The Project Gutenberg eBook of Storia universale del canto, Vol. I (of 2), by Gabriele Fantoni

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Title: Storia universale del canto, Vol. I (of 2)

Author: Gabriele Fantoni

Release Date: April 23, 2023 [eBook #70631]

Language: Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA UNIVERSALE DEL CANTO, VOL. I (OF 2) ***

STORIA DEL CANTO VOL. I


STORIA UNIVERSALE
DEL
CANTO

DI

GABRIELE FANTONI

Dottore e Cavaliere di più Ordini, Membro di RR. Accademie e di Istituti Nazionali e Stranieri
Notaio di Venezia.

VOL. I.

MILANO
NATALE BATTEZZATI — EDITORE
1873.
PROPRIETÀ LETTERARIA


Diritti di traduzione e riproduzione riservati.

Milano. 1873 — Tip. Commercio



INDICE


[3]

All’Amico de’ primi anni miei Fedele Lampertico

Dagli studj letterarj ci allietarono nella nostra giovinezza, e da quelli legali, rifugio a noi comune nei perseguitati tempi, tu, Fedele, ti levasti ad alte speculazioni, a nuove cure nei politici campi, e ne ottenesti fede e plausi cittadini e universali. Ed anche fra i severi studj ed ufficj, ti serbasti amico alle care memorie, alle discipline geniali, fra quali, il culto della Musica non abbandonasti.

In più umili sfere, ma fra impegni non men rigorosi, serbai fede anch’io ai primi amori, e ne sian prova le pagine che quivi io ti consacro.

Nè credo soverchio ardimento il fregiarle colla dedica al chiaro tuo Nome, nel pensiero che, a te propugnatore indefesso della seria coltura e del vero utile sociale, non disconvenga una Storia rivolta alla istruzione d’una classe alla quale un efimero grido non è più sufficiente, ed al miglior decoro della rinnovata Nazione, in cui l’arte alle attrattive altrui soltanto non dee più servire.

L’intendimento renda compatito il difetto, e la memoria

L’amico
G. Fantoni

Venezia, febbraio 1873.

[5]

L’EDITORE

Parecchie egregie Direzioni di giornali che propugnano degnamente le lettere, le arti e specialmente la musica, conscie della meritata fama dell’illustre scrittore italiano cav. Gabriele dott. Fantoni, persuase dell’amor suo libero e indipendente a quanto alla bell’arte si riferisce, e abituate all’elegante suo stile, preannunziarono un nuovo lavoro a cui fin dal 1870 lo sapevano accinto, nella propizia occasione che dal nazionale Governo veniva trattato il riordinamento delle scuole e dei conservatorj musicali in Italia.

L’Osservatore Veneto, La Scena, La Donna di Venezia; Il Teatro di Trieste; Il Giornale della Provincia di Vicenza; La Staffetta di Napoli; ed altri periodici già fecero cenno del nuovo importantissimo lavoro che il Fantoni sta per fare di pubblica ragione, sotto il titolo — La Storia Universale del Canto. — Uno di essi, che dell’opera aveva potuto conoscere da vicino l’intendimento e la condotta, ebbe a darne il seguente giudizio:

«Frutto d’una erudizione non comune, di cui diè saggi in altri suoi libri e nei più svariati argomenti, [6] e di una illuminata sperienza in un’arte di cui fu appassionato cultore, l’Autore, che è pure Autore di diverse opere storiche e patrie, tesse un’opera nuova, voluminosa, ricca di cognizioni letterarie ed artistiche; un testo che manca alla speciale istruzione storico-letteraria del canto; un curioso lavoro che, ingemmato di sentenze, fecondo d’insegnamenti, e fornito di quello stile ammirato in tale scrittore e ben noto ai lettori delle Monografie artistico-sociali, riescirà interessante e piacevole agli artisti non solo, ma a chiunque ama e coltiva le belle discipline, le illustrative memorie, il patrio decoro.»

L’Autore, in tale opera, non si è proposto di trattar della musica in generale: bensì della musica vocale, le memorie e lo sviluppo del bel linguaggio — nei Compositori — nei Metodi — e nei Sacerdoti del Canto — d’ogni tempo e presso ogni popolo fino ai giorni nostri — colle osservazioni e i giudizj dei più famosi maestri ed artisti; colle prove e colle sperienze della storia; e colle tradizioni e le progressive riforme, in cui brilla splendido e incontestabile il primato della gloriosa nostra Nazione. Laonde io pubblicandola sono certo di riempiere un vuoto nella nostra letteratura, e di offrire un libro che ben potrebbe anche servire di testo nelle scuole della divina arte del Canto.

Milano 16 Agosto 1872.

Natale Battezzati.

[7]

INTRODUZIONE

Ognuno porta in sè la vita e la morte; memorie e speranze.

La consumata bellezza chiede talvolta tristamente al cristallo amico qualche orma almeno del suo primo sembiante; il mesto superstite evoca di quando in quando la figura de’ suoi perduti; l’esule quella dei luoghi abbandonati; l’infelice si tormenta richiamando pur suo malgrado il tempo più lieto; ogni uomo involontariamente veglia a qualche estinto: buon per lui se il suo fantasma serba la dimora nelle regioni della mente e non s’insediò nell’animo; tanto più si cruccierà ad aggirarvisi attorno, ed a scuotere i veli eterni che lo ricoprono, quanto più gli è intimo e confidente.

Ogni tempio ha il suo altare, ogni petto il suo mistero, ogni cuore un sepolcro; altare di memorie, oracolo d’ispirazione, sepolcro di resurrezione.

Senonchè, dei fantasmi non dileguati appieno e rifuggiati a vivere nell’uman petto, alcuni sono destinati a finire una volta col cessare dei sensi che prestano loro, per così dire, l’estremo alimento; altri, di natura [8] infinita, seguiranno lo spirito nell’eterne peregrinazioni, e di libera vita indissolubilmente congiunti rivivranno eterni.

Verrà il momento infatti che si perderanno come in notte perpetua le voci de’ compagni d’avventura, le impressioni d’uno straniero abbraccio; ma riappariranno più consolanti le redivive sembianze materne; risorgeranno tutte le sacre memorie di lei tanto pianta, e che per brevi giorni parea avesse abbandonato in terra il frutto d’un amore onnipotente, l’alimentato del suo seno, il figlio!

Così le memorie e le voci de’ nostri interni sepolcri, altre si spegneranno come fiamme dall’altrui forza alimentate, altre di propria vita rinnoveranno, a interminabile gaudio o ad eterno supplizio. I riflessi del divino foco della carità riscalderanno sempre lo spirto che in essi s’imparadisa; le gelide ombre del rimorso non si staccheranno mai dall’anima in preda alla disperazione.

Ogni uomo dunque in sè stesso memorie eterne conserva; ed altre finite, che consumano colla terrena esistenza, e ch’egli deporrà nella tomba con quanto di corruttibile è costretto a lasciarvi.

Quivi si perderanno tanti de’ suoi ricordi pur geniali ed amati; tante di quelle ingenue visioni che pure dolcissime e costanti deliziarono i suoi sogni; tante semplici ma care memorie che forse dalla infanzia lo accompagnarono pel cammin della vita con vaga distrazione, con soave ricreamento.

Imperciocchè, v’hanno de’ sepolcri, are di fede, in cui arde la fiamma sempiterna; intorno ai quali alieggiano vivi gli spiriti, a ispirazione e conforto; di questi è la tomba materna.

[9]

Ma v’hanno ancora de’ sepolcri vuoti e scialbati, attorno ai quali non guizzano che fatue fiammelle, leggere come la brina, effimere come il crepuscolo: e questi sono i ricordi d’una bellezza, d’un plauso — un cane — una stanza — io ricordo il mio canto.

Il Canto! — linguaggio degl’angeli: profumo dell’anime; rivelazione de’ loro tesori.

Senonchè, qualora una passione viva entro ti muova, eloquentemente potrai analizzarla; — la tua descrizione porterà i colori della vita, la natura nella sua bellezza. — Ma affannandoti attorno ad una morta, oh Dio! qual prostrazione, quale stento; e non ritrarrai che un cadavere.

Eppure, anche le squallide traccie dell’estinto tornano care e preziose a chi vede null’altro rimanergli di quelle care e perdute sembianze.

Le funebri nenie ridestarono il coraggio, spinsero all’eroismo, e dovevano far rivivere i morti nella patria delle melodie.

Pingasi dunque, anche cessata che sia la ispirazione, anche alla pallida luce della rimembranza.

[11]

PARTE ANTICA.

I.

Origini — Primi Compositori — Elementi del Canto.

L’armonia che dal cielo, dalla terra, dalle onde, traspira — la vasta ed arcana espressione delle umane e delle divine cose — gli antichi compresero nella magica parola di Musica.

Ermète la definì, conoscenza ed ordine di tutte le cose. Pitagora e Platone insegnarono essere una musica l’Universo.

Ho altrove mostrato[1] e ripetendo qui mi giova premettere che, Pitagora, il genio della metempsicosi, il filosofo che intendea le anime formate dalla armonia, colla quale volea farne rivivere le facoltà, come dalle armonie celesti le credeva in terra nelle singole anime primieramente raccolte, fece nella Magna Grecia le sublimi sperienze di ridonar la salute e la vita coll’arte divina che i primi fisici e savj impiegarono a calmare i dolori, a sperdere i malinconici filtri, a frenare i deliri, a ricostituire l’ordine, la calma nelle commosse menti, nelle fibre alterate.

E forse per questo, l’antica Indiana sapienza ritenne la musica di origine divina, come la parola.

Per questo, ed è mio pensamento, in tanti paesi dell’Indie professano i popoli sommo culto al loro animale l’elefante, che all’utilità de’ suoi servigi associa [12] l’istinto speciale di farsi meglio pieghevole e più intelligente alla forza del canto; onde anche in oggi gli Siamesi addomesticano con questo mezzo quegl’animali, e li solleticano ai più fecondi loro accoppiamenti.

Di tanto bene, di questo strumento il più perfetto e insinuante alla espressione delle armonie, a Brama, loro Dio, gl’Indiani attribuirono la invenzione; nelle sacre carte ne riposero la dottrina; e col sanscritto, lingua religiosa, trattarono le cose musicali.

L’essenziale di questa divina emanazione riconobbero nella virtù del canto; e la prima parte della sacra legge musicale è Gana, cioè il canto.

Per questa divinità, immutabili sono i sistemi dei canti Bramini, come quei di Confucio, che però non son privi di melodiali dolcezze, tramandate dalle più remote generazioni con sempre nuovo affetto, e colle passioni della vita e della parola.

Il Yo-King, antichissimo codice de’ Cinesi che andò perduto, conteneva i cantici ispirati dalle loro divinità «i vivi sospiri, le lamentevoli esclamazioni in cui la parola, troppo insufficiente, naturalmente prorompe, formando suoni in cadenze, canti pieni d’armonia[2]

Quindi Confucio, che insegnava a suo figlio non poter parlar bene senza saperne di canto; e i suoi seguaci autori dei famosi libri diventati la dottrina de’ savi, consacrarono l’accentuazione e la ritmica della parola, siccome immagine delle delizie celesti, esorcismo alle influenze malefiche, scandaglio alle inclinazioni [13] de’ popoli, sollievo alla fatica dei coltivatori, condimento alle mense, calma alle agitazioni del polso[3], e in pari tempo regola della morale: ond’è che la musica tien sì gran parte nella coltura Cinese[4].

Per questi antichissimi insegnamenti, anche Platone, nel suo Protagora, mise il Mélos nel semplice discorso, significando con ciò il canto della parola, e quasi il mele (μἐλι) che discorre da essa; ed asserì che i suoni della musica, a seconda dei loro gradi e delle loro vibrazioni portano o le virtù od i vizj contrarj, nè si potrebbero cangiare senza alterare in un tempo la morale costituzione.

Aristotile, eterno contradditor di Platone, a quei sensi pur non si oppose; e seco lui si mise d’accordo per la potenza della musica sul fisico, sull’indole e sui costumi.

Polibio, col suo far giudizioso, provò come ad addolcire le tendenze degli Arcadi abitatori di tetri climi e gelati, impiegasse la musica: quelli di Cyneto che tanto bene negligentavano, sorpassavano in crudeltà tutti i Greci.

Orfeo, col canto non giunse a commuovere i sassi?... Non furono tratte le anime dall’Averno, e come crede Macrobio, a forza di canti non furono ricongiunte all’origine delle musicali dolcezze?...

Quest’arcana modificazione della voce umana con cui formansi suoni variati ed apprezzabili, è una delle prime espressioni del sentimento, che ci diè la natura.

[14]

Egli fu per mezzo dei differenti suoni della voce, che gli uomini ebbero primamente ad esprimere le differenti loro sensazioni. La natura lor diede quei suoni per tradurre esteriormente i sentimenti di dolore, di gioja, di piacere che internamente provavano, come pure i desiderii e i bisogni da cui erano mossi. La formazione delle parole successe a questo primo linguaggio. L’uno fu opera dell’istinto, l’altro fu un seguito delle operazioni dello spirito. Veggiamo infatti gl’infanti, soddisfando al bisogno di questa speciale ginnastica, esprimere le diverse situazioni del loro animo con suoni flebili o acuti, tristi od allegri: e per questo linguaggio que’ piccoli esseri vengono da tutti compresi, perchè quello appunto è espression di natura; mentre allorquando giungono que’ fanciulli ad esprimersi colle parole, non sono intesi più, se non da quelli della medesima lingua, essendo le parole convenzioni speciali che ciascuna società o ciascun popolo seppe formarsi.

Sono ben lungi adunque i suoni della parola da quelle leggi di armonia universale che formano i suoni del canto; e benchè difficilissimo torni il precisare in che consista una tal differenza, pure convenir bisogna che, dalle inflessioni della voce parlante non scorre quell’armoniosa corrente; e le permanenze ne’ suoni che formano la parola, se valgono alla potenza di questa, non bastano alle manifestazioni sublimi del canto.

Difficilissimo altresì è assegnare il principio di questa bella forma di espressione, ossia, definire, come disse il padre Merçenne, quo momento Cantilena incipiat. Imperciocchè qualsivoglia canto essendo omogeneo e della medesima natura in ogni sua parte, non v’ha [15] suono a cui la natura della Cantilena non convenga, per modo tale che non sapresti se questa sia al suono anteriore[5].

Ingegnosamente s’intese provare questa proposizione il dottore sant’Agostino, al lib. Confess. cap. 29, che vago di penetrare i più alti misteri, anche alla natura del canto rivolse i suoi studj, ponendo la tesi che: nessun’altra cosa che il suono potea precedere a tal linguaggio; come nella eternità, Dio sta innanzi a tutto; nel tempo, il fiore precede il frutto; per elezione il frutto al fiore; per origine il suono al canto. Dei quali quattro asserti, ei soggiunge, mentre i due medj sono chiarissimi, il primo e l’ultimo difficilmente s’intendono.

Perocchè se il canto è un suono formato, non essendo stati emessi ne’ primordi che suoni informi e senza canto, questi in seguito a migliori forme esser doveano accomodati, e formati quindi, come de’ legnami rozzi si fabbrica l’arca[6].

[16]

Eppure non è il suono artefice del canto, il quale vien tratto quasi da quella prima materia per la potenza dell’anima del cantore; onde giustamente non si può dire che il suono sia prima del canto, mentre ambidue simultaneamente cominciano; e quello che è suono nel primo stadio, se nel secondo momento canto si appella, non lascia d’essere contemporaneo d’origine, siccome parti indivisibili d’un solo tutto.

Secondo le profonde definizioni Agostiniane si avrebbe dunque quasi una nuova triade, distinta nel suono, nel canto e nello spirito, e procedente nella medesima natura e sostanza.

Senonchè diversi suoni, partes cantilenae, doveano concorrere alla formazione del canto, come il discorso di molte parole, plura Commata, di certi periodi e frasi, è composto.

Così i due linguaggi procedettero alla loro perfezione; e vennero l’uno a l’altro scambievolmente in ajuto, senza che mai stabilir si potesse una rispettiva priorità o dipendenza: che mentre talvolta la parola ispirò il canto, questo non meno alla parola fu ispiratore.

Bacchio insegna nell’Isagoge, come i Greci definito avessero il canto una dolcezza.

Virgilio addimostra come i Latini lo dicessero un incanto con cui vincevansi anche le serpi — cantando rumpitur anguis — e ritennero tale significato in quel nome, le razze che dai latini discesero[7].

Apulejo trova perenne un tale incanto nella natura. Mattutino lo attribuisce alle rondini; meridiano [17] alle cicale; serotino alle nottole; vespertino alle ulule; notturno ai gufi; antelucano ai galli; i quali, egli dice, ci augurano e ci ammaestrano al risveglio; come il gufo al canto tremolo, l’ulula al lamentevole, la nottola all’avviluppato, le cicale e le rondini allo strepitoso e all’acuto.

Rodigino seguendo le nozioni degli antichi autori, quali Polluce, Luciano, Ateneo, nota cinque principali specie di cantilene formate dagl’uomini primitivi: moderata (Sophronisticen) quale usava il cantore di Clittenestra; encomiante (Encomiasticen), modo celebrato d’Achille; lugubre (Threnetricen); danzante o saltatoria (Orchematicen); inneggiante quale Omero volgeva ad Apollo (Peoniam), a scongiuro de’ mali e quasi medicatrice[8].

Ma se tali distinzioni valsero anticamente a specificare certi canti più celebri, non a questi soltanto s’attenne quell’innato linguaggio universalmente concesso.

Una delle migliori definizioni esplicanti la natura e la generalità di questa umana potenza, è quella dataci dal suaccennato Mercenne alla sua 2.a proposizione.

«Cantus est modulatio seu flexus et transitus vocis a gravi in acutum, vel ab acuto ad grave per intervalla concinna et harmonica, qui aptus est ad animae laetitiam, dolorem, aut alium affectum exprimendum, vel commovendum.»

Io credo inesplicabile altrimenti questo grande e naturale istinto, che poi divenne l’Arte di esprimere colla voce i sentimenti; quindi l’interprete della parola.

[18]

E più che la parola, fu legame validissimo d’intelligenza fra l’uomo e quegli esseri che non possedono la parola; in ogni tempo il cacciatore, che fu il primo a provvedere alimenti, attira ed arresta i volatili imitando i loro canti; alletta e prende i cervi col canto; e con questo, modulato nel zuffolo, le renne; oscillato sulla zampogna, gli orsi; rinforzato nel cavo d’un corno, ammansa il buffalo e l’elefante, educa il cane, richiama lo sparso sciame delle api; col canto fa sopportare le fatiche e la fame ai cammelli lungo gl’infuocati deserti della zona torrida, ai muli sulle dirupate alture della Sierra Morena; disarma la rabbia dei crotali americani e d’altri rettili formidabili, mentre alcuni di questi con simile mezzo avvisano l’uomo alla fuga dai velenosi loro morsi, o gli fanno presentire le convulsioni della natura; e nei mari Siculi e Corsi i pesci perfino meglio armati di seghe e di spade, seguono docili e improvvidi le barche sirene che colla cantilena continua apprestano loro le reti.

Fra gli Oceanici si può dir linguaggio comune e continuo il canto de’ selvaggi e degli animali, forse di quelli più semplici e istrutti: nè fa maraviglia, se ricordiamo che i colti Latini al conticinio e gallicinio affidavano la divisione delle ore, e, secondo Tito Livio, da simile canto, più che altro[9], riconoscevano la salute di Roma.

Miracolosi per la divinazione migliore di questo linguaggio, gli Asiatici ebbero i loro Ling-lum, i Kovei, i Pin-mu-kia, che trassero la parola dagli accenti del canto.

[19]

Questa voce naturale, comune, indefinita, fu prima ristretta dagli uomini dei varj paesi all’espressione di certe parole, s’unì a regole quasi uniformi, e perdette allora una parte della sua forza: che la parola significando da sola l’interno moto da esprimere, l’inflessione della voce diviene meno necessaria, e quindi anche in questo la natura riposa dove l’arte supplisce. E questo canto modificato è l’accento, più o meno marcato secondo i vari climi, secondo l’indole e le abitudini degli animali dalla parola.

Trovata questa, quegl’esseri che già possedevano il canto, se ne servirono per esprimere in maniera più viva il piacere e la gioja. Tali commozioni dovevansi pingere necessariamente nel canto con maggiore vivacità delle sensazioni ordinarie; quindi la differenza che passa tra il canto di comune linguaggio e il canto musicale.

È naturale il credere che il canto degli uccelli, le voci diverse degli animali, i varii suoni cagionati dai venti, l’agitar delle fronde, il mormorare delle acque, indirizzassero primamente a regolare i differenti tuoni della voce umana. I suoni erano nell’uomo; egli intese cantare; colpito dall’impressione degli esterni rumori, pei sensi e per l’istinto fu tratto all’imitazione. I concerti di voce furono dunque i primi. Quelli degl’istrumenti successero poi, e questi furono una seconda imitazione; chè in tutti gl’istrumenti conosciuti, fu la voce che si volle imitare.

Le filature, i gorgheggi, le risposte, gl’intervalli, le pause, il solo ed i cori, s’intesero prima fra il verde de’ boschi e l’azzurro de’ cieli; il garrito, il lamento, il rimbombo si sparsero per le valli; e mille organi differenti di voci, intuonarono canti più o men [20] melodiosi, cui le caverne e gli spazj aggiunsero i risuoni, le gradazioni, le sfumature, il perdersi dell’ultime note. Bene espresse Lucrezio cantore:

«Ad liquidas avium voces imitarier ore

Ante fuit multo, quam levia carmina cantu

Concelebrare homines possint, aureisque juvare;

Et Zephyri cava per calamorum sibila primum

Agrestis docuere cavas instare cicutas.»

Dell’êco boschereccia è imagine il canoro Parnaso che fa pallidi di sua ombra gli abitatori; dell’armonioso gorgoglìo delle acque sono emblemi le cisterne di quel sacro monte in cui bevve la musa[10]; e le incantatrici Sirene dell’oceano e delle sfere furono sempre quelle che — disiando, qual di fuggir, qual di veder lo Sole, andarono — cantando, come donna innamorata.

L’antichità simboleggiò questa origine del canto in quel Lino, cui ne attribuì la invenzione, facendolo discendere da Giove padre dell’Universo, e in più stretta parentela legandolo con Apollo genio della Poesia, con Urania figlia del Cielo, Nettuno signore del Mare, Tersicore dea delle Danze, Diana preside ai Boschi, quasichè di tutte queste divinità vestisse natura, e sortisse le ispirazioni.

E Giove, non sarebbe quel Giubal che nella più remota tradizione dell’Asia, ritenuta 5307 anni da noi, fu creduto padre e maestro di quelli che cantarono il Kinor e l’Ugab[11]?

Quel Lino poi, primo maestro, formò al canto [21] Orfeo, il quale ebbe discepolo Museo, cantore e profeta, che estese la bell’arte da meritare che per lui forse Musica si addimandasse.

Dal suono che rendevano le canne cresciute sulle rive del Nilo, quando i venti le cospergeano di arena, Diodoro deduce la prima idea della musica, che vuol d’origine egizia[12]: come altri ne traggono i primi sperimenti dai superstiti del diluvio, che dalla confusione degli elementi e nell’ebbrezza del salvamento, appresero a intuonare inni e lamenti.

Voci a intervalli e suoni accordanti, dissero Aristoxene e Quintiliano la musica. Il discorso delle Ore (orologio) e le voci ordinate delle Stagioni attorno il carro del Sole, furono i primi mitologici emblemi del regolato linguaggio che si disse il canto della natura.

Infatti i primi scopritori d’ignote terre, intesero nei vergini abitatori i primitivi accenti naturali, il canto innato e di comune linguaggio; ed ivi pure quel canto musicale che dalla grande scuola del creato traeva; per cui colla vaga imitazione dei genj canori dell’aria, o coi fischi e colle strida ferine, secondo che i selvaggi volevano esprimere la soddisfazione o il coruccio, que’ primi visitatori furono accolti. E col canto, le seducenti carolle o le ridde infernali.

S’inganna Rousseau se non li comprende e se li paragona ai mutoli infelici cui l’organo vocale non risponde, come ai ciechi brillano invano i colori dell’iride.

Ben s’appone invece quel filosofo allorquando conchiude che, se pur la parola non avesse cominciato dal canto, è certo, almeno, che si canta pertutto ove si parla.

[22]

E come col dirozzamento de’ popoli, coll’acquisto di cognizioni e col sociale progresso, ampliavansi i mezzi di esporre i sentimenti e i pensieri, e modificavasi il canto naturale fino a cangiarsi in discorso; così, presso ogni popolo col lungo andare del tempo, anche al canto musicale s’aggiunsero i ritmi, e si ridusse ad arte ciò che prima era stato dato dalla natura.

Siccome poi tutto ciò che vien da natura imperiosamente s’impone a chi ne sente l’istinto, così non avvi cosa all’uomo più naturale del canto stesso musicale; stilla anche questa di refrigerio alla sua agitazione, mistica provvianda lunghesso il cammino, disfogo alle sue piene, conciliazione a’ suoi sonni, sollievo costante che l’istinto gli suggerisce per addolcire le pene, alleviare le noje e gli stenti della vita.

Ecco dunque i primi figli del dolore e della vendetta che cercano il sopore ai loro mali nel canto. Henoc e Jubal-cain fanno parlare la Genesi (Cap. IV) dei loro canti che risuonano in Nod, dalla parte orientale, lungi dall’Eden. — Labano quindi lamenta in Gallaad, coi canti, il rapimento furtivo delle figliuole (Gen. XXXI). — E da quelle età remote in poi, il pellegrino lungo la via, il colono nei campi, il marinaro sul cassero, il pastor fra le greggi, l’artigiano nell’officina, cantano tutti quasi macchinalmente; e le fatiche sono interrotte, e la noja è scomparsa.

Il canto consacrato dalla natura per esilarare lo spirito, distrarlo dalle pene, e compensarci del retaggio di pianto d’una faticata esistenza, impiegato che fu poi a manifestare la gioja, servì ben tosto a celebrare le azioni di grazie cui l’uomo sentesi tratto verso alla Divinità. — La riconoscenza rese omaggio all’Essere supremo coll’espressione più bella; l’amore quindi [23] usò il linguaggio della natura per espandere la sua tenerezza; e se ne valse infine alle lodi de’ suoi eroi, al clamor dei trionfi, all’ebbrezza delle feste, e pur troppo! all’adulazione dei grandi.

Un grande pensatore vivente, Herbert Spencer, crede che la cadenza del linguaggio primitivo delle passioni umane, abbia generato la musica[13]. Darwin, suo compagno, vuol anzi precisare che alla passione d’amore principalmente devonsi le note ed il ritmo acquistati dai nostri progenitori per sedurre il sesso opposto; e lo prova, raccontando le giostre d’amore che fanno alcuni augelletti per via del canto, fino a morir dalli sforzi di voce, aspettando che la femmina celata fra le fronde conceda la palma al più abile e costante gorgheggiatore.

Tratte da diverse sorgenti, mescolaronsi la musica e la poesia; quindi i sacerdoti dell’una e dell’altra si confusero col nome comun di Cantori.

Lieti gli uomini del loro viatico natural di conforto, nell’armonioso teatro della natura, non tardarono dunque rivolgere il loro canto al Creatore: ed ecco Noè innalzare l’odor soave d’allegrezza innanzi all’Arco di riconciliazione. Mentre il suo contemporaneo Fo-Hi, gran padre e signore Cinese (ritenuto da alcuni il Noè medesimo), liba egli pure con acute voci, e donatore a que’ popoli della cetra, ne ingemma i tocchi di cantabili accenti.

Ecco Giobbe nelle piagnolose cantilene disfogare l’amarezza delle sue sventure; e con quelle — più che pietoso fare stanco il cielo. —

[24]

Ecco Moisè cantore, sulle sponde del mar Rosso, che scioglie il più famoso Inno di grazie; Giosuè coi cori e colle trombe attorno le mura di Jerico; Debora profetessa rinfuoca il sentimento nazionale e religioso coi canti mandati di sotto alla palma del monte di Efraim, ove rendeva giustizia; i tre fanciulli ebrei sfidano il tiranno col canto dalla fornace di Babilonia.

Ecco David il componitore delle soavi canzoni d’Israele (Samuel, 2, XXIII), che tripudia nelle feste dell’Arca del patto; Salomone che sviene d’amore nel Cantico.

Nell’Egitto e nella Grecia i primi canti conosciuti furono versi in onor degli Dei, modulati dai poeti medesimi.

Adottati ben presto dai Sacerdoti, addivengono rituali; e quindi il simbolico Osiride risponde e promulga le leggi col canto.

Anfione fabbrica Tebe cantando sulla cetra; e figura così l’armonia delle parti, e consacra ad Apolline, dio della massima scienza, quel suolo, onde poi Crissei e Focesi che lo profanarono, nella guerra indetta dagli Anfizioni furono sterminati.

Secondo altri, è Cadmo venuto di Fenicia e salvato dalla Corte di quel re, che stabilisce in Tebe il suo regno, ma seco adducendo siccome sposa, la canora Ermione, od Armonia, colla quale spiega gli oracoli, sfida i destini, e apprende la bell’arte alla Grecia e all’Illirio.

Musèo si fa cantore e profeta.

Femonea e le Pitonesse seguaci, cantano in Delfo i versi pronunciati dall’Oracolo. Quindi son versi le sentenze de’ filosofi, i detti dei legislatori che si cantano per le vie della Grecia, affinchè meglio s’imprimano nelle menti e nei cuori.

[25]

A innalzare poi i lamenti di pietà e le lodi ai Superni, s’unisce il popolo; e alla guida dei poeti e dei sacerdoti meglio s’informa del canto, originando il concerto ed il coro.

Ma unire in coro le voci fu antica usanza anche degli Egizj, sia per le deprecazioni, e sia nei tripudj.

I Miti poetici e religiosi se spargono vivi raggi di luce nella oscurità dove la storia non giunge, non devono peraltro escludere il sussidio della savia induzione, che procedendo per fatti incontestabili, è valida altrettanto a illuminare per ignote regioni; e per questa, più che a tante Deità inventrici, dobbiam prestar fede all’opera della imitazione nelle discendenze e nelle migrazioni de’ popoli. È probabile infatti che anche i Greci come gli Ebrei, derivassero in gran parte le costumanze dal popolo che più profondamente d’ogni altro si perde ne’ tempi.

È fatto irrecusabile che l’Egitto fu prima culla dell’arti e delle scienze. Se Diodoro di Sicilia potè assicurare che gli Egizj teneano la musica come arte frivola e pregiudicevole, ei non ebbe a dir tanto del canto: ed anche ai riguardi della musica, altri autori non meno di Diodoro stimabili, affermano anzi che Mosè e Pitagora l’abbiano appresa da loro.

Erodoto, Platone, san Clemente d’Alessandria, ed altri, vollero che l’asserzione di Diodoro non si dovesse ammettere senza restrizione, e che solo intendere si dovesse, come l’antica sapienza certo genere di musica ritenesse corruttore, o l’abuso dell’arte spregievole. Limitazioni consimili applicavansi ad ogni disciplina che influenzare potesse sui costumi, e sui principj caratteristici di quella nazione.

D’altronde, Diodoro medesimo conviene che la [26] indifferenza per la musica presso gli Egizj non era generale, e che Osiri l’amava moltissimo.

Dalle spiegazioni poi di Strabone, che, ammettendo il divieto a que’ popoli d’usare istrumenti nelle cerimonie di religione, assicura vaga e bene istrutta la gioventù egiziana de’ vari canti stabiliti, è giusto inferirne che le leggi sospettose e restrittive non riguardassero che l’uso de’ musicali strumenti, ben noti agli Egizj, come lo provano le dipinture antichissime di Palestina e di Ercolano; e che non dovevano turbare la serenità delle giubilazioni e delle preghiere affidate alle espressioni delle voci; legge da altre religioni imitata.

Non patirono certamente divieto le coltissime madri egiziane di porgere il nutrimento di vita ai loro figli insinuando loro nel tempo medesimo il primo educamento gentile colle melodie della propria voce, come poscia tutte le madri e nutrici acquetarono i loro bimbi colla dolcezza del canto.

Quali poi fossero i canti egiziani è supponibile, ma non è constatato: nè vale per questo congetturare con l’ab. Roussier sul musicale sistema a loro attribuito.

Fatto è che cantavano nelle feste, ne’ funeri, e ne’ sacrificj. La storia degli Ebrei, sortiti di Egitto, chiaramente lo conferma; ed essi medesimi, che da altri non aveano potuto apprenderlo, piamente o scelleratamente lo mostrano, invitati da Mosè ne’ trionfi, o condannati se fra canti e balli idolatri li discopre attorno il vitello d’oro al suo discendere dal Sinai.

Nella gran terra poi dove la poesia ebbe il maggior sviluppo, e a cui fu dato il merito sommo di averla mirabilmente al canto sposata, Siagro sarebbe [27] stato il primo a cantare in versi la celebre guerra di Troja. Quindi Omero, principe della poesia greca non solo, ma una delle più splendide glorie musicali, perchè compositore, maestro, sonatore e cantante.

Infiammato il popolo alla voce de’ suoi grandi cantori, meglio che quel d’Israele, spinto da felice natura, ed educato da tanti filosofi, nel cui studio fu primo Pitagora, coltivò sovranamente quest’arte.

I guerrieri non potean dirsi completi se non erano valenti anche nei canti; quindi Tirteo insegnò quelli per cui Sparta e i Dori infiammavansi prima d’uscire alla lotta.

Il forte Achille cantò sulla nave dei Mirmidoni, e frenò col canto la giusta sua ira contro Agamennone che Briseide gli avea rapita. Alcibiade tornò fra i Cantori dall’esilio, mentre accompagnavano il coro i tonfi de’ rematori.

I Greci che introdussero le feste teatrali, le corse de’ cavalli e de’ carri, ignote agli Egizj[14], perfezionando col loro ingegno anche i musicali istromenti, poterono renderli compatibili al canto, associarli alla musica vocale, ed introdurli nelle festive e religiose cerimonie, non però senza difficoltà e corso di tempo; mentre quegli utensili sonori di cui gli Egizj ci lasciarono traccie ne’ monumenti (il pholiux, il timpano, il sistro, la tuba), benchè dovuti alle invenzioni delle loro Deità, poco gradevoli, come lo dimostra Claudiano, non potevano essere ammessi almeno da sacerdoti all’accompagnamento dei riti.

È probabile che per primitiva imitazione soltanto, l’istesso Pitagora s’abbia acquistata fra i Greci la [28] fama di scopritore di quella corda con cui misurava gl’intervalli de’ suoni (che anticamente erano soli quattro, non considerando gli altri che come ripetizioni); e similmente Tepandro e Timoteo, pei loro miglioramenti introdotti a quell’arnese musicale: così Telefano di Samo ritenuto inventore del flauto; ed Erodoro primo autor della tromba, a sussidio de’ greci canti.

Basta accennare che il re africano Jopa, perito nelle scienze della natura e nell’arte del canto, ben prima di Pitagora accompagnandosi cogli accordi di quell’istrumento svelava le vie de’ cieli dai lidi fenicj.

