritenuto dal fratello Piero il quale seguiva le parti di Cosimo, come faceva Luca degli Albizzi fratello a Rinaldo; Neri Capponi e Nerone di Dionigi Neroni balenavano, tenendosi guardinghi a vedere dove inchinassero le faccende.

Con tutto ciò aveva Rinaldo degli Albizzi intorno a sè ottocento fanti, i quali tenevano dal Palagio del Potestà le strade che menano verso la Piazza: da parte dei Signori molti venivano a Rinaldo offrendo concordia, e che non avevano intenzione rimettere Cosimo. Ridolfo Peruzzi andò in Palagio egli medesimo a trattare queste cose. Intanto alcuni cittadini principali, tra’ quali sarebbono stati Neri Capponi e Giannozzo Pitti,[281] si erano raccolti a Bellosguardo, quivi aspettando, prima di dichiararsi, dove il fatto riuscisse. Era in Firenze, come dicemmo, papa Eugenio IV, in nome del quale giugneva a cavallo sulla piazza di Santo Apollinare il Legato Vitelleschi: trattò con Rinaldo lì sulla piazza, poi nel Palagio co’ Signori, e quindi tornato ottenne che Rinaldo a un’ora di notte si persuadesse andare al Papa ed in lui rimettersi. Andò Rinaldo, ma seguitato dagli armati suoi, i quali passando voleano bruciare le case ai Martelli, e a stento furono impediti. Infine a cinque ore di notte Rinaldo cedendo al Papa e al Legato, rinviava i suoi fanti alle case loro disarmati, rimanendo egli lì presso Eugenio in Santa Maria Novella. Quali speranze questi gli desse non so, ma più ignoro quello che potesse [224] allora promettere: dipoi si tenne egli ingannato, ma era d’animo poco fermo. Rinaldo, o fosse in lui bontà d’animo a non volere la guerra civile, o troppa fede in Eugenio, o troppa fiducia nelle parole dei più mortali nemici suoi, o che veramente conoscesse non potere fidarsi nelle armi contro alla forza dei magistrati, rimase due giorni senza che di lui più altro sappiamo, nè a quali partiti cercasse appigliarsi, nè quali pratiche si tenessero.[282]

A’ 29 di settembre suonò a Parlamento: stava del Palagio serrata la porta, e dentro armati forestieri e cittadini; la Signoria aveva fatto venire in Firenze la sua gente d’arme, e questi e molto popolo minuto presero tutta la Piazza ed il Mercato Nuovo e Vecchio in modo che non passava persona. Il Papa mandava ai magnifici Signori il Vitelleschi con altri due Vescovi ed il Reggente della Camera suo proprio nipote, i quali essendo saliti in ringhiera, poco stante scesero i Signori con suoni di trombe e rumore grande. Insieme postisi a sedere, fecero fermare le voci, e Ser Filippo Pieruzzi che aveva chiamato la Balìa del 33, chiamò quest’altra; a cui risposero forse trecentocinquanta cittadini, siccome troviamo notato in più luoghi, sebbene Cosimo ne’ suoi Ricordi scriva che fu grandissima moltitudine. Questa Balìa annullava ogni altra Balìa dal 1393 in poi; quindi si tornarono i Signori in Palagio ed i Prelati al Papa: fu comandato alle genti d’arme e ai cittadini tornarsi ciascuno a casa, e non seguì alcuno scandalo nella terra. Il primo d’ottobre la Signoria inviava al Papa il Gonfaloniere di giustizia e uno dei Priori a fine di rendergli grazie; avevano seco quattrocento fanti bene armati, e capi di questi Neri di Gino, e con tradimento del nome suo Luca degli Albizzi ch’era ammogliato ad una Medici. Alle quattro ore di notte giunti a Santa Maria Novella ebbero subito [225] udienza, e i due Signori stati un’ora in camera del Papa col Vitelleschi grande amico di Cosimo (secondo scrive egli medesimo), rimasero d’accordo insieme della ritornata di questo, e poi rientrarono nel Palagio. Il giorno seguente era la Piazza occupata di nuovo da genti armate, e con esse uno dei Medici e Bartolommeo degli Orlandini svisceratissimo di quella parte e adoprato poi, siccome dovremo più tardi conoscere, a fatti peggiori. Furono in Palagio chiamati gli uomini della Balìa ed i Collegi, i quali insieme con la Signoria a un grido levarono il bando a Cosimo de’ Medici e agli altri con lui mandati in esilio, e all’Acciaioli e a’ due Pucci. Riabilitarono agli uffici della Repubblica le famiglie dei Medici e degli Alberti, che prima n’erano stati privi. Fecero i dieci Accoppiatori che regolassero le tratte a modo di chi reggeva.[283] Un Bartolommeo de’ Cresci, giovane ardito ch’era dei Collegi, e aveva cercato levando rumore che la Pratica non si vincesse, fu preso e la notte morì ne’ tormenti, o (come fu sparso) con le sue mani s’uccise in carcere. L’altro dì poi furono confinati Rinaldo degli Albizzi ed Ormanno suo figliuolo per otto anni, Ridolfo Peruzzi e Niccolò Barbadori da principio per soli tre anni; i figli e i discendenti loro posti a sedere. Narrasi che Rinaldo chiamato dal Papa avesse conforti da lui e proteste, non avere egli creduto il dì che fece gli accordi dovessero questi infine condurre al suo esiglio; e che Rinaldo amaramente dicesse non d’altri dolersi che di sè medesimo, il quale credette potesse in patria conservarlo chi il proprio suo seggio aveva perduto.[284] Con queste parole Rinaldo degli Albizzi lasciò per sempre la patria sua.

Cosimo de’ Medici era a Venezia quando per lettere e messi da Firenze gli giunse notizia della nuova Signoria ch’entrava in ufficio, sollecitandolo molti parenti [226] ed amici s’accostasse intanto ai confini, avendo speranza di tosto poterlo rimettere dentro. Ma Cosimo volle prima bene assicurarsi dell’animo dei Signori, col dire che nulla egli e Lorenzo farebbero contro al volere della Signoria. Dalla quale avuto espresso avviso che si muovessero, a’ 30 settembre lasciata Venezia giunsero al ponte di Lagoscuro. Poi narra Cosimo come per corriere il primo d’ottobre avesse lettere che lo avvisavano dell’essere stati rimessi in Firenze, e lo esortavano a venir presto. Onde recatisi a visitare il Marchese di Ferrara che del fatto mostrò allegrezza, continuando la via giunsero a Modena, alloggiati quivi nelle case del Marchese con grande onore; dappertutto trovarono fanti ch’erano ordinati perchè andassero con loro, e a questo fine Uguccione dei Contrari da Ferrara aveva a soldo duecento cavalli. I quali però da essi furono licenziati, perchè non era di bisogno: e a’ cinque rientrarono sul terreno del Comune di Firenze, un anno appunto dacch’essi n’erano prima usciti.[285] Passarono fuori delle mura di Pistoia, e tutto il popolo si fece alla porta per vederli così armati e con tale accompagnamento, essendo incontrati anche sulla via da molti cittadini; cosicchè erano grande numero. A questo modo Cosimo stesso racconta il fatto di questo suo viaggio per l’Italia, che venne dipoi magnificato oltre al vero, e descritto come trionfale di plausi di popoli e di solenni festeggiamenti. Nei giorni più splendidi di Casa Medici e delle arti, tra le allegorie dei fatti di quella famiglia dipinte per mano di artisti eccellenti nel bellissimo salone del Poggio a Caiano, si vede il ritorno di Cosimo figurato per quello di Cicerone quando fu in patria ricondotto (secondo [227] egli scrive) sugli omeri di tutta Italia. A’ sei giugnevano a desinare a Careggi, dove fu gran gente; ma i Signori mandarono a dire non entrassero prima di sera; e perchè tutta la via Larga era piena fino a casa loro d’uomini e di donne, egli e Lorenzo con un famiglio ed un mazziere volgendo lungo le mura vennero dietro la chiesa de’ Servi, poi da San Piero girando presso alle vuote case di Rinaldo degli Albizzi, entrarono nel Palazzo dei Signori; i quali vollero, per non fare maggiore tumulto, che rimanessero quivi ad albergo fino alla mattina. Da questo giorno per trecento anni tutta l’istoria di Firenze si annesta a quella di Casa Medici.

Capitolo IX. GLI STUDI CLASSICI IN FIRENZE; GRANDE INCREMENTO DELLE BELLE ARTI. [AN. 1378-1434.]

Gli studi classici erano grandemente venuti a scadere nei popoli latini prima che fossero cancellati dall’urto dei barbari e avessero incontro la scuola cristiana. Breve regno ebbe la lingua latina quanto alla eccellenza dello stile; e al cominciare del terzo secolo i primi autori cristiani già non avevano tra i pagani chi li pareggiasse. L’amore del bello cadeva bentosto di cuore ai Romani, la poesia dopo all’età d’Augusto fu arte oratoria più che poesia vera. Dipoi vennero i grammatici, non d’altro studiosi che di salvare la lingua; gli studi ogni giorno più assottigliavano, e gli antichi libri poco erano letti; Virgilio rimase in cima sempre allora e poi, ma come fonte della grammatica; indi nelle età più barbare fu anche profeta. Quei popoli nuovi e incolti cercavano in ogni cosa il maraviglioso; l’ingegno esercitavano volonterosi [228] nelle dottrine più astruse, amavano nell’istoria la leggenda: quindi molti seppero l’istoria delle dottrine, pochi o nessuno quella dei fatti, imperocchè il sapere dei più si formava di quel che avevano imparato a scuola. Duravano queste cose fino anche dopo all’età dell’Alighieri, nel quale può dirsi che fosse divinazione avere sentita e in sè compresa la squisitezza della poesia di Virgilio, cui fu seguace senza mai farsi imitatore. Ma da quello in fuori, parte piccolissima dei libri classici era conosciuta, e spesse volte non dei sommi, dove le finezze stanno più riposte: Orazio leggevano poco, rimase Ovidio come esemplare di versificazione, Lucano in grazia dell’argomento; amavano in Seneca le brevi sentenze e alcune cose da lui attinte (come noi crediamo) negli scritti o nella conversazione dei cristiani, di Tullio conoscevano gli Uffici e le Tusculane e piccol numero di Orazioni e quasi null’altro: l’Istoria romana attingevano da Paolo Orosio, poco bastando i brevi tratti che ne dà Sallustio, Tacito ignoravano, a Tito Livio poco si arrischiavano.

Tostochè Dante ebbe inaugurato la scienza laica e che una vita letteraria cominciò ad essere fuori della scuola, cercare i codici dove si nascondevano i grandi scrittori latini e farsene studio, fu agli Italiani come andare alla recuperazione d’un antico patrimonio vantato sempre, ma non goduto e gran parte ignoto. A questo si accinse, e a lui ne spetta la prima lode, Francesco Petrarca; fu a lui passione com’era ogni cosa, e di questa sola dice non avrebbe voluto guarire. Scriveva oltremonti, scriveva oltremare per avere codici antichi, dei quali si fece copiosa biblioteca, legata da lui alla città di Venezia e principio a quella di San Marco; nei viaggi frequenti, ogni monistero che incontrasse, vi accorrea cercando se un qualche tesoro di antichi libri non vi fosse sotterrato. Rinvenne di Tullio le Lettere familiari e tutte le Orazioni; ebbe in Firenze da Lapo da Castiglionchio le Istituzioni di Quintiliano, [229] ma guaste e scorrette. Le opere trovate copiava spesso di mano sua, lagnandosi della scarsità dei copisti, del caro prezzo e della temeraria infedeltà delle copie. Promosse lo studio anche della lingua greca, della quale ebbe i rudimenti da un Barlaam calabrese vissuto in Grecia monaco Basiliano. Aveva il Petrarca da Costantinopoli avuto in dono un manoscritto dei poemi d’Omero in greco, ma non seppe mai decifrarlo nè mai si diede molto allo studio di quella lingua, egli uomo latino di genio e allora in età provetta. Chiedeva pertanto al Boccaccio amico suo gli procurasse di quei poemi una versione latina, la quale ottenne ma non compita: n’era stato autore, a quello che sembra, un altro calabrese Leonzio Pilato, dottissimo nelle greche lettere, e quanto gli concedevano i rozzi e strani costumi, familiare al Petrarca ed al Boccaccio. Si deve a quest’ultimo che fosse Leonzio chiamato l’anno 1360 ad insegnare nello Studio fiorentino le lettere greche, cominciando dalla spiegazione dei poemi Omerici; prima cattedra di greca lingua che si conosca nell’occidente d’Europa. Nessun altri fece quanto il Petrarca ed il Boccaccio pel risorgimento dei classici studi, i quali bentosto ebbero in Firenze un assai rapido incremento.

Al quale prestava opera lunga e autorità grande Coluccio Salutati, che fu trent’anni Cancelliere della Repubblica Fiorentina [m. 1406]. Questa soleva a tale ufizio chiamare uomini letterati che già si avessero acquistata fama; Coluccio, insigne per dottrina, fu anche onorato per l’animo virtuoso. Per sè negli studi fu tutto latino, ma Leonardo d’Arezzo scrive doversi a lui quel che si sapeva di greco in Firenze. Il nostro Coluccio fu anche poeta, essendo questo come un necessario finimento dei classici studi, poichè il latino cercavasi allora massimamente nei poeti; e come poeta fu egli portato alla sepoltura con la corona d’alloro in capo, avendone prima la Repubblica ottenuto privilegio, [230] in quella età necessario, dal Papa o dall’Imperatore o forse da entrambi. Ma la sua gloria principale stette nelle molte lettere latine scritte in nome della Repubblica, o in proprio suo nome a principi o a letterati per l’Italia, questi accattando l’amicizia del celebre uomo con molto incenso di lodi magnifiche: a noi quelle lettere, che pure mostrano padronanza della lingua e copia di stile, appariscono lontane assai da vera eloquenza. Ma tali non parvero al grande nemico dei Fiorentini Gian Galeazzo Visconti, il quale soleva dire (se scrivono il vero), temere egli una lettera del Salutati più che molte spade: bisogna dire che certe nuove bellezze dello scrivere destassero affetti, che in noi oggi non valgono a destare. Il che avviene, credo, sempre nelle arti, dove un certo modo di sentire si forma vario nei diversi tempi; e chi risponda più a quel modo, col destare ammirazione produce negli animi un commovimento più simpatico: nelle arti imitative ogni somiglianza al vero che prima non fosse veduta dagli uomini, potè suscitare ad occhi inesperti anche una sorta d’illusione, sebbene l’immagine ai nostri apparisca rozza ed informe.

Scriveva Coluccio in italiano le lettere che giornalmente andavano per la Signoria dentro lo Stato ai rettori o ai comuni del contado; e queste ora sono da noi cercate più avidamente di quelle famose in lingua latina. Ma gli eruditi di quella età poco degnavano il volgare, fatti ambiziosi di porre in mostra le nuove eleganze ch’avevano attinte dall’uso dei classici. Si giunse a tale, che traducevano in latino le istorie o le vite d’uomini insigni perchè ottenessero (così scrivevano) maggiore divulgazione: già era formata quella che poi si chiamò repubblica delle lettere; da questa accattavano le lodi, per questa scrivevano. Dal che avvenne che separando troppo la scienza dall’uso e la scuola dalla vita, la lingua avesse meno autorevole disciplina, perchè i più dotti non si curavano di farsi [231] uomini popolari. Troviamo quindi per cento anni lo scrivere nella Toscana istessa come bipartito; da un lato nell’uso familiare progredire, dall’altro fermarsi quasi inceppato o irrigidito. Il quattrocento non è vero che in italiano scrivesse male, ma fu sua colpa lo scrivere poco: scorreva la lingua nelle scritture familiari e nelle lettere private forse meno viva perchè già più adulta, ma più ordinata; ed il periodo era più finito e le frasi meglio tra sè collegate di quello che fossero nell’aureo trecento.

Ma sugli ultimi di quel secolo le novelle di Franco Sacchetti sono il libro dove più s’impari in fatto di lingua, e molto ancora se ne ricava circa i costumi di questa e d’altre città italiane. Si tenne il Sacchetti lontano affatto dal Boccaccio quanto alla forma, ed ebbe diverso il fine stesso delle novelle. Non pensò a farsi egli inventore di bella prosa, ma scrisse alla buona, usando le naturali grazie della lingua e quelle che uscivano a lui dall’animo esercitato al bello ed al buono: racconta spedito con le sole circostanze che meglio conducano a intendere il fatto ed a mostrarne la significazione. Scrisse anche poesie leggiadre talvolta, ma le più risguardano a cose politiche, la città essendo molto agitata in quegli anni che seguitarono al fatto dei Ciompi. Il Sacchetti popolano, sebbene portasse casato di grandi, odiava le tirannie di chi stava in alto, e quelle cercate in nome del popolo e col mezzo della plebe. Di lui sono a stampa alcune lettere, e scrisse un breve suo Quaresimale da far contrasto alle intemperanze dei predicatori: sicuro e forte nella religione, fu molto severo a chi l’abusava. Un poco più tardi il Pecorone di Ser Giovanni Fiorentino contiene racconti più spesso che novelle, di buona lingua, ma senza che altro sia da dirne.

Molto abbondarono i Cronisti in quella età della lingua e della repubblica. Marchionne Stefani terminava l’anno 1385 la lunga sua Cronaca, la quale pei [232] tempi da lui veduti e quando ebbero cessato i Villani, è pregevole sopra ogni altra per la materia, bene esprimendo lo stato della città e delle parti in quegli anni fortunosi che prepararono il tumulto del 1378, poi, finchè rimase in vita lo Stato allora fondato: Marchionne stava con le Arti minori, e in quel governo ebbe qualche ingerenza. Non fu, a dir vero, felice scrittore; ma sa metter fuori di quelle parole che riescono tratti di luce all’istoria. Piero Minerbetti comincia laddove finisce lo Stefani e va fino al 1410; è buono scrittore, nè manca di certa sua gravità nè di acutezza, sebbene alle volte alquanto prolisso. Di Gino Capponi abbiamo una molto pregevole narrazione del tumulto de’ Ciompi, da lui condotta fino alla distruzione del governo delle Arti maggiori: abbiamo anche scritti nella ultima vecchiezza alcuni Ricordi a Neri suo figlio. Non bene sappiamo a quale dei due appartenga il Commentario sopra l’acquisto di Pisa, ma forse Neri ampliò e distese gli appunti del padre. Scriveva Neri anche un Commentario delle cose da lui operate in molti commissariati ed ambascerie, ma questo risguarda per la maggior parte un tempo diverso, che sarà materia del libro seguente. Iacopo Salviati anch’egli narrava le ambascerie onoratamente da lui sostenute. Due Boninsegni continuarono una Istoria di Firenze fino al 1460. A tutti sovrasta per la finezza della lingua e del dettato Giovanni Morelli; non gli cadevano dalla penna inavvertite le eleganze, ma pochi le ebbero più sincere e di miglior conio: una descrizione del Mugello, d’onde era uscita la sua famiglia, pare abbia in sè tutta la freschezza di quella grandiosa e amena provincia. Si estende la Cronaca dal 1393 al 1421. In quelli anni stessi Goro Dati diede a un suo libretto titolo di Storia; dovea chiamarlo Discorsi politici intorno allo Stato di Firenze ed al vivere della città. Noi l’adoprammo più volte come di uomo pensatore che guarda e giudica le cose addentro, [233] acuto e pratico e che sa bene ritrarre le qualità e gli umori di questo popolo fiorentino. Bonaccorso Pitti scrisse con vivacità le sue fortune alle Corti di Francia e di Borgogna e di altri Principi, dei quali rendevasi familiare, mi dispiace dirlo, per via del giuoco. Ma questo dovette riuscirgli bene perchè tornò in patria ricco, ed ebbe la mano nelle cose dello Stato: fu padre a quel Luca, le cui ricchezze fruttarono male a lui e peggio alla Repubblica. Di altri minori sarebbe tedioso il dare qui la enumerazione.

Tra’ libri di cose morali ed ascetiche è da contare un Trattato circa il Governo della famiglia composto dal Beato frate Giovanni Dominici dell’ordine dei Predicatori. Lo abbiamo a stampa da pochi anni, e vi si scorge che l’autore aveva la buona lingua popolana dalla culla, ma poi formava lo stile in gran parte sulle latinità dei Padri e degli Scrittori ecclesiastici, il libro essendo tutto ascetico. Il Dominici, creato cardinale da papa Gregorio XII in Lucca l’anno 1408, seguì le fortune del suo promotore fino al Concilio di Costanza; dopo di che inviato dal nuovo Pontefice in Ungheria Legato, moriva in Buda l’anno 1420. Assai dei libri di devozione ed altri che senza nome d’autore furono pubblicati la maggior parte ai tempi nostri, o sono citati manoscritti come testi di lingua pel molto studiato trecento, appartengono sicuramente agli ultimi anni di quello ed ai primi del seguente secolo. Ma in questo crediamo venissero meno le traduzioni popolari dai Padri o dai Classici latini poichè se ne furono impadroniti i letterati. La poesia non ebbe nei primi anni di questo secolo insigni cultori.

Ma fu come principe di quell’età Leonardo Bruni d’Arezzo, che morì vecchio l’anno 1444: in Roma fu Segretario apostolico sotto quattro Pontefici, indi molti anni Cancelliere della Repubblica fiorentina. Tradusse in latino i libri politici di Aristotele e più altri di greci scrittori; illustrò alcuni punti speciali delle antiche [234] istorie. Pure in latino scrisse una Istoria di Firenze dalle origini della città fino alla morte di Gian Galeazzo Visconti, ed i Commentari delle cose da lui vedute o fatte ne’ vari ufizi nei quali fu esercitato. Questi ultimi offrono con le particolarità più vive, a noi più gradito insegnamento; ma le Istorie sono libro da leggere utilmente anche ai giorni nostri per l’alto senno che l’autore vi dispiega e per l’intelligenza della Repubblica, della quale vidde l’interno roteggio. Ma vero è che piace a lui non uscire dalle cose generali, e come erudito dare ai fatti nostri romano colore. Le Vite pregevoli di Dante e del Petrarca furono da lui composte nella nativa sua lingua.

Intanto lo Studio s’illustrava per Emanuele Crisolora, che nel 1396 vi fu chiamato da Costantinopoli sua patria per cura di alcuni dotti fiorentini, e massimamente di Palla Strozzi, ad insegnare la greca lingua. Cessava però lo Studio nel 1404; riaperto nel 12, fioriva nel 1421. Sovente uomini fiorentini di grande affare nella Repubblica attendevano quivi a spiegare le leggi, tra’ quali ebbero molta fama Lorenzo Ridolfi e Marcello Strozzi; Paolo Minucci da Prato Vecchio, rendutosi chiaro nelle maggiori Università d’Italia, fu ordinatore del Diritto feudale. Paolo di Castro insigne giureconsulto, oltre all’insegnare leggi, compilava quello Statuto fiorentino che nello scorso secolo fu dato a stampa. Francesco Zabarella padovano insegnò qui lungamente la teologia, poi fu Vescovo di Firenze e Cardinale molto famoso nel Concilio di Costanza. Fra Leonardo Dati Generale dei Predicatori ebbe in Firenze molta fama di sapiente in cose ecclesiastiche ed autorità di cittadino. Filippo Villani professò lettere, nelle quali si acquistò lode; egli e Giovanni da Ravenna tennero la cattedra per la illustrazione della Divina Commedia. Altri uomini chiari in lettere vennero ad insegnare in Firenze, tra’ quali Pier Paolo Vergerio da Capo d’Istria, e per [235] breve tempo Guarino Veronese e Giovanni Aurispa e il Filelfo; lo Studio essendo spesso trascurato a cagione della spesa. Nè pensarono i Fiorentini a condurre qui l’Università che aveano fatta tacere a Pisa: più tardi Niccolò da Uzzano avendo lasciato gran parte dell’eredità sua per la fabbrica di un Collegio che annesso allo Studio potesse contenere cinquanta alunni, metà fiorentini e metà esteri, nella via che allora pigliò nome della Sapienza, non fu eseguito quel testamento per la gelosia di chi non voleva che tanto Firenze dovesse all’Uzzano.

Più della Repubblica, per l’incremento del nuovo sapere faceano i privati. Molti cercavano manoscritti, viaggiavano in Grecia a tal fine uomini oggi poco noti, Firenze abbondava già di buoni copiatori. Palla Strozzi, grande cittadino, giovò agli studi egli sopra ogni altro; ebbe a grande spesa i libri di Platone e di Plutarco, e la Politica d’Aristotele e la Cosmografia di Tolomeo ed altri moltissimi; teneva in casa chi gli facesse copie belle e sincere in greco ed in latino. Radunò in breve ricca biblioteca, la quale voleva rimanesse a pubblico uso, ad essa innalzando un edifizio molto degno in Santa Trinita, luogo comodo a ciascuno per essere posto nel mezzo della città. Ma il bel disegno andò fallito pel bando in cui finiva la vita, come tra poco narreremo, quest’uomo illustre e benemerito. Un Piero de’ Pazzi, gran ricco e grande spenditore, tardi si diede alla magnificenza del fare copiare con ornamento di miniature gli antichi libri, lasciandone in morte numero assai grande. Viveva in Firenze monaco Camaldolese negli anni stessi Ambrogio della famiglia dei Traversari, che era stata grande in Ravenna. Dotto nel greco, tradusse in lingua latina le Vite dei Filosofi di Diogene Laerzio e molte scritture di antichi Padri. Fatto Generale dell’Ordine suo, descrisse col titolo di Odeporicon i viaggi per le visite dei monasteri, narrando ogni cosa che meglio servisse [236] al promovimento degli studi: di lui abbiamo anche non poche lettere scritte ad uomini che attendevano allo stesso fine. Inviato da Eugenio IV al Concilio di Basilea, ebbe poi gran parte in quel di Firenze, che appena era chiuso quando Ambrogio fu rapito da morte immatura con grande rammarico della città, dove la sua cella era il ritrovo dei maggiori uomini e più virtuosi. Lo studio di quella prima metà del secolo XV pareva che fosse tutto nel ritrovamento d’antichi codici e nell’esibirli ad uso comune per dare agli ingegni nutrimento dell’erudizione tuttora mancante. Nella quale opera niun altri meritò quanto Niccolò Niccoli di famiglia mercante in Firenze, ma non dei più ricchi. Nulla pare che scrivesse del suo, ma dottissimo nel latino impiegò la vita in fare copie di sua mano dei buoni scrittori, o nel corregger le altrui. Molte se ne riconoscono tuttora dovute al Niccoli, che spese poi anche gli averi suoi nel procacciarsi manoscritti latini e greci, dei quali lasciava il numero allora molto considerabile di ottocento. Di questi ordinava si formasse una pubblica Biblioteca, la quale dopo la morte sua fu aperta in San Marco: ebbe grandi amicizie e grandi brighe co’ letterati dell’età sua, soliti astiarsi oltre al costume tra gli eruditi non infrequente. Nessuno però nelle arrabbiate contese e nelle diffamazioni svergognate, ma insieme nei servigi lungamente resi ai classici studi, vinse Poggio Bracciolini da Terranuova in Valdarno. Questi fu autore di molti libri o trattati in lingua latina, spettanti a cose o filologiche o antiquarie, cui si aggiungono esercitazioni su vari argomenti. Primeggia fra tutti una assai nota Istoria Fiorentina, tradotta poi da Iacopo suo figlio. Descrive le guerre con la Casa dei Visconti, non senza taccia di adulatore alla città sua; d’interni fatti è scarso, e va circospetto sì che, a dir vero, non molto se ne cava di sostanzioso. Fu cinquant’anni Scrittore delle lettere pontificie e poi da ultimo Cancelliere [237] della Repubblica fiorentina, avendo protratta la vita molto più in là che non giunga la materia di questo Capitolo. Di lui si cercano ai dì nostri con maggior cura le Lettere che egli scriveva in gran copia nei viaggi frequenti e di mezzo alle varie faccende nelle quali fu implicato. Andò al Concilio di Costanza, da dove recatosi alla vicina e celebre abbazia di San Gallo, ne riportò ricca merce di scritture d’autori latini, tra’ quali non pochi giacevano ignoti anche di nome. Ampliava del pari d’antichi libri le greche lettere, avendo lasciato può dirsi aperta l’antichità quand’egli moriva nel tempo in cui venivano in luce le prime grandi opere a stampa.

Così erano entrati il mondo greco ed il latino dentro al pensiero degli Italiani, al quale era dato un libero spazio fuori della disciplina dei maestri e delle tradizioni delle scuole. Alla grandezza dei fatti ed alla copia delle dottrine si univano la magnificenza delle forme, la varietà d’esse, e un’eleganza da ottenersi con l’uso dell’arte. Ma con la forma va la sostanza; e l’antichità prestava intorno alle cose nuovi concetti e giudizi nuovi, e certa finezza d’osservazioni e di sentenze, benchè autorevoli, sempre disputabili: un fare insomma tutto diverso da quello che aveva sino allora formato gli animi e dominato gl’intelletti. Età più incolte viveano di fede e di passioni; ora gli animi s’erano alquanto ingentiliti ma non per anche universalmente guasti, nè la corruttela del seguente secolo si vidde spuntare in Italia prima che declinasse il quattrocento. Guaste le Corti e i letterati; ma per tutti quegli anni dei quali si è finquì discorso, il popolo meno agitato da passioni le quali fossero a lui proprie, teneasi più quieto e più castigato: quando il governo è in mano di pochi, si adoprano questi generalmente a mantenere gli ordini posti in tempi migliori. A Firenze le arti belle, cresciute in quelli anni, furono educatrici buone; del popolo vero pareva che [238] fossero a capo gli artisti, e n’erano spesso tra’ più virtuosi.

Fu troppo creduto (secondo pare ai moderni critici) che la pittura dopo Giotto avesse aspettato quasi cento anni prima di avanzare un altro gran passo per opera di Tommaso da San Giovanni in Val d’Arno, che noi conosciamo sotto il nome di Masaccio. Di lui si fece come una leggenda, nè abbastanza si riconobbe come la maniera del dipingere d’alcuni dei predecessori suoi già mostri un progresso. Certo è che Masaccio ampliò i confini dell’arte; diede al concetto maggiore sostanza, ed alle figure più rilievo; per la espressione da dare ad esse ed al conversare dell’una coll’altra, non si appagò della verità semplice degli atteggiamenti nè di accennare la bellezza delle forme, studiandosi renderle più evidenti con la esecuzione: di queste cose fu maestro a quelli che dopo lui vennero, e che da lui furono eccitati a studi maggiori e fatti abili a più ardimenti.

Da Giotto a Masaccio e da questo a Fra Bartolommeo e ad Andrea Del Sarto, può dirsi che l’arte in Firenze lentamente percorresse tutto il suo cammino, segnato dai nomi d’uomini eccellenti: di questi ve n’ebbe tanto gran numero, che deve bastare a noi solamente fermare il discorso su quelli che furono come principi dell’età loro, e dalle seguenti furono tenuti in conto di maestri. Ma non potremmo senza peccato tacere del più caro e più veramente spirituale dei pittori, Frate Giovanni soprannominato Angelico per la singolare bontà de’ costumi e per la fervente devozione che a lui fu sola ispiratrice dell’arte; per il che non volle trattare altro che argomenti sacri, e il suo dipingere era una preghiera. Benchè nato nel Mugello, fu detto da Fiesole dov’egli vestiva l’abito dei Predicatori: delle opere sue grandissimo è il numero, più spesso in piccole figure, ma cercate molto ai giorni nostri perchè, a tutti superiore pel sentimento, ebbe [239] dall’arte già progrediente e dall’ingegno in lui grandissimo, acconci mezzi a bene esprimere e a colorire ogni suo concetto. Nato nel 1387, moriva nel 1455.

In quegli anni stessi fu ritrovata in Firenze un’arte plastica, dove la pittura chiamata a soccorso della statuaria, venne con l’opera dei colori a fare più vivi ed a variare gli effetti che si ottengono dal bassorilievo. Luca della Robbia [n. 1400], dopo avere provato sè stesso nel marmo e nel bronzo, inventò questa molto più spedita maniera di lavorare, con la quale fece anche talvolta grandissimi quadri con molte figure e bellissime composizioni, avendo trovato il segreto di una vernice rilucente e tanto solida, che più secoli non hanno bastato ad alterare quelle opere, le quali tuttora ci appariscono come fatte ieri: fu anche eccellente negli ornati con frutta e fiori, dei quali faceva cornici ai bassirilievi. Per questo modo condusse a fine grandissimo numero di opere, continuate nella sua famiglia per oltre un secolo: Andrea ed un altro Luca furono tali artisti che si confondono facilmente col primo inventore; ma il secondo Luca essendo morto in Parigi dopo il 1551, lasciò perir seco il bel segreto della vernice che fu impossibile imitare. Di queste opere, cui rimane il nome della Famiglia che le faceva, molte ve ne ha sparse per l’Italia, e ne è piena la Toscana, dove più volte m’è occorso trovarne in luoghi affatto deserti: fra tutti bellissimi e grandiosi, quelli della chiesa dell’Alvernia.

Questo fu il tempo nella città di Firenze dei più splendidi edifizi. Prima d’allora i palagi pubblici e più assai le chiese avevano aggiunto al fiero stile dei rozzi secoli qual cosa di più italiano, dove le classiche reminiscenze s’intravedevano, poi fatte palesi nel Campanile di Giotto: aveva l’Orcagna disegnata ad arco tondo la grande sua Loggia. Ma nell’aprirsi del quattrocento erano entrati nella giovinezza tre grandi ingegni, dei quali ci siamo riservati a dire per ultimo: le [240] forme del bello già educavano anche per mezzo della scrittura la mente agli artisti, ai quali nel tempo stesso divenivano grande studio i monumenti dell’antichità, dimenticati per lunghi secoli nella stessa Roma. Ed era Firenze allora in grande fortuna e splendore, cresciuta di stato e meglio ordinata che in altri tempi mai, fiorente di molto diffusa ricchezza per le manifatture di seta e pei lavori d’oro e d’argento; i maggiori artisti uscivano spesso dalle botteghe d’orificeria.

Era della fabbrica di Santa Maria del Fiore condotta a termine la navata, e alzati i quattro grandi pilastri su’ quali doveva posare la Cupola: questa intendevano fare a somiglianza del Pantheon d’Agrippa; ma farla girare su base ottagona aveva grandissime difficoltà, e molto se ne disputava, quando si fece innanzi tale uomo che pensò altro modo, e compiè un’opera di cui non aveva lasciato esempio l’antichità. Filippo di Ser Brunellesco [n. 1379], d’illustre casato ma di piccola fortuna, prima nella bottega d’un orafo imparò il disegno, e lavorando di quell’arte, presto divenne eccellente in legare pietre fini, e nei lavori di niello, e figurette d’argento e bassirilievi. Ma il grande suo ingegno molto inclinato alla speculazione si diede bentosto alle combinazioni della meccanica, tantochè fece di mano sua buoni orologi, avanzò la scienza della prospettiva, e la insegnò ad altri, piacendosi molto dell’immaginare cose ingegnose e difficili; esercitò l’arte della scultura, facendo in quella opere che sono anche ai dì nostri molto ammirate. Ma più che ad altro sentiasi nato all’architettura, e credo pensasse fin dai primi anni alla Cupola del Duomo, perchè nel 1401, venduto un poderetto che aveva, si condusse a Roma, e dimoratovi lungamente, altro non faceva che esercitarsi dietro agli antichi edifizi, e cercarne sotterra le rovine, studiando i modi a girare le vôlte, ed i congegni delle pietre ed ogni parte delle costruzioni. Alternò fino al 1417 la dimora tra Roma e Firenze, [241] dove interrogato circa la Cupola, fece prevalere il suo consiglio di cavarla fuori del tetto, sottoponendole un fregio o tamburo di quindici braccia che avesse per ognuna delle otto faccie un occhio grande. Già fino dal 1407 si erano cominciate a costruire le tre grandi tribune intorno al coro, ciascuna con le cinque sue cappelle, e si chiuse l’anno 1420 la terza tribuna. Filippo intanto, che tutti quelli anni avea studiato segretamente e preparato il suo modello, cominciò a dirne ed a mostrarne qualcosa agli uficiali preposti all’Opera; i quali per mezzo de’ mercanti fiorentini che dimoravano in Francia, in Lamagna, in Inghilterra ed in Ispagna, aveano chiamato a concorrervi i più sperimentati e valenti ingegni che fossero in quelle regioni: questo almeno si legge. Nel marzo del 1420 si tenne un Consiglio generale, dove ciascuno dei maestri, presentato il suo modello, e fattesi le più strane proposte sul modo di volger la Cupola, il Brunelleschi mostrò e difese il suo concetto che parve cosa impossibile ad eseguire; ond’egli irritato e per le bestiali cose che furono dette, s’infervorò tanto da essere creduto pazzo e dai donzelli sarebbe stato fatto portare di peso fuori della sala. Documenti certi mostrano poi come un mese dopo venendosi più seriamente a trattar seco, il Brunelleschi mettesse in iscritto l’istruzione per eseguire il suo modello, su di che l’opera gli fu allogata. Voltare la Cupola con nuovo ardimento, senza armature che la reggessero durante la costruzione; farla salire a sesto acuto, il che era darle una maggiore e più terribile elevatezza di sentimento; sovrapporre alla Cupola interna un’altra fuori, in modo che fra l’una e l’altra si cammini; collegare insieme le due cupole con morse di pietra, e assicurare tutta la fabbrica facendo girare le faccie di quella sopra il tamburo con una forte incatenatura di ventiquattro travi di quercia fasciate di ferro: questo fu il disegno che il grande architetto potè condurre [242] ad esecuzione, facile a lui che nella mente aveva da prima ogni cosa preveduto. A’ dì 7 agosto del 1420 si cominciò a murare, e nell’anno 1434, che fu di sì grande mutazione nelle cose di Firenze, fu chiusa la Cupola: mirabile opera sopra ogni altra non solamente dei tempi antichi ma dei moderni, perchè quella che il Buonarroti fece in Roma, piantata più in alto, non ha in sè stessa maggiore ampiezza, e meno intende verso il cielo. Anche il disegno della Lanterna è del Brunelleschi; se non che l’opera andò in lungo, ed egli intanto dirigeva altri edifizi, tra’ quali le chiese di Santo Spirito e di San Lorenzo; ed a Luca Pitti fece il disegno del Palazzo che poi finito ed ampliato assai, divenne reggia ai principi di Toscana. Moriva Filippo l’anno 1446.

Donato, più spesso appellato Donatello, trovò la scultura rimasta indietro alle Arti sorelle, e la condusse tanto innanzi da potere essa prestare ogni cosa che a lei chiedessero il genio e l’anima dell’artista. Quasi coetaneo al Brunellesco, era egli andato seco in Roma a fare pratica sulle antiche statue; non però divenne imitatore degli antichi, seguendo piuttosto la propria sua indole, che nulla aveva del romano e non abbastanza del greco sentire. Non ebbe chi lo agguagliasse quanto alla intelligenza del vero, ed alla scienza dei movimenti, ed al possesso di tutti i mezzi dell’arte e alla maestria dell’esecuzione; ottimamente riuscì ad esprimere gli affetti comuni, ma giunse di rado alle profondità del sentimento, e nelle forme non parve intendere a ideale bellezza: fu tale insomma, che portò l’arte della scultura fino alla eccellenza, ma egli medesimo non ne toccò il colmo. Vero è però che il grande artista superò sè stesso nella statua di San Giorgio, una di quelle che adornano l’imbasamento dell’edifizio d’Or San Michele; qui pare la bella persona muoversi dentro al marmo, ed un’espressione dignitosa è nelle fattezze di quel nobile soldato. [243] In quella faccia del Campanile che sta di contro a San Giovanni, è in alto una nicchia con entro la statua di un uomo calvo; questa Donatello solea chiamare il suo Zuccone, mostrando amarla più d’ogni altra cosa sua, e nel guardarla diceva ad essa motteggiando: parla, che ti venga la malora. Fu eccellente nei bassorilievi, e osò primo nei moderni tempi fare una statua equestre in bronzo, che i Veneziani decretarono al Gattamelata, e sta in Padova sulla Piazza di Santo Antonio. Vissuto a lungo, è grande il numero dei suoi lavori; ma egli semplice e modesto, e trascurato del molto danaro che avea guadagnato, non soffrì mai di abbandonare la sua bottega nè il grembiule di artigiano.

Di rado avviene che ad un artista sia dato raccogliere in una sua opera quanto egli abbia in sè d’eccellenza ed egli medesimo passarne il segno. Ma ciò si vidde in Lorenzo Ghiberti, che figlio di un orafo valente, avendo bentosto superato il padre, si diede a gettare figure in bronzo e a lavori di tal sorta con molta sua lode: si esercitò ancora nella pittura che gli fu di grande aiuto (come vedremo), alle altre sue opere. Era Lorenzo di età giovanissima quando i Consoli dei Mercanti deliberarono fare al tempio di San Giovanni una Porta in bronzo a somiglianza di quella che Andrea Pisano aveva fatta cento anni prima; e, come era buona usanza in Firenze, chiamarono artisti che facessero a concorrenza ciascuno una storia sul disegno di quelle d’Andrea. Fra molti anche il Brunelleschi e Donatello presentarono per saggio la storia loro; ma, essi medesimi consenzienti, fu data l’opera al Ghiberti, che riescì bellissima; e fu grande progresso nell’arte: se non che essendosi nello spartimento delle storie voluto seguire il disegno del vecchio artista, parve nell’insieme essere qualcosa che non aggiungesse l’eleganza cui gli occhi già s’erano esercitati in Firenze. Ma nelle figure tutti ravvisarono [244] quanto Lorenzo valesse: talchè non appena finita la prima, gli diedero a fare la Porta maggiore che sta in faccia al Duomo. Di questa null’altro è a dire, se non che ogni cosa è bello di quanta bellezza è capace l’arte; nè mai gli antichi avean fatta opera somigliante. In essa le dieci grandi storie sono quanto alle figure ed alle composizioni quadri veri da stare accanto ai più eccellenti; pare a guardarli, vedervi dentro il colore. La grazia, la verità e la varietà delle mosse, le invenzioni e la maravigliosa esecuzione delle cornici di foglie e frutta che girano attorno alla porta, la perfetta proporzione e l’armonia di tutta l’opera, tali si mostrano, che il Buonarroti la chiamò Porta degna del Paradiso. Io non ricordo avervi mai posati su gli occhi, che io non dicessi in me medesimo: qui è perfezione. Mentre il Ghiberti attendeva quasi per tutta la vita a queste due opere, altre ne fece pure lodatissime; l’arca storiata di San Zanobi in Santa Maria del Fiore, e tre delle grandi statue in bronzo che stanno attorno ad Or San Michele. Era egli anche stato dato compagno al Brunelleschi nell’opera della Cupola, ma parve non essere altro che d’impaccio, e dovè ritrarsene. Lasciò alcuni Commentarii intorno ai suoi studi: mai non aveva abbandonato l’arte sua prima, e di oreficeria lavorò sempre; il che gli dava grossi guadagni. Fece a Martino V un bottone da piviale con gioie e figure d’oro in rilievo; ad Eugenio IV una mitra di trasmodante ricchezza e di bellissimo artificio. Dovemmo tacere di lui e del grande e vario numero degli artefici, tante opere insigni di cui si abbellivano i forzieri dei privati, le case, le ville e le cappelle ornate a quel tempo nel quale in Firenze parve risedere il fiore del bello. Queste cose erano state prima che le arti e le lettere sentissero la protezione di Casa Medici.

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LIBRO QUINTO.

Capitolo I. LA REPUBBLICA SOTTO A COSIMO DE’ MEDICI. — ALTRA GUERRA CONTRO LUCCA. — CONCILIO DI FIRENZE. — NICCOLÒ PICCININO IN TOSCANA. — ACQUISTO DI BORGO SAN SEPOLCRO E DEL CASENTINO. [AN. 1434-1441.]

La Balìa dalla quale fu richiamato Cosimo de’ Medici continuava sino alla fine del mese d’ottobre, che fu anche il termine della Signoria; alla quale succedette per gli ultimi due mesi dell’anno, e co’ Priori tutti fatti a mano, Giovanni Minerbetti Gonfaloniere. I confinati dalla Balìa troviamo che giunsero al numero di trentuno: e quanto importasse a fortificare quello Stato, fu in quei primi giorni ordinato con le asprezze consuete, ma insieme con manco rispetti a quelle forme di libertà che prima soleano tenersi solenni: la plebe e Cosimo s’intendevano, e a questo ed ai suoi premeva che niuno s’alzasse all’intorno, che la Repubblica non avesse nè capi autorevoli nè forti e sinceri e veramente liberi magistrati. Agli Otto di guardia avevano dato balìa di sangue, la quale valeva contro a chi tentasse novità o che solamente sparlasse; e taluni per discorsi fatti, o vennero uccisi o andarono in bando.[286] Il quale fu esteso infino a dieci anni per quei confinati che prima erano a più breve tempo; vietato lo scrivere ad essi lettere o riceverne; fatte leggi molto strette, con grandissime difficoltà a che potesse mai vincersi nei Consigli e nei Collegi la [246] restituzione dei fuorusciti o ribelli, tantochè di trentasei fave ce ne volevano trentaquattro. Pigliando motivo o pretesto dall’avere gli sbanditi rotto il confine, molti di loro fatti ribelli erano condannati nelle persone e nella roba, le terre e le case vendute a vil prezzo agli amici dello Stato nuovo; e intanto gli avversi che rimanevano in città, o quelli dei quali non fossero chiari, venivano aggravati co’ balzelli più che non potessero portare; così erano astretti a finire nella miseria o farsi clienti a quella famiglia che tanti sapeva co’ doni acquistarne, e che piacevasi di cercare ne’ luoghi più bassi i fondamenti della grandezza sua: Cosimo de’ Medici tirava su molti delle arti minori a farsi abili a’ maggiori ufizi; e soleva dire, che due canne di panno rosato bastano a fare un uomo dabbene, gli antichi avendo egli messi fuori. Le famiglie quasi intere dei Peruzzi, dei Rondinelli, dei Guasconi, dei Castellani, dei Corsi, e molti dei da Ricasoli, dei Frescobaldi, dei Bardi, furono rimossi da ogni ufficio, e messi nel numero dei Grandi o a quello restituiti. Da un’altra parte, togliere via gli antichi ordini contro ai nobili o si temette potesse spiacere al popolo degli artefici, o parve migliore consiglio procedere in questo pure alla spicciolata, e così rompere gli antichi consorzi e tutti gli ordini di persone. Di quel consiglio si disse autore Puccio, cui sempre si attribuivano i pensieri più sottili: e a questo modo i grandi non tutti, ma gradatamente il maggior numero fatti popolani, divennero abili ad esercitare i magistrati, però con divieto per dieci anni dalla Signoria. Perdeano il diritto che prima avevano di sedere un certo numero, comunque piccolo, del loro ordine in molti uffici e magistrati; ai quali veniano eletti di rado, confusi com’erano ora nel numero e sgraditi ai popolani: così era aperta ad essi pure una sola via, servire alla parte che tutto poteva. Dalle arti minori e dalle congreghe degli artefici minuti infino alle stirpi [247] tenute maggiori d’autorità o di sangue, i Medici ebbero ogni cosa tramutato, rimescolato, diviso: poterono bene serbare le forme della Repubblica, della quale erano i nervi disciolti e le resistenze triturate e fatto polvere ogni cosa.[287]

Intanto gli esigli continuavano; ogni giorno quasi che rimanea di quell’anno aveva il suo numero di nuovi sbanditi: i nomi ci restano di ottanta o circa, la maggior parte dei più chiari e con essi non pochi oscuri; v’è infino certa Madonna Apollonia pazza: sbanditi di molte famiglie sinanche i bambini nelle fasce e i nascituri. Ben altre volte andarono in bando per grandi frazioni, o tutti insieme come nel settantotto, i primi uomini dello Stato; ma erano balzi prodotti dall’urto di forze contrarie: qui un freddo proposito deliberato, costante; e Cosimo a quelli che lo accusavano di guastare così la città, soleva rispondere: Meglio città guasta che perduta; malvagia parola, e indice d’animo tirannesco. Non poche famiglie rimasero trapiantate nelle città del Reame e di Lombardia; molte ne andarono a fondare case di commercio in sulle rive del Rodano ed a Lione massimamente, dove ci avverrà di ritrovare per tutto il corso dell’Istoria nostra una colonia di fuorusciti, nemici costanti della Casa Medici: non poche di queste famiglie durarono ivi ed in Provenza fino ai giorni nostri, o vi rimangono tuttavia. Di tante male opere nessuna però fu iniqua al pari del bando dato a Palla Strozzi, la cui modestia e civile temperanza parve essere stata cagione che fosse Cosimo restituito: contro a quel buono e preclaro cittadino uscì la sentenza ai 10 novembre; e da quel giorno gli onesti scôrsero alla parte regnatrice mancato il freno anche della vergogna. Il savio Agnolo Pandolfini che, poco avendo amato gli Albizzi, vagheggiava sempre e aveva forse anche [248] sperato da Cosimo un qualche ritorno alla civile egualità, si chiuse in villa dopo all’esiglio dell’amico suo, veduto non essere altro da fare che il buon massaio. Andò Palla Strozzi a Padova in bando per dieci anni, quando ne aveva egli sessantadue: gli fu rinnovato due volte il bando per altri dieci anni; udiva la morte dei figli suoi, esuli anch’essi in altri luoghi, ed egli sanissimo di mente e di corpo, cristianamente tranquillo e consolato dall’amicizia dei dotti uomini e dalla cultura delle greche lettere, moriva compiti gli anni novantadue, e quando moriva Cosimo dei Medici; del quale non credo sia questa contata tra le opere fatte a incremento degli studi e a maggior gloria della città sua.[288] Quel grande artefice di questi fatti, Averardo dei Medici, era morto in Firenze a’ 5 dicembre, avendosi poco goduto il ritorno e le sperate grandezze e le vendette spesso da lui (come tenevasi) consigliate.

In fine a’ Ricordi lasciati da lui si vanta Cosimo dell’avere quanto a sè posto freno alle vendette, e che nei due mesi del gonfalonierato ch’egli assunse il primo gennaio 1435 non fosse alcuno tolto di vita. Bene crediamo noi le passioni dei suoi partigiani più delle sue fossero astiose e cupide; ma è poi vero che tirarsi addosso le parti più odiose è sorta d’ossequio dai clienti solita usare al padrone, ad essi giovando mantenergli quella forza la quale proviene dalla opinione della bontà. Contuttociò noi troviamo in quel tempo altri essere sbanditi o fatti ribelli, e v’ebbero pure condanne a morte, sebbene alcuni per intercessione di Cosimo avessero la vita salva.[289] Ma sei ribelli, [249] i quali avendo rotto il confine si ritrovarono insieme a Venezia, richiesti secondo i patti della Lega per mezzo di un Lodovico da Verrazzano mandato a tal fine a quella Signoria, furono resi, e in Firenze ebbero tagliata la testa.[290] Dipoi un Guadagni, figlio a quel Bernardo che fu Gonfaloniere nel 33, da Luigi di Piero Guicciardini consegnato a Orlando dei Medici tesoriere della Marca, fu privato anch’egli di vita: Bernardo medesimo, dalla Capitaneria di Pisa chiamato in Firenze per esservi giudicato, era morto sulla via per caso oscuro e subitaneo.[291] Ai cittadini era imposto sotto gravi pene consegnare le armi che avevano in casa; il quale ordine da un Niccolò Bordoni essendo pigliato in beffa,[292] e di lui sapendosi avere con altri tenuto discorsi contro allo Stato, vennero tutti presi; ed avrebbero perduto la vita, se non che ad istanza di Papa Eugenio il Potestà contro ad essi pronunziava minore condanna; ma questa poi venne per un secondo giudizio iniquamente aggravata, e lo stesso Potestà fu per Consiglio di popolo casso d’ufficio: dal che si vidde in Firenze cominciare la tirannide, poichè desideravano fare sangue e forzare i rettori.[293] Vennero scoperte pure altre congiure, delle quali una era condotta da certo Frate, cui era stato promesso e tolto il vescovado d’Arezzo: tenevano in questa la mano il duca Filippo Maria Visconti e Niccolò Piccinino, che per motivo di salute dimorava allora ai Bagni di Petriolo nel Senese. Dal quale fu detto pure altra congiura essere ordita contro al Papa, che essi voleano pigliare e quindi trafugare in quel di Lucca, di dove [250] andasse nelle mani del Visconti. Un Vescovo di Novara, che stava in Firenze per conto del Duca, dopo avere intinto in quella congiura, pentito, ne fece la confessione ad Eugenio; e un Riccio, principale autore, fu appeso alle forche, ed un Bastiano Capponi, che n’era partecipe, decapitato sulla porta del Bargello.

Aveva la Repubblica brighe frequenti dai Ricasoli che, stando in mezzo co’ loro castelli tra essa e i Senesi, si difendevano volteggiando in qua e in là con le accomandigie. Due anni prima un Egidio da Ricasoli avea voluto dare ai Senesi il castello della Leccia o Monteluco nel Chianti.[294] Ora Galeotto, signore di Brolio, lasciava occupare quella sede principale di loro famiglia da messer Antonio Petrucci senese, nemico perpetuo dei Fiorentini; i quali, mandatovi gente con artiglierie, ebbero a patti Brolio e lo tennero in nome della Repubblica.[295]

Continuava col Papa e i Veneziani la lega, sebbene le forze di questa fossero abbattute, siccome vedemmo, dall’armi del Duca presso Imola, avanti la ritornata in Firenze di Cosimo de’ Medici. Dopo la quale fu confermata per altri dieci anni la lega in Venezia, essendo ivi andato a questo effetto ambasciatore Neri di Gino e il Papa tuttora in Firenze dimorando, Francesco Sforza, che fu eletto Capitano di tutta la Lega, si mosse a purgare le vicinanze di Roma dalle armi del Fortebraccio, le quali dicemmo averle occupate. Fu questi pertanto necessitato ritrarsi; al che i Romani cercarono accordo col Papa, e consentirono di ricevere un suo Commissario; mentre il Fortebraccio, rinchiuso in Assisi con tutte le forze sue, era ivi oppugnato da Francesco Sforza, facendosi guerra dalle [251] due parti molto grossa e lunga e dubbiosa: tantochè il Duca di Milano, temendo per sè la vittoria dei collegati, mandava ordine a Niccolò Piccinino entrasse in Toscana a divertirne le forze. Contro del quale mosse pertanto il Conte Francesco, avendo lasciato alla cura d’un fratello suo l’assedio: incontro al quale usciva impetuoso il Fortebraccio; e vintolo e preso, andava sicuro all’acquisto delle terre della Marca. Ma il Conte Francesco minacciato in quel possesso, e non sofferendo rimanere senza signoria che fosse sua propria, tornò contro al Fortebraccio; il quale fu vinto e preso e ferito, e della ferita si morì. Dopo di che il Papa riavute le terre del Patrimonio e di Romagna, e il Conte Francesco la signoria della Marca, si fece la pace tra il Papa e il Duca e i Veneziani e i Fiorentini, e lega con patto dovesse ciascuno andare eziandio contro a chi dei quattro avesse rotta la confederazione.[296] Col ritrarsi di Romagna le armi del Duca, essendo fuggito Batista da Canneto, tornava in Bologna la parte dei Bentivogli.

Era morta la reina Giovanna di Napoli, avendo lasciato erede nel regno Renato d’Angiò della famiglia di Provenza, e privato della successione il re Alfonso Aragonese; il quale essendo allora in Sicilia, e chiamato da taluni baroni del Regno, nonostante che il maggior numero tenesse le parti angiovine, venne accompagnato da molti principi; e fermata la sede in Capua, mandò l’armata ad assaltare Gaeta che si teneva per i Napoletani. Chiederono questi aiuto a Filippo; ed egli persuase facilmente ai Genovesi, ch’avea in ubbidienza, armare il possente naviglio loro incontro [252] a quello del re Alfonso; il quale raccolto molto numero di navi, ed egli medesimo salito sopra una di queste, cercava animosamente la battaglia. La quale avvenne nelle acque di Ponza con isconfitta del re Alfonso, che vi rimase prigione col Re di Navarra e grande numero di principi e signori,[297] egli avendo ceduto la spada a Giacomo Giustiniani capitano genovese. Per questa vittoria pareva Filippo fatto signore di tutta Italia; ma tosto gli effetti nacquero diversi dalla opinione; imperocchè il Duca avendo fatto venire, con dispiacere dei Genovesi, Alfonso a Milano, questi troppo grande prigioniero per un tale uomo qual era Filippo, fattosi ad un tratto suo consigliero, gli mostrò avere egli male combattuta Casa d’Aragona per condurre Napoli in potestà d’uno di quei principi francesi i quali ambivano già fino d’allora il ducato di Milano. Poterono tanto siffatti argomenti sull’animo di Filippo, ch’egli rinviava a Genova Alfonso con grande onore e tutto suo amico, comandando ai Genovesi restituirgli le navi perchè sopra quelle tornasse nel Regno. Voleva Filippo così anche abbassare la città suddita, che parevagli essersi fatta troppo grande per quella vittoria. Coteste sono arti lodate di regno; ed a lui fruttarono che i Genovesi per subita ribellione, ucciso il Governatore che stava pel Duca e cacciate in pochi giorni le armi di questo e presi i castelli, scuotessero il giogo che odiavano, essendosi dipoi stabilmente rivendicati in libertà.[298]

Per questi fatti mutate essendo le condizioni d’Italia, rimase di subito scompaginata la lega, la quale di nome era conchiusa tra il Papa e il Duca e i Veneziani e i Fiorentini. Questi mandarono soccorso a Genova di vettovaglie e di fanti armati sotto Baldaccio d’Anghiari alla difesa d’Albenga, sebbene ciò fosse [253] copertamente,[299] perchè la lega non volea dirsi per anche rotta, ciascuno essendo tenuto in rispetto dalla incertezza degli eventi, e il Papa adoprandosi con grande studio perchè alle armi non si venisse. Aveva egli nel mese d’aprile 1436 lasciato Firenze, dopo esservi dimorato quasi due anni, ed alla Repubblica usato ogni sorta di benevole dimostrazioni. Poco innanzi della partenza sua Eugenio, il giorno venticinquesimo di marzo, ch’è la festa dell’Annunziazione ed era in Firenze principio dell’anno, consacrò il tempio di Santa Maria del Fiore, essendo già l’occhio della grande Cupola stato chiuso da Filippo di ser Brunellesco due anni prima, quando era al termine lo Stato degli Albizzi.[300] Fu celebrata quella consacrazione con molto grandissima solennità, essendosi dalle scalee di Santa Maria Novella, dove il Papa dimorava, infino a quelle del Duomo alzato un palco ricco di tappeti e d’ogni magnificenza, sul quale andassero fuori della calca egli e tutto l’accompagnamento suo, ch’erano molti Cardinali e Vescovi e Principi ed Ambasciatori e tutta la Signoria, tenendo la coda del papale ammanto il Gonfaloniere Davanzati, che fu da Eugenio per mano di Gismondo Malatesta fatto insignire della cavalleria. Il Papa dipoi recossi a Bologna, venuta di fresco in potestà sua, dopo esservi stato ucciso Antonio Bentivoglio.[301]

Filippo Maria, tentata invano la recuperazione di Genova, fece che tutte le forze sue con Niccolò Piccinino venissero innanzi per la riviera di Levante verso allo Stato dei Fiorentini. Aveva mandato prima sotto Pietrasanta due suoi minori capitani, Cristoforo da Lavello e Luigi dal Verme, che si ritrassero per comandamento dello stesso Duca. Ma il Piccinino occupò [254] Sarzana de’ Genovesi ed alcune terre che la Repubblica di Firenze avea sulla Magra; donde poi venne a fermarsi in Lucca, mostrando intenzione d’andare nel Regno. Nè per essergli negato il passo, rompeva di subito il Piccinino la guerra; nè i Fiorentini, che inviarono a Pisa Neri Capponi con quante forze aveano in pronto, vollero altro che porsi in guardia contro ogni assalto da quella parte. Era il conte Francesco Sforza allora ai servigi del Papa, ed a Cosimo già molto amico: lo aveva questi con grande onore accolto in Firenze, dove ebbero giostre nella piazza di Santa Croce, balli di donne in quella dei Signori. Dipoi, non senza difficoltà e patti di non andare in Lombardia nè muovere guerra contro al Duca di Milano, concesse Eugenio venisse il Conte ai servigi dei Fiorentini. Poneva il campo questi a Santa Gonda con cinque mila cavalli e due mila cinquecento fanti: il Piccinino all’incontro aveva sei mila cavalli con minore numero di fanti. Non fecero mossa i due famosi Capitani, l’un l’altro osservando; e anche tenuti in aspettazione dai negoziati che non cessavano tra il Papa e il Duca: infinchè a mezzo il verno, ad un tratto, il Piccinino, avuta speranza di occupare Vico Pisano, muoveva per là; di dove respinto, correa la campagna già come nemico. Dipoi assaliti altri minori castelli, andò poderoso in Garfagnana, ponendo il campo sotto alle mura di Barga. Per il che essendo ogni rispetto cessato, la Repubblica ordinava al Conte ed a Neri soccorrere Barga. Andarono, e diedero grave percossa al Piccinino, costretto ritrarsi quasi che rotto in Lunigiana; d’onde egli dovette quindi passare in Lombardia, perchè i Veneziani, veduto la guerra dal Duca essere cominciata, mandato aveano in Ghiaradadda Giovanni Francesco da Gonzaga loro capitano, che molto stringeva le terre del Duca. I Fiorentini poichè viddero questo impegnato in Lombardia, e Lucca, che s’era per lui dichiarata, sprovvista essere [255] d’altro aiuto, tornarono al solito prurito d’avere quella città: del che Cosimo de’ Medici ardeva di voglia, perchè se il governo degli Ottimati acquistò Pisa, voleva pur egli ornarsi di qualche splendido acquisto alla Repubblica; oltrechè a lui faceva bel gioco avere gli ufizi in Lucca e le terre dei Lucchesi da dividere ai suoi partigiani; e con quella esca, da altri non tocca, un maggior numero guadagnarsene. Anche tra ’l popolo quella guerra avea però sempre grande favore, ed alla spesa tutti concorrevano in quei principii alacremente.[302] Nel mese d’aprile 1437 il Conte Francesco muoveva l’esercito; e prima andato a recuperare Sarzana e Lavenza, e alcune terre di Lunigiana o genovesi o fiorentine, prese facilmente Viareggio e Camaiore ed altri luoghi,[303] mentre che i Lucchesi tenevansi chiusi nella città, confidando questa potere guardare per le sufficienti forze che avevano dentro e perchè il popolo tutto intero vegliava geloso alla cittadina libertà. Laonde l’esercito dei Fiorentini avendo fatto nel piano di Lucca quei maggiori danni che poteva col guastare i campi allora coperti di grano e di biade, tagliare le viti, e dei bestiami fare preda,[304] volgevasi tosto alla espugnazione di Monte Carlo, castello tenuto infino allora come difesa e guardia di Lucca; ma fatta piccola resistenza, cedeva: e fu quello il termine ultimo [256] alle cupidigie fiorentine, per gli accidenti che indi avvennero.[305]

I Veneziani avendo a petto in Ghiaradadda il Piccinino, ed essi rimasti senza Capitano, perchè il Gonzaga mutando parte era passato ai soldi del Duca, facevano istanza per avere Capitano di tutta la guerra in Lombardia Francesco Sforza. Il che ai Fiorentini dispiaceva molto, vedendo fallire a questo modo l’impresa di Lucca, della quale aveano tanta passione: ma erano soli in tal desiderio, perchè nè il Conte nè i Veneziani per nulla bramavano che la Repubblica acquistasse la signoria di una città la quale aveva per sua difesa più volte aperto gli appennini agli eserciti di Lombardia. Era il Conte rattenuto da altri pensieri, non volendo egli con l’impegnarsi oltrepò lasciare esposti alle aggressioni gli Stati suoi nella Marca;[306] e avendo poi sempre gli occhi a Milano, della quale il Duca facevagli innanzi balenare con fine arti la successione: strumento a quei giuochi di vile astuzia essendo la misera e tuttora giovinetta Bianca Maria, figlia sola ed erede, benchè illegittima, al Duca Filippo. Laonde lo Sforza tergiversava: ed una volta, per certi ammenicoli che i Fiorentini inventarono ed ai Veneziani poco soddisfecero, consentì andare fino a Reggio; dove un ambasciatore veneziano, Andrea Morosini, avendogli protestato pigliasse la guerra di là dal Po francamente, o la Repubblica gli torrebbe la paga e il comando; venuti insieme a grave alterco si separarono, e lo Sforza ripigliava la via di Toscana, allora prestando più facili orecchie alle insinuazioni di Filippo. Alla Repubblica di Firenze parea male stare; e lo stesso Cosimo de’ Medici andava ambasciatore a Venezia, sperando col caldo dell’amicizia a lui [257] mostrata dai Veneziani potere a questi persuadere, provvedessero che il Conte non si accordasse col Duca, dal che verrebbe pericolo grave egualmente alle due Repubbliche; intanto lasciassero (qui era la somma di tutto il negozio) fornire al Conte l’impresa di Lucca. Ma il Doge Francesco Foscari gli replicava, bene conoscere il Senato le forze sue proprie e quelle degli altri Stati d’Italia, non essere usi i Veneziani pagare coloro che ad essi non servivano, nè avere voglia di fare crescere il Conte Francesco a loro spese: in quanto a Lucca, i Fiorentini provvedessero; per sè, non capire qual motivo avessero d’entrare con loro in cosiffatti ragionamenti.[307] Così fu Cosimo ributtato, senza che potesse ai Veneziani mai cavare altro di bocca: donde egli principiò ad alienarsi da loro;[308] e avendo in quel mentre le arti del Duca tirato a sè Taliano da Forlì, che per lo Sforza teneva la Marca, questi pauroso di perderla, o doverla guardare da sè, concluse l’accordo col Duca, e costrinse i Fiorentini ad accettare la pace con Lucca, ritenendo questi per sè Monte Carlo e Uzzano che aveano successivamente guadagnato. Fu buona pace, perchè muniva ad essi il confine inverso Lucca; ma i Fiorentini, che ebbero a male vedersi levata la terza volta in cento anni come di bocca questa città, [258] riempirono Italia con lettere piene di rammarico; e, come nota bene il Machiavelli, «rade volte occorre che alcuno abbia tanto dispiacere d’aver perdute le cose sue, quanto ebbero allora i Fiorentini per non aver acquistate quelle d’altri.[309]»

Mentre era in Venezia Cosimo de’ Medici, trovò anche nata ivi gelosia per le cose del Concilio, delle quali egli aveva prima tenuto discorso in Ferrara con Eugenio che da più tempo vi dimorava. Imperocchè sedendo in Basilea la Sinodo che doveva essere continuazione di quella in Costanza, pel molto numero che vi era di Prelati tedeschi e per quelle semenze che già nella Germania pullulavano, si andò tant’oltre, che fatto scisma da Eugenio, elessero antipapa sotto nome di Felice V quel Duca Amedeo VIII di Savoia, il quale avendo deposto il governo nelle mani deboli del figlio, viveva irrequieto con le apparenze d’eremita in un suo castello presso al Lago di Ginevra.[310] Laonde Eugenio, riprovando quel di Basilea, aveva intimato un altro Concilio da tenersi in qualche città d’Italia; e perchè non si poteva in Lombardia, per qualche aderenza che era tra ’l Duca Filippo e quel di Savoia e perchè non voleano andare a mettersi sotto all’ombra della Repubblica di Venezia, fu scelta Ferrara. Già s’eran ivi cominciati a radunare; ma per la peste che v’era entrata, ottenne Cosimo si trasferissero in Firenze, con qualche invidia di quella Signoria e amare parole verso i Fiorentini. Voi Papa (dicevano), voi Concilio, voi Lucca, voi tra poco volete ogni cosa.[311] Nel Concilio si doveva trattare d’unione della Chiesa greca alla latina, e l’Imperatore Giovanni Paleologo stretto [259] dai Turchi, e per ogni modo ma invano cercando avere soccorso dagli Stati d’occidente, era con molti de’ suoi Prelati venuto in Ferrara, donde egli ed il Papa ed il Patriarca di Costantinopoli facevano entrata con grande seguito in Firenze negli ultimi di gennaio 1439. Alloggiò il Papa, com’era consueto, nel convento di Santa Maria Novella, dove si tenne il Concilio; e l’Imperatore nelle case dei Peruzzi, allora sbanditi. Cosimo de’ Medici avea in quei due mesi il grado supremo di Gonfaloniere; ed i Fiorentini, quanto soleano essere parchi nelle private cose, tanto più godevano mostrarsi splendidi nelle pubbliche. Fu aperta la Sinodo, alla quale intervennero da centosessanta tra vescovi e abati latini e greci;[312] e gli animi essendo alla concordia inclinati, l’unione tra le due Chiese e sovra esse la supremazia del Papa fu pubblicata con grande solennità e letizia a’ 6 di luglio nel maggior tempio di Santa Maria del Fiore. Moriva in Firenze poco avanti la promulgazione il vecchio Gioseffo Patriarca di Costantinopoli, ed ha sepoltura in Santa Maria Novella. L’Imperatore innanzi di partire fece privilegio e carta solenne al Gonfaloniere Filippo Carducci, e (stando al Cambi) l’avrebbe fatta anche ai Priori, che fossero Conti di Palazzo, portando nelle armi loro il segno dell’Impero, ch’era l’aquila a due teste, con autorità di fare Notari, con dare ad essi anche l’esercizio, e di legittimare i figli naturali. Concesse altresì alla Repubblica esenzioni di gabelle e grazie in tutto l’Impero suo, che estendevasi allora non molto fuori delle mura dove Costantino più di mille e cento anni prima lo aveva condotto. Rimase in Firenze il Papa, ed in seguito appianò le differenze ch’aveano diviso la Chiesa pure degli Armeni da quella di Roma.

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La pace che tolse ai Fiorentini l’impossessarsi di Lucca, non avea dato all’Italia requie; la qual non era nell’animo di Filippo, insofferente di vedersi privato di Genova, e dai Veneziani stretto per la possessione ch’aveano acquistata di Bergamo e Brescia: temeva la lega tra essi ed il Papa e i Fiorentini ed il Conte. A questo faceva brillare sugli occhi il vicino parentado, andando sì oltre ch’egli fermava alla cerimonia il luogo ed il giorno, apparecchiava pubblicamente alla figliola il corredo, e al Conte sborsava i trenta mila ducati promessi pagarli nei patti nuziali. Nè di ciò contento, praticava a fine, che messo il Conte in sospetto pei suoi Stati della Marca, mentre attendeva a guardare questi, si tenesse fuori del giuoco e non cercasse recare aiuto ai Veneziani. Bramava puranche staccare il Papa dalla Lega; ai quali effetti il Piccinino ad un tratto sparse come egli si fosse alienato da Filippo dappoich’era questi tutto del Conte, ed al Papa scrisse offrendosi andare contro al Conte nemico suo vecchio alla recuperazione della Marca, facendo guerra per Santa Chiesa. Rimase Eugenio pigliato all’esca, e mandò danari al Piccinino, e gli offerse terre in feudo, a lui ed a’ suoi figli: così occupava questi in breve ora Bologna e Forlì e Ravenna, il Duca gridando che tuttociò era senza sua saputa, e dando ad intendere che, se una volta potesse, farebbe al Piccinino tagliare la testa. Ma questi allora dal canto suo mutato registro, si fece a dire ed a giurare che traditore non era, e che era il Papa che lo accusava a fine di torlo dall’amicizia del Duca, onde era ben giusto ch’egli ed il Duca se ne ritenessero le terre. Così empiva de’ suoi soldati la riva destra del Po, donde impediva ai Fiorentini e al Papa ed al Conte di soccorrere i Veneziani, mentre egli ad un tratto contro essi muoveva l’armi sue insieme a quelle del Duca. Quanto era iniquo e svergognato l’inganno, tanto fu sapiente quella evoluzione di guerra, per la [261] quale il grande condottiero subitamente e senza impaccio varcato il Po, andava a porre l’assedio a Brescia. Spingeva la guerra dipoi fin sotto alle mura di Verona; e se una di queste due città espugnasse, mostravasi certa la ruina dei Veneziani che di per sè non aveano forze sufficienti alla difesa di terraferma. Allora prestarono opera egregia i Fiorentini; i quali sebbene offesi da loro, ma fattisi innanzi a provvedere al comun pericolo, rinnovarono la lega co’ Veneziani affinchè la guerra a spese comuni fosse condotta in Lombardia.[313]

Ma tutta la somma consisteva in questo, che il Conte Francesco passasse il Po; egli peraltro avea l’animo sempre al parentado, e non voleva lasciare esposti i suoi Stati della Marca sino a che le armi del Duca fossero in Romagna. Ai Fiorentini era pericolosa quella passata del Conte, il quale essendo di là dal Po, il Piccinino avrebbe libera l’entrata in Toscana: ma pure scegliendo tra’ due pericoli il minore, inviarono Neri; il quale incontrato lo Sforza nel campo sotto Forlimpopoli, gli dimostrò che, «se i Veneziani perdeano Verona, si abbandonerebbono dello Stato di terraferma, e a lui leverebbero il pagamento; nè i Fiorentini potrebbono soli reggere la spesa; essi medesimi divenuti al tutto inabili a difendersi.» Consentì lo Sforza che Neri andasse ad offerire in Vinegia la sua passata e trattare della via da eleggere. Andava Neri, ed appena giunto, orando innanzi alla Signoria disse: «che avendo esaminate le condizioni loro, s’era nei Consigli della Repubblica di Firenze venuti d’accordo, non essere altro rimedio che nella passata del Conte col suo esercito alla difensione dello Stato di Venezia; che un tale partito bene conoscevano quanto ad essi, che lo proponevano, riuscisse pericoloso, e che i Lucchesi ed i Senesi se gli scoprirebbero nemici, [262] quando vedessero il Conte tanto dilungato: pure, perchè il pericolo non si vince senza il pericolo, consentivano essi a cedere il Conte ai Veneziani; il quale appena fosse avvisato della via da fare, sarebbe mosso.» Nel Senato fu con lacrime di allegrezza quella proposta ascoltata, e dove prima erano abbandonati d’ogni difesa e vestiti a bruno, ripigliarono vigore, e i loro imprestiti migliorarono parecchi per cento. Renderono a Neri ed alla Repubblica di Firenze solenni grazie del beneficio con tali parole, che Neri dichiara come a lui non istesse bene scriverle. Fermata appena la via da pigliare, subito il Conte si mise in via con tutto l’esercito: a’ 20 di giugno era già in Padovana, spiegando i vessilli di Venezia, Genova e Firenze, a lui mandati in segno d’accordo.[314]

Queste cose erano avvenute innanzi che si chiudesse il Concilio: e non è intendimento nostro descrivere i casi vari e memorabili di quella guerra che si combatteva tra due Capitani, i quali non ch’essere i più esperti di quella età, furono maestri di un’arte nuova, secondo che davano le condizioni dei tempi e la qualità delle milizie usate in allora. Trattavano eglino veramente la guerra come arte e quasi a modo di giostra, non correndo essi nè grandi rischi nelle battaglie, nè dalle perdite avendo altro danno da quello in fuori della riputazione. Imperocchè andando coperti i soldati di gravissime armature, pochi erano i morti nelle più grosse battaglie; e gli eserciti dispersi dalla sconfitta e svaligiati, cercando tornare agli usati soldi, stava ogni cosa nel rinvenire chi questi pagasse.[315] Gli Stati, perdendo terreno, perdevano le fonti all’entrate; ma i condottieri faceano vivere i soldati loro a spese dei miseri abitatori dei luoghi dove la guerra si combatteva; [263] e il Capitano ch’avea perduto, se più non trovasse da smugnere quelli che lo avevano condotto, andava a cercarsi più ricco signore, o luoghi non tocchi insino allora, da farvi sacco. Di questa fina arte e iniquo mestiere, solenni maestri erano Francesco Sforza e Niccolò Piccinino: le mosse pertanto di quella guerra, le astuzie, le grandi opere condotte a fin di creare impacci al nemico o a sè agevolezza di marce, sovente inopinate e rapidissime, in tutti quei mesi che andarono fino al verno avanzato, produssero fatti per sè grandissimi, ma per gli effetti che ne seguirono quasi nulli. Intorno a Brescia più volte battaglia; Verona perduta dallo Sforza, e racquistata in quattro giorni; il Piccinino sconfitto, fuggire traverso i nemici, portato, com’era di corpo esile, dentro un sacco da uno de’ suoi, e in pochi giorni tornare in campo più forte di prima.

Infine, parendo a lui che fossero del pari inabili i due eserciti in quelle contrade durante il verno, tornò al pensiero d’assaltare la Toscana, mostrando a Filippo come i Fiorentini sariano costretti a richiamare di Lombardia il Conte o perdersi; e che in ciascheduno di que’ due casi, i Veneziani da sè non poteano nutrire la guerra: al quale consiglio muovevalo in proprio il desiderio di acquistare a sè uno Stato, cacciando Francesco Sforza dalla Marca. Poterono molto appresso al Duca anche le istanze grandissime che faceano Rinaldo degli Albizzi ed i fuorusciti fiorentini, venuti a Milano già prima che il Duca si risolvesse alla guerra, e stati non ultima cagione a fargliela cominciare. Rinaldo, com’era di natura confidente, sperava certissimo in patria il ritorno; ed a Cosimo faceva dire, che la gallina covava. Rispondea questi; male potrà fuori del nido. Un’altra volta gli mandò avviso, che i fuorusciti non dormivano; e Cosimo disse che lo credeva, ad essi avendo cavato il sonno. Ora prometteva l’Albizzi sicuro il passaggio nel Casentino, [264] dove il Conte di Poppi teneva seco amicizia: diceva poi, che dove le armi di Niccolò s’accostassero a Firenze, era impossibile che il popolo, stracco dalle gravezze ed oppresso, non si levasse ad accogliere gli antichi uomini e gli antichi ordini.

In Firenze fu grande sgomento; e quello che dava maggiore sospetto era il pensare che senza un qualche vicino aiuto avrebbe dovuto al Duca parere imprudentissima quella mossa, nè egli era uomo da troppo arrischiarsi. Temeano pertanto che segretamente fosse il Duca sicuro del Patriarca Vitelleschi da Eugenio preposto al governo dello Stato, sì fattamente che mentre il Papa dimorava tuttora in Firenze, costui in Roma era come principe. Temeano cercasse novità in Firenze, intendendosi coi fuorusciti; e quindi con molta diligenza s’adopravano prima a scalzare nell’animo del Papa la fede grandissima che egli aveva nel Patriarca, dipoi mostrandogli come lo avesse egli troppo alto locato da poterne vivere sicuro. A questo fine, cogliendo il tempo, gli misero innanzi una lettera intercetta a Montepulciano, che il Vitelleschi senza consenso del Papa scriveva a Niccolò Piccinino. Laonde il Papa deliberò infine assicurarsi del Patriarca: al quale effetto Luca Pitti andato in Roma, s’intese col Capitano che aveva la guardia di Castel Sant’Angelo. Costui aspettava il destro; ed un giorno che il Patriarca, essendo in sul muovere verso Toscana, gli aveva fatto dire scendesse giù fuori del Castello perchè aveva cose da conferir seco, uscì ad incontrarlo; e in mezzo a discorsi trattolo sul ponte, che mobile era, fece segno ai suoi d’alzarlo: rimasto così prigione ad un tratto quell’uomo infine allora potentissimo, non si seppe più altro di lui. Il Papa mandava poi di buon animo le sue genti alla difesa di Toscana.[316]

[265]

Tra ’l Conte frattanto e i Veneziani erano dispareri circa la condotta di quella guerra. Voleva quegli ripassare il Po e scendere verso Toscana dietro al Piccinino, massime dopo avere udito che i figli di Pandolfo Malatesta, i quali erano nella Lega, aveano dovuto venire a patti col Visconti; dal che si temeva che Pier Giampaolo Orsini, mandato con cinquecento cavalli dai Fiorentini in quelle parti, essendo preso e disarmato, le terre del Conte rimanessero senza difesa: questi protestava, che da signore di Stati non volea tornare condottiero. Laonde mandava la Repubblica Neri Capponi ad aggiustare le cose: il quale avendo prima trattato in Venezia con la Signoria, e quindi in Verona col Conte, pareva l’imminenza del doppio pericolo non dare alcun modo che a tutti soddisfacesse; quando venute novelle che i Malatesta non mancherebbero alla fede, e che l’Orsino avea potuto liberamente scendere in Toscana, consentì lo Sforza di rimanere oltrepò, avendo anche dati millecinquecento de’ suoi cavalli a Neri, che seco in Firenze gli condusse, dov’egli giugneva nel mese d’aprile 1440.

E già il Piccinino scendeva in Toscana; della quale non credendo vincere il passo attraverso le alpi di San Benedetto, dove Niccolò da Pisa prode Capitano facea buona guardia, disegnò forzare quello di Val di Lamone, dov’erano genti raccogliticcie, ed alla difesa del castello di Marradi Bartolommeo Orlandini vilissimo uomo, che al primo appressarsi dei nemici fuggì, non prima fermatosi che a Borgo San Lorenzo, e quando già era il Capitano del Visconti con tutto l’esercito entrato in Mugello. Di là scorreva liberamente infino ai poggi di Fiesole; e questi varcati, si era accostato fino a tre miglia vicino a Firenze, avendo fermato il campo a Remole e passato l’Arno, facendo prede e devastazioni fino a Villamagna. I contadini s’erano messi in salvo dentro alle mura della città con le robe loro; i bovi e le mandrie ingombravano [266] le vie; e la penuria, la quale incominciava a farsi sentire, cresceva il tumulto.[317] Nel quale Rinaldo prometteva nascerebbe qualche movimento in favore degli usciti; ma non fu nulla, perchè già tutta la moltitudine dei più infimi stava pe’ Medici, e questi tenevano il governo stretto in mano di pochi, pronti a frenare con la severità chiunque tentasse alzare il capo.[318] Crudele ambascia dovette premere allora l’animo di Rinaldo, che giunto in vista della città sua non ebbe persona che si muovesse per lui; e già era il Capponi entrato in Firenze con le genti di Lombardia, e quindi Piero Giampaolo ed altre genti. Null’altro potendo, Rinaldo faceva istanza perchè andasse almeno il Piccinino all’impresa di Pistoia, la quale fidava condurre col mezzo dei Panciatichi suoi aderenti. Ma quegli che non avea le speranze ostinate di Rinaldo, e non voleva cedere a consigli disperati, pigliava altra via.

La famiglia dei Conti Guidi possedeva da oltre quattro secoli il Casentino, del quale Francesco del ramo da Battifolle teneva allora la signoria col titolo di Conte di Poppi: quivi era e tuttora si vede il palagio di quei Signori, bello ed ornato ed in bel sito, essendo la terra di Poppi nel centro del piccolo principato, ma lieto per la freschezza dei luoghi e la vigoria degli uomini; oltrechè abbondante di forti castelli nelle pendici dei colli o nei gioghi degli appennini che soprastanno a quella provincia. Quel ramo dei Conti Guidi aveva seguitato dai primi tempi la parte guelfa, talchè dipoi vissero in grande amicizia con la Repubblica di Firenze. La quale poichè ebbe esteso il dominio così da cingere poco meno che da ogni lato il Casentino, rendevasi quella amicizia necessaria più e più sempre ai Signori del piccolo Stato, rimasti soli [267] in mezzo a tante baronie distrutte; cercavano che alla Repubblica paresse d’avere nei Conti un vicario. S’aiutavano anche di matrimoni pei quali a sè procacciassero appoggio di qualche potente signore, e il Conte Francesco avea maritata una sua figlia al Fortebraccio, che fu principio ad alienarlo dalla Repubblica per le cose che tosto vedremo. S’aggiunse dipoi altra cagione di mali umori verso Cosimo dei Medici, il quale avendo prima trattato di maritare il figlio suo Piero ad una figliola del Conte di Poppi, ruppe le pratiche perchè a Neri e ad altri amici di Cosimo non piaceva questo imparentarsi con signori che avessero Stati.[319] Cosimo, perch’era signore di fatto, dovea fuggire ogni apparenza che fosse contraria alla civile egualità. Per queste cagioni il Conte di Poppi era tutta cosa di Rinaldo degli Albizzi e della sua parte, ai quali si diede in braccio da quando il Piccinino entrò in Toscana così da fidare alla vittoria di quello le sorti sue, che fu cagione a lui di ruina. Ma quanto a me tengo che in fondo a ogni cosa stesse la certezza che la Repubblica ad ogni modo avrebbe voluto ingoiarsi il Casentino: il ch’egli cercava prima evitare legando a sè col parentado la Casa Medici; e poi fallito questo disegno, non ebbe più altro che da sperare nella vittoria dei fuorusciti, a sè obbligandoli per un beneficio di tanto più grande quanto era a lui più arrischiato. La Repubblica pur nonostante lo aveva eletto suo Commissario, e datogli bombarde per la difesa; ma egli chiamava le armi ducali nel Casentino: dove entrato il Piccinino, prese alcuni minori castelli, e quindi Bibbiena che si teneva pei Fiorentini. Ma trovò intoppo grandissimo e fuori d’ogni sua credenza nella piccola fortezza di Castel San Niccolò, alla quale poneva assedio e con ogni ingegno di guerra e con ogni crudeltà sforzandosi d’espugnarla, rimasero le sue [268] genti sotto a quelle anguste ma forti mura ben trentadue giorni; che fu salvamento alla Repubblica.[320] Perchè avendo quella dimora infruttuosa del Piccinino lasciato tempo che giungessero soldati in copia, e che ogni maniera di provvigioni nella città si facesse; al Piccinino venne a mostrare che la impresa di Firenze, non sovvenuta da commozioni civili, riusciva impossibile. Ben avrebbe il Conte di Poppi voluto che egli dimorasse tra que’ monti, ma non erano luoghi da farvi stanziare un esercito: il Piccinino gli rispose, che i suoi cavalli non mangiavano sassi; e avendo già fatta risoluzione di tornare in Lombardia, prima s’accostava ai monti per la Valle Tiberina, e quindi pigliandogli vaghezza di rivedere la patria sua, fece con pochi soldati entrata in Perugia, magnifica sì ed acclamata da’ cittadini, ma tosto seguìta da cosiffatte dimostrazioni che a lui parve bene uscirne, perchè dava ombra a molti l’avere in casa un tanto grande concittadino; il quale sapevano quanto si struggesse di acquistare anch’egli una qualche città in possessione. Tornando, faceva sopra Cortona qualche disegno; ma fu la congiura dei malcontenti nella città scoperta bentosto; e Niccolò venne con tutto l’esercito a porsi nel Borgo di San Sepolcro, per indi pigliare la via dei monti e ricondursi in Lombardia.

Innanzi però, ed egli bramava molto di onorare le armi sue con qualche fatto, e i fuorusciti vivamente a ciò lo pressavano, e l’occasione pareva buona perchè l’esercito dei nemici avendo più capi e più voleri, l’autorità dei Commissari Neri Capponi e Bernardetto dei Medici era da credere fosse attraversata: per la Chiesa era il Cardinale Scarampi, nuovo patriarca d’Aquileia, con titolo di Legato; ed i soldati di Lombardia scesi ubbidivano a Pier Giampaolo Orsino ed a Micheletto Sforza Attendolo. Aveano fermato il [269] campo sul colle che ha in alto il forte castello d’Anghiari, di dove stendevasi per l’ampia pendice la quale discende giù verso il Tevere, sito bene scelto:[321] ma il Piccinino si fidò coglierli trascurati un giorno di festa, a’ 29 giugno che è dì di San Pietro, e quando il caldo era grandissimo, quattro ore innanzi al tramontare del sole.[322] Il che a lui sarebbe venuto fatto se Micheletto, vecchio capitano, da un polverio ch’egli scorse di là dal Tevere accostarsi per la strada che da Borgo San Sepolcro conduce ad Anghiari fatto certo d’avere battaglia, non avesse chiamato alle armi il campo, che in fretta potè ordinarsi. Il Tevere ha un ponte, che il Piccinino passò a furia co’ suoi; ed avendogli affoltati giù nella pianura, fece impeto sopra i primi nemici che erano discesi, i quali cedendo e pel terreno che saliva congiugnendosi man mano alle squadre che sopravvenivano, fu per tre ore varia fortuna, senza che potessero nè il Piccinino rompere l’oste dei collegati che in largo sito poteano muoversi ordinatamente, nè questi forzare il passo del fiume sin verso sera. Ma non sì tosto furono i Ducheschi costretti a ritrarsi sull’altra ripa, qui la difesa era tutta impedita da fosse ed argini e vie strette, nè il Piccinino che non potè raccogliere in grossa mano i soldati suoi, ebbe agio di fare degna resistenza. Fu grande la rotta, preso lo stendardo del Capitano, i prigionieri molte centinaia, tra’ quali erano uomini di qualità; ma sempre [270] i numeri noi dobbiamo tenere mal certi; tremila sarebbero i cavalli venuti in potere dei vincitori. Il Piccinino s’andò a chiudere nel Borgo San Sepolcro con forse millecinquecento cavalli, tra buoni e cattivi e quelli da carriaggio. Di là non aveva l’uscita libera, e sarebbe stato anch’egli preso; ma i Commissari, benchè facessero la mattina dopo infino a terza il possibile, non trovarono un condottiero che gli seguisse, perchè i soldati attendevano alla preda, e spogliati i prigioni gli lasciavano andare in farsetto; tanto vili erano quelle guerre: Niccolò Piccinino in sulla terza muoveva per tornare in Lombardia.[323] Quella battaglia assicurava lo stato dei Medici, avendo levati d’ogni speranza i fuorusciti, i quali dipoi non fecero mossa: di Rinaldo degli Albizzi sappiamo, che essendo ito a visitare il Santo Sepolcro, moriva in Ancona l’anno 1442: aveva sposata una figliola sua ad uno dei Gambacorti cacciati di Pisa.[324]

Essendo rimasto vuoto il Borgo San Sepolcro, i Commissari della Repubblica l’occuparono. Era quella terra ai Fiorentini già stata offerta dal Conte di Poppi, che vi teneva ragioni per la figliola sua stata moglie al Fortebraccio. La Repubblica rispose allora di non [271] volersene impacciare per rispetto del Papa che aveva in casa, ma si fece raccomandatrice delle ragioni del Conte presso ad Eugenio che non voleva sentirne parlare. Questi allora diede Borgo San Sepolcro in deposito alla Repubblica di Firenze: dopo la battaglia, tra’ Commissari e il Legato fu qualche vertenza con male parole;[325] ma infine il Papa, bisognoso di danaro, lasciava occupare per venticinquemila ducati d’oro Borgo San Sepolcro come pegno ai Fiorentini, nei quali rimase. Subito dopo la vittoria, Bernardetto dei Medici andato a Monterchi, aveva avuto a patti la possessione di quella terra da una madonna Alfonsina o Eufrosina, figlia del Conte di Montedoglio e vedova di Bartolommeo da Pietramala con tre figlie da marito. Dissero a lei: «se aveste atteso come donna al governo della famiglia, non avreste ora perduto lo Stato vostro.» Ma i signori de’ castelli avevano sempre gli occhi al Duca di Milano, protettore e capo di quanti erano per l’Italia continuatori di signorie al modo antico ghibellino. Rispose la donna: «che avea fatto quello gli era ito per l’animo, e che sperava nel suo signore Duca di Milano, che aveva assegnato a lei millecinquecento ducati d’oro all’anno, e dal quale avrebbero essa e le figlie sue buono stato.» «Saranno di quelli del Re Erode,» a lei replicarono i Fiorentini motteggiatori.[326] Rimaneva da punire il Conte di Poppi; al che andò Neri con alcune centinaia di soldati sotto Niccolò da Pisa. Avuta Rassina per minaccie, poneva il campo intorno a Poppi, dov’era il Conte che per mancanza di vettovaglie in capo a pochi giorni trattò [272] di resa; per la quale essendo egli disceso giù sul ponte d’Arno ad abboccarsi con Neri, la prima cosa ch’egli disse fu: «potrà egli essere che i vostri Signori non mi lascino questa casa, la quale è nostra da novecento anni? (la boria e le false carte facevano raddoppiare gli anni): del resto, fate quello volete.» Rispose Neri: «pensate ad altro, chè voi non avete tenuto modi che i miei Signori vi vogliano per vicino. Vorrebbono volentieri che voi foste un grande signore nella Magna.» E quegli: «ed io desidererei voi più là.[327]» Io me ne risi, aggiunge crudamente Neri: e il Conte partivasi dal luogo antico de’ padri suoi, co’ figli e le figlie,[328] e portando seco trentaquattro some di roba. Tutto il Casentino entrava così nel dominio della Repubblica, la quale premiava Neri e Bernardetto di ricchi doni, avendo offerto anche di onorarli della cavalleria, che rifiutarono.

L’assenza del Piccinino riusciva più grave al Visconti che forse non s’era questi figurato; e bene si vidde che almeno da parte del Duca tutto il fondamento di quella mossa non era stato che nella credenza di richiamare Francesco Sforza alla difesa della Toscana e delle proprie sue terre: dipoi l’impegno già preso e la mossa cominciata e le speranze de’ fuorusciti fecero il resto. Ma in quel mentre che il Piccinino era in Toscana, essendo le forze del Conte superiori [273] ed egli uomo da bene usarle, aveva questi per grande vittoria avuta a Soncino sopra l’esercito milanese, liberato dall’assedio Brescia, cacciato i nemici d’intorno a Bergamo; e il naviglio che il Duca teneva sul Lago di Garda essendo già prima stato distrutto dai Veneziani, il Conte Francesco s’era impadronito di Peschiera sul Lago e d’altri luoghi. Al che il Visconti, cui pareva essere in grande pericolo, faceva ricorso agli usati rimedi; e per mezzo del marchese Niccolò da Este mandò ad offrire al Conte la pace e le nozze della figliola. Dal che ottenne che il rimanente dell’estate andasse la guerra più lenta, perchè i Veneziani, dubitando sempre dello Sforza, si tenevano corti nel fargli le provvigioni: e dall’altra parte già essendo tornato il Piccinino in Lombardia, passò la state, e gli eserciti si alloggiarono per l’inverno. Durante il quale non essendo però del tutto cessata la guerra, questa ripigliavano i due Capitani con forze maggiori nella primavera. Avvenne che essendo andato il Conte alla espugnazione del forte castello di Martinengo, ed il Piccinino con tutto l’esercito essendo accorso alla difesa, mentre ciascuno dei Capitani, usando sua arte, cercava pigliare vantaggio sull’altro; il Piccinino, cogliendo il punto quando era dal Conte lasciato sprovvisto il luogo d’ond’egli potea trarre vettovaglie, l’occupò, e tosto quivi essendosi affortificato con fossi e tagliate, metteva il nemico in tal condizione che dare l’assalto gli era impossibile, e a starsi fermo era per la fame costretto d’arrendersi. Ma nacque caso per cui si vidde quali si fossero quelle guerre, dove nè i Principi avevano mai sicurezza dei loro eserciti, nè i Capitani di sè medesimi a fronte a coloro dai quali erano assoldati. Il Piccinino, che aveva in pugno sì grande vittoria, ponea condizioni al Duca e scrivevagli già essere vecchio e non avere terra che fosse sua dopo tanti servigi da lui prestati allo Stato di Milano; volere ritrarsi, e non avere luogo nemmeno da porvi [274] il corpo suo: altri dei Capitani del Duca d’accordo facevangli eguali domande. E questi, per subito dispetto volendo cedere al nemico piuttosto che a’ suoi, e avendo la scusa del matrimonio della figliola, mandò a profferirne questa volta per davvero la celebrazione al Conte; la quale indi a pochi giorni si fece in Cremona, città che rimase al genero in dote. A questo modo la guerra essendo fatta impossibile, dappoichè lo Sforza più non la voleva, l’altro non poteva, la pace divenne ai collegati necessaria. Della quale essendosi lungamente trattato in Venezia, arbitro lo Sforza, si conchiuse ai 20 novembre 1441 in Cavriana, riavendo ciascuno, secondo l’usanza, quello che aveva prima, e il solo Gonzaga cedendo Peschiera ed altre minori terre ai Veneziani, i quali accertarono per quell’acquisto a sè il dominio sul Lago di Garda. Ma per segreti articoli fu inteso che il Duca tenesse quel ch’egli occupava in Romagna della Chiesa, e di più avesse (così almeno io trovo scritto) Perugia e Siena; il Conte aggiugnesse alla signoria che aveva nella Marca gli acquisti che intorno si facessero o del Reame di Napoli o degli Stati ecclesiastici: per il che il Papa, solo malcontento, gettò alte grida e ricusò di sottoscrivere il trattato; donde ebbero seme le guerre che tosto (com’era solito) si raccesero.[329]

[275]

Capitolo II. INTERNE COSE DELLA REPUBBLICA. — BALÌA DEL 1444. — GUERRA DEL RE ALFONSO IN TOSCANA. — GUERRE IN LOMBARDIA. [AN. 1441-1450.]

Mentre la pace si negoziava, un atroce fatto avvenne in Firenze, del quale i motivi in parte avvolgonsi nel mistero: noi ne diremo fin dove giunga la nostra contezza. Gli affetti popolari, le ire di parte, e tutte insomma quelle passioni che sono di molti, nate all’aperto e alimentate da grandi cagioni, hanno in sè stesse uno splendore per cui si mostrano evidenti; le vie tortuose delle ambizioni private riescono tanto a rintracciare difficili, quanto a discorrere fastidiose. Baldaccio d’Anghiari, capitano di fanti espertissimo, giovane tuttora di grande animo e feroce in guerra,[330] non si era per anche inalzato al pari dei sommi e più fortunati condottieri per esser l’arme delle fanterie tenuta di grado inferiore; ma per la grande estimazione goduta tra quelle si credeva che se la fortuna a lui arridesse, potrebbe egli formare di tale arme un esercito da contrapporre forse ai maggiori di quella età. Era Baldaccio ai servigi della Repubblica, e si ritrovava allora in Firenze quando pei mesi di settembre e ottobre 1441 fu tratto la seconda volta Gonfaloniere di Giustizia Bartolommeo Orlandini svisceratissimo di Casa Medici, e quello stesso che noi vedemmo avere aperto al Piccinino vilmente il passo di Marradi; del che era egli stato e con parole e con lettere da Baldaccio vituperato. A’ 6 settembre, quando era entrato l’Orlandini di pochi giorni in ufizio e quasi che fosse scelto a quel fine, mandò a chiamare Baldaccio in Palagio; il quale andato, e mentre col Gonfaloniere [276] discorrendo passeggiavano su e giù per l’andito della Signoria; usciti ad un tratto da un camera vicina certi soldati che l’Orlandini aveva fatti segretamente venire dall’Alpe, uccisero Baldaccio con molte ferite: poi gittato il corpo dalla finestra che dava in Dogana, quivi per bullettino mandato al Capitano gli fu mozzata la testa; ed egli dopo la morte fatto rubello e gli averi suoi messi alla Camera. Di lui rimase la moglie Annalena dei Malatesti e un piccolo figlio, il quale venuto anch’egli a morte, l’Annalena virtuosa donna fece monastero della sua casa, e rinchiusa quivi con più altre nobili femmine, visse santamente; di lei essendo rimasta in Firenze memoria onorata, e il monastero continuato fino ai primi anni di questo secolo.[331]

Per tutta Italia di quella morte fu grande rumore; ma quali colpe o false o vere se gli apponessero contro, non bene sappiamo.[332] Di un saccheggio dato senza ordine della Repubblica a Suvereto, abbiamo cenni:[333] altro motivo troviamo pure, cioè l’aver egli cercato di torre Piombino alla donna degli Appiani, che n’era signora; del che ripreso, avrebbe risposto superbamente ai Priori.[334] Ma ciò dovette essere stato più mesi innanzi, nel gennaio di quell’anno stesso, nel quale tempo Neri Capponi andava a posare la cosa di Piombino e di Baldaccio, correndo sospetti che i Senesi ed altri cercassero di levare la donna e Piombino dalla divozione della Repubblica di Firenze.[335] Altra cagione vi ebbe però assai più forte e verosimile: era Papa Eugenio tuttora in Firenze; il quale nel maggio di [277] quell’anno stesso aveva condotto contro a’ Bolognesi Baldaccio,[336] ed ora segretamente volea mandarlo ad assalire nella Marca Francesco Sforza, al quale effetto gli aveva sborsato già ottomila ducati d’oro. Ciò era stato il giorno stesso che precedette alla uccisione di Baldaccio; della quale Eugenio pigliò tanto sdegno, che a stento poterono i Fiorentini rammorbidirlo per l’opera di Giannozzo Manetti, uomo probo ed in lettere di molta fama.[337] Avrebbe pertanto quella morte giovato allo Sforza sì contro ai timori per lo Stato della Marca, e sì perchè io tengo avesse già questi in odio Baldaccio, siccome colui che solo in Italia promuoveva l’arme allora avvilita delle fanterie: così gli guastava come in mano l’arte, e questi temeva che in Italia prevalendo nel guerreggiare un altro modo pel quale gli Stati potessero avere milizie non tutte sotto all’arbitrio dei condottieri, di questi venisse a cadere la fortuna. Lo Sforza e Cosimo già s’intendevano: leggiamo che dubitando Baldaccio se egli si dovesse recare in Palagio sulla chiamata dell’Orlandini, e chiestone Cosimo, fosse da lui rassicurato.[338] Questi ad ogni modo e i suoi lo temeano per gelosie nate da interne cagioni; e Cosimo usava dire, che gli Stati non si tengono co’ paternostri.

Aveva Baldaccio amicizia molto grande con Neri Capponi; e questi per la recente vittoria contro al Piccinino era salito sì alto, che siccome pareva con [278] quella avere salvato lo Stato ai Medici, così dubitavano che s’egli volesse ostare a Cosimo, gli sarebbe agevole torlo ad esso di mano col favore di Baldaccio. Neri ed i più gravi e migliori cittadini male sentivano quel levarsi dall’amicizia dei Veneziani, mettendo lo Stato quasi a discrezione dello Sforza:[339] Neri, oltre alla molta estimazione ch’aveva in città, si era guadagnato con le frequenti ambascerie forti aderenze negli altri Stati; e pel governo delle milizie, molta entratura presso a’ condottieri di queste e ai soldati generalmente. Pareva a Cosimo che egli avesse (come scrive il Guicciardini) forse più cervello che alcun altro in Firenze:[340] e si trova scritto di que’ due primari cittadini, Cosimo essere il più ricco, e Neri il più savio; la quale parola si deve intendere per la conoscenza e per la pratica di più cose in guerra ed in pace. Il molto favore da lui acquistato pubblicamente per vie scoperte, faceva a lui voltare gli occhi di tutti coloro ai quali spiacevano i modi tirannici e le ingorde cupidigie e i pravi disegni della setta che reggeva. A questa pertanto parve essere necessario battere Neri, a lui togliendo di mano la forza che avea da Baldaccio, e insieme mostrare sè stessi potenti e capaci d’ogni cosa, tanto che ognuno pigliasse paura di loro. Il Machiavelli scrive infatti, che per la morte di Baldaccio, Neri venne a perdere reputazione; con che egli intende l’opinione della forza, usando in un modo tutto suo proprio quelle parole le quali importano morale giudizio. Troviamo infatti che Neri essendo, quando fu ucciso Baldaccio, ambasciatore in Venezia con Agnolo Acciaioli, questi solo poi sottoscrisse la pace;[341] e Neri in quel luogo dei suoi Commentari cessa ad un tratto di porre innanzi il nome suo, nè per due anni poi troviamo a lui data ambasceria o commissione. Ma dopo [279] quel tempo sembra essere stata tra Cosimo e lui saldata ogni cosa; e questi tornava, come nulla fosse (ignoro s’io debba per lui dolermene), all’antico grado.[342]

Per questo e per altri minori fatti si vede come un po’ di terrore apparisse necessario di tratto in tratto a quel reggimento, sebbene portato dai minuti uomini che ad esso erano larga base, ed assicurato con l’avere in mano le borse e le gravezze, o in altri termini, la Repubblica e le private fortune di tutti i singoli cittadini. Alla Balía del 33 aveano fatto riserva che non potesse nè muovere le borse nè abolire il Catasto; ma quella del 34 non ebbe limite, e bentosto le borse s’empirono di uomini disperati, che per ingiurie patite o per cupidigie nuove erano pronti alle offese ed alle rapine. Il Catasto fu annullato, perchè a quella parte che tutto reggeva l’egualità non si conveniva; ma un altro modo si rinvenne, ch’era di genio delle moltitudini; i Ciompi nel 78 l’avevano chiesto, e ai Medici fu continua regola nell’imporre tasse. Pigliando a norma l’antico Estimo, le quote assegnavano con tal proporzione che fosse minima nelle poste minori, e andasse via via progredendo su per una scala (così l’appellavano) congegnata con gran sottigliezza, talchè se i poveri (a modo d’esempio) pagassero della loro rendita il mezzo o l’uno per cento, i ricchi pagassero il due il tre il quattro e più: ma questa era un’arme intesa a battere gli avversari, perchè ogni volta pochi dei più confidenti venivano eletti a porre le tasse; delle quali era norma l’arbitrio o, come dicevano, la discrezione e coscienza degli ufiziali preposti al reparto. Vero è che un balzello di sessanta mila fiorini, posto su’ primi dell’anno 1441, apparve distribuito con giustizia, essendo la maggior parte andata su’ ricchi e sopra [280] coloro stessi che tenevano lo Stato.[343] E un’altra gravezza del 1443, a questo effetto regolata sottilmente, ebbe nome la Graziosa; ma che a molti fosse graziosa non credo.[344] E se anche il modo paresse buono al maggior numero, riusciva il peso a tutti esorbitante. Aveano posto in poco tempo ventiquattro gravezze, a quattro a sei per volta, metà delle quali nel solo anno 1442 produssero centottanta mila fiorini d’oro.[345] Fecero anche un’altra legge, la quale importava ricercare gli arretrati a quelli che avessero pagato meno del loro giusto.[346]

Venivano anche i poveri a soffrire, oltrechè dall’assenza di tante famiglie sbandite, dall’avere molti degli antichi cittadini abbandonata la città, recatisi in villa per torsi dinanzi alla perversità dei nemici loro, e per non potere più reggere le gravezze, nella speranza di fuggire così anche la prigionia delle Stinche, alle quali era condannato chi non pagasse. Fecero legge che i morosi dannava al confine, e alcuni v’andarono: «ma due volte l’anno correvano messi e berrovieri in campagna, votavano le case, toglievano le ricolte, logoravano gli alimenti; e niuna di queste valute era posta a piè della ragione del debitore,» perchè andavano in via di penale. Quei di città si ridevano degli andati in villa, e gli chiamavano i cittadini salvatichi. Gli antichi di schiatta vituperavano i nuovi uomini venuti pel favore dei potenti a stare in città, e a questi davano nome di villani raffazzonati.[347] Chi aveva debito di gravezze e nel tempo stesso crediti inverso al Comune, gli mettevano il credito in polizze, le quali per non essere venuta la scadenza non erano [281] ricevute. I cagnotti del reggimento e i minuti amici di esso (questi appellavano del secondo pelo) coglievano al canto i possessori di quelle polizze, e le compravano chi il quarto e chi il quinto della valuta; che ad essi, perchè erano dei favoriti, venìa pagata per intero; e così molti si arricchirono.[348] A questo modo Puccio Pucci, venuto su dalla povertà della merceria, avea in poco tempo accumulate grandi ricchezze. Comprava a prezzo bassissimo i crediti inverso il Comune di coloro i quali per la povertà o per essere tenuti avversi allo Stato non potevano farli valere; così ebbe dal Comune in sette anni cinquantaquattromila fiorini d’oro: altri cittadini, domestici a’ Medici o agli altri potenti, erano venuti abbondantissimi di ricchezze.[349] Studio dei Medici pare fosse rendere povera la Repubblica ed i cittadini ricchi.

