The Project Gutenberg eBook of Le gaie farandole, by Antonio Beltramelli

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Title: Le gaie farandole

Author: Antonio Beltramelli

Illustrator: C. Simonetti

Release Date: November 25, 2022 [eBook #69422]

Language: Italian

Produced by: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LE GAIE FARANDOLE ***

LE GAIE FARANDOLE


ANTONIO BELTRAMELLI

LE GAIE FARANDOLE

CON ILLUSTRAZIONI
DI
C. SIMONETTI

FIRENZE
R. BEMPORAD & FIGLIO — Librai-Editori

MILANO Via Agnello, 6 — ROMA Via Muratte, 25-27 — PISA Sottoborgo

TORINO - S. LATTES & C., — NAPOLI - Società commerciale libraria
BOLOGNA - Ditta Nicola Zanichelli — GENOVA - E. Spiotti.


PROPRIETÀ LETTERARIA

Firenze, 1908 — Società per le Industrie Grafiche G. Spinelli & C.



INDICE


A TOTI GADDI, al mio piccolo
amico, perchè non dimentichi le sue
monellerie.

[1]

I. Toti.

— Signorina, signorina, signorina! —

Balza in piedi sul letto, ed empie la grande stanza della sua chiamata mattutina.

Ha veduto penetrare dalle finestre socchiuse un raggio di luce, non ha più sonno, non può più dormire.

Una voce incerta, che giunge da un angolo buio della stanza, risponde con accento spiccatamente esotico:

Toti, non star bene svegliare chi dorme! Io sono sonno ancora!

Un’altra risatella impertinente risponde all’esortazione della vecchia Miss; Toti è in piedi sul suo letticciuolo e non si rassegnerà a ricoricarsi. Il tempo è sereno, il primo sole lo chiama all’aperto.

Si soffrega gli occhi; trascorre una pausa.

[2]

Frattanto miss Edith ha ripreso sonno, ed ora soffia attraverso il suo gran naso; pare un mantice in azione. Che cosa avrà mai miss Edith nelle ampie fosse nasali per produrre un simile suono? Chi lo sa? Forse una piccola tromba. Molte volte gli è nato il desiderio di scrutare quel mistero, di accostarsi mentre la signorina dorme e chiuderle con un dito parte del naso per ascoltare se il suono varia e si fa più grave come avviene appunto per la sua tromba allorchè, soffiando per l’imboccatura, ne copre in parte il padiglione.

Scende dal letto pian piano; la camicia che gli arriva ai ginocchi non lo impiccia, sul tappeto i suoi passi non si avvertono, può andar sicuro; solo trattiene a stento il riso, perchè gli par così buffo ciò che sta per fare!

Ad un tratto si ferma, è giunto. La prova non può riuscire.

Miss Edith dorme col viso nascosto fra i guanciali. È tanto timida miss Edith!

Un attimo di perplessità lo trattiene; riprende poi la furtiva passeggiata col fermo proposito di rintracciare la cerbottana che miss Edith gli ha tolto la sera innanzi. Se riesce a ritrovarla, sa quale deve essere il punto preso di mira.

La gioia della nuova impresa gli fa dimenticare la prudenza; prende la corsa senza [3] pensare agli oggetti che può incontrare sul suo cammino e, ad un tratto, il piccolo cuore gli dà un balzo: senza avvedersene, correndo, ha gettato qualcosa contro il muro, qualcosa che è andato in frantumi con subito fragore.

Miss Edith si è levata sul letto; Toti non si muove, non fiata. Da ambedue le parti si tende l’orecchio sospettosamente. Poi la voce semitonata dell’istitutrice lancia il primo richiamo:

— Toti? —

Assoluto silenzio. Trascorre un’altra pausa in cui si ode il lontano canto del giardiniere.

Ah che bel sole deve sorridere all’aperto!

La chiamata si rinnova con alcune modificazioni:

— Toti! Chi ha suonato il campanile? —

Dio mio, come non ridere? Per qualche istante si frena stringendo i denti, trattenendo il respiro; ma la prova è troppo forte e un piccolo grido gli sfugge, al quale ne segue un secondo poi un terzo in vicenda sempre più rapida, finchè, perduti i freni, dà libero sfogo a tutta la sua gaiezza, che si espande in un alto riso festante.

Ode ancora la voce di miss Edith mormorare:

— Toti!... Non è decoroso! —

[4]

Allora si dirige al letticciuolo e si nasconde rapidamente sotto le coltri.

La signorina si è levata, e compie il suo abbigliamento.

Ma quanto tempo impiega, quante vesti indossa!

Se sapesse come galoppa il piccolo cuore di Toti, se ne udisse il bàttito frequente non sarebbe tanto flemmatica; ma miss Edith non vede e non sente; miss Edith è un vecchio orologio.

Si odono fruscii, pispiglii, fremiti di seggiole mosse sul tappeto, tutti i piccoli suoni consueti che accompagnano il levarsi della signorina, e frattanto il buio permane, l’ombra è tediosa; non potrebbe aprir le finestre? Toti non si vergogna del sole!

Ed ecco viene la sua volta.

Good morning Toty! (Buon giorno, Toti!)

— Buon giorno, bene alzata signorina, che Dio ti benedica!

È sì pieno di gioia in quel punto, che invoca sul capo della vecchia Miss la benedizione con la quale la zia Emma lo raccomanda a Dio ogni sera.

Speak English, dear. (Parlate inglese caro).

— Non posso parlare inglese, signorina Oggi ho dimenticato tutto, tutto!

[5]

— Oh Toty!... Non è bene! —

Frattanto le finestre si aprono ed entra un torrente di luce. Da tanto tempo si udivano stridere le rondini nei cieli! Ora si vedono trascorrere nei loro voli rapidissimi; paiono tante frecce nere, tante piccole navi che vanno e ritornano e si avvolgono nel gran mare dell’aria dove affonda il sole. E appaiono le cime degli alberi del giardino e la rosa tèa, che si è appoggiata al vecchio cipresso morto e lo ha rivestito di bocciòli gialli.

Toti guarda con gli occhi luminosamente aperti, e pensa alla grande felicità che lo aspetta in quel lieto mattino primaverile.

Si è levato su le coltri; Miss Edith gli è vicina.

I wish you every happiness, boy. Tell your prayers. (Io vi auguro ogni felicità. Dite le vostre preghiere). —

Toti si volge e sorride; guarda la signorina Edith e, preso da un impeto di tenerezza, le getta le braccia al collo, le stampa due bacioni su le gote poi si allontana impensierito e le chiede:

— Signorina, perchè parlano così male al tuo paese? —

Per tutta risposta miss Edith ripete senza scomporsi:

Tell your prayers. (Dite le vostre preghiere). —

[6]

Toti si inginocchia sui guanciali, congiunge le piccole mani ed alza gli occhi al cielo turchino, al cielo lontanissimo dove sono le case d’oro che nessuno vede, che solo i bimbi vedono talvolta nel sogno. La sua voce si addolcisce ed il viso si atteggia ad una semplice soavità d’amore:

— Buon giorno, buon Dio, che mandi il sole e le rondini. Voglimi bene come io te ne voglio; pensa alla mia povera mamma e che tu sia benedetto! —

Miss Edith lo ascolta con gli occhi chini; la sua bocca sottile trema un poco, come per l’impeto di una parola dolcissima che non voglia pronunziare.

Eccolo libero, finalmente! La signorina gli ha fatto indossare un vestituccio bianco e turchino alla marinara; i bei riccioli biondi gli tremolano intorno al viso in una corona lucente.

— Posso andare, signorina?

Yes, dear. (Sì, caro). —

Toti si avvia di corsa, ma, giunto alla porta della stanza, si sofferma peritoso, e si volge a riguardare.

— Mi raccomando, miss Edith, l’elefante lascialo sotto il letto; è un animale d’indole [7] cattiva e non può andar d’accordo col porco.... —

Si arresta. Gli occhi dell’istitutrice sono cresciuti a dismisura, e lo fissano in aria di rimprovero. Si riprende:

— Il porcellino è dentro la scatola gialla. Ieri sera ha partorito....

— Toty!...

— Ma sì!... La cicogna gli ha portato sei bambini e sono tutti belli. Mi raccomando, signorina, allattali, chè non debbano morire di fame. —

Non ode le parole che miss Edith mormora, perchè fugge attraverso alle stanze semioscure, scende le scale a precipizio, si avvia alla porta che mette nel giardino, ed eccolo alla libera aria del giorno.

Leva gli occhi a guardare le finestre delle camere di papà e della zia Emma; sono chiuse; tutti dormono tranne il nonno che sarà già uscito a cavallo. Il suo campo di azione non gli è contrastato, e tutta la gioia della provvisoria signoria si esplica in una serie ininterrotta di salti e di grida.

Il giardino vastissimo è tutto lucente; ogni cespuglio, ogni foglia, ogni stelo ha le sue gemme; forse nella notte è piovuto perchè l’aria è fresca e i profumi sono più vivi.

Toti s’interna sotto il pergolato dei glicini in fiore, andrà a salutare Gaetanino, il [8] poney che il babbo gli regalò per il suo compleanno. A quell’ora Tommaso è uscito e le scuderie sono deserte; nessuno potrà vietargli l’ingresso con la scusa che Mimma, la cavalla learda, è una bestia pericolosa.

Perchè pericolosa? Toti l’ha veduta sempre intenta a dirompere la biada o a scegliersi il fieno dalla mangiatoia; l’ha veduta sempre seria e tranquilla come miss Edith, anzi gli pare che le due creature si somiglino, solamente Mimma ha una grande superiorità su miss Edith: non parla la lingua inglese.

Le scuderie sorgono dall’altro lato del giardino, passato il ponticello sul lago, fra un gruppo di salici e di pioppi.

Toti si sofferma a guardare l’acqua chiara nella quale guizzano centinaia di pesci rossi, bianchi e neri. Ecco un altro divieto! Gli piacerebbe tanto pescare, ma papà non vuole. Un giorno Toti gli oppose che Muci, il gatto soriano della zia Emma, non rispettava il divieto e per ore ed ore, chino su l’acqua, aspettava pazientemente la preda, e papà disse:

— Muci non ha intelligenza.

— Ma io pure non ho intelligenza, papà. Lasciami pescare! —

Non ci fu verso; Toti doveva essere un bambino ragionevole; come se Muci non ragionasse! Che differenza c’era fra lui e il gatto? [9] Una sola: il gatto non era figlio di papà e non l’aveva portato la cicogna; poteva fare quindi ciò che più gli piaceva, senza che nessuno gli dicesse:

— Muci, voi non siete una creatura ragionevole; voi non seguìte gli ammonimenti di miss Edith e della zia Emma e di vostro padre; un giorno o l’altro vi puniremo, Muci! Starete senza frutta e vi toglieremo i balocchi e, nelle ore di ricreazione, vi manderemo da Suor Lucia! —

Ah quella Suor Lucia che gli appariva come una minaccia! Gli sarebbe piaciuto vederla, almeno da lontano, per farsene un’idea. Se l’immaginava grande grande, nera nera, con gli occhi rossi come quelli di una locomotiva, con la voce cupa come quella del tuono e con le mani lunghe ed ossute, che facevano male anche quando sfioravano.

Toti sa che da Suor Lucia si raccolgono tutti coloro che non sono ragionevoli; tutti coloro che dimenticano gli ammonimenti, che mangiano le frutta di nascosto, che fanno i versacci alle loro istitutrici.... Quanto dev’essere cattiva la suora del buon Dio!

L’acqua ha un fremito, si apre in tanti cerchiolini, in tante anella che si allargano si allargano e corron via senza rumore verso le sponde dove pascolano le anatre; è apparso il muso nero di un luccio e boccheggia, [10] quasi voglia far udire una parola che non dice mai. Una libellula azzurra gli vola intorno sfiorando l’acqua.

Toti sorride.

— Buon giorno, signor pesce! —

Il luccio si avvicina ancor più; ha la bocca nera, pare un calamaio. Toti ne considera l’ampiezza, poi sospira e si allontana per non essere vinto dalla tentazione di imitare Muci.

Al termine del ponticello le oche selvatiche lo salutano schiamazzando; allungano il collo e allargano quel loro beccaccio giallo che somiglia tanto alle pantofole di bulgaro del nonno. Toti disdegna le oche e passa dignitosamente senza rivolgersi, senza por mente al loro diguazzare. Un giorno volle accarezzarle ed esse l’inseguirono fieramente per tutto il giardino, lasciandogli un ricordo poco gradito del loro carattere irascibile; ora nutre un desiderio vivissimo di ripagarle di quello scherzo di cattivo genere.

Per somma prudenza, giunto alle scuderie, chiama tre volte ad alta voce:

— Tommaso, Tommaso, Tommaso!

Nessuno risponde; Tommaso è al mercato a quell’ora; Toti avanza correndo.

Non appena entrato, Gaetanino annitrisce dalla soglia solitaria; Toti non va direttamente a lui, si sofferma vicino al davanzale [11] di una grande finestra; ha scorto alcuni tanglefoot o arruffa-zampe.

Sono i panioni tesi alle mosche.

La caccia procede a perfezione. Le bestiuole attirate dal miele che riluce al sole e odora, giungono a sciami, si gettano sul pasto insidioso e rimangono talmente impaniate che, dopo inutili tentativi di liberazione, vibrano le ali, allungano la tromba nera, e si innalzano un poco per ricadere da un lato vinte per sempre.

Di dove verranno tante mosche? Almeno fossero quelle di Milano delle quali la zia Emma parla con tanto terrore! Il castigo sarebbe meritato. Gaetanino nitrisce dalla sua soglia e sogguarda con le orecchie diritte e annusa e fiuta. Se i tanglefoot piacessero anche a Gaetanino? Perchè no? Il miele è un cibo goloso.

Toglie prudentemente dal davanzale della finestra un tanglefoot e si accosta alla soglia del poney il quale guarda con occhi sempre più intenti ed ha un fremito di gioia e allunga il muso.

Mimma alza le froge sopra i cancelli del serraglio; pare che voglia la sua parte.

— Aspetta, Mimma, — le dice Toti — aspetta, ce n’è anche per te. —

E, vinto da questo pensiero di giusta ripartizione, abbandona nella mangiatoia di [12] Gaetanino il tanglefoot che gli ha destinato, corre al davanzale, ne prende un secondo e si dirige al serraglio.

Mimma lo attende sempre; ma è tanto grande quella bestiaccia! Come giungere a quel muso che pare posato sulla cima di un campanile? Ecco, trova una sedia, l’accosta prudentemente e vi sale. La cosa è fatta, e Toti se ne compiace; ma ad un tratto un diavolìo infernale lo impaura.

Gaetanino s’inalbera nella soglia, Mimma sferra terribili calci ai cancelli del serraglio e corre, si affanna, si aggira soffiando ed annitrendo quasi fosse impazzita. Che cosa avviene? Toti ha una grande volontà di piangere.

Si dirige all’uscita, ma ecco la porta si apre con violenza, e Tommaso si precipita gridando:

— Che cos’ha fatto, signorino, che cos’ha fatto alle bestie? —

Il monello non risponde; si volge, rassicurato dalla presenza di Tommaso, guarda ed è preso da un irrefrenabile impeto di risa.

Gaetanino, ritto nella mangiatoia, scuote il muso alla disperata senza poter liberarsi dal tanglefoot che gli si è appiccicato alle froge; Mimma ballonzola freneticamente con la carta che le penzola dalle mascelle; pare abbia una barba bionda!

[13]

E mentre Toti fugge, ode le grida di Tommaso:

— Ah, lo dirò alla contessa Emma! Scappi, scappi pure, ma questa non glie la perdono! —

Ecco che cosa si guadagna ad esser buoni e giusti con le creature del buon Dio!

— Dorme la zia?

— Mi ha chiamato poco fa, — risponde Giannina, la cameriera. — Forse vorrà levarsi.

— E papà?

— Dorme. Ma come mai si è alzato così di buon’ora, signorino? Ha riposato male?

— Sì, ho riposato male, — risponde Toti rammentando le parole della signora Penelope, una vecchia amica del nonno. — La mia sciatica non mi ha fatto chiuder occhio.

— Ma che dice? —

Toti alza la testa, e squadra dal capo alle piante la cameriera che non vuole andarsene, mentre egli ha assoluto bisogno di rimaner solo.

— Mi pare che la zia abbia suonato un’altra volta, — riprende facendo lo gnorri — guarda di non la fare inquietare.

[14]

— Vado subito.

— Brava, vai subito e chiudi la porta perchè i riscontri mi fanno male. —

Il campanello elettrico tintinna per la seconda volta e Giannina scompare.

Toti, rientrando dal giardino, è passato dalla cucina che ha trovato deserta sicchè ha potuto, in tutta pace, riempirsi le tasche di piselli. Non è che i piccoli legumi gli piacciano, li ha presi perchè erano abbandonati alla loro ventura e perchè il cuoco, quando può, gli fa sempre qualche dispetto. Poi i piselli, per la loro forma sferica, sui pavimenti di legno scivolan via che paiono vivi.

Ora guarda se tutte le porte della stanza sono chiuse. Sì; nessuno potrà vederlo nè disturbarlo. S’inginocchia e si vuota le tasche. Eh, che furia! Pare una scorribanda! La verde cascatella si riversa sul lucido pavimento e si urta, corre, ruzzola, s’insegue fino agli angoli più remoti. In un attimo il verde esercito vegetale, uscito dalle profonde tasche di Toti, si è sparso per tutta la camera, ha invaso lo spazio disponibile, saltellando e rimbalzando in preda a una vera frenesia.

— Poveri piselli! — pensa Toti. — Almeno si divertiranno, e Giovanni non potrà rinchiuderli nelle sue casseruole. —

Il nuovo pensiero gli fa sentire un grato [15] profumo al quale non aveva posto mente; un profumo che giunge da vicino e proviene chi sa da quale dolce cosa.

Leva gli occhi alla tavola e si alza con la bocca socchiusa dallo stupore. Sopra una tovaglia bianchissima è posata una grande torta tutta dorata, tutta bionda; pare un sole di pasta frolla.

A chi sarà destinata? Si avvicina e comincia a osservarla da tutti i lati. La tentazione è terribile. Getta un’occhiata furtiva alle porte, sta in orecchio; nessuno si avvicina; è solo, perfettamente solo.... Ah no! C’è il buon Dio che lo vede e lo sente; però, s’Egli non vuole, gli parlerà per la voce della coscienza.

E Toti ascolta la voce della coscienza che gli dice: Fa’ presto. Non perder tempo!

Allora si rivolge al cielo ed esclama:

— Mio bel Signore tu mi vedi e so che sei contento. Grazie. —

Allunga una mano, afferra un angolo della tovaglia, tira a sè la torta e, chino su la bella preda, la morde con assennata simmetria in vari punti.

È un nuovo ricamo e Toti sorride compiacendosi dell’opera sua, allorchè una porta si apre di scatto e la zia Emma comparisce nel vano.

— Toti!

[16]

— Buon giorno, zia Emma; hai riposato bene?

— Che cosa facevi?

— Guardavo questa bella torta.

— La guardavi solamente?

— Credo di sì.

— Come credi? Non ne sei sicuro dunque!

— Papà dice che non si può mai essere sicuri di niente al mondo.

— Non pensare a papà, ora, e rispondimi a tono: Hai commesso un peccato di gola?

— No, zia Emma: la torta l’ho baciata solamente e il Signore mi ha veduto! —

La zia Emma vorrebbe sorridere ma tien fissi gli occhi in volto a Toti che non sa più quale atteggiamento assumere.

— E questi piselli che cosa fanno qui?

— Si divertono.

— Toti, voi volete ch’io vi punisca severamente!

— No, io non lo voglio, zia Emma, sei tu che lo vuoi!

— Ora li raccoglierete a uno a uno! —

Toti sorride tutto contento, tanto la pena gli par leggiera, anzi in un impeto di generosità, si avvicina alla zia e, assumendo un’aria ingenua, le dice:

— Senti zia, se sei proprio inquieta puoi lasciarmi senza frutta; io non voglio che tu soffra! —

[17]

— Buon giorno, zia Emma hai riposato bene? — (pag. 16.)

[19]

La giovane signora non risponde. Toti s’inginocchia sul pavimento, comincia lentamente l’opera, e canta:

Pisa pisello

L’amore è così bello,

La scala e lo scalone

La penna del pavone....

— Toti, non gridare che svegli papà. — In tono sommesso riprende:

Passan tre fanti

Con tre cavalli bianchi

Bianca la sella....

Si sofferma. Che Tommaso abbia parlato? Volge gli occhi, la zia è immobile su la soglia e non fiata: per ora è salvo, può continuare:

Bianca la sella,

Bianca la donzella,

Bianco il parasole

Che Gesù ci mandi tanto sole!

Nel cielo passano tre piccole candide nubi, tre navicelle d’argento nell’immensa serenità.

[20]

A quando a quando dall’attiguo salottino della zia Emma gli giunge la voce stridula e sgradevole della signora Penelope, la vecchia amica del nonno. Toti giuoca in silenzio perchè non lo sentano e non lo chiamino.

La signora Penelope dice sempre le stesse cose:

— Oh che bel bambino! Come sei cresciuto! Dammi un bacio, Totarello caro, gioia mia! —

E quando lo bacia gli rimangono su le guance tanti cerchiolini lucenti, che non gli piacciono affatto.

Un giorno la signora Penelope non voleva lasciarlo in pace e se lo palleggiava come se fosse un biscotto; Toti era già annoiato di quella soverchia tenerezza, e se ne stava col broncio, allorquando, còlto da una subita idea vendicatrice, guardò fissamente la querula signora e le disse:

— Senti, Pepè, quando io sarò grande e tu sarai piccola, ti porterò sempre tanti dolci; ma tanti tanti e tanti! —

Glie lo disse, perchè la vecchia amica del nonno era avarissima e non gli aveva regalato mai neppure l’ombra di un cioccolatino.

[21]

Se lo lasciassero tranquillo, ora! Deve insegnare l’alfabeto all’elefante il quale è un po’ tardivo; deve impartire le nozioni del galateo a Beretta e Pierello, i due fantocci meccanici che non vogliono dormire nello stesso letto ed hanno imparato da papà a discutere sempre di politica, la qual cosa, come dice la zia Emma, è terribilmente noiosa; deve pensare al porcellino che vorrà uscire dalla scatola gialla....

Miss Edith, seduta alla scrivania, il naso incollato su la carta, non fa che scrivere da circa un’ora.

Quando scrive, Miss Edith somiglia Beretta allorchè, caricato, muove il capo da destra a sinistra e mette in moto il macinino da caffè. Che cosa buffa! Le persone grandi sono come i fantocci, i quali, quando cominciano a fare una cosa, continuano a farla finchè la molla non si scarica.

Il gaio pensiero gli desta una subita ilarità che si manifesta in una squillante fuga di trilli.

Miss Edith alza il capo e Toti, sollecito, rivolto a Beretta grida:

— Se ridi ancora di Miss Edith, ti suono cinque grandi schiaffi!... —

Ristà stupito ed alza gli occhi arrossendo perchè ha detto senza dubbio una cosa enorme; [22] Miss Edith non ha inteso, meno male. Riprende tranquillamente il giuoco.

Ad un tratto una voce giunge dal salottino della zia Emma:

— Toti?

— Dunque, caro elefante, — continua il monello — dicevamo che l’o è una palla con la coda; l’i è un bastone; l’u sono due bastoni che si tengono per mano....

— Toti, non rispondi?

— Mio Dio, ma non vuoi proprio capire: l’a con l’u fanno auf!

La zia Emma è comparsa, e l’edificante lezione resta interrotta.

Nel salottino sono raccolte le tre sorelle Pierini: Marta, Maria e Maddalena, brutte e stecchite come le camice insaldate del babbo. Vicino a loro troneggia la signora Pepè, gialla e tonda come una melarancia.

Lo fanno sedere sopra una grande seggiola di fronte alle sorelle Pierini; un’occhiata severa della zia lo avverte che non deve muoversi e non deve fiatare.

Il supplizio incomincia. Toti assume l’aria stanca di una persona malaticcia.

Le signore parlano di matrimoni e Toti ascolta, guardandosi le scarpe.

— Che cos’hai, Toti? — gli chiede la zia Emma.

— Niente.

[23]

— Com’è bellino! — esclamano le sorelle Pierini — e deve essere tanto buono!

— Sì, io sono buono, — risponde Toti — ma qui mi annoio! —

La zia Emma freme, e le tre sorelle esclamano ridendo:

— Caro, caro, caro! —

Toti le guarda; quanto sono brutte! Ad un tratto chiede loro:

— Chi è vostro marito? —

Sente i grandi occhi della zia Emma che lo scrutano fissamente:

— Toti, tu sai benissimo che le signorine non hanno marito.

— Scusa, zia, ma è impossibile: se sono in tre, almeno un marito ci dev’essere! —

Questa volta è la signora Penelope che ride e lo chiama a sè:

— Vieni qui, Totarello, gioia mia! —

Scende lentamente dalla seggiola e si accosta alla signora che lo aspetta in piedi, vicino al divano. Ricorda allora, per una considerazione improvvisa, l’avvertimento che la zia Emma gli ha impartito tante volte per correggerlo da un brutto difetto: come mai se la signora Penelope è tanto vecchia non se ne è corretta ancora? Vuol sincerarsi del dubbio che gli è nato e chiede ingenuamente guardando negli occhi la vecchia signora:

[24]

— Perchè porti tanto avanti quella pancia se la zia Emma dice sempre che non sta bene?

— Infatti — si affretta a soggiungere la zia continuando un discorso interrotto — i signori Erbieri hanno deciso di passare l’estate alla loro villa sul lago di Como. È un luogo incantevole.... —

Toti sente che la burrasca si avvicina; ormai è rassegnato alla immancabile punizione.

Siede sul divano vicino alla signora Penelope che non si stanca di accarezzarlo. La vecchia signora ha le mani umidiccie, sembrano spugne.

Toti ha preso il suo partito, continua a tener gli occhi bassi e di tanto in tanto trae un gran sospiro di sconforto. È possibile che tutta quella gente non si accorga che Toti non si sente bene?

Vista inutile ogni prova, compie un atto eroico e abbandona il capo sul grembo della signora Penelope. Silenzio improvviso.

— Toti? —

Il monello non risponde.

— Toti, Toti che cos’hai? —

Alza languidamente gli occhi e risponde con un fil di voce, appoggiandosi una mano su lo stomaco.

— Sento male qui; mi torna il vomito! —

La zia lo fa alzare, lo prende per mano e lo conduce all’aperto: non appena sono [25] lontani, al sole, sotto ai cieli sereni, il monello esclama sorridendo:

— Ora mi sento meglio, molto meglio.

— Ma che hai avuto?

— Niente, niente zia... —

Poi non regge più, abbraccia le ginocchia della sua cara seconda mamma, e le grida:

— Perdonami, perdonami, zia Emma, starò nel cantone, andrò da Suor Lucia, farò tutto ciò che vorrai.

— Per domani preparatevi; — risponde la zia — le ore di ricreazione non le passerete più in casa. —

Toti non replica, volge gli occhi intorno e vede in un angolo Beretta che lo guarda ridendo; si avvicina, lo solleva e gli grida:

— Domani starai sotto il letto, hai capito? E se ridi ancora, ti condurrò con me da Suor Lucia! —

Beretta scuote il capo metodicamente, come miss Edith che scrive ancora.

— Buona notte, signorina.

Good night, dear. (Buona notte, caro). —

La signorina si ritira nella stanza attigua; fra poco la zia Emma verrà a salutarlo e a fargli fare l’esame di coscienza.

[26]

Disteso sul bianco lettuccio, il capo abbandonato su le mani incrociate, aspetta pazientemente.

La lampada elettrica, nascosta in un fiore di seta, dirada appena l’oscurità; nella grande stanza è una serena pace di sonno; dall’esterno non giunge alcun rumore, si ode solo, a quando a quando, il canto di un assiòlo; giunge dal giardino. Toti pensa ad un grande orologio dal quale l’uccello notturno esca a gridar le ore alle stelle che si nascondono fra gli alberi. Anche gli alberi riposano a quell’ora; ogni foglia si abbassa, si china un poco per dormire.

Da un vecchio cassettone che si perde nella penombra si leva uno scricchiolìo ora forte, ora appena percettibile; gli hanno detto che le tarme, rodendo il legno, producono quel suono, ma Toti non ci crede: il cassettone se l’intende col letto di miss Edith, a quell’ora. Quando suppongono che tutti dormano, i due mobili si comunicano i loro pensieri, parlano dei loro affari. Che cosa si diranno mai?

E ascolta e fantastica, ma con sempre maggiore incertezza, perchè le palpebre scendono su gli occhi e la luce della lampada si fa più tenue, si allontana sempre più, si disperde come un piccolo sole morente in una pianura senza alberi, senza limiti, infinita.

[27]

I suoi riccioli biondi riposano; parte gli scendono su la fronte, parte ricadono sul guanciale candidissimo; le sue gote si tingono di vermiglio e la bocca si dischiude quasi ad attendere il dolce bacio del sogno. Toti si incammina per le bianche vie sterminate su le quali si passa in un rapido volo verso gli incantevoli giardini che la notte dischiude alle anime erranti dei bimbi.

Ma una voce lo riscuote all’improvviso; apre gli occhi e si leva su le coltri. La zia Emma gli sta vicino, ha ancora il viso severo; perchè mai sarà tanto inquieta?

— Hai detto le orazioni?

— Sì, zia.

— Hai pregato per la mamma?

— Sì, ho detto al buon Dio che le dia sempre tutti i fiori che le piacevano e che non la faccia pianger mai! —

La zia Emma si attarda un poco prima di riprendere le interrogazioni, finge di riassettare le coltri, ma invero vuol ricomporsi per non lasciarsi vincere dalla grazia di quel monello e dargliele tutte vinte.

— E ora fa’ il tuo esame di coscienza. In quanti peccati sei caduto, oggi? —

Toti si concentra e comincia in tono sommesso, dolcemente:

— Ho fatto una falsità!

— Hai dimenticato l’italiano, Toti?

[28]

— No, zia, volevo dire: ho detto una bugia.

— Va bene. E poi?

— E poi... e poi, ho commesso un peccato di gola.

— Benissimo, e poi?

— Perchè dici benissimo, zia? Allora non è male!

— Toti, non ti distrarre, continua il tuo esame.

— E poi... non so come si chiami.

— Che cosa?

— Che peccato è quello di spargere i piselli in sala da pranzo?

— È una disubbidienza.

— Va bene, allora ho commesso una disubbidienza e ho rotto una bottiglia.

— Nient’altro?

— Mi pare di no.

— Pensaci bene, Toti.

— Ci penso.

— Ebbene? —

Breve pausa dopo la quale riprende sorridendo:

— Ho proprio finito, sai? Non ho nessun altro peccato sulla coscienza.

— Sta bene; allora chi ha spaventato i cavalli? Chi ha risposto male alla Signorina? Chi ha detto delle brutte parole?

— Io.

[29]

— E perchè non lo dicevi?

— Perchè credevo tu non sapessi niente!

— Ah! è questo l’esame di coscienza che fai? Iddio che ti legge nell’anima potrebbe punirtene perchè la cosa è molto grave. Ora inginocchiati e domanda umilmente perdono a Dio del sotterfugio che volevi fargli. —

Tutto umiliato e compunto Toti s’inginocchia, congiunge le mani, e in tono di sincerità commovente esclama:

— Mio bel Signore, perdonatemi voi perchè sono un infame! —

La zia Emma sorride.

— Non sei più inquieta, è vero?

— Mi promettete di essere buono?

— Sì, zia; te lo prometto. Sarò tanto buono che sembrerò uno stupido!

— Ma Toti!

— Lo dici sempre tu: è tanto buono che sembra uno stupido! È un peccato anche questo?

— No. Sta’ quieto e pensa a dormire. —

Toti eseguisce. Quando è sotto le coltri, colto da un pensiero solleva il capo e riprende:

— Zia, mi dài il mio elefante?

— Per tenerlo nel letto?