Ma non tardarono anche gli Egizj a valersi dei perfezionamenti greci, appena giunsero a conoscerli, e col solito ricambio d’arti e di costumi, il regno dei Tolomei accolse i riformati cantori; onde nella gran festa di Filadelfo, descritta d’Ateneo, perfino seicento persone d’ogni nazione formarono un coro, trecento delle quali erano e cantori e citaristi.

Ivi pure, i re medesimi finirono abbandonandosi ai nuovi canti; e l’ultimo de’ Tolomei di star fra i cantori era vaghissimo.

Con egual costume fra gli Ebrei, appena Samuele, secondo le sacre carte, fondò una scuola compendiante in allora la poesia nazionale e la musica, i re ne addivengono in uno ed allievi e protettori: Saule infiamma i suoi guerrieri coll’arpa e col canto; Davide regola un coro di quattromila cantori, tre maestri del Santuario, e duecentottantaotto pei Leviti, convocando, consigliando, e ordinando che ogni Nazione lodasse Iddio con suoni e canti (Sal. 93, 97)[15].

[29]

Salomone suo figlio e successore, secondo afferma Giosefo, si fa capo di duecentomila stole di lino, o cantori, che impiega nella dedicazione solenne del suo gran Tempio; massa corale non incredibile, se si pensa alle condizioni di quel popolo, di que’ canti, di quelle abitudini, e se in oggi riscontransi gli enormi concerti degli Oratorj biblici Handeliani che riproducono l’Israele al Cristal-Palazzo di Londra.

In Grecia dunque, dove primamente vennero tali cori ordinati, troviamo Esiodo farsi capo d’una intera scuola di cantori: la prima che dalle storie ci apparisca, e formata in Beozia.

Resta però sempre comune il canto e indipendente nel popolo alla semplice scuola della passione, al richiamo del riso, all’espressione della esultanza; e la prosa cadenzata dei mimi diverte anche nel monodramma.

I poeti vestirono di nuove forme la parola, perchè al canto meglio s’attagliasse. I Greci infatti non ebbero poesia che non fosse al canto obbligata. La lirica cantavasi con accompagnamenti istrumentali: onde fu chiamata mélica. Il canto della poesia epica e drammatica era più sobrio d’inflessioni, ma non era meno per questo un vero canto; e tutti gli scritti degli antichi intorno alle loro poesie incontrastabilmente lo provano.

Bene argomentò in proposito M.r De Cahusac, insegnando doversi prendere nel vero e letterale lor senso le parole con le quali Omero, Esiodo, ed i classici e più antichi cantori iniziarono i loro poemi. L’uno invita la sua Musa a cantare i furori d’Achille; l’altro canta le Muse stesse, perchè le loro opere non erano fatte che per esser cantate.

Così fra poeti ebrei, nel medesimo Cantico dei [30] Cantici, attribuito a Salomone, e che qualche autore pretende altro non sia che l’epitalamio delle sue nozze colla figlia del re d’Egitto, mentre i teologi lo dimostrano siccome emblema d’altra mistica unione, il sig. De Cahusac non vede che un’Opera perfetta e ammirabile; le scene, i recitativi, i duetti, i cori non vi mancano; ed egli non dubita che non sia stata rappresentata tale Opera cui propriamente si diè il nome di Cantico.

La espressione di questa parola canto, nella poesia, non cominciò diventare figura che più tardi, presso i Latini, i quali serbando l’effettivo canto alle tragedie e a qualche oda, introdussero per le altre poetiche composizioni il recitativo.

Vere e naturali canzoni erano quelle di Lino e di Orfeo, e quelle di Erifano che seguiva le traccie del cacciatore Menalca. Canzoni quelle che l’antico greco, cui furono nutrici le Muse, insegnò primo in Beozia, e che il cieco suo rivale sposò alla magica lira. Canzoni, le gravi monodie di Stesicore, e gli epitalamj di sua invenzione[16]. Canzoni, i melanconici racconti delle greche donne sulle avventure di Calice morta d’amore per l’insensibile Evalto, e delle figlie del loro re Pandione sfuggite al seduttore Tereo colle penne de’ più vaghi uccelli cantori; le istigazioni vendicative e sconcie di Tespi; gl’inviti bramosi di Sileno e di Bacco; le odi argute e immaginose d’Anacreonte, e quelle sublimi di Pindaro le poesie appassionate e ardenti di Saffo, e quelle della giovane Erinna sua discepola e amica (600 an. av. Cristo). Veri cantori tutti i lirici poeti; come [31] i Coreisciti fra gli antichi Arabi, custodi del santuario nazionale (Caaba) e delle nazionali tradizioni, dalla cui tribù poi nacque il cantore e veggente Maometto (571 dopo Cristo).

Vero canto l’antico linguaggio quando servir dovea alle più vive o alle solenni espressioni. — All’aprir dei banchetti, all’accompagnamento delle danze, all’elogio della virtù, al lamento delle sventure, alla separazione dai defunti, gli antichi usarono il canto.

E da queste unioni che ci descrissero Dicearco, Plutarco, ed Artemone, si può riconoscere la formazione dei primi Cori.

Lo studio della Corodia divenne quindi parte precipua nelle greche Scuole, sia per raddolcire i costumi dei giovani; sia per informarli delle sacre dottrine e delle patrie storie, dai sacerdoti e poeti descritte nei Canti; sia per l’igienica vista di concorrere anche coi polmonari esercizj al fisico sviluppo ed equilibrarlo a quello mentale, secondo il sistema de’ loro Gimnasj[17].

Dalle invocazioni che gli antichi greci innanzi di porsi ai conviti, uniti insieme e d’una sola voce rivolgevano alla Divinità, traggono origine, come opina La-Nauze, i primi cantici sacri.

Infatti i greci davano questo nome a certi monologhi appassionati delle loro tragedie, che si cantavano sui modi ippodorici o ippofrigi (Aristotile)[18].

[32]

Nelle feste, i cantori tenevano in mano un ramo di mirto.

L’accompagnamento della lira s’introdusse più tardi; — Tepandro ne fu l’inventore: — per la qual moda, tanti inesperti a trattarla vennero esclusi d’infra i cantori; e le canzoni si fecero più difficili (Plutarco) — e le pose dei cantori più irregolari (Artemone).

Non cantarono che i conoscitori della musica; da ciò, più finita la esecuzione — l’espressione men naturale — dubbio l’effetto.

La primitiva scuola dei canti fondata da Esiodo, cangiossi in una scuola musicale e com’è consuetudine alla comparsa d’ogni novità, e nell’invasione imperiosa della moda, ai modi semplici e primitivi si diè il bando e la beffa; onde a critica dei concerti sgraditi e a dispregio degli esecutori imperiti, tutti quelli che all’organo della voce non accordavano armoniosamente l’oscillazione delle corde, si dissero cantori da mirto.

Precisamente come a nostri giorni, vengono volgarmente distinti dagli artisti o virtuosi teatrali, i cantanti da camera o da chiesa.

Anche gli Ebrei si trovano coi rami alla mano in atto di cantare: così adorne le loro fanciulle corrono incontro al giovanetto Davide reduce dal gigantesco duello in Filistea e in Gerusalemme il popolo canta e festeggia l’arrivo del profeta colle palme d’olivo.

Nell’Asia usarono sempre, come tuttora dalle Indie alla estrema Russia, staccar dalle selve i primi rami e in coro, le giovani specialmente, salutar con essi cantando il rinascere della natura, mistico segno che ben s’attagliava anche alle credenze cristiane.

La prima Chiesa, men disdegnosa e più fedele [33] alle antiche usanze, mantenne il verde ramo ai suoi cantori; ond’è che nelle catacombe tanti depositi trovaronsi fregiati della verde palma, o di quelle intrecciate di olivo e di mirto; simboli della pace che regna sui sepolcri, della speranza che vi alleggia d’intorno, e del carattere nei defunti di cantori; segni, ai quali poi erroneamente o interessatamente si volle attribuito il significato del martirio, per cui le reliquie demarcate da una palma si ritennero tutte di martiri[19].

Ma tornando ai greci novatori che dispregiavano i semplici cantori da mirto, confessarono essi medesimi la difficoltà e la minore naturalezza dei canti fatti dipendere dallo stento e dai vizj degli strumenti, chiamando col nome di tortuose (scolies) le canzoni alla lira obbligate.

Ed anzi Timoteo da Mileto che, dopo trecento anni da che Tepandro avea introdotta la lira all’accompagnamento de’ versi, osava estendere i servigi di questo istrumento accrescendolo di quattro corde, fu condannato.

Perocchè in Grecia, dove riconosceasi la musica propriamente detta, l’arte, qual è veramente, delle emozioni piuttosto che dei pensieri, si riteneva anche quella semplice lirica strumentazione legata in dipendenza alla poesia; così che i poeti erano musici, mentre questi non eran poeti.

Chi era potente d’ispirazione e di voce per accentare i propri versi col canto, era il vero poeta cantore. E un tal canto era sobrio, espressivo, tonante.

[34]

Anche un Pryni, che introduceva innovazioni sue in questo modo di canto, venne biasimato acremente da Aristofane, ligio alle antiche usanze de’ Greci che si limitavano a pochi suoni.

L’esempio medesimo abbiamo dagli antichi biblici, in quel Giobbe che lamenta e condanna la confusione de’ strumentali clamori col canto.

Che se questi consideravano la musica come una maniera essenziale d’accentare la poesia, tennero in primo luogo la virtù del canto per esprimere quelli accenti che dai pochi suoni della musica potevano essere imitati.

Ed anche l’accento, credettero da prima i Greci, doversi circonscrivere nell’intervallo di un solo quarto. Più tardi, i musici cercando la varietà, estesero i suoni della scala e lasciarono intervalli maggiori, e ne nacquero le varie usanze; onde anche il canto a seconda dello stile, dell’indole e della moda, assunse le diverse maniere che, Frigia, o Dorica, o Lidia, s’addimandarono: finchè passando da una maniera all’altra, e queste fra loro intrecciandosi, l’accentuazione musicale prese un’espressione più viva e passionata.

Il canto divenne oggetto di studj e d’osservazioni particolari; e se per sè stesso non ebbe onoranza divina come nell’India, pervenne a nobilissimo culto; e Adraste, vissuto ai tempi d’Alessandro, ce lo ha dimostrato nei tre libri che scrisse intorno alla musica.

Alcuni di quei modi che aveano introdotto tanta varietà ed esagerata estensione nei canti, furono da Platone rifiutati siccome capaci di alterare i costumi; ciò che faceva anche Aristotile escludendo i modi [35] i più elevati; finchè Tolomeo li ridusse a sette soltanto[20].

L’antica filosofia riscontrò nel canto tre indispensabili elementi, onde lo definirono modificazione dell’umana voce — che forma variati suoni — e li determina. Quindi gli accenti della voce parlante, la durata e successione de’ suoni, ovverossia, la parola, il suono e la misura.

Platone ripose la Melodia nel semplice discorso ov’egli intende il canto della parola, la dolcezza dell’accento.

E l’accento, modificazione della voce parlante, fu definito da Sergio, quasi canto; e da Dionigi d’Alicarnasso, seme d’ogni musica.

È un fatto che la diversità degli accenti è la vera causa che rende le lingue più o meno musicali; dal che ne segue che a seconda della loro mancanza, manca la melodia, e la lingua è più monotona, languida e scipita; ammenochè, dice Rousseau parlando delle lingue, quella non cerchi nel rumore e nella forza de’ suoni la vaghezza che non può trovare nella varietà degli accenti.

Rousseau parlando dell’accento patetico ed oratorio, ch’ei lo dice obbjetto il più immediato della musica imitativa teatrale, nota come la melodia speciale d’ogni nazione, sia generata dall’accento della rispettiva lingua. Una semplice differenza d’imaginazione o di sensibilità, ne cagiona una infinita nell’idioma accentato de’ popoli.

Segue Rousseau: «l’Alemano, per esempio, alza [36] egualmente e fortemente la voce nella colera, ei grida sempre sul medesimo tuono: l’Italiano, che mille movimenti diversi agitano rapidamente e successivamente nel medesimo caso, modifica la sua voce in mille maniere. Lo stesso fondo di passione regna nella sua anima; ma quale varietà d’espressioni ne’ suoi accenti e nel suo linguaggio! Il musicista che sappia imitarlo, dovrà a questa sola varietà l’energia e la grazia del suo canto.... E qual sarebbe il rapporto della Musica al discorso, se i tuoni della voce cantante non imitassero gli accenti della parola?...»

Cosa risponderebbero gli odierni sapienti musicisti, all’antica sapienza che facea della parola il primo elemento, il mele, il seme della musica; dottrina confermata da tanti secoli, fino alla perentoria stretta domanda del non antico filosofo e musico Ginevrino?..

Cosa risponderebbero coloro, che van tenzonando nell’abbujato aere della questione, discorso della musica e musica del discorso?!...

Qui vi sarebbe da scrivere un libro, non inutile affatto alla storia del canto, bensì nocivo alla pazienza del lettore, libro che non iscrivo, ma stringo in due sole e recenti risposte.

Il letterato tedesco Alfonso Karr disconosce ogni rapporto fra la parola e la musica, ed impreca a quel barbaro che osò la prima volta porre le parole sotto la musica[21].

Schietta confessione di chi conosce l’indole propria e il proprio idioma negativi al bel canto. Confessione, [37] che ad altri più felici d’indole e di lingua suonerebbe bestemmia, ma che trova scusa nel medesimo esempio premesso dal Ginevrino filosofo, e che giustifica la predilezione che in generale hanno i tedeschi per la musica strumentale adatta al lor genio, mentre provano un certo disdegno per la vocale cui la natura lor si ribella. Confessione confermata dal grande Beethoven che si trovava arrenato le poche volte ch’ebbe a comporre sulle parole.

Non per diversa cagione, ma per questa medesima difficoltà, anche i francesi fino ai nostri giorni sostennero non doversi nei drammi riguardare la musica che quale accessorio: e gravi loro autori, non per deferenza ai nostri, ma per trovare anche in questi un appoggio, fecero il gran merito ad Apostolo Zeno «d’essere stato il primo poeta italiano che abbia insegnato a’ suoi compatrioti questa bella dottrina, dando a loro nelle sue opere un’imagine delle buone composizioni teatrali francesi!»

Dissero questo con la loro boria istintiva, invece di dire che lo stile del Zeno non si presta granfatto alla musica ch’egli teneva com’arte precipua e indipendente, e che consultava e ammirava ne’ genii de’ predecessori Zarlino e Galileo ed in quello del suo contemporaneo Marcello.

L’italiano maestro Carlo Sessa, in un recente suo scritto artistico, mi dà la seconda e più sennata risposta. Egli considera i rapporti morali filologici e materiali tra la Musica e la Parola[22], risponde in primo luogo che questa, «senza restringere e limitare [38] il senso indefinito della musica, le serve di guida e d’indicazione generale e sommaria all’interpretazione del sentimento musicale.» Chiama eresia la negazione della parola cantabile, quanto strano ed orribile che la musica interpreti la parola. Egli dice: «l’uomo esprime i suoi sentimenti sposando la parola al canto. Oh! la bellissima cosa udire la musica intrecciarsi spontaneamente alla parola, l’una e l’altra armonizzando ciascuna juxta naturam suam

Ed ecco il linguaggio di chi conosce questa spontaneità di natura, questa facilità di connubio; ecco la manifestazione di chi si senta figlio alla terra dai dolci accenti e delle felici ispirazioni.

Nei rapporti filologici, il maestro di Modugno riguarda il canto un Discorso modulato; e mostra quindi che la musica da apporsi alle parole deve secondar sempre l’armonia del discorso parlato, rispettando le diverse membrature del periodo, corrispondenti alle diverse inflessioni del pensiero, sicchè una particella della frase del discorso non venga divelta stranamente dall’altra, onde poi il senso delle parole ne venga sfigurato.

Finalmente sotto l’aspetto materiale, la sillabazione ben distribuita, facile e naturale, influisce alla grazia ed alla facilità del canto; l’accento della parola non può contraddire a quello della frase musicale; e corrisponderanno le note alla parola ai riguardi perfino dell’atteggiamento della bocca per non impedire quella forma più naturale e graziosa che meglio d’ogni altra si presta a ben dispiegare la voce.

Analoghe deduzioni già compendiò Aristoxene nella sua distinzione de’ movimenti della voce umana, la quale con quello continuo è parlante, e col movimento [39] diastematico o ad intervalli determinati, non è altro che il canto[23].

Ed anzi Aristide Quintiliano nella decenza e nei movimenti della voce espressiva fece consistere la Musica che per tal modo ei definì, aggiungendo essere questa l’arte del bello.

Dalla antica lira dei Greci, trasse i suoi primi accordi la lira de’ Latini e conseguentemente quella degli Italiani. Il purissimo cielo d’Italia armonizzava con quello della vicina Grecia; il linguaggio era congiunto colla derivazione più stretta; reciproca la fertilità delle menti; trasfusa da un popolo all’altro la civiltà.

Se, pel naturale progresso, o per una sensibilità più squisita, o per le successive invenzioni di regole e modi, la lira italiana giunse a vibrare corde più melodiche e ad esprimere canti più perfetti di quelli dei Lini, degli Orfei e dei Musei, i cui successori non superarono mai le barriere del convenzionalismo e la schiavitù de’ sistemi; non per questo la nazione meglio d’ogn’altra riuscita nell’arte dei canti può dimenticare quella di cui risente l’origine; e specialmente ai riguardi dello storico suo procedimento e sviluppo, deve rivolgere le osservazioni a quegli insegnamenti ed a quelle tradizioni dalle quali educato il suo genio ingrandì poscia di proprie forze, acquistandosi appunto il grado sommo d’onore, il primato invidiato da tutte le altre nazioni e non vinto.

Il filo storico adunque, e dirò quasi la strada maestra lungo la quale conoscere le fasi tutte dell’arte del canto, comincia in Grecia e mette fine in [40] Italia: tutte le altre vie non sono che diramazioni, talvolta nobili e luminose, sovente viottole oscure e impraticabili. Per cui io vò tenendomi alla grande strada, accennando peraltro le circostanti.

Sotto duplice aspetto della fisica e della musica esaminarono gli antichi le teorie de’ suoni, delle cui relative modificazioni stabilirono il secondo elemento del canto. Ritennero riferibili anche ai suoni vocali i rapporti delle vibrazioni fra il corpo sonoro e l’organo uditivo, per mezzo del veicolo indispensabile dell’aria, e considerandone le modificazioni dal grave all’acuto, dal forte al debole, dall’aspro al dolce, e le rispettive durate, stabilirono anche per la voce il tono, la forza ed il timbro. Quindi coi sistemi de’ Monocordi e Tetracordi fondarono le regole de’ Canoni armonici delle divisioni o rapporti degli intervalli, di cui parla specialmente il libro di Tolomeo.

Dal grado della elevazione della voce (tono), dalla sua intensità (forza), e dalla qualità o metallo onde rendesi il suono gradito o spiacevole (timbro), o colorito, trassero gli antichi la loro Rytmopea, che dividevano in tre modi o tropi principali, l’uno basso e serrato, l’altro elevato e grandioso, e fra i due quello dolce e tranquillo, riportandosi sempre ai versi o alle parole destinate pel canto.

Ecco dunque il terzo elemento, il ritmo dei movimenti della voce che i greci applicavano alla parola per trarne l’armonia nella eloquenza, la misura e la cadenza nella poesia; e riguardo al canto l’applicarono al valor delle note, formandone quelle divisioni che s’intesero poi sotto i nomi di tempo e di battuta.

L’isocronismo naturale delle durate, nelle danze, [41] nelle marcie, e l’imitazione di quello degli animali e perfino degli elementi, contribuirono cogli accenti istintivi della prosodia alla formazione del ritmo.

Siccome le sillabe della lingua greca per la quantità e pel valore erano ben determinate e sensibili come in vero più che ogni altra la nostra lingua le imita, e siccome i versi che si cantavano erano composti d’un certo numero di piedi formati da quelle sillabe, lunghe o brevi, e combinate, il ritmo del canto seguiva regolarmente l’andata di que’ piedi e ne era la vera espressione. Dividevasi come quelle, in due tempi, l’uno battuto, l’altro levato; e contavasi di tre o più maniere secondo i diversi suoi rapporti. Così il tempo eguale o dattilico; il doppio, trocaico o jambico, in cui ciascun tempo era ripetuto; il sesquialtero o peonio, durevole per ciascun tempo in rapporto del 3 a 2; e l’epitrito del 3 a 4. Tali ritmi procedeano più o meno lenti a seconda del minore o maggior numero delle sillabe o delle note lunghe o brevi, conservandone però sempre i rapporti, e del movimento che era invece arbitrario nel poeta secondo l’espressione delle parole e il carattere delle passioni rappresentate. Da questi due combinati mezzi nascevano mille altre modificazioni e varianze; cui influivano i piedi mantenuti di una sola specie nelle poesie semplici, o mescolati in quelle composte o miste; l’intralciamento quindi dei versi medesimi che sempre eguali, mantenevano il ritmo uniforme come negli esametri e ne’ pentametri, o ineguale nei jambici, coriambici, ecc. Aveano i silenzj per riempire il vuoto delle sillabe in certi versi mancanti; avevano infatti l’espressione della misura e dell’armonia de’ versi nel ritmo. Vossius, nel suo libro de Poëmatum cantû [42] et viribus Rhythmi, attribuisce a questo tutta la forza dell’antica musica, e soggiunge che l’effetto del ritmo dipende dalle immagini delle cose che rappresenta; e come la melodia trae il suo carattere dalli accenti della lingua, così il ritmo si caratterizza dalla parola di cui è immagine e per la quale agisce, interpretando con essa o per la sua imitazione il carattere melodico e ritmico d’ogni passione.

Or ecco il canto dimostrato siccome parola sonora e misurata a seconda degli interni movimenti o delle impressioni eccitate dalle esterne cose in quegl’esseri meglio capaci d’esprimerle e di spiegarle.

Ecco nella musica vocale un incentivo efficace a studiar la espressione, a migliorare la parola, a riformare la lingua; a modificare la voce, regolandola per la misura, educandola alla sonorità ed alla grazia. E qui nuovo campo d’osservazione ai riguardi della natura e dell’arte.

Fisiologia vocale antica — Organismo — Artificio della castrazione.

A queste osservazioni sulle voci concorsero egualmente fisici e musicisti; notarono le loro diversità, ne cercarono le cause, ne studiarono gli effetti.

Riscontrate le influenze delle origini, delle arie, de’ climi, fino dagli antichi tempi celebraronsi alcuni popoli cantori a preferenza degl’altri; si distinsero le voci virili dalle muliebri, le adulte dalle adolescenti, attribuendo loro analoghe espressioni, impiegandole ai differenti canti.

Ecco gli alti o tenori, gl’uomini di voce acuta; [43] e sopra loro o soprani, le donne e i fanciulli; di sotto invece, le voci grosse de’ bassi.

Facendosi dipendere più che altro dalla natura l’attitudine delle voci pel canto, sembra che s’abbiano poco curato gli antichi di ricercare que’ modi che potrebbero facilitare o perfezionare l’uso di quel dono naturale.

Infatti furono tarde le prime regole a questo fine speciale rivolte; e ben molte scoperte ancora restano a fare sulla maniera più facile, la più breve e sicura, d’acquistare quest’arte.

Rimarrà poi sempre superiore alle umane forze la secreta potenza di produr voce ove in natura non sia, o di ristabilirla perduta, o di migliorarla, con altri mezzi che non siano un regolato esercizio.

Sembra, anche gli antichi, che pur pretendeano trovare un filtro per infondere amore, abbiano esperito inutile ogni mezzo della botanica e della magìa per destare il tesoro della umana voce; come è d’uopo riconoscere vano ogni spediente a cui ricorrono per credulità o per abitudine i moderni cantori[24].

[44]

S’attennero dessi più saviamente allo studio della natura e alla sua imitazione.

Ricercarono gli antichi se la voce umana atta fosse ad esprimere tutte le specie di suoni ed a ripetere le voci animalesche tanto superiori in numero degli umani linguaggi (Genesi, 57); e convennero assegnandole i limiti che dal respiro, per certi gradi possibili[25], procedono naturalmente alla vociferazione propriamente detta, ed al canto. In via imitativa ammisero l’espressione d’ogni altro suono e voce, secondo i gradi di fiatazione combinata colle fisiche condizioni de’ varj organi gutturali, d’onde nasce eziandio la varietà de’ linguaggi[26], possibili tutti per altro ad uno stesso individuo.

Discussero se la maggior facilità del moto vocale dal grave all’acuto si riscontri, o dall’acuto al grave; e contro Aristotile, che volle dimostrare più atto il canto che comincia dall’acuto quale naturale principio [45] per cui al grave si discende, altri autori levaronsi e in senso opposto definirono il problema.

I vizj delle vocali esercitazioni distinsero, e ne suggerirono i rimedj. Dalle osservazioni di Aristotile, Demostene e Septalio, Condrochio trasse soltanto le sue teorie.

Sulla forma poi dell’organo emissivo, pur ritenendo più opportuno e naturale l’atteggiamento orale che fu imitato nella costruzione delle tube e conservato invariabilmente nelle trombe e in ogni istrumento da fiato, non prescrissero essi tuttavia come esclusivo quel modo di apertura della bocca, nè a comodo d’un tale metodo imposero ai compositori d’evitar certe note sulle parole la cui pronuncia esige una modificazione della gola e delle labbra. Lasciarono, come alla ispirazione i suoi slanci, così alla natura i suoi movimenti spontanei e gli effetti corrispondenti. Chi avrebbe insegnato ai cantori delle foreste di emettere le loro voci diversamente dal modo che suggeriva a loro la natura?

Dal naturale movimento s’appalesa la natura stessa del suono.

Ricordo d’aver ammirata una gran tela fiamminga — Rehersal — (M.r Robert), rappresentante alcuni cappuccini intesi ad un concerto di gregoriano canto: dalli atteggiamenti di quelle bocche, spontanei in natura, e bene istudiati dall’artista che li avea riprodotti, leggevasi a colpo d’occhio quale dovea essere la natura di quelle voci, e parea quasi di udire i gutturali acuti del falsetto, le moderate legature dei secondi, le larghe fondamentali de’ bassi.

Le varietà speciali dei timbri che gli antichi distinguevano colle parole caprizzare, ululare, cantare, [46] noi dinotiamo modernamente classificando le voci di gola, di petto, di testa. Espressioni al certo non più felici delle antiquate perocchè proprie voci a quegl’organi non si possano attribuire nè sianvi realmente note di petto, di gola e di testa.

Usasi chiamar di petto la voce quando esce con aprimento intero di gola, come alla pronunzia dell’a, libera, aperta, e forma la sua sonorità nelle cavità pettorali, come il suono delle corde dalle casse armoniche degli strumenti. Di gola, se emessa con più o meno ristringimento della laringe e ivi ribattuta, viene quasi in quelle pareti modificata, e riformata talvolta da produr quell’effetto che assomiglia alquanto al belato, od ai suoni delle riprensioni di fiato quali senza vasta dilatazione polmonare artificiosamente si traggono nella pronunzia del ke, e in generale delle consonanti o vocali più strette e delle parole da queste composte e con più sillabe prolungate. Di testa, quando i suoni della voce sembrano ripercossi alle pareti palatine o nasali, e quivi si limitano nella loro oscillazione, come richiedesi per sostenere la lettera i.

Tali suoni detti di gola e di testa, possono riuscir graditi talvolta quanto quelli che diconsi di petto; ma questi sono sempre più oscillanti e sicuri, meno difficili e faticosi[27].

[47]

Dalla voce emessa colla partecipazione degli organi del petto principalmente, si costituì la vera ginnastica degl’organi stessi.

Osservarono adunque anche i Greci la influenza della esercitazione vocale pel vigor polmonare e sanguigno; onde prescrissero la corodia nelle scuole e fra i soldati.

Oggi che tale ginnastica vien rimessa a far parte del sistema educativo, i nostri autori si riportano specialmente a quelle antiche leggi che proclamavano il canto di tanta igienica importanza. Accennerò soltanto che, seguendo Aristotile, dell’ottima ginnastica del polmone propugnatore, il nostro Mantegazza ci prova: «Colui che canta respira in venti minuti una quantità d’aria maggiore di un altro che, senza cantare, respira per un’ora nel modo consueto.»

Sulla natura vocale, suoi vizj e rimedj, basati sempre alle ricerche de’ greci fisiologi, s’aggirarono poi gli antichi dottori, quali, Fabricio d’Acquapendente (de loquela animalium), Rolando (Aglossostomographia), Francesco Patricio (in discussionibus peripatet.), Gallieno e Prospero Alpino e tanti altri; ma non più di essi intesero e progredirono i più recenti seguaci d’Ipocrate ed accademici Dodart, Perrault Ferrein, Rousseau; gli enciclopedisti; ed i nostri moderni, che vedremo più avanti argomentare in proposito fra i metodisti.

Fin da quando Clearco, discepolo d’Aristotile, discorreva intorno al costume della castrazione, attribuendone l’origine agli asiatici e specialmente ai Medi[28], aveano i Greci certamente osservato gli effetti [48] di quella operazione sugli organi vocali e sulle voci di quelli ch’essi diedero il nome di eunuchi.

Se vuoisi che fin d’antico adoprassero questo tormento gli Egizj per punizione, e i Persi per gelosia; che Mosè non ne soffrisse i tormentati in fra il popolo del Signore[29]; che Semiramide invece se ne compiacesse; che i Lidj, al tempo di Pindaro da Corinto, fossero i più celebri operatori[30]; fatto è che da Grecia venne ai Romani il costume; e dagli eviratori dei figli dei principi di Corciro, s’ebbe in Italia i primi eunuchi, onde poi si rinfacciò agl’italiani il crudel vezzo di quella infame operazione per il perfezionamento d’un vano talento, e per procurare al culto del canto voci più nitide e acute[31]; come gli arabi Valesiani l’accolsero per fanatismo religioso[32], e l’usano gli Ottentoti per amore d’agilità.

La patria di Eunomio e di Aristosseno, lirici e cantori rivali che colla cicala diedero alla Grecia il simbolo della musica, non invano figurava nelle figlie di re Pandione d’Atene, Progne e Filomela, il canto e la crudeltà.

E come Grecia accolse dall’Asia i varj culti, fra cui quello di Adone, celebrato nella Fenicia[33] non è maraviglia se Roma, e più tardi anche quella dei Papi, ereditava costumi orientali.

Questi cantori castrati, già conosciuti nella antichità, si mostrarono in Italia specialmente alla fine del dodicesimo secolo. Un canonista di quel tempo li indica [49] indirettamente: Olim cantorum ordo non ex eunuchis, ut hodie fit... Una bolla del papa Sisto V, indirizzata al nunzio apostolico in Ispagna, ci appalesa che, da lungo tempo, i castrati erano ammessi come cantori nelle principali chiese della Penisola.

Favorì l’impiego di questi esseri neutri del genere umano, la proibizione canonica data alle donne di cantare in chiesa, e gli anatemi a quelle che si esponessero ne’ teatri.

Alla improvvida legge ben presto s’appigliarono la superstizione e la speculazione; e al bel costume e naturale delle sorelle che cantavano a Dio nelle catacombe, successe l’offerta di voci figlie al delitto ed al lusso.

Le corti d’Europa ne vagheggiarono il possesso per le loro cappelle, come fornivano di buffoni le mense, e delle belve più strane i loro giardini. Al principio del secolo sedicesimo, alla cappella dell’Elettor di Baviera, dove Orlando Lassus era maestro, cantavano già sei di que’ evirati. Appunto da quel tempo, anche a quella di Roma, in cui i Cori dei sacri cantori già da oltre un secolo istituiti mutavansi in iscuola formale per opera del Palestrina, que’ fanciulli o contraltini che cantavano le parti di soprano vennero rimpiazzati la prima volta dai cantori castrati, che pel genere della lor voce furono chiamati falsetti. Più tardi, per nobilitazione e antonomasia s’indicarono in Italia col nome di Musici.

Valse a diffondere allora nella scuola romana la barbara usanza, e quasi a sancire la tolleranza indegna tanto più perchè ammessa fra le pietose soglie del tempio, la immonda legge di Paolo IV, che escluse dai cantori della cappella pontificia tutti gli ammogliati, [50] compreso il Palestrina medesimo. Fosse il vigor delle voci che si cercasse sotto all’ipocrito velo della forzata castità; fosse la condizione meno gravosa dei celibi cantori che alettasse al risparmio gli avari sacerdoti (perocchè pagavansi al più con uno o due scudi il mese i coristi, e con tre o quattro i più abili maestri), fatto sta che i castrati o falsetti concorsero presto a vendicare l’ingiusto sfratto degli ammogliati.

I primi falsetti intesi alla cappella papale furono quasi tutti spagnoli; il primo de’ nostri che vi cantava nel 1601 fu un Giovanni Rossi, l’ultimo di quella prima schiera spagnuola fu un Giovanni de Sanctos, morto a Roma nel 1625.

La Spagna tanto barbara quanto religiosa, sacrificò facilmente alla chiesa anche questa nuova specie di martiri; e da que’ costumi, e da quel governo che pesò per tanti anni sulla nostra patria, derivò la servile e sozza abitudine inveteratasi nelle provincie napolitane, della castrazione; per cui parve che fosse privilegio di quel regno il fornire al mondo quelle vittime della sensualità musicale[34]. Italia che portava il vanto della musica non potea tenersene priva, e già verso il 1700, i falsetti cantavano su tutti i suoi teatri e in tutte le chiese.

Si ricorse alle leggi repressive, si stabilirono anche delle pene e perfino di morte, contro il crimine della castrazione; ma le usanze più forti delle leggi, l’avidità e la superstizione inesorate, addormentarono la vigilanza de’ magistrati, e fecero andare in dissuetudine anzichè il delitto, la penalità che contrariava [51] violentemente (come allor si diceva) i progressi dell’arte e l’amore del vero e del bello.

Valeva ogni pretesto a deludere la legge; e in progresso di tempo divenne esercizio tollerato, e riconosciuto il delitto; vanità e potenza il suo frutto. Infatti nelle romagne, e specialmente in Bologna, celebravansi i più abili operatori; e da questa città invitavansi i chirurgi alle corti straniere acciò le fornissero di soprani[35].

D’altra parte le infelici vittime dedicate alle regie o agli altari, dalla superstizione, dal piacere e dal lucro, mutando per violenza natura, assumevano caratteri i più strani, e per meglio dir, le stranezze di nessun carattere. Fantastici d’umore, puerilmente vani, capricciosi, insolenti, quegl’esseri malaticci, pel loro ammirabile talento, e per l’altrui compassione o capriccio diveniano potenti. Maestri, compositori, dilettanti, principi, donne, li circondavano d’omaggi, li colmavano di ricchezze e favori.

Dalla storia de’ più celebri musici si potrebbe raccogliere aneddoti curiosissimi, degradazioni ributtanti, tristi pagine della natura umana[36].

Ai riguardi di quest’organo vocale così riformato, che si direbbe meglio di deformata natura, e così nuovamente introdotto all’interpretazione del linguaggio del canto, s’acquistarono adunque nuove voci di soprano e di contralto; perocchè l’artificio crudele [52] della mutilazione fissasse il timbro de’ castrati a quella parte della scala musicale che appartiene alla donna. Nella riuscita all’uno o all’altro genere, la fittizia voce per altro era sempre soggetta a tutte le modificazioni del timbro, della sonorità e della eguaglianza, che possono caratterizzare l’organo naturale di ciascun sesso. V’erano di belle voci, forti, estese, flessibili; altre ne sortivano aspre, deboli, sorde.

