The Project Gutenberg eBook of Attraverso il Cinquecento, by Arturo Graf
Title: Attraverso il Cinquecento
Author: Arturo Graf
Release Date: March 9, 2022 [eBook #67595]
Language: Italian
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ARTURO GRAF
ATTRAVERSO
IL
CINQUECENTO
PETRARCHISMO ED ANTIPETRARCHISMO
UN PROCESSO A PIETRO ARETINO
I PEDANTI
UNA CORTIGIANA FRA MILLE: VERONICA FRANCO
UN BUFFONE DI LEONE X
(Ristampa)
TORINO
Casa Editrice
ERMANNO LOESCHER
1916
PROPRIETÀ LETTERARIA
Tip. Olivero & C. · Via Accademia Albertina
ang. Piazza Carlo Eman. II, Torino.
[1]
[3]
Il Petrarchismo è una malattia cronica della letteratura italiana. A cominciare dai tempi stessi del poeta che gli diede il nome, e a venir giù sino a quelli dei nonni o bisnonni nostri, ogni secolo della nostra storia letteraria se ne mostra, non voglio dire infetto, che potrebbe parere troppo irriverente verso la causa prima e non volontaria del male, ma soprappreso, o colpito, in varii modi e con diversità di grado e di effetti. È una specie di febbre ricorrente, da cui non so se possiam dirci ancora in tutto e per sempre guariti, ma che già più di una volta c’ebbe a tornar perniciosa. Il Petrarca era ancor vivo e vegeto che molti già, com’egli stesso ci dice, si facevano belli delle sue spoglie, tentavano di tramandare sull’ali stesse dell’ingegno di lui il nome loro ai posteri. Costoro, che spacciavan per proprii i versi stessi del cantore di Laura, sono certo i petrarchisti più petrarchisti che sieno mai stati. Poi, subito dopo, comincia la imitazione, comandata, in certo qual modo, da quella riputazione strabocchevole, e forse senza riscontro, la quale, avendo accompagnato il poeta in vita, non fece, lui morto, se non accrescersi e confermarsi. Zenone da Pistoja, che in due migliaja di fastidiosissimi [4] versi deplorò quella morte, fa dire al mondo, vedovato del suo poeta:
Quest’era la colonna del mio stato
Quest’era luce mia universale,
Come dal sol da lui illuminato.
E, veramente, a questo sole ebbero a scaldarsi infiniti, cui Febo molto volentieri avrebbe lasciato morirsi di freddo, nel bujo.
Ebbe petrarchisti il Trecento; ebbene il Quattrocento, e non pochi; ma il secolo in cui il petrarchismo galla, lussureggia, trionfa e strabocca, è il Cinquecento: così che quando si parla di petrarchismo, subito la mente corre a quel secolo, come se a quello esso appartenesse strettamente ed in proprio.
Quali le ragioni del fatto?
A tale domanda alcuni storici della letteratura non dànno risposta di sorta, paghi di descrivere incompiutamente, o anche solo di registrare il fatto; altri rispondono assai per le spicce, con pericolo grande di risponder male[1].
Il buon Settembrini, che batteva sempre su quel suo chiodo (ma non sempre a torto, intendiamoci) della oppressione civile ed ecclesiastica, nemica così del pensiero, come della unità e libertà d’Italia, dice a tale proposito[2]: «La Lirica è essenzialmente affettuosa: tra gli [5] affetti il solo amore era libero, non dava sospetto ai principi ed alla Chiesa: il Petrarca fra gli antichi ed i moderni è il maggior poeta di amore: i monumenti antichi di recente scoperti e pubblicati fecero stabilire come principio di arte l’imitazione: ecco come fu imitato il Petrarca». A ciò si risponde che significare altri affetti nel verso non era poi così rigorosamente vietato, provando il contrario gli esempii noti del Guidiccioni, dell’Alamanni, e di quant’altri, e non furono pochi, ebbero allora a deplorare i mali d’Italia, a esecrarne le cagioni, a ricordare con dolore e con desiderio i tempi e le glorie antiche; che il petrarchismo non è tutto contenuto nella poesia imitativa di quei lirici; che il fatto, ben lungi dall’avere una causa sola, ne ha parecchie, le quali si potranno vedere specificate più oltre.
Uno storico tedesco della letteratura italiana, il Ruth, cerca le cause del petrarchismo del Cinquecento in una innata ed incurabile debolezza dell’ingegno italiano, e dice che, senza una tale debolezza, il Petrarca non sarebbe stato mai, come fu, canonizzato massimo poeta[3]. A quest’affermazione sommaria, che fa torto ad uno storico di professione, troppe cose ci sarebbero da opporre; ma basterà, per mostrare quanto sia vana ed ingiusta, ricordare che il Petrarca non fu meno ammirato nella rimanente Europa di quello fosse in Italia; che di petrarchisti ce ne furono in Ispagna e in Portogallo, ce ne furono in Francia, ce ne furono in Inghilterra, ce ne furono, sebbene più tardi, come di ragione, in Germania; e che però quella presunta debolezza, se è del popolo italiano, è anche di tutti gli altri popoli a cui si allargò la coltura del Rinascimento. Certamente il [6] Settembrini e il Ruth, per non parlare di altri, o non colgono il vero, o lo colgono solamente in parte.
Il petrarchismo del Cinquecento è un fatto storico e letterario assai complesso, e le cause di esso sono molteplici e variamente composte e intrecciate, per modo che non riesce troppo agevole determinare il prima e il poi dell’apparire e dell’operar loro; ma le più, se non tutte, si possono riferire, come a principio, o a recapito, alla coltura del Rinascimento, la quale, com’è noto, si specifica, non solamente in una moltitudine di forme, ma in una moltitudine ancora di tendenze e d’indirizzi. In queste forme, in queste tendenze, in questi indirizzi, sono da ricercare le ragioni del petrarchismo; mentre in forme, tendenze, indirizzi di opposta natura sono da ricercare le ragioni dell’antipetrarchismo, che, come fenomeno di reazione, o sintomo di nuova evoluzione, si appalesa in quel medesimo secolo. Nelle pagine che seguono io mi propongo di parlare, così del petrarchismo, come dell’antipetrarchismo, e, secondo l’ordine richiede, comincio dal primo.
Il petrarchismo del Cinquecento è, come ho detto, un fatto complesso, che prende varie forme: studiando queste forme, quali la vita del tempo ce le vien presentando, noi potremo, senza sforzo, darci ragione delle cause che lo produssero.
La forma più appariscente assunta da esso è la imitazione, quale la ci mostrano i canzonieri degli innumerevoli petrarchisti: dico la più appariscente, e, se vuolsi, anche la principale; non certo la sola. Di cotesta imitazione si parla in tutte le nostre storie letterarie; ma un po’ troppo in succinto, e senza la debita distinzione e l’opportuno apprezzamento dei modi, dei gradi, delle vicende. Dire che la lirica nostra di quel secolo è, presso che tutta, imitazione del Petrarca, gli è dire la verità, ma non tutta la verità; giacchè dentro al fatto [7] generale ci son molti fatti particolari, i quali han tutti la loro significazione, e meriterebbero di essere diligentemente raccolti e ordinati. Io non intendo di supplire qui al difetto delle storie letterarie, al che si richiederebbe lavoro molto maggiore di questo; ma solo di ricordare alcune cose già note, e di metterne innanzi parecchie altre che fanno al proposito.
Antesignano, corago e campione dei petrarchisti del Cinquecento è messer Pietro Bembo, uomo di mediocre ingegno, ma di molta e varia erudizione, educato in tutte le finezze e peregrinità di quella coltura nelle Corti di Urbino e di Roma, nella impareggiata Venezia; non vero poeta, ma studiatore e rifacitor di poeti; ringrandito dalla fama fuori d’ogni misura, gridato meraviglia e fenice del secolo. Se s’ha a credere a quanto scrive nel Dialogo della storia Sperone Speroni, Aldo Manuzio confessava che prima del Bembo il Petrarca non era conosciuto in Lombardia e nel Veneto[4], dove, per contro, fu poi tanto cognito, e tanto studiato, che Giangiorgio Trissino poteva con tutta sicurezza affermare intendersi il Petrarca meglio in Lombardia che in Firenze[5]. E Venezia diventò appunto il propugnacolo e la principal sede del petrarchismo in Italia. Sulle orme del Bembo si accalca un popolo di rimatori d’ogni generazione e d’ogni temperamento, in mezzo a cui, a far fede della forza dello andazzo, si trovano storici e politici, come il Machiavelli; veri poeti, come l’Ariosto; poeti da succiole, come Lodovico Paterno; medici insigni, come il Fracastoro; eruditi di peso, come il Trissino; buoni mariti, come il Rota; buone mogli, come Vittoria Colonna; scapestrati, come il Molza; cortigiane, come Tullia d’Aragona; uomini gravi, come il Varchi; [8] artisti, come Michelangelo; attrici, come Isabella Andreini; e cardinali, e frati, e cortigiani, e guerrieri, e mecenati, e parassiti, e pedanti.
Tutti costoro imitano, ma non tutti ad un modo; chè anche in ciò l’indole propria di ciascuno, gli studii, certi abiti della mente, la condizione di vita, dovevano, o poco o molto, farsi sentire. C’è chi studia di appropriarsi quanto più può la lingua, lo spirito, la maniera del Petrarca, e procaccia poi di rifare il modello, senza altrimenti curarsi di conformare in qualche modo a quel modello se stesso, e alla vita di quello la propria vita. Per costoro l’arte del Petrarca è una veste che s’attaglia a ogni dosso. Così il Bembo ruba le forme di cui il Petrarca aveva rivestito il suo purissimo amore per Laura e ci caccia dentro l’amore troppo diverso per quella sua Morosina, che lo fece padre di parecchi figliuoli. Certo, non si può frantendere più di così l’indole e il magistero della poesia. Gerolamo Muzio petrarcheggiò in onore di quella famosissima Tullia d’Aragona, che, non giova nasconderlo, figura in certa Tariffa dell’inclita città di Venezia; e Bernardino Rota, men malamente, scrivendo le Rime in vita e in morte della propria moglie, Porzia Capece. Altri, con alquanto più di buon giudizio, procurava di rifar dentro di sè l’anima del Petrarca, e intorno a sè alcuna condizione della vita di lui, o lasciava credere che così facesse. Il Cariteo scovava a dirittura un’altra Laura, e spasimava per lei dodici anni; e quattordici durava lo struggimento del Sannazaro per la bella Carmosina; undici quello del buon Guidiccioni per non ricordo quale fera virtuosa e bella. C’era chi si attaccava alle falde del maestro, e non osava scostarsi un passo da lui; e c’era chi, pure imitando, si studiava di metter qualche cosa di suo ne’ suoi versi. Così ebbero lode, per alcuna tentata novità, Giovanni Della Casa, Angelo Di Costanzo, ed altri. Parecchi imitatori si accozzavano [9] insieme, e di pezzi componevano un nuovo Canzoniere, come può vedersi nelle Rime di diversi eccellenti autori in vita e in morte dell’illustrissima signora Livia Colonna, stampate in Roma nel 1555. Più che imitatori erano i centonisti, i quali rifacevano il Petrarca con lo stesso Petrarca, e spesso i versi di lui forzavano a dire ciò che mai non avevano detto: e abbiamo centoni del Sannazaro, di Bernardino Tomitano, d’Isabella Andreini, di un Fabrizio Accolti, di un Luc’Antonio Ridolfi, di altri. Un Giulio Bidelli, mostro di pazienza, giungeva a mettere insieme Dugento stanze e dui capitoli, tutte de versi del Petrarca. Si usava anche di lardellare con versi del Petrarca i proprii componimenti. Così Isabella Andreini compose un capitolo in cui ogni terzetto finisce con un verso del Petrarca, e il medesimo, già molto prima, aveva fatto per celia Pietro Aretino: un Fabio Cavofigli, da Bitonto, morto nel 1570, compose un poema in sei canti, intitolato L’Esiglio; dove ogni stanza termina con un verso del Petrarca.
Non mancava chi, lasciando al Canzoniere i suoi versi, ne rubava le rime, per avere il gusto di accodarvene altri, di sua fattura. Un po’ meno che imitatori direi coloro i quali pigliavano dal Petrarca di seconda o di terza mano, facendosi seguaci dei seguaci di lui, come a dire del Bembo e di monsignor Della Casa. Si veniva ad avere per tal modo un Petrarca assottigliato e annacquato con processo che ricorda certe soluzioni ripetutamente diluite dei chimici; e se i versi dei primi imitatori posson rassomigliarsi a un vinello di poco spirito e manco sapore, quelli dei secondi sono a dirittura la risciacquatura del tino. C’era ancora chi pensava di dover compiere o rifare il Canzoniere, oppure dargli un opportuno riscontro. Uno Spina componeva Il bel Laureto (Milano, 1547) tutto in lode di Madonna Laura, che, [10] a suo giudizio, non doveva essere stata dal Petrarca abbastanza lodata. Nel 1552 si pubblicavano in Venezia I sonetti, le canzoni, et i trionphi di M. Laura in risposta di M. Francesco Petrarca per le sue rime in vita, et dopo la morte di lei pervenuti alle mani del magnifico M. Stephano Colonna. E senza più, Ludovico Paterno osava chiamare Nuovo Petrarca un suo sciattissimo canzoniere in vita e in morte di una madonna Mirzia (Venezia, 1560). Per agevolare la imitazione, o il furto, si moltiplicarono i Rimarii del Canzoniere.
La prosunzione in molti di questi imitatori era assai grande, e più d’uno si credette d’aver superato il maestro, o che il superasse fu creduto da altri. A noi le rime di monsignor Della Casa non pajono veramente gran cosa: ma il Varchi, il Tasso ed altri non isdegnarono di studiarci sopra, di esporle e di commentarle: il primo di aprile del 1616 Orazio Marta mandava al conte di Castro un suo parere, in cui quasi quasi pone il Casa sopra il Petrarca. In un suo epigramma latino Marc’Antonio Flaminio dà al Molza più gloria che a Tibullo e al Petrarca, e ciò per aver egli saputo riunire in sè il pregio dell’uno e dell’altro poeta. Il marchese di Mantova scriveva a Pietro Aretino il 27 d’agosto del 1524: «La canzone mi è sommamente piaciuta in la imitazion aveti fatto di M. Francesco Petrarca: lo avete molto, secondo il nostro judizio, superato, e nel corso lassatolo drieto a voi un gran pezzo»[6]. E sì che messer Pietro non ci teneva punto a passare per un gran petrarchista.
Il Petrarca era maestro massimo di poesia; da lui si ripetevano e si ricavavano tutte le parti e le norme dell’arte. Il poeta che senza paragone si cita più di frequente nelle Poetiche del Cinquecento, è lui; veggane [11] le prove chi vuole nelle Poetiche di Bernardino Daniello, di Mario Equicola, del Muzio, del Minturno, di Andrea Gilio e di altri. E non è a dire se versi del Petrarca occorrano spesso nel Tesoro di concetti poetici del Cisano e in altre consimili raccolte. A mostrare di quanto favore egli abbia goduto in quel secolo basta ricordare che le edizioni del Canzoniere, di trentaquattro ch’erano state nel Quattrocento, salirono a centosessantasette, per cadere a diciasette soltanto nel secolo successivo; mentre le edizioni della Divina Commedia furono rispettivamente in quei tre secoli di quindici, di trenta e di tre. Dante ebbe anche nel Cinquecento ammiratori ardenti, come, per citarne due, Michelangelo Buonarroti e Giambattista Gelli; e qualcuno ce ne fu che, come il Cosmico, osò porlo sopra il Petrarca; ma, ad ogni modo, la fama sua fu ben poca a paragone della fama di questo. Ed era lo spirito del secolo tutto intero che voleva così. Il Cinquecento era fatto per intendere il Petrarca e per non intender Dante. Fermiamoci un poco a considerare perchè.
Immaginatevi il rigido e sdegnoso Alighieri, quell’Alighieri, che, come dice Giovanni Villani, quasi filosofo mal grazioso non bene sapeva conversare co’ laici, in mezzo ad uno di quei crocchi eleganti dove la coltura, l’ingegno, la beltà, la cortesia, gli affetti teneri e gentili si stimolavano a vicenda, si davano scambievolmente risalto e valore; uno di quei crocchi che formavano la principale attrattiva della vita in Urbino, in Ferrara, in Mantova, in Roma, in Venezia: certamente egli vi si sarebbe trovato molto a disagio, ed anche agli altri sarebbe stato cagion d’imbarazzo. Poneteci per contro il Petrarca e vedrete subito ch’egli ci si trova, come si suol dire, nel suo centro. Gli è che il Petrarca, malgrado le melanconie ascetiche e i disgusti profondi che di tanto in tanto lo soprapprendono, è quasi, già nel Trecento, [12] un uomo del Cinquecento; è il maestro insuperato e insuperabile di tutte le squisitezze e di tutte le eleganze. Un secolo come il Cinquecento, che ricerca in ogni cosa la peregrinità e la grazia, che tutto affina e illeggiadrisce, che, rifuggendo istintivamente da quanto è semplice, primitivo, ingenuo, fa della vita un’arte, per non dire un artificio, doveva riconoscere nel Petrarca il solo poeta volgare degno d’essere posto in ischiera coi poeti dell’età augustea, e compiacersi della poesia del Canzoniere come di quella che meglio assecondava, blandiva, esprimeva i gusti e gl’ideali suoi proprii. A dirla in una parola, è la cortigiania del secolo XVI, presa nella sua duplice e più larga significazione di forma di coltura e forma di vita, che leva sugli altari il Petrarca, e in molteplici guise ne promuove il culto. Però s’intende quale sia il pensiero di monsignor Della Casa, quando, nel Galateo[7], appunta di disonestà alcuni vocaboli e versi di Dante, e dice che dal poeta della Commedia non si può apprendere l’arte di essere grazioso. Al Petrarca, nè monsignore, nè altri, avrebbe potuto muovere così brutto rimprovero.
In fatti noi troviamo il petrarchismo in istretta relazione anche con la cortigiania più frivola e scioperata, quella che si spendeva tutta nelle graziosità non sempre di buona lega della vita esteriore, senza dignificarsi nell’amore degli studii e delle buone arti. Dice Pietro Aretino nella Cortegiana[8] che certi cortigianuzzi effeminati e sciocchi avevano molto a mano il Petrarca; e altrove, per bocca di quella sua Nanna[9], descrive i leggiadri cavalieri di Roma, quali usavano mostrarsi per le vie, «andando soavi soavi co’ loro famigli a la [13] staffa, ne la quale tenevano solamente la punta del piede, col Petrarchino in mano, cantando con vezzi». Il Petrarchino era il Canzoniere, in edizione elegante, di piccolo formato[10]. In una scena del Furbo, commedia di Cristoforo Castelletti, l’innamorato Aurelio si presenta con un Petrarca in mano, regalatogli dalla diva[11]. Sì fatti stucchevoli vagheggini descrive quel cervel balzano del Garzoni nella sua Piazza universale di tutte le professioni del mondo[12]: «caminano tutto il giorno vestiti come ninfati Narcisi, col fiore nell’orecchia, con la rosa in mano, coi suoi guantetti profumati, con la gamba attilata, col passo artificioso, col motto galantino, con l’andar lesto, che pajono daini di Soria, e qui si fermano un tratto, danno una occhiata, fanno un cenno, tranno un sospiro, fan di pennacchino una volta, salutan sotto voce, si raccomandano alquanto, ricevono un risetto forbito, un guardo maliziosetto, e allora col farsetto pien di gioja partono cantando, e vanno a casa a comporre una sestina, o un madrigaletto, dove il cieco d’Adria non s’accorge che la mariuola gli ha furfato in versi, senza essere discoverta da veruno». Una genía che vive e prospera ancora, come si vede. Costoro dovevano molto spesso rassomigliare a quel messer Simpliciano che descrive il Bandello[13], dicendo, tra l’altro, che era «il più polito ed il più profumato giovane di Milano; e teneva un poco, anzi che no, del Portogallese; che [14] ogni dieci passi, o fosse a piede o cavalcasse, si faceva da uno dei servidori nettar le scarpe». Aveva ragione il Castiglione, che gli escludeva dal consorzio dei veri e buoni cortigiani[14]: «Questi, poi che la natura, come essi mostrano desiderare di parere ed essere, non gli ha fatti femine, dovrebbono, non come buone femine essere estimati, ma, come publiche meretrici, non solamente delle corti de’ gran signori, ma del consorzio degli uomini nobili esser cacciati».
Anche costoro, dunque, dovevano, alla lor maniera, favorire il petrarchismo, mentre non dovevano certo, da parte loro, contrariarlo quegli Spagnuoli che, maestri di scioperata e sdilinquita cortesia, avevano, come dice l’Ariosto, messa la signoria sino in bordello. Quei Don Cirimonia di Moncada e quei Signor Lindezza di Valenza, di cui ride il sempre arguto Aretino, stretti in cintura, come li ricorda il Sanga, attillati, odoriferi, schifi....., la spadiglia a canto, fumosi, il mozzo dirieto, per vida de la Imperadrice, e con l’altre lor lindezze attorno[15], sempre assassinati d’amore, dopo aver veduto il Petrarca godere di tanta considerazione in casa loro, dovevan dar mano ad allargarne il culto anche tra noi. E c’è memoria di un Don Diego, il quale osò persino d’imbrancarsi col gregge degli imitatori, facendo così venire la muffa al naso al buon Lasca, che sotto nome di messer Goro della Pieve, gli scaraventò contro un sonetto, esortandolo a levarsi di Firenze. Non si può ragionevolmente non credere che costoro facessero spalla con molto impegno al petrarchismo, se è vero ciò che dice il Mauro, che cogli Spagnuoli entrò in Italia una nuova usanza di sospiri:
[15]
Non era in uso quel baciar di mani
Nè ’l sospirar sì forte alla spagnola,
Ch’or è sì proprio de’ napoletani[16].
E chi al mondo sospirò più di messer Francesco? Così la cortigiania favoriva il petrarchismo, non meno con le sue tendenze cattive che con le buone.
Si capisce come il Petrarca, riconosciuto maestro insuperabile e modello unico della poesia lirica, dovesse tirarsi dietro a rimorchio, oltre agli ingegni migliori, anche un infinito popolo di poetastri e poetucoli da strapazzo, pei quali la imitazione era ineluttabile necessità, mentre per gli altri, almeno sino ad un certo punto, era libera elezione. La molta e diffusa coltura, se reca alla società cui appartiene benefizii grandi e molteplici, reca pur qualche danno, fra gli altri quello di promuovere e di stimolare un dilettantismo non sempre di buona lega. Ciò si vede in ispecial modo in quel secolo XVI, nel quale la smania di passare per letterato, d’imbrattar fogli e di stampar libri, assume il carattere di una vera e propria epidemia. Aggiungasi che il mecenatismo, falso o sincero, dei tempi, suscitava molte facili speranze, e faceva seguaci delle muse molti ch’erano nati per la striglia, e pur vagheggiavano il pane con poca fatica lucrato, gli onori e i favori delle Corti. Per tacere degli altri, i poeti, o direm meglio, i verseggiatori di quel secolo sono come l’arene del mare. Può far Domenedio che i poeti ci diluvino come i Luterani? esclama l’Aretino nel prologo della Cortegiana. E nella commedia[17] ricorda un Cinotto, un Casto da Bologna, un prete Marco da Lodi, e nel Capitolo all’Albicante un fra Porro, tutti d’una buccia e d’un midollo. Alcuni, come il Querno, [16] il Baraballo, il Brittonio, il Gazoldo, riuscirono per singolare concorso di casi, a tramandare ai posteri un nome vituperato; ma quanti altri mai affondarono irrevocabilmente nel mar dell’oblio? quanti vissero e morirono senza che il nome loro uscisse fuori di quei tristi e luridi tinelli, dove dividevano cogli staffieri e coi mozzi di stalla la scarsa pietanza? E a che cosa doveva riuscire tra le mani di costoro il Petrarca? Contro uno di questi, certo Eufrosino Lapini, si scaglia con un veemente sonetto il Lasca:
Oh gran gagliofferia,
Veder le vostre goffe e fredde stanze,
Piene di passerotti e discordanze;
E per belle creanze
Metter quei versi del Petrarca in guisa
Che chi li legge crepa delle risa!
Ma il Petrarca non era solamente l’oracolo della poesia; era ancora l’oracolo della lingua. E perchè? Anche di ciò la ragione è da cercare nella coltura del nostro Rinascimento. Di mezzo a quella coltura vien fuori quel particolar gusto, quel complesso di opinioni e di indirizzi, quella suscettività e intolleranza in materia di lingua, che formano il purismo. Considerare il purismo nostro non altrimenti che come un fatto di rigidità e di grettezza accademica, solo perchè l’Accademia della Crusca ne fu massima fautrice e tutrice, non è nè ragionevole nè giusto. In sostanza il purismo non è se non la esagerazione e la conseguenza finale di quelle stesse tendenze per cui, in mezzo ad un popolo, viene a formarsi, diversa dalla volgare, la lingua colta, letteraria od aulica che voglia dirsi. Come tale il purismo non è cosa propria della nostra storia letteraria soltanto, ma comune, quando in una, quando in altra forma, a tutte le storie letterarie: sebbene possa tra noi, per le [17] condizioni stesse della coltura nostra, essere riuscito più che altrove fastidioso ed eccessivo. La soverchia raffinatezza, già tendente a leziosaggine, della coltura e del costume, importa, insieme con molt’altre cose, anche una elezione minuziosa, schifa e sofistica nel fatto della lingua, la quale vuolsi rivesta quel carattere di signorile ed inappuntabile eleganza, che è proprio di tutte l’altre cose, e delle forme e dei modi a quella vita appartenenti. Come per veste ed ornamento del corpo si scelgono allora i panni più costosi e più belli, così per veste del pensiero le parole più nobili e più peregrine; e l’uso artificioso che un’arte men degna fa di quei panni, un’arte più degna, o più presuntuosa, fa di quelle parole. Nascono per tal modo ad un tempo la preziosità della lingua e la preziosità dello stile, per cui l’uomo colto e cortigianesco, nel fatto del parlare e dello scrivere, come in ogni altra cosa, si distingue e separa dal volgo. E poichè quel medesimo lavoro di scelta si viene ancora esercitando sulle cose di cui è lecito parlare, e sulle idee che è lecito esprimere all’uomo di finita coltura, e che perciò la materia del discorso si viene restringendo entro una cerchia sempre più angusta, ne segue che tutta quella parte di lingua, la quale risponde a cose e a pensieri non contenuti in tale cerchia, è facilmente considerata come impura, guardata con sospetto, e messa in contumacia, se non rinnegata affatto. Così nasce quella grande smanceria e quella solenne pedanteria che si chiama il purismo, il quale, per una parte di buono che possa avere, ne ha nove di cattivo, e, quando giunga alle ultime sue conseguenze, dissangua la lingua, uccide il pensiero, cancella di sana pianta le cose. E un altro fatto si consideri. L’umanesimo ebbe per lungo tempo in dispregio il volgare; era però naturale che il giorno in cui si piegava a fargli un po’ di posto a canto al greco e al latino, si mostrasse assai [18] schifiltoso e severo, e si desse a cercare, per levarlo a tant’onore, il volgare men volgare che fosse possibile di trovare. L’umanesimo, quanto a lingua, era divenuto assai schizzinoso studiando in Cicerone e in Virgilio, e in tutto oramai recava la tormentosa preoccupazione dell’aureo.
Così stando le cose, qual altro miglior esemplare di lingua poteva scegliere il Cinquecento che il Petrarca, il sempre purgato e sempre manieroso Petrarca, il quale avendo da esprimere i pensieri e i sentimenti più delicati e più nobili, e da ritrarre le cose più piacenti e leggiadre, poteva schiumare, per uso suo, la parte più odorifera e linda del vocabolario, e lasciar tutta l’altra da un canto? Nessuno, certo, almeno per la poesia. Gli è vero che quel grandissimo pedante del Salviati ebbe a dire Dante più puro del Petrarca[18], e che il medesimo disse pure Torquato Tasso[19]; ma questa non era opinione molto cattolica. Gli è vero ancora che accanto al Petrarca si ponevano Dante e il Boccaccio; ma quando si dice accanto, s’intende ai fianchi, egli nel mezzo. Così li vide veramente il Caporali nella reggia di Parnaso:
Nella più badiale e ricca sede
Stava il Petrarca, ed a man destra Dante
E ’l gran Boccaccio alla sinistra siede[20].
Niccolò Liburnio intitolò Le tre fontane certa sua opera grammaticale fatta sugli esempii di Dante, del Petrarca, del Boccaccio; ma se la fontana principale era per la prosa il Boccaccio, per la poesia era il Petrarca. Anzi [19] il Giovio, nei suoi Elogia, chiama a dirittura il Petrarca italicae linguae conditorem et principem. Le regole della grammatica si cominciarono più particolarmente a fissar sul Petrarca; e anche qui ci troviamo dinanzi, se non primo, certo uno dei primi, messer Pietro Bembo, il quale, se ebbe in sè molti buoni ingegni, non ebbe però mai il sentimento della lingua viva, e in fatto di lingua e di stile aperse una scuola di pedanteria, che da ben poco può dirsi chiusa[21]. Frughi chi ha tempo le molte grammatiche del Cinquecento e vegga il posto e l’officio che vi tiene il Petrarca.
Insomma il Petrarca è maestro e signore, così del vocabolario, come della grammatica, e in suo nome si fanno le leggi, e in suo nome si assolve e si scomunica. Egli è in lingua ciò che San Tommaso in teologia. Ond’è che il Castelvetro, volendo dare in capo al Caro per ragione di quella sua canzone dei Gigli d’oro, comincia asciutto asciutto con un Il Petrarca non userebbe, e ci attacca una filatessa di voci e di modi che pare a lui abbiano dell’eretico. Ma certo non a tutti doveva riuscire agevole l’uso di quelle parole melate e di quelle graziette confettate del Petrarca, e qualcuno se n’aveva da avvedere. E pare se ne avvedesse quello sciocco innamorato di Gerozzo, nella Pinzochera[22] del Lasca, quando invasato dal pensiero della sua bella, si lasciava scappar di bocca: «ch’è di quella ladra, traditora, rubacuori? [20] maledetto sia il Petrarca!» O non dev’egli parere tanto più strano, che in quello sciagurato gergo ch’ebbe nome di lingua jonadattica entrasse l’uso, secondo attesta Nicola Villani[23], di dire anima Petrarca per anima di pietra, come si diceva studiare il Boezio per essere un bue, e leggere il Mattioli per avere del matto?
Perchè il Petrarca non era solamente il grande erudito, il grandissimo poeta; ma era ancora il solennissimo innamorato, il maestro e il dottore di tutti gli innamorati; onde ben a ragione lo chiamava il Domenichi gran maestro per pratica e per scienza di tutti gli affetti amorosi[24]. E qui ci si scopre un’altra e principalissima ragione di simpatia fra il nostro poeta e quegli uomini del Rinascimento.
L’amore, che tiene un gran posto nella vita di tutti i popoli e di tutti i tempi, ne tiene uno grandissimo nella vita italiana del Cinquecento, e ci si presenta con forme e con caratteri che, parte sono generali e comuni, parte sono specifici e proprii. Dico amore e dovrei dire amori; perchè quell’amore è di due maniere, teoretico e pratico; e certo in nessun tempo corse tanta diversità dal teoretico al pratico quanta allora si vede. Che cosa fosse l’amore pratico nel Cinquecento sa chiunque abbia una qualche cognizione dei costumi e della vita di quella età, e può ognuno vederne i documenti e udirne le testimonianze parlanti nella novella, e in molt’altra parte di letteratura contemporanea: amore sensuale e brutale, senza pudore e senza velo; amore che non è altro ormai se non un rigoglio e un impeto di appetiti animali, l’istinto che si sfrena e soverchia. Questo è l’amore che [21] risponde alla furia di godimento ond’è invasata e agitata allora la società italiana, furia che la trascina su tutte le vie della dissolutezza e la esercita in tutte le forme della colpa e del vizio. Una triste istoria che a me non tocca narrare! Ma di contro a questo l’altro amore si leva, l’amore che risponde alla intellettualità fiorita dell’umanesimo ed ha suo luogo fra gl’ideali più elaborati di quella coltura. Già col restaurato platonismo era sorta tutta una dottrina d’amore puro ed etereo, che se in molte parti si rassomiglia a quella dell’amore cavalleresco, se ne distingue e disgiunge pel carattere essenzialmente filosofico de’ presupposti e degli argomenti, e continua e svolge la dottrina degli antichi lirici nostri. Oltre di ciò, data la società del Cinquecento, dati quegli uomini educati in tutte le raffinatezze del pensiero, del sentimento e del costume, non era possibile che per essi non s’indagassero, non si tentassero le forme più immateriali, più delicate, più difficili a reggersi ed a serbarsi, della relazione affettuosa fra l’uno e l’altro sesso. Non era possibile che uomini, il cui animo era aperto ad ogni incanto di bellezza e di venustà, non riuscissero talora a levarsi alla contemplazione serena, non conturbata da grossolanità di appetiti, della bellezza e della venustà muliebre, e a farne obietto di culto. E nei crocchi dove la donna sedeva regina, e dove i più culti intelletti gareggiavano di ingegnosità e di acume, i sentimenti e i pensieri attinenti a quel culto dovevano rivestire le forme più delicate e più peregrine. L’amore, i suoi caratteri, gli effetti, porgevano assai frequente argomento di discorso e di disputa a quelle geniali conversazioni. «L’avervi io conosciuta savia ed ingegnosa più assai che non fu mai Nicostrata, Diotima, o Targelia», scriveva Ottavia Bajarda a Camilla Testa, «mi fa confidente e molto ardita a chiedervi la soluzione di alcuni dubbii che l’altro giorno nella mia casa da ingegnose [22] donne si trattorno»[25]; e seguita con una lunga filza di quesiti d’amore.
Formavasi così quella dottrina artificiosa, e anche parecchio pedantesca, la quale poneva l’amore puramente sensuale e corporeo agl’infimi gradi della scala, l’amore santificato dal matrimonio, nel mezzo, e l’amore ideale o platonico, emancipato dai sensi, e figlio, come dicevasi, di Venere celeste, in sulla cima; e questo poi considerava come causa, nella natura umana, di molte qualità ed operazioni virtuose, e come anello di congiungimento con l’amore divino. Questa dottrina si trova esposta e discussa da innumerevoli autori del Cinquecento, in iscritture di ogni forma e qualità; trattati, dialoghi, ragionamenti, lezioni, commentarii. E questi autori sono varii di condizione e d’ingegno, filosofi, storici, novellatori, poeti, cortigiane: sì, persino cortigiane, giacchè la celebratissima Tullia di Aragona scrisse un dialogo della infinità di questo amore, lei che pur aveva dell’altro sì pertinente ed ampia cognizione. Al quale proposito è da notare che la stessa grande, anzi eccessiva depravazione dei costumi, contribuì forse a far sorgere, o a dar risalto, per ragion di contrasto, a questo amore puro e spirituale. Così in tempi di corruzion soverchiante viene in onore la letteratura pastorale, e l’arte gode di porre a riscontro della turpitudine della vita reale la innocente serenità dell’idillio. L’amor trascedente si accompagna in assai facile modo con la scostumatezza.
Del resto andrebbe errato chi credesse che questo amore fosse cosa assolutamente ed esclusivamente teoretica, [23] vivesse soltanto nei ragionamenti e nei libri, e non avesse anche nella vita il suo luogo. Si contan sulle dita gli scrittori del Cinquecento che non abbian vantato in vita loro alcuno amore purissimo e santissimo: e sappiam che le donne più illustri allora per beltà, senno, e illibatezza di costumi, ebbero tutte una corte di adoratori ossequenti, che si contentarono di adorarle e di celebrarle.
Certo, molti di questi amori, anzi la grandissima parte, furono tutti di testa, furono un’eleganza tra l’altre eleganze, furono una ostentazione, o una divisa, che non aveva nulla di vero, fuori delle parole che la esprimeva; molti altri furono men puri che non piacque agl’interessati di dire; ma ce ne fu pure qualcuno di reale e di sincero: basterà ricordare per tutti l’amore che per Vittoria Colonna nutrì la maschia anima di Michelangelo. Di molti di quei pretesi innamorati platonici e lodatori dell’amor platonico, sappiamo che nella vita pratica indulsero a tutt’altre voglie che non son quelle da essi ostentate nelle loro scritture; ma noi siamo pure in grado d’intendere come uomini dissoluti, che senza ritegno alcuno appagavano i sensi, potessero, ajutati da felice coltura di mente, in certi tempi e condizioni, compiacersi di un amor peregrino e puro, con quel sentimento medesimo con cui si compiacevano dei più squisiti miracoli d’arte; potessero fregiarsene e insuperbirne.
Io non ho bisogno di entrare qui nella disamina di quella sottile scienza d’amore elaborata dal Cinquecento, la quale, se molto ha del sofistico e del fastidioso, e troppe occasioni di chimerizzare senza costrutto porse a moltissimi scioperati, mostra peraltro, in compenso, uno studio spesso meraviglioso dell’animo e degli affetti umani, un’arte in sommo grado penetrativa nello sceverare gli elementi del sentimento. Di ciò si ha la prova, per non parlar d’altri, negli Asolani del Bembo, e nel [24] terzo libro del Cortegiano del Castiglione; ma quel tanto che ho detto basta a fare intendere come, anche per questa parte, il Petrarca dovesse tornare molto accetto alla culta società del Cinquecento, e dovesse inoltre con le sue rime molto efficacemente promuovere in seno ad essa quella dottrina e quell’entusiasmo d’amore. Giacchè fu egli un grandissimo innamorato, del carattere appunto che quella dottrina vagheggia, ed è il suo canzoniere un libro, dove, con arte non mai sorpassata, e non ostante il molto falso che vi si trova, sono analizzati, descritti, chiariti, con osservazione acutissima, con inesauribile copia di pensieri e d’immagini, i fenomeni tutti, o, come allora dicevasi, gli accidenti della passione amorosa. Agli uomini del Cinquecento parve il Petrarca ciò che ancora, e giustamente, pareva all’Alfieri,
Quel sì gentil d’amor, mastro profondo;
e quanti ebbero allora animo aperto all’amore furono necessariamente suoi discepoli. Abbiam veduto che i poeti innamorati usavano il suo linguaggio, e che i vagheggini imbertoniti cantavano i proprii suoi versi. «Come farei io bene uno assassinato d’amore», fa dire l’Aretino all’Istrione, nel Prologo della sua commedia Il Marescalco; «non è Spagnuolo, nè Napolitano, che mi vincesse di copia di sospiri, d’abbondanza di lagrime, e di cerimonia di parole; e tutto pieno di lussuriosi taglietti[26] verrei in campo col paggio dietromi vestito de’ colori donatimi da la diva, e ad ogni passo mi farei forbire le scarpe di terzio pelo, e squassando il pennacchio, con voce sommessa, aggirandomi intorno a le sue mura, biscanterei:
Ogni loco mi attrista ove io non veggio...».
[25]
Il qual verso è appunto un verso del Petrarca. Quanto ai trattatisti, dirò così, dell’amore, essi citano ogni momento il nostro poeta come autorità di cui nessun’altra è maggiore.
Così l’Italia s’empieva d’amori alla petrarchesca, in verso e in prosa, e il Sarrazin avrebbe potuto vederci ciò che più tardi vide in Francia, ai funerali del poeta Voiture:
Les Amours d’obligation,
Les Amours d’inclination,
Quantité d’Amours idolâtres,
Une troupe d’Amours folâtres,
Force Cupidons insensés.
Des Cupidons intéressés,
De petits Amours à fleurettes,
D’autres petites Amourettes,
Mêmement de vielles Amours,
Qui ne laissent pas d’avoir cours,
En dépit des Amours nouvelles,
. . . . . . . . . . . .
Et, bref, tant d’Amours qu’à vrai dire,
On ne pourrait pas les décrire.
Se il Petrarca era maestro in materia d’amore, non poteva non essere in materia di bellezza e di leggiadria, egli che aveva celebrata la più leggiadra e la più bella delle donne. In fatti, nei numerosi trattati che il Cinquecento consacrò alla bellezza muliebre, il suo nome è spesso citato, e versi suoi ricorrono con molta frequenza[27].
Ricco di tanta riputazione, e circondato di tanto favore e di sì gran plauso, non è a stupire se il Petrarca vide allora calar sui suoi versi, come stormo d’uccelli alla pastura, un nugolo di espositori e di commentatori, venuti giù dalle gelide plaghe della grammatica e della [26] retorica, e smaniosi di far anatomia di quel bel corpo del Canzoniere. E anche qui noi troviamo ogni fatta d’ingegni e di attitudini. Ecco in prima riga i commentatori grossi, che accaparrano il Canzoniere tutto intero e lo rivendono a lor bell’agio a ritaglio; ecco poi l’infinita schiera degli espositori minuti, che sudano un anno sopra un passo oscuro, recitano in pubblico cinque lezioni sopra un sonetto, scrivono cento pagine sopra un verso. Il famoso sonetto Era il giorno che al sol si scoloraro fece spiritare da quattro generazioni di espositori. Il buon Benedetto Varchi recitava nel 1565, nello studio Fiorentino, la bellezza di otto lezioni sulle così dette Canzoni degli occhi, il che faceva dire ad Alfonso de’ Pazzi:
Le canzoni degli occhi ha letto il Varchi,
Ed ha cavato al gran Petrarca gli occhi.
Ma a che pro moltiplicare gli esempii? Le bibliografie del Rossetti, del Marsand e del Ferrazzi scusano così ingrata fatica. Fatta eccezione di pochi buoni e sensati, tutti coloro che si davan aria di esporre e di commentare son degni d’andarne in ischiera con coloro che si credevano d’imitare; e come uscisse conciato il Petrarca dalle lor mani si può immaginar facilmente. Io dovrò riparlare di loro quando verrò a dire dell’antipetrarchismo: lasciamoli intanto dormire del sonno profondo che giustamente si sono con le loro fatiche acquistato.
Ma non è da passare in tutto senza qualche ricordo un’altra, e non iscarsa schiera di scioperati, formata di coloro che, senza troppo curarsi d’intendere i versi del poeta, si davano ad investigare per entro la vita di lui certe cose ingarbugliate ed oscure, e a muoverci sopra dubbii e questioni. Madonna Laura e l’amore del Petrarca per lei destavano molte e poco discrete curiosità. Nel 1545 ci fu chi pretese d’avere scoperta la tomba della famosissima donna. Alfonso Cambi Importuni si affaticò a [27] ritrovare il giorno e l’ora precisa dell’innamoramento di messer Francesco; un Ludovico Gandino compose una lezione sopra un dubbio come messer Francesco non lodasse Laura espressamente dal naso. Di questi e di altri fa menzione Anton Francesco Doni: «Chi dice de’ versi, chi de’ vocaboli; un altro non vorrebbe che ’l Petrarca avesse fatto i Trionfi, ed a certi non sa buon loro quel verso: Standomi solo un giorno alla fenestra: oltre al combattimento che s’ode far tutto il giorno di Laura divina e di Laura umana[28]».
Ma altre testimonianze ed altre prove ci rimangono del favore grandissimo onde godette il Petrarca nel Cinquecento, degne d’essere rilevate. Se il Canzoniere era cantato, e probabilmente, almeno in parte, saputo a mente dai vagheggini di professione, non poteva poi essere ignorato da una classe di buone persone con cui essi signori vagheggini solevano avere famigliarità molta, voglio dire dalle cortigiane. Noi sappiamo come il Cinquecento riproduca, insieme con molt’altre cose, e fatta ragione di differenze inevitabili, l’etèra antica. Nè ciò avviene per caso. Le cortigiane si risentono allora ancor esse di quella che è condizione comune di tutta la società, e non possono sottrarsi agli influssi della generale coltura. Quella tra esse che si fosse serbata digiuna di ogni studio, che avesse mostrato di non aver sentimento di poesia nè gusto d’arte, avrebbe avuto un’attrattiva di meno e avrebbe scapitato. Perciò noi le vediamo intente a procacciarsi un certo grado di coltura, e, come allora dicevasi, quelle virtù che fanno la persona di più grata conversazione[29]. Avrà ragione l’Aretino, quando fa dire a Ponzio nella Talanta[30]: «Sappi che le ribalde si [28] danno a grattar l’arpicordo, a cicalar del mondo, ed a cantar la solfa, per assassinar meglio altrui, e guai per chi vuole udire, come elleno san ben sonare, ben favellare, e bene ismusicare»; ma fatto sta che esse imparavano a far tali cose e più altre ancora. La famosa Imperia fu coltissima e imparò a far versi da Niccolò Campano, detto lo Strascino. Veronica Franco andò celebre per le sue terze rime, e tutti sanno qual fama acquistasse la già più volte ricordata Tullia.
Nei Ragionamenti[31] dell’Aretino è ricordata una famosa cortigiana romana, conosciuta sotto il curioso nomignolo di Madrema non vuole, la quale, dice l’Antonia, una delle interlocutrici del dialogo, «si fa beffe di ogni uno che non favella a la usanza, e dice che si ha da dire balcone e non finestra, porta e non uscio, tosto e non vaccio, viso e non faccia, cuore e non core, ecc.». E altrove lo stesso Aretino fa dir di lei a un certo Lodovico[32]: «ella mi pare un Tullio, e ha tutto il Petrarca e ’l Boccaccio a mente, e infiniti e bei versi latini di Virgilio e d’Orazio e d’Ovidio e di mille altri autori». Certe lettere pubblicate di recente[33] mostrano quanto alle volte fosse in coteste donne il garbo e il buon gusto, quanta la schiettezza nel modo di pensare e di scrivere, e la (almeno apparente) gentilezza dell’animo. La Tullia abbiam veduto come imitasse anch’ella il Petrarca, e Ludovico Domenichi ricorda una disputa che intorno al Petrarca appunto fecero alcuni gentiluomini in casa di lei[34]; molt’altre di certo lo leggevano, e, ardisco dire, [29] lo gustavano. In Venezia Lucrezia Squarcia si lasciava vedere spesso col Petrarchino in mano, e una Laura sembra si facesse a dirittura chiamare Laura del Petrarca. A una Fulgenzia il buon Andrea Calmo mandava, o fingeva di mandare, in regalo il Canzoniere del Petrarca, il Decamerone e un Libro della ventura, accompagnando il tutto con una lettera, di cui giova riferire il seguente curioso e grazioso passo[35]: «Madona mia speculativa, prudente, e acorta, tantosto che la secretaria di nostri cuori me ha mostrao la vostra polizza, la qual reverentemente averta, e con mille basi onorà, in quel instante anditi a comprar questi tre libri, cusì a mio muodo, cognossando esser al proposito de la vostra complesion, de la vostra natura, e del vostro judizio, e anche per imparar, descorando, qualche bel trattesin, per i nostri debesogni. Adunca vu lezerè el Petrarca, considerando quanta longhezza de anni el portete amor a madona Laura, e quante fatighe, passion, suspiri, lagreme e male note el patite per essa, metandola, in vita, sora de ogni altra creatura amorosa, e in morte può, tegnir conclusion che la sia intel pi bel liogo di beai; sì che credo che vu l’averè molto ben da caro, e tanto pi che, co ’l gustarè, vu butarè da banda quelle vostre fandonie de istorie, e de zanze trivial, minchione, e material; l’altro è le Cento novele del Boccazzo dove fè vostro conto che ’l sia un recetario de tutti i amanti, perchè in quelle diese zornae, ghe se truova el modo da inamorarse, da meter i ordeni, da sconder el so moroso, da scampar via, da far le so vendete co i maridi, da risponder a le sansere, da far la santa, da far la crudel, da far la gofa e breviter da piar tutti i rimedii, da offender e da defenderse, talmente che oltra ste circonstanzie, se fa una lengua [30] elegante, se fa bela creanza, e se fa bonissima memoria; el terzo che ve mando è quel piasevele libro della Ventura, da star con le parente in berta, e anche int’una compagnia de femene, e de omeni; tragando quei tre dai se intende le pi gran stampie, le pi gran zanze, le pi gran busie del mondo».
Quelle fandonie de istorie e zanze trivial sono i romanzi cavallereschi, e certe storie e fiabe popolari in parte ancor vive, di cui nelle sue lettere il Calmo fa assai spesso ricordo[36]. Il libro della ventura è forse quello intitolato Bugiardello, che dovette avere gran voga[37].
Ma torniamo al Petrarca. Racconta il Giraldi Cinzio in una delle sue novelle, che un certo ascolano, innamoratosi di una bellissima cortigiana di Napoli, per nome Nea, non avendo denari da poterle dare, «si diede a comporre versi di varie maniere, a sembianza del Petrarca, come quegli che di acuto e di gentilissimo ingegno era, e recitando a costei quando un mandriale, e quando un sonetto, e quando una canzona, e quando un’altra cosa a sua lode composta, le prometteva, s’ella di lei il compiaceva, di allogarla nel seno della immortalità». Ma, soggiunge il buon novelliere: «era di tal [31] natura costei, che se vi fosse ito il Petrarca accompagnato da Apolline e dalle muse, e non vi fosse ito colle mani piene,» non avrebbe potuto averne il più picciol favore[38].
Forse il Petrarca non avrebbe troppo arricciato il naso vedendo il suo canzoniere tra le mani di così fatte donne, e sentendo ripetere dalle lor labbra alcuno dei sonetti da lui composti per la divina sua Laura; ma non so poi che cosa avrebbe detto, se gli fosse toccato di leggere certo capitolo, dove Lodovico Dolce fa sperticatissime lodi di un suo ragazzo (κίναιδος in greco), dicendo, tra l’altro:
Avea il Petrarca e gli Asolani a mente,
E a tempo e loco, s’io gliel comandava,
Sguainava un sonettin leggiadramente[39];
e se avesse udito Fidenzio Glottocrisio Ludimagistro tradurre in versi pedanteschi il primo sonetto del Canzoniere per offrirlo al leggiadro Camillo, acerbo lanista del suo cuore. Povero messer Francesco, via!
Il Petrarca era dunque in tutte le mani e in tutti i luoghi. Frequentava le aule dei palazzi coi cortigiani; girava per le vie in compagnia di melici spasimanti; entrava nella scuola sotto la magistrale zimarra dei retori e dei grammatici; penetrava in chiesa con la canzone Vergine bella che di sol vestita; saliva sul pulpito coi predicatori che citavano a gara i detti e i versi sentenziosi di lui, e, senza troppo confondersi, dava una capatina sino negli spogliatoi delle etère in voga. Nè finisce qui: noi lo incontriamo ancora in luoghi che parrebbero meno acconci all’indole ed all’umor suo. Ranuccio Farnese, trovandosi accampato, co’ suoi cavalleggieri, non molto dopo il sacco di Roma, sotto Viterbo, un giorno, finito [32] di desinare, prese in mano il Canzoniere, e molto galantemente ne lesse parecchie rime ai commensali[40]. Anche sul teatro ebbe a mostrarsi il buon Petrarca, giacchè nel 1579, in Venezia, i comici Gelosi lo fecero comparir sulla scena per recitar le lodi del Groto[41]. E probabilmente capitò in altri luoghi ancora, ed entrò nella botteguccia dell’artigiano e si strofinò alle panche dell’osteria, perchè Niccolò Franco, il gran nemico dell’Aretino, così dice parlando di lui nel suo dialogo intitolato Il Petrarchista: «l’opra sua (intendi il Canzoniere) è venuta a tale che approvata per un comune conforto di tutte le qualità, si vede ne le mani fin de la plebe, la quale de le sue cose sa rendere buona ragione»[42].
Se il Petrarca aveva, nella vita cortigianesca, la parte che s’è veduto, non parrà strano che versi suoi si togliessero per farne motti ed imprese. Il Domenichi reca questa impresa di Alessandro Piccolomini:
Sotto la fè del cielo, all’aer chiaro.
Tempo non mi parea da far riparo[43].
Scipione Ammirato, nel suo dialogo Il Rota, ricorda un cavaliere che aveva tolto per impresa un albero, i cui rami rompevansi sotto il carico dei frutti, e cui accompagnava il verso del Petrarca:
Povero sol per troppo averne copia[44].
Ed altre se ne potrebbero notare. Sembra inoltre che [33] certi luoghi del Canzoniere suggerissero nuove maniere di giuochi alle brigate gaje e cortesi[45].
Ma una possente ajutatrice del petrarchismo fu senza dubbio la musica. Abbiam già veduto che gl’innamorati bellimbusti andavan cantando versi del Canzoniere in omaggio delle loro belle, e, naturalmente, il cantarli era occasione e cagione dello apprenderli a mente. Ma questo Petrarca in musica non era cosa da bellimbusti soltanto. È noto come nel Cinquecento, insieme con tutte le altre arti che abbelliscon la vita, e il cui esercizio orna la persona, venga in grande onore anche la musica. Lo studiarla ed il coltivarla era proprio di quanti, uomini o donne, si piccavano di fine educazion cortigiana; e si ricordano gli esempii di quegli artisti celeberrimi che all’esercizio di molte e svariate arti, pittura, scultura, architettura, sentirono il bisogno allora di aggiungere anche quello della musica, accompagnata spesso con la poesia. Studiava musica persino un Benvenuto Cellini, uomo certo non molto ossequente alle leggi del vivere cortigianesco. Il conte Lodovico da Canossa dice nel libro di Baldassar Castiglione[46]: «Signori... avete a sapere ch’io non mi contento del Cortegiano, se egli non è ancor musico, e se, oltre allo intendere ed esser sicuro a libro, non sa di varii instrumenti». E seguita parlando accortamente dei pregi della musica e della potenza che essa ha in penetrar gli animi teneri e molli delle donne[47]. [34] Si vede subito quale stretta relazione la musica, specialmente vocale, dovesse avere, non solamente con gli eleganti costumi e col gusto fine del tempo, ma ancora, e più, col donneare cortigianesco e con l’amore. Si cantano versi d’amore per le vie, e sotto i balconi delle innamorate, la notte; si cantano nell’aule sfarzose dei palazzi, alla luce abbagliante dei doppieri; si cantano nei grati ozii delle ville, sotto l’ombre ospitali; e spesso chi canta è egli stesso autore della musica e dei versi, è preso dalla passione che sfoga o palesa col canto, come quell’Antonio Bologna di cui narra il Bandello[48]. Tutta Italia risuona dei melodici languori del madrigale. Come mai non si sarebbe pensato a vestire di note i versi del più musicale dei poeti e del maggiore fra gli spasimati d’amore?
Lo stesso Petrarca componeva le sue rime al suono del liuto, e ciò spiega, almeno in parte, quella grande soavità che ci si sente. Cominciarono subito a metterle in musica i contemporanei di lui, e tra gli altri si fa ricordo di Jacopo da Bologna, che intonò, come allora dicevasi, il madrigale Non al suo amante più Diana piacque[49]. Si seguitò a fare lo stesso nel Quattrocento, finchè, sopravvenuta la Rinascenza piena e fiorita, l’universal culto che si rendeva al Petrarca ebbe a mostrarsi, più assai che non si fosse fatto in passato, anche con le forme della musica. Ed ecco tutta una schiera di compositori esercitar l’arte loro sui versi di lui. Certo, si preferivano i madrigali, perchè il madrigale era considerato componimento musicale per eccellenza; ma non per ciò si lasciavano l’altre rime. In una sua Orazione [35] al cardinale Pisani, quel curioso ingegno del Ruzzante finge che un contadino del Padovano vegga, tra il sonno e la veglia, il Petrarca (Cecco Spetrarca) che lo manda appunto a quel cardinale, per indurlo a non gettar giù la casa del poeta in Padova, come aveva intenzione di fare, per ingrandire la Cattedrale. Parlando della camera in cui era il ritratto del Petrarca, il contadino dice: «E tanto pì l’è vero quel ch’à ve dighe, que in quella cambaretta ello ghe fè una bona parte de quiggi smardegalle (intendi madrigali), que sti zovegnatti spua grosso dal tempo d’anchuò va scantuzzando tutto el dì». Ma molt’altre cose si mettevano in musica in quel secolo, come mottetti, ballate, ottave, sonetti, per non parlare delle villotte alla padovana, delle canzoni alla villanesca, delle canzoni alla napolitana, ecc. I sonetti, cosa che importa a noi di notare, godevano di molto favore, e persino il Folengo narra nel Baldo[50], come per passar la noja del viaggio, i quattro eroi, Rubino, Falchetto, Cingar e Baldo, andassero appunto cantando sonetti:
Quatuor hi varios pergunt cantando sonettos.
Non ci dice se fossero del Petrarca; ma è certo che molti di quelli del Petrarca, e forse tutti, furono messi in musica, e il simile si fece delle ballate, delle sestine, delle canzoni. Sì, persino delle canzoni, le quali confrontate con le nostre romanze, potrebbero a noi parere alle volte un po’ lunghette. Già alcune se ne trovano messe in musica dal celebre Bartolomeo Tromboncino, che Pietro Aretino ricorda come vivo nel prologo della Talanta[51], [36] e, tra l’altre, le due che cominciano: Sì è debile il filo a cui s’attene, e Che debbo io far? che mi consigli Amore? E queste stesse, e molt’altre, insieme con sonetti, ballate, sestine e madrigali, si trovano musicate da Vincenzo Ruffo, da Francesco Orso, da Stefano Rossetti, da Teodoro Riccio, dal celebre Cipriano Van Rore e da altri molti. E non solo le rime d’amore furono messe in musica, ma anche le altre: così Teodoro Riccio intonò la famosa canzone Italia mia, e Cipriano Van Rore vestì di note il terribile sonetto Fontana di dolore, albergo d’ira. Ma le rime d’amore erano certamente preferite, e chi sa quante volte la gemebonda canzone, o il sospiroso sonetto dell’innamorato poeta, cantati da una voce commossa, al fremer soave di un liuto, furono galeotti di nuovi amori, e principio, pur troppo, di nuovi canzonieri. Del resto, giova avvertirlo, molt’altri versi si mettevano in musica, così volendo quella quasi frenesia musicale dei tempi. «Se non piacciono ai petrarchisti i Serafini», dice Antonfrancesco Doni, «lascingli stare; ci saran bene di quegli che lo impareranno a mente per cantarlo su la cetera, con far le serenate alla druda»[52]. E intende parlare di Serafino Aquilano; ma chi si vuol persuadere che anche in ciò il primato spettava al Petrarca, legga ciò che Luigi Groto narra della sua concittadina Alessandra Lardi, cantatrice insuperabile e divina (morta nel 1568), la quale cantando rime del poeta intonate da Francesco Adriani, rapiva, ammaliava, faceva andare in visibilio la gente[53].
E un’altr’arte s’inspirava dal sommo poeta, la pittura. Si moltiplicarono in quel secolo i ritratti fatti per mano di dipintori famosi, e Raffaello ne introduceva la immagine nel suo Monte Parnaso, e in un suo quadro la introduceva [37] il Vasari. Perin del Vaga ritraeva la scena della incoronazione in Campidoglio; altri dipinsero il poeta insieme con l’amata sua donna. Assai probabilmente Raffaello trasse dai due Trionfi della Fama e dell’Amore l’idea della Scuola d’Atene e del Monte Parnaso: altri i Trionfi tutti, o alcuni di essi riprodussero col pennello. A vie più glorificare il poeta gareggiavano con la pittura l’altre arti sorelle, la scultura e la incisione.
Primo in tante cose, il Petrarca diventa primo in tutte: nel medio evo si sarebbe fatto senza dubbio di lui un taumaturgo, di lui che ebbe pure a sostenere un’accusa di magia. Perciò non istupiremo, udendo dire al Bembo che il Petrarca piaceva oltre modo, non solamente a coloro che di proposito attendevano a poesia, ma anche a coloro che a tutte le altre arti più si danno o sonosi dati che a questa[54]. Sperone Speroni loda molto l’onestà del Petrarca, e dice che dell’amore egli fece scala al cielo, e che è da tenere non meno per predicatore che per poeta[55]. Pare che il buono Speroni, facendo allora officio di avvocato, non si ricordasse, o non volesse ricordarsi di certe taccherelle che, senza troppo frugare, si possono trovare in dosso anche al poeta canonico. Di uno scrittore così costumato e virtuoso non potevano non occuparsi coloro che attendevano a dare ammaestramenti e norme circa la educazione, e Lodovico Dolce, parlando nel Dialogo della instituzione delle donne[56], per bocca di un certo Flaminio, dei libri volgari che una fanciulla può leggere, esce in queste parole: «Tra quelli, che si debbono fuggire, le novelle del Boccaccio terranno il [38] primo luogo, e tra quelli, che meritano esser letti, saranno i primi il Petrarca e Dante. Nell’uno troveranno, insieme con le bellezze della volgar poesia, e della lingua toscana, esempio di onestissimo e castissimo amore, e nell’altro un eccellente ritratto di tutta la filosofia cristiana». E più oltre[57] la Dorotea, con cui quel Flaminio ragiona, dice appunto di aver letto più volte il Petrarca; mentre non dice altrettanto di Dante. Non so poi se il Dolce facesse qualche riserva per certi luoghi del Canzoniere che diedero molto da meditare a espositori e commentatori, quale, per citarne uno, è quello ove occorrono i notissimi versi:
Con lei foss’io da che si parte il sole,
E non ci vedess’altri che le stelle.
Solo una notte, e mai non fusse l’alba.
Qualcuno in sì fatto argomento l’avrà certo pensata diversamente da lui. Lodovico Vives, che raccomanda alle donne la lettura delle opere di san Gerolamo, di sant’Agostino, di sant’Ambrogio, e di altri padri e dottori della Chiesa, e quella pure degli scritti di alcuni gentili, come Platone, Cicerone, Seneca[58], proibisce severamente il Decamerone, e non dice una parola in favor del Petrarca; si capisce che non doveva averlo in grazia[59]. Ma Lodovico [39] Vives non era italiano. In Italia non solo si raccomandava, dagli uomini colti, la lettura del Petrarca, ma il Petrarca stesso era ancora molto di frequente allegato, come autorità di prim’ordine, in certe disputazioni. Ricorda il Bandello[60] che, parlandosi in presenza d’Ippolita Sforza, dei costumi delle donne, alcuni che affermavano non aver queste pregio maggiore della onestà, citarono il sonetto del Petrarca:
Cara la vita, e dopo lei mi pare ecc.;
e più raccolte si fecero allora dei versi morali, delle sentenze, delle comparazioni e dei proverbii di lui.
Giovanni Boccaccio aveva profetato che il sepolcro del Petrarca diventerebbe famoso al pari di quello di Virgilio, e che da tutte le parti del mondo vi trarrebbero le genti in pellegrinaggio. E così avvenne in fatto. Arquà, dove il poeta era morto, e dove, prossima all’arca che racchiudeva le spoglie di lui, sorgeva la casa in cui egli aveva passati gli ultimi anni di sua vita, diventò nel Cinquecento una specie di san Giacomo di Compostella letterario e laico. I varii e successivi possessori della modesta quanto famosa casetta, non solo non ne contesero mai l’accesso a nessuno, ma si adoperarono per dare ai pietosi visitatori ogni possibile soddisfazione; e [40] forse al troppo zelo di alcuno di essi si deve l’una o l’altra delle cose stimate del Petrarca che ancor vi si vedono, lo stipo, la scranna, la gloriosa gatta. In un breve capitolo in lode del poeta, capitolo attribuito da alcuni al Doni, da altri al Sansovino o all’Anguillara, si legge:
Mi dite che in Arquato è una bell’arca,
Lontan da Padoa circa dieci miglia,
Dove son Tossa del Toscan Petrarca.
Che ’l luogo ad un Parnaso s’assomiglia.
E d’Italia non pur gente vi corre,
Ma di Francia, Lamagna e di Castiglia.
Che peccato che non ci sia rimasto di quel tempo, come ci è di tempi più prossimi a noi, un libro dove fossero raccolti i nomi dei visitatori, e i pensieri che suggeriva loro la vista di quelle sacre mura! Chi sa quali curiose sorprese ci avrebbe serbate e quante utili notizie.
Un’altra e capitale testimonianza del culto reso al Petrarca noi l’abbiamo dunque nei pellegrinaggi che si facevano ad Arquà. Non ispiacerà pertanto al lettore se io mi soffermo un poco sopra di ciò, e se, traendo argomento da una, gli mostro quali dovevano essere in genere quelle visite. Il libro d’onde traggo l’esempio è Il Petrarchista, dialogo di Ercole Giovannini, poeta bernesco morto nel 1591. L’autore narra di un nobil giovane bolognese, per nome Claudio Gozzadini, il quale, desideroso di veder cose nuove, lasciata Bologna, capita in Padova, e di quivi, per non mancare a se stesso di tanta conoscenza, si reca a visitare Arquà. Giuntovi, vede per prima cosa il sepolcro del poeta, eretto da Francesco da Brossano, e ne fa prendere esatta misura al servitore. Sopraggiunge intanto un valentuomo d’Arquà, il signor Paolo Valabio, il quale, accontatosi col bolognese, lo invita a casa sua, e poi gli fa da cicerone, e gli mostra una per una tutte quelle meraviglie. Mentre s’avviano alla casa del poeta, vedono entrarvi un drappello di gentildonne, [41] tratte dalla medesima curiosità. Il Valabio mostra e descrive all’ospite suo ogni parte della illustre dimora: ecco le porte, ecco il frantojo e la legnaja, e qui la scala di pietre cotte che scende in cantina, e là un camerino. Dal lato destro è la cucina, di contro una camera, poi altre camere, donde si passa in una sala comoda, dove sono parecchie pitture, le quali mostrano il Petrarca e Laura che discorrono insieme. Questa è quella meravigliosa credenza, di stupendo lavoro, che si dice essere stata del poeta. Viene appresso la stanza dove il poeta stava ordinariamente, e dove morì. Entrato in luogo di tanta santità, il signor Gozzadini non può più frenare l’entusiasmo che gli gonfia lo spirito, e prorompe in quest’apostrofe un po’ da secentista, ma che doveva riprodurre su per giù i pensieri e i sentimenti della più parte dei visitatori: «O luogo felice, e degno d’esser smaltato di zaffiri, e delle più preziose pietre che mai dall’Oriente uscirono. Felice piano, che hai sostenuto le piante di così onorato colosso di virtù, gloriose mura che difendeste per tanti mesi dai contrarii accidenti dell’aria quelle membra, che in terra da tanti si facevan con stupore onorare e riverire amorosamente. Glorioso coperchio, che fosti cielo a colui che in terra fu stimato oracolo dei letterati».
In questa felicissima stanza il buon bolognese vede, sopra il camino, le ossa di quella che fu gatta del Petrarca, e legge i versi latini che in onor di lei aveva composti il padovano Antonio Querenghi (1546-1633), discepolo di Sperone Speroni, segretario in Roma del collegio dei cardinali e referendario delle due segnature, poeta e prosatore latino di molto grido, uom principale in varie lingue, come afferma il Tassoni, e che
... tutto a mente avea sant’Agostino[61].
[42]
In quegli eleganti distici parla la gatta stessa, e nel primo non si perita di dire che il Petrarca ebbe due amori, il primo lei, il secondo Laura, e asserisce poi che a lei si deve se le rime composte in onore di Laura non furono preda dei topi. Questa gatta dabbene dovette avere altri lodatori, giacchè il Tassoni, ricordato Arquà, ricordato il Petrarca, dice di lei che
in secca spoglia
Guarda dai topi ancor la dotta soglia;
e soggiunge:
A questa Apollo già fe’ privilegi,
Che rimanesse incontro al tempo intatta,
E che la fama sua con vari fregi
Eterna fosse in mille carmi fatta:
Onde i sepolcri de’ superbi regi
Vince di gloria un’insepolta gatta[62].
E certo, oltre ai regi, questa vince tutte le altre gatte che furono, e le celebrate da Ortensio Lando e dal Coppetta, e persin quella Rosa trucidata da un furioso soldato, la quale allo Stoppino, suo inconsolabile signore, inspirò quei versi maccheronici sì, ma pieni di tenerezza:
Sola meae giornos vitae rendebat allegros.
Heu! quid agam infelix, sine te, mea Rosa, quod ultra?
Non potero sine te laetum sperare solazzum.
Dopo la gatta il signor Claudio ammira la sedia del poeta, e sebbene gli paja povera cosa, e troppo indegna di tanto possessore, pure ne toglie, a mo’ di reliquia, un pezzetto di certo arazzo che la copriva; d’onde si vede che i ricercatori di curiosità furono e saranno in ogni tempo gli stessi: più oltre misura la tavola dello studio, meravigliandosi che tant’uomo potesse capire in sì picciola [43] stanza. Girata la casa, il signor Paolo mostra al signor Claudio il maggior tesoro che sia in quella, cioè molte scritture di mano dello stesso Petrarca, e lettere di lui a Laura e di Laura a lui, cose vie più ricche delli tesori di Creso, e in una scatola d’ebano, aghi e spilli, un ditale, un pettine, un pezzo di specchio, tutte reliquie di Madonna Laura, e in una borsa di damasco verde il privilegio della incoronazione in bellissima pergamena, e il preteso racconto di essa incoronazione scritto da Sennuccio Del Bene. Il signor Claudio vede, tocca, legge, ragiona, ammira, si esalta in se stesso della fortuna toccatagli e ringrazia quanto più può il cortesissimo signor Paolo.
Visitatori così fatti dovevano essere assai numerosi, e ve ne dovevano capitar di fanatici, i quali non sempre si saran contentati, come il signor Claudio, di un pezzettino di arazzo logoro. Anzi io mi meraviglio che solamente nel secolo XVII, e non prima, si sia trovato un arrabbiato come quel frate Tommaso Martinelli, che osò rompere l’arca dentro cui riposava il corpo del poeta, e levarne un braccio che non si sa dove sia andato a finire. Da altra banda pellegrinaggi si facevano anche a Valchiusa e alla pretesa tomba di Laura, e con che anima si facessero dagli adoratori del Petrarca, e che cosa si ammirasse da loro, dice satireggiando Niccolò Franco nel suo Petrarchista. Tra i visitatori illustri del sepolcro di Laura si dice sia stato anche Francesco I, il quale compose per la gloriosa donna un elegante epitafio. Un altro epitafio componeva per lei Giulio Camillo Delminio, il ciarlatanesco inventore del Teatro in cui si apprendevano tutte le scienze e tutte le arti.
L’universalità e la vivezza del culto reso durante tutto il Cinquecento al Petrarca ci prova che noi non abbiam qui dinanzi un fatto accidentale, una voga capricciosa, o l’effetto di una particolare oppressione esercitata dal [44] di fuori sopra lo spirito degli italiani. Il petrarchismo non è una anomalia nella vita e nella coltura del secolo XVI, ma è un portato del Rinascimento. Non di tutto il Rinascimento, intendiamoci; perchè lo spirito del Rinascimento stesso è formato d’ideali e di tendenze molteplici, il più delle volte cospiranti insieme, ma spesso ancora contrastanti fra loro. Non si dimentichi che in ogni condizione di vita sociale il moto delle idee si fa di azione e di reazione. Il petrarchismo vien fuori da quelle tendenze del Rinascimento che ho enumerate di sopra: da cert’altre tendenze, disformi o contrarie, vien fuori l’antipetrarchismo. E di questo mi rimane ora a parlare.
[45]
L’antipetrarchismo, in parte è semplice resistenza ed opposizione all’andazzo comune; in parte è espressione di concetti e d’ideali nuovi nella vita e nell’arte.
Certo, i petrarchisti eran falange, gli antipetrarchisti manipolo, e per giunta, quelli si coprivano dell’autorità di un gran nome, cosa che in ogni tempo bastò a dar credito, e spesso vittoria, alle opinioni, alle fazioni, alle scuole; mentre gli altri si facevan forti della ragione, del buon senso, di certi diritti dell’umano intelletto, non troppo chiaramente enunciati, ma pur sentiti, o piuttosto presentiti. Fra costoro noi troviamo l’intera scuola di quelli che si potrebbero, parmi, opportunamente chiamare gli scapigliati della letteratura nel Cinquecento; una man d’uomini che fanno il letterato come altri farebbe il capitan di ventura; menan la vita come i picaros dei romanzi spagnuoli; non han troppa dottrina, ma bensì ingegno, e buon giudizio ancora, quando deliberatamente non dieno, come del resto fanno troppo sovente, nel bizzarro e nel paradossale; sono poco rispettosi dell’autorità, punto teneri della tradizione, ribelli alla regola, vaghi di novità, e provveduti, per miglior patrocinio de’ proprii gusti, di una imperturbabile audacia, cui troppo [46] sovente si fa compagna la sfrontatezza. A questa scuola, di cui non fu ancora chi studiasse l’indirizzo generale e l’opera comune, appartengono Pietro Aretino, Antonfrancesco Doni, Niccolò Franco, Ortensio Lando, alcun altro.
Antipetrarchismo, nel Cinquecento, non vuol dire proprio proprio il contrario di petrarchismo. Se il petrarchismo importa, anzi tutto, una esagerata venerazione pel Petrarca, l’antipetrarchismo non include di necessità avversione al grande imitato, ma è più spesso semplice avversione alle dottrine, agl’intendimenti e alla pratica letteraria degli imitatori. Al Petrarca stesso pochi si fanno addosso con deliberato proposito; siane cagione una riverenza vera e sentita, o il timore di guastar le cose proprie, dando troppo risolutamente di cozzo nella opinione prevalente. Tuttavia anche di questi più arditi non mancano. Non parliamo di certi saccentuzzi boriosi che per quattro cujus che sapevano si tenevano assai da più del Petrarca. In uno di quei ragionamenti dei Marmi del Doni[63], il Coccio ricorda certi pedanti, che non istimavan degni il Sannazaro e il Molza di portar loro dietro il Petrarca; e assai maggior del Petrarca si stima il pedante Zanobio nella commedia L’Idropica di Battista Guarini. Ma col Petrarca se la prendevano, e gli davan di buone risciacquate, Lodovico Castelvetro, che pure rimproverava al Caro l’uso di voci che non erano nel Canzoniere, e Gerolamo Muzio, per tacere di Alessandro Tassoni, che solamente nel 1602, o 1603, scrisse quelle sue Considerazioni con cui mise il campo a rumore[64]. Per contro non dobbiamo badare più che [47] tanto a quel matto di Ortensio Lando, quando nella sua Sferza de’ scrittori antichi e moderni, mandata fuori sotto il nome di Anonimo d’Utopia, scappa a dire[65]: «Non è negli trionfi di M. Francesco una ignoranza espressa d’istoria e languidezza di stile? non vi ha eziandio ne’ suoi sonetti alcuni ternari che mal si convengono con gli quaternari? Parlate un poco col mio M. Francesco Sansovini, e costrignetelo per vita della sua diva ch’ei vi dica gli falli quai ha già in questo scrittore accortamente osservati, e poi diretemi s’egli è degno d’esser letto, e che per ispianarlo affaticati si sieno l’Alunno, il Filelfo, il Velutello, il Gesualdo, il Fausto, il Castelvetro, Giulio Camillo e il buon Daniello? So io certo ch’egli fu sempre molto timido nelle cose appartenenti alla lingua tosca». Non è da badargli, dico, non ostante ciò che di sincero vi può essere in quest’ultima osservazione, giacchè egli stesso, in un altro scritterello, intitolato Una breve esortazione allo studio, usa tutt’altro linguaggio, e del Petrarca dice: «mai certo produsse natura il più gentil scrittore». Gli è che l’amore del paradosso è quello che troppo spesso gli muove la lingua. E così non dobbiam prender sul serio Bernardino Daniello, studiosissimo del nostro poeta, quando, in una lettera ad Alessandro Corvino[66], citando una sentenza tolta dal Canzoniere, pone tra parentesi: come disse quella pecora del Petrarca; perchè gli è questo un semplice scherzo; e uno scherzo più innocente ancora è quello di Andrea Calmo, quando, in una lettera ad Angelo Barocci[67], chiama il Petrarca, con parole che parrebbero avere un tantino del derisorio, savio trombon de le rime.
Ma i petrarchisti non eran mica il Petrarca, e coi [48] petrarchisti si parlava alla libera. Anzi tutto si vuol far loro intendere, per ogni buon fine, e perchè sappiano quanto e’ pesano, che da quella loro poesia biascicata e da ruminanti, alla poesia del Canzoniere, ci corre parecchio. Rubin parole al Canzoniere quante più possono; lo spirito non glielo ruberanno di certo.
Gli altri poeti imitar lo potranno,
E potranno anc’usar le sue parole.
Ma alla sostanza non s’accosteranno[68].
Il rubare è la loro qualità specifica e la loro operazione consueta. «Volete conoscere un petrarchista in vista?», dice Niccolò Franco, «guardiate che no sa fare un sonetto, se no ruba versi o non infilza parole»[69]. E si vanta di non aver rubato in vita sua un mezzo verso al Petrarca, nè al Boccaccio, «come fanno i poeti de la selva de l’aglio»[70]. Egli concederebbe la imitazione, ma non può menar buono il furto: «O petrarchisti (che vi venga il cancaro a quanti sete!) io ve l’ho pur detto che parliate come il Petrarca, ma che non gli rubiate i versi con le sentenze»[71]. A una sua loquace lucerna fa dire: «Lascio questi, (cioè i poeti che ne’ versi loro risuscitano tutta la mitologia) e mentre mi van gli occhi ad un’altra infornata, che s’infinge di star di banda, m’accosto, e veggo che son quegli che scartafacciano il Petrarca con Giovan Boccaccio. Veggo quando gli tolgono i mezzi versi e tal volta i versi interi. Veggo quando van facendo scelte de le parole, de l’invenzioni e de le sentenze, che facciano al proposito di quel che scrivono, [49] non curandosi di parer poveri d’intelletto. E per che si credono di non esser visti ne i furti che fanno, gli comincio a sgridar dietro: Io v’ho pur visto; io v’ho pur saputo cogliere; io v’ho pur chiappati, ladri, tagliaborse, giuntatori, mariolacci! A rubare il Petrarca, ah? A spogliare il Boccaccio, eh?»[72]. Altrove dice: «Il Petrarca fu sempre e per omnia saecula sarà il primo, ed egli solo farebbe i sonetti simili ai suoi. Becchinsi il cervello, chè tra ’l fare e il contraffare ci son più di diece miglia»[73]. Talvolta, per meglio burlarsi di questi imitatori, o piuttosto ladri, il Franco finge di lodarli. Così nel dialogo intitolato Il Petrarchista, stampato la prima volta in Venezia nel 1539, egli fa che il Sannio, uno degli interlocutori, dette molte lodi del Petrarca, soggiunga: «Onde perciò non pur lo dovrebbero i rimatori imitare e rubare, ma i prosatori liberamente pigliarne, non solamente tutte le parti del parlare, i modi, le clausole e le figure, che ne le sue composizioni sono quasi stelle al cielo cosparte, ma ciò che c’è, ecc.»[74]: mentre poi, in altro suo dialogo introduce lo stesso Sannio a vituperare «certe gentuzze, che se non rubano quattro versi, non ne sanno mettere due insieme»[75]. Nè si creda ch’egli esageri. Nel Dialogo della Rettorica dello Speroni Antonio Brocardo racconta come, essendo ancor giovinetto, si dèsse tutto allo studio del Petrarca e del Boccaccio, e poi a compor versi. «Allora pieno tutto di numeri, di sentenzie, e di parole petrarchesche e boccacciane, per certi anni fei cose a’ miei amici meravigliose: [50] poscia parendomi che la mia vena s’incominciasse a seccare (perciocchè alcune volte mi mancava i vocaboli, e non avendo che dire, in diversi sonetti uno stesso concetto m’era venuto ritratto) a quello ricorsi che fa il mondo oggidì; e con grandissima diligenzia fei un rimario o vocabolario volgare: nel quale per alfabeto ogni parola, che già usarono questi due, distintamente riposi; oltra di ciò in un altro libro i modi loro del descriver le cose, giorno, notte, ira, pace, odio, amore, paura, speranza, bellezza, sì fattamente raccolsi, che nè parola nè concetto non usciva di me, che le novelle e i sonetti loro non me ne fossero esempio. Vedete voi oggimai a qual bassezza discesi, ed in che stretta prigione e con che lacci m’incatenai»[76].
In certa lettera che finge scritta al Petrarca, il Franco chiama gli imitatori una delle due disgrazie più grosse toccate al poeta. Vero è che in quella risposta della lucerna, già citata, fa del Bembo sperticatissime lodi, costituendolo duce e moderatore di tutta una famiglia di poeti, fra cui spiccano Gerolamo Quirino, Gerolamo Molino, Bernardo Navagero, Bernardo Cappello, il Molza, il Fortunio, lo Speroni, il Beazzano, il Grazia, Bernardo Tasso, l’Alamanni, il Varchi, il Rota, il Tansillo[77]; ma notisi che quando scriveva queste cose, nell’anno 1538, egli si trovava in Venezia, proprio nell’orbita di quell’astro maggiore dei cieli poetici ch’era allora messer Pietro Bembo; e così di più altre contraddizioni o menzogne sue noi potremmo avere spiegazione, se ci fosse dato di confrontarle con certi casi della sua vita, di quella vita lacera e fortunosa, che per eccessivo rigore di una giustizia che tropp’altre cose vedeva e comportava senza punto risentirsi, doveva miseramente finir sul patibolo. [51] Ma, ad ogni modo, nell’anima sua, e per libero giudizio, il Franco fu antipetrarchista convinto, e ne vedremo altre prove. Quel mettere a sacco il Canzoniere, con levarne non pur le parole, ma i versi interi, pareva brutto del resto a molt’altri, e l’Aretino, per isvergognar quell’usanza, intarsiava di versi tolti appunto di là entro lo sconcio capitolo Alla sua Diva, e con versi tolti similmente di là cominciava lo stesso Franco alcuni sonetti della sua troppo famosa Priapea[78].
Quelle voci insolite e schife, que’ modi peregrini ed azzimati, tutte le sdilinquite eleganze onde, togliendole al modello, gl’imitatori venivano cospargendo e infiorando i loro componimenti, fastidivano alla lunga chi non avesse in tutto indolciti e smascolinizzati l’anima e i sensi. Ci erano orecchie cui meglio gradiva una musica di suono alquanto più grave e magari più aspro. Parlando di Michelangelo Buonarroti, dice il Berni nella sua epistola a fra Bastiano del Piombo, apostrofando per l’appunto i petrarchisti:
Tacete unquanco, pallide viole,
E liquidi cristalli e fere snelle:
Ei dice cose, e voi dite parole.
E queste parole, che infilate come perle, lucide e fredde, erano molta parte del vocabolario degl’imitatori, venivano in uggia a chi liberamente e a piene mani attingeva al tesoro della lingua viva; e quei quattro concettuzzi stremenziti che formavano la trama e l’ordito degl’innumerevoli canzonieri facevano venir l’affanno a chi era uso di respirar largamente nel mondo vario delle idee e delle cose. «Dico», esclama il Franco[79], «che [52] in tal maniera son cresciute ne l’età nostra l’acutezze de gli intelletti, ed hanno i gattolini aperti talmente gli occhi, che ci vuol altro che falde di neve, pezze d’ostro, collane di perle, altro che smaltar fioretti, adacquare erbette, frascheggiare ombrelle, e nevicare aure soavi per sonettizzare a la petrarchesca». E altrove: «Veggo in un batter d’occhi monti, colli, poggi, campagne, pianure, mari, fiumi, fonti, onde, rivi, gorghi, prati, fiori, fioretti, rose, erbe, frondi, sterpi, valli, piagge, aure, venti, liti, scogli, sponde, cristalli, fiere, augelli, pesci, serpi, greggi, armenti, spelunche, tronchi, uomini, dei, stelle, paradiso, cielo, luna, aurora, sole, angeli, ombre e nebbie»[80]. È questo, un po’ in iscorcio, il vocabolario dei petrarchisti.
Il Garzoni, biasimati aspramente coloro che ricantavano le vecchie favole della mitologia, e detti più meritevoli di scusa coloro che spacciavano le storie dei Reali di Francia, di Buovo d’Antona, di Erminione, di Drusiana, di Pulicane, di Macabruno e altre sì fatte, soggiunge, con aperta canzonatura[81]: «E più ragionevolmente fanno i poetucci moderni, che attendono solamente a sfodrar fuori ne’ sonetti un lor sovente, un dogliose note, un verdi piagge amene, un lieti boschi, un ritrosetto amore, un pargoletti accorti, un bei crin d’oro, un felice soggiorno, dove non dan molestia ad altri che alle dive loro, nè sono almeno di tanto stomachevole invenzione come gli antichi, i quali, se non fanno convertire gli uomini in piante, le dee in fiumi, le ninfe in fonti, i satiri in augelli, non hanno fatto cosa di buono. Ma questi limpidetti poeti petrarcheschi almeno trovano soggetto e parole assai convenienti, perchè in un tratto t’assegnano a una sfera come intelligenza, a un polo [53] come un cardine, a un orbe come una stella, e ti fanno apparer dal Nilo al Gange e da Calpe a Tile con sana cosmografia tutto illustre e glorioso». E l’Aretino, più risoluto e più energico[82]: «Sterpate da le composizioni vostre i ternali del Petrarca, e poi che non vi piace di caminare per sì fatte strade, non tenete in casa vostra i suoi unquanchi, i suoi soventi, ed il suo ancide, stitiche superstizioni de la lingua nostra: nel replicare l’istorie ed i nomi discritti da lui, allontanatevigli più che potete, perchè son cose troppo trite». Meglio ancora biasimava quel gergo artifiziato Pietro Nelli in una delle sue satire, dicendo[83]:
Mi piace usar vocaboli sanesi
Non tirati con argani, o con ruote,
Perch’io vo’ che i miei versi sieno intesi.
Questi c’hanno oggimai lasciate vuote
Le bisacce al Petrarca e la scarsella,
E pieno ’l mondo d’uopi e di carote,
Quasi mi fanno recer le budella
Col parlar su lo stitico e far mostra,
Come già il corvo, dell’altrui gonnella.
E nel secondo sonetto della sua Priapea, il Franco gridava:
Lungi, ser petrarchisti dal bel stile,
Che le rime con gli uopi profumate.
Se c’era dunque chi voleva la lingua pedissequa e stretta ai panni di messer Francesco e di messer Giovanni, c’era pure, per buona ventura, chi stimandola uscita ormai di pupillo, la voleva padrona di sè e degli andamenti suoi. Annibal Caro, nel Proemio a quel suo noto Commento di ser Agresto ecc., dice che, quanto a [54] lingua, non vuole usare, nè la boccaccevole, nè la petrarchevole, ma solamente la pura toscana in uso a’ suoi dì. L’Aretino, che scriveva come gli uscia dalla penna, si faceva beffe di certe riprensioni che gli venivano dagli Accademici di Lucca, i quali sempre avevano in bocca: il verbo vuole essere nelle prose in ultimo, e cotesto non disse il Petrarca[84]. Tra quegli stessi che non s’arrischiavano a usare nelle scritture la lingua parlata, c’era pure chi si ribellava alla doppia tirannide del Petrarca e del Boccaccio. «Non so adunque come sia bene», fa dire a Lodovico da Canossa il Castiglione nel suo Cortegiano[85], «in loco d’arricchir questa lingua e darli spirito, grandezza e lume, farla povera, esile, umile ed oscura, e cercare di metterla in tante angustie, che ognuno sia sforzato ad imitare solamente il Petrarca e ’l Boccaccio, e che nella lingua non si debba ancor credere al Poliziano, a Lorenzo de’ Medici, a Francesco Diaceto e ad alcuni altri che pur sono Toscani, e forse di non minor dottrina e giudicio che si fosse il Petrarca e il Boccaccio». In una lettera al Corrado, scritta da Roma l’ultimo di febbrajo del 1562, il Caro dice a proposito di certe voci non usate dal Petrarca[86]: «E ’l dire che non si debba scrivere con altre parole, che con le sue, è una superstizione: e questo punto è stato di già esaminato e risoluto così dagli uomini di giudicio». Non così bene risoluto tuttavia che quella tirannide non durasse più o meno grave tutto quel rimanente secolo. In una curiosa lettera, indirizzata a Francesco Petrarca dal mondo, ai 5 di decembre del 1570, il Groto, che altrove confessa avere certo suo sonetto «un poco di parentado» con altro del sovrano poeta, descrive un viaggio che [55] fece a Bologna per visitare la Cavaliera Volta. Dice di voler narrare quel viaggio in versi; chiedere pertanto a esso Petrarca licenza di usare vocaboli non usati nel Canzoniere, giacchè «sono alcuni pedanti, alcune scimmie, alcuni petrarchisti ed alcuni poeti salvatichi, i quali hanno introdotto per legge inviolabile, e per regola indispensabile, che in verso volgare non possono usarsi altre voci di quelle, che usaste voi, nei vostri componimenti»[87]. E sì che questi pedanti, queste scimmie, questi poeti salvatichi, erano stati esposti alle risa del pubblico fin sulla scena. L’Aretino, volendo dare in breve un saggio di ciò che fosse quella lor lingua, e del costrutto dei loro poetici discorsi, aveva fatto dire all’Istrione nel Prologo del Marescalco: «Spettatori, snello ama unquanco, e per mezzo di scaltro a sè sottragge quinci e quindi uopo, in guisa che a le aurette estive gode de lo amore di invoglia, facendo restío sovente, che su le fresche erbette, al suono de’ liquidi cristalli cantava l’oro, le perle e l’ostro di colei che lo ancide».
Quanto all’imitazione, c’era chi non voleva saperne per nulla, e chi l’ammetteva sì, ma con certo temperamento. L’Aretino, che si fregiava del nome significativo e pomposo di segretario della natura, la stimava una pusillanimità e viltà degl’ingegni. «Di chi ha invenzione», diceva egli, «stupisco, e di chi imita mi faccio beffe, conciosia che gli inventori sono mirabili e gli imitatori ridicoli»[88]. E altrove ancora dice molto assennatamente[89]: «il Petrarca e il Boccaccio sono imitati da chi esprime i concetti suoi con la dolcezza e con la leggiadria con cui dolcemente e leggiadramente essi andarono esprimendo i loro, e non da chi gli saccheggia, ecc.». [56] Il che torna a dire che i grandi modelli vanno studiati per imparar da essi le vie e il magistero dell’arte, e non per rifare ciò che essi ottimamente han già fatto. In un luogo della sua Apologia contro il Castelvetro, Annibal Caro dice per bocca del Predella, bidello: «Non sarebbe pazzo uno, che, volendo imparare di camminare da un altro, gli andasse sempre drieto, mettendo i piedi appunto donde colui li lieva? La medesima pazzia è quella che dite voi, a voler che si facciano i medesimi passi, e non il medesimo andare del Petrarca. Imitar lui, vuol dire che si deve portar la persona e le gambe come egli fece, e non porre i piedi nelle sue stesse pedate». E più largamente ancora sembra che la pensasse il buon Guidiccioni, quando in una lettera ad Antonio Minturno scriveva parergli «viltà lo star sempre rinchiuso nel circolo del Petrarca e del Boccaccio, e massimamente a quelli i quali s’hanno acquistato con i lor sudori qualche credito di vera lode»[90]. Potevano gl’imitatori immaginarsi facilmente d’aver pareggiato il Petrarca in un tempo in cui, a detta del Sansovino, c’erano cantambanchi che si tenevan da più di lui, incedevan gonfii e pettoruti e volevano che ognuno facesse loro di berretta[91]; ma era la [57] loro una sciocca immaginazione, e ciò che il Folengo diceva di alcuno[92]:
Tal volse del Petrarca sulle cime
Salir, ch’or giace in terra con gran scherno,
era, in parte almeno, vero di tutti, anche dei più famosi.
