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L’ANIMA, LA NATURA E
LA SAGGEZZA


RALPH WALDO EMERSON

L’ANIMA, LA NATURA E LA SAGGEZZA

SAGGI

1ª E 2ª SERIE

TRADUZIONE DALL’INGLESE
DEL
Prof. MARIO COSSA

BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1911


PROPRIETÀ LETTERARIA

AGOSTO MCMXI — 28476



INDICE


[iii]

AVVERTENZA DEL TRADUTTORE

Era mia intenzione di far precedere alla traduzione uno studio sul grande filosofo americano; ma per ragioni non dipendenti dalla mia volontà e certo non per le solite impazienti sollecitazioni dell’Editore (che anzi mi fu sempre cortese) dovetti abbandonare questo mio disegno con vivo rammarico ancorchè presentasse non poche difficoltà. Perciò ho pensato ch’era la cosa migliore, licenziando questa mia onesta fatica, evitare una prefazione fatta sul tipo di troppe prefazioni messe insieme a colpi di forbice, che hanno nessun pregio, se non quello d’un ingegnoso pasticcio.

Dopo aver passate tante ore d’intimità spirituale con l’Emerson è cresciuta in me l’ammirazione e la riverenza per la sua anima pura, per il suo spirito profondo, per la sua filosofia tutta umana; sarei un ingrato se volessi in poche linee tratteggiare la sua figura, correndo il rischio di fare una caricatura per il desiderio di comporne un rapido schizzo.

Questa è appunto la ragione che m’ha spinto ad aggiungere al volume un indice bibliografico, che è largo se non completo. Il lettore che desideri conoscere con [iv] maggior ampiezza il grande filosofo potrà trovare in esso le indicazioni necessarie.

Avverto ancora che i saggi contenuti in questo libro erano stati composti dall’Emerson per esser pronunziati ad alta voce in pubblico e non per esser riuniti in volume e presentati alla lettura. Ciò darà al lettore ragione di certe oscurità, di certi troncamenti, di certe spezzettature di stile e di pensiero, che l’intonazione viva e varia della voce avrebbe illuminate o coperte.

A me è di grande conforto ciò che scrisse Tommaso Carlyle all’apparire a Londra di questo volume nella sua veste originale: «... Noi dovremo chiamare questo libro il soliloquio di un’anima sincera, sola sotto le stelle...».

Mario Cossa.

Torino, agosto 1911.

[v]

Opere di Ralph Waldo Emerson.

[vii]

BIBLIOGRAFIA

[1]

PRIMO SAGGIO LA STORIA

C’è una sola mente comune a tutti gli uomini individui.

Ciascun uomo è adito ad essa ed a tutto ciò che ad essa appartiene.

Colui, che una volta è ammesso al diritto della ragione, diviene completamente libero; ciò che Platone ha pensato, egli può pensare, ciò che un santo ha sentito, egli può sentire, ciò che in ogni tempo a ciascun uomo è accaduto, egli può comprendere. Chi possiede questa universale mente partecipa di tutto ciò che è o può essere fatto, poichè questa è l’unico e sovrano agente.

La storia è il complesso delle opere della mente. Il suo genio è illustrato dall’intero svolgersi del tempo; l’uomo in nessun modo comprensibile, diviene tale per mezzo della sua storia. L’umano spirito, senza precipitazione, senza riposo, s’appresta fin dal principio a raggruppare ogni facoltà, ogni pensiero, ogni emozione che gli appartenga, intorno ad appropriati eventi. Ma il pensiero precede il fatto; tutti i fatti della storia preesistono nella mente come leggi. Ciascuna legge è a sua volta il prodotto di circostanze predominanti, ed i limiti di natura danno potere ad una sola per volta. Un uomo è l’intera enciclopedia dei fatti.

[2]

La creazione di mille foreste sta in un solo seme; e l’Egitto, la Grecia, Roma, la Gallia, la Britannia, l’America, stanno già rinchiuse nel primo uomo.

Successivamente campo, regno, impero, repubblica, democrazia, sono semplicemente l’applicazione del molteplice spirito umano al molteplice universo.

L’umana mente scrisse la storia e deve leggerla. Come la Sfinge doveva risolvere i suoi propri enimmi, così il complesso della storia, che sta in un uomo, dev’essere totalmente spiegato dall’individuale esperienza. C’è una relazione fra le ore della nostra vita ed i secoli del tempo. Come l’aria ch’io respiro è tratta dai grandi depositi della natura, come la luce sul mio libro è prodotta da un astro, distante cento milioni di miglia, come il peso del mio corpo dipende dall’equilibrio tra le forze centrifughe e quelle centripete; così le ore dovrebbero essere create dalle età e le età spiegate dalle ore.

Ogni singolo uomo è ancora un’incarnazione della mente universale. Tutte le sue proprietà consistono in lui: ogni passo, nella sua privata esperienza, getta una luce su ciò che grandi masse d’uomini hanno fatto, e le crisi della sua vita conducono alle crisi nazionali. Ogni rivoluzione fu in antecedenza un pensiero nella mente di un solo uomo; quando lo stesso pensiero sorge in un altro uomo, s’ha la chiave che apre quel periodo. Ogni riforma fu una volta una personale opinione; e quando un’altra volta diverrà opinione personale, essa scioglierà il problema dell’età. Il fatto narrato, deve corrispondere a qualche cosa in me, che sia credibile od intelligibile: così quando noi leggiamo, dobbiamo trasmutarci in greci, romani, turchi, sacerdoti e re, martiri e giustizieri; dobbiamo unire queste immagini, nella nostra segreta esperienza, a qualche realtà o noi vedremo nulla, impareremo nulla, riterremo nulla. [3] Quanto accadde ad Asdrubale od a Cesare Borgia non è maggiore illustrazione delle forze e delle depravazioni della mente, di quanto non sia ciò che è accaduto a noi. Ciascun movimento politico e ciascuna legge nuova ha significazione per voi. State dinnanzi a ciascuna delle sue tavole e dite: «Ecco uno dei miei manti: Sotto questa fantastica o graziosa od odiosa maschera, la mia proteiforme natura celò sè stessa». Ciò rimedia al difetto della nostra troppo grande prossimità a noi stessi; ciò pone le nostre proprie azioni in prospettiva; e come i granchi, i capri, gli scorpioni, la bilancia e l’acquario, perdono ogni loro meschinità, quando si riflettono come segni nello Zodiaco, così io posso contemplare senza disgusto i miei propri vizi, nelle lontane figure di Salomone, di Alcibiade e di Catilina.

È questa natura universale che dà valore agli uomini e alle cose. La vita umana che la contiene, è misteriosa ed inviolabile e noi la cingiamo di pene e di leggi. Tutte le leggi traggono di qua la loro ultima ragione, tutte esprimono infine reverenza a qualche comando di questa illimitata essenza suprema. La proprietà pure tiene dell’anima, copre grandi fatti spirituali e noi istintivamente aderiamo, a tutta prima, ad essa con spade e leggi, e con ampie e complesse combinazioni. L’oscura coscienza di questo fatto è luce del nostro giorno, il diritto dei diritti, lo scopo dell’educazione, della giustizia, della carità, il fondamento dell’amicizia e dell’amore, dell’eroismo e della grandezza, che appartiene alle azioni derivate dalla fiducia in se stesso. È notevole che involontariamente noi sempre leggiamo come se fossimo superiori. La storia universale, i poeti, i romanzieri, nelle loro grandiose descrizioni — nei palazzi sacerdotali ed in quelli imperiali, nei trionfi della volontà e del genio, in alcun luogo infine non perdono la nostra attenzione; ma piuttosto [4] ciò è vero che nei loro tratti più grandi, là noi ritroviamo maggiormente noi stessi. Quel ragazzo, che legge nell’angolo, sente esser vero per se stesso, tutto ciò che Shakespeare dice del re. Noi simpatizziamo con i grandi momenti della storia, con le grandi scoperte, con le grandi resistenze, con le grandi prosperità degli uomini, perchè la legge fu promulgata, il mare fu esplorato, la terra fu scoperta o il colpo fu dato per noi, come noi stessi vorremmo aver fatto od applaudito.

Così è riguardo alla condizione ed al carattere. Noi onoriamo il ricco, perchè egli ha esteriormente la libertà, il potere ed il favore che noi sentiamo esser propri all’uomo, propri a noi. Così, tutto ciò che è detto dell’uomo saggio dallo storico o dall’orientale o dal moderno studioso, descrive a ciascun uomo la sua propria idea, descrive il suo inarrivato, ma raggiungibile se stesso. Ogni letteratura delinea il carattere dell’uomo saggio; ogni libro, monumento, pittura, conversazione, è il ritratto nel quale il saggio trova i lineamenti, di cui è modellato. Il silenzio e le voci risonanti lodano lui e l’avvicinano, ed egli è stimolato dovunque vada, come da personali illusioni. Un’anima buona e saggia però non deve mai cercare, nel discorso, allusioni personali e lodative. Egli sente la lode, ma non di se stesso, bensì, lode più dolce, di quel carattere cui egli aspira, che è descritto in ogni parola concernente il carattere stesso e più ancora da ogni fatto, che accade nel fluente fiume, o nel fremente grano. La lode è cercata, l’omaggio è offerto, l’amore fluisce dalla natura silenziosa, dalle montagne, dagli splendori del firmamento. Questi avvertimenti, versati a goccie, come se provenissero dal sonno e dalla notte, usiamoli in pieno giorno. Lo studente deve leggere la storia attivamente e non passivamente; deve considerare la sua propria vita il testo, ed il libro il commento. Così [5] costretta, la Musa della storia pronunzierà gli oracoli che giammai disse a quelli, che non rispettano se stessi. Io non ho speranza che bene leggerà la storia alcuno di coloro, i quali pensano che quanto fu fatto in una remota età, da uomini il cui nome risuonò lontano, abbia qualche più profondo senso di ciò che si fa oggi. Il mondo esiste per l’educazione di ciascun uomo. Non c’è età o condizione di società, o modo di azione nella storia, che non corrisponda in qualche modo alla sua vita. Ogni cosa tende nel più meraviglioso modo a rimpicciolir se stessa ed a cedere a lui la sua propria virtù. Egli dovrebbe osservare che potrebbe rivivere tutta la storia nella sua propria persona. Egli deve rimanere nella sua casa, forte e potente, e non sopportare vessazione di re od imperi; egli deve sapere che egli è più grande di tutta la geografia e di tutto il governo del mondo; egli deve rimuovere il punto di vista, dal quale la storia è comunemente letta, cioè da Roma, da Atene, da Londra, a se stesso, e non rifiutare il suo convincimento che egli è la Corte e se l’Inghilterra o l’Egitto hanno qualche cosa da dire a lui, egli giudicherà, altrimenti tacciano per sempre. Egli deve cogliere e ritenere quella sublime visione, in cui i fatti concedono il loro segreto senso ed in cui annali e poesia sono eguali. L’istinto della mente e l’intento della natura denunciano se stessi, sull’uso che noi facciamo delle insigni narrazioni della storia. Il tempo smussa alla luce del sole l’angolarità dei fatti. Nessun’àncora, nessuno schermo, nessuna gomena, giovano a mantenere un fatto come tale; Babilonia, Troia, Tiro, ed anche la prima Roma stanno già passando nella leggenda.

Il giardino dell’Eden, il sole immobile sul Gibeone, è poesia, d’allora in poi, di tutte le nazioni. Chi si cura di ciò che fu il fatto, quando noi l’abbiamo trasformato in una costellazione da appendere nel cielo [6] come immortale segno? Londra, Parigi, e New-York debbono fare lo stesso cammino. «Che cos’è la storia» disse Napoleone «se non una favola convenuta?» Questa nostra vita è connessa con l’Egitto, la Grecia, la Gallia, l’Inghilterra, la guerra, la colonizzazione, la chiesa, la corte, il commercio, come con altrettanti fiori e ornamenti gravi e lieti. Io non farò un’enumerazione di essi. Io credo nell’eternità. Io posso trovare la Grecia, la Palestina, l’Italia, la Spagna e le isole, il genio ed il principio informatore di ciascuna e di tutte le cose nella mia propria mente. Noi ci imbattiamo sempre nella nostra privata esperienza con i fatti, che nella storia ci hanno commossi e con quella li constatiamo. Tutta la storia allora diviene subiettiva: in altre parole non c’è propriamente Storia, ma soltanto Biografia. Ogni anima deve sapere per se stessa tutta la lezione, deve percorrere tutta la terra. Ciò che essa non vede, ciò che essa non vive, essa non conoscerà. Ciò che la passata età ha compendiato in una formula o legge per manipolare convenienza, essa perderà la gioia di verificare, per l’inciampo di quella legge. Ma in un modo o nell’altro, in un tempo o nell’altro, essa domanderà e troverà il suo compenso per questa perdita, col rifare lo stesso lavoro. Ferguson scopri nell’astronomia molte cose che da lungo erano conosciute. — Meglio per lui.

La storia dev’essere questo o è nulla. Ogni legge che lo stato promulga, indica un fatto nell’umana natura: questo è tutto. Noi dobbiamo nella nostra propria natura vedere la necessaria ragione di ogni fatto, vedere come esso poteva e doveva essere. Con questo convincimento volgiamo la nostra attenzione ad ogni opera pubblica o privata, ad una orazione di Burke, ad una vittoria di Napoleone: ad un martirio di Tommaso Moro, di Sidney, di Marmaduke Robinson, ad un Regno del [7] Terrore, ad un Salem impiccante le streghe, ad un fanatico risorgimento, al magnetismo animale di Parigi e alla Provvidenza. Noi concludiamo allora che, sotto eguale influenza, noi saremmo egualmente commossi e compiremmo la stessa opera, e noi aspiriamo a padroneggiare intellettualmente i passi e raggiungere la stessa altezza e la stessa degradazione, che il nostro simile ha raggiunta.

Ogni investigazione nell’antichità, ogni curiosità riguardante le Piramidi, le città dissepolte, Stonehenge, il Messico, Memphi, non è che il desiderio di sopprimere quei feroci e selvaggi e assurdi «là» «allora» per porvi invece il «qui» o «l’oggi»; è bandire il non «io» e porre «l’io»; è abolire la differenza e restaurare l’unità. Belzoni scava e misura nelle tombe e nelle piramidi di Tebe, finchè egli giunge al termine della differenza fra la mostruosa opera e se stesso. Quand’egli ha dimostrato a se stesso, nelle generali e nelle particolari cose, che quella fu compiuta da un uomo simile a lui, armato come lui e per fini, per i quali egli stesso, in date circostanze avrebbe operato, allora il problema è risolto; il suo pensiero vive lungo l’intera teoria dei templi, delle sfingi, delle catacombe; passa tra essi in tutto simile ad un’anima di creatore, con gioia, ed essi rivivono nella mente, ovvero sono «oggi».

Una cattedrale gotica afferma che essa fu costrutta da noi e non da noi. Certamente essa fu fatta da un uomo, che noi non troviamo nell’uomo del nostro tempo. Noi allora applichiamo noi stessi alla storia della sua produzione; poniamoci nel momento e nella condizione storica del costruttore: ricordiamo gli abitanti delle foreste, i primi templi, l’affinità al primo tipo e la decorazione di esso, quando la ricchezza della nazione s’accresceva: ricordiamo il valore che è dato al [8] legno, riferito all’intero cumulo granitico della cattedrale. Quando noi siamo passati per questo processo e siamo giunti alla chiesa cattolica, alla sua croce, alla sua musica, alle sue processioni, ai suoi giorni dei santi e culto delle immagini, noi siamo stati l’uomo che fece la cattedrale; noi abbiamo veduto quanto poteva e doveva essere: noi abbiamo la sufficiente ragione.

La differenza tra gli uomini sta nel loro principio d’associazione. Alcuni classificano gli oggetti a seconda del colore, della forma o di altre apparenze accidentali; altri a seconda di una intrinseca somiglianza o della relazione tra causa ed effetto. Il progresso dell’intelletto consiste in una più chiara visione di cause che tralascia le superficiali differenze. Al poeta, al filosofo, al santo, tutte le cose sono amiche e sacre, tutti gli eventi giovevoli, tutti i giorni benedetti; tutti gli uomini divini. Poichè l’occhio è legato alla vita, sprezza la circostanza. Ogni sostanza chimica, ogni pianta ed ogni animale, nel suo crescere, ammonisce sull’unità della causa e la varietà dell’apparenza.

Perchè, essendo circondati, come noi siamo, da questa omnigena natura, tenera e fluida come una nube o l’aria, saremmo tali difficili pedanti da magnificare poche forme? Perchè terremmo noi calcolo del tempo, della grandezza, dell’esteriorità? L’anima non conosce queste cose, ed il genio, obbedendo alle sue leggi, sa scherzare con esse, così come un ragazzo scherza con i vecchi e nelle chiese. Il genio studia il pensiero causale, e, molto addentro nelle viscere delle cose, vede i raggi partentesi da una sola orbita, che diverge prima ch’essi si stendano per infiniti diametri. Il genio vigila la monade a traverso tutte le sue sembianze, mentre egli rappresenta la metempsicosi della natura. Il genio sorprende attraverso la mosca, il verme, il bruco, l’uovo, il tipo costante dell’individuo; scopre, fra innumerevoli [9] individui, le specie fissate; attraverso molte specie, il genere; attraverso tutti i generi, il costante tipo; attraverso tutti i regni della natura organica, l’eterna unità. La natura è una mutevole nube che è sempre e mai la stessa. Essa trasmuta lo stesso pensiero in moltitudini di forme, come il poeta fa venti favole con una sola morale. Bello riluce uno spirito attraverso la brutalità e la durezza della materia. Sola, onnipotente, essa converte tutte le cose al suo proprio fine. Il diamante splende nella più pura e precisa forma, ma mentre io lo guardo, la linea esteriore e la sua struttura sono interamente cambiate. Così nulla è più variante della forma, eppure essa mai rinnega completamente se stessa. Nell’uomo noi ancora rintracciamo gli accenni ed i rudimenti di tutto ciò che noi stimiamo segni di servilismo nelle razze inferiori, pure in lui essi rialzano ed aumentano la sua nobiltà e grazia; così Io, in Eschilo, trasformata in giovenca, offende l’imaginazione; ma quanto cambiata allorchè come Iside in Egitto, essa incontra Giove, non avente più nulla della metamorfosi, eccetto che le corna a mezzaluna, quali splendidi ornamenti della sua fronte!

L’identità della storia è ugualmente intrinseca, la diversità ugualmente manifesta. C’è alla superficie infinita varietà di cose, al centro c’è semplicità e unità di causa. Quanti sono gli atti di un solo uomo, nei quali noi riconosciamo lo stesso carattere! Rivolgiamo la nostra attenzione alle fonti della nostra conoscenza del genio greco: per prima cosa noi abbiamo la storia civile di quel popolo, come Erodoto, Tucidide, Senofonte, Plutarco, ce la diedero; da essa noi sufficientemente sappiamo chi fu questo popolo e che cosa fece. La sua anima la troviamo ancora espressa per noi, nella sua letteratura, nei poemi, nel teatro, nella filosofia, in una forma completa; più ancora nella sua architettura, [10] la più pura e sensuale bellezza, il perfetto «medium» che mai oltrepassa il limite della convenienza, della grazia incantevole. Nella scultura poi — l’ago sulla bilancia dell’espressione — noi maggiormente vi troviamo la sua anima, sotto ogni aspetto, in ogni azione, in ogni età di vita, attraverso tutte le condizioni, da Dio alla bestia, e mai oltrepassante l’ideale serenità, se non nello sforzo convulso d’essere obbediente all’ordine e alla legge. Così noi abbiamo del genio d’un popolo quattro diverse manifestazioni, la più varia espressione d’un solo valore morale: ed infatti che cosa v’è di più dissimile per i sensi che un ode di Pindaro, un marmo del Centauro, il peristilio del Partenone e le ultime gesta di Focione? Eppure queste varie esteriori espressioni derivano da una sola mente nazionale.

Ciascuno avrà osservato aspetti e forme, che, pur non avendo somiglianza, producono un’egual impressione nello spettatore. Una particolare pittura o un gruppo di versi, se non suscitano lo stesso seguito di immagini, risvegliano lo stesso sentimento che l’ascendere una montagna selvaggia, sebbene l’affinità non sia evidente ai sensi, ma occulta e al di là del limite dell’intelligenza. La natura è un’infinita combinazione e ripetizione di pochissime leggi: essa sommessamente canta il vecchio e ben conosciuto motivo in innumerevoli variazioni.

La natura ha una sublime rassomiglianza di famiglia in tutte le sue opere e con le più inaspettate affinità ci meraviglia. Io ho veduta la testa di un vecchio capo indiano della foresta, che ad un tratto mi ricordò la rotonda e calva sommità d’una montagna ed il solco delle sopraciglia di quella, gli strati della roccia di questa. Ci sono degli uomini, i cui atteggiamenti hanno lo stesso essenziale splendore della semplice e magnifica scultura dei fregi del Partenone e degli avanzi della [11] prima arte greca. Vi sono composizioni, che per il loro carattere, noi troviamo nei libri di tutte le età. Che cosa è l’Aurora di Guido Reni, se non un mattutino pensiero e in essa i cavalli se non una mattutina nube? Se qualcuno vorrà solo osservare la varietà di azioni, alle quali è ugualmente portato in certi stati di mente, e la varietà di quelle a cui è avverso, vedrà quanto è recondito il legame dell’affinità.

Un pittore mi diceva che nessuno può disegnare un albero, senza divenire in qualche modo un albero: che il disegnare un bambino non è semplicemente studiare il contorno delle sue forme, ma vigilare per qualche tempo i suoi movimenti, i suoi giuochi, e allora il pittore penetra la natura di lui e può rappresentarlo a volontà in ogni atteggiamento. Così Roos «entrò nella più segreta natura d’una pecora». Io conobbi un disegnatore, impiegato in un pubblico ufficio, il quale non poteva disegnare delle roccie, finchè non conosceva la loro struttura geologica.

Che cosa si può dedurre da tali fatti se non questo: che in un certo stato di pensiero si trova la comune origine di opere molto diverse? È lo spirito e non il fatto, che è identico. Col discendere giù nella profondità dell’anima e non con il faticoso acquisto di molte abilità manuali, l’artista attinge il potere di destare altre anime ad una data attività.

È stato detto che «le anime comuni rimunerano con ciò che fanno, le anime più nobili con ciò che sono». E perchè? Perchè un’anima, traendo vita dalla grande profondità dell’essere, risveglia in noi, con le sue azioni e le sue parole, con i suoi aspetti ed i suoi modi, quello stesso potere e quella stessa bellezza che una galleria di scultura e di pittura suole suscitare.

La storia civile, la storia naturale, la storia dell’arte, della letteratura, debbono essere spiegate dalla storia [12] individuale o debbono restar parole. Nulla v’è che non abbia rapporto con noi; nulla che non ci interessi: regno, scuola, albero, cavallo; le radici di tutte le cose sono nell’uomo. È nell’anima che l’architettura esiste. Santa Croce e la Basilica di S. Pietro sono imperfette copie d’un divino modello. La cattedrale di Strasburgo è un materiale riflesso dell’anima di Erwin von Steinbach. Il vero poema è la mente del poeta; la vera nave è il costruttore della nave. Se potessimo vedere dentro ad un uomo, noi troveremmo la sufficiente ragione dell’ultima fioritura della sua opera; così ogni spina e colore della conchiglia marina preesistono nei secernenti organi del pesce. Il nocciolo dell’araldica e della cavalleria è nella cortesia. Un uomo di modi cortesi pronuncierà il vostro nome con tutto l’ornamento, che i titoli nobiliari potrebbero ad esso aggiungere.

L’esperienza quotidiana sempre conferma a noi qualche vecchia tradizione e trasmuta in fatti, parole e segni che noi abbiamo uditi e veduti senza porvi attenzione. Arreco come esempi, quelli che cadono nel campo d’osservazione di ciascun uomo, e che pur essendo fatti comuni, giovano ad illustrare grandi e cospicui fatti.

Una signora, con la quale cavalcava nella foresta, mi diceva che le selve le parevano sempre «aspettare», come se i genî che le abitano, interrompessero le loro opere, finchè il viandante fosse oltrepassato. Questo è precisamente il pensiero che la poesia ha celebrato nella danza delle Fate, le quali s’arrestano all’approssimarsi di un passo umano. L’uomo, che ha veduto la saliente luna sgusciare a mezzanotte dalle nubi, è stato presente, come un arcangelo, alla creazione della luce e del mondo. Io mi ricordo d’un giorno estivo, in cui un mio compagno mi additò una larga nube, che s’estendeva per un quarto di miglio lungo l’orizzonte, interamente a forma di cherubino, quali sono dipinti [13] nelle chiese: una massa tonda nel centro, ch’era facile vivificare con gli occhi e la bocca, sorretta da entrambi i lati da ali tese e simmetriche. Ciò che appare una volta nell’orizzonte, può apparire sovente e quella nube fu certamente l’archetipo di quel familiare ornamento. Io ho veduto nel cielo una catena di fulmini estivi, i quali ad un tratto mi rivelarono che i greci disegnarono dal vero, quando dipinsero la saetta nella mano di Giove. Io ho veduto un ammasso di neve lungo le pareti di pietra d’un muro, che evidentemente diede l’idea del comune zoccolo, che accerchia una torre.

Col semplice porre noi stessi in nuove circostanze, noi senza tregua di nuovo scopriamo le leggi e gli ornamenti dell’architettura, e vediamo come semplicemente ciascun popolo abbia ornate le sue primitive case. Il tempio dorico presenta ancora una rassomiglianza con la selvatica capanna, nella quale il Dorico abitò. La pagoda chinese è chiaramente una tenda tartara. I templi indiani ed egiziani ancora palesano i terrapiani e le sotterranee case degli antichi. «L’uso di fare case e tombe nella pietra viva» dice Heeren nelle sue Ricerche sugli Etiopi «stabilì molto chiaramente il carattere dell’architettura Nubio-egiziana, indirizzandola a quella colossale forma, ch’essa assunse. In queste caverne già preparate dalla natura, l’occhio s’era abituato alle forme grandi e massiccie, cosicchè quando l’arte venne in aiuto della natura, essa non potè muoversi su piccola scala senza avvilir se stessa. Che cosa sarebbero sembrate le statue di grandezza usuale o i portici e le ali, unite a quelle gigantesche aule, dinnanzi alle quali solo i colossi potevano sedere come sentinelle od appoggiarsi alle colonne dell’interno?»

La chiesa gotica derivò semplicemente da un rozzo adattamento degli alberi della foresta, con tutti i loro rami, ad una festosa e solenne arcata, e i vincoli attorno [14] alle colonne indicano ancora i verdi vimini che li strinsero. Nessuno può passare per un sentiero tagliato attraverso una foresta di pini, senza essere colpito dell’architettonica apparenza di essa, specialmente nell’inverno — quando la nudità degli altri alberi, mostra il basso arco dei Sassoni. Chiunque potrà in una foresta osservare, durante un invernale pomeriggio, l’origine delle finestre colorate, che adornano le cattedrali gotiche, per mezzo dei colori del cielo occidentale veduti attraverso i nudi ed incrociantesi rami della selva. Nessun innamorato della natura può entrare nei vecchi edifizi di Oxford o nelle cattedrali inglesi, senza sentire che la foresta dominò la mente del costruttore e che la sua sega, il suo scalpello, la sua pialla, sempre riprodussero le vette fiorite, le felci, le locuste, il pino, la quercia, l’abete, il rovere di quella.

La cattedrale gotica è una fioritura in pietra, determinata dall’insaziabile desiderio d’armonia dell’uomo. La montagna di granito si trasmuta in un eterno fiore, con la leggerezza e la delicata finezza della prospettiva e delle aeree proporzioni della bellezza vegetale.

In ugual modo tutti i pubblici fatti debbono essere individualizzati, e tutti i fatti privati generalizzati. Solo allora la storia diviene ad un tratto fluida e vera, e la biografia profonda e sublime. Come il persiano imitò negli agili fusti e nei capitelli della sua architettura lo stelo del fior di loto e della palma, così la corte persiana, nella sua grandiosa età, giammai desistette dal nomadismo delle sue barbare tribù, ma peregrinò da Ecbatana, sul finir di primavera, a Susa in estate ed a Babilonia in inverno.

Nei primordi della storia d’Asia e d’Africa, il nomadismo e l’agricoltura sono i due fatti antagonistici. La geografia dell’Asia e dell’Africa richiedeva una vita nomade. Ma i nomadi erano il terrore di quelli, che [15] la terra ed i guadagni d’un mercato avevano indotto a costruir città. L’agricoltura fu pertanto un obbligo religioso a causa dei pericoli che allo stato derivavano dal nomadismo. E in queste civili contrade d’Inghilterra e d’America, l’urto di queste tendenze ancora s’agita in ciascun individuo. Noi tutti siamo girovaghi e stazionari, a seconda delle vicende ed a seconda di vicende rapide e piacevoli. I nomadi d’Africa sono forzati a peregrinare in causa degli assalti del tafano, che fa impazzire il bestiame e obbliga la tribù ad emigrare nella stagione piovosa ed a condurre il bestiame in più alte regioni sabbiose. Il nomade d’Asia continua la pastura di mese in mese. In America e in Europa, il nomadismo è il risultato del commercio e della curiosità: e dal tafano di Astabora all’anglo ed italomania di Boston-Bay certamente v’è un progresso. La differenza fra gli uomini, sotto questo aspetto, sta nella facoltà del rapido adattamento e nel potere di trovar dovunque la sedia ed il letto, potere ed adattamento che uno ha ed un altro non ha. Alcuni uomini hanno tanto dell’indiano mancato, hanno costituzionalmente tali abiti di accomodamento, che al mare o nella foresta o nella neve, essi dormono comodamente e pranzano con lo stesso buon appetito e s’affratellano così lietamente, che nelle loro case. E se noi portiamo questo vecchio fatto ad un grado più alto, noi possiamo considerarlo il rappresentante d’un avvenimento permanente nell’umana natura.

Il nomadismo intellettuale è la facoltà dell’oggettivismo o la facoltà degli occhi di rimunerarsi ovunque. Chi ha questi occhi trova ovunque facili relazioni con il suo compagno-uomo. Ciascun uomo, ciascuna cosa, è un pregio, uno studio, una proprietà per lui e questa sua benevolenza spiana il suo ciglio, unisce lui agli uomini e lo fa bello e caro al loro sguardo. La sua casa è una vettura, ed egli vaga attraverso tutte le latitudini [16] così facilmente come un Calmucco. Ogni cosa che l’individuo vede, corrisponde ai suoi stati di mente ed è a sua volta a lui intellegibile, mentre il suo progressivo pensiero lo conduce alla verità, alla quale questo fatto o serie di fatti appartengono.

Il mondo primitivo, io posso ricercarlo in me stesso, così bene com’io posso frugarlo, con tremanti dita, nelle catacombe, nelle biblioteche e negli infranti rilievi e torsi delle sue ville abbattute.

Qual’è il fondamento dell’interesse, che tutti gli uomini provano per la storia greca, le lettere, l’arte, la poesia, in tutti i suoi periodi, dall’età eroica ed omerica, fino alla domestica vita degli spartani e degli ateniesi, quattro o cinque secoli più tardi? Questo periodo ci attrae perchè noi siamo greci. Esso è uno stato attraverso il quale ciascun uomo in qualche modo passa. Il periodo greco è l’êra della natura corporea, della perfezione dei sensi, della spirituale natura svelata in istretta unità col corpo. In ciò esistettero quei corpi umani, che provvidero allo scultore i modelli di Ercole, Febo e Giove; non certo tali sono le figure che abbondano nelle strade delle moderne città, in cui v’è un confuso tentativo di lineamenti ed in cui le orbite sono così formate, che sarebbe impossibile agli occhi di guardar di sbieco e di lanciar sguardi da una parte o dall’altra, senza volgere interamente il capo.

I costumi di quell’età sono schietti e fieri. Si rende pubblicamente onore per personali qualità, per il coraggio, l’accorgimento, la padronanza di sè, la giustizia, la forza, la rapidità, la voce tonante, il petto ampio. Il lusso non è conosciuto, così l’eleganza. La popolazione sparsa e il bisogno rende ciascun uomo servitore di se stesso: cuoco, macellaio e soldato; l’abito di provvedere alle proprie necessità educa il corpo a meravigliose azioni.

[17]

Tali sono gli Agamennoni e i Diomede di Omero e non molto diversa è la descrizione che Senofonte fa di se stesso e dei suoi compagni nella Ritirata dei Diecimila: «Dopochè l’armata ebbe attraversato il fiume Teleboa nell’Armenia, lì cadde molta neve e le truppe giacquero miserevolmente sulla terra, coperte da essa. Ma Senofonte s’alzò ignudo e, presa una scure, cominciò a spaccar legna; allora gli altri pure s’alzarono e fecero lo stesso». In tutto il suo esercito pare vi fosse un’illimitata libertà di parola. Essi vengono a contesa per il bottino; discutono con i generali ad ogni nuovo ordine e Senofonte è linguacciuto come alcun altro e più linguacciuto che i più, e rende pane per focaccia. Chi non vede che questa è una truppa di grandi ragazzi con lo stesso codice d’onore e la stessa rilassata disciplina?

La superba bellezza dell’antica tragedia e di tutta la letteratura consiste in ciò, che i personaggi parlano semplicemente, come persone dotate di molto buon senso, prima ancora che la riflessione sia divenuta l’abito predominante della mente. La nostra ammirazione per l’antico non è ammirazione del «vecchio», ma del «naturale». I greci non sono riflessivi, ma sono perfetti nei loro sensi, perfetti nella loro salute, con la più sottile organizzazione fisica del mondo. Adulti operano con la semplicità dei bambini. Essi facevano vasi, tragedie, statue, guidati dall’equilibrio perfetto dei loro sensi, vale a dire con buon gusto. Tali cose si continuarono a fare in tutte le età ed anche ora, dovunque esista un fisico vigoroso; ma come una classe, per la loro superiore organizzazione, essi hanno superato tutti. Essi fondono insieme l’energia della maturità colla seducente incoscienza della fanciullezza, e la nostra reverenza per essi è reverenza per la fanciullezza. Nessuno può pensare ad un atto inconscio o con compatimento o con [18] disprezzo. Bardo od eroe, nessuno può guardar dall’alto la parola od il gesto di un fanciullo. Esso è grande come loro. La seduzione dei loro costumi è tale, perchè essi appartengono all’uomo e sono da esso conosciuti, per esser stato, ciascuno uomo, fanciullo un tempo, e perchè ci sono individui che serbano tali caratteristiche. Una persona dotata di genio fanciullesco e di innata energia è ancora un greco e rivive il nostro amore per la musa dell’Ellade. Un grande fanciullo ed una grande fanciulla, di buon senso, sono greci. Bello è l’amore della natura in Filottete, e nel leggere quelle sottili apostrofi al sonno, alle stelle, alle roccie, alle montagne, alle onde, io sento il tempo trascorrere come un rifluente mare. Io sento l’eternità dell’uomo, l’identità del suo pensiero. Il greco ebbe, così pare, gli stessi compagni, che io ho. Il sole e la luna, l’acqua ed il fuoco, incontrarono il suo cuore precisamente come questi incontrarono il mio. Allora la vantata distinzione fra greco ed inglese, fra scuola classica e romantica, appare una pedante e superficiale distinzione. Quando un pensiero di Platone diviene pensiero mio, quando una verità che divampò nell’anima di Pindaro, divampa nella mia, il tempo è più nulla. Quando io sento che noi due c’incontriamo in una percezione, che le nostre due anime sono tinte dello stesso colore, e si fondono in una sola, perchè dovrei io misurare i gradi di latitudine e contare gli anni d’Egitto?

Lo studente interpreta l’età della cavalleria mediante la sua propria età della cavalleria e le avventure di mare e di circumnavigazione, mediante la sua propria parallela esperienza in miniatura. Per la consacrata storia del mondo egli ha la stessa chiave. Quando la voce d’un profeta, dagli abissi dell’antichità, è semplicemente eco d’un sentimento della sua propria infanzia, d’una preghiera della sua propria giovinezza, [19] egli allora giunge alla verità attraverso la confusione delle tradizioni e la caricatura delle istituzioni.

Rari, bizzarri spiriti vengono a noi di tempo in tempo che ci rivelano nuovi fatti della natura. Io vedo che gli uomini di Dio hanno sempre camminato tra gli uomini ed hanno fatto sentire nel cuore e nell’anima del più comune uditore, la loro missione. Onde, evidentemente, il tripode, il sacerdote, la sacerdotessa, furono ispirati dal divino afflato.

Gesù meraviglia e soggioga un popolo sensuale. Essi non possono unire lui alla storia e riconciliarlo con se stessi, ed allora s’apprestano a venerare le loro intuizioni e ad aspirare alla vita santa, mentre la loro stessa devozione spiega ogni fatto ed ogni parola.

Come facilmente le vecchie adorazioni di Mosè, di Zoroastro, di Socrate, di Meno, s’adagiano nella mente. Io non posso trovare in esse alcuna antichità. Esse sono tanto mie quanto loro.

Io ho visto il primo monaco ed anacoreta, senza traversare mari e secoli. Più d’una volta qualcuno è apparso a me, pregando in nome di Dio, così trascurante del lavoro, così imponente nella sua contemplazione, come se rincarnasse, nel XIX secolo Simeone lo stilista, la Tebaide ed il primo Cappuccino.

L’arte sacerdotale dell’est e dell’ovest, del Bramino, del Druido e dell’Inca, viene spiegata nella privata vita di ciascun individuo. L’influenza che un rigido formalista ha su un ragazzo, reprimendo i suoi spiriti ed il suo coraggio, paralizzando la sua intelligenza, senza produrre indignazione, ma timore ed obbedienza ed anche simpatia verso il tiranno, è un fatto familiare, chiaro al ragazzo quando diviene uomo e quando vede che l’oppressore della sua giovinezza è egli stesso un ragazzo, dominato da quei nomi, da quelle parole, da quelle forme, della cui influenza egli fu semplicemente [20] lo strumento. Il fatto insegna a lui come Belo fu adorato e come le piramidi furono costrutte, meglio che la scoperta fatta da Champollion dei nomi di tutti gli operai e del costo di ciascuna lastra. Egli trova l’Assiria e i baluardi di Cholula alla sua porta, ed egli stesso ne ha poste le basi.

Ancora, in quella protesta che ciascun uomo di giudizio fa contro la superstizione del suo tempo, egli recita punto per punto la parte dei vecchi riformatori, e nella ricerca della verità s’imbatte, come essi, in nuovi pericoli per la virtù. Egli impara di nuovo quale morale vigore abbisognò per supplire l’appoggio di una superstizione. Una grande sregolatezza cammina sui passi d’una riforma. Quante volte nella storia del mondo il Lutero dell’epoca ha dovuto lamentare il languire della devozione nella sua propria casa! «Dottore — disse un giorno a Martino Lutero la sua sposa — perchè quand’eravamo soggetti al papato noi pregavamo così sovente e con grande fervore e ora noi preghiamo con la maggior freddezza e molto di rado?»

L’uomo progredito scopre quali profondi attributi egli ha in tutta la letteratura, in tutte le favole come in tutta la storia. Egli si persuade che il poeta non fu lo strano individuo, che descrisse strane ed impossibili situazioni, ma fu l’universale uomo, che scrisse con la sua penna una confessione vera per uno e vera per tutti. Egli trova la sua propria segreta biografia, in parole meravigliosamente intelligibili a lui, scritte già prima ch’egli nascesse. Una dopo l’altra le vicende della sua vita privata combaciano con ciascuna favola di Esopo, di Omero, di Hafiz, dell’Ariosto, di Chaucer, dello Scott e personalmente le constata.

Le belle favole dei greci, essendo proprie creazioni dell’immaginazione e non della fantasia, sono universali verità. Quale moltitudine di significati e quale [21] perpetua attualità ha la storia di Prometeo! Oltre il suo principale valore, come primo capitolo della storia di Europa, essa ci dà la storia della religione con qualche riferimento intorno alla credenza delle età più tarde. Prometeo è il Gesù della vecchia mitologia: egli è l’amico dell’uomo; egli sta tra l’ingiusta «giustizia» dell’Eterno Padre e la schiatta dei mortali: e sollecitamente ogni cosa sopporta a suo benefizio. Ma dove la sua storia si stacca dal cristianesimo calvinistico e mostra lui come sfidatore di Giove, essa rappresenta uno stato di mente che appare dovunque la dottrina del teismo è appresa sotto una cruda forma obbiettiva e pare l’autodifesa dell’uomo contro questa menzogna, rivelantesi in uno scontento per la creduta esistenza d’un Dio, e in un sentimento d’aggravio per la reverenza a Lui dovuta. Essa vorrebbe involare, se potesse, il fuoco al Creatore e vivere separata da lui ed indipendente. Il Prometeo Vinto è il romanzo dello scetticismo. Nè meno vere sono per tutti i tempi le particolarità di quel superbo apologo. Apollo custodì le greggi d’Admeto, dissero i poeti. Ogni uomo è una divinità travestita, un dio che rappresenta la parte dell’imbecille. Egli appare come gli insani angeli, che il cielo mandò nel nostro mondo, i quali qui giunti intonano la loro musica nativa e pronunziano ad intervalli le parole udite in cielo, finchè, tornata la pazzia, essi istupidiscono e s’avvoltolano come cani. Quando gli dei scendono fra loro non sono riconosciuti; Gesù non lo fu; Socrate e Shakespeare non furono; Anteo fu soffocato dalla stretta di Ercole, ma ogni qualvolta toccò la madre terra, il suo vigore si rinnovò. L’uomo è il gigante abbattuto, ma in tutta la sua debolezza, sia il suo corpo che la sua mente sono rinvigoriti dall’abito di conversare con la natura. Il potere della musica, quello della poesia, di render fluida e dar ali a tutta la solida natura, spiegano a lui [22] l’enigma d’Orfeo, che fu nella sua infanzia solo una vana fiaba. La percezione filosofica dell’identità attraverso le infinite mutazioni della forma, fa conoscere a lui il Proteo. Che cosa altro sono io, che risi e piansi ieri e dormii la passata notte come un corpo morto e stamane mi alzai e corsi? Che cosa vedo io in ogni parte, se non le trasmigrazioni del Proteo? Io posso simbolizzare il mio pensiero, usando il nome di qualsiasi creatura, di qualsiasi fatto, perchè ogni creatura è uomo agente o paziente. Tantalo non è che un nome per voi e per me. Tantalo significa l’impossibilità di bere le acque del pensiero, che sono sempre raggianti ed ondeggianti nella visione dell’anima. La trasmigrazione delle anime: anche ciò non è fiaba: io vorrei che fosse tale, ma uomini e donne non sono che a metà umani. Ogni animale della cascina, del campo e della foresta, della terra e delle acque, ha trovato modo di stanziarsi e di lasciare l’impronta delle sue fattezze e della sua forma, in uno o nell’altro di questi esseri eretti, che parlano alzando il viso al cielo. Ah! fratello, tienti avvinto all’uomo e tieni a segno la bestia: arresta il declinare della tua anima, rifluente verso quelle forme, nel cui uso tu per molti anni indugiasti. Pure vicino a noi è la vecchia favola della Sfinge, che seduta sul margine della strada, poneva enimmi ad ogni viandante: S’egli non sapeva rispondere, essa vivo l’inghiottiva, se rispondeva essa veniva uccisa. Che cos’è la nostra vita se non un’infinita fuga di fatti e di eventi alati? Con splendida varietà queste vicende giungono, tutte ponendo questioni all’umano spirito. Chi non risolve con una superiore saggezza questi fatti o queste questioni diviene schiavo. I fatti lo vincolano, lo soggiogano e lo fanno l’uomo del senso, nel quale una completa obbedienza ai fatti ha estinto ogni scintilla di quella luce, per cui l’uomo è veramente uomo. Ma se l’uomo, fedele ai suoi migliori [23] istinti e sentimenti, rifugge il dominio dei fatti come colui che scende da una più alta schiatta e rimane stretto alla sua anima, allora i fatti cadono e ritornano al loro posto, riconoscono il loro signore ed il più insignificante di essi lo glorifica.

Vedete nell’Elena di Goethe lo stesso desiderio che ogni parola sia una cosa. Queste figure, egli dice, questi Chironi, Griffoni, Elena e Leda, sono qualche cosa e certamente esercitano una peculiare influenza sulla mente. Pur così lontane, sono esse eterne entità, tanto reali oggi come nella prima Olimpiade. E riflettendo su esse egli liberamente scrive, secondo il suo carattere e dà ad esse corpo con la sua propria immaginazione. E benchè questo poema sia vago e fantastico come un sogno, pure è più attraente che la più regolare opera drammatica dello stesso autore; per la ragione che solleva la mente dal solito seguito d’imagini, desta l’invenzione e la fantasia del lettore con la selvaggia libertà del disegno e con l’incessante succedersi di destri colpi di scena.

L’universale natura, troppo forte per la debole natura del bardo, siede sul suo collo e scrive con le sue mani: cosicchè quando par ch’egli esprima un semplice capriccio o un impetuoso romanzo, il risultato è un’esatta allegoria. Per questo Platone disse che «i poeti dicono grandi e saggie cose, che essi stessi non comprendono». Tutte le opere di fantasia del medio evo sono un’oscura e bizzarra espressione di ciò che la mente di quel periodo tentò di effettuare. La magia, e quanto è ascritto ad essa, è manifestamente un profondo presentimento dei poteri della scienza. Gli stivali di velocità, la spada affilata, il potere di sottomettere gli elementi, di usare le segrete virtù dei minerali, di comprendere la voce degli uccelli, sono gli oscuri sforzi della mente verso una retta direzione. La straordinaria [24] prodezza dell’eroe, il dono della perpetua gioventù ed altre simili cose sono uguali allo sforzo dello spirito umano di «piegare le sembianze delle cose ai desideri della mente».

Nel Perceforest e in Amadis di Gaula, un serto e una rosa fioriscono sul capo di colei che è fedele e sfioriscono sulla fronte di colei che è incostante. Nella storia del Ragazzo e del Mantello, anche un maturo lettore può essere commosso da virtuosa gioia per il trionfo della gentile Genalas: e, in verità, tutti i postulati degli annali della magia: che alle Fate non garba d’esser nominate, che i loro doni sono capricciosi e non degni di fiducia, e che colui che cerca un tesoro non ne deve parlare e simili, io trovo esser veri in Concord, per quanti essi possono esser in Cornovaglia o in Brettagna.

È forse altrimenti nel più recente romanzo? Io leggo la Sposa di Lamermoor. Sir William Ashton è una maschera per una volgare tentazione; il Castello di Ravensvood è un gentil nome per un’orgogliosa povertà, e la missione governativa all’estero è soltanto un pretesto di Bugan per un onesto lavoro. Noi possiamo tutti annullare una bolla che voglia distruggere il buono ed il bello col combattere l’ingiusto ed il sensuale. Lucia Ashton è un altro nome per la fedeltà, che è sempre bella e sempre soggetta alle calamità di questo mondo.

Ma unitamente alla civile e metafisica storia dell’uomo, un’altra storia procede, quella del mondo esterno, con la quale egli non è meno strettamente legato. Egli è il compendio del tempo; egli è anche il correlativo della natura. Il potere dell’uomo consiste nella moltitudine delle due affinità, nel fatto che la sua vita è intrecciata con l’intera catena dell’essere organico ed inorganico. Nell’età dei Cesari, in Roma, procedevano dal Foro le [25] grandi vie del nord, del sud, dell’est, dell’ovest, verso il centro di ciascuna provincia dell’impero, rendendo ciascuna città della Persia, della Spagna, della Brettagna, penetrabile ai soldati della capitale: così dall’umano cuore partono vie al cuore di ciascun oggetto di natura, per ridurlo sotto il dominio dell’uomo. Un uomo è un fascio di relazioni, un modo di radici, il cui fiore e frutto è il mondo. Tutte le sue facoltà si collegano a nature fuori di lui, tutte le sue facoltà predicono il mondo che egli deve abitare, come le pinne dei pesci predicono l’esistenza dell’acqua o come le ali d’un’aquila in germe presuppongono un «medium» chiamata aria. Isolatelo e voi lo distruggete. Egli non può vivere senza un mondo. Rinserrate Napoleone in un’isola; fate che le sue facoltà non trovino uomini da dominare, alpi da valicare, poste da scommettere ed egli batterà l’aria ed apparirà stupido. Trasportatelo in un grande paese, con densa popolazione, con complessi interessi, con potere avverso, e voi vedrete che l’uomo Napoleone, inceppato da tali condizioni, non è il Napoleone virtuale. Questi non è che l’ombra di Talbot:

«La sua sostanza non è qui, perchè ciò che voi vedete non è che la più piccola parte e la minore porzione d’umanità; ma se fosse qui il suo intiero essere, esso è di tale immensa grandezza, che il vostro tetto non sarebbe sufficiente a contenerlo.[1]

Colombo abbisogna di un pianeta verso cui dirigere la sua rotta. Newton e Laplace abbisognano di miriadi di età e di immense aree celestiali. Si può dire che un sistema solare gravitante è di già profetizzato in natura dalla mente di Newton. Non meno ripromettono le leggi dell’organizzazione, i cervelli di Davy e di Gay-Lussac, fin dalla fanciullezza ricercando sempre le [26] affinità e repulsioni delle molecole. L’occhio dell’embrione umano non predice la luce? L’udito di Händel non predice l’arte dei suoni? Le industriose dita di Watt, Fulton, Whittemore, Arkwright, non predicono la temperabile e fusibile tessitura dei metalli, la proprietà della pietra, dell’acqua e del legno? I graziosi attributi della bambina non predicono le raffinatezze e gli ornamenti della società civile? Anche qui noi ricordiamo l’azione dell’uomo sull’uomo. Una mente potrebbe stillare il suo pensiero per anni ed anni e non guadagnare tanta auto-conoscenza quanta la passione dell’amore ad essa insegnerà in un giorno. Chi conosce se stesso prima di essere, con indignazione, colpito da un oltraggio o prima di aver udito una lingua eloquente o d’aver partecipata al battito di mille cuori in un’esultanza od allarme nazionale? Nessun uomo può precorrere la sua esperienza o indovinare quale facoltà o sentimenti un nuovo oggetto potrà destare in lui, più di quanto egli possa tratteggiare oggi, il viso d’una persona che egli vedrà domani per la prima volta.

Io non mi farò forte ora dell’affermazione generale per indagare la ragione di questa corrispondenza. Basti che sotto la luce di questi fatti, che, cioè, la mente è una sola e che la natura è la sua corrispondente, la storia venga letta e scritta.

Così in tutti i modi l’anima concentra e riproduce i suoi tesori per ogni novello scolaro. Egli pure passerà attraverso l’intero ciclo dell’esperienza. Egli raccoglierà in un fuoco i raggi della natura. La storia non sarà più un libro noioso; essa camminerà incarnata in ogni uomo giusto e saggio. Voi non mi direte in lingue e titoli diversi un catalogo dei volumi letti. Voi mi farete sentire quali periodi voi avete vissuti. Un uomo sarà il tempio della Fama: egli camminerà come quella dea che i poeti hanno descritta, in una veste ricamata [27] di eventi meravigliosi e di dottrine; la sua propria forma e le sue fattezze saranno quella variegata veste. Io troverò in lui il mondo primitivo; nella sua fanciullezza l’età d’oro; il frutto della scienza; la spedizione degli argonauti; la chiamata di Abramo; la costruzione del tempio; la venuta di Cristo; l’età media; il rinascimento, la riforma; le scoperte delle terre nuove; l’apparire delle nuove scienze e dei nuovi orizzonti aperti all’uomo. Egli sarà il sacerdote di Pan, e porterà con sè nelle umili capanne la benedizione delle stelle mattutine e tutti i ricordati benefizi del cielo e della terra.

V’è qualchecosa di troppo presuntuoso in questa pretesa? Allora io disdico tutto ciò che ho scritto, poichè a che cosa serve il pretendere di sapere ciò che noi non conosciamo? Ma è per una lacuna della nostra rettorica che noi non possiamo fortemente affermare un fatto senza parere di calunniarne un altro. Io tengo la nostra attuale scienza in pochissima stima. Udite i topi nel muro, guardate la lucertola sulla siepe; i funghi sotto i vostri passi; i licheni sul tronco. Che cosa so io intorno a qualsiasi di questi mondi di vita simpaticamente e moralmente? Così a lungo come l’uomo del Caucaso, più a lungo forse, queste creature hanno tenuto i loro concilii vicino a lui e non v’è ricordo di alcuna parola e di alcun segno passato fra essi. Ancora, che cosa ricorda la storia degli annali metafisici dell’uomo? Quale luce versa essa su questi misteri, che noi veliamo sotto il nome di Morte ed Immortalità? Ancora, ogni storia dovrebbe scriversi con una veggenza che divinasse il cerchio delle nostre affinità e ci presentasse i fatti sotto luce di simboli. Io sono vergognoso di constatare che la nostra così detta storia è un futile racconto di villaggio. Quante volte noi dobbiamo dire Roma e Parigi e Costantinopoli! Che cosa sa Roma del topo e della lucertola? Che cosa sono le [28] Olimpiadi e i Consolati per questi esseri a noi vicini? Oltre a ciò quale alimento od esperienza o soccorso rappresentano essi per i pescatori di foche esquimesi, per il Kanàka nella sua canoa, per il caricatore di bastimenti, per il facchino? Più ampi e più profondi noi dobbiamo scrivere i nostri annali, partendo da una riforma etica, da un influsso della coscienza sempre rinnovata, sempre salutare, se noi vogliamo più francamente esprimere la nostra centrale natura, invece di questa vecchia cronologia di egoismo e di superbia, alla quale noi, per troppo lungo tempo, abbiamo dato i nostri occhi. Quel giorno già esiste per noi, esso brilla di già su noi, impensatamente; ma il cammino delle scienze e delle lettere non è il penetrare nella natura, ma piuttosto il partirsi da essa. L’idiota, l’indiano, il ragazzo e l’incolto fanciullo del contadino, s’avvicinano a ciò e lo comprendono molto più che non l’anatomico e l’antiquario.

[29]

SECONDO SAGGIO LA FIDUCIA IN SE STESSO

Io lessi l’altro giorno alcuni versi scritti da un eminente pittore, che erano originali e non convenzionali. L’anima, qualunque sia il soggetto, sente sempre in essi un ammonimento ed il sentimento che essi instillano ha maggior valore di qualunque pensiero essi possano contenere. Credere nel vostro proprio pensiero, credere che ciò che è vero per voi, nella nostra segreta anima, è vero per tutti gli uomini, questo è il genio. Dite la vostra convinzione latente ed essa sarà il senso universale; poichè quanto è interiore diviene a tempo debito esteriore, e il nostro primo pensiero ci è ritornato dalle trombe del giudizio universale. Il più alto merito che noi ascriviamo a Mosè, a Platone, a Milton è d’esser famigliari a ciascun uomo come la voce della mente, poichè essi annullano libri e tradizioni e dicono, non ciò che gli uomini, ma ciò che essi stessi pensarono. Un uomo dovrebbe imparare a scoprire e ad osservare quel raggio di luce che irrompe dall’interno, a traverso la sua mente, più che ad osservare la luminosità del firmamento, dei bardi e dei saggi; invece egli abbandona, senza riguardo, il suo pensiero, solo perchè è suo. Noi ritroviamo, in ogni opera di genio, dei pensieri, che noi abbiamo rifiutati ed essi ritornano a noi con un certo senso di maestà scacciata. [30] Le grandi opere d’arte non hanno per noi maggior insegnamento di questo: esse ci insegnano ad aderire alle nostre impressioni spontanee, con serena inflessibilità, specialmente quando l’intiero coro delle voci è dalla parte opposta. Altrimenti domani uno straniero ci dirà, con un buon senso magistrale, precisamente ciò che noi abbiamo pensato e sentito da lungo tempo, e noi saremo obbligati a riprendere, con vergogna, la nostra propria opinione da un altro.

V’è un’epoca nell’educazione di ciascun uomo, nella quale egli giunge alla convinzione che l’invidia è ignoranza; che l’imitazione è suicidio; che egli deve prender se stesso per il meglio e per il peggio, come sua propria parte; che sebbene l’ampio universo è pieno di bene, nessun chicco di frumento può giungere a lui, se non attraverso il suo lavoro, duramente compiuto su quel pezzo di terreno, che gli è stato dato a coltivare. Il potere che risiede in lui è nuovo in natura, e nessuno, all’infuori di lui, sa ciò che egli può fare, nè egli stesso lo sa finchè non ha tentato. Non per nulla un viso, un carattere, un fatto, fa su lui molta impressione ed un altro nessuna: e questa impressione nella memoria non è senza armonia prestabilita. L’occhio fu posto dove un raggio deve cadere, come testimonianza di quel particolare raggio. Coraggiosamente lasciategli dire l’ultima parola della sua confessione; poichè noi ci esprimiamo solamente a metà, e siamo vergognosi di quella idea divina, che ognuno di noi rappresenta. Si può avere in essa assoluta fiducia e stimarla atta a buoni risultati e crederla lealmente concessa, ma Dio non permetterà che la sua opera sia fatta manifesta ai codardi. È necessario un uomo divino per esporre alcunchè di divino; un uomo è sereno e lieto quando ha posta la sua anima nella sua opera ed ha fatto del suo meglio; ma ciò che egli ha detto o fatto [31] altrimenti, non gli darà pace; l’aver compiuta l’opera non lo ristora affatto e nel tentativo il suo genio l’abbandona; nessuna Musa, nessun accorgimento, nessuna speranza lo soccorrono. Abbiate fiducia in voi stessi, accettate il posto che la divina Provvidenza vi ha assegnato: vale a dire la società dei vostri contemporanei, la connessione degli eventi. I grandi uomini hanno sempre fatto così e si sono confidati come bambini al genio della loro età, palesando l’intuizione dell’Eterno moventesi nel loro cuore, operante per mezzo delle loro mani, predominante in tutto l’essere loro. E noi siamo ora uomini e dobbiamo accettare con la più alta volontà lo stesso trascendente destino, nè dobbiamo rimanere rannicchiati in un angolo, nè essere dei codardi fuggenti dinnanzi ad una rivoluzione; ma dobbiamo essere dei redentori e dei benefattori; e pii aspiranti ad essere della nobile creta, plastica sotto gli sforzi dell’Onnipotente, avanziamoci sempre più di fronte al Caos e l’Ignoto. La natura ci dà, a questo proposito, con i visi e la condotta dei fanciulli, dei bimbi e perfino degli animali, dei meravigliosi ammonimenti. Essi non hanno nè una mente scomposta e ribelle, nè un sentimento di diffidenza, perchè essi non conoscono la nostra aritmetica, che ha computato la forza, ed i mezzi contrari al nostro proposito. La loro mente è intatta, il loro occhio è ancora indomito; e quando noi guardiamo i loro visi, rimaniamo turbati. L’infanzia si uniforma a nessuno; tutti si uniformano ad essa; cosicchè comunemente un bimbo tiene fronte a quattro o cinque adulti, che scherzano e giocano con lui. In ugual modo Dio ha munito la gioventù e la pubertà e la virilità d’una sua propria arguzia, d’un suo proprio fascino e l’ha fatta individuale e graziosa, e i diritti di ciascuna non saranno posti da banda, se ciascuna starà da sè. Non pensate che la gioventù non abbia forza alcuna, perchè non può [32] parlare a voi e a me. Zitti! chi parla nell’altra camera in modo così chiaro e così baldanzoso? Santo Cielo! È lui, è quel miracolo di modestia e di calma, che per settimane intiere non ha fatto altro che mangiare quando voi eravate vicino e che ora mette fuori queste parole, come rintocchi di campane! Sembra che egli sappia come parlare ai suoi contemporanei; timido od audace, dunque, egli saprà come rendere noi, più vecchi, completamente inutili. La noncuranza dei ragazzi, che sono sicuri d’un pranzo, e che sdegnerebbero, come un lord, di fare o di dire qualsiasi cosa per conciliarsi con qualsivoglia, è l’affermazione dell’attitudine vigorosa della natura umana. Come è padrone della società un ragazzo! Indipendente, irresponsabile, guardando dal suo cantuccio egli giudica a seconda dei meriti tutta la gente ed i fatti che passano, con quel modo rapido e sommario proprio dei ragazzi, come: buono, cattivo, interessante, stupido, eloquente, noioso. Egli non si preoccupa mai delle conseguenze e dei vantaggi: egli dà un verdetto indipendente e genuino. Voi dovete corteggiare lui, egli non corteggia voi: l’uomo è incatenato dalla sua consapevolezza. Così tosto come egli ha parlato o fatto qualchecosa con successo, egli è persona condannata, guardata dalla simpatia o dall’odio di cento, i cui affetti ora devono entrare nel suo capo d’accusa! Non vi è Lete per questo. Ah! se egli potesse di nuovo ritornare alla sua indipendenza neutrale, simile a quella d’un Dio! Chi, avendo perduta ogni quiete ed avendo osservato, può osservare ancora dall’alto della stessa innocenza semplice, incorrotta e impassibile, dev’essere formidabile e deve sempre attirare l’attenzione del poeta e dell’uomo; e certo la potenza di tale giovinezza immortale sarebbe sentita. Essa manifesterebbe opinioni su tutti gli affari che passano, opinioni che non apparendo personali, ma necessarie, si conficcherebbero [33] come freccie nell’orecchio degli uomini e genererebbero in essi il terrore.

Queste sono le voci che noi udiamo nella solitudine, ma che diventano deboli ed inintelligibili, quando noi entriamo nel mondo. La società, ovunque, è in cospirazione contro la virilità di ciascuno dei suoi membri; essa è una società in accomandita, nella quale i soci, per meglio assicurare il pane ad ogni azionista, son d’accordo nel vendere la libertà e la coltura del mangiatore. La virtù più ricercata è la conformità: la fiducia in se stesso è il suo contrario. Quella non ama le realtà e i creatori, ma i nomi e le consuetudini.

Chiunque vuol essere un uomo, dev’essere un non-conformista. Colui che vuol raccogliere le palme immortali non dev’essere imbarazzato dal nome del bene, ma deve ricercare se v’è realmente il bene. Nulla infine è sacro, all’infuori dell’integrità della nostra propria mente. Assolvetevi da voi stessi, e voi avrete il suffragio del mondo. Io mi ricordo d’una risposta, che, quand’ero molto giovane, diedi ad un ammonitore, che aveva l’abitudine d’importunarmi con le vecchie e care dottrine della chiesa. Io dissi: «Che cosa ho io a vedere con la santità delle tradizioni, se io traggo interamente la mia vita dal mio interno?» Il mio amico ribattè: «Ma questi impulsi possono venire dal basso e non dall’alto»: io risposi: «essi non mi sembrano esser tali, ma se io sono figlio del diavolo, io trarrò la mia vita dal diavolo». Nessuna legge può esser sacra per me, eccetto quella della mia natura. Il bene ed il male sono soltanto dei nomi, molto facilmente trasferibili da questo a quello; soltanto è retto ciò che si adatta alla mia costituzione, soltanto è ingiusto ciò che è contrario. Un uomo deve comportarsi di fronte ad ogni opposizione, come se ciascuna di esse fosse effimera. Io sono mortificato nel pensare come noi [34] facilmente capitoliamo davanti a segni e a nomi, davanti a grandi società ed a molte istituzioni. Ogni individuo decente e un po’ noto mi interessa e mi preoccupa più del lecito. Io vorrei procedere diritto e gagliardo e dire rudemente la verità in tutti i modi. Se la malizia e la vanità indossano la divisa della filantropia dovrò io tacere? Se un bigotto collerico prende le difese della generosa causa dell’Abolizione e viene da me con le ultime notizie delle isole Barbadoas, perchè non dovrei io dirgli: «va, ama il tuo bambino, il tuo spaccalegna: abbi una natura buona e modesta. Abbi grazia e non mascherare mai la tua ambizione indurita e incaritatevole, sotto questa incredibile tenerezza per dei negri distanti migliaia di miglia. Il tuo amore lontano è rancore in casa?» Tale contegno sarebbe ruvido e sgarbato, ma la verità è più bella che la simulazione dell’Amore. La vostra bontà deve avere un filo tagliente altrimenti è nulla.

La dottrina dell’odio dev’essere predicata, come opposizione alla dottrina dell’Amore, quando questa vagisce e piagnucola.

Io evito mio padre e mia madre, mia moglie e mio fratello, quando il mio genio mi chiama. Io vorrei scrivere sul limitare della mia porta: «capriccio». Io spero che sia qualchecosa di più infine, ma noi non possiamo spendere la giornata in spiegazioni. Non attendete ch’io vi dica perchè io cerco o fuggo la compagnia; nè parlatemi, come un buon uomo fece oggi, del mio obbligo di mettere tutti i poveri in buone condizioni. Sono essi i miei poveri? Io ti dico, o stupido filantropo, che io lesino il dollaro, il centesimo e il millesimo, che io dò a coloro che non mi appartengono ed ai quali io non appartengo. Vi è una classe di persone dalla quale io sono comperato e venduto per certe affinità spirituali, e per cui io andrei in prigione, se fosse necessario; ma [35] le vostre carità popolari, la costruzione di ricoveri per il vano scopo per il quale sono costrutti; le elemosine agli stupidi e le 10.000 società di soccorsi...! Io confesso con vergogna che talvolta mi arrendo, e dò il dollaro, ma è un dollaro malvagio, che dopo qualche tempo avrò il coraggio di ritirare.

Le virtù sono, secondo il giudizio popolare, piuttosto l’eccezione che la regola. V’è l’uomo e le sue virtù. Gli uomini fanno, ciò che è chiamata una buona azione nello stesso modo con cui pagherebbero una multa, in espiazione di un’assenza al giornaliero ufficio. Essi compiono le loro opere come scusa e attenuante del loro vivere nel mondo, allo stesso modo che gli invalidi ed i pazzi pagano un’alta pensione: le loro virtù sono delle penitenze. Io invece non desidero di espiare, ma di vivere: la mia vita non è una scusa, ma una vita; essa è per se stessa e non per uno spettacolo. Io preferisco maggiormente che essa sia d’un livello più basso, ma genuina ed uguale, piuttosto che brillante e mal ferma: io desidero ch’essa sia sana e dolce e che non abbisogni di dieta e di dissanguamento: la mia vita dovrebbe essere unica, dovrebbe essere un’elemosina, una battaglia, una conquista, una medicina. Io domando innanzi tutto l’attestazione che voi siete un uomo e vi ricuso di trasferire questa attestazione, dall’uomo alle sue azioni. Io non faccio alcuna differenza tra il compiere o no quelle azioni che sono considerate eccellenti. Io non acconsento di pagare come privilegio, ciò che ho come intrinseco diritto. Io attualmente sono e, per quanto piccole e scarse siano le mie doti, non abbisogno per la mia sicurezza o per quella dei miei simili, di qualsiasi secondaria testimonianza.

Ciò che io devo fare è tutto ciò che mi concerne, e non ciò che la gente pensa. Questa regola, ugualmente ardua nella vita dell’azione e dell’intelletto, può [36] servire per la completa distinzione tra la grandezza e la pochezza. Essa è più molesta, perchè voi sempre troverete coloro, che credono di sapere qual’è il vostro dovere, meglio di quanto non lo sappiate voi stessi. È facile nel mondo vivere secondo l’opinione del mondo; è facile in solitudine vivere secondo la nostra propria opinione; ma il grande uomo è colui che nel mezzo della folla mantiene con perfetta serenità l’indipendenza della solitudine.

La ragione per non conformarsi ad usi ormai morti per voi, è che ciò disperde la vostra forza, spreca il vostro tempo e intorpidisce l’impronta del vostro carattere. Se voi sostenete una chiesa morta, se contribuite ad una consunta società biblica, se votate con un gran partito per il governo o contro di esso, ecc. io difficilmente distinguerò, sotto questi vari aspetti, quale vero tipo d’uomo voi siate, e naturalmente altrettanta forza sarà tolta dalla vostra propria vita. Fate invece quanto vi spetta ed io vi conoscerò. Eseguite le vostre opere, e voi vi rinforzerete. Un uomo deve considerare qual giuoco o quale mosca-cieca sia questo della conformità.

Se io conosco la vostra sétta, io prevengo i vostri argomenti. Io sento annunziare da un predicatore, come argomento d’una sua lettura, l’utilità di una delle istituzioni della sua chiesa. Ora non so io anticipatamente che egli non può possibilmente dire una parola nuova e spontanea? Non so io che con tutta questa ostentazione di esaminare i fondamenti dell’istituzione, egli non farà tale cosa? Non so io che egli è impegnato con se stesso ad osservar la cosa da un solo lato, il lato permesso, e non come uomo, ma come ministro di una parrocchia? Egli è semplicemente un patrocinatore pagato e questi modi da tribunale sono la più vuota affettazione. Ora la più parte degli uomini hanno bendati [37] i loro occhi con un fazzoletto od altro, e si sono stretti a qualcuna di queste comunità di opinioni. Questa conformità li fa falsi e non solo in poche particolari cose, ma falsi in tutti i particolari. Ogni loro verità non è completamente loro. Il loro «due» non è il «due» reale, il loro «quattro» non è il «quattro» reale: cosicchè ogni parola ch’essi dicono ci dà pena e noi non sappiamo dove cominciare per metter loro dalla parte della ragione.

Intanto la natura non è lenta nel vestirci con la carceraria uniforme del partito, cui noi apparteniamo. Noi veniamo ad avere un solo taglio di viso e di figura ed acquistiamo gradatamente la più gentile espressione asinina. Vi è un’esperienza mortificante in specie, che non manca di tuffar se stessa anche nella storia generale; io intendo dire «la faccia goffa della lode», il forzato sorriso che noi usiamo in società, dove non ci troviamo a nostro agio, in risposta ad una conversazione che non ci interessa. I muscoli non mossi spontaneamente, ma da una bassa caparbietà invadente, s’irrigidiscono verso la linea esterna del viso e producono la più sgradevole sensazione, — sensazione di biasimo e di congedo, che nessun giovine coraggioso soffrirà due volte.

Per la non conformità il mondo vi flagella con la sua collera. E pertanto un uomo deve sapere come valutare una faccia scontrosa. Gli astanti lo guardano di sbieco nella via o nel salotto dell’amico. Se questa avversione avesse la sua origine in un dissenzio, e in una resistenza uguali alla sua, egli potrebbe ben ritornare a casa con un viso triste; ma i visi scontrosi della moltitudine, come i visi dolci, non hanno una motivazione profonda, — celano nessun Dio, ma vanno e vengono a seconda del vento, o d’un giornale. Pure lo scontento della moltitudine è più formidabile di quello del Senato e del [38] Collegio. È facile abbastanza, per un uomo saldo ed esperto, sfidare la collera delle classi elevate: essa è decorosa e prudente; poichè quelle sono timide in causa della loro grande vulnerabilità; ma, quando alla loro collera femminea s’aggiunge l’indignazione del popolo; quando gli ignoranti ed i poveri si sono destati; quando la forza bruta, cieca, che giace al fondo della società, mugola, è necessario l’uso della magnanimità e della religione per trattarla dall’alto, come un incidente senza importanza.

L’altro terrore che ci tien lontani dalla fiducia in noi stessi è la nostra propria coerenza, vale a dire una riverenza per le nostre azioni o parole passate, che servono agli altri per calcolare la nostra orbita, e che noi siamo renitenti a deludere.

Ma perchè vorreste voi tenere il vostro capo sulle vostre spalle? perchè portare in giro questo mostruoso corpo morto della vostra memoria, per timore di contraddire qualchecosa che voi avete affermato in questo o in quel luogo pubblico? Supponete di contraddirvi: che cosa allora? Sembra essere una regola di saggezza quella di mai confidare sulla vostra sola memoria o su fatti di pura memoria, ma il portare il passato per il giudizio del presente dai mille occhi, e vivere sempre in un giorno nuovo. Confidate nella vostra emozione. Voi avete negato, nella vostra metafisica, una personalità alla divinità; pure quando un senso devoto dell’anima v’assale, arrendetevi ad esso, corpo ed anima, anche se deve rivestire Dio in forma e colore. Lasciate la vostra teoria, come Giuseppe il suo mantello nelle mani della prostituta, e fuggite.

Una stolta coerenza è il fantasma delle piccole menti, adorato dai piccoli uomini di stato, dai filosofi e dai sacerdoti. Una grande anima ha semplicemente nulla da fare con essa, altrimenti potrebbe affannarsi della sua [39] propria ombra sul muro. Chiudete le vostre labbra, cucitele con dello spago; oppure se voi volete essere un uomo, dite ciò che pensate oggi, in parole così aspre come palle di cannone e dite, ciò che domani penserete, in parole altisonanti di nuovo, sebbene esse contraddicano tutto quanto avete detto oggi. «Ah! allora — esclameranno le signore di età — voi sarete sicuro di essere malinteso!» — Malinteso?! — Ecco una parola del perfetto demente. È così terribile dunque essere malinteso? Pitagora, fu malinteso, e Socrate, e Gesù, e Lutero, Copernico e Galileo, Newton e ogni spirito puro e saggio che sia mai esistito. Esser grande vuol dire esser malinteso.

Io suppongo che nessun uomo può violare la sua natura. Tutte le punte della sua volontà sono ammorbidite dalle leggi del suo essere, come la disuguaglianza delle Ande e dell’Hymalaya sono insignificanti nella curva della sfera terrestre. Nè ha importanza alcuna, come voi misuriate e proviate questa natura. Un carattere è come un acrostico o una stanza di versi alessandrini; — leggetelo dal basso, dall’alto o di traverso, esso dice la stessa cosa. In questa vita piacevole e malinconica dei boschi, che Dio mi concede, lasciatemi ricordar giorno per giorno il mio onesto pensiero, senza prospettiva o retrospettiva, e senza dubbio esso apparirà simmetrico, sebbene io non l’intenda e non lo veda. Il mio libro odorerà di fiorì e ronzerà d’insetti. La rondine sopra la mia finestra intesserà, nella trama del mio stile, quel filo o quella pagliuzza, che porta nel suo becco. Noi passiamo attraverso ciò che siamo: Il carattere ammaestra al di là delle nostre volontà. Gli uomini immaginano di manifestare le loro virtù ed i loro vizi, soltanto con azioni palesi; e non s’avvedono che le une e gli altri emettono un alito ad ogni momento.

[40]

Non temiate mai di non essere coerenti in una varietà qualsiasi di azioni: perchè le azioni siano armoniche, per quanto dissimili possano sembrare, basta che ognuna di esse sia naturale e onesta nel suo momento. Queste varietà svaniscono quando sono vedute anche ad una piccola distanza, o ad una piccola altezza di pensiero; una sola tendenza le unisce tutte. Il viaggio del miglior bastimento è una linea a zigzag, composta di centinaia di rotte; ma questo non è che un criticismo microscopico: guardate invece la linea in distanza sufficiente e vedrete la sua tendenza a diventare una linea retta. La vostra azione genuina esplicherà se stessa e spiegherà le altre vostre azioni genuine. La vostra conformità non ispiega nulla; agite separatamente e ciò che voi avete di già fatto separatamente, vi giustificherà ora. La grandezza s’appella sempre al futuro. Se io posso essere grande abbastanza per agire rettamente e per disprezzare gli sguardi altrui, io devo aver operato prima, tanto rettamente da potermi difendere oggi. Avvenga quel che vuole, conducetevi rettamente ora. Sprezzate sempre le apparenze, e sempre voi lo potrete. La forza del carattere è cumulativa; tutti i virtuosi giorni passati contribuiscono, con il loro vigore, a questo giorno. Che cosa è che forma la maestà degli eroi, del senato e dei campi di battaglia, che così riempie la nostra immaginazione? La consapevolezza di un séguito di grandi giorni e di grandi vittorie. Questi rimangono e versano la loro luce compatta sull’attore che si avanza. Egli è seguito come da una scorta d’angeli, visibili all’occhio di ciascun uomo. Ecco ciò che forma il tuono della volontà di Chatham, la dignità nel portamento di Washington e l’America nell’occhio di Adams. L’onore è venerabile per noi, perchè non è una cosa effimera, ma sempre un’antica virtù. Noi lo adoriamo oggi, perchè esso non è dell’oggi. Noi lo [41] amiamo e veneriamo perchè esso non è un agguato per il nostro amore e il nostro omaggio, ma è indipendente, autogeno, e pertanto di antico ed immacolato lignaggio, anche se si palesa in una giovine persona.

Io spero che noi avremo udito in questi giorni, per l’ultima volta, parlar di conformità e di coerenza. Lasciamo queste parole per l’avvenire in preda ai giornali e al ridicolo. Invece del gong per il pranzo, udiamo uno zufolo dal flauto spartano. Non inchiniamoci più e non facciamo scuse, mai più. Un grande uomo viene a pranzo, a casa mia: io non desidero di piacergli: io desidero ch’egli desideri di piacermi. Io rimarrò, per benignità; e benchè io voglia far cosa gentile, io vorrei sopratutto far cosa vera. Affrontiamo e reprimiamo la morbida mediocrità, e lo squallido accontentarsi dei tempi, e gettiamo in viso al costume, alle occupazioni e al potere, ciò che è il risultato di tutta la storia: che v’è un grande pensatore ed un attore responsabile, che si muove ovunque s’agita un uomo; che un vero uomo appartiene a nessun tempo o luogo, ma è il centro delle cose. Dove egli è, è la natura. Egli misura voi e tutti gli uomini, e tutti gli eventi. Voi siete obbligato ad accettare la sua bandiera. Comunemente, nella società ogni persona ci ricorda qualche cosa altro o qualcun altro. Il carattere, invece, vi ricorda null’altro: Esso prende il posto dell’intiera creazione. L’uomo dev’essere tanto grande, da rendere tutte le circostanze indifferenti, — mettere tutti i mezzi nell’ombra. Questo sono e ciò fanno i grandi uomini. Ogni vero uomo è una causa, un paese, ed un’età; egli richiede infiniti spazi ed innumerevoli anni, per attuare pienamente il suo pensiero — e la posterità pare che ne segua i passi come una processione. Un uomo, Cesare, nasce, e per molti secoli dopo, noi abbiamo un impero romano. Cristo nasce e milioni di menti, in tal modo, crescono [42] e si legano al suo genio, ch’egli è confuso con la virtù e la possibilità d’esser uomo. Un’istituzione non è che l’ombra allungata d’un solo uomo; così è della riforma di Lutero; del Quakerismo di Fox; del metodismo di Wesley; dell’abolizione di Clarkson. Milton chiamò Scipione il «culmine di Roma» e tutta la storia si risolve molto facilmente nella biografia di poche persone impetuose e forti.

L’uomo conosca adunque il suo valore e tenga le cose sotto i piedi. Non spii e non rubi nel mondo che esiste per lui, non rasenti il muro come un trovatello, un bastardo od un intruso. Ma l’uomo non trovando lungo la strada alcun valore in se stesso, che corrisponda alla forza che costrusse una torre o che scolpì un Dio di marmo, si sente meschino nel contemplarli. Per lui un palazzo, una statua o un libro costoso hanno un aspetto straniero e minaccioso, molto simile a quello d’una sfarzosa vettura, e sembrano dirgli: «Chi siete voi, signore?» Eppure essi sono suoi, sono richiami alla sua attenzione, sono appelli alle sue facoltà, affinchè esse vengano fuori e ne prendano possesso. Il quadro attende un mio verdetto; esso però non mi comanda, ma io stabilisco i suoi diritti alla lode. La favola popolare di quel babbeo, che raccolto ubbriaco fradicio nella strada, e messo nel letto del duca, fu trattato al suo svegliarsi con la più ossequiosa reverenza, e fu fatto persuaso d’esser stato pazzo, deve la sua popolarità al fatto che esso bene simbolizza lo stato dell’uomo, che in questo mondo è una specie d’imbecille, il quale di tanto in tanto si scuote, esercita la sua ragione, e si sente vero principe.

Il nostro modo di leggere è da mendicante e da adulatore. Nella storia, la nostra imaginazione si ride di noi e ci rappresenta il falso. Regno e principato, potere e stato, sono dei nomi più grandiosi che i privati nomi [43] di Giovanni ed Edoardo, in una piccola casa, in un comune giorno di lavoro: mentre le cose della vita sono uguali per entrambi e la somma totale di entrambi è la stessa. Perchè tutta questa deferenza verso Alfredo e Scanderberg e Gustavo? Supponiamo che essi siano stati virtuosi: hanno forse essi esaurita la virtù? Quando i semplici uomini agiranno con dei grandi ideali, la fama si trasferirà dalle azioni dei re a quelle dei privati.

Il mondo è stato invero istrutto dai suoi re, che hanno così magnetizzato gli occhi delle nazioni. Da questo simbolo colossale fu appresa la mutua riverenza dovuta da uomo a uomo. La lieta costanza, colla quale gli uomini hanno ovunque permesso al re, al nobile o al grande proprietario, di stabilire una propria legge; di stabilire una propria gerarchia di uomini e di cose, annullando la loro; di compensare i benefizi non con denaro ma con onori; di rappresentarne la legge nella propria persona, — fu il geroglifico, per mezzo del quale essi oscuramente significarono la coscienza del proprio diritto, e della propria grandezza, che sono i diritti di ogni uomo.

Il magnetismo, che ogni azione originale esercita, si spiega quando noi cerchiamo la ragione dell’auto-fiducia. Chi è il mallevadore? Qual è l’io aborigeno, sul quale una fiducia universale può essere fondata? Quale è la natura ed il potere di quella stella eludente la scienza, senza paralasse, senza elementi di calcolo, che illumina d’un raggio di bellezza le stesse azioni triviali ed impure, quando il più piccolo segno d’indipendenza appare? Questa ricerca ci conduce a quella sorgente che è allo stesso tempo l’essenza del genio, l’essenza della virtù, e l’essenza della vita, e che noi denominiamo Spontaneità o Istinto. Noi indichiamo questa sapienza primitiva col nome di intuizione, mentre ogni ulteriore conoscenza è insegnamento. Tutte le cose [44] trovano la loro comune origine in quella forza profonda, in quell’ultimo fatto, al di là del quale l’analisi non può andare. Poichè, il senso dell’essere, che nelle ore calme s’innalza, non sappiamo come, nell’anima, non differisce dalle cose, dallo spazio, dalla luce, dal tempo, dall’uomo; anzi è una sola cosa con essi e procede chiaramente dalla stessa sorgente, donde deriva la loro vita ed il loro essere. Noi dapprima facciamo parte della stessa vita, per la quale le cose esistono, e dopo osservando queste come semplici aspetti della natura ci dimentichiamo d’aver partecipato della medesima causa.

Ecco la fonte dell’azione e del pensiero: ecco il soffio di quella ispirazione che dà all’uomo la sapienza, di quella ispirazione che non può essere negata senza empietà ed ateismo. Noi stiamo nel grembo di un’infinita intelligenza, che fa di noi gli organi della sua attività ed i custodi della sua verità. Quando discerniamo la giustizia, quando discerniamo la verità, noi nulla facciamo non da noi stessi, ma apriamo un passaggio ai suoi raggi. Se noi domandiamo donde questo procede, se noi cerchiamo d’indagare nell’anima quelle cause, tutta la metafisica e tutta la filosofia cade in errore. Tutto ciò che noi possiamo affermare è la sua presenza o la sua assenza. Ogni uomo distingue esattamente gli atti volontari della sua mente dalle sue percezioni involontarie, e sa che un profondo rispetto è ad esse dovuto. Egli può errare nell’espressione di esse, ma egli sa che non possono essere discusse, che sono così, come il giorno e la notte. Le mie azioni volontarie e le mie cognizioni acquisite sono cose vaghe; invece il più triviale sogno, la più debole emozione, sono familiari e divini. Gli uomini spensierati contraddicono facilmente le percezioni come le opinioni, anzi molto più facilmente, in quanto che essi non distinguono fra percezione e nozione. Essi immaginano ch’io scelga, per [45] vederla, questa o quella cosa. Ma la percezione non è capricciosa, ma fatale. Se io vedo un lineamento, il mio bambino lo vedrà dopo di me e col tempo lo vedrà anche tutto il genere umano, sebbene possa avvenire che nessuno l’abbia visto prima di me; poichè la mia percezione di esso, è un fatto così esistente come il sole.

Le relazioni dell’anima con lo spirito divino sono così pure che è cosa profana il cercare di interporvi aiuti. Se Dio parlasse non ci comunicherebbe una sola cosa, ma tutte le cose; riempirebbe il mondo con la sua voce; farebbe scaturire la luce, la natura, il tempo, l’anima, dal centro del pensiero presente e ricreerebbe e rinnoverebbe il tutto. Ogni qualvolta una mente semplice riceve una sapienza divina, le vecchie cose fuggono; i metodi, i docenti, i testi, i templi cadono; essa vive nell’oggi ed assorbe il passato ed il futuro nell’ora presente. Tutte le cose sono fatte sacre per la loro relazione con essa, — le une tanto come le altre. Tutte le cose sono disciolte al loro centro dalla loro causa e nell’universale miracolo i miracoli particolari scompaiono. Questo così è, e dev’essere. Pertanto se un uomo pretende di conoscere e di parlar di Dio, e vi riconduce alla fraseologia di qualche vecchia nazione, sepolta in un’altra contrada, in un altro mondo, non credetelo. È la ghianda migliore della quercia in tutta la sua pienezza e in tutto il suo sviluppo? È il genitore migliore del figlio, nel quale egli ha trasmesso la maturità del suo essere? Donde allora questa adorazione del passato? I secoli sono dei cospiratori contro la salute e la maestà dell’anima. Il tempo e lo spazio non sono che dei colori fisiologici per l’occhio; ma l’anima è luce; dov’essa è, v’è il giorno; dove essa era, c’è la notte; e la storia è un’impertinenza e un’ingiuria, se la si considera qualcosa più d’un piacevole apologo o d’una parabola del mio essere e del mio destino.

[46]

L’uomo è timido e implorante; egli non è più integro; egli non osa dire: «io penso» «io sono», ma cita qualche santo o qualche saggio. Egli è confuso di fronte al filo d’erba o alla rosa fiorente. Queste rose sotto la mia finestra non si richiamano ad altre rose passate o migliori: esse sono per ciò che esse sono; esse esistono con Dio, oggi; non v’è il tempo per esse; essa è semplicemente la rosa ed è perfetta in ogni momento della sua esistenza. Prima che un petalo del bocciolo si sia aperto, la sua intiera vita è in atto; nella corolla completamente sbocciata non v’è maggior vita che nella radice senza foglie. La sua natura è soddisfatta ed essa soddisfa alla natura in ugual modo in tutti gli istanti. Ma l’uomo differisce o ricorda, egli non vive del presente, ma con gli occhi rivolti al passato compiange il passato, od incurante delle ricchezze che lo attorniano, si alza sulla punta dei piedi per prevedere il futuro. Egli non può essere felice e forte finchè egli pure non viva con la natura, nel presente al di sopra del tempo.

Questo dovrebbe essere chiaro abbastanza. Pure vedete quanti intelletti forti non osano ancora ascoltare Dio stesso, a meno che Egli non parli con la fraseologia di non so quale Davide, Geremia o Paolo. Noi non concederemo sempre così grande valore a pochi testi o a poche vite. Noi siamo come bambini, che ripetono a memoria le sentenze delle nonne e dei tutori; bambini, i quali cresciuti, ricordano faticosamente le parole dette dagli uomini di talento e di carattere, ch’essi ebbero la fortuna d’incontrare; finchè giunti al punto ove stavano coloro che pronunciarono quelle parole, essi le comprendono e volentieri le dimenticano, perchè in qualunque momento essi possono, quando l’occasione si presenti, usare parole altrettanto buone. Se noi viviamo sinceramente, noi vedremo sinceramente. È cosa facile per l’uomo forte essere forte, come lo è per il debole, [47] essere debole. Quando noi abbiamo una nuova percezione noi saremo felici di scaricare la nostra memoria dei suoi accumulati tesori, come vecchia robaccia. Quando un uomo vive con Dio, la sua voce sarà così dolce come il mormorio del ruscello ed il sussurrio del frumento.

Ed ora finalmente rimane a dirvi su questo soggetto, la più alta verità; probabilmente essa non può esser detta, perchè tutto ciò che noi diciamo è il ricordo lontano dell’intuizione. Il pensiero col quale io posso più avvicinarmi per esprimerla è questo: quando il bene è vicino a voi, quando voi sentite la vita in voi stessi, ciò non avviene per un qualche modo conosciuto o prestabilito; voi non discernerete le traccie di un altro modo qualsiasi; voi non vedrete il viso dell’uomo; voi non udirete nessun nome; il modo, il pensiero, il bene saranno totalmente strani e nuovi. Esso escluderà ogni altro essere; voi percorrerete la via dall’uomo, non all’uomo. Tutte le persone che sono mai esistite, sono suoi ministri fuggitivi. Il timore e la speranza sono egualmente al di sotto di esso. Esso nulla domanda e vi è qualchecosa di basso nella speranza stessa. Noi siamo in visione e nulla v’è che noi possiamo chiamare gratitudine o propriamente gioia. L’anima innalzata al di sopra della passione contempla l’identità e la causa eterna, percepisce l’esistenza della verità e della giustizia e si tranquillizza, osservando che tutte le cose procedano a dovere. Gli immensi spazi della natura, l’Oceano Atlantico, il mare del Sud, i lunghi intervalli di tempo, gli anni, i secoli, sono senza importanza. Questo che io penso e sento, sostiene il primordiale stato di vita con le sue circostanze, come esso regge il mio presente, e reggerà sempre ogni circostanza e ciò che è chiamato vita e ciò che è chiamato morte. Solo il vivere vale qualche cosa, non l’aver [48] vissuto. Il potere cessa nell’istante del riposo; esso sta nel momento di transazione da uno stato passato ad uno presente, nel momento del lancio — nel vortice, nel correre verso uno scopo. L’unico fatto che il mondo detesta, è che l’anima diventi; perchè ciò per sempre degrada il passato, volge tutte le ricchezze in povertà, ogni riputazione in vergogna, confonde il santo con il birbante, allontana parimenti Gesù e Giuda. Perchè noi allora parliamo di fiducia in se stesso? Fintantochè l’anima è presente non vi sarà potere confidente, ma agente. Parlare di fiducia è un miserevole tema di discorso. Parliamo piuttosto di colui che confida, perchè opera ed esiste. Colui che ha maggior animo di me mi guida, pur s’egli non alzasse un dito. Muovetelo ed io devo errare intorno a lui per la gravitazione degli spiriti; a mia volta io dominerò con la stessa facilità chi ha minor animo di me. Quando noi parliamo di virtù eminenti, noi le immaginiamo figure rettoriche. Noi non ci avvediamo ancora che la virtù è elevazione e che un uomo od un gruppo di uomini sensibili e sottomessi a questi principi debbono conquistare e reggere, per legge di natura, tutte le città, le nazioni, i re, gli uomini ricchi ed i poeti, che non lo sono. Questo è il fatto ultimo, al quale noi presto giungiamo con questo come con qualsiasi altro argomento: la risoluzione di tutto in un essere unico, eternamente benedetto. La virtù è il dominatore, il creatore, la sola realtà. Le cose sono reali per quel tanto di virtù ch’esse contengono. Il commercio, l’agricoltura, la caccia, la guerra, l’eloquenza, il valore personale, sono qualche cosa e reclamano il mio rispetto, come esempi della presenza e dell’attività impura dell’anima. Io vedo la stessa legge, operante in natura, per la conservazione e l’accrescimento. Il peso di un pianeta, l’albero che piegato dal vento si raddrizza, le risorse vitali d’ogni animale [49] e d’ogni vegetale, sono dimostrazioni dell’anima che basta a se stessa e che per ciò confida in se stessa.

Così tutto si concentra e noi non andiamo vagando ma accostiamoci alla causa; meravigliamo le masse intruse d’uomini e di libri e di istituzioni, con una semplice dichiarazione del fatto divino. Comandiamo loro di togliersi le scarpe dai piedi, perchè Dio è qui con noi. La nostra semplicità li giudichi; e la nostra docilità nostra alla propria legge dimostri la povertà della natura e della fortuna all’infuori della nostra nativa ricchezza.

Ma ora noi siamo se non plebaglia. L’uomo non teme l’uomo, nè l’anima sente l’ammonimento di rinchiudersi in se stessa per mettersi in comunicazione con l’interno oceano, ma va peregrinando per mendicare una tazza d’acqua al pozzo degli altri uomini. Noi dobbiamo andar soli. L’isolamento precede una vera società. Io amo più il silenzio della chiesa prima delle funzioni, che qualsiasi sermone. Quanto lontane, e fredde e caste appaiono le persone limitate da un recinto o da un santuario. Rimaniamo sempre così. Perchè dobbiamo noi attribuirci i falli del nostro amico o della moglie o del padre o del figlio, perchè essi siedono attorno al nostro focolare o son detti aver lo stesso sangue? Tutti gli uomini hanno il mio sangue ed io ho quello di tutti gli uomini. Non perciò io adotterò la loro petulanza o la loro follìa, fino ad esserne vergognoso. Il vostro isolamento però non dev’essere meccanico, ma spirituale, vale a dire, dev’esser elevazione. Alle volte il mondo intiero sembra essere in cospirazione per importunarvi con delle inezie enfatiche. L’amico, il cliente, il bambino, la malattia, il timore, il bisogno, la carità, tutti battono insieme alla porta del mio gabinetto dicendo: «Vieni fuori con noi». Ma tu non spargere la tua anima, non discendere, tieni il tuo stato; rimani [50] a casa nel tuo proprio cielo; non entrare, anche per un istante, nei loro fatti, nel loro tumulto di apparenze in conflitto, ma lancia la luce della tua legge sulla loro confusione. Il potere che gli uomini hanno di seccarmi io lo ritorno a loro con una debole curiosità. Nessun uomo può approssimarsi a me, se non attraverso i miei atti. «Noi non amiamo che ciò che abbiamo, ma col desiderio noi priviamo noi stessi dell’amore».

Se noi non possiamo ad un tratto innalzarci alla santità dell’obbedienza e della fede, resistiamo almeno alle nostre tentazioni; combattiamo e destiamo il coraggio e la costanza di Thor e di Woden nei nostri petti sassoni. Ciò può esser fatto nei nostri tempi sentimentali, dicendo la verità. Reprimiamo questa ospitalità menzognera e questo menzognero affetto. Non vivete più a lungo nell’aspettazione di questa gente ingannata ed ingannatrice, con la quale conversiamo. Dite ad essa: o padre, o madre, o moglie, o fratello, o amico, io vissi con voi finora seguendo le apparenze. D’ora in avanti io appartengo alla verità. Sappiate che d’ora in avanti io non più obbedirò altra legge che la legge eterna. Io non avrò degli alleati, ma dei vicini. Io tenterò di nutrire i miei genitori, di mantener la mia famiglia, di esser il casto marito di una sola sposa, ma queste relazioni io debbo compierle in un modo nuovo e senza precedenti. Io mi appello ai vostri costumi. Io devo essere io stesso. Io non posso maggiormente annullarmi per voi. Se voi potete amarmi per ciò che io sono, noi saremo tanto più felici. Se voi non lo potete, io ancora cercherò di meritare che voi lo possiate. Io devo essere io stesso; io però non nasconderò le mie tendenze e le mie avversioni. Io confiderò in tal modo che ciò che è profondo è santo, che io farò apertamente innanzi al sole, alla luna, qualsiasi cosa mi porterà un interno godimento, e che il [51] cuore mi comanderà. Se voi siete nobili io vi amerò: se voi non lo siete, io non urterò voi e me stesso con degli ipocriti riguardi.

Se voi siete veritieri, ma non d’accordo con le stesse mie verità, unitevi ai vostri compagni, io cercherò i miei. Io non opero così per egoismo, ma per umiltà e sinceramente. Vivere nel vero è ugualmente il vostro interesse ed il mio e quello di tutti gli uomini, per quanto a lungo possiamo aver vissuto nella menzogna. Suona male questo, oggi? Voi presto amerete ciò che è dettato dalla vostra natura così come dalla mia e se noi seguiremo la verità, essa al fine ci porterà fuori salvi. «Ma così voi potete causare a questi amici un dolore». «Sì, ma io non posso vendere la mia libertà ed il mio potere per salvare la loro sensibilità». Inoltre tutte le persone hanno i loro momenti di raziocinio, quando essi guardano nella regione della verità assoluta; allora essi mi giustificheranno e mi imiteranno.

Il popolaccio considera il vostro rifiuto alle norme popolari come rifiuto a tutte le norme, vale a dire, come un semplice antinomianismo; ed il sensuale insolente userà il nome di filosofia per indorare i suoi delitti.