Ma quei che soffrivano delle rapine e che vedevano mai queste in addietro non essere state tanto gravi, rimpiangevano lo stato degli Albizzi. Dicevano questo governo puccinesco essere di più amaritudine che mai alcuno altro, passando d’ingiurie e di torti i recenti e gli antichi. A chi si doleva, gli statuali obiettavano la durezza delle antiche leggi, per le quali a chi non pagasse le multe o gravezze era pena della testa: ma rispondevasi che per quelle a niuno tolsero la persona, perchè quella pena che più si scosta dalla natura è più difficile a pagare. Ed aggiungevasi: «voi avete annullato il Catasto per iscostarvi dal convenevole della gravezza. I vostri emuli eccettuarono due cose, le quali ci fanno certissima fede che la rovina della città al tutto non volevano. L’una cosa fu, che il Catasto stesse fermo; e l’altra, che le borse non si rimuovessero. Ma voi toglieste l’egualità del Catasto, e dite: che differenza è dal governatore al governato, se non che il governatore comanda e il governato è [282] fatto ubbidire? Chi fia quegli che ci ubbidisca, se il Catasto vegghia? noi avremo a ubbidire la legge; e se il Catasto annulliamo, la legge e gli uomini ubbidiranno noi, e così noi saremo signori.» Ma questo appunto non volevano gli offesi, e dicevano: «voi vendete i luoghi tolti ai miseri cittadini; voi rompete i testamenti; voi, con offesa della libertà del Monte e della pubblica lealtà, fate che mentre l’università de’ cittadini non hanno le loro paghe, i maggiorenti siano interamente pagati; dal che il credito si viene a perdere, che pure è nerbo della Repubblica.» Era in Firenze il Monte delle Doti, nel quale faceansi depositi in testa delle fanciulle, donde avessero con certe regole al tempo del loro collocamento una dote; e se la fanciulla moriva innanzi d’andare a marito, il padre lucrava la metà della dote che avrebbe la figlia avuto in ragione del fatto deposito. Ma qui pure aveano, secondo si legge, posto le mani, sebbene fosse cosa sacrosanta; e quelle doti non si pagavano, col dire «che il Comune era in troppa necessità: non avendo riguardo che niuna mercanzia è tanto pericolosa a sostenere, quanto è nelle fanciulle il fiore della giovinezza.[350]» Così giuste erano le lagnanze.

Per gli ordini posti nel 34 si dovevano ogni cinque anni rifare le borse e rinnovare gli squittinii; il quale termine essendo venuto per la seconda volta l’anno 1444, e la città molto trovandosi infetta di mali umori, e la pazienza dei molti oppressi e degli invidiosi venuta al termine ancor essa, avvenne che molte fave fossero date ai parenti degli usciti e ad altri sospetti: lo chiamarono lo squittinio del fior d’aliso, questo fiore essendo bello a vedere, ma poi riesce putrido e fetido a odorare. Così avvenne di quello squittinio, imperocchè Cosimo e gli amici suoi, veduto che molti di contrario animo erano entrati nelle borse, cassarono quello [283] ch’era stato fatto, avendo i Collegi con l’aggiunto di circa dugento cinquanta cittadini ripreso balìa di riformare la città di squittinii e di gravezze e d’ogni cosa. Prolungarono agli sbanditi il termine del loro confino per altri dieci anni; molti confinarono di nuovo, cavandoli dalle Stinche, dove erano prigioni, e a queste ricondannarono un Giovanni Vespucci, che già prima eravi stato chiuso: posero a sedere i Mancini, i Baroncelli, i Serragli, i Gianni, eccetto di quelle case alcuno che tralignasse, ed un Ridolfi ed il figlio di ser Viviano delle Riformagioni, e Francesco della Luna, il quale era detto avere fatto il Catasto, e Bartolommeo Fortini, uomo di grande bontà, e più anni dopo restituito:[351] in tutto dugentoquarantacinque cittadini. Cassarono ser Filippo Pieruzzi Cancelliere: fecero i dieci Accoppiatori, i quali durassero quanto era il tempo delle borse dello squittinio. Questi, innanzi che si facesse la pubblica tratta, dovevano scegliere chi avesse a sedere nei seggi delle magistrature: così ogni cosa che il popolo e la Balìa avessero fatto, veniva sottoposto al parere di quei dieci. Tra’ quali erano Alamanno Salviati e Diotisalvi Neroni e un Soderini ed un Martelli, e con essi uomini recenti e veniticci, anima e corpo di coloro su’ quali vivevano, e pronti e rotti ad ogni cosa.[352] Per questi modi pareva a Cosimo ed a’ suoi d’aversi assicurato lo Stato; il quale volendo meglio ordinare di tutto punto, cosicchè nulla [284] facesse difetto o pericolo nell’avvenire, crearono l’anno dipoi 1445, quando Cosimo de’ Medici la terza volta era Gonfaloniere, otto cittadini a rivedere i libri delle antiche Riformagioni e racconciare quanto a loro potesse dar noia, notando altresì quello che fosse nell’avvenire da provvedere con le Balìe. Tra questi otto era Neri Capponi, già bene allora riconciliato.[353]

Non era per anche (siccome dicevano) rasciutto l’inchiostro della pace sottoscritta nel fine dell’anno 1441, e questa si venne a turbare perchè Fiorentini e Veneziani erano soli a volerla, cadendo sovr’essi tutto il peso delle guerre. Ma il Papa cercava, come già notammo, guastare i disegni segreti che avessero tra loro accordati il Piccinino e lo Sforza; e quando per opera dei Fiorentini pareva che fosse Eugenio rassicurato, un’altra cagione di muovere guerra veniva dai fatti i quali compievansi in quel mezzo nel Reame. Quivi era disceso Renato d’Angiò, che si teneva di quello stato legittimo re, ma dopo svariate fortune veniva dalla virtù militare del re Alfonso d’Aragona condotto in termine che la sola città di Napoli rimaneva in sua possessione. Quindi, al sentire la pace fatta in Lombardia, Renato chiedeva aiuto al Conte suo amicissimo, a lui promettendo restituire le terre e le baronie di Puglia, delle quali Alfonso lo aveva privato; premi gloriosi che il primo Sforza si aveva acquistati col valore del suo braccio. E il Conte Francesco a quella impresa correva, quando Alfonso eccitando la gelosia del duca Filippo, la quale non era per nulla cessata nonostante il parentado, lo indusse a voltargli contro il Piccinino; del che gli faceva istanze anche il Papa sperando nel cozzo tra’ due condottieri levarseli a un tratto entrambi d’addosso. Calato pertanto Niccolò dalla Romagna, metteva il Conte a dure strette; [285] i Fiorentini, ch’aveano proposito di non entrare in quel ballo ma privatamente sovvenivano lo Sforza di molto danaro, due volte condussero questi e il Piccinino a fare tra loro accordi solenni, ma tosto violati perchè da Eugenio mai non voluti ratificare; talchè la guerra nella Marca ed in Romagna più mesi durava con vari accidenti. Renato in quel mezzo perduta avendo anche la città di Napoli, dove era entrato il re Alfonso per quello stesso acquedotto (pel quale vi era entrato novecento anni prima Belisario); uscì dal Reame e venne in Firenze, dov’era il Pontefice, recando con sè un vano titolo e nessuna speranza d’aiuto; sicchè dimorato quivi poco tempo, tornava dipoi nei suoi Stati di Provenza.

Così era Eugenio francato da ogni obbligazione verso l’Angiovino, e aveva le mani più libere contro al principale suo nemico lo Sforza e contro ai Fiorentini ed ai Veneziani, dai quali tenevasi per varie cagioni offeso. Quelli uccidendo con tanta sua ingiuria e sotto gli stessi suoi occhi Baldaccio, aveano mostrato di non sofferire che il Conte perdesse la signoria della Marca: e i Veneziani senza alcun rispetto avevano aggiunto ai loro Stati Ravenna, privandone l’ultimo dei Signori da Polenta, da prima tirato iniquamente a Venezia e di là poi mandato a finire insieme con la famiglia sua nell’isola di Candia. Per queste ragioni deliberò Eugenio voltarsi ad Alfonso e riconoscerlo giusto re, spingendolo contro allo Sforza nella Marca: ma ciò era in tutto alienarsi dalla Repubblica di Firenze, dove essendo nella seconda dimora quattro anni stato, deliberò di partire a’ primi dell’anno 1443. La quale partenza dispiacque al popolo, che aveva dalla presenza del Papa lustro e guadagni;[354] ai reggitori dispiacque per questo e perchè vedevano il Papa, chiaritosi [286] nemico loro, mettersi in mano al Duca ed al Re, grandi avversari della Repubblica: più che mai pungeva l’animo loro che volesse egli fermarsi in Siena, dove null’altro lo riterrebbe che il desiderio di fare onta ai Fiorentini in faccia al mondo apertamente. Quindi nei Consigli fu per molti disputato non si lasciasse partire, prolungandosi la deliberazione per tutta la notte la quale precesse alla partenza del Papa:[355] ed egli stesso, che nella mattina poco si teneva certo che non volessero i Signori mettergli inciampo, ne andava infine con decoroso accompagnamento a Siena; rimasto quivi poi gran parte di quello stesso anno.

Congiunte le armi del Piccinino e d’Alfonso, un esercito di ventiquattromila tra fanti e cavalli entrò nella Marca: il Conte percosso da quella tempesta, si rinchiuse in Fano dov’era la moglie, credendosi perdere senza rimedio gli Stati suoi. Ma il duca Filippo, vedute le sorti del Conte inclinare più in giù di quello che avesse egli nei suoi calcoli ponderato, e non volendo che ai danni suoi il Piccinino crescesse o che il re Alfonso troppo s’ingrandisse, mandò per lettere ed ambasciatori a questo chiedendo lasciasse l’impresa: io credo altresì che il Duca, sentendosi affranto del corpo e in sullo scendere della vita, pensasse alla figlia e allo Stato di Milano, perchè non andasse l’eredità sua in mani fatte inabili a difenderla. Comunque sia, Alfonso alle replicate istanze del Duca essendo alla fine rientrato nel Regno, lo Sforza rifatto di genti vinceva il Piccinino rimasto solo; ma per il verno che sopravvenne tutti ritrattisi alle stanze, questi raccoglieva intorno a sè nuove genti in gran numero, perchè molti contestabili o capi inferiori delle milizie venali abbandonavano il Conte Francesco che non reggeva alle paghe, sebbene gli aiuti dei Fiorentini non gli mancassero, ma erano scarsi a tanto bisogno. Così [287] pareva essere il Conte ridotto a estrema ruina, quando Filippo Maria intervenne per la terza volta a torre la certa vittoria di mano al prode e infelice suo vecchio condottiere: per subito avviso e con fallaci speranze richiamava Niccolò Piccinino in Lombardia; il quale vedutosi tradito dal Duca, e udita la rotta e la prigionia di Francesco suo figliolo rimasto in Bologna al governo dell’esercito, moriva lasciando di sè nome di tanto più onorato quant’ebbe più avverse le sorti, e i servigi da lui prestati all’ingrato Duca rimasti erano senza premio.[356] Le armi braccesche dopo lui caddero, e lo Sforza campeggiò solo, con la fortuna più assai di principe che di condottiero. Incontro al quale il Papa sentendo non avere Capitano che fosse capace di stargli a fronte, diede ascolto alle molte istanze che i Fiorentini a lui facevano per la pace. Questa, concordata prima a Perugia, fu poi conchiusa a Roma dov’era Eugenio tornato nel corso dell’anno 1444. Parte della Marca rimase al Conte; d’altre vertenze si fece compromesso in tre Cardinali ed in Cosimo de’ Medici e in Neri Capponi andato a Roma ambasciatore.[357]

Il duca Filippo, tra molte sue voglie, da più anni [288] tirava a soggettarsi Bologna, dove la parte dei Canneschi a lui aderiva; ma questi essendo stati in quei giorni popolarmente distrutti dopo l’uccisione che avevano fatta d’Annibale Bentivoglio, e Bologna governandosi nell’amicizia dei Fiorentini e dei Veneziani, il Duca mandava in Romagna nuove genti. Cosicchè bentosto per questo e per altri dissidii e sospetti tra lui ed il genero, si rinnovava la guerra, dov’erano da una parte Veneziani e Fiorentini e Bolognesi e il Conte Francesco, dall’altra il Duca e il Papa ed il Re. Non tema il lettore ch’io voglia descrivergli i vari casi di questa guerra più che non facessi delle precedenti: al nostro assunto basti notare come lo Sforza, impedito spesso dall’inopia di danaro, poco facesse, ed i Fiorentini, che a lui ne davano ma segretamente, si fossero contro tirati una grande nimistà del Papa. Il quale una volta facea sostenere nel Castello di Sant’Angelo e sotto il pretesto di certi debiti colla Camera Bernardetto dei Medici inviato in Napoli al Re: e i Fiorentini pigliavano sulla via due Vescovi che s’erano imbattuti a passare per la Toscana; e Cosimo de’ Medici avea consigliato al Conte Francesco l’impresa di Roma, dove lo chiamavano alcuni Baroni, e perfino Cardinali ed altri uomini della Corte gli promettevano, se v’andasse, che il Papa farebbe con lui ogni accordo. Ma indugiò tanto che trovò Eugenio ben provveduto, e fosse mancanza di danaro o altro, lo Sforza andato sino a Montefiascone tornò indietro.[358]

Per tutto questo ai Fiorentini parea male stare, e si chiamavano abbandonati dai Veneziani, ai quali due volte era inviato Neri Capponi a fine d’indurli a muovere in Lombardia la guerra. Al che i Veneziani andavano lenti, di prima essendosi raffreddati con la Repubblica [289] di Firenze, e cominciando quasi a temere il Conte già come futuro signore di Milano. Infine avendo i Fiorentini consentito di pagare a mezzo la spesa della guerra che si farebbe oltrepò,[359] e il Duca trovandosi mal provveduto di condottieri, andavano prospere le armi della Lega fin sotto le mura di Milano. Aveva Filippo invano chiesto soccorso al Re di Francia e al Duca di Savoia: gettavasi allora in braccio allo Sforza, scrivendogli non volesse egli abbandonare a estrema ruina il suocero vecchio e cieco. Lo Sforza pareva cedesse a quella preghiera, confortato anche dal Papa e dal Re che seco praticavano accordi segreti;[360] ed era con le armi vicino al Po, quando s’intese il duca Filippo Maria essere morto nel suo Castello di Porta Zobia, a’ 13 agosto 1447. Egli, ultimo della grande e lungamente possente Casa dei Visconti, aveva trent’anni vessato con guerre continue l’Italia ed i suoi sudditi e sè stesso: moriva lasciando lo Stato più angusto e più minacciato di quello lo avesse egli dai progenitori suoi. Fu lode sua avere con studio incessante impedito l’inalzarsi dei condottieri dei quali era costretto servirsi; per questo vietava che il Piccinino facesse acquisto di Stati, e cercò tenere basso lo Sforza benchè lo avesse già designato a successore. Così la prepotenza dei condottieri fu in qualche parte diminuita, ma senza che le armi divenissero più sicure in mano a’ principi o alle repubbliche d’Italia. Avrebbe Filippo con più antiveggenza adoperato, formando un esercito di fanti suo proprio; al che il tempo non gli [290] mancò nè il danaro, nè forse gli uomini a ciò adatti. Allora lo Stato di Milano avrebbe avuto grandezza solida e durevole, ed egli poteva come gli piacesse col maritaggio della figliuola aggiugnersi le armi e la mente di Francesco Sforza, o fare tutt’uno della sua possanza e di quella dei Duchi di Savoia: sì l’uno e sì l’altro partito poteva essere all’Italia salvamento. Ma era ciò troppo chiedere all’animo di Filippo Maria ed al secolo, di tali opere incapaci. Invece la morte di lui, che parve a molti respiro, non fece che porre di nuovo in sospeso le sorti d’Italia.

Sei mesi innanzi la morte del duca Filippo Maria Visconti era venuto a mancare un altro Principe irrequieto e nelle imprese poco felice, che fu il papa Eugenio IV. A lui succedette Tommaso Parentucelli da Sarzana, e pigliò nome di Niccolò V per la riverenza ch’egli aveva a Niccolò Albergati pio ed illustre Cardinale di Santa Croce.[361] Pontefice buono e savio principe, s’illustrava promuovendo le arti e le lettere da lui medesimo coltivate; grande amatore della pace, e mal soffrendo le brighe della temporale signoria allora più che in altro tempo mai ai Pontefici disputata, si contentava lasciare alle città indipendenza ed ai Signori la vicaría col solo obbligo di pagare alla romana Sede un annuo tributo riconoscendosi suoi vassalli. Vissuto ne’ primi anni in Firenze, dov’era stato ripetitore dei figli di Rinaldo degli Albizzi e poi di Palla Strozzi, onorava la Repubblica d’un grado uguale a quello dei Re nelle cerimonie dell’ambasceria che andava a lui quando fu asceso alla sedia pontificale.[362] Bramoso non d’altro che della quiete d’Italia, [291] si diede per prima cosa a praticare che una pace mettesse fine a quelle misere e perpetue guerre, inviando a tale effetto in Ferrara il Cardinale Morinense, col quale convennero gli ambasciatori di Firenze e quei di Venezia; e già dell’accordo si cominciava a trattare,[363] quando per la morte del Duca rimasero disciolte le pratiche e senza effetto quel buon volere.

Gli ambasciatori andati in Roma per la creazione di Niccolò V avevano avuto incarico di recarsi a fare atto di reverenza al re Alfonso che dimorava allora in Tivoli.[364] Ma intanto che i Commissari fiorentini per la pace erano in Ferrara, la Signoria ebbe avviso di certi movimenti che si vedevano sui confini inverso Roma; poi dell’essere una mano di soldati all’improvviso entrata in Cennina, castello del Valdarno superiore, gridando Aragona. Era il principio d’una guerra che il re Alfonso muoveva contro alla Repubblica di Firenze; entrato in Toscana con sette mila cavalli e molto numero di fanti, e avendo cercato la congiunzione dei Senesi che solamente gli consentirono la vettovaglia pe’ suoi soldati, volse il cammino inverso Volterra, ed occupati Ripomarance ed altri castelli, parea disegnasse per la Val d’Era entrare nel Pisano;[365] ma invece poneva assedio a Campiglia, dove incontrata difesa valida, andò con l’aiuto dei Conti della Gherardesca alla espugnazione d’altre terre della Maremma di Pisa. Quindi, per essere entrato l’inverno, poneva il campo sulla marina, tenendo il colle dove in antico era la città di Populonia: giace quivi [292] appresso Piombino, sul quale Alfonso avea gran disegni, ed io credo che fosse il fine di tutta la guerra. Del Reame di Napoli era debolezza il non poterlo difendere che fuori del Reame, come si vidde in ogni età pei tanti eserciti che appena entrativi lo ebbero subito conquistato. E Alfonso, ch’era uomo di grandi concetti, io non dubito cercasse di farsi uno scalo nell’Italia superiore, al quale effetto gli era Piombino luogo tra gli altri opportunissimo. Rinaldo Orsino ne aveva allora la signoria, tenendo in moglie una donna degli Appiani; uomo di guerra, chiudea le porte al Re infestandogli le provvigioni per via di mare. Pareva la guerra dovere essere molto grossa: capitani per la Repubblica di Firenze erano Gismondo Malatesta e Federigo da Montefeltro conte d’Urbino, che si rendè chiaro nelle arti di guerra e di pace fra tutti i Principi di quel secolo; discordi tra loro, gli contenne la prudenza dei due già bene sperimentati commissari Neri Capponi, che prima era andato a Venezia,[366] e Bernardetto de’ Medici.[367] Restaurarono, sebbene si fosse nel cuore del verno, la guerra e riebbero molte perdute castella in quel di Pisa e di Volterra, essendosi Alfonso ritratto a svernare nelle terre della Chiesa; ma in quel frattempo tolse ai Fiorentini Castiglione della Pescaia, che riuscì perdita molto grave. Venuto innanzi a primavera, si affortificava sotto Piombino, e teneva il mare dal quale venivano all’esercito i fornimenti; per il che la Repubblica armò galere, ma per miseria (come scrive Neri) poche e non bene in punto da stare a petto a quelle di Aragona. Pure condussero in Piombino trecento buoni soldati e polvere ed armi: quattro però, che recavano le provvigioni [293] all’esercito, furono prese o sbaragliate da quelle del Re, le quali in quel mezzo aveano pigliato l’isola del Giglio. Per terra nessuna delle due parti s’arrischiava frattanto a combattere; e tutte due stavano male, il Re avendo attorno l’esercito fiorentino sparso nelle macchie di Campiglia,[368] e questo soffrendo per la mancanza del vino, ristoro ai soldati necessario in quei luoghi, l’estate essendo sopravvenuta. Laonde si venne ai ragionamenti di pace, ed a tal fine Bernardetto si recò al campo del Re; ma questi voleva innanzi tutto che la Repubblica gli abbandonasse Piombino; il che essendo recato a Firenze, molti parevano consentire. Ma Neri, venuto dal campo, mostrò quella pratica essere un tizzone di fuoco che da qual parte si pigliasse bruciava la mano: pericoloso lo stare in campo, dove i soldati già per l’inopia si sbandavano: ma il Re con la pace acquisterebbe reputazione e Piombino; e rimanendo (Neri disse) vicino nostro, poteva torre a noi tutto il contado di Pisa per la mala disposizione del paese; e tolto il contado, non saremmo noi atti a difendere Pisa, essendo lui potente in mare ed in terra. Fu vinto per vent’otto fave sopra trentasette, non venire a pace se non si salvasse il Signore di Piombino; il quale pigliarono in accomandigia, dandogli mille cinquecento fiorini al mese. Infine il Re, che aveva provato con molte bombarde grosse e mangani e con replicato assalto d’avere Piombino per forza, facendo quei di dentro buona difesa, e molti essendo infermi dei suoi o morti, e avendo i cavalli in disordine, deliberò partirsi innanzi giugnesse Taddeo dei Manfredi da Faenza di nuovo assoldato dai Fiorentini con mille dugento cavalli e dugento fanti. Tornò nel Reame Alfonso come rotto e malcontento, e promettendo con [294] molte minacce maggiore assalto a primavera. Ma l’anno seguente 1449 passò in Toscana senza guerra.[369]

La successione del duca Filippo Maria, sebbene avesse pretendenti i Duchi di Savoia ed i Reali di Francia ed il re Alfonso, tutti aspettavano che andasse a Francesco Sforza.[370] Ma la città di Milano volle fare prova di governarsi da sè per via d’un Senato di nobili avvezzi alle albagìe dei castelli ed all’ossequio delle Corti; e chiamandosi Repubblica, mandò dicendo ai collegati che, morto il Duca, era cessata tra essa e loro ogni cagione di guerra. Intanto però le altre città del Ducato, una volta che Milano s’era fatta libera, diceano venire di conseguenza che tornassero libere anch’esse: così lo Stato si discioglieva, e le cose nella Lombardia quasi parevano ricondursi al punto dov’erano tre secoli addietro. In questo Venezia, dopo avere trastullato i Milanesi più tempo, rifiutò la pace, deposto ogni velo alle ambizioni; ed io per me credo quel patriziato orgoglioso, quanto più sentiva avere in sè del sangue latino, tanto più si reputasse chiamato a raccogliere in questa Italia, divisa ed incauta, l’eredità dell’antica Roma. Parve male al Conte Francesco che il premio sperato gli venisse innanzi quando egli era men atto a ghermirlo; ma pure volendo frattanto legare a sè i Milanesi in quel modo che poteva, consentì ad essere Capitano di quella Repubblica. Piacenza e Lodi s’erano date ai Veneziani: lo Sforza avendo a sè tirato con altri condottieri i due Piccinini, rivali perpetui delle armi sue, ed assicuratosi di Parma, costrinse il nemico di là dal fiume dell’Adda. Pavia, antica città regale e insofferente d’ubbidire ai Milanesi, accettò lo Sforza per suo signore; questo era un primo passo e un segnale che egli dava. [295] Non volle commettersi con le armi francesi venute innanzi ma in poco numero, e mandò contr’esse Bartolommeo Colleoni, già chiaro in guerra, che facilmente potè respingerle; ed egli intanto andato della persona sua contro a Piacenza, con la forza delle artiglierie l’espugnò, avendola poi abbandonata a saccheggio crudele inaudito, e tale che per sempre ne fu disertata quella misera città. Quindi recatosi oltre l’Adda ed afforzatosi in Caravaggio, ottenne per l’imprudenza dei Veneziani intera vittoria, prima avendo bruciato un grande naviglio di quella Repubblica nel fiume del Po.

Venezia così pagava la pena de’ suoi scaltrimenti, ma non gli cessava. Sapea la Repubblica dei Milanesi avere trattati col Duca di Savoia, col re Alfonso e con quel di Francia: d’Alfonso temeva che la guerra male riuscitagli in Maremma volgesse sul Po; i quali timori allo Sforza erano comuni, com’era comune la necessità delle cautele, perchè la vittoria lo aveva affralito, dei condottieri che aveva seco non si fidava; ed il Senato dei Veneziani poteva credere, con dare a lui mano, dividere poi le spoglie, e ridurre la Lombardia in brani, se torre di mano allo Sforza non potevano l’eredità dei Visconti. Quegli, fidando in sè stesso, consentiva intanto d’avere Milano con l’armi e con l’oro della Repubblica di Venezia, e innanzi la fine del 1448 un trattato fu conchiuso in Rivoltella a questo effetto. I Milanesi a grande ragione lui chiamarono traditore, ma lo Sforza andava diritto allo scopo; Piacenza, Tortona, Alessandria, Parma erano venute in sue mani, e poi Vigevano per lungo assalto fortemente sostenuto dai cittadini; il Colleoni aveva rotto i soldati di Savoia, sebbene a combattere più duri di quello che fossero gli Italiani. Ma la guerra tirava in lungo, e le forze della grande città di Milano non erano esauste: parve allora ai Veneziani che fosse da cogliere il punto, e di nuovo mutando lato ed accostandosi ai [296] Milanesi, notificarono al Conte Francesco un trattato al quale essi lo consigliavano di accedere, per cui ritenendo egli Pavia e Cremona e tutti gli Stati sulla diritta del Po, alla Repubblica milanese rimarrebbero Como e Lodi, e quel che avanzasse tra l’Adda e il Ticino dell’antico principato dei Visconti. Il Senato di Venezia mostrò questa volta troppo allo scoperto quel ch’egli volesse; e il Conte, vincendolo d’accorgimento, facea le viste di acconsentire, lasciando anche i Veneziani impadronirsi di Crema, secondo era nel trattato: raccolte le genti a svernare in buoni alloggiamenti, lasciavasi aperti gli sbocchi a Milano dov’egli impediva l’entrata dei viveri. Dentro erano grandi le divisioni; alcuni nobili, ch’erano appellati ghibellini, volevano porre un governo temperato in mano allo Sforza, ma furono uccisi essi e poi lo stesso ambasciatore veneziano per sedizione. Allora una turba, che si chiamò popolo, invase il governo ma tenere non lo sapeva; e già la fame avendo condotti a disperazione i cittadini tumultuanti, fu ordinato deliberare in grande congrega sopra le sorti della città: gridarono tutti piuttosto al Gran Turco o al demonio che allo Sforza. Ma quando un Gaspare da Vimercate osò pronunziare questo nome che teneva da prima in serbo, e dimostrato non essere altro da fare, o altrimenti Milano sarebbe mancipio a Venezia; tutti consentirono. Il giorno dipoi, ch’era degli ultimi del febbraio 1450, sebbene avesse Ambrogio Trivulzio opposta invano qualche resistenza sulle porte, faceva lo Sforza entrare in Milano i suoi soldati carichi di pane che per le vie distribuivano: v’entrava egli stesso nei giorni seguenti, e tra feste e plausi dei satolli cittadini facea proclamarsi Duca di Milano.[371]

[297]

Capitolo III. AMICIZIA CON FRANCESCO SFORZA DUCA DI MILANO. — NUOVA BALÌA E NUOVO CATASTO. — VECCHIEZZA E MORTE DI COSIMO DE’ MEDICI. [AN. 1450-1464.]

In tutti i fatti che precederono troviamo, al dire degli storici e nelle memorie di quel tempo, Cosimo dei Medici avere tenuto con Francesco Sforza costante amicizia, ma nei Consigli della Repubblica non sempre palese, e quindi sospetta popolarmente o mal gradita. Quando poco innanzi la morte del duca Filippo Maria faceva lo Sforza deliberazione di soccorrerlo, rompendo la fede alla Repubblica di Venezia, racconta l’istoriografo di lui Giovanni Simonetta, che lo avesse molto esortato a quel partito Cosimo, al quale solea confidarsi delle cose più segrete, molto ascoltando i suoi consigli.[372] E già prima di quel tempo troviamo sussidi mandati allo Sforza, ma scarsi perchè difficili a vincere nelle pubbliche deliberazioni; talvolta dal Medici dati in segreto e privatamente, o con rivalse sul pubblico erario nel quale aveva egli le mani. Certo è, che tra due i quali intendevano a signoria personale era concordia necessaria; e colui che aveva attraversato in Firenze e infine distrutto un governo d’Ottimati, non potea molto essere amico alla Repubblica di Venezia: la quale in quegli anni avendo dismesso con l’arengo (arringo) sin’anche le ultime apparenze popolari, sdegnava l’antica appellazione di Comune, sè stessa chiamando la Signoria di Venezia, e tutto lo Stato a lei suddito, il dominio.[373] Queste erano cose che state sarebbero odiose in Firenze, e Cosimo andava per opposta via: ma oltre alla essenziale contrarietà del principio che informava il Governo suo, Venezia [298] con le armi invadeva quelle che avevano nome d’italiche libertà; nè termine si vedeva alle ambizioni di lei, siccome non era in quella perenne diuturnità di volere, la quale a Venezia non cessava mai per caso di morte o per mutazione di signore.

Per questo non voglio io a Cosimo fare colpa se Francesco Sforza gli parve essere utile contrappeso, atto a contenere in Lombardia la minaccia delle venete aggressioni. L’Italia oramai più non aveva nè guelfi amici e fautori delle popolari libertà, nè Papi nè Re di Puglia che a quelle si dicessero patroni; nè più all’incontro avea ghibellini che fossero braccio agl’Imperatori di Germania. Ma quante città o quanti popoli si tenessero tuttavia liberi, non più essendo tra loro amicati o non più divisi da un grande pensiero a molti comune, temevano l’uno dell’altro le forze, combattendo chiunque mirasse alla formazione di uno Stato che soggiogasse i piccoli e sopra tutti gli altri prevalesse. Di questo pareva che fosse capace sopra ad ogni altro Venezia: poi v’era Napoli, che per cento anni partita in sè stessa, ora alle mani di un Re forte ambiva conquiste nel cuore d’Italia; e già si erano vedute spuntare nei Papi le ambizioni principesche. In mezzo a questi Francesco Sforza, grande capitano, prudente signore, parea necessario a quell’equilibrio che allora formava la politica sapienza dei migliori uomini in Italia.

Affermano tutti, che a Neri Capponi spiacesse quel torsi dall’amicizia dei Veneziani e fare in Italia grande lo Sforza; questa opposizione di Neri ai consigli i quali prevalsero, accennata da Giovanni Cavalcanti,[374] veniva illustrata con amplie parole dal Machiavelli. Bene vedevano cotesti ultimi difensori d’una Repubblica temperata, quella essere piuttosto consorteria che amicizia, ed a Cosimo piacere come un aiuto a conseguire meno [299] impedita dominazione. Sappiamo che il buono Giannozzo Manetti stava ancor egli perchè si mantenesse l’antica lega coi Veneziani,[375] la quale non era nelle apparenze sciolta per anche; e la Repubblica di Firenze ad essi mandava dopo la rotta di Caravaggio due mila cavalli, che nulla fecero; ed è poi da dire, che subito dopo Venezia e il Conte si accordarono. E Neri, che avrebbe voluto salvare quanto più di libertà fosse possibile, accettava poi le condizioni che i tempi facevano: la forza sua era nella politica di fuori; dentro, al bisogno si arrendeva. Ricusò d’andare ambasciatore allo Sforza quando egli muoveva in aiuto di Filippo;[376] ma due anni dopo abbiamo da certi documenti essere egli stato fautore del dare sussidi al Conte contro ai Milanesi, in ciò accostandosi ai più stretti amici di Cosimo, sebbene degli altri il maggior numero si opponesse.[377]

Cosimo andava, quanto era in lui, diritto al segno: ma non è da credere che fosse egli padrone della Repubblica, dove i Consigli a voti liberi procedevano; e lo studio faticoso da lui adoperato a guadagnarseli non bastava sempre, o le pubbliche lagnanze lui facevano circospetto. Odiosissime riuscivano le prestanze [300] imposte a fine di somministrare danari allo Sforza insino da quando venivano dati perch’egli continuasse a tiranneggiare nella Marca; e molto più poi quando nell’anno 1447 si voltava questi alla difesa del Visconti, nemico antichissimo della Repubblica di Firenze. Troviamo gravezze fino a ventiquattro per volta, distribuite ad arbitrio dei ponitori: Cosimo anticipava sovente il danaro, rifacendosi sulle prestanze o sulle entrate della Repubblica. Lo Sforza chiedeva trentamila ducati per passare in Lombardia; i Veneziani si opponevano, e ne’ Consigli non si vinceva. Cosimo fece porre una legge perchè si riscuotessero i crediti arretrati del Comune, e i deputati a ciò avevano a collo i trentamila ducati che furono messi fuori da Cosimo rimasto padrone della riscossione; e le casse delle porte si andavano a vuotare in casa sua. Più tardi aveva egli imprestato all’amico suo cinquantamila fiorini; ottenne che fossero a lui donati dalla Repubblica, dicendo sarebbe quella chiesta il fine di tutte le chieste;[378] e siffatti modi più altre volte si ripetevano. Ma quando una legge era proposta d’immunità a chi tornasse e che venisse a stare in Firenze pagando quattro fiorini l’anno a testa, si oppose Cosimo, allegando che sarebbero tornati i fuorusciti nemici suoi; e quella legge, che pure a molti pareva buona, fu rigettata. Più che avanzava egli nell’arbitrio e più si rendeva odioso a molti: dicevano ch’egli si valeva del danaro per inalzare edifizi, o sotto pretesto di religiosa pietà o per sua propria magnificenza:[379] una notte gli fu imbrattato di sangue l’uscio di casa sua.

Per assicurarsi dello Stato, facevano sempre il Gonfaloniere a mano ed anche i Priori. Abbiamo un esempio dei modi tenuti allora in Palagio, che giova esporre [301] succintamente. Per gli ultimi due mesi dell’anno 1448 erano rimasti d’accordo che fosse Gonfaloniere Agnolo Acciaioli, uno dei primi del reggimento. Sapeasi volere egli promuovere dure cose d’esilii e d’altro; e Neri di Gino, ch’era uno degli accoppiatori, voleva il contrario. Mancavano soli due Priori a fare; disse Neri: «Io voglio esser io, o uno di chi mi possa fidare.» Fu eletto Pandolfo Pandolfini, giovane di grande animo. S’accozzava egli nel priorato con tre altri ch’erano dei migliori, i quali insieme segretamente, perchè i Priori molto erano vegliati, sagramentarono di non rendere mai le fave loro se non d’accordo. Una mattina il Gonfaloniere, fatta serrare la porta del Palagio, propose una legge, che niun partito valesse se il Gonfaloniere non fosse presente e non ci fosse il voto suo: Pandolfo si oppose, e perchè dei nove voti ce ne volevano sei a vincerlo, stando ferme le quattro fave giurate, lo impedivano. Vinto a caso, e approvato da’ Collegi, andò al Consiglio, e quivi i medesimi oprarono fosse imbiancato, sebbene il Gonfaloniere facesse più volte rimettere il partito. Ma non posarono gli autori di quel disegno, e praticavano che molti fossero confinati; diceano volere acconciare le cose in modo che non ci avessino più a pensare: del che era grandissima nella città la paura, e mandavano in Palagio a supplicare i quattro perchè tenessero il fermo: vi andava più volte il buon libraio Vespasiano da Bisticci, dal quale abbiamo questo ragguaglio; e dice che molti furono salvati allora, e che fu gran beneficio alla città recato dai quattro onesti Priori.[380] E vero è poi che per cosiffatte resistenze i cittadini tra loro non si nimicavano tanto da rompere quell’usata bonarietà di costume che non mai cessava nella città popolana. L’Acciaioli e Cosimo stesso rimasero amici al Pandolfini; [302] e si manteneva tra essi e Neri quella unione della quale fu riprova un fatto che abbiamo lasciato addietro, ma che ora giova un poco a minuto narrare, per indi tornare al filo dell’istoria nostra.

Ucciso Annibale Bentivoglio, ma rimasta vincitrice (come s’è detto) la parte sua, grande era in Bologna la devozione a quella Casa, della quale rimaneva solo un fanciullo di sei anni. Ora avvenne che trovandosi ivi Francesco che era stato Conte di Poppi, raccontava come venti anni prima Ercole Bentivogli zio d’Annibale, dimorando in Casentino, avesse avuto dimestichezza con la moglie d’un Agnolo da Cascese, dalla quale nacque un figlio di nome Santi, che tutti dicevano essere figlio d’Ercole, e la somiglianza ciò confermava; tantochè essendo ito a Bologna il fanciullo quando vi si riduceva il Conte di Poppi, Annibale gli aveva detto tu sei de’ nostri. Essendo poi Agnolo e la moglie sua venuti a morte, il fanciullo tornò a Firenze, dove esercitava l’arte della lana in una bottega nella quale Antonio da Cascese suo zio gli avea fatto un capitale di fiorini trecento e lo avea molto raccomandato a Neri Capponi. A questi ne fece le prime parole Agnolo Acciaioli un giorno mentre erano insieme a diporto, domandandogli se avesse egli bramato resuscitare, qualora gli fosse ciò stato possibile, Annibale Bentivoglio ch’era tanto amico suo. E pigliando Neri la cosa in motteggio, l’altro gli espose tutto il fatto, e gli disse come la parte bentivogliesca essendo rimasta senza capo, taluni in Bologna erano entrati in gran desiderio d’avere questo Santi perchè reggesse la parte, ed avesse cura del fanciullo sinchè non fosse in età. Rispose Neri ch’ell’era cosa molto da considerare sì rispetto al giovane e sì per sè stessa: ma essendo molti venuti a vedere Santi e accertatisi della somiglianza e guardandolo con affezione grande, consentiva Neri di farne motto a lui, che a prima giunta se ne turbò per la vergogna della madre. Ma i Bolognesi [303] facendo maggiori istanze, furono insieme Agnolo e Neri con Santi in casa di Cosimo dei Medici, il quale dopo altri ragionamenti disse al giovane: «Vedi, se tu sei figliolo d’Ercole, la natura ti tira in Bologna alle grandi cose; ma se tu sei figliolo d’Agnolo da Cascese, tu te ne starai in San Martino alla bottega: però io non ti conforto nè ti sconforto ad andare, ma dove ti tira l’animo; sarà quella vera sentenza di chi tu sia figliolo.» Soprassederono più mesi e aveano rimessa la cosa in Neri, il quale quanto più larghezza gli concedevano, tanto più sentendosi obbligato a dargli il consiglio fedele e migliore, tenea la sentenza sospesa. Ma infine essendo Neri per le ambasciate a Venezia passato più volte da Bologna, lo pressavano fino a dire che se il giovane venisse loro negato, lo toglierebbero per forza. Neri, accertatosi del loro buon animo, confortò Santi a commettersi alla fortuna e andare, dicendogli: «Io che sono in Firenze non dei minori e da dovermi contentare quanto niun altro cittadino, e anche ben voluto; se mi volessero in quel luogo non come figliolo d’Ercole ma come figliolo di Gino, io v’anderei ad essere loro partigiano e capo; perchè ivi si poteva dire d’avere a disporre a suo volere di quella città, la quale era una delle otto maggiori d’Italia; e a Firenze si aveva a pregare con grande umiltà a volere una piccola cosa non che una grande.» Mandarono quindi con grande onore a pigliarlo, e menatolo a Bologna con festa, lo misero in casa d’Annibale ed al governo della città, il quale poi tenne sino alla morte felicemente.[381]

Sì tosto come Francesco Sforza fu entrato al possesso dello Stato di Milano, la Repubblica di Firenze gli inviava quattro de’ suoi maggiori cittadini a rallegrarsi del grande acquisto: erano con Piero di Cosimo dei Medici Neri Capponi, Luca Pitti e Dietisalvi [304] di Nerone. Scambiate parole com’era usanza festive, e oltre all’usanza per quella volta sincere; gli altri tornandosene, Piero e Neri ebbero incarico di recarsi a Venezia. Quivi era di già residente Giannozzo Manetti, il quale sembrando in quelle congiunture troppo amorevole al Senato, parve bene mandare quei due che a lui s’aggiugnessero. Le apparenze di amistà che tuttavia si mantenevano tra le due Repubbliche covavano semi di forte dissidio per gli scambievoli malcontenti: Cosimo in Firenze antivedeva che bentosto tra’ Veneziani e il Duca sarebbe guerra, nella quale era egli risoluto di tenere la parte di questo; ed i Veneziani ciò sapendo, cercavano indurre i Fiorentini ad una lega con essi loro, tardi pentiti dell’averli prima col falso procedere da sè alienati e per quei modi avere lo Sforza fatto signore di Lombardia. La quale pratica molto essendo avviata con Giannozzo, e perchè a Firenze nel Palagio non si poteva ottenere che si rompesse, Cosimo scrisse al figlio privatamente, che senza indugio si partisse da Venezia:[382] Neri per l’usata circospezione e Giannozzo di mala voglia lo seguitarono, cominciando infin da quel giorno apertamente a dividersi le due Repubbliche, le quali intanto ciascuna per sè avevano fatta pace con Alfonso. Venezia stringeva con lui durevole amicizia; ma la pace coi Fiorentini non fu che tregua da essi accettata ad inique condizioni, rimanendo Alfonso in possesso di Castiglione della Pescaia che gli apriva per la via del mare l’entrata in Toscana, ed il Signore di Piombino facendosi a lui vassallo con dargli in segno d’omaggio ciaschedun anno una coppa d’oro.[383]

Veniva in Italia come a dislocarsi tutto l’ordine [305] delle alleanze tenute fin qui; e i singoli Stati, prima di entrare in guerra tra loro, s’adopravano a riconoscersi, continuo essendo per tutto quell’anno il vario muovere degli ambasciatori da un capo all’altro dell’Italia. Venezia, che s’era oltrechè ad Alfonso collegata al Duca di Savoia ed al Marchese di Monferrato, richiedeva di lega i Senesi: cercava in Bologna mutare lo Stato per una congiura scoppiata in città, e da Santi Bentivoglio compressa non senza combattere; egli mostrandosi degno del grado a cui lo ebbe per modi sì strani alzato il gioco della fortuna. Le quali pratiche essendo intese contro al Duca ed ai Fiorentini, questi da principio mandarono loro legati a Venezia, che ivi non furono ricevuti con la scusa del non potere i Veneziani alcuna cosa trattare senza il re Alfonso; e questi due avendo però mandati insieme legati loro alla Repubblica fiorentina a fare doglianze, alle quali Cosimo dei Medici ebbe incarico di fare risposta, parve da principio che niuna volesse delle due parti venire alle rotte. Ma tosto dipoi la Signoria Veneta ed il Re avendo arrestate negli Stati loro le mercanzie dei Fiorentini, e ciò nonostante mandato altri ambasciatori a Firenze, quelli di Venezia non furono ricevuti, e quelli d’Alfonso non vollero soli trattare; cessando così ogni pratica tra le due parti, le quali ordinate ciascuna in sè stessa, già si apprestavano alla guerra. E i Veneziani veniano a questa con tanta passione, ch’aveano richiesto il greco Imperatore d’arrestare anch’egli le mercanzie de’ Fiorentini; ma questo Principe ricusò macchiare gli estremi suoi giorni e quei dell’Impero col farsi ministro delle altrui passioni contro ad un popolo di Cristiani.[384]

Veniva in Firenze a’ 30 gennaio 1452 l’imperatore Federigo III di Casa d’Austria, che andava in Roma per essere ivi incoronato: avea prima chiesto alla [306] Repubblica il passo;[385] così erano i tempi mutati! I due primi Federighi recavano seco cento anni all’Italia di stragi e ruine, il terzo null’altro che le spese degli alloggi e dei solenni ricevimenti. Seco era Enea Silvio Piccolomini senese, e rispondeva alle arringhe come Cancelliere: grande e vario personaggio in quella età, ingegno del pari atto allo scrivere, al parlare, ed esercitato nel trattare le cose maggiori della Chiesa e degli Stati in Alemagna, dov’era egli lungamente dimorato; ora seguiva l’Imperatore, e in Siena congiunse lui con la sposa Eleonora di Portogallo arrivata in Livorno a’ 2 di febbraio, ed accompagnata con grande onore nel passare ch’ella faceva per la Toscana. Furono insieme a’ 15 marzo coronati in Roma dal pontefice Niccolò V; e indi nel maggio essendo tornato l’Imperatore in Firenze, ne partì subitamente per certo sospetto in lui venuto della Repubblica. Imperocchè egli traendo seco il giovine Ladislao, erede legittimo del regno d’Ungheria, lo custodiva col nome di tutela, negandosi darlo agli Ungheresi che ne facevano istanze grandissime. In Firenze erano ambasciatori di questa nazione, i quali chiedevano segretamente alla Signoria prestasse loro mano ad involare il giovanetto, la cui presenza tolto avrebbe di mano quel regno alla austriaca usurpazione: e sebbene per timore la Signoria ciò negasse, non ne fu chiaro l’Imperatore se non quando ebbe con sè in Alemagna il pupillo spossessato.[386] L’Imperatore questa volta nemmeno aveva chiesto danari alla città ed ai signori, com’era usanza dei predecessori suoi quando scendevano in Italia; ma vendeva per moneta titoli e gradi, tra’ quali a Borso Marchese d’Este quello di Duca di Modena e Reggio che dipendevano dall’Impero.

[307]

Il giorno stesso che l’Imperatore da Ferrara entrava sul territorio dei Veneziani intimavano questi la guerra al duca Francesco Sforza; ed Alfonso pochi giorni dopo ai Fiorentini, contro i quali veniva alle offese. Ferdinando suo figliolo naturale, e da lui fatto Duca di Calabria, poneva l’assedio al castello di Foiano in Val di Chiana: dugento soldati che vi stavano per la Repubblica bastarono quivi a ritenere l’esercito regio prima che il castello s’arrendesse. Di là Ferdinando accostandosi al confine dei Senesi nel Chianti espugnava Rencine, e tentato Brolio fortezza dei Ricasoli e da quella ributtato, s’accampò intorno la Castellina, dove stette più tempo, ma per difetto di artiglierie gli fu impossibile ottenerla. Scorreva le campagne fin presso a Firenze, facendovi danni grandissimi; e intanto all’esercito dei Fiorentini, condotto dal signore di Faenza Astorre Manfredi, bastava tenersi sulle difese; e passava il verno, dopo il quale avendo il duca Francesco mandato in Toscana con due mila cavalli Alessandro Sforza suo fratello, con le armi congiunte i due Capitani recuperarono le terre perdute e costrinsero l’armata regia ad abbandonare il forte di Vada che aveano in quel mezzo dal mare assalito, e per l’invalida resistenza preso: tale ebbe successo l’impresa d’Alfonso contro alla Repubblica di Firenze. Quivi era discorso, in quella caldezza di successi fortunati, di muovere guerra contro ai Senesi, parendo essi non aver fatto in quei pericoli buon vicinato alla Repubblica; ma Cosimo e Neri, apposta chiamato da Pistoia dove risedeva Capitano, mostrarono come ad Alfonso non potrebbe farsi maggior piacere che dargli in mano a questo modo necessariamente lo Stato di Siena. Così fu sventato il mal consiglio; e la Repubblica frattanto faceva un acquisto dov’era a’ suoi danni macchinato un tradimento. La Contea di Bagno tenevasi allora da Gherardo Gambacorti, data in compenso (come vedemmo) al padre suo della cessione di Pisa; ed a [308] Gherardo piacendo meglio possederla come feudo dell’Aragonese, aveva egli trattato con lui; ma scoperto, mandava il figlio ostaggio in Firenze: e pur nonostante avrebbe fatto entrare nella terra le armi del Re, se un Antonio Gualandi pisano che vi stava dentro, con pari fede e risolutezza chiudendo la porta in faccia a’ soldati ch’entravano, non avesse conservato alla Repubblica tutto quel territorio, ch’essa poi tenne in vicariato, privati avendone per sempre allora i Gambacorti.

E in Lombardia la guerra tra quei due possenti nemici non venne a produrre che piccoli effetti, perchè lo Sforza la conduceva con intendimenti di principe e non più oramai di condottiero; cosicchè avendo per grave rotta costretto il Marchese di Monferrato a chieder pace, ed egli passata l’Adda minacciando Bergamo e Brescia dov’erano in grande forza i Veneziani, trascorse il tempo del combattere senza che alcuna delle due parti cercasse venire a giornata per tutto quell’anno. Ma perchè gli apparecchi fatti contro a’ Veneziani non pareano essere sufficenti, essi tenendo ai soldi loro la miglior parte dei condottieri; la Repubblica di Firenze, a cui toccavano le prime parti dov’era spesa, avea mandato già l’anno innanzi in Francia Agnolo Acciaioli chiedendo a quel Re passasse in Italia, egli erede di Carlo Magno che aveva riedificato Firenze, e naturale principe e capo della parte guelfa, recando con sè quindici mila cavalli almeno: le parole erano umilissime, grandi gli ossequi e le supplicazioni.[387] [309] Aveva la Repubblica Fiorentina chiamato in Italia gli stranieri più altre volte, e questa pure inutilmente: l’ora s’appressava, ma giunta non era, che i monarchi rispondessero condegnamente a quegli inviti; già si allestivano, ma per anche non credeano essere bene in punto. Carlo VII, impegnato contro gli Inglesi a Bordeaux, non venne in Italia; concesse però che vi scendesse un’altra volta con due mila quattrocento cavalli Renato d’Angiò, perch’era guerra contro all’Aragonese, e quegli cercava sempre se vi fosse modo a farsi una via nel Regno di Napoli. Ma il passo gli era conteso per le Alpi dal Duca di Savoia; laonde Renato con pochi eletti per la via del mare scese a Ventimiglia, e quindi il Delfino di Francia, che poi fu il re Luigi XI, ottenne che il Duca lasciasse calare in Lombardia le altre genti. Qui la guerra da principio fu impetuosa, ma non fruttava che il racquisto di pochi castelli del Cremonese e di Pontevico di là dall’Adda: giunse l’inverno, e tutti si ritrassero nei quartieri. A primavera sperava il Duca e disegnava maggiori imprese, quando gli giunse avviso che Renato voleva ad ogni modo tornare in Francia, nè istanze bastarono: rimase in Italia la sua bandiera con poche genti e col figlio di lui Giovanni, che si faceva anch’egli appellare Duca di Calabria; questi ponea lunga dimora in Firenze.

Ma ecco venire d’Oriente novella per la quale gli animi di tutti restarono come incantati dal terrore: Maometto II Sultano dei Turchi aveva per assalto ferocissimo espugnata Costantinopoli: morto era nella difesa l’ultimo degl’Imperatori bizantini, venuto a fine l’Impero greco ultimo avanzo dell’antico mondo e nell’Asia conservatore del nome cristiano e d’ogni intesa con l’occidente. Pareano all’annunzio per tutta Italia cadere ai soldati di mano le armi; si rimproveravano tra loro le stolte guerre, si vergognavano d’avere per basse e scellerate cupidigie aperta al barbaro invasore la porta d’Europa: chi era più abile a fermarlo? Il [310] pontefice Niccolò V, che mai non aveva cessato d’intromettersi per la pace d’Italia, fece venissero in Roma commissari di tutti gli Stati che aveano parte in quella guerra: molto fu discusso e nulla conchiuso, perchè ciascuno metteva innanzi per suo proprio conto esorbitanti ed impossibili pretensioni. Alle quali si contrapponeva freddamente il Papa stesso: voleva pace negli Stati della Chiesa per alleviare i carichi e attendere agli edifici, i quali erano sua prima cura; ma ricordando i tempi passati, temeva la quiete d’Italia non fosse a lui turbazione, tirandogli addosso qualche affamato condottiero, o qualche Principe ambizioso.[388] A questo modo mentre che in Roma si perdeva il tempo, il Duca e il Senato per mezzo d’un Frate trattavano insieme, ed un accordo fu stipulato in Lodi a’ 5 dell’aprile 1454 tra’ due principali contendenti, al quale tutti gli altri erano invitati di consentire. Lasciava al solito le cose com’erano al principio della guerra; ma Castiglione della Pescaia dovendo restare in possessione del re Alfonso, i Fiorentini non vi aderirono se non dopo molte consultazioni,[389] e perchè il Duca a ciò gli costrinse; Cosimo tenendosi malcontento dell’amicizia di questo, che nulla gli aveva fruttato che odio e carichi, dove sperato si aveva l’acquisto di Lucca a lui promesso, come dicevano, dallo Sforza in pagamento di quei danari, che gli erano stati tante volte necessari a conseguire il principato. Il re Alfonso indugiò più mesi prima che ratificasse la pace;[390] nè a quella si tenne poi fermo, sempre ambizioso com’egli era di cose maggiori: al quale fine aveva escluso dal comune accordo i Genovesi ed il Signore di Rimini e quel di [311] Faenza, serbandosi appiglio, quando che fosse, a nuove imprese.[391]

Avvenne che essendo per la pace licenziato dai Veneziani Iacopo Piccinino, si udisse costui insieme con altri capitani senza soldo, essere entrato nella Romagna, dubbiosa minaccia agli Stati confinanti. Il tempo era scorso che i grandi condottieri per proprio loro conto muovessero guerra, tenuti essendo in maggiore suggezione da quei potentati d’Italia che s’erano in sè medesimi rinforzati. Iacopo, com’era solo condottiero che rimanesse di quei lignaggi vissuti di preda, così fu l’ultimo che tentasse di quelle fortune; ed anche non lo fece di proprio suo moto, ma sibbene per istigazione, secondo appare, del re Alfonso. Imperocchè essendo Iacopo entrato in quel di Siena e fattovi danni, all’avviarsi di soldati dei Fiorentini e del Papa e del Duca di Milano, ritiratosi in Castiglione della Pescaia, passò nel Reame, e fu ivi bene ricevuto. Innanzi era morto il pontefice Niccolò V: di lui non abbiamo avuto fatti da registrare sia politici sia guerreschi, ma quel silenzio dell’istoria gli è lode grandissima, e le arti e le lettere lui ricordano munificentissimo tra gli altri Principi: lo squallore di Roma e quasi la solitudine per la dimora dei Papi in Avignone e per lo scisma e pei governi travagliosi ch’avevano avuto Martino ed Eugenio, veniano a mutare in giorni più floridi, e molti edifizi allora intrapresi e la Biblioteca Vaticana da lui cominciata, renderono splendido e benemerito il nome di Niccolò V.[392] A lui successe Callisto III spagnuolo, [312] donde ebbero l’Italia e la Chiesa dono funesto la Casa Borgia. Veniano a scuoprirsi in questo frattempo le intenzioni d’Alfonso, il quale muoveva con grandi forze contro ai Genovesi, e allora il doge Pietro Fregoso cedeva l’impero di quella città al Re di Francia, che a pigliarne la possessione mandava Giovanni d’Angiò partitosi non molto prima da Firenze; a cui la Repubblica aveva donato, oltre ai danari della condotta, venti mila fiorini d’oro e novanta libbre d’argento lavorato in vasellamenti di bell’artificio. Le quali mosse all’Italia furono principio di altre perturbazioni, sebbene a mezzo di quell’anno 1458 il re Alfonso venisse a morte: a lui fu dato soprannome di Magnanimo; e generoso era, esercitato nelle armi di terra e di mare, magnifico in ogni suo fatto, e grande promotore delle lettere e degli uomini letterati.[393]

Ora è da dire quale fosse in questi tempi l’interno stato della Repubblica. In mezzo alla guerra, l’anno 1453 una Balìa nuova era stata presa fuor di tempo e rinnuovata poi l’anno dopo, quando scadeva il quinquennio: avea facoltà oltre all’usato amplissime, e queste adoprava più che altro nel porre gravezze soprammodo esorbitanti, essendo le spese allora grandissime: la guerra di fuori costava settantamila ducati al mese.[394] Trovo di seguito due gravezze poste, che una di cinquecento ottanta migliaia di fiorini e l’altra di trecento sessanta; cinquanta mila erano imposti ai non sopportanti, a quelli cioè che di regola doveano andarne esenti, e gli ecclesiastici ne furono anch’essi gravati: pei tanti carichi dello Stato erano i danari del Monte caduti al venti per cento.[395] Norma all’imporre, l’arbitrio solo: e questa era un’arme in mano di Cosimo che percuoteva con le gravezze chi avverso gli fosse, e con le supplicazioni per gli sgravi faceva [313] a sè molti dipendenti; tanto che andare con lui (che appellavano avere lo Stato) importava essere leggermente tocchi; e gli altri invece erano disfatti. La Casa dei Pazzi, ricchissima d’averi ma per le gravezze malconcia, si rilevò quando pel parentado co’ Medici entrava nel numero anch’essa delle Case favorite.[396]

Troviamo che nei primi venti anni della dominazione repubblicana di Casa Medici, settantasette case di Firenze pagarono, di straordinarii, imposti ad arbitrio, quattro milioni ottocento settantacinque mila fiorini. Un solo cittadino de’ più reputati ma non dei più ricchi, Giannozzo Manetti, venuto in sospetto o in uggia a Cosimo, pagò in più tempi sino a centotrentacinque mila fiorini d’oro, avendo dovuto per una paga vendere a dieci e un quarto una parte de’ suoi crediti sul Monte, che a lui costavano cento. Imperocchè avevano a lui posta una gravezza di centosessantasei volte la rata che a lui per l’estimo veniva assegnata, e che formava l’unità d’imposta; doveva pagarne tre per ogni mese. E qui noi vogliamo narrare le sorti di un tale cittadino.[397] Aveva egli fatto rimprovero al Medici dell’essere stato autore primo della rottura con la Repubblica di Venezia, e tra essi due era mal’animo. Due anni dopo, Giannozzo essendo legato in Roma, dove il papa Niccolò cercava pace fra tutti, e Pasquale Malipiero ambasciatore veneziano studiavasi indurre a questa i Fiorentini, si lasciò il Manetti andare a vistose intelligenze col veneziano, per le quali si rendeva egli sospetto o inviso del tutto ai Reggitori; onde questi con le prestanze cercarono di fare che ruinasse la sua fortuna, stata assai prospera fino allora. Talchè [314] Giannozzo deliberava ricoverarsi appresso al Papa, che lui tenendo in grande stima, gli diede ufficio e provvigione. Poteansi in Firenze acconciare le faccende sue quando egli volesse farsi a Cosimo tutto dipendente; e questi, a proposito della gravezza, gli aveva fatto dire, non essere quella infermità mortale; così volendo Giannozzo intendesse il modo d’uscirne. Ma nè questi volle così abbassarsi; e Luca Pitti, che fu autore della gravezza, in quelle cose tirava innanzi senza misericordia. Tanto che in Roma gli fu mandato ordine d’appresentarsi a un termine dato, senza che sarebbe chiarito ribelle: Giannozzo si stava dubbioso, ma il Papa lo sovvenne pure questa volta con dargli lettere credenziali di suo oratore, da presentare al bisogno. Cosimo aveagli data promessa di un salvacondotto, che poi gli mancò; ed era Giannozzo in Firenze timoroso,[398] quando per la discesa in Toscana del Duca di Calabria dovendosi fare i Dieci di guerra, Giannozzo fu eletto tra gli altri con grande numero di voti. Null’altro dipinge come questo fatto sì al vivo lo stato di vacillamento tra libera e serva, nel quale vivevasi allora la Repubblica di Firenze. Ed egli condusse quell’ufficio a termine felicemente; ma indi parendogli di stare in patria troppo male, tornò in Roma, dove ebbe buono ed onorato collocamento. Poi quando il papa Niccolò fu morto, cercato dal re Alfonso, andò a Napoli; quivi dimorando infino al termine della vita.[399]

[315]

Durante la guerra, la Signoria ed i Collegi si facevano sempre a mano; ma quella finita, ricominciarono ad essere tratti a sorte, con grande allegrezza dei cittadini: bene un cronista però scriveva, durerà poco.[400] Intanto molti animi si erano sollevati come a un ritorno di libertà; e non mancava tra gli stessi amici di Cosimo chi disegnasse valersi di quella larghezza per abbassarlo, e poichè vecchio egli era e infermiccio, fondare sotto all’ombra sua, ed usando il nome di lui, una sorta di governo d’ottimati, che fu continuo e sempre vano desiderio dei principali nella città. Ma questo allora essi potevano meno che in altro tempo mai, perchè erano pochi, e alcuni di essi uomini nuovi, gli antichi essendo in gran parte fuorusciti, ed i rimasti, pregiudicati col farsi ligi ad un uomo solo, senza del quale sentivano essere come allo scoperto, esposti all’odio di quei tanti ch’aveano offesi. Tutta la forza di quello Stato era dunque nella persona sola di Cosimo, sì pel grande seguito ch’egli aveva già nel popolo, e sì per l’essersi obbligati gli uomini più ragguardevoli col sovvenirgli profusamente, ed anche non chiesto, in ogni loro bisogno; tanto che può dirsi, pochi essere allora nella città di Firenze che a lui non fossero debitori; ed egli, pazientissimo creditore, nè sorte ripeteva nè interessi: altri poi erano fatti partecipi dei guadagni che dava a lui la mercatura, create avendo per questo modo Case ricchissime i Sassetti, i Portinari, i Benci, i Tornabuoni. Così lasciava [316] egli correre innanzi quei disegni senza pigliarne paura; ed aspettava, tenendosi in disparte, che a lui ritornassero coloro che avevano bisogno di lui più ch’egli di loro, e i quali a quel solo barlume di libertà vedevano a sè scemare il credito, e negli uffici entrare uomini che impedivano a loro i soprusi della padronanza e in molte cose gli soverchiavano.

Quindi era pensiero di taluni dei più confidenti, che fosse allora venuto il tempo di ripigliare lo Stato e con la forza assicurarselo. Piaceva a Cosimo l’indugiare, siccome colui che non temendo per sè, godeva nell’abbassare quei presontuosi, lasciandogli, come suol dirsi, frollare sino a che non fossero costretti gettarsegli in grembo. Già fino da quando ritornato dall’esilio dava egli principio e fondamento alla potenza sua, vedeva essere in Firenze molti grandi cittadini a lui amici e stati cagione che fosse egli rivocato; i quali tenendosi a lui come eguali, gli era necessità temporeggiare con loro, a fine di potersegli mantenere, mostrando volere che essi potessero quanto lui. Cotesta fu opera di grande fatica, ed usò fina arte a cuoprire l’autorità sua; il che gli serviva anche a fuggire l’invidia col dare apparenza che le cose che egli voleva procedessero da altri e non da lui proprio, che infino all’ultimo gli fu grande mezzo a conservarsi. E ad uno di coloro i quali vedeva andare in cerca di grandezze pericolose quanto più erano appariscenti, disse una volta: «Voi andate drieto a cose infinite, e io alle finite; voi ponete le scale vostre in cielo, e io le pongo rasente la terra per non volare tant’alto che io caggia.[401]» Parole che danno ragione di tutta la vita e dei modi tenuti da Cosimo per farsi capo della Repubblica.

Intanto che visse il re Alfonso, anche il sospetto di lui sconsigliava dal rimescolare la città con dei partiti [317] sempre dubbiosi. Ai quali era avverso Neri Capponi, e faceva argine ai più arrischiati; Cosimo stesso vivente, Neri stava in rispetto. Sapeva essere in lui congiunta con la potenza la grazia, avendo egli amici più che partigiani[402] (qui uso parole bene appropriate del Machiavelli); ma pure badando non si alzasse troppo, a lui opponeva nei Consigli Luca Pitti, ch’era uomo da fargli fare ogni cosa; fervente partigiano fra tutti in Firenze, ma non di tale cervello che molto dovesse Cosimo di lui temere.[403] Così tutto l’anno 1457 duravano quelle medesime condizioni; sul fine del quale Neri Capponi venne a morte, e allora la parte Medicea non ebbe più amici che alle peggiori opere si contrapponessero: Neri avea goduto l’antica Repubblica, e verso quella inclinava sempre.

Poco prima era stata denunziata una congiura ordita da un Ricci, di quella famiglia che avendo spianata la strada ai Medici, ne fu messa fuori: v’era un Adimari ed un Valori, altri erano stati nella tortura nominati falsamente dal Ricci, ch’ebbe il capo mozzo e il denunziatore fu premiato. Un medico, Giovanni da Montecatini, il quale insegnava con ostinata pubblicità che l’anima dovesse morire col corpo, nè mai volle cedere ad ammonizioni, fu impiccato e poscia arso.[404] La peste in quegli anni si era più volte raffacciata, e vi ebbero calamità di terremoti e piene d’Arno. Più spaventoso e strano accidente devastò non piccola parte di Toscana la mattina de’ 24 agosto 1456. Dalle parti di Valdelsa di là da Lucardo cominciò sull’alba ad apparire un folto ammasso di nuvoli che si stendevano per la larghezza d’un terzo di miglio; procedendo per [318] San Casciano, vennero giù nel Piano di Ripoli, e passato Arno verso Settignano e Vincigliata, poco più in là mancarono, andatisi tra quelle alture a consumare: avevano percorso circa venti miglia. Quei nuvoli erano nerissimi e bassi a poche braccia da terra; s’urtavano tra loro a modo di zuffa con grande rumore, e spaventevole era la forza del vento che da quelli usciva; baleni spessi, pochi tuoni e piccoli, rada gragnuola ma grossa; vapori e nuova specie di saette, che nella tempesta varia, incessante, male si discernevano. Si trovarono alberi grossissimi portati lungi dalle radici loro, muraglie rotte e pel cozzare de’ venti cadute a pezzi ed in più versi, tetti portati via di netto d’insopra i muri e andatisi a sfasciare a terra discosto; uomini levati in aria e gettati lontano più braccia. Fu gran ventura quello sterminio non traversasse che luoghi dov’erano rade le case e le popolazioni; ciononostante fu il danno grandissimo, il suolo era ingombro di sparse ruine.[405]

Venuto l’anno 1458 fu rinnuovato il Catasto; e ciò fu per opera di quei cittadini i quali intendevano ad allargare lo Stato, imperocchè gli altri temevano sopra ogni altra cosa quella rinnovazione, la quale avrebbe ad essi tolto l’ingiusto favore ed i vantaggi di cui godevano e i modi più usati ad opprimere i contrari.[406] Nuove ricchezze erano sorte dopo il 34, che ora il Catasto veniva a percuotere; gli acquisti di terre non potevano nascondere, ma i capitali messi in su’ traffici, sempre a conoscere malagevoli, faceano sparire con l’alterazione dei libri palesi tenendo poi altre segrete scritture. Talchè le denunzie menzognere non si potendo correggere, e oltre ciò parendo che l’obbligazione di mostrare i libri nuocesse al credito dei commercianti ed offendesse la libertà loro, si tornò al modo delle [319] tassazioni; dove perchè necessariamente regnava l’arbitrio, si facevano composizioni ma disuguali, e guardando sempre alla qualità delle persone ed al favore di cui godevano. Però è da dire che il proemio della legge del nuovo Catasto e le minute avvertenze quanto ai defalchi ed agli sgravi, oltre al mostrare grande perizia nella materia delle tasse, mantenevano a favore dei poveri e degli innocui ed umili cittadini quella benignità, dalla quale meno ancora d’ogni altro governo voleano i Medici dipartirsi.[407]

Da tutto ciò appare fuor d’ogni dubbio, che nei primi mesi di quell’anno la parte dei molti impedisse quella che sempre cercava di ristringere in pochi lo Stato. A tal segno che un Matteo Bartoli Gonfaloniere, volendo co’ voti fare decretare una Balìa, non che essergli ciò acconsentito dai suoi compagni nella Signoria, fu anzi schernito da loro; e costretto essendo tornarsene a casa, uscì partito per cui volevasi al tutto rendere impossibili nell’avvenire tali disegni. Imperocchè fu vietato il fare Balìa se tra’ Signori e nei Collegi non fosse il partito vinto con tutte le fave nere, e poi non passasse di mano in mano nei Consigli del Popolo e del Comune e per ultimo in quello del Dugento, sottomettendo a gravi pene il Proposto ed i Signori che a questa legge contravvenissero.[408] Ciò accadde nei mesi di marzo e d’aprile: il primo di luglio entrava per la terza volta Gonfaloniere Luca Pitti, uomo del quale non è da dire se a lui più che agli altri spiacesse il Catasto, e s’egli inclinasse ai modi violenti. Pare la legge posta due mesi innanzi non gli desse grande ombra, perchè senza venire a Parlamento, cercò d’ottenere per via dei Consigli che s’ardessero le borse e che si tornasse al fare a mano la Signoria, ch’era la somma d’ogni cosa: ma fu impossibile a lui di vincere quella pratica, massimamente perchè da pochi anni essendosi messa usanza [320] di dare i partiti a voti coperti, si davano questi con meno paura. Ed un Girolamo Machiavelli con parole franche denunziò quella ch’egli usò chiamare tirannia dei pochi; per il che fu preso, e richiesto nei tormenti chi avesse partecipi di tale ardimento: denunziò due altri cittadini, i quali ebbero anch’essi la corda. Il Machiavelli dipoi confinato e per l’Italia cercando muovere nemici contro alla Repubblica, fu per inganno dei Marchesi di Lunigiana condotto in Firenze, dove tormentato un’altra volta, e stato cagione di altre condanne, moriva nel carcere.

Ma intanto a Luca Pitti era sembrato che senza rispetti si dovesse fare Parlamento, e Cosimo stesso giudicò che fosse allora il tempo venuto da non lasciare più innanzi le cose trascorrere. Inoltre era Luca tanto volonteroso di pigliare sopra di sè tutta l’odiosità del fatto, quanto era Cosimo di scansarla; bastava lasciarlo fare, ed era Cosimo vecchio maestro nel procurare che altri muovesse le cose da lui volute, o spartirne con molti l’invidia. Fu suonato a Parlamento, e avendo empiuta la piazza d’armati,[409] ed ai Signori ed a circa trecentocinquanta altri cittadini data amplissima balìa di riformare lo Stato, senza che alcun rumore ne seguisse, venne ciascuno alle sue case rimandato. Quella Balìa rifece gli accoppiatori da durare sette anni, dai quali venisse la Signoria scelta; rendè permanente l’ufficio degli Otto di balìa; non pochi cittadini confinava, molti privò degli uffici, essi e i discendenti loro; ai confinati dopo il 34 prolungò i confini d’altri venticinque anni più in là del termine allora posto, o gli dichiarò ribelli, cosicchè per undici case durasse il bando fino all’anno 1499: un Barbadori ed un Guadagni con alcuni altri furono indi per sentenza del Capitano decapitati.[410]

[321]

Già insino dall’altra Balìa, ch’era stata nell’anno 1453, fu nelle esterne apparenze rialzata la dignità della Signoria, essendosi ordinato che il Gonfaloniere avesse la mano sul Potestà, che era in antico depositario della potestà sovrana, come abbiamo più volte mostrato, e che oggi non era più altro che un giudice fatto venire a breve tempo di fuori; come non era il Capitano più altro che il capo dei soldati di Palazzo, e l’Esecutore degli ordini di Giustizia ridotto alla bassa condizione di Bargello. Mutarono in seguito la forma dei giudizi, eleggendo al Palagio del Potestà per le cause civili quattro dottori con salario di trecento fiorini, e altri due al Palagio del Capitano per le appellazioni; ed un Notaio forestiero con quaranta fanti per l’esecuzione delle condanne proferite dagli Otto di balìa.[411] Misero innanzi nelle cerimonie anche il Proposto, quello cioè che di tre in tre giorni presiedeva la Signoria avendo la prerogativa delle cose da deliberare: e ordinarono che il Pennone dello Stato, il quale prima dal Potestà si consegnava al nuovo eletto Gonfaloniere, gli fosse dato da quello che usciva. Inoltre fecero che alla Signoria precedessero dodici mazzieri con mazze d’argento; rifornirono più riccamente il Palagio di vasellami e d’arazzi, vollero sgombrato d’ogni impedimento il cortile e anche la Piazza dei Signori. Ai quali mutarono titolo, e dove prima si appellavano Priori delle Arti, perchè a tempo della istituzione della Signoria le Arti contavano ogni cosa; ora decretarono che si chiamassero Priori di Libertà, perchè avendo di questa la realtà distrutta, almanco il nome ne rimanesse. Comandarono che fossero murate case dove il popolo avesse da abitare comodamente, poichè per la grande moltitudine e per l’assai murare di belle e grandi case dagli uomini nobili e potenti, pativa il popolo disagio di abitazioni.[412] Aveano mandato, in quei giorni che vigeva [322] la Balìa, dieci galere tra in Inghilterra e in Barberia ed a Costantinopoli con mercanzie; le quali tornate prosperamente, vantaggiarono il Comune di sopra a cento mila fiorini, con letizia della città.

L’autore di queste cose, Luca Pitti, fu dalla Signoria e da Cosimo e da grande numero di cittadini riccamente presentato;[413] tanto che è fama che i presenti aggiugnessero alla somma di ventimila ducati. Cuoprivano, egli l’ingordigia, e i donatori la viltà, col nome di pubblica gratitudine pei beneficii da lui recati alla città, della quale parea Luca essere divenuto principe in luogo di Cosimo; questi ritenuto per la infermità in casa, e quegli riverito, accompagnato, cedutogli nelle radunanze il primo luogo: fu poi con insolita solennità fatto dal popolo cavaliere.[414] Onde egli venuto in molta superbia inalzava due molto grandiosi edifizi, che l’uno a Rusciano vicino un miglio, e l’altro dentro alla città stessa; palagio che soverchiava quello stesso eretto da Cosimo, avendo il Pitti dato il nome a quella che poi fu abitazione principesca. Per condurre a fine il quale edifizio, Luca non perdonando a modo alcuno straordinario, venia sovvenuto delle cose necessarie non che dai privati ma dai popoli e dai comuni; ed ogni persona sbandita o che temesse giustizia, purchè fusse utile a quella edificazione, dentro sicuro si rifuggiva.[415] Gli altri dello Stato non erano meno violenti e rapaci: la quiete pubblica nascondeva offese private ed ingiustizie d’ogni sorta.

Morto il re Alfonso, come si è detto, Ferrando suo figlio aveva dubbiosa la possessione del Reame, in Genova essendo il suo rivale Giovanni d’Angiò con le armi francesi, e il papa Callisto, sebbene in addietro [323] fosse stato ministro d’Alfonso, mostrando intenzioni a lui ostili fino a privarlo, come dicevasi, del Reame. Ma Callisto venne a morte dopo soli tre anni di regno, e vecchio già era, e stando in letto la maggior parte del tempo agitava di questi disegni; intantochè per lettere e per legati dava gran voce di guerra contro al Turco per salvazione della Cristianità. Gli succedeva, col nome di Pio II, Enea Silvio Piccolomini, il quale alla sola Crociata intendendo con tutto l’animo e le forze sue, dava a Ferdinando l’investitura del reame di Puglia. Al quale però muoveva guerra Giovanni d’Angiò, che dopo avere con l’aiuto dei principali Baroni quasi occupato tutto il Reame, ne fu cacciato: ed anche Genova in quel tempo gli era caduta di mano, tolta a lui da quei medesimi che ve lo avevano messo; e il Duca di Milano avendo mandato le genti sue a quella impresa, ne ottenne quindi la signoria. I Fiorentini, ricercati dall’Aragonese per la nuova lega, e dall’Angiovino per la secolare inclinazione che essi ebbero a Casa di Francia, rimasero in quella guerra neutrali. Ma queste cose vennero dopo.

Era nell’aprile del 1459 venuto a Firenze il pontefice Pio II recandosi a Mantova, dove egli aveva convocato grande assemblea dei Principi cristiani per la comune difesa contro alla invasione dei Turchi. Si trovarono insieme a Firenze, oltre a Giovanni Galeazzo figlio primogenito del duca Francesco, i Signori di Rimini e di Carpi e di Forlì: portavano questi la sedia del Papa nell’entrata solennissima ch’egli faceva in Firenze. A onore dei quali, e per aggradire al giovinetto Sforza che non arrivava ai diciassette anni, si fecero balli e giostre molto ricche ed una caccia sulla piazza di Santa Croce, dove furono condotti, oltre ai leoni che la Repubblica soleva nutrire, lupi e cinghiali e fiere da mandria: e si portò a mostra una giraffa, nuovo animale in quella età. Cosimo de’ Medici ospitava regalmente il figlio dell’amico suo, dandogli feste [324] e mascherate, nelle quali apparve il nipote di lui Lorenzo, che appena toccava l’undecimo anno, vestito a foggia di non so quale divinità.[416]

Mentre il Papa era in Firenze e la città in festa, moriva qui il santo e dotto Arcivescovo Antonio Pierozzi, al quale perchè era di statura piccola rimase il nome di Antonino. Modesto, rigido a sè stesso,[417] largo nelle opere di carità cittadina e negli esempi virtuosi, assiduo in comporre libri di morale disciplina massimamente per la istruzione degli ecclesiastici, lasciava anche una Cronaca de’ suoi tempi messa insieme la maggior parte da libri che oggi corrono a stampa. Severo ai potenti, non fu ai Medici troppo amico:[418] fondava una pia Congregazione per sovvenire ai poveri vergognosi, detta di San Martino; dei quali era il numero grandissimo allora per le confische e per le spogliazioni ch’avevano ridotto alla ultima miseria famiglie usate all’opulenza.[419] Con alto pensiero volendo che pura si mantenesse quella istituzione, vietava ad essa il possedere o terre o altro fondo qualsiasi, ordinando fosse in tempo brevissimo venduto e speso in elemosine tutto il capitale, comunque grosso, di ogni lascito che fosse fatto alla Congregazione: la quale mantiene [325] quella saggia regola, e vive tuttora dopo quattrocento anni, senza che i mezzi mai le mancassero alle buone opere, libera e monda per tale modo da ogni carico d’amministrazione.

Intanto Maometto, vittorioso per terra e per mare, avea conquistato sul Danubio tutte le provincie del caduto Impero, e contro ai Veneziani la Grecia e le Isole, quivi spegnendo i principati che rimanevano dei Latini: tra’ quali Francesco Acciaioli ultimo Duca d’Atene periva strozzato per la crudeltà di Maometto. La virtù maravigliosa di Giorgio Castrioto, soprannominato Scanderbeg, sola teneva lontani i Turchi dalle spiaggie dell’Adriatico: in Europa niuno si mosse alle sollecitazioni del Papa, ma questi di nuovo nell’anno 1464 chiamava in Ancona non più i Principi a congresso, ma le forze tutte della cristianità; egli stesso deliberato salire sulle navi e porsi a capo, vecchio ed infermo com’egli era, di tanto gloriosa e santa impresa. Cosimo dei Medici quando diceva motteggiando che il Papa era vecchio e volea fare impresa da giovane, mi pare aderisse troppo alla dottrina mercantile dell’utilità. I Veneziani, nemmeno essi molto credevano a quella impresa; ma pure il vecchio loro doge Cristoforo Moro, fu anch’egli costretto dal pubblico grido recarsi in Ancona.[420] Quivi il Papa spossato moriva, ogni apparecchio di guerra essendosi per quella morte disciolto; ma egli chiudendo con isplendore quella sua vita affaccendata, e in tanta bassezza di cose cercando rialzare quanto era in lui l’Italia e la sedia pontificale.[421]

[326]

Il 1 d’agosto 1464 Cosimo de’ Medici, consunto da lunghe infermità e vecchio di settantacinque anni, moriva in Careggi. Pochi mesi prima aveva sepolto il minore suo figlio Giovanni, ed innanzi un bambinello che avea questi avuto dalla Ginevra degli Alessandri. Rimaneva Piero con due figli, Lorenzo e Giuliano, entrati appena nell’adolescenza; e il padre soleva fidare in Giovanni più che non facesse in Piero, impedito molto dalle gotte, da cui lo stesso Cosimo era stato più anni afflitto. Questi negli ultimi mesi della vita facendosi portare per casa, dicea sospirando ch’ella era troppo gran casa per così poca famiglia. Lasciò anche un figlio naturale, Carlo, che divenne cherico e fu Proposto di Prato. Lorenzo, fratello minore di Cosimo, era morto nell’anno 1440; e i discendenti di lui continuati con poca celebrità finchè durava il lignaggio primogenito, montarono con l’estinzione di quello a viemaggiore fortuna, avendo dato alla Toscana per duegento anni i suoi Granduchi.

Cosimo aveva per testamento vietato che se gli facessero esequie solenni: ma l’usata magnificenza della famiglia e il dolore di molti, e l’ossequio dei magistrati, onorarono la fine di questo fra tutti potente ed insigne cittadino.[422] Colui che aveva detto «meglio città guasta che perduta,» fu per decreto pubblico soprannominato Padre della Patria, quel titolo ancora leggendosi sopra il marmo che ricuopre il corpo suo nella chiesa di San Lorenzo. Fu Cosimo di comunale statura, magro e olivastro, di aspetto benigno, non senza acume e gravità. Parco dicitore ma efficacissimo a persuadere, veniva al fatto senza ornati; breve nel rispondere, [327] non si spiegava innanzi d’essere chiaro egli stesso si chiudeva in detti ambigui. Nessuno lo vinse quanto ad accortezza; alla fortuna dovette l’essere portato in alto dai suoi nemici, a sè medesimo il potersi bene difendere dagli amici: le malvage opere parcamente usava e a quelle sapeva trovare compagni. Ebbe grandezza di principe, e vita e costumi di privato cittadino: fuori lo tenevano come signore della città, ed i principi e le repubbliche si condolsero della sua morte.[423] Ma in Firenze ciascuno trattava famigliarmente con lui, nel vivere giornaliero non oltrepassava le usanze comuni. Venuto in potenza, non si volle imparentare con signori; ma diede a Piero in moglie la Lucrezia dei Tornabuoni, e le due figlie di lui maritava in Casa i Pazzi ed i Rucellai. Ebbe ricchezza tale, che niuno privato uomo e pochi principi l’agguagliavano; era al suo tempo il primo banchiere in Europa, tenendo banchi e ragioni in molte città, ed il nome di Casa Medici avendo credito dappertutto. Narra Filippo de Comines come i danari di Cosimo fossero di grande aiuto a Eduardo IV d’Inghilterra per sostenersi nel Regno, tenendo fuori per conto suo alcuna volta più di centoventi mila fiorini, ed avendoli pe’ suoi agenti fatta malleveria verso il Duca di Borgogna una volta di cinquanta, ed una di ottanta mila altri fiorini.[424] Ma niuno mai fece più di lui nobile uso della ricchezza, e nelle liberalità sue metteva splendore ma non senza accorgimento; piacevasi molto a servire di danaro con cortesia fina i primi uomini del suo tempo. Così aveva [328] fatto con frate Tommaso da Sarzana, che divenuto Niccolò V lo fece depositario in Firenze della Chiesa, della quale nel Giubbileo del 1450 si trovò avere in mano oltre a cento mila ducati. Avea molte possessioni, e queste amministrava con diligenza, essendo egli intendentissimo dell’agricoltura, tantochè si dilettava alcuna volta di sua mano potare le viti ed innestare i frutti che amava di avere singolari. Ma la magnificenza sua mostrava più che altro negli edificii; oltre al palagio di Firenze, fabbricava ville grandiose a Careggi, a Fiesole, e nel Mugello, al Trebbio ed a Cafaggiolo. Vedemmo com’egli edificasse una Libreria in Venezia, restaurò un Collegio degli Italiani in Parigi; la Casa in Milano, dove un Portinari teneva il Banco in nome suo, vinceva ogni altra d’ornato sontuoso ed elegante; rimane essa in piedi tuttora. Le quali spese erano di molto passate da quelle che egli faceva pel divin culto: alzò in città dai fondamenti la Basilica di San Lorenzo, ampliò la Chiesa e il Convento di San Marco; sul monte di Fiesole edificò la Badia ed un Convento a San Girolamo; nel Mugello, un altro Convento pei Frati Minori: in molte chiese fondò altari e cappelle splendidissime. Nè a ciò fu contento, che fino in Gerusalemme apriva e dotava co’ suoi danari uno Spedale pei poveri pellegrini. «Facea queste cose (scrive il biografo che gli fu amico) perchè gli pareva tenere danari di non molto buono acquisto; e soleva dire, che a Dio non aveva mai dato tanto che lo trovasse nei suoi libri debitore. E altresì diceva: io conosco gli umori di questa città, non passeranno cinquant’anni innanzi che noi ne siamo cacciati; ma gli edifizi resteranno.» Sapiente parola quanto era magnifica, e buon fondamento alla grandezza di Casa sua.[425]

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S’imbatteva egli in quella età nella quale le arti belle si esercitavano con più squisitezza di sentimento, come abbiamo già veduto: i sommi artisti ebbe familiari, ed egli col dare ad essi lavoro gli sovveniva; ma non ottenne che Donatello, al quale avea mandato a casa una roba di panno rosato, volesse andare altro che in giubbetto. Stavano quegli artisti a bottega, ma invece le lettere, dacchè si fondavano principalmente sulla erudizione, erano signorilmente trattate; e per l’acquisto o per le copie dei libri antichi latini e greci, che in tanto numero quasi ad un tratto veniano in luce, volevano spesa cui non bastavano che i più ricchi. Per quanti vizi ella si avesse, certo era splendida quella età; e i Principi a gara promuovevano gli studi, ed in Firenze erano molti cittadini facoltosi che vi ponevano la persona e il tempo e l’opera e il danaro loro. Cosimo si stava in mezzo tra questi; non era egli di molta dottrina, benchè senza lettere non fosse, ma quanti a lui ricorressero trovavanlo sempre aperto e facile. In San Marco fondava una prima Biblioteca, la quale volle che fosse a comune uso degli studiosi; ne aperse un’altra nella Badia di Fiesole, e aveva in sua casa grande numero di codici, pei quali ebbe principio la libreria che fu poi detta Mediceo Laurenziana. Da Vespasiano, che per lui faceva copiare i libri, sappiamo quanta cura [330] vi ponesse;[426] e così nel raccogliere anticaglie ed ogni genere di preziosità. I Greci che innanzi al Turco fuggivano, e che aprirono alle lettere un campo vastissimo e fino allora non esplorato, trovarono lauto rifugio in Firenze; e l’Argiropulo ed il Crisolora ed altri vi tennero cattedre per opera massimamente di Cosimo, e vissero familiarmente con lui. Ma si onorava egli soprattutto col sollevare la giovinezza povera ed oscura di Marsilio Ficino al quale donava una casa in città ed una villetta a Careggi: la scuola fondata dal buon Marsilio fruttò a quel secolo quanto ne uscisse di più elevato nelle dottrine, e nella vita di più onesto e dignitoso.

Cosimo dei Medici ebbe non tocchi da esterne guerre gli anni suoi ultimi, e la città lieta, dalle arti abbellita, fiorente d’industrie; la moltitudine degli artefici assicurata contro alla oppressione delle Arti maggiori. Fonte principale di ricchezza quella della seta, dove è più semplice il lavoro, e quasi che tutto si viene a compiere nelle case con poca ingerenza di quei minuti mestieri che nell’arte della lana tanto disordine producevano: cessato lo sciopero, fra tutti pessimo, delle sedizioni, cresceva il lavoro ed era meglio remunerato. Gli spiriti, è vero, di questo popolo si abbassavano in quella pace, nè il favore di Casa Medici era senza corruttela: ma questo rimase dell’antico stato popolare, che principato non si avesse, nè corte, nè armati a guardia del signore, nè abietto servire, nè silenzio comandato. Cosimo sicuro dello Stato, come si è detto, con l’avere in mano i magistrati e le gravezze, lasciava [331] nel resto le cose andare liberamente[427] ed amministrarsi pei Collegi e pei Consigli, dei quali non era l’autorità vana. Il popolo vedeva non alterate le forme dei suoi magistrati; e questi invece d’appartenere volta per volta a quella fazione che la violenza ponesse in seggio, dipendevano da una Casa che il popolo stesso aveva inalzata, di quella facendosi tutela contro gli avversari suoi e contro ai danni delle sue proprie intemperanze. Dal punto a cui siamo e già decaduta essendo la vigoria di questo popolo di Firenze, ne sembra l’istoria perdere grandezza: ma pure è gloria di questo popolo avere temprato a sè medesimo quella signoria che ad ogni modo qui e dappertutto voleva ristringersi, e che uscita dal suo proprio seno, lasciavagli pure ampiezza di vita: signoria tanto più onorata quanto era più cittadina.

Capitolo IV. PIERO DI COSIMO DE’ MEDICI. [AN. 1464-1469.]

Il governo di Firenze sebbene alla morte di Cosimo dei Medici si reggesse tuttavia sulla potenza che il suo nome aveva in città e fuori, pure nelle apparenze dipendeva da quei cittadini che stati capi della fazione sua e da lui medesimo promossi, conoscevano sè oggi più liberi e meno sicuri, tanto che dovessero a sè ed alla parte da sè medesimi provvedere. Di questa erano principali Luca Pitti, Dietisalvi Neroni, Agnolo Acciaioli; il primo dei quali, vano e fastoso, era strumento da usare ma senza punto fidarsene; Dietisalvi, di grande ingegno ma dubbio, e non di tale animo che valesse a trarsi dietro le moltitudini; Agnolo, più atto a praticare [332] le corti che non al vivere popolare, e contro al Medici inasprito da offese private. Imperocchè essendosi tenuto certo d’avere per un suo figlio l’arcivescovado di Pisa, Cosimo volle darlo invece ad un suo congiunto Filippo dei Medici, costringendo l’Acciaioli a contentarsi del vescovado d’Arezzo. Inoltre, avendo un altro suo figlio presa in moglie con dote grandissima una fanciulla de’ Bardi, ed essa tenendosi maltrattata in quella casa, uno dei Bardi di notte tempo con molti armati la trasse via; il che parendo agli Acciaioli offesa gravissima, e la causa avendo rimessa in Cosimo, questi sentenziò che fosse la dote ai Bardi restituita e la fanciulla restasse libera. Ma insieme ad Agnolo gli altri due pure invidiavano alla potenza della Casa Medici, e questa credevano, per quanta si fosse, difficilmente potersi tenere da Piero infermo e perduto quasi dalle gotte, nè di tale ingegno che una incerta signoria valesse in sè medesimo a continuare con le arti del padre. Vedevano anche la grande mole della ricchezza lasciata da Cosimo divisa essere in tanti luoghi e amministrata da tante mani, che il governarla era come avere un altro Stato da conservare; faticosa opera, e massimamente gravata essendo dalle tante liberalità e spese ch’egli avea fatte, sicchè il bilancio male potrebbesi ricavare. Di tutte queste difficoltà Cosimo essendo bene accorto, avea prima di morire commesso al figlio si consigliasse con Dietisalvi Neroni circa il governo delle facoltà sue e dello Stato. Il Machiavelli, che narra ciò, aggiugne come avendo Dietisalvi veduto i calcoli delle ragioni e in questo trovato essere disordine, mostrasse a Piero la necessità di fare vivi i danari dei molti crediti lasciati giacenti da Cosimo, e che Piero avendo ceduto a quelle persuasioni disdicesse le somme imprestate con tanta larghezza a ogni qualità di cittadini: i quali tenendosi male trattati come se Piero, anzichè ritorre il suo, gli avesse privati del loro, ne venne egli a perdere riputazione ed [333] amici, imputandosi all’avarizia sua l’incaglio ne’ traffici e i fallimenti che ne seguirono. Aggiugne lo stesso autore, che fosse quell’imprudente consiglio dato a malizia da Dietisalvi, il quale ricchissimo e potente di aderenze e fra tutti reputato sagace e pratico dello Stato, ambisse in tal modo levarsi più in alto con la ruina di quella Casa.

Egli pertanto e l’Acciaioli essendo in tutto risoluti d’abbattere Piero, a sè tirarono facilmente Luca Pitti con dargli speranza di fare lui principe della città; e usato che avessero il molto seguito di lui e le ricchezze e la temerità non rallentata, sebbene fosse egli già vecchio, erano certi di farlo quindi per la incapacità sua agevolmente cadere. Con essi era un altro reputato cittadino e assai potente nella Repubblica, Niccolò Soderini, il quale mosso da non private ambizioni ma da onesto desiderio di restaurare la libertà, cercava con tutte le forze dell’animo l’abbassamento di Casa Medici. Così nello Stato furono manifeste le divisioni: la parte che aveva il nome da Luca si chiamò del Poggio, fabbricando egli il suo Palagio su quello di San Giorgio; e del Piano l’altra, che stava pei Medici: segrete combriccole si tenevano per la città; molto sparlavasi in aperto. Di Piero dicevano: non essere da tollerare in città libera tale continuità di maggioranza da padre in figlio; molte cose essersi concedute alla prudenza, all’età ed ai servigi resi da Cosimo alla patria sua, le quali non si doveano a Piero concedere, avaro, altero, di poca esperienza, e per le sue infermità poco o niente utile alla Repubblica. Ma gli altri dicevano, che Luca vendeva lo Stato a ritaglio; che aveva la casa piena di sbanditi, di condannati e d’ogni sorta di scellerati uomini; che sotto apparenza di cortesia e di liberalità rubava il privato, spogliava il pubblico, e non prezzando nè Dio nè Santi confondeva le cose umane e le divine. A questo modo continuandosi gran parte dell’anno 1465 le [334] divisioni, gli avversi a Piero misero innanzi che i Magistrati ricominciassero, serrate le borse, a trarsi a sorte; il che da Piero fu consentito perchè la cosa piaceva tanto, che il contrariarla sarebbe stato tirarsi addosso troppo gran carico. Fu vinto con tale consentimento ed allegrezza dei cittadini, che nel partito di tutto il Consiglio non si trovarono che sei fave bianche.[428]

Usciva dipoi Niccolò Soderini Gonfaloniere per gli ultimi due mesi di quell’anno, e parve che per lui si avesse a restaurare la libertà con modi civili, secondo che gli uomini più assennati desideravano; laonde fu egli accompagnato in Palagio da gran moltitudine di cittadini, e per via gli fu posta in capo una corona di ulivo. Ma egli, com’era più atto a svelare con l’eloquenza i mali che non con l’opera a correggerli, avendo al principio del suo magistrato due volte radunato prima cinquecento e poi trecento cittadini, e ad essi con lunga ed ornata diceria mostrato i disordini, e chiesto che ognuno in quanto ai rimedi volesse esporre il parer suo, molti dicitori saliti in tribuna, chi l’una e chi l’altra cosa proponevano; così le due volte pei dispareri dei consultori nessuno effetto ne conseguitava. Tentarono quindi egli ed i suoi di levare via il Consiglio del Cento che disponeva di tutte le cose importanti della città; al che essendosi opposti alla scoperta gli amici di Piero, finalmente ciò [335] impedirono. Ebbe anche pensiero il Soderini di rivedere i conti a coloro che avessero avuto amministrazione nello Stato; del che Luca Pitti non volendo per nulla sapere, non se ne fece cosa alcuna. Corresse con molta fatica poche delle esorbitanti cose fatte in addietro; volle dal popolo essere creato Cavaliere, ma non l’ottenne. Infine avendo consumato il tempo dell’ufizio suo nel rivedere le borse e fare il nuovo squittinio, lunga opera e odiosa a molti, cedeva con poca sua reputazione il magistrato il quale con tanta aspettazione aveva preso. Al che si credette averlo condotto massimamente i consigli di messer Tommaso Soderini suo fratello, che era molto amico a Piero e uomo da non volere commettere, senza utile certo, a nuovi pericoli le sorti della città.[429]

Ma in questa si venne a scoperta divisione quando per la morte di Francesco Sforza duca di Milano, avvenuta il giorno 8 di marzo 1466, parve casa Medici avere perduto l’antico sostegno ed essere in dubbio la pace d’Italia. Sebbene Venezia impegnata nelle guerre contro al Turco, sola difendesse la Cristianità sul mare intanto che gli Ungheri la difendevano sul Danubio, pure la molta potenza di quella Repubblica e l’ambizione perseverante e la finezza dei consigli e quella stessa superbia di modi ch’ella usava nel trattare con gli altri Principi e Stati d’Italia,[430] a tutti la rendevano odiosa e temuta; e quindi la lega che lo Sforza e Cosimo avevano stretta, ed alla quale Ferrando re di Napoli aderiva, parea necessaria a comune difensione. A questo Re si era lo Sforza congiunto per [336] iscambievoli parentadi, e fu accusato d’avere anche avuto le mani nello scellerato tradimento pel quale Ferrando tirava a morte Iacopo Piccinino tra mense ospitali e sotto apparenze d’amicizia sviscerata.[431] Con arti migliori teneva lo Sforza il ducato di Milano, dove tra’ Visconti non era stato, a mio parere, chi lo agguagliasse nelle virtù di principe, come niuno lo avea pareggiato nella scienza della guerra. Levando in istima tra gli stranieri il nome suo e le armi d’Italia, aveva mandato in Francia soccorso di quattro mila cavalli al re Luigi XI nella guerra contro ai suoi Baroni e contro ai Duchi vassalli di Borgogna e di Brettagna; ed era in quelle armi Galeazzo Maria suo figliuolo primogenito, quando essendo il duca Francesco venuto a morte quasi all’improvviso, al figlio convenne ricondursi nello Stato, non senza pericolo d’insidie per via, ma quivi accolto ed acclamato. Fu sempre fatale ai principi Italiani che se uno sorgesse di pregio eminente, avesse figliuoli al tutto degeneri: Galeazzo educato al fasto e ai riposi della corte, ignaro delle armi, nè illustrandosi che pei vizi, di molto abbassava nel breve suo regno la reputazione della Casa Sforza.

La Repubblica di Firenze mandava ambasciatori a Milano Bernardo Giugni e Luigi Guicciardini, i quali offerissero al nuovo Duca tutte le forze della città e sopravvegliassero ai casi occorrenti. Trovarono quello Stato in gran disordine di danari, e qualche sospetto di guerra co’ Veneziani: richiesti, scrissero a Firenze perchè si stanziasse, come s’era fatto più volte nei tempi del duca Francesco, qualche danaro in prestanza, pigliando l’assegna sopra alle entrate più vive della città. Fu risposto che offerissero quaranta mila ducati; e su questa sicurezza vennero in Firenze, [337] co’ due che tornavano, gli ambasciatori del Duca per trattare i modi e procurare lo stanziamento.[432] Piero dei Medici e i suoi allegavano le antiche ragioni che ebbe suo padre di mantenere l’amicizia con lo Sforza; gli avversari, quelle che già noi vedemmo ai tempi di Cosimo essere addotte contro una lega la quale pareva d’utile privato più che di pubblico: aggiungnevano ora, non valere il figlio quello che il padre valeva, e non v’essere motivo sufficiente di scomodarsi per lui. Al che non bastando avere opposto, che la debolezza del giovine Duca tanto più dava necessità di fare sforzi a mantenerlo, il ch’era salute di tutta Italia; non fu il pagamento, sebbene promesso, mai pei Consigli deliberato.

Da indi in poi gonfiati gli animi, le divisioni si resero vie più manifeste. Ma i primi sei mesi di quell’anno 1466 le due parti stavano l’una contro dell’altra in aspetto; e la Signoria, volendo pure fare qualcosa, ordinava che i cittadini atti ai maggiori uffici prestassero giuramento di non s’obbligare a parte veruna, di non fare segrete combriccole e di non servire che alla Repubblica.[433] Giuramenti, come avviene sempre ne’ casi politici, osservati da coloro cui non bisognavano. Agli altri però giovava, sebbene diversamente, l’indugio: Piero tenendosi in possesso, ed i nemici di lui reputando che per essere le tratte libere si dovessero i magistrati bentosto empire d’uomini della parte loro, donde agevolmente e senza disordini la Casa dei Medici venisse a cadere da una autorità che risedeva in mani deboli; giudicavano che dove a Piero venisse meno la facoltà di valersi de’ danari del Comune, non potendo egli più sostenere l’antico credito nelle mercanzie, ruinerebbero le sue private sostanze e insieme con esse la reputazione nello Stato. Così aspettando volta per volta che una Signoria uscisse [338] che fosse opportuna ai loro disegni, cercavano intanto di farsi aderenze negli altri Stati d’Italia, dove la pace era in dubbio, e nuove occasioni potevano suggerire consigli nuovi. Piero dei Medici era amico naturale al giovane duca Galeazzo Maria; ed un Nicodemo Tranchedini, uomo di gran fede col duca Francesco e che in Firenze risedeva da più anni oratore, manteneva quell’amicizia e consigliava Piero in tutte le cose. I congiurati aveano qualche speranza nel re Ferrando di Napoli; ma questi, per avviso di messer Marino Tomacelli che per lui stava in Firenze, pigliava partito di aspettare osservando senza scuoprirsi per alcuna parte. A Pio II era succeduto nel pontificato Pietro Barbo veneziano, che assumeva il nome di Paolo II. Questi da principio amico allo Stato dei Fiorentini, s’era poi molto alienato da essi quando alla morte del cardinale Scarampi, ch’era camarlingo della Chiesa ed uomo ricchissimo, volendo i nipoti di lui succedere nella possessione di gioie e danari ed altro mobile per somma grandissima che il Cardinale aveva in Firenze, e Luca Pitti come parente agli Scarampi favorendo quelle pretensioni loro, il Papa al contrario voleva che andassero alla Camera apostolica. Il che non poteva egli ottenere per la potenza di Luca Pitti: e ne fu per nascere gran divisione, il Papa essendone adirato forte; insinchè alla fine e dopo lunghe pratiche n’ebbe ragione, ed egli si tenne almen per allora neutrale in mezzo alle divisioni che pur minacciavano per tutta Italia di manifestarsi. Imperocchè tra’ Signori di Milano e la Repubblica di Venezia, se guerra non era, mantenevasi costante l’inimicizia: vedeano quelli dalle finestre del loro castello sventolare la bandiera di San Marco sulle mura di Brescia e di Bergamo, freno e minaccia alla potenza loro. I Veneziani mal sofferivano che le emule navi di Genova andassero congiunte agli eserciti di Lombardia, sempre avendo l’animo all’acquisto di questa provincia. In Romagna con la [339] possessione di Ravenna tenevano come stretta Ferrara, obbligando quel Signore, e seco più altri minori Principi, a seguire la parte loro. Bologna intanto, sotto al governo de’ Bentivogli, stava con lo Sforza e coi Fiorentini: tra queste due parti dividevasi l’Italia, e guerra poteva uscirne ogni tratto, se quella col Turco non avesse trattenuto le male nascoste cupidigie del Senato di Venezia. Su questo fondavano gli avversi al Medici le speranze loro, mutare lo stato della Repubblica di Firenze essendo lasciare lo Sforza solo, e non temendo essi di rompere quella sorta d’equilibrio per la quale teneasi allora che stesse ferma la pace d’Italia.

A questo effetto andavano messi innanzi e indietro, segreti e palesi: fine d’ogni cosa era, una lega con la Repubblica di Venezia, la quale non si volendo scuoprire per allora sinchè non avesse fatta la pace col Turco, si tenevano le pratiche personalmente con Bartolommeo Colleoni da Bergamo, il quale essendo in sul finire della condotta co’ Veneziani, avrebbe in suo nome fatto quell’impresa. Trattavano anche di far venire in Italia il duca Giovanni d’Angiò, quando uopo fosse di contenere il re Ferrando mentre che i Veneziani, entrati nel ballo, opprimessero lo Sforza; al che si credevano anche soli di potere essere sufficienti. Conduceva queste pratiche Dietisalvi Neroni, intanto che Agnolo Acciaioli in nome di tutti scriveva al duca Borso d’Este richiedendogli consigli e aiuti, siccome quello che assai mostravasi ad essi amico. Rispose il Duca offrendosi andare, quando tempo fosse, co’ Veneziani, e che darebbe con le genti sue frattanto la mano alla mutazione dello Stato.[434] Era il mese d’agosto, e la Signoria che allora sedeva incerta e divisa, essendo prossima a cessare, poteva uscirne un’altra a Piero tutta amica; nella quale dubbiezza, e fidati sopra [340] l’aiuto di Modena e accesi molto dalle parole di Niccolò Soderini, fermarono insieme un obbligo terribile innanzi a Dio e innanzi agli uomini e molto segreto, al quale accenna, ma senza più dichiararsi, lo stesso Agnolo Acciaioli in una sua lettera.[435] Chiamarono in Toscana subito le genti del Duca; il quale con ottocento cavalli, due mila fanti e mille balestrieri, mandava Ercole suo fratello: e questi era pervenuto insino a Fiumalbo, quando per lettere di Giovanni Bentivogli ne giunse avviso a Piero dei Medici che villeggiava infermo a Careggi. Era nel Bolognese un capitano del Duca di Milano, al quale in quella sorpresa Piero tostamente scrisse, comune essere il pericolo, comune dovere essere anche la difesa; e quegli, come erano le intenzioni del Duca, scendeva con le sue genti a Firenzuola. Intanto Piero si faceva quel giorno stesso portare a Firenze, aveva la moglie seco e molti armati: si trova scritto presso che da tutti, e variamente narrato, che i congiurati lo aspettassero a Sant’Antonio del Vescovo per ammazzarlo; ma che avendo Piero tenuto altra via occulta ed insolita, scampasse la vita. Al che gli giovava, secondo taluno, la sagacità del figlio Lorenzo, che andato francamente per l’usata via, teneva a bada gli appostati col dare ad intendere che il padre lo seguitasse.[436] E intanto Piero, giunto a casa, facea dal contado venire armati segretamente in Firenze: quei della contraria parte mandarono anch’essi per gli amici loro: la città era piena di fanterie, ed in gran pericolo.