L’imitare, e l’imitar male, essendo assai più agevole dell’inventare, ne veniva che infiniti si davano a comporre colla falsariga del Petrarca innanzi, che, se non avessero avuto quella opportunità e quel comodo, si sarebbero forse astenuti dall’imbrattar carte. Ognuno che sapesse contare undici sillabe sulle dita e avesse in capo quattro dozzine di rime, si credeva da tanto di poter rifare il Petrarca. A tale proposito si ha nei Mondi del Doni una curiosa scenetta. Siamo nel Mondo misto, dove Momo conduce le anime a considerare lo stato loro. Si presenta un’anima e tra Momo e lei è questo dialogo:
Momo. Chi fosti tu al mondo?
Anima. Scarpellino e poeta.
Momo. O che discordanza che è questa! come di sartore e barbiere. Che scarpellavi tu e componevi?
Anima. Io m’avevo fatto un bel libro di monti, mari, sterpi, e valli, tutto in rima.
Di fior, fioretti, ombre, erbe e viole,
Poggi, campagne e poi pianure e colli,
Con fonti, gorghi, prati, rivi ed onde.
Momo. Oh tu cicali in versi sì petrarchevolmente! Io ne vo’ fare una querela in Parnaso. Andrai pur là, che tu non istai bene fra noi altri; va, fatti infrascare di questi lauri.
Anima.
Piaggie, liti, scogli, venti ed aure,
Cristalli, fiere, augelli, pesci e serpi,
Greggi, spelunche, armenti, tronchi, antri, dei,
Stelle, paradiso, ombre, nebbie, omei.
[58]
Momo. Costui è pazzo; odi versi! Sapevi tu far altro? e avevi messo altro nel tuo libro?
Anima. L’edere d’Ippocrene, gli amenissimi platani, i dirittissimi abeti, l’incorruttibil tiglio, le canne di Menalo, le querce di Dodona, i mirti d’Aganippe, i noderosi castagni e gli eccelsi pini[93].
Il buon Momo non vuol udirne di più: fa ingollare allo scarpellino poeta certo beverone e lo rimanda al mondo d’onde è venuto.
Il Doni era grande ammiratore del Petrarca, come prova, tra l’altro, una lettera tutta in lode del sommo poeta, lettera che si legge nella sua Zucca; ma i petrarchisti, o i petrarchevolisti, come più acconciamente li avrebbe chiamati Mattio Franzesi, specie quelli di bassa lega, non li poteva soffrire, e con lui non li potevan soffrire quanti avevano giusto concetto dei fini e della dignità dell’arte. Quello strabocco di poesia annacquaticcia, scolorita, scipita, faceva alla fine venir la nausea a chi era di più forte sentire, di gusti meno smaccati, e più d’uno lamentava col Franco che tanto si fosse rinforzata in Italia la maledetta foja della sonettaria. Chi si sentiva muovere dentro qualcosa di vivo e di caldo, chi credeva d’avere qualcosa di proprio da dire, non poteva non farsi beffe di que’ poeti da scranna, a’ quali accenna il Mauro nel suo capitolo Della caccia, là dove dice che
i lor versi
Ricaman d’altro che d’oro e di seta;
E negli studi stan sempre a sedersi,
Ove tengon le muse pei capelli,
Che sputan detti leggiadretti e tersi.
Molti avevano, non solo un buon concetto di ciò che [59] deve essere poesia in genere, ma ancora come un presentimento indistinto ed ansioso di un’arte nuova che dovesse avvenire, di un nuovo mondo poetico che dovesse essere rivelato alle genti, dove non la imitazione, ma l’invenzione, non la pedissequa timidità, ma il felice ardimento segnassero la via della gloria, e non potevano acconciarsi a quella poesia peritosa e servile, sonante di parole e vuota d’idee, fatta di tasselli e lisciata con la pomice. Altro si voleva oramai. «O turba errante», esclamava l’Aretino con intuito meraviglioso e con bella efficacia di parole, «io ti dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo de la natura ne le sue allegrezze, il qual si sta nel furor proprio, e mancandone, il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli, e un campanil senza campane; per la qual cosa, chi vuol comporre, e non trae cotal grazia da le fasce, è un zugo infreddato[94]». E altrove, con assai buon sentimento del vizio capitale della imitazione: «Io non mi son tolto da gli andari del Petrarca, nè del Boccaccio, per ignoranza, che pur so ciò che essi sono; ma per non perder il tempo, la pazienza e il nome nella pazzia del volermi trasformar in loro, non essendo possibile[95]».
L’Aretino doveva essere per natura e per consuetudini letterarie un gran nemico del petrarchismo, nè deve far credere altrimenti la somma riverenza da lui sempre addimostrata al principe di essi tutti, all’eccellentissimo Bembo, cui più di una volta difese contro detrattori temerarii, e cui chiama immortalissimo, reverendissimo, celeste, dicendosi indegno persin di lodarlo, gridando che egli aveva data agli uomini la ricetta del come possano diventare iddii, assicurandogli eternità di fama in un sonetto quando e’ fu morto[96]. Biasimi e lodi costavano [60] egualmente poco al Divino, cioè nulla. Egli ed il Bembo stavano sui convenevoli, perchè l’uno temeva dell’altro; ma non eran uomini che potessero intendersi e accordarsi in nulla; e per ciò che spetta all’Aretino, ha certamente ragione l’autore di quella Vita di lui che va sotto nome del Berni, quando dice che non poteva soffrire il Bembo sebbene assai lo lodasse.
Ciò che della poesia petrarchevole pensava Pietro Aretino altri ancora pensavano; ma niuno certamente espresse il suo pensiero in forma più compiuta di quello fece in un apposito capitolo contro i petrarchisti Cornelio Castaldi, poeta poco noto, ma cui spetta nulladimeno il vanto di essersi tratto fuori del comun gregge e d’aver tentato nuove vie[97].
Leggo talor tutto un vostro volume
Da capo a piedi ch’io non vi discerno
D’arte o d’ingegno un semivivo lume.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Io già vi amai, ed or non vi disamo,
Anzi v’onoro e riverisco in tanto
Che del versificar padri vi chiamo.
Ma non so darvi poetico vanto,
Perocchè mai non mi parrà poeta
Chi sol l’orecchi e mie pasce col canto.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Questo vostro infilzar di parolette
Mi rappresenta alla tenera etate.
Quando un fanciullo ad imparar si mette:
Che s’ei non scrive su carte rigate,
Non sa tener da sè dritta la mano,
Per non esser le dita anco addestrate.
E conchiude col verso:
Biasmo lo stil dove l’ingegno dorme,
[61]
il quale dice appunto ciò che un altro verso dice, un verso moderno che fece chiasso e diventò proverbiale:
Odio il verso che suona e che non crea.
Del resto, nelle tendenze molteplici e discordi della letteratura contemporanea il petrarchismo incontrava altre avversioni ed altri contrasti. Anzi tutto non potevano essere fautori suoi quegli umanisti intolleranti ed intransigenti che non avevano in pregio se non le opere dei greci e dei latini, e stimavano cosa vile l’usare scrivendo altra lingua che quella di Cicerone e di Virgilio. Contro a costoro ha un sonetto il Lasca, nel quale li pettina a dovere. Li chiama pedanti e logicuzzi; li accusa di mandare in rovina
La lor lingua toscana o fiorentina;
li strapazza, perchè nelle scienze concedono gli onori
Tutti ai latini ed ai greci scrittori,
mentre i più grandi fra quelli,
Virgilio, Orazio, Pindaro ed Omero
Appetto a Dante non vagliono un zero,
e son anche assai da meno del Petrarca e del Boccaccio. Ma quegli stessi scrittori che si opponevano alle sciocche pretese dei pedanti, quelli che, con ogni ragione, volevano essere italiani e non latini, si scoprivano poi alla lor volta nemici, non del Petrarca, ma del petrarchismo, se, come appunto è del Lasca, ritenevano nei gusti, nel modo di pensare, nell’uso della lingua, alquanto, anzi molto, del popolaresco; giacchè l’umor loro, schietto e nativo, non poteva acconciarsi a quelle raffinatezze e a quegli arzigogoli della petrarcheria. Anche il Lasca mostrava di professare una grande ammirazione pel Bembo; ma bisognerebbe poter vedere che cosa ci fosse sotto a quella sua ammirazione, e un pocolino il lascia [62] vedere egli stesso. Che non potessero essere molto teneri delle melanconie petrarchevoli, e di una poesia moccicona, che si disfaceva in pioggia di lacrime, ed esalava in vento di sospiri, quegli spiriti giovialoni ed arguti, quei, come il Caro li chiama, poeti bajoni, che argomento a verseggiare traevano dai casi minuti della vita d’ogni giorno, dai piccoli piaceri un po’ volgari, dalle piccole miserie un po’ ridicole, dalle mille storture degli uomini e delle cose, voglio dire i creatori della poesia bernesca con a capo il loro padre comune, e con essi quanti di tal poesia facevano festa e sollazzo, si capisce troppo facilmente e non bisogna dimostrarlo. E così la intendeva il Lasca, quando in una poesia da lui premessa alla edizione delle rime del Berni, usciva a dire:
Chi brama di fuggir maninconia,
Fastidio, affanno, dispetto e dolore;
Chi vuol cacciar da sè la gelosia,
O, come diciam noi, martel d’amore,
Legga di grazia quest’opera mia,
Che gli empirà d’ogni dolcezza il cuore;
Perchè qui dentro non ciarla e non gracchia
Il Bembo merlo, o ’l Petrarca cornacchia.
E nella lettera a Lorenzo Scala, premessa egualmente a quelle rime, diceva «le petrarcherie, le squisitezze, le bemberie, avere, anzichè no, mezzo ristucco il mondo.» Perciò possiam credere che al duca di Mantova non tornasse sgradito l’avvertimento che gli dava l’Aretino, quando, mandandogli certa composizione ghiotta del Veniero, diceva:
Non aspettate veder la lindezza
Dell’andar petrarchevole a sollazzo,
Ch’a ricamar fiori e viole è avvezza.
Di quella lindezza doveva averne assai anche il duca di Mantova. Per chi amava di parlar grasso e ridere alla [63] sbracata (e Dio sa s’era gusto di molti) non c’era canzoniere d’amore che valesse un sol capitolo del Berni. Gabriello Simeoni non si peritava di dirlo apertamente e di stamparlo.
Chi dice che ’l gentil compor berniesco
Non è il più bel che si leggesse mai
Sta dell’ingegno e del giudizio fresco.
Puossi con esso trar sospiri e guai
Senza tanti uopi, unquanchi, schivi e snelli,
Che dan che fare a gl’ignoranti assai.
Voglion le feste questi poverelli
Passarsi il tempo con un libro in mano
Senza tanti Laudivi o Vellutelli[98].
E notisi che il Simeoni fu grande ammiratore del Petrarca, e due volte si recò a visitare Valchiusa, una il sepolcro del poeta. Per parte loro i petrarchisti dovevano guardar con dispetto i poeti berneschi e la lor poesia, e cercare di screditarli quanto più potevano, nè io dirò che peccassero in questo. Certo il Giraldi Cinzio doveva esprimere il pensiero di molti, quando scriveva: «Alle cose basse nacque medesimamente il Bernia tra’ toscani, e tutti coloro che per loro principale esercizio a quel modo han scritto ch’egli scrisse; e infelici mi pajono quegli ingegni che spendono le lor buone ore in così fatte scritture, piene di nascosta disonestà, e di materie plebee, che sol dilettano a’ salcicciai, ed a simil sorti di genti»[99]. Che dilettassero solo a’ salcicciai e a simil sorte di genti, non è punto vero; e ad ogni modo rimane dubbio qual fosse poesia più oziosa se la bernesca o la petrarchesca. Questa era certo più sciocca.
[64]
Nè più dei berneschi potevano essere amici al petrarchismo i poeti maccheronici, che già nel fatto della lingua si mostravano sciolti da ogni regola, non sottoposti ad autorità di sorte alcuna, figli e fautori del proprio capriccio.
Ma se di molte beffe toccavano agl’imitatori del Petrarca, molte del pari ne toccavano ai commentatori. Non commentatori, ma crocifissori li chiama l’Aretino. «Se», dice egli nel Prologo della Cortegiana, «la selva di Baccano fosse tutta di lauri, non basterebbe per coronar crocifissori del Petrarca, i quali gli fanno dir cose con i loro comenti che non gliene fariano confessare diece tratti di corda». Quel bel matto di Alfonso de’ Pazzi si burla in un sonetto di coloro che avevano cava di commenti, e ricorda in un altro
..... l’Accademia, ’l Varchi e ’l Gello,
C’han messo Dante e ’l Petrarca in bordello.
Lo stesso Aretino dice in una lettera al duca di Mantova[100]: «Se l’anima del Petrarca e del Boccaccio, nel mondo suo, è tormentata, come son le loro opere nel nostro, debbono rinnegare il battesimo». Il Franco li scardassa in questo modo nella sua Epistola al Petrarca[101]: [65] «Or questi dunque, perchè si conosceano non valere ad altro, si son posti a contentare le vostr’opere vulgari, ingegnandosi di trovarvi novità di chimere per parere ingegnosi, e di recarci ciance infinite per parere facondi. Ma con che rumor di scodelle i lavaceci si vadano poi imboccando le vostre fantasie, volendole intendere al vostro dispetto, non ve ’l potrei scrivere per una lettera. E volesse pure Iddio che fussero stati soli i processi fattivi sopra i versi, ed i tormenti dativi sopra i sensi, perchè son stati più i chiassi fatti in disonor de l’onore e del nome, per aver voluto investigare, se voi feste o non feste quella cosa con monna Laura, s’ella ebbe marito o no, se fu sterile o fe’ figliuoli, se ’l cardinal Colonna ve la tolse a forza d’oro, se ’l papa vi promettesse il cappello volendogli consentire una sorella di cui era invaghito, con tante altre sporche dispute ch’io mi vergognarei d’annoverarle scrivendo». Quando il Franco così scriveva, erano già stati pubblicati per le stampe i commenti dello Squarciafico, del Filelfo, del Vellutello, del Fausto, di Silvano da Venafro, del Gesualdo e di altri. E non meno acerbamente, anzi più, si esprime il Groto in quella lettera che ancor egli volle scrivere al Petrarca[102]: «Di novo non ci è altro, se non che ’l vostro canzoniere è più confuso, più rimescolato, più riversciato che le foglie scritte dalla Sibilla ad un lungo soffiar di borea, di austro, di levante e di ponente. Voi medesimo, se ’l vedeste, no ’l riconoscereste. Ci è di più, che vi fan cinguettare a lor modo, e dove pensate dir pettini, vi fan dir cesoje. A madonna Laura vostra han dato nome, chi di anima, chi di poesia, chi di filosofia, e mille altre chimere fantastiche di commentari. O se voi tornaste di qua avreste pur che fare co ’l notajo del maleficio, o danno dato! quanti ne fareste frustare, e impiccar per [66] ladri! Ogni un s’ingrassa del vostro grasso, e s’ingrassa del vostro sugo; chi vi pela di qua, chi vi taglia di là, chi vi ruba, chi vi scaca, chi vi assassina». E qui l’autore lasciati i commentatori, torna a pigliarsela con quei gaglioffi d’imitatori. Ma già prima del Groto il Giraldi Cinzio aveva scritto: «E per non parlare degli altri, si son trovati e si trovano oggidì alcuni che, lasciati i sensi veri, fanno tali farnetichi su alcune cose del Petrarca, che pajono spiritati che dicano le maraviglie; e ovunque trovano la voce di amore o di natura, o di Giove, o di Giunone, o di disire, o di bellezza, o di sole, o di cielo, o di altre tali cose, vi vogliono tirare ciò che se ne scrisse mai dal principio del mondo insino alla loro età»[103].
Con tanta gente ai fianchi, sopra, sotto, d’ogni banda, imitatori, spositori, commentatori, musici, compilatori di vocabolarii, fabbricatori di grammatiche e di Arti poetiche, il malcapitato Petrarca fa pensare a un di quei bacherozzoli, che spesso si trovan pei campi, sepolti sotto un acervo di affamate ed affacendate formiche. Egli era come un nuovo Mecenate che, mal suo grado, faceva le spese a un nugolo di parassiti, ed era giusto che qualcuno, non potendolo egli, levasse la voce contro l’importunità e la improntitudine di costoro. In una sua madrigalessa in morte di Lodovico Domenichi, il buon Lasca, che in tant’altre cose sapeva mostrarsi uomo di retto sentire e di sano giudizio, esclama:
Una turba infinita
Di poetacci vive e di scrittori,
Pedanti e correttori,
Che metton tutto il mondo sottosopra,
Ogni antica storpiando e modern’opra,
Come Dante e ’l Petrarca fede fanno,
Con gran vergogna e danno, e con rovina
[67]
Dell’Accademia nostra Fiorentina,
Che fa molte parole e pochi fatti.
Molte parole e pochi fatti, come fu sempre usanza delle accademie. Poetacci e pedanti si contenta chiamarli il Lasca, ma meglio minuzzapetrarchi, lambiccaboccacci e stuccalettori di piccola levatura li chiama il Grappa in quel suo commento alla canzone del Firenzuola in lode della salsiccia[104]. E tenendosi più strettamente al Petrarca, il Franco fa dire alla sua lucerna[105]: «Veggo le cataste dei libri tanto alte, che mi tremano gli occhi a guardarci su... Veggo il Petrarca commentato, il Petrarca sconcacato, il Petrarca imbrodolato, il Petrarca tutto rubato, il Petrarca temporale e il Petrarca spirituale». Una pietà!
Abbiam veduto di quanto favore al petrarchismo fossero certi spiriti amorosi che aleggiavano in mezzo alla colta ed elegante società del Cinquecento; ma non ci dimentichiamo che sotto e a’ fianchi di questi spiritelli aerei, lindi, decenti, altri se ne agitavano di più grossa natura, di più liberi portamenti; non ci dimentichiamo che di contro all’amore dei canzonieri c’era l’amore delle novelle e delle commedie; di contro al piacere di spasimare il piacere di godere. Già quegli amori a cui, non che la speranza, non era lecito nemmeno il desiderio, quello stemperarsi in lacrime, quel dileguarsi in sospiri, tante metafisicherie e tanti arzigogoli cacciati dentro al più spontaneo degli affetti, alla lunga venivano a noja. Gli spasimanti perpetui cominciavano a diventar ridicoli. Odasi ciò che dice Ercole Bentivoglio in una sua satira indirizzata a M. Andrea Napolitano:
[68]
Andrea, tra le pazzie che non son meno
Di riso grande che di biasmo degne,
Di ch’oggi è sì questo vil mondo pieno,
Posto è il pensier, che ’n tutti or par che regne,
Cieco d’amor, quando la notte e ’l giorno
Spende l’uom dietro a queste donne indegne.
E più oltre, canzonando lo stesso Andrea:
Ite pensoso per quest’ampie strade,
Con gli occhi a tutte le finestre intenti,
Molli talor di tepide rugiade.
Poi ricorda un tal Cupennio:
Che profumato tutto ’l dì sospira
Al sole ed alla pioggia, e alla finestra
Gli occhi con certa gravitate gira.
Luigi Alamanni va più in là, e nella satira a M. Albizzo Del Bene biasima, non solamente quell’amore cortigianesco, ma ogni amore che, dice, è di grande nocumento agli uomini, nati a cose maggiori, è cagione d’infiniti guai. Cita il proprio esempio:
Anch’io con Febo gli amorosi strali
Al santo bosco già cantai d’intorno,
E so quante menzogne io dissi e quali.
Chi poi sentiva l’amore secondo natura e secondo umanità, si stizziva di quell’amore dei filosofanti e dei sonettai, inviluppato nei concetti, e con tante gale di sofismi intorno da parere un altro.
L’amore è diffinito così spesso
Da questi dotti, e così pesto e trito,
Ch’omai non più si conosce egli stesso,
dice Pietro Nelli in una delle sue satire. Francesco Sansovino la rompe con tutti i risguardi e dice chiaro di [69] preferire l’amore quieto, naturale e senza cerimonie di una sgualdrina, agli amori smancerosi delle nobili dame[106]. Certo non tutti avevano i gusti, dirò così, troppo semplici del Sansovino, e anche del Berni, che componeva que’ saporiti capitoli in lode della sua schiattona, e molti indulgevano ad amori alquanto meno volgari, quali la novella e la commedia ci mostrano; ma erano pur sempre amori molti diversi da quelli di messer Francesco e di madonna Laura. Ora, se tra costoro c’era chi, per vaghezza di contrasto, cercava gli amori ideali dopo aver fruito, o mentre ancora fruiva, di quelli che chiameremo pratici; molto maggiore doveva essere il numero di coloro che si attenevano ai pratici, senza cercare più là. E costoro eran tutti naturali nemici del petrarchismo.
Il sentimento di questa classe di nemici, assumeva, tra le altre, una forma caratteristica, la forma di un dubbio circa la qualità degli amori del poeta e della donna celebrata da lui. Questi amori erano essi stati così puri come si diceva? Difficile il crederlo, e nel Canzoniere stesso si cercavano le prove del contrario. Alcuno più benevolo, come, ad esempio, Nicolò Astemio[107], credeva che tutto quell’amore altro non fosse che una finzione; sospetto antico, contro il quale ebbe a difendersi lo stesso Petrarca. Per contro, Pietro Cresci, autore di un’apposita dissertazione, alla famosa purità ci credeva assai poco, e Ubaldo De Domo non ci credette punto. Cesare Caporali è d’avviso
Che in Valchiusa non gì la cosa netta;
e Antonfrancesco Doni narra, nei Marmi[108], di una disputa [70] fatta nell’orto de’ Rucellai, e riferita da quella buona femmina della Zinzera, nella quale disputa molti sostennero questa stessa opinione: «e tenevano che egli (il Petrarca) avesse amato donna, donna, donna da dovero; e che egli avesse anco corso il paese per suo: ma come uomo che era religioso, dottore, vecchio e calonaco di Padova, non voleva che restasse accesa sì fatta lucerna della fama; e appiattò la cosa sotto mille queste e mille quelle; la pose in bilico acciò che la non si potesse mai affermare; perchè la fu così giusta, giusta, ma che sempre si trovasse qualche oncino d’attaccarsi in pro e contra». Costoro non erano di certo poeti petrarchisti. Nè solo si dubitava della qualità di quello amore, ma, ancora della condizione di madonna Laura. In una delle Lettere argute del Rao, tra parecchie tesi da disputare c’è la seguente: Che madonna Laura, tanto amata dal Petrarca, ebbe modi e costumi di montanara, contra l’espositore di esso Petrarca[109].
Si mettano insieme tutte queste avversioni grandi e piccole, tutti i biasimi che abbiam notati sin qui, con le ragioni loro, e si vedrà che l’antipetrarchismo era una forza grande, piena di uno spirito vigoroso. Questo spirito, nella sua forma più acuta, si manifesta mediante la parodia. Gli imitatori del Canzoniere si videro a un tratto ai fianchi altri imitatori, i commentatori altri commentatori; ma mentr’essi facevan da senno, quegli altri facevan per beffa, e nell’alto lor riso travolgevano i seguaci e un pochino anche il maestro.
Ed ecco di fronte a Laura divina, di fronte a quel tipo invariabile di donna bionda, gelida e perfetta dei canzonieri, levarsi come una visione apocalittica la megera del Berni.
[71]
Chiome d’argento fine, irte e attorte
Senz’arte intorno a un bel viso d’oro;
Fronte crespa, u’ mirando io mi scoloro,
Dove spunta i suoi strali Amore e Morte;
Occhi di perle vaghi, luci torte
Da ogni obietto diseguale a loro;
Ciglia di neve, e quelle, ond’io accoro,
Dita e man dolcemente grosse e corte;
Labbra di latte, bocca ampia, celeste;
Denti d’ebano, rari e pellegrini;
Inaudita, ineffabile armonia;
Costumi alteri e gravi; a voi, divini
Servi d’Amor, palese fo che queste
Son le bellezze della donna mia.
Quei divini servi d’amore non lascian dubbio quanto alle intenzioni del poeta; la canzonatura va a cogliere in pieno gli spasimanti petrarchisti e le lor dee[110]. Il Doni regala quattro madrigali alla sua Crezia, di cui dice di non aver mai veduto cosa più brutta, e in una lettera a Tiberio Pandola fa chiaro il pensiero ch’ebbe in comporli: «Ho poetato per burlarmi del mondo, e per farmi beffe d’alcuni scatolini d’amore, i quali non sanno uscire di: Madonna, io v’amo e taccio, e: S’io avessi pensato, e simili altre ciabatterie, oggimai così fruste come le cappe de’ poeti». Col medesimo intendimento compone Agnolo Firenzuola un capitolo sopra quella sua donna, che
Farebbe innamorare un pa’ di buoi,
e di cui descrive tutte le bellezze e novera tutte le virtù. La Cecca celebrata da Filippo Sgruttendio nella sua Tiorba a Taccone, e altre, vanno con quelle in ischiera.
[72]
I lamenti in morte di donne che, alcuna volta, non saranno nemmeno esistite, suggeriscono altri lamenti. Francesco Bracciolini compone i suoi sonetti in morte di Lena fornaja; ma altri, prima di lui, aveva spinto più oltre la beffa, e del Berni si ha una canzone sopra la morte delle sua civetta, di Agnolo Firenzuola un’altra canzone sopra la morte di un’altra civetta, del Coppetta una canzone in perdita di una gatta, di suor Dea de’ Bardi una in morte di una ghiandaja, e altre simili di altri. In tutti questi componimenti si ritrovano atteggiamenti di pensiero, di sentimento, di frase, che tutti rimandano alla prima lor fonte, le rime del Petrarca in morte di Laura. Questa forma di parodia incontrò molto: Ortensio Lando ci dice di aver cantato la morte di un cavallo, di un cane, di una scimia, di una civetta, di una gazza, di un mergone, di un gallo, di una gatta, di un grillo, e d’altri vili animali[111].
Ma una forma più piena e più risoluta di parodia era il travestimento. Il padovano Menon travestì la canzone: Chiare, fresche e dolci acque, cominciando:
O acque fresche e chiare
On le suo belle gambe
Se lavè la Tietta l’altro dì;
e il simile fece il suo concittadino Begotto, il quale travestì pure alcuni sonetti. In un libro assai raro intitolato Figaro Tuogno da Crespaoro, e no so que altri buoni Zugolari del Pavan e Vesentin, Smissiaggia de Sonagitti, Canzon e Smaregale in lengua Pavana (Padova, 1556), si trovano alcuni componimenti in lingua rustica, ne’ quali è parodiato il Petrarca. Quel bizzarro ingegno di Andrea Calmo travestì allo stesso modo una cinquantina di sonetti, l’ultimo dei quali, che nel Canzoniere [73] del Petrarca comincia col verso Pace non trovo e non ho da far guerra, è accompagnato da un largo commento. Veramente non si può dire che in queste parodie ci sia molta di quell’arguzia che pure abbonda in altri scritti del medesimo autore, ma, ad ogni modo, eccone un saggio.
Benedetto sia ’l zorno, ’l mese, e l’anno,
E la stason, e ’l tempo, e l’ora, e ’l ponto,
E la contrà, e ’l liogo, onde fu’ zonto
Da quel bel viso che me fa gran danno.
Sia benedetto el primo dolce affanno
Ch’Amor m’ha dao, quando son sta conzonto,
E l’arco con le frezze, che m’ha ponto
D’una piaga mortal piena d’inganno.
Benedetta la boxe, e ’l so parlar,
I passi, el sonno, i vecci, la bellezza,
I andamenti, el star, el caminar.
Sia benedetta quella so vaghezza,
El so vestir col so pulio manzar,
Da far la morte star in allegrezza.
Maffeo Veniero, quel medesimo che poi fu arcivescovo di Corfù, e cui furono malamente imputate alcune sconce scritture di un altro Veniero, amico e discepolo dell’Aretino, si burlò assai piacevolmente nella canzone sua La strazzosa delle lindure, delicature e lambiccature degli amori petrarchevoli. Giambattista Lalli, l’autore del notissimo travestimento della Eneide, travestì pure ventinove sonetti, due ballate, una sestina, una canzone del Petrarca. Questi suoi componimenti ci traggono ormai fuori dei termini del Cinquecento, ma vogliono, ciò nondimeno, essere ricordati, perchè non fanno se non seguitare una tendenza sorta molto prima. E chi vuol vedere che cosa diventassero alle mani del Lalli le rime dell’innamorato cigno di Valchiusa, legga i due seguenti sonetti, in cui se ne veggono trasformati altri due fra i più famosi del Canzoniere.
[74]
Per far d’un buon cappon ghiotta vendetta,
Un ladroncel, sebben non mai l’offese,
Celatamente un giorno egli sel prese,
Com’uom che a nocer luogo e tempo aspetta.
Con la manina poi sua gola stretta,
L’uccise, e far non valse altre difese;
Poscia dal mio pollajo il furbo scese
Con furia tal che parve empia saetta.
Io conturbato da sì fiero assalto,
Non ebbi tanto nè vigor nè spazio,
Che potessi al bisogno prender l’armi.
Al ladro, al ladro, gridai sempre ed alto;
Ma non fu un cane che in sì duro strazio
A poterlo acchiappar volesse aitarmi.
Quando d’Apollo in ciel si scoloraro
Per gire in mare ad annegarsi i rai,
Ritornò il ladro, ed io che ben guardai,
Chiamai li sbirri e subito il legaro.
Non ebbe punto tempo a far riparo,
Che dal giudice, tosto i’ me n’andai,
E fu bello e convinto, onde i suoi guai
Nel voler capponar s’incominciaro.
Era venuto in tutto disarmato,
E non credea ch’i’ avessi o voglia o core
Di vendicarmi e d’acchiapparlo al varco.
Il buon giudice poi per farsi onore
Gli diè perpetuo bando dal suo stato
E ’l pose alla berlina sotto a un arco.
S’intende come questa poesia derisoria, che faceva del Canzoniere un uso così diverso da quello dei petrarchisti, non dovesse troppo giovare alla riputazion di costoro. Ma la parodia non colpiva soltanto gl’imitatori, colpiva ancora i commentatori. Parodia di commento sono i Cicalamenti del Grappa intorno al sonetto Poi che mia speme è lunga a venir troppo[112], e una esposizione [75] della canzone Ben mi credea passar mio tempo omai, che lo stesso Grappa dice d’aver composta. Parodia è una Lauretta celebrata, dialogo di Marcantonio Petilio, diviso in sei Ragionamenti, ove, oltre all’ordinato progresso degli amori del Petrarca si dà la vera intelligenza alla canzone Mai non vo’ più cantar come soleva, da niuno ancora intesa[113]. E parodie sono quelle innumerevoli cicalate e dicerie, e quei commenti da burla, come il Commento del Caro alla Ficata del padre Siceo, quello del citato Grappa alla canzone del Firenzuola in lode della Salsiccia, e molt’altri. Nella Lezione o vero cicalamento di maestro Bartolino dal canto de’ bischeri sopra ’l sonetto Passere e beccafichi magri arrosto[114], si ricorda un Don Agiato da Valdiriposo, professore di Salamanca, che su questo medesimo sonetto aveva composte ventidue lezioni, e ci si deride molto saporitamente l’argomentare, l’anfanare, l’arzigogolare degli espositori. In un luogo l’autore dice, quasi con le stesse parole dell’Aretino riferite poc’anzi: «questi espositori e commentatori fanno dire... a questi poveri poeti cose che non l’avrebbon dette con diece tratti di corda, nè, mi fate dire, pur mai pensate»; e quivi stesso si burla di coloro che si mettono a legger lezioni per le accademie e fanno le cantafavole lunghe lunghe. Il Doni, che per burlarsi [76] dei commentatori del Petrarca, commentò il Burchiello, e instituì un confronto fra l’uno e l’altro poeta; il Doni, in quella sua cicalata intitolata La Chiave, fa di strane chiose a quel passo molto oscuro del Petrarca,
Del mio cor donna l’una e l’altra chiave
Avete in mano;
e dice che molti commentatori s’avvilupparono in questo caso, e cita opinioni, giudizii e luoghi dello Stiracchia, del Zicotto, del Mentolone, del Savonarola, di Bartolo e di messer Pietro Bembo. E di quelle cantafavole lunghe lunghe ricordate dal Cecchi, con cui altri pretendeva di spianare concetti e luoghi difficili del Canzoniere, dà buon saggio il Calmo in una sua lettera, dove scrive[115]: «diseva ben el precettor del Certaldese: «Grami nu, pessi, che sta in aqua sporca!» O infelici, o stolti, o miseri, ad quid perdizio ve rosegheu la mente, ve lacereu el pensier, ve strupieu i spiriti, ve insanguineu el cuor, affaneu el stomego, ve tormenteu i membri, ve stracheu la memoria, ve aflizeu l’interior, e ve intrigheu l’anema? incerti d’ogni vostra operazion, inbindai con l’ozio alle rechie, col pè in la fossa, con la stamegna in cao, e col porta inferi che ve coverze? Che giova el tanto fadigar vu e i vostri e far fadigar altri col mondo insieme?» e su questo tono seguita per un pezzo.
Ma un altro avversario, punto da disprezzare, trovava il petrarchismo nel sentimento religioso, il quale, se in molti era spento affatto, o sonnecchiava, in altri non pochi serbavasi vivo, ed anzi si risentiva, si rinfocolava a contatto di quella gran corruzione che riempieva il secolo. Il Petrarca stesso, come cristiano, ebbe di molti dubbii circa l’amor suo, e se talvolta vide in esso una virtù gentile che lo guidava a salvazione, assai più [77] spesso il considerò come una mala passione che lo toglieva a Dio, e se ne doleva e se ne scusava. Certo, nel suo Canzoniere molte cose ci sono che non le vorrebbe disdire un asceta; e chi mettesse insieme tutte quelle gravi massime e quelle savie sentenze circa la fugacità del tempo, la imminenza della morte, il nulla dei beni mondani, la bellezza della virtù e la turpitudine del vizio, potrebbe farne un libretto da porre a canto ai più devoti che abbia la letteratura cristiana; ma gli è pur certo che molt’altre cose ci sono le quali a un’anima timorata non possono non parer biasimevoli, e per non cercare più in là, quel così grande amore riposto in una creatura discorda troppo dal supremo ideale cristiano che è lo smarrimento in Dio. Aggiungasi che quello splendore d’arte onde brilla il Canzoniere accresceva il pericolo di certi lenocinii.
Era perciò naturale che uomini d’animo austero e molto devoti guardassero con sospetto il libro del poeta, specie quando lo vedevano correr per tante mani ed essere da tanti studiato e imitato, e pensassero al modo di combatterne i mali influssi, o di correggerne il vizio e di renderlo innocuo. Antonio Cammelli, detto il Pistoja, ricorda in un suo sonetto certo predicatore che in pulpito stracciava al Petrarca il mantello[116]. Il Pistoja non lo avverte; ma noi possiamo essere sicuri che costui predicava al deserto: altri, meglio avvisati, pensando che a voler mandare in bando il Canzoniere si sarebbe perduto tempo e fatica, credettero di conseguire più sicuramente il fine loro con sottoporlo ad un travestimento speciale che fu detto spiritualizzamento.
Questa operazione dello spiritualizzare consisteva nel togliere ad uno scrittore quanto nelle opere sue ci fosse [78] di men che onesto, o di semplicemente profano, con sostituirvi una sostanza nuova di cose e di pensieri in buon accordo con la morale e con la fede. Era una specie di conversione che si operava nei libri. Si lasciavano intatte quanto più era possibile le forme, ma ci si metteva dentro un’anima nuova; si allettava i lettori con l’esca di un titolo famoso e, usando di una pietosa frode, si metteva loro tra mani un libro che veniva a dire il contrario di quanto aveva detto insino allora.
Quest’arte, non men faticosa che meritoria, fu molto in onore in Italia nel Cinquecento, e fu praticata anche fuori d’Italia. Tutti i libri più famosi e meno in odore di santità ebbero a capitarle sotto, e così furono spiritualizzati, spesso ripetutamente, da parecchi, il Decamerone, l’Orlando Furioso, le rime del Bembo, alcune di Torquato Tasso, e via dicendo. E questa furia di spiritualizzare andò tant’oltre che si spiritualizzarono cose come il famoso Lamento in cui Strascino da Siena trattò in volgare e popolarmente il tema che il Fracastoro ebbe a trattare eruditamente e in latino: il mal francese.
Ben s’intende come la operazione dovesse presentare difficoltà più o meno grandi, a seconda dei libri, e dovesse importare dei libri stessi una trasformazione più o meno piena. Si vede subito che a spiritualizzare il Canzoniere del Petrarca ci voleva assai meno fatica che non a spiritualizzare, poniamo, il Decamerone, e che per ispiritualizzarsi quello s’avea a trasformare molto meno di questo. Il Decamerone spirituale di Francesco Dionigi da Fano non altro conserva del libro di messer Giovanni che il titolo innocuo, e la partizione in dieci giornate; le cento novelle se ne son ite, e il luogo loro è preso da cento ragionamenti morali, in cui si tratta di castità, di digiuno, di povertà, di tribolazione, di pazienza, ecc., e che nella edizione veneziana del 1594 tengono la bellezza di 659 pagine in quarto, assai fitte [79] e dove non si torna mai a capo. Altro che le metamorfosi di Ovidio! Col Petrarca non bisognavano procedimenti così radicali; a lui si potevano lasciare le parole immutate assai spesso, e qualche volta anche i pensieri.
Lo spiritualizzamento del Canzoniere è di più guise e di diversi gradi. La forma, dirò così, più mite è quella che s’incontra in alcuni centoni, dove con versi del Petrarca, si cantano le lodi della Vergine, o si tratta altro sacro argomento. Qui lo spiritualizzamento non si esercita propriamente nel Canzoniere, ma fuori di esso, e i componimenti che ne nascono non han punto la pretesa di sostituirsi al libro onde traggono la sostanza. Di giunta in essi la parola del poeta rimane inalterata. Ma l’opera trasformatrice passa oltre, invade il Canzoniere stesso, e ne penetra tutte le parti, finchè riesce alla piena trasmutazione di esso. Un’altra maniera di spiritualizzamento si otteneva mediante un’acconcia interpretazione, che, lasciando intatto il testo, vedendo simboli dove il poeta certamente non ne aveva messi, riusciva a quei concetti religiosi e morali che per lo appunto si ricercavano. E questa maniera era quella che ragionevolmente avrebbe dovuto ottenere migliore effetto, perchè non toglieva il poeta, camuffandolo stranamente, ai molti suoi ammiratori. Del resto questo procedimento non era nuovo. Durante tutto il medio evo si moralizzarono a questo modo le opere più profane, si cercarono negli scrittori pagani dottrine a cui non avevano sognato mai: basti dire che delle stesse Metamorfosi di Ovidio si fece un libro morale, quasi un libro cristiano.
Nel 1544 un frate Feliciano Umbruno da Civitella diede in luce un Dialogo del dolce morire di Gesù Christo sopra le sei Visioni di M. Francesco Petrarca. Sono ragionamenti teologici fra la Signora Giacopa Pallavicina da Parma e un tal Leonzio, e prendono argomento da alcuni notissimi luoghi del Canzoniere. L’autore, del [80] resto, chiama insipido, agreste e disordinato il proprio discorso, e schiettamente confessa la ignoranza propria. Il primo ragionamento si aggira intorno a quei due versi:
Una fera m’apparve da man destra
Con fronte umana da far arder Giove:
la fera è il serpe tentatore. Il secondo commenta ed espone gli altri due:
Indi per alto mar vidi una nave
Con le sarte di seta e d’or la vela:
la nave è Maria Vergine; e via di questo andare. Di qualità simile a quest’opera di fra Feliciano dev’essere una Esposizione spirituale sopra il Petrarca, composta da Pietro Vincenzo Sagliano e stampata in Napoli nel 1590, ma a me sconosciuta.
Costoro mutavano solamente il pensiero del poeta; altri mutavano il pensiero e la parola. Nel 1547 Gian Giacomo Salvatorino dava alle stampe in Venezia un Thesoro de Sacra Scrittura sopra rime del Petrarcha. Il libro s’apre con un sonetto a Gesù crocifisso ed a Maria Vergine, poi ne vengono due alli candidi e benigni lettori, poi alcuni versi latini In maledicos, poi un madrigaletto del cavaliere Luigi Casola, in cui si presagisce a Gian Giacomo maggior gloria che non ebbe il Petrarca, giacchè:
più vale
Un’impresa celeste che mortale.
Seguono altri versi latini in lode dello stesso Gian Giacomo, il quale poi, in sonetti XXI tra sè retrogradi, ci informa di parecchie cose degne d’essere sapute: e che egli cominciò la sua fatica nel 1537, essendo allora in età di trentatrè anni; e che ben due anni vi spese; e che senza l’ajuto di Dio non avrebbe potuto nemmeno concepire quelle benedette sue rime; e che l’idea gli fu [81] suggerita dal Malipiero, di cui loda lo stile leggiadro, santo, divino. Fatto sta che queste sue rime, sien esse pur benedette fin che si vuole, non potrebbero essere più sciagurate. I sonetti del Petrarca ci sono rifatti quando una, quando due, quando tre volte, e sono uno, due, tre assassinamenti. L’autore fa come un sonatore che ripeta più volte, variandola in più modi, e guastandola sempre più, una stessa frase musicale. Egli comincerà col Petrarca:
Era ’l giorno ch’al sol si scoloraro;
poi ripiglierà:
Essend’oggi quel dì che scoloraro;
e poi da capo:
E uscendo i tuoi d’Egitto scoloraro.
La trasformazion dei soggetti è spesso assai strana. Il sonetto: Orso, e’ non furon mai fiumi nè stagni, nel quale il Petrarca si lagna del velo e della mano di Laura che gli tolsero la vista de’ suoi begli occhi, si muta in una invettiva contro Pilato e suoi compagni.
Ma il primato tra gli spiritualizzatori del Petrarca spetta incontestabilmente a Gerolamo Malipiero, il cui nome ci è capitato innanzi pur ora, autore del Petrarca spirituale. Fu questo Malipiero un minore osservante di molta devozione e di gran zelo, valente predicatore, si dice, e girò, predicando, l’Italia. Il libro suo fu stampato la prima volta in Venezia nel 1536, ristampato ivi stesso due anni dopo, e fu tanta la voga sua che, in quel medesimo secolo, ebbe non meno di dieci edizioni. Ad esso allude il Franco in quella più volte citata Risposta della Lucerna, dicendo: «Il male è che ci sono stati di quegli che v’han voluto far cristiano ducento anni dopo la morte, e di prete v’han fatto frate, ponendovi [82] e cordone e zoccoli e scapolare, chiamandovi il Petrarca spirituale». Ad esso allude il Giraldi Cinzio ricordando l’opera di tale che ha fatto spirituale il Petrarca, e «vestendolo da frate minore, e poi cingendolo di corda, gli ha messo i zoccoli in piedi»[117]. Esaminiamo un po’ più da presso questo libro stupido, ma curioso.
L’autore stesso ci dice le ragioni che glielo fecero fare. Egli si scaglia contro la disonesta letteratura de’ tempi suoi, e specialmente contro le commedie, corruttrici di ogni buon costume. Molte anime vanno in perdizione per colpa delle male letture. Il Canzoniere del Petrarca non è senza molto pericolo, ed egli prese a rifarlo, vedendo tanti giovani, domentre cedono alle lusinghe degli illecebrosi canti, lasciata la via della virtù, nell’abisso di perpetua morte strabocchevolmente precipitarsi. Per ciò ha con opportuni e convenevoli antidoti espurgati da ogni veleno antico i leggiadri sonetti del Tosco poeta, sì che niente più potranno loro essere nojosi. Dubita veramente che le rime del Tosco poeta non abbiano, passando per le sue mani, perduto alquanto di lor politezza e leggiadria; ma si consola vedendole così monde e spogliate di ogni vanità. Tutto ciò si dice in un discorsetto che, insieme con altri nove, si trova a mezzo del volume. Ma la cosa certo più bella di esso volume è un dialogo fra il Petrarca stesso e l’autore, dialogo che fa officio di prologo, e in cui con ingegnosa invenzione si finge che il poeta chieda al frate di fargli quel servizio di spiritualizzarlo. Così si chiudeva la bocca a chi credesse d’averci a ridire. L’autore è andato, come tanti altri, in pellegrinaggio ad Arquà, e ha già ammirato il sepolcro e la casa del poeta. Essendo ormai l’ora calda, egli si è ritratto in un boschetto, e quivi, [83] pieno dentro e di fuori d’ineffabile giocondità, si riposa e si ricrea. All’improvviso gli appare una figura più che umana, la quale il saluta con un: Dio ti salvi, o Malipiero. È il Petrarca, o per dir meglio l’anima sua, che dice al frate, come sia relegata in quel boschetto per divino giudizio, sino a tanto che sia ritrattata l’opera degli amorosi suoi sonetti e canzoni. Stupore del frate a cui il poeta spiega come le sue rime abbiano in sè molte male parti, e a cui chiede da ultimo di voler procacciare egli stesso quella ritrattazione con purgar le profane rime da ogni ozioso parlare e trasformare lui di poeta in teologo. Il frate si sgomenta, che non gli sembra impresa da pigliare a gabbo; ma il buon Petrarca che non vede l’ora di uscirsene di colà per volare in paradiso, lo conforta, lo inanima, e per farlo al tutto risolvere gli promette che il suo stesso angelo custode gli suggerirà tutti i nuovi e buoni concetti che egli, il poeta, già da tempo è venuto preparando in quella solitudine per ridursi spirituale. Vinto da tante ragioni, il frate accetta il delicato officio, non senza tuttavia esprimere il dubbio che il Petrarca teologo non sia per avere tanti ammiratori quanti il Petrarca poeta, nè senza lamentare la molta tristizia dei tempi: il poeta ringrazia, e i due, datasi la posta in paradiso si separano.
Io non istarò ora a dar minuto ragguaglio del libro, che sarebbe abusar troppo della pazienza dei lettori. Dirò solo che il travestimento è tale da far tenere per certissimo che il poeta fu senz’altro prosciolto da quella sua pena. Basti dire, per attenerci a pochi esempii, che Cupido si trasforma in Padre Eterno e in Gesù, Stefano Colonna similmente in Gesù, Laura in Maria, in Dio Padre, in Gesù, in morte, in anima, nella carne che dà noja al poeta e non so in che altro.
Il nuovo Canzoniere è diviso in due parti: nella prima sono i sonetti, nella seconda le canzoni e le altre rime, [84] che l’autore schiettamente confessa avergli data assai più fatica che non i sonetti. Lo spiritualizzamento essendo stato operato con i proprii concetti del Petrarca, e mercè l’ajuto dell’angelo suo custode, non poteva riuscire se non di piena soddisfazione del Petrarca stesso, il quale, in fatto, in un apposito sonetto a gli animi gentili, dice che le sue rime così purgate torneranno assai più di prima accette a chi è in grado di pigliare il ver diletto e non più l’ombra; e in altro sonetto, dove la discorre con un critico, dice anche più. Questo merita d’esser riportato per intero:
Critico. Petrarca, ond’è che vai sì altero e molto
Allegro in faccia più che per addietro?
Petrarca. Non sai che il core uman, sia chiaro o tetro.
Sua qualità fuor pinge a l’uom nel volto?
Critico. Conosco ciò; ma dimmi, ond’hai raccolto
Spirto di sì gioconde rime e metro?
Petrarca. Mercè del dotto e saggio Malipetro,
Che d’amor vano e grave error m’ha sciolto.
Critico. Dunque la tua soave e dolce lira
Più Laura non risona?
Petrarca. Non già certo.
Critico. Che poi?
Petrarca. Il sommo ben che mi dà vita.
Critico. Felice tu, che impresa sì delira
Lasciasti, ed hai a Cristo il canto offerto,
Onde fia eterna tua Musa gradita.
E in un ultimo sonetto non so qual Francesco Prierio loda il frate d’aver purgato il Canzoniere meglio che non purgasse d’ogni ria feccia il Pantheon papa Bonifacio, quando, toltolo al culto degli idoli, lo consacrò a Maria. Finalmente, nel tergo dell’ultima carta, fa capolino ancora una volta il frate dabbene, e dice che, mercè la divina grazia, egli ha composto il suo Petrarca spirituale a comune utilità de’ Mortali, si sottomette in [85] tutto alla determinazione della santa madre Chiesa, e raccomanda a chi legge la emendazion degli errori commessi nel veloce corso degli impressori.
La Chiesa che ormai cominciava a fare il viso burbero, e che, dopo la lunga carnascialata degli anni precedenti, sentiva il bisogno di un po’ di quaresima, gradì e favorì l’opera del ben intenzionato frate. La poesia del Petrarca cominciava a putire alla madre spirituale in via di ravvedimento, e gl’imitatori non godettero più la grazia di prima. Nel 1547, morto appena il Bembo, si cercò d’impedire in ogni modo che si facesse in Roma una ristampa del suo Canzoniere, e anzi si tentò di far condannare il libro, tentativo ripetuto poi nel 1585. Un’anima pietosa lo tolse sotto la sua protezione e lo spiritualizzò[118]. Ma anche gli spiritualizzamenti non erano senza pericolo: il Dialogo già ricordato di Feliciano Umbruno fu proibito dal Concilio di Trento.
Intanto venivano a poco a poco mutando anche i gusti letterarii. Il secentismo batteva alle porte con nuovi ideali, con una poetica che escludeva in modo assoluto l’imitazione, e che ben può compendiarsi in quei due versi del Marini:
È del poeta il fin la meraviglia;
Chi non sa far stupir vada alla striglia.
Durante tutto quasi il Seicento, il Petrarca è dimenticato; poi, con l’Arcadia, si rinnovella il suo culto. L’Italia è invasa da un nuovo popolo di petrarchisti, allagata da un nuovo mare di sonetti, di canzoni, di madrigali e di sestine; ma i nuovi imitatori, conciati come tutti sanno dalla frusta del Baretti, derisi dal Goldoni nel Poeta fanatico, non son da più degli antichi, [86] anzi da meno assai, e, alludendo così agli uni come agli altri, ben diceva quella virile e sdegnosa anima dell’Alfieri:
So che in numero spessi e in stil non rari
Piovon tuttor dalle italiane penne
Lunghi e freddi sospir d’amor volgari,
Per cui da Laura in poi niun fama ottenne.
Cattivi versi, ma ottima sentenza.
[87]
[89]
Sono ormai tre secoli e mezzo che sul dosso di Pietro Aretino si suona a doppio e a distesa. Critici, storici, politici, moralisti, uomini di largo e di angusto pensare, progressisti e retrogradi, gli si avventarono contro con la medesima furia, e con lo stesso deliberato proposito di non dargli quartiere. Non c’è accusa, invettiva, contumelia che non gli sia stata gettata in capo; non colpa e bruttura che non gli sia stata apposta. Il suo nome è nome d’infamia, simbolo di turpitudine e di scelleratezza: Francesco De Sanctis, che pur ebbe tanto intelletto di umanità, disse che un uomo ben educato non pronunzierebbe quel nome innanzi a una donna[119].
I più degli storici della nostra letteratura, anche recentissimi, ne parlano con palese o mal celato ribrezzo, quasi scusandosene col lettore, e perchè qualche cosa bisogna pur dirne; ma ripetute quelle quattro notizie più divulgate, confermati alla lesta i giudizii già le molte volte pronunziati, passan oltre di corsa, spolverandosi i panni e sputando, come se avessero dato di [90] petto in un ammorbato. E in verità che un gran dubbio entra nell’animo non la critica sia cosa di là da venire, o piuttosto sogno di alcuni spiriti travagliati, quando si ode il buono e liberale Settembrini, dopo aver chiamato l’Aretino sozzo e sfacciato impostore, e con forma più spiccia un furfante, esclamare: Per me io non credo ciò che l’Aretino scrisse di sè, nè ciò che altri scrisse di lui,... nè voglio indagare quello che potrebb’essere vero e quello che potrebb’essere falso[120]. Ma che giustizia è mai questa, che nega di fare per l’Aretino ciò che suol farsi per ogni più tristo e più vile ribaldo, scernere di tra le molte imputazioni ed accuse le vere dalle false? E voi come fate a narrare la sua vita, se non credete nè a ciò che egli scrisse di sè, nè a ciò che altri scrisse di lui?
Ultimamente il Virgili, in un libro per molti rispetti pregevole, volendo ad ogni modo levar sugli altari Francesco Berni[121], cercò di accrescere infamia quanta più potè all’Aretino, e ci si adoperò in guisa da far venire a lui stesso il sospetto che quella che a lui pareva storia ad altri potesse parere romanzo. Ma l’eccesso provoca naturalmente l’eccesso, e perciò non è da meravigliare se, or son pochi anni, il signor Giorgio Sinigaglia venne fuori con un volume[122] per molte ragioni men che mediocre, ma pure non mancante di qualche pregio, almeno d’intenzione, dove Pietro Aretino è dipinto, non solamente come un grande uomo, ma come un galantuomo ancora.
Il lettore si avvede che non è mio proposito passare [91] in rassegna e discutere le opinioni svariate e i giudizii non sempre concordi degli infiniti che ebbero a scrivere di Pietro Aretino. A far ciò non basterebbe un volume. Io prendo le mosse dal giudizio più comune e più ripetuto; dal giudizio che ha fermato i caratteri dell’uomo nel concetto della gente colta; dal giudizio tradizionale e consuetudinario che ha fatto dell’Aretino il maestro e l’apostolo di tutte le corruzioni e un pessimo scellerato, negandogli in pari tempo ogni merito di scrittore; e cerco se non si possa riuscire a un giudizio meno assoluto, cioè più equo. Perchè, in verità, mi pare che nel processo fatto al gran reprobo non si sia tenuto conto di molte cose, e non sempre si sieno osservate le debite norme, e che la condanna si risenta troppo della mala procedura. Io non faccio qui l’avvocato, e non intendo punto mostrare, a furia di cavillosi argomenti, che l’Aretino è il contrario di ciò che comunemente si crede. Io faccio lo storico e il critico, ed è tutt’altro il mio scopo. Riconosco fondate in molta parte le accuse a lui mosse; e non voglio menomamente celare o travisare le sue molte poltronerie. Sì certo; egli è avido, insolente, servile, bugiardo, scostumato e svergognato; ma ha pure alcune qualità buone da opporre a queste pessime; e poi il mancamento, considerato in sè stesso, non dà la misura esatta della colpa. Noi abbiamo ora un concetto della imputabilità assai diverso da quello che si ebbe in passato, e non ci sembra di poter recare di un fatto e di un uomo giusto giudizio, se non consideriamo infinite cose che sono intorno a quel fatto e a quell’uomo, più o meno strettamente congiunte con essi; e abbiamo ormai della legge universale di causalità un concetto così prepotente che subito dal particolare vogliamo assorgere al generale.
Ciò premesso, non credo inutile nè inopportuno rivedere un poco il processo di Pietro Aretino, e cercare se [92] meriti conferma, o se voglia essere in tutto o in parte riformato il comune giudizio che uno storico tedesco chiuse e condensò in una frase unica, chiamando il gran reo il Cesare Borgia della letteratura.
A tal fine bisogna che noi vediamo:
1º che c’è di vero in certi racconti che in un modo o in un altro arrecano infamia all’Aretino;
2º qual è l’indole morale di lui, quali sono i caratteri e le ragioni della sua tristizia;
3º qual è il carattere e il valore di lui come scrittore.
Che intorno a Pietro Aretino s’è formata una specie di leggenda, si vede subito, appena si confrontan fra loro i racconti varii della sua vita e si notano le contraddizioni. E tutto favoriva, a dir vero, la formazione di sì fatta leggenda: la fortuna grande e quasi inesplicabile dell’uomo; il mal animo di chi procacciava sfogo all’invidia denigrando e mentendo; il sacro orrore delle anime timorate, che ingigantiva, come sempre suol fare, la perversità di lui, e inconsciamente le conferiva quant’era mestieri perchè riuscisse piena ed intera. Non si dimentichi che gli uomini, in ogni tempo, ebbero bisogno, come di tipi di santità, così di tipi di scelleraggine.
L’Aretino stesso in parecchie sue lettere si lagna dei molti invidiosi che dicevano di lui cose non vere, e gli attribuivano scritti a cui non aveva tampoco pensato, e discorsi che non aveva neppure sognati; si lagna più particolarmente di certi cortigianuzzi che si dilettavano di soffiare nel fuoco[123]. Alcuni di costoro erano forse in buona fede; argomentavano da ciò ch’egli avrebbe [93] potuto fare il fatto. Così fu che gli si attribuì il troppo famoso opuscolo De tribus impostoribus, attribuito a tant’altri, e così è che il Virgili vuole ad ogni modo ch’egli abbia avuto parte nella composizione di certi sciagurati libercoli di Lorenzo Veniero, sebbene questi ne rivendichi a sè tutto il merito, e sebbene di quella partecipazione non siavi una prova al mondo[124]. Appunto qui noi vediamo la leggenda porre in opera uno dei suoi procedimenti speciali, che consiste in torre agli oscuri per dare agli illustri, a chi viene sempre più campeggiando e prendendo figura nella finzione. Gli è in virtù di tal procedimento che si sono formati gli eroi leggendarii; e come a Carlo Magno fu dato vanto di imprese che altri compierono prima o dopo di lui, così a Pietro Aretino fu dato carico di libri che altri scrisse, non egli.
La leggenda aretinesca, come ogni altra leggenda, prende le mosse dalla nascita dell’eroe, e lo seguita poi, un po’ interrottamente, a dir vero, sino alla morte. Essa si prefigge, innanzi tutto, di dargli vili, o anche sconci ed illegittimi natali, affinchè l’infamia sua cominci col nascere, e appaja, in certo modo, originale e necessaria. Anton Francesco Doni, nel Terremoto, per meglio giustificare la identificazione ch’ei fa dell’Aretino con l’Anticristo, lo dice figlio di un terziario e di una pinzochera; ma anche vilissimo figliuolo d’un ciabattino. Niccolò Franco, in quegli obbrobriosi sonetti che gli compose contro, ora chiama il padre di lui contadino, ora calzolajo. L’autore di quella sconcia Vita che andò già sotto nome del Berni, e non si sa propriamente di chi sia, parla di un padre villano e di una madre schiavona e baldracca. E sulla fede di un così fatto narratore infiniti ripeterono che Pietro Aretino nacque di una [94] Taide di bassa lega. Quanto al padre ci fu chi mise fuori un’altra favola, meno ingiuriosa se vuolsi, ma non meno falsa. Il buon Mazzuchelli[125] si affatica a dimostrare che l’Aretino fu figliuolo naturale di Luigi Bacci, cavaliere d’Arezzo; e prima di lui aveva affermato il medesimo quel dabben uomo, per non dirgli altro, del Crescimbeni, che a sua volta aveva trovata la bella notizia nelle Glorie letterarie di Valdichiana, opera inedita di Jacopo Maria Cenni, rimasa in Napoli, ove l’autore morì[126]. E subito questo padre fu accettato per buono e per autentico da quegli stessi infiniti che dalle mani dell’anonimo libellista avevano accettata la madre. Ora è da notare che il signor Jacopo Maria Cenni morì circa un secolo e mezzo dopo l’Aretino, e che l’anonimo libellista, il Doni, il Franco, i quali tutti conobbero l’Aretino di persona, del cavaliere Luigi Bacci non dicono verbo, e non ne dice verbo nemmeno un Medoro Nucci, che fu tra i nemici più pericolosi dell’Aretino, e che per essere appunto di Arezzo era in grado di saper certe cose, e non si sarebbe fatto riguardo di dirle. Anche costui fa l’Aretino figliuolo di un calzolajo.
Alessandro Luzio, in un buon lavoro pubblicato non ha molto[127], sbugiardò tutta questa leggenda dei natali dell’Aretino, e sceverò la verità dalle calunnie e dalle favole. Il padre dell’Aretino fu un povero calzolajo per nome Luca; la madre una buona e bella popolana chiamata Tita. Costei, non solo non fu quella svergognata che si volle far credere; ma fu anzi una donna di ottima indole e di onesti costumi, teneramente amata dal [95] figlio, e da lui sempre ricordata con ammirazione ed orgoglio. S’ella fosse stata una prostituta, l’Aretino si sarebbe ben guardato dal parlarne altrui, e non avrebbe chiesto con tanta insistenza, quanta certe lettere dimostrano, copia del ritratto di lei al Vasari; nè il Vasari stesso avrebbe ardito di prenderla a modello per l’immagine della Vergine Annunziata da lui dipinta sopra la porta della chiesa di San Pietro in Arezzo; nè i cittadini d’Arezzo avrebbero certo comportato un tal vituperio. Quanto al padre, l’Aretino lascia scorgere, è vero, di vergognarsene; ma questo suo vergognarsene prova appunto che gli era figliuolo, e toglie ogni probabilità a quella storiella di Luigi Bacci. Se l’Aretino avesse saputo d’esser figlio di costui, o se avesse saputo che tale era reputato da alcuni, non avrebbe mancato di diffondere e di confermare quella opinione, da cui poteva venirgli più onore che biasimo. Giacchè egli, che pure amando svisceratamente le sue figliuole, non si curò mai di legittimarle, adducendo a scusa che le aveva in modo legittimate con l’animo da non richiedersi altra cerimonia, viveva in un secolo poco soggetto agli scrupoli. E come avrebbe egli potuto vergognarsi di essere bastardo, vedendo tutto giorno principi e papi con le masnade dei bastardi intorno, e bastardi salire ai supremi onori e sedere in trono? Certo egli si sarebbe trovato in assai numerosa compagnia, e avrebbe potuto con miglior animo e più sicurezza esprimere quel giudizio a lui caro, che difficilmente e di rado opera cose degne nel mondo chi è di origine abietta.
Ma se nulla di vero c’è nella leggenda dei genitori dell’Aretino, vediamo se alcun che di vero ci sia, o almen di probabile, in quanto si narrò di altre persone della sua famiglia. Pietro non fu il solo figlio di Luca e di Tita; egli ebbe alcune sorelle, almeno due; di fratelli non è ricordo. Ora, verso queste sorelle, la leggenda [96] non fu nè più riguardosa, nè più giusta di quello fosse verso la madre. Francesco Berni, in un sonetto notissimo, e che più altre volte dovrò ricordare, fa menzione di due sorelle che l’Aretino aveva, secondo lui, a grand’onore, nel lupanare della sua città natale. Il Franco, in varii de’ suoi sonetti, parla, quando di una sorella, quando di due, esercitanti il vituperoso mestiere. Che poi molt’altri abbiano ripetuto quelle accuse senza punto curarsi di accertarne la verità, è quasi soverchio avvertire. E sì che non è poi tanto difficile avvedersi della loro falsità. Un primo dubbio già avrebbe dovuto far nascere il fatto della nobiltà e del gonfalonierato conferiti a Pietro da’ suoi concittadini. Per quanto que’ d’Arezzo potessero essere di manica larga, è difficile pensare che volessero, coprendo sè di ridicolo e di vergogna, fare quella dimostrazione ad un uomo le cui sorelle erano state in Arezzo stessa, e forse erano tuttavia, inquiline di postribolo. Ma il vero si è che le due sorelle dell’Aretino, delle quali è memoria, furono entrambe maritate, l’una con un messer Scipione, l’altra con Orazio Vanotti, soldato, e lasciarono, morendo entrambe innanzi all’Aretino, quella due figliuole, questa due maschi gemelli. Della prima l’Aretino ricorda come ardentemente desiderasse di collocare una delle figliuole nel nobile monastero di Santa Caterina in Arezzo, e com’egli si adoperasse per farcela entrare. L’altra morì assai giovane, di puerperio, nel 1542, ed è quella stessa che, essendo ancora zitella, nel 1536 fu inchinata dal duca Alessandro de’ Medici, di passaggio per Arezzo, come gloriando ricorda pur l’Aretino in una lettera di quell’anno medesimo scritta a esso duca[128]. Certo, non mancano nemmeno in quel secolo esempii di prostitute che attendono al mestiere pur essendo maritate; ma [97] questi esempii occorrono di solito fra le cortigiane propriamente dette, che vivono libere, non fra le meretrici di bassa mano raccolte nei lupanari. Ora, nel 1536, la seconda sorella di Pietro era ancora in casa, come si ha dalla lettera suddetta, e certamente non faceva la prostituta. Come credere, in fatti, che Alessandro de’ Medici, per poco schizzinoso che fosse in materia di onestà e di decoro, volesse ossequiare pubblicamente una sgualdrina? E come credere, d’altra parte, che le nobili religiose di Santa Caterina volessero accogliere nel loro monastero la figliuola di una donna, non solo di bassa condizione, ma infame? Tutte le prove dunque del meretricio di quelle due sorelle consistono in alcuni versi del Berni e del Franco, entrambi nemici acerrimi dell’Aretino, e l’un di essi, il secondo, a causa della velenosa sua lingua, impiccato per la gola. Confessiamo che in qualsivoglia giudizio le affermazioni di testi così sospetti non sarebbero accolte se non con grande riserbo, e che diedero saggio di molta leggerezza, per non dir peggio, coloro che senza più le gabellarono per veridiche e per sicure. Aggiungiamo che essi mostrano di conoscere assai poco e assai male l’Aretino, se credono che un uomo come lui, così abile a trar vantaggio di tutto, a riunire e coordinare tutti gli elementi del successo, potesse commettere il grossolano, l’incredibile sproposito, di lasciare le sorelle sue in una condizione da cui a lui stesso non poteva ridondare che discredito e infamia. Questo sproposito l’Aretino non lo commise. Noi lo vediamo adoperarsi con ogni impegno, ricorrere a tutte l’arti ond’era maestro, per mettere insieme un po’ di dote alla sua sorella più giovane: qualora egli non avesse ciò fatto per semplice ragione d’amor fraterno, certo l’avrebbe fatto per accorgimento d’uomo che ha una condizione e una riputazione da conservare.
Che cosa rimane dunque di tutta questa leggenda obbrobriosa [98] che nemici arrabbiati e libellisti senza nome fabbricarono intorno alla nascita e alla famiglia di Pietro Aretino? Nulla di nulla, o solo una prova della malignità o dell’errore loro. Vediamo se si possa prestar più fede ad altri racconti che tutti, quali in un modo, quali in un altro, tendono sempre a quel medesimo fine di screditare, di svergognare l’Aretino. Io non affermo già che alcune delle cose che vi si narrano non possano anche esser vere; ma dico che in generale quei racconti sono, o per una o per un’altra ragione, tali da destare grave sospetto, e da non poter essere ricevuti per veri finchè non sieno suffragati da più sicure prove. Un tribunale non li accoglierebbe che a titolo di semplice informazione.
Si dice che l’Aretino, quasi fanciullo ancora, dovette fuggirsene dalla patria per certo sonetto da lui composto contro le indulgenze. Ciò dovrebbe provare come, sino dai più teneri anni, fosse stata in lui quell’indole maligna e insolente di cui s’ebbero poscia a vedere gli effetti. Ma chi è che lo dice? Gerolamo Muzio, suo nemico mortale. E quando lo dice? Quando importa far credere al mondo che l’Aretino, oltre ad essere una sentina di vizii, è anche un miscredente o un eretico. La stessa intenzione appare in un’altra storiella, ove è detto, che avendo l’Aretino, in Perugia, veduta nella pubblica piazza una pittura che rappresentava Maria Maddalena a’ piè di Cristo, con le braccia aperte, andatovi di nascosto, dipinse tra quelle braccia un liuto. Ma tale storiella non ha più antico narratore di Carlo Caporali, che visse un secolo dopo l’Aretino, e non dice d’onde l’abbia tratta. Entrambi i racconti sono poi in contraddizione diretta coi modi che l’Aretino serbò tutto il tempo di vita sua in materia di religione.
Uno dei fatti più spesso ricordati e più universalmente tenuti per veri, è che l’Aretino fosse alcun tempo legatore [99] di libri in Perugia, e ogni suo sapere acquistasse in quell’esercizio, con occasione di vedere e leggicchiare le carte che andava cucendo. Ma ciò si trova affermato la prima volta in una nota al già citato sonetto del Berni, nella stampa vicentina del 1609: e con quale scopo si trova affermato? Con quello evidentemente di dare alla coltura dell’Aretino, qual ch’ella si fosse, una origine in tutto umile e fortuita, e d’ispirarne altrui un assai povero concetto.
Andiamo innanzi.
Nel libello anonimo già ricordato si narra che l’Aretino dovette lasciare la casa di Agostino Chigi, il ricchissimo e munificentissimo banchiere senese, per avervi rubato una tazza d’argento. Ora, nè il Berni, nè il Franco, nè il Doni, nè altri sanno nulla di questa tazza; chè se qualche cosa ne avessero saputo, non avrebbero mancato di aggiungere ai molti titoli vituperosi che gli dànno anche quello di ladro. Del resto, questo del rubare non era vizio che potesse facilmente accordarsi con certe qualità, buone o cattive che fossero, dell’Aretino, il quale fu egli sì molte volte rubato e da chi più godeva della sua fiducia. Inoltre egli non lascia occasione di levare a cielo il Chigi, ricordandone la umanità e la larghezza, il che non avrebbe certamente fatto, anzi avrebbe in tutto taciuto di lui, se ne fosse stato cacciato di casa per ladro.
E molt’altre cose si narrano in quella Vita: che, sendo d’anni diciotto circa, si fe’ cerretano, e andossene in Lombardia, e cantò in banca a Vicenza, avendo compagno in tal mestiere un certo Calcagno; che poi s’acconciò per garzone con un oste in Bologna; che stanco di fare il garzone, si rese frate in un convento di Ravenna; che toltosi anche di là, si mise per mezzano, per pazzo e per buffone con Leone X, ed ebbe compagni altri mezzani, altri pazzi e buffoni, e alcuna volta si adoperò a [100] voltar lo spiedo in cucina; che si acconciò, dopo, per istaffiere con Giovanni de’ Medici, il gran capitano; che morto costui, se ne tornò a Roma, e servì Clemente di quello che prima aveva servito Leone; che dopo il famoso sacco, e dopo un certo scherzo che ebbe a patire dagli Spagnuoli, se ne andò, truffato un Ferrarese, a Venezia, ecc. ecc. L’anonimo autore dice aver udito narrar tali cose, parte a Niccolò Franco, e parte al Marcolini, il famoso stampatore, compare dell’Aretino; ma quanto al Franco mente di certo, perchè costui, se le avesse sapute, non avrebbe mancato di metterne qualcuna in quei suoi sonetti, che pur sono più centinaja. Aggiungasi che nè il Berni, nè il Doni ne fanno ricordo.
Molte altre cose racconta l’autor della Vita, alcune delle quali di tanta turpitudine che non si possono nemmeno accennare, e tali che appena avrebbe potuto risaperle chi sempre fosse stato alle calcagna di Pietro e avesse fatto vita con lui; altre di tal qualità che mostrano l’indole bugiarda di tutto il racconto. Così egli dice che la madre di lui, la notte innanzi al parto, sognò un otre di vino; che compiuti appena i cinque anni, il fanciullo si mise a studiare la Maccaronea di Merlin Coccajo, nel qual caso questi avrebbe dovuto egli stesso comporla in età di cinque o sei anni; che essendogli stati posti dinanzi Virgilio e il Petrarca da un canto e la Regina Ancroja e gli Amori di Luciano dall’altro, egli tolse questi e lasciò quelli; che fatto altro simile esperimento con rame, argento ed oro, egli acchiappò l’oro alla bella prima. Poi gli attribuisce certi strani componimenti, e fra gli altri alcune pappolate e cantafere che lo stesso Aretino, nella commedia La Cortegiana, fa gridare da un furfante che vende istorie, e cioè; la guerra del Turco in Ungheria, le prediche di Fra Martino, il Concilio, la cosa d’Inghilterra, la pompa del Papa e dell’Imperadore, la circumcisione del Vaivoda, [101] il sacco di Roma, l’assedio di Fiorenza, lo abboccamento di Marsilia[129]; e poi ancora l’istoria del becco all’oca, che si ha inserita nel Mambriano del Cieco da Ferrara, e la novella di Biancofiore, rubata al Boccaccio. Per mostrare del resto quanto l’autore si curasse di esser veridico, basta avvertire ch’egli fa dire al Berni la vita dell’Aretino potersi facilmente comprendere in quella commedia, e al Mauro, l’altro interlocutore del dialogo, che l’Aretino sarà stato tutto quello che in detta commedia dice di sè stesso il Rosso ad Alvigia: frate, garzone di oste, giudeo, alla gabella, mulattiere, compagno del bargello, in galera, mugnajo, corriere, mezzano, cerretano, furfante, famiglio degli scolari, servitor dei cortigiani, il diavol e peggio. La storia di Lazarillo di Tormes!
Sarebbe fatica sprecata voler mostrare la poca consistenza e la minore credibilità di tutto il racconto dell’anonimo diffamatore; ma non sarà fuor di luogo far vedere con un pajo di esempii come egli alteri i fatti e mentisca. Primo esempio: egli dice che l’Aretino servì Clemente di quello che prima avea servito Leone, cioè di mezzano, di buffone e di pazzo, lasciando intendere con ciò che assai vile era la condizione sua in corte del pontefice. Ora, certe lettere scritte dal duca di Mantova all’Aretino, e dall’agente di Mantova in Roma a esso duca, lettere uscite dall’Archivio Gonzaga, e su cui non può cader dubbio di alterazione[130], provano che l’Aretino in corte del pontefice godeva di molta considerazione, e molto poteva sull’animo del pontefice stesso. Secondo esempio, che serve anche contro il Doni. Dice l’autor della Vita: «Scrisse al Duca di Ferrara il poeta [102] chiedendo denari: non volse Ercole che un furfante si vantasse che un Signore si degnasse di lui: ebbe a male il poeta e scrisse del Duca. Ercole il seppe e tenne uomini per ammazzarlo a Venezia. Non successe tal cosa perchè egli stava serrato in casa, parte per questo, parte per debiti». «Onde deriva che il Duca di Ferrara vive con tanta quiete? Perchè non vi dona», dice messer Antonfrancesco nel Terremoto, e afferma inoltre che il Duca lo fece sacchettare di santa ragione. Ma mente egli e mente l’anonimo, e della menzogna d’entrambi ci sono le prove autentiche e chiare. A più riprese il Duca fece all’Aretino regali; e troviamo ricordo di una veste di raso nero assai pomposa, di un anello con un diamante, di cinquanta scudi d’oro, di altri cento scudi d’oro, di una coppa d’argento dorato, di due altre vesti assai ricche; nè gli donò solamente, ma gli si fece ancora raccomandare dal proprio segretario Bonleo, il quale scriveva al Divino di non porgere orecchio a chi gli dicesse male del Duca[131].
Tralascio altre accuse, o di minor rilievo, o in tutto generiche, e vengo a quanto fu narrato, creduto, ripetuto e ammesso universalmente per certissima verità circa la morte dell’Aretino. Questa storia è nota a tutti. Un giorno, l’Aretino, udendo narrare non so che fatti di quelle sue sorelle meretrici, preso da un irrefrenabile impeto di riso, e arrovesciatosi, per ridere più spappolatamente, sulla scranna che lo reggeva, cadde allo indietro, e percosso il capo in terra, rimase morto sul colpo. La fine parve degna dei principii e di tutta intera la vita dell’uomo nefando, incontrò il gusto del pubblico, ebbe conferma dai moralisti, fu rinarrata in novella [103] e rappresentata in pittura. Ma chi è il primo che parli di sì fatta morte? Un Antonio Lorenzini, fiorito sul principio del secolo decimosettimo. Si vede subito di quali elementi, in virtù di quali suggestioni la leggenda siasi formata. Bisognava che l’ultimo atto dell’Aretino sulla scena del mondo confermasse quella vita tutta di turpitudini, anzi, in certo modo la epilogasse e concludesse come nell’ultima pagina si epiloga e si conclude un libro. E certo non si poteva immaginare favola che meglio mostrasse in breve la infamia della famiglia dell’Aretino, il cinismo di lui, e la giustizia e congruenza della punizione. A taluno parve che l’Aretino non si dovesse lasciar morire a quel modo, senza fargli dire qualche cosa che provasse l’empietà di lui, come il fatto provava la svergognatezza; e così alla favola principale si attaccò un po’ di coda, e si disse che lo scelleratissimo uomo non morì subito subito, e che ricevuta la estrema unzione, profferì un’ultima bestemmia, dicendo:
Guardatemi da’ topi or che son unto.
La leggenda, dico, era formata ingegnosamente e tale da ottenere universale credenza, tanto più che in essa c’era, come vedremo, una parte di vero: ciò nondimeno non potè fare che altre leggende non nascessero. Qualcuno ci fu che lo volle morto di apoplessia[132], forse come morte conveniente a una vita di stravizii; ma altri pure ci fu che non si contentò nè di una morte naturale, nè di una morte violenta, ma fortuita. Non meritava l’Aretino di morire impiccato? ebbene, egli morì impiccato. Così almeno racconta in un suo sermone [104] latino Michele de l’Hôpital, il famoso cancelliere di Francia[133]. Non dimentichiamo che tal morte era stata, in certo modo, profetizzata dal Berni all’Aretino e che le profezie fanno venire altrui la voglia di vederle avverate. Il Berni ebbe anche a toccare di certo squartamento che sarebbe seguito alla impiccagione; ma l’autor della favola, non s’intende perchè, non volle profittarne. Doveva essere persona discreta.
Ora si sa come morì l’Aretino, e tutte le leggende si dileguano dinanzi al documento irrefragabile che porge di quella morte autentico e preciso ragguaglio. È questo un certificato di Pietro Paolo Demetrio, parroco di S. Luca in Venezia, il quale attesta d’aver sepolto cristianamente l’Aretino in quella chiesa, e dice che questi morì di morte subitanea, cadendo da una sedia a bracciuoli, e che il giovedì santo, avanti che finisse gli ultimi suoi giorni, si confessò e comunicò, piangendo lui estremamente, come, dice il buon prete, vidi io stesso[134]. Tale dichiarazione fu fatta dal parroco venticinque anni dopo la morte di Pietro, nel 1581, e a richiesta di un Domenico Nardi da Reggio, il quale probabilmente l’avrà domandata per imporre con essa silenzio alle vituperose dicerie. Giova notare che il certificato fu fatto con intervento di notajo e che non gli manca nemmeno la convalidazione ducale. Ciò che in esso si dice della caduta da una sedia, raccostato a quanto l’Aretino racconta in certo luogo di sè stesso, dicendo che era suo costume di arrovesciarsi indietro ogni qualvolta rideva di gusto, mostra come possa esser nata la leggenda principale circa il modo della sua morte. La fantasia supplì le sorelle [105] meretrici, prendendole dal sonetto del Berni e da quelli del Franco.
La leggenda dell’Aretino, bugiarda per quanto spetta alla nascita, bugiarda per quanto spetta alla morte, è senza alcun dubbio bugiarda per molta altra parte. Questa leggenda, del resto, noi non la conosciamo nemmeno intera. Essa ci apparirebbe di certo assai più estesa, se, come giunsero sino a noi le accuse e le imputazioni del Franco, del Doni, dell’anonimo biografo, così ancora ci fossero giunte quelle di altri nemici e detrattori suoi, per esempio di quel Colvi, che anch’egli andava spargendo vituperii dell’Aretino.
Io non dico già che l’Aretino non possa aver fatto, soprattutto in certi anni più oscuri della sua vita, alcune di quelle cose onde fu accusato, o alcune, almeno, simili a quelle; ma dico che non ci son prove per credere ch’ei le abbia fatte veramente. E aggiungo che gli accusatori suoi, taluno non abbastanza noto, altri troppo noti, altri necessariamente poco o male informati, non meritan fede nè molta nè poca. Chi voglia fare un processo all’Aretino non deve in tal caso tener conto delle testimonianze altrui, ma solo delle confessioni sue proprie, di ciò ch’egli stesso lascia vedere e indovinare di sè.
Veniamo alla seconda parte del giudizio.
Certe accuse fatte all’Aretino sono calunniose e false; altre non è dimostrato che sieno vere. Non è provato, e non è nemmeno probabile, ch’egli abbia rubato, o truffato, o commesso altre di quelle gagliofferie grosse per cui allora, assai più facilmente di ora, si finiva in un fondo di prigione, o si dava a dirittura nel capestro. Ma che per ciò? Egli rimane pur sempre un uomo scellerato e vile, una natura profondamente corrotta, uno di quei [106] mostri che disonorano l’umanità senza però capitar mai sotto al rigor delle leggi. Egli non sarà un delinquente, se si vuole, ma è certo un turpe ribaldo. Ed ecco altre accuse ed altre invettive. Udite i testimoni che rosarii recitano. L’Aretino è un furfante, un ignorante, un arrogante, un boja, un prosuntuoso, un porco, un traditore, un mostro infame, un idolo del vituperio, dice il Berni. L’Aretino è un goffo, un bajante, un ribaldo, un ciurmatore, una puttana, un somaro da legnate, una sentina di vizii, dice il Franco. L’Aretino è un poltrone, un bestione, un mariuolo, una carogna, il vitupero degli uomini, la schiuma di tutti i furfanti, il colosso dei goffi, il tagliaborse dei principi, la guida degli asini, il Sardanapalo della gagliofferia, dice il Doni. Sta bene; ma questi sono i testimoni dell’accusa: udiamo un poco anche i testimoni della difesa. Ecco ben altro linguaggio: l’Aretino è divino, divinissimo, non men divino che immortale, umanissimo, eccellentissimo, magnifico, onorando, virtuosissimo, unico, figliuolo della verità, discepolo e miracolo della natura, salute del mondo, gloria del cielo, dicono principi, cardinali, letterati, donne colte e gentili, frati e soldati. Se voi fate il conto, trovate che per un testimone che dice male, ce ne son dieci che dicono bene.
E poi, questi testimoni che dicon male bisogna vederli un po’ più da vicino. Chi sono essi? Prendiamo quei tre che ci sono già comparsi dinanzi, e non ci curiamo d’altri. Il Berni, in complesso, è un brav’uomo, sebbene abbia anch’egli in dosso qualche taccherella, di cui, se si volesse parlare, bisognerebbe parlare a porte chiuse; ma gli altri due sono due lanzichenecchi della penna, due stradiotti della letteratura, niente più onesti dell’Aretino, ma molto meno accorti di lui. Costoro gli erano stati un tempo in casa, e avevano mangiato del suo pane, e s’erano rimpannucciati a sue spese, e finchè durò l’amicizia lo levarono [107] ai sette cieli; rotta poi l’amicizia, per ragioni che qui non accade ricordare, ne fecero, secondo la usanza non mai dismessa dei poltroni, il governo che s’è veduto. Il Berni scaraventava contro l’Aretino quel suo sonetto per far le vendette del datario Giberti, suo padrone, il quale non è poi dimostrato che non avesse qualche torto con l’Aretino; ma gli altri due composero le loro sconce invettive a solo sfogo di animo invelenito, chè non erano nè l’uno nè l’altro uomini da levarsi a campioni disinteressati della offesa moralità e della virtù conculcata. Costoro chiamavano l’Aretino un furfante e avrebbero data l’anima per potersi trovar ne’ suoi panni.
Altri infiniti ebbero, come abbiam veduto, dell’Aretino, tutt’altra opinione. Che vuol dir ciò? Vuol dire che alla generalità degli uomini del suo tempo l’Aretino non parve quel tristo di tre cotte che pare a noi. Ora, una massima mi pare da doversi stabilire anzi tutto: che nessuno, cioè, debba essere giudicato più malvagio di quello ch’ei fu tenuto dall’età sua, quando, ben s’intende, l’età sua abbia avuta di lui giusta ed intera cognizione. Gli è quanto dire che non si vuol giudicare nessuno coi criterii di una moralità o poco o molto diversa da quella comunemente accettata nella società cui egli appartenne, e d’onde solamente potè derivare la norma del suo operare; o se pur si vuole giudicare con quei criterii, non si deve giudicare lui solo, ma con lui la intera società di cui fu membro. Il valore esatto di un uomo non si ha se non quando un tal uomo, si consideri nell’ambiente suo, in mezzo alla vita varia e complessa di cui egli è, al tempo stesso, organo e produzione; giacchè ogni valore è necessariamente relativo. Che direste voi di chi volendo giudicare, poniamo, la figura principale di un quadro storico, togliesse appunto quella figura dal quadro, e si facesse a considerarla separatamente dall’altre figure [108] e dalle cose tutte che il pittore, non senza le sue buone ragioni, gli pose intorno? Direste ch’egli opera malamente, e che il giudizio suo non può non riuscire parziale ed erroneo, giacchè la figura principale forma un tutto con quelle altre figure e con quelle cose ancora, e non la può intendere chi la consideri disgiuntamente da esse, o chi la ponga in altro quadro, in relazione con altre figure e con altre cose. Non meno parziale, non meno erroneo deve riuscire il giudizio di chi toglie l’Aretino dall’ambiente suo, e vuol giudicarlo secondo i principii di una morale che non fu quella dei suoi tempi. Fate campeggiare la figura dell’Aretino, sopra un fondo d’idealità cavalleresca, o di puritanismo anglicano, e la vedrete staccarsene vigorosamente, e vi parrà mostruosa: fatela campeggiare sul fondo del Cinquecento, ch’è il suo, e la vedrete spiccar molto meno, e vi parrà meno brutta d’assai. I contemporanei conobbero l’Aretino quanto noi, anzi, certo, meglio di noi; pure non l’ebbero, generalmente parlando, in quell’orrore in cui noi lo abbiamo. E perchè questo? Perchè i suoi vizii e le sue ribalderie erano cose comuni di quel tempo, erano il portato di quella vita, erano una pece di cui, o poco o molto, tutti si mostravano tinti.
Qui ci sarebbe da entrare in un lungo discorso circa la immoralità del Cinquecento, quella immoralità così intimamente connessa, così compenetrata colla cultura della Rinascenza, che, se l’una non fosse stata, nemmeno l’altra sarebbe stata; ma un tale discorso, quando non si volessero ripetere le cose più note e i giudizii più triti, quando si volesse entrare un po’ nell’esame del come e del perchè, del quando e del quanto, ci trascinerebbe così lontano che il povero Aretino non parrebbe più che un punto perduto in infinito spazio, e non sarebbe troppo agevole tornare a lui. Contentiamoci dunque di riaffermare questa nota verità che il Cinquecento è [109] profondamente immorale, e aggiungiamo che la misura, o se si vuole, la portata della sua immoralità, è data dallo sconfinato spazio che separa la vita reale dall’ideale cristiano, che pur allora si mette innanzi come norma, e come scopo di quella vita. Ogni società che, professando in astratto una certa dottrina morale (sia poi ottima, o non sia, poco importa), non solo rimane molto discosto dalla predicata perfezione, ma opera ancora in piena contraddizione con quella dottrina, è una società profondamente corrotta. E tale è la società del Cinquecento, la società descritta dal Machiavelli e dal Guicciardini.
Facciamoci ora a considerare uno per uno i vizii capitali dell’Aretino, quelli per cui gli si muovono più aspre censure, e vediamo se e come s’attenuino, paragonati con le condizioni generali dei tempi, e tenuto il debito conto delle cause che li producono, e talvolta ancora del fine cui tendono.
Il Doni chiama l’Aretino il tagliaborse dei principi; ma si dimentica di dire che i principi erano i tagliaborse dei popoli. Ad ogni modo, una delle più gravi accuse fatte all’Aretino concerne le arti con le quali egli carpì denari e regali a principi e non principi, e sguazzò tutto il tempo di vita sua, o almeno la miglior parte della vita sua, quella del soggiorno in Venezia. Queste arti, tutte riprovevoli, sono l’adulazione, la diffamazione, la minaccia, lo scherno, la menzogna.
Ma, quando s’è detto ciò, rimangono molt’altre cose da dire. Bisogna ricordare quale fosse la condizione dei letterati in quel secolo XVI, preconizzato il secol d’oro delle lettere. Era, in verità, una condizione assai triste. Ai giorni nostri, chi fa questo benedetto mestiere di scriver libri, camperà forse magramente, ma vive del giusto prezzo delle sue fatiche, ma vive libero, e per poco che s’innalzi sopra il livello comune, almeno in certi paesi, facilmente arricchisce, scrive come vuole e [110] di ciò che vuole, impone i suoi patti all’editore, i suoi gusti e le sue idee al pubblico. Ben altrimenti andava la cosa nel Cinquecento. Nel Cinquecento il libro non aveva, come ha oggidì, un valor commerciale definito, e la proprietà letteraria era poco intesa e meno rispettata. Il letterato non viveva del prezzo dell’opera sua, ma del premio che altri potesse benignamente largirgli, e tal premio riceveva misura assai meno dal proprio merito di lui che dalla liberalità maggiore o minore, incerta e capricciosa del largitore. Il letterato supponeva un mecenate e lo cercava; viveva all’ombra sua e alle sue spese, si faceva mezzo servo e mezzo parassita. Si vedono subito le conseguenze di un tale stato di cose. Vivendo della malsicura munificenza del suo protettore, il letterato doveva continuamente attendere a che la fonte delle largizioni non si seccasse; doveva esercitar l’ingegno, e spesso logorarlo, in una lotta sorda e umiliante, piena di pericoli e di sorprese, nella quale egli si studiava di estorcere quanto più poteva, e il mecenate, di solito un principe, cercava di dare il meno possibile; doveva fare del libro uno strumento e un’arme di quella lotta, piegandolo a mille esigenze estranee al suo pensiero e all’arte sua. Egli diventava necessariamente cortigiano, adulatore e bugiardo; si chiamava poeta, storico, o filosofo, ma era soprattutto un accattone travestito. E nessuno mai potrà dire quanto danno abbia recato alle lettere nel Cinquecento la parassita mendicità dei letterati.
Che poi quella vita fosse assai triste, assai dura, anzi al tutto incomportabile agl’ingegni più nobili, si comprende facilmente: tutti ricordano ciò che ne lasciò scritto l’Ariosto; Torquato Tasso, molto ajutato dalla natura, gli è vero, ci smarrì la ragione.
Ora si avvicinavano i tempi di un grande mutamento, così in questa, come in molte altre cose. Era nata l’arte [111] che doveva redimere lettere e letterati dall’uggioso patronato dei mecenati, e quest’arte era la stampa. La stampa mutava il significato, l’importanza, i destini del libro; essa assicurava, insieme con la base sociale, anche la base economica della letteratura. Ma era questo un grande rivolgimento, e un difficil lavoro, che non poteva compiersi in un giorno. Anche qui bisognava procedere per gradi. Fra la letteratura, chiamiamola così, di servizio, e la letteratura indipendente, ci doveva essere una letteratura intermedia, partecipe dell’una e dell’altra condizione. Fra il letterato che chiede la elemosina e il letterato che mette in vendita il suo libro, ci doveva essere il letterato che impone l’elemosina; e questo letterato fu Pietro Aretino.