La operazione con raffinato studio protratta fin presso gli anni della pubertà, non assicurava di più la riuscita, nè garantiva la conservazione della purezza d’un organo il più promettente.

Ma l’idolatria del canto non sapea disconfessare l’influenza di cotali sacrificj, nè staccarsi dall’uso dalla speculativa Grecia trasmesso e inveterato.

Vedremo in seguito la parte ch’ebbero le voci prodotte da questo artificio nei destini del canto moderno, e specialmente nel teatrale italiano.

Applicazioni del Canto. — Iniziamento artistico.

Procedendo colle osservazioni sul canto della antichità, che in Grecia, pei nuovi modi tentati al suo perfezionamento, s’introdusse fra le arti belle ivi tanto onorate, lo vediamo nobilitare estendendosi ad ufficj più elevati ed alle espressioni più meditate e rigorose.

Spogliossi in parte di quella mollezza propria ai popoli del mezzogiorno e che traspira tuttora dalle canzoni tutte piene di tuoni minori, per cui trovasi rassomigliante all’arabo stile il patetico fare dominante nelle terre d’Iberia e di Magna-Grecia.

Sulla lira la umana voce cominciò in Grecia a [53] trattare gli argomenti più serj; e dalle nenie, dal vino, e dagli amori, passarono i canti fino alle rivelazioni della scienza.

Troviamo adunque Aristotile che moralizza cantando intorno alla morte di Ermia; come Pitagora ridonava la salute cantando.

A mantenere lo spirito di patria e di indipendenza, a celebrare i martiri e gli eroi, s’adoprano i canti echeggianti specialmente dai monti, dall’Olimpo, dal Pelio, dalle balze Tessaliche, dal Pindo, dall’Agrafa, dove aveano prediletta stanza le omeriche muse e dove tuttora i poveri Klefta, loro discendenti, sciolgono i lamenti e ingloriano nelle cleftiche canzoni la fedeltà dei padri e il valor che fu terrore dei Turchi.

Ad estrema onoranza dei loro Re, gli Ateniesi, come insegna Platone[37], sceglievano una truppa d’uomini e di garzoni, tutti abbigliati di lunghe vesti bianche, e portanti corone e rami di cipresso da deporre a profumo sui roghi o da ombreggiare le tombe, i quali lungo la marcia funebre cantavano versi di lode secondo le virtù del defunto. Roma poi che adottò specialmente i riti dell’Attica, anche questo accolse, ed aggiunse il costume dalla Egizia sapienza originato, che l’Areta Archimimo, durante quel coro, imitasse i pregi e i difetti dell’estinto, a specchio e a lezione de’ posteri.

Per le manifestazioni religiose divenne classico il tetracordo dei Greci, a cui ricorse dopo tanti secoli anche S. Ambrogio per le riforme del canto ecclesiastico, già allora diffuso generalmente con forme alla greca melopea.

Divenne infatti fra i Greci, come era stato fra i [54] Cinesi antichissimi, che — quante emozioni l’uomo prova nella contemplazione della natura o nelle sociali relazioni, le virtù che importa insinuargli, i sentimenti d’amore o di odio che possono germogliargli in cuore, trovavansi espressi ne’ poetici canti. —

Così fra gli Arabi antichi e gli Abissinj; fra gli Armeni e i popoli tutti dell’Asia, di cui Grecia raccolse la sapienza, e se ne fece, dirò così, specchio concentrico e depuratore: chè, da per tutto, Indi, Cinesi, Egizj, Africani, usato aveano invitare coi più dolci canti all’amore; cantare esulando e rampicandosi sulla montagna dalle cui vette vedeasi la patria; e lungo a quelle contrade, la donna derelitta avea fatto della voce un ululato piangendo l’ingratitudine e la incostanza; la vergine trascurata avea ripetuto que’ ritornelli elegiaci di stupenda efficacia gemendo la perdita de’ vezzi suoi, mentre ogni cosa ad amare si riconcilia; lo scultascio con funereo strido avea invocata la morte su quella del suo signore; il mandarino avea insegnato lamentare lo smarrir della luce dal tempio, o l’invecchiare d’un albero sotto ai cui rami un re popolare s’era assiso rendendo giustizia; e un coro d’innumerevole popolo avea sempre echeggiato alle proposte di gioja o di doglianza.

I primi astrologi Asiatici ed Africani, discepoli questi di Atlante, aveano dato l’esempio di rivelare le maravigliose armonie de’ cieli col canto. Sappiamo da Virgilio quali altissime cose trattasse in sulla aurata cetra il crinito Jopa Cartaginese, secondo che gli avea insegnato il massimo re di Mauritania cui s’attribuiva la potenza simbolica di sostener cogli omeri il cielo[38].

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Figurazione sublime di quella forza che sovviene allo spirito nelle strette più grandi e quando sembra fuggire lo richiama alla virtù e all’eroismo. Le storie ne danno poi spiegazione coi fatti: ed ecco il canto farsi leva al coraggio dei Maccabei tormentati in Antiochia; degli Ebrei sopra i fiumi e nelle voragini di Babilonia[39]; de’ Profeti sulle rovine di Gerosolima; i trenta Sogdiani tratti a morte da Alessandro; gl’Iberi crocefissi dai conquistatori, e da Strabone creduti pazzi perchè cantavano nel supplizio[40], come i martiri della fede, soleano sfidare i loro carnefici.

Persi ed Indiani più d’ogn’altro popolo, insistevano coi canti attorno i loro morti per liberarli dal sonno cui non giungono le armoniose dolcezze. E vediamo ancora ai tempi di Marcellino, nei funeri di Grumbate, principe reale di Persia, ripetersi le nenie per dieci giorni col costume patrio del defunto[41]: e dal suaccennato Macrobio, ministro dell’imperatore Teodosio, sentiamo raccomandare il canto generalmente usato, e sanzionato da molte religioni, nella persuasione che le anime ritornino ad originem dulcedinis musicae (idest ad Coelum)[42], le cui porte per nessun altro scongiuro possono aprirsi.

Ignoti e remoti popoli, ricomparsi alla conoscenza degli Europei per le scoperte di Cristoforo Colombo, e presso i quali si rinvennero segni non dubbj d’una civiltà antica, quali le tribù dell’Orenoc, manifestarono particolarmente la prerogativa loro nel canto guerresco e religioso, raffinato ben più che a [56] lingua selvaggia s’addica, e alla espressione di elevati concetti rivolto.

Come gli Atlantici, gli antichi Galli egualmente dissero Cantori, e coronarono di verde fronda quei savj interpreti della natura e delle superne cose, che sotto il nome di Bardi veneravano come sacerdoti, profeti, poeti e musicisti ad un tempo. I Bardi conducevano i popoli peregrinanti, presiedeano alle nozze, rallietavano i funeri, infiammavano i guerrieri, imprecavano allo straniero conquistatore (Cesare). E i Bardi non erano che cantori[43].

Gl’iniziati de’ Druidi e le Sacerdotesse di Herta cantavano rallegrando le marcie degli antichi Germani, e le voci delle donne e dei soldati ajutavano l’accordo nelle costruzioni delle opere militari; come più tardi supplirono a tale ufficio gli strumenti venuti in rinomanza speciale presso a que’ popoli.

Anche in Persia, attesta Chardin, che per antico costume usansi i canti ed i suoni nei lavori edificatorj e dove richiedesi l’opera pronta, concorde e zelante d’una moltitudine di braccia o d’un concorso d’abitanti. Tuttora fra noi rileviamo l’imagine d’una tal costumanza, non solo per regolare le marcie e per concertare le masse operaje di tante nostre industrie; ma nei rozzi canti in cui cercano ancora la misura e l’accordo gli artieri sudanti nella monotona fatica di battipali.

I cori di un popolo nel folto dei boschi, o nelle aperte alture, o nelle echeggianti misteriose grotte [57] quali, ci lasciano imaginare gli aratori di Romolo, i sacerdoti di Numa, o ci descrivono Cesare e Virgilio, vediam riprodotti nelle spensierate turbe agricole dei nostri tempi, nelle desolate truppe di schiavi delle colonie, nelle marcie de’ soldati, nelle opere de’ cavatori.

Lo sparuto e melanconico minatore, sepolto nelle più profonde miniere dell’Ercinia, sulle cui labbra mai si vede spuntare un sorriso, compresso tanto nel cuore, onde si cercherebbe in lui inutilmente quella affabilità che distingue i liberi montanari, sempre triste e taciturno, non depone il conforto della sua pippa che per quello dell’altra sua prepotente passione, il canto corale.

Dagli argomenti diversi svolti col canto, e dalle differenti caste de’ cantori, assunsero le composizioni relative nomi speciali; quindi le canzoni bucoliche, le pastorali, le epiolie, o ymée de’ macinatori e calcatori, le bacchiche o libatorie, linie (naenia)[44] o funebri, epitalamie o di nozze, nunnie o ninna-nanna, catabaucalesi delle nutrici. Fra i canti sacri (Hymnes) distinguevansi, le jule di Cerere, le filelie d’Apollo, le upingi di Diana, le erotiche alle deità dell’amore.

Se i Latini ne abbiano coltivata la scuola, lo sappiamo dai poeti, dai sacerdoti, dagli imperatori[45], e dal popolo romano vago di quelle dolcezze; e lo sentiamo tuttora dai galanti Provenzali, dai patetici Trovatori, dagl’ingegnosi Claustrali, e dal libero Italo [58] genio che regna nel nuovo soggiorno delle Muse, nella terra deliziosa specialmente sacrata all’armonia.

Canto Cristiano — Piano — Fermo — Codificazione rituale — Progresso libero popolare.

Ma per meglio riconoscere le traccie dell’antico linguaggio è giuoco forza ricorrere ai luoghi ove più gelosamente se ne conservarono le tradizioni. La tenacità delle religiose credenze e la immobilità delle loro dottrine, mantennero più costanti anche le forme e le espressioni; onde dalle antiche religioni principalmente s’hanno le maniere dei canti più antichi, portate dai fondatori e conservate dai loro seguaci.

Dall’Egizio antichissimo culto vedemmo più o meno dipendente il ritual canto degli Ebrei che presso a quelli patirono tant’anni di schiavitù; e per questo invariato tramite venne ai seguaci del Nazzareno; onde ben s’appone il Martini dichiarando di origine Giudaica il canto fermo corale trasmesso dagli Apostoli ai Cristiani.

È ben vero che per nobilitarne meglio la sorgente, il zelante Ignazio discepolo di Giov. Evang., fatto Vescovo di Antiochia, dichiaratosi visitatore del Cielo per esservi stato ratto in ispirito, attestò dei costumi de’ superni canti in cui gli Angeli scioglievano le lodi alla Triade a modo di coro per proposte e risposte, onde ordinò poi che nella sua Chiesa gli Inni e i Salmi si cantassero a Cori; e lo imitò il compagno suo Policarpo cui era affidata la Chiesa di Smirne; ed i primi scrittori cristiani diffusero la prodigiosa rivelazione d’Ignazio per modo, che, come narra Simeone Metafraste, il costume di que’ cori fu preso [59] subito in alcune chiese particolari, e quasi da tutta l’universale.

La cristiana Chiesa stette vasta ed immobile. Senonchè appresso a lei, il Romano imperio, che s’era esteso e in Egitto e in Grecia e in Giudea, stava e nella Orientale e nella Latina.

Come Alessandro Severo figliuolo di Mamea teneva fra gli altri suoi idoli l’imagine del Cristo, senza sentirne il ribrezzo, per cui i primi imperatori rifuggivano a quei nome e lo perseguitavano con divieti e supplizj; così la primitiva Chiesa cristiana abituandosi anch’essa a tante forme pagane, che non contrastavano colla sua essenza ed anzi rispondevano meglio alla sua comprensione e al suo decoro, andava accettando le figure e le pratiche che legavano con transazione opportuna i differenti costumi e servivano al suo consolidamento.

Per questo modo troviamo nelle prime comunità l’enfansi apollineo delle eleusine e de’ baccanali attorno le sacre mense e le funebri agapi; e nel mezzo delle adunanze cristiane vediamo le nobili donzelle e i cavalieri romani introdurre i loro canti fra i religiosi misteri, accompagnando i versetti evangelici o idealizzando le superne visioni.

Subito dopo il Cristo, il suo colto e simpatico amico Giovanni di Zebedeo, messo in olio da Domiziano, insegnò ai martiri della fede a cantar fra i supplizj, e bandito a Patmos, confortare col canto l’esiglio.

La figura della illustre Cecilia romana basta a significare la presenza del canto nella chiesa del terzo secolo (225).

Nel quarto, Silvestro, figlio di Ruffino, divenuto Papa (313), vagheggiando le vestigia dell’arte greca [60] in Italia, raduna i migliori cantori nel proprio palagio di Laterano che trasforma in tempio di questo nome, e scuola di melodie.

Nel 330, papa Damaso, d’origine spagnolo[46], basato sulla rivelazione suddetta di sant’Ignazio, decretò che i Salmi di David si cantassero a cori disgiunti, dicendo un verso per coro, come usavasi appunto nelle chiese orientali, rendendola legge universale confermata al Concilio di Aquileja.

Quindi intorno l’anno 400, un altro nobile romano, il proconsolo Ambrogio, mutata veste, ed eletto alla sedia pontificale di Milano, riformò i canti ecclesiastici, e nuovi inni ed antifone e responsorj di sua invenzione introdusse; e col genio poetico, assieme all’illustre Agostino, in occasion che questi prendeva il battesimo, compose il bel cantico, Te Dio lodiamo, che inalterato nelle sue note semplici e solenni la Chiesa conserva[47].

Avremo a discorrere in seguito, trattando dei metodisti, dell’ecletismo con cui Santo Ambrogio, scegliendo fra le melodie conosciute verso la metà del 4.º secolo quelle che appartenevano ai modi meno complicati della musica greca, vi pose sotto le parole latine improntate dallo spirito cristiano.

Questa facile operazione, che sarà stata tentata anche prima di lui, come dopo fu sovente rinnovata, ebbe pieno successo. Il popolo apprese così a conoscere [61] i principj della nuova fede cantando inni pietosi sopra semplici arie che già gli erano famigliari; come s’era assuefatto a riguardare quali regie della Divinità novella quelle Basiliche romane, o Corti, dove la giustizia del vecchio mondo aveva resi li suoi oracoli, nelle quali si raccoglievano ad accentuare le ambrosiane innodie, che erano veramente un canto piano.

Quest’inni in verso ritmico, già derivanti, come l’afferma Sant’Agostino, dai costumi delle chiese orientali[48], furono peraltro bentosto alterati e nella melodia e nelle parole.

Influì l’azione dissolvente dei Barbari che invasero l’impero romano, perchè il popolo perdesse il senso della prosodia latina, e non sapesse più riconoscere nè i limiti nè il carattere rispettivo delle quattro scale tonali scelte da Ambrogio. Nel sesto secolo i fedeli non s’intendevano più sul valore metrico delle parole e sulla natura degl’inni che cantavano nelle chiese.

Fu per riparare a sì gran disordine, che il papa San Gregorio fece nuovamente raccogliere le migliori melodie greche, e quelle che erano state composte dappoi da illustri personaggi, quali, Paolino, Licenzio, e molti altri: aggiunse quattro nuove scale ai quattro modi primitivi ritenuti da Ambrogio, affinchè i cantori avessero una più vasta serie di suoni a percorrere, nè fossero tentati di sorpassare i limiti di ciascuna tonalità.

Tale compilazione, chiamata anche Centone, siccome una riunione di frammenti melodici, è più conosciuta [62] sotto il nome di Canto Gregoriano, in onore del glorioso pontefice che ne concepì l’idea e la fece eseguire.

Così Gregorio Magno a Roma, nel 600, continuò la semplificazione della musica greca, le cui tonalità numerose e complicate, simili ai dialetti ingegnosi e delicati che variavano la lingua generale di quella nazione predestinata, non erano accessibili all’orecchia ormai semibarbara del popolo d’Occidente.

Il cristianesimo operò per la musica come per le verità di un ordine superiore: si mise alla portata dei semplici di spirito, presentossi ai poveri ed agli ignoranti, obbedì all’istinto supremo del popolo che semplifica tutto che tocca, e col sentimento ringiovanì la scienza impotente dei dotti e dei grandi.

Ambrogio, vicino ancora alla civilizzazione romana, dispose sopra melodie d’origine orientali e famigliari al popolo versi latini: e dopo 200 anni, divenuto quasi barbaro dialetto la lingua di Virgilio e d’Orazio, Gregorio sopra una nuova raccolta di quelle melodie adattò parole ancora più semplici e piane, sprovviste di ritmo. Per questo il suo Antifonario è detto canto fermo; melopea solenne che procede lentamente non impiegando che parole e suoni d’un eguale valore; egregiamente definita da San Bernardo: Musica plana, qua est, notularum sub una et aequali mensura simplex et uniformis pronuntiatio, sine incremento et decremento prolationis.

Gregorio dunque nella sua codificazione musicale, imitò Ambrogio, temperando il canto a poche, brevi, e semplici note.

Benedetto di Norcia, che imitando gli eremiti di Oriente, fondò in Occidente il monachismo, e v’impresse [63] la sua forma caratteristica, conservando e rinovando quanto potea dirsi civile in quei barbarici tempi da Montecassino nel 529, segnava ai suoi primi monaci lavoratori, i rituali dei canto, che modellati poscia alle Gregoriane riforme, vennero diffusi dai Benedettini nelle primitive abbazie di Nonantola, Bobbio, Tours, Novalesa, San Gallo, Cluny, Corbia, Fulda, e tant’altre; e colle lettere e le arti, anche i monacali canti furono portati a semente di civiltà, da Patrizio in Irlanda, da Agostino in Inghilterra, da Vilfrido nella Frisia, da Colombano e Bonifacio nell’Elvezia e in Alemagna[49].

Oltre a questo primitivo esercito del papato, tipo di tutte le posteriori associazioni religiose, ciascun missionario che partiva da Roma, alla conversione dei barbari, portava con lui un esemplare di quei canti consacrati e venerabili che propagava colla parola dell’Evangelio.

Ma sottoposti a interpretazioni così diverse, e trasmessi con segni confusi e una notazione molto imperfetta, non tardarono anche questi a corrompersi. Alla fine del 7.º secolo i cantori novellamente non s’intesero più sul numero de’ tuoni, sul carattere alle diverse scale rispettivo.

Ogni paese interpretava in maniera speciale il canto ecclesiastico così fluttuante ne’ tuoni e indeciso nelle forme. Esecutori ignoranti, dalla voce rauca e barbara sopracaricavano quelle melodie secolari delle loro ridicole improvvisazioni. Alterati i tuoni, troncate le parole, le note cadenti con certi lazzi d’una grossolana vocalizzazione, talchè l’orribile cacofonia, disse [64] un autor di que’ tempi, rassomigliava al nitrir di cavallo — hinnitus equinus. — E infatti si giunse poi a trasformare il sacro coro in stallaggio o fiera dell’Asino[50].

La Francia specialmente porse incredibili esempj di tal confusione nel linguaggio de’ canti; nè valse l’autorità ecclesiastica a frenarli, per quella guisa che la sua tutela non rattenne le rivolte della eresia. Volevansi i genj delle ispirazioni come quelli del libero arbitrio.

Peraltro anche quel disordine era fecondo: elaboravasi in esso sotto l’azione della sbrigliata fantasia gli elementi della musica futura.

Si esercitarono intorno ad esso gli sforzi d’uomini dotti che si studiarono di richiamare le antiche severe note e renderle accette col rivestirle d’armonici tentativi, come fece Ubaldo di Sant’Amando; finchè si venne ai successi di Guido, di Dufay, di Glareanus; alle perfezioni di Palestrina.

La Chiesa infatti, rispetto alla musica, fece quello realmente che per tutte le arti belle ha operato, e che consuona a que’ intendimenti che costituiscono l’oggetto del suo culto esteriore, che con le meraviglie dell’arte e con la pompa delle cerimonie fa impressione sui sensi per modo da dilettarli e condurli appropriatamente alla più facile e spontanea elevazione della mente, alla divinità.

Onde la storia ci appalesa com’ella non rifiutasse i veri e sani progressi e dell’arti e della musica; e se la immobilità de’ suoi principj non permettevano di tramutare interamente le espressioni e i costumi, [65] di abbandonare o lasciare in dimenticanza le prime pratiche per assumerne di nuove affatto o diversificate essenzialmente, lasciò peraltro sussistere quanto non potea nuocerle nella sua vita, ed anzi le recava più forza e splendor maggiore. Per quella guisa che l’antica quercia non disdegna le fronde giovani e vaghe che attorno il suo tronco si rinnovellano, non vietò la Chiesa che accanto alle nude pareti, alle anguste cripte, alle rozze imagini, le arti colle loro ispirazioni levassero basiliche insigni, aurei mosaici, dipinture eleganti; e senza ledere l’immobilità di suo linguaggio, anche le originarie sue cantilene rimanessero alternate dalle espressioni più vive d’affetto, più colorite di passione; onde accolse gl’inni Ambrosiani semplici ed ispirati — le lodi sobrie e pietose di San Tommaso (autore del Lauda Sion), dette i muggiti del Bue d’Acquino[51] — le gravi e meste notazioni del Celano (sul Dies irae) e de’ seguaci suoi Francescani; tollerò perfino ed a lungo, le arie amorose de’ Trovatori sposate alle religiose parole[52] — quindi accettò quasi a purificamento e ad onore le cantiche magistrali di Palestrina e d’Allegri — gl’intralciamenti armoniosi del Bai e del Janacconi — e infine, la sentimentale Preghiera del Mosè e il lamento magnifico dello Stabat di Rossini.

Conchiudasi adunque del canto chiesastico, il quale fu prima origine e conservativo tempio egli stesso del culto universale esteso poi a tante altre espressioni della umana vita, conchiudasi, che, mentre [66] a lui non ripugna quello splendore e quell’abbellimento che viene dal progresso della civiltà e della scienza, dev’esso specialmente, quasi coll’immutabile natura dei dogmi che nel mistico suo linguaggio rivela, serbare il fondamento dell’aulica sua scuola; e nel carattere suo tradizionale e sublime, mostrar più fedelmente d’ogni altro genere di musica vocale, che le regioni del vero canto sono superiori a quelle dell’armonia.

Invenzione spontanea — Arte — Filosofia.

Di tal linguaggio in genere, dicemmo che, il canto naturale varia presso ad ogni popolo, per le influenze de’ caratteri differenti o dei climi: e ne consegue necessariamente che anche il canto musicale risentir debba di que’ moventi precipui delle manifestazioni negli esseri più o meno sensibili o inerti, e negli organi più o meno molli o robusti.

La convenzione delle lingue subiva gli effetti di queste leggi; e non è a maravigliare se, il canto di cui fu fatta un’arte tanto tempo dopo trovati gl’idiomi, e delle parole dei quali si valse anche per le sue espressioni, dovea sortire maggiore o minor forza o dolcezza, e dovea rendere piana o scabrosa, costante o interrotta la diversa armonia.

Nè attribuir si potrebbe virtù migliore, o appuntar difetto a questo o a quel canto, se niuna lingua naturale ad un popolo soggiace a una critica seria.

Che importa dunque disputare se il canto che risuona sulle nordiche scogliere, torni strano o gradito alle figlie del sole; se quello è il linguaggio che esprime gli affetti di que’ forti abitatori, dove i molli accenti di queste innamorate non sarebbero intesi?...

[67]

E a che pretendere d’introdurre fra i danzanti nell’allegria della vita, i melanconici modi di chi stenta il calore, e non è fatto per la gajezza?...

Bello è fra questi il mesto canto e il suo mistero; tale è il loro linguaggio: bello altrove il canto aperto e ispirato. Così al vegliardo dà pregio maggior la canizie, come il giovane brilla di sua follia.

Che se pur alcuni spirti più lenti, e a cui mancano le voci o la ispirazione, raddoppiano d’artificio per farsi compresi, e col calcolo che a loro s’addice, rendono fra di loro più espressivo e gradito il proprio linguaggio del canto, ben fanno perchè agiscono secondo natura: ma irragionevolmente s’adopra chi nella abbondanza dei modi, nell’eloquenza delle espressioni, nella vivacità del suo istinto, per non parlar la sua lingua, per evirare il suo canto, si rende fra suoi ed agli altri incompreso.

Or ecco ch’io venni a mostrare che ridotto anche ad arte, e inteso con un solo nome questo modo eletto e comune di espressione degli umani affetti, pure, a confonderlo e volerlo tradurre ad unica universale intelligenza, sforzarsi non vale.

Ogni terra ha il suo fiore, che potrà sembrar bello e divenir noto dovunque, ma non potrà farsi comune.

Il vero bello dovrà esser tale presso ognun che il comprenda, e in ogni luogo dove la corruzione non sottentri; ma farlo esclusivo, egli è attentare al genio speciale d’ogni Nazione.

Divenuto adunque un’arte il canto musicale ogni popolo incivilito ne accolse comuni le leggi; mentre nella sua essenza e per quanto traeva dal naturale, non potea per qualunque individuo e per tutte le nazioni uniformarsi. — Scambiaronsi le forme ed una addivenne [68] l’apparenza; rimase il carattere primo, l’incancellabile impronta che per quanto velata, manifesta pur sempre le demarcazioni volute dall’armoniosa varietà dell’universo.

L’arte del canto — musica vocale — fu definita da Rousseau: la maniera di condurre la melodia in ogni sorte di composizione musicale. Ciò vuol dire, per tale condotta potersi meglio esprimere i canti, che quest’arte peraltro non ha potenza a creare.

Soggiunge infatti che, i canti graditi s’insinuano subito, e si scolpiscono facilmente nella memoria, — virtù che nel canto costituisce la bontà vera — e alla quale ben pochi compositori riescono.

Presso ad ogni nazione v’hanno delle cantilene nelle quali la maggior parte dei compositori ricadono costantemente. — Inventare canti nuovi non appartiene che all’uomo di genio; trovare bei canti spetta all’uomo di gusto.

E ragionando dimostra che dov’è più dolce la sorgente del canto, naturale linguaggio, il genio raro della invenzione più facilmente vi alieggia. Primato dell’italo canto.

Son pittoresche le balze Scozzesi, e vi risuonano pure canti originali; ma duri e sconnessi, che tengono agli strilli dei rostrati abitatori di quelle roccie[53].

Splendono lussureggianti le rive dell’Eufrate e del Bosforo, ed echeggiano suoni del linguaggio universale; ma precipitosi ed ardenti, che sembrano ripetere il crepito delle fiamme, il tumulto delle tempeste.

[69]

Lunghesso le nobili contrade Alemanne spira un’aria di serietà e di fatica; e il linguaggio canoro che accompagna la meditazione e il lavoro, sorte grave, monotono e meditato.

Ma le passioni non si esprimono per sistemi; nè bastano la melanconia uniforme e la vorticosa allegrezza alla rivelazione dei sentimenti molteplici e svariatissimi che agitano la umana natura. Nella comprensione più vasta, nella espressione più generale, stà la potenza del genio. E dove la natura lascia meno esclusive e marcate le impronte de’ suoi caratteri, dove temperatamente partecipa l’azione d’ogni suo movimento, alle fisiche varietà corrispondono i versatili ingegni, d’ond’escono le espressioni meno esagerate e più varie; e fra queste, ecco il canto il più fedele, il più vago e naturale. Non è l’abitudine o il caso, ma tali condizioni che precipuamente danno il primato agli italiani.

Lo studio ed il calcolo potranno imitare quelle espressioni, ma sempre alla distanza che stà fra la natura e l’artificio, e queste così combinate non saranno mai come quelle, facili, grate, spontanee.

E a buon dritto un tale studio potrà vantarsi filosofico; mentre, se non è un semplice convenzionalismo, è un errore il dire la filosofia del canto, la filosofia della musica, la filosofia dell’arte; chè il canto e la musica, come la bellezza, sono giudicate dai sensi, coi quali spettano le impressioni e gli effetti, nè con essi ha che fare la filosofia.

Forse anco quale mistico simbolo da alcuni pensatori profondi sarà stata impiegata tale espressione, come Giuseppe Mazzini nelle sociali sue speculazioni, indicò: la melodia rappresentare la individualità — l’armonia, [70] il pensiero sociale[54]. Ma s’inganna chi tiene alla sapienza per le bellezze del canto; ed inganna chi a quelle ricerche volesse attribuire l’effetto il più gradito.

La bellezza appaga e non sorprende; e il magistero della bellezza stà nella natura:

Il bello, come il vero, è universale.

Il bello e il vero canto è da tutti compreso, e tale espressione è il retaggio di natura: non è il canto del genio, ma il genio del canto.

Prima Riforma in Gallia e Germania. — Immutabilità caratteristica. — Scuole conservative.

Il ritmo moderno o acquisito che sostituì quello antico o instintivo, è oggetto di scienza; e le sue combinazioni sono trovati della ragione: ma la ragione e la scienza sono ben’altro che il sentimento; e il primo linguaggio è l’espressione di questo, mentrecchè gli effetti del ritmo, come quelli della sonorità, sono gli elementi più grossolani della lingua musicale[55].

Così dicasi della ricercatezza e delle difficoltà di questa magica favella, che più pronta e meglio commuove, quanto è più semplice e naturale.

Fu detto infatti di un sovrano esecutore di note, [71] che infiora di mille artificj le armonie affidate alle corde del clavicembalo, colui che distilla dalle dita di acciajo il fluido nervoso, come la pila del Volta diffonde l’elettrico, che trasporta ammagliati ne’ suoi turbini gli uditori, e li affoga in un diluvio di difficoltà incomparabilmente superate, fu detto, che abbaglia, stordisce, inebbria, e scuote e sorprende, e mai non scende a toccar l’animo; solleva buffere e fughe infernali; suda e batte da disperato, e fà gemere il suo istrumento che cinge coi ginocchi e colle braccia... ed egli non può cavare una di quelle semplici voci che vi innondano di lagrime e che sfuggono dalla bocca d’un fanciullo!...[56].

Grande lezione! che vediamo ripetersi nel vigoroso, rapido, nitido macchinismo che fa scatturire armoniosi torrenti dall’arco prodigioso di Sivori.

Sommi artisti, i virtuosi e sedicenti filosofi della musica!.... che per legge estremale confinano coi mostruosi o coi cerretani.

Eccesso d’arte che vuol tradurre in accordi la parola; abuso d’arte che pretende mutare in una scienza astratta la espression naturale del sentimento.

Quando i canti spontanei dei popoli rivolti alle lodi e glorificazioni della Divinità pervennero ad echeggiare nei templi, l’arte musicale, nata in quelle aure maestose e tranquille, benchè fosse ancora fanciulla, intese subito a riformarli, e rivestirli dirò così d’una [72] veste splendida tanto più, quanto a più elevate espressioni que’ canti si riferivano.

Non per questo fu tradita la verità del concetto; che, se era stato alterato il ritmo, quando alla metrica poesia cui era stata applicata la originaria musica greca aveasi dovuto sostituire la prosa de’ libri sacri o qualche duro verso de’ preti latini, non s’era smarrita ancora la primitiva purezza.

Anche dopo le riforme Ambrosiane e Gregoriane, che nel canto-fermo aveano quasi tolte interamente la misura e le cadenze, troviamo pure preferito il modo Romano a qualunque altro resto più antico, come quello che pur progredendo conservava la bellezza del carattere e la varietà degli affetti.

Leggesi nella vita di Carlomagno, che celebrando questo piissimo Re in Roma la Pasqua, fu presente ad una contesa fra i Romani cantori e i Gallici di suo seguito, sul modo migliore del loro canto. — Galli propter securitatem Dom.i Regis Caroli valde exprobrabant cantoribus romanis, Romani vero propter auctoritatem magnae dotrinae eos stultos, rusticos et indoctos velut bruta animalia affirmabant, et doctrinam S. Gregorii praeferebant rusticitati eorum. — Chiese allora Re Carlo ai suoi, se stimassero miglior acqua e più pura quella derivante dalla viva sorgente o quella dei rivi che lungi dalla fonte correvano.

Tutti a una voce si pronunziarono per la prima, come veniente da capo ed origine non corrotta. Rivolgiamoci dunque, conchiuse Carlo, alla fonte di S. Gregorio, il di cui canto evidentemente voi avete corrotto.

E allora richiese a papa Adriano cantori della sua chiesa per correggere il canto francese; ed ebbe i due valentissimi Teodoro e Benedetto istruiti già da Gregorio [73] medesimo, i quali condusse seco e li inviò uno a Metz, l’altro a Soissons, ordinando a tutti i maestri di canto delle città di Francia di dare loro a correggere gli Antifonarj e d’imparare da que’ Romani a cantare.

Egli medesimo iniziandosi anche nei primi erudimenti delle lettere, perocchè quel grande fosse analfabeta, si esercitò nel modo prescelto di canto; onde il suo notaro Eginardo ebbe a scrivere: «Carlo emendò la disciplina del leggere e del salmeggiare, e se ne fece erudito egli stesso, benchè non leggesse in pubblico, nè cantasse se non sommesso e in comune.»

Così furono riformati anche in Francia i canti ecclesiastici benchè a malincuore de’ cantori francesi. E per questo fatto rimase nella città di Metz la principale scuola di canto; e quanto il magistero romano superava il Metense nell’arte del cantare, tanto il canto di Metz sorpassava quello di tutte le altre galliche scuole[57].

Il gran Carlo, apprezzando il genio di quella celebre nazione alla quale non si poterono mai rapire i resti della sua antica grandezza ed il prodigioso suo gusto nelle belle Arti, coi cantori ed artisti menò seco in Francia maestri di grammatica e calcolo e compositori fra quali Pietro da Pisa, da non confondersi con altro Pietro detto il Cantore che fu poi dottore all’università e maestro alla cappella di Parigi, e morì abbate a Long-Pont nel 1197.

Anche quel prete Giorgio che si fà uscito dalla isola di questo nome di Venezia nell’anno 826, recossi [74] a Carlo in Ingelheim, ove gli fabbricò il primo Organo more graecorum.

Credesi che da quell’isola procedesse anche il famoso frate Guittone Aretino che prese stanza nel cenobio vicino della Pomposa. Certo è che le cronache del monastero di S. Giorgio in Alga fan fede di un monaco valente nel canto e nell’arte musicale, esistente nel 790; e le cui dottrine per l’esteso tramite delle fraterie s’erano anche in Francia inoltrate.

A ragione il grand’uomo riconobbe in quegli antichi antifonarj, ossia nelle intonazioni de’ Salmi[58], la bellezza melodica e veramente religiosa che tuttora s’apprezza e si porge ancora allo studio de’ compositori moderni; come gli antichi organisti armonizzarono su quelle antifone, ed i grandi maestri trovarono i canti soavi da quelle proposte, meglio che dagli stessi inni, ne’ quali alla purezza del canto religioso si mescola il fare delle cantilene a ritmo marcato.

Fu nel medio evo che il canto ecclesiastico assunse nuove forme, per opera de’ nuovi compositori di professione che si arrabattarono a distruggere coi meditati ritmi le piane cadenze delle antiche salmodie, e legare i liberi slanci del linguaggio del popolo, che a seconda de’ moti interni espandeasi favellando all’eterno.