— Sì. È un poco malato; oggi perdeva il sangue dal naso. Poi ho sognato che [30] una donna bianca, sotto un olmo lontano, ci aspetta.

La lampada elettrica si è spenta, la zia Emma è già su la soglia e sta per chiudere la porta; un’ultima domanda:

— Zia, zia!

— Che vuoi?

— Hai pensato a Suor Lucia?

— Domani la conoscerai perchè una punizione la meriti.

— Oh!

La porta si chiude; il buio è perfetto. Toti abbandona la testolina sui guanciali e trae un lungo sospiro; ma la donna bianca che veglia sotto l’olmo remoto viene a prenderlo per mano, ed egli la segue nei magici paesi del sogno.

Nel giardino, l’assiolo conta le stelle che appaiono e scompaiono fra le foglie dei grandi alberi neri.

[31]

II. Suor Lucia.

— Signor Toti! Voi discendete dalla famiglia più nobile del paese, nota ed amata per intemerate virtù, specchio di purissima grazia, ornamento nostro di dolcezza spirituale; voi siete il nuovo vaso di elezione che deve servire di esempio alla cittadinanza che vi guarda; io dunque vi sono grata e sono confusa per l’indegno onore che mi fate affidando l’anima vostra a me, umilissima serva di Dio. Vi sono grata perchè fra i miei innocenti porterete il segno del vostro alto valore che sarà incremento alla nobile schiatta dei buoni; sono confusa perchè siete voi che insegnerete qualcosa a me, ignorantella meschina, magra agnella del gregge spirituale.

Siate il benvenuto, signor Toti, e possiate rimanere fra noi — nostra vera dolcezza — fino alla consumazione dei secoli! —

[32]

Pronunciate le quali ultime parole, Suor Lucia nasconde in fretta la carta su la quale aveva scritto il suo discorso e, rivolta a due monelli che si bisticciano in un angolo, grida a tutta voce:

— Anselmuccio, Giacomino volete smetterla? È sempre per la mela che vi bisticciate? D’ora in avanti mangerò io tutte le mele che portate nel cestino, e così starete in pace. —

I due monelli si avvicinano a capo chino borbottando; ma Suor Lucia non bada più a loro.

Toti guarda e stupisce.

È dunque quella la tanto favoleggiata Suor Lucia, lo spauracchio del quale ha temuto? Quella creatura tutta umile e compunta che lo ha salutato con tante parole delle quali non ha capito niente?

Egli la pensava grande e nera, e invece è piccina, magra e ossuta; bianca come un cero. Dal suo volto affilato, tutto racchiuso in un velo nero, stretto sotto il mento, traspare una bontà rassegnata che fa pena. Suor Lucia deve aver sofferto e deve soffrire tuttavia; chi sa mai perchè! Ella non è veramente suora; le hanno dato quel nome perchè indossa sempre una veste monastica e perchè si è volontariamente votata ad una regola di penitenza assidua. È poverissima; campa [33] di quel poco che le danno le famiglie che affidano a lei i loro bambini; ed anche quel poco è troppo per Suor Lucia, che vive di niente. Dorme nelle case della carità. Il giorno, con la sua gaia nidiata, non fa che pellegrinare dalle chiese agli orti, dagli orti alle piazze, dalle piazze ai giardini e non potrebbe altrimenti perchè non possiede una stanza nella quale raccogliere gli scolari ribelli. D’altra parte i genitori desiderano ch’ella faccia far del moto ai loro bimbi, e Suor Lucia è come una spola che dal mattino al tramonto si affanna dietro l’inesauribile foga di una barbara gaiezza che non può e non saprebbe frenare. Ogni tanto nell’andito di una chiesa, in una sagrestia, sotto qualche portico remoto si ferma, raccoglie intorno a sè la sua nidiata, apre il libro che non abbandona mai ed impartisce ai disattenti uditori i primi insegnamenti della dottrina sacra.

Suor Lucia legge maluccio, ma sa spiegarsi con chiarezza sufficiente; e questo può bastare. Le lezioni sono brevissime; è già molto s’ella riesce a tener fermi i suoi monelli per un quarto d’ora; quando essi si stancano e vogliono andarsene, ella non può comandare, deve semplicemente ubbidire; tale è anche la volontà del Signore. Così riprende la via sotto una siepe; attraverso [34] un prato; lungo i sentieri di una piccola selva, e i suoi bimbi le vogliono bene.

I più piccoli dicono:

— Suor Lucia è come la Madonna: ha gli occhi di seta celeste. —

Qualcuno suppone che, la sera, quando li abbandona, vada a dormire su le nubi rosse del sole e che ritorni all’alba dall’altra parte del cielo.

Toti non sapeva tutto questo; ora, mentre si dirigono alla chiesa, un compagno al quale lo ha stretto una sùbita simpatia, gli narra le vicende della piccola suora.

Ascolta senza distrarsi, cosa che gli accade ben di rado.

— Da quanto tempo stai con Suor Lucia?

— Da un anno — risponde Orsetto.

— E sei contento?

— Contentissimo. E tu verrai ancora?

— Verrò. —

Orsetto non assomiglia a Toti. I capelli neri, spartiti in due bande, gli scendono intorno al viso quasi fino alle spalle e si arricciano al termine, deliziosamente; è di carnagione bianchissima, dalla quale traggono maggior risalto gli occhi grandi e neri e pieni di una luminosità infantile non mai velata. Pare un piccolo paggio. Tanto dalle sue parole come dall’espressione del volto traspare una ingenuità priva di qualsiasi malizia.

[35]

— Fra qualche giorno verrà anche Marinella, — riprende Orsetto.

— Chi è Marinella?

— È la figlia del dottore. Stiamo vicini di casa.

— Quanti anni ha?

— Ha dieci anni ed è grande. —

Per la via trascorrono numerosi veicoli, è domenica; suor Lucia si affanna perchè la sua nidiata non si sbandi e proceda unita rasentando i muri. La lunga fila si spiega ridendo e cinguettando, e sosta, e ondeggia e si confonde fra la folla delle persone grandi. Assomiglia a un serpentello multicolore, ad un ruscelletto gaio in una pianura tutta grigia.

Trascorron per l’aria luminosa, fusi nell’identica serenità, bianchi colombi e suoni di campane.

Toti viene esaminando i compagni che la sorte gli ha dato; saranno forse una ventina fra grandi e piccoli, fra coloro che ancora si succhiano il pollice e quelli che sentono già di essere figli dell’uomo. I primi si aggruppano intorno a Suor Lucia le si cuciono alle vesti o la precedono di un passo tenendosi per mano, a volte serii serii con un musetto rosso del tutto simile a una ciliegia, a volte distratti e sorridenti per una carta di caramella che hanno trovato su la [36] loro via, o per un ciottolino bianco, o per una festuca lucente; un nulla basta alla loro vita, una sola formica può destare il loro sconfinato stupore. Forse sono figli di povere mamme le quali, per camparli, debbono lavorare anche la domenica.

Toti li osserva, mentre Orsetto glie li viene indicando.

Uno si chiama Rando, è un marmocchio quasi microscopico, avrà tutt’al più tre anni; va solo, con le mani annodate dietro le reni, gravissimamente; non guarda i compagni e non si cura di rispondere alle interrogazioni che gli muovono; ciò che gli si agita intorno non lo preoccupa nè lo commuove; forse potrà curarsi di una mosca, di un uomo mai, l’uomo è troppo grande, egli non può considerarlo. Tiene gli occhi bassi e si guarda le scarpe che slabbrano un pochino; per lui sono rimaste belle e lustre come dal primo giorno che se le mise, formano la sua ambizione. Ancora, se si degna di interloquire con uno dei marmocchi coetanei suoi è per dirgli:

— Guarda che belle scarpe! —

E non attende approvazioni, tira innanzi sicuro del fatto suo.

Indossa un gonnellino rosso che non gli arriva al ginocchio; gli è assicurato alla persona per mezzo di due straccali verdi, posti [37] sopra alla camiciola di bordatino celeste, la quale gli serve anche da giubbetto. Compie il suo abbigliamento un vecchio cappellino da signora, dalla tesa immensa e dal cocuzzolo microscopico; è di paglia annerita; un elastico che gli passa sotto il mento glie lo assicura al capo.

Qualcun altro potrebbe essere grottesco con simili indumenti; Rando non è tale; la sua gravità accigliata conferisce nobiltà ai piccoli cenci che lo ricoprono.

Lo segue guardandolo di tanto in tanto, una bimba della sua stessa età: Celestina. Ha i capelli canapini raccolti in un ciuffo bizzarro che le si alza su la nuca, e ricorda un pennello da barba.

Celestina ha le calze lunghe e un grembialuccio bianco fermato alla vita da un nastro giallo. Per lei Rando rappresenta un inesplicabile mistero. Se qualche cosa straordinaria non la distrae, segue sempre il marmocchio con devozione ignara; e quando egli si ferma, anch’ella si ferma; e quando l’attenzione di lui è attratta da un nuovo miracolo, ella pure, con la stessa serietà, considera il nuovo miracolo. È l’unica che gli dica con vera compiacenza:

— Rando, le tue scarpe sono belle! —

Contuttociò Rando non la degna di uno sguardo ma Celestina non se ne accora, anzi [38] se Rando le parlasse, la ragione dello stupore di lei verrebbe a cessare.

Poi ne seguono molti altri in mirabile varietà; vanno appaiati: Nicoluccio e Doretta; Lola dalle gambe torte e Miranda dal naso a virgola; si volgono a quando a quando a considerare il viso di Suor Lucia.

Fra i più grandi, Toti osserva Adalgisa, una monella spinosa come un istrice, bruttina, palliduccia, dispettosa. Ha una pamela striminzita, ornata di girasoli e rosolacci; nonostante la goffa ineleganza della sua veste, va scutrettolando e si pavoneggia reggendosi un lembo della gonnelluccia disadorna.

Sono alla soglia della chiesa; Suor Lucia grida:

— Fatevi il segno della croce! —

Tutti eseguiscono, borbottando parole incomprensibili. Poi entrano; taluni distratti, altri assumono atteggiamenti di sùbita compunzione. Rando col suo enorme cappellino in capo e le mani annodate dietro le reni, si è fermato presso Suor Lucia che si è inginocchiata ai piedi della pila dell’acqua benedetta.

Osserva un ragno che sale per le vesti di Suor Lucia. Celestina è presa dalla stessa ammirazione; ad un tratto, vinta dalla curiosità, chiede al compagno:

— Che animale è quello? —

[39]

Rando si concentra, corruga le ciglia, cerca una parola grande che ha udito qualche volta e che deve adattarsi all’occasione; dopo qualche minuto, senza scomporsi, con la gravità di un vecchio scienziato, risponde:

— Quello è un mammifero! —

Hanno occupato due panche, e Suor Lucia si è posta al centro della seconda per osservare e consigliare. Toti non è ancora padrone di sè stesso; l’ambiente nuovo e la nuova compagnia lo distraggono; all’infuori di Orsetto, si sente ancora estraneo fra estranei, sta un po’ serio e umiliato.

La grande chiesa umida e oscura è piena di gente. Dal suo posto elevato Toti vede un mare di teste chine. Nell’aria si diffonde un vago profumo d’incenso.

Egli assiste per la prima volta al rito religioso perchè la zia Emma non lo ha condotto mai in chiesa; tutto ciò che vede lo stupisce e si domanda se l’ostensorio, che il sacerdote leva silenziosamente in alto, non sia un dono del buon Dio agli uomini, una stella d’oro tutta raggiante, discesa dai lontanissimi cieli.

[40]

La sosta si prolunga, e i più piccini si distraggono, fuorchè Rando e Celestina. Il primo pare tutto assorto nell’ammirare gli interstizi che passano fra pietra e pietra; la seconda è compresa dall’ammirazione del primo.

Nicoluccio si guarda il naso; Miranda e Doretta si bisticciano fraternamente e Ciuffolo, il marmocchio dalle enormi guance, conta i grani di una corona:

— Uno... tei... cinche... tre.... —

Il subito tintinnìo di un campanello riscuote Suor Lucia che era stata, fino a quel punto, assorta, col capo fra le mani; ella sussurra:

— In ginocchio! —

Nasce uno scompiglio fra le fila del piccolo esercito; ognuno vorrebbe il posto del compagno:

— Zitti, bambini! Siete nella casa del Signore, zitti! —

L’ammonimento di Suor Lucia ha un risultato parziale; ella si leva per correggere i più ribelli; dopo non lieve fatica riesce ad ottenere un po’ d’ordine, ma molto relativo. Rando e Celestina tirano un nastro della veste di una vecchia signora che è inginocchiata innanzi a loro. Rando pensa che quella grande cosa, per mezzo di quel sistema, possa dire — Papà — e — Mamà — [41] come un meraviglioso fantoccio ch’egli conobbe altra volta. La prova non riesce; anzi la vecchia beghina, avvertendo l’insolita ginnastica compiuta sui suoi indumenti, si volge, fulmina di un’occhiataccia minacciosa l’impassibile filosofo e gli dice:

— Lo dirò alla tua mamma, screanzato! —

La mamma non l’ha più e la seconda parola è misteriosa.

Rando e Celestina si guardano e si stringono nelle spalle.

— Pregate con me, — sussurra Suor Lucia — avanti, pregate con me.

Tutti si volgono per ascoltare e ripetere ciò ch’ella dirà.

Pater noster... — Celestina state ferma!... — qui es in Coelis, sanctificetur.... — Lola, vuoi smetterla di gonfiare le guancie?... — nomen tuum. Adveniat Regnum tuum. Fiat... Togliti quelle dita dal naso, Ciuffolo! Ma che cos’è?!... — Voluntas tua sicut in Coelo, et in terra. Panem nostrum quotidianum... — Rando, ripeti dunque, non senti quello che dico?... — da nobis hodie, et dimitte nobis debita nostra sicut et nos... — Zitti, che il diavolo vi porta via!... — dimittimus debitoribus nostris. Et nos non inducas in tentationem... — Miranda, non ti soffiare così il naso dinanzi a Dio!... — Sed libera nos a malo. Amen.

[42]

Tutti ad una voce concordemente e altissimamente ripetono:

Amen. —

La vecchia beghina dal nastro, si rivolge scandalizzata:

— Bella educazione! Vergognatevi! —

Nessuno le dà retta. La gente sfolla.

Suor Lucia fa levare la sua coorte per compiere la peregrinazione consueta ai vari altari prima di tornare al sole. I monelli la seguono cicalando.

Eccoli alla lapide famosa, alla lapide dell’angiolo; bisogna leggerla tutte le domeniche a edificazione e ammaestramento delle anime bambine. Eletta a tale ufficio è Adalgisa, uccelletto nidiace dalle penne arruffate.

Ella assume un tono d’occasione e si fa innanzi tutt’impettita; i compagni le si dispongono attorno. Toti e Orsetto osservano in disparte.

A pochi metri da terra, è una lapide su la quale sono incisi innumerevoli ghirigori; pare un esemplare di calligrafia.

Adalgisa con la sua vocetta stridula ne incomincia la lettura.

CHI CONOBBE TEMISTOCLE?

Pausa.

[43]

TEMISTOCLE
FIGLIO DI VINCENZO E PELLEGRINA
FU ESEMPIO DI RARE VIRTÙ
CHÈ ALLE DOTI PRECLARE DELL’ANIMO
CONGIUNSE
RETTITUDINE, ONESTÀ, PARSIMONIA.
FU UBBIDIENTE E RISPETTOSO
SAVIO, MAGNANIMO, GENTILE.
VERO SPECCHIO DI CONSOLAZIONE

Seconda pausa.

AHI
CHE A SOLI DIECI ANNI MORIVA.

Terza pausa.

UN PENSIERO E UNA PRECE.

La lettura è compìta. Adalgisa per qualche istante rimane col naso all’aria. Toti e Orsetto si guardano negli occhi.

— Povero Temistocle! — esclama Toti compreso da sincera pietà.

Orsetto, vinto dallo stesso sentimento, ripete più sommessamente:

— Povero Temistocle! —

Rando e Celestina si succiano le dita.

Dopo un fervorino di Suor Lucia la quale per la millesima volta consiglia la sua brigata [44] di prendere ad esempio le molteplici virtù di Temistocle, l’angiolo per antonomasia, si dirigono all’uscita.

L’ultima sosta è alla pila dell’acqua santa nella quale Suor Lucia immerge la mano per inumidire le piccole fronti che si offrono al segno rituale.

— In nome del Padre, del Figliuolo, dello Spirito Santo e così sia! —

Finalmente la porta si schiude. Ecco il sole, ecco il sole!

Gli occhi si socchiudono abbacinati dalla gran luce che fa tornare il sorriso su tutte le labbra.

Volgono a destra per una strada che costeggia la chiesa. Suor Lucia ha cura di separare provvisoriamente i piccoli dai grandi, e dice a questi ultimi:

— Andate avanti, vi raggiungeremo subito. —

Toti non sa spiegarsi la sosta, e chiede ad Orsetto:

— Ohe cosa fanno? —

Orsetto gli sussurra una parola in un orecchio e Toti non trattiene una fresca risata che si comunica ai compagni.

Fatti pochi passi si rivolge come distrattamente e sogguarda.

Suor Lucia, occupata nella sua faccenda, non se ne accorge. Ella ha allineato vicino [45] al muro i suoi marmocchi, da una parte i maschi, dall’altra le femmine; si volgono le spalle ed imitano concordi il pispiglìo delle fontanelle.

— Marinella è allegra come te, — dice Orsetto a Toti mentre si dirigono ai prati ombreggiati dagli alti filari dei pioppi.

— E perchè la mandano da Suor Lucia?

— Perchè ogni giorno fa qualche nuova scappata. Ieri riempì d’acqua tutte le scarpe che trovò in casa. Ieri l’altro, avendo promesso alla sua bambola di farle fare un viaggio in mare, prese la tuba di suo padre e la mise nella tinozza....

— Com’è graziosa questa! — esclama Toti battendo le mani.

— Sì, è graziosa, — soggiunge Orsetto — ma la tuba era nuova e Marinella è stata al buio.

Toti pensa agli occhi severi della zia Emma ed al volto impassibile di miss Edith; egli non potrà compiere certamente un’impresa simile, però come palliativo soggiunge:

— Ma l’acqua non fa male! Non prendo il bagno, io, tutte le mattine?

— Ma tu sei una tuba?

[46]

— Non lo so, — risponde Toti, pensieroso.

— Non lo sai? —

Dopo breve esitazione Toti soggiunge:

— Tutti siamo uguali di fronte al buon Dio! —

Orsetto tace perchè non intende bene la profondità del pensiero di Toti; egli è ammirato e stupito dalla prontezza con la quale il suo nuovo amico risolve ogni difficoltà.

Ad un richiamo di Suor Lucia sostano. Una signora saltellante, col cappellino pieno di piume si avvicina.

— Chi è? — chiede Toti.

— È la mamma di Adalgisa, — risponde Orsetto — è una signora buffa; si chiama Cleopatra.

— Guarda che bel nome! Almeno si sbrigasse presto! —

La signora Cleopatra s’inchina amabilmente innanzi a Suor Lucia ed esclama:

— Tanti augurî, Suor Lucia, tanti augurî.

— Grazie, altrettanto! — risponde Toti. Orsetto gli consiglia il silenzio.

— Come si porta la mia Adalgisa?

Bene, bene, — risponde Suor Lucia.

Adalgisa si è avvicinata, è tutta rattratta in sè, e scrolla le spalle come se le parole di sua madre le facessero dispetto.

[47]

— Ti fai onore, bambina mia? — le chiede la madre inchinandosi a carezzarla.

— No. —

— Di’ la verità, sii buona!

— Va’ via, va’ via, — risponde l’incomparabile dolcezza.

— Me ne andrò, amore mio; ma tu sii rispettosa con Suor Lucia.

— No. Io voglio piangere.

— E perchè?

— Perchè sì, e se non vai via, ti faccio le corna.

— Dio, com’è carina! — esclama la signora Cleopatra — non le pare?

— Oh sì! — risponde Suor Lucia debolmente.

— Ma a casa è tanto più graziosa. Vede, per esempio, ogni sera, prima di andare al riposo, continuerà un’ora ad augurarci la buona notte, e noi facciamo un carnevale! —

Suor Lucia vorrebbe assentire, ma non le riesce.

— Addio, cara, — riprende la madre accarezzando l’istrice filiale; poi, rivolta alla brigata s’inchina e ripete con comico ossequio: — Tanti augurî, tanti augurî! —

Toti, vinto da un impeto di gaiezza, agita le mani in atto di saluto e risponde:

— Buone feste e buon capo d’anno!

[48]

Pochi passi ancora ed entreranno nel prato verde, nel loro infinito dominio.

Toti è pensoso perchè un dubbio passeggero lo agita, un dubbio che gli fa rivolgere questa domanda ad Orsetto:

— Perchè si devono dir sempre bugie? —

Orsetto lo guarda senza intendere.

— Ma sì, — riprende Toti — se io dico alla signora Penelope che è brutta e non mi piace, la zia Emma mi guarda male e mi punisce; se dico che mi annoio a far le visite, mi lasciano senza frutta e poi vogliono ch’io sia sincero! Ma se ci costringono a dir le bugie! —

Orsetto tace sempre.

— Non è vero? — domanda Toti.

— Sì, ma se non fai così non ti regalano più i dolci!

— Che cosa m’importa! — esclama Toti; e l’idea è già trascorsa, ha brillato un attimo, si è spenta; l’anima di un bimbo è come un seno di mare in cui l’onda succede all’onda placidamente in una dolce lucentezza, velata appena da qualche ombra di nube.

In fondo rilucono i colli, una corona azzurra; nei più vicini si vedono i profili [49] delle case, dei castelli, le ombre nere delle selve; ma poi tutto si allontana e si fonde, trascolora azzurreggiando quanto più sale al cielo. Le estreme vette dell’Appennino si confondono alle nubi; forse lassù si apre la strada che giunge al sole.

I pioppi che fiancheggiano il prato verso levante (e pare che l’Astro sorga fra i colonnati di un tempio grandissimo) si sdoppiano per distendersi al suolo in un’ombra protettrice. I pioppi amano le voci dei nidi e quelle dei bimbi, perchè tanto le une quanto le altre hanno ugual significato per gli immobili giganti.

È tempo di primavera.

Liberi da ogni freno, i monelli si sbandano e gridano e si rincorrono passando nel sole come in un volo. Suor Lucia siede all’ombra dei pioppi e, attorno a lei, si raccolgono i più piccini ai quali deve raccontare la fiaba dello Stelo d’oro.

Rando e Celestina; Lola e Miranda; Nicoluccio, Doretta e Ciuffolo seggono in semicerchio; Suor Lucia è nel centro; fra le alte rame il sole sogguarda ad attimi con mille occhi abbaglianti. La frescura è deliziosa.

— «C’era una volta una via lunga lunga come il cielo e partiva da un capo del mondo per giungere all’altro capo e nessuno [50] l’aveva percorsa mai tutta quanta, benchè molti vi si fossero provati. Dopo dieci, dopo venti anni tornavano vecchi senza ricordare niente di ciò che avevano veduto e delle avventure che erano toccate loro nel viaggio pauroso. Morivano senza riacquistar la parola.

»Ora partivano uomini poveri, ora principi, ora imperatori che preparavano spedizioni numerose di cavalli e di armati; ma o non tornavano, o tornavano muti e vecchi come tutti gli altri.

»In fondo alla strada infinita, custodito da ventiquattro principesse sorelle tutte vestite di seta turchina, sorgeva lo Stelo d’oro attorno al quale esse danzavano eternamente, allacciate in catena, una farandola d’amore. Chi fosse giunto allo Stelo d’oro sarebbe stato Signore del mondo e di tutti i cieli.

»Ora c’era, in un paese della terra, un povero mercante che aveva un solo figlio al quale avrebbe dato anche il suo cuore pur di vederlo contento, e il figlio di questo povero mercante si chiamava Graziolo ed era un fanciullo buono e pensoso, ed era sempre triste.

»Tutte le cure del padre non bastavano a farlo sorridere una volta; e quando il padre gli chiedeva piangendo: — Che cos’hai, Graziolo? — Il fanciullo rispondeva: — Voglio [51] andare al mio viaggio! — Ma non tornerai più, figliuolo! — Sì, babbo, tornerò e voi sarete contento. Lasciatemi partire.

»Tanto disse e tanto fece, che un bel giorno il povero mercante pose in una bisaccia tutto il suo danaro, lo dette a Graziolo e gli disse: — Segui la tua sorte, figlio mio. Se fra cinque anni non sarai tornato, ti raggiungerò nei cieli dove vorrai attendermi. — E Graziolo rispose: — Babbo, fra cinque anni sarò con voi. La mia ventura mi guida, babbo; io parto e tornerò contento! — Si abbracciarono lungamente, e Graziolo si pose per la terribile via dalla quale nessuno era ritornato a raccontare le sue avventure.

»Il padre lo vide dileguare, si gettò in terra e pianse disperandosi. Il sole sorgeva allora....» —

La voce di Suor Lucia è lenta e grave; i monelli ascoltano con la bocca socchiusa. Qualcuno fra loro tende l’orecchio allo stormire dei pioppi, perchè i pioppi parlano, pei bimbi, e ascoltano le fiabe che ripetono poi alle stelle piccine.

Più lontano Toti, Orsetto, Anselmuccio, Giacomino, Adalgisa e tutti gli altri monelli, imitano la danza delle ventiquattro principesse sorelle attorno allo stelo d’oro e, allacciati per mano, cantano e girano in [52] un volo di nastri, di capelli, di vesticciuole che schioccano al vento. Pare che tutta l’aria, tutta la luce s’empia di quella festosità.

— Giro giro tondo

Cavallo imperatore

Cavallo d’argento

Che costa cinquecento.

Cento cinquanta

E la gallina canta

Lasciala cantare

La voglio maritare....

S’interrompono e si fermano guardando verso il fondo del prato dov’è apparsa una piccola ombra nera. Rimane immobile su quel confine estremo e pare non ardisca avanzare.

— Chi è? — chiede Toti a Orsetto.

— È Zulù, il piccolo lupo.

— Perchè lo chiamate così?

— Perchè nessuno gli ha parlato mai; perchè non ha casa e non ha famiglia; perchè ha paura di tutti.

— Oh vieni vieni, andiamo a salutarlo — grida Toti.

— Ma fuggirà.

— Vieni, proviamo. —

Si avviano; Zulù è già scomparso dietro le prode dei fossi.

Toti si lancia in corsa; vuol seguire le tracce di quella creatura misteriosa.

[53]

III. La selva dei Gioghi.

Col capo all’aria e gli occhi intenti alle finestre di un secondo piano, Toti e Orsetto gridano a tutta voce:

— Marinella, vieni? —

Un visetto vermiglio appare fra due imposte socchiuse:

— Aspettatemi, vengo subito.

— Fa’ presto, la strada è lunga!

— È pronta la giardiniera?

— Ci aspetta da un’ora, spicciati.

— Vengo, vengo! —

Il visetto scompare, giungono dall’alto le grida festose della monella; Toti e Orsetto si volgono verso l’estremità della strada dove Suor Lucia, circondata dalla sua coorte, li attende.

Rando annusa con accigliata serietà un gran fiore di girasole, e Celestina tende il [54] nasetto a virgola per gustare l’ipotetico profumo della girandola floreale.

— Come è bello! — esclama Celestina — Dove l’hai preso?

— Me l’ha dato Ciuffolo — risponde Rando senza levar gli occhi.

— E tu che cosa gli hai dato?

— Io gli ho dato due nòccioli di pesca e un bottone.

— Dio! — esclama Celestina giungendo le mani per significare tutta la sua ammirazione per l’abile mercato. — Hai fatto un buon baratto! —

Rando non risponde. Ciuffolo, riparato dietro le sottane di Suor Lucia, si nasconde in bocca i due nòccioli di pesca e il bottone per non cedere alle insidie di Cola che gli gira attorno e lo guarda con occhi sparvieri; le guance di Ciuffolo si gonfiano sempre più, sembrano due piccoli otri, due calotte sferiche applicate ad arte sul viso del pacifico marmocchio.

Marinella giunge di gran corsa.

La pamela, assicurata con un elastico sotto il mento, le è caduta su le spalle e le forma un’aureola intorno al capo adorno da una selva di capelli nerissimi e ricciuti.

Uno schioccare di frusta avverte i monelli che la giardiniera è pronta all’angolo della via, e che si attendono i ritardatari.

[55]

— Presto presto! — gridano coloro che sono già saliti nell’ampio calesse. In un volo tutta la nidiata si affolla e si sospinge intorno al predellino. Comincia la lotta per occupare i posti migliori. Le esortazioni di Suor Lucia, la quale non perde mai la sua celeste serenità, non ottengono nessun risultato. Adalgisa vuol salire a cassetta e si arrampica su per le ruote con grande sconcio della sua vesticciuola bianca, campione di candore se non di eleganza. Toti, Marinella e Orsetto vorrebbero salire sul tetto della vettura, dove si allineano ordinariamente i bauli, ma Suor Lucia non consente; Rando e Celestina hanno occupato un angolo e se ne stanno tranquilli, annusando il loro girasole. Alla fine tutti prendon posto nicchiando, perchè nessuno ha ottenuto ciò che desiderava ad eccezione di Adalgisa, la quale troneggia a cassetta, al fianco del vetturino. Ella si volge a guardare coloro che stanno nell’interno e allargando la bocca e travolgendo gli occhi si abbandona ad una squisita serie di versacci schernevoli; ma ad un tratto interrompe la pantomima e scoppia in pianto dirotto perchè Toti, allungato furtivamente un braccio, le ha dato un solenne pizzicotto nella parte ch’ella espone con maggiore evidenza al pubblico sottostante.

Un nuovo schioccare di frusta, un bubbolìo [56] rapido di sonagliere, il sobbalzare della giardiniera sui ciottoli, interrompe il pianto, di Adalgisa che si asciuga gli occhi su le maniche della veste bianca. Il sole nuovo scivola lungo le vie della città. Qualche passante si sofferma ad osservare. Suor Lucia sorveglia senza cipiglio e senza sorriso; il volto di lei, pallido e grave, non ha mutevolezze.

Mentre la giardiniera corre verso i colli azzurreggianti.... (pag. 56).

Per ingannare il tempo, mentre la giardiniera corre verso i colli azzurreggianti al limite del piano, comincia lo scambio di oggetti svariatissimi e s’iniziano ardenti discussioni su la valutazione dei medesimi. In ciò porta una nota tutta personale Anselmuccio, un monello su gli undici anni, dai capelli rossi e gli occhi obliqui. Egli ha il genio del commercio, è nato commerciante e, per questo istinto di natura, svaligia alla lettera la casa paterna. Le sue tasche sono sempre rigurgitanti e contengono oggetti di indole disparata: francobolli, pipe, vecchie casse da orologio, astucci da gioielli, bottoni, piccoli coperchi, pentolini, fibbie da scarpe, turaccioli e mille altre cose simili. Tali quisquilie acquistano, in mano ad Anselmuccio, un valore straordinario; un turacciolo, ricoperto da un poco di stagnola dorata, è un rarissimo cimelio e non è ceduto se l’oggetto offerto in cambio non ha qualità assolutamente superiori; potrà scambiarsi, per [59] esempio, con un francobollo del Guatemala o con una nappina da chepì, ma non mai coi volgarissimi bottoni i quali rappresentano, nel commercio infantile, l’ultimo grado del valore. Anselmuccio sdegna e si rifiuta di trattare coi piccini, i quali non hanno a loro disposizione se non qualche bottone rapito furtivamente al patrimonio materno. Una volta Cola, dalle gambe arcuate, per ottenere da Anselmuccio un vecchio lunarietto si staccò tutti i bottoni che aveva addosso e rimase con le brachine penzoloni; ma anche questo supremo sacrificio, questa violazione della privata decenza, non ottenne risultato e Suor Lucia ne pagò le spese in tanto filo per rimetter le cose a posto.