Pietro Aretino non era uomo da acconciarsi alla condizione ordinaria dei letterati del suo tempo; l’indole sua, i suoi gusti, non glielo concedevano. Chiamandosi uomo libero per la grazia di Dio, egli dava a conoscere una delle inclinazioni più forti, dirò uno degli istinti di quella sua rigogliosa e mal disciplinata natura, tutta impastata di appetiti voraci. Amò veramente sopra ogni altro bene la libertà, e per amor di lei adorò Venezia, la più libera città d’Italia in quel tempo, e la più ospitale a chiunque non pretendesse ingerirsi nella politica. Non era nato per commisurar la sua vita ai piaceri, o peggio, agli ordini di un padrone; non poteva soffrire d’avere sopra e d’intorno chi gli desse soggezione o fastidio. In quel suo amore di libertà, come in più altre cose sue, c’è molto dell’uomo moderno. Odiava le corti di odio mortale, e mai non si lasciò sfuggire l’occasione di dirne il maggior male che seppe. E che quest’odio non fosse ingiusto provano le infinite voci che d’ogni parte si levano contro di esse. Gabriello Simeoni chiama la corte
Sepoltura e prigion dell’uomo vivo;
[112]
e soggiunge:
Proprio è la corte come una puttana,
Che par bella di fuora, e poscia drento
Parte non ha che si ritrovi sana[135].
Cominciando un suo capitolo intitolato appunto dalla corte, Cesare Caporali dice che in essa
la vita
È registrata al libro della morte[136].
Un altro perugino, Vinciolo Vincioli, prelato e protonotario apostolico, piantata, sul finire del secolo, la Corte di Roma, scrive, pieno l’animo di fastidio e di stizza:
Parmi che in Corte il vivere e il morire
La stessa cosa sia, ed è tutt’una
Il diventar poeta e l’impazzire.
. . . . . . . . . . . . . . . .
Io rassomiglio gentiluomo in Corte
A gentildonna che vive in bordello[137].
Alessandro Allegri, in un capitolo dove sfoga que’ medesimi sentimenti, grida:
Lo star in corte e l’esser ammalato,
Mi pajon come dir frate’ carnali.
Tanto s’agguaglia l’un all’altro stato.
Cento fra prosatori e poeti descrivono la corte come una sentina di vizii, una cloaca d’obbrobrii, un ergastolo di miserie, dove, dice il Garzoni, «i semplici sono beffati, i giusti perseguitati, i presontuosi e gli sfacciati sono favoriti»; dove «van prosperando gli adulatori, i mormoratori, le spie, i referendarii, gli accusatori, [113] i calunniatori, i gaglioffi, i malvagi, le male lingue, i truffatori, gl’inventori de’ mali, i seminatori di zizania, e altra generazione di ribaldi»; dove «gli stupri, i rapimenti, gli adulterii, le fornicazioni, i puttanesimi, le ruffianerie, sono i giuochi e piaceri de’ cortigiani»[138]. Al Sardo, diventato cortigiano, fa dire Lodovico Domenichi in uno de’ suoi dialoghi: «E così Dio mi salvi, che ogni volta che io mi ricordo della mia condizione, non mi par più d’essere nè libero nè uomo, ma della più misera sorte di schiavi che sia al mondo»[139]. Ed era in vero, se non sempre, nella più parte dei casi, una misera condizione e un vile esercizio. Aspettare in anticamera le mezze giornate che il signore si degnasse di far conoscere il voler suo; accompagnare il signore di giorno e di notte, a piedi o a cavallo, dovunque gli piacesse d’andare; correre a staffetta in missione ad ogni minimo cenno di lui; ajutarlo in mille negozii e in mille intrugli; non mangiare se quegli non aveva mangiato, non coricarsi se quegli non s’era coricato; misurare e pesare ogni parola, non dir troppo, nè troppo poco; camminare, starsi, sedere, ridere, gestire, sempre con certa osservanza e certo proposito; schermirsi da mille offese manifeste ed occulte; opporre insidie ad insidie e calunnie a calunnie; non avere un’ora mai di sicurezza e di pace, e, in premio delle molte fatiche sostenute per lui, toccar dal signore canate furiose, cadere subitamente in disgrazia, e vedere dissipate in un giorno le speranze di molti anni; questi erano, con qualche varietà nella misura e nel modo, a seconda dei casi, questi erano gli offici, queste le venture dei miseri cortigiani. Quanti ebbero a trovarsi da ultimo nella [114] condizione di quegli incauti ed improvvidi, de’ quali dice Vittoria Colonna che
ne le gran corti consumando
Il più bel fior de’ lor giovenil anni,
Mentre utile ed onor van ricercando,
Sol ritrovano insidie, oltraggi e danni![140].
I più cauti, o i più alteri, o i men bisognosi, talvolta anche coloro che già erano stati scottati, sapevano starne lontani, e qualcuno vi fu che del suo starne lontano assegnò le ragioni. Invitato ad andarsene in corte di Roma, Gerolamo Fenaruolo rispondeva in un suo capitolo a Vettor Ragazzoni: Che ci farei io, e come potrei durar quella vita?
Io parlo sempre come qui si parla,
E dico pane al pane, e vino al vino,
Senza molto pensier di profumarla.
. . . . . . . . . . . . . . . .
Quando ch’io sudo, voglio dir ch’io sudo,
Quando ch’io tremo, voglio dir ch’io tremo,
E vo’ dir cotto al cotto, e crudo al crudo[141].
Domandato perchè s’ostinasse a rimanere in Provenza e fuggisse le corti, Luigi Alamanni rispondeva nella satira a Tommaso Sertini, ricordando le infinite miserie dei cortigiani, confessando di non saper l’arte che si richiede a salir l’altrui scale, affermando di preferire la pace a quanti onori e agi si possono avere in corte[142].
Nè questi agi erano poi tali e tanti che potessero compensare e consolare della miseria morale, della viltà di [115] quella vita; anzi erano assai scarsi ed incerti. Di regola, i signori, quanto più spendevano e spandevano in pompe, in sollazzi, e nei mille sfoggi con cui cercavano di accrescere a sè medesimi lustro e nominanza, tanto più parsimoniosi e più stretti si mostravano in provvedere ai bisogni di chi li serviva; e se non lesinavano essi, lesinavano per proprio conto e in proprio beneficio i ministri. Certo, come non tutti i signori erano eguali, così non erano eguali tutte le corti; ma se nelle grandi si stava il più delle volte, anche per questo rispetto, assai male, figuriamoci come si dovesse star nelle piccole. Giacchè non è in quel secolo così smilzo signore, non così indebitato cardinale in Roma, che non voglia avere, come allora si dice, la sua famiglia, e se non una corte intera, una mezza corte.
Ogni signor di trenta contadini,
E d’una bicoccuzza usurpar vuole
Le cerimonie dei culti divini,
diceva messer Pietro in un capitolo al re di Francia. I cardinali, per acquistar credito e seguaci, abbisognavano di molti quattrini, e per metterli insieme, lesinavano sul vitto e sull’altre spese. Onde l’Ariosto:
Perciò gli avanzi e le miserie estreme
Fansi, di che la misera famiglia
Vive affamata e grida indarno e freme.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dalle otto oncie per bocca, a mezza libra
Si vien di carne, e al pan di cui la veccia,
Nata con lui, nè il loglio fuor si cribra.
Come la carne e il pan, così la feccia
Del vin si dà, c’ha seco una puntura
Che più mortal non l’ha spiedo nè freccia[143].
[116]
Messer Pietro fa dire il resto a Flaminio nella sua Cortegiana[144], e se pur qualcosa vi manca, Cesare Caporali, che in Roma appunto ebbe a servir cardinali, la supplisce; mentre altri dà ragguaglio di come si mangiava e si vestiva e si alloggiava nelle corti di assai principi, che avevano più reputazione che denari, o più boria che umanità. Ed ecco venir fuori le descrizioni e le dipinture dei non mai abbastanza detestati e maledetti tinelli, dove, tra povere e lorde pareti, intorno a rozzi deschi coperti di tovaglie ricamate d’untume, sedeva promiscuamente una turba affamata, e l’uom di lettere aveva non di rado commensali gli staffieri e i buffoni; dove, quando non fosse già incerconito, si annacquava il vino, si misurava il pan raffermo, la broda di turpi minestre faceva venire il rancico in gola, la vacca tigliosa disarticolava le mandibole e strappava i denti, e le frittate erano di così stremenzita complessione che il vento se le portava a volo. Antonio Cammelli, che d’ogni cosa faceva sonetti, raccontava a un amico gli orrori del tinello:
Cenando, Fedel mio, jersera in corte.
M’apparecchiar Serafino e Galasso
Una tovaglia lavata col grasso
Che mostrava la mensa per le porte.
Poi le vivande che mi furon porte,
Fu l’insalata mal condita, ahi lasso!
Il pan peloso, più duro che sasso;
Filava il vin, per la paura, forte.
La madre di Buezio avvolta a un osso
Mi dieder prima, che del brodo puro
Aveva ancor la cimatura addosso.
Diedi de’ denti su quel cuojo duro,
(L’un era affaticato e l’altro scosso).
Col culo al scanno e con li piedi al muro.
[117]
Allor dissi: — Io non curo
Di questa imbandigion mangiarne troppa.
Ch’io non son uso a pettinare stoppa. —
E poi volsi la groppa
E dissi che chi in corte è destinato;
Se non muor santo si muor disperato[145].
Ora, Pietro Aretino non voleva nè morir santo, nè morir disperato. Non voleva essere uno di quei letterati morti d’inedia, di cui fa ricordo Pierio Valeriano, e nemmeno uno di quei cortigianetti spelatini di cui parla in certa lettera a Gerolamo Agnelli[146]: voleva vivere a modo suo, parlare a suo senno, mangiare a sua posta, scialarla il più possibile, e a monsignor Guidiccione, che l’esortava ad andarsene a Roma, scriveva: «Vorrei piuttosto essere confinato in prigione per dieci anni, che stare in palazzo»[147]. Ricordava certo predicatore che «per non si affaticare in disegnar la Corte, mostrò al popolo l’inferno dipinto»[148]. E chi voglia meglio conoscere l’animo di lui in proposito legga la sua Cortegiana e il suo Ragionamento delle corti.
[118]
Questo è l’inferno da cui l’Aretino volle redimere anzi tutto sè stesso, e da cui pensò forse di redimere a dirittura le lettere col suo esempio. Egli si vanta di aver trovato il segreto per rendere i signori generosi e graziosi, e di avere con le sue braccia aperta ai dotti una strada, per la quale camminando, possono farsi beffe degl’intrighi e delle insidie signorili. «Io ho scritto ciò che ho scritto», dice in una lettera dei 3 d’aprile del 1537 a messer Giannantonio di Foligno, «per grado della virtù la cui gloria era occupata dalle tenebre dell’avarizia dei signori; ed innanzi ch’io cominciassi a lacerargli il nome, i virtuosi mendicavano le oneste comodità della vita, e se alcun pur si riparava dalle molestie della necessità, otteneva ciò come buffone e non come persona di merito; onde la mia penna armata dei suoi terrori ha fatto sì che essi riconoscendosi hanno raccolti i belli intelletti con isforzata cortesia, la quale odiano più che i disagi»[149].
Ma l’Aretino, non solo amava la libertà, amava anche molto, e forse troppo, quelle oneste comodità della vita di cui ragiona nella lettera testè citata, e le quali poi non sempre erano oneste. Madre natura, bisogna dirlo, l’aveva formato per la vita godereccia, moltiplicando in lui gli appetiti, dandogli una salute di ferro, uno stomaco di struzzo, una giocondità imperturbabile, un gusto [119] accorto, un certo senno alla casalinga, e conservandogli intere negli anni più che maturi tutte le vigorie della giovinezza. Dobbiamo confessare che con una complessione fisica e morale come la sua le difficoltà inseparabili dall’esercizio della virtù si accrescono di molto.
E poi non era egli figliuolo del suo secolo? di quel secolo festaiuolo e gaudente che, come un dissoluto, si logorò nei piaceri? di quel secolo inventore di tutte le squisitezze e fastosità? Egli è l’immagine del secol suo, egli ne raccoglie, ne condensa in sè tutte le inclinazioni e tutti i bisogni: e se godere il più che si può era stato sommo ideale di un pontefice come Leone X, qual meraviglia che fosse di un Pietro Aretino? Nato povero e di vile condizione, egli è tutto pieno degl’istinti della grandezza, e loda coloro, che, pur non essendo principi, vivevano come Gerolamo Rovero, «magnificando la pompa del vestire e la splendidezza del mangiare con nuovi modi di nobiltà»[150], e dice che «l’uomo tanto si prolunga la vita quanto adempisce i suoi desiderii»[151]. Perciò buona tavola, casa signorile, belle donne, conversazione piacevole, ricchi panni, sontuose suppellettili, quanto il lusso richiede, quanto san procacciare le arti, erano cose necessarie al suo vivere. E odiava la povertà, non solo per le privazioni che arreca seco, ma ancora per le angustie che pone intorno all’animo, per quella necessità che ne porta seco di misurare ogni atto e ogni pensiero, e di fare dell’aritmetica minuta la legge e la direttrice della vita; necessità così incresciosa a chiunque sia di spiriti un po’ rigogliosi, così grave a lui, che si faceva beffe di coloro «che dan conto a sè stessi di sè»[152]. Noi potremo biasimare l’Aretino per questo suo modo [120] d’essere, ma dovremo riconoscere in lui l’uomo del Rinascimento.
Rifiutando di vivere in corte, l’Aretino non poteva vivere senza le corti, cioè senza i principi; e muovere i principi a dare non era la più facile cosa del mondo. Io sono ben lungi dal voler giustificare le arti adoperate dall’Aretino per conseguire i suoi fini; ma dico, e parmi sia da tenerne conto, che tali arti parevano allora assai meno riprovevoli di quello pajano ora. L’adulazione era allora in tutte le bocche, tanto più gradita quanto più smaccata, e andava non solo da inferiore a superiore, ma ancora da eguale ad eguale. I più onesti nemmen essi sapevano, o potevano tenersene immuni, e basti ricordare, lasciando ogni altro esempio, le lodi che da un Baldassar Castiglione e da un Lodovico Ariosto ebbe il pessimo cardinale Ippolito d’Este. La ciarlataneria dell’Aretino fu grande certo; ma se c’è un secolo, che a rispetto d’altri, meriti d’essere chiamato il secolo dei ciarlatani, il Cinquecento è quello. Un sentimento esagerato del proprio valore, altro portato, come si sa, di quello spirito della Rinascenza, n’è senza dubbio la prima cagione; ma poi ci si aggiungono il bisogno e la concorrenza che fanno il resto. Ed è concorrenza rabbiosa, giacchè i letterati sono molti e non c’è pane per tutti. Chi non si tira innanzi, chi non grida e non magnifica la sua merce, chi non promette più di quanto possa attenere, corre rischio di morirsi di fame. Il Cinquecento è pieno di queste strane figure d’uomini, che, o si vantano di dare altrui la immortalità coi versi, od ostentano una scienza ignota e trascendentale, o propongono certi loro incomprensibili trovati per acquistare con somma facilità ogni dottrina, o vogliono a dirittura riformare il mondo. Di tutto e in tutti i modi si batteva moneta. Luca Gaurico, che l’Aretino chiama profeta dopo il fatto, si buscava, è vero, per le sue predizioni astrologiche, [121] cinque tratti di corda da Giovanni Bentivoglio; ma, in compenso, da papa Paolo III il vescovado di Civitate, con 300 ducati d’oro di rendita, più una buona pensione e non so che altro. L’Aretino si trovava in buona compagnia, e non mi pare che fosse il primo della brigata, egli, che spesso confessò di non sapere le cose che veramente non sapeva, ed erano più che parecchie. Fausto da Longiano, per esempio, e Giulio Camillo Delminio e Ortensio Lando, per non citarne altri, mi pajono assai più ciarlatani di lui. Vero è che Pietro Aretino ebbe come un presentimento di quella più perfetta ciarlataneria moderna, che, con nome fortunatamente non nostro, si chiama réclame. Notabile a tale proposito una lettera da lui scritta al saltimbanco Modenese, dove lo prega di volere, con la naturale eloquenza largitagli dalla natura, «scampanare del suo nome ben bene»[153].
Si fa un gran carico all’Aretino d’avere usato coi principi, quando l’adulazione non giovava, la maldicenza, e di avere estorto pensioni e regali a parecchi, minacciando i furori della sua lingua e della sua penna. Che egli abbia adoperato così, non si può negare; che così abbia ottenuto gran parte della sua reputazione, è certissimo; ma non è il caso di troppo turbarsene, perchè, a dir vero, il giuoco andava da galeotto a marinaro. I costumi e le usanze dei più di quei principi si conoscono anche troppo, e il fare stentare chi li serviva, e il non attenere mai le promesse, non erano certo i loro maggiori difetti. In verità che l’Aretino fece bene a taglieggiarli, e che facesse bene parve allora a moltissimi, e moltissimi il dissero, e fra gli altri il Dolce, che acerbamente lagnandosi, in certo suo capitolo, dell’avarizia dei principi, esclama:
[122]
O Aretino, benedetto voi,
Che vendete li principi al quattrino,
E gli stimate men d’asini e buoi[154].
Da altra banda, dove noi non vediamo se non male, i contemporanei dell’Aretino spesse volte non videro se non bene. Leggasi, di grazia, questo passo del Dialogo della rettorica di Sperone Speroni, dove con altri interlocutori è introdotto il Brocardo, prima che s’inimicasse l’Aretino[155]:
Brocardo. Sia al mondo un buono uomo pien d’eloquenza e d’ingegno; il quale uscito dalla sua patria solo e nudo, quasi un altro Biante, venga a starsi in Bologna: che farà egli dell’arte sua? Se egli accusa o difende; ecco un vile avvocato che vende al vulgo le sue parole: se delibera; non sendo parte della repubblica, i suoi consigli non sono uditi. Tacerà egli, e fia sua vita oziosa? non veramente: ma di continuo con la sua penna nella causa dimostrativa biasimando e lodando, la sua eloquenzia eserciterà. La qual cosa non per odio o per premio, ma per ver dire facendo, in poco tempo non solamente da’ pari suoi, ma da’ signori e da’ regi sarà temuto e stimato.
Soranzo. Questo vostro eloquente (se non m’inganna la simiglianza) è il ritratto dell’Aretino.
Brocardo. Io non nomino alcuno; ma chiunque si è, ei non può esser se non grand’uomo.
Un predicatore, fratello del famoso Fausto da Longiano, giungeva sino a dire «che a voler riformare la nazione umana, la natura e Dio non potrebbe ritrovare mezzo migliore, quanto produrre molti Pietri Aretini».
Del resto bisogna considerare la cosa un po’ più dall’alto, perchè, o io m’inganno, o di ben altro si tratta che della particolare tristizia di messer Pietro. I contemporanei [123] non seppero intendere perchè i principi si mostrassero così benevoli a un uomo che si gloriava di chiamarsi loro flagello, e si facessero suoi tributarii: l’Aretino stesso, probabilmente, non riuscì a darsi pieno conto del fatto; ma noi possiamo intenderlo meglio di loro e di lui. Non vi accorgete che una nuova cosa era nata nel mondo? Francesco I che lo sollecita ad andarsene a stare con lui, Carlo V che se lo fa cavalcare a fianco, Giulio III che lo bacia in viso, gli altri tutti che lo colmano di onori e di doni, non s’inchinano propriamente all’Aretino, ma a quella tal cosa, che ancora non ha nome, e che già fa sentir la sua forza. E qual è questa cosa? Non altro che la libera parola, la quale fissata e moltiplicata mediante la stampa, corre traverso il mondo, sparge novelle e giudizii e crea la pubblicità, punge cuori e intelletti e crea la pubblica opinione, si fa insegna, si fa dottrina, provoca le fruttifere discussioni, inizia i rinnovamenti. I principi sentono in confuso che è sorta di mezzo agli uomini una nuova potenza che può travolgere i troni e spezzare gli scettri, e vengono a patti con lei, e cercano di farsela amica. Nell’Aretino essi riconoscono il suo rappresentante; tristo rappresentante, non nego, ma primo. Valga un esempio. Nel 1536 Francesco I tratta di allearsi col Turco per andare addosso a Carlo V. Che fa messer Pietro, allora molto in grazia dell’imperatore? Scrive al re cristianissimo una lunga e impetuosa lettera, in cui, senza tante cerimonie, gli nega il nome di cristianissimo e di re, gli rinfaccia di chiamare in proprio ajuto barbari ribelli a Dio, lo accusa di aver tirato nel core della Cristianità lo coltello ottomanico, lo avverte che non ci sarà principe cristiano il quale, o per zelo di religione, o per timore dell’armi turchesche, non s’armi almen col core contro di lui. Tal lettera non andava al solo re Francesco, andava a tutti i principi, era divulgata per tutto. E quale effetto doveva [124] recare in un tempo in cui era vivo negli animi il sospetto e minacciosa la vicinanza degli infedeli? Questo, di creare una opinione favorevole all’imperatore, ostile al re. Così appunto il re e l’imperatore la intesero; e questi, senza dubbio, largheggiò più che mai col Divino; quegli gli fè donare e promettere perchè non isparlasse di lui[156].
Ora, se è vero tutto ciò, se è vero quanto afferma Michelangelo Buonarroti, e si vede in cento altri modi confermato, che «i Re e gl’Imperatori avevano per somma grazia che la penna dell’Aretino li nominasse»[157], perchè dovremo noi stimare cosa sì rea che l’Aretino volesse dai principi essere sovvenuto nei suoi bisogni, com’egli li sovveniva nei loro? Certo, in far ciò, egli poco si curava della verità, manco della delicatezza e del decoro; ma, ripeto, aveva a trattare con tali che spesso non valevano più di lui, e, ad ogni modo, non faceva opera diversa da quella di un cattivo giornalista dei tempi nostri che dica e disdica, biasimi e lodi a seconda del tornaconto, senza però credersi meritevole di essere additato alle genti quale mostro di scelleratezza. E fu detto, non senza ragione, che Pietro Aretino è il primo dei giornalisti.
Ma non giornalista soltanto. In pro dei suoi clienti egli sapeva adoperarsi con altro ancora che con la penna; nè sono tutti vantamenti bugiardi i suoi quando parla di maneggi condotti a buon fine, di vantaggi da lui procacciati. In alcune sue lettere il duca di Mantova si loda dei buoni uffizii che l’Aretino gli rendeva in Roma con [125] Clemente VII, buoni uffizii confermati dall’ambasciatore Gonzaga; senza l’ajuto dell’Aretino forse il duca Alessandro non diventava genero di Carlo V.
Un’altra accusa capitale grava sull’Aretino, ed è quella di scostumatezza. La vita sua è descritta come un tessuto di turpitudini; egli stesso è considerato quale il principe e il padre della letteratura disonesta. Anche quest’accusa vuol essere esaminata alquanto.
Scartiamo, anzi tutto, certe imputazioni di vizii nefandi, e scartiamole, non già perchè sia dimostrata la loro falsità, ma perchè, venendo esse da quei biografi appassionati e mendaci, da quei libellisti che abbiam veduto, la verità loro è più che sospetta. E anzi a provarle false senz’altro mi pare che si potrebbe addurre una ragione di cui non fa mestieri essere fisiologo, patologo o altro, per apprezzare il valore: Pietro Aretino amava troppo le donne.
Ma poniamo pure che l’accusa sia vera e confermata da certe cose che l’Aretino stesso dice nella prima e nella seconda edizione del suo Orlandino; sarebbe certo un carico molto grave, ma egli potrebbe consolarsene vedendo quanto grossa brigata s’abbia d’attorno. Haud ignota loquor. La Chiesa scagliava contro il turpe fallo tutti i suoi fulmini, e la giustizia secolare minacciava ai rei nientemeno che il rogo; ma ha pur ragione l’Aretino quando fa dire al Rosso nella Cortegiana[158] che se il fuoco del cielo avesse dovuto cogliere, come in antico, coloro che di quel fallo si dilettavano, tosto il mondo si sarebbe votato di signori e di grandi uomini. E avrebbe potuto soggiungere di parecchie altre sorta di genti. Che fosse vizio comune degli umanisti, non è solo l’Ariosto ad affermarlo[159]; che i cardinali non l’avessero in troppo [126] orrore, non è solo Lutero a dirlo[160]; che Leone X ci cascasse è, credo, una solenne calunnia, ma è calunnia raccolta dal Giovio, vescovo di Nocera, e quel gran letterato che tutti sanno[161]; pel qual vescovo e letterato il Lasca compose il seguente epitafio:
Qui giace Paol Giovio ermafrodito.
Che vuol dire in volgar moglie e marito;
mentre poi il medesimo Lasca non si faceva scrupolo di tessere un capitolo intero in lode delle così dette mele[162]. In un sonetto della sua Priapea, il Franco nota tutti coloro che sono macchiati di quel vizio, il papa, i cardinali, i principi e gli altri. Dicono che Paolo III, udito il giuoco che Pier Luigi, suo figliuolo, aveva fatto al vescovo di Fano, pronunziasse essere stata quella una leggerezza giovanile, e non è provato che sia tutto calunnia, il giuoco del principe e il detto del Pontefice. Alla inclinazione che per quel vizio mostravano i preti accenna nella Calandria il Bibbiena, prete egli stesso; e alla inclinazione che per esso mostravano i frati accenna in un suo innominabile scritto Antonio Vignali, altrimenti detto l’Arsiccio Intronato. Cito costoro, ma altri dieci si potrebbero citare. Dice lo stesso Aretino che i cortigiani dovevano saper essere agenti e pazienti, e che in corte di Mantova tutti odiavano le donne[163]. L’autore dell’anonima [127] Vita fa dire al Mauro che «come alcuno ha punto bel viso, subito se ne corre verso Roma», dove «le bardasse precedono gli uomini dotti, le bardasse sono li patroni, e li virtuosi li schiavi; da tutti sono avute care le bardasse, e trionfano»; cosa confermata dal Brantôme, il quale racconta di un giovane gentiluomo francese, bellissimo, il quale, essendo capitato a Roma, fut regardé d’un si bon oeil, et par si grande admiration de sa beauté, tant des hommes que des femmes, que quasi on l’eust couru à force, et là où ils le sçavoient aller à la messe, ou autre lieu public de congregation, ne failloient ni les uns ni les autres de s’y trouver pour le voir, ecc.»[164]. Ciò avveniva pure in altre città d’Italia e il Garzoni parla «degli sfrontati Ganimedi, che increspano le chiome a guisa di femine, si fanno i ricci politi, e spargono le morbide guance di mille profumi per far correre i galavroni al mele»[165]. Dopo Roma, la peggior reputazione in così fatto argomento l’aveva forse Venezia, dove (lo dice il Sanudo) le meretrici giungevano a lagnarsi col patriarca Antonio Contarini di non poter più vivere, stante la concorrenza; ma in Francia il turpe vizio era comunemente designato col nome di usanza italiana, secondo avverte Benvenuto Cellini[166], che d’averla seguitata fu più d’una volta accusato. E che lunga lista si potrebbe fare di coloro che ne furono o imbrattati a dirittura, o un tantino spruzzati! e con qual meraviglia ci si vedrebbe a canto a Francesco Berni nientemeno che Michelangelo Buonarroti e forse Torquato Tasso! Il Berni, che fu mandato in una badia di monaci Cassinesi nell’Abruzzo, a guarire di certo suo turpe amore[167], [128] chiedeva in un capitolo ad Antonio Dovizi:
Che fate voi de’ paggi che tenete
Voi altri gran maestri, e de’ ragazzi,
Se ne’ bisogni non ve ne valete?
e consigliava:
Attenetevi al vostro ragazzino;
e tesseva un capitolo in lode delle pesche[168]. Michelangelo Buonarroti compose quarantotto epitafii, un madrigale, un sonetto per Cecchino Bracci, giovinetto di apollinea bellezza, morto di diciassette anni, in Roma[169]; e quanto al Tasso, c’è di lui una lettera che dà da pensare non poco[170]. L’usanza è così diffusa che nessuno più se ne vergogna, nessuno si nasconde; anzi se ne parla e se ne scrive comunemente e pubblicamente, come di cosa accetta all’universale, e (giunge a dire il Firenzuola, un prete) di maggior riputazione[171]. Si vergogna forse Giovanantonio Bazzi, il pittor famoso, d’esser cognominato il Sodoma? Veggansi, di grazia, le lodi che di quella usanza di maggior riputazione lasciarono nei lor versi, oltre ai già citati, un Giovanni Della Casa, un Lodovico Dolce, un Andrea Lori, un Curzio da Marignolle, e altri dieci, e altri cinquanta[172]. Certo, non tutti costoro avranno conformato i fatti alle parole; ma le parole, quando altro non provino, provano che nella comune [129] opinione era quello un picciolo peccato, che nulla poteva detrarre alla buona riputazione di un uomo, uno di quei peccati, come dice la Sostrata nella Mandragola del Machiavelli, che se ne vanno con l’acqua benedetta. E l’Aretino ricorda che come punto uno si mostrasse schivo delle donne, si faceva di lui questo giudizio, ch’egli attendesse ad altri amori[173].
La moltiplicità stessa e il rigor delle leggi provano la diffusione del male, che non riuscivano per altro a estirpare. Nel 1518, in Venezia, certo prete Francesco da S. Polo, colto in fallo, fu chiuso in una gabbia di ferro e appeso al campanil di San Marco; sul qual fatto si compose, secondo l’uso dei tempi, un Lamento[174]. Nel 1545 un altro prete, Francesco Fabrizio, vi fu decapitato ed arso[175]. Pio V perseguitò questi peccatori ad oltranza. Paolo Tiepolo, oratore della Repubblica, scriveva da Roma il 20 di luglio del 1566: «Si usa dal Governator di ordine di Sua Santità ogni diligenzia per aver nella mano, e gastigar quei che han usato il brutto vizio della sodomia, onde già alquanti giorni se ne abbrusciò uno in Ponte, e ultimamente ne è stato ritenuto un cittadin romano, assai ricco, con molti altri, che si tengono consapevoli e partecipi delli errori suoi. Onde alquanti gentil’omeni principali di questa città si sono absentati»[176]. Il 2 d’agosto del 1578, Antonio Tiepolo scriveva: «Sono stati presi undeci fra Portughesi e Spagnuoli, [130] i quali adunatisi in una chiesa, ch’è vicina San Giovanni Laterano, facevano alcune lor cerimonie, e con orrenda sceleraggine, bruttando il sacrosanto nome di matrimonio, si maritavano l’un con l’altro, congiongendosi insieme, come marito con moglie. Ventisette si trovavano, e più, insieme il più delle volte, ma questa volta non ne hanno potuto coglier più che undeci, i quali anderanno al fuoco, e come meritano»[177]. Il caso tuttavia più noto e più notabile è quello del famoso Jacopo Bonfadio che, innocente forse, fu decapitato ed arso in Genova, nel 1550. Ma queste erano eccezioni. Di regola i peccatori invecchiavano non disturbati, come il poeta Porcellio, di cui narra il Bandello la curiosa istoria, e il peccato porgeva occasione di detti arguti e di amabili burle[178]. Adriano VI, il bisbetico ed odiato papa fiammingo, aveva fermato il proposito di estirparlo a ogni modo quando lo colse la morte: non so se ne sarebbe venuto a capo; so che avrebbe avuto molto da fare. Se dunque l’Aretino fu reo, fu con altri infiniti, e non dovrebbe per ciò esser fatto segno a un aborrimento particolare; ma io ho già accennata la ragione la quale deve farci stimare più probabile ch’egli, di questo peccato almeno, fosse innocente[179].
[131]
L’Aretino amava molto le donne, e sempre ne aveva una brigata per casa, e, dal suo nome, si chiamavano le Aretine. Ma chi se ne scandalezzava, chi se ne meravigliava? Il concubinato era allora tanto in favore quant’era in discredito il matrimonio. Non era cosa da vergognarsene: il Bembo fece nota al mondo, soavemente petrarcheggiando, la sua Morosina, sul cui sepolcro i poeti d’Italia sparsero lacrime e fiori. L’Aretino non ha punto bisogno di celare altrui le sue Aretine. Veggasi con quanta disinvoltura, con qual sicurezza di non toccar per nulla un soggetto sconveniente, le ricorda in una lettera a Luigi Gonzaga[180]. E più anni dopo egli poteva, senza commettere errore, mandare una di queste sue amiche alla regina di Francia.
Ma veniamo ormai alle opere sconce dell’Aretino: esse formano buona parte della infamia di lui.
A nessuno, credo, può cadere in animo di difenderle; ma, riconosciuto e detto che sono turpi, bisogna subito soggiungere che sono turpi della comun turpitudine. Chiamare l’Aretino il padre della letteratura disonesta è ingiusto e irragionevole, perchè il vero padre non si conosce, e ad ogni modo, nel Cinquecento, i padri sarebbero molti. Si fa un gran romore per quei tristi sonetti con cui egli dichiarò e illustrò certe immagini famose di Giulio Romano; ma troppo facilmente si dimentica che quelle immagini, prima d’essere commentate dal poeta, erano state disegnate da un pittore, incise da un incisore. Lasciate l’Aretino nel suo guazzo, se volete giudicarlo giustamente, e il suo guazzo è il suo secolo. Ora, meravigliarsi della disonestà dell’Aretino quando quella stessa disonestà è tutto intorno a lui, occupa tutti i gradi sociali, ingombra l’aria che si respira, infetta e perverte ogni cosa, a dirittura ha del puerile. [132] Non siam noi nel secolo di quel Leone X che assisteva alla rappresentazione della Calandria, della Mandragola e dei Suppositi? di quel Clemente VII che ascoltava leggere le sconce novelle del Firenzuola e ne premiava l’autore? E già nel secolo precedente non aveva il Poggio composte in corte di Roma le sue Facezie? Certi componimenti del Casa, del Molza, del Caro, del Tansillo, dello stesso reverendissimo Bembo, degl’innumerevoli berneschi, son essi veramente meno sconci di quelli dell’Aretino? Sono più oneste quelle commedie, più pulite quelle novelle? Ma al secolo XVI mancava il senso della decenza. Benvenuto Cellini racconta certi fatti della sua vita di scapestrato con quella semplicità medesima, con quella stessa bonarietà con cui parla di una forma o di un getto. Nelle conversazioni più eleganti e più colte, in presenza di donne e di prelati, non c’era cosa di cui non si parlasse liberamente, e lo provano, per tacere d’altre testimonianze, certi luoghi di un libro onestissimo, il Cortegiano del Castiglione. Le fanciulle stesse udivano impavidamente ogni cosa, e d’ogni cosa parlavano, e non canzona lo Straparola quando, nelle sue Piacevoli notti pone in bocca a certe damigelle oneste e leggiadre novelle ed enimmi da far arrossire un mascheron di fontana. E che cosa si potesse dire e mostrare in pubblico provano i Canti carnascialeschi, provano certe mascherate[181]. E chi vuol [133] sapere che cosa un autor di commedie potesse fare ingozzare al suo uditorio, legga, di grazia, il Prologo del Pedante di Francesco Bello, e se non rece, salute.
E poi siam sempre a quella. Chi si scandalezzava delle composizioni turpi dell’Aretino? Doveva scandalezzarsene il duca di Mantova, che n’era ghiotto? dovevano scandalezzarsene i cardinali di Lorena e di Trento, che, prima l’uno, poi l’altro, accettarono la dedica della Cortegiana? doveva scandalezzarsene il buon popolo bolognese, che alla rappresentazione di questa commedia assisteva nella prima settimana di quaresima del 1537, cosa di cui lo stesso Aretino ebbe a stupire, per essere, com’egli dice, Bologna ancilla de’ preti? dovevano scandalezzarsene le donne torinesi, delle quali scriveva Bernardino Arelio a messer Pietro, a proposito di un vituperoso libercolo di Lorenzo Veniero: «Ah la bella festa che li fanno queste madonne intorno»?[182] doveva scandalezzarsene l’Orfino, accolito e commissario apostolico, il quale, dando notizia a messer Pietro di una rappresentazione dell’oscenissimo Marescalco, fatta in Foligno, lo prega si vogli dignare mandargli qualche altra sua commedia? o il Franco, che le turpitudini aretinesche biasimava nei più turpi sonetti che mai siensi [134] composti? La verità è che nessuno se ne scandalezzava. Quei luridi libri furono la prima volta proibiti, insieme con altri assai, solo nel 1557 e nel 1558, quando, cioè, era già cominciata quella che si suol chiamare reazione o riforma cattolica: prima non sarebbe venuto in mente a nessuno, come non venne in mente a nessuno, o solo a pochissimi, di meravigliarsi che quella stessa penna che aveva scritti i Ragionamenti osasse delineare le vite di Cristo e della Vergine.
Nemmeno per questo rispetto dunque merita l’Aretino d’esser messo in luogo appartato, fuori del suo secolo; nemmeno per questo rispetto è egli quell’uomo tristamente singolare, quel mostro, che si vuol fare di lui[183].
Veniamo ad un’altra accusa mossa all’Aretino, la quale assai più delle altre mi pare sia ingiusta, e mi darà occasione di porre in rilievo alcune qualità commendevoli dell’uomo infame. Sarà l’ultima di ordine morale che dovrò considerare.
[135]
L’Aretino, si dice, è, per giunta al resto, un uomo di animo duro, di natura astiosa e malevola. Ora, a me pare ch’egli sia nel fondo appunto il contrario, e che se diventa cattivo, diventa per le necessità di quel suo tristo mestiere. Non ho bisogno di avvertire che certe pessime qualità possono assai bene andar congiunte con qualche bontà di animo, e qualche bontà di animo mi par di trovare nell’Aretino, la quale certamente non era ne’ suoi avversarii.
Di quella sua malvagità si recano parecchi esempii, fra gli altri la storia dei sonetti feroci ch’egli compose contro il povero Brocardo, e furono, secondo dice egli stesso, cagione della sua morte. A questo vantamento disgraziato è da creder poco, perchè non so se nel mondo siasi mai dato il caso che dei sonetti (i giambi d’Archiloco non erano sonetti) abbiano ammazzato qualcuno, e nel Cinquecento l’invettiva e il vitupero erano armi lecite, o, almeno, comunemente adoperate. Ad ogni modo, altri parecchi si levarono contro il Brocardo con accuse velenose e rabbiose, e in tutto questo imbroglio mi pare faccia assai più brutta figura l’onesto, il contegnoso Bembo, il quale sollecitava l’ajuto della penna dell’Aretino, e si teneva nell’ombra, che non l’Aretino, il quale si poneva a cimento per lui. E morto il Brocardo, il virtuosissimo Bembo non cessò d’odiarlo, mentre lo sciagurato Aretino compose certi sonetti nuovi, in sua lode.
Un altro esempio si cita, ed è quello della guerra fatta al datario Giberti, reputato uno dei più onorati e virtuosi uomini del suo tempo; ma bisogna dire che noi non sappiamo propriamente quali ragioni d’odio ci fossero tra i due, e bisogna soggiungere che non è in tutto levato il dubbio che quelle pugnalate date allo Aretino in Roma dal bolognese Achille della Volta fossero date a conto di esso Giberti, e ricordare che la possibilità di certe vendette poco cristiane è pure accennata dal Berni, [136] là dove dice nel suo sonetto:
Giovammatteo, e gli altri ch’egli ha presso,
Che per grazia di Dio son vivi e sani,
T’affogheranno ancora un dì ’n un cesso.
In quel benedetto Cinquecento anche gli onesti avevano qualche volta di strani ghiribizzi, e la vita di un uomo contava poco in un tempo in cui persino i papi praticavano con tanto buon successo l’assassinio. Io non so poi che l’Aretino si sia mai sbarazzato dei nemici col metodo sbrigativo che usava Benvenuto Cellini, e tutti dicono che Benvenuto Cellini è un grande artista, un po’ turbolento, un po’ stravagante, un po’ scostumato, ma tanto amabile: nessuno dice ch’egli sia un ribaldo e un infame. Il Cinquecento è tra l’altro, a dispetto dei manierati costumi, a dispetto dell’arti fiorite e del Galateo, un secolo di grande efferatezza, un secolo di passioni neroniane, pieno di malfattori mostruosi e di delitti spaventevoli. Se l’Aretino fosse un malvagio nel senso che qui s’intende, sarebbe ancora al suo posto e in buona compagnia; ma egli non è un malvagio.
Sembra strano, a prima giunta, parlare della bontà dell’Aretino, e pure questa bontà c’è, riconosciuta da molti, fra gli altri da Giovanni de’ Medici, che a troppa bontà ascriveva certi dispiaceri incontrati dall’amico suo. Lasciamo stare che l’Aretino osservava le pratiche della religione in cui era cresciuto, e che il suo confessore in Venezia, il buon padre Angelo Testa, si faceva da lui raccomandare al cardinale Santa Croce; lasciamo stare, dico, perchè tenuto conto della qualità del sentimento religioso nel Cinquecento, di che non è da discorrere ora, ciò proverebbe assai poco. Ma la sua bontà si dà a conoscere per altro. L’amore per i congiunti può conciliarsi, è vero, con molta durezza verso gli estranei, ma esso è pur sempre segno e prova di umanità. E l’Aretino [137] amò teneramente la madre, e di amore svisceratissimo le proprie figliuole[184]. Ajutò di buon animo le sorelle, i cognati, i nipoti e si adoperò perchè altri li ajutasse. Che lasciasse languire il padre nella più profonda miseria fu detto, ma fu detto dal Franco, ed è poco probabile, perchè egli ci teneva troppo a non far cosa che potesse attirargli biasimo dai suoi concittadini.
Ma noi abbiamo altre prove della bontà d’animo dell’Aretino. L’uomo stimato pessimo tra i cattivi si rallegrava delle venture altrui, si doleva delle disgrazie: desideroso di godere, gli piaceva che tutti godessero intorno a lui e insieme con lui. Fra le sue lettere ce ne sono moltissime con le quali caldamente raccomanda ad amici e fautori potenti, ora un artista insigne come il Tiziano[185], o Sebastiano del Piombo, ora un povero diavolo mezzo morto di fame, ora un uomo dabbene a cui sia stato fatto un sopruso, o un imprudente capitato in qualche brutto impiccio; e tra le lettere scritte a lui moltissime ce ne sono di gente che si loda e che ringrazia dei buoni uffizii da lui fatti, dei benefizii ricevuti. Era umanissimo con le donne che aveva in casa, ai suoi servigi, e mente il Doni quando dice che minacciando e bravando tutto il giorno egli si faceva tiranno della meschinità loro. Ciò non si sarebbe potuto accordare con la giovialità della sua natura. Leggasi invece la lettera con cui egli richiama in casa una Lucietta, fantesca, la quale se n’era fuggita dopo d’avergli fracassato non so che quantità di stoviglie, e veggasi com’egli piacevolmente si burli della paura di lei, dicendo la sua collera essere più corta che un fumo di [138] paglia, chiamando la casa sua una taverna, dove non si serra il pane e non si adacqua il vino[186]. L’umanità sua si ribellava ai maltrattamenti, anche quando fossero inflitti nel nome della giustizia. Raccomandando al cardinal Santa Croce un povero predicatore perseguitato, egli esclama: «Cristo, per quel che s’intende nell’umanità sua, non lasciò nè prigioni, nè ruote, nè corde, nè fuoco»[187]. Pensiero che a ben pochi allora poteva cadere in mente.
Sentì vivamente l’amicizia e fu pronto ad accoglierne il sentimento nell’anima, il che certo non è proprio delle nature subdole e bieche. Egli stesso si dice facilissimo in donarsi altrui[188], e in certe amicizie si mostra esempio raro di fedeltà e di costanza. Diceva gli amici essere stelle poste nel cielo del corso umano[189], e in molte delle sue lettere esprime con vive parole il fervore che quell’affetto gli metteva nell’animo, le gioje che gli procacciava. E se ebbe amici traditori, che ricambiarono con villanie e con calunnie i suoi benefizii, ebbe amici sinceri e devoti, che lo amarono com’egli li amò. Il Tiziano fu una cosa con lui. Senza di lui Giovanni de’ Medici diceva di non poter vivere. Antonio da Leva gli scriveva avere la sua amicizia più cara di una città. Veronica Gambara gli scriveva: «... ringrazio la fortuna, che per ricompensarmi di tutte le offese per sua gentilezza fin ora fattemi, mi abbia dato la grazia vostra, la qual più estimo che quanti mali e beni possa o voglia mai più darmi»[190]. Che poi, oltre a quello dell’amicizia, [139] l’Aretino potesse ricevere nell’animo altri sentimenti gentili, prova quel suo tenero amore per Perina Riccia[191]; prova la gratitudine lungamente serbata e sovente espressa a Ferraguto de Lazzara, che due volte gli aveva salva la vita; provano altri fatti di cui potrebbe farsi ricordo.
Ma la virtù sua principale fu la liberalità. «Se», scriveva egli al cardinal di Trento, «io potessi tanto dare, quanto mi è forza ricevere, il mio animo mostrerebbe quel ch’egli è, e non ciò ch’ei pare»[192]. In una lettera a Giambattista Castaldo, parlando di certo furto che gli era stato fatto, dice: «Ma Dio lo perdoni a chi assassina me, che do a ognuno quel ch’io ho: per ciò mai niente ho, nè averò, se non cambio vezzo: la qual cosa non è possibile, perchè io ebbi la prodigalità per dota, come la maggior parte degli uomini ha l’avarizia»[193]; e la liberalità chiamava una virtù di natura con arte[194]. A quella sua idolatrata Perina Riccia, che dei molti benefizii, e del grandissimo amore, doveva poi mostrarglisi tanto ingrata, scriveva «che il vedersi manicar l’ossa è il trionfo di una generosa natura e non d’una sontuosa boria»[195]. Dava quattrini a comari, a soldati, a bisognosi d’ogni sorta, e si scusava del poco e del tardi: persin delle vesti si privava a comodo degli amici, e rimaneva «dispogliato in casa i sei e gli otto giorni»[196]. Ad amici e protettori mandava piccoli presenti o grossi donativi, e al duca di Mantova si vantava [140] di aver regalato per più migliaja di scudi[197]. Che assai volte egli facesse ciò con mire interessate non si può negare; ma è ingiusto dire che nol faceva per altro; è ingiusto non tener conto di quella sua prodigalità istintiva, di quelle sue inclinazioni da gran signore che abbiamo già notate, e che gli facevano dire: «A me piacciono i filosofi signorili e pieni di nobili maniere»[198]. La sua casa era un porto di mare, dove capitava ogni specie di gente, soldati male in arnese, pellegrini afflitti, letterati affamati, e ogni sorta di cavalieri erranti. E ciò è confermato dal Doni e da Scipione Ammirato. I servitori cani ci rubavano a man salva. Ad un amico che lo esortava ad essere meno prodigo e a curar meglio gl’interessi, scriveva: «Mai non sarà vero ch’io serri alle turbe quell’osteria che gli è stata aperta 18 anni»[199]. E così spese nel corso di sua vita meglio di 70,000 scudi, grossissima somma a quei tempi.
Ma non si vuole ammettere che l’Aretino potesse far cosa buona; non si vuol credere che sotto a quei panni ch’egli si procacciava col suo tristo mestiere potesse esserci un po’ di cuore. La sua generosità, dice il signor conte Giammaria Mazzuchelli, muove dalla sua ambizione[200]. Leggendo della prodigalità dell’Aretino, ci torna in mente quel marchese Alberto Malaspina, trovatore nostro, che rubava alla strada per aver modo di regalare. Ma l’Aretino fu certamente più onesto di lui. Avendo un servitore del ricco mercante Battista Vitale smarriti in sua casa 300 zecchini, egli li fece restituire prontamente, e non volle di ciò lode alcuna. Quanti, [141] che in cospetto del mondo sono assai meno infami dell’Aretino se li sarebbero tenuti!
Non dovendo l’Aretino, secondo la sentenza dei giudici suoi, avere in sè cosa buona, bisogna che anche l’aspetto abbia del cattivo, sia rivelatore dell’interna tristizia. Dice sì l’Ammirato che difficilmente si sarebbe potuto vedere un vecchio più bello, nè più pomposamente vestito; ma, in verità, egli doveva essere un brutto vecchio, per quanto vestito pomposamente, giacchè il viso è specchio dell’anima. Ed ecco qua, per l’appunto, il ritratto dipinto da quel valentuomo del Tiziano. «Figura di lupo che cerca la preda», esclama Francesco de Sanctis. «L’incisore gli formò la cornice di pelle e gambe di lupo, e la testa del lupo assai simile di struttura sta sopra alla testa dell’uomo»[201]. Pare chiaro, tanto più che lo Chasles aveva già fatto prima la stessa, stessissima osservazione[202]; ma per meglio giudicare di questa somiglianza lupina bisognerebbe confrontare gli altri ritratti dell’Aretino: in quello pubblicato ultimamente dal Sinigaglia è assai più facile riconoscere il satiro che non il lupo[203]. Giova ad ogni modo notare che quello dipinto dal Tiziano non produceva nel Franco l’impressione che sembra produrre nei critici moderni. Il Franco ne parla in parecchi de’ suoi sonetti. In uno, toccando della perfetta somiglianza, dice:
Tutte le sue fattezze son ritratte
Dal vero, così queste, come quelle,
E gli occhi son sì veri e le mascelle,
Che non somiglia tanto il latte al latte.
[142]
E in un altro, volgendosi allo stesso Tiziano:
Però ch’egli è miracolo che un atto
Gli abbiate dato ch’aggia dell’onesto,
E che ne paja savio e modesto,
Nè mostri pur aver sempre del matto.
Onesto, savio, modesto! o dov’è il lupo?
L’Aretino parla volentieri delle proprie virtù, si chiama da sè stesso virtuoso, ed è così chiamato dagli altri. Che vuol dir ciò? È egli un ipocrita che, celando il vero suo essere, si ammanta della virtù che non ha? E quegli altri, sono essi illusi, sono ingannati, che non ben conoscono colui che lodano? Niente affatto. L’Aretino non è un ipocrita, anzi è un grande odiator degli ipocriti. Egli fa ciò che fa, naturalmente, svelatamente; mena vita sbracata e non nasconde il suo giuoco. Un ipocrita non avrebbe mai pubblicati quei sei volumi di lettere in cui egli si mostra intero, sotto tutti gli aspetti. Quanto agli altri, sapevan benissimo con chi avevan da fare. Che cosa dunque vuol dire quel virtuoso? Vuol dire che il Rinascimento s’è formato un nuovo concetto della virtù, un concetto molto diverso dal cristiano, un concetto strettamente legato alle forme e agli ideali di quella coltura. Della virtù cristiana certo si parla e si scrive in quel secolo; ma non è più che un tema retorico: tutti l’ammirano e la lodano, nessuno la pratica. Secondo quel nuovo concetto, virtuoso è chiunque raccolga in sè certa copia di pregi, di attitudini, di maestrie, buone, non a procacciare il paradiso, ma credito e riputazione nel mondo. Perciò l’avvenenza, la grazia, gli amabili portamenti, un ingegno pronto e vivace, una varia dottrina, la destrezza ne’ maneggi, ecc., saranno [143] tutte parti dell’uomo virtuoso. E virtuoso sarà chi riesce eccellente nell’esercizio di alcuna arte, come poesia, pittura, scoltura, architettura, musica. Benvenuto Cellini è un virtuoso. In una lettera a monsignor Guidiccione l’Aretino parla della innata bontà e virtù del Molza. Virtuosi si chiamano anche oggigiorno i cantanti. Come mai non avrebbe dovuto essere un virtuoso l’Aretino?
O quanto io son venuto dicendo sin qui manca affatto di ragionevolezza, o l’Aretino non è quel pessimo scellerato che di lui si vuol fare. Ma poniamo che sia, e vediamo a quale conseguenza si giunga. Il Berni, nel suo sonetto, dice l’Aretino venuto in odio a tutti; ma non dice il vero, perchè l’Aretino ebbe, finchè visse, innumerevoli amici, e tra gl’innumerevoli moltissimi che furono e sono onore d’Italia. Ora bisognerebbe dire che tutti costoro fossero una mala gente, dacchè amavano, accarezzavano, lodavano un così tristo uomo; e cialtroni a dirittura coloro, e non eran pochi, che, come Sperone Speroni, insuperbivano di essere amati da lui; e poco men che sgualdrine le donne, spesso d’alto lignaggio, che lo ringraziavano degli sconci libri da lui ricevuti; e peggio che sgualdrina Veronica Gambara che chiamava avventurosa Angela Serena perchè da lui novellamente amata. E venendo ai protettori, con qual nome bisognerebbe chiamare quei cardinali di Santa Chiesa che lo favorivano e lo raccomandavano al papa? E come si dovrebbe giudicare Clemente VII che, poco dopo il fatto dei sonetti lussuriosi, lo creava cavalier di Rodi? Come Giulio III, che lo baciava in fronte e lo faceva cavalier di San Pietro? Come il duca di Parma, il troppo noto Pier Luigi Farnese, il quale, dopo essere stato da lui vituperato, si adoperava perchè gli dessero il cappello di cardinale? Come Paolo III, padre di esso duca e pontefice, che, per quanto si sa, non fu troppo alieno dal darglielo? Come Carlo V, che se lo faceva [144] cavalcare a fianco, altamente onorandolo? Come la sua città natale, che gli conferiva la nobiltà e il gonfalonierato? Come, in fine, quei principi tutti che lo blandivano, lo adulavano, lo regalavano, se lo strappavano l’uno all’altro, e così facendo nutrivano la tracotanza e la malvagità sua? Non si vede che l’infamia dell’Aretino è infamia di tutti costoro? Ben lo comprese il Franco, che con impareggiabile violenza ingiuria i principi tutti che davano al suo nemico, e sopra tutti ingiuria l’imperatore.
Che pena merteria giusta e spedita
Quel principe gaglioffo che con doni
Contra le leggi gli mantien la vita?
grida egli in uno de’ suoi sonetti. E in un altro:
Se tra voi chi è il più goffo è il più divino,
E se nell’ignoranza fate i calli,
Che gran cosa se date all’Aretino?
I protettori son degni in tutto del protetto. E in verità, di chi s’ha a stimare più vergognoso il procedere, dell’Aretino, che, dopo averlo vituperato, chiedeva scusa a Clemente VII, o di Clemente VII che, dopo quei vituperii, mandava all’Aretino un onorifico breve? E chi più tristo, l’Aretino che vendeva i servigi e le lodi al duca di Mantova, o il duca di Mantova, che impermalito di non so che, minacciava l’Aretino di farlo ammazzare? Ha ragione dunque il Franco quando, in un terzo sonetto, uscendo dai gangheri, esclama:
O sacre maestà, ch’oggi tenete
Il mondo in mano, o principi preclari,
O becchi svergognati quanti sete!
Di questo dilemma non s’esce: o l’Aretino è migliore della sua fama, o della sua infamia sono partecipi infiniti; e in tal caso non c’è ragione di tirar lui solo fuori del mazzo.
[145]
Abbiamo considerato l’Aretino sotto l’aspetto morale; consideriamolo ora sotto l’aspetto letterario. Cerchiamo in lui lo scrittore, vediamo qual sia, e che giudizio si meriti.
Non ho bisogno di dire che anche per questa parte abbondano i dispregi e i biasimi dei critici, e che scarso è il numero di quelli a cui gli scritti dell’Aretino non pajano a dirittura una vergogna della letteratura italiana, e ciò indipendentemente dalla disonestà e perversità loro. Non ci curiamo di questi giudizii, che troppo tempo vorrebbero ad essere ricordati ed esaminati, e procuriamo di formarci in materia un concetto proprio, e, se possibile, giusto.
Chiameremo noi, col Sinigalia, Pietro Aretino un grande uomo? Sarebbe invero abusar troppo delle parole. Supposto pure che le facoltà del grand’uomo le avesse, egli era talmente inviluppato in interessi e maneggi di bassa lega, che male avrebbero quelle potuto operare e recar frutto. E poi, queste facoltà superlative, egli non le aveva, e, checchè paja dire in contrario egli stesso, sapeva di non averle. Il suo ingegno era un ingegno pronto ed accorto, ma mancava di elevatezza. Non era in lui quella veduta larga dello spirito che abbraccia nella loro interezza le cose, nè quella fruttifera curiosità che spinge alla speculazione o all’indagine. Dice egli stesso che non cercava di conoscere ciò che è occulto o troppo alto[204]; e in più lettere sue si ride di coloro che logorano il cervello dietro al perchè delle cose. Odiava i pensieri che affaticano e turbano, e però accettava la fede comune e tradizionale, il confessore e le pratiche d’uso, protestando di non volersi immischiare [146] in certe dispute arruffate, riparandosi dietro il nome di Cristo, non come un fervido credente, ma come uno che voglia togliersi d’imbarazzo, e non avere a rispondere di nulla, dicendo a chi gli dà noja: ecco qua il padrone e il maestro, vedetevela con lui. I riformatori e gli eretici gli davano ombra al par dei filosofi: odiava dello stess’odio Platone e Lutero.
A questo proposito mi sembra opportuna una osservazione. L’Aretino fu reputato, non solo eretico, ma anche ateo, e la prova del suo ateismo fu cercata principalmente nei suoi costumi e nelle sue azioni. Ma se in nessun tempo la vita prova a rigore le dottrine, meno che in ogni altro tempo le prova nel Cinquecento. In quel secolo si poteva credere, non dirò ferventemente, ma sinceramente, e vivere del resto come quel porcus de grege Epicuri di cui parla Orazio. La famosa dottrina immaginata dai gesuiti per conciliare con la devozione la vita mondana, dottrina che procacciò loro tanto favore e tanta potenza, si trova applicata di fatto nell’Italia del Cinquecento assai prima che i gesuiti se ne facessero campioni e maestri.
Poco atto agli alti voli, chiuso alle idee trascendenti ed astruse, l’ingegno dell’Aretino, ingegno essenzialmente pratico, si trova a suo agio nel mondo della realtà immediata, fra le cose e gli uomini che gli sono cogniti e famigliari. Quivi esso si muove con mirabile agevolezza e si mostra dotato di grande perspicacità. L’Aretino conosce a fondo il suo tempo, e questa conoscenza spiega in gran parte i suoi successi.
Indicata la qualità dell’ingegno, vediamo ora alcune idee che l’Aretino aveva in fatto di letteratura, e propugnava con calore; poi daremo una rapida occhiata alle opere.
L’Aretino aveva, com’è noto, pochissimi studii, e l’accusa d’ignoranza non fu certo una di quelle ch’egli udì [147] farsi meno frequentemente. Ma lungi dal vergognarsene, se ne teneva, cercando anche in ciò una prova della felicità del suo ingegno.
Vivendo in un secolo in cui si pretendeva supplir con lo studio a ogni mancamento di natura, e in cui poeti formati sui libri credevano poter emulare Omero ed Orazio solo perchè avevano Orazio ed Omero a mente, egli si mostrò sempre avverso allo studio insistente, pedantesco, che toglie altrui il senso vivo e diretto delle cose, e crea nello studioso una coscienza tutta artificiale, ed estranea al mondo cui quegli appartiene. «Il soverchio de lo studio», scriveva all’amicissimo suo Agostino Ricchi, «procrea errore, confusione, maninconia, colera e sazietà», e raccomandava gli ozii opportuni, dicendo: «Non si sa egli, che le vacazioni sono il giardino in cui si ricrea il vigore de lo intelletto?»[205]. Dava alla natura assai più importanza che non allo studio, giacchè, diceva, «dalla culla e non dalla scola deriva l’eccellenza di qualunque ingegno mai fusse»[206]. Sentiva che nel genio c’è qualche cosa di spontaneo e d’inconsapevole, di dato e non fatto, che appunto è uno dei caratteri suoi più notabili. Diceva che i poeti da senno «si ragguagliano a i fonti, i quali scaturiscono l’acque vive, limpide e dolci, non sapendo perchè, nè in che modo»[207]. Ottima sentenza, ma assai dura a quei poeti senza numero che vivevano truffando i mezzi versi, e i versi interi, ai classici, o al Petrarca. Affermava inoltre l’artificio vero esser quello «che nasce dal naturalmente vivace in la penna, e non quello che si ritrae dallo studio ne i libri»[208]. Non già che alla natura [148] dèsse tutto il merito, e nulla stimasse lo studio e l’esercizio. Nelle sue lettere lodava spesso chi attendeva a studiar con impegno, e ad un giovane, Antonio Gallo, scriveva: «Sappiate pure che la natura senza la esercitazione è un seme chiuso nel cartoccio, e l’arte senza lei è niente»[209]. Ad ogni modo val più assai un buon ingegno naturale, cui manchi lo studio, che non un povero ingegno infarcito di dottrina, giacchè il giudicio è figliuolo de la natura e padre de l’arte, «e il litterato, che ne è privo, può simigliarsi a un armario pien di libri»[210]. Certo, così dicendo, l’Aretino faceva un po’ il Cicero pro domo sua, ma non è men vero che diceva bene, e che non sarebbe agevole trovare in quel secolo chi dica altrettanto in modo così chiaro e reciso.
Ponendo l’ingegno sopra lo studio, la natura sopra l’arte, l’Aretino implicitamente condannava la imitazione, altra piaga del suo tempo; ma non lasciò di condannarla anche esplicitamente, e sempre con grande vivacità di parole. Innumerevoli sono le lettere dove egli biasima e svergogna la frega di coloro che volevano rifare ciò che altri avevan già fatto, o mutar sè in altri, impresa sciocca e disperata. I petrarchisti non ebbero avversario più risoluto di lui, e s’egli pur ne loda qualcuno, il fa, pur troppo, per ragioni in tutto estranee al suo convincimento. Alcuna volta distingue gl’imitatori dai rubatori[211]; ma ciò solo per una caritatevole concessione fatta all’amicizia. Raccomandava a tutti di seguitar la natura, dicendo che i precetti di lei avanzano quelli di qualsiasi Orazio[212], e di seguitarla si gloriava assai egli stesso. Al Doni scriveva: «andate pure per [149] le vie che a voi mostra la natura se volete che gli scritti vostri faccian stupire le carte dove son notati»[213]; e a Vincenzo Fedeli, oratore della Repubblica in Milano: «chi ha qualche spirito di natura non tiene uopo de la stitichezza, che lambicca a gocciola a gocciola alcune paroline sì magre, che non solo vituperano i concettuzzi, che pur vorrebbero esprimere, ma intrigano altrui di sorte, che chi legge i sogni loro sognano nella maniera che sognano essi»[214]. Ed egli otteneva lode da parecchi, tra gli altri da Paolo Manuzio, per essersi scostato dal comune sentiero, per aver lasciate le vestigia dei maestri, cosa che sgomentava ancora, tanti anni dopo, l’ortodossia letteraria del povero Mazzuchelli[215].
Da tutto ciò si ricava che l’Aretino sentiva il bisogno di un’arte, più particolarmente di una poesia, meno artificiale, meno accademica, più intimamente connessa con la vita, e che dalla vita, direttamente, traesse l’inspirazione e gli spiriti. Il poeta, secondo lui, deve aver l’occhio alla natura, non ai modelli; vivere con la natura in comunione vitale e continua, imparare da lei l’arte sua. Ardito pensiero in un tempo in cui si aveva per ogni maniera di componimento una ricetta bella e fatta, e l’arti poetiche, composte dietro gli esempii di Aristotele e di Orazio, insegnavano a fabbricar poemi epici, commedie, tragedie di perfetta fattura, e ora, a noi, d’insopportabile lettura; in un tempo in cui, dovendosi parlare di pubblici eventi e di pubbliche occorrenze, non si guardava tanto a ciò che il caso richiedeva, quanto a ciò che aveva detto Cicerone quindici secoli prima. L’Aretino ebbe tale un sentimento della originalità quale non si trova in nessuno de’ suoi contemporanei, [150] e primo in Europa levò il grido di ribellione che poi il Francese raccolse nel verso famoso:
Qui nous délivrera des Grecs et des Romains?
Ciò spiega pure la sua ammirazione sconfinata, il suo amore appassionato per artisti come il Tiziano, che movevano dalla natura per giungere all’arte. Egli stesso vedeva le cose con gli occhi di un pittore, e le impressioni vigorose e vive che riceveva dalla natura lo dispensavano dall’andar ricercando nei libri le impressioni altrui. Noi che abbiam sempre in bocca la natura, la spontaneità del sentimento, la relazion necessaria della poesia con la vita; noi che abbiamo scosso il giogo dei modelli detti insuperabili, banditi i tipi e le forme fisse, bruciate le arti poetiche, e fatte, almeno a parole, tant’altre belle cose, noi non possiamo, senza contraddirci, non riconoscere in Pietro Aretino uno dei nostri.
Da questo bisogno di libertà e di larghezza, sentito non meno vivamente nell’arte che nella vita, si generano nel nostro autore alcune ripugnanze, alcune avversioni di cui è a tener conto, sebbene non sempre le palesi egli stesso. Loda molto in pubblico lo stile dei prosatori gravi e corretti, come il Bembo e monsignor Della Casa, ma si sfoga poi nella intimità dell’amicizia, deridendo i boccaccevoli, burlandosi di quel sonaglio del verbo in ultimo, dicendo che si deve scrivere come il bisogno richiede e l’anima detta. Bella massima, ma da lui stesso poco seguita, e vedremo perchè. Per certi uomini professa palesemente grande ammirazione, ma senza dubbio li ha in uggia nel secreto dell’anima, appunto perchè rappresentano tendenze e dottrine in tutto opposte alle sue. Tali il Bembo e il Varchi, per non citarne altri. E quando egli dice di temere il giudizio del Bembo e di volersi stare in tutto alla sua [151] sentenza[216], mente e si burla di chi gli crede. A tal proposito si vuol notare che l’Aretino si mostra spesso assai buon giudice del valore e delle riputazioni altrui, e che se in moltissimi casi non appar tale, se molti giudizii suoi sono esagerati od erronei, gli è che il più delle volte c’entra di mezzo qualche ragione di utilità e di convenienza. Riconosce che Erasmo «ha islargati i confini de l’umano ingegno»[217]; ma nell’istesso modo leva a cielo taluno di cui persino il nome sarebbe perduto, se egli non l’avesse scritto in capo di una lettera.
Molte altre cose odia l’Aretino. Odia le accademie e i loro ciarlamenti, e pecora giojellata chiama un cavalier Mainoldo, uno di quei fastidiosi recitatori di lezioni accademiche[218] di cui non è ancora spento il seme. Vero è che poi troviamo lui pure socio di più accademie. Odia i rifacimenti, come quello che dell’Orlando Innamorato fece il Berni, giacchè stima infamia «il porsi al viso del nome la mascara de i sudor dei morti»[219]. Odia tutto ciò che sa di vieto e di muffito, ed ha il sentimento della lingua viva come pochi allora mostran d’avere. «Volesse Iddio», scrive a Lodovico Fogliano, «che le prose masticate dalla continua diligenza di molti, fossero così pure e così usate come son le parole, che mentre parlate vi trae di bocca l’uso famigliare della favella». E soggiunge: «Che abbiam noi a fare dei vocaboli usati non si usando più? A me par vedere ser Apollo con le calze a campanile, quando veggio uopo in collo di questa e di quella canzone»[220]. Odia l’infinito stuolo dei cattivi e pessimi poeti che assordavan [152] l’Italia, dolendosi che sino ai maestri di stalla facessero versi[221]. Ma odia sopra ogni altra cosa i pedanti; e ciò si capisce, perchè i pedanti personificano tutte le tendenze avversate da lui. Molti nemici e derisori ebbero i pedanti nel Cinquecento[222], ma nessuno più acerbo dell’Aretino, che, e nelle commedie, e nelle lettere, e in molti altri scritti suoi non lascia di beffarli, di tartassarli e di vituperarli. In una lettera al Marcolino li paragona alle femmine presuntuose e sciocche, le quali sempre vezzeggian sè stesse: «quelle quattro letteruzze ch’essi hanno, sono i belletti, con cui tentano d’abbellirsi il ceffo della fama, che gli pare avere»[223]. Gli chiama goffi; dice che standosi essi sempre confitti negli studii non sanno nemmen d’esser nati: e in un’altra lettera allo stesso Marcolino si ride «di quella assidua pazienza, che tormenta lo stuolo della pedagogaria, che mura il sesso di tali ne gli scanni de gli studi, che i da pochi frequentano lo intero di tutti i dì e la somma di tutte le notti»[224]. Si ride dei Ciceroni salvatichi come se ne rideva Erasmo: si burla di chi, come l’Ubaldino, crepa di studio; e i così fatti, con bella invenzione di vituperio, chiama asini degli altrui libri[225]. Del resto l’Aretino ha della pedanteria, o, se meglio piace, nel caso presente, del pedantismo, un concetto assai più largo, più curioso e più notabile che i suoi contemporanei non abbiano. Per lui, uomo pratico, e tutto del suo mondo, è pedante, non solo chi si sta sempre a cavallo della grammatica, chi insegna ai putti, chi parla un gergo sciagurato che non fu mai vivo, [153] insomma il tipo notissimo della commedia e della novella; ma, in generale, chiunque non sappia veder la vita che traverso le pagine dei libri, chiunque sconoscendo la necessità dei tempi, le opportunità delle cose, in una parola il vivo della storia, pretende di restaurare comechessia l’irrevocabile passato. Perciò la pedanteria non è delle sole lettere, ma della politica ancora e di tutto il resto. «I pedanti,» egli dice, «poichè hanno assassinato i morti, e con le lor fatiche imparato a gracchiare, non riposano fino a tanto che non crocifiggano i vivi. E che sia il vero, la pedanteria avvelenò Medici, la pedanteria scannò il duca Alessandro, la pedanteria ha messo in castello Ravenna e, quel che è peggio, ella ha provocata l’eresia contra la fede nostra per bocca di Lutero pedantissimo»[226]. Lasciamo stare Martin Lutero e il cardinal di Ravenna; ma gli è certo che la pedanteria, intesa a quel modo che s’è notato, ebbe molta parte nel tirannicidio, rimesso dal secolo XVI in onore. Lorenzino de’ Medici si paragonava da sè stesso a Timoleone; Pier Paolo Boscoli sognava di emulare Bruto.
L’Aretino componeva con somma facilità. Ridendo di coloro che non san mai levarsi dal tavolino, diceva che la sua natura sputava «fuor dello ’ngegno ogni sua cosa in due ore»[227]. E si vantava di non lavorare più di due ore per mattina, e di non aver d’altro bisogno, per compor le sue opere, che di una penna, di un po’ d’inchiostro, di un manipolo di carta. Gli è che egli portava dentro di sè tutto il suo mondo. Negli anni maturi quella grande facilità gli venne scemando, e nel [154] 1537 scriveva a Francesco Dall’Arme: «La vecchiaja mi impigrisce l’ingegno, ed amor che me lo dovria destare, me lo addormenta. Io soleva fare XL stanze per mattina, ora ne metto insieme appena una; in sette mattine composi i Salmi, in dieci la Cortegiana e il Marescalco, in XLVIII i due Dialoghi, in XXX la Vita di Cristo»[228].
È impossibile lavorare in tal modo e raggiungere la perfezione. L’Aretino lo sa, e conosce assai bene ciò che manca alle cose sue, le quali certamente furono ammirate più dagli altri che da lui stesso. Non bisogna badare a certi suoi vantamenti, che hanno sempre uno scopo pratico. Quando non è forzato a decantar la sua merce, il giudizio ch’egli ne dà è giudizio tutt’altro che indulgente. «Dal buono e non da lo assai nasce la gloria de le composizioni», si legge in una lettera a Giovanni Agostino Cazza[229]. Egli sa che piegando l’arte al vantaggio si uccide l’arte, e parla con certa amarezza delle carte che gl’imbratta lo stimolo del disagio, e non lo sprone della fama. Al Bembo scriveva: «A me bisogna trasformare digressioni, metafore e pedagogarie in argani che movano, ed in tanaglie che aprano. Bisognami fare sì che le voci de i miei scritti rompino il sonno de l’altrui avarizia, e quella battezzare invenzione e locuzione che mi reca corone d’auro e non di lauro»[230]. Al duca di Mantova scriveva che del pensiero ch’ei faceva di certo suo componimento era secretario il fuoco[231]. Dal Marcolino, suo compare, fece bruciare tremila stanze del poema di Marfisa[232]. Del titolo di divino, datogli anche dall’Ariosto e da Bernardo Tasso, e largito del [155] resto a molt’altri, si fregiava volentieri, perchè gli cresceva credito, ma era il primo a farsene beffe[233]. Teneva i proprii capitoli superiori a quelli del Berni; ma scemava a sè stesso il merito dell’averli composti giudicando assai severamente, e, bisogna pur dirlo, non malamente, la poesia bernesca, dicendo che «la fama di coloro che invecchiano drieto a lo scriver ciancie da riso è ridicola»[234].
Non è dunque un deficiente sentimento d’arte che spinga l’Aretino a scrivere come scrive; ma, per una parte, certa naturale sua foga, per un’altra il mestiere.
Anzi l’Aretino ebbe sentimento d’arte vivissimo, e quand’altro non ci fosse in favor suo, basterebbe a redimerlo da quella geenna d’infamia in cui fu posto l’amore pien d’entusiasmo che professò tutto il tempo di vita sua per la statua e pel quadro; quell’amore che lo fece, più che amico, fratello al Tiziano; quell’amore che lo spingeva a chiedere con tanta istanza al Buonarroti di quei disegni che dava al fuoco, e a pregare il Vasari di procacciargliene. Ora, questo amore, specie alla pittura, non è senza importanza per noi, che ricerchiam lo scrittore. «Io mi sforzo», diceva l’Aretino al Valdaura, «di ritrarre le nature altrui con la vivacità con che il mirabile Tiziano ritrae questo e quel volto»[235].
E bisogna dire che qualche volta ci riesce, e forse ci sarebbe riuscito sempre, se non fossero state le ragioni di quel maledetto mestiere.
Nell’Aretino ci sono, a dir proprio, due scrittori, assai diversi tra loro, anzi opposti a dirittura: l’uno che scrive per amor di guadagno, mentendo affetti e pensieri, cercando i soggetti utili; l’altro che scrive senza preoccupazioni, [156] abbandonandosi all’impulso geniale di ciò che detta dentro; quello tutto ammanierato, vacuo e falso; questo, vero, naturale, efficacissimo. Leggete ciò che l’Aretino scrive, quando vuol levare a cielo qualcuno di cui veramente non gli cale più che tanto, ma da cui si ripromette vantaggio: ciò che gli esce dalla penna è della peggio retorica che si possa imaginare, e in quelle pagine, gonfie d’iperboli pazze, e tutte chiazzate di metafore strane si sforma l’aspetto delle cose, come si snatura l’indole d’ogni sentimento. È l’Aretino di parata, l’Aretino cui bisogna trasformare digressioni, metafore, e pedagogarie in argani che movano, ed in tanaglie che aprano. Ma leggete ciò che l’Aretino scrive per proprio conto, per isfogar l’animo, per intrattenersi con gli amici più intimi: trovate un tutt’altr’uomo, e c’è da rimaner meravigliati in vedere come lo scrittore ampolloso e affettato, lo scrittore che pareva non potesse dir cosa senza alterarne in qualche modo l’essere, lo scrittore esagerato e iperbolico, riesca un osservatore diligente, un descrittore vero ed efficacissimo di quanto gli sta d’intorno. Veramente egli vede le cose con l’occhio con cui le vedeva il Tiziano, e la visione avuta sa rendere felicemente con la parola, facendo della penna un pennello.
A persuadersi di ciò basta leggere certe lettere sue. Non ricorderò quella famosa al Tiziano, dov’è descritto il Canal Grande sull’ora del tramonto, perchè troppo nota e troppo spesso citata[236]. Certo essa è un documento assai singolare; ma altre ce n’ha, non meno importanti a mio giudizio, e che sono veri quadri di genere. Leggasi quella dov’è narrata la vita semplice e pacifica di Simone Bianco scultore[237]; leggasi l’altra [157] in cui si ricordano con desiderio scevro di amarezza i bei tempi passati, i facili amori e l’altre scapestrerie giovanili[238]: se ne legga una assai breve, dove l’autore ringrazia frate Vitruvio dei Rossi, che gli aveva mandato a regalare certe ghiottornie minute[239]. Si vegga con quanta vivacità è ritratto quel Pietro Piccardo, che sapeva tutte le storie e tutti i fatterelli del tempo, cortigiano finito, sempre tra donne[240]. Si vegga con quanta festività, con quanta arguzia è descritto il vivere spensierato di questo stesso Piccardo e di monsignor Zicotto, che si facevano «portare come un pajo di pontefici, dando giubilei, intimando concilii e canonizzando santi»[241]; con quanta evidenza è ritratto lo spettacolo pieno di varietà e di movimento, a cui l’Aretino cotidianamente assisteva dalle finestre di casa sua sul Canal Grande[242]; con quanto sentimento del pensare e della vita del popolo sono descritte le smanie e gli anfanamenti per il giuoco del lotto[243]. Non si lasci di leggere ciò che nel Ragionamento delle corti è narrato dei capricci di Fra Mariano, e poi si dica se nel Cinquecento sono molti che abbiano il senso della realtà così desto e così perspicace; che scrivano così vivo, con efficacia così ingegnosa e al tempo stesso così spigliata, con tanta virtù di rilievo e di colorito.
E qui tocchiamo allo stile dell’Aretino, intorno a che ci sarebbe, volendo, molto da dire. L’Aretino pretese di essere un novatore in fatto di stile e molti dei contemporanei gli diedero ragione. In un capitolo dove il [158] Fenaruolo si rallegra con Domenico Veniero dei nuovi onori ricevuti, si legge:
Udirete il signor Pietro Aretino
Cantar in quel suo bravo primo stile,
Che gli diede il cognome di divino[244].
E Ortensio Lando nella Sferza de’ scrittori antichi e moderni[245]: «Se pertanto leggerete gli scritti del divino Pietro Aretino egli vi condurrà all’alta rocca della toscana eloquenza, e condurravvi per vie inusitate e nove, non più calpestate da veruno; scorgeretevi per dentro alcuni lumi meravigliosi, da’ quali intenderete quanto possa natura senza l’ajuto dell’arte». E novatore egli fu veramente. Anche qui noi troviamo l’Aretino in contrasto con la tradizione, ribelle all’autorità. Egli ha in uggia lo stile di prammatica, lindo, corretto, misurato con le seste, architettato secondo le regole, tutto riscontri simmetrici e appoggiature meditate. Per lui lo stile non è architettura, ma scoltura e pittura, e deve prender forma e colore da ciò che si muove nell’animo, e piegarsi, non ad una legge astratta di compostezza e d’armonia, ma, volta per volta, a quella che è indole propria del soggetto. Il suo sogno è di poter tradurre nelle parole il plastico delle cose, la intensità e il fervor della vita; e conscio di riuscirci in una certa misura, esclama: «attengasi a me chi ha rilievo nelle rime ed efficacia nelle prose, e non chi mostra profumi ne gl’inchiostri e miniature nelle carte»[246]. In una lettera famosa al Comandator d’Alcantara dice che ne’ versi suoi «si tondeggiano le linee delle viscere, si rilevano i muscoli delle intenzioni, e si distendono i profili degli affetti [159] intrinsechi»[247]. A Bernardo Tasso rimprovera d’essere «più inclinato all’odor dei fiori che al sapore dei frutti»[248]. Abusa del colorito, e ha certi procedimenti di stile in tutto simili a quelli dei moderni seguaci del naturalismo o verismo letterario; per esempio usar l’aggettivo in maniera di sostantivo.
Naturalmente, con tanta preoccupazione del vistoso e dell’efficace, con voler far produrre alle parole la impressione che producono le cose, l’Aretino spesso rompe lo fren dell’arte, passa i segni del buon gusto e del buon giudizio, e s’impania in quelle iperboli sformate, in quei traslati mostruosi, in quegli aggrovigliamenti di concetti e di parole, in quella sofistica dello stile, che rendono insopportabile a noi la lettura di moltissime pagine sue, ma che hanno riscontro negli scritti di più di un verista moderno. Perciò egli fu considerato come l’iniziatore e come il padre di quel mal gusto che ebbe tra noi il nome di secentismo. Lo Chasles, il quale in più altre occasioni mostra buon accorgimento, dice a tale proposito: «Le seicentisme date da l’Arétin. Ce ne fut plus la parole grave et nue de Machiavel, ni la fluidité de Bembo. On commença, d’après son exemple, à personnifier tout; les Marini, les Achillini ne sont que ses copistes... Avant lui personne n’avait écrit de cette façon»[249]. Ma è vero ciò? no; anzi è falsissimo.
L’Aretino ha certamente ajutato, affrettato l’avvenimento del secentismo, ma nulla più. Il secentismo si produce intorno a lui, è nato prima di lui. Il D’Ancona ha potuto scrivere un bello studio sul secentismo nella poesia italiana del secolo XV, e secentismo si trova nella letteratura d’altri tempi e d’altri luoghi. Il Petrarca [160] non è egli spesso un secentista della più bell’acqua? son poco secentisti certi trovatori di Provenza? e chi più secentista di Ennodio? Gli è che sotto questo nome poco appropriato di secentismo si comprende una certa condizion delle menti, un temperamento del gusto, una forma d’arte, che possono bensì nel Seicento nostro essersi prodotti con carattere più spiccato, ma che, come effetto di certe determinate cause, non sono punto proprii di quel secolo soltanto. Ora, dello straboccare del secentismo nel secolo appunto che gli diede il nome, si potranno indagare alcune cause speciali, come l’influsso spagnuolo, o l’esempio di alcuni scrittori; ma è certo che l’arte stessa del Cinquecento, e quella civiltà tutta intera, ponevano sulla sua via, spingevano ad esso. Chi vuol persuadersene legga gli imitatori del Petrarca. Parrà strano a dire, anche perchè l’Arcadia, quando cominciò la reazione contro il secentismo, si mise innanzi, come duca e dottore, il Petrarca; ma non è men vero che una delle cause principali del mal gusto del Seicento è per appunto il petrarchismo.
E s’intende perchè. I petrarchisti, non avendo altro a fare che ripetere que’ sentimenti invariabili, quei pensieri già espressi le tante volte, cercavano d’introdurre qualche novità nei loro versi rincarando la preziosità dello stile, contorcendo il concetto e la frase, moltiplicando le metafore. L’amore, quando non è sentito e sincero e vuole spacciarsi per sincero e sentito, cerca, senza avvedersene, l’espressione esagerata e falsa, che di necessità diventa secentismo. Vedasi che cosa interviene ai trovatori provenzali della decadenza. E a un’altra cosa è da por mente. La raffinata coltura del Cinquecento si trae dietro certi bisogni, suscita certe tendenze, che non mancan mai, o sotto una, o sotto altra forma, dov’è raffinatezza soverchia. In quegli animi, allevati e ammaestrati in ogni maniera di delicature, schifi del [161] triviale, facilmente si produce sazietà, e sempre si muove un desiderio del peregrino e dello insolito, donde possa venire nuovo eccitamento, e allettamento non ancora provato. Ora, un desiderio così fatto, conduce o prima o poi al secentismo, e poichè quel desiderio tanto più sormonta quanto più la civiltà è raffinata, e quanto più prossimo il tempo del suo decadere, si può dire che ogni civiltà finisca nel secentismo, il quale, non fa bisogno avvertirlo, non è proprio delle sole lettere, nè delle sole arti sorelle. La civiltà romana, sopraggiunta dalla sfioritura, produce la più mostruosa depravazione che la storia ricordi: il secentismo dei costumi.
Se, dunque, noi vogliamo esser giusti, dobbiamo dire che Pietro Aretino ajuta il secentismo a prodursi, ma che il produttor vero del secentismo è il Cinquecento.
L’Aretino si esercitò in tutti i possibili generi letterarii, dalla pasquinata alla tragedia, dalla novella al poema epico, dalla lettera al racconto ascetico. Non tutte le cose sue sono di pari valore, ed il valor di parecchie è pochissimo; ma volerle mettere tutte in un fascio e sentenziare che in tutte c’è poco o nulla di buono è, non solamente ingiusto, ma assurdo. Diamo un’occhiata alle principali.
L’Aretino riesce meglio assai nella prosa che nel verso. A quella sua natura intemperante e scomposta doveva esser più particolarmente grave il giogo della misura e della rima, increscioso il magistero delicato ed arduo della poesia. Ciò nondimeno, compose, secondo l’uso de’ tempi, infiniti versi, d’ogni qualità e suono. I sonetti sono in generale cattivi, e pessimi quelli in cui si tuffa nel patetico e nell’eroico; ma i capitoli, se inferiori, e di molto, a quelli del Berni, sono tuttavia pieni di vivacità [162] e d’arguzia, e possono stare alla pari con quelli dei migliori berneschi.
I saggi di poema cavalleresco che ci son pervenuti, i tre canti della Marfisa, i due delle Lagrime d’Angelica, non sono a dir vero gran cosa, benchè più che grande sembrassero al Doni, prima che d’amico diventasse nemico, e a Bernardo Accolti, che si faceva chiamar l’Unico. L’Aretino stesso non doveva esserne troppo contento, se dell’uno e dell’altro poema mandò fuori poco più che il principio, e se della Marfisa faceva abbruciare, come abbiamo veduto, le migliaja di stanze.
Egli, che aveva così vivo sentimento della realtà, non doveva trovarsi troppo a suo agio in quel mondo favoloso della epopea romanzesca, e se pure ci si cacciò dentro, il fece, senza dubbio, per seguitare l’andazzo, o per mostrare che poteva provarsi in questa come in ogni altra impresa letteraria. Tanto più degno di lode parrà che egli sia riuscito a introdurre in quei saggi suoi qualche novità d’invenzione, che siasene uscito con essi dalla via più trita, e, diciamolo pure, più nojosa; ma non è men vero che all’indole del suo ingegno e ai suoi gusti, assai più della Marfisa, delle Lagrime d’Angelica e dell’Astolfeida, quasi sconosciuta, si confà l’Orlandino.
L’Orlandino è un tentativo di poema burlesco, in cui Orlando, e Carlo Magno e i paladini tutti, oggetto già di tanta e sì loquace ammirazione poetica, sono posti alla berlina, vituperati, trasformati in ghiottoni e in poltroni. Fu detto che così facendo l’Aretino abbassava il mondo cavalleresco al suo livello; ma non mi pare giudizio giusto. L’Orlandino è un frammento di poema parodico e satirico, e prima di pronunziare così aspra sentenza, si deve considerare se la parodia e la satira sono in tal caso legittime ed opportune. E sono certamente. Non bisogna dimenticare che quel mondo cavalleresco [163] era già venuto a noja gran tempo innanzi, e che le prime satire e parodie s’incontrano in Francia, nel paese a cui le moderne letterature debbono l’epopea carolingia e l’epopea bretone. Non bisogna dimenticare che di quella noja si genera il Don Chisciotte. In Italia Luigi Pulci già con molto buon garbo si burla dei suoi cavalieri, e basta pensare all’uso che nel Cinquecento si fece delle finzioni romanzesche, allo strabocco di poemi imitati dall’Orlando Innamorato e dall’Orlando Furioso, che allora allagò e sommerse l’Italia, per intendere che una reazione era, non legittima soltanto, ma inevitabile. E la reazione venne e venne col Baldo di Teofilo Folengo e con l’Orlandino del nostro Pietro, il quale, in una sua lettera al capitano Faloppia, si burla anche delle ciabatterie dei poeti della Tavola Rotonda[250]. E in un altro Orlandino il Folengo chiama con uno strano nome, e danna a un uso ch’io non dirò qual sia, tutti i poemi cavallereschi, meno il Morgante, l’Innamorato, il Furioso e il Mambriano[251].
Ma le composizioni senza dubbio più pregevoli dell’Aretino sono le drammatiche. Raccostare per l’Orazia l’Aretino allo Shakespeare è pazzia bella e buona; ma non è men vero che è questa una delle migliori tragedie del Cinquecento, la prima che risolutamente si scosti dal tipo classico, e quella tra tutte che procede con fare più largo, e che spira più vivo soffio di umanità. Essa accenna alla maniera che tenne più tardi lo Shakespeare, e non è questa una picciola gloria. Quanto alle commedie, sono certamente delle migliori del nostro Teatro, e, direi, superiori a tutte, meno due o tre. Con esse l’Aretino si toglie deliberatamente dall’usanza comune, ch’era di rifar Plauto e Terenzio, usanza a cui [164] nemmeno un Lodovico Ariosto volle o potè ribellarsi. Discepolo della natura, quale si protesta anche una volta nel Prologo dell’Orazia, l’Aretino si studia di riprodur sulla scena il suo mondo, e mette una buona volta da banda quelle favole stantie di padri ingannati, di figliuoli discoli, di servi nemici degli uni e ajutatori degli altri, per surrogarle con altre, desunte immediatamente dalla vita dei tempi. I vecchi tipi tradizionali e invariabili fanno luogo nelle sue commedie a figure vive, a veri caratteri, tratteggiati con molta bravura, e molta e fine cognizione del cuore umano: tale è quel maniscalco cui si dà ad intendere che il signore vuol fargli tor moglie per forza; tale quel Plataristotile, filosofo speculativo, che ha il capo pieno di alte massime, e piena la bocca di gravi sentenze, e nulla vede della tresca che gli fanno intorno i servitori e la moglie; tale quell’ipocrita, di cui basti dire che il Molière lo conobbe certamente, e se ne giovò per il suo Tartufe; tali altri molti. Qui i servitori non sono i soliti inventori di burle e di trappole in danno dei vecchi avari, in benefizio dei giovani scapestrati; ma lavorano per proprio conto, fanno i proprii interessi, e più accorti di tutti, di tutti beffandosi, empiono la scena di scontri e di casi ridicoli. Giannico, il ragazzo del maniscalco, è il più petulante e fastidioso monello che si possa veder sul teatro, e Ippolito Salviano, mutandogli il nome in Farfanicchio, lo introdusse in certa sua commedia. Le burle e le truffe del Fora e del Costa nella Talanta sono saporitissime novelle messe in azione. I personaggi principali hanno intorno una turba di personaggi secondarii, i quali riproducon l’ambiente; mercanti, ebrei, cantastorie, dottori, capitani, pedanti, frati, sbirri. Nell’ultima scena della Talanta ce ne sono non meno di diciannove riuniti.