Ma la legge della consapevolezza rimane. Vi sono due confessionali, nell’uno e nell’altro noi dobbiamo esser confessati. Voi potete adempiere i vostri doveri sciogliendovi da essi per via «diretta» o per via «riflessa». Considerate se voi avete soddisfatto ai vostri rapporti con vostro padre, vostra madre, vostro cugino, la vostra città, il vostro gatto, ed il vostro cane; ponete mente se qualcuno di questi può rimbrottarvi. Ma io posso anche trascurare la via riflessa ed assolver me da me stesso. Io ho i miei propri rigidi diritti ed il mio proprio campo d’azione. Esso nega il nome di dovere a molti uffici, che sono chiamati doveri. Ma se io posso sbarazzarmi dei suoi obblighi, io mi metto in condizione [52] di dispensarmi dal codice popolare. Se qualcuno immagina che questa legge è rilassata, metta in pratica i suoi progetti per un solo giorno.

E veramente si richiede qualche cosa di divino in colui, che ha allontanati i comuni impulsi di umanità e si è avventurato a fidar in se stesso. Sia alto il suo cuore, costante la sua volontà, chiara la sua vista, affinchè egli possa essere a se stesso, in modo sicuro, scienza, società, legge; affinchè un semplice proposito possa esser per lui così forte, come la ferrea necessità per gli altri.

Se un uomo qualsiasi considera gli aspetti presenti di ciò ch’è chiamata, per distinzione, società, vedrà il bisogno di questa etica. I tendini ed il cuore dell’uomo sembrano essere stati strappati, e noi siamo divenuti timorosi e degli scoraggiati piagnoni. Noi siamo sbigottiti della verità, sbigottiti della fortuna, sbigottiti della morte e sbigottiti l’un dell’altro. La nostra età non produce uomini grandi e perfetti. Noi abbisogniamo di uomini e donne, che rinnovino in futuro la vita e il nostro stato sociale; purtroppo però noi vediamo che la maggior parte delle nature sono insolvibili, incapaci a soddisfare alle loro proprie necessità, armate d’un’ambizione superiore alla loro forza pratica e flessibili e imploranti, giorno e notte continuamente. Il nostro «ménage» è mendicante; le nostre arti, le nostre occupazioni, i nostri matrimoni, la nostra religione, noi non li abbiamo scelti, ma la società ha scelto per noi. Noi siamo dei soldati da salotto. Noi sfuggiamo le aspre battaglie del fato, in cui la forza nasce.

Se i nostri giovani errano nelle loro prime imprese, pèrdono ogni coraggio. Se il giovane mercatante fallisce, gli uomini dicono ch’egli è rovinato. Se il più bell’ingegno che studia in uno dei nostri collegi, non è all’anno seguente installato in un ufficio della città o dei [53] borghi di Boston o New York, crede con i suoi amici d’aver ragione d’essere scoraggiato e di lamentarsi per il resto della sua vita. Uno zotico ragazzo di New-Hamshire o Vermot, che a volta a volta tenta tutti i mestieri, che attacca i cavalli, coltiva, girovaga merciando, apre una scuola, predica, stampa un giornale, va al congresso, acquista una cittadinanza, e così via negli anni successivi e sempre, e come un gatto cade in piedi, vale cento di questi fantocci della città. Egli cammina petto a petto con i suoi giorni e non si vergogna di non studiare per una professione, perchè egli non pospone la sua vita, ma vive di già; egli non ha una sorte, ma cento sorti. Si alzi uno stoico a rivelare le risorse dell’uomo, ad affermare che gli uomini non sono salici piangenti, ma che possono e devono elevarsi; che coll’esercizio della fiducia in se stesso, dei nuovi poteri appariranno; che l’uomo è il verbo fatto carne, nato per spargere il benessere sulle nazioni; che egli dovrebbe essere vergognoso della nostra compassione, e che allorquando egli agisce per personale impulso, buttando le leggi, i libri, l’idolatria e le consuetudini fuor della finestra, noi non lo commiseriamo più, ma lo ringraziamo e lo riveriamo, e che un tale maestro ricondurrà la vita dell’uomo allo splendore e farà il suo nome caro a tutta la storia.

È facile il constatare che una più grande fiducia in se stesso, un nuovo rispetto per la divinità dell’uomo deve portare una rivoluzione in tutte le funzioni e in tutti i rapporti degli uomini; nella loro religione, nella loro educazione, nelle loro ricerche, nel loro modo di vita; nelle loro associazioni, nella loro proprietà; nelle loro mire speculative.

1. In quali preghiere gli uomini indulgono! Ciò che essi chiamano il santo ufficio non è neppure ufficio coraggioso e virile. La preghiera si volge all’esterno e [54] richiede il dono di qualche umana aggiunta, veniente attraverso qualche straniera virtù e si perde nei laberinti infiniti del naturale e del supernaturale, del mediato e del miracoloso. La preghiera che implora una particolar comodità, al disotto del bene, è viziosa. La preghiera è la contemplazione dei fatti della vita, dal più alto punto di vista. Essa è il soliloquio di un’anima contemplante e giubilante. Essa è lo spirito di Dio affermante la bontà delle sue opere. Ma la preghiera come mezzo per raggiungere un fine particolare è furto e viltà. Essa suppone il dualismo e non l’unità della natura e della coscienza. Così tosto che un uomo è un tutto con Dio, egli non pregherà. Egli vedrà allora la preghiera in ogni azione. La preghiera del coltivatore inginocchiato nel suo campo per sarchiarlo, la preghiera del rematore inginocchiato nel maneggiare il suo remo, sono vere preghiere, udite attraverso tutta la natura, sebbene innalzate per fini modesti. Caratack nella «Bonduca» di Fletcher, pregata di scrutare la mente del dio: «Andate — risponde: — il suo pensiero recondito giace nei nostri tentativi; le nostre azioni ardite sono i nostri migliori dei».

Un’altra specie di false preghiere sono i nostri rammarichi. Il malcontento è la mancanza di autofiducia; è l’infermità del volere. Rammaricate le calamità, se potete con questo mezzo aiutare i sofferenti; altrimenti attendete al vostro proprio lavoro, ed il male incomincia già ad essere riparato. La nostra simpatia è altrettanto vile. Noi ci accostiamo a coloro che piangono follemente, e sediamo loro vicini e piangiamo per tener loro compagnia, invece di impartire ad essi la verità e la salute, con ruvide scosse elettriche, mettendoli, per una volta ancora, in contatto con la loro propria anima. Il segreto della fortuna è la gioia nelle nostre mani. L’uomo che aiuta se stesso è sempre il [55] benvenuto fra gli uomini e gli dei. Tutte le porte sono spalancate davanti a lui: tutte le lingue lo salutano, tutti gli onori gli fanno corona, tutti gli occhi lo seguono con desiderio. Il nostro amore va a lui, e lo abbraccia perchè egli non ne ha bisogno; lo accarezziamo con sollecitudine e con grandi lodi e lo celebriamo, perchè egli si mantenne sulla sua via, e rise della nostra disapprovazione. Gli dei lo amano, perchè gli uomini lo odiarono. «Al perseverante mortale — dice Zoroastro — i benedetti immortali sono benigni».

Come le preghiere degli uomini sono una malattia della volontà così le loro credenze sono una malattia dell’intelletto. Essi dicono con quegli sciocchi di Israeliti: «non parli Dio a noi, affinchè noi non moriamo; parla tu, parli qualsiasi uomo con noi e noi ubbidiremo». Ovunque mi si impedisce di incontrare Dio nel mio fratello, perchè egli ha chiuso le porte del suo proprio tempio, e racconta soltanto delle favole intorno al Dio di suo fratello, o intorno al Dio del fratello di suo fratello. Ogni nuova mente è una nuova classificazione. Se essa risulta una mente di non comune attività e potere, un Locke, un Lavoissier, un Hutton, un Bentham, un Spurzheim, essa impone la sua classificazione agli altri uomini ed ecco un nuovo sistema. L’accettazione di esso è in proporzione alla profondità del pensiero, al numero degli oggetti che tocca e porta nel campo d’osservazione dell’allievo. Ma questo è specialmente apparente nelle credenze e nelle chiese, le quali sono pure classificazioni di qualche potente spirito, operante sul pensiero elementare del dovere e sui rapporti dell’uomo con l’Onnipossente. Tale è il Calvinismo, il Quakerismo e lo Swendenborgianismo. L’allievo nel subordinare ogni cosa alla nuova terminologia, prova lo stesso diletto della ragazza che ha imparata la botanica, e vede una nuova terra e nuove stagioni. [56] Avverrà che l’allievo sentirà di dover molto al suo maestro e constaterà che il suo potere intellettuale è cresciuto con lo studio degli scritti di lui. — Questo sentimento vivrà finchè egli non abbia esaurita la mente del maestro. Ma in tutte le menti senza equilibrio, la classificazione idoleggiata rimane come scopo e non passa come un mezzo rapidamente esauribile; cosicchè i limiti del sistema si confondono al loro occhio nel lontano orizzonte con i confini dell’universo, e le luci del cielo sembrano appese alla volta costrutta dal loro maestro. Essi non possono pensare come voi estranei abbiate qualche diritto di vedere, e come voi possiate vedere; «voi dovete in qualche modo aver rubato la luce a noi». Essi non s’avvedono ancora che una luce non sistematica, indomabile, irromperà in qualsiasi capanna, ed anche nella loro. Continuino intanto a garrire e a chiamar loro, il loro sistema.

Se essi sono onesti ed operano bene, il loro ovile oggidì sì nuovo e pulito sarà fra breve troppo stretto e basso; si screpolerà, si piegherà, marcirà e sparirà, e la luce immortale, giovane e baldanzosa, dai milioni di orbite e di colori, splenderà sull’universo come nel primo mattino.

2. È per la mancanza della coltura individuale che il feticismo del viaggiare, i cui idoli sono l’Italia, l’Inghilterra, l’Egitto, conserva il suo fascino sopra tutti gli americani educati. Coloro che fecero l’Inghilterra, la Francia o la Grecia venerabili all’immaginazione, fecero ciò non ronzando intorno al creato, come la farfalla intorno alla lampada, «ma rimanendo fermi dove erano, come un’asse della terra». Nelle ore virili, noi sentiamo che il dovere è di rimanere al nostro posto. L’anima non è viaggiatrice; l’uomo saggio rimane a casa, con la sua anima e quando le sue necessità, i suoi doveri lo chiamano lontano da quella od [57] in terra straniera, egli si trova ugualmente ancora in casa sua, e nulla abbandona di sè, e farà sentire agli uomini, coll’espressione del suo contegno, che egli giunge missionario della sapienza e della virtù, e visita le città e gli uomini come un sovrano, e non come un intruso od un valletto. Non ho alcuna severa obbiezione da fare riguardo alla circumnavigazione del globo per fini d’arte, di studio, di benevolenza; purchè l’uomo sia divenuto prima amante della sua terra e non vada altrove, con la speranza di trovare cose più grandi di quelle che conosce.

Colui che viaggia per diletto o per raggiungere ciò che non possiede, viaggia fuor di se stesso, ed invecchia, anche se è in gioventù, fra le vecchie cose. In Tebe, in Palmira, la sua volontà e la sua mente si sfasciano e si sgretolano, come già le città stesse. Egli porta rovine fra le rovine.

Il viaggiare è il paradiso dei dementi. Noi dobbiamo ai nostri primi viaggi la scoperta che i luoghi sono nulla. Io sogno in casa, che a Napoli, a Roma posso essere inebriato di bellezza e posso perdere la mia tristezza. Faccio i miei bauli, abbraccio i miei amici, m’imbarco, ed alfine mi risveglio a Napoli, e là, vicino a me, trovo il Fatto severo, il triste Io, inflessibile, identico, dal quale io fuggii. Cerco il Vaticano ed i palazzi. Fingo d’essere inebriato dalle cose vedute e dalle suggestioni, ma non lo sono. Il mio gigante, il mio io, mi segue ovunque io vada.

3. Ma il furore dei viaggi non è che un sintomo di un più profondo squilibrio, che intacca l’intiera azione intellettuale. L’intelletto è vagabondo, ed il nostro sistema di educazione nutrisce l’irrequietezza. Le nostre menti viaggiano quando noi siamo obbligati a rimaner in casa. Noi imitiamo; e che cosa è l’imitazione se non il viaggiare della mente? Le nostre case sono costruite [58] con gusto straniero; i nostri scaffali sono guarniti con ornamenti stranieri; le nostre opinioni, le nostre tendenze, le nostre facoltà s’inchinano e seguono il Passato ed il Lontano, come gli occhi d’una fantesca seguono quelli della padrona. L’anima creò le arti ovunque esse sono fiorite. Fu nella sua propria mente che l’artista cercò il suo modello, ed essa fu un’applicazione del suo proprio pensiero alla cosa da farsi ed alle condizioni da osservarsi. E perchè dobbiamo noi copiare il modello gotico o dorico? La bellezza, la convenienza, la grandiosità di pensiero, la ricercatezza, l’espressione, sono così prossime a noi come a qualsiasi altro, e se l’artista americano studierà con speranza e con amore la cosa esatta che egli deve fare, considerando il clima, il suolo, la lunghezza del giorno, la necessità del popolo, il modo e la forma di governo, egli costruirà un edificio, nel quale tutte queste cose si troveranno disposte, ed il gusto ed il sentimento verranno soddisfatti.

Insistete su voi stessi: non imitate mai. Voi potete ad ogni momento porre in mostra il vostro proprio talento, con la forza accumulata di una cultura, durata tutta la vita; ma dell’adottato talento di un altro voi non avete che un momentaneo e semi-possesso. Ciò che ognuno può fare nel modo migliore, nessuno all’infuori dello stesso Fattore, può insegnarglielo. Dove è il maestro che avrebbe potuto educare Shakespeare? Dove è il maestro che avrebbe potuto istruire Franklin o Washington o Bacone o Newton? Ogni grande uomo è un tipo unico. Il «scipionismo» di Scipione sta appunto in quella parte, ch’egli non potè torre in prestito. Se qualcuno mi domanderà, chi il grande uomo imita, quando compie una grande azione, io domanderò a lui quale altro uomo lo può istruire, se non egli stesso. Shakespeare non sarà mai creato con lo studio di [59] Shakespeare. Fa ciò che ti è assegnato e non potrai, nè sperare troppo, nè troppo osare. V’è in questo momento un pronunciamento semplice e grande per me, come lo scalpello di Fidia, la cazzuola degli Egizi, o la penna di Mosè o di Dante, pur differente da tutto questo. Non è possibile che l’anima così ricca, così eloquente, e dalla lingua mille volte biforcuta, acconsenta di ripetersi; ma se io posso udire ciò che questi patriarchi dicono, sicuramente io posso rispondere loro con lo stesso accento di voce, perchè l’orecchio e la lingua sono due organi di una sola natura. Abita nelle semplici e nobili regioni della tua vita, ubbidisci al tuo cuore, e tu riprodurrai il mondo anteriore, di nuovo.

Come la nostra religione, la nostra educazione, la nostra arte, tendono all’esterno, così anche il nostro spirito di società. Tutti gli uomini si fanno belli del progresso della società e nessuno progredisce.

La società non progredisce mai. Essa recede da un lato, quanto avanza dall’altro. Il suo progresso è apparente, simile al procedere di coloro, che spingono una ruota da mulino. Essa soffre continui cambiamenti; essa è barbara, essa è civile, è cristiana, è ricca, è scientifica; ma questi cambiamenti non sono miglioramenti. Ad ogni cosa data, corrisponde qualche altra presa. La società consegue arti nuove e perde istinti vecchi. Quale contrasto fra l’Americano ben vestito, che sa leggere, scrivere, pensare, che possiede un orologio, una matita, ed una lettera di cambio, e l’abitatore della Nuova Zelanda, nudo, la cui proprietà è una mazza, una lancia, una stuoia e un angolo d’una comune capanna per dormirvi sotto! Ma ponete a confronto la salute dei due uomini e voi vedete che l’uomo bianco ha perduto la sua forza aborigena. Se i viaggiatori dicono il vero, la carne del selvaggio colpita con un’ascia, [60] in un giorno o due si rimarginerà e guarirà, mentre lo stesso colpo manderà l’uomo bianco al sepolcro.

L’uomo civilizzato ha costruito una vettura, ma ha perduto l’uso dei suoi piedi. Egli è sorretto dalle grucce, ma perde altrettanta forza muscolare. Egli ha un bell’orologio ginevrino, ma ha perduta l’abilità di legger l’ora nel sole. Egli possiede un almanacco nautico di Greenwich, e così essendo certo dell’informazione quando egli ne abbisogna, non riconosce più una stella in cielo. Egli, non osserva un solstizio; egli non conosce l’equinozio; così l’intiero fulgido calendario dell’anno, è senza quadrante nella sua mente. Il suo taccuino indebolisce la sua memoria; le sue biblioteche sopraccaricano il suo spirito; le società d’assicurazione accrescono il numero degli infortuni e possiamo domandarci se le nostre macchine non sono d’ingombro; se non abbiamo perduto con il raffinamento qualche energia; se con un cristianesimo trincerato in istituzioni e modi, non abbiamo perduto qualche vigore di virtù selvaggia; poichè ogni stoico era uno stoico, ma nella cristianità dov’è il cristiano?

Eppure non v’è maggiore deviazione nell’ordine morale, che nell’ordine fisico di altezza e di volume. Oggi non vi sono uomini più grandi di quelli del passato. Una grande uguaglianza può esser notata fra i grandi uomini dei primi e degli ultimi tempi; nè può tutta la scienza, l’arte, la religione e la filosofia del sec. XIX educare uomini più grandi degli eroi di Plutarco, ventitre o ventiquattro secoli fa. La razza non progredisce con il tempo. Focione, Socrate, Anassagora, Diogene, sono grandi uomini, ma non fanno «scuola»!! Colui che realmente è della loro specie, non sarà chiamato con il loro nome, ma sarà egli stesso e a sua volta il fondatore d’un’altra scuola. Le arti e le invenzioni di ciascun periodo caratterizzano il costume di esso, ma [61] non rinvigoriscono gli uomini. Il male del progresso meccanico può compensare il suo bene. Hudson e Behring con le loro baleniere stupirono Parry e Franklin, il cui equipaggiamento esauriva le risorse della scienza e dell’arte. Galileo con un canocchiale da teatro scoprì una serie di fenomeni più grandi di quelli scoperti dopo. Colombo scoprì il nuovo mondo con un disadorno battello. È curioso osservare l’inutilità periodica ed il deperimento degli strumenti e delle macchine, che furono introdotti con grande lode pochi anni o pochi secoli fa. Il grande genio ritorna all’uomo essenziale. Noi poniamo i progressi dell’arte della guerra fra i trionfi della scienza; eppure Napoleone conquistò l’Europa con il bivacco, che fu il ritornare al nudo valore, sgombrato d’ogni altro aiuto. «L’imperatore stimava cosa impossibile il formare un perfetto esercito — dice Las Casa, — senza abolire le nostre armi, i nostri magazzini, i nostri commissarii e i nostri cariaggi; di modo che, ad imitazione del costume romano, il soldato ricevesse la sua provvista di grano, la macinasse nel suo mulino a mano, e cuocesse egli stesso il suo pane».

La società è un’onda. L’onda procede innanzi, ma non l’acqua di cui è composta. La stessa molecola non s’alza dal solco alla cresta. La sua unità non che è fenomenica. Le persone che fanno oggi grande una nazione muoiono l’anno prossimo e la loro esperienza con loro.

La fiducia nella proprietà, posta nella fiducia nei governi che la proteggono, è mancanza di fiducia in se stesso. Gli uomini hanno osservato per sì lungo tempo le cose fuor di se stessi che essi sono giunti a stimare le istituzioni religiose, scientifiche e civili, come custodi della proprietà, ed essi si scagliano contro gli assalti mossi a queste istituzioni, perchè sentono che tali assalti sono mossi contro la proprietà. Essi regolano la loro reciproca stima a seconda di ciò che ognuno ha, non [62] di ciò che ognuno è. Ma un uomo colto si vergogna della sua proprietà, di ciò ch’egli possiede, per un nuovo rispetto del suo essere, e specialmente egli odia ciò che ha, quando il suo possesso è accidentale, venuto a lui per eredità o dono o delitto; allora egli sente che ciò non è avere; che ciò non gli appartiene, non ha radice in lui, ma semplicemente giace là, perchè nessuna rivoluzione o furto glielo tolgono. Ma ciò che un uomo dev’essere, per necessità sempre lo acquista, e ciò che l’uomo acquista, è proprietà vivente e permanente, che non dipende da governi, da moltitudini, da rivoluzioni, dal fuoco, dalla tempesta, dalla bancarotta, ma che perpetuamente si rinnova ovunque l’uomo respira. «La tua parte o porzione di vita — dice il califfo Alì — ti cerca; pertanto tralascia dal cercarla». La nostra dipendenza verso questi beni stranieri ci conduce al nostro servile rispetto per la quantità. I partiti politici s’adunano in numerose riunioni; e ad ogni maggiore concorso e ad ogni nuovo clamoroso annunzio: la delegazione di Essex; i democratici di New-Hampshire, i liberali di Maine...!... ecc. il giovine patriota si sente più forte di prima, per queste nuove migliaia di occhi e di braccia. Allo stesso modo i riformatori s’adunano e votano e deliberano in maggioranza. Non è in questo modo, amici, che Dio si degnerà di entrare ed abitare in voi, ma con un metodo precisamente opposto. Solo quando un uomo si libera d’ogni sostegno esterno e rimane solo, io lo vedo forte e vincitore; più debole diventa ad ogni nuova recluta, che raccoglie sotto la sua bandiera. Non è un uomo migliore d’una città? Nulla chiedi agli uomini, e nelle incessanti mutazioni tu, come unica e salda colonna, rivèlati il rettore di tutto ciò che ti circonda. Colui, il quale sa che il potere è nell’anima, che la sua debolezza è nata dall’aver cercato il bene fuori di se stesso e ovunque, e che avendo ciò intuito, [63] si getta senza esitazione sulle orme del suo pensiero, istantaneamente si rialza, rimane eretto, comanda alle sue membra, opera miracoli, allo stesso modo che l’uomo sorretto dai piedi, è più forte dell’uomo, che cammina sulla testa.

In questo modo comportatevi con tutto ciò che è chiamato fortuna. Molti uomini giocano con essa, e vincono e perdono ogni cosa, a misura che la ruota gira. Ma tu abbandona questi profitti come ingiusti e mettiti in rapporto con la Causa e l’Effetto, che sono i cancellieri di Dio. Lavora ed acquista colla tua volontà e tu avrai incatenato la ruota della fortuna e d’ora innanzi te la trascinerai dietro. Una vittoria politica, il rialzo della rendita, la guarigione d’una vostra malattia, il ritorno del vostro amico assente o qualche altro favorevole evento, innalzano i vostri spiriti e voi pensate che giorni lieti siano per venire a voi. Non lo credete. Ciò non può essere. Nulla può portarvi pace se non voi stessi. Nulla può portarvi pace, se non il trionfo dei principii.

[65]

TERZO SAGGIO COMPENSAZIONE

Fin dalla mia fanciullezza io ho desiderato di scrivere un discorso sulla compensazione: poichè mi parve, quand’ero giovanissimo, che su questo argomento la vita fosse più innanzi della teologia, e che il popolo sapesse più di quanto i predicatori insegnassero. Gli stessi documenti, dai quali la dottrina poteva essere tratta, allettavano la mia fantasia con la loro infinita varietà, e mi stavano sempre davanti, anche nel sonno; perchè essi sono gli utensili nelle nostre mani, il pane nel nostro canestro, gli avvenimenti della strada, la cascina, la dimora, i saluti, le relazioni, i debiti e i crediti, l’influenza del carattere, la natura e le doti di ogni uomo. Mi sembrava, anche, che essa potesse mostrare agli uomini un raggio della divinità, l’azione presente dell’anima di questo mondo, libera da ogni vestigio di tradizione, e potesse immergere il cuore dell’uomo in un lavacro di amore eterno, conversando con ciò che egli sa esser sempre esistito, e sempre dover esistere, perchè esso ora realmente esiste. Mi pareva inoltre, che se questa dottrina potesse essere espressa in termini, in certo modo uguali a quelle luminose intuizioni con le quali questa verità ci è talvolta rivelata, essa sarebbe una stella in molte ore oscure e in molti difficili passi del nostro viaggio, la quale non ci permetterebbe di perdere la diritta via.

[66]

Questo desiderio ultimamente crebbe in me ascoltando una predica in chiesa. Il predicatore, un uomo stimato per la sua ortodossia, spiegava nel solito modo la dottrina del giudizio universale. Egli asseriva che l’ultimo giudizio non avviene in questo mondo; che i malvagi sono vittoriosi; che i buoni sono infelici; e poi traeva dalla ragione e dalla Sacra Scrittura l’idea d’un compenso distribuito ad entrambi nella vita futura. La congrega dei fedeli non parve essere indignata da questa dottrina e per quanto io osservassi, allorchè l’adunanza si sciolse, non mi avvidi d’alcuna osservazione mossa a questa predica.

Pure quale era il senso di questo insegnamento? Che cosa intendeva dire il predicatore, affermando che i buoni sono infelici nella vita presente? Voleva egli dire che le case e le terre, le cariche, i vini, i cavalli, i vestiti, il lusso sono tenuti dagli uomini senza principî, mentre i santi sono poveri e disprezzati, e che una compensazione deve essere data a questi in futuro, donando loro come gratificazione, azioni bancarie e doppioni d’oro, cacciagione e champagne? Questa deve essere la compensazione da lui intesa; perchè se non questa, quale altra? Forse questa: che ad essi sarà concesso di pregare e glorificare? di amare e di servire gli uomini? Ma ciò è quanto possono fare ora! La legittima conseguenza che il discepolo poteva trarre era: — «Noi avremo i giorni lieti, che i peccatori hanno ora»; — o per arrivare all’estrema deduzione: — «Voi peccate ora; noi peccheremo più tardi; noi vorremmo peccare ora, se noi lo potessimo; ma non essendo felici attendiamo la nostra rivincita domani». — L’errore di questa dottrina sta nell’immensa concessione, che i cattivi siano soddisfatti; che la giustizia non si compia nel presente. La cecità del predicatore consisteva nel valutare con il vile estimo del mercato. [67] ciò che costituisce un virile successo, anzichè confrontare e confutare il mondo con la verità, affermando la presenza dell’anima, l’onnipotenza della volontà; distinguendo così le insegne del bene e del male, del successo e della menzogna, e citando i morti al suo tribunale.

Riscontro un simile spregevole tono nelle opere popolari religiose di questi giorni, e vedo adottate le stesse dottrine dagli uomini di lettere, quando per caso trattano di analoghi argomenti. Io credo che la nostra teologia popolare s’è innalzata per decoro, e non per principî, sulle superstizioni che essa ha divelte. Ma gli uomini sono migliori di questa teologia e la loro vita giornaliera la smentisce.

Ogni anima ingegnosa e ricca d’aspirazioni abbandona tale dottrina nel passato della sua propria esperienza; e tutti gli uomini sentono talvolta la falsità che essi non possono dimostrare, poichè gli uomini sono più saggi di quanto essi stessi non sappiano. Ciò che essi sentono senza riflessione nella scuola e dal pulpito, se dovesse esser detto in conversazione, sarebbe probabilmente esaminato in silenzio. Se un uomo dogmatizza in una società promiscua, sulla Provvidenza e le leggi divine, egli riceve in tutta risposta un silenzio, che indica chiaramente, ad un osservatore, il malcontento dell’uditorio, ma anche la sua incapacità di formarsi una convinzione propria.

Ricorderò ora alcuni fatti che indicano il cammino della legge della compensazione e sarò oltremodo felice se traccierò con esattezza il più piccolo arco di questo cerchio. La polarità o azione e la reazione si riscontrano in ogni parte della natura; nell’oscurità e nella luce; nel caldo e nel freddo; nel flusso e nel riflusso delle acque; nel maschio e nella femmina; nell’inspirazione e nell’espirazione delle piante e degli animali; nella [68] sistola e diastola del cuore; nelle ondulazioni dei fluidi e del suono; nella gravità centrifuga e centripeta; nell’elettricità, nel galvanismo, e nell’affinità chimica. Producete l’attrazione all’estremità di un ago magnetico; la forza magnetica opposta appare all’altra estremità. Se il sud attrae, il nord respinge. Per fare il vuoto qui, voi dovete condensare là. Un dualismo inevitabile scinde la natura, così che ogni cosa è una metà, e suggerisce un’altra cosa per farla intiera; così spirito, materia; uomo, donna; soggetto, oggetto; dentro, fuori; sopra, sotto; movimento, riposo; sì, no.

Come il mondo è dualistico, così è ciascuna delle sue parti. L’intiero sistema delle cose viene rappresentato in ogni particella. Vi è qualcosa che rassomiglia al flusso ed al riflusso del mare, al giorno ed alla notte, all’uomo e alla donna, nella scaglia del pino, in un grano di frumento, in ogni individuo del regno animale. La reazione, così grandiosa nei suoi elementi, si ripete in questi limiti angusti. Per esempio, nel regno animale, il fisiologo ha osservato che nessun essere è privilegiato, ma che una certa compensazione bilancia ogni dono ed ogni difetto. Un soprappiù concesso ad una parte è ripagato dallo stesso essere con una riduzione di un’altra parte. Se la testa ed il collo sono più larghi, il tronco e le estremità sono accorciati.

La teoria delle forze meccaniche fornisce un altro esempio. Ciò che noi guadagniamo in potenzialità, perdiamo in durata; e viceversa. Le rivoluzioni periodiche o equivalenti dei pianeti sono un altro esempio; così l’influenza del clima e del suolo nella storia politica.

Il clima freddo rinvigorisce. Il suolo arido non produce febbri, cocodrilli, tigri o scorpioni.

Lo stesso dualismo si cela nella natura e nella condizione dell’uomo. Ogni eccesso dà origine ad un difetto; ogni difetto ad un eccesso. Ogni dolce ha il suo [69] amaro; ogni male ha il suo bene. Ogni facoltà che riceve piacere, ha un castigo uguale al piacere, in caso d’abuso e deve rispondere della sua moderazione a prezzo della vita. Per ogni grano di spirito vi è un grano di follia. Ad ogni cosa perduta, corrisponde un’altra guadagnata; ad ogni cosa guadagnata un’altra perduta. Le ricchezze crescono; cresce il numero di coloro che le usano. Se il raccoglitore raccoglie troppo, la natura prende dall’uomo ciò che essa mette nelle casse di lui; aumenta i beni, ma uccide il proprietario. La natura odia i monopoli e gli eccessi. Le onde del mare non ricercano più rapidamente il loro livello dopo il loro agitarsi, di quanto tendano le varietà della condizione ad uguagliarsi. Vi è sempre qualche circostanza livellatrice, che riconduce il superbo, il forte, il ricco, il fortunato, sostanzialmente allo stesso livello di tutti gli altri. Un uomo è troppo forte e feroce per la società, è un cattivo cittadino per temperamento e per posizione, — è un testardo malfattore con un tanto di pirata in se stesso; — ebbene la natura gli manda uno stuolo di figli e di figlie che studiano lodevolmente nella scuola del villaggio, e l’amore ed il timore per essi, spianano il suo tristo viso arcigno alla cortesia. Così essa giunge ad intenerire il granito, a scacciare la bestia feroce ed introdurvi l’agnello, ed a mantenere esatta la bilancia.

Il contadino immagina che il potere e la preminenza siano delle belle cose, ma il Presidente ha pagato cara la sua Casa Blanca. Ordinariamente essa gli è costata tutta la sua pace, e le migliori delle sue qualità virili. Per conservare per breve tempo una posizione apparentemente così cospicua innanzi al mondo, egli è lieto di mangiare polvere davanti ai suoi veri padroni, che stanno eretti dietro il trono. Oppure desiderano gli uomini la grandezza più sostanziale e permanente del [70] genio? Anche questa non ha maggior immunità. Colui che colla forza della volontà o del pensiero è grande, e domina migliaia di cose, ha la responsabilità del dominio. Con ogni influsso di luce viene un pericolo nuovo. Possiede egli la luce? Egli deve far testimonianza di quella luce, e sempre precedere con la sua fedeltà alle nuove rivelazioni dell’anima eterna, quella simpatia, che gli dà tanta viva soddisfazione. Egli deve odiare il padre e la madre, la moglie e il figlio. Ha egli tutto ciò che il mondo ama ed ammira ed agogna? egli deve rigettare dietro di sè l’ammirazione, ed affligger il mondo con la fedeltà alla sua verità e diventare un proverbio ed un oggetto di burla.

Questa legge crea le leggi delle città e delle nazioni. Essa non sarà deviata dal suo fine del più piccolo iota. È vano il macchinare o il complottare o l’accordarsi contro di essa. Le cose rifiutano di essere maneggiate male per lungo tempo. Res nolunt diu male administrari. Sebbene nessun impedimento ad un nuovo male appaia, l’impedimento esiste, ed apparirà. Se il governo è crudele, la vita del governatore non è sicura. Se voi mettete delle tasse troppo alte, il reddito nazionale sarà nullo. Se fate il codice penale sanguinario, i giurati non condanneranno. Nulla che sia arbitrario, nulla che sia artificiale, può durare.

La vita vera e le soddisfazioni dell’uomo sembrano eludere gli estremi rigori o le estreme prosperità delle condizioni, e stabilirsi con grande indifferenza sotto tutte le varietà di circostanze. Sotto tutti i governi l’influenza del carattere rimane la stessa, — in Turchia o nella nuova Inghilterra. Sotto i despoti primitivi dell’Egitto, la storia onestamente confessa che l’uomo ebbe tanta libertà quanta fu la sua cultura.

Queste apparenze dimostrano che l’universo è rappresentato in ciascuno delle sue molecole. Ogni cosa [71] in natura contiene tutti i poteri della natura stessa. Ogni cosa è fatta di una sola materia conosciuta; così il naturalista vede un solo tipo sotto ogni metamorfosi, e considera un cavallo quale un uomo corrente, un pesce quale un uomo natante, un uccello quale un uomo che vola, un albero quale un uomo radicato nel suolo. Ogni nuova forma ripete non solamente il carattere principale del tipo, ma via via tutte le particolarità, tutte le finalità, tutti i progressi, tutti gli impedimenti, tutte le energie e l’intiero sistema in fine di qualsiasi altro tipo. Ogni occupazione, ogni commercio, ogni arte, ogni avvenimento è un compendio del mondo, e un correlativo di ciascun’altra di queste cose. Ogni uomo è un completo emblema della vita umana, del suo bene e del suo male, dei suoi cimenti, dei suoi nemici, del suo corso e della sua fine: e ciascuno deve in qualche modo contenere l’uomo completo e narrare tutto il suo destino.

Il mondo aduna se stesso in una goccia di rugiada. Il microscopio che esamina il microbo, non lo trova meno perfetto solo per essere piccolo. Occhi, orecchi, gusto, odorato, movimento, resistenza, appetito, e gli organi stessi di riproduzione che congiungono all’eternità, trovano modo d’esser contenuti nel più piccolo essere.

Allo stesso modo noi mettiamo la nostra vita in ogni atto. La vera teoria dell’omnipresenza è che Dio riappare, con tutti i suoi elementi, in ogni muschio ed in ogni tela di ragno. Il valore dell’universo si studia di penetrare in ogni punto. Se il bene c’è in un luogo, anche il male ci sarà; se si trova l’affinità, pure si troverà la repulsione; se la forza c’è, ci sarà anche una limitazione ad essa.

Così è il vivente universo. Tutte le cose sono morali. L’anima che dentro di noi è sentimento, all’infuori [72] di noi è legge. In noi sentiamo la sua ispirazione; fuori, nella storia, noi possiamo vedere la sua forza fatale. Essa è onnipossente e tutta la natura sente il suo potere. Essa è nel mondo; per essa il mondo fu creato. Essa è eterna e rappresenta se stessa nel tempo e nello spazio. La giustizia non è posposta. Un’equità perfetta regola la sua bilancia in ogni parte della vita.

«Οί κύβοι Διὸς ’αεὶ εὐπίπτουσι»: «I dadi degli Dei sempre vincono». Il mondo appare come una tavola di moltiplicazione od un’equazione matematica, che, voltata come voi volete, mantiene sempre il suo equilibrio. Prendete qualsiasi figura vi piaccia, essa vi renderà conto del suo esatto valore, nè più nè meno. Ogni segreto è palesato, ogni delitto punito, ogni virtù ricompensata, ogni torto riparato in silenzio e certamente. Ciò che noi chiamiamo «compenso» è la necessità universale, per la quale l’intiero appare ogni qualvolta appare una parte. Se vedete del fumo, là ci deve essere del fuoco. Se vedete un braccio od un altro membro, voi sapete che il tronco al quale esso appartiene, sta dietro.

Ogni atto ricompensa se stesso, od in altre parole, si integra in un duplice modo: primo, nella cosa o nella natura reale; secondo, nella circostanza o nella natura apparente. Gli uomini dànno alla circostanza il nome di retribuzione. La retribuzione causale è nella cosa, e non è veduta che dall’anima; invece la retribuzione della circostanza è veduta dall’intelligenza; essa è inseparabile dalla cosa, ma spesso stesa su di un lunghissimo tempo, non viene distinta che dopo molti anni. Le ferite specifiche possono seguire l’offesa dopo lungo tempo, ma esse giungono perchè l’accompagnano. Il delitto e la pena crescono da un solo stelo. La pena è un frutto insospettato, che matura nel fiore del piacere, che lo ha coperto. Causa ed effetto, mezzi [73] e fini, seme e frutto, non possono essere separati, perchè l’effetto fiorisce già nella causa, il fine preesiste nei mezzi, il frutto nel seme.

Mentre il mondo in tal guisa sarebbe unità e rifuggirebbe dall’esser diviso, noi cerchiamo di operare parzialmente, di separare, di appropriarci qualchecosa; per esempio, per soddisfare i sensi, noi separiamo il piacere dei sensi dalle necessità del carattere. L’ingenuità dell’uomo è sempre stata dedicata alla soluzione di un solo problema: in qual modo separare la dolcezza sensuale, la forza sensuale, la luce sensuale, ecc. dalla dolcezza morale, dalla morale profondità, dalla bellezza morale: vale a dire, ancora, come separare nettamente questa superficie esterna in modo da lasciarla senza il fondo; come giungere ad un’estremità senza averne un’altra. L’anima dice: «Mangia»; il corpo vorrebbe banchettare. L’anima dice: «L’uomo e la donna non saranno che una carne sola ed una sola anima» ed il corpo vorrebbe unirsi solamente alla carne. L’anima dice: «abbiate il dominio su tutte le cose per fini di virtù» ed il corpo vorrebbe avere il potere su tutte le cose per i suoi propri fini.

L’anima lotta con vigore per vivere e lavorare attraverso tutte le cose. Essa potrebbe essere l’unico fatto e tutte le cose sarebbero ad essa unite: potere, piacere, conoscenza, bellezza.

Ma l’uomo individuo aspira ad essere «qualcuno»; a costruire per se stesso; ad affaccendarsi ed a mercanteggiare per il bene privato; monta a cavallo allo scopo di montar a cavallo; si abbiglia per abbigliarsi; mangia per mangiare; governa allo scopo di eccellere. Gli uomini cercano di essere grandi; essi vorrebbero avere uffici, ricchezze, potere e fama. Essi credono che essere grandi sia possedere una parte sola della natura, quella dolce, senza l’altra parte, quella amara.

[74]

Questa divisione e questa separazione sono però energicamente avversate dalla natura. Fino al giorno nostro, bisogna riconoscerlo, nessun creatore di progetti ha avuto il più piccolo successo. L’acqua separata si riunisce dietro la nostra mano. Nel momento in cui cerchiamo di separarlo dal «tutto», il piacere è colto fuor dalle cose piacevoli, il profitto fuori dalle cose profittevoli, il potere fuori dalle cose forti. Noi non possiamo scindere le cose e ricercare solo il bene sensuale per se stesso, come non possiamo raggiungere un interno che non abbia esterno od una luce senza ombra. «Scacciate la natura con un bidente, essa ritorna di corsa».

La vita si riveste di condizioni inevitabili, che lo stolto cerca di schivare, che questi e quegli si vanta di non conoscere, come cose che non lo riguardano; ma la millanteria è sulle sue labbra, mentre le condizioni sono nella sua anima. Se egli le sfugge per una parte, esse lo attaccano per un’altra parte più vitale. Se egli le ha sfuggite in forma ed in apparenza, è perchè egli ha resistito alla sua vita, è fuggito lungi da se stesso, e il compenso è tale quale la morte. L’inanità di tutti i tentativi per fare questa separazione del bene dall’obbligazione è così evidente, che l’esperimento non sarebbe tentato — e il tentarlo sarebbe opera pazza, — senza che, iniziata nella volontà la malattia della ribellione e della separazione, l’intelletto subito non vada infetto; tanto che l’uomo cessa di vedere in ogni oggetto Dio nella sua pienezza, ma vede l’adescamento sensuale di esso, e non vede il suo pregiudizio; egli vede la testa della sirena, ma non la coda del drago; e pensa di poter recidere ciò che egli vuole avere da ciò che egli non vorrebbe. «Quanto secreto tu sei, che abiti nei più alti cieli silenziosamente, tu unico grande Iddio, che getti per castigo, con Provvidenza infaticabile, [75] l’acciecamento su coloro che nutrono sfrenati desideri!»[2].

L’anima umana è fedele a questi fatti nel rappresentarli nelle favole, nella storia, nei proverbi, nella conversazione. Ciò trova inopinatamente una voce nella letteratura. Così i Greci chiamarono Giove, la Mente Suprema; ma avendogli per tradizione ascritto molte azioni basse, involontariamente fecero ammenda alla ragione, incatenando le mani di un dio così cattivo. Egli è ridotto così senza sostegno, come un re d’Inghilterra. Prometeo conosce un segreto per il quale Giove deve patteggiare; Minerva un altro ne conosce. Egli non può disporre dei suoi propri fulmini; Minerva ne tiene le chiavi.

«Fra tutti gli Dei, io sola conosco le chiavi che aprono le solide porte delle aule, ove le sue folgori dormono».

È una sincera confessione dell’opera interna del Tutto, e del suo scopo morale. La mitologia indiana finisce nella stessa etica; e sembrerebbe impossibile inventare qualsiasi favola e darle una popolarità, se essa non è morale. Aurora scordò di chiedere la gioventù per il suo amante, e Titone sebbene immortale è vecchio. Achille non è completamente invulnerabile; poichè le acque sacre non bagnarono il suo tallone, per il quale Teti lo sosteneva. Siegfried, nei Nibelungi, non è completamente immortale, perchè una foglia cadde sul suo dorso, mentre egli si bagnava nel sangue del drago, e quella parte rimasta coperta è mortale. E così è sempre. V’è una fenditura in tutte le cose che Dio ha fatto. E pare che questa circostanza vendicativa sempre appaia, improvvisa, perfino nella poesia, dove la fantasia umana tenta di cantare feste ardimentose, e di liberarsi [76] delle vecchie leggi —, come appare nell’urto all’indietro, nel retrocedere del cannone, affermanti che la legge è fatale e che in natura nulla può essere donato, ma tutto è venduto.

Questo è l’antico significato della Nemesi, che vigila sull’universo, e non lascia impunita alcuna offesa. Le furie, dicono gli antichi, sono le ancelle della giustizia, e se il sole in cielo trasgredisse dalla sua via, esse lo punirebbero. I loro poeti raccontano che le mura di pietra, e le spade di ferro, e le cinghie di cuoio hanno un’occulta simpatia con i falli dei loro proprietari; che la cintura, che Ajace donò ad Ettore, trascinò sul campo l’eroe Trojano attaccato alle ruote del carro di Achille, e che la spada, che Ettore diede ad Ajace, fu quella con cui Ajace si trafisse. Essi ricordano che quando i Thasiani eressero una statua a Teogene, vincitore nei giuochi, uno dei suoi rivali andò ad essa nottetempo, e tentò abbatterla con colpi ripetuti, finchè la smosse dal suo piedestallo, ma vi rimase sotto, schiacciato dalla sua caduta.

La voce della favola ha in sè qualcosa di divino. Essa sorse da un pensiero posto al di sopra della volontà dello scrittore. La parte migliore d’ogni scrittore è quella che ha nulla d’individuale; quella che egli non conosce; che sorse dalla sua costituzione e non dalla sua troppo fervida invenzione; quella che nello studio di un solo artista non potreste facilmente trovare, ma che nello studio di molti, voi raccogliereste come se fosse lo spirito di tutti. Io vorrei conoscere l’opera dell’uomo in quell’antico mondo ellenico, non Fidia. Il nome e la vita di Fidia, per quanto convenienti per la storia, ci imbarazzano quando ci innalziamo al criticismo supremo. Noi dobbiamo vedere ciò che in un dato periodo l’uomo intendeva di fare e che fu impedito, o se vi piace meglio, modificato dalle intervenute volizioni di Fidia, [77] di Dante, di Shakespeare, organi per mezzo dei quali l’uomo in quel momento s’espresse.

L’espressione di questa legge della compensazione è ancor più rimarchevole nei proverbi di tutte le nazioni, i quali formano sempre la letteratura della ragione, o l’affermazione di una verità assoluta, senza restrizione. I proverbi, come i libri sacri di ogni nazione, sono il santuario delle intuizioni. Ciò che il mondo pigro, incatenato alle apparenze, non permetterà di dire al realista con sue proprie parole, senza contraddirsi gli concederà di dire con proverbi. E questa legge delle leggi, che il pulpito il senato ed il collegio negano, è ad ogni ora predicata su tutti i mercati ed in tutte le officine, in tutte le lingue, con miriadi di proverbi, il cui insegnamento è così vero ed omnipresente come l’esistenza degli uccelli e delle mosche.

Tutte le cose sono duplici: l’una opposta all’altra: pane per focaccia: occhio per occhio, dente per dente; sangue per sangue; misura per misura; amore per amore. Date e vi sarà dato. Colui che bagna sarà bagnato. «Che cosa volete? — dice Dio, — pagatelo e prendetelo». — Nulla arrischi, nulla avrai. Tu sarai pagato esattamente per ciò che hai fatto, nè più nè meno. Colui che non lavora non mangerà. Poca cura, cattivo profitto. Le maledizioni ricadono sempre sul capo di colui che le scaglia. Se voi mettete una catena al collo di uno schiavo, l’altra estremità si attorciglia intorno al vostro. Il cattivo consiglio perde il consigliere. — Il Diavolo è un ciuco.

Così è scritto, perchè così è nella vita. La nostra azione è dominata e caratterizzata, al disopra del nostro volere, dalla legge della natura. Noi aspiriamo ad un piccolo scopo separato in modo assoluto dal bene pubblico, ma la nostra azione si dispone per un magnetismo irresistibile, parallela ai poli del mondo.

[78]

Un uomo non può parlare senza giudicare se stesso. Volente o nolente, egli disegna con ogni parola il suo proprio ritratto agli occhi dei suoi compagni. Ogni opinione reagisce su colui che la pronuncia: è un gomitolo di filo gettato in un punto, ma di cui l’estremità opposta rimane nella tasca di colui che l’ha lanciato: o piuttosto è un arpione scagliato contro una balena, che svolge nel suo volo una spira di corda nella barca, e che taglierà in due il timoniere e affonderà la barca, s’esso non è buono o bene scagliato. Non potete fare il peggio senza soffrire il peggio. Nessun uomo ebbe mai punta d’orgoglio, che non gli fosse dannosa, disse Burke. Chi vive esclusivamente di vita mondana non s’avvede che egli esclude ogni godimento nel tentativo di appropriarselo. L’esclusivista nel campo religioso non s’avvede di chiuder la porta del cielo a se stesso, tentando di chiuderla per gli altri. Trattate gli uomini come pedine e come birilli e voi soffrirete ciò che essi soffrono. Se voi non terrete conto del loro cuore, perderete il vostro. I sensi vorrebbero trasformare in cose tutte le persone: le donne i bambini, i poveri. Il proverbio volgare «Questo otterrò dalla sua borsa o dalla sua pelle» è filosofia gagliarda.

Tutte le infrazioni all’amore ed all’equità nelle nostre relazioni sociali sono rapidamente punite. Esse sono punite dal timore. Finchè io mantengo una semplice relazione col mio simile, non provo alcun dispiacere nell’incontrarlo. Noi ci incontriamo come l’acqua incontra l’acqua, come una corrente d’aria ne incontra un’altra, con una perfetta fusione e penetrazione di natura. Ma così tosto come vi è un allontanamento dalla semplicità od un tentativo di reticenza, il bene mio non è più il bene suo ed il mio prossimo sente il danno; egli mi sfugge come io l’ho sfuggito; i suoi occhi non cercano più i miei; vi è guerra fra noi; vi è odio in lui e timore in me.

[79]

Tutti gli antichi abusi della società, universali e particolari, tutto l’ingiusto accumulamento di proprietà e di potere, sono vendicati allo stesso modo.

Il timore è maestro di grande sagacità e l’araldo di tutte le rivoluzioni. Una sola cosa esso ci insegna: che vi è corruzione là dove esso appare. Il timore è come un corvo che ama le carogne; benchè voi non vediate bene intorno a che cosa svolazzi, pure vi è la morte in quel luogo. La nostra proprietà è timida, le nostre leggi sono timide, le nostre classi colte sono timide. Il timore per secoli e secoli ha presagito e cianciato e pronosticato sopra il governo e la proprietà. Questo tristo uccello non è là per nulla. Esso indica dei grandi torti che devono essere riparati. Della stessa natura è quell’aspettazione d’un mutamento, che immediatamente segue la sospensione della nostra attività volontaria. Il terrore di una luna senza nubi, lo smeraldo di Policrate, il timore della prosperità, l’istinto che spinge ogni anima generosa ad imporsi il compito d’un nobile ascetismo, sono come le oscillazioni della bilancia della giustizia attraverso il cuore e la mente dell’uomo.

Gli uomini che hanno esperienza del mondo sanno molto bene che è meglio pagare lo scotto, ovunque vadano, e che l’uomo paga sovente cara una piccola economia. Colui che dà in prestito, rientra nel suo proprio debito. Colui che ha ricevuto cento favori e non ne ha reso alcuno, ha egli guadagnato qualche cosa? Ha egli guadagnato chiedendo, per indolenza od abilità, le merci od i cavalli od il denaro del suo vicino?

Il riconoscimento del beneficio da una parte, e del debito dall’altra, vale a dire della superiorità e dell’inferiorità sorge immediato nel fatto. La transazione rimane nella memoria sua e del suo vicino; ed ogni [80] nuova transazione àltera, a seconda della sua natura, le relazioni reciproche. Egli giunge tosto a comprendere che sarebbe stato meglio per lui rompersi le ossa che l’aver viaggiato nella carrozza del suo vicino, e che il prezzo più alto, cui egli può pagare una cosa qualsiasi, sta nel chiederla.

Un uomo saggio applicherà questo ammonimento a tutte le fasi della vita e saprà che è parte della prudenza il far fronte ad ogni richiedente e soddisfare ogni giusta richiesta con il vostro tempo, il vostro ingegno e il vostro cuore. Pagate sempre; perchè tardi o tosto dovrete pagare il vostro debito intiero. Persone ed eventi possono frapporsi fra voi e la giustizia per qualche tempo, ma ciò è solamente un differimento. Voi dovrete, in ultimo, pagare. Se siete saggi, sfuggirete una prosperità che accresce solo il vostro debito.

Il beneficio è lo scopo della natura. Ma per ogni beneficio che voi ricevete è imposta una tassa. Più grande è colui, che conferisce più benefici. È vile — ed è l’unica cosa vile nell’universo — ricevere favori, senza contraccambiarne alcuno. È nell’ordine naturale che noi non possiamo rendere dei benefici a coloro, dai quali li riceviamo, e se ciò avviene, accade però molto di rado. Ma il beneficio che noi riceviamo deve essere reso a qualcuno, linea per linea, fatto per fatto, centesimo per centesimo. Temete che troppi beni rimangano nelle vostre mani! Presto si corromperanno e genereranno dei vermi. Pagate, presto, in qualche modo.

Il lavoro è salvaguardato dalle stesse leggi inflessibili. Dicono i prudenti che i lavori più cari sono quelli a buon prezzo. Ciò che noi acquistiamo in una scopa, in un materasso, in un carro, in un coltello, è una applicazione del buon senso ad un bisogno comune. La cosa migliore è quella di pagare nel vostro possedimento un giardiniere abile, vale a dire acquistare [81] il buon senso applicato al giardinaggio; nel vostro marinaio, il buon senso applicato alla navigazione: nella casa, il buon senso applicato alla cucina, al cucire, al servire; nel vostro agente, il buon senso applicato ai conti e agli affari. Così voi moltiplicate la vostra presenza, ossia spargete voi stesso in tutto il vostro possedimento. Ma per la duplice costituzione di tutte le cose, nel lavoro come nella vita non vi può essere inganno. Il ladro deruba se stesso, lo scroccone truffa se stesso; poichè la ricompensa reale del lavoro è la conoscenza e la virtù, mentre la ricchezza e il credito ne sono i simboli. Questi simboli, come la carta-moneta possono essere falsificati o rubati, ma ciò che essi rappresentano, vale a dire conoscenza e virtù, non può essere falsificato o rubato. Questi fini del lavoro non possono essere raggiunti che dagli sforzi reali della mente, e dall’obbedienza a dei motivi puri. Lo scroccone, il truffatore, il giuocatore non possono ottenere quella conoscenza della natura materiale e morale, che insegna al lavoratore le sue oneste cure e gli affanni. La legge della natura dice: Agite e voi avrete il potere; ma coloro che non agiscono non l’avranno.

Il lavoro umano, in tutte le sue forme, dall’aguzzare un palo sino alla costruzione di una città o alla creazione di un poema epico, è un’illustrazione immensa della perfetta compensazione dell’universo. L’assoluta bilancia del Dare e dell’Avere, la teoria che ogni cosa ha il suo prezzo, e che se quel prezzo non è pagato, un’altra viene ottenuta in pagamento, e che è impossibile ottenere cosa alcuna senza il suo prezzo — non è meno sublime nelle colonne di un libro-mastro che nei bilanci degli stati, nelle leggi della luce e dell’oscurità, in tutta l’azione e reazione della natura. Io non posso dubitare che le alte leggi che ogni uomo vede [82] implicate in quelle occupazioni che gli sono familiari, quali la rigida morale che scintilla sul filo del suo scalpello, che è misurata dal suo filo a piombo e dalla sua squadra, che è visibile alla base d’un conto di bottega come nella storia di uno Stato — gli raccomandino il suo commercio, ed esaltino i suoi affari nella sua imaginazione.

La lega fra la virtù e la natura obbliga tutte le cose ad assumere un contegno ostile di fronte al vizio. Le leggi e le sostanze del mondo perseguitano e condannano il traditore. Egli trova che le cose sono disposte per la verità ed il beneficio, ma che nell’intiero mondo non vi è una sola caverna per nascondere un furfante. Nulla v’è che sia un segreto. Commettete un delitto e la terra diventa di cristallo; commettete un delitto e sembrerà che un mantello di neve sia caduto sul terreno, come quello, che nei boschi, rivela la traccia d’ogni pernice, d’ogni volpe, d’ogni scoiattolo e d’ogni talpa. Non potete riprendere la parola detta, non potete cancellare la traccia, non potete ritirare la scala in modo da non lasciare luogo a passaggio o ad indizio. Qualche circostanza che vi condanna, sempre sopravvive. Le leggi e le sostanze della natura — acqua, neve, vento, gravitazione — si mutano in castighi per il ladro. Con la stessa forza ed in senso opposto la legge sostiene con uguale sicurezza ogni azione giusta. Amate e sarete amati. Ogni amore è matematicamente giusto, come i due membri d’una equazione algebrica. L’uomo buono possiede il bene assoluto, che, come il fuoco, riconduce ogni cosa alla sua propria natura, così che non potete recargli alcun danno; ma come gli eserciti inviati contro Napoleone, al suo avvicinarsi abbassavano le loro bandiere e da nemici diventavano amici, così per lui i disastri di tutte le specie, le malattie, le offese, la povertà diventano benefattori.

[83]

«I venti soffiano e le acque portano al coraggioso la forza, il potere e la divinità. Eppure in se stessi, quelli sono nulla».

I buoni sono protetti perfino dalla loro debolezza e dai loro difetti. Allo stesso modo che mai nessun uomo ha avuto un punto di orgoglio, che non fosse a lui ingiurioso, così nessun uomo ha mai avuto un difetto che in qualche modo non gli riuscisse talvolta giovevole. Il cervo della favola ammirava le sue corna e criticava i suoi piedi, ma quando il cacciatore venne, i suoi piedi lo salvarono e preso nella boscaglia, le sue corna lo perdettero. Ogni uomo deve nella sua vita render grazie ai suoi difetti. Come nessun uomo penetra completamente una verità, fino a che non ha lottato contro di essa, così nessun uomo ha completa conoscenza degli impedimenti o dei talenti degli uomini, finchè egli non ha sofferto gli uni e veduti i trionfi degli altri e constatata in se stesso la mancanza di essi. Ha egli un difetto di carattere che lo rende poco atto alla vita sociale? Egli è allora obbligato a vivere da solo, ad acquistare l’abitudine dell’auto-aiuto; e come l’ostrica ferita, egli aggiusta la sua conchiglia con una perla.

La nostra forza è prodotta dalla nostra debolezza. L’indignazione, che si arma con delle forze segrete, non si sveglia finchè noi non siamo punti, feriti e dolorosamente assaliti a colpi di fucile. Un grande uomo vuol esser sempre piccolo. Mentre egli siede sui cuscini delle comodità, egli si addormenta. Quando egli è spinto, tormentato, sconfitto, egli dalle sue vicende impara qualche cosa; egli è stato posto nella sua saggia virilità, egli ha acquistata la nozione dei fatti e conosce la sua ignoranza; è guarito dall’insania della fantasia; ha acquistata la moderazione e l’abilità reale. L’uomo saggio si getta dalla parte dei suoi assalitori; trovare [84] il suo punto debole è più il suo interesse che il loro. La ferita si cicatrizza e cade come pelle morta, e quando essi stanno per trionfare, ecco! egli è passato avanti invulnerabile. Il biasimo è più sicuro della lode. Io odio d’essere difeso in un giornale. Fintantochè tutto ciò che si dice, è detto contro di me, sento una certa sicurezza di successo; ma tosto che parole melate di lode sono pronunciate a mio riguardo, mi sento come senza protezione di fronte ai miei nemici. In generale, ogni male al quale noi non soccombiamo, è un nostro benefattore. Come l’isolano delle isole di Sandwich crede che la forza ed il coraggio del nemico che egli uccide, passino in lui, così noi acquistiamo la forza di quella tentazione, alla quale resistiamo.

I medesimi custodi che ci proteggono dalla sventura, dal difetto e dall’inimicizia, ci difendono, se noi vogliamo, dall’egoismo e dalla frode. I ceppi e i banchi degli accusati non sono le migliori nostre istituzioni, nè l’astuzia in commercio è una prova di saggezza. Gli uomini giacciono durante tutta la vita sotto la superstizione stupida di poter essere truffati. Ma è così impossibile ad un uomo l’essere truffato, se non da se stesso, come è impossibile per una cosa l’essere e non essere allo stesso tempo. Vi è una terza persona silenziosa in tutti i nostri contratti. La natura e l’anima delle cose prendono su se stesse la garanzia del compimento d’ogni contratto, così che un servizio onesto non può mutarsi in una perdita. Se voi servite un padrone ingrato, servitelo il più a lungo possibile. Ponete Iddio nel vostro debito. Ogni azione sarà ripagata. Quanto più a lungo il pagamento è ritardato, tanto meglio è per voi, perchè l’interesse composto su interesse composto è la norma e l’abitudine del tesoriere. La storia della persecuzione è una storia dei tentativi per frodare la natura, per far salire l’acqua sui [85] colli, per attorcigliare corde di sabbia. Che i persecutori siano molti od uno solo, un tiranno od una folla, ciò non ha importanza. Una folla tumultuante è una società di corpi, privati volontariamente dell’uso della ragione, e che cammina attraverso le proprie opere. La folla tumultuante è un uomo che volontariamente discende al livello del bruto; la sua ora d’attività è la notte; le sue azioni sono pazze come tutta la sua costituzione; essa perseguita un principio; vorrebbe frustare un diritto, vorrebbe sopprimere la giustizia, dando al fuoco ed all’oltraggio le case e le persone che la rispettano. Essa compie le sciocchezze dei ragazzi, che corrono con pompe da incendio per spegnere la rossa aurora innalzantesi alle stelle. Lo spirito inviolato ritorce contro i malfattori il loro odio. Il martire non può essere disonorato; ogni frustata inflitta è una voce per la fama; ogni prigione, un’abitazione più illustre; ogni libro o casa bruciata illumina il mondo; ogni parola soppressa o cancellata si riflette attraverso la terra, da parte a parte. Le menti degli uomini sono alfine ridestate, la ragione appare e giustifica se stessa e la perfidia trova vane tutte le sue opere.

Così tutte le cose ammoniscono sull’indifferenza delle circostanze. L’uomo è tutto. Ogni cosa ha due lati, uno buono ed uno cattivo. Ogni vantaggio ha il suo contrario: io imparo così ad essere contento. Ma la teoria della compensazione non è la teoria dell’indifferenza. Lo spensierato dice, udendo queste dimostrazioni: «A che cosa giova il fare bene? Vi è una vicenda sola per il bene e per il male; se guadagno qualche bene, devo pagare per esso; se lo perdo un altro ne guadagno; tutte le azioni sono indifferenti».

Vi è nell’anima un fatto più profondo della compensazione, vale a dire, la sua propria natura. L’anima non è una compensazione, ma una vita. L’anima è. [86] Sotto questa marea ondeggiante di circostanze, le cui acque si alzano e si abbassano con perfetto succedersi, giace l’aborigeno abisso dell’«Essere» reale. L’essenza, o Iddio, non è una relazione od una parte, ma il Tutto. L’essere è l’affermazione vasta, che esclude la negazione, che si regge in equilibrio di per se stesso, e inghiottisce tutte le relazioni, tutte le parti, e tutti i tempi. La natura, la verità, la virtù, sono i flussi che di là provengono. Il vizio è l’assenza dell’essere e l’allontanamento da esso. Il nulla, la falsità, possono invero stare come la grande notte o l’ombra, sulla quale, come su uno sfondo, l’universo vivente proietta se stesso; ma nessun fatto è dal nulla generato; il nulla non può operare, perchè esso non è. Non può fare alcun bene; non può far alcun male. Ma è un male perchè è peggio non essere che essere.

Noi ci sentiamo defraudati della retribuzione dovuta alle azioni cattive, perchè il criminale aderisce ai suoi vizî, rimane fedele alla sua contumacia e non viene in nessun modo ad una crisi o ad un giudizio della natura visibile. Non vi è confutazione della sua stoltezza davanti agli uomini ed agli angeli. Ha egli perciò superata in destrezza la legge? Più egli porta seco la malignità e la menzogna, più egli s’allontana dalla natura. In qualche modo una dimostrazione del suo misfatto vi sarà anche per l’intelligenza; ma se noi anche non la vedessimo, questa deduzione implacabile bilancierà il conto eterno.

Nè può dirsi, d’altra parte, che l’acquisto di rettitudine debba essere ottenuto a prezzo di una perdita qualsiasi. Non vi è penalità per la virtù, non v’è penalità per la saggezza; esse sono delle vere aggiunte all’essere. In un’azione virtuosa, io realmente sono; in un’azione virtuosa io accresco il mondo; io mi stabilisco nei deserti conquistati al Caos ed al nulla, e vedo [87] l’oscurità recedere ai limiti dell’orizzonte. Non vi può essere eccesso nell’amore, nella conoscenza, nella bellezza, quando questi attributi sono considerati nel loro più puro senso. L’anima rifugge da tutti i limiti, e nell’uomo sempre afferma un ottimismo, mai un pessimismo.

La sua vita è un progresso e non una stazione. Il suo istinto è la fiducia. Il nostro istinto usa più o meno nei rapporti con l’uomo, della presenza dell’anima e non mai della sua assenza; l’uomo coraggioso è più grande del codardo; il veritiero, il benevolente, il saggio, è più uomo e non meno del demente e del furfante. Non vi è tassa sui beni della virtù, perchè essi sono patrimonio di Dio stesso, o esistenza assoluta, senza comparazione alcuna. Il bene materiale ha la sua tassa, e se è venuto senza merito e senza sudore, esso non ha radice in me, ed il primo vento lo spazzerà via. Ma tutti i beni della natura appartengono all’anima, e possono essere acquistati con moneta legale in natura, vale a dire con un lavoro che il cuore e il cervello permettono. Io non desidero di ritrovare un bene che non merito, per esempio rinvenire un recipiente sotterrato, pieno d’oro, perchè so che esso mi porta nuove responsabilità. Io non desidero beni esterni, nè possessi, nè onori, nè potere, nè persone. Il guadagno è apparente; la tassa è certa. Ma non vi è tassa sulla conoscenza che la compensazione esiste, e che non è desiderabile trovare dei tesori. Di ciò io godo con una pace serena, eterna. Io restringo i limiti del male possibile. Imparo la saggezza di san Bernardo: «Nulla può farmi del male eccetto me stesso; il male che io soffro lo porto in me stesso e non sono mai un reale sofferente se non per colpa mia».

Nella natura dell’anima v’è un compenso per l’ineguaglianza delle condizioni. La tragedia radicale della [88] natura sembra essere nella distinzione di Più e Meno. Come può il Meno non sentire il dolore; non sentire indignazione o malevolenza contro il Più? Badate a colui che ha minori facoltà e voi vi sentite triste e non sapete bene che cosa fare. Egli quasi evita i vostri occhi; egli quasi teme che essi rimbrottino Iddio. Che fare? Tutto ciò pare una grande ingiustizia. Ma avvicinate i fatti, vedeteli da vicino e queste ineguaglianze simili a montagne, spariscono. L’amore le riduce, come il sole fonde gli icebergs in mare. Il cuore e l’anima di tutti gli uomini essendo uno, cessa quest’amarezza del Suo e del Mio. Il suo è mio. Io sono mio fratello e mio fratello è io stesso. Se io mi sento oscurato e sorpassato da grandi vicini, pure io li posso ancora amare; io li posso ancora ricevere; e colui che ama, fa cosa sua propria la grandezza che egli ama. Con ciò io rilevo a me stesso che mio fratello è il mio guardiano, che opera per me con i più amichevoli intenti, e che il possedimento che io tanto ammirai ed invidiai è mio. È della eterna natura dell’anima l’appropriarsi e far sue tutte le cose. Gesù e Shakespeare sono frammenti dell’anima, e con l’amore io li conquido e li incorporo nel mio proprio conscio dominio. La loro virtù non è mia? Il loro intelletto, se non può essere fatto mio, non è intelletto.

Tale è anche la storia naturale delle calamità. I cambiamenti, che feriscono a brevi intervalli la prosperità degli uomini, sono avvisi di una natura la cui legge è lo svilupparsi. È ordine di natura lo svilupparsi ed ogni anima per questa intrinseca necessità lascia il suo intiero sistema di cose, i suoi amici, la casa, le leggi, la fede, come il mollusco sguscia fuori della sua casa bella ma di pietra, perchè essa non permette più il suo sviluppo, e lentamente si forma una casa nuova. Queste rivoluzioni sono frequenti in proporzione al vigore [89] dell’individuo, ed in qualcuno più fortunato esse sono incessanti, e tutte le relazioni mondane lo circondano, diventando, per così dire, una trasparente membrana fluida, attraverso la quale la forma vivente è sempre visibile, anzichè, come per la maggior parte degli uomini, un tessuto eterogeneo di molte età e senza carattere stabilito, nel quale l’uomo è imprigionato. In questo caso c’è ampliamento, e l’uomo d’oggi riconosce a stento l’uomo di ieri. E tale dovrebbe essere la biografia esterna dell’uomo in rapporto col tempo: un abbandono delle circostanze morte giorno per giorno, come egli rinnova giorno per giorno i suoi vestiti. Ma per noi, nel nostro stato ingannevole, stagnante, che non progredisce, che resiste, che non coopera con la divina espansione, questo sviluppo viene a sbalzi.

Noi non possiamo separarci dai nostri amici. Non possiamo lasciar andare i nostri angeli. Noi non vediamo ch’essi escono, perchè degli arcangeli possano entrare. Noi siamo idolatri delle cose vecchie. Noi non crediamo alla ricchezza dell’anima, alla sua eternità ed onnipresenza. Noi non crediamo che vi sia una forza oggi per rivaleggiare o creare nuovamente quel ch’era bello ieri. Noi ci soffermiamo nelle rovine della vecchia tenda, dove avevamo una volta pane e riparo e vita, nè crediamo che lo spirito possa alimentarci, coprirci, e fornirci di nervi nuovamente. Noi non possiamo nuovamente trovare alcunchè così caro, così dolce, così grazioso. Ma sediamo e piangiamo invano. La voce dell’Onnipotente dice: «Alzatevi ed andate avanti, per sempre». Noi non possiamo rimanere fra le rovine, pure non vogliamo affidarci al nuovo; e così camminiamo sempre cogli occhi rivolti, come quei mostri che guardano sempre all’indietro.

Eppure le compensazioni delle calamità appaiono all’intelligenza, anche dopo lunghi intervalli di tempo. [90] Una febbre, una mutilazione, un crudele disinganno, una perdita di ricchezze sembrano al primo momento una perdita completamente irreparabile. Ma gli anni rivelano la profonda forza del rimedio, che giace sotto tutti i fatti. La morte d’un amico caro, della moglie, d’un fratello o d’un’amante, che sembrava dapprima null’altro che privazione, un poco più tardi assume l’aspetto di una guida o di un buon genio; perchè essa comunemente opera delle rivoluzioni nel nostro modo di vita; chiude un’epoca d’infanzia o di gioventù, che attendeva di essere chiusa; rompe un’abituale occupazione od un «mènage» di casa, e permette la formazione di nuove abitudini, più adatte allo sviluppo del carattere; essa permette o limita la formazione di nuove conoscenze, e la possibilità di nuove influenze, che risultano della massima importanza negli anni futuri; e allora l’uomo o la donna che sarebbero rimasti come un soleggiato fiore da giardino, senza terreno per le sue radici e con troppa luce solare per il suo capo a causa della caduta delle mura e della negligenza del giardiniere, sono come il banano della foresta, che dà ombra e frutti alle grandi moltitudini d’uomini che gli sono d’intorno.

[91]

QUARTO SAGGIO LEGGI SPIRITUALI

Quando l’atto della riflessione prende posto nella mente, quando guardiamo in noi stessi con la luce del pensiero, noi constatiamo che la nostra vita è legata con la bellezza. Ogni cosa dietro di noi assume, mentre camminiamo, delle forme aggraziate, come fanno le nuvole lontane. Non solamente le cose familiari e vecchie, ma anche le tragiche e terribili sono belle, quando prendono posto tra le pitture della memoria. La spiaggia del fiume, l’alga sulla riva, la vecchia casa, la persona sciocca — per quanto trascurate nell’atto di passare, acquistano una grazia nel passato. Perfino il corpo morto, che giacque nella camera, ha aggiunto un ornamento solenne alla casa. L’anima non vuol conoscere nè deformità, nè pena. Se nelle ore di chiara ragione, noi dovessimo dire la verità nuda, noi dovremmo dire di non aver mai fatto un sacrifizio. In queste ore la mente sembra così grande, che a noi pare, che nulla d’importante possa esserci tolto. Ogni perdita, ogni dolore è particolare; l’universo rimane nel nostro cuore intatto. Nè persecuzioni, nè disgrazie abbattono la nostra fiducia. Nessun uomo mai ha manifestato i suoi dolori così serenamente come egli avrebbe potuto. Potete ammettere che vi sia esagerazione anche nelle parole del più paziente e disfatto tapino che sia mai stato perseguitato. [92] Perchè solamente il finito travaglia e soffre; l’infinito giace steso in sorridente riposo.

La vita intellettuale dev’essere mantenuta chiara e sana, se l’uomo vuol vivere la vita della natura, e non introdurre nella sua mente difficoltà che non lo riguardano. Nessun uomo deve essere incerto nelle sue speculazioni. Faccia e dica ciò che ha strettamente attinenza con lui, ed anche se ignorerà i libri, la sua natura non gli lascerà alcun impedimento intellettuale o dubbio alcuno. La nostra gioventù è tormentata dai problemi teologici del peccato originale, dell’origine del male, della predestinazione e simili. Queste non presentarono mai una difficoltà pratica ad alcun uomo; mai oscurarono la via di chi non andasse fuori della propria strada per cercarle. Queste sono gli umori, le rosolie, le tossi dell’anima e coloro che non le hanno avute non possono parlare della loro salute, nè prescrivere una cura. Una mente semplice non conoscerà queste malattie. È cosa completamente diversa esser capace di rendere conto della propria fede ed esporre ad un altro la teoria dell’unione e della propria libertà con se stesso. Ciò richiede delle doti rare. Pure vi può essere una forza ed un’integrità selvaggia in ciò che egli è, senza questa conoscenza di se stesso. «Pochi istinti forti e poche regole chiare» ci bastano.

La mia volontà non diede mai alle imagini il posto che occupano ora nella mia mente. Il regolare corso di studi, gli anni d’educazione accademica e professionale, non mi hanno insegnato dei fatti migliori di quelli di qualche libro ozioso, nascosto sotto il banco, durante le lezioni di latino. Ciò che noi non chiamiamo educazione, è più prezioso di ciò che noi così denotiamo. Noi, al momento di ricevere un pensiero, non formiamo alcuna congettura intorno al suo valore comparativo. E l’educazione spesso consuma i suoi [93] sforzi nel tentativo di contrariare e di impedire quel magnetismo naturale, che con sicura discriminazione sceglie ciò che gli appartiene. Nello stesso modo la nostra natura morale è viziata da qualsiasi intervento del nostro volere. Gli uomini rappresentano la virtù come una lotta, e si dànno grande importanza per le loro vittorie, e dovunque è fatta questa domanda (quando una natura nobile è interessata): se non è uomo migliore, colui che lotta contro la tentazione. Ma non vi è nessun merito in questa questione. O vi è Dio, o non vi è. Noi amiamo i caratteri a seconda che essi sono impulsivi e spontanei. Quanto meno un uomo pensa o sa circa le sue virtù, tanto più egli ci piace. Le vittorie di Timoleone, che al dir di Plutarco, scorrevano e sgorgavano come i versi d’Omero, sono le migliori vittorie. Quando ci appare un’anima, le cui azioni sono tutte regali, graziose e piacevoli come rose, dobbiamo ringraziare Iddio che tali cose possano essere e siano, e non voltarci all’angelo e dire «il gobbo è un uomo migliore, con la sua resistenza bisbetica a tutti i suoi demoni interni».

La preponderanza della natura sulla volontà in tutta la vita pratica, non è meno importante. Vi è meno intenzione nella storia di quanta noi le ascriviamo. Noi attribuiamo dei piani profondamente calcolati e previsti a Cesare ed a Napoleone; ma la parte migliore del loro potere era nella natura, non in loro. Gli uomini ch’ebbero segnalate vittorie, nei loro momenti onesti, hanno sempre cantato «non è in noi, non sta a noi». A seconda della fede del loro tempo, essi hanno costruito degli altari alla Fortuna, al Destino od a san Giuliano. Il loro successo sta nel loro parallellismo al corso del pensiero, che trovò in essi un canale non ostruito, e le meraviglie di cui furono i palesi conduttori, parvero all’occhio le loro proprie gesta. Generarono [94] forse i fili metallici il galvanismo? Ed è pur vero che vi erano in essi minori soggetti di riflessione che in ogni altro; così la virtù di un flauto è di essere dolce e cavo. Ciò che esternamente sembrava volontà ed irremovibilità, non era che mancanza di volontà ed auto-annientamento. Avrebbe potuto Shakespeare dare una teoria di Shakespeare? potrebbe mai un uomo, pur di prodigioso genio matematico, comunicare ad altri alcuna intuizione dei suoi metodi? Se egli potesse comunicare tale segreto, egli perderebbe immediatamente il suo valore smisurato, confondendo con la luce del giorno e con l’energia vitale, il potere di stare ed andare. Da queste osservazioni si deduce forzatamente che la nostra vita potrebbe essere molto più facile e semplice di ciò che noi la facciamo; che il mondo potrebbe essere un luogo molto più felice di ciò che non sia; che non vi è bisogno di lotte, di convulsioni, di disperazione; di torcersi le mani e digrignare i denti; e che noi infine produciamo i nostri proprii mali. Noi inceppiamo l’ottimismo della natura: perchè ogni qualvolta noi rientriamo vantaggiosamente nel passato, godiamo di una mente più saggia nel presente, e possiamo osservare d’essere attorniati da leggi, che da se stesse si compiono.

La fisionomia esterna della natura ci dà con serena superiorità lo stesso insegnamento. La natura non ci vuole collerici e vanitosi. Essa non ama la nostra benevolenza e la nostra cultura, più che non ami le nostre frodi e le nostre guerre. Quando noi usciamo dal cenacolo, dalla banca, dalla convenzione per l’abolizione della schiavitù, dal congresso per la temperanza o dal circolo trascendentale, ed andiamo nei campi e nei boschi, essa ci dice: «Così scalmanato, mio piccolo Signore?»

Noi siamo pieni di azioni meccaniche. Sentiamo la necessità di immischiarci, di volgere le cose a nostro [95] modo, finchè i sacrifizi e le virtù della società siano odiosi. L’amore dovrebbe produrre gioia; ma la nostra benevolenza è infelice. Le nostre scuole domenicali, le chiese, le società di protezione dei poveri, sono dei gioghi al collo. Noi soffriamo per non piacere ad alcuno. Vi sono dei mezzi naturali per arrivare agli stessi scopi, cui queste istituzioni tendono, ma esse non li seguono. Perchè tutte le virtù dovrebbero operare in un solo ed identico modo? Perchè tutte dovrebbero dare dei dollari? Ciò è molto ingombrante per noi, gente di campagna, e non crediamo che da ciò possa venire bene alcuno. — Noi non abbiamo dei dollari; i mercanti ne hanno; ed essi dunque li diano. Gli agricoltori daranno del grano; i poeti canteranno; le donne fileranno; i bambini porteranno dei fiori. E perchè trascinare questo mortale peso della scuola domenicale attraverso l’intiera cristianità? È naturale e bello che l’infanzia interroghi e che la maturità insegni; ma vi è tempo abbastanza per rispondere alle domande, quando esse vengono espresse; onde non racchiudete i giovani in un banco, contro la loro volontà, e non forzate i bambini a fare contro la loro volontà delle domande per un tempo prefisso.

Se noi miriamo più lontano, le cose sono tutte uguali; leggi, lettere, credenze e modi di vivere, sembrano un travestimento della verità. — La nostra società è assediata da un pesante macchinario, che somiglia agli interminabili acquedotti che i Romani costrussero sulle colline e nelle vallate, e che furono resi inutili dalla scoperta della legge che l’acqua si innalza al livello della sua sorgente. La nostra società è una muraglia Chinese, che qualsiasi agile tartaro può scavalcare. È un’annata pronta, ma non così utile come una pace. È un impero graduato, titolato, riccamente dotato, ma completamente superfluo, quando si scopre che le civiche congregazioni non valgono meno.

[96]

Accettiamo un ammonimento dalla natura, che sempre opera per vie brevi. Quando il frutto è maturo, esso cade. Quando il frutto è caduto, cade la foglia. Lo scorrere delle acque è semplicemente una caduta. Il procedere dell’uomo e di tutti gli animali è un cadere in avanti. Tutto il nostro lavoro manuale e le opere di forza, come l’alzare con una leva, lo spaccare il legno, lo scavare, il remare, e simili, sono compiute con una serie di cadute continue; ed il globo, la terra, la luna, le comete, il sole, le stelle cadono eternamente. La semplicità dell’universo è molto differente dalla semplicità di una macchina. Colui che ricerca la natura morale qua e là e che sa come s’acquisti la conoscenza e come il carattere sia formato, è un pedante. La semplicità della natura non sta nel poter essere facilmente letta, ma sta in ciò che è inesauribile. L’ultima analisi di questa semplicità non potrà in nessun modo essere compiuta. Noi giudichiamo la saggezza di un uomo dalla sua speranza, poichè noi sappiamo che la percezione della inesauribilità della natura è una giovinezza immortale. L’impetuosa fertilità della natura è sentita da noi, comparando i nostri nomi e le nostre rigide riputazioni con la nostra ondeggiante coscienza. Noi passiamo nel mondo attraverso a sètte ed a scuole, armati di erudizione e di pietà e rimaniamo dei bambini insipidi. Ogni uomo s’avvede di trovarsi in quel punto medio, dove ogni cosa può essere affermata o negata con uguale ragione. Egli è vecchio, è giovane, è molto saggio ed è completamente ignorante. Egli ode e sente ciò che voi dite del serafino e del calderaio. Non vi è uomo permanentemente saggio, eccetto che nella finzione degli Stoici. Noi leggendo o dipingendo, prendiamo la parte dell’eroe, contro il codardo ed il ladro; ma siamo stati noi stessi quel codardo e quel ladro, e lo saremo di nuovo, non [97] in una circostanza volgare, ma proporzionale alle grandezze possibili dell’anima.

Una piccola considerazione di ciò che succede intorno a noi ogni giorno, ci insegnerebbe che una legge più alta di quella del nostro volere regola gli eventi; che i nostri lavori penosi sono vani ed infruttiferi; che noi siamo forti solamente nelle nostre azioni facili, semplici, spontanee, e che accontentandoci dell’ubbidienza, diventiamo divini. Fede ed amore — un fiducioso amore ci solleverà da un grande numero di cure. Fratelli miei, Dio esiste. Vi è un’anima al centro della natura ed al disopra della volontà di ogni uomo, così che nessuno di noi può attentare all’universo. Essa ha così infuso il suo squisito incanto nella natura, che noi prosperiamo quando accettiamo il suo consiglio, e quando tentiamo ferire le sue creature, le nostre mani si arrestano ai nostri fianchi o colpiscono il nostro proprio petto. L’intiero corso delle cose ci insegna la fede. A noi bisogna solo ubbidire. Vi è una guida per ciascuno di noi, ed umilmente ascoltando, udremo la retta parola. Perchè così penosamente scegliete voi il vostro posto, le vostre occupazioni, i vostri associati, i vostri modi d’azione e i vostri divertimenti? Certo vi è un possibile diritto per voi, che distrugge la necessità della discriminazione e dell’elezione volontaria. Per voi vi è una realtà, un posto acconcio, e dei doveri corrispondenti a voi. Ponete voi stessi nel mezzo della corrente di potere e di saggezza, che fluisce in voi come vita; collocatevi nel pieno centro di tale onda e voi sarete senza sforzo spinti verso la verità, il diritto e una perfetta letizia. Allora, voi porrete tutti i contradittori dalla parte del torto. Allora sarete il mondo, la misura del diritto, del vero, del bello. Se noi non fossimo dei guasta-mestieri con le nostre miserabili ingerenze, il lavoro, la società, le lettere, le arti, la scienza, [98] la religione degli uomini procederebbero molto meglio di quanto non procedano ora, ed il cielo predetto dal principio del mondo, ed ancora predetto dalla profondità del nostro cuore, si organizzerebbe, come fanno ora la rosa e l’aria ed il sole.

Io dico: «non scegliete»; ma questa è solo una figura rettorica, con la quale io vorrei distinguere ciò che è comunemente chiamato scelta fra gli uomini, e che non è se non un atto parziale, vale a dire scelta delle mani, scelta degli occhi, degli appetiti, e non un completo atto dell’uomo. Ma ciò che io chiamo giustizia o bene, è la scelta della mia costituzione; e ciò che io chiamo Cielo, ed al quale internamente aspiro, è lo stato o la circostanza desiderabile per la mia costituzione; e l’azione che in tutta la mia vita io cerco di compiere, è il lavoro atto alle mie facoltà. Noi dobbiamo tenere l’uomo responsabile verso la ragione, per la scelta della sua arte o professione giornaliera. Non è giustificazione alle sue azioni, l’esser queste, abitudini del suo mestiere. Che cosa ha egli a vedere con un cattivo mestiere? Non ha egli una vocazione nel suo carattere?

Ogni uomo ha la sua propria vocazione. Il talento è la vocazione. Vi è una sola direzione, lungo la quale ogni spazio gli è aperto. Egli possiede delle facoltà, che lo invitano verso quella direzione con uno sforzo infinito. Egli è come un battello in un fiume; egli corre contro tutti gli ostacoli e da tutti i lati, eccetto che da uno; solo da quel lato ogni ostruzione è tolta, ed egli passa serenamente, sopra la profondità di Dio, in un mare infinito. Questo talento e questa vocazione dipendono dalla sua organizzazione, o dal modo con cui l’anima generale in lui s’incarna. Egli inclina a fare qualche cosa che sia facile a lui, e buona quando sia fatta, ma che nessun altro uomo possa fare. Egli non ha rivali, infatti quanto più egli consulta con verità i suoi [99] propri poteri, tanta maggior differenza apparirà tra il lavoro suo ed il lavoro di qualsiasi altro uomo. Quando egli è sincero e fedele, la sua ambizione è certamente proporzionata ai suoi poteri. L’altezza della piramide è determinata dalla larghezza della base. Ogni uomo è attratto dal potere di fare qualche cosa di unico, e nessuno ha altra vocazione, all’infuori di questa. La pretesa di avere un’altra vocazione contraddistinta dal proprio nome e dalla propria elezione personale, con segni esterni che proclamino l’individuo straordinario e lo traggano fuor della cerchia degli uomini comuni, non è che fanatismo, e dinota l’impotenza di percepire l’esistenza di una sola mente per tutti gli individui, mente che non ha alcun rispetto per le persone.

Con il fare il suo lavoro egli addita quali funzioni può compiere; crea con il gusto dal quale è rallegrato; provoca quelle necessità, per le quali può essere di sussidio, e rivela se stesso. È difetto dei nostri pubblici discorsi di non aver abbandono. In ogni luogo, non solo ogni oratore, ma ogni uomo dovrebbe lasciare sciolta tutta la lunghezza delle proprie redini; dovrebbe trovare o creare l’espressione franca e cordiale di quella forza e di quell’intento che sono in lui. L’esperienza comune dice che l’uomo si adatta, come può, alle abitudinarie piccolezze del lavoro o del commercio nel quale è assorbito e che vi attende come un cane che giri lo spiedo; allora egli è parte della macchina che egli stesso muove, e l’uomo è perduto. Finchè egli non può comunicar se stesso agli altri in tutta la sua statura e proporzione, quale un uomo buono e saggio, egli non può trovare la sua vocazione. Egli deve trovare un luogo di uscita per il suo carattere, così che egli possa giustificare la sua opera ai loro occhi. Se il suo lavoro è vile, egli lo renda liberale con il suo pensiero e con il suo carattere. Egli comunichi agli [100] altri qualunque cosa sappia e pensi, qualunque cosa, che nella sua preoccupazione sia degna d’esser compiuta, o gli uomini non lo conosceranno e non lo onoreranno a seconda del suo merito. Sciocchi voi siete, ogni qualvolta voi riguardate la bassezza e la formalità della cosa compiuta, anzichè convertirla in ubbidiente spiraglio del vostro carattere e delle vostre intenzioni.

A noi piacciono soltanto quelle azioni che hanno avuto per lungo tempo la lode degli uomini, e non ci accorgiamo che tutte le cose, che l’uomo fa, potrebbero essere fatte divinamente. Noi pensiamo che la grandezza sia rilegata o costituita in alcuni luoghi o per certi doveri, in certi uffici o per date occasioni, e non ci avvediamo che Paganini può trarre l’estasi da una corda di violino; Eulenstein da una ribéca; un ragazzo dalle agili dita, dalle striscie di carta; Landseer dal maiale; e l’eroe dalla misera abitazione e dalla compagnia ove egli era nascosto. Ciò che noi chiamiamo «oscura condizione» o «società volgare» è quella condizione e quella società, la cui poesia non fu ancora scritta, ma che voi troverete fra poco invidiabile e rinomata come qualsiasi altra. Accettate il vostro genio e dite ciò che pensate. Nei nostri apprezzamenti prendiamo l’esempio dai re. La legalità tiene in conto i doveri dell’ospitalità, la connessione delle famiglie, l’incalzare della morte, e mille altre cose, ed ogni mente sovrana dovrà del pari tenerne conto. Fare abitualmente un apprezzamento nuovo — questo è elevazione.

Un uomo possiede in proporzione del suo agire. Che ha egli a vedere con la speranza o con il timore? In lui sta la sua potenza. Non consideri nessun altro bene saldo, eccetto quello che è nella sua vita. I beni di fortuna possono venire ed andare come le foglie [101] d’estate; li spanda egli a tutti i venti, come segni momentanei della sua infinita produttività.

Egli può avere ciò che gli spetta. Il genio di un uomo, la qualità che lo differenzia da qualsiasi altro, la sua suscettibilità verso una classe di influenze, la scelta di ciò che è adatto per lui, il rifiuto di ciò che non gli conviene, determina per lui il carattere dell’universo. Come un uomo pensa, così è; e come un uomo sceglie, così è, e così è la sua natura. L’uomo è un metodo, una disposizione progressiva, un principio eleggente, che attira a sè il suo simile, ovunque egli vada. Egli prende soltanto ciò che gli spetta, nella molteplicità che turbina e circola intorno a lui. Egli è simile ad uno di quei travi messi nei fiumi per arrestare il legno portato alla deriva, o alla calamita fra scheggie d’acciaio. Quei fatti, quelle parole, quelle persone, che vivono nella sua memoria senza che egli ne sappia dire il perchè, rimangono, perchè essi hanno una relazione con lui, non meno reale per non essere ancora accertati. Essi sono simboli del suo valore, poichè essi possono interpretare parte della sua coscienza, per la cui spiegazione egli cercherebbe vanamente le parole nelle immagini convenzionali dei libri e di altre menti. Ciò che attrae la mia attenzione, lo possiederò; come io andrò all’uomo che batte alla mia porta, mentre mille persone, altrettanto degne, passano innanzi ad essa senza che io me ne curi. A me basta che questi particolari mi parlino. Certi aneddoti, certi tratti di carattere, di costumi, di fisionomia, certi incidenti, se li misuraste con la misura ordinaria, hanno un’importanza nella vostra memoria sproporzionata al loro significato apparente. Essi si riferiscono al vostro talento. Date loro il loro peso e non buttateli via per cercare illustrazioni e fatti più ordinarî in letteratura. Rispettateli, perchè essi hanno la loro origine nella più [102] profonda natura. Ciò che il vostro cuore crede grande, è grande. L’enfasi dell’anima ha sempre ragione.

L’uomo ha il più alto diritto su tutte le cose, che sono gradite alla sua natura ed al suo genio. Egli può prendere ovunque ciò che appartiene al suo stato spirituale; nè può egli prendere qualche cosa d’altro, sebbene tutte le porte siano aperte; nè può tutta la forza degli uomini impedire che egli prenda ciò che gli viene di diritto. È vano tentare di nasconder un segreto a chi ha il diritto di conoscerlo. Esso si dirà da sè. Lo stato nel quale un amico può ridurci, afferma il suo dominio su di noi. Egli ha un diritto sui pensieri di tale stato di mente. Egli può forzare tutti i segreti di tale stato di mente. Questa è una legge che gli uomini di governo mettono in pratica. Tutti i terrori della Repubblica Francese, che tennero l’Austria a segno erano impotenti a reggere alla sua diplomazia: ma Napoleone mandò a Vienna M. De Narbonne, uomo dell’antica nobiltà, di costumi e di modi e di nome pari a quelli della corte austriaca, dicendo che era indispensabile mandare alla vecchia aristocrazia d’Europa uomini della sua stessa condizione: orbene M. De Narbonne, in meno di quindici giorni, penetrò tutti i segreti del gabinetto imperiale.

Una mutua e reciproca intelligenza è sempre la più salda delle catene. Nulla sembra più insignificante come il parlare e l’essere compreso. Pure un uomo potrà constatare che l’esser compreso è il più forte dei legami e delle difese; — e colui che ha accolta un’opinione, potrà considerarla come la più pericolosa catena. Se un insegnante ha un’opinione che desidera nascondere, i suoi scolari diverranno pienamente consci di essa come di qualsiasi altra, che egli rivela. Se voi versate dell’acqua in un recipiente ritorto e con angoli, è vano dire: «io voglio versare in questo angolo od in quello»; [103] l’acqua troverà il suo livello in tutti. Gli uomini sentono ed operano secondo una vostra dottrina senza poter dimostrare come essi la seguano. Dateci l’arco di una curva ed un buon matematico vi scoprirà l’intiera figura. Noi ragioniamo sempre dal visibile al non visibile, donde la perfetta intelligenza, che sussiste fra noi e gli uomini saggi delle età remote. Un uomo non può seppellire i suoi detti così profondamente nel suo libro, che il tempo e gli uomini di mente pari alla sua non li trovino. Platone aveva una dottrina segreta; l’aveva egli? Quale segreto può egli nascondere agli occhi di Bacone? di Montaigne? di Kant? Perciò Aristotile disse delle sue opere: «Esse sono pubblicate e non pubblicate». Nessuno può imparare ciò che non è in grado imparare, per quanto vicino ai suoi occhi sia l’oggetto. Un chimico può dire i suoi più preziosi segreti ad un falegname e questi non sarà più saggio — segreti che egli non confiderebbe ad un altro chimico, foss’anche per un regno. Dio ci protegge sempre dalle idee premature. I nostri occhi sono ciechi per modo che noi non possiamo vedere le cose che ci stanno dinnanzi, finchè l’ora non giunge in cui la mente è matura; allora le vediamo, ed il tempo nel quale non le vedemmo, ci pare un sogno. Tutta la bellezza ed il valore che l’uomo contempla, non è nella natura, ma in lui stesso. Il mondo è una cosa vuota, e va debitore dei suoi orgogli a questa anima che indora e che esalta. «La terra riempie il suo grembo di splendori» non suoi proprî. La valle di Tempe, Tivoli e Roma sono terra ed acqua, roccie e cielo. Vi è terra ed acqua altrettanto buona in mille altri luoghi, eppure quanto esse sono indifferenti.

Il popolo non si fa migliore per l’azione del sole e della luna, dell’orizzonte o degli alberi; così non è detto che i custodi delle gallerie di Roma od i servi dei pittori, abbiano una qualche elevatezza di pensiero, [104] o che i librai siano uomini più saggi degli altri. Vi sono delle grazie nel portamento di una persona nobile ed educata, che si perdono agli occhi di un rozzo. Esse sono come quelle stelle, la cui luce non ci ha ancora raggiunto.

L’uomo può vedere ciò che fa. I nostri sogni sono il seguito della nostra conoscenza vigilante. Le visioni della notte hanno sempre qualche corrispondenza con le visioni del giorno. I sogni odiosi non sono che le esagerazioni dei peccati del giorno e certi brutti ceffi non sono che la personificazione di certe nostre affezioni malvagie. Sulle Alpi il viaggiatore osserva talvolta la sua propria ombra ingigantita, cosicchè ogni gesto della sua mano è terrificante. «Miei ragazzi — disse un vecchio ai suoi bambini spaventati da una figura apparsa sulla porta oscura — voi non vedrete mai nulla peggiore di voi stessi». Come nei sogni così negli eventi meno incerti del mondo ogni uomo si vede in proporzioni gigantesche, senza saper di rimirare se stesso. Il bene che egli contempla comparato al male ch’egli pure contempla, è come il suo proprio bene messo in rapporto al suo proprio male. Ogni dote della sua mente è magnificata in qualcuna delle sue conoscenze ed ogni emozione del suo cuore in qualche altra. Egli è come un quinconcio d’alberi o come un acrostico, che si ripete in principio, nel mezzo ed alla fine. Egli s’accosta ad una persona e un’altra evita, a seconda della sua somiglianza o della sua differenza, ricercando se stesso nei suoi associati e più ancora nel suo commercio, nelle sue abitudini, nei gesti, nei cibi, nelle bevande; ed alla fine egli viene ad essere fedelmente rappresentato da ogni aspetto delle circostanze stesse.

L’uomo può leggere ciò che scrive. Che cosa possiamo noi vedere od acquistare all’infuori di ciò che [105] siamo? Voi avete certamente veduto un uomo istruito leggere Virgilio. Ebbene questo scrittore rappresenta mille volumi diversi per mille diverse persone. Prendete il volume a due mani, toglietevi gli occhi nel leggerlo e non vi troverete mai, ciò che io vi trovo. Se qualche scaltro lettore volesse avere il monopolio della saggezza o del godimento che egli ricava dalla lettura, egli sarebbe sicuro di rendere inglese il libro come se fosse imprigionato nella lingua delle isole Palaos. Dei buoni libri succede ciò che succede delle buone compagnie. Introducete una persona volgare fra gentiluomini: ciò non produrrà alcun effetto: egli non è simile a loro. Ogni società protegge se stessa: essa è perfettamente sicura e quel tale non è dei loro, ancorchè il suo corpo sia nel medesimo ambiente.