Intesero forse anche di escludere da queste sublimi conversazioni quelle cantilene d’uso comune impiegate a manifestare strane voglie, amori profani.

Ma se patirono i popoli la corruzione del loro canto religioso per la potenza e virtù sacerdotale, non [75] imitarono la licenziosa norma nella espressione delle variate emozioni della vita; non adottarono la convenzione in luogo della verità, nè mutarono la volgare lor lingua.

Quel nuovo canto da chiesa voluto da Carlo fu trovato peraltro allora dal popolo troppo monotono e troppo sapiente; ed egli tornò alle sue frasi native e volgari.

Inventò nuovi canti, e da sè, e da suo modo arricchì la sua lingua; marcando egli così col suo tatto squisito, e fin da questo, una separazione dalle cose superne a quelle sue della vita.

Non cangiò dunque in que’ tempi per le altrui innovazioni il naturale linguaggio, ma dilatossi e si accrebbe.

Le regionali influenze agirono sempre sullo sviluppo di questa lingua, e v’impressero le tinte più o meno variate e caratteristiche. — Ma presso tutte le nazioni del mondo s’incontrano quelle poesie e melodie naturali, figlie dell’istinto e del sentimento, forme incomplete se vuolsi, ma vivaci per la ispirazione che le ha fatte nascere, e che le rende care al popolo di cui esprimono le passioni. Infatti le conserva religiosamente nella memoria; le generazioni se le trasmettono come altrettante cronache di famiglia; e noi le vediamo perpetuarsi traverso i secoli più luminosi di civiltà come un’eco lontano della tradizion nazionale.

A queste sorgenti primitive, in questi varj preludj del sentimento, l’arte dei dotti è spesso obbligata ricorrere, per rinnovar le sue forze spossate dal troppo raffinamento.

E sotto alla trama sapiente del bel latino di Tito Livio, si sente palpitare ancora le vecchie canzoni del Lazio, che lo storico trasformandole vi ha raccolte.

[76]

Non appena la lingua volgare balbettate avea le prime sue voci, che s’alleò alla musica.

Francon di Cologna, teologo di Liegi, verso il 1055, nel suo Trattato — Ars cantus mensurabilis — ci ha conservati frammenti di canzoni in lingua romana del decimo secolo. Nel seguente, quelle canzoni divennero più numerose; ma nei secoli duodecimo e tredicesimo, in seguito al movimento che trasse i popoli alle crociate, quelle si moltiplicarono e si sparsero per tutta l’Europa.

Le si cantano in Alemagna, in Italia, in Inghilterra, alle corti de’ principi, nella officina dell’artigiano, nella capanna del povero.

Essi divengono l’oggetto di ricreamento e della attenzion generale.

Così popolarizzava la Musa Scandinava del IX secolo; e la tradizione portò sul labbro della bionda fanciulla i fieri accenti normanni, il canto di morte emesso da Lodbrok quando fu vinto dal sassone Ella; Lodbrok, che avea mandato ad Odino l’intero popolo dell’Eltinghia.

Fulberto canonico della cattedrale di Parigi, intorno al 1100, canta spensieratamente cogli amici e colla bella nipote Eloisa le canzoni che Pietro Abelardo filosofo e maestro compone, traducendo gli amori suoi colla infiammata allieva: e per quelle galeotte e delatrici canzoni, lo sventurato Abelardo è costretto a trasportare la scuola in un chiostro, e a sperimentare per la vendetta di Fulberto gli effetti della evirazione sulla voce, con cui il povero eunuco, nuovo Origéne, trasse a cantare fra i monaci di Saint-Denis; mentre Eloisa, invasa sempre di quell’amore che la rese tanto famosa, volgea le canzoni del fatale [77] maestro e dello sposo perduto, in meste salmodie nell’Abazia d’Argenteuil[59].

Narra il celebre padre e maestro Sebastiano Fantoni-Castrucci, che nel 1150 (anno della morte di Bertrando II conte di Forcalquier), incominciarono a rendersi celebri i poeti provenzali, nominati allora Troubadori, o Trobadori, perchè, diss’egli, al suono d’un istrumento che in Provenza chiamavasi tromba cantavano le loro Rime.

Nostradamo inserisce nella sua Istoria un indice copioso di detti poeti; tra i quali annovera l’imperatore Federico detto Barbarossa, alto sovrano di Avignone e riferisce questo suo componimento in lingua e rima provenzale di quel tempo.

Plas mi Cavalier Frances

E la Donna Catalana,

E l’ourar del Ginoes

E la Cour de Kastellana.

Lou cantar Provençalez

E la dansa Trinuysana,

E lou corps Aragones

E la perla Julliana,

Las mans, et cara d’Anglez

E la Donzel de Thuscana.

Un altro storico di Provenza, del 1600, scrisse che Francesco Petrarca apprese il verseggiare in rima dai provenzali, e che questi furono gli inventori di tal modo di poetare per canto.

Ma soggiunge il Fantoni-Castrucci: «scusisi in esso l’affetto della nazione, che talora fà travedere: il vero [78] è, che l’uso delle rime fu antichissimo e comune ai Greci ed ai Romani, tra quali il volgo non con altre misure regolava i suoi versi che con la desinenza delle voci di simil suono. Questo modo appresso perdutosi, rinacque prima nella Sicilia alcuni secoli avanti al Petrarca, e di là si propagò nell’Italia (ove precorsero nel rimare al Petrarca, Dante Alighieri, il B. Jacopone da Todi, ed altri) e più oltre; con la qual voce più oltre può intendersi indicata la Provenza, che fu in vero delle prime provincie ove dopo la Sicilia, si poetasse in Rima! Ne testimonia il medemo Petrarca. Dalla Provenza sì, che si stese nella Francia, ma non prima del regno del re Lodovico VIII, soprannominato Leone, per testimonio di Genebrardo (In Chron. ad ann. Christi 1227)»[60].

Ma con rispetto al precitato storico mio illustre antenato, non è proprio dalla tromba, nè dal trombazzare rimate parole d’amore, da gran tempo usate negli epitalami, o di lamento già note alle praefiche, che acquistarono voga i canti dei Siculi, degl’Itali, dei Catalani, e dei Provenzali, nella età di mezzo, e che del romantico nome furon distinti.

In quanto all’Italia, la lirica provenzale quivi insinuatasi fra il XII e il XIII secolo, non venia a formare che una scuola di servili imitatori, attirati dalla curiosità e dalla vaghezza dei modi forastieri; mentre l’antica scuola dei poeti d’amore, nostra, originale, perfetta, [79] non avea a che fare con quelle stranezze. E fu anzi chi attribuì il nascimento della poesia volgare italiana a Guido Guinicelli bolognese, prima che i trombatori provenzali recassero i saggi della scorretta lor moda, di cui si farebbe autore, per antichità, Ciullo d’Alcamo[61].

Che se pure lo si volesse original trovatore, dovrebbesi ristringere l’invenzione sua a quella forma pur schietta e popolare dei Cantastorie, classificata fra i Contrasti e Parti, come la famosa Tenzone di quell’autore, specie di dialogo e di rissa, ma che Dante registrava fra le poesie non letterarie e non culte.

D’altronde le antiche Contee di Provenza e di Nizza non erano che le rispettive estreme porte dell’Italia e della Francia dalla parte dell’Alpi marittime; e non è da maravigliare se sulle soglie d’Italia si riscontra più facile il verso, più spontanea la cantilena. Sarebbe il caso, che da questi confini toglieva la Francia i suoi trovatori nell’età di mezzo, come più tardi dalla estremità meridionale d’Italia e particolarmente dalle Calabrie, i cantori e cittaristi avventurieri si sparsero per tutto il mondo. Ed in oggi ancora non è finita l’usanza: che si sà quale tratta di giovanetti si fosse organizzata, perchè a flagello di quelle terre, e a trastullo di altre, trascinassero la vita e le cantilene per le più splendide contrade di Europa e d’America; non più ad onore, ma a disdoro della nazione del canto, e ad oltraggio della umanità[62]. Ora fortunatamente le leggi interdicono il barbaro commercio, e la Nazione impiega i suoi figli a’ più nobili ufficj.

[80]

Restano però le tradizioni delle antiche piacevoli canzoni Nizzarde e Napolitane, quelle che si risentono appunto della vicinanza francese, queste non esenti purtroppo dalla mistura spagnola.

Dalla Sicilia in vece, abbiamo i canti più vaghi e distinti, e nello stesso tempo varj così, che un recente raccoglitore d’in sul luogo, e illustratore accurato, Giuseppe Pitrè piacque dividere in nove specie principali; fra quali: le Ninna-nanne (Niuni o Canzuni di la naca) curiose quasi tutte per nativa semplicità; per le invocazioni o raccomandazioni che racchiudono; per la strana concatenazione di pensieri e di affetti, che si direbbe spesso governata sol dalla rima; come sa chi ricorda queste arie della culla apportatrici di quieto sonno ai fanciulli. I Canti fanciulleschi. Le Orazioni o Rorarj, colle più strane domande; per esempio, a santa Vettovaglia per la pronta uscita del feto alle partorienti; a san Pantaleone per vincita al lotto, e san Vito per difesa dai cani mordenti, a san Nicolò per collocamento di figlie povere, a santa Barbara e Simon per lo scampo dalle saette, alla Trinità per far occhi di vetro e man di cera ai ladri. S’aggiungono le Nenie, per cui furon celebri anche le praefiche di Calimera (Lecce); vanto speciale del lugubre cantastorie di Martano. Le Leggende, come quella di Monsù Bonello del 1399, il Monsignore, cantastoria bizantina. I Contrasti suddetti; i Satiri; le canzoni Murali, e i Motetti del palio, singolar foggia da modulare in tempo di gare e corse di cavalli[63].

[81]

Nè ci mancano raccolte degli antichi canti popolari del Napolitano, a cura anche dell’Imbriani; i canti Calabresi, Leccesi, Abbruzzesi; quelli della Calabria citeriore, riportati dal De Simone; i canti Savesi o del Tarentino raccolti dallo Schifone; quelli Toscani, dal Tigri e dal Tommaseo, il quale v’unì anche i Côrsi ed Illirici; i Monferrini dal dott. Ferraro; i Chiozzotti, per Dal Medico; i Veneziani, studiati da tanti.

Quelle nenie d’amore, quelle romanze che cantavano i trovatori, i minnesinger, e le belle nei dolci lor’ozj, erano l’opera di due specie d’autori. Il popolo, i poeti, gli amanti inventavano la melodia e le parole; e siccome essi ignoravano la musica, recavansi da un musicante di professione per far tradurre in note le loro ispirazioni. I primi chiamavansi, e giustamente, i trovatori (trobadori-trouvères); i secondi, armonizzatori (déchanteurs).

Questa separazione della ispirazione e della scienza musicale è un fatto caratteristico del medio evo e di tutte le epoche di transizione.

Questo mostra la indipendenza del canto naturale ed espressivo, dalle convenzioni d’arte: la differenza che passa dalla manifestazion de’ concetti, alla infioratura delle frasi.

La profana musica così combinata, e che in sostanza non cessava d’essere la espressione dei sentimenti della vita, di cui ella pingeva il movimento colla varietà e la vivezza, avea acquistata una tale preponderanza alla fine del secolo decimoterzo, che irruppe fin entro alle soglie del tempio. I contrapuntisti che s’affaticavano a combinare gli accordi sul fondo monotono degli otto tuoni del canto piano, vedendosi [82] trascurati dal popolo che preferiva alla loro scienza l’arte più grata dei trovatori, concepirono l’idea di valersi delle arie popolari le più comuni per temi delle sacre loro composizioni. Ed affine di essere più aggradevoli al popolo che non comprendeva la lingua rituale latina, faceano che una voce cantasse la melodia della canzone gradita colle parole profane, mentre gli altri seguiano salmodiando in latino. — Baciami amica, intuonava un tenore, e la folla seguia la romanza biasicando le parole del Sanctus.

L’ab. Baini, cita, fra le altre parole in lingua volgare che si cantavano nelle chiese, queste: Il marito mio m’ha diffamata! che i divoti confondevano colle preghiere e le lodi al creatore.

In Francia l’usanza raggiunse l’apice della spudoratezza; ed il Papa Giovanni XXII, risiedente in Avignone, lanciò una decretale nel 1322, in cui rivela con amarezza e collera, gli oltraggi fatti alla maestà del divino culto, e vieta ai cantori di corrompere la melopea della Chiesa con ornamenti di loro invenzione.

Ma l’anatema non valse. Questo scandalo durò fino al Concilio di Trento, e non disparve che per le creazioni del Palestrina.[64]

Da ciò comprendesi che, il canto figlio della natura, non fu anche conservato d’altri che dall’istinto.

Il canto ecclesiastico colpito dalla immobilità che il cattolicismo comunica a tutto ciò ch’egli tocca, lungi dall’essere stato la musica esclusiva dell’età di mezzo, [83] e d’essere la causa diretta dei progressi dell’arte moderna, ha dovuto annestarsi ad un’arte popolare più giovane e vigorosa che v’infuse il movimento della vita esteriore e lo animò del soffio della passione.

Nè solo l’abituale temperatura de’ climi, l’innato istinto degl’uomini e la sensibilità loro diversa, influenzarono alle espressioni del canto, ma gli avvenimenti del mondo esteriore, i grandi passi del progresso, il rammestamento sociale, operarono notabili modificazioni come ne’ costumi, così nei linguaggi e in quello del canto.

Dalla sconnessione e dalla energia dell’epoca selvaggia, questo passò ad esprimere più snodato e sonoro la grandezza eroica; armonizzò quindi coi tempi sereni propizj alle arti e alle scienze; degradò coll’avvizzire de’ floridi tempi, e colle dubbie virtù, coi viziati costumi, coi violenti contrasti, persa della bella energia, si rivestì di fierezza o s’abbandonò con facile piega alle lusinghiere mollezze.

Fu romantico, cavalleresco, appassionato; ardito, devoto, snervato, servile e semispento.

Quando, alla fine dello scorso secolo, l’audacia s’impadronì degli spiriti, si ridestarono le gloriose aspirazioni, scoppiarono le lotte civili e guerresche; quando le rivoluzioni sconvolsero opere e fedi, evocarono virtù e delitti, lasciarono glorie e disillusioni, beneficj e sventure; quando le opere tutte degl’uomini improntavansi del nuovo spirito di generale agitamento, non potea la musica, l’arte la più sensibile, ed il canto, espressione la più fedele, non assumere un carattere più grandioso, penetrarsi d’una certa inquietudine e della drammatica energia.

Gli elementi tutti della composizione musicale [84] hanno subìto una trasformazione in cui rivelansi la febbre e la turbolenza che ci divorano.

La frase melodica ha perso della sua ampiezza e della sua serenità, le sue terminazioni sono più brusche e meno solenni; le modulazioni e principalmente quelle enarmoniche, son più frequenti, i ritmi più vivi, i tuoni più stridenti. L’orchestra acquistò uno straordinario sviluppo; più ricca, più variata, più libera, imperiosa e potente domina tutto colla voce sua formidabile, che sembra creata espressamente per esprimere le tumultuose passioni d’un popolo emancipato, d’un secolo infermo.

Ma se l’influenza dei grandi avvenimenti di questo secolo ha sviluppato nella musica una potenza drammatica da prima ignota, se la lingua è più ricca di colori proprj a dipingere le energiche passioni, se i nuovi istrumenti introdotti ad accompagnamento del canto ci hanno famigliarizzati con un maggior numero di formule armoniche, se il meccanismo dell’arte è meglio conosciuto e s’è raggiunto con questo il pieno effetto della sonorità, bisogna pur convenire d’altra parte che la musica, come tutte le altre arti, ha perduto in delicatezza e in soavità quanto ha guadagnato in vigore; e che la parte più sensibile della nostr’anima sembra ormai fatta al nuovo canto impenetrabile.

La povertà de’ concetti, la freddezza de’ sentimenti, si nascondono coll’inutile fasto, colla pompa degli adornamenti. Si stordisce invece di deliziare; si sorprende in luogo di commuovere; si picchia forte, per non saper toccare giustamente.

E la espressione più squisita dell’animo, il canto, in mezzo al fracasso, il di cui acido corrosivo ha [85] viziato i nostri organi, non è più il linguaggio dei sentimenti, ma è lotta fisica di polmoni.

Nell’epoca d’oro del canto, che flessibile e penetrante, durò poco, come tutto ciò che è prezioso, e che ben tosto fu surrogata da quella dura e assordante dell’acciaro non molto diversa dalla ferrea e selvaggia dell’età rozza, in quell’epoca, il linguaggio dei sentimenti non veniva corrotto dall’arte, ma regolato colla vocalizzazione, e moderato colla soavità delle sfumature, colla dolcezza delle mezze tinte. Il sentire individuale cogliea liberamente l’impressione d’un’aria secondo il suo significato, impadronivasi della fisonomia generale della composizione, ne marcava i punti luminosi, e l’assortiva convenientemente de’ colori in tutti i suoi dettagli. Così la modulazione della nota passava successivamente per tutti i gradi della passione; e finalmente esalava come un’ultima parola che contiene l’essenza d’un’anima immortale.

Or non s’impiega che due colori, cui corrispondono i due soli effetti del piano e del forte; non guida più il tocco dell’aurea penna, ma il colpo risonante dell’arma; l’effetto materiale ha usurpato il posto della commozione morale; lo sforzo e lo strillo finiscono bruscamente il tempestoso contrasto.

Tanto traviamento dell’arte dovea necessariamente recare il discredito all’arte medesima; quindi gli spiriti serj non la riguarderebbero più, se non come un gioco di fantasia e come un capriccio che per la vivacità delle impressioni, e per la vaghezza delle forme, sfugge ad ogni criterio e nulla ha di stabile nella vita.

Mentre la musica in generale, come tutte le opere umane, e in ispecialità come la letteratura se [86] pur si piega colla mobilità dei tempi e de’ costumi, e legata solidamente a quanto è in noi di più intimo e serio, e alla immutabilità della ragione.

Come le verità prime ed i principj immutabili della scienza, non cangiano per variar di sistemi di loro dimostrazione, o dei fenomeni alla loro applicazione conseguenti, così la espressione eterna dell’amore e del dolore, in natura inalterabile, non può modificare pel capriccio degl’uomini; può acconciarsi soltanto per gli accidenti esteriori e pegli adottati sistemi di sua esposizione, alla instabilità de’ gusti ed ai progressi dell’arte. Ma il canto nell’essenza prima non cangia; ed è pur quella voce nella semplicità sua naturale, nella veste romantica, e in fra i classici ritmi.

Bello è il destriero libero vagante nella foresta; bello culto e pulito sotto alla briglia dell’auriga; nè perde la naturale sua bellezza per essere caricato di nappe e di pennacchi, fra gualdrappe imbavagliato.

Quando comparvero gli Europei sulle terre di nuova scoperta al di là dell’Oceano, furono incontrati da selvaggi che danzarono loro dinnanzi cantando, essi dissero, barbaramente. Ma da quei canti intesero le espressioni de’ lor sentimenti e trovarono in quelli un linguaggio. Linguaggio cui assueffandosi gli stranieri invasori, e meglio spiegandosi col famigliarizzar degl’indigeni, piacque; e se i nuovi costumi ivi portati quella verginità nemmanco non rispettarono, non giunsero a toglierne peraltro mai la originale impronta e interamente.

Così nella oscurità dei greci tempi, gli omerici canti che favellarono alle remote generazioni, ripetuti dagli Aoedi, cantori seguaci dell’omerico genio, non [87] cangiarono per volger d’anni e di rivoluzioni, benchè quel linguaggio, come Wolfio lo prova, mediante scrittura tramandato non fosse. E quando gli Omeridi più inciviliti, colla famosa società di Chio — primo conservatorio del canto — confidarono specialmente alle leggi di quel sodalizio la cura di conservare e tramandare oralmente gli antichi canti del greco genio, intesero massimamente salvarli dalle corruzioni che, per tradurli in iscritto o in idiomi diversi, derivare potessero alle care bellezze del primitivo linguaggio. E le meloteche di Chio apparecchiarono le scuole Beozie.

Con analogo studio troviamo nei Druidi la consuetudine di tramandare l’antica lingua del Gallico canto; e nelle tradizioni Scandinave dell’Edda, e nelle Germaniche de’ Nibelungi, riscontriamo le antiche rispettive scuole del canto a quei popoli sacro.

Abbiamo sopra accennato che in Egitto egualmente furono presso le are i sacrarj del canto, ivi dalle deità medesime conservato.

E quando i versi biblici, custoditi nell’arca, veniano cantati d’intorno alle scritte di già incomprese dei monoliti e delle piramidi dei Faraoni, se l’egizio canto non isfuggì di confondersi con altri linguaggi, non potè mutare peraltro interamente; ed anche nell’abbandono e nel decadimento, cantarono le egiziane sulle sponde del Nilo, dopo lunghi periodi d’anni, le note sacre d’Osiride; finchè in questo secolo, anche a Cairo ed a Smirne, le fanciulle egiziane nelle nuove scuole del vero sermon delle grazie e dell’amore furono iniziate[65].

[88]

Con nomi ben diversi adunque di quelli usati da noi di scuole e di conservatori, ma a identico fine rivolti, troviamo i custodi e i ricetti speciali del canto, fino dalle remote antichità; oltre al gran tempio dell’universo ed ai suoi sacerdoti viventi, che per istinto di natura, più o meno vagamente, con più costante o variata passione, usarono e serbarono il canto.

In questa Italia poi che si può dire il sacrario del tempio poetico universale, quivi pure più specialmente presso l’ara della divinità trovò il bel linguaggio custodia e vita; e dagli altari, col profumo degli incensi, si sparse e tramandò nel popolo, che per istinto, atto non era a corromperne i dolci effluvj, nè alterarne le veraci espressioni; e quel canto che dai tripodi dei Numi, dalle catacombe dei Martiri, e dai tabernacoli dell’Eterno, tramandavano i Leviti custodi e cantori, venia ripetuto dal popolo, infiorato di nuove grazie ed a nuove appassionate espressioni commisto, canto sacrato doppiamente dalla religion e dall’amore.

Ispirazione dunque severa nell’oscurità de’ sotterranei; ispirazione sublime sotto alle volte maestose de’ templi; ispirazione nella grandezza de’ monumenti, nella semplicità delle domestiche stanze, dinnanzi all’imagine divina, sotto al sorriso della bellezza, nelle salmodie di preghiera, nei clamori di guerra, nel ratto d’una fanciulla, nella liberazion d’un Sepolcro.

Ed eccomi con questa idea, alla visione d’un popolo [89] di cantori, entusiasmato dalla religione, vago d’amori, muovere alle Crociate.

In quel romantico pellegrinaggio sento unirsi gl’inni de’ sacerdoti, alle cadenze de’ bardi, alle canzoni degli amanti; sento il soprano italo canto echeggiar colle frasi ora dolci e melanconiche, or dure e concitate, di cent’altri linguaggi; sento le orientali aure che rendono più insinuante la sua nativa dolcezza; sento la voluttà che sgorga ed indora i nostri canori accenti; sento il linguaggio più romantico, e coi costumi confusi e riformati, trovo ampliate le leggi, variopinti i colori, esteso, arricchito, sviluppato il concetto del canto.

Colle Crociate medesime necessariamente dovea pervenire in Europa la melodia Orientale, dalle cui fantastiche variazioni, vorrebbonsi poi originate le fioriture che riabbellirono il nostro canto[66].

[90]

Canto romantico medioevano — Epoca delle Crociate — Comunione e sviluppo — Corali e Madrigali — Fondazione delle Cappelle — Mistri dei fanciulli — Scuola Fiamminga — Scienza e suoi influssi.

Fra una folla di principi, di soldati, di monaci, di donne e di poeti, si formano i cori più patetici a esilarare la noja del lungo pellegrinaggio; prorompono gli estri più baldi a celebrare le prime vittorie. Al sublime si mescola il comico, ed agl’inni le satire e i ritornelli delle danze.

I menestrelli s’accompagnano ai sacerdoti.

Narrano le cronache della prima guerra santa che, furono fatte canzoni ridicole sul cappellano della corte di Riccardo duca di Normandia e le due nipoti di questo, Berengaria regina e la figlia d’Isacco, che avea condotte seco in Oriente.

«Guglielmo duca del Poitù celebrò le deplorabili sue avventure in Asia co’ versi ispirati dal genio dell’allegro sapere.» — Dopo la presa di Tolemaida, cantaronsi nell’esercito cristiano versi satirici composti da Riccardo contro il duca di Borgogna, il quale avendo pure la poetica vena, rispose con una canzone vituperando le donne reali che accompagnavano il normanno[67].

L’orso atterato da Goffredo nei boschi della Cilicia, e il cinghiale combattuto nelle montagne di Giudea dal Cuor di Leone, formarono oggetto di popolari canzoni, come la morte di Alberone, i funerali di Ruggieri [91] d’Antiochia, e la presa di Tolemaida. — Così nelle aggressioni portate dai cavalieri della croce e nel brigantaggio esercitato sulle caravane del Cairo[68], come nelle miserie dello assedio d’Antiochia, i guerrieri e le Amazzoni dalle gambe d’oro, scioglievano canzoni nutrite dagli allegri banchetti che la bianca carne del camello loro imbandiva.

Le cronache arabe di que’ tempi ci fanno quasi echeggiare i canti lascivi delle donne musulmane addestrate alla danza e ricreanti i sultani e gli emiri, passando ai principi crociati, i quali poscia traeanle a cantare e danzare anche nelle loro corti europee[69].

Tanto poteano il capriccio ed il lusso; comecchè dell’arabo commercio non fosse già satolla l’Europa, la quale mentre riversavasi fra i musulmani, era invasa alla sua volta da questi.

Dall’8.º al 12.º secolo i Saraceni erano in Sicilia, nell’Italia meridionale, nelle sue isole, nel Piemonte e Savoja, nella Svizzera, quà e là per la Francia; e la Spagna era divenuta araba provincia[70]. Ma verità storica vuol che si accenni, che meglio de’ cristiani in Oriente, gli Arabi giovarono in Europa. Da quello splendido abbassida Aron-Rascid, che fu contemporaneo ed amico di Carlo Magno, rifiorirono nelle Spagne la poesia, la musica, l’archittetura, il disegno, [92] le storie e le scienze tutte che in Europa poteano dirsi perdute, finchè gli ultimi suoi successori fecero nel Cid (1090) rinascere le virtù dell’eroismo, e l’onore cavalleresco che influì tanto sugl’animi degli Spagnuoli.

E specialmente nel terzo periodo dell’araba coltura, troviam fra gli studj prediletta la musica; nuove cantiche ispiratrici dissuggellano la filosofia recondita del Corano; e perfino la poesia ebraica del medio evo concorre in Ispagna, e avvigorisce collo studio dell’araba sapienza, mentre di certa sua oriental vaghezza si riconforta[71].

Nella terza crociata in cui i Latini e i Musulmani rimasero per tanto tempo a fronte gli uni degli altri, i guerrieri cristiani fecero spesso mostra davanti ai loro nemici delle pompe, delle solennità e delle feste militari d’Europa e rallegrate sempre coi canti. — Nella crociata di Federigo II, il sultano d’Egitto e l’Imperator d’Alemagna gareggiavano di scienza e di poesia e scambievolmente cantavano i proprj versi.

«Ne già cadde mai in disuso la costumanza di cantare nelle crociate ove trovavansi i Francesi.»

Il re di Navarra, che ne’ suoi versi aveva predicata la spedizione di cui era capo, fu seguitato in Palestina da grande numero di cavalieri, trovatori com’esso. Alcune delle canzoni composte nella crociata ci furono tramandate. Vi è in generale un sentimento di tristezza e di malinconia, onde è fatto manifesto che quei canti erano meglio atti a consolare che a divertire i pellegrini. Alcuni compagni di Tebaldo [93] reputato fra i migliori trovatori, che cantò i suoi profani amori con la regina Bianca, e le lamentazioni di Gerusalemme, caduti in mano de’ Musulmani alla battaglia di Gaza, cantavano nelle prigioni del Cairo, la Francia: Il bel paese ch’era lor sì caro.

Le memorie poetiche della patria li ajutavano a sopportare i loro mali, e alleviavano il peso della schiavitù[72].

I trovatori ci lasciarono la commovente memoria di Raolo di Coucy e dell’infelice consorte di Fayel[73]; gli amori romantici di Sveno colla figlia del Borgogna, celebrati poi dal cantor di Goffredo; e le ambizioni e le superstizioni e i delitti dei cavalieri della croce, ben più veritieri e fedeli degli austeri monaci che nelle loro storie di que’ tempi s’occuparono soltanto a mostrare il valore e la devozione dei pellegrini.

Le cronache di tutti i popoli ivi convenuti riportano canti delle varie crociate, che servivano di eccitamento, di lode, di legame fra genti tanto diverse di costumi e di favella, e che per questo solo linguaggio poteano comunicare.

E se pei canti degli eserciti del Signore serbaronsi i documenti migliori alla storia, che dalla loro tradizione ebbe luce sulle confuse glorie ed infamie di quelle imprese, da quella confusione medesima rinvenne estensione e potenza quella espression generale delle passioni, quella tradizione fedele delle memorie; [94] e la virtù prima del canto trovò in quelle imprese il pratico suo sviluppo.

Di qui propriamente può riconoscersi il canto comune linguaggio; e di qui il suo concetto diventa universale: con religione più meditata e con maggior cognizione se ne apprezza il suo culto.

Ma nello straordinario convegno delle nazioni dove ogni popolo diede i trovatori delle sue speciali espressioni; là ove la legge universale, per la più facile intelligenza, tutto associa ed assimila; ove confondonsi le acque alla lor confluenza, e perdono forse le speciali loro virtù, un avvenimento prodigioso ci si appresenta: il bel fiume delle itale melodie non si perde e confonde; portando seco nuovi tributi procede distinto, demarcato sempre e potente da diffondere le sue ricchezze ad altrui fecondamento.

Però un movimento così straordinario, una esaltazione sì grande di sentimenti, segna un’epoca nuova anche per la manifestazione più fedele di quanto l’animo sente; e a questo punto della storia del canto, io riconosco una demarcazione simile a quella che notasi dalla innocenza allo sviluppo, nel terzo periodo della vita; veggo la natura che si conforma ad una stagione diversa, trovo una nuova maniera nella espressione del suo linguaggio, che lo sento rivestito d’una aria meno semplice, meno rozza, meno uniforme; e di qui fisso l’epoca romantica anche pel canto.

Altri, segnando l’epoca romantica della letteratura sullo scorcio del passato secolo, quando nella poesia, nelle novelle, e nelle opere della immaginazione si appalesa l’impronta d’una insolita tenerezza, d’un languore o abbattimento estravagante, segnar vorrebbero il passaggio medesimo anche alla musica, che [95] comparisce melanconica e voluttuosa, e, al loro dire, melodiosamente lamentevole come la ispirazione dell’epoca[74]. Ma io senza punto fermarmi in questo luogo a discutere sugli argomenti della pretesa demarcazione letteraria, nè tampoco occuparmi della trasformazione della musica in generale nell’epoca assegnata, io non ammetto, in questa l’età romantica del canto, che da ben più remote origini io rilevo, e che trovo palese quando la libertà più s’opponeva al sistema ed al classicismo; per cui fermando ai tempi mediani le prime forme romantiche del canto, vorrei segnare per questo nel nostro secolo un nuovo periodo — la età sua romanzesca —.

Infatti ben’altra cosa sono le maraviglie di quest’epoca recente, e le licenziose vaghezze dell’evo medio.

Nella mia epoca romantica del canto, quand’esso all’influenza di circostanze straordinarie, e all’impressione di stravaganti concetti, si veste novellamente di forme strane e diverse, veggo il canto semplice e primitivo separarsi da quello, e rifuggire quasi dalla profana riforma.

E quivi subito riscontro due scuole: una per l’antico costume, conservata nei templi e nei monasteri; l’altra pei novatori e per l’esercizio de’ nuovi trovati, errante nelle sale, nelle arene, pei carubi[75] e pei teatri.

Torno quindi a rammentare la scuola del teologo di Cologna, colla immobilità del suo canto misurato, gareggiante colle nascenti scuole mondane del canto [96] libero e capriccioso. E all’età medesima del 1050, quella più tetra ancora di Odoardo Confessore nella Abbazia del Westminster. Quella di Pietro Cantore e dottore a Parigi sul finire del duodecimo secolo.

Da quest’epoca di transizione sento l’êco monotona, eppure anch’essa romantica, del salmodiare fermo e grave che Francesco da Assisi prescrisse ai discepoli; la famosa notazione sulle parole del Dies irae del padre Celano (1300); quella sullo Stabat del p. Todi. E coll’êco de’ freddi chiostri franciscani, quella profumata del Casella fiorentino, maestro dell’amoroso canto — che nella mente mi ragiona — per cui Dante nel 1300 sentivasi ancora dolcemente commosso[76].

E commiste alle canzoni del prediletto amico, intendo le ispirazioni che venire doveano all’animo del divino poeta dalle stanze del Portinari (1274), ove Beatrice e i cavalieri galanti sposavano al liuto le cantate del Calendimaggio.

Nè solo lungo le rive dell’Arno ed i versanti delle circostanti colline toscane, mi risuonano dai fioriti prati e dai riaperti veroni dei palagi le Maggiolate[77] espresse dagli abitatori delle apriche piagge, dai principi e dalle dame; ma dai campi e dalle regie di tutta l’Italia, e dalle contrade di tante altre nazioni, che ab antico col rinascere della natura usarono salutarne le bellezze e invitare gli amanti agli amorosi ritrovi[78].

[97]

Tale è una delle più splendide feste che ancor si celebra nell’India sacra a Venere Sivaitica. In Russia le ragazze procedono cantando alla Selva, staccando ramoscelli di beriosa (Maibaum).

In Svezia e Germania, l’usanza popolare degli antichi maggi, o canzoni per tal circostanza, si lega ovunque col calendimaggio e colle antiche fiorali italiane.

Mentre, da quest’epoca, trovo le bolle de’ Pontefici che istituiscono presso le cattedre metropolitane i Cori de’ sacri cantori, che con fissati stipendj e con norme quasi uniformi suppliscono alle indebolite voci del popolo; scorgo i principi non accontentarsi più dei buffoni e de’ menestrelli, e circondare le loro mense di istruite compagnie che traducono col canto i leggendarj racconti e l’ebbrezze delle passioni.

Le ballate svegliano dal letargo le desiose donzelle; la furtiva romanza fra la verdura del giardino le riadormenta nei loro sogni dorati.

Le litanie riuniscono e rallegrano le processioni dei pellegrini nei lontani deserti; e da quelle proposte e risposte traggono origine forse le figurazioni del canto, probabilmente per questo, da Eximeno attribuite ai bassitempi, che poscia più accelerate s’addimandarono fughe, già note ai compositori del cinquecento, e che Berardi e Zarlino fanno della loro epoca.