Non so perchè dica il Burckhardt che l’Aretino non [165] era buono di trovare la vera disposizione drammatica di una commedia[252]. Ad ogni modo la misura della propria potenza comica l’Aretino la dà nel Marescalco, dove una situazione unica è protratta e sostenuta per cinque interi atti senza che l’interesse languisca un momento. E molti altri pregi ci sono in queste commedie. I prologhi sono i più nuovi, i più briosi, i più ingegnosi che siensi mai scritti, e quelli del Lasca fanno la ben magra figura al paragone. Il dialogo è di una vivezza insuperabile, naturale e argutissimo, meno che nelle scene d’amore patetico, dove l’Aretino non si sente troppo dimestico. I soliti cattivi spedienti di somiglianze strane, di abiti scambiati non mancano; ma non se ne fa quell’abuso che nelle altre commedie del tempo. Insomma non dice troppo chi dice che la tragedia e le commedie dell’Aretino accennano a una riforma del teatro importantissima.
Dell’altre opere che mi sembra opportuno ricordare mi sbrigo in due parole. I Ragionamenti saranno infami fin che si vuole; ma come dialoghi sono dei più gustosi che il Cinquecento abbia prodotto, e in essi, non meno che nelle commedie, guizza un fuoco di satira che lascia il segno ove tocca. Perchè, non dispiaccia ai suoi troppo arrabbiati nemici, e ai suoi detrattori implacabili, l’Aretino ha in sè tale un rigoglio di spirito satirico, che pochi in quel secolo hanno l’eguale. Lodovico Ariosto, sferzati, nella satira a Pietro Bembo, gli umanisti viziosi, i poeti increduli e vaghi di mutarsi il nome cristiano in pagano, esclama:
Ma se degli altri io vuo’ scoprir gli altari,
Tu dirai che rubato e del Pistoja
E di Pietro Aretino abbia gli armari.
[166]
Scipione Ammirato chiama maravigliosa l’eloquenza con cui l’Aretino spiegò tutta l’arte del puttanesmo. Le lettere furono le prime lettere volgari che si stampassero, e fecero che molti poi si mettessero a comporne e stamparne. Esse sono per noi un repertorio prezioso di notizie d’ogni maniera, e contengono fedelissime dipinture dei tempi, il che non poteva intendere il Menagio, quando disse di non averci mai trovato dentro cosa che potesse mettere ne’ suoi libri[253]. Certo l’Aretino aveva ragione di tenerle assai migliori di quelle di Bernardo Tasso[254].
Quanto alle opere sacre dirò ch’esse non dispiacquero punto ai contemporanei; che furono tradotte in francese; che Vittoria Colonna avrebbe voluto che l’Aretino si desse tutto intero a comporne, e che anche il Dolce ne compose di simili. Non le difendo, anzi dichiaro che sono nojosissime a leggere; ma a chi fa un grave carico all’Aretino per aver mescolato ai racconti degli Evangeli, o alle leggende dei santi, favole da lui immaginate, dico che così praticando l’Aretino non faceva peggio di coloro che ci cacciavan dentro tutta la mitologia. Letterariamente parlando, faceva assai meglio.
E ora concludiamo.
L’Aretino non è quel pessimo e mostruoso uomo che s’è voluto fare di lui, o almeno non merita solo l’infamia, se le male qualità che gliel’hanno procacciata appartengono, non meno che a lui, al suo secolo.
L’Aretino non può essere messo nel novero dei grandi scrittori, perchè non lasciò dopo sè nessun capolavoro; ma alcune delle cose sue sono molto pregevoli, e tutte [167] fanno fede di uno spirito ardito e di certe tendenze novatrici delle quali non fu tenuto conto abbastanza, e che meritano invero molta considerazione. A mio giudizio, l’Aretino ha, come letterato, assai più importanza che non il Guidiccioni, il Casa, o alcun altro simile, il cui nome figura nientedimeno assai più onoratamente nelle molte storie della nostra letteratura.
La doppia infamia, morale e letteraria, che ingombrò il nome dell’Aretino, si deve in parte alla invidia degli emuli superati da lui, in parte, e credo principalmente, alla reazione cattolica. La Chiesa, in vena di riforme, guardò con dispetto e con esecrazione quel secolo che pur da un pontefice doveva prendere nome, e detestò quei costumi, ch’essa stessa, scientemente o non, aveva favoriti, ma che le procacciarono poi la più grande jattura che mai le sia toccata, lo scisma di Lutero. E poichè condannare intero quel passato non poteva senza condannare in pari tempo sè stessa, e poichè diveniva urgente di dare altrui un chiaro concetto di quella depravazione da cui bisognava appunto scostarsi, essa riversò tutta l’ira sua sopra alcuni che in quel secolo avevano primeggiato, e, come tipi, li propose alla abominazione delle genti. Così incontrò all’Aretino; così incontrò anche al Machiavelli; e l’uno e l’altro furono messi fuori dell’umano consorzio, furono cacciati nel deserto come capri emissarii, carichi delle colpe d’Israele.
O prima o poi si troverà chi rinarri, nel modo che dai tempi è richiesto, la vita di Pietro Aretino, e non sarà un accusatore, nè un panegirista, ma uno storico. Non so quali nuove e particolari notizie potrà recare l’opera sua; ma la leggenda, credo, ne sarà sparita, e ne terrà il luogo questo giudizio: Pietro Aretino non è, moralmente parlando, peggior del suo secolo, e come scrittore vale più di parecchi che godono assai miglior fama di lui.
[171]
Questo sciagurato nome di pedante non ebbe sin dal principio tutta l’estensione di significato che ha ora; ma denotò propriamente il pedagogo, il maestro di scuola, una specie soltanto del largo e copiosissimo genere pedantesco.
Quale la origine del nome non è bene accertato. C’è chi la volle rintracciare nel verbo latino pedere, il cui significato può vedersi nei vocabolarii. Gli etimologisti moderni ammettono come più probabile, ma non come sicura, la derivazione dal greco παιδεύειν, istruire, allevare. Quanto al tempo in cui il nome cominciò ad usarsi, dice il Varchi nell’Ercolano[255]: «Quando io era piccino, quegli che avevano cura de’ fanciugli insegnando loro... e menandogli fuora, non si chiamavano, come oggi, pedanti, nè con voce greca pedagogi, ma con più orrevole vocabolo ripititori». Essendo il Varchi nato nel 1502, dalla sua affermazione si ricaverebbe che quell’uso non cominciò se non passati parecchi anni del secolo xvi; ma d’altra banda il nome si trova già in alcuni sonetti burchielleschi, i quali, se si potesse proprio provare che sono del pazzo poeta e barbiere fiorentino, mostrerebbero l’uso esserci stato sino dalla prima metà del [172] secolo xv. Checchessia del nome, certo la cosa è assai antica: il pedante nostro discende in linea retta dal pedagogo e dal ludimagistro dei greci e dei latini. Vero è che il Doni, nel suo commento ai sonetti di esso Burchiello, narra, fondandosi sulle testimonianze di Erodoto, di Appiano, e di Gioseffo, che il primo pedante fu un ladro, il quale scampò dalle forche solo perchè una pubblica meretrice lo chiese per marito. Il nome dalla lingua italiana passò nella francese, nei bei tempi in cui tutti gli eleganti di Francia si gloriavano di parlare italiano; passò nella spagnuola, nella portoghese, nell’inglese, nella tedesca, e diventò subito nome di sprezzo e di scherno. Il più gran dispetto che si potesse fare ai pedanti fu appunto di chiamarli pedanti. Per darci ragione di quello sprezzo e di quello scherno, vediamo un po’ di che maniera fossero le qualità fisiche e morali, quali le condizioni, gli atti e i portamenti di coloro che ne erano colpiti. Documenti e testimonianze abbondano; non abbiamo che a consultarli, e a trarne gli elementi della nostra descrizione.
Cominciamo dal dire che il pedante genuino, o, piuttosto il pedante tipico, non ha col favoloso Narciso e con lo storico Antinoo nessuna, nemmen remotissima parentela, e delle Grazie non conosce se non quel tanto che ne scrissero i poeti. Piuttosto allampanato che magro, piuttosto scontrafatto che brutto, egli veste miseramente e bizzarramente di panni logori e sucidi, forzando ad accomunarsi in una lamentabile livrea di miseria le fogge più disparate e più repugnanti. Ciò che il rigattiere rifiuta trova sul suo dorso un ultimo e durevole impiego[256]: la toga pelata di un pedante, dice Tommaso Garzoni, non ha visto manco di cinque Jubilei. [173] Il Caporali, parlando nella Vita di Mecenate[257], dei vari lasciti fatti da costui nel suo testamento, dice:
Or veniamo a i legati de i Pedanti,
. . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . .
Ei lasciò lor un valigion di stracci,
Due toghe rotte, un berrettin macchiato,
E una camicia vecchia e senza lacci.
Il bagaglio non era dunque loro di grande impaccio: certo pedante descritto dall’Aretino[258], e di cui dovrò riparlare, aveva per tutta masserizia una «sacchetta dova tenea due camisce, quattro fazzoletti, e tre libri con le coperte de tavole». Se al detto sin qui si aggiunge che il pedante riusciva goffo in ogni suo atteggiamento, o movenza, e che spesso il suo volto si vedeva (se non mentono i narratori) ricamato di scabbia gallica, o di altra sì fatta galanteria, si avrà di lui una immagine non certo finita ed intera, ma sufficiente al proposito nostro.
Brutto sotto l’aspetto fisico, il pedante non appar bello davvero sotto l’aspetto morale. Egli è, di solito, un uomo ottuso di mente; ricco talvolta di memoria, ma poverissimo sempre di giudizio; privo di qualsiasi genialità, e spesso spesso sciocco di una sciocchezza tanto più ridicola quanto più inviluppata di saccenteria. Egli ha quella che l’Elvezio chiamava la più incurabile delle stupidità, la stupidità acquistata con lungo [174] studio. Gli è assai raro che in quelle raccolte di facezie e di motti di cui ebbe tanta copia il Cinquecento, si trovino detti arguti posti in bocca a pedanti[259]; mentre è frequentissimo il caso che si narrino esempii incredibili della lor grulleria. Il Doni racconta di uno che avendo veduto il discepolo sputare sopra un ferro per accertarsi se fosse caldo, sputò poi, con lo stesso intendimento, sulle lasagne, e non avendole udite friggere, se ne cacciò in bocca una gran forchettata e si cosse tutto[260]. E quale l’ingegno, tali naturalmente gli studii e la coltura. Il pedante è, come dice l’Aretino, l’asino degli altrui libri; è un uomo nel cui capo non entra nulla, se l’autorità di un libro non ce la fa entrare. Infatuato dell’antichità e dei classici, disprezza, senza punto conoscerlo, il mondo in cui vive, ma a cui veramente non appartiene. Del resto anche l’antichità, che egli crede di aver famigliare, è per lui un mondo chiuso, di cui non considera e non conosce se non la scorza. Egli ha letto tutti gli autori latini, se non anche i greci; ma dei poeti ha colto la parola, non l’anima, degli oratori il suono, non le ragioni, dei filosofi tutto il più le sentenze, non le larghe e poderose intuizioni. Ha la memoria pronta, e anche ben guernita; ma quella sua memoria non è un libro fatto e nemmeno un zibaldone; è uno schedario. La sua sapienza è tutta di citazioni: nei Ragguagli di Parnaso Trajano Boccalini ce ne dà un giusto concetto, quando ci mostra i pedanti che coi bacili in mano vanno raccogliendo le sentenze [175] e gli apoftegmi che scatarrono i savii dell’antichità[261]. E quando compongono, se pur compongono, non fanno altro che mettere in carta di nuovo ciò che in carta han trovato, compilar ristretti, o manuali, o trattati. Parlando dei pedanti, Niccolò Franco fa dire alla sua lucerna: «Gli veggo star d’intorno a i libri, facendosi scoppiare il core per imparare due parolette per lettera, per attestarle senza proposito. Non gli veggo mai scrivere cosa alcuna di lor farina. Veggo che non san far altro che repertorii, vocabulisti, arti da far versi, e modi da componere pistole»[262].
Il pedante è prima di ogni altra cosa, e sopra ogni altra cosa, un grammatico: uno sfregio alla verità, una offesa al buon senso non lo commuovono; un mancamento ai precetti di Prisciano e di Donato lo fa uscire dai gangheri. Trajano Boccalini dice che in Parnaso fu attaccata un giorno grande zuffa tra i pedanti, gli epistolarii e i commentatori, per un disparere se consumptum dovesse scriversi con la p o senza la p. Apollo, stomacato, voleva cacciarli tutti fuor del suo regno, ma poi ce li lasciò stare a istanza di Cicerone e di Quintiliano[263]. Quanta fosse del resto la pedanteria dei grammatici si può vedere in certi esempii recati dal Pontano[264] e da Alessandro degli Alessandri[265], per tacer d’altri. Il pedante non parla mai facile e piano, chè gli parrebbe di ragguagliarsi al volgo; orna quanto più [176] può la dizione, studia la voce e il gesto, canta così le prose come i versi[266]; sapendo di non poter essere inteso da chi lo ascolta, commenta e dichiara egli stesso ogni parola che dice[267], e non avendo mai nulla da dire che importi, ha sempre in pronto un’apostrofe, un epifonema, una serqua di aforismi, una orazione spartita secondo le regole. Egli ha la dottrina e l’arte del vaniloquio vestito d’enfasi e di magniloquenza. Nella Cena delle Ceneri di Giordano Bruno, il pedante Prudenzio interrompe il racconto di certo Teofilo, altro interlocutore del dialogo, e dove questi aveva detto: dopo il tramontar del sole, egli muta e supplisce: Già il rutilante Febo, avendo volto al nostro emisfero il tergo, con il radiante capo ad illustrar gli antipodi sen giva. Ne segue un piccolo diverbio:
Frulla. Di grazia, magister, raccontate voi, per che il vostro modo di recitare mi soddisfa mirabilmente.
Prudenzio. Oh, s’io sapessi l’istoria.
Frulla. Or tacete dunque, nel nome del vostro diavolo.
Che importa al pedante che quanto ei dice non sia al proposito, se, come a lui sembra, è ben detto? In uno dei suoi dialogi piacevoli[268] il Franco introduce un pedante Borgio, quello stesso contro cui scrisse una delle più vituperose sue epistole[269]. Questo pedante è morto e giunto sulla riva d’Acheronte: ma non può indursi a passar come gli altri, e prega Caronte di aspettare un poco, tanto che egli possa comporre una orazioncella da recitare in cospetto di Plutone. Ottenuta licenza, comincia a discutere con sè stesso se la orazione [177] debba appartenere al genere dimostrativo, al deliberativo, o al giudiciale. Scelto il dimostrativo, ricorda di aver letto in Tullio che cinque sono le parti de l’officio de l’oratore, invenzione, disposizione, elocuzione, memoria e pronunciazione. Poi va oltre, ricercando i colori retorici, provando con esempii la virtù loro, e finalmente mette insieme il suo discorso con esordio, narrazione, divisione, confermazione e conclusione. Il Franco dimentica di dirci quale accoglienza il pedante Borgio si avesse da Plutone. Nemmen dopo morto il pedante cessa d’esser pedante. Nel suo lucianesco dialogo intitolato Charon, il Pontano introduce l’anima di un Pedano grammatico, giunto allora allora agli Inferni. Pedano pensa ai discepoli che ha lasciati nel mondo, e prega istantemente Mercurio di voler loro riferire alcune cose di gran rilievo da lui risapute dallo stesso Virgilio poc’anzi; e cioè, come Aceste donasse ad Enea, non cadi di vino, ma anfore; come lo stesso Aceste vivesse anni centoventiquattro, mesi undici, ventinove giorni, tre ore, due minuti e mezzo secondo; che Enea toccò la terra d’Italia con entrambi i piedi a un tempo, ecc. Ludovico Domenichi racconta di un pedante che stando per affogare, gridava forte: O Dio, che ti pare del nostro Cicerone? che cura tiene egli dei suoi amici?[270].
Il pedante non si contenta, per distinguersi dal volgo, di parlare secondo i precetti dell’arte oratoria e con l’esempio di Cicerone innanzi; ma usa inoltre di una lingua sua propria. Quando può parla latino, perchè il latino, a suo giudizio, è la lingua nobile, la lingua perfetta, la lingua per eccellenza; quando non può parlar latino, e la necessità lo sforza, parla volgare; ma allora per ricattarsi, alle parole e alle frasi volgari, mescola le [178] parole e le frasi latine, sparge di latinismi il suo dire, e fa un guazzabuglio che nessuno intende. Il Garzoni narra di un pedante che volendo dar nuova altrui come nella città sua di Bologna c’erano molti banditi, i quali si temeva che un dì o l’altro non ammazzassero il governatore, disse: Io vereo che per la copia di questi esuli un giorno non venga necato l’antistite. E narra di un altro, che indirizzando una lettera in Padova, sulla piazza del vino, alla spezieria della Luna, scrisse: Nella città Antenorea, in sul Foro di Bacco, all’Aromatario della Dea Triforme[271]. Nè questa era usanza dei soli pedanti italiani: il Montaigne racconta di un amico suo, che avendo a discorrere appunto con un pedante, prese per burlarsi di lui, a contrefaire un jargon de galimatias, propos sans suitte, tissu de pièces rapportées, sauf qu’il estoit souvent entrelardé de mots propres à leur dispute, e così facendo lo tenne un giorno intero à débattre, pensando il pedante toujours respondre aux objections qu’on lui faisoit[272].
Sappia pochissimo, come d’ordinario accade, o sappia malamente assai cose inutili, come pure incontra talvolta, il pedante presume sempre moltissimo di sè, incede con magistrale gravità, con volto d’uomo immerso in alti e reconditi pensieri, con atti dottorali e schivi. Certo pedante, introdotto da Metello Grafagnino in un suo bizzarro capitolo, ascrive alla schiera dei ludimagistri Aristotele, Platone, Socrate, Seneca, e molti altri antichi e moderni, e a questo modo fa sè pure della loro schiera. Francesco Ruspoli, in uno de’ suoi sonetti, definisce il pedante
Gigante d’ambizion, di saper nano;
[179]
e soggiunge:
Appena l’a bi ci solo col dito
Ei discerne, e non sa l’indicativo,
Che giunge d’insolenza all’infinito[273].
Questa insolenza mostravano più particolarmente i pedanti nel riprendere altrui, nel censurare le altrui fatiche, in nome delle sane dottrine e del corretto gusto, di cui si stimavano depositarii e tutori. «Vorrei», dice l’Aretino nel Prologo dell’Ipocrito, «levati i pedanti a cavallo, che il sovatto d’una scuriata gli insegnasse il come si fanno l’opre, e non come le si mordono». E son noti quei versi del Boileau:
Un pédant, enivré de sa vaine science,
Tout hérissé de grec, tout bouffi d’arrogance,
Et qui, de mille auteurs retenus mot pour mot,
Dans sa tête entassés, n’a souvent fait qu’ un sot,
Croit qu’un livre fait tout, et que sans Aristote
La raison ne voit goutte, e le bon sens radote.
Ma se i pedanti non avessero avuto altri difetti che la superbia e l’insolenza, si sarebbero potuti, sino ad un certo punto scusare; il guajo si è che ne avevano altri, e parecchi e grossi. Il pedagogo è da scegliere tra mille, diceva il Vida; quaerendus rector de millibus, lasciando intendere che tra mille se ne poteva trovare uno buono. Saba da Castiglione, ne’ suoi Ricordi ovvero Ammaestramenti[274], vorrebbe «le città fossero ben proviste, e fornite di maestri di scuola, li quali fossero catolici, spirituali, maturi, gravi, onesti, ben accostumati», appunto come troppo spesso non erano. Nè manca chi, facendo il novero di tutte le lor virtù, li chiama bugiardi, ghiottoni, poltroni, ipocriti, seminatori di discordie, ladri, ponendo [180] fine alla assai più lunga litania colla menzione punto velata di un vizio che, in antico, la Grecia aveva dato a Roma, e che certo, nel Cinquecento, non era dei soli pedanti[275]. Nell’Inferno degli scolari dice il Doni che i pedanti sono «viziosi, golosi, negligenti, ignoranti, goffi, rozzi, nojosi, fastidiosi, ribaldi, scelerati e peggio»[276]. Peggio chè?
I pedanti erano di due maniere, secondo che esercitavano l’ufficio loro nelle famiglie che li tenevano a stipendio, o in iscuole, sovvenute o non sovvenute dal pubblico erario; ma qual che si fosse il modo dell’esercizio, non variavano le usanze loro e non variava l’indole dell’insegnamento. Che cosa fosse questo insegnamento si può arguire dalla qualità degl’insegnanti. Se passava oltre i gradi di una istituzione primaria, il che non sempre accadeva, il latino prendeva subito, ben s’intende, luogo principalissimo; ma in qualunque grado si fosse, era e rimaneva, non occorre dirlo, essenzialmente pedantesco. Non chiedete al pedagogo il più elementare avvedimento di quella scienza che da lui prende il nome, la pedagogia. L’arte di rendere gradito, e, appunto perchè gradito, fruttuoso lo studio, è un’arte ch’egli ignora, e che disprezzerebbe, se la conoscesse. Ha tanto sudato egli a imparar ciò che sa! bisogna bene che altri sudi a sua volta. Ciò che in qualsiasi disciplina è più esterno e men vivo, la formola che strozza il pensiero, la regola che gli allaccia le ali, la lettera che uccide, ecco l’oggetto d’ogni diligenza pel pedante, ecco le cose intorno a cui egli non si stanca e non rifinisce di dare ammaestramenti [181] e precetti. Per lui la mente del discepolo è come un bossolo vuoto dentro, e l’arte dell’istruire consiste tutta nell’imbossolarvi certa quantità di cognizioni in modo che non vi patiscano alterazione, e le si possano, ad ogni bisogno, tirar fuori tali e quali vi furono messe. Come il gesuita, il pedante lavora a uccidere l’intelletto, salvo che nol fa, come il gesuita, per deliberato proposito: il suo insegnamento non tende ad altro, dice il Montaigne, qu’à remplir la memoire, lasciando l’entendement et la conscience vuide. E se ciò è vero, chi oserà dire che l’insegnamento pedantesco sia sparito dal mondo?
I libri che in Italia formavano la necessaria scorta di ogni pedante erano: le grammatiche di Prisciano e di Donato, le Regole Sipontine, la Cornucopia, il Liber de metris, di Niccolò Perotto, il Catholicon di Giovanni Balbi, il Calepino, le Regole del Cantalicio, lo Spicilegio del Mancinello, il Dottrinale, ed altri così fatti, di vario argomento, che non mette conto di ricordare. Il Folengo, narrando la fanciullezza turbolenta del suo eroe Baldo, dice:
Fecit de norma mille scartozzos Donati,
Inque Perotinum librum salcicia coxit[277].
Ai libri manuali si accompagnavano, secondo che l’insegnamento si allargava più o meno, alcuni testi classici e anche qualche libro volgare; ma ognuno può immaginarsi che cosa diventasse lo studio e la interpretazione dei classici, se, come dice Bartolomeo Amigio, un pedante che appena aveva letto lo Spicilegio del Mancinello e le Regole del Cantalicio, si arrogava di commentar Platone[278].
Di questo insegnamento gretto, meccanico, essenzialmente infecondo del pedante, nessuno diede immagine [182] più adequata di quella che, con celia non men profonda che arguta, porge il Rabelais, parlando della educazione di Gargantua[279]. Quel dabben uomo di Grandgousier, avendo riconosciuto nel figliuolo un mirabile ingegno naturale, volle che un’ottima istituzione venisse in ajuto della natura, e traesse dal ben disposto seme il frutto perfetto. Tubal Oloferne, il reputatissimo maestro scelto a tale ufficio, si pose all’opera, e in ispazio di cinque anni insegnò all’alunno l’abbicì; poi gli lesse il Donato, il Faceto, il Teodoleto e l’Alanus in parabolis, spendendoci intorno tredici anni, sei mesi e due settimane. Dopo di ciò gli espose il De modis significandi con tutti i commenti che se ne fecero, e consumò in tale esercizio diciotto anni e undici mesi; ma questo tempo trascorso, Gargantua sapeva il tutto a memoria, e poteva anche ridirlo alla rovescia, e prouvoit sur ses doigts à sa mère, que de modis significandi non erat scientia. Allora il buon maestro pose mano al Computo; ma dopo sedici anni e due mesi di tale insegnamento, si morì,
Et fut l’an mil quatre cents vingt,
De la verole qui lui vint.
Un secondo maestro, per nome Jobelin Bridé, lesse allora ed espose all’alunno alcuni altri libri della stessa farina; dopodichè il padre cominciò finalmente ad avvedersi che il figlio en devenoit fou, niais, tout resveux et rassoté. De quoi se complaignant à don Philippes des Marais, viceroi de Papeligosse, entendit que mieulx lui vauldroit rien n’apprendre, que tels livres soubs tels précepteurs apprendre. Car leur sçavoir n’estoit que besterie, et leur sapience n’estoit que moufles, abastardissant les bons et nobles esperits, et corrompant toute fleur de jeunesse. [183] Allora Grandgousier affidò Gargantua a Ponocrate, un maestro di animo generoso ed aperto, di larga e viva coltura, la istituzion del quale, opposta e contraria, sotto ogni rispetto, a quella degli altri due, può in gran parte anche oggi considerarsi come modello di una istituzione proficua, intesa a svolgere armonicamente tutte le buone energie della natura umana.
Ma ciò che il Rabelais dimentica di dirci si è che l’argomento pedagogico per eccellenza, la prima et ultima ratio del pedante era lo staffile. Lo staffile è, da tempo antichissimo, come l’emblema del pedagogo, la divisa, se si può dire, del suo insegnamento. Il buon Orazio, intento negli anni maturi a cogliere il dolce della vita, ricordava ancora, con vago terrore, il plagosus Orbilius a cui era stata soggetta la sua fanciullezza; Marziale rammenta le ferulae tristes, sceptra paedagogorum. Una pittura di Ercolano mostra quanto antica sia la pratica di quello che gli scolari d’Italia chiamarono con figurato eufemismo il cavallo. Lo staffile si adoperava tanto dai pedanti domestici, quanto dai pedanti che tenevano scuola aperta; ma se quelli dovevano, sotto gli occhi delle persone di casa, usarne con qualche discrezione, questi potevano usarne ed abusarne come e quanto loro piaceva. Qual meraviglia, se le descrizioni che ce ne son pervenute, ci dipingono la scuola come un altro inferno? Non iscuola la diresti, esclama in un impeto d’ira Erasmo da Rotterdam, ma luogo di tortura, dove non si ode altro che crepito di sferze, strepito di verghe, lamenti, singulti, e minacce atroci; e soggiunge cose incredibili dei mali trattamenti che in sì fatti luoghi di tortura si infliggevano ai fanciulli da uomini, come dice egli stesso, troppo sovente agresti, scostumati, lunatici, insani di mente[280]. Intimidire l’alunno, riemperne l’anima di una [184] specie di sacro terrore, in guisa da spegnervi ogni vivezza e bollore di spiriti tracotanti e riottosi, ecco ciò che il pedante si proponeva di conseguire anzi tutto; senza sospettar nemmeno che il primo effetto delle sue pratiche era di rendere odioso ogni studio, e di fiaccare nell’alunno stesso quelle morali energie senza l’esercizio delle quali non è studio che frutti. Vincere e domare la caparbia e ribelle natura, ecco il supremo canone pedagogico; d’onde la incredibile usanza di picchiare anche quando non ci fosse fallo, senza una ragione al mondo, di buon mattino, per ben preparare al lavoro della giornata. E quando non erano busse, erano, come dice il Garzoni, modi di chiedere terribili, grida strepitose, un passeggiar per la scuola a guisa di tanti pavoni[281], uno starsi in cattedra, dice Cyrano de Bergerac, a mo’ di un Cesare, facendo tremare sotto lo scettro di legno il popolo della piccola monarchia[282]. Ebbe ragione il Bronzino di dire, parlando dell’età dell’oro:
Non erano spaventi o battiture
Pe’ fanciulli, e la scuola e la bottega
Ancor non erano in rerum naturae (sic)[283];
ma più ragione ebbero quegli scolari di Pavia, di cui narra Cesare Rao in una delle sue Argute e facete lettere[284], i quali un bel giorno levarono il loro pedante a cavallo e lo regalarono di più di cento scoriate, ripagandolo delle infinite che gli aveva date loro. Essi tennero [185] la via seguita sin da principio dal giovine Baldo:
Nunquam terribilis quid sit scoriada provavit
Namque paedagogis hic testam saepe bolabat[285].
I fanciulli che avevano il pedante in casa, soggiacevano a disciplina meno bestiale, ma non imparavano di più, e correvano altri pericoli. La presenza del pedante in casa poteva dare, e dava spesso, luogo a corruttele, a scandali, a guai d’ogni maniera, specialmente se, come accadeva di solito, le famiglie a fine di spender meno, si pigliavano per maestro un qualche paltoniere, non meno povero di dottrina che nudo di ogni dignità. Perciò lo Spelta, di cui ho già citato il libro, si mostra grande avversario di quelli che chiama maestri casalenghi, si duole della goffaggine de’ gentiluomini che vogliono il pedante in casa, e si dichiara risolutamente fautore delle scuole pubbliche. Egli non crede che l’insegnamento dato in casa possa riuscir mai di qualche vantaggio al discepolo, «perchè quando anco il povero maestro vuole riprendere o castigar il furbo di qualche errore, subito la signora madre corre di sopra, o dove insegna, e fa cappellate d’importanza al cujum pecus. Il quale temendo di perdere la pagnocca, lascia correre cinque settimane per un mese. E mangiando la panigada in pace, diviene grassetto, compra l’offelle, la gioncadina co l’alunno, ed insieme stanno su le papardine. Ben voluti dalla padrona che se ne serve in più servigi. Fa del fattore, o del mastro di casa; egli è insomma quello che taglia il budello in tavola»[286].
Ma qualche volta faceva anche altro, ed entrava un po’ troppo nelle buone grazie della padrona. Parlando di certe gentildonne, dice il Rosso nella Cortegiana dell’Aretino: [186] «Ed i pedanti ancora ne vanno beccando qualcuna... non gli bastando figli, fratelli e fantesche»[287]. In uno dei Ragionamenti dello stesso Aretino si narra la stomachevole istoria di certa donna maritata, la quale «si inghiottonì di un di questi pedagoghi affumicati, che si tengono ad insegnare per le case, il più unto, il più disgraziato, il più sucido che si vedesse mai»[288]. La buona femmina tanto fece che riuscì a trarselo in casa. S’intende come il pedante, fatto amico della padrona, dovesse poi diventar egli padrone, e mettersi sotto tutta la famiglia, a cominciare dal melenso marito. In tal condizione egli poteva sembrar degno d’invidia a tutto l’innumerevole stuolo dei ghiottoni e dei parassiti. Gabriello Simeoni dice nella Satira dell’avarizia del mondo:
Può far Domenedio tanto da bene,
Ch’a pedanti e notai sia il mondo in mano,
Il mondo cieco e pazzo da catene?
Di natura è il pedante aspro e villano,
Implacabile, avaro e discortese,
Crudel, superbo, sospettoso e vano.
Prima s’acconcia in casa per le spese,
Poi qual Margutte ognun si caccia sotto,
E del tutto è padrone in men d’un mese[289].
Giovanfrancesco Ferrari, poeta bernesco dei men noti, ma non dei meno pregevoli, tesseva un capitolo in lode della pedanteria, e giurava di volersi far pedante, parendogli non ci fosse al mondo stato più comodo di quello.
A me pare un bel che, stando a sedere
Vender le sue parole notte e giorno
E cavarne il vestire, il pane e il bere.
[187]
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
E poter obedito comandare
A tutti quei di casa, e a la padrona
Star dirimpetto a cena, a desinare.
Ed esser ascoltato, qual persona
Dotta e sacciuta, con attenzione,
Mentre che de i cujusse si ragiona.
E su le dita dir la sua ragione,
E con qualche argomento in baricoco
Far restar il messere un bel castrone[290].
Ma quando il pedante non riusciva a farsi padron di casa, oppure quando teneva scuola aperta per conto suo, come travagliata, quanto misera e vile era la sua condizione! I salarii (che stipendii non si posson chiamare) erano derisorii il più delle volte: «la viltà del prezzo è sì fatta, ch’è vergogna a sentirla», dice l’anima del pedante Anisio in uno dei dialoghi del Franco; e Caronte le chiede invano il quattrino che gli si deve[291]. La concorrenza era grande e rabbiosa e produceva naturalmente il suo effetto: in uno dei sonetti attribuiti al Burchiello, volendosi dare un’idea dello sterminato numero di gondole e di camini che erano in Venezia, si vengono ricordando, come termini di paragone, varie cose di cui si afferma essere grandissima copia, e ci si dice, tra l’altro, che non è tanta poveraglia in Milano, e che non istanno tanti pedanti per le spese. Nessuno più del pedante meritava di entrare nella onorata Compagnia della Lesina, e l’onorata Compagnia non lasciò di accoglierlo nel suo seno[292].
Ma quante altre miserie oltre a questa miseria! Ortensio, uno degli interlocutori della sesta veglia di Bartolomeo [188] Arnigio[293], ce ne dà qualche concetto, riferendo le querele del proprio suo precettore. Sciagurato stento l’insegnare: i fanciulli, già guasti dai genitori, hanno in odio ogni studio, si beffano dei maestri, si addormentano durante la lezione. Che pena far entrar loro in capo quel po’ di latino, e udir poi lo strazio che ne fanno! Che fatica far apprendere ai tristanzuoli un po’ di buon costume! Per dispiacer che n’abbia, il maestro è forzato a dar sorgozzoni, tirar per le orecchie, dar su le palme, e far levar a cavallo: tragico esercizio! E i padri sempre scontenti, sempre a lagnarsi che il figliuolo non impara e a darne colpa al maestro; il quale è da tutti schernito, è chiamato il pedante, il pedagogo, il domine: perfin le fanti gli voltan sossopra i libri, lo trattan da gufo, d’allocco e da barbajanni. Disse il buon Lafontaine:
Je ne sais bête au monde pire
Que l’écolier, si ce n’est le pédant:
mettete queste due bestie a vivere insieme nella medesima casa, e dite se ci può essere al mondo miseria maggiore della loro.
Ma tutto ciò è ancor poco a paragone della comune avversione, dell’universale disprezzo che involgevano, come in un atmosfera irrespirabile, la gens dei pedanti; avversione e disprezzo che parvero eccessivi a taluno e degni di biasimo[294], ma che formavano ormai pubblica opinione, e facevano dire al Doni in busca d’impiego, ch’egli era pronto a torsi in corte ogni officio che gli si volesse dare, da pedante e cappellano infuori[295]. Il nome stesso di pedante era diventato uno sfregio e un vitupero.
[189]
Le ragioni dell’odio contro ai pedanti erano, come s’è potuto vedere, parecchie, e non piccole; ma tra esse una era maggiore delle altre, e nasceva da ciò che più propriamente qualificava il pedante, da quella angustia d’animo, da quella dottrina arida, da quella seccaggine prosuntuosa, dal tutto insieme delle qualità fastidiose e ridicole che appunto costituiscono ciò che si dice spirito pedantesco. Ora, se si considerano le cose un po’ più da vicino, l’odio può parere, per questo capo, un po’ ingiusto, perchè lo spirito pedantesco non è nel Cinquecento così proprio dei pedanti, che anche fuori di loro non se ne trovi in abbondanza, e perchè quello che in essi è deriva in gran parte e dipende da quello che alita loro intorno. Vero è che essi lo accumulano e lo condensano, come certi apparecchi dei fisici fanno della elettricità.
L’umanesimo nasce con in corpo il germe della pedanteria. La erudizione ha come una tendenza naturale a diventar pedantesca, e questa tendenza tanto più si rafforza, quanto più l’oggetto intorno a cui si vanno esercitando gli studi, sembra nobile, alto, degno di particolare ammirazione; quanto più esso respinge, come minori e men degni, altri oggetti di studio, e lega gli spiriti, assoggettandoli ad una servitù da cui non è più loro possibile emanciparsi. Ora, l’umanesimo era per una buona metà, se non per tre quarti, erudizione, e, per giunta, erudizione che aveva dietro di sè, e un pochino anche dentro di sè, le tradizioni dello scolasticismo medievale. L’ammirazione appassionata dei classici, lo studio esclusivo ed assiduo dell’opera loro, dovevano conferire, o rafforzare abiti intellettuali non troppo disformi da quelli della pedanteria, produrre una nuova [190] superstizione letteraria, come tutte le superstizioni, intollerante e sofistica. Un alto disprezzo si spandeva sopra quanto non era antico e classico. Mentre il verbo greco e latino diventava una cosa sacra, oggetto di culto geloso, si rifiutava la propria lingua nativa e si schifavano gli autori che l’avevano recata negli scritti. L’autorità sempre più s’imponeva nel nome di quei grandi di cui si adoravan le carte; la imitazione si affermava norma suprema dello scrivere, ed ogni più lieve trascorso contro a quel nuovo diritto, o diciam meglio, a quella nuova religione, era giudicato mancamento mostruoso ed inescusabile. Lo spirito pedantesco informa ed agita tutto un popolo di studiosi, di cui non è facile dire quanto abbiano giovato, quanto nociuto alla coltura e alle lettere: grammatici puntigliosi, espositori fanatici, commentatori arrabbiati, leggitori insaziabili, disputatori implacabili, eruditi aridi e ponderosi. Dov’è maggior pedanteria che nelle controversie di quegli umanisti, i quali sopra un vocabolo disputavano gli anni, vituperandosi a vicenda? E chi più pedante di quei Ciceroniani, con tanta garbo derisi da Erasmo, i quali non leggevano altro che gli scritti di Cicerone, passavano la vita a fare indici e repertorii di tutti i vocaboli, di tutte le frasi, di tutte le eleganze di Cicerone, avevano in casa loro, per ogni stanza, una immagine di Cicerone, sognavano la notte di Cicerone, e si credevano in buona fede diventare altrettanti Ciceroni? Gli umanisti, che spesso furono insegnanti, dovettero, seguitando le proprie tendenze, contribuire non poco a dare all’insegnamento un certo indirizzo pedantesco; Vittorino da Feltre, con la larghezza del metodo e degli intendimenti suoi, è fra essi una eccezione, se non unica, certo assai rara.
I pedanti sono figli, non in tutto legittimi, se si vuole, ma pur figli, dell’umanesimo, e l’umanesimo nel Cinquecento, se muta tempre in parte, se si fa meno bisbetico [191] e più liberale, conserva, ciò nondimeno, nel fondo, le qualità e gli intendimenti che lo avevano contraddistinto nel secolo precedente. Gli è nel Cinquecento che il ciceronianismo si fa più invadente e più intollerante; gli è nel Cinquecento che noi troviamo oltre a una dozzina di latinisti inferociti, intesi a screditare in tutti i modi il volgare, e a dire che per gli italiani era una vergogna scrivere italiano anzichè latino[296]. Come si vede, i pedanti non erano poi in quel mondo come pesci fuor di acqua, o come piante venuteci su a dispetto dell’aria e del suolo, e a prima giunta non s’intende bene perchè il Cinquecento si sia, per mille bocche e mille penne, tanto burlato dei fatti loro, se i fatti loro erano un pochino i fatti suoi, e se i burlati potevano rispondere con un Medice, cura te ipsum, o a dirittura con un De te fabula narratur. Ma il Cinquecento ha in sè molte svariate cose e molti, diversi, e spesso opposti indirizzi; e quando si consideri un po’ più da presso ciò che gli si agita dentro, e i moti contrarii che lo traggono in qua e in là, s’intende come esso abbia potuto promuovere e respingere, in un tempo medesimo, le medesime cose, favorirle e avversarle, volerle e deriderle. Gli è, del resto, ciò che più e meno avviene in ogni tempo entro alle civiltà più complesse e più mobili.
A dispetto di non poche titubanze e di non poche contraddizioni, il Cinquecento è secolo novatore, secolo di ribellioni e di riforme, pieno di vivi fermenti e d’audace irrequiete. Lo affatica uno spirito indocile, che sentendosi a disagio entro l’angustia della tradizione, si sforza di slargare tutto intorno i termini del pensiero e della vita. Si comincia allora a sfatare la consuetudine, a scuotere [192] l’autorità. Aristotele, che per tanti secoli aveva rette e disciplinate le menti, si vede sorgere a fronte risoluti avversarii; il dogma, di qualunque specie esso sia, è fatto oggetto di libero esame. Nascono le scienze d’osservazione e di sperimento, chiamate, sin da principio, a mutar faccia al mondo; nasce la critica; nasce nuova filosofia. In materie di lettere, se c’è chi fa l’imitazione articolo di fede e condizion di salute, c’è pure chi la nega e la schernisce, e chiede e insegna la libertà dell’ingegno e dell’arte; se dieci vogliono si scriva latino, cento vogliono si scriva, e scrivono, italiano, e l’italiano pongono sopra il latino; e se nel parlare e nello scrivere italiano, sono, come dice Baldassar Castiglione, certi scrupolosi, i quali, con una religion e misterii ineffabili di questa lor lingua[297], spaventano altrui, riuscendo essi stucchevoli, sono pure moltissimi spregiudicati, i quali parlano e scrivono di vena, con nativa proprietà, con ispontanea eleganza, e si ridono dei papassi del si può e del non si può, e dei loro falsi evangeli. In materia di coltura e di educazione, i migliori, possiam dire i più, sentono assai largamente. Non si dimentichi che il Cinquecento vagheggia un tipo ideale di uomo compiuto, capevole di tutti gli amori e di tutti gli interessi cui può dar esca l’incivilito costume, la vita varia ed intensa; e nel quale le potenze tutte armonizzate fra loro si sostentino a vicenda e si promuovano. Un uomo sì fatto non nasce nelle scuole dei pedanti, e la pedagogia che se lo proponga a modello non può esser quella di aridi grammatici, di vani, tronfii, miseri annaspatori di parole. E in fatto non è. Leon Battista Alberti, Maffeo Vegio, Enea Silvio Piccolomini, Pandolfo Collenuccio nel secolo XV; nel XVI Antonio Ferrari, Sperone Speroni, il Sadoleto, Bernardo e Torquato Tasso, Orazio Lombardelli ed altri [193] non pochi, professano in fatto di educazione dottrine, porgono ammaestramenti, che già Vittorino da Feltre aveva recati in pratica, e che la scienza dei giorni nostri ammira, e non disconfessa. In mezzo a una società a cui Baldassar Castiglione consacrava il suo Cortegiano e Monsignor della Casa il suo Galateo, il pedante sconcio della persona e degli atti, ligneo d’animo, ispido d’inutile dottrina, estraneo alla vita, chiuso a ogni senso di bellezza e di gentilezza, non poteva essere considerato altrimenti che come una negazion vivente degli amori e delle aspirazioni de’ tempi, non poteva non attirar su di sè l’odio e la derisione.
E l’odio e la derisione dovevano (in parte l’abbiamo già veduto) trovare nella letteratura opportunità di soggetti, varietà di espressione, e segnare, passando da una ad un’altra forma di componimento, i varii gradi della intensità loro.
La derisione, non dirò men tagliente, ma meno vilificativa, è quella che investe il gergo pedantesco, e si esercita mediante una imitazione più o meno ingegnosa, ma caricata sempre, di esso. Questa imitazione talvolta si unisce ad altri elementi di satira in composizioni di più largo soggetto; tal altra porge essa l’elemento unico, o almeno principale, in composizioni apposite. Ne nasce quello che appunto fu chiamato stile pedantesco; ne nasce la poesia fidenziana.
Il gergo pedantesco non è cosa immaginata a solo scopo di canzonatura, o di celia, come la poesia maccheronica. S’indovinan subito le ragioni che dovevano persuadere al pedante l’uso di un linguaggio disforme dal comune, di un linguaggio intinto e intriso di latino; tanto più intinto ed intriso quanto più egli era pedante di buona lega; e basta gettar l’occhio sull’Hypnerotomachia di Francesco Colonna, non volendo citar altri esempii, per saper subito di che tempra quel linguaggio [194] si fosse[298]. La poesia fidenziana prende il nome da quel Fidenzio Glottocrisio Ludimagistro, sotto specie del quale il conte Camillo Scrofa vicentino stampò, circa il mezzo del secolo XVI, alcuni sonetti, e qualche altro breve componimento, intitolandoli Cantici. Lo Scrofa non è, come fu creduto a torto, l’inventore di quella poesia[299]; ma a lui spetta il vanto, qual esso sia, di averla condotta a un grado di perfezione da cui rimasero non meno discosti i predecessori che gli imitatori suoi.
La satira dei Cantici non colpisce soltanto, bisogna dirlo, il gergo pedantesco, giacchè in essi Fidenzio fa manifesta la passione messagli nelle midolle dalla eximia alta beltate del giovinetto Camillo Strozzi, passione che lo strazia e lo consuma. L’innamorato ludimagistro ruba la prima mossa al Petrarca:
Voi, ch’auribus arrectis auscultate
In lingua hetrusca il fremito e il romore;
poi si abbandona al furor poetico. Loda le bellezze e gli atti del suo Camillo,
plenissimo inventario
D’ogni egregia et notabil pulchritudine.
[195]
si duole dei suoi rigori e della mente
D’una cote Caucasea assai più dura,
lamenta gli inutili donativi, dice l’incendio che lo divora maggior di quello che già distrusse l’antico et superbo Ilio, vede per la prossima morte che lo aspetta
orbato e viduo
Delle lettere humane l’aureo studio;
e si prepara l’epitafio. Chi vuol saperne di più legga i Cantici, chè a noi ora non importa di dirne altro.
Lo Scrofa ebbe, come s’è notato, imitatori in gran numero, e se nelle loro composizioni la satira prende più particolarmente di mira il gergo dei pedanti, si volge anche, non di rado, ad altri oggetti. In un sonetto del Giroldi si accenna alle contese che fervevano tra i toscani, sostenitori del volgare, e i pedanti, sostenitori del latino[300]; in un capitolo già citato di Metello Grafagnino, un pedante ricordando i bei tempi dei Maroni e dei Mecenati, quando, dice egli, i valentuomini pari suoi erano debitamente tenuti in pregio e onorati, si lagna forte della mutata condizione delle cose e del secolo
Infido, inerte, vafro e versipelle,
[196]
in cui gli è toccato di vivere. Tra i componimenti maggiori di cui va ricca la poesia fidenziana mi contenterò di ricordare l’Itinerario in lingua pedantesca di Giovanni Maria Tarsia, stampato in Vicenza nel 1574, e L’Hippocreivaga musa invocataria di Antonio Maria Garofani, stampata in Ferrara nel 1580, entrambi rarissimi. L’Itinerario è un lungo racconto in terza rima e cinque capitoli che certo pedante fa di un suo viaggio, e delle erumne perpesse tra’ Lucani. Un putto, per nome Costanzo, da lui trovato nel tugurio di un pescatore, fa qui l’officio che nei Cantici di Fidenzio appartiene a Camillo. Il pedante innamorato della leggiadria e de’ bei modi di lui, esclama:
O età gerula
D’ogni buon giogo quando se’ educata
Con scutica, solertia, amore e ferula.
Dopo varii casi ridicoli e strani il buon maestro capita in Pisa ed è da quegli scolari accolto con beffe e con dispregi[301]. L’Hippocreivaga musa è un cantico erudito e preceptorio in centottantasette ottave, cui tengono dietro otto sonetti. Parla in esso un pedante facendo un guazzabuglio pazzo di nomi mitologici, di favole e di ogni maniera di classiche reminiscenze[302]. Poesia fidenziana, [197] o pedantesca, si continuò, del resto, a comporre anche nel secolo XVII; ma a differenza della maccheronica, essa rimase genere essenzialmente proprio dell’Italia[303].
La buaggine dei pedanti non poteva mancare di portare acconcio argomento ai novellieri. Nelle Cene di quel ghiribizzoso ed arguto ingegno del Lasca son due novelle in cui si narrano burle atroci fatte appunto a pedanti. Nella prima è un leggiadro, accorto e piacevole giovane, il quale dopo essere stato sette anni sotto la guardia di un pedagogo, il più importuno e ritroso che fosse giammai, trova, passati altri dieci anni, la opportunità di vendicarsi delle noje infinite e del danno che ne aveva avuto, e si vendica in modo bestiale, che io non ridirò[304]. La seconda narra di un altro pedante, il quale, essendo, come i più de’ suoi pari, villano, dappoco, povero, senza virtù e brutto, ardisce, nullameno, innamorarsi di una giovane bellissima e nobile, e le scrive lettere, e compone in lode di lei ballate e sonetti, i più ribaldi che mai si vedessero, e un capitolo che non n’avrebbero mangiato i cani. Il fratello della fanciulla, e alcuni amici suoi, per punirlo di tanta tracotanza, fattogli credere che l’amor suo fosse corrisposto, riescono una notte a trarselo in [198] casa, e quivi, in iscambio del piacere ch’ei si aspettava, gli dànno tante frustate quante non ne può portare, lasciandolo mezzo morto; poi un fantoccio fatto ad immagine sua, e rivestito de’ suoi panni, pongono alla gogna di Mercato Vecchio, e lui da ultimo, dopo avergli con una fiaccola arso la barba e i capelli, empiendogli di vesciche il viso, e fatto un altro scherzo da non ricordare, cacciano fuori ignudo, sotto una pioggia dirotta[305]. Un altro pedante innamorato e burlato comparisce in una novella di Pietro Fortini[306]: a costui tocca in premio di rimaner sospeso a mezz’aria per una fune che doveva trarlo sino alla finestra della donna amata; burla a cui, in certi racconti del medio evo, si vede assoggettato Virgilio, o Ippocrate.
Assai più che la poesia fidenziana non faccia, queste novelle mostrano il mal animo che s’aveva contro i pedanti; ma il genere di componimento in cui la satira che li flagella si fa più piena e vigorosa, è la commedia, perchè nella commedia il pedante viene in persona a far mostra di ogni ridicolaggine sua, e ad esporsi al riso e alle beffe. Padre o progenitore di quanti pedanti comparvero nel Cinquecento, e poi, sulla scena può considerarsi quel Ludus, che nelle Bacchidi di Plauto non intende nulla delle inclinazioni e dei bisogni dell’alunno, nulla dell’amore, nulla di molte altre cose, e predica inutilmente una inutile sapienza, odiato dal giovane, che non cura i suoi avvertimenti, non sostenuto dal padre, che ricorda di aver fatto a’ tempi suoi ciò che appunto fa ora il figliuolo. Ma sarebbe errore il credere che gli innumerevoli pedanti della cui presenza si allegrano le commedie del Cinquecento, altro non sieno che riproduzioni di quel primo tipo plautino. I commediografi potevano [199] bensì tener quel tipo presente e giovarsene; potevano anche copiarlo in tutto o in parte, come, a mo’ di esempio, fecero, Lodovico Domenichi nelle Due Cortigiane, e il Bibbiena nella Calandria; ma non avevano poi che a guardarsi d’intorno per trovar vivo e vero il comico personaggio, e bello e pronto a passare dalla scuola alla scena. Il pedante di quelle commedie nostre risale dunque, se vuolsi, come il servo imbroglione, come il parassita affamato, come il capitano millantatore, a una figura del teatro latino; ma è, bisogna tenerlo presente, più originale, più autonomo di tutti costoro, e ci si presenta sotto una moltiplicità di aspetti, con una varietà di movenze, che il servo, il parassita, il capitano non conoscono.
Michele Montaigne dice in uno de’ suoi Saggi[307]: «Je me suis souvent despité en mon enfance de voir ès comedies italiennes toujours un pedante pour badin». In fatto, il pedante che doveva poi trovar luogo anche nella commedia francese, compare assai per tempo nella italiana. La già citata Calandria del Bibbiena, rappresentata la prima volta in Urbino fra il 1504 e il 1508, ce ne mostra il primo esempio. Il Polinico della Calandria, modellato sopra il Ludus delle Bacchidi, già offre alcuni dei caratteri per cui più spicca il pedante sul teatro; ma alcuni soltanto, e quelli ancora hanno poco rilievo, come del resto par che si addica all’indole fiacca della intiera commedia. Egli è bensì, come la regola vuole, poco ascoltato dal discepolo Lidio, e molto beffato dal servo Fessenio; ma parla lingua piana e naturale, non l’intruglio di latino e di volgare che tutti i pari suoi usano sulla scena. Del resto egli non comparisce che una volta sola, e nulla conta nell’azione.
Nelle commedie dell’Ariosto non troviamo pedanti, nè [200] in quelle di Francesco d’Ambra, nè in quelle di Giambattista Gelli, di Agnolo Firenzuola, di Girolamo Parabosco, del Varchi, del Salviati, del Cecchi, del Lasca, e di molti altri di cui sarebbe assai lunga la lista. Il Lasca scrisse bensì una commedia intitolata Il pedante, ma egli stesso poi, non sappiamo il perchè, la diede alle fiamme. Ritroviamo il pedante in due commedie di Pietro Aretino, nel Marescalco e nella Talanta, e se quello della Talanta somiglia molto al Polinico della Calandria, e non merita gli sia fatta attenzione, quello del Marescalco tocca già la pienezza del carattere comico che gli si appartiene, e vuol essere considerato come un modello imitato dopo da molti. Il Marescalco fu stampato la prima volta nel 1533, e da indi in poi le commedie in cui ha parte il pedante si moltiplicano fuor di misura: non essendomi possibile di tener dietro a tutte, e nemmeno di esaminare partitamente e raffrontar tra loro le principali, io mi contenterò di levare da questa e da quella quanto mi parrà più acconcio a dare una immagine, non di uno o di altro pedante in particolare, ma del personaggio in genere.
Come il capitano si dà a conoscere agli spettatori, prima ancor di aprir bocca, per quella durindana che si trascina dietro, per quella andatura che pare dia la mossa ai tremuoti, per quella guardatura a stracciasacco, il pedante dà subito contezza di sè per quel libro che ha in mano, per quel cappelletto frusto che gli coperchia il cucuzzolo, per quella gabbanella logora, o per quella toga sdruscita che lo insacca. Incede compassato, aggrotta le ciglia, leva in alto l’indice rigido di magistral sufficienza, e da tutta la sua strana e sparuta figura trasuda la dappocaggine, l’albagia, l’arroganza e, spesso spesso, la fame. Alle prime parole che gli escon di bocca l’uditorio si sganascia dal ridere. Egli parla con dottoral gravità, con sostenuto compiacimento il nobile linguaggio che lo [201] distingue dal volgo, e poichè nessuno lo intende, si lagna d’aver a fare con gente grossa ed ignorante. «Non è più satievole et ispiacevol cosa», dice Metafrasto nei Torti amorosi di Cristoforo Castelletti, «che volere aguzzare questi ingegni rozzi, zotichi, scabri, ferruginei, rubigginosi, rintuzzati e sciocchi»[308]: e nei Vani amori del Loredano Alfesibeo rimprovera a Torello e Fabrino la loro ignoranza: «Per essere voi persone idiote e di ottuso cerebro sete esclusi da i termini di apprehendere gli eloquii retorici, e le speculate figure de i grammatici»[309]. Allora, come l’Ermogene della Prigione d’amore di Sforza degli Oddi, egli si restringe col suo «Tullio, ad accozzare insieme tutti i luoghi topici»[310]. La lingua che il pedante parla di solito è, come s’è inteso, un guazzabuglio di latino e di toscano; ma questa regola non è senza eccezione. Archibio, nel Travaglia del Calmo, usa una mescolanza di latino e di bergamasco; Favonio, negli Errori di Giacomo Cenci, una di latino e di siciliano; Melano nel Giardino d’amore di Lorenzo Guidotti (secolo xvii) una di latino e di napoletano. La composizione dell’intruglio varia, secondo che prevale l’uno o l’altro elemento, e varia ancora la intelligibilità di esso. Dal non potere o non volere gli altri personaggi della commedia intendere ciò che il pedante dice, nascono errori, bisticci, diverbii ridicoli. Nell’Interesse di Niccolò Secchi, Lelio, che è femmina in vesti maschili, e amante di Fabio, volge a significato osceno, per adattarlo alla condizion propria, il senso delle parole di Ermogene, suo pedante. Del gergo del pedante dice il parassita Ciacco nel Ragazzo di Lodovico Dolce: «Le parole di questo babuasso, mezze per lettera e mezze per volgare, [202] mi pajono di quegli animali antichi, che avevano l’aspetto d’uomo e i piè di capra»[311]. Vedendo di non poter essere inteso, il pedante si risolve talvolta di parlate idiotamente, come nel Marescalco dell’Aretino[312], ma non ci riesce. Sofronio, nelle Stravaganze d’amore di Cristoforo Castelletti, oltre che nel solito gergo, parla anche in prosa rimata: «È vana cotesta temenza: perchè le quadrella de la favella che l’arco di qualunque, quantunque mordace, bocca iscocca, non sono a fieder possenti le persone lontane, ecc.»[313].
Il pedante da commedia, come quello vero, di regola non fa stima che della lingua latina e degli scrittori latini; ma se egli si risciacqua del continuo la bocca coi nomi di Cicerone e di Virgilio[314], qualche volta anche si vanta di aver sulle dita le eleganze toscane, di conoscere a fondo i gran maestri dell’idioma volgare. Il già ricordato Metafrasto dei Torti amorosi cita Dante e il Boccaccio; Agasone nella Fanciulla di Giambattista Marzi, e Aristarco negli Ingiusti sdegni di Bernardino Pino, leggono certe stanze da essi composte a imitazione del Petrarca; Aristarco si vanta di avere commentato la duodecima giornata del Decamerone[315]. Ma un genere di componimento di cui molto si compiace il pedante è il sonetto volgare con le rime latine. Il pedante del Marescalco ricorda certa sua maccheronea; ma questa è una eccezione.
[203]
Dice Sofronio nelle Stravaganze d’amore: «I nostri ragionari deono esser puri, sinceri, schietti, candidi, ignudi d’ogni velo di stomacosa affettatione»[316]; ma noi abbiam già veduto come egli osservasse i proprii precetti. Parlando, il pedante di buon conio osserva la gradazione, nota figure grammaticali e retoriche, bolla solecismi, propone etimologie, reca in mezzo definizioni, adduce sentenze, cita autori, chiosa testi, apre e chiude parentesi, indica persino l’interpunzione. Non è mai al proposito. Di qualunque cosa gli si parli, anche quando più stringa il bisogno, egli toglie occasione a trarre in mezzo qualche bella autorità, o qualche esempio notabile, ed essendo tutto parole, si vanta, come l’Aristarco degli Ingiusti sdegni, che se molti fossero i pari suoi, tosto tornerebbero al mondo gli Antonii, i Catulli, i Crassi, i Gracchi e quegli altri omaccioni del tempo antico[317]. Argomenta secondo tutte le forme del sillogismo, concede la maggiore, nega la minore, e tenendosi sempre a cavallo della logica, dice spropositi da cavallo. Ha sempre qualche regola generale da applicare al caso particolare, non mai qualche avvedimento o consiglio che possa far pro. Ha egli da ammonire un giovane innamorato? La natura d’amore si è questa, e Platone dice così. Si duole taluno con lui di cosa che gl’intravenga? Udite questo passo di Seneca. Vuol egli biasimare i suoi tempi? Eccolo con l’auri sacra fames, e l’o tempora, o mores. Gli è la troppa dottrina che porta così: Agasone confessa che l’avere troppo famigliare Cicerone talvolta gli nuoce[318]. Come non dar ragione a Flaminio, quando, dopo aver sopportato un pezzo i nojosi discorsi del suo precettore, esclama: «Io non credo che sia il più ladro [204] romper di testa, nè il più crudo crepacuore che l’esser sforzato di dare orecchia a uno di questi pedanti!»[319].
Il discepolo che, come quello introdotto da Persio in una delle sue satire, è sempre svogliato, e a cui un primo amore moltiplica nell’animo l’odio nativo al giogo magistrale, e il servo che gli tien di mano, sono i primi e più naturali nemici del pedante, ma non sono i soli. De’ personaggi che gli stanno intorno nessuno gli è amico propriamente, nemmeno il padre dell’alunno, ed egli è sempre alle prese con capitani, con bari, con parassiti, con parabolani, con baldracche, bastonato spesso, deriso e vituperato sempre. Nel Marescalco, un giovane paggio e quella mala zeppa di Giannico gli appiccan dietro certi scoppietti, cui poi dan fuoco; nel Travaglia del Calmo è preso a sassate da un Garbino, ragazzo; nell’Altea, di Giovanni Sinibalbo da Morro, è messo in un sacco; nella commedia di Francesco Bello, appunto intitolata Il Pedante, egli, sebbene si dica eletto et approbato da sua Santità, censore et maestro regionario, con stipendio congruo et condecente, finisce solennemente picchiato. Non dico nulla delle beffe e dei biasimi, che cominciano con istravolgere nelle più strane guise il nome del malcapitato, nome già di per sè molte volte ridicolo[320], e finiscono con invettive e contumelie. Metafrasto è dal servo Balestra chiamato armario, archivio, calendario di tutte le castronerie, chiavica delle sciocchezze[321]; nell’Altea di Giovanni Sinibaldo un altro servo [205] regala al pedante Plauto l’obbrobrioso nome di Gano di Maganza. Nella Turca di Giovan Francesco Loredano, Agrimonio, minacciato di legnate, si salva ricordando che gli Oratori sono rispettati da tutte le leggi humane; ma discepolo e servo lo caricano di vituperii, con versi ridicoli fatti ad imitazione dei suoi. Nella Fantesca di Giambattista Della Porta, Essandro, minacciando Narticoforo di andargli dietro sino a Roma per ucciderlo, grida: Non so io che abiti vicino al Culiseo?[322]. Il povero pedante non ha che un personaggio solo con cui ricattarsi di tutte le beffe e di tutte le busse che gli toccano, e questo è il capitano, spesso suo rivale in amore. Il capitano sbravazza, inveisce, ma finge di non volere adoperar l’arme contro un vile pedante, e allora il vile pedante, col volume che ha tra le mani, gli dà un picchio in sul capo e gli fa levar le calcagna. Ho accennato a rivalità d’amore: non di rado infatti il pedante è innamorato, e s’intende, senza dirlo, che di quanti pedanti son sulla scena, l’innamorato è il più ridicolo. Allora i suoi sospiri, i suoi vezzi, le sue smanie, le epistole amatorie che detta, i versi che compone, i discorsi che studia e manda a memoria, sono nuova occasione di scherno, e spesse volte di peggio. E come se tanto non bastasse, dopo avere per tutta la durata della commedia fatto ridere alle sue spalle, egli, non di rado, rimasto solo sulla scena, dà licenzia agli spettatori, e con l’ultime sue parole suscita l’ultima risata.
Il lettore non l’avrà, spero, a male, se dopo avergli mostrato qual fosse in genere il personaggio comico del pedante, io gli faccio passar dinanzi un po’ più a bell’agio [206] il pedante di una particolare commedia, il pedante più perfetto che sia sul teatro, il pedante di quella singolarissima commedia che è il Candelaio di Giordano Bruno. Egli si chiama Manfurio e Pollula è il suo discepolo. Entrando in iscena la prima volta, egli trova costui in compagnia di certo Sanguino, furfante di tre cotte, e lo saluta benignamente e latinamente: Bene reperiaris, bonae melioris optimaeque indolis adolescentule! Quomodo tecum agitur? ut vales? L’alunno si scusa in volgare di non potersi trattener oltre con lui, ed egli:
Ho buttati indarno i miei dictati, li quali nel mio almo minervale (excerpendoli da l’acumine del mio Marte) ti ho fatto nelle candide pagine col calamo di negro atramento intincto exarare. Buttati, dico, incassum, cum sit che a tempo e loco, earum servata ratione, servirtene non sai. Mentre il tuo precettore con quel celeberrimo apud omnes, etiam barbaras, nationes, idioma lazio ti sciscita, tu etiamdum, persistendo nel commercio bestiis similitudinario del volgo ignaro, abdicaris a theatro literarum, dandomi responso composto di verbi, quali da la balia et obstetrice in incunabulis hai susceputi, vel, ut melius dicam, suscepti. Dimmi, sciocco, quando vuoi dispuerascere?
Sanguino. Maestro, con questo diavolo di parlare per gramuffo, o catacumbaro, o delegante e latrinesco, ammorbate il cielo e tutto il mondo vi burla.
Manfurio. Sì, se questo megalocosmo e machina mundiale, o scelesto et inurbano, fusse de’ pari tuoi referto e confarcito.
La scena seguita su questo tono, finchè Marfurio, riconciliatosi con l’alunno e con Sanguino, gli accomiata dicendo: Itene dunque coi fausti volatili! Rimasto solo, trova una nuova etimologia di muliercula, derivandola da mollis Hercules, e affrettandosi per andare a notarla nel libro delle proprie elucubrazioni, esclama: Nulla dies sine linea![323].
[207]
Sorpasso a una scena comicissima[324] nella quale un messer Ottaviano finge di non poter reggere alla dolcezza che gli mette nell’animo il parlar di Manfurio, poi, fattisi recitare da costui certi versi, scelleratissimi, muta registro e lo schernisce, scimmiottandolo; sorpasso a un’altra[325], nella quale Manfurio legge a Pollula certi altri suoi versi, insegnandogli l’arte di fare i punti secondo la ragione dei periodi e a profferire con la dovuta energia; sorpasso a una terza[326], in cui Manfurio fa derivare la parola pedante da pede ante, «utpote quia have lo incesso prosequitivo, col quale fa andare avanti gli erudiendi pueri», e Giovanni Bernardo, pittore, la fa derivare da pe, pecorone, dan, da nulla, te, testa d’asino; e vengo alle scene capitali, dove toccano a Manfurio gli ultimi danni e le ultime vergogne. Corcovizzo, altro furfante, socio di Sanguino, di Barra e di Marca, fingendo di voler cambiare sei doppioni, arraffa a Manfurio una decina di ducati[327]. Vedendo il gaglioffo darsela a gambe, Manfurio grida con quanto fiato ha in corpo: «Olà, olà, qua, qua! ajuto, ajuto! Tenetelo, tenetelo! A l’involatore, al rurreptore, al surreptore! Al fure, amputatore di marsupii et incisore di crumene!». Accorrono Barra e Marca, i quali, fingendo di non intendere ciò che il pedante si voglia con quel fure e con quel surreptore, si lasciano fuggire il ladro di mano.
Barra ... E voi per che non cridavate al mariolo, al mariolo? che non so che diavolo di linguaggio avete usato.
Manfurio. Questo vocabolo che voi dite non è latino, nè etrusco, e però non lo proferiscono i miei pari.
Barra. Perchè non cridavate al ladro?
[208]
Manfurio. Latro, assassinator di strada, in qua, vel ad quam latet. Fur, qui furtim et subdole, come costui mi ha fatto, qui et subreptor dicitur a subtus rapiendo, vel rependo, per che sotto specimine di uomo da bene, mi ha decepto. Oimè, i scudi! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Marca. Dite, perchè non correvate a presso lui?
Manfurio. Volete voi, ch’un grave moderator di ludo literario e togato avesse per publica platea accelerato il gresso?[328].
Soppraggiunge Sanguino, il quale dice di sapere chi sia il ladro, e dove si appiattì, e promette al pedante di fargli ricuperare gli scudi, purchè vada con esso loro in traccia del reo. A tal fine gli fa mutare i panni magistrali coi cenci degli altri due compari[329]; dopo di che i tre lo conducono in una casa con due porte, abitata da certe meretrici, e lasciatolo sotto un atrio, se ne vanno tranquillamente pei fatti loro. Questo secondo inganno è narrato dallo stesso Manfurio[330], e non è l’ultimo: ora viene il maggiore. Ecco in iscena Sanguino, Marca, Barra e Corcovizzo travestiti da sbirri[331]: Manfurio, per sua disgrazia, capita loro tra’ piedi. I falsi sbirri non lo riconoscono per maestro, fingon di credere ch’egli abbia rubato quel mantelletto che ha indosso, lo assoggettano a un ridicolo esame, mostrano d’intender male quanto egli dice dei generi e lo chiudono in una stanza per poi condurlo innanzi al magistrato. Al finire della commedia lo trascinano di nuovo sulla scena e il capitan Sanguino gli offre di lasciarlo andar libero a patto che dia tutti i denari che ha in borsa, o si prenda dieci spalmate, o cinquanta staffilate a scelta. Non volendo perdere quei pochi scudi che ancor gli rimangono, il pover [209] uomo nega di averne ed elegge le spalmate; ma, fatto saggio delle prime, chiede in grazia le staffilate. Barra se lo leva sulle spalle, Marca lo tien per i piedi, Corcovizzo gli spunta le brache, e Sanguino comincia a batter la zolfa, ordinando al pedante di tener bene il conto.
Sanguino. Al nome di S. Scoppettella, conta, tof.
Manfurio. Tof, una. Tof, oh, tre. Tof, oh, ohi, quattro. Tof, oimè, oimè! Tof, ahi, oimè. Tof, o per amor di dio, sette.
Sanguino. Cominciamo da principio un’altra volta; vedete se dopo quattro son sette. Dovevi dir cinque.
Manfurio. Oimè! che farò io? Erano in rei veritate sette.
Sanguino. Dovevi contarle ad una ad una. Orsù via, di nuovo. Tof.
Manfurio. Tof, una. Tof, oimè! due. Tof, tof, tof, tre di dio. Tof, non più. Tof, tof, non più! chè vogliamo, tof, veder ne la giornea, tof, che vi saran alquanti scudi.
Sanguino. Bisogna contar da capo, chè ne ha lasciate che non ha contate.
Barra. Perdonategli di grazia, signor capitano, per che vuol far quell’altra elezione di pagar la strenna.
Sanguino. Lui non ha nulla.
Manfurio. Ita, ita; chè adesso mi ricordo aver più di quattro scudi.
Invece di quattro, gli sbirri gli trovano sette scudi, e già si accingono a levarlo di nuovo a cavallo per punirlo con altre staffilate di quella menzogna, quand’egli li placa, lasciando loro nelle mani, oltre agli scudi, anche il mantello e la giornea; poi, rubato, burlato, bastonato, ma non guarito della sua pedanteria, ricomincia a sgramuffar come prima, e con un ultimo, ridicolo sproloquio accommiata gli spettatori. Questo Manfurio non è, del resto, il solo pedante immaginato dal Bruno: un altro se ne trova, come abbiam veduto, nella Cena de le ceneri, e più altri nel De la causa, principio et uno, nel De l’infinito universo e mondi, nella Cabala del cavallo pegaseo.
[210]
Il personaggio del pedante, come quello del capitano, passando d’una in altra commedia, si esagera sempre più, si fissa in certi caratteri, tende, come il capitano appunto, come il dottore, come il servo, a diventar maschera[332]. Cresce in pari tempo il numero delle commedie in cui esso compare: Giambattista Guarini lo introduce nella Idropica; Gerolamo Razzi nella Gostanza; Giambattista Della Porta in quattro delle sue dodici commedie, e nelle loro lo introducono altri parecchi. Poi un bel giorno il pedante passa dalla commedia erudita nella commedia a soggetto; ma non vi prende quel luogo che parrebbe vi dovesse prendere. Probabilmente gli nocque il carattere troppo letterario, e la difficoltà che incontravano autori di poche lettere a maneggiare la lingua pedantesca[333]. Flaminio Scala compose uno scenario intitolato per l’appunto Il Pedante. Cataldo è un tristo della peggior risma, il quale si caccia nelle famiglie, e con bei modi e paroline accorte si fa passare per uomo integerrimo. Maestro del figliuolo di Pantalone, s’invaghisce d’Isabella, moglie di costui, e tenta di trarla alle sue voglie. Moglie e marito ordiscono una trama. Cataldo è colto nella camera della donna e tratto in camicia sulla scena. Tre servitori, vestiti da beccai, con gran coltellacci tra mani, vengono per fargli un brutto scherzo; ma ad istanza di certo capitano si muta il troppo crudo castigo in una solenne bastonatura. Da ultimo egli è cacciato con gran vergogna, come uomo infame e vituperoso ad essempio de gli altri pedanti manigoldi [211] e furfanti come lui[334]. Come si vede, questo Cataldo ha qualche somiglianza con l’Ipocrito dell’Aretino e col Tartufo del Molière.
Non solo per tutto il Cinquecento, ma nel Seicento ancora il pedante rallegra di sua presenza le scene, cacciandosi, oltrechè nelle commedie solite, in commedie allegoriche e in drammi musicali[335]. Lo ritroviamo nella Farza Cavajola della Scola del salernitano Vincenzo Braca[336]; lo ritroviamo, il secolo scorso, nell’opera buffa Socrate immaginario, in cui ebbe mano il Galiani[337]. Con le commedie e con le compagnie comiche nostre, il pedante passò in Francia, e salì le scene francesi; mi basterà ricordare a tale proposito il Pédant joué di Cyrano de Bergerac e il Mariage forcé, il Dépit amoureux, il Bourgeois gentilhomme, e le Femmes savantes [212] del Molière. Il Dépit amoureux altro non è che una imitazione dell’Interesse del Secchi. Anche la commedia di Giordano Bruno fu imitata in Francia e pubblicata nel 1633 sotto il titolo di Boniface et le pédant.
Ma non finisce qui la dolorosa istoria del pedante. La poesia fidenziana fa la parodia del linguaggio ch’ei parla; la novella narra casi forse non veri; la commedia stessa lo deride assai più che non lo vituperi; ma tutto ciò non basta; ci vuol anche l’invettiva diretta e sanguinosa. Pasquino, che se la prendeva con tutti, non poteva non prendersela ancor coi pedanti: una bella mattina egli mise fuori un sonetto di mala fattura e di peggior sentimento, dove son questi versi:
Jate in malora, schiuma di furfanti,
Scaccia pagnotte, come un fegatiello,
Ch’a riempir questo vostro budello
Non bastarien le trippe di Elefanti.
Senza vergognia, senza discrezione,
Ch’è madre vostra (?), ne venete a Roma,
Credendo qua spacciar reputazione[338].
Ho già ricordato Francesco Ruspoli: nessuno mai deve avere avuto coi pedanti fojosi e sbraculati odio maggiore di lui. I parecchi sonetti ch’egli scaraventa loro addosso, dove toccano lasciano il segno. In uno li invita a un banchetto, in cui fa bella mostra, fra l’altro, una insalatina di rasoi; in un altro li mette nelle mani di tutti i diavoli dell’inferno; in un terzo invoca loro addosso macine in pezzi, frombole e mattoni; in più altri tocca certi tasti di assai cattivo suono, alludendo ai bei garzoni che non sono sicuri nemmeno in sagrestia, chiamando Sodoma la gran madre de’ pedanti; in tutti scaglia loro sul viso le più grosse ingiurie che mai [213] sieno state scritte. Prendendone uno di mira più particolarmente, esclama:
L’orrenda bocca e le ganasce infami
Di quel pedante spalancate al sole
Spazzino gli assassin colle pistole
Per farvi alle murelle co’ tegami[339].
Era questo certo il modo più sbrigativo per correggerli di ogni vizio, e, soprattutto, per farli tacere.
Ora i pedanti non figurano più nella commedia, nella novella, nella poesia. Ciò non vuol già dire che non ci sieno; ma hanno alquanto mutato pelo. La loro è razza vivace e di buon nerbo; finchè non le manchi il pane non le mancherà la vita.
[215]
[217]
La mattina del 18 di luglio, dell’anno 1574, Venezia era tutta in fervore ed in giubilo: in quella mattina appunto l’antica dominante adriatica doveva accogliere fra le sue mura ed ospitare il giovane Enrico di Valois, duca d’Angiò, e da poco più di tre mesi re di Polonia, il quale, abbandonata clandestinamente la sua buona città di Cracovia, e piantati in asso i suoi fedelissimi sudditi, se ne tornava a piccole giornate in Francia, per cingervi la maggiore corona che Carlo IX, suo fratello, morendo a ventiquattro anni, gli aveva inaspettatamente lasciata.
Le accoglienze e i festeggiamenti furono solenni e trionfali, degni in tutto dell’ospite augusto, degni di quella magnifica Signoria, degni della città più opulenta e fastosa che fosse allora in terra di cristiani; di quella che, nonostante alcun segno di già cominciata decadenza, nativi e forestieri s’accordavano a chiamare la regina dei mari, la meraviglia del mondo.
Già più giorni innanzi, il Senato aveva mandato incontro al principe fortunato, sino a Vienna, il segretario Bonriccio. Alla Pontebba, cioè al confine, cominciarono le onoranze maggiori. Patrizii illustri inchinarono il re al suo entrare nel territorio della Repubblica, e gli diedero [218] il benvenuto; il duca di Ferrara gli andò incontro sino a Spilimbergo; e dovunque erano artiglierie, salve fragorose e ripetute diedero segno di esultanza e fecero plauso al suo passaggio. La sera del 17, un sabato, il re giunse a Murano, già celebre sin da allora per l’artificio mirabile de’ suoi vetri, e vi passò la notte. Il giorno seguente, il doge in persona, accompagnato da tutta la Signoria, andò a levarlo con una galea soprammodo pomposa e lo condusse al Lido, ove era eretto, davanti alla chiesa di San Niccolò, un magnifico arco trionfale, opera del famoso Palladio, e di contro all’arco una grande e bellissima loggia, con dieci colonne d’ordine corinzio, e con figurate all’intorno tutte le virtù. Al Lido fu celebrata una messa, e poi il re fu condotto in Bucintoro al palazzo Foscari, dove ogni cosa era apparecchiata per degnamente ospitarlo, e quaranta giovani gentiluomini erano ordinati a servirlo. La notte ci fu grande luminaria per tutto il Canal Grande, e nei giorni seguenti le feste succedettero alle feste, gli spettacoli agli spettacoli, ininterrottamente, con tanta magnificenza e pompa, con sì grande concorso e letizia di popolo, che nulla di simile si ricordava, nè s’era veduto mai, nemmeno al tempo dell’entrata in Venezia di Caterina Cornaro, già stata regina di Cipro. Il lunedì si fece una grandissima regata d’ogni sorte legni, cosa che al giovane re riuscì al tutto nuova, e incontrò molto il suo gradimento. Il martedì entrata solenne del duca di Savoja, che con molti altri signori veniva ad ossequiare il re di Francia. Il mercoledì sontuoso banchetto nelle sale del Palazzo ducale, preceduto da un Te Deum in San Marco, rallegrato da musiche e concerti inauditi, e seguito dalla rappresentazione di una tragedia in canto: le mense erano imbandite per tremila persone. Il giovedì il re fece visita al doge, e poi fu a una festa privata nel palazzo del [219] Patriarca Grimani, del quale visitò anche il celebre studio d’antichità, o vogliam dire museo. Il venerdì giunsero in Venezia il duca di Mantova e il Gran Priore di Francia, e il buon re ebbe il gusto di prender parte in Consiglio alla elezione dei magistrati, e diede palla d’oro per Giacomo Contarini, che fu fatto dei Pregadi: la sera fuochi artificiali meravigliosi davanti al palazzo Foscari. Il sabato visita all’Arsenale, che era ancora il primo del mondo, seguita da una bellissima colazione di confezioni, e di frutti di zuccari, coi cortelli, con le tovaglie, coi piatti, e con le forcine (cosa non più escogitata) fatte di zuccaro. La domenica ballo nella sala del Gran Consiglio, dove si trovarono dugento gentildonne di singolar bellezza, tutte vestite di bianco, e adornate di perle, e d’infinite gioje di uno incredibil valore; poi colazione ricchissima con sessanta maniere di confezioni. Il lunedì guerra di bastoni fra Castellani e Niccolotti al Ponte dei Carmini. Tutti i giorni, alle due ore di sera, singolarissimi concerti dinanzi al palazzo Foscari[340].
Il martedì finalmente, decimo giorno dall’arrivo, si partì il re da Venezia, innamorato di quella città e di quel popolo, cattivato da quelle accoglienze, stupito di tante impareggiabili pompe, lasciando molti e cospicui pegni del suo gradimento e del suo favore, e giurando, affermano gli storici, ch’egli era per serbare eterna e [220] fedele memoria dell’onore fattogli e della dimostratagli benevolenza. Ma gli storici che diedero particolareggiato ragguaglio di quegli avvenimenti memorabili; gli storici che ricordano come il re visitasse nel Fondaco dei Tedeschi il banco di quei Fugger, ricchi sfondolati, i quali, usi di soccorrere di denari imperatori e papi, potevano anche a lui far comodo di cento o dugentomila fiorini, e come comperasse da uno di quegli orafi di Rialto uno scettro di grandissima valuta e di mirabil lavoro; gli storici, dico, non accennano neanco di passata a un altro fatto del principe, fatto che può avere poca importanza per la storia di Polonia e di Francia, ma che per noi ne ha moltissima. Un bel giorno, ma più probabilmente una bella notte, il giovane re, abbarbagliati gli occhi dallo sfolgorio dei drappi d’oro, degli ostri, dei giojelli, delle argenterie, delle luminarie e dei fuochi artificiali; intronati gli orecchi dalle lunghe dicerie, dagli innumerevoli versi recitati in suo onore, dai singolarissimi concerti e dallo sbombardamento delle artiglierie; imbuzzito a furia di desinari interminabili, e di colazioni ricchissime; leggermente fastidito delle cerimonie ufficiali, e, si può credere, messo in uzzolo dalla vista di tante belle patrizie, sentì desiderio di alcun gaudio più tranquillo e più intimo, e uscito alla chetichella dal miracoloso palazzo che ancora si specchia nell’acque del Canal Grande, se n’andò, guidato senza dubbio da un Mentore servizievole e discreto, in contrada di San Giovanni Crisostomo, e quivi picchiò all’uscio di una casa di onesta e decorosa apparenza, entro la quale fu immantinente ricevuto. In quella casa abitava Veronica Franco, veneziana di nascita, cortigiana di professione, poetessa per inclinazione e per ingegno. Il serenissimo doge e l’almo Senato non avevano pensato che Enrico di Valois, re di Polonia e di Francia, non passava il ventesimoterzo anno dell’età sua.
[221]
La notizia del fatto memorabile noi la dobbiamo alla Veronica stessa, la quale, in una lettera scritta appunto all’invittissimo e cristianissimo Re Enrico III, e che è la seconda del suo volume di Lettere familiari a diversi, ricorda con legittimo orgoglio il giorno felice in cui egli degnò di sua regale presenza l’umile abitazione di lei. La Veronica non entra in altri particolari circa il colloquio; ma noi abbiamo ragione di credere che il re ne rimanesse contento, perchè in partirsi tolse un ritratto di lei, condotto in ismalto, e fece molte benigne e graziose offerte, le quali non sappiamo che seguito avessero. Nella lettera ella promette di dedicare a lui un suo libro, e gli manda intanto due sonetti, nel primo dei quali la visita di lui è assomigliata alle visite che Giove si degnava di fare in antico alle povere mortali, e nell’altro ella esprime il desiderio di alzar fuor del mondo e sopra il cielo con le sue lodi il giovane eroe
In armi, e in pace, a mille prove esperto.
Ma che donna mai era cotesta Veronica, e quali le sue prerogative, perchè un re coronato, ospite della più illustre e possente delle repubbliche, andasse, in occasione di tanta solennità, a visitarla nella propria casa di lei, ne togliesse come grato ricordo il ritratto, le facesse graziose e generose profferte? Che donna era cotesta, la quale poteva farsi lecito di scrivere a cotal re una lettera in cui quella visita e quelle altre particolarità erano ricordate, poteva offrire e promettere un libro in cui ella, Veronica, avrebbe celebrato e glorificato quel re, e poteva far pubblica quella lettera per le stampe, di maniera che a ognuno fosse dato vederla? Se noi diciamo ch’ella era una cortigiana, come innegabilmente era, ci par di dire cosa la quale non solo non giustifichi e non ispieghi i portamenti di lui e di lei, ma dovrebbe, piuttosto, far supporre di lui e di lei [222] portamenti in tutto diversi. Ora, nè il re mostra di vergognarsi della famigliarità ch’egli ha con la cortigiana, nè la cortigiana mostra di sospettare che il re possa vergognarsene, e che per conseguenza s’addica a lei un prudente riserbo e una lodevole discrezione. Ma se così è, vorrà dire che quel nome di cortigiana, non ha, o non aveva allora, il pessimo significato che gli si suole attribuire; vorrà dire che la cortigiana non era giudicata così severamente come pare a noi che dovrebb’essere giudicata, e che il più mite e benevolo giudizio le permetteva di tenere nella civil società un luogo che non avrebbe altrimenti tenuto, di godere immunità e benefizii che non avrebbe altrimenti goduto.
Procuriamo dunque, prima di andare innanzi, di farci un giusto concetto di ciò che fosse la cortigiana nel Cinquecento, e gioviamoci a tal fine delle testimonianze e dei giudizii dei contemporanei. Tali testimonianze e tali giudizii non sempre sono concordi, anzi si contraddicono spesso; ma se noi riusciamo ad intender bene le ragioni che variamente muovono giudici e testimoni, le contraddizioni si spiegheran facilmente, e non ci torran di conoscere il vero delle cose. La digressione sarà un pochino lunga, ma, oso sperare, non nojosa; e se, giunti al termine di essa, avremo acquistato della cortigiana, dei suoi costumi, della sua condizion di vita, una nozione più piena e più esatta che prima non avevamo, ci riuscirà incomparabilmente più agevole intender l’animo e la vita di Veronica Franco, alla quale allora ritorneremo[341].
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Sperone Speroni, in una Orazione che compose contro le cortigiane e le innumerevoli loro opere irrazionali, esce a un certo punto in queste formali parole: «Dico adunque..... che la cortigiania delle male femmine è una antica, ma vile e sozza professione, novellamente di gentil nome adornata. Scorti altra volta latinamente e meretrici per vero nome solea chiamarle la Italia; ma per più vero e più proprio si nominavano peccatrici. Io veramente sendo fanciullo con tal disprezzo sentia parlarne per le contrade, mentre passavano alla sfuggita, che quelle istesse, che ogni vergogna parea che avessero per niente, dalla natura sospinte, che razionali l’avea pur fatte, al lor dispetto arrossavano; ed era tanto cotal rossor vergognoso, che vincea l’altro, ond’elle il viso si ricopriano: or non so come, o per qual cagione l’uso del mondo, che in fatto e in detto è corrotto, le voglia chiamar cortigiane»[342]: egli, lo Speroni, le chiama invece monstri infelici. Poniamo che in questa [224] lamentazione ci sia parecchia retorica, e che nel tempo in cui l’autore di essa era fanciullo, cioè nei primi anni del secolo XVI, le peccatrici non fossero così pronte ad arrossire come egli pretende; di vero c’è ad ogni modo una cosa per noi molto importante, anzi due: la prima, che l’uso del mondo voleva allora si chiamassero cortigiane quelle che in passato si solevano chiamar peccatrici (o altrimenti, chè lo Speroni non si cura, o forse non si degna, di ricordare altri nomi); la seconda, che queste cortigiane erano imbaldanzite molto, e non si vergognavano più tanto di loro condizione come in passato se n’erano vergognate; il che non vuol dir altro se non che quella condizione sembrava molto men vile agli occhi lor proprii e agli occhi altrui.
Il mutamento del nome rivela in questo caso un mutamento profondo avvenuto nelle idee e nella vita. Il nome di peccatrice era suggerito da certi concetti fondamentali della credenza religiosa e della morale cristiana, e implicava biasimo assoluto, senza temperamento alcuno: il nome di cortigiana è suggerito da tutt’altri concetti, in massima parte contrarii a quelli, e non solo, per sè, non implica biasimo, ma, anzi, implica lode, e, starei per dire, glorificazione. Esso rimanda senz’altro al Rinascimento, alla sua coltura, alle sue tendenze, al nuovo intuito delle cose, e al nuovo sentimento della vita che quello recò nel mondo. In fatti, dov’è che la coltura del Rinascimento, e la vita informata a quella coltura, riescono più intense, più piene, e raggiungono la perfezione loro? Nelle corti e intorno alle corti. E qual è l’uomo in cui meglio si personifica quella coltura, e che più pienamente sa vivere quella vita? Il cortigiano perfetto, quale l’ha descritto nel famoso suo libro Baldassar Castiglione. Ora, per sè stesso, il nome di cortigiana non diversifica da quello di cortigiano se non pel genere; è, come quello, nome [225] di tutto onore, e suggerisce, al par di quello, l’idea (molte volte contraddetta dai fatti, nol nego) che la persona designata per esso sia persona ornata d’ogni pregio e virtù, persona compita, della cui conversazione nessuno s’ha a vergognare, come essa non s’ha a vergognare della sua qualità.
Il Rinascimento fiorito chiama dunque con nome onorifico la donna che l’età precedente chiamava con nome d’infamia; al qual proposito non si vuol dimenticare che un altro nome onorifico viene a lei dato nel Cinquecento, ed è quello di signora. Ma qui non si tratta di un semplice mutamento di nome, come potrebbe a prima giunta sembrare, e come, a torto, lo Speroni vorrebbe lasciar credere. Sotto il nome mutato c’è la cosa anch’essa mutata; e se la cortigiana rimaneva pur sempre una peccatrice, non era più la peccatrice di prima. Vero è che, l’uso degenerando in abuso, il nome di cortigiana fu molto spesso dato nel Cinquecento a tutte le donne di mala vita, indistintamente; ma di quanti altri nomi, serbati in principio a un uso particolare, non è avvenuto lo stesso?[343]. Tutti i nomi che [226] hanno dell’onorevole vanno soggetti a indebite appropriazioni, a illegittime estensioni di significato. Da altra banda, se le donne tutte di mala vita furono spesso nel Cinquecento chiamate cortigiane, non è men vero, che si cercò, allora stesso, con qualificazioni e con aggiunti di più e men felice invenzione, di ripristinare le distinzioni opportune, e toglier di mezzo l’equivoco. Così è che in certo censimento della città di Roma, fatto ai tempi di Leone X[344], si trovano le denominazioni di cortesana, o di curiale, senz’altro, che dicono, l’una in volgare, l’altra in latino, il medesimo; di cortesana puttana, di cortesana da lume o da candela, e di cortesana onesta. A noi quell’accozzo di cortesana e di onesta sembra veramente una cosa assai strana; ma ai contemporanei di Leone X non sembrava così. Giovanni Burchard, maestro di cerimonie di Alessandro VI, e vescovo di Città di Castello, narra una curiosa storia di certa Cursetta romana, da lui chiamata, senza esitazione alcuna, meretrix honesta, e narra pure come l’ultima domenica d’ottobre dell’anno 1501, vigilia d’Ognissanti, cenarono col duca Valentino, nel Palazzo apostolico, cinquanta meretrices honestae, cortegianae nuncupatae, le quali dopo cena danzarono ignude e fecero altre prove di lor valentia e di lor arte in presenza di esso duca, della sorella di lui Lucrezia, e del padre di entrambi, il buon pontefice Alessandro VI[345]. [227] Questo passo del famoso diarista prova, tra l’altro, che il nome di cortigiana era venuto in uso, secondo ogni probabilità, già qualche anno prima del 1500, e che lo Speroni assegnava a quel nome un’origine troppo tarda[346]. [228] In un libro di memorie della famiglia Chigi, scritto da quel Fabio Chigi che poi fu papa col nome di Alessandro VII, la famosa Imperia è chiamata nobilissimum Romae scortum[347]. Il censimento testè citato fa anche ricordo di cortigiane piacevoli e di cortesane della minor sorte, e usa altri nomi che non accade ripetere. Da canto suo Marin Sanudo chiama in un luogo de’ suoi Diarii le cortigiane di lusso puttane sontuose, e onorata e nominata meretrice chiama in un altro certa signora Angiola. Una Lista fiorentina dell’anno 1569 classifica le meretrici in ricche, mediocri e povere[348], e le ricche sono per lo appunto le cortigiane oneste.