A che serve combattere contro le leggi eterne della mente, che fissano le relazioni fra persona e persona, con la misura matematica del loro avere e del loro essere? Gertrude è innamorata di Guido; come sono alteri, aristocratici e romani il suo portamento e i suoi modi! Vivere con lui sarebbe veramente la vita e nessun prezzo per ciò troppo grande; cielo e terra sono mossi a quello scopo. Ebbene Gertrude ottiene Guido; ma che cosa serve ora quanto alti ed aristocratici e romani siano il portamento ed i modi, se il cuore e gli obbietti di lui sono nel senato, nel teatro, nella sala da bigliardo, ed essa non ha mezzi, non ha discorsi, che possono incantare il suo grazioso signore?

L’uomo deve avere una sua propria società. Noi possiamo amare nulla, eccetto la natura. I più grandi ingegni, i più meritevoli sforzi, realmente non ci toccano molto da vicino, ma un approssimarci od una rassomiglianza con la natura rappresentano una bella vittoria di essa. Delle persone, illustri per la loro bellezza, per le loro doti, degne di ogni meraviglia per il loro [106] fascino, ci avvicinano; esse dedicano tutta la loro capacità a quel momento ed a quella società, ma con risultati molto dubbi. Tuttavia, sarebbe certamente ingrato da parte nostra il non lodarli ad alta voce. Poi, quando tutto ciò è avvenuto, una persona di mente simile alla nostra, un fratello o una sorella per natura, viene a noi così pianamente e facilmente, così a lato ed intimamente, come se fosse sangue delle nostre proprie vene, e noi abbiamo più l’impressione di qualcuno che se ne è andato, che di un altro che è venuto; noi siamo completamente sollevati e ristorati; e proviamo una specie di lieta solitudine. Noi follemente pensiamo nei nostri giorni di peccato che dobbiamo corteggiare gli amici in omaggio alle consuetudini sociali, al loro vestito, alla loro educazione ed al loro valore. Ma più tardi, se è possibile avere tale fortuna, noi impariamo che solo può essere mia amica quell’anima, che io trovo sulla linea della mia propria strada, quell’anima alla quale io non m’inchino, e che non si inchina a me, ma nativa della stessa latitudine celestiale, ripete nella sua propria esperienza tutta la mia. Lo scolaro dimentica se stesso e imita le abitudini ed i modi dell’uomo di mondo, per meritare il sorriso della bellezza; egli è un folle e segue qualche ragazza insipida, non avendo ancora trovato con passione religiosa la donna nobile, con tutto ciò che vi è di sereno e di bello nell’anima sua. Sia egli grande e l’amore lo seguirà. Nulla è maggiormente punito della negligenza delle affinità, mediante le quali sole, la società potrebbe essere formata, e della pazza leggerezza dello sciogliersi gli associati per mezzo degli occhi altrui.

L’uomo può stabilire il suo proprio valore. È massima universale, degna di ogni accettazione, che l’uomo può avere quell’assegno che egli stesso si prende. Assumete [107] quel posto e quell’attitudine che vi spetta per diritto e tutti gli uomini taceranno. Il mondo deve essere giusto. Esso permette con profonda indifferenza che ogni uomo fissi il suo proprio valore; sia egli un eroe od un idiota, il mondo non se ne cura. Esso certamente accetterà la misura del vostro operato e del vostro essere, sia che strisciate e sconfessiate il vostro nome, sia che contempliate l’opera vostra, sospinta alla concava sfera dei cieli, insieme con la rivoluzione delle stelle. La stessa realtà domina ogni insegnamento. L’uomo può insegnare con l’azione e non altrimenti. Se egli può comunicar se stesso può insegnare, ma non lo può con semplici parole. Solo insegna colui che dà, e solo impara colui che riceve. Non vi è insegnamento finchè l’allievo non è portato allo stesso stato o principio, in cui voi siete: una trasfusione allora avviene; egli è voi, e voi siete lui; allora c’è insegnamento; ed egli non potrà mai perdere del tutto il benefizio del vostro insegnamento per nessuna cattiva vicenda o cattiva amicizia. Le semplici parole invece escono da un orecchio a misura che entrano dall’altro. Vediamo annunziato che il signor Grand terrà una conferenza il quattro di luglio, ed il signor Hauds pure alla Associazione Meccanica, e noi non andremo, perchè sappiamo che questi signori non comunicheranno agli uditori il loro proprio carattere ed il loro essere. Se avessimo ragione di attenderci tale comunicazione, noi andremmo, affrontando ogni inconveniente ed opposizione. Gli ammalati stessi vi sarebbero portati nelle barelle. Ma un discorso pubblico è un vagabondaggio, un tranello, un apologo, un bavaglio, e non una comunicazione, non un discorso, non un uomo.

Una Nemesi simile presiede a tutti i lavori intellettuali. Noi dobbiamo ancora imparare che una cosa espressa in parole, non è per questo affermata. Essa deve [108] affermarsi da sè, poichè nessuna forma di grammatica o di attendibilità daranno ad essa il carattere dell’evidenza. L’affermazione deve inoltre contenere la sua propria scusa per essere stata enunciata.

L’effetto di qualsiasi scritto sulla mente pubblica è matematicamente misurabile per mezzo della sua profondità di pensiero. Se desta voi al pensiero, se vi solleva da terra con la grande voce dell’eloquenza, allora l’effetto sarà ampio, lento, permanente nello spirito degli uomini; se le pagine non vi istruiscono, esse morranno, come delle mosche, in un’ora. Il modo di dire e di scrivere, che mai dovrà decadere, è quello di dire e di scrivere sinceramente. L’argomento che non ha il potere di raggiungere le mie proprie abitudini, io posso ben pensare che fallirà tentando di raggiungere le vostre. Ma prendete per massima quella di Sidney «guarda nel tuo cuore, e scrivi». Colui che scrive a se stesso scrive ad un pubblico eterno. La sola affermazione degna di essere fatta pubblica, è quella alla quale voi siete giunti tentando di soddisfare la vostra propria curiosità. Lo scrittore che prende il suo soggetto dal suo orecchio e non dal suo cuore, dovrebbe sapere che egli ha perduto quanto crede di avere guadagnato, e quando il libro vuoto ha raccolte tutte le lodi, e mezzo mondo ha esclamato «che poesia! Che genio!» esso abbisogna ancora di combustibile per fare fuoco. Solo dà profitto ciò che è profittevole. Solo la vita può dare vita; e benchè noi possiamo far del rumore, saremo solo valutati in rapporto della valutazione che noi abbiamo fatta di noi stessi. Non vi è fortuna nella reputazione letteraria. Coloro che dànno il verdetto finale su ogni libro, non sono i lettori parziali e rumorosi dell’ora in cui esso appare; ma è una corte simile a un consesso di angeli, un pubblico che non teme corruzioni, che non vuole suppliche, che non conosce timori. Soltanto i libri che [109] meritano di rimanere, si perpetuano. Gli orli dorati, le pergamene, il marocco, le copie di saggio per tutte le biblioteche, non manterranno in circolazione un libro al di là della sua intrinseca data. Esso deve correre, con tutte le reali edizioni di Valpole ed i «Nobili Autori» al suo destino. Blackmore, Kotzebue o Pollok, possono durare una notte, ma Mosè ed Omero dureranno per sempre. Non vi sono in tutto il mondo ed allo stesso tempo, più di una dozzina di persone che leggano e capiscano Platone: — non ve n’è mai abbastanza per pagare le spese di una edizione delle sue opere; eppure esse si trasmettono ad ogni generazione, grazie a quelle poche persone, come se Dio le portasse sulla sua mano. «Nessun libro — disse Bentley — fu mai scritto e distrutto se non da se stesso». La durata di tutti i libri non è fissata da alcun sforzo amichevole od ostile, ma dalla loro propria gravità specifica o dalla importanza intrinseca del loro contenuto, in rapporto con lo spirito costante dell’uomo. «Non preoccupatevi troppo riguardo all’effetto della luce sulla vostra statua — disse Michelangelo al giovane scultore — la luce della piazza metterà a prova il suo valore».

In modo simile l’effetto di ogni azione è misurata dalla profondità del sentimento, da cui essa procede. L’uomo grande non seppe di essere grande. Due o tre secoli furono necessari affinchè quel fatto apparisse. Ciò che egli fece fu perchè dovette farlo; egli non ebbe libertà d’elezione; fu per lui la cosa più naturale al mondo, e scaturì dalle circostanze del momento. Ma ora tutto ciò che egli ha fatto, perfino il suo alzare un dito, o il cibarsi del suo pane, appare grande, coordinato, ed è chiamato istituzione.

Queste sono, in pochi tratti, le dimostrazioni del genio della natura; essi ci mostrano la direzione della [110] corrente. Ma la corrente è sangue ed ogni sua goccia è vivente. La verità non ha singole vittorie; tutte le cose sono suoi organi, non solamente la polvere e le pietre, ma gli errori e le menzogne. Le leggi delle malattie, dicono i medici, sono belle come le leggi della salute. La nostra filosofia è affermativa, e volentieri accetta le testimonianze dei fatti negativi, come ogni ombra accenna al sole. Per una divina necessità ogni fatto in natura è obbligato ad offrire la sua testimonianza.

Il carattere umano sempre più si rende evidente: esso non si cela: esso abborre le tenebre e si lancia nella luce. Il fatto più fuggitivo o la più insignificante parola, il semplice accenno di fare una cosa o il proposito recondito, esprimono il carattere. Se voi operate, palesate il vostro carattere, così se sedete o se dormite. Voi credete, poichè non avete detto nulla mentre gli altri parlavano, e non avete espresso nessuna opinione sui tempi, sulla chiesa, sulla schiavitù, sul collegio, sui partiti o sulle persone, che il vostro verdetto sia ancora atteso con curiosità, come una saggezza riservata: così non è: il vostro silenzio risponde ad alta voce. Voi non avete nessun responso da pronunciare; ed i vostri simili hanno imparato che voi non potete aiutarli, perchè gli oracoli parlano. Non grida forse la saggezza, e non fa il raziocinio sentire la sua voce?

Dei limiti terribili sono posti in natura ai poteri della dissimulazione. La verità tiranneggia le membra recalcitranti del corpo. Il viso, fu detto, non mente mai. Nessun uomo sarà ingannato, se studia il variare dell’espressione. Quando un uomo dice il vero, con spirito del vero, il suo occhio è chiaro come i cieli. Quando egli ha dei fini bassi, e dice il falso, l’occhio è torbido, e qualche volta bieco.

[111]

Ho udito una volta un esperto consigliere di tribunale affermare che egli non temeva mai dell’effetto che un avvocato poteva fare sui giurati, quando non credeva all’innocenza del suo cliente. Se egli non crede, la sua incredulità apparirà alla giuria, nonostante tutte le sue affermazioni, e diventerà l’incredulità della giuria stessa. Questa è quella legge medesima per cui un’opera d’arte, di qualsiasi specie, ci pone nella stessa condizione di spirito, nella quale era l’artista quando la fece. Per quanto noi possiamo ripetere le parole tante volte quante vogliamo, pure noi non possiamo con esse affermare ciò che noi non crediamo. Fu questa convinzione che Swedenborg espresse, quando descrisse un gruppo di persone del mondo spirituale, tentanti invano di articolare una proposizione alla quale non credevano; ed essi non potevano farlo, anche se piegavano e torcevano le labbra fino all’indignazione.

Un uomo è considerato per ciò di cui è degno. La curiosità, circa la stima che la gente ci tributa, è oziosa al pari di ogni nostro timore di rimanere ignorati. Se un uomo sa che egli può fare una cosa qualsiasi — che egli può farla meglio di chiunque altro — egli ha la certezza che tale fatto è conosciuto da tutte le persone. Il mondo è pieno di giorni del giudizio finale, e ad ogni consesso cui l’uomo partecipi e per ogni azione che tenta, egli è sondato e contrassegnato. Un uomo arrivato fra ogni gruppo di ragazzi che salta e corre in ogni cortile ed in ogni piazza, è accuratamente giudicato in pochi giorni, e classificato con il suo numero d’ordine, come se egli fosse stato sottoposto ad una prova formale della sua forza, della sua velocità e del suo temperamento. Uno straniero viene da una scuola lontana, con migliori vestiti, con dei ninnoli nelle sue tasche, con delle arie e delle pretese: un ragazzo più vecchio dice a se stesso: «Fa nulla, lo [112] scopriremo domani». «Che cosa ha egli fatto?» è la domanda divina che interroga ogni uomo, e che trapassa ogni falsa riputazione. Un vanesio può sedere su qualunque seggio di questo mondo, senza essere in quell’ora distinto da Omero o da Washington; ma quando noi ricerchiamo la verità, non può mai esservi dubbio intorno la rispettiva abilità degli esseri umani. La pretensione può giacere, ma non può operare. La pretensione non tentò mai un atto di vera grandezza, non scrisse mai l’Iliade, nè scacciò Serse, nè rese cristiano il mondo, nè abolì la schiavitù.

Sempre tanta virtù appare quanta realmente ve ne è; e tanta riverenza quanto è il bene. Tutti i demoni rispettano la virtù. La congrega elevata, generosa, devota a se stessa, istruirà e guiderà sempre il genere umano. Una parola sincera non fu mai completamente perduta. Giammai una magnanimità cadde al suolo; sempre il cuore dell’uomo la inchina e l’accetta inaspettatamente. Un uomo è considerato per ciò di cui è degno. Egli scolpisce ciò che realmente egli è, sul suo viso, sulla sua forma, sulle sue fortune, in lettere luminose che tutti, eccetto lui, possono leggere. A nulla gli serve il nascondere; a nulla il vanagloriarsi. Vi è una confessione nello sguardo dei nostri occhi, nei nostri sorrisi, nei saluti, nelle strette di mano. Il suo peccato lo atterra e corrompe tutte le sue buone impressioni. Gli uomini non sanno perchè non confidino in lui; pure non hanno in lui fiducia. Il suo vizio rende vitreo il suo occhio, affloscia la sua gota, assottiglia il suo naso, pone il marchio della bestia sulla nuca, e scrive «folle, folle» sulla fronte di un re.

Se non volete che si conosca la vostra attività non operate. Un uomo può folleggiare sulle sabbie di un deserto, ma ogni granello di sabbia parrà osservarlo. Egli può essere un mangiatore solitario, ma non può [113] a lungo sostenere la sua posizione. Una complessione fiacca, uno sguardo brutale, degli atti ingenerosi, la mancanza delle dovute cognizioni ecc. tutte parlano. Possono un cuoco, un facchino, esser confusi con uno Zenone o con S. Paolo? Confucio esclamò: «Come può un uomo esser celato?!»

D’altra parte l’eroe non teme, che tacendo il racconto di un atto giusto e coraggioso, esso non sia riconosciuto e non venga amato. Un uomo lo conosce — egli stesso — ed è sicuro che, per la dolcezza della quiete, e per la nobiltà dello scopo esso condurrà in fine ad una cosa migliore che non la sua proclamazione. La virtù sta nell’aderire con l’azione alla natura delle cose, e la natura delle cose la rende predominante. Essa consiste in una perpetua sostituzione dell’essere al parere, in quella proprietà sublime di Dio dicente: Io sono.

L’ammonimento che queste osservazioni ci offrono è: «Siate, e non sembrate.» Sottomettiamoci ad esso. Togliamo la nostra vanitosa nullità fuori del sentiero dei divini recinti. Scordiamo la nostra saggezza umana. Inchiniamoci al potere di Dio, ed impariamo che solo la verità fa ricchi i grandi.

Se visitate l’amico vostro, quale bisogno avete di fargli le scuse per non averlo visitato prima, facendogli così perdere il tempo e spiegando il vostro proprio atto? Visitatelo ora. Senta egli che il più alto amore è venuto a vederlo, in voi, suo più infimo organo. Perchè dovete tormentare voi stessi e il vostro amico con segreti rimproveri, perchè non lo avete assistito o non gli avete fatto doni e saluti in passato? Siate voi un dono ed una benedizione. Brillate di luce vera, e non di quella riflessa e presa in prestito dai doni. Gli uomini comuni sono scuse per gli uomini; essi chinano il capo, si scagionano con ragioni prolisse, ed accumulano le apparenze, perchè la sostanza non esiste.

[114]

Noi abbondiamo di queste superstizioni del senso; noi adoriamo la grandezza. Dio non si cura della grandezza: la balena ed il verme sono per lui di ugual dimensione. Noi diciamo che il poeta è ozioso, perchè non è presidente o mercante o facchino. Noi adoriamo un’istituzione e non vediamo che essa è fondata su un nostro pensiero. Ma l’azione vera è nei momenti silenziosi. Le epoche della nostra vita non sono nei fatti visibili della nostra scelta di una carriera, nel nostro matrimonio, nell’acquisto di un ufficio e simili, ma in un pensiero silenzioso sorto sul lato della via, mentre camminiamo; in un pensiero, che rivede il nostro intiero modo di vita, e dice, «Tu hai fatto così, ma sarebbe stato meglio altrimenti». E tutti i nostri anni posteriori, simili a schiavi, servono e dipendono da questo pensiero, ed a seconda della loro abilità, eseguiscono il suo volere. Questa revisione o correzione è una forza costante, che come una tendenza, dura tutta la nostra vita. L’oggetto dell’uomo, lo scopo di questi momenti, è di fare splendere la luce del giorno attraverso a lui; è di lasciare che la legge penetri il suo intero essere senza ingombri, di modo che, in qualsiasi punto del suo operato cadano i vostri occhi, esso vi informi completamente del suo carattere, vi dica quali siano il suo modo di vita, la sua casa, la sua religione, la sua società, la sua letizia, i suoi voti e l’opposizione sua. Ma egli ora non è omogeneo, bensì eterogeneo, ed il raggio non lo attraversa: non vi sono delle luci e l’occhio dell’osservatore è imbarazzato, scoprendo molte tendenze dissimili, e non ancora una vita in alcuna di queste.

Perchè noi disprezzeremo per partito preso, con la nostra falsa modestia l’uomo che noi siamo, ed il modo di essere che ci fu assegnato? Un uomo buono è contento. Io amo ed onoro Epaminonda, ma non desidero [115] d’essere Epaminonda e credo più giusto amare il mondo presente, che il mondo del suo tempo. E se io sono sincero, voi non potete destare in me la più piccola inquietudine col dire «Egli operò e tu giaci immobile». Io osservo che l’azione è buona, quando essa è necessaria; ma che è pure buona l’inerzia. Se Epaminonda fu l’uomo che io serenamente immagino, non avrebbe operato se la sua sorte fosse stata pari alla mia. Il cielo è grande, e concede posto per tutti i modi di amore e di fortitudine. Perchè dovremmo noi essere degli uomini affacendati e superservili? L’azione e l’inazione sono identiche di fronte al vero. Un pezzo dell’albero è tagliato per fare una banderuola, e un altro pezzo per il sostegno di un ponte; la virtù del legno è visibile ad ogni modo in entrambi.

Io non voglio avvilire l’anima. Il fatto che io sono qui, certamente mi dimostra che l’anima ha bisogno in questo luogo di un organo. Non assumerò io il posto? O mi nasconderò, e sfuggirò io e farò inchini con le mie intempestive scuse e con la mia vana modestia, e dovrò immaginarmi che il mio essere è qui fuor di luogo? più fuor di luogo di quello che non furono gli esseri di Epaminonda e di Omero in quel tempo? e che l’anima non conosce quanto le abbisogna? Inoltre, senza ragionare affatto su questo punto, io non sono malcontento. L’anima buona mi nutrisce, e mi schiude ogni giorno nuove fonti di forza e di godimento. Io non rinuncierò bassamente all’immensità del bene, perchè abbia udito dire che ad altri esso venne sotto altra forma concesso.

Inoltre, perchè dovremmo essere intimiditi dal nome di azione? Esso è un tranello dei sensi, nulla più. Noi sappiamo che l’antenato di ogni azione è un pensiero. Lo spirito povero si stima nullo, a meno che abbia un qualche segno esteriore: una giubba da quacquero, [116] ad esempio, o un’adunanza religiosa Calvinistica, o una Società filantropica, od una grande donazione, od un alto ufficio, o qualche cosa altro, o qualche azione infine fortemente contrastante, che provi che esso è qualche cosa. Lo spirito ricco giace al sole e riposa, ed è Natura. Pensare è agire.

Se dobbiamo compiere delle grandi azioni, facciamo tali le nostre proprie. Ogni azione è di una elasticità infinita, e la più piccola è soggetta ad essere penetrata di splendore celestiale, fino ad eclissare il sole e la luna. Compiamo i nostri doveri. Ho io l’obbligo di errare tra le scene e la filosofia dei Greci e la storia italiana, prima d’essermi lavato il viso e d’essermi giustificato con i miei benefattori? Come oso leggere le campagne di Washington, se non ho neppure risposto alle lettere dei miei propri corrispondenti? Non è questa una giusta obbiezione a molte delle nostre letture? Ciò è perfettamente una diserzione pusillanime dal nostro lavoro, per osservare i nostri vicini: è infine uno spiare. Byron dice di Jack Bunting:

«Non sapeva che cosa dire, perciò giurò».

Io potrei dire lo stesso del nostro assurdo uso dei libri. «Egli non sapeva che cosa fare, perciò leggeva». Io non so in qual modo passare il mio tempo, e trovo la vita di Brant. È un omaggio molto stravagante che io rendo a Brant, o al Generale Schuyler od al Generale Washington. Il mio tempo dovrebbe essere così buono come il loro; i miei fatti, il complesso delle mie relazioni, così buoni come i loro, o come alcuno dei loro. Compia piuttosto il mio lavoro così bene, che altri oziosi, possano comparare, se ad essi piaccia, la trama della mia vita alla trama di quegli uomini e trovarla identica alla migliore di esse.

[117]

Questa stima esagerata delle possibilità di Paolo e di Pericle, questo avvilimento delle nostre proprie possibilità, deriva dalla nostra noncuranza dei fatti, che hanno identica natura. Buonaparte non conosceva che un solo merito, e ricompensava in un solo ed identico modo il buon soldato, ed il buon astronomo, il buon poeta ed il buon artista. E in questo modo egli palesava la sua percezione di un grande fatto. Il poeta fa uso dei nomi di Cesare, di Tamerlano, di Bonduca, di Belisario; il pittore si serve della storia convenzionale della Vergine Maria, di Paolo, di Pietro. Egli pertanto non si sottomette alla natura di questi uomini accidentali, di questi eroi. Se il poeta scrive un vero dramma, allora egli è Cesare, e non colui che illustra Cesare; allora la stessa corrente di pensiero, l’emozione altrettanto pura, lo spirito altrettanto sottile, i movimenti altrettanto rapidi, incalzanti, stravaganti; un cuore altrettanto grande, che basta a se stesso, intrepido, che sulle onde del suo amore e della sua speranza può alzare tutto ciò che si crede solido e prezioso al mondo, — palazzi, giardini, denaro, navi, regni — segnando il suo proprio incomparabile valore con il disprezzo di questi ornamenti degli uomini — è cosa sua, e col suo potere egli eccita le nazioni. Ma i grandi nomi a lui non giovano, s’egli non ha in se stesso la vita. Creda l’uomo in Dio e non nei nomi o nei luoghi o nelle persone. L’anima grande s’incarni pure nel corpo di qualche donna, povera, triste e derelitta, in qualche Dolly o Giovanna, che debba servire, spazzare le camere, lavare i pavimenti, ed i suoi fulgidi raggi non potranno essere affievoliti o nascosti; ma lo spazzare ed il lavare appariranno subito azioni supreme e belle, vertice e splendore della vita umana, e tutta la gente vorrà imitarla; finchè, ecco! di colpo, la grande anima ha trasfusa se stessa in qualche altra [118] forma, ed ha compiuta qualche altra azione, che diviene a sua volta il fiore ed il capo di tutta la natura vivente.

Noi siamo i fotometri, l’impressionabile foglio d’oro e la lamina di stagno, che misura l’accumularsi del sottile elemento. Noi conosciamo gli autentici effetti del vero fuoco, attraverso a ciascuna delle sue mille trasformazioni.

[119]

QUINTO SAGGIO AMORE

Ogni anima è per ogni altra anima una Venere celestiale. Il cuore ha i suoi sabbati ed i suoi Giubilei, nei quali il mondo appare come una festa nuziale ed in cui le voci della natura e lo svolgersi delle stagioni sono canti ed esotiche danze. L’amore è onnipossente nella natura come causa e come ricompensa. Amore è la nostra parola più alta e sinonimo di Dio. Ogni promessa dell’anima ha innumeri adempimenti; ciascuna delle sue gioie fiorisce in un nuovo bisogno. La natura illimitata, fluente, previdente, anticipa di già nel primo sentimento di deferenza, una benevolenza che perderà ogni privato particolare aspetto nella sua luce generale. L’introduzione a questa felicità sta in una reciproca relazione intima e tenera fra due persone, relazione che è l’incanto della vita umana, che come una divina pazzia ed un entusiasmo divino, conquide l’uomo in un dato periodo, ed opera una rivoluzione nella sua mente e nel suo corpo; lo unisce alla sua razza, lo lega alle sue relazioni domestiche e civili, lo volge con rinnovata simpatia verso la natura, rialza il potere dei sensi, schiude l’immaginazione, aggiunge al suo carattere attributi eroici e sacri, stabilisce il matrimonio, e dà durevolezza alla società umana.

L’associazione naturale del sentimento dell’amore con l’ardore del sangue sembra richiedere, onde descriverlo [120] con vivi colori e coincidere con la palpitante esperienza di ogni giovanetto e di ogni ragazza, un individuo non troppo vecchio. Le deliziose fantasie della gioventù rifiutano il più tenue sapore di una filosofia matura, come quella che agghiaccia con l’età e la pedanteria la loro purpurea fioritura. E perciò so di incorrere nell’accusa di durezza e di inutile stoicismo da parte di coloro che compongono la Corte e il Parlamento dell’Amore. Ma contro questi formidabili censori, mi appellerò ai miei padri. Poichè deve considerarsi che questa passione, sebbene incominci con il giovane, pure non abbandona il vecchio, o piuttosto, non lascia che nessuno, il quale sia realmente suo servitore, invecchi, ma lo fa partecipe dei suoi doni non meno della tenera giovinetta, ancorchè in un modo differente e più nobile. Perchè l’amore è un fuoco, che avvivato nello stretto cavo di un cuore da una scintilla vagante uscita da un altro petto, brilla e si espande, finchè riscalda ed illumina moltitudini di uomini e di donne, accende il cuore universale di tutti, e irradia l’intiero mondo e tutta la natura, con le sue fiamme generose. Non importa adunque se noi tentiamo di descrivere la passione a venti a trenta o ad ottanta anni. Colui che la descrive nel suo primo o nel suo ultimo periodo di vita, perderà di essa le particolarità, attinenti all’uno o all’altro periodo.

Soltanto è da sperare che, con la pazienza e con l’aiuto delle Muse, possiamo raggiungere quella interna visione della legge, che ci paleserà una verità sempre giovane e bella, e così centrale da attirare a sè lo sguardo, da qualsiasi angolo sia veduta.

E la prima condizione è, che noi dobbiamo abbandonare una troppo stretta e tarda aderenza ai fatti, e studiare il sentimento come esso apparve nelle speranze e non nella storia; perchè ogni uomo vede nella sua [121] immaginazione la propria vita deturpata e sfigurata, come certo non è là vita di un uomo. Ogni uomo vede al disopra della sua propria esperienza un certo marchio d’errore, mentre quella degli altri uomini gli appare bella ed ideale. Ritorni ogni uomo a quelle deliziose relazioni, che compongono la bellezza della sua vita, che gli hanno dato la più sincera istruzione e il più leale nutrimento, ed egli indietreggerà ognora più.

Ahimè! Non so perchè, ma infinite compunzioni amareggiano nella vita matura il ricordo della gioia germogliante, e coprono ogni nome amato. Ogni cosa è bella veduta dall’intelletto o veduta come verità; ma tutto è amaro se lo si vede come esperienza. I dettagli sono pieni di melanconia; il complesso è dignitoso e nobile. È strano quanto penoso sia il mondo attuale, regno doloroso del tempo e dello spazio. Qui abitano l’affanno, il cancro ed il timore. Là con il pensiero e coll’ideale v’è la giocondità immortale, il fiore della gioia, ed intorno ad essa cantano tutte le Muse. Ma il dolore pure si attacca ai nomi, alle persone ed al parziale interesse dell’oggi e dell’ieri.

Noi possiamo constatare questa forte tendenza della natura dallo sviluppo che questo argomento delle relazioni personali prende nelle conversazioni sociali. Che cosa desideriamo noi maggiormente sapere di qualsiasi degna persona, se non come egli sia riuscito nella storia del sentimento? Quali libri circolano nelle biblioteche circolanti? Come ci accendiamo leggendo quelle novelle passionali, in cui la vicenda è narrata con qualche scintilla di verità e di naturalezza! E che cosa nel corso della vita avvince più di un incidente che riveli l’affezione fra due persone? Forse noi non le vedemmo mai prima, e forse non le incontreremo mai più, ma noi le vediamo scambiarsi uno sguardo furtivo o tradire una profonda emozione, e noi diventiamo dei [122] familiari. Noi le comprendiamo e prendiamo il più vivo interesse allo svolgersi del loro romanzo. Tutto il genere umano ama un’amante. Le primissime dimostrazioni di compiacenza e di cortesia sono le pitture più seducenti della natura. È l’aurora della civiltà e della grazia nel selvaggio e nel rustico. Lo zotico ragazzo del villaggio vessa le ragazze alla porta della scuola; — ma oggi egli viene correndo verso l’entrata, ed incontra una bella bambina che prepara la sua cartella: egli le tiene i libri per aiutarla, ed immediatamente gli pare che essa si allontani da lui all’infinito, e si chiuda come in un sacro recinto. Fra la folla di ragazze egli corre rudemente, ma una sola lo tiene a distanza; e questi due piccoli vicini, che erano dianzi così a lato, hanno imparato ora a rispettare reciprocamente la loro propria personalità. — Chi può togliere lo sguardo dai modi insinuanti a metà astuti ed a metà ingenui delle scolare che vanno nei negozi dei villaggi a comperare una matassa di seta od un foglio di carta, e rimangono mezz’ora con il ragazzo della bottega, dal viso paffuto e dal carattere buono? Nel villaggio essi sono in perfetta uguaglianza, in quella uguaglianza di cui l’amore si diletta, ed in cui senza civetteria l’indole lieta ed amorevole della donna si espande in un grazioso chiacchierìo. Le ragazze possono avere poca bellezza, pure chiaramente si stabiliscono fra esse ed il buon ragazzo le relazioni più piacevoli e familiari; conversano di Edgardo, di Giona e di Almira; di chi fu invitato a quella partita; e di chi danzò alla scuola di ballo; dell’epoca in cui la scuola di canto incomincierà e di altre piccole cose, sulle quali le coppie s’intrattengono. Passa del tempo, e quel ragazzo abbisogna di una moglie, ed egli saprà dove trovare una sincera e dolce compagna, senza incorrere in quei rischi che Milton deplora a proposito degli eruditi e dei grandi uomini.

[123]

Mi è stato detto che la mia filosofia è antisociale e che in qualche mio discorso pubblico la mia riverenza per l’intelletto mi rese ingiustamente freddo verso le relazioni personali. Ma ora quasi io raccapriccio al ricordo di tali parole di spregio. Poichè le persone costituiscono il mondo dell’amore, ed il più freddo filosofo non può ricordare il dovere della giovane anima vagante nella natura a discrezione del potere dell’amore, senza essere tentato di dichiarare come traditrice della natura, qualsiasi cosa ostacolante gli istinti sociali. Poichè, sebbene questa estasi celestiale che viene dal cielo s’impossessa solamente degli individui di tenera età, e sebbene la bellezza che domina ogni analisi ed ogni comparazione, e che ci mette fuori di senno, la si possa raramente trovare dopo i trent’anni; pure il ricordo di queste visioni vive più a lungo di tutti gli altri ricordi, ed è una ghirlanda di fiori sulle fronti più vecchie. Ma ecco un fatto strano: può parere a molti uomini, ritornando sulla loro esperienza, di non aver pagina più bella nel libro della loro vita, che la deliziosa memoria di certi momenti, in cui l’affetto tentò di dare ad un complesso di circostanze accidentali e volgari un fascino superiore alla loro reale attrazione. — Guardando indietro essi possono trovare che molte cose, le quali non erano il fascino, hanno maggior realtà nella sua memoria brancolante del fascino stesso che le profumava. Ma qualunque sia la nostra esperienza delle cose particolari, nessun uomo mai dimentica le visite fatte al suo cuore ed al suo cervello da quella potenza, che fece tutte le cose nuove; che fu per lui l’aurora della musica, della poesia, e dell’arte; che fece il viso della natura raggiante di luce purpurea, e che variò gli incanti del mattino e della notte; nessuno mai dimentica il tempo in cui il suono di una sola voce poteva far balzare il cuore, e in cui la più volgare circostanza associata con una forma [124] veniva immersa nell’ambra della memoria; il tempo in cui egli diventava tutto occhi quando ella era presente, e tutto memoria quando essa era andata; quando il giovane diventa il custode delle finestre, premuroso di un guanto, di un velo, di un nastro, delle ruote di una vettura; quando nessun luogo è troppo solitario e nessuno troppo silenzioso per lui che trova migliore compagnia e più dolce conversazione nei suoi nuovi pensieri che con qualsiasi dei suoi vecchi amici, anche i migliori e i più puri; perchè le parvenze, i moti, le parole del soggetto amato, non sono come le altre imagini disegnate nell’acqua, ma, come disse Plutarco «smaltate nel fuoco», e formano la meditazione delle ore notturne.

«Tu non sei andata pur essendo andata; ovunque tu sei

Tu lasci in lui i tuoi occhi attenti, in lui il tuo amante cuore.»

Nel meriggio e nella sera della vita palpitiamo ancora al ricordo dei giorni in cui la felicità non era felice abbastanza, ma doveva essere mescolata al sapore del dolore e dell’ansia; (perchè veramente toccò il segreto della cosa, colui che disse dell’amore:

«Tutti gli altri piaceri non valgono le sue pene»).

quando il giorno non era lungo abbastanza, e la notte era consumata in acuti ricordi; quando il capo ardeva tutta la notte sul guanciale, per risolversi ad una generosa azione; quando la luce della luna era una febbre piacevole, e le stelle erano lettere, ed i fiori cifre, e l’aria era satura di canti; quando ogni impresa sembrava un’impertinenza, e tutti gli uomini e tutte le donne, correnti di qua e di là nelle strade, non erano che semplici imagini.

[125]

La passione ricostruisce per la gioventù il mondo. Essa dà a tutte le cose vita e significato. La natura diviene cosciente; ogni uccello sui rami di un albero canta ora al suo cuore ed alla sua anima. Le note di esso sono quasi articolate. Le nubi hanno dei visi quando egli le guarda. Gli alberi della foresta, l’erba ondeggiante, i fiori sbocciami, divengono intelligenti; ed egli quasi teme di confidar loro il segreto, cui essi sembrano invitarlo. La natura lo blandisce e con lui simpatizza. Egli trova nella verde solitudine un soggiorno più caro che fra gli uomini.

Guardate nel bosco il bel pazzo! Egli è un palazzo di dolci suoni e di dolci visioni; egli si espande; egli è due volte un uomo; cammina colle braccia appoggiate sulle anche; parla da solo; si avvicina all’erba ed agli alberi; sente nelle sue vene il sangue della viola, del garofano e del giglio; ed egli parla col ruscello che lambe i suoi piedi. Le cause che hanno aperto in lui le percezioni della bellezza naturale gli hanno fatto amare la musica ed il verso. È un fatto spesso osservato, che uomini che non avrebbero potuto scriver bene in qualsiasi altra circostanza hanno scritto dei buoni versi sotto l’ispirazione della passione. La passione ha lo stesso potere su tutta la natura. Essa espande il sentimento; ingentilisce lo zotico, e rincuora il codardo. Essa infonderà animo e coraggio nel cuore più pusillanime ed abietto per sfidare il mondo, purchè abbia l’incitamento dell’oggetto amato. Donandosi ad un altro, l’uomo si dona maggiormente a se stesso. Egli è così un uomo nuovo, con nuove percezioni, con propositi nuovi e più oculati, e con una religiosa solennità di carattere e di intenti. Egli non appartiene più alla sua famiglia ed alla sua società; egli è qualchecosa; egli è una persona; egli è un’anima. E qui esaminiamo un poco più da vicino la natura di [126] quell’influsso che è così potente sulla gioventù umana. Avviciniamoci ed ammiriamo la bellezza, la cui rivelazione all’uomo noi oggi celebriamo; la bellezza, benvenuta come il sole, ovunque le piaccia di brillare, che per mezzo suo allieta ognuno e lo allieta con se stesso. Meraviglioso è il suo fascino: essa pare sufficiente a se stessa. L’amante non può nella sua fantasia immaginare la sua donna povera e solitaria. La società per se stessa è come una pianta in fiore, altrettanto dolce, germogliante, spirante grazia ed insegna perchè la Bellezza sia stata dipinta con amorini e grazie, seguenti i suoi passi. La sua esistenza arricchisce il mondo. Sebbene essa allontani dagli occhi dell’amante tutte le altre persone come povere ed indegne, essa lo ricompensa trasformando il suo essere in qualchecosa di impersonale, di grande, di universale, così che la sua donna gli si mostra come l’ideale di tutti i valori e di tutte le virtù. Per questa ragione l’amante non vede mai una rassomiglianza personale fra la sua donna, i suoi parenti od altre donne. I suoi amici trovano in essa una somiglianza con sua madre o le sue sorelle o con persone non consanguinee. L’amante invece non vede alcuna rassomiglianza se non con le sere d’estate, i mattini brillanti, gli arcobaleni e i canti degli uccelli. La bellezza è sempre quella che gli antichi stimarono cosa divina e che chiamarono il fiore della virtù. Chi può analizzare il fascino senza nome che emana da questo o da quel viso, da questa o da quella forma? Noi siamo agitati da sentimenti di tenerezza e di compiacenza, ma non possiamo constatare dove volgano questa emozione squisita e questo raggio vagante. L’immaginazione ci impedisce di riferirli all’organismo. Nè essi si ricollegano a qualsiasi relazione d’amicizia e di amore, conosciuta e posseduta dalla società, ma, per quanto mi pare, essi derivano da una sfera completamente [127] diversa ed irraggiungibile; da relazioni di delicatezza e di dolcezza trascendentali; da una terra di fate che le rose e le viole accennano e preannunziano. Noi non possiamo conquistare la bellezza. La sua natura è pari allo splendore opalino della gola delle tortore, ondeggiante ed evanescente. In ciò la bellezza somiglia alle cose più eccellenti, che hanno il carattere dell’arcobaleno, e rendono vani tutti i tentativi di appropriazione e di uso. Che cosa altro volle dire Jean Paul Richter, quando disse alla musica: «Via, via, tu mi parli di cose che in tutta la mia vita interminabile non trovai, nè troverò»? Lo stesso fatto può essere osservato in ogni opera delle arti plastiche. La statua è bella quando incomincia ad essere incomprensibile, quando sfugge alla critica, e non può essere più misurata con il compasso o con il metro, ma richiede una immaginazione attiva per seguirla e per dire ciò che sta per fare. Il dio o l’eroe dello scultore è sempre rappresentato nella transizione da ciò che è rappresentabile ai sensi, a ciò che non lo è. Allora la statua cessa d’essere un macigno. La stessa osservazione vale per la pittura. E in poesia il successo non è raggiunto quando essa ci alletta e soddisfa, ma quando essa ci stupisce e ci infiamma con nuove prove verso l’irraggiungibile. A questo riguardo Landor si domanda se ciò non debba riferirsi a qualche stato più puro di sensazione e di esistenza.

Così dev’essere per la bellezza personale, che l’amore adora; essa allora ci affascina quando ci allontana da ogni scopo; quando diventa una storia senza fine; quando accende in noi luci e visioni, e non risveglia desiderî terreni; quando ci pare troppo lucente e troppo buona per il nutrimento quotidiano dell’umana natura; quando fa sentire al contemplante la sua indegnità; quando lo conduce a negare il suo diritto ad essa, anche se [128] fosse Cesare, ed a convincerlo di non aver su di essa maggior diritto di quanto ne abbia sul firmamento e sugli splendori di un tramonto.

Da questo venne il detto «Se ti amo, che cosa t’importa?», perchè noi sentiamo che ciò che amiamo non è nella nostra volontà, ma al disopra di essa; non è voi, ma è la vostra irradiazione. È ciò che voi non conoscete in voi stesso, e non potrete mai conoscere. Questo si accorda con quell’alta filosofia del bello, della quale si dilettavano gli antichi scrittori; poichè essi dicevano che l’anima dell’uomo incorporatasi sulla terra, andava vagando in cerca di quell’altro mondo suo proprio dal quale venne in questo; ma tosto colpita dalla luce del sole naturale, fu impotente a vedere qualsiasi altro oggetto se non quelli di quaggiù, i quali non sono che le ombre delle cose reali. Perciò la Divinità manda la gloria della giovinezza innanzi all’anima, affinchè essa possa servirsi dei corpi leggiadri come mezzo per ricordarsi del bene e del bello celestiale; e così l’uomo, contemplando una bella persona di sesso femminile, fruisce della gioia più alta nel mirarne la forma, il movimento e l’intelligenza, perchè gli si rivela la presenza di ciò che è nella bellezza, e la causa della bellezza stessa.

Se però, per il soverchio contatto con gli oggetti materiali, l’anima fosse grossolana, e ponesse le sue soddisfazioni nel corpo, essa raccoglierebbe null’altro che dolore; essendo il corpo incapace di compiere la promessa che la bellezza pone; ma, se seguendo le visioni e gli incitamenti che la bellezza reca alla sua mente, l’anima passa attraverso il corpo, e si volge ad ammirare i tratti del carattere, e se gli amanti si contemplano nei loro discorsi e nelle loro azioni, allora essi penetrano nel vero tempio della bellezza, più e più ne infiammano il loro amore, e con questo, spegnendo le basse [129] affezioni, come il sole spegne il fuoco brillante sul focolare, essi diventano puri e santi. Dalla conversazione di ciò che è per se stesso eccellente, magnanimo e giusto, l’amante viene ad un più vivo amore per queste nobili cose, e ad una più rapida intelligenza di esse. Allora egli dall’amarle in una sola persona passa ad amarle in tutte, e così quell’anima bella è soltanto la porta per la quale egli entra nel mondo di tutte le anime nobili e pure. Nella società particolare della sua compagna egli acquista una percezione più chiara di qualsiasi macchia, di qualsiasi guasto, che la bellezza di lei abbia contratto da questo mondo, e può indicarli con mutua gioia, poichè essi sono ora in condizione di additare senza offesa i reciproci difetti ed i reciproci torti e di soccorrersi vicendevolmente onde emendarsi. E, osservando in molte anime i tratti della divina beltà, e separando in ogni anima ciò che è divino dal marchio contratto nel mondo, l’amante ascende, attraverso a questa scala di anime create, alla più alta bellezza, all’amore ed alla conoscenza della Divinità.

Gli uomini di tutte le età veramente saggi qualcosa di simile ci hanno detto riguardo all’amore. La dottrina non è vecchia, ma nemmeno è nuova. Se Platone, Plutarco ed Apuleio l’hanno insegnata, così han fatto Petrarca, Michelangelo e Milton. Essa attende una sanzione più profonda come opposizione e biasimo a quella prudenza sotterranea che presiede ai matrimoni, fatta di parole che si volgono al mondo superiore, mentre un occhio è eternamente fisso alla cantina; cosicchè i più gravi discorsi hanno sapore di prosciutto e di tinozza. Peggio ancora, quando il ceffo di questo sensualismo s’insinua nell’educazione delle giovani donne, e avvizzisce le speranze e gli affetti della natura umana, insegnando che il matrimonio non significa altro che «buona massaia», e che la vita della donna non ha altro scopo.

[130]

Ma questo sogno di amore, sebbene bello, è solamente una scena della nostra commedia. Nella processione dell’anima dall’interno all’esterno, essa allarga sempre i suoi circoli, come la pietra gettata nello stagno o la luce derivante da un’orbita. I raggi dell’anima illuminano prima le cose più vicine, ogni utensile e ogni giocattolo, le nutrici ed i servi, la casa, il cortile ed i viandanti, il cerchio delle conoscenze famigliari, poi la politica, la geografia, la storia. Ma per necessità della nostra costituzione le cose si adunano sempre secondo leggi più alte e più segrete. La vicinanza, la dimensione, i numeri, le abitudini, le persone, pérdono gradatamente il loro potere su di noi. La causa e l’effetto, l’affinità reale, il desiderio di armonia fra l’anima e la circostanza, l’istinto progressivo idealizzante, predominano più tardi, ed il ritorno dalle relazioni più elevate a quelle più basse diviene impossibile. Così perfino l’amore, che è la deificazione delle persone, deve divenire ogni giorno più impersonale. Di ciò non si ha indizio al suo nascere. Il giovane e la ragazza che si guardano attraverso alle camere affollate, con occhi pieni di muta intelligenza, poco pensano ai frutti preziosi, che dopo lungo tempo verranno da questo nuovo stimolo completamente esterno. L’opera della vegetazione s’inizia a tutta prima coll’irritabilità della corteccia e dei germogli. Dallo scambio di sguardi, essi passano ad atti di cortesia, di galanteria, di poi alla fiera passione, al fidanzamento ed infine al matrimonio. La passione contempla l’oggetto suo come una perfetta unità. L’anima è interamente incorporata ed il corpo è interamente spiritualizzato.

«Il suo puro ed eloquente sangue parlava sulle sue guancie, così vivamente agitato, che si sarebbe detto che il suo corpo pensasse». Romeo, morto, dovrebbe esser posto fra piccole stelle onde ingentilire il cielo. [131] La vita, in questa coppia, non vuole altro, non domanda altro che Giulietta e Romeo. La notte, il giorno, gli studi, il talento, i regni, la religione, sono tutti contenuti in questa forma piena dell’anima, in questa anima che è tutta forma. Gli amanti si deliziano di carezze, di confessioni d’amore, di sguardi. Quando sono soli, ciascuno si bea con la rievocata immagine dell’altro. Vede quell’altro la stessa stella, la stessa tenera nube che io vedo, o legge lo stesso libro e prova la stessa sensazione che innonda me di piacere? Essi giudicano ed esaminano la loro affezione e avendo insieme tutte le grandiose prosperità, gli amici, le opportunità, la proprietà, esultano nello scoprire che essi darebbero volentieri e lietamente questi beni come riscatto del caro amato capo, di cui un solo capello non sarà mai strappato. Ma il pericolo, il dolore e la pena giungono ad essi, come a tutti gli altri. L’amore intercede e stringe patti con il Potere Eterno onde proteggere questo caro compagno. L’unione che si è così effettuata, e che accresce d’un nuovo valore ogni atomo della natura, (poichè essa trasmuta ogni filo di tutta la tela della relazione in un raggio d’oro, e immerge l’anima in un elemento nuovo e più dolce), è ancora uno stato temporaneo. Non sempre i fiori, le perle, la poesia, le dichiarazioni d’amore, e perfino il santuario in un cuore altrui, possono soddisfare l’anima spaventevole che abita la nostra argilla; essa si solleva alfine da queste tenerezze, si arma, ed aspira a scopi vasti e universali. L’anima che è nell’anima di ciascuno, agognando una beatitudine perfetta, scopre incongruenze, difetti, e mancanza di perfezione nella condotta dell’altra. Da ciò sorgono la sorpresa, la disputa ed il dolore. Pure ciò che trasse questi due esseri l’uno verso l’altro, furono segni di bellezza, segni di virtù; e queste virtù vi sono ancora per quanto oscurate. Esse appaiono e [132] riappaiono, e continuano ad attrarre, ma la considerazione si volge, abbandona il segno e si attacca alla sostanza. Ciò ristora l’affezione ferita. In questo frattempo, mentre la vita scorre, essa sperimenta un giuoco di mutamenti e di combinazioni in tutti i possibili atteggiamenti dei coniugi, estorce le risorse di ciascuno di essi, e li rende reciprocamente edotti della loro forza e della loro debolezza. Perchè l’indole ed il fine di questa relazione è che essi rappresentino l’uno all’altro la razza umana. Tutto ciò che vi è al mondo, che è conosciuto o che dovrebbe esserlo, è sapientemente inoculato nel tessuto dell’uomo e della donna.

«La persona che l’amore ci dà,

Come la manna, ha in sè il gusto di tutte le cose».

Il mondo gira e le circostanze variano d’ora in ora. Gli angeli che abitano questo tempio del corpo, appaiono alle finestre, come anche vi appaiono i gnomi ed i vizi. I coniugi sono uniti dalle loro virtù: se esiste in loro la virtù, tutti i vizi sono riconosciuti come tali; ed essi li confessano e li fuggono. Il loro amore ardente d’una volta, col tempo s’acqueta nel loro petto, e perdendo in violenza guadagna in estensione, e l’accordo diviene perfetto. Essi si rassegnano, senza lagno, ai buoni uffici che reciprocamente sono col tempo obbligati a compiere, e trasmutano la passione, che prima non poteva perdere di vista l’oggetto amato, in un giocondo progresso dei loro disegni, siano essi presenti od assenti. Alla fine essi scoprono che tutto ciò che in principio li attirò, vale a dire gli adorati lineamenti, il magico giuoco degli incanti, era caduco, aveva un fine previsto, come l’impalcatura che servì a costrurre la casa; e la purificazione dell’intelletto e del cuore, d’anno in anno, è il vero matrimonio, preveduto e preparato dal principio, a loro insaputa. Se io prendo in [133] esame lo scopo per il quale due persone, un uomo ed una donna, dotati di qualità differenti e relative, si racchiudono in una sola casa, per trascorrere in società nuziale quaranta o cinquant’anni, non mi meraviglio della forza con la quale il cuore profetizza questa crisi fin dalla prima infanzia; della bellezza con cui gli istinti infiorano l’alcova nuziale, nè dell’emularsi della natura, dell’intelligenza e dell’arte per portare doni e melodie all’epitalamio.

Così noi siamo spinti verso un amore, che non conosce sesso, persona o parzialità, ma che cerca la virtù e la sapienza ovunque, allo scopo di aumentare l’una e l’altra. Noi siamo per natura osservatori e per questo atti ad apprendere. Questo è il nostro stato permanente. Ma spesso siamo indotti a sentire che i nostri affetti sono solo i veli di una notte. Sebbene lentamente e con dolore gli oggetti delle affezioni mutino come mutano gli oggetti del pensiero, pure vi sono dei momenti in cui le affezioni regolano ed assorbono l’uomo, e fanno dipendere la sua felicità da una o più persone. Ma in istato di sanità lo spirito ricompare di nuovo, con la sua volta imponente, rifulgente di luci immutabili e gli ardenti amori ed i timori, che passarono sopra come nubi, perdono il loro carattere finito, s’uniscono con Dio, per raggiungere la loro propria perfezione. Noi però non dobbiamo temere di perdere qualche cosa con il progresso dell’anima; in essa possiamo confidare sino alla fine; poichè le cose che hanno la bellezza e il fascino di queste relazioni d’amore, possono esser seguite e supplite soltanto da cose più belle e per sempre.

[135]

SESTO SAGGIO AMICIZIA

Noi possediamo molto maggior bontà di quanto non si dica. Nonostante tutto l’egoismo che, come i venti dell’est, gela il mondo, l’intera famiglia umana è immersa nell’elemento d’amore come in un etere delicato. Quante persone non incontriamo nelle case, persone alle quali noi appena parliamo, e che pure onoriamo e che ci onorano! Quante ne vediamo nella strada od in chiesa e che silenziosamente ma cordialmente siamo lieti di incontrare! Leggete il linguaggio di questi raggi erranti dell’occhio: il cuore sa farlo.

L’effetto della largizione di questa affettività umana è una certa cordiale letizia. In poesia e nel linguaggio comune i moti di benevolenza e di compiacenza che sono sentiti verso gli altri, vengono paragonati agli effetti materiali del fuoco; queste irradiazioni interne sono altrettanto rapide però, anzi molto più rapide e più attive e più rallegranti. Esse, dal più alto grado dell’amore appassionato fino al più basso gradino della buona volontà, compongono la dolcezza della vita.

I nostri poteri intellettuali ed attivi aumentano con le nostre affezioni. Lo scolaro si siede per iscrivere, e tutti i suoi anni di meditazione non gli forniscono un solo pensiero capace di una felice espressione; ma se scrive una lettera ad un amico immediatamente legioni [136] di pensieri gentili si levano da ogni parte con elette parole. Guardate in qualsiasi casa, dove dimorano la virtù ed il rispetto, quale palpito determini l’approssimarsi di uno straniero. — Uno straniero a noi raccomandato è atteso ed annunciato, ed una inquietudine che ha del piacere e del dolore invade tutti i cuori della famiglia. Il suo arrivo arreca quasi affanno ai buoni cuori, che vorrebbero dargli il benvenuto. La casa è spolverata, tutte le cose ritornano a posto loro, la vecchia giubba è cambiata con una nuova, e gli ospiti preparano un pranzo, se lo possono. Altri ci parlano di questo straniero raccomandato; e solo il buono ed il nuovo è udito da noi. Egli ci rappresenta l’umanità. Egli è ciò che noi desideriamo. Avendolo imaginato e vivificato, ci domandiamo come staremo in conversazione e in relazione con tale uomo, e siamo agitati da un vago timore. La stessa idea rialza la conversazione allorchè siamo con lui; infatti conversiamo meglio del solito, disponiamo d’una fantasia più viva, d’una memoria più ricca, ed il demonio del nostro mutismo ci abbandona per quel momento. Per lunghe ore possiamo rivelare una serie di comunicazioni sincere, graziose, ricche, tratte dalla più antica e più segreta esperienza, cosicchè quelli dei nostri familiari, che ci seggono vicino, proveranno una grata sorpresa per questa nostra insolita facondia. Ma così tosto come lo straniero incomincia a frammettere nella conversazione le sue preferenze, le sue definizioni, le sue debolezze, tutto è finito. Egli ha udito il principio, la fine ed il meglio di ciò che egli udrà da noi. Egli non è più uno straniero ora. La volgarità, l’ignoranza, ed i preconcetti sono vecchie conoscenze. Quando egli ritornerà, potrà avere l’ordine nella casa, il vestito nuovo ed il pranzo, — ma non il battito del cuore e le corrispondenze dell’anima.

[137]

Questi tratti d’affezione, che riaccendono di nuovo per me un mondo giovane sono graditi. Un giusto e fermo accordo di due, in un pensiero, in un sentimento, è delizioso. Come sono belli, nel loro avvicinarsi a questo cuore palpitante, i passi e gli aspetti dell’essere sincero e favorito da natura! Nel momento che noi lasciamo libero corso ai nostri affetti, la terra soggiace a metamorfosi; non c’è più inverno e non c’è più notte; tutte le tragedie, tutti gli affanni svaniscono, — e così tutti i doveri: nulla riempie l’eternità che trascorre, se non le forme raggianti delle persone amate. Sia l’anima persuasa che in qualche luogo dell’universo troverà la sua compagna, e sarà contenta ed allegra in solitudine per mille anni. Mi svegliai stamane con un divoto ringraziamento per i miei amici, i vecchi ed i nuovi. Non chiamerò io Iddio, il Bello, che giornalmente si rivela a me coi suoi doni? Io sfuggo la società, prediligo la solitudine, eppure non sono così ingrato da non vedere l’uomo saggio, il cortese, il magnanimo, quando di tempo in tempo passano davanti alla mia porta. Chi mi ode, chi mi capisce, diviene mio, diviene un possesso mio per sempre. Nè la natura è così povera che essa non mi dia talvolta questa gioia, e così intesso trame sociali mie proprie, e una nuova tela di relazioni; e allo stesso modo che molti pensieri successivi si sostanziano, così poco a poco io mi troverò in un mondo nuovo, di mia propria creazione, e non sarò più uno straniero o un pellegrino in un globo tradizionale. I miei amici vengono a me non cercati. Il grande Iddio me li diede. Per il più antico diritto, per la divina affinità della virtù con se stessa, io li trovo, o meglio non io ma la Divinità che è in me e che è in essi, la quale deride e abbatte i vigorosi baluardi del carattere individuale, delle relazioni, dell’età, del sesso, della circostanza, e fa di molti individui uno solo. Alti ringraziamenti vi [138] debbo, eccellenti amatori, che rivelate a me nuove e nobili profondità del mondo e ampliate il significato di tutti i miei pensieri. Voi non siete rigide ed intirizzite persone, ma una nuova poesia di Dio — poesia senza impedimenti — siete inno, ode, epopea, ancora fluente e non già rappresa nei libri morti con annotazioni e glossario, ma siete Apollo e siete le Muse ancora inneggianti. E queste creature si separeranno da me o da qualcuna di loro? Io non lo so, ma non lo temo; perchè la mia relazione con esse è così pura, che noi ci teniamo uniti per semplice affinità; ed il Genio della mia vita è così socievole, che eserciterà la sua energia su chiunque sia nobile al pari di questi uomini e di queste donne, ed ovunque io sia.

Io confesso su questo punto un’estrema tenerezza naturale. È quasi pericoloso per me «il sorbire il dolce veleno del vino male usato» delle affezioni. Una nuova persona per me è un grande evento e mi impedisce di dormire. Io ho per l’addietro molto fantasticato intorno a due o tre persone che mi hanno dato delle ore deliziose; ma la gioia finì col declinar del giorno; essa non produsse alcun frutto; il mio pensiero non nacque da essa e la mia attività fu di poco modificata. Io debbo provare orgoglio per le buone doti del mio amico, come se fossero mie, e debbo provare come un selvaggio, delicato, palpitante senso di proprietà su le sue virtù. Io sento tanta gioia quando egli è lodato, quanta ne prova l’amante per gli applausi diretti alla sua fidanzata. Noi superstimiamo la coscienza del nostro amico. La sua bontà ci sembra migliore della nostra, la sua natura più bella, le sue tentazioni minori. La nostra fantasia innalza ogni cosa che è sua — il suo nome, il suo corpo, il suo vestito, i suoi libri, ed i suoi istrumenti. Il nostro stesso pensiero ci suona nuovo è più ampio dalla sua bocca.

[139]

Ed ancora la sistola e la diastola del cuore non sono senza analogia con il flusso ed il riflusso dell’amore. L’amicizia come l’immortalità dell’anima, è troppo nobile per essere creduta. L’amante contemplando la sua donna, dubita che essa non sia veramente quale egli la adora; e nelle auree ore dell’amicizia noi siamo sorpresi da ombre di sospetto e di miscredenza. Noi dubitiamo di donare al nostro eroe le virtù delle quali egli risplende, e di adorare poi la forma che noi abbiamo destinata per divina abitazione di esse. A rigor di termini, l’anima non rispetta gli uomini come rispetta se stessa. A rigor di scienza tutte le persone soggiacciono alla stessa condizione di un’infinita lontananza. Temeremo noi di intiepidire l’amor nostro coll’affrontare il fatto e col ricercare le fondamenta metafisiche di questo tempio Eliseo? Non sarò io un essere così reale come le cose che vedo? Se lo sono, non temerò di conoscerle per ciò che esse realmente sono. La loro essenza non è meno bella della loro apparenza, sebbene abbisognino organi più delicati per la percezione di quella. La radice della pianta non è spregevole per la scienza, anche se per fare dei mazzi e dei festoni noi tagliamo corto lo stelo. Io devo tuttavia tentare l’esposizione di un fatto ardito fra queste piacevoli fantasie, anche se esso apparirà nel nostro banchetto, come una mummia egiziana. Un uomo che sta stretto al suo pensiero, concepisce di se idee grandiose.

Egli è conscio di un successo universale, anche se conquistato con uniformi e particolari sconfitte. Nè preferenza, nè poteri, nè oro, nè forza, possono stargli a pari. Io non posso fare a meno di confidare più nella mia povertà che nella vostra ricchezza. Non posso rendere la vostra conoscenza equivalente alla mia. Solo la stella rifulge; il pianeta ha una debole luce, come quella della luna. Io sento ciò che voi dite delle ammirevoli doti e del provato carattere della persona che lodate, ma ben [140] vedo che nonostante i suoi mantelli purpurei, non mi piacerà, a meno che egli sia un povero Greco, quale io sono. Io non posso negare, o amico, che l’immensa ombra del Fenomeno copre anche te, nella sua immensità screziata e variopinta, anche te, comparato col quale ogni altra cosa è ombra. Tu non sei l’Essere come la Verità è, come la Giustizia è; tu non sei la mia anima, ma una pittura ed una effigie di essa. Tu venisti a me tardi, eppure tu riprendi già il tuo cappello ed il tuo mantello. Forse che l’anima non produce amici, come l’albero produce foglie; e come l’albero con la germinazione di nuove gemme esclude le vecchie foglie, così l’anima non esclude i vecchi amici? La legge della natura è un’eterna alternativa. Ogni stato elettrico presuppone il suo contrario. L’anima si attornia di amici al fine di poter penetrare in una più grande conoscenza di sè o in una maggiore solitudine; e procede da sola per un tempo, onde innalzare la sua condotta o la sua società. Questo metodo si delinea in tutta la storia delle nostre relazioni personali. Sempre l’istinto dell’affezione nutre la speranza di unirsi coi nostri simili, e sempre il vigile senso dell’isolamento ci richiama. Così ogni uomo passa la sua vita ricercando l’amicizia; eppure se egli tenesse presente il suo vero sentimento potrebbe scrivere una lettera come questa ad ogni nuovo candidato del suo amore.

«Caro amico,

«Se io fossi sicuro di te, sicuro della tua capacità, sicuro che le nostre tendenze s’incontrassero, io prenderei in considerazione il tuo andare e venire. Io non sono molto saggio; il mio amore è facilmente conquistabile; io rispetto il tuo spirito; esso non è ancora stato da me scandagliato; pure non oso presumere in te una perfetta intelligenza del mio essere, e così tu mi sei un delizioso tormento. Tuo per sempre o giammai».

[141]

Pure questi piaceri inquieti e queste pene raffinate sono idonei per il nostro desiderio di cose nuove e non per la vita. Essi non debbon venire coltivati, perchè sarebbe un tessere una tela di ragno e non una stoffa. Le nostre amicizie si volgono a rapide e povere conclusioni perchè noi le abbiamo intessute di vino e di sogni anzichè della solida fibra del cuore umano! Le leggi dell’amicizia sono grandi, austere ed eterne, fatte con la stessa trama delle leggi della natura e della morale. Ma noi abbiamo aspirato ad un rapido e piccolo beneficio, per suggere una subitanea dolcezza. Noi strappiamo nel giardino di Dio il frutto lento, che abbisogna di molti estati e di molti inverni per maturare. Noi cerchiamo il nostro amico non religiosamente, ma con una passione adulterata, che vorrebbe appropriare lui a noi stessi. Invano. Noi siamo imbevuti d’un sottile antagonismo che, non appena c’incontriamo con lui, comincia a farci beffe e a tradurre tutta la nostra poesia in una prosa scipita. Quasi tutti gli uomini s’abbassano coll’incontrarsi. Ogni associazione deve essere un compromesso e, ciò che è peggio, il vero fiore e l’aroma di ogni bella natura scompare tosto che esse si avvicinano l’un l’altra. Quale perpetua delusione è la società attuale, anche quella dei virtuosi e dei favoriti! Dopo che gli incontri sono avvenuti in seguito a lunga preparazione, noi dobbiamo essere afflitti da saluti avversi, da improvvise ed inopportune apatie, da epilessie di spirito e di senso nei bei giorni dell’amicizia e del pensiero. Le nostre facoltà non ci rappresentano il vero e ciascuno si ristora con la solitudine.

Io dovrei essere uguale in ogni relazione. Non ha importanza il numero dei miei amici e la soddisfazione che io posso trovare nel conversare con essi, se uno solo v’è con cui io non sia uguale. Se io mi sono ritratto [142] da una contesa, perchè impari, istantaneamente la gioia ch’io posso provare in tutto il resto diviene meschina e pusillanime. Io detesterei me stesso se allora io facessi degli altri miei amici il mio rifugio. «Il valente guerriero rinomato per le battaglie, vinto una volta dopo cento vittorie, è cancellato dal libro dell’onore e tutto il resto per cui egli faticò vien dimenticato».

La nostra impazienza è così acerbamente ripresa. Il timore e l’apatia sono un arrendevole riparo, nel quale un delicato organismo viene protetto da un prematuro germogliare. Esso si perderebbe, se conoscesse se stesso, prima che qualcuna delle anime migliori fosse matura abbastanza per comprenderlo ed affermarlo. Rispetta la lentezza della natura che indurisce il rubino in un milione d’anni e opera nell’infinita estensione del tempo, in cui le Alpi e le Ande vanno e vengono come arcobaleni! Il buon genio della nostra vita non ha paradiso che sia ricompensa della nostra precipitazione. L’amore che è l’essenza di Dio non esiste per la vanità, ma per il totale valore dell’uomo. Non si abbia nei nostri rapporti una fanciullesca voluttà, ma la dignità più austera, ed avviciniamo i nostri amici con un’audace fiducia nella lealtà dei loro cuori e nella saggia ed indistruttibile liberalità dei loro propositi.

Poichè è impossibile sottrarsi al fascino di questo argomento io tralascio per poco ogni considerazione intorno ai subordinati benefici sociali, per parlare di questa elevata e sacra relazione, che è una specie di assoluto e che abbandona il dubbio e comune linguaggio dell’amore tanto il suo è più puro e più divino.

Io non desidero trattare le amicizie delicatamente, ma con il più ruvido coraggio. Quando sono reali, esse non sono steli di cristallo o ricami di brina, bensì le più solide cose che noi conosciamo. Al presente, dopo tanti anni di esperienza, che cosa sappiamo noi della [143] natura o di noi stessi? L’uomo non si è inoltrato d’un solo passo nella soluzione del problema del suo destino. L’intero universo degli uomini sta in una condanna all’imbecillità della mente. Ma la dolce gioia sincera e la pace, che io traggo da questa alleanza con l’anima d’un mio fratello, è il nocciolo, di cui ogni natura ed ogni pensiero non sono che il guscio e la corteccia. Felice è la casa che accoglie un amico! Essa può ben essere costrutta come un padiglione o un arco di festa per intrattenerlo anche un solo giorno. Più felice ancora se egli comprende la solennità di tale relazione e onora le sue leggi. L’amicizia non è un ozioso legame, non è un’occupazione domenicale. Colui che offre se stesso come candidato a tale accordo, si solleva come un Olimpico ai più alti gradi, dove convengono gli eletti del mondo. Egli propone se stesso per contese dove il Tempo, il Bisogno, il Pericolo sono in gara, e quegli solo è vincitore che ha nella sua costituzione vigore sufficiente da preservare la sua delicata bellezza dall’uso e dal contatto di tutte queste cose. I doni della fortuna posson essere presenti o assenti, ma tutto lo svolgersi di tale lotta dipende dalla intrinseca nobiltà e dal disprezzo per le cose insignificanti. Ci sono due elementi che concorrono a formare l’amicizia ed entrambi così sovrani, ch’io non posso scoprire nell’uno, superiorità o ragioni tali da esser nominato prima dell’altro. Uno di essi è la Lealtà. Un amico è una persona con la quale io posso esser sincero; dinanzi a lui io posso pensare ad alta voce. In sua presenza io mi trovo con un uomo così reale ed uguale a me, da potere smettere quelle vilissime abitudini di dissimulazione, di cortesia e di secondo pensiero, che gli uomini mai abbandonano; ed io posso trattare con lui con quella semplicità, con la quale un atomo chimico si unisce ad un altro atomo. La sincerità, come i diademi e l’autorità, è la voluttà [144] concessa solo alle più alte classi, che possono dir la verità, non avendo alcuno al disopra da riverire od a cui conformarsi. Ogni uomo solo è sincero; l’ipocrisia comincia all’arrivo di un secondo uomo. Noi evitiamo e sfuggiamo l’approccio del nostro simile per mezzo dei complimenti, delle chiacchiere, degli affari e dei diletti. Noi celiamo il nostro pensiero a lui sotto mille pieghe. Io conobbi un uomo che sotto il dominio d’una certa religiosa frenesia si spogliava di questo drappeggio, ed omettendo ogni complimento ed ogni luogo comune, parlava alla coscienza di ciascuno con grande penetrazione e bellezza. Dapprima gli si resisteva e tutti ammettevano che egli era pazzo. Ma persistendo (ed egli in verità non poteva far altrimenti) e per qualche tempo in questa linea di condotta, egli ottenne il vantaggio di trascinare ogni uomo di sua conoscenza a relazioni sincere. Nessun uomo mai avrebbe pensato di mentire con lui o d’intrattenerlo con delle chiacchiere da mercato o da gabinetto di lettura. Ma ciascuno era costretto da tanta sincerità a guardarlo nel viso, ed a rivelargli quale amore di natura, quale poesia, quale simbolo di verità egli possedesse. Ma alla maggior parte di noi la società non mostra il suo viso ed il suo occhio, ma il suo fianco ed il suo dorso. Contrarre relazioni sincere con gli uomini in una falsa età, è segno di pazzia, non è vero? Raramente noi possiamo andare dritti allo scopo. Quasi ogni uomo che incontriamo richiede qualche riguardo, richiede di essere rallegrato; egli ha qualche rinomanza, qualche talento, qualche capriccio religioso o filantropico nel suo capo, che non deve essere discusso, e che impedisce ogni rapporto con lui. Ma un amico è uomo equilibrato, che addestra me e non la mia abilità d’invenzione. Il mio amico s’intrattiene con me senza pretendere ch’io m’avvilisca o balbetti o mi camuffi. Un amico, [145] pertanto, è una specie di paradosso in natura. Io che sono solo, io che nella natura non vedo nulla la cui esistenza io possa affermare con uguale evidenza della mia, io contemplo l’immagine del mio essere, in tutta la sua altezza e varietà riprodotta in una forma che non è la mia; cosicchè un amico può ben essere riconosciuto il capolavoro della natura.

L’altro elemento dell’amicizia è la Tenerezza. Noi siamo legati agli uomini da ogni specie di vincoli, dal sangue, dall’orgoglio, dal timore, dalla speranza, dal lucro, dalla brama, dall’odio, dall’ammirazione, da ogni circostanza, da ogni pegno e da ogni nonnulla; ma possiamo a mala pena credere che possa sussistere in uno di essi una qualità tale da avvincerci con l’amore. Uno vi può essere così benedetto, e siamo noi così puri da potergli offrir della tenerezza? Quando un uomo mi diviene caro, io ho toccato la méta della fortuna. Io trovo intorno a questo argomento molto poco nei libri, che sia scritto direttamente al cuore. Eppure ho un testo che non posso fare a meno di ricordare. Il mio autore dice «Io mi offro senza slancio e ruvidamente a coloro, ai quali effettivamente appartengo, e mi offro meno a colui, al quale sono maggiormente devoto». Io vorrei che tale amicizia avesse dei piedi, come ha occhi ed eloquenza; essa dovrebbe radicarsi in terra prima d’innalzarsi fino al cielo, e vorrei che fosse un poco dell’uomo prima di appartenere completamente al cherubino. Noi censuriamo il cittadino perchè fa dell’amore una comodità. Esso è per lui uno scambio di doni, di prestiti utili; è un buon vicino; un infermiere per gli ammalati; esso tiene i cordoni al funerale; e così vanno perdute completamente le delicatezze e la nobiltà della relazione. Ma sebbene non possiamo trovare il dio sotto questa maschera di cantiniere, pure non possiamo perdonare d’altra parte al poeta, se egli tesse la [146] sua tela troppo fina, e non rende sostanziale il suo romanzo con le virtù civiche della giustizia, della puntualità, della fedeltà, e dell’amore. Io odio la prostituzione del nome «amicizia» per significare alleanze manierate e mondane. Preferisco di molto la compagnia dei contadini o dei mercanti di stagno all’amicizia elegante e profumata, che celebra le sue adunanze con frivole manifestazioni, con passeggiate in carrozza e con pranzi nelle migliori taverne. Lo scopo dell’amicizia è stringere il più stretto, il più familiare rapporto che possa essere immaginato; esso serve d’aiuto e di conforto attraverso tutte le relazioni e le vicissitudini della vita e della morte; è idoneo per i giorni sereni, per i doni graziosi e per le passeggiate campestri, ma anche per le vie penose, per gli aspri passaggi, per il naufragio, per la povertà e la persecuzione. L’amicizia pure s’accompagna con gli impeti dello spirito ed i rapimenti della religione. Noi dobbiamo dare dignità ai bisogni giornalieri ed agli uffici della vita dell’uomo, ed abbellire questa con il coraggio, con la saggezza e con l’unione. L’amicizia non dovrebbe mai cadere in ciò che è usuale e determinato, ma dovrebbe essere vigilante ed ingegnosa, ed aggiungere poesia e ragione a ciò che era servile lavoro.

Può dirsi che la perfetta amicizia richiede nature così rare e squisite, così ben contemperate e così felicemente adattate l’una all’altra, (poichè anche a questo riguardo un poeta dice che l’amore domanda che le parti siano esattamente bilanciate) che per questa sua necessità essa solo raramente può aver effetto. Essa non può sussistere nella sua perfezione fra più di due esseri, dicono alcuni di coloro che sono dotti in questa ardente dottrina del cuore. Io non sono così rigido nei miei termini, forse perchè non conobbi un’amicizia così elevata come altri conobbero. Io ricreo maggiormente la mia [147] immaginazione con un gruppo d’uomini nobilissimi, in rapporti diversi tra loro e fra i quali sussiste un’alta intelligenza. Ma io credo che questa legge di uno ad uno è perentoria per la conversazione, che è la pratica ed il compimento dell’amicizia. Non mescolate troppo le acque. Le migliori si mescolano così male come le buone e le cattive. Avrete dei discorsi utili e rallegranti volta a volta parlando con due uomini diversi; ma unitevi tutti e tre, e non avrete una sola parola nuova e cordiale. Due possono conversare e uno può udire, ma tre non possono prendere parte ad una conversazione sincera ed elevata. Nella buona società non vi è mai fra due persone che parlano l’uno da un capo e l’altro dall’altro della tavola un discorso uguale a quello che succede quando voi li lasciate soli. Nella buona società gli individui immergono il loro egoismo in un’anima collettiva che esattamente riflette e contiene le parecchie coscienze ivi presenti. Nessuna parzialità dell’amico verso l’amico, nessuna affezione del fratello per la sorella, della sposa per il marito, è costì a proposito, ma esattamente l’opposto. Solo quegli può parlare, che sa navigare sul pensiero comune della comitiva e non limitarsi poveramente al suo proprio pensiero. Ora questa convenzionalità, richiesta dal buon senso, distrugge il libero spaziare della grande conversazione, che vuole il fondersi di due anime in una sola.

Lasciate soli due uomini, essi entreranno in rapporti più semplici: anzi la loro affinità sarà quella che stabilirà il tema della loro conversazione. Gli uomini che non hanno relazioni fra loro, arrecano poca gioia l’uno all’altro, e mai sospetteranno i poteri latenti di ciascuno di essi. Noi parliamo talvolta di un grande talento per il conversare, come se ciò fosse una proprietà permanente in qualche individuo; ma la conversazione è una fuggevole relazione e null’altro. Un uomo è rinomato per [148] avere pensiero ed eloquenza; e con tutto ciò, egli non sa dire una parola a suo cugino od a suo zio. Essi biasimano il suo silenzio con altrettanta ragione con cui potrebbero biasimare l’inutilità di un quadrante solare nell’ombra. Al sole esso segnerà l’ora, e fra quelli che godono del suo pensiero, quel tale uomo riacquisterà la sua favella.

L’amicizia richiede quel raro medium tra uguaglianza e disparità, da cui ciascuno è stimolato, alla presenza della superiorità o dell’accondiscendenza dell’altro. Preferisco rimanere solo fino alla fine del mondo, piuttosto che il mio amico sorpassi di una sola parola o di un solo sguardo la sua simpatia reale. Io sono ugualmente deluso dalla sua avversione come dalla sua condiscendenza. Non cessi egli un solo istante di essere se stesso. L’unica gioia che provo nel suo essere mio, è che ciò che non è mio, è mio. Mi ripugna di trovare un cumulo di concessioni, dove cercavo un aiuto virile od almeno una virile resistenza. È meglio essere una spina al fianco del vostro amico, che essere la sua eco. La condizione che l’alta amicizia richiede è l’abilità di far senza di essa. Questo grande ufficio richiede uomini grandi e sublimi. Vi devono essere veramente due, prima che vi possa essere un vero uno. Vi dev’essere un’alleanza di due nature grandi, formidabili, vicendevolmente contemplatesi e vicendevolmente temutesi, prima che venga riconosciuta, fra le disparità, la profonda identità unificatrice.

Solo colui che è magnanimo, è adatto per questa unione, e tale egli dev’essere per conoscerne le leggi. Egli dev’essere colui, che è sicuro che la grandezza e la bontà sono sempre regole di prudenza. Dev’essere colui che non è pronto per intervenire con la sua fortuna; nè osi egli d’intervenire. Lasciate al diamante i suoi secoli per crescere, nè sperate di affrettare le nascite [149] dell’eterno. L’amicizia richiede un trattamento religioso. Noi non dobbiamo essere caparbi e timorosi. Noi parliamo di scegliere i nostri amici, ma gli amici si eleggono da sè. La reverenza pure è grande parte dell’amicizia. Trattate il vostro amico come uno spettacolo. Naturalmente se egli è un uomo, ha dei meriti che non sono vostri, e che voi non potete onorare, se lo volete tenere troppo vicino alla vostra persona. State discosti; date posto a questi meriti; lasciate che salgano e si espandano. Non siate tanto suo amico da non conoscere le sue peculiari energie; siate appassionati come le madri, che custodiscono la loro figlia in casa, finchè essa è ragazza. Siete voi l’amico dei bottoni del vostro amico o del suo pensiero? Ad un grande cuore egli sarà ancora un ignoto per mille particolari cose, perchè possa raggiungerlo in questa terra promessa. Lasciate ai ragazzi ed alle ragazze il còmpito di guardare un amico come una proprietà, e di suggere un breve e confuso piacere, anzichè il puro nettare degli Dei.

Acquistiamo il nostro ingresso in questa corporazione con una lunga preparazione. Perchè dovremmo noi profanare anime nobili e belle coll’introdurci inopportunamente presso di loro? Perchè opprimere con precipitosi rapporti personali il vostro amico? Perchè andare a casa sua e conoscere sua madre, i fratelli suoi e le sue sorelle? Perchè essere visitato da lui nella vostra casa? Sono queste cose necessarie alla vostra alleanza? Lasciamo da parte queste patetiche e lacrimevoli cose. Sia egli per me uno spirito. Io voglio da lui un messaggio, un pensiero, la sincerità, uno sguardo, e non delle notizie od un pranzo. Io posso disputar di politica, tener conversazioni frivole, e relazioni col vicinato per mezzo di compagni di minor valore. All’incontro non dovrebbe essere per me la comunione con il mio amico, poetica, pura, universale e grande come la natura stessa? [150] Dovrei io sentire che il nostro legame è profano, se lo paragono a quella nuvola che dorme sull’orizzonte o a quel cespuglio d’erba ondeggiante, che divide il ruscello? Non avviliamo l’amicizia, ma innalziamola. Questo grande occhio sfidante, quest’altera bellezza di portamento o di azione, non v’induca ad abbassarvi ma piuttosto a fortificarvi ed innalzarvi. Adorate le sue eccellenze. Guarda il tuo amico come il tuo alter-ego; abbi per lui un regno; sia egli per te eternamente una specie di bel nemico indomabile, devotamente riverito e non un’opportunità banale da essere tosto superata e messa in disparte. I colori dell’opale, la luce del diamante non si possono vedere se l’occhio è troppo vicino. Scrivo al mio amico una lettera e ne ricevo una da lui. Ciò vi sembra poco. Per me è sufficiente: è un dono spirituale degno di lui nel dare, degno di me nel ricevere. Ciò non sconsacra alcuno. In questa lettera il cuore si confiderà come non si confiderà alla lingua, e profetizzerà un’esistenza più divina di quella che tutti gli annali dell’eroismo hanno fin’ora rivelata.

Rispettate le sante leggi di quest’amicizia col non portar danno, con la vostra impazienza, al suo fiore perfetto prima che sbocci. Dobbiamo appartenere a noi stessi, prima di appartenere a qualcun altro. Nel delitto vi è, secondo il proverbio latino, questa soddisfazione: voi potete parlare al vostro complice in termini d’uguaglianza: Crimen, quos inquinat, aequat. Noi non possiamo subito affermare ciò rispetto a coloro che ammiriamo ed amiamo. Inoltre il più piccolo difetto nel possesso di se stesso vizia a mio giudizio l’intiera relazione. Non vi potrà mai essere una profonda pace fra due spiriti, mai un mutuo rispetto, finchè nel loro dialogo, ognuno rappresenti il mondo intiero.

Portiamo con la maggiore maestà di spirito possibile ciò che è così grande come l’amicizia. Stiamo in [151] silenzio — affinchè possiamo udire il bisbiglio degli dei. Non interveniamo. Chi vi ha ordinato di pronunciare ciò che voi vorreste dire alle anime elette? o chi vi ha ordinato di dire cosa alcuna ad esse? Non importa che le nostre parole siano ingegnose o graziose o blande. Vi sono innumerevoli gradi di follìa e di sapienza, e il dire cosa alcuna è per voi insignificante. Attendi, ed il tuo cuore parlerà. Attendete finchè il necessario e l’eterno vi dominino, finchè il giorno e la notte si servano delle vostre labbra. L’unica moneta di Dio è Dio; Egli giammai paga con qualche cosa di meno o con qualche cosa di più. L’unica ricompensa della virtù è la virtù; l’unico modo di avere un amico è di essere uno. Vano è lo sperare di approssimarsi ad un uomo col frequentare la sua casa. Se egli è dissimile, l’anima sua fuggirà da voi con maggiore velocità, e voi non incontrerete mai più uno sguardo del suo occhio. Noi vediamo l’anima nobile da lontano: essa già ci respinge: perchè dovremmo noi importunarla? Tardi, molto tardi, noi ci avvediamo che nessuna disposizione, nessuna nuova relazione, nessuna consuetudine o costume di società, sarebbe vantaggioso per porre noi in relazione con coloro che noi desideriamo — ma che in tal caso solamente l’elevazione della nostra natura allo stesso livello della loro, è necessario; allora ci incontreremo come acqua incontra acqua; e se non li incontreremo, non ne avremo bisogno, perchè noi siamo già essi.

In ultima analisi l’amore è solo il riflesso della dignità di un uomo sopra altri uomini. Gli uomini hanno talvolta scambiato i propri nomi con quelli dei loro amici come per significare che, nel loro amico, ognuno di loro amava la propria anima.

Quanto più elevata è la natura richiesta dall’amicizia, tanto meno facile è materiarla in carne ed ossa. Noi camminiamo soli nel mondo. Gli amici, tali come li [152] desideriamo, sono sogni e favole. Ma una sublime speranza rallegra eternamente il cuore fidente che altrove, in altre regioni del potere universale, altre anime stanno in questo momento operando, soffrendo ed osando, anime che possono amarci e che possiamo amare. Noi possiamo congratularci che il periodo della minorità, della follìa, degli errori e della vergogna, sia passato nella solitudine, e che quando siamo uomini compiuti, noi possiamo stringere con mano d’eroe le mani di altri eroi. Da ciò che voi avete già veduto, siate ammoniti di non stringere amicizia con le persone volgari, con le quali nessuna amicizia vi può essere.

La nostra impazienza ci spinge ad unioni stupide ed inconsiderate, che nessun Dio protegge. Invece persistendo nella vostra via, anche se perdete il poco, guadagnerete il molto. Voi a questo modo vi palesate in maniera da mettervi al sicuro da false relazioni, e vi attirate gli eletti del mondo — quei rari pellegrini, dei quali solo uno o due vagano nella natura contemporaneamente, e davanti a cui tutto quanto è volgare si mostra semplicemente come spettro ed ombra.

Stolto è il timore di rendere i nostri legami troppo spirituali, come se in tal modo potessimo perdere qualsiasi amore genuino. Qualunque sia la correzione che noi facciamo alle nostre opinioni popolari per mezzo di una più intima conoscenza, noi dobbiamo esser sicuri che la natura ci soccorre, che ci ripagherà largamente di qualche gioia sottratta. Sentiamo l’assoluto isolamento dell’uomo! Noi siamo sicuri di avere tutto in noi. Andiamo in Europa, seguiamo delle persone, leggiamo dei libri, ma con la fede istintiva che questi rivelano noi a noi stessi. Accattoni tutti! Gli uomini sono come noi siamo; l’Europa è un vecchio scolorito vestito di persone morte ed i libri sono i loro spettri. Lasciamo perire questa idolatria. Rinunciamo a questo [153] accattonaggio. Diciamo addio perfino ai nostri più cari amici, e apostrofiamoli dicendo: «Chi siete voi? Lasciatemi. Non voglio più essere dipendente. Ah! non vedi, fratello, che noi così ci dividiamo solamente per ritrovarci in un punto più alto, e solamente per essere più uno dell’altro, perchè noi apparterremo più a noi stessi?» Un amico ha il viso di Giano Bifronte; egli guarda il passato ed il futuro. Egli è il figlio di tutte le mie ore passate, il profeta di quelle future ed il precursore di un amico più grande; poichè è proprietà del divino, l’essere riproduttivo.

Io agisco allora coi miei amici come coi miei libri. Li avrò dove posso trovarli, ma li userò raramente. Noi dobbiamo avere la società, regolata dalle condizioni dettate dai noi stessi, ed ammetterla od escluderla per la più leggera causa. Io non posso permettermi di parlare molto con il mio amico. Se egli è grande, egli mi fa così grande che non posso discendere per conversare. Nei grandi giorni i presentimenti svolazzano davanti a me nel firmamento. Io dovrei allora dedicarmi ad essi. Io entro ed esco per poterli afferrare; e solo temo di perderli se indietreggiano nel cielo, nel quale sono ora soltanto un punto di luce più brillante. Allora, sebbene stimi i miei amici, non posso conversare con loro e studiare le loro visioni, onde non perdere le mie. Certamente il tralasciare queste alte osservazioni, questa astronomia spirituale o questa ricerca di stelle, e lo scendere verso simpatie cordiali con voi mi concederebbe una certa gioia familiare; ma allora io, ben lo so, compiangerei per sempre lo svanire delle mie possenti divinità. È pur vero che la settimana prossima avrò tristi momenti, nei quali io potrò occuparmi di obbietti estranei; allora rimpiangerò la perduta letteratura della vostra mente, e desidererò di ritrovarvi ancora al mio fianco. Ma se voi verrete, forse empirete soltanto ed ancora la [154] mia mente di nuove visioni; non di voi stessi, ma della vostra vanità; io non sarò più atto di quanto lo sia ora a conversare con voi e dovrò rendere ai miei amici questa fuggevole corrispondenza. Io riceverò da essi, non ciò che essi hanno, ma ciò che essi sono. Essi mi daranno ciò che in realtà essi non possono darmi, ma ciò che irradia da loro. Ma essi non mi legheranno con alcun altro rapporto meno sottile e puro. Noi ci incontreremo come se non ci incontrassimo, e ci lasceremo come se non ci lasciassimo.

Ultimamente mi sembrò più possibile di quanto io pensassi l’avere una grande amicizia da una parte, senza esserne corrisposto dall’altra. Perchè dovrei amareggiarmi con il triste fatto che chi riceve non è degno di ricevere? Il sole non è per nulla turbato se alcuni dei suoi raggi cadono vanamente in qualche luogo ingrato, e se solo una piccola parte cade sulla superficie riflettente del pianeta. Serva la vostra grandezza ad educare il compagno rude e freddo. Se egli non è pari a te, egli se n’andrà; ma tu sei ingrandito dalla tua propria luce, e non sarai più compagno per le rane ed i vermi, ma ti innalzerai e arderai con gli dei dell’empireo. Si crede che l’amore non corrisposto sia una sciagura. Ma i grandi vedranno che il vero amore non può essere corrisposto. L’amore vero trascende in breve l’oggetto indegno e si sofferma nell’eterno, e quando la povera maschera frapposta si sgretola, non si rattrista, ma si sente liberato da altrettanta polvere, e gioisce maggiormente della sua indipendenza. Pure queste cose possono appena dirsi senza una specie di tradimento per le relazioni dell’amicizia. L’essenza dell’amicizia è l’integrità, la magnanimità e la fiducia. Essa non deve aver sospetti o preveggenze di possibili infermità. Essa tratta il suo oggetto come un Dio, affinchè esso possa deificare entrambi.

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SETTIMO SAGGIO PRUDENZA

Quale diritto ho io di scrivere intorno alla Prudenza, che poca ne ho e quella poca di specie negativa? La mia prudenza consiste nell’evitare le cose e nel farne senza, ma non nell’inventare mezzi e metodi, non in un destro governo, non in un adeguato riparo a quelle. Io non so spender bene il denaro, non ho spirito di economia, e chiunque vede il mio giardino, pensa che io deva avere qualche altro giardino. Eppure amo i fatti, odio l’instabilità e la gente senza percezione: onde io ho lo stesso diritto di scrivere della prudenza, come di scrivere della poesia e della santità. Noi scriviamo per desiderio od avversione come per esperienza. Noi dipingiamo quelle qualità che non possediamo. Il poeta ammira l’uomo d’energia e l’uomo di guerra; il mercante educa il figlio per la chiesa od il tribunale: e quando l’uomo non è vano e pieno di sè voi comprenderete ciò che egli non ha dalle cose che egli loda. Inoltre sarebbe appena onesto da parte mia, il non bilanciare le belle parole liriche d’Amore ed Amicizia con parole di più ruvido suono, e non riconoscere di passaggio la mia reale e costante obligazione ai miei sensi.

La prudenza è la virtù dei sensi. Essa è la scienza delle apparenze. È l’azione più esterna della vita interna. È Dio che pensa per il bruto. Essa muove la materia secondo le leggi della materia. Essa è lieta di [156] ricercare la salute del corpo conformandosi alle condizioni fisiche, e la salute della mente conformandosi alle leggi dell’intelletto.

Il mondo dei sensi è un mondo di sembianze, esso non esiste per sè, ma ha un carattere simbolico; ed una prudenza vera o «legge delle apparenze» riconosce la simultanea presenza di altre leggi, sa che il suo proprio ufficio è subalterno e sa di agire su una superficie e non in un centro. La prudenza è falsa quando è separata; è legittima quando è la Storia Naturale dell’anima incarnata; quando essa spiega la bellezza delle leggi dentro la stretta cerchia dei sensi.

Vi sono nella conoscenza del mondo successivi stadî di progresso. È sufficiente al nostro scopo presente l’indicarne tre: una classe vive per l’utilità del simbolo, stimando la salute e la ricchezza un bene finale: un’altra classe vive, al disopra di questo grado, per la bellezza del simbolo, come il poeta, l’artista, il naturalista e lo scienziato: una terza classe vive, al disopra della bellezza del simbolo, per la bellezza della cosa significata: questi sono i saggi. La prima classe possiede il buon senso; la seconda, il gusto e la terza, la percezione spirituale. Una volta che dopo lungo tempo un uomo ha sorpassati tutti i gradi, e vede e gioisce fortemente del simbolo, allora ha una chiara visione della sua bellezza, ed infine mentre egli innalza la sua tenda su questa isola vulcanica e sacra della natura, non si propone di costrurre case e granai, ma solo di adorare lo splendore di Dio, che egli vede sfolgorare attraverso ogni spiraglio ed ogni crepaccio.

Il mondo è ripieno di proverbi e di azioni derivate da una vile prudenza che è devozione alla materia, come se noi non possedessimo altre facoltà all’infuori del gusto, dell’odorato, del tatto, della vista e dell’udito; una prudenza che adora la regola del tre, che mai [157] sottoscrive, che mai dà, che impresta raramente, e che per qualsiasi progetto fa una domanda sola: «Produrrà del pane?» Questa è una malattia simile allo ispessirsi della pelle, finchè gli organi vitali sono distrutti. Ma la sapienza, che rivela l’eccelsa origine del mondo visibile, e che aspira come méta alla perfezione dell’uomo, riconduce ogni altra cosa, come la salute e la vita corporea, allo stato di semplici mezzi. Essa vede nella prudenza non una facoltà a sè, ma un nome per la saggezza e per la virtù poste in relazione con il corpo ed i suoi bisogni. L’uomo côlto sente e pensa che una grande fortuna, il compimento di provvedimenti civili o sociali, un grande dominio personale, un’abilità piacevole od importante, hanno il loro valore come prove dell’energia dello spirito. Se un uomo perde il suo equilibrio e s’immerge in qualsiasi commercio o in qualsiasi piacere senza altro scopo che il piacere od il commercio, può divenire una buona ruota od un buon spillo, ma non un uomo côlto.

La prudenza spuria, che pone come méta i sensi, è il dio degli imbecilli e dei codardi, e tema d’ogni commedia. Essa è oggetto di scherno della natura e pur anco della letteratura. La prudenza vera limita questo sensualismo ammettendo la conoscenza d’un mondo interno e reale. Una volta acquistata questa conoscenza — l’ordine del mondo e la distribuzione degli affari e del tempo essendo studiati con la simultanea percezione del loro posto rispettivo, — essa compenserà ogni grado della vostra attenzione. Perchè la nostra esistenza, così apparentemente legata in natura al sole ed alla luna ed ai periodi che essi segnano; così suscettibile al clima e al paese; così vigilante del bene e del male sociale; così amante dello splendore, e così sensibile alla fame ed al freddo, impara le sue prime lezioni fuori di questi libri.

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La prudenza non va dietro alla natura e non domanda donde venga. Essa prende le leggi del mondo dalle quali è condizionato l’essere dell’uomo, così come esse sono e le mantiene per poter godere del loro beneficio. Essa rispetta lo spazio ed il tempo, il clima, il bisogno, il sonno, la legge di polarità, l’accrescimento e la morte. Rispetta i primi, perchè in essi il sole e la luna, i grandi formalisti del cielo, con le loro rivoluzioni segnano i limiti e i periodi dell’uomo; rispetta gli ultimi perchè in questi giace la materia bruta, che non si scosterà dalla sua funzione chimica. Ecco un globo, cinto e attraversato da leggi naturali, difeso e diviso esternamente da partizioni civili e da civili proprietà, che impongono nuove restrizioni al giovine abitante.

Noi mangiamo il pane che cresce nel campo. Noi viviamo dell’aria che s’agita intorno a noi, eppure noi siamo avvelenati dall’aria, quand’è troppo fredda o troppo calda, troppo secca o troppo umida. Il tempo che si mostra così indivisibile e divino nel suo venire, è diviso da noi e speso in inezie e brano a brano: ad es.: una porta dev’essere verniciata; una serratura dev’essere riparata; ho bisogno di legna, olio, farina o sale; vi è fumo nella casa; io ho mal di capo; poi viene l’imposta; poi un affare combinato con un uomo senza cuore o senza cervello; poi il pungente ricordo di una parola ingiuriosa o maldestra — ... a questo modo si consumano le ore. Facciamo ciò che vogliamo, l’estate avrà le sue mosche: se camminiamo nei boschi, dobbiamo ingoiare dei moscerini; se andiamo a pescare, dobbiamo attenderci di inumidire il vestito. Così il clima è un grande impedimento per le persone pigre. Spesso risolviamo di non occuparci più del tempo, pure osserviamo ancora le nuvole e la pioggia.