L’Alighieri infatti, il quale colla frase dell’Aretino «dilettossi di musica e di suoni» onorò un Belacqua che al suo tempo avea rivestiti canti e concertate note in tali forme da maravigliar l’animo del divino poeta avezzo a fissarsi nelle più sublimi cose; onde nel suo Convitto ebbe a dire: «la musica trae a sè li spiriti umani, che sono principalmente vapori [98] del cuore, sicchè quasi cessano da ogni operazione; si è l’anima intera quanto l’ode, e la virtù di tutti quasi corre allo spirito sensibile che riceve il suono[79]

Nel secolo decimoquarto, dopo le musicate canzoni e lunghe di molte stanze in cui Dante volle riserbato il volgare altissimo e il tragico stile, messer Boccaccio certaldese e Giovanni fiorentino, sul finire di ciascuna giornata dei loro novellieri, volgeano a cantare nelle brigate gentili le loro ballate di volgare più facile e famigliare (1313-1375). Giullari e cortigiani ricorrevano al Petrarca per aver cose sue da cantare nelle sale e nelle piazze d’Italia (1304-1374).

Jacopo da Bologna e Giov. fiorentino musicarono il medesimo suo madrigale «Non a ’l suo amante più Diana piacque», e Ser Lorenzo (forse Masini) quello «Come in sul fonte fu preso Narciso».

Francesco Sacchetti componeva ballate, ed egli medesimo dava a loro il suono (1355-1400).

Un Jacopo toscano, l’architettore forse del tempio d’Assisi[80], era stato maestro per cantare a un Gherardello, ricordato dal Villani con altri cantori di quel tempo che in Firenze eransi resi celebri, quali Lorenzo Masini, Don Paolo tenorista, e Fra Andrea maestro in S.ta Maria del Fiore.

I medesimi sunnominati scrittori Filippo Villani e F. Sacchetti fanno menzione di Fra Carmelito, di Gian toscano, del Cicogna, dello Scapuccia, del benedettino Donato da Cascia, musicisti; e di un Giovanni da Cascia che dopo aver poste le note alle [99] messe pel duomo di Firenze, passò alla corte di Mastin della Scala in Verona, per far mandriali e suoni, in gara con altro compositore bolognese, forse quel ser Jacopo medesimo che fu compagno e continuatore dei lavori di Arnolfo, o un fra Bartolomeo benedettino nominato in quel tempo.

Perocchè allora la musica con l’aritmetica, la geometria e l’astronomia faceva parie del quadrivio scientifico in cui s’informavano gli uomini d’ingegno e di studio. Come tale rifuggiva dal frastuono delle ferrate mazze, delle lotte di parte, onde per quelle specialmente de’ Guelfi e Ghibellini, trovò un primo e curato asilo appo i Francescani, i quali d’altronde con siffatto mezzo meglio attiravano il popolo ai templi.

Ma sopratutti i chiesastici, modulatore di dolcissimi canti fu Landini Francesco, nuovo Omero toscano. Nato in Firenze nel 1325, acciecò da fanciullo pel vajuolo, e come disse il Villani, cantò per alleggerire l’orrore della sua perpetua notte. Giovanni da Prato lo encomia siccome musico teorico pratico; e Coluccio Salutati segretario della repubblica, dice del Landini: «Glorioso nome alla città nostra e lume alla chiesa fiorentina proviene da questo cieco». Lo si ricorda dai cronacisti siccome la delizia delle brigate eleganti di Villa Paradiso, dove accompagnava i suoi canti colla Sirena delle Sirene (limbuto o mezzo canone) strumento di sua invenzione. Egli medesimo poi dettò in esametri la sua apologia con fare dantesco. Era zio del riputato messer Cristoforo poi commentatore di Dante. Ammirato dai Signori di Cipro e d’Austria. Fu coronato d’allòro in Venezia intorno al 1362, dov’erano convenuti illustri principi; e moriva nel 1397.

[100]

In quel tempo famigerati cantori erano pure Filippotto da Caserta e un Antonello suo concittadino e seguace.

A Padova brillava in rinomanza il Marchetto proverbiale maestro de’ musici; ed ivi pure, un Dattalo e un fra Bartolino.

A Brescia sorgeva Ottolino; a Lodi fiorì un Gafori fino al 1450; a Genova un fra Giovanni; Matteo e Nicolò Proposto a Perugia; e Vincenzo da Imola e Corrado eremitano da Pistoja, lasciarono memoria dei loro canti in Italia.

A Roma, alla corte pontificia, trattenevasi un Zaccaria quale maestro cantore del papa, e quivi specialmente e in altre chiese d’Italia si riscontrano nel secolo decimoquarto alcuni altri cantori che appariscono di origine straniera, quali, un fra Egidio, Egardo, Arrigo, Brenon, Sclesses Jacopino, nominati dai cronacisti fiorentini.

A Venezia, parimenti da quell’epoca, mercè i proprj e gli avveniticci cantori ordinatisi nel coro della maggior basilica, per ducale decreto, si può dir fondata la Cappella Marciana, le cui memorie ascendono appunto al 1318. Datano da que’ tempi anche i libri corali che si conservano negli archivj famosi.

Mistro Zucchetto primo organista ducale, e fattore di curiosi canti, comincia la serie de’ Veneti illustri e de’ forastieri famosi nelle cantorie Marciane concorsi.

Successe a lui mistro Francesco da Pesaro nel 1336, sedendo sul trono ducale Francesco Celsi, che Petrarca nelle sue Senili appella vir vere celsus, avendone di presenza sperimentata la magnificenza nelle feste solenni date da quel Doge pel ricupero a Venezia [101] del regno di Candia, feste che specialmente ispirarono i canti del suddetto Omero toscano.

Que’ mistri organisti, fra quali furono Bernardo Murer (1445), Bortolo de Vielmis (1459), indi Annibale padovano, dovevano aver cura specialmente degli otto putti veneti diaconi che col decreto senatorio de’ Pregadi 18 giugno 1403 erano stati ammessi in San Marco, col dono di un ducato il mese per allettarli a imparare e cantar bene, e mutaronsi in maestri nel 1500, con quel Pietro De Fossis — de populo — che Pier Contarini nella sua Argo vulgare indicò grecamente il Chorodidascalus ed insieme il Phonascus della Cappella — ben istrutto dal cantor Apollo e che le Muse chiamano per compagno ai canti suoi — primo stipendiato a 50 ducati annui come cantore, ed altri 20 come maestro! Epoca famosa a Venezia, in cui viveva Nicolò Vicentino, che istituì il maggior de’ maestri della Marciana Cappella, Adriano di Dionigi Willaert nato in Brugges nel 1480.

Par che Venezia, la quale alle terre fiamminghe era specialmente legata pei traffici, per cui vi mandava annualmente la così detta Armata di Fiandra, vi trasmettesse il musicale suo genio. Willaert vi discese, e di suo costante studio onorò la bella ispiratrice. Malato il Fossis nel 1525, lo supplì per due anni Pietro Lupato cantore, cui successe stabilmente il Willaert. Sua mercè nel 1530 s’instituì in S. Marco la scrizione dei libri del Canto fermo, nobilmente eseguita da prete Ambrogio da Cremona a tal uopo stipendiato; e s’aumentò la cantoria di 4 voci, due soprani, un tenore e un basso; s’introdusse il Coro Spezzato ossia la division dei cantori in due o più [102] cori ciascuno a 4 o più voci che alternavansi e riunivansi assieme; e s’arricchì la Cappella di composizioni cantabili d’alto pregio e di nuovo trovato. La Susanna, cantata a 5 voci composta da Willaert, fu segnata come primo tipo di que’ Oratorj che per oltre due secoli furono poi in Venezia delizia delle sue Chiese, rarità d’Italia, perchè da quest’epoca, come vedremo, anche a Firenze ed a Roma diffusa.

Non pertanto fin da quell’epoca tali composizioni passavano oltrecchè nelle Fiandre anche in Germania, ove ristampavansi, come fan fede i lessici e cataloghi di Lipsia, Norimberga, ed Augusta. Depredatori ed incendj a noi non lasciarono di quel maestro che le Villereccie canzoni (villotte a 4 voci) fra quali la Canzon di Ruzzante scritta da Andrea Calmo poeta di quel tempo, e i Madrigali a 5 voci dedicati alla dama Lucrezia Chiericato che egli avea ammaestrata nelle grazie del canto[81]. Willaert ebbe a prediletto suo cantore un prete Francesco da Treviso, ed allievi assistenti fino alla morte, che fu al 7 dicembre 1562, il suo compatriota e successore Cipriano Rorè; Giacomo Buus, pur questi interinalmente maestro, quando per ordine del Doge Pietro Lando, 1541, obbligati i Cantori tutti di San Marco a giudicare giuratamente quale ritenessero più degno a quella carica, — per majorem partem cantorum Ecclesiae praedictae cum eorum juramento Jaches Buus fuit magis commendatus; — il Merulo e Zarlino, che col procedere dell’epoche ritroveremo.

[103]

Due mesi prima di sua morte gli fu concessa dai Procuratori di S. Marco la istituzione della così detta Cappella piccola, in cui una mano di cantori meglio periti disciplinavano li detti Zaghi, come semenzajo della Cappella Grande. E primo capo ne fu Baldassar Donati cantore contralto, con cinque putti soprani (salariati a 10 e 12 ducati l’anno) de’ quali conservansi i nomi; e furono: Achille e Andrea Zucchelli, Gaspare Bolognesi, Alberto e Nicolò di Marco Michiel: ma tale scuola non sopravvisse al maggior maestro[82]. O a meglio dire restò offuscata dallo splendore della Cappella Grande in quell’epoca, dove, oltre i grandi sunnominati maestri, cantavano Giuseppe Guammi di Lucca, Gian Paolo Savi prete organista da Vicenza, i veneziani Paolo Giusto da Castello, preti Bortolo Moresini, Marcantonio Negri, e Zuane Bassan o Bressan (maestro de’ cantori del Seminario ducale 1596), Costanzo Porta, Afola, Ponzio, Gastoldi, Colombani, Leoni, Giulio Martinengo, e quel famoso contralto prete Zuane Chiozzotto che fu Giovanni Dalla Croce, il Salmodista a quintetto, maestro nel 1590, e predecessore del Monteverde.

Risalgono al secolo XIV i libri e le memorie della non meno illustre Cappella di San Petronio in Bologna nella quale fu istituito il coro per la Bolla di Eugenio IV (4 ottobre 1436) cominciato con 14 cantori stipendiati e conta già cinque maestri prima dello Spataro, del Cimatore e del Ferrabosco che vi accrebbero lustro nel 1500, e de’ quali pure avremo a dire.

[104]

Prosperando così in Italia la musica e la poesia, la vicina Francia tentava imitarla, e nasceva un ricambio delle arti più gentili fra le nazioni. Anche i Fiamminghi chiedeano all’Italia le sue canzoni e le musicavano, onde alcune se ne conservano nei codici musicali di quel secolo: ben poche e infelici in confronto della ricchezza ed eleganza del Canzoniere musicale italiano, pur dinotanti la corrispondenza allora graziosamente iniziata[83].

Così la Spagna, verso il 1400 s’era volta all’imitazione delle cose italiane ai riguardi del canto e della poesia, benchè diverse dall’indole sua nazionale, cui s’attagliavano le idee gonfie, le metafore pompose, le espressioni sonore; e per la nuov’arte che riformavasi in Italia, lasciava le sue fervide romanze traenti all’arabo, le ultime delle quali celebravano le avventure de’ Zegri e degli Abenceragi o la impresa di Granata, rimaste soltanto alla negletta ma fedele tradizion popolare.

In Danimarca verso il 1430, Erico XIII, alle nuove musiche siffattamente s’esalta che smarrisce la ragione, e s’accende fino a sitire e correre al sangue.

Narransi eguali impressioni succedute alla corte di Enrico III, quando alle nozze del duca di Joyeuse, [105] cantando Claudino, i cortigiani in furore, si trasportarono tanto da metter mano alle armi, e non per la presenza del Re, ma pei cangiati modi di quel musicista ripresero la prima calma. Effetti non incredibili, qualora si pensi alla potenza di Davide e di Timoteo sui grandi spiriti di Saule e d’Alessandro: — Cum caneret Thimoteus, Alexander perpulsus erat ad arma capescenda —, e alle successive sperienze de’ fisici sul poter della musica.

Son noti gli eccessi degli stessi cantori: L’ultimo de’ Tolomei, padre a Cleopatra, confuse la regale dignità colle stravaganze da zingaro, onde Auleta (o flauttista) per la musica, e Monaulos (ossia pusillo) per le pazzie fu sunnominato.

Nel XIV secolo Guittone Aretino scriveva: Temporibus nostris inter omnes homines maxime fatui sunt cantores. Duecent’anni dopo, quando col medesimo asserto scusavansi le ebbrezze del Parabosco a Venezia, si mostrava che que’ tempi non erano ancora mutati.

Son noti i fremiti d’un Petter olandese, che di sua voce rompeva i vetri, come i sassi l’Orfeo[84]; le bastonate del Lulli, i pugni coi quali il sapiente Meibomio finì una della sue predilette e studiate canzoni greche, cantando innanzi a Cristina di Svezia, e fiaccando il viso a Bourdelot medico e buffone di quella regina.

[106]

Veracini, violinista e compositore, essendo a Londra nel 1714, gettossi da una finestra, però senza morirne.

Tartini suo seguace, evocava gli spiriti, ne’ suoi sogni favellava col diavolo, se lo rendeva schiavo e de’ suoi canti ispiratore[85].

Il fisico Baglivi coi canti vivaci e prolungati eccita i nervi degli irritabili Pulliesi impressionati dalle tarantole, e col delirio danzante li salva da quello della melanconia[86]. Fra Memmo Dionigi cantore e organista veneziano divenuto cappellano del re d’Inghilterra lo risanò e confortò coll’arte sua nella pestilenza fatale del 1517.

Similmente Farinelli rimuove il misantropo Filippo V di Spagna dall’abbandono di sua persona e del regno, e sull’animo del monarca impera talmente col canto, da essere accusato quale stregone dagl’invidi cortigiani (1750)[87].

Bénazet colle melodie del violoncello che s’avvicina alla voce umana guariva dalle sincopi; ed alla sua volta ei fu guarito da Kreutzer in un insulto di tifoidea.

Il Dott. Rocques asserì che, in un ministro del 1.º Napoleone fu dissipata una specie d’insania cagionata [107] da soverchio affaticamento di spirito, per forza del canto.

Karsten così deliziando Gustavo III, governava con lui le sorti della Svezia.

Egli è che questa dolce melodia molce ed acqueta, mentre vibrazioni più armoniose esagitano più facilmente.

Quanti compositori nell’eccitamento continuo delle sensazioni nervose non si trasportarono a stravaganze e follie?

Non ha guari, uno dei seguaci di Wagner, abilissimo musicista della Germania, Eberle, diresse i Maestri Cantori a Berlino e finì pazzo. (Maggio, 1870.)

Vediamo Gounod compositore e cantante, in dissesti cerebrali ricaduto.

Nei cantanti, alle spirituali più che alle fisiche influenze accagionasi non di rado l’esaltamento. Fu detto che l’arte, è come aquila sublime, che solo ai cieli confina, è divinità egoista, che colle sue emozioni piacevoli o dolorose vuol tutto, sensazioni, sentimento, percezione, sacrifizj, amore, letizia e pianto, e tutto esige con un ardore, con un trasporto che attinge i limiti della stranezza, convertendola talvolta in vera e violenta monomania.

Lo provarono Donizzetti, la Malanotte; e fra tanti ai quali l’arte divenne passione indomabile da levarli di senno, s’accennano attualmente il tenore Giovanni Ortolani, il baritono Spellini veneto (morto al manicomio di Milano, 1871), una Papini, ed altri.

La musica e i canti tolsero a parecchi la mente, ma a tanti la ricondussero; e ne parlano i morocomj che addottano tuttora i sistemi di cura melodica; Descouret la classifica: Incantatio malorum.

[108]

La scienza moderna ritorna necessariamente alle teorie ed alle sperienze de’ fisici e filosofi antichi, dei quali, in principio di queste carte, abbiam veduto la considerazione della doppia potenza musicale sull’animo e sui sensi dell’uomo. Ella è nella medicina delle passioni, come lo prova il prefato autore francese, che colle proprie osservazioni suggellò quanto altri aveano affermato.

Daniele Bartoli, parlando de’ Suoni e Tremori, Roma 1679, Gerbertus e Wald, nelle loro Istorie[88], Bacchius e Bachmann nelle loro dissertazioni, l’aveano ripetuto.

Zulatti Francesco in Venezia, 1787, avea scritto particolarmente Sulla forza della musica nelle passioni e nei costumi; e Randolini Lorenzo, Dell’influsso sugli animi e sulle malattie, 1821.

Lichtenthal Pietro, in Alemagna, della Influenza sopra il corpo umano, 1811. — Basevi, a Milano, sugli Effetti nell’uomo, 1838, e Ferrario Giuseppe, sull’Influenza del suono, canto e declamazione nell’uomo in istato di salute e malattia, 1841[89].

Abbiamo i vecchi scritti del conte Gaetano Navara sulle supreme Significazioni della voce.

Il bene universale di questo misterioso linguaggio, non esclude dal suo culto nessuna classe o casta sociale. La sua potenza, pari a quella dell’arti sorelle, che piegò i principi a raccogliere da terra il pennello o la sesta de’ grandi artefici, non solo avvicinò regine e monarchi in nobile amicizia e a scambievole [109] decoro, ma trasse di più le maggiori grandezze a farsi emule del più genial degli studj.

Nelle antiche regie, come nelle moderne, non v’ha educazion principesca senza il bel serto del canto; e dove le cure impediscono, o mancano le doti indispensabili, l’udizione e la protezion de’ virtuosi suppliscono.

Negli antichi tempi vedemmo i re, i legislatori, i guerrieri mescere alle alte cure quelle poetiche del canto, o condur seco i cantori, ispirare le pugne, animare i trionfi, mitigare i lutti, rallegrare i banchetti.

Nel medio evo paladini e sacerdoti si fan trovatori, e quasi fosse mistica l’idea della liberazion d’un sepolcro, i genj si danno ivi la posta alla prima emancipazione universale.

Vedremo in seguito le corti di Francia, Prussia, Austria e Inghilterra rapite nei piaceri del canto, anche fra i flagelli della politica e dell’armi. Federico alleato a’ poeti e cantori; il nuovo Alessandro vinto da Crescentini e dalla Grassini; l’ultimo Imperador de’ Romani schiavo a Marchesi e a Donizzetti.

Cantori nomadi — Influenza straniera — Maestri-cantori tedeschi — Tavolatura — Corporazioni — Trovatori alle Corti — Canto romanzesco.

I genj del canto delle varie Nazioni, affratellatisi nel movimento religioso e romantico delle crociate, non si tennero più separati fra loro e lontani.

Dai primi secoli di questa nuov’era troviamo i cantori più abili ed esperti farsi professionisti; e da una città all’altra, da una in altra terra, far risuonare le loro voci, comunicare i loro modi e i nuovi trovati, trasfondere le rispettive ispirazioni.

[110]

Non è a dire se i figli dalla terra prediletta al genio del canto si trasportassero più frequentemente a deliziare popoli meno fecondi.

In tutti i chiostri più antichi della cristianità, in tutte le corti d’Europa, dagli oscuri tempi gl’itali cantori ebbero plauso.

E di stranieri, oltre i suddetti, fra i più noti e da noi bene accolti, troviamo le memorie di un Guglielmo di Pietro francese, stipendiato fra i cantori di san Petronio in Bologna, con Giovanni Mariotti di Firenze, Bernardo da Reggio, e Tommaso Marinasi tenore, dal 1463 al 1466.

Quivi pure, nell’anno successivo, un Roberto di Inghilterra maestro effettivo del Coro[90].

Un padre Boemo nella monastica cantoria d’Assisi.

Per la munificenza de’ principi Estensi, trovarono il loro primo nido in Ferrara i maestri della scuola Fiamminga, che nel secolo XV, sventuratamente parea soverchiare l’italiana, cominciando sin d’allora il contrasto alla melodia.

I quattro Jachetti, conosciuti musicisti belgi, vivono alle varie Corti italiane del secolo XVI. Uno d’essi canta cum uno sono infesto anche in Bologna[91].

De Fossis, precitato cantore fiammingo, detto anche Fossa, venne eletto nel 1491 dal Veneto Senato, Magistrum Capellae et puerorum nostrorum, e tenne il posto fino al 1525. Quando Leonardo Loredano doge, ospitò nel 1502 Anna Candola Aquitana principessa di Francia, sposa a Uladislao re d’Ungheria e Boemia, lo storico delle suntuose feste allora tenute, Angelo [111] Gabrieli, rende testimonianza del molto onore che il Fossis si fece con una Cantata sui versi latini fornitigli da fra Armonio organista, cantata che la regina volle portare a ricordo ne’ suoi Stati (così Sanuto).

Jachetto Berchem, a Venezia, nel 1561, forma tre libri de’ suoi Capricci, e pone le note per quattro voci ad una quantità di Stanze dell’Ariosto.

Archadelt Giaches, aveva già scritti 56 Madrigali a quattro voci nel 1539, pure a Venezia dove fu maestro, e Giaches De Wert ne compose a più voci nel 1570.

Meglio di questi, il surricordato fiammingo Adriano Willaert compose a Venezia fra il 1527 e 1545, benchè risentisse di sua esotica natura, e trovasse con tanto stento i suoi canti, e tanto vi meditasse da acquistarsi talvolta la derisione.

Ciprian Rorè e Giacomo Buus suoi compaesani ed allievi non riuscirono di lui migliori. Superati tutti ben presto dal restauratore Zarlino.

Lassus di Berg, detto l’Orfeo, in Baviera dove morì, corse ammirato in Francia ed Inghilterra, 1550; compose anche a Venezia nel 1576, ma trova difficile far brillare il suo canto dove vive il Palestrina.

Jacobus De Kerle passa oscuro fra i compositori delle Venezie nel 1562. I mercanti di Norimberga Hassler e Grüber s’intrattengono a cantare nella scuola dei Gabrieli.

Giovanni Girolamo Kasperger tedesco, canta nel palazzo Pitti di Firenze, innanzi alla granduchessa Maria Maddalena d’Austria, 1612, ch’essa sola lo intende.

L’imperatore Carlo VI, canta appassionatamente i Canoni che da tutte parti d’Italia gli vengono offerti [112] e sforzandosi d’imitarli ricambia colle sue composizioni. (Avea Tartini alla sua Corte.)

Un altro Roberto, musicista francese, maestro alla corte di Francia nel 1686, scrive Moteti a gran coro, che in Italia non piacciono, e nel suo paese medesimo diconsi studiati per non dirli seccanti.

I Francesi infatti, come fu sempre lor vezzo, traevano il buono e il meglio anche dei canti, dalle nazioni vicine più inclini a quest’arte, e per via d’imitazione più audace che felice e bisognevole quindi di tutti i soccorsi de la réclame, detta altrove cerlatanismo, li vediamo appunto attorno a quel tempo, benchè tardo, mettersi in luce.

Gombert Nicolas raccoglie i madrigali italiani e belgi, volta le parole nel suo idioma, altre ne musica egli stesso, e negli anni 1544-45 pubblica ad Anversa otto libri francesi di canzoni a 5 e 6 parti.

M. Josquin avea fatto altrettanto a Venezia; dove trovo nel 1579 altri Madrigali a cinque voci di Aurelio la Fasya; a quattro voci di Ambrosio Marien d’Artois, nel 1583; due libri simili nel 1587 di Giovanni De Macque, altro di Verdelot; e una raccolta di Canzoni italiane e francesi di Jhan Gerò nel 1629.

Più tardi, 1670, a Parigi una Elisabetta-Claudia Jacquet de la Guerre ebbe grido di saper condurre con arte la sua voce mirabile nelle Cantate da essa medesima composte, ad alcune delle quali sopra Céphale et Procris, si diè a Parigi il nome di Opéra.

Anche un Adriano Le Roy, nel 1570, freddo autore di cantilene da accompagnare col Cistro le intitolò Libro Cantuum. Ad altre simili, un Henrico Iuniore dà il nome di Phantasie.

[113]

Un altro di Parigi, il regio musico De Chancy si studia d’imitare i canti alemanni (1620).

Il Boëssetto (cantor del giovane Amarilli), riputatissimo allora, non so se originario francese, ma prefetto alla musica della regia camera, compone traducendo in francese le cantilene spagnole.

Chè, anche i musicisti della Spagna s’aveano fatta rinomanza in Europa specialmente nell’arte di toccar la Guitarra, mercè la quale non s’impigliarono granfatto nello stile madrigalesco, ma serbarono alla semplicità i loro canti e quali convenivansi al modesto accompagnamento.

Un Lodovico de Briçneo, celebre citaredo spagnolo, pubblicava a Parigi nel 1626, pel solenne ingresso della Regina, una raccolta di canzoni distinte coi nomi di Espagnolete, Saravanda, Romanesche, Follie, Monache, Passacalli o passeggiate; e le Toccate Nizzarde, correnti, gagliarde ecc., dai quali nomi ben si può rilevare anche nel famigerato Spagnuolo l’importanza dell’elemento italiano.

Infatti Cristoforo Bianco, o Bianco, avea dato alla luce in Roma poco tempo prima, e precisamente nel 1614 alcune Tavole a norma di compor canti accompagnati da liuto, gravicembalo e viola da gamba; e il Frescobaldi nell’anno seguente e successivi le sue più celebri Intavolature; norme di cui i musicisti contemporanei, fra quali il francese ab. Merçenne, tosto si valsero e profittarono.

Nè solo del Bianco, ma d’un altro italiano fra i cittaristi famoso nel tempo stesso che Lodovico Briçneo tanto celebrato, viveva a Parigi, vien fatta menzione dal suddetto Merçenne, cioè, Pietro Bellardo — qui praestantissimorum totius orbis Cytharedorum edet cantilenas. — Di [114] solito componeva i suoi canti per cinque parti (superior, contratenor, tenor, bassus, pars quinta, o superior diminuita), secondo l’usanza di più voci, generalmente mantenuta ancora in quel tempo nelle galanti adunanze, e non più rigorosamente osservata nelle clesiastiche.

La curiosità presso i popoli di ascoltare da soli gli stranieri e nomadi trovatori e di sperimentare isolatamente i modi e le forme dei loro canti, avrà forse potuto indurre, e appunto dal principio del secolo XVI, la interruzione de’ pubblici canti che fino allora non ammettevasi se non in coro, per sentire nelle feste, nelle drammatiche rappresentazioni, e più specialmente nelle chiese, le modulazioni d’una sol voce: l’a-solo.

Ma di certo, e negli spettacoli e nei templi, quel medesimo progrediente sviluppo che, com’ho accennato, introdusse l’aria mondanamente appassionata del canto anche d’intorno ai freddi ed immobili leggii dei sacri Salmi, fu quello che scosse anche la primitiva costumanza e spinse l’antica scienza e l’autorità a ritemprarsi nel sentimento e nella libertà popolare.

Il canto ecclesiastico che, se propriamente univa tutte le voci dei sacerdoti e del popolo a favellare in coro all’Eterno, pure non permettea l’affettuoso slancio d’un solo, o la solitaria preghiera interprete di mille passioni e commovente tutti gli animi e il cielo, il canto ecclesiastico modificò fino a rimettere ad una sol voce la espressione potente de’ mistici suoi concetti; e s’intese la modulazione di un solo, cosa strana allora anche nelle Chiese.

Nè bastò questo; chè a far più solenne il religioso colloquio, e a meglio figurare la dolcezza quasi [115] dell’invito e la potenza dell’adesione, con geniale contrasto, simile alla libera espansione chiesta dal popolo dei sentimenti suoi e de’ suoi voti, s’unì anche il suono a que’ canti; e l’accompagnamento dei musicali strumenti cominciò ad armonizzare colle voci peregrine e coi salmodiali coristi.

Se operavasi lentamente sì grande trasformazione nell’antico e grave linguaggio dei templi, al di fuori procedeva a passi giganti la riforma; e la favella degli angeli veniva dagli amori degli uomini e per essi quasi tutta rapita.

I nuovi filosofi e dottori avevano dovuto riconfermare le sentenze degli antichi intorno alla potenza e universalità della musica. Sant’Isidoro aveala riconosciuta dottrina indispensabile; Boezio, una di quelle scienze senza il cui ajuto era impossibile giungere al vero; ed il Salutati, vedendone i miracoli nella sua Firenze, rinnovava il giudizio di Ermete, testimoniando ne’ suoi scritti intorno a cose di musica, essere questa «una scienza enciclopedica occupante anche il campo della medicina

Con essa trattavansi i patriarcali idilj, le profetiche visioni, sacri argomenti, affanni amorosi; cantavasi la Divina Commedia; l’Acquisto di Pisa (1400); Tubalcain e Cecilia; il Cainita e la Patrizia romana; l’Officina e il Paradiso[92]; le Danze dei Martegalli o Pastorelle di Provenza, da cui appunto le Martigalle, popolari canzoni passate ben presto alla cavalleria[93].

Dal Madrigale, lo Strambotto, canzonetta nazionale [116] giocosa che si musicava in Italia nel 1400, e che si canta tuttora in Sicilia: e di quella natura l’italiano Sonetto, poesia a breve suono musicata; la più estesa e più seria Canzone; e fra questa e quello la Ballata e il Rispetto, siccome parti di liete danze[94].

Quindi le caccie, i cori, i complimenti, composizioni tutte che richiedevano necessariamente nuove modulazioni melodiche armonizzanti col senso delle parole; e per conseguenza sempre più lontane dalle tradizionali forme, mentre peraltro teneansi legate agli stessi canoni e alle solite tematiche imitazioni.

Di tali canti madrigaleschi, di tante forme e sovra mille argomenti la moda avea innondate le corti e le contrade; onde Antonio Squarcialupi maestro in S.ta Maria del Fiore ne offria un’enorme raccolta a Lorenzo il Magnifico[95]; il Principe di Venosa, Carlo Gesualdo ne dedicava a tutte le dame, ed i maestri li riconoscevano pieni di scienza e di gusto; Luca Marenzio, bresciano, famoso madrigalista, ne musicava anche per Londra ed Anversa; Annibale Guasco, tessendo la Tela cangiante, nome che diede alla sua raccolta, ne scrisse da solo fino a tremilacentodieci variati; e Fra Capuci oltre a cento, cui diede tema la vita di San Nicola da Tolentino.

[117]

Celebrati madrigalisti col barone d’Astorga, furono Luigi Prenestino, Pomponio, Nenna, Tommaso Pecci.

Era così venuto il 1500; e veramente la spontaneità poetica e la bella semplicità popolare dei secoli del Casella e del Landini, erano tralignate in pedanteria e convenzionalismo, in Italia, e presso le Nazioni che l’aveano imitata.

Per l’eccessivo amore di novità cadeano i maestri italiani nelle difficoltà e sottigliezze che dalla novità distoglievano: con simile studio gli Spagnuoli dimenticavano la loro vera poesia, la romanza: per tutto, le libere espansioni e il brillante colorito cavalleresco, degeneravano in compassate composizioni da gabinetto; le schiette ispirazioni popolari cadeano nelle affettazioni e negli artificj della bottega.

A questa gelida arte s’abbandonarono specialmente i maestri cantori della Germania (Meistersinger); allorchè quivi i canti dei minnesingeri e le epopee ammutolivano, «perchè i principi non aveano più orecchie per udirli, mano per premiarli», e si estendevano invece le maestranze e invigorivansi i Comuni.

I meistersingeri si accolsero in corporazioni, che in varie città univansi per coltivare il canto e la poesia con statuti, leggi, insegne e ch’è più strano, teoriche impreteribili, secondo cui comporre e cantare. Il loro Codice, detto Tabulatura, li incatenava alle regole del mestiere. Norimberga fu la sede capitale di questa istituzione che si dilatò coll’arricchire delle città; la chiesa di S.ta Caterina fu il teatro più famoso delle loro fatiche che non produssero se non frutti afati[96]. Rozzi sperimenti drammatici furono quelli [118] più celebrati dei due meistersingeri di Norimberga, Hans Polz di Worms barbiere, e Hans Rossemblüt colorista.

Sì strane corporazioni musicali ebbero da Carlo IV, stemmi particolari siccome i principi ed i cavalieri; e così durarono fino al secolo XVII. «Senza vigore d’invenzione, ponevano mente soltanto alle forme; ma poichè v’entravano artieri e mercadanti, ed esigevasi per condizione prima la probità, ne fu ajutata l’educazione d’una classe numerosa quanto negletta[97]

E nel popolo si mantennero spiriti cavallereschi e religiosi; onde la mano della fanciulla era premio alla palestra del canto; e Lutero stesso che fu buon musicista, adoperò il grave stile e liturgico pel suo corale religioso.

Rimaneano poi salde nell’infima plebe le antiche tradizioni lontane dalle ricercatezze dei minnesingeri e dalle pedanterie dei maestri-cantori; canti appropriati al pastore, al mandriano, al contadino, al cavatore; ingenue e selvagge ispirazioni, rilevate a colori robusti e talvolta non disgiunte da efficaci melodie: tali le Macabre, o le Danze dei Morti.

Di queste bizzarre cantate arieggianti nella lor tessitura i fantastici segni di Alberto Durer, da far rabbrividire i fanciulli e da sgomentare i peccatori, l’eroico popolo Svizzero fece risuonare in que’ tempi le sue scogliere. Cantò la congrega del Rutli, l’orgoglio domato dei conti di Toggenburg e di Neufchâtel, la vittoria Sempach, le sconfitte di Carlo Temerario, l’ossario di Morat.

[119]

Walter di Stolzing improvvisatore, riveste col canto quanto la fantasia gli detta lungo le vie e nelle chiese di Norimberga.

Boner di Berna imita col canto gli orrori sublimi della natura e l’anelito di libertà; Giovanni Viol pinge la sua miseria; Vet-Weber di Friburgo canta le guerre e le stragi de’ nemici, e i patrj laghi tinti del sangue dello straniero, con voce aspra e forte come a quelle s’addice.

Anche la Spagna lascia le sue leggiere e fugaci romanze per ascoltare Don Inigo Lopez di Mendoza che interrompe le guerresche prodezze colle canzoni; Giovanni Mena da Cordova che propone al canto el Labyrintho; e Giovanni de la Encina che esprime sentimenti amorosi e devoti coi canti artifiziati e violenti detti letrillas e cantarcillos.

La Savoja dopo la pace stabilita da Emanuele Filiberto colla Francia, comincia a mandarvi i suoi ghirondaj che vanno ricordando i casi di Francesco I, e gli episodi di S. Quintino.

Anselmo di Faydit provenzale vende le nuove commedie cantabili, mentre il Mussato (Albertino), il Loschi, il Trissino, gettano in vece le basi della nuova tragedia italiana.

Elisabetta d’Inghilterra amava i mitologici canti, quanto detestava i precetti del papismo; e le nuove Deità della sua Corte sono le figlie d’Apollo e del Parnaso.

A Roma, fiera sempre de’ prischi trionfi, i Papi stimolati ardentemente ad emulare le antiche grandezze, pensavano essi pure a ristabilire que’ magnifici spettacoli che aveano deliziato la Grecia e gl’imperatori. Mutavano i miti soltanto; e fin dall’anno 1440, si vede [120] rappresentato sur una pubblica piazza, fra mille decorazioni e meccanismi un’informe azione lirica, sotto il nome di Conversion di san Paolo, con parti cantabili abbozzate dal musicista Francesco Barberini. Poco dopo, si fanno strada certe tragedie profane verseggiate da preti, da cardinali[98] e dai medesimi sommi Pontefici, unite al canto da Angelo Poliziano.