Vediamo dunque un po’ più da vicino qual fosse la condizione, quali fossero i costumi e i portamenti di queste cortigiane oneste, o se troppo dispiace l’associazione di quel sostantivo e di quell’aggettivo, delle cortigiane senz’altro, avvertendo che noi non vogliamo badare ora se non a quelle cui tal nome appartiene più ragionevolmente, a quelle cioè che debbono in molta parte il carattere e l’esser loro alla civiltà del Rinascimento. Delle altre, più numerose assai, cui quella civiltà non educò, non trasformò, non vogliam tener conto.
[229]
Chiamata a vivere in mezzo ad una società in cui la coltura era largamente diffusa, e che aveva la coltura in grandissimo pregio, la cortigiana doveva esser colta, tanto più che le donne oneste erano, in certe classi, spesso coltissime. Nella commedia del Guarini intitolata L’Idropica, Loretta, che è una figura non molto viva, ma, se si può dire, molto corretta di cortigiana compita, così parla di sè: «vedendo mia madre (perchè già la sua macina faceva più crusca assai, che farina) la buona piega della vita mia, pensò di rinverdire nella mia giovinezza le sue passate prodezze: ed avendomi fatte imparare le sette arti liberali, aperse casa a tutta Vicenza, cominciando a tener trebbj d’ogni sorta»[349]. La famosa Imperia, fiorita nei primi anni del secolo, aveva appreso a compor rime volgari da Niccolò Campano, detto lo Strascino, ed era in grado di leggere, sembra, gli autori latini. Lucrezia, soprannominata Madrema non vuole, sapeva riprendere chiunque non parlasse secondo il buon uso, o quello che a lei sembrava il buon uso, e un cotal Ludovico, il quale fa professione di praticar cortigiane, dice di lei in uno dei Ragionamenti di Pietro Aretino: «ella mi pare un Tullio, e ha tutto il Petrarca e ’l Boccaccio a mente, ed infiniti e bei versi latini di Virgilio e d’Orazio e d’Ovidio e di mille altri autori»[350]. Lucrezia Squarcia, veneziana, ricordata in certa Tariffa, si faceva vedere
Recando spesso il Petrarchetto in mano.
Di Virgilio le carte ed or d’Omero,
e spesso disputava del parlar toscano[351]. Una Nicolosa, ebrea, ricordata ancor essa dall’Aretino, leggeva i salmi [230] in ebraico[352]. Tullia d’Aragona e Veronica Franco hanno i nomi loro registrati onorevolmente nelle storie letterarie. Camilla Pisana aveva composto un libro e datolo a correggere a Francesco del Nero[353], e le lettere di lei che si hanno a stampa sono scritte con un fare un po’ caricato, ma non prive di eleganza, con latinismi frequenti e con intere frasi latine. Ercole Bentivoglio indirizza a una signora Agnola, veneziana (forse Angela Zaffetta) il suo capitolo Della lingua tosca, ed esprimeva il desiderio d’imparare da lei il dolce e garbato dialetto di Venezia. Se s’ha a credere ad Alfonso de’ Pazzi, Tullia d’Aragona, non solo faceva correggere le sue scritture dal Varchi, ma col Varchi insieme studiava e lavorava:
La Tullia, il Varchi ed Ugolino e lei
Han fatto lega e studian tutta notte,
E voglion pur che i ranocchi sian botte
E che gli etruschi non siano aramei[354].
[231]
Vero è che taluna, non riuscendoci da sè, si faceva comporre da qualche letterato amico le lettere e i versi.
Ma la cortigiana di recapito non si contentava della sola coltura letteraria; essa doveva ancora andare adorna di altre virtù, come allora dicevasi; cantare, se la natura le aveva fatto dono di bella voce[355], sonare uno o più strumenti, danzare con grazia, e usare poi sempre soavità nel parlare, e garbatezza nei modi. Bisognava [232] che, stando almeno alle apparenze, si potesse dir sempre di lei ciò che il Lasca diceva di Nannina Zinzera[356]:
D’atti è sì piena, e modi signorili,
Che come l’ombra dal sol fuggir suole,
Fuggon da lei le cose basse e vili;
e ciò che il Coppetta diceva a Ortensia Greca[357]:
E che voi non volete, a tutti è espresso
O meccanica cosa, o men ch’onesta
Far, nè lasciar che vi si faccia appresso.
[233]
Aveva dunque torto il pedante Cinzio di certa commedia del Domenichi a dire: Le cortigiane non sono cortigiane nè cortesi[358].
La cortigiana non aveva obbligo d’essere letterata e scrittrice; ma doveva avere lo spirito pronto e la lingua sciolta; doveva sapere coi vezzi, col brio, con l’arguzia, coi modi affabili e accorti, col vario uso delle sue varie virtù, invaghire i cortigiani, ammaliare i letterati, imbertonire i prelati, intrattenere un crocchio, prender parte a una disputa, dar anima a una festa. L’Aretino, scrivendo a una Zufolina, amicissima sua, accenna allo scaltrito ingegno, alla arguta festività, alla signorile creanza ch’ella ebbe dall’aria del toscano paese, dalla natura e dalla pratica, e dice tra l’altro: «i Duchi e le Duchesse se intertengano con lo intertenimento delle [234] vostre chiacchiare molto insalate e molto appetitose; sentenzie che fumano vi scappano di bocca e tra i denti. Di pinocchiato, di savonia, e di marzapane sono le ciancie che voi date a qualunche si crede che voi siate una baja»[359]. E il Calmo scriveva nel suo vispo dialetto a una madonna Vienna Rizzi, che da Venezia s’era tramutata in Roma: «el me par da vederve tutta aierosa, maistra de motizari, astuta de resposte, cativeta de dar canate, lenguina piena de acenti toscani, e baldanzosa con chi ha del mobele del re Mida»[360]. Della famosa Isabella de Luna, spagnuola, che aveva viaggiato mezzo mondo, era stata a Tunisi e alla Goletta, e aveva un tempo seguitata la corte dell’imperatore in Germania e in Fiandra, dice il Bandello che in Roma era tenuta «per la più avveduta e scaltrita femina che stata ci sia già mai». E soggiunge: «Ella è di grandissimo intertenimento in una compagnia, siano gli uomini di che grado si vogliano; perciocchè con tutti si sa accomodare e dar la sua a ciascuno. È piacevolissima, affabile, arguta, e in dare a’ tempi suoi le risposte a ciò che si ragiona, prontissima. Parla molto bene italiano; e se è punta, non crediate che si sgomenti, e che le manchino parole a punger chi la tocca; perchè è mordace di lingua, e non guarda in viso a nessuno, ma dà con le sue pungenti parole mazzate da orbo»[361]. Messer Matteo reca qui e altrove[362] le prove di ciò che asserisce. Non meno arguta, nè meno mordace di lingua era la Giulia Ferrarese, madre di Tullia d’Aragona. Narra il Domenichi: «Fu fatta la strada del popolo in Roma, lastricata da i tributi che le puttane [235] pagavano: nella quale scontrando la Giulia Ferrarese una gentildonna, l’urtò un poco. Allora la gentildonna alterata cominciò a dirle villania. Rispose la Giulia: Madonna, perdonatemi, che io so bene, che voi avete più ragione in questa via che non ho io»[363]. Non è dunque da stupire se la conversazione delle lor pari era desiderata e cercata, e se esse s’ingegnavano di trar profitto anche di quella. Il Montaigne, ch’ebbe a farne la prova, assicura che esse (almeno in Venezia) facevansi pagare i semplici colloquii quanto la négociation entière[364].
Che le cortigiane dovessero avere in tutto o in parte le virtù testè enumerate non parrà certo strano a chi ripensi i caratteri di quella civiltà, le usanze e i gusti degli uomini di quel tempo; ma che quelle stesse virtù s’avessero a trovare in qualche misura anche negli agenti di esse cortigiane, e procuratori d’amore in genere, ossia, per parlar più chiaro, nei mezzani, parrà strano a più d’uno. E pure era così. Quel bell’umore di Tommaso Garzoni narra della coltura del mezzano cose veramente miracolose e incredibili. «Imita il grammatico nel scriver le lettere amorose tanto ben messe, e tanto bene apuntate, che rendono stupore, nel dettar politamente, nel spiegar galantemente, nell’isprimer secretamente il suo pensiero..... Appare un poeta nel descrivere i casi acerbi con pietà di parole, i fatti allegri con giubilo di core..... Porta seco i sonetti del Petrarca, le rime del Cieco d’Adria, l’Arcadia del Sannazaro, i madrigali del Parabosco, il Furioso, l’Amadigi, l’Anguillara, il Dolce, il Tasso, e sopra tutto i strambotti [236] d’Olimpo da Sassoferrato, come più facili, sono i suoi divoti per ogni occasione..... Si reca dietro qualche sonetto in seno, un madrigale in mano, una sestina galante, una canzone polita, con un verso sonoro, con uno stil grave, con parlar facondo, con tropi eleganti, con figure eloquenti, con parole terse, con un dir limato, che par che il Bembo, o il Caro, o il Veniero, o il Gosellini l’abbiano fatto allora allora; e si mostra alla diva con lettere d’oro, con caratteri preziosi; si legge con dolcezza, si pronunzia con soavità, si dichiara con modo, si scopre l’intenzione, si manifesta il senso, e si palesa il fine del poeta..... Con la musica diletta sovente le orecchie delle giovani, mollifica l’animo d’ogni lascivia, ruina i costumi, disperde la onestà, infiamma l’alme di cocente amore, incende i spiriti di concupiscenza carnale; mentre si cantan lamenti, disperazioni, frottole, stanze e terzetti, canzoni, villanelle, barzellette, e si tocca la cetra, o il lauto, a una battaglia amorosa, a una bergamasca gentile, a una fiorentina garbata, a una gagliarda polita, a una moresca graziosa, e pian piano s’invita ai balli ed alle danze, dove i tatti vanno in volta, i baci si fanno avanti le parole secrete, ecc. ecc.»[365].
C’erano molti, gli è vero, ai quali queste ed altrettali virtù riuscivano sospette nelle cortigiane medesime. Pietro Aretino, il quale credeva che nelle donne, in generale, [237] la coltura fosse stimolo al mal costume[366], e diceva «i suoni, i canti e le lettre che sanno le femmine» essere «le chiavi che aprono le porte della pudicizia loro»[367]; Pietro Aretino, dottissimo in questa parte, affermava non essere altro le virtù delle cortigiane, se non panie e lacciuoli tesi agli amanti[368]; e di tali virtuose diceva il Garzoni: «Onde pensi che nascano i canti, i suoni, i balli, i giuochi, le feste, le vegghie, i conviti, i diporti loro, se non da quell’intento d’aver l’applauso, il commercio, il concorso della turba infelice di questi amanti, che rapiti da quelle voci angeliche e soprane, attratti da quei suoni divini di arpicordi e lauti, impazziti in quei moti, e in quei giri loro tanto attrattivi, consumati in quei giuochi spassevoli, dileguati in quelle feste giulive, addormentati in quelle vegghie pellegrine, immersi in quei conviti di Venere [238] e di Bacco, morti nel mezzo di quei soavi diporti, restino prigioni e servi del lor fallace ed insidioso amore?»[369]. Ma poichè, contrariamente alla opinione dei pochi, la opinione dei molti era che donna bella ed onesta non potesse avere, oltre alla bellezza e all’onestà, più degno ornamento di quello che viene dall’ingegno e dalla coltura, così non era possibile che i molti biasimassero nelle cortigiane ciò che nelle donne oneste lodavano, e temessero in quelle ciò che cercano in queste. Certo, vivendo in mezzo a una società in cui tutti eran colti, e in cui l’ingegno e la coltura erano tenuti sommamente in pregio, anche le cortigiane, se volevano aver seguito, bisognava si ponessero in grado di soddisfare al gusto comune, e perciò si può dire che l’esercizio e l’accorta ostentazione di quelle varie virtù che abbiam vedute facevano parte del loro mestiere, erano tra l’arti loro di richiamo più attrattive ed efficaci. Ma ciò non vuol già dire che esse non potessero compiacersi in quell’esercizio anche pel piacere che ci trovavano, indipendentemente dal guadagno che ne poteva venir loro. Erano anch’esse figlie del Rinascimento, e potevano, al pari di tante gentildonne onorate, i cui nomi la storia ricorda, legger libri, compor versi, coltivare la musica, per ragion di gusto naturale, e, ancora, per acquistar fama. Una prova di ciò si ha nel fatto che le cortigiane cercavano la compagnia e la famigliarità dei letterati assai più che l’utile loro non sembrasse richiedere. I letterati potevano, è vero, aiutarle in più di una occorrenza, potevano anche adoperarsi a metterle in vista; ma avevano, ad ogni modo, un ben grave difetto, quello, cioè, d’essere assai più ricchi di fama che di quattrini. Gli è che le cortigiane, [239] se non tutte, almen le migliori, si compiacevano anch’esse in quelle cose in cui tutti si compiacevano; gli è che l’estro poetico poteva pungere parecchie tra esse come pungeva altri infiniti, e che la gloria, la quale assetava di sè tante anime, poteva destare un po’ d’ardore anche nelle anime loro.
Come non trascuravano le doti e gli ornamenti dello spirito, così pure non trascuravano le cortigiane, ed è naturale, le doti e gli ornamenti del corpo, e, generalmente parlando, nessuno di quei sussidii onde la loro professione poteva in qualche maniera avvantaggiarsi. Uno dei primi accorgimenti loro, non dimenticato ai dì nostri, era di cambiare il nome, spesso troppo umile e volgare, ricevuto col battesimo, in un nome sonoro e peregrino, il quale era come un suggello poetico impresso nella persona, chiamandosi Ginevra, Virginia, Isabella, Olimpia, Elena, Diana, Lidia, Vittoria, Laura, Domizia, Lavinia, Lucrezia, Stella, Delia, Flora[370]. A cotal nome, esse medesime, o altri, solevano aggiungere quello della città natale, o della nazione, dicendo Camilla da Pisa, Giulia Ferrarese, Beatrice Spagnuola, Angiola Greca e simili; anche i soprannomi erano frequenti, e alle volte assai strani. Il nome d’Imperia valeva quasi da sè solo un titolo di nobiltà[371]; ma Lucrezia Madrema non vuole si sottoscriveva Lucrezia Porzia, Patrizia Romana[372]. Tullia d’Aragona gloriavasi, [240] e sembra a buon diritto, di aver nelle vene sangue, non pur cardinalizio, ma reale[373]. Angela Zaffetta si vantava figliuola del Procuratore Grimani, e Lucrezia Squarcia pretendeva a non so quale antiqua e gran genealogia. Il Giraldi Cinzio narra di certa Linda, la quale essendo nata di sangue assai gentile, si diede a fare la cortigiana, per inclinazione[374]. Altre, che non avevano le stesse ragioni della Tullia e della Linda, cercavano egualmente di passar per nobili, della qual cosa molto si lagna lo Zoppino nel già citato Ragionamento di messer Pietro[375].
Che le cortigiane attendessero con ogni studio a farsi belle e piacenti, non fa bisogno dirlo. Rinfrescavano la carnagione, imbianchivano e rassodavano le carni con varie maniere di belletti e di lisci, votando, come dice il Garzoni, le spezierie di biacca, di sublimato, di più maniere di allumi, di borrace, di adraganti, di acque distillate, di aceti lambiccati, e non rifuggendo neanche [241] dall’uso di certe sudicerie stomacose, alcune delle quali sono ricordate dallo Zoppino[376]. Tingevano in biondo i capelli con acque medicate di cui son pervenute sino a noi le numerose ricette, e assoggettandosi a tal uopo a pratiche lunghe e penose. Nei loro spogliatoi era un barbaglio e un arruffio di specchi, di ampolle, di bossoli, di pettini, di forbici, di giojelli[377], e l’aria affogava con l’alito acuto dell’acque rose, dell’acque nanfe, dell’acque muschiate, dei zibetti, degli ambracani, dei mirabolani, del bengiuì e di mille sorta di polveri, di pasticche, di saponi. Anzi afferma il Garzoni che tutta la casa olezzava di profumi. Nè si deve di ciò dar troppo biasimo alle cortigiane, le quali non facevano veramente se non seguitare l’usanza comune. Ercole Bentivoglio, parlando delle donne del tempo suo, dice ben rare quelle che non adoperassero il liscio[378], e quanto all’uso d’imbiondirsi i capelli, era uso di tutte le donne italiane, ma più particolarmente delle veneziane[379]. Il Tansillo comincia una terzina di certo suo capitolo col verso
Donne che a farvi i capei d’or siete use;
[242]
e lodando le donne di Francia e di Germania, che non avevano, come le italiane, quella fantasia, dice:
Nessuna se ne ammala o se n’ammazza
Per disio di portar le chiome gialle[380].
Vero è che quella fantasia l’avevano già avuta le donne romane[381].
Nel vestire, le cortigiane ostentavano somma eleganza e lusso eccessivo. Usavano biancherie finissime e profumate, vesti di seta, di velluto, di drappo d’oro ricchissime, acconciature pompose, pellicce delle più rare, guanti preparati con la concia di gelsomini di Spagna, o di garofani, trine e pizzi preziosi di Venezia, e abbagliavano con lo scintillio delle anella, delle maniglie, delle collane, dei pendenti, dei diademi. Erano sempre le prime a seguitare le nuove fogge, le quali mutavano spesso[382]. Di tanto in tanto andava una legge, o un bando, che tentava por misura a tali pompe, vietando i panni più ricchi, gli ori e le gemme; ma leggi e bandi facevano poco pro, e coloro stessi che li avevano mandati fuori li lasciavan cadere. Le cortigiane non ricche [243] toglievano, per comparir fuori di casa, vesti e ornamenti a nolo[383].
Se eccessivo era il lusso del vestire, non minore era quello delle abitazioni, degne spesse di principesse, nonchè di cortigiane. Palazzi sontuosi ospitarono sovente le Olimpie, le Diane, le Ortensie più facoltose. Una Salterella pagava in Roma ottanta scudi d’oro di pigione; Isabella di Luna ne pagava cento, somma più che cospicua pel tempo. Angela Zaffetta avrebbe voluto in fitto il palazzo dei Loredano, in Venezia[384]. Le stanze erano non di rado tappezzate di arazzi preziosi, di broccati, di drappi d’oro, di cuoi dorati, oppure mostravano le pareti e le volte dipinte da mano maestra. In terra, su per le tavole, vedevansi tappeti turcheschi. I letti avevano lenzuola di renza finissima, padiglioni di raso, coltri di seta, cuscini ricamati, e ai letti facevano degna accompagnatura seggioloni di cremisino, di velluto listato [244] d’oro, scranne scolpite, specchi riccamente incorniciati, spalliere pompose, cofani e stipi leggiadramente intagliati e intarsiati. Nelle credenze scintillavano le argenterie, le maioliche di Faenza, di Cafaggiolo, di Urbino, i vetri di Venezia; e raccolti in artificioso assetto, o sparsi in vago scompiglio, vedevansi per le stanze quadri, statue, vasi preziosi, armi eleganti, liuti e mandòle, libri sfarzosamente legati, ninnoli d’ogni sorta, e persino anticaglie, sebbene il Calmo raccomandasse alla signora Vienna di non accettarne in dono, se non quando tenessero poco luogo e valessero molti denari. Cagnuoli da tenere in grembo, gattini lindi e coi fronzoli, pappagalli loquaci, scimie ghiribizzose, e altri animali piacevoli o rari, empievano la casa dei giuochi e delle voci loro, e facevano festa alla padrona[385]. Negli atrii, nelle logge, nelle anticamere, era uno sfoggio ridente di fiori e di piante peregrine. Ancelle garbate vestivano e servivano la signora, accoglievano premurosamente le pratiche; [245] un vario e numeroso servidorame attendeva agli altri servigi di casa. Camilla da Pisa aveva a’ suoi stipendi anche un cantiniere e un fattore. E la casa era provveduta d’ogni ben di Dio. Nelle cantine invecchiavano i vini più generosi, nelle dispense le più ghiotte leccornie s’accumulavano, così che a ogni ora del giorno, al primo apparire di un ospite gradito, era facile ammannire una colazion saporita, o una stuzzicante cenetta[386]. In tali case, in mezzo a così fatto lusso, accoglievano le cortigiane [246] gli amici e ammiratori loro, e com’erano esse di tutti i ritrovi eleganti, così tenevano ritrovi elegantissimi, a’ quali non mancavano ambasciatori e prelati, cavalieri e letterati, musici e ogni altra maniera d’artisti. Tullia d’Aragona, dovunque andasse, si formava intorno la sua piccola corte. Di certa Lucia Trevisan, morta in Venezia nell’ottobre del 1514, diceva il Sanudo: «cantava per eccelenzia, era dona di tempo, tutta cortesana, e molto nominata apresso musici, dove a casa sua se reduceva tutte le virtù»[387].
[247]
Questo s’intende naturalmente delle cortigiane maggiori, le quali, se erano così magnifiche in casa, possiam figurarci quali si mostrassero fuori. Uscivano in pompa magna, molte in isplendidi cocchi[388], o cavalcando ginnetti baliosi, e mule ingualdrappate e impennacchiate, con seguito da duchesse. Madrema non vuole si tirava dietro ordinariamente dieci fantesche, altrettanti paggi e altrettante ancelle[389]. Un’altra cortigiana, di cui non ci è detto il nome, andava per Venezia in lunga processione, col maggiordomo inanzi, col paggio... e con quanti fanti e massare poteva accattar per tutta la vicinanza[390]. Così si recavano a diporto, alle feste, ai conviti, ai bagni [248] pubblici, o stufe, come si chiamavano allora[391], alle chiese, le quali erano diventate luogo di ritrovo per esse e per quanti le praticavano, e la gente lasciava la messa per farsi loro d’attorno[392]. Gli amici andavano a levarle in casa e le accompagnavan per via, ingrossando la lor brigata di quanti nuovi ammiratori incontravano cammin [249] facendo, e nel numeroso seguito non mancavano bravacci di professione, pronti a tirar l’arme in difesa delle padrone[393]. Le quali, se andavano a piedi, procedevano [250] a guisa di tante duchesse, con passi misurati, con andatura maestosa, appoggiando la mano famigliarmente sulla spalla di tale de’ loro accompagnatori, agitando con l’altra, se di state, la ventola dorata e dipinta, fatta a modo di banderuola, favellando con garbo, pompeggiandosi con grazia. Perciò aveva ragione quel buon tedesco, che parlando delle cortigiane di Roma, diceva che a vederle in istrada si sarebbero prese per donne dabbene[394]; e non aveva torto l’Antonia, quando esortava la Nanna a non dare altro stato alla figliuola, e le diceva: «facendola cortigiana di subito la fai una signora, e con quello che tu hai, e con ciò che ella si guadagnerà diventerà una reina»[395]. E i guadagni potevano veramente essere assai lauti. Molte cortigiane, anche non bellissime, arricchivano, [251] comperavano case, e le appigionavano. Dice il Coppetta nel capitolo che ho ricordato pur ora:
... ne sono molte (e ciascun lodi)
Che non son belle, e pur han fabbricato,
Ch’io non so immaginar le vie, nè i modi.
Figuriamoci dunque che cosa potessero fare le belle. La Imperia morì ricca e in casa propria; la Ortensia si fabbricò in Roma una casa da regina. Una Lombarda, ricordata nella Tariffa, s’era arricchita d’oro e di terreni. Di certa Martinella, che figura nella commedia del Contile La Pescara, dice il servo Marcello: «ella è nobile, ha denari, gioje, vesti e possessioni a Viterbo»[396]. Non è a stupire se le cortigiane insuperbivano e si vantavano de’ loro trionfi[397]. I guadagni, come ben s’intende variavano assai, come variavano i prezzi. Quel matto del Doni, descrivendo certa casa con grandissimo dispendio costruita, arredata, ordinata da un signore ricco e potente, e abitata dalle più belle donne che si potessero avere, indica quale massimo il prezzo di venticinque scudi[398]; ma nel Catalogo di tutte le principal et più honorate Cortigiane di Venetia[399] si trova registrata una signora [252] Paulina, Fila canevo, che ne prendeva trenta, e nella Tariffa è ricordata una Cornelia Griffa, che ne chiedeva quaranta e più. Tullia d’Aragona riuscì ad avere in Roma, da un tedesco, sino a cento scudi per notte[400]. Le pratiche, anche se pari di fortuna e di grado, non largheggiavano tutte ad un modo, e la liberalità loro ricevava misura non solo dall’umore proprio di ciascuna, ma ancora dall’indole e dal costume nazionale. A tale riguardo avevano pessimo nome nel mondo delle cortigiane gli spagnuoli, molto migliore i tedeschi, ottimo i francesi. Fra gl’italiani erano in fama di più generosi i veneziani, di più taccagni i napoletani, troppo inclinati, dicevasi, a pagar di moine e di sospiri. Del resto la liberalità dei signori non aveva limiti, quando era stimolata dal capriccio o dalla passione, e in un curioso libro spagnuolo, rarissimo anche dopo la ristampa fattane or son pochi anni, la Lozana Andalusa, è detto che le cortigiane di Roma ereditavano talvolta dagli amanti loro somme [253] cospicue[401]. In qual modo Angelo Dal Bufalo, uomo della persona valente, umano gentile e ricchissimo, tenesse per più anni l’Imperia, dice il Bandello[402]; nè meno pomposamente di certo l’avrà tenuta Agostino Chigi, il famoso e magnifico banchiere, del quale pure fu amica[403]. Che, da altra banda, le cortigiane, anche [254] se belle e di gran recapito, potessero alle volte trovarsi a disagio, non parrà strano a nessuno: a corto di quattrini, importunate dai creditori, esse impegnavano le robe loro agli ebrei, o vendevano a furia arredi, vesti, giojelli, quanto avevano lucrato e raccattato in molti anni[404].
Le cortigiane erano anzitutto cortigiane, il che vuol dire che ponevano ogni studio in render proficuo, quanto più era possibile, il loro tristo mestiere. Un così fatto esercizio, si sa, non comporta troppi scrupoli, nè troppe delicature, e non è in chi v’attende che si debbono ir cercando la nobiltà dell’animo, la sincerità delle parole, e l’onestà delle azioni. Le cortigiane del Cinquecento non differiscon in ciò da quelle di altri tempi. Troviamo in esse, generalmente parlando, le solite arti e le consuete frodi del meretricio; nè si può dire che, per questa parte, da allora a oggi, ci sia stato mutamento, se non quanto le piccole e le grandi ribalderie del mestiere erano allora, più che ora non sieno, condite di piacevolezza e azzimate di galanteria. Finti ardori e finte lagrime, finti sdegni e finte paci, accorte ritrosie e opportuni incitamenti, lettere artificiosamente tessute, versi ingegnosamente composti, acconci e graziosi doni, blandizie soavi alternate con misurati rigori, erano gli accorgimenti e l’arti di cui esse giovavansi per invescare, trattenere, richiamare, piumare gli amanti. Gli scrittori del tempo abbondano di racconti, di ammonizioni, di avvisi, circa le beffe, le truffe, i tradimenti e l’altre infinite poltronerie che esse usavan di fare. Le accuse e i biasimi vengono da tutte le parti, prendono tutte le forme, ricordano quelle a cui in antico erano andate soggette le etère famose. Degna d’andarne alla pari con la greca Cirene e con la [255] greca Elefantide ci si mostra Isabella de Luna[405]. Di una che fu ladra, tace il nome, ma narra il furto il Doni[406]. Di un’altra, invescata in laidissimo amore, fa menzione Pietro Nelli in una delle sue Satire alla Carlona[407]. In un suo capitolo il Coppetta copre di vituperi quella medesima Ortensia Greca che in altro capitolo aveva levato a cielo, e chiama lei, e la madre di lei e la fantesca
Arpie crudeli, infide, inique e ladre.
Lorenzo Veniero svergognava Elena Ballerina e Angela Zaffetta[408], vituperate entrambe anche nella Tariffa; l’Aretino, il Franco e altri svergognavano Tullia d’Aragona. Andrea Alciato, Fausto Andrelini, Ludovico Bigi, scagliavano contro le cortigiane velenosi epigrammi latini; Teofilo Folengo le sferzava a colpi di versi maccheronici; Sperone Speroni componeva contro di esse una virulenta orazione. Le malcapitate erano inoltre vituperate e derise in novelle, in commedie, in epistole, in trattati, in sonetti, in ragionamenti, in tariffe, in altri componimenti di vario genere, popolari e non popolari, per nulla dir delle prediche. In Firenze, nelle feste del carnevale, brigate d’uomini che si fingevano ridotti a [256] povertà dalle cortigiane, andavano in giro, cantando l’infamia delle spogliatrici. Agli 11 di febbraio del 1525 un anonimo scriveva da Roma a Paolo Vettori in Civitavecchia: «Jeri m.º Andrea dipintore fece un carro dove erano tutte le cortigiane vecchie di Roma fatte di carta, ciascuna con il nome suo, e tutte le buttò in fiume avanti al papa; mandò all’Orsolina il sonetto e la canzona che si cantava. Domane le cortigiane, per vendicarsi, frustano detto m.º Andrea per tutta Roma»[409]. In Roma poesie contro le cortigiane si affiggevano alla statua di Pasquino, in Venezia alla statua del Gobbo di Rialto[410].
[257]
Ma non tutte le cortigiane erano poi così ribalde, di così abietto animo e di così sozzo costume com’eran le [258] più. Francesco Maria Molza credeva che ancor esse potessero amare davvero, e ferventemente, e il Bandello, che prima era stato d’altra opinione, tenne poi la opinione del Molza[411]. Camilla Pisana pare abbia amato sinceramente Filippo Strozzi, e Tullia d’Aragona fu più d’una volta presa ai lacci d’amore, e quando amava, così ella stessa assicura, la gelosia l’uccideva. Innamorata del Brocardo pare sia stata veramente quella Manetta Mirtilla, che della morte di lui, avvenuta nel 1531, consolavano con sonetti Bernardo Tasso e l’Aretino. Il Giraldi Cinzio narra di una cortigiana veneziana, la quale riccamente e con riputazione a lei convenevole esercitava la sua disonesta arte, una storia assai notabile, perchè documento, non solo dell’affetto che poteva alle volte entrar nel cuore di tali creature, ma ancora del buon ricordo e della gratitudine che ne serbavano gli amati[412]. Una signora Medea si accorò [259] tanto della morte di Ludovico Dall’Armi, suo amante, che l’Aretino le scrisse una lettera, chiedendole scusa di avere detto e scritto che amore di cortigiana non fu mai vero, e che le cortigiane non cercavano se non il guadagno. Ella consumò la roba e sè stessa per lui, e lui morto, faceva grandissime elemosine in suffragio dell’anima sua[413]. Il Giraldi Cinzio narra la storia di una cortigiana di Rimini, che innamorata di un siciliano, perdette con lui ogni suo avere[414]. Del resto, se le sciagurate creature che vivono facendo copia di sè si mostrarono, in ogni tempo, capaci d’amore, più dovevano essere nel Cinquecento, quando sottili ed intricate dottrine amorose velavano molti contrasti, mitigavano molte ripugnanze, e di molte cose alteravano, quant’era d’uopo, il significato e il carattere. Nè tutte le cortigiane erano d’umore di concedersi a tutti. La fine coltura, e il frequente conversare con uomini gentili, dovevano pure destare nelle migliori tra esse una delicatezza di giudizio, e una schifiltà di sensi sufficienti a preservarle, quando il bisogno non le premeva, [260] da contatti o vili, o incresciosi. Parecchie affermano di non si concedere se non a chi piaccia loro, e di ciò molto le lodano gli amici più fortunati, mentre altri si lagnano d’ingiusti rigori e di repulse spietate. Tullia d’Aragona, essendo in Ferrara, fece talmente disperare, con gli ostinati rifiuti, un giovane gentiluomo, ricco e dabbene, che il poveretto, nella stessa casa di lei, tentò d’ammazzarsi[415]; nè mi pare ci sia buona ragione di credere fosse tutta astuzia e commedia di cortigiana. L’Aretino, che vituperò le cortigiane com’egli sapeva e usava vituperare, lodava per donna schietta e dabbene, anzi per la più bella, la più dolce e la più costumata madonna che abbia Cupido in sua corte, e per divina giovane, la signora Angela Zaffetta[416]; la quale [261] non per altro provocò l’ira di Lorenzo Veniero, che le scrisse contro quel suo obbrobrioso poemetto intitolato appunto La Zaffetta, se non perchè rifiutò una volta di aprirgli la porta[417]. Lo stesso Aretino scriveva alla signora Basciadonna: «Io che aveva preso la penna per farvi una lunga istoria de i semplici andamenti della signora Marina vostra figliuola, riduco la somma del tutto con dirvi che l’altre sue pari ingannano ognuno con le tristizie, ed ella inganna solo sè stessa con la bontà; onde saria stata meglio monaca che cortegiana»[418]. Lorenzo Veniero che tanto male dice della Zaffetta e della Ballerina, loda per bella, buona e cara una Giacoma Ferrarese. Di una cortigiana sontuosa, magnifica, non illetterata, faceta ed arguta, liberale e modesta, la qual fu un tempo in Perugia, fa ricordo Marc’Antonio Bonciario[419]. La Basciadonna fece della figliuola una cortigiana; ma l’Imperia una ne lasciò che, quasi nuova Lucrezia, tentò di togliersi la vita per sottrarsi alle disoneste voglie del cardinale Petrucci[420].
[262]
Se frequenti, come abbiam veduto, erano i biasimi che toccavano alle cortigiane, non meno frequenti erano le lodi; e quanto quelli eran crudi e violenti, tanto eran queste amorevoli e smaccate. Sperone Speroni scrisse contro alle cortigiane una orazione; ma, prima di lui, ne aveva scritta una in lode Antonio Brocardo, lo sfortunato avversario del Bembo. E il Molza celebrava e consolava in eleganti versi latini la Beatrice Spagnuola, altrimenti detta da Ferrara, quella Beatrice di cui tante ragioni egli avrebbe avuto di dolersi, e in commendazion della quale non isdegnò di scrivere un sonetto la stessa Vittoria Colonna; il Muzio, Bernardo Tasso, il Varchi, altri, esaltavano Tullia d’Aragona; Niccolò Martelli levava a cielo la sua divina e onoratissima madonna Maddalena Salterella[421]; Michelangelo Buonarroti lodava Faustina Mancina[422]; mentre durava ancor viva e gloriosa la memoria di quella Imperia che dieci poeti avevano glorificata nei loro versi, e di cui uno dei più infervorati ebbe a dire in un epigramma latino, che due numi avevano fatto a Roma due grandi doni, Marte l’impero, Venere la Imperia[423]. E non è tra le cose meno strane di quel singolarissimo secolo il veder celebrate le cortigiane coi medesimi concetti poetici e le medesime forme d’arte con le quali il Petrarca aveva fatto immortale il nome di Laura[424].
[263]
Il Calmo, che molte sue facetissime lettere indirizzò a cortigiane, scriveva a una signora Fontana: «Non è maraveja si ’l se fa istoria di fatti vostri, se i poeti sta vigilanti in far composizion in laude vostra, se i musici ve mete intei so canti fegurai, e se i sonadori fa saltareli su la vostra lezadria, e breviter infina i avocati a fagando le so renghe, ve introduse a qualche so poposito segondo i passi. Se vien forestieri i ve vuol gustar, si vien imbassadori i ve vuol sentir, si ’l vien signori i ve vuol parlar, e breviter la più parte di corieri ve vuol praticar»[425]. Nel dialogo di Scipione Ammirato, intitolato Il Maremonte, uno degli interlocutori dice a chi l’ascolta: «Io credo che voi abbiate udito [264] nominar la Panta e l’Angela, amendue famosissime meretrici, quella in Roma, e questa in Napoli, e le riverenze, e gl’inchini, e i corteggiamenti che lor si fanno da cavalieri tutto dì, e con quanta magnificenza e grandezza si stieno nelle lor case»[426]. Ad Angela Del Moro facevano pubblicamente di berretta i gentiluomini anche quando aveva passata l’età sinodale, ed era divenuta decana delle cortigiane di Roma[427]. E delle famose cortigiane di Roma appunto, ricordate dallo Zoppino e da Lodovico nel Ragionamento di messer Pietro, ciascuna aveva il suo particolar seguito: la Lorenzina, la Beatrice e la Greca di gentiluomini, la Beatricica di prelati, la Tullia di giovinetti, la Nicolosa di Spagnuoli, la Laurona di mercanti, l’Ortega di avvocati e procuratori, Madrema non vuole di duchi, di marchesi e di ambasciatori[428].
Nè si creda che esagerino i due buoni compari. Cardinali e segretarii pontifici non si vergognavano di viaggiare in compagnia di cortigiane[429], e di banchettare con esse. La sera del 10 agosto 1513, il marchesino Federico Gonzaga, in età di soli dodici anni, cenò in casa del cardinal di Mantova, suo zio, avendo commensali il cardinale d’Aragona, il cardinale Sauli, il cardinale Cornaro, parecchi vescovi e gentiluomini e la cortigiana [265] Albina; il giovedì prima egli era stato in casa del cardinale d’Arborea, dove si era recitata, in ispagnuolo, una commedia di Juan de la Enzina, e dove erano capitate più putane spagnuole che omini italiani[430]. Un Marco Bracci, descrivendo a Ugolino Grifoni, segretario di Cosimo I, le grandezze in mezzo a cui viveva la magnifica signora Salterella (non la Maddalena, un’altra) dice che le facevano afa i vescovi, e che una sera cenò con cinque cardinali[431]. Vincenzo Fedeli racconta nelle sue Memorie di Perugia che nel novembre del 1557 giunsero in quella città il cardinale Caraffa, nipote di Paolo IV, e il cardinale Vitello. Il cardinale Caraffa, «dopo cena, publicamente, fece andare in palazzo tutte le putane, che a quelli tempi se trovaveno in Perugia, quale furono in tutto 14; e presene per sè una, e una per el cardinale Vitello; el resto acomodoli a la sua famiglia»[432]. Nella Cortegiana dell’Aretino, l’Alvigia ricorda i suoi bei tempi, quando la frequentavano signori e monsignori ed ambasciadori a josa, e accenna a un vescovo, cui tolse un giorno la mitra per porla [266] in capo a una sua fantesca[433]. Di una gran cortigiana, non nominata, dice il Mauro che la sera andava in casa di lei
qualche ambasciadore
E qualche conte e qualche chierca rasa[434].
Afferma il Calmo, in una lettera alla signora Ardelia, che le cortigiane trovavano onorate e festevoli accoglienze anche nei conventi di frati[435]. Il Bandello narra a tale proposito una edificante novella[436], e Lorenzo Priuli, Oratore della Repubblica veneta, scriveva da Roma alla Signoria il 30 di novembre del 1585: «Ho inteso per buona strada, che il Pontefice è stato informato da diversi, che molti delli monasterii di monache di Venezia e della diocesi di Torcello sono in mal stato, e ridotti alcuni di loro a pubblici postriboli»[437]. Se così pochi scrupoli avevano gli ecclesiastici e i religiosi, i laici potevano averne anche meno. Non solo cavalieri e letterati non celavano gli amori loro con le cortigiane più note, ma li predicavano, se ne facevano belli, e ciascuno s’ingegnava di soverchiare i rivali. Giovanni de’ Medici, il famoso capitano, faceva togliere per forza, quasi fosse un’altra Elena, a Giovanni Della Stufa Lucrezia Madrema non vuole, che costui menava seco alla fiera di Recanati; nel 1531 si trovarono in Firenze sei cavalieri pronti a sostenere con l’armi in mano, contro chi si fosse, che non era al mondo donna di più gran pregio e virtù di Tullia d’Aragona. Quando le Aspasie più illustri si movevano, gli era come se si movessero [267] tante regine. Ambasciatori davano notizia di loro partenze e di loro arrivi, e il popolo dei cortigiani entrava in subbuglio. Marco Bracci, dando conto al Grifoni della entrata in Roma della signora Salterella testè ricordata, dice ch’ell’era entrata magna comitante caterva, con tanti cavalli e servitori e armi e moltitudine di gente ch’era andata ad incontrarla, da parere l’entrata di Marfisa nel campo moresco[438]. L’Aretino mandava sua ambasciatrice alla regina di Francia la Zufolina, per chiedere non so che, e molto ripromettendosi de’ suoi buoni offici; in Firenze Tullia d’Aragona, per la cui partenza da Roma s’era commosso, anni innanzi, persino Pasquino[439], entrava nelle buone grazie della duchessa, a cui dedicava il suo volume di rime. Abbiamo veduto Veronica Franco felicitata dai favori di un re; così alta ventura non toccò a lei solamente[440]. Qual meraviglia dunque se le cortigiane di maggior [268] conto stavano in contegno, e davansi aria di principesse? Era usanza di quella Ortensia lodata prima e vituperata poi dal Coppetta
Star sur un goffo puttanil decoro,
E far la donzelletta, e persuadersi
Di pisciar acqua nanfa e cacar oro.
Sopra l’uso mortal bella tenersi.
Quasi nuova dal ciel discesa luce,
Il che fa rider altri, altri dolersi[441].
Il Giraldi Cinzio racconta di una cortigiana napoletana, «la quale, ancora che si fosse data alla disonesta arte..., se ne stava però così in contegno, che pareva ch’ella fosse Lucrezia Romana, e prima ch’uno le potesse parlare, stava almeno per lo spazio di due mesi, e bisognavavi usare un centinajo di mezzi, ed aver poi di grazia ch’ella volesse udire dieci parole, e se proverbiosamente rispondeva, bisognava esserle tenuto, come se avesse dato cortesissima risposta»[442]. In uno dei Ragionamenti dell’Aretino la Nanna parla «d’alcuna, che recatasi in suso i matarazzi di seta, faceva stare in ginocchioni chi le favellava»[443]. Della cortigiana non nominata, di cui ho fatto cenno pur ora, dice il Mauro:
Ella sta bene come una duchessa,
E ne comanda come una reina,
Ne dà tratti di corda e ne confessa.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Com’ella sia bizzarra e pazza e schiva,
E di strano cervello, e disdegnosa,
So che il sapete voi senza ch’io ’l scriva[444].
[269]
Ogni po’, gli è vero, quando in uno e quando in un altro luogo, principi e magistrati si avvedevano che le cortigiane prosperavano troppo, imbaldanzivano troppo, facevano troppa gazzarra, e allora, in fretta e in furia, mandavano fuori, a reprimere gli abusi, nuove leggi e nuovi regolamenti, o rinnovavano gli antichi e disusati; ma cotali rigori duravano poco, e non colpivano, di solito, le cortigiane d’alto paraggio, le cortigiane oneste, o se pur le colpivano, non mancavano protettori possenti, e intercessori zelanti, che le toglievan fuori di quelle pressure e guadagnavano loro immunità e privilegi[445]. Un canto carnascialesco di Guglielmo detto il Giuggiola ci mostra le minori cortigiane di Firenze assai indispettite, perchè offese nelle persone e negli interessi da rigori e da vessazioni cui non sottostavan le ricche[446]. Pio V, pontefice santo, dopo avere afflitte le cortigiane di Roma con varii provvedimenti assai rigorosi, volle da ultimo sfrattassero in tutto dalla città: le poverette diedero [270] principio all’esodo doloroso; ma allora, scrive l’Orator Paolo Tiepolo, quelli «del governo della città dubitando, che ella in gran parte non si disabitasse, chiamorno marti il conseglio del populo, e dopo aver discorso sopra questa materia elessero forse quaranta di loro, che andassero a parlarne a Sua Santità per rimoverla da questo pensiero», come lo rimossero poi veramente, almeno in parte. Dice Paolo Tiepolo che secondo il computo fatto, tra per le cortigiane, tra per coloro che le avrebbero seguitate, la città sarebbesi votata di ben 25000 persone[447]. Molti anni dopo, nel 1614, quando le condizioni della vita italiana erano già profondamente mutate, le monache delle Convertite in Firenze non si facevan riguardo d’intercedere presso il duca Cosimo II perchè lasciasse abitare in qual parte della città fosse loro più a grado le cortigiane ricche, le quali pagavano al convento una tassa cospicua[448].
Persino le leggi penali usavano talvolta alle cortigiane (intendasi sempre le maggiori, le onorate) insolita clemenza. Bisognò che Isabella de Luna passasse tutti i termini della tracotanza, e facesse al maggior magistrato di Roma, cioè al Governatore, uno sfregio sanguinoso, perchè questi si decidesse a punirla con cinquanta staffilate, datele in pubblico, sulle carni nude. Tuttavia, pensando egli, il Governatore, ch’era monsignor de’ Rossi, vescovo di Pavia, «la delinquente essere femina e meretrice pubblica, non volle in tutto usare [271] quella rigidezza e severità che il caso ricercava»[449]. La onesta Cursetta, di cui, come ho detto, Giovanni Burchard narra la istoria, fu, per una colpa che non istarò a ricordare, menata in giro per la città, vestita di velluto nero, e con le membra interamente libere, mentre il suo complice, un disgraziato moro in vesti femminili, fu menato in processione coi panni alzati e con le braccia legate, fu messo in carcere, fu strozzato, dopo alcun giorno in Campo di Fiore, e finalmente arso, ma solo in parte, perchè di arderlo tutto non permise una gran pioggia che sopravvenne[450]. E qui vuol anche [272] essere ricordato come vigesse l’uso per quasi tutta Italia di donar la vita a quei condannati che fossero domandati per marito da meretrici.
Ciò nondimeno non era tutta rose la vita delle cortigiane. Lasciando stare il tedio, la sazietà, il disgusto, che non si potevano scompagnar dal mestiere, c’erano i soprusi degli amatori prepotenti, c’erano gl’inganni dei truffatori, c’erano infermità vituperose[451], e mille altri pericoli che in quella vita rimescolata potevano sorgere a ogni ora. Quante non si videro improvvisamente spogliate d’ogni loro ricchezza, come quella signora [273] Aquilina Veneziana che il Lasca tentò consolar co’ suoi versi![452]. Quante non furono percosse, ferite, uccise! Le più, dopo avere sguazzato un tempo, cadevano in povertà, e finivano miseramente la vita, all’ospedale, o tramutandosi di cortigiane in mezzane[453], in locandiere, in lavandaie, o a dirittura elemosinando alla porta delle chiese[454]. La Salterella, che pagava [274] ottanta scudi di pigione quand’era in voga, non ne pagava più che sedici nel 1549. La gloriosa Tullia d’Aragona moriva, non povera affatto, ma troppo scaduta dall’antica grandezza, in casa di Matteo Moretti da Parma, oste in Trastevere[455]. La Giulia, che aveva in vita guadagnato tesori, non ha, morta, un quattrino da pagar Caronte[456]. Tante miserie potevano porgere, e porsero in fatto, soggetto acconcio a una specie di componimento che ebbe gran voga in quel secolo, il Lamento[457]. Nel Dialogo di Amore dello Speroni Tullia d’Aragona si lagna forte dei mali ond’è afflitta la vita delle cortigiane, e lagni simili ai suoi udremo dalla bocca di Veronica Franco. Molte, dopo aver battagliato assai cercavano, come la Tullia appunto, rifugio e pace nel matrimonio, e parecchie seguitavano, dopo maritate, a fare la vita di prima[458].
[275]
Alcune, come la Imperia, la Fiammetta, la Sgarrettona e Camilla da Fano, ricordate dall’Aretino[459], finirono bene, ricche, in casa propria, lasciando di sè onorata memoria. La Imperia fu seppellita con gran pompa nella cappella di Santa Gregoria in Roma, e sulla sua tomba fu posto questo epitafio, strano un po’ per una chiesa: Imperia cortisana romana quae digna tanto nomine, rarae inter mortales formae specimen dedit. Vixit a. xxvi. d. xii. Obiit mdxi, die xv aug.[460]. Nella chiesa di Sant’Agostino si ammirava la cappella della Fiammetta. Nella biblioteca reale di Monaco si conserva un manoscritto dei tempi di Alessandro VI, intitolato Epitaphia clarissimarum mulierum quae virtute, arte aliqua nota claruerunt: insieme con parecchi epitafii di sante, parecchi ce ne sono di cortigiane illustri[461]. Morta, in età ancor giovane, Maddalena Salterella, Niccolò Martelli, scriveva a messer Albizzo Del Bene: «Io non pensava già, Mag.º M. Albizzo, d’aver così tosto a cangiare stile, avendovi pochi dì fa scritto per le mani del nostro gentilissimo M. Lucantonio Ridolfi e con essa mandatovi una parte delle lodi alla sfortunatissima Sig.ª Maddalena [276] Salterella; della quale nel mezzo di certi umor maligni e cattivi entrò morte nel bel corpo e in pochi giorni ne trionfò allegramente senza una pietà al mondo. L’anima benedetta della quale si gode ora in pace lieta l’eterno bene; e nel vero è stata perdita non piccola, che ogni un dì non si vede un albergo di sì onorati costumi, nè si gusta un trattenimento sì reale accompagniato da mille onesti passatempi pieni di virtuosi effetti, e a me ella è doluta assai, e così come la penna mia le acquistò lodi vivendo, così ora ne ho fatto per memoria quattordici versi, i quali in un sonetto li vi mando. Che ’l Signor Iddio le abbia dato quel riposo che meritavan le sue ottime qualitadi e a noi presti della sua infinita grazia»[462].
Abbiam veduto qual fosse la cortigiana del Cinquecento; è egli vero che ricompare in lei l’etèra greca dei tempi di Pericle e di Alcibiade? Molti dissero risolutamente che sì; taluno negò o dubitò[463]; il vero si è che tra la cortigiana e l’etèra c’è molta conformità, ma c’è pure qualche disformità. La cosa vuol essere esaminata con discrezione, tenendo ben presente che nessun fatto storico, nessuna storica apparizione può mai riprodursi in tutto simile a sè medesima. Se noi paragoniamo la vita delle Imperie, delle Tullie, delle Lucrezie, delle Isabelle, delle Camille del Cinquecento con quella delle Aspasie, delle Frini, delle Mirrine, delle Taidi, delle Glicere antiche, ci accorgiamo subito di molte e notabili somiglianze. Queste son colte, e quelle son colte; queste sono corteggiate da politici, da filosofi, da poeti, e quelle son corteggiate da ogni sorta di letterati e di gentil uomini; [277] parecchie etère furono scrittrici, e scrittrici furono parecchie cortigiane. La somiglianza si stende più oltre e abbraccia certi abiti mentali, certi sentimenti, i costumi, gli artifizii, le azioni. Come le cortigiane, le etère furono glorificate e vituperate. E l’ambiente sociale in cui sorgono e si educano le etère ha ancor esso incontestabilmente molta somiglianza con l’ambiente sociale in cui sorgono e si educano le cortigiane; anzi questo è, in certe parti, e in più vorrebbe essere, la riproduzione di quello. Una matura civiltà è la civiltà greca del quinto secolo avanti Cristo, e una matura civiltà è la civiltà italiana del Cinquecento; ad entrambe tien dietro la decadenza. Parecchie delle condizioni che favorirono l’apparir della etèra si ritrovano nel Cinquecento in Italia, e portano i medesimi effetti. I contemporanei di Pericle e di Alcibiade erano assetati d’ogni bellezza. Ora, la bellezza muliebre, fra tutte la più cara agli uomini, non può essere liberamente e interamente goduta, se non nella etèra, ed è perciò che ad Aspasia incinta e minacciata nella scultoria formosità del suo corpo, l’Areopago ingiunge o permette di scongiurare con una provvida caduta il pericolo. Gli Italiani del Cinquecento sono anch’essi assetati di bellezza, e ci rimangono di quel secolo libri senza numero in cui la bellezza muliebre è descritta, analizzata, ricercata amorosamente nelle sue ragioni e nelle sue leggi. Ai tempi di Pericle e di Alcibiade il matrimonio in Grecia comincia a cadere in discredito; nel Cinquecento in Italia moltissimi lo detestano, moltissimi lo deridono, e i letterati son quasi tutti dell’avviso dell’Aretino, il quale dice la moglie esser peso da lasciare alle spalle d’Atlante. Ora, se il celibato, in genere, tende a suscitare la prostituta, il celibato delle persone colte, dei letterati e degli artisti, tende a suscitare l’etèra e la cortigiana[464].
[278]
Ma altre condizioni erano in tutto diverse, e favorivano o più l’etèra o più la cortigiana. La preoccupazione del peccato di carnalità non turbò mai la coscienza dei Greci, e le loro credenze religiose, non solo non contrastavano al meretricio, ma tendevano anzi a promuoverlo, a consacrarlo, come avvertirono molte volte biasimando acremente [279] gli apologeti cristiani dei primi secoli. Da tempo antico in Corinto le prostitute erano in istretta relazione col culto, e una specie di sacra prostituzione si praticava anche in molte altre città della Grecia e dell’Asia Minore. Solone eresse in Atene un tempio a Venere Pandemia. A Lamia e Leena, amiche entrambe di Demetrio Poliorcete, Atene e Tebe consacravano templi sotto la invocazione di Afrodite Lamia e di Afrodite Leena. La etèra, dunque, non offendeva la morale religiosa del tempo suo; per contro la cortigiana offende nel modo più grave la morale religiosa del proprio. Di qui una particolar ragione di biasimo contro di lei, e in lei una particolar ragione d’indegnità. Alle cortigiane era rigorosamente vietato l’esercizio del mestiere nelle feste e nelle vigilie solenni dell’anno. Sapendo di vivere in peccato, esse medesime cercavano, con pratiche religiose, di riscattar l’anima dalle mani del demonio[465]. In Venezia, e certo anche altrove, le cortigiane non si potevano in certa ora del giorno visitare, perchè andavano [280] a udir vespero[466]. Per tutto usavano di confessarsi a Pasqua, e in quella occasione sempre qualcuna se ne convertiva, e ce n’eran di quelle che rinunziavano al mondo e si facevan monache[467]. Fra le lettere dell’Aretino ve n’ha una a certa Angela di Danzica, la quale si ritraeva dalla vita disonesta per maritarsi, disposta piuttosto a servire che a riprendere il tristo mestiere. Paolo IV e Pio V forzavano cortigiane e meretrici volgari [281] ad andare alla predica[468]. Per questo rispetto dunque le etère godevano, dirò così, di una legittimità di cui [282] non potevano godere le cortigiane; ma queste si rifacevano del danno in altro modo, prendendo, cioè, la parte loro di quel culto che il Cinquecento tributò così largamente alla donna. Lodando il canto della Tullia dice il Muzio, in un sonetto, che l’anima, al suono della voce di lei,
Ad ogni uman disio tutta si toglie
E con tutti i pensieri al cielo aspira;
ed Ercole Bentivoglio in un altro sonetto affermava che la presenza della Tullia in Ferrara aveva spento ogni basso pensiero negli eleganti frequentatori di quella corte. Di nessuna etèra dell’antichità fu mai detto altrettanto.
E ora raccostiamoci alla signora Veronica; ma senza occuparci subito dei fatti suoi. Raccostiamoci a lei, entrando in quella Venezia ov’ella nacque, visse e morì, e vediamo un po’ come ci stessero le sue pari.
Dice Niccolò Franco che le meretrici al tempo suo erano a milioni, e Ortensio Lando afferma che a volerle [283] annoverare sarebbe stato «come volere annoverare le stelle del cielo»[469]. Le cortigiane oneste erano certo in numero molto minore; ma ciò non toglie che fossero anch’esse innumerevoli, e come se non bastassero le italiane, ce n’erano di spagnuole, di francesi, di tedesche, di fiamminghe, di greche e d’altre nazioni. In tutta Italia le cortigiane se la facevano bene; ma le città dove più prosperavano erano Roma e Venezia; dopo queste veniva Napoli. L’Aretino chiamò Roma terra da donne, e non a torto. «Dura e mostruosa cosa mi parve», dice il Lando, «che in Roma santa si comportassero tante meretrici, e in tanta stima fussero, e a tante facultà pervenessero, che pajono reine»[470]. Nel dialogo del Pontano intitolato Antonius, uno degli interlocutori, il Suppazio, narra che a stento potè salvarsi in Roma dalle mani delle meretrici. Ciò non deve recar meraviglia. Nel 1488 Innocenzo VIII aveva bensì vietato ai preti di tenere macellerie, taverne, bische e lupanari, e di farsi, per denaro, mezzani di meretrici[471]; ma non perciò era scemato il numero di queste. Stando a ciò che dice Stefano Infessura nel suo Diario, le meretrici in Roma raggiungevano, circa il 1490, il numero di 6800, exceptis illis quae in [284] concubinatu sunt et illis quae non sunt publice sed secreto[472]. La tracotanza e sfacciataggine loro passava ogni termine. Il Burchard ricorda che il giorno 28 di agosto del 1497, ricorrendo la festa di Sant’Agostino, e celebrandosi per ciò nella chiesa che da lui prende il nome una messa solenne, pubbliche meretrici ed altre vili persone ingombrarono tutto il luogo fra i cardinali e l’altare, il che sturbò molto le sante funzioni. Ai tempi di Leone X cortigiane abitavano in case appartenenti a chiese e conventi; in altre erano uscio a uscio con chierici e persino con vescovi. I cardinali cui Paolo III commise di proporre le riforme che conveniva introdurre nella Chiesa in generale, e in quella di Roma in particolare, lamentavano che nella eterna città le donne di mala vita alloggiassero con pompa eccessiva, e passeggiassero per le strade sopra magnifiche mule, accompagnate dai famigli dei cardinali e da chierici. Abbiamo già veduto che effetto sortissero i rigori di Pio V: gli è che le cortigiane formavano una delle principali attrattive della corte di Roma. Un anonimo, pentito d’averla lasciata, quella corte, diceva in un capitolo al Como[473]:
Onde v’esorto, quant’i’ posso, a starvi
Altri vinticinqu’anni, e più ancora,
Se più potete e volete restarvi.
Ch’egli è un bel piacer in men d’un’ora
Trarsi di testa mille volte, e fare
Per Banchi il Giorgio in groppa alla Signora;
[285]
e lo lodava d’essersi scelto due stelle, Angela del Moro e la Flaminia, che veramente sono tra quelle più spesso ricordate dai contemporanei[474].
Son poche le cortigiane famose le quali non abbiano fatto in Roma più o men lungo soggiorno, il che prova quanto quella stanza tornasse loro gradita; ma se in Roma stavano bene, non istavano men bene in Venezia, anzi stavano meglio.
Già Venezia era di tutte le città d’Italia quella dove si viveva più agiatamente, più allegramente e più liberamente. Pietro Aretino, che se ne intendeva, la chiamava il Paradiso terrestre. Non solo i patrizii, ma moltissimi [286] altri cittadini v’erano ricchissimi, e spendevano volentieri e largamente, tanto che il Lando rimproverava loro la ridicola magnificenza e la pazza vanagloria. A Rialto e in Merceria erano panni e suppellettili, ninnoli e gemme d’ogni qualità e paese, e se si toglie Roma, nessun’altra città aveva tanta frequenza di forestieri. I palazzi erano i più suntuosi del mondo; nell’isola di Murano ridevano al sole giardini meravigliosi, e i ricchi possedevano nel Padovano, nel Bassanese, nella Marca Trivigiana, sui colli del Friuli, ville d’impareggiato splendore. Le feste erano molto frequenti, e a quella sola dell’Ascensione accorrevano di fuori oltre a centomila persone: in nessuna città erano trattenimenti più varii e più lieti; in nessuna si mangiava e si beveva meglio. A dispetto delle leggi suntuarie il lusso era sfoggiato. I belli spiriti convenivano d’ogni banda nella città delle lagune, e vi trovavano le più oneste accoglienze, l’ospitalità più generosa e più affabile. Ciò spiega il numero stragrande di meretrici di cui la città andava, non dirò orgogliosa, ma allegra: in sul principiar del secolo esse erano, secondo afferma Marin Sanudo, 11654 sopra una popolazione di 300,000 abitanti[475]. Alcuni anni dopo, Lorenzo Veniero le assommava a tre legioni o quattro,
Parte in gran case e parte in carampane;
e Pasquino, a modo suo, assegnava la ragione di tanta copia:
Urbe tot in Veneta scortorum millia cur sunt?
In promptu causa est: est Venus orta mari[476].
Non so quante fossero in questa turba magna le cortigiane nobili; ma sul declinare del secolo, il Montaigne [287] ne contava ancora centocinquanta circa, le quali spendevano assai e scialavano da principesse.
[288]
Bisogna anche dire che la Serenissima le trattava con molta indulgenza e liberalità. Più e più volte il Consiglio dei Dieci tentò di mettere un qualche freno ai loro trasmodamenti, costringendole ad abitare in luoghi determinati, e a portare un segno per cui facilmente potessero essere riconosciute; vietando loro il soverchio lusso delle suppellettili e delle vesti, e ponendo all’esercizio del loro mestiere altre condizioni e restrizioni a tutela della pubblica moralità. Ma tali rigori giovarono sempre assai poco, e il frequente rinnovamento delle medesime leggi prova la inefficacia loro e il poco conto in cui erano tenute. Si può dire che durante tutto il secolo XVI in Venezia, le cortigiane, così le maggiori, come le minori, abitano dove vogliono, vestono come lor piace. Del resto il Consiglio dei Dieci aveva molte volte provveduto, con leggi non men savie che umane, a che le meretrici fossero libere, non potessero essere impegnate, nè frodate, nè maltrattate da faccendieri e da strozzini ingordi; e se non è vero che esso le abbia mai chiamate in atto pubblico le nostre benemerite meretrici, gli è più che probabile che se ne sia qualche volta servito negli intricati maneggi della sua terribile polizia. Giordano Bruno dice che per magnanimità e liberalità de la illustrissima repubblica, le cortigiane erano esenti da ogni aggravio e manco soggette a leggi che gli altri[477].
[289]
Se si aggiunge, oltre tutte le ragioni indicate, che le donne oneste, e soprattutto le patrizie, vivevano in Venezia assai ritirate, di rado si lasciavano vedere in pubblico e poco o nulla partecipavano alla vita colta ed elegante, si comprenderà anche meglio come la città delle lagune dovesse essere la Terra Promessa delle cortigiane, e come molte di quelle che lasciarono Roma al tempo dei rigori di Pio V, vi riparassero assai volentieri[478]. Per contro Ippolito Salviano lascia intendere, in certa sua commedia, che quelle le quali lasciavano Venezia per andarsene a stare in Roma non facevano il guadagno che si credevano[479].
Il Calmo, esortando una signora Romana a venirsene in Venezia, ricordate molte cose notabili che erano nella città, dice: «si vu gustassè, anema mia, i spassi de andar al fresco in barca, in cochio per tera ferma, i bancheti secreti, le festine, i solazzi incogniti, el ve parerave d’esser deventà una rezina, un’Ancroja, e una Pantasilea... el ve sarà fatto segondo i tempi soto le fenestre musiche de canto, de soni, de bufoni, e de mille missianze de dolcezze, e de vertue, che ve anderà i polmoni in bruo d’allegrezza; e tutti a onor de la signora, a nome de la so belezza, con el bon pro de la so reverenzia. El magnifico tal, el signor qual, missier, lu istesso, certi zoveni a refuso ve fa sta matinada»[480]. [290] Il Calmo si dimentica di ricordare un’altra comodità di cui le cortigiane potevano, nonostante il divieto della legge, godere in Venezia (come del resto ne godevano in Roma): quella di girare per la città travestite[481]. Un’altra notizia curiosa della vita delle cortigiane in Venezia ci dà il Bandello, in una delle sue novelle: «Quivi intesi», dic’egli, «esser una usanza, che in altro luogo esser non udii già mai, che è tale: ci sarà una cortigiana, la quale avrà ordinariamente sei o sette gentiluomini veneziani per suoi innamorati, e ciascuno di loro ha una notte della settimana, che va a cena e a giacersi con lei. Il giorno è della donna, libero per ispenderlo a servigio di chi va e di chi viene, acciò che il molino mai non istia indarno, e qualche volta non irrugginisse per istare in ozio. E se talora avviene che qualche straniero, che abbia ben serrata la borsa, voglia la notte dormire con la donna, ella l’accetta; ma fa prima intender a colui, di chi quella notte è, che se vuol macinare, macini di giorno, perciocchè la notte è data via ad altri; e questi così fatti amanti pagano tanto il mese, e si mette espressamente nei patti, che la donna possa ricevere ed albergare la notte i forestieri»[482]. In così fatta usanza, e in alcuno errore involontario cagionato da essa, sarebbe forse da ricercare la origine prima dei furori del Veniero e delle contumelie della Zaffetta.
Insomma non era città in Italia dove le cortigiane stessero meglio che in Venezia. Il Brantôme narra di una nobile dama o damigella di Francia, la quale, udito [291] del lieto vivere delle cortigiane di Venezia, disse a una sua amica: Hélas! si nous eussions fait porter tout nostre vaillant en ce lieu là par lettre de banque, et que nous y fussions pour faire cette vie courtisanesque, plaisante et heureuse, à laquelle toute autre ne sçauroit approcher, quand bien serions emperières de tout le monde. Il Brantôme, che di questa materia s’intendeva assai, soggiunge: et de fait, je croy que celles qui veulent faire cette vie, ne peuvent estre mieux que là[483].
Marin Sanudo dà copia ne’ suoi Diarii di una lettera che Francesco Mazardo scriveva da Gand, ai 22 d’aprile del 1531, a Tommaso Tiepolo a Venezia. Il Mazardo vi parla, tra l’altro, di un banchetto, al quale il legato Campeggio, in Anversa, aveva invitato molti signori, e molti mercanti italiani, e dice come essendo venuto in discorso se Anversa fosse città da potersi paragonare a Venezia, monsignor De la Morette, che in quest’ultima città aveva soggiornato quale ambasciatore del re di Francia, «volendo favorir la università di le merze di Venezia, disse: Io non voglio credere che di una sorte di merze, ch’io ho trattato a Venezia, ne sia qua quella copia e perfezione ch’io ho trovato a Venezia; e cominciò a nominare Madona Cornelia Griffo, Julia Lombarda, Bianca Saraton, le Balarine ed alcune altre»[484].
[292]
Le cortigiane di Venezia godevano di grande riputazione. Il Malespini, in una delle sue novelle[485], ci mostra due gentiluomini, i quali vanno a Venezia appositamente «per godere della bella e soave conversazione delle leggiadre giovanette che vi sono in copia grandissima». Tali leggiadre giovanette erano dai Veneziani, con nome non meno di esse leggiadro, chiamate mamole. Michele Montaigne, quando capitò a Venezia, fece come i due gentiluomini del Malespini e come tutti i forestieri facevano; visitò le mamole, e fra l’altre Veronica Franco, a cui noi pure vogliamo ora far visita, intrattenendoci con lei e di lei.
[293]
Quando ebbe la ventura di accogliere in casa sua il giovane re di Francia, la Veronica, nata in Venezia nel 1546, era nel fiore della gioventù e della bellezza[486]. Ella stessa, più e più volte ne’ suoi scritti, nomina, e con molto affetto, la patria, chiamandola suo bello e dolce nido, ricetto amico e fedele, paradiso in terra, miracolo unico in natura. Ad uno degli ammiratori [294] suoi, dal quale era stata troppo lodata, diceva:
Questa dominatrice alta del mare
Regal Vergine, pura, inviolata.
Nel mondo senza essempio, e senza pare;
Questa da voi deveva esser lodata.
Vostra patria gentile in cui nasceste,
E dov’anch’io la Dio mercè son nata.
La famiglia ond’ella usciva era, non già plebea, come fu detto, ma cittadinesca, di condizione mezzana cioè, tra la plebe e la nobiltà, e aveva il suo stemma[487]. Quali, peraltro, fossero le condizioni di essa, quali le vicende per cui era passata in quegli anni che precedettero e che seguirono la nascita della Veronica, nè sappiamo, nè possiamo congetturare. Questo bensì sappiamo che il padre di costei si chiamava Francesco e Paola la madre, e che ella ebbe tre fratelli, per nome Girolamo, Orazio e Serafino, e una zia, la quale era monaca e viveva fuori di Venezia.
Quale fu l’infanzia della Veronica, quale l’adolescenza? Ella nol dice. Si può credere tuttavia che la educazione di lei non fosse trascurata dai genitori, e che per tempo anzi il suo ingegno fosse da buoni maestri esercitato in quegli studii e in quell’arti che dovevano, più tardi, porla in grado d’illeggiadrire con gli ornamenti delle virtù il mestier sciagurato, e di accoppiare al nome di cortigiana il nome di poetessa. E si può credere anche di più; cioè che i genitori l’abbiano educata e cresciuta con l’intendimento appunto di fare di lei una cortigiana compita. Nè proverebbe nulla in contrario il fatto che, giovanissima ancora, la Veronica si maritò, sposando un Paolo Panizza, medico, del quale non sappiamo [295] altro, se non che nel 1582 era già morto. Abbiam veduto che matrimonii di cortigiane con uomini di condizione anche onorevole non erano punto infrequenti, e che molte di esse, dopo maritate, seguitavano a far la vita di prima, consenzienti di solito i mariti, cui allettavano i facili guadagni e il grasso vivere. Io non credo di fare una congettura troppo arrischiata se dico che assai probabilmente, prima ancora di andare a marito, la Veronica aveva trovato, in quella Venezia giocosa e opulenta, a far buon traffico della sua bellezza e della sua gioventù, mettendo così insieme la dote che doveva agevolarle il matrimonio. Comunque sia, certo è che nel testamento da lei fatto il 10 agosto del 1564, quando toccava appena i diciott’anni, la Veronica, essendo prossima al parto, dichiara di credersi incinta per opera d’un messer Jacopo de’ Baballi, lega a costui un diamante, gli affida la tutela della creatura che stava per nascere, e, insieme, l’amministrazione di quanto ad essa lasciava, e raccomanda alla madre di farsi restituire dal marito medico la dote[488]. E altrettanto certo si è che la Veronica non ebbe a guastarsi, per ragion del mestiere che faceva, nè col padre, nè con la madre, nè coi fratelli. Molti anni dopo questo testamento, la vediamo maneggiarsi in un negozio che non sappiamo qual fosse, ma in cui era interessato il padre di lei[489]; e quanto alla madre, il Catalogo di tutte le principal et più honorate Cortigiane di Venetia, già da me ricordato, ce la mostra pieza, cioè mallevadrice della [296] propria figliuola[490]. Anzi la Veronica non si guastò nemmeno con la buona zia monaca; in certa sua lettera parla del proposito d’andarla a visitare[491]. Un’ultima congettura non parrà forse al tutto irragionevole, cioè che la buona mamma fosse stata a’ suoi tempi cortigiana ancor essa e, prima che mallevadrice, maestra della figliuola.
Ad ogni modo la figliuola poteva competere per bellezza, per grazia, per ingegno e per coltura con quante erano cortigiane più reputate in Venezia, e, fors’anche, vincerle tutte. Della bellezza di lei si fanno lodi passionate e fiorite. Un ignoto adoratore, parlando in versi di quella così gran bellezza a lei data dal cielo, glorifica le chiome bionde, anzi l’oro de’ bei crini, i celesti e graziosi lumi, i begli occhi che fanno invidia al sole, la
Di viva neve man candida e pura.
Chiama colei che va adorna di tanti pregi Donna di vera ed unica beltade, beltà d’ogni essempio altro divisa, e levato dall’entusiasmo, e invasato dall’ardore, anzi dal furore del desiderio, prorompe in parole che non mi arrischio ripetere. Poniamo che l’oro de’ bei crini la Veronica lo dovesse, come tant’altre, alle acque medicate e alle lunghe ore passate a capo scoperto in sulle altane, sotto la sferza del sole; poniamo che nelle parole dell’incognito adoratore ci sia qualche esagerazione; non perciò è da dubitare di una bellezza più che ragguardevole, comprovata del resto dai ritratti. Uno di questi, il più sincero forse, figura veramente un’assai bella donna, con volto ovale, grandi occhi espressivi, [297] ciglia arcate, bel naso diritto, bocca piccola e graziosa, collo e spalle d’irreprensibile modellamento, una espressione di viso aperta, intelligente e gentile, che innamora e che rallegra. Sul capo è una corona gemmata, di sotto alla quale esce un ramoscello d’alloro; intorno al collo un gran vezzo di perle[492]. Un altro ritratto, dipinto nientemeno che dal Tintoretto, non si sa dove sia andato a finire. La Veronica conosceva la propria bellezza e del pregio della bellezza femminile in genere aveva assai congruo e ragionevole concetto. A un nemico delle donne, che le aveva scritto contro una canzone, ella dice in uno de’ suoi capitoli:
Certo d’un gran piacer voi sete privo,
A non gustar di noi la gran dolcezza;
Ed al mal uso in ciò la colpa ascrivo.
Data è dal Ciel la feminil bellezza,
Perch’ella sia felicitate in terra
Di qualunque uom conosce gentilezza[493].
Un altro adoratore di lei, o forse quello stesso a cui si devono le lodi riferite poc’anzi, parla, alludendo appunto alla Veronica, cui egli chiama col nome di Madonna non altrimenti che se fosse Beatrice o Laura, di una forza insuperabile, infinita della bellezza, che è, non pure un privilegio, ma cosa venuta di cielo[494]. Tale linguaggio, usato con una cortigiana, sarebbe più che ridicolo, non fosse il carattere speciale, starei per dire la dignità, che la cortigiana acquista in quel tempo, [298] fatta quasi sacerdotessa, non di una persona divina, ma di ideali semidivini di bellezza, di grazia e di piacere.
La Veronica doveva avere assai buona coltura; i suoi scritti lo attestano, i suoi adoratori lo affermano. Apollo, dice un di essi a lei stessa, inspira benignamente in voi tutto il suo sapere.
E mentre questo in gran copia v’infonde,
Move la chiara voce al dolce canto,
Ch’a’ bei pensier de l’anima risponde.
La penna e ’l foglio in man prendete intanto,
E scrivete soavi e grati rime
Ch’ai poeti maggior tolgono il vanto.
Ella è donna
E di costumi adorna, e di virtude,
Con senil senno in giovenil etade[495].
Dopo quanto abbiam veduto nelle pagine precedenti, quella lode data ai costumi e quel riconoscimento di virtù non ci debbono far meraviglia.
Un altro adoratore molto acceso, o forse, come ho accennato già, quello stesso di ora, assevera che, in iscienza e in virtù, Minerva sta molto sotto alle Veronica, la quale, con leggiadri e candidi costumi, dilettò il mondo in guisa che tutti ardono e si consumano per lei.
Gran pregio, in sè tener unitamente
Rara del corpo e singolar beltate,
Con la virtù perfetta de la mente!
Di così doppio ardor l’alme infiammate,
Senton lor foco di tal gioja pieno,
Che, quanto egli è maggior più son beate[496].
Notevoli versi, che chiariscono più di quanto potrebbesi fare con lungo discorso, l’indole della coltura in [299] quel secolo, e spiegano il fascino che le cortigiane simili alla Veronica esercitavano sugli uomini che di quella coltura eran partecipi.
La Veronica doveva conoscere più lingue, e della italiana doveva conoscere parecchi di quelli che allora, con impropria denominazione, addimandavansi stili. In una lettera si dice pronta a rispondere altrui in qual lingua si voglia[497], e rimbeccando quel tale che in una canzone l’aveva biasimata, grida bravamente:
La spada, che ’n man vostra rade e fora
De la lingua volgar veneziana,
S’a voi piace d’usar, piace a me ancora:
E, se volete entrar ne la toscana,
Scegliete voi la seria, o la burlesca,
Chè l’una e l’altra è a me facile e piana,
Io ho veduto in lingua selvaghesca
Certa fattura vostra molto bella,
Simile a la maniera pedantesca.
Se voi volete usar o questa o quella,
Ed aventar come ne l’altre fate
Di queste in biasmo nostro le quadrella;
Qual di lor più vi piace, e voi pigliate,
Chè di tutte ad un modo io mi contento,
Avendole perciò tutte imparate.
Per contrastar con voi con ardimento
In tutte queste ho molta industria speso;
Se bene, o male, io stessa mi contento.
. . . . . . . . . . . . . . . .
O la favella giornalmente usata,
O qual vi piace idioma prendete
Chè ’n tutti quanti sono esercitata[498].
Sapeva la Veronica di latino? Direi di no, perchè ella non se ne vanta, e perchè appena si trova nelle sue [300] lettere un pajo di frasi latine[499]; ma giova notare che in quel secolo, in cui la lingua di Roma era il fondamento degli studii, e moltissimi riuscivano a parlarla e scriverla correttamente, un pochino se ne appiccicava anche a chi non l’aveva studiata. Tale sarà stato il caso della nostra Veronica, la quale non ignorava punto del resto, e le lettere sue ne fan fede, le storie e le favole dell’antichità, i nomi e i libri degli antichi scrittori, come non ignorava la corrente filosofia de’ suoi tempi. E allo studio sembra portasse passione sincera. Scrivendo a un signor N., che ella dice di amare con affezione infinita, si dice lieta che l’amore, sebbene le procacci molti e aspri tormenti, le dia modo di esercitarsi negli studii umani con spesso scrivere a lui, che n’è tanto assiduo, ed intendente[500]. Amando, ella coltiva la poesia e gli altri studii leggiadri:
Lassa! la notte e ’l dì far prose e versi
Non cesso in varia forma e in vario stile,
Sempre a un oggetto co i pensier conversi[501].
Una delle sue lettere, la XVII, è il più curioso documento che immaginar si possa del gran concetto in che ella ha lo studio e la coltura, e, insieme, dello spirito di quella età singolare. Un giovane, innamoratosi perdutamente di lei, la preme con istanze importune, e nulla ottenendo, dà in ismanie, e vuol partirsi di Venezia. La Veronica molto saviamente lo avverte che s’egli l’ama davvero, poco gli gioverà il partirsi, anzi aumenterà le sue pene, e che, da altra banda, con quell’andar vagando e strepitando giorno e notte nell’importuno assedio della sua servitù, farà poco frutto, attesochè [301] ella ne lo terrà giovane ozioso e vano, inclinato alla ruina dell’appetito più che alla edificazione della ragione. Se vuole avere qualche ragionevole speranza dell’amor di lei, tenga altro modo, viva vita riposata nella tranquillità dello studio, e le faccia vedere spesso il profitto ottenuto nell’essercizio dell’oneste dottrine, chè nessun’altra cosa le può esser più grata di questa. «Voi sapete benissimo, che tra tutti coloro, che pretendono di poter insinuarsi nel mio amore, a me sono estremamente cari quei, che s’affatican nell’essercizio delle discipline, e dell’arti ingenue delle quali (se ben donna di poco sapere, rispetto massimamente alla mia inclinazione, ed al mio desiderio) io sono tanto vaga, e con tanto mio diletto converso con coloro che sanno, per aver occasione ancora d’imparare, che, se la mia fortuna il comportasse, io farei tutta la mia vita, e spenderei tutto ’l mio tempo dolcemente nell’Academie degli uomini virtuosi». Strane meretrici davvero, e non meno strani spasimanti, che dovevano fare un apposito corso di studii e dar con profitto gli esami prima di poter entrar loro in grazia! Le Diotime e le Aspasie del tempo antico non credo chiedessero tanto.
La Veronica aveva, non solo coltura letteraria, ma anche artistica. In un tempo in cui erano così largamente diffusi il senso e il gusto dell’arte, e quando il perfetto cortigiano doveva saper disegnare, ed aver cognizion dell’arte propria del dipingere[502] e dell’altre arti ancora, la perfetta cortigiana doveva ella pure intendersene alquanto e saperne ragionare a proposito. In Venezia, dove erano tante mirabili opere di architettura, di pittura e di scoltura, e tanti sommi artefici, non mancava certo occasione di affinar l’occhio e il giudizio. [302] Nella lettera XXI, la Veronica, che contava tra’ suoi amici il Tintoretto[503], nega risolutamente che gli antichi pittori e scultori sieno stati da più dei moderni. «Io ho sentito dire a galantuomini non poco versati nell’antichità, e di quest’arte intendentissimi, che sono stati ne’ nostri tempi, e sono oggidì pittori e scultori, i quali non solo pareggiare, ma anco preporre si deono agli antichi». Ch’ella poi s’intendesse di musica non occorre quasi avvertire; cantava con molta soavità, e sonava più strumenti. Un ammiratore sconosciuto, di cui non sappiamo altro se non che si chiamava Lorenzo, diceva in un capitolo in dialetto veneziano, inedito e sconosciuto, dopo aver lodato le meravigliose bellezze di lei:
Co dè per solfezar la vose al son,
Co nasce dall’ut re mi fa sol là,
Vu fe mazor miracoli d’Anfion[504].
La Veronica sapeva d’avere ingegno. Ad uomo di grande pregio amato da lei, ma di cui ci è ignoto il nome, scriveva:
Non è d’ingegno indizio oscuro e incerto,
C’ha gusto de le cose più eccellenti.
Conoscer, e stimar il vostro merto[505].
Le lodi assai le piacevano, e gliene venivano d’ogni banda, e non pare le stimasse disdicevoli alla sua condizione, sebbene dicesse talvolta di crederle troppo maggiori del suo merito. A un amico, che le aveva mandato [303] quattro sonetti laudatorii, scriveva ricordando la sodisfazione, che prende ogni cuor veramente nobile del far cortesia, massimamente alle donne[506]. Godeva d’udirsi chiamare d’Adria ninfa gentile, e di veder celebrati, insieme con la bellezza sua, i suoi versi, il suo ingegno, le sue alte maniere; e se a un poeta vinto dal furore ascreo veniva in fantasia di chiamarla
Vera, unica al mondo eccelsa Dea,
ella lo lasciava sfogare a suo senno. Era anzi riconoscentissima a chi la lodava e assai di buon grado lodava a sua volta i lodatori. A uno di questi promette di voler ornare e innalzare (son sue parole) la propria lingua col celebramento delle virtù di lui, e fregiarsi l’animo col ricchissimo concetto de’ suoi gran meriti[507]. Abbiam veduto che le lodi erano tutt’altro che parsimoniose e tutt’altro che timide; ma non sappiamo ancora sin dove potessero giungere e che forme sfoggiate potessero prendere. Per saperlo ci giova udir quelle che fa rimbombar all’aria l’autore dei due capitoli IX e XI; saranno esse come la chiusa o il finale strepitoso di un pezzo concertato, o, se meglio piace, come la sparata che termina un fuoco artifiziale. Angelico è il sembiante della Veronica; leggiadre e sante sono le luci che splendono in quel volto di unica bellezza, anzi nel sole di quel volto, cui allieta il tranquillo seren del vago riso.
Ma l’intelletto, che sì chiaro dielle
Il celeste motor a sua sembianza,
Unito in lei con l’altre cose belle,
Quegli altri pregi in modo sopravanza,
Che l’uman veder nostro non perviene
A mirar tal virtute in tal distanza.
[304]
A pena l’occhio corporal sostiene
Lo splendor de la fronte, in cui mirando
Abbagliato e confuso ne diviene.
Bellezze eterne, splendor celeste,
Che d’ir al Cielo insegnano il viaggio!
Terrena Dea, alto e novo miracolo, luce impressa del raggio della divinità, paradiso!
L’aura soave, e ’l prezioso odore,
Che da le rose de la bocca spira
Questa figlia di Pallade e d’Amore,
Nutrimento vital per tutto inspira,
Sì ch’a quel refrigerio in un momento
Tutto risorge, e rinasce, e respira.
Queste lodi parvero eccessive alla stessa Veronica, la quale non si dimenticava poi mica d’esser una cortigiana, come pare se ne dimenticasse talvolta quella smancerosa di Tullia d’Aragona. Non solo non se ne dimenticava, ma anzi, a tempo opportuno, se ne teneva. In un capitolo di risposta all’acceso e querimonioso amatore che compose il capitolo I, ella vanta, con molta schiettezza e con pari precision di linguaggio, attitudini e perizie che non son quelle propriamente del compor versi e del sonare il liuto, e afferma d’aver appreso da Apollo altre arti che quelle non sieno da lui solitamente insegnate:
Febo, che serve a l’amorosa Dea,
E in dolce guiderdon da lei ottiene
Quel che via più che l’esser Dio il bea,
A rivelar nel mio pensier ne viene
Quei modi che con lui Venere adopra
Mentre in soavi abbracciamenti il tiene.
Ond’io instrutta a questi so dar opra
Sì ben nel letto, che d’Apollo all’arte
Questa ne va d’assai spazio di sopra;
[305]
E ’l mio cantar, e ’l mio scrivere in carte
S’oblia da chi mi prova in quella guisa,
Ch’a’ suoi seguaci Venere comparte.
E poc’anzi aveva detto:
Così dolce e gustevole divento,
Quando mi trovo con persona in letto
Da cui amata e gradita mi sento,
Che quel mio piacer vince ogni diletto,
Sì che quel che strettissimo parea
Nodo dell’altrui amor divien più stretto.
Se noi consideriamo tutte queste cose; se riflettiamo le lodi iperboliche; se ricordiamo la visita di un giovane re; se poniam mente alle nobili amicizie di cui la Veronica andava lieta e orgogliosa, e delle quali ho ancora a parlare, ci parrà troppo tenue senza dubbio il prezzo di due scudi che il già più volte citato Catalogo assegna ai favori di lei, mentre per altre altri prezzi registra, ben più cospicui. Che la Veronica Franco del Catalogo sia, non la nostra, ma un’altra, mi sembra poco probabile; molto più probabile invece, o che sia corso errore nella indicazione del prezzo, o che l’anonimo autore abbia voluto, di deliberato proposito, fare ingiuria a colei con cui aveva forse alcuna ruggine, o che gli premeva di avvilire in cospetto di una rivale. Ricordiamo che il Catalogo è dedicato alla molto magnifica et cortese signora Livia Azalina Principessa di tutte le Cortegiane Venetiane, la quale è registrata a suo luogo col prezzo di scudi venticinque[508]. Nè dell’errore, o della [306] menzogna del Catalogo ci mancano prove, e chi ce le dà è quel signor Lorenzo, di cui ho ricordato testè un capitolo in dialetto veneziano, capitolo curioso, che mi duole di non poter trascrivere intero, tanto è sconcio. Ne darò un’idea. Il signor Lorenzo spasima da un mese per la signora Veronica, la quale è tanto
bella e pulia
Cara, dolce, zentile e custumà.
Spasima per lei, perchè tutta la sua dolcezza e il suo piacere è sol colà
Dov’è virtù, dov’è lascivitae,
dove l’amore è condito dalla gentilezza, dalla grazia, e da quel certo che se chiama umor. Ma egli non osa farsi innanzi, perchè sa che la Veronica è un carigolo boccon; sa che non concede un bacio per meno di cinque o sei scudi, e almeno cinquanta ne vuole per quella che il Montaigne avrebbe chiamato la négociation entière. Ora, egli ha letto nell’Aretino
Che ’l servir e ’l pagar è un latin falso.
Che no l’accorderave el Calepin.
[307]
Egli l’ama e l’adora; ma appunto perchè l’ama e l’adora non vuol pagare.
So che no ghe xe lege, no gh’è ghiosa
Che vogia che l’amante dieba dar
Altro ch’el proprio cuor alla morosa.
Sia dunque liberale; usi a lui quella cortesia che usata nulla toglie a lei di pregio, e si ricatti coi vagheggini di professione, coi vecchi sfreddati, coi frati, che araffano alle badie le migliaja di ducati, co’ monsignori, che vanno dietro a ogni cosa disonesta.
La Veronica ebbe, come parrà naturale ad ognuno, moltissimi amori, anzi direi, tra piccoli e grandi, tra finti e sinceri, tra quelli che durarono un giorno e quelli che durarono forse più anni, innumerevoli. Dei più s’è certo perduta ogni traccia; ma di parecchi la traccia è rimasta, e qualche cosa più che la traccia.
I capitoli che compongono il libro di versi della cortigiana veneziana non sono, come ho già accennato, tutti suoi; sopra venticinque, sette appartengono a incerto autore, secondo è detto nella intitolazione, e tutti e sette sono documenti di un amore del quale la Veronica è l’obbietto. Dico di un amore, e dovrei forse dire di più amori, perchè non si sa se tutti quei capitoli sieno opera di uno spasimante solo, o di parecchi. Io, confrontandoli tra loro, e con le risposte che ad essi fa la donna, inclinerei a crederli opera di parecchi, per lo meno di due. Ma chi erano costoro? Di uno forse si può avere notizia. In una copia delle Terze rime già posseduta dalla Biblioteca Marciana, e passata poi in quella del conte Leopoldo Ferri, Padovano, il primo capitolo recava in testa il nome di quel Marco Veniero di cui si leggono alcuni sonetti [308] nella Raccolta dell’Atanagi e di cui altre rime giacciono inedite. Marco Foscarini, in una sua Bibliografia veneziana tuttora manoscritta, fa questa congettura: che i primi fogli del libro fossero tirati sotto il nome di Marco Veniero; che questi, patrizio dei più reputati di Venezia, saputa la cosa, non volesse pubblicata al mondo un’amicizia che gli faceva poco onore; che perciò il nome suo fu tolto da tutte le copie che già non erano state distribuite, e non soltanto il suo, ma quello ancora degli autori degli altri capitoli, che, anche secondo la opinione del Foscarini, furono parecchi. Questa congettura è, se si vuole, molto onesta, ma altrettanto improbabile; e a dimostrarla tale basta ricordare che nessuno in quel secolo si vergognava di avere amicizia con cortigiane, e di tessere e pubblicare versi in lor lode; e che essendo il libro delle Terze rime dedicato con tanto di lettera al serenissimo signor Duca di Mantova e di Monferrato, il quale era allora Guglielmo, figlio di Federico Gonzaga e di Margherita Paleologa, il patrizio Marco, e gli altri patrizii o non patrizii autori dei capitoli, non potevano ragionevolmente vergognarsi di vederci stampati dentro i nomi loro dopo quello del serenissimo signor Duca.
Le ragioni della soppressione del nome, o dei nomi, saranno state altre, che ora ci sfuggono, e che poco del resto c’importa d’andar rintracciando, dacchè gli è pur certo che il primo amatore che compare nel libro (nel libro, s’intenda bene) è Marco Veniero. Basterà rammentare, così di passata, che in cotesto mondo cortigianesco le bizze e i dispetti erano molto frequenti, e che gli amici sfegatati di oggi potevano essere i nemici o gli indifferenti di domani[509].