Queste piccole esperienze ci rivelano che cosa è che consuma le ore e gli anni. Il suolo inospitale ed i quattro [159] mesi di neve fanno l’abitante della Zona temperata del Nord più saggio e più abile del suo fratello, che gode il sorriso costante dei tropici. L’isolano può vagare tutto il giorno a piacimento; di notte egli può dormire sopra una stuoia al chiaror della luna, e ovunque una pianta di datteri cresce, la natura gli ha preparato, senza che egli nemmeno lo richiedesse, una tavola pronta per la sua colazione. L’abitante del Nord è forzatamente amante della sua casa. Egli deve farsi la sua birra, salare, cuocere e conservare il suo alimento ed ammucchiare la legna ed il carbone. Ma siccome nessun sforzo può esser fatto senza ottenere qualche nuova familiarità con la natura; e siccome la natura è inesauribilmente espressiva, gli abitanti di questi climi hanno sempre sorpassato in forza gli abitanti del Sud. Il valore di queste cose è tale che un uomo pur conoscendo altre cose, non saprà mai troppo intorno a queste. Abbia egli adunque percezioni esatte. Se egli ha delle mani, le usi; se ha degli occhi misuri e scruti; accolga e metta in serbo ogni fatto di chimica, di storia naturale e di economia politica. Il tempo fornisce sempre occasioni, che discoprono il valore di queste cose. Una qualche saggezza scaturisce da ogni azione semplice e naturale. Il servo, che nessuna musica ama quanto quella dell’orologio della cucina o quanto le arie che i pezzi di legno cantano ardendo nel focolare, ha dei godimenti che nessun’altra persona mai sognerebbe. L’applicazione del mezzo al fine assicura la vittoria non meno in una fattoria od in una officina che nella tattica di un partito o di una guerra. Il buon contadino trova il metodo, utile nell’accatastare legna sotto una tettoia o nella disposizione della frutta nella cantina, come nelle campagne Peninsulari o nelle file del Dipartimento di Stato. Nei giorni piovosi egli costruisce una panca ed adopra la sua cassetta di utensili ch’è nell’angolo del granaio, [160] cassetta provvista di chiodi, pinze, seghe, cacciavite e scalpelli: con ciò egli gusta una vecchia gioia della gioventù e della fanciullezza, gusta l’amore pari a quello del gatto per i granai, per le guardarobe, per i solai e per le comodità determinate da una lunga dimora: ed ancora il suo giardino ed il suo pollaio gli raccontano molti aneddoti piacevoli. Si potrebbe trovare argomento d’ottimismo nell’abbondante sorgente di questo dolce elemento di piacere, in ogni sobborgo ed in ogni estremità del buon mondo. Mantenga un uomo la sua legge, — qualunque essa sia — e la sua via sarà florida di soddisfazioni. V’è più differenza nella qualità dei nostri piaceri che nella quantità.

D’altra parte la natura punisce qualsiasi noncuranza della prudenza. Se voi pensate che i sensi siano fine a se stessi, ubbidite alla loro legge. Se credete nell’anima non attaccatevi alla dolcezza sensuale, prima che sia maturata sul lento albero di causa od effetto. Trattare con uomini di percezione rilassata ed imperfetta è aceto agli occhi. Si narra che il dottor Johnson abbia detto: «Se un ragazzo dice d’aver guardato fuori da questa finestra, mentre invece egli ha guardato fuori da quella, frustatelo». Il nostro carattere americano è contraddistinto da un piacere più che mediocre per una giusta percezione, e ciò viene dimostrato dall’uso comunissimo della frase «Nessun errore!» Ma il disagio della inesattezza, della confusione di pensiero circa i fatti, della noncuranza per i bisogni del domani, non è cosa peculiare di una nazione. Le belle leggi del tempo e dello spazio, quando sono disorganizzate dalla nostra inettitudine diventano spelonche e tane. Se l’alveare è disturbato da mani audaci e stupide non produrrà miele, ma lancierà su noi le api. Le nostre azioni per essere belle devono essere opportune. Un suono gaio e piacevole è quello delle falci affilate dai falciatori nelle mattine di [161] giugno; eppure che cosa vi è di più triste di quello stesso suono in una stagione troppo avanzata per falciare il fieno?

Gli uomini di poco cervello sciupano molto più che non i loro propri affari sciupando le naturali disposizioni di coloro, che trattano con essi. Io ho letto qualche giudizio critico sull’arte del dipingere, di cui mi ricordo quando vedo uomini senza risorse ed infelici, che non sono leali con i loro sensi. L’ultimo granduca di Weimar, uomo di intelligenza superiore, disse: «Ho osservato qualche volta dinanzi a grandi opere d’arte e specialmente ora in Dresda, quanto una certa proprietà contribuisca a quell’effetto che dà vita alle figure e dà alla vita irresistibile senso di verità. Questa proprietà sta nel trovare, in tutte le figure disegnate, il centro esatto di gravità, vale a dire, nel mettere le figure salde sui loro piedi, con le mani strette intorno a qualche cosa e con gli occhi fissi al punto cui dovrebbero guardare. Anche le figure inanimate come i vasi ed i mobili (siano disegnati sempre correttamente) perdono tutto l’effetto così tosto come ad essi manchi l’appoggio sul loro centro di gravità, ed acquistano una certa apparenza che ha dell’oscillante. Il Raffaello della Galleria di Dresda, (l’unica grande, commovente pittura che io abbia visto) è il più quieto ed il più composto quadro che potete immaginare: una coppia di santi che adorano una Vergine con il Bambino. Ciò nonostante esso produce un’impressione più profonda, che le contorsioni di dieci martiri crocifissi. Perchè, oltre a tutta l’irresistibile bellezza della forma, esso possiede nel più alto grado la proprietà della perpendicolarità di tutte le figure». Questa perpendicolarità è quella che noi richiediamo da tutte le figure nel nostro quadro della vita. Stiano esse sui loro piedi e non ondeggino o non oscillino. Distinguano esse fra ciò che ricordano e ciò che [162] sognarono; dicano pala alla pala; ci diano dei fatti ed onorino con fede i loro sensi.

Ma quale uomo oserà tacciare un altro di imprudenza? Chi è prudente? Gli uomini che noi chiamiamo grandi sono in minor numero in questo regno. Vi è un certo spostamento fatale nella nostra relazione con la natura, che scompone il nostro modo di vivere, e fa di ogni legge il nostro nemico, e pare infine aver elevato lo spirito e le virtù del mondo alla meditazione della Riforma. Noi dobbiamo chiamare la più alta prudenza a consiglio, e domandare perchè la salute, la bellezza, il genio debbano ora essere l’eccezione anzichè la regola della natura umana. Noi non conosciamo le proprietà delle piante e degli animali e le leggi della natura mediante la nostra simpatia per essi; questo rimane il sogno dei poeti. La poesia e la prudenza dovrebbero compenetrarsi, così i poeti diverrebbero legislatori e la più audace ispirazione lirica non sarebbe rimprovero od ingiuria, ma promulgherebbe e guiderebbe il codice civile ed il lavoro giornaliero. Ma per ora le due cose sembrano irreconciliabilmente separate. Noi abbiamo violate leggi su leggi, fino a rimaner fra delle rovine, e siamo sorpresi quando per caso scopriamo una coincidenza fra la ragione ed i fenomeni. La bellezza dovrebbe essere il retaggio di ogni uomo e di ogni donna; ma ciò è raro. La salute e la sana costituzione dovrebbero essere universali. Il genio dovrebbe essere figlio del genio, ed ogni bimbo dovrebbe esserne ispirato; ma per ora quello non può essere predetto in alcun bambino, ed in nessun luogo esso è puro. Noi chiamiamo, per cortesia, genio certe parziali mezze luci; un certo talento, che si converte in denaro; un certo talento che brilla oggi affinchè possa pranzare e dormire bene domani; e così la società è amministrata da uomini di parte, come essi sono giustamente chiamati, [163] e non da uomini divini. Questi usano i loro poteri per raffinare il lusso, non per abolirlo. Il genio è sempre ascetico ed è pietà ed amore. L’appetito si mostra alle anime più belle come una malattia, ed esse trovano la bellezza nei riti e nei termini, che gli fanno resistenza.

Noi abbiamo trovato dei bei nomi per coprire la nostra sensualità, ma nessun potere può elevare l’intemperanza. L’uomo d’ingegno affetta di chiamare triviali le trasgressioni alle leggi dei sensi e di non tenerne conto in rapporto con la devozione all’arte sua. La sua arte però gli rinfaccia di avergli mai insegnata la lascivia, nè l’amore al vino, nè il desiderio di raccogliere dove non aveva seminato. La sua arte vien meno per ogni affievolimento della sua santità, e vien meno per ogni difetto di senso comune. Su lui, che dileggiò il mondo, il mondo dileggiato porta la sua vendetta. Colui che disprezza le cose piccole, morrà per piccole e futili cose. Il Tasso di Goethe è un bel ritratto storico, ed è una vera tragedia. Quello di un centinaio di persone innocenti oppresse ed uccise da quel tirannico Riccardo terzo, non mi sembra dolore tanto vero quanto quello di Antonio e Tasso, che apparentemente retti entrambi, si fanno reciprocamente dei torti; l’uno vivendo secondo le massime di questo mondo, fedele e leale con esse; l’altro infiammato di sentimenti divini, ricercante ancora i piaceri del senso, senza sottomettersi alla sua legge. Questo è un dolore che tutti sentiamo, un nodo che non possiamo sciogliere; ed il caso del Tasso non è infrequente nella biografia moderna. Un uomo di genio, di temperamento ardente, insofferente delle leggi fisiche, indulgente con se stesso, diviene tosto infelice, querulo, un «parente noioso», una spina per se stesso e per gli altri.

Lo studioso ci fa arrossire per la sua vita a due facce. Quando qualcosa di più alto della prudenza è attivo, [164] egli è ammirevole; quando il senso comune è necessario egli è un ingombro. Ieri Cesare non era così grande; oggi Giobbe non è così miserabile. Ieri era raggiante per la luce di un mondo ideale, nel quale egli viveva, primo degli uomini; ed ora, oppresso dal bisogno e dalla malattia, per i quali deve ringraziare se stesso, nessun uomo è povero tanto da fargli riverenza. Egli somiglia a quei consumatori d’oppio, che i viaggiatori ci descrivono quali frequentatori dei bazar di Costantinopoli, che girano tutto il giorno, gialli, emaciati, laceri; finchè giunta la sera, ed aperti i bazar vi s’introducono furtivamente, inghiottiscono la loro parte d’oppio e diventano sereni, gloriosi e grandi. E chi non ha assistito alla tragedia del genio imprudente, lottante per anni con terribili difficoltà pecuniarie, finchè cade in ultimo, abbattuto, esausto, senza alcun frutto, come un gigante ucciso a colpi di spillo?

Non è meglio che un uomo accetti le prime pene e le prime mortificazioni, che la natura non è lenta nell’inviargli, come preavviso che egli non deve attendere altro bene se non il giusto frutto del suo proprio lavoro e sacrificio? La salute, il pane, il clima, la posizione sociale, hanno la loro importanza, ed egli darà ad essi quanto è dovuto. Stimi egli la Natura come un perpetuo consigliere, e le perfezioni di essa una misura esatta dei nostri traviamenti. Faccia egli della notte notte, e del giorno giorno. Controlli le sue abitudini spendereccie. Osservi che tanta saggezza può usarsi nell’economia privata quanta in un impero, e quanta saggezza può trarsi da questa. Le leggi del mondo sono a lui espresse sopra ogni moneta che ha in mano. Nulla vi sarà per cui egli non si migliori sapendo, fosse anche la sapienza del Povero Riccardo; o la prudenza commerciale di comperare ad acri e vendere a piedi; o l’abilità dell’agricoltore di piantare un albero [165] di tempo in tempo, perchè esso crescerà mentre egli dorme; o la prudenza che consiste nell’economizzare gli utensili, le piccole porzioni di tempo ed i piccoli guadagni. L’occhio della prudenza non si chiuderà mai. Il ferro, se tenuto in casa del fabbro, s’arrugginirà; la birra, se non fatta nelle volute condizioni di atmosfera, diverrà acida; il legname dei bastimenti marcirà in mare, o, se tratto a riva, diverrà secco, si aprirà, si torcerà; il denaro se tenuto da noi, non produrrà rendita e sarà soggetto alla perdita; se investito potrà essere soggetto al deprezzamento di quella speciale qualità di merce. Battete, — dice il fabbro — il ferro è bianco; tenete il rastrello — dice il contadino che raccoglie il fieno — vicino alla falce, come il carro altrettanto vicino al rastrello. Il nostro commercio americano è giudicato essere all’estremo opposto di questa prudenza; esso si salva con la sua attività. Esso prende i biglietti di banca buoni, cattivi, puliti, stracciati; e si salva per la velocità con la quale li fa circolare. Il ferro non può arrugginirsi nè la birra divenire acida, nè il legname marcire, nè le stoffe cessare di essere di moda, nè i titoli ribassarsi, in quei pochi rapidi momenti, cui lo Jankee permette che essi rimangano in suo possesso. Pattinando sul ghiaccio sottile la nostra salvezza consiste nella velocità.

Apprenda l’uomo una prudenza più alta. Impari che ogni cosa in natura, anche gli atomi e le piume, vanno per legge e non per caso, e che ciò che egli semina, egli raccoglie. Con la diligenza e con il dominio di se stesso, metta a sua propria disposizione il pane che egli mangia e non a disposizione altrui, affinchè egli non giaccia in falsi ed amari rapporti con altri uomini, perchè il miglior bene della ricchezza è la libertà. Pratichi egli le virtù minori. Quanta parte della vita umana va perduta attendendo! Non faccia egli attendere i suoi [166] simili. Quante parole e promesse non sono che promesse di conversazione! Siano le sue, parole del fato. La busta chiusa e sigillata che egli vede navigare intorno al mondo su una nave, e giungere salva alla persona, per la quale essa fu scritta, fra una densa popolazione, gli sia di ammonimento per integrare il suo essere attraverso tutte le forze divergenti, per conservare una piccola parola umana fra le bufere, le lontananze e gli accidenti che ci trascinano di qua e di là; e con la persistenza faccia riapparire dopo mesi ed anni, nei più lontani climi, la debole forza di un solo uomo per compiere il suo voto.

Noi non dobbiamo tentare di scrivere le leggi di una qualche virtù, guardando solo a quella. La natura umana non ama le contraddizioni, ma è simmetrica. La prudenza, che assicura un benessere esteriore, non deve essere studiata da un gruppo di uomini, e l’eroismo e la santità da un altro, ma essi possono accumunarsi. La prudenza concerne il tempo presente, le persone, la proprietà e le forme esistenti. Ma siccome ogni fatto ha le sue radici nell’anima, e se l’anima mutasse, esso cesserebbe di esistere o diventerebbe qualche altra cosa, la giusta amministrazione delle cose esterne starà sempre in una giusta comprensione delle loro cause e della loro origine; onde l’uomo buono sarà l’uomo saggio, e quello sincero, l’uomo politico. Ogni violazione della verità non è solamente una specie di suicidio del bugiardo, ma è un colpo di pugnale alla salute della società umana. Il corso degli eventi applica in breve alla più vantaggiosa menzogna una tassa distruggitrice; la franchezza invece è la migliore tattica, poichè essa invita alla franchezza, pone le parti sopra un terreno conveniente e muta i loro affari in amicizie. Abbiate fiducia negli uomini ed essi saranno sinceri con voi: trattateli con liberalità, ed essi si dimostreranno [167] liberali, anche se debban fare in favor vostro un’eccezione a tutte le regole del commercio.

Così, in rapporto alle cose spiacevoli e temibili, la prudenza non sta nel sotterfugio o nella fuga, ma nel coraggio. Colui che desidera passare nei periodi più pacifici della vita con serenità, deve imprimere in se stesso questa risoluzione. Affronti egli l’oggetto delle sue peggiori apprensioni e la sua forza renderà il suo timore infondato. Il proverbio latino dice che «nelle battaglie il primo ad esser vinto è l’occhio», infatti l’occhio intimidito esagera erroneamente il pericolo del momento. Il completo dominio di se stesso renderà una battaglia non più pericolosa per la vita che un assalto di scherma od una partita di foot-ball. Molti esempi sono citati da soldati, di uomini che hanno visto puntare e sparare il cannone contro la propria persona, e che si sono posti fuori del passaggio della palla. Il terrore d’una tempesta è specialmente confinato nel salotto e nella cabina. Il pastore ed il marinaio lottano con essa tutto il giorno, e la loro salute si rinnova con una pulsazione vigorosa tanto sotto il nevischio e la pioggia, quanto sotto il sole di giugno.

Nel caso di incidenti spiacevoli fra vicini, il timore sale rapidamente al nostro cuore, e ne ingrandisce le conseguenze; ma il timore è un attivo consigliere. Ogni uomo è effettivamente debole, ed apparentemente forte. A se stesso egli appare debole, agli altri formidabile. Voi temete Grim; ma Grim pure teme voi. Voi ricercate il buon volere delle persone più abbiette, e siete angustiati per il loro mal volere. Ma il più brutale violatore della vostra pace e del vicinato, è, se voi esaminate le sue pretese, debole e timido come qualsiasi altro; e la pace della società è spesso mantenuta perchè, come dicono i bambini, uno ha paura e l’altro non osa. Da lontano gli uomini si gonfiano, sfidano, minacciano: portateli vicini e divengono deboli compagni.

[168]

Un proverbio dice che «la cortesia costa nulla», ma il calcolo potrebbe venire a valutare l’amore a seconda del suo profitto. L’amore è finto cieco; ma l’affabilità è necessaria alla percezione; l’amore non è una benda, ma un lavacro per gli occhi. Se incontrate un settario od un partigiano ostile non riconoscete mai i punti che vi dividono; ma incontratevi su quei punti d’accordo che rimangono, ad esempio che solamente il sole brilla e la pioggia cade per entrambi; allora la superficie del vostro accordo s’allargherà rapidamente, e prima che ve ne siate accorti, le montagne che segnavano i limiti e su cui l’occhio s’era soffermato si saranno trasformate in aria. In che bassa, povera, spregevole, ipocrita gente, una discussione religiosa trasformerà delle anime pure ed elette! Esse si agiteranno, si vanteranno, tergiverseranno, dissimuleranno, fingeranno di confessare qui con l’unico scopo di alzar la voce e vincere là, e non un solo pensiero avrà arricchita alcuna delle parti, non un sentimento di coraggio, di modestia o di speranza. Per questa stessa ragione voi non dovreste assumere un ingannevole contegno di fronte ai vostri contemporanei per indulgere alla vostra ostilità od amarezza. Sebbene le vostre vedute siano in completo antagonismo con le loro, uniformatevi ad un’identità di sentimento, affermate di dire precisamente ciò che tutti pensano e nel fluire dello spirito e dell’amore convertite il vostro paradosso in una solida colonna, senza l’infermità del dubbio. Così almeno acquisterete un’adeguata libertà. I moti naturali dell’anima sono di tanto migliori dei moti volontari, che voi non vi farete mai giustizia in una contesa; poichè il pensiero non vien reso con esattezza, non si dimostra adeguato e vero nella sua esteriorità, ma appare forzato, aspro, ed a metà convincente; volgete invece ad un accordo, ed esso subito vi sarà concesso, perchè [169] realmente sotto tutte le diversità esteriori tutti gli uomini sono di un solo cuore e di una sola mente.

La saggezza non ci permetterà mai di rimanere con uno o più uomini in rapporti non amichevoli. Noi rifiutiamo la simpatia e l’intimità di certe persone, come se attendessimo l’avvento di una migliore simpatia ed intimità. Ma quando debbono esse giungere e donde? Domani sarà come oggi. La vita si consuma mentre noi ci prepariamo a vivere. — I nostri amici e compagni di lavoro muoiono lontani da noi. È molto se noi possiamo dire di veder nuovi uomini e nuove donne avvicinantisi. Siamo troppo vecchi per curarci delle cose nuove, troppo vecchi per attendere la protezione di qualcuno più grande o più potente. — Godiamo della dolcezza di quelle affezioni e consuetudini che crescono vicino a noi. Queste vecchie scarpe ben si adattano ai nostri piedi. Senza dubbio noi possiamo facilmente ritrovare delle manchevolezze nella nostra società e possiamo facilmente sussurrare dei nomi più superbi e che in più alto grado accarezzano la fantasia. L’immaginazione di ogni uomo ha i suoi amici; e la vita sarebbe piacevole con tali compagni. Ma se non potete averli in buoni termini, non potete averli affatto. Se non la deità, ma la nostra ambizione foggia e contrae nuove relazioni, la virtù di esse sfugge, come le fragole pérdono il gusto quando si coltivano nei giardini.

Così, la verità, la sincerità, il coraggio, l’amore, l’umiltà, e tutte le virtù si schierano dalla parte della prudenza, che è l’arte d’assicurarsi un benessere presente. Io non so se si scoprirà che tutta la materia è fatta d’un solo elemento, come l’ossigeno o l’idrogeno; ma il mondo delle usanze e delle azioni è composto di una sola sostanza, ed incominciamo dove vogliamo, siamo ben sicuri, in breve tempo, di trovarci biascicando i nostri dieci comandamenti.

[171]

OTTAVO SAGGIO EROISMO

«Il Paradiso è sotto l’ombra

delle spade».

Maometto.

Negli antichi drammaturghi inglesi e specialmente nei drammi di Beaumont e Fletcher vi è un costante riconoscimento della distinzione personale, come se una nobile condotta nella società del loro tempo fosse così facilmente rimarcata, come la differenza di colore nella nostra popolazione americana. Quando un Rodrigo o un Pedro o un Valerio entra, anche se è straniero, il duca o il governatore esclama: «Questo è un gentiluomo» — e gli prodiga infinite cortesie; ma tutto il resto è scoria e rifiuto. In armonia a questa deferenza verso le doti personali vi è nei loro drammi una certa impressione eroica di carattere e di dialogo — così in «Bonduca», «Sofocle», «l’Amante pazzo», e il «Doppio matrimonio», chi parla è così ardente e leale, ed ha tale saldezza di carattere, che il dialogo, per il più piccolo incidente aggiunto alla trama, s’innalza naturalmente a poesia. Fra i molti esempi prendiamo il seguente. Il romano Marzio ha conquistato Atene, tutto, eccetto gli invincibili spiriti di Sofocle, Duca d’Atene, e Dorigene sua moglie. La bellezza di costei infiamma Marzio, che cerca di salvarne il marito; ma Sofocle non impetra per la sua vita, certo che una [172] parola lo salverebbe, e l’esecuzione di entrambi si approssima.

Valerio. Dà l’addio a tua moglie.

Sofocle. No, non voglio prendere congedo. Mia Dorigene, va; in alto, intorno alla corona d’Ariadne, il mio spirito aleggierà per te. Ti prego affrettati.

Dorigene. Rimani, Sofocle, — fascia con questa benda i miei occhi; la mia natura sensibile non sia così trasformata, nè perda la tenerezza del suo sesso gentile, con il farmi vedere il mio signore insanguinato. Così va bene; mai un oggetto contemplerò sotto il sole prima che il mio Sofocle: Addio; ora insegna ai romani come si muore.

Marzio. Sai tu che cosa è il morire?

Sofocle. Tu non lo sai, Marzio, e perciò non sai che cosa è vivere; morire è incominciare a vivere. È finire un lavoro vecchio, stantio e noioso ed incominciarne uno più nuovo e migliore. È abbandonare bugiardi e bricconi per il consesso degli dèi e del bene. Tu stesso dovrai al fine dipartirti da tutte le tue ghirlande, i tuoi piaceri, i tuoi trionfi, e provare allora ciò che sarà la tua fortezza.

Valerio. Ma non sei tu addolorato o crucciato di lasciare la tua vita così?

Sofocle. Perchè dovrei io addolorarmi o crucciarmi perchè sono mandato presso coloro, che maggiormente amai? Ora m’inginocchierò, ma col mio dorso a te rivolto; questo è l’ultimo omaggio che questo corpo può rendere agli dèi.

Marzio. Colpisci, colpisci, Valerio, od il cuore di Marzio salirà alle sue labbra; questo è un uomo e questa è una donna! Bacia il tuo signore, e vivete con tutta la libertà alla quale eravate avvezzi. O amore! Doppiamente tu mi hai afflitto con la virtù e con la bellezza. Perfido cuore, la mia mano tosto ti [173] torrà dal mio petto, prima che tu distrugga questo nodo di pietà.

Valerio. Che cosa preoccupa il mio fratello?

Sofocle. Marzio, o Marzio, ora hai trovato un modo di conquistarmi.

Dorigene. Oh stella di Roma! Quale gratitudine può pronunciare delle parole conformi ad un’azione come questa?

Marzio. Questo ammirevole duca, Valerio, col suo disdegno della fortuna e della morte, cattivò se stesso ed ha cattivato me, e sebbene il mio braccio ha portato il suo corpo qui, la sua anima ha soggiogato l’anima di Marzio. Per Romolo, egli è tutto anima, io penso; Egli non ha carne, e lo spirito non può essere incatenato: onde nulla abbiamo conquistato; egli è libero, e Marzio è ora quello che è caduto in prigionia».

Io non ricordo facilmente alcun altro poema, dramma, sermone, novella od orazione, di cui si glorii la stampa negli ultimi anni, che salga a tanta altezza. Abbiamo molti flauti e ottavini, ma rare volte il clangore di una tromba. Eppure la Laodomia di Wordsworth, e l’ode di «Dione» e qualche sonetto hanno una certa nobile musica; e Scott talvolta disegna con buoni tratti, come il ritratto di Lord Evandale fatto da Balfour di Burley. Tommaso Carlyle, con il suo gusto naturale per ciò che è virile ed ardito in un carattere, non ha lasciato sfuggire alcun tratto eroico nelle pitture biografiche e storiche dei suoi favoriti. Prima di ciò, Roberto Burns ci ha dato un canto o due. Nelle «Miscellanee Harleiane» vi è la descrizione della battaglia di Lutzen che merita d’essere letta. E la Storia dei Saraceni di Simone Okley narra i prodigi del valore individuale con ammirazione, cosa tanto più significativa in rapporto al narratore, poichè egli sembra pensare che il suo [174] posto nella cristiana Oxford richiegga da lui qualche giusta protesta d’odio. Ma se studiamo la letteratura dell’eroismo, giungeremo presto a Plutarco, che è il suo dottore ed istoriografo. A lui dobbiamo il Brasida, il Dione, l’Epaminonda, il Scipione, ed io penso che noi siamo più profondamente in debito di riconoscenza con lui che con tutti gli antichi scrittori. Ciascuna delle sue «Vite» è una confutazione della decadenza dell’animo, e della codardia dei nostri teorici religiosi e politici. Un selvaggio coraggio, uno stoicismo non di scuola ma di sangue, arde in ogni aneddoto, ed ha dato a quel libro la sua immensa rinomanza.

Noi abbisogniamo di libri fatti di questa virtù acerba e ristoratrice, più che di libri di scienza politica o di economia privata. La vita è una festa solo per il saggio. Vista dall’angolo del focolare della prudenza, essa ha una ruvida e pericolosa apparenza. Le violazioni delle leggi di natura da parte dei nostri predecessori e dei nostri contemporanei sono anche punite in noi. La malattia e la deformità intorno a noi fanno testimonianza dell’infrazione di leggi naturali, intellettuali e morali, e spesso testimonianza di violazione su violazione per produrre tale complessa miseria. L’infezione tetanica che ritorce l’uomo fino ai tacchi; l’idrofobia che lo fa latrare verso sua moglie ed i suoi bambini; la pazzia, che gli fa mangiare l’erba; la guerra, la peste, il colera, la carestia, indicano una certa ferocia della natura, che apparsa mediante il delitto umano, deve scomparire per mezzo dell’umana sofferenza. Disgraziatamente non esiste alcun uomo che non sia con la sua propria persona fino ad un certo punto partecipe del peccato e non si sia reso in tal modo soggetto ad una parte di espiazione.

La nostra coltura, pertanto, non deve tralasciare di armare l’uomo. Intenda egli a tempo debito d’esser nato in istato di guerra, e che il bene comune ed il suo [175] proprio benessere richiedono che egli non vada danzando fra i campi della pace; ma cauto, fiducioso, sfidando nè temendo il tuono, prenda la vita e la riputazione nelle sue mani, e con perfetta urbanità sfidi la forca e la folla con l’assoluta sincerità del suo discorso e con la rettitudine della sua condotta.

L’uomo assume nel suo interno, verso tutti questi mali esterni, un’attitudine guerresca ed afferma la sua abilità di contendere da solo con l’infinita armata dei nemici. A questa attitudine soldatesca dell’anima noi diamo il nome di Eroismo. La sua forma più rude è quello sprezzo per la sicurezza e le comodità, che fa l’attrattiva della guerra. L’Eroismo è una fiducia in se stesso, che nella pienezza della sua energia e del suo potere di riparare i danni che possono seguire, sprezza i consigli della prudenza. L’eroe ha una mente di tale equilibrio, che nessun impedimento può scuotere il suo volere; ma piacevolmente, e per così dire, allegramente, egli avanza al suono della sua propria musica, uguale negli allarmi spaventevoli e nell’allegria folle della dissolutezza universale. Vi è nell’eroismo qualcosa di insano; vi è qualche cosa di non santo; par ch’esso ignori esservi altre anime fatte dello stesso suo tessuto; è superbo; è infine l’estremo della natura individuale. Ciò nonostante noi dobbiamo profondamente riverirlo. V’è qualche cosa nelle grandi azioni, che non ci consente di seguirle. L’eroismo sente e non ragiona mai, perciò è sempre dal lato del giusto; e sebbene un’educazione differente, una diversa religione, ed una maggiore attività intellettuale avrebbero modificato o perfino capovolta quella data azione, pure rispetto all’eroe, ciò che egli fa è il fatto più alto, immune dalla censura dei filosofi o dei teologi. È la confessione di un uomo incolto che trova in sè una qualità sprezzante del danno, della salute, della vita, del pericolo, dell’odio, del rimprovero, e [176] conscio che il suo volere è più alto e più eccellente di tutti gli avversari presenti e possibili.

L’eroismo opera in contraddizione alla voce dell’umanità, e per un dato tempo, in contraddizione alla voce del grande e del buono. L’eroismo è l’obbedienza ad un impulso segreto del carattere di un individuo. A nessun altro uomo la saggezza del suo eroismo può apparire come a lui stesso, perchè deve supporsi che ogni uomo veda sulla propria via un poco più lontano di quanto non veda un altro qualsiasi. Per questo gli uomini giusti e saggi si adombrano al suo atto, fino a che un po’ di tempo è trascorso; dopo di che lo vedono all’unisono coi loro atti stessi. Tutti gli uomini prudenti osservano che l’azione è cosa affatto contraria ad una prosperità materiale; perchè ogni atto eroico misura se stesso con il suo disprezzo per qualche bene esterno. Ma esso trova alfine il suo coronamento, ed allora anche i prudenti lo acclamano.

La fiducia in se stesso è l’essenza dell’Eroismo. Esso è lo stato dell’anima in guerra, ed i suoi più reconditi obbietti sono l’estrema disfida del falso e dell’ingiusto ed il potere di sopportare tutto ciò che può essere inflitto da perversi agenti.

L’eroismo dice il vero, ed è giusto, generoso, ospitale, temperato, sprezzante dei piccoli calcoli, e sprezzante di essere sprezzato. Esso persiste; ha un’audacia indomita, e tale fortitudine da non esaurirsi mai. Esso si beffa delle piccolezze della vita comune. Quella falsa prudenza che si basa sulla salute e sulla ricchezza, è il centro, il bersaglio dell’eroismo. L’eroismo, come Plotino, è quasi vergognoso del suo corpo. Che dirà allora dei confetti, della toeletta, dei complimenti, delle discordie, dei giuochi e delle creme per cui si stilla il cervello tutta la società? Quali gioie ha serbate la gentile natura per noi, sue creature amate! Non pare [177] esservi alcun intervallo fra la grandezza e la nullità. Quando lo spirito non è signore del mondo, ne è il suo zimbello. Eppure il piccolo uomo prende la piccola burla così innocentemente, opera in essa con tanta costanza e fede; nacque rosso e muore grigio, aggiustando così la sua toeletta, attendendo così alla propria salute, tendendo trappole per dolci alimenti e vini forti, lasciando così il suo cuore in un cavallo o in un fucile, felice di una piccola chiacchiera o di una piccola lode, che l’anima grande non può fare altro che ridere per tali serie stupidità. «In vero queste umili considerazioni mi riempiono d’amore per la grandezza. Quale disgrazia è per me il notare quanti paia di calze tu hai, e quante erano color di pesca; o di far l’inventario delle tue camicie, le une superflue e le altre usate!»

I cittadini che pensano secondo le leggi dell’aritmetica considerano gli inconvenienti del ricevere degli stranieri al loro focolare, calcolano appuntino la perdita del tempo ed il dispendio insolito: l’anima di grado più elevato rigetta questa intempestiva economia nei sotterranei della vita, e dice: «Io ubbidirò il Dio, ed il sacrifizio ed il fuoco egli provvederà». Ibn Haukal il geografo arabo ci dà l’estremo eroico dell’ospitalità in quella di Sogd nella Bokhara. «Quando ero in Sogd vidi un grande edifizio pari ad un palazzo, le cui porte erano aperte ed inchiodate al muro con dei grandi chiodi. Ne domandai la ragione e mi dissero che la casa non era stata chiusa, di notte o di giorno, da cent’anni. Gli stranieri possono presentarsi in qualsiasi ora, ed in qualsiasi numero; il padrone ha largamente provveduto per il ricevimento degli uomini e dei loro animali, e non è mai così felice come quando essi si fermano per qualche tempo. Nulla di simile ho visto in nessun altro paese». Gli uomini generosi sanno molto bene che coloro, i quali dànno tempo, denaro, ricovero allo straniero — se ciò [178] è fatto per amore, non per ostentazione — mettono, per così dire, Dio in obbligo verso di loro, tanto perfetti sono i compensi dell’universo. In qualche modo il tempo, che pare loro di perdere, è ricuperato, e i disturbi, che pare loro di sopportare si ripagano da sè. Questi uomini soffiano nella fiamma dell’amore umano, ed innalzano il vessillo della virtù civile sull’umanità. Ma l’ospitalità deve essere data per rendere un servizio, e non per mostra, altrimenti essa avvilisce l’ospite. L’anima eroica si sente troppo in alto per credere che lo splendore della sua tavola o dei suoi panneggiamenti la innalzino. Essa dà ciò che ha, e tutto ciò che ha; ma la sua propria maestà può dare ad un pane d’avena ed all’acqua fresca una grazia migliore di quella che possono avere i banchetti della città.

La temperanza dell’eroe proviene dal suo stesso desiderio di non causare disonore alla sua dignità. Ma egli la ama per la sua eleganza, non per la sua austerità. Gli pare che non valga la pena di essere solenne per denunziare con amarezza l’uso di mangiar carne o di bere vino, l’uso del tabacco o dell’oppio o del thè o della seta o dell’oro. Un grande uomo appena sa come egli pranzi, come egli vesta, ma senza esagerazioni o rigori il suo modo di vivere è naturale e poetico. Giovanni Eliot, l’Apostolo Indiano, beveva acqua e diceva del vino: «È un liquore nobile e generoso, e dovremmo essere umilmente riconoscenti per esso, ma, per quanto io ricordi, l’acqua fu fatta prima del vino». Migliore ancora è la temperanza del Re Davide, che versò sul terreno, in olocausto al Signore, l’acqua che tre dei suoi guerrieri gli avevano portato per bere, a rischio della loro vita.

Si dice che Bruto, quando cadde sulla sua spada dopo la battaglia di Filippi, abbia citato una frase d’Euripide «Oh virtù, ti ho seguito durante tutta la vita, e [179] ti trovo alfine solo un’ombra». Io non metto in dubbio che l’eroe sia calunniato da questa voce. L’anima eroica non abbandona il suo senso del giusto e la sua nobiltà. Non chiede di pranzar bene e di dormire al caldo. L’essenza della grandezza sta nel percepire che la virtù è sufficiente. La povertà è il suo ornamento. Essa non abbisogna dell’abbondanza e ne può sopportare molto bene la perdita.

Ma ciò che colpisce maggiormente la mia immaginazione nella classe degli eroi è la giocondità e l’ilarità che essi dimostrano. Quella del sopportare e del tentare con solennità è un’altezza, cui il dovere comune può giungere agevolmente, ma queste anime rare tengono l’opinione, il successo e la vita a così vil prezzo, che esse mai cercheranno di calmare i loro nemici con petizioni o parvenze di dolore, ma si sosterranno sempre con la loro abituale grandezza. Scipione, accusato di peculato, rifiuta di infliggere a se stesso l’onta di attendere per giustificarsi, sebbene avesse il rotolo dei suoi conti in mano, e lo straccia davanti ai tribuni. La condanna che Socrate fa di se stesso per essere stato tenuto in onore nel Pritaneo durante la sua vita, e la giocondità di Tommaso Moro sul patibolo, appartengono alla stessa serie di fatti. Nel «Viaggio per mare» di Beaumont e Fletcher, Giulietta dice al capitano ed ai suoi uomini:

Giul. Oh! schiavi, è in nostro potere l’impiccarvi.

Capit. Molto probabilmente; ed è in nostro potere l’essere impiccati, e sprezzarvi.

Queste risposte sono sonore e complete. Lo scherzo è la fioritura e la luce di una salute perfetta. Il grande non acconsentirà mai a prendere sul serio alcuna cosa; tutto deve essere gaio come il canto di un canarino, foss’anche la costruzione di una città o la distruzione di vecchie chiese e nazioni, che hanno ingombrato la [180] terra per migliaia di anni. I cuori semplici mettono tutta la storia e i costumi di questo mondo alle loro spalle, e giuocano il loro giuoco con innocente sfida delle leggi del mondo; e se noi potessimo vedere la razza umana in visione, essa apparirebbe come dei piccoli bambini folleggianti tra loro; sebbene agli occhi della razza umana, essi portino una maestosa e solenne maschera di lavoro e d’autorità.

L’interesse che queste belle storie hanno per noi; il potere di un romanzo sopra un ragazzo, che afferra il libro proibito sotto il suo banco a scuola; la nostra simpatia per l’eroe, sono il fatto principale per il nostro proposito. Tutte queste grandi e trascendenti proprietà sono nostre. Se noi indugiamo nel contemplare l’energia greca, l’orgoglio romano, si è perchè noi stiamo già familiarizzandoci con questo stesso sentimento. Troviamo posto per questo grande ospite nelle nostre piccole case. Il primo passo verso l’eccellenza sarà quello di liberarci dalle nostre superstiziose associazioni di luogo e tempo, di numero e dimensione. Perchè le parole «Ateniese», «Romano», «Asia» ed «Inghilterra» devono risuonare così all’orecchio? Sentiamo alfine che dove vi è il cuore vi sono le muse e soggiornano gli dèi, e non in alcuna rinomata parte geografica. Voi pensate che Massachusetts, fiume Connecticut e baia di Boston, siano luoghi spregevoli perchè l’orecchio ama i nomi topografici stranieri e classici. Ma noi siamo in questi luoghi; soffermiamoci un poco, e potremo imparare che qui è il meglio. Tieni mente a ciò: tu sei in questo luogo, ed arte e natura, speranza e fato, amici, angeli e l’Essere Supremo non sono lungi dalla camera ove tu siedi. Epaminonda, non ci pare che abbisogni dell’Olimpo per andarvi a morire, nè della luce del sole di Siria. Egli giace molto bene dove egli si trova. Le Jerseys erano terre belle abbastanza [181] per essere calpestate da Washington, e le strade di Londra, belle abbastanza per i piedi di Milton. Un grande uomo illustra la sua terra, e la rende cara all’immaginazione degli uomini, e la sua aria diviene l’elemento amato di tutti gli spiriti delicati. Il paese più bello è quello abitato dalle più nobili menti. Le pitture di cui si arricchisce l’immaginazione, leggendo le azioni di Pericle, Senofonte, Colombo, Bayardo, Sidney, Hampden, ci dimostrano quanto, senza necessità, è bassa la nostra esistenza; ci dimostrano che noi, con la profondità della nostra vita, dovremmo adornarla con splendori più che regali o nazionali, ed agire con principii che dovrebbero interessare l’uomo e la natura per tutta la durata dei nostri giorni.

Noi abbiamo visto od udito parlare di molti giovani straordinari, che non maturarono mai od i cui fatti nella vita reale non furono straordinari. Quando noi contempliamo i loro atteggiamenti o li sentiamo parlare di società, di libri, di religione, ammiriamo la loro superiorità, ed essi sembrano gettare il disprezzo sul nostro intiero stato politico e sociale; il loro è il tono di un giovane gigante, inviato a compiere rivoluzioni. Ma essi entrano in una professione attiva ed il Colosso in formazione si rimpicciolisce fino alle dimensioni comuni di un uomo. La magia che essi usavano consisteva nelle tendenze ideali, che fanno sempre ridicolo il presente; ma il mondo brutale fece le sue vendette dacchè essi misero i loro cavalli del sole ad arare i suoi solchi. Essi non trovarono esempi nè compagni; ed il loro cuore venne meno. E allora? L’insegnamento che essi diedero nelle loro prime aspirazioni è ancora vero; ed un miglior valore ed una più pura verità eseguiranno in un solo giorno la loro volontà e faranno vergognare il mondo. E perchè deve una donna paragonarsi ad una qualsiasi donna storica, e pensare che non avendo Saffo o Madame [182] de Sévigné o Madame De Stäel, o le anime claustrali che hanno avuto genio e cultura soddisfatto l’immaginazione e la serena Temi, nessuna lo può — e certamente non essa? Perchè no? Essa ha da sciogliere un problema nuovo e mai tentato, e forse quello della più felice natura, che sia mai fiorita. La giovinetta, con anima fiera, cammini serenamente per la sua via, accetti l’ammonimento d’ogni nuova esperienza, volta a volta sperimenti tutti i doni che Dio le offre, affinchè possa apprendere il potere e la bellezza del suo essere nuovamente risorto, simile all’accendersi di una nuova aurora nelle profondità dello spazio. La bella fanciulla, che rigetta ogni intervento mediante una decisa ed orgogliosa scelta di poteri, noncurante di piacere, volenterosa ed altera, ispira ad ogni osservatore qualcosa della sua stessa nobiltà. Il cuore silenzioso la incoraggia: «Oh amica, non ammainare le vele per timore. Entra nel porto maestosamente, o fa vela con Dio sui mari. Non invano tu vivi, poichè ogni occhio è rallegrato e purificato dalla tua visione.»

La caratteristica del vero eroismo è la sua persistenza. Tutti gli uomini hanno degli impulsi passeggieri e dei momenti di generosità. Ma quando avete risolto d’essere grande, rimanete con voi stesso e non tentate debolmente di riconciliarvi col mondo. L’eroico non può essere il comune, nè il comune l’eroico. Eppure noi abbiamo la debolezza di attendere la simpatia della gente per quelle azioni la cui eccellenza sta in ciò, che esse sono al di là della simpatia e s’appellano ad una postuma giustizia. Se volete servire il vostro fratello, perchè conviene servirlo, non ritirate la vostra parola quando vedete che la gente prudente non vi loda. Aderite alle vostre proprie azioni, e congratulatevi con voi stessi se avete fatto qualche cosa di inusitato e di stravagante, che rompa la monotonia d’una età convenevole. [183] Il seguente è un illuminato consiglio, che udii dare una volta ad un giovane. «Fa sempre ciò che temi di fare». Un carattere semplice, virile, non abbisogna mai di recriminazioni, ma dovrebbe guardare le sue azioni passate con la calma di Focione, quando pur ammettendo che l’esito della battaglia era felice, egli non deplorava d’esser avverso all’attaccar battaglia.

Non vi è debolezza o situazione per la quale non possiamo trovare conforto nel pensiero — questo è una parte della mia costituzione, una parte dei miei rapporti e del mio ufficio verso i miei simili. Ha la natura fatta alleanza meco, per cui io non apparirò mai in modo sfavorevole, e non farò mai una ridicola figura? Siamo generosi della nostra dignità, come del nostro denaro. La grandezza ha cessato una volta e per sempre d’aver connessione con l’opinione comune. Noi esponiamo le nostre buone azioni, non perchè desideriamo d’essere lodati per esse, non perchè pensiamo che esse abbiano grande merito, ma a nostra giustificazione. Questo è un errore colossale che voi scoprite quando un altro uomo recita l’elenco dei suoi atti caritatevoli.

Dire il vero, anche con qualche austerità, vivere con qualche rigore di temperanza, o con qualche estremo di generosità, pare essere l’ascetismo che la buona comune natura assegna a coloro, che sono nell’agiatezza e nella dovizia, in segno del loro sentimento di fratellanza con la grande moltitudine degli uomini sofferenti. E non solamente dobbiamo esercitare l’anima sopportando le pene dell’esistenza, dell’indigenza della, solitudine, dell’impopolarità, ma conviene all’uomo saggio guardare con occhio audace quei pericoli più rari, che talvolta assalgono gli uomini, e familiarizzarsi a disgustose forme di malattia, a voci di esecrazione, a visioni di morte violenta.

I tempi dell’eroismo sono generalmente tempi di terrore, ma non vi è mai giorno in cui questo sentimento [184] non possa operare. Le condizioni dell’uomo, noi diciamo, sono storicamente molto migliori in questo paese ed in questa ora di quanto forse non lo siano mai state prima. Maggior libertà esiste in grazia della cultura. Non si correrà ora all’ascia, al primo passo fuori del sentiero battuto dall’opinione. Ma chiunque è eroico, troverà sempre delle crisi per provare la sua lama. La virtù umana vuole i suoi campioni ed i suoi martiri, e la prova della persecuzione continua sempre. Fu solo l’altro giorno che il coraggioso Lovejoy diede il suo petto al piombo del popolaccio per i diritti della libera parola e della libera opinione, e morì quando era meglio non vivere.

Io non vedo alcuna via di pace perfetta nella quale un uomo possa camminare, eccetto che seguendo il consiglio del suo proprio cuore. Abbandoni egli le troppe associazioni; stia molto in casa, si ponga per quel cammino che egli approva. L’incessante ricordo di alti e semplici sentimenti negli oscuri doveri tempra il carattere in modo che opererà con onore, se il caso lo vorrà, nei tumulti o sul patibolo. Tutti gli oltraggi che sferzarono gli uomini, possono sferzare nuovamente un uomo, e specialmente in una repubblica, se in essa vi appaiano segni di decadenza religiosa. Un giovane può richiamare alla sua mente la vil calunnia, il fuoco, la pece, i ceppi e la forca, con tutta la dolcezza del suo carattere, e indagare quanto saldamente egli possa fissare il suo sentimento del dovere, sfidando tali pene, quando piaccia ad un giornale o ad un sufficiente numero di suoi vicini dichiarare le sue opinioni come incendiarie.

Il vedere quale rapido riparo la natura ha posto alle più grandi prepotenze della malvagità può calmare l’apprensione della sventura nel più suscettibile cuore. Noi ci avviciniamo rapidamente ad un limite, al di là [185] del quale nessun nemico può seguirci. «Delirino essi; ma tu sta quieto nella tua tomba».

Nella nebbia della nostra ignoranza del futuro, nell’ora in cui siamo sordi alle voci più alte, chi non invidia coloro che ammirarono l’esito felice dei loro tentativi virili? Colui che vede la volgarità della nostra politica, non si compiace internamente che Washington sia di già ravvolto nel suo lenzuolo funebre e calato dolcemente nella sua tomba, prima che le speranze dell’umanità fossero sottomesse a lui? Chi non invidia talvolta i buoni ed i coraggiosi, che non soffrono più dei tumulti del mondo; e attendono con trepida compiacenza il rapido fine dei rapporti con la natura finita? Eppure l’amore, che sarà più facile uccidere che rendere ingannevole, ha di già resa impossibile la morte, e si afferma non mortale, ma nato dalle profondità dell’essere assoluto ed inestinguibile.

[187]

NONO SAGGIO LA SUPER-ANIMA

«Ma le anime che della sua buona vita partecipano, egli ama come la sua propria; care come il suo occhio esse sono a lui: egli mal le abbandonerà. Quando esse morranno, Dio stesso morirà; esse vivono, esse vivono nella benedetta eternità».

Henry More.

V’è una differenza fra l’una e l’altra ora della vita, per il loro valore ed i loro effetti. La nostra fede viene di tratto in tratto; il nostro vizio è costante. Pure vi è una profondità in questi brevi momenti, che ci spinge ad ascrivere maggior realtà ad essi che a qualsiasi altra cosa sperimentata. Per questa ragione l’argomento che si fa innanzi per imporre il silenzio a coloro che concepiscono speranze straordinarie per l’uomo, vale a dire, l’appello all’esperienza, è debole e vano. Una più potente speranza abolisce la disperazione. Noi abbandoniamo il passato a colui che ci muove delle obbiezioni, e continuiamo a sperare. Egli deve spiegare questa speranza. — Noi ammettiamo che la vita umana è vile; ma come scoprimmo che essa è vile? Quale è la base di questo nostro disagio, di questo nostro malcontento? Che cosa è il senso universale del bisogno e dell’ignoranza, se non un cenno delicato per mezzo di cui la grande anima muove il suo immenso reclamo? [188] Perchè gli uomini sentono che la Storia naturale dell’uomo non fu mai scritta, che tralascia sempre ciò che voi avete detto di lui, che invecchia, e che i libri di metafisica sono privi di valore? La filosofia di seimila anni non ha indagato nei recessi e nei depositi dell’anima. Nelle sue esperienze rimase sempre, in ultima analisi, un residuo che non potè risolvere. L’uomo è un corso d’acqua, la cui sorgente è nascosta. Il nostro essere discende sempre, non sappiamo donde. Il più esatto calcolatore non ha la prescienza che qualcosa d’incalcolabile possa nell’attimo seguente distruggere i suoi calcoli. Io sono costretto ogni momento a riconoscere agli eventi un’origine più alta che la volontà che chiamo mia.

Come per gli eventi, così è anche per i pensieri.

Quando io osservo quel fiume scorrente, che, venendo da regioni che io non vedo, versa per un momento le sue acque in me, io sento d’essere uno che riceve; sento di essere non una causa, ma uno spettatore sorpreso di quest’acqua eterna: io sento che desidero ed attendo, e mi pongo nell’attitudine del ricevere, ma pure sento che tali visioni vengono da un’energia a me estranea.

La Suprema Critica degli errori del passato e del presente e il solo annunziatore di ciò che deve essere, è quella grande natura, nella quale ci riposiamo, come si riposa la terra nelle molli braccia dell’atmosfera; quell’unità, quella superanima, dentro la quale l’essere particolare di ogni uomo è contenuto e fatto uno solo con tutti gli altri; quel cuore comune, di cui ogni sincero discorso è adorazione, per il quale ogni azione giusta è sottomissione; quella realtà onnipossente, che svela i nostri inganni e le nostre disposizioni mentali; che obbliga ciascuno a passare per ciò che realmente è, ed a parlare in corrispondenza al suo carattere e [189] non alla sua lingua; che sempre più tende a passare nel nostro pensiero e nelle nostre mani, e divenire saggezza, virtù, potere e bellezza. Noi viviamo grado a grado e separatamente, in parti e particelle. Frattanto nell’interno dell’uomo vi è l’anima del tutto, il saggio silenzio e la bellezza universale, a cui ogni parte ed atomo sono ugualmente riferiti; infine l’eterno Uno. E questa immensa potenza nella quale viviamo, e la cui beatitudine è accessibile a noi, non è solo sufficiente a se stessa e perfetta in ogni ora, ma in essa l’atto di vedere e la cosa veduta, lo spettatore e lo spettacolo, il soggetto e l’oggetto sono uno. Noi vediamo il mondo parte per parte, come il sole, la luna, l’animale, l’albero; ma il tutto, di cui queste sono le parti brillanti, è l’Anima. È soltanto con la luce di tale Sapienza che può essere letto l’oroscopo delle età, ed è soltanto con il ritornare ai nostri pensieri migliori, con l’arrenderci allo spirito di profezia, innato in ogni uomo, che noi possiamo sapere che cosa essa dica. Le parole d’ogni uomo, che parla vivendo una tal vita, devono suonare vuote a quelli che per parte loro non abitano nello stesso pensiero. Perciò io non oso parlare. Le mie parole non portano con sè il loro augusto senso; esse cadono impotenti e fredde. Se fossero inspirate da quella saggezza, guardate! esse sarebbero liriche e dolci ed universali come l’innalzarsi del vento. Pure io desidero, anche con parole profane se non posso usare quelle sacre, indicare l’empireo di questa divinità, e riferire quali ammonimenti ho raccolto dalla trascendente semplicità ed energia della più Alta Legge.

Se noi consideriamo che cosa succede nella conversazione, nel rimorso, nelle ore di passione, nelle sorprese, nella formazione dei sogni, dove spesso ci vediamo trasvestiti — (gli strani trasvestimenti magnificano ed innalzano solo un elemento reale, imponendolo alla [190] nostra attenzione) noi troveremo molti indizi che s’amplieranno e ci illumineranno nella conoscenza dei segreti della natura. Tutto tende a dimostrare che l’anima dell’uomo non è un organo, ma vita e moto per tutti gli organi; non è una funzione, come il potere della memoria, del calcolo, della comparazione, ma usa di queste funzioni come di mani e di piedi; non è una facoltà, ma una luce, non è l’intelletto o la volontà, ma quella che regge l’intelletto e la volontà; è il fondo del nostro essere, sul quale tutto giace; un’immensità infine non posseduta e che non può essere posseduta. Una luce brilla attraverso di noi sulle cose, e ci insegna che noi siamo nulla, ma che la luce è tutto. Un uomo è la facciata di un tempio, in cui abita tutta la sapienza e tutto il bene. Ciò che noi comunemente chiamiamo «uomo», l’uomo che mangia, che beve, che pianta, che canta, non si presenta come noi lo conosciamo, ma dà una cattiva immagine di sè. Noi non lo rispettiamo, ma se egli lasciasse apparire l’anima attraverso la sua azione, l’anima di cui è l’organo, ci farebbe cadere in ginocchio. Quando essa respira attraverso il suo intelletto, allora è genio; quando respira attraverso la sua volontà, è virtù; quando irrompe attraverso le sue affezioni, è amore. E la cecità dell’intelletto e la debolezza della volontà incominciano quando l’intelletto e l’individuo voglian avere un loro proprio valore. Ogni riforma tende a permettere all’anima di aprire le sue vie attraverso di noi; in altre parole ad indurci all’obbedienza.

Ogni uomo è talora sensibile a questa purissima spirituale natura. Il linguaggio non può dipingerla con i suoi colori; essa è troppo fine. Essa è indefinibile, incommensurabile, ma noi sappiamo che essa ci pervade e ci contiene. Noi sappiamo che tutto l’essere spirituale è contenuto nell’uomo. Un saggio ed antico [191] proverbio dice «Dio viene a vederci senza campana» cioè, come non vi è una linea di separazione fra la nostra testa ed il cielo infinito, così nell’anima non vi è punto dove l’uomo, cioè l’effetto, cessa, e Dio, cioè la causa, incomincia. I confini sono tolti. Noi siamo aperti alle profondità della natura spirituale, ed agli attributi di Dio. Vediamo e conosciamo la Giustizia, l’Amore, la Libertà, il Potere. Nessun uomo possedette mai queste nature, ma esse si librano al disopra di noi, e specialmente quando i nostri interessi ci spingono a ferirle.

La sovranità della super-anima si rivela nella sua indipendenza da quelle limitazioni che ci circoscrivono da ogni parte. L’anima circoscrive ogni cosa. Come ho detto, essa contraddice ogni esperienza e nello stesso modo abolisce il tempo e lo spazio. Il dominio dei sensi ha dominato nella maggior parte degli uomini la mente a tal grado, che le mura del tempo e dello spazio sono giunte ad apparire così reali ed insormontabili, che il parlare con leggerezza di questi baluardi è divenuto, nel mondo, segno di pazzia. Eppure il tempo e lo spazio non sono che misure inverse della forza dell’anima. Un uomo è capace di abolirli. Lo spirito scherza con il tempo.

«Può raccogliere l’eternità in un’ora,

O prolungare un’ora in un’eternità.»

Spesso siamo condotti a sentire che vi è un’altra gioventù ed un’altra età oltre quelle che sono misurate dal nostro naturale anno di nascita. Alcuni pensieri ci trovano sempre giovani e ci mantengono tali. Un tale pensiero è ad esempio l’amore dell’universale ed eterna bellezza. Ogni uomo si parte da tale contemplazione con il sentimento che ciò appartenga piuttosto alle età che alla vita mortale. La più piccola attività dei poteri intellettuali ci redime in un certo grado dalle tirannie del tempo. Nella malattia, nel dolore, dateci un brano [192] di poesia od una profonda sentenza, e noi ci sentiamo sollevati; presentateci un volume di Platone o di Shakespeare, o ricordateci il loro nome, ed instantaneamente noi incliniamo ad un sentimento di longevità.

Vedete come il profondo, divino pensiero demolisce i secoli ed i millenni, e si fa presente attraverso tutte le età. L’ammaestramento di Cristo è meno efficace ora di ciò che fosse quando per la prima volta la sua bocca lo pronunziò? L’impressione scultoria di fatti e di persone sulla mia anima ha nulla a che fare col tempo. E così sempre, la scala dell’anima è una e quella dei sensi e dell’intelligenza è un’altra. Davanti alle rivelazioni dell’anima, il Tempo, lo Spazio e la Natura si ritraggono. Nel discorso comune, noi riferiamo tutte le cose al tempo, come abitualmente riferiamo le stelle sparse ad una sfera concava. E così diciamo che il Giudizio è lontano o vicino; che il Millennio s’avanza; che il giorno di certe riforme politiche morali o sociali è prossimo, e simili; quando noi vogliamo significare che, nella natura delle cose, uno dei fatti che noi contempliamo è esterno e fuggitivo, e l’altro è permanente e connaturato con l’anima. Le cose che noi stimiamo prestabilite, si staccheranno una per una come frutti maturi, dalla nostra esperienza e cadranno. Il vento le sospingerà chissà dove. I paesaggi, le figure, Boston, Londra, sono dei fatti così fuggitivi come qualsiasi istituzione passata o qualsiasi velo di nebbia o di fumo: e così è la società, e così è il mondo. L’anima guarda fermamente innanzi, creando un mondo davanti ad essa, lasciando dei mondi dietro di sè. Essa non ha date, non ha riti, non ha persone, non ha preferenze, non ha uomini. L’anima conosce solamente l’anima; tutte le altre cose non sono che oziosi veli per la sua veste.

L’importanza del suo progresso deve computarsi secondo la sua propria legge e non secondo l’aritmetica. [193] I progressi dell’anima non sono fatti a gradi, che potrebbero rappresentarsi con il movimento di una linea retta; ma piuttosto a progressivi sviluppi, che potrebbero rappresentarsi con la metamorfosi — dall’uovo al verme, dal verme alla mosca. Le progressioni del genio sono di un certo carattere universale che non solleva l’individuo eletto prima al disopra di Giovanni, poi d’Adamo, e poi di Riccardo, e dà a ciascuno il dolore di un’inferiorità manifesta; ma per mezzo d’ogni laborioso progresso l’uomo si espande dove egli lavora, passando ad ogni impulso sopra classi e popolazioni di uomini. Ad ogni divino impulso lo spirito rompe la sottile corteccia del visibile e del finito, e sguscia nell’eternità, ne inspira ed espira l’aria. Esso conversa con le verità che sono sempre state dette nel mondo, e si fa conscio di una più intima simpatia con Zenone ed Ariano che con persone della sua casa.

Questa è la legge dell’acquisizione morale e mentale. I semplici si innalzano, come per leggerezza specifica, non ad una particolare virtù, ma nella regione di tutte le virtù. Essi vivono nello spirito che tutti li contiene. L’anima è superiore a tutte le peculiarità dei nostri pregi morali. L’anima richiede purezza, ma non quella tal nostra purezza; richiede giustizia, ma non quella tal nostra giustizia; richiede beneficenza, ma essa è qualche cosa di meglio; cosicchè quando tralasciamo di parlare di natura morale, noi sentiamo una specie d’inclinazione e di convenienza a sollecitare una virtù, che essa c’impone. Poichè all’anima, nella sua pura attività, tutte le virtù sono naturali, e non faticosamente acquisite. Parlate al cuore dell’uomo, ed egli diventa subitaneamente virtuoso.

Nello stesso sentimento si trova il germe del progresso intellettuale, che ubbidisce alla stessa legge. Coloro che sono capaci di umiltà, di giustizia, d’amore, [194] d’aspirazioni, si trovano già ad un livello, che domina le scienze e le arti, l’oratoria e la poesia, l’azione e le buone disposizioni. Perciò coloro che dimorano in questa beatitudine morale si ripromettono di già quegli speciali poteri che gli uomini sì altamente stimano, allo stesso modo che l’amore apprezza tutte le doti dell’oggetto amato. L’amante non ha talento, non ha abilità, che conti per nulla presso la sua innamorata, per poco ch’essa possegga facoltà correlative. E il cuore, che si abbandona allo Spirito Supremo, si trova in relazione con tutte le sue opere, e giungerà per una strada regale alle particolari conoscenze ed ai poteri particolari. Perciò ascendendo a questo sentimento primario ed aborigeno, noi siamo venuti istantaneamente dalla nostra rimota stazione posta sulla circonferenza al centro del mondo, dove, come nel gabinetto di Dio, noi vediamo le cause, e preveniamo l’universo, che è se non un lento effetto.

Un modo del divino insegnamento è l’incarnazione dello spirito in una forma — in forme simili alla mia. Io vivo in società, con persone che corrispondono a pensieri della mia propria mente od esternamente esprimono a me una certa ubbidienza ai grandi istinti per i quali vivo. Io vedo la sua presenza in essi. Io ho la certezza dell’esistenza di una natura comune; e queste altre anime, questi separati me stessi mi attirano come null’altro può. Essi eccitano in me le nuove emozioni che noi chiamiamo passioni; quelle dell’amore, dell’odio, del timore, dell’ammirazione, della pietà; donde provengono la conversazione, la competizione, la persuasione, le città, la guerra. Le persone sono supplementari all’insegnamento primario dell’anima. Nella giovinezza noi andiamo pazzi per gli uomini individui. L’infanzia e la giovinezza vedono tutto il mondo in quelli. Ma una maggiore esperienza scopre in tutti l’identità della natura. Infatti sono appunto le persone [195] che ci apprendono l’impersonale. In ogni conversazione fra due persone nasce un tacito richiamo ad una comune natura, come se fosse una terza persona. Questa terza parte o natura comune non è sociale; è impersonale; è Dio. Così nei gruppi dove la discussione è ardente ed intenta a gravi questioni di pensiero, i componenti il gruppo s’avvedono della loro unità; s’avvedono che il pensiero si innalza ad un’eguale altezza in tutti gli spiriti, che tutti hanno in ciò che vien detto la stessa proprietà spirituale di colui che dice. Essi divengono più saggi di quanto non lo fossero. Orbene questa unità di pensiero si innalza al disopra di essi come un tempio in cui ogni cuore batte con un più nobile senso di potere e di dovere, e pensa ed agisce con un’insolita solennità, e dove tutti sono consci di raggiungere un più alto dominio di se stessi. Essa brilla per tutti. Vi è una certa saggezza umana che è comune ai più grandi uomini ed ai più piccoli e che la nostra ordinaria educazione spesso si sforza di tacitare ed ostruire. Lo spirito è uno solo, e gli spiriti migliori che amano la verità per se stessa, la accettano riconoscenti ovunque, e non la classificano nè la segnano con il nome di alcun uomo, perchè essa è loro da molto tempo prima; dall’eternità. Gli uomini còlti e gli studiosi non hanno alcun monopolio della sapienza. La violenza del loro indirizzo in un certo modo li rende incapaci di pensare secondo verità. Noi siamo debitori di molte osservazioni di valore a persone che non sono molto acute o profonde, e che dicono senza sforzo la cosa di cui manchiamo e che noi abbiamo per lungo tempo cercata invano. L’azione dell’anima esiste più spesso in ciò che è sentito ed inespresso, che in ciò che è detto nelle conversazioni. Essa aleggia sopra ogni società e noi inconsciamente la ricerchiamo l’uno nell’altro. Noi meglio sappiamo di quello che operiamo. Noi non possediamo [196] ancora noi stessi, e sappiamo allo stesso tempo di essere molto di più. Molto spesso io sento nelle mie volgari conversazioni coi miei vicini questa verità: che qualche cosa più alto di noi osserva i nostri scherzi, e che dietro a ciascuno di noi Giove saluta Giove.

Gli uomini tendono ad incontrarsi. Nelle loro occupazioni abituali e volgari della vita, per le quali abbandonano la loro nobiltà nativa, essi somigliano a quei seicci Arabi, che abitano in case basse, affettando una povertà esteriore per sfuggire alla rapacità del Pascià, e racchiudono lo sfoggio della loro ricchezza nell’interno delle loro ben custodite dimore.

Come l’anima è presente in tutte le persone, così è presente in ogni periodo della vita. Essa è adulta di già nel bambino. Nei rapporti con il mio bimbo, il mio Latino e Greco, la mia coltura ed il mio denaro, mi servono a nulla, ma mi serve l’anima. Se io sono capriccioso, egli mette il suo capriccio contro il mio, uno contro uno, e lascia a me, se lo voglio, l’avvilimento del batterlo con la superiorità della mia forza. Ma se io rinuncio al mio capriccio ed agisco con l’anima, mettendo essa come arbitra fra noi due, essa appare ai suoi occhi ed egli la riverisce e l’ama con me.

L’anima percepisce e rivela la verità. Noi conosciamo la verità quando la vediamo; dicano gli scettici ed i burloni ciò che vogliono. La gente sciocca, quando voi avete detto ciò che loro non piace di udire, vi domanda: «Come sapete voi che ciò è vero, e che non è un vostro errore?» Noi conosciamo la verità quando la vediamo, come sappiamo di essere svegli quando siamo svegli. V’è una grande sentenza di Emanuele Swedenborg, che da sola basterebbe ad indicare la grandezza della sua percezione: «Non è prova dell’intelligenza di un uomo il suo poter affermare ciò che gli piace; ma il poter discernere che ciò che è vero è vero, e che [197] ciò che è falso è falso, è il segno ed il carattere dell’intelligenza». Nel libro che io leggo, il buon pensiero mi rispecchia, come ogni verità, l’imagine completa dell’anima. Ad ogni cattivo pensiero che io vi trovo, l’anima stessa diventa una spada, che infrange quell’imagine. Noi siamo più saggi di quel che non crediamo. Se non interporremo il nostro pensiero, ma agiremo francamente, e vedremo come la cosa sia sita in Dio, conosceremo quella particolare cosa ed ogni cosa ed ogni uomo. Perchè il Fattore di tutte le cose e di tutte le persone sta dietro di noi, e getta attraverso a noi la sua terribile omniscienza sopra di esse.

Ma oltre a questa conoscenza dei particolari passaggi dell’esperienza individuale, la super-anima rivela anche la verità. E qui dovremmo cercar di rinvigorirci con la sua stessa presenza, e parlare con un più degno e più alto tono del suo avvento: poichè il partecipare dell’anima della verità, è il più grande evento in natura, ed in tal caso quella non dà qualcosa di se stessa, ma si concede intera o s’incarna e diventa l’uomo che essa illumina, o toglie di lui in proporzione di quella verità che egli riceve.

Noi indichiamo gli annunzi dell’anima, le sue proprie manifestazioni naturali con il nome di Rivelazione. Esse sono sempre accompagnate da un vigoroso sentimento del sublime, poichè la comunicazione dell’anima è un influsso della mente divina nella nostra mente. È un riflusso del ruscello individuale davanti alle impetuose onde del mare della vita. Ogni distinta intelligenza di questo potere centrale agita gli uomini con timore e delizia. Un brivido passa in tutti gli uomini nel ricevere una nuova verità o nel compiere una grande azione, che sorga dal cuore della natura. In queste comunicazioni il potere di vedere non è separato dalla volontà di fare, ma la conoscenza procede dalla sottomissione, e la [198] sottomissione procede da una lieta percezione. Ogni momento in cui l’individuo si sente invaso da essa, è un momento memorabile. Per necessità della nostra costituzione, io credo, un certo entusiasmo accompagna la consapevolezza individuale di quella divina presenza. Il carattere e la durata di questo entusiasmo variano, a seconda dello stato dell’individuo, da un’estasi e rapimento ed ispirazione profetica, — che sono la loro forma più rara — al più debole ardore di un sentimento virtuoso, nella quale forma esso riscalda, come i nostri focolari domestici, tutte le famiglie e le associazioni d’uomini e rende possibile la società. Una certa tendenza verso l’insania ha sempre accompagnato il sorgere del sentimento religioso negli uomini, come se questi fossero «abbagliati da un eccesso di luce». I rapimenti di Socrate; la conversione di Paolo; la visione di Porfirio; l’aurora di Behmen; le violenze di Giorgio Fox e dei suoi Quaccheri; l’ispirazione di Swedenborg; sono di questa specie. Ciò che in queste persone rimarchevoli fu un’estasi, in innumerevoli casi della vita comune fu cosa di minor conto. Ovunque, la storia della religione lascia intravedere una tendenza all’entusiasmo. I rapimenti dei Moravi e dei Quietisti; il sorgere del profondo significato del Verbo nel linguaggio della nuova Chiesa di Gerusalemme; il risveglio delle Chiese Calvinistiche; le esperienze dei Metodisti, sono varianti forme di quel brivido di timore e di delizia, con il quale l’anima individuale si mescola con l’anima universale.

La natura di queste rivelazioni è sempre la stessa. Esse sono percezioni della legge assoluta: esse sono soluzioni dei problemi propri dell’anima. Esse non rispondono alle domande che vengono fatte dall’intelligenza. L’anima non risponde mai con parole, ma con la cosa stessa che si investiga.

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La rivelazione è lo schiudersi dell’anima. Il concetto popolare di rivelazione è che essa sia un sortire fortune. Nei passati responsi dell’anima, l’intelligenza si sforza di trovar risposte ai problemi della materia, e partendo da Dio dichiara quanto tempo gli uomini vivranno; che cosa faranno le loro mani; quale sarà la loro società, pronunciando anche nomi, date e luoghi. Ma noi dobbiamo forzare nessuna serratura. Noi dobbiamo frenare questo basso desiderio d’inquisizione. Una risposta in parole è ingannatrice; essa non è affatto una risposta alle domande che voi fate. Non richiedete una descrizione dei paesi verso i quali fate vela. La descrizione non ve li descriverà, e domani giungendovi conoscerete quei paesi abitandoli. Lo stesso è per gli uomini che interrogano riguardo all’immortalità dell’anima, alle funzioni del cielo, allo stato del peccatore e così di seguito. Essi ancora sognano che Gesù abbia lasciato dei responsi precisi per questi interrogatori. Mai, nemmeno per un momento, quello spirito divino parlò nel loro patois. L’idea dell’immutabilità è essenzialmente associata alla verità, alla giustizia, all’amore, ed agli attributi dell’anima. Gesù, vivendo in questi sentimenti morali, noncurante delle sorti del senso ma solo delle sue manifestazioni, non fece mai una separazione dell’idea di durata dall’essenza di questi attributi; nè mai pronunziò una parola concernente il potere vitale dell’anima. Fu cómpito dei suoi discepoli il separare la durata dagli elementi morali, e l’insegnare l’immortalità dell’anima come dottrina, e sostenerla per mezzo di prove. Nel momento che la dottrina dell’immortalità è insegnata separatamente, l’uomo è di già caduto. Nell’impeto dell’amore, nell’adorazione dell’umiltà, non può esservi questione di durata. Un uomo ispirato non muove mai questa domanda nè condiscende a queste prove, poichè l’anima è veritiera con se stessa, e l’uomo [200] in cui essa giace, non può andare dal presente che è infinito, ad un futuro che sarebbe finito.

Queste domande che noi desideriamo di fare circa il futuro, sono una confessione del peccato. Dio non ha risposte per esse. Nessuna risposta di parole può rispondere ad una questione di cose. Non è in un arbitrario «decreto di Dio» ma nella natura dell’uomo che un velo rinchiuda i fatti del domani; poichè l’anima non vuole che noi si legga alcuna altra parola all’infuori di quella della causa e dell’effetto. Con questo velo che nasconde gli eventi, essa ammaestra i figli degli uomini a vivere nell’oggi. L’unico mezzo per ottenere una risposta a queste domande dei sensi è di rinunciare ad ogni bassa curiosità, e sottomettendoci alla corrente dell’essere che ci porta nel segreto della natura, lavorare e vivere, vivere e lavorare, finchè inaspettatamente l’anima abbia costruita e foggiata per se stessa una nuova condizione, onde domanda e risposta saranno una cosa sola.

Così è l’anima di colui che percepisce e rivela la verità. Per lo stesso fuoco, placido, impersonale, perfetto, che arde finchè dissolverà tutte le cose nelle onde e nei gorghi di un oceano di luce, noi ci vediamo e ci conosciamo a vicenda, e sappiamo di quale spirito è ciascuno di noi. Chi può dire quali siano le basi della sua conoscenza del carattere di parecchi individui nella cerchia dei suoi amici? Nessuno. Pure i loro atti e le loro parole non lo stupiscono. In quell’uomo, pur nulla di male avendo saputo di lui, noi non abbiamo fiducia; in quest’altro ancorchè radi siano stati i nostri incontri, segni autentici sono già sorti a significare che egli potrebbe essere degno di fiducia, come uno che abbia un valore nel suo proprio carattere. Noi vicendevolmente ci conosciamo molto bene; sappiamo quale di noi è stato conforme a se stesso, e se quello che noi insegniamo o [201] miriamo è solamente un’ispirazione od anche un nostro onesto sforzo.

Noi siamo tutti discernitori di spiriti. Tale diagnosi giace in alto nella nostra vita o nel nostro inconscio potere, ma non nell’intelligenza. Il complesso della società, con il suo commercio, la sua religione, le sue amicizie, le sue contese, è un’ampia, giudiziaria investigazione del carattere. In piena seduta, od in seduta segreta, nei confronti viso a viso, come accusatore od accusato, l’uomo si offre spontaneamente per essere giudicato. Contro la loro volontà essi fanno mostra di quei segni decisivi per mezzo dei quali il carattere è letto. Ma chi è che giudica? e che cosa? Non certo la nostra intelligenza. Noi non possiamo interpetrare quei segni con la coltura o con l’abilità. No, la saggezza dell’uomo saggio consiste in ciò, che egli non giudica per mezzo di quei segni; egli lascia che essi si giudichino da se stessi e semplicemente legge e ricorda il loro proprio verdetto.

La volontà individuale è dominata da questa inevitabile natura, e nonostante i nostri sforzi o le nostre imperfezioni, il vostro buon genio parlerà da voi, ed il mio da me. Quello che noi siamo, noi insegneremo, ma non volontariamente, bensì involontariamente. I pensieri vengono nella nostra mente per strade che noi giammai lasciamo aperte, ed escono dalla nostra mente per strade che noi mai aprimmo volontariamente. Il carattere ammaestra al di sopra del nostro capo. L’indice infallibile del vero progresso sta nel tono che l’uomo prende. Nè la sua età, nè l’educazione, nè la compagnia, nè i libri, nè le azioni, nè il talento, nè tutto ciò insieme, possono impedirgli di essere ossequente ad uno spirito più alto del suo. Se egli non ha trovato il suo home in Dio, i suoi modi, la sua forma di discorso, il giro delle sue frasi, il modo di costrurre, dirò così, [202] tutte le sue opinioni, confesseranno ciò involontariamente, per quanto egli possa schermirsi. Se egli ha trovato il suo centro, la Divinità brillerà attraverso a lui, attraverso tutti i travestimenti dell’ignoranza, del temperamento meschino, delle circostanze sfavorevoli.

La grande distinzione fra docenti di cose sacre o di letteratura — fra poeti come Herbert, e poeti come Pope, — fra filosofi come Spinoza, Kant e Coleridge, e filosofi come Locke, Paley, Mackintosh e Stewart — fra uomini di mondo, che sono creduti perfetti parlatori, e un mistico fervente, profetizzante con una semiinsania sotto l’infinità del suo pensiero — la grande differenza, dico, è, che una classe parla dall’interno o dall’esperienza, come parti e possessori del fatto; e l’altra classe dall’esterno, come semplici spettatori o conoscitori forse del fatto per testimonianza di terze persone.

Non giova a nulla il predicare a me dall’esterno. Ciò lo posso fare io troppo facilmente. Gesù parla sempre dall’interno ed in modo tale che sorpassa tutti gli altri. In ciò sta il miracolo: ciò include il miracolo. La mia anima crede anzitutto che ciò debba essere così. Tutti gli uomini continuamente attendono l’apparire di un tale maestro. Ma se un uomo non parla dall’interno del suo involucro, in cui la parola è una con ciò cui accenna, lo confessi umilmente.

La stessa Omniscienza fluisce nell’intelletto e produce ciò che noi chiamiamo genio. Molta parte della sapienza del mondo non è sapienza, e la più illuminata classe di uomini è senza dubbio superiore alla fama letteraria, e non è composta di scrittori. Fra la moltitudine degli studiosi e degli autori noi non sentiamo alcuna presenza consacrante; noi sentiamo l’abilità e la maestria, ma non l’ispirazione; essi hanno una luce e non sanno donde venga e la chiamano loro propria; il loro talento consiste [203] in una qualche facoltà eccessivamente sviluppata, così che la loro potenza è una malattia. In questi casi i doni intellettuali non fanno l’impressione di virtù, ma quasi di vizio; e noi sentiamo che le buone doti di un uomo stanno sulla strada che lo conducono verso la verità. Ma il genio è puro. Esso è un più alto assorbente dell’anima universale. Esso non è anomalo ma più simile e non meno simile agli altri uomini. Vi è in tutti i grandi poeti una sapienza umana superiore a qualsiasi virtù essi possano esercitare. L’autore, il bello spirito, il partigiano, l’elegante signore, non prende in essi il posto dell’uomo. L’umanità brilla in Omero, in Chaucer, in Spenser, in Shakespeare, in Milton. Essi stanno in pace con la verità. Essi usano il grado positivo. Essi sembrano freddi e flemmatici a coloro che sono abituati alle passioni pazze ed ai quadri violenti degli scrittori inferiori e popolari. Perciò essi sono poeti per il libero corso che essi concedono all’anima che li informa, la quale attraverso i loro occhi ancora contempla e benedice le cose che essa ha prodotte. L’anima è superiore alla sua conoscenza ed è più saggia di qualunque delle sue opere. Il grande poeta ci fa sentire la nostra propria ricchezza e noi stimiamo meno le sue composizioni. La sua più grande comunicazione alle nostre menti è quella che c’insegna a disprezzare tutto ciò che egli ha fatto. Shakespeare ci porta a tale straordinaria altezza di attività intelligente da illuderci d’una ricchezza tale da impoverir la sua; ed allora noi sentiamo che le splendide opere che egli ha creato e che in altre ore innalziamo come una specie di poesia autoesistente, non hanno maggiore aderenza alla natura reale di quanta ne abbia l’ombra del passeggiero sulla roccia. L’ispirazione che espresse se stessa per bocca di Amleto e Re Lear potrebbe pronunziare cose altrettanto buone ogni giorno e sempre. Perchè allora dovrei [204] io tener conto di Amleto e di Lear, come se noi non avessimo l’anima dalla quale essi caddero come parole dal labbro?

Questa energia discende nella vita individuale a nessun’altra condizione che quella dell’intiero possesso. Essa viene agli umili ed ai semplici; essa verrà a chiunque abbandoni ciò che è straniero e superbo; essa viene come conoscenza; viene come serenità e grandezza. Quando osserviamo coloro in cui essa abita, noi siamo informati di nuovi gradi di grandezza. Dalla ispirazione di questa super-anima l’uomo ritorna con un tono cambiato. Egli non parla agli uomini tenendo lo sguardo alle loro opinioni. Egli li sperimenta. Essa richiede da noi semplicità e lealtà. Il viaggiatore sciocco tenta di adornare la sua vita citando ciò che dissero a lui o ciò che fecero a lui il principe tale o la contessa tal’altra. L’ambizioso volgare vi mostrerà i suoi cucchiai, i suoi gingilli ed i suoi anelli. I più colti, nei ragguagli intorno alle loro proprie conoscenze, rievocano le circostanze piacevoli e poetiche: — la visita a Roma; l’uomo di genio che essi videro; l’amico brillante che essi conoscono; andranno ancora più lontano, forse; il bel paesaggio, le luci della montagna, che essi godettero ieri; e così essi cercano di dare un colore romantico alla loro vita. Ma l’anima che s’innalza all’adorazione del grande Dio, è semplice e vera; non ha roseo colore; non ha eleganti amici; non ha cavalleria; non ha avventure; non desidera ammirazione; vive nell’ora presente, nella severa esperienza del giorno comune, aperta al pensiero e imbevuta del mare di luce.

Conversate con uno spirito essenzialmente semplice, e la letteratura appare una caccia alle parole. Le più semplici parole sono le più degne d’essere scritte; pure esse sono così alla portata di tutti, che, nell’infinita ricchezza dell’anima, è come il raccogliere poche pietruzze [205] dalla terra, o racchiudere un poco d’aria in un’ampolla, quando la terra intera e l’intiera atmosfera sono nostre. Lo scrittore semplice in tali condizioni, è come un borsaiolo fra gentiluomini, che s’è introdotto per rubare un bottone o una spilla d’oro. Nulla può però passare o fare di voi uno del circolo, se non gettando da banda i vostri arnesi, e trattando da uomo a uomo, con la nuda verità e con la confessione leale.

Tali anime vi trattano come vi tratterebbero gli dèi; camminano sulla terra come dèi, accettando senza alcuna ammirazione, il vostro ingegno, la vostra munificenza, la stessa vostra virtù, o per meglio dire, il compimento del vostro dovere; perchè essi considerano la vostra virtù come il loro proprio sangue, regale come essi stessi, ed ultra-regale, ed il padre degli dèi. Ma quale rimprovero muove la loro condotta franca e fraterna alla mutua adulazione, con la quale gli autori si ricreano o si feriscono! — Essi non adulano. Non mi meraviglio che questi uomini vadano a visitare Cromwell e Cristina e Carlo II e Giacomo I ed il Grande Turco. Perchè essi sono, nella loro propria elevazione, i compagni dei re, e devono sentire il tono servile della conversazione del mondo. Essi devono essere sempre divini inviati ai principi, ed ai re per termine di paragone, senza inchini o concessioni, e per dare ad un’alta natura il ristoro e la soddisfazione della resistenza, della semplice umanità, della società stessa e di nuove idee. Esse lasciano gli uomini più saggi e superiori. Tali anime ci fanno sentire che la sincerità è più eccellente dell’adulazione. Trattate gli uomini e le donne così francamente da obbligarli alla massima sincerità, e da distruggere in loro ogni speranza di folleggiare con voi. Questo è il più alto omaggio che voi possiate rendere. «La loro più alta lode — disse Milton, — non è adulazione ed il loro più semplice consiglio è una specie di lode».

[206]

L’unione dell’uomo con Dio in ogni atto dell’anima è inesprimibile. La più semplice persona che nella sua integrità adori Dio, diviene Dio; e l’influsso di questo io migliore ed universale è eternamente nuovo ed impenetrabile. Esso ispira timore e stupefazione. Quanto cara e rasserenante appare all’uomo l’idea di Dio, che popola i luoghi solitari, cancellando i segni dei nostri errori e dei nostri disinganni! Quando noi abbiamo spezzato il dio della tradizione, e abbandonato il nostro dio della retorica, allora Dio può infiammare il cuore con la sua presenza. Allora si ha il raddoppiarsi del cuore stesso; si ha un infinito sviluppo del cuore con il potere di progredire verso una nuova infinità, da ogni parte. Esso ispira nell’uomo un’infallibile fiducia. Questi allora non ha la convinzione, ma la visione che il meglio è il vero, e può in quel pensiero facilmente scacciare tutte le incertezze ed i timori particolari, ed attendere dalla sicura rivelazione del tempo la soluzione dei suoi secreti enimmi. Con tale principio nella sua mente, egli è invaso da una completa fiducia, che asporta nei suoi flutti ogni accarezzata speranza, ed i più saldi progetti di carattere finito. Egli crede di non poter sfuggire al suo bene. Le cose che sono realmente per te, gravitano su te. Voi correte per cercare il vostro amico. Corrano i vostri piedi, ma il vostro spirito non abbisogna di farlo. Se voi non lo trovate, non converrete che è la miglior cosa per voi non averlo trovato? poichè vi è un potere, che come è in voi è anche in lui, e che potrebbe molto bene portarvi insieme, se ciò fosse per il meglio. Voi vi preparate ansiosamente per muovervi onde rendere un servizio, cui il vostro talento ed il vostro gusto vi invita. Non vi è venuto in mente che voi non avete alcun diritto di muovervi, a meno che abbiate un’egual voglia d’esserne impediti?

[207]

Oh! Credilo, come credi alla tua vita, che ogni parola che è detta nel mondo intiero, e che tu dovresti udire, vibrerà nel tuo orecchio! Ogni proverbio, ogni libro, ogni cenno, che deve essere tuo per aiuto e conforto, dovrà venire a te per vie aperte o tortuose. Ogni amico, che non il tuo fantastico capriccio, ma il grande e tenero tuo cuore chiederà, ti stringerà nel suo abbraccio. E questo perchè il cuore ch’è in te, è il cuore di tutti. In natura non si trova mai un intoppo, mai una barriera, mai un’intersezione; ma un solo sangue circola senza interruzione attraverso tutti gli uomini, come l’acqua del globo è tutta un solo mare, con una sola marea.

Apprenda adunque l’uomo la rivelazione di tutta la natura e di tutto il pensiero al suo cuore: apprenda cioè che l’Altissimo abita in lui; che le sorgenti della natura sono nella sua propria mente, se v’è in essa il sentimento del dovere. Ma se egli volesse sapere ciò che il grande Iddio dice, egli «dovrebbe andare nel suo gabinetto e chiudervisi» come disse Gesù. Dio non si manifesterà ai codardi. L’uomo deve degnamente ascoltar se stesso, ritraendosi dagli accenti di devozione di tutti gli altri uomini. Le loro stesse preghiere gli sono sgradevoli finchè egli non ha fatto le sue. L’anima non fa appello fuor se stessa. La nostra religione volgarmente sta nel numero dei credenti. Ogni qualvolta è fatto appello al numero, per quanto indiretto esso possa essere, quello vien fatto nel momento e là dove la religione non c’è. Colui che constata essere Dio come un pensiero dolce ed avvolgente per lui, non conterà mai il numero dei suoi compagni. Quando io siedo alla sua presenza, chi oserà entrare? Quando io riposo in perfetta umiltà, quando ardo di puro amore, che cosa possono dire Calvino o Swedenborg?

Non ha nessuna importanza che l’appello sia rivolto a molti o ad uno solo. La fede che si basa sull’autorità [208] non è fede. La fiducia nell’autorità misura il declinare della religione ed il ritrarsi dell’anima. Il posto che gli uomini hanno dato a Gesù, da molti secoli di storia, è un posto di autorità: ciò li caratterizza e non può alterare i fatti eterni. L’anima è grande, è semplice; essa non è adulatrice, nè pedissequa; essa mai s’appella fuori di se stessa. Essa crede sempre in se stessa. Davanti alle immense possibilità dell’uomo, tutta la semplice esperienza, tutta la biografia passata, per quanto santa e immacolata, si ritira. Dinnanzi a quel cielo preannunziato dai nostri presentimenti noi non possiamo facilmente lodare una forma qualsiasi di vita, che abbiamo osservata o di cui abbiamo letto. Noi non soltanto affermiamo di avere pochi grandi uomini, ma, parlando in senso assoluto, affermiamo di non averne alcuno; di non avere storia, di non aver memoria di alcun carattere o modo di vita, che interamente ci soddisfi. Noi siamo costretti ad accettare con un po’ d’indulgenza i santi ed i semidei che la storia adora. Sebbene nelle nostre ore solitarie otteniamo dal loro ricordo una forza nuova, pure, imposti alla nostra attenzione, come essi sono, dall’uso, essi stancano ed importunano. L’anima si dà sola, originale e pura, a chi è Solo, Originario e Puro, il quale in tale condizione lietamente si veste, cammina e parla per suo mezzo. Allora essa è lieta, giovane ed agile; non è saggia, ma vede attraverso tutte le cose: non è chiamata religiosa, ma è innocente. Essa richiama la luce sua propria, e sente che l’erba cresce e che la pietra cade per una legge inferiore alla sua natura, e dipendente da essa. Guarda — essa dice — io sono nata nel grande spirito universale. Io, l’imperfetto, adoro il mio proprio Perfetto. Io sono in qualche modo ricettiva della grande anima, e perciò non mi curo del sole e delle stelle, e sento che essi non sono che vaghi accidenti ed [209] effetti, che mutano e passano. — Quanto più le sorgenti dell’eterna natura entrano in me, tanto più io divengo universale ed umana nei miei rapporti e nelle mie azioni. Così io giungo a vivere in pensieri e ad agire con energie, che sono immortali. Così riverendo l’anima ed imparando, come disse l’antico, che «la sua beltà è immensa», l’uomo giungerà a vedere che il mondo è il miracolo perenne compiuto dall’anima, e sarà meno stupito dinnanzi a particolari meraviglie; ed imparerà che non vi è storia profana; che tutta la storia è sacra; che l’universo è rappresentato in un atomo, in un istante fuggevole. Egli non condurrà più a lungo una vita di colpe e di ripieghi, ma vivrà con una divina unità. Egli abbandonerà ciò che è basso e frivolo nella sua vita, e sarà contento di qualsiasi posto, e di qualsiasi servizio egli potrà rendere. Egli affronterà calmo e noncurante il domani, mercè la fiducia posta in Dio, e così avrà di già l’intero futuro nelle profondità del suo cuore.

[211]

DECIMO SAGGIO I CIRCOLI

L’occhio è il primo circolo; l’orizzonte che esso forma è il secondo; e attraverso a tutta la natura questa figura elementare è ripetuta all’infinito; essa è il più alto emblema nel monogramma del mondo. Sant’Agostino descrisse la natura di Dio come un circolo, il cui centro era ovunque e la cui circonferenza in nessun luogo. In tutta la nostra vita noi leggiamo il molteplice senso di questa prima fra le forme. Noi abbiamo già dedotta una morale, considerando il carattere circolare o di compenso di ogni azione umana. Un’altra analogia tracceremo ora ed è: che ogni azione accetta di essere sorpassata. La nostra vita è un avviamento alla conoscenza della verità che intorno a qualsiasi circolo, un altro può essere tracciato; che non vi è fine in natura, ma che ogni fine è un principio; che sempre vi è un’altra aurora dopo il tramonto, e che sotto qualsiasi profondità un’altra profondità più profonda si apre. Questo fatto, simbolo del fatto morale dell’Irraggiungibile, del fuggente Perfetto, intorno a cui le mani degli uomini non possono mai intrecciarsi, l’ispiratore ed il giudice di ogni successo, può convenientemente servirci a riunire molte illustrazioni del potere umano in ogni circostanza.

Non vi sono immobilità in natura. L’universo è fluido e volatile — la stabilità non è che una parola relativa. [212] Il nostro globo veduto per mezzo di Dio, è una legge trasparente e non una massa di fatti. La legge dissolve il fatto e lo mantiene fluido. La nostra cultura è il predominio di un’idea, che si trascina dietro questo séguito di città e di istituzioni. Innalziamoci ad un’altra idea; esse spariranno. La scultura greca è andata distrutta, come se le sue statue fossero state di ghiaccio; e qua e là una figura solitaria od un frammento rimangono, come quei lembi di neve che troviamo nelle fredde vallate e nei burroni alpini, in giugno ed in luglio. Il genio che creò quella scultura, crea ora qualchecosa altro. Le lettere greche durarono un poco di più, ma soggiacendo alla stessa condanna, stanno cadendo nell’inevitabile baratro che la creazione di un nuovo pensiero apre per tutto ciò che è vecchio. I nuovi continenti sono costruiti dalle rovine di un vecchio pianeta; le nuove razze si alimentano con la decomposizione delle vecchie. Le arti nuove distruggono la vecchia. Vedete i capitali impiegati negli acquedotti resi inutili dalle opere idrauliche; le fortificazioni inutilizzate dalla polvere; le strade ed i canali dalle ferrovie; le vele dal vapore; il vapore dall’elettricità.

Voi ammirate questa torre di granito, resistente agli urti di tanti secoli. Eppure una piccola mano tremula costrusse questo immenso muro e ciò che costruisce è migliore di ciò che è costruito. La mano che la costruì può buttarla giù molto più rapidamente. Migliore però e più agile della mano fu il pensiero invisibile che lavorò per mezzo di essa, e così sempre, dietro il ruvido effetto vi è una sottile causa, che vista da vicino è essa stessa l’effetto di una causa più bella. Ogni cosa sembra permanente finchè il suo segreto non è conosciuto. Un ricco possedimento appare alle donne ed ai ragazzi una cosa salda e durevole; per un mercante è una cosa creata con qualche materiale, e facilmente perduta. Un [213] orto, una buona coltivazione, dei buoni terreni, appaiono ad un cittadino una cosa così invariabile come una miniera d’oro od un fiume; ma ad un esperto agricoltore essi appaiono non molto più invariabili delle condizioni del raccolto. La natura appare provocantemente stabile e secolare, ma essa ha pure una causa come tutto il resto. Orbene quando io abbia compreso ciò, continueranno questi campi a stendersi così immutabilmente vuoti, e queste foglie a pendere così individualmente considerevoli? L’immutabilità è una parola relativa. Ogni cosa ha un valore medio. Le lune non sono maggiori legami al potere spirituale che le racchette del criket.

La via che conduce ad ogni uomo è il suo proprio pensiero. Per quanto testardo ed audace egli possa apparire, pure egli ha una guida alla quale ubbidisce, cioè l’idea secondo cui tutti i suoi fatti sono classificati. Egli può essere mutato solo con la rivelazione di una nuova idea, che domini la sua propria. La vita di un uomo è un circolo, che si evolve da sè, che da un cerchio impercettibilmente piccolo s’allarga da ogni parte esternamente, in circoli nuovi e maggiori, senza fine. L’estensione, alla quale questa generazione di circoli giungerà, dipende dalla forza o costanza dell’anima individuale, poichè questa generazione è lo sforzo inerte di ciascun pensiero formatosi in uno sviluppo circolare di circostanze, come, ad esempio, quello di un impero che usufruisce di un’arte, di un uso locale, di un rito religioso per innalzar se stesso e solidificarsi e plasmarsi nella vita. Ma se l’anima è forte e rapida, oltrepassa quel dato limite da tutti i lati e traccia una nuova orbita sulla grande profondità, che sorge con un fiotto impetuoso e con una novella tendenza ad arrestarsi e costringersi in dati limiti. Ma il cuore rifugge dall’essere imprigionato; nei suoi primi e più deboli palpiti esso tende [214] di già con vigorosa forza all’esterno e ad immense e innumerevoli espansioni.

Ogni fatto ultimo altro non è che il primo di una nuova serie. Ogni legge generale è un fatto particolare di qualche legge più generale in procinto di scoprirsi. Nulla vi è di esterno per noi; nessun muro v’è che ci racchiuda, nessuna circonferenza. L’uomo completa la sua storia; essa è buona e finale, e dà un nuovo aspetto a tutte le cose! Egli riempie il cielo. Ecco, dall’altra parte si leva pure un uomo, e traccia un circolo intorno al circolo che noi avevamo appunto allora affermato essere la parte esterna della sfera. Ed allora di già il nostro primo oratore non è più un uomo, ma solamente un primo oratore. Suo unico scopo è ora di tracciare un circolo che circoscriva quello del suo avversario. Così gli uomini fanno con se stessi. La conquista d’oggi che ci occupa la mente e non può essere ignorata, sarà fra poco ristretta in una parola, ed il principio che sembrava spiegare la natura, sarà esso stesso incluso come esempio di una generalizzazione più audace. Nel pensiero di domani sta il potere di capovolgere tutto il tuo credo, tutti i credi, tutte le letterature delle nazioni, e di guidarli ad un cielo, che nessun sogno epico ha mai dipinto. Ogni uomo non è tanto un lavoratore nel mondo, quanto una suggestione di ciò che egli dovrebbe essere. Gli uomini passano come profezie delle future età.

Grado a grado noi saliamo questa misteriosa scala; i passi sono le azioni; la nuova prospettiva è il potere. Ogni singolo risultato è incalzato e giudicato da quello che segue: quello sembra essere contraddetto da questo; ma ne è solamente limitato. Il nuovo assetto è sempre odiato dal vecchio e coloro che aderiscono al vecchio sono assaliti da un’onda di scetticismo. Ma l’occhio tosto si abitua al nuovo, perchè l’occhio e l’assetto sono effetti [215] di una sola causa; allora la sua rettitudine ed il suo beneficio appaiono, e perdute tutte le sue energie, il vecchio assetto impallidisce e si piega dinnanzi alla rivelazione dell’ora nuova.

Non temete la generalizzazione nuova. Il fatto rozzo e materiale par che minacci di degradare la tua teoria dello spirito? Non resistergli, esso di tanto raffinerà ed innalzerà la tua teoria della materia.

Se noi ci appelliamo alla nostra persuasione diremo che non ci sono cose immutabili negli uomini. Ogni uomo suppone di non essere pienamente compreso; e se vi è qualche verità in lui, se egli riposa alfine nell’anima divina, io non vedo come potrebbe essere altrimenti. Egli sente che l’ultimo cielo, l’ultimo orizzonte non fu mai aperto; che vi è sempre un residuo sconosciuto, non analizzabile. Ogni uomo cioè crede di avere una maggiore possibilità.