Anselmuccio ordinariamente non parla, osserva i compagni, spia l’occasione propizia; nulla gli sfugge; è onniveggente. Ogniqualvolta scorga una cosa che gli sembri utile e commerciabile è pronto ad intervenire e ad offrire. Quasi sempre gli affari gli riescono bene; ha un’abilità tutta sua, che i compagni gli riconoscono.

All’infuori di ciò, nulla lo seduce; rimane indifferente ai giuochi ed agli scherzi, vive a sè calcolando e premeditando.

Marinella lo chiama l’astuto citrullo, e Anselmuccio ne ride, pago di soddisfare la sua vivissima bramosia dello scambio.

[60]

Il sole si avviva e le allodole navigano per l’aria azzurra; si odono i loro trilli, le loro cadenze sperdute; scendono, si inabissano nel dolce cielo d’aprile; e dagli olmi le verlette e dalle macchie gli usignoli rispondono alle sorelle del sole. Fa fresco e l’aria reca dolcissimi aromi dai frutteti e dagli orti in fiore.

Celestina si sporge a guardare la strada; ad un tratto si volge a Rando, e gli chiede con aria trasognata:

— Perchè girano le ruote? —

Rando guarda a sua volta, sta assorto qualche secondo, e risponde:

— Perchè gli alberi corrono e la strada scappa. —

Celestina ride stringendosi nelle spalle; ma ride convinta dalla spiegazione che le ha data Rando; è un attimo di perfetta fusione dell’anima sua bambina con l’anima di tutte le cose che la rende gaia. È pur buffo che gli alberi corrano per far piacere al suo compagno e a lei, e che la strada fugga per farli giungere più presto sui monti celesti, dove sorride la neve e dove si mangiano le castagne!

[61]

— Quando torneremo noi alla selva di Lucchetto? — chiede Toti a Marinella.

— Chi sa? — risponde la monella alzando gli occhi e le ciglia in atto di vaga incertezza. — Chi sa?

— Una volta Suor Lucia ci conduceva tutte le domeniche alla selva e ai prati di Villanova — dice Orsetto — ora ci andiamo molto di rado e io non so perchè!

— Vi trovavate con Bocca-di-fiore?

— Sì; sempre.

— E con Allodola?

— No, Allodola l’ho veduta due volte sole. La cercavamo sempre perchè canta bene, ma Suor Lucia ci diceva che era malata.

— Infatti, anche domenica scorsa era molto pallida! — esclama Marinella.

— E di chi è figlia? — domanda Toti.

— Non lo so, — risponde Orsetto.

— Con chi vive?

— Vive nei prati ed ha un gregge di pecore bianche. Tutti le vogliono bene.

— Che bel nome ha!

— Bellissimo! — esclama Marinella — Ha anche gli occhi belli. Non deve essere figlia di contadini.

[62]

— Io ho sentito una storia di principi, — soggiunge Orsetto — una storia confusa della quale non ricordo nulla. La raccontò un piccolo pastore.

— Non ricordi il nome?

— No; era un amico di Zulù.

— E credi che Zulù ne sappia qualcosa?

— Credo di sì, perchè Allodola è la sola creatura alla quale il piccolo lupo voglia bene.

— Allora dirò a Zulù di raccontarmi la storia di Allodola — soggiunge Toti.

— È inutile, non ti risponderà e lo faresti inquietare.

— Chi sa?! — riprende Toti in tono leggermente ironico. — Potrebbe darsi ch’io riuscissi!

— Sei stata mai alla capanna di Bonaventura? — chiede poi a Marinella come per sviare il discorso.

— Ci sono stata quand’ero piccina.

— E che c’è di bello?

— Allora c’era la mia balia e c’era un maiale addomesticato che ci seguiva sempre come un cane e mangiava a tavola con noi.

— E adesso ci sarà più? — chiede vivamente Orsetto.

— Chi lo sa? Allora era già vecchio e sono passati tanti anni!

[63]

— Quanti?

— Oh, per lo meno cinque. —

Trascorre una pausa poi Toti sussurra:

— Sapete chi troveremo lassù?

— Chi?

— Indovinate.

— Non saprei, — risponde Marinella.

— Non saprei, — soggiunge Orsetto.

— Troveremo Zulù.

— Zulù? E quando l’hai veduto? — domanda Marinella oscurandosi.

— Questo è affar mio, — risponde Toti.

— Gli hai parlato?

— Sì.

— È venuto a trovarti?

— No; sono andato a trovarlo io.

— Solo?

— Solo.

— E non hai avuto paura?

— Zulù è buono, e non fa male a nessuno.

— Ma allora perchè vogliono portarlo in prigione?

— Io non lo so, — risponde Toti. — Noi torneremo verso sera; poco prima del tramonto Zulù sarà alla Selva dei Gioghi che è poco distante dalla capanna di Bonaventura, e ha detto di trovarci là. Verrete?

— Io verrò, — risponde Marinella.

— Anch’io, — soggiunge Orsetto.

[64]

— Non ne parliamo ora, perchè gli altri se ne potrebbero accorgere, e vogliamo esser soli.

— Sì, soli soli.

— Poi, se fossimo in molti, Zulù non verrebbe; lo ha detto.

— Io però ho un poco di paura, — soggiunge Marinella ridendo.

— Anch’io, — replica Orsetto.

Toti è lusingato dal timore dei compagni; ciò accresce a mille doppi il suo coraggio.

— Verrete con me; — risponde — io conosco Zulù, siamo buoni amici. —

Marinella ha un lampo ne’ suoi grand’occhi neri.

— Gli chiederemo se è giunto mai alla casa dell’Orco.

— E se ha veduto i nani dei boschi, — sussurra Orsetto.

— Zulù deve saper tutto, deve aver veduto tutto, — replica Marinella. — Oh io gli darò due bacioni sugli occhi!

— Non hai più paura? — le chiede Toti.

— Ora mi pare di no; ma può darsi che a vederlo la paura ritorni. È tanto brutto! —

L’alto vocìo dei compagni interrompe il loro dialogo. Giacomino, l’astuto monello tirato a pulimento come il fodero di una sciabola, propone una serie d’indovinelli ai [65] compagni che non ne capiscono niente e appunto per questo ridono e si divertono un mondo.

— Indovinate questo che è bello, — grida Giacomino — e lo sanno anche i boccali di Montelupo:

In cima a una finestraccia

Ci sta una vecchiaccia

E quando tentenna un dente

Chiama tutta la gente:

Alalè alalè

Indovina quel che gli è. —

Segue un attimo di silenzio.

— Nessuno lo spiega? — chiede Giacomino rivolgendosi ai più piccini.

Ciuffolo guarda il cielo e ripete beandosi:

— Alalè, alalè, alalè! —

Adalgisa guarda dall’alto e sorride malignamente.

— Brava, spiegalo tu! — le grida Toti che si è accorto dell’aria canzonatoria assunta dall’istrice domestico.

— Ci vuol poco, — risponde Adalgisa sdegnosa.

— Avanti dunque, che cos’è? — ripete Giacomino.

— Domandalo a Toti, — ribatte la monella arruffata.

— No, no; sta a te che fai la brava!

[66]

— Sì, a te, a te! — urla il coro.

Adalgisa tace un attimo, e poi con voce stridula grida:

— Ma chi non lo sa? È la chiesa! —

Segue un diavolìo; tutti i monelli si levano in piedi per gridare e punire così la presunzione dell’istrice domestico.

Sopraffatta dall’impeto impreveduto Adalgisa si volge e scrolla le spalle per assumere un atteggiamento; ma le lacrime le scendono copiose su le guance e si perdono agli angoli della bocca contratta.

Gli unici che non partecipano al gaio tumulto sono Rando e Celestina. Come se nulla accadesse intorno a loro, stanno muti e inciprigniti perchè non sono riusciti ad acchiappare un moscon d’oro... che si era posato sul girasole. Suor Lucia che fino allora aveva taciuto, tutta curva sui grani del rosario che fa passare interminabilmente fra le scarne dita, è costretta ad intervenire perchè le cose hanno preso una piega differente.

L’orgasmo ha alzato di vari toni l’allegria dei fanciulli. Ora Giacomino ed Anselmuccio si trovano di fronte in aria minacciosa; Anselmuccio, contrariamente ad ogni sua abitudine, ha assunto la difesa di Adalgisa, e da ciò un rapido diverbio che pare voglia condurre a vie di fatto. I due fanciulli si squadrano con occhi torvi.

[67]

— Se ti dò un pugno, — grida Anselmuccio — ti getto giù dalla giardiniera! —

E l’altro, avvicinandosi ancor più con aria provocante:

— Pròvati!

— Oh! ci vorrà molto!

— Pròvati, dunque! —

Pausa.

— Moccione!

— Imbecille!

— Lo dici a me?

— Sì, a te!

— Ripetilo, se hai core!

— Imbecille!

— Bada! Non hai provato ancora le mie mani!

— Credi di farmi paura?

— Ma neanche tu me ne fai! —

Altra pausa, ed altro scandaglio come sopra.

— Se fai un altro passo, ti picchio!

— Ecco! — E il passo è fatto. I combattenti si trovano a viso a viso, il momento pare decisivo, i cuori palpitano.

— Anche se sei più grande di me, io ti compro e ti rivendo! — grida Giacomino. — Scostati!

— No!

— Scostati!

— No! —

[68]

La prima spinta è data, Giacomino ha attaccato il nemico che attacca a sua volta; in un attimo i due monelli si acciuffano e cadono in grembo a Suor Lucia, la quale, non avendo ottenuto alcun risultato positivo con le esortazioni amorevoli, è intervenuta di persona.

Toti, Orsetto e Marinella prestano man forte a Suor Lucia; i contendenti sono divisi e riprendono i loro posti; fra poco anche il broncio che serbano scomparirà, e la pace sarà ristabilita compiutamente.

— Mio Dio, — esclama Miranda, un battuffoletto di quattro anni che ha atteggiamenti di donna matura — questi uomini come sono gelosi! —

Ad un attimo di stupore segue una franca risata.

Miranda arrossisce e china gli occhi.

— Che hai voluto dire? — le chiede Marinella.

La piccola tace.

— Ma che c’entra la gelosia? —

Miranda leva una mano ed indica Adalgisa, causa prima del breve pugilato.

— Miranda, voi non capite niente! — esclama Suor Lucia — E dovete tacere sempre; e dovete occuparvi solo dei fatti vostri! —

[69]

Si odono già, dalle prime selve di roveri, i canti delle calandre. La pianura pare un immenso mare azzurro, costellato di piccole gemme bianche.

Il momento si avvicina, e i tre piccoli cuori palpitano di ansia e di timore: hanno saputo che la Selva dei Gioghi, luogo fissato da Zulù per l’appuntamento, è piuttosto lontana. Bonaventura glie l’ha indicata: per giungervi conviene attraversare una piccola valle e risalire il versante opposto del monte; a mezza costa, dove sorge una piccola casa, comincia la selva. Hanno a loro disposizione poche ore perchè il sole comincia a declinare, conviene dunque affrettarsi per giungere alla mèta all’ora fissata.

Toti, Marinella e Orsetto si sono dati convegno dietro ai pagliai per sfuggire agli sguardi del prossimo importuno.

— Vogliamo partire? — chiede Orsetto.

— Sei ben sicuro che nessuno ci abbia veduto?

— Sicurissimo.

— E se Suor Lucia ci cerca?

— Chiamerà e le risponderemo; non andiamo mica in capo al mondo!

[70]

— Sai la strada?

— Sì. —

Saltano un rivoletto, vanno curvi dietro una siepe e, giunti ad una viottola, scendono a valle.

Il sole declina; le ombre azzurreggiano sempre più, si allungano; in fondo alla valle si fanno più dense. Passano nell’aria le grida dei compagni, giungono dall’alto, dall’aia di Bonaventura perduta nella gaiezza solare a sommo del verde colle.

— Suor Lucia ci chiama! — esclama Toti sostando. È stato un inganno; non si ode che un frastuono indeterminato simile al gridìo dei passeri che si adunano all’albergo quando il cielo si imporpora e dolcemente riluce. Suor Lucia farà passare fra le scarne dita i grani del rosario, come sempre, e sorveglierà i più piccini perchè non abbiano a disperdersi. Possono proseguire tranquilli.

— Toti, sei ben certo che Zulù ci aspetti? — chiede Marinella.

— Ne sono certissimo.

— Quanti anni ha, Zulù?

— Ha dodici anni.

— E dove è nato?

— Non si sa. Glie l’ho chiesto, e mi ha risposto che nessuno glie lo ha detto mai.

— Allora non conosce sua madre?

[71]

— Sua madre è stata uccisa dai cacciatori.

— Dai cacciatori!

— Sì, era una lupa! — risponde Toti con tutta semplicità. Orsetto sente il suo cuore battere sempre più rapidamente; ma di che cosa si tratta dunque? Zulù è un ragazzo o una bestia? Marinella si accorge della paura del compagno, e per incorarlo gli si accosta, lo abbraccia e gli mormora con voce materna:

— Non aver paura. Non ti ricordi? Anche Romolo e Remo erano figli di una lupa ed hanno fondato Roma! —

Pare che l’originale trovata abbia efficacia anche sul timido cuore di Orsetto.

— Corriamo? — propone Toti.

— Sì, corriamo. —

La strada è facile, il pendìo dolce. Traversano rabbrividendo una macchia che si schiude al loro passaggio, e si trovano in un’aia; proseguono in mezzo ai prati, poi fra le vigne, di sentiero in sentiero, senza voltarsi mai, senza pensare alla strada percorsa; i loro occhi son fissi lassù, dove cominciano le roveri della selva, dove l’anima loro è giunta già ad esplorare.

— Quanto è lunga la strada! — mormora Marinella ad un tratto.

— E si fa buio! — aggiunge Orsetto.

[72]

Sono giunti in fondo alla valle, corsa da un torrentello quasi asciutto. Toti si lancia per primo fra i grandi ciottoli che coprono il letto del torrente, e raggiunge la riva opposta; i compagni lo seguono. Ora conviene attraversare una fitta macchia di rovi per risalire la costa.

— Non c’è il sentiero — osserva Orsetto.

— Per di qua, per di qua! — grida Toti che ha superato il punto più difficile, aggrappandosi agli sterpi. Marinella gli tende le mani.

— Aiutami dunque! Da sola non posso. —

Toti ritorna su’ suoi passi, si sporge, punta i piedi... ecco, il passo difficile è vinto, ma i rovi han voluto la loro preda: la veste di Marinella cade in brandelli.

Ciò preoccupa un poco lo spirito ordinato di Orsetto, ma non commuove Marinella la quale, scrollando le spalle, riprende la via.

Qualche goccia di sangue imperla la sommità delle dita di Toti.

— Ti sei fatto male? — gli chiede Marinella.

— No.

— Fa’ vedere. —

Toti porge la mano che la bimba prende fra le sue.

— Ti brucia?

— No.

[73]

— E se gli spini erano avvelenati? Non ridere — soggiunge — ci sono anche le spine di San Giorgio, e quelle uccisero il dragone! —

Marinella accosta le labbra alle piccole ferite e sugge il sangue che spiccia lentamente.

Quando risolleva il capo, i due monelli si guardano e arrossiscono senza sapere il preciso perchè. I colli opposti rilucono nella moribonda gloria solare.

— Chi sono? — sussurra Orsetto.

Toti e Marinella non rispondono, ascoltano sostando ai limiti del prato sul quale la selva si muore. Molti fanciulli, allacciati per mano, girano in tondo e cantano a coro; cantano bene; sembrano allodole e calandre. Sono scalzi, hanno i capelli disciolti.

— C’è anche Zulù? — chiede Orsetto.

— No, — risponde Toti.

— Dove lo troveremo allora?

— Bisogna chiedere a qualcuno se è questa la Selva dei Gioghi.

— E a chi si può domandare?

— Quando quei signori avranno finito, ci accosteremo. —

[74]

Tacciono, raccolti dietro una macchia di quercioli; dall’alto del monte scendono le ultime strie d’oro del sole, si perdono fra le rame, ricompaiono su l’erba, nelle radure. Il canto dei fanciulli sale verso le altitudini e lassù, nel sereno, si unisce agli squilli di campane remote e si disperde.

Ohè! ohè! ohè! ohè!

La più gaia venga a me.

Getti via la lendinella,

La faremo tutta bella

Chè nel bosco aspetta il Re!

I fanciulli si perdono sotto il muto incantesimo della selva. Le ultime roveri hanno tuttavia alla sommità una corona d’oro. La cantilena ha qualcosa di pauroso, Toti, Marinella e Orsetto l’ascoltano con un tremito nel cuore quasi fossero per assistere ad un subito prodigio:

Marulèi ha fatto il pane

Nella casa delle tane,

E ti aspetta, Martinella.

Tu sei bella, tu sei bella!

Una veste ed una torta,

Marulèi sta su la porta;

Una veste ed una rama,

Marulèi guarda e ti chiama.

Gira, gira,

Gira, gira,

Passa il vento che sospira

E la notte è scura scura,

[75]

Ed il bosco fa paura.

Ecco sbucan gli occhi rossi

Dalla selva di Mamù...

Uuuuuuh!

— Andiamo via, — mormora Marinella. — Questa gente mi fa paura. —

Toti ed Orsetto fanno per voltarsi, ma ad un tratto si acquattano; hanno avvertito un fruscìo alle loro spalle; inoltre i piccoli pastori, dopo aver finita la cantilena, come è consuetudine del loro giuoco, fra strane grida si sono dati ad una fuga precipitosa, e in breve sono scomparsi, dirupando. Le ultime voci salgono dalla valle; sono già lontane, e i tre esploratori hanno la perfetta coscienza della loro solitudine nella terra ignota. E se Mamù, l’orco, sbucasse per davvero dalla spessa selva?

— È una sciocchezza! — grida Toti per farsi coraggio; sta per rivolgersi, ma avverte un fruscìo più vicino, un lieve rumore di passi; il brivido della paura lo riprende e non ha più forza di pronunciare una parola.

Orsetto e Marinella si sono raccolti nell’ombra più fitta, e guardano attorno con occhi da spiritati.

— Toti? —

Nessuno risponde; i fanciulli si sono immedesimati col cespuglio che li accoglie.

— Toti, ti ho portato il riccio.

[76]

Ah! è Zulù, il benvenuto, il salvatore!

I tre volti si rasserenano, pare che il sole rinasca. Zulù è sporco, ha i panni a brandelli, il viso nero, i capelli scarmigliati e Marinella vorrebbe abbracciarlo ugualmente; la trattiene solo la bestiaccia ch’egli reca fra le mani senza paura di pungersi.

— È molto tempo che mi aspettavi? — chiede Toti a Zulù.

— No, sono arrivato or ora. E tu, che cosa facevi in quella macchia?

— Niente. Guardavo per terra.

— Hai perduto qualcosa?

— No. —

Trascorre una pausa. Zulù non si avvicina perchè si vergogna, Marinella e Orsetto gli destano soggezione; ha le ciglia aggrottate e gli occhi bassi; pare seriamente contrariato. Toti nota subito il malessere di Zulù, e cerca di porvi riparo con una specie di presentazione:

— Non sono venuto solo perchè la strada era lunga e Suor Lucia non mi avrebbe permesso ch’io me ne andassi. Questa è Marinella e ti vuol bene perchè sei figlio di una lupa e vivi nei boschi, e questo è il bambino del generale: si chiama Orsetto e non fa male a nessuno. —

Zulù, per tutta risposta, allunga una mano senza alzar gli occhi e dice:

[77]

— Vuoi il porcospino? — Sì, dammelo; dove l’hai trovato? (pag. 79).

[79]

— Vuoi il porcospino?

— Sì, dammelo; dove l’hai trovato?

— Nel bosco.

— È nel bosco la tua casa? — gli chiede Marinella avvicinandosi.

— Io non ho casa.

— E dove dormi?

— Su gli alberi, sotto le siepi, nei campi di lupinelle, secondo; dormo sempre dove mi trovo.

— E l’inverno?

— L’inverno dormo nei buchi delle fornaci; ci fa caldo e siamo in molti là dentro.

— Ma non hai paura? Sei sempre solo?

— Non ho paura.

— Hai veduto mai Mamù, l’orco?

— Non l’ho veduto mai, l’ho sentito. —

I tre monelli si guardano; i loro occhi si aprono smisuratamente.

— Dove l’hai sentito? — chiede Toti.

— Una notte, nella selva di Ladino. Ero salito sopra una rovere, non si vedeva una stella; tutto era buio. Mi ero seduto su tre rami incrociati e stavo per addormentarmi allorchè sento gli alberi sibilare come se si fosse levato un gran vento; ma il vento non tirava; allora mi alzo e sto in orecchio. Che cosa sarà? sarà il tasso? no, perchè non può fare tanto rumore; sarà il lupo? nemmeno. Io conosco bene il lupo; mi è passato vicino anche [80] di notte; il lupo si avverte appena, cammina fiutando, e quando sente qualcuno va a passi radi. E il fracasso si avvicinava proprio come fa la grandine di estate. Allora pensai che la vecchia della valle, nonna Simona, mi aveva detto che Mamù era come la tempesta, quando gira per il mondo, e non ebbi più dubbio.

— Ti vide?

— Io non lo so, perchè quando sentii crescere il rumore chiusi gli occhi e mi rimpiattai fra i rami come uno scoiattolo. Appena riaprii gli occhi, tutto era finito. Fu come un baleno.

— E dopo, non l’hai incontrato più?

— Dopo ho preso le mie precauzioni. Sono tornato da nonna Simona, ed ho avuto da lei il rimedio per non essere veduto mai più dall’orco.

— Qual è questo rimedio? — chiedono ad una voce Orsetto e Marinella. Zulù si stringe nelle spalle e fa segno di non poter rispondere. Toti sorride con aria di incredulità, si sente superiore ai compagni. Egli sa che sono tutte fole inutili e dannose quelle degli orchi e delle streghe; Miss Edith e la zia Emma glie lo hanno ripetuto tante volte che ormai, su questo punto di fede, ha la coscienza sicura e tranquilla. Non bisogna allettare la mente dei fanciulli con [81] inutili fantasie, con creazioni mostruose e inverosimili, conviene raccontare unicamente la verità, la verità pura e semplice.

Il ragionamento che Toti viene facendo in silenzio fa sì ch’egli continui a sorridere anche quando i compagni gli levano gli occhi in volto:

— Perchè ridi? — gli chiede Marinella.

Toti inarca le ciglia, assume un tono indifferente, alza un poco una spalla e risponde:

— Ma che vuoi?! Mi stupisce vedere come tu creda a ciò che racconta Zulù.

— E perchè ti stupisce?

— Perchè l’orco è una sciocchezza! —

Tutti tacciono. Toti si pente del suo ardimento perchè il sole si è nascosto e le ombre discendono con rapidità; egli non crede all’orco, ma il buio è un cattivo consigliere. Inoltre la strada che debbono percorrere è lunga ed è attraversata da un torrentello e da una spessa macchia, punti solitari e abbandonati dove, non si sa mai, si potrebbe incontrare anche il lupo mannaro e quello non è ben sicuro che non esista.

— Dunque — riprende Zulù a voce bassa — tu non credi neppure alla Casa Lucente?

— Non so che cosa sia — risponde Toti.

[82]

— La Casa Lucente sorge su la più alta cima di un monte lontano lontano, ed è sempre circondata da nubi d’argento. Ha i culmini d’oro, i muri ricoperti di pietre preziose. Le si apre dinanzi un grande portico di adamante e le sorgono ai lati due torri di rubini e di smeraldi che rilucono per tutto il mondo. Nessuno conosce la strada che vi conduce. Chi si è provato a raggiunger la cima del monte altissimo non è tornato più. Solo la Vecchia della valle sa il segreto che può condurre alla vetta del monte; ma fino ad ora non l’ha confidato nemmeno all’aria.

— Nemmeno a te? — gli domanda Marinella.

— Un giorno nonna Simona mi disse: «Voglio fare la tua fortuna;» e incominciò a insegnarmi il modo di raggiungere la Casa Lucente, ma poi si pentì sul più bello e non volle più proseguire.

— Che peccato! — esclama Marinella.

— Ma allora tu sai di dove si parte? — domanda Toti che ha dimenticato gli ammonimenti di Miss Edith e della zia Emma, e si lascia trasportare dalla fantasia, dal desiderio delle cose vaghe e indefinite che sono tanto più belle.

— Lo so, — risponde Zulù.

— E dove abita nonna Simona?

[83]

— A Ladino, in una casa sotto la selva.

— E potremmo andare a trovarla?

— Sì, ma bisogna farle un regalo.

— Glie ne faremo mille! Ci accompagnerai tu?

— Vi accompagnerò.

— Benissimo! — grida Marinella. — Andremo alla Casa Lucente! Io mi riempirò il grembiale di brillanti, e tu? — chiede rivolgendosi ad Orsetto.

— Io prenderò la mazza del comando.

— Per farti imperatore! — riprende Marinella ridendo. — Ed io farò la regina, la bella regina tutta vestita di seta, e porterò i brillanti sui capelli e avrò duemila servitori, cento dame di palazzo, diecimila cavalli, cinquanta berline e una reggia d’oro e una bambola di cioccolata e tutti i dolci che sono sulla terra! Dio, come sarò contenta!

L’animazione delle tre anime bambine cresce a dismisura; esse vedono già, gustano il tesoro straordinario; quella loro fantasia le fa gioire più del possesso reale; se tanto avessero realmente, forse cercherebbero il poco quale sorgente inaudita di gioia. Zulù tace. Il suo viso oscuro pare sofferente, gli occhi neri e lucentissimi e grandi, come due strane gemme, guardano lontano alle sommità più ardite e si animano di guizzi violenti. [84] L’anima dardeggia da quegli occhi aperti nei cieli altissimi, raggiunge, supera il volo delle aquile, si lancia fremente, cupa ed insaziata alla sua conquista.

La sera discende.

— Allora — riprende Toti — ci troveremo in casa di Carciofo, come l’ultima volta. —

Zulù assente.

— E ora dove andrai?

— Nella selva — risponde Zulù che fa per avviarsi.

— Dammi prima il porcospino. Aspetta, lo metteremo nel fazzoletto.

L’operazione è compita con ogni cautela; i capi sono legati a doppio nodo e stretti quanto più si può, perchè la piccola bestia non debba fuggire. Frattanto Zulù salta un cespuglio e si allontana leggermente, sollevando appena un fruscìo.

— Scusa, che cosa mangia il porcospino? — grida ancora Toti.

— Le vipere, — risponde Zulù senza rivolgersi. È scomparso dietro una grande rovere, ricompare più lontano fra l’ombra più spessa, procede a balzi, i fanciulli lo guardano meravigliati ed hanno una grande voglia di richiamarlo, perchè sentono che qualcosa che dava loro molto coraggio si allontana con lui. Rieccolo più in alto, è come [85] un fantasma, si scorge appena; si inerpica leggero, il lupo non ha maggiore agilità. Ecco l’ultimo guizzo, si ode un lieve scricchiolìo di rami infranti, e non si vede più. Si è internato nel folto come le volpi, come gli scoiattoli rossigni.

— Le vipere? — riprende Toti, che ritorna col pensiero al suo riccio. Vorrebbe richiamare Zulù, ma ormai è inutile; poi nello stesso tempo una voce acuta e prolungata giunge dall’altra costa del monte.

— Andiamo, andiamo, ci chiamano! — sussurra Orsetto.

Toti si avvia di corsa, e i compagni gli tengon dietro. Il sentiero si perde nel buio della valle.

— Per di qua! — grida Orsetto.

— No, per di qua! — riprende Toti.

— Ma insomma qual’è la strada buona? — domanda Marinella che si è fatta scura in viso. — Qual’è, me lo sapete dire? — riprende con voce nella quale è già qualche sentore di pianto. — Finiremo per smarrirci in questa foresta — è appena una macchia, ma la fantasia della fanciulla ama il colore — e ci troveranno i briganti!

— Ma i briganti li sogni tu! — risponde [86] Toti indispettito, perchè l’insistenza di Marinella comincia a mettergli paura.

— Ed io ti dico che ci sono! — replica la fanciulla. — Lo lessi anche ieri nel giornale di papà. Hanno rubato dieci bambine e non se ne è saputo più nulla.

— Ma dove?

— In Sardegna.

— Allora sono lontani.

— Sì! Impiegheranno molto tempo a giungere qui!

— Ma debbono traversare il mare!

— E non hanno le barche? Poi i briganti sono dappertutto, ed io ho paura. Tu vuoi fare il coraggioso, ma io ho letto la storia di un bambino divorato da un lupo e qui i lupi sono numerosi come le lucciole. Poi non hai sentito che cosa ha detto Zulù? Siamo in un paese abbandonato, se si perde la strada facciamo la fine dei tre bimbi che San Nicola fece risuscitare e San Nicola non c’è più. Mio papà l’ha veduto a Bari; ora non si muove da quella città lontana e noi siamo perduti!

— Marinella, finiscila!

— Sì, finiscila! Non vuoi ascoltare la verità! Perchè ci hai condotto in questo paese pericoloso?

— Ma siamo a tre passi da casa!

— Lo dici per farci coraggio, chi sa quando [87] arriveremo e chi sa se potremo arrivare! Abbiamo smarrito la via, siamo in mezzo a una foresta e la notte è tanto buia, che non si vede dove si mettono i piedi!

La voce muore in un lieve singhiozzo; Toti avanza senza por mente ai terrori della compagna; ha già troppo da combattere il suo timore per guidar sè stesso attraverso alla macchia; Orsetto è vinto dallo smarrimento, e segue gli amici senza fiatare.

Le voci di chiamata che avevano udito dapprima ora non si sentono più.

Solo due piccoli lumi animano ancora la speranza ed il coraggio di Toti; si vedono su la costa del monte opposto, la notte li fa più lontani, ma splendono tuttavia come due fari benefici. Poter giungere fin lassù di un balzo! Avere un gran paio d’ali e volare come si vola nei sogni! Ma la strada è lunga ed aspra, bisogna scendere verso l’estrema oscurità del torrente. Ogni qualvolta si spinga un po’ innanzi, ode la voce impaurita dei compagni:

— Toti, Toti!... dove sei? —

E ciò basta per accrescere a mille doppi il suo turbamento; è come se una corrente elettrica lo percorresse dal capo ai piedi d’improvviso, non sa più orientarsi, sente mozzarglisi il respiro, chiude violentemente gli occhi; gli pare che una gran [88] mano si sia protesa dalle tenebre a ricercarlo. Se i compagni non l’aiutano, la lena verrà a mancargli; si sente piccino piccino sotto la notte paurosa.

— Stiamo uniti, camminate vicino a me; arriveremo a casa presto.

— Suor Lucia è già partita, — mormora Marinella singhiozzando — andrà a casa a dire che ci ha perduti, e domani ci crederanno morti! —

Orsetto tace; ha preso per mano Marinella e si lascia trascinare come un automa.

Discendono, sono a due passi dal torrente; Toti procura di procedere facendo quanto più fracasso può, perchè ad ogni sosta avverte certi fruscii, certi fremiti che lo fanno sudare freddo. Gli torna nella memoria la cantilena dei piccoli pastori, pensa alla loro corsa improvvisa giù per la costa del monte... ma Zulù non è forse solo nella selva, appollaiato fra i rami di qualche albero grande?

Fa per volgersi, e, ad un tratto, uno strido acutissimo di Marinella lo irrigidisce, gli toglie ogni forza ed ogni volontà.

Nel silenzio che segue egli ode distintamente un lontano rumore di passi e intravede una luce livida ed ampia che scivola fra i rami e ingigantisce e scompare. Raggiunge di un balzo i compagni e si stringe [89] a loro. Senza un grido, allibiti dallo spavento, cadono avvinti fra le frasche.

La luce cresce, il trepestìo si avvicina; si ode un grido prolungato: è il grido di Mamù, dello spaventoso gigante. Curvano il capo, si raccolgono nel buio tremando dal freddo.