[309]
Ora, nel capitolo I, messer Marco Veniero si mostra fortemente innamorato della bella Veronica, manifesta un caldissimo desiderio di possederla, si lagna molto dell’asprezza, rigidezza e fierezza di lei. La bella Veronica risponde con un altro capitolo, e il linguaggio ch’ell’usa è in molte parti così perplesso e sibillino che non si capisce a che conclusione la voglia venire. Se ella potesse assicurarsi del cuore di colui che affetto così smisurato le dimostra a parole, non farebbe già tanto la spietata e la schiva. Ma come assicurarsene? Non vorrebbe [310] apparir troppo semplice e sciocca, dando fede a sospiri e a promesse che dissipa il vento. Perchè, se innamorato davvero, non si discopre egli con effetti? Ella vuole certezza dell’amor di lui con altro che con lodi; vuole meno lodi e più fatti, vuole i frutti e non le fronde. Pensa egli forse ch’ella sia avida? Si tolga questa opinion dalla testa. Cauta ella vuol essere, se non casta. Non chiede oro nè argento.
Perchè si disconvien troppo al decoro
Di chi non sia più che venal, far patto
Con uom gentil per trarne anche un tesoro.
Di mia profession non è tal atto;
Ma ben fuor di parole io ’l dico chiaro
Voglio veder il vostro amor nel fatto.
Egli sa che cosa è a lei più cara; però non le neghi l’opera sua, chè ella delle virtù s’innamora. Ciò ch’ella chiede costa a lui poca fatica, e se ricusa, ciò prova che il suo amore è bugiardo. Se invece acconsente,
Dal merto la mercè non fia discosta;
ella amerà lui quant’egli lei, giacchè
chi si sente amato da dovero
Convien l’amante suo ridamar poi.
[311]
Ella gli darà tal premio che pareggi la speranza col desiderio:
Certe proprietadi in me nascose
Vi scovrirò d’infinita dolcezza,
Che prosa o verso altrui mai non espose[510].
Se il povero messer Marco riuscì a capire che diamine di negozio fosse il fatto che tanto premeva alla Veronica fu bravo davvero; a me, dico schietto, non riesce di capirlo, e temo che i miei lettori non lo capiranno meglio di me.
Ma non si creda che la Veronica parlasse di solito un linguaggio così incerto ed oscuro, chè anzi usava di parlar schietto e chiaro. Il capitolo III è scritto da lei, assente allora da Venezia, a un altro incognito amante, rimasto colà a sospirarla. Tutta questa poesia è assai garbata e disinvolta, e spira affetto delicato e sincero. Non voglio già dire con questo che tale affetto fosse veramente nell’animo dell’autrice. La quale scrive al suo dolce, gentile e valoroso amante, che il vivere senza di lui le è crudel morte, e che non divisi con lui le son tormenti i piaceri. Si sente struggere e morire; rimpiange il fortunato nido, e mentre la gelosia le serpeggia per l’ossa e la va consumando a poco a poco, ella non vive se non della speranza di presto rivederlo nel dolce loco. Affretta col desiderio il giorno beato che riunirà l’una all’altro:
Subito giunta a la bramata stanza,
M’inchinerò con le ginocchia in terra
Al mio Apollo in scienzia ed in sembianza:
E da lui vinta in amorosa guerra,
Seguirol di timor con alma cassa,
Per la via del valor, ond’ei non erra.
[312]
Quest’è l’amante mio, ch’ogni altro passa,
In sopportar gli affanni, e in fedeltate
Ogni altro più fedel dietro si lassa.
Ben vi ristorerò de le passate
Noje, Signor, per quanto è ’l poter mio,
Giungendo a voi piacer, a me bontate.
Troncando a me ’l martir, a voi ’l desio.
Tutto ciò, non può negarsi, è detto ingegnosamente e con retto senso della misura; nella stessa sensualità non celata, nulla può notarsi di eccessivo, nulla di volgare. Dico che la poesia è disinvolta e garbata e spira affetto delicato e sincero, sebbene non vi manchino le gale, gli orpelli, gli sdilinquimenti che il gusto de’ tempi portava e voleva; l’eco, che mossa a pietà risponde ai dolorosi lai, il sole che si ferma a mezzo il cielo, intento alle amorose querele, Progne e Filomela che si lamentano, le tigri che piangono, le fresche rose i candidi gigli e l’umili viole che inaridiscono al vento dei cocenti sospiri, le pietre stesse che lacrimano, ecc. ecc.
L’amante adorato, l’Apollo in iscienza e in sembianza, risponde nel capitolo IV. Egli afferma, non solo che l’amor suo è molto maggiore dell’amor di lei, il che è di buono stile amoroso, e, direi, di prammatica; ma ancora che il valore suo proprio è poca cosa rispetto al valore di lei, di lei cui ’l Ciel tant’ama e ’l mondo onora. Le rimprovera, ciò nondimeno, la dipartita, e l’assenza all’amor suo troppo lunga. Egli pregò e pianse perchè rimanesse, ma invano: più che il suo, valse l’altrui rispetto, ed ella si partì, lasciandolo solo in solitario tetto. Se ora è pentita, egli del pentimento ha consolazione. Torni quanto più presto può, chè egli altro non brama e non chiede che esserle vicino, e voglia Amore misericordioso adeguare la grande diseguaglianza che è tra lei e lui. Così, nel secolo XVI, si scriveva alle cortigiane illustri.
[313]
Noi non intenderemmo gran che di quei rispetti, di quei rimproveri e di quei pentimenti, se la Veronica stessa non si fosse data cura di chiarire il mistero nel capitolo seguente, che è il quinto, capitolo che sarebbe difficile accordare in ogni sua parte col terzo, quando pure volessimo prenderci cotal briga, e dove son cose che non ci saremmo aspettate.
La Veronica dice al suo fedele innamorato:
Signor, la virtù vostra, e ’l gran valore,
E l’eloquenzia fu di tal potere,
Che d’altrui man m’ha liberato il core.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Quel ch’amai più, più mi torna in dispetto,
Nè stimo più beltà caduca e frale,
E mi pento che già n’ebbi diletto.
Anzi che amare quell’altro, ombra mortale, ella avrebbe dovuto amar lui, solamente lui,
Pien di virtù infinita ed immortale.
Confessa il suo fallo, e promette solennemente di mandare in avvenire per la virtù la beltà in bando. Conchiude dicendo:
Per la vostra virtù languisco e pero,
Disciolto ’l cor da quell’empia catena,
Onde mi avvolse il Dio picciolo arciero:
Già seguii ’l senso, or la ragion mi mena.
Da tutto ciò si ricava che la Veronica aveva in Venezia un amante fisso (non dico già che non ne avesse anche altri di fissi) col quale forse coabitava, se, partita lei, egli rimaneva solo in solitario tetto. Si ricava inoltre che la Veronica ebbe un bel giorno un amorazzo, o un capriccio, e che trascinata dalla subita passione (se pur non era interesse) piantò lì l’amante consueto, e se ne [314] andò col nuovo fuori di Venezia; che l’amante nuovo era bello; che il vecchio non era bello (o perchè allora lo chiama Apollo in sembianza?) ma virtuoso, anzi pieno di virtù infinita; che la Veronica presto si stancò dell’amor nuovo, o non ci trovò quello che contava trovarci, e, pentita, tornò all’antico. Di che sorta fossero le virtù dell’amante vecchio non dice; ma non si esclude che potesse avere molti quattrini e li spendesse volentieri. L’ultimo verso:
Già seguii ’l senso, or la ragion mi mena,
getta un po’ d’incertezza sulla natura dell’amore della Veronica, e poco s’accorda coi versi appassionati di cui abbonda il capitolo terzo; ma l’amante, che esso doveva consolare e rassicurare, era, come si può intendere, una buona pasta d’uomo. Rispondendo a sua volta, egli lodava l’amica dell’onesto e saggio proposito, si confessava spoglio di quelle virtù che veramente avrebbero potuto meritargli l’amor di lei, ma affermava indirettamente d’essere uomo che ’l falso aborre, segue il vero. Se non avesse avuto altro, bisognerebbe ammirare, più che la sua, la virtù della buona Veronica.
Questo amore non avrà acceso nel cuor di lei grandi vampe; ma avremmo torto noi se, per ciò solo che molte volte l’amor suo fu mentito, la credessimo incapace di amore, e dicessimo ch’ella non amò mai. Se badassimo anzi alle sue parole dovremmo credere ch’ell’era sempre innamorata, e qualche volta a suo dispetto. Non è vero che ella viva, come altri pretende,
d’amor libera e franca
Non colta al laccio, o punta a i dardi suoi:
solo, dice, vorrei
Che innamorar convenendomi pure
Fosse ’l farlo secondo i pensier miei.
[315]
Chè, se libere in ciò fosser mie cure
Tal odierei ch’adoro; e tal ch’io sdegno.
Con voglie seguirei salde e mature[511].
Afferma d’innamorarsi facilmente, e con ciò viene a confessare di non essere troppo costante. Tra gli amori di cui ella ragiona, sia nei capitoli, sia nelle lettere, alcuno ve n’ha degno di particolare ricordo. Tale è quello che ella diceva di portare ad uom gentile a maraviglia, amore che le confondeva la vita e le toglieva il core. L’amante se n’era andato fuor di Venezia a passar le feste di Pasqua, e sebbene le scrivesse spesso e affettuosamente, ella viveva in tanto cruccio, e con tanto martello, che non poteva aver bene di sè. La descrizione di queste pene amorose è fatta con molta vivezza, e, salvo le esagerazioni di rigore, non senza accento di verità[512]. Tale è l’altro, di cui fu presa per uomo di gentil sangue e di chiara fama, un qualche patrizio veneto forse. Ella è ancora ne’ suoi verdi anni; l’amor che la soggioga appassionato, prepotente. Di giorno e di notte, sotto la pioggia e il sereno, ella si va aggirando intorno alla casa di lui, molto discosta dalla casa di lei, volge gli occhi ai balconi, i preghi a l’ostinate porte, bacia la fredda soglia, e ode dirsi dal portinajo, cui i cani hanno svegliato, che il signore non dorme in casa, ma passa con altra donna le notti. Scongiura il crudele di muoversi a pietà di lei, che si strugge in pianto, ormai più morta che viva; lo scongiura, non tanto per alcun merito che sia in lei, quanto per l’amore sviscerato ch’ella gli porta, e più ancora per la gentilezza che è in lui, e perchè altri non lo accusi di averla col suo disprezzo uccisa ingiustamente. L’alta virtù che è in [316] voi, ella dice,
L’animo di piegarvi abbia possanza.
Sì che in tanto penar mi concediate
Alcun sostegno di gentil speranza.
Un po’ d’amore, chè molto non chiede, offuschi agli occhi suoi e celi quelle parti che ella ha in sè meno degne di lui;
Nè anch’io d’orsa, che ’n cieco antro si chiuda
Nacqui, nè l’erbe stesa mi nudriro,
Come vil bestia in su la terra ignuda;
Ma tai del mio buon seme effetti usciro
Ch’alcun non ha da recarsi ad oltraggio,
Se del suo amor io lagrimo e sospiro.
La strazia la gelosia; il pensiero che un’altra donna fruisca di ciò che ella disperatamente brama, e si rida di lei, la uccide[513]. Sperando di vincere la furiosa passione, o di trovare almeno alcun refrigerio a’ suoi mali, ella si allontana da Venezia, e si ritrae in luogo campestre, dove con le valli apriche, d’aura e d’odor piene, alternano colline ridenti, e selve ombrose, rallegrate le une e le altre da fonti fresche e cristalline, da dilettoso canto di uccelli, da quanto seppero comporre insieme la natura e l’arte. Ma quei luoghi amenissimi sono a lei, lontana dalla sua Venezia e da colui che adora, deserti alpestri e strani. L’amor suo focoso non si ammorza in quella solitudine, anzi divampa più violento. Come già l’errabondo Petrarca vedeva Laura nei sassi e nei tronchi, così ella ora il suo amante. Tutto in quella vita dei campi la fa risovvenire dell’amor suo. Se vede due uccelletti posarsi cantando sul medesimo ramo,
Con quel desio ch’amor dolce al cor preme;
[317]
se vede uscir da un antro, accompagnate insieme, due damme snelle, sente più acuto nelle carni e nell’animo lo strazio del desiderio non soddisfatto, dell’amore non corrisposto. Oh, umana stoltezza, ella esclama, che ai desiderii d’amor fai
Così continua, abominosa guerra,
mentre l’amore è liberamente largito dalla Natura agli esseri tutti! Stolti ritegni, e dolorosi contrasti, più che agli uomini, dannosi alle donne, la cui tenera indole può meno resistere ai furibondi assalti d’amore!
Picciol aura conturba la tranquilla
Feminil mente, e di tepido foco
L’alma semplice nostra arde e sfavilla.
E quanto avem di libertà più poco,
Tanto ’l cieco desir che ne desvia,
Di penetrarne al cor ritrova loco;
Sì che ne muor la donna, o fuor di via
Esce de la comun nostra strettezza,
E per picciolo error forte travia[514].
Ma di un altro amore è ricordo in quei versi, più notabile, più strano di questo. La Veronica, non sappiamo quando, s’innamorò di un uomo di molta prestanza e di chiara virtù, il quale, per quanto se ne può intendere, doveva essere ecclesiastico e predicatore di grido.
Di molta gente nel comun concorso
Quante volte vi vidi, e v’ascoltai,
E dal bel vostro sguardo ebbi soccorso!
E se ben il mio amor non vi mostrai,
O che ’l faceste a caso, o per qual sia
Altra ragion, benigno vi trovai.
Per ch’ora in una, ed ora in altra via
Di devoto parlar con atto umano
Volgeste a me la fronte umile e pia;
[318]
E nel contar il ben del ciel sovrano
V’affisaste a guardarmi, e mi stendeste
Or larghe, or giunte, l’una e l’altra mano.
Ma il bell’incognito lasciò Venezia, e se n’andò, forse missionario, forse vescovo, in remoto paese, fra genti straniere, e il tempo e la lontananza guarirono lei. Passati molt’anni, egli torna, ed ella lo rivede, ma assai mutato da quel di prima. Non trova più in lui il divino angelico sembiante, che innamorava i cuori più duri; egli è incanutito e quasi vecchio, sebbene ancora in viril robusta etate. L’amor della donna, che mai non fu appagato, si muta in dolce e forte amicizia. Egli sta per assentarsi di bel nuovo da Venezia: non isdegni la sincera e affettuosa devozione di lei, non la dimentichi; le scriva talvolta, le mandi alcuna opera sua: ella gli scriverà molto spesso:
Il vostro ajuto di lontan sospiro
Con occhi lagrimosi e fronte bassa.
Egli, che è salito tant’alto, le porga la mano, ajuti a salire anche lei[515]. Respira e sospira in tutto il capitolo un’anima bisognosa di guida e di conforto: la Veronica non doveva essere più ormai troppo giovine, e s’accostava passo passo al ravvedimento.
Negli altri capitoli, e nelle lettere, sono altri amori, quando narrati, quando accennati soltanto, gli uni felici, gli altri infelici, per gli spasimanti, o per lei. Un gentiluomo s’innamora perdutamente, vedutala appena. Saputo ciò, ella si dichiara disposta a dargli in ogni maniera a lei possibile ciascun segno di benevola corrispondenza, e gli manda intanto copia di una sua raccolta di sonetti[516]. Ella ha lette a sua volta le rare ed eccellenti [319] opere di un altro adoratore[517]. Con un gentiluomo, che la sollecitava mediante una fedele e diligentissima messaggiera, si scusa di non poter appagare i suoi voti, non essendo padrona del proprio arbitrio[518], e respinge un amator tracotante, che vuol violentare il cuore di lei. Per sottrarsi alla importunità di un altro, o, com’ella dice, per non mostrarsi ingrata all’amore che le si portava, lascia Venezia a mezzo il verno e se ne va a Verona[519]. Offesa da un amante, si pente del proprio amore e lo sbandisce dall’animo[520]. Fa morir più d’uno di gelosia, ma anch’ella sente il morso della velenosa passione: rimprovera a un infedele di limar versi in lode di altra donna[521], e contro questa, o contro altra rivale, compone una elegia, che, per rispetto di un protettor di colei, non vuol far pubblica[522]. Accusata da un amante, lo accusa a sua volta, e lo sfida a qual gara gli piaccia meglio, o di armi, o d’amore[523].
Certo, gli è impossibile sceverare in tutto ciò il vero dal falso e la finzione interessata dalla finzione meramente poetica. In quel secolo uomini e donne dovevano, per legge comune di cortigianesca eleganza, spasimare, o fingere di spasimare d’amore. Ma i numerosi amori in cui la Veronica si dice invescata, o in cui mostra invescati gli altri, sono, nella varietà dell’indole loro e del grado, tutti verosimili, e parecchi sono più che probabili. E se i più non si lasciarono dietro se non rime querule e sospirose, alcuni lasciarono ben altro. La Veronica [320] stessa ebbe a confessare nel 1580, davanti al Tribunale del Sant’Uffizio (vedremo or ora in quale occasione) d’aver partorito sei volte, e nel 1580 ella non aveva più di trentaquattro anni. Sin dal 1564, come s’è visto, un messer Jacopo de’ Baballi l’aveva resa madre, a quanto ella credeva, senza però potersene tenere in tutto sicura[524]. Un altro figliuolo ebbe con Andrea Tron, gentiluomo[525], e un terzo con Guido Antonio Pizzamano, uomo ammogliato, che teneva l’officio di Ragionato degli Avvogadori Fiscali, e che fu processato nel 1572 dal Sant’Uffizio, perchè, d’accordo con la moglie, teneva in casa per concubina una monaca, Camilla Rota, fuggita dal monastero dello Spirito Santo. Degli altri tre figliuoli, e dei possibili padri loro, non sappiamo nulla, e forse, [321] per quanto spetta ai padri, non ne sapeva nulla nemmeno la Veronica[526]. Dice pure di lei uno dei soliti ammiratori che
dovunque saettando colse
Col doppio sol di quei celesti lumi,
A sè gran copia d’amadori accolse[527].
Alcun altro di questi innumerevoli ci capiterà quanto prima dinanzi.
La Veronica aveva, in Venezia e fuori di Venezia, molti amici, e sapeva tenerseli cari. Scriveva loro frequenti lettere, e di quelle che riceveva da loro mostrava grande allegrezza, lagnandosi, s’erano troppo rade, o troppo brevi. Lodava chi le pareva meritevole di lode[528], rimproverava chi le pareva avesse meritato rimprovero[529]; [322] confortava con buone parole gli ammalati e gli afflitti[530]; chiedeva ajuto e favore nei bisogni proprii o di altri[531], ma si offeriva pure assai volentieri per quanto era da lei; anzi si doleva di chi non si prendeva con lei quella sicurtà che l’amicizia consente[532]. In una di quelle sue lettere ringrazia un amico d’aver beneficato, dietro raccomandazion sua, un pover uomo che aveva moglie e tre creaturine[533]. Mandava agli amici i suoi componimenti, e riceveva i loro[534]. Assicurava molti dell’amor suo; diceva di ricordarsi sempre di loro, e così li pregava di volersi ricordare di lei: se lontani, diceva di nulla desiderare così vivamente come di rivederli.
Tra gli amici sembra contasse anche qualche amica, e non certo della sua condizione. La lettera terza è a una signora illustre, la quale, potendo comandare alla Veronica, l’aveva pregata di non sappiamo qual servigio o favore. La XVI è scritta a una gentildonna, i cui grandi avoli avevano acquistato fama con atti egregi. La Veronica si congratula con lei che felicemente ha partorito un bel maschio, e alla madre, al padre, al bambino fa gli augurii più lieti.
Gli amici, generalmente parlando, le si addimostravano affezionati e premurosi: la consolavano nelle sue afflizioni, l’ajutavano nei bisogni, la invitavano ad andarli a trovare in villa[535], e le scrivevano lettere cortesi ed amorevoli, di cui ella ringraziava con effusione[536]. Bartolomeo [323] Zacco, padovano, chiedeva in un sonetto alla Veronica, Donna cortese, di onorare col suo dire una figliuola ch’egli aveva perduta, e la Veronica gli rispondeva con un sonetto per le rime. Ma non tutti erano così garbati con lei, e la lettera dodicesima lo prova. Saputo che le frequenti e lunghe sue lettere erano di molestia più tosto che di ricreazione a un amico, ella, confusa ed afflitta, scrive: «di niun altro contrario, e nojoso accidente non avrei di lungo spazio sentito il dolor, ch’io provo nel vedermi così improvvisamente abbandonata dalla vostra grazia: pur m’acqueterò, per non dispiacervi, al voler vostro, e cercherò d’emendar il non prima conosciuto errore dell’aver scritto spesso e lungo, con l’esser breve e rara in questo officio, sì come nell’opra della riverenza, e della grata memoria sarò profonda ed infinita». E in questa cosa della grata memoria forse diceva vero, perchè anche di altri amici ebbe a ricordarsi a lungo e con affetto.
Tra i molti ch’ella aveva ce n’erano alcuni di gran nome e di gran recapito, i quali meglio che amici si direbbero protettori: tali erano il Duca di Mantova, Guglielmo, e il cardinal d’Este, Luigi, figlio d’Ercole II e di Renata di Francia, fratello di Alfonso II, di Lucrezia e d’Eleonora. La Veronica dedicò, siccome abbiam veduto, le sue Terze Rime al serenissimo signor Duca. Non sappiamo qual fosse, o qual fosse stata in passato, la relazione tra lui e lei: qualche plausibile congettura in proposito si potrebbe fare, ma senza gran pro. Nella dedicatoria la Veronica è assai riservata: dice di non essersi potuta astenere dal mandargli i suoi versi, per dare al discreto giudizio di esso signor Duca alcun leggier gusto della bassa musa di lei, e, insieme, un picciol pegno della sviscerata osservanza e della umilissima servitù ond’ella è a lui legata di perpetuo indissolubil nodo. La sua pochezza le sia scusa se ella non ardisce [324] por bocca nel cielo dell’inestimabil valore del serenissimo signor Duca. Il libro gli manda per mezzo di un suo ancor fanciullo figliuolo, il quale nel volto, e negli atti, e in ogni guisa d’inchinevole riverenza, esprimerà il medesimo core di lei nella serenissima presenza di lui. Certamente il Duca ebbe ad accogliere assai graziosamente il dono e chi gliel recava[537].
Al cardinale d’Este son dedicate le lettere. La Veronica fa dell’eminentissimo cardinale sperticatissime lodi, magnifica il lume di quella gloriosa virtù, esalta la incredibile cortesia e la sopra umana gentilezza, s’inginocchia davanti alla divinità del cospetto e alla divina umanità di sì celebrato ministro del cielo. Ella, nel concorso di molti uomini famosi di dottrina, che del continuo indrizzano a lui opere maravigliose di scienzia e di elegantissimi studii, non dubita, sebbene donna inesperta delle discipline, e povera d’invenzione e di lingua, di dedicargli un volume di lettere giovenili, serbando a tempo di maggior occasione, e di più prospera fortuna, e di più essercitato stile, di dargli altra recognizione d’osservanza e d’animo devoto. Mi duole di non sapere che cosa rispondesse l’eminentissimo cardinale a lettera così ossequiosa ed amabile.
La Veronica bramava assai e si rallegrava di poter godere del colloquio soavissimo de’ suoi amici migliori[538], i quali erano letterati la più parte, e volentieri bazzicavano con le muse. Uno dei maggiori era Domenico Veniero, i cui versi a noi ora non pajono più gran cosa, ma che a’ suoi tempi fu tenuto universalmente un miracolo d’ingegno, un oracolo di sapere, un modello insuperabile di eleganza. Colpito, in età ancor giovine, da una crudele [325] infermità che gli tolse per sempre l’uso delle gambe, l’unica sua consolazione trovava nei libri, nel comporre, e nella conversazione degli uomini dotti. Il suo palazzo diventò albergo di genialissimi ritrovi, ai quali accorrevano, non solo quanti erano letterati e uomini cospiqui in Venezia, ma quanti ancora, di qualche riputazione, ne venivan di fuori. Tra gli infiniti che li frequentarono si ricordano Federigo Badoaro, Girolamo Molino, Jacopo Zane, Giorgio Gradenigo, Celio Magno, Bernardo Tasso, Dionigi Atanagi, Sperone Speroni, Girolamo Ruscelli, Girolamo Muzio, Anton Giacomo Corso, Giovan Battista Amalteo, e Paolo Manuzio, e Girolamo Parabosco, e altri e altri[539]. Ora, a questi ritrovi, nei quali si ragionava di poesia, di filosofia e di ogni cosa che potesse dar grato pascolo a nobili intelletti, e ai quali crescevano diletto frequenti accademie musicali e sollazzi di più maniere, ebbe ad esser presente assai volte la Veronica. Due capitoli, il XV e il XVIII, e parecchie lettere di lei, sono indubitabilmente indirizzati a Domenico Veniero, come si ricava da alcuni significantissimi accenni, e sebbene non rechino nome alcuno. Nella lettera XLV, ella, che con un ago da treccia s’era ferita malamente un ginocchio, gli chiede una di quelle sue sedie da stroppiato. Nella XLIX lo dice il più bello, ed il più risplendente lume, che tra molte scienzie oggi dì si vegga nella professione delle lettere gentili. Nel capitolo XV accenna a un ridutto, a una scola, a un
celebre concorso
D’uomini dotti, e di giudicio eletto,
e si scusa d’aver lasciato passar molti giorni senza andare a far riverenza a colui che, infermo in letto, aveva [326] intorno a sè quel celebre concorso. Perdutamente innamorata, divisa da colui che ama, scoraggita e mesta, ella non aveva ardito mostrarsi; ma promette di lasciare alla prima occasione ogni altra cura per riparare al suo mancamento.
La Veronica approfittava della benevolenza del Veniero per farsi rivedere da lui, e all’occorrenza correggere, le prose e i versi[540]. Nella lettera XL dice: «subito ch’io sia spedita dalle composizioni ch’io faccio, verrò alla censura, ed al giudizio di lei, e continuerò, senza interrompimento di cosa che succeda, a servirla presenzialmente». Un po’ più oltre parla della deliziosa compagnia e della beata contemplazione ond’ella gode: molte volte, senza dubbio, il patrizio avrà corrette le prose e le rime della cortigiana sotto gli occhi stessi di lei, e discutendo con lei le ragioni e le regole dell’arte.
Nè della correzione la Veronica aveva da vergognarsi. Era usanza dei letterati in quel secolo sottoporre le proprie scritture, prima di farle pubbliche, al giudizio di uomini famosi per dottrina e buon gusto, ricercare di costoro i consigli, non isdegnare le correzioni. Il desiderio di toccare la perfezione, ch’era vivissimo in molti, e lo spirito di adulazione, ch’era vivissimo in più, persuadevano tale usanza. Per non ricordare altri esempii, chè innumerevoli se ne potrebbero ricordare, allo stesso Domenico Veniero sottoposero i loro versi Girolamo Fenaruolo, Jacopo Zane, Bernardino Rota, Luigi Grato, Giuliano Goselini ed altri assai. Persino Torquato Tasso ebbe a giovarsi de’ suoi consigli e de’ suoi suggerimenti. Domenico Veniero non era, del resto, il solo consigliere letterario della Veronica: tale officio avevano anche altri, e fra questi altri troviamo un ecclesiastico. A lui è scritta la lettera sesta. La Veronica gli manda stampata una di [327] quelle operine di che, ella dice, V. S. mi fece il favore ch’ella sa, e promette di dargli altre cose sue da leggere. Questa lettera è curiosa anche per altre cose che vi son dette. La Veronica si loda molto d’aver conosciuto un uomo di tanta dottrina e virtù, e parla della interna edificazione onde l’ha riempiuta il suo esempio. Le duole che il suo vivere, intricato negli errori, e macchiato nel fango mondano, gli sia cagion di molestia e di rincrescimento; ma nota che i peccati di lei possono essere occasione all’esercizio delle virtù di lui. Lo prega d’intercedere per lei, e di ottenere perdono dal cielo ai suoi tanti e così indegni falli.
La Veronica era, in Venezia, almeno, in buon concetto di letterata, e trattava i letterati da pari a pari. Volentieri si faceva conoscere a quelli che venivan di fuori, e volentieri, a richiesta altrui, prestava l’opera sua letteraria. Al Montaigne, capitato in Venezia nel 1580, ella mandò a regalare una copia delle sue lettere, ed egli diede al latore due scudi di mancia. Venuta fuori la Semiramide, tragedia di Muzio Manfredi, ella assai la lodò in un sonetto, che fece recapitare all’autore. Il Manfredi era allora in Francia, ai servigi di una duchessa di Brunswick, e rispose con la seguente lettera, scritta da Nancy il 30 di ottobre del 1591, quando la povera Veronica era già morta da più di tre mesi: «Il bellissimo sonetto, che V. S. mi ha mandato in laude della mia Semiramis tragedia, mostra con la sua rarità, la divinità dell’ingegno vostro, e la forza dell’amore che sempre ho conosciuto in voi verso me, poi che in esso tanto mi onorate, e con tale spirito di sapere, e d’arte, che io ne sono rimaso, non pure pieno di maraviglia, ma di stupore. Poi l’avere V. S. trovato modo di mandarlomi fin qua, mi ha chiarito ch’ella in essere cortese ha pochi pari. La ringrazio ora con questa mia quanto più posso; ma fra poco le darò in altro stile, tal segno di [328] gratitudine, che in tutto non rimarrò vinto di cortesia, e le priego sanità ed ozio da dar l’ultima mano al suo poema epico»[541]. Come ho già detto innanzi, Bartolomeo Zacco pregava la Veronica di voler onorare con alcuno scritto suo la figliuola ch’egli aveva perduta. Morto nel 1575 e nel fior degli anni Estor Martinengo, conte di Malpaga, il quale nel 1572 era stato capitano di fanti al servigio della Repubblica, il colonnello Francesco, fratello di lui, richiese la Veronica di volere onorare la memoria dell’estinto con una raccolta di versi suoi e di altri, come allora si usava. La Veronica si accinse all’opera, e sollecitò i letterati amici suoi, pregandoli di sollecitare a lor volta i letterati amici loro. Con la lettera XXXIX eccitava un amico a impiegar l’opra de’ suoi delicatissimi studii in alcuni sonetti. Diceva d’essere richiesta, da persona che le poteva comandare, di comporre sopra quella materia, e far comporre tutti gli amici e signori suoi. Con la lettera XXII ne pregava un altro di volere scrivere e di fare scrivere a quei suoi Academici. La lettera XL tratta dello stesso argomento. Finalmente la raccolta venne fuori, composta di ventisei sonetti, preceduti da una lettera della Veronica al colonnello Francesco[542]. Gli autori dei sonetti sono, oltre alla Veronica, che ce ne mise nove, un chiarissimo signor D. V. (Domenico Veniero, senza dubbio), Marco [329] Veniero, Orsato Giustiniani, Bartolomeo Zacco, Celio Magno, Andrea Menichini, Marco Stecchini, Orazio Toscanella, Giovanni Scrittore, Antonio Cavassico. La Veronica dava anche versi a raccolte fatte da altri: un suo sonetto si legge fra varie composizioni poetiche pubblicate in Padova, nel 1575, da Giovanni Fratta, gentiluomo veronese ed Accademico Anonimo, per celebrare il felice dottorato dell’illustre ed eccelentissimo signor Giuseppe Spinelli.
Abbiam veduto che gli amici assenti da Venezia invitavano la Veronica ad andarli a trovare in villa: ella talvolta si scusava di non potervi andare; tal altra vi andava, e passava alcuni giorni in loro compagnia. Così fu che, non sappiamo in qual anno, si recò a Fumane, presso Verona, nella principesca villa del conte Marc’Antonio della Torre, e vi fece breve soggiorno. Il conte Marc’Antonio, della illustre famiglia che aveva un tempo signoreggiata Verona, era, sino dal 1563, preposto della cattedrale di quella città, e aveva inoltre l’officio di Referendario dell’una e dell’altra segnatura. Più volte, e in più luoghi, il papa l’aveva mandato suo commissario, e la Veronica afferma ch’egli era
Degno di mille mitre e mille imperi,
seguita, o preceduta in così fatto giudizio da Adriano Valermi, oscuro poeta veronese, il quale, traendo da quel nome di Della Torre argomento (come a lui sembrava) d’ingegnoso e felice bisticcio, diceva all’illustrissimo signor preposto ch’egli era tanto amico e caro a Dio quanto già era stata nemica e odiosa la torre di Babele. La villa di Fumane, di cui qualche avanzo sussiste ancora, era, a dir del Panvinio[543], la più magnifica di quante se ne vedessero nell’agro veronese, e certo [330] una delle più famose d’Italia, degna senza dubbio d’essere commendata e ammirata da un Leon Battista Alberti, da un Sebastiano Serlio, e da quanti scrittori ed artisti del Rinascimento diedero ammaestramenti e norme circa il costruire e ordinar ville. La Veronica v’andò, tratta, così ella dice, dal desiderio di vedere quel Signor cortese e saggio,
Che regge ’l mio voler con le sue ciglia,
e tanto contenta rimase delle accoglienze avute e della incomparabile bellezza del luogo, che ne tolse argomento a un capitolo fervido di entusiasmo, e di quanti ne compose il più lungo[544]. V’andò senza mai interrompere il viaggio, sebbene la via fosse pessima, ed ella avesse, partendo da Venezia, l’anima conturbata da non sappiamo quali molestie.
Al fin pur giunsi a la bramata stanza,
Nè potrei giamai dir sì come io fossi
Raccolta con gratissima sembianza.
A sì dolce spettacolo rimossi
Tutti i miei gravi e torbidi pensieri,
Che venner meco allor che d’Adria mossi.
E tra mille dolcissimi piaceri
Ristoro presi, e mi riconfortai,
Qual fa chi il suo ben gode e ’l meglio speri.
E la Veronica ci descrive in versi pieni di ammirazione, e spesso felici, il luogo incantevole, di cui ebbe tanto a lodarsi: in prima le ubertose colline che fan corona alla valle rotonda; un bosco di cipressi e di pini,
Pien d’ombre amiche al dì lungo e fervente;
le acque cristalline che zampillano e corrono per ogni banda; il giardino meraviglioso, dove l’arte gareggia [331] con la natura; poi il palazzo principesco, il quale sorge alquanto rilevato, e adorno di tanta bellezza e tanta magnificenza, che non ha l’eguale, se non quello del Sole, celebrato dai poeti; il palazzo signorile del Rinascimento, a cui tutte le arti hanno dato l’opera loro e i loro splendori, pieno d’ogni ricchezza e d’ogni eleganza.
I fini marmi e i porfidi lucenti,
Cornici, archi, colonne, intagli e fregi.
Figure, prospettive, ori ed argenti,
Quivi son di tal sorte e di tai pregi,
Ch’a tal grado non giungono i palagi
Che fer gli antichi imperadori e regi.
Ma le comodità di dentro e gli agi
Son così molli che gli altrui diletti
Al par di questi sembrano disagi.
Per li celati d’or vaghi ricetti,
Sul pavimento che qual gemma splende,
Stan sopra aurati piè candidi letti.
Di sopra da ciascun d’intorno pende
Di varia seta e d’or porpora intesta,
Che ’l contegno de’ letti abbraccia e prende.
Di coltre ricamata, o d’altra vesta,
Di ricca tela ognun s’adorna e copre,
Sì ch’a fornirla ben nulla gli resta.
Poi diversi disegni e diverse opre su cortine, su tappeti, su arazzi, in tutti i lati. Un’arte miracolosa ha chiamato a nuova vita su quelle pareti, su quelle vôlte, le antiche divinità innamorate, ha rievocato le più leggiadre tra le fantasie elleniche: Giove che in pioggia d’oro scende nel grembo a Danae, Io trasformata in giovenca, l’aquila che rapisce Ganimede. Altre pitture, da altro pensiero inspirate, mostrano i ritratti di tutti i pontefici, e d’infiniti cardinali e prelati che
in noi pensieri
Destano de le cose più eccellenti.
[332]
Nel beato soggiorno è ogni diletto, e liberamente attende ogni persona a quello spasso che più gli va a genio: chi va a caccia, chi bada a pescare, chi si sta senza far nulla, sedendo al rezzo.
Nel capitolo XI è cenno di una andata della nostra poetessa a Verona, a mezzo il verno, e di un ricetto che ella bea di sua presenza, per destin felice d’un altro amante: non è improbabile che quest’altro amante fosse lo stesso Marc’Antonio della Torre[545].
Ma per quanto liete ed affettuose fossero le accoglienze degli amici, per quanto amene e sontuose le ville loro, la Veronica preferiva ad ogni altro soggiorno quello della sua Venezia. Quando,
Per fortuna nojosa e violenta,
ella n’era da alcun tempo lontana, non aveva pace e contava l’ore che mancavano ancora al ritorno. Rivedeva, nell’accesa fantasia, i palazzi marmorei, ricchi di fregi più simili a lavoro d’ago che di scalpello, specchiarsi nei mille canali con cui la laguna sembra che allacci a sè
l’alma cittade
Del mar reina, in mezzo ’l mar assisa;
la città ricca di quanta ricchezza e di quanti beni il mondo produce,
Sì ch’eterna abondanzia la circonda,
E di tutti i paesi fruttuosi
Più ricca è d’Adria l’arenosa sponda.
Ed in qual parte del mondo s’ama come s’ama in Venezia?
Il mar e ’l lito quivi arde e sfavilla
D’amor, che tra nereidi e semidei,
Quell’acque salse di dolcezza instilla.
[333]
Venere in cerchio ancor de gli altri dei
Scende dal ciel su questa bella riva,
Con l’alme grazie in compagnia di lei.
Il ricordo di Venezia, della patria sua celebre e magna, le faceva odiare i campi[546]. Non contenta d’innalzar ella Venezia sopra le città tutte, voleva che anche gli amanti suoi la lodassero[547]; era lieta che altri desse l’opera sua alla città regina[548], e consolando un tale di non so che avversità, gli ricordava avere egli avuta la grandissima ventura di nascere in Venezia[549].
[334]
E in Venezia aveva la Veronica tutti i suoi piaceri e tutti i suoi comodi. Non solo frequentava i ritrovi degli amici, ma ne teneva ella pure in sua casa, e quali spassi vi usassero e come ci si spendessero l’ore, in parte sappiamo da lei medesima, in parte possiamo immaginare. La musica vi teneva grande luogo. Con la lettera nona la Veronica chiede in prestito a un amico uno strumento a corda, e lui stesso prega di voler venire il giorno seguente in casa sua, alle venti ore, in occasione, dice, ch’io faccio musica[550]. Il repertorio musicale era allora assai copioso: i madrigali, le villanelle, le mattinate, le disperate, gli strambotti, le napolitane, le siciliane, intonate da maestri valenti, fioccavano, più che altrove, in Venezia, e le nuove e belle acquistavano gran voga e si ripetevano da tutti[551]. Molte di certo ne avrà conosciute la Veronica, e quando, lasciati in riposo gli strumenti musicali, si dava corso ai ragionamenti e al novellare, possiam credere che tanto ella, quanto gli amici suoi, recassero volentieri in mezzo certi indovinelli, certi passerotti un po’ liberi, come piacevano al secolo, certe poesie allegre, e certe storie e fanfaluche da far ridere, come el lamento de Cosin, e la Vita de l’omo pizinin, la fiaba dei Buraneli, quella di Comare Oca, quella dell’Uccel Bel Verde, e altre ricordate dal Calmo, alternandole con varii giuochi, ch’erano allora in [335] uso[552], e con le danze più in voga. La Veronica conosceva inoltre, e giustamente apprezzava il piacere che si prova a stare a tavola, in compagnia di amici alla buona, senza soggezione, entro una camera ben chiusa e ben calda, quando fuori imperversa l’inverno. Invitando un amico, e pregandolo di condurne seco un altro, ella dice: Il tempo è piovoso, e invita ogni buona persona a provedersi di dolce trattenimento al coperto ed al fuoco, almeno fino a sera. Il desinare sarà sine fuco et ceremoniis, more majorum; e se vorrete, dice, aggiungervi un fiaschino di quella vostra buona malvasia, di tanto mi contento, e di più non vi condanno[553]. Altri spassi non mancavano fuori di casa, secondo i tempi, come l’andare in gondola a diporto, pescare e uccellare in laguna, visitare i giardini, assistere alla rappresentazione delle commedie e ai giuochi varii che si facevano continuamente in città[554].
Della casa sua, e della masserizia che aveva, la Veronica non parla. Solo una volta la udiamo chiedere, a pigione senza dubbio, a un grazioso, gentile e molto onorato signore, una casa, per forma, e per sito, e per [336] adornamenti comoda, e godevole, e piena de ricreazione[555]. Se la chiedeva, doveva anche avere di che arredarla convenientemente, e possiamo credere che in casa sua non mancasse quel lusso che, come abbiam veduto era solito nelle case delle cortigiane illustri. Se non ricca, la Veronica fu certamente agiata, almeno in un tempo di sua vita; giacchè, se quando, nel 1582, ella presentò ai Dieci Savii sopra le decime la nota de’ suoi beni, questi sembra si riducessero a poca cosa, sappiamo da altra banda da lei stessa che ella aveva perduto buona parte del suo nel contagio del 1575 e del 1576[556]; in qual modo, non dice. I suoi due testamenti del 1564 e del 1570 la mostrano in possesso di un patrimonio che non è valutato, ma che sembra abbastanza cospicuo[557], e nel 1580 essa doveva vivere lautamente, se poteva tenersi in casa un precettore pel figliuolo Achilletto, e servitori e fantesche.
Quella perdita mostra già che la vita della Veronica non sempre corse tranquilla e gioconda; ma non è essa il solo fatto spiacevole che gliel abbia turbata. Se gli amici le si mostrarono di solito affezionati e devoti, non mancarono nemici che a più riprese le diedero noja e s’ingegnarono di nuocerle. Uno di essi, lo dice ella stessa, tentò con calunnie di contaminare l’onor di lei, levando un grande scandalo[558]; un altro le scrisse contro una [337] canzone infamatoria, chiamandola meretrice[559], e non fu questa la sola poesia composta in suo biasimo. Fra cotesti denigratori pare ce ne fosse qualcuno che con la satira e con la maldicenza si vendicava di rifiuti sofferti[560]; e non è improbabile che alcuno di essi sia autore di certo testamento apocrifo di Lodovico Ramberti, il quale si legge in un codice miscellaneo del Museo Correr in Venezia. In questa scrittura, non molto arguta a dir vero, il Ramberti, che dice d’essere con qualche pericolo del corpo, sì per l’età, sì per i molti disordini uso a fare con la sua dilettissima madonna Veronica e col soavissimo suo messer Zuane Bragadin, dispone in modo burlesco delle cose sue. Alla Veronica lascia il suo buon letto di piume, con patto che la nol possa nè vender, nè impegnar, nè dar a zudii, e le fa altri lasciti ridicoli. Vuole che sulla sua tomba s’incidano alcuni versi, fattura, è detto, della stessa Veronica[561]. Costei, o non curava tali assalti, o con garbo se ne schermiva, mostrando che spesso l’altrui biasimo si converte in lode, affermando che chi ingiuria non provocato ingiuria sè stesso,
E ’l voler oscurar il vero espresso
Con le torbide macchie de gli inchiostri
In buona civiltà non è permesso;
rispondendo talvolta alle satire con le satire[562], e avvertendo talaltra i calunniatori di tacere, se non volevano ch’ella cominciasse a parlare a sua volta[563].
[338]
Di questi nemici, i quali del resto nè nocquero molto, nè molto potevano nuocere, non ci son noti i nomi; ma ben ci son noti d’altri, che tentarono di mettere la Veronica in un assai brutto imbroglio, e per poco non ci riuscirono. Ciò avveniva nel 1580. Un Rodolfo Vanitelli, precettore di Achilletto, sostenuto dalle testimonianze di una donna Bortola e di un Giovanni Vendelino, tedesco, l’una e l’altro ai servigi della Veronica, denunziarono costei al tribunale del Sant’Uffizio. I misfatti di cui costoro, messi forse su, forse pagati da qualche nemico maggiore rimasto nell’ombra, l’accusavano, erano parecchi. Per ritrovare un pajo di forbici con la guaina d’argento, e un uffiziolo dorato che le erano stati rubati, la Veronica aveva fatto uso di sortilegi, e aveva invocato il diavolo, servendosi in quelle detestabili pratiche di un anello benedetto, di olivo benedetto, di acqua e di candele benedette, fatte prendere da Achilletto nella vicina chiesa di San Giovanni Nuovo. Inoltre teneva in casa giuochi proibiti, commettendo molte poltronerie, dando la mancia a coloro che avrebbero potuto denunziarla, perchè tacessero. Non udiva mai messa; mangiava di grasso nei giorni vietati, e s’era fatta ajutare dal diavolo a innamorare certi tedeschi. L’accusavano ancora di aver simulato un matrimonio, a solo fine di poter portare gli smanigli d’oro e l’altre gioje che la legge non consentiva alle meretrici. Chiedevano da ultimo che, senza riguardo ai molti protettori, si desse alla rea donna il castigo che meritava[564].
Tali accuse, oggi, farebbero ridere; ma erano gravissime allora, e portavano pericolo grande anche se insensate, anzi appunto perchè insensate. Ventidue anni dopo, in Modena, fu fatto un processo ad Alessandro Tassoni, che allora era in Ispagna, per esserglisi trovata in casa [339] una boccia di vetro con dentro uno di quei diavoli detti diavoli di Cartesio[565]. Col Santo Uffizio c’era poco da scherzare, e chi ci si lasciava cogliere il dito non era mai sicuro di non averci a passare con tutta la persona, cioè a dire di non finire nel fondo di una prigione perpetua, o sopra un rogo. Oltre a ciò le donne di mala vita erano in fama di ricorrere volentieri alle fattuccherie, e lo Zoppino fatto frate, nel già citato Ragionamento dell’Aretino, ne ricorda parecchie, strane, orribili e disgustose, di cui quelle usavano per trarsi in casa gli innamorati[566]. Le accuse mosse alla Veronica dovevano dunque, ai giudici del Sant’Uffizio, sembrar tutt’altro che inverosimili, e se costei riuscì a purgarsene, come fece, il merito è senza dubbio, assai più suo che loro.
Non col solo tribunale ecclesiastico ebbe briga la Veronica; l’ebbe anche coi tribunali civili. Le lettere di lei contengono accenni a due diverse liti[567], di cui ignoriamo [340] le ragioni. L’una, trattata durante un’assenza della Veronica da Venezia, e vinta da lei, l’aveva provocata un gentiluomo di mala fede, dalle cui promesse ella s’era, per bontà di natura, lasciata ingannare. L’altra non sappiamo che esito avesse; sappiamo solo che l’avvocato, a cui la Veronica aveva affidato il patrocinio del proprio diritto, trascurava il suo officio e non veniva a capo di nulla, tanto che costei gli chiese la restituzione delle carte a lui affidate. Entrambe le avranno, senza dubbio, procacciato noje parecchie, e a tali noje accenna ella forse, quando parla di occupazioni che a guisa d’idra, più ella le tronca, più le si vanno moltiplicando d’attorno[568]. Ma non furono queste, di certo, le sole sue noje. In più e più luoghi delle rime e delle lettere ella accenna a fastidii gravi, senza dir quali fossero: una volta giunge a parlare dell’empio stile della sua iniqua fortuna[569]. E la salute non l’ajutò sempre, anzi le si fece, sembra, assai cagionevole. In una delle sue lettere dice: «mi sento per continuo uso sì fattamente indisposta, che mal posso affaticar l’ingegno e la penna»[570]. E nel costituto presentato al Sant’Uffizio, quando fu accusata dal Vanitelli, dichiara: «In questo anno mi ho amalado assai volte, ed ha mo un anno sono stata 4 mesi amalada che mai mi ho movesto di letto». Notisi che la Veronica non aveva allora più di trentaquattro anni.
Può darsi, anzi è probabile, che il venirle meno della salute fosse per lei come un avvertimento e un ammonizione d’avere a cambiar vita; ma altre cagioni ancora debbono, in quel medesimo anno 1580, averla disposta e avviata alla conversione, con cui, al par della Tullia [341] e di molte altre cortigiane famose chiuse la sua carriera. Il processo fattole dal Santo Uffizio, il pericolo corso, e le molestie sofferte, non avranno mancato di aggiungere sollecitazioni e stimoli al desiderio che già forse l’era sorto nell’animo, infervorando in lei, per una parte, il sentimento religioso, che, del resto, nelle lettere si appalesa sempre assai vivo, e aumentando, per l’altra, la sazietà e il disgusto della vita cortigianesca. Quella vita, di cui tanto rammarichio fece sul tardi la Tullia, anche alla Veronica non andò troppo a genio; se non negli anni suoi più verdi, il che mi parrebbe temerario affermare, almeno in quelli alquanto più maturi. Di ciò è documento una lettera con cui ella tentava dissuadere una madre dal far cortigiana la propria figliuola. La Veronica s’era profferta di far accettar la fanciulla nella così detta Casa delle zitelle, e di ajutarla del suo; ma la madre, sorda ai buoni consigli, e noncurante delle profferte, si ostinava nel tristo proposito. La Veronica allora le fa intendere il suo risentimento, e le dipinge con assai foschi colori la profession delle cortigiane, «nella quale ha gran fatica di riuscir chi sia bella, e abbia maniera e giudizio e conoscenza di molte virtù». Non è vita più misera e più vile di quella delle cortigiane. «Troppo infelice cosa, e troppo contraria al senso umano, è l’obbligar il corpo e l’industria di una tal servitù, che spaventa solamente a pensarne; darsi in preda di tanti, con rischio d’esser dispogliata, d’esser rubata, d’esser uccisa; ch’un solo un dì ti toglia quanto con molti in molto tempo hai acquistato, con tant’altri pericoli d’ingiurie e d’infermità contagiose e spaventose». Credete a me, ella dice, tra tutte le sciagure mondane questa è l’estrema; e gran mercè se non fosse più oltre che mondana; ma le si aggiunge certezza di dannazione eterna[571].
[342]
Un’altra ragione non vorrei togliere, o almeno non vorrei togliere in tutto, alla conversione della Veronica; gli anni che la sopraggiungevano. Nel 1580 quegli anni non erano ancora molti, ma non erano nemmeno pochi per la professione di cortigiana, e d’una cortigiana che aveva una riputazione da serbare, un nome famoso da tener alto. Scorse ella alcun segno di scemato ardore negli amanti suoi? conobbe minore la frequenza degli ammiratori intorno al suo uscio? o vide ella stessa, nel suo volto, alcuna di quelle tracce lasciate dalla mano villana del tempo inesorabile, che consigliavano l’antica donna galante a dedicare a Venere lo specchio:
Dico tibi Veneri speculum, quia cernere talem
Qualis sum nolo, qualis eram nequeo?
Impossibile affermarlo; ma non improbabile certo; come improbabile non è che il rinunziamento e la conversione non siensi compiuti senza qualche combattimento e qualche angoscia. Il sonetto seguente pare ce ne faccia testimonianza[572]:
Ite, pensier fallaci, e vana spene,
Ciechi, ingordi desir, acerbe voglie,
Ite sospir ardenti, amare doglie,
Compagni sempre alle mie eterne pene.
Ite memorie dolci, aspre catene
Al cor, che alfin da voi pur si discioglie,
E ’l fren della ragion tutto raccoglie,
Smarrito un tempo, e in libertà pur viene.
E tu, pura alma, in tanti affanni involta,
Slegati omai, e al tuo Signor divino
Leggiadramente i tuoi pensier rivolta.
Sforza animosamente il tuo destino,
E i lacci rompi, e poi leggiadra e sciolta
Drizza i tuoi passi a più sicur cammino.
[343]
Chi non sente in quelle memorie dolci, che si vogliono sbandire per sempre dall’anima, tremare un sospiro? In un altro sonetto, indirizzato a quel Bartolommeo Zacco di cui ho già fatto parola, la Veronica accenna alla conversione ormai compiuta, a un alzarsi al cielo dell’anima sua. E lo Zacco, che ricordava forse altri ardori, e altri accenti dell’amica sua, rispondeva con un sonetto per le rime, confortando e lodando[573].
Ma la prova più sicura della conversione non istà in questi sonetti; sta nel disegno che ella formò, l’anno 1580 appunto, di fondare un ricovero per le donne traviate che volessero lasciare il mal costume. C’era allora, gli è vero, in Venezia, come altrove, un monastero delle Convertite; ma di regola troppo stretta ed austera[574]. La Veronica voleva, non un monastero, ma una casa, dove tali donne potessero ricoverarsi anche coi loro figliuoli, qualora ne avessero. A tal fine compose un memoriale da presentare al doge e alla Signoria[575]. In esso offriva di adoperarsi ella stessa per la nuova fondazione, e prometteva di mostrare, quando fosse accettata la sua proposta, come si potesse provvedere alla spesa senza gravare in modo alcuno l’erario. Confessava in pari tempo, esagerando senza dubbio un pochino, di trovarsi in povero stato, insieme coi figliuoli suoi, e con alcuni nipoti, figli di un fratello di lei, morto di peste alcuni anni innanzi, e chiedeva, sulle somme che si raccoglierebbero seguendo i suoi suggerimenti, cinquecento ducati annui, da devolvere poi agli eredi. Non pare che cotesto memoriale sia stato mai presentato; ma la Veronica dovette far conoscere egualmente il suo disegno e acquistargli fautori. In fatti, in quel medesimo anno sorse, [344] presso la chiesa di San Niccolò da Tolentino, e sotto la protezione di San Giorgio, la Casa detta del Soccorso, governata da nobili dame, aperta, non solamente alle peccatrici ravvedute, ma anche alle mogli che fossero separate dai mariti. La Veronica non vi si chiuse, nè, con tanta famiglia intorno, avrebbe potuto farlo; ma vide l’ospizio preconizzato da lei tramutarsi d’uno in un altro luogo, crescere e prosperare[576]. Che, dopo fondato, la Veronica v’abbia avuto ingerenza non sembra; ma era tradizione ancor viva nel secolo scorso tra le donne ricoverate, che la figura principale di un quadro rappresentante appunto l’Opera pia del Soccorso, e dipinto per la chiesa del medesimo nome da Carletto Caliari, ritraesse la cortigiana pentita[577]. Una supplica indirizzata, non so in quale anno, dai direttori del pio luogo al doge, svela il segreto della Veronica, il modo cioè ch’ella aveva trovato per far denari, accennato da lei nel memoriale, ma non chiarito: essi chiedono che, conformemente al pensiero di lei, si concedano alla Casa del Soccorso i beni delle meretrici domiciliate e morte in Venezia; per intero, se morte senza figliuoli legittimi, o naturali, e senza far testamento; per una metà soltanto se morte senza figliuoli, ma dopo fatto testamento[578].
Riconciliata con Dio; dimenticata forse dagli antichi amici, ma benedetta dalle sventurate cui aveva additata la via della salute, e aperto un asilo di perdono e di pace, la povera Veronica morì in età ancor fresca. Nei Necrologi del Magistrato alla Sanità si legge questo laconico ricordo: 1591, 22 luglio. La Sig.ra Veronica Franco d’anni 45 da febre già giorni 20. S. Moisè. E non se ne sa altro.
[345]
Giunti a questo punto, prima di dare un ultimo, ma forse non dispettoso addio alla cortigiana morta, torniamo col pensiero un istante alla cortigiana viva.
Povera Veronica! Non so se una pietà che potrà sembrare male spesa a parecchi mi faccia velo al giudizio, ma pare a me che costei fosse assai migliore del mestier suo. Non cerchiamo in lei virtù che non possono essere in cortigiana: cortigiana ella è; ma chi potrà mostrarmene un’altra che sia più dabbene di lei? A molte cose che di sè ella o dice, o lascia intendere nei capitoli e nelle lettere, possiamo non credere; ma non possiamo non credere a tutte, perchè certe bugie, subito conosciute da chi la frequentava, le avrebbero nociuto e non giovato, e perciò ella non ci aveva interesse a dirle. Che l’animo suo fosse naturalmente buono non credo si possa negare, e tutti sanno del resto come una bontà schietta e nativa s’accordi in certe nature col disordine e col mal costume. E nemmeno si può negare, credo, ch’ella sentisse delicatamente, e fosse per natura inclina a gentilezza, come le molte volte non sentono e non sono, salvo che in apparenza, donne virtuosamente educate e, magari, virtuosamente vissute. Queste cose non si possono provare con documenti autentici e con affermazioni di testimoni; un pochino bisogna indovinarle. Nel memoriale testè ricordato la Veronica, dolendosi di sua povertà, dice di dover pensare al sostentamento e al collocamento di parecchi nipoti: ora, se amava i figliuoli di suo fratello a segno di farsi loro madre, come potremmo credere che non amasse i figliuoli suoi proprii? come negheremmo fede alle sue parole, quando, scusandosi con un amico d’avere molto tardato a scrivergli, narra commossa che due suoi figliuolini le si erano ammalati [346] di vajuolo ad un tempo, ond’ella fu occupata e addolorata fuor di misura?[579]. Abbiam veduto che a una madre avida e malvagia ella offriva di far accogliere la figliuola in un asilo, a proprie spese. Il testamento del 1570 ci dice ch’ella aveva adottato per fiol di anema il figliuolo di una sua cameriera, chiamato Andrea. Queste mi pajono prove notabili e non dubbie di bontà e di gentilezza; ma se ne possono recare dell’altre. La Veronica fu certo capace di amicizia sincera e operosa: ho già detto che agli amici si profferiva con molta buona grazia per qualunque servizio ella fosse in grado di rendere loro. Nel già citato capitolo XV, espressa la speranza che l’amante suo assente abbia presto a tornare, accenna alla malattia del colonnello Francesco Martinengo, uno, come s’è veduto, degli amici suoi, e dice:
Mi resta un poco di malenconia,
Ch’egro è ’l mio colonnello, ed io non posso
Mancargli per amor e cortesia;
Sì che gran parte d’altro affar rimosso,
Attendo a governarlo in stato tale,
Ch’ei fora senza me di vita scosso.
In un altro capitolo, il XXIV, ella riprende assai vivamente un tale di cui le era stato detto come avesse [347] offesa in mal modo una donna innocente, anzi di lui innamorata, e percossala ancora, e minacciatala di tagliarle il viso:
Ma voi la minacciaste forte allora,
E giuraste voler tagliarle il viso,
Osservando del farlo il tempo e l’ora.
Strano mi parve udir d’un uom diviso
Dai fecciosi costumi del vil volgo
Un cotal nuovo inaspettato avviso.
Come potè un uomo,
De la virtute amico e de l’onesto,
giungere a tanto eccesso? ella gli ricorda che l’ingiuriar donne è cosa assai disdicevole, e da cui
La civiltà de l’uom gentile abborre.
Non sono questi tutti segni di bontà e di gentilezza? e ne mostrerò un altro ancora, che sarà l’ultimo. Il servo di certo amico aveva disobbedito alla Veronica, di che il padrone voleva castigarlo aspramente. E la Veronica a scrivere a costui, e a cercare di dissuaderlo da quel proposito, pregando, e, se occorre, comandando che perdoni, come ella ha perdonato, e ricordandogli che «la paura e ’l disprezzo nuocciono grandemente alla cura famigliare, la qual cerca per suo fondamento il rispetto non diviso dall’amore», e che i castighi troppo severi riescono al contrario di ciò che si spera[580].
Mi si dirà che, assai probabilmente, la Veronica faceva così, si atteggiava a donna di gentili e magnanimi sensi, ad arte, e per ragione di un ben inteso interesse. Non voglio dar troppa importanza a ciò che la Veronica dice di sè, quando afferma di non essere donna ingorda e venale[581]; ma rispondo che, più probabilmente ancora, [348] la Veronica sapeva conciliare, nelle parole e negli atti, l’interesse, ch’era una triste necessità della sua condizione, con la bontà, ch’era una gentile virtù del suo animo. E un’altra cosa mi sembra di poter dire. Per quel tanto che noi sappiamo della sua vita; per quel tanto che dell’indole sua ci rivelan gli scritti, ella doveva essere donna di un pensar risoluto, di un sentir vivo, di un procedere franco, e di parole e di modi, per quanto la professione gliel consentiva, semplici e schietti; una natura gioconda, impulsiva, spontaneamente affettuosa. Per tutti questi rispetti io non mi perito di porla molto sopra a quella leziosa, a quella svenevole di Tullia d’Aragona, che, essendo cortigiana, si dava aria di duchessa, di musa, di ninfa, tutta contegno, e tutta schifiltà[582].
Se certe buone qualità morali sono nella Veronica più che probabili, certissime sono certe qualità intellettuali, buone e non volgari. Tutti gli scritti suoi ci mostrano in lei uno spirito vivo ed accorto, un giudizio assennato, una fantasia colorita, un gusto spesso delicato. Le opere sue, quelle cioè che giunsero sino a noi e furono date alle stampe, ci son già passate dinanzi; ma non tutte quelle ch’ella compose ci giunsero. Del poema epico accennato da Muzio Manfredi non si conosce nemmeno il soggetto, nemmeno il titolo. Le poesie di lei, secondo si ricava da certi cenni delle lettere, dovettero essere assai più di quelle che noi conosciamo, e saranno state anche molto più varie, per soggetti, per metri; e il simile dicasi delle lettere, che ella scriveva con molta frequenza, a molti. Mancandoci tanta parte dell’opera di lei, non possiamo formarci della letterata un concetto esatto ed intero; ma di alcune qualità sue, e di alcuni difetti possiamo darci conto tanto che basti.
[349]
La Veronica (e in ciò ha compagni in gran numero) riesce assai meglio nel verso che nella prosa. Alcuni de’ suoi capitoli, sebbene non possano gareggiare coi migliori di quel secolo, che tanti ne produsse, sono scritti con molta schiettezza di pensiero e di forma, con calore, con brio, in buona lingua, e con un far risoluto, in che sta forse la maggior loro attrattiva. Si vede in essi che la Veronica rimava con facilità e con piacere. Nei men buoni invece abbondano i luoghi comuni, gli ornamenti e i colori poetici di cattiva lega. La prosa delle lettere, la sola che conosciamo (per tacere del constituto e del memoriale che non sono scritture letterarie, e non furono forse nemmeno dettate da lei) è in generale artifiziata, ampollosa, affettata. La Veronica sapeva bene che nelle lettere famigliari si deve attendere più al vero affetto che alle molte parole[583]; ma in pratica non seguitava poi sempre quel giusto precetto; e se, anzichè a persone famigliari, doveva scrivere a persone troppo maggiori di lei, se ne scordava affatto, montava in trampoli, lambiccava i concetti, gonfiava le parole, e non trovava più il verso di finire i periodi. La lettera al Duca di Mantova, più che mezzanamente lunga, è tutta in un solo periodo, e ci si sente un miglio di lontano il Seicento, il Seicento che vien oltre a gran giornate, anzi si può dire sia già venuto, in ispirito. Essa comincia così: «Se ben lontanissima corrispondenza, e quasi disproporzionata proporzione si trova tra le chiarissime virtù dell’Altezza Vostra e ’l mio desiderio d’onorarla e degnamente servirla, sì che tutto quello ch’io potessi fare in questa impresa, sarebbe men che ombra a paragon del vero; nondimeno, in quello dove mi son mancate le forze, e i convenevoli concetti di celebrarla, ed esaltarla, m’è sopravanzato l’animo d’esprimerle questo mio virtuoso se ben impossibile desiderio», [350] ecc. ecc. ecc. Le lettere a Enrico III e al cardinale d’Este sono sul medesimo tono; ma parecchie di quelle scritte a uomini e non a semidei sono dettate con molta più naturalezza e semplicità, e riescono di gran lunga migliori. E migliori anche di queste possiamo credere fossero le molte di carattere veramente famigliare e intimo ch’ella scriveva giorno per giorno, come la penna gettava, e senza alcun pensiero di farle stampare. Queste, assai più dell’altre, ci avrebbero fatto pro, e sono da noi desiderate.
Le Terze rime e le Lettere della cortigiana veneziana non si ristamparono più mai, tanto che diventarono libri di meravigliosa rarità, desiderio ardente e inappagato di bibliofili senza numero, orgoglio di alcuni pochissimi più venturati. Ebbero onor di ristampe invece il Dialogo della infinità d’amore e il Guerin Meschino in ottava rima della Signora Tullia; ma chi in questo fatto volesse scorgere una prova di maggior merito, s’ingannerebbe a partito. La sentenza dell’arguto poeta latino circa la fortuna dei libri si conviene ai libri delle cortigiane, come a tutti gli altri.
Quando la Veronica venne a morte molt’altre cose morivano di cui ella era stata spettatrice e parte non ultima. Moriva quel secolo turbolento e fecondo, luminoso e corrotto, innovatore e carnascialesco; morivano gli spiriti di quella prestigiosa coltura; moriva la prosperità di Venezia; moriva, o s’assopiva in lungo torpore il genio d’Italia. Se non fosse Ninon de Lenclos, Veronica Franco sarebbe l’ultima delle cortigiane illustri, delle redivive etère, e in Italia è l’ultima veramente. Dopo di lei le cortigiane ridiventano semplici meretrici, spesso belle, spiritose, eleganti, garbate, ma senza gloria e senza nome. I poeti si scostano da loro e si volgono a celebrare, tra i laureti d’Arcadia, le Corille e le Clori, non sempre più delle cortigiane virtuose, ma più leziose e più sciocche d’assai.
[351]
IL VANTO
Venite, o cortegiani e lieti amanti,
Ogni signore, principe e marchese,
Sentir mia gloria e fama tutti quanti.
Io son quella famosa Ferrarese,
Che porto el vanto, lo scettro e l’onore
Di beltà e pompa, gentile e cortese.
Io sento tanto gaudio nel mio core,
E ne la mente infinita dolcezza,
Tra l’altre essendo di bellezza il fiore.
Tanto in me regna amore e gentilezza,
Con dolce e lieta faccia ed atti fieri,
Ch’ogni signor per me ciascuna sprezza.
[352]
Io ho duo occhi più che corbo neri,
Che chi li guarda resta stupefatto,
E prigion fassi a me ben volentieri.
Il ciglio ho raro, ch’è sottile e tratto.
Le labra di corallo e ’l dolce riso,
D’onde resta ciascun preso e legato.
La bella fronte, il rilevato viso,
E ’l naso profilato infra due rose
Hanno a molti signori el cor reciso.
La lingua ho chiara in proferir le cose,
D’avolio i denti, e l’alito suave,
Che chi ne gusta fa mettersi in crose.
La mia bocchina dolce è una chiave
Ch’apre le borse e fa chiamar mercede,
E rallegra chi fussi in doglie prave.
La gola ho d’alabastro, a la qual cede
La neve, e ’l petto, e l’acerbe pomelle.
Che strugger fan ciascun che quelle vede.
Le parti ho poi secrete più che belle:
Come ognun pensa tal dolcezza hanno,
Che muor di voglia chi ben pensa quelle.
Le bianche mani que’ be’ lavor fanno;
Mia leggiadra persona e ’l picciol piede
Metton ciascun signor in doglia e affanno.
Di quindici anni son, come si vede,
Grassetta, morbidina e solazzosa,
E la prova ne faccia chi nol crede.
Benigna, saggia, accorta e graziosa,
Domestica, piacevole e galante,
Ch’ogn’altra presso a me par brutta cosa.
D’oro, velluto, seta ho veste tante,
Con fine pietre e perle lavorate;
Assai n’ho più de l’altre tutte quante.
D’oro e di seta camice increspate
Di finissima rensa ho più di cento,
Con calze e scarpe a più fogge tagliate.
E per mostrar mia pompa e valimento
Al collo una catena porto tale
Che val ducati d’oro almen dugento.
[353]
Un’altra non conosco a me eguale,
C’habbi la casa come me fornita
Di pane, legne, vino, olio e sale.
Una credenza ho d’argento forbita.
Le tavole, le mura, panche e casse
Di tappeti e d’arazzi ognun vestita.
Ho di panni di lino le gran masse,
Più che candida neve delicati,
Ch’ognun che quelle vede stupefasse;
Tutti di fin profumo profumati;
Zibetto e muschio in copia ho tuttavia,
Che da più gran signor mi son donati.
Non può dove son io esser moria,
Tanta suavità e tanti odori
Adosso porto per galanteria.
Sempre son con gran principi e signori
A feste, a comedie, a suoni e canti,
Con molte mie fantesche e servidori.
Beati son per me tutti gli amanti;
Ognun servitor m’è ed io signora,
Signora a dar la berta a tutti quanti.
Ognun per me si distrugge e divora,
Ciascun mi profferisce argento ed oro,
L’alma e la vita offerendomi ancora.
E per far noto a tutti il mio lavoro,
Un sacco di danari ho in mia balia,
Dove tengo per mio miglior ristoro.
Una mensa da re ho tuttavia,
Abbondante di quaglie e di capponi
Con pernici e fagiani in compagnia.
Pollastri, fegatei, torte e piccioni.
Con savor bianchi e neri, e con guazzetti,
Insieme con molti altri buon bocconi.
Vin bianchi e ner delicati e perfetti,
Trebbiani e malvagia e marzapani,
Con più sorte infinite di confetti.
Ogni vil ragazzin piene ha le mani.
Ogni fantesca ed ogni servitore;
Il dirò pur, ne mangian fino a’ cani.
[354]
Ed ho infra gli altri mia un corridore,
Che chi cercassi el mondo tutto quanto
Non potrebbe trovarne un più migliore.
Ed infra l’altre i’ mi glorio e vanto
Da letto una coverta sì sfoggiata
Che mai n’ebbe sì una el papa santo.
Una carretta ’i ho d’oro intagliata
Con arabici gruppi azzurri e bianchi,
Ne la qual vo a solazzo alcuna fiata.
Come Amore che tien saetta a’ fianchi,
Così mentre guidata ci son io
Da sei destrier via più che neve bianchi.
E per veder el vago corpo mio
Da usci e da balcon gente infinita
Corre a veder con gaudio e con disio.
Ed io con faccia angelica e gradita
Del bosco uscir farei e dir mercede
Ogni selvaggio ed antico eremita.
Tiensi felice ciascun che mi vede,
Beato è quel che tocca questo viso,
E santo chi servir mi può con fede.
Pensa poi chi con festa canto e riso
Del mio giardin la libertà gli è dato:
Esser non vorria già in paradiso,
Nè qua giù con nessun cambiare stato.
IL LAMENTO
Oimè, ahimè, deh Dio, ahi cieli, oh sorte!
O martoro infernal, morbo francese,
Che impaurita fai fuggir la morte!
O gente più che ingrata e discortese,
Non conoscete voi me poverina,
Famosa cortigiana ferrarese?
[355]
O Matrema non vole, o Lorenzina,
O Angela, o Cecilia, o Beatrice[585],
Sia vostro essempio omai questa meschina.
Già fui [sì] favorita e sì felice!
Vestiva d’oro anch’io; mo un sacco grosso:
Le starne odiavo, or bramo una radice.
Già preziosi odor portavo addosso;
Or solfo, argento vivo, empiastro al male
Tal che appena sofferir nol posso.
Foglie di cavol son il bel trinzale[586],
Le perle son le bolle, gomme e doglie,
E vado mendicando a lo spedale.
Già me cavai anch’io tutte mie voglie,
Fe’ ammazzar tori e braveggiar corsieri;
Or sangue, marcia son mie pompe e spoglie.
Sempre era tra signori e cavalieri,
A pasti, a comedie, a suoni e canti;
Or staria in una stalla volontieri.
Beati eran per me tutti gli amanti,
Ognun servitor m’era ed io signora;
Or mi mostrano a dito tutti quanti.
Dormivo in seta, e ora al vento fuora,
Sotto a le panche, e son cacciata via,
E le camere d’or schifavo allora.
Corsi, grechi, trebbiani e malvasia
Non mi contentâr mai; ora m’avveggio
Che de l’acqua d’un fosso ho carestia.
Già de ciascuna fecemi motteggio;
Ognuna or beffan me con dir: tu stai
Male al possibil; tu starai ancor peggio.
Così invecchiando alquanto dechinai,
E die’ principio a camere locande,
E ben dua anni in quel me sustentai.
Oh Dio, ch’io moro! ahimè, che dolor grande!
Trista me, contarò tutti i miei danni
E le mie intollerabili vivande.
[356]
Dico che non passò da dui altri anni
Ch’io fallii alloggiando, e ritornai
Ruffianando altrui, lavando e’ panni.
Così mancando in van tormenti e guai,
Crescemmi sempre questo mal crudele;
Un tempo in le taverne cucinai.
Ah Dio, che quest’è ancor più amaro fele,
Che l’ultimo rimedio mi fu tolto,
Chè i frati e non più noi vendon candele.
Ma al dispetto di me non sarà molto
Che seguita sarò ne la carretta,
E al mio somigliarà qualche bel volto.
E se non imparate la recetta
Ch’io v’insegno, superbe cortigiane,
Ponte Sisto e il spedal presto v’aspetta.
Procacciatavi aver oggi, domane,
Un grosso, un giulio, quel che voi potete,
Altrimenti accattando andrete il pane.
Sempre i signor non s’hanno, e voi ’l sapete,
Che donino el tesor liberamente,
Sì come spesso fa chi dà in la rete.
Servite volentieri ad ogni gente,
Contentate chi viene a solo a solo,
Perchè meglio è qualcosa ch’aver niente.
El mio rimedio non vi ponga duolo,
Perchè ho provato che tal volta dona
Quanto un gran ricco un povero acquaruolo.
Sì che degnative d’ogni persona;
Non fate la signora in gloria e in gioco
Qual io, ch’or più per nulla non son bona.
Questo felice tempo dura poco;
Vien meno il carnevale e la stagione,
E spesso in casa non v’è pan nè fuoco.
Or parte la fantesca, ora il garzone;
Or s’impegna la vesta, or le catene,
Poi per tributo andar spesso in prigione.
Ma i sbirri a voi aggiongon maggior pene:
Del Populo la strada al sudor vostro[587]
Pagarvi è forza, e stavvi molto bene.
[357]
Io vi parlo el vangelo e ’l pater nostro:
Raffrenate la gola e gale tante,
Se non, qual io retornerete un mostro.
Non li tappeti a le finestre avante;
Lassate le gran case e gran palazzi,
Chè le pigion vi mangian tutte quante.
Ognun vol le fantesche, ognun ragazzi;
Non si può vivere e sempre si stenta;
Non son, come eran già, gli uomini pazzi.
Chi di quello che può non si contenta,
Gli è forza rovinar senza riparo,
E ladra al fine, o mendica diventa.
Il pelar cigli, el belletto sì caro,
Le ribalde judee comprar vi fanno;
Lasciatelo in malor, siavi discaro.
L’acque, i zibetti e le mesture danno;
Livida e grinza fan la bella faccia,
Ch’è ’l principio del vostro longo affanno.
Così non avesse io questa rognaccia
Come gli è vero, e tanta carne guasta,
Del che ognun dice: ch’el bon pro ti faccia.
Non vo’ dir più, per mo questo vi basta.
Ohimè le doglie, oh maledetta sorte!
Che piaghe ho io che va un linzol per tasta!
Può far il ciel che in tutta questa corte
Non sia un sì vago del mio seno
Che non m’ajuti a qualche strana morte?
De limosina alcun non venga meno,
Non già per sostentar più questa vita;
Ma per comprar un bicchier di veneno,
Acciò tanta miseria sia finita.
Qui jace un corpo molto delicato,
Di beltà e di pompa unico in vita;
Or ne l’inferno purga il suo peccato.
[358]
E’ no vorave za, se mai podesse,
Instizzarme con ti, Catte sorella,
Perchè ti sa ben ti che me recresse
Con donette par toe zuogar de mella;
Ma despuo che le berte se sì spesse,
L’è forza che te rompa la favella,
L’è forza, a fede, che zuoga de tonfo,
Zo che ti vedi che mi no son zonfo.
Mi ghe n’ho sopportae pi de cinquanta
Per no vegnir a le brutte del sacco,
E ho ingiotio quella del quaranta,
Quando ti andassi via con quel bubacco;
No dissi gnente, quando che con tanta
Descortesia ti me impegnassi el zacco;
Sopporti quella che fu bastonao
Per amor to da un bulo stroppiao.
[359]
E’ ho ingiotio per ti pi strangojoni,
Povero mi, che n’ho cavelli in cao;
Per fina ti m’ha dà di mustazzoni,
Che nianche Urlando me averia toccao.
Potta de mi! quanti buli, e di boni;
Quanti che fa el bravazzo in fina in cao,
Me aciede, e sì se tira da una banda!
E vu, fia, me tonfè! no seia granda?
Mo adesso me ho messo in fantasia
De no voler pi esser strapazzao.
Sia che se voja, al sangue de culia,
Tutti se varda, chè son instizzao.
E ti, vacca, compissi la lissia,
Lassa che ’l mio burichio sia sugao,
Che te vojo cazar tal pe in la panza
Che ghe anderà per tasta una naranza.
Co cusì? una puttana che è nassua
D’una lara dal Gallo e una falia,
Che per do scalognette e un raspo d’ua
Aidava in visinanza a far lissia,
E a forza de sparagno se cressua
In t’un puoco de grama massaria,
E con un grandizar fuora del caso,
Me fa bramar quattro carezze e un baso?
No ste con mi su zonti e su novelle,
Ch’u zughè al tristo a darme a mi la baja.
Che ve cognosso infina in le buelle,
E sì so chi che se fina una paja:
Andè a sojar sti putti da cilelle,
E no, speranza, fusti de sta taja;
Se no po forsi i basi e le carezze
Se porave voltar in straniezze.
Co la me monta son un mal bigatto:
Grami può in quella volta chi se catta!
El se sa pur quante che ghe n’ho fatto;
Però, anema mia, no siè sì matta,
Che a un mio par, a un omo cusì fatto,
Vojè mostrarve de sì mala schiatta:
Felo per vostro mejo, e se per sorte
Vu nol farè, sarè grama a la morte.
[360]
No ve fondè con dir: Sia lauda Dio,
E’ son ricca, e’ son bella, anema mia;
Perchè un cervel gajardo, co se el mio,
Puol farve in otto di grama e falia.
Co vorò, chi sarà che per sto rio
Ossa passar che ’l no abbia una feria?
E co me salterà la moscaruola
Te lasserò co una sarzetta sola.
Dì che i to buli sì me vegna atorno!
Dì che i citissa gnianche, mariola!
Che ghe ne struppierò do pera al zorao,
Che i te vegnirà a casa su una tola.
No ghe sarà can curto in quel contorno
Che ossa gnianche dirme una parola,
E ti, che ti no meriti ferie,
Tutto el to andarà in sbiacca e in dialtie.
Za tempo, el fatto to jera un piaser;
Ti eri tutta dolce e molesina;
Ma adesso che ti ha casa in soler,
E che ti ha do majoliche in cusina,
E che ti fa comandar al forner,
Te par esser, puttana, una rezina:
Mo ste tante grandezze, alla fe fia,
Le chiama l’Ospeal da mille mia.
Spiero, puttana, ancora inanzi avril,
(Chè te la metto longa la novella)
De vederte su un ponte co un bacil,
Stroppà con una cappa da donzella,
Batter i denti e filar fil sottil,
Con quattro bronze in t’una pignatella,
E sotto vose, grama e poveretta,
Dir: Signori, doneme una gazzetta.
O veramente, cusì co se suol,
Te vederò anca ti grama meschina,
A i perdoni, destesa su un storuol,
Aver per cavazal una fassina,
Con mille bolettini onde te duol,
E criar: Socorè sta poverina!
E con un vecchio che te raccomanda,
Ghe dirà a i putti: Feve da una banda.
[361]
[E] se San Joppo per buona fortuna
No te puol accettar in [la so] scuola,
Te vederò l’inverno puo alla bruna
Andar a comprar ojo, ah mariola,
A trazer acqua al lume de la luna,
E lavar drappi per meza ceola,
E far servisi a tutta una contrà
Per un mezo scuelotto de panà.
Tutti i tocchi, le croste e le caie,
Che avanzerà inti armeri di vesini,
Ti magnerà co s’i fosse trezie:
Queste sarà, puttana, i colombini,
Queste, vacca, serà le golarie,
Le to confezion de moscardini,
E i fondachi po di caratei
Te parerà perfetti muscatei.
A vederte vestia sarà un gran spasso:
Ti haverà una calza e l’altra no,
Con do zoccoli vecchi, un alto e un basso,
E una camisa comprà da Buzò:
Ti haverà po indosso un sottocasso
Con pi tacconi che n’ha peli un bo,
E in pe de la to scuffia da festa
Una verza te covrerà la testa.
I putti te dirà: Mostra la mona!
E ti la mostrerà per un sesin.
Quanti se in la Mocina e in la Liona,
Tuti te spazerà senza un quattrin;
E cussì, solenissima poltrona,
Spierò vederte a far le male fin,
A onor e gloria de quante puttane
Se pensa con arlassi a far sottane.
Ghe ne visti una l’altro dì al perdon
Che se sta delle prime della tera,
Che per Dio la me fa compassion,
De vederla a quel passo che l’iera,
Stravaccà là per terra in un canton,
Carga de mosche e pulisi a miera,
Con tante taste e tanti bolettini
Che no ha tanti tacconi sie fachini.
[362]
Questa è la fin de vu altre puttane
(Parlo de quelle che se tien a l’orza)
Che al bordel, ospeal, o Carampane[589]
Sconvegnì andar al trenta un per forza;
Però infina che ve sentì sane
No fe per niente che nigun ve sforza,
Siè molesine con quanti ve vuol,
Chè a sto partio scapolerè el storuol.
[365]
In una lettera più volte stampata, e ormai famosa, Alfonso Paolucci, legato del duca di Ferrara in Roma, descrivendo e narrando, l’8 di marzo del 1519 al suo signore, una rappresentazione dei Suppositi dell’Ariosto, fatta la domenica precedente in Castel Sant’Angelo, alla presenza di Leone X e di assai numerosa assemblea, dice, fra molte altre cose degnissime di nota, che sulla tela, la quale nascondeva, prima che cominciasse la recitazione, la scena dipinta di man di Raffaello, vedevasi «pinto fra Mariano con alcuni diavoli, che giugavano con esso da ogni lato de la tella (sic) e poi in mezo de la tella v’era un breve che diceva: Questi sono li capreci de fra Mariano»[590].
Ma chi era fra Mariano? e quali erano i capreci, o vogliam dire capricci suoi? e qual merito faceva essi e lui degni di così fatta pittura, opera anch’essa forse, come la scena, del pennello dell’Urbinate? Il legato del duca Alfonso nol dice, e non aveva, sembra, bisogno di dirlo. Al par di Leone, e come gli altri duemila spettatori della facetissima commedia, il duca doveva avere [366] piena contezza di fra Mariano e de’ suoi fatti, quella contezza che manca a noi, e che ci studieremo di acquistare almeno in parte. E non si dica troppo frivolo l’oggetto delle nostre indagini; la storia dell’oscuro frate sarà per alcun lato la storia del glorioso pontefice. A farlo subito intendere basterà dire che fra Mariano fu un buffone di Leone X, uno dei tanti.
Quel trincato di Pietro Aretino, cogliendo con le parole, come molte volte sa fare, il vero e il vivo delle cose, dice del più gioviale dei papi in una lettera al conte Manfredo di Collalto: «Certamente Leone ebbe una natura da stremo a stremo, nè saria opra da ognuno il giudicare chi più gli dilettasse, o le virtù de’ dotti, o le ciance de’ buffoni; e di ciò fa fede il suo aver dato a l’una ed a l’altra specie, esaltando tanto questi quanto quegli»[591]. Senza voler risolvere in tutto la difficil questione, se gli piacessero meglio le virtù dei dotti o le ciance dei buffoni, si può con sicurezza affermare (e basta al bisogno nostro) che i buffoni e le lor ciance gli piacquero assai, più forse che l’ufficio di governare la Chiesa di Dio non chiedesse. Lodovico Domenichi dice espressamente che il Serapica, domestico cameriere di Leone, «avea autorità d’introdurre d’ogni ora in camera pazzi, buffoni e simil sorte di piacevoli», e racconta che volendo il celebre Marco Musuro chiedere al papa il beneficio d’una badia, e temendo di non esser introdotto a tempo, si annunziò come un secondo Baraballo, vago di quei medesimi onori che aveva avuto il primo, e così fu dal cameriere incontanente introdotto[592]. [367] Questa ed altrettali novelle non sono forse tutte vere, ma parranno certo verosimili a chiunque conosca quel gaudioso pontefice, il quale, non solo gradiva e premiava i pazzi che lo facevano ridere, ma s’ingegnava anche di far diventar pazzo chi non era[593]; e più che verosimili parvero agli uomini di quel secolo. Perciò non è da negare in tutto fede a certa storiella raccolta e ripetuta dal Garzoni, ove si narra che Nicoletto da Orvieto, con un solo bisticcio, s’acquistò per tutti i tempi il favore della giovialissima Santità[594].
Non di tutti coloro che, volendolo essi, o nol volendo, fecero ridere Leone X ci è pervenuta notizia sufficiente, e di parecchi s’è perduta, senza dubbio, ogni traccia. Si ricordano più spesso que’ poveri poeti da burle e da legnate, Baraballo da Gaeta, Camillo Querno, Giovanni Gazoldo, Girolamo Brittonio: poi si ricordano alcuni altri, de’ quali poco più che il nome ci è noto: un Poggio, figliuolo degenere del famoso Poggio Fiorentino, un Moro de’ Nobili, lurcone e pappatore meraviglioso, tutto guasto dalla gotta, un cavalier Brandino, un Andrea bastardo e matto, levato dall’ospizio di Siena, un frate Martino e il nostro fra Mariano. Di tutti costoro dice il Giovio[595] che in certi tempi dell’anno, quando si dà [368] più libero sfogo all’umor solazzevole, erano ammessi alla parte inferiore ed estrema della mensa papale, a patto che sopportassero pazientemente i motti, le beffe e le burle dei sopraintendenti al banchetto. Ma il Giovio, se pur dice il vero, non dice tutto. La parte di questi compagnacci alle mense del pontefice non sempre doveva essere così rimessa e passiva come al Giovio piacque narrarla; e di alcuni di loro almeno si può dir con certezza che se pativan le burle, spesso anche le facevano, e schernivano forse più che non erano scherniti.
Ma per non parer troppo duri con Leone X bisogna dire che l’usanza di tenersi i buffoni d’attorno era usanza comune dei principi, e osservata anche da qualch’altro pontefice, e che la buffoneria era nel secolo XVI, ed era stata anche prima, in grande credito[596]. Non è solo l’Ariosto a dolersi che i buffoni, i cinedi, gli accusatori sieno nelle corti
Più grati assai che ’l virtuoso e ’l buono[597].
[369]
Odasi che cosa dice in proposito Tommaso Garzoni: «Or ne’ moderni tempi la buffoneria è salita sì in pregio, che le tavole signorili son più ingombrate di buffoni che di alcuna specie di virtuosi, e quella corte par diminuta e scema dove non s’oda, o non si veda, un Carafulla, un Gonnella, un Boccafresca in catedra, che dia trattenimento con favole, con motti, con piacevolezze, con bagatelle, con mocche, all’onorata audienza che gli siede intorno. Quivi il buffone recita i testamenti villaneschi di barba Mangone e di Pedrazzo; adorna l’instrumento che fa ser Cecco di parole più grosse che quelle del Cocai; narra le fuse torte che fece la moglie del medico la notte di carnevale; racconta il dialogo di mastro Agreste con la Togna di S. Germano; discorre di legge come un Grazian da Bologna; parla di medicina come un mastro Grillo; favella da pedante come un Fidenzio Glottocrisio; fa del Bergamasco a spada tratta, come se fosse il primo della vallata; è Magnifico nel sporgere, Spagnolo nel vestire, è Todesco nel caminare, è Fiorentino nel gorgheggiare, è Napolitano nel fiorire, è Modenese in fare il gonzo, è Piemontese nel languire, è la simia di tutto il mondo nel parlare e nel vestire. Ora si vede il buffone con le ciglia de gli occhi dentro ascose e gli occhi sbardellati, che par guerzo; ora con le labbra torte, che pare un mascherone contrafatto, ora con un palmo di lingua fuori, che par un cagnazzo morto dal caldo e dalla sete; ora col collo teso, che pare un’impiccato; ora con le fauci ingrossate, che fa mostra d’aver mille diavoli adosso; ora con le spalle ingobbate, che pare il Babuino da Milano; ora con le braccia rivoltate, che pare un Guido propriamente; ora con le mani e con le dita fa gesti tali, che pare il bagatella dei trionfi. Col moversi finge il poltrone eccellentemente; col passeggiare fa del fachino raramente; col volgersi indietro contrafà un bravo stupendamente. [370] Col suono della voce imita l’asino per spasso, con le parole i balbi e i cocoglieri per trastullo, col gesto le bertuccie per diletto, col riso fa crepar di riso ogn’uno che lo vede. Queste son l’eccellenze e le grandezze de’ buffoni, che vivono allegramente alle spalle de’ gentiluomini e Signori, e trionfano a’ pasti de’ Prencipi, mentre il dotto poeta, il facondo oratore e l’arguto filosofo fa la sua residenza nel vilissimo tinello»[598].
Ho voluto trascrivere per intero questo lungo passo anche per dare un’idea adeguata delle piacevolezze onde i buffoni rallegravano l’aule e le mense dei signori; tra’ quali ce ne saranno stati forse di quelli che per gusto lor proprio non troppo le gradivano, ma tuttavia le sopportavano per conformarsi al costume e per seguitare l’andazzo. Baldassar Castiglione non si mostra troppo tenero dei buffoni; ma pur dice che nelle corti par che si richieggano[599]. Agostino Nifo, ricordati i buffoni di Ferdinando il Cattolico, di Carlo V, di Francesco I e di altri principi e signori, dice che la mala usanza era talmente cresciuta e fatta generale, che i principi nutrivan buffoni, non solo per diletto che ne avevano, ma ancora per ambizione, e che in poco pregio era tenuta quella corte dove non ne fossero alcuni[600].
Parecchi papi, prima di Leone X, accolsero e favorirono buffoni. Eugenio IV fece un cardinale di quell’Angelotto romano di cui parla ripetutamente il Poggio nelle sue Facezie[601]. Alessandro VI ebbe caro un Gabrieletto, [371] che accompagnandolo nel ritorno dalla pubblica benedizione, solita darsi la domenica di Pasqua, fingeva di predicare in latino ed in ispagnuolo[602]. Il terribile Giulio II permetteva al Proto da Lucca di distrarlo talvolta dalle cure di quel suo bellicoso pontificato; e di quali facezie usasse il Proto a tal fine si può vedere in una novella del Bandello, il quale nella dedicatoria di un’altra avverte che molti erano al tempo suo i buffoni famosi in Italia, e massimamente in Roma[603]. I cardinali non mancavano d’imitare l’esempio dei papi, e non poca celebrità ebbero Marc’Antonio Sidonio, buffone di Ercole Gonzaga, cardinale di Mantova, Francesco del Lago di Garda, buffone del cardinale Madruccio, il Cimarosto, buffone del cardinal di Trento, il Bargiacca, stato col Rosso buffone del cardinale Ippolito de’ Medici, il Carafulla ed altri parecchi[604].