Piero de’ Medici, venuto in Firenze, ragunava gli amici e ordinavasi alla difesa; chiamato essendo quindi dalla Signoria, mandava in Palagio i due suoi figli Lorenzo e Giuliano con le lettere del Bentivoglio, che annunziavano l’avanzarsi già presso a Toscana d’Ercole da Este. Al quale i Signori mandato avendo un [341] Commissario perchè si fermasse, ordinarono a ciascuno posare le armi, e che le discordie per vie civili si componessero. La parte di Luca, perchè a lei pareva essere più debole, mostrò consentire: Piero, licenziati alcuni di fuori ma tenendo armati gli amici di dentro, faceva nascondere nelle sue case ed all’intorno assai numero di soldati. Volendo frattanto che i nemici si scuoprissero e che gli amici incerti o deboli si obbligassero, siccome colui che in città stracca sapeva bene il maggior numero essere i paurosi, metteva in giro dei fogli su’ quali chi a lui aderiva si dovesse sottoscrivere; e tanto era incerta la fede degli uomini, che taluni apposero in quelle liste i nomi loro che prima gli avevano in su’ registri dei congiurati. Venivano a Piero anche fanti dal contado, e molti ne aveano mandati da Figline i Serristori. La parte contraria, che aveva più capi, andava tarda nelle provvisioni: teneano consigli senza effetto nelle case di Luca Pitti; dove il Soderini avendo messo partito, che senza indugio si muovesse contro a Piero e si levasse la plebe a rumore, non ebbe seguaci; contrapponendosi alle accese parole di lui, più vivo degli altri, Dietisalvi Neroni, perchè avendo la sua casa prossima a quella dei Medici, temeva la plebe, mossa una volta, non si desse a saccheggiare anche lui. Ma Luca Pitti, cessando ad un tratto dall’usata sua temerità, già era tirato in contraria parte dalle seduzioni di Piero, che a lui per mezzo di amici comuni prometteva maggiore stato di quello che era Luca solito d’avere a tempo di Cosimo; e che lo terrebbe in luogo di padre, facendogli anche brillare sugli occhi il maritaggio di una figliuola sua col giovine Lorenzo. È certo che Piero, il quale dai consigli di sangue ripugnava e dei partiti animosi non era capace, usando le arti ch’erano vecchie in casa sua, ottenne che Luca lo andasse a trovare giacente nel letto, quivi in presenza dei figli facendogli patti i quali sapeva che tosto verrebbero a cadere.

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Intanto giugneva il dì 28 d’agosto nel quale doveansi fare le tratte; la nuova Signoria con Ruberto Lioni Gonfaloniere essendo uscita (non senza qualche sospetto di frode) amica ai Medici, si consumavano i giorni seguenti ad allestire le cose: tosto ai due settembre Piero essendosi assicurato nella città, della quale aveva fatto chiudere la porta a San Gallo ed arrecarsi le chiavi a casa, metteva in piazza grande numero d’armati ch’aveano per capi due della famiglia Bardi d’onde era uscita la madre di Piero.[437] Suonò la campana, e il popolo fu chiamato in sulla Piazza a parlamento, nel quale trovasi che intervenissero Luca Pitti di già guadagnato; e Dietisalvi, che si studiava in ogni evento restare a galla. Ma presa Balìa e data questa a’ 6 settembre a otto cittadini insieme col Capitano del popolo, uscirono tosto i nuovi provvedimenti. Primo dei quali fu l’ordinare che per dieci anni le borse del Priorato si tenessero a mano, ed appresso furono letti i nomi dei confinati: l’Acciaioli con i figliuoli a Barletta, il Neroni con due fratelli in Sicilia, e Niccolò Soderini in Provenza, tutti per venti anni; un Gualtieri Panciatichi, per dieci fuori del dominio. La domenica seguente, mentre s’allestiva una grande processione e i Magistrati erano in Duomo ad ascoltare la messa, gli Otto di Balìa faceano pigliare per la città dai famigli loro più altri che avevano nel loro animo già proscritti. Nella chiesa stessa metteano le mani addosso ad un Nardi; il quale essendosi rifuggito ai piedi del Gonfaloniere suo parente, questi tenendoselo sempre appresso lo conduceva salvo in Palagio. Uno dei Capitani di Parte guelfa, Guido Bonciani, fu tratto dalla schiera dei suoi compagni e messo in carcere con grande oltraggio a quel magistrato.[438] Con molti altri cittadini tutti i parenti di Dietisalvi Neroni andarono presi: era di quella casa l’Arcivescovo di Firenze, [343] il quale si elesse in Roma esilio volontario. Luca Pitti, con sua gran vergogna rimasto in patria spregiato ed abietto, perdè quelle vane mostre di potenza le quali fruttavano a lui più che altro privati favori e guadagno di ricchezze: i doni già fattigli veniano richiesti, ora allegando ch’erano prestiti: il Palagio ch’egli innalzava restò imperfetto, sino a che i Medici per farsene reggia non lo compiessero: e Luca finiva oscura la vita, senza che l’istoria nemmeno ricordi l’estremo suo giorno.[439]

I principali degli sbanditi, per non avere osservato il confine ed essere andati a Venezia, ebbero condanna di ribelli: quella Repubblica assegnava a Niccolò Soderini, stante la povertà sua, cento ducati al mese.[440] Agnolo Acciaioli, ch’avea sperato salvarsi e poteva forse perchè meno intinto degli altri e per gli antichi suoi meriti verso la Casa dei Medici, avea da Siena scritto a Piero con parole dignitose mostrandogli essere dell’onor suo rimetterlo in patria: a cui Piero con orgogliosa benignità rispose, che bene poteva egli perdonare, ma la Repubblica non poteva («la quale di noi ha piena e libera potenza»), e per l’esempio non doveva.[441] Così l’Acciaioli sconfortato andava in esilio. Ma il Neroni continuava le arti solite, e nell’adombrare in una sua lettera le grandi cose che s’apparecchiavano, promette, quando egli potesse tornare in patria, mostrare i rimedi e adoprarsi a mantenere lo stato [344] di Piero.[442] Questo scriveva egli da Malpaga, dove risedeva Bartolommeo Colleoni capitano generale della Repubblica di Venezia; ma era la condotta sua vicina a scadere, ed egli audacissimo sebbene già vecchio, e imbaldanzito dal non avere più chi l’agguagliasse tra’ condottieri d’Italia e dalla fortuna toccata allo Sforza, mulinava strani disegni. Gli scriveano da Milano promettendogli gran cose in quella inesperta gioventù del nuovo Duca, intanto che il Neroni e gli altri fuorusciti seco o ch’esulavano per l’Italia da’ tempi di Cosimo, standogli attorno, gli soffiavano nelle orecchie potere egli farsi grande arbitro e grande innovatore delle sorti d’Italia: mutare le condizioni di questa, solo che in Firenze mutasse lo Stato; qui essere la chiave la quale teneva Napoli e Milano insieme unite in continuità di lega, opposta come argine alla potenza dei Veneziani. Tutte queste cose il Colleoni ascoltava; e il Senato di Venezia bene s’accorgeva ch’era da farne suo pro, ma con l’usata circospezione, temendo entrare in un’altra guerra prima d’avere assicurata la pace col Turco, per la quale s’adoprava: e però lasciando che si muovesse il Colleoni a tutto suo rischio e dandogli mano, poteva poi sempre dire che non era egli più a’ soldi di lei, e ogni volta che le cose volgessero male ritrarsi dal ballo più agevolmente. Ma confidava che il Duca di Milano, avendo nemico quello di Savoia e gli Svizzeri male disposti e nei sudditi poca affezione, perderebbe anche gli incerti soccorsi che a lui potessero venire da Napoli, massimamente se intercetti dal volgersi contro a lui lo stato dei Fiorentini.[443] Così muoveva il Colleoni nel maggio dell’anno 1467, accompagnato dai fuorusciti, in nome dei quali faceasi la guerra e che ne portavano per grande parte la spesa; guidava un [345] esercito di otto mila cavalli e sei mila fanti, seco avendo Ercole da Este, e Alessandro Sforza signore di Pesaro e zio dello stesso Duca di Milano, e gli Ordelaffi di Forlì, ed il Manfredi di Faenza, ed i Signori di Carpi e di Camerino, e il Conte dell’Anguillara: fiorente esercito, che l’eguale non aveva messo insieme in Italia, dopo al Piccinino, alcun altro condottiero.

A queste mosse i Fiorentini, ristretta la lega con Galeazzo duca di Milano e col re Ferrando di Napoli, e datisi a raccorre genti, fecero di tutti capitano il valoroso Federigo conte d’Urbino. Il quale osservando cautamente i nemici finchè l’esercito intorno a lui si formasse, non lasciava ad essi occupare altro che poche castella dell’Imolese; ma giunto essendo con molte forze lo stesso Duca di Milano e genti mandate da Giovanni Bentivoglio e da Taddeo degli Alidosi signore d’Imola, poneva il campo non lungi da questa città ed incontro al Colleoni, il quale s’era fortificato alla Mulinella. Poco si ottenne nei primi giorni per l’impedimento che avea il Capitano dalla persona di Galeazzo; il quale, giovane e presuntuoso, nè sapeva fare nè lasciava che altri facesse. Talchè i Fiorentini con bella maniera invitatolo a sollazzo nella città di Firenze, ed egli recatovisi; il savio Conte, cogliendo il destro di quell’assenza, mosse l’esercito in ordinata battaglia; la quale durata più ore del giorno, e riuscendo molto sanguinosa, terminava quando le tenebre sopravvennero, con esito incerto sicchè ambe le parti si arrogassero la vittoria, ma però bastata d’allora in poi a contenere da ogni altro assalto il Colleoni. Tornava nel campo il duca Galeazzo a cose fatte; ed offeso molto che avessero scelto il tempo a combattere quand’egli non v’era, e perchè gli giunsero novelle avere in quel mezzo il Duca di Savoia mossa la guerra contro al marchese Guglielmo di Monferrato col quale era in lega, facendo ritrarre tutte le sue [346] genti, si riconduceva egli medesimo oltre Po. Ma intanto il Re, che alle prime mosse andava a rilento nell’inviare soccorsi,[444] avea fatto passare il Tronto con due mila cavalli al giovane Alfonso duca di Calabria, a lui dando come guida e consigliero il conte Orso degli Orsini vecchio capitano. I Veneziani dal canto loro essendo nel mare soliti procedere con meno rispetti, avevano prese quattro navi anconitane cariche di robe dei Fiorentini; e perchè il Re metteva nel Porto Pisano otto galere le quali, unite alle galeazze che erano ivi, poteano infestare i commerci loro, comandarono al Capitano del golfo che andasse con dodici galere a Messina e dovunque bisognasse, sgombrando il mare e facendo preda di qualunque nave si recasse anche per solo traffico in Levante. Faceano promesse all’Arcivescovo di Genova e ad Obietto del Fiesco, i quali cercavano di sollevare la Riviera contro il Duca di Milano.

Viveano però tuttora con esso come in termini d’amicizia; e un Segretario della Repubblica passando a Milano per altre faccende, ebbe parole col Duca, da prima guardinghe e contenute; ma un altro giorno Galeazzo incontratosi col Segretario e rimanendo solo con lui: «Certo (gli disse) voi Veneziani, avendo il più bello stato d’Italia, avete gran torto a non vi contentare e a turbare la pace d’altri. Se sapeste la mala volontà che tutti hanno contro di voi, vi si rizzeriano i capelli, e lasceresti vivere ognuno nel suo Stato. Credete che queste potenzie d’Italia legate insieme sieno amiche fra loro; certo no; ma la necessità gli ha condotti e si sono stretti per paura che hanno di voi e della vostra potenza. Vi pare aver fatto una bell’opera, aver messe le armi in mano a tutta Italia? Se sapeste quel che mi viene offerto in Lombardia acciocchè vi rompa guerra; vi maravigliereste. E quelli de’ quali [347] vi fidate, saranno i primi a farvela. Credete che io vi dico il vero, e ve ne avvedrete; lassate, lassate vivere ognuno. Quando morì mio padre, parendomi avere un bello Stato, andava a sparviero, mi dava buon tempo e non mi pensava ad altro; ora m’è stato necessario unirmi col re Ferrando, ch’è mio nemico capitale. Con questo vostro Bartolommeo avete messo le armi in mano a tutta Italia, e vi par d’avere fatto bene; ma ve n’avvedrete. Vi giuro che il Papa, che è vostro gentiluomo, farà peggio che gli altri; e se la guerra continua, egli sarà il primo che si muoverà contro di voi per avere Faenza, Forlì, Ravenna e Cervia. Il Re, se avesse tanta possanza quanto ha mala volontà contro di voi, non vi lassería comparire al mondo. Non è un’ora che il suo ambasciatore m’era all’orecchio; e perchè vede che io non mi muovo, crede ch’io abbia qualche segreta intelligenza con voi. Fiorentini e Genovesi, quanto vi siano amici lo intendete, e così tutte le altre comunità d’Italia. Si dice che volete divorare ognuno: e adesso avete tanta spesa, che non vi avanza danari. So in che modo riscuotete queste vostre decime, con quanta fatica e difficoltà per i gridori di tutta la città. So che v’avete fatto prestar danari ai banchi e a’ vostri cittadini, e che non li avete ancora soddisfatti (e qui il Segretario, che riferisce il discorso, dice che il Duca parlava come se fosse stato a Venezia presente a tutte le cose). I Signori hanno un gran vantaggio sopra le Signorie, perchè ad esse conviene fidarsi d’altri, ed i Signori sono di continuo sul fatto. Io non conosceva nessuno degli uomini d’arme di mio padre, io era un bufalo nelle cose della guerra, e voi mi avete fatto diventare un Merlino mago. Se volete pace, l’avrete; se volete guerra, averete la più pericolosa che abbiate avuto ai vostri dì. Siete soli, e avete tutto il mondo contra; non solamente in Italia, ma anche di là dai monti. Consigliatevi bene, e perdio ne avete bisogno; so quel che vi dico. Avete un bello [348] Stato e maggiore entrata che potenza d’Italia: non la sbaragliate; dubius est eventus belli. Non vi potete scusare che non siate stati causa d’ogni inconveniente. Vi prego non date fastidio ad altri; state in pace per bene vostro e della Cristianità.» E perchè il Segretario cercava di scusare la Signoria, Galeazzo soggiunse: «Quanto più mi dite, tanto men vi credo.[445]»

La guerra continuava, e il Colleoni entrato nella valle di Castrocaro, prese Dovadola, ch’egli voleva si desse ai fuorusciti fiorentini; i quali erano seco in campo. Questo negarono i terrazzani, ma in Firenze era timore d’assalto maggiore in Toscana, per il che facevano istanze col Duca rompesse la guerra in Ghiaradadda. Ma nè il Duca nè i Veneziani voleano troppo grande incendio; e questi delle cose avvenute si scusavano dicendo, il Colleoni, libero dalla ferma, avere per proprio suo conto fatto prova della fortuna, ond’essi temendo non s’accostasse ai nemici loro, e non facendo per la Repubblica che egli fosse oppresso, gli aveano dato qualche aiuto, ma non però tanto quanto sarebbe bisognato. Le cose stesse diceano a Tommaso Soderini ambasciatore della Repubblica di Firenze; ed aggiugneano, desiderare sopra ogni cosa che fra le due Repubbliche fosse buona lega, la quale vietando al Duca ed al Re di accrescere le forze loro, avrebbe dato sicura pace a tutta Italia. Teneano frattanto in ponte il negozio delle robe tolte sulla nave Anconitana, che poi furono liberamente restituite. Il Soderini avrebbe molto ambito l’onore di conchiudere egli la pace in Venezia, per la quale Borso marchese d’Este, com’era costume di quei Principi, s’adoperava;[446] ma intanto a fermarla avea posto mano con grande passione Paolo II, e in Roma già erano ambasciatori delle due parti; i quali perchè non s’accordavano, pronunziava ai due di febbraio 1468 il Papa [349] di proprio suo moto e imponeva con la pienezza della potestà sua l’accordo in tal modo, che ognuno tenesse quello che avea prima della guerra, e che a Bartolommeo Colleoni fossero pagati cento mila ducati l’anno per fare impresa in Albania contro ai Turchi, contribuendo alla spesa tutti gli Stati d’Italia, ed il Papa stesso offrendosi darne la parte sua.[447] Ciò andava a grado dei Veneziani; ma v’era poi anche ordinata una lega universale, della quale non volevano sapere: quando ebbero però veduto che l’altra parte non consentiva l’accordo, l’accettaron essi; e intanto facevano danari e soldati e mettevano in golfo galere, del pari mostrandosi apparecchiati alla guerra e alla pace. I Fiorentini s’armavano anch’essi, e ponevano gravezze d’un milione e duegento mila fiorini da riscuotersi in tre anni; facevano grandi pratiche per l’Italia, e diceano essere intollerabile cosa che tutti avessero a mantenere colui ch’era stato sola cagione di tutto il male, come se fossero da lui stati vinti. Per questi rifiuti il Papa forte incollerito, minacciava la censura contro a chiunque non accettasse la Bolla; i Fiorentini faceano motto di appellarsene al Concilio; ma quando le cose più minacciavano di guastarsi, il Papa togliendo via la parte che risguardava il Colleoni, pubblicava la Bolla corretta; e questa essendo da tutti accettata, venne la pace conchiusa nel maggio seguente. Nè fu in Italia altra turbazione; se non che essendo poco di poi morto Gismondo Malatesta signore di Rimini, e la successione andando in Roberto suo figlio bastardo, Paolo II diceva estinta la linea, e mandò genti per la rioccupazione di quello Stato: ma in breve guerra le forze del Papa essendo sbaragliate da Federigo conte d’Urbino, col quale andavano [350] cinquecento cavalli assoldati dalla Repubblica di Firenze, Roberto ebbe la possessione che poi tenne con molto onore del nome suo.[448]

In questo tempo i Fiorentini aveano comprato da Lodovico Fregoso, per trentasette mila fiorini d’oro, Sarzana, Sarzanello ed altre fortezze; che fu tenuto buono acquisto, guardando esse la via di Genova e quella della Val di Taro, donde erano spesso venuti assalti di Lombardia. Ma i fuorusciti non ristavano, e in città e fuori o trame si ordivano, o i reggitori le supponevano a fine di togliere con altre condanne a sè la paura o sfogare odii e cupidigie. Un altro Neroni fu giudicato ribelle, perchè aveva rotto i confini; mozzo il capo ad un Orlandi, perchè voleva dare Pescia ai banditi; per un trattato che si disse avere scoperto, presi e sbanditi un Capponi, un Alessandri, un Pitti, uno Strozzi, e con essi un figlio di quel Tommaso Soderini ch’era primo nella parte di Piero dei Medici; così le famiglie divise e disfatte cadevano dalla antica potenza, e nel comune abbassamento rendeasi agevole la tirannide. Nella Romagna un Francesco da Brisighella era venuto per occupare di furto la rôcca di Castiglionchio su quel di Marradi, spalleggiato da Pino degli Ordelaffi signore di Forlì e da Galeotto Manfredi che, morto il padre suo Astorre, teneva allora il dominio di Faenza: in poco tempo gli assalitori furono presi e dannati a morte. Maggiore caso avvenne in Prato l’anno di poi, che anticipando i tempi vogliamo narrare qui. Due della famiglia Nardi, Silvestro e Bernardo, con più ardimento che senno e pochi compagni, entrati un giorno in Prato e corsa la terra a rumore chiamando il popolo a libertà, della quale non avrebbe saputo che farsi, fecero prigione il Potestà Cesare Petrucci, pigliato avendo in nome loro il governo della terra. Ma durò poche ore, imperocchè [351] essendo in Prato per sue faccende Giorgio Ginori cittadino fiorentino e cavaliere di Rodi, e visto il poco fondamento che aveva l’impresa, raccolse in fretta quanti erano ivi di sua confidenza, e assaltò il Palagio dove uno dei due fratelli fu preso e ferito. Da Firenze andava, saputosi il fatto, soccorso di fanti con Ruberto da Sanseverino Capitano della guerra; ma udirono in Campi finita ogni cosa; e il Nardi con altri, menati in Firenze, furono decapitati.[449]

Aveano i Medici così ottenuto finale vittoria, non che su’ nemici ma sopra i complici e strumenti dell’inalzamento loro, resistenza ultima che incontrino intorno a sè le Signorie nuove: possedeva Piero, gottoso ed attratto che non gli restava altro di libero che la lingua, più assoluta dominazione di quella che avesse avuta Cosimo padre suo. Fu detto che, o fosse benignità o cautela, sapendo lasciare dopo sè due figli per anche immaturi, volesse quando era all’estremo della vita richiamare in Firenze tra’ fuorusciti coloro che meglio credesse potersi riguadagnare col beneficio, e primo fra tutti Agnolo Acciaioli.[450] Pigliava egli intanto coscenza e abitudini quasi di principe, e in Casa i Medici si viveva più signorilmente di quello che fosse usato da Cosimo. A nuovi costumi crescevano i figli; Lorenzo, il maggiore e il più promettente, dal padre era inviato per viaggi frequenti alla familiarità dei Principi e al vivere ornato e gaio, e splendido soprammodo per tutta Italia, delle corti. Troviamo Lorenzo che aveva appena diciotto anni, mandato a quelle dei Bentivogli in Bologna e degli Estensi in Ferrara, indi a Milano ed a Venezia; in Roma ed in Napoli era nell’estate del 1466. Il padre scrivevagli: «ricordati di farti vivo, e fare conto d’essere uomo e non garzone, e metti ogni industria e ingegno e sollecitudine in renderti tale che s’abbi materia operarti in maggiori [352] cose; e questa gita è il paragone de’ fatti tuoi.[451]» I fatti mostravano già in lui singolare prontezza di spiriti e precocità di senno, e nato l’animo alle grandi cose; lo vedemmo sagace ed ardito salvare il padre nei pericoli del 66, e avere la mano in quelle pratiche, e trattare con la Signoria come uomo già fatto: per queste cose il re Ferrando a lui scriveva lettera amplissima di gratulazioni e laudi tali, che a fatica si crederebbero da lui date a un garzoncello quasi imberbe. Lorenzo aveva dai primi anni esercitato l’ingegno nelle lettere, alle quali Gentile da Urbino e il greco Argiropulo erano stati dal padre chiamati a indirizzare il presagio ch’egli di sè dava: abbiamo di lui componimenti d’amore scritti in età quasi fanciullesca. Marsilio Ficino iniziava il giovane Lorenzo alla filosofia di Platone; della quale un libro, lodato a quei tempi, di Cristoforo Landino lui figurava disputatore con Leon Battista Alberti ed altri dotti fiorentini nelle selve di Camaldoli.[452] In casa i Medici era gran ritrovo di uomini letterati, ed ivi faceano capo gli stranieri: madre a Lorenzo fu Lucrezia Tornabuoni, matrona che tutta era nel coltivare la poesia religiosa, e della quale abbiamo a stampa inni sacri dove il sentimento prevale sull’arte: della materna educazione le tracce rimasero non mai abolite, sebbene confuse pel vivere sciolto di lui, per la fantasia ardita, e per la torbida incostanza di quella età quando il paganesimo s’intrudeva negli studi e nella vita e in ogni cosa anche più sacra. Ebbe Lorenzo statura più che mediocre, robuste le membra, ma priva la faccia di venustà pel naso schiacciato e le ampie mascelle; róca la voce, la [353] vista debole, e nullo il senso dell’odorato. Di ventun’anni tolse in moglie la Clarice figlia del signor Iacopo Orsino, ovvero (scrive egli in certi Ricordi) mi fu data. Per quella occasione sulla piazza di Santa Croce fu celebrata a’ 7 febbraio 1469 una Giostra molto grande e molto magnifica, la quale era stata bandita più mesi innanzi; e vi accorsero da tutta Italia signori e giovani cavalieri. «Per seguire e far come gli altri, (scrive lo stesso Lorenzo) giostrai con grande spesa e gran sunto, nella quale trovo che si spese circa a ducati dieci mila; e benchè in armi e di colpi non fossi molto strenuo, mi fu giudicato il primo onore, cioè un elmetto tutto fornito d’ariento con un Marte per cimiero.[453]» Non egli cercava la gloria delle armi, cui non l’avevano educato; ma in lui s’accoppiava con l’elevatezza dell’ingegno, l’industria paziente dell’uomo di Stato. Così era già egli tale da reggere ed ampliare la Casa sua, quando Piero dei Medici finiva la vita ai 3 dicembre 1469.

Capitolo V. GIOVINEZZA DI LORENZO E DI GIULIANO DE’ MEDICI. — RIBELLIONE DI VOLTERRA. — CONGIURA DE’ PAZZI; MORTE DI GIULIANO. [AN. 1469-1478.]

Convennero insieme dopo la morte di Piero gli amici di casa e con essi molti dei più solleciti all’ossequio, da tutti essendosi deliberato di mantenere nei due giovani, Lorenzo e Giuliano, la preminenza nella città, che l’avo ed il padre erano soliti di godere. Ma questa nè dare veramente si poteva, nè oramai togliere per consigli; nè Tommaso Soderini, il quale [354] orò nella radunanza siccome fra tutti il più autorevole, avea tale seguito di partigiani da porre in dubbio se alle sue case o a quelle dei Medici dovesse far capo e ivi consistere la Repubblica. Scrive Lorenzo nei Ricordi, come a lui andassero, «il secondo giorno dopo la morte del padre, i principali della città a confortarlo ch’egli pigliasse la cura dello Stato, come aveano fatto i suoi maggiori;» il che avrebb’egli, «per essere contro all’età sua giovanile e di gran carico e pericolo, mal volentieri accettato, e solamente per conservazione degli amici e delle sostanze, perchè a Firenze si può mal vivere ricco senza lo Stato.[454]» Facea ben egli a sè munimento della provetta esperienza di Tommaso Soderini e del gran nome che aveva questi in città e fuori; molto estimava i consigli di Giovanni Canigiani, usava l’antica destrezza d’Antonio Pucci ed il pieghevole ingegno di lui pronto ai servigi di Casa Medici. A questi però aveva cura d’opporre altri di minor conto e di poco seguito, notando suo padre di scarsa prudenza per avere lasciato alzare attorno a sè troppo quei tre o quattro cittadini dai quali gli vennero quindi i travagli del 66. Diceva altresì, che ascoltare molti pareri e farne capitale, era avere oltre al cervello suo quello degli altri;[455] ma fin d’allora per sè ogni cosa deliberava, in Giuliano essendo natura più quieta e animo dedito ai piaceri.

Col duca Galeazzo Maria di Milano grande era e scambiata d’uffici frequenti l’amicizia di Lorenzo. Questi avea tenuto al fonte battesimale il figlio primogenito di esso Duca; al quale effetto recavasi a Milano, dimorando ivi più giorni con grande solennità: di quel viaggio principesco abbiamo ragguagli in certe lettere molto familiari, che Lorenzo faceva scrivere a madonna Clarice sua moglie da messer Gentile da Urbino, stato suo maestro e che poi divenne [355] vescovo d’Arezzo.[456] Fu egli compare anche a più altri figliuoli del Duca; il quale nell’anno 1471 del mese di marzo veniva a Firenze insieme alla moglie Bona di Savoia, la cui sorella avea per marito Luigi XI re di Francia. Di quella età non si avrebbe compiuto il carattere, se in mezzo ai fatti di guerra e di Stato non si narrassero le magnificenze. Recava con sè il duca Galeazzo cento uomini d’arme e cinquecento fanti per la sua guardia, cinquanta staffieri vestiti di panno d’argento e di seta, cinquanta chinee menate a mano per la persona della moglie, e cinquanta corsieri per lui con ricchissimi guarnimenti: coppie di cani e falconi e sparvieri in grande numero per la caccia. Avea per servizio della duchessa e delle sue dame fatto condurre per l’Alpe a schiena di mulo dodici carrette con le coperte di panno d’oro e d’argento ricamato: allora si dava questo nome alle carrozze, delle quali era grande uso in Milano e molto celebre la fabbricazione: in tutto, la Corte del Duca menava due mila cavalli. Lorenzo alloggiava i principi in casa ed a spese sue, i cortigiani per la città serviti dal Comune. Grande la pompa di feste pubbliche; nelle chiese rappresentazioni sacre: per una di queste arse il bel tempio, non per anche finito, di Santo Spirito, che tosto venne riedificato. Il Duca ammirando in Casa Medici la magnificenza congiugnersi a somma squisitezza d’arti belle, e i dipinti e le sculture de’ maestri eccellenti che aveano allora sede in Firenze, e le tante opere d’antichità che a grande studio quella veramente sontuosa famiglia radunava da tutta Italia e dalla Grecia, si chiamò vinto, secondo che scrivono; dicendo, nulla essere a petto a quelle di Casa Medici le splendidezze a cui bastava [356] la sola copia del danaro. Tempi erano pieni d’eccitamenti all’ingegno, le fantasie deste alle arti del bello, vagante il pensiero, il costume sciolto; del popolo di Firenze briosa la vita, spensierata, motteggiante. «Dove si vidde cosa in quel tempo nella nostra città ancora non veduta, che sendo il tempo quadragesimale, nel quale la Chiesa comanda che senza mangiar carne si digiuni, quella sua Corte, senza rispetto della Chiesa o di Dio, tutta di carne si cibava. Se dunque quel Duca trovò la città di Firenze piena di cortigiane delicatezze e costumi a ogni bene ordinata civiltà contrari, la lasciò molto più.» Abbiamo trascritto qui parole del Machiavelli.

In mezzo e a cagione di tali costumi, la libertà se ne andava. I Signori per luglio e agosto 1470 nel principio del loro ufficio aveano fermato tra loro e vinto nei Collegi che degli accoppiatori stati dal 34 in poi con alcuni arroti, si dovesse trarre ogni anno cinque, i quali facessero le imborsazioni dei Gonfalonieri e dei Priori anno per anno, per quanto duravano le borse a mano; e che a far valida detta provvigione bastasse ottenerla solamente nel Consiglio dei Cento; nel quale essendo proposta due dì, non si vinse; ed i Signori medesimi veduto che a tutti riusciva odiosa, l’abbandonarono. Ma pure a ogni modo per assicurare quello Stato era mestieri di chiudere in pochi la scelta dei magistrati; al che si prestava la mala usanza delle tratte, formando le borse ad arbitrio volta per volta di chi dominava. L’anno dipoi a quaranta cittadini fu data balía di eleggerne dugento, che si chiamò Consiglio maggiore, cui spettasse regolare gli squittinii di dentro e di fuori. Annullarono il Consiglio del Comune e quello del Popolo, nei quali fin dalla istituzione della Repubblica avea fondamento la libertà cittadina; ogni cosa riducendo nel Consiglio dei Cento fidati, che nuovamente riordinarono. Quella Balía fu prolungata per altri quattro mesi a [357] fare lo squittinio di dentro e di fuori; al quale elessero dieci Accoppiatori con autorità grandissima: era di quel numero lo stesso Lorenzo de’ Medici con Giovanni Canigiani e Antonio Pucci; gli altri, tutti dei più aderenti, perchè negli squittinii sempre era la somma di tutto il negozio, vagliandosi allora per un corso d’anni successivi i nomi di quei cittadini sui quali dovessero cadere gli uffici. Ma nelle Balíe, che pure dovevano in sè mostrare qualche poco di libertà, mettevano uomini che tutti non fossero d’un solo colore: non v’erano lotte palesi e a viso alto, ma vi erano inciampi; ed in quegli anni, quando voleasi mutare la forma popolare in principesca, non tutti i partiti riusciva vincere alla prima, o vinti, non avevano esecuzione. Accadde ciò quando si volle ridurre le quattordici Arti minori a sole cinque, vendendo i beni delle vacanti per fare un altro Monte da pagare i provvigionati e castellani. Ma, come è notato da Alamanno Rinuccini, «parve cosa che pretendesse a altro fine più importante, a chi la considerava bene;» perch’era disfare sin anche i nomi delle cose più antiche e più care all’universale: così parve bene lasciarla da parte. Intanto l’aggravio dei Catasti raffittiva; nè tutti pur questi si vincevano, ed un Notaio delle Riformagioni fu condannato perchè si disse avere egli falsato un partito. Volevano tutte mandare a fondo le istituzioni più capitali, e decretarono vendere i beni non che dell’uffizio della Mercanzia, ma quelli disfare della Parte guelfa, la quale invero avea perduto l’antico valore; i Papi non erano allora più guelfi degl’Imperatori, e i re di Puglia Aragonesi preparavano le vie d’Italia a Carlo V. Coteste vendite, benchè a rilento, pure si facevano, e il magistrato di Parte guelfa sotto altro nome passò a curare le opere pubbliche. Oltre ai castellani, ch’erano dei loro, i Medici vollero avere anche un’altra forza nel contado, pel quale crearono un Bargello con cinquanta armati; [358] dapprima a breve tempo, che poi si prolungava, rendendo agevole per tali industrie l’assuefazione.[457]

Forza dello Stato dei Medici era, come già notammo, la ricchezza; la quale Lorenzo anch’egli cercava d’ampliare in più modi, nè gli mancavano le occasioni. Aveano dal Papa infino dal 1466 avuto la depositeria dell’allume negli Stati della Chiesa:[458] avvenne poi che due Volterrani, un Riccobaldi del Bava ed un Inghirami, trovassero in Maremma una cava d’allume di rôcca, sulla quale pretendendo ragioni il Comune di Volterra come signore del luogo, e i due non potendosi bene accordare, Lorenzo de’ Medici entrato a parte di quella impresa per farsi egli solo padrone dei prezzi di tutto l’allume, troncò la questione. Del che i Volterrani tenendosi forte gravati, uccisero l’Inghirami; e tolta l’ubbidienza al Commissario che vi era per la Repubblica e al tutto ribellatisi, era sentenza di molti in Firenze che si procedesse per le buone, usando il perdono: se non che Lorenzo, offeso nel proprio, volle il contrario, e che si riavesse con le armi Volterra, e con le armi si tenesse; troppo era costata al Comune di Firenze, ed il giovane Lorenzo andava spedito in ogni sua risoluzione. Forse i Volterrani poneano speranza nel Signore di Piombino e per suo mezzo nel re Ferrando, sapendosi avere le armi Fiorentine fatta una mossa l’anno innanzi per accordi passati in segreto tra Lorenzo e il Duca di Milano, a fine di togliere Piombino agli Appiani e darlo in possesso al Comune di Firenze; del che Ferrando per gli Oratori suoi aveva fatto querela grandissima.[459] Inoltre è certo che i Veneziani favorivano [359] segretamente la ribellione di Volterra.[460] Per le quali cose non parendo senza pericoli quella guerra, fecero provvisione di trarre dal Monte delle Doti centomila fiorini,[461] e invece dei soliti Dieci, crearono Venti tra i quali era Lorenzo e con esso i primi della città. Diedero il bastone del comando a Federigo conte di Urbino; il ch’era togliere ai Volterrani ogni speranza del re Ferrando, del quale il Conte era soldato; e questi in pochi giorni raccogliendo nel Pisano cinquemila fanti con qualche numero di cavalli, tra’ quali ve n’era mandati dal Papa e dal Duca di Milano, entrato in campagna, occupò il contado prestamente; poi fattosi sotto alle mura di Volterra, poteva la guerra per la fortezza del sito andare in lungo; se non che nella città i molti increduli alla riuscita, ed i mali trattamenti dei soldati dentro, persuasero in pochi giorni la resa, che fu accordata, salvo gli averi e le persone. Entrò in Volterra l’esercito Fiorentino; ma, come se i patti nulla tenessero, la città infelice fu posta a sacco, i cittadini presi, le chiese rubate e le donne svergognate. Lorenzo ebbe carico di quell’orribile tradimento, altri affermando che avvenisse contro suo volere, e lui encomiano di clemenza. Spianato il palazzo dei Vescovi, antichi signori in Volterra, fu sopra quel luogo piantata la Rôcca che ivi rimane; la città ridotta a condizione di terra suddita, perdeva il contado suo proprio ed ogni ultimo resto d’indipendenza: il Conte d’Urbino dalla Repubblica ebbe [360] onori e doni larghissimi. Dipoi Lorenzo visitava l’afflitta città.[462]

Essendo morto Paolo II l’anno 1471, a lui succedeva col nome di Sisto IV frate Francesco della Rovere da Savona dei Minori Osservanti; era egli in Santa Croce di Firenze stato eletto Generale di tutto l’ordine Francescano nel grande Capitolo che ivi si tenne l’anno 1467.[463] Lorenzo de’ Medici, che fu de’ sei ambasciatori mandati in Roma, com’era usanza, al nuovo Pontefice, ebbe da lui su quelle prime grande accoglienza ed insigni doni d’antiche sculture, e l’ufficio di depositario della Camera Apostolica; egli e Giovanni Tornabuoni suo zio ed altri, che stavano in Roma a curare le ragioni della Casa Medici, vi guadagnarono somme grandissime, comprato avendo dal Papa a vil prezzo le gioie che Paolo fastosamente in grande copia aveva raccolte.[464] Intanto Lorenzo faceva sul Papa altro disegno: bramava assai che Giuliano fosse cardinale, perch’era ampliare e fortificare molto i fondamenti alla grandezza della famiglia, e perchè avrebbe lasciato le mani a lui più libere nel governo dello Stato di Firenze. A questo effetto erano le pratiche già molto avviate,[465] quando nascevano tra ’l Papa [361] e Lorenzo i primi semi di quel mortale odio che tanto afflisse la vita d’entrambi.

Il nuovo Papa, dalle strettezze d’una cella balzato alla cima di tanta grandezza, si trovò attorno per sua sventura due famiglie di nipoti, capaci taluni e tutti ambiziosi della condizione principesca a cui gl’inalzava con malo esempio Sisto IV. Da lui cominciava quella serie di Pontefici mondani i quali vedremo, quasi che ad altro non fossero eletti, turbare l’Italia per farvi uno stato ai loro congiunti; e quel che la Chiesa ne patisse, dovremo narrare prima che abbia termine questa oramai fatta peggiore e a noi più ingrata Istoria nostra. Leonardo della Rovere, nipote del Papa, ebbe a gran prezzo di concessioni al re Ferrando, una sua figlia bastarda in isposa; e tosto dipoi Giovanni della Rovere, altro nipote, pigliava in moglie la figlia di Federigo conte d’Urbino, da cui passava in quella Casa un principato fiorente ed illustre più che non portassero i suoi piccoli confini: Giovanni dal Papa ebbe in vicariato Sinigaglia, e il Conte d’Urbino titolo di Duca. Fratello a quei due Giuliano divenne fiero Cardinale, e poi fu papa Giulio II: un altro nipote ma di sorella, Pietro Riario, fatto anch’egli Cardinale, finiva in due anni una vita scandalosa per fasto incredibile: fece un banchetto in Campidoglio ai cittadini di Roma.[466] Un altro poi v’era di quei Riarii, Girolamo, al quale in dote recava titolo di Conte la bellissima Caterina figlia bastarda di Galeazzo duca di Milano: a questo Girolamo il Papa comprava da Taddeo Manfredi di Faenza la signoria d’Imola per il prezzo di quarantamila ducati. Avea Lorenzo dei Medici avuto grande intenzione di acquistare per la [362] Repubblica di Firenze quella città; e poichè gli fu dal Papa tolta la mano, forte adontato, se ne volle proibire a Francesco Pazzi, che stava in Roma gran mercatante, farsi del prezzo mallevadore:[467] si ebbe Lorenzo tirato addosso così ad un tratto due fieri nemici. Nel tempo stesso ambiva Sisto di ricondurre all’ubbidienza le terre più o meno ribellanti della Chiesa; e il cardinale Giuliano avendo con le armi sottomessa Todi e indi Spoleto, metteva il campo sotto alle mura della città di Castello. Di questa i Vitelli erano signori con titolo di vicari; antico il possesso, e il Papa si avrebbe accontentato che Niccolò Vitelli prestasse alla Chiesa omaggio, recandosi in Roma egli della persona sua:[468] ma dispiacevano a Lorenzo quelle armi vicine allo Stato dei Fiorentini, e mandò soldati alla difesa di Niccolò, col quale dovette il Papa discendere a una sorta di composizione. Di qui nuove ire; chè tra due quali erano Lorenzo e Sisto, la vicinanza dava occasioni vive e continue di nimistà.

Durava la lega tra il Re, il Duca ed i Fiorentini, la quale era stata in quegli anni rinnovata; poi l’avere i Turchi espugnata Negroponte e spinto le armi sulle coste d’Albanìa facendo temere per quelle d’Italia, si collegarono insieme tutti gli Stati della Penisola; ma senza effetto, gli altri confidandosi nella virtù dei Veneziani, ai quali riusciva fare meglio soli: intanto che Genova, spogliata di Caffa e dell’imperio del Mar Nero, perdeva in Levante gli antichi possessi. Il re Ferrando più degli altri minacciato dalle armi dei Turchi, ma forte in casa e governandosi con molto fino accorgimento, si acquistava grande fra tutti riputazione. Avevano i Medici sino dai tempi di Cosimo grande entratura co’ Re di Francia; e Luigi XI concedeva a Piero dei Medici fregiare dei Gigli l’arme della casa. Ora quel Re che cercava d’annullare i [363] duchi d’Angiò siccome gli altri grandi vassalli che mantenevano divisa la Francia, avendo disegno di maritare al Delfino, che fu Carlo VIII, la figlia primogenita di Ferrando, ne scrisse a Lorenzo perchè egli facesse in suo nome la proposta. Certo è che poteva al re Aragonese di Napoli molto piacere, levarsi a un tratto d’addosso le antiche pretensioni di Casa d’Angiò, e conciliarsi i Re francesi che le sostenevano; forse che avrebbe quel maritaggio tolto via la prima occasione per la quale scesero in Italia le armi straniere. Ma Ferrando non volle tradire gl’impegni che aveva con lo zio d’Aragona e col duca Carlo di Borgogna, nè dare mano all’ingrandimento della Francia, dal quale temeva maggiore pericolo; riscrisse pertanto a Lorenzo rifiutando quel partito:[469] ma quindi essendosi il Re molto stretto col Papa, si venne bentosto l’Italia a dividere diversamente; ed una lega fu stipulata dai Fiorentini e dal Duca di Milano con la Repubblica di Venezia, alla quale andava ambasciatore Tommaso Soderini.[470] Queste cose non erano a grado di tutti in Firenze, dove i Duchi di Milano pareva che stessero co’ Medici come sempre erano stati contro alla Repubblica. Donato Acciaioli, dignitoso uomo quanto era insigne per dottrina, contrariava, essendo a Milano ambasciatore, le improvvise e molto smaccate parzialità di quel Duca verso gli Oratori della Repubblica di Venezia:[471] e poco prima un Gonfaloniere, Bardo Corsi, che avea voluto per via d’un imprestito legarsi Ferrando più che a Lorenzo non piacesse, e fare altre cose tendenti a libero reggimento, non solamente ne fu impedito, ma d’allora in [364] poi tenuto fuori come sospetto da ogni grado nella Repubblica.[472]

In questo tempo Giuliano dei Medici, che poco aveva parte nelle cose dello Stato e poichè gli era la via chiusa alle ecclesiastiche dignità, seguendo usanze a lui più geniali, combatteva sulla piazza di Santa Croce quella Giostra che fu cantata dal Poliziano.[473] Ma intanto Lorenzo, traendosi fuori dalle circospette cautele di Cosimo e fatto più ardito col procedere dei tempi, volgeva lo Stato a questo effetto, che i Magistrati eletti a sua posta divenissero Consulte; le quali, com’erano mutabili spesso, così a lui fossero ubbidienti sempre, disciolti già i nervi degli ordini antichi, ed egli abile a disfarli. La Signoria ed i Collegi, secondo un disegno già prima formato, s’empìano di nomi a ogni bimestre tirati su dagli Accoppiatori, e questi allora noi troviamo che anno per anno si rinnovassero. Forti le gravezze, ma spesso alternate di grazie fatte alle persone, e sgravi e rilasci di debiti vecchi; abbassato il frutto de’ crediti scritti su’ libri del Monte, e accresciute le gabelle del vino, e messe altre nuove, a fine di sopperire al pagamento di quelli interessi. Tolto via l’ufficio del Capitano del Popolo, istituzione antica e solenne che avea principiato le libertà cittadine quando i Comuni s’emanciparono; ma [365] ora il popolo spossessato, e senza più voce nè rappresentanza d’un Consiglio che derivasse da lui, non era mestieri che avesse neppur di nome un Capitano. Invece di questo posero un Giudice ordinario; e levarono anche gran parte di quella giurisdizione che si apparteneva al magistrato della Mercanzia, volgendo quanto più potevano la cognizione delle faccende private (come dicevano) al Palagio.[474] Quivi gli Otto, ai quali nel 1434 aveano data balía di sangue, processavano e a loro arbitrio condannavano per cose di Stato coloro che aveano essi stessi prima tradotti in giudizio, commettendo con assoluto mandato al Potestà solamente di ratificare e di promulgare le sentenze così come gli Otto le aveano dettate.[475] Il Potestà, che era prima ogni cosa nelle città Italiche, si trovava in oggi ridotto a un mero giudice forestiero, chiamato a sancire le sentenze date non da giudici o dottori, ma da un magistrato di cittadini ai quali prima null’altro spettava che la inquisizione: tuttora vigeva nella forma dei giudizi quella finzione legale per cui si credevano, a render valide le sentenze, abbisognare d’un Potestà; ma i nomi di quelli che ogni sei mesi e ora ultimamente ogni anno venivano, nemmeno si trovano in oggi ricordati nelle istorie, che prima soleano scrupolosamente registrarli. Svanivano tutte le forme antiche della Repubblica: l’Esecutore degli Ordini di giustizia era mutato in un Bargello. Soffriva il popolo [366] queste cose perchè gli animi affraliti non più chiedevano l’esercizio di viva e torbida libertà, ma invece di questa gli ornamenti dell’ingegno e lo splendore delle Arti gentili che si alimentano della pace. La quale in Toscana era dieci anni continuata: solo Carlo da Montone, figlio di Braccio che lo aveva lasciato bambino, stando al servigio dei Veneziani, un giorno ebbe voglia di racquistare Perugia, e visto non essere cosa da fare, si voltò contro alla Repubblica dei Senesi. Credettero questi fosse con saputa de’ Fiorentini; ma essi alle prime lagnanze ordinarono a Carlo ritrarsi: quel fatto però lasciava ruggine tra le due Repubbliche.[476]

Negli ultimi giorni del 1476 moriva Galeazzo duca di Milano, ucciso nella chiesa di Sant’Ambrogio a Messa solenne da tre gentiluomini di quella città. Muovevangli più che odii privati, una immagine di gloria e un desiderio di libertà; ma non appena venuti a termine del disegno loro, anch’essi perivano, e la Casa degli Sforza mantenne lo Stato: a questo fine avea condotto quei miseri giovani un Cola Montano maestro di lettere, tutto invasato la mente ed il cuore di greci esempi e di romani. Qualche anno prima un altro erudito, Stefano Porcari, voleva ricondurre la libertà in Roma per via d’un classico assassinio. Si ripeterono questi fatti più volte in Italia per un centinaio d’anni: nessuno ottenne il fine bramato, ma tutti servirono viepiù ad aggravare ed a ribadire le catene.[477] Vedemmo in addietro passioni feroci ma vere almanco, [367] sapeva ciascuno quel che si volesse; nei tempi a cui siamo, il sempre avere dinanzi agli occhi gli antichi uomini e le antiche cose pervertiva gli intelletti, la virtù pigliava le forme pagane, e il secolo artista e letterato andava in traccia d’effetti drammatici, l’Italia cercando fuori di sè stessa. Le altre nazioni più incolte seguivano più direttamente la via loro; qui le anime vive e i forti pensieri più spesso andavano fuor del segno. Troviamo in Firenze da uomini gravi encomiata l’uccisione dello Sforza;[478] la quale io credo aggiugnesse stimoli a quella congiura che ora c’incombe il tristo ufficio di narrare.

Vedemmo già gli odii accesi nel Papa contro a Lorenzo de’ Medici: era Sisto IV capace d’ingegno, forte di passioni, ma debole d’animo, inquieto e agitato dentro sè medesimo; col mutar vita quando egli era già vecchio ed infermo, aveva sentito espandersi nella tenerezza pe’ nipoti l’affetto indurito; e mentre la stessa riverenza per il sommo grado che ora teneva lo avea formato al sentimento di tutto potere, gli stimoli ardenti d’una giovane famiglia tiravano alle ambizioni principesche quasi la stessa coscienza di lui confusa e vacillante. Girolamo Riario, ch’era l’anima del Papa, vedeva in Lorenzo fatto amico ai Veneziani avere ostacolo la potenza ch’egli tanto ambiva formarsi in Romagna; se il Papa morisse, credeva impossibile tenere lo Stato in mezzo a quei due possenti vicini. Quindi anelava con tutto l’animo alla mutazione di quel di Firenze; al che gli era ai fianchi dentro Roma stessa Francesco de’ Pazzi, natura se mai ve n’ebbe capace d’un solo pensiero, d’un solo volere; a quello tirato dalla prepotenza di passioni intorno a sè cieche, in sè indomabili e incessanti: egli di faccia sparuta e di corpo macilente, come sono [368] spesso quegli uomini cui riesce commettere i fatti più insoliti e quindi ammirati, quand’anche non sieno altro che matte scelleratezze. Inoltre Francesco e tutti quelli della sua Casa odiavano molto quei governi popolari, dei quali vedevano ora i Medici essersi fatti Principi.

La Famiglia dei Pazzi antichissima in Firenze, era tra le più grandi; messa in disparte dal popolo vittorioso, fioriva però di aderenze e di ricchezze, datasi ai traffici che ultimamente faceva in molte città d’Europa. Andrea dei Pazzi aveva alloggiato nelle sue case Renato d’Angiò re di Napoli, e gli era stato grande amico. Dei tre suoi figli, Piero non ignobile d’ingegno s’era tutto dato al vivere lauto ed alle magnificenze per le quali aveva destato in mezzo a tanti ammirazione.[479] Di questo nacquero oltre a Francesco più figli, che tutti vivevano, come altri d’Antonio fratello a Piero. D’Andrea restava un terzo figlio Iacopo, tenuto ora come capo della famiglia dei Pazzi, già vecchio e ricchissimo anch’egli; e per essere asceso infino ai sommi gradi, fatto dal popolo cavaliere; ma diffamato come furiosamente dedito al giuoco ed alla bestemmia. Cosimo de’ Medici, per amicarsi quella possente famiglia, avea maritato Bianca sorella di Lorenzo a Guglielmo dei Pazzi fratello minore di Francesco: da quelle nozze, come vedemmo, ebbe la Casa dei Pazzi sollievo dai carichi delle gravezze. Ma quanto al dare gli uffici, andavano a rilente i Medici dove fossero congiunte nobiltà e ricchezze; e il popolo istesso per antica usanza vedea sempre di mal occhio nei Magistrati le famiglie grandi, tra le quali erano i Pazzi tenuti, sebbene profusi allo spendere, altieri e lontani dall’uguaglianza popolare. «Questo fece che a messer Iacopo e ai nipoti non erano conceduti quei gradi d’onore che a loro, secondo gli altri cittadini, pareva meritare. E il magistrato degli Otto, sendo Francesco [369] de’ Pazzi a Roma, senza avere a lui quel rispetto che ai grandi cittadini si suole avere, a venire a Firenze lo costrinse.» Imperocchè in Roma aveva Francesco guadagni e favori e l’ufficio del Tesorierato, ai Medici essendo tolto quello della Depositeria nei primi sdegni del Papa contr’essi. Per ultimo avvenne che Giovanni de’ Pazzi avendo in moglie la figliuola unica di Giovanni Borromei, uomo ricchissimo, le sostanze di lui dovevano andare alla figlia: ma fatta una legge che i cugini maschi privassero della successione le sorelle, il pingue retaggio andò invece a Carlo Borromei molto aderente a casa Medici.[480] «La quale ingiuria i Pazzi al tutto dai Medici riconobbero: della qual cosa Giuliano de’ Medici molte volte con Lorenzo suo fratello si dolse, dicendo com’ei dubitava che per voler delle cose troppo, ch’elle non si perdessero tutte. Nondimeno Lorenzo, caldo di gioventù e di potenza, voleva a ogni cosa pensare, e che ciascuno da lui ogni cosa riconoscesse. Non potendo adunque i Pazzi con tanta nobiltà e tante ricchezze sopportare tante ingiurie, cominciarono a pensare come se n’avessero a vendicare.» Saranno qui facili a riconoscere le parole del grande scrittore.[481]

Aveva trovato Francesco dei Pazzi in Roma un altr’uomo tale da farsi al suo disegno strumento e complice opportuno. Essendo morto Filippo de’ Medici arcivescovo di Pisa, avea Sisto IV, contro la volontà di Lorenzo, data a Francesco Salviati quella ricca mensa: prima voleagli conferire l’arcivescovado di Firenze, ma invece Lorenzo ottenne questo per il cognato suo Rinaldo Orsini, ed ora indugiava tre anni l’investitura di quello di Pisa. Ebbela infine Francesco Salviati, ma dimorava in Roma, essendo tra quei Prelati ai quali piaceva più stare in corte che alla diocesi, e [370] che non voleano del vescovado che il benefizio; ambiziosissimo com’egli era, il grado ecclesiastico pareagli essere mantello e usbergo a più arrischiare. Ebbe egli pertanto col conte Girolamo e con Francesco de’ Pazzi frequenti discorsi tutto l’anno 1477, cercando insieme di mutare lo Stato in Firenze. Al che gli pareva necessario innanzi tutto di tirare Iacopo de’ Pazzi, siccome capo della famiglia e senza cui nulla si farebbe. Al qual fine essendo Francesco de’ Pazzi venuto in Firenze, trovò il vecchio messer Iacopo freddo e renitente più che non avrebbe egli voluto: pareagli mattìa volersi fare i suoi nipoti signori in Firenze, e considerava quanto bello stato e quanta ricchezza egli ora mettesse in sul tavoliere.

Laonde credendo essere a smuoverlo necessario mostrargli presente e certo l’aiuto del Papa e del Re, Francesco, tornato in Roma, faceva con gli altri deliberazione di comunicare il tutto con Giovan Battista da Montesecco, soldato bene affetto al conte Girolamo, facendo che andasse poi quegli in Firenze a vincere l’animo di Iacopo con la presenza sua e con le promesse recate da Roma. Aveano al Papa tenuto discorso di questi fatti; ascoltava Sisto e dichiarava tutto essere bene, solo che sangue non si spargesse: allora il nipote avea cura di acchetarlo su questo punto, ed affermava al Montesecco che il Papa bramava sopra ogni cosa la mutazione dello Stato di Firenze, e che a Lorenzo voleva male, e ch’erano certi di fargli poi fare quel che volessero. Rimane di tutto ciò la narrazione di mano stessa del Montesecco, la quale non abbiamo noi temuto seguire nei punti almeno più sostanziali, secondo hanno fatto altri scrittori; a noi parendo essere in quella molti caratteri d’ingenuità e molti assai di verosimiglianza.[482] Venuto [371] pertanto il Montesecco a Firenze e conferito con messer Iacopo, lo riscaldò tanto, che il vecchio divenne a quella opera molto acceso; e così tutta la Casa de’ Pazzi fu nella congiura. Se non che Renato, ch’era tenuto il più savio uomo della famiglia, biasimò sempre quell’impresa della quale non antivedeva altro che male; e il misero si credette bastasse tenersi, quando il fatto avvenne, in villa rinchiuso. Nulla sappiamo di Guglielmo,[483] nè della Bianca in mezzo a quelle scene di sangue; e quale fosse il cuore loro, quale il diportarsi, l’istoria lascia tremendo argomento alle invenzioni del Poeta.

Così apprestata la materia dentro, e parendo essere giunto il tempo da porvi la mano, Francesco dei Pazzi e l’arcivescovo Salviati da Roma vennero a Firenze. Aveano ordinato col conte Girolamo che Lorenzo da Città di Castello, uomo del Papa, ne andasse al paese suo, e Gian Francesco da Tolentino in Romagna, i quali tenendo le loro compagnie in ordine, ubbidissero al primo cenno che da Firenze ricevessero di assaltare da due lati oppostamente la Toscana. E al tempo stesso, sotto colore di vendicare un insulto fatto da Carlo da Montone ai Perugini ed ai Senesi, Giambatista da Montesecco venne a Firenze con alcune diecine di uomini d’arme, dicendo essergli comandato di fare l’impresa del Castello di Montone. Visitò Lorenzo de’ Medici, e accolto umanamente da lui, n’ebbe consigli intorno a quel fatto savi e amorevoli; tanto che al duro animo del soldato cominciò a parere strana cosa quello essere l’uomo ch’egli era venuto per ammazzare. Ma Francesco dei Pazzi e l’Arcivescovo lo stringevano all’opera, alla quale il re Ferrando mediante il suo Oratore prometteva aiuto valido; ed avevano ad essa tirato Bernardo Bandini e Napoleone Franzesi, giovani arditi e alla famiglia dei Pazzi obbligatissimi: [372] tiraronvi Iacopo di Poggio Bracciolini, temerario, bisognoso, pronto ad afferrare ogni cosa nuova, ed un Antonio da Volterra che per la memoria del sacco dato alla città sua odiava Lorenzo, ed uno Stefano sacerdote che in casa di Iacopo dei Pazzi insegnava lettere ad una sua figliuola naturale. Questi ed i famigli delle due case bastavano; solo rimaneva da fermare il modo per ammazzare i due fratelli.

Al che si offrivano facili e pronte le occasioni per non avere essi alcuna usanza di guardarsi; giovani, piacevansi di praticare alla libera con gli altri giovani: siffatti modi, tutti fiorentini, vedemmo anche essere presso i Medici accortezza. Ma in questo era la difficoltà, che bisognava opprimerli insieme, perchè il superstite non avesse a vendicare l’ucciso: pensarono a coglierli lontani tra loro, tanto che uno non potesse soccorrere l’altro, e quindi aspettavano se Giuliano andasse a Piombino per le nozze che si trattavano con la figlia di quel Signore, o Lorenzo a Roma come si diceva.[484] Ma frattanto correvano i giorni, e la cosa era in bocca di molti. Allora, fosse disegno o caso, Raffaello Riario nipote a Girolamo, giovanetto che non giungeva a’ vent’anni, essendo a studio in Pisa, fatto in quei giorni dal Papa Cardinale, venne in Firenze per andare quindi Legato a Perugia. Era occasione di feste e conviti, dove i due fratelli per onorare il Cardinale converrebbero: alloggiava egli a Montughi in una villa di Iacopo dei Pazzi, il quale invitava seco a desinare Lorenzo e Giuliano, ma questi impedito da leggera infermità non intervenne. Un altro convito dato al Cardinale dai Medici nella loro villa presso Fiesole, non parve porgesse comoda occasione. Giunse infine il giorno della domenica 26 aprile: il Cardinale era invitato [373] a solenne desinare in casa Medici, s’allestivano le mense, mettevansi fuori gli addobbi splendidissimi della Casa. Innanzi assisteva il Cardinale ad una Messa in Santa Maria del Fiore: Lorenzo e Giuliano doveano andare a quella Messa per fare corteggio al Cardinale ed accompagnarlo quindi a casa loro. Deliberarono i congiurati quella mattina medesima di compiere in chiesa, senza più indugio, l’attentato.

Aveano assegnato il punto e l’ordine all’impresa quando il sacerdote, avendo fatta la comunione, finisce la Messa; perchè allora il tocco delle campane del Duomo darebbe il segno all’arcivescovo Salviati ed a Iacopo Bracciolini e agli altri cui era commesso d’occupare a forza il Palagio. Voleano che Giambatista da Montesecco avesse la cura di ammazzare Lorenzo, Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini, Giuliano. Ma Giambatista prima addolcito dalla umanità di Lorenzo e avendo orrore di commettere tanto eccesso in chiesa, ricusò dicendo che a ciò l’animo non gli basterebbe; il luogo suo ebbero Antonio da Volterra e Stefano sacerdote. La chiesa era piena di popolo, i due Fratelli passeggiavano intorno al Coro, quando venuto il punto, Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini ch’erano presso a Giuliano con armi corte gli traversarono il petto sicch’egli cadde subito in terra; ma quelli pure gli si gittarono sopra e lo finirono con altri colpi: in quel furore Francesco de’ Pazzi di propria mano sbadatamente ferì sè stesso in una gamba. Antonio da Volterra e Stefano prete assalivano Lorenzo, ma questi se ne avvide in tempo, e cavò l’arme e si difese, non avendo egli avuto altro che una leggera ferita nel collo. Francesco de’ Pazzi, tutto che ferito, e Bernardo Bandini accorrevano per ammazzare anche lui, ucciso avendo Francesco Nori che gli era appresso; ma Lorenzo saltò in Coro, e passando dinanzi all’altare uscì di faccia alla sagrestia nuova, dove molti essendo accorsi de’ suoi, lo misero dentro e chiusero la porta [374] ch’era di bronzo, e Piero suo padre l’avea fatta fare. Quivi, tra gli altri, si trovò Agnolo Poliziano che descrisse la Congiura: sentivano fuori tumulto e grida e remore d’armi, nulla sapevano di Giuliano. Stati poco tempo, udirono molti farsi alla porta gridando: uscite; non erano certi che fossero amici, ma un giovane Sigismondo della Stufa ch’era ivi con gli altri, salito per una scaletta sulla cantoria dell’Organo, tornò assicurando ch’erano a difesa di Lorenzo: il quale uscito dopo circa un’ora ch’era stato in sagrestia, fu in mezzo a grande compagnia d’armati menato a casa. I congiurati veduto ch’ebbero Giuliano morto e Lorenzo in salvo, chi in qua e chi in là s’erano dispersi. Il giovinetto Cardinale che udiva la Messa, rimasto solo tutto spaurito accanto all’altare, fu poi raccolto da’ suoi preti, e quando fu tempo, da due degli Otto con guardia bastante condotto in Palagio e ivi ritenuto.

Intanto l’arcivescovo Salviati, uscito di chiesa col dire che andava a visitare sua madre, s’era recato al Palagio; seco avea Iacopo suo fratello conscio del fatto, ed un cugino che nulla sapeva e Iacopo Bracciolini e certi Perugini fuorusciti ed altri, in tutto forse trenta armati. Dei quali rimasti alcuni a guardare la porta, l’Arcivescovo saliva con pochi, e trovato che la Signoria desinava, chiese parlare al Gonfaloniere; il quale subito si levò da tavola e fece in camera entrare seco l’Arcivescovo, che disse avere certe commissioni da fare a lui proprio in nome del Papa. Era Gonfaloniere quel Cesare Petrucci che stato in Prato Commissario nel tumulto del 1470, di bassa fortuna era salito a quel grado pel favore di Casa Medici: il quale s’accorse che l’Arcivescovo nel parlare si mutava in viso e non attaccava parola da trarne costrutto; poi voltandosi verso l’uscio, si spurgava come se volesse fare cenno a gente di fuori. Al che subito il Gonfaloniere, come esperto di quelle mischie, saltato fuori dall’uscio [375] e chiamati a sè i compagni e quei ministri che si trovarono in Palagio, usando le armi che il caso offerse, bastarono contra ogni mossa dei congiurati; dei quali anche era avvenuto ch’entrati certi in una stanza e chiuso l’uscio, ch’era a colpo, non ne potessero quindi uscire. In questo mezzo giungeva in Piazza Iacopo de’ Pazzi, venuto da casa con molti congiunti, e amici, egli a cavallo e seco forse un centinaio d’uomini armati; dei quali taluni, essendo la porta in mano dei loro, salivano su. La Signoria ed il Palagio correvano pericolo; ma in Piazza sebbene avesse Iacopo gridato il nome della Libertà, perch’era come di lingua morta, niuno si mosse; e invece accorreva da ogni parte gente devota ai Medici che gridava Palle. Di questi essendo entrati tanti in Palagio da assicurarsi dei congiurati ch’erano sopra; chiusero la Porta, e perchè di fuori il Pazzi co’ suoi facevano segno di combatterla, quei di dentro saliti in alto sul ballatoio gli allontanarono co’ sassi che la Signoria teneva sempre lassù per difesa: cosicchè a Iacopo fu necessità tornarsi a casa, dove aspettato se per la città nascesse qualche rumore di libertà, poichè fu certo essere il contrario, fattosi aprire la porta alla Croce, fuggiva con parte de’ suoi in Romagna. Ma lui ritrattosi, era la porta del Palagio stata riaperta, dove entrati molti, raccontarono il fatto come avvenne in chiesa, e Giuliano ed il Nori uccisi, ed il pericolo di Lorenzo. Al che senz’altri discorsi il Petrucci e gli Otto, tra ira e paura, ordinarono che l’Arcivescovo così com’era, co’ suoi Salviati e con Iacopo di Poggio fossero appiccati alle finestre del Palagio a vista del popolo, e che tutti gli altri ch’erano dentro fossero gettati, morti o semivivi, fuor delle finestre. Altri erano stati in quella furia tagliati a pezzi, in tutti ventisei; tra’ quali alcuni preti e servitori del Cardinale: fra tutti uno solo potè salvarsi, che dopo quattro giorni rinvenuto sotto a certe legna e quasi che morto dalla fame, gli fu perdonato.

[376]

A casa i Medici accorrevano da tutti gli ordini della città, chi a offrire sè stesso, chi ad accertarsi dell’accaduto, ciascuno agitato da incerte passioni. La strada era piena di popolo, e tutti chiedeano vedere Lorenzo, il quale dovette mostrarsi alla finestra fasciato il collo da un asciugatoio. Ma intanto in Palagio avevano dato il segno alla plebe, la quale non fu sorda a rispondere, aizzata e al sangue condotta dai cagnotti di Casa Medici. Corse alle case dei Pazzi, e avendo trovato in quelle Francesco solo, che per la ferita s’era gittato sul letto, così mezzo ignudo com’era, lo condussero al Palagio, dove fu accanto agli altri impiccato. Quindi spiando dove si fosse alcun dei Pazzi ricoverato, trovarono Giovanni d’Antonio negli Agnoli, e Galeotto di Piero che cercava di rifugiarsi, vestito da femmina, in Santa Croce; e pure quei due furono condotti in Palagio. La Signoria intanto spacciava lettere e cavallari attorno, ordinando dovunque taluno di costoro capitasse, fossero presi ed a Firenze condotti; quivi recati il dì seguente di Mugello tre altri dei Pazzi con alcuni fanti di quei del Montesecco, furono alle finestre del Palagio impiccati. La plebe infuriava sopra i cadaveri bestialmente, e trascorrendo per le vie, faceva temere a molti che non volesse mettere la città a sacco, nè fu repressa che a grande stento. Renato de’ Pazzi, che avea biasimato la congiura, come si è detto, ma che la sapeva, cercando fuggire in veste di contadino, fu preso e a quel modo com’era, impiccato. Reo fu Lorenzo a non salvarlo, e quella morte sola ebbe compianto universale nella città: Renato altro non poteva. Andando con gli altri faceva contro alla coscienza sua, denunziarli era iniqua opera, e mettersi prima in salvo era questo pure un’accusarli e sè non assolvere vivendo sempre poi svergognato; nocque a lui essere tenuto savio, e perchè nel popolo aveva credito e benevolenza, parve a chi teneva lo Stato che fosse tal uomo da levarselo dinanzi.

[377]

Il dì seguente venne messer Iacopo de’ Pazzi, il quale fuggendo era stato raggiunto in sull’Alpi, e venne in lettiga perchè reggere non si poteva e fu a quel modo menato in Palagio; dove egli ebbe la sorte degli altri, avendo per via pregato invano quelli Alpigiani che l’uccidessero. Nè a questo solo strazio era serbato quell’uomo, tenuto prima felice ed invidiato per grado e ricchezze, e capo egli di famiglia fiorentissima, e vissuto fino alla vecchiezza nei primi onori della città. Imperocchè essendo prima sotterrato in Santa Croce, e poi levatasi fama ch’egli fosse morto bestemmiando, s’attribuivano certe lunghe pioggie che in quei giorni avvennero, all’essere egli stato sepolto in luogo sacro. Laonde i Signori nottetempo fattolo levare di chiesa, lo mandarono a sotterrare lungo le mura; ma i fanciulli (guidati da uomini scelleratissimi) cavatolo anche di lì, col capestro ch’egli aveva alla gola, lo trascinarono alle case sue gridando: aprite a messer Iacopo de’ Pazzi; nè sarebbe finita quella nefandità se la Signoria, per cavarlo ad essi di mano, non lo avesse fatto pigliare e gettare in Arno, che allora grosso di molte acque portava quel corpo a galla, spettacolo di orrore insieme e di compassione. I due feritori di Lorenzo presi in Badia, pendevano il dì poi con gli altri dalle finestre del Palagio. Ivi ed in Piazza i morti sommarono tra impiccati e tagliati a pezzi, chi dice il minor numero a settanta, e chi il maggiore presso a cento. Giovan Battista da Montesecco, preso nei giorni stessi e lungamente esaminato, dopo avere scritta quella Confessione della quale abbiamo discorso, ebbe il capo mozzo sopra la porta del Palagio del Potestà. Bernardo Bandini e Napoleone Franzesi riuscirono a porsi in salvo, ma il secondo moriva l’anno dipoi nelle armi del Duca di Calabria, venuto a campo sopra a Firenze. Bernardo Bandini ricoverato in Costantinopoli, fu per ordine del Sultano preso e consegnato a un Antonio di Bernardetto dei Medici, che Lorenzo aveva mandato [378] apposta in Turchia: così era grande la potenza di quest’uomo e grande la voglia di farne mostra, e che non restasse in vita chi aveagli ucciso il fratello: fu egli appiccato appena giunto.

Nè per tutto il mese di maggio seguente cessavano le condanne delle quali abbiamo il testo, profferite dal magistrato degli Otto di Guardia e Balìa, che ne ingiungeva la promulgazione al Potestà: questi era Matteo de’ Toscani milanese. Tutti quei della famiglia Pazzi che uccisi non furono, andarono in fondo alla torre di Volterra, eccetto Guglielmo che per avere in moglie la Bianca sorella di Lorenzo fu solamente confinato a cinque miglia lontano dalla città: abbiamo notizia come sei anni dopo, dimorassero la moglie in Firenze ed egli in Roma, trattato dai Medici con benignità riservata e contegnosa, come uomo perdonato e che potesse tornare in grazia di parente.[485] La famiglia dei Salviati rimase in grado, e fu poco dopo imparentata con Casa Medici. I fratelli del Bandini, due altri figliuoli del Poggio, tutta l’antica ed illustre famiglia dei Franzesi da Staggia e alcuni dei Corsi, come sospetti, e molti che il Magistrato inquisitore e giudice andava in qua e in là raggranellando, furono o carcerati o confinati o resi inabili agli uffici; il che dicevano ammonire, continuando tuttavia quel nome usato in antico dal magistrato di Parte guelfa; ma ora negli Otto stava quell’arbitrio che si appellava giurisdizione. Un Vespucci, amicissimo dello Stato ma che aveva salvato un colpevole, fu condannato in perpetuo alla carcere nelle Stinche, poi liberato. Frattanto i Pazzi erano dipinti nella facciata del Palazzo del Bargello impiccati come traditori col capo all’ingiù.[486] Chi avesse in moglie una discendente di Andrea [379] dei Pazzi era ammonito egli ed i figli suoi, e le fanciulle che si maritassero di quella prosapia recavano seco il divieto nelle case dove elle entravano: una provvigione della Signoria ordina queste cose, e che il nome dei Pazzi in perpetuo rimanga abolito costringendo a mutar casato quei che rimanevano; e che sieno cancellate le armi loro dovunque si trovino, e le insegne e le iscrizioni d’onore, sien’anche in case private; e che il Canto de’ Pazzi pigli altro nome; e che l’onorificenza del Carro e dell’appiccare il fuoco nella solennità del Sabato Santo fosse tolta alla famiglia dei Pazzi. La quale rimase, di numerosissima ch’ella era, come annullata, e sebbene fosse poi restituita negli onori, non racquistò mai l’antica grandezza.

Questo fine ebbe la Congiura de’ Pazzi; l’aveano tramata senza consenso dentro nè favore popolare, e, quel che fu peggio, con intelligenze fuori odiose a chiunque bramasse in Firenze col torre via i Medici recuperare la libertà: poi quella strage in luogo sacro, in ora solenne, e l’uccisione di Giuliano che il popolo amava, destarono affetti incontro ai quali nulla aveano essi fuorchè un pensiero d’istituire, facendo a mezzo con la Casa dei Riari, non so quale forma d’incerta repubblica o di tirannide. Acquietati gli animi, furono a Giuliano celebrate esequie magnifiche: riseppesi ch’era incinta di lui una donna dei Gorini; ed il fanciullo, che nacque pochi mesi dopo, nutrito e cresciuto nella compagnia dei figli che aveva Lorenzo, divenne papa Clemente VII.[487]

[380]

Capitolo VI. GUERRA CON SISTO IV. — LORENZO DE’ MEDICI A NAPOLI. [AN. 1478-1480.]

Quando giunse a Roma la prima notizia del fatto atroce, risedeva in quella città per la Repubblica, oratore, Donato Acciaioli. Era egli ora per la seconda volta inviato a Sisto, le commissioni difficili e odiose e in tutto aliene dall’animo di Donato; il quale andatovi per ubbidienza di buon cittadino, faceva il meglio. Quali poi fossero le cose segrete che aveva a trattare, tace il biografo di lui (come suole fare sovente) «per non offendere chi non l’avrebbe per bene.» Inteso pertanto ch’ebbero a Roma del Cardinale preso e dell’Arcivescovo impiccato, se ne fece grandissimo caso; e il Conte Girolamo riscaldò il Papa ed il Collegio dei Cardinali quanto potè a farne dimostrazione contro all’ambasciatore Fiorentino. Quindi egli stesso con molto numero di fanti armati andò alla casa dove l’Acciaioli dimorava, salì su, e gli disse d’andare con lui: poi, senza badare nè al diritto inviolabile d’ambasciatore, nè alle dignitose proteste che invano questi faceva, messolo in mezzo a quei soldati, lo menò in Palazzo. Qui giunto Donato, volle essere subito condotto al Papa, il quale alle forti parole di lui, giurato avendo sopra il suo petto che di questo caso non ne sapeva nulla, e dimostrato che gli dispiacesse, gli diede licenza d’andarsene a casa. Non era mancato pensiero di metterlo in Castel Sant’Angelo, ma gli Ambasciatori di Venezia e di Milano dichiararono che il bene ed il male che fosse a lui fatto verrebbe da essi riguardato come cosa loro. Così egli rimase in Roma tranquillo, ma scorato ed avvilito per l’onore offeso della sua città, e intimorito delle conseguenze che ne uscirebbero. A Firenze scrisse, rendessero [381] subito il giovane Cardinale Raffaello di San Giorgio, che era stato preso; al Papa avea dato fede che ciò era stato fatto per cavarlo di mano al popolo, e che ogni volta che lo rivolesse, lo renderebbero; il che aveva per lettere anche promesso la Signoria. La quale era stata a ciò confortata anche dal re Ferrando, che prometteva, facendo questo, non ne seguiterebbe alcuno scandalo di quei gravissimi, i quali altrimenti potevano uscirne.

A questo effetto aveva il Papa mandato a Firenze il Vescovo di Perugia; il quale essendovi più giorni rimasto, non potè ottenere che lo rendessero.[488] Era un pegno in mano delle robe e delle persone dei molti Fiorentini che stavano in Roma: aveano scritto a quei mercanti che al più presto mettessero in salvo le robe ed uscissero di Roma; il che essendo giunto alle orecchie del Papa, e temendo egli il grave danno che ne verrebbe ai cortigiani che aveano danari nei loro banchi, mandò gente ai passi perchè non uscissero, e poi ne fece taluni mettere in Castello, di dove furono liberati in capo ad alcune ore, data promessa di non si muovere. Questo abbiamo da una lettera a Lorenzo dei Medici, scritta dal Cardinale decano Vescovo d’Ostia, ch’era egli medesimo stato in Castello alla liberazione di quei mercanti. Gli annunzia, il Papa con tutto il Collegio avere eletto una congregazione di cinque Cardinali a fare il processo per via di giustizia contro alla Repubblica di Firenze, se non si renda liberamente il Cardinale di San Giorgio: esorta quindi Lorenzo, come affezionato a lui, «che di tal cosa non si pigli passione alcuna, ma con ogni istanza procuri quella liberazione; altrimenti quello che unanimiter il Sacro Collegio ha deliberato per i detti Deputati, si manderà ad esecuzione con ogni celerità: della qual cosa a noi rincrescerà assai, perchè sapete che il Sacro [382] Collegio non more mai; e, al parere nostro, per voi non fa pigliare questa impresa, della quale ne poteria seguire gran mancamento e scandalo alla detta vostra Excelsa Comunità.[489]»

Pare a noi che il vescovo d’Ostia volesse distinguere i procedimenti del Sacro Collegio che non muore mai, da quello che il Papa facesse di proprio moto e di passione. Questi da principio aveva mandato lettere di condoglianza ai Fiorentini, dei quali scriveva in altro luogo, non essersi fatti per anche rei d’alcuna offesa contro all’ecclesiastica dignità.[490] Pure doveva sapere dell’Arcivescovo impiccato e del Cardinale preso; ma quegli ben troppo se lo aveva meritato, e il Cardinale contava rendessero. Mordevalo intanto la parte che egli ebbe nell’atroce fatto; pensava le accuse che a lui ne verrebbero maggiori del vero, e del mal esito si doleva. Ma il Conte Girolamo gli faceva suonare alle orecchie le acerbe accuse e le parole che in Firenze andavano, senza ritegno alcuno, contro alla persona stessa del Pontefice, sinchè la misura delle ire fu colma per la dinegata restituzione [383] del Cardinale. E Sisto lanciava nelle calende di giugno un Breve di scomunica a Lorenzo dei Medici, alla Signoria, agli Otto e a tutti che avessero in qualche modo partecipato alle prave opere di costoro. Dichiarava essere quei sopraddetti, e primo Lorenzo, dannati, infami, abbominevoli, inabili essi e i figli e i nipoti loro ai gradi ecclesiastici ed agli ufizi civili, incapaci di ricevere eredità, di stare in giudizio e d’essere uditi come testimoni; era vietato ad ogni uomo contrattare, o anche semplicemente avere con essi commercio alcuno o conversazione; i beni loro devoluti al Fisco, le case disfatte ed in perpetuo lasciate in ruina, così che elle sieno ricordo ai futuri della scelleratezza di quegli uomini e del gastigo. La città di Firenze, se dentro a un mese non gli avesse condegnamente puniti, doversi intendere soggettata a interdetto strettissimo, privata dell’episcopale dignità, interdette anche per ampliazione le diocesi confinanti di Fiesole e di Pistoia. Il lungo Breve enumera da principio i motivi della condanna: sono atti di malvicinato, offese ai commerci, l’aiuto prestato a Niccolò Vitelli e ad altri contumaci inverso la Chiesa, la possessione differita all’Arcivescovo di Pisa, ed altri consimili fatti nei quali il Breve scorge altrettante manifestazioni d’animo efferato contro alla Chiesa ed a’ suoi ministri. Si viene da ultimo ai due capitali delitti, l’uccisione dell’Arcivescovo e la detenzione del Cardinale; i quali delitti si dicono mossi in Lorenzo e ne’ suoi da ingorda sete di crudeltà e d’ingiurie agli ecclesiastici: imperocchè ai fatti che gli cagionarono è data nel Breve questa spiegazione, che avendo Lorenzo, co’ suoi, voluto uccidere o cacciare molti dalla città per farsi egli in essa più forte, e da ciò essendo sorte private e civili contenzioni; gli scellerati colsero il destro per uccidere l’Arcivescovo e ritenere il Cardinale. Rileva cotesti delitti essere perpetrati in giorno di domenica: ma di ciò che avvenne in chiesa quel [384] giorno, dei sacri misteri interrotti, del tempio di Dio bruttato di sangue, del tradimento, degli assassinii, nulla, come se il fatto non fosse stato.[491] Era tasto da non toccarsi dal Conte Girolamo, che certo era stato suggeritore del Breve; e Sisto infelice lo avea sottoscritto. Giovò a Lorenzo quella manifesta alterazione dei fatti; giovarono quelle furiose parole; ed i nemici del Papato allora e poi n’ebbero bel giuoco, onde in quel fatto il nome di Sisto rimase gravato generalmente più in là del vero.

Bel gioco, e agevole commissione ebbe anche Bartolommeo Scala, cancelliere della Signoria, cui venne commesso rispondere al Breve di Sisto IV. Narrò con semplici e brevi parole quel fatto che aveva destato nel mondo rumore grandissimo; e in quanto ai motivi, gli bastò trascrivere la Confessione del Montesecco, autenticata ora con grande solennità. Raccolse inoltre la Signoria per la Toscana e per l’Italia pareri di Canonisti e di Teologi, i quali negavano valore al Breve ed alla scomunica data a quel modo: quindi obbligarono in Firenze e nelle altre diocesi gli ecclesiastici a non cessare dalla celebrazione dei divini uffici.[492] Inviarono quella risposta per mano di Ambasciatori della Repubblica all’Imperatore, ai Re di Francia e di Spagna e d’Ungheria, e presso che a tutti i Principi cristiani, chiedendo difesa da tanta violenza, e la riparazione di uno scandalo che tutti offendeva. Frattanto, a purgarsi, liberarono subito dopo il Cardinale, che a’ 5 di giugno licenziato dal Palazzo dei Medici, dove l’aveano messo, e andato a stare nel convento de’ Servi, uscì di Firenze sette giorni dopo, andando a Roma per la via di Siena.[493]

[385]

Luigi XI avea scritto lettera consolatoria a Lorenzo, che a lui rispondeva fiere parole e dignitose: dice la sua vera e sola colpa essere questa, che egli sia vivo e che Dio lo abbia scampato da sì empio e sacrilego assassinio.[494] Appellarono indi i Fiorentini ad un futuro Concilio, del quale invitavano e scongiuravano in primo luogo l’Imperatore, poi gli altri Principi, a farsi autori. Fu anche affermato che un Sinodo si celebrasse a questo effetto in Firenze, ed un preteso decreto di questo Sinodo si rinviene di quel tempo scritto; ma non è che una molto prolissa apologia dei Fiorentini e di Lorenzo, in risposta al Breve, tempestata di gonfie e triviali ingiurie al Papa che oltrepassano ogni modo: nè mai quel Sinodo (che noi sappiamo) fu radunato, sebbene vi fosse chi n’ebbe intenzione, e intanto allestiva l’atto da farsi, o lo mentiva.[495]

Intanto il Papa ed il Re avevano cominciato la guerra in Toscana. Fecero di questa Capitano generale Federico duca di Urbino, e seco era Alfonso duca di Calabria primogenito del Re: i quali essendo nei primi giorni del mese di luglio giunti ai confini presso Montepulciano, un trombetta del duca di Calabria recava in Firenze un Breve del Papa in data dei sette di luglio. Con esso notificava ai Fiorentini, come non potendo più tollerare l’ingiurie che da Lorenzo dei Medici in diversi tempi erano state fatte alla Sedia Apostolica, si trovava costretto prender le armi contro a lui, acciocchè liberata la città di Firenze da cosiffatto tiranno, potesse egli volgersi con l’aiuto di [386] tutti i principi e delle repubbliche dei Cristiani alla impresa dei Turchi. Credeva pertanto quella prudentissima Repubblica vorrebbe ultimamente risolversi ai partiti migliori, la quale verrebbe a perdere sè medesima, quando ella volesse in tanto dannosa servitù continuare; e chi ciò consigliasse, oltre all’opporsi insiememente alla religione ed ai comandi della cristiana repubblica, darebbe segno che Dio l’avesse tolto affatto d’intelletto: quindi la confortava a considerare diligentemente quello che si metteva a fare, conchiudendo che una volta fosse cacciato Lorenzo, restituirebbe alla Repubblica di Firenze l’antica amicizia. Lette queste lettere, e non parendo a Lorenzo che fosse bastante una deliberazione dei Consigli, ma che dove andava della sua persona dovess’egli parlare col popolo, avendo in Palagio radunato grande numero di cittadini, cominciò a dire: «Che delle cose passate non voleva entrare a parlare, sì perchè non gli accadeva scusare sè, nè accusare altri, poichè la Repubblica intorno a ciò avea pronunziato, e sì perchè avrebbe desiderato che di tanto fiera crudeltà la memoria si spegnesse. Dolergli bene sino al profondo del cuore, che un Vicario di Cristo in tanta dignità posto, ed abbattutosi in tempi di tanto pericolo alla Cristianità, fosse potuto scendere a perseguitare con tanto furore un uomo privato, e perciò a muovere tale guerra ad una sì eccelsa Repubblica e della Chiesa benemerita. Non saper se in lui maggiore fosse l’obbligo che alla sua patria doveva sentire per averlo con tale costanza difeso e protetto, o il dolore dell’esser egli per altrui colpa cagione di porre in tanto scompiglio quella città ch’egli amava più della vita sua. Bastargli in quanto a sè, che di nulla lo rimordesse la coscienza; sperando nel resto che la Repubblica, con l’aiuto di Dio e per la prudenza dei suoi cittadini, agevolmente si sarebbe in breve con gloria dalle presenti molestie liberata. La quale se intanto [387] la morte o l’esilio di lui credesse utile alla comune salvezza, egli la vita e l’avere e il sangue de’ figli largamente alla patria profferiva.» Fu a Lorenzo in poche parole risposto da chi a ciò era stato eletto, ch’egli stesse di buon animo, perciocchè a lui conveniva di vivere e di morire con la sua Repubblica; e per fargli conoscere ch’eglino di lui quella cura aveano che di caro e buon cittadino si deve, gli deputarono dodici uomini per guardia della sua persona. La Repubblica trattava nelle solenni occasioni Lorenzo come semplice cittadino, ma intanto con dargli una guardia alla persona sua lasciavagli fare un altro passo verso il Principato.[496]

Essendo in tal modo assicurati della città, i Reggitori si diedero per via dei soliti balzelli a procacciarsi moneta, ed a raccogliere in gran fretta genti quante poterono per l’Italia. I Veneziani, richiesti secondo l’obbligo della lega, fecero avanzare alcune squadre in Toscana, ma in poco numero e a rilente, allegando non avere essi obbligo a questa guerra che era mossa contro a persona privata. Nè dal Duca di Milano venne quell’aiuto che sarebbe bisognato: mandava però alcune squadre, delle quali erano condottieri Alberto Visconti e Giovan Giacomo Trivulzio che fu capitano poi di tanta fama: questi aveva seco Teodoro giovanetto, suo nipote. Giugneano frattanto le genti assoldate al campo verso Arezzo; v’era Niccola Orsini conte di Pitigliano, e Currado anch’egli di casa Orsini, e Ridolfo Gonzaga fratello del Marchese di Mantova con due figli. Comparivano di mano in mano Giberto dei Signori di Coreggio e due figli di Ruberto Malatesta, e Tommaso di Saluzzo e un Martinengo di Brescia, e altri Capitani ch’aveano condotti; [388] Commissario generale di tutto l’esercito fu eletto Iacopo Guicciardini. Ritrattisi indietro, e posto guardia a quelle vie per dove i nemici si credeva che potessero avere in animo di passare, si fortificarono al Poggio Imperiale sopra alla terra di Poggibonsi, luogo opportunissimo alla difesa ch’era bisogno fare più stretta e più raccolta che fosse possibile, dovendo con meno di quaranta squadre stare incontro a più di sessanta: in ogni squadra erano venti uomini d’arme e quaranta balestrieri tutti a cavallo, ed i valletti sui cavalli di riscossa. Intanto i Senesi, già entrati in guerra, davano ai nemici comodità di passi e di vettovaglie: ed era grandissimo disavvantaggio ai Fiorentini la mancanza d’un Capitano generale cui tutti obbedissero. Aveano trattato con Ercole da Este duca di Ferrara: ma i Veneziani faceano difficoltà a condurlo, negando dare essi le forze della Repubblica in mano a un principe confinante ed al quale erano poco amici:[497] nè i Duchi d’Urbino e di Calabria aveano capitani allora in Italia che gli agguagliassero di riputazione; Federigo era personalmente nemico a Lorenzo, e Sisto in lui fidava molto.[498] Laonde i nemici entrati nel Chianti, e cavalcando forte, posero il campo sotto alla Castellina, di là spingendosi all’intorno; e da una parte nella Val d’Elsa, dall’altra nei poggi che sovrastano il Valdarno facevano guasti e ruberie ed arsioni con grande ruina. Quindi, avuta dopo alquanti giorni d’oppugnazione la Castellina e poi Radda, tennero lungo assedio a Brolio e ad altri luoghi dei Ricasoli; i quali per avere fatta buona prova, e infine vedutosi pigliare e abbruciare quei loro castelli, ebbero dalla Repubblica privilegi e ricompense, essendo anche stati fatti abili agli uffici.[499] Era il mese di settembre, [389] e infine giugneva Ercole da Este che avea consentito d’essere Capitano Generale dei Fiorentini e del Duca di Milano in questa guerra, con la speranza che i Veneziani poi l’accettassero. Il quale di persona, e con l’aggiunta di nuovi soldati, andò a porsi con tutto il nerbo delle sue forze nel campo munito sopra a Poggibonsi. Allora i nemici, sgombrato il Chianti e voltisi a un tratto verso la Valle di Chiana, poneano assedio al Monte San Savino; per il che al Duca di Ferrara entrato nelle terre dei Senesi, ai quali avea tolte alcune castella, fu necessità d’abbandonare quella impresa, molto importando a lui di soccorrere Monte San Savino. Intorno al quale raccoltosi il grosso dei due eserciti era molta guerra, quando il Capitano dei nemici avendo chiesta tregua d’otto giorni, quello dei Fiorentini la concedeva con mal consiglio; imperocchè non appena finita la tregua che il Duca di Ferrara invano cercava di prorogare, quello d’Urbino avendo stretta con maggiori opere la terra, l’ottenne a patti; di là stendendosi pei luoghi che sovrastano alla Chiana dove, essendo giunto il mese di novembre, potea svernare agiatamente.

Fin dai principii di quella guerra avea la Repubblica a Roma inviato un’altra volta ambasciatore Donato Acciaioli; il quale tornando senza alcun effetto, andava in sua vece Guid’Antonio Vespucci, peritissimo nel diritto. Il Papa scendeva più tardi a qualche proposizione d’accordo: chiedesse perdono la Repubblica, innalzasse una Cappella espiatoria per le uccisioni fatte nel caso dei Pazzi, promettesse di non fare offesa al Patrimonio della Chiesa, ma i due Stati scambievolmente si assicurassero; pagasse le spese della guerra, o a compensazione di questa rendesse il Borgo San Sepolcro, e, secondo scrivono taluni, cedesse Modigliana e Castrocaro. Non erano tali quelle proposte che a Lorenzo fosse possibile consentirle: altiero per indole, ed ora costretto stare sul duro per mantenere [390] a sè la parte dell’uomo offeso, nè volea fare espiazione pel fatto dei Pazzi, nè che la Repubblica soffrisse per lui diminuzione. Sperava egli assai dalla Francia, dove era mandato Donato Acciaioli reduce da Roma; il quale però giunto in Milano quivi moriva, e la Repubblica decretava onori insigni alla memoria di quel cittadino fra tutti egregio; e perchè di lui, astinentissimo com’egli era, sapea la famiglia essere in povere condizioni, prendeva i figliuoli sotto la tutela sua, e con beneficî molti e durevoli gli risollevava.[500] Andava in suo luogo, già essendo col Papa rotte le pratiche, Guid’Antonio Vespucci: il re Luigi XI aveasi presa molto caldamente a petto la causa dei Fiorentini e di Lorenzo, e sin da principio mandato in Firenze a risedervi come ambasciatore Filippo di Argenton signore di Comines, del quale abbiamo a stampa Memorie assai celebrate.[501] Questi dimorava qui un intero anno; e fu detto, nè senza buoni argomenti, Lorenzo averselo allora e poi sempre conciliato per danari. Così nel concerto degli encomiatori di Lorenzo entrò anche la voce d’un uomo straniero. Faceva più volte Luigi XI promessa al Vespucci d’intervenire con le armi, ed in Firenze aspettavano cinquecento lance francesi, che mai non giunsero, perchè il Re non era largo di fatti come di parole, e tutto inteso a fortificare la monarchia dentro, avea in abominio le guerre esterne. Col Papa bensì, perchè era difendere la libertà della monarchia, andò più innanzi che non facessero gli stessi confederati della Repubblica di Firenze. [391] L’imperatore si contentava mandare qui e in Roma a fare dimostrazioni ed a portare parole di pace: lo stesso avean fatto Mattia Corvino re d’Ungheria, e presso che tutti gli altri monarchi della Cristianità, commossi da quelle esorbitanze di Sisto, e avendo, sebbene diversamente ciascuno, pigliato a difendere la causa de’ Fiorentini. Ma fattosi innanzi più vivo degli altri Luigi XI, mandava un’ambasciata di sei tra ecclesiastici e secolari, i quali fermatisi prima in Firenze, recavano al Papa forti parole, con la minaccia di levare da Roma i prelati francesi, e di togliere al Papa ubbidienza finchè la sua causa fosse giudicata da un generale Concilio. Si facevano a questo fine congregazioni in Francia di teologi. Era Sisto in molto grande perplessità, e abbiamo una lettera scritta a lui dal buono e savio cardinale Iacopo Ammannati, dove con caldezza d’animo devoto al Papa e alla Chiesa, e usando parole tali che Sisto non se ne offendesse, cerca di condurlo ai consigli temperati, mostrando i pericoli gravi che alla Chiesa poteano venire se andassero innanzi quelle dimostrazioni dei Francesi.[502] Dalle quali scosso, proponeva Sisto che, facendo tregua, fosse la causa dei Fiorentini compromessa nei Re di Francia e d’Inghilterra, e per terzo nel Legato da lui mandato a questo effetto; e se i tre non convenissero, nell’Imperatore e nel suo figlio Massimiliano, marito alla erede degli Stati di Borgogna: ma questi essendo come l’Inglese contrari a Francia, era naturale non soddisfacessero ai Fiorentini, che rifiutarono di accettare il compromesso.[503]

[392]

Muovevangli anche gli uffici prestati a loro difesa dai Veneziani che, avendo fatta pace col Turco, erano divenuti o almeno apparivano più vivi e più pronti nelle cose della lega.[504] Teneano in Firenze dal principio della guerra ambasciatore Bernardo Bembo; ed a Venezia in ricambio andava Tommaso Soderini, autorevole, e vecchio amico di quella Repubblica. Grandi imprese erano messe innanzi tra lui e il Senato pel nuovo anno: assalire con le galere le coste di Puglia, fare scendere in Italia il Duca d’Angiò: per l’una e per l’altra parve che la spesa fosse troppa, e nulla si fece. Tra’ collegati, su’ Fiorentini soli cadrebbe a ogni modo tutto il pondo della guerra. Temevano anche di rimanere scoperti verso Genova, perchè i Lucchesi, sebbene di nome fossero nella lega, desideravano in fondo dell’animo sopra ogni cosa l’abbassamento della Repubblica di Firenze. E questa mandava ad osservarli ed a contenerli Piero di Gino di Neri Capponi, giovane ancora; il quale rimasto quell’inverno in Lucca, sul cominciare di primavera, perchè gli umori bollivano, gli si levò contro un grande tumulto di popolo armato, dal quale scampava con difficoltà la vita. Imperocchè gli animi erano ivi molto accesi da Cola Montano che, stato consigliero ma non esecutore della uccisione di Galeazzo, in Lucca viveva, [393] paese tra’ pochi allora in Italia dove fosse libertà; ed in Lorenzo perseguitava un altro tiranno.[505] Aveva quel popolo pigliato speranza da un appressarsi di nemici inverso i confini di Pisa e di Lucca; del che erano state queste le cagioni. Morto Galeazzo duca di Milano, voleano i fratelli di lui avere parte nel governo dello Stato, il quale rimase alla vedova duchessa Bona tutrice del figlio Giovanni Galeazzo: gli zii Lodovico, Ascanio e due altri, ebbero esilio; e Lodovico sceso in Lunigiana, s’intendeva di là con Ferrando e co’ fuorusciti genovesi, tanto che Genova dopo molta varietà di casi tornava libera; ma il nuovo Doge, Battista Fregoso, vivea in amicizia con lo Stato di Milano. Roberto da San Severino, capitano di molto nome e che teneva per gli zii, trovandosi escluso da Genova, si mosse con quattro mila soldati e con l’intesa del re Ferrando ad assaltare la Toscana dal lato di Pisa.

I Fiorentini, colti alla sprovvista, mandarono subito a Pisa Commissari che nel paese facendo raccolta di uomini comandati contenessero il primo impeto, radunando in Val di Nievole altre genti le quali impedissero ogni moto dei Lucchesi. Aveano ordinato anche al Duca di Ferrara venisse ad opporsi, con quella parte che fosse necessaria del suo esercito, a Roberto da San Severino; ma questi, dopo essere corso fino alle mura di Pisa, voltò indietro, per non avere forze bastanti, e si ricondusse nelle sue stanze di Lunigiana. Il Duca tornava su’ confini del Senese, dove si vedeva che sarebbe la guerra grossa, molto i nemici ivi essendosi [394] rafforzati. I Fiorentini dal canto loro aveano condotto, con aggradimento dei Veneziani, il Conte Carlo da Montone e Deifebo dell’Anguillara; agli stipendi loro da quei de’ nemici erano venuti il prode Roberto Malatesta e Costanzo Sforza signore di Pesaro: ottennero anche, che il Duca di Ferrara fosse riconosciuto Capitano generale di tutta la lega; ed era in Toscana venuto il Marchese di Mantova ai soldi dei Signori di Milano. Facevano grande disegno di avere Perugia col mezzo del Conte Carlo per le aderenze sue nella città; ma egli infermatosi, moriva in Cortona. E pur nonostante continuando Roberto Malatesta le incursioni nel Perugino, gli mossero contro il Prefetto di Roma nipote del Papa e Matteo da Capua che aveva portato un rinforzo di quindici squadre. I quali venuti a giornata con Roberto non lungi dal lago Trasimeno, furono dalla virtù sua rotti con perdita degli alloggiamenti ed uccisione di molti nobili cavalieri e di gran numero di soldati. Fu allora costretto il campo nemico fare una mossa da quella banda; al che il Capitano dei Fiorentini che era sul Poggio Imperiale, visto il terreno sgombro all’intorno, uscì con parte delle sue schiere, ed ebbe per forza Casole, terra grossa dei Senesi. Ma ivi accadde che nel saccheggio nate questioni per la preda tra’ soldati di Mantova e quei di Ferrara, e quindi contesa tra’ due Signori, e un’altra essendone tra Roberto Malatesta e Costanzo Sforza, che nemmeno essi poteano più stare insieme, convenne partire l’esercito in due; il che fu ruina di tutta l’impresa. Imperocchè i nemici con arte sapiente raccoltisi insieme nelle estremità di Val di Chiana, ed ivi per numero e per agevolezza di movimenti potendo con grande vantaggio combattere così gli andati nel Perugino come i rimasti in sul Senese, impedivano ogni mossa da entrambe le parti; il che era mandare in lungo la guerra con danno gravissimo dei Fiorentini. I quali ebbero da Venezia soli mille [395] uomini d’arme, che poco fecero per le usate circospezioni di quella Repubblica; ed in Lombardia essendo turbate le cose, non che di là venissero nuove genti, furono costretti l’Estense e il Gonzaga partirsi dal campo. Era il fine dell’estate, quando i nemici accortisi come sul Poggio Imperiale si faceva mala guardia, partitisi a un tratto dal Ponte a Chiusi, a grandissime giornate vennero ad assalire quelli del Poggio. I quali dall’impeto improvviso sbigottiti, vilissimamente si fuggirono, abbandonando quel forte sito ch’era difesa della città di Firenze: per il che in fretta richiamate dal Perugino le genti, e insieme con quelle le quali erano sul Senese facendo testa ne’ poggi di San Casciano, sebbene fossero in tempo da porre la città in salvo, non impedirono che i nemici sparsi giù per la Val d’Elsa, prese altre castella, andassero in forza alla espugnazione di Colle. Fu molto gloriosa quivi la difesa per sessanta giorni, concorrendovi misti ai soldati i cittadini e le donne istesse con grande amore per la Repubblica. Ma infine Colle cedette anch’esso ai 14 novembre 1479. E un altro assalto contro ai Fiorentini si cominciava in Romagna da Roberto di San Severino per la mutazione di fresco avvenuta nello Stato di Milano.[506]

Quivi la Duchessa, debole e povera di consiglio e stretta dalle arti e dalle forze dei cognati, gli avea ricevuti a partecipare nel governo e nella tutela del figlio bambino; ma in breve fu ella necessitata partirsi, ed a Lodovico rimase lo Stato come in libera signoria. Il quale essendo nuovo ed ambizioso e già conosciuto tra gli altri principi artifiziosissimo, nessuno vedeva da quale parte inclinerebbe: Lorenzo temeva sopra ogni cosa la congiunzione di lui col Re, della quale aveva già qualche sentore. Quindi era al Medici necessità farsi innanzi e precorrere gli eventi: la guerra [396] sarebbegli nel terzo anno gravissima, ignorando egli sopra quali amici potesse contare. Ed inoltre era la città stracca, essendo percossa in quegli anni anche dalla peste, e voci insolite s’udivano fin dentro ai Consigli, accusando gli errori commessi, le perdute spese, le ingiuste gravezze: cagione lui solo dei pubblici danni. Vedeva Lorenzo per tutto ciò, che a salvare la città e sè stesso gli era necessità ricorrere a un forte partito; rompere la Lega ad ogni costo, ed egli gettandosi in braccio all’uno dei due nemici come incurante di sè medesimo, destare negli uomini con un grande atto ammirazione. Con Sisto, impossibile o sempre mal ferma vedea l’amicizia; nel Re gli pareva doversi fidare, qualora a lui si abbandonasse: rischio pur v’era ma necessario, e qui all’ardire si congiugnea la prudenza; dove poi l’ardire sopravanzasse, valeva la fiducia che in sè medesimo riponeva, egli sentendosi nato a vincere col forte ingegno le difficoltà e a trarsi dietro gli altrui voleri.

Avea mandato fino dai 24 novembre[507] al Re chiedendo salvocondotto, e con l’offerta di darglisi in braccio, Filippo Strozzi mercante che a Napoli era pervenuto a grande ricchezza, destro e capace a molte cose. Era anche d’intesa co’ due Capitani dell’esercito nemico, ai quali scriveva il giorno stesso della partenza essersi indotto a quel partito pei loro consigli, ed ora pigliarlo di buonissima voglia per la gran fede che in essi poneva.[508] E già il Re aveva mandato a Livorno due galere sottili a ricevere ed a condurre Lorenzo a Napoli. Il quale avendo prima conferito questo suo pensiero con pochissimi, fece la sera dei sei dicembre chiamare in Palagio dai Dieci una Pratica di circa quaranta dei più principali cittadini, ed egli levatosi [397] disse: «averli fatti chiamare per conferire con loro una sua deliberazione, nella quale non ricercava lo consigliassero ma solamente che lo sapessero: aver egli considerato quanto la città avesse bisogno di pace, massime non volendo i Collegati fare il debito loro; e perchè i nemici pretendevano l’odio loro non essere contro alla città ma contro a lui solo, avere proposito di trasferirsi personalmente a Napoli: questa andata parere a lui utilissima; perchè se i nemici volevano lui, l’avrebbero nelle mani, ma se volevano l’amicizia pubblica, questo essere modo a intendersi presto e a migliorare le condizioni della pace; se altro volevano, questa andata lo dimostrerebbe, e i cittadini si sforzerebbero con qualche modo più vivo di difendere la libertà e lo Stato: conoscere in quanto pericolo si mettesse, ma esser disposto preporre la salute pubblica alla sua; chè oltre al debito universale dei cittadini verso la patria, era particolare suo per aver egli avuto dalla città più benefici e grado maggiore che alcun altro: sperare coloro ch’erano presenti non mancherebbero di salvargli lo Stato e l’essere, e così raccomandare a loro sè, la sua casa, e la famiglia: e soprattutto sperare che Dio, risguardando alla giustizia pubblica, e alla sua buona intenzione privata, aiuterebbe questo pensiero; e quella guerra che si era principiata col sangue del suo fratello e suo, si poserebbe e quieterebbe per le sue mani.[509]»

Dette queste cose, uscì dal Palagio e si partì di Firenze la notte medesima. Giunto a San Miniato al Tedesco scrisse alla Signoria, scusandosi del non averle prima comunicato questo suo disegno perchè i tempi volevano fatti e non parole. A Livorno ebbe dai Dieci il mandato d’ambasciatore al re Ferrando, con facoltà libera di conchiudere quanto il popolo Fiorentino. Quindi salito a Vada sulle galere, giunse in Napoli [398] ai 18 dicembre. Quivi ebbe dal Re tanto amorevoli accoglienze che egli medesimo si credette avere in mano la pace, ed a Firenze ne scrisse; ma tosto dipoi s’avvidde le cose andare in lungo, o che il Re temesse d’offendere il Papa, o che veramente, come fu creduto, aspettasse di vedere se accadesse qualche mutazione nello Stato di Firenze. Qui erano molto gli animi sospesi: ricordavano il tradimento da questo Re istesso fatto a Iacopo Piccinino; e se Lorenzo venisse a capitar male, benchè non mancasse chi se ne sarebbe rallegrato, i cittadini più non fidavano gli uni negli altri così, da mettere in comune la Repubblica com’era stata nei tempi addietro. Forse che aveva Lorenzo nella fantasia sperato di conseguire un effetto pronto ed intero; ma era sempre a lui grande necessità tornare portando una pace non tanto cattiva, bene essendosi egli apposto, dovere quell’atto animoso rialzare la parte sua, della quale intanto i principali rimasti in Firenze si adopravano con ogni dimostrazione di forza a mantenere bassi e disgregati i molti contrari. Questi veramente non può dirsi formassero parte, perchè non aveano disegni fermi nè capi che fossero dagli altri seguiti: il solo Girolamo Morelli, stato lungamente ambasciatore in Milano e ora dei Dieci, troviamo che fosse per autorità e senno in tanta grazia che già molti a lui s’accostavano; e non che gli altri capi del Reggimento, Lorenzo stesso n’ebbe paura.[510]

Desiderava questi sopra ogni cosa spacciarsi tosto, nascondeva in petto dubbi e ansietà, ma rendeasi intanto grazioso alla Corte[511] e grato al popolo con le liberalità; comprava co’ doni gli amici del Re, spiava di questo l’animo chiuso, e lo vinceva con l’eloquenza delle parole, con la scioltezza dei modi e con l’acutezza [399] sua nel giudicare le cose di Stato e le nature di quanti erano Signori e Principi in Italia. Scorreano due mesi e la pace non si conchiudeva: tra ’l Papa ed il Re correano pratiche, mal cuoprendo questi l’avere promossa quell’andata di Lorenzo, ed ora trattare separatamente con lui d’accordarsi. Del che il Papa offeso molto, negava l’onore suo e della Chiesa essere in salvo se non andasse Lorenzo in Roma ad umiliarsi ai piedi di lui; questo essere in obbligo il re Ferrando di procurare, avendo Lorenzo nelle sue mani.[512] Il quale di queste pratiche insospettito, si partiva da Napoli; nè posso io credere che ciò fosse senza consenso del Re: ed era fermo in Gaeta il primo di marzo, quando gli giunse da questi una lettera scritta in latino molto ampia e solenne (forse era lettera da mostrare più che da credere), che lo richiamava in Napoli con istanza grandissima, dicendogli avere dal Papa avuta ogni sicurezza.[513] Ma ciò nonostante Lorenzo avendo proseguito il suo cammino, il Re gli faceva correre dietro il trattato da lui bell’e sottoscritto; ed era quegli appena tornato in Firenze, dove fu accolto con grande letizia e popolare benevolenza, quando la notizia della pace, molto da ognuno desiderata, lo fece salire in maggior gloria e reputazione.