Ecco l’ombra, l’ombra grande quanto l’universo! Supera i pioppi, supera le querce, si lancia sola ed immensa sotto le stelle. Potranno sfuggirle? No, li ha veduti, li ha riconosciuti, li chiama:

— Toti? Marinella? Orsetto? —

Si stringono sempre più, moriranno insieme come tre piccole more nella bocca vorace, come tre verlette di nido; non c’è scampo, respirano a pena, hanno gli occhi violentemente serrati.

La voce di Orsetto mormora a stento:

— Addio, mamma! —

Più debolmente, quasi a trattenere un singhiozzo che vuol traboccare, Marinella e Toti sussurrano:

— Addio!

— Il Signore ci accolga....

— ... ci accolga!

— Nella sua gloria....

— Nella sua gloria!

— Per sempre!...

— Per sempre!...

[90]

Ah! non possono più pregare, perchè il respiro si fa troppo rapido, perchè hanno troppo troppo freddo!

Il grido si ripete più vicino, vicinissimo:

— Toti? Marinella? Orsetto? —

Ma chi chiama adunque? Sorvola una pausa dubbiosa, un nuovo brivido li scuote, ogni senso si riaccende più vivo, levano il capo, aprono gli occhi... ah quanta luce, quanta luce! Ecco Suor Lucia e Bonaventura e Giacomino e Anselmuccio!

— Sono qua! Sono qua!... — grida Bonaventura che regge due fiaccole con le braccia levate.

Scattano in piedi, non possono rispondere, non possono dir parola; sorridono, ridono a grandi sussulti; il loro volto si illumina e si oscura; poi a un tratto contemporaneamente scoppiano in pianto dirotto.

Sono salvi.

[91]

— Stiamo uniti, camminate vicino a me; arriveremo a casa presto — (pag. 88).

[93]

IV. La casa lucente.

La zia Emma ha detto:

— Quando avrete finito il cómpito potrete andare in giardino; ma prima, no! —

Ed ora si è sporcato tutte le mani con l’inchiostro, ha disegnato una fila interminata di soldati, di uomini con la pipa, di cavalli e di elefanti, ma un’idea non gli è venuta ancora. I cómpiti che gli dà la zia Emma sono, a volte, tanto curiosi! Che cosa si può scrivere mai?

Rilegge il tema: Scrivere al babbo ringraziandolo per il bel regalo che vi ha fatto.

Ma il babbo, proprio in quei giorni, non gli ha fatto alcun regalo, di che cosa deve ringraziarlo adunque? Forse di quelli che gli farà. Saranno molto lontani probabilmente, perchè Suor Lucia ha raccontato la [94] spedizione alla selva dei Gioghi ed il signor papà è inquietissimo.

Si stringe la fronte fra le mani, si concentra e scrive: Caro babbo... virgola e a capo. Poi? Ecco un’idea: — Ti ringrazio del bel dono che mi hai mandato e ne sono contentissimo e ti ringrazio del bel dono che mi hai mandato.... — Mio Dio! Ma quanto è difficile dire ciò che non si sente! Perchè infliggere un tale supplizio ad una povera creatura che non ha fatto male a nessuno?

Leva gli occhi verso la finestra aperta e vede rifulgere nel sole un gran cespo di lilla in fiore e pensa ai colchici che fioriscono d’autunno; hanno lo stesso colore. A Villanova ci sono dei prati immensi e di autunno si vestono di lilla per i piccoli gigli del freddo che spuntano a fior di terra sopra uno stelo esilissimo. Quando tornerà mai ai prati di Villanova? Bocca-di-fiore lo attende; andranno a caccia dei pettirossi nelle mattine lucenti di brina, quando tutte le siepi e tutti gli alberi sfoggiano immensi diademi.

La zia Emma attraversa la camera; Toti si riscuote, fissa di nuovo il foglio di carta bianca che gli sta innanzi e si concentra tanto che, poco alla volta, gli si chiudono gli occhi. Si addormenterebbe senz’altro, se Miss Edith non lo risvegliasse con uno di quei [95] suoi piccoli versi incomprensibili, che vogliono dire tante cose!

È sempre all’erta la sua buona signorina! Lo sorveglia con mille occhi senza abbandonarlo un attimo; pronta, paziente, tenace e tranquilla come una macchina di estrema esattezza.

Davvero un’ossessione! Come si fa a non avere una sola volta l’allegra volontà di saltare sopra un tavolino o di prendere una seggiola a scapaccioni? Per questo Miss Edith è sempre un punto oscuro e Toti la guarda con molto rispetto ma con la curiosità meravigliata che destano nei fanciulli gli oggetti complicati e incomprensibili.

E ricompare il tema. Gli occhi si sono chinati per caso su la carta e si rialzano un pochetto oscurati. Ecco un dovere! Toti si domanda perchè mai lo stesso dovere non debba essere compiuto dal nonno, dal babbo o dalla zia Emma; no, tutti i doveri toccano sempre a lui perchè è il più piccino. È forse giusto tutto ciò?

Ricomincia. Questa volta l’idea è venuta per davvero e scrive con tutta sicurezza:

Caro babbo,

La zia Emma mi dice che hai intenzione di farmi un regalo e te ne ringrazio. Siccome [96] il mio elefante ha perduto la proboscide e tre gambe, farai bene se vorrai regalarmi una pantera.

Un bacio dal tuo Toti.

Piega il foglio, batte le mani e, dopo aver dato a Miss Edith una spiegazione sommaria del fatto compiuto, fugge in giardino.

Carciofo deve aspettarlo, perchè il giorno prima gli ha dato un appuntamento al quale non mancherà. Carciofo è puntuale.

Tommaso, il cocchiere, ha un figlio che si chiama Adalberto, e che, per la sua struttura tozza e per essere alquanto spinoso, è stato ribattezzato Carciofo.

Di tanto in tanto Carciofo compare nella scuderia per aiutare il padre e, quando non deve andare a scuola, si trattiene gran parte della giornata adducendo varie scuse alla sua permanenza. C’è tanto da fare! Ma in verità non è il lavoro che lo inciti a restare, bensì l’amenità del luogo.

Le scuderie si aprono nell’estrema parte del vastissimo giardino e sono cinte da alberi grandi e il laghetto viene a morire ai loro piedi. Soltanto per guardare, può impiegarsi benissimo tutta una giornata. [97] Carciofo ha lo spirito contemplativo e non si stanca di ammirare il piccolo lago e le oche, le quali sembrano tanti orciuoli naviganti. Quando Tommaso deve andarsene dice a Carciofo:

— Finite di pulire le stalle; quando ritorno il lavoro deve esser terminato. Non fate rumore, non disturbate il signorino e lasciate in pace le oche. —

Carciofo promette solennemente di osservare i comandamenti paterni; ma non appena Tommaso si è allontanato esce a sedersi su la porta delle stalle e guarda. Le oche passano e ripassano sul laghetto; ce n’è una che dirige la passeggiata, le altre la seguono senza sbandarsi. E sono tanto serie! Carciofo ha osservato che la gente di grande importanza ha la stessa serietà.

Toti molte volte va a salutare Gaetanino, il suo poney, e così incontra Carciofo che lo guarda senza parlare e se ne sta tutto accosciato e sembra pieno di vergogna. Nei primi giorni Toti non osserva Carciofo, poi lo punge la curiosità. Chi sarà quel signore? E perchè se ne sta sempre assorto e non gli augura neppure il buon giorno?

Una volta che è uscito di casa un poco indispettito per una lunga paternale fattagli dalla zia Emma, si ferma di botto innanzi al placido ammiratore delle oche e gli chiede: [98] — Chi sei?

— Io sono Carciofo, — risponde l’interloquito.

— E di chi sei figlio?

— Sono figlio di Tommaso.

— Il mio cocchiere?

— Sì, signorino.

— Io mi chiamo Toti.

— Lo so.

— E perchè non mi saluti mai?

— Il babbo ha detto che non vi debbo disturbare.

— Dammi del tu.

— Il babbo ha detto che voi siete il figlio del padrone.

— Ebbene, che cosa t’importa?

— Bisogna ch’io vi rispetti.

— Non te ne curare. Non sono mica un uomo grande. Quanti anni hai?

— Dieci.

— Vai alla scuola?

— Qualche volta.

— Perchè qualche volta?

— Perchè quando fa bel tempo andiamo a pescare e andiamo alla caccia col vergillo.

— Come vi divertirete! Siete in molti?

— Siamo in tre: io, Anatroccolo e Zulù.

— Tu conosci Zulù? — chiede Toti allargando gli occhi ed arrossendo dalla contentezza.

[99]

— Sì, e perchè?

— Perchè mi hanno detto che nessuno può avvicinarlo e che vive sempre solo come un lupo.

— Vive solo perchè lo bastonano. Io lo conosco.

— E potrai farlo conoscere anche a me?

— Certo, se volete.

— Sì sì, io lo voglio. —

In breve diventano amicissimi; si trovano tutti i giorni al laghetto delle oche e formulano le più strane imprese, i propositi più arditi.

Carciofo è un ragazzo meditativo e violento, e per queste sue peculiari qualità che lo rendono secondo i casi, solitario come un rospo o pungente come un istrice, ha pochissimi amici. Egli sogna di possedere il mantello di Leombruno col quale potrebbe entrare a gran galoppo nel regno dello straordinario e sogna imprese eroiche, atti di sovrumano coraggio per i quali prova una spiccata tendenza sentimentale. Quando rimane per ore ed ore intento ad osservare le evoluzioni delle oche, la sua fantasia è assente e l’anima con lei. Gli si presenta allora il chiaro specchio delle imprese che vorrebbe compiere, e vede gli atteggiamenti ed ode le parole grate delle vittime ch’egli trae a salvamento e gli urli della folla frenetica [100] che lo applaude; è sì intensa la figurazione, che non di rado gli occhi gli si empiono di lacrime silenziose, le quali imperlano un attimo le ciglia e traboccano dileguando. Carciofo ha il cuore di un paladino, e attende l’occasione per mezzo della quale la sua anima eroica possa rivelarsi agli uomini.

Toti lo ama e a volte lo ascolta parlare con ammirazione.

— Dunque tu non avresti paura di niente?

— Se si trattasse di salvare un uomo io mi butterei nel fuoco! — risponde Carciofo.

— Dici davvero?

— Lo farei! —

Basta! Toti non replica; il tono della voce è decisivo; Carciofo lo farebbe certamente. Quando Marinella lo sentirà parlare così, gli getterà le braccia al collo, perchè Marinella è sempre eccessiva, cosa che contrarierebbe assai miss Edith. Frattanto Toti si serve di Carciofo per avvicinare Zulù, il figlio di una lupa.

Anche quel giorno Toti trova l’amico sulla soglia delle scuderie, ma questa volta non è solo, ha con sè un compagno: Anatroccolo.

[101]

Toti si sofferma a guardare, e prima di avvicinarsi scoppia in una allegra risata. Gli è che il nuovo arrivato è tanto buffo! Poi gli torna in mente ciò che di lui gli ha raccontato Carciofo e se da un lato gli fa pena quel povero figliuolo che è il sacco delle busse, dall’altro, il ricordo della pena alla quale è sottoposto dalla vecchia zia, che ha il gran cuore di dargli l’alloggio e un poco di pan secco, gli desta l’ilarità.

Ogni qualvolta Anatroccolo fa inquietare per una parola, o per un gesto, o per qualsiasi altra lieve mancanza all’umore la vecchia zia bisbetica ed irascibile, è sottoposto ad una pena crudele: deve trangugiare, sotto gli occhi tiranni della tutrice, mezz’oncia di olio di ricino. Una bagatella! E la pena sta nelle conseguenze.

Nonostante il ripetersi troppo frequente delle lezioni purgative, il viso di Anatroccolo è rotondo e pieno come una mela appiola. Forse gli occhi, che sono chiari chiari, hanno uno sguardo un po’ vago e la bocca troppo sovente si socchiude in un floscio abbandono; ma chi resisterebbe alla pena alla quale è sottoposto Anatroccolo? È troppo già s’egli è ancora robusto e sopporta tutto con impassibile serenità.

L’impassibilità è la sua dote peculiare; è la sua inconscia filosofia la quale fa sì [102] ch’egli si pieghi a tutte le avversità che si sono date convegno su la sua strada. Anche quando la zia Geltrude lo picchia, cosa che si ripete quasi giornalmente, egli non strepita, non piange e non si ribella, almeno in apparenza; allunga le mani, o la parte scelta all’uopo dall’implacabile aguzzino, chiude gli occhi e attende che il vimine sibili per l’aria e scenda ad illividirgli le povere carni martoriate. Non si fa l’abitudine alle busse, ma si tollera il dolore. Anatroccolo lo tollera perchè ormai è un elemento essenziale nella sua vita.

Contuttociò è buffo, e Toti più se ne persuade quanto più lo guarda. È piccolo e tozzo, ha la testa grossa e le gambe arcuate. Il viso rotondo, coronato da una gran selva di capelli canapini, può esprimere molte cose e nessuna. Il timore di render noti i moti dell’animo ha tolto a quel viso ogni mobilità, l’ha irrigidito in un atteggiamento costante che può dar la tristezza e destare il buonumore. Il naso a virgola che pare stia per spiccare una capriola e saltare su la fronte; gli occhi rotondi; i padiglioni dell’orecchio assai larghi quasi fossero aperti ad una perenne intesa, come quelli di un timido agnelletto, lo fanno assomigliare ad un bizzarro pentolone, di quelli variopinti che si vedono alle fiere. E Toti ride. Il riso è come la tempesta, vuol [103] fare il suo corso, nulla può trattenerlo. D’altra parte Anatroccolo non si scompone, guarda Toti e rimane nella sua perfetta immobilità, affogato nella giacchetta enorme la quale gli giunge fino ai ginocchi che sono nudi. Un vecchio berretto da soldato ch’egli porta con ogni compostezza e un paio di vecchie scarpe della zia Geltrude compiono l’abbigliamento. Potrebbe anche possedere una camicia; ma forse non la possiede, perchè la grande giacchetta accuratamente abbottonata, lascia scorgere alla sommità il petto nudo.

Quando Toti si avvicina, Carciofo gli muove incontro, dicendo:

— Questo è Anatroccolo.

— L’ho riconosciuto, — risponde Toti.

Anatroccolo si toglie il berretto ed esclama:

— Buon giorno! —

Dopo una pausa imbarazzante, Toti gli domanda:

— Vuoi esser dei nostri?

— Sì, se voi volete, signor barone! —

Toti lo guarda con occhi pieni di stupore.

— Ma io mi chiamo Toti! Non lo sai?

— Lo so.

— E allora perchè dici barone?

— Perchè siete un signore! —

E Anatroccolo atteggia le labbra ad un [104] sorriso; crede aver detto una cosa grande: i signori non si chiamano mai per nome; sarebbe un disconoscere il loro grado indiscusso di superiorità. D’altra parte egli non conosce che le busse e la fame e ciò non basta a dare un’idea esatta degli uomini e del mondo.

— Dunque vi siete incontrati? — chiede Carciofo?

— Sì, — risponde Toti — ma perchè mai Zulù non è venuto con te, oggi? Lo aspettavo; me lo aveva promesso.

— Io non l’ho veduto, — risponde Carciofo.

— Neanch’io, — soggiunge Anatroccolo.

— Avevamo fissato ch’egli sarebbe venuto qui.

— Per che fare?

— Zulù conosce la vecchia della valle.

— Chi? la strega? — chiede Anatroccolo.

— Non è una strega, — risponde Toti — è una buona vecchia che sa molti segreti.

— E sa molte malìe, — aggiunge Carciofo.

— Ma tu la conosci dunque?

— Certamente.

[105]

— E potresti condurmi da lei?

— Io posso condurti da nonna Simona, ma prima devi dirmi che cosa vuoi chiederle.

— Te lo dirò, se mi prometti di non parlare.

— Te lo giuro!

— E tu, Anatroccolo? —

Anatroccolo fa un gesto evasivo e si pone una mano sul petto.

Si sono seduti all’ombra di un gruppo di acacie su la riva del laghetto. Le oche giungono di tanto in tanto a sogguardarli, ma si mantengono a rispettosa distanza.

Le ombre delle acacie si prolungano nel seno delle tremule acque, e si perdono verso un cielo remoto.

Toti prima di parlare si guarda attorno; potrebbe darsi che la zia Emma o miss Edith venissero a cercarlo. Quando si è assicurato che nessun indiscreto può udire le sue parole, si china verso i compagni, e chiede loro a voce sommessa:

— Sapete che cosa sia la casa lucente?

— Lo sappiamo.

— E sapete la strada che conduce alla cima dell’altissimo monte?

— No.

— Ebbene, nonna Simona può indicarcela.

— Chi te l’ha detto?

[106]

— Zulù.

— Nonna Simona è gelosa; — riprende Carciofo — anche se conosce il segreto non lo dirà a noi.

— Ma le faremo un bel regalo.

— Non potremmo regalarle nulla; — soggiunge Anatroccolo — ha le cantine piene d’oro.

— Come lo sai?

— Zia Geltrude, quando mi picchia, dice sempre: Sei uno straccione e vuoi fare l’arrogante! Neanche se tu avessi l’oro di nonna Simona!

— È molto ricca, allora?

— Mi hanno detto — riprende Anatroccolo — ch’ella sa dove si trovano tutti i tesori sepolti e che, se volesse, potrebbe essere la più gran signora del mondo!

— E perchè non vuole?

— Perchè sarebbe inutile per lei. Nonna Simona non è una donna come tutte le altre, è una strega.

— Ma tu la conosci? Le hai parlato mai?

— Sì, le ho parlato. Una volta zia Geltrude mi aveva lasciato due giorni senza mangiare; alla fine del secondo giorno ero seduto su la porta di casa ed aspettavo che la zia venisse ad aprirmi come faceva sempre per darmi un pezzo di pane e perdonarmi. L’uscio si aprì, ed io stavo per rivolgermi, [107] quando sentii un urlo e ricevetti una spinta che mi mandò ruzzoloni in mezzo alla strada: — Va’ a guadagnarti il pane, vagabondo! — I miei dodici soldi che avevo guadagnato se li era già presi. Quando mi levai, zia Geltrude aveva richiusa la porta. Non mi provai a bussare perchè correvo rischio di buscarmi un’altra dose di scapaccioni. Così tutto indolito com’ero, presi la strada e me ne andai per la campagna. Era notte, ed era buio pesto.

— Ma non avevi paura?

— No. Avevo fame. Non so quanta strada avessi percorso, quando mi sentii chiamar per nome, e mi fermai. Era Zulù. Mi chiese dove andavo; gli dissi che non lo sapevo, e gli domandai un po’ di pane. Allora mi prese per mano e girammo, girammo fra le tenebre da un campo all’altro, da una siepe all’altra. Traversammo un fiume; traversammo un bosco, poi salimmo per un’erta piena di spini. Io sentivo nelle orecchie un ronzìo continuo e sentivo che la mia forza era più poca ancora; ma non dissi nulla, non domandai nulla. Ad un tratto Zulù si fermò. — Siamo arrivati, — disse. Alzai gli occhi e vidi una grande quercia e una piccola capanna; ma le vidi appena, perchè la notte era buia buia e non c’era una stella. Zulù si accostò alla porta dalla quale filtrava un poco di [108] luce, e con le nòcche delle dita bussò tre volte ma così leggermente, ch’io intesi appena. Nessuno rispose. Io pensai: dormiranno! E sentivo il battere del mio cuore. Dopo aver aspettato qualche tempo, Zulù bussò ancora e più forte, poi un’altra volta, sempre più forte. Allora udimmo un passo che si avvicinava all’uscio, e udimmo una voce domandare: — Chi è? — Amici! — rispose Zulù — Chi? — riprese la voce. — Sono io: Zulù. — Che vuoi a quest’ora? — Debbo domandarvi un piacere. — Quale? — Aprite e lo saprete. — Si udì brontolare, poi udimmo un lungo cigolìo di catenacci e l’uscio si aperse. Mamma mia che brutta vecchia! Aveste veduto com’era brutta! Avrebbe fatto paura anche al diavolo! Lasciò l’uscio aperto appena da potervi passare un braccio, sporse un po’ la lampada e ci guardò per il pertugio. — Chi è quello là? — chiese. — È un amico mio, — rispose Zulù. — Ebbene, che volete? — Perchè non ci aprite? — Dimmi che cosa vuoi. Io non ci ho posto, qua dentro, per voi due. — E chi ci avete, di grazia? — Ci ho il diavolo, vuoi saperlo? — Senza volere detti un salto indietro; ma Zulù rise, ed il suo riso mi rincorò. — Nonna Simona, — riprese — voi siete tanto buona, nonna Simona mia, che dovreste farci una carità. — Quale? — chiese [109] la vecchia. — Abbiamo fame. — Ebbene? — Non avreste proprio niente da offrirci? volete che passiamo la notte così, senza poter dormire? — Ma se ritorni sempre?! Credi ch’io abbia tanto da poter sfamare tutti i poveri della terra? — Zulù non rispose, perchè nonna Simona si era allontanata. Quando tornò sporse la mano e ci dette del pane e del formaggio, poi richiuse la porta e ci rimandò per la campagna.

— E dove bevesti? — chiede Toti.

— A una fonte.

— E per dormire, dove andasti?

— Ci distendemmo nel fondo di un fosso. Era d’estate e le erbe erano alte. Si stava meglio che su un letto di piume.

— Tu dici dunque che nonna Simona non vorrà riceverci?

— Io non ho detto questo. Voi siete ricco, e per voi è un altro conto.

— E credi che ci insegnerà la strada?

— Lo credo.

— Allora bisogna fissare il da farsi prima che giungano Marinella e Orsetto.

— Fissiamo pure; ma io temo — soggiunge Carciofo — che Suor Lucia non vorrà condurci lassù.

— Suor Lucia no di certo, — riprende Anatroccolo — perchè da due giorni è al suo viaggio.

[110]

— Quale viaggio?

— Ah! non lo sapete? Anche suor Lucia ha il suo mistero. Ogni tanto parte a piedi e sta assente qualche giorno, e poi riappare.

— E non si sa dove vada?

— Non si sa; ma si dice che passi sempre dalla casa dove vive Allodola. —

Trascorre una pausa. Le varie cose che ha raccontato Anatroccolo scombuiano un poco la limpidezza del pensiero di Toti; però ben presto si riprende.

— Se suor Lucia non c’è, non importa. Noi non abbiamo bisogno di lei per la nostra impresa. Nonna Simona abita vicino alla selva di Ladino, e laggiù mio padre possiede qualche podere; chiederò a mio padre di mandarmi in campagna col fattore e tutto sarà fatto.

— Benissimo! — dice Carciofo. — E noi?

— Potremmo trovarci laggiù.

— Verremo a piedi, — soggiunge Anatroccolo.

— Sicuro, a piedi!

— E se riusciremo nell’impresa, allora vedrete che i nostri genitori saranno più contenti di noi.

— Senza dubbio, — soggiunge Carciofo.

— La casa lucente! Io la sogno da dieci notti. Come deve esser bella!

— Una meraviglia!

[111]

— Un sole!

— E allora quando si parte? — domanda Toti.

— Io direi domani — risponde Carciofo.

— No, domani no; bisogna preparare il viaggio. Domenica, forse... sì, domenica. Allora resta fissato?

— Resta fissato.

— E ricordatevi della promessa.... Zitti! zitti! —

Si ode una fresca volata di risa e di trilli, si avvicinano gli altri monelli; ma quanti sono mai? Fra le rame si distingue un vivissimo luccichìo di vesti e di capelli sciolti. Gli occhi di Anatroccolo ne sono abbagliati.

Le oche fuggono, spaventate dalle festose grida di Marinella e di Orsetto i quali giungono in compagnia di due belle sconosciute.

Una è bionda come la seta e il viso pare un giglio tanto è bianco, aggraziato e soave. Si chiama Dorry. È giunta da Londra pochi giorni innanzi. L’altra è bruna, ha due grandi occhi neri lucentissimi, pieni di vitalità esuberante. Si chiama Fauvette.

Toti è compreso d’ammirazione. Chi saranno mai?

[112]

Marinella si affretta a togliere ogni dubbio all’amico perplesso.

— Sono venuta con le mie amiche, Toti; il tuo giardino è grande, io non ho che un cortile e c’è la signora del secondo piano che soffre di continue emicranie, e non può sentire le nostre voci. È una signora antipatica che vive con un pappagallo ed una vecchia serva. Noi siamo venute via col permesso di tutta la famiglia, e per la strada abbiamo incontrato Orsetto. Ora ci divertiremo qui. Dorry sa giuocare al tennis, ma noi non sappiamo fare; Fauvette canta; oh! tu sentissi come canta bene! Pare un’orchestra! Anzi, la pregheremo di farci sentir la sua voce.

Marinella tace e tacciono tutti. Anatroccolo si è nascosto dietro il tronco di un’acacia; Carciofo si è fermato più innanzi, ma sta con gli occhi bassi e le mani annodate dietro le reni in un atteggiamento non si sa se scontroso o meditabondo.

Trascorre un silenzio impacciante, interrotto da Fauvette, che si fa innanzi con grazia squisita e disinvolta, e dopo aver fatto gli elogi del laghetto, vraiment joli, simplement délicieux chiede s’il y a un tout petit navire pour se promener sur l’eau!

Bonjour, mère l’oie! — esclama Fauvette, protendendosi verso una grande oca.... (pag. 116).

— Oh, sì! La piccola nave c’è, ma non si può staccare dalla riva, perchè è incatenata [115] a un palo e la catena è chiusa da un lucchetto. Tommaso ne ha la chiave ma è perfettamente inutile chiedergliela, perchè papà gli ha dato l’ordine di non cedere a nessuna richiesta che gli venga fatta da Toti.

Oh nous irons tout de même! — esclama Fauvette, la quale prende per mano Toti e si dirige correndo all’altra riva del lago ove è ancorato il battelletto. Marinella, Dorry e Orsetto seguono i compagni. Carciofo si muove lentamente, mantenendosi a rispettosa distanza; Anatroccolo sporge il capo a guardare, ma non abbandona il suo rifugio.

Dorry, la soave angiolella dagli occhi azzurri e lucenti come uno smalto a foco, dalla persona di giovane gazzella, sorride, e Orsetto la segue guardandola tutto ammirato. Non parlano perchè non si potrebbero intendere; a quando a quando si fissano negli occhi.

Fauvette è salita sul leggero battello e Toti l’ha seguita infrangendo la severa proibizione paterna.

Mon Dieu, qu’il est peu sûr ce bateau! Certes on n’y pourrait pas danser dessus!

— Fai adagio fai adagio! — grida Toti — Mantienti al centro, rovesceremo! —

Carciofo, sempre, meditabondo, sogguarda ad una certa distanza. E se cadessero nell’acqua per davvero?

[116]

Bonjour, mère l’oie! — esclama Fauvette, protendendosi verso una grande oca che allunga il collo ed apre il becco a minaccia. — Bonjour! Est-ce-que vous avez peur ma jolie bête?

— Fauvette abbiate prudenza! — ripete Toti.

Oh ma regarde donc qu’elle est gentille notre mère l’oie! Elle nous regarde avec des yeux si doux! Viens donc, ma petite, viens!

— Fauvette! Fauvette! —

Ah è troppo tardi! Fauvette si è fidata della lieve imbarcazione, ed è andata a fare una visita ai pesci.

Per un attimo lo stupore dell’improvvisa scomparsa fa sì che nessuno gridi; ma prima ancora che i monelli si riabbiano, Carciofo si rammenta del suo valore, chiude gli occhi e si lancia nell’acqua.

Succede uno scompiglio generale, perchè Carciofo non sa nuotare.

Alle invocazioni ed alle grida Tommaso accorre trafelato e in un attimo trae alla riva la vittima e l’eroe.

Per fortuna l’acqua non arrivava loro alla cintura, e se la sono cavata con un semplice bagno.

Fauvette riprende la sua gaiezza e, fra [117] i compagni che l’attorniano, si avvia verso casa.

Oh! ce n’est rien! L’eau n’etait pas sale vous savez! —

Scompaiono in breve.

Carciofo non fiata; gli sguardi feroci di suo padre gli fanno perdere la tramontana.

— E voi, perchè siete salito sul battello quando sapete che io non voglio, eh!? Perchè siete salito?...

— Io non ero sul battello! Mi sono gettato nell’acqua per salvarla.

— Per salvar chi?

— La signorina francese!

— E ora dove avete i panni per cambiarvi, marmocchio? Passatemi innanzi e presto! Imparerete a vivere, imparerete! —

La dose degli scapaccioni aumenta, fidente nel suo profondo valore educativo.

Carciofo freme, e pensa che suo padre è cieco e non potrà mai essere un eroe.

Quando tutto è tornato nel perfetto silenzio, Anatroccolo si decide ad uscire dal suo nascondiglio. Ha fame, ha tanta fame!

Dal giorno prima non ha inghiottito un solo boccone. E se potesse trovare il pesce d’argento che fece tanto bene a Gianni della fiaba?

Si avvicina a guardar le acque chiare; [118] un musetto lucente si accosta alla riva e Anatroccolo ripete i versi della fiaba;

— Pesciolino mi’ amante,

Saresti a me costante?

Mi faresti la carità? —

E attende e spera. Tutti lo hanno dimenticato; anche il sole che scompare e lo saluta dagli alti rami delle lontane betulle.

[119]

V. La festa delle rose.

— Sei pronto, Toti?

— Io sì. È miss Edith che impiega un anno a vestirsi.

— Toti!!!

— Zia Emma, vieni a vedere! Per mettersi un guanto infila un dito alla volta ed ha dieci dita lunghe lunghe.

— Toti, dico!!!

— Io non ne ho colpa, sai! Anzi le ho consigliato molte volte di portare i mezzi guanti; farebbe più presto; ma miss Edith non vuol seguire i miei consigli.

— Toti, finiscila, m’intendi?

— Sì zia, t’intendo.

— Perchè non vieni in salotto, che cosa fai in camera?

— Aspetto la signorina.

[120]

— Ma sei pronto?

— Sì, non c’è male.

— A che punto sei, si può sapere?

— Debbo ancora mettermi le scarpe.

— E perchè non lo fai da te? Chi aspetti?

— Aspetto la signorina.

— Voglio sperare che non avrai bisogno del suo aiuto.

— No, zia Emma, sono io che aiuto lei perchè non si affatichi; facciamo da buoni fratelli.

— Quando sarai vestito, vieni in salotto.

— Va bene zia; verrò in salotto. —

La zia Emma riprende la lettura interrotta; Toti, nella stanza vicina, guarda miss Edith che è ferma innanzi allo specchio. Egli è ancora seduto sul letticciuolo, ed attende.

Quanto tempo impiega quella benedetta figliuola! Ora si passa la cipria sul viso; ma quale soddisfazione può provare mai a infarinarsi tutta in quel modo? Vorrà forse nascondere le macchioline rosse delle quali ha cosparsa tutta la pelle.

— Signorina?

— Toti?

— La zia Emma mi aspetta.

I am ready! (Sono pronta).

— Anch’io sono pronto. Debbo solo mettermi le scarpe e mettermi la cipria sul viso.

[121]

— Toti! You are unkind! — (Siete scortese).

Toti abbassa gli occhi e tace. Perchè mai non è stato cortese? Gli sarà forse vietato di darsi la cipria? Quando sarà grande vorrà levarsi questa soddisfazione tutti i giorni. Per ora la sua vita è un continuo divieto; questo non si può fare, quello non si può fare, di mille desiderii che gli nascono può soddisfarne solo qualcuno e con quanti stenti!