[372]
Non parrà dunque troppo strano che Leone X avesse i suoi buffoni ancor egli, e come grandissimo pontefice ch’egli era, ne avesse più dei principi secolari e più di altri pontefici stati prima di lui; bensì potrà parere alquanto strano che tra’ suoi buffoni egli accogliesse dei frati, e potrà parere strano, non già perchè avrebbe dovuto, egli capo della Chiesa, avere qualche maggior rispetto alle tonache e alle cocolle, ma per una ragione in tutto diversa, anzi contraria a dirittura. A bene intendere ciò è necessario un po’ di commento.
I bei tempi della frataglia erano passati per sempre; il Rinascimento non era più stagione per essa. Quello che si chiama spirito del Rinascimento è in contraddizione piena con lo spirito fratesco, e dove l’uno si leva e vigoreggia è forza che l’altro cada e disvenga. Nel Cinquecento i frati sono odiati e vilipesi, perchè tutto quanto appartiene alla vita e ai costumi loro nega ed offende le inclinazioni, le usanze, gl’ideali buoni o cattivi di quella età. Se divoti sinceramente, spiace la seccagginosa [373] devozione loro al secolo mezzo incredulo, che non ha più il capo a quelle melanconie; se ipocriti, spiace la stomacosa loro simulazione al secolo svergognato e sfrontato, il quale liberamente ostenta i suoi vizii, e non vuole freni, non vuole impacci al godere; spiace poi sempre ed in sommo grado, in mezzo a quella tanta coltura e raffinatezza d’uomini e di cose, la zoticaggine ed ignoranza loro. Quest’odio contro ai frati si vede già negli umanisti del Quattrocento; al qual proposito basterà ricordare le diatribe virulente e le rabbiose invettive di Leonardo Bruni, di Francesco Filelfo e del Poggio. Angelo Poliziano in un suo prologo preposto ai Menaechmi di Plauto, e recitato in Firenze ai 12 di maggio del 1488, si scagliava furibondo contro i
Cucullati, lignipedes, cincti funibus,
Superciliosum, incurvicervicum pecus[605];
e non era lontano il grande Erasmo, che doveva fare dei frati la pittura che tutti conoscono. Non parlo dei novellieri di quel secolo, e delle molte commedie, e dei moltissimi capitoli, e dell’altre scritture senza numero in cui i frati sono scherniti, ingiuriati, vituperati. Nella stessa corte di Roma quel pecus si odiava. Il Bembo, uno dei segretarii, come ognuno sa, di Leone X, scrisse di sè che si travagliava molto mal volentieri in cose di frati, per trovarvi sotto molte volte tutte le umane scelleratezze coperte di diabolica ipocrisia[606]. Bernardo Dovizi da Bibbiena, il factotum dello stesso pontefice, e l’autore della Calandria, aveva ancor egli una grandissima avversione pei frati, e nessuno spasso stimava così piacevole come il prendersi giuoco di loro. Lo dice egli stesso [374] nel Cortegiano di Baldassar Castiglione, dove narra certa burla ch’egli s’era pensato di fare a un supposto frate, e che riuscì invece in suo danno[607]. Cinzio de’ Fabrizii dedicò a Clemente VII il suo libro della Origine dei volgari proverbii, riboccante di satira e d’invettive contro i frati; ma un libro contro ai frati aveva già dedicato a Niccolò V Timoteo Maffeo.
Del rispetto poi che portava alle tonache lo stesso Leone un bel documento ci porge Alfonso Paolucci nella lettera sua testè citata, documento che ci parrà meno strano se pensiamo che il glorioso papa era figliuolo di quel Lorenzo de’ Medici che diceva da tre cose doversi gli uomini guardare: dalla parte dinanzi de’ buoi, da quella di dietro dei muli, e dall’una e dall’altra dei frati. Detto della rappresentazione dei Suppositi, il buon Paolucci ricorda una commedia di certo frate, recitata, come quella dell’Ariosto, alla presenza del papa, e seguita con queste precise parole: «e per non essere successa a molta satisfacione, il papa in cambio de moresca fece balciar questo bom frate sopra una coltra, e dete una gran panciata sopra el tabulato de la sena. Dipoi li fece tagliar tute le strenghe intorno e tirare le calcie a li calcagni, ed il bom frate ne morsicò de quelli palafrenieri tre o quattro de mala sorte, e fu necessitato tandem a montar cavalo, e cum le mane li forno date tante sculacciate che, siccome mi è referto, li sono bisognate molte ventose e su la schena e su le chiape, e stassi in letto e non bene. Dicesi che ’l Papa lo fece fare in esempio de altri frati a ciò se levino de pensier de non farli veder sue fraterie». E se questo era il desiderio del papa, bisogna dire ch’e’ non poteva tenere, per vederne il fine, un modo più spicciativo e più efficace. Avrebbe anche potuto farli ferrare, come fece Bernabò [375] Visconti[608]; ma era azion villana e da tiranno, che troppo ripugnava alla giocondità e umanità sua. A fra Mariano e a fra Martino bisognava dunque, se volevano la grazia del vicario di Cristo, e salve dalle spalmate le natiche, far dimenticare con le buone loro qualità di buffone la pessima qualità di frate[609].
E buffone fra Mariano fu, sembra, in grado eccellente. Il Bibbiena fa di lui onorata memoria e lo loda per gran maestro di burle, insieme con un frate Serafino, che esercitava in Urbino la professione sua[610]. Di dove fosse nativo non trovo, nè so quando propriamente vestisse l’abito di laico domenicano, sotto il quale esercitò onoratamente le sue buffonerie. Fetti era il nome della sua casata, e l’arte sua prima fu, sembra, quella del barbiere, giacchè Pietro Aretino, il quale gli si mostra (ma non sempre), assai benevolo, dice ch’egli era stato barbiere di Lorenzo il Magnifico. E qui viene spontanea in mente una congettura; che il barbiere, cioè, già caro per la sua piacevolezza a Lorenzo e alla famiglia di lui, andasse a Roma in compagnia del giovane cardinale Giovanni, e facesse fin da allora col cardinale l’officio che seguitò a far dopo col papa. Comunque andasse la cosa, gli è un fatto che noi troviamo in Roma il nostro Mariano, già frate, e già in fama d’uomo assai sollazzevole, sino dai tempi di Giulio II. Eccone senz’altro le prove.
[376]
Il 2 di luglio del 1512, il giovinetto Federico Gonzaga, che si trovava in Roma, ostaggio alla corte di Giulio II, desinò e cenò in una bellissima villa dell’Arcivescovo di Napoli, a Monte Cavallo, e il Grossino, uno dei famigliari del principe, scriveva alla madre di lui, la famosa Isabella, che il figliuolo era stato tutto quel giorno in grandissimo suo apiacer con una bella compagnia, e che frate Mariano, con li soi caprizi, aveva fatto ridere assai[611]. Il 10 gennajo del 1513, a proposito di altra cena, il Grossino scriveva alla marchesa: «Frate Mariano, capo di mati, si portò per eccelenzia con li soi capricci, e m. Bernardo da Bibiena li ajutava gagliardamente»; e al marchese, marito d’Isabella, scriveva: «Frate Mariano, capo di tavola, fece de le pacíe a suo modo in quantità; a mezo la zena a l’improviso saltò in pede in su la tavola, corendo in fino di capo, menando di man a Cardinali, a Vescovi; non sparamiava niuno»[612].
Questi documenti, e alcun altro che vedremo or ora, provano che la reputazione di fra Mariano era già fatta negli ultimi due anni del pontificato di Giulio II, ed è ragionevole il pensare ch’egli avesse cominciato a farsela qualche anno innanzi, come è ragionevole credere che non avesse mancato di far ridere alcuna volta il battagliero pontefice. E far ridere un papa che bestemmiava come un turco, che con le proprie mani caricava [377] altrui di legnate, e che, ammalato, chiamava a gran voce il diavolo, non doveva essere la più facile cosa del mondo. Ma fra Mariano era certo uomo da riuscirci. In una lettera scritta il 29 di gennajo del 1513 al Marchese di Mantova, egli si chiama da sè stesso maestro di Bernardo da Bibbiena, di quel famoso Bibbiena che fu (son parole del Giovio) maestro mirabile nell’arte di spingere all’insania uomini gravi per età e professione; e dice come sia andato a Firenze, sebbene già vecchio, chiamatovi dal suo padrone il cardinale Giovanni, per ordinarvi durante quel carnevale, in compagnia del Bibbiena appunto, trionfi, commedie e moresche, e ricorda tutti li capricci fatti in quella magna città[613]. Questa lettera non è sola a provare che il lepido frate era entrato in grazia anche del Marchese; un’altra ve n’ha scritta da quello a questo ai 10 di gennajo del 1519, la qual prova il medesimo, e che dovrò citar novamente[614].
Fra Mariano fu frate piombatore, uno di quei frati, cioè, i quali attendevano, per proprio officio, a munire della bolla di piombo i diplomi che si spedivano dalla Cancelleria apostolica. Il mestiere non era gran che gravoso e rendeva assai. Lo stesso fra Mariano confessava al Gonzaga che del piombo faceva oro, e da quella sua bottega (così la chiamava), diceva di trarre 800 ducati d’oro l’anno[615]. Di questa bottega credo che egli andasse debitore a Leone X, perchè nella prima lettera al Gonzaga, il frate non ne fa cenno, e dice che, passato carnevale, se ne tornerà in Roma, nel suo convento di Monte Cavallo; mentre nell’altra dice espressamente che egli ha residenza in palazzo, nelle stanze di Innocenzio, che si chiamano lo ofizio del Piombo, d’onde qualche [378] volta si reca a visitare i suoi frati[616]. In quell’officio egli succedette a Bramante, e lasciò poi a sua volta il luogo a Sebastiano del Piombo. Paride de Grassi, cerimoniere di Leone X, ricorda nel suo diario un frate Bernardo Piombatore, dandogli titolo di mezzo buffone (semiscurra); ma gli è assai probabile che Bernardo ci stia erroneamente per Mariano[617].
Che il buon frate non si lasciasse vedere alla mensa del papa solo in certi tempi dell’anno, come vuole il Giovio, si ricava da un passo di certa Relazione di Luigi Gradenigo, ambasciatore della Repubblica di Venezia, passo in cui si legge: «il mercore e il sabbato mangiava (Leone X) cose quadragesimali, stando tuttavia presenti alla mensa fra Mariano e Brandino, ben conosciuto in questa terra»[618]. Tutti, del resto, quegli strani commensali di un pontefice che, a detta del Giovio, fu temperatissimo nel mangiare, ma che faceva andare per la spesa della sola cucina la metà delle entrate che davano Spoleto, la Romagna e le Marche, pare sieno stati [379] golosi e mangioni di prim’ordine, o per parlare più acconcio, fuori d’ogni ordine. Lo stesso Giovio assicura che furono essi gl’inventori delle salsicce fatte con carne di pavone; ma questa cosa rimane in dubbio, perchè non può essere altri che Leone X il saggio pontefice di cui è ricordo in certo Commento del Grappa, e che faceva fare la salsiccia di polpette di fagiani, di pernici, di pavoni e di capponi, mescolandovi l’animelle di un giovinetto vitello[619]. Checchè sia di ciò, certo si è che la peggior burla che Leone X potesse fare a quei suoi commensali si era d’imbandir loro scimmie e corvi, come sembra abbia fatto talvolta[620].
Ma come per la piacevolezza, così ancora per la voracità doveva fra Mariano vincere gli emuli suoi, e lo prova quella specie di leggenda che si formò appunto intorno alla voracità sua, e non si formò intorno a quella degli altri. Sigismondo Tizio, nella già citata sua Cronaca, dice che fra Mariano inghiottiva in un boccone un piccioncino, vuoi arrosto, vuoi lesso, divorava venti capponi, succiava quattrocento uova[621]. Questo è non [380] più fra Mariano, ma Gargantua, anzi l’Orco, e gli si potrebbe dire col Dorat:
Digérez-vous? voilà l’affaire:
L’homme n’est rien s’il ne digère.
Nè ciò è ancora tutto. Lodovico Domenichi racconta di un signore che fece mangiare a fra Mariano un pezzo di canapo in cambio di un rocchino di anguilla arrostita[622], e Ortensio Lando assicura che il nostro frate, una volta, si mangiò una veste di ciambellotto per esser unta e piena di sucidume[623]. Beveva fra Mariano come mangiava? Non saprei: gli storici non dicon nulla in proposito. Bevitore famoso fu il Querno, e, sembra, anche il Moro de’ Nobili, il quale, dice il Firenzuola, aveva gran rispetto ai baccelli,
Che dan sete la notte insin nel letto[624].
Ma concediamo pure che il nostro fra Mariano mangiasse per quattro, anzi per dieci; non è men vero che egli sapeva fare anche altro. I capricci di lui sembra sieno stati notissimi per tutta Italia, tanto noti che un cenno bastava per ricordarli altrui, senza bisogno di narrarli altrimenti. Bernardo da Bibbiena dice in un luogo [381] del Cortegiano: «io fui già converso in un fonte, non d’alcuno degli antichi Dei, ma dal nostro fra Mariano, e da indi in qua mai non m’è mancata l’acqua». E il Castiglione soggiunge: «Allor ognun cominciò a ridere, perchè questa piacevolezza, di che messer Bernardo intendeva, essendo intervenuta in Roma alla presenza di Galeotto cardinale di san Pietro in Vincula, a tutti era notissima»[625]. Nello stesso libro Cesare Gonzaga accenna alla dottrina di fra Mariano, secondo la quale fare impazzire alcuno gli era guadagnar un’anima[626]. In una lettera che Bernardino Boccarino, segretario del vescovo di Firenze, scriveva all’Atanagi il 10 di marzo del 1536, passati più che cinque anni dalla morte del frate, si tocca di non so che frittata calda calda di fra Mariano[627].
Ma di tali capricci chi ci dà più larga notizia è Pietro Aretino, il quale parla del frate più che non faccia nessuno dei contemporanei. Nella giornata I della parte II dei Ragionamenti[628] si ha solo un accenno vago e fuggevole a un qualche motto, o altra piacevolezza di fra Mariano; ma nella giornata III di quella parte medesima[629], la comare, lodando l’orto della Nanna, dice che esso disgradava «il giardino del Ghisi in Trastevere e quello di fra Mariano a Monte Cavallo». Ora sembra che il giardino di fra Mariano non fosse manco noto e manco famoso del palazzo e degli orti meravigliosi che aveva in Trastevere Agostino Chigi, soprannominato il Magnifico. In una lettera dei 15 di novembre del 1524, Giambattista Sanga, segretario allora di monsignor Giberti, [382] esortando Giambattista Montebuona in Roma a porre in buono assetto i giardini del padrone, diceva: «Ricordatevi delle spelonche d’edera di fra Mariano a Monte Cavallo»[630]. Che razza di giardino fosse propriamente non so; ma lo stesso facetissimo frate ne dà qualche contezza, dicendo nella seconda lettera al Marchese di Mantova: «Non desidererei altra grazia in questo mondo se non potervi convitare un dì all’orto qui di monte Cavalli nel laberinto, dove vedresti boschetti ed ornamenti silvestri nel domestico cento, 100 varietà e 1000 capricci; una chiesina poi di avorio lavorata di straforo, ed atorno profumata ed abellita con molte cose divote; una sagrestia con paramenti profumati papali di broccato d’oro in oro, dove in fra tanti paramenti è uno dorsale con una pianeta di velluto rosso, le quali dicono furono già un palio»[631].
Di altri capricci parla più diffusamente l’Aretino nella parte I del Ragionamento delle Corti. Interlocutori in questo ragionamento sono il Dolce, il Piccardo e il Coccio. Il Piccardo, raccontata la storia di certo monsignore avarissimo, che volendo frodare i suoi servidori, fu in bel modo bastonato dal mastro di stalla, soggiunge: «Fra Mariano, discreta ricordazione, fu per transire udendola».
Dolce. Buffone e piombatore.
Coccio. Non merita tale ingiuria di parole.
Piccardo. No certo, perchè egli fu così dolce, così affabile, così onorevole, così utile e così buono quanto persona che fusse mai in Corte, e i virtuosi trassero gran piacere e gran bene dal suo favore.
Dolce. Perchè si dice i capricci di fra Mariano?
[383]
Piccardo. Dirovvelo. Il suo animo, subietto de le piacevolezze, non finiva mai di trovar facezie astratte da le altre, per ispasso de’ cortigiani, i fastidi de’ quali si consolano ne li intertenimenti di cotali.
Coccio. Contatene qualcuna.
Piccardo. Egli, che fu barbiere di Lorenzo, padre di papa Leone, e tra i divini suoi costumi allevato, avea in minoribus due voglie spasimatissime: una era di far frittata rognosa di sè stesso in quelle ceste d’uova portate da Perugia e da Todi da’ pollajuoli di Campo di Fiore, nè se la potè mai cavare per non avere il modo di pagare il danno.
Qui il Piccardo entra a fare un grande elogio del cardinale di Ragona, cioè d’Aragona, prete ne l’abito, re ne l’animo, creatura superna, splendore de la magnificenza; poi seguita il racconto.
Piccardo. Ora, per dirvi, Ragona, inteso che fra Mariano era per farla segnata non adempiendo l’altra sua sbudellata volontà, gli dice: «Andatevene in Navona, e non ve ne partite fin che non udite altro». Egli va, e piantasi a sedere in cima della piazza che sbocca in Parione, patria di Maestro Pasquino, che, se non mi fugge dal capo, ne parlaremo; e stando attento ad ogni voce, passava l’ora de lo starvi più, quando, dal di sotto e dal di sopra, un tara tara e un tantara tantara scoppia fuori di due trombe, e moltiplicando il clangore con lo abbreviare de lo strepito(?), appariscono due uomini d’armi sopra due cavalli bardati, con le lance in su la coscia, e con gli elmi chiusi in foggia di battaglia; e correndo l’uno al contrario de l’altro, entrarono tra i piattelli, tra le pentole, tra le vettine, tra le conche, tra i boccali, tra le scudelle, tra gli scudellini, tra le pozzatoje, e tra ogni altro instrumento di terra cotta, con tanto fracasso, con tanto tuono, e con tanto spavento, che si credette che quel punto fosse fratel bastardo del dì del giudizio; talchè gli ebrei, i rigattieri, i cambiatori, col resto de la plebe, truccando per la calcosa, con le loro bagaglie addosso, simigliavano i fuggenti lo sbombardare del diluvio su l’Arca di Noè; ed il popolo, [384] udendo le strida de’ padroni de le vasa, cridando serra serra, si credette che profondasse la Corte.
Dolce. Questa è de le belle ciance che io udissi mai.
Coccio. Così dico io.
Piccardo. Fra Mariano non fece il fine di Margutte perchè fu sfibbiato a ora. Sì che voi intendete di che sorta erano i suoi capricci. Dieci volte, sendo la tavola papale coperta d’argenti con le cose dentro, ha tomato sopra esse, giostrando con le facole accese a le barbe de’ Mori de’ Nobili, de’ Brandini e del frate che mangiava le berrette. Io sono stato per perdere tra le parole il più bel fatto che ci sia. Due uomini del Cardinale, tosto che la furia venne meno, soddisfecero i padroni de le robe volate al cielo, atto conveniente a simile prelato, e non a gli spilorci d’oggidì, salvo la pace di chi gli simiglia.
Qui sbuca fuori un nuovo buffone, di cui non trovo altra memoria: il frate che mangiava le berrette. Non so chi possa essere, se pur non è il fra Martino ricordato dal Tizio; ma certo era un degno emulo di fra Mariano. Il quale, come si vede, non faceva propriamente alla mensa del pontefice la parte che il Giovio assegna a lui e agli altri. Nè si creda che l’Aretino esageri. Dei capricci, dirò così, conviviali di fra Mariano s’è già veduto quanto scriveva il Grossino al Marchese e alla Marchesa di Mantova: l’11 di gennajo del 1513 Stazio Gadio, descrivendo al Marchese una cena fattasi la domenica innanzi in casa del Cardinale di Mantova, cena a cui erano invitati, oltre il marchesino Federico, anche i cardinali d’Aragona, Sauli, Cornaro, l’arcivescovo di Salerno, l’arcivescovo di Spalatro, il vescovo di Tricarico, Bernardo da Bibbiena, fra Mariano, la signora Albina, cortigiana romana, e più altre persone, dice: «Nanti cena si fecero de le pacíe, che altramente ove è frate Mariano non si po’ fare, dio ve lo dichi per me. Setati a tavola, essendo in capo Albina e frate Mariano..... alla secunda vivanda, li polastri volavano per la tavola caciati dal frate, poi da li preti; con li [385] sapori e minestre si dipingevano li volti e panni». Stazio Gadio avrebbe avuto assai altre cose da dire; ma si contenta di soggiungere (e ce ne rincresce) a mo’ di conclusione: «Doppo cena lasso judicar a V. Ex. che si fece»[632]. E l’Eccellenza sua avrà certamente giudicato con indulgenza, dolendosi forse di non essercisi trovato.
I capricci di fra Mariano, quelli almeno che conosciamo un po’ meglio, non sempre sarebbero ora di gusto nostro, come indubitamente erano di Leone e de’ suoi famigliari. Il papa e il frate se la dovevano intendere tra di loro benissimo, giacchè professavano entrambi la stessa filosofia della vita. Dice Andrea Calmo nel prologo della Rodiana: «Certo la melodia del vivere è un bel che; ella è sì fatta, che aggiunge quasi al piacere, che si gusta in celi celorum, e però esclama fra Mariano dinanzi a Leone: Viviamo, babbo santo, che ogni altra cosa è burla». Perciò non credo che il papa abbia voluto pagar d’ingratitudine il frate, componendogli il seguente epitafio, che un codice Marciano reca con la intitolazione: Di Leone Xmo per frate Mariano. Anche i versi non pajono degni di sì fatto autore; ma se pure il papa lo compose, ebbe a comporlo per celia. Eccolo ad ogni modo[633].
Un frate sotto bianco e sopra nero,
In gola e in zazeria[634] molto eccellente,
Di fuori porco e dentro puzzolente
Mentre visse; ora ammorba un cimitero.
Non acqua benedetta, non saltero
Pigliarai, viator, ma solamente,
Se vuoi far cosa grata a la sua mente,
Buon vin ci spargi e ragiona del zero.
[386]
L’altro perso saria, ch’ei credde poco,
Ben che già simulò religione;
Ma lo fe’ per fuggir più tristo gioco.
Perchè tra frati più presto buffone
Fu che compagno, ed aderì al coco
Più che al sacrista, e scherzò col guttone.
E per conclusione
L’alma al fuoco, la fama addusse al basso:
Se non vuoi cader morto studia il passo.
L’epitafio, del resto, l’avrebbe potuto fare il frate al papa, perchè non solo gli sopravvisse, ma, secondo una delle tante voci che corsero allora, fu il solo che si trovò presente all’agonia di lui, e che, vedendolo morire senza sacramenti, gli gridò: Raccordatevi di Dio, Santo Padre![635] come se il Padre Santo non se ne fosse mai ricordato in vita sua. E non sembra mal fatto che il buffone, il quale tante volte aveva esortato il papa a ben vivere, lo esortasse una volta almeno a ben morire; e forse fu quella la prima e l’ultima volta che, trovandosi insieme, il papa e il frate stettero serii.
Che fu del buon fra Mariano dopo la morte del magnanimo Leone? Che cosa fece egli de’ suoi capricci e della ghiottoneria sua durante il breve ma terribile pontificato di quell’Adriano VI, che spendeva per la sua tavola un ducato il giorno e fece rincarare in Roma il merluzzo, tanto l’aveva in pregio? di quell’Adriano per cui il Berni gridava, esterrefatto come gli altri:
Io per me fui vicino a spiritare
Quando sentii gridar quella Tortosa?
[387]
Fec’egli come il ciarlatano, che, a fiera finita pone in un sacco le sue carabattole, e aspetta nuovo tempo da ritrarle fuori? E fu nuovo tempo per lui quel papato di Clemente VII,
composto di rispetti,
Di considerazioni e di discorsi;
Di più, di poi, di ma, di sì, di forsi,
Di pur, di assai parole senza effetti?[636].
Da certe parole che si leggeranno qui sotto parrebbe di no. Ciò che v’ha di certo si è che egli campò altri dieci anni, che seguitò a tenere tutto quel tempo l’officio suo di piombatore, e che quando fu morto, tutti coloro ch’egli aveva fatto ridere con le sue piacevolezze lo piansero amaramente. Addì 4 dicembre del 1531, Sebastiano Luciani, diventato fra Sebastiano del Piombo, scrive all’Aretino, informandolo d’essere succeduto nell’officio a fra Mariano[637]; ma già il 2 dello stesso mese Girolamo Schio, vescovo di Vaison, e maestro di casa di Clemente VII, aveva scritto a messer Pietro quanto segue: «Fu tanto a tempo la novella vostra de la canella, che quella bonanima de fra Mariano la intese, e ne fece tanta festa del mondo; e disse molte accomodate ed onorevole parole di voi; ed ebbe per più la menzione che feste de lui, che se una trinca de Re gli avesse scritto. Io son rimasto essecutore del suo testamento, che fece [388] molto prudentemente; e son rimasto col secreto de li capricci suoi. Non sciò già se verrà mai tempo che se possa slegare el sacco ed usarli. Lui morse da bono e santo omo, con bona lingua e sentimento fino a l’ultimo fiato; e iij ore avanti, ch’io lo lassai, mi chiese la benedizzione e licenzia, dicendo che non si vedremo più se non di là. La sua morte ne seria molto più doluta, se non ce interveniva el temperamento di aver posto in suo loco el nostro Sebastiano da bene, che ha tante bone parte, che satisfa alla tanta jattura che ci troviamo aver fatta di quello uomo; e così andaremo vivendo sin che a Dio piacerà; ma più alegramente che si potrà»[638].
Chi non direbbe questa lettera scritta in ricordo e deplorazione della morte di un dottore della Chiesa, pronto ad essere canonizzato? Non sappiamo in che consistesse propriamente quel secreto di capricci a cui con tanta discrezione allude il buon vescovo; ma forse non immaginerebbe il falso chi pensasse a rime giocose, a novelle piacevoli, in una parola a capricci scritti, che il frate dabbene avrebbe fatto alternare con quegli altri suoi capricci operati, di cui abbiam veduto alcun saggio. Quelle due lettere sue che abbiam ricordate mostrano come fossero in lui ingegno ed umore atti anche a ciò. E se così fu veramente, noi dobbiamo dolerci che la storia del papato e la storia della letteratura italiana sieno state defraudate ad un tempo di così notabili documenti.
Monsignor vescovo di Vaison afferma che fra Mariano morse da bono e santo omo, e noi gli crediamo volentieri; ma visse fra Mariano così come morse? Ebbe egli altre virtù, oltre a quella di far ridere Leone X e tanti cardinali e tanti principi e cortigiani? Pare di sì. Ebbe egli tra’ suoi caprici qualch’altro vizio, oltre a quello [389] della voracità formidabile? È questo un gran dubbio. Di sè il frate non dice se non bene, ed è giusto. In quella seconda lettera al Marchese di Mantova così si dipinge: «Io mi trovo umano, mansueto, affabile, basso ad uso di tartufo, overo pisciacane che nasce terra terra, in modo che ognuno mi può calpestare e por piè». E séguita dicendo che degli 800 ducati d’oro che gli rendeva l’officio faceva tre parti: «una a Cristo, da cui viene ogni bene; l’altra alli parenti, che ho tanta canaglia che non empirebbe loro la gola tutta l’acqua d’intorno a Mantova; la terza parte per me e mia famiglia, magnare e bere, e bestie e basti, in modo che ogni anno fo debito trecento ducati». Come desse quei denari a Cristo non so; e chi può dire in che termini stesse con Cristo il buon frate? e chi può dire in che termini ci stesse papa Leone? Son misteri troppo profondi. Ma ciò che è detto dei parenti sarà verissimo, perchè chiunque avesse officio e grado e rendite in Roma a quel tempo vedeva pullulare i parenti fuor di terra a mo’ di funghi, a cominciar dal papa; e verissimo ancora ciò che è detto della famiglia, la quale non era forse composta di soli servitori. Fra Sebastiano diventò padre per da vero tra l’un piombo e l’altro. Ad ogni modo il nostro frate doveva essere un buon pastricciano, se persin l’Aretino giunse, come s’è veduto, a dir di lui che «egli fu così dolce, così affabile, così onorevole, così utile e così buono quanto persona che fusse mai in Corte».
Ma c’è quel maledetto sonetto, dove non solo si dice che fra Mariano credette poco e simulò religione, ma si tocca in modo anche troppo chiaro di un zero che non è quello dell’aritmetica. Sarà vero? sarà falso? Ecco dove ci vorrebbero i documenti, e dove i documenti mancano. Lodovico Dolce dice in una sua satira a Ercole Bentivoglio:
[390]
Dal pergamo gridar grave e sdegnoso
S’ode fra Mariano e i vizii danna;
Ma in cella quando è moglie e quando è sposo;
e dice forse il vero: ma è del nostro fra Mariano o di un altro ch’egli parla? Impossibile dirlo, impossibile di affermare o di negar nulla: il dubbio
Animum nunc huc, nunc dividit illuc.
In partesque rapit varias, perque omnia vertit.
Non so se fra Martin Lutero avesse, quando fu in Roma, occasione di conoscere fra Mariano Fetti, o di udir parlare dei suoi capricci; ma parmi che l’un frate spieghi, sino ad un certo segno, l’altro. Sono tutt’e due come il diritto e il rovescio della stessa medaglia. E questa medaglia fu Leone X a coniarla.
[391]
Petrarchismo ed Antipetrarchismo: | |
Parte prima | Pag. 3 |
Parte seconda | 45 |
Un processo a Pietro Aretino | 89 |
I Pedanti | 171 |
Una cortigiana fra mille: Veronica Franco: | |
Parte prima | 217 |
Parte seconda | 293 |
Appendici | 351 |
Un buffone di Leone X | 365 |
1. Tre scritti conosco in cui di proposito si parla del petrarchismo, tutti e tre assai insufficienti, e sono: I petrarchisti, di Luigi Carrer, inserito nel vol. II delle Prose, ediz. di Firenze, 1855, pp. 500-5; I petrarchisti, di Luigi La Vista, in Memorie e scritti, Firenze, 1863, pp. 359-63; Del petrarchismo e de’ principali petrarchisti veneti, di Giovanni Crespan, nella raccolta Petrarca a Venezia, Venezia, 1874, pp. 187-252.
2. Lezioni di letteratura italiana, nona edizione, Napoli, 1883, vol. II, p. 99.
3. Geschichte der italienischen Literatur, Lipsia, 1844-7, parte II, p. 624.
4. Opere, ediz. di Venezia, 1740, t. II, p. 269.
5. Il Castellano, Opere, ediz. di Verona, 1729, t. II, p. 232.
6. A. Baschet, Documenti inediti su Pietro Aretino, in Archivio storico italiano, serie III, t. III, parte 2ª, p. 116.
7. Cap. 22.
8. Atto I, sc. 22.
9. Ragionamenti, parte I, giornata III, Cosmopoli, 1660, p. 120.
10. Antonio Magliabechi scrive in una sua lettera al canonico Lorenzo Panciatichi: «Il Petrarchino non può essere mai più bello, essendo infino di carta scelta, giacchè, se ne tasterà una pagina, sentirà quanto sia più grossa dell’altra ordinaria. Il sommacco è di quello grosso da durar cento anni, e credo, che sia legatura forestiera».
11. Il Furbo, Venezia, 1584, atto II, sc. 1.
12. Ediz. di Venezia, 1587, disc. CXVI, pp. 700-1.
13. Novelle, parte II, nov. 46.
14. Il Cortegiano, ediz. di Firenze, 1854, l. I, XIX.
15. Aretino, Ragionamenti, parte II, giornata I, p. 215.
16. Capitolo Del Letto.
17. Atto II, sc. 11.
18. Avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone, l. II, c. 12.
19. Apologia in difesa della Gerusalemme liberata, Opere, Pisa, 1820 sgg., vol. X, pp. 61-2.
20. Descrizione del suo viaggio al Parnaso.
21. Una grande bugia diceva il buon Lodovico, quando diceva:
là veggo Pietro
Bembo, che ’l puro e dolce idioma nostro,
Levato fuor del volgare uso tetro
Quale esser dee, ci ha col suo esempio mostro.
(Orl. Fur., c. XLVI, st. 15). Ma egli ne disse tant’altre in quel suo poema.
22. Atto II, sc. 6.
23. Ragionamento sopra la poesia giocosa, Venezia, 1634, p. 8.
24. Dialogo d’amore, in Dialoghi, Venezia, 1562, p. 38.
25. Lettere di molte ingegnose donne, Venezia, 1549, f. 49. Se queste lettere sieno autentiche, o meno, a noi non importa indagare, bastando che sieno del Cinquecento, e faccian fede delle idee e dei costumi del tempo.
26. Le tagliature, o sparati, che si moltiplicavano fuor di misura sugli abiti degli azzimati moscardini.
27. Vedi, per un esempio, Il libro della bella donna di Federico Luigini, Venezia, 1554.
28. La Zucca, ediz. di Venezia, 1589, f. 192 v.
29. Vedi più oltre lo studio: Una cortigiana tra mille.
30. Atto II, sc. 2. Cfr. Ragionamenti, parte I, giorn. III, p. 141.
31. Parte I, giornata II, p. 106.
32. Ragionamento fra il Zoppino fatto frate e Lodovico puttaniere, p. 442.
33. Lettere di cortigiane del secolo XVI, Firenze, 1884.
34. Facetie, motti et burle di diversi signori et persone private, edizione di Venezia, 1599, p. 332.
35. Le lettere facete di messer Andrea Calmo, riprodotte da Vittorio Rossi, Torino, 1888, l. IV, lett. 22, pp. 301-2.
36. Per esempio, in una lettera ad un’altra cortigiana, una certa signora Frondosa, ricordate molte maniere di giuochi con cui solevano spassarsi le allegre brigate, soggiunge: «e torna tutti a sentar digando le pi stupende panzane, stampie e imaginative del mondo, de comar coca, de fraibolan, de osel bel verde, de statua de legno, del bossolo da le fade, di porceleti, de l’aseno che andete remito, del sorze che andete in pellegrinazo, del lovo che se fese miedego, e tante fanfalughe che no bisogna dir. Quei che ha pi sal in zuca recita la istoria de Ottinelo e Giulia, e quella de Maria per Ravena, el contrasto de la Quaresema e de Carneval, Guiscardo e Ghismonda, de Piramo e Tisbe, l’è fatto el beco a l’oca, e de ponzè el matto cugnà». Ediz. cit., l. IV; lett. 42, pp. 346-7. Vedi ivi stesso, pp. 349-50, le note del Rossi.
37. Vedi Rossi, Le lettere del Calmo, Appendice IV.
38. Ecatommiti, nov. 6 dell’Introduzione.
39. Capitolo A M. Anselmi.
40. Bandello, Novelle, parte I, nov. 41, dedica.
41. Groto, Lettere famigliari, Venezia, 1606, f. 110 v.: lettera al P. Pietromartire Locatelli.
42. Ediz. di Venezia, 1543, f. XI v.: la prima ediz. è del 1539.
43. Domenichi, Ragionamento nel quale si parla d’imprese, d’armi e d’amori, in seguito al Dialogo delle imprese del Giovio, Venezia, 1557, p. 99.
44. Opuscoli, Firenze, 1640-2, vol. I, p. 401.
45. Scipione Bargagli, I trattenimenti, Venezia, 1587, parte I, p. 25.
46. Il Cortegiano, l. I, XLVII.
47. Vedi su questo argomento della musica nel sec. XVI Burckhardt, Die Cultur der Renaissance in Italien, terza ediz., Lipsia, 1877-8, vol. II, pp. 131 segg., e una bella memoria di Pietro Canal, Della musica in Mantova, in Memorie del Reale Istituto Veneto, t. XXI, parte III, pp. 655-774. L’importantissimo tema è, del resto, quasi vergine ancora.
48. Novelle, parte I, nov. 26.
49. V. Trucchi, Poesie inedite di dugento autori, Prato, 1846, vol. II, pp. 141-42; Fantoni, Storia universale del canto, Milano, 1873, vol. II, p. 98.
50. Maccheronea XX.
51. Doveva essere allora assai vecchio, se è vero ch’ei nacque verso il mezzo del secolo XV. L’Aretino fa dir di lui all’Istrione: «Farei fare madrigali in sua laude (intendi dell’innamorata) e dal Tromboncino componervi suso i canti».
52. Attavanta, ediz. di Firenze, 1857, p. 59.
53. Orazioni, Venezia, 1589, oraz. VIII.
54. Lettera a Bartolomeo della Valle, Opere, Venezia, 1729, t. III, p. 207, col. 2.
55. Sommario in difesa della casa del Petrarca, Opere, ed. cit., t. V, p. 558. Si tratta anche qui della casa di Padova.
56. Terza impressione, Venezia, 1553, l. I, f. 19 r.
57. Lib. II, f. 42 v.
58. De institutione foeminae Christianae, Opera, Basilea, 1555, t. II, p. 659.
59. È curiosa, e merita d’essere riferita, la lista dei libri di cui il Vives sconsiglia o proibisce la lettura. Ecco le sue stesse parole tradotte di latino in italiano (pp. 657-8): «Libri pestiferi sono in Ispagna i romanzi di Amadigi, di Splandiano, di Florisando, di Tirante il Bianco, di Tristano; alle quali scempiaggini non è misura nè fine, e tutti i giorni ne vengono fuori di nuove: aggiungasi Celestina mezzana, madre delle nequizie, ricettacolo degli amori. In Francia ci abbiamo Lancilotto del Lago, Paris e Vienna, Ponto e Sidonia, Pietro di Provenza e la bella Maghelona, Melusina, donna inesorabile: nel Belgio, Florio e Biancofiore, Leonella e Canamoro, Curias e Floretta, Piramo e Tisbe. Alcuni son tradotti di latino in volgare, come le infacete Facezie del Poggio, Eurialo e Lucrezia, il Cento novelle (Centum fabulae) del Boccaccio (!); i quali libri tutti furono scritti da uomini oziosi, scioperati, dediti ai vizii e all’immondizia, nè arrecherebbero diletto di sorta se non blandissero i nostri mali istinti». Questi libri erano del resto sparsi per tutta Europa e notissimi anche in Italia. La famosa tragicommedia di Celestina vi fu tradotta e molte volte stampata. Pare che il povero Vives credesse il Decamerone tradotto dal latino.
60. Novelle, parte I, nov. 36, dedica.
61. La secchia rapita, canto V, st. 26.
62. Ibid., canto VIII, st. 32-3.
63. Parte II, Della stampa, ed. Fanfani, Firenze, 1863, vol. I, p. 226.
64. Per quanto spetta a quest’ultimo scrittore, vedi O. Bacci, Le «Considerazioni sopra le Rime del Petrarca di Alessandro Tassoni», Firenze, 1887.
65. Ediz. di Venezia, 1550, f. 19 v., 20 r.
66. Lettere facete raccolte dall’Atanagi, Venezia, 1601, l. I, p. 232.
67. Le lettere, ediz. cit., l. I, lett. 19, p. 46.
68. Capitolo già citato e attribuito al Doni, al Sansovino, all’Anguillara.
69. Lettera a monsignor Leone Orsino, Le pístole vulgari, Venezia, 1532, f. 21 v.
70. Altra lettera a monsignor Leone Orsino, ibid., f. 154 v.
71. Lettera a re Francesco I, ibid., f. 48 r.
72. Risposta della Lucerna, ibid., f. 193 v.
73. Lettera a Gian Giacomo Lionardi, ibid., f. 61 v.
74. Ediz. di Venezia, 1543, f. XII r.
75. Dialoghi, ediz. di Venezia, 1541, dial. VIII. Questo Sannio vuol essere lo stesso Franco, secondo si rileva da una lettera dell’Aretino a Lodovico Dolce.
76. Opere, ediz. cit., vol. I, pp. 223-4.
77. Le pístole vulgari, f. 195 r.
78. In altro di quei sonetti è introdotto Priapo che scaccia i petrarchisti vituperosamente.
79. Lettera citata a Gian Giacomo Lionardi, f. 61 v.
80. Risposta della Lucerna, f. 193 v.
81. La piazza universale di tutte le professioni del mondo, ediz. cit., pp. 933-4.
82. Lettera a Giovanni Pollastra, Lettere, vol. I, f. 141 v.
83. La dipintura di sè stesso, a don Lorenzo Venturi.
84. Lettere, t. V, f. 147 r.
85. Ediz. cit., l. I, XXXVII.
86. Lettere famigliari, Padova, 1739, vol. II, p. 268.
87. Lettere famigliari, ediz. cit., f. 3 r.
88. Lettere, t. V, f. 147 r.
89. Lettere, t. I, f. 123 r.
90. Lettere di diversi eccellentissimi uomini, raccolte da Lodovico Dolce, Venezia, 1559, l. I, p. 45.
91. Nella satira A Giulio Doffi. Ecco le sue parole:
Non credo che si trovi canta in banco,
Che non sappia compor qualche cosetta,
Che volesse il Petrarca al lato manco:
E ch’a ciascun non chieda la berretta,
E che non vada gonfio e dritto in schiena;
Ma il pan è poi quel che gli dà la stretta.
Più tardi ad Alessandro Allegri toccava ancora dire di certi poetastri:
Crede la brigataccia ch’un sonetto,
O dal Casa travolto, o dal Petrarca
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Faccia l’uom reverendo e ammirando.
92. L’Orlandino, cap. VI, st. 1.
93. Anche il Franco nella Risposta della Lucerna: «Veggo i lauri di Parnaso, le querce di Dodona, le palme d’Iduna, i bussi di Citoro, le canne di Menalo, Federe d’Ippocrene, i mirti d’Aganippe».
94. Lettere, t. I, f. 123 r.
95. Lettere, t. I, f. 248 r.
96. Lettere, t. II, f. 77 v., 140, r. t. V, f. 131 r., 161 r.
97. Questo capitolo fu pubblicato dietro il Dialogo della infelicità dei letterati di Pierio Valeriano, Milano, 1829.
98. Le satire alla berniesca, Torino, 1549. Dello stile berniesco.
99. Discorso intorno al comporre delle comedie e delle tragedie, edizione di Milano, 1864, p. 31. Luigi Tansillo, che lodò la galera, l’aglio, la gelosia, solo per celia dice in uno dei capitoli dove la galera appunto è celebrata:
Non è il mio de’ capricci e de le vene
Che corron sì per Roma oggi e tra preti,
Di che, più che del mar nausea mi viene.
Vorrei che i buon’ scrittori e i buon’ poeti
Dicesson ben del bene e mal del male,
Come appartiene agli uomini discreti.
Chi celebra il pestel, chi l’orinale,
Ed a suggetto spendono gl’inchiostri,
Che a l’onor poco, a l’utile men vale.
Capitoli giocosi e satirici di Luigi Tansillo editi ed inediti, Napoli, 1870, p. 58.
100. Lettere, t. I, f. 21 v.
101. Le pístole vulgari, f. 239 r.
102. Lettere famigliari, f. 3 v.
103. Discorso intorno al comporre dei romanzi, ediz. di Milano, 1864, p. 89.
104. Scelta di curiosità letterarie, disp. CLXXXIV, Bologna, 1881, pp. 31-2.
105. Le pístole vulgari, f. 191 r.
106. Satira A M. Alessandro Campesano.
107. Vedi una lettera del Bembo a lui, Opere, t. III, p. 247, col. 2.
108. Ediz. cit., vol. II, p. 37. Cfr. Domenichi, Facetie, motti, ecc., p. 312.
109. L’argute e facete lettere, di novo ristampate, Pavia, 1567, f. 34 v.
110. Notisi che quell’ultimo terzetto deve leggersi così, e non come si ha guasto nelle edizioni castrate. Vedi Rime, poesie latine, eco., di F. Berni, ordinate e annotate da A. Virgili, Firenze, 1885, p. 138.
111. Sette libri de Cataloghi, ecc., Venezia, 1552, l. VI, p. 479.
112. Libretto stampato nel 1545 e rarissimo. Vedi Luzio-Renier, Contributo alla storia del malfrancese ne’ costumi e nella letteratura italiana del sec. XVI, nel Giornale storico della letteratura italiana, vol. V, p. 425.
113. È un zibaldonaccio manoscritto di 317 fogli numerati, e più altri non numerati, che si conserva nella Casanatense in Roma. Ne diede notizia Guido Suster nella Domenica Letteraria del 16 marzo 1884 (anno III, nº 11). L’autore ci avverte egli stesso che cominciò a scrivere il suo libro ai 20 di gennajo del 1589 e lo condusse a compimento gli 8 di giugno di quell’anno medesimo.
114. L’autore è Giammaria Cecchi. Fu stampata nel 1582. Il sonetto è del Berni.
115. Le lettere, ediz. cit., l. III, lett. 2, p. 163.
116. I sonetti del Pistoia giusta l’apografo Trivulziano, a cura di Rodolfo Renier, Torino, 1888, son. 3, p. 3.
117. Discorso intorno al comporre dei romanzi, ediz. cit., p. 89.
118. Vedi Cian, Un decennio della vita di M. Pietro Bembo, Torino, 1885, pp. 46, 158.
119. Storia della letteratura italiana, 3ª edizione, Napoli, 1879, vol. II, p. 127.
120. Lezioni di letteratura italiana, 9ª edizione, Napoli, 1883, vol. II, p. 176.
121. Francesco Berni, Firenze, 1881.
122. Saggio di uno studio su Pietro Aretino, Roma, 1882. Nell’Avvertenza l’autore promette un più largo lavoro, che, sino ad ora, non è comparso.
123. Lettere, ediz. di Parigi, 1609, vol. I, ff. 76, 82 sg., 85, 99, 162, ecc.
124. Op. cit., pp. 240-2, 259-60.
125. La vita di Pietro Aretino, Padova, 1741, pp. 1 sgg.
126. Dell’istoria della volgar poesia, Venezia, 1730, vol. IV, p. 44.
127. La famiglia di Pietro Aretino, in Giornale storico della letteratura italiana, vol. IV, pp. 361-88.
128. Lettere, vol. IV, ff. 269-72.
129. Atto I, sc. 4.
130. Baschet, Documenti inediti su Pietro Aretino, in Archivio storico italiano, serie III, t. III, parte 2ª.
131. Vedi Campori, Pietro Aretino ed Ercole II duca di Ferrara, in Atti e memorie delle rr. deput. di storia patria per le prov. mod. e parm., vol. V, Modena, 1870, pp. 29-37.
132. Vedi la Vita del Doni scritta dal Bongi, e preposta ai Marmi di esso Doni ripubblicati dal Fanfani, Firenze, 1863, vol. I, p. LVI.
133. Epistolarum seu sermonum libri VI, Parigi, 1585, p. 305.
134. Oreste Gamurrini, Pietro Aretino e i suoi tempi, estratto dal giornale Il Fanfani, anno I, Firenze, 1882, pp. 12-3; Sinigaglia, Op. cit., p. 338.
135. Le satire alla berniesca, Torino, 1549. Capitolo Della Corte.
136. Rime, Perugia, 1770, p. 295.
137. Rime di Francesco Coppetta ed altri poeti perugini, scelte da G. Vincioli, t. I, Perugia, 1720, p. 284.
138. La Piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia, 1587, Discorso LXII, p. 530.
139. Dialoghi, Venezia, 1562, p. 274.
140. Stanze, 10.
141. Sansovino, Sette libri di satire, Venezia, 1560, f. 188 v.
142. Ha molta somiglianza con questa dell’Alamanni una satira di Mathurin Regnier sullo stesso argomento. Non ho bisogno di avvertire che biasimi delle corti e invettive contro le corti si trovano, sebbene non in tanta copia come nell’italiana, anche in altre letterature.
143. Satira Al fratello Galasso.
144. Atto II, sc. 6.
145. Rime edite ed inedite per cura di A. Cappelli e S. Ferrari, Livorno, 1884, p. 80. Veggasi inoltre sopra il tinello: Bandello, Novelle, parte II, nov. 51; Domenichi, Facetie, ediz. di Venezia, 1599, pp. 222-3; Francesco Priscianese, Del governo della corte d’un signore in Roma, Roma, 1543; ristampa fatta in Città di Castello, 1883, pp. 22, 26-7; Cesare Evitascandolo, Dialogo del maestro di casa, Roma, 1598, pp. 161 sgg. Le miserie del tinello diedero argomento alla Tinelaria dello spagnuolo Torres Naharro, che fu in Roma ai tempi di Leone X. A voler fare on elenco di tutti coloro che nel secolo XVI scrissero in biasimo delle corti troppe pagine si potrebbero riempiere.
146. Lettere, vol. I, f. 17 v.
147. Lettere, vol. I, f. 34 v.
148. Lettere, vol. I, f. 199 r.
149. Lettere, vol. I, f. 85 r. Vero è che molti anni dopo il Franco scriveva in uno dei sonetti contro l’Aretino:
Muojon di fame, e per l’Italia vanno
Mille buon spirti miseri e dolenti,
Ignudi e scalzi, dibattendo i denti,
Per un ladro spedale che non hanno.
E chiamava quei buoni spiriti a raccolta, li invitava ad esser tutti di un parere, e a levar alto la voce
Contro l’infami e pessime brigate
Che ne potrien volendo sostenere.
150. Lettere, vol. I, f. 33 r.
151. Lettere, vol. IV, f. 131 r.
152. Lettere, vol. I, f. 264 r.
153. Lettere, vol. III, f. 225 r.
154. Capitolo Della poesia.
155. Opere, ediz. di Venezia, 1740, vol. I, pp. 220-1.
156. Vedi Cappelli, Pietro Aretino e una sua lettera inedita a Francesco I re di Francia, in Atti e mem. delle rr. Deput. di st. patria per le prov. mod. e parm., t. III, pp. 75-88.
157. Lettere di diversi eccellentissimi uomini raccolte dal Dolce, vol. I, Venezia, 1559, p. 227.
158. Atto V, sc. 12.
159. La Scolastica, atto III, sc. 4. Vedi anche ciò che l’Ariosto dice agli spettatori nel Prologo dei Suppositi, e cfr. la sua satira A Pietro Bembo.
160. Sul Genesi, XIX, 4, 5.
161. Vita Leonis X, l. IV.
162. Le rime burlesche edite e inedite di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, per cura di Carlo Verzone, Firenze, 1882, pp. 336, 515. Vedi anche pp. 638, 639.
163. La Cortegiana, atto I, sc. 22; Il Marescalco, atto II, sc. 4 e sc. 11. Vedi pure ciò che l’Aretino dice della sorte che toccava ai paggi, Ragionamento delle corti, Venezia, 1539, f. 7.
164. Les vies des dames galantes, ediz. di Leida, 1722, vol. I, p. 216.
165. Op. cit., disc. LXXIX, p. 622.
166. Vita, l. II, c. 29.
167. Vedi il capitolo Sopra un garzone.
168. Vedi anche ciò che dice nel capitolo Alli signori abati. Cfr. l’Orlando innamorato rifatto da lui, l. III, c. 9.
169. Vedi Le rime di Michelangelo Buonarroti, cavate dagli autografi e pubblicate da C. Guasti, Firenze, 1863, pp. 5-21, 26, 162.
170. Vedi Solerti, Anche Torquato Tasso? nel Giornale storico della letteratura italiana, vol. IX, pp. 431-40.
171. Capitolo Delle campane.
172. Veggasi pure nel rarissimo volume intitolato Poesie da fuoco di diversi autori, Lucerna, 1651, una certa Persuasiva efficace, ecc.
173. Lo Ipocrito, Prologo.
174. Galliccioli, Delle memorie venete antiche, profane ed ecclesiastiche, Venezia, 1795, vol. I, p. 260; Gamba, Serie degli scritti impressi in dialetto veneziano, Venezia, 1832, p. 58.
175. Molte notizie concernenti il vizio in Venezia si hanno nel volume Leggi e memorie venete sulla prostituzione sino alla caduta della Repubblica, a spese del conte di Orford, Venezia, 1870-2.
176. Mutinelli, Storia arcana ed aneddottica d’Italia raccontata dai veneti ambasciatori, Venezia, 1855-8, vol. I, p. 50.
177. Mutinelli, Op. cit., p. 121. Vedi per altre notizie Corradi, Nuovi documenti per la storia delle malattie veneree in Italia dalla fine del Quattrocento alla metà del Cinquecento, in Annali universali di medicina, volume CCLXIX, 1884.
178. Novelle, parte I, nov. 6 e nov. 30. Vedi pare la novella 13 delle Porretane di Sabadino degli Arienti.
179. Il Canello, in quel suo ingegnoso capitolo sulla Vita privata del Cinquecento, che è il secondo della Storia della letteratura italiana del secolo XVI (Milano, 1880), sostenne, tra l’altro (pp. 20-2), che il vizio decrebbe nel Cinquecento, anzi cessò pressochè interamente. È questa una opinione in tutto erronea. Il vizio crebbe anzi a dismisura, e una delle ragioni del suo crescere fu il propagarsi della sifilide.
180. Lettere, vol. I, f. 85 v.
181. Giovanni Burchard descrive la seguente mascherata fatta in Roma nel decembre del 1502 (Diarium sive rerum urbanarum commentarii, ediz. di Parigi, 1883-5, t. III, p. 227): «Post prandium iverunt ad plateam S. Petri triginta mascherati habentes nasos longos et grossos in formam priaporum sive membrorum virilium in magna quantitate, precedente valisia cardinalari habente scutum cum tribus taxillis, quam sequebantur scutiferi et illos mallerii, post quos equitavit unus in veste longa e capello antiquo cardinalari: etiam mallerii equitabant asinos, et aliqui eorum tam parvos quod pedibus eorum terram tangebant et simul cum asinis ambulabant, illis insidentes. Ascenderunt ad plateolam inter portam palatii et audientiam ubi ostenderunt se Pape qui erat in fenestra supra portam in logia Paulina; deinde equitaverunt per totam Urbem». Di così bella mascherata, della quale si sarà compiaciuto non poco il sollazzevole papa Alessandro, non fa cenno l’Ademollo nel libro suo Alessandro VI, Giulio II e Leone X nel carnevale di Roma, Firenze, 1886.
182. Bernardino Arelio parla di una Puttana errante e la sua lettera è del 17 d’ottobre del 1531. Il poema del Veniero venne fuori appunto in quel torno di tempo; però è da creder senz’altro che ad esso alluda l’Arelio.
183. Qui mi bisogna intrattener di me, per un istante il lettore. Il sig. Carlo Dejob, nel suo recente libro De l’influence du Concile de Trente sur la littérature et le beaux-arts chez les peuples catholiques (Parigi, 1884), attribuisce a me (cap. VI, pp. 275 sgg.) le stesse opinioni professate dal Canello circa la pretesa rigenerazione morale d’Italia nel Cinquecento, e me le attribuisce in grazia di uno scritto vecchio già d’una decina d’anni, e che io non avrei mai immaginato dovesse procurarmi una così fatta sorpresa. (Vedi ne’ miei Studii drammatici, Torino, 1878, lo studio intitolato Tre commedie italiane del Cinquecento). Non so come il sig. Dejob abbia lette quelle pagine; so che io non pensava allora della moralità del Cinquecento diversamente da ora. Se poi egli non riesce a vedere la satira morale nè nella Mandragola del Machiavelli, nè nel Candelajo di Giordano Bruno, la colpa veramente non è mia.
184. Vedi un documento di vivo e delicato amor paterno nella lettera a Sebastiano del Piombo, vol. I, f. 114 v.
185. Vedi G. Lafenestre, La vie et l’œuvre de Titien, Parigi, (1886), pp. 124-6.
186. Lettere, vol. IV, f. 184 v.
187. Lettere, vol. I, f. 42 v.
188. Lettere, vol. I, f. 56 v.
189. Lettere, vol. II, f. 33 r.
190. Lettere scritte a Pietro Aretino emendate per cura di Teodorico Landoni, Bologna, 1873-5, vol. I, parte I, p. 319.
191. Vedi nella Nuova Antologia, serie II, t. LIII, uno scritto del Panzacchi dal titolo Pietro Aretino innamorato.
192. Lettere, vol. I, f. 33 r.
193. Lettere, vol. I, f. 81 r.
194. Lettere, vol. I, f. 86 v.
195. Lettere, vol. I, f. 145 r.
196. Lettere, vol. I, f. 21 v.
197. Ciò si rileva da una lettera inedita che è nell’archivio di Mantova. Sinigaglia, Op. cit., p. 101.
198. Lettere, vol. I, f. 204 r.
199. Lettere, vol. III, f. 340 r.
200. Op. cit., p. 127.
201. Op. cit., vol. II, p. 127.
202. Études sur W. Shakspeare, Marie Stuart et l’Arétin, Parigi, 1851, p. 387.
203. Il Sinigaglia di questo ritratto non dice altro, se non che appartenne già ad un signor Carovana di Firenze.
204. Lettere, vol. I, f. 279 v., 280 r.
205. Lettere, vol. II, f. 36 r.
206. Lettere, vol. IV, f. 161 r.
207. Lettere, vol. V, f. 299 r.
208. Lettere, vol. V, f. 320 r.
209. Lettere, vol. I, f. 136 r.
210. Lettere, vol. I, f. 247 r.
211. Vedi, per es., la lettera a Lodovico Dolce, vol. I, f. 122 r.
212. Lettere, vol. V, f. 16 r.
213. Lettere, vol. V, f. 1 r.
214. Lettere, vol. II, f. 118 v.
215. Op. cit., p. 132.
216. Lettere, vol. II, f. 7 r.
217. Lettere, vol. II, f. 43 v.
218. Lettere, vol. I, f. 21 v.
219. Lettere, vol. II, f. 122 r.
220. Lettere, vol. I, f. 210 r.
221. Lettere, vol. I, f. 226 v.
222. Vedi in questo volume lo scritto che segue: I pedanti.
223. Lettere, vol. III, f. 157 v.
224. Lettere, vol. III, f. 72 r.
225. Lettere, vol. I, f. 431 r.
226. Lettere, vol. I, f. 431 r.
227. Lettere, vol. III, f. 72 r.
228. Lettere, vol. I, f. 99 r.
229. Lettere, vol. II, f. 75 r.
230. Lettere, vol. II, f. 52 r.
231. Lettere, vol. I, f. 21 v.
232. Lettere, vol. III, f. 288 r.
233. Lettere, vol. I, f. 106 v.
234. Lettere, vol. II, f. 121 v.
235. Lettere, vol. I, f. 253 v.
236. Lettere, vol. III, f. 48 v.
237. Lettere, vol. II, f. 27 r.
238. Lettere, vol. II, f. 82 v.
239. Lettere, vol. I, f. 146 v.
240. Lettere, vol. I, f. 193 v.
241. Lettere, vol. I, f. 202 v.
242. Lettere, vol. I, f. 169 v.
243. Lettere, vol. I, f. 215 r.
244. Sansovino, Sette libri di satire, f. 198 v.
245. Venezia, 1550, f. 33 v.
246. Lettere, vol. V, f. 284 v.
247. Lettere, vol. VI, f. 5 r.
248. Lettere, vol. V, f. 185 v.
249. Op. cit., pp. 470-1.
250. Lettere, vol. I, f. 226 v.
251. Cap. I, st. 17 sgg.
252. Die Cultur der Renaissance in Italien, 3ª ediz., Lipsia, 1877-8, vol. I, p. 191.
253. Menagiana, vol. II, p. 109.
254. Lettere, vol. V, f. 185 r.
255. Ediz. di Firenze, 1570, p. 60.
256. Vedi ciò che del vestire e dell’aspetto del pedante in genere dicono: il Caro, nel Commento di ser Agresto, ecc.; Pietro Aretino, Ragionamenti, parte I, giornata II, Cosmopoli, 1660, pp. 77-8; Cesare Caporali, nella prima parte di quel suo capitolo che appunto s’intitola Il Pedante, d’onde attinse Mathurin Régnier pel suo Repas ridicule; Tommaso Garzoni, nella Piazza universale di tutte le professioni del mondo, ediz. di Venezia, 1587, p. 91.
257. Parte X.
258. Loc. cit.
259. Se ne può vedere qualche esempio nelle Facezie del Domenichi, ediz. di Venezia, 1599, pp. 63, 382; nella Saggia pazzia di Antonio Maria Spelta, Pavia, 1607, l. II, c. 4; nel Diporto dei viandanti di Cristoforo Zabata, Pavia, 1596, p. 120; nel Fuggilozio di Tommaso Costo, Venezia, 1601, p. 245.
260. I Marmi, ediz. di Firenze, 1863, vol. I, p. 104.
261. Cent. I, ragg. 77.
262. Le pistole vulgari, Risposta della Lucerna, ediz. di Venezia, 1542, f. 192 v.
263. Ragguagli di Parnaso, cent. I, ragg. 53.
264. Nel dialogo intitolato Antonius.
265. Genialium dierum, I, 21; III, 19. Il Pontano ed Alessandro degli Alessandri parlano di grammatici latini; ma lo Spelta si lagna anche molto della pedanteria dei grammatici volgari, Op. cit., l. II, c. 5.
266. Garzoni, loc. cit.
267. Franco, Dialogi piacevoli, ediz. di Venezia, 1541, f. 70 r.
268. Ediz. cit., dial. II.
269. Tale epistola non si legge, se non erro, che nella prima edizione delle Pístole vulgari, Venezia, 1539.
270. Op. cit., p. 319.
271. Loc. cit. Tali esempii sono riferiti anche dallo Spelta, Op. cit., pp. 29-30.
272. Essais, c. XXIV.
273. Poesie di Francesco Ruspoli, Livorno, 1882, son. LXXV.
274. Venezia, 1554, ricordo CXXIII.
275. Vedi qui addietro pp. 125 sgg. Del resto diceva sin da’ suoi tempi il Boccaccio che di quel vizio si credevano comunemente macchiati i grammatici, Commento della Divina Commedia, ediz. di Firenze, 1863, vol. II, p. 420.
276. Mondi celesti, terrestri et infernali, Venezia, 1583, p. 250.
277. Maccaronea II.
278. Le diece veglie, Treviso, 1602, p. 264.
279. La vie de Gargantua et de Pantagruel, l. I, cc. XIV, XV. I varii libri ricordati dal Rabelais furono veramente tutti molto usati nell’insegnamento.
280. De pueris statim ac liberaliter instituendis.
281. Loc. cit.
282. Lettera al pedante Picard. Oeuvres comiques, galantes et littéraires, Parigi, 1858, p. 154.
283. Li capitoli faceti editi ed inediti di mess. Agnolo Allori detto il Bronzino, Venezia, 1822, capitolo Del Bisogno.
284. Ediz. di Pavia, 1567, ff. 11 r. sgg.
285. Maccaronea II.
286. Op. cit., p. 28.
287. Atto III, sc. 2.
288. Parte I, giornata II.
289. Le satire alla berniesca, Torino, 1549.
290. Le rime burlesche sopra varii et piacevoli soggetti, Venezia, 1570, capitolo XLII.
291. Dialogo IV, ediz. cit., f. 70 v.
292. Della famosissima compagnia della Lesina, Dialogo, Capitoli, Ragionamenti, ediz. di Venezia, 1664, p. 157.
293. Op. cit.
294. Veggasi, per esempio, ciò che ne dice Stefano Guazzo nel suo libro intitolato La civil conversatione, Venezia, 1575, p. 383.
295. Lettere, ediz. di Venezia, 1545, lett. LI, al Giovio.
296. Vedi Fontanini, Biblioteca dell’eloquenza italiana con note di Apostolo Zeno, edizione di Venezia, 1753, vol. I, p. 35, e Sabbadini, Storia del ciceronianismo, Torino, 1886, pp. 127 sgg.
297. Il Cortegiano, l. I, c. 37, ediz. di Firenze, 1854.
298. Dice Aonio Paleario in un dialogo intitolato Il Grammatico ovvero delle false esercitazioni delle scuole: «Non è maggior sciocchezza al mondo che voler essere volgar latino, o latino volgare. Da questi errori sono nati gli stili falsi toscani del Polifilo, e gli stili falsi latini, o moderni, di che è impestato il mondo». Seguita dicendo che alle scuole dei grammatici si imparava a scrivere il latino grammaticalmente, ma non latinamente; che usciti dopo molti anni di scuola, i giovani non sapevano scrivere nè una epistola latina, nè una epistola volgare, e che i grammatici imbastardivano così l’una come l’altra lingua. Il dialogo fu stampato la prima volta in Milano, nel 1557, poi in Perugia nel 1717.
299. Vedi Genthe, Geschichte der macaronischen Poesie, Lipsia, 1836, pp. 83-94.
300. Il sonetto è curioso: eccolo.
Fra gli Hetrusci gloriosi, et il collegio
Di noi magistri, che la lingua vetere
Sostenemo, e inalciamo fin all’aethere,
È nobil lite, et un dissidio egregio.
In contumelia nostra, et in dispregio,
Allegan quei, che dal Donato flectere
Non sapemo il sermon, nè men connectere
Fabula alcuna senza l’Apulegio.
Considerar devrian pur questi Tusculi,
Che del Donato senza li principii
L’antica lingua si potria dispergere.
Così veggiamo di giustitia emergere
Dal Donato Praetore i firmi initii:
Dunque il Donato è sopra gli altri opusculi.
301. L’Itinerario del Tarsia è forse tutt’uno con un Viaggio del pedante che Niccolò Villani cita, senza nominarne l’autore, in un luogo del suo Ragionamento sopra la poesia giocosa, Venezia, 1634. Si ha pure un Itinere di ser Poi Pedante a Livorno, composto da Agostino Coltellini; ma essendo il Coltellini nato nel 1613, non è da credere che al suo poema alluda il Villani. Bensì è da notare che lo stesso Coltellini ricorda il Mantovano Itiner di Fidenzio; ma di questo non ho notizia.
302. Molta poesia pedantesca giace inedita e sconosciuta nelle biblioteche, e moltissima n’ebbe a produrre il Cinquecento. Dice il Ruscelli nel suo trattato Del modo di comporre (Venezia, 1563, pp. 74-5): «Molto vagamente pur in questi anni stessi hanno il mio Signor Domenico Veniero, ed altri nobilissimi ingegni introdotto di scrivere in versi sciolti, e di terze rime, alcuni soggetti piacevolissimi, e principalmente volendo contrafar la pedanteria. I quali per certo riescono con tanta vaghezza e con tanta grazia, che ogni altra sorte che volesse farsi, sarebbe un levarle in tutto del vero esser loro; e non so se questa, nè altra lingua, abbia sorte di componimento così piacevole». Poesie pedantesche di Antonio Querenghi si conservano manoscritte nella Marciana.
303. Ciò non vuol già dire che anche fuori non siasi avuto qualche saggio di lingua pedantesca: leggasi, per esempio, nel l. II, cap. 6, della Vie de Gargantua et de Pantagruel il discorso messo in bocca allo studente limosino.
304. Cena I, nov. 2.
305. Cena II, nov. 7.
306. Nov. 5.
307. Essais, c. XXIV.
308. Atto III, sc. 12.
309. Atto III, sc. 10.
310. Atto I, sc. 5.
311. Atto II, sc. 4.
312. Atto I, sc. 9.
313. Atto I, sc. 1.
314. Cfr. Domenichi, Facetie, ediz. cit., p. 362.
315. Alessandro Allegri finse alcune Lettere di ser Poi pedante al Petrarca, al Boccaccio ed al Bembo (Bologna, 1613; ristampate in Venezia dal Gamba, s. a., e dal Mortara in Casalmaggiore, 1850). Ser Poi si professa grande ammiratore di tutti e tre.
316. Atto III, sc. 5.
317. Atto III, sc. 2.
318. Marzi, La Fanciulla, atto III, sc. 5.
319. Dolce, Il Ragazzo, atto I, sc. 4.
320. Abbiamo già trovato un Metafrasto, nome reso poi celebre dal Molière: nella Olimpia di Giambattista Della Porta il pedante si chiama Protodidascalo; nella Fantesca, dello stesso, Narticoforo; Panthemio nei Falsi Sospetti di Bernardino Pino; Felisippo nelle Querele amorose di Giambattista Ranucci, ecc., ecc.
321. I Torti amorosi, atto I, sc. 7.
322. Atto III, sc. 11. Nella Bibliographie des ouvrages relatifs à l’amour, etc., Parigi, 1871-3, vol. V, p. 465, è registrata una commedia manoscritta, Il Pedante geloso, dove un pedante amoreggia col discepolo Ganimede.
323. Atto I, sc. 5.
324. Atto II, sc. 1.
325. Atto III, sc. 5.
326. Atto III, sc. 6.
327. Atto III, sc. 10.
328. Atto III, sc. 11.
329. Atto III, sc. 12.
330. Atto IV, sc. 11.
331. Atto IV, sc. 14.
332. Vedi Bartoli, Scenari inediti della commedia dell’arte, Firenze, 1880, pp. LI-LIII.
333. S’ingannava certamente lo Stoppato quando affermava la presenza del pedante nella commedia popolare improvvisa prima ancora che nella erudita. La commedia popolare in Italia, Padova, 1887, pp. 72-4.
334. Il Teatro delle favole rappresentative, Venezia, 1611.
335. Ecco un po’ di bibliografia pel Seicento; ma c’è ben altro. L’ardito amante, di Lodovico Bartolaja, Napoli, 1606; La Clarice, del signor Mesto, accademico Filomato (Ubaldino Malavolti), Siena, 1611; La Forza d’Amore, di Cajo Gnavio, Venezia, 1614; Olinda pedante finto, di Gerolamo Martinengo, Vicenza, 1615; Le pazzie giovanili, di Francesco Gattici, Venezia, 1624; La imbriachezza d’amore, di Lorenzo Guidotti, Roma, 1625; Gli estinti furori, di Lodovico Moro, Roma, 1628; Il pedante impazzito, di Francesco Righelli, Bracciano, 1628; Gli accidenti d’amore, di Fulvio Genga, Venezia, 1635; Gli infelici amori, di Alfonso Litta, Macerata, 1648; Il pedante staffilato, Modena, 1651; Desiderio e speranza fantastichi, commedia tropologica di Desiderio Cini, Venezia, 1607; Il pedante di Tarsia, dramma musicale rappresentato la prima volta in Bologna nel 1680.
336. Vedi Francesco Torraca, Studi di storia letteraria napoletana, Livorno, 1884, pp. 100 sgg.
337. Vedi Michele Scherillo, Storia letteraria dell’opera buffa napolitana, Napoli, 1883, pp. 260 sgg.; e Una fonte del Socrate immaginario, in Giornale storico della letteratura italiana, vol. V, pp. 186 sgg.
338. Carmina ad Pasquillum Herculem obtruncantem Hydram referentem posita M. D. X. Roma, per Giacomo Mazochio, 1510.
339. Poesie di Francesco Ruspoli, ediz. cit., pp. 129, 185, 187, 189, 191, 193, 195. Per finirla mi contenterò di ricordare, senz’altrimenti discorrerne, la Paedagogomachia di Marcantonio Bonciario, poema latino in otto libri, dove i pedanti sono assai maltrattati. Con questo titolo, e intero, fu stampato il poema in Perugia nel 1611; ma una parte n’era già stata pubblicata più anni innanzi, sotto il titolo di Oedipus. Il Bonciario stesso dice le ragioni che glielo fecero comporre nel dialogo intitolato Estaticus, site de ludicra poesi, Perugia, 1616, pp. 95-101. Cfr. la sua Pro poemate ludicro apologia.
340. Vedi per questi cenni Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, Venezia, 1581, l. X. Vedi ancora Feste e trionfi fatti dalla Signoria di Venetia nella venuta di Henrico III, discritte da Rocco Benedetti, 2ª ediz. accresciuta, Venezia, 1574; Marsilio della Croce, Historia della pubblica et famosa entrata in Vinegia del Serenissimo Enrico III re di Francia et Polonia, Venezia, 1574; Niccolò Lucangeli, Successi del viaggio d’Enrico III dalla sua partita di Cracovia fino all’arrivo in Torino, Venezia, 1574; Ordre de la réception et entrée de Henry de Valois, roy de France et de Pologne, en la riche et florissante ville de Venise, Lione, 1574.
341. Il lettore è avvertito che io non intendo delineare, nemmeno in iscorcio, la storia della prostituzione in Italia, nel secolo XVI; a far ciò sarebbe poco un volume. Il mio proposito è di ritrarre e lumeggiare alquanto più compiutamente che non siasi fatto sinora la figura della cortigiana, la quale da sè sola potrebbe dare tema più che sufficiente ad un libro, quando fossero conosciuti i numerosi documenti che la concernono, e che inesplorati ancora giacciono nelle biblioteche. Io ho cercato di raccogliere in queste pagine una certa copia di notizie, bastevoli al proposito mio, non senza giovarmi dell’opera di alcuni gentili, quando si trattò di libri che io non potei avere tra mani, o di notizie che non potei procacciarmi direttamente. Onde è che porgo qui i miei più vivi ringraziamenti ai professori Ariodante Fabretti, Alessandro d’Ancona, Adolfo Tobler, Vittorio Cian, Cesare De Lollis, al dott. Alessandro Luzio, al signor Pietro Sgulmero. Uno specialissimo ringraziamento poi debbo al mio caro e valoroso Vittorio Rossi, il quale rincorso dalle mie insistenti richieste da Firenze a Venezia, e da Venezia a Firenze, non lasciò di mandarmi, con pazienza pari alla gentilezza, appunti, estratti e copie.
342. Opere, Venezia, 1740, vol. III, p. 213.
343. Il nome di cortigiana non avrebbe dovuto darsi mai a meretrice di postribolo. Il Citolini nota espressamente nella Tipocosmia (Venezia, 1561, p. 443): la puttana, o di bordello, o cortigiana. La differenza si sente in questi stessi versi di Pasquino, che pur vorrebbero negarla:
Lassa andare le cortesane,
Se non voi disfarte al tutto;
Come l’altre son puttane;
Ma più caro vendon lor frutto.
Consigli utilissimi dello eccellente dottore maestro Pasquino a tutti gli gentilhuomini, officiali, procuratori, notari, artisti, bravazzi, et altri che vengono di novo a Roma, ecc., Roma, s. a., cit. dal Cian, Galanterie italiane del secolo XVI, Torino, 1887 (estratto dal giornale La Letteratura), p. 60.
344. Tratto da un codice inedito dell’Archivio Vaticano e pubblicato da M. Armellini nel periodico Gli studi in Italia, Anno IV (1881), vol. II; anno V (1882), vol. I.
345. Diarium sive rerum urbanarum commentarii, edizione di Parigi, 1883-5, t. II, p. 443; t. III, p. 167. «In sero fecerunt cenam cum duce Valentinense in camera sua, in palatio apostolico, quinquaginta meretrices honeste, cortegiane nuncupate, que post cenam coreaverunt cum servitoribus et aliis ibidem existentibus, primo in vestibus suis, denique nude. Post cenam posita fuerunt candelabra communia mense in candelis ardentibus per terram, et projecte ante candelabra per terram castanee quas meretrices ipse super manibus et pedibus, nude, candelabra pertranseuntes, colligebant, Papa, duce et D. Lucretia sorore sua presentibus et aspicientibus. Tandem exposita dona ultima, diploides de serico, paria caligarum, bireta, et alia pro illis qui pluries dictas meretrices carnaliter agnoscerent; que fuerunt ibidem in aula publice carnaliter tractate arbitrio presentium, dona distributa victoribus».
346. La storia delle cortigiane indubitamente si lega alla storia dell’umanesimo; ma dove e in qual modo cominci nel Quattrocento a delinearsi la figura della nuova etèra, non ci è noto. Gli è curioso, per esempio, che nell’Hermaphroditus del Panormita (m. 1471) non la si vegga per anche apparire, o se ne vegga come un’ombra soltanto. Il Panormita ricorda in quei suoi epigrammi molte meritrici, ma sono, la più parte, meretrici di un postribolo fiorentino. Vero è che egli manda loro il suo libro; ma la cosa non si vuole intendere, così alla lettera, nè prova in modo alcuno che in quelle donne fosse coltura. Ciò nondimeno qualche cenno in quei versi non manca, che parrebbe convenirsi meglio a cortigiana che a meretrice comune. Il seguente epitafio è per una puella ornatissima:
Hoc jacet ingenuae formae Catharina sepulcro,
Grata fuit multis scita puella procis.
Morte sua lugent cantus, lugentque choreae,
Flet Venus et moesto corpore moeret Amor.
In un altro epitafio, pro Nichina defuncta, dice il poeta:
Pieriae cantent circum tua busta puellae,
Et Phoebus lyricis mulceat ossa sonis;
ma la stessa Nichina dice di sè:
lupanar
Incolui, fulgor fornicis unus eram.
(Quinque illustrium poetarum, Antonii Panormitani, etc. lusus in Venerem, Parigi, 1791, pp. 15, 38). Le meretrici di cui fa parola il Poggio in alcune delle sue Facetiae (XXV, LXIII, LXXVII, XCII, CXIII, CLXXXVIII, CCXXXV, CCXLIII) nulla hanno della cortigiana. Così pure nulla mostrano della cortigiana, e tutto della meretrice volgare, le Silvie, le Lelie, le Lucie, le Tecle e le Orsole di Giano Pannonio (1434-72), Poemata, Trajecti ad Rhenum, 1874, vol. I, pp. 505, 506, 522, 524, 550, 565, 577, 578, 583, 584, 592, 599, 600, 601, 616, 618, 619.
347. G. Cugnoni, Agostino Chigi il Magnifico, in Archivio della Società Romana di storia patria, vol. II (1879), p. 78.
348. Galligo, Circa ad alcuni antichi e singolari documenti riguardanti la prostituzione tratti dall’Archivio centrale di Stato di Firenze, in Giornale italiano delle malattie veneree, ecc., anno IV (1869), vol. I, pp. 186-92, 247-53.
349. Atto III, sc. 10.
350. Ragionamento fra il Zoppino fatto frate e Ludovico puttaniere, Ragionamenti, Cosmopoli, 1660, p. 442.
351. Tariffa delle puttane, ouero ragionamento del forestiere e del gentil huomo: nel quale si dinota il prezzo e la qualità di tutte le cortigiane di Vinegia; col nome delle ruffiane; et alcune novelle piacevoli da ridere fatte da alcune di queste famose signore a gli suoi amorosi. Stampato nel nostro hemispero, l’anno 1535, del mese di Agosto. (Vedi Passano, I novellieri italiani in verso indicati e descritti, Bologna, 1868, pp. 114 sgg.). Io cito dalla ristampa fatta dal Liseux a Parigi, nel 1883. I due versi testè riferiti stanno a pag. 74: ad essi tengono dietro questi altri:
Spesso disputa del parlar toscano,
Di musica, e ’l cervel così le gira,
Che pensa averne il grido di lontano.
352. Lo stesso Aretino fa dire dalla Nanna alla Pippa, sua figliuola: «smusica un versolino da te imparato per burla, trampella il monocordo, stronca il liuto, fa vista di leggere il Furioso, il Petrarca, e il Cento (il Centonovelle, ossia il Decameron), che terrai sempre in tavola». (Ragionamenti, parte II, giornata I, p. 253).
353. Lettere di cortigiane del secolo XVI, pubblicate da L. A. Ferrai, Firenze, 1884, pp. 31-2.
354. Allude all’opinione di Pierfrancesco Giambullari che faceva derivare la lingua italiana dall’aramea, opinione contraddetta dal Varchi nell’Ercolano, e che diede luogo a dispute e a fazioni.
355. Dice la comare alla balia in uno dei Ragionamenti dell’Aretino (parte II, giornata III, p. 391): «Tu parli di construtto; nientedimeno le gentilezze son gentilezze, ed erano già molto usate le canzoni, e quella che non ne avesse saputo una frotta de le più belle e de le più nuove se ne saria vergognata, e cotal piacere tanto era ne le puttane, come ne le ruffiane». Di una cortigiana chiamata Sirena
Per la dolce armonia che sì le piacque,
è ricordo nel Trionfo della lussuria di maestro Pasquino, curioso componimento, di cui dirò or ora. Del canto di Nannina Zingera diceva il Lasca in un suo capitolo:
Non è nel ciel fra gli spirti contenti
Soave tanto e sì dolce armonia,
Da fare i monti andar, fermare i venti.
Nella Lucerna di Eureta Misoscolo (Francesco Pona), Parigi, s. a., dice una lucerna, che un tempo era stata cortigiana (p. 66): «Canto... di sirena era il mio, perchè con sì fatta vivezza e spirito mi faceva udire toccando un’arpa, un leuto, o una chitariglia, e cantando, che avrei fatto languir d’amore un Senocrate, anzi il Disamore». La signora Calandra, una delle amiche o vere o finte del Calmo, sonava il liuto e cantava in modo soprammirabile. (Le lettere di messer Andrea Calmo, riprodotte da Vittorio Rossi, Torino, 1888, l. IV, lett. 19, pp. 295-6). Di tale virtù non era stata priva una gran cortigiana romana, cui Gioachino du Bellay fa raccontare la propria storia in uno de’ suoi Jeux rustiques:
J’avoy du luth moyennement appris,
Et quelque peu entendoy la musique:
Quant à la voix, je l’avois angélique,
Et ne se fust nul autre peu vanter,
De sçavoir mieux le Pétrarque chanter.
Il Du Bellay soggiornò alcun tempo a Roma circa il mezzo del secolo XVI, e ciò dà molta importanza a quella sua poesia, che dovrò citare più altre volte. Il Trionfo della lussuria di maestro Pasquino, testè citato, e che dovrò citare ancora, è un poemetto di quattro capitoli in terzine, stampato in Venezia (non so se ce ne sieno altre edizioni) nel 1537. È una specie di visione, in cui lo Zoppino prima, e poi maestro Andrea dipintore (personaggio che ritroveremo più oltre) mostrano all’autore varie genti, seguitatrici del carro della lussuria, tra le quali sono meretrici in gran numero. Questo curioso componimento vedrà di nuovo quanto prima la luce a cura del sig. G. Baccini.
356. Le rime burlesche edite e inedite di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca per cura di Carlo Verzone, Firenze, 1882, capitolo In lode della Nannina Zinzera cortigiana, p. 571.
357. Capitolo alla Signora Ortensia Greca, Il secondo libro delle opere burlesche di M. Francesco Berni e di altri, parte I, Leida (Livorno), 1824, p. 62. Modello di cortigiana elegante e compita può considerarsi quella Tortora della quale si parla nella Puttana errante in prosa, molto a torto attribuita all’Aretino. Di lei dice la Maddalena alla Giulia: «Ella, come ho detto, essendo bellissima, di corpo nettissima, sta sempre allegra con ogni persona: non che rida forte e fuor di modo, mostrando [i] denti, soavemente sorride, ed è sollazzevole con motti pronti, quali non dicono parole ingiuriose ad alcuni, ma dilettano e muovono a riso. Sempre ella ragiona poi con tutti moderatamente, ed ha cognizione di molte e varie cose, e sanne bene ragionare. Conversa con ogniuno con gentilezza, non dice mai bugie e non inganna, ma va da chi promette, e non chiede nulla avanti tratto..... A cena beve e mangia moderatamente, nè se mostra avida di cibi, quantunque al gusto suo fossero soavissimi; anzi quelli che gli sono posti inanzi moderatamente piglia, e poco ne mangia, premendogli con le punte de le dita, e mangiali a poco a poco, da un lato solo, e poi ad agio, senza segno di avidità. Sta sempre con viso quasi ridente, non parla in orecchi a persona, riguarda solo colui che l’ha invitata, a cui fa vezzi; e s’egli è appresso, o teneramente gli preme il piede, o gli tocca, che par a caso, la mano; con lui sorride, e con lui parla, e sempre a lui s’accosta, e con ogni arte si mostra accesa di lui, e di qualunque cosa ch’egli faccia». Cito, acconciando, dalla spropositatissima stampa fatta dagli Elzevir per accompagnare i Ragionamenti. Questa Puttana errante altro non è se non il primo dei Dialoghi doi di Ginevra e Rosana, stampati la prima volta nel 1584. Vuol esser notato che la Tortora, qual è descritta in questo passo, appare in tutto simile alla etèra Lira descritta da Luciano, Dialoghi delle cortigiane, VI.
358. Le due cortigiane, atto III, sc. 1.
359. Lettere, Parigi, 1609, vol. IV, f. 159 r. e v.
360. Le lettere, ediz. cit., l. III, lett. 41, p. 248.
361. Novelle, parte II, nov. 51.
362. Novelle, parte IV, nov. 17.
363. Facetie, motti et burle di diversi signori et persone private, ediz. di Venezia, 1599, p. 21. Vedi anche pp. 234, 236 e 385.
364. Journal de voyage de M. De Montaigne en Italie par la Suisse et l’Allemagne en 1580 et 1581, Roma (Parigi), 1774, vol. II, p. 165.
365. La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia, 1587, discorso LXXV, pp. 605-7. Prima del Garzoni, Agrippa di Nettesheim aveva detto nel libro suo De vanitate omnium scientiarum et artium, cap. LXIV, De lenonia: «Oportet ergo perfectum et consummatum lenonem lenamve omniscium esse, nec ad unam solam disciplinam, velut ad arcticam stellam tantum respicere, sed omnes amplecti, eam artem professus cui caeterae omnes serviunt et famulantur». Il mezzano deve aver famigliari poesia, retorica, dialettica, aritmetica, musica e le altre arti: deve sapere le storie di Lancilotto, di Tristano, di Eurialo ed altre simili, avere a mano gli autori. Di certa mezzana si dice nella Lucerna del Pona (sera quarta, pp. 191-2): «Ella sapea gli amori di Florio e Biancofiore, di Paris e Vienna, di Amadigi e Oriana, di Genevra la bella e Isotta la bionda, e in somma tutti quei ruffianesimi delle istorie di Grecia e della Tavola Rotonda meglio che il suo nome».
366. Il Marescalco, atto V, sc. 2.
367. Lettere, vol. I, f. 105 r. Bartolomeo Taegio, in un suo dialogo intitolato La Villa, (Milano, 1559), fa dire a uno degli interlocutori che le donne letterate si hanno comunemente in sospetto, perchè la malizia naturale, propria del loro sesso, rinforzano con l’artificiale, che si apprende dalle dottrine (p. 120). Il Tansillo scrisse due capitoli nei quali prova che non si deve amare donna accorta e che sappia assai, e un terzo in cui sostiene tutto il contrario. Capitoli giocosi e satirici di Luigi Tansillo editi ed inediti, Napoli, 1870, capitoli VIII, IX, X.
368. La Talanta, atto II, sc. 2, e Ragionamenti, parte I, giornata III, p. 141.
369. Op. cit., discorso LXXIV, p. 597. Cfr. Rao, Invettive, orationi et discorsi, Venezia, 1587, f. 21 v.
370. Garzoni, Op. cit., disc. LXXIV, p. 597.
371. Alla Imperia senza dubbio si vuole alludere nel Trionfo della lussuria, là dove maestro Andrea dice all’autore:
Vedi colei, che in la tua patria nacque,
Poi per superbia a sè fe’ dire Imperia,
Ch’ogni altra cosa appresso a sè li spiacque.
372. Dice la Nanna in uno dei Ragionamenti dell’Aretino: «chi si fa figliuola del Duca Valentino, chi del Cardinale Ascanio; e Madrema si sottoscrive Lucrezia Porzia Patrizia Romana, e suggella le lettere con un segno grande grande». Parte I, giornata III, p. 158. Nello Stufajuolo del Doni, uno sciocco innamorato, dà, in una sua lettera, titolo di marchesana a certa cortigiana tedesca.
373. Nel Trionfo della lussuria di maestro Pasquino è cenno di una cortigiana, non nominata, la quale in inferno, di rabbia arde e sospira, sapendo di poter essere riconosciuta pel sangue suo che agogna a grande onore. Non può essere Tullia d’Aragona, la quale è ricordata come viva, e molto favorita, poco più oltre. Il Trionfo fu stampato nel 1537 e la Tullia visse fino al 1556.
374. Ecatommiti, nov. 8 dell’Introduzione.
375. Lo Zoppino parla dei vili natali di Matrema non vuole, di Giulia dal Sole, della Beatrice, di Angela Greca, di Cecilia Veneziana, di Tullia d’Aragona, di Lucrezia Padovana, della Angioletta, di Tina Baroncella e di altre. Ragionamento cit., pp. 442-7. Il Veniero, nella Puttana errante, assegna ad Elena Ballerina una assai vituperosa genealogia.
376. Ragionamento cit., pp. 431-2.
377. Garzoni, Op. cit., disc. LXXIV, p. 597.
378. Satira A M. Flaminio.
379. Vedi Lea femmes blondes selon les peintres de l’école de Vénise, par deux Vénitiens (Armand Baschet et Feuillet de Conche), Parigi, 1865, pp. 45-106, 271-309, dove è data notizia di parecchi libri curiosi. Dell’arte d’imbiondire i capelli parla pure il Calmo in parecchie delle sue lettere, ediz. cit., 1. IV, lett. 6, 31, 46. Vedi anche, per questa e per altre pratiche d’arte cosmetica, Piccolomini, La Raffaella, ovvero della bella creanza delle donne (1539), ristampa di Milano, 1862, pp. 24-31; Ricettario galante del secolo XVI, edito a cura di O. Guerrini, Bologna, 1883, Scelta di curiosità letterarie, disp. CXCV.
380. Op. cit., capitoli VII, VIII.
381. Di certo sapere più occulto, e di certe arti più recondite delle cortigiane lascio di discorrere; ma non parrà strano che tali donne fossero maestre di secreti, la conoscenza e l’uso dei quali non disdicevano troppo, sembra, nemmeno alle donne maritate. Vedasi per un esempio, ciò che dicono la signora Virginia, la signora Ardelia e la signora Angioletta nella Camilletta del Guttery, Parigi, 1586. Cfr. Aretino, Cortegiana, atto II, sc. 6, e La vieille courtisane del Du Bellay.
382. Pel vestire delle cortigiane in varie città d’Italia, vedi l’opera di Cesare Vecellio, Habiti antichi et moderni di tutto il mondo, edizione di Venezia, 1598, ff. 25, 26, 107, 114, 203, e pel vestire loro più particolarmente in Venezia quelle di Giacomo Franco, Habiti d’huomini e donne venetiane, ecc., Venezia (1610), e Habiti delle donne venetiane, s. l. ed a.
383.
Stì le vedi po andar fuora de ca,
Le par novizze al sangue de Sier Polo,
Con scuffie d’oro e con veste instoccà,
Annei in deo e caenelle al colo;
E i poveri meschini che no sa
Che tutte ste bagaje è tolte a nolo,
I crede aver cattà qualche signora,
E ’l mejo che l’ha in casa se una stuora.
Le berte, le truffe, i arlassi, e le magnarie che usa le puttane a i so bertoni, recitae da Nico Calafao da l’Arsenale. Delle rime piasevoli de diversi auttori, nuovamente accolte da M. Modesto Pino et intitolate La Caravana, Venezia, 1576, f. 19 r. In una commedia del Contile intitolata La Cesarea Gonzaga, è una cortigiana Marina, che si fa prestare veste, collana, anello da un ebreo cui si concede talvolta. In Venezia era vietato dar panni a nolo alle meretrici. (Leggi e memorie venete sulla prostituzione fino al cadere della Repubblica, Venezia, 1870-2, a spese del conte di Orford, p. 282).