Clemente IX avea già una sala decorata per tali spettacoli, Leone X erigeva un teatro provvisorio al Campidoglio per far cantare una commedia di Plauto[99].

Il cardinal Dalla Rovere impegna Perrin e Cambert a comporre una Pastorale in musica per divertire la corte Francese.

Il Legato di Bologna chiama alla sua Cappella da quella di Roma (1548) Domenico Maria Ferrabosco, venuto in fama pei suoi madrigali a 4 voci (stampati a Venezia presso Antonio Gardano nel 1542) e per decorare le patrie solennità delle nuove musiche che, dopo Girolamo Cavazzoni, il Ferrabosco era il secondo dei bolognesi a pubblicar per le stampe[100].

A Venezia, quando ospitava Enrico III di Francia, la sala stessa del Gran Consiglio venia trasformata in scena per darvi uno spettacolo attraente e nuovo [121] di tal fatta, una tragedia di Cornelio Frangipane accomodata di cori e canti dall’organista della chiesa ducal di S. Marco, Claudio Merulo.

Alla corte di Sicilia, Guerin da Toledo vicerè, spiega un lusso inaudito per far cantare l’Aminta del Tasso, ed altra Pastorale di Transillo, componimenti accompagnati da intermedj e cori, musicati dal gesuita Marotta.

I Duchi di Ferrara sfoggiano nella rappresentazione dell’Aretusa, 1550. E la principessa Anna d’Este stringe intimità con Girolamo Parabosco, compositore organista di Venezia, protetto del doge Francesco Dandolo, socio a Pietro Aretino, ricciuto e biondo amico di Venere e di Bacco.

Gli Scaligeri attirano con premj a Verona i migliori giulatri, burlassi e canterini.

I Gonzaga pompeggiano a lungo nella patria di Virgilio e del Viadana; e fece epoca in Mantova la Psiche musicata da Alessandro Leardini per le Nozze del Duca Carlo II con Isabella Clara d’Austria; l’Arianna del Monteverde negli sponsali del duca Francesco, 1640.

I Farnesi fanno salire perfino le acque del Parma allo splendido loro teatro di corte, il Farnesio, nuovamente eretto nel 1618 per rendere più spettacolose e variate colle naumachie le azioni fantastico-liriche che vi celebravano. Per le musiche, il duca Ranuccio vi avea chiamato quel succitato Claudio che era nato a Correggio da Antonio Merlotti nel 1538, e s’era mutato il nome in Merulo, organista a Venezia, poi a Brescia, e maestro alla ducal cappella Parmense fino al 4 maggio 1604, nel qual giorno fu portato alla tomba dai quattro suoi distinti cantori Cristoforo Borra, Antonio [122] Bertinelli, Andrea Salati, Alessandro Volpino[101]. Il Farnesio fu indicato siccome il primo teatro eretto in Italia, dopo l’obblio degli antichi. Ma non è vero: chè, nelle cronache Vicentine trovasi essere stato eretto un teatro pel carnovale del 1539, nel cortile del palazzo Da Porto, dal Serlio, il quale lasciò scritto: «In Vicenza città molto ricca e pomposissima fra le altre d’Italia io feci un theatro et una scena di legname, per avventura, anzi senza dubbio la maggiore che a nostri tempi si sia fatta, dove per li maravigliosi intermedj che vi accadevano, come carrette, elefanti et diverse moresche, io volsi che davanti alla scena pendente vi fosse un suolo piano, la larghezza del quale fu piedi 12 et in lunghezza piedi 60, dove io trovai tal cosa ben comoda e di grande aspetto.» Lucrezio Beccanuvolo bolognese in un migliajo di versi conservò i nomi di più che 200 dame intervenute alla prima rappresentazione, di cui s’ignora il soggetto. Sembra però che vi agissero e cantassero anche gl’Istrioni chiamati da Milano, dove secondo le cronache milanesi di quel tempo, tali compagnie nomadi buffo-mimo-cantanti concorrevano e d’onde recavansi a variare le feste d’altre signorie. — Primo segno forse del centro artistico in quella piazza dappoi stabilito. —

Inoltre gli Accademici di Vicenza, mutato il nome di Costanti in quello di Olimpici, per sublimare il merito della Vicentina letteratura e perfezionare il gusto delle Arti imitatrici della Natura, ed oltre ai geniali loro esercizj rappresentare scenici spettacoli e [123] musicali, fin dal 1555, aveano dato il carico al perito socio Andrea Palladio di erigere nella gran sala del pubblico Palazzo un teatro in legno, nel quale fu splendidamente rappresentata la Sofonisba, la prima tragedia regolare italiana, del chiaro co. Giangiorgio Trissino, autore del primo poema epico italiano — L’Italia liberata dai Goti. — Alle quali nobili prove ispirato, concepì il Palladio la grandiosa idea d’architettare quel famoso unico Teatro Olimpico, che dovea riparare la perdita dell’antico Berga, e che cominciato nel maggio 1580, nel breve corso di quattro anni da Silla Palladio suo figlio ebbe compimento. A inaugurazione di tanto maestoso monumento di greco-romano stile, e a ristaurazione completa dell’arte antica, fu dato in quel nuovo pulpito l’Edipo di Sofocle, tradotto dal cav. Orsato Giustiniani con Cori e musiche magnificamente eseguite, onde tanti illustri scrittori quella prima rappresentazione del 1584 fecero vieppiù memoranda[102]. Una Cronaca di quel tempo peraltro devesi anche citare, che notò fra gli altri appunti: «il subbietto antico dell’Edipo non dilettò molto gli uditori avezzi ai costumi dei tempi più freschi. Il gestire delle persone del coro, il canto uniforme non lasciava intender parola, e non pur versi; ma prosa parevano in lor bocca le parole...»

Avremo a dire dell’Edipo riprodotto coi cori del [124] Pacini, per ottanta voci, nel 1847, che fu la quart’ultima rappresentazione in quel teatro, le cui simili forme non si videro che disseppellite a Pompei.

Nell’Olimpico anche il famoso Cieco d’Adria Luigi Groto, l’Omero veneto, si produsse colle sue Orazioni e co’ suoi Canti; e a somiglianza della Accademia di Vicenza, fondò quella degli Illustrati d’Adria, per le medesime nobili esercitazioni, 1565, in quei rinnovati arcadici tempi in cui musiche e lettere sortivano dai ritiri de’ religiosi cenobj, e brillarono già fra gli Ortolani di Roma, gl’Intronati di Siena, i Pellegrini di Firenze, gli Affidati di Pavia, gl’Illustrati di Casale, gli Elevati di Padova, gli Eterei di Venezia, i Filareti di Ferrara, gl’Invaghiti di Mantova, gli Addormentati di Anversa, nuove contemporane Accademie[103].

I Medici, de’ quali il medesimo Lorenzo avea composto i Canti Carnevaleschi di gran voga in Italia, affidano poi al Caccini, l’allegria de’ nuziali di Ferdinando e Cristina di Lorena, e quel riputato compositore che col Peri rese più celebri anche le nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV per la Euridice, appaga ancora una volta i gusti corrotti de’ spettacoli madrigaleschi musicando il Combattimento d’Apolline col Serpente; volgendo però in mente d’indirizzare a più nobile fine e più naturale, il bel linguaggio dei canti.

Chè tutti erano concepiti allora in quello stile, grazioso talvolta, ma sempre privo di passione, indifferente [125] a qualunque espressione, gravato dagli artificj, come le scene apparecchiate a riceverlo, e le mascherate figure che lo interpretavano. Le voci così impiegate, sprovviste d’ogni arte, spogliate dal sentimento, unite sempre agli scarsi e imperfetti strumenti che mai eseguivano parte diversa, non serviano che di corredo e di pompa allo spettacolo.

In generale, come nel 4.º e 5.º secolo dopo il mille, non v’era stata festa cavalleresca senza il lusso de’ trovatori, in appresso non v’ebbe adunanza elegante senza lo sfoggio de’ canzonieri e madrigalisti.

Allora il Provenzano menava per Francia la Servantese sulle avventure di Folchetto fabbro, conte di Narbonna, e abate di san Bruno — Trovator di lai maestro — anch’esso. Sulla qual novella, per trovare il suono e il motto, che volea dire nel nostro linguaggio moderno, improvvisare la musica e la poesia, non era chi vincesse un Arnaldo Vitale lombardo, che sfidò cantando nella tenzone d’amore tutti i trovatori, come correva abilmente la lancia co’ primi giostratori del suo tempo.

Quell’Arnaldo Vitale che cantando s’era «guadagnato a Tolosa il premio della violetta di fino oro, aggiudicatogli dai sette mantenitori della gaja scienza;» al quale, il cardinal Giovanni Visconti cedeva il suo grosso anello gemmato; e che ci vien ricordato dal Grossi qual gentile scudiere e buon poeta, — un di que’ pochi in mezzo a tanta ciurmaglia di trovatori, menestrelli e giullari di cui brulica tutta Europa — «scioperata genìa che girando di paese in paese con un liuto o con una mandóla in collo, se la scialava a tutte le corti bandite, a tutte le feste, per tutti i palazzi e i castelli, eccitando e tenendo in onore [126] la pazza prodigalità dei signori e dei principi. In secoli nei quali le comunicazioni tra paese e paese, tra provincia e provincia, erano scarse, lente e malagevoli essi portavano attorno le novelle degli avvenimenti pubblici e dei casi privati, pettegoleggiavano dappertutto, sfringuellavano d’ogni cosa, novellavan d’armi, di maneggi e d’amori, cantavano le glorie, o rivelavano le turpitudini dei grandi: spesso ne mettevano in cielo i delitti, o ne trascinavano le virtù pel fango, secondo che dava loro l’umore, o secondo che piacesse a chi li pagava...»

Allora il Tremacoldo prete e giullare, cantava al Conte del Balzo, le indennità del Menestrello; e la principessa di Rezzonico dal castello in cui venia «confinata a morir d’inedia dalla brutale gelosia del marito» diceasi, apprendesse ai lontani abitatori quella canzon lamentevole che correva a quei tempi attorno il lago di Como.

I canti che aumentavano la magnificenza de’ banchetti di Galeazzo Visconti sulla piazza dell’Aringo in occasione delle nozze della figlia Violante con Lionello d’Inghilterra, dove Petrarca sedeva, dettando le sue ballate, sono descritti dai lombardi cronisti.

I giullari e le cantatrici colme dei doni che comparivano all’ultimo bere dei commensali di Marco Visconti, furono pinti maestrevolmente da Tommaso Grossi, collega illustre che m’onora.

Quindi gli apparati e le feste di Poggio a Cajano e di Firenze, nelle nozze del magnifico Medici con donna Elionora di Toledo, ci furono tramandate, fra gli altri, da Pierfrancesco Giambullari[104], da cui abbiamo [127] una splendida testimonianza de’ canti e delle liriche rappresentazioni del 1539, situazione dell’arte, che appunto in Toscana, precedeva la famosa riforma colla creazione del dramma lirico.

Per farci un’idea adunque del punto culminante dell’epoca madrigalesca, e della fase pomposa che precedeva la creazione del dramma lirico, nato come Venere nuda dalla gonfia marea dell’Oceano, poche righe basteranno di quelle ampolose descrizioni.

Era Apollo, che finito il suntuoso convito Mediceo, compariva davanti alle mense: «vestito di taffettà chermisi coperto di tocca d’oro, con una cintura quasi di arco celeste, ed avea uno antico manto del medesimo drappo, aggruppato in su la spalla sinistra. Uno arco alle spalle e turcasso al fianco, calzato di raso chermisi, con ingegnosa accappiatura antica di fiocchi d’oro in due teste di leone, coronato di verde lauro, sopra lunghissima chioma d’oro.

Questo con lira nella sinistra e archetto nella destra, venne in mezzo a un coro di Muse così vestite:

La prima in biondissimo drappo, succinta con verde ramo di oliva e con assai gruppi e svolazzi aveva i crispi capelli sparsi di fiori di timo con alcune api d’intorno, e suvvi un cappello del medesimo drappo, ma in disusata foggia antica, ornato di cristalli e berilli e ghirlande d’agnocasto con un camaleonte per cimiero. Dal collo le pendeva un vezzo di perle con un cornuto scarafaggio in sul petto, dove l’attraversava la pelle d’una pantera. Ed erano i suoi calzaretti all’antica, coperti di pelle di gatta con un granchio sopra ogni piede. Teneva nella destra mano un trombone e nell’altra taninera, per dire come i pittori, dove nel campo azzurro si leggeva di lettere [128] d’oro Thalia, e nel colmo le appariva una palla rossa come in tutte le altre. Vestiva la seconda in drappo verdegiallo, succinta di due serpi avvolte, ed aveva pelle di jena ad armacollo; e i suoi lunghi capegli sparsi di fiori di majorana pendevano sotto uno alato cappello ricco di agate e di topazj inghirlandato di pimpinella con un cimiero di papagallo. Pendevanle al collo più vetri in minuti lavori verdegialli, ed avea calzaretti all’antica fatti di pelli di scimie con le teste di quelle sotto le ginocchia. Con la destra tenea una dolzaina e con la sinistra la taninera con molte foglie di corniolo; ed un calderugio, ed un rosignuolo accompagnavano il suo dorato nome Euterpe nello azzurro campo di quella.

La terza, più lascivetta e da molti odori accompagnata, con splendido drappo con assai svolazzi di tocche e candida pelle di caprone, succinta col famoso cesto di Venere, e crini d’oro sparsi di fiori di mortella — e pelli di conigli in sul nudo — e rondini e cutrettole — e fiori di melagrano e rose damaschine — Erato...»

Ma non starò a trascrivere le varie foggie dei vestimenti di Melpomene, Clio, Terpsicore, Polymnia, Urania, e della candida Calliope: ripeterò che: «Giunta questa bella compagnia nell’alta presenzia di quei signori, Apollo, soavemente sonando cantò le stanze composte dal nostro Giov. Battista Gelli = Dal quarto ciel, dove col mio dorato — carro girando, al mondo io do la luce. — » e quel che segue, a fine.

«Le Muse allora soavissimamente cantando dissero la Canzone a nove» (che non riporto).

«Finito il soave cantare delle Muse, comparse la bella Flora con cinque Ninfe d’intorno e due Fiumi [129] per sua compagnia, con lunga comitiva alle spalle...» Ommetto il vestiario di ciascuna ninfa e dell’Arno e del Mugnone, e d’altre figure, per ridire che: «All’apparire di costoro, l’Apollo di nuovo sonando, ricominciò cantar nuove stanze... Fermossi — e Flora con le sue Ninfe cantò a coro. — Finita la canzonetta, e tiratasi alquanto Flora da banda, venne più avanti Pisa vestita di velluto rosso ecc. ed altri. — E subito Apollo cantare — e rispondere il Coro..» e così di seguito con altre allegoriche e mitologiche comparse.

Finirono quei signori ritirandosi nel primo cortile a danzare secondo l’usanza delle nozze.

La sera seguente dopo una ricca cena in quel medesimo cortile «si vide a poco a poco dalla parte di levante apparire nel cielo della scena un’Aurora — vestita ecc. — che con un pettine d’avorio pettinando i suoi lunghi capei d’oro cantava...»

Era il soave suo canto accompagnato da un gravecembalo a duoi registri, sottovi organo, flauto, arpe e voci di uccegli, e con un violone, che con incredibile dolcezza dilettava gli orecchi e gli animi di chi li udiva.

Le parole e la invenzione, ed abbigliamenti di questo e di tutti gli altri intermedii della commedia, che luogo per luogo si diranno, furono del nostro Giovanni Battista Strozzi.

Dopo le spalle dell’Aurora, si vede a poco a poco surgere un sole nel cielo della prospettiva il quale soavemente camminando ne fece atto per atto conoscere l’ora del finto giorno, e così poi si nascose ultimamente circa alla fine del quinto atto, poco prima che la Notte comparisce... vestita ecc. dolcemente cantando [130] in su quattro tromboni: Vienten’ almo riposo ecc.

Fu così dolce questo canto, che per non lasciar gli spettatori addormentati, vennero subito in sulla scena venti Baccanti, che dieci ve n’erano donne, e Satiri gli altri. E di tutti questi, otto sonavano, otto cantavano, e due da ciascuna parte facevano l’ebbro. I satiri tutti erano ignudi, co’ fianchi e coscie pelose: ma le donne vestivano corto... e gli strumenti dei suonatori furono questi: Uno otro da vino che vestiva un tamburo, e una cannella da botte in luogo di bacchetta da suonarlo, ed uno stinco umano secco, dentrovi il zufolo che lo accompagna. Una testa di cervo, dentrovi un ribecchino. Un corno di capra dentrovi una cornetta. Uno stinco di grù co ’l piè dentrovi una storta. Un gambo di vite, dentrovi una tromba torta. Un cerchio da botte con giunchi dentrovi una arpe. Un becco di cecero, dentrovi una cornetta dritta. Una barba e rami di sambuco, dentrovi una storta. La composizione del nostro Antonio Landi.

Tutte queste musiche, intendo che di già sono stampate in Venezia. Nè è bastato loro stampar quelle che vi hanno anche mescolate le stanze, come elle nacquero, non riviste, non corrette e non intere e con poca satisfazione di chi le fece... Di Firenze, il 12 di agosto 1539.»

Ora con quei Signori s’avranno addormentati anche i lettori che feci assistere ad una rappresentazione di quel secolo, con l’orchestra e i madriali allora usati, verrò non cogli sconci satiri a destarli, ma con una eletta società pur dessa di Fiorentini, meno magnifici e più civili.

Ma prima ricorderò che, il gusto mitologico, il [131] cantar madrialesco della Toscana corte, durò ben più a lungo in quella d’Inghilterra e di Vienna, dove ancora per le nozze delle sacre cesaree e reali maestà di Leopoldo e Margherita, Francesco Sbarra consigliero e compositore facea cantare il Pomo d’Oro da tutti i Dei dell’Olimpo e dell’Averno, da tutte le Potenze e Regni, con cori e balli di Spiritelli in aria, di Cavalieri in terra, Sirene e Tritoni in mare, l’anno di grazia 1667.

In Francia invece attorno questo tempo soltanto fu introdotto quel cantare dal cardinal Mazarino, il quale, sia che da vero dilettante ch’egli era cercasse divertirsi, o, secondo altre versioni, da uomo di Stato intendesse a formare il gusto musicale della nazione e addolcire i gridi della opposizione, invitava nel 1645 una compagnia d’italiani, i quali a Petit-Bourbon eseguirono davanti al re, alla regina e alla corte una di quelle rappresentazioni, e precisamente dello Strozzi, intitolata la Finta Pazza accolta con entusiasmo.

Per figurarsi poi la esecuzione e l’effetto di quei canti, trasportati dalla spontaneità di natura all’artificio dei madrigalisti, nel colmo d’un’epoca in cui, come la durezza delle linee, così il gonfio delle espressioni dovea spezzarsi ormai e ricondursi alla purezza e semplicità primitive, può giovare adesso il riprodurre poche parole, allora fra le più belle, che risuonavano in elogio d’una cantatrice distinta e de’ suoi modi pregiati nel canto che non può riprodursi alla nostra udizione come le espressioni che del contemporaneo scrittore ci rimangono. È questi il celebre Cieco d’Adria, pure del canto perito; era dessa la illustre Alessandra Lardi sua concittadina, nella cui morte avvenuta il 24 aprile 1568, l’oratore ricordò la rarità di quell’arte con lei perduta, nel modo seguente:

[132]

«Ora che aggiungerò del soave suono formato da quelle sue medesime mani, che tenevano più scienze che dita e del soavissimo canto temperato in quella sua dotta bocca, che aprendosi mostrava, che s’aprisser le porte d’un ciel terreno. Allora niun più dubbiava che i Camaleonti si pascessero d’aura, e alcuni popoli Indiani d’odore; poichè ciascuno che udiva il suono vitale e il canto sostanzioso, non si curava, nè si ricordava d’altra vivanda, e sarebbe così dimorato più giorni, se il silenzio ed il riposo non l’avessero privo di quel diletto. E niuno dubbiava più che Anfione ed Orfeo al concento delle loro accordate cetre tirassero le fiere domesticate, le piante innamorate, e le pietre rammorbidite, che lasciavano guidarsi all’impeto della natura; posciachè i cuori umani, che potevan far resistenza, erano dall’angelica melodia e dolce forza adescati. Niuno si maravigliava più, che la cera vergine spirasse l’odore di tutte l’erbe, quando nel costei canto si discerneva il canto delle Ninfe della terra, delle Sirene del mare, degli uccelli dell’aria, e degli augelli del cielo. Col canto di costei piegato, e ripiegato, torto, e ritorto, tritato, e cincischiato, perdevano la rondine, l’usignolo e il cardello; anzi vi perdevano le Muse. Nel di lei canto si chiudevano gli sciami dell’api che portavano fiori e mele agli orecchi, cera che abbrugia i cori. Nel canto di lei le nostre crome e semicrome erano minime e semiminime, all’altre più minute conveniva ritrovar nuovo nome. E quando ella sospirava per la misura delle note, altri sospiravano per lo desiderio di lei. Quando posava per la ragione del canto, travagliavano gli altri per lo desìo della cantatrice, e quando frangeva la sua voce, si frangevano i cori altrui. Gli accenti minuiti e ondeggiati della voce dolcemente [133] tremante, con quel tremor destavano un ghiaccio dilettoso per l’ossa di chi l’udiva; e da quel ghiaccio (cosa mirabile a dirsi e a udirsi) sorgeva un più dilettoso fuoco. Mai più, se non allora, non ebbi invidia al Petrarca, che seppe compor parole, e ad Adriano, che seppe accoppiarvi note degne di essere pronunciate e cantate da sì eccellente maestra... Io giurerei che il Sole s’affrettava ad udirla, perchè una volta ricordami, che sonando e cantando la rara giovane, il Sole lontanissimo dalle finestre della camera, addolcito da cotal musica in un punto vi spuntò dentro con i raggi suoi, se il desiderio dell’ascoltarla non mi cangiò la lunga ora in breve momento. Dicono questi Savj della natura che la nostra umanità senza pericolo della vita non potrebbe udir gli otto tuoni degli otto Cieli, ma nè anco si poteva udire il tuono di costei commisto di tutti questi senza periglio mortale. Avvenga che chi l’udiva scordandosi di respirare, nè ricordandosi i suoi polsi di battere, correva rischio di morte. Se fosse costei discesa in Inferno, come Orfeo.... L’ascoltarla non pure era dilettevole ai sensi, ma giovevole all’anima. Conciossiachè chi l’ascoltava si risolveva di cominciare a produr opere meritevoli, e a divenir Santo, per trovarsi in Paradiso, dove giudicava, che dovessero essere musiche tali; e che la nobil donzella partendo da questo secolo dovesse andare ad augmentarle. I ciechi avevano invidia ai sordi, che potevano mirare la costei bellezza, ed i sordi avevano invidia ai ciechi che potevano ascoltare la costei divina armonia, e gli uni e gli altri, più per questa perdita, che per altra, avevano del proprio difetto compassione a sè stessi. Quantunque il luogo, dove l’unica Alessandra sonava e cantava, fosse talora [134] debole a sostener la frequenza degli uditori, non però v’era pericolo che cadesse: perciocchè quei, che l’udivano, rapiti dal soave dell’armonia con l’animo; e da l’animo rapito a gran forza il corpo, standosi per gli orecchi avvinti e sospesi alla non mai più sentita dolcezza, non toccavano il pavimento... E ben appariva (come dice Platone) che gl’uomini fossero organizzati di musica; poichè in quella si risolvevano. Che se tal fosse stato il canto delle Sirene, non avrebbe voluto Ulisse appannarsi l’orecchie di pece: ma questo canto non addormentava, anzi, destava gli addormentati, accendeva i pigri, infiammava i freddi, innamorava i ritrosi, inteneriva gl’indurati, riteneva i vagabondi, cibava i digiuni, umiliava i superbi, disperava gl’invidiosi, allettava i barbari, allegrava i mesti, addolciva gli sdegnati, spensierava i travagliati, consolava gli afflitti, ricreava gli stanchi, risanava gl’infermi, e risuscitava i mezzi morti. L’aria, che non seppe mai più ciò che fosse invidia, allor l’imparò, mentre le sue parti che avevano ventura d’esser formate da lei in voce, od in suono, erano dall’altre sommamente invidiate. Ma poichè il suono della mia lingua non sa lodar pienamente il suono della sua voce, nè trovar paragone che rappresenti il suo velocissimo motto, se non quel della biscia, la cui lingua sola, è sì velocemente vibrata che sembra tre; conchiuderò, che se Creso, s’Enea, se Priamo, se Portia, se Paolo Emilio, se Danae, se Lucrezia, se Filotete, e se Ugolino avesse udito la costei voce maritata col suono, avrebbe obliato la perdita de’ tesori della patria, del regno, del marito, de’ figliuoli, della libertà, della castità, della sanità e della vita, ed Eraclito avrebbe cangiato il pianto in riso, e Democrito il riso in maraviglia: [135] laonde se il Petrarca non seppe in quale sfera de’ pianeti dovesse albergar la sua Laura, nè io tampoco sò in qual ordine d’Angeli abbia preso albergo la nostra Alessandra[105]

Come le parole e le azioni di sopra accennate, simiglianti i modi tutti e le espressioni di quel tempo.

Creazione del Dramma lirico in Italia — Compositori riformisti di Firenze, di Venezia, di Roma — Canzonieri — Accademici.

Mentre adunque i Gelli, i Landi, e gli Strozzi e successori facevano cantare le loro Muse ed i Satiri colle cornette e coi ribecchini, e gli Adriani servivano di esercizio alla trisulca lingua delle belle; mentre gli Artusi, i Marenzi, i Gesualdo ed i più abili contrappuntisti fiorentini s’ingegnavano a combinare l’intralciamento di parti e si perdevano nelle sottigliezze dello stile madrigalesco, una riunione di dilettanti, poeti, donne, musicisti, fanciulli, meno sapienti che dall’estro rapiti, Giovanni Bardi conte Del Vernio, Jacopo Corsi, Vincenzo Galilei, Ottavio Rinuccini, Jacopo Peri, Giulio Caccini e sua figlia, Laura Guidiccioni, Emilio del Cavaliere, composero e cantarono per divertirsi, rinnovarono gli accompagnamenti di Tepandro, e con nuova forma d’arte crearono in Firenze, nel 1590, il dramma lirico.

Tale avvenimento, che trovasi rinnovato sempre nella storia delle arti, viene a conferma che, le Accademie, le Scuole istituite per conservare la tradizione e trasmettere i processi conosciuti del mestiere, sono [136] proprie a dispensare bensì con saggezza la somma delle idee che furono ad esse comunicate, ma sono impotenti a rinnovarne la sorgente: per la stessa maniera che le facoltà riflesse dallo spirito di cui sono il prodotto e l’imagine, non da questo ma dal sentimento traggono la vita.

Simile alle rivoluzioni operate nelle religioni delle arti, veggiamo quella del Cristianesimo: e quando il mondo soccombeva sotto alla scienza dei dottori e li eccessi della volontà, una religione novella è venuta a rianimarlo con qualche parola d’amore.

Il peso delle dottrine sul sentimento fa il triste effetto della pietra sovrapposta alla semente. L’esagerato ossequio di quello porta l’abuso della scienza, quindi il vaneggiamento, il delirio.

Ed è per questo che i dottrinarj del canto, o lo vorrebbero fisso ad un calcolo, o accademicamente fornito, e per essi quello spontaneo del sentimento è troppo facile e licenzioso; nella naturale bellezza veggono lo scandalo, e ricorrono a convenute vesti per ricoprirla; scambiano la semplicità per miseria, la calma per impotenza.

E forse, in vero, siamo arrivati ad una di quelle epoche critiche in cui l’arte spossata dai raffinamenti del mestiere e delle scuole non potrà ritemprarsi che nell’istinto superiore degli ignoranti.

Scriveva adunque il maestro dei fiorentini riformatori del canto, Giulio Caccini, nella prefazione delle sue Nuove Musiche:

«Io veramente nei tempi che fioriva in Firenze la virtuosissima camerata dell’Ill. Sig. Giovanni Bardi dei conti di Vernio, ove concorreva non solo gran parte della nobiltà, ma ancora i primi musici e poeti e [137] filosofi della città, posso dire d’avere appreso più dai loro dotti ragionari che in più di trent’anni non ho fatto nel contrappunto, imperocchè questi intendentissimi gentiluomini mi hanno sempre confortato a non pregiare quella sorte di musica, che non lasciando bene intendersi le parole, guasta il concetto ed il verso... laonde dato principio in quei tempi a questi canti per una voce sola, composi i madrigali: Perfidissimo volto, dovrò dunque morire, ecc., i quali madrigali mi mossero a trasferirmi a Roma, ove fatti udire detti madrigali mi mossero a continuare la incominciata impresa... Ritornato io a Firenze e considerato che altresì in quei tempi si usavano per i musici alcune canzonette, per lo più di parole vili, mi venne anco pensiero comporre qualche canzonetta a uso d’aria. Queste arie state non sono poi disgrate eziandio a tutta l’Italia, servendosi ora di esso stile ciascuno che ha voluto comporre per una voce sola, e particolarmente qui in Firenze, ove stando io già sono 37 anni agli stipendj di questi Serenissimi Principi,... i miei amici mi assicurarono di non aver mai inteso fino allora della musica capace di commuoverli a tal punto....»

E il Doni nel suo Compendio pubblicato nel 1635 disse:

«Molto diverso è il canto d’una voce sola che si accompagna col suono d’un altro strumento ritornato, si può dire, di morte a vita in questo secolo, per opera massimamente di Giulio Caccini. A queste melodie si suole aggiungere l’accompagnamento della parte istrumentale, comunemente nel grave, e consiste per lo più in note lunghe...»

E lo scolare di Caccini e suo compagno di riforma Jacopo Peri scrisse:

[138]

«Benchè dal sig. Emilio del Cavaliere, prima che da ogni altro, ch’io sappia, con meravigliosa invenzione ci fosse fatto udire la nostra musica sulle scene, piacque nondimeno al sig. Jacopo Corsi ed Ottavio Rinuccini (fin l’anno 1594) ch’io adoperandola in altra guisa, mettessi sotto le note la favola di Dafne, per fare una semplice pruova di quello che potesse il canto dell’età nostra, onde veduto che si trattava di poesia drammatica,.... stimai gli antichi Greci e Romani (i quali secondo l’opinione di molti cantavano sulle scene le tragedie intere) usassero un’armonia, che avanzando quella del parlare ordinario, scendesse tanto dalla melodia del cantare, che pigliasse forma di cosa mezzana. E perciò tralasciata qualunque altra maniera di canto udita fin qui mi diedi tutto a ricercare l’imitazione che si debbe a questi poemi. — Conobbi parimente nel nostro parlare alcune voci intonarsi in guisa, che vi si può fondare armonia, e nel corso della favella passarsi per altre note che non s’intuonano, finchè si ritorni ad altra capace di nuova consonanza; ed avuto riguardo a quei moti ed a quegli accenti, che nel dolerci, nel rallegrarci, e in somiglianti cose ci servono, feci muovere il basso al tempo di quegli, or più, or meno, secondo gli affetti, e lo tenni fermo tra le false e tra le buone proporzioni, finchè scorrendo per varie note la voce di chi ragiona, arrivasse a quello che nel parlare ordinario intonandosi apre la via a nuovo concento, ecc.»

— Questa apparentemente cotanto semplice innovazione, divenne la fonte di una nuova arte. Finalmente gli strumenti furono richiamati dal loro esiglio, ed i musici cominciarono a capire la naturale missione [139] degli stessi, quella cioè di servire d’accompagnamento al canto. — Così si esprime il prof. De Castrone-Marchesi discutendo sull’Origine dell’Opera; e fa osservare come fatto rimarchevole che «questa trasformazione sembra essersi fatta senza esitazione alcuna, e di già nei primi madrigali ad una voce di Caccini composti per, come egli stesso afferma ben prima dalla fine del secolo 16, la tonalità, la fine delle cadenze, e le modulazioni non differiscono punto dalle composizioni le più moderne. Che, se i gentiluomini dell’eletto circolo del conte Vernio proponendosi di rintracciare la tragedia cantata dai Greci non la ritrovarono, pure, tal che gli alchimisti nel cercare la pietra filosofale scoprirono la chimica, così anche correndo dietro alle chimeriche traccie della tragedia greca fu trovata e creata l’opera seria moderna. E, qualunque si fossero o saranno mai state le modificazioni apportate da altri popoli dell’Europa a quest’arte divina, la gloria dell’invenzione della idea e della forma è italiana, è nostra gloria. —

E l’opera di Jacopo Peri, Euridice, è la più antica che fosse pervenuta sino a noi.»

Il cui genere di canto, se il Peri non potè affermare essere quello appunto usato dai Greci e dai Romani nelle loro tragedie, fu da lui ritenuto «il solo che possa fornirci la nostra musica, poichè il più adattato alla nostra lingua.»

Nullostante il dubbio d’uno dei medesimi creatori di questa prima forma di musica vocale pel dramma lirico, l’erudito Baini pure asserisce che quella specie di recitativo obbligato introdotto dai fiorentini cantori, corrispondeva perfettamente a quel recitativo identico al ritmo ed alle modulazioni della [140] declamazione adoperato dai Greci e conosciuto col nome di melopea.

In quanto al merito che ai Fiorentini vien fatto dell’invenzione di siffatti recitativi, dovrò ricordare che in quell’epoca istessa, ed anche qualche anno prima della metà di quel secolo, a Venezia erasi già trovato questo modo di canto pel genere buffo, della qual musica Giovanni Croce fu iniziatore. Anzi il veneziano Croce (detto Chiozzotto) vien ritenuto primo anche a comporre certi piccoli drammi d’azione facilissima, cui egli dava pure il nome di Cantate.

La raccolta delle quali composizioni a quattro, a cinque, a sei e a sette voci, piacque a lui intitolare Triaca Musicale (Venezia 1596), quasi a gara di quel farmaco onde Venezia andava famosa.

E in pari tempo il Viadana nelle sue proponeva simili recitativi; imitati anche da Lelio Bertani madrigalista a più voci, fiorito in Brescia e in Venezia nel 1584-85.

Lo Zarlino per le feste della vittoria di Lepanto e della visita di Enrico III a Venezia, avea già fatto cantar sulle scene suoi nuovissimi drammi.

Dai quali fatti, anzichè togliere il merito della invenzione a’ fiorentini per farli de’ nuovi metodi veneziani soltanto abili imitatori, a mio avviso, ammirerei in vece anche in quel tempo, e sull’Arno, e sul Mincio, e sulle Lagune, quella corrente d’idee affini che intorno a un nuovo studio spesso vien fatto di riscontrare, che rende dubbio bensì il pronunziare sul vero inventore, ma non scema, nè da una, nè dall’altra parte, il valor della scoperta.