Verrà il giorno della rivincita, il giorno in cui, libero di sè, potrà disporre del suo tempo e della sua vita a suo talento, e allora vorrà sempre sporcarsi le mani d’inchiostro; e saltare su tutti i tavolini che troverà su la sua via; e rovesciar le sedie; ed entrare in casa gridando, senza timore di disturbare nessuno; e empirsi le tasche di piselli, di fiammiferi, di carta, di bottoni; e dire a tutti ciò che pensa:

— Tu mi annoi! Tu sei brutto! Non tornare più in casa mia! Ora vattene che voglio star solo, ecc. ecc. Oh! allora sì, sarà felice, completamente felice! Questo pensiero lo rincuora e non si sa spiegare perchè papà, che potrebbe, non faccia altrettanto. Nossignore! Toti sa, per esempio, che la signora Penelope è antipaticissima a papà, e sa altresì che non può digerirla; ma quando capita in casa le va incontro e le dà il benvenuto, [122] e le sorride; perchè non le dice piuttosto:

— Scusa, sai, signora Penelope, ma io in casa mia non ti ci voglio, perchè sei brutta, perchè sei pettegola, ineducata, astiosa, vendicativa e sciocca! —

Così dovrebbe dire, e la signora Penelope non tornerebbe più e non darebbe a lui, che non li può soffrire, que’ suoi baci umidicci che lasciano il cerchiolino su le guance.

Miss Edith ha compiuto il suo abbigliamento, e si avvicina a Toti che l’attende sorridendo.

Toti è in vena sentimentale; gli occhi suoi rivelano una improvvisa pensosità, che ben presto dovrà esser nota, perchè Toti non sa celare i suoi sentimenti.

Ad un tratto, mentre miss Edith lo aiuta a stringere i laccetti di una scarpa, esclama:

— Noi siamo crudeli! —

Miss Edith non risponde com’è suo costume, e Toti continua per conto suo.

— Noi siamo crudeli perchè uccidiamo i vitelli per farci le scarpe! Potremmo andare scalzi, sarebbe più comodo e non toglieremmo i figli alle povere vacche! —

Miss Edith si rialza, l’opera è compiuta. Toti è pronto; può uscire con la zia Emma.

Prima di andarsene getta un’occhiata all’angolo nel quale il suo elefante invalido [123] siede con la proboscide raccolta fra le gambe, lo saluta, poi si volge tutto raggiante di gioia, ed esce a grandi salti:

— Domani è la festa delle rose. Evviva la primavera! —

Vanno di casa in casa con la zia Emma; tutti gli amici di Toti debbono partecipare alla festa delle rose. Marinella, Orsetto, Dorry, Fauvette, Rando e Celestina interverranno immancabilmente. Sono già passati dalla piazzetta del Carmine dove abitano i due inseparabili, e le donne che li sorvegliano sono state commosse dal gentile invito fatto loro dalla zia Emma e da Toti.

La nonna di Rando si è un poco preoccupata perchè non ha un vestitino degno da fare indossare al nipotino; ma la zia Emma e Toti l’hanno rassicurata. I bimbi sono sempre belli, non occorre loro ricchezza di vestiti, sono come i fiori: si vestono d’aria e di luce.

Toti ha chiesto particolarmente a Rando:

— Ci vieni volentieri a pranzo da me, domani? —

E Rando ha risposto senza alzar il capo:

— Sì; ma io voglio molta minestra.

— Anch’io, — ha soggiunto Celestina.

— Ce ne sarà, non dubitate.

— E ci sarà anche il pane? [124] — Sì.

— E le ciliege?

— Anche quelle. —

Allora Rando e Celestina si sono guardati, hanno riso un attimo dalla contentezza, e poi si sono allontanati cantando:

— La gatta va al mulino

Per fare un covaccino

Con l’olio,

Col sale,

Con l’unto di maiale.... —

Toti e la zia Emma continuano il loro giro d’inviti. Adalgisa accetta con discreto entusiasmo, ma più ne dimostra Ciuffolo, il quale incomincia a far capriole in mezzo alla stanza con grave rischio e pericolo della sua incolumità personale.

Alla fine della loro passeggiata la zia Emma chiede a Toti:

— Ma sai dirmi adunque dove abita Suor Lucia?

— Nelle case della carità.

— Se non mi dài una indicazione più precisa sarà impossibile trovarla.

— Ne domanderemo a Giacomino, — risponde Toti. E da Giacomino sanno che Suor Lucia non è in città.

— Quando è partita?

— Due giorni sono.

— E domani tornerà?

[125]

— Non lo so.

— Da chi potremmo informarci?

— Ora chiamo la mamma; ella potrà dar loro tutte le indicazioni che vogliono. —

Dopo i convenevoli che sogliono scambiarsi fra persone bene educate, la zia Emma e la signora Erminia, madre di Giacomino, entrano in soggetto:

— Saprebbe indicarmi per favore dove abita Suor Lucia?

— Abita nelle case della carità al numero nove; ma ora è assente.

— E quando tornerà?

— Fra due giorni, forse; non so quando potrà ritornare, povera donna!

— Le è toccata qualche disgrazia?

— È tanto tempo che soffre! Non sa nulla dunque? —

Toti vorrebbe ascoltare ciò che dicono le due signore, le quali si sono tratte in disparte e parlano a bassa voce, e fa tutto il possibile per udire, con tutta garbatezza, qualcosa; ma non gli riesce; non afferra neppure una parola.

Che cosa sarà toccato mai alla povera Suor Lucia? Egli prova una vera tenerezza filiale per la buona creatura stanca, che ha tollerato, sempre in santa pace, tutte le loro monellerie e non una sola volta li ha rimproverati con parole aspre; le vuol bene [126] come tutti le vogliono bene, dai più piccini ai più grandi. Ora il pensiero ch’ella possa soffrire lo accora. Tornerà ancora? La festa delle rose non può riuscir compìta senza Suor Lucia; il suo zendado nero, del quale va sempre ricoperta, non avrebbe dato tristezza a nessuno; ella sarebbe stata alla tavola dei bimbi come un compimento necessario, e tutti l’avrebbero accolta battendo le mani.

Quando la zia Emma lo invita ad uscire egli tace ed attende una frase che gli spieghi l’assenza di Suor Lucia; ma la zia Emma non parla, segno evidente che Toti non potrà saper nulla.

Però la curiosità lo spinge a fare una domanda innocente, che potrebbe metter la zia su la via delle confessioni.

— Verrà poi Suor Lucia?

— No.

— E perchè mai?

— Perchè ha molte cose alle quali attendere.

— Cambia di casa?

— No.

— E perchè?

— Perchè sta bene dove si trova.

— Già!... Sta bene dove si trova!... Dunque non viene?

— Non viene.

— Sarà ammalata, non è vero, zia?

[127]

— Quante cose vuoi sapere, Toti? Non è ammalata, rassicurati.

— Vedi? Sono in pena! Dovresti dirmi che disgrazia le è toccata.

— I curiosi si puniscono col silenzio.

— Non sono curioso, zia; puoi parlare. —

La zia Emma non risponde; il tiro non gli è riuscito, e Toti se ne va mogio mogio, almanaccando mille avvenimenti stranissimi dei quali Suor Lucia è l’eroina.

C’è un mistero che lo seduce e lo accora; egli deve scoprirlo e lo scoprirà.

La casa odora acutamente, perchè le rose sono dovunque profuse con dovizia straordinaria.

È il 4 di maggio, il giorno in cui Toti compie gli anni.

La zia Emma, con pensiero squisito, ha voluto che la festa di Toti fosse anche la festa delle rose, della primavera. I bimbi ed i fiori si rassomigliano tanto!

Toti si è svegliato quattro volte durante la notte, e si è levato su le coltri per vedere se dalle imposte chiuse trapelasse qualche raggio di luce; ma il sole è tanto più pigro del suo desiderio! Miss Edith russa tranquillamente, metodicamente; dorme [128] come agisce, russa come parla, è sempre uguale miss Edith!

Poi c’è il tarlo del cassettone che non si dà pace e lavora e lavora producendo certi aspri schiocchi, che impressionano. La notte deve essere ancora alta, perchè non si ode neppure lo strido di una rondine e le rondini sorgono col sole, si lanciano pei cieli quando le campane dell’alba danno i loro ultimi rintocchi.

Il silenzio è profondo; bisogna dormire ancora per far piacere agli altri, mentre sarebbe molto igienico levarsi di buon’ora e guardar sorgere l’alba. Dio, come deve essere bella l’alba!

E il pensiero si volge ad altro. Toti pensa un’infinita distesa di cieli bianchicci corsi da nubi che si sfioccano e un mare più bianco ancora e alcune lontanissime vele, piccoli punti neri su l’orizzonte che s’incurva. L’anima gli sorride; il momentaneo turbamento l’abbandona ed il sonno ritorna, un sonno quieto come un alito di brezza estiva.

Finalmente la luce giunge, e si odono le rondini e le campane mattutine. Il cuore gli balza tumultuosamente; getta le coltri da un lato, si alza sul letticciuolo e grida: — Miss Edith? Miss Edith? —

Un breve suono risponde dal fondo della stanza. La signorina dorme ancora, dorme [129] sempre, dormirebbe come un baco da seta se la lasciassero fare; ma Toti non può aver pazienza: è la sua festa, la festa della primavera.

— Signorina, è giorno! Voglio alzarmi. —

Per quella mattina gli sarà perdonata la fretta, perchè è pur giusto ch’egli ottenga quel che vuole almeno una volta all’anno!

Miss Edith non risponde con troppa sollecitudine alla chiamata, e Toti pensa perchè mai debba essere condannato all’eterna sorveglianza di miss Edith. Papà ha parlato tante volte di signori e di signore che non possono vivere insieme per incompatibilità di carattere: ora anche fra Toti e la signorina Edith c’è la stessa incompatibilità, l’unione non è riuscita, perchè dunque li condannano a star sempre l’uno a fianco dell’altra? Anche Dorry conosce la lingua inglese e Toti l’imparerà da Dorry che è una bella bimba e non è punto noiosa.

Finalmente può levarsi; Miss Edith è giunta, ha gli occhi rossi, non parla.

— Buon giorno, signorina.

Buonciorno.

— Quest’oggi io sono allegro.

— Ho piacere.

— È la mia festa!

Aucuri.

— E tu non sei allegra, signorina?

[130]

Yes.

— Ti piacciono le rose?

Yes.

— Te ne darò tante tante e tante!

I thank you. (Vi ringrazio).

— E te ne metterò sui capelli, sul vestito, voglio farti bella!

Yes.

— Sei contenta?

Yes.

— Eri più contenta ieri o oggi?

Yes. —

Toti la guarda un attimo senza parlare, poi gonfia le guance ed esclama:

Yes yes yes; ma non sai dir altro? —

Miss Edith non risponde e Toti guarda verso la soglia per timore che la zia Emma sia là ed abbia udito. L’ombra severa non appare, tutto è salvo.

Le finestre della stanza sono aperte e si diffonde un’aria deliziosamente odorosa che dà una lieve ebbrezza; le guance di Toti si arrubinano ancor più ed hanno una lucentezza soave come ne hanno le rose allorchè il sole le coglie vestite tuttavia di rugiada. Su la mimosa che s’intravede c’è una capinera che canta e si tace; poi squittisce timidamente e riprende l’avvio quasi seguisse le instabilità della brezza che accompagna il mattino.

[131]

Toti non conversa a lungo con miss Edith perchè non può riversare il suo sentimento esuberante nell’anima glaciale della signorina; gli occorre qualcosa che risponda e non una creatura che ha un’espressione immutabile simile a quella di Beretta e Pierello, i suoi due fantocci.

Ascolta con somma pazienza gli ammonimenti: essere buono; pensare ai propri doveri; ascoltare i consigli dei superiori; non far male ad alcuno; non compiere atti inconsulti; non mostrarsi superbo con le persone di grado inferiore; moderare i propri desiderii; non infastidire il prossimo; e tanti e tanti altri che, a volerli osservare a puntino, non resterebbe altro che sedere in un angolo, non aprir bocca mai e non muoversi per tutto il giorno. La prima cura di Toti è quella di ascoltare sorridente e sereno i precetti che gli impartiscono in abbondanza spaventosa, e la seconda è quella di dimenticarli immancabilmente un minuto dopo.

Quando esce dalla stanza incontra la zia Emma poi il papà, poi il nonno e il prozio, e gli augurii seguono agli augurii e i doni ai doni.

Ciò lo commuove tanto, che rivolto alla zia Emma, le chiede:

— Zia, sai dirmi perchè la mia festa viene solo una volta all’anno?

[132]

— Perchè sei nato una volta sola.

— E allora perchè quando il tempo è bello il babbo dice: mi sento rinascere? —

Non gli rispondono se non ridendo, poi la zia lo prende per mano e lo conduce nella grande sala degli arazzi che è stata arredata in quel giorno appositamente per lui. In mezzo alla sala è apparecchiata una lunga tavola, che raccoglierà alla mensa i piccoli convitati che parteciperanno alla gaia festa primaverile; saranno moltissimi. Agli angoli della sala sono disposti, entro alti vasi, numerosi tralci di rose in fiore ed altri sono sparsi su la tavola.

L’aria, luminosa come di un oro diffuso, è satura di un profumo soavissimo.

Su piccoli cartellini, disposti fra i fiori, è scritto il nome dei convitati; Toti compie un giro intorno alla tavola leggendo ad alta voce; quando ha finito, fattosi pensieroso, si accosta alla zia Emma per parlarle e pare che non ardisca.

— C’è qualcosa che non ti garba?

— No, tutto mi garba; ma vorrei chiederti un favore.

— Quale?

— Io ho due amici poveri.

— Ebbene?

— Vorrei invitarli.

[133]

— Ma sicuro. E chi sono?

— Uno è Carciofo.

— Il figlio di Tommaso?

— Sì.

— Va bene. E l’altro?

— L’altro è Anatroccolo.

— Di chi è figlio?

— Non è figlio di nessuno, è nipote della zia Geltrude.

— Ma come trovarlo?

— Carciofo lo conosce; diremo a Carciofo di condurlo con sè.

— Benissimo. Allora farò preparare i posti per i tuoi due amici, e tu corri a cercarli ed invitali.

Non chiede di meglio nè si fa ripetere la proposta: anzi, si affretta a fuggire perchè la zia Emma non abbia a pentirsi.

È tanta la gioia di lui, che tutta la vecchia casa ne vibra; egli crede che il mondo, per quanto è grande, sia tutto uno specchio di sole partecipante, in quel giorno, alla sua felicità e crede che i fili d’erba, i cespugli, gli alberi, le nubi, tutte le cose vicine e lontane siano tanto belle unicamente per lui. La terra ed il cielo sono tutto un giardino; le corolle che fioriscono a cespi, a grappoli, a vere ondate, su la terra, hanno le loro sorelle lassù, in quei fiocchi d’argento che gli [134] uomini chiamano nubi e che sono corolle senza lo stelo fiorite come ninfee nel gran lago azzurro. Lassù si nasconde Iddio e gli alberi lo vedono forse, e le allodole lo vanno a salutare.

I parenti e gli amici sogguardano dalle soglie, nella sala degli arazzi non debbono essere che i bimbi ed i fiori.

Marinella è venuta; Orsetto, Fauvette, Dorry, Ciuffolo, Adalgisa, Nicoluccio, Doretta, Miranda sono giunti; Rando e Celestina fanno il loro ingresso in quel punto, ed è una fortuna che i compagni loro siano intenti ad ascoltare Dorry, la quale siede al pianoforte, altrimenti, storditi come sono da tutte quelle cose nuove, immense e lucenti, o scoppierebbero in pianto o prenderebbero la via del ritorno.

Giungono inosservati, e ciò dà loro un coraggio formidabile, nonostante il quale ritengono opportuno soffermarsi su la soglia.

La donna che li accompagnava, abbandonandoli ai piedi delle scale li ha esortati a proseguire il cammino, cosa che hanno fatto come in sogno, credendo entrare nella dimora sontuosa di qualche re di fiaba. Celestina [135] ha detto una parola; ma la sua voce le è parsa tanto grande, in quella vastità, che si è taciuta subito, impaurita. Hanno fatto le scale gradino per gradino, lentissimamente, tenendosi sempre per mano e guardando i dipinti della vòlta, i grandi candelabri disposti sui ripiani e Celestina ha chiesto sommessamente:

— È una chiesa? —

E Rando ha risposto:

— Sì. —

Si sono fatti il segno della croce ed hanno proseguito.

Giunti al termine, un uomo vestito di nero ha detto loro, indicando una porta tutta dorata:

— Toti è laggiù, andate. —

Ed hanno proseguito passando di meraviglia in meraviglia, sempre più turbati.

— Che casa è questa? — ha chiesto Celestina.

E Rando ha risposto:

— Non lo so. —

Tutto è lucido, anche i pavimenti che sembrano specchi e attutiscono il rumore dei loro passi, sì che pare di andar su la lana. Nella prima stanza passano a testa china perchè hanno intravisto sui muri certi ceffi, chiusi in tante finestre d’oro, i quali non sono affatto rassicuranti; nella seconda si [136] stringono ancor più a fianco a fianco, per una figura tutta bianca ritta in un angolo sopra un piedistallo, e quando sono per entrare nella terza, si soffermano e si nascondono tremando, dietro le portiere semicalate.

— Hai veduto? — sussurra Celestina.

— Sì.

— Ora ci mangia! —

Dopo una breve attesa, Rando sporge nuovamente il capo e si ritira pieno di spavento. Stanno rannicchiati in un angolo e non uscirebbero più dal loro nascondiglio se non li intravedesse un servo che passa.

— Che cosa fate lì?

— Niente; abbiamo paura.

— E di che cosa?

— Della bestia.

— Ma di quale bestia?

— Quella là. —

Il servo guarda e ride.

— Non vedete che è morta?

— È morta?!

La cosa li rassicura e si fanno innanzi; ma perchè dunque, se è morta, li guarda con quegli occhi così larghi e tiene la bocca aperta?

— È una pelle di tigre — ripete il servo sollevando e lasciando cadere lo spauracchio disteso ai piedi di un divano. I marmocchi cominciano a convincersi, però passano a rispettosa distanza sbirciando.

[137]

Ed eccoli su la soglia della sala degli arazzi dove sono adunati i loro compagni. Mio Dio, il paradiso non potrebbe essere più grande e più bello. Fra poco si faranno cuore; il suono del pianoforte li rianima.

Rando indossa l’eterno gonnellino rosso e non ha che due varianti al consueto abbigliamento: le scarpette di vitello adorne su la punta da una breve lamina di ottone, e il suo vecchio cappellino che, per l’occasione, è stato rivestito da una bella ghirlanda di rosoni di carta.

Celestina ha una veste di bordatino, la quale comincia a gonfiarsi sotto le ascelle e sempre più si gonfia discendendo, fino a raggiungere, al termine, una inverosimile ampiezza. Il corpicciolo della bimba scompare entro il paltoncino decorativo di cui l’hanno rivestito. Per compiere la linea di eleganza le hanno cucito sotto alle spalle un grande nastro di seta gialla che si innalza in due turgidi sboffi e ricade in due code rigidamente fino all’altezza dei calcagni. Celestina si crede molto bella, e si pavoneggia nella sua veste rigida e solenne. I suoi poveri capelli rialzati sulla fronte e su le tempie sono costretti su la nuca in una trecciolina contorta; così per ottenere l’intento di non essere mai spettinata pare un piccolo topo uscito da un bagno d’olio.

[138]

Il lieve canto di Dorry li seduce, calma i loro spiriti turbati, li invita. Avanzano ascoltando. Si sentono come in casa propria, perchè nessuno si preoccupa della loro venuta, nè li turba con parole cortesi, con saluti, e con baci.

Giunti in mezzo alla sala, Rando abbandona la mano di Celestina, perchè riprende il dominio di sè stesso.

Si accosta alla tavola, poi si dirige ad un vaso ricolmo di rose, ne coglie una e l’odora. Celestina lo segue sempre secondo la sua instancabile fedeltà.

Il possesso di un bel fiore riempie di gioia l’anima del bimbo, gli occhi di lui si illuminano, la bocca sorride, poi ride. Anche la musica è bella. Rando l’ascolta, anzi l’ascoltano, perchè Celestina è il fedele specchio del compagno suo, e si animano, si animano sempre più, guardandosi negli occhi finchè, liberi ormai da ogni soggezione, cominciano a gestire, poi a batter le mani, poi a saltare gridando allegramente, soli e imperturbati come due piccoli imperatori.

La piccola Dorry si accompagna sul pianoforte una canzoncina.... (pag. 138).

Frattanto la piccola Dorry dagli occhi d’angelo; tutta sottile e bionda si accompagna sul pianoforte una canzoncina che un poeta inglese, Mark Ambient, ha scritta in onore di lei e che un musicista italiano ha rivestita [141] di note per dare il suo contributo di ammirazione alla gentilissima creatura.

Dorry ha una veste bianca e disciolta che le scende lungo l’esile figura come una carezza, e i capelli biondi che le inquadrano soavissimamente il perfetto viso dai grandi occhi stellari, le si allargano su le spalle in un fiotto lucente. Un raggio di sole la illumina. Ella siede composta, ha il viso un poco levato e sorridente.

Aggruppati intorno e silenziosamente intenti le stanno i monelli. Toti la guarda senza battere ciglio, ma più la guarda e più si appassiona nella sua muta estasi Lionello, un ragazzo di tredici anni, cugino di Toti, il maggiore della compagnia. L’adolescente è nel periodo in cui il sogno della vita si trasfigura per il primo albore di un’ansia nuova e gentile.

E Dorry continua dischiudendo appena la bella bocca dalle lievi sinuosità di fiore. La maggior parte degli ascoltatori non intende ciò ch’ella dice; ma la voce di lei è chiara e la musica è bella.

La canzone ha la freschezza di un canto davidico.

Gracefull as a young gazelle

Dainty little Dorry;

Merry as a marriage bell

Dimpled little Dorry.

[142]

Hair so fair and eyes so blue

Little heart that bits so true,

Who could live with’ loving you

Darling little Dorry?

Ah! we all love little Dorry,

And for you I am very sorry

If you don’t know little Dorry

Dainty little Dorry.

Loving, little, sweet, and simple

Dimpled little Dorry!

Finita l’ultima cadenza arrossisce e si leva di scatto.

— Continua continua, non è finita! — le dice Toti, tentando di farla tornare al piano; ma Dorry si schermisce con semplicità e con fermezza.

Ciuffolo rimane col pollice immerso nella profondità della boccuccia rossa; Adalgisa si aggiusta i numerosi nastri della veste; Miranda e Doretta stanno tuttavia col naso all’aria e continuano a sorridere; Anselmuccio, che ha ravviato i suoi capelli rossi, ordinariamente scompigliati, pare distratto mentre valuta a colpo d’occhio i vari oggetti atti all’incremento del suo piccolo commercio; Rando e Celestina sono scomparsi, hanno trovato, nel bel mezzo della sala, un’isola inesplorata, nella quale nessuno potrà disturbarli; sono sotto la tavola, e la lunga tovaglia li nasconde entrambi agli sguardi dei presenti.

[143]

Fauvette propone a Lionello di suonare qualche ballabile pour fair danser les petits, e Lionello accetta di gran cuore perchè Dorry gli è vicina e si dispone ad ascoltarlo.

Le coppie si formano: Toti e Marinella, Anselmuccio e Adalgisa: Cola dalle gambe torte e Miranda, il batuffolo dalle grandi arie di donna matura; Orsetto e Fauvette e molte e molte altre.

Lo spazio è sufficiente per ballare e per cadere. Lionello incomincia tremando, ma poi si vince e accenna una gioiosa aria di ballo che si fa sempre più piena e sempre più rapida, follemente. Le coppie incespicano, saltano, strisciano, ruzzolano fra scoppi di riso e grida di gaudio e di incitamento. Un lembo della tovaglia si solleva; Rando e Celestina sogguardano dal piccolo pertugio.

Ad un tratto coloro che si trovano presso la porta d’ingresso si fermano e battono le mani gridando.

Entra Ninì.

Il bimbo, senza preoccuparsi dei molti presenti, avanza direttamente verso Toti, e, raggiuntolo, si ferma a qualche passo di distanza ed esclama ad alta voce mentre tutti tacciono:

— Ti avguro mille anni contenti in compagnia dei tuoi genitori e della tua baglia e ti avguro di mangiar sempre delle caramelle [144] e dei succherini e ti avguro di fare a metà con io come io farò a metà con tu, perchè oggi è la tua festa e domani sarà la mia. Evviva Gesù, evviva Giuseppe, evviva Maria! —

Il discorsetto quasi improvviso è stato pronunziato con tanta sicurezza e tale serietà, da destare la più viva gaiezza nell’uditorio.

Toti ringrazia il suo piccolo amico, piccolo sì, perchè ha appena cinque anni e non arriva ancora col capo alla spalliera di una seggiola.

Ninì, appena entrato, ha dato un saggio della sua perfetta conoscenza della madre lingua e della sua disinvoltura a tutta prova. Quantunque per fargli insegnare qualcosa sua madre lo mandi a scuola dalle suore del Buon Pastore, egli non fa, invero, progressi straordinari, non già perchè gli manchi l’intelligenza, che è in lui vivissima, ma per una certa sua indole ribelle, la quale gli fa accettare a malincuore ogni correzione.

Un lembo della tovaglia si solleva; Rando e Celestina sogguardano.... (pag. 145).

Dalle suore ha imparato con somma facilità tutto un repertorio di sermoni e di canzoncine sacre, ch’egli modifica e fonde a suo piacimento, aggiungendovi considerazioni e intercalandovi pensieri di vario stile e d’indole disparatissima. Nè si fa pregare a fare sfoggio della sua scienza chè, se ne [147] viene richiesto, scioglie tutta la parlantina con somma facilità, poco curando la logica e il buon senso, contento di infilar le parole una dietro l’altra come tante perlette in un fil di seta.

Ninì ha due grandi occhi rotondi a fior di pelle, ch’egli apre smisuratamente quando sta per parlare, e pare che partecipino alle vibrazioni acute della vocetta acerba. L’insieme del suo visetto è piacente e ridevole per la continua espressione tutta particolare di serietà burlesca.

Ninì strascica l’esse e non sa pronunziare la zeta, la quale non entra affatto nel suo alfabeto. Possiede tutte le qualità per riuscire simpaticissimo. I compagni suoi ridono al solo vederlo ed egli ha la virtù di non scomporsi, anzi, a volte, ride anche lui, senza altra ragione se non quella di imitare i compagni.

È famoso per le sue frasi che rimangono celebri nel mondo de’ suoi coetanei, i quali lo amano e cercano di averlo, quanto più possono, vicino.

Questa è la ragione per la quale gli inviti gli piovono: senza Ninì non c’è festa che possa riuscire compìta. Egli è un complemento del buon umore.

D’altra parte non v’è persona o ambiente che lo preoccupi o lo impacci; egli è [148] sempre padrone di sè stesso e non si trattiene dal fare le sue considerazioni o dal ripetere, senza intenderne il senso, l’ultima interiezione che ha udito per la via, passando.

Quel giorno, prima di uscir di casa, ha avuto un piccolo scapaccione solo perchè si era voluto rendere utile. Eterna ingratitudine! Quando suo padre è ritornato, Ninì gli è mosso incontro tutto lieto, per comunicargli la buona novella:

— Papà, oggi ho pulisciato il tuo studio, ho mettato tutto a posto, non ho rompato niente e ho chiudato la porta. —

Detto e fatto, lo scapaccione è venuto e Ninì non ha chiesto il perchè; ha ripreso la strada serio serio con gli occhi sempre larghi, esclamando sottovoce più volte a necessario sfogo:

— Carognetta, carognetta, carognetta, carognetta.... —

Ma senza pensare di offendere il babbo; oh no! semplicemente per dire una parola ch’egli sa non permessa e per prendersi una rivincita.

Ninì non piange mai, non ha periodi di umor nero; tutt’al più, se qualcosa lo contraria fortemente, se ne va con le mani annodate dietro le reni, borbottando qualche incomprensibile parola; ma non ha fatto [149] dieci passi che l’ombra è già dileguata, ed egli è tornato padrone di sè stesso.

Ha una cura assidua del suo piccolo fratello, che trascina per tutta la casa e al quale impartisce saggi consigli ed esempi mirabili di amor fraterno.

Quando vede che Bebè stringe nel pugno qualche caramella, gli si avvicina con aria sorridente, e, cercando la sua voce più mite gli dice:

— Bebè, tu sai che i dolci fanno male. Ora ti persuado. —

Gli toglie la caramella e se la mangia con aria compunta quasi compiesse un grande sacrificio, mentre Bebè lo guarda con crescente stupore.

Ora senza curarsi di avere attirato su di sè l’attenzione dei compagni, compie un giro nella sala guardando e considerando tutto, mentre canticchia una canzone che ha imparato il giorno prima da un servo:

— Guarda che bel seren con quante stelle,

Questa è la notte da rubar le donne!

Chi ruba donne non si chiama ladro,

Si chiama giovinotto innamorato! —

I più piccini gli si sono aggruppati attorno, compresi Rando e Celestina che sono usciti dal loro regno. Ninì si volge ad un [150] tratto a guardarli, e ad uno ad uno li interroga.

— Tu chi sei?

— Io sono un re, — risponde Ciuffolo.

— E tu?

— Io sono un soldato.

— E tu?

— Io sono Dorina Misanti, figlia di Giacomo Misanti e di Elvira Pieri. Ho quattro anni; sono nata il dieci gennaio millenovecentotrè in via Leopardi, numero venti, al secondo piano nella finestra a sinistra dove c’è un vaso di garofani e una gabbia col canarino.

— E tu chi sei?

— Io sono una signora, — risponde Miranda.

— E tu? —

Rando si concentra qualche secondo meditando una grande parola; risponde poi senza levar gli occhi:

— Io sono un socialista!!... —

Entrano in quel punto Carciofo e Anatroccolo, e si fermano vicino alla porta senza ardire di muovere un passo di più. Toti va ad incontrarli.

Anatroccolo ha sotto il braccio un berretto da soldato e non ha potuto fare che una variante al consueto abbigliamento; la zia Geltrude gli ha concesso un paio di [151] scarpe meno slabbrate ma sempre enormi per il suo piccolo piede.

— Vieni, vieni.... — gli dice Toti prendendolo per mano.

— Buon giorno, — risponde Anatroccolo che non sa più da qual parte rifarsi — e... siate felice. —

Lo squillo di una piccola campana si avvicina; è giunta l’ora del desinare, l’ora sospirata e gaudiosa. La tavola è presa d’assalto da tutti i lati tumultuosamente.

Il posto è stato assegnato in precedenza, e tanti cartellini disposti lungo la tavola portano scritto il nome dei singoli convitati, ma non tutti sanno leggere e il giusto analfabetismo fa nascere una vera confusione per sedar la quale è necessario l’intervento delle persone grandi.

Un poco d’ordine è ristabilito ma molto relativo, perchè bisogna far venire un cumulo di cuscini per coloro i quali, benchè siano seduti, non arrivano alla tavola neppure col naso. Rando e Celestina sono fra questi ultimi; essi avrebbero risolto il problema inginocchiandosi su la seggiola, ma un cameriere sopraggiunto li aggiusta su due [152] cuscini che alzano il loro livello di qualche centimetro. Quantunque la loro posizione non sia invidiabile, ora potranno destreggiarsi e adoperare il cucchiaio senza il pericolo di versarsi la minestra sul capo.

Tanto per cominciare, Rando, che ha perduto ormai ogni ritegno, comincia a battere le posate sui piatti come è sua consuetudine e ciò fa per indicare il suo considerevole appetito e la volontà di soddisfarlo prestamente.

Ninì, che gli è seduto di rimpetto, lo guarda un poco, e poi gli grida:

— Quando mi avrai rompati tutti i piatti me lo dirai, pistòla! —

Pistòla è la interiezione favorita di Ninì, è il gaio insulto di dubbio significato ch’egli lancia a dritto o a torto, ogni qual volta se ne presenti l’occasione.

Rando non si mostra turbato per così poco, e continua la sua faccenda mentre Miranda, che gli siede a destra, spiega con molto sussiego il tovagliolo, se lo dispone su le ginocchia accuratamente, e, compìto l’atto preliminare, appoggia appena i polsi su l’angolo della tavola e attende, tutta seria e stecchita come una signora che sa il fatto suo e ci tiene e non ammette strappi all’osservanza delle convenienze.

Quantunque la loro posizione non sia invidiabile, ora potranno destreggiarsi.... (pag. 152).

Miranda ha quattro anni; a sessanta, [155] modificate alcune apparenze, sarà forse perfettamente uguale.