384. Questo, per altro, lo dice Lorenzo Veniero, La Zaffetta, edizione di Parigi, 1861, p. 22.
385. Il Calmo scriveva a una signora Alba, promettendole un gattino: «E’ vojo al tutto darve anca un gatesin bianco a mo la neve, el pi umele bestioleto che mai avè visto: vardè, el no ha tre mesi ch’el salta, el tombola, el se rampega, e fa tante matierie co si l’avesse intelletto...... e sì è può de razza da piar sorzi no ve posso dir; e sì ha tanta descrezion che el no tocca ni carne, ni pesce, si no ghe ne vien dao. Talmente che vojo, apresso el vostro papagà e faganelo, che vu siè cusì ben servia de animali, quanto altra cortesana che viva». Ediz. cit., l. IV, lett. 44, p. 353. Vedi inoltre la lettera che lo stesso Calmo scriveva alla signora Brunella, p. 285. Della liberalità delle pratiche fruivano naturalmente anche le bestiuole di casa. L’Agnola, serva dell’Angelica, nel Martello del Cecchi (atto III, sc. 5):
Quei che vengono
Di nuovo fan per noi; i danar ballano;
I presenti gagliardi ciascun cavane;
Serve, cuochi; che insino allo scojattolo
E al catellino e al mucino ne cavano
Le sonagliere.
386. Della ghiottornia delle cortigiane è fatto cenno assai spesso. La Nanna dell’Aretino ricorda tra l’altro come non era canova di prelato niuno che non fosse sverginata per lei. (Ragionamenti, parte I, giornata III, p. 140). In certa invettiva in dialetto veneziano un giovane dice all’antica sua druda:
Ma pezo po che ti gha un altro vicio,
Che se domanda el peccao della gola,
Che mandarave un stato in precipicio.
(Bandito in questo luoco solitario tramutato per un giovine che haveva il mal francese, con un capitolo in lingua venetiana contro una cortigiana, molto bello nè più stampato, s. l. ed a.). Dice la Bettina nei Germini sopra quaranta meretrici della città di Fiorenza:
... mangiai venzei tortole ad un tratto,
E trenta dua piatti di gelatina,
Perchè non ero ancor satolla affatto.
Il titolo intero di questo curioso poemetto è, nella stampa fiorentina del 1553, appresso Bartolomeo di Michelangelo, dalla quale cito, il seguente: I Germini sopra quaranta meretrici della città di Fiorenza, dove si conviene quattro ruffiane, le quali danno a ciascuna il trionfo ch’è a loro conveniente dimostrando di ciascuna il suo essere. Con una aggiunta nuovamente messa in questi. Opera piacevole. Ce ne furono anche altre edizioni. Questo poemetto sarà ancor esso, insieme col Trionfo della lussuria, ripubblicato dal sig. G. Baccini. La signora Brunella, a cui è scritta una delle lettere del Calmo, voleva ogni sorta di boconi licaizzi, paoni, galinazze, polastri de India, gali salvadeghi, pernise, tordi, quaje, pernigoni,..... e da può cena codognato, marzapan, e le so canele inzucarae, de vin e pan e formazi. (Le lettere, l. IV, lett. 16, p. 285). Di certa Orsa aveva già detto il Panormita in uno degli epigrammi dell’Hermaphroditus:
Si mihi sint epulae totidem, quot in alite plumae,
Uno luxuriens edet has Ursa die.
Si mihi sint totidem vegetes, quot in aequore pieces,
Uno subsitiens ebibet Ursa die.
Le primizie, e i bocconi più ghiotti erano per le signore cortigiane: gli adoratori non mancavano di farne loro presente. Parlando di Ferrara, dove la uccellagione era, in parte, di prerogativa ducale, dice Corbolo nella Lena dell’Ariosto (atto II, sc. 3):
Non ponno a nozze ed a conviti pubblici
I fagiani apparir sopra le tavole,
Chè le grida ci sono; e nelle camere
Con puttane i bertoni se li mangiano.
Il Franco dava merito alle cortigiane, non solo d’aver fatto rifiorire l’età dell’oro; ma ancora d’avere introdotte le squisitezze tutte e le eleganze della tavola: «Nè solamente avete rivocata si fatta età, ma postala anche ne la debita sua grandezza, e toltale la rustica semplicità, ed ogni ruvidezza di vivere. Invece de le ghiande, de le morole, e de le fragole, avete introdotte le suntuose vivande, e gli apparecchi de i cibi delicatissimi sopra i mantili ed i ricchi tapeti». Le pístole vulgari, Venezia, 1542, Pístola a le puttane, f. 223 v.
387. Diarii, t. XIX, col. 138. E soggiungeva: «ozi 8 zorni si farà per li musici una solenne messa a Santa Catarina, funebre, e altri officii per l’anima sua».
388. I cocchi, che vennero in uso dopo la carrette, offrivano, tra l’altro, comodità agli esercizii di Venere, secondo avverte il Modio, Il Convito, overo del peso della moglie, Roma, 1554, p. 15. Cfr. Les heures perdues d’un Cavalier français (1616), Le Carosse. Intorno ai cocchi vedi Gozzadini, Dell’origine e dell’uso dei cocchi, e di due veronesi in particolare, Bologna, 1864.
389. Ragionamento fra il Zoppino, ecc., p. 429. Nella Puttana errante attribuita all’Aretino è già citata, dice la Maddalena (p. 5): «Hai tu veduto, o Giulia, come questa mattina la Tortera era riccamente vestita? Certamente quand’ella entrò in Sant’Augustino io non la conobbi, e stimai ch’ella fosse una baronessa, perciochè aveva due famigli ed un paggio davanti e quattro serve dietro, ed un giovane vestito di velluto che giva ragionando con essa lei».
390. A costei è indirizzata una lettera, o, per dir meglio, una fiera invettiva, fra le Lettere di diversi autori raccolte per Venturin Ruffinelli, libro primo (ed unico), Mantova, 1547, ff. III r. a XIII r. Cian, Op. cit., p. 56. Di certa Fausta dice la serva Rosa nella Majana del Cecchi (atto II, sc. 6) che
dovunque la va vuol seco l’ordine
E i cariaggi come fanno i principi.
La cortigiana introdotta dal Firenzuola nella sua commedia i Lucidi non vuol certo essere delle principali, ma ha nondimeno a’ suoi servigi un cuoco, un’ancella, un ragazzo. Non è senza curiosità il vedere un riflesso di tali costumi nella Rappresentazione della conversione di S. Maria Maddalena (D’Ancona, Sacre rappresentazioni dei secoli XIV, XV, e XVI, Firenze, 1872, vol. III). Maddalena va ad udire Gesù accompagnata da quattro cameriere. Gesù entra nel Tempio, sale in pergamo e comincia a predicare: notato ciò, la didascalia soggiunge (p. 272): Ora giunge Maddalena con la sua compagnia, e’ suoi donzelli parano una sedia dinanzi al pergamo, e lei tutta pomposa vi si posa su, guardando a suo piacere ecc.
391. Le quali stufe servivano a parecchi usi, in Italia e fuori d’Italia. Vedi Garzoni, Piazza, ecc., disc. CXXIV, p. 815; Rabutaux, De la prostitution en Europe depuis l’antiquité jusqu’à la fin du XVIe siècle, nuova ediz., Parigi, 1881, p. 73. Cfr. la commedia del Doni, Lo Stufajuolo.
392. Dice la Nanna alla figliuola Pippa: «accaderà che andrai al Popolo (Santa Maria del Popolo), alla Consolazione, a San Pietro, a Santo Janni, e per l’altre chiese principali ne’ dì solenni; onde tutti i galanti signori, cortigiani, gentiluomini, saranno in ischiera in quel luogo che gli sarà più comodo a veder le belle, dando la sua a tutte quelle che passano, o pigliano de l’acqua benedetta con la punta del dito, non senza qualche pizzicotto che cuoca. Usa in passare oltre gentilezza, non rispondendo con arroganza puttanissima; ma o taci, o di’ riverenza, o bella, o brutta: Eccomivi servitrice; che ciò dicendo ti vendicherai con la modestia. Onde al ritornare indirieto ti faranno largo, e ti si inchineranno fino in terra; ma volendo tu dargli risposte brusche, gli spetezzamenti ti accompagnerieno per tutta la chiesa, e non ne seria altro». Ragionamenti, parte II, giornata I, p. 231. Dice Ludovico in altro Ragionamento già citato (p. 428), che le cortigiane si traevano dietro le turbe nelle chiese, e che la gente lasciava la messa per veder la Lorenzina. Con quale sfoggio poi di vesti e di giojelli si recassero, in Roma stessa, alle chiese, si può vedere da un passo del Diarium parmense (ap. Muratori, Scriptores , t. XXII, coll. 342-3). Se lo sconcio era, come abbiam veduto, assai grande in Roma, non doveva esser punto minore in Venezia, dove si cercò ripetute volte, ma, sembra, con poco frutto, di toglierlo. Con parte del 12 settembre 1539 ci si vietava alle meretrice publice di frequentare le chiese nell’ore stesse in cui le frequentavano le donne oneste. Un’altra parte, mandata fuori quattro giorni dopo, recava un altro divieto, e lo stendeva alle cortigiane: «... niuna meretrice, over cortesana, sia de che condizione esser si voglia, non possi..... andar in Chiesia alcuna il giorno della festa e solennità principal di quella, acciò non siano causa de mal esempio con molti atti, parole ed opere lascive a quelli, over a quelle, che vano a bon fine in ditte Chiesie....». A far prova della sua inefficacia il divieto si rinnova poi di tanto in tanto e sino nel secolo seguente. (Vedi Leggi e Memorie venete già citate, pp. 100, 101, 102, 119, 122, 125, 136). E poi c’era sempre modo di deluder la legge, o di sottrarsi alla pena, la quale era, del resto, assai mite. Nel maggio del 1543 è condannata a lire tre di multa Giulia Ferro per essere stata in chiesa in giorni proibiti; ma in quello stesso anno, in quel medesimo mese, una Lucietta Padovana, rea dello stesso mancamento, si difende con dire d’essere, non meretrice, ma cortigiana, e maritata, e i Provveditori alla Sanità, vista la legge, visis videndis, et consideratis considerandis, non volendo tuor la fama a dita Lucieta Padovana, ne la mandano assolta (Op. cit., pp. 273-5).
393. Ricordando i bei tempi della sua giovinezza e de’ suoi trionfi, dice la cortigiana del Du Bellay:
Un escadron j’avoy de tous costez
De courtisans pompeusement montez
M’accompagnant ainsi qu’une princesse,
Fust au matin, quand j’allois à la messe,
On fust au soir, alors qu’il me plaisoit
De me trouver où le bal se faisoit.
Per i bravi vedi Aretino, Ragionamento fra il Zoppino, ecc., in principio, e Ragionamenti, parte I, giornata III, pp. 129, 133, 423; Giraldi Cinzio, Ecatommiti, nov. 8 della Introduzione; Garzoni, Piazza, ecc., p. 599. Il Brantôme dice che le cortigiane in Italia avevano sempre un bravo pour les défendre et maintenir, vol. II, p. 321. Una Betta del Basadonna, ricordata nella Tariffa, fece bastonare certo suo amante da quattro bravi. La cortigiana della Lucerna del Pona, favoriva un giovane assai valente, che più volte fece valere le ragioni di lei con la spada. (Sera seconda, pp. 78-9). L’Angelica del Martello del Cecchi sposa Lanfranco bravo. Vedi anche Stoppato, La commedia popolare in Italia, Padova, 1887, pp. 121-7.
394. Jost Amman’s Frauen-Trachtenbuch, Francoforte sul Meno, 1586; riproduzione di Lipsia, 1880. Una delle figure di questo volume rappresenta una cortigiana romana. Il Grossino, uno dei famigliari che accompagnarono a Roma nel 1510 il marchesino Federico Gonzaga, dando ragguaglio di più cose alla madre di lui Isabella, diceva in una lettera del gennajo del 1512, che a certa solennità, nella basilica di S. Sebastiano, era accorsa tutta Roma, e grandissima quantità di cortigiane, con pompe assai, molte vestite da uomini, quali su mule, quali su cavalli, e soggiungeva a Roma essere difficile a conoser una dona da bene da una cortesana. Luzio, Federico Gonzaga ostaggio alla corte di Giulio II, estratto dall’Arch. d. R. Soc. rom. di storia patria, vol. IX, 1887, p. 29-30.
395. Aretino, Ragionamenti, parte I, giornata I, p. 18.
396. La Pescara, Milano, 1550, atto I, sc. 5.
397. Vedi più oltre, appendice A, il Vanto della cortigiana ferrarese.
398. Mondi celesti, terrestri et infernali, Venezia, 1583, pp. 306-7.
399. Catalogo di tutte le principal et più honorate Cortigiane di Venetia, il nome loro, et il nome delle loro pieze, et le stantie ove loro habitano, et di più ancor vi narra la contrata ove sono le loro stantie, et etiam il numero de li dinari che hanno da pagar quelli Gentilhuomini, et al che desiderano entrar nella sua gratia. Il Catalogo, compilato da un A. C., e da lui dedicato alla molto magnifica et cortese Signora Livia Azalina, Principessa di tutte le Cortigiane venetiane, fu riprodotto nel volume Leggi e memorie venete sulla prostituzione, ecc., e in Les courtisanes et la police des mœurs à Venise, 1886. Questo secondo lavoro è una povera abboracciatura piena di spropositi; quel tanto di buono che ci si trova è tolto dal volume precedente. Della Tariffa in versi ho già fatto cenno. Nel 1566, Gerolamo Calepino, stampatore in Venezia, fu processato per avere stampato senza licenza quella o un’altra, e fu condannato a pagare un ducato di multa per ogni copia impressa (Leggi e memorie ecc., p. 9). Tariffa e cataloghi così fatti non dovevano mancare nelle principali città d’Italia. Nel Vecchio geloso, commedia del Riccioli (Viterbo, 1605), uno dei personaggi si fa dare il catalogo di tutte le puttane del bordello con il lor prezzo.
400. Giraldi Cinzio, Ecatommiti, nov. 7 dell’Introduzione. I guadagni variavano assai anche secondo la fortuna dei tempi. In anno di carestia Ercole Bentivoglio scriveva nella satira A suo fratello:
Sper’io ch’uguanno a i piacer nostri aremo
Queste più altere e nobili puttane,
Se ’nvece d’un fiorino un pan daremo.
E c’era chi si spassava a predire alle cortigiane miseria grande e malanni d’ogni sorta. Vedi Pronostico alla villota sopra le putane, composto per lo eccellente dottore M. Salvaor, cosa molto bellissima et piacevole, Venezia, 1558; riprodotto in Leggi e memorie venete, ecc., pp. 295-8.
401. Les courtisanes et la police des mœurs à Venise, p. 44.
402. Novelle, parte III, nov. 42.
403. Vedi intorno alla Imperia Valéry, Curiosités et anecdotes italiennes, Parigi, 1842, pp. 234 sgg. Racconta il Giovio nel suo libro De piscibus romanis, c. V, una graziosa storiella, che appunto si lega all’amicizia del Chigi e dell’Imperia, e che qui giova riferire in succinto. I venditori di pesce in Roma usavano, per consuetudine antica, far presente ai Conservatori delle teste delle ombrine e degli storioni, stimate boccone assai ghiotto. Era a quei tempi in Roma un certo Tamisio, uomo assai lepido, ma golosissimo parassita, il quale teneva appositamente sul mercato del pesce un servo, che lo doveva far avvertito di quanto potesse importare alla sua gola. Saputo una mattina che una grossissima testa d’ombrina era stata recata ai Conservatori, monta sopra una sua mula e va in Campidoglio, con la speranza di buscarvi un desinare. I Conservatori avevano già mandato la testa in dono al cardinale Riario. Tamisio allora vola al palazzo del cardinale; ma questi, imitando la generosità dei primi donatori, manda la testa al cardinale Federico Sanseverino. Tamisio, biasimando la inopportuna munificenza, si rimette in sella e trotta al palazzo del magnifico Sanseverino. Ma il magnifico Sanseverino deve molti quattrini al banchiere Chigi, e vuole usargli cortesia presentandogli la gloriosa testa. Tamisio vola, sotto la sferza del sole, agli orti del Chigi in Trastevere; ma giuntovi appena, tutto affannato e molle di sudore, vede l’agognata testa, adorna di fiori, andarsene alla volta della casa dell’Imperia. Pien di sdegno si rimette in via, e vola a Ponte Sisto, dove finalmente gli è dato di desinare con la bellissima cortigiana. Ponte Sisto un tempo era come dire il quartier generale delle cortigiane in Roma, le quali da Celio Secondo Curione sono chiamate Vestales romanae, quae regionem pontis Sixti colunt (Pasquillus ecstaticus, ediz. s. l. ed a., p. 163). Cfr. Dolce, Il Ragazzo, atto II, sc. I. L’Imperia, quand’ebbe l’amicizia di Angelo Dal Bufalo, abitò in Banchi.
404. Malespini, Novelle, parte I, nov. 31; Aretino, Ragionamenti, parte I, giornata III.
405. Bandello, Novelle, parte II, nov. 51; Brantôme, Les vies des dames galantes, Leida, 1722, t. I, p. 236. Vedi a questo stesso proposito ciò che di una Cicilia Viniziana dice il Firenzuola nel Dialogo delle bellezze delle donne, Opere, Firenze, 1848, vol. I, p. 255, e cfr. coi Dialoghi delle cortigiane di Luciano, V.
406. I Marmi, ediz. di Firenze, 1863, vol. I, p. 106.
407. Al Capitano Flaminio Nelli.
408. La Zaffetta nella Zaffetta, e la Ballerina nella Puttana errante. Che questo secondo poemetto sia stato pure composto dal Veniero in vituperio dell’Angela, è erronea opinione di parecchi, messa innanzi dall’Hubaud in un opuscolo che appunto di tale argomento trattava, e intitolato Dissertation sur deux petits poèmes, Marsiglia, 1840. La Puttana errante fu ristampata dal Liseux, in Parigi, nel 1883.
409. Le carte strozziane del R. Archivio di Stato in Firenze, Inventario pubblicato a cura della R. Sopraintendenza degli Archivi toscani, serie I, p. 409. Questo maestro Andrea è senza dubbio quel medesimo di cui, come d’uomo assai piacevole, fa ricordo l’Aretino nei Ragionamenti e nella Cortegiana, e che compose un Purgatorio delle cortigiane più volte stampato. L’abbiamo già incontrato fra i personaggi del Trionfo della lussuria di maestro Pasquino. Vedi intorno ad esso Rossi, Le lettere del Calmo, appendice I, pp. 385-92.
410. Veniero, La puttana errante, canto IV, ediz. cit., p. 118 (le prodezze di Elena Ballerina sono notate sopra ’l capo a Pasquino); Le lettere del Calmo, ediz. cit., p. 87, n. 7. Scritture contro le cortigiane sono nel secolo XVI molto frequenti, e a parecchie porge argomento il dispetto o la gelosia. Dice il Garzoni (Op. cit., pp. 599-600): «Già si comincia dare all’arma, i sdegni principiano, l’ire si generano, le minacce vanno in volta, i dispetti non han fine, i bravi si trovano, i pennacchini s’armano, i bertoni s’infuriano, le bastonate s’apparecchiano, i sfrisi si preparano, le morti si tramano da queste insidiose e maladette meretrici. Non si parla più di vezzi, non si favella di carezze, non si ragiona d’aver commercio insieme, cessano i messi, restano le polizze, mancano i presenti, vengon meno i saluti e le riverenze, si richiedon indietro le fedi, si dimandano i quadri, si rinvogliono i ritratti dell’imagini miniate dentro a’ scatolini, e con rabbia, con furore, con insania di mente, si rompe, si spezza, si calpesta ogni cosa con gli piedi. Quindi si giura, si scongiura, si sacramenta di non far mai pace. Marte e Bellona scorrono da ogni banda; le faci si accendono ogni ora a più potere. Non più sonetti, non più madrigali, non più canzoni, non più sestine da innamorato spiran le muse graziose: Apollo asconde la lira, Euterpe va a spasso, Cupido sfratta, Venere va in chiasso, Archiloco solo si lascia vedere, e Pasquino trionfa in mezzo delle piazze. Ora si scoprono gli altari da dovero, si contano gl’inganni, le malizie, i tradimenti, le doppie de i bertoni, il tener su la stanga de’ ganimedi, la trappola dei togati, le perfidie con questi, gli assassinamenti con quell’altro, lo spender della robba, il perder della vita, l’arrischio dell’onore, il consumar dell’anima, il vuotar della borsa, il cruccio, il travaglio, il martire, il dispetto, la gelosia, l’inquietudine grande che da lor procede. Pasquino si mette a narrar le superbie, nel star sul grave, nel concorrer con le signore di vesti, di drappi, di serve, di carrozze, e sopra tutto di voler essere d’ogn’ora cortigiane, ecc.». Tali invettive e libelli erano, sembra, assai temuti dalle cortigiane. Ammonendo la figliuola Pippa, dice la espertissima Nanna: «non ti mancherebbe altro, se non che un tale ti facesse i libri contra, e che per tutto si bandisse di quelle ladre cose che sanno dir de le donne; e ti staria bene che fosse stampata la tua vita, come non so chi scioperato ha stampata la mia». (Aretino, Ragionamenti, parte II, giornata I, p. 198). È ricordo di una Polinda Valenziana, che fece ammazzare a furia di pugnalate uno spagnuolo, che co’ suoi versi, prima l’aveva levata a cielo, e poi trascinata nel fango. (Tommaso Costo, Il Fuggilozio, Venezia, 1601, pp. 344-5; G. F. Astolfi, Della officina istorica, Venezia, 1605, p. 218). Agli scritti contro le cortigiane da me ricordati in queste pagine, si aggiunga: Bravata che fa uno giovane innamorato d’una cortigiana, et lei dandogli la baglia (sic) ma gli volse aprir la porta; cosa da ridere, s. l. ed a.; una canzonetta, pure in dialetto veneziano, riportata dal Rossi, Le lettere del Calmo, pp. 288-9; una invettiva in ottava rima e similmente in dialetto veneziano, che il lettore troverà più oltre appendice B; A. Di Palma, Opera nova dove si contiene le astutie delle cortigiane, ecc., s. l. ed a. Francesco Scambrilla, vissuto in sul principio del sec. XVI, compose in dispregio delle cortigiane due sonetti assai acerbi, che si conservano in un codice Vaticano. (Trucchi, Poesie inedite, eco., vol. III, p. 139). Il codice Marciano Ital. IX. 173 contiene un gran numero di poesie in dialetto veneziano, molte delle quali contro cortigiane. (Ci son vituperate, fra altre, una Paolina Gonzaga, una Livia Verzotta, e la nostra Veronica). Di un capitolo da lui composto contro una cortigiana, e in cui altre cortigiane illustri erano nominate, fa cenno l’Aretino nei Ragionamenti, parte I, giornata III, p. 159. In molte commedie compajono cortigiane, ma non mai per farvi buona figura. Vogliono ancora essere ricordati: Avvertimenti a quelli che amano le cortigiane, opera nuova e dilettevole, Milano, 1600; Garzoni, Serraglio degli stupori del mondo, Venezia, 1613 (stanza settima, pp. 749-50), e Giovanni Antonio Massinoni, Il flagello delle meretrici, Venezia, 1599. La letteratura italiana non fu sola ad avere così fatti componimenti nel sec. XVI, sebbene ne abbia avuti, senza paragone, più d’ogni altra. Per citare un esempio, in un poema intitolato L’enfer de la mère Cardine, ecc., stampato nel 1568, sono vituperate tutte le cortigiane di Parigi.
411. Novelle, parte I, nov. 50, dedicatoria.
412. Ecatommiti, deca VI, nov. 7. Il buon Lafontaine racconta (Contes et nouvelles, l. III, 6) la storia di una cortigiana romana, altrettanto superba quanto bella, la quale disprezzando ognuno, e solo facendo qualche conto dei cardinali, s’innamorò pazzamente di un giovane gentiluomo, e fu da lui sposata.
413. Lettere, t. V, f. 147 v. Altra lettera ivi stesso, f. 176.
414. Ecatommiti, nov. 3 dell’Introduzione. A Nannina Zinzera, innamorata di un bellissimo giovane, e godente l’amor suo, indirizzava il Lasca uno dei suoi madrigoloni (Opere burlesche, edizione cit., pp. 244-5). A un’altra cortigiana, giovane assai e bellissima, Anna Raugea, che di Firenze si tramutava in Roma, lo stesso Lasca raccomandava (ibid., p. 400):
Dall’ira e dallo sdegno vi guardate,
E sopratutto non v’innamorate.
La cortigiana del Du Bellay s’innamorò perdutamente di un giovane, che l’abbandonò dopo averle mangiato, in men d’un anno, vigne, case e denari.
415. Luzio, Un’avventura della Tullia di Aragona, in Rivista storica mantovana, vol. I (1885), pp. 178-82. Di una Spagnuola, della quale era innamorato Giovanni della Casa, e che aveva lui a noja più che il mal de’ fianchi, fa cenno il Mauro nel capitolo Delle donne di montagna.
416. Lettere, vol. 1, f. 233 r.; vol. VI, f. 72 r. Lo stesso Aretino compose per l’Angela il seguente madrigale, che leggesi nella parte II, giornata III, dei Ragionamenti, p. 400:
L’esser prive del cielo
Non sono oggi i tormenti
De le mal nate genti.
Sapete voi che doglia
L’alme dannate serra?
Il non poter mirar l’Angela in terra.
Sol la invidia e la doglia
Ch’elle han del nostro bene,
E ’l non aver mai di vederlo spene,
Le affligge a tutte l’ore
Ne l’eterno dolore;
Ma se concesso a lor fosse il suo viso
Fora lo inferno un nuovo paradiso.
Il Trucchi ripubblicò questo madrigale come inedito, Poesie inedite, ecc., vol. III, p. 216.
417. Ciò si rileva facilmente leggendo il poemetto, e basterebbero a farne prova questi due versi che il Veniero dice in persona propria:
Venni e subbiai per farvi riverenza,
Ma dal balcon mi fu data licenza.
Il Veniero si duole assai dell’albagia della Zaffetta, che si crede esser maggiore
Che non è di San Marco il campanile.
Del resto il famoso trentuno, di cui nel poemetto si narra, non fu dato davvero, e le parole stesse del poeta lo dicono.
418. Lettere, vol. V, f. 27 r. L’Aretino fa pure gran lodi di una Lucrezia Ruberta. Vedi anche il nobile atto di una cortigiana di Padova narrato dal Giraldi Cinzio negli Ecatommiti, Introduzione, nov. 10.
419. Pro poemate ludicro apologia, Perugia, 1616, pp. 160-1.
420. Vedi una lettera di Gerolamo Negri, scritta il 29 decembre 1522 da Grottaferrata a Marcantonio Micheli, Lettere di principi, ecc., Venezia, 1881, lib. I, f. 110 r.; Colocci, Poesie italiane, Jesi, 1772, p. 29 n. Il Negri dice: «Questo caso tanto più è degno d’esser celebrato, e quasi preposto al fatto di Lucrezia, quanto che questa donna fu figlia d’una pubblica e famosa meretrice, che fu l’Imperia, cortigiana nobile in Roma, come sapete».
421. Vedi Cian, Op. cit., pp. 25-35.
422. Le rime di Michelangelo Buonarroti cavate dagli autografi e pubblicate da Cesare Guasti, Firenze, 1863, p. 165.
423. Cugnoni, Agostino Chigi il Magnifico, pp. 78-9.
424. La poesia in lode delle cortigiane fu certo assai copiosa, e chi sa quanta ne giace incognita nelle nostre biblioteche. Essa dovette vestir tutte le forme e prendere tutti i tuoni. Abbiamo già veduto qualche capitolo: ecco qua ora un madrigale e un frammento di canzone tratti dal cod. magliabechiano Cl. VIII, nº 16, assai graziosi e di fattura di Alfonso de’ Pazzi. Il madrigale è indirizzato Alla Contadina Cortigiana:
Chi vuol beltà divina
Vedere in cosa umana,
Oggi venga in Toscana,
E miri l’alma nostra Contadina,
Che fatta è cittadina,
E di sì bei costumi
Che Arno re dei fiumi a lei s’inchina:
Oh bella Contadina!
Il frammento di canzone è Alla Porcellina cortigiana:
La Porcellina nuota
Nell’amorosa fonte,
La nuota sotto il ponte,
Ell’esce e fa la ruota;
La Porcellina nuota.
La nuota come un pesce,
Ell’entra sotto e esce,
E non tocca la mota:
La Porcellina nuota.
425. Le lettere, l. IV, lett. 50, p. 364.
426. La Panta qui ricordata è senza dubbio quella stessa che nel 1570, sotto Pio V, fu pubblicamente frustata in Roma. L’Avviso che dà notizia di tale frustatura, dice: «La Panta, famosa meretrice, così per 300 mila scudi che ha speso qui, come per l’autorità ch’ha avuta in altri tempi». Vedi Bertolotti, Repressioni straordinarie alla prostituzione in Roma nel secolo XVI, in Rivista delle discipline carcerarie, anno XVI (1886), p. 516, docum. XVIII.
427. Domenichi, Facetie, motti, ecc., p. 204.
428. Pag. 429.
429. Burchard, Diarium, ediz. cit., t. III, p. 290.
430. Lettera di Stazio Gadio al marchese di Mantova, Luzio, Federico Gonzaga, ecc., p. 46-7. Detto della cena in casa del cardinale di Mantova, il Gadio soggiunge: «Sonate le cinque ore ogniuno andò a casa lor: da Cornaro credo che Albina fosse allogiata, perchè facevano assai l’amor insieme». Il Trucchi (Poesie inedite, ecc., vol. III, p. 212) fa cenno di un sonetto del cardinale Santa Croce in lode di Angiola Greca. In una pasquinata venuta fuori subito dopo la morte di Clemente VII, si ricorda il cardinale Grimaldi che innamorato pazzo della Flaminia (probabilmente la famosa di cui parlano il Mauro e altri) fu da lei cacciato. Lafon, Pasquin et Marforio, histoire satirique des papes, Parigi, 1861, p. 107.
431. Cian, Op. cit., pp. 13, 18.
432. Fabretti, La prostituzione in Perugia nei secoli XIV e XV, Torino, coi tipi privati dell’autore, 1885, edizione di 24 esemplari, p. 46.
433. Atto II, sc. 6.
434. Capitolo A messer Ruberto Strozzi.
435. Le lettere, l. IV, lett. 20, p. 298.
436. Novelle, parte II, nov. 48.
437. Mutinelli, Storia arcana ed aneddotica d’Italia raccontata dai veneti ambasciatori, Venezia, 1855-8, vol. I, p. 170.
438. Cian, Op. cit., p. 8.
439. L’Affò (Dizionario precettivo, critico ed istorico della poesia volgare, s. v. Pasquinata) e il Tiraboschi (St. d. lett it., ediz. dei Classici, vol. XII, p. 1725) fanno ricordo di una Passione d’amor de Mastro Pasquino per la partita della signora Tullia, et martello grande delle povere Cortigiane de Roma con le allegrezze delle Bolognese. A me non è riuscito d’averne altra contezza.
440. Un testimonio oculare della battaglia di Fornovo (1495) il medico veronese Alessandro Benedetti, racconta nei suoi Diaria de bello Carolino d’aver veduto il giorno dopo la battaglia, fra le spoglie del re vinto e fuggiasco, un libro in cui erano dipinte immagini di cortigiane, varie per età e per abito, libro che esso re portava seco in memoria dei suoi facili amori. Cian, Op. cit., p. 40. Certa Susanna, che aveva portato un tempo il vanto della bellezza sopra tutte le cortigiane di Firenze, si gloria nei Germini d’essere stata in Lione onorata dal Delfino:
S’innamora ciascun che mi sta a canto:
Fu’ in Lion dal Delfin onorata,
Che quando mi partii fece gran pianto.
441. Il Panormita, di certa Alda, nell’Hermaphroditus:
Non mingit, veram si mingit, balsama mingit
Non cacat, aut violas, si cacat, Alda cacat.
442. Ecatommiti, nov. 5 della Introduzione.
443. Parte I, giornata III, p. 158.
444. Capitolo cit., A messer Ruberto Strozzi.
445. Il 19 d’ottobre del 1546, Cosimo I, duca di Firenze, mandò fuori un bando, il quale vietava, fra l’altro, alle cortigiane di portar vesti di drappo nè seta d’alcuna ragione, e ingiungeva loro l’uso del famoso segno giallo, che doveva distinguerle dalle donne oneste. Tullia d’Aragona, che trovavasi allora in Firenze, con una corte d’adoratori intorno, fece, consigliata da Don Pedro, nipote della duchessa Eleonora, e con l’ajuto del Varchi, una supplica, che fu, probabilmente a mezzo dello stesso Don Pedro, recapitata alla duchessa, e da questa al duca. L’effetto fu che la Tullia ottenne il suo desiderio, di vestir cioè come le piaceva, e di non portare il segno giallo, grazia concessale, come dice il decreto, in riconoscimento della rara scienzia di poesia e di filosofia che, con piacere de’ pregiati ingegni, trovavasi in lei. Vedi Bongi, Il velo giallo di Tullia d’Aragona, in Rivista critica della letteratura italiana, anno III (1886), p. 90.
446. Tutti i Trionfi, Carri, Mascherate o Canti carnascialeschi andati per Firenze dal tempo del Magnifico Lorenzo de’ Medici fino all’anno 1559, Cosmopoli, 1770, vol. II, p. 332.
447. Mutinelli, Op. cit., vol. I, pp. 53-4. Vedi per altre curiose notizie in proposito lo scritto già citato del Bertolotti, Repressioni straordinarie alla prostituzione in Roma nel secolo XVI. Un codice Marciano conserva di quel tempo il curioso Lamento di un anonimo, che mostrando di disprezzare tutte l’altre donne, delibera, o di seguitare le cortigiane esulanti, o di farsi frate. Cian, Op. cit., pp. 61-2.
448. Galligo, Art. cit., nel Giornale cit., anno IV, vol. I, pp. 127-28.
449. Bandello, Novelle, parte IV, nov. 17.
450. Non mancavano, al bisogno, protettori ed intercessori possenti. In Venezia, ogni po’, si lamenta che il mal costume cresce, che la tracotanza delle meretrici passa ogni termine. In una parte del 12 aprile 1543 si dice espressamente le leggi non potersi applicare per «li tanti favori che hanno simil persone di mala e pessima condizione», e in un’altra si ordina che nessun nobile possa in modo alcuno intercedere per persona infame. (Leggi e memorie venete, ecc., pp. 109, 110). Nel giugno del 1532, una certa Vienna, famosa Signora, rea d’aver tolto dalla Pietà una bambina senza licenza, e d’averla poi rimandata in capo di certo tempo, fu assolta dalla Quarantia criminale con 33 voti favorevoli e 5 contrarii: «la qual Viena», dice ingenuamente il buon Sanudo, «avia uno favor grandissimo di nostri zentilomeni, nè meritava per questo esser condanada». (Leggi e mem., ecc., p. 269). La Nora, nei Germini, confessa d’aver rubate certe lenzuola, e dice che meritava d’essere scopata, ma che per la raccomandazione di certi amici che aveva andò immune. Odasi la cortigiana del Du Bellay:
Je n’avois peur d’un governeur fascheux,
D’un barisel, ny d’un sbirre outrageux,
Ny qu’en prison l’on retint ma personne
En court Savelle, on bien en tour de Nonne:
N’ayant jamais faulte de la faveur,
D’un Cardinal, ou autre grand seigneur,
Dont on voyoit ma maison fréquentée:
Ce qui faisoit que j’etois respectée,
Et que chacun craignoit de me fascher,
Voyant pour moy les plus grands s’empescher.
451. Vedi più oltre, appendice A, il Lamento della cortigiana ferrarese. Del secolo XVI è pure un opuscoletto intitolato: Grandissimi dolori, et gli insopportabili tormenti che patiscono le povere cortigiane, e chi le seguita. Donde e’ si intende in quanti modi sono tormentate dagli acerbi dolori del mal francese. Vedi Catalogue de la bibliothèque de M. L[ibri], Parigi, 1847, num. 1510, p. 244. Nella commedia del Contile intitolata La Cesarea Gonzaga, è una cortigiana infranciosata, per nome Masina, la quale ha dato il male a molti. La cura Maestro Grillo, medico, e questi in certa scena le dice (atto V, sc. 5): «Vengo da Caterina piemontese, da Polisena da Lucca, da la Romana e da Francesca Ferrarese, che lavorano con Francia, e guardono le ricette c’ho lor fatte». Il Purgatorio delle cortigiane di quel maestro Andrea in cui ci siamo già imbattuti, non è il purgatorio ordinario, ma l’ospedale di San Giacomo, detto degli Incurabili, in Roma,
In cui si vede paurosi mostri.
Qui è di Franza il dilettevol male,
E di San Lazer la lebbra gioconda,
Cancheri e malattie universale.
Il tristo luogo
È refugio a le belle cortigiane,
Che in tanto bene e favor furon pria.
Quivi
È tal che avea fattezze alte e divine
Per l’incurabil mal venuta un mostro.
La cortigiana della Lucerna del Pona muore agl’Incurabili, di mal francese (sera seconda, p. 86).
452. Le rime burlesche, ecc., ediz. cit., p. 396. Se le cortigiane truffavano, erano, alle volte, anche solennemente truffate. Vedi tutta la giornata II della parte II dei Ragionamenti dell’Aretino; Domenichi, Facetie, motti, p. 312, ecc.
453.
Ste vacche se nassue in calessella,
E in calessella le sconvien morir:
Ne no ghe val a dir la tal se bella,
La tal se ricca, la no puol perir,
Chè in manco che non se frize una anguella
Ghe n’ho viste de ricche a falir,
Ghe n’ho visto de grasse e sontuose
Vegnir in puochi dì magre e strazzose.
Le berte, le truffe, ecc., già citate, f. 19 v. Dice Francesco Sansovino nella satira A Giulio Doffi:
I poeti somiglian le puttane,
Di quegli è il fin andar a lo spedale,
Di queste in capo a un tempo esser ruffiane.
Sette libri di satire, Venezia, 1560, f. 169 v.
454. Invecchiata la cortigiana del Du Bellay, la quale aveva in giovinezza guadagnato ciò che aveva voluto, campa filando, facendo il bucato, trafficando stracci, preparando belletti e acque medicate, vendendo, secondo le occasioni, frutta, erbe, ciambelle, e candeluzze le feste. Per giunta ella soffre di renella, di gotta, di tosse e di qualche altro male. Abita in una stanzetta d’osteria, e ha sulle braccia una figlioletta, bambina ancora. Più d’una cortigiana finì in una di quelle carriuole da rattrappiti, chiedendo l’elemosina per l’amor di Dio. La Pierina dei Germini, che ci si è condotta, dice:
A gran trionfo il lastrico m’aspetta:
Braccio m’ha fatto far la cassettina
Per pormi poi co’ poveri a l’offerta.
455. A. Corvisieri, Il testamento di Tullia d’Aragona, in Fanfulla della Domenica, anno VIII (1886), num. 5.
456. Niccolò Franco, Dialoghi piacevoli, Venezia, 1541, dialogo IV, f. 67 r.
457. Tra le Poesie da fuoco già citate è un Lamento d’Ellena Ballarina: vedi più oltre, appendice A, il Lamento della Cortigiana ferrarese.
458. E così fece la Tullia, sul cui matrimonio non può ora cader più dubbio. Ella sposò in Siena, nei 1553, un Silvestro Guicciardi da Ferrara, di cui non si sa altro. In grazia principalmente di tal matrimonio, dovette ella, l’anno di poi, esser tolta dal ruolo delle meretrici. V. Bongi, Documenti senesi su Tullia d’Aragona, in Rivista critica d. lett. ital., anno IV (1887), p. 187. Il Brantôme afferma che in Italia era frequente il caso di uomini che sposavano cortigiane, e racconta di certa Faustina, della quale s’innamorò la prima volta che fu in Roma, e che rivide poi maritata avec un homme de Justice (Op. cit., vol. I, pp. 176-7). Di un capitano Concio che sposò una cortigiana romana per nome Vincenza Capista, narra il Domenichi, Facetie, motti, ecc., p. 234. Gian Francesco Ghiringhello, ricco gentiluomo di Milano, sposò la bellissima Caterina da San Celso, virtuosa in sonare e cantare, bella recitatrice con castigata pronunzia di versi volgari (Bandello, Novelle, parte IV, nov. 9, dedicatoria). Pietro Aretino scagliò un arrabbiatissimo sonetto contro il conte Ercole Rangone, ch’era in punto di sposare l’Angiola greca (Trucchi, Poesie inedite, ecc., vol. III, p. 212). Nella Trinozzia del Contile, due cortigiane ricche, Laide ed Ersilia, sposano due servitori, ma perchè innamorate, non perchè non possano trovare miglior partito.
459. Ragionamento fra il Zoppino, ecc., p. 448.
460. A un’altra Imperia, veneziana, fu fatto l’epitafio seguente:
Imperia imperio cum res hominesque tenerem,
Hoc volui juvenis condier in tumulo.
Franciscus Swertius, Epitaphia joco-seria, Colonia, 1645, p. 115.
461. Gregorovius, Lucrezia Borgia, 1ª ediz., Stoccarda, 1874-5, vol. I, p. 89.
462. Cian, Op. cit., pp. 35-6.
463. Lo negò, per esempio il Corradi, Nuovi documenti per la storia delle malattie veneree in Italia dalla fine del Quattrocento alla metà del Cinquecento, negli Annali universali di medicina e chirurgia, vol. 269 (1884), pp. 319-20.
464. Sostenne il Canello che l’aumentare delle prostitute, e il loro affinarsi in signore e cortigiane nel Cinquecento, accenna già chiaramente al sentito bisogno di rispettare la donna altrui, di salvar la famiglia. (Vedi Storia della letteratura italiana nel secolo XVI, Milano, 1880, pp. 23-5). Ma tale bisogno è esso veramente e comunemente sentito in quel secolo? mi par dubbio assai; mi sembra che le prove che il Canello credeva di scorgerne siano assai più apparenti che reali. In nessun secolo si scrissero contro il matrimonio tanti trattati, tanti discorsi, tanti altri componimenti di varia forma quanti se ne scrissero nel Cinquecento. A volerne fare il catalogo si potrebbero riempiere più quaderni agevolmente. Non considerò il Canello che il cresciuto numero e le cresciute attrattive delle prostitute, se giovavano, per un verso, alla famiglia, con far minore intorno alle donne maritate la ressa degli insidiatori, per un altro verso nocevano, stogliendo dal matrimonio molti più celibi, e porgendo agli ammogliati molte più occasioni, e più gradite, di mancare alla fede conjugale. Non considerò inoltre che secondo certi principii, ai quali pur s’informava in quel secolo il culto della donna, lo stato matrimoniale appariva a molti quasi macchiato di una nota d’indegnità. Dice Michele Barozzi nel Dialogo della dignità delle donne dello Speroni (Opere, edizione cit., vol. I, p. 51), che l’amore è quello che naturalmente fa le donne signore degli uomini, e che le leggi civili, creature del vulgo, «solamente avendo riguardo a’ figliuoli, che a beneficio della repubblica le nostre donne ci partoriscono, quei dolci nomi d’innamorato e d’innamorata derivati da amore, scioccamente in due strane ed odiose parole, moglie e marito, di convertire deliberarono». Del resto si tratta di sapere, non quanto la prostituzione elegante del Cinquecento abbia giovato o nociuto alla famiglia, ma quali furono le cause che la promossero. Ora, tra queste cause, che io mi sono studiato d’indicare, confesso che non mi viene fatto di scoprire il bisogno di rispettare la donna altrui, di salvar la famiglia.
465. Si comprende facilmente a quali strane contraddizioni dovesse dar luogo la devozione alle prese col meretricio. La già più volte ricordata Nanna ammonisce a questo modo la figliuola: «Veniamo a le divozioni utili al corpo ed a l’anima. Io voglio che tu digiuni, non il sabbato, come le altre puttane, le quali vogliono essere da più del Testamento Vecchio, ma tutte le vigilie, tutte le Quattro Tempora, e tutti i venerdì di Marzo; e dà nome che in così sante notti non dormi con persona. In tanto vendile nascosamente a chi più ne dà, guardando che i tuoi amanti non ti colghino in frodo». (Aretino, Ragionamenti, parte II, giornata I, p. 252). Una delle interlocutrici della Puttana errante in prosa, accingendosi a dar conto di mille turpitudini alla sua degna amica, avverte: «oggi è sabbato, nel quale dì, per la riverenza della Madre del Salvadore, non mi lascio abbracciare da alcuno». Nè si creda perciò che quella devozione non fosse sincera. Beatrice da Ferrara, saputo che Lorenzo de’ Medici, duca d’Urbino, era ferito in Ancona, gli scrisse una lettera, dove, con alternazione delle più strane e, diciam pure, delle più comiche, con la più curiosa delle promiscuità, parla di ogni sorta di sudicieria, e in pari tempo della Settimana Santa, della sua confessione, delle preghiere fatte da lei a Dio per la salute dell’ill.mo Signor Duca, del voto fatto di andare in pellegrinaggio a Loreto, quando l’ill.mo Signor Duca fosse pienamente guarito. (Lettere di cortigiane del secolo XVI, lettera XXXIV, pp. 81-5). Nella commedia del Contile intitolata La Pescara (Milano, 1550), dice la Martinella cortigiana a Marcello servo (atto I, sc. 5): «sai pur che non sono di quelle sfacciate. Odo la messa una volta il mese, dico la corona, e perchè sono anch’io di buon sangue voglio diece scudi di chi si vuol meco impacciare».
466. Fortini, Novelle, 2. Della Bice da Prato si dice nei Germini:
è d’ogni peccato netta e monda
Sempre il suo ufiziuol la porta allato.
467. Vedi la già citata lettera di Beatrice da Ferrara a Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino, Lettere di cortigiane, ecc., p. 81. Di una di tali monache novelle narra un lepido casetto il Brantôme, Op. cit., vol. II, p. 190. A una signora Imperia scriveva il Calmo per dissuaderla dal farsi monaca (Le lettere, l. IV, lett. 28, p. 314). La cortigiana Lucrezia lascia la mala vita in uno dei Colloquii di Erasmo da Rotterdam (Colloquium adolescenti et scorti). Spesso la conversione era solo apparente: vedi Giraldi Cinzio, Ecatommiti, nov. 1 dell’Introduzione. Nella Tariffa è ricordata una certa Filomena, che fattasi monaca, tornò poi a fare la cortigiana. La Nanna dei Ragionamenti dell’Aretino era stata monaca, e di una Paolina, monaca smantata, è ricordo nel citato Trionfo della lussuria. Il dare ad intendere di volersi far monaca, e l’assoggettarsi ad alcuna pratica devota erano, alle volte, astuzie e spedienti del mestiere. La cortigiana del Du Bellay dice, parlando degli amanti suoi:
Conclusion, j’avois mille receptes,
Pour leur tirer les quatrins de la main:
Ores faignant de me faire nonnain,
Etc.
Anzi, un bel giorno, presa da subito pentimento, entrò nelle Convertite; ma di lì a poco, pentita d’essersi pentita, tornò alla usanza di prima. Il poeta francese Gillebert compose due carmi latini, l’uno in nome di una cortigiana romana che lasciava il vizio e si faceva monaca, l’altro in nome della stessa cortigiana, che disertava il chiostro e tornava all’antica vita. La Nanna dell’Aretino, per meglio pelare i suoi amici, diede voce d’essersi convertita, e si fece murare in camposanto, e così pure adoperò l’Ordega, spagnuola (Aretino, Cortegiana, atto IV, sc. 2).
468. Un Avviso di Roma, spedito ai 28 di marzo del 1556, anno secondo del pontificato di Paolo IV, contiene la seguente curiosa notizia: «Predica a S. Apostolo maestro Franceschino da Ferrara, il quale ha una grandissima audienza, e giovedì, correndo l’Evangelio che correva, furono comandate tutte le cortigiane a voler andare a udir la predica, nella quale per il mezo suo il Sig. Dio operò tanto che 82, parte volontariamente e con molte lagrime, e parte per esortazione si presentarono dopo la predica al predicatore, e si feciono scrivere per pentite della vita loro, e di voler andare chi in un monastero, e chi voler maritarsi e viver da donne da bene. E fu bel vedere la carità delle gentildonne Romane in riceverle in chiesa presso di loro, accarezzarle, persuaderle, condurle dal predicatore, e menarsele a casa per levarle dall’occasione del male. Il Sig. Dio doni lor grazia di perseverare e confirmarsi in così buono proposito. Un altro giorno se ne convertirono altrettante». (Pubblicato nel Zibaldone: Notizie, aneddoti, curiosità e documenti inediti o rari, anno I, 1888, num. 1, pp. 4-5). Ma le signore cortigiane non sempre si mostrarono così docili. In un altro Avviso di Roma, del 30 novembre 1566, si legge: «Domenica passata furono intimate tutte le cortigiane che alle 20 ore andassero alla predica in Santo Ambrogio. Lì predicò un trentino, che salito in pulpito, cominciorono a romeggiare (romoreggiare?) fra loro, ed a far ridere, di modo che ’l buon padre rise anch’egli un pezzo: pur alla fine disse la buona mente di Sua Santità, solicitò alla salute delle anime loro, e le esortava a lasciar il pecato, e se si volevano maritare, e quelle non avevano il modo, le averia agiutate a darli la dote. Li birri stetero alla porta della chiesa, acciò non entrassero alcuno omo, ma ve n’erano da fuori da due mila». Il 15 marzo 1567, accennando ad altra predica, Giacomo Frangipane scriveva al Duca di Mantova: «Mentre il predicatore che predicò in sant’Ambrogio alle cortigiane, riprendeva la vita loro e le esortava al ben fare, una, chiamata Nina da Prato, levatasi in piedi, cominciò a ribuffarlo, con dire che l’uffizio suo era di declarare lo evangelio, e non biasimar la vita loro: onde subito fu presa, e questa mattina è stata frustata». (Bertolotti, Art. cit., p. 513, docum. IX e X).
469. Franco, Le pístole vulgari, Venezia, 1542, ff. 187 v. a 188 r.; Lando, Sette libri de cataloghi, ecc., Venezia, 1552, p. 23.
470. Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia e di altri luoghi, Venezia, 1550, f. 76 r. Nel Trionfo della lussuria maestro Andrea dice all’autore, additandogli una schiera di cortigiane:
Vedi quelle che fur dette signore,
Tanto superbe in la romana corte
Che a pena a Dio se dava tanto onore.
471. Rainaldi, Annales ecclesiastici, t. XXX, p. 152. L’usanza non ebbe a cessar così presto, e non doveva essere molto lungi dal vero Agrippa di Nettesheim, quando affermava che i prelati in Roma avevano tra gli altri benefizii, anche i redditi che traevano dai postriboli (De incert. et van. omn. scient., cap. LXIV).
472. Ap. Eccard, Corpus historicorum medii aevi, t. II, p. 1997.
473. Si trova nelle varie stampe del Terzo libro dell’opere burlesche di M. Francesco Berni e di altri. Sembra che le cortigiane di Roma non lasciassero di far gazzarra nemmeno negli anni santi. Ai 7 di febbrajo del 1525, anno di Giubileo, Francesco Gonzaga, ambasciatore del Duca di Mantova a Roma, scriveva a Jacopo Calandra, segretario del medesimo Duca: «Noi stemo qui menando vita veramente religiosa, però che par un convento di frati, che vivesi in un’osservanzia mirabile; eccetto che le cortigiane non mancano de l’officio loro, ancor che parà che mal si convenga in questo anno santo; ma tanto seria possibile a dar rimedio a questo, quanto ad levar la proprietà a le cose produtte da la natura; sicchè è forza che il mondo vaddi in questa parte secondo il solito». (A. Baschet, Documenti inediti su Pietro Aretino, in Arch. stor. ital., serie III, t. III, parte 2ª, p. 121). Se dunque mancavano alla corte di Roma le nobili e colte dame, come lamentava il Bibbiena in una sua lettera a Giuliano de’ Medici (Lettere di principi, Venezia, 1581, lib. I, f. 16 v.) tale mancamento non era in tutto senza compenso.
474. La Via dei Banchi era allora la principale di Roma, e perciò la più frequentata dalle cortigiane. Delle cortigiane più famose che vissero in Roma nella prima e nella seconda metà del Cinquecento, si han notizie parecchie, e si potrebbe, volendo, farne l’elenco. Di quelle che fiorirono ai tempi di Leone X reca i nomi il già citato Censimento. Per gli anni che seguono ne ricordano molte il Ragionamento fra il Zoppino fatto frate, ecc., il Trionfo della lussuria di maestro Pasquino, dove assai terzine sono spese in farne la enumerazione; l’introvabile libro intitolato Angitia cortigiana, De la natura del cortigiano, Roma, 1540. (Alcuni estratti in Œuvres choisies de P. Arétin, traduites de l’italien pour la première fois avec des notes par P. L. Jacob bibliophile, Parigi, 1845). Per la seconda metà del secolo si hanno alcuni nomi in una lettera del Calmo, Alla Signora Romana, Le lettere, I, IV, lett. 13, p. 279.
475. Diarii, t. VIII, col. 414.
476. Pasquillorum tomi duo, Basilea, 1544, t. I, p. 23. Più altri tolsero da quei due nomi di Venezia e di Venere occasione di bisticcio. Delle donne veneziane disse il francese Germano Audebert, nel suo poema Venetiae, l. I (ediz. di Venezia, 1583, p. 15):
Veneres discrimine parvo
Et Venetae distant.
Un altro francese, Stefano Pasquier, dice nel l. II delle sue Icones, parlando De Venetiarum urbe:
Hanc Venus at lepidam se transformavit in urbem;
Viveret ut mediis fluctibus, orta salo.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Hinc Venus est omnem late diffusa per urbem,
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sic Veneres Venetas licet appellare puellas.
Dello strabocchevole numero delle cortigiane veneziane molti fanno ricordo. Parlando di Venezia appunto, dice il Gentiluomo nella Tariffa,
Che quante rane ha in sè palustre fondo
E la terra formiche, o fiori i prati,
Quando l’Aprile è più vago e giocondo,
Tante sono puttane in tutti i lati,
De quai veggiam talor più folta schiera,
Che di vacche e di buoi per li mercati.
Ciò che conferma il Bandello, dicendo essere in Venezia un infinito numero di puttane (Novelle, parte III, nov. 31), e conferma il Giraldi Cinzio, notando Venezia essere abbondevole di quella sorte di donne che cortigiane son dette (Ecatommiti, deca VI, nov. 7). Le carampane erano case abitate da meretrici di bassa mano, a Rialto. Per l’ordinamento che ci si osservava vedi Girolamo Bardi, Delle cose notabili di Venetia, libri II, Venezia, 1587, p. 24. Vedi anche Gallicciolli, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche, Venezia, 1795, vol. VI, pp. 148-50; Tassini, Curiosità veneziane, 4ª edizione, Venezia, 1887, pp. 145-6, e Cenni storici e leggi circa il libertinaggio in Venezia, Venezia, 1886, pp. 15-6, 25-8. Le cortigiane si mantennero assai numerose nella città delle lagune anche nel secolo XVII. In sul principio di esso il viaggiatore inglese Tommaso Coryate riferiva una voce che faceva ascendere a 30000 il numero di quelle che dimoravano nella città e luoghi circonvicini, e diceva che da tutte le parti della cristianità accorrevano i forestieri desiderosi di vederle e di praticarle. Senza dubbio in quel numero, dato pure che non sia esagerato, erano comprese tutte le meretrici, d’ogni grado e condizione. Sul finire del secolo, il francese Alessandro Toussaint Limojon de Sainct-Didier affermava nessuna città poter gareggiare con Venezia quanto a cortigiane. A mezzo il secolo XVIII Carlo De Brosses trovava ancora in Venezia due volte più cortigiane che in Parigi, e notava espressamente: elles sont fori employées.
477. Il Candelajo, atto V, sc. 18. Non era così altrove. In Firenze, per esempio, dovevano pagar la tassa ogni mese, puntualmente (Cecchi, Il Martello, atto II, sc. 2). Nè in Venezia stessa andarono sempre immuni da tasse. Nel 1514 fu loro imposto un balzello per riparare all’interramento dell’Arsenale, e se ne ricavò grande quantità di denari.
478. Calmo, Le lettere, l. IV, lett. 13, p. 278.
479. La Ruffiana, Venezia, 1568 (la prima stampa è del 1542), atto I, scena 1.
480. Le lettere, l. IV, lett. 13, p. 279.
481. Fu vietato l’abuso il 14 luglio 1578, poi di nuovo il 16 marzo 1582 (Leggi e memorie venete, ecc., pp. 121-2, 125).
482. Novelle, parte III, nov. 31. Un’usanza simile pare, per altro, non fosse sconosciuta a Roma, secondo si ha da un luogo della Vieille courtisane del Du Bellay.
483. Op. cit., vol. II, pag. 31.
484. Leggi e memorie venete, ecc., 268. Non mi fu possibile aver notizia di un libro di N. Guttery, intitolato La Priapeja, al magn. sig. L. D. M. M. D. C., s. l., ma probabilmente Parigi, 1586. Il Brunet, che lo registra (Manuel du libraire, ed. 5ª, vol. II, col. 1832), dice che esso contiene une conversation entre quatre courtisanes vénitiennes, dans le goût des Ragionamenti de l’Arétin. Ci si dovrebbero trovare notizie curiose e importanti sulla vita delle cortigiane in Venezia. Dice Agrippa di Netthesheim nel già citato suo libro De incert. et vanit. omn. scient., c. LXIII: «Vidi ego nuper atque legi sub titulo Cortesanae italica lingua editum et Venetiis typis excusum de arte meretricia dialogum utriusque Veneris omnium flagitiosissimum dignissimumque qui ipse cum autore ardeat». Non so a quale composizione egli possa alludere, essendo stato stampato il suo libro nel 1530.
485. Parte I, nov. 4.
486. Notizie copiose della Veronica diedero: il Cicogna nei vol. V e VI delle Inscrizioni veneziane, Venezia, 1824-53, e G. Tassini, Veronica Franco celebre poetessa e cortigiana del secolo XVI, Venezia, 2ª edizione, 1888. Il Tassini corresse parecchi errori in cui erano incorsi i biografi prima di lui; ma il suo lavoro è, per altri rispetti, assai manchevole. Nè dalle pagine sue, del resto, nè da quelle del Cicogna, si vede venir fuori la figura della cortigiana letterata. Parlarono inoltre della Franco, ma assai fugacemente ed inesattamente, il Della Chiesa, nel Teatro delle donne letterate; Giovanni Degli Agostini, nelle Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani; il Gamba, nei Ritratti di dodici illustri donne veneziane; Enrico Levi Cattelani, in uno scritto intitolato Venezia e le sue letterate nei secoli XV e XVI, Rivista europea, nuova serie, volume XV, e alcun altro che non giova ricordare. Non ha valore di sorta un articoletto dal titolo Véronique Franco, Henri III et Montaigne, nel Bulletin du bibliophile et du bibliothécaire, 1886.
487. Scudo con figurate in una fascia quattro stelle e tre monticelli sotto.
488. Vedi questo primo testamento della Veronica pubblicato dal Tassini, Op. cit., pp. 66-71.
489. Lettere familiari a diversi della S. Veronica Franca, senza alcuna nota tipografica, lett. XXIX, pag. 58. Il padre è menzionato anche in un secondo testamento, del 1570, pubblicato pure dal Tassini, Op. cit., pp. 72-80.
490. Dal secondo testamento si ha che la madre era già morta nel 1570; perciò è da porre prima di quell’anno la compilazione del Catalogo.
491. Lettera VII, p. 12.
492. Questo ritratto fu riprodotto dal Gamba in Alcuni ritratti di donne illustri delle provincie veneziane, dal Mutinelli negli Annali urbani di Venezia nel secolo XVI, e ultimamente dal Tassini, Op. cit.
493. Terze rime di Veronica Franca, s. l. ed a., ma in Venezia, circa il 1575, come si rileva dall’epistola dedicatoria, di cui avrò a dire più là. Capitolo XVI.
494. Capitolo VII.
495. Capitolo I.
496. Capitolo VII.
497. Lettera XLVIII, pp. 83-4.
498. Capitolo XVI.
499. Lettera XIII, p. 21; XIV, p. 21.
500. Lettera XLIX, pp. 84-5.
501. Capitolo XX.
502. Baldessar Castiglione, Il Cortegiano, l. I, ediz. di Firenze, 1854, p. 64.
503. Lo scritto di Pietro Selvatico, Veronica Franco e il Tintoretto, nel volume L’arte nella vita degli artisti, Firenze, 1870, è tutto un romanzetto assai scipito.
504. Capitolo alla Franca, nel cod. Marc. Ital. IX, 173, già citato, f. 410 r.
505. Capitolo XX.
506. Lettera VII, p. 11.
507. Lettere XXXV, pp. 63-4; XLVII, pp. 80-1; LI, pp. 86-7.
508. Ultimamente il signor A. Borzelli in un articoletto intitolato Per Veronica Franco, e inserito nella Polemica di Napoli, anno I, numero 4, sostenne che la Veronica Franco del Catalogo non può essere quella stessa delle terze rime e delle lettere; ma in sostener ciò prese alcuni solennissimi granchi. Egli continua ad assegnare la nascita della Veronica all’anno 1553 o 1554, mentre son degli anni parecchi che fa dal Tassini provato che la Veronica nacque nel 1546. Confondendo il Catalogo con la Tariffa in versi, egli assegna a quello la data del 1535, che è la data della prima stampa di questa. Trovando nel Catalogo scritto Veronica Franca e non Franco, insiste su questa diversità, mostrando di non sapere che si usava nel Cinquecento dar desinenza femminile ai cognomi quando si parlava di donna, dicendosi la Trivulzia, la Orsina, ecc. Finalmente egli sostiene che cortigiane come Veronica Franco e Tullia d’Aragona non venivano messe in lista con la relativa tariffa per certi favori: ora, a farlo apposta, la Tullia è messa in lista nella Tariffa col prezzo di scudi sette. Del resto, prima del signor Borzelli altri cadde, in parte, nei medesimi errori, e per ciò vedi Rossi, Le lettere del Calmo, Introduzione, p. CVI.
509. Nel già citato codice Marciano si leggono (ff. 253 v. a 254 r.) una nota e un sonetto che possono forse avvalorare la congettura di un disgusto sopravvenuto tra il Veniero e la Veronica, senza però lasciarne intendere le ragioni. Trascrivo. Sonetto dicesi del Venier. Sopra el retratto e l’impresa de Veronica Franca, fatto l’anno del giubileo in Roma. Vi era il ritratto in stampa di rame, e la sua impresa che era una favella accesa col motto: AGITATAQUE CRESCIT; e intorno al retratto vi era scritto: ANNO AETATIS SUAE XXV.
SONETTO.
El retratto e la impresa è bona e bella:
L’un perchè el le somegia in quanto brutto;
L’altro che in le puttane Amor fa lutto
Per Amor, e fa fuogo in la facella;
Che l’arde solamente quanto ch’ella
Dal moto e dal scorlar riceve agiuto;
Così chi vuol da vaca aver construtto
Diè strapazzarla in questa parte e in quella.
Mi trovo in tel retratto un sol error,
Ch’è de importanza assae, tanto pi quanto
Non puol gnianche conzar el depentor.
Ch’el tempo è, se no pi, do volte tanto:
Pur ghe è via de salvarlo, e con so onor,
De dir che l’è stampà l’altro anno santo.
La nota non dice per altro che quel Veniero fosse Marco, e se a Domenico non è da pensare, potrebbe anche essere stato quel Maffeo ch’ebbe a padre Lorenzo, autore della Zaffetta, e che fu poi vescovo di Corfù. Molte poesie di lui, o a lui attribuite, contiene il codice in discorso. L’ultima parte del sonetto ha qualche parte di vero insieme con molta e maligna esagerazione. Nel 1575, anno di giubileo, la Veronica non aveva più venticinque anni, ma non aveva ancora oltrepassati i trenta. Il ritratto di cui qui si parla non può essere tutt’uno con quello di cui dà una breve descrizione il Degli Agostini (Op. cit., vol. II, p. 616), e che recava, insieme con la fiaccola e il motto, la scritta: Veronica Franco ann. xxiii. mdlxxvi; o se pure è tutt’uno con esso, e se la diversità, solo apparente, nasce da errore in quella indicazione di numeri, tale errore non può essere che dello storico, mentre l’accenno al giubileo toglie che si possa imputare al poeta. Del resto, nella nota che accompagna il sonetto, non s’intende bene se quelle parole fatto l’anno del giubileo in Roma vogliano dire che il ritratto fu fatto in quell’anno in Roma, o che in Roma fu fatto il sonetto, o che il ritratto o il sonetto fu fatto nell’anno che in Roma si festeggiava il giubileo.
510. Capitolo II.
511. Capitolo VIII.
512. Capitolo XV.
513. Capitolo XX.
514. Capitoli XXI e XXII.
515. Capitolo XIX.
516. Lettera XIX, pp. 35-6.
517. Capitolo VIII.
518. Lettera XX, pp. 37-8.
519. Capitoli IX, X, XI, XII.
520. Lettera XXXVI, p. 67.
521. Capitolo XVII.
522. Lettera XLIX, pp. 84-5.
523. Capitoli XIII e XIV.
524. Nel testamento del 1564 la Veronica diceva ingenuamente: «Lasso a m. Jac.mo de’ Baballi el figliuolo, over figliuola che nasceranno de mi come a suo padre; sia o non sia, Signor Dio scià il tutto». Nel secondo testamento, fatto, come s’è veduto, sei anni dopo, il 1º novembre 1570, ella dice: «Achille mio fiol e di m. Jacomo Baballi Raguseo, il qual, quanto a me, credo sii suo fiolo». Il dubbio ch’ella aveva potevano avere anche altri, e in esso forse è da cercare la ragione di certe disposizioni contenute nel testamento che nell’aprile di quel medesimo anno aveva dettato Lodovico Ramberti, famoso nelle storie veneziane per aver sottratto a morte atroce e infamante il proprio fratello mediante un veleno somministratogli in carcere. Costui legava ad Achilletto, fio de mª Veronica Franco (senz’altro) parte della sua sostanza, lasciandone usufruttuaria la madre sino a che il figlio avesse raggiunto l’età maggiore, e provvedendo a che Achilletto potesse avere un compenso, nel caso che la madre, testando, favorisse un altro figliuolo più di lui. La Veronica poi indicava il Ramberti quale uno de’ suoi esecutori testamentarii.
525. Di questo secondo figliuolo, chiamato Enea, è ricordo nel secondo testamento, ed è da notare che circa la paternità di Andrea Tron la Veronica non mostra il dubbio che mostra per quella di Jacopo de’ Baballi.
526. Non è peraltro da tacere che tra le male usanze delle cortigiane c’era anche quella di simulare gravidanze e parti, e a qual fine s’intende facilmente. La Nanna dell’Aretino poi così parla dell’uso loro di prendere bambine negli ospedali: «e scelta la più bella bambina, che ivi venga, se la allevano per figliuola; e la tolgono di una età che appunto fiorisce ne lo sfiorire de la loro, e gli pongono uno de’ più belli nomi che si trovino, il quale mutano tutto dì, nè mai un forastiere può sapere qual sia il suo nome dritto: ora si fanno chiamare Giulie, ora Laure, ora Lucrezie, or Cassandre, or Porzie, or Virginie, or Pantaselee, or Prudenzie, e ora Cornelie; e per una che abbia madre, come sono io de la Pippa, un migliajo sono tolte da gli spedali». (Ragionamenti, parte I, giornata III, p. 151). La cortigiana del Du Bellay, enumerando gl’inganni che usava agli amanti, dice:
Aucunefois je me faisois enceinte.
527. Capitolo VIII.
528. Lettera XXI, pp. 38-40, al Tintoretto.
529. Lettere XXVIII, pp. 54-7; XXIX, pp. 57-9.
530. Lettere XXXIII, pp. 63-4; VII bis, pp. 13-4.
531. Lettere X, p. 17; XXIII, pp. 47-8; XXVI, pp. 50-2; XXXIV, pag. 65.
532. Lettera XLVI, p. 79.
533. Lettera XXIV, pp. 48-9.
534. Lettere VII, p. 11; XLIX, p. 84.
535. Lettera XXV, pp. 49-50.
536. Lettere XXXVII, pp. 67-9; XXXVIII, pp. 69-70.
537. Nell’Archivio Gonzaga, per altro, non si conserva documento alcuno concernente la Veronica. Così mi assicura Alessandro Luzio.
538. Lettera XLII, p. 75.
539. Vedi Serassi, La Vita di Domenico Veniero, preposta alla edizione delle Rime, Bergamo, 1751, p. XIII.
540. Vedi il capitolo XVIII, e le lettere XL, p. 73; XIX, p. 84.
541. Lettere brevissime di Mutio Manfredi, il Fermo Academico Olimpico, ecc., scritte tutte in un anno, ecc., Venezia, 1606, p. 249. Il sonetto della Veronica si legge nella edizione che della Semiramide fa fatta in Bergamo per Comin Ventura nel 1593.
542. Rime di diversi eccellentissimi auttori nella morte dell’Illustre Sign. Estor Martinengo Conte di Malpaga. Raccolte, et mandate all’illustre, et valoroso Colonnello il S. Francesco Martinengo suo fratello, Conte di Malpaga. Dalla Signora Veronica Franco. Senza nessuna nota tipografica.
543. De antiquitate et viris illustribus Veronae, Padova, 1647, l. I, c. 20.
544. È il XXV, cioè l’ultimo, e conta non meno di 565 versi.
545. Molti altri amici nobili e illustri ebbe certamente la Veronica. Nel secondo testamento ella designa quale uno de’ suoi esecutori testamentarii il magnifico messer Lorenzo Morosini, e raccomanda i figliuoli al chiarissimo messer Giambattista Bernardo.
546. Capitolo XXII. Anche nel capitolo III deplora la Veronica d’essersi allontanata da Venezia:
E l’ora piango, e ’l dì ch’io fui rimossa
Da la mia patria.
547. Capitolo XII.
548. Parlando, nel capitolo XV, del colonnello, fratello di Estor Martinengo, diceva:
E come donna in questa patria nata,
Vorrei, ch’ov’ha di lui bisogno andasse,
E ch’opra a lei prestasse utile e grata.
549. Lettera V, pag. 6. Gerolamo Fenaruolo, volendo dissuadere Adriano Willaert dal partirsi di Venezia, scriveva in un suo capitolo:
Questa Venezia è una città d’assai,
È un novo mondo, un novo Paradiso,
E sarà così fatta sempre mai.
Se voi guardate gli uomini nel viso,
Qui vedrete più vecchi che non sono
E stelle in cielo e gamberi a Treviso.
E questo nasce perchè l’aere è buono,
Perchè sempre si vive in allegrezza,
Perchè quel che si mangia ci sa buono.
L’infinita abbondanza e la ricchezza,
I comodi, i diletti, ed i piaceri
Fan veder vita eterna a la vecchiezza.
E senza tante pinole e cristeri
Tiran dal corpo al fondo del crivello
La soma d’ogni sorte di pensieri.
Sansovino, Sette libri di satire, f. 193 r.
550. Di trattenimenti musioali è pur cenno nella lettera XLVI, pag. 79.
551. Parlando di certa canzone della Ghirometta, dice Scipione Ammirato in un luogo de’ suoi Opuscoli: «Era uscita allor per Venezia questa canzone in campagna, e cantavasi da piccoli, e da grandi di giorno, e di notte per le piazze, e per le vie sì fattamente, che ciascuno avea del continuo gli orecchi intronati dal tuono di questa canzone». Cito da un opuscoletto per nozze, intitolato Novelle di Scipione Ammirato, Bologna, 1856, p. 10.
552. V. le lettere del Calmo ad Angiola Sara e alla signora Frondosa, ediz. cit. l. III, lett. 39, l. IV, lett. 42, pp. 245, 346-7.
553. Lettera XIII, p. 21.
554. Nell’opera di Giacomo Franco, Habiti d’huomini et donne venetiane ecc., sono due stampe che qui vogliono essere ricordate. La prima rappresenta molte gondole con persone che vanno a diporto. In una è una tavola imbandita con uomini e donne che mangiano; in altra una donna che suona il clavicembalo, con altre donne e nomini che suonano varii strumenti. Sotto vi è scritto: In questa maniera la state ne’ grandi caldi si va ai freschi per li canali della Città la sera fino a mezza notte, con musiche di voci e diversi istromenti con grandissimo diletto, con le signore Cortigiane, e spesso anco si cena in barca con mirabil piacere. La seconda stampa mostra come si andasse l’inverno a uccellare in barca sulla laguna.
555. Lettera XLIV, pp. 76-8.
556. Vedi per tali notizie Tassini, Op. cit., p. 40.
557. Nel testamento del 1570 è cenno di beni mobili e stabili, di un filo di perle nº 51 ballotte, di piatti d’argento e di altra argenteria con lo stemma della Veronica.
558. Capitolo XXIII.
559. Capitolo XVI.
560. Lettera VIII, pp. 14-6.
561. Vedi Cicogna, Op. cit., t. VI, pp. 884-5 e Tassini, Op. cit., pp. 89-97. Il vero testamento del Ramberti è del 19 aprile 1570; Cicogna, ibid., p. 957; Tassini, ibid., pp. 89-97.
562. Lettera XLVIII, pp. 82-4.
563. Lettera XXX, pp. 58-9. Il detrattore cui questa lettera è scritta aveva commesso in casa della Veronica, a quanto costei afferma, un vilissimo mancamento, non sappiam quale.
564. Vedi Tassini, Op. cit. pp. 23-5.
565. Sandonnini, Alessandro Tassoni ed il Sant’Uffizio, in Giornale storico della letteratura italiana, vol. IX, pp. 345 sgg.
566. Una delle più semplici consisteva in tracciar certi cuori nella cenere calda, e in recitarvi su questi versi:
Prima che ’l fuoco spenghi
Fa che a mia porta venghi.
Tal ti punga il mio amore
Quale io fo questo cuore.
Vedi pp. 425-6. Cfr. Ragionamenti, parte II, giornata III, pp. 406-10. Delle malie che usavano le meretrici per trattenere gli amanti è cenno in una poesia di Vincenzo Belando, intitolata Scudo d’amanti dove si scuopre gli assassinamenti, inganni, astutie, forfanterie e truffarie che usano le puttane per ingannare i simplici giovani, ecc., stampata insieme con le Lettere facete e chiribizzose, ecc. dello stesso autore, Parigi, 1588. Uno stuolo di maliarde faceva comparire il Veniero nel trionfo di Elena Ballerina in Roma, La Puttana errante, canto IV. Cfr. La vieille courtisane del Du Bellay e Luciano, Dialoghi delle cortigiane, I, IV.
567. Lettere XI, pp. 18-20; XXXI, pp. 60-2.
568. Lettera XXXIX, p. 71.
569. Lettera XXXVIII, p. 70.
570. Ibid.
571. Lettera XXII, pp. 41-6.
572. Novelle letterarie per l’anno 1757, pag. 320; Cicogna, Op. cit., vol. VI, pag. 884; Tassini, Op. cit., p. 65.
573. Entrambi questi sonetti furono pubblicati dal Cicogna, Op. cit., t. V, pag. 424.
574. Tassini, Op. cit., p. 39.
575. Lo pubblicò il Cicogna, Op. cit., t. V, pp. 414-5.
576. Tassini, Op. cit., p. 43.
577. Cicogna, Op. cit., t. V, p. 412.
578. Anche questo documento fu pubblicato dal Cicogna, Op. cit., t. V, pp. 416-7.
579. Lettera XXXIX, p. 71. Della madre la Veronica non fa parola se non nel suo secondo testamento, dove è detto: «It. lasso a suor Marina, monaca nel mon. di S. Bernardin in Padova, duc. diese per una volta tantum, i quali duc. diese ghe lasso per discargo dell’anima di mia madre, perchè suo padre ghe li aveva lassati, quali gli siino dati subito venduta la mia robba». Fu la madre forse quella che la spinse al vizio, o che, semplicemente, la trasse al suo esempio? L’ho già detto: potrebbe darsi. Nel suo Memoriale la Veronica dice che molte madri meretrici, «ridutte in bisogno, vendono secretamente la verginità de le proprie innocenti figliole, incaminandole per la medesima via del peccato che esse hanno tenuto». Una di tali vendute fu probabilmente la Veronica.
580. Lettera XV, p. 23.
581. Veggasi, per esempio, la lettera XVIII, p. 31.
582. Vedi intorno a Tullia d’Aragona Guido Biagi, Un’etèra romana, in Nuova Antologia, serie 3ª, vol. IV (1836) pp. 654-711.
583. Lettera XXXVIII, p. 70.
584. L’edizione più antica di questi due curiosi poemetti credo sia la seguente: El vanto della cortigiana ferrarese qual narra la bellezza sua. Con il lamento per esser redutta in la carretta per el mal franzese et l’amonitorio che fa alle altre donne. Seguita l’epigramma con el purgatorio delle cortigiane, per Giov. Bapt. Verini, Venezia, 1532. Molte altre edizioni se ne fecero, per le quali vedi la Bibliographie des ouvrages relatifs à l’amour, etc., vol. V, p. 241, vol. VI, p. 384, e Rossi, Le lettere del Calmo, Appendice I, pp. 386-8. Il Purgatorio è di maestro Andrea dipintore; che il Vanto e il Lamento sieno di Giambattista Verini, fiorentino, è probabile, ma non è provato. Ad ogni modo la scena dei due poemetti è in Roma. Io riproduco qui l’uno e l’altro secondo una stampa veneziana del 1538, ritoccando solo la grafia e qualche verso che nel testo non torna, acconciando alcuno errore. La medesima stampa contiene pure Il lamento e la morte de la cortigiana, in undici terzine; ma è cosa che non merita d’essere trascritta.
585. Questi nomi li abbiemo già trovati, e provano che il poemetto dovette essere composto verso il 1530.
586. Forse trinale da trina? ma i vocabolarii non l’hanno.
587. Vedi qui addietro pp. 234-5.
588. Traggo questa poesia, che non ha altro titolo, dal raro volume già citato, Delle rime piacevoli di diversi autori. Nuovamente accolte da M. Modesto Pino, et intitolato La Carovana, parte prima, ff. 25 r. a 27 v.
589. Vedi qui addietro p. 287.
590. Vedi la lettera del Paolucci in Lettere di Lodovico Ariosto raccolte da A. Cappelli, 3ª edizione, Milano, 1887, pp. CLXXI sgg. Primo a pubblicarla fu il Campori nelle sue Notizie di Raffaello, Atti e mem. delle rr. deput. di storia patria per le prov. mod. e parm., t. I, 1863.
591. Lettere, ediz. di Parigi, 1606, vol. I, f. 26 r.
592. Facetie, motti et burle di diversi signori et persone private, edizione di Venezia, 1599, pp. 202-4. Lo stesso racconto si ha pure nel Democritus ridens, Colonia, 1649, pp. 378-80. Il Serapica, o Sarapica, è ricordato più volte anche dall’Aretino, e da altri.
593. Domenichi, Op. cit., p. 201.
594. L’hospidale de’ pazzi incurabili, Venezia, 1617, p. 49.
595. Vita Leonis X, l. IV, ediz. di Firenze, 1551, p. 98. A dir vero il Giovio nomina solamente il Poggio, il Moro, fra Mariano e Brandino. Fra Martino è ricordato da Sigismondo Tizio nella voluminosa e manoscritta sua Cronaca di Siena (ap. Fabroni, Leonis X Pontificis Vita, Pisa, 1797, pag. 295, n. 82), e lo stesso Tizio narra pure con indignate parole come il cardinale Raffaele Petrucci mandasse il bastardo Andrea al pontefice (V. l’intero passo, che merita d’esser letto, riferito dal Mazzi, La Congrega dei Rozzi di Siena nel secolo XVI, Firenze 1882, vol. I, p. 73). Ma ce n’erano anche degli altri. Nella Cortegiana dell’Aretino (atto I, sc. 12) un pescatore dice al Rosso, vendendogli certe lamprede: «L’altre l’ha tolte or ora lo spenditore di fra Mariano per dar cena al Moro, a Brandino, al Proto, a Troja, ed a tutti i ghiotti di palazzo». Troja era nientemeno che il vescovo di Troja; del Proto vedremo or ora. Quanto al Rosso introdotto dall’Aretino nella sua commedia, egli è probabilmente tutt’uno con un Rosso buffone, ricordato dallo stesso Aretino nel capitolo Al principe di Salerno, nella giornata II della parte I dei Ragionamenti e nel Ragionamento delle corti, e poi anche dal Mauro nel capitolo ad Ottaviano Salvi e dal Tansillo nel capitolo a Cola Maria Rocco e in quello al duca di Sessa. Dice di lui Ortensio Lando: «Il Rosso buffone, mentre servì Ippolito cardinale de’ Medici acquistò e facultà e fama grande, e ne viverà immortalmente» (Sette libri de cathaloghi a varie cose appartenenti, Venezia, 1552, l. VI, p. 501). Non è fuor del probabile che anche il Rosso abbia frequentata la corte di Leone X.
596. Vedi, per i secoli che precedono il XVI, un articolo di Adolfo Bartoli, Buffoni di corte, nel Fanfulla della Domenica del 1882, nº 11.
597. Orlando Furioso, c. XXXV, 20.
598. La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia, 1587, disc. CXIX, p. 816. Cfr. Giulio Landi, Attioni morali, Venezia, 1564, p. 402, sgg.
599. Il Cortegiano, ediz. di Firenze, 1854, l. II, XLVI.
600. Opuscula moralia et politica, Parigi, 1645, De re aulica, l. 1, c. 6.
601. Non so donde il Flögel abbia tratta la notizia che Paolo II nutrì matti e buffoni (Geschichte der Hofnarren, Liegnitz e Lipsia, 1789, p. 434). Il Platina tanto avverso, e per buone ragioni, a quel pontefice, non fa parola di ciò nella Vita che ne compose.
602. Burchard, Diarium sive rerum urbanarum commentarii, edizione di Parigi, 1883-5, vol. III, pp. 126-7.
603. Novelle, parte I, nov. 30; parte IV, nov. 27.
604. Marcantonio Sidonio, Francesco del Lago di Garda e il Cimarosto sono ricordati da Ortensio Lando, Op. e l. cit. Il Cimarosto era di Brescia e se ne andò, come tanti altri suoi pari, a Roma per cercarvi fortuna. E in Roma ebbe occasione, se s’ha a credere allo Straparola, di far ridere sgangheratamente con certa sua burla Leone X (Vedi Le piacevoli notti, notte VII, fav. 3. Veramente, per un errore stranissimo ed inesplicabile, lo Straparola parla di un sommo pontefice Leone di nazione alemanno; ma non è dubbio ch’egli intende di Leone X. Alemanno fu Leone IX [1048-54]. Nelle edizioni espurgate delle Piacevoli notti Cimarosto rimane, ma Roma si muta in Firenze e il papa in un senatore). Del Bargiacca narra certa novella Tommaso Costo, Il Fuggilozio, Venezia, 1601, giornata V, p. 361. Marc’Antonio Majoraggio accenna, nella sua Oratio de laudibus auri, all’uso che avevano i cardinali di nutrire buffoni. Aveva torto perciò il Mauro di dire, parlando appunto dei buffoni, nel già citato capitolo a Ottaviano Salvi:
Non han però virtute in Cardinali,
I quai non ridon così volentieri
Come fan questi illustri temporali;
ma probabilmente diceva a quel modo per celia. Molti altri buffoni famosi ebbe il Cinquecento. Ricorderò ancora lo Strascino da Siena, che al mestier di poeta accoppiava quello di buffone, e fece ridere Leone X con le commedie e coi lazzi suoi; il Bruschetto di Antibo, che dice il Lando (Op. e l. cit.) si guadagnò con le buffonerie diecimila scudi, e fu fatto maestro delle poste; il Moretto da Lucca, vincitore in molte gare di buffoneria; un Berto, ricordato dal Castiglione (Op. cit., l. II, L); un Lionello, ricordato dal Garzoni, (Piazza, disc. L, p. 479). Di alcuni buffoni assai noti in Venezia fa menzione Andrea Calmo, Le lettere riprodotte da V. Rossi, Torino, 1888, l. II, lett. 34, p. 139.
605. Prose volgari inedite e poesie latine e greche edite ed inedite di Angelo Ambrogini Poliziano, raccolte e illustrate da Isidoro del Lungo, Firenze, 1867, p. 283.
606. Opere, Venezia, 1729, t. III, p. 385.
607. Ediz. cit., l. II, LXXXVII.
608. Ghiribizzi di Mess. Bernabò Visconti signore di Milano, scritti da Girolamo Rofia da S. Miniato, Modena, 1868, pp. 18-20.
609. È cosa nota, del resto, che Leone X ebbe speciale avversione agli ordini mendicanti. Cfr. su questo tema del disprezzo onde sono colpiti i frati nel Cinquecento, Burckhardt, Die Cultur der Renaissance in Italien, 3ª ediz. Lipsia, 1877-8, vol. II, pp. 230 sgg.
610. Il Cortegiano, l. II, LXXXIX. Questo Serafino è pure tra gl’interlocutori del Cortegiano, l. I, IX. Anche il Garzoni ricorda fra Mariano e fra Serafino quali burlieri eccellenti, Piazza, disc. L, p. 490.
611. Alessandro Luzio, Federico Gonzaga ostaggio alla corte di Giulio II, estratto dall’Archivio della R. Società Romana di storia patria, vol. IX, 1887, p. 36. Stazio Gadio, un altro dei famigliari del principe scriveva ad Isabella, informandola del medesimo fatto: «Stette tutto il dì in gran piacer di soni e canti e giochi, poi cenò, e frate Mariano de compagnia, qual fece qualche piacevoleza per far ridere, benchè mal possa scherzare, perchè è mal sano». Ibid.
612. Id., ibid., p. 46.
613. Id., ibid., pp. 47-9.
614. Id., ibid., pp. 69-71.
615. Lettera seconda citata, p. 70.
616. Il cardinale Hergenroether ha intrapresa, come è noto, la pubblicazione dei Regesta di Leone X. Non posso dire se nella parte di essi pubblicata sin ora, e che si stende per i due anni 1513 e 1514, compaja il nome di fra Mariano, perchè mancando ancora un indice dei nomi, la ricerca vi è troppo malagevole.
617. Accresce tale probabilità il fatto che il nome di fra Mariano non s’incontra nel Diario, o almeno nel manoscritto che se ne conserva nella Chigiana, secondo m’assicura il ch. professore Giuseppe Cugnoni, che gentilmente volle torsi la briga di percorrerlo. La stampa procurata dal Delicati e dall’Armellini (Il Diario di Leone X: dai volumi manoscritti degli Archivii Vaticani, Roma, 1884), contiene solo frammenti.
618. Relazioni venete, serie II, vol. III, p. 70-1. Veramente la stampa ha: fra Mariano Ebrandino, e l’editore nota che forse in luogo di Ebrandino è da leggere e Martino; ma un Brandino è ricordato, oltre che dal Giovio, anche dall’Aretino, come vedremo.
619. Comento del Grappa sopra la canzone in lode della salsiccia, Scelta di cur. lett., disp. 184, Bologna, 1881, pp. 77-8. Parlando di certi tordi avuti dal conte Manfredo di Collalto, e mangiati in compagnia del Tiziano, l’Aretino dice che gli erano molto piaciuti, «come piacquero a fra Mariano, al Moro dei Nobili, al Proto da Lucca, ed al Vescovo di Troja gli ortolani, i beccafichi, i fagiani, i pavoni e le lamprede, di che si empierono il ventre con il consenso delle lor anime cuoche delle stelle pazze e ladre, che le infusero in quei corpacci, erarii della superfluità della crapula, anzi paradisi delle vivande solenni...». Lettere, vol. I, f. 26 r. Del resto non erano questi i soli gran ghiottoni. In altra delle sue lettere dice lo stesso Aretino: «Io li vidi al tempo di Leone X quei cari Cardinali del buon Dio! oh come le loro anime cuciniere riempivano voluttuosamente i proprii corpacci!».
620. Giovio, Op. cit., p. 98.
621. Ap. Fabroni, Op. e l. cit.
622. Op. cit., p. 305.
623. Op. cit., l. III, pp. 188-9. Il Lando ricorda ancora quali moderni strenui mangiatori, un Catellaccio Fiorentino, un D. Antonio da Lecce, e un Cola Caforzio, che si mangiava una pezza di lardo. Alla voracità di fra Mariano allude senza dubbio anche Ercole Bentivoglio nella satira A. M. Flaminio, là dove dice:
... io non son Mariano nè il Rizzuolo,
Che come son levati, immantinente
Sen vanno a far la zuppa nel siruolo.
In quel passo del Tizio anche fra Martino è ricordato quale mangione famoso: ma di lui non si hanno, che io sappia, più particolari notizie.
624. Capitolo In lode della sete.
625. L. II, XLIV.
626. L. I, VIII.
627. Lettere facete et piacevoli di diversi huomini grandi, et chiari, et begli ingegni, raccolte da Dionigi Atanagi, Venezia, 1601, l. I, p. 310.
628. Ediz. di Cosmopoli, 1606, p. 220.
629. P. 413.
630. Lettere facete già citate, l. I, p. 167.
631. Luzio, Op. cit., p. 70.
632. Id., ibid., p. 46-7.
633. Le lettere di A. Calmo, ediz. cit., pp. 64-5.
634. Pazeria?
635. Così racconta fra Callisto Piacentino, canonico Lateranense, in una sua omelia. Il Roscoe giudica apocrifo tale racconto (The life and pontificate of Leo the tenth, cap. XXIII); ma esso è confermato da una lettera da Roma, scritta il 21 dicembre del 1521, venti giorni dopo la morte del pontefice, e riportata dal Sanudo. Vedi Gregorovius, Geschicte der Stadt Rom im Mittelalter, Stoccarda, 1859-73, vol. VIII, p. 262.
636. Il sonetto del Berni cui questi versi appartengono non fu composto contro Adriano VI, come già si credette, ma contro Clemente VII.
637. Lettere scritte a Pietro Aretino, emendate per cura di T. Landoni, Bologna, 1873-5, vol. I, p.te I, p. 14-15. Fra Sebastiano diede notizia della cosa anche a Michelangelo Buonarroti. Del succedere di fra Sebastiano a fra Mariano nell’officio di piombatore fa cenno anche il Vasari nella Vita di quello, Opere, ediz. del Sansoni, Firenze, 1877 sgg., vol. V, p. 576.
638. Ibid., pp. 102-3.
Nota del Trascrittore
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