I nostri stati di mente non si integrano vicendevolmente. Oggi io son ricco di pensieri, e posso scrivere ciò che mi piace. Io non vedo perchè non debba avere lo stesso pensiero, lo stesso potere d’espressione, domani. Ciò che io scrivo, mi pare scrivendolo la più naturale cosa del mondo; ma ieri vidi una terribile vacuità in questa stessa direzione, nella quale vedo ora tante cose; e fra un mese, non ne dubito, mi domanderò chi fu, che scrisse tante pagine di séguito. Pietà, per questa fede malferma, per questa volontà incerta, per questo solitario riflusso di un flusso silenzioso! Io sono Dio nella natura; io sono una cattiva erba appesa al muro.

Il continuo sforzo di innalzarsi al disopra di se stesso, di toccare una vetta superiore all’ultima vetta, traspare dalle relazioni dell’uomo. Noi siamo assetati di lode, eppure sentiamo una specie di astio contro chi ci loda. La dolcezza della natura è l’amore; eppure se ho un amico, io sono tormentato dalle mie imperfezioni. Se egli [216] fosse alto abbastanza da avvilirmi, allora potrei amarlo, ed innalzarmi col mio affetto a nuove altezze. Il progresso d’un uomo può essere osservato nelle cerchie successive dei suoi amici. Per ogni amico che perde in omaggio alla verità, uno migliore ne guadagna. Io pensavo, camminando nei boschi e meditando sui miei amici: «perchè dovrei io giuocare con essi questo giuoco dell’idolatria?». Io conosco e discerno troppo bene, quando non sono volontariamente cieco, i brevi confini delle persone chiamate alte e meritevoli. Ricche, nobili e grandi, esse sono in grazia della generosità del nostro discorso; ma la verità è triste. Oh! benedetto Spirito, che io abbandonai per loro; essi non sono tu! Ogni stima personale da noi concessa, ci costa celesti tesori. Noi vendiamo i seggi degli angeli per un piacere breve e turbolento.

Quante volte dobbiamo noi imparare questa lezione? Gli uomini cessano d’interessarci quando noi scopriamo i loro confini. L’unico male è la limitazione. Così tosto come vi imbattete con i limiti segnati ad un uomo, tutto è finito con lui. Ha egli talento? iniziativa? cultura? Ciò non giova. Ieri egli era per voi infinitamente interessante ed attraente, era una grande speranza, un mare in cui nuotare; ora avete scoperto i suoi confini, lo avete trovato una palude, e nulla v’importa se non lo rivedrete mai più.

Ogni nuovo passo che noi facciamo nel pensiero, riconcilia venti fatti apparentemente discordi, come espressioni di una sola legge. Aristotile e Platone sono riconosciuti i rispettivi capi di due scuole. Un uomo saggio vedrà che Aristotile platonizza. Col retrocedere di un passo nel pensiero, le opinioni discordi si riconciliano, apparendo esse i due estremi di un solo principio e noi possiamo giammai tanto retrocedere da precludere una ancor più alta visione.

[217]

Badate quando il grande Iddio pone un pensatore su questo pianeta: tutte le cose sono allora in pericolo; ed avviene ciò che nelle grandi città quando un disastro è scoppiato, e nessuno sa ciò che è salvo, e quando quello finirà. Non vi è parte della scienza, che non possa trasmutarsi domani; non vi è alcuna riputazione letteraria, neppure i così detti eterni nomi della fama, che non possa essere riesaminata e condannata. Le speranze stesse dell’uomo, i pensieri del suo cuore, la religione delle nazioni, i costumi e la morale del genere umano, sono tutti in balìa di una nuova generalizzazione: questa è sempre un nuovo influsso della divinità nella nostra mente. Di qui deriva il brivido che la accompagna.

Il valore consiste nella facoltà dell’auto-ricupero, così che un uomo non può essere voltato, non può essere vinto; ma ponetelo dove vi piaccia egli starà eretto. Questo può solo derivare dal suo preferire la verità alla sua passata intelligenza della verità, e dalla sua rapida accettazione di essa, da qualunque parte venga; come dalla salda convinzione che le sue leggi, le sue relazioni con la società, la sua cristianità, il suo mondo, possono ad ogni momento essere allontanati e morire.

Vi sono nell’idealismo diversi stadi. Noi impariamo prima a scherzare con esso accademicamente, allo stesso modo che la pietra magnetica non era una volta che un trastullo. In seguito noi vediamo nell’impeto della gioventù e della poesia che l’idealismo può essere vero: che è vero a sprazzi e frammentariamente. Poi il suo aspetto diviene severo e grande e noi pensiamo che deve essere vero. Esso ora si mostra etico e pratico, e noi impariamo che Dio esiste, che egli è in me; che tutte le cose sono ombre di lui. L’idealismo di Berkeley è solamente una cruda affermazione dell’idealismo di Gesù, e ancora è una cruda affermazione del fatto, che tutta la natura è la rapida emanazione della bontà, [218] che effettua ed organizza se stessa. Molto più chiaramente la storia e lo stato del mondo sono in qualsiasi tempo direttamente dipendenti dalla classificazione intellettuale allora esistente nelle menti degli uomini. Le cose che sono care agli uomini del nostro tempo sono tali a causa delle idee sorte sul loro orizzonte mentale, e che producono il presente ordine di cose, come un albero produce le sue mele. Un nuovo grado di coltura rivoluzionerebbe immediatamente l’intiero sistema delle aspirazioni umane.

La conversazione è un giuoco di circoli. Nella conversazione noi cogliamo i «termini» che limitano da ogni lato il silenzio comune. Quelli che conversano non devono essere giudicati a seconda dello spirito che essi seguono ed anche esprimono sotto questa Pentecoste. Domani essi si saranno ritirati da questa alta marea. Domani li troverete curvi sotto i vecchi basti. Eppure perchè non dobbiamo godere del fiammante garofano mentre palpita sui nostri muri? Allorquando ogni nuovo oratore ci illumina di una nuova luce, egli ci solleva dall’oppressione dell’ultimo oratore per opprimerci con la grandezza e l’esclusività del suo proprio pensiero; poi ci abbandona ad un altro redentore, mentre a noi pare di ricuperare i nostri diritti e di divenire uomini. Quali verità profonde ed effettuabili solo nei secoli sono supposte nell’annunzio di una verità qualsiasi. Nelle ore comuni la società siede fredda e pari ad una statua. Noi tutti giaciamo attendendo, bisognosi, attorniati da simboli potenti, che per noi non sono simboli, ma prosa e trastulli triviali. Allora viene un dio e converte le statue in uomini ardenti, e con un lampo dei suoi occhi brucia il velo che seppelliva tutte le cose; ed allora anche il significato del mobilio, della tazza e del piattellino, della sedia e della pentola, è manifesto. I fatti che apparivano così grandi nella nebbia di ieri — la proprietà, [219] il clima, l’educazione, la bellezza personale e simili, hanno stranamente mutate le loro proporzioni. Tutto ciò che credevamo stabile si muove e rumoreggia; e letterature, città, climi, religioni, abbandonano le loro basi e danzano davanti ai nostri occhi. Eppure vedete qui nuovamente la rapida circoscrizione! Per quanto buono sia il discorso, il silenzio è migliore e lo mortifica. La lunghezza del discorso indica la distanza fra colui che parla e colui che ascolta. Se entrambi fossero assolutamente d’accordo sopra un punto qualsiasi non vi sarebbe bisogno di alcuna parola. Se si fosse d’accordo in tutti i punti, nessuna parola sarebbe sopportata.

La letteratura è un punto esterno del nostro circolo d’oggi, attraverso il quale un nuovo circolo può essere tracciato. L’utilità della letteratura è di fornirci di una piattaforma, dalla quale possiamo godere di una completa visione della nostra vita presente, e fare un acquisto, per mezzo del quale muoverla. Noi ci armiamo di antica sapienza; e ci installiamo nel migliore modo possibile nelle case Romane, Puniche e Greche, solamente allo scopo di osservare più saggiamente le case ed i modi di vita dei Francesi, Inglesi e Americani. Allo stesso modo noi possiamo nel miglior modo osservare la letteratura dal mezzo di una natura selvaggia, dallo strepito degli affari o dall’alto di una religione. Il campo non può essere ben osservato dall’interno del campo stesso. L’astronomo deve avere il diametro dell’orbita della terra come base per trovare il paralasse di qualsiasi stella.

Perciò noi stimiamo il poeta. Tutta la scienza e tutta la saggezza non si trovano nell’enciclopedia o nel trattato di metafisica, ma nel sonetto o nella commedia. Nel mio lavoro giornaliero io tendo a ripetere i miei vecchi passi, e non credo in una forza correttiva e nel potere [220] del mutamento e della riforma. Ma qualche Petrarca od Ariosto, ricco del nuovo vino della sua immaginazione, mi scrive un’ode od una vivace romanza, piena di audace pensiero e di movimento. Egli mi colpisce e mi scuote coi suoi toni acuti, rompe la mia intiera catena di abitudini, ed io apro gli occhi sulle mie stesse possibilità. Egli mette ali a fianco di tutto il pesante e vecchio legname del mondo, ed io posso una volta ancora scegliere la diritta via nella teoria e nella pratica.

Noi sentiamo la stessa necessità per ciò che riguarda la religione del mondo. Noi non potremo mai osservare il Cristianesimo dal catechismo; ma potremo forse osservarlo dalla barca nel laghetto, dai pascoli, fra i canti degli uccelli nei boschi. Purificati dalla luce elementare e dal vento, immersi nel mare delle forme belle, che il campo ci offre, noi possiamo aver la buona sorte di gettare un diritto sguardo sulla vita passata. Il Cristianesimo è giustamente caro alla miglior parte del genere umano; nè mai vi fu un giovane filosofo, la cui educazione fosse caduta nella chiesa cristiana, da cui quelle coraggiose parole di S. Paolo non fossero specialmente lodate: — «Allora anche il Figlio sarà soggetto a Colui che mise tutte le cose sotto lui, affinchè Dio sia tutto in tutti». Siano pure grandi e ben venuti i diritti e le virtù delle persone, ma l’istinto dell’uomo si spinge avanti verso l’impersonale e l’illimitato, e lietamente si arma, contro il dogmatismo dei bigotti, con questa generosa parola tolta dal Libro stesso.

Il mondo naturale può essere concepito come un sistema di circoli concentrici, e i leggieri spostamenti che di tanto in tanto scopriamo nella natura ci informano che questa superficie, sulla quale stiamo, non è fissa ma scorrevole. Queste molteplici qualità tenaci, la chimica e la vegetazione, i metalli e gli animali, che sembrano esistere per un loro proprio fine, — sono parole di Dio, [221] e parole fuggitive quanto qualsiasi altra. Ha imparato l’arte sua il naturalista od il chimico, che ha esplorato la gravità degli atomi, e le affinità elettive, che non ha ancora scorta la legge più profonda, di cui questa è solo una affermazione parziale od approssimativa, cioè che il simile attira il simile, e che i beni che vi appartengono gravitano su di voi, e che non è necessario che voi li perseguitiate con dolori e fatiche? Eppure, questa affermazione è anche approssimativa e non finale. L’omnipresenza è un fatto più alto. Gli amici ed i fatti non debbono essere attratti verso i loro simili, attraverso canali e sotterranei, ma giustamente considerando, queste cose provengono dalla generazione eterna dell’anima. La causa e l’effetto sono due lati di un solo fatto.

La stessa legge dell’eterno procedere allinea tutte quelle cose che noi chiamiamo virtù, e spegne ognuna di esse nella luce di una migliore. L’uomo grande non sarà prudente secondo il senso comune; tutta la sua prudenza sarà proporzionalmente dedotta dalla sua grandezza. Ma si addice a ciascuno il vedere, quando egli sacrifica la prudenza, a quale dio egli la dedichi; se alla comodità ed al piacere, sarebbe meglio che egli fosse prudente ancora; se ad una grande fede, può ben risparmiare il suo mulo ed il suo canestro, possedendo invece un carro alato. Goffredo si mette gli stivali per andare nei boschi, affinchè i suoi piedi siano al sicuro dal morso dei serpenti; Aarone non pensa mai a tale pericolo ed in molti anni nessuno dei due è stato colpito da tale accidente. Pure mi sembra che qualsiasi precauzione voi prendiate contro un male, voi vi mettiate in potere del male. Io suppongo che la più alta prudenza è quella più bassa. È ciò un buttarsi troppo rapidamente dal centro della nostra orbita alla sua periferia? Pensate quante volte ricadremo in pietose meditazioni prima di prendere il nostro riposo nel grande [222] sentimento, o faremo del confine d’oggi il centro nuovo. Inoltre il vostro più nobile sentimento è familiare ai più umili uomini. I poveri e gli umili hanno il loro modo di esprimere gli ultimi fatti della filosofia così bene come voi. «L’essere benedetto è nulla» e «quanto peggiori sono le cose, e tanto migliori sono» sono proverbi che esprimono il trascendentalismo della vita comune.

La giustizia di un uomo diviene l’ingiustizia di un altro; la bellezza di un uomo diviene la bruttezza di un altro; la saggezza di un uomo la follia di un altro; a misura che uno osserva gli stessi oggetti da un punto più alto. Un uomo crede che la giustizia consista nel pagare i debiti, e non ha misura nel suo disprezzo per un altro che è molto negligente su questo punto e fa attendere, oltre il bisogno, il suo creditore. Ma questo secondo uomo ha il suo modo personale di osservare le cose; egli si domanda quale debito debba pagare prima: il debito verso il ricco o quello verso il povero? il debito del denaro od il debito del pensiero verso la umanità, del genio verso la natura? Per voi, trafficante, non vi è altro principio all’infuori dell’aritmetica. Per me il commercio ha un’importanza volgare; l’amore, la fede, la lealtà del carattere, le aspirazioni dell’uomo, sono per me cose sacre; nè io posso staccare, come voi fate, un solo dovere da tutti gli altri doveri, e concentrare le mie forze meccanicamente sul pagamento del denaro. Lasciatemi vivere progredendo, e voi troverete, anche se più lentamente, che il progresso della mia natura spirituale liquiderà tutti questi debiti senza recare ingiustizia ai più alti diritti. Se un uomo si dedicasse al pagamento dei conti non sarebbe ciò un’ingiustizia? Non ha egli altri debiti dunque che il denaro? E devono tutti i diritti su di lui essere posposti a quelli del padrone di casa o del banchiere?

[223]

Non vi sono virtù finali; tutte sono iniziali. Le virtù della società sono i vizi del santo. Il terrore della riforma è la rivelazione che noi dobbiamo abbandonare le nostre virtù e ciò che abbiamo tenuto sempre per virtù nello stesso abisso che ha consumato i nostri vizi più grossolani.

«Perdonate i suoi delitti, perdonate anche le sue virtù, quelle più piccole colpe, ed a metà si converte al giusto».

Quello d’abolire anche le nostre contrizioni è il più alto potere degli impulsi divini. Io accuso me stesso di negligenza e di inutilità giorno per giorno; ma quando queste ondate di Dio sorgono in me, io non calcolo più il tempo perduto. Non calcolo più meschinamente ciò che potrò compiere per mezzo di ciò che mi rimane del mese e dell’anno; perchè quei momenti divini mi conferiscono una specie di omnipresenza ed omnipotenza, che non richiede durata, ma che è conscia che l’energia della mente è commisurata al lavoro da farsi, senza restrizioni di tempo.

«E così, oh filosofo dei circoli», — io sento esclamare da qualche lettore — «sei giunto ad un bel Pirronismo, all’equivalenza ed all’indifferenza di tutte le azioni, e vorresti tentare d’insegnarci che se siamo veritieri, i nostri delitti possono essere pietre viventi con le quali costruiremo il tempio del vero Dio!».

Io non curo di giustificarmi. Io riconosco di essere lieto nel vedere la predominanza del principio della saccarina in tutta la natura vegetale, e di esserlo non meno osservando nella morale quell’irrefrenabile innondazione del principio del bene, in ogni fessura e pertugio che l’egoismo ha lasciato aperto, e più nell’egoismo e nel peccato stesso; così che nessun male è puro, nè l’inferno stesso è senza le sue estreme soddisfazioni. Ma onde non traviare alcuno, mentre posseggo la mia propria [224] testa e obbedisco ai miei desideri, mi si permetta di ricordare al lettore che io sono solo un esperimentatore. Non ponete il più piccolo valore in ciò che io faccio od il più piccolo discredito in ciò che io non faccio, come se io pretendessi di stabilire la verità o la falsità di cosa alcuna. Io sconvolgo tutte le cose. Nessun fatto è sacro per me; nessuno è profano; io semplicemente sperimento, ricercatore instancabile, senza Passato alle mie spalle.

Eppure questo incessante movimento e progressione di cui tutte le cose partecipano, non potrebbe mai divenirci sensibile, se non per contrasto a qualche principio di fissità o di stabilità dell’anima. Mentre l’eterna generazione dei circoli avanza, l’eterno generatore ristà. Tale vita centrale è qualcosa di superiore alla creazione, di superiore alla conoscenza ed al pensiero, e ne contiene in sè tutti i circoli. Eternamente essa lavora per creare una vita e un pensiero così grandi ed eccellenti come se stessa; ma in vano; perchè ciò che è fatto insegna sul come far meglio.

Così non vi è sonno, non vi è pausa, non vi è conservazione, ma tutte le cose si rinnovano, germinano e fioriscono. Perchè dovremmo noi introdurre dei brandelli e delle reliquie nell’ora nuova? La natura abborre le cose vecchie, e la vecchia età pare la sola malattia; tutte le altre hanno foce in questa. Noi chiamiamo ciò con molti nomi: febbre, intemperanza, pazzia, stupidità, delitto; esse sono tutte forme di vecchiezza; esse sono riposo, conservazione, apparizione, inerzia, ma non novità, non via di progresso. Noi incanutiamo ogni giorno. Io non ne vedo il bisogno. Quando conversiamo con ciò che è al dissopra di noi, noi non invecchiamo ma ritorniamo giovani. L’infanzia, la giovinezza, che aspirano con occhio devoto guardando verso l’alto, non si considerano nulla, e si abbandonano all’insegnamento, che scaturisce da ogni lato.

[225]

Ma l’uomo e la donna di settant’anni pretendono di tutto sapere, si innalzano sulle loro proprie speranze, rinunziano all’aspirazione; accettano il presente come necessario, e parlano ai giovani dall’alto. Divengano essi dunque organi dello Spirito Santo, siano essi amanti, contemplino essi la verità; ed i loro occhi alzati, le loro rughe appianate, siano nuovamente inebbriati dalla speranza e dal potere. Questa vecchiaia non dovrebbe accostarsi allo spirito umano. In natura ogni momento è nuovo; il passato è sempre inabissato e dimenticato; il futuro solamente è sacro. Nulla è sicuro se non la vita, la transizione, lo spirito energetico. Nessun amore può essere assicurato da promesse o giuramenti contro un amore più alto. Nessuna verità è così sublime da non poter essere volgare domani, alla luce di nuovi pensieri.

La vita è una serie di sorprese. Noi non indoviniamo oggi il modo, il piacere, il potere di domani, mentre stiamo innalzando il nostro essere. Noi possiamo dire qualche cosa dei più bassi stati, degli atti della consuetudine e del senso; ma i capolavori di Dio, i totali accrescimenti ed i movimenti universali dell’anima sono nascosti; essi sono incalcolabili. Io posso sapere che la verità è divina e che aiuta; ma come essa mi aiuterà non posso indovinare, perchè il così essere è l’unico accesso al così sapere. La nuova condizione dell’uomo che avanza, fruisce di tutti i poteri del vecchio stato, eppure essi sono per noi tutti nuovi. Essa porta nel suo seno tutte le energie del passato; eppure è un’esalazione del mattino. Io butto via in questo momento tutta la mia scienza una volta accatastata, come se fosse cosa vuota e vana. Ora, per la prima volta, mi sembra di sapere qualche cosa giustamente. Noi non conosciamo il significato delle più semplici parole fino a che non amiamo e desideriamo.

[226]

La differenza fra l’ingegno ed il carattere è pari a quella che esiste fra l’abilità di tenere la vecchia pista calpestata, e il potere e il coraggio di percorrere una nuova strada con una nuova e migliore méta. Il carattere rende il presente dominante, lo fa lieto e determinato, e capace di fortificare tutta la società, facendo osservare ad essa che molte cose, alle quali non si era pensato, sono possibili ed eccellenti. Il carattere offusca l’impressione degli eventi particolari. Quando noi vediamo il conquistatore, non pensiamo a qualcuna delle sue battaglie o delle sue vittorie particolari. Noi vediamo che avevamo esagerato la difficoltà. Ciò era facile per lui. Il grande uomo non è sensibile o impressionabile; gli eventi passano sopra lui senza molta impressione. La gente dice talvolta, «Guardate che cosa ho sorpassato; guardate quanto lieto io sono; guardate come ho trionfato completamente di quei neri eventi». Non perchè essi mi ricordano ancora il nero evento, hanno per questo qualcosa conquistato. È conquista forse l’essere un gaio e decorato sepolcro, o una semi-pazza vedova, ridente istericamente? La vera vittoria consiste nel far svanire e sparire il nero evento; come se esso fosse una nuvola intempestiva d’insignificante risultato in una storia così grande e progredente.

L’unica cosa che cerchiamo con desiderio insaziabile è di dimenticar noi stessi, di perdere la nostra sempiterna memoria, e di fare qualche cosa senza sapere il come od il perchè; in breve, di tracciare un nuovo circolo. Nulla di grande fu mai raggiunto senza entusiasmo. La via della vita è meravigliosa: essa lo è per abbandono. I grandi momenti della storia sono quelli dei facili compimenti per mezzo della forza delle idee, come le opere del genio e della religione. «Un uomo — disse Oliviero Cromwell — non si innalza mai così alto, come quando egli non sa dove va». I sogni e [227] l’ubbriachezza; l’uso dell’oppio e dell’alcool, sono la sembianza e la contraffazione di questo genio profetico e da cui viene la loro pericolosa attrazione per gli uomini. Per lo stesso motivo essi richiedono l’aiuto di passioni selvagge, come il giuoco e la guerra, per imitare in qualche modo queste fiamme e generosità del cuore.

[229]

UNDECIMO SAGGIO INTELLETTO

Ogni sostanza è negativamente elettrica per quella che le sta sopra nelle tavole chimiche, positivamente per quella che le è di sotto. L’acqua scioglie il legno, il ferro ed il sale; l’aria scioglie l’acqua; il fuoco elettrico scioglie l’aria; ma l’intelletto scioglie il fuoco, la gravità, le leggi, il metodo e le più sottili, indefinibili relazioni di natura, nel suo irresistibile mestruo. L’intelletto giace dietro il genio, che è l’intelletto costruttivo. L’intelletto è il semplice potere anteriore a qualsiasi azione o costruzione. Con gioia io vorrei spiegare a lenti passi una storia naturale dell’intelletto; ma quale uomo è stato fin’ora capace di segnare i passi ed i limiti di questa essenza trasparente? Le prime domande rimangono sempre tali, ed il più saggio dottore è imbarazzato dalla curiosità di un bambino. Come possiamo noi parlare dell’azione della mente sotto qualsiasi aspetto, (come della sua conoscenza, della sua etica, del suo operare e simili), dal momento che essa scioglie la volontà in percezione, la conoscenza in atto? Ciascuna azione si muta in un’altra. La mente sola esiste e la sua visione non è come la visione dell’occhio, ma è unione con le cose conosciute.

L’intelletto e l’intellezione significano, all’orecchio comune, considerazione di verità astratta. La considerazione di tempo e di luogo, di voi e di me, di profitto e di danno, tiranneggia la mente della maggioranza [230] degli uomini. L’intelletto separa il fatto considerato da voi, da qualsiasi relazione di luogo e di persona, e lo distingue come se esso esistesse per merito proprio. Eraclito considerò le affezioni come nuvole dense e colorate. Nella nebbia delle affezioni buone e cattive è difficile per l’uomo avanzare in linea retta. L’intelletto è vuoto di affezione, ed osserva un oggetto qualsiasi nel modo con cui esso si presenta alla luce della scienza indifferente e libera. L’intelletto va al di là dell’individuo, fluttua sulla sua propria personalità, e lo riguarda come un fatto e non come Io oppure mio. Colui che è immerso in ciò che concerne la persona o il luogo non può studiare il problema dell’esistenza. Questo è ciò che l’intelletto sempre medita. La natura mostra tutte le cose formate e collegate. L’intelletto passa attraverso la forma, valica l’ostacolo, scopre intrinseche somiglianze fra cose lontane, e riduce tutte le cose a pochi principii.

Il fare d’un fatto il soggetto del pensiero è innalzarlo. Tutta quella massa di fenomeni mentali e morali, che noi non facciamo oggetto di pensiero volontario, viene in potere della fortuna; essi costituiscono la condizione della vita giornaliera; essi sono soggetti a mutamento, a timore ed a speranza. Ogni uomo contempla la sua condizione umana con un certo grado di melanconia. Come un bastimento arenato è sbattuto dalle onde, così l’uomo, imprigionato nella vita mortale, giace senza difesa in balìa degli eventi. Ma una verità, separata dall’intelletto, non è più a lungo un soggetto del destino. Noi la osserviamo come un dio innalzato al disopra dell’affanno e del timore. E così qualsiasi fatto nella nostra vita, o qualsiasi ricordo della nostra fantasia o della nostra riflessione, disimpigliato dalla rete della nostra inconsapevolezza, diviene un oggetto impersonale ed immortale. È il passato restaurato, ma [231] imbalsamato. Un’arte migliore di quella dell’Egitto l’ha protetto dal timore e dalla corruzione. Esso è prosciolto dall’affanno. — Esso è offerto alla scienza. Ciò che ci è inviato per contemplazione non ci minaccia, ma ci rende degli esseri intellettuali.

Lo sviluppo dell’intelletto è spontaneo in ogni momento. La mente non potrebbe predire il tempo, il mezzo, il modo di tale spontaneità. Dio entra per una porta segreta in ogni individuo. Molto anteriore all’età della riflessione è il pensare della mente. Esso venne insensibilmente dalla oscurità alla meravigliosa luce d’oggi. Sopra di esso regnò sempre una salda legge. Nel periodo dell’infanzia esso ricevette e dispose di tutte le impressioni della circostante creazione in un suo proprio modo. La mente nel fare o nel dire è governata da una legge; essa non ha azione o parola espressa per caso. E questa legge nativa domina la mente dopo che essa è venuta alla riflessione o al pensiero conscio. Nella più agitata, più pedante, più introspettiva vita d’un auto-analizzatore, la più grande parte di essa è per lui incalcolabile, imprevista ed inimmaginabile.

Che cosa sono io? Che cosa ha fatto la mia volontà per rendermi ciò che sono? Nulla! Io sono stato cullato in questo pensiero, in quest’ora, in questa connessione di eventi da un potere e da una mente sublime e la mia destrezza e la mia volontà pur non contrastando non mi hanno aiutato in modo apprezzabile.

La nostra azione spontanea è sempre la migliore. Voi non potete, con la vostra migliore deliberazione o cura, avvicinarvi tanto ad una questione, quanto un vostro spontaneo sguardo vi porterà mentre vi alzate da letto o uscite al mattino dopo aver meditata la cosa, prima del riposo della notte precedente. Il nostro pensare è sempre un devoto atto di ricevere. La spontaneità del nostro pensiero è perciò viziata tanto da una troppo [232] violenta direzione data dalla nostra volontà, quanto da una troppo grande negligenza. Noi non determiniamo ciò che penseremo. Solamente apriamo i nostri sensi, ci liberiamo, quanto è possibile, d’ogni ostacolo al fatto, e lasciamo che l’intelletto veda. Noi abbiamo un debole controllo sui nostri pensieri. Noi siamo i prigionieri delle idee. Esse ci portano per qualche momento nel loro cielo e così intieramente ci conquidono, che noi non abbiamo pensiero per il domani, ma le guardiamo stupefatti come bambini, senza uno sforzo per impossessarcene. Poco a poco cadiamo fuori di questa estasi, ci ricordiamo dove siamo stati, ciò che abbiamo visto e sinceramente ripetiamo come possiamo, quanto abbiamo contemplato. Fino a quando noi possiamo richiamare questi rapimenti, noi ne portiamo nella incancellabile memoria il risultato, e tutti gli uomini e tutti i secoli lo confermano. Ciò è chiamato Verità. Ma dal momento in cui cessiamo di riferirci ad essa e tentiamo di correggere od inventare, ciò non è più verità.

Se consideriamo quali persone ci hanno stimolato e giovato, noi noteremo la superiorità del principio spontaneo od intuitivo su quello aritmetico o logico. Il primo sempre contiene il secondo, ma virtuale e latente. Noi richiediamo in ogni uomo una lunga logica; non possiamo perdonare l’assenza di essa, ma di essa non si deve parlare. La logica è il procedimento o lo svolgimento proporzionato dell’intuizione; ma la sua virtù è come un metodo silenzioso; se essa volesse apparire come una proposizione ed avere un valore separato, perderebbe ogni valore.

Nella mente di ogni uomo, rimangono senza sforzo impresse imagini, fatti o parole, che altri dimenticano, e che in seguito gli rivelano leggi importanti. Tutto il nostro progresso è sviluppo, come lo è la gemma vegetale. Prima voi avete un istinto, poi un’opinione, [233] poi una conoscenza, come la pianta ha prima la radice, poi il germoglio e poi il frutto. Confidatevi all’istinto fino alla fine, anche se non potete rendervi ragione di esso. È vano lo stimolarlo; confidando nell’istinto fino alla fine, esso maturerà nella verità e voi saprete perchè credete.

Ogni mente ha il suo proprio metodo. Un uomo vero, un uomo sincero non impara mai secondo le leggi d’una comunità. Ciò che voi avete raccolto in un modo naturale, vi sorprende e vi colma di gioia quando si palesa; perciò noi non possiamo vigilare sui segreti l’uno dell’altro. E da ciò le differenze fra gli uomini per le loro doti naturali sono insignificanti, in paragone della loro ricchezza comune. Credete voi che il portinaio ed il cuoco non abbiano degli aneddoti, delle esperienze, delle meraviglie per voi? Ognuno sa tanto quanto il saggio. I baluardi delle menti rudi sono tutti coperti d’iscrizioni, che sono fatti e pensieri. Gli uomini un giorno porteranno una lanterna e leggeranno le iscrizioni. Ogni uomo, a seconda del suo spirito e della sua cultura, trova la sua curiosità infiammata verso i modi di vita e di pensiero di altri uomini, e specialmente di quelle classi di uomini, le cui menti non sono state soggiogate dalle discipline dell’educazione scolastica.

Quest’azione istintiva non viene mai meno in una mente equilibrata; ma diviene più ricca e più frequente nelle sue conoscenze attraverso tutti gli stati della coltura. Al fine viene l’êra della riflessione, quando noi non solo osserviamo, ma ci prendiamo cura di osservare; quando con deliberato proposito ci arrestiamo per considerare una verità astratta; quando teniamo aperti gli occhi della mente, mentre conversiamo, mentre leggiamo, mentre facciamo, intenti ad imparare la segreta legge di alcune classi di fatti.

[234]

Quale è il più difficile compito nel mondo? Pensare. Io vorrei pormi nell’atteggiamento di guardare negli occhi una verità astratta, e non posso. Io titubo e mi agito da questa parte e da quella. Mi sembra di sapere che cosa volle dire colui che disse: Nessun uomo può guardare Iddio faccia a faccia e vivere. Per esempio un uomo studia le basi del governo civile: volga pure egli la sua mente senza interruzione, senza riposo, in una sola direzione. La sua attenzione per lungo tempo a nulla gli serve. Pure, dei pensieri sorgono innanzi a lui. Noi intravediamo, noi vagamente presentiamo la verità. Noi diciamo: vado fuori e la verità prenderà forma e chiarezza per me. Usciamo, ma non la troviamo. Allora pare a noi di abbisognare del silenzio e del raccoglimento della biblioteca per afferrare il pensiero. Noi entriamo, ma siamo così lontani da esso, come lo eravamo in principio. Ma ecco, d’un tratto, senza esser annunziata, la verità appare. Una certa luce vagante appare, ed è la distinzione, il principio che noi cercavamo. Ma l’oracolo giunge perchè noi avevamo antecedentemente posto assedio all’ara. La legge dell’intelletto sembra che assomigli a quella legge naturale per la quale noi inspiriamo ed espiriamo; per la quale il cuore attrae e respinge il sangue — vale a dire la legge dell’ondulazione. Così ora voi dovete lavorare con il vostro cervello, ora dovete arrestare la vostra attività, e vedere che cosa la grande Anima insegni.

Le nostre intellezioni sono sopratutto prospettiche. L’immortalità dell’uomo è così legittimamente predicata dalle intellezioni come dalle volizioni morali. Ogni intellezione è specialmente prospettica. Il suo valore istante è la sua minor parte. Osservate ciò che vi diletta in Plutarco, in Shakespeare, in Cervantes. Ogni verità che lo scrittore acquista è una lanterna, che egli volge in pieno su quei fatti e pensieri, che giacciono di già [235] nella sua mente, e mirate! tutte le inezie e le anticaglie che hanno pavimentata la sua soffitta, divengono preziose. Ogni fatto triviale nella sua biografia privata diventa un’illustrazione di questo nuovo principio, s’inchina di nuovo al giorno, ed allieta tutti gli uomini con la sua arguzia e la sua nuova bellezza. Gli uomini dicono: dove ottenne egli questo? e credono vi sia qualchecosa di divino nella sua vita. Ma non è così: gli uomini hanno migliaia di fatti, altrettanto buoni, se essi volessero solo procurarsi una lampada per ricercarli nelle loro soffitte.

Noi tutti siamo saggi. La differenza tra le persone non sta nella saggezza, ma nell’arte. Io conobbi, in un circolo accademico, una persona che sempre si rivolgeva a me, perchè, vedendo il mio capriccio per lo scrivere, s’immaginava che la mia esperienza avesse qualchecosa di superiore; mentre io ben m’accorgevo che la sua esperienza era buona quanto la mia. Date la sua esperienza a me, ed io ne farò lo stesso uso. Egli seguiva il vecchio; egli segue il nuovo; io avevo l’abitudine di riunire il vecchio e il nuovo che egli non usava esercitare. Questo può sostenersi con grandi esempi. Forse se incontrassimo Shakespeare, noi non saremmo consci di alcuna grande inferiorità; no: ma di grande uguaglianza; solo che egli possedeva una straordinaria abilità d’usare, di classificare i suoi fatti, abilità della quale noi manchiamo. Però, nonostante la nostra totale incapacità di produrre qualche cosa simile all’Amleto o all’Otello, vedete l’accoglienza che trovano in noi quello spirito, quell’immensa conoscenza della vita, quella fluida eloquenza.

Se raccogliete delle mele alla luce del sole o raccogliete del fieno o ammucchiate del frumento, e poi vi ritirate in casa e chiudete i vostri occhi, e li comprimete con le mani, vedrete le mele appese nella luce [236] brillante con i loro ramoscelli e le loro foglie, o il fieno ammucchiato, o le spiche di frumento; e ciò per cinque o sei ore dopo. Le impressioni s’adagiano nell’organo ritentivo, ancorchè voi non lo sappiate. Così giacciono le serie complete delle imagini naturali, con le quali la vostra vita a vostra insaputa vi ha messo in rapporto per mezzo della memoria; un brivido di passione illumina come un lampo la loro camera oscura, ed il potere attivo prende istantaneamente l’imagine adatta come espressione del suo pensiero istante.

Molto tempo passa prima di scoprire quanto ricchi noi siamo. La nostra storia, noi pensiamo, è completamente sbiadita; nulla abbiamo da scrivere, nulla dà concludere. Ma i nostri anni più saggi rievocano ancora i ricordi disprezzati della nostra infanzia, e noi sempre ancora peschiamo qualche cosa di meraviglioso in quel lago; finchè, poco a poco, incominciamo a sospettare che la biografia della sola folle persona che conosciamo sia in realtà nulla di meno che la parafrasi in miniatura dei cento volumi della Storia Universale.

Nell’intelletto costruttivo, che designiamo popolarmente con la parola Genio, noi osserviamo lo stesso equilibrio di due elementi, come nell’intelletto ricettivo. L’intelletto costruttivo produce pensieri, sentenze, poemi, piani, disegni, sistemi. Esso è la generazione della mente, il connubio del pensiero con la natura. Al genio devono sempre accoppiarsi due doti, il pensiero e la divulgazione di esso. Il primo è rivelazione, sempre miracolo che nè la frequenza del caso, nè lo studio incessante può mai render familiare, ma che deve sempre lasciar l’indagatore stupito e meravigliato. Esso è l’avvento della verità nel mondo; è una forma di pensiero che, per la prima volta, s’apre nell’universo; un figlio della vecchia anima eterna; un brano di genuina ed incommensurabile grandezza. Per quel momento, pare ch’esso erediti [237] tutto ciò che esistette, e che detti a ciò che non nacque ancora. Questa rivelazione, questo miracolo interessa ogni pensiero dell’uomo, e s’appresta a rendere possibile ogni istituzione. Ma per esser utile, essa abbisogna di un’arte, di un veicolo, con cui esser trasportata fra gli uomini. Per essere comunicabile, essa deve divenire pittura od oggetto sensibile. Noi dobbiamo imparare il linguaggio dei fatti. Le più sublimi ispirazioni muoiono con il loro soggetto, se l’uomo non ha mani per dipingerle ai sensi. Il raggio di luce passa invisibile attraverso lo spazio, e solo quando cade sopra un oggetto diviene visibile. Quando l’energia spirituale è diretta sopra qualche cosa di esterno, allora c’è un pensiero. La relazione fra esso e voi fa diventare voi ed il vostro valore visibili a me. Il florido genio inventivo del pittore è nascosto e disperso quando manca la potenza del disegno; e nelle nostre ore felici noi saremmo dei poeti inesauribili, se potessimo rompere solo una volta il silenzio in rime adeguate. Come tutti gli uomini hanno qualche accesso alla verità primitiva, così tutti hanno nel loro cervello qualche arte o qualche potere di comunicabilità; ma solo nell’artista questo potere discende dal cervello alla sua mano. Vi è rispetto a questa facoltà una disparità le cui leggi noi non conosciamo ancora, fra due uomini e fra due momenti dello stesso uomo. Nelle ore comuni noi abbiamo gli stessi fatti che in quelle non comuni od ispirate; ma essi non figurano come loro ritratti; essi non sono staccati, ma giacciono come in una rete. Il pensiero del genio è spontaneo; ma il potere della pittura o dell’espressione, nella più ricca e prodiga natura implica una mescolanza di volontà, un certo controllo sugli stati spontanei, senza il quale nessuna produzione è possibile. Esso è una conversione di tutta la natura nella rettorica del pensiero, sotto gli occhi del [238] giudizio, con uno strenuo esercizio della scelta. Eppure anche il vocabolario immaginativo sembra essere spontaneo. Esso non sorge dall’esperienza solamente o principalmente, ma da una sorgente più ricca. Le grandi opere del pittore non sono prodotte da alcuna conscia imitazione di particolari forme, ma dal procedere della sua mente alla sorgente principale di tutte le forme. Chi è il primo maestro di disegno? Senza insegnamenti noi conosciamo molto bene l’ideale della forma umana. Un bambino distingue se una gamba od un braccio sono storti in una pittura, se la posa è naturale o grandiosa o volgare, sebbene egli non abbia mai ricevuto alcun ammaestramento nel disegno, od udita alcuna conversazione su questo soggetto, nè possa egli stesso disegnare correttamente un viso. Una buona forma colpisce piacevolmente tutti gli sguardi, molto prima che essi posseggano alcuna nozione a questo riguardo; ed un bel viso fa palpitare venti cuori, prima di qualsiasi considerazione intorno alle proporzioni meccaniche delle membra e del capo. È possibile che noi si debba ai sogni qualche luce sulla sorgente di questa abilità; poichè così tosto come abbandoniamo la nostra volontà, e lasciamo seguire lo stato incosciente, vedete quali meravigliosi disegnatori noi siamo; noi rallegriamo noi stessi con meravigliose forme di uomini, di donne, di animali, di giardini, di boschi e di mostri; ed il mistico pennello, con il quale allora disegniamo, non pecca d’inabilità od inesperienza, non ha alcuna debolezza o povertà; esso può ben disegnare ed aggruppare; la sua composizione è ricca d’arte, i suoi colori sono ben messi, e la tela intera, che esso dipinge, è simile alla vita, e atta a toccarci con terrore, con tenerezza, con desiderio o con dolore. Nè le copie che l’artista trae dall’esperienza sono semplici copie, ma esse sono sempre ritoccate ed intenerite dai colori che vengono da questa proprietà ideale.

[239]

Le condizioni essenziali per una mente costruttiva non appaiono spesso così ben combinate da rendere una buona frase o un buon verso freschi e memorabili per lungo tempo. Pure, quando noi scriviamo con facilità, ed usciamo all’aria libera del pensiero, ci pare certo che nulla è più facile che continuare a volontà in questa comunicazione. Per ogni dove, il regno del pensiero non ha limiti, ma la Musa ci fa liberi nella sua città. Bene, il mondo ha un milione di scrittori. Si penserebbe dunque che il buon pensiero debba essere familiare come l’aria e l’acqua, e che i doni di ogni ora nuova debbano escludere quelli dell’ora trascorsa. Pure noi possiamo enumerare i nostri libri nuovi; più ancora, io ricordo qualche bel verso degli ultimi vent’anni. È vero che l’intelletto che giudica è sempre molto più avanti dell’intelletto che crea; così che vi sono molti competenti giudici del libro migliore e pochi scrittori di ottimi libri. Ma alcune condizioni della costruzione intellettuale s’incontrano di rado. L’intelletto è un intero e richiede integrità in ogni opera. Questa è ugualmente contrastata dalla devozione di un uomo ad un solo pensiero, e dalla sua ambizione di raggrupparne troppi.

La verità è nostro elemento di vita, eppure se un uomo concede la sua attenzione ad un solo aspetto della verità, e si dedica a quello solo, per un lungo tempo, la verità s’altera e diviene falsità; in ciò simile all’aria, nostro elemento naturale e respiro dei nostri polmoni, che diretta come corrente sul nostro corpo per un dato tempo, causerà raffreddori, febbre e perfino la morte. Vedete come diviene insopportabile il grammatico, il frenologo, il fanatico politico o religioso, o qualsiasi altro mortale, il cui equilibrio è perduto per l’esagerazione di un solo argomento! Ciò è pazzia incipiente. Ogni pensiero è anche una prigione, lo non posso vedere ciò che voi [240] vedete, perchè sono preso da un fortissimo vento, e trasportato così lontano verso una data direzione, che non posso vedere il cerchio del vostro orizzonte.

È meglio forse che lo studente per evitare questo danno e per aver maggior lunghezza di veduta, tenda a fare della storia, della scienza, della filosofia un tutto meccanico per mezzo di un’addizione numerica di tutti i fatti che cadono nel cerchio della sua visione? Il mondo rifugge dall’essere analizzato mediante l’addizione e la sottrazione. Quando noi siamo giovani, spendiamo molto tempo e fatica nel riempire i nostri taccuini con tutte le definizioni della Religione, dell’Amore, della Poesia, della Politica, dell’Arte, con la speranza che nel corso di pochi anni noi avremo condensato nella nostra enciclopedia il valore netto di tutte le teorie, alle quali il mondo è fin’ora giunto; ma coll’andar degli anni le nostre tavole non si completano ed alfine scopriamo che la nostra curva è una parabola, i cui archi non si incontreranno mai.

L’integrità dell’intelletto è trasmessa alle sue opere nè per distacco, nè per aggregazione, bensì con una vigilanza che dà all’intelletto tutta la sua grandezza e la condizione migliore per operare in ogni momento. Esso deve avere la stessa integrità che ha la natura. Sebbene nessuna accuratezza può ricostruire l’universo in un modello, mediante il migliore aggruppamento e disposizione di dettagli, pure il mondo riappare in miniatura ad ogni evento, così che tutte le leggi della natura possono essere lette nel più piccolo fatto. L’intelletto deve avere la stessa perfezione nelle sue acquisizioni che nelle sue opere. Per questa ragione indice del profitto intellettuale è la percezione dell’identità. Noi parliamo con delle persone compite che appaiono essere estranee alla natura. La nuvola, l’albero, il prato, l’uccello, non sono cose loro, non hanno nulla di loro; il mondo è solo la loro abitazione e la loro tavola. Ma il poeta, i cui [241] versi devono essere perfetti, è tale che la Natura non può ingannare, qualsiasi strana maschera possa porsi sul viso. Egli sente una stretta consanguineità con la natura e scopre maggior identità che varietà in tutti i suoi mutamenti. Noi siamo punti dal desiderio di un nuovo pensiero, ma quando riceviamo un nuovo pensiero, esso non è che un pensiero vecchio con un viso nuovo; e sebbene ce ne impossessiamo, istantaneamente noi ne desideriamo un altro; cosicchè noi realmente non ci siamo arricchiti. Poichè la verità era in noi prima che fosse riflessa su noi da oggetti naturali; ed il profondo genio darà rassomiglianza a tutte le creature in ogni produzione del suo spirito.

Ma se i poteri costruttivi sono rari, e se solo a pochi uomini è dato d’essere poeti, pure ogni uomo è il ricevitore di questo discendente Spirito Santo e ben può studiare le leggi del suo influsso. La legge del dovere intellettuale è esattamente parallela alla legge del dovere morale. Un’abnegazione di se stesso non meno austera di quella di un Santo viene chiesta allo studioso. Egli deve adorare la verità e tralasciare per essa tutte le cose, e scegliere le sconfitte e i dolori, affinchè il suo tesoro di pensiero ne venga con ciò aumentato.

Dio offre ad ogni mente la scelta fra la verità ed il riposo. Scegliete quale volete — ma ambedue non li potrete mai avere. Fra essi l’uomo oscilla come un pendolo. Colui, nel quale l’amore del riposo predomina, accetterà il primo credo, la prima filosofia, il primo partito politico che egli incontra — e con tutta probabilità quello di suo padre. Egli ottiene il riposo, l’agio, la riputazione; ma egli chiude la porta alla verità. Colui, nel quale predomina l’amore della verità, si terrà libero da tutte le catene e navigherà. Egli si asterrà dal dogmatismo, e riconoscerà tutte le negazioni opposte, fra le quali, come fra dei muri, il suo essere [242] è agitato. Egli si sottomette agli inconvenienti dell’incertezza e dell’opinione imperfetta; ma egli è un candidato della verità come l’altro non lo è, e rispetta la più alta legge del suo essere.

Egli deve misurare con le proprie scarpe la circonferenza della verde terra per trovare l’uomo che possa dargli la verità. Egli allora saprà che vi è qualcosa di più santo e di più grande nell’udire che nel parlare. Beato è colui che ascolta; infelice colui che parla! Fino a quando io ascolto la verità, sono inondato da un bell’elemento, e non sono conscio di alcun limite della mia natura. Le acque del grande oceano entrano ed escono dall’anima mia. Ma se parlo, io definisco, circoscrivo, e mi sminuisco. Quando Socrate parla, Liside e Menesseno non sono afflitti dalla vergogna di non parlare. Essi pure sono buoni. Egli altresì attende ad essi, e li ama mentre parla. Perchè un uomo vero e naturale contiene ed è la stessa verità espressa da un uomo eloquente; ma nell’uomo eloquente, poichè può dirla, essa pare qualche cosa di meno, ed egli si volge verso questi silenziosi con maggiore inclinazione e rispetto. L’antico proverbio diceva: Siamo silenziosi; perchè silenziosi sono gli dèi. Il silenzio è un solvente, che distrugge la personalità, e ci concede di essere grandi ed universali. Il progresso di ogni uomo si svolge attraverso ad una successione di maestri, ognuno dei quali pare possegga volta a volta un’influenza superlativa, ma che cede alfine il suo posto ad un’altra nuova. Accetti egli tutto francamente. Gesù dice: lasciate padre, madre, case e terre e seguitemi. Colui che lascia tutto, più riceve. Questo è vero tanto intellettualmente quanto moralmente. Ogni mente nuova alla quale ci avviciniamo, sembra chiederci l’abdicazione di tutti i nostri possessi passati e presenti. Una nuova dottrina, pare dapprima una sovversione di tutte le nostre opinioni, [243] i nostri gusti e i nostri modi di vita. Tali sembrarono Swedenborg, Kant, Coleridge, Cousin a molti giovani di questo paese. Prendete cordialmente e con riconoscenza tutto ciò che essi possono dare. Esauriteli, lottate con essi, non lasciateli andare finchè non abbiate ottenuta la loro benedizione, e dopo poco tempo, lo sconforto sarà dominato, l’eccesso di dominio sconfitto, ed essi non saranno più a lungo una meteora allarmante, ma una fulgida stella di più, brillante serenamente nel vostro cielo, e mescolante la sua luce con tutto il vostro giorno.

Ma mentre egli si dà senza restrizione a ciò che lo attira, perchè ciò è suo proprio, egli deve rifiutarsi a ciò che non lo attira, qualsiasi fama ed autorità ciò possa avere, perchè non è suo proprio. L’intera fiducia in se stesso appartiene all’intelletto. Un’anima è il contrappeso di tutte le anime, come una colonna capillare d’acqua è una bilancia del mare. Essa deve trattare cose e libri, e genii sovrani, come se stessa pure sovrana. Se Eschilo è realmente l’uomo che si crede, egli non ha ancora compiuto il suo ufficio, educando i saggi d’Europa per mille anni. Egli deve provare anche a me d’essere un maestro di diletto. Se egli non può fare ciò, tutta la sua fama presso di me sarà nulla. Io sarei un folle a non sacrificare mille Eschili alla mia integrità intellettuale. In primo luogo siate sullo stesso terreno in fatto di verità astratta, scienza della mente. Bacone, Spinoza, Hume, Schelling, Kant o chiunque vi proponga una filosofia della mente, è solo un traduttore più o meno destro di cose della vostra coscienza, che anche voi avete il vostro modo di vedere e probabilmente anche di nominare. Dite, allora, invece di meditare troppo timidamente sul suo senso oscuro, che egli non è riuscito a rendervi la vostra coscienza. Egli non riuscì, provi un altro. Se Platone non può, forse Spinoza potrà. [244] Se Spinoza non può, lo può forse Kant. Ad ogni modo, quando finalmente la cosa è compiuta, troverete che quello che lo scrittore vi dà indietro, non è uno stato recondito, ma semplice, naturale, comune.

Ma poniamo fine a questa didattica. Io non parlerò, benchè il soggetto mi provochi, della questione aperta fra Verità e Amore. Io non presumerò di poter intervenire nella vecchia politica dei cieli: «Il Cherubino sa di più, il Serafino ama di più». Gli dèi comporranno le loro proprie querele. Ma io non posso proclamare pur così maldestramente le leggi dell’intelletto, senza ricordare quella alta ed appartata classe di uomini, che sono stati i suoi profeti ed oracoli, l’alto sacerdozio della ragione pura, i Trismegisti, i commentatori dei principii del pensiero, di età in età. Quando, a lunghi intervalli, noi sfogliamo le loro pagine astruse, immensa appare la calma e la dignità di questi pochi, di questi grandi signori dello spirito, che hanno camminato nel mondo, — questi della vecchia religione — dimoranti in un’adorazione, che fa apparire le santità del Cristianesimo come parvenues e plebee: perchè la «persuasione è nell’anima, ma la necessità è nell’intelletto». Questo gruppo di grandi, Hermes, Heraclito, Empedocle, Platone, Plotino, Olympiodoro, Proclo, Synesio e gli altri hanno qualcosa di così vasto nella loro logica, di così primario nel loro pensiero, che tutto ciò sembra anteriore a tutte le distinzioni ordinarie di retorica e letteratura, e sembra essere allo stesso tempo poesia, musica, danza, astronomia e matematica. Io sono presente alla seminagione del seme del mondo. Con una geometria di raggi di sole, l’anima pone le fondamenta della natura. La verità e la grandiosità del loro pensiero è provata dallo scopo di esso e dalla sua applicabilità, poichè esso domina le complete e varie specie di cose a favore della sua illustrazione. Ma ciò che segna la loro elevatezza, ed [245] ha perfino un comico aspetto per noi, è l’innocente serenità con cui questi Giovi infantili seggono sulle loro nuvole, e di età in età chiacchierano l’uno con l’altro e giammai con i contemporanei. Sicuri che il loro discorso è intelligibile ed è la cosa più naturale al mondo essi aggiungono tesi su tesi, senza curarsi, per un solo momento, della stupefazione universale della sottostante razza umana, che non capisce i loro più semplici argomenti; nè essi mai transigono tanto da inserire una sentenza popolare ed esplicativa; nè dimostrano il più piccolo dispiacere o petulanza di fronte all’ottusità del loro attonito uditorio. Gli angeli sono così innamorati del linguaggio che si parla in cielo, che essi non si torceranno le labbra con i dialetti sibilanti ed anti-musicali degli uomini, ma parlano il loro proprio dialetto, vi sia o non vi sia chi lo comprenda.

[247]

DODICESIMO SAGGIO ARTE

Siccome l’anima è progressiva, essa non si ripete mai, ma in ogni atto tenta la produzione di un «intiero» nuovo e più bello. Questo appare nelle opere delle arti belle e delle arti per così dire applicate, se noi vogliamo usare la distinzione comune, a seconda che il loro scopo sia di utilità o di bellezza. Così nelle nostre belle arti lo scopo non è l’imitazione, bensì la creazione. Nei paesaggi il pittore dovrebbe dare la suggestione di una creazione più bella di quella che noi conosciamo. Egli dovrebbe tralasciare i dettagli e la prosa della natura, per darcene solo lo spirito e lo splendore. Egli dovrebbe sapere che il paesaggio ha bellezza per il suo occhio, perchè esso esprime un pensiero che per lui è buono; e ciò, perchè lo stesso potere che vede attraverso i suoi occhi è veduto in quello spettacolo; così egli verrà a valutare l’espressione della natura, e non la natura stessa, e ad esaltare nella sua opera i tratti che piaceranno a lui. Egli renderà l’ombra delle ombre e la luce delle luci. In un ritratto egli deve rivelare il carattere e non i tratti, e deve considerare l’uomo, che siede innanzi a lui, come se stesso, vale a dire soltanto un’imperfetta pittura o somiglianza d’una originale aspirazione interiore.

Che cosa è quella restrizione e quella selezione che noi osserviamo in ogni attività spirituale, se non lo [248] stesso impulso creativo? epperò esso è viatico a quella più alta illuminatezza che insegna ad esprimere con i più semplici simboli un più largo significato. Che cosa è un uomo se non un più bel risultato della natura esplicante se stessa? Che cosa è un uomo se non un paesaggio più bello e più unito che le figure del l’orizzonte, eclettismo della natura? E cosa è il suo discorso, il suo amore per il dipingere, il suo amore per la natura, se non un risultato ancora più bello? E che cosa sono tutte le faticose miglia e le soppresse misure di spazio e di volume, e lo spirito e la morale di essa ristretti in una parola musicale o nel più abile tratto di pennello?

Ma l’artista deve impiegare i simboli in uso ai suoi giorni e nel suo paese per esprimere il suo senso più ampio ai suoi simili. A questo modo il nuovo in arte viene sempre formato fuori del vecchio. Il Genio dell’Ora appone il suo incancellabile suggello all’opera, e dà ad essa un inesprimibile fascino per l’imaginazione. Finchè il carattere spirituale del tempo domina l’artista, e trova espressione nel suo lavoro, questo conserverà una certa grandiosità, e rappresenterà ai futuri ammiratori lo Sconosciuto, l’Inevitabile, il Divino. Nessun uomo può escludere del tutto questo elemento della Necessità dal suo lavoro. Nessun uomo può completamente emanciparsi dalla sua età e dal suo paese o produrre un modello, in cui l’educazione, la religione, la politica, gli usi e le arti dei suoi tempi non abbiano parte alcuna. Per quanto originale, capriccioso e fantastico egli possa essere in una sua opera pure egli non potrà cancellare da essa ogni traccia dei pensieri fra i quali essa crebbe. L’atto stesso di evitarli tradisce l’uso di ciò che egli vuole evitare. Al disopra della sua volontà, al di là della sua osservazione, egli è obbligato a partecipare del costume dei suoi tempi pur non conoscendolo, dall’aria che egli respira, e dall’idea sulla [249] quale egli ed i suoi contemporanei vivono e si affaticano. Ora ciò che in un’opera è inevitabile ha un fascino più grande di quanto potrà mai darle il talento individuale, poichè la penna dell’artista od il suo cesello sembrano essere stati tenuti e guidati da una mano gigantesca per scrivere una riga nella storia della razza umana. Questa circostanza dà valore ai geroglifici egiziani, agli idoli indiani, chinesi e messicani, per quanto siano essi grossolani e rudimentali. Essi denotano l’altezza dell’anima umana in quell’ora, e se non furono opere fantastiche, scaturirono da una necessità così profonda come il mondo. Dovrò io aggiungere ora che tutto l’esistente prodotto delle arti plastiche ha il suo più alto valore come Storia, come una pennellata del ritratto di quel fato, perfetto e bello, secondo i cui ordini tutti gli esseri avanzano verso la loro beatitudine?

Così, storicamente considerato, l’ufficio dell’arte fu di educare alla percezione della bellezza. Noi siamo immersi nella bellezza, ma i nostri occhi non hanno una chiara visione. È necessario, col mostrare i singoli tratti, assistere e guidare il gusto sonnecchiante. Noi modelliamo e dipingiamo od osserviamo ciò che è modellato e dipinto, come studiosi del mistero della Forma. La virtù dell’arte è nello staccare, nell’isolare un solo oggetto dall’imbarazzante varietà. Finchè una cosa non balza fuori dalla connessione delle cose vi può essere godimento, contemplazione, ma non vi può essere pensiero. La nostra felicità e la nostra infelicità sono improduttive. Il bambino giace in un piacevole dormiveglia, ma il suo carattere individuale ed il suo potere pratico dipendono dal suo giornaliero progresso nel separare le cose, e nel trattare con esse una per volta. L’amore e tutte le passioni concentrano tutta l’esistenza intorno ad una singola forma. Certi spiriti hanno l’abito di dare [250] un’isolante pienezza all’oggetto, al pensiero, alla parola, sui quali essi si soffermano, e farne per un momento il rappresentante del mondo. Questi sono gli artisti, gli oratori, i condottieri della società. Il potere di isolare e di magnificare isolando, è l’essenza della rettorica nelle mani dell’oratore e del poeta. Questa rettorica o potere di fissare la momentanea eccellenza di un oggetto — così rimarchevole in Burke, Byron e Carlyle — è rivelato dal pittore e dallo scultore nel colore e nella pietra. Il potere dipende dalla profondità della visione interna dell’artista per l’oggetto che egli contempla. Poichè ogni oggetto ha le sue radici nella natura centrale, esso può naturalmente esserci mostrato come rappresentante del mondo. Pertanto, ogni opera di genio è il tiranno dell’ora e richiama su se stessa l’attenzione. Per un dato tempo essa è l’unica cosa degna d’un nome — sia un sonetto, un’opera, un paesaggio, una statua, un discorso, il piano di un tempio, di una campagna, o di un viaggio di scoperte. Subito dopo passiamo a qualche altro oggetto che si integra in un tutto, come fece già il primo; per esempio, ad un giardino ben tracciato e nulla sembra allora degno di nota all’infuori dell’arte di tracciare i giardini. Io penserei che il fuoco sia la miglior cosa del mondo, se non avessi conoscenza dell’aria, dell’acqua e della terra: e ciò perchè è diritto e proprietà di tutti gli oggetti naturali, di tutti i talenti genuini, di tutte le proprietà originarie, quali esse siano, di essere nel loro momento il vertice del mondo. Uno scoiattolo, che salta di ramo in ramo, e fa per suo piacere di tutto il bosco un solo albero, appaga l’occhio non meno che un leone — esso è bello, basta a se stesso, e rappresenta, allora ed in quel sito, la natura. Una bella ballata mi rapisce il cuore e l’udito mentre ascolto, come fece antecedentemente un canto epico. Un cane, od una mandra di maiali, disegnati [251] da un maestro appagano e sono realtà non minore di quanto lo siano gli affreschi di Michelangelo. Da questo succedersi di oggetti eccellenti, apprendiamo alfine l’immensità del mondo, l’opulenza della natura umana, che può correre all’infinito in qualsiasi direzione. Ma io apprendo anche che ciò che mi stupì ed affascinò nel primo lavoro, mi stupì anche nel secondo; e perciò che l’eccellenza di tutte le cose è una.

L’ufficio della pittura e della scultura pare essere semplicemente iniziale. I migliori dipinti possono facilmente dirci il loro ultimo segreto. I migliori dipinti sono i rudi disegni di pochi miracolosi punti e tratti e colori che formano il sempre cangiante «paesaggio con figure», in mezzo al quale noi viviamo. La pittura pare essere all’occhio ciò che la danza è alle membra. Quando la danza ha educato il corpo al comando di se stesso, all’agilità, alla grazia, i passi del maestro di ballo sono facilmente dimenticati; così la pittura mi insegna lo splendore del colore e l’espressione della forma; e siccome io vedo molti dipinti e più alti genii dell’arte, io vedo l’illimitata ricchezza del pennello e l’indifferenza in cui vive l’artista libero di scegliere nelle possibili forme. Se egli può disegnare ogni cosa, perchè disegnare cosa alcuna? ed allora il mio occhio è aperto alla eterna pittura, che la natura dipinge nella strada con il muovere uomini e bambini, accattoni e belle signore, vestite in rosso, in turchino, in verde, in grigio; con il muovere esseri dai capelli lunghi, brizzolati, dai visi bianchi, dai visi neri, da visi rugosi; giganti, nani; esseri sviluppati, snelli, coperti e circondati dal cielo, dalla terra, dal mare.

Una galleria di scultura insegna più austeramente la stessa lezione. Come la pittura insegna il colore, così la scultura insegna l’anatomia della forma. Quando io dopo aver contemplato delle belle statue entro in una [252] pubblica assemblea, ben comprendo che cosa volle dire colui che disse: «Quando ho finito di leggere Omero, tutti gli uomini mi sembrano giganti». Io anche m’avvedo che la pittura e la scultura sono una ginnastica dell’occhio, ed allenamento alle bellezze ed alle curiosità della sua funzione. Non vi è alcuna statua che abbia sopra tutta la scultura ideale l’infinito vantaggio della varietà perpetua come l’ha l’uomo vivente. Quale galleria d’arte posseggo io qui! Nessun manierista fece questi gruppi variati e queste differenti figure originali. L’uomo è l’artista stesso che improvvisa, torvo e lieto, nel suo blocco di pietra. Ora un pensiero lo colpisce ora un altro, e ad ogni momento egli altera totalmente l’aspetto, l’attitudine, e l’espressione della sua creta. Lasciate i vostri colori, ed i vostri cavalletti, il marmo e lo scalpello: se voi non aprite gli occhi ai fascini dell’arte eterna, essi non sono che ipocrite anticaglie.

Il riferimento infine di tutte le produzioni ad un Potere Aborigeno spiega i tratti comuni a tutte le opere dell’arte più pura; cioè che esse sono universalmente intelligibili; che esse ci riconducono ai più semplici stati di mente; che esse sono religiose. Poichè tutta la abilità dimostrata nell’opera d’arte sta nella riapparizione dell’anima originale, getto di luce pura, essa dovrebbe produrre un’impressione simile a quella prodotta dagli oggetti naturali. Nelle ore felici la natura ci appare una con l’arte; ed ecco l’arte perfezionata — l’opera del genio. — E l’individuo, in cui i gusti semplici e la suscettibilità a tutte le grandi influenze umane dominano gli accidenti di una cultura locale e speciale, è il miglior critico d’arte. Ancorchè noi viaggiamo attraverso tutto il mondo per trovare il bello, se non lo portiamo con noi, non lo troveremo. La miglior parte del bello sta più nel fascino che nell’abilità di tracciare, di segnare dei contorni; fascino maggiore di quello che qualsiasi [253] regola l’arte potrebbe insegnare; vale a dire, nella radiazione dall’opera d’arte del carattere umano, — in una meravigliosa espressione, attraverso la pietra o la tela ed il suono musicale, dei più profondi e più semplici attributi della nostra natura, pertanto più intelligibili infine a quelle anime, che li posseggono. Nelle sculture dei Greci, nei lavori murarii dei Romani, e nelle pitture dei maestri toscani e veneti, il maggiore fascino è la lingua universale che essi parlano. Da tutti questi esala una confessione della natura morale, della purezza, dell’amore e della speranza. Ciò che noi portiamo ad essi, con noi riportiamo più delicatamente illustrato nella memoria. Il viaggiatore che visita il Vaticano, e passa di camera in camera attraverso le gallerie di statue, di vasi, di sarcofagi, e di candelabri, attraverso ogni espressione di bellezza, materiata nei più ricchi materiali, è in pericolo di dimenticare la semplicità dei principii, dai quali tutto ciò nacque, e di dimenticare che essi ebbero la loro origine da pensieri e leggi che sono nel suo proprio petto. Egli studia le leggi tecniche su questi meravigliosi resti; ma dimentica che queste opere non furono sempre così attorniate di cose belle; dimentica che esse sono il contributo di molte età e di molti paesi; che ognuna uscì dalla bottega solitaria di un solo artista, che lavorò forse ignorando l’esistenza di un’altra scultura, e creava la sua opera senza altro modello che la vita, la vita domestica, la dolcezza delle relazioni personali, dei cuori palpitanti, degli occhi che si incontrano, la povertà, il bisogno, la speranza ed il timore. Queste erano le sue ispirazioni, e questi sono gli effetti che egli produce intimamente nel vostro cuore e nella vostra mente. Proporzionatamente alla sua forza, l’artista troverà nel suo lavoro uno sbocco per il suo proprio carattere. Egli non deve essere in alcun modo disturbato od importunato dal suo [254] materiale, ma dalla sua necessità di comunicar se stesso, il diamante sarà cera nelle sue mani, e concederà un’adeguata comunicazione di lui con la sua statura e le sue proporzioni. Egli non ha bisogno d’impacciarsi con una natura e cultura convenzionale, nè di domandare quale sia la maniera di Roma o di Parigi; ma gli servirà come simbolo di un pensiero che irradia indifferentemente attraverso ogni cosa, quella casa e quel tempo e quel modo di vita, che la povertà e la sorte nativa gli hanno contemporaneamente resi così cari e così odiosi, nella grigia disadorna capanna di legno di un cascinale del New-Hampshire, o nelle capanne dei boschi, o negli stretti appartamenti ove egli ha sofferto le privazioni dell’indigenza urbana.

Ricordo che nella mia giovinezza quando udii parlare delle meraviglie della pittura italiana, mi figurai che questi grandi dipinti fossero dei grandi stranieri, fossero qualche sorprendente combinazione di colori e di forma; una meraviglia mai vista, di perle ed oro come le insegne e gli stendardi delle milizie, che tanto pazzamente si impongono agli occhi e all’immaginazione degli scolari: io dovevo perciò vedere ed acquistare non so che cosa. Quando finalmente andai a Roma, e vidi le pitture con i miei occhi, trovai che i genii lasciano ai principianti il gaio, il fantastico e l’ostentato, e che essi vanno direttamente al semplice ed al vero; trovai che la loro opera era familiare e sincera; che era il vecchio fatto eterno di già incontrato in tante forme — e per il quale vivevo; che era il semplice voi ed io che io conoscevo così bene — e che avevo lasciato a casa in tante conversazioni. Io aveva fatta di già la stessa esperienza in una chiesa di Napoli. Là vidi che nulla era cambiato per me, eccetto il luogo, e mi dissi: «Tu, ragazzo folle, sei venuto qui, attraversando quattromila miglia d’acqua salsa, per trovare ciò che ti era già noto in casa?» [255] Lo stesso fatto contemplai di nuovo nella Accademia di Napoli, nelle sale di scultura, ed ancora quando venni a Roma, nei dipinti di Raffaello, Angelo, Sacchi, Tiziano e Leonardo da Vinci. «Vecchia talpa, che cosa lavori nella terra così in fretta?» Esso mi aveva seguito: ciò che mi pensavo di avere lasciato a Boston, era qui in Valicano, e poi a Milano, a Parigi, e rendeva tutto il viaggio ridicolo come il forzato girar intorno ad un mulino. Ora questo chiedo io ai dipinti, che mi rendano casalingo, non che mi abbaglino. I dipinti non devono essere troppo pittoreschi. Nulla più stupisce gli uomini del buon senso e della semplice franchezza. Tutte le grandi azioni furono semplici, e tutti i grandi dipinti lo sono.

La Trasfigurazione di Raffaello è un esempio eminente di questo merito particolare. Una bellezza calma e benigna brilla in tutta quest’opera e va direttamente al cuore. Pare quasi che vi chiami per nome. Il dolce e sublime viso di Gesù sta al disopra d’ogni lode, pure come disinganna tutte le grandi speranze! Questo atteggiamento familiare, semplice, domestico, ci dà l’impressione di ritrovare un amico. L’esperienza dei negozianti di quadri ha il suo valore, ma non ascoltate la loro critica, quando il vostro cuore è toccato dal genio. Il quadro non fu dipinto per essi, fu dipinto per voi; per coloro che hanno occhi sensibili alla semplicità e alle nobili emozioni.

Pure, dette sì belle cose riguardo all’arte, noi dobbiamo finire con una confessione sincera: che le arti, come noi le conosciamo, non sono che iniziali. Le nostre lodi migliori sono date per ciò cui esse mirarono e promisero, non per il loro reale risultato. Poca fede ha nelle risorse dell’uomo, colui che crede che la miglior età della produzione artistica sia passata. Il valore reale dell’Iliade o della Trasfigurazione, sta come segno di [256] potenza: flutti o increspature della grande corrente della tendenza; pegni dello sforzo Eterno per produrre, che anche nel suo peggiore stato l’anima tradisce. L’arte non è ancora giunta alla sua maturità, se non si collega con le più potenti attività del mondo, se non è pratica e morale; se non vive in relazione con la coscienza, se non fa sentire ai poveri e ai rozzi, che essa loro si rivolge con una parola di alto incoraggiamento. Vi è per l’Arte un’opera più alta che le arti. Queste sono abortive nascite di un istinto imperfetto o viziato. L’Arte è il bisogno di creare; ma nella sua essenza, immensa ed universale, è impaziente di lavorare pur con mani difettose od impacciate, e di produrre gobbi e mostri, come sono tutti i dipinti e tutte le statue. Il suo fine è niente meno che la creazione dell’uomo e della natura. Un uomo dovrebbe trovare in ciò uno sfogo per tutta la sua energia. Egli può dipingere e scolpire finchè egli lo può. L’Arte dovrebbe rallegrare ed abbattere gli ostacoli delle circostanze da ogni lato, risvegliando nell’osservatore lo stesso senso di universale relazione e di potere che l’opera rivelò nell’artista, mentre il suo più alto effetto è quello di produrre artisti nuovi.

La Storia è di già vecchia abbastanza per far testimonianza delle vecchie età e della scomparsa delle arti particolari. L’arte della scultura è da lungo tempo morta per qualsiasi effetto reale. Essa era originariamente un’arte utile, un modo di scrivere, un annale della gratitudine o della devozione del selvaggio, e fra popoli che possedevano una meravigliosa percezione della forma, questa scultura fanciullesca fu condotta al massimo splendore dell’effetto. Ma essa è il giuoco di un rude e giovane popolo, e non il virile lavoro di una nazione saggia e spirituale. Sotto una quercia carica di foglie e di ghiande, sotto un cielo [257] fulgido di occhi eterni, io mi sento in una strada movimentata, piena di vita, ma nelle opere delle nostre arti plastiche, e specialmente della scultura, la creazione è cacciata in un angolo. Io non posso celare a me stesso che nella scultura vi è una certa apparenza di meschinità, come di cosa puerile, e una certa finzione di teatro. La Natura sorpassa tutti i nostri modi di pensare, e noi non troviamo ancora il suo segreto. Ma la galleria si sottomette ai nostri modi, e vi è un momento in cui essa diviene frivola. Non mi fa meraviglia che Newton con la sua attenzione abitualmente rivolta al cammino dei pianeti e del sole, si sia stupito dell’ammirazione del Conte di Pembroke per i «pupazzi di pietra». La Scultura può servire per insegnare all’allievo quanto profondo sia il segreto della forma, e come puramente lo spirito possa tradurre i suoi significati in quell’eloquente dialetto. Ma la statua apparirà fredda e falsa davanti a quell’attività nuova, che abbisogna di plasmare tutte le cose, che non soffre contraffazioni e cose che non siano vive. La Pittura e la Scultura sono le celebrazioni e le festività della forma. Ma l’arte vera non è mai irrigidita, bensì è sempre fluente. La musica più dolce non sta nell’oratorio, ma nella voce umana quando essa parla, dalla sua vita attiva, parole di tenerezza, di verità o di coraggio. L’oratorio ha di già perduta la sua delazione con il mattino, con il sole e con la terra, ma quell’umana voce persuasiva è intonata con essi. Tutte le opere d’arte non dovrebbero essere prodotti staccati, bensì «estemporanei». Un grande uomo è una nuova statua in ogni atteggiamento ed azione. Una bella donna è un dipinto che fa nobilmente impazzire chi la osserva. La vita può essere lirica od epica, così come un poema od un romanzo.

Una vera enunciazione della legge della creazione, (se si trovasse un uomo degno di enunciarla), porterebbe [258] l’arte su, nel regno della natura, e distruggerebbe la sua separata e contrastata esistenza. Le sorgenti dell’inventiva e della bellezza nella società moderna sono tutt’altro che inaridite. Una novella popolare, un’opera di teatro od una sala da ballo, ci fanno sentire che noi siamo tutti degli accattoni nel grande ricovero di mendicità del mondo, senza dignità, senza abilità, e senza iniziativa. L’arte è così povera e bassa. La vecchia tragica Necessità, che si abbassa sulle fronti stesse delle Veneri e dei Cupidi dell’Antico tempo e fornisce l’unica discolpa per l’intrudersi di tali anomale figure della natura — poichè esse erano inevitabili; e l’artista era ebbro di passione per la forma cui egli non poteva resistere e che esprimeva in queste belle stravaganze — la vecchia Necessità, dico, non eleva più a qualche dignità il cesello od il pennello. Ma l’artista ed il conoscitore ora non cercano nell’arte che la mostra del loro talento od un rifugio dai mali della vita. Gli uomini non sono contenti della figura che essi costruiscono nella loro propria imaginazione, e fuggono nell’arte portando il loro senso migliore in un oratorio, in una statua od in una pittura. L’Arte fa lo stesso sforzo che fa una prosperità materiale; cioè distacca il bello dall’utile, compie il lavoro come una cosa inevitabile, ed odiandolo, passa al godimento. Queste consolazioni e queste compensazioni però, questa separazione della bellezza dall’utile, non sono permesse dalle leggi della natura. Così tosto come la bellezza è richiesta, non dalla religione o dall’amore, ma dal piacere, essa degrada il richiedente. L’alta bellezza non è più a lungo raggiungibile da lui sulla tela o nella pietra, nel suono o nella costruzione lirica; una bellezza effeminata, prudente, malaticcia, che non è bellezza, è tutto ciò che può essere formata; perchè la mano non può mai eseguire cosa alcuna più alta di ciò che il carattere può ispirare.

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L’arte che così disgiunge, è essa stessa per la prima disgiunta. L’arte non deve essere un’abilità superficiale, ma deve aver inizio più addentro nell’uomo. Ora gli uomini non vedono la natura bella, e s’accingono a fare una statua che lo sia. Essi aborriscono gli uomini privi di gusto, sciocchi ed inconvertibili, e si consolano con scatole di colori e blocchi di marmo. Rifuggono dalla vita come prosaica, e creano una morte che essi chiamano poetica. Conducono a termine le fatiche del giorno e volano a sogni voluttuosi. Mangiano e bevono, per poter attuare dopo l’ideale. Così l’arte è resa vile; il suo nome suggerisce alla mente il suo senso secondario e cattivo, essa giace nell’immaginazione come qualcosa di contrario alla natura, colpita a morte fin dal principio. Non sarebbe meglio incominciare più in alto — servire l’ideale prima di mangiare e bere, anzichè servire l’ideale mangiando e bevendo e respirando, e in tutte le funzioni della vita? La bellezza deve ritornare alle arti utili, e la distinzione fra le arti belle e le arti utili deve essere dimenticata. Se la storia fosse con veridicità narrata, se la vita fosse nobilmente spesa, sarebbe in breve facile e possibile il distinguere l’una dall’altra. In natura tutto è utile, tutto è bello. Tutto è pertanto bello, perchè è vivo, perchè si muove, perchè è riproduttivo; tutto è pertanto utile, perchè è simmetrico e bello. La bellezza non verrà al richiamo di una legislatura, nè ripeterà in Inghilterra od in America la sua storia della Grecia. Verrà, come sempre, senza annunzio, e germoglierà fra i piedi degli uomini coraggiosi e seri. Invano noi attendiamo che il genio ripeta i suoi miracoli delle arti antiche; è suo istinto trovare bellezza e santità nei fatti nuovi e necessari, nei campi e nelle strade di campagna, nei negozi e nelle officine. Procedendo da un cuore religioso essa innalzerà ad utile divino la ferrovia, la [260] compagnia di assicurazioni, la borsa, il nostro commercio, la batteria elettrica, il prisma, la pila, la storta del chimico, nelle quali ora noi cerchiamo soltanto un utile economico. Non è l’aspetto egoistico ed anche crudele dei nostri grandi lavori meccanici, dei mulini, delle ferrovie e delle macchine, l’effetto degli impulsi mercenari a cui questi lavori ubbidiscono? Quando i suoi compiti sono belli ed adeguati, un bastimento attraversando l’Atlantico fra la vecchia e la nuova Inghilterra, e arrivando ai suoi porti con la puntualità di un pianeta, rappresenta un passo dell’uomo verso l’armonia con la natura. Il battello che a Pietroburgo naviga lungo la Lena per mezzo del magnetismo, abbisogna di poco per essere sublime. Quando la scienza sarà dotta in amore, ed i suoi poteri saranno retti dall’amore, essi appariranno i supplementi e le continuazioni della creazione materiale.

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SERIE II

PRIMO SAGGIO IL POETA

Coloro che sono stimati arbitri del gusto, sono spesso persone, le quali hanno acquistata la conoscenza di ammirate pitture o sculture, ed hanno una tendenza verso ciò che è elegante; ma se poi domandate se essi siano anime belle e se le loro proprie azioni siano come belle pitture, voi verrete a sapere che sono egoisti e sensuali. La loro cultura è locale; è come se voi strofinaste un pezzo di legno secco in un solo punto per produrre del fuoco, mentre tutto il resto rimane freddo. La loro conoscenza delle belle arti consiste in qualche studio di leggi e di particolarità o in qualche ristretta nozione del colore o della forma, acquisita per divertimento o per vanagloria. È una prova della superficialità della dottrina del bello, come essa è nella mente dei nostri amateurs, il fatto che gli uomini sembrano aver perduta la percezione della instante dipendenza della forma dall’anima. Non vi è una dottrina delle forme nella nostra filosofia. Noi fummo posti nei nostri corpi, come il fuoco è posto in un recipiente per essere portato fuori; ma non vi è alcun accurato accomodamento fra lo spirito e l’organo, ed ancora meno questo è la germinazione di quello. Così, riguardo alle [262] altre forme, gli uomini intellettuali non credono in alcuna dipendenza essenziale del mondo materiale dal pensiero e dalla volontà. I teologi credono sia un grazioso castello in aria il parlare del significato spirituale di un bastimento o di una nuvola, di una città o di un contratto, ed essi preferiscono ritornare sul solido terreno dell’evidenza storica; e i poeti stessi sono lieti di un civile e conforme modo di vita, e di trarre poemi dalla fantasia, a sicura distanza dalla loro propria esperienza. Ma le più alte menti del mondo non hanno mai cessato dall’esplorare il significato doppio, o diciamo quadruplo, centuplo, di ogni fatto dei sensi: così fecero Empedocle, Eraclito, Platone, Plutarco, Dante, Swedenborg, ed i maestri della scultura, pittura e poesia. Poichè noi non siamo recipienti da porvi il fuoco e nemmeno portatori di fuoco o di torcie, ma siamo i figli del fuoco, fatti di esso, e solamente la stessa divinità trasmutata due o tre volte. E la verità nascosta, che le sorgenti donde tutto questo fiume del tempo e le sue creature sorgono, sono intrinsecamenti ideali e belle, ci porta alla considerazione della natura e delle funzioni del poeta o dell’uomo della bellezza, dei mezzi e dei materiali che egli usa, e dell’aspetto generale della sua arte nel tempo presente.

L’ampiezza del problema è grande, poichè il poeta è rappresentativo. Egli sta fra gli uomini parziali quale un uomo completo, e informa noi non della sua ricchezza ma della comune ricchezza. Il giovane riverisce gli uomini di genio perchè, per dire il vero, essi sono più lui stesso di quanto sia egli stesso. Essi ricevono dall’anima come egli pure riceve, ma essi ricevono di più. La natura esalta la sua bellezza agli occhi degli uomini che amano, con la credenza che allo stesso tempo il poeta contempla le sue parvenze. Egli è isolato fra i suoi contemporanei dalla verità e dall’arte, ma v’è nelle [263] sue imprese questo confortevole pensiero, che queste attireranno tardi o tosto tutti gli uomini. Poichè tutti gli uomini traggono vita dal vero e giacciono bisognosi di espressione. Nell’amore, nell’arte, nell’avarizia, nella politica, nel lavoro, nel giuoco, noi cerchiamo di pronunciare il nostro doloroso segreto. L’uomo è solo una metà di se stesso, l’altra metà è la sua espressione.

Nonostante questa necessità di aprire la propria anima, è rara l’espressione adeguata al caso. Io non so perchè noi abbisognamo di un interprete; ma la grande maggioranza degli uomini pare esser composta di minorenni, che non sono ancora entrati in possesso dei loro beni, o di muti, che non possono ripetere la conversazione avuta con la natura. Non vi è uomo che non veda un’utilità supersensuale nel sole, nelle stelle, nella terra e nell’acqua. Queste cose esistono e, secondo lui, attendono per render all’uomo un servizio determinato. Ma vi è qualche ostacolo o qualche eccesso di accidia nella nostra costituzione, che non permette ad esse di produrre il dovuto effetto. Le impressioni della natura cadono su di noi troppo debolmente per far di noi degli artisti. Ogni tocco dovrebbe penetrare. Ogni uomo dovrebbe esser tanto artista da poter narrare nella conversazione ciò che gli è accaduto. Ancora, nella nostra esperienza, i raggi od i contatti hanno forza sufficiente per giungere ai sensi, ma non sufficiente per penetrare nel vivo, ed obbligarci alla riproduzione di essi nel discorso. Il poeta è la persona in cui questi poteri sono in bilancio, è l’uomo senza impedimento, che vede e maneggia ciò che gli altri sognano, che attraversa l’intiera graduazione dell’esperienza, ed è il rappresentante dell’uomo, in virtù d’esser il più ampio potere che dà e riceve.

L’Universo ha tre figli, nati allo stesso tempo, che riappaiono sotto nomi differenti, in ogni sistema di [264] pensiero, siano essi chiamati causa, azione od effetto; o più poeticamente, Giove, Plutone, Nettuno; o teologicamente, il Padre, lo Spirito Santo, il Figlio; e che chiameremo qui: il Conoscitore, il Facitore, il Dicitore. Questi rappresentano rispettivamente l’amore del vero, l’amore del bene, l’amore del bello. Questi tre sono uguali. Ciascuno di loro è, ciò che è essenziale, cosicchè non può essere sorpassato od analizzato; e ciascuno dei tre ha in sè il potere degli altri latente, oltre il suo proprio potere manifesto.

Il poeta è il Dicitore, colui che denomina e rappresenta il bello. Egli è un sovrano e sta nel centro. Poichè il mondo non è dipinto, nè adornato, ma è bello fin dal principio; e Dio non ha creato delle cose belle, ma la Bellezza stessa è la creatrice dell’Universo. Però il poeta non è un’autorità ammessa, ma è imperatore per suo proprio diritto. La critica è infestata da una tendenza materialistica, che afferma essere l’abilità manuale e l’attività il primo merito di tutti gli uomini, e disprezza coloro che dicono e non fanno, dimenticando che alcuni uomini, cioè i poeti, sono naturali dicitori, mandati in questo mondo a cura dell’espressione, e li confonde con coloro che abbandonano il loro campo, che è l’azione, per imitare i dicitori. Ma le parole d’Omero sono così care ed ammirevoli per Omero, come le vittorie di Agamennone lo sono per Agamennone. Il poeta non attende l’eroe od il saggio, ma come essi per prima cosa agiscono e pensano, così egli per prima cosa scrive ciò che egli vuole e ciò che deve essere detto, riputando gli altri, sebbene primari, secondari e servitori rispetto a lui e come persone in posa o modelli nello studio del pittore o come assistenti che portano materiali di costruzione all’architetto.

Poichè la poesia fu scritta tutta prima dei tempi, ogni qualvolta noi siamo così splendidamente organizzati [265] da poter penetrare in quella regione dove l’aria è musica, udiamo armoniosi gorgheggi, che tentiamo di scrivere; ma poichè perdiamo di tanto in tanto una parola od un verso noi lo sostituiamo con qualcosa di nostro, e trascriviamo erroneamente il poema. Gli uomini di udito più delicato, scrivono queste cadenze più fedelmente, e queste trascrizioni, sebbene imperfette, divengono i canti delle nazioni. Perchè la natura è veramente bella come è buona o conforme a ragione, e tanto deve apparire quanto deve essere fatta o conosciuta. Le parole ed i fatti sono modi completamente indifferenti dell’energia divina. Le parole sono anche azioni, e le azioni sono una specie di parole.

Il segno ed il riconoscimento del poeta sta in ciò, che egli annunzia ciò che nessun uomo ha predetto. Egli è il vero e l’unico dottore; egli sa e dice; egli è l’unico che dice le novità, perchè egli fu presente ed edotto delle apparizioni, che egli descrive. Egli è un contemplatore delle idee, ed un enunziatore delle cose necessarie e causali. Noi ora non parliamo degli uomini che hanno un talento poetico e dell’abilità nel fare il verso, ma del vero poeta. Io presi parte l’altro giorno ad una conversazione riguardante un recente scrittore di liriche, un uomo di mente sottile, il cui cervello pareva essere una piccola cassa armonica piena di note e di ritmi delicati, e la cui abilità e maestrìa di stile non potevamo sufficientemente lodare. Ma quando sorse la questione se egli non fosse solo un lirico, ma un poeta, noi fummo obbligati a confessar essere lui semplicemente un contemporaneo, non un uomo eterno. Egli infatti non emerge al disopra delle nostre basse limitazioni, come un Chimborazo sotto l’equatore, innalzandosi da una base torrida e passando, a misura che si innalza, per tutti i climi del mondo, attraverso a zone di vegetazione di ogni latitudine; ma egli è [266] come il giardino pittoresco di una casa moderna, adornato di fontane e di statue, con uomini e donne bene educati, che stanno in piedi o seggono lungo i viali e le terrazze. Noi udiamo attraverso tutta la sua musica variata, il vecchio tono della vita convenzionale. I nostri poeti sono uomini di talento che cantano, non i figli della musica. L’argomento è secondario, il compimento dei versi è primario.

Però non è il metro, ma l’argomento degno del metro, che fa d’un poema un pensiero così appassionato e vivo, che, come lo spirito di una pianta o di un animale, ha un’architettura sua propria, ed adorna la natura con nuove cose. Il pensiero e la forma sono uguali nell’ordine del tempo, ma nell’ordine della genesi il pensiero è anteriore alla forma. Il poeta ha un nuovo pensiero: egli ha una completa nuova conoscenza da sviluppare; egli ci dirà come essa venne a lui, e tutti gli uomini saranno partecipi della sua fortuna. L’esperienza di ogni nuova età richiede una nuova confessione, ed il mondo sembra attendere sempre il suo poeta. Mi ricordo, quando ero giovane, quanto fui commosso un mattino dalla notizia che il genio era apparso in un giovane, che mi sedeva vicino a tavola. Egli aveva lasciato il suo lavoro, ed era andato vagando nessuno sapeva dove, ed aveva scritto centinaia di righe, ma non poteva dire se ciò che era in lui fosse ciò che aveva scritto: egli poteva dire nulla senonchè tutto era cambiato — l’uomo, la bestia, il cielo, la terra, il mare. Come ascoltavamo felici! e quanto credulmente! La società sembrava essere compromessa. Noi sedevamo nell’aurora di un giorno, che doveva spegnere tutte le stelle. Boston sembrava essere a distanza doppia e più di quanto fosse la notte anteriore. Roma (che cosa era Roma?), Plutarco e Shakespeare erano sbiaditi e di Omero non si doveva neppur più [267] parlare. È già molto sapere che la poesia è stata scritta oggi stesso, sotto lo stesso tetto, vicino a voi. Come?! Quel meraviglioso spirito non è spirato! Questi momenti granitici sono ancora lucenti ed animati! Io avevo immaginato che tutti gli oracoli fossero silenziosi, e che la natura avesse spento i suoi fuochi; ed ecco! tutta la notte, da ogni poro, queste belle aurore brillarono. Ciascuno ha qualche interesse nell’avvento del poeta, e nessuno sa quanto ciò possa toccarlo da vicino. Noi sappiamo che il segreto del mondo è profondo, ma noi non sappiamo chi o che cosa ci servirà da interprete. Una passeggiata in montagna, una fisionomia nuova, una nuova persona, può mettere la chiave nelle nostre mani. Naturalmente il valore del genio per noi sta nella veracità delle sue relazioni. Il talento può scherzare e fingere; il genio realizza ed aggiunge. Il genere umano, tanto se ne è servito per comprendere se stesso e le sue opere, che la più avanzata sentinella sul monte annunzia le sue novelle. Esse arrecano la più veritiera parola mai pronunziata, e la frase sarà la più propizia, la più musicale, la più infallibile voce del mondo, in quel dato momento.

Tutto ciò che noi chiamiamo storia sacra, afferma che la nascita di un poeta è l’evento principale nella cronologia. L’uomo così sovente ingannato, ancora attende la venuta di un fratello che possa saldamente avvincerlo ad una verità, fintantochè non l’abbia fatta sua. Con quale gioia io m’appresto a leggere un poema, nel quale io confido come in un’ispirazione! Ed ora le mie catene debbono essere infrante; io salirò sopra quelle nuvole e quell’aria opaca in cui vivo, — opaca anche se pare trasparente — e dal cielo della verità vedrò e comprenderò le mie relazioni. Ciò riconcilierà me con la vita, e rinnoverà la natura il vedere delle inezie animate da una tendenza, ed il sapere ciò che [268] sto facendo. La vita non sarà più un frastuono, io potrò vedere uomini e donne, e conoscere i segni per mezzo dei quali essi possono essere riconosciuti dai pazzi e dai demoni. Questo giorno sarà migliore del giorno della mia nascita, in quello io divenni animale: in questo io sono condotto nella pura scienza. Tale è la speranza, ma il godimento è posposto. Più spesso accade che quest’uomo alato, che dovrebbe portarmi in cielo, mi butta nelle nebbie, poi salta e folleggia di nuvola in nuvola, affermando ancora che egli è diretto verso il cielo; ed io essendo novizio, sono tardo nell’osservare che egli non conosce le vie del cielo; ma che vuole soltanto che io ammiri la sua abilità nell’innalzarsi, come fa un uccello od un pesce volante, dal terreno o dall’acqua; ma costui non abiterà mai la volta del cielo, che tutto penetra, tutto nutre e tutto vede. Io ricado tosto e nuovamente nei miei vecchi cantucci e conduco la stessa precedente vita di esagerazioni, avendo perduta la mia fede nella possibilità di una guida che possa condurmi ove io vorrei andare.

Ma lasciando queste vittime della vanità, osserviamo, con nuova speranza, come la natura con più degno impulso abbia assicurato la fedeltà del poeta al suo ufficio di nunzio e di affermatore per mezzo della bellezza delle cose, bellezza che diviene nuova e più alta quando è espressa. La Natura offre a lui le sue creature come pitture parlanti. L’oggetto usato come tipo, acquista un secondo e maraviglioso valore, di gran lunga più alto dell’antico; allo stesso modo che una semplice corda tesa della nave, diviene musicale nella brezza, se avvicinate ad essa il vostro orecchio. «Cose più eccellenti di qualsiasi imagine — dice Jamblichus — sono espresse attraverso le imagini». Le cose possono usarsi come simboli, perchè la natura è un simbolo nel complesso ed in ogni parte. Ogni linea che possiamo [269] disegnare sulla sabbia ha espressione, e non vi è alcun corpo senza il suo spirito o genio. Ogni forma è uno sforzo del carattere; ogni condizione uno sforzo della qualità della vita; ogni armonia, della salute; e, per questa ragione, una percezione di bellezza dovrebbe essere corrispondente o propria solo al buono. Il bello riposa sulle basi del necessario. L’anima fa il corpo, insegna il saggio Spencer: «Come ogni spirito, esso è il più puro, ed ha in sè la più celestiale luce, e tende ad abitare nel più bel corpo, ed esso più vagamente adorna con gioconda grazia ed amabile sguardo. Poichè dall’anima il corpo forma prende, perchè l’anima è forma e produce il corpo».

Qui ci troviamo, subitamente, non nei piacevoli passi di una speculazione critica, ma in un luogo sacro, e dovremmo avanzare molto prudentemente e reverentemente. Noi siamo davanti al secreto del mondo, là dove l’Essere passa nell’Apparenza, e l’Unità nella Varietà.

L’Universo è l’esternarsi dell’anima. Ovunque vi è la vita, quella vi si precipita attorno. La nostra scienza è sensuale, e perciò superficiale. Noi trattiamo sensualmente la terra ed i corpi celesti; la fisica e la chimica, come se essi fossero auto-esistenti; ma questi sono il seguito di quell’Essere che noi possediamo. «Il potente Cielo — disse Proclo — mostra nelle sue trasfigurazioni chiare immagini dello splendore delle percezioni intellettuali, essendo mosse in unisono con gli invisibili periodi delle nature intellettuali». Perciò la scienza va sempre unita alla giusta elevatezza dell’uomo, procedendo in un con la religione e la metafisica; o lo stato della scienza è un indice della nostra auto-conoscenza. Siccome ogni cosa nella natura risponde ad un potere morale, se un fenomeno qualsiasi rimane oscuro ed incomprensibile, si è perchè la corrispondente facoltà dell’osservatore non è ancora attiva.

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Non v’è da meravigliarsi adunque se queste acque sono così profonde, che noi ci soffermiamo con un sentimento religioso. La bellezza della favola prova al poeta ed agli altri l’importanza del senso, o se volete, ogni uomo è poeta tanto da essere sensibile a questi fascini della natura; poichè tutti gli uomini posseggono i pensieri, dei quali l’Universo è la celebrazione. Io trovo che il fascino risiede nel simbolo. Chi ama la natura? Chi non la ama? Sono soltanto i poeti e gli uomini raffinati e côlti che vivono con essa? No, bensì anche i cacciatori, i coltivatori, i domestici ed i macellai, sebbene essi dimostrino il loro attaccamento alla natura con la scelta della loro vita e non con la scelta delle loro parole. Lo scrittore si domanda che cosa può trovare il cocchiere od il cacciatore nelle carrozze, nei cavalli e nei cani; non certo qualità superficiali. Quando parlate con lui egli considera queste cose così poco come voi le considerate; ma la sua adorazione è simpatica; egli non ha definizioni: ma egli è comandato per natura, dal potere vivente che egli sente esser là presente. Nessuna imitazione o rappresentazione di queste cose lo accontenterebbero; egli ama la forza del suo vento del nord, della pioggia, della pietra, del legno e del ferro. Una bellezza inesplicabile è più cara di una bellezza che noi possiamo osservare fino alla fine. Il simbolo è la natura, la natura che conferma il soprannaturale, il corpo inondato dalla vita, che egli adora con riti ruvidi ma sinceri.

L’intimità e il mistero di questo attaccamento conduce gli uomini di ogni classe all’uso di emblemi. Le scuole dei poeti e dei filosofi non sono maggiormente ebbre dei loro simboli di quanto lo sia la plebaglia dei suoi. Computate il valore dei distintivi e degli emblemi nei nostri partiti politici. Guardate la grande palla che essi fanno rotolare da Baltimora a Bunker Hill! [271] Nelle processioni politiche, Lowell va con un remo, Lynn con una scarpa, e Salem con un bastimento. Guardate il barile di Sidro, la capanna del legnaiuolo, il bastone di noce, il palmizio, e tutti i distintivi del partito. Vedete il potere degli emblemi nazionali, delle stelle, dei gigli, dei leopardi. Una mezza luna, un leone, un’aquila od altro, che vennero in onore Dio sa come, sopra un vecchio straccio di lana, svolazzante al vento, sopra un forte, all’estremità della terra, farà circolare più veloce il sangue sotto la più rude e la più convenzionale esteriorità.