Ella sdegna rivolgere la parola a Rando — il quale non se ne offende troppo — e siccome alla destra di lei è seduto Ciuffolo che proprio allora è occupato ad affondare tutte le cinque dita nella midolla del pane quasi a misurarne la profondità, ritiene opportuno, per non offuscare la sua dignità, di mantenere un silenzio contegnoso e compassionevole. Ah, la miseria degli uomini è grande!

La natura di Miranda tende un pochetto al tragicomico. Le sfuriate che sua madre, donna orribilmente gelosa e tempestosa, fa settimanalmente al suo miserando compagno, uomo tranquillo e fidato, le hanno dato il precoce gusto delle lacrime e dei sospiri. Ella studia già l’effetto che può produrre, e riesce gradevole come una stonatura.

La sorte ha posto Anatroccolo alla sinistra di Dorry. Il povero figliuolo non sa come atteggiarsi e dove guardare. Per nascondere un poco le miserie del suo enorme giubbone che cade a brandelli, vi ha spiegato sopra il tovagliuolo, e perchè non abbia a cadere se lo è annodato al collo; così non foss’altro, ha assunto un aspetto meno stridente.

Dorry gli ha rivolto la parola e, per sua [156] maggior confusione, per quanta buona volontà vi abbia posto, non è riuscito a capir nulla di ciò che la bella bimba gli ha detto. Carciofo che siede fra Doretta e Marinella tiene gli occhi fissi sul piatto ostinatamente, ed ha le ciglia aggrottate e l’espressione di un uomo che volga per la mente pensieri terribili.

Toti, Marinella, Orsetto, Fauvette ridono e parlano ad alta voce; Ninì leva le braccia e grida ad un cameriere che passa:

— Ed io ti dicio che ho fame! —

Giacomino, l’astuto monello dai piccoli occhi furbi ha attaccato alle spalle di Adalgisa un fazzoletto rosso e, insieme ai compagni, motteggia l’istrice domestico che si arruffa sempre più, minacciando future rappresaglie.

Anselmuccio ha già fatto scomparire nelle sue ampie tasche la minuta del pranzo decorata da un fregio delizioso che Gugù, la squisita interprete dell’anima dei bimbi, ha voluto disegnare in onore di Toti. Anselmuccio sa che fra qualche giorno quell’oggetto assumerà un valore di scambio, straordinario, e, da buon calcolatore, lo pone in serbo per servirsene a tempo opportuno.

Il sole tocca il meriggio; dalle finestre aperte entra una luce calda e festante, e [157] le vesti e i capelli dei bimbi e i fiori, i vasellami, ogni cosa che riluca se ne accende.

Ad un tratto i camerieri entrano con le prime portate e servono i convitati cominciando dai due punti estremi della tavola; Ninì si trova al centro della tavola; per qualche tempo ha pazienza ma quando vede che i camerieri si allontanano senza averlo servito grida con un atteggiamento comicissimo:

Briscola! Che cosa devo mangiare io? La tovaglia? —

Dopo non molto segue la prima pausa del desinare. Nessuno più pronunzia una parola; per qualche minuto non si ode altro suono se non quello dei bicchieri e delle posate. Solo uno tra i tanti, il maggiore, colui che pur non essendo ancora uomo non è più bimbo, Lionello, mangia appena e a malincuore; il cibo gli ripugna per l’ansietà costante che lo accora.

Anatroccolo per non sembrare villano, mangia a fior di labbro benchè la fame, sua fedelissima amica, lo spingerebbe ad affrettarsi; Rando si passa le posate da una mano all’altra non conoscendone il perfetto uso, e Ciuffolo, per non perdersi d’animo, prende con le dita i pezzetti di pane abbrustolito che navigano nel brodo.

Trascorsi i primi minuti la gaia tavolata si ridesta più vispa che mai; tutti quei capi [158] biondi e bruni si muovono, si agitano incompostamente. Il vivacissimo cicaleccio ricomincia, e continua per tutto il desinare.

Alla zuppa santè, al fritto composto alla bolognese e ad un timballo di piccioni, segue un piatto di sparagi al burro. La cosa è novissima per la maggior parte dei convitati e alquanto imbarazzante. Non sanno da qual parte incominciare se dal bianco o dal verde; Anatroccolo, per non sbagliare, mangia tutto con somma compostezza; Rando e Celestina guardano ai loro sparagi con occhi scrutatori e non sanno decidersi a mangiare quegli affari bianchi e verdi che sembrano tanti birilli da giuocare a bocce; Ninì dopo essersi affaticato inutilmente per più di un minuto, tentando di infilare nella forchetta la punta di uno sparagio, giunto al colmo dell’irritazione si rivolge a un cameriere che passa e gli grida:

— Porta via questa roba! —

L’educazione molto sommaria di Ninì stupirebbe senz’altro Dorry e Fauvette, se esse intendessero la lingua parlata dall’edificante marmocchio.

Al gelato di fragole, ogni convitato ha una piccola coppa di champagne. Toti prega Ninì di fare un brindisi. Il piccolo giullare che è già in via di eccitamento si rizza su la sua seggiola e comincia a parlare e a parlare, [159] mescolando gl’insegnamenti delle suore con pensieri suoi in un pandemonio di frasi spropositate che accresce il buon umore degli ascoltatori.

— Gesù fece il cielo e poi fece la carta e poi disse non desiderare la roba d’altri, e nell’ottavo giorno si riposò. E quando sposò Cana fece il vino ed io ti dicio che il vino è buono. Evviva Toti! —

Tutti rispondono ad una voce: «evviva!»

La festa continua allegramente e, tolte le mense, ricomincia il ballo.

In un angolo Anatroccolo e Toti conversano sommessamente.

— Dunque non ne sai nulla? — riprende Toti.

— Non più di quello che ve ne ho detto.

— Ed ora dov’è?

— È tornata; ma la povera Allodola sta molto male!

[161]

VI. L’Allodola.

La carrucola compie qualche giro cigolando, mentre la catena cade abbandonata su la sponda del pozzo; Arabella ha sollevato la secchia ricolma, e a stento, destreggiandosi col braccio libero per mantener l’equilibrio, si avvia a piccoli passi. L’ora crepuscolare è prossima; i passeri si raccolgono su gli alberi più densi di fogliame; la capinera è ritornata alla sua macchia e canta dolce — come dicono i bimbi — canta piano, perchè il sole discende e più si fa bello quanto è più presso a morire.

C’è chi ritorna da lontano e va per la strada silenziosamente con le sue bisacce su le spalle; c’è chi pensa all’amore e stornella [162] dai grandi olmi; qualcuno empie un sacco delle verdi foglie degli olmi per apprestare il cibo ai buoi, mentre vede un’aia remota, una finestra fiorita di garofani, un luminoso sorriso di occhi belli. Ed è come sempre, quando il sole muore nel gran sereno dell’aria, come sempre: dalla terra si leva un dolcissimo saluto che lo segue oltre ai piani, oltre ai mari, nel paese lontano lontano lontano che solo le fiabe sanno.

Ogni casa getta il suo lieve alito di fumo dalla fiammata d’oro che è tutto il suo cuore. Qualche bimbo siede su la soglia erbosa ad attendere coloro che stanno per tornare, e qualche fanciulla si fa sul limitare dell’aia, a guardare il cielo che tutto si arrossa.

Arabella ha intrecciata fra i capelli una ciocca di fiori di biancospino, l’ha raccolta mentre andava al pozzo; è l’unico adornamento che le sia concesso. Ella prosegue per la viottola tortuosa, nascosta fra due siepi altissime e ascolta i tenui suoni delle campane che giungono, per lei, da misteriose lontananze, da paesi di felicità, dove si può cantare, dove si può riposare.

Arabella ha intrecciato fra i capelli una ciocca di fiori di biancospino. (pag. 162)

La viottola è già nella penombra, vi trascorrono i passeri da siepe a siepe in rapidi frulli; tutto un ricamo di luci si intravede a volte fra le rame molto spesse; [165] pare un drappo di seta, di ricca seta trapunta d’oro e constellata di tante gemme quante ne ha il cielo crepuscolare. Le allodole volano sui grani, cercano il loro nido; ma non cantano; tutt’al più hanno un gorgheggio sommesso, si chiamano a vicenda, si raccolgono per riposare sotto le stelle nella fittissima selva dei grani.

— Arabella?

— Vengo.

— Spicciati, chè ti aspettiamo. —

Non risponde, cerca di affrettare il passo ma il peso della secchia è soverchio ed ella è esile come un vimine; se passasse Zulù potrebbe aiutarla. Chi sa mai dove sarà, a quell’ora, il fanciullo dalla chioma leonina.

Non ricorda quante volte sia andata al pozzo in quel giorno ad attingere l’acqua. Il tragitto è lungo e la secchia troppo pesante; ella ne ha le braccia rotte ma non può lamentarsi, perchè mamma Tuda ride della debolezza di lei e la canzona, e le dice che quando ella aveva dieci anni, anche se faticava tutto il giorno, la sera aveva ancora in mente i giuochi e le corse e andava ai convegni con le compagne e, di primavera, al tempo del plenilunio, ballava finchè le stelle non erano al colmo del loro viaggio. Dormiva appena e sorgeva col sole, più forte, più allegra che mai. [166] Arabella doveva vincere la pigrizia e piegarsi alla fatica per divenir forte, altrimenti il minimo male l’avrebbe fatta morire.

Arabella sorride, pensando che non tutti nascono uguali e non tutti possono battere le stesse vie; ciò che per uno è facile riesce impossibile ad un altro. Mamma Tuda è una donna brutta e forte; pare tagliata con l’accétta da una ceppaia di quercia, tanto è nocchieruta. Non è cattiva; ma l’anima sua risponde al suo corpo: è dotata di una sensibilità limitatissima. Inoltre non sa persuadersi che gli altri non debbano fare ciò che ella ha fatto, e non per egoismo, ma per l’intima convinzione che debba giovare alla salute. Arabella vive con lei da cinque anni.

— Andiamo, dammi la secchia; non sarai morta, si spera.

— Pesa tanto, mamma Tuda!

— Dio! Sembrate nata da un grillo e da una formica! Dovreste correre, con un peso simile! Vedo già che non riuscirò ad ottenere nulla di buono da voi.

— Vi occorre altro, mamma Tuda? —

Mamma Tuda che stava per rientrare in casa si sofferma su la soglia e si volge a guardare la fanciulla:

— Come ti senti?

— Non c’è male.

[167]

— Hai veduto Giovanni?

— Sì.

— E che ti ha detto?

— Ha parlato molto e non ho capito niente.

— Non ti ha ordinato qualche medicina?

— Ha detto che la mattina me ne vada scalza per le guazze e che beva due bicchieri di acqua di fonte tutte le sere prima di andare a letto e che, al primo plenilunio, raccolga la nepitella e il serpillo che crescono vicino all’olmo dei Buva.

— Per che farne?

— Debbo metterli in fusione nell’olio caldo, poi imbeverne un piccolo cuscino di lana d’agnello, esporlo al sole e alla luna in cima ad un pioppo per tre giorni di seguito e metterlo poi sotto il mio capezzale.

— Ha detto che guarirai?

— Ha detto ch’io provi.

— E null’altro?

— Null’altro, mamma Tuda.

— Va’, va’, non credere a tutte queste storie. Giovanni non sa che ingannare il prossimo. Già quando si deve morire si muore e non c’è medico che tenga. Dai retta a me, che sono ormai vecchia, e non ho avuto una sola volta la febbre in vita mia: non ti risparmiare, fatica quanto più puoi, non aver paura nè del caldo nè del [168] freddo; nè del vento nè della tempesta; cammina diritta e allegra sempre, e se senti freddo corri, ma non rifugiarti in casa, vicino al fuoco, come un vecchio cane. E se il sole ti abbrucia, soffermati a un’ombra, ma non ti accasciare nel sonno e non dolerti. Gli alberi vivono cent’anni, mill’anni perchè stanno sempre sotto il cielo; noi moriamo giovani perchè abbiamo paura di tutto. Se il Signore ci ha messo quaggiù ed ha voluto l’inverno e l’estate, vuol dire che dobbiamo tollerarli in santa pace. Poi ascolta, bambina: se non avrai paura del sole e ti lascerai cuocere al suo fuoco tanto da diventar bruna e rossiccia come la buona terra, il grande inverno e il freddo rigidissimo non potranno farti alcun male perchè sarai come l’acciaio temprato; ma se vorrai essere bianca e ti farai schiava dell’ombra, allora crescerai come il grano che si fa nascere nelle cantine per adornarne i sepolcri. Un nulla potrà farti morire. —

Arabella ascolta senza fiatare. Gli occhi suoi grandi, cerchiati leggermente di azzurro, sono fissi su l’estrema luce solare.

— Ora ti senti molto stanca?

— No, mamma Tuda.

— Puoi andare alla Celletta e chiamar gli uomini perchè vengano a cena?

— Ci anderò.

[169]

— Brava, vinci la pigrizia, e la notte ti passerà come un sospiro, nel sonno. —

Mamma Tuda riprende la secchia che aveva posata sulla soglia dell’uscio e scompare nell’andito della vecchia casa. Arabella, raccolto da terra un vinciglio, si avvia al suo lungo cammino. Dalla prima aurora è in moto e vorrebbe vincersi e andar sempre con rinnovata lena come desidera mamma Tuda; ma sente che le forze vengono a mancarle.

La sua volontà è forte e la regge ancora e fa sì ch’ella prosegua a passo a passo verso la nuova mèta; se così non fosse, a quell’ora sarebbe già caduta per il grande abbandono della stanchezza. Una volta non soffriva tanto; solo da qualche tempo si sente finire. Le vecchie donne dicono che una triste malìa la trasfigura e l’uccide.

Era bruna dal sole e bella, vispa ed agile come una cerbiatta; ora ha fatto il colore delle piccole nubi mattutine e come quelle pare si disfaccia. La sua voce è anche più fioca, sì che si leva dolcissimamente velata e poco regge al canto.

L’allodola ferita che più non può tentare il gran volo risponde così, dai prati ove è caduta per non più levarsi, alle compagne che la chiamano nell’alto.

E Arabella era detta l’Allodola. Nessuno come lei sapeva trasfondere nel canto la pura [170] freschezza della gioia sì nelle cantilene infantili come negli stornelli a distesa; era detta l’allodola bella, fra le compagne che la guardavano meravigliate sorridendo.

Ora non più. Le stelle che trascorrono nei cieli estivi non lasciano alcuna traccia nella tranquilla serenità.

Dolcemente trascolorando, la luce del giorno è scomparsa. Dai campi dei Buva è sorta la grande spera lunare. Era ancora alto il crepuscolo quando la luna ha acceso un’aurora vermiglia dietro i lunghi rami dei salici, ed è sorta tutta ricinta da una grande corona di spine ai limiti dei campi, laggiù dove sorgono le case dei Buva. Poi si è fatta sempre più bianca quanto più si è avvicinata alle stelle. Ora ha preso il suo regno incontrastato.

Arabella cammina ancora; la Celletta è tuttavia lontana. Ella procede lentamente e batte il vinciglio su le prode dei fossi con gesto automatico.

Mamma Tuda dice che la stanchezza accresce l’appetito, ma Arabella non sente volontà di prender cibo; vorrebbe abbandonarsi su l’erba e chiudere gli occhi.

Gli usignoli non sono ancora partiti; ogni frutteto è cinto da una corona di nidi e sarebbe [173] dolce rimanersene all’aperto sotto alle stelle, in quella solitudine. Il bel maggio impera; non fa più freddo, le notti sono tepide e tranquille; ma la gente dice che quando la luna si leva in quintadecima non bisogna dormire all’aperto.

Molti sono stati colti dal farnetico, chè han voluto beffarsi dell’insegnamento e rimanersene sui prati a dormire sotto l’influsso dell’astro malefico.

Ad un punto della via, Arabella ode un frastuono e si sofferma (pag. 173).

E Arabella prosegue. Le par di sognare i sogni incerti e dolenti che dà la febbre.

Ad un punto della via ode un frastuono e si sofferma. Oltre una siepe di canne vede, in un prato, un povero vecchio cane seduto verso la luna. Ha il muso levato al cielo e le orecchie raccolte in atto di spavento. Si distingue con chiarezza nell’alta luce lunare. È un cane malato che se ne va randagio pei campi perchè tutti lo scacciano; la sua malattia è la sua condanna estrema; fa schifo e gli uomini ch’egli adora lo accolgono a sassate. Va d’aia in aia, di casa in casa, scodinzolando umilmente; si avvicina con somma lentezza e striscia su la terra per dimostrare ch’egli è pronto anche a ricevere le busse purchè lo accolgano, e gli occhi, che hanno tanto di umano, si levano supplichevoli e dolci. Nessuno lo avverte dapprima; poi, quando lo hanno scorto, gli si avventano [174] contro a minaccia. Deve fuggire. Si sofferma un poco più lungi a sogguardare la casa nemica e riprende la via annusando qua e là, in cerca di qualche rifiuto. I viandanti gli fanno la stessa accoglienza; un cane randagio porta scritta negli occhi, nell’incedere stesso, la sua sventura, si riconosce fra mille. Per salvarsi dalle pedate e dai sassi è costretto ad andarsene sotto alle siepi, e deve evitare i compagni suoi che sono molto più temibili degli uomini e, vedendolo ridotto in tale stato, incoraggiati dalla sua debolezza, lo finirebbero a morsi.

Fa pietà. Ha la testa smisuratamente grossa, le orecchie incartapecorite, il corpo ridotto quasi allo scheletro; trema tutto su le sue larghe zampe, e, rivolto alla luna, che pare abbia eletta a confidente di tutte le sue miserie, allungandosi quanto più può, fra pause pensose, lancia arditamente una serie di mugolii, di guaìti, di latrati i quali si ammorzano in languide cadenze o salgono a note superacute e laceranti.

Canta o piange? I monelli dicono ch’egli voglia imitare l’usignolo. Anche gli usignoli sentono il fàscino della luna piena e cantano a perdifiato tutta la notte; così fa il cane solingo: si confida, riversa l’esuberante piena de’ suoi sentimenti in seno alla [175] bianca madonna notturna. Sempre solo, gli alberi lo ascoltano e gli alberi sono spettatori tranquilli che non sanno disapprovare.

È un crescendo spaventosamente appassionato. Dapprima il cantore fissa la luna; si irrigidisce, si concentra, pone l’anima sua in comunicazione con la pupilla aperta nei cieli. I grandi occhi sporgenti gli si inumidiscono sempre più; la piena sentimentale sta per isgorgare. E l’accenno, preludiante la sinfonia, si fa udire in un leggero guaìto che tremola come una fiammella al vento e si spenge ad un tratto. È la prova; la voce regge. Dopo una sosta segue un secondo accenno, poi un terzo, un quarto, e l’ansia, l’affannosa passione, il lacerante spasimo aumentano con l’aumentar della voce che non ha più legge, che non ha più le usuali tonalità e, in una disfrenata scorribanda, si libera al vento con una infinita varietà di gorgheggi, di vocalizzi, di salti prodigiosi, da note cavernose a note acutissime di trilli e di cadenze tragiche. La grande anima straziata si appalesa alla luna e non importa se quella musica barocca non giunge al nostro intendimento: è musica degna di un cane.

La povera bestia si è manifestata, ora trema e scuote la grossa testa.

[176]

Arabella guarda; la cosa la distrae; si sente riposare un poco; ma più si diverte perchè il cane non è solo.

I figli dei Buva, i figli dei Mirès che vagavano pe’ campi, hanno scovato il solitario cantore e gli hanno fatto circolo intorno.

Il vecchio cane non si sgomenta; forse si intenerisce pensando che per la prima volta in vita sua gli uomini lo comprendono. Continua la sua solfa, i grandi occhi aperti su la fida compagna dei cieli.

La stranissima scena fa sorridere Arabella.

Nella luce lunare i fanciulli trascorrono squassando le chiome che a volte paion tutte d’argento, e saltano, ridono, corrono trascinandosi, mentre al centro della corona, come un maestro d’orchestra, siede il cane compostamente.

Altra volta Allodola avrebbe passata la siepe per unirsi ai compagni, ora, chinata la testolina bionda, riprende la sua via che è lunga, che le pare eterna e che non sa di poter compire.

— C’era una volta un Re di Francia che era molto amante della caccia. Un giorno, andando a caccia, i cani principiarono a urlare [177] fortemente. E lui va per tirare a una fiera e invece ci trova una bellissima donna. Il Re, sorpreso di questa bellissima giovane, voleva sapere la ragione perchè l’aveva trovata sola in questo bosco, abbandonata: perchè stava in una grandissima afflizione? Lei dunque gli disse che facesse della sua vita quel che voleva, ma che non le strappasse il segreto de’ suoi natali. Il Re rispettò il suo segreto, la fece mettere in Corte, le dette il suo quartiere e disse che fosse rispettata come una di famiglia. Dopo alcun tempo il Re andò a far visita alla bella incognita e s’accòrse da’ suoi modi gentili e dal suo dolore che doveva appartenere ad una famiglia illustre e distinta. E quindi se ne innamorò talmente, che pensò di farla sua sposa. La madre del Re, indispettita di sentire che doveva avere per nuora una sconosciuta trovata in un bosco, giurò che ne avrebbe fatto crudele vendetta e che il sangue dei Reali di Francia non si sarebbe mai contaminato con una sì vile sposa. Difatti, dopo pochi mesi che il Re aveva sposata questa sconosciuta, arrivò un corriere d’Inghilterra, intimando al Re un’improvvisa guerra....

— Viene Allodola.

— Dov’è?

— Dietro la siepe, laggiù.

[178]

— State zitti! —

Si tacciono e il novellatore continua:

— Il Re non poteva intendere come l’Inghilterra volesse fare a lui la guerra senza alcuna ragione. Ma per meglio accomodare le cose, pensò di andare lì da sè con un piccolo esercito, per conoscere la ragione di questa intimazione....

— Eccola, eccola! — esclama Bocca-di-fiore.

Solo Zulù si volge, gli altri monelli seguono intenti le parole del novellatore.

Sono seduti sotto una quercia, tutti raccolti intorno alla ceppaia su la quale siede il vecchio bifolco che ama i bimbi e li intrattiene la sera con le sue fiabe.

Il plenilunio è sereno; l’orizzonte notturno si estende come su l’aurora per vastissimo giro intorno. Si scorgono le cose lontane distintamente; tutto ciò che è in luce risalta con nitidezza per i forti contrasti dell’ombra.

La quercia è sola, non altri alberi le sorgono intorno, è il ritrovo consueto degli uomini che abitano nelle poche case aggruppate a qualche distanza da lei, è la sosta dei pastori che conducon le greggi nei prati che le si aprono innanzi. Cresciuta nell’amore degli uomini, ha esteso il giro dei suoi rami ampiamente.

[179]

Bocca-di-fiore si leva: Arabella è giunta.

— Sei venuta ad ascoltare Benedetto? — le chiede.

— No.

— Dove vai allora?

— Alla Celletta.

— Per che fare?

— Vado a chiamare gli uomini perchè vengano a cena.

— O non lo sanno da loro, che debbono ritornare?

— Mamma Tuda ha voluto così.

— Non ti fermi?

— Non posso.

— Mi pare che tu sia molto stanca, Arabella.

— Sì, sono stanca.

— E perchè non ti riposi?

— Perchè mamma Tuda mi aspetta.

— Lasciala aspettare! Siedi qui, fra noi. Benedetto racconta una bellissima favola, ti divertirai. Dopo ti accompagnerò a casa, e verrà anche Zulù. È vero che verrai? —

Zulù scrolla il capo affermativamente. Egli guarda Arabella ed è pieno di affettuoso sgomento; al suo occhio scrutatore non isfugge il pallore estremo della fanciulla, onde le chiede in tono sommesso:

— Allodola, non ti senti bene, è vero? Di’ la verità? —

[180]

Arabella lo guarda e sorride con tristezza.

— Che cos’hai? — le domanda Bocca-di-fiore avvicinandosele e guardandola fissamente; — Dio, come sei pallida! Ti duole il capo?

— No, sono stanchissima, non mi reggo quasi più.

— Riposati, riposati, e se Benedetto ti annoia, andremo un poco più lontano. Vuoi dormire? —

— Non ho sonno.

— Sono alla Celletta i figli di mamma Tuda? — le chiede Zulù.

— Sì.

— Allora aspettami; corro ad avvisarli perchè vadano a casa. Sarò qui fra pochi minuti; aspettami, torneremo insieme. —

Arabella gli sorride assentendo; Zulù si volge, prende lo slancio e si allontana a grandi balzi rapidamente.

Siedono un poco in disparte. Benedetto continua a narrare le avventure del reuccio; non si ode che la sua voce tranquilla, perchè gli ascoltatori non fiatano, respirano appena. Essi sono seduti sulla nuda terra come un gregge raccolto intorno al pastore che veglia. Nelle prossime case lucono le lampade dalle aperte finestre. La quercia, nella chiarezza plenilunare, si inargenta ai bordi, si trasfigura soavemente per il sogno [181] delle piccole anime che accoglie. Le stelle pare si levino lontanamente dai prati tutti fioriti di ranuncoli d’oro. Arabella china il mento al seno; non sa e non può ascoltare. Ella è giunta senza che i compagni l’abbiano avvertita, solo due, fra i tanti, si sono levati ad incontrarla, quelli che più le son presso al cuore; gli altri, poichè ella tace, l’hanno dimenticata. Chi può ricordare tutte le luci stellari, tutti gli usignoli che giungono al tempo del sole nuovo? Una volta l’avrebbero udita di lontano e si sarebbero raccolti sulla sua via — ora non più, perchè la voce di lei non sa assorgere fremendo in un vasto impeto di gioia. I passeri si adunano su gli alberi fronzuti, folti, densi di fogliame, e gli alberi che han perduto il loro verde rimangon sempre deserti.

— Vuoi dormire? — le ripete Bocca-di-fiore.

Arabella scuote il capo negativamente.

— Guarda, puoi appoggiarti qui, sulle mie ginocchia, io non sono stanca. Canterò pian piano, perchè tu prenda sonno meglio.

— Grazie; ma fra poco dovrò ripartire.

— E come farai a giungere fino a casa, se non puoi reggerti?

— Mi aiuterà Zulù.

— Zulù ti vuol bene, sì. Ti guarda come se tu fossi la sua sorella. Domani non ti alzerai, [182] è vero? Noi verremo a tenerti compagnia.

— Domani è lontano! —

Bocca-di-fiore sorride. Come mai lontano se non c’è che il volgere di poche ore? Lo spazio di un brevissimo sonno? Si può dire che si veda già l’alba quando ancora sono nel cielo gli ultimi bagliori del crepuscolo, tanto la notte è breve! Ma Arabella è malata, e vede tutto con occhi diversi e le ore sembreranno eterne al suo soffrire. Bocca-di-fiore intende ed accarezza il pallido volto dell’allodola stanca.

Sotto la quercia millenne, coronata di luce e di stelle, il novellatore ritesse, come ritesson nei cieli le costellazioni, un’eterna trama che guida i giovani cuori sulle vie del sogno.

— Addio, Arabella; riposa bene; domani verrò a salutarti.

— Addio. —

Bocca-di-fiore svolta per una viottola ed abbandona i compagni. Ella è giunta alla sua casa che sorge ai piedi di un monte sul quale è un castello in rovina.

[183]

Si volge qualche volta, poi procede di corsa. Arabella e Zulù si perdono nella notte.

— Appòggiati alla mia spalla. Vuoi che ti porti?

— No.

— Ma non puoi camminare, vedi? Le forze ti vengono meno e la strada è lunga.

— Andremo adagio.

— Sia come vuoi. —

Procedono in silenzio per buon tratto. Arabella è scossa a quando a quando da un brivido freddo, si appoggia al compagno con abbandono, e socchiude gli occhi cercando difendersi così dai violenti capogiri che la colgono; ella intravede intorno a sè forme strane, e le cose che distingue assumono agli occhi suoi aspetti diversi dai consueti e tutto trascorre a volte in una rapidissima ridda tantoch’ella si sente venir meno la terra sotto i piedi, e deve soffermarsi per non cadere. Le sue mani sono fredde, mentre la fronte e le guance le si accendono di un rossore improvviso, il viso le brucia e gli occhi le si fanno più lucenti, più profondi e più ardenti nella atonia della febbre. Zulù, che la regge tutta, la sente tremare e non le parla e non l’interroga più, per paura di farle male. Anche il parlare può nuocerle; egli sa che ai malati si raccomanda il silenzio.

La guarda con infinita tenerezza. Povera [184] Allodola sua ch’egli teneva tanto cara e per la quale avrebbe attraversato il fuoco senza temere nè il dolore nè la morte!

Egli non ha altro al mondo che quella sua dolce sorella d’amore. Si sono incontrati tante volte al lavoro pei campi e tante volte la sera, prima di andare alla ricerca di un qualsiasi luogo ove poter dormire, l’ha accompagnata fino al limite dell’aia, chè da lungo tempo una soave intimità li ha uniti. Per tale affetto l’anima di Zulù si era ingentilita. Egli andava su l’alpe a raccogliere certi fiori che piacevano ad Arabella e, al tempo delle more, si cacciava per tutti i roveti pur di portare una piccola corba, ricolma dal frutto saporoso, alla compagna sua. Lasciava i suoi doni su la finestra e fuggiva prima che Allodola li vedesse per non trovarsi poi imbarazzato.

Era una dolce consuetudine di molte primavere, di molti autunni e Allodola era diventata la sua dolce sorella. Così si uniscono, nell’alto, le piccole nubi che un medesimo vento sospinge.

— Zulù?

— Che vuoi?

— Vai in città, domani?

— Sì, Arabella.

— Sai dove abita Suor Lucia?

[185]

— Lo so.

— Allora dille che venga a vedermi, dille che venga a prendermi... non posso reggere più.

— Ti senti molto male?

— Sì, molto. —

È la prima volta ch’ella confessa il suo male, e deve essere grande perchè ha fatto l’abitudine ai patimenti e non se n’è lagnata mai.

— Vuoi riposare un poco?

— Sì. —

Siedono sul margine del fosso, sotto la siepe fiorita. Arabella socchiude gli occhi, il suo respiro è breve e frequente. Abbandona il capo sulla spalla del compagno come vinta da una insostenibile angoscia.

Zulù tace; guarda innanzi a sè fissamente, pieno di sgomento.

Sarebbe tanto bella la notte nell’incantesimo lunare! Dalla prossima selva di Lucchetto giunge un sommesso stormire che si accompagna al verso dei grilli.

C’è, nella selva, un gruppo di querce il quale si apre a semiarco e racchiude uno spazio erboso; dietro le rame si intravede la linea dei prossimi colli, il castello in rovina, la casa di Bocca-di-fiore e le viottole rupestri che vi si inerpicano tortuose.

È un piccolo anfiteatro creato con arte mirabile dal capriccio della natura, l’antico [186] ritrovo dei fanciulli. In quel luogo Zulù incontrò per la prima volta Arabella. C’era un soffuso color di perla pei cieli, e l’esilissimo arco lunare, simile a un falcetto d’agata nebulata, pareva pendesse dagli alti rami. Allodola era stata affidata da poco tempo alle cure di mamma Tuda: era pallida anche allora, ma forte; il viso pareva più esile fra l’ampio espandersi dei biondi capelli ricciuti.

Cantava. I monelli le avean fatto cerchio intorno; ella segnava gorgheggiando un’aria di danza al ritmo dei piccoli piedi. Zulù rimase in disparte a guardare. La selva di Lucchetto non gli era parsa mai tanto bella, nè il cielo così terso e sereno. E quando seguì la via che gli segnava la stella del pastore, pensava già di ritornare la sera seguente. Ritornò. Avvenne poi che Allodola lo prendesse a benvolere e Zulù ebbe così una sua buona sorella ch’egli tenne in amore e per la quale tutto si profferse pur di tornarle grato.

E per forza di cose, per le loro consuetudini, s’incontrarono ogni sera, come da noi, nelle notti serene, s’incontrano le stelle allo stesso punto dei cieli.