Era una pace quale potessero i Fiorentini allora sperarla. Imperocchè delle cose di Romagna si faceva compromesso nel Re, nulla avendo stipulato a favore di quei Signori i quali stavano in protezione della Repubblica; non era promessa la restituzione de’ paesi tolti, ma rimaneva ciò pure in arbitrio di Ferrando; s’obbligava la città a pagare per un corso di anni al [400] Duca di Calabria una certa somma di danari a titolo di condotta; vi era poi anche pattuita la liberazione dei Pazzi rinchiusi nella fortezza di Volterra. Fermaronsi dopo quell’accordo le dubbiezze, tra le quali sembravano esitare dopo l’andata di Lorenzo le risoluzioni degli altri Principi, ammirati anch’essi di quell’ardimento e incerti a qual fine dovesse riuscire. Milano aveva ratificato la pace, ed era entrato nella Lega già stretta tra il Re e la Repubblica di Firenze. Ma per contrario i Veneziani, che aveano cercato impedire quella unione, trovato il Papa di quella essere malcontento, fecero nel mese d’aprile con esso una lega separata, dalla quale usciva non molto dopo un’altra guerra. In Toscana aveva il Duca di Calabria pubblicato prima una tregua, dopo la quale sotto colore di guardarsi per la venuta che si aspettava in Italia del Duca d’Angiò, era egli andato a porsi in Siena; dove facendosi arbitro delle discordie ivi accese tra’ diversi Ordini o Monti nei quali era diviso quel popolo, già stava sul punto di farsene signore; antico disegno della Casa d’Aragona, e cominciato dall’avo Alfonso quando egli muoveva guerra ai Fiorentini. Era anche avvenuto nei principii dell’inverno, durante la tregua, che i Fregosi, con aggressione improvvisa, s’impadronissero di Sarzana: del che la Repubblica essendosi richiamata al Duca di Calabria, questi, sebbene riconoscesse violata la tregua, vietava però ai Fiorentini muovere le armi per la recuperazione di quella città. Per tutto ciò stavano essi in timore grandissimo, e quel Duca dicevasi in Siena poco nascondere la speranza di farsi signore di tutta Toscana. La pace ottenuta in Napoli da Lorenzo potea finire in un tranello.[514]

Ma intanto un subito ed a tutta Italia molto pauroso accidente fermava ad un tratto le imprese dei [401] Principi, costretti ad unirsi per la comune difesa. Viveva tuttora Maometto II, il quale respinto dalla espugnazione di Rodi per il valore maraviglioso di quei Cavalieri, ma sempre insaziabile di fare conquiste, mandava parte delle sue galere lungo le coste d’Italia, dove il pascià che le comandava, messi in terra sei mila soldati, s’impadronì della città d’Otranto; e in quella, vuotata con strage orribile degli abitatori, fortificatosi, ed avendo seco un qualche numero di cavalli, scorreva e predava le terre all’intorno. I Veneziani ebbero accusa d’avere chiamati costoro per odio contro al re Ferrando;[515] e un ambasciatore Turco attribuiva l’impresa d’Otranto alle suggestioni loro.[516] Nè andava immune da quel sospetto lo stesso Lorenzo, il quale per mezzo dei mercanti fiorentini aveva grande entratura in Costantinopoli, e dopo che egli ebbe ottenuto dal Sultano la consegna del Bandini, diceano potere appresso a lui ogni cosa.[517] Fruttò a Lorenzo quella discesa del Turco la pace in Toscana, e poi dal Pontefice l’assoluzione dell’interdetto. Imperocchè Alfonso duca di Calabria accorso a difendere l’Italia da quell’insulto barbarico, abbandonava lo Stato di Siena del quale era egli già come in possesso, e insieme, con suo dolore gravissimo, la conceputa speranza di cose maggiori: per quella partita Siena rimaneva in molto lunghe perturbazioni.[518]

Innanzi la fine di quell’anno 1480 i Fiorentini, udito che il Papa si muterebbe dalla ira sua qualunque [402] volta si umiliassero a domandare perdono, prima gli mandarono Antonio Ridolfi e Piero Nasi a fare dimostrazione dell’animo loro e ad accertarsi di quello del Papa. Dai quali essendo già preparate le cose, andava in Roma un’ambasciata di dodici cittadini, primi dei quali erano Francesco Soderini vescovo di Volterra e Luigi Guicciardini. Portavano le Istruzioni, che se fosse l’assoluzione indugiata così da mostrare poca voglia di concederla, «o se per averla si chiedessero danari, o se la città avesse a fare qualche dimostrazione per osservanza dell’interdetto, o se fosse esclusa dalla universale benedizione qualche persona in particolare, o se altra condizione potesse riuscire alla città o in pubblico o in particolare ignominiosa,» dovessero gli Ambasciatori partirsi da Roma, «supplicando la Santità sua che si degni bene considerare l’atto, che la nostra città ha fatto inverso quella Santa Sede e Sua Beatitudine per debito nostro, come è debito d’ogni cristiano venerare quella Santa Sede ed a quella umilmente inclinarsi; e quello, da altra parte, che a quell’atto si conviene, e quale sia l’ufficio pastorale; perchè non dubitiamo quello non ha fatto ancora, lo farà altra volta, quando e come meglio parrà alla Santità Sua.[519]» Ma il Papa non pose con savio consiglio alcuna sorta di condizione; e gli Ambasciatori entrati in Roma di notte tempo, e ricevuti quindi in concistoro segreto, vennero, nel giorno prima determinato, ad aspettare nel Portico innanzi la chiesa di San Pietro, della quale poichè furono aperte le porte, trovarono il Papa assiso nella sedia pontificale e circondato da molto numero di Cardinali; al quale prostratisi, e in nome della città chiesto perdono dei falli commessi, il Papa, osservate le rituali cerimonie, diede ad essi e alla città piena e universale assoluzione.[520] [403] Dopo di che uscirono dalla chiesa accompagnati ed onorati molto degnamente, com’era usanza con gli ambasciatori: in seguito aggiunse il Papa condizione, che i Fiorentini armassero quindici galee contro al Turco.

Capitolo VII. GOVERNO DI LORENZO. — MOTI DIVERSI E INDI PACE UNIVERSALE D’ITALIA. — MORTE DI LORENZO. [AN. 1480-1492.]

Quando Lorenzo fu di pochi giorni tornato da Napoli, parve a lui essere occasione di fermare per sempre lo Stato nella dipendenza sua, ed era in parte anche necessità. In altro luogo diremo quel che riguardasse le sue private sostanze, le quali erano da più tempo assai danneggiate; ma quelle ancora di molti cittadini venivano offese, oltrechè dalle gravezze, dalla molta difficoltà che avea il Monte a pagare gl’interessi del pubblico debito che a tante famiglie facea patrimonio: per questo e per altri titoli importava a quei dello Stato avere le mani libere, ed ai nuovi e più efficaci provvedimenti assicurare continuità.

Infino a qui gli Accoppiatori facevano ogni due mesi le scelte pe’ Magistrati dalle borse ch’erano a mano; si volle adesso creare un ordine permanente, al quale spettasse eleggere a tutti gli uffici, e che insieme avesse il governo in sè medesimo dello Stato. A questo fine i Signori che allora sedevano, avuta la non difficile approvazione dei Consigli del Cento e del Popolo e del Comune, procedendo come se fossero Parlamento, ma senza nè suono di campana, nè convocazione di popolo in Piazza, elessero trenta cittadini, i quali dovessero aggiungersi altri duecentodieci; che tutti insieme e co’ Signori e Collegi avessero piena autorità e balìa quanta ne aveano i tre Consigli, con facoltà [404] di delegarne altrui quella parte che a loro piacesse. E questi medesimi al venturo mese di novembre, che soleva essere il tempo degli squittinii, dovessero farli per tutti gli uffici, coll’aggiunta però di altri dodici per Quartiere a nominazione dei Signori che allora sarebbero. Vollero poi che i detti trenta e dugentodieci insieme co’ Signori e Collegi che volta per volta saranno in ufficio, compongano un nuovo Consiglio maggiore da continuare perpetuamente, e che abbia potestà sovrana per ogni titolo di diritto. Vietarono entrare nel detto Consiglio per ogni casa e consorteria oltre ad un certo ristretto numero; ma eccettuarono da ogni divieto anche di età, due Case da nominarsi: io mi figuro che l’una fosse quella dei Medici, e l’altra di poca significazione. A niuno privato fosse lecito di fare petizione, ovvero proposta a quel Consiglio, dovendosi ogni deliberazione ordinatamente partire dai Signori con osservanza delle forme stabilite, cosicchè al Consiglio null’altro spettasse fuorichè il diritto di concedere a quelle sanzione.

Subito dopo un’altra Provvigione portava a Settanta il numero dei Trenta; ai quali Settanta si apparteneva la scelta ogni due mesi della Signoria e dei Magistrati, così però che la detta scelta ogni anno spettasse a metà numero, cioè a Trentacinque; gli altri Trentacinque sottentrando nell’anno veniente, e così alternandosi cotesto supremo e capitalissimo diritto. Nel resto i Settanta insieme avessero la prerogativa e la direzione di ogni cosa, riempiendo da sè medesimi le vacanze, così da formare essi un Senato, ovvero Collegio che mai non morisse; a questo ordine era data speranza di essere assunti al termine dell’ufficio i Gonfalonieri, qualora però avessero in quello un partito favorevole, cioè quando non fossero a chi governava dispiaciuti. Non valesse, per avere luogo nell’Ordine dei Settanta, il divieto di coloro ch’erano allo specchio, se non perchè avessero la facoltà sola [405] di consigliare, ma non quella di votare; al che racquistassero il diritto, appena fossero in pari con le gravezze. Dai Settanta si traggano ogni sei mesi Otto chiamati di Pratica, dai quali dipendano le faccende di fuori, le ambascerie, e le condotte, e così le relazioni con gli altri stati in pace ed in guerra, salvo però l’essere approvati gli stanziamenti nelle loro forme consuete; ma i Dieci di guerra potevano al caso eleggersi sempre. Dallo stesso Ordine ogni sei mesi si traggano pure Dodici, appellati Procuratori per il Governo delle cose dentro, ai quali appartenga regolare le prestanze, governare il Monte, avere ingerenza nelle cose delle Mercanzie, e in quelle spettanti ai Consoli del mare. Si traggano pure gli Otto di Balìa, dei quali era stata già prima ristretta l’autorità che avevano grandissima nelle cose criminali e affatto arbitraria in quelle di Stato; ma col tempo aveano voluto conoscere ancora nei casi civili, il ch’era stato ad essi tolto.[521] L’antico e fondamentale Ordine della Repubblica era mantenuto in ciò, che la parte riservata alle Quattordici Arti Minute, nel Priorato e in tutti generalmente gli uffici inferiori, rimaneva ad esse anche nel nuovo Ordine conservata.[522]

Per questo Ordine dei Settanta lo Stato ebbe forma tutta la vita di Lorenzo, e fu ripigliato dai Medici quando tornarono dopo l’esiglio al governo della città. Ora di quel nuovo e forte Ordine, prima cura doveva essere provvedere alle necessità dell’erario: mantennero sempre nel distribuire le gravezze l’antica regola del Catasto, ma come indice, o come traccia che non obbligava i Governanti a seguitarla; che anzi temendo quella egualità rigorosa che s’era cercata per via del Catasto, la condussero sotto Lorenzo da una forma più ancora di prima sottile e moltiplice [406] d’imposizione progressiva, che allora chiamavano Decima Scalata, e che ai Medici piacque sempre perchè favoriva se altro non fosse, nelle apparenze, quel minuto popolo nel quale sapevano avere un amico più certo e stabile d’ogni altro.[523] Si trova in certi casi, che dove i compresi nel grado inferiore pagavano delle loro rendite il ventesimo, i più elevati pagavano il sesto. Molta era la scienza e l’esperienza di queste cose che aveano gli uomini Fiorentini; e come Cosimo avea fatto, così anche Lorenzo col gioco ingegnoso degli sgravi e degli aggravi otteneva di porre l’arbitrio là dove appariva che la sola legge governasse. A questo modo blandiva gli amici, batteva i contrari, teneva in sospeso la fortuna degl’incerti; e mentre impediva il troppo innalzarsi d’alcune famiglie, faceva intendere alla moltitudine degli uomini quieti, non d’altro curanti che delle mercanzie loro, come dallo starsi a lui aderenti, dipendesse l’andare innanzi e prosperare.

In mezzo alle tante spese della guerra,[524] il Monte era stato costretto mancare alle scadenze delle paghe degl’interessi ai creditori: provviddero a questo con varie industrie, e col terminare la vendita dei beni spettanti alla parte Guelfa e all’ufficio della Torre; da quella vendita non s’eccettuava che il Palagio [407] della Parte e un’altra casa. Più tardi, allo stesso fine ricercarono e fecero a molti cittadini pagare i debiti arretrati col Comune; «benchè la più parte si fossino composti con li ufficiali del Monte, e pagate le loro composizioni;» che parve essere legge iniqua.[525] Dai tempi di Cosimo vedemmo la Cassa della Repubblica mescolarsi con la privata di lui; ma egli avendo prospera sempre la mercanzia, sebbene talvolta usasse ad ampliarla i danari del Comune, sovveniva spesso anche del suo alle pubbliche necessità. Era il contrario di Lorenzo, il quale Magnifico di sua natura, e tanto più largo spenditore quanto proseguiva più vaste ambizioni, e dei traffici negligente,[526] reggeva la sua privata sostanza usando la pubblica: le angustie del Monte aveva in gran parte causate egli stesso, e con l’artifizio di certi uomini sottilissimi lo faceva servire a pro suo; di che gli venivano accuse grandissime. Coloro stessi che amministravano i banchi dei Medici in tante piazze d’Europa, o per avere mal fatto, o perchè erano divenuti per sè troppo ricchi, talvolta accadeva gli si voltassero contro. Un Battista Frescobaldi, il quale essendo stato Console in Pera, ebbe ivi parte alla consegna del Bandini, ora con due compagni aveva fatto disegno d’uccidere Lorenzo nel Carmine; ma fu scoperto prima ed impiccato. Questa ed un’altra simile trama che un Baldinotti da Pistoia [408] aveva ordita per ammazzarlo al Poggio a Caiano, fu detto muovessero dal conte Girolamo Riario.[527]

Intorno ad Otranto continuava un anno la guerra con molta lode d’Alfonso duca di Calabria, nel mare essendosi alle galere del Re aggiunte quelle che il Pontefice aveva messo sotto al comando di Paolo Fregoso arcivescovo di Genova, prelato che molto s’intendeva delle armi e dei tumulti nella patria sua. Era la primavera dell’anno 1481: un grande conflitto, e forse una tremenda sciagura, a tutta Italia sovrastava, imperocchè sulle coste di Dalmazia opposte alle nostre si radunava un esercito d’altri venticinque mila Turchi, i quali doveano dalla Vallona passare in Otranto, e quivi aprire più vasta guerra: quando, per la morte di Maometto II due suoi figli contendendosi la successione con le armi, il Pascià d’Otranto andò al soccorso del maggior figlio Baiazet, in cui rimase l’impero; ed i lasciati nella città capitolarono con Alfonso, il quale pigliava a soldo alcune centinaia di quei Turchi a lui rimasti poi fedelissimi. Cessato così tanto pericolo all’Italia ed al Pontefice, ripigliava questi, seguendo suo genio, le armi congiunte allora a quelle dei Veneziani, e la tempesta cadea questa volta addosso al Duca di Ferrara. Quivi il Senato esercitava per un suo Visdomino una sorte di giurisdizione gravosa al Duca ed ai Ferraresi, obbligati anche a non valersi del molto sale ch’aveano in casa, ma provvedersene a Venezia; donde erano grandi e spessi disgusti, che la Repubblica fomentava siccome occasioni a farsi più innanzi. Aveva in Romagna Girolamo Riario, dopo la signoria d’Imola, ottenuta quella di Forlì, vacata per morte di Pino degli Ordelaffi, la cui successione essendo dubbiosa tra due fanciulli, il Papa, fatto arbitro, finì la contesa col dare lo Stato in feudo al nipote. Il quale aspirando a cose maggiori, e a queste [409] più acceso dai Veneziani che aveano allora bisogno del Papa, recossi a Venezia con istraordinaria pompa a ristringere la lega e a disegnare la guerra; accolto con tali onorificenze dal Senato, che le maggiori non si sarebbono fatte allo stesso Imperatore, scrive un infedele ministro del Conte Girolamo, che era salariato da Lorenzo.[528]

Così era l’Italia venuta a dividersi in due grandi Leghe, e dai confini dei Veneziani a quelli di Napoli era guerra dappertutto. Conduceva un forte esercito di quella Repubblica Roberto da San Severino, e Roberto Malatesti le genti del Papa: avevano a fronte, Alfonso duca di Calabria ed il vecchio Federigo duca d’Urbino. Contrapponeva questi guerra faticosa sul Po all’esercito dei Veneziani entrato nel Polesine di Rovigo; guerra crudelissima pe’ luoghi infetti d’aria pestilenziale nel calore della state: perivano dicesi oltre a ventimila tra paesani e soldati; perdè la Repubblica tre suoi Commissari andati al campo; e lo stesso prode e buon Federigo, fattosi condurre infermo a Bologna, terminava con molto pianto de’ suoi la vita gloriosamente esercitata. I Veneziani, avuto il Polesine, stringeano per molte battaglie Ferrara; e intanto era un’altra guerra nel Parmigiano dei Rossi di Parma Conti di San Secondo contro al Duca di Milano, un’altra in Romagna tra il Bentivogli di Bologna ed il Riario. In quel della Chiesa i Fiorentini, condotti da Costanzo Sforza, aveano riposto nella Città di Castello Niccolò Vitelli: e il Duca di Calabria, coll’aiuto dei Colonnesi e dei Savelli nemici al Papa (d’onde erano nate le prime vertenze tra questi e Ferrando),[529] devastava tutto il paese attorno a Roma, essendo ruina e sangue fin dentro alla città stessa. [410] Nè fine vedevasi a quella inutile distruzione, quando Roberto Malatesta ebbe un nobile pensiero: disposte con ordine intorno a sè tutte le sue genti, studiate le mosse, prefisso il luogo alla battaglia, veniva a giornata con tutto l’esercito d’Alfonso a Campomorto presso Velletri; dove molte ore essendosi combattuto con tanto insolita pertinacia che oltre a mille morti giaceano sul campo, ottenne Roberto insigne vittoria; e il Duca di Calabria, che aveva gran parte de’ suoi cavalieri lasciata prigione, dovette la propria sua salvezza ai Turchi pigliati in Otranto de’ quali si aveva formato una guardia. Roberto, infermato per le fatiche della battaglia, non potette goderne la gloria, essendo egli morto pochi giorni dopo in Roma, dov’ebbe onorata sepoltura. Eragli suocero Federigo duca d’Urbino, al quale aveva raccomandato la cura della famiglia e dello Stato: questi infermo in Bologna, e non sapendo l’uno dell’altro, a Roberto aveva raccomandato la sua: morivano entrambi nel giorno medesimo.[530]

Non lasciò Roberto figli legittimi, talchè i Fiorentini avuto sentore di qualche disegno del Conte Girolamo contro allo Stato dei Malatesti, mossero genti ad impedire ogni invasione da quella banda. Cercavano intanto di recare al Papa offesa più viva col promuovere quanto era in essi, o almeno col fare che a lui suonasse all’intorno quella proposta di Concilio, che Luigi XI avea messa innanzi, come si è detto, che ora l’imperatore Federigo III per le vertenze germaniche accennava di ripigliare, ed alla quale i Re di Spagna e d’Ungheria si confidava che inclinerebbero, a tutti essendo venuta in odio la turbolenza di Sisto IV, e quel continuo guerreggiare per fini privati. Il re Ferrando avea già eletto gli Ambasciatori suoi al Concilio; e proponeva che oltre a quelli di ciascun [411] Principe collegato, un altro dovesse rappresentare in comune tutta la Lega.[531]

Doveva il Concilio adunarsi in Basilea, volendo che fosse continuazione dell’antico da più anni interrotto; e se ivi non potesse, faceano pensiero di tenerlo in Pisa. Un vescovo Crainense[532] aveva la residenza in Lubiana; uomo tedesco, e favorito dall’Imperatore, si dava gran moto per quella convocazione. Ma in siffatte opere gli esperti e savi uomini sempre temono che il fine oltrepassi il segno cercato: così del Concilio alcun poco si discorse, ma nulla si fece; e un Baccio Ugolini mandato oratore in quella città, scriveva private lettere a Lorenzo, nelle quali mostra fino dal principio di non averne fede alcuna, trattando la cosa giocosamente con motti arguti, i quali sapeva andare a genio di Lorenzo.[533]

Ignoro se fosse il timore del Concilio che muovesse il Papa e il Nipote, o l’essersi accorti che dare mano ai Veneziani di qua dal Po era un fargli padroni di tutta Romagna; ma certo è che Sisto, per mezzo di Giuliano della Rovere cardinale di San Pietro in Vincula tornato di fresco da una Legazione in Francia, mandò in Napoli a trattare la pace e l’unione [412] con gli altri della Lega per la salvazione di Ferrara. Non ci credevano da principio, e quando si seppe che era stata sottoscritta dagli Oratori a’ 12 dicembre in Camera del Papa, i Fiorentini poco ne furono soddisfatti,[534] perchè rimanevano a discrezione di lui quei Signori di Romagna, dei quali con grande studio la Repubblica soleva farsi come una cintura contro alle offese che scendessero in Lombardia e contro agli stessi Stati della Chiesa che la fasciavano da ogni parte. Ma ciò nonostante fu allora un gran bene quella accessione del Papa; il quale dipoi, impetuoso come al solito, scomunicava i Veneziani perchè non cessavano con lui dalla guerra che insieme avevano cominciata. Ferrara ne usciva a grande stento; e perchè il verno era già grande, si fece in Cremona una dieta nella quale intervennero Lodovico Sforza e il Duca di Calabria ed il Legato del Papa ed il Marchese di Mantova e Giovanni Bentivogli, fra tutti destando ammirazione grandissima Lorenzo de’ Medici per forza di mente e splendore d’eloquenza. Deliberarono entrare oltre Po nei confini dei Veneziani, i quali aveano fatto passare l’Adda a Roberto da San Severino loro capitano, con la speranza di fare nascere in Milano qualche mutazione contro a Lodovico. Fu dato il comando di quella guerra al Duca di Calabria; e questi, sebbene non facesse impresa notevole, tenea tutta la campagna sin presso al Mincio, intantochè lo Sforza aveva schiacciato i Rossi di Parma; e i Veneziani, di forze inferiori, attendevano a guardarsi, col solo vantaggio d’avere occupato per la via del mare Gallipoli in Puglia. La guerra però andava lenta dalle due parti tutto quell’anno e la primavera del susseguente, per la mala intelligenza tra’ confederati, e massimamente perchè a Lodovico il quale teneva sotto nome di Governatore lo Stato in Milano, dava gran sospetto [413] quel campeggiare in Lombardia d’Alfonso duca di Calabria, naturale protettore di quell’infelice Giovanni Galeazzo cui aveva data la figlia in isposa, e che Lodovico già intendeva dispogliare con arti pessime dello Stato. I Veneziani per tentativo fatto essendosi accorti come egli avesse buone radici in Milano, non furono schivi di trattare seco lui: e quello stesso Roberto da San Severino, che aveva prima servito e poi tradito lo Sforza, fermava seco ora la pace in Bagnuolo ai 7 d’agosto 1484. Per questa ritenne il Senato di Venezia tutto il Polesine di Rovigo, con molto grave scontentezza d’Ercole da Este, al quale rimasero in casa i Visdomini, e i Veneziani sul Po. Dispiacque la pace anche al Pontefice perchè fatta senza lui; bene egli l’aveva cercata prima:[535] e perchè uditane la novella moriva, fu detto al nome solo di pace essere mancata la vita di lui che aveva tredici anni tenuto l’Italia in guerra e in tumulti.[536]

In Siena il governo dalle mani degli Ottimati era venuto in quelle del Popolo, ed avendo fatta lega con la Repubblica di Firenze, restituiva finalmente la Castellina e le altre terre ad essa occupate nella guerra di Toscana. Troviamo Lorenzo essere stato grande amico a quello Stato di popolani, debole com’era e molto agitato, sperando forse egli avere occasione di [414] porvi le mani, e soddisfare l’ambizione ch’era in lui grandissima di fare un qualche notabile acquisto e averne merito nella patria sua.[537] Dolevagli intanto assai la perdita di Sarzana, che dalla gelosia dei vicini più volte gli era stato impedito recuperare; ed ora il racquisto si rendeva più difficile, avendo Agostino Fregoso donata la terra al Banco di San Giorgio, Compagnia possente, la quale reggeva tutto il commercio dei Genovesi, mantenendosi libera e forte e senza alterazioni in mezzo ai tanto spessi mutamenti ed alle percosse di signorie forestiere cui la Repubblica sottostava. Andarono genti dei Fiorentini a quella volta, ma nel passare che facevano sotto Pietrasanta molti carri di munizioni e vettovaglie con debole scorta, furono assaliti da quelli di dentro, e presi non senza sospetto che da quella preda si fosse in Firenze cercato un motivo d’assalire Pietrasanta: l’avevano essi altre volte posseduta, ed era una briglia da tenere in freno i Lucchesi, e buon fondamento ad ogni impresa da quelle parti. Ma l’espugnazione si rendeva difficile, essendo l’autunno avanzato e il terreno paludoso; abbandonarla ed aspettare la primavera, Lorenzo non volle; e in aggiunta d’Iacopo Guicciardini avendo mandato due altri Commissari, Antonio Pucci e Bongianni Gianfigliazzi, e dietro a quelli Bernardo del Nero, si recò egli stesso sotto Pietrasanta a dare animo alle genti ed a sopravvegliare la piccola guerra, ma tale però che avrebbe potuto estendersi molto per essere i Genovesi dal mare discesi in Vada e battendo con le artiglierie la Torre che i Fiorentini avevano nuovamente armata in Livorno. Assai fu lodata la virtù dei Commissari, e massimamente di Antonio Pucci che prestò opera di Capitano, egli volendo a ogni modo si desse l’assalto, e in quello mischiandosi agli uomini d’arme e pigliando cura dei feriti e provvedendo [415] da sè ogni cosa sinchè non ebbe avuto infine Pietrasanta. Egli medesimo infermatosi per quelle fatiche e per la stagione, si faceva portare a Pisa, dove in pochi giorni moriva: era figlio di quel Puccio che tanto avea fatto co’ suoi per dare lo Stato a Cosimo de’ Medici. Gravi erano le sofferenze e i morbi frequenti e il mancare dei soldati: morivano l’altro Commissario Gianfigliazzi che difese Livorno, ed il Capitano della guerra ch’era il conte Antonio da Marciano.[538] Questa però non cessava, sebbene per terra nulla si facesse da Niccola Orsini conte di Pitigliano, nè da Rinuccio Farnese, nuovi condottieri dei Fiorentini: ma i Genovesi dal mare di nuovo attendeano a battere Livorno; donde ributtati, non però all’armata Fiorentina riusciva tentare contro a Genova cosa alcuna. Lodovico Sforza interponea pratiche dubbiose, intantochè senza frutto si adopravano per la pace il nuovo Papa e il re Ferrando.[539]

A Sisto IV era succeduto Gian Battista Cibo genovese Cardinale di Molfetta, col nome d’Innocenzo VIII. Mansueto di natura, lo aveano eletto per avere un pontificato quieto; ma tali erano le condizioni allora d’Italia e tanti gli appicchi di politiche ingerenze fuori, e di passioni private e di domestiche cupidigie dalle quali era tirato sempre l’animo dei Papi, che asceso al regno di pochi mesi, fu tratto Innocenzio ad una pericolosa guerra, odiosa a lui quando v’entrava, odiosa del pari quando egli ne usciva. Contro al re Ferrando si congiuravano insieme i Baroni del Reame, potentissimi nei loro castelli: tenevano molti la parte angiovina; ma coloro stessi che innalzati dal padre o da lui, godevano allora di grandi ricchezze, praticavano contro a lui segretamente, ma non inconscio Ferrando, che tutti temeva, e come espertissimo odorando [416] i tradimenti da lontano, correva innanzi a prevenirli. Era Innocenzio male disposto verso la casa degli Aragonesi; e peggio ancora il Cardinale di San Pietro in Vincula, che assai dominava l’animo del Papa;[540] nel quale speravano i congiurati: ed Innocenzio avendo anche avuti Ambasciatori della potentissima città dell’Aquila che s’era posta in ribellione, deliberò di muovere guerra contro al re Ferrando, avendo ottenuto dai Veneziani Roberto da San Severino che andasse capo a quella impresa. Dispiacque a Milano la mossa del Papa, e molto se ne turbava Lorenzo de’ Medici al quale parve che fosse incendio da spegnere tosto; il che avverrebbe se il Papa fosse costretto a ritrarsene col muovergli addosso tutto il peso della guerra. Intorno a Roma i Colonnesi amici del Papa si battagliavano con gli Orsini; dei quali Niccola conte di Pitigliano, venuto ai soldi della Repubblica di Firenze, entrò dalla parte di Maremma nello Stato della Chiesa, intantochè il Duca di Calabria, facendosi innanzi, cercava congiungersi ad esso ed agli altri Orsini che aveano sparse le castella nel Patrimonio. Ma perchè l’impresa pareva tale che si dovesse compiere alla prima, Alfonso recatosi a Montepulciano, richiedeva che Lorenzo si abboccasse quivi con lui; e sebbene questi per malattia non potesse, rimase tra loro convenuto di portare le offese là dove più avrebbero ferito sul vivo: Lorenzo mandava a questo effetto rinforzo di gente, ed altre otteneva che sotto al Trivulzio venissero da Milano. Ma ciò nonostante riusciva la guerra lenta per le difficoltà dei movimenti, e per la stessa militare scienza la quale nei Capi era grandissima, con eserciti male composti e non atti a fare imprese gagliarde. Aveva Roberto da San Severino scontrato i nemici inutilmente al ponte Nomentano; poi andò gran tempo prima che le forze dei [417] Collegati e degli Orsini si congiungessero a Bracciano, e che in una grossa battaglia non avessero la peggio le genti del Papa. Questi frattanto avea trattato di fare scendere in Italia il Duca di Lorena siccome erede delle ragioni di casa d’Angiò; al quale annunzio il Senato di Venezia, che non voleva in Italia oltramontani, già dava segno di accostarsi alla Lega; mentre i Fiorentini se ne rallentavano, a Francia legati per gran numero dei mercatanti ch’aveano in quel regno. Il Papa intanto, stretto dalla guerra che aveva all’intorno e dalle fazioni sanguinose dentro Roma stessa, udiva con lieto animo le proposte d’accordo che aveangli recate il Trivulzi e un letterato che allora in Napoli era in grande stima, Giovanni Pontano. Recossi indi a Napoli lo stesso Cardinale di San Pietro in Vincula, e fu conchiusa la pace; Roberto da San Severino costretto ritirarsi con l’esercito, e non avendo chi stesse per lui, fu necessitato rinviare la maggior parte delle sue genti, ed egli tornare a Venezia quasi solo. Quella pace diede a Ferrando causa vinta contro ai Baroni,[541] dei quali furono taluni subito messi a morte; altri, difesi dall’accordo e perdonati, erano spenti anch’essi con paziente indugio dal Re, che gli avvolse presso che tutti dentro alla rete dei tradimenti. Ferrando d’Aragona credettesi allora d’avere per sempre assicurato alla discendenza sua la possessione del Regno di Napoli.[542]

Per quella pace i Genovesi bene avvisati che da Firenze tutte le forze si volgerebbero all’impresa di [418] Sarzana, passando la Magra senza aspettare la primavera che fu del 1487, investirono il Borgo di Sarzanello; e questo occupato ed arso, battevano con le artiglierie la Rôcca, avendo usato per la espugnazione l’artifizio nuovo e tuttora non bene regolato delle mine. A quell’annunzio i Fiorentini molto si commossero, e mandato in campo il Conte di Pitigliano, scrissero a quanti condottieri e conestabili tiravano soldo dalla Repubblica, si affrettassero intorno Sarzana. Giungeano i Signori di Piombino e di Faenza, vennero altri Orsini di nuovo ricondotti dalla Repubblica e dal Duca di Milano, e Galeotto Pico signore della Mirandola. Tardi inviava Lodovico Sforza quattrocento lance, e il Re di Napoli a Livorno sei galere con cento provvigionati e con l’intenzione di fare in Corsica qualche effetto contro ai Genovesi. Raunate le forze, si venne a battaglia con vittoria dei Fiorentini, i quali ebbero prigione lo stesso Capitano genovese Gian Luigi del Fiesco: dipoi fabbricate sulla Magra, e in altri punti bene acconci, bastìe che impedissero ogni soccorso alla città, si venne all’assalto; il quale riuscito la prima volta infruttuoso, ma le mura essendo da più parti rotte, i cittadini senz’aspettare l’assalto secondo, liberamente si diedero a Lorenzo dei Medici; il quale venuto in campo, colse l’onore della vittoria e della molta benignità usata verso i Sarzanesi. Avrieno in quel caldo bramato a Firenze di spingere innanzi la guerra, ma furono impediti dallo Sforza, il quale avendo trattati in Genova, non voleva che fosse menomato quello Stato, del quale divenne bentosto signore: invidiava egli anche la riputazione di Lorenzo, e tra essi due sempre gli animi furono mal disposti.[543]

Nella Romagna, solito campo alle stragi familiari tra quei signorotti, due morti avvennero nell’anno 1488, per le quali fu ivi attirata la sollecitudine dei Fiorentini. [419] Girolamo Riario teneva Forlì, odiato per crudeltà ed avarizie; tantochè un giorno, essendosi messi d’accordo taluni di quei principali cittadini, l’uccisero; e poi gittato il corpo dalla finestra, chiamavano il popolo gridando Chiesa e Libertà. La Rôcca teneasi nel nome dei figli, i quali insieme con la madre essendo alle mani dei congiurati, ottenne la Contessa d’entrare in quella sotto colore di persuadere il Castellano a cederla; poi facendo il contrario, insultava dalle mura con animo ed atti poco femminili ai rivoltosi che minacciavano d’uccidergli i figli. Ma la città si mostrava fredda; e intanto veniano genti da Milano e da Firenze, pel cui soccorso Caterina Sforza riebbe lo Stato che fieramente poi manteneva ai figli ed a sè. Nè un mese appena era passato, che un peggiore caso avvenne in Faenza: Galeotto Manfredi fu ivi ucciso dalla sua propria moglie, nata di Giovanni Bentivoglio; e questi cercando occupare in quel tumulto Faenza, i contadini di Val di Lamone, che più altre volte avean fatto prova della virtù loro, accorsi in arme, recuperarono la città facendo prigione lo stesso Bentivoglio. Allora i cittadini a mezzo con gli uomini di Val di Lamone presero lo Stato in nome del piccolo fanciullo Astorre e sotto la consueta protezione di Lorenzo de’ Medici e della Repubblica di Firenze; la quale ritenne Piancaldoli, buona rôcca sul confine, e prima stata di suo dominio. In Osimo un Boccolino si era fatto tiranno e minacciava chiamare i Turchi; ma costretto rendere al Papa quella città, e per qualche tempo in Firenze ritenuto, fu indi a Milano fatto uccidere. Dipoi una guerra tra l’Imperatore e i Veneziani essendo bentosto finita, e per interposizione di Lorenzo placate le ire del Papa contro al re Ferrando per l’uccisione dei Baroni e pel negato tributo,[544] godette [420] senz’altro accidente l’intera Italia pace tranquilla.[545]

Grande era in quegli anni appresso al Pontefice l’autorità di Lorenzo dei Medici, il quale in Roma diceano essere arbitro d’ogni consiglio; ed in quello andare insieme i due Stati i quali tenevano il mezzo d’Italia, avea fondamento la pace, essendo la via interchiusa alle inimicizie di quei Principi che si apprestassero a turbarla. Motivi privati s’aggiugneano ai pubblici a rendere stretta quell’amicizia: papa Innocenzio avea, con nuovo e tristo esempio, riconosciuto pubblicamente un suo figliuolo naturale, Franceschetto Cibo. A questi Lorenzo sposava la figlia giovinetta Maddalena, che fu dalla madre condotta a marito. Sperò Franceschetto dal padre o dal suocero uno stato principesco; faceva disegni su quei di Piombino e di Città di Castello, sognava perfino d’avere Siena; ma nè il Papa a queste cose gli dava mano, ed a Lorenzo poco aggradivano.[546] Bene aveva questi condotto Innocenzio ad un atto di favore molto insolito, e che fu nei tempi avvenire fondamento dal quale saliva fino al principato la casa dei Medici. Giovanni, secondo figlio di Lorenzo e che i due altri per ingegno superava, dal padre era stato fin dalla puerizia incamminato all’ecclesiastiche dignità. Ai sette anni insieme alla cresima ebbe la tonsura, e fatto dal Papa Protonotario, si chiamò da indi in poi Messer Giovanni: il re di Francia Luigi XI gli avea conferita l’abbadia di Fonte Dolce; ebbe indi quella di Passignano in Toscana, ed una dal Duca di Milano, e poi quella fra tutte insigne di Monte Cassino. Luigi XI aveva anche tenuto discorso di farlo arcivescovo d’Aix in Provenza; al che il Papa metteva per gli anni difficoltà, sebbene lo avesse fatto abile a tenere gli ecclesiastici [421] benefizi.[547] Tuttociò era innanzi la morte di Sisto IV e che il fanciullo pervenisse ai nove anni. Prima che fosse giunto ai quattordici, da Innocenzio fu creato Cardinale, ma con la riserva di indugiare alla pubblicazione tre anni; i quali essendo compiti nel marzo del 1492, pigliava con grande solennità in Firenze Giovanni l’investitura di quel grado, e subito andava in Roma ad esercitarlo.[548] Abbiamo i consigli che il padre a lui dava per iscritto intorno al modo di contenersi nel cardinalato; consigli che onorano Lorenzo: e poichè ad abbreviarli si guasterebbero, e letti potranno servire all’istoria, abbiamo proposito di pubblicarli tra’ Documenti che saranno in fine a questo volume.[549]

Per tante grandezze a molti pareva Lorenzo avviarsi al principato, ed era voce che non appena con l’età di quarantacinque anni divenisse abile al supremo magistrato, sarebbesi fatto creare Gonfaloniere a vita. Un grande passo aveva fatto l’anno 1490 col togliere al Consiglio dei Settanta l’autorità di creare la Signoria, il che era avere lo Stato in mano. Questo da principio Lorenzo aveva sofferto dividere con un collegio di suoi devoti, ma era numeroso ed era perpetuo, da non potersi alla lunga governare: per questo e perchè le cose andassero più strette e più spedite, fece Lorenzo eleggere una Balìa di Diciassette, dei quali era uno egli medesimo. Fu ordinato che ai Settanta rimanendo l’autorità d’una Pratica o Consulta, tutto il maneggio delle scelte si facesse per vie coperte dagli Accoppiatori, com’era già stato. Quella Balìa decretava più altre riforme, tra le quali, perchè era in Firenze quantità di monete nere di vari paesi; mettendo queste fuori di corso, ordinarono che le gabelle si pagassero in monete bianche allora coniate, [422] nelle quali entravano due oncie d’argento per libbra e valevano il quarto più delle altre. La cosa era per sè buona, ma per questo modo crebbero assai le entrate della città, con molto gridare della plebe alla quale rincaravano tutte le grascie e cose necessarie al vitto. Con altre industrie fu continuato l’antico scandalo circa al Monte delle Doti, di nuovo ridotte e sempre a benefizio di Lorenzo.[550]

Il titolo di Magnifico a lui serbato dalla posterità era solito darsi a chiunque avesse condizione più che di privato. Già egli traeva a sè ogni cosa: lui personalmente riconoscevano ed a lui si obbligavano i Signori della Città di Castello, e i Baglioni di Perugia, e i Malaspini di Lunigiana, ed altri che aveano soldo dal Comune; quelli di Faenza a lui erano in tutela. I Re ed i Principi con lui solo carteggiavano di cose di Stato: Luigi XI di lui pigliava cura come d’amico. Ferrando gli rendea grazie dell’averlo salvato egli solo nell’ultima guerra; col re d’Ungheria Mattia Corvino aveva relazioni per cose di studi. Vedemmo il favore di che egli godeva presso al Signore dei Turchi; ed il Soldano d’Egitto mandava doni a lui e alla Signoria, tra’ quali era un Leone domestico ed una Giraffa, strano animale che altra volta s’era veduto in Firenze; ma gli Artisti e gli Scrittori faceano a Lorenzo gloria d’ogni cosa, come di omaggio che a lui rendessero i re barbari.[551] In casa e in città mantenne sempre modi e costumi di cittadino; il vivere suo era più compagnevole che fastoso, eccetto in qualche solenne occasione di feste o conviti a principi forestieri: serbava con tutti la fiorentina dimestichezza, ed a chi fosse di più età di lui cedeva la mano.[552] Il [423] figlio suo Piero maritò con l’Alfonsina di quella stessa casa Orsini donde egli medesimo aveva la moglie: le nozze furono celebrate in Corte di Napoli ed alla presenza del Re. In questo e nel maritaggio della figlia Maddalena cercò alleanze di famiglie signorili, ma collocò le altre figlie con privati cittadini di Firenze, sposando Lucrezia a Iacopo Salviati, e Contessina a Piero Ridolfi; aveva la terza figlia promessa a Giovanni dell’altro ramo di casa Medici, ma essa moriva quando era sul punto di andare a marito.

Come in Firenze i maritaggi tra gli Ottimati serviano spesso alle politiche aderenze, così Lorenzo che per tal modo si avea legato due famiglie delle maggiori nella città, poneva studio diligentissimo nell’impedire che tra le grandi Case non si formassero alleanze a lui sospette, o ne faceva egli a suo modo, avendo l’occhio sugli andamenti dei cittadini, sulle amicizie, sugli interessi: male sofferiva persino che altri si rendesse grato con balli e conviti in occasione di nozze, com’era costume antico in Firenze, d’allora in poi quasi dismesso. «Nelle quali cose ebbe a durare grande fatica massimamente nei primi tempi, e ad altro pareva non attendesse il dì e la notte mettendovi tutto l’ingegno e l’industria con assidua pazienza e usando a tal fine varie arti con sètte segrete e compagnie che l’una non sapeva dell’altra:[553]» nelle stesse liberalità poneva tale misura che niuno s’arricchisse troppo, e che gli uomini dello Stato non apparissero all’universale violenti e rapaci. Dipoi, la congiura dei Pazzi gli aggiunse amici nuovi e ristrinse i vecchi più intorno a lui, tanto che la potenza sua [424] divenne più assoluta, e crebbe un grado da quella che aveva tenuta Cosimo. Il Palagio della Signoria perdeva ogni dì credito, ai Consigli ed agli stessi Collegi, che prima erano ogni cosa, pochi si curavano d’intervenire: onde nacque caso che non si potendo fare la tratta dei magistrati al dì necessario, e taluni ch’erano a caccia nelle ville loro avendo ricusato andare, sebbene chiamati a grande fretta, dal Gonfaloniere furono ammoniti. Ma parve a Lorenzo, assente in Pisa, che avesse quegli presa di suo capo troppo grande libertà; e si aggiunse l’avere negato, secondo l’usanza, l’entrata in Palagio mentre i Consigli deliberavano, a Ser Piero da Bibbiena ch’era Cancelliere di Lorenzo; per queste cose il Gonfaloniere appena uscito d’ufizio fu ammonito per tre anni.[554] Industria antica di Casa dei Medici era tenere in ciascun ufizio o magistrato un Cancelliere di confidenza loro: e uno ve n’era salariato dal Comune da stare fermo nelle ambascerie che spesso mutavano, il quale aveva con Lorenzo conto a parte e lo avvisava d’ogni cosa. Per tale modo i grandi cittadini aveano gli uffici, ma gli uomini tirati su da Lorenzo esercitavano ad arbitrio suo la potestà effettiva, massimamente in ciò che spetta alle gravezze ed al Monte, ch’egli era accusato volere annullare per indi volgere più liberamente le entrate pubbliche a suo pro. A ciò era dalle private sue necessità costretto; ma il danno feriva grande numero di cittadini che aveano nel Monte i loro capitali, e ne ricavavano fra tasse e riforme più che dimezzato l’interesse. Ma sopra ogni altra odiose riuscivano le riduzioni fatte al Monte delle Doti, che non si pagando al tempo promesso rimanevano nel Monte, e le fanciulle che si maritavano, in luogo di sorte non avendo altro che l’interesse sotto certe regole, era alle famiglie necessità [425] sborsare la dote in contanti per non si potere valere di quello che aveano a tal fine più anni prima depositato. Dal che avveniva che poche fanciulle si maritassero, e anche bisognava chiederne licenza perchè il parentado andasse a genio di Lorenzo.[555]

Ogni principio di rumore, se pure nascesse, prontamente gastigava, come apparve in un caso narrato dall’oratore Modenese, allora in Firenze, le cui parole giova riferire. «Andando io in piazza, trovai gran tumulto di popolo, e la causa fu perchè menandosi uno giovine della terra alla giustizia perchè avea morto un famiglio de li Otto a’ dì passati, ed essendo fuggito a Siena, i Senesi lo diedero nelle mani di questa Signoria per i capitoli comuni. E menandosi detto giovine per piazza per condurlo al luogo della giustizia, il popolo si levò, gridando scampa, scampa; in modo che lo cominciarono a togliere dalle mani alla famiglia del bargello. Pure li Otto della Balìa in persona vennero in piazza e fecero fare subito un bando, alla pena della forca, che la piazza fosse sgombrata. Ed essendo fatta instanza per l’oratore di Milano ed il Genovese per ottenere la grazia di quel giovine, e ad instanza di Lorenzino e di Giovanni e di Pier Francesco (de’ Medici) con il Magnifico Lorenzo che si trovò in Palazzo a tale tumulto, Sua Magnificenza gli dette buone parole, e operò ch’egli fosse appiccato in piazza ad una finestra del bargello: poi fece pigliare quattro di quelli del popolo che gridavano scampa, scampa, e a ciascheduno fu dato quattro tratti di corda e furono sbanditi per quattro anni fuori della terra. A questo modo si sedò il tumulto, e mai non si volse partire fuori della piazza il Magnifico Lorenzo sinchè non vide sedato il popolo.[556]» Di questo tumulto non fanno parola gli scrittori Fiorentini.

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Ma più della forza poteano il favore e i nuovi costumi, il popolo essendo a lui devoto in città fiorente per l’eccellenza delle Arti e per la dovizia dei mestieri: domato di prima, impinguato ora più che mai fosse pei grossi guadagni, rallegrato dalle feste, godevasi ambiziosamente come sue la grande fama di Lorenzo, le magnificenze della Casa Medici, la gloria che a tutta la città ne derivava. Essendo a Lorenzo falliti i traffici ai quali sdegnava calare l’ingegno, si voltò alle possessioni; e al Poggio a Caiano edificò una Villa d’architettura elegantissima, della quale egli medesimo avea dato il primo concetto a Giuliano da San Gallo che dietro a quello poi la condusse. Cercando risollevare l’infelice Pisa dal tetro squallore in che era caduta, comprò molte terre in quella provincia e case in città, dove a lui stesso non di rado piaceva dimorare facendovi spese e mettendo vita intorno a sè: ripristinò anche l’antico gioco del Ponte, caro ai Pisani e quindi vietato dalla sospettosa gelosia della Repubblica di Firenze. Era in Pisa uno Studio, anch’esso deserto dopo la conquista; ma Lorenzo volle sorgesse a celebre Università; chiamandovi con larghi stipendi da ogni parte d’Italia eccellenti professori in legge, in medicina, in divinità.[557] Le umane lettere e le Arti aveano in Firenze già grande splendore: Lorenzo era tale in sè medesimo da più illustrarle; ingegno potente, vario, elegantissimo e curioso d’ogni sapere, capace di alzarsi al pensiero filosofico e al sentimento delle Arti belle, scrittore non ultimo in prosa ed in verso tra molti insigni che lo attorniavano, raccoglitore munifico di quelle opere dell’antichità dalle quali aveano impronta gli studi. Il secolo era nelle dottrine incerto e mutabile, nei costumi sciolto, gaio nella vita com’essere sogliono i tempi che alle ruine precedono. Lorenzo pareva in sè accogliere tutto il secolo, scrivea [427] rime sacre e canti carnascialeschi, cercava e ascoltava gli uomini religiosi ed era involto negli amori. Assiduo alle cure di Stato e infaticabile in ogni cosa che a lui servisse o a lui dèsse fama, pareva non altro amare che celie e sollazzi, e compagnia d’uomini arguti e faceti; avea tal natura, che a tutto bastava e ad ogni cosa pareva fatto. La Casa dei Medici era un museo, una scuola, un ritrovo degli ingegni che ad essa accorrevano; da quella partivano i consigli gravi, e la luce delle lettere, e i giochi e le feste e le corruttele dei costumi: in quella cresceano fanciulli due Papi, ivi risedeva l’Accademia Platonica intesa con gli studi a rinnalzare la vita e il pensiero; ed ivi continua la dimestichezza del Poliziano e del conte Giovanni Pico della Mirandola che fu portento dell’età sua; ivi Michelangiolo faceva saltare dal marmo le prime scaglie, e Luigi Pulci leggeva il Morgante nelle cene geniali: tanta ampiezza di vita, nè tanta magnificenza, nè allegrezza forse alcun tempo non vide mai; era il nome di Lorenzo in cima a ogni cosa.

E intanto la vita di lui declinava. I dolori delle gotte, ereditari nella famiglia sua, lo avevano afflitto sino dalla giovinezza; e noi lo troviamo già nell’anno 1482 ai Bagni del Senese ed a quei di Lucca, e spesso di poi al Bagno a morbo nel Volterrano.[558] Si aggiunsero doglie frequenti di stomaco, dalle quali fu talmente logorato, che a vedere alcuni ritratti di lui si direbbe uomo decrepito. Crebbe il male nei primi mesi dell’anno 1492, nè vollero gli amici e i congiunti crederlo mortale insinchè agli otto del mese d’aprile nella villa di Careggi, di poco avendo egli compiti quarantaquattro anni, tra sofferenze acerbissime e con segni di religione fervente si spengeva quella vita della quale non fu altra mai con maggior [428] pianto desiderata, nè più nei tempi che sopravvennero celebrata. Due giorni prima, caduto un fulmine sulla Cupola di Santa Maria del Fiore aveva spezzato quella delle grandi costole di marmo che scende dal lato dov’era la Casa dei Medici, e i pezzi cadendo foravano in più luoghi la vôlta del tempio. La notte di quel dì stesso che era stato ultimo a Lorenzo, Pier Leoni da Spoleto, medico fra tutti reputatissimo, fu trovato morto in un pozzo a San Gervasio, o ch’egli medesimo, come fu detto, vi si gettasse per disperazione, o che vi fosse da altri gettato. Nella città era grande la costernazione, pauroso l’avvenire a coloro stessi che mal volentieri ubbidivano a Lorenzo; gli amici a lui più bene affetti, o si dispersero, o mancarono: due anni dopo moriano, sebbene di lui più giovani, Pico della Mirandola e Angelo Poliziano: Marsilio Ficino, già vecchio, finiva non molto dipoi.

Tempi luttuosi conseguitarono alla morte di Lorenzo dei Medici, e accrebbe favore al suo nome l’essersi da indi in poi di tutta Italia arrovesciate le sorti, quasi fosse ella perita con lui che solo era abile a scamparla. Bentosto si vennero a urtare insieme le ambizioni degli altri Principi, insinchè non furono oppresse tutte dalla sopravvenienza delle armi straniere che uno di loro aveva chiamate. Fu detto Lorenzo avere creata la scienza che poi fu appellata d’equilibrio e che ai politici delle età seguenti divenne studio; ma era già arte della Repubblica di Firenze, naturale protettrice delle città e degli Stati minori di lei, perchè ella cercava tra mezzo ai maggiori la propria sua conservazione. La quale arte stando rinchiusa dentro ai confini d’Italia, valeva a tenerla bene spartita e contrappesata in sè medesima finchè d’oltremonti nessun pericolo minacciasse; più non bastava se una volta le altre nazioni venendo a comporsi in forti regni, la divisione rendesse invalida la difesa; il che presentiva l’istesso Lorenzo. Questi [429] mantenea frattanto l’Italia in bilancia,[559] il che era un rimuovere le cause interne e le occasioni per cui venissero gli assalti di fuori: e ciò da lui solo riconosceva ed a lui ne diede, fra tutti gli altri, amplissima laude Francesco Guicciardini nel principio della grande Istoria sua; sebbene avesse egli in altra opera giovanile, ponendo a confronto Cosimo e lui, attribuito maggiore all’avo prudenza e giudizio. Bene ebbe Lorenzo assai più di Cosimo ardito il consiglio e in più vasto campo spaziava il pensiero: natura d’artista, anima di principe, ultima grandezza d’un’età splendida che finiva.[560]

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Capitolo VIII. SCIENZE, LETTERE ED ARTI SOTTO IL GOVERNO REPUBBLICANO DI CASA MEDICI. [AN. 1434-1491.] — LA LINGUA TOSCANA DIVIENE ITALIANA.

Abbiamo veduto per cento anni l’operosità intellettuale degli Italiani volgersi quasi unicamente a riporre in luce gli autori classici, ad assicurarne la lezione, a propagarne l’uso e l’intelligenza. In essi cercavano forme più elette alla parola, ma per quello studio apersero come un nuovo mondo alla erudizione, che fino allora si era aggirata dentro a termini molto angusti; della quale Dante era assetato penosamente, ed il Petrarca troppo soddisfatto. Ma intanto l’istoria tornata in luce rettificava molti degli errori che aveano goduto autorità e corso nell’età di mezzo, e la critica si assottigliava, e molte passioni si temperavano col cessare l’ignoranza che l’uomo racchiude in sè medesimo e lo rende spesso agli altri più ostile. Molto anche appresero dai Latini quanto agli uffici dell’uomo civile; la scienza pratica si avvantaggiava, ma facendo ingombro a eletti ingegni nei quali si vede scarsa in quegli anni l’originalità: dipoi, saziata la foga del ritrovare, venne il pensiero speculativo a farsi più ardito, quando ai Latini s’aggiunsero i Greci scrittori e che lo studio di questa lingua si fu divulgato. Uomini dotti tra’ Greci accorsero al Concilio tenuto in Firenze per l’unione delle due Chiese, e in tale occasione le controversie teologiche riaprirono il campo alle filosofiche; i Greci portarono in esse un rivolo delle antiche loro scuole, buono ad irrigare i campi fatti aridi della scolastica, donde san Tommaso aveva oggimai cavato ogni frutto.

Tra gli altri erano due Greci, cultori della Filosofia [431] platonica, Gemisto Pletone ed il cardinale Bessarione che aveva promossa l’unione, e che rimasto poi sempre aderente alla Chiesa dei Latini godeva in Italia autorità negli studi. Da questi due uomini dovette Cosimo dei Medici essere indotto a favorire quella dottrina che molto bene si confaceva al genio artistico e religioso de’ Fiorentini; l’accolse egli stesso nel suo Palazzo, e ad essa volle che fosse allevato quasi dalla fanciullezza Marsilio Ficino ch’era figliuolo del medico suo. Ivi si facevano conversazioni di dotti, le quali pigliarono nome platonico d’Accademia, divenuto solenne dipoi a questa e ad altre simili riunioni. Cotale indirizzo dato agli studi sino d’allora io credo fosse argine alla corruttela del pensiero. Finchè un principio d’autorità poneva limiti alla controversia, e i più alti gradi della scienza in lei scendevano dalla fede, giovava seguire la disciplina dei peripatetici, sottile arnese ed atto ai lavori delle scolastiche officine. Ma ora che il pensiero ambiva spingersi fino all’altezza dei primi veri, e le dottrine del gentilesimo tutto invadevano il sapere, bene fu almeno alle scuole nostre avere accolta quella filosofia che in cima a sè stessa aveva un principio fuori di sè stessa, sovraimponendo l’idea di Dio a tutta l’opera del ragionamento. Per quelle dottrine si temperarono molti ingegni fino ai più audaci e dissoluti: corse oltre a un secolo, e la prevalenza ch’ebbe in Toscana un tale abito nel filosofare, io credo infondesse maggior sanità nell’intelletto di Galileo e della scuola che da lui discese. Si vede egli sempre nella fisica avere a guida una filosofia, e per lo studio della materia non perdere mai l’idea dello spirito: bene gli avvenne che al primo formarsi di quella mente gli stesse innanzi nelle tradizioni casalinghe una filosofia religiosa; così l’accademia Platonica diede qualcosa del suo all’accademia del Cimento.

Marsilio Ficino [n. 1433, m. 1499] tradusse in lingua [432] latina le opere di Platone, che fu il maggiore servigio prestato da lui direttamente alla filosofia. Tradusse i libri anche di Plotino, e si affaticò molto intorno a Proclo, a Giamblico e agli altri della Scuola neoplatonica d’Alessandria; ne accolse le mistiche astrusità, e da quelle fu condotto infino ai sogni dell’Astrologia giudiziaria e ad altre consimili fantasie. La sua maggiore opera è un libro col titolo di Teologia Platonica, perchè nel pensiero di lui, platonico e cristiano erano tutt’uno; ed egli cercava per tal modo soddisfare insieme all’ingegno sottile ed al cuore dov’era la fede sincera e schietta: fu prete e parroco virtuoso, di vita semplice, di costumi puri; e, quale si fosse il valore delle sue dottrine, la conversazione di lui educava agli alti pensieri e alla bontà i molti suoi discepoli o seguaci. Innanzi alla morte del Ficino e poi molti anni, tenne in Firenze la cattedra di filosofia Platonica Francesco Cattani da Diacceto, che pei suoi libri si acquistò fama come illustratore di quella dottrina. Nei tempi di Marsilio, e di lui più vecchio, Cristoforo Landino [n. 1424, m. 1504] fu anch’egli platonico: scrisse in latino le Disputazioni Camaldolesi, un trattato sulla nobiltà dell’anima ed altre molte cose in prosa ed in verso; in lingua italiana, un dotto Commento e assai reputato sulla Divina Commedia; tradusse in volgare l’Istoria Naturale di Plinio; insegnò in Firenze le belle lettere e fu segretario della Repubblica: pochi s’agguagliarono a lui per l’onorata vita e pei servigi recati agli studi.

In quel secolo fu la Toscana oltremodo ferace d’ingegni, sebbene ad alcuni tra’ sommi nuocesse la varietà delle cose a cui si volsero nel tumultuare che le menti facevano in quella novità di studi tuttora immaturi. Il che si vidde in Leone Battista Alberti, nato in esiglio su’ primi anni del quattrocento, di quella famiglia che noi vedemmo fieramente perseguitata in Firenze. Attese da giovane allo studio delle leggi e [433] fu laureato nel diritto canonico, intantochè egli scriveva in latino una Commedia che fu creduta d’autore antico, e si rendeva singolare per forza e destrezza negli esercizi del corpo ed in tutte le arti liberali e cavalleresche. Artista e scrittore non trascurò la pittura e la scultura ma fu grande nell’architettura, di lui rimanendo per l’Italia alcuni insigni edifici, tra’ quali bellissima la chiesa in Mantova di Sant’Andrea: scrisse un trattato di quest’arte, libro che lo pone anche oggi tra’ primi che ne furono maestri. Si dilettò molto della meccanica, ingegnandosi a comporre macchine che riuscirono singolari massimamente per ciò che spetta all’arte nautica: nella scienza della prospettiva fu maestro a quelli che dopo lui vennero. Seguendo in filosofia le dottrine platoniche, scrisse non pochi trattati di cose morali in lingua volgare. Uno tra questi che ha per titolo della Famiglia contiene nel terzo Libro la materia di quello che lungamente andò col nome di Agnolo Pandolfini. Duole a noi spogliare il buono e onorato vecchio della lode che a lui ne venne: certo che il libro si direbbe opera d’un massaio anzichè d’uomo a cui fa peso l’erudizione, ed il cui scrivere in volgare parve aspro agli stessi amici suoi, per essere egli nato in esiglio ed assai tardi venuto in Firenze. Ma poichè vediamo lui stesso chiamare nudo lo stile di quel terzo libro, essendosi in quello provato a imitare il greco soavissimo scrittore Senofonte, non rimane altro a noi (se falsa non sia quella lettera), che ammirare qui pure l’ingegno tanto pieghevole dell’Alberti, dolendoci che sempre non abbia egli scritto nudo a quel modo. Poco egli visse in Firenze, dov’era stata dal Medici richiamata la famiglia degli Alberti; e morì l’anno 1472.

Abbiamo narrato di Sant’Antonino il suo valore anche nelle lettere: dicemmo assai di Giannozzo Manetti del quale non ebbe Firenze altro cittadino più lodato nella vita civile nè più di lui autorevole per [434] sapere. Scrisse molti libri, dotto com’egli era in greco e in latino, ma con predilezione si diede all’ebraico; tradusse da questa lingua il Saltero, combattè i giudei, trattò argomenti di religione e di morale, cui bene serviva con la integrità del costume. Infelice come cittadino, Giannozzo fu l’ultimo che insieme attendesse alla Repubblica e agli studi: la vita civile diveniva più angusta, intantochè si apriva un campo più vasto alla vita letteraria che già in quel tempo si diffondeva per tutta Italia. Ma pure i Medici non disdegnavano chiamare agli uffici i letterati devoti a loro, e si onoravano con l’inviarli ambasciatori a’ Principi forestieri: così è che ascese ai più alti gradi in quella nuova sorta di Repubblica Matteo Palmieri, il quale ottenne stima di solenne letterato per le molte opere da lui composte, ma oggi meno lette. Tra queste primeggia un trattato sopra la Vita Civile, che fu tradotto anche in francese, ed una Cronaca dalla creazione del mondo fino a’ suoi tempi, con altre minori opere istoriche, e un Poema teologico in terza rima ad imitazione di Dante, che ha per titolo Città di Vita. I Segretari o Cancellieri della Repubblica si sceglievano per antico uso, come abbiamo detto, tra gli uomini letterati, che tali furono Carlo Marsuppini, e Benedetto Accolti aretini e Bartolommeo Scala da Colle in Val d’Elsa. Ebbe l’Accolti un fratello di lui più chiaro come giureconsulto, di nome Francesco, seduto su varie cattedre in Italia. Filippo Bonaccorsi, nato in San Gimignano, che ad uso di quella età pigliò nome di Callimaco Esperiente, giovane appartenne a quell’Accademia Romana che poi soffriva fiere persecuzioni; donde scampato viaggiò per l’Oriente, e fermatosi in Polonia e divenuto ivi grande personaggio, scrisse in latino assai elegante l’Istoria della infelice guerra nella quale venne a morte l’ultimo nazionale re d’Ungheria. Un altro sangimignanese Paolo Cortese, cui diede fama un libro di Teologia [435] purgata dal gergo scolastico, soleva menare la vita in un castello presso al luogo nativo, dove accoglieva i dotti, e di alcuni dettava le Vite.

Abbiamo a stampa, ma in troppo scarso numero, le prediche di San Bernardino da Siena, che al modo di altri celebri e più antichi Frati sermoneggiando sulle piazze delle città d’Italia, predicava la cessazione dalle inimicizie cittadine; oratore concitato, ricco di figure, caldo e abbondante come avvezzo a sempre cercare gli effetti subiti sulle moltitudini. D’un altro senese che fu Enea Silvio Piccolomini, papa col nome di Pio II, bene fu detto avere egli scritto più libri che altr’uomo ozioso, e trattato più faccende che altri ad esse unicamente rivolto. Viaggiò dell’Europa alcune parti ancora meno note, descrivendo i luoghi osservatore acutissimo, fu ministro dell’imperatore Federigo III, fu cancelliere del Concilio di Basilea e propugnatore della contesa ivi sostenuta contro a papa Eugenio. Disciolto il Concilio, si acconciò col Papa; Legato in Germania ch’egli bene conosceva, sostenne acremente ivi le parti della cattedra pontificia, e questa tenne poi decorosamente avendo finita, coma narrammo, la vita nelle fatiche di un troppo ardito divisamento. Le opere sue tutte in latino, oltre agli scritti di controversia ed alle Poesie, contengono Istorie del tempo suo, Commentari e descrizioni di paesi; i fatti d’Italia narrò fin presso alla morte sua, quelli della Germania come attore o come testimone sempre autorevole quando anche appassionato: scrittore copioso, arguto, gratissimo a leggere per una sua eleganza e disinvoltura signorile da lui acquistata nella pratica dei grandi uomini e delle grandi cose; ingegno vario, di cui fu danno che non si abbellisse la lingua italiana.

Le Scienze allora sorgevano anch’esse, nelle quali non possiamo tacere il nome di Paolo Toscanelli che non si vuol confondere con un altro fiorentino Paolo Dagomari, detto dell’Abbaco, vissuto prima che il Toscanelli [436] nascesse l’anno 1397. Dotto di cose astronomiche, derise l’Astrologia: essendo venuta a compimento la grande Cupola di Santa Maria del Fiore, pensò d’apporre in cima d’essa uno Gnomone rimasto famoso. Questo per la grande altezza disegna con raggio più lungo più larghi gli spazi, i quali lo spettro solare fa correre dal foro, ch’è in cima, sul marmo infisso nel pavimento; dal che più distinto riesce il punto meridiano, e più si determina il momento del solstizio. Ma gloria maggiore ebbe il Toscanelli dall’essere stato cagione in grande parte al Colombo d’intraprendere il grande suo viaggio; il che sappiamo dalla Vita che Ferdinando Colombo ha lasciato del suo genitore. Paolo, curioso della Geografia, ebbe da mercanti fiorentini e da certi uomini inviati dalle Indie al papa Eugenio IV notizie di quei paesi e occasioni di farsi un concetto, fortunatamente sbagliato, della via da percorrere per giungervi da Occidente. Ne scrisse a un Martinez canonico di Lisbona, il quale avendone tenuto discorso al Colombo, questi per mezzo di un Giraldi fiorentino ch’era in Lisbona mandò per lettera al Toscanelli l’annunzio del suo disegno ed una piccola sfera sulla quale aveva segnato il viaggio; donde il Toscanelli mandava al Colombo una Carta da navigare con gli spazi segnati a suo modo: a tutti è noto che il Colombo credeva la prima terra da lui toccata fossero le Indie. Il Toscanelli non ebbe tempo di sapere a quale uomo e a quale scoperta avesse in perpetuo egli associato il nome suo, morendo l’anno 1482.

Qui male possiamo noi definire in brevi tratti Leonardo da Vinci [n. 1452, m. 1519], intelletto portentoso e inesplicato nella vasta potenza sua, che in sè racchiudeva come una divinazione iniziatrice delle scienze le quali si ampliarono dopo di lui. Tiene Leonardo come artista tra i sommi un luogo tutto suo proprio e quasi appartato, perchè non bastandogli il bello esprimere come forma, intese a condurlo per via del [437] pensiero fino all’ultima idealità sua; cercò degli affetti le ragioni più riposte; e dopo averne dentro all’animo concetta l’essenza per via d’astrazione, fece suo studio tradurla con l’arte in immagine visibile: nè ciò gli bastava, chè un altro studio tutto diverso poneva egli quindi nei mezzi meccanici che all’arte dessero compimento. Dei suoi dipinti, che procedevano lentamente, pochi rimangono: il Cenacolo in Milano, sebbene quasi perito, è per eccellenti copie negli occhi di tutti; gli studi, i bozzetti, le prove mutate con sottili differenze abbiamo in gran numero, perchè egli fu ingegno ch’era impossibile soddisfare. Un colosso equestre di Francesco Sforza, del quale aveva già fatto il modello, fu distrutto dai Francesi quando l’anno 1500 entrarono in Milano; si perdè il cartone d’un grande dipinto che doveva ornare Firenze. Ma egli ebbe intelletto essenzialmente speculativo: scrisse trattati sulla Pittura e sopra l’Idraulica: abbiamo libretti dov’egli segnava i suoi calcoli e le invenzioni sue, le macchine da lui tentate, gli studi d’algebra, di geometria e quelli intorno alla meccanica razionale, alla dinamica, all’ottica, all’anatomia degli uomini e degli animali; trovò la teoria del moto dell’onde, studiò il volo degli uccelli, osservò fatti tra i più reconditi ch’abbia la natura, intorno ad essi lasciando formule che tuttavia sono rimaste alla scienza. In questi frammenti dei suoi studi, gli ardui problemi che egli aggrediva col pensiero ne mostrano quanta solidità fosse in quella sua mirabile estensione. Era oltreciò bello e forte della persona; eccellentissimo nella musica e inventore d’alcuni strumenti. Non ebbe fortuna con Leone X; accolto in Milano da Lodovico il Moro, condusse l’opera del Canale detto il Naviglio, e lavorò intorno alle fortificazioni; amato dal re Francesco I, dimorò in Francia alcuni anni e quivi moriva in un castello presso Amboise, nè già in Milano e nelle braccia di quel Re come fu detto fino [438] ai giorni nostri. Aveva Leonardo spinto il pensiero fino a cercare una generale proporzione la quale servisse a lui come artista per la figura dell’uomo, e come fisico gli mostrasse le leggi supreme a cui si conforma la struttura delle cose. Quindi Fra Luca Pacioli da Borgo San Sepolcro, amico e compagno di lui pubblicava, su quell’idea un libro della divina proporzione: era il Pacioli pratico nei calcoli, avendo in più libri raccolto d’algebra e di geometria quanto si sapeva al tempo suo, e dato notizia di antichi studi matematici in oggi perduti, tra’ quali primeggiano alcuni frammenti del pisano Fibonacci.

In Leonardo vennero a far capo le due correnti per le quali si era condotta innanzi l’Italia, da un lato nelle Arti e dall’altro nella Scienza; ma le Arti ebbero più facile e necessariamente meno incerto il cammino. La forte vita che si agitava per tutto il dugento aveva prodotto quasi a un portato Dante e Giotto; ma bastò a Giotto avere in sè stesso la forma del bello, poichè i mezzi capaci ad esprimerlo erano a lui già sufficientemente forniti dall’uso che era ai suoi tempi della pittura. Quei mezzi che stanno invece della parola, nelle Arti d’imitazione sono quasi del tutto meccanici; quindi è più semplice l’andamento pel quale riescono esse a procedere e a perfezionarsi. Un genio era apparso da principio e aveva mostrato una via nuova, donde la pittura per quasi un secolo parve come stare intorno a lui, da lui pigliando l’esempio a certe significazioni degli affetti e più accurate regole al disegno e più ardimento nelle composizioni; facendo di tutte queste cose all’Arte come un patrimonio capace a vivere ed a passar oltre. Il che essa fece dopo a Masaccio. Il quattrocento fu secolo d’artisti, i quali bisogna dire che in Firenze nascessero come spontanei dal suolo; molti gli eccellenti, e male pareva che non si sapesse fare. Il nome d’Arte, come si usa oggi a modo astratto, non conoscevano: [439] facevano come se esercitassero un mestiere, del quale i maestri insegnavano le pratiche; il resto avevano in sè stessi.

Basti a noi dire i nomi dei capi scuola o quelli ch’ebbero maggior fama. Fra tutti primeggia la famiglia dei Ghirlandai, dei quali Domenico per evidenza di esecuzione e per naturalezza in certe sue opere di molte figure ci fa vedere come in ritratto l’antico popolo di Firenze; ma gli sta innanzi per la finezza dell’espressione e pei concetti Fra Filippo Lippi, seguito da un figlio dello stesso nome: Sandro Botticelli espresse affetti squisiti con forme più larghe: Benozzo Gozzoli dipingeva in Pisa con lunga serie di composizione tutta una parete di quel mirabile Campo Santo, dove il pensiero della morte pare che inalzi la coscienza della vita. Nella scultura s’illustrò molto in patria e fuori Andrea del Verrocchio: spesso i tagliatori di pietre, da lavoranti nelle cave intorno a Firenze riuscivano scultori fra tutti carissimi, perchè a vedere quei volti di marmo tu gli credi vivi e che ne debba uscire una voce; com’è nelle opere di Mino da Fiesole, di Desiderio da Settignano e di due da Rovezzano. Spesso gli scultori insieme erano architetti, come i due da Maiano, i due da San Gallo, Andrea da Montesansavino e il Cronaca, autore del Palazzo degli Strozzi, dove è vergogna che tuttavia rimanga non compiuto il cornicione del quale il mondo non ha il più perfetto. Ma intanto le Arti erano salite a maggior grado anche fuori di Toscana, e già d’altre scuole erano usciti pittori che inaugurando con altre maniere l’età susseguente, preparavano da tutta Italia il tempo nel quale si viddero esse toccare il colmo. Tra questi è debito annoverare Giovanni Bellino che diede principio alla grande scuola Veneta, e Andrea Mantegna che illustrò la Lombarda; Pietro Perugino diede all’arte del dipingere una maggiore dolcezza, Francesco Francia bolognese la usò con più ardita e più originale [440] maniera. Un poco più tardi Fra Bartolommeo da San Marco [n. 1469, m. 1517] s’accostò ai sommi, o sta con essi, tanto in lui tutte le parti del dipingere toccarono alla eccellenza; che sono disegno compito, nobiltà di forme, scienza nel comporre e un grande intendere della prospettiva: ed in tutte queste doti certa proporzione, per cui niuno forse de’ grandi artefici è di lui più dotto. Ma qui, per dare compimento a quella scuola la quale fu tutta peculiare Fiorentina, vogliamo per ultimo anche registrare il nome d’Andrea del Sarto [n. 1488, m. 1534], il quale sebbene per gli anni appartenga all’età seguente, continua l’antica scuola cittadina, condotta da lui a perfetta finitezza pel movimento delle figure, pel rilievo, per la vita in esse più varia, per evidenza insomma più intera, curando egli familiarmente il vero più che l’ideale. In queste cose Andrea del Sarto vince il Frate istesso, di cui le forme pare alcune volte ti stieno innanzi come a mostra, o hanno movimento ed atto forzato, com’è nel San Marco, dove non so se egli pure cedesse all’esempio formidabile del Buonarroti, ovvero se come frate di San Marco volesse a quell’iroso colosso prestare l’anima del Savonarola. Ma di Arti parlando, è da dire anche dell’incisione in rame cui diede forse un qualche principio Maso Finiguerra fiorentino, derivandone le pratiche dall’arte dei Nielli nei quali fu egli eccellente: o se l’incidere dal rame in carta fu inventato prima in Allemagna, è certo almeno che il Botticelli ed Antonio Pollaiolo, insigni pittori, figurarono tra’ primi che l’esercitassero in Italia. Ne stringe lo spazio, talchè non possiamo qui molto estenderci nè sulla orificeria che fu nutrice a grandi artisti, nè sopra l’arte qui molto estesa dell’ornare con miniature le cartapecore, nè su quella d’incidere in gemme.

Continuava la Poesia volgare ad essere come soffocata dall’erudizione che fa sua scienza il sapere altrui; volendo invece la poesia pensiero libero, che si [441] possa tradurre in immagini intere e viventi: al che si aggiungeva che gli esemplari latini e greci, allora tra mano, davano ai poeti come una sorta di scoramento, non credendo essi l’idioma loro capace per anche di tanta coltura. Stava l’Alighieri come segregato quanto alla lingua ed allo stile, e prove infelici riuscirono quelle per cui fu cercato più volte di seguitarlo nei concetti scrivendo poemi di argomento filosofico e morale. La sola canzone, perchè era venuta su con la lingua, aveva cultori e stile suo proprio; ma dopo avere nel Petrarca toccato la cima, lui seguitava ora da lungi e nulla inventava. Queste erano traccie oramai segnate, ma quante volte i letterati volessero uscirne scriveano latino, avendo il Petrarca mostrato la forma di certe che appellò Egloghe, dove si avvolgevano pensieri talvolta da non propalarsi. Nasceva però incontro ai più dotti una scuola nuova d’autori più schietti, che solo intendevano a trarre dal fondo della lingua viva quel tanto che avessero ciascuno di loro in sè di poesia. Tra’ più umili Feo Belcari scrittore di Laudi e di Rappresentazioni sacre e profane, avea sufficiente copia di vena limpida come l’acqua pura, ma fu più felice in prosa che in verso. È pure qui obbligo di registrare anche il Burchiello, barbiere di nome rimasto famoso, perchè fece d’un certo suo gergo poesia forse arguta, ma triviale; oscura oggi, ma popolare nei tempi suoi e che ebbe inclusive imitatori. È tempo qui dire come la stampa recata da qualche anno in Firenze producesse in lingua greca la prima edizione dei poemi d’Omero, curata dal greco Demetrio Calcondila, e da Bernardo Nerli, che ne fece la spesa, offerta con una sua lettera al giovinetto Piero de’ Medici, l’anno 1488: seguitarono a questa alcune altre nobili edizioni di classici Greci in carattere maiuscolo.

Noi siamo ai tempi del Magnifico e al declinare del secolo. Un libro a tutti noto e da pochi letto, è il [442] Morgante Maggiore, poema cavalleresco di Luigi Pulci. Costui fece prova di buon giudizio trattando quella sorta di argomenti come cosa da ridere; ma è poi vero che non avrebb’egli potuto per l’animo, o saputo per la tempra di quella sua vena, salire a più alta sfera e tenervisi: ebbe egli potente l’ingegno, ma incurante d’ogni cosa e di sè stesso, beffardo, scettico, atto a dissolvere più che a comprendere e all’innalzare, nel che sta l’ufficio della poesia vera. Gli accade alle volte di raccogliere per via concetti pensati fortemente, o più di rado affetti soavi e semplici, ma non vi si ferma; scrive a rallegrare prima sè stesso e poi Lorenzo e i suoi convitati: alla fine del Poema, quando egli descrive la morte d’Orlando, lo diresti epico, se alla invenzione avesse egli data coltura e splendore d’espressione che bastasse. Compose il Poema nei primi anni di Lorenzo e sotto al patrocinio della madre di lui, severa e pia matrona, la quale invero male sappiamo capire qual viso facesse ad un libro dove le cose più sacre son poste in dileggio e, quello ch’è peggio, sotto al velame di un’ironia fina. Ma egli era cantore pei conviti spensierati, nei quali dovette riuscire mirabile per quella facile abbondanza di cui fa sfoggio come improvvisatore, mettendo a prove difficili e strane, ma non però affatto disaggradevoli, una copia di modi e di forme ch’era in lui grandissima e che egli profonde con sempre continua scorrevolezza. In lui non si cerchi le squisitezze dell’arte, ma sollevando l’ottava rima dalla pesantezza del Boccaccio e dalle bassezze degli altri, ne diede esempio utile a que’ sommi maestri ch’essa ebbe dipoi: quanto alla lingua è facile rinvenire in essa qualcosa di meglio compito nella struttura del discorso, di più andante nei periodi, qualcosa insomma di più avanzato e più universale di quello che fosse (tranne il Petrarca) negli scrittori del trecento, e che in sè annunzia ingegni più adulti. Luca e Bernardo, fratelli di Luigi Pulci, e un [443] Matteo Franco prete famigliare di Lorenzo, scrissero anch’essi con lode poesie di vario genere.

Negli stessi anni scendeva in Firenze da Montepulciano un giovane, povero, ma già mirabile nei precoci studi, bentosto salito in fama col nome di Angelo Poliziano [n. 1454, m. 1494]. Veduto l’ingegno di lui singolare, Lorenzo de’ Medici lo fece subito cosa sua: i letterati pareano a quel tempo nascere latini, ma il Poliziano ebbe familiare anche la greca lingua così da nutrire coll’uso di entrambe quella classica eleganza che era tutta sua: imberbe ancora traduceva l’Iliade in esametri questo omerico fanciullo, come il Ficino lo appellava; tradusse poi nella breve sua vita, dal greco in latino, altri scrittori di verso e di prosa. Ebbe anche potenza di critica filologica, e col raffrontare autori antichi, o ne correggeva la lezione, o ne illustrava col vasto sapere, non che le lingue, anche le dottrine. Ma sopra ogni cosa era egli latino veramente nel poetare in tutti i metri e in tutti gli stili, sempre con eguale felicità, tanto erano a lui connaturali non che le forme anco il sentire delle età classiche, delle quali coglieva il fiore, nessuno imitando, ma com’egli fosse uno dei loro. Il che non può dirsi, ed è cosa da notare, di lui nelle scarse ma pure eccellenti poesie ch’egli scrisse in lingua italiana. Appare in queste non che l’imitazione generalmente dei Latini, ma specialmente di questo o di quello scrittore, e (come sogliono gli imitatori) non già dei sommi, perocchè questi non sai dove cogliere, ma gli altri puoi credere più facilmente di agguagliare. Del Poliziano abbiamo in lingua italiana il Dramma l’Orfeo e le Stanze sulla Giostra e poche altre minori poesie; le Stanze, in quanto alla leggiadria di lingua e gusto finissimo ed agli artifizi dello stile, non ebbero prima chi le agguagliasse nè di poi forse chi per tali pregi le abbia superate. Giace in San Marco il Poliziano accanto a Pico della Mirandola: sotto a loro volle avere sepoltura, con iscrizione [444] commovente, l’amico d’entrambi Girolamo Benivieni; anima candida di poeta e cólto scrittore di versi platonici, che in età vecchia osava raccomandare a Clemente Settimo il nome del Savonarola e il Governo popolare di Firenze.

Tra gli scrittori dell’età sua Lorenzo de’ Medici avrebbe un luogo tuttavia eminente, quando anche a lui non l’avessero dato i servigi per altro modo resi alle lettere. È tempo qui dire che Lorenzo non era poeta nel più alto valore di questa parola, ma ebbe a sufficienza facilità e copia, e ingegno educato a eleggere il bello: poco studioso del greco e del latino, amò come uomo e come principe quella lingua ch’egli udiva allora in sul fiore, e vivacissima sulle labbra dei sommi uomini come dei volgari, da quei che salivano le scale del Palazzo di Via Larga, fino ai contadini del Poggio a Caiano e di Careggi che molto si piaceva di praticare. Abbiamo di lui Canzoni e Sonetti in molto numero, dove con elevatezza di stile trattava l’amore platonico, e versi ch’erano espressione d’amori volgari, e Scherzi satirici e Stanze in lingua contadinesca; abbiamo Prose gravi e studiate ad illustrare, com’era costume, Sonetti che aveva egli lavorati per indi porvi quella illustrazione: nessuno di questi scritti basterebbe a fare di lui un grande autore, nessuno è tale che un valent’uomo se ne vergognasse. Ma quando Pico della Mirandola poneva Lorenzo come scrittore più in su di Dante e del Petrarca, noi dobbiamo in tale giudizio ravvisare una di quelle storture di cui si rendono capaci alle volte i sommi ingegni: e altresì l’effetto di quelle incertezze, di quel disordine in cui s’aggirava tra’ letterati allora il concetto della lingua nostra da essi creduta o poco degna, o non sufficiente a chi volesse usarla nei libri.


Da noi si chiama buon secolo della lingua nostra quello di Dante e del Petrarca e del Boccaccio: ma [445] gli scrittori in quella età non ebbero tanta fiducia di sè stessi nè tanta superbia. Il che si dimostra in primo luogo dal disputare che si fece subito intorno alla lingua, la quale avendo taccia di bassezza, non era autorevole bastantemente sulla nazione; era un dialetto venuto su quando una spinta maravigliosa fu data agl’ingegni, ma senza corredo di scienza bastante. Sentiamo mancare nella prosa all’efficacia della lingua l’arte del dire; in quella età noi cerchiamo la potenza della parola e della frase, ma non vi troviamo bastante evidenza nei costrutti, e l’orditura dei periodi si dimostra per lo più timida o intralciata. Questo sentivano gli scrittori, massimamente poi quando ebbero assaggiato gli autori latini: Filippo Villani tace di Giovanni; e di Matteo suo padre dice avere egli usato «lo stile che a lui fu possibile, apparecchiando materia a più dilicati ingegni d’usare più felice e più alto stile.[561]» Nè avrebbe il Boccaccio al nostro idioma fatto la violenza ch’egli fece, se non avesse nella prosa creduto trovarlo come giacente e da cercare altrove i modi e le forme a dargli grandezza. Le varie parti della coltura non avendo le une con le altre avuto in Italia rispondenza sufficiente, quei primi sommi parve si alzassero come giganti per virtù propria, dopo sè lasciando un intervallo per cui le lettere cominciassero un altro corso dove i primi gradi già fossero stati con inverso ordine preoccupati. Il che nelle arti belle non avvenne, e quindi poterono esse regolatamente salire alla loro perfezione: ma le lettere invece di Giotto ebbero subito Michelangiolo, terrore agli altri piuttosto che guida; ed il Boccaccio avendo trovato la lingua già bene adulta ma inesperta, la fece andare per mala via; il solo Petrarca, più degli altri fortunato, lasciò dietro sè lunga e prospera discendenza.

Avvenne per questa mala sorte che la lingua, innanzi [446] di farsi e di tenersi donna e madonna come si conveniva a tali uomini ed a tale popolo, non bene osasse distaccarsi dal latino che stava siccome suo legittimo signore, talchè all’italiano si diede per grazia l’umile titolo di volgare. Nè questa ignobile appellazione cessava col volger dei tempi, e le traduzioni dal latino s’intitolavano volgarizzamenti; ed anche oggi quel che si scrive da noi letterati diciamo scrivere in volgare, Dio ce lo perdoni. Ma quando pei cercatori dei libri classici il latino fu ogni cosa, e chi non facesse di quello il suo unico studio ebbe nome d’uomo senza lettere; allora alla lingua stata compagna dei loro affetti mandarono i dotti il libello del ripudio, anzi fu cacciata via come la serva quando torna la matrona. Sarebbe al Poggio ed ai suoi pari sembrato vergogna scrivere italiano, onde egli scriveva latine le Istorie dei tempi suoi e le Lettere e perfino le Facezie. I poveri scritti di chi aveva narrato le cose come le aveva fatte, si traducevano in latino perchè si acquistassero un poco di stima. Nè Pico della Mirandola fu il primo che dicesse mancare al Petrarca le cose, e a Dante le parole; questi era stato già tempo innanzi vituperato come sciupatore del bello classico da Niccolò Niccoli erudito raccoglitore di vecchi libri, che lui chiamava (così almeno lo fanno parlare) «poeta da fornai e da calzolai,» perchè non seppe nè bene intendere Virgilio nè avviarsegli dietro pei campi floridi della poesia.[562]

Più tardi Cristoforo Landino, che fra tutti difese la lingua toscana e la usava felicemente, sentenziò pure «ch’era mestieri essere latino, chi vuol essere buono toscano.[563]» Encomia l’industria che Leon Battista Alberti pose a trasferire in noi l’eloquenza dei Latini; nè certo si vuole togliere merito a siffatto [447] uomo, nè a Matteo Palmieri nè ad altri lodati con lui: ma fatto è poi che il seguitare nell’italiano le norme latine, come essi fecero, tolse loro di essere letti mai popolarmente, così che si giacquero per lungo tempo come dimenticati, ed oggi guardandoli a fine di studio, ne pare di leggere una lingua morta. Cotesti almeno erano uomini educati ai buoni studi: ve n’erano altri d’ingegno più rozzo, i quali per volere essere eloquenti in verso ed in prosa, cercando norme all’italiano fuori di sè stesso, facevano certi pasticci di lingua nè latina nè volgare, la quale usciva come per singhiozzi che fanno spavento; di che, strani esempi potrei allegare se fosse qui luogo. Ma vale fra tutti quello di Giovanni Cavalcanti, del quale abbiamo lungamente più sopra discorso: costui, che avrebbe potuto essere buon cronista, fu dall’abuso dei precetti che allora correvano condotto ad essere malo istorico.

Così andarono le cose nella repubblica delle lettere fino a Lorenzo de’ Medici e al Poliziano; questi certamente mostrò nelle Stanze scritte da lui a venticinque anni, e poi non finite, una squisita forma di poesia che annunziava già i tempi nuovi, di cui può dirsi prima e gentile apparizione. Cionondimeno quell’uomo stesso faceva latini poi finchè visse i versi e le prose fino al racconto della Congiura de’ Pazzi, fatto domestico e tremendo, al quale era stato in mezzo e che tante passioni doveva destargli nell’animo; ed abbiamo poc’anzi notato che il Poliziano nella poesia pareva trovarsi più in casa sua quando scriveva latino; più imitatore in quel componimento che s’era arrischiato egli a scrivere italiano. Lorenzo de’ Medici si scusa d’avere in lingua volgare commentato i suoi sonetti, tale quale come Dante se n’era scusato dugent’anni prima.

Ma nulla dunque si era fatto in quei dugent’anni quanto all’uso della nostra lingua? S’era fatto molto, ed ogni giorno si faceva; ma il male stava in ciò, che [448] tale uso procedeva bipartito, essendo pel naturale andamento suo più cólto nei popoli, ma insieme più guasto nei libri. Un assai grande numero di lettere scritte nel quattrocento furono in questi anni pubblicate, e ne abbiamo noi vedute molte manoscritte; e molte, tratte dagli Archivi di Firenze, sono allegate nel grande Vocabolario. Ora le lettere familiari danno sempre l’espressione più naturale e più immediata del vivo parlare, e chi le raffronti ad altre più antiche, le troverà scritte in modo che annunzia lingua più adulta e più conforme a quella che poi fu la moderna italiana lingua. Ma nei libri stessi usciti in quel secolo, sebbene pallido ne sia lo stile, pure il discorso procedeva meglio ordinato e più finito e più somigliante ad uomo già fatto; ma non però bello quanto promettevano le grazie e il fuoco delle età prime. Io pure grido, Studiamo il trecento, secolo che aveva in sè certamente quella potenza che più non ebbe la lingua nostra: ma vero è poi, che di tutte le nazioni gli antichi scrittori si riveriscono come vecchi intanto che si amano come fanciulli; si ammirano per la ingenuità loro e per la forza, ma non si saprebbe nè si vorrebbe per l’appunto scrivere a quel modo. Tuttociò avviene sempre e dappertutto; ma fu a noi tristo privilegio che la lingua dipoi si dovesse o si credesse dovere attingere dal trecento, quasichè in essa il corso del tempo facesse il vuoto o altro non avesse fatto che guastarla.

Negli ultimi anni del quattrocento aveva la lingua dunque per sè medesima progredito quanto a una struttura più regolare, ma dall’essere usata poco e trascuratamente nei libri, pareva e anche oggi a noi pare, in fatto essere decaduta da ciò che ella era nel secolo precedente. Lorenzo de’ Medici, il Landino ed altri dicono spesso alla lingua nostra essere mancati gli uomini e il buon uso che appellano stile. Il che fu vero quanto allo scriverla come abbiamo qui sopra notato; ma fu anche vero quanto al parlare questa [449] lingua in modo che fosse norma ed esempio agli scrittori: su questo punto ne conviene un poco fermarsi. Mi sovviene avere una volta udito il Foscolo dire nell’impeto del discorso, che «la lingua nostra non era stata mai parlata:» nella quale enfasi di parola pare a me stesso il germe di un vero che ora si svolge sotto agli occhi nostri. Ma il campo non era libero a quel tempo, e si disputava chi avesse ragione, se il Cesari purista, o il Cesarotti licenzioso, o il Perticari con quella sua lingua che stava per aria. Oggi il Manzoni, sgombrando quel campo, ha dato a noi terreno fermo col fare consistere nell’uso ogni cosa: nè chi voglia uscire da quella dottrina può stare sul vero. Ma se a dire lingua si dice qualcosa fuori d’una semplice nomenclatura, e se invece si tenga essere l’espressione di tutto il pensare d’un popolo cólto, certo è che gli usi di questa lingua sono diversi quanto diverse le relazioni cui deve servire; e che in ciascuna, oltre all’essere disuguale il numero delle parole che si adoperano, è varia la scelta di queste parole. Al che si aggiunga (e ciò è capitale) che oltre alle parole, le frasi e il giro e i collocamenti di esse e la contestura del periodo, ed in certi suoi elementi la forma di tutto il discorso che sempre ha del proprio e del distinto in ogni nazione, tutte queste cose fanno insieme la lingua di quella nazione. So che la lingua in tal modo intesa dovrebbe piuttosto chiamarsi linguaggio, ma so che a distinguere con secco rigore l’una dall’altra queste due parole, starebbe la lingua tutta intera nei vocabolari, dov’ella si giace come cosa morta. Sotto questo aspetto bisogna pur dire che la lingua che si parla differisce in molte sue forme dalla lingua che si scrive, secondo che variano parlando o scrivendo gli intendimenti, le volontà ed in qualche modo lo stato degli animi in chi mette fuori il suo pensiero e in chi lo ascolta presente o deve poi da sè leggerlo sulla carta. Per esempio, nella rapidità del [450] discorso familiare non sempre avviene fare periodi che stieno in gambe, come suol dirsi, perchè in tal caso alla intelligenza molti aiuti provvedono, e la parola come alterata da una concitazione d’affetti, ne diventa spesso più efficace. Chiaro esprimeva questo pensiero Giovan Battista Gelli nella prefazione d’una sua commedia:[564] «Altra lingua è quella che si scrive ne le cose alte e leggiadre e altra è quella che si parla familiarmente; sì che non sia alcuno che creda che quella nella quale scrisse Tullio, sia quella che egli parlava giornalmente.» Questo dice il Gelli; nè intendevano del comune parlare coloro che innanzi di lui scrivevano essere mancati gli uomini alla lingua.[565]

Ma se poi si guardi non più al discorso familiare, sibbene a quello di chi parla solo ed a bell’agio e non interrotto, in faccia ad un pubblico o ad una qualsiasi radunanza; allora il linguaggio s’avvicina molto allo scrivere, di cui ben fu detto non essere altro che un pensato parlare: nondimeno chi ponga mente, per non dire altro, al tempo che mette generalmente più lungo in questo pensare l’uomo che scrive di colui che parla, non che al discorso che n’esce fuori; noterà essere delle differenze per cui la parola scritta è meno viva sempre di quella ch’esce parlando quanto mai si possa pensatamente. Si vede nei libri, quando l’autore poco avvezzo a dire le cose, va cercando ad esse una forma che si adatti ai libri: nei Greci antichi e nei Latini ci si fa innanzi sempre l’oratore. Imperocchè allo scrivere con efficacia è grande aiuto l’uso del parlare, dove uno s’addestra a certo artifizio cui più di rado pervengono le scritture; dico quella distribuzione sagace di concisione e di abbondanza e di facilità e di sostenutezza, e quei colori appropriati a’ luoghi secondo richiedono i vari argomenti e le diverse parti dell’orazione: s’imparano queste cose dagli [451] effetti che in altrui produce la nostra parola. Laonde a chi scrive manca una scuola molto essenziale, quando egli non abbia la mente già instrutta di quelle forme per cui si esprimono parlando le cose che egli vuole scrivere. La quale mancanza, che fu in Italia dai tempi antichi e si protrasse poi nei moderni, ha dato spesso ai nostri libri certa aridità solenne, la quale ebbe nome di stile accademico. Da questo vizio salvò i Francesi la conversazione, la quale fu ad essi come una sorta di vita pubblica e informò lo scrivere in ogni qualsiasi più grave argomento; talchè gli scrittori nel tempo medesimo che ne acquistavano maggior vita, divennero anche più facilmente e più generalmente popolari, così da esercitare nella lingua quel maestrato il quale ha bisogno la lingua medesima che venga dai libri. Questa sorta di maestrato quale si sia disse tanto bene Vito Fornari in un recente suo libretto, ch’io farei torto al mio concetto se non lo esprimessi con le medesime sue parole: «Se egli è giusto il dire che il linguaggio non istà tutto negli scrittori, non si vorrà per questo affermare che si trovi intero fuori degli scrittori. Certi fatti mentali, e certe più fine relazioni e determinazioni del pensiero, non si vedono distintamente e non vengono significate se non quando si scrive, cosicchè alcuna piccola parte de’ vocaboli e molta parte de’ modi di dire e de’ costrutti non si può imparare altrove che nelle scritture.[566]»

Per essere in questo modo imperfetta la lingua nostra, potè nel secolo di cui scriviamo essere accusata «di viltà e non capace nè degna di alcuna eccellente materia e subietto;» come attesta Lorenzo de’ Medici in quel Commento del quale abbiamo poc’anzi discorso. Bene egli l’assolve da tale accusa con argomenti di ragione e con gli esempi di Dante e del Petrarca e del Boccaccio. Ma quasi non fossero per sè [452] valevoli quegli esempi, afferma al suo tempo essere la lingua «tuttora nella adolescenza, perchè ognora più si fa elegante e gentile. E potrebbe facilmente nella gioventù e adulta età sua venire ancora in maggiore perfezione, tanto più se il Fiorentino impero venisse ad ampliarsi e a distendersi maggiormente:[567]» pensiero nel quale stavano adombrati il male e il rimedio, ma insieme i concetti dell’uomo di Stato. Tali erano dunque le condizioni di questa lingua negli ultimi anni del quattrocento; l’abbiamo veduta per l’andamento suo naturale progredire nelle sue più familiari ed umili forme, e nella opinione dei letterati intanto scadere. Ma ricorrendo ora col pensiero per tutto quello che si è finquì scritto, abbiamo noi ed avrà chi legge, dovuto accorgersi che il discorso nostro non v’era mai stato caso che uscisse fuori dei confini della Toscana. Di ciò cagione fu la mancanza di libri o scritture in lingua italiana usciti dalle altre provincie d’Italia. È fatto che importa, e ora vuol essere meglio dichiarato.

Volere discernere se dalla cultura dei primi Toscani uscisse la lingua o dalla lingua la coltura, somiglierebbe troppo l’antica lite di precedenza che fu tra l’ovo e la gallina; poichè la lingua essendo una materiale determinazione dei pensieri e degli affetti che si produssero dentro a quel popolo che la forma, diviene strumento che rende capace quel popolo a nuove produzioni del pensiero e a viepiù estendere la sua coltura. Oltredichè una lingua è monca e dappoco finch’ella non abbia la sua finitezza negli usi letterari, cioè finchè non sia capace ad esprimere le cose pensate fuori del comune uso e prima ordinate dalla lenta opera degli intelletti, finchè non abbia insomma prodotto dei libri. Ciò avvenne in Toscana subito dopo al 1250, prima di quel tempo dovendosi credere non [453] bene compita questa moderna favella, come Dante la chiamava. Ma ebbe ad un tratto scrittori in buon numero, e si cominciò a tradurre in lingua volgare gli autori latini; il che era indizio di nuovo idioma in tutto distaccatosi dall’antico. E furono gli anni nei quali Firenze divenuta possente ad un tratto, si rivendicava in libertà, fondava una repubblica popolare, pigliava in Italia l’egemonia delle città guelfe, diveniva maestra delle Arti e produceva il libro di Dante.

La lingua latina, o a meglio dire la lingua classica dei libri latini, che fu esemplare ai nostri autori fino dal nascere del volgare, era il portato di una solenne elaborazione del pensiero, la quale si fece dentro a Roma stessa, sovrapponendosi alla forma latina che aveva quivi il parlare degli Italici. Nata nel fôro e nel Senato e poi sovrana sul Campidoglio, si distendeva per tutta Italia come lingua insieme politica e letteraria; discesa quindi nelle Basiliche dei cristiani, divenne propria della religione. Così può dirsi che il latino venisse a scendere nella lingua nostra seguendo due strade in parte diverse. Discese ne’ vari popoli d’Italia seguendo la naturale trasformazione dei dialetti che fin dalla prima conquista romana si erano formati nelle varie provincie d’Italia. Discese poi per l’autorità somma che diedero al latino classico, qui ed altrove, la religione, la politica, la giurisprudenza e la cultura letteraria dai primi e più elementari dirozzamenti al punto ultimo in fin dove potè condursi in quella età. Fu questo modo comune a tutte le parti d’Italia, salvo in ciascuna d’esse le differenze dei dialetti e della cultura. Ora a me sembra che la Toscana avesse in entrambi questi modi un qualche vantaggio sulle altre provincie; e che le due strade per le quali passò il latino a farsi italiano fossero in Toscana o meno distanti tra loro o quasi congiunte. Si è detto già come il volgare nella sua stessa antica rozzezza dovesse qui essere più latino di quel che fosse [454] colà dov’era mistura di celtico; e la stessa lingua letteraria dovette qui avere per le cagioni medesime assai più facile entratura. Tale vantaggio ebbero i Toscani; ma recò ad essi questo inconveniente, che il latino e il volgare più facilmente si confondessero, e che il latino stesse innanzi agli scrittori non solamente come esemplare, ma come termine verso cui dovesse intendere il volgare scritto, quasichè a culmine di sè stesso. Di tutto ciò pare a me rinvenirsi una qualche traccia da Dante infino al Machiavelli; che è quanto dire per tutto il corso della formazione compiuta e stabile della lingua nostra.

In tutto diverse dalle condizioni che aveva il latino avuto in Roma, furono quelle che il volgare si era fatte in un popolo d’artisti, ed ebbe tosto una letteratura che per due secoli manteneva l’impronta in sè stessa della città che l’avea formata. Quale si fosse abbiamo noi cercato mostrare sin qui: ma perchè s’intenda come le altre provincie nulla a quel moto partecipassero, vorremmo che studi maggiori si facessero sopra i vari dialetti d’Italia, mostrando per quali più lenti passi si conducessero anch’essi ad avere scrittori che fossero da contare oggi tra gli italiani. Allora si vedrebbe fino a qual punto ciò conseguissero per via d’imprestiti sopra i libri d’autori toscani; ma nè potevano questo fare, nè il farlo sarebbe stato sufficiente, finchè i dialetti più inferiori avessero tutta serbata l’antica loro povertà e rozzezza. Era il toscano, in fine dei conti (come si è veduto), un italiano più compiuto e più determinato, più omogeneo in sè stesso e più latino, perchè il parlare dell’antica plebe a questo più affine, aveva in sè stesso trovato la forma della lingua nuova a cui si era più presto condotto. Nelle altre provincie più era da fare; e quello che si fece, rimase dialetto perchè le misture avevano in sè troppo forti discordanze; i suoni, gli accenti sempre non erano italiani.