Gli uomini s’immaginano d’odiare la poesia, eppure essi sono tutti poeti e mistici!

Oltre questa universalità del linguaggio simbolico, noi siamo informati della divinità di questo uso superiore delle cose (dacchè il mondo è un tempio le cui mura sono ricoperte di emblemi, pitture e comandamenti della deità) in ciò, che non vi è nessun fatto naturale che non porti l’intiero senso della natura, e la distinzione che noi facciamo di eventi e di affari, di alto e basso, di onesto e vile, scompaiono quando la natura è usata come simbolo. Il pensiero rende tutte le cose atte all’uso. Il vocabolario di un uomo omnisciente conterrebbe parole ed imagini, escluse dalla conversazione educata. Ciò che sarebbe basso, o perfino osceno all’osceno, diviene illustre se espresso in una nuova relazione di pensiero. La pietà dei profeti Ebrei purifica la loro grossolanità. La circoncisione è un esempio del potere della poesia di innalzare il basso e l’inverecondo. — Le cose piccole e vili servono così bene come i grandi simboli. Più basso è il tipo, per mezzo del quale una legge è espressa, e più pungente essa è, più a lungo dura nella memoria degli uomini; appunto come noi scegliamo talora la più piccola cassetta per portare qualche utile strumento. Semplici elenchi di [272] parole divengono suggestivi per una mente eccitata e fantastica; così si racconta che Lord Chatham fosse abituato a leggere il dizionario di Baily quando si preparava a parlare in Parlamento. La più povera esperienza è ricca abbastanza per tutti i propositi del pensiero da esprimere. Perchè ambire ad una conoscenza di fatti nuovi? Il Giorno e la Notte, la casa ed il giardino, pochi libri e poche azioni, ci servono così bene come ci servirebbero tutti i commerci e tutti gli spettacoli. Noi siamo lungi dall’avere esaurito il significato dei pochi simboli che usiamo. Noi possiamo ritornare al loro uso ancora con una terribile semplicità. Non vi è bisogno che un poema sia lungo. Ogni parola fu una volta un poema. Ogni nuova relazione è una nuova parola. Anche noi usiamo difetti e deformità per iscopi sacri, esprimendo così il nostro convincimento che i mali del mondo sono tali solamente agli occhi dei cattivi. Nella vecchia mitologia, osservano gli studiosi di mitologia, dei difetti sono ascritti alle nature divine; Vulcano fu zoppo, Cupido fu cieco, e simili, e ciò per significare esuberanza.

È la rimozione ed il distacco dalla vita di Dio che fa le cose brutte, ed il poeta che riattacca le cose alla natura ed al tutto — (riattaccando anche le cose artificiali e le violazioni della natura alla natura, per una visione più profonda) dispone molto facilmente dei più sgradevoli fatti. I lettori di poesia vedono la fattoria del villaggio e la ferrovia, e immaginano che la poesia del paesaggio sia scomparsa; poichè queste forme d’arte non sono ancora consacrate nella loro lettura; ma il poeta le vede cadere nel grande ordine non meno che l’alveare o la tela geometrica del ragno. La Natura le adotta molto presto nei suoi circoli vitali, ed essa ama il lungo treno fuggente, come una cosa sua. Inoltre per una mente equilibrata non importa quante invenzioni [273] meccaniche voi mostriate! Anche se ne aggiungerete dei milioni, naturalmente i fatti della meccanica non hanno guadagnato un dramma di peso. Il fatto spirituale rimane inalterabile per mezzo di molti o di pochi particolari; così come nessuna montagna è d’altezza abbastanza elevata da rompere la curva della sfera. Un astuto ragazzo di campagna va in città per la prima volta, ed il compiangente cittadino non è soddisfatto della sua poca meraviglia. Non è che egli non veda tutte le belle cose, e non sappia che egli non ne vide mai di così belle prima, ma egli dispone di esse tanto facilmente quanto il poeta della sua ferrovia. Il principale valore del fatto nuovo è di innalzare il grande e costante fatto della vita, che può rimpicciolire ogni e qualsiasi circostanza, e per il quale i pendagli di conchiglie degli Indiani ed il commercio d’America sono la stessa cosa.

Il mondo essendo sottoposto alla mente come un verbo e come un nome, il poeta è colui che lo può esprimere. Poichè, sebbene la vita sia grande ed affascini ed assorba, e sebbene tutti gli uomini siano conscii dei simboli attraverso i quali essa è mentovata, pure essi non possono usarli. Noi siamo simboli e dimoriamo nei simboli; operai, lavoro, parole e cose, nascita e morte, tutti sono emblemi; ma noi simpatizziamo con i simboli, ed essendo infatuati dell’utilità economica delle cose, noi ignoriamo che essi sono pensieri. Il poeta, per mezzo di un’ulteriore percezione intellettuale, dà loro un potere che fa dimenticare il loro vecchio uso, e che dà gli occhi e la parola ad ogni oggetto muto ed inanimato. Egli scopre l’indipendenza del pensiero dal simbolo, la stabilità di quello, l’accidentalità e la fugacità di questo. Come gli occhi di Linceo — si disse — vedevano attraverso la terra, così il poeta trasforma il mondo in un cristallo, e ci [274] mostra tutte le cose nelle loro varietà, e nel loro procedere. Poichè, per mezzo della percezione più sottile, egli si trova d’un passo più vicino alle cose, ed osserva il loro flusso o la loro metamorfosi, percepisce la multiformità del pensiero; vede che dentro la forma di qualsiasi individuo vi è una forza che lo spinge verso una forma più alta; e seguendo coi suoi occhi la vita, usa la forma che esprime quella vita, e così il suo discorso scorre con lo scorrere della natura. Tutti i fatti dell’economia animale, del sesso, del nutrimento, della gestazione, della nascita, dello sviluppo, sono simboli del passaggio del mondo nell’anima dell’uomo, per sopportare un mutamento e riapparire poi un fatto nuovo e più alto. Egli usa delle forme corrispondenti alla vita e non alla forma. Questa è la vera scienza. Il poeta solo conosce l’astronomia, la chimica, la vegetazione, la vitalità; però egli non si ferma su questi fatti, ma li usa come segni. Egli sa perchè i campi dello spazio furono seminati con quei fiori che chiamiamo soli, lune e stelle; egli sa perchè la grande profondità è adorna di animali, di uomini, e di dèi; perchè, in ogni parola che egli dice, egli cavalca su di essi, come corsieri del pensiero.

Per virtù di questa scienza il poeta è il Nominatore, il Facitore del Linguaggio, chiamando le cose talvolta a seconda della loro essenza, e dando a ciascuna il suo nome e non quello di un’altra, rallegrando con ciò l’intelletto, che ama il distacco e la precisione. I poeti fecero tutte le parole, e pertanto il linguaggio è l’archivio della storia, e, se dobbiamo dirlo, una specie di tomba delle muse. Però, sebbene l’origine della maggior parte delle nostre parole sia dimenticata, ogni parola fu in principio un lampo di genio e fu divulgata perchè in quel momento essa simbolizzava il mondo al primo parlatore ed al primo uditore. L’etimologo scopre che la più morta parola è stata una volta una brillante pittura. Il [275] linguaggio è poesia fossile. Come la calce del continente consiste di infinite masse di conchiglie di piccolissimi animali, così il linguaggio è fatto di imagini, di tropi, che ora per il loro uso secondario hanno da lungo tempo cessato di ricordarci la loro origine poetica. Ma il poeta nomina la cosa perchè egli la vede o si avvicina ad essa un passo più di chiunque altro. Questa espressione, questo nominare, non è arte, ma una seconda natura cresciuta dalla prima, come la foglia dall’albero. Ciò che noi chiamiamo natura è una certa mozione od un certo mutamento regolato da se stesso; la natura fa tutte le cose con le sue proprie mani, e non lascia che altri la battezzi, ma si battezza da sè; e questo di nuovo si ripete attraverso la metamorfosi. Mi ricordo che un certo poeta me lo descrisse così: «Il Genio è l’attività che rimedia interamente e parzialmente alla decadenza delle cose di specie materiale e finita. La Natura, attraverso tutti i suoi regni, assicura se stessa. Nessuno si occupa di seminare il povero fungo: così essa scuote dalla capocchia di un solo agarico innumerevoli spore, ognuna delle quali, conservandosi, trasmette nuovi miliardi di spore domani o dopodomani. Il nuovo agarico di quest’ora ha un privilegio che il vecchio non ebbe. Infatti questo atomo di seme è gettato in un nuovo posto, non soggetto agli accidenti, che distrussero i suoi genitori due metri più lontano. La natura produce un uomo; ed avendolo portato all’età matura, essa non correrà più il rischio di perdere d’un tratto tale meraviglia, ed infatti stacca da lui un altro essere uguale, affinchè la specie sia al riparo dagli accidenti, ai quali l’individuo è esposto. Nello stesso modo quando l’anima del poeta è giunta alla maturità del pensiero, essa stacca e sparge i suoi poemi od i suoi canti: una progenie eroica, vigile, immortale, sciolta dal regno del tempo: una progenie eroica, animata di posteriorità, vestita d’ali (tali [276] per la virtù dell’anima donde essa venne) che la portano velocemente e lontano, e la fissano irrevocabilmente nei cuori degli uomini. Queste ali sono la bellezza dell’anima del poeta. I canti, fluendo così immortali dal loro mortale genitore, sono seguiti da clamorosi scoppi di censure, che pullulano in maggiore numero dei canti stessi e minacciano di divorarli; ma le censure non sono alate. Alla fine di un brevissimo giro esse cadono e si decompongono, non avendo ricevuto dalle anime che le produssero, belle ali. Ma le melodie del poeta ascendono, palpitano e si immettono nelle profondità del tempo infinito.»

Questo m’apprese, usando le sue libere parole, il poeta. Ma la natura ha nella produzione di nuovi individui un fine più alto che la guarentigia, bensì quello dell’ascensione o del passaggio dell’anima in forme più alte. Io conobbi nei miei verdi anni lo scultore che fece la statua del giovane, che sta nel giardino pubblico. Mi ricordo che egli non poteva dire direttamente ciò che lo rendeva felice od infelice, ma per mezzo di meravigliose vie indirette egli lo poteva. Egli si alzò un giorno, com’era suo costume, prima dell’aurora; contemplò lo spuntare del mattino, grandioso come l’eternità donde proveniva, e per molti giorni egli tentò di esprimere quella grandiosa calma, ed ecco! il suo scalpello sbozzò nel marmo la forma di un bel giovane, Fosforo, il cui aspetto è tale che, si dice, tutti coloro che lo guardano divengono silenziosi. Il poeta anche si adatta alla sua «maniera», e il pensiero che lo agitò è espresso, ma alter idem, in un modo totalmente nuovo. L’espressione è organica od è quel nuovo tipo che le cose stesse assumono quando sono liberate. Come al sole gli oggetti dipingono la loro imagine sulla retina dell’occhio, così essi partecipando all’aspirazione dell’intiero universo, tendono a dipingere nella mente [277] una molto più delicata copia della loro essenza. Il desiderare la metamorfosi delle cose in forme organiche più elevate, è desiderare il loro mutarsi in melodie. Sopra ogni cosa sta il suo demone o la sua anima, e come la forma della cosa è riflessa dall’occhio, così l’anima della cosa è riflessa da una melodia. Il mare, la catena di montagne, il Niagara, ed ogni aiuola di fiori, preesistono o super-esistono in pre-canti, che si innalzano come profumi nell’aria; e quando un uomo qualsiasi dall’udito sufficientemente fine si avvicina, egli li sente e tenta di scriverne le note senza indebolirli e depravarli. E da ciò deriva la legittimazione della critica, nella fede della mente, che i poemi sono una versione corrotta di qualche testo della natura, ai quali dovrebbero corrispondere. Una rima in uno dei nostri sonetti non dovrebbe essere meno piacevole dei ripetuti avvolgimenti di una conchiglia marina, della somigliante varietà di un mazzo di fiori. L’accoppiamento degli uccelli è un idillio non tedioso come lo sono i nostri idillii; una tempesta è un’ode violenta senza falsità od affettazione; un’estate con le sue messi tagliate, ammucchiate, raccolte, è un ammirevole canto epico. Perchè la simmetria e la varietà che modulano questi canti, non dovrebbero insinuarsi negli spiriti nostri, e partecipare noi alle invenzioni della natura?

Questa penetrazione, che esprime se stessa per mezzo di ciò che si chiama Imaginazione, è un altissimo punto di vista, che non s’acquista con lo studio, ma con l’intelletto, con lo spartire il cammino o il circuito delle cose attraverso le forme, facendole così trasparenti agli altri. Il cammino delle cose è silenzioso. Permetteranno esse che un parlatore le accompagni? Esse non sopporteranno una spia; però un amante, ed un poeta, sono la trascendenza della loro propria natura ed esse li soffriranno. La condizione per meritare il vero nome di poeta [278] sta in quel suo sottomettersi alla divina aura, che spira attraverso le forme, e nell’accompagnarla.

Un segreto che qualsiasi uomo intellettuale rapidamente apprende è che oltre l’energia del suo intelletto posseduto e conscio, egli è capace di una nuova energia — (come di un intelletto piegato su se stesso) per mezzo dell’abbandono alla natura delle cose; che, oltre il suo potere privato come uomo individuo, vi è un grande potere pubblico, al quale egli può spalancare a tutti i rischi i suoi spiragli umani, ed essere dominato e penetrato dal suo etereo influsso. Allora egli è preso nella vita dell’Universo, il suo discorso è buono, il suo pensiero è legge e le sue parole sono universalmente intelligibili, come le piante e gli animali. Il poeta sa di parlare adeguatamente solo quando egli dice alcunchè selvaggiamente o «col fiore della mente»; non con l’intelletto, usato come organo, ma con l’intelletto sciolto da ogni schiavitù, e libero di prendere il suo indirizzo dalla sua vita celestiale; o, come gli antichi usavano esprimersi, non con l’intelletto solo, ma con l’intelletto inebriato di nettare. Come il viaggiatore che ha perduta la sua via, getta le sue redini sul collo del cavallo e si affida all’istinto dell’animale per trovare la sua strada, così dobbiamo fare noi con l’animale divino che ci conduce attraverso il mondo. Poichè se in un modo qualsiasi noi possiamo stimolare questo istinto, nuovi orizzonti si aprono per noi nella natura; la mente fluisce attraverso le cose più alte e più difficili e la metamorfosi è possibile.

Questa è la ragione per cui i poeti amano il vino, l’idromelo, i narcotici, il caffè, il thè, l’oppio, i profumi del legno di sandalo ed il tabacco, o qualsiasi altra cosa atta a procurare un godimento animale. Tutti gli uomini si servono dei mezzi che possono per aggiungere questo straordinario potere ai loro poteri normali; [279] ed a questo scopo essi tengono in pregio la conversazione, la musica, la pittura, la scultura, il ballo, i teatri, i viaggi, le guerre, le folle, gli incendi, il giuoco, la politica, o l’amore o la scienza o l’ebbrezza animale, che sono sostituti quasi-meccanici del vero nettare, che è il rapimento dell’intelletto approssimantesi al fatto. Essi sono degli ausiliari alla tendenza centrifuga di un uomo, al suo passaggio in un libero spazio, ed essi lo aiutano a sfuggire alla vigilanza di quel corpo nel quale egli è rinchiuso, e da quel cortile carcerario fatto di relazioni individuali, in cui egli è confinato. Da ciò, un grande numero di coloro che erano, per professione, i rivelatori del Bello, come i pittori, i poeti, i musici e gli attori, hanno avuto più di ogni altro il costume di condurre una vita di piacere e di rilassatezza; tutti, eccetto quei pochi, che ricevettero il vero nettare; e siccome era questo un modo illegittimo di raggiungere la libertà; siccome era questa non un’emancipazione tendente ai cieli, ma alla licenza dei più vili luoghi, essi furono puniti per tale privilegio, con il disfacimento e la deteriorazione. Mai può alcun vantaggio essere preso dalla natura con la frode. Lo spirito del mondo, la grande serena presenza del Creatore, non si fa innanzi con le malìe dell’oppio o del vino. La sublime visione viene all’anima pura e semplice, in un corpo netto e casto. Ciò che noi dobbiamo ai narcotici non è ispirazione, ma un falso eccitamento e un falso furore. Milton dice che il poeta lirico può bere vino e vivere generosamente, ma il poeta epico, colui che deve cantare gli dèi e la loro discesa fra gli uomini, deve bere acqua in una coppa di legno. Poichè la poesia non è «Il vino del Demonio» ma il «vino di Dio». Avviene in questo caso ciò che avviene con i trastulli. Noi colmiamo le mani e le camere dei nostri bambini con ogni specie di bambole, di tamburi e di cavalli, [280] distraendo i loro occhi dal viso aperto della natura e dai suoi sufficienti oggetti, quali il sole, la luna, gli animali, l’acqua, le pietre, che dovrebbero essere i loro trastulli. Così il modo di vita del poeta dovrebbe essere posto ad un grado così umile e semplice che gli influssi comuni lo riempissero di letizia. La sua gioia dovrebbe essere dono della luce del sole; l’aria dovrebbe bastare alla sua ispirazione, ed egli dovrebbe esser ebbro d’acqua. Quello spirito che basta ai cuori tranquilli, che sembra venire ad essi da qualsiasi cespuglio d’erba, da ogni tronco di pino e da ogni pietra a mezzo-sepolta e su cui batte il debole sole di marzo; viene ai poveri ed agli affamati, ed a coloro che sono di semplici gusti. Se tu riempi il tuo cervello di Boston e New York, di mode e di cupidigie, e stimolerai i tuoi deperiti sensi con il vino ed il caffè, tu non troverai raggio di sapienza nella solitaria distesa della pineta.

Se l’immaginazione inebbria il poeta, non è inattiva presso gli altri uomini. La metamorfosi eccita in chi la contempla un’emozione di gioia. L’uso dei simboli ha un certo potere di emancipazione e di ricreazione per tutti gli uomini. Essi sembrano essere toccati da una bacchetta, che li faccia danzare e correre in giro, felici come bambini. Noi siamo come persone che vengono da una cava o da una cantina, all’aria aperta. Questo è l’effetto dei tropi, delle favole, degli oracoli e di qualsiasi forma poetica, su di noi. I poeti sono perciò degli dèi apportatori di libertà. Gli uomini hanno realmente ricevuto un nuovo senso, ed hanno rinvenuto dentro il loro mondo un altro mondo od una sorgente di mondi; poichè, una volta che la metamorfosi è contemplata, noi indoviniamo che essa non s’arresta. Io non esaminerò ora quanto da ciò derivi il fascino dell’algebra e della matematica, che hanno anche i loro tropi; ma ciò è sentito in ogni definizione, così, ad esempio, quando [281] Aristotile definisce lo spazio essere un recipiente immobile, nel quale le cose sono contenute; — oppure quando Platone definisce una linea come un punto fluente o la figura come il limite di un solido, e così via. Quale lieto senso di arditezza noi proviamo quando Vitruvio annunzia la vecchia opinione degli artisti, secondo la quale nessun architetto può costruire bene una casa se non conosce un po’ d’anatomia; quando Socrate, in Charmides ci dice che l’anima è guarita dalle sue malattie per mezzo di certi incanti, e che questi incanti sono belle ragioni, per mezzo delle quali si genera la temperanza nelle anime; quando Platone chiama il mondo un animale; e Timeo afferma che anche le piante sono animali, od afferma che un uomo è una pianta celeste, che cresce verso l’alto con la sua radice, che ne è il capo; e quando leggiamo le parole di Giorgio Chapman.

«Come nella nostra pianta uomo, la cui nervosa radice fiorisce alla sua sommità»; quando Orfeo parla delle canizie come di «quel bianco fiore che segna l’estrema età»; quando Proclo chiama l’universo la statua dell’intelletto; quando Chaucer, nella sua lode alla «Gentilesse» pone il buon sangue in condizione uguale al fuoco, che anche portato nella più scura casa che si possa trovare andando fino al monte Caucaso, compierà ancora il suo naturale ufficio, ed arderà così brillantemente come se ventimila uomini lo contemplassero; quando Giovanni vide nell’Apocalisse la rovina del mondo per causa del male, e le stelle cadere dal cielo, come il fico maturo dall’albero; quando Esopo enumera le comuni relazioni quotidiane con maschere di uccelli e di bestie; quando infine tutto ciò osserviamo, noi dobbiamo trarre l’ammonimento dell’immortalità della nostra essenza, e delle sue varie consuetudini e liberazioni e dire come dicono le gitane di loro stesse: «è inutile impiccarle, esse non possono morire».

[282]

I poeti sono così degli dèi liberatori. Gli antichi poeti Britannici ebbero per loro motto: «Quelli che sono liberi attraverso il mondo». Essi sono liberi e rendono liberi. Un libro di immaginazione ci rende un servizio molto maggiore da principio, stimolandoci coi suoi tropi, che dopo, quando arriviamo ad afferrare il senso preciso dell’autore. Io credo che nulla abbia valore nei libri, se non il trascendentale e lo straordinario. Se un uomo è infiammato e trasportato dal suo pensiero ad un punto tale da dimenticare autori e pubblico, e si cura solamente di questo suo unico sogno, che lo possiede come una vertigine, lasciate che io legga le sue carte, e voi tenetevi tutti gli argomenti, tutte le storie e tutte le critiche. Tutto il valore che si ricollega a Pitagora, a Paracelso, a Cornelio Agrippa, a Cardano, a Keplero, a Swedenborg, a Schelling, a Oken od a chiunque altro che introduca fatti discutibili nella sua cosmogenìa, come angeli, demoni, magìa, astrologia, mesmerismo e simili, è la prova ed una nuova testimonianza dell’allontanamento dalle cose usate. Ciò che pure rappresenta il migliore successo in conversazione, è quella magica libertà, che pone il mondo come una palla, nelle nostre mani. Come pare a buon mercato anche la libertà allora: quanto spregevole a studiarsi, quando un’emozione comunica all’intelletto il potere di sondare e scoprire la natura: quanto grande la prospettiva! nazioni, tempi, sistemi, entrano e spariscono, come i fili nelle tappezzerie a grandi figure e svariati colori; il sogno ci consegna al sogno, e mentre l’ebbrezza dura, noi cederemo il nostro letto, la nostra filosofia, la nostra religione, nella nostra opulenza.

Vi è una buona ragione per cui dovremmo tenere in pregio questa liberazione. La sorte del povero pastore, che accecato e sperduto nella tempesta di neve, perisce [283] sotto una valanga a pochi passi dalla sua capanna, è l’emblema dello stato dell’uomo. Noi moriamo miserevolmente sulla riva delle acque della vita e del vero. L’inaccessibilità di ogni pensiero che non sia il nostro è prodigiosa. Nulla vale che lo avviciniate; voi ne siete altrettanto remoti quando siete lontani, come quando siete vicini. Ogni pensiero è anche una prigione; come lo è ogni cielo. Perciò noi amiamo il poeta, l’inventore, colui che in qualsiasi forma, sia essa un’ode od un’azione, uno sguardo o una linea di condotta, ci ha dato un nuovo pensiero. Egli scioglie le nostre catene, e ci ammette ad una nuova scena.

Questa emancipazione è cara a tutti gli uomini, ed il potere di manifestarla siccome deve venire da una maggiore profondità e finalità di pensiero, è misura dell’intelletto. Perciò tutti i libri d’immaginazione durano e durano tutti quelli che posseggono quella verità, per cui lo scrittore vede la natura al disotto di lui, e la usa come suo esponente. Ogni verso o sentenza che possegga questa virtù, avrà cura della sua propria immortalità. Le religioni del mondo sono le giaculatorie di pochi uomini immaginativi.

Ma la dote dell’immaginazione è di fluire e non di congelarsi. Il poeta non si fermò al colore od alla forma, ma lesse il loro significato; nè può egli fermarsi in questo, ma fa gli stessi oggetti, esponenti del suo nuovo pensiero. Ecco la differenza fra il poeta ed il mistico. Questi lega un simbolo ad un solo senso, che fu vero senso per un momento, ma tosto invecchia e diventa falso. Però tutti i simboli sono come flussi; ogni linguaggio è «rotabile» e passeggiero, ed è buono al pari dei cavalli e delle barche come trasporto; ma non come possono esserlo le case e cascinali, come abitazioni. Il misticismo consiste nello scambio ingannevole di un simbolo accidentale ed individuale per un simbolo universale. Il croco [284] del mattino diviene la meteora favorita agli occhi di Jacopo Behmen, ed a lui simboleggia la verità e la fede; ed egli crede che ciò apparirà cosa reale ad ogni lettore. Ma già il primo lettore preferisce il simbolo di una madre ed il suo bambino o di un giardiniere ed il suo bulbo o di un gioielliere che raffina la sua gemma. Ognuno di questi, e migliaia di altri simboli sono ugualmente idonei alla persona, per la quale essi hanno un significato. Soltanto che essi devono essere trattati illuminatamente, ed essere volentieri tradotti negli equivalenti termini usati dagli altri uomini. Ed al mistico bisogna seriamente dire — «Tutto quello che voi dite è altrettanto vero con o senza l’uso noioso di quel simbolo». Si abbia un po’ d’algebra, invece di questa trita retorica — si abbiano dei segni universali invece di questi simboli da villaggio, e tutti ne ritrarremo un profitto. La storia delle gerarchie sembra insegnare che tutti gli errori religiosi consistettero nel fare il simbolo troppo rigido e solido, e in ultimo, null’altro che un eccesso nell’organo del linguaggio.

Swedenborg, fra tutti gli uomini delle età recenti, rappresenta eminentemente il traduttore della natura nel pensiero. Non conosco nella storia altro uomo nel quale le cose fossero così uniformi alle parole. Davanti a lui la metamorfosi è sempre in azione. Ogni cosa su cui il suo occhio si posa, ubbidisce agli impulsi di una natura morale. I fichi diventano uva mentre egli li mangia. Quando qualcuno dei suoi angeli affermò una verità, il ramoscello di lauro che essi tenevano in mano, fiorì. Il rumore che in distanza pareva un digrignar di denti e un percuoter di pugni, approssimatosi si scopre essere la voce di disputanti. Gli uomini, in una delle sue visioni vedute nella luce celeste, apparvero come draghi, involti nell’oscurità; ma uno all’altro essi apparivano come uomini, e quando la luce dal cielo brillò [285] nelle loro capanne, essi si dolsero dell’oscurità e furono obbligati a chiudere la finestra onde poter vedere.

Vi era in lui la percezione, che fa del poeta o dell’osservatore un oggetto di rispetto e di terrore; percezione per cui lo stesso uomo o società di uomini possono avere un solo aspetto per se stessi e per i loro compagni, ed un aspetto differente per le intelligenze più alte. Certi sacerdoti, che egli ritrae conversanti molto saggiamente insieme, apparivano ai bambini che erano in distanza, come dei cavalli morti; e molte altre simili false apparenze. Ed istantaneamente lo spirito si chiede se quei pesci sotto il ponte, quei buoi al pascolo, quei cani nel cortile, sono immutabilmente pesci, buoi e cani o se appaiono così solo a me, o se per caso appaiono a se stessi uomini eretti; e se appaia io stesso un uomo a tutti gli occhi. I Bramini e Pitagora mossero la stessa questione; e se qualche poeta ha fatto testimonianza della trasformazione, egli senza dubbio la trovò in armonia con varie esperienze. Tutti noi abbiamo osservato dei mutamenti altrettanto considerevoli nel grano e nei bruchi. Poeta è colui che ci attirerà con l’amore e il terrore e che vede attraverso la fluente veste, la salda natura e la proclama.

Io cerco invano il poeta che descrivo. Noi non ci indirizziamo alla vita con sufficiente franchezza o con sufficiente profondità; nè osiamo celebrare i nostri propri tempi e il momento sociale. Se noi colmassimo il giorno con l’audacia, non rifuggiremmo dal celebrarlo. Il tempo e la natura ci concedono molti doni, ma non ancora l’uomo opportuno, la religione nuova, il riconciliatore, che tutte le cose attendono. Il pregio di Dante è che egli osò scrivere la sua autobiografia in carattere colossale o nell’universalità. Noi non abbiamo ancora avuto alcun genio in America, dall’occhio severo, che conoscesse il valore dei nostri incomparabili materiali e [286] vedesse sul barbarismo e materialismo dei tempi, un novello tripudio di quelli dèi, di cui tanto ammira la pittura in Omero, poi nell’età media, poi nel Calvinismo. Le Banche e le tariffe, il giornale e la giunta elettorale, il metodismo e l’unitarismo, sono cose piatte e sciocche per gli sciocchi, ma riposano sulle stesse basi di meraviglia della città di Troia, e del tempio di Delfo, e passan via con altrettanta rapidità. Il nostro movimento del legname, i nostri elettori e la loro politica, la nostra pesca, i nostri negri ed indiani, le nostre barche, le nostre ripulse, la collera dei bricconi, la pusillanimità degli uomini onesti, il commercio del Nord, le piantagioni del Sud, il disboscamento dell’Ovest, l’Oregon e il Texas, sono ancora cose da cantare. Eppure l’America è un poema ai nostri occhi; la sua ampia geografia colpisce l’immaginazione, e non attenderà a lungo la poesia. Se io non ho trovato nei miei concittadini quell’eccellente complesso di doti che cerco, nemmeno potrei aiutarmi a stabilire l’idea del poeta, leggendo di tanto in tanto nella collezione di Chalmers i cinque secoli di poesia inglese. Queste sono intelligenze più che poeti, sebbene ci siano stati anche dei poeti fra di essi. Ma quando noi aderiamo all’ideale del poeta, abbiamo le nostre difficoltà anche leggendo Milton ed Omero. Milton è troppo letterario e Omero troppo letterale e storico.

Ma io non sono saggio abbastanza per un criticismo nazionale, e debbo far uso più ampio della vecchia larghezza, per compiere il mio viaggio dalla Musa al poeta, in rapporto all’arte sua.

L’arte è il passo del creatore alla sua opera. I passi o i metodi sono ideali ed eterni, sebbene pochi uomini li vedano; l’artista stesso per anni o per tutta la vita, se non venga nelle necessarie condizioni, non li vede. Il pittore, lo scultore, il compositore, il rapsodo, l’oratore, [287] tutti condividono un desiderio: quello di esprimersi simmetricamente ed ampiamente e non da meschino ed a frammenti. Essi si trovarono e si posero in certe condizioni speciali; così il pittore e lo scultore davanti a certe toccanti figure umane; l’oratore nell’assemblea del popolo; e gli altri davanti a scene che eccitarono il loro intelletto; e ciascuno perciò senti il nuovo desiderio. Il poeta ode una voce, egli vede un richiamo; poi apprende con meraviglia, quale orda di demoni lo circonda. Egli non può più riposare, egli dice con il vecchio pittore «Per Dio, esso è in me, e deve uscire da me». Perseguita una bellezza intravveduta, che vola davanti a lui: poeta spande versi in ogni solitudine. La maggior parte delle cose che egli dice, sono convenzionali, senza dubbio; ma dopo qualche tempo egli dice qualcosa di originale e di bello. Ciò lo affascina. Egli vorrebbe dire null’altro che quelle cose. Nel nostro modo di parlare, noi diciamo «Quello è vostro, questo è mio»; ma il poeta sa bene che ciò non è suo; che è così bello e straniero per lui, come lo è per voi; egli vorrebbe bene udire al fine simile eloquenza. Una volta che egli ha gustato questo icóre immortale, egli non se ne sazia, e siccome un ammirevole potere creativo esiste in queste intellezioni, è di infima importanza che queste cose vengano dette. Quanto poco di tutto quello che conosciamo è detto! Quante gocce di tutto il mare della nostra scienza sono tolte da esso! e per quale accidente avviene che queste siano esposte, quando tanti segreti dormono nella natura! Di qui sorge la necessità del discorso e del canto; di qui nascono le ansie ed i battiti del cuore nell’oratore alle porte dell’assemblea; di qui infine la necessità che il pensiero debba essere emesso come Logos o Parola.

Non dubitare, o poeta, ma persisti. Di’: «È in me, ed uscirà». Rimani là, deluso e muto, balbuziente e [288] timido, fischiato e burlato; ma sta e lotta, finchè finalmente, il furore tragga da te quel sogno potente, che ogni notte mostra te a te stesso; potenza che trascende ogni limite e segretezza, e per virtù della quale un uomo è il conduttore dell’intiero fiume di elettricità. Nulla cammina o si trascina o cresce od esiste, che non debba a sua volte alzarsi, e camminare davanti a lui, come l’esponente delle sue significazioni. Quando egli raggiunge quel potere, il suo genio non è più esauribile. Tutte le creature, a coppie ed a tribù, si riversano nella sua mente come nell’arca di Noè, per uscirne di nuovo a popolare un nuovo mondo. Questo potere è come il deposito d’aria per il nostro respiro o per la combustione del nostro legno; non è una misura di galloni, ma è l’intiera atmosfera, se è necessario. E pertanto i ricchi poeti, come Omero, Chaucer, Shakespeare e Raffaello, non hanno limiti alle loro opere, eccetto quelli della loro vite naturale, ed esse paiono specchi portati per la strada, pronti a rendere l’immagine di ogni cosa create.

Oh poeta! una nuova nobiltà è conferita nei boschi e nei pascoli, e non più nei castelli o dalla lama della spada. Le condizioni sono dure, ma uguali. Tu abbandonerai il mondo e non conoscerai più a lungo i tempi, le abitudini, i favori, la politica, le opinioni degli uomini, ma tutto riceverai dalla musa. Poichè l’ora delle città è suonata dal mondo con campane funeree, ma nella natura le ore universali sono contate dal succedersi delle tribù animali e delle tribù vegetali e dal crescere della gioia nella gioia. Dio vuole pure che tu rinunci ad una vita molteplice, e che tu sia pago che altri parlino per te. Altri saranno i tuoi gentiluomini e rappresenteranno per te ogni cortesia e vita mondana; altri anche faranno le grandi ed altisonanti azioni: Tu giacerai nascosto con la natura; e non potrai andare al Capitolo od alla [289] Borsa. Il mondo è pieno di rinunzie e di noviziati, e questo è il tuo; tu devi per lungo tempo passare per folle e villano.

Questo è il riparo, la guaina con cui Pan ha protetto il suo fiore ben ornato, e così tu sarai conosciuto solo ai tuoi, ed essi ti consoleranno con il più tenero amore. E tu non potrai ripetere i nomi dei tuoi amici nei tuoi versi, per una vecchia vergogna davanti al santo ideale. E questa è la ricompensa: che l’ideale sarà leale a te, e le impressioni del mondo attuale cadranno come pioggia d’estate, copiosa ma non dannosa alla tua essenza invulnerabile. Tu avrai tutta la terra per tuo parco e possedimento, il mare per il tuo bagno e la tua navigazione, senza tasse e senza invidia; i boschi e i fiumi saranno tuoi, e tu possederai tutto ciò che gli altri hanno solo in affitto od in prestito. Tu vero signore e padrone! Signore della terra; signore del mare; signore dell’aria! Ovunque cade la neve o sgorga l’acqua o volano gli uccelli; ovunque il giorno e la notte s’incontrano nella penombra; ovunque i cieli azzurri sono cosparsi di nuvole o trapunti di stelle; ovunque vi sono delle forme con dei trasparenti legami; ovunque vi sono sbocchi nello spazio celeste; ovunque vi è pericolo e rispetto ed amore, vi è Bellezza abbondante come la pioggia, sparsa per te; e anche se tu percorressi tutto il mondo, non potresti trovare una condizione per te inopportuna o vergognosa.

[291]

SECONDO SAGGIO ESPERIENZA

Dove ci troviamo noi? Per una strada, della quale noi non conosciamo gli estremi, e che crediamo non ne abbia alcuno. Noi ci svegliamo e ci troviamo su d’una scala: vi sono dei gradini al disotto di noi, che ci pare d’aver salito; ve ne sono di quelli al disopra di noi, e molti, che vanno in alto e si perdono di vista. Ma il Genio, che secondo la vecchia credenza sta alla porta per la quale entriamo e ci dà da bere l’oblio affinchè non si dican frivolezze, mescolò troppo la bevanda, e noi non possiamo scuotere il letargo anche ora a mezzogiorno. Il sonno si sofferma per tutto il tempo della nostra vita attorno ai nostri occhi, come la notte si sofferma tutto il giorno nei rami dell’abete. Tutte le cose nuotano e brillano. La nostra vita non è tanto minacciata quanto la nostra percezione. Noi ci avanziamo cauti, simili a spettri attraverso alla natura e non riconosciamo più i nostri posti. Cadde la nostra nascita in qualche momento di indigenza o di frugalità della natura, che essa fu così avara del suo fuoco e così liberale della sua terra, da apparire manifesta a noi la mancanza di principio affermativo, e pur avendo salute e ragione, la mancanza di superfluità di spirito per una nuova creazione? Noi abbiamo quanto è sufficiente per vivere e passare l’anno, ma non un’oncia da concedere o da mettere in serbo. Ah! [292] se quel nostro genio fosse genio un poco di più! Noi siamo come quei mugnai posti nella parte bassa di una corrente, quando i mulini superiori hanno esaurito l’acqua. E come essi, noi pensiamo che la gente che ci sta sopra debba avere alzate le sue dighe. Se qualcuno di noi sapesse ciò che stiamo per fare o dove siamo per andare, allorquando pensiamo di conoscere il meglio! Noi non sappiamo oggi se siamo oziosi oppure occupati. Abbiamo poi scoperto che nei tempi che ci credemmo indolenti, molto si era fatto e molto si era incominciato. Tutti i nostri giorni sono così poco profittevoli nel loro passare, che è stupefacente l’immaginare dove o quando noi abbiamo ottenuto qualcosa di ciò che chiamiamo sapienza, poesia, virtù. Noi giammai la acquistammo in alcun giorno segnato dal calendario. Qualche giorno celestiale deve essere stato intercalato in qualche luogo, come quelli che Hermes coi dadi vinse alla Luna affinchè Osiride potesse nascere. Si dice che tutti i martirii appaiono senza importanza quando sono stati sofferti. Ogni bastimento è una cosa romantica, eccetto quello in cui ci troviamo. Imbarchiamoci e ciò che è romantico abbandona la nostra nave e si appende a qualsiasi altra vela nell’orizzonte. La nostra vita ci appare banale, e noi evitiamo di rievocarla. Gli uomini sembrano avere appreso dall’orizzonte l’arte del ritrarsi perpetuamente. Laggiù terre montagnose dànno ricca pastura, ed il mio vicino ha fertili prati, «ma il mio campo — dice il contadino malcontento — serve solo a tenere insieme il mondo». Io cito il detto di un altro uomo, ma sfortunatamente, quell’altro si ritira per la stessa via, e cita me. Ogni casa è piacevole allo sguardo finchè non vi penetriamo; ma in caso contrario vi troviamo la tragedia, le donne che si lamentano, i mariti dagli occhi torvi, un’infinità di dimenticanze, e gli uomini che domandano «Che cosa [293] c’è di nuovo?» come se le cose vecchie fossero tanto cattive. Quanti individui possiamo noi enumerare in società? quante azioni? quante opinioni? Tanta parte del nostro tempo è preparazione, tanta è abitudine e tanta è retrospettiva, cosicchè l’energia del genio di ciascun uomo si contrae nel giro di pochissime ore. La storia della letteratura (prendete le conclusioni ultime del Tiraboschi, di Warton e dello Schlegel), è una somma di pochissime idee e di pochissimi racconti originali, mentre tutto il resto non è che una variazione di questi. Allo stesso modo un’analisi critica troverebbe, in questa vasta società che giace intorno a noi, pochissime azioni spontanee. Tutto o quasi è se non abitudine e senso grossolano. Poche sono le opinioni stesse, e queste sembrano organiche in coloro che parlano, e non distraggono la necessità universale.

Quanto oppio è versato in ogni sventura! Essa si mostra spaventevole quando noi ci avviciniamo, ma infine non ci imbattiamo in una cosa aspra e lacerante, ma nella più dolce e levigata delle superfici.

La gente geme e si lamenta, ma il dolore non è grande quanto lo fanno. Vi sono dei momenti in cui desideriamo la sofferenza, nella speranza di trovarvi almeno la realtà, le punte acuminate e la lama della verità. Ma tutto ciò risulta non essere altro che pitture da scenari e finzione. L’unica cosa che il dolore mi ha insegnato, è quanto poco profondo esso sia: come tutto il resto, esso scherza intorno alla superficie, e non mi introduce mai nella realtà, per il cui contatto noi daremmo in pegno figli ed amanti. Fu Buscovich a scoprire che i corpi non vengono mai a contatto? Bene, ed io affermo che le anime non raggiungono mai i loro obbietti. Un mare non navigabile si muove con onde silenziose fra noi e le cose alle quali aspiriamo e con le quali conversiamo. Il dolore ci renderà [294] pure idealisti. Per la morte di mio figlio, più di due anni fa, mi parve di aver perduto un bel possedimento: null’altro. Io non posso maggiormente introdurmi nella natura di questo fatto. Se domani venissi informato del fallimento dei miei principali debitori, la perdita della mia proprietà sarebbe un grande cruccio per me e forse per molti anni; ma essa mi lascierebbe come mi ha trovato, nè migliore, nè peggiore. Così avviene con la sventura: essa non mi tocca; qualche cosa che io immaginavo fosse una parte di me stesso e che non poteva essere strappata senza dilaniarmi nè accresciuta senza arricchirmi, cade lontana da me, e non lascia alcun segno. Essa era caduca. Io soffro che il dolore mi possa insegnare nulla, nè possa farmi avanzare d’un passo nella natura reale. L’indiano maledetto che non poteva essere toccato nè dal vento, nè dall’acqua, nè dal fuoco, è un tipo che rappresenta noi tutti. Le vicende più care sono pioggie estive, e noi abbiamo gli impermeabili che ci salvano da ogni goccia. Nulla ci è lasciato all’infuori della morte. Noi guardiamo a questa con macabra soddisfazione, dicendo che là almeno vi è una realtà che non ci trarrà in inganno. Io penso che questa evanescenza e lubricità di tutti gli oggetti, per cui essi scivolano attraverso le nostre dita tanto più rapidamente quanto più noi stringiamo, sia la parte più brutta della nostra condizione. Alla natura non piace d’essere osservata, e desidera che noi siamo i suoi buffoni e compagni di giuoco. Noi possiamo ottenere una palla per il nostro cricket; ma non un seme per la nostra filosofia. Essa non ci diede mai il potere di menar colpi diretti; tutti i nostri colpi sono maldestri od accidentali.

Così le relazioni con i nostri simili sono indirette e casuali. Il sogno ci consegna al sogno, e non vi è fine all’illusione. La vita è una catena di modi come [295] un rosario, ed a misura che noi vi passiamo attraverso essi risultano essere delle lenti colorate, che dipingono il mondo del loro proprio colore, e mostrano solo quanto giace nel fuoco di ciascuna lente. Dalla montagna voi vedete la montagna. Noi diamo vita a ciò che possiamo, e noi vediamo solamente ciò cui diamo vita. La natura ed i libri appartengono agli occhi che vedono questi e quella. Il vedere un tramonto od un poema dipende solo dalla disposizione d’animo di un uomo. Vi sono sempre dei tramonti e vi è sempre il genio; ma vi sono solo poche ore serene per godere della natura o dell’esame critico. Il maggior o minor godimento dipende dalla struttura o dal temperamento dell’uomo. Il temperamento è il filo di ferro, sul quale le perle sono legate. A che giova la fortuna o l’ingegno ad una natura fredda e difettosa? Chi si cura della sensibilità o del giudizio critico di un uomo, se egli si addormenta sulla sua sedia? o se egli ride e sogghigna? o se egli fa delle scuse? o se è ammalato di egoismo? o se pensa ai suoi dollari? o se non può nutrirsi? A che cosa giova il genio se l’organo è troppo convesso o troppo concavo, e non può trovare la distanza focale nel vero orizzonte della vita umana? A che cosa giova lo stimolare un uomo a fare esperimenti ed a sostenerlo in ciò, se il suo cervello è troppo freddo o troppo caldo, ed egli non se ne cura? o se il tessuto è troppo finemente intrecciato, troppo irritabile per il piacere o per il dolore, cosicchè la vita ristagna se riceve troppo senza la dovuta espansione? A che serve il fare degli eroici voti d’ammenda, se colui che deve mantenerli è lo stesso spergiuro? Quale serenità può concedere il sentimento religioso, quando si sospetta che esso sia dipendente dalle stagioni dell’anno o dallo stato del sangue? Conobbi un medico spiritoso, che scopriva la teologia nei vasi biliari ed era solito affermare che [296] se vi era una malattia nel fegato, l’uomo diveniva Calvinista, e se quell’organo era sano egli diveniva Unitario. È assai penosa quell’esperienza ingrata che ci insegna come qualche eccesso ostile o l’imbecillità possono distruggere le promesse del genio. Noi vediamo dei giovanotti, che ci devono un mondo nuovo, tanta è la loro facilità e prodigalità nel promettere, ma essi mai non soddisfano al debito; essi muoiono giovani ed eludono il conto: oppure se vivono, si perdono nella folla.

Il temperamento pure fa parte del sistema delle illusioni, e ci racchiude in una prigione di vetro, che noi non possiamo vedere. Intorno ad ogni persona che incontriamo vi è un’illusione ottica. In vero, esse sono tutte creature con un dato temperamento, che appariranno con un dato carattere, di cui non sorpasseranno mai i limiti: ma noi le guardiamo, esse ci sembrano vive, e noi presumiamo che vi sia in loro un impulso: esso pare tale nel momento in cui guardiamo, ma negli anni, nella vita, esso diviene se non un certo tono uniforme che il tamburo rotante del «carillon» deve ripetere. Gli uomini resistono a quanto è prestabilito nel mattino, ma lo adottano a misura che il pomeriggio s’avanza e che il temperamento prevale sopra ogni cosa di tempo, luogo e condizione, e diviene inconsumabile nelle fiamme della religione. Il sentimento morale cerca di imporre qualche modificazione, ma il tessuto individuale mantiene il suo dominio, se non per piegare il giudizio morale almeno per fissare la misura dell’attività e del godimento.

A questo modo io esprimo la legge così come è letta dal livello della vita comune, ma io non devo lasciarla senza notare l’eccezione principale: cioè che il temperamento è un potere che l’uomo non ama di sentir lodato da alcuno, se non da se stesso. Sul tavolo della medicina, noi non possiamo resistere alle [297] influenze convenzionali di detta scienza. Il temperamento sbaraglia ogni divinità. Io conosco l’attitudine mentale dei medici. Io odo il riso represso dei frenologi. I rapitori di fanciulli ed i conduttori di schiavi che hanno delle teorie, stimano ogni uomo vittima di un altro che lo incatena perchè conosce le leggi del suo essere, e da segni esteriori come il colore della sua barba e la forma del suo occipite può penetrare il complesso delle sue vicende e del suo carattere. La più grossolana ignoranza non disgusta quanto questa scienza impudente. I medici dicono di non essere materialisti ma di fatto essi lo sono: — Lo spirito è cosa ridotta ad un’estrema sottigliezza: Oh così sottile! Ma la definizione di spirituale, dovrebbe essere ciò che è la sua propria evidenza. Quali nozioni essi collegano all’amore! e quali alla religione! Nessuno vorrebbe pronunciare queste parole al loro orecchio per non dare loro l’occasione di profanarle. Io vidi un signore cortese, che adattava la sua conversazione alla forma della testa della persona con la quale egli parlava! Io avevo immaginato che il valore della vita giaccia nelle sue possibilità inscrutabili; nel fatto che io non so mai che cosa mi può succedere quando mi rivolgo ad un individuo sconosciuto. Io porto le chiavi del mio castello nelle mie mani, pronto a buttarle ai piedi del mio signore, in qualunque momento, e sotto qualsiasi aspetto egli vorrà apparire. Io so che egli è nelle vicinanze, nascosto fra i vagabondi. Precluderò io il mio avvenire, ponendomi su un altro seggio e gentilmente adattando la mia conversazione alla forma delle teste? Quando io giunga a ciò, i medici mi potranno comperare per un centesimo. «Ma, signore, la storia medica, le memorie all’Istituto; i fatti provati!» Io non ho fiducia nei fatti e nelle conclusioni. Il temperamento è il veto o il potere regolatore della costituzione, molto saggiamente [298] applicato per impedire un eccesso avverso alla costituzione, ma offerto assurdamente come barriera alla rettitudine originaria. Quando la virtù è presente, tutti i poteri subordinati dormono. Sul suo proprio livello od in considerazione della natura, il temperamento ha scopo finale. Io non so come si possa sfuggire agli anelli della necessità fisica, caduti una volta in questa trappola delle così dette scienze. Dato un tale spunto, una storia conseguente deve seguire. L’uomo vive, reggendosi su tale base, in un tanfo di sensualismo, che tosto condurrebbe al suicidio. Ma è impossibile che il potere creativo debba escludere se stesso. C’è in ogni intelligenza uno spiraglio, giammai ostruito, attraverso il quale passa il creatore. L’intelletto, ricercatore della verità assoluta, od il cuore, amante del bene assoluto, intervengono in nostro soccorso, e ad un solo sussurro di questi alti poteri, noi ci risvegliamo dalle inutili lotte e da tale oppressione. Noi la gettiamo nel suo proprio inferno, e non potremo nuovamente legarci ad uno stato così basso.

Il segreto dell’illusione sta nella necessità di una successione di modi o di obbietti. Noi lietamente getteremmo l’àncora, ma l’ancoraggio è fatto di sabbie mobili. Questo progressivo artifizio della natura è troppo forte per noi: «Però si muove»[3]. Quando di notte io guardo la luna e le stelle, mi pare di star fermo, mentre esse sembrano affrettarsi. Il nostro amore del reale ci conduce a ciò che è immutabile, ma la salute del corpo consiste nella circolazione, e la sanità della mente nella varietà o facilità dell’associazione. Noi abbisogniamo del mutamento degli obbietti. Il dedicarsi ad un solo pensiero diviene rapidamente odioso. Noi abitiamo con i pazzi e dobbiamo divertirli; allora la [299] conversazione si spegne. Una volta presi tale diletto in Montaigne, che pensai di non abbisognare mai più di un altro libro; prima questo mi era successo con Shakespeare; poi con Plutarco; poi con Plotino; una volta con Bacone; dopo con Goethe ed anche con Bettine; ora però volto le loro pagine svogliatamente, mentre ancora accarezzo i loro genii. La stessa cosa succede con i quadri; ognuno avrà la prima volta una forza di attenzione, che non può in seguito mantenere, sebbene volentieri si vorrebbe continuare ad essere allettati in tale modo. Quale potente impressione ho ricevuto da pitture dalle quali, ammirate attentamente una volta, prendete congedo come se non le doveste rivedere mai più. Io ho ricevuto dei buoni ammaestramenti da certe pitture, che dopo rividi senza emozione o curiosità. Noi dobbiamo trarre una deduzione dall’opinione, anche quando questa è quella di uomini saggi, intorno ad un libro o ad un avvenimento. L’opinione loro m’informa del loro modo di essere e di qualche cenno vago intorno al fatto nuovo, ma non deve essere affatto creduta come una relazione durevole fra quell’intelletto e quella cosa. Il bambino domanda «Mamma, perchè la storiella non mi piace tanto quanto ieri?» Povero bambino, così succede pure con il più vecchio cherubino della conoscenza. Ma risponderà alla domanda il dire: Perchè tu nascesti unità e questa storiella è un particolare? La ragione del dolore che questa scoperta ci cagiona (e noi la facciamo tardi riguardo alle opere d’arte e di pensiero) è il lamento che sorge dalla tragedia per le persone, per l’amicizia e per l’amore.

L’immobilità, la mancanza di elasticità che noi lamentiamo nelle arti, noi maggiormente lamentiamo nell’artista. Non vi è potere d’espansione negli uomini. I nostri amici ben presto ci appaiono i rappresentanti di certe idee, che essi non sorpassano e non trascendono [300] mai. Essi stanno sul limitare dell’oceano del pensiero e del potere, ma non fanno mai un solo passo che li possa portare dentro. Un uomo è come un pezzo di spato del Labrador, che non risplende mentre lo rivoltate nelle vostre mani finchè non giungete ad un angolo determinato; solo allora esso mostra dei colori belli e profondi. Non vi è negli uomini adattamento od applicabilità universale, ma ognuno ha il suo talento speciale, e la maestria degli uomini accorti consiste nel porsi abilmente dove e quando la loro speciale attitudine debba essere più spesso praticata. Noi facciamo ciò che dobbiamo fare e chiamiamo questo nostro agire con i nomi migliori, e di buon grado riceveremmo le lodi per aver proprio voluto quello che è risultato. Io non posso ricordarmi alcuna figura d’uomo che non sia talvolta superflua. E non è ciò pietoso? La vita non è degna d’essere presa per riempirla di artifizi.

Naturalmente l’intiera società è necessaria per ottenere la simmetria che noi cerchiamo. La ruota dai variopinti colori deve girare molto in fretta per apparire bianca. Qualchecosa si impara anche conversando con tanta leggerezza e tanta noncuranza. In conclusione chiunque di noi perda, noi guadagniamo sempre. La divinità sta anche dietro ai nostri errori ed alle nostre follie. I giuochi dei bambini sono delle cose insensate, ma delle cose insensate molto educative. Così è anche con le cose più grandi e più solenni, con il commercio, con il governo, con la chiesa, con il matrimonio, e così fino alla storia del pane di ogni uomo, del modo con cui egli giunse a possederlo. Il potere è come un uccello, che non scende in nessun luogo, ma salta perpetuamente di ramo in ramo; esso non dimora in alcun uomo ed in alcuna donna, ma per un momento parla per mezzo di questo uomo, e subito dopo parla per mezzo di quello.

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Ma quale aiuto nasce da queste raffinatezze o pedanterie? Quale aiuto dal pensiero? La vita non è dialettica. Io credo che in questi tempi noi abbiamo avuto ammaestramenti sufficienti sulla futilità della critica. Il nostro popolo ha pensato e scritto molto, riguardo al lavoro ed alla riforma, eppure con tutto ciò che ha scritto, nè il mondo, nè esso stesso hanno progredito di un solo passo. Il gusto intellettuale della vita non dovrà rendere inutile l’attività muscolare. Se un uomo stesse a considerare la delicatezza con cui un pezzo di pane passa nella sua gola, egli morrebbe di fame. All’«Education Farm» la più nobile teoria della vita riposava sulle più nobili figure di giovani e di ragazze melanconici e completamente privi di forza. Essa non avrebbe raccolto una tonnellata di fieno, non avrebbero pulito un cavallo, e lasciava i giovani e le ragazze pallidi ed affamati. Un oratore politico spiritosamente comparò le nostre promesse di partito a delle strade occidentali, che si aprono abbastanza maestosamente con filari di alberi da ogni lato, per allettare il viaggiatore, ma che tosto diventano gradatamente più strette, per finire in sentieri da scoiattolo e salire sopra un albero. Così fa la cultura con noi: essa finisce in un mal di capo.

Straordinariamente triste ed arida appare la vita a coloro che pochi mesi addietro furono colpiti dallo splendore della promessa dei tempi. «Non vi è più ora alcun retto corso d’azione, nè alcuna devozione di se stesso fra gli Iranici». Noi ne abbiamo avuto a sazietà di obbiezioni e di criticismo. Noi troviamo delle obbiezioni ad ogni momento della vita e dell’azione, e la saggezza pratica dall’onnipresenza della obbiezione ha tratta l’indifferenza per essa. L’intera disposizione delle cose predica l’indifferenza. Non state a tormentarvi con il pensiero, ma ovunque procedete con i vostri [302] affari. La vita non è intellettuale o critica, ma zotica. Il suo bene principale è per coloro che possono godere ciò che trovano, senza discutere. La natura odia il pigolare, e le nostre madri dicono bene quando esclamano: «Bambini, mangiate la vostra pappa e non ne parlate più». Colmare il nostro tempo, e riempire le nostre ore e non lasciare spiraglio a pentimenti o ad approvazioni, questo è la felicità. Noi viviamo in mezzo a superfici e la vera arte della vita sta nel pattinarvi bene sopra. Sotto le più vecchie e più decrepite convenzioni, un uomo di forza originaria prospera così bene come nel mondo più giovane, con la destrezza del tatto e del trattamento. Egli può resistere ovunque. La vita stessa è una mescolanza di potere e di forma e non sopporterà il più piccolo eccesso dell’uno o dell’altra. La saggezza sta nel riempire ogni minimo spazio di tempo, nel trovare la fine del viaggio ad ogni passo della strada, nel vivere il maggior numero possibile di ore buone. Non è degli uomini, ma dei fanatici o dei matematici, se volete, l’asserire che data la brevità della vita, non vale la pena di curarci se per una così breve durata noi ci dibattemmo nel bisogno o sedemmo in alto.

Poichè le nostre occupazioni sono fatte di momenti, amministriamoli a dovere. Cinque minuti oggi hanno per me tanto valore quanto cinque minuti nel prossimo millennio. Siamo pertanto equilibrati e saggi e padroni di noi, oggi. Trattiamo bene gli uomini e le donne: trattiamoli come se essi fossero reali; forse lo sono. Gli uomini vivono nella loro fantasia, come ubbriaconi le cui mani sono troppo deboli e incerte per un proficuo lavoro. Essa una tempesta di fantasie e la sola cosa salda che io vi conosca, è il rispetto per l’ora presente. Senza alcun’ombra di dubbio, fra questa vertigine di parvenze e di politica, io mi rinsaldo nella credenza che noi non dovremmo posporre e [303] differire e desiderare, ma che dovremmo fare ampia giustizia dove ci troviamo, per mezzo di colui con il quale trattiamo, accettando i nostri compagni attuali e le circostanze, ancorchè umili od odiose, come se fossero mistici funzionari, che l’universo abbia delegati per il nostro piacere. Se essi sono bassi e maligni, il loro malcontento, estrema vittoria della giustizia, sarà un’eco più soddisfacente al nostro cuore che la voce dei poeti e la simpatia casuale di ammirevoli persone. Io penso che per quanto possa soffrire un uomo di pensiero per le manchevolezze e le assurdità dei suoi compagni, egli non possa senza affettazione negare a qualsiasi gruppo di uomini e di donne una certa sensibilità per ciò che è pregio rimarchevole. Se i rozzi ed i frivoli non hanno della deferenza per esso e non lo onorano in un loro modo cieco e capriccioso con omaggio sincero, si è perchè posseggono un certo istinto di superiorità.

I giovani eleganti disprezzano la vita; ma per me e per coloro, che come me sono immuni da dispepsia e per i quali un giorno è un bene reale e gagliardo, è un grande eccesso di cortesia l’apparire sprezzante ed imprecare per i compagni. Io sono per simpatia cresciuto un po’ impetuoso e sentimentale, ma lasciatemi solo, ed io godrei in ogni ora ciò che mi porta la buona sorte del giorno, così cordialmente come gode la vecchia pettegola stando nel suo bar. Io sono riconoscente per grazie anche modeste. Io posi a raffronto le condizioni di un mio amico, che s’attende ogni cosa dall’universo, ed è indispettito quando qualche cosa è un poco meno che ottima, e trovai che io prendendo le mosse dall’estremo opposto, nulla eccettuando nè il buono nè il cattivo, sempre muovo grazie per dei beni moderati. Io gradisco il clangore e le contese delle tendenze contrarie; io trovo anche la mia convenienza [304] negli imbecilli e nei seccatori: essi dànno realtà al circostante quadro. Al mattino io mi sveglio e ritrovo il vecchio mondo, la moglie, i bambini, la madre, Concordia e Boston, il mio vecchio e buon mondo spirituale e non lungi anche il mio caro e vecchio dèmone. Se noi prendessimo il buono come lo troviamo, senza fare interrogazioni, noi avremmo delle soddisfazioni complete. I grandi doni non si ottengono con l’analisi. Ogni cosa buona si trova sulla strada comune. La regione media del nostro essere è la zona temperata. Noi possiamo ascendere al freddo e delicato regno della geometria pura e della scienza senza vita, oppure cadere in quello della sensazione: fra questi estremi si trova, piccolo cerchio, l’equatore della vita, del pensiero, dello spirito, e della poesia. Inoltre nell’esperienza popolare ogni cosa buona è sulla strada comune. Un raccoglitore fruga in tutti i negozi di quadri d’Europa per trovare un paesaggio del Poussin, uno schizzo a matita di Salvatore; ma la Trasfigurazione, il Giudizio Finale, la Comunione di San Gerolamo, ed altri quadri superbi come questi, sono appesi ai muri del Vaticano, degli Uffizi, del Louvre, dove qualsiasi staffiere li può vedere; e taccio dei quadri che la natura dipinse in ogni strada; delle aurore e dei tramonti quotidiani, e della sempre palpitante plasticità dei corpi. Un raccoglitore comperò recentemente in una pubblica asta a Londra un autografo di Shakespeare per centocinquantasette ghinee; ma un ragazzo di scuola può gratuitamente leggere Amleto e scoprire segreti del più alto interesse, ancora inediti. Io credo che non leggerò mai alcun libro, eccetto i più comuni: la Bibbia, Omero, Dante, Shakespeare e Milton. Noi cresciamo impazienti di una vita pubblica e rifulgente e corriamo qua e là in cerca di cantucci e di segreti. La nostra immaginazione si diletta della destrezza degli Indiani nelle costruzioni di legno, [305] dei tenditori di lacci e dei cacciatori di castori. Noi pensiamo di essere estranei e di non essere così profondamente familiari a questo pianeta, come sono l’uomo selvaggio e la bestia selvaggia e l’uccello. Ma l’esclusione tocca anche essi e raggiunge l’uomo quadrupede, l’uomo volante, l’uomo guizzante, e quello arrampicante. La volpe ed il gallo di montagna, il falco, la quaglia ed il torabuso, visti da vicino, non hanno maggiori radici in questo mondo cavo di quante ne abbia l’uomo, e sono dei superficiali affittavoli del globo. Allora la nuova filosofia delle molecole addita gli interspazi fra atomo ed atomo, dimostra che il mondo è tutto esterno e che non ha interno.

Il mondo intermedio è il migliore. La natura, come noi la conosciamo, non è santa. Essa non riguarda con alcun favore le luci delle chiese, gli asceti, i Gentoos ed i Grahamiti. Essa mangia e beve e pecca. I suoi favoriti, i grandi, i forti, i belli, non sono i figli della nostra legge, non escono dalle scuole domenicali, non pesano il loro alimento, non seguono rigorosamente i comandamenti. Se vogliamo essere forti della sua forza, non dobbiamo albergare tali coscienze desolate, improntate a quelle delle altre nazioni. Noi dobbiamo innalzare il forte tempo presente contro tutte le grida di sdegno, passate o future. Vi sono tante cose instabili che è assolutamente necessario rendere stabili — e durante il loro assetto noi faremo come facciamo ora. La Vecchia e la Nuova Inghilterra possono tener bottega mentre la discussione sull’equità del commercio prosegue, e proseguirà per un secolo o due. La legge dei diritti d’autore deve ancora essere discussa, frattanto noi venderemo i nostri libri al più alto prezzo possibile. La convenienza della letteratura, la ragione della letteratura, la legalità dello scrivere un pensiero, sono cose discusse; molto vi è da dire, d’ambe le parti [306] della questione, e mentre la lotta s’inacerbisce, tu, caro studioso, immergiti nel tuo stupido cómpito, aggiungi una linea ogni ora, e di tanto in tanto aggiungi qualche cosa. Il diritto di possedere terre, il diritto di proprietà è discusso, e le convenzioni sono convocate, e prima che si addivenga al voto, strappate dal vostro giardino quanto ha valore e spendete per un sereno e bel proposito i vostri guadagni come una cosa abbandonata od una fortuna inaspettata. La vita stessa è una cosa da nulla ed uno scetticismo; essa è un sonno dentro un altro sonno. Ammettiamo ciò che essi vogliono, ma tu, amato da Dio, abbi cura del tuo proprio sogno: tu non ti perderai nella burla e nello scetticismo: ve ne sono abbastanza di questi; tu rimani nel tuo guscio, e lavora finchè il resto degli uomini sia d’accordo sul da farsi. La tua malattia, essi dicono, e il tuo aspetto malaticcio richiedono che tu faccia questo ed eviti quello; ma sappi che la tua vita è uno stato fluttuante, una tenda per passarvi la notte, e tu, ammalato o sano, finisci il tuo cómpito. Tu sei ammalato, ma non peggiorerai, e l’universo che ti tiene caro, sarà migliorato.

La vita umana è basata su due elementi, il potere e la forma, ed il loro rapporto deve essere invariabilmente mantenuto, se vogliamo che la vita sia dolce e gagliarda. L’eccesso come il difetto di uno di questi elementi produce un male grave. Ogni cosa corre verso l’eccesso; ogni buona qualità se non è mescolata, è nociva, e per sostenere il pericolo all’orlo della rovina, la natura concede maggior terreno alle qualità peculiari di ogni uomo. Qui, fra le piantagioni, noi portiamo gli eruditi come esempi di tale inganno. Essi sono le vittime dell’espressione della natura. Voi che contemplate l’artista, l’oratore, il poeta troppo da vicino, ed osservate che la loro vita non è più eccellente di quella dei meccanici o degli agricoltori, e che essi [307] stessi sono vittime della parzialità, e li definite creature fallite, non eroi ma quaccheri — concludete con molta ragione che le arti non sono fatte per l’uomo, ma che esse sono un male. La natura irresistibile fece gli uomini tali, ed ogni giorno ne crea delle legioni nuove. Voi amate il bambino che legge un libro, che osserva un disegno od una scultura: eppure che cosa sono questi milioni di ragazzi che leggono ed osservano, se non degli scrittori e scultori in germe? Aggiungete alla loro natura un po’ di ciò che ora leggono e vedono, ed essi prenderanno la penna e lo scalpello. Se un uomo può ricordarsi con quanta innocenza egli cominciò ad essere artista, egli s’avvedrà che la natura si unì con il suo nemico. Un uomo è un’aurea impossibilità. La linea sulla quale egli deve camminare ha la larghezza di un capello. Il saggio, attraverso l’eccesso della sua saggezza, diventa un pazzo.

Se il destino lo permettesse, con quale facilità potremmo noi rinserrarci per sempre dentro a confini ben definiti ed attenerci una volta per tutte alle leggi del regno della causa e dell’effetto conosciuti. La vita appare nella strada e nei giornali un affare così semplice, che sarà sufficiente per un buon esito, una risoluzione virile ed un’aderenza continua, attraverso a tutte le tempeste, alla tavola di moltiplicazione. Ma, ecco, arriva un giorno od anche solo un’ora con un suo sussurrìo d’angelo, che rovescia le conclusioni dei popoli e degli anni. Ogni cosa appare domani nuovamente reale e precisa, le norme abituali sono ripristinate, il buon senso ridiviene raro come il genio, — esso è la base del genio, come l’esperienza è la mano ed il piede di qualsiasi impresa —; eppure colui che volesse condurre i suoi affari con questi principii, presto farebbe bancarotta. Il potere batte un’altra strada che quella dell’elezione e della volontà, cioè, le correnti e le gallerie sotterranee della [308] vita. È ridicolo essere, come noi siamo, diplomatici, dottori e persone molto stimate; non v’è inganno maggiore di questo. La vita è una serie di sorprese, e se così non fosse non varrebbe la pena di conservarla. Dio si compiace di isolarci ogni giorno e di nasconderci il passato ed il futuro. Noi vorremmo guardare intorno a noi, ma Egli con grande delicatezza stende dinnanzi e dietro a noi un impenetrabile lembo di cielo purissimo e pare voglia dire: «Voi nè ricorderete, nè spererete». Qualsiasi grande conversazione, stato od azione, proviene da una spontaneità che trascura le consuetudini e rende grande quel momento. La natura odia i calcolatori; i suoi metodi sono saltuari ed impulsivi. L’uomo vive di pulsazioni; così i nostri movimenti organici, gli agenti chimici ed eterei sono ondulatorii ed alternati e la mente procede attraverso antagonismi, e non s’innalza che a tratti. Noi progrediamo per mezzo di casualità. Le nostre esperienze più importanti sono state casuali. La classe di persone più attraente è quella potente per vie indirette e non l’altra; sono gli uomini di genio non ancora riconosciuti, poichè uno gode della loro luce senza pagare troppo per essa. La loro è la bellezza non dell’arte ma dell’uccello, la luce non dell’arte ma del mattino. Nel pensiero del genio vi è sempre una sorpresa; ed il sentimento morale è giustamente chiamato «la novità» perchè esso è null’altro; nuovo per l’intelligenza più vecchia quanto per il bambino — «il regno che viene senza osservazione». In modo uguale non vi deve essere, per un successo pratico, troppa preparazione: non si osserverà mai un uomo che fa ciò che può far meglio. Intorno alle sue azioni più confacenti v’è una specie di magia, che colpisce di stupore la vostra forza di osservazione, di modo che pur se il fatto succede davanti a voi, voi non lo avvertite. L’arte della vita ha un pudore e non sarà esposta. [309] Ogni uomo è un’impossibilità, finchè egli non nasce; ogni cosa è impossibile finchè non vediamo il suo risultato. Gli ardori della religione si accordano infine con il più gelido scetticismo, per cui nulla è nostro o della nostra opera, ma tutto è di Dio. La natura non ci concederà la più piccola foglia di lauro. Ogni cosa scritta e fatta e posseduta discende da Dio. Io bene vorrei essere morale, e tenermi nei limiti dovuti e che io tanto amo, e concedere quanto più è possibile alla volontà del l’uomo; ma in questo capitolo io ho messo il mio cuore in potere della lealtà, e non posso vedere altro nel successo o nella rovina se non la forza vitale provveduta dall’Eterno. I risultati della vita sono incalcolati ed incalcolabili. Gli anni insegnano molte cose che i giorni non sanno. Le persone che compongono la nostra società conversano, vanno, vengono, propongono e compiono molte cose; e da tutto ciò qualcosa nasce, ma nasce una cosa inaspettata. L’individuo sempre s’inganna. Egli propose molte cose; prese con sè altre persone in aiuto; bisticciò con alcune o con tutte; in molte cose errò e qualche cosa è fatto, tutti hanno progredito d’un piccolo passo, ma l’individuo s’inganna sempre: qualche cosa di nuovo infatti c’è, ma molto differente da ciò che egli si era ripromesso.

Gli antichi, colpiti da questa irriducibilità ad ogni calcolo degli elementi della vita umana, esaltarono il Fato come una divinità; ma ciò è rimanere troppo a lungo vicino alla scintilla, che splende in un solo punto; tuttavia l’universo è riscaldato da questo stesso fuoco latente. Il miracolo della vita, che non vuole essere spiegato, ma che vuole rimanere miracolo, introduce un elemento nuovo. Nello sviluppo dell’embrione, Sir Everard Home, credo, notò che l’evoluzione non si compieva da un punto centrale, ma era coattivo da tre o più parti. La vita non ha memoria. Ciò che [310] procede con una data successività può essere ricordato, ma ciò che è coesistente o causato da una causa più profonda, non conosce la propria tendenza. Così è per noi, ora scettici o disgiunti, perchè siamo immersi in forme ed effetti aventi un apparente valore conforme od ostile; ed ora religiosi, mentre c’inchiniamo alla legge spirituale. Sopportate con pazienza questi perturbamenti e questo sviluppo simultaneo delle parti: esse un giorno diverranno membri, ed ubbidiranno ad un solo volere. Esse fissano la nostra speranza e la nostra attenzione a quella sola volontà ed a quella sola causa segreta. La vita è perciò fusa in un’aspettazione od in una religione. Sotto le particolarità triviali discordanti, vi è uno stato musicale, vi è l’Ideale sempre trascorrente con noi il cielo immacolato. Osserviamo in quale modo si compie in noi la luce. Quando io converso con una mente profonda, oppure essendo solo, ho dei buoni pensieri, non provo la soddisfazione immediata che proverei bevendo avendo sete o riscaldandomi avendo freddo, no! ma sono a tutta prima conscio della mia prossimità ad una nuova ed eccellente condizione di vita. Persistendo però a leggere od a pensare, questa condizione dà altri segni di sè, simili a sprazzi di luce, che scoprono d’un tratto la sua profonda bellezza e serenità, come se le nuvole che la coprivano si fossero qua e là squarciate e lasciassero vedere al viandante che si avvicina, le grandi montagne dell’interno, elevantisi su praterie eterne e tranquille, dove pascolano le mandre ed i pastori danzano e suonano la cornamusa. Ma ogni conoscenza di questo regno del pensiero è sentita come quella che schiude un periodo e promette un seguito. Io non creo; vi giungo e contemplo ciò che di già vi era. Io batto le mani con gioia e stupefazione infantile dinnanzi al primo rivelarsi a me di questa augusta magnificenza, vecchia per l’amore e [311] l’omaggio di innumerevoli età, giovane per la vita della vita, solatia e fulgida Mecca del deserto. E quale avvenire essa apre! Io sento un nuovo cuore palpitante per l’amore di una nuova bellezza. Io sono pronto a morire fuori della natura, ed a rinascere in questa America nuova ed ancora irraggiungibile, che io ho trovato nell’Ovest.

Però nè oggi nè ieri incominciarono questi pensieri, che esistettero sempre, nè può trovarsi un uomo che conobbe il loro primo apparire. Se io ho descritto la vita come un flusso di modi, devo ora aggiungere che vi è in noi ciò che non muta, e che ordina ogni sensazione ed ogni stato della mente. La coscienza è in ogni uomo una scala movibile, che lo identifica ora con la Causa Prima ed ora con la carne del suo corpo: la vita al disopra della vita, in gradazioni infinite. Il sentimento dal quale essa scaturì, determina la dignità di qualsiasi fatto, e la questione non è mai intorno a ciò che voi avete fatto o non fatto, ma per comando di chi voi avete fatto o non fatto.

La Fortuna, Minerva, le Muse, lo Spirito Santo, sono nomi leggiadri troppo ristretti per coprire questa sostanza illimitata. L’intelletto deluso deve ancora inchinarsi davanti a questa causa, che rifugge dall’essere nominata — causa ineffabile, che ogni genio ha tentato di rappresentare con un simbolo vigoroso, come Talete con l’acqua, Anassimene con l’aria, Anassagora con l’idea, Zoroastro con il fuoco, Gesù ed i moderni con l’amore: e la metafora di ciascuno di essi è divenuta una religione nazionale. Il Chinese Menzio non è stato il meno felice nella sua generalizzazione. «Io capisco intieramente il linguaggio — egli disse — e nutrisco bene il mio vigore saliente». «Io oso domandarvi che cosa è che voi chiamate vigore saliente» disse il mio compagno. — «La spiegazione — rispose Menzio — è difficile. [312] Questo vigore è supremamente grande, ed al massimo grado inflessibile. Nutritelo saggiamente, non fategli del male ed esso riempirà il vuoto fra il cielo e la terra. Questo vigore si accorda ed assiste la giustizia e la ragione e non lascia languori». Nei nostri scritti più corretti noi diamo a questa generalizzazione il nome di Essere, e con ciò confessiamo di esserci allontanati quanto ci era concesso. Per la gioia dell’universo è sufficiente l’esser giunti non ad una barriera, ma a degli oceani infiniti. La nostra vita non sembra presente quanto prospettica; non per le occupazioni in cui essa è consumata, ma come accenno a questo saliente vigore. La maggior parte della vita pare essere il semplice annunzio d’una facoltà; noi siamo ammoniti di non renderci a buon mercato, perchè siamo grandi. Così nei suoi particolari la nostra grandezza sta sempre in una tendenza o direzione, non in un’azione. Credere alla regola e non all’eccezione è per noi cosa naturale. I nobili sono così riconosciuti dagli ignobili. Così seguendo la tendenza dei sentimenti, ciò che forma la circostanza materiale e che è il fatto principale nella storia del globo, non è ciò che noi crediamo intorno all’immortalità dell’anima o simili, ma è l’impulso universale a credere. Dovremo noi indicare questa causa, come quella che opera direttamente? Lo spirito non è privo di aiuti o bisognoso di organi mediati. Esso ha poteri innumeri ed effetti diretti: io mi sono spiegato, ad esempio, senza spiegarmi; io sono sentito senza che io agisca, ed anche dove non sono. Perciò tutti gli uomini retti sono soddisfatti del loro proprio merito. Essi rifiutano di spiegarsi, e sono lieti che delle azioni nuove dovranno assumersi quel cómpito. Essi credono che noi si possa comunicare senza discorso, ed al disopra del discorso, e che nessuna nostra azione giusta è indifferente ai nostri amici a qualsiasi distanza essi siano; perchè l’influenza [313] dell’azione non deve essere misurata a miglia. Perchè debbo preoccuparmi se una circostanza imprevista ostacola la mia presenza dove ero atteso? Se invece d’essere all’adunanza, io mi trovo in un altro luogo, la mia presenza in esso dovrebbe essere utile ugualmente all’amicizia e alla sapienza, come lo sarebbe s’io fossi all’adunanza stessa. Io esercito la stessa qualità di potere in ogni luogo. Così procede dinnanzi a noi il potente Ideale; mai esso fu visto rimanere nella retroguardia. Nessun uomo raggiunge mai un’esperienza soddisfacente, ma il suo bene è l’amministratore di un meglio. Avanti; avanti! Noi sappiamo che in certi momenti una nuova pittura della vita e del dovere è già possibile; noi sappiamo che gli elementi per una dottrina della vita, che trascenderà qualsiasi ricordo scritto da noi posseduto, esistono già in molte menti intorno a voi. La nuova affermazione comprenderà gli scetticismi e le credenze della società ed un nuovo credo sorgerà dalla miscredenza. Poichè gli scetticismi non sono gratuiti o senza leggi, ma sono limitazioni della dichiarazione affermativa, e la nuova filosofia deve accoglierli, e comporre con essi delle affermazioni come essa deve includere le fedi più antiche.

La scoperta che abbiamo fatta della nostra esistenza è cosa lacrimevole, ma è troppo tardi per essere impedita. Questa scoperta si chiama la Caduta dell’Uomo: dopo di essa sempre diffidiamo dei nostri istrumenti. Noi abbiamo imparato che noi non vediamo direttamente, ma mediatamente, e che non abbiamo mezzi per correggere le nostre lenti colorate e contorcenti o per calcolare la somma dei loro errori. Forse questi soggetti-lenti hanno un potere creativo; forse non vi sono degli obbietti. Una volta noi vivevamo in ciò che vedevamo; ora la rapacità di questo nuovo potere, che minaccia di assorbire tutte le cose, ci avvolge. La [314] natura, l’arte, le persone, le lettere, le religioni, successivamente vi si precipitano dentro, e Dio è solo una delle sue idee. La natura e la letteratura sono dei fenomeni soggettivi; ogni cosa buona e cattiva è un’ombra che noi gettiamo. La strada è piena di umiliazioni per il superbo. Come il vanitoso potè vestire della sua livrea gli uscieri, che erano venuti in casa sua per porre le cose sotto sequestro, e obbligarli a servire a tavola i suoi ospiti, fingendoli camerieri; così i malumori che il cuore cattivo emette, come se fossero cose da nulla, prendono subito la forma di signore e di signori nella strada, di impiegati e di camerieri nell’albergo, e minacciano ed insultano ciò che vi può essere in noi di minacciabile o di ingiuriabile; lo stesso avviene con le nostre idolatrie. La gente dimentica che è l’occhio che fa l’orizzonte, e che è l’occhio della mente che fa di questo o di quell’uomo un tipo o un rappresentante dell’umanità, con il nome di eroe o di santo. Gesù, «l’uomo provvidenziale», è un uomo buono per il quale molta gente conviene che queste leggi ottiche dovranno avere effetto. È frattanto stabilito che mediante l’amore da una parte e la proibizione dall’altra dì fare obbiezioni, noi lo contempleremo nel centro dell’orizzonte ed ascriveremo a lui le proprietà che attribuiremmo a qualsiasi uomo veduto in tali condizioni. Ma anche l’amore o l’odio più duraturo hanno una rapida fine. La propria personalità grande e crescente, radicata nella natura assoluta, soppianta ogni esistenza relativa e distrugge il regno dell’amicizia e dell’amore mortale. Il connubio (per ciò che riguarda il mondo spirituale) è impossibile a causa della disuguaglianza fra ogni soggetto ed ogni oggetto. Il soggetto è il ricevitore della divinità, e ad ogni paragone deve sentire il suo essere rialzato da questo potere occulto: e questo potere deve forzatamente essere sentito se non per la [315] sua energia, almeno per la sua presenza; nè qualsiasi forma intellettuale può attribuire all’oggetto quella peculiare divinità che riposa o vigila in ogni soggetto. L’amore non può mai render pari in forza la coscienza di sè e l’attribuzione. Vi sarà sempre un abisso fra ogni te e me, come fra l’originale ed il quadro. Lo sposo dell’anima è l’universo. Qualsiasi simpatia privata è parziale. Due esseri umani sono come due globi, che possono toccarsi in un punto solo, e mentre rimangono in contatto, ogni altro punto di ciascuno di essi rimane inerte; la volta di questi punti deve pure venire, e quanto più a lungo dura una particolare unione, tanta maggiore energia di appetenza acquistano le parti che non sono a contatto.

La vita vuol essere resa in immagine, ma non divisa o raddoppiata. Qualsiasi intromettenza nella sua unità genererebbe il caos. L’anima non è nata gemella, ma sola generata, e sebbene si riveli come bambina in età e bambina in apparenza, pure ha un potere fatale ed universale, e non ammette una coesistenza. Ogni giorno ed ogni atto tradisce la divinità male nascosta. Noi crediamo in noi stessi e non crediamo negli altri. Noi ci permettiamo tutto, e ciò che chiamiamo peccato negli altri, è esperimento per noi. Un esempio della nostra fede in noi stessi l’abbiamo nel fatto che gli uomini non parlano mai di un delitto, così leggermente come pensano, e che ogni uomo pensa ad una latitudine sicura per lui, che in nessun modo sarà concessa ad un altro. L’atto appare molto differente considerato dall’interno o dall’esterno, nella sua qualità e nelle sue conseguenze. L’assassinio non è per l’assassino un pensiero terribile come vogliono farlo i poeti ed i romanzieri; esso non lo disturba, non lo atterrisce nella sua solita osservazione delle cose mediocri; esso è un atto facilissimo a contemplarsi, [316] ma nella sua conseguenza risulta una terribile contesa e confusione di tutte le relazioni. Specialmente i delitti passionali sembrano giusti ed equi dal punto di vista dell’autore, ma una volta compiuti appaiono fatali alla società. Nessun uomo infine crede che egli possa essere perduto, nè che il delitto in lui sia così nero come nel fellone; poichè l’intelletto tempera nel nostro proprio caso i giudizi morali: poichè non vi è delitto per l’intelletto. Esso è antinomico o ipernomico e giudica la legge come giudica il fatto. «Più che un delitto, è peggiore uno sbaglio» disse Napoleone parlando il linguaggio dell’intelletto. Per esso il mondo è un problema di matematica o di scienza quantitativa e tralascia la lode, il biasimo ed ogni debole emozione. Qualsiasi furto è comparativo. Se veniamo all’assoluto, scusate, chi non ruba? I santi sono tristi, perchè essi contemplano il peccato (anche quando meditano) dal punto di vista della coscienza e non da quello dell’intelletto; una confusione del pensiero. Il peccato veduto dal pensiero è una diminuzione o meno: veduto dalla coscienza è una depravazione o male. L’intelletto lo chiama ombra, assenza di luce e non essenza. La coscienza deve sentirlo come essenza, come male essenziale. Questo non è: esso ha una esistenza oggettiva ma non soggettiva.

Così inevitabilmente l’universo sopporta la nostra apparenza, ed ogni oggetto cade successivamente nel soggetto stesso. Il soggetto esiste, si ingrandisce; tutte le cose, prima o dopo, vanno a posto. Come io sono, così io vedo: noi possiamo usare il linguaggio che vogliamo, ma non potremo mai dire nulla all’infuori di ciò che siamo; Hermes, Cadmo, Colombo, Newton, Buonaparte, sono i ministri della mente. Invece di sentire un non so che di miserevole quando noi incontriamo un grande uomo, trattiamo il nuovo venuto [317] come se fosse un geologo che viaggia, il quale passa attraverso i nostri possedimenti e ci addita la buona ardesia o la calce o l’antracite dei nostri pascoli. L’azione parziale di ogni mente forte verso una sola direzione è un telescopio per gli oggetti sui quali esso è puntato. Ma tutte le altre parti della conoscenza devono essere spinte alla stessa esagerazione, prima che l’anima raggiunga la sua dovuta sfericità. Vedete voi quel gattino che tenta d’afferrare la propria coda? Se voi poteste vedere con i suoi occhi, lo vedreste circondato da centinaia di figure, che rappresentano dei drammi complessi, con scioglimenti tragici e comici, con delle lunghe conversazioni, con molti personaggi, con molti colpi di fortuna; eppure è solamente un gattino e la sua coda. Quanto tempo passerà prima che la nostra mascherata cessi il suo frastuono di tamburelli, di risa e di grida, per scoprire che essa era una commedia solitaria? Un soggetto ed un oggetto! ecco quanto è necessario pure per rendere completo il circuito galvanico; ma la grandezza vi aggiunge nulla. Che cosa importa se è Keplero e la sfera; Colombo e l’America; un lettore ed il suo libro, oppure il micio e la sua coda?

È vero che le muse e l’amore e la religione odiano questi svolgimenti e troveranno modo di punire il chimico che espone nel salotto i segreti del laboratorio. E noi non possiamo tacere la nostra necessità costituzionale di vedere le cose sotto aspetti particolari o satura del nostro umore. Eppure è Dio l’originario di queste pallide roccie. Quella necessità produce nei costumi la virtù capitale della fiducia in se stesso. Noi dobbiamo tenerci legati a questa povertà, per quanto scandalosa, e per mezzo di più grandi riconquiste di noi stessi possedere più fermamente, dopo gli impeti dell’unione, il nostro asse. La vita della verità è fredda [318] e anche triste, ma non è la chiave delle lacrime, delle contrizioni e delle perturbazioni. Essa non attenta al lavoro di un’altra e non ne adotta i fatti. È principalissimo ammonimento della saggezza quello di discernere il vostro da quello degli altri. Io ho imparato di non poter disporre dei fatti degli altri; ma io possiedo tale chiave dei miei, che son persuaso contro tutti i dinieghi che anche essi hanno una chiave per i loro. Una persona simpatica si trova nelle condizioni di un nuotatore fra uomini che annegano, i quali s’aggrappano a lui, e se egli si lascia prendere solo una gamba od un dito, essi lo trarranno insieme nelle profondità delle acque. Essi desideravano di essere salvati dai danni dei loro difetti, ma non dai loro difetti. A questi poveri che attendono la carità, essa sarebbe inutilmente prodigata. Un dottore saggio dirà, come prima condizione di consiglio: «uscite da quelli».

In questa nostra America parlante noi siamo mandati in rovina dalla nostra buona indole e dal nostro ascoltare da ogni lato. Questa compiacenza ci toglie il potere di essere grandemente utili. Un uomo non dovrebbe poter guardare che direttamente. Un’attenzione preoccupata è l’unica risposta all’importuna frivolità degli altri: risposta divina che non dà luogo a lagnanze ed a cattivi pensieri. Nella scultura che Giovanni Flaxman fece delle Eumeridi di Eschilo, Oreste supplica Apollo mentre le Furie dormono sul limitare della porta. Il viso del dio esprime un’ombra di rincrescimento e di compassione, una calma nella convinzione dell’irreconciliabilità dei due mondi. Egli è sorto in un altro tempo, nell’eterno e nel bello. L’uomo ai suoi piedi chiede la sua protezione nelle lotte della terra, in cui la natura non può entrare. E le Eumeridi, là giacenti, esprimono pittoricamente questa disparità. Il dio è sovraccarico del suo divino destino.

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Illusione, Temperamento, Successione, Superficie, Sorpresa, Realtà, Subbiettività — queste sono le fila sulla trama del tempo, questi sono i padroni della vita. Io non oso certo di assegnare loro un posto, ma le nomino come le trovo sulla mia via. Io conosco una cosa migliore che il pretendere qualsiasi perfezione per la mia pittura. Io sono un frammento e questo è un frammento di me. Io posso con molta fiducia annunciare l’una o l’altra legge che si muta in un soccorso e prende forma, ma sono troppo giovane ancora per compilare un codice. Io ciarlo nel mio tempo intorno alla politica eterna. Io ho veduto non invano molte belle pitture. Io ho vissuto in un tempo meraviglioso. Io non sono il novizio di quattordici o di sette anni fa. Chi domanderà dove è il profitto? Per me è sufficiente un profitto personale. Questo è un profitto che io non dovrei chiedere come sconsiderato effetto di meditazioni, di consigli e di acquisti di verità. Io sentirei pietà di chiedere un risultato a questa città od a questo paese; di chiedere un effetto palese in questo mese ed anno corrente. L’effetto è profondo e secolare come la causa. Esso si manifesta in periodi, in cui la vita mortale va perduta. Tutto ciò che io so è ricezione, io sono ed io ho; ma io non acquisto e quando immagino di aver acquistato qualcosa, constato di aver acquistato nulla. Io adoro con meraviglia la grande Fortuna. Il mio atto di ricevere è stato così grande che io non mi stupisco di ricevere questo e quello, sovrabbondantemente. Quando io ricevo un nuovo dono, non macero il mio corpo per fare il conto esatto, perchè se io morissi non potrei fare il conto esatto. Il benefizio sorpassò il merito nel primo giorno e continuò sempre a sorpassarlo. Io calcolo il merito stesso come parte di ciò che ricevo.

Anche quella brama di un effetto pratico e manifesto [320] mi sembra una apostasia. In verità io amo di risparmiare questa grande occupazione assolutamente non necessaria. La vita per me ha un viso da visionario. L’azione più violenta e più ruvida è visionaria pure. Non v’è che una scelta fra i sogni delicati e quelli turbolenti. La gente sprezza il sapere e la vita intellettuale e s’affanna intorno all’azione. Io sono molto contento del sapere; potessi solo sapere. Esso è un passatempo augusto, e mi basterebbe per lunga pezza. Il sapere un poco sarebbe cosa degna di sacrifizio da parte di questo mondo. Io odo sempre la legge di Adrastea, che «ogni anima che ha acquistata una verità, dovrebbe essere libera da ogni male fino ad un altro periodo».

Io so che il mondo con il quale io parlo in città e nelle campagne, non è il mondo ch’io penso. Io ne vedo e ne vedrò sempre la differenza. Un giorno io conoscerò il valore e la legge di questa discrepanza. Ma io non ho constatato che si sia guadagnato molto con i tentativi manipolari di realizzare il mondo del pensiero. Molte persone ansiose tentano successivamente degli esperimenti in questa via e diventano ridicoli. Essi acquistano delle abitudini democratiche, fanno schiuma alla bocca, odiano e negano. Peggio, io osservo che nella storia del genere umano non vi è mai un esempio solitario di successo — prendendo la loro stessa definizione del successo. Dico io questo per polemica od in risposta alla domanda: «perchè non realizzate voi il vostro mondo»? Ma sia lungi da me la profonda sfiducia che pregiudica la legge con un artificioso empirismo; poichè mai vi fu un tentativo giusto che non sia stato coronato di successo. Pazienza e pazienza, noi vinceremo in fine. Noi dobbiamo essere molto sospettosi circa le illusioni dell’elemento del tempo. Il mangiare od il dormire od il guadagnare un centinaio di dollari [321] richiedono molto tempo, ma l’accogliere una speranza od una visione che divengano la luce della vita nostra, richiede molto poco tempo. Noi coltiviamo il nostro giardino; facciamo i nostri pranzi; discutiamo delle cose di casa con le nostre mogli, e queste cose non fanno impressione e sono dimenticate la prossima settimana; ma nella solitudine, a cui ogni uomo ritorna, egli ha sanità e rivelazioni, che porterà con lui nel suo passaggio a mondi nuovi. Non curatevi del ridicolo, ma curatevi della sconfitta; rialzati ancora, vecchio cuore! esso sembra dire — vi è ancora una vittoria per ogni giustizia; ed il vero romanzo che il mondo realizzerà sarà la trasformazione del genio in un pratico potere.

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TERZO SAGGIO IL CARATTERE

Io ho letto che coloro, che ascoltavano Lord Chatham, sentivano esservi in quell’uomo qualche cosa di più bello, di ciò che egli andava dicendo. Si è deplorato nel nostro istoriografo della Rivoluzione Francese che la narrazione di tutti i suoi fatti circa Mirabeau, non giustificano l’apprezzamento del suo genio. I Gracchi, Cleomene ed altri eroi di Plutarco non uguagliano nel ricordo dei fatti la loro propria fama. Sir Filippo Sidney, il Conte di Essex, Sir Walter Raleigh, sono uomini di grande figura e di pochi fatti. Noi non possiamo trovare la più piccola parte del valore personale di Washington nel racconto delle sue imprese. L’autorità del nome di Schiller è troppo grande per i suoi libri. Questa disparità di riputazione in rapporto alle opere od agli aneddoti, non si spiega dicendo che la ripercussione è più duratura del colpo di tuono; ma piuttosto con il dire che vi fu in questi uomini un alcunchè che produsse un’aspettazione, che di gran lunga precedette ogni loro operato. La maggior parte del loro potere fu latente. Questo è ciò che noi chiamiamo carattere: forza circospetta che agisce direttamente mediante la sua presenza e senza mezzi. Esso è concepito come una forza inesplicabile, come un Nume familiare o Genio, dal cui impulso l’uomo è guidato, ai cui concilii non può partecipare; come un compagno per lui; cosicchè tali uomini sono spesso solitari, [324] e se per caso sono socievoli, non abbisognano di società, ma possono molto bene intrattener se stessi soli. Il più puro ingegno letterario appare una volta grande, un’altra volta piccolo; ma il carattere è sempre d’una grandezza astrale ed irreducibile. Ciò che gli altri uomini compiono con l’ingegno o con l’eloquenza, questo uomo compie per mezzo d’una specie di magnetismo. «Egli non esplica la metà della sua forza». Le sue vittorie sono ottenute per mezzo di dimostrazioni di superiorità e non con attacchi alla baionetta. Egli vince perchè il suo avvento muta la faccia degli affari. «Oh, Iole, come sapesti tu che Ercole era un Dio?» — «Perchè — rispose Iole — io fui lieta nel momento che i miei occhi si posarono su di lui. Quando io vidi Teseo, desiderai di poterlo vedere offrente battaglia od almeno guidante i suoi cavalli in una corsa di carri; ma Ercole non aspettò una contesa; egli vinse ovunque stette o camminò o sedette, o qualsiasi cosa egli fece». L’uomo di solito legato dagli eventi, solo a metà e male avvinto al mondo in cui vive, in questi esempi pare che condivida la vita delle cose, e pare che sia un’espressione di quelle stesse leggi, che controllano le maree ed il sole, i numeri e le quantità.

Noi possiamo comprendere il suo incomparabile valore nelle nostre elezioni politiche, dove questo elemento pure apparendo, può soltanto apparire nelle sue forme più rudi. Il popolo sa che nel loro rappresentante abbisognano di qualcosa di più del talento, vale a dire, del potere di far nascere la fiducia in quel talento. Esso non può raggiungere i suoi intenti mandando al Congresso un uomo còlto, acuto, oratore facondo, se questi prima d’esser nominato dal popolo come suo rappresentante, non fosse stato indicato dall’Onnipotente, come significazione di un fatto, — invincibilmente persuaso di tale fatto egli stesso — affinchè [325] le persone più fiduciose e più impetuose imparassero che vi è una resistenza, contro la quale l’audacia ed il terrore si disperdono, cioè la fede in un fatto. Gli uomini che ottengono la maggioranza, non hanno bisogno di chiedere agli elettori che cosa essi dovrebbero dire, ma essi stessi sono il paese che rappresentano: in nessun luogo le emozioni e le opinioni di quello sono così vive e vere come in loro; in nessun luogo così scevre di elementi egoistici. L’assemblea ascolta le loro parole, osserva il colorito del loro viso, e in ciò, come in uno specchio, si rimira. Le nostre pubbliche assemblee sono delle buone prove della forza virile. I nostri leali compatrioti dell’ovest e del sud hanno un’inclinazione per il carattere, ed amano di sapere se il Nuovo Inglese è un uomo sostanziale, oppure se la mano può passare attraverso di lui.