Quando Arabella andava ad attingere l’acqua al Pozzo delle rose, avveniva che Zulù si trovasse sulla via di lei; volgevano [187] le ore estreme del giorno. Egli le prendeva la secchia e gliela portava ricolma e stillante fino al limite dell’aia. Il compenso era un niente, una buona parola; egli se ne sentiva rincorare perchè per la prima volta era caro a qualcuno nel mondo.

Il richiamo di due assiòli riempie di vaga tristezza il silenzio notturno; un’ultima campana suona da molto lontano e Zulù si volge per vedere se giunge qualcuno. La viottola è deserta. Arabella non ha più moto, sembra addormentata, solo egli ode il suo respiro frequente. Vorrebbe destarla perchè la strada da percorrere per giungere alla casa di lei è ancor lunga, ma lo dissuade il pensiero che un breve riposo la rinfranchi e attende in un’ansietà che sempre più si accresce.

A quell’ora dovrebbero passare per di là i boari, ma non si vedono, nè si odono cantare; avranno preso forse una via diversa.

Non si muove per timore di disturbarla, trattiene quasi il respiro; le mani di lei che sono cadute in abbandono, sfiorano le sue, ed egli le sente fredde, gelide; paion di marmo. Vorrebbe riscaldargliele col fiato e non osa: è ridotto ad una volontaria immobilità, perchè ella non abbia a destarsi di soprassalto e soffrirne. Ma frattanto il prolungato sonno lo riempie di una perplessità [188] paurosa, che il silenzio e la solitudine notturna accrescono.

Ad un tratto gli pare scorgere ad una estremità della viottola un’ombra che si avvicina; ecco si fa più grande, si distingue con maggior nitidezza, sarà forse Simone, il pastore; ma non ha tempo di volgere gli occhi che è già dileguata. Sono i giuochi del vento e delle ombre lunari. Tante volte nella sua vita solitaria sarebbe fuggito urlando, se non si fosse reso conto di simili apparenze di inganno.

La consuetudine di misurare il tempo sul cammino degli astri gli denota che l’ora è tarda; converrebbe affrettarsi, e Allodola dorme tuttavia. Fa per volgersi, quando sente che il capo di Allodola si muove ma piano, senza scatti, senza la rapidità consueta di chi si distoglie da un sonno breve; si muove, gli scivola lentamente sul petto, gli cade con pesantezza su le ginocchia. Zulù si sporge a guardare; il respiro rattenuto: un gelo di morte gli stringe il piccolo cuore.

Ella non ha riaperto gli occhi, giace con la bocca socchiusa ed i capelli sparsi.

Vorrebbe chiamarla e non osa ancora; ha paura e non sa di che: di una cosa grande, incommensurata: di tutto ciò che ha avvertito appena nelle profonde notti e che ora gli si presenta spaventosamente al pensiero.

[189]

Sono soli e lontani dall’abitato; tanto soli così fra i campi deserti!

Ad un tratto le posa una mano sul viso, ed il caldo che ne risente ridesta in un attimo tutta la sua energia assopita. Si leva, si protende sul corpicciuolo della piccola sorella, lo solleva tra le braccia senza fatica, e s’incammina affrettandosi quanto più può verso la casa di mamma Tuda. Arabella ha riaperto gli occhi, sono pieni di smarrimento ma sorridono, sorridono vagheggiando una cosa lontana e indefinita.

Su l’alto mare c’è una barca d’oro;

Piccola mamma mia, fammi sognare

Chè giunge il sonno de la buona morte.

È il delirio febbrile. Zulù non vorrebbe ascoltarla, non la guarda perchè è sì trasfigurata, che gli darebbe pena. Si affretta, corre ansimando e trattiene un aspro singhiozzo, che gli tumultua dentro.

Da lontano si leva un grido che agghiaccia il sangue dell’adolescente. Sono le anatre selvatiche che trasmigrano sotto la luna. Dicono i vecchi che sul loro cammino passa l’ombra della sventura.

[191]

VII. Il segreto di Suor Lucia.

C’è un luogo nel giardino di Toti, un luogo recondito, nascosto da grandi alberi, che la zia Emma ha battezzato l’estrema Tule; Toti lo ha eletto a suo ritrovo perchè vi si sente più solo e padrone. Ivi, coi compagni suoi, organizza le grandi spedizioni, le imprese eroiche; ivi fu meditata la spedizione alla Casa lucente che andò poi in fumo per nuovi avvenimenti sopraggiunti, i quali distolsero i piccoli eroi dal fermo proposito preso.

L’estrema Tule è situata fra il laghetto ed un vecchio muro sgretolato, ricoperto in parte dall’edera; tanto è remota dal resto del mondo, che non vi giunge alcun suono; tutt’al più vi si udrà, a quando a quando, il canto di Tomaso o il grido delle oche; ma il primo, senza troppa immaginazione, [192] può essere scambiato col canto di guerra di un popolo selvaggio, e il secondo col ruggito di qualche leone che si avanzi per dare l’assalto all’accampamento. Tutto sta a convincersi che la cosa sia vera: giunti a tale convinzione, si avverte realmente il brivido della paura, e in tale stato si può uccidere un’oca con lo stesso coraggio che occorrerebbe per affrontare un leone. Non si tratta che di un lieve spostamento di termini e di valori.

E tali spostamenti sono frequentissimi nell’estrema Tule, sono la necessaria linea decorativa dell’ambiente. Un giorno un vecchio gatto che passa su lo scrimolo del muro sgretolato sarà una tigre della giungla, di quelle che parlano in inglese, secondo Kipling, e una spedizione si organizzerà per uccidere il feroce mammifero; un’altra volta nelle altitudini celesti si avvertirà il condor, l’uccello rapace, e allora tutto l’accampamento si pone in moto, e chi afferra la sua cerbottana, chi lo schizzetto, chi il fucile di canna, chi la fionda. La caccia è aspra, accanito l’inseguimento che non si arresta finchè dalle sue altitudini il condor non precipiti esanime fra gli steli, nelle spoglie di una misera libellula.

Così un albero può trasformarsi in un gigante pauroso; una distesa di funghi in [193] un esercito di gnomi dal cappuccio bianco e rosso; il tranquillo razzolare di una gallina fra le foglie secche, nel cauto avvicinarsi di un serpente boa; il canto di una raganella, nelle grida incomposte di una tribù di cannibali; così l’estrema Tule è, a volta a volta, l’isola di Robinson Crosuè, un deserto africano, una catena di montagne, una foresta vergine, un sotterraneo misterioso, un palazzo incantato, una nave corsara, un pallone dirigibile, un immenso proiettile lanciato in viaggio verso la placida luna. E a tali sue molteplici trasformazioni non reca danno da un lato, la vicinanza del pollaio; dall’altro, quella delle scuderie.

Il giovedì è sacro all’estrema Tule; le scuole sono chiuse, e i compagni di Toti stanno in riposo tutto il giorno.

Passato il meriggio, convengono al ritrovo stabilito. Fra i più assidui sono Carciofo e Anatroccolo, i quali giungono di contrabbando passando per le scuderie.

Da qualche tempo, però, le imprese straordinarie non formano lo scopo di tali ritrovi; una sola cosa preoccupa i piccoli amici e li tiene in moto: il segreto di Suor Lucia.

Suor Lucia ha un segreto che l’accòra. La cosa li ha stupiti, perchè non potevano pensare che quella figura cerea, tutt’avvolta nello zendado nero, ingenua come i [194] bimbi che le si cuciono alle gonne, potesse essere stata giovane ed aver avuto qualche avventura; non potevano supporre una Suor Lucia diversa da quella che vedevano sempre. Ella era nata così, col suo zendado nero, aveva trascorso i suoi lunghi anni a pregare e a sorvegliare i figli degli altri, rifacendo sempre la stessa via, soffermandosi agli stessi luoghi, entrando nelle stesse chiese; così, senza mai mutamento, fin dal primo giorno che il Signore l’aveva mandata al mondo perchè avesse cura dei monelli. Per la sua coorte Suor Lucia era come le vecchie chiese che sono esistite sempre e nessuno le ha create e non moriranno mai.

Era sola, non aveva famiglia, viveva una vita oscura. I bimbi la vedevano sempre sotto lo stesso aspetto, vicina e lontana dall’anima loro a simiglianza del sole; era naturale che la pensassero una cosa eterna.

Tutte le altre persone che partecipavano alla loro vita erano diverse e varie, solo Suor Lucia non mutava mai; chiusa l’anima nella sua tranquilla fede, come la pallida faccia nello zendado nero, ella non assumeva una volta sola un aspetto diverso.

Fosse pur gaio il cielo, lucente di purezze adamantine, inebriante dell’umida freschezza primaverile, ovvero monotono, uguale ed opprimente sotto alla grigia veste della pioggia, [195] non aveva potere di allietare o di oscurare gli occhi azzurri di Suor Lucia. Un velo perenne di malinconica dolcezza si distendeva su quelle chiare pupille che pareva esprimessero la rassegnata umiltà d’un’anima vinta.

Così i suoi monelli le volevano bene come ad una Madonna viva.

E che altro aveva di umano per loro se non la forma e la parola?

Quando i più grandicelli riseppero che ella era legata al mondo da qualche vincolo che ricordava un suo passato diverso, stupirono e la guardarono con meraviglia nuova. Essa diventava diversa agli occhi loro. La fantasia infantile che aveva fatto di quella vita un semplice piano tranquillo ed infinitamente uguale, variò i confini, innalzò le sue chimeriche apparenze e ad un tratto, per il suo triste segreto, Suor Lucia divenne un’eroina.

La testa e le mani puntate sull’erba ad imprimere il lancio al corpo; i piedi che non si decidono ad abbandonare il suolo per paura che l’equilibrio manchi: il corpo che forma un angolo acuto e la vesticciuola bianca che si leva senza contegno oltre il [196] limite prestabilito, tale è Ninì nell’atto di fare una capriola che non gli riesce.

Dietro alle sue spalle, più in vista, Miranda, Doretta e Ciuffolo assistono allo spettacolo e stringono le mani unite e torcono il viso ridendo e gridando:

— Che cosa si vede! Che cosa si vede! —

Fa un ultimo tentativo disperato; e come l’ardito esperimento non riesce, Ninì si leva di scatto tutto rosso in viso e, rivolto ai tre marmocchi che lo beffeggiano, grida loro:

— Io sono bravo! E se non lo credi, ti dò un pugno! —

Gli spettatori si lasciano convincere senza fiatare, e Ninì, riassettatosi il gonnellino bianco, abbandona il luogo della prova fallita guardando distrattamente le cime delle piante e cantarellando.

Ha avuto cura di raccogliere da terra la sua inseparabile bambola e se l’è infilata sotto un braccio; ora si dirige verso un punto del giardino, ove siede il papà di Toti.

Ninì si sofferma ad una certa distanza e lo considera lungo tempo; come deve annoiarsi quel povero signore; ha gli occhi tanto tristi! La pietà lo vince e si accosta pian piano finchè gli è tanto vicino che può toccarlo. Lo guarda ancora, poi gli dice:

— Senti, Signore, tu ti annoi, vuoi la mia bambola? Potrai giuocare.

[197]

— Grazie, caro. Ma come mai? Tu sei un uomo e giuochi con la bambola?

— Sì, è mia moglie. Guarda, ieri mi cadò e si è rompata la testa; allora ho guardato nel buco e il cervello non c’era!

— Davvero?

— Sì.

— E allora?

— Allora ho detto: sarà qui! — ed indica una parte tutt’affatto diversa. — Perchè il cervello ci deve essere. —

Il piccolo giullare riesce a vincere anche la malinconia del papà di Toti, che si diverte a interrogarlo e ride di gran cuore.

Frattanto sopraggiungono Carciofo ed Anatroccolo; passano dietro il laghetto e si dirigono all’estrema Tule.

Toti non appena li vede corre ad incontrarli.

— E Zulù? — chiede loro.

— Non può venire, — risponde Carciofo.

— L’hai veduto?

— Sì.

— Quando?

— Ieri sera.

— Ti ha detto qualcosa?

— Mi ha detto ciò che sapevamo già.

— Forse non avrà voluto parlare!

— Ha detto la verità. Ha conosciuto Allodola lassù, ed ha incontrato pochissime [198] volte Suor Lucia alla quale non poteva chiedere niente.

— Ma neanche Allodola sa il segreto?

— Neanche lei.

— Come sta ora?

— Così.

— Andremo a trovarla se non dispiace a Suor Lucia.

— Anzi, ne avrà piacere.

— Allora domani andremo insieme.

— Andremo insieme. —

Dopo una pausa, Anatroccolo si toglie il berretto e si fa innanzi.

— Signor Toti?

— Che vuoi?

— Io ho una cosa da dirvi.

— E dilla.

— Io so il segreto di Suor Lucia!

— Tu? — esclama Toti.

— Tu? — soggiunge Carciofo.

— Ecco, se non lo so, lo posso sapere.

— E come?

— Se volete ascoltarmi vi dirò tutto.

— Parla, parla, parla.

— Sarà meglio scegliere un luogo più isolato, dove nessuno ci possa udire. Se la zia Gertrude sapesse ciò che sto per raccontarvi, mi terrebbe senza mangiare per tre giorni. —

Si avviano verso il punto più remoto [199] dell’estrema Tule. Fra il muro di cinta del giardino ed il pollaio è un angoluccio silenzioso, dove crescono le ortiche e si accumulano dei rottami; una macchia di lauri lo protegge dagli sguardi indiscreti. Toti vi conduce i compagni.

— Qui siamo sicuri, puoi parlare. —

Anatroccolo si aggiusta alla cintola i calzoni, ed entra in argomento con una frase inattesa:

— Il giorno io vendo le ciliege, — si sofferma a guardarsi intorno — io vendo le ciliege che mi dà la zia Gertrude e giro per tutta la città e per i dintorni. A volte gli affari vanno bene, e torno con la carriola vota; a volte vendo poco, e la zia Gertrude non mi dà da cena. L’altro giorno avevo un bel carico di ciliege moscadelle e andavo per la via gridando: «Piangete, bambini, c’è le ciliege!» quando incontro Zulù che mi dice: «Dammene un soldo.» Gli misuro il suo peso giusto, glielo verso nel fazzoletto e faccio per andarmene. Allora Zulù mi prende per un braccio e dice: «Passa da Suor Lucia e porta le ciliege ad Allodola, eccoti un altro soldo.»

— Falla corta! — esclama Carciofo che vorrebbe correggere l’inutile verbosità dell’amico.

[200]

— Lascialo parlare, — soggiunge Toti che si appassiona al racconto, del quale non può supporre la fine.

— Allora mi fermai e discorremmo insieme, — riprende Anatroccolo.

— Del resto Zulù non sa nulla, lo ha detto con me, — riprende Carciofo.

— E con me ha parlato — risponde Anatroccolo.

— Saranno bugie.

— E che ne sai tu?

— Io non so niente, ma lo suppongo.

— Aspetta ch’io parli!

— E spicciati, allora!

— Se mi interrompi non potrò proseguire!

— E chi ti ha interrotto?

— Tu.

— Io no.

— Sì, tu!

— Io ho detto solo....

— Ma finitela! — grida Toti. — Così non si potrà mai saper niente! —

Anatroccolo riprende il suo racconto:

— Discorremmo insieme e Zulù mi disse che Arabella fu affidata a mamma Tuda quattro anni fa. Zulù in quel tempo lavorava coi figli di mamma Tuda. Una sera una donna giunse su l’aia ed aveva con sè una bambina. Parlarono con mamma Tuda [201] molto tempo; poi la donna andò via e la bambina rimase. Si chiamava Arabella. Allora era molto pallida. Disse che era andata in campagna per guarire. La sera stessa appena comparve, Zulù e i figli della Tuda videro una grande stella lucente che percorse tutto il cielo e si spense proprio sulla loro casa, contro la camera dove dormiva Arabella. Allora Pietrozzo, che era il più grande, disse che quello era un segno del cielo, e che quel segno doveva riapparire nel giorno in cui la nuova venuta avrebbe avuto una grande disgrazia o una grande fortuna. E disse che doveva essere figlia di qualche gran personaggio. Tutte queste cose le ha viste e le ha udite Zulù.

Passò qualche giorno; Arabella parlava poco; forse si trovava male in quella casa di poveretti, abituata come doveva essere ai grandi palazzi ed alle tavole sontuose. Tutti si chiedevano perchè mai l’avevano portata laggiù; non potevano darle un castello sui monti e farle godere così l’aria buona? Arabella non parlò circa il suo passato, e i figli della Tuda pensarono ch’ella fosse sotto un incantesimo. La voce si diffuse e vi fu chi affermò di averla veduta in un palazzo regale, alla corte di un grande Stato. Non v’era più nessun dubbio dunque: Arabella era figlia di un re. Passarono molti giorni, nessuno andava [202] a salutarla mai, pareva l’avessero dimenticata. Mamma Tuda cominciò a mandarla per i prati; le affidò un gregge. Ella doveva fare tutto ciò che facevano i poveri, accudire alle faccende più umili e mangiare il pan nero e bere l’acqua. Un giorno Zulù udì mamma Tuda che le diceva: «Animo, Arabella, se volete tornare da dove siete venuta, bisogna adattarsi a tutto!» Ciò lo fermò sempre più nella sua convinzione; Arabella era schiava di una malìa; forse qualcuno sarebbe giunto a liberarla. Poi una sera comparve per la prima volta sull’aia Suor Lucia.

— Era sola?

— Sì, era sola. Parlò lungo tempo con mamma Tuda, poi volle vedere Arabella e se la tenne stretta fra le braccia e la baciò piangendo, e le disse di guarire che allora sarebbe ritornata con lei. Zulù non conosceva Suor Lucia e anche i figli della Tuda non la conoscevano, epperò dissero che era una gran dama di corte, la quale giungeva travestita così per aver notizie di Arabella e poterla vedere.

— Suor Lucia una gran dama di corte? — chiede Toti sorridendo.

— Non sapevano chi fosse, — risponde Anatroccolo.

— Ed ora sappiamo forse chi sia? — soggiunse Carciofo.

[203]

— È vero, — risponde Toti — noi non sappiamo chi sia, e nessuno conosce la sua vita....

— Nessuno!

— Da quella volta riapparve di tanto in tanto nella casa di mamma Tuda, e tutte le volte portava ad Arabella qualcosa: un vestituccio, una collana, un paio di scarpette. Una volta, e vide Zulù, le portò una medaglietta d’oro con sopra una piccola corona piena di gemme rosse. Quello era il segno più sicuro, e Zulù si persuase che Arabella era una principessa. Però gli nacque curiosità d’interrogarla; un giorno le chiese: — Dove sei nata? — Non lo so, — rispose Arabella. — E chi è la vecchia che viene a trovarti? — È Suor Lucia. — La conosci da molto tempo? — Sì. — È tua madre? — No, io non ho conosciuto mia madre. — E dov’eri prima di venir qui? — Ero in una grande città. — Zulù non chiese altro, aveva saputo abbastanza. Quando riferì ai suoi compagni le parole di Arabella tutti si convinsero che ciò che avevano pensato era vero: Arabella era una piccola principessa stregata, che attendeva laggiù il suo liberatore. — Non ve l’avevo detto io? — esclamò Pietrozzo, il più grande fra i figli di mamma Tuda. — Il primo giorno che venne in casa nostra eravamo sull’aia, ed [204] io vidi, e tutti quelli che erano con me videro, una grande stella lucente che si distaccò dal cielo e venne a spengersi proprio sopra alla stanza dove Arabella dormiva. Non può esservi dubbio: quello era il segno della sua malìa!

— E la stella è riapparsa? — chiede Toti.

— No, non si è veduta più; ma dovrà ricomparire perchè è fatale.

— E chi potrà vederla?

— Zulù veglia tutte le notti.

— L’aspetta?

— Sì.

— E quando la stella torna, che cosa accadrà?

— Allora sapremo il segreto di Suor Lucia.

— Non prima?

— Prima no, perchè c’è l’incantamento.

— Ma Allodola ha vissuto molto tempo con mamma Tuda?

— Sì.

— E in tutto questo tempo non si seppe mai nulla?

— Lasciatemi dire. In principio Arabella era malata, e poteva camminare appena. Mamma Tuda le aveva affidato un gregge. La mattina a buon’ora le dava un pane, una fiaschetta con acqua e aceto, e la mandava fuor di casa. Fino a sera non doveva [205] ritornare. Come avrebbe potuto reggersi per tutto il giorno? Come avrebbe potuto girare per tutti i prati e andare fino alla selva di Lucchetto e salire al Castello dove sono i pascoli? Si stancava subito, le sarebbe mancata la lena. Zulù la seguiva sempre.

Quando giungevano ai prati egli conduceva a pascolare il gregge e Arabella lo attendeva seduta sotto agli alberi. Il riposo e l’aria buona le fecero bene; dopo due mesi pareva perfettamente guarita. Allora parve che il suo nuovo stato non le desse tristezza. Divenne un’altra, e cominciò a cantare. Figli miei, c’era da starla a sentire tutto il giorno! Fu allora che la chiamarono Allodola. La chiamarono Allodola perchè aveva una voce d’oro e perchè era sempre gaia dal nascere al morir del sole. Forse aveva dimenticata la sua sorte o sperava che il liberatore giungesse. Suor Lucia andava a trovarla e le portava doni sopra doni. Anche Bocca-di-fiore se ne meravigliava, e Bocca-di-fiore non era povera come gli altri. I compagni, di giorno in giorno che passava, eran sempre più persuasi che Arabella fosse nata di sangue reale, così la guardavano con rispetto e le volevan bene perchè era buona.

— E in tutto il tempo che vissero insieme non disse mai nulla della sua vita?

[206]

— Non disse nulla; e nessuno la interrogò per rispetto.

— E non comparve mai qualcuno della sua corte?

— In veste d’uomo, no.

— Che vuoi dire?

— Voglio dire ch’ella riceveva qualche messaggio da’ suoi parenti lontani, ma glie lo portavano le rondini.

— E chi se ne accòrse?

— Se ne accòrse Zulù, al quale Arabella si era unita come ad un fratello. Nelle mattine di aprile, quando le rondini ritornano e si vedono a grandi stormi per i cieli, Zulù notò come Arabella tardasse a scendere nell’aia. Si avvide poi che le rondini entravano nella stanza di lei, e vi si trattenevano lungo tempo. Una volta anche udì Arabella parlare, e in casa non c’era nessuno.

— Poteva parlare da sola.

— Non era mica matta! Poi in quei giorni Zulù si accòrse che la compagna sua si era fatta più triste; forse le erano giunte cattive notizie.

— Gliene parlò?

— Non le chiese nulla, perchè la cosa fu passeggera. Non trascorse molto tempo che ella ritornò allegra come prima. Riprese la sua vita spensierata, cantò come cantano le allodole. Fu la regina dei prati, fu la [207] signora della selva di Lucchetto. Bocca-di-fiore le cedette il suo regno. Voi sapete che Bocca-di-fiore era la reginetta di tutti i monelli di quelle contrade, perchè era la più bella e la più allegra fra le compagne e perchè sapeva condurre tutti i giuochi. Quando giunse Arabella, o meglio quando Arabella cominciò a praticare gli amici, ella stessa le cedette la sua signoria. Un giorno d’autunno, come racconta Zulù, Bocca-di-fiore invitò Arabella ai prati. Il ritrovo fu verso l’ora in cui il sole muore. In autunno fioriscono i gigli del freddo[1] e i prati ne erano pieni. Bocca-di-fiore ne compose una corona, e quando giunse Arabella glie la donò sorridendo. Cedeva così la sua signoria. Da quel giorno, fra la principessa ignota e Bocca-di-fiore si strinse una grande amicizia.

— Tu hai parlato con Bocca-di-fiore?

— No.

— Sai se sia venuta in città?

— Credo che sia giunta ieri sera.

— Per vedere Arabella?

— Sì.

— E nessun altro è giunto?

— Nessun altro. Solo Zulù e Bocca-di-fiore sono rimasti fedeli ad Arabella. Gli [208] altri, come il tempo passò ed ella fu ripresa dal male che la farà morire forse, la dimenticarono, l’abbandonarono, la dissero figlia di un pastore, nè la tennero in nessun conto. Ciò valse ad accrescere il suo dolore. —

La storia di Anatroccolo, ha aumentato il vivissimo desiderio che Toti ha di rivedere Allodola e di poter giungere fino al segreto di Suor Lucia. Tutte le cose narrate non servono che ad intricarlo sempre più, ma Toti vuol trovare il bandolo in quell’arruffio. Egli saprà perchè Suor Lucia sia stata presa da tanto amore per Arabella.

— Domani ci troveremo in via del Paradiso, verso sera, — dice ai compagni. — Resta inteso?

— Resta inteso.

— Ed ora torniamo con gli altri. —

Abbandonano l’angolo remoto e ritornano nell’estrema Tule dove si sono già formati due partiti avversari che battagliano strenuamente da un cespuglio di lilla ad un roseto. Dal pollaio un vecchio gallo sogguarda e canta alla disperata.

[209]

VIII. La stella del pastore.

Toti si presenta alla zia Emma con un gran fascio di fiori. Ha raccolto le rose più belle del giardino, qualche gardenia e qualche pannocchia di tuberosa. Ha già indossato il vestituccio da passeggio, ed ora guarda la zia Emma senza rifiatare.

— Ebbene? — gli chiede la zia.

— Vorrei uscire.

— E dove vuoi andare?

— Da Suor Lucia.

— E di quei fiori che vuoi farne?

— Vorrei portarli ad Arabella. —

Breve pausa. La zia Emma lo guarda sorridendo.

— Sei contenta, zia?

— Con chi andrai?

[210]

— Con Tommaso, l’ho già avvertito.

— Allora avete disposto le cose vostre senza dirmi nulla?

— Volevo risparmiarti una noia.

— Guarda quanta premura!

— Ero sicuro che tu non avresti detto di no! Suor Lucia è tanto addolorata perchè la sua piccola principessa non può guarire!

— Che dici?

— Ho detto che Suor Lucia....

— Ma di quale principessa parli?

— Di Arabella.

— Arabella è una principessa?

— Sì.

— Da chi lo sai?

— Anatroccolo e Zulù hanno scoperto tutto. Da molto tempo sono sulle tracce del segreto. Sanno anche che Suor Lucia è una gran dama di Corte.

La zia Emma non può trattenere un breve riso. Toti la guarda, non comprende e le chiede:

— Perchè ridi?

— Rido perchè la povera Suor Lucia non si sarebbe attesa questa trasformazione.

— Ma tu non sai niente, zia! — esclama Toti con accento di profonda convinzione. — Io ti assicuro che Suor Lucia ha un gran segreto.

— Quale?

[211]

— Non voglio dirtelo perchè ridi.

— E se non rido?

— Non te lo dico ugualmente perchè non lo so.

— Questa è la ragione più convincente. Hai legato i tuoi fiori?

— Sì, zia.

— Allora, a rivederci, signorino! —

Toti si dirige alla porta; mentre è per uscire vede una cosa la quale, come per incanto, muta direzione a’ suoi pensieri; si volge trasfigurato in viso, raggiante, e chiede alla zia Emma:

— Zia, prepari i bauli?

— Sì.

— Si parte presto?

— Lunedì della prossima settimana.

— Andiamo al mare?

— Sì.

— E dove andiamo, a Riccione?

— Sì, a Riccione.

— Oh quanto sono contento! — esclama Toti battendo le mani. — Il mare, il mare, il mare!! —

Egli vede subitamente l’immensa distesa delle acque smeraldine, i bei colli di Riccione, il piccolo porto che raccoglie le barche dalla vela rossa, tutta la spiaggia che sembra d’oro sotto il sole estivo e si perde laggiù dove sorge un antico castello, dove [212] i monti si spingono nel mare. La visione del viaggio, del paese, della nuova vita che lo attende, lo riempie di gioia insolita.

— Il mare, il mare, il mare!! —

Pensa al costume rosso che indosserà per prendere il bagno, ai nuovi compagni, alle nuove imprese, a tutto il sistema idraulico che apriranno fra le arene, e alle battaglie in acqua, e alle corse, alle infinite corse su le arene. L’anima sua si perde in un tumulto festoso che gli accende le guance e gli illumina i grandi occhi di vivacissimi raggi.

Ad un tratto tace e si oscura. Ha guardato a’ suoi fiori. Il pensiero ritorna alle cose presenti e un’amara tristezza lo punge, tanto più viva quanto meno continua.

Rivede uno zendado nero; un volto pallido, affranto; due scarne mani che fanno passare eternamente i grani di una vecchia corona; ripensa ad Allodola che langue, alla sventura che la travolge e una frase pietosa gli sale alle labbra.

— Povera Suor Lucia! —

Poi se ne va correndo forte, perchè nessuno lo veda.

Un groppo di singhiozzi gli serra la gola e le lacrime scendono copiose ad irrorargli il viso.

[213]

La via è chiusa da un lato dal muro di cinta di un giardino; dall’altro lato sorgono alcune case basse, intramezzate da orti. Forse per tutta la letizia agreste che l’accompagna fu chiamata Via del Paradiso. All’un dei capi trova un termine apparente nel campanile di un antichissimo tempio; l’altro capo si perde fra i primi campi che circondano la città. Ivi regna una quiete eterna. Qua e là, sopra al muro di cinta che chiude l’ignoto giardino, sovrastano chiome di alberi e ciuffi di verdura. Un gelsomino protende le esili ramificazioni e si riversa come una fiumana sulla via fino a toccarne le selci. È tutto fiorito e tramanda un soave profumo. Si intravedono le vette di una fila di pioppi; si intravedono fra gli scarsi cirri che vagano pei cieli di un azzurro intenso.

Volgono le ore pomeridiane. Benchè il sole si appressi al tramonto, qualche cicala stride tuttavia; fa ancora molto caldo.

Le piccole case bianche hanno le imposte socchiuse e sono tutte mute; riposano nell’afa estiva.

— A che numero sta Suor Lucia? — chiede Tommaso a Toti.

[214]

— Al numero nove.

— Debbo aspettarlo, signorino?

— No, verrai a riprendermi.

— Fra un’ora?

— No, verso sera.

— Va bene. Arrivederla.

— Addio, Tommaso. —

Come si sente solo, procede a passo più spedito. In fondo alla via ha intravisto tutti i compagni suoi.

Il cuore gli batte rapidamente per l’ansietà; a mano a mano che si avvicina tien gli occhi fissi sul volto di Zulù. Nessuno si muove ad incontrarlo, nessuno si rivolge a dargli il benvenuto; ma è dunque toccata qualche grave disgrazia a Suor Lucia o ad Allodola?

Egli vede tutti i visi raccolti in una espressione strana, fra lo stupore e la mestizia. Solo i più piccoli guardano qua e là senza sapere che cosa accada intorno a loro.

Giunto a pochi passi dall’immobile accolta, ha una sommessa chiamata:

— Anatroccolo! —

Il fanciullo si volge di scatto, quasi fosse stato scosso da un profondo torpore.

— Anatroccolo, non mi vedi?

— Oh, buon giorno! — esclama soffregandosi gli occhi.

— Che cosa hai fatto?

[215]

— Niente; pensavo.

— Ci sono novità?

— Per ora no.

— Come sta Arabella?

— Molto male.

— Da chi l’hai saputo?

— Da una donna della casa.

— Non c’è più rimedio?

— Chi lo sa?

— Dov’è ora?

— Su, dietro quella finestra che ha le tende abbassate.

— Siete saliti?

— No, aspettiamo. Ci hanno detto di aspettare. Il dottore è uscito poco fa, e ritornerà fra non molto.

— Sai dirmi perchè c’è tutta questa gente? Che cosa fanno qui i piccoli?