[455]

A mezzo il dugento uno scrittore pugliese, Matteo Spinelli da Giovenazzo, avrebbe prima del Malespini in una sua Cronaca mostrato un esempio di lingua italiana, che poi rimaneva lungamente solitario. Il che invero non sapeva io troppo bene come spiegarmi: se non che in oggi, dopo alle cose scritte da un dotto tedesco pare a me essere dimostrato, che nella Cronaca del Pugliese avesse un uomo del cinquecento levigato l’antico idioma e forse in qualche parte corretto lo stile, perchè io non so bene indurmi a credere che fosse tutta falsificata e che l’editore l’avesse a disegno spruzzata di antiche voci e desinenze napoletane.[568] Gran tempo corse prima che uscissero da quelle provincie, e meno ancora dalle settentrionali, libri di prosa scritti in una lingua la quale non fosse come rinchiusa nel natìo dialetto. Ne abbiamo esempio in quella Vita di Cola di Rienzo la quale fu o si crede scritta dal romano Fortifiocca dopo alla metà del trecento. Qui perchè siamo nella Italia media, la penna corre facile e sciolta; ma tanto è ivi del romanesco, tante le alterazioni dei suoni e quelle che a tutto il resto d’Italia infino d’allora comparivano brutture, da porre quel libro fuori del registro dei libri italiani. Quanto alle lettere familiari, un maggiore studio sarebbe da farne secondo i tempi e le provincie; ma, per via d’esempio, quelle che abbiamo degli Sforza irte e stentate, fanno contrasto alle bellissime che allora e prima scrivevano l’Albizzi[569] e altri Commissari fiorentini. Le Cronache in lingua italiana, ma di autori non toscani, che si hanno dalla metà del XIV fino verso la fine del XV secolo, nulla c’insegnano di quello che importi al nostro proposito, perchè il Muratori che le pubblicava badando ai fatti, e non volendo nè oscurarli con le rozzezze dei dialetti, nè tener dietro alle ignoranze dei copisti, tradusse [456] (com’egli accennava nelle prefazioni) coteste Cronache nella lingua comune al suo tempo. Generalmente però è da notare che appartengono all’Italia media o alla Venezia, poche estendendosi verso il mezzogiorno: in quelle provincie la lingua italiana si era formata più d’accordo con sè stessa per la maggiore affinità che era tra’ popoli primitivi; e potè quindi salire al grado di lingua scritta più presto che non potessero quelle dov’erano popoli usciti di razza celtica od iberica. Le versioni dei Romanzi di cavalleria generalmente scritti in lingua francese, dovrebbe cercarsi se alle volte non appartenessero ai luoghi dov’ebbe maggiore entrata questo idioma. Tutto ciò vorrei che gli eruditi ci dichiarassero, pigliando esempio dalla non mai infingarda curiosità degli uomini tedeschi. Ma si tenga a mente come tra l’uso della poesia e quello della prosa le cose andassero in modo diverso. La poesia lirica fu italiana dai suoi primordii e si mantenne: da Ciullo d’Alcamo siciliano al Guinicelli bolognese ed al Petrarca un andamento sempre uniforme la conduceva fino al sommo della perfezione per una via che rimase sempre l’istessa nel corso dei secoli. Emancipatasi dal latino prima della prosa, fu in essa più certo l’uso della lingua ed ebbe consenso che l’altra non ebbe: quindi noi troviamo che in sulla fine del quattrocento v’era una lingua nazionale della poesia, che nulla ha per noi nè d’antiquato nè di provinciale; il che non può dirsi dei libri di prosa.

Ma quello era il tempo nel quale in Europa non che in Italia pareano le cose pigliare un essere tutto nuovo; ciascuna nazione d’allora in poi ebbe la propria sua lingua più o meno perfetta, ma in tutte recata a foggia moderna. Era un procedere naturale, ma che in Italia più vivo che altrove, doveva estendersi dappertutto: le minori città, meno chiuse in sè medesime poichè avevano perduto ciascuna la fiera indipendenza municipale, si aggregavano alle grandi, e l’una con [457] l’altra più si mescolavano; la vita più agiata voleva relazioni più frequenti, gli Stati col farsi più vasti creavano nuovi centri di cultura, le Corti ambivano essere accademie. Intanto lo studio classico diffuso per tutta l’Italia valeva molto a correggere quei volgari ch’erano rimasti infino allora meno latini; dal fondo di ciascun dialetto cavava lo studio dei libri classici una forma, la quale applicata all’uso cólto di quei dialetti, faceva quest’uso naturalmente essere più italiano e più capace di trarre a sè quella finitezza che prima avevano acquistata i soli libri dei Toscani: venivano i suoni a farsi più molli, più agevole certa speditezza di costrutti; molte proprietà di lingua che i Toscani avevano appreso dall’uso antico tra loro, gli altri imparavano dal latino. Notava sapientemente il Tommasèo, come le etimologie sieno più assai che non si crederebbe mantenute dall’uso del popolo non che da quello dei grandi scrittori: ciò era in Toscana più spesso che altrove; negli altri dialetti gli uomini cólti le ritrovavano qualche volta per lo studio dell’antico latino e quindi le riconducevano nei libri. A questo modo il latino, ch’era stato impedimento allo scrivere dei Toscani, condusse nelle altre provincie i dialetti a meglio rendersi italiani.

In questo tempo era trovata la stampa, dal che la parola aveva acquistato come un nuovo organo a diffondersi. Presso i Greci ed i Latini e in tutte le antiche letterature pagane, chi si metteva a scrivere un libro sapeva bene che sarebbe andato in mano di pochi; cercavano quindi il loro teatro, a così dire, nella posterità: di qui è che i libri ne uscivano più pensati e meno curanti di essere popolari; questo vantaggio hanno i libri classici, e quindi più servono alla disciplina del pensiero. Ma lasciando stare queste cose, gli autori toscani, eccetto i poeti, scrivevano sì per l’uso del popolo ma solamente per quello della provincia loro, non credendo essere intesi nelle altre: quindi è [458] che i libri che apparissero meritevoli, venivano tradotti in lingua latina per dare ad essi, così dicevano, maggiore divulgazione. Quando poi si cominciò a stampare (com’è naturale) quei libri ch’erano più cercati, ebbe il Petrarca la prima edizione l’anno 1470, e la ebbe il Boccaccio nel tempo medesimo; nel 1472 tre non delle maggiori città d’Italia si onoravano pubblicando ciascuna il Poema di Dante, che usciva a Napoli poi nel 1473, ed aveva bentosto l’aggiunta di nuovi commenti, ma in lingua latina. D’altri toscani antichi non mi pare che avesse edizioni in quei primi anni altri che il Cavalca sparsamente per l’Italia, ma per tutte quasi le varie sue opere; e oltre lui, pochi degli ascetici: stamparono questi perchè erano i soli che avessero fama allora in Italia e che dovessero andare tra ’l popolo.

Nel mentre che autori delle altre provincie pubblicavano commentato in lingua latina il libro di Dante, un toscano che da principio soleva scrivere latina ogni cosa, Cristoforo Landino, poneva le mani a stenderne un molto ampio commento in lingua italiana. Di già i vecchi commentatori del trecento parevano a lui essere un poco antiquati, ed io per me credo che senza la stampa non avrebbe egli pensato un lavoro il quale intendeva riuscisse, come ora si direbbe, popolare. Lo stesso Landino avea pubblicato l’anno 1476 una versione dell’Istoria naturale di Plinio in lingua fiorentina, che altrove chiama toscana e dice essere lingua comune a tutta Italia. Questa versione, dov’entra un numero stragrande di voci, ed il Commento dantesco stampato nel 1481, io credo non poco servissero agli scrittori tuttora inesperti, che ebbero in quei libri un esemplare di lingua vivente allora in Firenze ma non di lingua delle piazze, perchè il Landino per antico abito disdegnava quei modi di scrivere che a lui sapessero di plebeo. Nello stesso anno 1481 usciva il Morgante di Luigi Pulci; e insieme [459] i tre libri non poco servirono a render meglio familiare l’uso dello scrivere in lingua comune. Lorenzo de’ Medici e Angiolo Poliziano ebbero fama, e non del tutto immeritata, come restauratori del buono scrivere italiano. Lorenzo promosse l’uso di questa lingua e lo difese, dandone egli stesso in verso e in prosa pregiati esempi. Seguendo il genio suo nativo, che lo conduceva bene all’acquisto della grandezza, cercò egli essere popolare; la conversazione lo aveva formato più che lo studio; si atteneva quindi assai di buon grado all’uso fiorentino in quelle minori poesie, le quali, o sacre o sollazzevoli, bramava che fossero cantate dal popolo; facea versi anche pe’ contadini. Per tutto questo meritò bene della lingua, più ancora che non facesse il classico Poliziano, il quale insegnava a trarre la forma della poesia italiana dai greci autori e dai latini.

Finiva il secolo, e la lingua toscana s’avviava a farsi italiana. Alle altre provincie, secondo che divenivano più cólte, non bastava l’uso di quei volgari plebei a cui rimase nome di dialetti; perchè a cotesto uso mancavano spesso non che le voci per cui si esprimono idee non pensate dagli uomini rozzi, ma più ancora le frasi o locuzioni e il giro e la forma di quel discorso più condensato che si chiama scelto, più breve e rapido perchè cerca comprendere un maggior numero d’idee; forma che serve generalmente a chi si mette a scrivere un libro. Non so che i dialetti fossero insegnati nelle scuole, nè che si pensasse a coltivarli come lingua letteraria. Ciò tanto è vero, che il fare libri nel dialetto proprio agli autori non toscani, cominciò tardi, e fu per gioco e come una sorta di prova non tanto facile, perchè lo scrittore deve in quel suo dialetto cacciare e costringere le frasi e i costrutti ch’egli era solito pigliare da un uso più cólto e più universale. Ma per contrario, quando nel primo tempo l’autore avvezzo al suo dialetto voleva innalzarlo fino [460] a quella lingua ch’era intesa da tutti, ne aveva in sè il germe che la coltura vi avea già posto; e il nuovo processo veniva più facile, essendo per molta parte il compimento di quell’antico suo parlare. È stato già detto che a scrivere bene in lingua italiana, la meglio è cercarla ciascuno nel fondo del suo dialetto, perchè a correggere o a dirozzare questo si vede uscirne fuori quella lingua comune di cui la lingua toscana già diede agli altri dialetti la forma e che n’è il fiore e la perfezione. Ma questi dialetti poichè non bastavano a quell’uso più ampio e più scelto, chiunque volesse parlare o scrivere in tal modo non poteva pigliarne le forme da un altro dialetto, perchè non s’intendono questi fra loro; poteva bene pigliarle da quel linguaggio e da quell’uso più accettabile universalmente, che vivo in Toscana corregge dappertutto i plebei parlari perchè più italiano di ciascuno d’essi. Ciò veramente poteva in qualche parte dirsi opera di traduzione; e questo fu il caso di quei primi non toscani, i quali sul finire del secolo XV cominciarono a scrivere libri in lingua toscana.

Vorremmo allegare qui alcuno di quelli sparsi documenti che a noi fu lecito di raccogliere, se fosse qui luogo a minute ricerche o se quelle che abbiamo fatte ci apparissero sufficienti. Crediamo però che i pochi esempi sieno conferma di quello che abbiamo sopra accennato quanto alla difficoltà che avevano maggiore o minore le altre provincie a farsi nello scrivere italiane, secondo le varie qualità delle misture ch’erano entrate in ciascun dialetto. Abbiamo un Testamento politico di Lodovico il Moro[570] scritto sulla fine del quattrocento in lingua milanese che vorrebb’essere italiana; e nella città stessa abbiamo l’Istoria di Bernardino Corio, che finisce al primo entrare [461] del secolo susseguente: qui sembra il dialetto nascondersi affatto, ma lo stile duro e faticato ha proprio l’aspetto d’un nuovo e non sempre felice sforzo che l’autore fece usando una lingua che tutti leggessero. Questa, e l’Istoria napoletana di Pandolfo Collenuccio da Pesaro, credo sieno i primi libri dove il toscano fosse cercato da scrittori non toscani: il Corio di molto sopravanzò l’altro per la materia, ma il Pesarese più franco e sicuro in quanto alla lingua, scrive anche in modo assai più scorrevole. Generalmente gli uomini più meridionali e, su su venendo, quelli della sponda dell’Adriatico, si erano prima fidati più degli altri al natìo dialetto così da usarlo anche nello scrivere. I Veneziani, etruschi d’origine, come hanno dialetto meno degli altri discordante, così lo usarono, sebbene con qualche temperamento, sino al finire della Repubblica nelle arringhe che si facevano in Senato o nella sala del Gran Consiglio; tanto che v’era un’eloquenza in veneziano, quale non credo che fosse nemmeno in Firenze, dove il Gran Consiglio durò poco, e prima era scarso l’uso del parlare in modo solenne. La vita e la lingua qui erano nel popolo, da cui venivano come a scuola gli scrittori quando al principio del cinquecento l’urto straniero ci ebbe insegnato a rendere cose quanto si poteva nazionali, la vita almeno civile e la lingua.

Pochi anni prima di quel tempo Fra Girolamo Savonarola venuto giovane da Ferrara dove il parlare aveva qualcosa del veneto, cominciò in Firenze a predicare. «Da principio diceva ti e mi; di che gli altri Frati si ridevano.[571]» Divenne poi grande oratore avendo appreso qui la correttezza e la proprietà della favella, senza mai troppo cercare addentro nell’uso più familiare di questo popolo Fiorentino. Dal quale [462] poi trasse non poco un altro Ferrarese, l’Ariosto, ma con quel fino e squisito gusto ch’era a lui proprio; e se io dovessi dire quali autori allora o poi meglio adoprassero nelle scritture quell’idioma che solo era degno di essere nazionale, porrei senza fallo il nome dell’Ariosto accanto a quelli di due Toscani, che sono il Berni ed il Machiavelli. Lo scrivere andante si poteva bene imparare anche da due poeti come quelli, perchè infine la lingua della poesia viene dalla lingua della prosa, di cui non è altro che un uso più libero.

Così alla fine questo volgare che aveva data nei suoi primordii una promessa poco attenuta, che fu negletto per oltre un secolo o rinnegato anche in Toscana da chi teneva il latino essere tuttavia l’idioma illustre della nazione, questo volgare divenne allora quel che non era mai prima stato, lingua italiana. A questo effetto andavano tutte insieme le cose allora in Italia: già la coltura diffondendosi agguagliava presso a poco l’intera nazione ad un comune livello, intantochè le armi forestiere distruggevano in un con le forze provinciali e cittadine quanto nei piccoli Stati soleva in antico essere di splendore e di bellezza; l’idea nazionale, che allora spuntava, cominciò a farsi strada nella lingua. Ma era troppo tardi: gli ingegni fiorivano, le lettere e le arti toccavano il colmo, l’Italia insegnava alle altre nazioni fino alle eleganze e alle corruttele della vita; possedeva una esperienza accumulata d’uomini e di cose tale, che una piccola città italiana aveva in corso più idee che non fossero allora in tutto il resto d’Europa; di scienza politica ve n’era anche troppa. Ma quando poi sopravvennero i tempi duri, questo tanto sfoggiare d’ingegni non approdò a nulla, perchè le volontà in Italia erano o guaste consumate dall’abuso, o vólte a male. Quegli anni che diedero i grandi scrittori passarono in mezzo a guerre straniere, dove gli Italiani da sè nulla [463] fecero, nulla impedirono; e come ne uscisse acconcia l’Italia non occorre dire.

Dopo le guerre e dopo i primi trent’anni del cinquecento, erano i tempi ed il pensare ed il sentire di questa nazione tanto mutati da mostrare il vuoto che era sotto a quella civiltà splendida ma incompiuta: da quelli anni in poi calava il nostro valore specifico (se dirlo sia lecito), e il nostro livello a petto alle altre nazioni d’Europa venne a discendere ogni giorno. Mancò nel pensiero, perchè era mancato prima nella vita, l’incitamento ad ogni cosa che non fosse chiusa dentro ad un cerchio molto angusto; mancò la fiducia che all’uomo deriva dall’aperto consentire insieme di molti: v’era in Italia poco da fare. Nè ai tanti padroni che aveva essa dentro andava a genio che si facesse; e già la stanchezza o una mala sorta d’incuranza disperata menavano all’ozio, interrotto solamente da quelle passioni che non hanno scusa nemmen dal motivo; la conversazione tra gente svogliata o avvilita o malcontenta non pigliava vigore nè ampiezza dai gravi argomenti; i libri meno che per l’innanzi andavano al fondo nelle cose della vita: dice il Fornari molto bene, che «tra letterati e lettori non v’era in Italia quella comunicazione intima e piena» per cui la vita, la lingua, le lettere tra loro s’aiutano.

Noi crediamo che nei libri qualcosa debba essere che sia imparata fuori dei libri, perchè altrimenti lo scrivere viene quasi a pigliare la forma d’un gergo necessariamente arido e meno efficace, da cui s’aliena il comune dei lettori. Ciò avvenne bentosto in Italia, e fu in quel tempo quando la lingua più si voleva rendere universale e n’era essa stessa divenuta più capace avendo perdute allora le asprezze d’un uso ristretto, e nel diffondersi della coltura avendo acquistato migliore esercizio nelle arti della composizione. Ma giusto in quel tempo questa lingua per certi rispetti più accuratamente scritta, fu meno parlata; e [464] la parola meno di prima fu espressione di forti pensieri ed autorevoli e accetti a molti: vennero fuori i letterati, sparve il cittadino; scrivea per il pubblico chi nella vita non era avvezzo parlare ad altri che alla sua combriccola: quindi l’eloquenza si foggiò all’uso delle accademie le quali erano una sorta di sparse chiesuole. Mancò alla lingua un centro comune perchè mancava alla nazione: ne avevano entrambe lo stesso bisogno, che appunto allora cominciò ad essere più sentito, sebbene in modo confuso ed incerto; nulla si poteva quanto alla nazione, rimedii alla lingua si cercavano in più modi, vari, discordanti e quasi a tentone. Un modo semplice vi sarebbe stato, ed era l’attingere copiosamente da quel dialetto ch’era il più finito; ma questo invece di tenere sugli altri l’impero, vedeva in quel tempo scadere non poco o farsi dubbia l’autorità sua. Al solo pregio della lingua molti sdegnavano ubbidire: condizioni tutte differenti sarebbonsi allora volute in Italia perchè tante voci, tante locuzioni, tante figure con l’acquistare sanzione solenne potessero farsi moneta corrente pel comune uso degli scrittori. Avrebbe la sede naturale della lingua dovuto almeno stare in alto, cosicchè tutte le parti d’Italia a quella guardassero, e che al toscano fossero toccate le condizioni dell’idioma parigino; «perchè il toscano (dice il Manzoni da pari suo) faceva dei discepoli fuori dei suoi confini, il francese si creava dei sudditi; quello era offerto, questo veniva imposto.» Nè in altro modo poteva l’ossequio delle altre provincie essere necessario e inavvertito, sicchè non venissero tra’ letterati a sorgere le contese che, nate una volta, non hanno mai fine. Se (come fu detto) lo stile è l’uomo, la lingua può dirsi che sia la nazione: quindi all’esservi una lingua bisognava ci fosse una Italia, nè altrimenti poteva cessare l’eterna lagnanza che il linguaggio scritto si allontanasse troppo dai modi che si adoprano favellando, e male potesse fare sue le grazie [465] e gli ardimenti del volgar nostro, il quale da molti ignorato, ebbe anche taccia di abbietto e triviale.

Cotesta accusa molto antica tutti parevano confermare contro alla povera nostra lingua, che ci avea colpa meno di tutti. Poco badando all’uso vivo, nelle scuole di lettere insegnavano per tutta Italia dopo ai latini quei pochi autori toscani che allora fossero conosciuti, cercando alla meglio di mettere insieme su questi esemplari una sorta di linguaggio comune che fosse atto alle scritture. Un letterato molto solenne, Gian Giorgio Trissino da Vicenza, poneva in credito il linguaggio illustre con la versione da lui fatta del libro De Vulgari Eloquio, e molto poi lo difendeva: Baldassarre Castiglione mantovano, uomo e scrittore di bella fama, sebbene dichiari la lingua essere una consuetudine, biasima l’andare sulle pedate dei toscani sia vecchi sia nuovi: sentenziò il Bembo che l’antica lingua stava nel Boccaccio, di cui gli piacevano le grandi cadenze; tutti i chiarissimi dell’Italia per ben tre secoli dopo lui accettarono la sentenza. Ma della comune lingua popolare come in Firenze si parlava e si scriveva, niuno voleva sapere: negli anni stessi del Bembo, cioè verso il 1530, Marino Sanudo veneziano scriveva in una lettera stampata:[572] «che Leonardo Aretino trasse (l’Istoria di Firenze) da un Giovanni Villani, il quale scrisse in lingua rozza toscana.»

Il Bembo era il solo autore vivente di cui s’innalzasse non contestata l’autorità: basta ciò solo a dimostrare come si vivesse in fatto di lettere, quando gli Spagnuoli furono rimasti padroni d’Italia. Al Machiavelli nella sua patria istessa nuoceva la vita; gli nocque più tardi, quanto al numero dei lettori, l’essere all’Indice: l’Istoria del Guicciardini fu lasciata stampare, ed anche mutilata, solamente nel 1561, due anni dopo a che l’Italia per grande accordo tra’ potentati [466] si può dire fosse bello e sotterrata, e quando la voce degli Italiani ormai più non faceva paura a nessuno.[573] Frattanto era disputa più volte rinnovata se si dovesse dire lingua italiana o toscana o fiorentina: chi affermava la lingua essere in Firenze, facea nondimeno poca stima degli autori che ivi nascessero: in certe parole recate dal Bembo si va fino a dire, che «a scrivere bene la lingua italiana meglio è non essere fiorentino.» E in questa medesima città noi vedemmo quante incuranze o quanti dispregi soffrisse la lingua nei più eminenti tra’ suoi cultori: la Divina Commedia non vi ebbe più quasi edizioni, e verso il 1520 certi maestri di scuola vietavano agli scolari leggere il Petrarca. Questa ed altre cose, che stanno a dimostrare la confusione dominante tra’ letterati, sono a disteso esposte in un libro di qualche pregio e di molta noia che ha per titolo l’Ercolano: autore di esso fu Benedetto Varchi, il quale pel vario ingegno non ebbe forse chi lo agguagliasse dentro a quella età che scendeva. In quel medesimo suo libro si vede come allora molto dominassero i grammatici, ai quali avviene quel che ai fisiologi; perchè entrambi avvezzi a tenere fermo il pensiero sopra le minute particelle delle cose, riescono spesso corti o disadatti a quelli studi più comprensivi che bene in antico nella loro massima estensione ebbero nome di umanità. Consente il Varchi prudenzialmente al Bembo, ma solo nelle apparenze; confessa la lingua in Firenze essere trascurata, ma vuole si cerchi nel fondo dell’uso, mettendo egli fuori per via d’esempi gran copia di voci e soprattutto di locuzioni familiari, dovizie nascoste da farne a chi scrive ricco patrimonio.[574] In questo avrebbe egli [467] dato nel segno, nè vi è anch’oggi da fare di meglio, tantochè sarebbe alla unità della lingua mezzo utilissimo un Vocabolario com’è proposto dal Manzoni. Ma il guaio stava in ciò che non erano i più di quei modi entrati abbastanza nell’uso comune; molti erano figure che un tempo ebbero qualche voga, capricci d’un popolo arguto e faceto, e spesso allusioni a cose locali: cotesti Firenze non avea diritto d’imporre all’Italia. Inoltre non era più questo popolo quello che aveva creato una lingua educatrice di tanti ingegni; meno operando, inventava meno; e fatto più inerte anche nell’animo, i suoi discorsi andavano spesso a cose da ridere. I letterati seguendo in queste nuove condizioni l’antico genio popolare e avendo qui molto in uggia il sussiego recato dagli Spagnuoli, si dilettavano oltre al giusto di certe bassezze da essi chiamate grazie della lingua: i Vocabolari con grande amore le registravano. Così tra bassezze e nobiltà false viveano le lettere poi tutto quel secolo.

Ma dentro a quegli anni nacque Galileo. Le scienze matematiche e le fisiche hanno questo, che l’uomo le pensa dentro a sè medesimo, si tengono fuori dal corso vivo degli umani eventi, e vanno da sè per la via loro, qualunque si sieno le cose all’intorno. Galileo, che pure in mezzo all’esperimentare minuto e sottile teneva lo sguardo vôlto all’universo, portò nella fisica l’ampiezza d’una filosofia degna di questo nome, e fu in un secolo di decadenza scrittore sommo, perchè al bell’ordine del discorso unisce la copia e una dignitosa naturalezza. Continuava cento anni in Firenze la scuola fondata da Galileo e di sè lasciava traccie indelebili nelle scienze fisiche; da quella uscirono anche uomini dotti nelle razionali, e assai le lettere se ne avvantaggiarono nella seconda metà del seicento. Ma quando la lingua e le idee francesi predominarono e quando poi gli eccitamenti nuovi destarono gli animi degli Italiani a cercare almeno in fatto di lingua l’unione [468] vietata, la Toscana sofferse rimproveri dalle altre provincie, quasi ella fosse gelosa ma inutile custoditrice di quel tesoro che aveva in casa ma non lo adoprava. Più grave è fatto il nostro debito ora in tempi di sorti mutate, di sorti maggiori ma più difficili a portare; noi siamo venuti ad esse non preparati; e s’io dovessi quanto alle future condizioni della lingua fare un pronostico, direi senz’altro: la lingua in Italia sarà quello che sapranno essere gli Italiani.

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APPENDICE DI DOCUMENTI.

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Nº I. (Vedi pag. 36.)

PROVVISIONE DEL 21 LUGLIO 1378, APPROVATA NEI CONSUETI CONSIGLI A’ 21 E 22.

Pro parte sindicorum et prepositorum Artium et artificum civitatis Florentie exponitur et petitur vobis dominis Prioribus Artium et Vexillifero iustitie Populi et Comunis Florentie, quatenus vobis placeat et velitis, pro bono publico et tranquillitate Populi et Comunis predicti, providere et ordinare et solempniter facere reformari omnia infrascripta videlicet.

In primis, quod Provisio firmata in Consilio domini Potestatis et Comunis Florentie, die decimo presentis mensis iulii, et omnia et singula in ipsa Provisione contenta sint firma et valida et pleni roboris et effectus. —

Item, quod quicumque, hactenus, ab anno Domini millesimo trecentesimo quinquagesimo septimo inclusive citra, sponte vel ex precepto dominorum Capitaneorum Partis guelfe civitatis Florentie, renunptiavit officiis Comunis Florentie vel Partis guelfe aut alicuius Artis vel Universitatis, seu ad ipsa officia vel eorum aliquod, ob renunptiationem predictam, se inhabilem reddidit, possit restitui et habilis ad dicta officia fieri, cum illis solempnitatibus cum quibus possunt restitui quicumque moniti pro ghibellinis, secundum ordinamenta facta de mense iunii proxime preteriti. —

Item, quod omnes et singuli, hactenus, videlicet ab anno Domini millesimo trecentesimo quinquagesimo septimo inclusive citra, moniti fuerunt pro ghibellinis vel ut suspecti Parti guelfe notati, seu pro ghibellinis vel non vere guelfis condempnati, qui non fuerunt hactenus restituti, possint restitui et habiles ad officia fieri, per duas partes duarum partium ad minus illorum quibus circa hec fuit data balia de mense iunii proxime preteriti.

[472]

Item, quod ad Consilium Populi vel Comunis Florentie nullus arrotus per Capitaneos Partis guelfe possit aut debeat accedere vel venire, aut in ipsis Consiliis vel eorum aliquo fabam reddere, sub pena florenorum quingentorum auri, cuilibet contrafacienti pro vice qualibet auferenda et Comuni Florentie applicanda. Sed possint ad Consilium predictum venire, ultra Capitaneos dicte Partis, et in eo interesse pro dicta Parte et fabas reddere illi qui sunt de veris Collegiis dicte Partis, tantummodo, et non alii vel alius pro ipsa Parte arrotus vel arroti.

Item, quod domini Priores Artium et Vexillifer iustitie cum officiis Gonfaloneriorum sotietatum Populi et Duodecim Bonorum virorum Comunis predicti et due partes eorum possint et debeant facere et de novo fieri facere scruptinium et bursas Consilii Comunis; et de novo debeat extrahi dictum Consilium, factis dictis bursis. Et debeant extrahi continue de cetero ad dictum Consilium decem populares cives florentinos pro quolibet quarterio, ultra numerum hactenus ad dictum Consilium ordinatum: qui extracti ultra dictum numerum intelligantur habere et habeant illam baliam et auctoritatem quam habent alii de dicto Consilio.

Item, quod in libro Partis guelfe civitatis Florentie et similiter in uno libro, retinendo in palatio more dominorum Priorum Artium et Vexilliferi iustitie Populi et Comunis Florentie, scribi debeat evidenter et ad perpetuam rei memoriam, qualiter dominus Lapus de Castiglionchio et sui sequaces de civitate Florentie fuerunt expulsi tamquam devastatores et violatores Partis guelfe, et ut baracterii et Parti guelfe suspecti et proditores Partis predicte.

Item, quod omnes et singuli qui, decetero, quocumque modo et quacumque de causa, privabuntur ab officiis Comunis Florentie, et seu ad ipsa officia inhabiles facti erunt, intelligantur esse et sint, ipso facto, privati ab officiis Partis guelfe et ad ipsa officia inhabiles esse. Et intelligantur privati omni et quocumque privilegio portandi arma. —

Item, quod omnes et singuli quibus, de mense iunii proxime preteriti vel de presenti mense iulii, in tumultu populi fuerunt combuste domus vel fuerunt derobati, et eorum filii, fratres et patrui, excepto Smeraldo Stroze de Strozis, intelligantur esse et sint, ex nunc usque ad decem annos proxime secuturos, privati et remoti ab omnibus et quibuscumque officiis Comunis Florentie et Partis guelfe. — Hoc acto et proviso et expresse declarato, quod predicta non vendicent sibi locum nec intelligantur in hominibus qui ad presens president officiis dominorum. Priorum Artium et Vexilliferi iustitie, Gonfaloneriorum sotietatum Populi et Duodecim Bonorum virorum Comunis predicti et Octo balie dicti Comunis et Capitaneorum Partis guelfe, vel alicui ex officiis predictis, durante eorum officio vel finito.

Item, quod dominus Rossus miles et Uguiccione, fratres et filii [473] quondam Ricciardi de Ricciis, cives honorabiles florentini, sint et esse intelligantur decetero habiles quocumque tempore, ad quelibet officia Populi et Comunis ac etiam civitatis Florentie et Partis guelfe et quecumque alia, — non obstante aliqua prohibitione. —

Item, quod filii et consortes et descendentes per lineam masculinam Sandri Donatini de Barucciis, cives florentini, intelligantur esse et sint ad quecumque officia restituti in omnibus et per omnia, — non obstante aliqua monitione. —

Item, quod omne scruptinium et omnis imbursatio, registrum et scriptura facta ante presentem mensem iulii, de quocumque officio Partis guelfe debeant laniari et comburi in totum, in presentia officii Capitaneorum dicte Partis et eorum Collegiorum et duorum ex officio Gonfaloneriorum societatum Populi et Duodecim Bonorum virorum et unius pro qualibet Capitudine, et infra quinque dies a die qua presens Provisio firmata fuerit in Consilio domini Potestatis et Comunis Florentie; sub pena florenorum mille auri cuilibet ex Capitaneis auferenda et Comuni Florentie applicanda.

Item, quod decetero, nullus in civitate Florentie possit per viam extractionis, electionis seu deputationis, aut alio quoque modo, habere retinere vel exercere, uno eodemque tempore, ultra unum officium Comunis Florentie, sub pena florenorum mille auri cuilibet contrafacienti auferenda et Comuni Florentie applicanda. Ita tamen, quod predicta non intelligantur locum habere nec extendantur ad officia Consulatus alicuius Artis vel septem consiliariorum Mercantie aut consiliariorum Consilii Populi vel Comunis Florentie, quod aliquis obtineret de preterito vel futuro; nec predicta vendicent sibi locum in aliquo qui ad presens presideret plus quam uni officio dicti Comunis. —

Item, quod super omnibus et singulis petitionibus et querelis fiendis dandis vel exhibendis, verbo vel in scriptis, pro iniuriis vel offensis que facte dicerentur per aliquem popularem contra alterum popularem et seu per magnates contra populares, aut per magnates contra magnates; et seu, pro bis iniuriis vel offensis aut eorum vel alicuius eorum occasione, faciendo seu fieri faciendo aliquem popularem magnatem vel aliquem magnatem supramagnatem; possit et debeat procedi, et super ipsis — fieri et partita micti et proponi; et ipse petitiones et querele et earum quelibet recipi et admicti et executioni mandari in omnibus et per omnia, et per omnes fieri prout et sicut procedi admicti recipi et executioni mandari et fieri poterant et debebant ante ordinamenta, correctiones et seu declarationes factas super materia predicta per Migliorem Vierii Guadagni civem florentinum, et eius collegas, tempore quo ultimo dictus Migliore fuit Vexillifer iustitie civitatis Florentie; et qui Migliore ultimo prefuit dicto officio Vexilliferatus de mense ianuarii et februarii anno Domini MCCCLXXVI. —

Item, quod Iohannes Dini civis florentinus, quem constat semper [474] fuisse et esse guelfum et Parti guelfe fidum et non ghibellinum vel suspectum Parti guelfe, licet per quosdam cives iniquos monitus iniuste asseratur; intelligatur esse et sit absque fide vel probatione fienda de predictis vel aliquo predictorum, et absque aliqua solempnitate servanda, integre et plenissime restitutus ab omni et quacumque et contra omnem et quamcumque monitionem factam de dicto Iohanne per quoscumque Capitaneos Partis guelfe civitatis Florentie, per se vel una cum quibuscumque aliis officiis seu officialibus dicte Partis. — Et quod dictus Iohannes Dini intelligatur esse et sit de officio et ad officium Octo balie Comunis predicti, cum omnibus officio auctoritate potestate balia et forma, quibus olim melius et efficacius fuit ante monitionem de eo factam. —

Item, quod dominus Georgius domini Francisci de Scalis civis florentinus et eius consortes et descendentes et agnati per lineam masculinam et quilibet ipsorum, quos constat semper fuisse et esse, etiam ex operibus pollentibus, vere guelfos et fidos Parti guelforum, — licet per quosdam cives iniquos moniti asserantur perperam et iniuste; intelligantur esse et sint in omnibus et per omnia et quo ad omnes integre et plenissime restituti. —

Item, quod dominus Donatus Ricchi ser Gherardi de la parte de Aldigheriis, civis florentinus, legum doctor, quem constat sua et suorum ascendentium origine semper fuisse et esse guelfum; — intelligatur esse et sit integre et plenissime restitutus. —

Item, considerato, quanto tempore dominus Iohannes Monis civis honorabilis florentinus, cum maximis laboribus et solertia, pro Populo et Comuni Florentie assidue laboravit, et ad presens, pro honore dicti Populi et Comunis et pro ipso Populo ipse dominus Iohannes ad militare cingulum est promotus; ut maxime talem militiam pro ipso Populo perpetuo valeat honorare: quod, etiam absque aliqua solempnitate servanda aut aliqua fide vel probatione fienda de predictis vel aliquo predictorum, ipse dominus Iohannes Monis, in perpetuum, toto tempore sue vite, possit et debeat habere et habeat quolibet anno, a Comuni Florentie, florenos trecentos auri recti ponderis et conii florentini, solvendos et dandos eidem domino Iohanni per camerarium, qui dicitur Il Camarlingo delle cinque cose dicti Comunis, pro tempore existentem et quemlibet alium camerarium dicti Comunis seu pro dicto Comuni deputatum vel deputandum ad infrascriptos redditus recipiendos in genere vel in spetie, de pecunia quam dictus camerarius seu dicti camerarii seu alius ex eis pro dicto Comuni recipient, ex proventibus, pensionibus et redditibus perventuris et que pervenient in Comune predictum, ad manus ipsius camerarii sive camerariorum, ex Platea vel occasione Platee Fori veteris civitatis Florentie, et seu a tabuleriis, becchariis vel Arte becchariorum, et a pollaiuolis et trecchis et aliis quibuscumque conducentibus vel tenentibus aut [475] qui conducent vel tenebunt a dicto Comuni vel aliquibus officialibus dicti Comunis dictam Plateam et seu apothecas, sive aliquam partem vel loco ipsius Platee. —

Item, quod dominus Alexander domini Riccardi de Bardis civis florentinus et eius filii et descendentes per lineam masculinam et quilibet ipsorum intelligantur esse et sint deinceps populares et de populo civitatis Florentie; — et quod etiam, nullo modo vel causa teneantur mutare nomen consortarie vel arma, nec in aliquo teneantur observare vel facere ea de quibus disponitur et continetur in reformatione et provisione edita de mense augusti MCCCLXI, que inter alia disponit in effectu, quod magnates facti populares seu beneficium popularitatis merentes, teneantur coram officio dominorum Priorum et Vexilliferi comparere et renuntiare consortarie et agnationi suorum consortum et alia arma sibi eligere. — Et quod dictus dominus Alexander intelligatur esse et sit de officio et ad officium Octo balie Comunis Florentie, et habere et habeat illam eamdem et similem auctoritatem et potestatem quam in dicto officio habet quilibet alius qui dicto officio Octo balie presideat.

Item, quod Capitanei Partis guelfe civitatis Florentie teneantur et debeant, hinc ad quinque dies proxime futuros a die qua presens Provisio firmata fuerit in Consilio domini Potestatis et Comunis Florentie, sub pena florenorum mille auri, pro quolibet ipsorum Capitaneorum, representare et consignare officio dominorum Priorum et Vexilliferi iustitie Vexillum regale dicte Partis. Et quod, decetero, Capitanei dicte Partis, presentes vel futuri seu alii pro dicta Parte, dictum Vexillum vel simile tenere non debeant. Et hoc intelligatur de Vexillo regali quod factum fuit tempore domini Lapi de Castiglionchio et sotiorum, qui prefuerunt offitio Capitaneorum dicte Partis de mense februarii proxime preteriti, et de quocumque alio simili vexillo.

Item, quod, expensis et de pecunia Comunis Florentie, ematur et emi debeat una apotheca sufficiens et ydonea que sit propria et pleno iure populi minuti civitatis Florentie, pro adunando Artem et Consules dicti populi et alia opportuna ipsi Arti faciendo. Et quod in ipsa apotheca et eius emptione possit et debeat expendi de pecunia dicti Comunis usque in quantitatem florenorum quingentorum auri; et quod camerarii Camere dicti Comunis, sub pena florenorum mille auri, cuilibet ipsorum hec non servanti auferenda et Comuni Florentie applicanda, possint teneantur et debeant dare solvere et pagare cuicumque deliberatum fuerit per dictos Consules dicti populi minuti, — de quacumque pecunia dicti Comunis et ad quodcumque aliud deputata vel deputanda, usque in quantitatem florenorum quingentorum auri recti ponderis et conii florentini integros et sine ulla solutione vel retentione diricture oneris vel gabelle et absque aliqua apodixa licentia vel subscriptione habenda [476] vel solempnitate servanda, sed solum visa presenti reformatione et habita deliberatione Consulum predictorum. Que apotheca emi debeat hinc ad per totam quintam decimam diem mensis augusti proxime secuturi.

Item, quod Spinellus Luce Alberti, ser Stefanus ser Mattei Becchi et ser Benedictus ser Landi, cives florentini et quilibet ipsorum, intelligantur esse et sint consortes et confederati domini Salvestri domini Alamanni de Medicis et aliorum dominorum Priorum Artium Populi et Comunis Florentie, qui officio prefuerunt de mense iunii proxime preteriti, et aliorum qui cum dicto domino Salvestro, tunc Silvestro, habuerunt baliam generalem a Comune predicto illis modo, forma et ordine quibus ipsi de Balia simul consortes facti et confederati fuerunt. Et habeant et habere intelligantur et potiri et gaudere possint et valeant omnibus et singulis privilegiis immunitatibus et prerogativis quibus potiuntur et gaudent seu potiri et gaudere possunt dictus dominus Silvester, olim Silvester, tunc Vexillifer iustitie, et eius sotii et alii de dicta Balia, vigore ordinamentorum factorum de dicto mense iunii.

Item, quod per predicta in presenti Provisione contenta vel aliquod ipsorum nullum preiudicium generetur vel fiat, nec in aliquo intelligatur derogari alicui Provisioni hodie firmate vel firmande in Consilio domini Capitanei et Populi florentini.

Super qua quidem Petitione — dicti domini Priores et Vexillifer, habita invicem et una cum officio Gonfaloneriorum sotietatum Populi et cum officio Duodecim Bonorum virorum Comunis Florentie deliberatione solempni et demum inter ipsos omnes in sufficienti numero congregatos; — deliberaverunt die XXI mensis iulii anno Domini MCCCLXXVIII: Quod dicta Petitio et omnia et singula in ea contenta procedant admictantur firmentur et fiant. —

ALTRA PROVVISIONE DELL’11 SETTEMBRE 1378, APPROVATA C. S. A’ DÌ 11 E 12.

Ad concordiam Artium et artificum civitatis Florentie, et maxime minorum Artium, et ad bonum et pacificum statum et regimen civitatis eiusdem sollicite intendentes magnifici Domini domini Priores Artium et Vexillifer iustitie Populi et Comunis Florentie, — habita — cum officio Gonfaloneriorum sotietatum Populi et cum officio Duodecim Bonorum virorum Comunis Florentie deliberatione solempni; — deliberaverunt, die undecimo mensis septembris anno Domini MCCCLXXVIII, indictione prima: Quod absque fide vel probatione fienda de predictis vel aliquo predictorum, et absque ulla solempnitate servanda, de scruptinio facto de mense augusti proxime preteriti fiat et de presenti fieri debeat, pro supradictis [477] sedecim minoribus Artibus, in quolibet et pro quolibet officio omnium ipsorum officiorum civitatis Florentie intra civitatem vel extra existentibus et Partis guelforum et officiorum domus et Universitatis mercatorum civitatis Florentie unus solus sacculus sive bursa, in quo vel qua micti possint et debeant omnes illi de quatuordecim minoribus Artibus qui iam forent imbursati et qui debent imbursari secundum ordinamenta super his edita; et similiter omnes illi de duabus Artibus novis qui sunt iam imbursati in bursis factis pro Populo Dei et qui debent imbursari secundum dicta ordinamenta: que due Artes vocantur, una, Ars tintorum et conciatorum et aliorum membrorum, et alia, Ars farsettariorum, sartorum et cimatorum et aliorum membrorum. —

Et quod, in extractionibus dictorum officiorum debeat teneri et observari hec forma quantum in artificibus dictarum sedecim Artium, videlicet: Quod in extractionibus officiorum civitatis dicti scruptinii proiciantur cedule continentes nomina quarteriorum segregatim, et deinde ordinatim capiantur sorte et fiant extractiones, incipiendo in quarterio extracto secundum ordinem sortis successive; remanendo in ordine extractionis Vexilliferi iustitie Provisio firmata et facta in Parlamento facto die primo presentis mensis.

Item, quod ad aliquod vel in aliquo officio civitatis Florentie scruptinato in dicto scruptinio non possit esse uno et eodem tempore ultra unum pro qualibet Arte dictarum sedecim Artium; et si, presidente uno de una dictarum Artium ad aliquod officium, et alius de ipsa eadem Arte, pro illo tempore vel eius parte, ad tale officium foret extractus, debeat remicti talis extractus et extrahi alius de alia Arte. —

Item, ad hoc ut in perpetuum officia Partis guelfe civitatis Florentie regantur et gubernentur per bonos viros et non per malivolos et iniquos; quod presens scruptineum factum pro officio dominorum Priorum Artium et Vexilliferi iustitie Populi et Comunis Florentie imbursetur et imbursari possit et debeat postquam fuerit per Accoppiatores prefati scruptinei revisum et reformatum, et ex ipso fuerint extracti illi de illa tertia Arte populi minuti sive Populi Dei qui sunt a dicto scruptinio prohibiti et exclusi, secundum formam provisionis facte in publico Parlamento, die prima presentis mensis septembris, pro officio Capitaneorum Partis guelfe et Collegiorum dicte Partis. Ita tamen, quod artifices septem maiorum Artium et Scioperati ad officium Capitaneatus et cuiuslibet Collegii imbursentur et imbursari debeant de per se, et artifices sedecim minorum Artium, in una alia bursa pro quolibet dictorum officiorum de per se. Et quod ex ipsis bursis extrahantur et extrahi possint et debeant Capitanei populares pro dicta Parte et pro tempore hactenus consueto; et similiter dicta Collegia Partis, videlicet secretarii seu consiliarii Credentie et priores dicte Partis, etiam pro tempore et temporibus consuetis: et sic successive, durantibus [478] dictis bursis, fiant de illis extractiones officiorum predictorum. Et quod decetero, ad scruptinium officiorum Capitaneorum, secretariorum seu consiliariorum Credentie et priorum dicte Partis procedatur et procedi debeat hoc modo, et in illis et eorum quolibet servari debeat hec forma videlicet: Quod omnes et singuli qui deinceps imbursabuntur ad officium seu pro officio Prioratus Artium et Vexilliferatus iustitie Populi et Comunis Florentie, possint et debeant per Accoppiatores talium scruptinatorum vel aliquos eorum, imbursari ad dicta officia dicte Partis in presenti capitulo nominata, et omnes et singuli qui sic imbursabuntur, habeantur et censeantur pro legittime et solempniter imbursatis; et demum, de bursis sic fiendis fiant extractiones ad officia supradicta et ad eorum quodlibet. Et ad ipsa officia vel aliquod ipsorum nullus possit alia vel alio modo deputari extrahi vel assummi. —

Et quod Capitanei Partis populares esse debeant novem, quatuor videlicet de maioribus Artibus et Scioperatis, et quinque de sedecim minoribus Artibus supradictis. Et quod Secretarii dicte Partis populares sint et esse debeant sedecim, videlicet septem de septem maioribus Artibus et Scioperatis, et novem de sedecim minoribus Artibus supradictis. Priores autem dicte Partis populares sint et esse debeant duodecim, videlicet quinque de septem maioribus Artibus et Scioperatis et septem de minoribus Artibus antedictis.

Et quod in officio Capitaneorum Partis sint et esse debeant ultra dictos populares duo magnates et de magnatibus civitatis Florentie; in officio Secretariorum sint et esse debeant quatuor; et in officio Priorum dicte Partis tres, ultra populares et numerum popularium supradictum.

Qui magnates, pro ista vice dumtaxat et pro omnibus tribus officiis supradictis; extrahantur et extrahi possint et debeant de bursis magnatum ultimi scruptinii dicte Partis ad hec deputatis; et quod ab ipsa extractione in antea nulla extractio de ipso scruptinio possit fieri, sub pena florenorum mille auri cuilibet contrafacienti pro vice qualibet auferenda; et nichilominus omnis extractio et quicquid contra fieret sit irritum ipso iure; sed debeat dictum scruptinium de dictis magnatibus, factis dictis extractionibus pro ipsa vice, laniari et comburi. Imposterum autem et in perpetuum fieri debeant in palatio dominorum Priorum et Populi Florentini scruptinia de magnatibus pro quibuscumque officiis dicte Partis ipsis magnatibus congruentibus, per dominos Priores Artium et Vexilliferum iustitie, Gonfalonerios sotietatum Populi et Duodecim Bonos viros Comunis Florentie et Capitaneos Partis guelfe et Collegia dicte Partis, ac unum pro qualibet Capitudine viginti trium Artium dicte civitatis de numero Consulum dictarum Artium, ultra Preconsulem Artis iudicum et notariorum dicte civitatis, per officium dominorum Priorum Artium et Vexilliferi iustitie nominandos [479] et eligendos: que scruptinia magnatum fieri possint et debeant quandocumque necessarium fuerit, et seu ipsis dominis Prioribus Artium et Vexillifero supradictis videbitur et placebit. Ita tamen, quod domini Priores et Vexillifer qui ad presens sunt, sub pena librarum quingentarum f. p. pro quolibet ipsorum, per totum mensem octubris proxime futuri, teneantur et debeant facere una cum officialibus antedictis unum scruptinium pro supradictis officiis, et pro officiis consiliariorum Consilii Centum virorum et Consilii Sexaginta virorum dicte Partis, quantum ad magnates pertinet. —

Item, quod facta imbursatione de supradicto presenti scruptinio, facto pro officio dominorum Priorum et Vexilliferi, prout supra continetur; extractio dominorum Capitaneorum Partis et Collegiorum supradictorum fiat et fieri possit et debeat in domo Partis predicte, de bursis ex tali scruptinio fiendis, secundum formam statutorum et ordinamentorum et consuetudinum Partis predicte, ad minus sequenti die postquam imbursatio fuerit ad domum dicte Partis transmissa, pro ista prima vice dumtaxat, et pro eisdem terminis et temporibus incipiendis et finiendis prout et sicut et tunc, quando et quomodo incipere debuerunt aut debebunt quelibet officia dicte Partis. Et quod, ex eo quod dicti presentes Capitanei vel eorum Collegia non fecerint fieri hactenus extractiones in temporibus ordinatis, secundum formam ordinamentorum dicte Partis, nullam penam incurrant aut incurrere potuerint; sed ab ipsis penis dicta occasione incursis vel incurrendis sint liberi et totaliter absoluti.

Item, quod deinceps in perpetuum, consiliarii populares Consilii del Cento et Consilii del Sexanta dicte Partis et officium Vigintiquatuor qui solent seu debent extrahi ad monitiones, quantum ad populares, debeant scruptinari, et de illis scruptinium fieri per officium dominorum Priorum Artium et Vexilliferi iustitie Populi et Comunis Florentie et Gonfalonierorum sotietatem Populi et Duodecim Bonorum virorum Comunis predicti, et officia Capitaneorum et Collegiorum Partis predicte popularium et unum pro qualibet Capitudine viginti trium Artium civitatis predicte ultra dictum Preconsulem, eligendos per officium dominorum Priorum Artium et Vexilliferi iustitie. Et quod dicta scruptinia fiant et fieri possint et debeant quandocumque necessarium fuerit et seu officio dominorum Priorum Artium et Vexilliferi iustitie, pro tempore existentium, videbitur et placebit. —

Item, quod ad dicta officia, de quorum scruptinio in proximo precedenti capitulo fit mentio et tractatur, vel ad aliquod ipsorum vel in officiis Consiliariorum Credentie aut Priorum dicte Partis vel in aliquo ipsorum, aut in aliquo actu qui per aliquem qui foret ex ipsis officiis vel eorum aliquo, per se vel una cum aliis fieri haberet, pretestu seu vigore talis officii; non possit loco alicuius [480] vel aliquorum absentis vel absentium subrogari substitui vel deputari quoquo modo, aut aliquis substitutus vel subrogatus aliquo modo fieri; sub pena librarum quingentarum f. p., cuilibet contrafacienti pro vice qualibet auferenda et Comuni Florentie applicanda; et nichilominus quicquid contra fieret sit ipso iure nullum.

Item, quod semper de quolibet et in quolibet dictorum officiorum Partis guelfe de quibus supra fit mentio fiant et fieri debeant due burse; in una quarum mictantur omnes de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et in alia omnes illi de membro sedecim minorum Artium predictarum. Et quod factis talibus bursis, de ipsis demum fiant extractiones. —

ALTRA DEL 28 SETTEMBRE 1378, APPROVATA IL 28 E 29.

Pro parte mercatorum et artificum viginti trium Artium civitatis Florentie, vobis dominis Prioribus Artium et Vexillifero iustitie Populi et Comunis Florentie, reverenter petitur, quatenus, pro bono publico et ut quiete et sub recta iustitia regatur Civitas Florentina, ac pro bono et pacifico statu civitatis eiusdem, et ut quilibet dictorum mercatorum et artificum sentire valeat commoda et onera officiorum Comunis eiusdem; vobis placeat et velitis opportune providere et facere solempniter reformari omnia et singula infrascripta, videlicet.

In primis, quod in perpetuum officium Prioratus Artium et Vexilliferatus iustitie civitatis predicte debeat esse numero novem civium popularium; inter quos et in quo numero debeant esse quatuor de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum dicte civitatis, computato Vexillifero iustitie, quando Vexillum iustitie tangeret ipsi membro; et quinque esse debeant de membro minorum Artium civitatis eiusdem, computato etiam Vexillifero, quando dicto membro tangeret Vexillum iustitie. Et quod Vexillum iustitie tangat dictis membris pro rata, et de uno membro in aliud membrum transeat et extrahatur Vexillifer, prout ordinatum fuit et dispositum in generali Parlamento Populi et Comunis predicti, facto die primo presentis mensis septembris. —

Item, quod in perpetuum officium Gonfaloneriorum sotietatum Populi Florentini sit et esse debeat numero sedecim prout est consuetum; quorum sedecim et cuius numeri septem debeant esse et dicto officio presidere de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et novem de membro sedecim minorum Artium predictarum. —

Item, quod in perpetuum officium Duodecim Bonorum virorum Comunis Florentie sit et esse debeat in numero consueto; et in dicto officio et numero sint et esse debeant et continuo presidere [481] quinque de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et septem de membro sedecim minorum Artium predictarum. —

Item, quod in perpetuum officium Capitaneorum Partis guelfe civitatis Florentie sit et esse debeat numero undecim, videlicet novem popularium et duorum magnatum; in numero quorum popularium sint et continuo presidere debeant quatuor de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et quinque de membro sedecim minorum Artium predictarum.

Item, quod in perpetuum officium Consiliariorum Credentie sive Secretariorum Partis guelfe sit et esse debeat numero sedecim popularium et quatuor magnatum; in numero quorum popularium sint et continuo esse et presidere debeant septem de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et novem de membro dictarum minorum Artium.

Item, quod in perpetuum officium Priorum Partis guelfe predicte sit et esse debeat numero duodecim popularium et trium magnatum; quorum popularium quinque sint et esse debeant in dicto officio de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et septem de dicto membro sedecim minorum Artium.

Item, quod in perpetuum, ad infrascripta officia et in infrascriptis officiis dicte Partis guelfe, videlicet Defensorum dicte Partis (quando tale officium pro Parte predicta crearetur); Vigintiquatuor civium qui ad monitiones solent extrahi et deputari, et qui vulgariter dici solent I Ventiquatro della Parte; Consilii centum virorum quod vulgariter dicitur Il Consiglio del Cento della Parte; et Consilii sexaginta virorum dicte Partis, quod vulgariter dicitur Il Consiglio del Sessanta della Parte, sint et esse debeant de popularibus: qui in dictis officiis debent esse tot de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum quot de membro sedecim minorum Artium predictarum. Et quod dicta quatuor officia, quantum ad populares, inter dicta duo membra, equis partibus dividantur. —

Item, quod sigilla Partis guelfe predicta debeant una vice teneri per unum de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et alia per unum de membro sedecim minorum Artium, et sic alternatim. — Et prima vice, dicta duo membra scribantur in duabus cedulis segregatis et mictantur ad sortem; et demum, una ex cedulis recollectis de illo membro cui sorte tetigerit debeat esse primus custos sigillorum predictorum; et alia vice de alio membro; et sic successive procedatur de membro in membrum.

Item, quod officium Camerariatus dicte Partis guelfe distribuatur et dividatur inter dicta duo membra, et in eo procedatur et observetur, prout et sicut de custode sigillorum in proximo precedenti capitulo dictum est.

Item, quod officium Rationerii et Scribani Partis guelfe predicte equaliter dividatur inter dicta duo membra, et una vice sit unus [482] de membro maiorum Artium et Scioperatorum, et alia vice de membro sedecim minorum Artium predictarum. Et ad deputationem dicti Scribani et Rationerii, prima vice procedatur sorte, prout de custode sigillorum dictum est; et demum, successive de membro in membrum alternatim, sequatur et duret officium dicti Scribani et Rationierii pro vice qualibet uno anno et non ultra. Et quilibet presidens dicto officio habeat, a die depositi officii, ab illo devetum per duos annos.

Item, quod in perpetuum, finito mense novembris proxime futuri in antea, officium Consilii Populi inter dicta duo membra equaliter sit divisum; — et numerus consiliariorum dicti Consilii sit et esse debeat in totum centum sexaginta popularium, videlicet quadraginta pro quolibet quarterio.

Item, quod in perpetuum, finito mense decembris proxime futuri in antea officium Consilii Comunis, quantum ad populares pertinet, inter dicta duo membra equaliter sit divisum; et numerus consiliariorum popularium dicti Consilii Comunis sit et esse debeat centum sexaginta popularium, videlicet pro quolibet quarterio quadraginta; et quadraginta magnatum, videlicet decem pro quolibet quarterio etc.

Item, quod de officiis Camerariatuum et Scribanatuum, que imbursari debent secundum ordinamenta scruptinii facti de mense augusti proxime preteriti, fiant due burse et separatim imbursari debeant dicta membra, et demum equaliter ipsa officia inter dicta duo membra partiantur. — Salvo quod in officio Camerariorum Camere dictis Comunis procedatur et observetur ut infra in speciali capitulo de ipso officio continetur. Ita tamen, quod semper habeant presidere tali officio alternatim et successive ex dictis membris, prout de extractionibus dictum est.

Item, quod officium Approbatorum Statutorum Artium civitatis Florentie decetero debeat imbursari separatim in duabus bursis, in una quarum mictantur illi de membro septem maiorum Artium et in alia illi de membro sedecim minorum Artium; et inter dicta membra dictum officium equaliter dividatur. Et quod decetero in perpetuum dictum officium sit numero octo inter mercatores et artifices, etiam pro presenti anno. — Ita tamen quod in dicto officio, uno eodemque tempore, pro una et eadem Arte non possit esse nisi unus. —

Item, quod officium Capitaneorum Sotietatis Virginis Marie Sancti Michaelis in Orto de Florentia, de cetero in perpetuum, finito officio presentium Capitaneorum, inter dicta duo membra equaliter sit divisum etc.

Item, quod Camerarii Camere Comunis Florentie decetero debeant esse quatuor populares, duo de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum et duo de membro dictarum sedecim minorum Artium.

[483]

Item, quod officiales Defectuum civitatis Florentie decetero debeant esse quatuor populares, dividendo inter dicta membra prout de Camerariis Camere dictum est.

Item, quod officiales officii Grascie deinceps debeant esse sex populares, tres de membro maiorum Artium et Scioperatorum et tres de membro sedecim minorum Artium. —

Item, quod finito officio presentium septem Consiliariorum Mercantie et Universitatis mercatorum, in perpetuum dictum officium debeat esse numero novem inter mercatores et artifices, et in perpetuum dividatur sub hac forma. Quod quinque ad dictum officium et in dicto officio esse debeant de quinque maioribus Artibus, et quatuor de sedecim minoribus Artibus et de Arte vaiariorum et pellipariorum. —

Item, quod in deliberationibus fiendis super recursibus proponendis vel fiendis in curia Mercantie et Universitatis mercatorum civitatis predicte et coram Iudice vel Consiliariis Universitatis predicte, in quibus deliberationibus et ad quas vocari seu assummi solent, secundum ordinamenta Comunis predicti et seu dicte Universitatis, decem mercatores seu artifices maiorum Artium, decetero vocari et assummi et esse debeant medietas ipsorum civium de membro quinque maiorum Artium, et alia medietas de membro sedecim minorum Artium et Artis vaiariorum et pellipariorum. —

Item, quod officia Comunis Florentie que debent exerceri extra civitatem, scruptinata de mense augusti proxime preteriti pro dictis membris, imbursari debeant separatim et per se; et in una bursa mictantur omnes de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et in alia omnes de membro sedecim minorum Artium; imbursando tamen dicta officia in pluribus bursis, et faciendo separationem inter officia maiora, minora et mediocria, prout est consuetum. Et demum ipsis officiis sic imbursatis, ad ipsorum extractiones procedatur hoc modo, videlicet: Quod ad quodlibet dictorum officiorum extrahatur, una vice unus de uno dictorum membrorum, et alia vice ad idem unus de alio membro; et sic alternatim successive continuo procedatur, incipiendo in primis extractionibus cuiuslibet dictorum officiorum ab illo membro, cui primo sorte tetigerit, proiectis cedulis continentibus segregatim nomina membrorum et recollectis. —

Item, quod deinceps, in perpetuum, de omnibus et singulis officiis Comunis predicti extrinsecis, — que scruptinabuntur seu imbursabuntur, — fieri debeant due burse, in una quarum mictantur et micti debeant omnes de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et in alia omnes de membro dictarum sedecim minorum Artium; et demum ad extractiones talium officiorum procedatur et procedi debeat, et in illis servari modus et forma de quibus et prout et sicut dispositum est in capitulo proxime precedenti. Hoc expresso et declarato, quod quodlibet ex dictis officiis [484] cui plures haberent eodem tempore presidere, inter dicta membra equaliter partiatur.

Item, quod omnes et singuli tam de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum quam de membro sedecim minorum Artium, qui obtinebunt in scruptinio de proximo fiendo de infrascriptis officiis, debeant simul et mistim micti et imbursari in una bursa, et demum ad ipsa officia fieri extractiones prout sorte imbursatis tetigerit. Ita tamen, quod ad ipsa officia et in dicta bursa tot debeant imbursari, de uno membro quot de alio. Et si accideret quod in dicto scruptinio obtinerent tot de uno membro quot de alio, debeant de illo membro de quo tot non obtinuissent assummi et imbursari usque ad equalem numerum, illi qui plures fabas nigras in dicto membro habuissent, habito respectu, pro tali membro, ad scruptinatos in tota civitate. Et si plures essent in numero fabarum concurrentes, illi debeant imbursari quibus sorte tetigerit, proiectis cedulis segregatis de nominibus ipsorum et sorte recollectis per imbursatores. — Officia autem de quibus in presenti capitulo fit mentio sunt ista videlicet:

Item, quod quandocumque scruptinabuntur et imbursabuntur pro Comuni Florentie Capitanei Civitatis Pistorii et Montanee Pistoriensis et Castellani Sambuche comitatus Pistorii et maioris casseri civitatis Pistorii, secundum pacta vigentia et que observari debent et seu debebunt cum Comuni Pistorii; omnes et singuli tam de membro maiorum Artium et Scioperatorum quam de membro sedecim minorum Artium qui in tali scruptinio uno vel pluribus obtinebunt, debeant imbursari simul et mistim in una bursa, et demum ad ipsa officia fieri debeant extractiones, et prout sorte et fortuna imbursatis tanget. —

Item, quod officium Consignationis generalis et omnium aliarum consignationum que fieri haberent dicti Comunis, imbursetur et imbursari debeat, et ad deputationem Consignatorum per modum extractionis procedatur. Et quod ad dictum officium debeant et possint imbursari de presenti omnes qui, secundum ordinamenta scruptinii celebrati de mense augusti proxime preteriti, debent imbursari ad alia officia civitatis; et omnes de membro maiorum Artium et Scioperatorum et de membro sedecim minorum Artium debeant ad officium predictum simul misceri, et deinde sorte et fortuna extrahi. Et similiter et de per se ad dictum officium [485] imbursentur notarii qui in dicto scruptinio ad secunda officia obtinuerunt. —

Item, quod, stantibus firmis omnibus suprascriptis, omnia et singula alia officia incohanda et presentia et futura Comunis et civitatis Florentie et Partis guelfe congruentia tantum civibus, distribuantur et distributa esse intelligantur equis partibus inter dicta duo membra. — Hoc salvo expresso et declarato, quod in presenti capitulo aut in aliqua parte presentium ordinamentorum non includantur officia infrascripta, nec de eis per presentia ordinamenta aliquid intelligatur dispositum vel provisum, videlicet. Circa officium dominorum Octo balie presentium, quod officium etiam possit, si expedierit, prorogari semel et pluries et quotiens, cum eisdem auctoritate, officio et balia; et officia Preconsulatus, Consulatuum, Consiliariorum et quorumcumque officiorum Artium ab ipsis Artibus et in ipsis Artibus; officium Spinelli Luce Alberti, et quodlibet aliud officium Scribanorum et Rationeriorum seu aliorum officialium Camere dicti Comunis, quod non sit solitum imbursari; officium Gregorii Laurentii ad gabellam vini et quodlibet aliud officium Gabellarum dicti Comunis, quod non sit ad presens imbursatum vel decetero non imbursetur; officium Approbatorum bannitorum et Mazeriorum dicti Comunis; officium Dominorum Zecche et Monete ipsius Comunis; officium Saggii ipsius Comunis; Officia administrationum gubernationum et manutentionum quarumcumque mansionum, laboreriorum et Operarum ecclesiarum et hospitalium, commissarum certis Artibus civitatis predicte; officia Numptiorum et Exactorum dicti Comunis; officia Sindicorum vel officialium creandorum et constituendorum super negotiis creditorum cessantium et fugitivorum et seu cuiuscumque civis vel artificis aut mercatoris florentini aut aliunde; Officia et mandata sindicorum qualitercumque creandorum pro negotiis dicti Comunis; et omnia alia officia Comunis aut civitatis comitatus vel districtus Florentie, ad que aliquis foret assumptus vel deputatus, occasione vel respectu sui ministerii aut peritie vel scientie sue sive sue Artis. —

Item, quod non obstantibus suprascriptis, et remanentibus in sui firmitate omnibus et singulis ordinamentis, disponentibus per quos et sub qua forma et pro quanto tempore et cum quibus commodis, honoribus, oneribus et salariis, ambaxiatores Comunis Florentie eligi possint vel deputari, et de ipsorum ambaxiatis, devetis, iuramentis, promissionibus et satisdationibus; presentes domini Priores Artium et Vexillifer iustitie Populi et Comunis Florentie et Gonfalonerii sotietatum Populi et Duodecim Boni viri — possint et eis liceat ac etiam teneantur et debeant providere et declarare qualiter et quemadmodum officia ambaxiatorum Comunis predicti, decetero creandorum, inter dicta duo membra distribui debeant et partiri; et quando continget quod ambaxiatores pro dicto Comuni habeant eligi et deputari, quot debeant esse de uno membro et [486] quot de alio; et quomodo et de quo membro, quando unus solus ambaxiator eligendus occurret, debeat deputari, et quota pars cuilibet membrorum predictorum debeat attribui: et insuper quid fieri debeat circa ambaxiatores per officium Octo balie transmictendos. — Salvo et declarato quod, si aliquis, civis aut aliunde, vellet a dominis Prioribus et Vexillifero iustitie seu eorum Collegiis impetrare pro suis propriis factis, in eius proprium et singulare servitium, unum vel plures ambaxiatores; possit tunc et quandocumque talis ambaxiator unus vel plures eligi et deputari de quocumque membro, et prout eligentibus placuerit; expensis tamen petentis et non Comunis.

Item, quod deinceps, ad aliquod officium ad presens imbursatum vel quod deinceps imbursaretur nullus possit, aliter quam per viam extractionis, — deputari eligi vel assummi. —

Item, quod deinceps domini Priores Artium et Vexillifer iustitie, Gonfalonerii sotietatum et Duodecim Boni viri Comunis predicti pro tempore existentes intersint et interesse teneantur et debeant in quolibet Consilio Comunis et domini Potestatis civitatis Florentie imposterum fiendo et celebrando, et in eo fabas reddere, prout et sicut possunt seu tenentur in Consilio Populi et domini Capitanei. —

Item, pro maiori honestate et ut voluntates consiliariorum cuiuscumque Consilii Populi et Comunis Florentie minus pareant et magis etiam sint occulte; quod a duobus diebus proxime futuris in antea fiat et fieri debeat, et Camerarii camere armorum Palatii Populi Florentini fieri facere teneantur, unum bossolum magnum ut expedit, quod vocetur bossolum libertatis. In quod quidem bossolum fabe que recolligentur in ipsis Consiliis et quolibet vel aliquo ipsorum, in aliis bossolis, ut est moris, possint et debeant vacuari ante quam alibi evacuentur. Et deinde, ipsis omnibus aliis bossolis in ipsum magnum bossolum vacuatis, debeat ipsum bossolum vacuari in bacinum in ipsis Consiliis retinendum ut est moris. — Salvo expresso et declarato, quod in quocumque casu deliberabitur per dominos Priores Artium et Vexilliferum iustitie, Gonfalonerios sotietatum Populi et Duodecim Bonos viros vel per viginti octo ex ipsis, discedendum fore a supradicta observantia, quod fabe aliter vacuarentur vel numerarentur; tunc possint bossoli, in quibus fabe in Consiliis recolliguntur separatim, vacuari in bacino supradicto et fabe numerari, prout si predicta solemnitas numquam inventa foret seu ordinata. —

Super qua quidem Petitione — domini Priores et Vexillifer, habita etc., providerunt ordinaverunt et deliberaverunt, die XXVIII mensis septembris, anno Domini MCCCLXXVIII, indictione secunda: Quod dicta Petitio et omnia et singula in eo contenta procedant admictantur firmentur et fiant. —

[487]

Nº II. (Vedi pag. 49.)

PROVVISIONE DEL 21 GENNAIO 1381 DALL’INCARNAZIONE.[575]

Magnifici et potentes viri domini Priores Artium et Vexillifer iustitie Populi et Comunis Florentie, una cum offitiis Gonfaloneriorum sotietatum Populi et Duodecim Bonorum virorum Comunis predicti, et aliis civibus florentinis habentibus una cum eis auctoritatem potestatem et baliam generalem a Populo Florentino et a generali et solemni Parlamento Populi supradicti, in palatio dicti Populi in numeris sufficientibus congregati; considerantes, quamplures de civitate Florentie fuisse declaratos et seu factos magnates et seu supramagnates, occasione et respectu status et maxime de mensibus iunii et iulii anno Domini MCCCLXXVIII et de mense ianuarii anno Domini MCCCLXXVIIII; et quod etiam multi et quamplures de civitate predicta, maxime occasione status, fuerunt privati et seu devetati ab offitiis, et qui vulgariter dicebantur posti ad sedere, per Ordinamenta dicti Comunis; et aliqui etiam de dicta civitate ab offitiis devetati aut inhabilitati seu privati fuerunt, per condemnationes factas per rectores et officiales civitatis predicte; et volentes, ut iustitie convenit, providere, et quod iniuste actum fuit ad iustitie terminos revocare; — ordinaverunt et deliberaverunt omnia et singula infrascripta videlicet.

In primis, quod omnes et singuli de civitate Florentie, qui a die XVIII mensis iunii anno Domini MCCCLXXVIII usque ad diem XV presentis mensis ianuarii vel infra ipsum tempus, per aliqua ordinamenta seu vigore quorumcumque ordinamentorum dicti Comunis aut vigore alicuius condemnationis, fuerunt, maxime occasione status, facti aut declarati magnates vel supramagnates, — nominatim et specifice seu sub appellatione vel genere domus vel familie seu casati, intelligantur esse et sint de cetero omni tempore in perpetuum, in eo gradu, qualitate et statu in quibus erant ante dictam diem XVIII mensis iunii supradicti. — Eo tamen salvo excepto et proviso et declarato, quod predicta non intelligantur pro illis nec se extendant quoquo modo ad illos qui facti fuissent magnates aut supramagnates, occasione vel causa alicuius petitionis vel querele exhibite seu facte officio vel coram officio dominorum Priorum Artium et Vexilliferi iustitie Populi et Comunis [488] predicti, et super qua demum proceditur, vigore ordinamentorum inter alia in effectu disponentium de modo tenendo seu de his que fieri debent vel possunt quando popularis alium popularem offenderet, aut quando magnas offenderet popularem vel magnas magnatem; et etiam qui tales sic facti magnates seu supramagnates dicuntur vulgariter i grandi o sopragrandi facti per petitione. Et hoc sane intelligatur.

Item, quod omnes et singuli de civitate Florentie, qui nominatim et specifice fuerunt hactenus, videlicet a die XVIII mensis iunii anno Domini MCCCLXXVIII usque ad XV diem presentis mensis ianuarii vel infra ipsum tempus, privati vel devetati ab aliquibus vel aliquo offitio vel offitiis in perpetuum vel ad tempus, et qui vulgariter dicebantur i posti a sedere, — et etiam qui, non sub propriis nominibus et specifice sed sub genere consorterie vel agnationis seu parentele, occasione status, videlicet eo quia eis fuissent combuste domus aut quia essent coniuncti quoquo modo aliquorum condemnatorum vel exbannitorum dicti Comunis, intelligantur esse et sint ex nunc, contra et adversus dictas privationes et inhabilitates et devetationes, plenissime restituti. —

ALTRA PROVVISIONE DELLO STESSO GIORNO.

Magnifici et potentes viri domini Priores Artium etc. deliberaverunt.

In primis, quod omnes et singuli qui hactenus, videlicet a die XVIII mensis iunii anno Domini MCCCLXXVIII usque ad diem XV presentis mensis ianuarii inclusive, — fuerunt condempnati et exbanniti, et seu condempnati tantum vel exbanniti tantum, — occasione vel respectu subversionis vel turbationis status civitatis Florentie, aut pro aliquo seu occasione alicuius tractatus facti vel quomodolibet attentati —, aut pro non revelando aliquem talem tractatum, et seu pro aliqua conventicula coniuratione conspiratione vel postura, — aut pro veniendo cum inimicis seu cum banderiis elevatis aut vexillis erectis in comitatu vel districtu Florentie, et seu pro occupando vel invadendo aut actentando vel tractando invadere vel occupare aut capere aliquam terram castrum roccham arcem locum vel fortilitiam comitatus vel districtus Comunis predicti, aut de ipsius Comunis custodia iurisdictione vel preheminentia et seu obedientia submovendi vel elevandi; — intelligantur esse et sint ex nunc, ipsi et quilibet ipsorum, a dictis condemnationibus — absoluti et effectualiter ac plenissime liberati. Eo tamen in predictis et a predictis excepto salvo et declarato, quod vigore predictorum non possit cancellari aliqua condempnatio seu bannum lata vel latum pro aliqua offensa facta principaliter in aliquam singularem personam. —

[489]

Item, quod omnes et singuli de quorum cancellatione et absolutione superius est provisum, et omnes et singuli ipsorum et cuiusque ipsorum descendentes et coniuncti, tam nati quam nascituri et quilibet ipsorum, ex nunc, adversus omnem et quamlibet inhabilitatem cuiuscumque generis vel speciei, et quemcumque actum ipsa inhabilitas respiciat seu tangat aut respicere seu tangere diceretur, et quamlibet notam ignominiam maculam et infamiam, in quas ipsi vel aliquis ipsorum, per supradictas condemnationes banna decreta deliberationes vel ordinamenta et seu per delicta aut alia contenta in eis vel aliquo ipsorum —, intelligantur esse et sint in integrum et plenissime restituti. —

Item, quod quilibet qui, vigore supradictorum, cancellari de dictis bannis condemnationibus et aliis predictis potest, teneatur et debeat, ante quam inde cancelletur vel cancellari possit, promictere et iurare, coram offitio dominorum Priorum Artium et Vexilliferi iustitie, de non offendendo per se vel alium, nec aliquam inimicitiam odium vel rancorem habendo vel portando ad aliquam vel contra aliquam personam. — Et quod de huiusmodi iuramentis et promissionibus confici debeant instrumenta vel scripture per cancellarium et scribam reformationum Comunis predicti et seu per alterum ipsorum vel per alium vel alios notarium vel notarios, ad hoc per ipsos cancellarium et scribam vel eorum alterum deputandum vel deputandos, semel vel pluries et quotienscumque.

Item, quod de restitutione et pro restitutione fienda et que fieri debeat predictis exbannitis et condemnatis de bonis ipsorum olim venditis, restitutis vel assignatis per aliquos offitiales dicti Comunis, et circa paces et concordias faciendas et recipiendas per dictos exbannitos et condemnatos; octo cives florentini, eligendi et ad predicta deputandi per dictos dominos Priores et Vexilliferum, ad presens in offitio existentes, pro eo tempore de quo eis videbitur expedire, et seu duo partes ipsorum octo civium eligendorum, possint providere ordinare et disponere, et penas pro dictis pacibus faciendis imponere. — Et quod omnes et singuli illi quibus per offitium dictorum octo offitialium mandatum vel preceptum fuerit de aliqua pace vel concordia facienda, et tali mandato vel precepto inobedientes fuerint, non restituantur ad eorum bona nec in aliquo gaudeant benefitio presentium ordinamentorum. —

Item, quod supradicti exbanniti et condemnati non possint nec presumant reverti vel intrare in civitatem Florentie, hinc ad per totum mensem februarii proxime sequturum, nisi aliter in genere vel specie deliberatum fuerit per dictos octo cives ut prefertur eligendos.

Item, quod supradicti — non possint, pretextu vel occasione dictorum bannorum et condemnationum, ante quam inde cancellentur, impune offendi; et quod quelibet offensa que fieret ante dictam cancellationem in personam alicuius ipsorum intelligatur esse [490] et sit punibilis, prout et ac si facta fuisset in personam non condemnati vel banniti et offendi impune prohibiti.

ALTRA PROVVISIONE COME SOPRA.

Prefati domini Priores etc., deliberaverunt omnia et singula infrascripta, videlicet.

In primis, quod omnes et singuli qui hactenus, videlicet a die decimo octavo mensis iunii anno Domini millesimo trecentesimo septuagesimo octavo usque ad diem quintamdecimam presentis mensis ianuarii inclusive, quandocumque infra ipsum tempus fuerunt condempnati et exbanniti seu condempnati tantum et exbanniti tantum, per aliquem rectorem seu offitialem Comunis Florentie, pro quocumque vel occasione cuiuscumque delicti malefitii criminis vel excessus aut iniurie vel offense et seu quacumque alia causa, et quorum condempnationes et seu banna sint in Camera actorum dicti Comunis, — intelligantur esse et sint, ex nunc, ab eorum condempnationibus et bannis — absoluti et plenissime liberati.

Item, quod quilibet qui, vigore predictorum potest cancellari de dictis bannis — (come nella provvisione precedente).

Item, quod omnes et singuli ad presens detenti seu qualitercumque recommendati in carceribus Stincarum Comunis predicti, quacumque et pro quacumque causa vel occasione, — exceptis dumtaxat illis qui ibidem detenti seu recommendati essent pro debito vel obligatione ad quod vel quam tenerentur alicui singulari persone, — possint et debeant, per Superstites carcerum predictarum, de dictis carceribus impune et libere relaxari. — Hoc in predictis salvo et excepto, quod, vigore predictorum, nullatenus relaxari possit comes Iohannes de Raginopoli nec aliquis, qui penes aliquem rectorem dicte civitatis detentus esset pro aliquo malefitio per eum commisso ante presentem mensem. Et hoc etiam declarato et ordinato, quod predicti relaxandi, vigore predictorum non intelligantur esse nec sint liberi vel absoluti ab eo vel de eo pro quo recommendati et detenti sunt, sed ad illud remaneant obligati ac si predicta disposita non fuissent: ita quod, virtute predictorum, dumtaxat simplicis relaxationis a dictis carceribus benefitium consequantur.

ALTRA PROVVISIONE COME SOPRA.

Magnifici et potentes viri domini Priores etc. deliberaverunt.

In primis, quod duo Artes nove et que nove Artes appellantur, que olim create fuerunt in civitate Florentie, in anno Domini MCCCLXXVIII, et quarum una appellatur Ars farsettariorum cimatorum [491] sartorum barberiorum et aliorum membrorum ipsi Arti connexorum, et altera Ars appellatur Ars tintorum cardatorum facientium cardos saponariorum cardaiolorum et aliorum membrorum ipsi Arti connexorum, intelligantur esse et sint decetero capse remote et anulate, et amplius Artes seu corpus vel Collegium Artis non reputentur vel faciant, prout ab eorum creatione citra representaverunt et fecerunt.

Item, quod membra dictarum duarum Artium et utriusque earum redeant et redire intelligantur ad illa loca et ad illas et sub illis Artibus in quibus et sub quibus erant et fuerunt de mense may anno Domini MCCCLXXVIII.

Item, quod membra dictarum duarum Artium que de dicto mense may cum aliqua Arte vel sub aliqua Arte non erant, remaneant et sint cum et seu sub illa Arte dicte civitatis, de qua et prout et sicut per dictos dominos Priores Artium et Vexilliferum iustitie vel duas partes eorum extiterit declaratum.

Item, quod Ars lane civitatis Florentie et Consules dicte Artis ac etiam Offitialis forensis Artis predicte intelligantur habere et habeant decetero illos subiectos et suppositos de supradictis duabus Artibus et membris et misteriis ipsarum, quos et prout et sicut et quemadmodum habebant de mense may anno Domini MCCCLXXVIII; et quod auctoritas et potestas ac iurisdictio quam et prout et quemadmodum habebant de dicto mense may predicti Consules et Offitialis dicte Artis lane, simul vel separatim, in dictos, super vel contra dictos subditos seu subiectos et quemlibet ipsorum, cuiuslibet etiam sexus, competat et competere intelligatur eis decetero omni tempore. —

Item, quod dicti domini Priores et Vexillifer — possint, durante eorum auctoritate, providere et disponere de bonis et circa bonos homines supradictarum duarum Artium, admittendos ad offitia et honores dicte Artis lane, prout decens et conveniens esse crediderint; et quod dicta Ars lane et eius mercatores et artifices possint et debeant admittere secum ad offitia honores gradus et dignitates dicte Artis illos ex dictis duabus Artibus sibi subiectos, de quibus declaratum fuerit per dictos dominos Priores et Vexilliferum — et seu per offitium Consulum dicte Artis lane vel eorum commissarios.

Item, quod dicti domini Priores et Vexillifer — possint similiter disponere et providere de bonis hominibus aliorum membrorum dictarum duarum Artium, admittendis ad offitia et honores illarum Artium, ad quas per supradicta ipsa talia membra sunt reducta. —

Item, quod homines supradictarum duarum Artium, qui decetero extrahentur ad aliquod offitium de bursis vigentibus et de imbursationibus hactenus factis, intelligantur extracti pro Artibus minoribus, non obstantibus supradictis. Et similiter quilibet ex eis, qui in aliquo offitio dicti Comunis aut Partis guelfe vel Mercantie [492] existit ad presens, possit offitium complere et finire ac si predicta ordinata non essent.

Item, quod numerus minorum Artium civitatis Florentie intelligatur esse et sit reductus ad quattuordecim Artes, et de illis Artibus de quibus erat de mense may anno Domini MCCCLXXVIII; et totidem et non plures intelligantur esse et sint Artes minores ipsius civitatis. Et quod omnia et singula ordinamenta dicti Comunis ac etiam Partis guelfe et Universitatis mercatorum dicte civitatis, disponentia loquentia vel tractantia de numero vel super numero sedecim minorum Artium, intelligantur decetero disponere loqui et tractare de dicto numero quattuordecim minorum Artium; et similiter ordinamenta disponentia loquentia vel tractantia de numero vel super numero viginti trium Artium, intelligantur disponere et tractare de numero et super numero viginti unius Artium civitatis predicte, et ad istum numerum intelligantur esse et sint reducta. —

PROVVISIONE DEL 22 GENNAIO 1381 DALL’INCARNAZIONE.

Magnifici et potentes viri domini Priores etc. deliberaverunt.

In primis, quod Vexillifer iustitie civitatis Florentie, decetero, elapso mense februarii proxime sequturo, in perpetuum sit et esse debeat de et pro membro septem maiorum Artium et Scioperatorum. —

Item, quod in et pro offitio Prioratus Artium ultra Vexilliferum iustitie, sint et esse debeant more solito, perpetuo in futurum, octo cives populares et guelfi, quorum quactuor sint et esse debeant de et pro membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et quactuor de et pro membro quactuordecim minorum Artium civitatis predicte. Et quod in quolibet et pro quolibet membro, in quarteriis civitatis, quo ad numerum, equalitas observetur: et incipiat hec distributio finito presenti offitio dominorum Priorum et Vexilliferi iustitie.

Item, quod in offitio et pro offitio Gonfaloneriorum sotietatum Populi civitatis Florentie, finito offitio presenti, sint et esse debeant sedecim cives populares et guelfi ut est moris, videlicet unus pro quolibet gonfalone; et inter dicta duo membra dictum offitium sit et esse intelligatur taliter distributum, videlicet: quod novem sint de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et septem pro et de membro quactuordecim minorum Artium civitatis predicte; et in hoc quarteria et gonfalones, prout melius fieri poterit, adequentur, ut successive de utroque membro sit in quolibet gonfalone.

Item, quod offitium Duodecim Bonorum virorum civitatis predicte, finito presenti offitio, sit et esse debeat de duodecim bonis [493] viris civibus popularibus et guelfis, et inter dicta duo membra intelligatur esse et sit distributum et partitum hoc modo, videlicet: quod septem sint et esse debeant de et pro membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et quinque de et pro membro quactuordecim minorum Artium civitatis predicte; et quod subcessivis temporibus ita observetur et fiat, quod, quanto melius fieri poterit, de utroque membro sit in quolibet quarterio equa pars, prosequendo de tempore in tempus aut sorte aut alternatim.

Item, quod decetero, in quolibet offitio Comunis predicti in quo populares erunt octo numero, sint de tali numero quinque de et pro membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et tres de et pro membro quactuordecim minorum Artium.

Item, quod in quolibet offitio Comunis predicti, in quo erunt decem populares, in tali numero sint et esse debeant sex de et pro membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et quactuor de et pro membro quactuordecim minorum Artium.

Item, quod in quolibet offitio dicti Comunis in quo erunt quactuor, in tali numero sint et esse debeant, una vice duo pro membro quactuordecim minorum Artium, et alia unus, et sic subcessive prosequendo, et residuum pro membro septem maiorum Artium et Scioperatorum.

Item, quod offitiales offitii Grascie, decetero, quo ad populares sint quinque, quorum tres sint de et pro membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et duo de et pro membro quactuordecim minorum Artium.

de cetero pertineant ad membrum septem maiorum Artium et Scioperatorum; et dumtaxat de civibus popularibus et guelfis dicti membri ad ipsa offitia exercenda deputari et accedere debeant offitiales, temporibus sequturis. Et nominentur dicta offitia extrinseca, supramaiora.

Potesteria et Capitaneatus terre Collis Vallis Else, et quodlibet ipsorum offitiorum intelligantur esse et sint in gradu et de gradu Potesteriarum maiorum.

Item, quod offitia Potesteriarum primi et secundi et tertii gradus et Castellaneriarum maiorum et minorum sint et esse intelligantur [494] distributa inter dicta duo membra, hac forma et ordine videlicet. Quod ex octo partibus totius numeri quinque partes pertineant ad membrum septem maiorum Artium et Scioperatorum, et tres partes ad membrum quactuordecim minorum Artium quantum ad populares, salva parte magnatum ipsis actributa seu actribuenda per ordinamenta Comunis predicti.

Et quia dicta distributio, quo ad continuum exercitium in offitiis predictis extrinsecis videtur esse difficilis; quod quando pro dictis offitiis vel eorum aliquo fient decetero imbursationes, omnes de utroque membro simul et mistim debeant imbursari, et de scruptinatis tot possint et debeant imbursari de membris predictis, quod in imbursatis quodlibet membrum habeat suam partem, secundum distributionem predictam; accipiendo et imbursando si opus erit de illis qui per numerum regularem non obtinuissent, dummodo usque ad equationem adsummantur et imbursentur pro membro in quo deficientia fuerit illi in quorum partitis plures fabe nigre reperte fuerint.

Et quod demum ad extractiones procedatur simul et mistim, et quilibet imbursatus, prout sors dederit, adsummatur.

Item, quod offitium Consiliariorum Mercantie et Universitatis mercatorum, decetero, finito offitio ad presens ipsi presidentium, sit et esse debeat de septem numero et non ultra, quorum quinque sint de et pro quinque maioribus Artibus, more solito, et duo de et pro membro quactuordecim minorum Artium et Artis vaiariorum et pellipariorum civitatis predicte. Et quod devetum minorum Artium solitum esse quo ad minores Artes (videlicet, quod quando unus pro una dictarum Artium minorum fuerit ad ipsum offitium adsumptus, a die sui depositi offitii, quilibet de ipsa Arte habeat devetum per unum annum), sit reductum ad sex menses. Et quod omnia et singula ordinamenta que loquerentur aut disponerent de numero novem Consiliariorum dicte Universitatis, intelligantur loqui et disponere de numero septem Consiliariorum predictorum, et ad ipsum numerum adactentur in omnibus partibus ipsorum.

Item, quod, pro expediendo recursus sindicatuum, de quibus fuerit decetero ordinatum, et causas ipsorum recursuum, adsummi debeant decetero pro arrotis, sive adiunctis Consiliariis Mercantie, decem mercatores de quinque maioribus Artibus civitatis predicte, videlicet duo de et pro qualibet ipsarum quinque Artium, prout et quemadmodum assummebantur et observabatur ante annum Domini MCCCLXXVIII, quando Consiliarii Mercantie et Universitatis mercatorum civitatis predicte numero erant septem.

Item, quod ambaxiatores seu offitia ambaxiatorum non veniant nec cadant sub aliqua distributione offitiorum, sed de et pro quolibet membro possint ambaxiatores adsummi, ac etiam ad tale offitium quilibet civis guelfus deputari et eligi possit, prout fieri poterat [495] de mense may anno Domini MCCCLXXVIII, et ante ipsum mensem quandocumque.

Item, quod offitium Capitaneorum Partis guelfe civitatis Florentie, quo ad populares, sit numero novem, ut ad presens est; in quo numero decetero sint quinque de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et quactuor de membro quactuordecim minorum Artium.

Item, quod offitium Priorum dicte Partis, quo ad populares, sit decetero numero duodecim, prout ad presens est; in quo numero sint septem de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et quinque de membro quactuordecim minorum Artium.

Item, quod offitium Consiliariorum Credentie dicte Partis sit decetero numero sedecim, prout ad presens est, quo ad populares; in quo numero sint novem de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et septem de membro quactuordecim minorum Artium.

Item, quod, non obstantibus distributionibus antedictis et his que supra provisa sunt, quilibet qui ad presens est in aliquo ex supradictis offitiis possit illud perficere et complere; et similiter qui ad aliquod ipsorum iam extractus est, quamvis non inceperit, possit accedere ad illud et ipsum exercere, secundum formam et ordinem sue extractionis.

Item, quod in Consilio Populi consiliarii sint quadraginta pro quarterio, videlicet decem pro et de quolibet gonfalone, ultra Capitudines et alios offitiales, ut ad presens sunt; quorum decem pro gonfalone sex sint de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et quactuor de membro quactuordecim minorum Artium civitatis predicte.

Item, quod consiliarii Consilii domini Potestatis et Comunis predicti sint decetero quadraginta populares de et pro quolibet quarterio civitatis predicte, videlicet decem de et pro quolibet gonfalone; quorum medietas sit et esse debeat de et pro membro septem maiorum Artium et Scioperatorum, et alia medietas de et pro membro quactuordecim minorum Artium; et quod in et de dicto Consilio sint decem magnates de et pro quolibet quarterio, ut est moris.

Item, quod in offitiis supradictis observentur deveta inducta per ordinamenta dicti Comunis ad presens vigentia.

Item, quod supradicta distributio — in perpetuum observetur, — et contra non possit fieri, — statui disponi vel reformari per dominos Priores Artium et Vexilliferum iustitie vel alios offitiales seu Collegia aut Consilia opportuna dicti Comunis, sub pena amputationis capitis et publicationis bonorum cuilibet contrafacienti aut proponenti seu consulenti. —

[496]

ALTRA PROVVISIONE DE’ 23 GENNAIO 1381 COME SOPRA.

Supradicti domini Priores etc. deliberaverunt. Quod quam citius fieri poterit, fieri debeat scruptinium omnium et singulorum offitiorum Comunis predicti intrinsecorum et extrinsecorum ac etiam Partis guelfe civitatis predicte, illorum videlicet que sint solita imbursari.

ALTRA DEL 24 GENNAIO.

Prefati domini Priores etc. deliberaverunt. Quod scruptinium offitiorum Prioratus Artium et Vexilliferatus iustitie, et Gonfaloneriorum sotietatum Populi et Duodecim Bonorum virorum fiat per ipsos de Balia dumtaxat, etiam absque aliis arrotis vel adiuntis.

Item, quod ipsi domini Priores et Vexillifer iustitie — possint de et circa sindicatum domini Executoris Ordinamentorum iustitie civitatis Florentie ad presens in offitio existentis, et eius comitive, disponere et providere prout ipsis placuerit. —

Item, audita congregatione Populi Florentini et ipsis relato, quod intendunt et volunt, quod cedule existentes in bursis offitiorum Prioratus et Vexilliferatus iustitie et eorum Collegiorum comburantur, et similiter registra ipsorum offitiorum; quod statim capse in quibus sunt dicte burse et registra apportentur in Palatio supradicto, et subito comburantur predicte cedule et registra; et quod imbursationes ipsorum offitiorum; ad presens vigentes nulle et penitus revocate et casse intelligantur et sint.

Item, quod magnates civitatis et comitatus et districtus Florentie, quo ad Ordinamenta iustitie Comunis predicti et quecumque ordinamenta que pro Ordinamentis iustitie habentur vel appellantur, intelligantur esse et sint repositi et reducti in eo statu gradu et qualitate in quibus erant de mense may anno Domini MCCCLXXVIII; et subiaceant illis Ordinamentis iustitie et aliis dumtaxat que vigebant de dicto mense may. —

Item, quod — magnates habeant in offitiis intrinsecis Comunis predicti, in quibus secundum Ordinamenta dicti Comunis esse debebant de supradicto mense may anno Domini MCCCLXXVIII, has partes videlicet:

In quolibet offitio in quo sint octo populares, sint ultra eos duo magnates.

In quolibet offitio in quo sint populares ab octo infra, sit et esse debeat unus magnas.

In offitio Decem Libertatis, finito offitio presidentium, esse debeant octo populares et duo magnates.

[497]

Item, quod de offitiis Comunis predicti extrinsecis dicti magnates habere debeant decetero istas partes, ipsis continuo tribuendas, videlicet:

Quinque potestarias, quarum duo sint primi gradus, duo secundi et una de tertio gradu; quactuor castellanerias maiores et tres castellanerias minores.

Item, quod in offitiis extrinsecis magnas magnati nullo modo possit esse immediatus subcessor.

Item, quod in eadem terra, castro vel loco, pro dictis offitiis extrinsecis, non possint esse eodem tempore in offitio potestarie et castellanerie duo magnates.

Item, quod in offitiis ipsis magnatibus competentibus serventur, quo etiam ad alia, consueta deveta.

Item, quod — tamburum ordinatum contra magnates sit et stet firmum; et omnia et singula ordinamenta Comunis predicti in effectu disponentia de ipso tamburo seu capsa tamburi et que comuniter et secundum comunem usum loquendi appellatur Il tamburo de’ Grandi, vigeant et observentur, prout vigebant et observari poterant ante presentia ordinamenta.

Item, quod offitia Partis guelfe imbursata ad presens comburantur, scilicet cedule in bursis existentes, prout de offitio Prioratus est superius ordinatum; et quod imbursationes ad presens existentes pro ipsis offitiis nulle sint, nec ex eis aliqua executio seu offitii exercitium sequi possit; et quod mictatur pro capsa et fiat combustionis executio; et demum reformentur et reformari possint prout et sicut deliberabitur per ipsos supradictos habentes baliam generalem et seu duas partes eorum.

Item, quod imbursationes seu cedule imbursate Consiliariorum Mercantie et pro dicto offitio ad presens existentes, et similiter imbursationes et cedule imbursate pro offitiis Consulatuum seu alterius offitii cuiuscumque Artis civitatis predicte, de presenti comburi possint et debeant. — Et quod de novo possint et debeant dicta offitia reformari.

Item, quod omnes et singule imbursationes et cedule imbursate pro offitiis intrinsecis et extrinsecis Comunis predicti, ad presens vigentes, intelligantur esse et sint nulle et annullate, et cedule predicte et eorum registra possint et debeant comburi, et ipsa offitia de novo debeant reformari, prout per ipsos de Balia et seu duas partes eorum fuerit dispositum vel provisum.

Item, quod presentes octo offitiales Custodie civitatis Florentie et seu duo partes eorum possint, pro necessitatibus emergentibus et ut gentibus Compagne resistatur, conducere et ad stipendia dicti Comunis sibi conduci facere usque in quingentos famulos pedestres armigeros seu armis actos et seu inter famulos et balistarios, et ipsis conducendis de stipendiis seu provisionibus facere provideri, — quomodo et pro quo tempore, de pecunia dicti Comunis [498] etiam deputata ad capsam Conducte, ipsis de provisionibus seu stipendiis satisfiat.

Item, quod durante balia et auctoritate concessa predictis habentibus ipsam a Parlamento ut supra dicitur, Octo Custodie possint commictere in eorum collegas voces ipsorum, prout et quemadmodum ipsis placuerit; dum tamen partitis fiendis, vigore balie, sint ex eis presentes saltem quactuor.

Item, quod omne devetum omnisque prohibitio et inhabilitas inducta ordinata seu imposita hominibus et personis de domo casato stirpe vel progenie de Ricciis et Albizis de Florentia vel altera ipsorum ab offitiis dicti Comunis seu Partis guelfe aut civitatis predicte, per quecumque ordinamenta dicti Comunis, aut vigore vel pretextu alicuius provisionis vel reformationis Consiliorum Populi et Comunis predicti, intelligantur esse et sint eis sublata et ab eorum quolibet omnino remota.

Item, quod omnibus et singulis populis comunibus villis universitatibus et singularibus personis debentibus aliquid solvere Comuni Florentie, respectu alicuius temporis retroacti, pro aliquibus impositis prestantiis extimis residuis accattis gabellis factionibus muneribus seu oneribus Comunis Florentie, cuiuscumque generis vel spetiei existant huiusmodi munera seu onera, qui propter cessationem seu tardationem solutionis talium munerum seu onerum, — in penam aliquam hactenus incurrerunt, intelligatur esse et sit prefixus et statutus terminus hinc ad per totum mensem martii proxime sequturi, ad solvendum dumtaxat veram sortem eius quod pro predictis debent, asque aliqua pena. — Et quod omnes et singuli sic debentes et solventes, ut prefertur, in termino antedicto, intelligantur esse et sint ab omnibus et singulis penis, preiudiciis et gravaminibus tam afflictivis quam privativis et quibuslibet aliis in quas seu que — incurrissent, absoluti et plenissime liberati, et adversus ipsa omnia in integrum restituti. Eo tamen addito et proviso, quod, non obstante termino predicto, omnes et singuli debentes ut prefertur, possint, ipso termine etiam durante, cogi et compelli ad solvendum veram sortem predictam. —

Item, pro uniendo et unionem concordiam et pacem conservando inter lanifices Artis lane et alios suppositos et ad dictam Artem reductos; quod deinceps, in perpetuum et continue, Consules dicte Artis lane sint et esse debeant decem numero, videlicet octo lanifices ut est moris, distributi inter conventus dicte Artis, secundum modum hactenus consuetum; et alii duo sint et esse debeant de et pro membris suppositis dicte Arti et ad ipsam Artem de presenti mense reductis. —

[499]

PROVVISIONE DEL 27 FEBBRAIO 1381 COME SOPRA.[576]

Magnifici et potentes viri domini Priores Artium et Vexillifer iustitie Populi et Comunis Florentie, una cum offitiis Gonfaloneriorum sotietatum Populi et Duodecim Bonorum virorum Comunis predicti et Octo Custodie dicti Comunis, et aliis civibus florentinis, quibus die XV presentis mensis februarii fuit, in publico et solemni Parlamento Populi Florentini, plenissima auctoritas potestas atque balia solemniter et legiptime attributa, in sufficienti numero congregati, in palatio Populi Florentini; recepta, audita et intellecta quadam petitione eis et coram eis exhibita et ad intelligentiam lecta, cuius tenor per omnia talis est videlicet:

Per parte de’ buoni pacifici e guelfi cittadini della città di Firenze, per fortificatione de’ guelfi e di Parte guelfa, e per torre via materia di scandalo, e perchè delle cose fatte per adrieto le quali ànno generato e fatto scandalo nella città predetta, non possano resurgere nè più intervenire; e perchè chiaramente si comprenda per ciascuno, che i detti buoni cittadini, nelle cui mani, per la gratia del nostro Signore Iddio, si dee riposare e governare questa città, vogliono bene e con ragione e giustitia e con pace vivere e tenere la città in tranquillità, e che nessuno stia in suspetto o in timore di ricevere iniustitia o torto, nè d’essere contro a dovere opresso o di suo honore privato, ma che ciascuno pacificamente e iustamente abbi suo dovere e sua parte e honore; s’addomanda con riverenza e humiltà a voi, magnifici Signori signori Priori dell’Arti e Gonfaloniere di giustitia del Popolo e Comune di Firenze, che si provegga deliberisi e ordini per voi Signori insieme co’ vostri Collegi e cogli altri della Balìa generale: Che, se prima e inanzi non fia deliberato pe’ signori Priori dell’Arti e Gonfaloniere di giustitia del Popolo e Comune predetto, insieme co’ Gonfalonieri delle compagnie del Popolo e Dodici Buoni huomini del detto Comune e’ Dieci di Libertà della detta città, e ventuno Consoli, cioè uno di ciascuna e per ciascuna Arte della città predetta (i quali Consoli sieno tratti a sorte e fortuna) o almeno per le due parti di tutti i predetti, gli altri etiamdio assenti e non richiesti, fatto e celebrato intra loro lo squittinio a fave nere e bianche, e vinto il partito almeno per le due parti di loro tutti, come detto è, trovati avere rendute le fave nere per sì, di quello o contra quello tale in singularità e nominatamente contro al quale alcuna delle infrascripte cose o atti s’attentasse o volesse fare; [500] alcuno della città, contado o distretto di Firenze non possa essere per inanzi in alcuno tempo, pe’ Capitani della Parte guelfa per sè o insieme con altro ufficio o ufficiali, o per alcuno o alcuni ufficiale o rectore o ufficiali o per alcuna persona, in alcuno modo amunito dichiarato, pronuntiato, decreto, accusato o condannato o confinato o d’alcuno ufficio privato o sospeso o ad alcuno ufficio fatto inhabile o notato o maculato, nominatamente o in genere o sotto insieme con altri, o sotto nome di casato o di suo antico o coniunto, o in alcuno modo o forma diretta o indiretta, per ghibellino o come ghibellino o non vero guelfo, o come sospetto a Parte guelfa o come non confidente alla detta Parte, o come faccitore o operatore contro alla detta Parte o contro a’ guelfi o operatore contro alla detta Parte o contro a’ guelfi, o contro a loro favore, honore o in diminutione o detrimento della Parte o de’ guelfi, o come non zelatore o amatore de’ guelfi o di Parte guelfa o dello stato o bona conservatione o exaltatione de’ guelfi o di Parte guelfa, in tutto o in parte o in singularità; ne alcuna cosa fare in fraude d’alcuna delle predecte cose; sotto pena e a pena di fiorini mille d’oro per ciascuno che contro a ciò facesse o attentasse di fare o facesse fare: e nientemeno, ciò che si facesse in contrario, non fatta prima la detta deliberatione secondo di sopra si dice, non vaglia e non tenga e sia di niuno valore, e al tutto per non fatto s’abbi; e ancora si possa e debba rivocare per ciascuno rettore e ufficiale, etiandio di fatto, sotto la detta pena ancora a ciascuno rettore. E ciascuno di ciò possa essere accusatore in secreto e in palese e [gli] sia tenuto credenza, e sanza alcuna promissione o sodamento o pagamento di gabella.

Questo ancora expresso e dichiarato, che, inanzi che i detti signori Priori e gli altri predetti i quali con loro ànno a fare la detta deliberazione, la faccino o possano fare; quello cotale contra a cui o di cui volessono diliberare in alcuno de’ detti modi, per ghibellino o non vero guelfo o volesse essere accusato, o altro fatto delle cose predette, debba, per parte e commissione dell’ufficio de’ signori Priori e Gonfaloniere di iustizia, essere richiesto inanzi e avere tre dì termine a comparire a dire sua ragione, dinanzi all’uficio de’ detti Signori; e se viene, sia udito; e venendo o no, si metta il partito l’ultimo dì de’ tre dì; e se si vince la deliberatione contro a lui per le due parti come detto è di sopra, allora, fra tre dì proximi sequenti, possa tale essere amonito e contra a lui tanto, in ogni altra forma si possa procedere, secondo gli ordini della Parte o del detto Comune che dell’amonitioni o accuse de’ ghibellini parlano.

E che ciascuno rettore e officiale possa e debba condannare ciascuna persona che facesse contro alle predette o infrascritte cose o alcuna di quelle, sommariamente e di fatto, non obstante privilegio di Priorato o altro qualunche, e non obstante corso di tempo.

[501]

E che alcuna provisione riformagione petizione o proposta, la quale contenesse in alcuno modo di provedere ordinare disporre o fare o di potere fare o venire in alcuna forma contro alle predette cose ad alcuna di quelle, o d’annullare cassare o inritare in tutto in parte le predette cose o alcuna d’esse, o di prendere balìa o autoritate generale o speziale sopra a ciò, per alcuna forma diretta o indiretta, o di fare o di potere fare alcuna fraude o machinatione o fittione in ciò o sopra ciò, non si possa proporre nè mettere a partito in alcuno Consiglio del Popolo o del Comune di Firenze, sotto pena di fiorini mille d’oro e di privazione perpetua d’ogni officio a ciascuno che la proponesse o mettesse a partito in alcuno de’ detti Consigli e per ciascuna volta; e nondimeno ciò che si facesse in contrario non vaglia e non tenga e sia di niuno valore, se prima tale provisione, riformagione, petitione o proposta non fosse diliberata e vinta tra i signori Priori dell’Arti e Gonfaloniere della giustitia del Popolo e Comune di Firenze, Gonfalonieri di compagnia del Popolo e Dodici Buoni uomini del Comune predetto, per tutti loro trentasette, messo il partito a fave nere e bianche e trovati avere renduto le fave del sì, nessuno discordante. E ancora non si intenda essa provisione — valere, — se non sarà vinta — ne’ detti Consigli, messo il partito — e vinto — almeno per le quattro parti delle cinque parti di tutti i consiglieri del Consiglio e degli Arroti del Consiglio, cioè coloro che nel Consiglio possono rendere fave, trovatosi, publicato il partito, almeno delle cinque parti di tutto il numero, che è il Consiglio cogli Arroti, avere rendute le fave nere del sì. E che in ciascuna autorità e balìa generale la quale si concedesse, le predette cose di sopra scripte s’intendano essere e sieno sempre excepte e riservate, se altrimenti non fossono specificate et expresse nominatamente.

E che sopra alcuna tale provisione, riformagione, petizione o proposta non si possa ricogliere il partito pel Collegio nè ne’ Consigli o alcuno d’essi a pancate o quartieri o in altro modo separatamente, ma insieme e mistamente come comunamente s’oserva, sotto la detta pena di fiorini mille d’oro e di privatione d’ufici a chi contro a ciò facesse o facesse fare, e per ciascuna volta.

Questo ancora dichiarato e proveduto, che le predette cose s’intendano essere e sieno in augmento della riformagione si fece nel mille trecento settanta otto, del mese di luglio, approvata nel Consiglio del Comune e del Podestà di Firenze, a’ dì diece del detto mese di luglio, e comincia: «A onore e stato e reverenza de’ magnifici signori ec.»

Et super ipsa Petitione et contentis in ea — providerunt ordinaverunt et deliberaverunt. Quod ipsa suprascripta Petitio et omnia et singula in ea contenta et que suprascripta sunt admictantur procedant firmentur et fiant.

[502]

PROVVISIONE DEL 15 MARZO 1381 DALL’INCARNAZIONE, APPROVATA NEGLI OPPORTUNI CONSIGLI A’ DÌ DETTO E A’ DÌ 16.