La stessa forza motiva appare nel commercio. Vi sono nel commercio dei genii, come nella guerra, nel governo o nelle lettere; e non è da dirsi la ragione per cui questo o quell’uomo è fortunato. Essa giace nell’uomo! Ecco quanto ognuno può dirvi. Guardatelo e saprete facilmente perchè egli riesca; così, vedendo Napoleone, voi comprendereste il perchè della sua fortuna. Noi riconosciamo negli obbietti nuovi il vecchio giuoco, l’abitudine di fronteggiare il fatto, e non di trattarlo di seconda mano, attraverso le percezioni di qualcun altro. A voi pare che la natura stessa autorizzi il commercio, allorchè vedete il mercante naturale, che appare non come un agente privato, ma come il fattore di essa e come il ministro stesso del commercio. La sua probità naturale s’accorda con la sua conoscenza profonda della struttura della società per innalzarlo al disopra degli inganni; ed egli comunica a tutti la propria fede che i contratti non hanno interpretazioni personali. Le abitudini della sua mente sono [326] in relazione alle norme dell’equità naturale e del vantaggio pubblico; egli ispira il rispetto ed il desiderio di trattare con lui, sia per la serena aura di onorabilità che lo accompagna, sia per il godimento che lo spettacolo di tanta abilità procura. Questo commercio immensamente vasto, che getta i suoi moli ai limiti estremi dell’oceano del sud, e fa dell’oceano Atlantico il suo posto favorito, ha il suo nocciolo soltanto nel suo cervello; e nessuno nell’universo può prendere il suo posto. Io vedo molto chiaramente che egli ha lavorato duramente stamane nel suo salotto, con quelle ciglia corrugate, con quell’aspetto tranquillo, che ogni suo desiderio d’essere gentile non può scuotere. Io vedo chiaramente quante azioni salde sono state compiute; quanti coraggiosi no sono stati oggi detti, mentre altri avrebbero pronunciato dei rovinosi . Io vedo, con l’orgoglio dell’arte e l’abilità del calcolo magistrale ed il potere della combinazione lontana, la sua consapevolezza di essere un agente e un compagno di giuoco delle leggi originarie del mondo. Egli crede anche che nessuno può supplirlo, e che un uomo deve essere nato per il commercio, altrimenti non lo imparerà mai.

Questa virtù attira maggiormente lo spirito quando appare in azione per fini meno complessi. Essa opera con la maggior energia nelle più piccole società e nelle relazioni private. Essa è in tutti i casi un agente straordinario ed inestimabile. L’eccesso della forza fisica è paralizzato da esso. Le nature superiori dominano le inferiori con il comunicare ad esse una specie di sonno. Le facoltà sono rinchiuse e non offrono resistenza. Forse questa è la legge universale. Quando un grande non può attirare un piccolo a sè, lo intorpidisce, come un uomo annulla con l’inganno la resistenza degli animali inferiori. Gli uomini esercitano l’uno sull’altro un simile potere occulto. Quante volte l’impero di un [327] vero maestro non ha realizzato tutti i racconti della magìa! Una corrente di dominio sembrò scorrere dai suoi occhi negli occhi di coloro che lo contemplarono, un torrente di luce vivissima e mesta, come un Ohio od un Danubio, che li pervase con i suoi pensieri, e tinse tutti gli avvenimenti con il colore della sua mente. «Quali mezzi avete impiegati?» fu la domanda rivolta alla moglie di Concini, riguardo alle sue relazioni con Maria de’ Medici; e la risposta fu: «Solo l’impero che ogni mente forte ha su di una mente debole». Cesare incatenato non può dunque liberarsi dai suoi ferri e metterli sulla persona di Hippo o di Thraso il carceriere? È una catena di ferro un legame così immutabile? Supponiamo che un negriero, sulle spiaggie della Guinea, prenda a bordo una truppa di schiavi, nella quale si trovino persone dello stampo di Toussaint L’Ouverture: oppure immaginiamo che sotto queste nere maschere egli abbia un plotone di Washington incatenati? Quando essi arrivano a Cuba, l’ordine relativo delle persone della nave sarebbe lo stesso? Nulla vi sarebbe eccetto corda e ferro? Non vi sarebbe dunque amore o riverenza? Non vi sarà mai dunque uno sprazzo di ragione nella mente di un povero schiavo-capitano; e non potrà egli dunque essere considerato giovevole per rompere od eludere od in qualsiasi modo infrangere la pressione di un pollice o due di un anello di ferro?

Il carattere è un potere naturale, come la luce od il calore, e tutta la natura coopera con esso. La ragione per cui sentiamo la presenza di un uomo e non sentiamo quella di un altro, è tanto semplice quanto la gravità. La verità è il vertice dell’essere, la giustizia è l’applicazione di essa agli affari. Tutte le nature individuali saranno in una gradazione corrispondente alla purezza in esse di questo elemento. La volontà di quelli che sono puri fluisce da essi in altre nature, [328] come l’acqua scorre da un recipiente più alto in uno più basso. Questa forza naturale non può essere maggiormente contrastata di quanto lo possa essere qualsiasi altra legge naturale. Noi possiamo gettare una pietra in alto e farla salire per un momento nell’aria, ma è pur vero che tutte le pietre eternamente cadranno; allo stesso modo possiamo citare esempi di furti non puniti o di menzogne credute; pure è vero che la giustizia deve aver la superiorità e che è privilegio della verità quello di farsi credere. Il carattere sta in questo ordine morale, veduto attraverso il medium di una natura individuale. Un individuo è un recipiente. Il tempo e lo spazio, la libertà e la necessità, la verità ed il pensiero, non sono più lasciati sciolti. Ora l’universo è un recinto od un stabulario. Tutte le cose esistono nell’uomo, colorite dalle disposizioni della sua anima. Egli influisce, con quella disposizione che è in lui, su tutta la natura che egli può abbracciare; nè egli tende a perdersi nell’immensità; ma in una curva qualsiasi tutte le sue relazioni ritornano infine al suo proprio bene. Egli dà anima a tutto ciò che può, e vede solo ciò che egli ha animato. Egli racchiude in sè il mondo come il patriota racchiude il suo paese, come base materiale per il suo carattere e come teatro per la sua azione. Un uomo vigoroso sta unito al Giusto ed al Vero, come la bussola sta rivolta al polo; cosicchè egli è per tutti coloro che lo osservano un oggetto trasparente posto fra essi ed il sole, e chiunque viaggia verso il sole viaggia verso di lui. Egli è così il medium del più alto dominio per coloro che non stanno al suo proprio livello. A questo modo gli uomini di carattere sono la coscienza della società alla quale essi appartengono.

La misura naturale di questo potere sta nella resistenza alle circostanze. Gli uomini impuri considerano [329] la vita quale è rispecchiata nelle opinioni, negli eventi e nelle persone. Essi non possono vedere l’azione finchè essa non è compiuta. Eppure il suo elemento morale preesisteva nell’attore, ed era facile predire se la sua disposizione fosse giusta od ingiusta. Ogni cosa nella natura è bipolare ed ha un polo positivo ed uno negativo. Vi è il maschio e la femmina, lo spirito ed il fatto, il nord ed il sud. Lo spirito è quello positivo, il fatto è quello negativo. La volontà è il polo nord, l’azione quello sud. Del carattere si potrebbe affermare che ha la sua sede naturale in quello nord. Esso spartisce le correnti magnetiche del sistema. Le anime deboli sono trascinate verso il polo sud o quello negativo. Esse tengono lo sguardo rivolto al profitto od al danno dell’azione. Esse non osservano mai un principio, finchè non lo trovano incorporato in una persona. Esse non desiderano d’essere amabili, ma d’essere amate. Una classe di caratteri si compiace di udire enumerati i suoi difetti; un’altra non si compiace. Tali caratteri adorano gli eventi; assicurateli di un fatto, di una relazione, di una connessione di circostanze ed essi non chiederanno di più. L’eroe vede che l’evento è subordinato; esso deve seguire lui. Un dato ordine di eventi non ha il potere di procurargli quella soddisfazione che l’immaginazione si riprometteva; l’anima della bontà sfugge da qualsiasi serie di circostanze, mentre la prosperità appartiene ad un certo spirito, che introdurrà quel potere e quella vittoria che sono i suoi frutti naturali in qualsiasi ordine di eventi. Nessun mutamento di circostanze può riparare un’imperfezione del carattere. Noi magnifichiamo la nostra emancipazione da molte superstizioni; ma se abbiamo rotto qualche idolo fu solo per un trasferimento della nostra idolatria. Che cosa ho acquistato io che non sacrifico più un toro a Giove od a Nettuno, od un topo ad [330] Ecate; che non tremo più d’avanti alle Eumenidi od al Purgatorio Cattolico od al Giudizio Universale dei Calvinisti — se io tremo ancora di fronte all’opinione, all’opinione pubblica come la chiamiamo; oppure se tremo alla minaccia di un assalto, o di fronte ad una contumelia, od a cattivi vicini, od alla povertà, od alla mutilazione, od al rumore di una rivoluzione o di un delitto? Se io tremo, quale importanza ha la ragione per cui tremo? I nostri propri vizi prendono forma in questo o quel modo, a seconda del sesso, dell’età o del temperamento della persona, e se siamo atti al timore, presto incontreremo dei terrori. L’ingordigia o la malignità che mi rattristano, e che io ascrivo alla società, sono invece mie proprie. Io sono sempre circondato dal mio io. D’altra parte la rettitudine è una vittoria perenne celebrata non da grida di gioia, ma dalla serenità, che è gioia stabile od abituale. Il dover ricorrere agli eventi per avere la conferma della nostra verità e del nostro valore è cosa umiliante. Il capitalista non corre ad ogni ora dall’agente di cambio per trasformare i suoi profitti in moneta sonante; egli è sufficientemente soddisfatto nel leggere nei listini di borsa che i suoi titoli sono saliti. La stessa gioia che si produrrebbe in me per l’avvento delle migliori vicende nel migliore dei modi, io devo imparare a gustar più pura, avvertendo il miglioramento della mia posizione ora per ora e del mio dominio sulle vicende che io desidero. L’esultanza deve essere solamente intiepidita dalla previsione di un ordine di cose così eccellenti, da gettare tutte le nostre prosperità nell’ombra più completa.

Il carattere ha per me il viso di colui che basta a se stesso. Io onoro colui che produce ricchezza; cosicchè non posso figurarmelo abbandonato, povero, esiliato, infelice, dipendente, ma bensì me lo figuro come un [331] mecenate perpetuo, un benefattore ed un uomo beato. Il carattere è centralità, è l’impossibilità di essere dislocato o rovesciato. Un uomo dovrebbe darci il senso di un masso. La società è frivola, e scompone i suoi giorni in frammenti, le sue conversazioni in cerimonie e scappatoie. Ma se io vado a visitare un uomo di genio, io mi stimerò molto poco ben ricevuto se egli mi darà un vago spettacolo di benevolenza e di etichetta; piuttosto tenga egli il suo posto, e m’insegni foss’anche solo la sua resistenza, e sappia io d’essermi imbattuto in una forza nuova e positiva: ristoro grande per entrambi. È molto che egli non accetti le opinioni e le pratiche convenzionali. La sua non-conformità rimarrà come uno stimolo ed un ammonimento, ed ogni ricercatore dovrà collocarlo nel primo posto. Vi è nulla di reale o di utile che non sia una sede di guerra. Le nostre case risuonano di risa e di ciancie maligne, ma ciò serve a poco. Invece l’uomo incivile che è un problema ed una minaccia per la società, che lo deve adorare od odiare, — e con il quale tutti gli individui sono in relazione, tanto coloro che reggono le opinioni quanto gli oscuri e gli eccentrici; quest’uomo, dico, è di aiuto; egli pone l’America e l’Europa dalla parte del torto, e distrugge lo scetticismo che dice «l’uomo è un fantoccio; mangiamo e beviamo, è la cosa migliore che noi possiamo fare», con attirare l’attenzione su ciò che non è sperimentato e che non è conosciuto. L’acquiescenza per ciò che è stabilito e l’appello all’opinione pubblica indicano una fede non salda, dei cervelli non illuminati, che devono vedere una casa costrutta, prima di poterne comprendere il piano. L’uomo saggio non solo lascia fuori del suo pensiero i molti, ma lascia anche i pochi.

La nostra azione dovrebbe matematicamente riposare sulla nostra sostanza. In natura non vi sono false [332] valutazioni. Una libbra d’acqua nella tempesta dell’oceano non ha maggiore gravità di una libbra d’acqua in uno stagno estivo. Tutte le cose agiscono esattamente secondo la loro qualità e secondo la loro quantità, e non attentano a ciò che non possono fare. Solo l’uomo fa ciò; egli ha delle pretese: egli desidera e tenta cose che sono al di là della sua forza. Senofonte ed i suoi Diecimila erano idonei alla loro spedizione e la compirono; così idonei che nessuno sospettò essa fosse una spedizione grandiosa ed inimitabile. Eppure il fatto rimane inimitato, come il più saliente nella storia militare. Molti dopo d’allora hanno tentato di ripeterlo; nessuno fu capace. Ogni potere d’azione può basarsi soltanto sulla realtà. Nessun’istituzione sarà migliore dell’istitutore. Io conobbi una persona amabile e còlta, che intraprese una riforma pratica; pure io non potei mai trovare in lui l’impresa d’amore che aveva tra le mani. Egli se l’appropriava con l’udito e con l’intelletto e con l’averla letta nei libri. Tutta la sua azione fu un tentativo; era un frammento della città portata nei campi, ed era città ancora e non un fatto nuovo, e non poteva ispirare entusiasmo. Se qualchecosa ci fosse stato di latente in quell’uomo, un genio terribile incompreso, che agitasse ed imbarazzasse il suo procedere, noi avremmo atteso la sua venuta. Non è sufficiente che l’intelletto veda i mali ed i loro rimedi. Fintantochè noi siamo incitati solo da un pensiero e non da uno spirito, noi posporremo ancora la nostra esistenza e non prenderemo possesso del terreno al quale abbiamo diritto. Noi non siamo ancora idonei a ciò.

Queste sono le proprietà della vita; un’altra caratteristica di essa è l’osservazione del progresso incessante. Gli uomini dovrebbero essere intelligenti e serii; essi dovrebbero anche farci sentire che essi hanno un [333] vigilante e felice avvenire schiudentesi innanzi a loro ed i cui albori si accendono di già nell’ora che fugge. L’eroe è mal concepito e male rappresentato: egli non può attendere per sciogliere i falli di un qualche uomo: egli è nuovamente in cammino, aggiungendo nuovi onori e poteri al suo dominio, e nuovi diritti al possesso del vostro cuore che vi manderanno in rovina se voi vi sarete soffermati intorno alle vecchie cose, e non avrete mantenuta la vostra relazione con lui, accrescendo la vostra prosperità. Le azioni nuove sono per le vecchie le sole scuse e le sole spiegazioni che l’uomo nobile possa degnarsi di offrire o di ricevere. Se il vostro amico vi recò un dispiacere, voi non dovete soffermarvi sulla cosa; perchè egli ha già dimenticato quel momento e raddoppiato la sua potenzialità per giovarvi; e prima che voi possiate nuovamente riprendere il cammino, egli vi colmerà di benedizioni.

Il pensiero di una benevolenza misurata soltanto dalle sue proprie opere non ci reca alcuna gioia. L’amore è inesauribile, e se i suoi possedimenti sono distrutti ed i suoi granai vuotati, esso ancora rallegra ed arricchisce, e l’uomo, ancorchè dormente, pare purificare l’aria e la sua casa, abbellire il paesaggio e rinvigorire le leggi. Il popolo riconosce sempre questa differenza. Noi conosciamo colui che è benevolente con modi completamente diversi dalle sottoscrizioni alle opere caritatevoli. Soltanto i piccoli meriti possono essere enumerati. Temete quando i vostri amici affermano che voi avete agito bene, e l’affermano apertamente; ma quando essi se ne stanno con circospetti e timidi sguardi di reverenza e quasi di compunzione, e devono attendere anni ed anni per poter dare un giudizio, allora incominciate a sperare. Coloro che vivono per il futuro debbono apparire egoisti a coloro che vivono per il presente. Fa pertanto strano che il buon Riemer, che [334] scrisse le memorie di Goethe, abbia compilata una lista delle sue donazioni e dei suoi atti caritatevoli come:... tante centinaia di talleri dati a Stilling, a Hegel, a Tischbein; una carica lucrativa per il professore Voss; un impiego sotto il Gran Duca per Herder; una pensione per Meyer; due professori raccomandati ad università straniere, ecc. ecc. La più lunga lista di benefici specificati apparirebbe molto corta. Un uomo sarebbe veramente una creatura ben meschina, se dovesse essere misurato a questo modo: perchè tutto ciò, naturalmente, è eccezione; ed il dovere e la vita odierna di un uomo buono sta nella beneficenza. La vera carità di Goethe deve essere compresa dalla spiegazione che egli diede al dottor Eckermann del modo con cui egli aveva speso la sua fortuna: «Ogni mio bon-mot mi è costato una borsa d’oro. Mezzo milione del mio patrimonio, la fortuna che ereditai, il mio stipendio ed i larghi proventi dei miei scritti durante un periodo di cinquant’anni, furono spesi per istruirmi in ciò che ora so. Io ho inoltre veduto, ecc., ecc.». Riconosco che è semplicemente una chiacchiera vana l’enumerare le doti di questo, potere semplice e rapido, e che è un dipingere il fulmine con il carbone, ma mi piace in queste lunghe notti consolarmi così. Nulla può imitare il carattere all’infuori di se stesso. Una parola ardente del cuore mi arricchisce. Io mi arrendo a discrezione. Quale gelo di morte ha il genio letterario di fronte a questo fuoco della vita! Questi sono i tocchi che rianimano la mia anima avvilita e le dànno occhi per penetrare l’oscurità della natura. Io constato che dove m’immaginai povero, ero più ricco. Da ciò proviene una nuova esaltazione intellettuale, tale da essere nuovamente castigata da qualche nuova spiegata abilità del carattere. Strana alternativa di attrazione e di ripulsione! Il carattere ripudia l’intelletto, eppure lo eccita! ancora il [335] carattere passa nel pensiero e si rivela, poi si vergogna di fronte ai nuovi bagliori del valore morale.

Il carattere è la natura nella sua forma più alta; è inutile imitarlo o contendere con esso. Contro questo potere che supererà qualsiasi emulazione è tuttavia possibile una certa qual resistenza o persistenza o creazione.

Questo capolavoro è migliore dove nessuna mano, all’infuori quella della natura, vi si è posata. Esso bada affinchè colui che è predestinato alle grandi cose possa furtivamente entrare nella vita senza che alcuna Atene dai mille occhi osservi e celebri ogni nuovo pensiero ed ogni pavida emozione del giovane genio. Due persone ultimamente, giovanissime creature del più alto Iddio, mi hanno dato occasione di pensiero. Quando io investigai la fonte della loro santità e del loro fascino per l’immaginazione, mi parve che ognuno di essi rispondesse: «dalla mia non-conformità: io giammai porsi l’orecchio alla legge della vostra gente, ed a ciò che essi chiamano il loro vangelo, e sperperai il mio tempo. Io fui lieto della mia povertà rustica: di qui venne tanta dolcezza; la mia opera giammai ve la ricorda; essa ne è monda». E la natura mi ammonisce per mezzo di tali persone che nell’America democratica essa non vuole essere democratizzata. Come è essa difesa ed appartata dal mercato e dallo scandalo! Solo stamane io mi sono dipartito da alcuni ricordi che erano i fiori selvatici di questi dèi delle selve. Queste fresche onde che vengono dalle sorgenti del pensiero e del sentimento sono un sollievo dalla letteratura mentre noi in un’età di cultura e di criticismo leggiamo le prime linee di prosa o di versi di una nazione. Come è affascinante la loro devozione per i loro libri favoriti, siano essi Eschilo, Dante, Shakespeare o Scott; pare che sentano d’avere una parte in quei libri; chi li tocca, tocca loro; e specialmente com’è ammaliante la [336] solitudine completa del critico, che dalla Patmo del suo pensiero scrive, inconsapevole se mai occhi altrui leggeranno il suo scritto. Potessero essi continuare a sognare, come angeli, e non risvegliarsi per far delle comparazioni ed essere lusingati! Pure, alcune nature sono troppo buone per poter essere guastate dalla lode; ed ovunque la vena del pensiero raggiunge il profondo, non v’è pericolo di vanità. Gli amici gravi li avviseranno del pericolo che le loro teste si sconvolgano per il clamore delle trombe, ma essi possono sorridere. Io ricordo l’indignazione di un metodista eloquente per la cortese ammonizione di un dottore di teologia: «Amico mio, un uomo può essere nè lodato nè insultato». Ma voi dimenticate gli avvertimenti; essi sono molto naturali. Io ricordo il pensiero che mi sorgeva nella mente quando qualche straniero arguto e spirituale veniva in America «Siete voi stato immolato, nell’essere portato qui?» — oppure «prima di ciò, rispondetemi a questo: Siete voi immolabile?»

Come ho detto, la natura tiene queste sovranità nelle sue proprie mani e per quanto petulantemente i nostri sermoni e le nostre discipline vorrebbero condividere una parte della sua autorità ed insegnare che le leggi formano il cittadino, essa va per la propria strada, e mette i più saggi dalla parte del torto. Essa tiene in poco conto i vangeli ed i profeti, come quegli che abbia molte altre cose da produrre, e poco tempo da concedere ad alcuno. Vi è una classe di uomini, i cui componenti appaiono a lunghi intervalli così eminentemente dotati di conoscenza e di virtù, che essi sono all’unanimità valutati come divini, e paiono essere un’accumulazione di quel potere che noi ora consideriamo. Le persone divine sono «caratteri nati» o per usare una frase di Napoleone, sono una vittoria organizzata. Essi sono di solito ricevuti di mal animo, [337] perchè sono nuovi e perchè pongono un termine alla considerazione esagerata che si ebbe della personalità dell’ultima persona divina. La natura non appaia mai i suoi figli, nè fa due uomini uguali. Quando noi vediamo un grand’uomo, ci figuriamo che egli debba avere una somiglianza con qualche personalità storica, e prediciamo lo svolgersi del suo carattere e della sua fortuna; la previsione sarà certamente dallo stesso grand’uomo annullata. Nessuno risolverà mai il problema del proprio carattere secondo il nostro pregiudizio, ma solo lo risolverà nel suo proprio alto ed inaudito modo. Il carattere abbisogna di spazio; non deve essere incalzato dalle persone nè giudicato da occhiate scrutatrici, prese in prestito dalla febbre degli affari o giudicato in poche occasioni. Esso abbisogna di prospettiva, come un grande edifizio. Esso non può rapidamente tendere delle relazioni e non lo fa; e noi non dovremmo chiedere intorno alla sua attività spiegazioni temerarie sia alla nostra propria etica che a quella popolare.

Io riguardo la scultura come storia. Non penso che «Apollo» e «Giove» siano impossibili in carne ed ossa. Ogni tratto che l’artista scolpì nella pietra, egli lo vide nella vita e migliore della copia ch’egli ne fece. Noi abbiamo vedute molte falsificazioni, ma noi crediamo nei grandi uomini. Vedete come agevolmente noi leggiamo nei vecchi libri, quando gli uomini erano pochi, delle più piccole azioni dei patriarchi. Noi esigiamo che un uomo sia così grande ed appariscente nel paesaggio, da essere degno di menzione il fatto che egli si alzò, si cinse i lombi ed andò nel tale o nel tal altro luogo.

Le pitture più credibili per noi sono quelle degli uomini maestosi, che prevalsero fin dal loro ingresso ed incatenarono i sensi; così successe al Mago orientale, mandato a verificare i meriti di Zertusht o Zoroastro. [338] Quando il saggio Yunani giunse a Balk, (ci dicono i Persiani) Gushtasp fissò un giorno, in cui i Mobeds di tutte le nazioni dovessero adunarsi, ed una sedia d’oro fu collocata per il saggio Yunani. Allora il prediletto di Yezd, il profeta Zertusht s’avanzò nel mezzo dell’assemblea. Il saggio Yunani vedendo quel capo, disse: «Tale aspetto e tale portamento non possono mentire, e nulla all’infuori della verità può procedere da essi». Platone diceva che era impossibile non credere nei figli degli dèi, «sebbene essi dovessero parlare senza argomenti attendibili o necessari». Io mi stimerei molto sfortunato nei miei compagni se non potessi aver fede nelle cose migliori della storia. «Giovanni Bradshaw — dice Milton — appare come un console, le cui insegne non debbono cadere nell’anno; onde voi lo riguardereste come colui che siede per giudicare i re non in quel tribunale solamente, ma per tutta la vita». Io trovo più credibile (poichè è insegnamento più antico), che un solo uomo conosca il cielo, come dicono i Cinesi, piuttosto che molti uomini conoscono il mondo. «Il principe virtuoso compara gli dèi senza alcun preconcetto. Egli attende cento secoli, finchè un saggio venga e non dubita. Colui che compara gli dèi senza preconcetti, conosce il cielo; colui che attende cento secoli finchè un saggio venga, senza dubitare, conosce gli uomini. Di qui il principe virtuoso si muove e per secoli domina la via». Ma non vi è bisogno di ricercare gli esempi remoti. Ben ottuso osservatore è colui, al quale la propria esperienza non ha insegnato la realtà e la forza della magia così bene come quella della chimica. Il più freddo moralista non può uscire senza imbattersi in inesplicabili influssi. Un uomo fissa su di lui i suoi occhi, ed i sepolcri della memoria rendono i loro morti; egli deve consegnare i segreti che lo rendono infelice sia nel celarli come nell’esprimerli; — un altro uomo [339] lo guarda, ed egli non può parlare e le ossa del suo corpo paiono perdere tutte le loro cartilagini; il giungere di un amico gli dona grazia, audacia ed eloquenza; e vi sono delle persone che egli deve ricordare, le quali diedero un’espansione trascendente al suo pensiero ed accesero una nuova vita nel suo petto.

Che cosa vi è di così eccellente come le strette relazioni dell’amicizia, quando esse sorgono da profonda radice? La risposta sufficiente per lo scettico che dubita del potere e della forza dell’uomo, sta in questa possibilità d’una lieta corrispondenza fra persone, corrispondenza che forma la fede e l’abito di tutti gli uomini ragionevoli. Io non conosco cosa alcuna offerta dalla vita che sia così soddisfacente come la profonda intelligenza che può sussistere fra due uomini virtuosi dopo lungo scambio di buoni uffici, ognuno dei quali è sicuro di se stesso e sicuro del suo amico. È questa una felicità che lascia di gran lunga indietro tutte le altre soddisfazioni e diminuisce l’importanza della politica, del commercio e della chiesa. Poichè quando gli uomini incontreranno, come essi devono, ciascuno un benefattore, un condottiero di stelle, rivestiti di pensieri e di fatti e di cose compiute, si avrà la festa della natura, annunziata da tutte le cose. L’amore fra i sessi è il primo simbolo di tale amicizia, come tutte le altre cose sono il simbolo dell’amore. Le relazioni con gli uomini migliori, che una volta considerammo come il romanzo della gioventù, divengono, con il progredire del carattere, il più sicuro godimento.

Se fosse possibile vivere in giusti rapporti con gli uomini! se potessimo astenerci dal domandar loro cosa alcuna, dal richiedere la loro lode, il loro aiuto e la loro pietà, ed accontentarci di sospinger loro attraverso la virtù delle leggi più antiche! Non potremmo noi trattare con poche persone o con una persona sola [340] secondo gli statuti non scritti, e fare uno sperimento della loro efficacia? Non potremmo noi restituire al nostro amico il dono della sincerità, del silenzio, dell’indulgenza? È necessario per noi esser così smaniosi di cercare l’amico? Se siamo in rapporti tra di noi, noi ci incontreremo. Era tradizione del mondo antico che nessuna metamorfosi potesse nascondere un dio ad un altro dio; e c’è un verso greco che dice: «Gli dèi non sono sconosciuti l’uno all’altro». Gli amici pure seguono le leggi della necessità divina, essi gravitano uno verso l’altro, e non possono fare altrimenti.

La loro relazione non è fatta, ma concessa. Gli dèi devono sedersi essi stessi senza siniscalco nel nostro Olimpo, e possono installarvisi per anzianità divina. Se si hanno delle pene, se gli associati sono portati alla distanza di un miglio per incontrarsi, la società è rovinata. E se essa non è società, è un’accozzaglia malsana, bassa e degradante, anche se è composta dei migliori. Tutta la grandezza di ciascuno di essi si ritrae ed ogni debolezza è in penosa attività, come se gli Olimpici dovessero incontrarsi per scambiarsi delle tabacchiere.

La vita procede. Noi inseguiamo qualche disegno fuggente o siamo spinti da qualche timore o comando che sta dietro di noi. Ma se improvvisamente incontriamo un amico, ci fermiamo; il nostro calore e la nostra fretta ci appaiono sufficientemente sciocchi e si richiede ora il riposo, ora il godimento ed il potere di magnificare quel dato momento con le risorse del cuore. Il momento è tutto, in tutte le nobili relazioni.

Una persona divina è la profezia della mente, un amico è la speranza del cuore. La nostra beatitudine attende il compimento di questi «due in uno». Le età schiudono questa forza morale. Ogni forza è l’ombra od il simbolo di quella. La poesia è ricca di gioia e di [341] forza, perchè trae da essa la sua ispirazione. Gli uomini scrivono i loro nomi nel mondo quando essi sono paghi di questo. La storia è stata vile, le nostre nazioni sono state accozzaglia di gente; noi non abbiamo mai veduto un uomo; noi non conosciamo ancora tale forma divina, ma conosciamo solo il sogno e la profezia di essa; non conosciamo i modi maestosi che gli appartengono, quei modi che placano ed esaltano colui che contempla. Noi osserveremo un giorno che l’energia più segreta è quella più pubblica; che la qualità equivale alla quantità; che la grandezza del carattere agisce al buio, e soccorre coloro che mai la videro. Quella grandezza che è già apparsa, è per noi un principio ed un incoraggiamento in questa via. La storia, scritta dal mondo, di quegli dèi e di quei santi che ha poi adorati, sono documenti di carattere. I secoli hanno esultato per le azioni di un giovane, che non dovette nulla alla fortuna; che fu impiccato alle forche della sua nazione; che per le purissime qualità della sua natura sparse uno splendore epico intorno ai fatti della sua morte e che trasfigurò, per gli occhi del genere umano, ogni simbolo particolare in un simbolo universale. Questa grande rovina è fin d’ora il nostro fatto più alto. Ma la mente vuole una vittoria sui sensi; una forza di carattere che converta il giudice, il giurato, il soldato ed il re; che governi le virtù animali e minerali, e che si confonda con il corso dell’alburno, dei fiumi, dei venti, delle stelle e degli agenti morali.

Se noi non possiamo raggiungere d’un balzo queste grandezze, rendiamo almeno loro omaggio. Nella società grandi vantaggi e grandi danni sono posti per il possessore. La massima prudenza è necessaria nei nostri giudizi privati. Io non perdono ai miei amici la colpa di conoscere un bel carattere e di intrattenerlo con una grata ospitalità. Quando finalmente ciò che abbiamo [342] sempre desiderato viene e ci illumina con raggi giocondi, che provengono da quella terra celeste, l’essere ruvidi, l’essere difficili ed il trattare un tale visitatore con il linguaggio e la diffidenza della strada, dimostrano una volgarità che pare debba chiudere le porte del cielo. Questa è la confusione, questa è la vera pazzia dell’anima che non si riconosce più, e non sa dove il suo dovere, la sua religione, la chiamino. Vi è qualche altra religione all’infuori di questa, la quale ci insegna che ovunque fiorisce in questo immenso deserto dell’essere il sentimento sacro che coltiviamo, esso fiorisce per me? Se nessuno vede ciò, io lo vedo; io sono informato, anche se solo, della grandezza del fatto. Mentre esso fiorisce io celebrerò il mio sabbato, il mio giorno santo, e sospenderò la mia tristezza, le mie follie, le mie burle. La natura è lieta della presenza di questo ospite. Vi sono molti occhi che possono scoprire ed onorare le prudenti e domestiche virtù, vi sono molti che possono discernere il Genio sul suo cammino cosparso di stelle, anche se la folla ne è incapace; ma quando quell’amore che tutto soffre, tutto schiva, tutto agogna, che ha giurato a se stesso che vi sarà un meschino ed un folle in questo mondo piuttosto che macchiare le sue bianche mani con qualche accondiscendenza, viene nelle nostre strade e nelle nostre case — solamente gli uomini puri e coloro che hanno delle aspirazioni possono vedere il suo viso, e l’unico omaggio che possono rendergli è quello di riconoscerlo.

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QUARTO SAGGIO LE MANIERE

Si dice che una metà del mondo non sappia come l’altra metà viva. La nostra Spedizione Esploratrice vide gli isolani Feejee pranzare con delle ossa umane, e si dice che essi mangino le loro mogli ed i loro bambini. L’economia domestica degli odierni abitanti di Gournou (all’ovest dell’antica Tebe) è ristretta fino alla deficienza. Infatti per metter su casa sono sufficienti due o tre recipienti di terra, una pietra per fare la farina ed una coltre che serve da letto. La casa, cioè, questa specie di tomba, è apparecchiata senza pigione od imposta. La pioggia non può passare attraverso il tetto; la porta non c’è, perchè di porta non v’è bisogno, essendovi nulla da perdere. Se a loro non piace la casa, se ne vanno ed entrano in un’altra, essendovene parecchie centinaia a loro disposizione. «È alquanto singolare, — aggiunge il Belzoni, al quale dobbiamo questa narrazione, — parlare di felicità fra un popolo, che abita nei sepolcri, fra gli scheletri e gli avanzi di una nazione antica, che essi completamente ignorano». Nei deserti di Borgoo, i Rock-Tibboos abitano ancora in caverne, come le rondini delle roccie, ed il loro linguaggio è comparato dai loro vicini allo strido del pipistrello ed al fischio degli uccelli. I Bornoos non hanno nomi proprii; gli individui sono chiamati a [344] seconda della loro statura, della loro grossezza o di altre qualità accidentali, ed hanno semplicemente dei soprannomi. Ma il sale, i datteri, l’avorio e l’oro, per i quali queste orribili contrade sono visitate, trovano il loro smercio in paesi dove il compratore ed il consumatore possono difficilmente essere collocati nella stessa razza di questi cannibali e ladri di uomini; paesi ove l’uomo usa i metalli, il legno, la pietra, il vetro, la gomma, il cotone, la seta e la lana; dove egli onora se stesso con l’architettura; dove scrive leggi, dove sopratutto compone una società eletta che viaggia attraverso tutti i paesi degli uomini intelligenti; un’aristocrazia costituitasi da se stessa o se più vi piace una fratellanza degli uomini migliori, che senza leggi scritte o consuetudini di alcuna specie si perpetua, colonizza ogni isola nuova, ed adatta e fa sua qualsiasi bellezza personale o dote straordinaria nativa, ovunque essa appaia.

Quale fatto più saliente nella storia moderna della creazione del «gentiluomo»? La cavalleria, la lealtà, e nella letteratura inglese la metà dei drammi e tutte le novelle da Sir Filippo Sidney a Sir Walter Scott, dipingono questa figura. La parola gentiluomo, che, come la parola Cristiano deve d’ora in avanti caratterizzare il presente secolo ed i pochi precedenti, per l’importanza che le si riferisce è un omaggio a certe incomunicabili doti personali. Attributi frivoli e fantastici si associarono al nome, ma il costante interessamento del genere umano per esso dev’essere attribuito alle proprietà preziose che esso designò. Un elemento che unisce il più strettamente possibile uomini di ogni paese, che li rende intelligibili e piacevoli gli uni agli altri, non può essere un prodotto casuale, ma deve essere un giusto risultato del carattere e delle facoltà riconosciute universalmente negli uomini. Esso pare un [345] medium permanente; come l’atmosfera è una permanente composizione, contrariamente a tanti gaz che sono combinati solo per essere scomposti. Comme il faut, è la definizione francese della buona società, del come dobbiamo essere. Il «gentiluomo» è un frutto spontaneo delle inclinazioni e dei sentimenti di quella classe che ha precisamente maggior vigore, che prende la direttiva del mondo in questo tempo; classe che sebbene lontana dall’essere pura, lontana dal costituire la più lieta e più alta espressione del sentimento umano, è buona tanto quanto l’intiera società le permette di esserlo. Esso è creato dallo spirito più che dal talento degli uomini, ed è un risultato complesso nel quale ogni grande forza entra come ingrediente, cioè, ingegno, virtù, talento, bellezza, ricchezza e potere.

Vi è qualche cosa di equivoco in tutte le parole usate per esprimere l’eccellenza dei modi e l’educazione sociale, perchè le quantità sono variabili, e l’ultimo effetto è ricevuto dai sensi come se fosse la causa. La parola gentiluomo non ha alcun correlativo astratto per esprimere la qualità. Ma noi dobbiamo tener viva nel vernacolo la distinzione fra «andazzo», parola di senso ristretto e spesso sinistro, ed il carattere nobile, che il gentiluomo porta con sè. Le parole usuali, però, devono essere rispettate: si troverà che esse contengono la radice della cosa. Il punto di distinzione in tutta questa serie di nomi come cortesia, cavalleria, moda e simili, è che il fiore ed il frutto sono tenuti in considerazione, e non il seme dell’albero. La bellezza in questo caso è lo scopo e non il valore. Il fatto ora in discussione, sebbene le nostre parole facciano intendere abbastanza bene il sentimento popolare, è se l’apparenza supponga una sostanza. Il gentiluomo è un uomo di verità, signore delle sue proprie azioni ed esprimente un dominio nella sua condotta, in nessun modo dipendente [346] e servile ad altre persone od opinioni o possessioni. Oltre questo fatto di verità e di forza reale, la parola denota buon cuore e benevolenza: virilità prima, e gentilezza poi. L’idea popolare certamente aggiunge a questo termine una condizione di agiatezza e di fortuna; ma questa è un risultato naturale della forza personale e dell’amore, che essi dovrebbero possedere per distribuire i beni del mondo. In tempi di violenza, ogni persona eminente dovette trovare molte occasioni per far valere la sua forza ed il suo valore; perciò il nome di ogni uomo, che ai tempi del feudalismo emerse un poco dalla massa, risuona alle nostre orecchie come il clamore di una tromba. Ma la forza personale non decade mai. Essa è ancora sovrana oggi, e nell’instabile folla della buona società gli uomini di valore e di forza sono conosciuti, e s’innalzano al posto che loro spetta. La competizione è trasferita dalla guerra alla politica ed al commercio, di conseguenza la forza personale appare immediatamente in questi nuovi campi.

Il potere innanzi tutto è necessario, se si vuole una classe dirigente. Nella politica e nel commercio i pugilatori ed i pirati sono una promessa migliore che gli oratori e gli impiegati. Dio sa che tutte le classi dei gentiluomini battono alla sua porta; ma ogni qualvolta questo termine sia strettamente usato e con una certa importanza, si vedrà che esso indica un’energia originaria. Esso delinea un uomo, che sta nel suo proprio diritto ed opera con metodi suoi proprii. In un buon padrone vi deve essere per prima cosa un buon animale, almeno fino al punto da concedere i vantaggi incomparabili degli spiriti animali. Le classi dirigenti devono avere di più ma debbono avere anche questi requisiti, dando ad ogni gruppo di persone quel senso di potere che rende facile a farsi quelle cose, che incutono timore al saggio. La società della classe [347] dominante, nelle sue adunanze amichevoli e festive, è piena d’un coraggio e d’un’audacia, che intimidiscono il pallido studioso. Il coraggio che le ragazze di tale società dimostrano è come una battaglia di Lundy Lane od un combattimento in mare. L’intelletto si confida alla memoria per avere qualche soccorso onde affrontare questi squadroni estemporanei. Ma la memoria in presenza di questi improvvisi padroni è un vile mendicante con canestro e bastone. I rettori della società devono essere allo stesso livello dell’attività del mondo, e pari al loro ufficio multiforme: debbono essere uomini dall’impronta cesarea, dotati d’un grande raggio di affinità. Io sono lontano dal credere nella timida massima di Lord Falkland («che la compitezza debba essere duplice, poichè un individuo audace passerà attraverso le forme più abili») e sono di opinione che il gentiluomo è l’individuo ardito, le cui forme non possono violarsi; e che solo la natura è giusta signora della compitezza di qualsiasi persona con la quale essa conversa. Il mio gentiluomo detta la legge ove egli si trova; egli sorpasserà in preghiera i santi nella cappella; sarà più capitano dei veterani sul campo di battaglia ed in un salone sarà al di sopra di ogni cortesia. Egli è un buon compagno per i pirati, ed un buon compagno per gli accademici; cosicchè è inutile il fortificarsi contro di lui; egli ha uno spiraglio segreto in tutte le menti, ed io potrei tanto facilmente escludere me stesso quanto lui. I gentiluomini celebri dell’Asia e dell’Europa hanno avuto questo carattere vigoroso: Saladino, Sapor, il Cid, Giulio Cesare, Scipione, Alessandro, Pericle, ed i maggiori personaggi. Essi sedettero con molta noncuranza sui loro seggi, e furono troppo eccellenti essi stessi per dare valore ad una condizione qualsiasi.

Secondo l’opinione popolare è necessaria una grande fortuna per completare questo uomo di mondo. Il denaro [348] non è essenziale, ma lo è quella grande affinità, che trascende le consuetudini della camarilla o della casta, e che si fa sentire dagli uomini di tutte le classi. Se l’aristocratico è forte solamente nei circoli alla moda e non con i trafficanti, egli non sarà mai un condottiero popolare; e se l’uomo del popolo non può parlare in termini uguali con il gentiluomo, cosicchè questi senta che quegli è realmente del suo proprio rango, nulla è da temersi. Diogene, Socrate ed Epaminonda, che hanno scelto lo stato di povertà quando quello di ricchezza era loro ugualmente aperto, sono gentiluomini del miglior sangue. Io uso questi vecchi nomi, ma gli uomini dei quali parlo, sono miei contemporanei. Il destino non concederà ad ogni generazione uno di questi cavalieri compiti; ma ogni gruppo di uomini mette in mostra qualche tipo della sua classe: e la politica di questo paese, ed il commercio di ogni città sono controllati da questi costanti ed irresponsabili fattori, che hanno l’abilità d’assumerne la direzione e di cattivarsi una larga simpatia che li pone in relazione con le folle, e rende popolari le loro azioni.

I modi di tale classe d’uomini sono osservati ed appresi con ossequio dagli uomini di gusto. L’associazione di questi dominatori fra di loro e con uomini consci dei loro meriti, è reciprocamente piacevole e stimolante. Le buone forme, le più felici espressioni di ciascuno di essi sono ripetute ed adottate. Per rapido consenso ogni cosa superflua è abbandonata, ogni cosa graziosa ripresa. I bei modi appaiono terribili all’uomo ineducato. Essi sono una scienza sottile di difesa per parare od intimidire; ma una volta pareggiati dall’abilità dell’altra parte, essi abbassano la punta della spada: puntate e parate scompaiono, e il giovane si trova in un’atmosfera più trasparente, dove la vita è un giuoco meno agitato e nessun malinteso sorge fra i giuocatori. [349] Le maniere tendono a facilitare la vita, a sbarazzarsi degli impedimenti e portano l’uomo puro al vigore. Esse promuovono i nostri scambii e le nostre conversazioni come una ferrovia promuove il viaggiare, allontanando tutti gli impedimenti della strada, e non lasciando nulla da conquistare, eccetto che lo spazio. Queste forme molto presto diventano stabili, ed un fine senso di correttezza coltivato con maggior cura diviene un pegno di distinzione sociale e civile. Così cresce la Moda, apparenza equivoca, la più potente, fantastica e frivola, la più temuta e la più seguita, che la morale e la violenza assaltano invano.

Esiste una stretta relazione fra le classi che hanno il potere e le società aristocratiche e raffinate: queste contengono e conterranno sempre quelle. Gli uomini forti abitualmente concedono una certa larghezza alle petulanze stesse della moda, per quella tale affinità che trovano in essa. Napoleone, figlio della rivoluzione, distruggitore della vecchia nobiltà, non cessò mai di corteggiare il Faubourg St. Germain: indubbiamente per il sentimento che la moda è un omaggio agli uomini del suo stampo. La Moda rappresenta, sebbene in uno strano modo, tutte le virtù virili. Essa è virtù che ha fatto il seme: è una specie di onore postumo. Essa spesso non accarezza i grandi, ma i figli dei grandi: essa è la sala del passato: comunemente si pone contro i grandi del presente. I grandi uomini di solito non sono nelle sue camere: essi sono assenti nel campo: essi operano, non trionfano: la moda è fatta dai loro figliuoli; da coloro cioè che per valore e virtù di qualcuno hanno acquistato lustro per il loro nome, segni di distinzione, mezzi di raffinamento e di generosità e nella costituzione fisica una certa floridezza e prestanza che assicura loro se non l’altissimo potere di operare, almeno l’alto potere di godere. La classe che [350] ritiene il potere, gli eroi operanti, i Cortez, i Nelson, i Napoleoni, vedono che questa Moda è la festa e la celebrazione permanente degli uomini del loro tipo; che la moda è talento consolidato, che il Messico, Marengo e Trafalgar, sono superati: che i brillanti nomi della moda coprono ora altri nomi, come i loro coprirono quelli di cinquanta o sessanta anni fa. Essi sono i seminatori, i loro figli saranno i raccoglitori, ed i figli di questi, secondo lo svolgersi normale delle cose, dovranno cedere il possesso del raccolto a nuovi competitori dagli occhi più perspicaci e dalle costituzioni più salde. La città è rinvigorita dalla campagna. Nell’anno 1805, si dice, ogni legittimo monarca in Europa era scemo. La città sarebbe morta, marcita, esplosa da molto tempo se non fosse stata rinforzata dalla campagna. È la campagna inurbatasi due giorni fa, che oggi è città e corte.

L’aristocrazia e la moda sono dei prodotti inevitabili. Queste mutue elezioni sono indistruttibili. Se esse provocano l’ira nelle classi meno favorite, e la maggioranza esclusa si vendica escludendo la minoranza con il pugno possente e la uccide, subito una nuova classe sorge alla sommità, così come la panna sale alla superficie di una scodella di latte: e se il popolo distruggesse classe dopo classe, finchè due soli uomini rimanessero, uno di questi sarebbe il duce, e sarebbe involontariamente servito ed imitato dall’altro. Voi potete tenere questa minoranza lontana dal vostro sguardo e dalla vostra mente, ma essa è gelosa della vita, e rappresenta una delle potenze del regno. Io sono maggiormente colpito da questa tenacia quando osservo il suo operato. Essa rispetta l’amministrazione di cose così poco importanti, che noi non cercheremmo alcuna durabilità nel suo reggersi. Noi incontriamo talora uomini che giacciono sotto qualche forte influsso morale, [351] patriottico, letterario e religioso, ecc. e sentiamo che il sentimento morale domina l’uomo e la natura. Noi pensiamo che tutte le altre distinzioni e tutti gli altri legami sono deboli e fuggitivi, quali ad esempio quello della casta o della moda; eppure venite di anno in anno e vedete quanto permanente esso sia nella vita del contadino di Boston o di New York, dove pure non ha il più piccolo appoggio nella legge del paese. In Egitto o nell’India non v’è barriera più salda e più insormontabile. Qui vi sono associazioni, i cui vincoli passano sopra, sotto ed attraverso a tale legame: adunanze di mercanti; corpi militari; associazioni politiche, professionali; convenzioni religiose, ecc. Le persone di tali gruppi sembrano tenersi inseparabilmente vicine; eppure sciolta l’assemblea esse non si ritroveranno più in tutta la lunghezza dell’anno. Ognuno ritorna al suo grado nella scala della buona società: la porcellana rimarrà porcellana e la terra terra. Gli obbietti della moda possono essere frivoli, o la moda può essere senza obbietti, tuttavia la natura di quest’unione e di questa scelta può essere nè frivola nè accidentale. Il grado di ogni uomo, in tale graduatoria perfetta, dipende da qualche simmetria della sua struttura con la simmetria della società. Le sue porte si aprono istantaneamente al richiamo naturale della propria specie. Un gentiluomo per natura potrà entrarvi ed escludere il più vecchio patrizio, che abbia perduto il suo intrinseco grado. La moda capisce se stessa; la buona educazione di ogni paese, la superiorità personale prontamente fraternizzano con quelle di qualsiasi altro paese. I capi delle tribù selvagge si sono distinti a Londra ed a Parigi per la purità dei loro modi.

Per dire il bene che noi possiamo della moda, diremo che essa riposa sulla realtà e che nulla odia quanto gli ipocriti; infatti è sua gioia l’escluderli, l’interdirli [352] e mandarli in eterno esilio. Noi disprezziamo qualsiasi altra qualità degli uomini di mondo; ma l’abitudine, nelle piccole cose ed anche nelle minime, di rivolgerci a null’altro che al nostro proprio senso di correttezza, costituisce il fondamento di tutta la cavalleria. Non vi è quasi specie di fiducia in se stesso, sana e proporzionata, che la moda non adotti occasionalmente, e cui non apra i suoi saloni. Un’anima santa è sempre elegante; e se vuole passerà non sfidata nella cerchia più riservata. Allo stesso modo passerà Jock il vaccaro, se gli vien voglia di passare, ed incontrerà il favore finchè la sua testa non provi le vertigini della nuova posizione, e le sue scarpe ferrate non desiderino di ballare i valtzers ed i cotillons. Però nulla vi è di stabilito nelle maniere, e le leggi del contegno si arrendono all’energia dell’individuo. La donzella nel suo primo ballo, il contadino ad un pranzo in città, credono vi sia un rito secondo il quale ogni fatto ed omaggio debba essere compiuto, e pensano che colui che falla, debba esser scacciato. Più tardi essi imparano che il buon senso ed il carattere creano le loro proprie forme ad ogni momento, e parlano e si astengono, bevono e non bevono, stanno o vanno, siedono su di una sedia o scherzano coi bambini sul pavimento, o fanno qualsiasi altra cosa, in un modo nuovo e naturale, ed imparano che la volontà forte è sempre di moda. Ciò che la moda richiede è compostezza e soddisfazione di sè. Un circolo di uomini perfettamente educati dovrebbe essere un gruppo di persone sensibili, in cui dovrebbero apparire i modi ed il carattere nativo di ogni uomo. Se l’uomo di moda non ha questa qualità egli non è nulla. Noi siamo così amanti della fiducia in se stesso, che perdoniamo in un uomo molti peccati, se egli si dimostrerà completamente soddisfatto della sua posizione, senza darsi cura della mia buona opinione [353] o di quella di alcun altro uomo. Ma qualunque deferenza verso qualche uomo o donna eminente del mondo lo priva d’ogni privilegio di nobiltà. Egli è un dipendente: io ho nulla da fare con lui; io voglio parlare con il suo padrone. Un uomo non dovrebbe andare dove egli non può portare con sè la sua intiera società: non dico portare materialmente l’intiera cerchia dei suoi amici, ma atmosfericamente. Egli dovrebbe conservare in una nuova società la stessa attitudine di mente e la stessa lealtà di rapporti, ai quali lo spingono le sue relazioni giornaliere, altrimenti egli è privato delle sue luci migliori, e sarà un orfano anche nel circolo più giocondo. «Se poteste vedere Vich Jan Vohr con il frak!». Ma Vich Jan Vohr deve sempre portare questo suo abito in qualche modo, se non come onore, come vergogna.

Vi saranno sempre nella società uomini messaggeri dell’approvazione, ed il cui sguardo indicherà subito ai curiosi la loro posizione nel mondo. Questi sono i ciambellani degli Dei minori. Accettate la loro freddezza come un augurio di grazia presso le divinità maggiori, e lasciate ad essi il loro privilegio. Essi sono schietti nel loro ufficio, nè potrebbero essere così formidabili senza i loro proprii meriti. Ma non misurate l’importanza di questa classe dalle loro pretese e non immaginate che un bellimbusto possa essere dispensatore di onori e di vergogna. Essi pure passano a seconda del loro valore; infatti come potrebbe avvenire altrimenti in circoli, che esistono come una specie di ufficio araldico, per la vagliatura del carattere?

La prima cosa che l’uomo vuole dall’uomo è la realtà, così come essa appare in tutte le forme della società. Noi, separatamente e per nome, presentiamo le persone le une alle altre. Sappiate davanti a tutto il cielo ed a tutta la terra che questi è Andrea e che questi è [354] Gregorio; — essi si guardano negli occhi; si stringono la mano, per identificarsi e segnalarsi l’uno all’altro. Ciò è una grande soddisfazione. Un gentiluomo non sfugge mai; i suoi occhi guardano diritto, ed egli assicura l’altro, prima di tutto, che egli è stato incontrato. Però che cosa è che noi ricerchiamo nelle numerose visite e nella larga ospitalità? Sono i vostri panneggiamenti, i vostri quadri o le vostre decorazioni? Oppure, non domandiamo noi insaziabilmente: Vi fu un uomo nella casa? Io posso facilmente penetrare in una grande casa dove vi sia una grande ricchezza, una eccellente adunazione di lusso e di buon gusto, eppure non trovarvi l’Anfitrione che subordini queste cose accessorie. Io posso andare in una capanna e trovare un contadino, il quale sente che egli è l’uomo ch’io venni a vedere e che mi riceve come tale. Era perciò una cosa molto naturale della vecchia etichetta feudale, che un gentiluomo il quale ricevesse una visita, fosse pure del suo sovrano, non lasciasse il suo tetto, ma attendesse il suo arrivo sulla soglia di casa. Nessuna casa, siano anche le Tuileries o l’Escuriale, serve a cosa alcuna senza padrone. Eppure noi spesso non siamo appagati da tale ospitalità. Ognuno di quelli che conosciamo si orna e si circonda di una bella casa, di bei libri, di servi, di giardini, di equipaggi, e di ogni genere di sontuosità da interporre fra sè ed il suo ospite. Non pare che l’uomo sia di natura scaltra e fraudolenta, e che nulla tema così fortemente come un incontro faccia a faccia con il suo simile? Ad ogni modo io comprendo che sarebbe eccessivo abolire del tutto l’uso di queste barriere, che sono di convenienza grandissima, sia l’ospite troppo grande o troppo piccolo. Noi raccogliamo insieme molti amici che scherzano gli uni con gli altri; oppure con lo sfarzo e con gli ornamenti dilettiamo la gioventù, e proteggiamo la nostra dimora. [355] O se per caso viene alla nostra porta un ricercatore della realtà, di fronte al quale non amiamo di soffermarci, allora ancora fuggiamo nella nostra tenda, e ci nascondiamo come Adamo nel giardino alla voce del Signore. Il cardinale Caprara, legato del Papa a Parigi, si sottraeva agli sguardi di Napoleone con un immenso paio di occhiali verdi. Napoleone li vide, e rapidamente con motteggi ottenne che fossero tolti; eppure Napoleone alla sua volta non era grande abbastanza, con ottocento mila uomini dietro di sè, per sostenere lo sguardo d’un uomo libero, ma si riparava dietro i cerimoniali, e dietro una triplice barriera di riserve: e come ognuno sa da Madame de Staël, quando si vedeva osservato, aveva l’abitudine di togliere al suo viso ogni espressione. Ma gli imperatori e gli uomini ricchi non sono affatto i più abili maestri di maniere. Nessuna rendita e nessun esercito può elevare la codardia e la dissimulazione: ed il primo punto della cortesia deve essere sempre la verità, e per vero tutte le forme della buona educazione segnano tale via.

Io ho appunto letto ora, nella traduzione di Hazlitt, la relazione di Montaigne sul suo viaggio in Italia, e da nulla fui più piacevolmente colpito quanto dai modi di rispetto personale del tempo. In ogni luogo il suo arrivo era, come l’arrivo di un gentiluomo in Francia, un evento di una certa importanza. Ovunque egli andava, faceva visita a tutti i principi e gentiluomini rinomati che incontrava sulla sua strada, come fosse un dovere verso se stesso e verso la civiltà. Quando egli lasciava una casa, in cui aveva dimorato per poche settimane, procurava che il suo stemma vi fosse dipinto od appeso, come un segno perpetuo per la casa, e come era allora abitudine del gentiluomo.

Il complemento di questo cortese rispetto per se stesso è la deferenza. E su essa insisto maggiormente che su [356] qualsiasi altro punto della buona educazione. Mi piace che ogni sedia sia un trono e che su essa vi sieda un re. Io preferisco una tendenza all’alterigia, che un eccesso di confidenza. Gli incomunicabili obbietti della natura e l’isolamento metafisico dell’uomo ci insegnino l’indipendenza. Non diventiamo troppo familiari. Io vorrei che un uomo entrasse in casa sua passando attraverso un’anticamera ornata di sculture eroiche e sacre, affinchè non gli mancasse una visione di calma e di equilibrio. Noi ogni mattina dovremmo incontrarci come se venissimo da paesi stranieri, e trascorsa insieme la giornata, dovremmo dipartirci la notte, come se ritornassimo in paesi stranieri. Sediamo in disparte come degli Dei, parlando da monte a monte tutto intorno all’Olimpo. Nessun grado di affezione è necessario che invada questa deferenza. Questa è mirra e ramerino che fa apparire dolce il resto. Gli amanti dovrebbero mantenere la loro rigidezza. Se essi perdonano troppo, tutto dilaga nella confusione e nella bassezza. È facile spingere questa deferenza fino alla costumanza Chinese; ma la freddezza e la compostezza misurata indicano delle belle qualità. Un gentiluomo non fa rumore; una signora è serena. Giustificato è il nostro disgusto per quegli invasori, che riempiono di disordine la casa dello studioso per proteggere qualche stupida convenienza. Non minore è il mio disgusto per la volgare simpatia di ciascuno per le necessità del suo vicino. Deve forse esservi una reciproca intelligenza con il palato di un altro, come avviene con quelle sciocche persone che, avendo vissuto molto tempo insieme, sanno quando ciascuna di esse vuole sale o zucchero? Io prego il mio compagno che mi chieda del pane se vuole del pane e parimente se vuole del sassofrasso o dell’arsenico, e non voglio che porga il suo piatto come se io già sapessi ciò ch’egli vuole. Ogni funzione naturale [357] può essere innalzata con la ponderazione e il riserbo. Lasciamo la fretta agli schiavi. I complimenti e le cerimonie della nostra educazione dovrebbero significare per quanto remotamente il ricordo della grandezza del nostro destino.

Il fiore della cortesia non ama d’essere toccato, ma se osiamo aprire un petalo, ed esplorare le parti che lo compongono, noi vi troveremo anche una qualità intellettuale. Il cervello, come la carne ed il cuore, deve dare una certa simmetria ai duci degli uomini. Difetto di maniere è generalmente mancanza di delicate percezioni. Gli uomini sono fatti troppo rudemente per la raffinatezza dell’atteggiamento e delle abitudini. Per la buona educazione non è del tutto sufficiente l’unione della cortesia e dell’indipendenza. Noi imperativamente richiediamo nei nostri compagni la percezione della bellezza ed il tributo ad essa. Altre virtù sono richieste nel campo e nell’officina, ma tuttavia un certo grado di gusto dev’essere desiderato in coloro che ci sono compagni. Io potrei più facilmente mangiare con colui che non rispettò la verità e le leggi, che con una persona sudicia ed impresentabile. Le qualità morali reggono il mondo, ma a breve distanza i sensi sono dispotici. La stessa discriminazione dell’utile e del bello sorge in tutte le parti della vita, anche se sorge con minor vigore. Lo spirito medio delle classi potenti è il buon senso, che agisce sotto certe limitazioni e con certi fini. Esso gode di ogni dono naturale: socievole nella sua natura, esso rispetta ogni cosa che tende ad unire gli uomini. Esso si diletta di ciò che è misura. L’amore del bello è specialmente amore della misura o della proporzione. Le persone che urlano od usano il grado superlativo o parlano con ardore, mettono i saloni in fuga. Se volete essere amato, amate la misura. Se volete celare la vostra mancanza di misura dovete avere del [358] genio od un’utilità prodigiosa. Tale percezione della misura scende in campo per pulire e perfezionare i congegni della macchina sociale. La società perdonerà molto al genio ed alle sue doti speciali, ma essendo per sua natura una convenzione, essa ama ciò che è convenzionale o ciò che è atto ad accumunarsi. Poichè la moda non è buon senso assoluto, ma relativo; non ha buon senso privato, ma un buon senso che tiene circolo. Essa odia gli angoli e le asprezze del carattere, odia la gente attaccabrighe, egoista, solitaria e triste; odia qualsiasi cosa che possa impedire il comporsi totale delle parti; d’altra parte essa stima tutte le peculiarità, che possono esistere con una buona amicizia, quali ricreanti al sommo grado. Oltre allo spirito che serve ad elevare le buone maniere, è sempre ben venuto nella società elegante lo splendore diretto del potere intellettuale come la più sontuosa aggiunta al suo governo ed alla sua valutazione.

La luce deve risplendere per adornare le nostre feste, ma essa deve essere temperata e addolcita, onde non ci offenda. L’accuratezza è essenziale alla bellezza, e le rapide percezioni sono essenziali all’educazione, purchè non siano percezioni troppo rapide. Si può essere troppo puntuali e troppo precisi. Si deve lasciare l’omniscienza degli affari alla porta quando si entra nel palazzo della bellezza. La società ama le nature creole, le maniere languide, che coprono il senso, la grazia e la buona volontà: ama l’aura accasciante che disarma la critica; forse perchè le persone di tal natura sembrano riservarsi per il momento migliore del giuoco, e non si perdono alla superficie. La società ama l’occhio inesperto, che non vede le noie, i mezzi termini, gli inconvenienti che fanno aggrottare le sopracciglia ed opprimono la voce dell’uomo sensibile.

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Perciò, oltre alla forza personale ed a quel tanto di percezione che costituisce il gusto infallibile, la società richiede nelle sue classi patrizie un altro elemento che essa in modo significativo chiama «buona natura», e che esprime tutti i gradi di generosità, dal più semplice desiderio di fare piacere agli altri, fino alle altezze della magnanimità e dell’amore.

Noi dobbiamo avere una visione chiara, altrimenti ci imbatteremo gli uni negli altri, e smarriremo la nostra strada; su questo punto l’intelletto è egoista e sterile. Il segreto del successo in società sta in una certa cordialità e simpatia. Un uomo che non è ben voluto in società, non troverà nella sua memoria una parola adatta alla circostanza: ogni sua frase sarà fuor di proposito. Un uomo che in essa è felice, trova in ogni momento della conversazione delle occasioni ugualmente fortunate per dire ciò che egli vuole. I favoriti della società, quelli che essa chiama «uomini integri» sono degli uomini abili e più di buon senso che di spirito, scevri di sgradevole egoismo, e che riempiono di sè il momento e la società nella quale si trovano, lieti e letificanti sia ad un matrimonio che ad un funerale, ad un ballo che in una giurìa, ai bagni che alla caccia. L’Inghilterra che è ricca di gentiluomini, produsse al principio di questo secolo un buon modello di quel genio, che il mondo ama, in Mr. Fox, che aggiungeva alle sue grandi abilità la disposizione più socievole ed un vero amore per l’uomo. La storia parlamentare ha poche pagine migliori del dibattito nel quale Burks e Fox si divisero alla Camera dei Comuni; dibattito in cui Fox incalzò il suo vecchio amico con i diritti dell’antica amicizia con tanta tenerezza, che la Camera fu commossa fino alle lacrime. Un altro aneddoto v’è e così prossimo al mio argomento, che io devo citarlo. Un commerciante che io aveva molestato a lungo per il [360] pagamento di una nota, lo trovò un giorno che stava contando del denaro, e richiese di essere pagato. «No» disse Fox, «devo questo denaro a Sheridan; è un debito di onore: se mi capitasse una disgrazia, egli non avrebbe nessun documento per dimostrarlo». «Allora» disse il creditore, «io cambio il mio debito, in un debito di onore» e lacerò la nota. Fox ringraziò il commerciante per la sua fiducia, e lo pagò dicendo che «il suo debito era più vecchio, e che Sheridan doveva attendere». Amante della libertà, amico dell’Indo, amico degli schiavi africani, egli possedette una grande popolarità, e Napoleone in occasione della sua visita a Parigi nel 1805 disse di lui «Mr. Fox terrebbe sempre il primo posto nell’assemblea alle Tuilleries».

Noi possiamo facilmente parere ridicoli con il nostro elogio della cortesia, ogni qualvolta insistiamo sulla benevolenza come suo fondamento. Il fantasma dipinto della Moda si alza per gettare una specie di derisione su ciò che noi diciamo. Ma io non sarò spinto a fare alcuna concessione alla Moda come istituzione simbolica, nè sarò distolto dalla credenza che l’amore è la base della cortesia. Noi dobbiamo ottenere quello, se possiamo; e dobbiamo ad ogni modo affermare questa. La vita deve molto del suo spirito a questi rudi contrasti. La moda che pretende essere onore, sovente nell’esperienza di tutti gli uomini non è che un codice di sala da ballo. Pure fino a che essa è nell’immaginazione delle migliori teste del nostro pianeta il cerchio più alto, vi sarà in essa qualche cosa di necessario e di eccellente; poichè non si può supporre che gli uomini si siano accordati per essere lo zimbello di una cosa assurda; ed il rispetto che questi misteri ispirano pur nei caratteri più rudi, e la curiosità con cui le particolarità dell’alta vita sociale sono lette, [361] dimostrano l’universalità dell’amore per le maniere raffinate. Io so perfettamente che si sentirebbe una comica disparità se noi entrassimo nei circoli riconosciuti aristocratici ad applicare queste terribili misure di giustizia, di bellezza, e di beneficio agli individui che possiamo trovare in quelli. Questi cicisbei non sono monarchi ed eroi, saggi ed amanti. La moda ha molte classi e molte regole di prova e di ammissione; e non solo le migliori. Non vi è solamente il diritto di conquista, preteso dal genio — l’individuo che dimostra la sua aristocrazia naturale la migliore delle migliori; — ma talvolta vi sono dei minori diritti; però la Moda ama gli uomini celebri e come Circe si volge a loro. Questo signore giunse questo dopo pranzo dalla Danimarca; quello è Lord Ride, che giunse ieri da Bagdad; ecco il capitano Friese reduce dal capo Turnagain; ecco il capitano Symmes, proveniente dal centro della terra; Monsieur Jovaire che giunse in pallone stamane; Mr. Hobnail il riformatore; ed il reverendo Jul Bat, che ha convertito tutta la zona torrida alla sua scuola domenicale; ed il signor Torre del Greco che estinse il Vesuvio gettandovi dentro la baia di Napoli; ecco Spahi, l’ambasciatore Persiano; e Tul Wil Shan il nababbo esiliato dal Nepal, la cui sella è la luna nuova. Ma questi sono i mostri di un sol giorno, e domani saranno cacciati nelle loro tane; perchè in queste sale ogni sedia è ricercata. L’artista, lo studioso, ed in generale i dotti superano l’ascesa di questi luoghi, e si fanno rappresentare qui, in certo modo sotto l’apparenza di conquista. Un altro modo è quello di passare attraverso tutti i gradi, passando un anno ed un giorno in Piazza S. Michele, immergendosi nell’acqua di Colonia, profumandosi, pranzando, facendosi presentare, ed essendo sapientemente edotto d’ogni biografia e politica ed aneddoto dei «boudoirs».

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Eppure queste galanterie possono avere della grazia e dello spirito. Lasciate le sculture grottesche intorno alle cancellate ed ai servizi dei templi. Il credo ed i comandamenti stessi abbiano lo sfacciato tributo della parodia. Le forme della cortesia esprimono nel più alto grado ed universalmente la benevolenza. Che cosa importa che esse si trovino nelle bocche di uomini egoisti, e siano usate come mezzo di egoismo? Che cosa importa se il falso gentiluomo quasi scaccia il gentiluomo vero dal mondo? Che importa se il falso gentiluomo riesca a rivolgersi in tal modo al suo compagno, da escludere urbanamente tutti gli altri dal discorso, ed anche a farli sentire esclusi? Un’utilità reale non perderà la sua nobiltà. Ogni nobiltà non è semplicemente Francese e sentimentale; nè bisogna nascondere che un sangue vigoroso ed una passione per la cortesia distinguono alfine il gentiluomo di Dio da quello della Moda. L’epitaffio di Sir Jenkin Grout, non è completamente inintelligibile nell’età presente: «Qui giace Sir Jenkin Grout, che amò il suo amico, e persuase il suo nemico: ciò che la sua bocca mangiò la sua mano pagò: ciò che i suoi servi rubarono egli rinnovò; se una donna gli diede piacere, egli la sopportò con dolore: egli giammai dimenticò i suoi bambini: e chiunque toccò il suo dito, trascinò dietro di esso tutta la sua persona». Perfino la discendenza degli eroi non è completamente estinta. Vi è ancora e sempre qualche persona ammirevole, vestita in semplici panni, ferma sul molo, che salta nell’acqua e porta a salvamento un uomo che annega; vi è ancora e sempre qualche assurdo inventore di forme di carità; qualche guida consolatrice dello schiavo fuggitivo; qualche amico della Polonia; qualche Filelleno; qualche fanatico che pianta alberi che faranno ombra alla seconda o terza generazione, e dei verzieri quando egli è vecchio; qualche [363] pietà ben nascosta; qualche uomo giusto felice della sua oscura rinomanza; qualche giovane vergognoso dei favori della fortuna, di cui fa impazientemente getto sulle spalle d’un altro. E questi sono i centri della società, sui quali essa ritorna per raccogliere degli impulsi nuovi. Questi sono i creatori della Moda, la quale è un tentativo di organizzare la bellezza della condotta. I belli ed i generosi, sono in teoria, i dottori e gli apostoli di questa chiesa: Scipione ed il Cid, Sir Filippo Sidney e Washington, ed ogni cuore puro e coraggioso, che adorò la bellezza con la parola e con l’azione. Le persone che costituiscono l’aristocrazia naturale non si trovano nell’aristocrazia odierna, oppure si trovano solo alla sua estremità; allo stesso modo che l’energia chimica dello spettro è maggiore nella parte esterna di esso. Eppure questo è il difetto dei siniscalchi, i quali non conoscono il loro sovrano quando esso appare. La teoria della società suppone l’esistenza e la sovranità di questi. Pertanto dentro la cerchia etnica della società vi è una cerchia più stretta e più alta, ch’è concentrazione della sua luce e il fiore della cortesia, alla quale il parlamento dell’amore e della cavalleria volge sempre un tacito appello d’orgoglio e di richiamo come alla sua corte interna ed imperiale. E tutto ciò è costituito da quelle persone, in cui le disposizioni nobili sono native con l’amore del bello, il diletto nella società, ed il potere di abbellire il giorno che passa. Se gli individui che compongono i più puri circoli dell’aristocrazia in Europa, il sangue conservato da secoli, dovessero esser passati in rivista in modo che si potesse tranquillamente esaminare la loro condotta, noi potremmo trovare nè gentiluomini nè signore; poichè pure potendo noi essere soddisfatti di eccellenti esempi di cortesia e di alta educazione nell’insieme, noi scopriremmo delle gravi mancanze nei particolari; perchè [364] l’eleganza non è il prodotto di alcuna educazione, ma della nascita. Vi deve essere il romanzo del carattere, o la più schizzinosa esclusione di male creanze servirà a nulla. Il genio deve prendere tale direzione: esso non deve essere cortese, ma dev’essere la cortesia. La vera distinzione è così rara nelle favole come lo è nel fatto. Scott è lodato per la fedeltà con la quale dipinse la condotta e la conversazione delle classi superiori. Certamente i re e le regine, i nobili e le grandi dame ebbero qualche diritto di lagnarsi per le assurdità che erano state nelle loro bocche prima dell’avvento di Waverley; tuttavia neppure il dialogo di Scott resiste alla critica. I suoi lords s’affrontano con eleganti discorsi epigrammatici, ma il dialogo rispondente ad essi non piace in seconda lettura e non è caldo di vita. Soltanto in Shakespeare i parlatori non incedono tronfi e non s’insuperbiscono; il dialogo vi è agevolmente grande, ed egli è certamente l’uomo più educato dell’Inghilterra e di tutta la cristianità. Una volta o due nella vita ci è permesso di godere del fascino delle nobili maniere, in presenza cioè di un uomo o di una donna, che non hanno impedimenti nella loro natura, ed i cui caratteri emanano liberamente dalle loro parole e dai loro gesti. Una bella forma è migliore di un bel viso; una bella condotta è migliore di una bella forma; essa produce un piacere più alto di quello che producono le statue od i quadri; essa è la più bella delle arti. Un uomo è una ben piccola cosa fra gli oggetti della natura, eppure con le qualità morali raggianti dal suo aspetto egli può abolire qualsiasi considerazione di grandezza e nei suoi modi uguagliare la maestà del mondo. Io ho visto un individuo le cui maniere, sebbene completamente consone alle convenzionalità della società elegante, non erano mai state apprese in quell’ambiente, ma erano originali, imponenti, e largivano [365] protezione e contentezza; un individuo che non abbisognava dell’aiuto di un seguito di corte, ma che portava la festa nei suoi occhi; che allietava la fantasia aprendo orizzonti di nuovi modi di vita; che scuoteva la tirannide della etichetta con un contegno brioso e lieto, buono e libero come Robin-Hood; eppure aveva il portamento di un imperatore, calmo, serio, ed idoneo per sostenere lo sguardo di milioni di persone.

L’aria aperta ed i campi, le strade e le Camere dei deputati, sono i luoghi dove l’uomo eseguisce il suo volere; lasciate che egli ceda o condivida il suo scettro alla porta di casa sua. La donna, con il suo istinto sul modo di comportarsi, immediatamente scopre nell’uomo un amore alle frivolezze, una qualche indifferenza od imbecillità, o in breve, una certa mancanza di quel contegno aperto, scorrente, magnanimo, che è indispensabile come lo sono le decorazioni in un palazzo. Le nostre istituzioni americane sono state favorevoli alla donna, ed io credo che in questo momento una delle principali felicità di questo paese sta nell’eccellenza delle sue donne. Una specie di goffo convincimento dell’inferiorità degli uomini può far sorgere una nuova cavalleria protettrice dei diritti della donna. Abbia essa un posto più elevato nelle leggi e nelle forme sociali, come il più zelante riformatore può domandare, ma io confido così intieramente nella sua muliebre natura ispirante e musicale da credere che la donna possa solo insegnarci come essa deve essere servita. La meravigliosa generosità dei suoi sentimenti la innalza talvolta alte regioni eroiche e divine, e rende vere le pitture di Minerva, Giunone o Polimnia; e la fermezza con la quale essa segue il suo alto cammino convince il più rude calcolatore dell’esistenza, d’una via diversa da quella che i suoi piedi sono abituati a calpestare. Ma oltre a quelle che avverano nella nostra [366] immaginazione il regno delle Muse e delle Sibille Delfiche, non vi sono forse altre donne che colmano la nostra coppa di vino e di rose fino all’orlo, cosicchè il vino trabocca e riempie la casa di profumo; altre donne che ci ispirano la cortesia, che sciolgono la nostra lingua, e noi parliamo; che toccano i nostri occhi, e noi vediamo? Noi per vero diciamo delle cose che non avevamo mai pensato di dire; per una volta, le barriere del nostro riserbo abituale svanirono, e ci lasciarono al largo; noi eravamo dei bambini trastullanti con dei bambini in un vasto campo di fiori. Poneteci, noi gridammo, sotto tali dominii, per giorni, per settimane, e noi saremo i poeti del sole, e scriveremo in parole variopinte il romanzo che voi siete. Fu Hafiz o Firdusi che disse della sua Lilla Persiana: Essa era una forza elementare e mi stupì per il suo cumulo di vita, quando la vidi per giorni e giorni raggiante, ad ogni momento ridondante di gioia e di grazia tutto intorno a lei? Essa era un solvente capace di raccogliere ogni persona eterogenea in una sola società, come l’aria o l’acqua, elementi d’innumeri raggi di affinità, che si combinano rapidamente con mille sostanze. Dove essa è presente, tutti gli altri si sentiranno più di quel che sono. Essa era un’unità ed un intiero così che qualsiasi cosa essa facesse, le si conveniva. Essa aveva tanta simpatia e desiderio di piacere quanta voi non potreste immaginare; le sue maniere erano dignitose, e nessuna principessa potrebbe in qualunque occasione superare il suo aperto e retto contegno. Essa non studiò la grammatica persiana, nè i libri dei sette poeti, ma tutti i poemi dei sette parvero essere scritti a sua gloria. Perchè, sebbene l’inclinazione della sua natura non fosse verso il pensiero, ma verso la simpatia, pure essa era così perfetta nella sua propria natura, da incontrare le persone intellettuali con la pienezza del suo cuore, [367] infiammandole con i suoi sentimenti, credendo, come faceva, che con il trattare nobilmente con tutti, tutti si sarebbero dimostrati nobili.

Io so che questa costruzione bizantina della Cavalleria o Moda, che sembra così bella e pittoresca a coloro che guardano ai fatti contemporanei per istudio o per passatempo, non è ugualmente piacevole a tutti gli spettatori. La costituzione della nostra società la rende un castello da gigante per il giovine ambizioso che non ha trovato il suo nome nel suo libro d’Oro, e che essa ha escluso dai suoi ambiti onori e privilegi. Questi giovani debbono ancora imparare che la sua apparente grandezza è nebulosa e relativa: essa è grande per loro concessione: le sue porte più superbe si apriranno di volo all’approssimarsi del loro coraggio e della loro virtù. Vi sono tuttavia dei facili rimedi all’afflizione presente di coloro che sono predisposti a soffrire delle tirannie di tale capriccio. Cambiare la vostra residenza di un paio di miglia o di quattro al massimo tempererà comunemente la più estrema suscettibilità. Poichè i vantaggi apprezzati dalla moda sono piante che crescono in località molto ristrette, vale a dire in poche località. All’infuori di questi luoghi essi sono nulla: a nulla servono nella cascina, nella foresta, nel mercato, nella guerra, nel matrimonio, nei circoli scientifici o letterarii, al mare, nell’amicizia, nel dominio del pensiero o della virtù.

Ma noi ci siamo soffermati troppo in queste corti lussuose. Il valore della cosa significata deve giustificare la nostra inclinazione per ciò che essa rappresenta. Ogni cosa chiamata moda e cortesia si umilia dinanzi alla causa ed alla sorgente dell’onore, creatore di titoli e gradi; si umilia cioè dinnanzi al gran cuore dell’amore.

Questo è il sangue regale, questo è il fuoco, che in tutti i paesi ed in tutte le contingenze seguirà la sua [368] specie e conquisterà ed espanderà tutto ciò che lo avvicina. Questo dà nuove significazioni ad ogni fatto; questo impoverisce il ricco, non sopportando altra grandezza che la sua propria. Che cosa significa ricco? Siete voi ricco abbastanza per aiutare qualcuno? per soccorrere il goffo e l’eccentrico? siete voi ricco abbastanza per far sentire al viandante, dall’attestato consolare che lo raccomanda «Ai caritatevoli»; al bruno italiano con le sue poche e frammentarie parole d’inglese; al povero zoppo, cacciato di paese in paese dalle guardie; ad un misero uomo o ad una misera donna, istupiditi e naufragati, la nobile eccezione della vostra presenza e della vostra casa dalla freddezza e durezza generale? siete voi ricco abbastanza per far sentire a costoro d’esser richiamati da una voce che li faccia ricordare e sperare? Che cosa significa «vile» se non rifiutare il diritto di sottili e decisive ragioni? Che cosa significa «gentile», se non il concederlo e dare ai loro cuori ed ai nostri un giorno di lieto oblio dalla circospezione nazionale? Senza un cuore generoso la ricchezza è una laida pezzente. Il re di Schiraz non aveva il potere di essere così generoso come il povero Osman che dimorava al suo cancello. Osman aveva un’umanità così larga e profonda che sebbene la sua parola riguardo al Korano fosse così libera ed audace da disgustare tutti i Dervisci, pure non vi fu mai un povero proscritto, un pazzo, uno scemo, che si fosse rasa la barba o che fosse stato mutilato per un voto, od avesse avuto un accesso di pazzia nel suo cervello, che non corresse subito a lui; e quel grande cuore giaceva là nel centro del paese, così benefico ed ospitale da sembrare che lo istinto di tutti i sofferenti li avvincesse al suo fianco. Ed egli non condivise la pazzia alla quale dava ricovero. Non è questo essere ricco? questo solo l’essere giustamente ricco?

[369]

Ma io udrò senza dolore che rappresento molto male il cortigiano e che parlo di cosa che non comprendo bene. È facile l’osservare che ciò che è chiamato per distinzione «società» e «moda», ha leggi buone e leggi cattive; ha molte cose necessarie e molte assurde. Non idonea alla maledizione ed alla benedizione, essa ci ricorda una tradizione della mitologia pagana, nei tentativi di definire il suo carattere. Io udii un giorno Giove — diceva Sileno — che parlava di distruggere la terra; egli diceva che essa era decaduta; che gli uomini erano tutti bricconi e megere; che facevano di male in peggio, e così rapidamente come i giorni si succedevano l’uno all’altro. Minerva rispose che non lo credeva; che gli uomini erano solo dei piccoli esseri ridicoli, con questa circostanza curiosa, di avere un marchio od un aspetto indeterminato, visti da lontano o visti da vicino: onde se voi li dite cattivi essi appaiono cattivi; se voi li dite buoni, essi appaiono buoni; e che non vi era una sola persona od una sola azione fra essi, che avrebbe non meno imbarazzato la sua civetta, che tutto l’Olimpo, nel sentenziare se fosse fondamentalmente buona o cattiva.

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QUINTO SAGGIO I DONI

Si dice che il mondo sia in uno stato di bancarotta; che il mondo debba al mondo più di ciò che possa pagare, e che esso dovrebbe essere pignorato e venduto. Io non credo che questa insolvibilità generale, che in certo modo coinvolge tutta la popolazione, sia la ragione della difficoltà esperimentata a Natale e a Capo d’Anno od in altre epoche, nel fare i doni; poichè è sempre piacevole essere generoso, sebbene sia vessatorio il pagare i proprii debiti. Ma l’impedimento giace nella scelta. Se in un momento qualunque mi si mette in capo che io devo un presente a qualcuno, io sono imbarazzato sul dono fino a che l’opportunità è passata. I fiori ed i frutti sono sempre dei doni adatti; quelli perchè sono una superba affermazione che un raggio di bellezza supera tutte le utilità del mondo; l’aspetto gaio di essi contrasta con l’aspetto severo della natura ordinaria; infine perchè essi sono come una musica udita dall’esterno di un ricovero. La natura non ci accarezza: poichè noi siamo dei bambini, non già dei favoriti: essa non è indulgente: ogni cosa è distribuita a noi senza timori e senza favori, ma secondo leggi severe ed universali. Eppure questi fiori delicati appaiono come il capriccio e l’intervento dell’amore e della bellezza. Gli uomini usarono affermare che noi amiamo l’adulazione, anche se non [372] ne siamo ingannati, perchè essa dimostra che noi abbiamo un sufficiente valore per essere corteggiati. I fiori ci dànno un piacere alquanto simile a questo: infatti che cosa sono io per colui al quale questi dolci segni sono indirizzati? I frutti sono doni accetti, perchè sono il fiore dei profitti, ed ammettono che dei valori fantastici siano ad essi attribuiti. Se un uomo mi mandasse a chiamare da cento miglia lontano, e mettesse davanti a me un canestro di bella frutta estiva, io penserei esservi una proporzione fra la mia fatica ed il mio guiderdone.

Per i doni comuni la necessità produce cose convenevoli e belle ogni giorno, e si è contenti quando un imperativo non ci lascia diritto di scelta; infatti se l’uomo che batte alla vostra porta non ha scarpe, voi non dovete star a pensare se potreste regalargli una scatola di colori. E poichè è sempre cosa piacevole il vedere un uomo che mangia del pane e beve dell’acqua, in casa e fuori, così è sempre una grande soddisfazione il provvedere a queste prime necessità. La necessità fa ogni cosa bene. Nella nostra condizione di dipendenza universale sembra eroico il permettere che il richiedente sia il giudice della sua necessità, e dare tutto ciò che è domandato, anche se ciò si fa con grave disturbo. Se esso è un desiderio fantastico, è meglio lasciare agli altri l’ufficio di punirlo. Io posso pensare a molte altre parti da rappresentare che a quella delle Furie. Dopo le cose di prima necessità, la regola prescritta da un mio amico per fare un dono è questa: che noi possiamo donare ad una persona ciò che propriamente appartenne al suo carattere, e che fu facilmente associato a lui nel pensiero. Ma i nostri pegni d’amore e di omaggio sono per la maggior parte barbari. Gli anelli od altri gioielli non sono dei doni, ma delle apparenze di doni. L’unico dono è una parte di te stesso. Tu devi versar sangue per me. Perciò il poeta [373] dona il suo poema; il pastore il suo agnello; l’agricoltore il suo grano; il minatore una gemma; il marinaio coralli e conchiglie; il pittore il suo quadro; la ragazza un fazzoletto cucito da lei stessa. Questo è giusto e piacevole, poichè quando la biografia di un uomo è espressa nel suo dono, e la ricchezza di ogni uomo è un indice del suo merito, la società è restaurata sulle sue basi primitive. Ma è un’azione fredda e senza vita il vostro andare nei negozi ad acquistar per me qualcosa, che non rappresenta la vostra vita ed il vostro talento, ma quella di un orefice. Questo è convenevole ai re ed agli uomini ricchi, che rappresentano i re, ed è falsa ostentazione di beni il fare futili regali in oro ed argento, come una specie di simbolico sacrificio espiatorio o pagamento di una taglia.

La legge dei benefici è un canale difficile, che richiede una navigazione prudente o dei robusti battelli. Non è ufficio dell’uomo quello di ricevere doni. Come osate voi farli? Noi desideriamo di sostentarci da noi stessi. Noi non perdoniamo mai interamente al donatore. La mano che ci alimenta è sempre in pericolo di essere morsicata. Noi possiamo ricevere qualche cosa dall’amore, perchè esso è un modo di ricevere da noi stessi, ma non da chiunque assuma l’ufficio di donatore. Talvolta noi odiamo la carne che mangiamo, perchè ci pare una dipendenza degradante quella di vivere per suo mezzo.

«Fratello, se Giove ti fa un dono bada di prender nulla dalle sue mani». Noi domandiamo il tutto. Nulla meno ci accontenterà. Noi citiamo in giudizio la società se non ci dona oltre alla terra, al fuoco e all’acqua, l’opportunità, l’amore, la riverenza ed obbietti di venerazione.

Colui che può ricevere vantaggiosamente un dono è un uomo buono. Noi siamo lieti o spiacenti per un dono, ed entrambe le emozioni sono disdicevoli. Io credo che [374] quando mi rallegro o mi rattristo per un dono, qualche violenza si compie e qualche avvilimento sorge. Io soffro quando la mia indipendenza è invasa o quando il dono viene da uno che non conosce il mio spirito; quando poi il dono mi piace oltremodo, allora io dovrei vergognarmi che il donatore mi legga nell’anima, e veda che io amo il suo dono e non lui. Il dono per essere vero deve consistere nel fluire del donatore in me, corrispondente al mio fluire in lui. Quando le acque sono a livello, allora i miei beni passano a lui ed i suoi a me. Tutti i miei sono suoi, tutti i suoi sono i miei. Io gli dico: «come potete darmi questo recipiente d’olio o questo fiasco di vino, se tutto il vostro olio e tutto il vostro vino è mio?» Ecco il perchè della convenienza delle cose belle come doni e non delle cose utili. Quest’ultima specie di doni ha il carattere d’una insulsa usurpazione, e perciò quando il beneficato è ingrato, (ogni beneficato odia ogni Timone) e non considera affatto il valore del dono, ma tiene d’occhio il fondo donde quello fu tolto, io simpatizzo piuttosto con il beneficato che con lo sdegno del benefattore. Infatti la speranza fiduciosa della gratitudine è cosa vile ed è continuamente punita dall’insensibilità totale della persona obbligata. È una grande felicità l’allontanarsi senza offese e senza odio da chi ha avuta la cattiva fortuna d’essere soccorso da voi. L’essere soccorso è una cosa assai onerosa ed il debitore per natura desidera ferirvi. Parole auree per questi signori sono quelle che io tanto ammiro nel Buddista, che non ringrazia mai e dice: «Non adulate i vostri benefattori».

Io immagino che la ragione di queste discordie sta in ciò, che non vi è alcuna giusta proporzione fra un uomo ed un dono. Voi non potete dare alcuna cosa ad una persona magnanima. Dopo che voi lo avete servito, egli pone subito voi in debito per la sua [375] magnanimità. Il beneficio che un uomo rende al suo amico è volgare ed egoista se è comparato al beneficio che egli sapeva di dover ricevere dall’amico stesso prima che egli avesse incominciato a giovargli. Il beneficio, che posso rendere ad un mio amico mi pare piccolo, comparato alla benevolenza che mi spinge verso di lui. Inoltre la nostra azione reciproca, sia buona o cattiva, è così incidentale e casuale, che noi possiamo raramente udire una persona che vorrebbe senza vergogna e umiliazione ringraziarci per un beneficio. Raramente noi possiamo calare un colpo diretto, ma dobbiamo accontentarci di uno obliquo; allo stesso modo raramente abbiamo la soddisfazione di fare un beneficio diretto che sia direttamente ricevuto. Ma la rettitudine sparge favori da ogni lato senza saperlo, e riceve con meraviglia i ringraziamenti di tutta la gente.

Io temo di esprimere un certo tradimento contro la maestà dell’amore, che è il genio ed il dio dei doni, e che noi non dobbiamo aspirare di dirigere. Conceda egli indifferentemente regni o petali di fiori. Vi sono delle persone da cui ci attendiamo sempre dei regali di fata; non cessiamo dunque di attenderli! Questa è una prerogativa, che non deve essere limitata dalle nostre leggi municipali. Del resto mi piace d’osservare che noi non possiamo essere comprati o venduti. La miglior parte dell’ospitalità e della generosità non sta nella volontà, ma nella sorte. Io m’avvedo di non esser molto per voi; voi non avete bisogno di me; voi non mi sentite ed allora io sono scacciato dalla casa anche se mi offrite case e terre. Nessun servizio ha valore alcuno, solo le apparenze lo hanno. Quando io ho cercato di unirmi ad altri per mezzo di favori, ne risultò un’astuzia intellettuale, null’altro. Essi si cibano dei vostri favori come fossero delle mele e vi lasciano fuori. Ma voi amateli, ed essi vi sentiranno, e si rallegreranno di voi per sempre.

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SESTO SAGGIO LA NATURA

Vi sono dei giorni in questo clima e quasi in ogni stagione dell’anno nei quali il mondo tocca la sua perfezione; nei quali l’aria, i corpi celesti e la terra compongono una sola armonia, come se la natura volesse accarezzare la sua progenie; giorni in cui in queste tristi regioni nordiche del pianeta non abbiamo nulla da desiderare di ciò che abbiamo udito delle più felici regioni, e ci culliamo nelle ore soleggiate della Florida e di Cuba; giorni in cui ogni cosa che ha vita dà segni di soddisfazione, e gli armenti stessi sembrano avere dei pensieri grandi e sereni. Noi possiamo attendere con una maggior certezza questi alcioni in quel tempo sereno d’Ottobre, che noi distinguiamo con il nome di estate indiano. Il giorno infinitamente lungo dorme sulle larghe colline e sui vasti campi ardenti. L’aver vissuto tutte le sue ore di sole pare una sufficiente longevità. I luoghi solitari non sembrano del tutto deserti. Sul limitare della foresta l’uomo attonito è obbligato ad abbandonare i suoi criterii cittadini del grande e del piccolo, del saggio e del folle. Il gravame delle abitudine ci cade dal dorso al primo passo che noi facciamo in questi luoghi appartati. Qui vi è una santità che fa arrossire le nostre religioni, ed una realtà che scredita i nostri eroi. Qui constatiamo che la natura è la circostanza che avvilisce qualsiasi altra circostanza, e che [378] essa giudica come un dio tutti gli uomini che le si avvicinano. Noi siamo sgusciati dalle nostre case chiuse ed affollate, nella notte e nel mattino, e vediamo quali bellezze maestose ci avvolgono ogni giorno nel loro seno. Quanto volentieri vorremmo noi evitare le barriere che rendono queste bellezze comparativamente prive di potere: sfuggire la menzogna ed il secondo pensiero e lasciare che la natura penetri in noi. La luce temperata dei boschi è come un mattino perpetuo ed è stimolante ed eroica. Gli antichi incanti tramandatici di questi luoghi ci conquidono lentamente. Gli steli della cicuta, i tronchi dei pini e delle quercie brillano come acciaio innanzi all’occhio eccitato. Gli alberi muti poco a poco ci persuadono a vivere con essi ed a lasciare la nostra vita composta di solenni inezie. Qui nessuna storia o chiesa o stato interviene nel cielo divino e nell’anno immortale. Quanto facilmente noi potremmo procedere nell’aperta pianura, assorti in nuovi spettacoli ed in pensieri che si succedono rapidamente l’uno all’altro, finchè grado a grado il ricordo di casa nostra venisse cancellato dalla mente, come se fossimo portati in trionfo dalla natura!

Questi incanti sono salutari; essi ci rendono sobrii e ci guariscono. Questi sono piaceri semplici, che s’addicono alla nostra natura. Noi ritorniamo a ciò che è nostro proprio; stringiamo amicizia con la materia, che le chiacchiere ambiziose delle scuole vorrebbero persuaderci a disprezzare. Noi non possiamo mai dipartircene; la mente ama la sua vecchia abitazione; come l’acqua per la nostra sete, così è la roccia, la terra per i nostri occhi, le nostre mani e i nostri piedi. Essa è dell’acqua solida: essa è una fiamma fredda: quale equilibrio quale affinità! Quando noi cianciamo affettatamente con degli estranei, questo viso onesto della natura sempre s’introduce come un vecchio amico, come un caro amico e fratello, e con [379] un’autorevole dimestichezza ci vergogna delle nostre parole insensate. Le città non danno ai sensi umani spazio sufficiente. Noi andiamo ogni giorno ed ogni notte a nutrire i nostri occhi nell’orizzonte ed abbisogniamo di un luogo aperto come abbisogniamo dell’acqua per il nostro bagno. A cominciare da questi piccoli poteri fino ai suoi ministeri più cari e più grandi dell’immaginazione e dell’anima vi sono in natura tutte le gradazioni dei poteri. V’è la secchia dell’acqua fredda che nasce dalla sorgente, il fuoco del legno, al quale corre il viaggiatore intirizzito per salvezza, e v’è la morale sublime dell’autunno e del meriggio. Noi ci ricoveriamo nella natura, e viviamo da parassiti con le sue radici ed i suoi grani, e riceviamo lampi di luce dai corpi celesti, che ci chiamano alla solitudine e che ci predicono il più remoto futuro. Lo Zenit azzurro è il punto in cui si incontrano la favola e la realtà. Io penso che se noi fossimo rapiti in tutto ciò che noi sogniamo del paradiso, e se conversassimo con Gabriele e con Uriele, il cielo che ci sta sul capo sarebbe tutto ciò che rimarrebbe delle nostre cose presenti.