— Oggi è la festa di Suor Lucia, erano venuti a farle gli augurii. Le hanno portato il loro dono. Suor Lucia ha detto che fra poco scenderà. —

Tacciono e si appoggiano al muro, vicino a Zulù e a Carciofo. Orsetto e Marinella fanno un cenno del capo a Toti ma non si accostano per parlargli. Sono tutti impacciati. Non sanno precisamente che cosa avvenga, ma sembra loro di trovarsi in un tempio. Avvertono che qualche avvenimento grande e inusitato sta per compiersi, e il loro piccolo [216] cuore ne trema tutto. Solo i più piccini, coloro che hanno ancora la coscienza del poco perchè l’ala del dolore non li ha tocchi, se ne stanno in disparte e pronunziano qualche parola o si baloccano coi fiori che hanno portato. Essi parlano sottovoce per un senso di imitazione che li invita a fare ciò che fanno i più grandi, non per altro, chè nessuno sgomento è nell’anima loro. Rando e Celestina si sono seduti in terra ed ammassano monticelli di polvere sui quali innestano alcune pratelline. Fanno il giardino; un giardino immenso agli occhi loro, nel quale fingono di andare a diporto. Ciuffolo mastica delle pasticche di liquorizia che gli hanno tinto di nero la bocca, il mento e le guance; Cola gli sta innanzi e come non può ottener qualcosa per soddisfar la sua gola, mormora:

— Ah! tu non me ne dài! Ebbene, quando ne avrò io non ti darò niente. —

Ninì ha trovato un carboncino e si arrabatta per scrivere sul muro, accanto a un suo disegno raffigurante un uomo con le braccia aperte, la pipa, due belle fila di bottoni e un taschino: «Asino chi legge.»

Non uno parla ad alta voce; seguono i loro giuochi avvertendo che qualcosa di nuovo c’è per l’aria, ma non ponendovi mente.

[217]

I grandicelli tacciono, e a quando a quando, levano gli occhi alla porta.

Aspettano da molto tempo, e non se ne lagnano, quantunque la giornata sia caldissima; aspetterebbero così fino a notte tarda senza parlare, senza lamentarsi.

Arabella, la principessa ignota, è là, nella piccola stanza dalle imposte verdi e soffre per l’oscura malìa dalla quale nessuno può salvarla.

— Chi venne ad avvisare Suor Lucia? — chiede Toti a Zulù.

— Venni io.

— E Suor Lucia tornò subito in città?

— No, rimase due giorni da mamma Tuda, poi condusse qui Arabella.

— E da quel giorno non l’hai abbandonata più?

— Ho vegliato sempre.

— Che cosa aspetti?

— Aspetto la stella. —

Toti non chiede più nulla; china gli occhi attende. Attende la sera; può darsi che nell’ora del crepuscolo compaia il liberatore, colui che deve salvare Allodola.

In tutti i cuori è tale senso di aspettazione; il miracolo deve compirsi.

[218]

Esiste un mondo lontano oltre il mondo che essi percepiscono, e in quel mondo lontano si accolgono le cose più belle. Ha i suoi primi confini all’estremo limite della terra e dei cieli, ed è corso da spiriti ai quali nessun potere è negato. Pochi vi possono giungere; è tanto aspro il cammino, sì grandi sono le difficoltà che lo accompagnano, conviene superare tante e tante prove, che tutti coloro i quali seppero attingerne la soglia ebbero l’onore di una fiaba o di una leggenda. Laggiù sorgono i palazzi d’oro, le foreste lucenti che rischiarano le notti, le reggie non vietate ad alcuno; laggiù sono le corti di gioia nelle quali i giorni trascorrono fra sollazzevoli ritrovi.

Sulla grande porta adamantina per la quale si entra nel paese remoto si legge un motto: «Comanda e avrai;» e vi è più rapida la possibilità di avere che non sia rapido il desiderio.

Si parte poveri e si ritorna ricchi; ma chi può ritornare dalla terra dell’incantesimo? Nessuno forse. Bisogna vivere sempre laggiù, abbandonare il mondo, morire.

Allodola ne saprà la strada; forse fra non molto partirà.

Essi guardano ai due capi della via, tendono l’orecchio, e il loro cuore sobbalza ad [219] ogni galoppo lontano, ad ogni rumore insolito, che si avvicini con rapidità.

O non giungerà piuttosto il liberatore silenziosamente, senza farsi avvertire? non avrà seco il mantello di Leonbruno che rende invisibile chi l’indossa? non discenderà dalle vie dell’aria come l’ombra di una nube?

Tutti credono che la sua venuta sia immancabile, ma non sanno come potrà compiersi. Solo Suor Lucia lo saprà, ella che conosce il segreto.

Allodola, la reginetta bella condannata al martirio, attende l’estrema ventura. Zulù si angoscia nella sua impotenza, egli che tutto ha tentato pur di salvare la sorella d’amore.

Si è spinto fino alle più alte cime, alla ricerca della Casa lucente; ha viaggiato per giorni e giorni attraverso terre solitarie, cercando la dimora di un mago, di una fata; ha interrogato le fonti, si è inoltrato, con grande paura, nelle buie caverne, sperando trovare la soglia di qualche favoloso palazzo; ha cercato uno fra i tanti reami di cui parlano i novellatori; ha atteso nelle alte selve la comparsa di qualche re, sperduto mentre andava cacciando. Si è trascinato notte e giorno, mangiando appena, di sentiero [220] in sentiero, di montagna in montagna, evitando i rari pastori senza poter mai venire a capo della sua impresa singolare.

Oh! poter ritornare da Arabella e dirle: «Ecco, io ti ho liberata dalla tua malìa e so la strada per ricondurti al luogo dal quale sei partita. Vieni, la tua Corte ti aspetta. Domani il tuo popolo ti griderà regina!»

Ma la fortuna non ha guidato i suoi passi. Da’ suoi viaggi egli non ha riportato se non qualche fiore, qualche pietruzza lucente, che sa la virtù del suo lungo soffrire.

Ora attende la stella fatale, quella che apparve quando Arabella fu condotta in casa di mamma Tuda. Un presentimento gli dice che essa debba ricomparire nei cieli a serenare il destino dell’Allodola bella.

Una vecchia donna si affaccia sulla soglia e dice sommessamente ai fanciulli che attendono: — Suor Lucia è qui! —

I fanciulli si scuotono e si raggruppano; un occulto timore di vederla apparire li turba. Sono pieni di smarrimento; tutta la loro allegria si è spenta.

I più piccini non ricordano più l’augurio imparato a memoria; troppo hanno atteso in mezzo alla via, e nessuno è là per [221] suggerir loro le prime parole; ma non vuol dire, offriranno i fiori senza parlare; Suor Lucia capirà ciò che essi vorrebbero dirle.

Ora si stringono insieme per aiutarsi a vicenda; procederanno in gruppo quando Suor Lucia si farà sulla soglia. Ciò dà loro maggior coraggio. Il silenzio ed il mistero della piccola casa nella quale trascorrono persone che sussurrano parole che non intendono e dalla quale giunge a quando a quando come un lungo sospiro di pianto, li ha resi perplessi e timorosi. Non sanno spiegarsi che accada e non osano interrogare i compagni più grandi perchè li vedono muti ed accorati, epperò tacciono, guardando qua e là con aria smarrita. Tutta la loro sensibilità non può esplicarsi che nello stupore; l’anima loro è come un’acqua di vena, che scorre fra le rocce e non si può intorbidare.

Se qualcuno dicesse loro che Suor Lucia piange, ne chiederebbero il perchè, come chiederebbero perchè le stelle sono nei cieli. Fra l’una cosa e l’altra non sanno cogliere differenze; tutto è soggetto di semplice meraviglia. I più grandi conoscono già il dolore, l’eterno fratello delle creature.

Essi guardano per l’andito buio: Suor Lucia non compare, si attarda, forse non saprà distaccarsi dal letto di Arabella. Che cosa le diranno quando verrà?

[222]

La buona compagna che li conduceva per le chiese, per gli orti, per i prati e assisteva alle loro scorribande e tutto tollerava con viso benigno pur che venisse da loro, non sarà più la stessa; chi sa? Non la vedono da qualche settimana, da un tempo infinito. Che cosa non può mutare in un’ora, in un giorno?

Ad un tratto Anselmuccio, che è più vicino alla soglia, si volge e susurra:

— Eccola, eccola! —

Si stringono a braccio a braccio perchè il loro cuore pulsa più rapidamente, temono di vederla troppo all’improvviso. Avrà lo stesso aspetto? lo stesso volto? gli stessi occhi dallo sguardo mite?

Ad un tratto odono appena lo strisciare di un passo rado.

Il sole muore fra il saluto di mille campane, qualcuno canta nel giardino ignoto. Ecco un’ombra, ecco una figura di donna che si avvicina alla soglia ma procede troppo rapida: non è lei, non è lei. L’ansia dell’attesa ha una momentanea sosta. La donna scende i due gradini che conducono nell’andito, si accosta, che vorrà mai?

Li chiama in disparte, e dice loro sottovoce:

— Suor Lucia discende le scale, sarà qui fra poco; lasciate che rientri subito, [223] non le dite nulla, non la interrogate; soffre e piange, lassù; c’è un angelo che muore.

— Che cos’hai detto? — grida Zulù lanciandosi innanzi pallido e stravolto.

La donna che pare da prima stupita dal grido improvviso, sorride poi tristemente.

— Arabella ti saluta. Poco fa voleva vederti. Quando tornerà il dottore salirai.

— Me lo prometti?

— Te lo prometto!

— Ricordati che aspetto qui da cinque giorni, e ricordati che non mi moverò anche se dovessi morire!

— Prima di notte salirai. Arabella lo vuole. —

Quelle poche parole oscure lasciano la brigata in uno smarrimento maggiore. Dopo qualche secondo, senza che i fanciulli se ne avvedano, Suor Lucia si fa sulla soglia.

Ha il capo inchinato, leva un attimo gli occhi.

Dio, com’è pallida, quanto è invecchiata!

Pare che il tempo le abbia tolta in pochi giorni tutta la vigoria che le restava; ha vissuto vent’anni in un’ora, si è incurvita come un albero vecchio. E anche i segni del volto non sono più gli stessi. La bocca le si è piegata agli angoli; le guance le ricadono flosce ed esangui; le tempie le si [224] sono infossate; il naso si è affilato ancor più; solo gli occhi, que’ suoi occhi azzurri ch’ella leva a sogguardare, hanno serbato la stessa luce di profonda bontà; sono un poco più tristi, ma buoni, ma belli, ma soavi come una carezza materna.

Si sofferma sul limitare della soglia; tenta un sorriso e non può sorridere; le sue labbra si muovono, sono corse da un tremito, dal tremito che hanno i vecchi i quali pare vogliano dire e piangere ad un tempo. Dallo zendado che le ricade fino alle ginocchia escono le mani bianchissime ed esili, come le venature di una foglia.

Ha pronunziato una parola che nessuno ha inteso. Il sole muore fra il suono di mille campane; una voce canta sommessamente nel giardino ignoto.

È scesa d’uno scalino; si avvicina. Allora i più piccoli si fanno innanzi: prima Rando e Celestina e poi Ciuffolo e poi Cola, Doretta, Nicoluccio, Miranda; protendono le mani piene di fiori senza dire una parola, senza alzare gli occhi. Suor Lucia discende il secondo scalino, raccoglie le offerte dei bimbi suoi, i fiori di campo e di siepe, un niente, una gioia infantile che veniva a rallegrarla; leva il grembiale per le cócche e ve li ripone. Il suo volto si fa più pallido ancora, le labbra tremano ancor [225] più. I più grandi sogguardano in disparte, e trattengono appena le lacrime. Poi viene la loro volta. Suor Lucia si avvicina, muove qualche passo a stento. Allora Marinella si fa innanzi, poi Orsetto, poi Toti, Anselmuccio, Giacomino. Il misero grembiale nero, ecco, è ricolmo di fiori, sono tanti e tanti, tutta la mèsse di un giardino riposa nel grembo di Suor Lucia.

Fa per muoversi, poi si sofferma. Ecco, vuol parlare.... ma le labbra di lei cercano inutilmente un suono. Per due, per tre volte ritenta, finchè vinta, travolta dall’angoscia che le turbina dentro, ha un grande sussulto e si abbatte d’improvviso in un singhiozzo asprissimo. I suoi fiori si spargono per la via.

Addossati al muro, col viso nascosto fra le mani, i fanciulli suoi piangono dirottamente in silenzio.

Il sole è morto, e la voce che cantava dietro il muro di cinta del giardino non si ode più.

Toti, Orsetto e Zulù sono rimasti soli. I compagni loro sono partiti a due, a tre per volta, volgendosi a quando a quando verso [226] l’alta finestra socchiusa, dietro alla quale Arabella dorme.

Dorme. Essi la vedono così, distesa fra le bianche coltri, dormire. Qualcuno le avrà posto sul guanciale, intorno ai riccioli biondi, una rama di biancospino in fiore; la rama della quale soleva adornarsi i capelli, quando tutto il suo sangue batteva una irresistibile diana di gaiezza, ed ella era la reginetta dei prati e delle selve, l’allodola degli alti cieli. Ella dorme come le sante, fra le ghirlande.

Ciuffolo si è allontanato col capo rivolto all’alta finestra senza pensare se i suoi passi mantenevano la linea retta; ciò lo ha condotto contro il muro, ma non ha sollevato affatto lo sdegno di lui; solo, compresa la necessità di guardare innanzi a sè per camminar diritto, si è rivolto ancora, ha alzato le braccia piegando le mani a saluto verso qualcuno che doveva essere laggiù ed ha susurrato:

— Addio, bella bambina! —

Poi ha ripreso la strada rasentando il muro; soffermandosi a considerare uno stelo, un fiore, un’ombra, e si è perduto fra le nebbie crepuscolari quando ormai non si udivano più i suoi passi.

La luce discende, e muore; fra poco sbocceranno le stelle. Zulù pare lontano dal [227] mondo, non vede chi gli sta intorno; gli occhi suoi sfavillanti cercano nei cieli il segno atteso.

Nessuno giungerà per le vie della terra, tale speranza è perduta. Allodola è condannata perchè non si potrà vincere la malìa che la tiene. L’essere ignoto che avrebbe tale potere non si mostra, non discende dalla sua fiaba. Le vie si fanno deserte, le campane non si odono più, tutto si raccoglie nell’ora del vespero. I piccoli cuori si sentono più soli.

Toti e Orsetto si guardano a quando a quando negli occhi, e una interrogazione passa in quello sguardo: che cosa accadrà?

La luce diventa perlacea, si attenua, prepara un nuovo giaciglio alle stelle che nasceranno. Dalla stanza di Suor Lucia giungono suoni incomprensibili, susurri, fruscii. La vita che prima vi pareva assopita, ora vi si affretta in una muta rapidità.

Le imposte della finestra sono aperte, e lasciano intravedere le bianche tende che inquadrano l’oscurità dell’interno.

Anche Zulù ha avvertito l’ansia nuova che muove ed agita le persone chiuse lassù e guarda fissamente il cielo di occaso. L’attimo si approssima; la grande stella si leverà sopra il sole, rifulgendo.

Ma che avviene? Gli strani fruscii, i rapidi [228] passi, le voci spente, crescono sempre più in un’ansia folle, in uno sconvolgimento inatteso; non è il consueto avvicendarsi dei suoni; si sente, si intende che una cosa straordinaria sta per compiersi lassù.

Alcune sedie sono smosse rapidamente, poi si ode il tonfo di una cosa che cade, poi rapidi passi, parole sommesse, finchè una voce grida:

— Non la far entrare! —

E un’altra implora, ed è quella di Suor Lucia:

— No, voglio vederla! voglio vederla! —

Zulù sbianca tutto, sbarrando gli occhi. Ecco, la stella del pastore è sorta imperando nell’ultima corona solare, rifulge sulla stanza dell’Allodola. Il destino è compìto. Allora il piccolo selvaggio si distacca dal muro, avanza lentamente fino in mezzo alla via, ascolta. Si è fatto un gran silenzio; ma subitamente un pianto dirotto si leva.

Dal petto di Zulù erompe un grido acutissimo:

— Arabella, Arabella, Arabella mia! —

Poi non ode, non vede più; liberatosi dalla stretta dei compagni si lancia su per le scale e scompare.

Toti ed Orsetto rimangono soli. Una donna esce dalla casa, e prima ancora ch’essi le abbiano mosso domanda dice loro:

[229]

— Andate, andate.... la povera Allodola è morta! —

Poi nasconde il viso fra le mani e fogge.

Dio, come rifulge la stella del pastore!

Allodola è giunta lassù.

Fra i rami delle alte betulle che si inargentano, si ode un volo di passeri impauriti.

[231]

IX. Passeri in fuga.

Il pomeriggio estivo è caldissimo. Toti non andrà al consueto riposo perchè tutti sono in grandi faccende data la prossima partenza. Forse si ingannerà ma gli pare che la zia Emma, il papà, il nonno, il prozio abbiano negli occhi una gaiezza nuova: ridono più di frequente e non gli hanno fatto neppure una predica, cosa veramente insolita. È il mare che compie il miracolo; sono contenti perchè vanno ai bagni. E chi non dovrebbe commuoversi all’idea di andare a Riccione, in un delizioso villino fra gli alberi a pochi metri dal mare? Si potrà veder sempre l’immensa distesa delle acque e si mangerà sulla terrazza dalla quale si contano le vele lontane. Solo miss Edith non manifesta alcuna commozione; [232] ma per Toti miss Edith non è una donna: è una grammatica inglese.

È la prima volta ch’egli va al mare con la signorina e mille curiosità lo pungono: prenderà il bagno? indosserà il costume?

Oh! miss Edith in costume da bagno deve essere graziosa, troppo graziosa! Ecco, egli non sa immaginarla come non saprebbe immaginare il papà vestito da antico romano o il nonno vestito da ballerina. Tutti dovranno fermarsi a guardarla perchè è tanto lunga, tanto magra, tutta piedi e naso.

In quel giorno, adunque, la zia Emma e la signorina non pensano a lui, egli è libero di andare dove gli piace. La cosa non lo solletica punto, e forse non se n’andrebbe se non avesse dato appuntamento ad Anatroccolo all’estrema Tule. Prende con sè un grande involto che ha preparato fino dalla mattina, e scende in giardino.

Il grido solivo delle cicale si distende ininterrotto. Alle frequenti ombre si odono ronzare numerosi insetti. Il caldo è grande, ma Toti non lo avverte.

Quando giunge al luogo fissato, vede Anatroccolo seduto all’ombra. Sonnecchia. Il berretto da soldato, ch’egli porta sempre con dignitosa compostezza, gli è disceso sopra un orecchio; l’arcaico giubbone si è aperto e lascia intravedere il petto nudo. Ha la [233] testa piegata da un lato, le braccia abbandonate, e dorme tranquillo nonostante un importuno sciame di mosche che gli ronza d’intorno.

— Anatroccolo! —

Dischiude gli occhi, sogguarda e balza in piedi.

— Buon giorno, signor Toti.

— Mi aspetti da molto tempo?

— Non lo so.

— Non lo sai? E perchè?

— Perchè dormivo.

— Hai ragione. Io parto stasera....

— Buon divertimento, signor Toti.

— E tu partirai?

— Io? E dove volete che vada?

— In campagna. Non potresti andare in campagna con Zulù?

— E la zia Geltrude?

— Portala con te.

— Ah voi scherzate, signor Toti!

— Che male ci sarebbe? Ci sono tante case nella campagna! Vedi, se io potessi, vorrei mandarti nella nostra villa, tanto noi andiamo al mare! Ma il papà, il nonno e il prozio sono troppo serii; con loro non si può parlare di certe cose; a sentir loro, tutto è impossibile, e invece sarebbe tanto facile!

— Io vi ringrazio, però non potrei partire.

[234]

— Perchè?

— Perchè stasera dobbiamo trovarci con Carciofo. La vecchia della valle ci ha indicato un luogo dove potremo rinvenire il mantello di Leonbruno.

— Davvero?

— Ce lo disse ieri. Se la fortuna ci assiste saremo ricchi!

— Zulù verrà con voi?

— Zulù? E chi può sapere dove sia?

— È scomparso?

— Da quando Allodola se ne andò con la stella del pastore, non si è visto più. Nessuno sa che strada abbia preso, dove si sia rifugiato. Voi partiste quella sera, ma io rimasi là fino a notte inoltrata. Quando era già buio, tanto buio che non si vedevano se non le stelle, scòrsi un’ombra uscire dalla casa di Suor Lucia; mi passò tanto vicina che la riconobbi: era Zulù. Allora lo chiamai, ma non rispose; prese la corsa e si allontanò in un attimo. Da quella volta nessuno più l’ha veduto.

— Neppure la vecchia della valle?

— Nessuno, vi dico.

— Tornerà?

— Chi può saperlo? La stella del pastore ha il nido dietro le montagne della neve, sopra San Benedetto dall’Alpe; forse [235] egli avrà preso quella via per giungere alla stella dove è volata Allodola.

— Quanto bene le voleva!

— Andavano sempre insieme, facevan pascolare le greggi. Per quattro anni hanno visto nascere e morire il sole.... sempre insieme. Erano come fratelli.

— E Zulù non ha potuto salvarla!

— Ci eravamo ingannati, signor Toti, e Zulù si era ingannato come noi. Arabella non era figlia di un re, non era una piccola principessa. Il segreto di Suor Lucia è ben diverso. Allodola era una poverella come me, come Carciofo, come Zulù!

— E da chi l’hai saputo?

— Lo seppi quella notte stessa da una donna che vegliava Suor Lucia. Arabella era nata a Milano da una figlia di Suor Lucia. Le morì la madre ch’ella era ancora in fasce, e poco dopo venne a mancarle anche il padre. Rimase sola nel suo nido. Allora Suor Lucia la prese con sè, e siccome era molto malata, la mandò in campagna perchè crescesse sana e robusta. La malìa se la prese e lo ha detto anche mamma Tuda, ma bisognava cercare altri mezzi per salvarla e Zulù non conosceva il segreto di Allodola sua. Ora hanno detto ch’ella è in un paese molto migliore del nostro; hanno detto [236] che lassù sta bene e non può mancarle nulla. Ora sarà diventata per davvero una reginetta, nella sua stella lucente, e Zulù, che sa molti misteri, potrà raggiungerla ma Suor Lucia no, e Suor Lucia non aveva al mondo che quella sua nipotina! Dal giorno in cui Allodola se n’è andata, la buona vecchia non è uscita più, forse nessuno potrà rivederla!

Toti non risponde perchè la commozione gli impedirebbe di pronunziar parola. Le lacrime gli solcano il viso; per un attimo egli ha coscienza dell’irrimediabile, e tale coscienza lo accora profondamente per tutto ciò che non potrà più ritornare; ma è un attimo; troppo lungo è il cammino, e troppo viva la gioia per l’anima di un bimbo, perchè la tristezza vi possa soggiornare.

Trascorso un breve silenzio, durante il quale i monelli sono stati di fronte ad occhi bassi, Toti si toglie di sotto il braccio l’involto che ha portato con sè, e l’offre ad Anatroccolo:

— Prendi, ti ho portato queste poche cose, potranno farti bene e te le regalo.

— Grazie, signor Toti.

— Non dirmi signor Toti e dammi del tu, hai inteso?

— Ma voi siete un signore.

— Io sono un bambino come te.

[237]

— Se sapesse ch’io vi tratto confidenzialmente, la zia Geltrude mi bastonerebbe.

— Ma ti bastona sempre, quella vecchia strega?

— Sempre. L’altra notte, quando tornai a casa, mi aveva già preparato l’olio di ricino, e quella fu la mia cena. Ah se potessi trovare il mantello di Leonbruno!

— Lo troverai perchè il buon Dio ti aiuterà. Io parto, Anatroccolo, non mi dimenticare, e scrivimi. Addio.

— Addio. —

Dopo un affettuoso abbraccio, Toti è partito di corsa. Anatroccolo rimane solo. Raccoglie l’involto, si aggiusta sul capo il berretto da soldato e lo stira bene perchè non faccia una piega, si abbottona il giubbone che gli sorpassa le ginocchia e così, tutto in ordine, si avvia verso le scuderie per uscire.

È contento perchè, dato il regalo di Toti, almeno per quel giorno la zia Geltrude non lo picchierà.

Toti è passato da Marinella e l’ha trovata intenta a racchiudere in una grande scatola tutte le sue bambole.

— Parti?

[238]

— Sì, vado a Cattolica.

— E quando parti?

— Questa sera. Fauvette e Dorry verranno con me.

— Allora ci vedremo alla stazione.

— Sì, alla stazione. Addio.

— Addio. —

Se partissero per la conquista dei cieli non sarebbero più felici. Tutte le luminosità del mare irradiano quelle anime bambine.

Toti riprende il suo viaggio in compagnia di Tommaso.

Anselmuccio, il negoziante della brigata, già dalla sera innanzi è in via per il lago di Como; Giacomino è in campagna da uno zio; Orsetto è andato a Roma; Adalgisa, è stata allogata in casa di certi coloni amici di suo padre; Nicoluccio, Cola, Doretta e Miranda, proprio quel giorno, sono da un vecchio prete che li ha invitati ad una sagra; solo Ciuffolo, Rando e Celestina restano e resteranno.

Ciò non li accora troppo. Per loro tanto vale un cortile quanto una distesa di campi; tanto vale una pozza quanto un mare. Non desiderano che di essere lasciati tranquilli, e di potere costruire in tutta pace le loro navi di carta che riempiranno di mosche, o di raccogliere dalla strada i fiori avvizziti, per formare il loro giardino. Ciuffolo [239] è tanto occupato nel disporre un mucchietto di ciottoli l’uno dinnanzi all’altro (ciò gli dà l’illusione perfetta di padroneggiare una locomotiva in moto, seguìta da una fila interminata di vagoni) che si accorge appena del saluto rivoltogli da Toti nè si leverebbe se la sua sorella maggiore non gli gridasse:

— Ciuffolo, non vedi che il signore ti saluta? —

Comunque sia, la sua mente non abbandona l’arduo progetto di ferrovia che deve mettere in comunicazione due punti remoti del cortile, e saluta il compagno senza comprendere perchè vada a disturbarlo.

Al campo di Sant’Agostino Toti si sofferma ad osservare una scena ben più graziosa. Egli vede sulle prime, sotto il sole, Rando e Celestina, e non distingue bene che cosa facciano; ma poi, giunto a pochi passi dai due inseparabili, assiste alla loro rappresentazione estiva.

Rando si è coperto il gonnellino rosso di foglie di vite ed ha sul capo una stranissima corona di cicale vive, tenute insieme per mezzo di un fil di seta. Le povere bestie, come si sentono solleticare dai capelli sui quali sono costrette, friniscono alla disperata, e il marmocchio, che forse si penserà convertito in un grande albero, va orgoglioso di [240] quell’orchestra ch’egli porta sul capo e se ne sta tutto rigido e tranquillo ad ascoltare, quasi compisse un solenne atto sacerdotale. Celestina, che è sempre il fedele specchio di Rando, non ha il viso atteggiato a minor serietà. Ella si è posta sul capo una vecchia tuba dalla quale esce, inusitata appendice, la sua trecciolina striminzita; si è fasciata il collo, nonostante il caldo, con un boa di penne, e si è cucita sulla vesticciuola una croce, una nappina da cheppì ed uno stemma.

Ridotta in tale arnese, ella gira compostamente intorno al compagno, agitando in aria, secondo il ritmo del suo cantare, un pennacchio rosso e canta:

Lo lo lo — quello ch’io dico

Lo lo lo — coglie sol te....

Toti guarda e ascolta per qualche istante, poi grida loro:

— Che cosa fate? —

Celestina si sofferma, Rando si volge ma senza fretta per timore che le sue cicale non debbano tacere, e guardano senza rispondere.

— Mi sapete dire che giuoco fate? — ripete Toti ridendo.

— Io faccio l’imperatore! — risponde Rando.

[241]

— Ed io mi sono vestita da regina! — soggiunge Celestina.

— Buon divertimento. Sono venuto a salutarvi: datemi un bacio. —

Rando si muove lentamente e Celestina lo segue. Il bacio è dato e Toti riparte.

Quando è per uscire dal campo di Sant’Agostino si rivolge. Sotto la grande canicola, i due marmocchi continuano soli il loro giuoco; non possono rifugiarsi all’ombra perchè le cicale non canterebbero più, e se quelle tacessero, tutto il fàscino dell’impero cadrebbe.

— Miss Edith, hai preso con te il mio elefante?

Yes.

— E il porcellino?

— Yes.

— E la pecora, i fantocci, il cavallo, il giuoco dell’oca, le tre palle, il tamburello, la tromba e la scatola gialla?

— Yes.

— Allora tutto è pronto; andiamo, andiamo, andiamo! —

Le vetture attendono alla porta. La zia Emma, il papà e il nonno scendono le scale, Toti li raggiunge.

[242]

— Presto, presto... che il treno parte!

— C’è ancora tempo. Toti, non correre! — gli grida la zia Emma.

L’avvertimento non vale. Egli ha sceso le scale in due salti e, raggiunto un calesse, vi ha preso posto.

Gli altri non si affrettano punto.

— Ma perderemo il treno! — grida loro.

Non si curano di rispondergli tanto sono affaccendati. Finalmente, come il buon Dio vuole, tutti sono a posto e si parte.

Il tragitto è breve, ma a Toti pare lunghissimo, interminabile.

Trovano la stazione rigurgitante di viaggiatori; un trambusto, un vocìo, una confusione enorme. Toti non si orizzonta più e vorrebbe uscire all’aperto, sotto la tettoia, ma non si può, perchè non hanno ancora i biglietti.

Oh! perderanno il treno senza dubbio. Il papà non potrà destreggiarsi fra tanta gente.

Poi anche quel secondo ostacolo è superato.

Eccolo sotto la tettoia. Marinella, Fauvette e Dorry lo vedono; lo salutano da lontano perchè il treno giunge. Si rivedranno al mare. Ninì passa trascinando Bebè, il suo fratello minore, e gli grida:

[243]

— Cammina dunque, porcellino! Ma cammina, Santa Vergine del rosario! —

Si perdono fra la folla. Tutti si affrettano, si assiepano, si stipano accalcandosi. Toti non ci vede più; il papà lo tiene per mano.

Il treno si ferma, un facchino apre loro la via, e trovano posto in un compartimento vuoto. Chiuso lo sportello, Toti si affaccia al finestrino. Ora è tranquillo, e può godersi la scena. Il sole muore, la luce è dolcissima.

In un vagone poco lontano, alla sua sinistra, hanno trovato posto Marinella, Dorry e Fauvette. Il treno parte, esse si sporgono a guardare. Laggiù in fondo alla stazione, è il viso pallido di un adolescente, Lionello, che saluta, e saluta quasichè tutta l’anima sua, tutta la sua vita partisse con quel treno festante. Dorry sorride, e poi, quando la stazione si oscura e nulla più vi si distingue, si volge a Marinella, l’abbraccia e le dice per due volte, e Toti crede ch’ella pianga:

— Voglimi bene, voglimi bene! —

Il treno comincia ad affrettare la corsa.

Ecco le case, i campanili della città, le vie in cui si cominciano ad accendere i primi fanali. Toti non si stacca dal finestrino, vuol vedere ancora. Ecco, ecco le betulle del giardino ignoto, gli orti, le piccole case di via del Paradiso.

[244]

Quella è la stanza di Suor Lucia. La finestra è aperta e Toti vede, vede distintamente un’ombra; non sbaglia: è lei, la sua buona vecchia. Si sporge, si toglie il berretto, lo agita e grida forte, quanto più forte può:

— Addio, addio, addio, addio!... —

Ma il treno si allontana rapidissimamente, e la casa e gli orti scompaiono.

Allora si ritira dal finestrino, siede in un angolo oscuro, china il mento al seno ed ha qualche lacrima silenziosa. Suor Lucia non guiderà più la brigata e le gaie farandole sono finite per sempre.

FINE.


[245]

INDICE

I. Toti pag. 1
II. Suor Lucia 31
III. La selva dei Gioghi 53
IV. La casa lucente 93
V. La festa delle rose 119
VI. L’Allodola 161
VII. Il segreto di Suor Lucia 191
VIII. La stella del pastore 209
IX. Passeri in fuga 231

NOTE:

1.  I colchici.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LE GAIE FARANDOLE ***
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