Vobis magnificis et reverendis dominis dominis Prioribus Artium et Vexillifero iustitie Populi et Comunis Florentie humiliter exponitur pro parte Capitaneorum vestre Partis guelforum civitatis et Provincie Florentie: Quod ipsa Pars guelforum est in magno debito pecunie, maxime pro conductione balisteriorum per presentes Capitaneos facta, pro eos mietendo et quos predicti Capitanei miserunt in favorem Comunis et Populi Florentini, in felici exercitu Comunis Florentie facto de mense ianuarii proxime preterito contra pravam et magnam Sotietatem Ytalicorum tunc venientium cum banderiis elevatis per comitatum Florentie et contra ipsum Comune, derobando et violando dictum comitatum et comitatinos dicte civitatis. Et presentialiter incumbit ipsis Capitaneis, pretextu occasione et vigore ordinamentorum Comunis Florentie, factorum de mense februarii proxime preterito, reformare dictam Partem de Capitaneis et Collegiis dicte Partis, et facere novum scruptinium de Capitaneis et Prioribus pecunie et Secretariis Credentie dicte Partis. Et cum dicta Pars guelforum non habeat nunc pecuniam, sed sit in debito ut supra dictum est; et predicti presentes Capitanei velint exequi et facere debite dictam provisionem et reformationem dicti scruptinii; et ob id mutuo acquisiverunt seu acquirere vel acquiri facere intendant florenos quadringentos auri, videlicet florenos ducentos quinquaginta auri a domino Antonio domini Nicolai de Albertis et florenos centum quinquaginta auri a domino Benedicto Nerozzi de Albertis predictis, pro faciendo expensas dicti scruptinii; et volentes mutuantibus restitui mutuum supradictum: supplicatur Dominationi vestre, pro parte dictorum Capitaneorum, quatenus dignemini et velitis opportune providere et facere solempniter et legiptime reformari. Quod camerarius dicte Partis guelfe qui pro tempore fuerit, de mensibus augusti et septembris proxime futuris, de pecunia dicte Partis, tunc ad eius manus perventa et pervenienda quacumque de causa, possit teneatur et debeat, sub pena librarum mille f. p. et Comuni Florentie applicanda, per totum dictum mensem septembris, dare solvere et restituere dictis domino Antonio de Albertis et domino Benedicto dictos florenos quadringentos auri. — Et quod Capitanei dicte Partis qui presidebunt in offitio Capitaneatus dicte Partis, de dictis mensibus augusti et septembris proxime futuris, teneantur et debeant, sub pena librarum mille f. p., pro quolibet eorum et Comuni Florentie applicanda, vendere granum et bladum et [503] recollectam bonorum dicte Partis, recolligendam et fiendam de mensibus iulii et augusti proxime futuris, saltim infra vigesimam diem dicti mensis septembris, pro quam maiori pretio poterint, dummodo vendere non obmictant; et pretium facere deveniri et pervenire ad camerarium tunc dicte Partis pro dicta Parte recipientem, ad hoc ut possit solvere et restituere — dictos florenos quadringentos auri. — Et quod predicti presentes Capitanei et due partes eorum, una cum dictis Prioribus pecunie et Secretariis Credentie dicte Partis possint deliberare stantiare et expendere omnem et omnes quantitates pecunie que ipsis videbitur expedire pro dicto scruptinio fiendo. —

Item, cum ordinatum fuerit per Comune Florentie, de mense februarii proxime preterito, quod scruptinium offitii Capitaneorum, Priorum pecunie et Secretariorum Credentie Partis guelforum retineretur per presentes Notarium reformationum Populi et Comunis Florentie et Cancellarium dicti Comunis vel saltim unum ex eis; et dicti Notarius reformationum et Cancellarius sint impediti et occupati in arduis negotiis dicti Comunis, adeo quod esse vel interesse non possunt nec potuerunt ad recipiendum scruptinium dictorum offitiorum Partis guelforum; et predicti presentes Capitanei incurrant penam, si ante finem eorum offitii non fiat extractio novorum Capitaneorum et aliorum offitialium dicte Partis; ideo ut evitentur dicte pene, et ne occupentur offitiales dicti Comunis maxime in necessitatibus, et non obmictantur scruptinia predicta: supplicatur Dominationi vestre, — quatenus dignemini opportune providere et facere solempniter reformari. Quod dicta scruptinia offitiorum dicte Partis fienda, que iam incepta sunt per presentes Capitaneos, possint recipi et retineri per presentem Vicecancellarium dicte Partis et Notarium dicte Partis, prout recipere debebant predicti Notarius reformationum et Cancellarius Comunis Florentie. Et postea, completo dicto scruptinio predicti Vicecancellarius et Notarius Partis teneantur et debeant illico dare et tradere registra dicti scruptinii sigillata predictis Notario reformationum et Cancellario Comunis Florentie, ut de ipsis fiant et fieri possint ea que debent, secundum ordinamenta et provisiones Comunis Florentie.

Item, quia imbursatio dictorum offitiorum Partis non poterit, pluribus causis, ita cito fieri nec durante offitio presentium Capitaneorum poterit esse facta: quod offitium et tempus offitii presentium Capitaneorum dicte Partis intelligatur esse et sit prorogatum, et durare hinc ad per totum presentem mensem martii; et similiter intelligatur et sit prorogatum et durare tempus offitii presentis Camerarii dicte Partis. Et quod sufficiat quod presentes Capitanei faciant fieri facere extractionem aliorum Capitaneorum ante finem offitii presentium Capitaneorum, saltim per unam diem.

Super qua quidem Petitione domini Priores et Vexillifer — deliberaverunt, [504] die quinto decimo mensis martii anno Domini millesimo trecentesimo octuagesimo primo, indictione quinta. Quod dicta Petitio et omnia et singula in ea contenta procedant admictantur firmentur et fiant. —

Nº III. (Vedi pag. 75.)

PARLAMENTO GENERALE DEL 19 OTTOBRE 1393.

Magnifici et potentes domini, domini Priores Artium et Vexillifer iustitie Populi et Comunis Florentie, cum summa diligentia cogitantes, qualiter, de presenti mense octobris, deducto ad notitiam tam ipsorum quam etiam offitii Octo offitialium Custodie civitatis Florentie, quod quidam tractatus ordinabatur et fiebat contra presentem statum et regimen civitatis predicte; et quod, facta inquisitione de hoc quod dicebatur, iam fuerant capti et detenti aliqui, qui de huiusmodi tractatu conscii dicebantur, et iam de aliquibus ex eis examinationes facte erant, maxime per dominum Potestatem civitatis Florentie et eius Curiam, presentibus etiam aliquando ipsis examinationibus, pro maiori diligentia et cautela, certis de Gonfaloneriis sotietatum Populi et certis de officio XII Bonorum virorum Comunis predicti, et aliquibus de dicto officio Octo custodie; et quod, tam ex relationibus ipsorum quam ex relationibus dictis Dominis factis per dictum dominum Potestatem et eius collateralem, prout habebatur ex confessionibus detentorum, de dicto tractatu, per aliquos per ipsos detentos nominatos, certus ordo datus erat contra statum et regimen supradictum; et quia super his tam gravibus et periculosis, pluries, diebus proxime elapsis, per dictos dominos Priores et Vexilliferum cum eorum Collegiis et cum multis aliis civibus florentinis bonis et gravibus, plura Consilia retenta fuerunt, in quibus maxime per collateralem dicti domini Potestatis relate fuerunt confessiones predictorum detentorum super dicto tractatu ad intelligentiam adstantium; et quod ob predicta, iam per civitatem et in ore populi divulgata, fere tota civitas erat commota, et iam per multos, etiam cum armis, in principio preterite noctis, certi tumultus facti fuerant in civitate predicta; et dicentes Domini antedicti, quod, nisi cito provideatur de remedio opportuno, maxima pericula imminent et status presens subverti posset, in maximum damnum et detrimentum bonorum civium et maxime guelforum dicte civitatis et totius Reipublice [505] Florentine; et volentes de festina reparatione et opportuno remedio providere, prout maxime a multis et multis asseruerunt sibi fuisse consultum; et dicentes se comprehendere tam ex predictis, tam gravibus periculosis quam ex aliis de quibus dicebant varias informationes et relationes habere, expedire multa et grandia disponere et ordinare (que dicebant commode et prout expediebat exequi non valere, sine plenaria libera totali et absoluta potestate auctoritate et balía quam habet Populus Florentinus, et nisi pro hac causa convocetur totus populus civitatis Florentie ad Parlamentum et ad adunationem generalem): et ideo volentes ad executionem procedere, prehabita ad invicem deliberatione solemni principaliter inter ipsos dominos Priores et Vexilliferum iustitie, et subsequenter etiam cum nobili milite domino Nicolao de Corbonischis de Exculo tunc potestate civitatis Florentie ibidem presente et intelligente, — pro bono Reypublice et pro bono et pacifico statu civitatis Florentie et pro augmento exaltatione et conservatione liberi pacifici et guelfi status civitatis predicte et guelforum ipsius civitatis, et ut scandala tollantur et omnia pericula evitentur, et per Dey gratiam civitas, iam in tumultu et commotione existens, in pace et quiete reponatur et solidetur, — providerunt ordinaverunt et deliberaverunt: Quod hodie et de presenti, ad sonum campane maioris Palatii Populi Florentini, et etiam ad vocem preconis, convocetur Populus Florentinus ad Parlamentum et ad adunantiam generalem super Plateam et iuxta locum aringherie Palatii supradicti; et ibidem fiat Parlamentum et aclametur et interrogetur Populus qui ibidem convenerit et extiterit congregatus super infrascriptis. —

Et primo et ante omnia, quod omnes et singole leges et quecumque ordinamenta, — que infrascripta in dicto Parlamento et adunantia proponenda et firmanda quomodolibet impedirent, — sint — sublate et sublata et seu subspensa et subspense. —

Item, secundo, firmatis predictis, quod mox et sine temporis intervallo, de novo proponatur firmetur statuatur et ordinetur in dicto Parlamento et adunantia, quod concedatur detur et atribuatur dominis Prioribus et Vexillifero et Gonfaloneriis sotietatum populi et Duodecim Bonis viris Comunis predicti et Capitaneis Partis guelfe et Otto Custodie et Sex Consiliariis Mercantie civitatis Florentie ad presens in officio existentibus, et aliis civibus quorum nomina in fine dicti Parlamenti et adunantie scripta erunt et nominabuntur et duabus partibus omnium predictorum, totalis integra plena libera et absoluta auctoritas potestas et balia, nullis condictionibus subdita aut legibus limitata, et quam et prout babet totus Populus et Comune Florentie et tota Universitas dicti Populi et Comunis civitatis Florentie. Que auctoritas potestas et balia duret et durare debeat per totum presentem mensem octobris. —

Item, quod omnes et singuli de domo et stirpe ac progenie de [506] Albertis de Florentia et ipsorum et cuiusque eorum filii et descendentes in perpetuum, per lineam maschulinam, tam nati quam nascituri, exceptis filiis et descendentibus per lineam maschulinam olim domini Nicolay Iacopi de Albertis predictis, et quilibet ipsorum, intelligantur esse et sint in perpetuum et omni tempore magnates et de magnatibus civitatis Florentie, — et quod in antea sint subiecti omnibus legibus et ordinamentis vigentibus et que de magnatibus loquerentur tam editis quam edendis, prout ad presens sunt alii magnates civitatis predicte.

Postque incontinenti, convocato — toto populo civitatis Florentie ad generale Parlamentum et ad adunantiam, — in Platea existente iuxta Palatium et ad locum aringherie, ad sonum maioris campane Palatii supradicti et etiam ad voces et proclamationes preconum dicti Comunis; — et propterea super Platea predicta ad dictum Parlamentum et adunantiam coram dicto domino Potestate et coram dictis dominis Prioribus et Vexillifero et eorum Collegiis, extra dictum Palatium et super dicta arengheria sedentibus, congregata magna copia hominum populi Florentini, et indicto silentio, pluries et pluries omnibus adstantibus, per unum ex preconibus dicti populi ut est moris, primo et ante omnia interrogata fuit multitudo ibidem adsistens, alta voce, per me Vivianum notarium infrascriptum, de mandato dictorum dominorum Priorum et Vexilliferi et dicti domini Potestatis, an ipsi forent due partes et ultra populi civitatis Florentie; ad quam interrogationem ab omnibus ibidem adsistentibus, nemine contrarium asserente, prout potuit commode audiri, responsum fuit sì sì, hoc est ita ita, ullo clamore aliter in contrarium per nos notarios infrascriptos non audito.

Postque, pronuntiata etiam et recitata per me Vivianum infrascriptum, alta voce, prout clarius fieri potuit, de mandato predicto, prima proposita que incipit. — Quod omnes et singule leges etc.; — et interrogato dicto populo et dicta adunantia, an vellet omnia que et prout in dicta proposita continentur ordinare, deliberare et disponere; — omnes uno clamore et prout in similibus consuevit et comprehendi potuit responderunt SÌ SÌ, hoc est ita ita. Et successive, sine ullo intervallo dicta et recitata alta voce per me Vivianum notarium predictum secunda proposita suprascripta, continente de concedendo et dando auctoritatem potestatem et baliam generalem; — et etiam successive recitata — tertia proposita, continente — quod omnes et singuli de domo, stirpe et progenie de Albertis de Florentia etc.; et aclamato et interrogato dicto populo, an vellet providere ordinare disponere deliberare et firmare predictas duas propositas; — responsum fuit, — iteratis vocibus ac clamoribus, nullo per nos notarios in contrarium audito, sì sì sì, hoc est ita ita ita. —

Acta fuerunt predicta in civitate Florentie, super arengheria et Platea iuxta Palatium residentie dictorum dominorum Priorum et [507] Vexilliferi iustitie; presentibus Bartolomeo ser Iacobi de Burgo Colline, Matteo Iannis de Puppio et Taddeo magistri Francisci de Civitate Castelli, et aliis multis testibus ad predicta vocatis adhibitis et rogatis. (Seguono i nomi dei componenti la Balía.)

PROVVISIONI DELLA BALÌA, CREATA NEL SUDDETTO PARLAMENTO, DE’ 20 OTTOBRE 1393.

In Dey nomine, amen. Existentibus nobilibus et potentibus viris (seguono i nomi); — ipsi domini Priores et Vexillifer et alii predicti, omnes simul, — deliberaverunt, die vigesimo mensis ottobris. —

In primis, quod electio hactenus facta per sindicos Comunis Florentie de nobili viro Matteo de Tincherariis de Bononia in Executorem Ordinamentorum iustitie civitatis Florentie, de qua electione dicitur quod fieri non potuit, — ex eo quia ipse Matheus non est de loco distanti a civitate Florentie per octuaginta miliaria et seu de loco non confinante cum comitatu et districtu Florentie; intelligatur valuisse et tenuisse, et valeat et teneat. —

Item, omni et quocumque deveto et prohibitione cessante, nobilis et egregius miles dominus Franciscus de Gabriellibus de Eugubio, intelligatur esse et sit, vigore presentis deliberationis, etiam absque alia solemnitate vel substantialitate interveniente, electus et solemniter adsumptus et deputatus in Capitaneum et pro Capitaneo Custodie, Balíe et Populi civitatis Florentie eiusque comitatus et districtus, pro tempore sex mensium initiandorum die quo iuraverit persona sua in presentia officii dominorum Priorum Artium et Vexilliferi iustitie Populi et Comunis Florentie, etiam si presenti die iuramentum prestaret. Et sufficiat quod tale iuramentum fiat in Palatio Populi Florentini residentie dictorum dominorum Priorum et Vexilliferi iustitie, nec alibi requiratur prestatio iuramenti predicti. Et etiam, si ipse solus absque ulla comitiva vel aliis iuraverit, incipiat offitium suum et incipere intelligatur et duret sex mensibus ut prefertur proxime sequuturis, dicto die iuramenti inchoandis; nec teneatur aliqualiter prevenire pro officio supradicto. Et ex eo quod, ante initium officii, non prevenerit cum officialibus et comitiva sua, nichil de suo salario minuatur.

Item, dictus dominus Franciscus teneatur et debeat secum habere et tenere, pro dicto offitio exercendo, quindecim equos armigeros; unum collateralem legum doctorem, de cuius doctoratu fides fiat per instrumentum publicum camerariis Camere dicti Comunis; unum iudicem iuristam; tres milites sotios eodem panno indutos; quinque bonos et ydoneos notarios; otto domicellos sive scuderios bene munitos et in armis expertos; duos trombettinos: [508] quorum quidem notariorum unum cum uno famulo et duobus equis idem Capitaneus, suis expensis, destinare tenetur per comitatum et districtum Florentie, ad consignandum potestates, vicarios et alios officiales ac stipendiarios pedextres in dicto comitatu et districtu existentes.

Item, famulos octuaginta bene armatos et in armis expertos, Inter quos sint quatuor conestabiles, quatuor ragazini et duo tamburini; quorum omnium ad minus viginti sint balistarii cum bonis balistis. Qui quidem iudices, milites sotii, notarii, trombettini, conestabiles, famuli, ragazini et tamburini vel aliquis eorum se nullo modo absentare possint extra civitatem et districtum Florentie, tempore officii vel sindicatus eorum vel etiam ante per XV dies; ac omnes esse forenses et bone conditionis et vere guelfi, et qui non sint de civitatibus comunitatibus vel districtibus Assisii vel Firmi; nec esse possint qui consortes sint vel coniuncti per lineam masculinam alicuius forensis qui olim tempore Actenarum Ducis fuerit vel se gesserit in aliquo offitio in civitate comitatu vel districtu Florentie; nec etiam possint esse de aliqua terra vel loco in quo florentini cives prohibeantur eligi vel adsummi ad officium aliquod, aut de civitate vel loco cum comitatu vel districtu Florentie confinante; excepta dumtaxat civitate Bononie, de qua possit dictus Capitaneus summere offitiales et familiam pro libito voluntatis. Hoc expresse proviso et ordinato (attenta maxime brevitate temporis infra quod expedit habere Capitaneum supradictum), quod dictus Capitaneus possit adsummere et secum in dicto officio retinere quoscumque pro suis officialibus predictis et pro dicta sua comitiva, etiam quodcumque aliud devetum seu prohibitionem habentes, preterquam de his de quibus superius continetur. —

Item debeat prefatus Capitaneus, in festo Nativitatis Domini Nostri Yhesu Christi proxime secuturo, offerre seu offerri facere ad altare Sancti Iohannis Baptiste unum palium de serico, valoris ad minus librarum quindecim f. p.; et donare gratis atque concedere, infra tres menses introytus sui regiminis, unam de robis ac vestibus suis, pro honore sui, honorabilem et decentem, tubatoribus Comunis Florentie, foderatam de vario; et multa alia facere teneatur et debeat que in statutis et ordinamentis dicti Comunis latius continentur: que quidem roba debeat esse valoris ad minus viginti florenorum auri.

Pro quibus omnibus et singulis habeat et habere debeat, pro prefati remuneratione servitii ac pro suis officialibus, famulis et equis suis, salario ac expensis, a Comune Florentie et a camerariis Camere Comunis eiusdem, in totum, libras novem milia quingentas f. p., eidem solvendas, pro rata dumtaxat dicti semextris quo serviverit et non ultra, hoc modo videlicet: tertiam quidem partem habebit infra tres dies a die sui iuramenti prestandi, aliam tertiam partem infra octavam diem tertii mensis dicti sui offitii; reliquam [509] vero tertiam partem habebit demum, post sui temporis sindicatum, et solutis condemnationibus quas de eo fieri contigerit vel de aliquo suo offitiale vel familia. — De qua quidem quantitate nicchilominus detrahi debeant — denarios duodecim f. p., pro qualibet libra, pro gabella et nomine diricture, et nichilominus, de tote salario confessionem integram facere teneatur et debeat, — Hoc etiam posito et expresso, quod pro cartis, libris et atramento eidem pro dicto suo offitio pro se et sua curia opportunis, nichil petere possit vel debeat habere, sed omnia de suo proprio solvere teneatur et debeat.

Et insuper, quod dictus Capitaneus habeat etiam quolibet mense, in remunerationem, pro notario, equis et sotiis, qui ibunt ad consignandum, libras quinquaginta, cum dicta tamen retentione. — Et quod camerarii Camere dicti Comunis teneantur et debeant, de pecunia deputata ad capsam Conducte stipendiariorum dicti Comunis, solvere salaria supradicta ut superius continetur. Hoc etiam declarato, quod quarta pars quantitatum predictarum solvi debet ad rationem librarum trium et soldorum decem f. p. pro quolibet floreno. —

Habeat etiam dictus dominus Capitaneus habitationem pro se et sua familia, dictis sex mensibus dumtaxat, convenientem atque decentem, et domum et habitationem vacuam et expeditam.

Et quod habeat etiam a nostro Comune, pro se et omni sua comitiva predicta, frumentum necessarium atque ordeum, predictis suis officialibus, familia et equis, pro tempore sui regiminis, preventus et sindicatus, videlicet unum sestarium grani et dimidium pro quolibet hominum ipsorum et quolibet mense, et unum quartum seu quartam partem sestarii ordey pro quolibet equo seu ronzeno et qualibet die, et pro pretio florenorum otto pro modio grani et florenorum quatuor pro modio ordey, ad mensuram florentinam. —

Item, quod dictus dominus, Capitaneus teneatur et debeat continue in civitate Florentie stare et suum officium exercere, et circa custodiam civitatis predicte et eius comitatus et districtus et manutentionem et conservationem pacifici et guelfi status ipsius civitatis diligenter intendere et sollicite vigilare, et alia facere que alias sunt commissa Capitaneo Custodie dicte civitatis. —

Item, quod ipse dominus Francischus Capitaneus predictus, personaliter, cum eius offitialibus et familia, stare debeat, finito suo offitio, ad sindicatum, sex diebus continuis a die iuramenti coram eius sindicis prestiti numerandis, etiam sub custodia, secundum formam statutorum et ordinamentorum dicti Comunis; et solvere omnem condemnationem quomodolibet per sindicum vel sindicos faciendam de se vel suis offitialibus vel famulis. —

Hoc tamen proviso, quod ipse dominus Capitaneus et eius offitiales et familia inquiri et sindicari possint et debeant solummodo [510] de furtis, baratteriis et debitis contractis per eos, tempore offitii suprascripti. —

Item, quod iuret et promictat, quod ipse aut aliquis de suis offitialibus vel familia non petet nec recipiet contra Comune Florentie aut singulares personas ipsius aliquam represaliam, ocasione sindicatus, vel aliqua quacumque causa vel ocasione.

Item, quod non teneatur facere reformari in civitate Eugubii vel alibi, quod non concedatur represalia contra Comune Florentie vel eius singulares personas seu earum res vel bona. —

Item, quod non possit secum ducere vel quomodolibet retinere in Palatio sue habitationis vel extra, in civitate comitatu vel districtu Florentie, aliquem suum filium legittimum et naturalem vel spureum aut fratrem germanum sive fratrem patruelem vel amitinum vel cuginum sive consobrinum ex maschulino vel feminino latere sibi coniunctum, aut nepotem ex filio vel filia, fratre vel sorore, etiam si in numero vel extra numerum dictorum suorum offitialium et familie; sub pena librarum mille f. p.

Item, quod non possit nec debeat aliqualiter procedere vel quoque modo se intromictere contra aliquem vel aliquos ad presens captos et detentos penes dominum Potestatem, Capitaneum vel Executorem civitatis Florentie, pro aliquibus commissis vel aliqualiter perpetratis per ipsos — hactenus contra statum seu regimen civitatis Florentie, et seu pro aliquo vel ocasione alicuius tractatus contra dictum statum per dictos detentos vel aliquem ipsorum facti vel attentati.

Item, quod Octo Custodie civitatis Florentie possint et debeant de habitatione dicti domini Capitanei et sue familie providere et disponere, etiam expensis dicti Comunis, prout et sicut viderint expedire.

Item, quod domini Priores Artium et Vexillifer iustitie Populi et Comunis Florentie qui in offitio presidebunt de mense ianuarii et februarii proxime secuturi, una cum offitiis Gonfaloneriorum sotietatum Populi et Duodecim Bonorum virorum dicti Comunis et Octo Custodie civitatis Florentie, — possint — de Capitaneo Balie et Custodie et Populi civitatis comitatus et districtus Florentie providere et disponere, et eligere et deputare, deveto aliquo aut prohibitione aliqua non obstante, unum virum forensem guelfum et confidentem quem voluerint, pro tempore sex mensium initiandorum finito tempore electionis supradicti domini Francisci; et seu, si voluerint prorogare offitium supradicti domini Francisci de Gabriellibus pro tempore sex mensium, — ipsum, pro dictis sex mensibus, de novo eligere et deputare ad offitium antedictum. —

Item, quod, computatis lanceis conductis et ad presens existentibus ad stipendium dicti Comunis, domini Priores Artium et Vexillifer iustitie — debeant, hinc ad per totum mensem novembris proxime secuturi, — conducere — ad stipendium et provisionem [511] dicti Comunis usque in trecentas lanceas; intelligendo quamlibet lanceam more consueto, pro eo tempore quo voluerint, non excedendo tempus unius anni. — Et insuper debeant, infra dictum tempus, conducere — usque in trecentos inter balistarios et pavesarios, computatis in dicto numero familiis et balistariis ad presens ad stipendium dicti Comunis existentibus; ita quod curent in effectu, quod eodem tempore non sint ad stipendia dicti Comunis ultra trecentos inter famulos et balistarios. — Eo etiam declarato, quod curent et ordinent, quod ad minus tertia pars dicti numeri trecentorum sit de balistariis Ianuensibus seu de Riparia, guelfis et confidentibus. Et possint conduci — pro tempore sex mensium pro quolibet. —

Item, quod domini Priores Artium et Vexillifer iustitie, tam presentes quam qui pro tempore fuerint, una cum offitiis Gonfaloneriorum sotietatum Populi et Duodecim Bonorum virorum et Capitaneorum Partis Guelfe et Otto Custodie et Sex Consiliariorum Mercantie et Universitatis mercatorum dicte civitatis, et cum viginti uno ex Consulibus Artium, assumendis semel et pluries et quotiens expedierit, per viam electionis, per offitium dominorum Priorum et Vexilliferi iustitie tunc existentium, secundum distributionem membrorum, videlicet sedecim de membro septem maiorum Artium et quinque de membro quatuordecim minorum Artium et de diversis Artibus ipsarum minorum — (declarato tamen quod de qualibet Arte maiore sint ad minus duo in dicto numero sedecim Consulum); — possint — eligere et deputare — decem — ad officium Decem balie Populi et Comunis Florentie, et quod officium I Dieci de la balìa est solitum appellari, — pro pro illo tempore pro quo voluerint, non excedendo tamen tempus unius anni pro qualibet vice, et eligendo dictum numerum Decem, secundum distributionem membrorum ultima vice solitam observari, videlicet septem maiorum Artium et Scioperatorum, duos de Artibus minoribus et unum de magnatibus dicte civitatis. —

Item, quod — possint, semel et pluries et quotienscumque, pro dicto Comune, conducere — ad stipendium et provisionem et seu ad stipendium tantum vel ad provisionem tantum, usque in illum numerum et seu numeros stipendiariorum et seu provisionatorum, caporalium et capitaneorum et tam equestrium quam pedestrium et balistariorum, de quo et quibus et quos et quotiens crediderint expedire, et pro illo tempore et temporibus, et de illis gentibus etiam civibus subditis aut forensibus et undecumque essent, et cum illis stipendiis — de quibus — ordinaverint. —

Item, quod tempus offitii presentium offitialium Otto Custodie civitatis Florentie prorogetur — usque ad per totam diem quintam decimam mensis novembris proxime secuturi, illis quatuor ex dictis Otto quorum offitium durat hinc ad per totam diem octavam dicti mensis novembris; et hinc ad per totum dictum mensem novembris [512] aliis quatuor ex eis quorum offitium durat hinc ad per totam diem vigesimam ipsius mensis novembris.

Item, quod Otto offitiales Custodie civitatis Florentie eligantur pro duabus vicibus proxime secuturis, pro qualibet vice, pro sex mensibus. Et quod domini Priores Artium et Vexillifer iustitie Populi et Comunis Florentie, una cum officiis Gonfaloneriorum sotietatum Populi et Duodecim Bonorum virorum dicti Comunis, — possint et debeant — de civibus florentinis popularibus et guelfis eligere simul vel divisim otto quos voluerint ad dictum offitium Otto Custodie, pro tempore sex mensium initiandorum his temporibus videlicet: Quatuor ex eis de membro septem maiorum Artium et Scioperatorum offitium incipiat die sextodecimo mensis novembris proxime secuturi; et aliorum quatuor, quorum duo sint de membro quatuordecim minorum Artium, offitium incipiat die primo mensis decembris proxime secuturi. Et quod dicta electio fiat hinc ad per totam diem quintam decimam dicti mensis novembris. Et quod demum, circa finem offitii predictorum, — possint et debeant — eligere et deputare Otto quos voluerint; quorum quatuor — offitium, sex mensibus duraturum, incipiat die sextodecimo mensis mai proxime futuri, et aliorum quatuor — incipiat die primo mensis iunii proxime futuri. Et quod in locum cuiuscumque quoquo modo vacantis ab offitio supradicto possit alius de eodem quarterio et membro, per eamdem viam et modum per quem et quam remotus electus fuit, eligi et subrogari in offitio supradicto.

Item, quod deinceps domini Priores Artium et Vexillifer iustitie, una cum offitio Otto Custodie, — possint, pro expensis occurrentibus et expedientibus in dicto offitio Otto Custodie, expendere et stantiare et dari et solvi facere, pro quolibet mense, — florenos quinquaginta auri. — Hoc expresso, quod, vigore predictorum, nichil solvi possit aut debeat, nisi solummodo de pecunia que ad dictos camerarios perveniet — pro appuntaturis et defectibus stipendiariorum dicti Comunis, et non de aliis, nisi in quantum de aliis caperetur pro predictis, in locum talis predicte pecunie in aliud prius expense. Et quod finitis dictis duobus offitiis Otto Custodie, que durabunt per annum, ex tunc offitium Otto Custodie duret duobus mensibus pro vice, ut hactenus consuevit.

Item, quod provisio edita de mensibus iulii et augusti proxime preteritis, firmata in Consilio domini Potestatis et Comunis predicti, die secundo ipsius mensis augusti, que in effectu disponit de deveto Otto custodie, — intelligatur esse et sit in totum revocata cassa et annullata, et devetum dicti offitii et eius offitialium remaneat prout erat ante dictam provisionem, et non aliter nec maius. —

Item, quod, non obstantibus quibuscumque provisionibus hactenus factis, — offitia Capitaneatus Partis guelforum civitatis Florentie, et Secretariorum et Priorum dicte Partis, et Notariatus et [513] Cancellerii et Scribani dicte Partis et quecumque offitia ipsius Partis, quocumque vocabulo nuncupentur, deinceps, omni tempore possint et debeant scruttinari et reformari et de ipsis et pro ipsis imbursationes fieri solummodo in palatio et domibus dicte Partis et seu ubi per Capitaneos, per se vel cum aliis habentibus auctoritatem que vigebat ante mensem may anno Domini millesimo trecentesimo septuagesimo octavo, deliberatum seu ordinatum fuerit. —

Hoc declarato, quod in dicto vel cum dicto offitio Capitaneatus seu pro dicta Parte non sit nec deputetur aut fiat Gonfalonerius Partis, sed omnes de offitio Capitaneorum appellentur et sint Capitaney.

Et quod ad dicta scrutinea et imbursationes facienda et faciendas de offitiis supradictis non addantur nec in illis misceantur vel mictantur de cetero illi qui obtinuerint pro offitio Prioratus et Vexilliferatus iustitie et eorum notarii, pro [ut] hactenus consuevit, per ordinamenta hactenus facta; et ordinamenta circa hanc partem disponentia intelligantur et sint revocata.

Et quod dicta offitia Capitaneatus — remaneant et sint de cetero omni tempore in illis numeris et cum illis distributionibus cuiuscumque membri in quibus et prout ad presens sunt, tam pro membro maiorum Artium et Scioperatorum quam pro membro quatuordecim minorum Artium quam etiam pro membro magnatum; et sic extrahantur et deputentur.

Et quod supradicta offitia, — tam pro supradictis scrutineis et imbursationibus et extractionibus ipsorum, quam in expendendo de pecunia dicte Partis, quam etiam in vendendo locando concedendo et administrando bona mobilia et inmobilia dicte Partis, — quam etiam in aliis preheminentiis et honorantiis dicte Partis et in aliis quibuscumque, salvis predictis et infrascriptis, habeant illam auctoritatem, potestatem et baliam quam habebant ante dictum mensem mai anno Domini MCCCLXXVIII, per ordinamenta tunc de dicto mense vigentia. — Cum hoc salvo, quod in aliquo non sit derogatum ordinamentis editis in dicto anno MCCCLXXVIII de mense iunii, in illis partibus dumtaxat ipsorum ordinamentorum, que continent et seu disponunt de non monendo declarando vel deliberando, accusando inquirendo condemnando aut aliqualiter faciendo vel fieri faciendo aliquem pro ghibellino seu non vere guelfo aut Parti guelfe suspecto. — Nec etiam derogatum intelligatur esse vel sit provisioni et reformationi edite de mense iulii anno Domini MCCCLXXVIII firmate in Consilio domini Potestatis et Comunis predicti die decimo ipsius mensis iulii, et est in vulgari sermone et incipit Ad honore stato e reverenza, — in illis partibus in quibus in ipsa disponitur, quod aliquis vel aliqui non possint nisi in certis formis moneri. — Nec derogatum intelligatur esse vel sit ordinamento facto et edito de mense februarii anno Domini millesimo [514] trecentesimo octuagesimo primo — super firmatione et stabilitate cuiusdam petitionis in vulgari sermone scripte, — cuius petitionis tenor incipit Per parte di buoni pacifici et guelfi cittadini. —

Item, quod omnes et singule imbursationes ad presens vigentes de offitiis dicte Partis intelligantur esse et sint ex nunc casse et annullate. — Et quod tam imbursationes quam registra comburi debeant et penitus aboleri.

Item, quod presentes Capitanei dicte Partis guelforum, una cum dominis Prioribus Artium et Vexilliferi iustitie, et cum Collegiis dicte Partis et cum presentibus Sex Consiliariis Mercantie et Universitatis mercatorum, et cum arrotis et adiunctis, ultra officia presentis generalis Balie, et aliis civibus et aliis magnatibus et artificibus eligendis ut infra dicetur, possint et debeant facere scruttinia de offitiis Capitaneorum et Collegiorum dicte Partis et de omnibus aliis offitiis Partis predicte, illis modis de quibus — per eos deliberatum fuerit. —

Item, quod dicti presentes Capitanei possint et debeant de magnatibus guelfis eligere et deputare pro predictis scruttineis in eo numero seu numeris de quibus eis videbitur et prout in similibus esse consuevit.

Item, quod dicti Capitanei possint et debeant de civibus florentinis popularibus et guelfis eligere et addere, pro predictis in tribus quarteriis videlicet Sancti Spiritus, Sancte Marie et Sancti Iohannis, tot quot dicti arroti presentis Balie generalis, pro dictis negotiis dicte Partis, sint in numero equali cum arrotis quarterii Sancte Crucis.

Item, — possint et debeant eligere et deputare, pro dictis scrutiniis, ultra dictum numerum arrotorum, de artificibus guelfis quatuordecim minorum Artium illos de quibus eis videbitur, et tot quot ad predicta scrutinia sint, secundum ratam et portionem ipsis contingentem.

ALTRE PROVVISIONI DELLA BALÌA, COME SOPRA, DE’ 21 OTTOBRE.

In primis, quod imbursationes, hactenus anno Domini millesimo trecentesimo octuagesimo quinto facte, de scruttinio in dicto anno celebrato, pro offitiis Prioratus Artium et Vexilliferi iustitie et Gonfaloneriorum sotietatum Populi et Duodecim Bonorum virorum Comunis Florentie et Notariatus dicti offitii Prioratus (quod scruttinium appellatur Il secondo scruttinio), intelligantur esse et sint, ex nunc et decetero, casse revocate et annullate. — Et quod tam burse quam registra dicti scrutinii comburantur et anichillentur, ita quod omnia ipsius monumenta penitus evanescant.

[515]

Item, quod tertium scrutinium celebratum pro offitiis in precedenti capitulo memoratis, de anno Domini MCCCLXXXXI, appelletur decetero secundum scrutinium.

Item, quod aliquis qui extractus fuisset hactenus de aliqua ex supradictis bursis secundi scrutinii, que supra revocate sunt, ad aliquod ex dictis offitiis, — et ipsum offitium exercuisset et obtinuisset et imbursatus esset in bursis dicti tertii scrutinii, non possit, pro dicto tertio scrutinio vel eius bursis habere vel exercere illud idem offitium de predictis, ad quod hactenus fuisset extractus de aliqua ex dictis bursis secundi scrutinii et ipsum exercuisset. Et quod, quandocumque ad ipsum tale offitium extraheretur de dictis bursis dicti tertii scrutinii, eius extractio sit inanis, et cedula sui nominis possit et debeat laniari et reyci. Eo etiam declarato, quod si aliquis fuisset hactenus extractus ex aliqua ex dictis bursis secundi scrutinii pro Vexillifero iustitie, et ipsum offitium exercuisset, et in bursis pro tertio scruptinio esset imbursatus pro Priore et non pro Vexillifero iustitie, idem etiam intelligatur, videlicet, quod si extraheretur pro Priore ex bursis dicti tertii scrutinii, eius extractio sit inanis et cedula debeat laniari et reyci.

Item, quod deinceps, in quolibet offitio Prioratus Artium sint et esse debeant tres de Borsellino, sane intelligendo, videlicet, in quolibet quarterio ex tribus aliis, detracto quarterio pro quo et in quo tunc erit Vexillifer iustitie unus de Bursellino; et sic fiant extractiones et deputationes pro qualibet vice.

Item, quod revideantur et explorentur diligenter burse vigentes pro scrutinio primo, videlicet celebrato anno Domini MCCCLXXXI, pro offitiis Prioratus Artium et Vexilliferatus iustitie, per copulatores alias eligendos. Et si revidentibus et perquirentibus videretur, quod aliqui pro Prioribus imbursati in dictis bursis, mererentur esse Vexilliferi iustitie; possint — inde extrahere et mictere in bursis Vexilliferi iustitie, in eodem quarterio. — Eo tamen declarato, quod hoc fiat in quolibet quarterio; nec plures modo predicto mictantur pro Vexilliferis in uno quarterio quam in alio. Nec possint pro Vexilliferis micti secundum dictum modum ultra duos pro quolibet quarterio. Et declarato etiam et proviso, quod, propter additionem predictam, imbursatio Vexilliferi iustitie nullo modo impediatur, nec aliquod impedimentum exinde resultet aut fiat alicui qui de necessitate, alio non dato, deberet esse Vexillifer iustitie in aliquo officio, in quatuor vicibus proxime sequentibus, vel aliqua ipsarum, hinc ad per totum mensem mai proxime sequuturi: sed quod, quilibet imbursatus ad presens pro Vexillifero qui dicta additione non facta deberet esse Vexillifer iustitie in aliquo ex dictis quatuor offitiis proxime sequentibus, sit et esse debeat Vexillifer ac si dicta additio facta non foret.

Item, quod videantur et perquirantur burse hactenus facte et [516] vigentes pro Vexillifero iustitie tertii scrutinii supradicti, quod nunc, secundum predicta remanet secundum; et quod illi ibidem descripti seu imbursati, de quibus videretur dictis videntibus et perquirentibus, quod non essent ydoney vel confidentes pro Vexilliferis, possint et debeant per eos inde extrahi et micti et poni in bursis eiusdem quarterii pro officio Prioratus ordinatis: et de imbursatis pro eodem quarterio pro officio Prioratus, de illis videlicet qui predictis videntibus ydoney et confidentes appareant seu esse credantur, fiant per eos, loco talium inde extractorum, Vexilliferi iustitie, et in bursis Vexilliferatus ponantur prout eis videbitur.

Item, quod videantur et indagentur bursellini utriusque scrutinii, videlicet primi, de quo nunc extrahitur pro officiis antedictis, et secundi quod tertium erat; et de illis de quibus videntibus indagantibus appareret seu videretur, secundum eorum iudicium, quod non essent ydoney vel confidentes pro Borsellino, quod antea per ipsos extrahantur, et ponantur et mictantur in aliis bursis eiusdem quarterii pro offitio Prioratus. Et alii simpliciter pro officio Prioratus imbursati possint in bursis pro Borsellino ordinatis micti et poni, prout dictis perquirentibus videbitur et placebit.

Item, quod fiat quam citius fieri poterit unum scrutinium pro officio Prioratus Artium et Vexilliferatus iustitie et Gonfaloneriorum sotietatum Populi et Duodecim Bonorum virorum; et dictum scruttinium fiat illis modo forma et ordine et per illos de quibus et prout et sicut deliberatum fuerit per dominos Priores et Vexilliferum iustitie et eorum Collegia et alia officia et cives de Balia generali ad presens vigenti. Hoc declarato, — quod omnes et singuli illi qui obtinebunt in isto novo scrutinio, possint et debeant imbursari in quocumque ex dictis duobus scrutiniis remanentibus in quo non obtinuissent, et habeantur pro tempore futuro ac si quilibet talis fuisset et esset pro ipsis et in ipsis imbursatus.

Item, quod pro dicto novo scruttinio habeantur et sint quatuor copulatores more solito, de quibus unus sit de membro quatuordecim minorum Artium; et predicti copulatores eligantur et deputentur per istos dominos Priores et alios de Balia presenti; et quod, ultra predictos sit et esse debeat copulator presens Vexillifer iustitie, scilicet nobilis miles dominus Masus Luce de Albizis.

Item, quod scrutinium pro dictis offitiis Prioratus Vexilliferatus et eorum Collegiorum, quod debebat fieri ordinarie pro prima vice futura, videlicet anno Domini MCCCLXXXXVI, non fiat nec fieri debeat cum dictum novum scrutinium sit et esse debeat loco predicti, quod prima vice ordinarie fieri deberet.

Item, quod aliquis qui in celebratione et seu dum fient, quandocumque et quotienscumque decetero, elapso mense decembris proxime futuri, scrutinia et seu scrutinium alicuius ex infrascriptis offitiis, poterit in ipso scrutinio vocem seu fabam reddere, pretextu alicuius offitii vel aliter quoquo modo, sane intelligendo; non [517] possit poni vel micti ad partitum vel scrutinari ullo modo, et quicquid contra fieret non valeat. — Sed de ipsis talibus scrutinatoribus — fiat omni vice postea scrutinium, ut inferius disponetur. (Segue una nota dei suddetti uffici). Et quod scrutinatores talium offitiorum — scrutinentur, finitis offitiis omnibus ipsorum scrutinatorum, — inter offitia dominorum Priorum Artium et Vexilliferi iustitie et Gonfaloneriorum sotietatum Populi et Duodecim Bonorum virorum, et Capitaneorum Partis Guelfe (populares in scrutinio popularium, et in scrutinio magnatum etiam magnates, secundum ordinamenta) et Sex Consiliariorum Mercantie. — Et quod omnes et singuli ex predictis scrutinatoribus qui — obtinuerint per duas partes presentium (ita tamen quod sint presentes due partes totius numeri) intelligantur legittime obtinuisse, et possint et debeant imbursari in bursis ordinatis pro quocumque tali scrutinio precedente, in quo ipsi fuissent scrutinatores et seu in quo fabam vel vocem reddere potuissent.

Item, quod pro offitio Prioratus Artium et Vexilliferatus iustitie, pro duobus mensibus proxime futuris, initiandis die primo mensis novembris, fiat et fieri debeat una pallocta et seu una scripta continens nomina et prenomina ipsorum dominorum Priorum et Vexilliferi iustitie; et quod illi quorum nomina in dicta pallocta et seu scripta contenta et seu scripta reperientur, sint ad dictum offitium legittime et solemniter deputati. Et dicta nomina asummantur de existentibus in bursis primi scrutinii Prioratus et Vexilliferatus vigentibus, de illis qui devetum non habeant, et sint in numero consueto, et observata vigente distributione membrorum. Et quod Vexillifer iustitie sit et esse debeat in quarterio et pro quarterio Sancti Spiritus, prout esse debet secundum ordinem consuetum; et in ipso quarterio sint et esse debeant duo artifices de membro quatuordecim minorum Artium; et quod aliquis qui sic deputabitur ad offitium supradictum non possit esse iterum ad ipsum offitium pro dictis bursis vigentibus; sed inde cedule ipsorum predictorum extrahantur et extrahi debeant.

Et quod dicta pallocta seu scripta fiat — per illos de quibus et prout deliberatum fuerit per dictos dominos Priores et Vexilliferum iustitie et alios supradictos de Balia.

Hoc etiam proviso et declarato, quod alieni qui necessario deberet esse Prior vel Vexillifer iustitie de ipsis mensibus novembris et decembris nullum preiudicium generetur vel fiat, sed in predictorum numero in dicta pallocta et scripta ponatur et adsummatur. Et quod pars alterius deliberationis facte supra presenti die, continens in effectu, quod propter additionem de qua ibidem fit mentio, aliquis qui, alio non dato, deberet esse Vexillifer iustitie, in aliqua vice ex quatuor vicibus futuris, non impediretur esse, intelligatur esse et sit, quo ad tres vices post primam predictam pro qua pallocta est ordinata, revocata et annullata.

[518]

Item, quod omnes et singule imbursationes hactenus facte et ad presens vigentes de officiis extrinsecis civitatis Florentie, et que pro Comuni Florentie extra ipsam civitatem sunt solita exerceri, intelligantur esse et sint deinceps casse irrite et annullate; et quod ex ipsis nulla extractio fieri possit; et quicquid contra fieret sit et esse intelligatur irritum et inane. Et quod pro dictis offitiis fiant de novo scrutinia et imbursationes, prout et sicut deliberatum fuerit per dictos dominos Priores et Vexilliferum iustitie et alios de presenti generali Balia vel duas partes ipsorum. Et quod tam imbursationes quam registra predictorum scrutiniorum et imbursationum comburantur et anichilentur, ita quod etiam in se ipsis penitus sint deleta.

Item, quod Gonfalonerii sotietatum Populi et Duodecim Boni viri Comunis predicti ad presens in officio existentes, possint, simul et seu divisim, — interesse ad celebrandum scrutinia Partis guelfe, facienda tempore offitii presentium Capitaneorum dicte Partis. — Et quod cum ipsis Gonfaloneriis et Duodecim et sine eis possint dicta scrutinia celebrari et fieri; ita quod, esse vel non esse ad faciendum dicta scrutinia, in ipsorum Gonfaloneriorum et Duodecim voluntate et arbitrio sit remissum. —

Nº IV. (Vedi pag. 117.)

Abbiamo qui sotto scelti alcuni documenti i quali a noi sembrano dare evidenza alle cose discorse nel testo. Vi è un salvocondotto a Gino Capponi del 1402, e dopo la presa di Pisa una lettera della Signoria circa il fare Cavalieri i Commissari e i Capitani: poi una ve n’è quanto al tenere vuota Pisa di gente e scarsa di derrata; e a Gino Capponi un rimprovero molto acerbo per l’usare che egli faceva verso i Pisani troppo benignamente; e una Istruzione perchè a Firenze fossero condotti fino a centotto cittadini di Pisa e alcuni con le famiglie loro; seguono alla lettera i nomi di centotto Pisani, pochi dei quali di chiare famiglie, i più mercanti e massimamente delle arti più ricche. Diamo per ultimo una rigida ingiunzione per impedire e gastigare [519] le brutte violenze usate dai soldati già molti mesi dopo alla caduta di Pisa. Tutti questi documenti vengono dal Carteggio della Signoria che si conserva nell’Archivio di Stato di Firenze.

Universis et singulis.

Diamo per tenore delle presenti licentia et libera facultà al nobile huomo Gino di Neri Capponi d’andare, come et quando fia di suo piacere, in qualunque luogo di nimici del nostro Comune, et a parlare chon qualunque di loro, chon quella chonpagnia vorrà seco menare. Comandando per tenore delle presenti che, per cagione di questa andata, nè a lui nè a chui menasse seco, per tempo alcuno, possa essere imputato alcuna cosa; imperò che elli va di nostra saputa et consentimento e sappiamo ciò ch’elli va per fare. Sì che niuno a questo s’opponga per alcuna cagione. E per fede di questo abbiamo fatto fare queste patenti lettere sugellate de nostri sugelli. Data Florentie, die XXV octobris, XI Ind., MCCCC secundo.

Bartholomeo de Corbinellis Gino de Caponibus et Bernardo de Cavalcantibus, de officio Decem balie Comunis Florentie. Et Matheo de Castellanis et Iacobo de Gianfigliazis, Commissariis Comunis Florentie in campo contra Pisas.

Carissimi nostri. Noi abbiamo veduto quanto fedelmente e solicitamente voi vi sete afaticati perchè la città di Pisa vengha nelle mani del nostro Comune. E perciò vorremo che alcuno segnio nel cospetto di ciascheduno n’aparisse. Il perchè vi piaccia essere et stare contenti farvi nel nome di Dio Cavalieri, nella presa che di Pisa si farà. La qual cosa sarà a noi e a questo popolo grande piacere, e a voi e alle vostre famiglie honore e perpetua fama. E perchè questo abbia effecto, scriviamo al magnifico Cavaliere messer Luca dal Fiesco, nostro capitano generale di guerra, che, in nome del Gonfaloniere della iustitia della nostra città per lo popolo di Firenze, vi debbia promuovere alla degnità della Cavallaria. Et la lettera vi mandiamo con questa. E di poi, si farà qua verso le vostre persone quello che si richiede e conviene. Avisandovi che noi non vogliamo che alcuno altro nostro cittadino si faccia Cavaliere, sanza nostra expressa licentia. E a questo provedete per modo che ’l nostro scrivere abbia effecto. Data Florentie, die VIII octobris MCCCCVI.

Bartolomeo de Corbinellis et Gino de Caponibus.

Noi non v’abbiamo scripto perchè abbiamo lasciata la graveza di ciò a’ Dieci della Balía. Hora abbiendo sentito degli inconvenienti [520] che sono costà, ci è necessità lo scrivervi. E questo è, che noi abbiamo udito che in Pisa è rimasa poca gente della nostra da cavallo e da piede e singularmente da cavallo, la quale voi avete mandata a pigliare le castella. Oltre a ciò sentiamo che in Pisa è tornata molta gente di cittadini, di quelli che non v’erano quando voi v’entrasti, e che molti contadini vi sono venuti e tutto dì vi vengono, e che v’è entrato e entra molta vituaglia. Di che, considerati i pericoli che potrebbono seguitare, vogliamo e comandianvi che la gente d’arme, la quale voi, poi che entrasti in Pisa, mandasti fuori a pigliare le castella, che sanza indugio la facciate tornare dentro in Pisa. E le roche e’ casseri delle castella fornite di fanti a sofficientia; e delle castella non ci pare per ora da dubitarne, tegnendo bene la città. E quando questa gente d’arme è dentro, che voi siate forti, fate di mandarne fuori di Pisa chi v’è dentro tornato poi che voi v’entrasti. E oltre a ciò de’ cittadini che vi sono da più, mandatecene qua una brigata quelli che paiono a voi che sete in sul fatto. E dopo a questo mandate uno bando che ciascuno Pisano o habitante in Pisa, a pena dell’avere e della persona, debbia, infra quelle parecchi hore che voi porrete di termine, avere portata ogni arme da offendere e da difendere in quello luogo che vi pare, mettendolo nel bando nominatamente, e quella arme mettete in luogo salvo; e poi fate cercare a ciascuno le case, et torne quanta n’avessono, e punire rigidamente chi non avesse apresentata l’arme, passato il termine del bando. E provedete che victuaglia non v’entri se non dì per dì, che sentiamo molta ve ne abonda. Et date modo che de’ contadini non v’entrino in quantità o in modo che pericolo alcuno ne potesse seguire. E queste cose fate solicitamente e con buono modo, che tutto lasciamo sopra le vostre spalle, tanto che di qua si provegga. E fate bene e diligentemente guardare e alle porte e in ogni altro luogo ove bisogna, sì che della città di Pisa vi rendiate bene sicuri. Ancora abbiamo sentito, che de’ nostri soldati insieme con alcuni Pisani e sanza, ànno tolte delle cose e traportate d’una casa in altra, et etiandio tolte per loro; la qual cosa ci dispiace infino a l’anima. E pertanto fate riducere queste cose ne’ primi luoghi dove s’erano, e provedete per modo che i soldati non faccino ruberie o villanie a persona. E chi il contrario facesse, fate punire per modo che sia exemplo a ciascuno di non errare. Data Florentie, die XIII octobris MCCCCVI, a hore XXIII ½.

Duplicata die XVI octobris MCCCCVI, hora XVII.

Abbiamo sentito che certe lecta, panni e altre cose e arnesi di Piero Gaietani e di monna Giovanna sua sirocchia e della Maria et Iva sue nipoti, le quali cose erano nel monasterio di santo Mazeo in Pisa, poi che ’l nostro Comune prese la città predetta, certi de’ Gambacorti le tolsono e transportarono dove piacque loro. Il perchè voliamo [521] che, se voi trovate che le dette cose sieno state tolte, da poi che voi entrasti nella città di Pisa, che voi le facciate tutte sequestrare, a petitione del detto Piero e tenerle salvamente. Data Florentie ut supra, die XVI octobris, hora XVII.

Gino de Caponibus Capitaneo Pisarum.

Noi t’abbiamo scripte più lettere, del mandar qua de’ cittadini Pisani che fussino huomini di capo e d’avere seguito, e apti a scandalo novità: e ultimamente mandasti una scripta di centotrè o circa, de’ quali ne sono venuti pochi più che i mezi, come per gli Dieci della Balìa è stato scripto costà, e mandati i nomi di chi mancha. E veggiamo che tu curi pocho del nostro scrivere e poco conto ne fai, chè non ci ài voluti mandare quegli huomini che sono la sicurtà del nostro Comune a cavargli di Pisa e fargli venire qua; anzi ài fatto a tuo modo, o per preghiere o per amicitia o per che cagione si sia. Et àci mandato uno campanaio, che tu medesimo scrivi che egli si stava in quello di Lucha a fare campane. E pertanto noi ti comandiamo, sotto pena della nostra gratia, che veduta questa lettera, tu ci mandi quelli che mancano del numero de’ predetti. Et oltre a ciò, ci manda quelli cinquanta, i quali ti debbono avere dati scripti i dieci Proveditori di Pisa. E ancora ci manda circa XXV altri Pisani, i nomi de’ quali ti mandiamo in questa lettera interchiusi. Et oltre a questi, se in Pisa à altri huomini che habbino seguito e sieno capi da fare ragunate o novità, mandacegli qua, e sieno quanti si vogliono. E a tutti fa’ comandamento che in brevissimo termine sieno innanzi a noi, a pena dell’avere e della persona. E se tu non vorrai obedire, come ài fatto infino a qui, noi terremo di modi che ti dispiaceranno, e manderemo costà persone che ci ubidiranno. E d’una cosa ti certifichiamo, che i nostri cittadini non sono disposti a volere tenere tanto exercito in Pisa, da cavallo e da piede, quanto forse tu ti dài a intendere; anzi vogliamo limitare la spesa e trarre di cittadini di Pisa tanti, e fargli stare qua che noi ne possiamo vivere securi. Sì che, apriti bene gli hurecchi, e fa’ quello che ti scriviamo, altrimente non te ne loderai. E rispondici a quello che ti scriviamo e con lettere e con fatti. Dat. Florentie, die XXIII novembris MCCCCVI hora XXIII.

Gino de Capponibus Capitaneo Pisarum.

Dilettissimo nostro. Colle presenti ti mandiamo una scritta suggellata, nella quale sono scripti cierti Pisani in numero CVIII, e quali pe’ nostri precessori, e pe’ Collegi e altri uffici che anno balìa de’ fatti di Pisa, è stato solennemente diliberato che debbino star qua a Firenze a’ confini; tra quali, come per essa scripta comprenderai, certi sono che oltre all’avere eglino a stare qua a’ confini, ci ànno [522] ancora a conducere tutta la loro famiglia. E per volere noi dare executione alla sopra detta deliberatione, e acciò che detti Pisani non caggino nella infrascripta grave pena; vogliamo e comandianti, che prestamente tu comandi a ciaschuno Pisano, e quali nella detta scritta nominatamente si contengono, che per tutto el presente mese di marzo, debbono essere qua, e quelli ch’ànno a menare le famiglie secondo la forma della detta scritta, fra ’l detto termine ce la debbono avere condotta. Notificando a ciaschuno de’ detti Pisani, come pur quelli della Balìa di Pisa è stato deliberato, che qualunche non si rapresenterà come di sopra si dice, per tutto el presente mese, e chi ci à a conducere le famiglie e non ce l’avesse condotte al detto termine, s’intendono essere e sono condannati nell’avere e nella persona, e così contra loro e ne’ loro beni si procederebbe. E se alcuno di quegli che nella detta scritta si contengono fussi absente e in luogo non troppo longincho, come nel contado di Pisa o a Luccha o a Siena o a Bolognia o a Gienova o ne’ contadi d’alcuno de’ detti luoghi; vogliamo che, preso ch’arai la informatione dove sieno, che prima questo facci alle loro chase significare o a’ loro più proximi coniuncti, e poi pe’ messi della corte o per altri e quali sopra ciò diputassi, personalmente e per iscriptura faccia loro el comandamento che sotto la detta pena qua debbano essere al termine predetto. E se avessi informatione che alcuno della detta scripta fussi qui a Firenze, non obstante questo, vogliamo che alle case loro e a quegli che sono loro più coniuncti facci fare simile comandamento. E se alcuno de’ Priori che sono al presente in ufficio si contenesse nella detta scripta, a loro notifica che, fra otto dì dal dì ch’aranno diposto l’ufficio, si debbano qua rapresentare sotto la detta pena dell’avere e della persona. Tu vedi che questa è materia che à bisognio di diligentia, e che tosto vi sia data executione, considerato la pena grave nella quale eglino incorrono non ubidiendo. Oltra ciò fa’ che di tutte le notificationi e richieste le quali a’ predetti farai, e de’ raporti d’esse notificationi e richieste, ne facci fare negli atti della tua corte autentica scriptura; la copia della quale poi ci manderai, però che non vogliamo ch’alcuno si possa schusare non ubidendo, con pretendere ignorantia e non gli essere stato notificato. Avisandoli, che quando qua vengono, s’ànno a rapresentare dinanzi al nostro Podestà di Firenze.

Quello si dice de’ Priori di Pisa, che notifichi loro come fra gli otto dì dal dì che diporranno l’ufficio; non vogliamo che faccia questa notificatione o che in alcuno modo ne parli, se non quando diporranno l’ufficio: prima non ci pare honesto.[577]

[523]

Gino de Capponibus.

Noi non ti potremo, Gino, scrivere in quanta displicentia e turbatione ci sia stato il caso, il quale abbiamo sentito costà ne’ dì passati essere corso, cioè di quella fanciulla la quale pare che di casa di Nicholaio Aragonesi fussi tolta per certi soldati, non sappia’ però chi si sia stato. Oltracciò abbiamo sentito, che per te assai è stata martoriata e con aqua e con colla la detta fanciulla, vogliendo tu ritrovare chi fussi stato quello o quegli che avessi commesso cosa tanto abominevole vituperosa e trista. E più pare, secondo che abbiamo informatione da persona degna di fede, che oltre al villano caso, che avvenne l’altrieri di quella fanciulla de’ Lanfranchi che fu guasta, essere state poste schale per intrare a honeste donne e bennate. Questi casi quanto e’ sieno abominabili, di quanta infamia alla nostra città e quanto pericolosi, non che tu, Gino, ma qualunque rozzo facilemente il può giudicare. E sai che nel mondo niuna displicentia e iniuria si può fare a chi è huomo, nè adducerlo in maggiore displicentia che vedersi sforzare le donne loro, e l’onestà d’esse (chè sai quanto è cara cosa) contaminare e vituperare. Quanti stati e reggimenti per questo siano stati soversi, quanti morti e guerre di ciò sieno seguite ne’ tempi passati e ne’ moderni, a te può essere noto, conciosiacosa che, da poi che ’l mondo principiò, rare sobversioni di reggimenti siano stati, che da simile materia non abbino avuto principio. Ma pure, pognendo che in questo niuno pericolo fossi, la cosa in sè è tanto villana e tanto trista e di tanta infamia sono a chi à el governo, che in nessuno modo sono da patire sanza grave punitione. E veggiamo chiaramente, Gino, che ogni dì averranno simili inconvenienti e quali un dì potrebbono generare grande schandalo, se in questo principio non ci si piglia tale forma, che nessuno ardisca a comettere cose sì scellerate. E però vogliamo e a te strettissimamente comandiamo, che in questo fatto tu proceda in forma e modo che per tutti si cognoscha e vega, in quanto dispiacere e odio siano a noi queste abominabili cose, e sia tale esempro e terrore a qualunche che nessuno ardischa più di commettere cose tanto scellerate. E se intorno acciò, perchè quanto ti scriviamo abbia luogo, bisognasse che per la nostra Signoria si facessi alcuno provedimento, prestamente per messo proprio ce ne rendi avisati. La fanciulla la quale sentiamo che anchora ài in prigione vogliamo ti sia raccomandata; però che sai, le fanciulle essere semplice e non cognoscere gli uomini co’ quali non praticano: et ecci stato amiratione, che lei abbi posto alla tortura, benchè pensiamo non l’abbi fatto sanza grande cagione. Data Florentie, die XX mensis iunii MCCCC septimo, Ind. XV.

[524]

Nº V. (Vedi pag. 146.)

ORDINE DEGLI UFFICI DELLA REPUBBLICA DI FIRENZE.

L’ordine della città è diviso principalmente in quattro parti, o chiamansi Quartieri, e ’l primo è il Quartiere di Santo Spirito, e ’l secondo, quello di Santa Croce, e ’l terzo quello di Santa Maria Novella, e ’l quarto quello di San Giovanni. Ciascuno Quartiere è diviso per quattro Gonfaloni, che sono in tutto sedici, e ogni Gonfalone ha suo segno, non bisogna nominargli. Appresso v’è l’ordine delle Arti, che sono partite in ventuna, i nomi delle quali è buono a sapere per molte cose, che hanno a seguire, a meglio intenderle. La prima è l’Arte de’ Giudici, e Notai, e questa ha un Proconsolo sopra’ suoi Consoli, e reggesi con grande autorità, e puossi dire essere il ceppo della ragione di tutta la Notarìa, che si esercita per tutta la Cristianità, e indi sono stati i gran Maestri, e autori, e componitori d’essa. La fonte de’ dottori delle leggi è Bologna, e la fonte de’ dottori della Notarìa è Firenze.

Appresso è l’Arte de’ Mercatanti, che trafficano in grosso fuori di Firenze, che niun’altra città ne potrebbe de’ suoi tanti annoverare, quanti sono il numero di quegli.

La terza è l’Arte de’ Cambiatori, che si può dire, che l’Arte del cambiare per tutto il mondo sia quasi tutta nelle mani de’ Fiorentini, perchè per tutte le buone città di mercatanzìe tengono fattori a fare cambi.

La quarta è l’Arte della Lana, e più panni, e più fini fanno fare in Firenze, che in alcuno altro luogo, e i suoi Maestri sono grandi, e buoni onorati cittadini, e sanno fare.

La quinta è l’Arte della Seta, e li drappi d’oro, e di seta, e degli orafi, delle quali Arti si lavora nobilmente, e massime dei drappi.

La sesta è l’Arte degli Speziali, e de’ Medici, e Merciai, ed è grande Arte in numero di persone.

La settima è quella de’ Vaiai, e Pellicciai, e infino a qui si chiamano le sette Arti maggiori.

Poi sono le quattordici, che si chiamano Arti minori, ciascuna è distinta, e ordinata, secondo sua faccenda, Linaiuoli, e Rigattieri insieme, Calzolai, Fabbri, Pizzicagnoli, Macellari, che si chiamano Beccai, Vinattieri, Albergatori, Coreggiai, Quoiai, Corazzai, Chiavaiuoli, Maestri di murare, Maestri di legname, e Fornai.

I Signori si chiamano Priori dell’Arti, e Gonfaloniere di Giustizia del Popolo e Comune di Firenze, e sono otto Priori, cioè due [525] di ciascuno Quartiere, e un Gonfaloniere di Giustizia, che ogni volta muta Quartiere per ordine, sicchè ogni Quartiere ha la sua volta il Gonfaloniere di Giustizia, e tutti sono scelti uomini, e più vantaggiati, e provati, e quegli quasi ha essere il capo di tutti i Priori, e ha andare innanzi, e non può essere alcun Gonfaloniere di questi, che non abbia compiuto il tempo di quarantacinque anni, e la mattina, che entra in uficio, gli è dato in mano il Gonfalone della Giustizia, che è la croce vermiglia nel campo bianco in un gran Gonfalone di drappo, il quale tiene in camera sua, e quando bisognasse aoperarlo, e salisse con esso a cavallo, tutto il popolo lo debba seguire, e andargli dreto, e ubbidirlo.

E’ Priori sono otto, de’ quali sei hanno a essere dell’Arti maggiori, e duo delle quattordici Arti minori, e di questo uficio non possono essere insieme due consorti, nè parenti per linea masculina, nè da indi a un anno; e chi è di detto ufficio, non può essere altra volta, se non passati tre anni dal dì finisce tale uficio.

E ’l primo uficio comincia in Calen di gennaio, e dura due mesi, e così poi l’altro in Calen di marzo, e seguita per tutto l’anno, sicchè in un anno si mutano sei volte; e la mattina quando entrano in uficio, si fa festa per tutta la città colle botteghe serrate, e tutto il popolo va alla piazza per fare compagnia a quegli, che escono dell’uficio passato, e tornano a casa, ciascuno co’ suoi più prossimi vicini, o amici, o parenti, e quegli, che hanno fornito l’uficio de’ due mesi, lasciano l’uficio a’ nuovi, che entrano, e hannogli prima due dì informati di tutte le cose, che hanno tra le mani.

Questi due mesi stanno sempre in Palagio fermi, e in Palagio mangiano, e dormono, e ogni dì stanno a collegio a sedere a udire, e diterminare il bisogno del Comune, e hanno tra loro per ordine uno di loro sempre Proposto, e tocca a ciascuno la sua volta per sorta, e dura tre dì, e tutti gli altri hanno in que’ tre dì a seguire il Proposto, e va innanzi allato al Gonfaloniere, e quello, che è Proposto, è signore di proporre, e mettere a partito fra loro ciò, che a lui pare, e sanza lui que’ tre dì non si può fare alcuna cosa.

Le loro deliberazioni si fanno segrete con fave nere e bianche, e hanno un frate segretario, che riceve in uno bossolo le dette fave; ciascuno glie ne dà in mano una segretamente, e coperta, e il frate la riceve, e mette nel bossolo. Le nere dicono sì, e le bianche dicono no, a volere essere vinto, e deliberato, e’ si conviene che sieno le due parti nere.

Ciascuno ha la sua camera nel Palagio fatta per ordine, e per Quartiere, e quella del Gonfaloniere è in capo di tutte, e ciascuno ha al suo servigio un donzello, che lo governa in camera di ciò fa bisogno, e simile lo serve alla mensa di tagliare, e di ciò fa bisogno, e sono nove donzelli orrevoli, e costumati, e stanno fermi in Palagio, e così ciascuno ha due serventi da mandare in qua, e ’n là, dove fusse bisogno, e al servigio di tutto l’uficio sono [526] cento famigli, che per ordine vanno vestiti di verde, e portano certi segni di Comune, i quali hanno a fare compagnia innanzi, e dietro a’ detti Signori, quando vanno fuori, e hanno a andare per gli cittadini quando i Signori gli vogliono, e questi cento famigli hanno un Capitano forestiero, che si chiama Capitano de’ fanti, il quale è sopra tutti, e hagli a tenere in ordine, e correggere, ed è molto onorato.

E sono di tanta preminenza questi famigli de’ Signori, che quando un di loro fusse dato per compagnia a uno, che avesse bando della persona, o debito, non è alcuno rettore, nè uficiale, nè cittadino, che per la vita sua dicesse, o facesse nulla contro a quel tale, e ’l detto famiglio si concede per partito, e diliberazione de’ detti Signori.

Alla mensa de’ Signori non siede alcun altro, che loro e ’l loro notaio, e’ Signori forestieri, o Ambasciadori di Signori, o di Comuni quando, gli volessono fare onore, o alcuna volta per festa i rettori, e certi uficiali cittadini.

E la mensa de’ detti Signori, si dice, che è sì bene apparecchiata, e riccamente ornata, e pulitamente servita, quanto mensa d’alcun’altra Signoria, e per ordine; e come sono diputati ogni mese alla loro mensa fiorini trecento d’oro, tengono pifferi, e sonatori, e buffoni, e giocolari, e tutte cose da sollazzo, e da magnificenza, ma poco tempo vi mettono, che di presente sono chiamati dal Proposto, e posti a sedere per attendere a’ bisogni del Comune, che sempre abbonda loro faccenda, e mai non vi manca che fare.

Hanno appresso di loro un Notaio, che sta due mesi in Palagio come loro, e alla loro mensa, il quale non ha a fare altro, se non a scrivere le loro deliberazioni.

Hanno un altro Notaio fermo in perpetuo, aiuta quando fa bisogno, e ’l quale tiene i libri delle leggi, e ordini del Comune, e ha a scrivere, e a tenere conto di tutte le informagioni che si fanno per li Signori, e Collegi con loro Consigli.

Hanno uno Cancelliere, che sempre ne sta fermo in Palagio; i quali hanno a scrivere tutte le lettere, e pistole, che si mandano a’ principi del mondo, e a qualunque signoria, e privata persona per parte del Comune, i quali sono sempre poeti, e di grande scienza.

Tutti costoro hanno bisogno di tenere sotto loro molti, che scrivano, e facciano quelle cose, che sono ordinate loro.

L’uficio, e balìa, e autorità, e potenza de’ detti Signori è grande senza misura; ciò che vogliono, possono, mentre che dura il loro uficio, ma non aoperano questa potenzia, se non in certi casi necessari, e stremi, e di rado; anzi seguitano secondo gli ordini fatti per lo Comune, e non possono essere dopo l’uficio compiuto sindacati, nè corretti d’alcuna cosa, che fatta avessono, se non per [527] baratterìa, o simonìa, e questo ha a conoscere uno uficiale, e rettore forestiere, che si chiama Esecutore degli ordini, e quando non ci è, succede in suo luogo, il Podestà di Firenze.

Poi è l’uficio de’ sedici Gonfalonieri delle compagnie e comincia adì otto di gennaio, e dura per quattro mesi, sicchè in un anno si mutano tre ufici; questi hanno sempre a ogni richiesta de’ Signori, che è quasi ogni dì essere a’ loro piedi a consigliare come fanno i cardinali, e ’l Papa, e la mattina, che entrano, si fa festa a botteghe serrate, e stanno i Signori in sulla ringhiera fuori del Palagio, e simile i rettori con loro, e uno de’ detti rettori monta in un’altra ringhiera, o vogliamo dire pergamo, e fa una bella orazione a onore di quella signoria, e de’ Gonfalonieri, e a ciascuno è dato il suo Gonfalone in mano, e con trombe, e pifferi innanzi se ne vanno a casa loro accompagnati, e onorati da tutto il popolo, e tutti gli uomini del Gonfalone vanno in compagnia col suo, e dreto al suo Gonfaloniere, e ciascuno Gonfalone ha sotto se tre pennoni di quel segno medesimo, che si danno dove i Gonfaloni; costoro non hanno a fare altro, se non a’ bisogni essere con quel segno a seguire il suo Gonfalone.

Poi v’è uno uficio, che si chiama Dodici buoni uomini, che sono tre di ciascun Quartieri, e dura tre mesi; cominciano per il primo uficio adì 15 di marzo, e durano mentre che ’l dì cresce, e a mezzo giugno, che comincia il dì a scemare, entrano gli altri, e durano infino che ’l dì è uguale alla notte; poi gli altri infino al minorare, dipoi gli altri infino a’ dì iguali di mezo marzo, e questo è con certo misterio, e hanno a stare ciascuno dì, quando i Signori mandano per loro, a’ loro piedi a consigliare, e per ordine di Comune sono molte cose di grande importanza, che non si possono fare per gli Signori sanza i Dodici.

Questi due ufici, Gonfalonieri, e Dodici si dicono Collegi, e sono molto onorati appresso de’ Signori.

Poi è il Consiglio del Popolo, che sono dieci per Gonfalone, e tutti i Consoli dell’Arti insieme co’ Signori, e Collegi, e certi altri ufici, che sono in tutto circa dugento cinquanta, per lo qual consiglio s’hanno a conservare le leggi, e statuti, e ordini di Comune già fatti per li Signori, e Collegi, e se non si vincesse per le due parti del detto consiglio insieme col loro colle fave nere, e bianche in segreto, non vale niente, e non può andare innanzi.

E quello, che sarà confermato per lo detto consiglio, bisogna, che vada poi un’altra volta a partito in un altro consiglio, che si chiama consiglio del Comune, dove sono circa dugento insieme co’ Signori, e Collegi, e non essendo confermato, e vinto per le due parti, simile in questo secondo consiglio non vale, ma le cose giuste, e utili, e oneste si vincono, e intendesi essere legge di Comune.

L’uficio de’ Dieci di balìa, che sono eletti a boce, ovvero colle [528] fave sanza farne borsa, sono uomini valenti, e scelti, e pratichi, e non si fanno, se non a tempo di guerra, e costoro hanno allora di fuori della città, e ne’ fatti della guerra tutta la balía, e potenza de’ Signori, e di tutto il Comune.

L’uficio degli Otto della guardia hanno a stare desti, e attenti contro di chi cercasse di fare, o facesse alcune cose contro al reggimento, e contro alla città, o castelli, o terre del Comune, e non hanno balía di punire, ma di mettere il colpevole nelle mani del Rettore, che ne faccia giustizia.

L’uficio de’ Regolatori sono sei, e hanno a provvedere sempre tutte le rendite, e entrate del Comune, che elleno si mantengano buone, e non sieno maculate, e ’n tutte le spese, che si fanno, provvedere che ’l Comune non sia ingannato, e fare rivedere le ragioni de’ Camarlinghi, e fare riscuotere da chi deve dare.

Sono altri uficiali, che si dicono Governatori delle Gabelle delle Porti; oggi si chiamano Maestri di Dogana, e del sale, vino, e contratti, che hanno assai faccende a provvedere, che ’l Comune non sia ingannato.

L’uficio de’ Capitani di Parte guelfa è grande, e d’onoranza più per memoria dell’antica virtù, e operazioni operate sotto quel segno, che per cose, che al dì d’oggi abbiano a fare. Hanno a ricevere molte rendite, e spenderle in onore della Parte guelfa.

L’uficio dei Dieci della Libertà è di grande importanza, e dassi a uomini di molta scienza, e pratichi, e hanno a udire le querele di molti, che sono molestati civilmente alla ragione per vigore di strumenti, e carte, e dicono, o non essere stato vero, o avere pagato, o non doversi giudicare per quella via, o essersi obbrigati per inganni, o fraude, e sì costoro hanno a conoscere se la cosa il merita, e strignerli a fare compromesso, e che si vegga per via d’equità, e di discrezione, e molto giova questo uficio allo aiuto di persone povere, che non hanno da spendere in piatire, e in procuratori, e avvocati.

Uficiali d’Abbondanza si fanno solo in tempo di carestia, acciocchè la Terra stia abbondevole di grano per la povera gente, e allora usano bellissimi modi a fare contro alla carestia.

Uficiali di Grascia hanno a provvedere sopra le mulina, e mugnai, che rendano a’ cittadini buona ragione, e tengono ragione di molte cose contro a coloro, che non sono sottoposti ad alcuna Arte.

Sono appresso uficiali di pupilli, e vedove, eletti a boce, buoni, e onesti uomini, che temano Iddio, e amino misericordia, e fanno tenere conto, e ragione di tutti e’ pupilli, che sono lasciati sotto loro governo per insino che sieno in età perfetta.

Uficiali di Castella hanno a provvedere sempre, che le castella, e rocche, e fortezze del Comune sieno salde, e fare racconciare dove bisognasse, e sieno bene fornite d’opera, e da vivere, e [529] sieno bene guardate, e che v’è mandato tenga la famiglia, che dee tenere.

Uficiali della Torre, hanno a mantenere, e migliorare ponti, e mura della città, e contado, fare racconciare i lastrichi delle vie, quando sono guasti, e provvedere a tetti, e sporti, e ruine.

Uficiali di Condotta sono sopra soldare, e fare rassegnare gente d’arme.

Molti altri ufici di Comune, che sarebbe lungo a dire, e ciascuno ha sua casa, dove si raunano, e scrivani, e camarlinghi.

Sono dipoi i Consoli dell’Arte, e ciascuna Arte ha sua casa, e residenza molto onorate, e ornate, dove si raunano due dì per lo meno ogni settimana, a tenere ragione, e udire, e giudicare, e quale Arte ha otto Consoli, e quale sei, e ’n quale sono quattro, secondo che è maggiore, e di maggiore faccenda, e alla sentenza de’ Consoli non si può appellare. Ogni Arte può conoscere, e giudicare la quistione di qualunque, che si richiamasse contro a un sottoposto a quella tale Arte, e contro a ciascuno, che non fusse sottoposto ad alcun’Arte, quando il sottoposto di quell’Arte si richiamasse di quel tale.

L’uficio della Mercatanzia sono uno uficiale forestiere dottore di legge civile, con sei consiglieri cittadini de’ più notabili, e savj, e pratichi uomini dell’Arti dette, uno di ciascun’Arte delle cinque maggiori, che se ne trae fuori quella de’ giudici, e notai, e quella de’ vaiai, e pellicciai, e poi uno come tocca per sorta intra tutte le XIV Arti, cioè le XIV minori, e con esse è quella de’ vaiai, e pellicciai, e pigliasi quello ordine perchè quelle cinque Arti, cioè mercatanti, cambiatori, lanaiuoli, setaiuoli, e speziali, sono mercatanti, e di loro sono eletti a questo uficio pochi, ma solamente que’ sono i vantaggiati, e innanzi a questo uficio vengono tutte le grandi quistioni, e gran casi di tutto il mondo, e liti di cose fatte per mare, e per terra, e di compagnie, e di falliti, e di rappresaglie, e d’infiniti casi, e dannovisi giustissimi giudicj, e notabili determinazioni, e alle loro sentenze non si può appellare. Questo uficio ha una casa, e un palazzo assai grande, e onorato, e ornato, e magnifico, e dura l’uficio de’ Sei tre mesi, e l’uficiale forestiere sei mesi, e bisogna, che tenga ferma abitazione nel detto palazzo egli, e suoi notai, e famigli, e non vi può menare sua donna, nè figliuoli.

Resta a dire de’ tre rettori principali, Podestà, Capitano, Esecutore, che bisogna, che sieno forestieri, di luogo di lungi a Firenze per lo meno miglia sessanta, e dura l’uficio loro mesi sei, e non può tornare altra volta infra dieci anni, nè egli, nè suoi giudici, se non fusse per deliberazione del Comune vinta per gli consigli, che interviene rade volte. Questo si fa perchè quello Rettore non abbia parenti, nè amici, nè conoscenti, nè grandi, nè minori, se non gli ordini, e le leggi della città, i quali dee osservare, [530] e hanno grandissima balìa, e stanno con grandissima onoranza. In prima

Il detto Podestà tiene con seco quattro giudici dottori in legge civile, e sedici notai, perchè alla sua corte si piatisce di tutti i casi civili, di reditadi, di testamenti, e lasci di dote, di compre e vendite, di tutti e’ casi, de’ quali apparisce strumento pubblico, e hanno a conoscere, e terminare di ragione; poi dee tenere molta famiglia, e cavalli, e ha di salario in sei mesi fiorini dumilatrecento, e sta in un bellissimo palagio, e non può essere Podestà, nè Capitano in Firenze alcuno, se non conte, o marchese, o cavaliere, e che sia guelfo, e l’esecutore conviene, che sia il contrario, e non de’ detti gradi, ma che sia uomo popolare, e guelfo, e ’l Capitano, e ’l Podestà, e lo Esecutore hanno tutti balìa sopra i condannati, e sbanditi, e contro a tutti i micidj, e furti, e falsarj, e ogni cosa criminale. Il Capitano si dice del Popolo, e il segno suo è per guardia della città, e dello Stato, e reggimento d’essa, e ha balìa di fatto contro a chi tentasse alcuna cosa contro a reggimento; lo Esecutore ha balìa di fatto solamente contro a’ grandi uomini in difensione de’ popolani, e minori, e questo fu trovato per antico tempo a riprimere la superbia de’ maggiori, e farò senza più dire degli ufici drento della città.

Ma gli uficj di fuori sono quegli, di che i cittadini avanzano, e hanno salario, e premio, e sono i principali, e maggiori; in prima

Capitano di Pisa, Capitano d’Arezzo, Capitano di Pistoia, Capitano di Volterra: questi sono Signori di quelle Terre, mentre che durano sei mesi di tali ufici, e hanno balía per la guardia della Terra di ragione, e di fatto sanza misura. Appresso Podestà di Pisa, Podestà d’Arezzo, Podestà di Pistoia, Capitano di Cortona, Capitano del Borgo a San Sepolcro, Podestà di Prato, Podestà di Colle, Podestà di San Gimigniano, Podestà di Monte Pulciano, e altri, che hanno a governare i casi civili, e criminali, e menare suo’ giudici, e famigli assai, e sono molto onorati. Poi sono Vicario di San Miniato, Vicario di Val di Nievole, e di Pescia, Vicario di Firenzuola, Vicario di Poppi, e del Casentino, Vicario d’Anghiari, tre Vicariati in quello di Pisa; Capitano dell’Alpe di Pistoia, e Capitano di Romagna, e di Castrocaro, Vicario di Poppi, e di tutto il Casentino, Podestà di Castiglione Aretino, Podestà, ovvero Capitano di Maremma di Pisa. Poi sono tanto numero di Podestà in tutte l’altre terre, che sarebbe troppo lungo dire, a volerle sapere. A questi ufici sono eletti in Firenze buoni, e discreti cittadini il più che si può, e vanno in detti luoghi per acquistare chi onore, e chi avere, e chi l’una cosa, e chi l’altra; e interviene spesso, che sono di quelli, a chi viene fatto d’acquistare in tutto, o in parte di quel ch’è detto, e alcuna volta il contrario, cioè vergogna, e danno, perocchè i fatti degli uomini di Firenze non possono essere nascosi, [531] e hanno troppi occhi addosso, e chi fa bene, n’acquista il merito, e chi fa male tosto è manifesto, ed è punito, e corretto, e gastigato per debito di giustizia, e per esemplo degli altri; e quando detti uficiali tornano in Firenze delle dette Terre, sono bene esaminate l’opere fatte per loro, e a ciascuno è retribuito a Firenze secondo il merito, e per la virtù di questa giustizia i buoni sono sempre invitati, e confortati a ben fare, e i rei e malvagi, puniti e spaventati, e il bene cresce, e il male si spegne, e seguitano una concordia in Firenze di grandi, e minori, e mezzani onorati ciascuno secondo suo grado, e secondo i loro meriti, che ne seguita una melodia sì dolce, che la sente il Cielo, e muove i santi ad amare questa città, e difenderla da chi volesse guastare tanto tranquillo e pacifico stato.

Appresso vi sono, come dissi in principio, il gran numero di buoni uomini e donne, che sempre con orazioni e limosine, e sante operazioni impetrano da Dio misericordia contro a’ viziosi, che non può essere, che non ve ne sieno, a tale che per amore de’ buoni Nostro Signore Iddio ha guardata, e conservata quella città, e accresciuta quanto altra città d’Italia. Amen.

DESCRIZIONE DELLE FESTE DI SAN GIOVANNI.

Quando ne viene il tempo della Primavera, che tutto il Mondo rallegra, ogni Fiorentino comincia a pensare di fare bella Festa di San Giovanni, che è poi a mezza la State, e di vestimenti, e di adornamenti, e di gioie ciascuno si mette in ordine a buon’otta; chiunque ha a fare conviti di nozze, o altra Festa s’indugia a quel tempo per fare onore alla Festa mesi due innanzi, si comincia a fare il Palio, e le veste de’ Servitori, e’ pennoni, e le trombe, e i Palj del drappo, che le Terre accomandate, e del Comune danno per censo, e ceri, e altre cose, che si debbono offerere e invitare gente a procacciare cose per li conviti, e venire d’ogni parte cavalli per correre il Palio, e tutta la Città si vede in faccenda per lo apparecchiamento della Festa, e gli animi de’ giovani, e delle donne, che stanno in tali apparecchiamenti; non resta però, che i dì delle Feste, che sono innanzi, come è Santo Zanobi, e per la Ascensione, e per lo Spirito Santo, e per la Santa Trinità, e per la Festa del Corpo di Cristo, di fare tutte quelle cose, che allegrezza dimostrino, e gli animi pieni di letizia, ed ancora ballare, sonare, e cantare, conviti, e giostre, e altri giuochi leggiadri, che pare, che niuna altra cosa s’abbia a fare in que’ tempi infino al dì della vigilia di San Giovanni.

Giunti al dì della vigilia di San Giovanni, la mattina di buon’ora tutte le Arti fanno la mostra fuori alle pareti delle loro botteghe [532] di tutte le ricche cose, ornamenti, e gioie; quanti drappi d’oro e di seta si mostrano, ch’adornerebbero dieci Reami! quante gioie d’oro, e d’ariento, e capoletti, e tavole dipinte, e intagli mirabili, e cose, si appartengono a fatti d’arme, sarebbe lungo a contare per ordine.

Appresso per la Terra in sull’ora della terza si fa una solenne pricissione di tutti i Cherici, Preti, Monaci, e Frati, che sono grande numero di Regole, con tante Reliquie di Santi, che è una cosa infinita, e di grandissima divozione, oltre alla maravigliosa ricchezza di loro adornamenti, con ricchissimi paramenti addosso, quanti n’abbia il Mondo, di veste d’oro, e di seta, e di figure ricamate, e con molte Compagnie d’uomini secolari, che vanno ciascuno innanzi alla regola, dove tale Compagnia si raguna, con abito d’Angioli, e suoni e stromenti d’ogni ragione, e canti maravigliosi, facendo bellissime rappresentazioni di que’ Santi, e di quelle Reliquie, a cui onore la fanno. Partonsi da Santa Maria del Fiore, e vanno per la Terra, e quivi ritornano.

Poi dopo mezzo giorno, e alquanto passato il caldo, circa all’ora del Vespro tutti i Cittadini sono ragunati ciascuno sotto il suo Gonfalone che sono sedici, e per ordine primo, e secondo, e così succedendo vanno l’uno Gonfalone drieto all’altro, e in ciascuno Gonfalone tutti i suoi Cittadini a due a due andando innanzi i più degni, e i più antichi; e così seguendo infino a’ garzoni riccamente vestiti, a offerere alla Chiesa di San Giovanni un torchietto di cera di libbre una per uno, avendo i detti Gonfaloni spesse volte, o la maggiore parte d’essi innanzi da sè uomini con giuochi d’onesti sollazzi, e belle rappresentazioni. Le strade, dove passano, sono tutte adorne alle mura e al sedere di capoletti, spalliere, e pancali, i quali sono coperti di zendadi, e per tutto è pieno di donne giovani, e fanciulle vestite di seta, e ornate di gioie, e di pietre preziose, e di perle, e questa offerta basta infino al coricare del sole, e fatto l’offerta, ciascuno cittadino, e donna si tornano a casa a dare ordine per la mattina seguente.

La mattina di San Giovanni chi va a vedere la piazza de’ Signori, gli pare vedere una cosa trionfale, e magnifica, e maravigliosa, che appena che l’animo vi basti. Sono intorno alla gran piazza cento torri, che paiono d’oro, portate quali con carrette, e quali con portatori, che si chiamano ceri, fatti di legname, di carta, e di cera con oro, e con colori, e con figure rilevate, voti drento, e drento vi stanno uomini, che fanno volgere di continovo, e girare intorno quelle figure. Quivi sono uomini a cavallo armeggiando, e quali sono pedoni con lance, e quali con palvesi correndo, e quali sono donzelle, che danzano a rigoletto. In su essi sono scolpiti animali, e uccelli, e diverse ragioni d’alberi, pomi, e tutte cose, che hanno a dilettare il vedere, e il cuore.

Appresso intorno alla ringhiera del Palagio vi ha cento pali, o [533] più nelle loro aste appiccati in anelli di ferro, e i primi sono quelli delle maggiori città, che danno tributo al Comune, come quello di Pisa, d’Arezo, di Pistoia, di Volterra, di Cortona e di Lucignano, e di Castiglione Aretino, e di certi Signori di Poppi, e di Piombino, che sono raccomandati del Comune, e sono di velluto doppi, quale di vaio, quale di drappo di seta, gli altri tutti sono di velluto, o d’altri drappi, o taffettà listrati di seta, che pare una maravigliosa cosa a vedere.

La prima offerta, che si fa la mattina, sì sono i Capitani della Parte guelfa con tutti i cavalieri, essendovi ancora Signori, Ambasciadori, e Cavalieri forestieri, che vanno con loro con grande numero de’ più onorevoli cittadini della Terra, e col Gonfalone del segno della Parte guelfa innanzi portato da uno de’ loro donzelli in su uno grosso palafreno vestito di sopravvesta di drappo, e il cavallo covertato infino a terra di drappo bianco col segno della Parte guelfa.

Poi seguono i detti pali portati a uno a uno da un uomo a cavallo, quale uomo ha il cavallo covertato di seta, e quale no: come sono per nome chiamati, e’ vannosi a offerere alla chiesa di San Giovanni. E questi pali si danno per tributo delle Terre acquistate dal Comune di Firenze, e di loro raccomandati da un certo tempo in qua.

I ceri soprascritti, che paiono torri d’oro, sono i censi delle Terre più antiche de’ Fiorentini, e così per ordine di degnità vanno l’uno drieto all’altro a offerere a San Giovanni, e poi l’altro dì sono appiccati intorno alla chiesa dentro, e stanno tutto l’anno così infino all’altra Festa, e poi se ne spiccano i vecchi, e de’ pali fassene paramenti, e palj da altari, e parte de’ detti palj si vendono allo ’ncanto.

Dopo questi si va a offerere una moltitudine maravigliosa, e infinita di cerotti grandi, quale di libbre cento, quale cinquanta, quale più, quale meno, per infino in libbre dieci di cera accesi, portati in mano da’ contadini di quelle ville, che gli offerano.

Dipoi vanno, a offerere i Signori della Zecca con un magnifico cero portato da un ricco carro adorno, e tirato da un paio di buoi covertati col segno ed arme di detta Zecca, e sono accompagnati i detti signori di Zecca da circa di quattrocento tutti venerabili uomini matricolati, e sottoposti all’Arte di Calimala Francesca, e de’ Cambiatori, ciascheduno con begli torchietti di cera in mano di peso di libbre una per ciascuno.

Dipoi vanno a offerere i Signori Priori, e loro Collegi colli loro Rettori in compagnia, cioè Podestà, Capitano, e Assecutore, con tanto ornamento, e servidori, e con tanto stormo di trombe, e di pifferi, che pare, che tutto il mondo ne risuoni.

E tornati, che’ Signori sono, vanno a offerere tutti i corsieri, che sono venuti per correre il Palio, e dopo loro tutti i Fiamminghi, [534] e Bramanzoni, che sono a Firenze tessitori di panni di lana, e dopo questi sono offerti dodici prigioni, i quali per misericordia sono stati tratti di carcere per li opportuni consigli a onore di San Giovanni, i quali sieno gente miserabili, e sienvi per che cagione si voglia.

Fatte queste cose e offerte, uomini, e donne tornano a casa a desinare, e come ho detto, per tutta la città si fa quel dì nozze, e gran conviti con tanti pifferi, suoni, e canti, e balli, feste e letizia, e ornamento, che pare, che quella Terra sia il Paradiso.

Dipoi dopo desinare passato il mezzo dì, e la gente s’è alquanto riposata, come ciascuno s’è dilettato, tutte le donne, e fanciulle ne vanno dove hanno a passare quelli corsieri, che corrono al Palio, che passano per una via diritta per lo mezzo della città, dove sono buon numero d’abitazioni, e belle case, ricche, e di buoni cittadini, più che in niuna altra parte, e dall’uno capo all’altro della città per quella diritta via piena di fiori sono tutte le donne, e tutte le gioie, e ricchi adornamenti della città, e con grande festa, e sempre vi sono molti signori, e cavalieri, e gentiluomini forestieri, che ogni anno delle terre circostanti vengono a vedere la bellezza, e magnificenza di tale festa, ed evvi per detto corso tanta gente, che par cosa incredibile, di forestieri, e cittadini, che chi non lo vedesse, non lo potrebbe credere, nè immaginare.

Dipoi al suono de’ tre tocchi della campana grossa del Palagio de’ Signori, i corsieri apparecchiati alle mosse si muovono a correre, ed in sulla torre si veggono per li segni delli ragazzi, che su vi sono, quello è del tale, e quello è del tale, venuti da tutti i confini d’Italia i più vantaggiati corsieri barbereschi del mondo, e chi è il primo, che giugne al palio, lo guadagna, il quale è portato in sur una carretta triunfale con quattro ruote adorna con quattro lioni intagliati, che paiono vivi, uno in sur ogni canto del carro, tirato da due cavalli covertati col segno del Comune loro, e due garzoni, che gli cavalcano, e guidano; il quale è molto grande, e ricco palio di velluto chermisi fine in due pali, e tra l’uno e l’altro uno fregio d’oro fine largo un palmo foderato di pance di vaio, e orlato d’ermellini infrangiato di seta, e d’oro fine, che in tutto costa fiorini 300 o più, ma da un tempo in qua s’è fatto d’alt’e basso broccato d’oro bellissimo, e spendesi fiorini 600 o più.

Tutta la gran piazza di San Giovanni, e parte della via è coperta di tende azzurre con gigli gialli, la chiesa è una cosa di maravigliosa figura; ed altro tempo richiederà a parlare d’essa, quando aremo a dire degli ornamenti di quella città. (Questo l’autore non fece mai.)

[535]

Nº VI. (Vedi pag. 170.)

Vogliamo qui dare l’elenco delle Ambascerie e Commissioni affidate a Rinaldo degli Albizzi, che si leggono per disteso nella più volte citata pubblicazione del signor Guasti. A noi giovano come saggio della politica operosità di quegli anni e del grande credito di cui godeva Rinaldo in Firenze.

I.

1399, 23 luglio.

Mandato a Montalpruno per l’edificazione d’una bastia.

II.

1399, 13-16 agosto.

Mandato a incontrare Giovanni Orsino ambasciatore del re Ladislao.

III.

1399, 29 novembre.

Andando Capitano d’Assisi gli è commesso dalla Signoria di parlare in Cortona con Uguccione dei Casali.

IV.

1402, 22 giugno — 13 luglio.

Mandato in Rimini a Carlo Malatesti dal quale ottiene il passo di quel Porto alle mercanzie dei Fiorentini.

V.

1404, 3-11 marzo.

Mentre è Potestà di Rimini, viene a Firenze mandato da Carlo Malatesti per interessi dipendenti dalla condotta che egli teneva.

[536]

VI.

1404, 11 marzo.

Sotto nome di messer Maso suo padre, e all’insaputa dei Dieci di Balìa, ha commissione dai Signori di trattare con Carlo Malatesti per far pace tra il Comune di Firenze e il Duca di Milano.

VII.

1404, 26 aprile — 11 maggio.

Torna a Firenze per commissione del Malatesti a proposito di questo trattato.

VIII.

1404, 24 maggio — 6 giugno.

Torna di nuovo pel trattato stesso.

IX.

1404, 11 agosto — 4 settembre.

Mandato dal Malatesti per accordare la Repubblica di Firenze con gli Ubertini e i Conti di Bagno.

X.

1405, 1-11 gennaio.

Essendo Potestà di Città di Castello è mandato da quel Comune a visitare il cardinale Landolfo Maramaldo vescovo di Bari.

XI.

1405, 18 gennaio — 2 febbraio.

Viene a Firenze per esporre certe doglianze del re Ladislao in aggravio dei Fiorentini.

XII.

1405, 3-14 febbraio.

Sempre Potestà della Città di Castello va per commissioni private a Perugia e a Todi.

XIII.

1405, 22 febbraio — 29 marzo.

Dai Castellani è mandato allo stesso Cardinale, e poi da questo a Napoli e quindi a Firenze per notificare alla Signoria ciò che aveva fatto col Re.

[537]

XIV.

1405, 13-28 settembre.

Per commissione della Signoria è mandato a Città di Castello e in altri luoghi per cagione della guerra che era tra’ Castellani e gli Ubaldini della Carda.

XV.

1406, 6 luglio — 15 agosto.

Nuova commissione ai suddetti per le stesse cagioni.

XVI.

1506, 24 agosto — 9 novembre.

Mandato a Innocenzio VII in Roma e al re Ladislao in Napoli per indurli a non dare aiuto a’ Pisani.

XVII.

1406, 26 novembre — 23 dicembre.

Mandato a stipulare un accordo generale tra i Castellani co’ loro amici e gli Ubaldini.

XVIII.

1407, 4-19 gennaio.

A Perugia per la stessa pace.

XIX.

1407, 20 febbraio — 20 marzo.

A Perugia per le cose stesse.

XX.

1407, 17-28 settembre.

Al Monte di Santa Maria per mettere accordo tra que’ Marchesi.

XXI.

1408, 27 giugno — 1 luglio.

A Lucca per accompagnare Gregorio XII verso Siena a fare accordo con Paolo Guinigi.

[538]

XXII.

1408, 2-20 luglio.

Torna a Lucca per seguitare la detta commissione.

XXIII.

1408, 18-31 ottobre.

Essendo de’ Dieci al governo di Pisa è mandato per comporre certa differenza tra il Capitano di Livorno e quello del Porto Pisano.

XXIV.

1409, 19-22 gennaio.

A Niccola castello di Lunigiana e a Sarzana per questione di confini col Governatore di Genova.

XXV.

1409, 24 aprile — 3 maggio.

Ambasciatore ai Cardinali radunati in Pisa per il Concilio.

XXVI.

1410, 21-22 settembre.

Essendo Potestà di Prato è mandato a Firenze da quel Comune per una questione di gravezze.

XXVII.

1410, 10-17 novembre.

A Siena mandato dalla Signoria di Firenze per un trattato di pace col re Ladislao.

XXVIII.

1410, 21-26 dicembre.

Di nuovo a Siena per la conchiusione di detta pace.

XXIX.

1412, 23 maggio — 16 giugno.

Mandato dai Sei della Mercanzia a Ferrara e a Venezia per certe gravezze imposte in questa città sui forestieri.

[539]

XXX.

1413, 1-11 gennaio.

Mandato di commissione privata a Rimini a cercare accordo tra Giovanni XXIII e Gregorio XII.

XXXI.

1414, 6-18 maggio.

A Siena per incontrarsi con ambasciatori del re Ladislao.

XXXII.

1414, 8 ottobre — 23 dicembre.

A Napoli per trattare accordo tra Giovanni XXIII e la regina Giovanna II.

XXXIII.

1418, 29 settembre — 7 novembre.

Fa parte della grande ambasceria mandata al nuovo Papa Martino V che egli accompagna da Pavia a Milano fino a Mantova.

XXXIV.

1420, 9-12 settembre.

Mandato con altri ad accompagnare papa Martino da Firenze sino ai confini di Siena.

XXXV.

1421, 25 settembre — 1422, 2 gennaio.

In Roma a papa Martino e quindi in Napoli alla regina Giovanna e poi ad Alfonso d’Aragona ch’era in campo contro a Luigi d’Angiò con varie commissioni e della Signoria di Firenze e del Papa.

XXXVI.

1423, 19 marzo — 13 aprile.

Al Legato di Bologna e quindi a Venezia dove insieme con gli ambasciatori del Duca di Savoia tratta l’accordo tra l’Imperatore e quella Signoria.

XXXVII.

1423, 22 aprile — 6 maggio.

Di nuovo al Legato di Bologna per alcune mosse del Duca di Milano.

[540]

XXXVIII.

1423, 7-23 maggio.

Di nuovo a Bologna per trattare un accordo col Legato.

XXXIX.

1423, 7-17 giugno.

Di nuovo a Bologna per le stesse cose.

XL.

1423, 31 agosto — 1 dicembre.

A Carlo re e Pandolfo Malatesti, il quale essendo Capitano dei Fiorentini, l’Albizzi rimane presso lui commissario nella guerra contro al Visconti.

XLI.

1424, 31 gennaio — 26 febbraio.

A Ferrara per la riconciliazione tra il Comune di Firenze e il Duca di Milano.

XLII.

1424, 2-22 maggio.

A Venezia per mantenere quella Signoria nella Lega contro al Visconti.

XLIII.

1424, 30 maggio.

Stando a Pratovecchio ha commissione di ricercare gli andamenti di un certo sbandito.

XLIV.

1424, 5 giugno.

Dallo stesso luogo per cose private.

XLV.

1424, 19 giugno — 28 novembre.

Ambasciatore a Martino V perchè si dichiari contro al Duca di Milano.

XLVI.

Commissione di trattare essendo in Roma per la pace col Duca.

[541]

XLVII.

1425, 11 luglio — 1426, 20 gennaio.

Di nuovo a Roma per la detta guerra.

XLVIII.

1426, 1 febbraio — 11 giugno.

All’Imperatore in Vienna e quindi nell’Ungheria allo Spano per la pace tra detto Imperatore e la Repubblica di Venezia; poi a Venezia, a Ferrara e a Bologna per la pace col Visconti.

XLIX.

1427, 28 ottobre — 1428, 13 gennaio.

A Venezia di nuovo per conchiudere la detta pace.

L.

1429, 16-19 giugno.

Va incontro al Principe di Salerno nipote di Martino V.

LI, LII, LIII.

1429.

Qui è laguna nel manoscritto, supplito ampiamente nella edizione; Rinaldo, prima Vicario in Valdarno è uno dei Conservatori di Legge, va poi Commissario contro ai Volterrani ribellati.

LIV.

1429, 15 dicembre — 1430, 21 marzo.

Uno dei Commissari nella guerra contro Lucca (a questa Commissione va unito gran numero di sue lettere private).

LV.

1431, 2-3 giugno.

È mandato dai Dieci a dare il bastone di Capitano generale a Micheletto degli Attendoli.

LVI.

1433, 8-21 febbraio.

In Siena all’imperatore Sigismondo.

Seguono in fine al III volume delle Commissioni quattordici Appendici concernenti tra molte altre cose [542] una disputa di filosofia religiosa che Rinaldo sostenne da giovane, il grado e l’uffizio di Senatore di Roma che egli tenne i primi sei mesi del 1432, la portata dei suoi averi, i testi delle sentenze pronunziate contro Rinaldo degli Albizzi, il tempo della sua morte e cose risguardanti la sua famiglia ec.

Nº VII. (Vedi pag. 250.)

TRE LETTERE DELLA SIGNORIA DI FIRENZE A NERI CAPPONI, ORATORE A SIENA, PER IL CASO DI BROLIO. OTTOBRE 1434.

(Dal Registro originale ad an. nel R. Archivio di Stato.)

Nerio Gini.

Karissimo nostro. Noi siamo avisati da te della perfecta dispositione et optima volontà de la Signoria di Siena, et quanto cordialmente dispiace loro il caso di Brolio. Et quanto se offerano con ogni loro possa per correggier questo scandolo. Commendiamo la tua diligentia, et siamo più che certi de la perfecta volontà di cotesti magnifici Signori et karissimi fratelli nostri. Et perchè queste sono cose che al tutto bisogna che sieno corrette et gastigate, sì per honore di Comune, sì etiandio per dare exemplo agl’altri che non ardischino d’atentare simile materia, ci pare necessario di ragunare le forze et monstrare a messer Antonio l’error suo. Et pertanto sarai con cotesti magnifici Signori et ringrazierali de l’offerte per parte di questa Signoria, et richiederali che voglano concorrere insieme con noi colle forze loro, o almeno con parte d’esse forze, acciò ch’el caso di messer Antonio si corregga, o per forza, se lui vorrà pure perseverare nella sua audacia, o per altra via; perchè non dubitiamo che, vedendo messer Antonio le forze de’ Sanesi et nostre concorrere contra lui, piglerà partito di levarsi da tale temerità. Intorno a questa parte d’aver le forze di cotesta Signoria, metterai ogni diligenza; chè non dubitiamo sarà facile, vedute le proferte loro et la loro optima dispositione. Oltra di questo richiederai cotesti magnifici Signori che voglano in tutte [543] l’altre cose apartenenti a correptione di questo facto procedere, et con restrignere i congiunti di messer Antonio et con fare gl’altri rimedii che si soglon fare contra i citadini inobedienti et concitatori di scandoli et di brighe. Noi da l’altra parte manderemo et genti d’armi et fanti a piè et provederemo a tutte le cose oportune per raquistare il Castel nostro, occupato sotto nostro salvocondotto sanza alcuna lealtà o fede; però ch’el nostro honore richiede che così facciamo, nè vediamo poter fare di meno. Dat. Florentie, die XII octobris 1434.

Nerio Gini.

Karissimo nostro. Per l’altra lettera ti scriviamo quanto in verità richiede l’onor del Comune nostro, et così voglamo che tu mandi ad executione. Pur nientedimeno nel segreto, ci pare che, potendo acconciare la cosa per via di concordia sanza entrare in briga d’avere a metter campo et simili cose, sia miglior partito et molto più utile. Et pertanto, quello che ti scriviamo ne l’altra lettera, sia aperto et in dimostratione. Et s’elli s’adopera quella via, adoperisi ad effecto che l’amico discenda a voler lasciare i’ luogo di concordia. Et nientedimeno, per tutte l’altre vie che ti paiono verisimili et apte a partorir concordia, seguiterai, perchè nel vero è pur utile non avere a far pruova. Et se pure tu diliberi d’andare personalmente, guarda di giucar del sicuro.

Hora, tu se’ molto intendente, adopera come tu credi che ben sia. Dat. Florentie, die XII octobris 1434.

Nerio Gini.