I giorni in cui abbiamo osservato qualche oggetto naturale, non sembrano completamente biasimevoli. Infatti la caduta dei fiocchi di neve nell’aria silenziosa, perfetti nella loro forma cristallina; il soffiare dell’uragano sopra un’ampia distesa d’acqua e sopra i piani; gli ondeggianti campi di segala; il movimento fluttuante di centinaia di acri di houstonia, i cui innumerevoli fiori imbiancano e si agitano davanti all’occhio; il riflettersi degli alberi e dei fiori nello specchio dei laghi; il musicale ed odoroso vento del sud, che converte le piante in arpe eoliche; lo scoppiettio della cicuta nella fiamma o dei ceppi del pino, che illuminano festosamente le pareti ed i visi nel salotto ecc. ecc... sono la musica e le pitture della più antica religione. La mia casa è posta [380] sopra un basso tratto di terra, con un orizzonte ristretto ed all’estremità del villaggio. Ma io vado con il mio amico sulla sponda del nostro piccolo fiume, e con un solo colpo di remo mi allontano dalla politica e dalle personalità del villaggio, anzi dal mondo intero fatto di villaggi e di personalità, ed entro in un meraviglioso regno di tramonti e di plenilunii, regno troppo luminoso forse perchè l’uomo macchiato vi penetri senza un noviziato ed una prova. Noi penetriamo materialmente in questa incredibile bellezza: noi immergiamo le nostre mani in questo elemento variopinto; i nostri occhi sono bagnati in queste luci ed in queste forme, allora sull’istante s’inizia un giorno di festa, una villeggiatura, un sogno regale, il festival più superbo e più rallegrante che il valore e la bellezza, il potere ed il gusto abbiano mai preparato e goduto. Queste nubi crepuscolari, queste stelle che spiccano con isquisita lucidezza con le loro luci riposte ed ineffabili lo esprimono e l’offeriscono. Io apprendo la povertà delle nostre creazioni e la bruttezza delle nostre città e dei nostri palazzi. L’arte ed il lusso hanno imparato per tempo a non esser altro che un’aggiunta ed un seguito di questa bellezza originale. Io sono più che informato intorno al mio stato. D’ora in avanti io sarò di difficile accontentatura. Io non posso ritornare ai trastulli. Io son diventato prodigo e sofistico. Non posso più a lungo vivere senza eleganza; ma un contadino dovrà essere il capo delle mie feste. Colui che conosce il più; colui che sa quali dolcezze e quali virtù siano nel suolo, nelle acque, nelle piante, nei cieli, e sa come giungere a questi incanti, è l’uomo ricco e regale. Solo fin dove hanno chiamato la natura in aiuto, i signori del mondo possono raggiungere l’altezza della magnificenza. Il significato dei loro giardini pensili, delle ville, delle case di campagna, delle isole, dei parchi è questo: sostenere con tali robusti accessori le loro personalità [381] difettose. Io non dubito che gli interessi agricoli dovrebbero essere invincibili nello stato, con questi ausiliarii pericolosi. Essi corrompono ed invitano; non re, non palazzi, non uomini o donne, ma queste tenere e poetiche stelle, eloquenti di segrete promesse. Noi sentimmo ciò che l’uomo ricco diceva; noi sapevamo della sua villa, del suo boschetto, del suo vino, e della sua società, ma lo stimolo dell’invito venne da quelle seducenti stelle. Nei loro dolci splendori io osservo ciò che gli uomini tentarono di realizzare in qualche Versailles o Pafos o Ctesifonte. Infatti la magica luce dell’orizzonte e lo sfondo del cielo azzurro sono quelli che salvano tutte le nostre opere d’arte, che altrimenti sarebbero delle povere cose. Quando il ricco impone al povero la servilità, l’ossequenza, egli dovrebbe considerare l’effetto che producono sulle menti ricche di immaginazione gli uomini creduti possessori della natura. Ah! se i ricchi fossero ricchi come il povero li immagina! Un ragazzo sente una banda militare, che suona in un campo di notte, ed egli ha dinnanzi a sè dei re, delle regine e delle cavallerie famose. Egli sente l’eco di un corno in una contrada collinosa, sulle montagne di Notch per esempio, eco che converte le montagne in un’arpa eolica, e questo tiralirà soprannaturale risuscita la mitologia Dorica, Apollo, Diana, e tutti i cacciatori e le cacciatrici divine: tanto può una nota musicale essere sublime ed orgogliosamente bella! Per il giovane e povero poeta la sua pittura della società è altrettanto favolosa; egli è leale; egli rispetta i ricchi; essi sono ricchi per amore della sua immaginazione; come sarebbe povera la sua fantasia se essi non fossero ricchi! Essi hanno dei boschetti cintati da alte cancellate, che chiamano parchi; essi vivono in saloni più grandi e meglio arredati di quelli che egli ha veduti; essi vanno in vettura; essi vivono soltanto nelle società eleganti, vanno [382] ai bagni di mare, in lontane città... ecco il fondo da cui il poeta ha tratto i palazzi, i parchi ecc., per svolgervi il suo romanzo; parchi e palazzi in paragone dei quali i possedimenti veri sono delle capanne e degli umili prati. La musa stessa tradisce il figlio suo, ed accresce i doni della ricchezza e della bellezza aristocratica per mezzo di un’irradiazione dell’aria, delle nubi e delle foreste, che fiancheggiano la strada, con un certo superbo favore: quale sarebbe concesso da genî patrizi a patrizi.

La sensibilità morale che crea gli Eden e le valli di Tempe così agevolmente, non sempre può essere scoperta, ma certo il paesaggio materiale non è mai lontano da quella. In essa noi possiamo trovare questi luoghi incantevoli senza visitare il lago di Como e le Isole di Madera. Noi esageriamo i pregi della bellezza naturale di un luogo. In ogni paesaggio il fulcro della meraviglia sta nell’incontro della terra con il cielo, e questo lo si vede tanto dal monticello più vicino, come dalla cima dei monti Allegany. Le stelle di notte pendono sopra la più comune ed oscura contrada, con tutta la magnificenza spirituale con cui esse splendono sulla campagna Romana o sui marmorei deserti dell’Egitto. Le nuvole avvolgenti ed i colori del mattino e della sera trasfigureranno aceri ed ontani. La differenza fra paesaggio e paesaggio è piccola, ma grande è la differenza fra coloro che li contemplano. Nulla vi è di così meraviglioso in qualsiasi paesaggio quanto la necessità, a cui ogni paesaggio soggiace, di essere bello. La natura non può essere sorpresa disadorna. La bellezza irrompe in ogni luogo.

Ma è molto facile sorpassare la simpatia del lettore per questo argomento, che gli scolastici chiamano natura naturata o natura passiva. Si può appena parlare direttamente di essa senza eccedere; e l’eccedere è facile, [383] come affrontare in una società mista «il soggetto della religione». Una persona suscettibile non ama su questo punto di condiscendere ai suoi gusti senza la scusante di qualche necessità volgare: egli va a vedere un appezzamento di bosco o ad osservare i raccolti, od a raccogliere una pianta od un minerale in qualche località remota, od egli porta un fucile od una canna da pesca. Io credo che questo pudore debba avere una buona ragione. Un dilettantismo in natura è arido e senza valore. Il vanesio che sta nei campi non è migliore del suo fratello in Broadway. Gli uomini sono per natura cacciatori ed avidi di conoscere la vita dei boschi, ed io credo che i fatti narrati dagli Indiani e dagli spaccatori di legna sarebbero interessanti per i più sontuosi salotti e per tutti i cenacoli; eppure ordinariamente, sia che noi siamo troppo goffi per un’argomento così sottile sia per qualsivoglia altra causa, così tosto come incominciamo a scrivere intorno alla natura, noi cadiamo nell’eufuismo. La frivolezza è un tributo non idoneo per Pan, che dovrebbe essere rappresentato nella mitologia come il più temperante degli dèi. Io non vorrei essere frivolo dinanzi all’ammirevole circospezione e prudenza del tempo; pure io non posso rinunciare al diritto di ritornare sovente su questo vecchio argomento. La moltitudine degli dèi falsi e bugiardi dà credito alla religione vera. La letteratura, la poesia, la scienza, sono l’omaggio dell’uomo a questo segreto insondabile, per il quale nessun uomo può affettare indifferenza o mancanza di curiosità. La natura è amata dalla nostra parte migliore.

Essa è amata come la città di Dio, sebbene o piuttosto perchè non vi sono cittadini. Il tramonto è dissimile da ogni cosa che gli sta sotto: esso manca di uomini. E la bellezza della natura deve sempre sembrare irreale e beffarda, finchè il paesaggio non abbia delle figure umane che siano così buone come essa stessa. [384] Se vi fossero degli uomini buoni non ci sarebbe mai questo rapimento nella natura. Se il re è nel palazzo, nessuno guarda ai muri: e quando egli se ne è andato e la casa è piena di domestici e di curiosi, noi torciamo lo sguardo dalla gente, per trovare sollievo negli uomini maestosi ricordati dai quadri e dall’architettura. I critici che si lagnano della malsana separazione della bellezza della natura dalla cosa da farsi, devono considerare che il nostro inseguimento del pittoresco è inseparabile dalla nostra protesta contro la falsa società. L’uomo è caduto; la natura è eretta, e serve come termometro differenziale che segni la presenza o l’assenza del sentimento divino nell’uomo. A causa della nostra stupidità e del nostro egoismo noi guardiamo la natura dall’alto in basso, ma quando noi saremo convalescenti la natura chinerà il suo sguardo verso di noi. Noi vediamo con mortificazione il ruscello spumeggiante; se la nostra vita scorresse con la dovuta energia noi faremmo vergognare il ruscello, poichè l’onda dello zelo brilla di fuoco reale e non dei raggi riflessi del sole o della luna. La natura può essere considerata egoisticamente come il commercio. L’astronomia per gli egoisti diventa astrologia; la psicologia, mesmerismo (coll’intendimento di farci sapere dove sono andati i nostri cucchiai) e l’anatomia e la fisiologia diventano frenologia e palmistria.

Ma prendendo in tempo congedo e lasciando molte cose non dette su questo argomento, non tardiamo oltre a presentare i nostri omaggi alla Natura Efficiente, natura naturans, causa vivente dinnanzi alla quale tutte le forme fuggono come turbini di neve, segreta essa stessa, mentre le sue opere procedono innanzi come mandre e turbe (gli antichi rappresentarono la natura in Proteo, un Pastore) in un’indescrivibile varietà. Essa si rivela nelle creature, pervenendo attraverso a successive [385] trasformazioni, da semplici particelle alle più elette proporzioni e giungendo a compiuti risultati senza un urto od un salto. Un po’ di caldo, vale a dire un po’ di moto, è tutto ciò che differenzia i poli mortalmente freddi, bianchi e nudi dalle prolifiche regioni tropicali. Tutti i mutamenti si compiono senza violenza in grazia delle due condizioni cardinali di spazio e tempo illimitato. La geologia ci ha iniziati alla secolarità della natura, e ci ha insegnato a non usare oltre le nostre misure da asilo e a cambiare i nostri sistemi Mosaici o Tolomaici con il suo ampio procedimento. Noi sapevamo nulla esattamente, per mancanza di prospettiva. Ora sappiamo quali periodi laboriosi devono passare prima che la roccia si formi, poi, prima che la roccia si rompa, ed avanti che il primo lichene abbia disgregata la più sottile esterna compagine d’una zolla, ed aperte le porte alle lontane Flora e Fauna, Cerere e Pomona. Come è ancora lontano il trilobita! Come è ancora lontano il quadrupede! Quanto inconcepibilmente lontano è l’uomo! Tutto a tempo debito arriva e razza dopo razza quella dell’uomo. Vi è una lunghissima strada dal granito all’ostrica; più lunga ancora fino a Platone ed alla predicazione dell’immortalità dell’anima. Eppure tutto deve venire così sicuramente come il primo atomo ha due lati.

Il movimento o mutamento; l’identità o riposo, sono il primo ed il secondo segreto della natura. L’intiero codice delle sue leggi può essere scritto sopra l’unghia di un pollice o sopra il sigillo di un anello. Le bolle vorticose sulla superficie di un ruscello ci schiudono i segreti della meccanica del cielo. Ogni conchiglia sulla spiaggia è una chiave ad essa. Un poco d’acqua roteata in una tazza spiega la formazione delle conchiglie più semplici; l’aggiungersi di materia anno per anno conduce in fine alle forme più complesse; [386] eppure la natura con tutta la sua perizia è tanto povera, che dal principio alla fine dell’universo essa ha una sola materia prima, ma una sola materia con i suoi due capi per servire a tutte le sue fantastiche varietà. Componetela come essa vorrà: stella, sabbia, fuoco, acqua, albero, uomo; ma essa è ancora una sola materia e rivela le stesse proprietà.

La natura è sempre conseguente, anche se finge di contravvenire alle sue proprie leggi. Essa le conserva e talora sembra trascenderle. Essa arma e fornisce un animale in modo che esso trovi il suo posto e viva sulla terra; nello stesso tempo un altro ne arma che lo distrugga. Lo spazio esiste per separare le creature, ma rivestendo i fianchi di un uccello con poche penne la natura gli dà una graziosa onnipresenza. La direzione è sempre progressiva, ma l’artista retrocede per fornirsi di materiale, e sempre con i primi elementi incomincia anche nel periodo più progredito: altrimenti tutto andrebbe in rovina. Se noi guardiamo alla sua opera ci sembra di scoprire il baleno di un sistema in transizione. Le piante sono i giovani del mondo, vasi di salute e di vigore; ma esse tendono sempre all’alto e verso la consapevolezza; gli alberi sono uomini imperfetti, e sembrano lamentare la loro prigionia, radicati al suolo. L’animale è il novizio ed il candidato ad un ordine più elevato. Gli uomini sebbene giovani, avendo gustato la prima goccia nella tazza del pensiero, sono digià traviati; gli ontani e le felci invece sono ancora incorrotti; eppure, senza dubbio, quando verranno ad uno stato di coscienza essi pure malediranno e bestemmieranno. I fiori appartengono così strettamente alla gioventù, che noi uomini adulti presto sentiamo che le loro belle generazioni non ci riguardano; noi abbiamo avuto il nostro giorno; i figli ora abbiano il loro. I fiori c’ingannano e noi siamo dei vecchi celibi con delle ridicole tenerezze.

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Le cose sono così strettamente in relazione tra loro che, stante la destrezza dell’occhio, si possono ricavare da un oggetto qualsiasi gli elementi e le proprietà di un altro qualsiasi oggetto. Se noi avessimo occhi tali da vedere ciò, un frammento di pietra del muro della città ci persuaderebbe della necessità nell’uomo di vivere tanto saldamente quanto la città stessa. Tale identità rende noi tutti uno solo, e riduce al nulla le grandi distanze della nostra scala comune. Noi parliamo di deviazione dalla vita naturale come se la vita artificiale non fosse anche naturale. Il più azzimato cortigiano nei «boudoirs» di un palazzo ha una natura animale, rude ed aborigena come quella dell’orso bianco, onnipossente nei suoi proprii intenti, e là fra i profumi ed i biglietti amorosi è direttamente in relazione con la catena dell’Imalaja e l’asse del globo. Se considerassimo quanto apparteniamo alla natura, non temeremmo delle città, perchè il potere terribile o benefico della natura ci trova anche là, e agisce sulle città stesse. La natura che ha fatto il muratore, ha fatto la casa. Noi possiamo agevolmente udire parlar troppo delle influenze rurali. Il vigoroso ed agile aspetto degli oggetti naturali fa che noi li invidiamo, noi creature colleriche ed irritabili, dai visi accesi, e pensiamo che saremo un giorno superbi come essi lo sono, se vivremo nei campi e mangeremo radici; orbene siamo uomini anzichè essere delle marmotte, e la quercia e l’olmo dovranno servirci lietamente, anche se saremo assisi in seggi d’avorio, sopra tappeti di seta.

Questa identità dominante serpeggia in tutte le vicende ed i contrasti della vita e caratterizza ogni legge. L’uomo porta il mondo nel suo capo e l’intiera astronomia e chimica in un pensiero. Poichè la storia della natura è intessuta nel suo cervello, egli è dunque l’annunziatore e lo scopritore dei suoi segreti. Ogni fatto [388] conosciuto nella scienza naturale fu divinato dall’intuito di qualcuno, prima che esso fosse constatato. Un uomo non lega neppure la sua scarpa senza riconoscere le leggi che avvincono le più lontane regioni della natura: la luna, la pianta, il gaz, il cristallo, sono geometria concreta e numeri. Il senso comune conosce ciò che è suo e riconosce a prima vista il fallo nel l’esperimento chimico. Il buon senso di Franklin, di Dalton, di Davy e di Black, è lo stesso buon senso che ha disposto una volta ciò che esso scopre ora.

Se l’identità esprime una quiete organizzata, l’azione contraria entra anche nell’organizzazione. Gli astronomi dissero: «Dateci della materia ed un poco di moto e noi costruiremo l’universo. Non è sufficiente avere della materia, noi dobbiamo avere pure un particolare impulso, una spinta per lanciare la massa e generare l’armonia tra le forze centrifughe e quelle centripete. Una volta che la sfera è sollevata dalla mano, noi vi insegneremo come si sviluppò tutto questo possente assetto». «Questo è un postulato molto irragionevole — disse il metafisico — e che porta chiaramente alla domanda: Non potreste voi giungere a conoscere la genesi della proiezione così bene come la continuazione di essa?» La natura, intanto, non aveva atteso la discussione, ma a ragione od a torto, diede l’impulso ed i globi rotearono. Non fu una grande cosa, una semplice spinta, ma gli astronomi ebbero ragione di crederla grande, poichè le conseguenze dell’atto furono senza fine. Quel famoso impulso aborigeno si propaga attraverso tutte le sfere del sistema, attraverso ogni atomo di ogni sfera, attraverso tutte le razze delle creature ed attraverso la storia e le azioni di ogni individuo. L’eccesso è nell’ordine delle cose. La natura non manda alcuna creatura, alcun uomo sulla terra, senza unire un piccolo eccesso delle sue proprie [389] qualità. Dato il pianeta è ancora necessario aggiungere l’impulso; così ad ogni creatura la natura fece seguire una certa violenza d’indirizzo verso la sua propria via, una spinta per metterlo sulla sua strada, una lieve generosità infine, una goccia di troppo. Senza elettricità l’aria si decomporrebbe, parimenti senza questa violenza di direttiva di cui gli uomini e le donne godono, senza un pizzico di bigottismo e di fanatismo non ci sarebbero stimoli, non ci sarebbero energie. Noi miriamo al disopra del segno per colpire nel segno. Ogni azione ha in sè qualche falso eccesso. E quando di tempo in tempo s’avanza qualche uomo triste, dallo sguardo penetrante, che vede quale meschino giuoco è giuocato, e rifiutandosi di giuocare divulga il segreto, che cosa avviene allora? È forse irrimediabilmente l’uccello fuggito dalla gabbia? Oh no! la natura sagace manda una nuova schiera di forme più belle, di giovani più altieri con un maggiore impeto direttivo, onde tenerli avvinti ai loro svariati intenti; li ritrae un poco da quella direzione verso la quale essi sono più attratti, ed il giuoco continua con un nuovo giro, per una o due generazioni ancora. Il bambino con le sue burle graziose, schiavo dei suoi sensi, dominato da ogni veduta, e da ogni suono, senza alcun potere per comparare e classificare le sue sensazioni, abbandonato ad un fischietto o ad un trucciolo colorato o ad un soldato di piombo, individualizzando ogni cosa, non generalizzandone alcuna, felice per ogni cosa nuova, questo bambino dorme la notte vinto dalla fatica, che gli ha causato questo giorno di continua e graziosa pazzia. Ma la natura ha raggiunto il suo intento con questo vivente e ricciuto pazzerello. Essa ha assegnato ad ogni facoltà il proprio cómpito ed ha assicurato lo sviluppo simmetrico della struttura corporea, mediante queste attitudini e questi sforzi: fine di prima importanza, che non poteva essere affidato [390] a nessuna cura meno perfetta della sua propria. Questo barbaglio, questo splendore opalino si mostra al suo occhio sulla cima di ogni trastullo onde assicurare la sua fedeltà, ed egli è ingannato nel suo bene. Noi siamo mantenuti in vita con le stesse arti. Dicano gli stoici ciò che vogliono, noi non mangiamo per la gioia di vivere, ma perchè la carne è gustosa e l’appetito è pungente. La vita vegetale non si accontenta di trarre un solo seme dal fiore o dall’albero, ma riempie l’aria e la terra con tale prodigalità di semi, che, se anche mille e mille periscono, altre migliaia possono seminar se stessi in modo che centinaia possano crescere e decine vivere fino alla maturità e finalmente uno solo rimpiazzare il genitore. Tutte le cose rivelano la stessa oculata profusione. L’eccesso di timore dal quale è circondato il corpo che rabbrividisce per il freddo, che trasale alla vista di un serpente o per un subitaneo rumore, ci protegge fra mille allarmi infondati da un pericolo reale. L’amante tende nel matrimonio alla sua felicità personale e alla sua completazione e non ad un vantaggio futuro: e la natura nasconde nella felicità di lui il suo proprio fine, vale a dire, la riproduzione ovvero la perpetuazione della specie.

Ma la perizia con la quale il mondo è fatto penetra pure nella mente e nel carattere degli uomini. Nessun uomo è del tutto equilibrato; ognuno ha una vena di pazzia nella sua struttura, un leggero flusso di sangue al capo onde tenerlo avvinto a qualche punto che la natura aveva a cuore. Le grandi cause non sono mai giudicate a seconda del loro valore, ma la causa è ridotta in frammenti per acconciarla alla grandezza dei partigiani, e la contesa è sempre più viva su le cose minori. Non meno segnalata è la super-fede di ogni uomo nell’importanza di ciò che egli ha da fare o da dire. Il poeta, il profeta ha, per ciò che egli dice, un [391] valore superiore a quello di qualsiasi uditore. Il forte Lutero, compiacente verso se stesso, dichiara con una autorevolezza che non falla che «Dio stesso non può fare senza degli uomini saggi». Jacopo Behmen e Giorgio Fox rivelano il loro amor proprio nell’ostinazione dei loro opuscoli polemici e Giacomo Naylor una volta si lasciò adorare come Cristo. Ogni profeta s’identifica immediatamente con il suo pensiero e giunge a stimare sacri il suo cappello e le sue scarpe. Per quanto ciò possa screditare siffatte persone presso la gente assennata, ciò le soccorre con il popolo poichè dà calore e divulgazione alle loro parole. Un fatto simile non è infrequente nella vita privata. Ogni persona giovane ed ardente scrive un diario, nel quale infonde la sua anima quando suonano le ore della preghiera e della penitenza. Le pagine così scritte sono per lui infiammate e fragranti; egli le legge inginocchiato, a mezzanotte ed alla luce della stella mattutina; egli le bagna delle sue lacrime; esse sono sacre, troppo buone per il mondo, e fors’anche per essere lette dal più caro amico. Questo diario è il Messia nato dalla sua anima, la cui vita ancora circola nel neonato. Il cordone ombelicale non è ancora stato reciso. Dopo qualche tempo egli gode di ammettere il suo amico a questa consacrata conoscenza, e con esitazione, eppure con fermezza, gli mette sott’occhi le pagine del suo diario — Ma esse non brucieranno i suoi occhi? L’amico freddamente le sfoglia, e passa agevolmente dalla lettura alla conversazione, il che colpisce l’autore di meraviglia e di dolore. Egli però non può diffidare dello scritto stesso. Giorni e notti di vita fervida, di comunione con gli angeli dell’ombra e della luce, hanno inciso i loro caratteri oscuri su quel libro bagnato di lacrime. Egli diffida dell’intelligenza o del cuore dell’amico. Non c’è dunque un amico? Egli non può ancora prestar fede che si possa avere [392] un’esperienza profonda e che pure si possa non sapere come versare nella letteratura il proprio fatto personale; e forse la scoperta che la saggezza ha altre lingue ed altri ministri all’infuori di noi, e che anche se stessimo zitti la verità non sarebbe perciò meno espressa, potrebbe reprimere dannosamente gli ardori del nostro zelo. Un uomo può parlare solo fino a che non senta che il suo discorso è parziale o inadeguato. Esso è parziale, ma egli non se ne avvede mentre lo pronunzia. Così tosto come egli si è liberato da ciò che è proprio ed istintivo, ed osserva la sua parzialità, egli chiude la sua bocca con disgusto. Poichè nessun uomo può scrivere cosa alcuna ch’egli in quell’istante non pensi essere la storia del mondo; e nessuno mai bene compirà una cosa se non la giudichi di grande momento. La mia opera può non avere importanza, ma io non debbo stimarla tale, altrimenti non la compirò impunemente.

Allo stesso modo vi è in tutta la natura qualche cosa di burlesco, qualche cosa che ci conduce avanti incessantemente, ma che non giunge in alcun luogo e manca con noi di fede. Ogni promessa oltrepassa il compimento. Noi viviamo in un sistema di approssimazioni. Ogni fine è antiveggente di un altro fine, che è a sua volta passeggiero; un esito perfetto e finale non v’è in alcun luogo. Noi siamo accampati nella natura, ma non siamo di casa. La fame e la sete ci sospingono a mangiare ed a bere; ma mescolate e cuocete come volete il pane ed il vino, essi ci lasciano affamati ed assetati, dopo che lo stomaco è sazio. Lo stesso avviene con le nostre arti e le nostre imprese. La nostra musica, la nostra poesia, la nostra stessa lingua non sono dei piaceri, ma delle suggestioni. Il desiderio violento della ricchezza che trasforma il nostro pianeta in un giardino, si burla del più ingordo persecutore. Quale è il fine [393] agognato? Semplicemente quello di salvaguardare gli interessi del buon senso e della bellezza dall’intrudersi di disformità o volgarità d’ogni specie. Ma quale metodo laborioso! Quale infinita varietà di mezzi per assicurare una piccola conversazione! Questo palazzo di mattoni e di pietre, questi servi, questa cucina, queste stalle, questi cavalli e vetture, questi titoli bancarii e queste ipoteche; il commercio con tutto il mondo; la casa di campagna; il tugurio vicino all’acqua, ecc... per una piccola conversazione, alta, chiara e spirituale! Non potrebbe essere tenuta allo stesso modo dagli accattoni sulla strada provinciale? No, tutte queste cose pervennero dagli sforzi successivi di questi accattoni per eliminare l’attrito delle ruote della vita e promuovere delle occasioni favorevoli. La conversazione, il carattere, erano i fini confessati; la ricchezza era buona perchè appagava i desiderii animali, rimediava al fumaiolo fumoso; ammutoliva la porta cigolante, adunava insieme gli amici in una sala tranquilla e tiepida, e teneva i bambini e la tavola da pranzo in camere differenti. Il pensiero, la virtù, la bellezza, erano gli intenti; ma si sapeva che gli uomini di pensiero e di virtù talvolta avevano il mal di capo, oppure i piedi bagnati o che potevano perdere del tempo prezioso mentre si scaldava la camera nei giorni d’inverno. Sfortunatamente negli sforzi necessari per togliere questi inconvenienti l’attenzione generale è stata stornata da questo obbietto; i vecchi intenti furono perduti di vista, ed il togliere l’attrito divenne lo scopo. Quello è il ridicolo degli uomini ricchi, e Boston, Londra, Vienna e generalmente gli odierni governi del mondo sono città e governi dei ricchi, e le masse non sono uomini, ma poveri uomini, vale a dire uomini che vorrebbero essere ricchi; questo è il ridicolo della classe: che essi vengono pur con sofferenza e sudore ed impeti folli a capo di nulla; quando tutto è fatto, è [394] fatto per nulla. Essi sono come coloro che interrotto il discorso di una brigata per pronunziare il proprio discorso, al momento opportuno dimenticano ciò che volevano dire. L’aspetto di una società o di una nazione priva di fini colpisce ovunque l’occhio. Erano dunque gli intenti della natura così grandi e desiderabili da esigere tale immenso sacrifizio di uomini? Un effetto completamente analogo alle frodi della vita è quello prodotto sugli occhi dall’aspetto della natura esterna. Vi è nei boschi e nelle acque una certa lusinga ed una certa seduzione, unita ad una deficienza nel produrre una soddisfazione vera. Questa delusione noi la sentiamo in ogni paesaggio. Io ho ammirata la morbidezza e la bellezza delle nuvole estive naviganti come piume sul nostro capo; liete della loro altezza, della loro libertà di moto, esse non apparivano tanto come panneggiamento di quel dato luogo e di quella data ora quanto come preannunzio di qualche padiglione e di qualche giardino situato oltre di esse. È un tormento strano, ma il poeta non si trova mai abbastanza vicino al suo soggetto. Il pino, il fiume, il poggio fiorito che sono dinnanzi a lui non sembrano essere la natura. La natura è ancora altrove. Questo o quello è se non il limitare, il riflesso lontano, l’eco del trionfo che è passato e che si trova ora al massimo suo splendore forse nel campo vicino o, se voi vi fermate nel campo, nei boschi adiacenti. L’oggetto presente vi darà il senso di riposo che segue la solenne cerimonia or ora compiuta. Quale meravigliosa lontananza, quali recessi di fasto e di vaghezza ineffabile in un tramonto! Ma chi li può raggiungere e stendere su di essi la mano o porvi il suo piede? Essi scompaiono dal mondo per sempre. Lo stesso è fra gli uomini e le donne, come fra gli alberi silenziosi: sempre una vita di relazione, perciò una lontananza, giammai una presenza. Forse che la bellezza [395] non può mai essere affermata? È essa egualmente inaccessibile nelle persone e nel paesaggio? L’amante accettato e fidanzato ha perduto il maggior fascino della sua amata nell’accettazione ch’essa ha fatto di lui. Essa era il cielo, quand’egli la seguiva come una stella: essa non può essere più il cielo se si china per una persona quale egli è.

Che cosa diremo noi di questo apparire onnipresente del primo impulso proiciente, di questa lusinga e del disinganno di tante creature così bene intenzionate? Dobbiamo noi non supporre l’esistenza d’una sottile perfidia e derisione in qualche parte dell’universo? Non siamo noi trascinati ad un vivo risentimento per l’uso che si fa di noi? Siamo noi dunque degli ingenui lusingati e degli zimbelli della natura? Un solo sguardo all’aspetto del cielo e della terra ci acqueta e ci blandisce con convinzioni più saggie. Per l’uomo intelligente la natura si converte in un’immensa promessa, che non vuole essere sconsideratamente esplicata. Il suo segreto è inespresso. Molti e molti Edipo giungono: ciascuno ha il cervello pregno del suo segreto. Ma la stessa malìa ha sciupata la sua destrezza; non una sola sillaba egli può formulare con le sue labbra. La sua orbita potente si perde come l’arcobaleno nel profondo, e nessun’ala di arcangelo fu fin’ora forte abbastanza per seguirla ed informarci dell’altra parte dell’arco. Ma appare anche che le nostre azioni sono sorrette ed indirizzate a risultati più grandi di quelli che avevamo divisati. Noi siamo seguiti da ogni lato ed in tutta la vita da agenti spirituali, ed attesi da un proposito benefico. Noi non possiamo rivaleggiare a parole con la natura e trattare con essa come trattiamo con le persone. Se noi misuriamo le nostre forze individuali con le sue possiamo facilmente intuire d’essere il trastullo di un destino insuperabile. Ma se invece di identificare noi stessi con [396] l’opera, noi sentiamo l’anima dell’artefice scorrere attraverso di noi, troveremo la pace mattutina dimorante nei nostri cuori e gli incommensurabili poteri della gravità e della chimica e, al dissopra di essi, quelli della vita pre-esistenti dentro di noi nella loro forma più alta.

L’inquietudine che ci cagiona il pensiero della nostra debolezza nel viluppo delle cause, risulta dal fatto che noi guardiamo troppo ad una sola condizione della natura, vale a dire al Moto. Ma il freno non è mai staccato dalla ruota. Ovunque l’impulso eccede, l’immobilità od identità s’introduce come compensazione. Dopo ogni giornata pazza noi dormiamo per guarire dalle esalazioni e dalle violenze delle sue ore; e sebbene siamo sempre incatenati ad esse e spesso siamo loro schiavi, portiamo con noi ad ogni esperimento le innate leggi universali. Queste mentre esistono nella mente come idee, pongono nella natura incorporata intorno a noi una sanità vigile per mostrare e guarire la pazzia degli uomini. La nostra servitù alle proprie peculiari disposizioni ci pone in cento speranze stolte. Noi ci ripromettiamo un’era nuova dall’invenzione di una locomotiva o di un pallone; ma la nuova macchina porta seco i vecchi impedimenti. Dicono che per mezzo dell’elettro-magnetismo la vostra insalata crescerà dal seme mentre il vostro pollo sta arrostendo per il pranzo. Questo è un simbolo dei nostri tentativi e dei nostri sforzi moderni nella condensazione ed accelerazione degli obbietti: ma nulla s’è acquistato in più; la natura non può essere frodata; la vita di un uomo non dura se non settanta insalate, crescano esse rapidamente o crescano adagio. In questi ostacoli ed impossibilità tuttavia noi troviamo il nostro vantaggio non meno che negli impulsi. Cada la vittoria dove vuole, noi siamo dalla sua parte. Il sapere poi che noi attraversiamo l’intiera scala dell’essere, dal centro della natura [397] fino ai suoi poli, e che abbiamo qualche posta da vincere in ogni evenienza, concede quel lustro sublime alla morte, che la filosofia e la religione hanno tentato di esprimere troppo superficialmente e letteralmente nella popolare dottrina dell’immortalità dell’anima. La realtà è più eccellente della sua fama. Qui non v’è nè rovina, nè soluzione di continuità, nè forza morta. La circolazione divina non si riposa nè si sofferma mai. La natura è l’incarnazione di un pensiero e ritorna di nuovo pensiero, come il ghiaccio diviene acqua e gaz. Il mondo è un precipitato della mente, e l’essenza volatile ritorna eternamente allo stato di libero pensiero. Di qui scaturisce la virtù e la sottile penetrazione dell’influenza degli oggetti naturali sulla mente, siano essi organici od inorganici. L’uomo imprigionato, l’uomo cristallizzato, l’uomo vegetativo, parla all’uomo personificato. Il potere della natura che non rispetta la quantità, che fa ugualmente dell’unità e della frazione il suo canale, concede il suo sorriso al mattino, e distilla la sua essenza in ogni goccia di piova. Ogni momento ed ogni oggetto ammaestrano, perchè la saggezza è infusa in ogni forma. Essa è stata versata in noi come sangue; ci prostrò come dolore; guizzò in noi come piacere; ci coinvolse in giorni tristi, melanconici o in giorni di serena fatica; noi non indovinammo la sua essenza se non dopo lungo tempo.

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SETTIMO SAGGIO LA POLITICA

Trattando dello stato dovremmo ricordare che le sue istituzioni non sono aborigine, sebbene esistessero prima della nostra nascita: che esse non sono superiori al cittadino: che ognuna di esse fu una volta l’azione di un solo uomo: che ogni legge e consuetudine fu il mezzo di un uomo per fare fronte ad un caso particolare: che esse sono tutte imitabili ed alterabili: che noi possiamo essere altrettanto buoni e che possiamo essere migliori. La società è un’illusione per il giovane cittadino. Essa sta innanzi a lui in rigido riposo, con alcuni nomi, uomini ed istituzioni, radicati al centro come quercie intorno a cui tutti si dispongono come meglio possono. Il vecchio statista invece sa che la società è fluida; che non vi sono tali radici e centri, ma che qualsiasi particella può subitamente diventare il centro del movimento e forzare il sistema a rotare intorno ad essa, come qualsiasi uomo di forte volontà, quali Pisistrato e Cromwell, fa per un certo tempo, ed ogni uomo di verità come Platone o Paolo fa per sempre. Ma la politica si regge su istituzioni necessarie e non può essere trattata con leggerezza. Le repubbliche abbondano di giovani legulei, i quali credono che le leggi facciano la città; che gravi modificazioni della politica o del modo di vita, che le occupazioni della popolazione, il commercio, l’educazione e la religione possano essere [400] accolte o rigettate con un voto e che qualsiasi provvedimento, anche assurdo, possa essere imposto al popolo, pur che si abbiano voti sufficienti per farne una legge. Ma il saggio sa che la legislazione sconsiderata è una corda di sabbia, la quale perisce nell’intrecciarla; che lo stato deve seguire e non guidare le disposizioni ed il progresso del cittadino; che il più vigoroso usurpatore è rapidamente scacciato; che solo coloro i quali costruiscono sulle Idee, costruiscono per l’eternità, e che la forma di governo che prevale, è quella che esprime il grado di educazione del paese. La legge è solo un memorandum. Noi siamo superstiziosi, e consideriamo lo statuto un qualcosa: la sua forma invece corrisponde a quel tanto di vita che esso ha nel carattere degli uomini viventi. Lo statuto esiste per dire «ieri ci siamo accordati così e così, ma che vi pare di questo articolo?» Il nostro statuto è una moneta, che noi imprimiamo con il nostro proprio ritratto; essa in breve diviene irriconoscibile e coll’andar del tempo ritornerà alla zecca. La natura non è democratica, nè monarchica-costituzionale, ma dispotica, e non vuole essere schernita o avvilita nella sua autorità di un solo iota dai più petulanti fra i suoi figli: e via via che lo spirito pubblico si apre ad una intelligenza, il codice appare insensato e balbuziente: esso non parla più distintamente e deve perciò essere perfezionato. Frattanto l’educazione dello spirito generale non s’arresta. I sogni evanescenti di ciò che è vero e semplice sono profetici. Ciò che la tenera giovinezza sogna e prega e dipinge oggi, non palesandolo ad alta voce per evitare il ridicolo, costituirà fra breve la deliberazione dei pubblici poteri, la rivendicazione ed il diritto tra i conflitti e la guerra, la legge trionfante e l’assetto di cento anni, finchè a sua volta non ceda il posto a nuove preghiere e pitture. La storia dello stato delinea a larghi tratti il progresso del pensiero, [401] e segue in distanza la squisitezza della coltura e delle aspirazioni.

La teoria politica che ha posseduto la mente degli uomini che l’hanno espressa nel miglior modo possibile nelle loro leggi e nelle loro rivoluzioni, considera le persone e le proprietà come i due oggetti per la cui protezione il Governo esiste. In quanto alle persone esse hanno uguali diritti, in virtù della loro identità in natura. Questo vantaggio, naturalmente, con il suo completo potere richiede una democrazia. Mentre i diritti di tutti, come persone, sono uguali in virtù del loro accesso alla ragione, i loro diritti in proprietà sono molto ineguali. Un uomo possiede i suoi abiti ed un altro possiede una contea. Questo fatto dipendente in primo luogo dall’abilità e dalla virtù delle parti, qualunque sia la loro condizione, e secondariamente dal patrimonio, sopraggiunge in modi disparati, ed i diritti naturalmente sono disuguali. I diritti personali, universalmente gli stessi, richieggono un governo formato in rapporto al censo; la proprietà richiede un governo formato in rapporto ai possessori ed alle cose possedute. Laban, che ha greggi ed armenti, desidera la presenza d’un agente che abbia cura di essi alle frontiere, affinchè i Medianiti non li rubino, e paga una tassa a questo scopo. Jacopo non ha greggi nè armenti, non teme perciò i Medianiti, e non paga tassa per l’agente. Pare perciò giusto che Laban e Jacopo debbano avere diritti uguali per eleggere l’agente, che deve difendere le loro persone, ma che Laban e non Jacopo debba eleggere l’agente protettore delle mandre e degli armenti. E, se sorgesse questione sulla convenienza di avere degli agenti supplementari o delle torri di osservazioni, non debbono Laban ed Isacco e coloro che debbono vendere parte delle loro mandre per comperare protezione per l’altra parte giudicare meglio intorno a ciò e con [402] maggior diritto di Jacopo, il quale essendo giovane e vagabondo mangia il loro pane e non il suo?

Nella società più primitiva i proprietari creavansi la loro propria ricchezza; fino a che essa viene ai possidenti per una via così diretta, nessuna altra opinione potrebbe sorgere in ogni equa comunità, all’infuori di questa che «la proprietà dovrebbe creare la legge per la proprietà, e le persone la legge per le persone».

Ma la proprietà si trasmette per donazione od eredità a coloro che non la crearono. La donazione, solo caso, rende la proprietà passata al nuovo proprietario, sua propria, come il lavoro la rese tale nel primo proprietario: nell’altro caso, del patrimonio, la legge crea un diritto di possesso, che avrà validità a seconda dell’apprezzamento che ciascun uomo farà della tranquillità pubblica.

Però non fu facile il dar vita al principio agevolmente ammesso che la proprietà debba far la legge per la proprietà e le persone per le persone: perchè le persone e le proprietà si mescolarono in ogni negozio. Alfine sembrò stabilito esser giusta distinzione che i proprietari dovessero aver un maggior diritto elettorale che i non-proprietari, basandosi sul principio spartano di «chiamare uguale ciò che è giusto, e non di chiamare giusto ciò che è uguale».

Tale principio non appare più tanto manifesto come apparve nei primi tempi, in parte perchè sorse il dubbio se troppo valore non fosse stato concesso nelle leggi alla proprietà, e se non fosse stata data una struttura alle nostre consuetudini, che permette al ricco d’imporsi al povero e di mantenerlo tale; ma specialmente perchè vi è un ammonimento istintivo, tuttavia oscuro ed inespresso, per cui l’intiera costituzione della proprietà, sulle sue basi presenti è intuita esser dannosa, e la sua influenza sulle persone deteriorante ed umiliante; che veramente [403] l’unica cura dello Stato sono le persone: che la proprietà seguirà sempre le persone: che lo scopo più alto del Governo è l’educazione degli uomini: e che se gli uomini possono essere educati, le istituzioni parteciperanno al loro miglioramento, ed il sentimento morale scriverà la legge della terra.

Se non è facile determinare l’equità di tale questione, il pericolo è minore quando noi teniamo in considerazione le nostre protezioni naturali. Noi siamo protetti da una vigilanza migliore di quella dei magistrati, che comunemente eleggiamo. La società si compone nella sua maggior parte di persone giovani e stolte. I vecchi, che hanno penetrata l’ipocrisia delle corti e degli uomini di stato, muoiono senza lasciare la propria saggezza ai proprii figli. Questi credono nei loro giornali, come già i genitori credettero alla loro età. Con tale maggioranza ignorante ed ingenua gli Stati presto correrebbero a rovina se non vi fossero dei limiti, oltre i quali la follia e l’ambizione dei governanti non possono andare. Le cose hanno le loro leggi, come gli uomini; e le cose si rivoltano alla burla. La proprietà vuole essere protetta. Il frumento non crescerà, se non è seminato e concimato, ma l’agricoltore non lo seminerà e non lo coltiverà se non ha cento probabilità contro una di tagliarlo e raccoglierlo. Sotto qualsiasi forma le persone e la proprietà devono e vogliono avere il lor dominio. Esse esercitano il loro potere, così fermamente come la materia esercita la sua attrazione. Coprite completamente una libbra di terra nel modo che voi volete, dividetela e sottodividetela; scioglietela in un liquido; convertitela in gaz, essa peserà sempre una libbra: essa attrarrà e resisterà sempre alla materia, per la forza di una libbra di peso; allo stesso modo gli attributi di una persona, il suo spirito e la sua energia morale eserciteranno sotto qualsiasi legge o tirannide [404] mortale la loro propria forza, se non apertamente copertamente: se non in favore della legge, contro di essa; con il diritto o con la forza. È impossibile fissare i limiti della influenza personale, perchè le persone sono organi di una forza morale o soprannaturale. Sotto il dominio di un’idea, che possegga le menti delle moltitudini, come la libertà civile od il sentimento religioso, il potere di una persona non è più soggetto a calcolo. Una nazione di uomini all’unanimità china verso la libertà o la conquista può facilmente sconvolgere l’aritmetica degli statisti e compire azioni sorpassanti il limite dei loro mezzi; così fecero i Greci, i Saraceni, gli Svizzeri, gli Americani ed i Francesi.

In questo stesso modo ad ogni frazione di proprietà appartiene la sua propria attrazione. Un soldo è il rappresentante di una certa quantità di grano o di altra merce. Il suo valore sta nei bisogni dell’uomo animale. Esso è altrettanto calore, altrettanto pane, altrettanta acqua, altrettanta terra. La legge può fare ciò che vuole al possessore della proprietà, il suo potere si collegherà ancora al soldo. La legge può dire in un momento di folle capriccio che tutti avranno potenza, eccetto i possessori di proprietà, e che questi dovranno avere nessun voto. Nonostante ciò, per una legge più alta, la proprietà scriverà, anno per anno, uno statuto che rispetta la proprietà. Il nullatenente sarà lo scriba di chi possiede. Ciò che i proprietari vogliono fare, il potere della proprietà compirà sia secondo legge sia a dispetto di essa. Naturalmente io parlo di tutta la proprietà, non solo dei grandi fondi. Quando i ricchi vengono sconfitti da una pluralità di voti, come di frequente succede, si è che il comune tesoro dei poveri sorpassa le loro accumulazioni. Ogni uomo possiede qualche cosa, fosse anche solo una mucca od una carretta o le sue braccia; a questo modo egli ha una proprietà, di cui dispone.

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La stessa necessità, che assicura i diritti delle persone e della proprietà contro il malanimo o la follia del magistrato, determina le forme ed i metodi di Governo, che sono proprii a ciascuna nazione ed al suo abito di pensare ed in nessun modo trasferibili ad altre condizioni di società. In questo paese noi siamo molto orgogliosi delle nostre istituzioni politiche, speciali per questo che sorsero, a memoria d’uomo, dal carattere e dalla condizione del popolo, che esse esprimono ancora con sufficiente fedeltà e che noi ostentatamente preferiamo a qualsiasi altra nella storia. Esse non sono migliori delle altre, sono più acconcie per noi. Noi possiamo essere saggi nell’affermare i vantaggi della forma democratica nei tempi moderni, ma in altri stati di Società, in cui la religione consacrò la forma monarchica, questa e non quella era acconcia. La democrazia è migliore per noi, perchè il sentimento religioso del tempo presente si accorda meglio con essa. Nati democratici, noi non possiamo in alcun modo giudicare la monarchia, che per i nostri padri vissuti nell’idea monarchica fu anche istituzione relativamente giusta. Ma le nostre istituzioni, sebbene coincidano con lo spirito dei tempi, non vanno esenti dai difetti pratici che hanno screditato le altre forme. Ogni Stato attuale è corrotto. Gli uomini buoni non debbono obbedire troppo letteralmente alle leggi. Quale satira contro il Governo può eguagliare la severità della censura trasfusa nella parola politica, che da tempo immemorabile ha significato di «scaltrezza», facendo intendere così che lo Stato è un artificio?

La stessa necessità benigna e lo stesso pratico abuso appare nei partiti, in cui ogni stato si divide, di oppositori e sostenitori dell’amministrazione del Governo. I partiti sono anche fondati sugli istinti, ed hanno per i loro umili intenti guide migliori, che la sagacità dei loro [406] capi. Essi hanno nulla di perverso nella loro origine, ma segnano rozzamente qualche relazione reale e durevole. Noi potremmo rimproverare tanto saggiamente il vento dell’est od il gelo, quanto un partito politico, i cui membri per la maggior parte non potessero dare un ragguaglio intorno alla loro posizione, se non quello d’essere a difesa di quegli interessi, in cui essi stessi sono mescolati. La nostra contesa con loro incomincia quando essi abbandonano questo profondo e naturale principio eseguendo il comando di qualche capo, e, obbedendo a considerazioni personali, si scagliano a sostegno e difesa di punti, che non appartengono in alcun modo al loro sistema. Un partito è perpetuamente corrotto dall’individuo. Mentre noi assolviamo l’associazione dalla disonestà, non possiamo usare la stessa generosità con i suoi capi. Essi raccolgono le ricompense della docilità e dello zelo delle masse, che essi dirigono. Ordinariamente i nostri partiti sono dei partiti di circostanza e non di principio; così l’interesse agricolo in conflitto con quello commerciale; il partito dei capitalisti con quello degli operai; partiti che sono identici nel loro carattere morale, e che possono facilmente scambiare il terreno l’uno con l’altro nel sostenere molti dei loro provvedimenti. I partiti di principio, come le sètte religiose, od il partito del libero commercio, del suffragio universale, della abolizione della schiavitù, dell’abolizione della pena di morte ispirerebbero l’entusiasmo se non degenerassero in personalità. Il difetto dei nostri partiti dirigenti è che essi non si piantano sulle profonde e necessarie basi, sulle quali essi sono rispettivamente chiamati, ma si perdono nella furia di condurre in porto qualche misura locale e momentanea in nessun modo utile ai bisogni generali. Dei due grandi partiti che in questo momento quasi si dividono la nazione, direi che uno ha la causa [407] migliore, l’altro gli uomini migliori. Il filosofo, il poeta, e l’uomo religioso amerà dare il suo voto con il democratico per il libero commercio, per il suffragio universale, per l’abolizione delle crudeltà legali del codice penale, e per facilitare in tutti i modi l’accesso dei giovani e dei poveri alla sorgente della ricchezza e del potere, ma egli può accettare raramente le persone che il così detto partito popolare gli propone come rappresentanti di queste tendenze liberali. Essi non hanno a cuore quegli intenti che dànno al nome di democrazia quella speranza e quella virtù che noi vi troviamo. Lo spirito del nostro radicalismo americano è rovinoso e senza scopo; non ha scopi ulteriori e divini ed è rovinoso per odio e per egoismo. All’incontro il partito conservatore, composto della parte più moderata, capace e côlta della popolazione, è timido e semplice difensore della proprietà. Esso non rivendica alcun diritto, non aspira ad alcun bene reale, non condanna alcun delitto, non propone alcuna politica generosa, non costruisce, non scrive, non coltiva le arti, non protegge la religione, non fonda delle scuole, non incoraggia la scienza, non emancipa lo schiavo, non soccorre il povero o l’indiano o l’immigrante. Perciò nè dall’uno nè dall’altro di questi partiti il mondo deve attendere per la scienza, per l’arte o per l’umanità dei benefici in alcun modo adeguati alle risorse della nazione.

Io non dispero per questo della nostra repubblica. Noi non siamo alla mercè della volubilità del caso. Nella lotta dei partiti feroci, la natura umana si sente sempre circondata d’affetto, allo stesso modo che i bimbi dei forzati di Botany Bay hanno un sentimento morale così sano come quello degli altri bambini. I cittadini degli stati feudali sono allarmati per le nostre istituzioni democratiche volgenti all’anarchia; e quelli che fra noi sono più vecchi e più prudenti imparano dagli Europei a [408] guardare con una specie di terrore alla nostra libertà turbolenta. Si dice che nella nostra eccessiva libertà di formare la costituzione e nel dispotismo dell’opinione pubblica, noi manchiamo di un’àncora, perciò un osservatore straniero pensa di aver trovato la salvaguardia fra noi nella santità del Matrimonio; un altro crede di averla trovata nel nostro Calvinismo. Fisher Ames espresse la sicurezza popolare più saggiamente quando comparò una monarchia ed una repubblica dicendo «che una monarchia è un bastimento mercantile, il quale veleggia bene, ma che talvolta urta in uno scoglio e cola a picco; mentre una repubblica è una zattera, che non affonderà mai, ma che vi costringe ad avere sempre i piedi nell’acqua». Nessuna forma può avere un pericoloso sopravvento se siamo protetti dalle leggi delle cose. La pressione di un dato numero di tonnellate d’atmosfera sul nostro capo non ha valore fino a che la stessa pressione s’opponga nei polmoni. Aumentate la massa mille volte, essa non può schiacciarci fintantochè la reazione è uguale all’azione. Il fatto di due poli e di due forze centripete e centrifughe è universale, ed ogni forza sviluppa con la stessa sua attività la forza contraria. La libertà selvaggia sviluppa delle coscienze di ferro. La mancanza di libertà mentre afforza la legge e le convenienze insonnolisce la coscienza. La legge di Lynch prevale solo là dove v’è maggior intrepidità nei capi. Una folla non può essere costante: l’interesse di ciascuno vuole che così non sia; ma solo la giustizia soddisfa ad ogni cosa.

Noi dobbiamo illimitatamente confidare nella necessità benefica che traluce da tutte le leggi. La natura umana si esprime in esse così caratteristicamente come nelle statue, nei canti, nelle ferrovie, ed un estratto dei codici delle nazioni sarebbe una copia della coscienza comune. I Governi hanno la loro origine nell’identità morale degli uomini. La ragione di uno risulta essere [409] la ragione di un altro e di ogni altro. Vi è una via di mezzo che soddisfa tutti i partiti; per quanti essi siano e per quanto risoluti possano essere. Ogni uomo trova una sanzione ai suoi diritti più semplici ed alle sue azioni nelle deliberazioni della sua propria mente che egli chiama Verità e Santità. Tutti i cittadini si trovano in perfetto accordo in queste deliberazioni, solo in queste, e non in ciò che è idoneo al sostentamento, idoneo all’uso, che è usufrutto del tempo, che è quantità di terra, che è soccorso dell’assistenza pubblica e che ciascuno ha il diritto di richiedere. Presentemente gli uomini tentano l’applicazione di questa verità e giustizia alla misurazione della terra, alla ripartizione degli utili, alla protezione della vita e della proprietà. I loro primi tentativi sono indubbiamente molto disadatti. Pure il diritto assoluto è il primo governatore; od ogni governo è una teocrazia impura. L’idea, secondo la quale ogni comunità tenta di fare e di riformare la sua legge, è la volontà di ogni uomo saggio. La comunità non può trovare l’uomo saggio in natura e fa dei tentativi goffi e laboriosi per assicurarsi in qualche modo il governo di esso uomo saggio, o convincendo il popolo a dare il suo voto su ogni punto; o con una selezione dei migliori cittadini; oppure assicurando i vantaggi della forza e della pace interna con l’affidare il governo ad uno che possa scegliere egli stesso i suoi agenti. Tutte le forme di governo simbolizzano un governo immortale, comune a tutte le dinastie e indipendente dal numero, perfetto dove esistono due uomini, perfetto dove c’è solamente un uomo.

La natura di ogni uomo è per ciascuno un avvertimento sufficiente del carattere dei suoi simili. La mia ragione ed il mio torto sono la loro ragione ed il loro torto. Mentre io faccio ciò che è conveniente a me e mi astengo da ciò che non mi è proficuo, il mio vicino [410] ed io spesso ci accordiamo nei mezzi ed operiamo una volta tanto insieme per un unico scopo. Ma ogni qualvolta io trovo il mio dominio su me stesso insufficiente per me ed intraprendo anche il governo di lui, io calpesto la verità, ed entro con lui in falsi rapporti. Io posso avere tanta forza od abilità più di lui, che egli non possa esprimere adeguatamente il suo senso di torto, ma la mia abilità o forza sono una menzogna e come tale essa danneggia lui e me. L’amore e la natura non possono sostenere il principio che la tal cosa debba essere effettuata da una menzogna pratica, vale a dire dalla forza. Questo assumersi l’impresa di un altro è l’errore che giace come enorme bruttura nei governi del mondo. Io posso vedere abbastanza bene la grande differenza fra il porre me stesso come autocontrollo e quello di far agire un altro secondo le mie vedute: ma quando un quarto della razza umana si incarica di dirmi ciò che deve fare, io posso essere troppo disturbato dalle circostanze per vedere chiaramente l’assurdità del loro comando. Pertanto i pubblici intenti appaiono vaghi e stravaganti accanto a quelli particolari. Qualsiasi legge, all’infuori di quelle che gli uomini fanno per se stessi, è risibile. Se io mi pongo al livello del mio bambino, e ci conformiamo ad un solo pensiero, e vediamo che le cose sono così e così, tale percezione è legge per lui e per me. Noi siamo entrambi là, ambidue operiamo. Ma se, senza attrarre lui in quel pensiero, io guardo alla cosa, ed indovinando come essa è per lui gli ordino questo o quello, egli non mi ubbidirà mai. Questa è la storia dei Governi; un uomo fa qualche cosa che deve legare un altro uomo. Un uomo che non può essere in relazione con me, mi tassa osservandomi da lontano; decreta che una parte del mio lavoro debba volgere a questo od a quel fantastico fine, non come io immagino, ma come lui immagina. [411] Badate alle conseguenze. Fra tutti i debiti, le tasse sono quelle che gli uomini pagano meno volentieri. Che satira è questa per il governo! Gli uomini credono di ottenere ovunque un valore corrispondente al loro denaro, eccetto che nelle tasse.

Onde quanto minore è il governo tanto meglio è per noi; più poche sono le leggi, e meno il potere è devoluto. L’antidoto contro questo abuso di Governo formale è l’influenza del carattere personale; lo sviluppo dell’individuo; l’apparire del principale che sostituisce il suo procuratore; l’apparire dell’uomo saggio, di cui il governo esistente non è che una meschina imitazione. Ciò che tutte le cose tendono a porre in luce; ciò che la cultura, la libertà, lo scambio, la rivoluzione, tendono a formare e liberare, è il carattere; questo è lo scopo della natura per giungere all’incoronazione di questo suo re. Lo Stato esiste per educare l’uomo saggio; e coll’apparizione dell’uomo saggio lo Stato muore. L’apparizione del carattere rende lo Stato non necessario. L’uomo saggio è lo Stato. Egli non abbisogna di esercito, di forti o di flotte. — Egli ama troppo gli uomini; non ha bisogno di corruzioni, di feste o di palazzi per raccogliere amici; non ha bisogno di condizioni vantaggiose o di circostanze favorevoli. Egli non ha bisogno di biblioteche, perchè non ha finito di pensare; non di chiese, perchè egli è un profeta; non di statuti perchè egli è un legislatore; non di denaro, perchè egli stesso è il valore; non di strade, perchè egli è in casa sua ovunque si trovi; non di esperienza, perchè la vita del Creatore fiorisce in lui e guarda dai suoi occhi. Egli non ha amici personali, perchè colui che ha il fascino di attirare a sè la preghiera e l’amore di tutti gli uomini non abbisogna di un compagno ed educa pochi a dividere con lui la sua vita eletta e poetica. La sua relazione con gli uomini [412] è angelica; la sua memoria è mirra per essi; la sua presenza è incenso e fiori.

Noi pensiamo che la nostra civiltà è vicina al suo meriggio, invece siamo solo al canto del gallo ed alla stella mattutina. Nella nostra società barbara la potenza del carattere è ancora nella sua infanzia. La sua presenza è ancora appena sospettata come potere politico, e come legittimo signore che dovrà buttare giù tutti i governanti dai loro seggi. Malthus e Riccardo lo trascurano completamente; il Registro Annuale è silenzioso; il Lexicon di Conversazione non lo classifica; il Messaggio del presidente, il discorso della Corona non l’hanno ricordato, ed è ancora mai nulla. Ogni pensiero che il genio e l’amore gettano nel mondo altera il mondo. I gladiatori nella lizza del potere sentono attraverso a tutte le loro ferite e la loro simulazione la presenza del valore. Io penso che la lotta stessa del commercio e delle ambizioni sia una confessione di questa divinità; e gli esiti felici sono su quei campi i meschini compensi, la foglia di fico, con la quale l’anima vergognata tenta di nascondere la sua nudità. Io trovo lo stesso tributo involontario in ogni parte. Poichè noi sappiamo quanto da parte nostra è dovuto, siamo impazienti di dimostrare qualche piccolo talento come sostituto del valore. Noi siamo perseguitati dalla consapevolezza di questo diritto alla grandezza del carattere, e siamo sleali con esso. Ma ognuno di noi ha del talento e può fare qualche cosa di utile, di grazioso, di formidabile, di divertente o di lucrativo. Noi facciamo ciò come scusa verso gli altri e verso noi stessi, perchè non raggiungiamo il grado di una vita buona ed uguale. Ma ciò non soddisfa noi mentre lo portiamo a conoscenza dei nostri compagni. Questa nostra condotta può gettare polvere nei loro occhi, ma non spiana la nostra fronte corrugata, e non ci dà la tranquillità dei forti, [413] quando vanno per il mondo. Noi paghiamo il fio mentre procediamo. Il nostro talento è una specie di espiazione, e noi siamo costretti a pensare con una certa umiliazione al nostro magnifico impeto, come a qualcosa di troppo delicato, e non come ad un’azione composta di molte azioni, che sia la schietta espressione della nostra costante energia. La maggior parte degli uomini capaci s’incontra in società come per un tacito richiamo. Ciascuno di essi sembra dire «Io non sono tutto qui». I senatori ed i presidenti si sono innalzati a tanta altezza con sufficiente pena, non perchè essi credano che la situazione sia straordinariamente gradevole, ma perchè sia come una giustificazione per il valore reale, e per rivendicare ai nostri occhi la loro virilità. Questo onorevole seggio è la loro ricompensa per essere di natura meschina, fredda e gravosa. Essi devono fare ciò che possono. Come una classe di animali della foresta, essi non hanno altro che una coda prensile: essi devono arrampicarsi o strisciare. Se un uomo fosse di natura tanto ricca da poter entrare in intima relazione con le persone migliori e creare intorno a sè la vita serena con la dignità e dolcezza della sua condotta, potrebbe egli permettersi di insidiare il favore delle riunioni preparatorie e della stampa, e desiderare relazioni così vuote e pompose, come quelle di un uomo politico? Sicuramente nessuno che potesse essere sincero, vorrebbe essere un ciarlatano.

Le tendenze dei tempi favoriscono l’idea del Governo autonomo, e lasciano, come unico codice, l’individuo ai premii ed ai castighi della sua propria costituzione, i quali operano con maggiore energia che non si creda, mentre noi dipendiamo da soggezioni artificiali. Il movimento in questa direzione è stato molto vivo nella storia moderna. Molto è stato oscuro e poco lodevole, ma la natura della rivoluzione non è affetta dei vizi [414] dei ribelli, perchè essa è una forza puramente morale. Essa non fu mai adottata da nessun partito nella storia, nè può esserlo. Essa separa l’individuo da tutti i partiti, e lo unisce nello stesso tempo alla razza. Essa promette il riconoscimento di diritti più alti di quelli della libertà personale o della sicurezza della proprietà: il riconoscimento che un uomo ha il diritto di godere la fiducia degli uomini; di essere occupato, amato, riverito. Il potere dell’amore come la base d’uno Stato non fu mai sperimentato. Noi non dobbiamo credere che tutte le cose cadano nella confusione, se ogni sensibile protestante non sia obbligato a portare la sua parte in certe convenzioni sociali: nè v’è dubbio che quando il governo della forza sia alla fine le strade non vengano costrutte, le lettere portate ed il frutto del lavoro assicurato. Sono dunque i nostri metodi attuali così eccellenti da rendere disperata ogni competizione? non potrebbe una nazione fatta di amici trovare dei mezzi anche migliori? D’altra parte non temano i conservatori ed i timidi una resa prematura delle baionette e del sistema della forza. Perchè, secondo l’ordine della natura che è assolutamente superiore alla nostra volontà, vi sarà sempre un governo della forza dove gli uomini sono egoisti; e quando essi sono puri abbastanza da abiurare il codice della forza, essi saranno saggi abbastanza per vedere come possano essere raggiunti questi pubblici intenti dell’ufficio postale, delle strade, del commercio, dello scambio, della proprietà, dei musei, delle biblioteche, delle istituzioni d’arte e di scienza ecc. ecc.

Noi viviamo in uno stato molto basso e paghiamo di mala voglia ai Governi fondati sulla forza il nostro tributo.

Non vi è fede, fra gli uomini più religiosi e più istruiti delle nazioni più religiose e civili, nel sentimento morale, e non vi è una credenza sufficiente nell’unità delle cose [415] da persuaderli che la società può essere retta senza soggezioni artificiali, come il sistema solare; e che il cittadino può esser ragionevole e buon vicino, senza il timore della prigione o della confisca. Ciò che appare anche strano è che non vi fu mai in alcun uomo una fede nel potere della rettitudine sufficiente per ispirargli il vasto disegno di rinnovare lo Stato sul principio del diritto e dell’amore. Tutti coloro che hanno preteso d’aver questo disegno sono stati dei riformatori parziali ed hanno ammesso in qualche modo la supremazia dello Stato cattivo. Non ricordo un solo essere umano che abbia fermamente negata l’autorità delle leggi con il semplice sostegno della sua propria natura morale. Tali concezioni, piene di genio e di fato, non sono tenute in considerazione se non come castelli in aria. Se l’individuo che le espone osa stimarle effettuabili, egli disgusta gli studiosi e gli uomini di chiesa, mentre gli uomini di talento e le donne di sentimenti superiori non possono nascondere il loro disprezzo. La natura non meno per questo colma il cuore della gioventù con le suggestioni di questo entusiasmo, e vi sono ora degli uomini (se posso parlare in plurale) o più esattamente, dirò, ho appunto parlato ora con un uomo, al quale nessun cumulo di esperienza avversa farà per un solo momento apparire impossibile che migliaia di esseri umani possano nutrire l’uno verso l’altro i sentimenti più nobili e più puri, come un ristretto gruppo d’amici o una coppia di amanti.

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OTTAVO SAGGIO NOMINALISTA E REALISTA

Io non posso affermare abbastanza sovente che un uomo è solamente una natura relativa e rappresentativa. Ogni uomo è un cenno della verità, ma lontano abbastanza dall’essere quella verità, che egli in forma completamente nuova ed inevitabile ci suggerisce. Se cerco la verità in lui non la troverò. Potesse un uomo versare in me la pura corrente di ciò che egli pretende di essere! Molto tempo dopo invece io trovo altrove quel bene che egli mi promise. Il genio dei Platonici è inebbriante per lo scolaro, eppure quanti pochi punti di esso io posso stralciare dai loro libri. L’uomo sostiene momentaneamente un pensiero, ma non sopporterà un esame; ed una società di uomini rappresenterà transitoriamente abbastanza bene un certo grado di educazione, per esempio, la cavalleria e la squisitezza dei modi; ma separateli e non trovate un solo gentiluomo od una sola gentildonna nel gruppo. Il più piccolo avvertimento ci mette in cerca di un carattere, che nessun uomo realizza. Noi abbiamo degli occhi così esorbitanti, che vedendo il più piccolo arco noi completiamo la curva, e quando la cortina è sollevata dal diagramma che sembrava nascondere, siamo irritati nel constatare che null’altro era disegnato all’infuori del frammento d’arco che avevamo osservato prima. Noi siamo troppo grandiosi nella nostra interpretazione [418] delle facoltà e dei poteri altrui. Essi compiranno di nuovo ed esattamente ciò che hanno già fatto; ma non faranno ciò che noi abbiamo sperato dalla loro natura. Ciò è nella natura, ma non in loro. Succede nel mondo ciò che spesso noi vediamo in una pubblica contesa. Ogni oratore si esprime imperfettamente: nessuno di loro sente chiaramente ciò che un altro dice, tanto è la preoccupazione della mente di ciascuno; e l’uditorio, che deve solo udire e non parlare, giudica in modo saggio ed elevato quanto maldestra ed erroneamente ostinata sia ognuna delle parti discutente nel proprio interesse. Voi troverete facilmente dei grandi uomini o degli uomini di grandi doti, ma giammai degli uomini equilibrati. Quando io m’imbatto in una forza intellettuale pura od in un generoso sentimento morale io penso: «qui dunque vi è l’uomo» e subito sono deluso dalla scoperta che l’individuo non giova maggiormente a se stesso od agli intenti generali di quello che giovino i suoi compagni; perchè il potere che indusse il mio rispetto non è sostenuto dalla completa armonia delle sue qualità. Tutte le persone vivono in società per quei tratti di bellezza o di utilità che posseggono. Noi improntiamo le fattezze dell’uomo da quei soli tratti belli, e compiamo il ritratto simmetricamente: il che è falso, perchè il resto del suo corpo è piccolo e deforme. Io osservo una persona che fa bella figura in pubblico, e da ciò traggo la conclusione che il suo carattere personale è basato sulla perfezione; ma egli non ha un carattere personale. Egli è un bel mantello ed un figurino per i giorni festivi. Tutti i nostri poeti, eroi e santi, sono incapaci assolutamente di corrispondere in qualche modo alla nostra idea; sono incapaci di cattivarsi la nostra simpatia spontanea, e così ci lasciano senza alcuna speranza di realizzare questa nostra idea se non nel nostro proprio avvenire. Il nostro magnificare tutti i caratteri belli sorge dal fatto che noi volta [419] a volta identifichiamo con l’anima ognuno di loro. Ma non vi sono uomini quali noi sogniamo, nè Gesù, nè Pericle, nè Cesare, nè Washington sono come noi li abbiamo creati. Noi rendiamo sacre un cumulo di assurdità perchè esse furono pregiate da grandi uomini. Non v’è individuo che non abbia un punto debole. Io veramente credo che se un angelo dovesse venire a recitare i versetti della legge morale, mangerebbe troppi dolci o leggerebbe le nostre lettere private o farebbe qualche saliente atrocità. È una cosa abbastanza spiacevole che i nostri genî non possano fare alcunchè di utile, ma è ancora peggio che nessun uomo di belle qualità sia adatto alla società. Egli è ammirato in distanza, ma non può approssimarsi senza apparire uno storpio. Gli uomini che hanno belle doti si proteggono con la solitudine o con la cortesia o con la satira o con dei modi acerbi, nascondendo ciascuno, come meglio può, la sua incapacità per un’associazione utile, e tutti mancando di amore o di fiducia in se stessi.

Il nostro amore nativo per il realismo si aggiunge a questa esperienza per insegnarci un poco di riserbo e per dissuaderci da una resa troppo subitanea alle qualità brillanti delle persone. La gente giovane ammira i talenti e le eccellenze particolari; a misura che invecchiamo diamo valore ai poteri ed ai risultati assoluti come l’impressione, la qualità, lo spirito degli uomini e delle cose. Il genio è tutto. L’uomo è il suo sistema: noi non siamo testimonianza di una parola o di un atto isolato, ma siamo il suo modo di essere. Le azioni che voi lodate io non lodo, poichè esse sono un discostarsi dalla sua fede, e sono delle semplici accondiscendenze. Il magnetismo che ordina le tribù e le razze in una sola polarità è il solo da rispettarsi; gli uomini sono della limatura d’acciaio. Eppure noi ingiustamente scegliamo una particella e diciamo: «Oh limatura di acciaio numero [420] uno! quali prodigiose qualità sono le tue! quanto sono costituzionali per te ed incomunicabili!» Mentre parliamo la calamita è ritirata; il nostro granello di limatura cade sul mucchio con il resto, e noi continuiamo le nostre buffonate con le miserabili raschiature. Cerchiamo gli universali; il magnetismo, non gli aghi. La vita umana e le sue creature sono delle povere ed empiriche pretese. Un’autorità personale è un ignis fatuus. Se gli uomini dicono «ciò è grande, ciò è grande», se dicono, «ciò è piccolo, ciò è piccolo», voi lo vedete e non lo vedete, saltuariamente, perchè la cosa prende tutte le sue dimensioni in prestito dalla stima momentanea di coloro che parlano; l’ignis fatuus sparisce se v’approssimate troppo, svanisce se troppo vi discostate, ed esso è solamente visibile da un solo angolo. Chi può dire se Washington è un grande uomo oppure no? Chi può dire se Franklin lo è? E così succede alle dodici od alle sei od alle tre grandi divinità della fama. Ed essi pure svaniscono davanti all’eterno.

Noi siamo delle creature anfibie, armate per due principî, avendo due serie di facoltà, quelle particolari e quelle universali. Noi adattiamo i nostri strumenti all’osservazione generale, e scorriamo i cieli così facilmente come scegliamo una sola figura nel paesaggio terrestre. Noi siamo praticamente abili nello scoprire gli elementi per i quali non troviamo posto nella nostra teoria e per i quali non abbiamo neppure nomi. Così noi percepiamo un’influenza atmosferica sugli uomini e sui corpi degli uomini, influenza che non è computata nell’addizione aritmetica di tutte le loro proprietà misurabili. Vi è un genio della nazione, che non può essere riscontrato nella quantità numerica dei cittadini numerici, ma che caratterizza la società. L’Inghilterra, forte, precisa, pratica, dal buon nome, non la troverei se andassi a cercarla nell’isola. Nel parlamento, nella casa da giuoco, [421] alle tavole da pranzo, io potrei trovare un grande numero di uomini ricchi; ignoranti, lettori di libri, uniformi, superbi; potrei trovare molte donne vecchie, — e potrei non trovare in alcun luogo l’Inglese che fece i saggi discorsi, che riunì le macchine ben costrutte e compì i fatti audaci e vigorosi. È anche peggio in America, dove per la rapidità intellettuale della razza, il genio del paese è più grande nelle sue promesse e più debole nei suoi compimenti. Webster non può fare il lavoro di Webster. Noi comprendiamo abbastanza distintamente il genio Francese, Spagnuolo, Tedesco e non è meno vero che forse noi non troveremmo in alcuna di queste nazioni un solo individuo che corrisponda al tipo. Noi deduciamo lo spirito di una nazione in gran parte dalla lingua, specie di monumento, al quale ogni singolo individuo nel corso di molte centinaia d’anni ha contribuito con una pietra. E senza eccezione un buon esempio di questa forza sociale è la verità contenuta nel linguaggio, verità che non può essere traviata. In qualsiasi controversia concernente la morale si può fare con sicurezza appello ai sentimenti espressi dal linguaggio del popolo.

I proverbi, i modi e le inflessioni grammaticali esprimono lo spirito pubblico con maggiore purezza e precisione di quello che possa fare il più saggio individuo.

Nella famosa disputa con i Nominalisti, i Realisti ebbero una buona parte di ragione. Le idee generali sono essenziali. Esse sono i nostri dèi; esse accerchiano e nobilitano i più parziali e sordidi modi di vita. La nostra inclinazione verso le circostanze non può completamente avvilire la nostra vita e spogliarla di poesia. Colui che lavora alla giornata è valutato come il primo gradino della scala sociale, eppure egli è saturo delle leggi del mondo. Le sue misure sono le ore; mattino e notte, solstizio ed equinozio, geometria, astronomia e le incantevoli vicende della natura agiscono attraverso alla [422] sua mente. Il denaro che rappresenta la prosa della vita e di cui appena si parla nei salotti senza giustificazione, è nei suoi effetti e nelle sue leggi così bello come le rose. La proprietà tiene i conti del mondo ed è sempre morale. La proprietà sarà trovata dove il lavoro, la saggezza e la virtù sono state nelle nazioni, nelle classi e (considerata la vita intiera con le sue compensazioni) anche nell’individuo. Come appare saggio il mondo quando le leggi e gli usi delle nazioni sono ampiamente dettagliati, e la compiutezza del sistema municipale è presa in considerazione. Nulla è tralasciato. Se andate nei mercati e nelle dogane, negli uffici di assicurazioni ed in quelli dei notai, negli uffici dei pesi e misure, d’ispezione ecc... — sembrerà che un uomo solo abbia fatto tutto ciò. Ovunque voi andiate, uno spirito come il vostro è stato prima di voi, ed ha realizzato il suo pensiero. I misteri eleusini, l’architettura egiziana, l’astronomia indiana, la scultura greca, dimostrano che vi furono sempre sulla terra degli uomini veggenti e sapienti. Il mondo è pieno di loggie massoniche, di corporazioni, di legioni segrete e pubbliche d’onore; quella degli studiosi, per esempio; e quella degli uomini che fraternizzano con le classi superiori di ogni paese e di ogni educazione.

Io son molto colpito in letteratura dall’impressione che una sola persona abbia scritti tutti i libri; come se l’editore di un giornale avesse impiantato il suo corpo di «reporters» in differenti parti del campo d’azione, e scambiati fra di loro i posti di tanto in tanto; nel quale giornale però vi fosse tale uguaglianza ed identità di giudizio e di punti di vista d’apparir chiaramente ch’esso è l’opera di un uomo che tutto vede e tutto sente. Ho riveduta ieri l’Odissea di Pope: è corretta ed elegante come se fosse stata nuovamente scritta secondo i nostri canoni d’oggi. La modernità di tutti i libri buoni par che mi dia un’esistenza lunga come quella [423] dell’uomo. Io sento ciò che è ben fatto come se lo avessi fatto io: non mi curo di ciò che è mal fatto. I trasporti di passione in Shakespeare (per esempio in Re Lear ed Amleto) sono nello stesso dialetto del presente anno. Io provo il più grande piacere nel leggere un libro nel modo meno lusinghiero per l’autore, io leggo Proclo e talvolta Platone, come potrei leggere un dizionario, per un aiuto meccanico alla fantasia ed all’immaginazione. Io leggo per trovarvi delle luci, come si userebbe per i suoi ricchi colori un bel quadro in uno sperimento cromatico. Non è Proclo, ma un frammento della natura e del fato che io investigo. È maggior gioia vedere l’autore dell’autore, che lui stesso. Un piacere più alto e della stessa specie io provai ultimamente ad un concerto dove andai ad udire la Messiade di Händel. Come il maestro dominava la pochezza e l’imperizia degli esecutori, e li rendeva conduttori della sua elettricità, così era facile osservare quali sforzi la natura faceva per mezzo di tante persone imperfette, ruvide, senza espressione, per rendere delle belle voci, degli uomini e delle donne fluidi e guidati dall’anima. Il genio della natura era signore dell’oratorio.

Questa preferenza del genio per le parti è il segreto della deificazione dell’arte che si riscontra in tutte le menti superiori. L’arte nell’artista è proporzione od un’obbedienza costante al tutto per mezzo di un occhio che ama la bellezza nei dettagli. La proporzione è quasi impossibile per gli esseri umani. Non vi è uno solo che non ecceda. Nella conversazione gli uomini sono ingombrati dalla personalità e parlano troppo. Nella scultura moderna, nella poesia, nella pittura, la bellezza è mista; l’artista lavora qua e là, e sovra tutti i punti; aggiungendo ed aggiungendo anzichè sviluppando l’unità del suo pensiero. Noi dobbiamo avere dei bei particolari o nessun artista: ma essi devono essere dei mezzi e [424] null’altro. L’occhio non deve perdere di vista l’intento un solo istante. I ragazzi vivaci scrivono al loro orecchio ed al loro occhio, ed il freddo lettore trova null’altro se non dolci consonanze. Quando i ragazzi si fanno adulti rispettano l’argomento per cui scrivono.

Noi obbediamo alla stessa integrità intellettuale quando studiamo eccezionalmente la legge del mondo. I fatti anomali, come le giammai disusate leggende della magia e della demonologia, le nuove affermazioni dei frenologi e dei neurologi, sono d’un’utilità ideale. Esse sono delle buone indicazioni. L’omeopatia è insignificante come arte del sanare, ma è di grande valore come esame critico della igiea o pratica medica di quel tempo. Così il Mesmerismo, lo Swedenborgismo, il Fourierismo e la Chiesa Millenaria sono delle pretensioni abbastanza meschine, ma sono un buon esame critico della scienza, della filosofia e della predicazione dell’epoca, poichè queste interne anormali visioni degli adepti dovettero essere cose normali e naturali.

Tutte le cose ci dimostrano che da ogni lato noi siamo prossimi al meglio. Pare che non valga la pena di compire una sola azione intellettuale estetica o civile quando fra breve il segno sarà interrotto e ci disperderemo nel potere universale. La causa dell’ozio e del delitto sta nel differire le nostre speranze. Mentre attendiamo, noi spendiamo il tempo nelle burle, nel sonno, nel pranzo e nei delitti.

A questo punto affermiamo nelle nostre fredde biblioteche che tutti gli agenti con i quali trattiamo sono nostri subalterni, cui possiamo ben concedere il passo, e che la vita sarà più semplice quando vivremo al centro e disprezzeremo la superficie. Io desidero di parlare con tutto il rispetto con le persone, ma qualche volta mi debbo pizzicare per tenermi sveglio e conservare il dovuto contegno. Esse si confondono così facilmente le une con [425] le altre da essere come l’erba e le piante, onde è necessario un grande sforzo per trattarli come individui. Sebbene l’uomo non ispirato trovi certamente nelle persone una convenienza per le cose di casa, l’uomo divino non le rispetta: egli le considera come un ammasso di nubi o come un nembo di increspature che il vento sospinge sulla superficie dell’acqua. Ma questa è insipida ribellione. La natura non vuole essere Buddista, essa si vendica generalizzando ed oltraggia il filosofo ad ogni momento con un milione di particolari nuovi. Tutto ciò evidentemente è chiacchiera vana: allo stesso modo che un uomo è un intiero, esso è anche una parte e sarebbe ingiusto il non vederlo. Ciò che voi affermate nella vostra ostentata distinzione, classifica solo voi nella vostra classe, e nella vostra sezione. Voi non vi siete sbarazzati delle parti negandole, ma siete ancora più parziali. Voi siete una sola cosa, ma la natura è una cosa e l’altra nello stesso momento: Essa non rimarrà chiusa in un pensiero, ma penetrerà nelle persone, e quando ogni persona infiammata da un ardore di personalità vorrebbe ridurre tutte le cose al suo meschino capriccio, essa fa sorgere contro di lui un’altra persona e per mezzo di molte incarna nuovamente una specie di «intiero». Ogni cosa deve avere il suo fiore o tendenza verso il bello, rozzo o delicato a seconda del suo tessuto. Gli uomini si aiutano e si soccorrono vicendevolmente e la sanità della società bilancia mille insanie. Essa punisce gli astrazionisti e soltanto perdonerà ad un’induzione rara e casuale. A noi piace di portarci ad un rialzo del terreno ed ammirare il paesaggio, allo stesso modo che apprezziamo in conversazione un’osservazione generale. La natura però non intende che noi si debba vivere con delle idee generali. Noi andiamo in cerca del fuoco e dell’acqua, corriamo tutto il giorno fra i negozi ed i mercati, facciamo fare o rattoppare i nostri [426] vestiti e le nostre scarpe, perdendo in queste faccende tutto il nostro tempo, e forse una volta in ogni quindicina giungiamo ad un momento razionale. Se noi non fossimo così infatuati e vedessimo la realtà ogni momento, non saremmo qui a leggere od a scrivere, ma saremmo stati arsi o agghiacciati da lungo tempo. La natura non otterrebbe nulla di fatto se sopportasse gli Ammirabili Crichton ed i geni universali. Essa preferisce il carradore che sogna tutta la notte le sue ruote, e lo stalliere che è parte del suo cavallo, perchè essa è sovraccarica di lavoro, ed essi sono le sue mani. Come il frugale contadino ha cura che il bestiame mangi le foglie di frassino e che i maiali mangino i resti di casa, e che il pollame becchi le croste di pane, così la nostra madre previdente invia un nuovo genio ed un nuovo abito mentale in ogni distretto e condizione di vita; pone un occhio ovunque può cadere un raggio di luce, e raccogliendo in qualche uomo ogni proprietà dell’universo determina fra i suoi nati migliaia di attrazioni mutue ed occulte, affinchè tutto questo flusso e profusione di forza possa essere ripartito e scambiato.

Da questa incarnazione e distribuzione del dono divino sorgono indubbiamente dei grandi pericoli, e per questo la natura ha i suoi detrattori, come se essa fosse una Circe. Ma la natura non va sprovvista, essa ha dell’elleboro al fondo della tazza. La solitudine maturerebbe un grande raccolto di despoti. Il solitario pensa che gli uomini hanno il suo modo di condursi, oppure che non hanno il suo modo, oppure che l’hanno in maggior o minor grado. Ma quando egli arriva ad un’adunanza pubblica, egli vede che gli uomini hanno dei modi molto differenti dai suoi ed a loro giudizio ammirevoli. Nella sua infanzia e gioventù egli ha avuto molti rimproveri e molte censure e tiene in mediocre considerazione i suoi doni di natura. Quando poi egli s’imbatte in favorevoli [427] circostanze, il suo ingegno par che sia il solo: egli è felice del suo successo e si considera già il compagno dei grandi. Ma egli scende nella folla, nella banca, nell’officina, nel mulino, nel laboratorio, in un bastimento, in un campo, ed in ogni nuovo luogo egli non è di più di un idiota: altri talenti prendono il suo posto e governano l’ora. La rotazione che fa turbinare ogni foglia ed ogni pietruzza verso il meridiano, solleva pure ogni dono dell’uomo, e volta a volta ognuno di noi prende il posto alla sommità.

La natura, abborrente il manierismo, ha posta la sua gioia nello sprezzare ogni stile ed ogni artifizio ed è tanto più facile far una cosa che è già stata fatta prima che farne una nuova, da esservi una costante tendenza alle usanze prestabilite. In qualsiasi conversazione anche la più alta vi è un certo artificio, che può presto essere appreso da una persona perspicace e poi essere continuato indefinitamente. Ogni uomo, inoltre, è in tendenza un tiranno, perchè egli vorrebbe imporre la sua idea agli altri; e l’artifizio è la loro difesa naturale. Gesù vorrebbe assorbire la razza; ma Tommaso Paine od il più rude blasfematore aiuta l’umanità resistendo a questa esuberanza di potere. Da ciò deriva l’immenso beneficio dei partiti nella politica, perchè essi rivelano in un capo, le deficienze di carattere che la forza intellettuale delle persone potrebbero non avere scoperto. Poichè siamo tutti così sciocchi, quale beneficio che vi siano due stupidità! È come quel vantaggio irrazionale così essenziale all’astronomia di avere il diametro dell’orbita terrestre per base dei suoi triangoli. La democrazia è morosa, e corre verso l’anarchia; ma nello stato e nelle scuole è indispensabile resistere al conglobarsi di tutti gli uomini in pochi uomini. Se Giovanni fosse perfetto, perchè voi ed io vivremmo? Fintanto che esiste un uomo, vi è in lui qualche necessità; [428] combatta egli per ciò che è suo proprio. Un nuovo poeta è apparso; un nuovo carattere si è avvicinato a noi; perchè dovremmo rifiutarci di nutrirci finchè non abbiamo trovato nel nostro esercito il suo reggimento ed il suo battaglione? Perchè non un uomo nuovo? Ecco una nuova impresa di Brook Farm, di Skeneateles, di Northampton: perchè essere così impazienti di battezzarli Essenes o Port-Royalists o Shakers o con qualsiasi altro nome conosciuto? Sia egli un nuovo modo di vita! Perchè avere solamente due o tre modi di vita e non delle migliaia? Ogni uomo è necessario e nessun uomo è molto necessario. Noi siamo venuti questa volta per del condimento, non per del grano. Noi abbisogniamo del grande genio solamente per la gioia, per avere una stella di più nella nostra costellazione, per avere un albero di più nel nostro boschetto. Ma egli crede che noi desideriamo di appartenergli, come egli desidera di conquistarci. Egli sbaglia grandemente. Io penso di aver fatto bene se ho acquistato una parola nuova di un grande autore: ed il mio intento con lui è di trovare quello che è mio, foss’anche per scioglierlo in un epiteto od in un’immagine di uso giornaliero.

«In un’immagine io vorrò sminuzzarti, o sposa mia!» Per aumentare la confusione e render impossibile il giungere a qualsiasi affermazione generale quando abbiamo insistito sull’imperfezione degli individui, le nostre affermazioni e la nostra esperienza ci spingono a credere che ogni individuo è degno d’onore, e ad essere sicuri d’un nobile contraccambio. Un uomo solitario vede solamente due o tre persone e concede loro tutto lo spazio; esse così si espandono. L’uomo di Stato vede molti uomini e compara abitualmente i pochi con quelli, e questi appaiono meno. Eppure non hanno essi diritto a questa larghezza di accoglienza? e non è la munificenza il mezzo per un’intima conoscenza? Sebbene [429] i giuocatori di mestiere dicano che le carte vincano tutti i giuocatori per quanto essi siano abili, pure nel fatto che consideriamo ora, i giuocatori sono anche giuoco e parte del potere delle carte. Se criticate un genio poetico, le probabilità sono che voi siate fuori del giuoco, e che invece del poeta censuriate la vostra propria caricatura di lui. Perchè vi è qualcosa di sferico e d’infinito in ogni uomo, specialmente in ogni genio, che, approssimandoglisi molto, si diletta di tutte le vostre limitazioni. Perchè, giustamente, ogni uomo è un canale attraverso al quale fluisce il cielo, e mentre io immagino di criticare l’uomo io censuro o piuttosto classifico la mia propria anima. Dopo aver tacciato Goethe di cortigianeria, di artificiosità, di miscredenza, di mondanità, io presi il libro di Elena ed egli mi si rivelò un Indiano delle regioni selvaggie, un frammento di natura, vero come la mela o la quercia, grande come il mattino o la notte, e virtuoso come una rosa delle siepi.

Tutte le misure sono prese affinchè tutta l’armonia si sviluppi. Se non fossimo schiavi delle superficî ogni cosa sarebbe grande ed universale: ora gli attributi esclusi fioriscono in noi con maggior splendore perchè essi erano stati esclusi. «Ora a voi poi a me» è la regola del giuoco. L’universalità essendo interrotta nella sua forma primaria, si ricostruisce da tutti i lati nella forma secondaria; i punti giungono successivamente al meridiano, e per la velocità della rotazione si forma un nuovo intero. La natura mantiene se stessa intiera, e la sua immagine si completa nell’esperienza di ogni mente. Essa non permette che un solo posto sia vuoto nella sua scuola. È il segreto del mondo che tutte le cose sussistano e non muoiano, ma che solo scompaiano per poco, per ritornare di nuovo. Ogni cosa che non ci concerne, ci è tenuta nascosta. Così tosto come una persona non ha più nulla a vedere con il nostro [430] benessere presente, essa ci è nascosta o «muore», come noi diciamo. Realmente tutte le cose e le persone sono in rapporto con noi, ma a seconda della nostra natura, esse agiscono su di noi, non ad un tratto, ma successivamente e noi ci avvediamo della loro presenza una alla volta. Tutte le persone, tutte le cose che abbiamo conosciute sono qui presenti; e molto in maggior numero di quelle che noi vediamo: il mondo è pieno. Come dissero gli antichi, il mondo è un plenum o solido; e se potessimo vedere tutte le cose che ci circondano, saremmo imprigionati ed incapaci di muoverci. Poichè sebbene nulla è insormontabile per l’anima essendo tutte le cose accessibili ed ampie strade per essa, tuttavia questo avviene solo fintantochè l’anima non le vede. Così tosto che l’anima vede un oggetto, gli si ferma davanti. Perciò la divina Provvidenza che tiene l’universo aperto all’anima in ogni direzione, nasconde tutti gli oggetti e tutte le persone che non hanno rapporto con una determinata anima, ai sensi di quel dato individuo. Attraverso alle cose più impenetrabili ed eterne l’uomo trova la sua via, come se esse non esistessero, ed egli non dubita per un solo momento dell’esistenza loro. Non appena egli abbisogna di una nuova cosa subitamente egli la scopre ed invece di passar attraverso ad essa prende un’altra via. Quando egli ha esaurito il nutrimento che può essere tolto da una persona o da una cosa, questa è allontanata dalla sua osservazione, ed ancorchè gli sia prossima egli non sospetta della sua presenza. Nulla muore: gli uomini si fingono morti, e sopportano dei funerali burleschi e delle cerimonie funebri, mentre stanno invece guardando dalla finestra sani e forti sotto qualche nuovo trasvestimento. Gesù non è morto: egli è ben vivo: nè Giovanni, nè Paolo, nè Maometto, nè Aristotile; talvolta crediamo di averli visti tutti e potremmo facilmente dire sotto quali nomi essi si nascondano.

[431]

Se noi non possiamo fare dei passi consci e volontari nell’ammirabile scienza degli universali, vediamo saggiamente le parti, e deduciamo il genio della natura dai migliori particolari. Ciò che è il meglio in ogni specie è un indice di ciò che dovrebbe essere il medium di quella specie. L’amore mi dimostra l’opulenza della natura, rivelandomi nel mio amico una ricchezza nascosta, ed io intuisco per questo un’uguale somma di bene in tutte le altre direzioni. È comunemente detto dai coltivatori che una buona pera od una buona mela non costa maggior tempo o lavoro d’una cattiva; di conseguenza io vorrei avere se non il meglio dell’arte, del discorso, dell’azione, del pensiero o dell’amico.

Fine e mezzi; giuocatori e giuoco! la vita nasce dall’intima mescolanza e reazione di queste due forze, la cui unione appare dapprima innaturale poichè ciascuna nega e tende ad abolire l’altra. Noi dobbiamo riconciliare le contraddizioni come possiamo, ma la loro discordanza ed il loro accordo introducono delle enormi assurdità nel nostro pensiero e nel nostro discorso. Nessuna frase conterrà intera la verità, e l’unico modo con cui possiamo essere giusti è quello di provare il falso; il discorso è migliore del silenzio; il silenzio è migliore del discorso. Tutte le cose sono in contatto; ogni atomo ha una sfera di repulsione; le cose esistono e non esistono; nello stesso tempo; e così via... In tutto l’universo vi è soltanto una cosa, questo vecchio bifronte, creatore-creatura, spirito-materia, ragione-torto, di cui ogni proposizione può essere affermata o negata. Molto opportunamente perciò io affermo che ogni uomo sta ai particolari; che la natura mantiene ogni uomo come uno strumento, per vanità, prevenendone le tendenze alla religione ed alla scienza; ed ora inoltre affermo che essendo il genio d’ogni uomo esplorato da vicino ed accuratamente, egli è giustificato nella sua individualità, come la sua natura è [432] trovata essere immensa; ed ora aggiungo che ogni uomo sta pure agli universali, e come la terra mentre gira sul suo asse gira contemporaneamente attorno al sole attraverso gli spazii celesti, così il meno razionale dei suoi figli, il più dedito ai suoi affari privati, risolve anche sotto una falsa apparenza il problema universale. Noi immaginiamo che gli uomini siano degli individui; così sono anche i meloni; ma ogni melone nel campo passa attraverso ad ogni punto della storia del melone. Il democratico accanito così tosto come è senatore e ricco, s’è elevato al di là del radicalismo sincero, ed a meno che possa resistere al sole, egli deve essere un conservatore per il resto dei suoi giorni. Lord Eldon disse quando era vecchio «che, se egli dovesse ricominciar la vita si lascierebbe impiccare se non incominciasse coll’essere un agitatore».

Noi nascondiamo questa universalità come possiamo, ma essa appare in tutti i punti. Noi siamo ingrati come i bambini. Nulla v’è che noi agogniamo e sentiamo di attirare a noi che nello stesso tempo non scacciamo. Noi manteniamo un vivo fuoco di sarcasmo contro l’ignoranza e contro la vita dei sensi; poi passa per caso una bella ragazza, un frammento della vita, gaia e felice, rendendo i più umili uffici belli per l’energia e la buona volontà con cui li compie, e vedendola ammiriamo ed amiamo lei e quelli ed esclamiamo: «Ecco una creatura genuina della terra bella, non dissoluta o troppo presto sviluppata dai libri, dalla filosofia, dalla religione, dalla società o dagli affanni» abbandonando e disprezzando tutto ciò che avevamo così a lungo amato e stimato in noi stessi e negli altri. Se potessimo avere una sicurezza qualsiasi contro le temporanee disposizioni! Se il più profondo profeta potesse attenersi alle sue parole, e l’uditore che è disposto a vendere tutto ed unirsi alla sua crociata, potesse essere sicuro che domani il profeta [433] non contraddirà il suo seguace! Ma la verità siede velata sul trono e non pronuncia mai una sillaba; e la dottrina più sincera e rivoluzionaria, lanciata come l’arca del Signore per il soccorso del mondo, sarà dopo poche settimane dallo stesso individuo messa in disparte, come malaticcia. «Credevo di essere nel giusto, ma non lo ero»! Se noi non fossimo di tutte le opinioni, se non abbandonassimo ad ogni momento la piattaforma sulla quale ci troviamo per andar a guardare e parlare da un’altra! se ci potesse essere una disciplina, una qualche «regola del tempo» che non permettesse all’uomo d’abbandonare il suo punto di vista senza il suono delle trombe! Se tutto ciò vi fosse...! Io non sono mai sincero, sapendo che vi sono altri modi.

Come possiamo noi essere sinceri e confidenti, se dicendo tutto ciò che giace nella mente, ci separiamo tuttavia con il sentimento che tutto è ancora inespresso a causa dell’incapacità delle parti di conoscersi vicendevolmente sebbene usino le stesse parole? Il mio compagno pretende di conoscere i miei modi ed abiti di pensiero, e noi passiamo da spiegazione a spiegazione finchè tutto ciò che possono dire le parole è detto, e lasciamo le cose come erano prima, a causa di quella fallace presunzione. Proviene ciò dal fatto che ogni uomo crede gli altri dei parzialisti incurabili e se stesso un universalista? Ieri io parlai con due filosofi: tentai dimostrare a quei buoni uomini che mi piacciono tutte le cose volta a volta, e nessuna per lungo tempo; che amai il centro ma adorai la superficie; che amai l’uomo, se pur gli uomini mi sembravano dei topi; che riverii i santi, ma mi svegliai contento che il vecchio mondo pagano mantenesse il suo posto e morisse fortemente; che io ero lieto degli uomini di ogni facoltà e nobiltà, ma che non vorrei vivere fra le loro braccia. Sarebbe una grande soddisfazione se essi solo una volta avessero [434] compreso ch’io amavo sapere ch’essi esistevano e che cordialmente auguravo loro una fortuna divina, ancorchè dalla mia povertà di vita e di pensiero non avessi per loro una parola di benvenuto, e che consentivo loro di vivere sull’Oregon, qualunque fosse il diritto ch’io potevo aver su di essi.

FINE.


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INDICE

Avvertenza del Traduttore pag. V
Opere di Ralph Waldo Emerson VII
Bibliografia IX
 
SERIE PRIMA
 
I. La Storia 1
II. La fiducia in se stesso 29
III. La Compensazione 65
IV. Le Leggi spirituali 91
V. L’Amore 119
VI. L’Amicizia 135
VII. La Prudenza 155
VIII. L’Eroismo 171
IX. La super-anima 187
X. I circoli 211
XI. L’Intelletto 229
XII. L’Arte 247
 
SERIE SECONDA
 
I. Il poeta 261
II. L’Esperienza 291
III. Il carattere 323
IV. Le maniere 343
V. I doni 371
VI. La natura 379
VII. La politica 399
VIII. Nominalista e realista 417

NOTE:

1.  Shakespeare, Enrico VI.

2.  S. Agostino, Confessioni, lib. I.

3.  Così nel testo inglese.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

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