Spandessi inoltre in quegli anni dalle rive del Brenta certe canzoni, o maggiolate, o villotte, che venivano [141] altrove raccolte o imitate. Di questi canti a ritmo marcato e con rispetti, rinnovati dai veneti contadini ad ogni ritorno della bella stagione in cui essi pure solennizzavano le Fiorite (festa che ancora pochi anni or sono costumavasi a Padova, Treviso, Vicenza), di questi canti, un Filippo Azzajolo, maestro cantore nel 1557 alla cappella Petroniana in Bologna, pubblicava un primo libro di Villotte alla Padovana con alcune Napolitane a quattro voci, intitolate Villotte del Fiore, coi tipi del Gardano in Venezia presso al quale rinomato ed esclusivo stampator musicale di quel tempo produceva nel 1569 altro libro di Villotte del Fiore alla Padovana e altre Napoletane e Bergamasche a 4 voci e un Dialogo a 8 voci. E in questo libro, sia per dare maggior colore d’originalità a quella raccolta, ossia pel pudore di non appropriarsene la invenzione, non appose il proprio nome che peraltro nel contesto appalesa, dando luogo anche ad altri concenti de’ bolognesi compositori contemporanei quali Ghirando da Panico, Gian Francesco Calderino[106], Paolo Casanova, Alfonso Ganassi, Bortolo Pifaro, Don Gian Tommaso Lambertini, Ghinolfo Dattari.

Altro libro di Villanesche Canzoni a più voci avea composto a Venezia nel 1553, Donato Baldassare; in seguito a quelli che, Lanfranco Giovanni Maria a Brescia, sotto il nome di Scintille nel 1533, e Portinaro Francesco a Venezia, col titolo di Primi Frutti nel 1548, avevano pubblicati.

Frutti parimenti delle modulazioni d’altri autori veneti riscontransi subito in una raccolta speciale == [142] Modulationes diversorum Auctorum quae sub titulo Fructus vagantur, cum quinque vocibus — Venetiis 1549. == Nel 1550, pure a Venezia, il libro di Cambio Perissone, a cinque voci, nel 1555 quelli di Mottetti a pari, concerto di Porta Costantinus, di Corvus Novocomensis[107], di Fiesco Giulio, e di Manara Francesco compositore fecondo fino al 1580, e gareggiante per tutto il suo tempo coi non meno celebri autori delle Ariose, delle Fiamme e dei Madrigali delle Muse, Cipriano Annibale, e Cipriano De Rorè; cogli autori Delle Giustiniane, altro canzoniere di veneti compositori 1578; e d’altri Floridi Autori d’Italia, sotto il cui titolo fu fatta a Venezia un’altra raccolta nel 1586, e quella dei Lieti Amanti, quasi a compimento della Spoglia Amorosa, nel precedente anno 1585 formata coi saggi dei diversi veneziani cantori.

L’Accademia della Fama, degna veramente di tal nome, era stata già fondata nel 1558 a Venezia, dal senatore Federico Badoaro, essendo maestro Zarlino, e rinomati cantori Bernardino Minoritano e Baldassare Donati, che poi gli furono avversarj, e processati siccome fautori d’una rivolta nella cantoria di san Marco, benchè il secondo, vent’anni dopo riuscisse a succedere nella cattedra del combattuto maestro. Mentre costanti di lui amici radunavansi in quella Società, Girolamo Roselli perugino, Antonio Govinano da Gave, Francesco Dalla Viola maestro della Cappella di Ferrara, Maria Tintoretto, Andrea Gabrieli, e Tiziano. Ed ivi ripeteansi i versetti della famosa messa scritta dallo Zarlino per la inaugurazione del tempio Palladiano del Redentore, votato dalla Repubblica [143] a liberazion della peste, monumento musicale, legato a quella pagina della storia e dell’arte. Ivi prima che s’aprissero teatri, cominciavasi a musicare la favola d’Orfeo.

Altra Accademia s’era formata a Venezia in casa de’ patrizj Veniero nel 1562, ove Merulo, Guazzo da Casale, il P. Costanzo Porta cremonese, maestro alla cappella di Padova, e P. Camillo Angleria pur da Cremona, compositore e metodista, a cantare i Ricercari convenivano.

Altri maestri e madrigalisti veneziani che si distinsero attorno il 1600, furono Luigi Grani, Giovanni Criuli, Vitto Roccetti poi organista e arciprete sulla padovana, e Taddeo da Venezia frate agostiniano, che per avere diffuse in Baviera le canzoni del suo istitutore Gabrieli, detto Ornamento delle Grazie, e le proprie sue composizioni, fu chiamato alla sua volta l’ornamento della Baviera. Quivi pure avea continuata la bella fama de’ veneziani un Agostino Stefani di Castelfranco trevigiano, che dalla cantoria ducale di Venezia passò a quelle di Monaco e d’Annover, e poi levò le mani dall’organo per cingersi la mitra, e Vescovo di Spiga, non abborrì di lasciare composizioni teatrali del nuovo stile italico anche in quelle regioni, e morì a Francoforte nel 1728.

Grandi Alessandro, nel tempo istesso da Venezia passava in Germania a sostenervi la riputazione della scuola veneta, e lasciò le sue opere nelle raccolte di Schadaüff, Donfrid e Priffe.

Allora gli alemanni, persuasi di tali apostoli, discesero anche alla fonte, e la scuola di Andrea Gabrieli, nominato da Alberto V di Baviera, fra i suoi più floridi virtuosi, notò fra gli allievi: Gian Leone [144] Hassler di Norimberga, poi maestro in Augsburg; Giorgio Grüber poi maestro a Norimberga; Seth Calvisio, autore della Giusta cognizione dei tuoni, sugli esempj de’ veneziani maestri; Enrico Schütz, sassone, amico e conturbernale di quel maestro a Venezia, poi nestore degli alemanni compositori che dalle Gabriellane dottrine infiorì la Germania.

La stampa della musica, che si fa appunto introdotta da un Petrucci sulla metà del XVI secolo, e che specialmente a Venezia fiorì subito e divenne prescelta, influì alla diffusione delle nuove composizioni ed allo studio de’ nuovi accompagnamenti diversi delle note vocali, che allora dicevansi alla Cavalieri, benchè arieggiati similmente dai suddetti inventori, ed anche da un Francesco Baverini contemporaneo, che produsse così musicato il quasi dramma cantabile La Conversion di san Paolo.

Ricorderò anche un Vecchi Orazio, inventore delle Commedie Armoniche, a Venezia nel 1581; e le raccolte Ferraresi di quell’epoca. Chè dopo le suaccennate, e quelle del Josquin maestro a Fossombrone, cominciate a Venezia fino dal 1504[108], i due libri comparsi a Ferrara, Il Lauro secco, nel 1582, e Il Lauro verde, nel 1583, son le raccolte che meglio dimostrano il veneto stile di quel tempo.

Dal madrigalista ferrarese del 1539 Alfonso Dalla Viola, a Girolamo Frescobaldi sullo scorcio del secolo, i nuovi modi di canto delle Venezie vicine eransi introdotti anche in quella scuola, d’onde poi a Roma.

Il Frescobaldi infatti, nato a Ferrara nel 1588, [145] divenuto organista di san Pietro Vaticano, fu detto il primo che ideasse pezzi musicali destinati al clavicembalo, sempre però sul gusto madrigalesco, le raccolte dei quali, dette Toccate d’Intavolatura, edite dal 1615 al 1637, sopravvissero quali memorabili documenti d’arte. Pubblicò a Venezia poscia nel 1642 i suoi Capricci, le Canzoni francesi e i Recercari; ma a maggior splendore di Venezia e di Roma era già sorto Carissimi. Questo Veneziano famoso, maestro dei cantori a quella pontificia cappella, facea ormai sentire i sacri mottetti di nuova fattura, i canti semplici e solenni, nella interpretazione de’ quali il tenore Odoardo Ceccarelli, celebre di quell’epoca, insieme al maestro medesimo, di cui diremo specialmente a suo luogo, levò fanatismo che nelle storie della chiesa e dell’arte rimase segnato.

A Venezia non pertanto seguiva la serie de’ più riputati madrigalisti, collegata a quella chiarissima successione di maestri novatori che perpetuarono e svilupparono i frutti delle sue riforme, e pei quali vedremo, nella cappella e nel teatro, ne’ suoi conservatori, e per le sue strade, procedere di conserva l’emulazione, l’esempio, la rinomanza.

Dopo il nuovo trovato si composero ancora per lunga pezza i madrigali ad una e più voci; ma le forme esclusivamente scientifiche sparirono a poco a poco.

Quelle forme di canto fermo, che fino allora aveano servito a soggetto o a pretesto pel contrappunto, furono relegate nelle parti secondarie o intermedie delle nuove Arie che, dal madrigale a solo del Caccini e dalle canzonette popolari introdotte nell’arte musicale, presentarono il vero tipo melodico, il modello imitato e sviluppato dai successori; ed ecco subito le [146] arie con variazioni dei Rossi e del Landi; quelle da Capo o Cavatine del Cavalli e del Piccini, e a varj tempi o Rondò usati dal Piccini, Pergolese, Paisiello, e da tutti i compositori che nell’Aria riconobbero l’Opera ormai trovata.

Nel madrigale sposato alla canzone s’erano uniti finalmente la scienza de’ maestri e il gusto popolare, che aveano esistito da secoli l’uno vicino all’altro senza mai venire a contatto.

Quel recitativo ritmico, che pur sentiva della medesima origine greca il cantofermo, che durante due secoli i musici aveano tentato inutilmente di sottoporre alle leggi armoniche, fu confinato nella chiesa, e qui pure rimpiazzato dai modi maggiore e minore, che da molti anni regnavano nella musica popolare.

In quanto poi alla istrumentazione, per quella guisa che gli antichi greci avevano condannato le Scoglies, e peritosi aveano accettate anche le più semplici obbligazioni della lira, e le pastoje meno tortuose alla bella libertà della voce, i nostri autori dei recitativi obbligati temevano del proprio ardimento pel quale s’erano presa la libertà di legare al servizio del canto qualche debole istrumento, o di farlo procedere con quello benchè di lontano.

Peri, infatti, premette alla sua Euridice[109] una [147] dichiarazione coonestante la parte assegnata ai soli suoi quattro istromenti — il clavicembalo, il chitarrone, una lira e una tiorba — i quali peraltro suonavano dietro le quinte e si limitavano ad accompagnare modestamente il canto, uno dopo l’altro, e contemporaneamente regolandosi sul basso; mentre talvolta a seguire le Arie bastava un archetto acuto od un zufolo a tre tubi.

Il Carissimi che lo seguì, e che accolse qualche violino all’accompagnamento delle sue Cantate (prima volta che si vedono i violini prendere parte a tal uopo in partitura verso il 1620), il Carissimi ci mostra usare di tale innovazione con la più gran parsimonia ed assai di rado isolatamente, e pei soli legami o pei ritornelli.

Landi, quindici anni dopo la introduzione de’ violini, si scusa ancora della osata licenza d’aver condotto due parti all’unisono, in alcune battute della sua nuova composizione cantabile, intitolata Santo Alessio.

Tanto temevano di offendere le pure espressioni del sentimento e di confondere la bella scuola, quei novatori che pure diedero al canto tanto sviluppo!

[148]

Scuole stabili o Cappelle — Fondazione dei Conservatorj — Primi Oratorj — Maestri musicisti, loro riforme — abusi — la Nazione dei Cantanti.

Ma torniamo ai remoti secoli ed ai recinti religiosi, ove specialmente con altre scienze conservato essendosi il canto tradizionale ed ivi questo più regolarmente esercitandosi, era ragione di dare ai regolatori preposti il nome d’insegnanti, ed ai luoghi stessi il nome di scuole. Perocchè ivi non si tacesse più che tramandare dall’uno all’altro cantore e dall’uno all’altro coro quelle classiche forme e quelle adottate frasi, di cui furono i Corali i primi codici; le quali norme vennero in acconcio per le successive trasmissioni, e non impropriamente i conoscitori di quelle si qualificarono maestri.

Non s’ebbe però mai l’ardimento di pretendere che quelle custodie e que’ luoghi d’esercitamento le vere scuole del canto costituissero, nè con questo nome si osò tampoco indicarle; onde que’ primi istituti con proprio vocabolo, Conservatorj, anzichè scuole, appellaronsi; nel significato della quale espressione è pienamente dimostrato l’ufficio di quelle scuole, e la importanza di quelli insegnamenti; e in quella parola è confessato — in quest’aule, in queste cappelle, non si crea, ma si riproduce; non si inspira, ma si conduce: quivi è l’arte segnata; libero il genio del canto d’inspirarsi e creare ovunque e secondo la sua natura infinita.

E con pari convenienza il primo metodista di canto, il sunnominato Francon di Cologna, nel suo [149] trattato del 1055, fece un’arte del canto mensurabile, e con questa espressione venne ad escludere il canto che non è misurabile e che non può essere definito.

Sembrerebbero i nostri tempi quelli che si attentano a disconfessare la libertà di quel genio, la natura immensurabile, eterna, del profumo delle anime, del linguaggio degli angeli, e si vorrebbe circoscrivere il canto nelle convenzioni del presente, e perfino nelle prescrizioni dell’avvenire!!..

Le Scuole adunque che adottarono prime il sistema di legare alle voci del canto le note della musica, e che, non più per vaghezza, ma per calcolo sposarono anche il canto agli strumenti, furono naturalmente i più antichi e pratici conservatorj.

Sembra appunto che prima del metodo scritto in Cologna dal teologo di Liegi si fosse già introdotto quest’usanza nei templi, e quindi fin dal secolo X. — Ma questo abuso non trovò peraltro facile stabilimento; e qui pure fu combattuto dai più austeri teologi, vietato da pontefici rigorosi; scomparve, si riprodusse, fu tolto, fu limitato.

Aelredo abate di Reverby lamenta l’abuso degli istrumenti negli ufficj divini. Tommaso d’Aquino ammette gli accompagnamenti in cithara et psalterio a imitazione del Salmista.

A Dante non aggrada il cantar con organi e sistra — ch’or sì, or no, s’intendon le parole — ed anche nella visione del Purgatorio rinnova le delizie del nudo canto del suo Casella.

Ma dalla seconda metà del 14.º secolo fino alla prima del 16.º col progresso dell’armonia, per l’accrescimento del numero delle parti e per la complicazione [150] del loro processo nella musica religiosa, nacque il bisogno di rinforzare la sonorità delle voci che doveano risuonare nei vasti recinti delle chiese con istrumenti che le raddoppiassero e le rimpiazzassero nei momenti di riposo.

Ippolito Baccusi, monaco veneziano, autore d’ottimi madrigali a più voci (1579), e maestro di cappella della cattedrale di Verona, nel 1590, ci apparisce come uno dei primi che operassero tale riconciliazione fra i due elementi dell’arte musicale. Questo tentativo d’introdur gl’istrumenti nel canto ecclesiastico, quasi conciliamento dell’unità dogmatica colla varietà temporale, altro non fu che la medesima questione della riforma ai riguardi dell’arte. Quindi l’uso specialissimo di compor musica eseguibile tanto per le voci miste agli istrumenti, quanto per quelle sole, o separatamente per questi.

Domenico di Nola, maestro della Cappella dell’Annunziata in Napoli, e Giovanni Croce, fra i più famosi maestri di quel tempo, imitarono gl’insegnamenti del veneto Baccusi. Così il Vicentino, compositor di quell’epoca.

E in generale i musicisti tutti delle fraterie erudite e capricciose; onde in quella illustre d’Assisi, accennata anche pel movimento musicale de’ più bassi tempi, un Rufino Bartolucci si fè precursore del Palestrina nella riforma dell’ecclesiastico canto, e diede fama alla scuola di quel convento, che ebbe vanto poi nel padre Boemo, e col Borroni conserva la celebrità sino ai giorni nostri.

Nelle nuove congregazioni religiose invece, sentivasi l’influenza di quella corrente che spingeva i fiorentini dilettanti a semplificare le forme anche del [151] canto profano; e appunto all’epoca de’ Caccini, e nella stessa Firenze, Filippo Neri nella Società dell’Oratorio di sua fondazione, nel tempo medesimo che saviamente pensava di spogliare i sermoni da ogni pompa di parola e lasciar da parte le sottili questioni, per educare il popolo al bel costume e all’amore con chiari e piacevoli ragionamenti e colla forza de’ buoni esempj, riduceva genialmente a canzone la recita delle orazioni e delle lodi al Signore, intuonate da garzoncelli d’ogni studio musicale sprovvisti (1560-1590).

Ond’egli può dirsi veramente l’iniziatore degli Oratorj, che introdotti anche a Roma in San Girolamo de’ Fiorentini e S.ta Maria in Vallicella, colla sanzione de’ papi Pio V, Gregorio XII, e Leone X, fiorirono poi coll’Animuccia: mentre con più elevate forme nella ponteficia basilica echeggiavano le armonie, i primi tentativi delle quali aveano dati i cappellani cantori di papa San Vitaliano.

Ma delle scuole pontificie e delle riforme dei grandi maestri in quel centro concorsi, non possiamo dire continuatamente; e come a guida che regolò i clesiastici canti, abbiamo a ricorrere qua e là a seconda de’ tempi e delle influenze.

A Bologna intanto, fin dalla Bolla di Eugenio IV (1436) che istituiva in quella basilica Petroniana una stabile cantoria (un secolo dopo che alla basilica Marciana i Principi di Venezia l’avean decretata, 1318), vediamo procedere la Cappella colle riforme che salirono più che in ogni altra Scuola d’Italia, fino, mi si conceda il dirlo, agli eccessi della scienza, per cui i matematici Martini e Mattei imitarono le nordiche complicazioni.

[152]

Iniziato il coro stabile della Cappella con soli quattordici cantori, retribuiti da lire una a sei il mese, secondo che erano del paese o forastieri, e preti nella maggior parte, trovò pure quei menzionati cantori che furono Don Bernardo da Reggio, Don Guglielmo Francese, Giovanni Mariotti fiorentino, Tommaso de Marinasi, e Don Roberto d’Inghilterra che fu il primo maestro effettivo nel 1467. Ebbe quindi rinomato in quell’ufficio lo Spataro morto nel 1540; cui succedeva, 6.º nella serie de’ maestri di cappella conservataci dagli Archivj di San Petronio, il di lui allievo e coadiutore Don Michele Cimatore, che se vien questi registrato come abile cantore ed autore anche d’un libro di canto, del quale però non s’ha altra memoria che da que’ giornali della Fabbrica, lasciò d’altra parte nota sicura dell’onta sua e della sua rimozione dalla cattedra e dal collegio per cagioni che non si vollero pro majore honestate exsprimere[110]. Fu allora che si chiamò in patria Domenico Maria Ferrabosco, venuto già in rinomanza a Roma pei suoi madrigali e le sue musiche, ed era cantore ammogliato; pel primo dei quali meriti, lasciò presto la cappella Petroniana per un nuovo seggio nel collegio dei cappellani cantori apostolici a Roma, mentre pel secondo, altrettanto presto ne veniva escluso insieme al Palestrina, vittima di quella virtù che a Paolo pontefice parve colla moralità del tempio incompatibile!

Un altro discepolo adunque dello Spataro prendeva il posto del Ferrabosco in Bologna nel 1551, [153] Nicolò Mantovani; e alla morte di questo, nel 1558, Gian Francesco Melioli, sotto il cui magistero si riformò la Cappella, si migliorarono i salarj, aumentando fino a 37 il numero dei cantori pei bisogni appunto delle ampliate musiche corali.

E al tempo del gran movimento musicale drammatico in Italia, troviamo accrescere lustro a quella Cappella il maestro Stefano Bettini detto il Fornasino, nel 1570 ivi installato, che tenne l’ufficio a vita, e non fu alieno d’introdurre le novità della fiorentina riforma ne’ suoi cantori.

Anche la Cappella dei Ss. Giorgio e Pietro di Cremona troviam celebrata in quel tempo per le nuove musiche del nob. Ruggiero Manna, delle cui bellezze estetiche Giovanni Chiosi ha parlato, 1586.

Da Cremona uscivano i precitati monaci, Porta che passò a reggere la Cappella di Padova, ed Angleria autore allora d’una nuova Regola pel contrappunto.

Da Cremona, quel Claudio Monteverde, naturalizzato poi Veneziano, ed eletto maestro della Marciana cappella nel 1613, dove anche suo figlio Francesco, peritissimo nel canto, esercitava la voce magnifica di tenore, e dove anche dieci anni dopo la sua morte avvenuta nel 1643[111], gli si fece tanto onore di voltare ai versetti dello Stabat Mater i canti della sua Arianna musicata 33 anni prima pei duchi di Mantova, e ripetuta in quella antica e illustre Accademia dei Concordi a Rovigo, detta allora dagl’inglesi scrittori Universitas; e studiata poi anche due secoli dopo [154] dai contemporanei nostri che vollero ispirarsi a quelle flebili lamentanze.

Dal cremonese, quel Pier Francesco Calletti-Bruni, detto poi Francesco Cavalli pel suo mecenate Federico Cavalli capitano e podestà di Crema per la Repubblica, 1614; discepolo e poi successore del Monteverde alla veneta Cappella; compagno di Giovanni Rovetta che fanciullo soprano di san Marco, era divenuto primo basso e vicemaestro, di Battista Grillo organista, di Natale Monferrato, di Fillago Carlo detto Mentini celebre tenore accademico da Rovigo; e maestro a Gian Battista Volpe, detto il Rovettino perchè al Rovetta nipote, che fu lodato compositore.

Seguace il Cavalli dell’orme tracciate dal Monteverde pei canti teatrali, e invitato specialmente a siffatte composizioni dalle nuove scene aperte nel suo tempo pel melodramma, fu detto l’istitutore del teatro italiano.

A Venezia infatti nel 1637 sistemò egli la prima orchestra teatrale, e scrisse la Deidamia, l’Eritrea ed altre opere.

Istituitosi anche a Milano, nel settembre 1652, il Teatro Regio musicale, Cavalli vi diede l’Orione. A Parigi nel 1660, quando Luigi XIV festeggiò le nozze con l’infanta M. Teresa di Spagna, nel primo teatro che era stato commesso da quel re all’italiano architetto Gaspare Vigarini, e costrutto rimpetto il giardino delle Tuilleries, diede Cavalli il suo nuovo Xerse[112]. [155] Nel 1667, in altro nuovo teatro a Bologna rappresentò il Muzio Scevola. Per la corte di Parma, in occasione della nascita di Odoardo Farnese, 1669, scrisse il Coriolano.

Ebbe ventura di possedere oltre i succitati cantori tre vaghe interpreti delle sue opere, che si notano siccome le prime celebrità melodrammatiche, contemporanee e di nascita romane: Anna Benzi, Anna Valerio, Catterina Pori. Espressamente per la prima compose l’opera Zorilla, per la seconda La Finta Savia; Erismena per la terza.

Richiesto poi ed imitato da tutti i migliori maestri dell’epoca, fu legato in amicizia col famigerato italiano Cesti, che presso la Corte d’Innsbruck la più splendida fra le Germaniche, dirigeva le musiche alla Cappella ed al teatro nuovamente fondato da Ferdinando Carlo, ove il Cavalli diede l’Alessandro nel 1662: e giovò de’ suoi consigli ed esempi Francesco Gasperini autore del Pratico al Cembalo, che fu maestro di coro alle donzelle nel nosocomio della Pietà in Venezia, Don Antonio Sertorio, veneziano, cantore e vice maestro della Cappella, ed educò alla musica l’immortal Marcello.

L’interregno fra i due grandi maestri, tenne, Giovanni Legrenzi bergamasco, allievo della scuola veneta e specialmente del Rovetta e d’un Carlo Pallavicino maestro al Conservatorio degli Incurabili in Venezia. Diresse per qualche tempo la Cappella ducale di Ferrara, poi s’installò in quella di san Marco presiedendo in pari tempo la scuola delle Mendicanti, e illustrando Venezia d’una speciale accademia di canto in cui avea trasformata la sua casa. Aveva ad allievi nobilissimi e celebri compagni cantori: Giuseppe [156] Boniventi, Giovanni Varischino, Giovanni Sebenico, Andrea Caresana, prete Nicolò Gallia, Antonio Biffi, Domenico Gabrieli che furono poi in Venezia tutti maestri (1660-80) — Antonio Zanettini (1676) che passò poi alla corte ducale di Modena ove morì — Paolo Biego (1686), prete Alvise Tavelli, Agostino e Antonio Coletti, tutti compositori (1700); Gian Francesco Brusa poi maestro di coro anche alle donne degli Incurabili (1720) — Carlo Pollarolo bresciano, che solo in Venezia diede 53 drammi al teatro, e fu poi a Vienna maestro — Gian Domenico Partenio veneziano cantore, maestro e qui fondatore della Congregazione di santa Cecilia (1690) — finalmente il veneto Antonio Lotti, che da allievo contralto, gareggiò poi colla fama dell’istesso maestro.

Se Legrenzi infatti brillava per tanti chiari nomi dati al canto italiano, per nuove opere, fra quali: l’Achille, il Nino Giusto, pegli Oratorj, come: Sisara ed altri, Lotti moltiplicava la scuola, le composizioni e gli esecutori. Musicò 16 drammi sulle parole di Apostolo Zeno. Ebbe a cantatrici di fama: Maria Diamante Scarabelli, Margherita Durastanti, Francesca Vanini-Boschi, Santa Stella, Francesca Cuzzoni, Vittoria Tesi, Faustina Bardoni maritata al celebre maestro Hasse che era della bella veneta comitiva. Impiegò specialmente le voci dei distinti cantori Nicola cav. Grimaldi, Bernardi Francesco detto Senesino, Matteo Sassani, Giovanni Paita, Antonio Bernacchi, Giuseppe Boschi, famoso basso, Francesco Guicciardi, Giovanni Buzzoleni.

Nuovi incanti sorgevano, e col Biffi e l’Hasse suddetti, nomavansi un altro Gasparini, Albinoni, Caldera e tali divenivano in breve altri scolari del Lotti, quali: [157] Antonio Pollarolo figlio di Carlo[113], e Giuseppe Seratelli (che gli furono successori alla Cappella), l’Alberti, il Bassani; Negri e Giovanni Porta rettori dei cori alla Pietà, e in fine Galuppi.

Resero più interessanti le accademie del Legrenzi e del Lotti le rivalità fra la sposa di questi Santa Stella cantatrice bolognese, che assieme a Chiara sua sorella era al servizio della corte di Mantova, con dote ammontante a 60,000 franchi, e la veneziana Faustina Bardoni, innoltrata pur questa dal maestro Hasse suo marito alle Corti straniere con elevati stipendj e fino allora inusitati.

La Pallade Veneta del 1688: inoltre, rendendo conto delle scelte accademie domestiche del maestro Legrenzi, ricorda particolarmente tre Sirene sorelle francesi che ivi convenivano per cantare in loro lingua le composizioni di Lulli; e le descrive, una a 17 anni soprano, altra a 13, contralto, la minore a due lustri vera maraviglia di basso[114].

Morto il Legrenzi il 26 maggio 1690, Lotti sopravvisse ancora quasi cinquant’anni (morì il 5 genn. 1739) e vide complicarsi la musica nell’orchestra. Le prove istrumentali del Pollarolo, ch’era stato trattato da ebbro, corrotto e corrompitore, vide rinnovate nei nuovi scrittori Don Pietro Molinari, Dionigio Bigaglia da Murano, Pescetti Giov. Battista; Aurelj, che nel [158] 1707 scrivea la prima volta pel Teatro di Piazza a Vicenza, Angelo Cortona e Alessandro Maccari della Cappella Marciana, e quel Baldassare Galuppi, isolano buranello, che più fortunato a sviscerare il tesoro dell’orchestra poco dapprima curata, rivestì e i chiesastici e i comici canti, criticato pei primi, e salutato padre dell’opera buffa, sulle cui orme vennero poscia Piccini, Anfossi, Guglielmi, Sacchini, Salieri, Gazzaniga, Paisiello, Cimarosa.

Gian Luca Conforti di Mileto in Calabria, aggregato al Collegio de’ cantori ponteficj nel 4 novembre 1591, arricchire volendo esso pure i cori già resi monotoni, ma vietandolo le immobili leggi del Vaticano, estese almeno le forme vocali dei canti religiosi, e vi rinnovò il trillo, incognito affatto alle voci dei cantori dei due secoli 15.º e 16.º — Egli il primo introdusse di nuovo il trillo che era già conosciuto dagli antichi sotto il nome di vibrissare o vibrare, come ne fanno fede Pompeo Festo e Plinio il naturalista[115].

Più tardi, Gaspare Pacchiaroti, nella cappella di S. Antonio di Padova, aggiunse l’abbellimento dell’appoggiatura, e specialmente di quella ripetuta, o doppia, che anche il Lichtenthal ritiene da lui primo introdotta nel canto; e dettò le maniere parziali, onde adornare o rifiorire le nude o semplici melodie o cantilene[116].

Il fondatore adunque della Scuola veneziana del canto, nelle cui celebri illustrazioni siamo tant’oltre proceduti, come i dilettanti iniziatori di quella fiorentina, nell’epoca medesima di transizione, e tale anch’esso [159] che potentemente estese le innovazioni introdotte dai trovatori dei canti religiosi, fu Giovanni Gabrieli di Venezia[117], autore dell’opera intitolata: Madrigali a sei voci o instrumenti, da cantare, ossia da suonare.

Allora peraltro, sullo scorcio del secolo 16.º, gli istrumenti così introdotti, serbavano anche nella chiesa quella parte modesta cui li vedemmo limitati in teatro: servivano al canto. Nonchè usurpare il primo luogo, altro non facevano che riprodurre la frase scritta pei cantori, e per quanto era loro possibile cercavano imitare le inflessioni della voce.

Ma non andò guari purtroppo che i compositori, trovando nei timbri diversi degli istrumenti e nella estensione delle loro scale, maggiori risorse che nella voce umana, si diedero a scrivere nuove Messe, di cui il minor difetto era quello di non essere cantabili. E quando riflettasi alle stravaganze che per tal modo si successero nei canti religiosi, si comprenderà il genio di quel Palestrina che venne poi a restituire alla [160] voce umana cd alla musica religiosa la lor sublime maestà.

La istrumentazione che usurpava il posto del canto nelle sacre melodie, non è a dire se venisse di moda e seducesse i compositori che musicarono il dramma lirico; ond’è che, superate le prime temanze, nel 17.º secolo, l’orchestra moltiplicate avea le sue forze e diversificati così gli uffici suoi, da aprire alla musica istrumentale un’êra nuova. Cangiaronsi conseguentemente le tonalità fino allora usate, ed affidaronsi specialmente alle corde le parti che erano state esclusive della voce.

L’orchestra del Monteverde e suoi seguaci, che osava appena allontanarsi dalla voce, e che accompagnava questa umilmente con accordi combinati e modesti, s’emancipò a poco a poco, si separò dal corpo melodico, grandeggiò di propria vita; fecondò quindi pel genio di compositori famosi che non disprezzarono la maravigliosa invenzione ed a prestigio dell’arte la coltivarono, e per le esercitazioni di Frescobaldi, Mercela e Viadana, di Cavalli, Carissimi, Scarlatti, Durante; e successivamente di Majo, Jomelli, Cimarosa, Paisiello, comparve, alla fine del 18.º secolo, l’orchestra di Mozart.

«Ma, a fronte del genio che creò il Don Giovanni, malgrado l’audacia di Rossini, di Weber, di Mejerbeer, malgrado le speranze de’ novatori, le esigenze imperiose della voce umana non permetteranno giammai alla orchestra del dramma lirico di sortire dai limiti del suo compito secondario d’accompagnamento.»

È in un’altra forma dell’arte che l’orchestra potrà spiegare le infinite sue risorse — prosegue P. Scudo, [161] in una dissertazione sulla musica istrumentale (Parigi 1846). —

Quando alla metà del secolo 16.º si stabilì l’usanza, come vedemmo, di scrivere tale musica che potesse essere cantata e in pari tempo eseguita dagli istrumenti, si conobbe ben tosto l’impossibilità di raggiungere completamente il doppio scopo. Si cominciò allora comporre espressamente sopra motivi di popolari canzoni o d’arie di danza, piccoli pezzi liberi istrumentali, che si chiamarono, in italiano, Ricercari da suonare, in tedesco, Partien, cui poscia sostituironsi pezzi più lunghi e complicati; e di qui l’origine delle Sinfonie, che vengono abilmente classificate siccome il risultato della secolarizzazione dell’arte, per opera specialmente degli Alemanni.

E questo è il vero campo de’ canti istrumentali, ben diverso dal linguaggio vivente, e dalla prima espressione dell’intima vita; lingua novella, che seguendo il movimento maraviglioso de’ tempi, mostra le forze della fantasia, le sue grazie, vale a dipingere le varietà della vita, e fa gustare le armonie del mondo esteriore, oltre le quali, ove scende la voce del canto, non penetra.

Ma per quantunque il potere del canto con le arti raffinate de’ musicisti non abbia potuto, nè possa mai menomare e confondersi, dalla creazione del nuovo linguaggio, subì tuttavia modificazioni notabili per quanto concerne alle forme, nè potè sottrarsi, dirò così, a que’ modi che conseguissero meglio il conciliamento.

Di quì le nuove leggi: i metodi e le convenzioni — all’apprendimento de’ quali formatisi le nuove scuole, che secondo il genio de’ varj maestri fioriscono, [162] più o meno libere e indipendenti le une dalle altre, nelle varie città di questa Italia maestra del mondo; come due secoli innanzi, il bel genio dell’arte pittorica qua e colà sfoggiò i portenti onde parve che agli italiani, quasi a compenso delle sventure susseguite alla loro grandezza, concesso fosse le maniere divine di riprodur la natura.

Dopo il secolo XV, i nemici rejetti da questo eliso d’ispirazione, rabbiosamente bestemmiato avranno, esser l’Italia il paese de’ pittori, come dopo il secolo XVII vomitarono l’acre bile riconoscendola a scherno siccome la nazion dei cantanti!

Stolti! nè s’avvedeano che, alloraquando altri patti erano interdetti, e colla forza brutale dividevansi i popoli e se ne conculcavano le libertà, il genio dell’arti, in un campo inaccessibile ai tiranni, ed a loro dispetto, collegava gl’italiani sublimemente, manifestando all’universo la loro unità indistruttibile, e simboleggiando i destini avvenire.

Stolti! e non rabbrividivano a quel coro che dal Ticino al Sebeto si levava imponente da questo deriso popolo di cantanti; ma s’intratteneano incantati, come i corsari antichi alle lusinghiere dolcezze delle sirene; e soffrivano che perfino nei loro côvi e nelle loro spelonche s’insinuassero i fatali allettamenti, ed innanzi ai sanguinosi troni stranieri, le italiane voci cantassero ancora le avite glorie, ne attestassero il genio, ne proclamassero la indipendenza e il trionfo: ed essi applaudivano; mentre d’intorno a loro ogni altra voce era muta, un silenzio letale rimproverava costantemente alla loro nequizia; un applauso alla vantata lor forza non s’intendeva, se quello non fosse di qualche rettile abbietto e a loro stessi schifoso.

[163]

Perfino que’ tapinelli fanciulli tratti specialmente dalle campagne napolitane, che sotto la sferza d’infami speculatori ramingavano a ripetere le italiane canzoni fra la plebe e i capricciosi delle capitali straniere, inconscj apostoli, parevano destinati provvidenzialmente a tener sempre desta la idea d’una patria italiana, dove, o la si lasciava dimentica, o la si voleva perduta[118].