Noi abbiamo questa mattina una tua lettera de’ dì XIII et hieri n’avemo una de’ dì XII a hore XVI, et abbiamo le copie de le lettere scripte a messer Antonio et de le sue risposte, et anchora la copia de la lettera scripta a te. Tutto raccolto comprendiamo che lui desideri sommamente l’acordo. Per la tua ultima ci chiedi risposta. Noi ti rispondemo a’ dì XII, et mandamoti le lettere per Victorio nostro cavallaro. Sì che noi teniamo che a dì XIII di buona hora, tu dovessi havere la risposta che tu cerchi da noi; et quanto allora ti scrivemo manderai ad executione. Quelle ti mandamo per Victorio furono due lettere. Ne la prima ti commettavamo che tu richiedessi la Signoria di Siena delle loro forze et genti per strignere messer A. a lasciar quello luogo o torglele per forza, et simile che tu richiedessi la Signoria di Siena a procedere contra messer A. et contra le cose sue et suoi congiunti. Nè l’altra lettera era in secreto, che a noi pareva più utile seguitare la via de [544] l’acordo per non avere a entrare in difficultà di por campo etc. Hora questo era l’effecto de le due lettere sotto brevità; et così metterai ad executione. Parlandosi d’acordo, monsterrai fare da te et non per nostra commissione, et monsterrai questi essere tuoi pensieri et tuoi avisi. Veggiamo che tu aspecti risposta da’ Sanesi, et pensiamo che da messer A. tu harai con buono modo già sentito et tastato dove gli va il pensiero. Di tutto aspectiamo aviso da te, et tu colla tua usata prudentia seguita in quel modo ti parrà più utile. Et di costì non partirai sanza nostra licenza. Dat. die XIIII octobris 1434.

Nº VIII. (Vedi pag. 362.)

ISTRUZIONE DI SISTO IV A MESSER ANTONIO CRIVELLI MANDATO SUO AL RE FERRANDO. RISGUARDA LE COSE DI CITTÀ DI CASTELLO, TENUTA DA NICCOLÒ VITELLI.

(Codice nº 22, manoscritto appresso di noi.)

Primo, che la Santità di Nostro Signore per il passato è stata infamata con le calumnie. Che per la benevolenza che portava a messer Nicolò Vitelli, gli consentiva che tenesse la Città di Castello in tirannia, con carico et vittuperio della Sede Apostolica; et che poteva sodisfare all’honor di Santa Chiesa, et indur quella Città a obedienza d’essa, et non voler che, per l’amicitia sua, stesse alienata dal Dominio Ecclesiastico; et che se haverebbe in breve tempo che con questo esempio molte altre terre della Chiesa verrebbono ad essere in peggior conditione di detta Città, et lo stato della Chiesa, in tempo suo, si verrebbe ad anichilare et perdere. Et perchè S. S., dessiderando di purgar quest’infamia, più volte ha fatto intendere a messer Nicolò che l’amava, et che se egli amava S. S. et l’honor di S. Chiesa, deverebbe mostrare obedienza, et farla monstrare anco a detta Città, et l’uno, et l’altra saltem monstrarla con il segno di venire a far riverenza a S. Beatitudine alla quale poteva venir sicuramente; et già sono tre anni, che mai ha voluto venire; et, quod peius est, i Governatori mandati per S. S. fuerunt potius gubernati quam gubernatores. Onde sa Dio che S. S. continuamente ha hauto gran dispiacere di mente per l’honor di S. Chiesa, et per l’amor che porta a esso messer Nicolò.

[545]

Doppo, è seguita l’esperienza dell’infamia data a S. S., cioè che per essempio di quella città, l’altre della Chiesa venivano in peggior conditione, come si è visto di Todi et di Spoleto, in modo che S. B. è stata necessitata mandar le genti d’arme et esseguire quel che è seguito. Et trovandosi dette genti in ordine, vedendo il Legato che si erano accquetate le terre mosse già con l’essempio di Città di Castello, et che l’esemplare rimaneva; ricordandosi che quando il Cardinal di S. Sisto fu in Milano, il signor Duca non solo laudò l’impresa perchè messer Nicolò si riducesse all’obbedienza con la detta città, ma confortò che per honor di S. S. et di S. Chiesa si dovesse fare ogni opera per ridurcelo, et volesse veder particolarmente se messer Nicolò era nominato nella lega per collegato; la Maestà del Re, dubitando se fosse obbligato a difenderlo, e trovando che N. S. disse che la cosa stava bene et che si poteva fare; ricordandosi adunque di questo il Legato, et considerando che il Duca et i Fiorentini sono una cosa medema; gli parve (et così ancho teneva per certo S. S.) che non solo il Duca et i Fiorentini non fossero per opporsi, ma per agiutar S. S., per rendere et usar gratitudine de i beneficii fatti da lei all’uno et all’altro, et dell’amore che ha portato loro, massime essendo giustissima la dimanda et impresa di S. S.; con voler solo la vera obedienza, la quale per nulla ragione se li può negare.

Et certissima causa è che, quando alcuno dei sudditi dell’altre Potenze d’Italia non prestassero la debita obedienza, non si comportaria, et non solo si cercaria che tornassero all’obedienza, ma s’esterminariano ad essempio degli altri; et a questo effetto gli pareria, bisognando, che ogn’uno fusse tenuto d’aiutarli. Et, ne longe exempla petantur, quando Volterrani, non sudditi dei Fiorentini, mancorno della sola devotione loro, i Fiorentini vi mandarono il campo et chiesero a S. S. aiuto. La quale, per l’amicitia che teneva seco et benevolenza che portava a quella Comunità, gli aiutò di grandissimo animo con le gente d’armi a sue spese. Onde saria stato et saria molto più giusto che, ricercando S. S. l’obbedienza immediate da messer Nicolò, subito ciaschuna dell’altre Potenze non solo se gli fosse opposta, ma havesse prestato et prestasse aiuto et favore al giusto et honesto dessiderio di S. S. Et certamente che se li è opposto et oppone, tocca il cuor di S. S., così come haveria toccato a ciascun di loro se gli fusse stato fatto il simile; nè possono negare che non si siano portati più ingratamente che habbiano potuto verso S. B. Et tanto più hanno monstrato il poco rispetto che hanno hauto a quella, quanto che è bastato loro l’animo d’affermare messer Nicolò esser tra li raccomandati della Lega particolare; et per questo volerlo mantenere a non prestar la debita obedienza a S. S.: il che con nulla ragione si potrà mai monstrare che lo possan fare.

Et tanto meno, quanto mai messer Niccolò non fu dato per [546] raccomandato, nè per la Maestà del Re, nè per il signor Duca di Milano nè per li Fiorentini nè per la Lega particolare. Et se dai Fiorentini fu nominata Città di Castello, ella però in quel tempo era suddita del Papa, nè per detta nominatione se li poteva levare la vera obedienza; imo, denegandosi S. S. veniva ad esser grandemente offesa et lacessita, adeo che tutte l’altre Potenze per vigor della lega generale son tenuti et obligati difendere et aiutar S. S.; et molto più i Fiorentini che gli altri, per haver veduto l’essempio et provato l’esperienza in S. B., nel caso di Volterra, la quale era stata nominata da Papa Pavolo per raccomandata, et non era suddita dei Fiorentini nè tenuta all’obedienza de quelli, come è tenuto messer Niccolò, non nominato in nessuna Lega, a S. S.: et conseguentemente non procedevano contra Volterrani con quella giustificatione che procede S. B. Et nondimeno, quella prestò loro aiuto et favore, senza allegar tal denominatione; mostrando fare stima dei Fiorentini et amarli. Et per molti altri benefitii che ha fatto S. S. a quella Città, et massime a Lorenzo, il quale fra gli altri beneficii che ha recenti da S. B., ha guadagnato con quella un Tesoro.

Et in quanto si supplica S. S. che voglia haver per raccomandato messer Nicolò, si risponde che la Maestà del Re sa che, havendo prima fatto supplicare S. B. che riceva in gratia decto messer Nicolò, fu risposto che sempre l’ha amato et ama, et è contenta S. B. riceverlo in gratia, con questo che gli presti la debita obedienza, nel modo che S. S. rispose all’ambasciatore, mandato da messer Nicolò, et secondo il tenor dei Brevi mandati. Et a questo fine S. B. ha scritto a Fiorenza all’ambasciatore che debbia eseguire. Et se il signor Duca et i Fiorentini non sono in tutto alieni da ogni honestà et giustitia, non solo non consentiranno a quello et non si opponeranno ma favoriranno, acciò sia (come è ragionevole) sodisfatto all’honesto dessiderio di N. S., il quale certamente merita di esser commendato, aiutato et favorito, quando non si vogliano portar seco malignamente et non haver rispetto nè a Dio nè alla giustizia.

Et in quanto a quel che per parte loro si domanda, cioè che S. S. desista dall’impresa, S. S. resta pessimamente sodisfatta di tal rechiesta, la quale tocca l’honor di quella et di S. Chiesa; il quale honore S. B. è solita di preporre a tutte le cose di questo Mondo, et alla vita propria. Et veramente se da essi Signori gli fusse domandato quanto ha et di quanto può lecitamente disporre, lo concederia volontieri et più presto che desistere da così giusta impresa, per lo grandissimo vittuperio et infamia che ne segueria a S. S., l’honore et reputation di cui sarriano ad un tratto seppeliti; oltre il grandissimo et incomparabil danno et pericol di perdere con sì fatto essempio tutto lo Stato della Sede Apostolica etc.

[547]

Per le quali ragioni et molte altre, che giustissimamente muoveno la mente di S. S., havendo già incominciato l’impresa et proceduto tanto inanzi, sarrebbe troppo grave errore il lassarlo, ad ingiusta requisitione di qual si voglia. Et perciò sta in fermo et constante proposito di voler la vera obedienza di messer Nicolò et da quella città, come è pur giusto nè si può negare con ragione.

Nº IX. (Vedi pag. 370, 384.)

La Confessione che segue fu scritta da Giovan Battista da Montesecco, mentre era in carcere dopo la Congiura e il giorno innanzi ch’egli morisse. Ma convien dire che avessero a lui promesso la vita salva, e che il pover uomo se lo tenesse per certo, perchè in altro modo non s’intenderebbe come avesse egli potuto distendere quella scrittura, dove appare tranquillo animo, il linguaggio essendo piano, scorrevole e ordinato bastantemente. Ebbe essa le firme del Potestà di Firenze, di due Priori e quattro Monaci di Badia, di San Marco e di Cestello, i quali attestarono avere veduto cogli occhi loro il Montesecco scrivere la dichiarazione, dove egli afferma essere sua quella scrittura che ad essi stava allora innanzi. Si è detto come Bartolommeo Scala Segretario la inviasse ai maggiori potentati in un con altre giustificazioni della Repubblica e in risposta al Breve di Sisto IV. Confessa lo Scala avere tolti via per buone ragioni alcuni passi della Confessione, e il manoscritto ha veramente alcuni spazi lasciati in bianco e da noi segnati con puntolini; potevano essere parole che irritassero, contro all’intenzione di Lorenzo, il re Ferrando, il che riesce assai probabile in quel luogo dove il Montesecco, a fine di pungere e riscaldare Jacopo dei Pazzi, accenna ai favori che avrebbe l’impresa; nè il crederlo disdice [548] per le altre lacune. Le sottoscrizioni aggiunte alla Copia nel giorno della pubblicazione sono è vero della Curia di un Arcivescovo ch’era tutto devoto a Lorenzo; ma il fatto appunto delle lacune è buono argomento a dimostrarne l’autenticità. Fu divulgata quattro mesi dopo: ma che di pianta fosse inventata, oltre che ne sembra essere impossibile, reputiamo che un falsario il quale avesse voluto da cima a fondo servire a Lorenzo, l’avrebbe scritta in altro modo. Quella scena che ivi si narra come avvenuta in Camera del Papa, pare a noi che abbia di que’ caratteri che non si mentiscono, e con pace dell’Alfieri io credo essere quello il vero Sisto. Noi pubblichiamo l’Originale archetipo di quella Scrittura che andò alle Corti tale qual’è in questo Archivio di Stato: fu stampata la prima volta sopra una copia e con qualche menda dall’Adimari tra’ Documenti aggiunti alla Coniuratio Pactiana di Angelo Poliziano, Napoli 1769, ma senza le ultime sottoscrizioni; in questo modo fu riprodotta poi dal Fabroni e da più altri.

Questa serà la confessione, la quale farà Giovan Baptista da Monte Secco de sua mano propria, in la quale farà chiaro a omne uno l’ordene et el modo dato per mutar lo stato de la ciptà de Fiorenza, comentiando dal principio infine alla fine, nè lasciando cosa alchuna inderietro, imo i’ narrando tucte le persone con chi lui n’aveva hauto colloquio, e particularmente narrando le punctali parole hauto con tucti quelli chon chi n’à parlato. E prima con l’Arcivescovo e Francescho de’ Pazzi ne parlai in Roma, in la camera del detto Arcivescovo, dicendome volerme revellare uno suo secreto e pensiero, che havevano più tempo hauto in core; e qui con sacramento volse che io gli promettessi tenerli secreti, nè de questa cosa parlarne nè non parlarne si non quanto saria el bisogno, e quanto pareria e vorria a loro; et io così gli promisi.

L’Arcevescovo comenciò a parlare, facciendome intendere como lui e Francesco avevano el modo a mutar lo Stato di Firenza, e che determinavano ad omne modo farlo, e che ci voleva l’aiuto mio. Io glie respuosi che per loro faria ogni cosa, ma essendo soldato del Papa e del Conte, io non ci podeva intervenire. Lor mi rispuoson: Como credi tu che noi facemo questa cosa sanza consentimento del Conte? imo ciò che si cercha e che se fa, per exaltarlo e magnificarlo, chosi lui chome noi, e per mantenerlo [549] i’ nello Stato suo; avisandoti che se questa cosa non se fa, non glie daria del suo Stato una fava; perchè Lorenzo de’ Medici glie vol mal di morte, nè credo che sia huomo al mondo, a chi lui voglia peggio; e dopo la morte del Papa non cercherà mai altro che torgli quello poco Stato, e farlo mal capitar de la persona, perchè da lui se sente grandemente ingiuriato. E volendo io ’ntender el perchè e la cagione Lorenzo era così inimico del Conte, mi disse cose assai sopra a questa parte, e della Depositeria e dell’Arcievescovato di Pisa, e più cose che seriano longhe a scrivere; e in fine fu facta questa conclusione, che dove concorreva l’onore e utole del Conte et el lor, io mi sforzaria a fare iuxta posse tucto quello che pel Conte me sarà comandato. E tucte queste cose furono commune frallo Arcievescovo e Francesco, e che un altro dì se devesse essere insieme et con il Conte proprio, e pigliar determinatione de quello s’aveva da far; et così se remase etc. La cosa rimase così per parechie giorni, nè me fo dicto altro; ma bene so che fra l’Arcievescovo e Francesco et el Signor Conte ne fo in questo tempo parlato più volte.

Dapoi, un giorno fui chiamato dal signor Conte in chamera sua, dove era l’Arcievescovo, et comentiò a parlarsi de novo de questa chosa, dicendome el Conte: L’Arcievescovo me dice che t’anno parlato d’una faccienda, che havemo alle mane: que te ne pare? Io gli respuosi: Signor, non so que me ne dire di questa cosa, perchè non la intendo ancora; quando l’averò intesa, dirò el mio parere. L’Arcivescovo: Como non t’ò io dicto, che volemo mutar lo Stato in Fiorenza? Madiasì che me l’avete decto, ma non m’avete dicto el modo; che non havendo inteso el modo, non so que ne parlare. Allora e l’uno e l’altro ussino fuora, e comenciorono a dire della malivolenza e malanimo, che el Magnifico Lorenzo haveva contra de loro, e ’n quanto pericolo era lo Stato del Conte dopo la morte del Papa; et che mutandosi dicto Stato, saria uno stabilire el signor Conte da non posser haver mai più male; e che per questo si voleva fare ogni cosa. E demandandogle io del modo e del favore, me dissero: noi haveremo questo modo, che in Fiorenza è la Casa de’ Pazzi e de’ Salviati che se tirano dietro mezzo la cictà de fora etc....[578] Bene; havete voi pensato el modo? El modo lass’io pensare a costoro, che dicono non possersi fare per altra via che taglare a pezzi Lorenzo e Giuliano, et haver poi preparate le gienti d’arme, et andarsene a Fiorenza; e che bisogna accumulare queste giente d’arme in modo che non se dia suspecto, chè non dandose suspecto, ogni cosa verria bene facta. Io gli respuosi: Signore, vedete quel che voi fate: lo vi certifico, che questa è una gran cosa; nè so como costor se lo possano fare, perchè Fiorenza è una gran cosa, e la Magnificenzia di [550] Lorenzo ci à una grande benevolenzia, secondo io intendo. El Conte disse: Costoro dicono el contrario, che ci à poca gratia et è malissimo voluto; e che, morti loro, ognuno giungerà le mani al Cielo. L’Arcievescovo usse fuora e disse: Giovan Batipsta, tu non se’ stato mai a Firenza; le cose de là e la cognitione di Lorenzo noi le ’ntendiamo meglio de voi, e sappiamo la benevolentia e malavolentia ch’egli à in nel popolo; e de questo non dubitar, ch’ella reussirà como noi siamo qui. Tucto el facto è che cie resolviamo del modo. Bene; que modo ci è? El modo si [è] riscaldar messer Iacomo, che è più freddo che una iaccia; e como haviamo lui, la cosa è spaciata nè n’è da dubitar puncto. Bene; a Nostro Signore como piacerà questa cosa? E’ me respuosoro: Nostro Signore li farimo sempre fare quello vorremo noi; et anchora la Sua Sanctità vol male a Lorenzo; desidera questo più che altro che sia. Avetenegle voi parlato? Madiasì, e faremo che te ne dirà anchora a te, e te farà intender la sua intentione. Pensamo pure in que modo possiamo metter le giente d’arme insieme sanza suspecto, che l’altre chose passeranno tucte bene. Fo preso el modo de far far la mostra, e de mutar le genti d’arme da stantia a stantia, e mandar quegli del Signor Napolione in quello de Todi e de Perusia, e così el signor Giovanfrancesco da Gonzagha; e così fo dato ordine. Da poi comenciò andar per el tavoliero el facto del Conte Carlo, e per dicta casione bisognò mettere insieme ognuno, chè l’ebero molto caro. Et essendo il campo del Conte Carlo in quello de Siena, et comprendendose chiaramente la cosa non haver durata, fu facta deliberation d’andare a campo a Montone, e tenere in tempo l’assedio più che se posseva, a chagion che costoro havesser tempo a dare ordene alla expedizione della faccienda; et per decta casione venne Francesco de’ Pazzi in quel tempo qui in Fiorentia con demostration de fugir l’aiere, e fo a questo effecto. Et essendo stato decto Francesco per alchuni giorni, scrisse a Roma all’Arcievescovo como passavano le cose, e che bisognava riscaldare et pungier messer Iacomo, e farglie intendere tucti e favori se arà in questa cosa etc.,...[579] et il modo delle gienti d’arme; e tucto quello favore se podeva havere, farglielo intender chiaramente; et intesolo se lassasse poi el pensiero a lui, che a tucto daria buono ordene. Et accadendo in quello medesimo tempo la malattia del signor Carlo di Faenza, et essendo stato longo tempo amalato, venne in pericolo de morte. Et dubitandose assai della morte sua, parse al Conte et allo Arcievescovo havere scusa licita di mandarme qui, con intention che io vedesse i modi de questa cictà et anchora del Magnifico Lorenzo, et che io parlasse con seco, e intendesse da lui, volendo el Conte cerchar de [551] aravere[580] el suo stato, cioè Valdeseno, que favore se podeva haver da Sua Magnificentia e da questa Republica per suo mezzo; e che glie fesse intendere, che il signor Conte sperava più in sua Magnificentia che persona del mondo, e che in questo io intendesse el consiglio et el parere suo. E che gle fesse ancora intendere che, non obstante alchune chose fossero state fra loro, el Conte le voleva buttar tucte da parte, e in omne cosa desponerse a compiacerlo, et haverlo in loco de patre; e con molte altre buone parole apresso, quale erano la maggior parte simulate. Et arrivando io qui tardi la sera, non poti’ parlare con Sua Magnificentia. La mattina andai a trovarlo, e se ne venne di socto, vestito a nero per la morte dell’Orsino, et fomo insieme; nè altramente me respuose che si fosse stato patre del Conte, nè con altro amore; in modo che a me fe’ maravigliare, havendo inteso da altri et poi ritrovandolo così ben disposto in le cose del Conte, che veramente non s’averia possuto parlar per niuno fratello più amorevolmente, che me parlò, dicendome: Tu te ne girai a Imola, et vederrai chome trovi le chose, e daraimene aviso de quello te parerà s’abbia a fare dal canto nostro, chè tucto si farà sensa manchar de niente per satisfar alla Signoria del Conte, al quale e in questo et in omne altra cosa me sforserò sempre a satisfarlo.... con li più amorevoli ricordi, che possesse mai patre a figliuolo; li quali ricordi li tacerò per bene. La sua Magnificentia gli deve bene havere a memoria: pur quando gli parrà che io li chiarisca, pensece bene e diamene aviso, che io li chiarirò.

Da poi me n’andai all’ostaria de la Campana a disinare; e havendo a parlar con Francesco de’ Pazzi e con misser Iacomo pur de’ Pazzi, a’ quali haveva lettere di credenza del signor Conte e dello Arcievescovo, infin che si desinò, mandai a intendere que n’era de loro. Me fo decto, che Francesco era andato a Lucca; e non c’essendo, mandai a dire a misser Iacomo predecto, che io haveva bisogno de parlarli, e de cose de importanza, et che se voleva che io andasse a casa sua, che io anderia, e se lui volea venire all’ostaria, che io l’aspectaria. Misser Iacomo predecto venne all’ostaria da la Campana, dove lui e mi cie ritirassimo in una chamera in secreto, e per parte del Nostro Signore el confortai e salutai, e così da parte del signor Conte Hieronimo e dello Arcievescovo, dei quali Conte et Arcievescovo io havia una lettera credential per uno. Le appresentai; le lesse, e lecte disse: Che havemo noi a dire, Giovanbaptista? havemo noi a parlar de Stato? Dissi, madiasì. Me respuose: Io non te voglio intender per niente, perchè costoro se vanno rompendo el ciervello, et voglion deventar Signori de Fiorenza; et io intendo meglio queste cose nostre de loro; non me ne parlate per niente, che non ve voglio ascoltar. [552] E persuadendolo pure io all’ascoltarme, se contentò d’intendermi. Que voi tu dire? Io vi conforto da parte de Nostro Signore, con el quale, prima che io partissi, gle parlai; e presente el Conte e l’Arcivescovo, me disse Sua Sanctità, che io vi confortasse a spedir questa causa de Fiorenza, perchè lui non sa in que tempo possa accadere un altro assedio de Montone da tenere sospese e insieme tante giente d’arme e così appresso al vostro terreno; et essendo pericoloso lo indutiare, ve conforta a far questo. Madiasì, che Sua Sanctità dice che vorria sequisse la mutatione dello Stato, ma senza morte de persona. E dicendoli io, presente el Conte et l’Arcievescovo: Padre Sancto, queste chose se potranno forsi mal fare senza morte de Lorenzo et de Giuliano, e forsi degli altri; Sua Sanctità me disse: Io non voglio la morte de niun per niente, perchè non è offitio nostro aconsentire alla morte de persona; e bene che Lorenzo sia un villano e con noi se porte male, pure io non vorria la morte sua per niente, ma la mutatione dello Stato sì. Et el Conte respuose: se farà quanto se poderà, acciò non intervengha; pur quando intervenisse, la Vostra Sanctità perdonarà bene a chi el fesse. El Papa respuose al Conte e disse: Tu si’ una bestia; io te dico: non voglio la morte de niuno, ma la mutatione de lo Stato sì. E così te dico, Giovanbaptista, che io dessidero assai che lo Stato de Fiorenza se mute, e che se leve delle man de Lorenzo, che ell’è un villano et uno cattivo homo, et non fa stima de noe: e tuctavolta ch’e’ fosse for de Fiorenza lui, farissimo de quella Republica quello vorissimo, et seria ad un gran preposito nostro. El Conte e l’Arcievescovo, che erano presente, dissero: La Sanctità Vostra dice el vero, chè quando aviate Fiorenza in vostro arbitrio e posserne desponere como porrete, si serà in man de costoro, la Sanctità Vostra metterà lege a mezza Italia, et omne uno haverà caro esserve amico: sì che, siate contento se faccia ogne cosa per venire a questo effecto. La Sua Santità disse: Io te dico che non voglio: andate e fate chome pare a voi, purchè non cie intervengha morte. E con questo ci levassemo denanzi da Sua Sanctità, facciendo poi conclusione esser contento dare omne favore et aiuto de giente d’arme od altro che acciò fosse necessario. L’Arcievescovo rispuse e disse: Padre Sancto, siate contento che guidiamo noi questa barcha, che la guidaremo bene. E Nostro Signore disse: Io sono contento. E con questo cie levassimo da i soi piedi, e reduciessemociene in chamera del Conte, dove fo poi discussa la cosa particularmente, e concluso che questa cosa non si posseva fare per niuno modo sanza la morte de costoro, cioè del Magnifico Lorenzo e del fratello. E dicendo io, esser mal facto, me respusero, che le cose grandi non se possevano fare altrimente; e sopra de ciò fo dati molti exempli, che seria longo a scriverle; et finaliter fo concluso, che per intendere el modo, bisognava esser qui, e parlar con Francesco e misser Iacomo, e intendere a puncto quello [553] era da fare, e intesolo mandare a effecto. Io fui qui. E non trovando Francesco, non volse[581] fare altra conclusione; se non che me disse: Vattene a Imola, e alla tornata tua sarà qui Francesco, et deliberarasse tucto quello sarà da fare. I’ me n’andai a Imola, dove stecti pochi giorni; perchè chosì haveva in commessione per la expeditione di decta causa. E i’ nel tornare a drieto foi a Cafagiuolo, dove trovai la Magnificentia de Lorenzo e de Giuliano, e havendo referte al Magnifico Lorenzo como haveva trovate le cose del Conte, me consegliò con le più cordiali et amorevole parole del mondo, dicendome che per el signor Conte haveva deliberato fare ogni cosa per farli intendere, che glie voleva esser buono amico. Et havendo Sua Magnificentia deliberato tornare a Fiorenza, cie ne venissimo di compagnia; dove per la via me fe intendere anchora più chiaramente quanto era el suo buono animo inverso del Conte, che lo tacerò, perchè seria longo lo scrivere. Arrivai in Fiorenza, e fui con Francesco, con el quale presi ordene de non partire quel dì, acciò che la nocte cie retrovassemo con misser Iacomo; e così fo facto. La nocte, dicto Francesco venne per me, e condusseme in camera de misser Iacomo, dove fo parlato assai de questa cosa, e la conclusione fo questa, che per la expedition bisognava più chose. Una che l’Arcivescovo fosse de qua, e che vedesse venir lì con qualche scusa licita, in modo non desse suspecto, e a questo lassava pensarlo al Conte e a lui; e che alla sua venuta se piglierà poi forma de quello s’avesse a fare. E che si fesse cifre, per le quali si possessi scriver bene, e che non dubitava (havendo el favor delle gente del Papa etc.).... che la cosa non venissi facta; ma che per farla netta, bisognava che uno dei doi fratelli fussero fora; et che immediate che la cosa havesse questo di certo, la spacciariamo. Et che tra el Magnifico Lorenzo e ’l Signor di Piombino si tractava parentado per Giuliano, e sequendo, seria necessario un de’ loro andassi là, el quale andava, la cosa era spacciata. Ma essendo tucti due in la cictà, per niente non voleva fare, perchè non gli pareva posser reuscirle. E Francesco diceva altremente, che ad omne modo si faria; e sempre gl’andò per la mente, in chiesa o a giuoco di carte o a nozze, pur che fussino tucti dua in uno loco, gle bastaria l’animo di farlo; et che non ci voleva se non pochi con seco; et recercomene a me, che io volessi quello che mai el volsi fare. Lui disse, trovaria el modo bene a questo, e che si desse pur più tempo che se poteva, e mandassesi l’Arcievescovo in qua, che a tucto si daria bene expeditione; e che di tucto quello s’avessi a fare, s’aviseria. Intesa la conclusion, me n’andai a Roma e referi’ tucto al Conte e allo Arcievescovo; e subito fu presa per el Conte deliberation de mandare l’Arcievescovo sotto color de le cose de Favenza [554] etc.; e a me me ordinò me n’andassi a Imola con cento provisionati e con quello poche giente d’arme, che gl’erano, stesse preparate ad omne requisitione de costoro, et etiam con i soi popoli etc.... Io me parti’ et andamene a Imola e da poi a Montugi; e fui una nocte con misser Iacomo e con Francesco, e figli intendere l’ordine dato da ogni banda, e che questa chosa bisognava expeditione, et da parte etc.... del Conte gle solicitai assai a dicta expeditione, prima che el campo se devidesse. Loro me respusero, che non li bisognava sproni ma morso, e che ad omne modo vederla expedirlo in questo tempo, e che io stessi preparato, che sperava avisarme presto quello havessi a fare, e che al suo adviso non preterisse niente; et io dissi di farlo, e con questo me n’andai. E non trovando costoro commodità de farlo in quel tempo, per esser la persona del Conte Carlo qui e alloggiato in casa dei Martelli, deliberorono lassarlo stare per fine a tempo novo; et avisò, che se devidisse el campo, e chosì fo fatto. Nè de questa cosa fu parlato più per uno pezo etc. Et essendo stato a Imola per la recuperation de Valdiseno, et essendosi recuperato, me n’andai a Roma questo marzo, dove cie trovai la Signoria del Conte e Giovanfrancesco da Tolentino e messer Lorenzo da Castello e Francesco de’ Pazzi etc....; fra i quali molte volte si parlava de queste cose; et che se comenciava adesso aproximar el tempo d’expedir decta causa. E domandando io que modo era questo, me disse: Lorenzo deve venir qui per questa Pasqua, et quamprimum se senta la sua partita, Francesco se parterà anchora lui, et andarà a spedirsi; e farse el servitio a quello remanerà, et all’altro, inanzi che torni, se penserà quello se doverrà far de lui, et terrassi con esso tal modo, che la cosa sarà bene assettata inanzi che se parta da noi. Io gle disse: Faretelo morire? Me respuse: Madianò, che questo non voglio per niente, che qui habbia alcuno dispiacere; ma inanzi che el parta, le cose saranno bene assectate, in forma che staranno bene. Domandai el Conte: Nostro Signore sa questo? Me disse: Madiasì. Dico: diavolo, egl’è gran facto che el consente! Me respuse: Non sa’ tu, che gle famo fare quello volimo noi? Basta che le cose andranno bene. E stettesi in queste trame parechie dì del suo venire o no. Da poi, veduto che non veniva, deliberaron ad ogni modo cavarne le mane prima che fosse fora maggio etc.... Et chomo ò detto più e più volte, di questo ne fo parlato in la chamera del Conte, e como manchava materia, se tornava in su questa, e chi prima si trovava insieme co’ loro, ne parlava, dicendo che per niente la cosa podeva durar così, che non venissi a palese, e questo per esser in tante lingue, e che ad ogne modo bisognava darli speditione. Onde che per decta casione fo preso per partito, che Francesco se ne venissi qui, e Giovanfrancesco da Tolentino et io cie ne andassemo a Imola, e misser Lorenzo da Castello etc...., per dare ordine a quello s’avesse [555] da fare, e poi se ne tornasse a Castello; et omne uno colle preparation facte stesse apparechiato a tucto quello che da messer Iacomo, l’Arcievescovo e Francesco fosse ordinato, e che ad omne sua requesta omne uno fusse presto a far quanto per loro saria comandato. E questo ordine ce fu dato tucto per el Signor Conte, in Roma. Da poi vene ultimamente el Vescovo de Lion, el quale ce comandò de novo, che ad omne requisition dei sopradetti fossemo apparechiati sanza fare una difficultà al mondo; e chosì s’è facto, nè mai se intese niuno loro ordine, si non lo sabato a doi hore di nocte; e poi la domenica mutorono anchora proposito. Et in questa forma sono state governate queste chose, diciendo imperò sempre, che l’onor de Nostro Signore e del Conte cie fosse ricomandato. E con questo ordine la domenica mattina, a dì XXVI d’aprile MCCCCLXXVIII, se fece in Sancta Liberata quanto è publico a tucto el mondo.

Item, che tornando de Romagna, et andando a Roma, quando io fui là, e parlando con Nostro Signore d’altre cose, me disse: poi, Giovanbatista dell’Arcievescovo e de Francesco, che diceva voler far tante chose, e’ non savessero mutare uno Stato chomo quello de Fiorenza, ma non credo savesse pure acozzare tre ove in un bacile, se non con cianciatori. Tristi che se impaccia con loro.

Item, che el signor Conte m’ha dicto molte volte, che Nostro Signore à così gran desiderio della mutatione de questo Stato, como noi; et se tu intendesse quello dice, quando semo lui e mi, diresti quello che dico io.

Io Giovanbaptista da Montesecco confesso e fo fede esser vere tucte le predicte cose scripte in un foglio intero et in uno altro mezzo, e qui di sopra, e quanto io ò scripto haver dicto a misser Iacomo qui in Fiorenza, della mente e voluntà della Sanctità del Papa; e queste cose sono verissime, et io mi trovai presente, quando la Sua Sanctità lo disse, e tucto quanto è scritto, è de mia man propria.

Io Matheo Tuscano da Milano, cavalero e presente Potestà della magnifica cictà di Fiorenza, sono stato presente, insema colli reverendi Patri infrascripti, videlicet ut infra, che el prefato Iovanne Batipsta ha detto, che quanto è scripto sopra, in un foglio intero e in uno altro mezzo e in questo, che tucti s’alligaranno inseme, sono de sua propria mano, et confessò esser vero quanto de sopra è scripto. Et così ne fazo fede de mia propria mano, che gli è la propria verità quanto in esse scripto se contenne. A’ dì IIII di maggio MCCCCLXXVIII, in Firenza.

Io Frate Batipsta d’Antonio, priore al presente di San Marcho di Firenze, dell’Ordine de’ Predicatori, fu’ presente a decta confessione, e fo fede, che detto Giovanbatipsta disse tucto esser di sua mano, et esser la propria verità quanto in esse si contiene. Detto dì.

Io Benedetto d’Amerigo da Firenze, monaco e priore indegno [556] della Badia di Firenze, fo fede e fui presente quando el prefato Giovanbatipsta da Montesecco confessò essere di sua propria mano le predette scripture, delle quali nell’altra faccia di questo foglio si fa mentione nella subscriptione del Podestà et Frate Batipsta. Et io fo fede, che disse esser la propria verità quanto in esse si contiene. Però ò facto questo di mia mano, detto dì.

Io Frate Nofri d’Andrea da Firenze, dell’Ordine de’ Frati Predicatori, fui presente quando el detto Giovanbatipsta confessò le dette scripture essere di sua propria mano et essere la propria verità quanto in essa si contiene. E per chiarezza ò facto questa scriptura di mia mano, dì decto di sopra.

Io don Miniato di Francesco d’Andrea da Firenze, monaco e professo della Badia di Firenze, fu’ presente quando detto Giovanbatista confessò le dette scripture esser di sua propria mano, e esser la propria verità quanto in esse si contiene. E in fede di ciò ò facto questa di mia mano, el decto dì.

Io don Antonio di Domenico, monaco di Cestello de Florentia, fo fede e fui presente quando el sopradecto Giovanbatipsta confessò essere di sua propria mano le dette scripture, et esser la propria verità quanto in esse si contiene. Et in fede di ciò ò facta questa subscriptione di mia mano, detto dì sopra.

Io don Marco di Benedetto, dell’Ordine di Cestello, fui presente quando detto Giovanbaptista liberamente confessò esser di sua propria mano le predette scripture, e che era il proprio vero quanto in esse si contiene. E in fede di ciò ò fatta questa subscriptione di mia propria mano, dì detto di sopra.


In nomine Domini Nostri Yhesu Christi, amen. Anno ab eius salutifera incarnatione millesimo quadringentesimo septuagesimo ottavo, indictione XI, die vero XI mensis augusti. Hoc exemplum per me Andream notarium infrascriptum, ex orriginali, scripto manu dicti Iohannis Batiste, magnifico domino Potestati Civitatis Florentiæ insinuatum fuit, et in eius presentia, per me ipsum Andream notarium et alios infrascriptos notarios, diligenter cum originali scriptura, manu propria dicti Iohannis Batistæ, auscultatum. Et cum idem Potestas cognoverit illud cum ipsa originali scriptura per ordinem concordare; ut adhibeatur eidem exemplo de cetero plena fides, suam et Comunis Florentiæ interposuit auctoritatem et decretum.

(L. S.) Ego Simon olim Grazini Iacobi Grazini, civis et notarius florentinus, imperiali auctoritate index ordinarius ac notarius publicus, hoc suprascriptum exemplum attestationis dicti Iohannis Baptiste, cum subscriptionibus eorum qui presentes fuerunt, de quibus supra, una cum infrascriptis ser Carolo Pieri Betti et ser Tommasio ser Bartolomei de Orlandis et ser Dominico Buonaccursii et ser Pace Bambelli notariis, ad auctenticam scripturam prefatam, [557] scriptam dicti Iohannis Batiste, coram prefato domino Potestate diligenter et fideliter auscultavi; et quia utrumque concordare inveni de ipsius domini Potestatis mandato in eiusdem exempli fidem et testimonium me subscripsi, et signum meum apposui consuetum, dicta die XI suprascripti mensis augusti anni MCCCCLXXVIII.

(L. S.) Ego Carolus Pieri Betti de Iohanninis, notarius publicus ac civis florentinus, imperiali auctoritate iudex ordinarius, hoc suprascriptum exemplum attestationis dicti Iohannis Baptiste cum subscriptionibus eorum qui presentes fuerunt, de quibus supra, una cum suprascripto ser Simone Grazini Iacobi et infrascriptis ser Tommasio ser Bartolomei de Orlandis et ser Dominico Buonacchursii et ser Pace Bambelli notariis, ad autenticam scripturam prefatam, scriptam manu dicti Iohannis Baptiste, coram prefato domino Potestate diligenter et fideliter auscultavi; et quia utrunque concordare inveni, de ipsius domini Potestatis mandato, in eiusdem exempli fidem et testimonium me subscripsi et solito meo signo signavi, dicta die XI dicti mensis augusti anno Domini MCCCCLXXVIII.

(L. S.) Ego Tommas ser Bartolomei Neri de Orlandis, notarius publicus ac civis florentinus, imperiali autoritate iudex ordinarius, hoc suprascriptum exemplum atestationis dicti Iohannis Batiste, cum subscriptionibus eorum qui presentes fuerunt, de quibus supra, una cum suprascriptis ser Simone Grazini Iacobi et ser Charulo Pieri Betti et infrascriptis ser Dominicho Bonachursi et ser Pace Banbelli notariis, ad autenticham scripturam prefatam, scriptam manu dicti Iohannis Batiste, coram prefato domino Potestate, diligenter et fideliter ascultavi et quia utrumque concordare inveni, de ipsius domini Potestatis mandato, in eiusdem exempli fidem et testimonium, me subscripsi et solito meo signo signavi, dicta die XI dicti mensis augusti anno Domini MCCCCLXXVIII.

(L. S.) Ego Dominicus Bonacursii Dominici, civis et notarius florentinus, imperiali auctoritate iudex ordinarius ac notarius publicus, hoc suprascriptum exemplum attestationis Iohannis Batiste, cum subscriptionibus eorum qui presentes fuerunt, de quibus supra, una cum suprascriptis ser Simone et ser Carulo et ser Tommasio et infrascripto ser Pace, notariis, ad autenticam scripturam prefatam, scriptam manu dicti Iohannis Batiste, coram prefato domino Potestate, diligenter et fideliter auscultavi, et quia utrunque concordare inveni, de ipsius domini Potestatis mandato, me, in eiusdem exempli fidem et testimonium, me subscripsi et signum meum apposui consuetum, dicta die XI dicti mensis augusti MCCCCLXXVIII.

(L. S.) Ego Paces Bambelli Pacis, civis et notarius florentinus, imperiali auctoritate iudex ordinarius ac notarius publicus, hoc suprascriptum exemplum attestationis Ioannis Baptiste, cum subscriptionibus eorum qui presentes fuerunt, de quibus supra, una cum suprascriptis ser Simone, ser Carolo et ser Thomaxio et ser Dominicho [558] Bonacorsii notariis, ad autenticam scripturam prefatam, scriptam manu dicti Ioannis Baptiste, coram prefato domino Potestate, diligenter et fideliter auscultavi; et quia utrumque concordare inveni, de ipsius domini Potestatis mandato, in eiusdem exempli fidem et testimonium me subscripsi et signum meum apposui consuetum, dicta die XI suprascripti mensis anni Domini MCCCCLXXVIII, indictione XI.

(L. S.) Ego Andreas quondam Romuli Laurentii, civis et notarius florentinus, imperialique auctoritate iudex ordinarius notariusque publicus, hoc suprascriptum exemplum, ex auctentica et originali scriptura prefati Iohannis Baptiste, sub nomine domini Iohannis Baptiste et eius manu propria scriptum, fideliter exemplavi; et postmodum, in presentia dicti domini Potestatis, cum dictis ser Simone, ser Carulo, ser Thomasio, ser Domenico et ser Pace, notariis suprascriptis, diligenter cum ipso orriginali auscultavi; et quia utrumque concordare inveni, de ipsius domini Potestatis mandato, ad eius exempli fidem et testimonium, me subscripsi et signum meum apposui consuetum, dicta die XI dicti mensis augusti anni Domini MCCCCLXXVIII, indictione XI, feliciter.

Universis et singulis ad quos presentes advenerint Antonius de Humiolis de Gualdo, Decretorum doctor, reverendissimi in Christo patris et domini domini Raynaldi de Ursinis, Dei et Apostolice Sedis gratia Archiepiscopi Florentini Vicarius in spiritualibus generalis, post salutem, fidem facimus atque testamur. Quod suprascripti ser Simon Grazini Iacobi Grazini et ser Carolus Pieri Betti de Iohanninis et ser Thommas ser Bartholomei Nerii de Orlandis et ser Dominicus Bonaccursii Dominici et ser Paces Bambelli Pacis et ser Andreas Romuli Laurentii et quilibet eurum, tempore preinserti transumpti facti, et satis antea et hodie fuerunt et sunt publici legales auctentici et fide digni tabelliones atque notarii florentini, eorumque et cuiusque eorum scripturis publicis, in quibusvis locis in quibus de ipsi respective notitia habetur, semper, in iudicio et extra, adhibita fuit et adhibetur plena indubia atque intemerata fides, quemadmodum scripturis publicis cuiuslibet alterius fidedigni legalis et publici tabellionis atque notarii; in quorum fidem et testimonium premissorum, presentes literas fieri, et per infrascriptum nostrum et nostre Curie scribam subscribi fecimus, pontificalisque sigilli Curie prefate iussimus impressione communiri. Date Florentie, in Archiepiscopali palatio, anno Incarnationis Dominice milleximo quadringentesimo septuagesimo octavo, indictione undecima, die vero duodecimo mensis augusti.

Ego Mathias Cennis Aiuti, notarius et civis florentinus et dicte Curie Archiepiscopalis Florentine Scriba, ad fidem subscripsi.

[559]

Nº X. (Vedi pag. 399.)

ISTRUZIONE DI SISTO IV A MESSER ANTONIO CRIVELLI MANDATO SUO AL RE FERRANDO; SCRITTA MENTRE LORENZO ERA TUTTORA IN NAPOLI E IL RE SI VEDEVA GIÀ MOLTO INCLINATO AD ACCORDARSI CON LUI. FEBBRAIO 1480.

(Tratta dal Codice nº 22, appresso di noi.)

Essendo seguita la novità di Fiorenza in tanto vilipendio et carico di Santa Chiesa, parve a noi di consultare la Maestà del Re, che provisione gli paresse di farci, per la detention del Cardinale et dell’altre cose etc. Et havendo risposto S. M., per più sue, non solo parerli, ma confortatoci, persuasi et inanimiti noi a prender l’armi, offerendoci et promettendo voler fare ogni sforzo, et metter i figlioli et la vita propria per vendicar questa ingiuria fatta alla Sede Apostolica; di comune consenso fu deliberato di prender l’armi contro Lorenzo et suoi seguaci, come contra petram scandali et perturbatore della pace et quiete d’Italia, per metter la città di Fiorenza in libertà; sì come ancor noi et S. M. prefata, innanzi la detta novità, giustamente eramo obligati per scritture pubbliche, et di man proprie fatte, per la malignità d’esso Lorenzo, et per li scandali nati per sua opera in Italia et massimamente contra li Stati communi, et atteso che con simile studio havea Lorenzo cercato unirsi con la Lega contra detta Maestà per alienarci da quella.

Et primieramente, per giustificar la santa et giusta impresa, fu cominciato con l’armi spirituali, le quali non essendo bastate alla liberatione del Cardinale, fu necessario venire all’armi temporali, cioè alla guerra; nella quale il Re et ciascuno l’ha veduto quanto ci siamo portati virilmente, non manchando di danari nè di altra cosa necessaria, governandosi sempre con i recordi et consigli di S. M. Questo medesimo facemmo nella prattica della pace, quando tutte le potenze ancor fuor d’Italia erano al conspetto nostro, havendo in ogni atto quel riguardo all’honore et dignità del Re che della Chiesa.

Quest’anno presente habbiam fatto il medesimo sforzo et maggiore assai che l’anno passato, et per l’accrescimento et sforza maggiore dei nostri a Perugia; seguitando sempre di meglior animo per riportarne vittoria, per il fine decto di sopra, et per l’honor [560] comune; et ciò non solo nella guerra di Toscana, ma di Lombardia. Et già il Signor Dio, per sua gratia, et l’havea preparata et quasi posta in mano per la rotta data ai nemici, nell’acquisto di Poggio Imperiale, con la vittoria ottenuta in Lombardia.

Vennero intanto gli ambasciatori del Duca, per compor la pace, domandando principalmente che si levassero l’offese. Parve alla Maestà del Re che noi gli dovessimo parlare gagliardamente, confortandoci che si dovesse insieme mandare a Milano per il medesimo effetto, instando per l’espulsion di Lorenzo; et così fu eseguito; et da S. M. furono sempre lodati i modi servati con i detti ambasciatori, et partiti esclusi; etiam che vi fossero molti Cardinali che ci dissuadessero detta esclusione, dicendo che tutto quello che confortava il Re, era perchè andassero a trattar la pace a Napoli, per haverne egli quel merito et honore, pur dicendoci che il Re la faria senz’haverci alcun riguardo, come all’hora fu communicato con messer Anello. Nondimeno noi non mutamo mai proposito, tenendo per certo che la Maestà Sua non faria altro che quel che fusse grato a noi et honore allo Stato della Chiesa, come continuamente ci affermava. Et non erano ancor arrivati gli ambasciatori a Napoli, che messer Anello ci propose, ch’era da considerare che se il Re escludeva in tutto gli ambasciatori del Duca, di non voler ricever Lorenzo in gratia, gliene seguia carico et l’esclusione della pace. Et noi, come quelli che dessideravamo la pace et l’honor del Re, fummo contenti che la prattica si tenesse, con tai mezi però che gli ambasciatori potessero chiamarsi esclusi, nè ancora obligarsegli per modo che, volendo pur l’esclusione di Lorenzo, non si potesse conseguire.

In questo mezo comparvero le littere della prattica di mastro Alessandro, con la copia d’alcuni capitoli offerti et a noi et alla Maestà del Re, per parte del quale messer Anello domandando un breve diretto al Re, per il quale potesse pratticare con detti ambasciatori in nome nostro; noi, benchè per diverse vie fossemo dessuasi a dar fede alla detta prattica, aggiungendosi che il Cardinal di Aragona haveva promesso molto largamente allo stato di Milano, che il Re accettarebbe i capitoli, ci contentammo che il Re trattasse a nome nostro, dicendo a messer Anello che scrivesse, con questo che la Maestà Sua ne avvisasse dì per dì delle occorrenze.

Et arrivati detti ambassatori et poco dopo maestro Alessandro, la Maestà Sua scrisse haverli uditi, et ancora l’ambassatore del Duca di Bari, con li quali se era turbata più che mai fosse stata in vita sua; parendogli che quei Signori di Milano non correspondessero agli oblighi et benefitii receuti; dicendo che mandarebbe qua mastro Alessandro, il quale non venne mai.

Dopo questo, messer Anello mostrò littere del Re, per le quali monstrava dubitare, che lo stato di Milano non fusse a i communi [561] propositi. Item che il Re dubitava di una certa prattica de’ Venetiani col Re di Spagna et della prattica del detto Re con Genovesi; ricordando che era bene di venire alla pace per benefitio della Christianità, et ancora col perdonare a Lorenzo, mettendo mille deficoltà nella sua espulsione; et che quando bene l’espulsion seguisse, poteva egli nondimeno ritornare, come fece Cosimo; promettendo in ultimo che Nostro Signore haverebbe le conditioni portate per mastro Alessandro.

Noi, ancorchè nel secreto stessimo sospesi di questa proposta, non ci parendo haver sodisfatto al primo instituto per il quale fu prencipiata l’impresa, tenendo per certo che Lorenzo, il quale, beneficato, fu sempre cattivo, havesse ad esser peggiore nell’avvenire chiamandosi offeso; fummo nondimeno contenti di condescendere ai pareri del Re, et per suo rispetto perdonargli: con questo però che, se non si veniva alla conclusione di quanto si prometteva per mastro Alessandro si dovesse la vittoria dai Capitani.

La Maestà Sua, doppo che ci hebbe renduto gratie di tal remissione, disse che entrarebbe nella prattica nè mai consentirebbe alla pace salvo che con le condizioni ragionate, confermandosi col parer nostro, che la vittoria si seguisse. Et havendo scritto i Capitani dell’essercito che ogni speranza che si dava a Lorenzo, d’havergliesi a perdonare, era dannosa alla total vittoria, la Maestà Sua se ne turbò, dicendo che non si legava le mani all’essercito per la prattica della pace. Et fummo contenti di sodisfare al Re, non ostante che le ragione dei Capitani più ci sodisfacessero.

Hauto immediate Colle, Sua Maestà mutò parere; perchè, dove si dovea seguir la vittoria, fece far instantia che si levassero l’offese, per gratificare gli ambasciatori; di che prendemmo admiratione et dispiacere, cresciendo il sospetto che ci era stato posto; et stavamo durissimi a non voler consentire. Ma instando pur messer Anello, et cognoscendo noi non poter far la guerra soli, fummo contenti; protestando però che, se per questo levar dell’offese si difficoltassero le conditioni della pace, ci aggravaremmo in eterno del Re; et così faremo della necessità virtù, restando però malcontenti, conoscendoci esser levata la vittoria et il contento di haver cacciato quel tiranno, et restituita la libertà al Popolo fiorentino et la quiete et tranquillità a tutta Italia. Restava a noi questa speranza che, havendoci il Re tirato dove haveva voluto, dovesse almeno concludere la pace con le conditioni ragionate et haver qualche rispetto all’honor di Dio, di Santa Chiesa et suo proprio.

Lorenzo andò a Napoli, della quale andata il Re scrisse non haver hauta notitia, ma che, se andava per mancare ad una minima parte delle cose promesse per mastro Alessandro, non l’udirebbe, et lo licentiarebbe; et che in quel caso noi dovevamo metter la mitra et tutto lo Stato della Chiesa, et la Maiestà Sua [562] vi voleva porre la corona et dieci Regni, se tanti ne havesse hauti, per proseguire l’espulsione di Lorenzo et la sua total rovina.

Stringendosi la prattica, il Re scrisse che Lorenzo negava che fussero state promesse alcune di dette conditioni etc. Et lasciamo andare che non sia stato licentiato, ma è stato ogn’hora maggiormente honorato. Doppo, Sua Maestà ha scritto che Lorenzo non vuol venire a domandar perdono; et perciò essortatoci a levarsi di questa mente, che abbia a venire: non considerando che noi non habbiamo altro colore di honor di questa impresa, che di tal venuta.

Propose di più che si dovesse concedere un certo termine ai Signori di Romagna, di poter domandar perdono, mettendo per fermo et saldo il capitolo di Francia.

Et ricusando noi di voler acconsentire a queste così vittuperose conditioni, la Maiestà Sua di novo scrisse, che havea hauto Lorenzo et fattolo chiaro dell’animo nostro. Diceva haverlo ridotto in modo che sperava che condescenderebbe alla sua venuta con buone sigurtà, et così acconsentirebbe al capitolo dei Vicarii, et a comprometter le terre, et secondo che era stato ragionato.

A’ tre dì dipoi, il Re scrisse, che Lorenzo havea mutato openione, perchè lo stato di Milano non consentiva ad alcuna parte delle cose ragionate, confortandoci a mandar giuntamente ambassatori a Milano.

Noi habbiamo ricusato di mandare il detto ambassatore, sapendo che la mutatione non nasce da quella Maestà, la quale era inclinatissima et dispostissima all’honor di Dio, di Sua Santa Chiesa et alla pace, ma che da altri procedeva quella mutatione. Et che se la pace si poteva fare con le conditioni ragionate et promesse, fosse con il nome di Dio; et quando anche non, la Maestà Sua provedesse come ricercava il bisogno et l’honor commune, havendo Lorenzo nelle mani; il quale per le conditione nelle quali si trovava, non era da credere che ricusasse, nè, volendo, potesse ricusarle. Così la Maestà Sua procedeva unitamente con noi, com’era obligata in tanti modi et deve fare; acciò che non si verificasse quello che è stato detto pubblicamente, cioè che la Maestà Sua, per salvare Lorenzo, non se era curata dell’honore di Dio, della Chiesa et del suo proprio. Et quando la pace non si potesse havere con le dette conditioni, noi ci risolvemo di non mai acconsentire et di restar più tosto così così, raccomandandoci a Dio et a san Pietro, sperando che ci habbiano d’aiutare. Doppo questa conclusione il Re, per mezo di messer Lorenzo da Castello, ha proposto l’ultimo partito, cioè che la dechiaratione dei Vicari si rimetta nella Maestà Sua. Et non contentando noi a questo, di nuovo lo replica a voi, magnifico messer Antonio Crivello. Della qual cosa noi non solo habbiamo preso ammiratione ma gravissimo affanno et infinito dispiacere; parendoci che il Re, per queste vie, [563] cerchi di tirarci a quelle cose, che non possiamo concedere senza nostro grandissimo carico. Perchè, se ben noi potessimo pigliare ogni fede dal Re, non è però che non ce sia carico, non ottenendo l’esclusione de i Vicarii, nella publica stipulatione della lega compresa. Nè sì fa per il Re, havendo a sententiare secondo la voglia nostra, perchè così offenderà l’altra parte sententiando l’esclusione, quindeci dì o un mese doppo la stipulatione, come nella stipulatione della lega; et pare a noi che non vi sia dentro l’honor della Chiesa nè il nostro nè mancho del Re; il quale sempre si dirrà che, per sodisfare a Lorenzo, habbia posposto l’uno et l’altro, non obstante li beneficii recenti, l’obligation del feudo, l’investitura et le scritture publiche et di man propria, come di sopra. Et però noi ci siamo resoluti che si facci intendere al Re, che siamo stati contenti di perdonare a Lorenzo, per far quest’honore a Sua Maestà, et per fargli cosa grata; non ostante che noi conoscessimo havere la vittoria in mano, etiam che di questa impresa non ne consiguivamo alcuno honore, havendo noi speso un pozzo d’oro per ottenerla. Et siamo contenti perdonare a Lorenzo et di far la pace, quale habbiamo desiderato sempre, et per haverla buona et sicura fu cominciata la guerra. Et di ciò preghiamo il Re strettamente, quando si possa haver con le conclusioni ragionate et promesse tante volte per Sua Maestà; quando anco non si possano havere le conditioni promesse, noi ci conosciamo non esser mancato da noi di conseguir la vittoria, nè etiandio di non predir questo fine per le cose precedenti. Conosciamo non poter venire alle conclusioni, mancandosi delle cose promesse, senza nostro grandissimo vittuperio, alla qual cosa non siamo per acconsentire; ma ben preghiamo la Maestà Sua, che vi voglia provedere, come può ragionevolmente [e] deve fare, havendo Lorenzo nelle mani, et venendo da lui il manchamento, come gli è attribuito. Et quando Sua Maestà non voglia far questo, n’haveremo dispiacere per li detti rispetti, et haveremo patienza, sperando che Nostro Signore Dio non habbia d’abbandonarci, et confidaremo così nella sua misericordia.

[564]

Nº XI. (Vedi pag. 421.)

LETTERA CONTENENTE LE ISTRUZIONI E CONSIGLI DI LORENZO DE’ MEDICI AL FIGLIO GIOVANNI, QUANDO FATTO CARDINALE, ANDAVA A ROMA NEL MARZO 1492.

(Fabroni, Documenti, pag. 308.)

Messer Giovanni. Voi sete molto obbligato a Messer Domenedio, e tutti noi per rispetto vostro, perchè oltra a molti benefici et honori, che ha ricevuti la Casa nostra da lui, ha fatto che nella persona vostra veggiamo la maggior dignità che fosse mai in casa; et ancora che la cosa sia per sè grande, le circostantie la fanno assai maggiore, massime per l’età vostra et conditione nostra. Et però il primo mio ricordo è, che vi sforziate esser grato a Messer Domenedio, ricordandovi ad ogn’hora, che non i meriti vostri, prudentia o sollecitudine, ma mirabilmente esso Iddio v’ha fatto Cardinale, et da lui lo riconosciate, comprobando questa conditione con la vita vostra santa, esemplare et honesta; a che siete tanto più obbligato per havere voi già dato qualche opinione nella adolescentia vostra da poterne sperare tali frutti. Saria cosa molto vituperosa et fuor del debito vostro et aspettatione mia, quando, nel tempo che gli altri sogliono acquistare più ragione et miglior forma di vita, voi dimenticaste il vostro buono instituto. Bisogna adunque, che vi sforziate alleggerire il peso della dignità, che portate, vivendo costumatamente, et perseverando nelli studi convenienti alla professione vostra. L’anno passato io presi grandissima consolatione, intendendo che, senza che alcuno ve lo ricordasse, da voi medesimo vi confessaste più volte et communicaste; nè credo, che ci sia miglior via a conservarsi nella gratia di Dio, che lo abituarsi in simili modi et perseverarvi. Questo mi pare il più utile e conveniente ricordo che per lo primo vi posso dare. Conosco che, andando voi a Roma, che è sentina di tutti i mali, entrate in maggior difficultà di fare quanto vi dico di sopra, perchè non solamente gli esempi muovono, ma non vi mancheranno particolari incitatori et corruttori; perchè, come voi potete intendere, la promotione vostra al Cardinalato, per l’età vostra et per le altre conditioni sopraddette, arreca seco grande invidia, et quelli che non hanno potuto impedire la perfetione di questa vostra dignità, s’ingegneranno sottilmente diminuirla, con denigrare l’opinione della vita vostra, et farvi sdrucciolare in quella stessa fossa, dove essi sono caduti, confidandosi molto debba lor riuscire per l’età vostra. [565] Voi dovete tanto più opporvi a queste difficultà quanto nel Collegio hora si vede manco virtù. Et io mi ricordo pure havere veduto in quel Collegio buon numero d’huomini dotti et buoni, e di santa vita. Però è meglio seguire questi esempi, perchè facendolo, sarete tanto più conosciuto et stimato, quanto l’altrui conditioni vi distingueranno dagli altri. È necessario che fuggiate come Scilla et Cariddi, il nome della hipocrisia et come la mala fama; et che usiate mediocrità, sforzandovi in fatto fuggire tutte le cose che offendono, in dimostratione et in conversatione non mostrando austerità o troppa severità; che sono cose, le quali col tempo intenderete et farete meglio, a mia opinione, che non le posso esprimere. Voi intenderete di quanta importanza et esempio sia la persona d’un Cardinale, et che tutto il mondo starebbe bene se i Cardinali fussino come dovrebbono essere, perciocchè farebbono sempre un buon Papa, onde nasce quasi il riposo di tutti i Cristiani. Sforzatevi dunque d’essere tale voi, che quando gli altri fussin così fatti, se ne potesse aspettare questo bene universale. Et perchè non è maggior fatica che conversar bene con diversi huomini, in questa parte vi posso mal dar ricordo, se non che v’ingegnate, che la conversatione vostra con gli Cardinali et altri huomini di conditione sia caritativa et senza offensione; dico misurando ragionevolmente, et non secondo l’altrui passione, perchè molti volendo quello che non si dee, fanno della ragione ingiuria. Giustificate adunque la conscientia vostra in questo, che la conversatione vostra con ciascuno sia senza offensione. Questa mi pare la regola generale molto a proposito vostro, perchè quando la passione pur fa qualche inimico, come si partono questi tali senza ragione dall’amicitia, così qualche volta tornano facilmente. Credo per questa prima andata vostra a Roma sia bene adoperare più gli orecchi che la lingua. Hoggimai io vi ho dato del tutto a Messer Domenedio et a Santa Chiesa; onde è necessario, che diventiate un buono Ecclesiastico, et facciate ben capace ciascuno, che amate l’onore et stato di Santa Chiesa et della Sede Apostolica, innanzi a tutte le cose del mondo, posponendo a questo ogni altro rispetto. Nè vi mancherà modo con questo riservo d’aiutare la città et la casa; perchè per questa città fa l’unione della Chiesa, et voi dovete in ciò essere buona catena; et la casa ne va colla città. Et benchè non si possono vedere gli accidenti che verranno, così in general credo, che non ci habbiano a mancare modi di salvare, come si dice, la capra e i cavoli, tenendo fermo il vostro primo presupposto, che anteponiate la Chiesa ad ogni altra cosa. Voi siete il più giovane Cardinale non solo del Collegio, ma che fusse mai fatto infino a qui; et però è necessario che, dove havete a concorrere con gli altri, siate il più sollecito, il più humile, senza farvi aspettare o in Cappella o in Concistoro o in Deputazione. Voi conoscerete presto gli più e gli meno accostumati. Con gli meno si [566] vuol fuggire la conversatione molto intrinseca, non solamente per lo fatto in sè, ma per l’opinione; a largo, conversare con ciascheduno. Nelle pompe vostre loderò più presto stare di qua dal moderato che di là; et più presto vorrei bella stalla et famiglia ordinata et polita che ricca et pomposa. Ingegnatevi di vivere accostumatamente, riducendo a poco a poco le cose al termine, che per essere hora la famiglia et il padron nuovo, non si può. Gioie e seta in poche cose stanno bene a’ pari vostri. Più presto qualche gentilezza di cose antiche et belli libri, et più presto famiglia accostumata et dotta che grande. Convitar più spesso che andare a conviti, nè però superfluamente. Usate per la persona vostra cibi grossi, et fate assai esercitio; perchè in cotesti panni si viene presto in qualche infermità, chi non ci ha cura. Lo stato del Cardinale è non manco sicuro che grande; onde nasce che gli huomini si fanno negligenti, parendo loro haver conseguito assai, et poterlo mantenere con poca fatica, et questo nuoce spesso et alla conditione et alla vita, alla quale è necessario che abbiate grande avvertenza; et più presto pendiate nel fidarvi poco che troppo. Una regola sopra l’altre vi conforto ad usare con tutta la sollecitudine vostra, et questa è di levarvi ogni mattina di buona hora, perchè oltra al conferir molto alla sanità, si pensa et espedisce tutte le faccende del giorno; et al grado che havete, havendo a dir l’ufficio, studiare, dare audientia etc. ve ’l trovarete molto utile. Un’altra cosa ancora è sommamente necessaria a un pari vostro, cioè pensare sempre et massime in questi principii, la sera dinanzi, tutto quello che havete da fare il giorno seguente, acciocchè non vi venga cosa alcuna immeditata. Quanto al parlar vostro in Concistorio, credo sarà più costumatezza et più laudabil modo in tutte le occorrenze che vi si proporranno, riferirsi alla Santità di Nostro Signore; causando, che per essere voi giovane et di poca esperientia sia più ufficio vostro rimettervi alla S. S. et al sapientissimo giuditio di quella. Ragionevolmente, voi sarete richiesto di parlare et intercedere appresso a Nostro Signore per molte specialità. Ingegnatevi in questi principii di richiederlo manco potete et dargliene poca molestia; che di sua natura il Papa è più grato a chi manco gli spezza gli orecchi. Questa parte mi pare da osservare per non lo infastidire; et così l’andargli innanzi con cose piacevoli, o pur, quando accadesse, richiederlo con humiltà et modestia, doverà sodisfargli più et esser più secondo la natura sua. State sano. Di Firenze.

Fine del Tomo Secondo.

NOTE:

1.  Ricordi di Filippo Rinuccini. — March. Stefani, agli anni 1377-78.

2.  Leggiadramente il Machiavelli: «chi non ha lo Stato in questa terra, de’ nostri pari non trova cane che gli abbaj; e non siamo buoni ad altro che andare a’ mortori o alle ragunate d’un mogliazzo, o a starci tutto dì in sulla panca del Proconsolo a donzellarci.» (Mandragola, atto II, scena 3.)

3.  «Sempre parve da gran tempo che chi ha fare le parti guarda a farla a sè buona.» (March. Stefani, lib. XII, rub. 931.) — Vedi Cronaca del Morelli, pag. 272, i Consigli per non pagare le gravezze celando il proprio valsente, con artifizi che si descrivono; aggiugnendo infine: «non le pagare, rubèllati dal Comune ec.»

4.  Matteo Villani, lib. V, cap. 74.

5.  Vedi in più luoghi circa alle gravezze che s’imponevano sotto vari nomi, lo stesso Matteo; e Pagnini, Sulla Decima, tomo I. — Canestrini, Scienza di Stato de’ Fiorentini, 1ª Parte, Sulle Imposte.

6.  Pagnini, Sulla Decima, tomo I, pag. 16.

7.  Matteo Villani, lib. III, 106; lib. VIII, 71; lib. IX, 3; e March. Stefani, lib. XI, rubr. 883.

8.  Provvisione del 27 aprile 1369. — Petizione del 15 gennaio 1370 stile fior. — e Provvisione del 23 dicembre 1371.

9.  Quando a frenare le usure più ingorde vennero in Firenze chiamati gli Ebrei, ebbero proibizione d’imprestare a frutto più alto. Nell’anno 1420 uscì divieto di fare contratti a usura col pegno a più di 5 danari al mese, ch’è il 25 per cento all’anno; più tardi si trovano imprestiti fino al 30 per cento. (Pagnini, Sulla Decima, tomo II, pag. 139.)

10.  Un altro Monte fecero per la guerra di San Miniato, dove il capitale era solamente raddoppiato, così venendo a fruttare il dieci; si chiamò il Monte dell’uno due. (March. Stefani, lib. XI, rubr. 883.)

11.  «Ancora si fece legge; conciossiacosachè molti incantavano del Monte, e diceano: lo Monte vale 30 per centinaio questo dì; io voglio fare teco una cosa, io voglio poterti dare oggi a un anno, ovvero tu dare a me, quanto a 31 per cento; che vuoi ti doni e fa’ questo? e cadeano in patto; poi stava in sè. Se rinvigliavano, li comperava, e se rincaravano li vendeva, e ne promutava qua e là il patto 20 volte l’anno. Di che vi si puose su gabella fiorini 2 per cento a ogni promutatore.» (March. Stefani, lib. IX, rubr. 727.)

12.  Cavalcanti, Storie, tomo I, pag. 416; tomo II, pag. 463.

13.  «Veramente credo che comunemente già fa cinquanta anni, dal Mugello si sarebbe tratto diecimila uomini d’arme; ma i’ credo sicuro sieno diminuiti, come negli altri paesi tutti, e sì per la mortalità e sì per le guerre e gravezze, per le quali è suto forza a una gran gente il partirsi per non avere a stentare in prigione.» (Cronaca del Morelli, pag. 223.)

14.  Matteo Villani, lib. III, cap. 36. — Intorno al vivere del popolo di Firenze in quelli stessi anni qualcosa può trarsi da un capitolo dove l’autore dei Centiloquio, Antonio Pucci, descrisse non senza vivezza le genti che praticavano in Mercato Vecchio, e le cose che ivi si vendevano. (Deliz. Erud., tomo VI, pag. 267.)

15.  Vedi 1º vol., lib. III, cap. V; e Statuto Fiorentino, tomo II, pag. 195.

16.  Vedi 1º vol., lib. III, cap. IV e V.

17.  Quando una parte degli Albizzi, mutato casato, si chiamò degli Alessandri, tolsero entrambi le armi dall’arte ch’esercitavano, della Lana: gli Albizzi presero le Matasse, e gli Alessandri la Pecora.

18.  Tumulto de’ Ciompi, di G. Capponi.

19.  Ciò dallo Stefani; ma una Provvisione dei 23 giugno, letta dal giovine Ammirato (lib. XIV, pag. 721), mentre ordina che i rubatori restituissero il tolto, fa eccezione per coloro che aveano rubato a Lapo da Castiglionchio; tanto era in odio cotesto uomo.

20.  «E in quel medesimo dì uno che aveva nome Cecco d’Iacopo da Poggibonsi, coll’insegna dell’arme di libertà, la quale gli fu data per alcun nostro cittadino dell’ufficio degli Otto di guerra (del quale il nome per al presente mi taccio) fece di grandissimi danni e ruberie ec.» (Gino Capponi, Tumulto de’ Ciompi, pag. 222.)

21.  Questo afferma G. Capponi, che tra i narratori del Tumulto più aderisce agli Ottimati.

22.  G. Capponi, Tumulto de’ Ciompi. — Una lettera sopra il Tumulto, che sarebbe d’un testimone di veduta (Deliz. Erud., tomo XVII, pag. 170), contiene tra le altre Petizioni queste: «Che nell’offizio de’ Signori sia due de’ Minutissimi, due degli Artefici minuti, e il rimanente come tocca alle sette Arti maggiori e alli Scioperati: che all’offizio de’ dodici Buonuomini v’abbia tre di questi Minuti fuori d’Arti; e che dell’offizio de’ Gonfalonieri delle Compagnie, v’abbi quattro, e che di loro si debba fare squittinio di per sè: che il Gonfaloniere di Giustizia sia comune, a ciò possa toccare anco a loro. Che nessuno possa avere più d’un offizio per volta, salvo possa esser consolo. Che gli Uffiziali dell’Abbondanza della carne si levino e non si faccin più. Che nessuno possa esser preso per debito per di qui a due anni. Che quaranta di questi Minutissimi abbino la preminenza che ebbero gli ottanta del primo rumore. Che al Consiglio del Comune si arroga dieci de’ Minutissimi: che chi non ha offizio di Comune, non possa aver di quelli della Parte Guelfa: che Spinello della Camera, e sere Stefano e ser Matteo abbino la prestanza ch’ebbono gli ottanta: che il Gonfalone della Parte Guelfa stia in casa i Priori e mai si dia a’ Capitani per nessuna cagione: che niuno de’ Grandi possa essere del Consiglio del Comune, e in luogo loro sono i dieci qua addietro scritti per Arroti cioè de’ Minuti.» Giusto fu il popolo nel remunerare Spinello che aveva tenuto più anni i danari del Comune con lealtà e fede, e denunziò e ripose nella Camera tre mila ducati che aveagli donati l’Aguto quando prese la condotta; e morì povero, che non si potè fargli il mortorio come meritava, e fu dipinto per fama nella Camera del Comune. (Morelli, Cronaca, pag. 288.)

23.  Una Provvisione dei 21 luglio (Archivio di Stato) contiene quei punti che risguardano alla Parte guelfa ed allo Smunire; e inoltre che sia vietato ai Capitani di parte guelfa l’inviare arroti o aggiunti ai Consigli sia del Popolo sia del Comune, e che dieci popolani per Quartiere siano aggiunti di nuovo al Consiglio del Comune; che al Magistrato della Parte venga tolto il Gonfalone regale fatto fare da Lapo da Castiglionchio, siccome vedemmo. Inoltre contiene: che Spinello di Luca Alberti, ser Stefano Becchi e ser Benedetto Landi sieno consorti e confederati di Salvestro de’ Medici e degli altri Priori che furono seco in officio a tutto giugno. — Vedi per questa e per altre due Provvisioni di quel tempo l’Appendice Nº I, in fine di questo volume.

24.  «Il quale Michele era per addietro pettinatore di lana, come che allora fosse sopra i pettinatori e scardassieri d’Alessandro di Niccolò a salario, e la madre e la moglie faceano bottega di cavoli e d’erbe e dentro stoviglie di terra.» (March. Stefani, lib. X, rubr. 796.) — Questo Alessandro era degli Albizzi e fu quello il quale avendo sciamato, fondò la casa degli Alessandri. Abbiamo dal solo Leonardo d’Arezzo, che da giovinetto avea Michele esercitato in Lombardia il mestiere delle armi.

25.  «Gli Otto della Guerra si tennono grandemente gabbati perchè pareva loro essere certi d’avere a riformare la città eglino; ma la speranza e il pensiero fallì loro, perchè il Popolo minuto vollono essere signori loro: e fu molto giusto, che chi per propria ambizione consente le alterazioni nella città, meriterebbe altro.» Qui Gino Capponi pone termine al Commentario: noi continueremo.

26.  March. Stefani, lib. IX, rubr. 748 e 55.

27.  Nella Provvisione sopraccitata dei 23 giugno venne ordinata detta consorteria, con obbligo d’assistersi come se fossero d’una medesima casa o famiglia, la quale consorteria non vollero che desse fra di loro divieto agli ufizi.

28.  Scrive il Monaldi, che ai trentuno «furono dati i confini dove chiesero andare i confinati;» era discretezza a petto a quello che poi si fece.

29.  Tumulti del 1378. In Archivio Storico Italiano, tomo XVII, 3ª Dispensa, 1873.

30.  March. Stefani, lib. X, rubr. 800. — Boninsegni, Storie, lib. IV, pag. 625.

31.  Marchionne Stefani, lib. X, rubr. 801. — Frammenti di Cronichetta (Giorn. Stor. degli Arch. Toscani, tomo I, pag. 61, 78). — Ammirato, lib. XIV, pag. 737, e nella Provvisione degli 11 settembre: «illi de illa tertia Arte populi minuti sive Populi Dei, qui sunt a dicto scruptinio prohibiti et exclusi.»

32.  Il Monaldi nel Diario esprime pur egli la paura che si aveva in Firenze di quei Ciompi: «Se i minuti avessero vinto, ogni buon cittadino che avesse, sarebbe stato cacciato di casa sua ed entratovi lo scardassiere, togliendovi ciò che avesse; in Firenze ed in contado morto e diserto era ciascuno che nulla avesse.» Accenna pure alla importanza che avea pel popolo ottenere l’estimo.

33.  Marchionne Stefani, luogo sopra citato.

34.  Ciò appare dal Boninsegni, il quale scrive che Michele ed un Ghiotto da Secciano che si era portato francamente contro ai Ciompi, furono dichiarati abili ad avere ufficio o beneficio del Comune.

35.  Provvisioni degli 11 e 28 settembre (Appendice, Nº I).

36.  Giurarono «essere fedeli e devoti e amatori del Comune e popolo fiorentino e della sua libertà e della cattolica e cristianissima Parte Guelfa, e che avrebbero difeso a tutto potere il governo popolare per conservarlo in istato pacifico e libero.» (Ammirato, pag. 737.)

37.  Marchionne Stefani, lib. X; Deliz. Erud., tomo XV. — Ser Naddo da Montecatini; Deliz. Erud., tomo XVIII. — Boninsegni, Stor. Fior., lib. IV. — Machiavelli, Stor. Fior., lib. III.

38.  Il signor Palermo pubblicava insieme alle Laudi l’Apologia di Giannozzo: a lui lo Stefani certamente è così acerbo da non gli credere; il Boninsegni, senz’altro aggiugnere, tiene per vera l’imputazione.

39.  Marchionne Stefani. — Ser Naddo. — Boninsegni.

40.  Da un luogo malconcio della Cronaca di Marchionne Stefani (lib. XI, rubr. 857) apparisce come i Cherici avessero iscritta sul Monte una rendita di fiorini diciotto mila all’anno a titolo d’interesse o provvisione.

41.  Il Comune così guadagnava circa sessanta mila fiorini l’anno di interesse: ma fu grande cosa, perchè forse cinque mila persone aveano danari sul Monte, uomini e femmine: e molti aveano venduti i loro poderi o case, e chi disfatto bottega per l’ingordigia dell’interesse che il Monte pagava. Era vietato per legge mettere a partito o in guisa alcuna promuovere mutazione agli Statuti del Monte, e ciò fino dall’istituzione sua: ma aveano trovato modo a sospendere la legge (Stefani, lib. XI, rubr. 863), dalla quale erano eccettuati uomini e donne di case principesche; Durazzo, Della Scala, Visconti ed altri, i quali aveano danari nel Monte.

42.  Marchionne Stefani, lib. XI, rubr. 877.

43.  Era legge che fosse tagliata la mano a chi ferisse, e non pagasse fra dieci dì, di certe ferite. Al tempo dei Ciompi fu abolita quella legge. (Stefani, lib. XI. rubr. 864.)

44.  Leonardo d’Arezzo scrive che Benedetto Alberti era in armi sulla piazza quando Giorgio fu decapitato. Il Machiavelli vi aggiunge del suo un’arringa che lo Scali prima di morire avrebbe fatta a Benedetto; io poco m’affido all’autorità dell’Aretino che manda a morte Tommaso Strozzi insieme e a lato di Giorgio Scali. — Vedi anche Ser Naddo da Montecatini (Deliz. Erud., tomo XVIII); e Cronichetta di un anonimo fiorentino pubblicata dal signor Gherardi (tomo VI dei Documenti di Storia Italiana).

45.  Provvisioni dei 21, 22, 23 gennaio 1382 (stil. fior. 1381). Archivio di Stato. — Vedi Appendice Nº II.

46.  Ser Naddo da Montecatini scrive che Salvestro andò a Lucca a confine.

47.  Maddalena figlia di questo Carlo si era maritata (Diario del Monaldi) l’anno innanzi a Luchino Visconti, che ora viveva in Firenze spossessato come dubbio figlio di quell’altro Luchino Visconti che fu signore di Milano. È singolare che tali nozze in mezzo al governo plebeo fossero celebrate, come si trova, con palii e giostre mentre che il padre era a confine.

48.  Boninsegni e Ser Naddo.

49.  Rimane tuttora a un luogo dei Camaldoli di San Lorenzo il nome di Cella di Ciardo.

50.  Storie Fiorentine di Giovanni Cavalcanti, tomo II, pag. 487.

51.  Marchionne Stefani, lib. XI, rubr. 921-23. — Ser Naddo.

52.  Capitoli del Comune ec., regesto pubblicato dal signor Cesare Guasti. Firenze, 1866; tomo I, pag. 371-449.

53.  Lionardo Aretino, Stor., lib. IX. — Marchionne Stefani, lib. XII. — Boninsegni, lib. IV. — Ammirato, lib. XV. — L’Archivio Centrale di Stato (Lib. XIV dei Capitoli) ha documenti i quali risguardano a questa vertenza; e vedi una deliberazione della Signoria, Archivio Storico Italiano (tomo XIII, pag. 119).

54.  Marchionne Stefani, lib. XI, rubr. 777.

55.  Abbiamo il decreto di questa Balìa tra’ documenti pubblicati dal signor Passerini nella sua pregevole Istoria della famiglia degli Alberti. Il bando non era da principio che per due anni, e fu pronunziato dietro una petizione degli stessi Benedetto e Cipriano, i quali dicevano volersi per loro faccende assentare: singolare ipocrisia della sentenza la quale voleva dai condannati essere invocata.

56.  «Molti, gioventù che non passava l’adolescenza, si trovarono negli uffici per procuro de’ padri loro che erano nel reggimento; e occorse che facendosi lo squittinio in que’ tempi, si trovò che dei quattro tre non passavano i venti anni, e pur tali furono portati allo squittinio che giacevano nelle fasce.» (Filippo Villani, lib. XI, cap. 65.)

57.  Boninsegni, lib. IV. — Minerbetti, cap. IV e seg., dell’an. 1387.

58.  Sismondi, Hist. des Repub. Ital., chap. LIII.

59.  Boninsegni, Stor. Fior., lib. IV, pag. 685.

60.  Il Conte di Virtù avea di rendita ferma delle sue terre un milione e 200 migliaia di fiorini, senza l’imposte che faceva, ed in tempo di pace avanzava assai danari. (Goro Dati, Storia di Firenze, pag. LI.)

61.  Lionardo Aretino, lib. IX.

62.  Così appellato, secondo narra Giovanni di Iacopo Morelli nei Ricordi (Deliz. Erud., tomo XIX, 2) per aver egli, sebbene fosse grande ghibellino, combattuto corpo a corpo con un tedesco ed uccisolo.

63.  «Poi fece percuotere le mura con molte grosse bombarde, le quali mura perocchè erano non molto grosse, non poterono sostenere i colpi delle pietre, perocchè erano di più di trecento libbre l’una; anzi forarono in molte parti le mura, e in alcune parti le feciono cadere.» (Minerbetti, Cronaca, cap. XXII, an. 1390.)

64.  Malavolti, Storia di Siena, lib. IX, parte 2ª.

65.  Lionardo Aretino, lib. IX.

66.  Lionardo Aretino, lib. X.

67.  Sismondi, Histoire des Français. Cinquième partie, chap. XX.

68.  «Chevauchons liement (lietamente) sur ces Lombards; nous avons bonne querelle et juste et bon capitaine, si en vaudra notre guerre grandement mieux et en sera plus belle. Et aussi nous allons au meilleur pays du monde, car Lombardie reçoit de tous côtés toute largesse de ce monde. Si sont Lombards de leur nature riches et couards; nous y ferons notre profit. Chacun de nous qui sommes capitaines retournerons si riches, que nous n’aurons que faire jamais de guerroyer.» (Chroniques de T. Froissart, lib. IV, chap. 20.)

69.  Froissart, loc. cit. — Lionardo Aretino, lib. X.

70.  Noi qui seguitiamo Lionardo Aretino, grave istorico di questa guerra, la cui narrazione parve a noi che procedesse chiara e netta. Il Boninsegni ed il Minerbetti pongono l’impedimento delle acque sul fiume dell’Oglio e prima della rotta dell’Armagnac. Il Poggio s’attiene al racconto di Lionardo. (Storia, lib. III.)

71.  Lionardo Aretino, lib. X. — Ser Naddo da Montecatini. (Deliz. Erud., tomo XVIII, pag. 125 e seg.)

72.  Minerbetti, cap. XII, an. 1392. — Boninsegni, Storie, lib. IV.

73.  Provvisione del 19, 20 e 21 ottobre 1393. (Archivio di Stato.) — Vedi Appendice, Nº III.

74.  Morelli, Cronica, pag. 293.

75.  Lionardo Aretino scrive la cagione delle novità, e dell’esilio degli Alberti, fosse non tanto mancamento alcuno commesso di nuovo, quanto l’antica contesa delle parti ec.; e Ser Naddo: «Seguì detto rumore non per mancamento di nessuno degli Alberti, ma per opera di messer Maso degli Albizi Gonfaloniere, e per l’antica nimicizia che avea con gli Alberti, cominciata quando messer Benedetto, capo di quella famiglia, stette armato in piazza, mentre che Piero degli Albizzi e gli altri notabili cittadini furono indegnamente morti.» (Deliz. Erud., tomo XVIII, pag. 140.) — Vedi poi le lunghe calamità degli Alberti nella Istoria sopraccitata di quella famiglia.

76.  Scrive il Morelli (loc. cit.) «che da principio doveano essere sei mila, e che gli chiamarono giornee: fessene assai, ma non andarono innanzi;» e veramente erano troppi, da non fidarsene.

77.  Provvisione surriferita. — Ser Naddo da Montecatini appella l’Arte della Lana «cagione d’ogni bene, che si facesse in quelli anni nella Repubblica.»

78.  Minerbetti, Cronaca, cap. XXII, an. 1393.

79.  Ricordi di Filippo Rinuccini.

80.  Minerbetti, an. 1396, cap. XIV. — P. Boninsegni, an. 1396. — Lionardo Aretino, lib. XI. — Morelli, Cronaca. — Ser Naddo da Montecatini (Deliz. Erud., tomo XVIII, pag. 153). — Lettera Di Donato Acciaioli alla Signoria; Firenze, 1857; con le Opere del Sacchetti.

81.  Minerbetti, an. 1397, 1400. — Machiavelli, Stor. Fior., in fine del lib. III. — Morelli, Cronaca, loc. cit., ed alla pag. 324 e seg., dove narra come la Balía degli Ottantuno, fatta nel 1393, continuasse fino al 1404, e nelle borse fussero larghi a mettere nomi di persone da bene, e antiche a Firenze e specialmente delle Famiglie, i quali doveano avere trent’anni. Si vede pure come del tôrre quella Balía fosse il popolo molto lieto, ma gli uomini da guerra molto dolenti, perchè mutando anche l’imposta delle prestanze, credeano le paghe fossero peggio assicurate. — Vedi anche Morelli, Ricordi (Deliz. Erud., tomo XIX, pag. 10).

82.  Nella più sopra lodata Storia della Famiglia degli Alberti è ampia mèsse di documenti relativi alla persecuzione e quindi al ritorno di quella Famiglia: sono da vedere le condanne fatte con le Balíe degli anni 1401 e 1412; di poi cominciano le mitigazioni.

83.  L’effigie di Giovanni Aguto fu dipinta a buon fresco da Paolo Uccello nel Duomo: un trent’anni fa venne portata sulla tela, e si vede internamente sopra una delle minori porte della facciata.

84.  «I Fiorentini che sanno tutti i pertugi d’entrare e d’uscire che sono al mondo, a un’otta spiavano ogni dì ciò che faceva il Duca e si provvedevano a’ rimedi loro.» (Goro Dati, Storia, pag. 56, 57.) — «Sapeano a Firenze appunto quello che il Duca aveva d’entrata da potere spendere, e sapevasi tutta la spesa che egli portava tra in soldati e donare a’ Signori, e in ambasciate e in provvigioni e doni che dava per tener le terre a sua divozione; e sapevasi che a questa spesa gli mancava tanto d’entrata, massimamente perchè in tempo di guerra non gli rispondeva la metà, che a lui era forza gravare i suoi popoli di gravissime imposte.» (Idem, pag. 66.) — «Egli colla sfrenata volontà s’avea arrecato addosso peso e soma impossibile a poterla lungamente portare e sostenere, e era veduto e conosciuto per li Fiorentini che v’avea a scoppiare sotto.» (Idem, pag. 67.) — «E quasi aveano molti fatta la ragione colla penna in mano, e diceano come di cosa certa: tanto può durare.» (Ivi.)

85.  È in mano nostra l’originale del Copialettere della Repubblica Fiorentina per tutto quell’anno 1396. Quivi, tra molte lettere, sono le istruzioni per non meno di sessanta ambascerie fuori Stato, mandate in quell’anno a’ vari Signori, alle città collegate, a’ Capitani delle Compagnie: notabili quelle del 5 aprile agli ambasciatori Palmieri, Altoviti e Onofrio Arnolfi, mandati al Papa e al re Ladislao; quelle a Grazia dei Castellani e Andrea Buondelmonti i quali andarono a Sigismondo in Ungheria, e quelle a Francesco Rucellai ed a Lorenzo Ridolfi anch’essi mandati a Roma e a Gaeta il 4 giugno, e la lettera al Comune di Roma, 8 gennaio 1397. — Aveva la Repubblica inviato anche in Avignone un ambasciatore, il quale per mezzo del Cardinale di Firenze Piero Corsini procurasse aiuti di Francia; e quello stesso ambasciatore doveva andare pure in Guascogna a Bernardo conte d’Armagnac, sollecitandolo affinchè scendesse in Italia a vendicare contro al Duca di Milano la rotta data agli Armagnac e la morte del fratello. (Istruzioni a Pero di Ser Pero da Samminiato, 6 marzo 1395 st. fior.) — Vedi pure, circa le intenzioni del Papa, la Legazione a Roma di Iacopo Salviati nel 1401. (Deliz. Erud., tomo XVIII, pag. 200.)

86.  «In questi tempi fece messer Maso degli Albizzi lega col Re di Francia per noi, con certi disutili patti.» (Morelli, Ricordi in Deliz. Erud., tomo XIX, pag. 6.) — Vedi anche la Cronaca di Bonaccorso Pitti, il quale racconta distesamente le pratiche avute in Parigi col Re e coi Signori, presso ai quali aveva famigliarità grande pe’ molti viaggi da lui fatti in quella e in altre contrade, dov’era stato mercante, soldato, grande giocatore e uomo di corte, sinchè in Firenze non venne tardi agli uffici della Repubblica.

87.  Istruzioni a Maso degli Albizzi mandato a Parigi, 5 maggio; a Bonaccorso Pitti, 18 luglio; a Leonardo Frescobaldi ambasciatore al Papa, 14 dicembre. — Lettera al Papa, 4 novembre. — Lettere due al Re ed una alla Regina di Francia, 18 e 31 dicembre. — Istruzione a Bonaccorso Pitti rinviato in Francia, 16 gennaio (1397). — Istruzione a Niccolò da Uzzano, 11 gennaio. — Scrivevano a Maso (1 luglio) non si parta dal Re senza nostra espressa licenza. Questo volemmo notare come indizio della soggezione in cui cercava la Signoria tenere colui che ambiva pur d’essere come principe nella Repubblica.

88.  Lettera a Parigi, 28 agosto. — Vedi anche le Istruzioni a Palmieri Altoviti e Lodovico Albergotti inviati a Milano, 13 giugno.

89.  Lettera al Re di Francia, 30 novembre.

90.  Bonincontri, Annales Samminiatenses.

91.  Goro Dati, lib. IV.

92.  Minerbetti, Cronaca. — Boninsegni, Storie. — Lionardo Aretino, lib. XI.

93.  Malavolti, Storie di Siena, an. 1391-99.

94.  Morelli, Ricordi, (Deliz. Erud., tomo XIX, pag. 6).

95.  Minerbetti, Cronaca, an. 1399, cap. VII. — Ammirato, lib. XVI.

96.  Minerbetti, an. 1399, cap. VII e X. Cantavano tra le altre laudi questa:

«Misericordia, eterno Iddio;

Pace, pace, o Signor pio:

Non guardate al nostro error.»

Vedi anche Lionardo Aretino, sul principio del lib. XII.

97.  Afferma il Corio, che Francesco Gonzaga si riconobbe feudatario del Duca di Milano, e di ciò furono celebrati solenni e pubblici istrumenti.

98.  Vedi nella Cronaca di Giovanni Morelli, pag. 309, una satirica descrizione della spedizione di Roberto, e della privata diplomazia che facevano i mercanti fiorentini residenti in Alemagna, promettendo a Firenze grandi cose dell’Imperatore, e a questo danari senza averne dalla Repubblica il mandato. — Vedi poi tutta la legazione di Bonaccorso nella Cronaca scritta da lui, e le molte andate e venute in Alemagna e a Venezia, a motivo di danaro che facesse muovere l’Imperatore; il quale onorava Bonaccorso ed i fratelli suoi d’insegna data da lui e del titolo di Conti Palatini.

99.  Cronaca di Gio. Morelli, pag. 314 e seg. — Minerbetti, an. 1401-2, e Boninsegni, Storie.

100.  Lionardo Aretino, fine dell’Istoria. — Corio, Storia di Milano, part. IV.

101.  Legazione a Roma di Iacopo Salviati con Maso degli Albizzi. (Deliz. Erud., tomo XVIII, pag. 214.) — Iacopo fu anche Capitano delle genti che andarono contro agli Ubertini e ai Conti da Bagno. (Ivi, pag. 220 e seg.) — Vedi anche la Commissione di Rinaldo degli Albizzi quando era Potestà di Rimini, vol. I. (Documenti di Storia Italiana, pubblicati a cura della R. Deputazione di storia patria ec.)

102.  Malavolti, Storie di Siena.

103.  Corio, Storia di Milano. — Minerbetti, Cronaca, an. 1403-4.

104.  Bartolommeo da Scorno dovette pagare 25 mila fiorini d’oro, ed a Gherardo di Compagno, altro ricchissimo cittadino, furono dati tratti di corda finchè non ebbe messo fuori quanti danari egli si avesse. (Diceria in fino de’ Commentari di Gino Capponi.)

105.  Legazione a Genova di Bonaccorso Pitti, nella Cronaca di lui, pag. 76. — Morelli, Cronaca, pag. 321 e seg. — Minerbetti, pag. 490. — Foglietta, Storia di Genova, lib. IX. — Legazione in Francia di Iacopo Salviati. (Deliz. Erud., tomo XVIII, pag. 230.) — Vedi anche una lettera della Repubblica di Firenze a Carlo VI re di Francia, 24 aprile 1404, da noi pubblicata in principio dei Documenti di Storia Italiana (Firenze, 1836), allora ignorando fosse già stampata tra le Miscellanee del Baluzio.

106.  Livres des faits du Maréchal Bouciquaut, part. III, chap. 3, 4, 5.

107.  Minerbetti. — Morelli, Cronaca. — Livre des faits de Bouciquaut.

108.  Gino Capponi, Acquisto di Pisa. — Mattæi Palmerii, De Captivitate Pisarum. — Morelli, Ricordi (Deliz. Erud., tomo XIX, pag. 11).

109.  Gino Capponi, Acquisto di Pisa. — Livre des faits de Bouciquaut, part. III, chap. 11.

110.  Minerbetti, Cronaca.

111.  Giovanni Cavalcanti dice avere Gino salvato la vita ad Andrea Vettori che i maggiorenti volevano condannare. I Capponi ed i Vettori s’erano insieme legati di consorteria per contrapporsi ai Frescobaldi loro vicini e in antico potentissimi. (Tomo II, pag. 520.) — Abbiamo altrove distinto le consorterie di sangue da quelle per carta, com’era questa: il divieto di esercitare insieme gli uffici valeva pei consorti come pei congiunti. Nell’anno 1453 ottennero quelle due famiglie di non si dare divieto se non per la Signoria, Collegi e Dieci di Balía, senza più darselo per gli altri uffici di dentro e di fuori. (Deliz. Erud., tomo XX, pag. 302.)

112.  Gino Capponi, Acquisto di Pisa; e Boninsegni Pietro, Stor. Fior.

113.  Minerbetti, anno 1405, cap. XXIII.

114.  Iacopo Salviati, Cronaca (Delizie degli Eruditi, tomo XVIII, pag. 242, 46, 48, 54).

115.  Minerbetti, Cronaca, cap. IX. — Vedi pure intorno all’assedio lo stesso Minerbetti per tutto l’anno 1406. — Boninsegni, Stor. — Morelli, pag. 327 e seg.; e Morelli, Ricordi (Delizie degli Eruditi, tomo XIX, pag. 12 e seg.).

116.  Commentari di Gino Capponi.

117.  «Si pouvons dire et penser qu’il en est aux Florentins de tenir ou non les convénances de susdit traité, puisque le Roi avait revoqué l’acord fait avec eux et depuis sont venus à leur intention.» (Livre des faits, part. III, chap. 11, 12.) — Secondo quel libro e secondo anche gli storici fiorentini, nel fatto di Pisa andavano insieme il Duca d’Orléans e quel di Borgogna, sebbene tra loro nemici capitalissimi. L’autore finisce poco dopo il Commentario della vita del Bouciquaut, al quale intuona un panegirico dilungandosi nel dimostrare la ingiustizia e la perversità delle accuse che il Maresciallo per quel fatto ebbe alla Corte del suo Signore.

118.  Qui hanno termine i Commentari di Gino Capponi, tenuti da molti essere scritti da Neri; ma crediamo noi, che scritti da Gino in forma d’appunti, fossero ampliati e distesi poi dal figlio, come solea farsi di molte cronache di famiglia. Due letterati fiorentini di qualche grido nel secolo XV, Matteo Palmieri e Bernardo Rucellai, latinamente rifecero i Commentari, che il primo intitolava a Neri, ed il secondo a Piero Capponi. Ma queste non furono altro che esercitazioni per dare alle cose di Firenze aspetto e forma delle Romane, com’era usanza in quella età: poco rilevasi dalla prima che giovi all’istoria, e nulla affatto dalla seconda.

119.  Morelli, Cronaca, pag. 339.

120.  Prefazione di Lelio Torelli alla edizione principe delle Pandette.

121.  Ammirato, Storie; e Minerbetti. — Il Cavalcanti registra insieme queste due rapine tra le offese che più accendevano i Pisani, quando nell’anno 1431 Giovanni Gualandi tentava muovere la sua patria a scuotere il giogo e vendicarsi in libertà. (Lib. VII, cap. 20.)

122.  Vedi Appendice Nº IV. Le gravezze imposte ai Pisani per l’opera delle fortificazioni e più altri titoli nei primi tre anni passarono la somma di cento mila fiorini. (Vedi Canestrini, La scienza di Stato de’ Fiorentini sulle imposte, part. I, pag. 128.)

123.  Ammirato, Stor. Fior., anno 1421. — Giovanni Cambi (Deliz. Erud., tomo XX, pag. 155) dice che vennero essi da quattordici città della Magna, e descrive i privilegi.

124.  Vedi una lettera dei Dieci di balía al Capitano di Pisa, 14 gennaio 1431, dopo alla mossa inutile del Gualandi. (Fabbroni, Vita di Cosimo de’ Medici, Appendice, pag. 8.)

125.  Ricordi di Ser Perizzolo da Pisa, agli anni 1439-1450. (Arch. Stor., tomo VI, parte II, pag. 387.)

126.  Goro Dati, pag. 131.

127.  Ambedue furono chiari per dottrina e reputati di santa vita; ebbe il Dominici anche titolo di Beato. Dal Concilio di Costanza, dove intervenne, andò Legato in Boemia, fu amico a Sigismondo, e moriva in Buda. (Vedi Prefazione di Donato Salvi alla Regola del governo di cura familiare del B. Gio. Dominici; Firenze, 1860.)

128.  Andò in quei giorni a Gregorio in Lucca Gino Capponi (Legazione MS.); e fu creduto avere egli dato gran mano ai Cardinali per quella fuga e per le cose che indi seguirono. (Deliz. Erud., tomo XVIII, pag. 369.)

129.  Gio. Morelli, Cronaca, pag. 357.

130.  Vi andò le due volte Iacopo Salviati, che prima era stato ambasciatore in Nizza a Benedetto. Sono da vedere le sue Memorie (Deliz. Erud., tomo XVIII, 273, 290, 302), pregevoli per acume e integrità di giudizi. Ebbe doni dal Comune, e fu onorato oltre all’usanza pei servigi resi, e per avere mostrato in quelli grande astinenza; virtù assai rara tra gli uomini di quella età. (Gio. Morelli, pag. 319.)

131.  Legazione MS. di G. Capponi.

132.  Minerbetti, Stor. — Boninsegni. — Ammirato.

133.  Raynaldo, Annal. Ecclesiast.Lenfant, Histoire du Concile de Pise.

134.  Salviati, Legazioni.

135.  Bonaccorso Pitti si vanta d’avere fatto egli in Francia al re Luigi le prime aperture: pure Bonaccorso, brigante uomo, era molto avverso alla setta che reggeva. Ma in Francia aveva grandi aderenze.

136.  Vedi Salviati, Legazioni.

137.  Un poco innanzi a questo trattato cessano insieme, e come si fossero data l’intesa, i tre principali autori fiorentini che sin a qui più spesso abbiamo noi consultati: il Minerbetti, il Boninsegni, il Morelli. Questi, il più elegante e più vivace de’ Cronisti, da bastar solo a fare onore alla lingua fiorentina nel secolo XV: il Minerbetti copioso di fatti, pratico nelle faccende e di esse giudice assennato: ampio il Boninsegni a forma di storia, continuata dipoi da un altro Boninsegni magro scrittore: e già il pensiero degli uomini fiorentini, stringendosi in sè, pareva andarsi assottigliando. Rimangono i Ricordi d’un altro Morelli, da noi citato alcune volte; nè cessano quelli della famiglia Rinuccini.

138.  I Fiorentini ebbero in tutti quegli anni una politica decorosa, intorno alla quale sono da vedere notizie cavate da pubblici documenti nel Discorso di G. Canestrini. (Archivio Storico, tomo IV.)

139.  Vespasiano da Bisticci nella Vita di Agnolo Pandolfini scrive che questi tornando con la pace fatta, fu presso a Firenze incontrato da un amico suo, che lo ammonì com’egli portasse per quella pericolo di perdere il capo.

140.  Poggio, Stor. Fior., lib. IV. — Boninsegni Domenico. — Ricordi del Morelli (Deliz. Erud.). — Ammirato, Storie. — Muratori, Annali d’Italia. — Sismondi, Répub. Italiennes.

141.  Nell’anno 1453 ottennero queste due famiglie di non si dare divieto tra loro, se non per gli uffici maggiori, nel modo stesso che lo avevano ottenuto in quello stesso anno i Capponi ed i Vettori (vedi nota 2, pag. 101-102). La Storia delle consorterie rimane da fare; e forse qualcosa avvenne in quell’anno, che fu tra gli effetti del nuovo rimpasto dato alla Repubblica da Cosimo Medici e dalla sua parte.

142.  V’erano dei Medici, dei Tosinghi, dei Portinari, e Niccolò da Uzzano vi teneva agenti suoi: vedi un pregevole discorso di G. Canestrini su’ commerci dei Fiorentini in Ungheria e su’ vari negoziati che la Repubblica ebbe con Sigismondo e con lo Spano; che forma appendice a due Vite di quest’ultimo. (Archiv. Stor., tomo IV.)

143.  Ammirato, anno 1416.

144.  Istruzione originale appresso di noi.

145.  Archiv. Stor., tomo IV, pag. 262.

146.  Con ciascuno degli ambasciatori andavano due giovani di famiglie qualificate; e Filippo Rinuccini, dal quale abbiamo questa notizia, era uno dei due che seguitavano Bartolommeo Valori. Furono in tutto sessantadue cavalli e dodici muli con la soma. «Fece l’orazione Leonardo Dati, e durò circa un’ora; che mai s’udì simile orazione, che v’era forse cento calamai a scriverla mentre che diceva.» (Ricordi storici di Filippo Rinuccini.)

147.  Sulla venuta e sulla dimora del Papa in Firenze e sulle feste e cerimonie vedi la Cronaca d’un anonimo fiorentino. (Muratori, S. R. Ital., tomo XIX.)

148.  Narra Lionardo Aretino nei Commentarii (Rer. Ital., tomo XIX, pag. 931), come un giorno essendo col Papa, questi andando su e giù per la camera, tra sè replicasse irosamente la cantilena, e come lo stesso Lionardo cercasse placarlo, a tal fine enumerando i beneficii che la Repubblica di Firenze gli aveva recati in quella dimora.

149.  Ricordi di Filippo di Cino Rinuccini.

150.  Vedi il testamento, le obbligazioni ed una lettera di Baldassarre Cossa (Archiv. Stor., tomo IV), e i documenti pubblicati dal Fabbroni insieme alla Vita di Cosimo de’ Medici.

151.  Romanin, Storia di Venezia, tomo IV.

152.  Intorno al commercio dei Fiorentini aspettiamo una compiuta istoria. Infino a qui la migliore delle scritture che abbiamo è di gran lunga il Libro sulla Decima, del Pagnini, volumi quattro, con falsa data, ma è Firenze 1765. Lo abbiamo in altri luoghi consultato, e qui sono da vedere i cap. 4, 5 e 6 della parte III, sez. III. I tomi III e IV contengono le molto pregevoli antiche scritture di Francesco Balducci Pegolotti e di Giovanni da Uzzano, bastanti per sè a mostrare la grande estensione che avea il commercio dei Fiorentini nei secoli XIV e XV. Il Pagnini illustra ad una ad una le varie Arti, e massimamente quelle principalissime della lana e della seta e delle spezierie e pelliccerie; ma soprattutto quella del cambio, e i Banchi tenuti in molte parti di Europa e d’Asia, e le Zecche d’Inghilterra e d’altri luoghi, le quali andavano per conto d’uomini fiorentini.

153.  Scrip. Rer. Ital., tomo XIX, pag. 973.

154.  Una splendida pubblicazione fatta nel 1863 a Firenze ne porge con altri il testo dei Trattati che il Federighi ed il Brancacci fermarono al Cairo col Sultano d’Egitto. È la collezione dei Diplomi Arabi che si rinvengono nell’Archivio Fiorentino e nel Pisano, illustrati dottamente dal prof. Michele Amari, e stampati co’ bellissimi caratteri che rimangono della Tipografia Orientale fondata dal cardinale, poi granduca, Ferdinando dei Medici. Veggansi le pag. 59 e 60 della Prefazione, e i Documenti che spettano agli anni 1421-22.

155.  Nel libro citato abbiamo notizia d’un Trattato che il Signore di Piombino Iacopo d’Appiano cercava ottenere l’anno 1414 dal Califfo di Tunisi. Aveva come Signore di Pisa pochi anni prima l’Appiano fatte stipulazioni con quel Califfo, ed i mercatanti suoi cercava passassero in Barberia sotto il nome favorito di Pisani, come appare dal testo di quel Trattato, il quale sembra però non essere stato mai eseguito.

156.  Ammirato, anno 1429.

157.  Goro Dati, Storia, pag. 128 e seg.

158.  «Da questo suo pellegrinaggio prendendo gli scrittori spagnuoli occasione, lasciarono di lui scritte cose favolose: raccontando d’essere stato nel Cairo e nell’Armenia e nell’India, essergli succeduti diversi e strani avvenimenti; essendo cosa certissima lui non esser passato i termini d’Italia.» (Ammirato, anno 1428.)

159.  «I fiorini che si spendeano l’uno anno, in gran parte si erano ritornati nell’altro anno, come fa l’acqua che il mare per gli nugoli spande nelle piove sopra alla terra, e pel corso de’ rivi e fossati e fiumi si ritorna al mare. I modi del ritornare sono assai: prima, quel che i soldati spendono per la città e pel contado in arme e in cavalli e in vestire e per vivere; mentre che stanno per le terre e il contado, questa parte tutta si ritorna. Sonne rimasti fuori quelli che hanno speso in altri luoghi; e di questi ne torna tutto dì per gli mercatanti che stanno per tutte le terre del mondo a guadagnare, e mandano il guadagno a casa. Sonne anche rimasi fuori quegli che i Capitani e gente d’arme avessono avanzati e portati alle loro case: e d’altra parte ne sono tornati dai loro sudditi, che hanno in detti tempi per bisogno del Comune dati gran tributi e censi. E ancora ve n’hanno recati gran numero i mercatanti e abitatori delle città e terre circostanti e vicine, che sono venuti a Firenze per le mercatanzie e robe: non però sono tornati tutti, ma hannogli avere dal Comune, che sono scritti in su’ libri del Monte, che que’ tali cittadini gli debbono avere, e rendonsi a poco a poco ogni anno, quando stanno in pace, delle rendite del Comune che abbondano; e intanto che penano a riavere il detto capitale, hanno di guadagno fiorini cinque per cento l’anno.» (Dati, Storia, pag. 128.)

160.  Passerini, Storia degli Stabilimenti di Beneficenza della città di Firenze.

161.  In fine al volume daremo l’ordine degli uffici nella città di Firenze com’era in questi anni, descritto da Goro Dati nell’ultimo libro delle Istorie sue; e come saggio de’ costumi, delle allegrie, delle magnificenze e delle borie fiorentine, ne piacque per ultimo aggiugnere la descrizione che il medesimo autore lasciò delle feste solite celebrarsi pel San Giovanni. — Vedi Appendice, Nº V.

162.  Di queste feroci leggi si discorre molto ampiamente nella sullodata Istoria di quella famiglia che ha per autore il signor Luigi Passerini.

163.  Vedi la Cronaca di Bonaccorso Pitti, pag. 111 e seg., dove sono registrati gli uffici di fuori e le borse ed i partiti che ci volevano per ciascuno. — Vedi anche in più luoghi la Cronaca del Morelli.

164.  Bonaccorso Pitti, pag. 97.

165.  Rex in foro, senator in curia, captivus in aula.

166.  Vedi, tra gli altri, Giovanni Morelli in più luoghi.

167.  Scrive Filippo Rinuccini, che nella moría di quell’anno tra Signori e Collegi ne morì nove.

168.  Ammirato, anno 1417.

169.  Cavalcanti, tomo II, pag. 519.

170.  Istorie di G. Cavalcanti, pubblicate da F. L. Polidori; Firenze, 1838.

171.  Giovanni Cavalcanti, lib. I, cap. 7, e lib. II, cap. 1.

172.  Machiavelli, Storie, lib. IV.

173.  Capitolo ultimo del primo libro, dove anche sono buone avvertenze da economista. — Il Morelli ne’ Ricordi (Deliz. Erud., tomo XIX, pag. 73) va più spedito: «Fate guerra, inducete guerra, date poppa a chi nutrica la guerra. Mai è stata Firenze senza guerra, nè starà per infino non taglia la testa ogni anno a quattro de’ maggiori.»

174.  «Per torci lo Stato, e indurci all’odio del popolo, fece la pace col Re.» — Parole dal Cavalcanti messe in bocca di Niccolò da Uzzano; lib. VII, cap. 8.

175.  Ammirato, Storie.

176.  Gino Capponi si trova essere stato contrario alla pace. Sono da vedere i Commentari di Neri di Gino che hanno principio da quel fatto, narrato da lui distesamente e biasimato. — Vedi anche il lib. IX del Cavalcanti. — Giovanni Morelli nei Ricordi (Deliz. Erud., tomo XIX, pag. 43) scrive che la pace «non fu intesa dal popolo, ma sì da alquanti.»

177.  Ammirato, Storie. — I Capitoli del Comune di Firenze, Inventario e regesto; tomo I.

178.  Boninsegni, pag. XIX. — Poggio, Storie, lib. IV.

179.  Giovanni Cavalcanti, Storie, lib. I e II.

180.  Cambi, Storie (Deliz. Erud., tomo XX, pag. 162).

181.  «La Signoria per trovar danari da mantenere la guerra fece due Monti; uno per le fanciulle e l’altro pe’ fanciulli che s’avessero a maritare. E questi erano, che mettendovi sopra cento fiorini, in capo di quindici anni, essendo la fanciulla maritata o il giovane preso moglie, ne dovesse avere per capitali e interessi cinquecento, e così per rata di maggiore o minor somma; e morendo avanti detto tempo, il tutto restasse nel Monte.» (Ammirato, anno 1425.)

182.  Il Machiavelli mette in iscena Rinaldo degli Albizzi invece di Rinaldo Gianfigliazzi. — Iacopo Pitti, nell’Istoria, attribuisce anch’egli il discorso al Gianfigliazzi.

183.  Ammirato, Stor. Fior., anno 1419; e Giornale Storico degli Archivi Toscani, tomo IV, pag. 36.

184.  Intorno a queste Compagnie vedi le Commissioni dell’Albizzi, tomo III, pag. 5 e 6, dove sono recate Consulte ec.

185.  Abbiamo a stampa (Archiv. Stor., tomo IV) un componimento dell’Uzzano in terza rima, che fu appiccato, secondo si legge, al Palazzo della Signoria un giorno dell’anno 1426. Di versi politici troviamo frequenza nelle Biblioteche della città nostra: in questi l’Uzzano predice imminente la caduta dello Stato per esservi entrati molti nuovi uomini, e svolge il partito ch’è detto nel testo: propone l’esempio della donna Veneziana, della quale erano i reggitori stati mille anni nei loro seggi; consiglia far capo di nuovo alla rossa gallina (l’aquila rossa del magistrato della Parte guelfa) che aveva dormito dopo il settantotto; e vuole schiacciare la malescia noce, per il che intendeva Giovanni de’ Medici, o certamente la parte sua.

186.  Niccolò Tinucci nella Disamina, della quale noi dovremo più sotto discorrere, dice anzi che il Medici ne morisse di dolore. — Vedi anche Domenico di Leonardo Boninsegni, e i Ricordi del Morelli, e quelli del Rinuccini, e la Cronaca di Giovanni Cambi, e l’Ammirato, agli anni 1427-28.

187.  Il Poggio, che molto si piace descrivere i casi di guerra e la politica degli Stati, fa come se dentro non fossero Parti, e nulla avvenisse di nuovo allora e di memorabile nella Repubblica di Firenze. Nè diamo gran fede a Michele Bruto, che dopo un secolo e mezzo, o quasi, ed egli vivendo tra’ fuorusciti, non avvalora di nuovi fatti gli appassionati e spesso incerti suoi giudizi.

188.  Per grazia del signor Alberto Ricasoli Firidolfi abbiamo potuto a grande agio consultare un Manoscritto dove Rinaldo degli Albizzi trascriveva pel corso di trentadue anni la materia delle Legazioni e d’altri uffici esercitati da lui fuori della città di Firenze. In fine daremo l’Elenco delle Commissioni (Appendice, Nº VI); ma tutta la serie dei documenti è ora pubblicata per le cure del signor Cesare Guasti (Commissioni di Rinaldo degli Albizzi per il Comune di Firenze; vol. III; Firenze, 1867-73), e da lui corredata d’altre lettere e scritture e in molti luoghi di atti delle Consulte che si riferiscono a quei fatti: nè so quale altra pubblicazione potrebbe valere del pari alla illustrazione della Storia fiorentina in quegli anni, la quale si trova rappresentata ivi con pienezza pari all’evidenza. In quanto al trattenersi che fece in Firenze Rinaldo contro alla voglia dei Dieci, i mesi di luglio e agosto 1426, ne’ quali avvenne la radunanza in Santo Stefano, si veda il volume III delle Commissioni, a pag. 8 e seguenti.

189.  Giovanni Cavalcanti, lib. III; e Neri Capponi, Commentari.

190.  Notizie raccolte da G. Canestrini; Archivio Storico, tomo IV.

191.  Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, tomo III. N.i 45, 47.

192.  Il Cambi, Storie, anno, 1427, annovera i Capitani dei due eserciti e le paghe.

193.  Poggio, Storie. — Cavalcanti, lib. III; e Ammirato. — Romanin, Storia di Venezia, lib. X, cap. 4.

194.  Poggio, Storie, lib. V.

195.  «E’ non è maraviglia se il Marchese non negasse il passo. Più sarebbe stato maraviglia avendo il passo conteso: perchè le universitadi de’ popoli sempre invidiarono i singulari Signori; e, non che i Signori sieno invidiati da’ popoli, ma i popoli invidiano i loro splendidi cittadini. Adunque a’ Signori è lecito nimicare i popoli.... e così l’unione de’ popoli è disfacimento de’ Signori. Adunque è folle colui che rimette la libertà di molti nella guardia d’uno.» Cavalcanti, lib. IV, cap. 1 in fine. Vedi anche il principio del cap. 3., lib. III. — Egli, sebbene magnate (e quale amico dei magnati vedremo sovente), pure come antico guelfo e fiorentino, ti pare alle volte anch’egli essere popolano; e nota più sotto come «nelle adornezze delle porpore le lodi si danno più agli artefici che le fecero, che a quelli che le portano.» (Lib. IV, cap. 2, e cap. VII, pag. 195.)

196.  Cavalcanti, lib. IV, cap. 4. — Morelli, Ricordi (Deliz. Erud., tomo XIX, pag. 78). — Serra, Storia di Genova, tomo III, pag. 138. — Corio, Storia di Milano.

197.  Intorno a questa pace, che fu conchiusa e tosto rotta, è da vedere la Legazione Nº 49 di Rinaldo degli Albizzi nel tomo III delle Commissioni.

198.  Romanin, Storia di Venezia, lib. X. cap. 5 e 6. — Poggio, Storie. — Corio, Storia di Milano.

199.  Legazione pubblicata nell’Appendice alle Storie del Cavalcanti. — I Fiorentini voleano sempre che il Signore di Lucca non vi fosse compreso: fu egli nella pace solamente nominato e con ambigue parole.

200.  Archivio Storico, tom. XIII, pag. 252 e seg.

201.  Morelli, Ricordi ec., pag. 73.

202.  Vedi sopra Lib. IV, cap. I.

203.  Pubblicava il signor Berti nel Giornale Storico degli Archivi Toscani, tomo IV, pag. 32, con una sua Prefazione, le Consulte o Pratiche degli anni 1426-27 relative alla formazione del Catasto. L’atto dei 12 maggio 1427 riferisce il voto emesso da Giovanni a questo modo: ipse quidem nescit si fructus sequetur, vel non: sed, auditis aliis civibus, idem secutus est. — Ma bene aveva egli dannato le spese, e detto essere la città esausta. Cives exausti sunt pecuniis; et querendum est ut minorem expensam habeamus: nam si examinetur summa soluta per cives, innumerabile apparebit. (Atto dei 7 marzo medesimo.)

204.  Nello Statuto del 1415 è una rubrica: De Sclavis et eorum materia (lib. III, rubr. 186, pag. 385). Non doveano essere catholicæ fidei.

205.  La Provvisione per il Catasto venne pubblicata per disteso dal Pagnini in fine al vol. I Sulla Decima; il quale discorre questa materia ampiamente nello stesso volume, parte I, sez. II, cap. 3 e 4. — In seguito il saggio delle quote andò crescendo, ma diversamente secondo la rendita netta d’ogni cittadino, cosicchè dai cento fiorini in giù pagassero sulla ragione del tre per cento, e poi su su infino al mille, non oltrepassando il cinque per cento; il quale modo prima era detto decima scalata, e in oggi è chiamato imposta progressiva. — Vedi Canestrini, cap. III, La Scala o l’Imposta progressiva.

206.  Di tutta l’opera del Catasto, del modo cioè della esecuzione che era più volte innanzi andata fallita, scrive il Cavalcanti essere stato inventore un Filippo da Diacceto, «uomo di sottile ingegno e molto esperto ragioniere; e con la penna in mano mostrò il modo d’avere danari: e per cosiffatto scaltrimento fu fatto il Catasto, là ove tutti i patrizi ebbero la soma col soprassello.» (Tomo II, pag. 480.) — Ma sulla materia del Catasto è poi da vedere il libro citato del signor Giuseppe Canestrini.

207.  Cavalcanti, lib. IV, cap. 12.

208.  Cambi, Storie (Deliz. Erud., tomo XX, pag. 162 e seg.).

209.  Cronichetta Volterrana (Archivio Storico, Appendice III, pag. 318).

210.  Cavalcanti, lib. V. — Commentari di Neri Capponi. — Ricordi del Morelli. — Ma soprattutto è da vedere il libro più volte citato delle Commissioni di Rinaldo degli Albizzi. In esso manca la Commissione LIV a Volterra, essendo le carte che la risguardavano strappate di dentro al libro; ed il signor Guasti per buone ragioni suppone che fossero levate di mezzo e distrutte da Rinaldo stesso, perchè tra le cose fatte a Volterra ve n’era di quelle che Rinaldo avrebbe voluto abbuiare e forse ancora egli medesimo obliare. Abbiamo però in quell’egregio volume le Consulte e non poche lettere della Signoria, che bene illustrano tutto quel fatto di Volterra.

211.  Commentari di Neri Capponi.

212.  Il Doge avrebbe detto a Marcello Strozzi, che andò a Venezia per la seconda pace di Ferrara: «Saprete voi, Fiorentini, gastigare quel tristo del Signore di Lucca?» (Ivi.)

213.  Gli aveano risposto, che la Repubblica di Firenze non era consueta spoppare bambini. (Cavalcanti, lib. XI, cap. 6. — Poggio, Storie, lib. VI.)

214.  Scrive Leonardo Aretino nei Commentari, che moltitudo urbana mirabilmente appetiva la guerra di Lucca. — Questa città era stata sul punto di essere venduta da Braccio per cento mila fiorini. «Era Gino Capponi Gonfaloniere di giustizia, e il popolo voleva l’impresa; tennesene Consiglio, e determinossi del no pe’ savi uomini.» (Ricordi del Morelli, anno 1418.)

215.  Ricordi del Morelli, pag. 28.

216.  Un cartolaio che aveva votato la guerra contro Lucca ne chiese più anni dopo assoluzione dal Comune dei Lucchesi. (Vedi le Commissioni dell’Albizzi, tom. III, pag. 211.)

217.  Sono da leggere queste parole nel Cavalcanti, lib. V, cap. III, donde le trasse il Machiavelli: e l’Ammirato scrive, trovarsi quel discorso in molti giornali o zibaldoni che si scrivevano dai contemporanei. Il corpo di lui andò scoperto alla sepoltura, seguito da Cosimo e da Lorenzo suoi figli con altri ventotto della Casa Medici vestiti a bruno, e dai magistrati della Repubblica e ambasciatori che allora erano in Firenze: costò il funerale tre mila fiorini. È con la moglie sepolto sotto ad una bella tavola di marmo in mezzo alla sagrestia di San Lorenzo.

218.  Cavalcanti, tomo I, pag. 296. — Poggio, Storie, pag. 180.

219.  Commentari di Neri Capponi.

220.  Cavalcanti, tomo I, lib. V. — Examina di Niccolò Tinucci, che sta con le Istorie di Michele Bruto volgarizzate dal P. Stanislao Gatteschi. — Tra’ primi Dieci, con Neri di Gino e con Nerone di Dionigi Neroni e con l’ambiguo Ser Martino, furono Alamanno Salviati uomo aderente a parte Medicea, ed un artefice delle minori Arti per nome Puccio d’Antonio Pucci, di scaltro ingegno e che fu a Cosimo grande strumento. Dipoi tra’ Dieci, che ogni sei mesi mutavano, troviamo due volte Cosimo de’ Medici ed una Lorenzo suo fratello, con altri dei loro; poi Rinaldo degli Albizzi e Palla Strozzi, e degli antichi della Repubblica Lorenzo Ridolfi e Agnolo Pandolfini, e fino allo stesso Niccolò da Uzzano che molto aveva biasimato quella guerra.

221.  Vedi le lettere di Rinaldo e quelle dei Dieci a lui da’ 6 a’ 18 marzo 1429 stile fiorentino. Commissioni ec, tomo III.

222.  Il Cavalcanti, che fu autore di tanto feroci accuse, toglie a sè ogni fede co’ vituperi nei quali avvolge, non che Astorre, tutta la schiatta di lui: nè il Machiavelli altro poi fece che tramandare alla posterità le cose apposte dal Cavalcanti. — Il Gianni era in campo a’ 9 febbraio, e disse a Rinaldo «avere chiesto licenza perchè non voleva stare ai pericoli e agli stenti di qua, e che di lui si tenga costà dei ragionamenti ch’egli ha sentiti ec.» Dipoi faceva pure conto rimanere, tanto che ai 18 dello stesso mese praticava affinchè ai Dieci fosse rappresentato com’egli nel campo fosse utile e necessario. Dei fatti del Gianni è un molto ampio, e noi teniamo giusto, processo nelle note apposte dal signor Guasti a quel che risguarda l’assedio di Lucca.

223.  Lettere del 9 e una dei 18 febbraio. Commissioni ec., tomo III.

224.  Commentari di Neri Capponi. — «Fu cosa da fanciulli; perdessi tempo e danari e opere, per avventura fiorini quarantamila, e niente riuscì: ma restò in vergogna e danno.» (Ricordi del Morelli, pag. 87.) — Vedi pure lettere de’ 6 e 8 marzo, Commissioni di Rinaldo, tomo III.

225.  Cavalcanti, Storie, lib. VI, cap. 15. — Filippo de’ Nerli, assommando confusamente quei fatti, attribuisce all’invidia dei contrari le querele date così a Giovanni Guicciardini come ad Astorre ed a Rinaldo.

226.  Poggio, Stor. Fior., lib. VI. — «Il Duca mandò ambasciatori a noi, che dicevano ch’ei voleva mantenere la pace; e mostrocci amorevolezza, che ci donò lioncini; e due anni il palio di San Giovanni offerse a San Giovanni con l’arme sua, acciocchè noi ci dimesticassimo con quell’arme.» (Ricordi del Morelli, pag. 88.)

227.  «Odievoli motti per li nostri male ammaestrati figliuoli per tutta la città si cantavano: Ave Maria grazia piena, dopo Lucca avremo Siena: e altri cantavano: Guarti (guardati) Siena, che Lucca triema.» (Cavalcanti, lib. VI, cap. 18.)

228.  Cavalcanti, lib. VI, cap. 24, 25.

229.  «Dissesi il Duca n’avea ritratto, tra danari e gioielli, la valuta di duegento mila fiorini. Così si diceva in Firenze, ma credo più.» (Ricordi del Morelli, 93.) — Il Cavalcanti però afferma, che il Duca e lo Sforza non ne cavarono quanto si credevano.

230.  Tommasi, Storia di Lucca (Archiv. Stor., tomo X, lib. 2, cap. 9). — Malavolti, Storie di Siena, lib. II, parte 3ª. — «Si disse in Firenze, che lo Sforza per cento mila ci dava Lucca, e che Niccolò da Uzzano non volle; ed è vero, perchè ci metteva ne’ Borghi di Lucca. Se l’avessimo acquistata non so.» — «Vedesi che i Fiorentini erano bareggiati, e perchè alcuni ingrassavano, a tutto consentivano.» (Ricordi del Morelli, 93.)

231.  Neri Capponi, Commentari.

232.  Malavolti, Storia di Siena. — Vedi le Istruzioni e Relazioni della Repubblica di Siena dal 1428 al 31, pubblicate nell’Appendice all’Istoria del Cavalcanti.

233.  Tommasi, Storia di Lucca, lib. III, cap. 1. — Poggio, Stor. Fior., lib. VI. — Neri Capponi, Commentari. Da una Commissione a Neri Capponi, che fu rinviato al Campo con altri due cittadini, s’intravede la poca fede che ponevano nel Capitano quattro giorni prima della battaglia. (Archivio di Stato.)

234.  Solo in una notte quattordici castella aveano mandate al Piccinino le chiavi, e gli ufficiali della Repubblica, dei quali aveano gli abitatori più da lagnarsi, vi rimasero prigioni. — «Io non ho forse meno terre avute (diceva il Piccinino) per mancamenti de’ cittadini, che per nimicizia dei villani. Questo è perchè mandano per guardia delle fortezze lavoranti di lana; ai quali danno a quella ragione il dì di soldo che alle botteghe avevano di salario.» — Giovanni Aguto avea detto una volta ad Andrea Vettori, che andasse a fare dei panni, e a lui lasciasse governare l’esercito. (Cavalcanti, lib. VII, cap. 25 e 33.)

235.  Vedi Commentari di Neri Capponi. Il carteggio di Neri durante i due suoi Commissariati in quella guerra ci manca, e vorremmo noi porlo a riscontro di quello che abbiamo di Rinaldo degli Albizzi.

236.  Malavolti, Storia di Siena; e Cavalcanti, lib. VII.

237.  Ammirato, Storie, anno 1431. — Cavalcanti, Storie, lib. VII, cap. 29, 30. — Questi, non mai dimentico d’essere egli di casa Grandi come era il Mannelli, mentre biasima le armi date in mano ai villani, si piace a dipignerlo grande e bello della persona, con un’accia in mano facendo volgere al piloto diritta la prua contro la galera genovese. Ma nel descrivere la partenza dei legni da Pisa il nostro autore sembra pigliare la tromba epica quando rappresenta in sulle sponde dell’Arno il popolo dei Pisani, attratto dalla ferocia degli aspetti e dalle armi splendenti, bramare in cuor suo la sconfitta di quei prodi ch’egli ammirava ma che a lui erano strumenti odiosi di servitù. — Vedi Archiv. Stor., Appendice, vol. I, pag. 143.

238.  Leonardo Boninsegni.Neri Capponi. — «La Repubblica donava a Micheletto un ricco elmetto coperto di rose d’oro suvvi un giglio d’oro, e un cavallo coperto di chermisi broccato d’oro, e le bandiere quadre del Comune riccamente fatte e messe d’ariento: costò detto dono fiorini duemila: e un simile aveano fatto a Niccolò da Tolentino.» Morelli, Ricordi (Delizie degli Eruditi, tomo XIX, pag. 106).

239.  Neri Capponi, Commentari. — Morelli, Ricordi. — Ammirato, Storie. — Commissione di Rinaldo degli Albizzi per accompagnare l’Imperatore, ultima del tomo III.

240.  In quella paco Maso andò contro ai maggiorenti della città, ma fece al popolo cosa grata. (Cavalcanti, tomo II, pag. 466 e seg.)

241.  Cavalcanti, lib. VII, cap. 6, 7, 8. — Machiavelli, Stor., lib. IV.

242.  Vedi molte buone leggi da lui fatte fare a sollievo dei poveri ed a mantenimento della giustizia. (Cavalcanti, tomo II, pag. 464.)

243.  Niccolò da Uzzano si sarebbe lasciato sentir dire che dove nella Repubblica dovesse diventar principe un suo cittadino, avrebbe egli amato la maggiorità di Cosimo piuttosto che quella di Rinaldo. (Cavalcanti. I, 381.)

244.  Rinaldo essendo potestà di Prato avrebbe fatto sequestrare certi muli dei quali era Maso debitore a un vetturale che, per non avere danaro pronto, era da un creditore suo tenuto in carcere. (Ivi, tomo II, pag. 504.)

245.  «Io dico che quella cosa ch’è di tutti, è grandissima stoltizia riconoscerla da pochi uomini; ognuno c’è per lo cuoio e per lo pelo, secondo il suo grado e la sua facoltà: a me pare che sia somma prudenza quello che non si può vendere, saperlo donare; con la legge tutto si governi ec.» Parole di Rinaldo. (Cavalcanti, lib. I, cap. 7.)

246.  «Averardo e Giovanni di Puccio ne scrisse in tuo servizio — tutto conferisci con Ser Martino come con padre.» (Lettera di Rinaldo degli Albizzi ad Ormanno suo figlio, 3 febbraio.) — «Veggio quello t’ha detto Nanni Pucci, che è segno di buona amicizia: Averardo de’ Medici anche me ne scrive da Pisa.» (20 febbraio.) — «Dillo con Ser Martino e con N. Pucci e con chi ti piace; non t’allargare con troppi.» (Ivi.) — «Quanto scrivi di Cosimo e d’Averardo e d’Alamanno ec.» (13 marzo.) Queste ed altre parole confermano che Rinaldo avesse allora buona intelligenza con gli amici di Cosimo e con lui medesimo.

247.  Vedi, tra le altre, la lettera ad Ormanno de’ 31 gennaio.

248.  Examina del Tinucci, che va con le Storie di Michele Bruto.

249.  Storie di Domenico Boninsegni e Ammirato.

250.  Neri ne’ Commentari scrive essere stato confinato per una legge che si chiamava degli Scandalosi et majorità (così anche un nostro MS.): intendeva bastare a vincere il partito il maggior numero delle fave, senza bisogno dei due terzi che per il solito ci volevano a tali condanne. Le molte pratiche intorno a questa legge sono riferite distesamente dal signor Guasti nelle Prefazioni da lui aggiunte alle Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, tomo III, pag. 167 e seg. — Intorno alle pratiche di Neri col Papa, le quali furono a lui causa del bando, vedi Platina, Vita Nerii Capponi (in Muratori, Rer. Ital. Script., tomo XX, col. 480-90).

251.  Lettere dei 6 e 12 marzo 1430.

252.  Quanto all’ufficio di Senatore di Roma tenuto dall’Albizzi, vedi l’Appendice VI, tomo III delle Commissioni.

253.  Examina del Tinucci.

254.  Vedi Cavalcanti, lib. VII, cap. 8; e Tinucci.

255.  Fabbroni, Vita di Cosimo.

256.  «Ecci chi vorrebbe, per fare vergogna e danno ad altri, che il Comune avesse e vergogna e danno, e ingegnansi in quanto possono, che questo abbi a seguire; che è cattiva condizione d’uomo. Parmi nonostante che questa impresa sia ai più piaciuta, e che veduto la cosa essere ridotta in luogo dove interviene l’onore del Comune, per ciascuno si debba dare ogni favore possibile; et così fo in quello posso qua, e simile conforto te, benchè sono certo non ne bisogni.» (Ad Averardo de’ Medici, da Firenze 4 febbraio 1430.)

257.  «Mi pare la guerra sia più lunga non vorremmo, e tutto per non l’aver voluta quando si poteva: sicchè Iddio perdoni a chi n’è cagione.» (Accusa la quale non so a chi vada, nè a che accenni.) Allo stesso Averardo, da Verona 21 ottobre 1430, ed altra da Ostiglia 1º dicembre.

258.  Abbiamo la Posta del capitale in commercio spettante a Cosimo dei Medici nel Catasto del 1432. I traffici per la fabbricazione di merci e le accomandite di cambio andavano per compagnie, dove i Medici spesso avevano la rata più grossa. Segue la Posta com’è nel libro:

Cosimo di Giovanni de’ Medici, figli e nipoti, pel traffico di Firenze, di fiorini 120, tocca a loro. Fior. 78 15
Per la commandita di Bruggia e Londra, in loro ditta, per fiorini 160, tocca loro 78 17
Per quella di Avignone e Ginevra, per la rata di fiorini 160, tocca loro 96 —
Pel traffico di Vinegia sotto la ditta di Pier Francesco de’ Medici e compagni, per la rata di fiorini 100, tocca loro 65 12
Pel traffico della Lana sotto la ditta Giov. di Cosimo de’ Medici, per la rata di fiorini 30, tocca loro 18 15
Pel traffico della Lana dice in Piero di Cosimo de’ Medici, per la rata di fiorini 60, tocca loro 28 15
Pel traffico di Pisa dice in Ugolino Martelli, per la rata di fiorini 80, tocca loro 30 —
Pel traffico della Seta dice in Piero di Cosimo de’ Medici, per la rata di fiorini 60, tocca loro 28 10
 
Somma in tutto il Catasto ed è l’imposta sul commercio di Cosimo de’ Medici fiorini d’oro 428 —

Canestrini, La Scienza e l’arte di Stato, pag. 157. — La terra, le case, l’entrate sul Monte, i crediti, i mobili, stavano da sè.

259.  Vespasiano da Bisticci, Vita di Cosimo de’ Medici.

260.  Si trova in addietro l’una delle due Parti (non so quale) essersi chiamati i Buoni e l’altra i Belli; e l’una Valacchi e l’altra Uomini da bene. (Cavalcanti, Stor., lib. I, cap. 1.)

261.  L’autore dal quale più cose traemmo circa lo stato della Repubblica e il gioco vario delle parti, dicemmo noi essere devoto ai Medici; ed è vero che Giovanni Cavalcanti, avverso al governo degli Ottimati, encomia sempre con parole affettuose Giovanni dei Medici; ma inverso Cosimo il linguaggio di lui ne sembra più adulatorio che schietto, spesso involgendosi negli artifizi. Comincia l’Istoria da una sorta d’invocazione a Cosimo stesso, il quale vorrebbe chiamare piuttosto uomo divino che mortale, siccome colui che dalla fortuna, senno di Dio, venne favorito con tutte le sue divine potenze. Ma vuole tacerne, «perchè egli conosce negli uomini le virtù non essere in questa momentanea vita nè immutabili nè perpetue, e che allora quando le felicità esaltano gli uomini, la ingratitudine sottentra, e la superbia occupa le virtù.» Laonde nel seguito de’ tempi il linguaggio del nostro autore si fa più severo, e aguzza la penna contro a Cosimo ed ai suoi: finisce l’Istoria compiangendo alla morte di Rinaldo degli Albizzi, quando aveva perduto questi ogni speranza di riacquistare la patria, facendo risorgere con armi nemiche lo stato antico della Repubblica. Ma queste cose poi vedremo.

262.  «E’ danari del Monte tornarono a fiorini diciotto per cento e non si trovava compratore.» (Febbraio 1432-33.) — «A’ 23 di aprile 1433 a ore 22 ci furono due cavallari con nuove della pace, e con l’ulivo ch’ell’era conchiusa col Duca, e sonorono le campane, e fessi fuochi. Non se ne rallegrò se non e’ poveri; e’ danari del Comune non migliororono nulla.» (Morelli, Ricordi; in Deliz. Erud., tomo XIX, pag. 168.)

263.  Fabbroni, Vita di Cosimo, pag. 96.

264.  Della Pratica tace affatto il Cavalcanti, e così pure il Machiavelli. — Forse dei nostri lettori taluno ricorda come nell’anno 1396 fosse pigliato con lo stesso inganno Donato Acciaioli: vi ebbero molte circostanze somiglianti, ma era il caso troppo diverso.

265.  Fabbroni, Vita di Cosimo, pag. 75. — È un ordine dato in forma di bullettino al Capitano del Popolo, perch’egli abbia a fare eseguire la detta sentenza.

266.  Cavalcanti, Storie.

267.  Ricordi di Cosimo.Fabbroni, Vita.

268.  Cavalcanti. — Ammirato.

269.  Cambi, Storie (Deliz. Erud., pag. 187).

270.  «Si volsero a ridurre la terra secondo l’uso del buon vivere e pacifico, e a fare che niuno cittadino avesse più autorità l’uno che un altro, se non quella che gli avevano dato la sorte e la dignità — non pensavano che avevano a fare con un potente nemico.» — Sono parole del buon libraio Vespasiano da Bisticci, che amico a Cosimo del quale scriveva la Vita, era poi anche un fiore di galantuomo. E in altro luogo aggiunge egli: «Non tolsero lo stato a persona, ma dettenlo a tutti quelli che lo meritavano.»

271.  Il Cavalcanti compose (com’è suo costume) una lunga diceria dell’Albizzi a fine di persuadere la chiamata dei Grandi a parte della Repubblica, ed una di Mariotto Baldovinetti che dissuase il partito. Dell’una e dell’altra il Machiavelli diede un estratto; ma sembra a me sotto quei due nomi avere voluto il Cavalcanti spiegare a disteso come l’aiuto dei Grandi ci volesse a reggere in piedi quel debole Stato, e come i Grandi, cercati forse, non se ne degnassero.

272.  La Repubblica s’era intromessa per la liberazione del Tolentino. Il primo d’aprile 1435 la Signoria scrive a Neri Capponi ambasciatore a Venezia: «Questo dì c’è di nuovo che Niccolò da Tolentino è morto. Il modo della morte, secondo che scrive Niccolò Piccinino a’ figlioli, fu che andando del borgo di Val di Taro ad altro luogo per stanza, gli cadde addosso il cavallo che cavalcava, et così morì. Questo è secondo lo scrivere; la verità non sappiamo.»

273.  Commentari di Neri Capponi. — Boninsegni. — Giov. Morelli, Ricordi. — Machiavelli, lib. V. — Scipione Ammirato, lib. XX.

274.  Ricordi di Cosimo de’ Medici; Fabbroni, pag. 99.

275.  Il Cavalcanti (lib. IX, cap. 27) dice «che la Signoria di Venezia commise inoltre a certi suoi ambasciatori che erano per le faccende della Lega in Firenze, che a’ nostri ufficiali del Catasto favoreggiassero la posta di Cosimo come Veneziano cittadino.»

276.  Quando nel 30 andò a Verona fuggendo la peste, menava con sè Niccolò Niccoli, quell’insigne ritrovatore di antichi libri greci e latini, e Carlo Marsuppini d’Arezzo che fu poi segretario della Repubblica.

277.  Fabbroni, Vita di Cosimo, note a pag. 86, 87. — Romanin, Storia di Venezia, lib. X, cap. 7.

278.  Nel Catasto del 1427 la posta di Palla Strozzi era superiore a quella di Giovanni de’ Medici e ad ogni altra: quegli pagava cinquecento sette fiorini, questi trecento novantasette. (Canestrini, lib. cit.)

279.  Vespasiano da Bisticci, Vita di Agnolo Pandolfini.

280.  Cavalcanti, lib. X, cap. 7. — Nella vita manoscritta di Palla Strozzi, che abbiamo insieme con le altre vite della famiglia scritte da Lorenzo Strozzi fratello a Filippo, si nega l’andata un po’ ridicola del buon Palla, attribuendone l’invenzione al Machiavelli: si vede che Lorenzo Strozzi non aveva notizia delle Istorie del Cavalcanti.

281.  Storia di Iacopo Pitti, lib. I.

282.  «Il Papa aveva l’animo a volere il dominio della città, perchè gliene fu data intenzione.» (Commentari di Neri Capponi.)

283.  Gio. Cambi, Istorie. — Morelli, Ricordi; e Ammirato.

284.  Giovanni Cavalcanti, lib. X, cap. 19.

285.  «E appunto in capo dell’anno, in quel medesimo dì, cioè a’ 5 d’ottobre, e in quella medesima ora rientrammo in su quello del Comune, e in quel medesimo luogo. Di questo ho fatto ricordo, perchè ci fu detto da più persone devote e buone, quando fummo cacciati, che non passerebbe l’anno, che saremmo restituiti, e torneremmo a Firenze.» (Ricordi, ec.)

286.  Cavalcanti, lib. X, ultimi capitoli.

287.  Boninsegni, Storie. — Morelli, Ricordi. — Cambi, Cronaca. — Nerli, Commentari.

288.  Vespasiano da Bisticci, Vite di Palla Strozzi e di Agnolo Pandolfini.

289.  «Nel mese di gennaio prossimo fui il primo tratto dalle borse dello squittinio per Gonfaloniere di Giustizia; e al mio tempo non si confinò nè si fece male a persona: ma Francesco Guadagni e più altri, i quali trovai nelle mani del Capitano della Balìa, operai in forma non morirono, ma furono condannati in perpetua carcere.» (Cosimo de’ Medici, in fine ai Ricordi.)

290.  Ricordi di Filippo Rinuccini.

291.  «Qui autem Vexillifer Iustitiae in relegatione Cosmæ cum esset capitaneus Pisis, vocatus ad judicium, in via sive subitanea morte, sive veneno, periit.» (S. Antonino, Chronicon, pag. 504.)

292.  Scrisse agli Otto: «Io ho inteso il vostro bando, il quale come uomo che non voglio errare, vi avviso che in casa non ho altre armi se non un panieruzzo d’aguti, e un cultellino tutto intaccato, ed è della fante, ec.» (Cavalcanti, lib. X, cap. XXIII.)

293.  Storia di Giovanni Cambi.

294.  Cavalcanti, lib. VII, cap. 27.

295.  Cavalcanti, lib. X, ultimo capitolo. — Storie di Domenico Boninsegni. — Morelli, Ricordi. — Storia di Gio. Cambi. — Ammirato, lib. XX. — Commissione manoscritta, a Neri Capponi, dove si vede come a Firenze avessero cercato non si guastare con Siena. Ved. Appendice, Nº VII.

296.  Ma non voleva la Signoria di Venezia potesse ciascuno muovere guerra a sua posta e tirare gli altri. Allegava: «esser maggior pericolo che ciò da noi (Fiorentini) non venisse, perchè per avventura siamo più leggieri a muoverci e mutiamo la Signoria spesso. Il perchè talvolta si trovan di quelli che leggiermente vi salterebbon su, maxime cognoscendo avere obbligato la Signoria di Vinegia a concorrere, ec.» (Lettera della Signoria a Neri Capponi, rimasto in Venezia ambasciatore per la Lega; 1º aprile 1435.)

297.  Il Cavalcanti (lib. XI, cap. 3, 4) ha i nomi dei prigionieri e il numero delle navi prese, ed a chi ciascuna di esse andasse venduta.

298.  Machiavelli, Storie, lib. V.

299.  Legazione a Genova di Neri Capponi; copia presso noi. — Cavalcanti, lib. XI, cap. 7.

300.  Guasti, La Cupola di Santa Maria del Fiore.

301.  Ammirato, lib. XXI.

302.  «Ognuno che è in attitudine, ha prestato, e chi gran somma e chi mezzana e chi minore, secondo la sua possa.» (Lettera dei Dieci a Neri Capponi commissario sotto Lucca; 1º aprile.)

303.  «Il Conte pose campo a S. Maria di Castello (che prima il Piccinino aveva espugnata), e piantovvi una bombarda grossa di gitto di libbre 530: in quattro pietre che trasse dalla bombarda nel pedale della Torre, la fece cadere.» (N. Capponi, Commentari.)

304.  I Dieci nelle lettere a Neri insistono di continuo perchè sia dato il guasto alle terre dei Lucchesi. «Il guasto si dia senza più indugio, perchè per tutto Firenze non si grida altro; e se caso sopravvenisse che non si potesse fare, credaremmo esserne lapidati.» (Aprile 1437.) «Una delle maggiori e migliori sicurtà che possiamo avere etiandio essendo d’accordo con loro (co’ Lucchesi), è ch’eglino abbino bisogno d’essere pasciuti da noi e dalle terre nostre.» — «Co’ Lucchesi non è da stare a speranza d’accordo, perchè sono più gagliardi che innanzi perdessero il contado.» (Luglio 1437.)

305.  Commentari di Neri Capponi.

306.  «Si rannuvola verso la Marca, e dubitiamo che al Conte non convenga fare provvedimenti.» — «Tu dii che il Conte ti pare impensierito perchè crede dovere essere richiesto dalla Signoria di Vinegia, ec.» (Lettere citate.)

307.  Insin da principio i Veneziani a quella guerra battevano freddi, e per la dimora che il Conte faceva intorno a Lucca nasceva qualche ruggine tra le due Repubbliche. Si trattava co’ Lucchesi accordo, e i Dieci scrivono: «Noi abbiamo ammirazione di quello scrivi dell’ambasciatore di Vinegia, che sia intervenuto nella pratica, perchè a questa materia non vorremmo balii.» Neri aveva scritto: «Mentre il Conte era in ragionamento meco, l’ambasciatore di Vinegia se ne venne là senza essere chiamato; che mi parve presunzione. Avvisatemi come mi ho a governare, ec.» (Lettere citate.)

308.  Boninsegni, Storie. — Machiavelli, lib. V. — Ammirato, lib. XXI. — Tommasi, Storia di Lucca. — Il Papa in Bologna si era molto adoprato per la pace, andando persino ad offrire ai Fiorentini giurisdizione in Lucca, dove eleggessero essi il Potestà: non ci credeano, ma pure inviarono a Bologna Nerone di Nigi; poi non ne fu altro. (Lettere citate.) E se ne trova pure discorso in altre a Neri; il quale avendo ne’ primi d’agosto lasciato il campo sotto Lucca, ma essendo tuttora dei Dieci, era ito a Genova ambasciatore nell’ottobre di quell’anno stesso per causa di mercanzie.

309.  Machiavelli.

310.  Abbiamo (Archivio Storico, tomo XIII, pag. 299) un documento del 31 agosto 1438, per la restituzione di due mila fiorini d’oro prestati da Cosimo e Lorenzo dei Medici, per mezzo di loro soci residenti in Basilea, alla nazione Germanica rappresentata in quel Concilio, che avea promesso di rimborsarli sulle indulgenze pubblicate ivi a favore di chi desse mano alla riconciliazione dei Greci alla Chiesa.

311.  Cavalcanti, Storie, lib. XI, cap. XIII.

312.  Abbiamo esemplari dell’atto di unione nella biblioteca Laurenziana e nell’Archivio di Stato; sono grandi cartapecore con le sottoscrizioni di mano del Papa e dell’Imperatore e de’ Padri del Concilio. — Ved. Cecconi, Studi storici sul Concilio di Firenze.

313.  Neri Capponi, Commentari. — Ammirato, lib. XXI.

314.  N. Capponi, Commentari. — Romanin, Storia di Venezia, lib. X, cap. 7.

315.  Il Machiavelli mette in bocca dei Veneziani questa sentenza conforme al linguaggio ed alle idee di quei tempi: «ch’era infamia perdere le terre, ma più infamia perdere insieme le terre e i danari.»

316.  Scrittori fiorentini; Platina, Vita d’Eugenio IV.

317.  Leonardo Aretino, Commentari.

318.  Neri Capponi aveva chiesto a Pier Giampaolo Orsino tenesse sellati cento cavalli per la difesa della persona di Cosimo de’ Medici. (Cavalcanti, lib. XIII, cap. 6.)

319.  Ammirato, an. 1440.

320.  Cavalcanti, lib. XIV.

321.  «Ieri furono i sospetti grandi, e i ragionamenti e pratiche lunghe; finalmente, per non avere a prendere zuffa contro a nostra voglia con Niccolò Piccinino, si deliberò di venire alloggiare qui intorno Anghiari, e così siamo; ch’è, al parere di questi intendenti, luogo forte e sicuro. Niccolò Piccinino è a piè di Celle, che a cinque miglia siamo vicini.» (Lettera di Neri ai Dieci. A lato: Anghiari, 25 giugno 1440.)

322.  «Ieri fu presso che appiccata la zuffa. Ruppesi quattro lance, e ognuno si ritrasse; e la cagione fu perchè Niccolò Piccinino venne al Borgo con pochi e trovocci in punto.... Stamani nel campo suo si vede molti fuochi, e pare a ciascuno che levi campo, e dove s’avvierà non si sa albitrare; chi dice a Monterchi, chi al Borgo, chi verso Lombardia: tosto il sapremo; secondo farà egli, converrà seguire a noi.» (Lettera dei Commissari, scritta la mattina stessa de’ 29.)

323.  Il Machiavelli scrive, in tutta quella famosa giornata non essere morto che un uomo solo caduto a terra e calpesto dai cavalli: ma Flavio Biondo forlivese, ch’era in quei tempi segretario del Papa, conta dei Ducheschi essere stati uccisi sessanta e quattrocento feriti; degli altri dugento, e dieci morti, secento cavalli distesi al suolo dalle artiglierie, e Astorre Manfredi rimasto prigione dopo essere stato ferito d’un colpo di lancia nell’anguinaia. — «Andiamo al Borgo e crediamo che s’arà oggi, perchè non c’è persona: faremo il me’ potremo, col Legato.» — «Niccolò Piccinino ha passato l’Alpe: crediamo per ire a Bologna, benchè alcuni dicano a Perugia.» (Lettera de’ Commissari, 1º luglio.) — Una lettera di Micheletto a Cosimo è tra i documenti de’ quali abbonda la Vita di Cosimo pubblicata dal Fabroni, pag. 147. — Vedi Commentari di Neri Capponi e tutti gli storici. — Simonetta, Hist. Francisci Sfortiæ, lib. 6 (in Muratori, R. I. S., tomo XXI.) — Leonardo d’Arezzo pone termine ai Commentari suoi tenendosi da molto per essere stato uno dei Dieci quando si ottenne quella vittoria.

324.  Cavalcanti, capitolo ultimo del lib. XIV. — Intorno al bando e poi alla morte di Rinaldo è da vedere il libro delle Commissioni sue più volte citato; tomo III in fine.

325.  Questo scrive Neri nei Commentari; ma in una Lettera ai Dieci del 1º luglio i Commissari scrivevano dal campo felicissimo: «In questo punto ci è ch’e’ Borghigiani hanno gridato Viva la Chiesa, e messo dentro i nostri.»

326.  «Avvisiamovi che abbiamo avuto Monterchi, Valialla e Monteagutello, e che all’Anfrosina consentivano licenza andasse ove volesse: la roba sua gli hanno vituperato gli uomini di Monterchi; alla quale cosa ne serrai gli occhi, perchè maggior nimicizia tra loro rimanga.» (Lettera di Bernardetto de’ Medici ai Dieci, 4 luglio.)

327.  «Il Conte di Poppi ci mandò chiedendo salvocondotto per due ambasciatori che volea mandare a Firenze, e sperava avere grazia che almanco la casa sua di Poppi rimanesse alle sue femmine; che si rendeva certo, che se non meritavano grazia i maschi, alle femmine non sare’ dinegato.» — «Rispondemmo che a Firenze non bisognava mandare: al tutto la tagliammo, consigliando gli uomini di Poppi a pigliare partito, dichiarandogli che se non facessino tosto, avevamo in commissione mettergli a saccomanno, e dare ducati diecimila alla gente d’arme di bene andata se lui ne dassino, e ducati quindicimila a chi dessi preso o morto niun de’ figliuoli; e così si farebbe bandire stasera.» (Lettera de’ 25 luglio.) — Altra de’ 31: «Quest’ora il Conte di Poppi e figliuoli e figliuole con loro robe si sono usciti di Poppi, e noi vi siamo entrati, ed egli potrà ire a uccellare il can da rete; e proverà quello che è tradire la Signoria vostra, por modo fia esempio agli altri.»

328.  Neri Capponi, Cacciata del Conte di Poppi.

329.  Simonetta, Hist. Francisci Sfortiæ, lib. V. — Commentari di Neri Capponi. — Poggio, Storie, lib. VIII. — Machiavelli, lib. VI.

330.  Cavalcanti, lib. VIII, in più luoghi.

331.  Cavalcanti, tomo II, pag. 162. — Machiavelli, lib. VI. Intorno all’Annalena, vedi Giornale storico degli Archivi Toscani (tomo I, pag. 42 e seg.); e intorno a Baldaccio, un articolo del signor Passerini (Archivio Storico, tomo III, pag. 2, anno 1866).

332.  «Le cagioni non furono note, perchè fu opera segreta e fatta quasi in istanti: ma era huomo di grande animo e di gran condotta, e temuto da molti.» Storie di Domenico Boninsegni.

333.  Cambi, Storie. (Delizie degli eruditi, tomo XX, pag. 234.)

334.  Istoria miscellanea Bolognese. (R. I. S., tomo XVIII, pag. 665.)

335.  Lettera manoscritta di Neri Capponi, dei 16 gennaio 1440-41. (Archivio di Stato.)

336.  Istoria miscell. Bolognese, loco citato.

337.  Naldo Naldi, Vita di Giannozzo Manetti. (R. I. S., tomo XX, pag. 344.) — Vespasiano, Vita dello stesso. — Il Cavalcanti (tomo II, pag. 160) accenna a cose ch’egli non dice, molto avvolgendosi come suole, ma qui oltre al solito misterioso. La Vita che abbiamo citata del Naldi è fatta sopra una che di Giannozzo Manetti avea scritto lungamente l’infaticabile Vespasiano, pubblicata in Torino, 1862, dal signor Pietro Fanfani, e della quale è un estratto che il Mai aveva compreso nel suo volume.

338.  Così il Cavalcanti, che scrive già in odio a Cosimo, senza volere che si paresse: ma nella Vita di Giannozzo si trova Baldaccio essere stato a passeggiare sotto al tetto de’ Pisani quando fu dall’Orlandini chiamato in Palazzo.

339.  Cavalcanti, tomo II, pag. 257.

340.  Storia Fiorentina, cap. I; Opere inedite, tomo III.

341.  Ammirato, Storie.

342.  Bartolommeo Platina, scrisse la Vita di Neri Capponi (R. I. S., tomo XX); ma in quella non fece, com’era usanza, altro che dare celebrità di latine forme ai Commentari di lui, che ivi riescono dimagrati; e del caso di Baldaccio nemmeno fa cenno.

343.  Cambi, Storie, pag. 231.

344.  Canestrini, La Scienza e l’Arte di Stato, parte I: L’imposta sulla ricchezza mobile ec., pag. 213.

345.  Idem, pag. 170.

346.  Naldo Naldi, col. 348; e Vespasiano, Vita di Giannozzo Manetti, pag. 590.

347.  Cavalcanti, Seconda Storia, pag. 198.

348.  Cavalcanti, Seconda Storia, pag. 206.

349.  Idem, pag. 188.

350.  Cavalcanti, pag. 200 e seg.

351.  Vespasiano da Bisticci, che scrisse tra le altre la Vita di Bartolommeo Fortini (Archiv. Stor., tomo IV, parte I, pag. 379), dice ch’egli ebbe il confine perchè era stato eletto degli ufiziali del Monte; e uno dei potenti ci voleva entrare lui. — Dello stesso Vespasiano abbiamo pure la Vita di ser Filippo Pieruzzi di ser Ugolino, che fu integro e dotto uomo.

352.  Uno di questi, Domenico di Matteo di ser Michele da Castel Fiorentino, viene descritto dal Cavalcanti con le seguenti parole: «costui è villano, iniquo e superbo, mancatore di sua fede, barattiere, accettatore di presenti. Egli è lungo e sottile, la voce femminile, le gambe spolpate; misero ne’ fianchi, e guardo acuto: stretto nelle spalle, biancastrino e povero di barba; il volto colorito di lebbroso segno: l’andatura sua rara, col petto in fuori più che non richiede la sua lunghezza.» Tomo II, pag. 194.

353.  Cavalcanti, Seconda Storia. — Storia di D. Boninsegni. — Cambi, idem. — Morelli, Ricordi, (Deliz. erudiz., tomo XIX.) — Machiavelli, lib. VI.

354.  Un Sonetto satirico, pubblicato nell’Archivio Storico Italiano, tomo XVI, parte I, pag. 326-27, ammonisce il Papa di non fidarsi ai Romani, e gli ricorda che il buon sartore misura sette e taglia uno.

355.  Vespasiano, Vita di Agnolo Acciaiuoli e di Leonardo d’Arezzo.

356.  Citiamo parole che onorano il Piccinino. Aveagli scritto Giannozzo Manetti mettendolo sopra per virtù a Ciro ad Agamennone a Pirro ed ai famosi Romani perchè aveva fatto le imprese per solo amore di gloria; a cui rispose il Capitano con bella verecondia: «io sono un piccolo verme e un saccomanno da non farne veruna stima, a comparazione di quei magnanimi signori antichi, ec.» (Lettera del Piccinino a Giannozzo, con la Vita di questo edita dal Fanfani, pag. 190.)

357.  Abbiamo in uno spaccio a Neri Capponi, 21 novembre 1444: «Carissimo nostro, siamo avvisati per tua lettera come a’ dì 16 di questo, monsignor di Capua Morinense et il Camarlingo e tu in tuo nome et di Cosimo de’ Medici, unitamente lodasti che Recanati et Oximo dovessono rimanere al S. Padre, et Fabriano con le sue fortezze della terra e del contado che possiede al presente la Chiesa, si debbono rimettere nelle mani nostre ed essere da noi governate per un anno, nella fine del quale sia in nostro arbitrio di dare detta terra e fortezze o al Papa o al Conte. Il perchè sommamente commendiamo la tua diligenza et prudentia. Et appresso t’avvisiamo come noi abbiamo eletto messer Bartolommeo Orlandini carissimo nostro cittadino a governare per detto tempo detta terra e fortezze, ec.» Era l’uccisore di Baldaccio.

358.  Nella vernata il Conte venne a Firenze, e disse di fare miracoli; infra gli altri, di ridurre il Papa a pace per forza, ec. (Commentari di Neri Capponi, col. 1201.) Cavalcanti, Seconda Istoria, cap. XXXIII. — Boninsegni, an. 1446. — Fabroni, Vita Cosmæ, pag. 170 dei Documenti.

359.  Legazioni a Venezia di Neri Capponi, che l’una nei mesi di settembre e ottobre 1445, e l’altra con Bernardo Giugni dal maggio al luglio 1446. A stento si vinse ne’ Consigli quella nuova condizione, prima essendo soliti pagare un terzo, e i Veneziani due terzi: pareva che fosse ingiusto l’andare con essi ad un giogo e tirare uno medesimo peso.

360.  «Il Duca cercò d’avere il Conte per mezzo di papa Eugenio, e missono il Re in su la pratica, acciocchè i Veneziani non si facessino grandi. Pagò il Re al Conte ducati 40,000, e feciono tra loro molte composizioni segrete. Di poi morì papa Eugenio, e la sua morte ruppe molti disegni.» (Capponi, Commentari.)

361.  Cavalcanti, tomo II, pag. 265; e Vespasiano, Vita di Niccolò V.

362.  Gli ambasciatori Angiolo Acciaioli, Giovannozzo Pitti, Neri Capponi, Alessandro degli Alessandri, Giannozzo Manetti e Piero di Cosimo de’ Medici, furono dal Papa ricevuti nella sala regia, che prima solevano privatamente in altra sala. Giannozzo Manetti dotto e franco dicitore improvvisò l’orazione con molta sua lode. Il Cavalcanti distesamente narra come quell’Antonio di Checco Rosso Petrucci da Siena, che noi da più anni conosciamo grande nemico dei Fiorentini e turbolento macchinatore nella sua patria, tendesse insidie agli ambasciatori che tornavano, invitandoli nelle castella sue per quivi rubarli; e come Neri, di lui dubitando, sventasse il disegno: questi però nei Commentari suoi ne tace affatto; e il Cavalcanti a pensar male andava a nozze. (Tomo II, pag. 267.)

363.  Istruzione a Neri Capponi e Bernardo Giugni ambasciatori a Ferrara per la pace; 28 luglio 1447, e lettere successive.

364.  Lettere dei 7 e 9 agosto. (Istruzioni manoscritte.)

365.  Archivio Storico Italiano, tomo IV, pag. 418.

366.  Legazione manoscritta, 6 aprile 1448.

367.  «Questo Bernardetto, molto amorevole di Cosimo, era uomo nettissimo e servigiato, non piazzaiolo, che non andava in Palagio se non chiamato, e rado era che non si trovasse nella sua bottega dove faceva l’arte di lana; esperto e pratico negli uffici, che intendeva le cose alla prima, ec.» (Cavalcanti, tomo II, pag. 213.)

368.  «Condussesi il Re a chiedere salvocondotto pe’ suoi falconieri: rispondemmoli che per uccellare noi glielo davamo, se uccellasse solo alle starne, ma che uccellava ad altro, e però glielo negammo.» (Neri Capponi.)

369.  Poggio, Storia Fiorentina, lib. VIII. — Commentari di Neri Capponi. — Bartolommeo Fazio, Vita Alphonsi Regis. — Istoria metrica in terzine dell’assedio di Piombino. (R. I. S., tomo XXV.) Malavolti, Storia di Siena.

370.  Vedi Fabroni, pag. 176 e seg.

371.  Simonetta, Historia Francisci Sfortiæ, in Muratori, R. I. S., tomo XXI. — Poggio, Storia. — Machiavelli, lib. VI. — Simonetta, cap. 72-73. — Archivio Storico Italiano, tomo XV, parte II, pag. 30 a 34.

372.  In Muratori, R. I. S., tomo XXI, pag. 388.

373.  Romanin, Storia di Venezia, tomo IV.

374.  Tomo II, Appendice, pag. 517.

375.  Vespasiano, Vita di Giannozzo Manetti.

376.  Cavalcanti, Seconda Storia, tomo II, pag. 253.

377.  L’oratore che lo Sforza teneva in Firenze, a lui scriveva nell’aprile del 1449: «Con Neri di Gino ho molto particolarmente examinata questa vostra facenda; e accordasi a questo, ed è disposto in ogni caso prestare favore al facto vostro e dimostrarvi che v’è buono amico et servitore, e vuole in qualunque nostro facto essere d’accordo con Cosimo.» In altro luogo scrive che Neri e Giannozzo Pitti e Alamanno Salviati e Diotisalvi Neroni ed altri, gli avevano date buone assicurazioni. — E a’ 30 giugno: «Questa benedecta pestilenza ha sgomentata qui la brigata in modo che di sette li cinque sono fora a le ville, per forma che la campana del Consiglio ha assai che suonare, et non si gionge mai a la metà del numero debito, et per questo la Signoria non ha mai potuto trarre le mane de più cose che hanno a fare.» Laonde lo Sforza scriveva in quel tempo: «Mi trovo ingannato de tucto quello me scriveti super lo facto di danari, sì che non so che mi dire; se non che non volendomi dare li miei denari del passato, nè la gente, questo è tanto a dire quanto assentire a la total mia disfactione. Pertanto vogliate sollecitare, ec.» (Archivio Storico, nuova serie, tomo XV, disp. II, pag. 35-36.)

378.  Cambi, Storia, anno 1449. — Cavalcanti, Seconda Storia, cap. 69.

379.  Diceano: «egli ha pieno sino i privati dei Frati delle sue palle (armi della famiglia Medici), ed ora fabbrica un palagio.» (Cavalcanti, cap. XXXIII, Seconda Storia, cap. 36, 69, 81, 82, 87.)

380.  Vespasiano, Vita di Pandolfo Pandolfini. Vedi pure nella Vita di Donato Acciaioli, come lo facesse Cosimo imborsare per Gonfaloniere di giustizia.

381.  Commentari di Neri Capponi. — Cavalcanti, tomo II, pag. 242. — Machiavelli, lib. VI.

382.  In fine della lettera erano questi brevi versi: «Piero, all’avuta di questa te ne verrai, perchè, venendone tu, non vi rimarrà ignuno degli altri.» (Vespasiano, Vita di Giannozzo; Torino, 1862; pag. 35.)

383.  Legazioni manoscritte di Neri Capponi (Archivio di Stato). — Vespasiano da Bisticci, Vita di Giannozzo Manetti.

384.  Boninsegni, Leonardo. — Machiavelli, lib. VI. — Ammirato, ec.

385.  «L’Imperatore mandò a rinnovare suoi salvocondotti a Firenze.» (Neri Capponi, Commentari.)

386.  «L’Imperatore poi ci scrisse di casa sua, che aveva sentito come eravamo richiesti di dare spalle alla fuga, e non avevamo voluto consentire; di che molto ci ringraziò.» (Neri Capponi, Commentari.)

387.  «Conforterete e supplicherete alla Maestà del Re di Francia a venire o mandare potentemente in Italia, sì per recuperare l’antica gloria e titoli a lei debiti, sì etiandio per salute della nostra Repubblica; nella qual parte se fussi domandato quanta gente giudichereste esser necessaria, direte che a noi parrebbe dover bastare cavalli 15 mila, rimettendo sempre questo al giudizio della regia sapienza. — E quando la Maestà del Re di Francia non volesse per sua gloria venire o mandare in Italia potentemente, com’è detto disopra, si tenti che almeno venga il re Renato con quelle genti pagate sia a lui possibile, ec.» (Istruzione ad Agnolo Acciaioli, manoscritta appresso di noi, diversa da quella pubblicata dal Fabroni, pag. 200.)

388.  Giannozzo Manetti, Vita di Niccolò V. (Rer. Ital. Script., tomo III, parte II.) — Simonetta, Storia di Francesco Sforza. (Rer. Ital. Script., tomo XXI, lib. XXIV.)

389.  Neri Capponi, Commentari.

390.  Fu detto Cosimo essersi conciliato il re Alfonso col dono d’un manoscritto di Tito Livio. (Tiraboschi, Storia della Letteratura, tomo VI, lib. I, cap. 2.)

391.  Poggio, fine della Storia. — Documenti aggiunti dal Fabroni alla Vita di Cosimo de’ Medici.

392.  Vespasiano, che gli fu amico, racconta com’egli da privato uomo solesse dire che se una volta avesse ricchezze, le spenderebbe in libri e in edifizi. — Vedi intorno allo stato di Roma in quelli anni la lettera pubblicata dal Fabroni, pag. 165. — Enea Silvio, nei Commentari solito morsicchiare i predecessori suoi con isquisita delicatezza, scrive Niccolò con gli edifici che rimasero indi imperfetti avere accresciuto quasi a Roma le ruine. — Vedi pure quel ch’egli accenna della natura e del governo di Callisto III.

393.  Vespasiano, Vita del re Alfonso. — Fine dei Commentari di Neri Capponi. — Machiavelli, lib. VI.

394.  Boninsegni, Storie.

395.  Cambi e Boninsegni.

396.  Vespasiano, Vita di Piero de’ Pazzi.

397.  Giannozzo, andato l’anno 1446 potestà in Pistoia, e calunniato da un Soldini, dettò un’Istoria di quella città, pubblicata dal Muratori (Rer. Ital. Script., tomo XIX in fine) e non disutile a chi voglia conoscere i modi tenuti dalla Repubblica di Firenze nell’amministrazione delle città suddite.

398.  Presentandosi alla Signoria, disse: «Eccelsi Signori mia, se a Dio che m’ha creato, avessi con tanto amore e con tanta fede servito, quanto ho fatto a questa Signoria, io crederei essere a’ piedi di santo Giovanni Battista; ed i meriti ch’io n’ho riportati, le vostre Signorie li conoscono.»

399.  Vespasiano da Bisticci, Commentario della vita di Giannozzo, pubblicata dal Fanfani. Torino 1862, dalla quale sarebbe in tutto cavata quella latina del Naldi, prolissa d’ornati e di classiche locuzioni; chiama il Potestà prætor urbanus, la Signoria senatus, e dice che i Dieci della guerra si creavano a badare ne quid respublica detrimenti caperet. — Quando fu eletto Giannozzo dei Dieci ne fecero tutti grande allegrezza e maraviglia, e dicevano: «ora si conosce quanta forza hanno le virtù, ec.: in breve tempo, da volerlo confinare, vòltati, egli è fatto de’ Dieci in compagnia de’ primi della città.» Vespasiano scrisse un’altra più breve vita del Manetti, tra quelle del Mai. — Nell’edizione del Fanfani (pag. 169) è una molto bella lettera che Giannozzo in nome dei Dieci scriveva alla Signoria di Siena.

400.  Cambi, Cronaca. — «Si vinse sul Consiglio del popolo, che gli accoppiatori che tenevano le borse del prioratico a mano, dovessino per tutto il mese di gennaio prossimo averle serrate, e fosse loro levato ogni autorità e balìa ch’eglino aveano intorno a ciò: fuvvi fave nere 218 e bianche 22. E dipoi nel Consiglio del comune fuvvi fave nere 169 e bianche 7. E di questo molto il popolo se ne rallegrò.» (Rinuccini Filippo, febbraio 1454 st. fior.)

401.  Vespasiano, Vita di Cosimo, pag. 343.

402.  Richiesto Neri da uno dello stesso suo casato che avea commesso un omicidio, ricusò salvarlo; «questa grandigia (dicendo) non mi è stata data per le miserie nè pe’ micidii ch’io abbia fatti, nè favoreggiati; anzi me l’ho guadagnata per la mia sollecitudine e per lo favore che io ho sempre prestato alla ragione: e però abbi pazienza, che la giustizia abbia suo luogo.» (Cavalcanti, tomo II, pag. 205-6.)

403.  Guicciardini, Opere inedite, tomo III, pag. 8.

404.  Morelli, Ricordi.

405.  Cambi, Deliz. erud., tomo XX, pag. 338 e seg. — Ricordi di Filippo Rinuccini. — Machiavelli, lib. IV.

406.  Nerli, Commentari.

407.  Canestrini, Sulle Tasse, pag. 168.

408.  Cambi, Storie.

409.  «Il Palagio fece venire circa quattromila cerne e circa 300 cavalli, e il Signore di Faenza e Simonetto e altri condottieri.» (Filippo Rinuccini, dove sono anche i nomi dei confinati.)

410.  Cambi, Cronaca. — Boninsegni, Storie.

411.  Ricordi di Alamanno Rinuccini, anno 1462.

412.  Rinuccini, ivi. — Ammirato.

413.  Morelli, Ricordi.

414.  Rinuccini ed altri. — Dice l’Ammirato, Luca essersi tolta per impresa una bombarda, volendo significare che siccome questa, dove gli sia dato fuoco, trae fuori una palla, così egli poteva cacciare via le palle, arme dei Medici.

415.  Machiavelli, lib. IV.

416.  La descrizione di quei ricevimenti fatti ad onore di Pio II è da vedere nelle Delizie degli eruditi, tomo XX, pag. 368: l’autore, che si compiace di quella magnificenza, è pure offeso dalle profanità troppo boriose che vi si mescolavano. — Quelle pompe furono anco descritte in terza rima. (Rer. Ital. Script., nel secondo dei due tomi aggiunti in Firenze, pag. 719.)

417.  «Era molto umile in ogni sua cosa; la camera dov’egli dormiva, v’era un letticciuolo da frate ed una sedia di legno vecchia, con un poco di desco al dirimpetto dov’egli stava a comporre le sue opere, e mai perdeva un’ora di tempo. — Non avea masserizie in casa, se non tante che furono istimate alla morte sua centoventi lire.» (Vespasiano, Vita dell’Arcivescovo Antonino.)

418.  Questo mi pare che si argomenti da una pia opera in volgare che il signor Palermo pubblicava (Firenze, 1858), e che potrebb’essere di sant’Antonino.

419.  Vespasiano, nella Vita d’Antonio Cincinello, narra il caso pietoso d’una donna figlia di Rinaldo degli Albizzi e nuora di Rinaldo Gianfigliazzi; alla quale povera e nell’esilio abbandonata insieme ad un figlio suo, parvero grande sussidio pochi ducati venuti ad essa in elemosina.

420.  In tutto quel fatto la maestria politica dei Veneziani si trova descritta negli Annali di Domenico Malipiero. (Archivio Storico, tomo VII, pag. 1.)

421.  A questo punto dell’istoria noi rimanghiamo con poco sussidio di contemporanei, avendo cessato con l’anno 1447 il Cavalcanti, e prima del 57 i Commentari di Neri Capponi. Finisce con l’anno 1460 il Boninsegni, e tace la prima parte delle Istorie che vanno col nome di Giovanni Cambi, per indi ripigliare col 1480 la parte descritta da lui testimone; e finiscono i Ricordi di Filippo Rinuccini, continuati però con maggiore ampiezza dal figlio Alamanno.

422.  Il Fabroni pubblicava le note di Piero per le spese fatte nei funerali del padre e negli uffici e limosine, e per vestire a bruno gli uomini e donne della famiglia, e i fattori e i servi. Stanno con questi i nomi di quattro schiave. Lo stesso autore ci diede (pag. 214) il contratto di compra di una schiava circassa per conto di Cosimo dei Medici l’anno 1427 in Venezia, per mano di Giovanni Portinari, il quale pagava sessantadue ducati d’oro, prezzo della schiava.

423.  Vedi le lettere a Piero de’ Medici, del Papa e del Re di Francia, Luigi XI, più altre poi d’uomini letterati — Abbiamo anche una bella lettera di Piero intorno agli ultimi giorni del padre. (Fabroni, Documenti, pag. 251.)

424.  Mémoires de Phil. de Comines, lib. VII, cap. V. — E innanzi avea detto: «Cosme de Médicis, homme digne d’être nommé entre les très-grands; et en son cas qui estoit de marchandise, etoit la plus grande maison qui je croy qui jamais ait ésté au monde: car leurs serviteurs et facteurs ont eu tant de crédit, soubs couleur de ce nom Medicis, que ce seroit merveilles à croire a ce que j’en ay veu en Flandre et en Angleterre.»

425.  «Non fu anno che non spendesse in muraglie quindici ovvero diciotto migliaia di fiorini. — Nel palazzo di Firenze 60 mila; nel chiostro e parte della chiesa di San Lorenzo, 70 mila. In San Marco ne avea spesi 40 mila, e non bastarono; nella Badia di Fiesole 80 mila.» (Vespasiano, Vita di Cosimo.) — Il Fabroni pubblicava un lodo per le divise tra’ due rami usciti da Giovanni di Bicci, nel quale è detto che le spese fatte da Cosimo nelle chiese di Santa Croce, dei Servi, di San Miniato al Monte e di Camaldoli nel Casentino, oltre a quelle notate nel testo, sieno portate sulla parte sua, sgravandone quella dei figli di Lorenzo. — In certi Ricordi il Magnifico scriveva: «Gran somma di danari trovo che abbiamo spesi dall’anno 1434 in qua fino a tutto il 1471. Si vede somma incredibile, perchè ascende a fiorini 663,755 tra limosine, muraglie e gravezze, senza l’altre spese; di che non voglio dolermi: perchè quantunque molti giudicassin meglio averne una parte in borsa, io giudico esser grande onore allo stato nostro, e paionmi ben collocati, e sonne molto ben contento.» (Lorenzo Medici, Ricordi. Fabroni, pag. 47.)

426.  «Tolsi quarantacinque scrittori e finii volumi dugento in mesi ventidue.» Dallo stesso Vespasiano abbiamo l’elenco dei codici antichi fatti copiare da lui; un catalogo della biblioteca lasciata da Cosimo e che è nell’Archivio Mediceo, parve al Fabroni troppo lungo perchè lo stampasse. Per la Chiesa di San Lorenzo faceva scrivere ed abbellire di miniature trenta libri corali; altri per San Marco, ec. — L’inventario delle gemme incise e vasi e medaglie e gioie trovate nell’eredità di Cosimo dei Medici, aggiugne alla somma di 28 mila 423 fiorini, senza gli argenti e mobilia. (Fabroni, pag. 231.)

427.  Guicciardini, Opere inedite, tomo III, pag. 8.

428.  «Si vinse che le borse si serrassino e tornassesi alla sorte, la quale è molto grata a tutti generalmente, cioè quella de’ tre maggiori, Signori, Gonfaloniere e Dodici: che prima le tenevano a mano cinque cittadini, ed era de’ Signori chi egli disegnavano; e ora si cominciò a trarre a sorte. E’ Priori per novembre e dicembre 1465 feciono squittinio de’ tre maggiori. Cominciò agli 8 dicembre e finì a’ dì 30 detto. Furono in numero di 537, in tutto con priorati e magistrati e consoli, e con cinque accoppiatori, fatti per detto squittinio, che furono di più favore, ec. I Signori per gennaio e febbraio 1465-66 cominciarono lo squittinio dei capitani di Pisa, e potestà solo, e poi il partito chiamato gli otto uffici di dentro, poi undici uffici di fuori, poi provveditorati e riformatori e legionarii direttori, poi el marzocchio, e poi capitano di galere, e poi uffici di notai.» (Morelli, Ricordi, pag. 181.)

429.  Guicciardini, Opere inedite; Storia Fiorentina, cap. II. — Machiavelli, lib. VII. — Ammirato, lib XXIII.

430.  I Fiorentini, volendo al solito mandare galere in Levante per la tutela dei loro traffici, la Repubblica di Venezia si opponeva a ciò, allegando che i Turchi se l’avrebbono prese, usandole ai danni della cristianità: e avendo i Fiorentini risposto, che ad ogni modo le manderebbero; il Senato facea replicare, che il comandante dell’armata loro aveva piena balìa, e qualunque cosa egli facesse delle galere non se ne impacciavano. (Ricordi di Alamanno Rinuccini, anno 1463.)

431.  Carlo Rosmini nella Storia di Milano purgava a sufficienza Francesco Sforza da quell’accusa per via di autentici documenti. Vedi pure quelli pubblicati dal Canestrini, Archivio Storico, tomo XV.

432.  Guicciardini, Storia di Firenze, XIX.

433.  Ricordi Storici di Alamanno di Filippo Rinuccini.

434.  Vedi lettere di Agnolo Acciaioli e di un ser Luca, e la deposizione di Francesco Neroni. — Fabroni, Vit. Laurentii Med., Documenti, pag. 28-32.

435.  Fabroni, Documenti.

436.  Valori, Vita Laur. Med.

437.  Ricordi d’Alamanno Rinuccini.

438.  Storie di Iacopo Pitti, lib. I.

439.  Ammirato, Storie. — Fabroni, Documenti sopraccitati. — L’Ammirato accusa, non senza ragione, il Machiavelli di molti errori ed alterazioni di questi fatti come di altri molti. Nè facciamo caso della strabocchevolmente prolissa e in parte falsa narrazione che ne lasciava Michele Bruto nelle Storie sue, egli piacendosi in quei viluppi di vani disegni donde speravano forse in patria il ritorno i fuorusciti, tra i quali viveva cento anni dopo in Lione quello scrittore di poco pregio.

440.  Romanin, Storia di Venezia, lib. XI, cap. 1.

441.  Il Fabroni ha pubblicato queste due lettere che il Machiavelli avea veduto; ma questi conservandone i principii, poi le rifece a modo suo, e dice che fu quella dell’Acciaioli scritta da Napoli, quando è da Siena a’ 23 settembre. (Documenti, pag. 36; e vedi anche Vespasiano nella Vita di Agnolo Acciaioli.)

442.  Fabroni, pag. 35. — Aggiugne all’amico, di queste cose non parli «se non con Madonna o col Signore.» Madonna era Lucrezia Tornabuoni moglie di Piero dei Medici. È cosa nuova dare in Firenze a un uomo il titolo di Signore.

443.  Annali Veneti di Domenico Malipieri.

444.  Vedi la lunga lettera di Ferrando alla Repubblica di Firenze. (Archivio Storico, tomo XV, pag. 185.)

445.  Annali Veneti di Domenico Malipieri.

446.  Pigna, Storia della Casa d’Este.

447.  «Dipoi la pubblicazione della pace, il Papa ha fatto batter talenti d’oro da venti ducati l’uno, con l’impronto della sua immagine e con lettere che dicono — Papæ Paulo pacis Italiæ fundatori.» (Malipieri, Annali.)

448.  Malipieri, Annali. — Ammirato, Storie.

449.  Machiavelli, lib. VI.

450.  Vespasiano, Vita di Agnolo Acciaioli. — Machiavelli, Storie.

451.  Lettere pubblicate dal Fabroni tra’ Documenti, pag. 28 e seg. — Gli manda arienti per convitare don Federigo d’Aragona ed altri Signori, «che si vuol fare magnificamente e onoratamente; e datevi buon tempo, e non vi date pensiero di noi di qui, che ancor sarete a tempo a smaltirle come noi.» (pag. 52). — Comunica seco via via i negozi che si trattavano, mostrando rimettersi di molte cose al giudizio suo.

452.  Christophori Landini, Disputationes Camaldulenses.

453.  La Giostra di Lorenzo fu cantata in terza rima da Luca Pulci con minutezza istorica e scarsa vena di poesia.

454.  Fabroni, Documenti, pag. 42.

455.  Niccolò Valori, Vita di Lorenzo.

456.  «Per fare il debito nostro donammo alla Duchessa una collana d’oro con un grosso diamante, che costò circa ducati tremila; donde ne seguitò dipoi, che il prefato Signore ha voluto che battezzi tutti gli altri sua figlioli.» (Ricordi di Lorenzo; vedi Fabroni, pag. 54.)

457.  Morelli, Ricordi (Deliz. Erud., tomo XIX). — Ricordi di Alamanno Rinuccini. — Guicciardini, Opere inedite, tomo III, cap. 3. — Ammirato, Storie, lib. XXIII.

458.  Lettera di Piero dei Medici al figlio Lorenzo. (Fabroni, Docum. pag. 30.)

459.  Rinuccini Alamanno, pag. 116.

460.  Guicciardini, Opere inedite, tomo III, pag. 29. — A guerra finita il Malipiero scriveva: «Questo successo ha dispiaciuto alla Signoria (di Venezia), perchè continuando la guerra tra Volterra e Firenze se podeva solevar qualche novità in quella terra, e’ fuorusciti aiutati da Volterra saria entrati in Fiorenza.»

461.  «Ricordovi quando fu el sacco di Volterra, che ogni uomo pubblicamente, massime e’ Venti, mostravano buona disposizione; ma se noi non trovavam modo a trarre e’ cento mila fiorini dal Monte, se avessimo avuto a far prova di più difficil cosa, credo l’aremo veduta cattiva.» (Lettera di Lorenzo. Vedi Fabroni, pag. 62 e seg.)

462.  Vespasiano, Vita di Federigo. — Machiavelli, lib. VII. — Ammirato, lib. XXIII. — Lettera di un Inghirami a Lorenzo; vedi Fabroni, pag. 63. — Antonio Ivani scrisse in latino un Commentario di quella guerra. (Rerum Ital. Script., tomo XXIII.) — Comprò la Repubblica e donò a Federigo il bel palagio di Rusciano in pian di Ripoli, cominciato da Luca Pitti: questi si trova essere stato uno dei Venti.

463.  I Diari Rinuccini descrivono questo e l’altro Capitolo Generale di tutto l’Ordine Francescano in Santa Croce di Firenze, al quale convennero l’anno 1449 milledugento frati; e la Repubblica stanziava a sussidio del detto Capitolo mille fiorini d’oro.

464.  «Del mese di settembre 1471 fui eletto ambasciatore a Roma per l’incoronazione di papa Sisto, dove fui molto onorato, e di quindi portai le due teste di marmo antiche delle immagini d’Augusto e d’Agrippa, le quali mi donò detto papa Sisto, e poi portai la Scodella nostra di calcedonio, intagliata, con molti altri cammei, che si comperarono allora ec.» (Ricordi di Lorenzo de’ Medici.) — «Lorenzo, tra gli altri benefizi che ha ricevuti da Sua Beatitudine, ha guadagnato con quella un tesoro.» (Istruzione in nome di Sisto IV ad Antonio Crivelli); vedi Appendice Nº X. — Vedi anche Niccolò Valori, Vita ec.

465.  Il Fabroni pubblicava una lettera che Lorenzo scriveva al Papa, il dì 21 novembre 1472, chiedendogli il cardinalato per Giuliano; e due a Lorenzo, del buono ed illustre, ma insieme prudente e un po’ cortigiano cardinale Iacopo Ammannati detto il Cardinale di Pavia, del quale abbiamo in latino un brano di storia e gran numero di lettere a principi, a grandi personaggi e a letterati.

466.  Corio, Storia di Milano.

467.  Niccolò Valori, Vita ec.

468.  Vedi Appendice Nº VIII.

469.  Abbiamo le due lettere pubblicate dal Fabroni (pag. 67, 68). Luigi XI proponeva a Lorenzo di tenere in Francia un suo Oratore, il quale dovesse conferire col Re solo, nè mai co’ magnati, nè co’ principi del sangue. Gli chiede poi dei cani in dono, ed anche uno solo, purchè fosse bello e grande, volendo tenerlo in camera e presso la persona sua.

470.  Guicciardini, cap. III.

471.  Vespasiano, Vita di Donato Acciaioli.

472.  Rinuccini, pag. 117.

473.  Abbiamo la data 28 gennaio 1475 nei Ricordi del Morelli, gli altri tacendo quella Giostra ed i moderni scrittori avendo confusa questa col Tornèo più grande e solenne che aveva tenuto Lorenzo l’anno 1469. Quindi affermarono che il Poliziano fosse in età di soli quindici anni quando cominciava il Poemetto: ne aveva ben venti nel principio del 75, e ventiquattro ne avrebbe avuti quando il Poema fosse scritto un poco prima della congiura de’ Pazzi e interrotto quindi per la morte di Giuliano; il che a noi sembra essere congettura fra tutte probabile. Dove il Poeta nella quarta Stanza dice che all’ombra di Lorenzo

«Fiorenza lieta in pace si riposa

Nè teme i venti, o ’l minacciar del cielo,

Nè Giove irato in vista più crucciosa,»

allude manifestamente alle ire di Sisto IV, le quali precessero al caso dei Pazzi.

474.  Ricordi d’Alamanno Rinuccini, pag. 125 e seg.

475.  La formula delle sentenze diceva: «Magnifici Octoviri Custodiæ et Baliæ Civitatis Florentiæ in numero sufficienti collegialiter congregati, intellecto et recepto qualiter etc. — Et idcirco habito super prædictis omnibus et singulis sano et maturo consilio etc.; deliberaverunt, scribunt, commictunt, imponunt et mandant vobis Præsenti Domino Potestati dictæ Civitatis Florentiæ quatenus vigore præsentis deliberationis, ac commissionis et bullettini, per vestram sententiam declaretis, pronuntietis et sententietis dictos etc. — Nota che sempre al Potestà dicevano Voi, «quel Voi che prima Roma sofferìe» e che era dato alla Sovranità. (Sentenze pubblicate tra i Documenti di corredo all’edizione del Commentario della Congiura de’ Pazzi per Angiolo Poliziano. Napoli, 1769.)

476.  L’Allegretti nel Diario Senese (R. I. S., tomo XXIII, e. 782), e il Malavolti, Istoria di Siena, accusano apertamente i Fiorentini che dessero mano al conte Carlo ed ingannassero i Senesi con belle parole: «ci mandavano ogni dì una buona lettera, e il Conte Carlo ogni dì una cavalcata.» (Cronica citata.) — La corrispondenza di Lorenzo de’ Medici con la Signoria di Siena, che abbiamo in copia, si trova interrotta dall’anno 1476 all’anno 1482.

477.  L’attentato del Porcari non giunse all’effetto, i Pazzi ed il Fieschi riuscirono a mezzo, gli uccisori di Galeazzo e quei d’Alessandro de’ Medici e di Pier Luigi Farnese compierono il fatto; ma tuttavia gli Sforza regnarono a Milano, e a Firenze i Medici, e i Farnesi a Parma; nessuno mai degli uccisori scampava la vita.

478.  Tra questi è da porre Alamanno Rinuccini, che poi si mostra benevolo ai Pazzi: ed egli era stato compagno al Medici nelle ambascerie e negli uffici di maggior conto.

479.  Vespasiano, Vita di Piero de’ Pazzi.

480.  Ebbe egli il secondo premio nella Giostra, della quale il primo fu dato a Lorenzo.

481.  Machiavelli, Storie, lib. VIII.

482.  Confessione di Giovan Battista da Montesecco, stampata tra i documenti che fanno seguito al Poliziano, Congiura de’ Pazzi, e dal Fabroni e dal Roscoe, Vita di Lorenzo. Il Machiavelli trasse molto da quel documento; così l’Ammirato. Noi lo riproduciamo nell’Appendice Nº IX.

483.  Nelle lettere citate di Piero de’ Medici si vede Guglielmo dieci anni prima essere tenuto fra i più intrinseci della Casa.

484.  Abbiamo lettera di Girolamo Riario a Lorenzo da Roma a’ 15 gennaio 1478, con la quale lo invita ad andare colà, promettendogli molto adoprarsi «a levare di mezzo ogni dubitazione che fosse nata tra esso e il Pontefice.» (Fabroni, Doc., pag. 105.)

485.  Istruzione di Lorenzo a Piero suo figlio che andava in Roma nel novembre del 1484. (Fabroni, pag. 268.)

486.  Vasari, Vita d’Andrea Verrocchio: ma quella pittura fu indi a poco cancellata.

487.  Congiura de’ Pazzi scritta da Filippo Strozzi che v’era presente. — Angeli Politiani, Coniurationis Pactianæ Commentarium; Napoli, 1769, in-4º. — Cronichetta di Carlo Giannini da Firenzuola (si trova in quello stesso volume). — Cronichetta di Belfredello Strinati Alfieri (ivi). — Condanne dei Pazzi e dei loro complici (ivi). — Documenti pubblicati dal Fabroni. — Ricordi di Alamanno Rinuccini. — Valori, Vita di Lorenzo de’ Medici. — Guicciardini, Stor. Fior., cap. IV. — Machiavelli, lib. VIII. — Ammirato, lib. XXV.

488.  Vespasiano, Vita dell’Acciaioli.

489.  Fabroni, Documenti, pag. 116. — E la Repubblica di Venezia mandava a quella dei Fiorentini savie parole, che a noi giova qui riferire: «Pare a noi che dal frappor dimora alla liberazione del Cardinale non possa quella eccellentissima Signoria conseguire alcun comodo, quando invece la liberazione del Cardinale toglie ad ognuno ogni occasione di straparlare, e di giustificare sè stessi d’ogni non buona operazione, ed anche recida ed amputi ogni offensione d’animo che i Cardinali potessero per una più lunga ritenzione concepire. Per questi rispetti adunque l’opinion nostra sarìa che al Vescovo di Modrussa si rispondesse: che quella eccellentissima Signoria, avendo per riverenzia del Sommo Pontefice e di quel Santissimo Collegio riservata la persona del Cardinale dal pericolo di tanta furia quanta era in quel popolo, delibera anche ed è contenta di liberamente lasciarlo.» (Romanin, Storia di Venezia, tomo IV, pag. 389, 90.)

490.  Nella Commissione, manoscritta appresso di noi, di Sisto IV al Cardinale di Mantova legato a Bologna, il Papa dichiara non fare colpa a’ Bolognesi dell’avere al primo annunzio della congiura mandato soccorsi a Firenze: cum nihil adhuc Florentini in ecclesiasticam dignitatem moliti essent. Aggiugne dipoi: nos quoque casum ipsum primum indoluimus, et commiserationis nostræ testimonium per literas nostras ad Florentinos dedimus. Di queste lettere gli scrittori fiorentini non fanno menzione.

491.  Raynaldi, Annales Ecclesiast., anno 1478. — Il Mansi nell’edizione delle Miscellanee del Baluzio, tomo I, diede alcuni brani di niuna importanza che il Rainaldo aveva omessi o abbreviati.

492.  Documenti aggiunti all’edizione napoletana del Commentario del Poliziano ec. — Fabroni, Documenti.

493.  Cronichetta antica (Fabroni, pag. 115).

494.  Il Fabroni pubblicò questo (pag. 131) con altri molti documenti intorno a quel fatto; il Mansi, nell’appendice alle Miscellanee del Baluzio, alcune lettere della Duchessa di Milano e del re Ferrando e dei Veneziani, e due Invettive del Filelfo contro Sisto IV: pag. 503 e seg.

495.  In fine allo scritto si legge: «datum in Ecclesia nostra Cathedrali Sanctæ Reparatæ, 23 Julii 1478.» — V è dentro una lettera del Cardinale di San Giorgio al Papa, tutta dolcezze di encomi alla Repubblica ed a Lorenzo; ma noi temiamo essere questa una impostura; e che il Sinodo fosse veramente celebrato, a noi non consta, e non lo crediamo. (Vedi Fabroni, Docum., ec.)

496.  Abbiamo qui tratto dall’Ammirato ogni cosa, perch’egli ne sembra in questo come in altri luoghi avere attinto a documenti o memorie di chi era presente. L’orazione che il Machiavelli pone in bocca a Lorenzo è meno calzante, avendo in sè molto minori caratteri di convenienza e di verità.

497.  Malipieri, pag. 246.

498.  Lettera familiare di Sisto IV al Duca d’Urbino. (Fabroni, pag. 130.)

499.  Ricordi d’Alamanno Rinuccini, pag. 130. — Per le Condotte d’Ercole d’Este e d’altri, vedi Archiv. Stor., tomo XV.

500.  Vedi l’amplissima Provvigione della Repubblica (Fabroni, pag. 191); dove è statuito, tra le altre cose, che la figlia Margherita, la quale era scritta al Monte delle Doti creditrice di fiorini 290 al primo gennaio 1486 (quando ella entrava nella età nubile), avesse un’aggiunta di altri 500 fiorini di dote. E che la famiglia di Donato, ch’era segnata per quattro fiorini a ciascun sesto di gravezza, venisse gravata per quindici anni d’un solo fiorino ec.

501.  Memoires de Comines; lib. VI, cap. 5. — Vedi una lettera molto risoluta di Luigi XI a Sisto IV, nella Cronaca del Malipieri; Archiv. Stor., tomo VII, parte I, pag. 247.

502.  Epist. Iacobi Ammannati Cardinalis Papiensis; 16 luglio 1478. Segue una lettera a lui di Iacopo Antiquario letterato Perugino, e tutto devoto alla causa di Lorenzo.

503.  Raynaldi Annales Ecclesiast.; il quale è da consultare con fiducia per tutto quel fatto narrato da lui con diligenza ed ischiettezza. Oltre al Breve di Sisto IV, riferisce assai documenti; e tra gli altri la risposta che diede il Papa agli Oratori francesi conforme ai consigli del Cardinale di Pavia. È tratta dai Diari di Iacopo Volterrano scrittore apostolico (Rer. Ital., tomo XXIII), il quale non vuolsi confondere con Raffaele Maffei Volterrano, autore anch’egli più volte allegato dallo stesso Rainaldo. — Iacopo, ch’era stato segretario e grande amico all’Ammannati, continuava ne’ suoi Diari, pei tredici anni di Sisto IV, i Commentari del Cardinale.

504.  Diceva il Senato all’oratore pontificio: «e perchè la Santità Sua, a petizione d’altri e per satisfare a dishoneste voglie e appetiti di chi si sia, offende quelli (i Fiorentini) e spiritual e temporalmente, volemo che la Beatitudine Sua sapia che nui insieme cum loro, et cum el Stato de Milan unitissimi, et temporal et spiritualmente defenderemo i stati, honor et dignità della nostra confederation ec. Et non si speri la Beatitudine Sua nè altri poter cuoprire e’ fini de no’ buoni pensieri soi, cum ch’el non offende la città di Fiorenza, ma Lorenzo in ispecie: perchè ben intendemo tutti nui, questa offesa no’ esser fatta più alla particularità de Lorenzo, innocentissimo da tutte quelle calunnie li sono apposte, che al presente stato e forma de governo de la città di Fiorenza, ec.» (Romanin, Storia di Venezia, tomo XIV, pag. 390.)

505.  Il Fabroni vidde, d’antica stampa, una invettiva molto virulenta di Cola Montano contro a Lorenzo de’ Medici. Cola era stato col Conte Girolamo Riario, e poi nell’anno 1482 pare insidiasse alla vita di Lorenzo, quando nel recarsi da Genova a Roma fu nelle Maremme preso da certi che ne seguivano le traccie, ed a Firenze condotto. L’Oratore d’Ercole da Este racconta il caso e infine aggiugne: «Credo capiterà male.» (Atti e Memorie delle Deputazioni di storia patria delle provincie Modenesi e Parmensi, vol. I, fasc. III, pag. 259.) — La Legazione di Piero Capponi, che abbiamo in copia, non contiene altro che le lettere d’ufficio a lui dei Dieci; le sue da Lucca non si rinvengono.

506.  Guicciardini, Opere, tomo III. — Machiavelli, lib. VIII. — Ammirato, lib. XXIV.

507.  Narrazione della Congiura dei Pazzi, scritta da Filippo Strozzi Seniore.

508.  Il Malavolti, nell’Istoria di Siena, pubblicava l’accennata lettera di Lorenzo de’ Medici ai Duchi d’Urbino e di Calabria.

509.  Guicciardini, Opere inedite, tomo III, 56.

510.  Guicciardini, Storia di Firenze, cap. VI e IX.

511.  Vedi una leggiadra lettera a Lorenzo d’Ippolita d’Aragona nuora del Re. (Fabroni, pag. 223.)

512.  Queste cose abbiamo cavate da una Commissione di Sisto IV a messer Antonio Crivelli mandato da lui a Napoli. È manoscritta presso di noi e molto bene dichiara l’animo di Sisto ed il contegno del Re: la pubblichiamo, Appendice Nº X.

513.  Fabroni, Documenti, pag. 213, e sono anche ivi da vedere le private lettere scritte a Lorenzo da Bartolommeo Scala e da altri de’ più confidenti.

514.  Guicciardini, loc. cit. — Machiavelli, lib. VIII. — Ammirato, lib. XXIV.

515.  Questo punto è ora dilucidato abbastanza dal Romanin, Storia di Venezia, lib. XI, cap. 3.

516.  Lettere manoscritte ai Dieci, di Piero Capponi, da Napoli 18 aprile 1483.

517.  Cammillo Porzio (Congiura de’ Baroni) attribuisce ai Fiorentini la discesa dei Turchi in Italia; ma è scrittore in quanto ai fatti poco diligente. — Lorenzo mantenne con Alfonso durante la guerra molto amichevoli relazioni, usando parole strabocchevolmente sviscerate. (Vedi Fabroni, pag. 216.)

518.  Allegretti, Cronaca Senese (Rer. Ital. Script., tomo XXIII). — Malavolti, Storia di Siena.

519.  Fabroni, pag. 219 e 20.

520.  Diarii Latini di Iacopo Volterrano, che fu presente all’assoluzione. (Rer. Ital. Script., tomo XXIII.)

521.  Guicciardini, Stor. Fior., cap. V.

522.  Ordine dei Settanta: Provvisioni dei 10 e 19 aprile 1480. (Archiv. Stor. Ital., tomo I, pag. 321.)

523.  Canestrini, Sulle Imposte della Repubblica di Firenze, cap. III, sez. 4 e seg. Trovò egli scritto nell’Archivio in calce d’un antico libro: «Quisquis es, quia dives es et plurimum lucraris, non es amicus pauperum tametsi simulas amicissimum; quoniam vero paucos filios habes, Catastum damnas atque explodis, et cervicibus inopum grave onus imponis.» Secondo l’antico Catasto, per ogni figlio o parente da sostentare si faceva detrazione di duecento fiorini, ond’era grande il benefizio di chi aveva molti figli.

524.  Nel Proemio della Provvisione per l’Ordine dei Settanta si mettono innanzi le spese e i danni della peste, forse cercando attenuare quelle che aveva prodotto la guerra fatta per Lorenzo. In seguito aggiugne i danni maggiori essere «per il Monte, perchè non s’è renduto le paghe, nè valutosi senza gran danno del credito; per che è diminuito di pregio non rendendo, et però non se n’è molto contractato. Et è questo membro del Monte in tanto disordine, che se presto e saviamente non vi si provvede, nè dote nè paghe render si potranno.»

525.  Rinuccini, pag. 135 e 137.

526.  In Bruggia si trova che avesse perduto per cento mila ducati, e in altre Banche forse altri cento. — In quella città falliva pure una Compagnia col nome dei Da Rabatta e dei Cambi per avere servito di grande somma di danaro la duchessa Maria di Borgogna moglie dell’imperatore Massimiliano, che s’era morta, e il danaro non venne mai restituito. (Rinuccini, anno 1483.) Questa Compagnia non credo però che andasse per conto dei Medici. — Lorenzo accattava spesso danari anche dagli amici: avendogli i suoi cugini del ramo di Pier Francesco prestato nel 1478, sessantamila ducati, Lorenzo cedeva ad essi in pagamento la villa di Cafaggiolo colle possessioni che aveva in Mugello. Vendeva allo Sforza per quattromila ducati la casa che il padre di quello gli aveva donata in Milano. (Valori, Vita di Lorenzo. — Istorie di Gio. Cambi, in Deliz. Erud., tomo XXI in principio. — Guicciardini, Stor. Fior., cap. IX. — Lettera d’Antonio Pucci a Lorenzo, Fabroni, pag. 212.)

527.  Ammirato, 1481. — Rinuccini, pag. 134. — Valori, Vit. Laur.

528.  Lettera a Lorenzo dei Medici di Matteo Arcidiacono di Forlì. (Fabroni, pag. 226.)

529.  Diari Romani di Iacopo Volterrano (Muratori, Rer. Ital. Script., tomo XXIII, cap. 147 e seg.)

530.  Machiavelli, lib. VIII. — Ammirato, lib. XXV.

531.  Sappiamo queste cose da una lettera di Lorenzo stesso, che scriveva in nome dei Dieci di guerra. Contiene, tra le altre, queste parole: «.... per essere la nostra religione in mancamento assai della sua reputazione per questi Governi tanto alieni dagli antichi e da quelli che si convengono a un pastore cristiano. Abbiamo grandissima speranza che questa santa opera si condurrà ad effetto, perchè Dio non abbandonerà la sua causa. E movendo la Sua Maestà Spagna e Ungheria, già la cosa arà sortito sufficiente effetto. Tieni confortata in questo la Sua Maestà, e ogni dì sollecita; e noi avvisa continuamente delle deliberazioni e pareri suoi, co’ quali desideriamo convenire in ogni cosa.» — Legazione manoscritta di Piero Capponi a Napoli; lettere dei 21 settembre e 14 ottobre 1482.

532.  Vedi Archiv. Stor., Nuova Serie, vol. II.

533.  Fabroni, Docum., pag. 227 e seg. — Vedi Raynaldo, anno 1482, pag. 25, 26, ediz. di Lucca. — Diari di Stefano Infessura (Muratori, Scrip. Rer. Ital., tomo III, col. 1153). — Nella Dieta che Pio II tenne a Mantova, i Potentati d’Italia s’erano obbligati di non appellarsi mai ad futurum Concilium, e lo stesso Ferrando aveva rinnovato la promessa a papa Sisto. (Atti ec. della Deputazione di storia patria, Modena, 1863, pag. 296.)

534.  Legazione sopraccitata.

535.  «Sua Beatitudine volentieri vorrebbe ogni accordo, ma e’ crede più ad altri che a sè; e il Conte (Girolamo Riario) credo che si muova per la sua mala natura, la quale è vendicativa,... e per tenere sempre il Papa in imprese e appiccato, perchè per questa via egli si mantiene in reputazione et poppa tutte le entrate della Chiesa. Il Papa ha gran desiderio di pace; e oggi a tutti noi Oratori ha confessato le pratiche tenute a Venezia ec.» Lettera a Lorenzo di Guid’Antonio Vespucci, ambasciatore a Roma, 23 ottobre 1483. (Fabroni, Docum., pag. 251.) — Vedi negli Annali del Malipiero i danni sofferti dai Veneziani per questa guerra, e le pratiche per la pace molto avanzate da Sisto IV, ma delle quali il Senato di Venezia poco si fidava.

536.  Corio, Storia di Milano. — Guicciardini, Stor. Fior., cap. VII. — Quando vennero a Sisto IV gli Ambasciatori con la pace, il giorno che fu penultimo della sua vita, si doleva egli affannosamente delle inique condizioni, dicendo che i Veneziani, l’anno innanzi, a lui ne offrivano delle migliori. (Diario di Iacopo Volterrano in Muratori, Script. Rer. Ital., tomo XXIII, col. 199.)

537.  Malavolti, Storia di Siena, lib. VI. — Lettere manoscritte di Lorenzo dei Medici alla Signoria di Siena.

538.  Istorie di Gio. Cambi. — Machiavelli, lib. VIII.

539.  Ammirato, Storie. — Lettere ai Dieci di Piero Capponi Commissario in Pisa per la guerra.

540.  Circa l’elezione d’Innocenzio VIII sono da vedere le lettere scritte da Roma a Lorenzo e pubblicate dal Fabroni, pag. 256 e seg.

541.  Lorenzo aveva consigliato al Re «d’avere gli occhi a tutto, e mostrare in alcuna cosa non intendere.» Anche scriveva: Dispiacemi sino all’anima che lo signor Duca (Alfonso) abbia questo nome di crudele, e falsamente le sia imposto; pure Sua Eccellenza tuttavia si sforzi toglierlo con ogni arte, che certo li metterà buon conto. Et così se le Gabelle si tollerano mal volentieri dalli popoli, levile via, et torni alli soliti pagamenti; che vale più avere un carlino con piacere e amore, che dieci con dispiacere e isdegno; che certamente, indurre usanza nuova ad ogni popolo pare forte.» (Fabroni, pag. 269.)

542.  Guicciardini, Stor. di Fir., cap. VIII. — Machiavelli, lib. VIII. — Ammirato, lib. XXV. — Porzio, Congiura dei Baroni.

543.  Legazione Modenese sopraccitata (pag. 285).

544.  Il Re minacciava comparire a Roma con la lancia sulla coscia. (Legazione Modenese sopraccitata, anno 1490.)

545.  Guicciardini, Stor. Fior., cap. VIII. — Machiavelli, lib. VIII. — Ammirato, lib. XXVI.

546.  Fabroni, Docum., pag. 334 e altrove.

547.  Ricordi di Lorenzo. (Fabroni, Docum., pag. 299 e seg.)

548.  Le cerimonie per la promozione al Cardinalato di Giovanni de’ Medici, sono descritte lungamente nel Diario del Burcardo, all’anno 1492. Firenze, 1854; pag. 162-77.

549.  Appendice, Nº XI. — (Vedi i Documenti pubblicati dal Fabroni.)

550.  Guicciardini, Stor. Fior., cap. VIII. — Cambi.Rinuccini.

551.  Fabroni, Documenti, pag. 337.

552.  Fra le Istruzioni al figlio adolescente che andava in Roma con gli Ambasciatori a papa Innocenzio ponea: «Nei tempi e luoghi dove concorreranno gli altri giovani degli Imbasciatori pòrtati gravemente e costumatamente e con umanità verso gli altri pari tuoi, guardandoti di non preceder loro, se fossino di più età di te; poichè per essere mio figliolo, non sei però altro che cittadino di Firenze, come sono ancor loro.» (Fabroni, Docum., pag. 264.) Ma nelle nozze a Milano di Giovanni Galeazzo con Isabella d’Aragona, Piero andava sempre del pari col Duca. (Idem, pag. 296.)

553.  Discorso di Alessandro de’ Pazzi (Arch. Stor. Ital., tomo I, pag. 42), che riferisce parole della sua madre Bianca, sorella a Lorenzo.

554.  Giovanni Cambi, ch’era figliolo del Gonfaloniere così avvilito, narra distesamente quel fatto: il Rinuccini vitupera il Gonfaloniere e accusa Lorenzo.

555.  Alamanno Rinuccini (loc. cit.), e Guicciardini, cap. IX; il primo fu acerbo giudice di Lorenzo, il Guicciardini severo in quella Istoria Fiorentina ch’egli scriveva giovane appena di venticinque anni.

556.  Oratore Modenese sopraccitato, anno 1489.

557.  Fabroni, Docum., pag. 72-90.

558.  Lettere manoscritte di Lorenzo de’ Medici alla Signoria di Siena: copia appresso di noi.

559.  L’Oratore Modenese più volte citato, chiama lui vivo «bilancia d’Italia.»

560.  Machiavelli, fine dell’Istoria. — Guicciardini, Storia di Firenze, cap. VIII e IX, e Istoria d’Italia, lib. I. — Rinuccini Alamanno, anno 1492. — Istoria di Giovanni Cambi. — Valori, Vita di Lorenzo de’ Medici. — Fabroni, Documenti. — Roscoe, Vita di Lorenzo, vers. ital., Pisa, 1799. — Ammirato, lib. XXV, XXVI. — Michele Bruto, ultimi quattro Libri dell’Istoria Fiorentina.

Mentre si stampava la Storia nostra, una Vita del Magnifico Lorenzo si pubblicava in Germania dall’insigne e a noi tutti caro Barone Alfredo di Reumont. È in due volumi, e vi si comprende l’intera istoria di quel tempo e la politica cercata dentro agli Archivi delle maggiori città d’Italia e quanto risguardi le arti e le lettere e i costumi. Di questa opera noi ci peritiamo a dare un giudizio per l’amicizia che da lunghi anni ci stringe all’autore e perchè in essa egli ci onorava molto al di là d’ogni ambizione nostra. Solamente, come Italiani, lo preghiamo a fare italiana egli medesimo una Storia dove noi possiamo tanto imparare. Scrive egli come un Italiano; e degli antichi fatti nostri e degli uomini ha una conoscenza tanto familiare che a noi è un miracolo. Finito il libro, gli venne a mano un Registro di Lettere di Lorenzo, che prima d’ora si credè perduto (Ved. Archiv. Stor. Ital., tomo XIX della Serie III). Di quelle lettere molte aveva prima lette in questo Archivio di Stato, e usate scrivendo: sono in numero grandissimo perchè il Registro comprende quindici anni della Vita di Lorenzo, che ne dettava o scriveva di sua mano fino a dieci e venti in un giorno. Pubblicarle tutte sarebbe cosa intempestiva, tanto vi abbondano, per esempio, le commendatizie, e i minuti affari, che senza fatica Lorenzo sapeva mandare di fronte. Ma tolte anche via le cose che a noi sono inutili, raccomandiamo una ben fatta pubblicazione delle Lettere di quest’uomo, che sempre saranno assai grande numero: l’uomo e i tempi ne sono degni, e in esse Lorenzo è grande esemplare, perchè niuno ebbe delle cose una intelligenza tanto vasta, nè le giudicò in modo sì netto e preciso; la quale ultima condizione basterebbe a rendere il suo scrivere elegantissimo, quando anche in lui non si fosse aggiunta la grande coltura. A queste potrebbero fare riscontro anche altre lettere scritte da uomini di quel tempo.

561.  Filippo Villani nel Proemio.

562.  Leonardi Aretini Dialog. I ad Petrum Histrium. Fu già stampato in Basilea, ed è manoscritto nella Laurenziana.

563.  Orazione di Cristoforo Landino; Firenze, 1853.

564.  Prefazione alla Sporta; Firenze, 1550.

565.  Landino, Proemio al Commento sulla Divina Commedia.

566.  Lettera stampata nel Propugnatore; Bologna, 1869.

567.  Proemio al Commento sulle Canzoni.

568.  Bernhardi, Dissertazione ec.; Berlino, 1868.

569.  Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, per il Comune di Firenze, volumi tre; 1867-73.

570.  Documenti di storia italiana, copiati in Parigi da G. Molini, tomo I, in fine.

571.  Cambi, Storia di Firenze, anno 1498; sta nelle Delizie ec. del P. Ildefonso.

572.  Estratti del signor Rawdon Brown, tomo III, pag. 318.

573.  Nel 1559 il Trattato di Castel Cambrese aveva finito le guerre d’Italia; ma in quell’anno stesso da piè delle Alpi si preparava il 1859: tre secoli tondi, e date che importano alla storia della lingua.

574.  Varchi, Ercolano; Padova, 1744, in-4º; pag. 84 e seg., 357 e seg., 446 e seg., 508 e in molti luoghi.

575.  Questa e le successive, sino a quella de’ 27 febbraio inclusive, vengono da un Libro di provvisioni e deliberazioni di due Balie create il 20 di gennaio e il 5 di febbraio di quell’anno; il qual Libro esiste nel predetto Archivio di Stato di Firenze.

576.  Questa è anche trascritta nel Codice dell’Archivio dei Capitani di Parte altrove citato.

577.  Manca della data, ma sta nel Registro tra una del 3 e un’altra del 13 marzo 1406 (stil. fior.).

578.  Così nell’originale.

579.  Spazio bianco nell’originale qui ed appresso dove saranno questi punti.

580.  Così chiaramente l’originale.

581.  Intendasi messer Iacopo, con cui egli parlava.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™
Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of electronic works in formats readable by the widest variety of computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life.
Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.
Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws.
The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact
Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS.
The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate.
While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate.
International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.
Please check the Project Gutenberg web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: www.gutenberg.org/donate
Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works
Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of volunteer support.
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