Cessar doveano i trionfi dei Dandolo, dei Pisani, dei Morosini; mancar doveano le mercantili imprese dei Cabotto e dei Polo; al temuto leon di Venezia sopravvenir doveva il parossismo della febbre, onde le ali sue ripiegavansi, e nella prostrazione e nel fremito stringea le zanne nelle sue carni. I rostrati augelli dall’una e dalle due teste, calaronsi timidi prima, poi temerarj; e postisi ai nobili fianchi, coll’istinto di loro natura cominciarono l’opera di divoramento.

Ma ecco, il cigno delle lagune aveva sciolto il nuovo suo canto: affascinati i divoratori vanno a rilento, e dormigliano talvolta sulla lor preda.

La scuola creata da Giovanni Gabrieli, propagavasi con Claudio Monteverde, Giovanni Croce, Legrenzi, Lotti, Marcello!

Coll’armonioso contrasto per cui talvolta in natura il riso s’associa al lamento, o per temprare l’affanno o per schernire all’insulto, il precipitoso declinar di Venezia è accompagnato da un insolito giulivo canto che semplice e piano si spande nelle rappresentazioni comiche e buffe nuovamente trovate dai veneti compositori, che si riflettono nel lepido verso [164] Goldoniano, che scherzano siccome auretta sovra i fiori del sepolcro.

La scuola del Tiziano avea sorpreso il mondo colla forza e l’arditezza; la scuola del Marcello penetra colla melodia e la dolcezza.

All’estremità opposta della penisola, dove fin allora spirato avea un’aura molle e snervata, destasi un canto serio e robusto, colla freschezza d’un vento riparatore; e dallo Scarlatti, che si può dire il fondatore della Scuola napolitana, per una illustre succession di maestri, quali, Feo, Durante, Porpora, Pergolese, Jomelli, Piccini, Sacchini, Trajetta, Majo, Gizzi, Cimarosa, Paisiello, fra una mirabile novità di melodie sorge l’opera seria, emulo canto a quello giocoso che brilla a Venezia; onde par che dalle due superbe città gli amori mesti e scherzosi volino ad abbracciarsi.

Di mezzo a loro, grave come la ispirazione dei morti, si eleva lo stile solenne e misterioso della grande Scuola romana di Palestrina: Pittoni, Pisari, Casali, ne conservano le tradizioni.

Ecco l’unità artistica del canto in Italia; ecco stabilito il primato delle sue Scuole; ecco rivelate le sorgenti da cui l’onde melodiose scorreranno ad innaffiare gli animi tutti dell’universo.

L’itala melodia, coi progressi delle nuove scuole conciliata soavemente all’armoniosa accompagnatura istrumentale, procede signora; il canto degli schiavi doma insensibilmente la superbia straniera e la costringe piegarsi ai suoi incanti; il canto italiano è la potenza di Davide che ammansa il furore de’ Sauli spietati; e per quella potenza la Nazione è ancora signora e maestra.

[165]

E siccome la indipendenza del genio è inconcussa, e contro a lei vanamente s’attentano i tiranni, ebbesi a vedere, per tutto il tempo della desolata tristezza d’Italia, quando gli oppressori voleano perfino che una parte restasse all’altra sconosciuta — prima ancora che la scienza coll’indipendenza del pensiero sforzasse la imposta separazione coi fili dei telegrafi e le reti ferroviarie — il canto italiano tutte le parti della madre terra avea già riunite.

Gli stranieri rinnegavano la tradita nazione; ma riconosceano la Nazion de’ Cantori!

La mistica corrente che innondava i paesi degli stranieri, e questi immergeva così nell’obblìo dei perfidi giuri, trovava sterili terreni, anime fredde e ribelli più dei morti suscitati e delle pietre scosse dal fluido canoro d’Orfeo; ma fra i vinti dalla sua possa irresistibile, incontrò pure degl’invidi, de’ presontuosi, che con bizzarri artificj s’arrogarono la bravura di soperchiare il vanto dell’italiane melodie.

Nelle temerarie prove subito accasciati, mossero allora dubbj sul vero e sul bello, e avanzarono arruffate teorie, ridicole prove.

Ma per quel fatto che, alla verità giova tutto che a suo prò od a suo danno si faccia, più svergognati rimasero agl’imbelli conati. Nel primo entusiasmo sollevato dallo sviluppo della scuola italiana del canto come alle bellezze d’una vergine che s’infiora nell’età sua prima, chi potea rinunziare così facilmente all’incanto soave per abbadare alle meschine soffisticherie, alle sgradite durezze d’una scuola, che pretendeva eclissare il natural foco dei vulcani col tardo calore provocato dalle masse di ghiaccio?

Vedrem più tardi, col perfezionamento della nostra [166] scuola salita alla maestà di matrona, l’esito dei stranieri attentati rubelli almeno per non dirli ribaldi. Vedremo i nuovi razionalisti della musica rinneganti la divina ispirazione, ossia quella melodia che è cosa tutta celeste, ripetere le antiche aberrazioni simboleggiate in quel Mida re della Frigia, che iniziato nei misteri di Orfeo e di Eumolpo, mentre pretendea stoltamente di cangiar tutto in oro, ebbe egli medesimo mutate da Apollo le orecchie in quelle d’asino, per aver trovato il canto di Pane più bello del canto di questo Dio, ossia per aver preferite alle celesti le terrene armonie.

Rinnoviamo intanto, anche per l’epoca della grande riforma melodica, le osservazioni sul carattere istintivo e coerente del canto italiano anche nelle progressive sue trasformazioni, ed in onta agli altrui traviamenti. — Passiamo quindi una breve rivista dei profeti, sacerdoti ed acoliti, di questo culto divino; — e delle leggi nuovamente ispirate.

Melodica italiana — suo sviluppo. — Ristauratori del Canto chiesastico. — Scuole formate di Canto drammatico.

Ecco dunque in Italia nell’epoca della decadenza l’arca conservatrice, il tipo naturale, la bontà non corrotta; ecco nelle nostre scuole del passato secolo, dalla aberrazione moderna chiamate povere e spoglie, ecco il palladio della bell’arte.

L’Italia, vigile e fida Vestale, salvò il sacro foco: la melodia, che è ispirazione — atto impersonale che in noi si compie e senza di noi — soffio divino che passa per le anime nostre negli istanti propizj ed insperati [167] della vita, e che resiste a tutte le seduzioni e gl’incanti dell’umana scienza: la melodia — intuizione del sentimento, che non può essere il frutto nè della esperienza, nè della riflessione.

Fu detto egregiamente che — nella musica come in tutte le arti v’ha pure una parte accessibile ai nostri sforzi, il mestiere, i mille artificj della grammatica che servono alla manifestazione dell’idea prima; ma la parte sublime, l’essenza dell’arte, non si acquista giammai se non la si possede nel fondo dell’anima.

L’antichità, col suo retto senso e con quella mitologia che altro non era se non la spiegazione delle grandi verità della vita, avea divinizzati i poeti cantori. Ella avea compreso che l’ispirazione di questi non iscaturiva dalle nozioni ordinarie; che la ragione potea regolarne il corso, ma non creare nè evocare la ispirazione per una deliberazione della volontà. —

I sapienti successivi che si spinsero a scrutare i musicali misteri, non poterono sconfessare le antiche sentenze. Per poi analizzarla come arte, l’assimilarono anche alla Oratoria; e in questo tentativo sentiamo Gian-Alberto Bannio, intorno alla Musica Flexanima, spiegare che — la virtù della musica consta di modulazione e concento; da questo si ha l’anima, da quella soltanto la eloquenza: quindi volersi, perchè la musica sia veramente oratoria, che il concento accoppj la concordia di più voci colla modulazione diversa e propria di ciascuna voce, senza però che tale accordo perturbi il concento, e la recitazione per mancanza di chiarezza, di grazia, di numero e di misura, tolga lo spirito, e precipiti tutto ad un caos. —

E questo concento, quest’anima, questo spirito, non sono che la melodia; quella che, secondo Platone (in [168] Convivio), anche fra più voci genera il mutuo consenso, come la medicina in fra gli umori. Secondo altri, quella purissima linea che non soffre confusion di colori, dove sottili e quasi insensibili devono essere i passaggi, l’Armogen di Plinio, la nuance dei francesi, l’associamento cui Apelle e Protogene diedero tanta cura[119], l’intonazione della pittura che veste il disegno, il tono (phtongus) che variopinge il concetto nella musica.

La melodia è dunque l’anima della musica. La armonia, la scienza del contrappunto, la tonalità, le combinazioni ritmiche, l’istrumentazione, non sono che accidenti variabili che ne costituiscono il corpo di cui la si riveste secondo il gusto dei tempi e dei popoli.

Senza questo inviluppo esteriore che serve allo spirito essenziale e talvolta l’abbella, non è questo meno integro e perfetto; e l’idilio pastorale che echeggia senza gli accordi della lira[120], manifesta pur tutta la sua arcana potenza, come l’inno di guerra da cento tube e timballi accompagnato. Spogliate le ispirazioni melodiche de’ grandi compositori delle forme diverse di cui son rivestite, resterà pure l’idea melodica viva di sua propria vita «e come la Venere che sorte dal mare brillerà dell’eterno splendore di sua bellezza nativa.»

Quella semplicità, quel candore sono bellezza e potenza: i complicati ornamenti e le vesti sfarzose non possono che supplire al difetto di que’ naturali incanti: ed ecco i popoli che dalla melodia degli astri, dalla stella poetica, non ricevono direttamente l’influsso, ricorrono all’arti per cui sopperire alla lor povertà.

[169]

Ecco successivamente la scuola gallica, la belga, l’alemanna, arrabattarsi, per cogliere qualche stilla della pioggia d’oro, al solo grembo della prediletta donna serbata.

I figli alla terra d’ispirazione confidano la melodia di cui sono innondati alla voce parlante, semplicemente così come l’Eterno trasmise ad un fiato la sua potenza creatrice. La melodia espressa così dalla umana voce, non abbisogna, nè soffre, altro corteo che quello dell’armonia consonante facile e rispettosa.

Vedemmo come fino dai più antichi ricordi, e dalle origini meglio conosciute dei popoli, la lingua del canto sia stata l’organo naturale de’ sentimenti; l’espressione de’ quali se talvolta barbara ci appare relativamente ai modi più civili cui fummo assuefatti, non lo è in via assoluta per rispetto alle sue condizioni e al suo tempo; per quella guisa che non si troverebbero strani i suoni d’una tempesta, ammenochè non si immaginassero fra la serenità e la calma degli elementi. Le maniere ritenute per noi barbare e strane, non sono che veri accenti e coloriti fedeli, caratteristici, di passioni e di tempi.

Per lunghe età e a grande stento andarono formandosi quelle espressioni più normali e uniformi, per modo che quella lingua comprendere si potesse siccome universale.

Richiamavano a tal vero, nell’epoca cui siamo giunti con questa storia, i vergini canti nuovamente uditi fra gl’indigeni delle Indie e dell’America. La scoperta del nuovo mondo, relativamente al canoro linguaggio, se veniva a riprova della sua universalità, riconfermava altresì sulle specialità dei modi alle varie razze rispettivi, e sulle traccie d’una più remota [170] coltura, dove dall’Egitto, e altrove dalla Cina derivata.

Messico e Perù specialmente conservavano canti che avrebbero arrestati più miti e meno avidi conquistatori; i quali, senza il beneficio della osservazione, tutto turbarono, e colle oscene e feroci canzoni d’una civiltà degenerata violarono tosto i semplici canti e le danze della ospital regia di Montezuma.

Susseguirono i preti colonizzatori, e da quel punto all’originalità degli indiani canti non rimase che rappiattarsi nei centri selvaggi e inesplorati.

Ai nostri giorni, meno violenta è la rivoluzione fra gl’indigeni della Australia, che il dottor Topinard ci descrive possessori di canti non isprovvisti di certa vaghezza, coi quali accompagnano i balli e si ricambiano le visite.

Parimenti il dottor Livingston esploratore dell’Africa Orientale, ed il sig. Stanley che lo raggiunse, ci danno contezza delle corodie che trovano fra quelle indigene tribù nelle marcie deserte, o attorno le mense spesso d’umane carni imbandite.

I beneficj ed i danni derivati dall’avvicinamento dei popoli, trascinarono il mescolamento delle razze e dei linguaggi; onde nell’età famosa delle migrazioni cavalleresche vedemmo compiuta la comunione dei canti, in cui, senza potersi dire che alcuno perdesse affatto di sua originalità, pure tutti svariatamente si fusero.

Cosa ell’è naturale che da tal confusione scaturir dovea anche l’abuso; e dopo il XIV secolo vediamo infatti generalmente deviare il canto dal primo scopo cui natura l’aveva ordinato; e possiamo riscontrare la espression degli affetti trasformarsi in giuoco di spasso, in capricciosa composizione.

[171]

Ma con tutto questo, quando l’anima sente, indipendente e spontanea trova la sua espressione, e torna al suo linguaggio.

Dall’abuso si passò anche alla licenza, e non si attese più dalla voce la ripetizione degl’interni commovimenti, s’affidò il canto agli istromenti; e con modo più barbaro della asserita barbarie de’ primi cantori selvaggi, ai popoli meditanti fra le nordiche malinconie piacque istordirsi col fragore e gli strilli di canti istrumentali.

Ma egli è ben chiaro quanto impropriamente, quel nome soave che esprime emanazione divina, eco d’interna voce indefinita, vibrazione d’umana fibra misteriosamente agitata e dai penetrali dell’anima quasi sfuggita e abbandonata, sia stato traslato agli effetti sonori d’un corpo ligneo o metallico.

Più sacrilega che impropria è la profanazione; ed appena concedere si potrebbe alla tromba ed al liuto, rispetto al canto, la pallida imitazione.

E, laddio mercè, a quel popolo cui sorride più limpido il cielo, non entrò mai il disperato talento di iscusare la sua bella lingua del canto col meschino artificio istrumentale; ed ispirato più che mai alla vaghezza delle sue istintive espressioni, meglio che ogn’altra nazione si tenne lontano dalle straniere corruzioni: alla voce dell’animo diè sempre il nome di canto; tenne gli istrumenti soggetti al servizio ed accompagnamento del canto; e valse sempre più ad inebbriar l’universo colla verità del suo canto.

Ed ecco la scuola italiana, la traduzione vera della melodica idea, l’espressione viva che nella voce umana stabilisce l’unità di dogma, e d’ogni altra forma accidentale si serve come di riflessi opportunamente disposti attorno al raggio essenziale.

[172]

Le differenti maniere di tradurre il concetto melodico, formano le scuole diverse e distinguono le nazioni.

Dove è scarso od impuro il sacro filtro, studiansi le riproduzioni, i distillamenti. Necessariamente dunque gli Alemanni, per mille storte d’istrumenti, come per le fessure di roccie, e da mille artificj d’orchestra, ricercano l’effetto d’una espressione che nella natura loro non è chiara e spontanea; dalle dissonanze accattano l’armonia; dalle modulazioni sforzate, la piana corrente; dalla eccessiva sonorità, la facile comprensione.

Dal processo di queste due scuole tanto diverse, ben si rivela l’indole differente dei loro cultori. La vita intima dei due popoli è nei loro canti spiegata; e fino dagli elementi delle paragonate scuole l’eccellenza è palese.

Mentre i nuovi scolastici di Germania e di Francia prostituiscono la bella lingua del canto ai capricci rubelli di tutti gl’istrumenti d’antica e nuova invenzione, alle esigenze crudeli di mille organi rintuzzati, e dall’eccesso medesimo di elaboramento corrotti, e la trascinano per rapide scale e accavallate, per dissonanze le più aspre, per ritmi i più irritanti, e fra un’armata d’archi, di cannoni metallici, di ruote, corni e pelitoni, eccitano i contrasti più grotteschi, i rimbombi più strazianti; mentre soffiano e battono e si dimenano, e trascinano legioni d’artisti sudanti sotto alle loro sferze, e feriscono d’acuti suoni gli uditori, li spaventano di fughe, di scoppj, di tremuli, di martellati, e chiamano in ajuto i suoni tutti imitanti le fiere e gli elementi, — come demoni diseredati della grazia divina che vogliono scalare il cielo per forza d’orgoglio [173] e di volontà —, il gondoliero veneziano modulando colla sua flebile voce le frasi amorose del Gabrieli, o il salmo interpretato dal Marcello, ti commove e ti fa palpitare; poche voci corali del Palestrina fan risonare il Vaticano così solennemente da far piegare i cuori meno sensibili alla adorazione; l’arpa dello Scarlatti preludia la canzone che arde ne’ petti, quanto il fuoco che infiamma la superba spiaggia napolitana.

Tali sono gli effetti mirabili del placido regno della ispirazione e del genio, in confronto agli sgomenti della rivoluzione musicale cospirata dagli stranieri.

Che se alla bella scuola italiana facile, spontanea, creatrice, piuttosto che scuola conviensi il nome di conservatorio, — perocchè quella ammetta dottrinarj e seguaci, mentre questo indica una tradizione fedele e religiosa che non inceppa ma dirige soltanto i slanci della ispirazione, i voli del genio —, la scuola straniera diventa più che mai una esercitazione macchinale e ginnastica, se i vani conati d’una scienza astratta a cui la bell’arte si volle portata, ad altro non si riducono che ad esercizj di un’algebra sterile, a mnemonici sforzi, a giostre tumultuose e combinate sperienze; se rapito il canto all’organo suo naturale, alla viva voce, cui l’italiano religiosamente conserva, lo affida a tutti i supplementi inanimati, che dovrebbero esprimere quel che non sentono, e suscitare que’ moti che i motori loro non hanno.

Più di una volta questa aberrazione dell’arte attentò alla bella scuola del canto, e in diverse epoche le figlie dell’italo Apollo si ribellarono alle tradizioni paterne, e mostruose di forme e d’animo invidioso, si fecero vanto di rinnegare il bel ceppo nativo; ma la [174] forza del genio trascinò loro malgrado le straniere scuole a riconoscere gli oracoli della scuola-madre, a ricorrere alle primitive sorgenti; per quella guisa che la verità d’una religione presto o tardi confonde le empie imposture; come il sole vince ogn’altra luce artificiale: e le nuove Babele superbamente edificate, reiteratamente crollarono al ridestarsi della voce potente del vero canto italiano.

Entrava il 1500; e da un punto della classica terra segnato col nome di Prenestre o Palestrina, sorgeva un astro che sgombrar doveva le nubi agglomerate sui cieli delle vocali melodie.

Annunziò la sconfitta agl’angeli ribelli, Giovanni da Palestrina sulle porte del vaticano tempio, da quelle soglie medesime che la straniera scuola con nuovo ardimento osato aveva contaminare.

Semplice corista in fra i cantori ivi allora stranamente imbeccati, da un Claudio Goudimel, non patì Giovanni lo scandalo di parlare all’Eterno col corrotto linguaggio delle passioni che risentivano la confusione degli ultimi secoli avventurosi.

E già la musica stava per essere esclusa dalla Chiesa cattolica appunto per le aberrazioni e gli scandali cui s’abbandonavano i compositori: alla parola era subentrata la figura; il canto parea sopraffatto dalla tempesta.

Palestrina salvò il canto; liberò le voci; ritenne al tempio le melodie.

La fama di un Testa, ivi pure maestro e che tentennava fra il purismo e la corruzione, non lo sgomentò, e procedè di propria forza.

Colla bravura non disgiunta dalla prudenza del genio, per un opportuno addentellato che non lasciasse [175] precipitoso il passaggio dall’abbattuto al rinnovato sistema, si mostrò anch’egli talora combinato e artificioso; ma rese l’espressione più felice, e la ravvivò di propria vita.

Ricondusse la musica allo scopo suo primitivo, rendendola piena bensì di graziose immagini, ma in soggezione sempre del sentimento.

Scrisse i Madrigali a quattro, le Messe a sei voci, fra le quali la famosa dicata a papa Marcello, capolavoro dell’ingegno umano.

Persuaso questo grande riformatore che non possa darsi canto soave e religioso senza un’austera tonalità e un’armonia consonante alla piana-melodia, modificò secondo le sue belle teorie il Graduale e l’Antifonario della romana cappella, e in tutte le sue composizioni si mostrò quale lo disse il Galileo padre, suo contemporaneo: il grande imitatore della natura.

Era allora che le arti plastiche abbandonavano i tipi devoti trasmessi dai bisantini e dai figuristi del medio evo, per attaccarsi direttamente allo studio della natura, di cui essi poterono esprimere, per mezzo delle arti, le varietà e le bellezze divine; e fu allora che creata per la prima volta la vera musica del culto cattolico, per mezzo di questo genio che la ruppe col medio evo, e profittando degli studj de’ contrappuntisti, fra quali de’ belgi, di cui era allievo, seppe pel primo tradurre in forma sapiente la tenerezza, la serenità, il soffio religioso del cristianesimo. Êra novella nella storia del canto e della musica; che si può paragonare a quella di Raffaelo se la lingua de’ suoni avesse posseduto allora tante risorse quante ne avea la pittura per esprimere la varietà ed il contrasto delle umane passioni.

[176]

Egli si potè rivendicare i canti gregoriani e depurarli; e da questi ispirato seppe accompagnarli di un’armonia consonante, ma chiara e profonda di cui fu creatore.

Primo maestro della cappella di san Pietro, ove prima il capo de’ cantori non s’era dato altro titolo che maestro de’ sacri cori, o dei fanciulli, stipendiato a sei scudi il mese, morì nel 1594, povero, sconfortato dallo scapestrato figlio, che trafugava perfin le sue opere, per cavarne denaro presso ai veneziani editori; mal corrisposto dall’avaro pontefice Paolo IV che, coll’espulsione degli ammogliati dalla sua cappella, intese forse liberarsi dalla gravosa famiglia del maestro medesimo che ingratamente escludeva e abbandonava misero ed infelice: ma una felice e splendida eredità all’Italia, ed una figliolanza ammirata e devota lasciò Palestrina al mondo tutto, in quella nuova Scuola romana di cui fu capo e innovatore.

Scrisse di lui l’Abbattini, prima che Baini Giuseppe pubblicasse le Memorie sulla sua vita (Roma 1828)[121].

Lodovico da Vittoria sostenne la nuova Scuola del Palestrina.

Come una viva scintilla vale a suscitare fuochi innumerevoli, e come le storie ci ripetono costantemente colla comparsa d’un genio l’apparizione di cent’altre illustri figure seguaci ed emule del maggior astro; così dalla romana surse immediatamente la napolitana Scuola, che si può dire una ramificazione di quella. Quindi quella di Orlando Lassus alla cappella dell’elettor di Baviera, contemporaneo del Palestrina, [177] che imitandolo recreat orbem (1550); e quella di Giovanni Gabrieli a Venezia: le tre grandi fonti del bel canto religioso.

Le geniali radunate dei trovatori toscani a quella prima e vera scuola regolarono i loro canti, e trasportarono le belle maniere nei nuovi saggi dei lirici drammi che, come sopra ho detto, nel 1590 la prima volta in Firenze tentarono.

Quivi il gentiluomo Galilei Vincenzo dilettante cantore, dal cui bel genio dovea nascere quel Galileo che tanta armonia dei cieli ha svelata, fece appunto i primi tentativi per la creazione della musica drammatica, obbligando a una sola voce, con puro accompagnamento di viole, l’episodio del Conte Ugolino, che egli stesso cantava nelle case de’ Bardi e degl’Ammanati da cui trasse la donna dell’amor suo. E con maniera drammatica trattò egli pure le Lamentazioni di Geremia, riportando i suoi canti nuovo e subito plauso, come racconta il Doni nel suo Trattato della musica sacra[122].

Nè i modi più vaghi e brillanti d’un’altra Scuola che contemporaneamente s’era già sviluppata in Venezia coi Gabrieli, contrastavano il merito e l’ammirazione ai gravi canti corali e drammatici sovraccennati; che anzi come dall’attrito la luce, così dalle varie esperienze ne nacquero le variate forme e le modificazioni ingegnose di cui s’arricchì la universale scuola d’Italia.

Perocchè è prima massima in un’arte geniale che, quanto meno ella sente di positivo, tanto meglio si presta alla trasformazione[123].

[178]

Il Galileo peraltro ebbe in sulle prime a difendere il suo drammatico canto[124] contro Gioseffo Zarlino di Chioggia che appuntava forse i nuovi metodi dei fiorentini; mentr’egli nelle sue opere seguiva i modi della veneta scuola cui apparteneva, e nella medesima Firenze e fra le novità de que’ drammatici-lirici suscitava la gara alle sue diverse composizioni[125]; ma e l’uno e l’altro meritarono che, col giudizio del grande intelligente e versato in quell’arte Apostolo Zeno, anche la posterità di loro parlando li chiamasse i due grandi maestri.

Il Zarlino, che s’acquistò soprannome di famoso Restauratore della musica in tutta Italia[126], come prima Guido Aretino erane stato proclamato il Padre, fu veramente meglio che immaginoso compositore, trattatista profondo; e come tale avremo a suo tempo a intrattenerci nuovamente di lui fra gli speculatori e metodisti.

Nonpertanto, siccome la Società dilettante del Bardi e del Galileo criticò aspramente le nuove forme ricercate e severe di quel matematico, e diede la palma delle gradite invenzioni al confratello fiorentino Girolamo Mei; e siccome la fama del cantore Clodiense non superò di molto il suo tempo, mentre qual trattatista vive immortale; io segno di lui anche fra i trovatori un dovuto ricordo.

Zarlino dunque sortiva i natali in quel lido che attesta le famose isole Elettridi, nell’anno 1517. Colle [179] scienze teologiche coltivò le matematiche e la musica, ed avido di vasto campo al suo ingegno e della conversazione degli eruditi, trasferì il suo soggiorno nella regina dell’Adriatico nel 1541, ove non tardò brillare per le sue cognizioni e destare ammirazione per le opere insigni di cui arricchì la letteratura e le arti. Si strinse quale discepolo e amico al fiammingo Adriano Villaert, che era maestro alla cappella di S. Marco, ed al cantore e organista famoso Gerolamo Parabosco, seguace di quel prete Giorgio pur di Venezia primo inventore del chiesastico istrumento, per convalidare viemmeglio i suoi studj colla sperienza; chè già egli avea manifestata una grande dottrina ed avea dati tanti di que’ precetti musicali che in parte andarono perduti e in parte si conservano come tesori. Senonchè compose allora anche musica e trovò nuovi canti.

Nelle straordinarie feste della Repubblica del 1571, per la vittoria di Lepanto, emersero le composizioni del Zarlino, fra le fatte musiche e i concerti inauditi, ricordati dal Sansovino[127], e dal Bayle[128].

In altre feste date nell’occasione sopra citata che Enrico III re di Francia, reduce dalla Polonia, visitava Venezia, fu cantato un dramma che il Zarlino dava fra i primi alle scene d’Italia.

Dalla cappella di S. Marco, dov’egli fin dal 1563 era divenuto maestro, le nuove sue messe, salmodie e motetti passavano a deliziare le chiese delle vicine e lontane provincie.

Un saggio di modulazioni a sei voci, ed una [180] messa a quattro, furono ammirati specialmente, ed elogiati dal Salines, dal Bettinelli e dal Martini.

Colle sue ricerche e co’ suoi trovati, se per la musica egli fu detto restauratore, ai riguardi del canto io posso chiamarlo il precursore della scuola veneta.

I cantori che vissero con lui fino alla fine di quel secolo in cui egli visse[129] poterono fondarsi sopra una serie di ottimi studj e di osservazioni feconde da riconoscervi in gran parte la loro celebrità.

Avendo fatto sopra osservare, che nelle scuole riformatrici del secolo XVI, la veneziana, più pel fatto che per la fama si può dir precedesse quella fiorentina, o almeno, per rincontro de’ genj, di pari passo procedessero entrambi, abbiamo annoverati molti trovatori e novatori di canti, e le vaste raccolte delle nuove composizioni di cui s’arricchiva Venezia. Ma non si potrebbe immaginare quanti fossero i trovati e i ricercatori del seguito secolo, quante le prove ritentate specialmente nella città ispiratrice, e dirò quasi, quante fossero le fatiche e gli agitamenti di gestazione del nuovissimo canto, se non accennassi alcuni altri contemporanei al primo gran movimento veneto-fiorentino, che andar non possono dimenticati; e quindi, almeno i più noti seccentisti, che dopo i sommi di cui a parte discorreremo, soltanto a Venezia composero.

Antegnati Costanzo, autor di madr. a 4 voci, Ven. 1571.
Agostini Lodovico, autor di madr. a 4 voci, » 1572.
Anerio Felice, autor di madr. a 5 voci, » 1586.
[181]
Asola Giov. Matteo, autor di madr. a 4 voci, » 1593.
Baccusi Ippolito, autor di madr. a 6 voci, » 1579.
Balbi Lodovico, autor di madr. a 5 voci, » 1589.
Bianco Pietro Ant., autor di madr. a 4 voci, » 1582.
Cipriano Annibale, autor di madr. a 4 voci,   1575.
Donato Baldassare, autor di madr. a 4 voci,   1568.
Dorati Nicolò, autor di madr. a 6 voci, » 1579.
Dall’Arpa Giovanni, autor di canz. nap. a 6 voci, » 1570.
Ferretti Giovanni, autor di canz. nap. a 6 voci,   1581.
Fiesco Giulio, autor di madr. a 5 voci, » 1554.
Gardano Angelo, autor di madr. a 5 voci,   1579.
Giovanelli Ruggiero, autor di madr. a 4 voci, » 1598.
Dalla Gostena Gio. Batt. autor di madr. a 4 voci,   1582.
Ingegneri Marco Ant., autor di madr. a 4 voci,   1578.
Manara Francesco, autor di madr. a 4 voci,   1555.
Masotti Giulio, autor di madr. a 5 voci, » 1583.
Mazzone Marco Ant., autor di canz. nap. a 4 voci,   1570-91.
Merulo Claudio, autor di canz. nap. a 4 voci,   1579.
Molino Antonio, autor di canz. nap. a 4 voci,   1563.
Di Monte Filippo[130] autor di canz., 8 lib. a 6 voci,   1569-82.
Marenzio Lucca, autore di canz. nap. in sorte, a 6 voci, » 1585.
Nasco Giovanni, autore di canzoni in sorte » 1557.
Petrino Giacomo, autor di madr. a 4 voci, » 1583.
De-Ponte Giac.,[131] autor di madr. a 4 voci,   1567.
Pordenon Marco Ant. autor di madr. a 4 voci, » 1580.
Primavera Gio. Leonardo, di canz. napol., » 1570.
Renaldi Giulio, di canz. nap. e madr. a 5 voci, » 1576.
Romano Aless. di canz. nap. e madr. a 5 voci, » 1565.
De Rorè Cipriano di canz. nap. e madr. a 5 voci, » 1576.
[182]
Rosso Gio. Maria canz. nap. e madr. a 4 voci, » 1567.
Ruffo Vincenzo canz. nap. e madr. a 4 voci, » 1560.
Sabino Ippolito canz. nap. e madr. a 5 e 6 voci » 1579-86.
Spontoni Lodovico canz. nap. e madr. a 5 e 6 voci » 1587.
Stabile Annibale canz. nap. e madr. a 5 e 6 voci » 1586.
Stivori Francesco canz. nap. e madr. a 5 e 6 voci » 1570
Striggio Aless.[132] canz. nap. e madr. a 5 e 6 voci » 1569.
Tigrini Orazio canz. nap. e madr. a 4 voci » 1573.
Da Udine Girolamo canz. nap. e madr. a 5 e 6 voci » 1574.
Vecchi Orazio canz. nap. e madr. a 4 voci » 1581.
Zappasorgo Giov. canz. nap. e madr. a 3 voci » 1578.
Zuccarini Gio. Batt. canz. nap. e 12 sonetti a 3 voci » 1586.
Zacchino Giulio di canz. e madr. in sorte » 1573.
Gabrieli Andrea di canz. e madr. in sorte   1580-1607.

Da quest’ultimo, veneziano, che spinse il concerto de’ canti fino a 16 parti, e dal nipote suo Giovanni più rinomato, si può dir s’apra l’epoca de’ veneti compositori del 1600; quindi l’Asola suddetto varia la sua maniera verso questa epoca, e nel 1624 porse madrigali nuovissimi.

Procedono in questo secolo:

Botturini Mattia, autor di cantate in sorte, Venezia 1600.
Rossi Salomone, autor di madrig. a 6 voci, Venezia 1610.
Freddi Amadeo autor di madrig. a 5 voci » 1614.
Rubini Nicolò autor di madrig. a 5 voci » 1615.
Musso Giulio, autor di concerti in sorte » 1619.
Zacconi Luigi, autor di cantici sacri, » 1620.
Monteverde Claudio, autor di concerti guerrieri e amorosi, » 1622-28.
[183]
Miniscalchi Guglielmo, autor di arie, » 1625.
Tarditi Orazio, autor di madrig. a più voci, » 1633.
Pozzi Luigi[133], autor di concerti in sorte, » 1654.
Grossi Carlo, autor di cantate la Cetra d’Apollo e la Romilda » 1673.
Vitali Giovanni Batt., autor di capricci per camera » 1683.
Vinaccesi Benedetto, autor di canti per camera » 1692.

Concorrevano quindi a Venezia trovatori di canti da ogni parte d’Italia, fra quali all’entrare di quest’epoca notansi l’Ancino di Roma; poi il Peri da Firenze, e Sigismondo d’India da Milano, autori di nuove Musiche, ambi a Venezia nel 1609; il Leardini da Lombardia; lo Scarlatti giovane da Napoli[134]; anche il Vedelot e Gerò di Francia che composero quivi italianamente nel 1629.

I patrizj, mecenati sempre a Venezia, aprivano le loro sale ai musicali ritrovi, non meno che i signori fiorentini, e nelle villeggiature che aveano allora in Murano non ultime delizie erano i canti.

Trifon Gabriele, Andrea Navagero, Giovanni Priuli, accoglievano poeti, filosofi, musicisti. Anche Domenico Venier, uno de’ men cattivi rimatori di quell’età, teneva aperta la sua casa a lieto convegno; ed ivi con una Francesca Bellamano vi cantava note di amore la bella ed infelice Gaspara Stampa.

In casa Zantani cantavano il suddetto Parabosco di S. Marco e Francesco Bonardo da Perisone.

[184]

La Villa dei Contarini, a Piazzóla, poteva dirsi un vero conservatorio, a cura e spese di quella nobile famiglia veneta in bella fama sostenuto. Ivi due teatri, una raccolta de’ più rari istrumenti musicali[135], le composizioni migliori degli antichi e contemporanei, le esecuzioni più variate ed eleganti dell’epoca. Narrò il dott. Piccioli nell’Orologio di Piacere, ossia raccolta delle feste date dal Procuratore Marco Contarini, a Piazzóla, per la visita del duca Ernesto di Brünsvick, vescovo di Osnabrück (1630), che vi cantarono perfin trecento donzelle; e v’erano famigliari Scarlatti e Stradella.

Maria di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, oltrechè nella pittura del padre, educata nell’arte musicale da Giulio Zacchino, quando le ombre della sera le faceano deporre il pennello valente, lasciava sentire l’argentea voce dalle finestrate del gotico suo palagio; e gli allievi della scuola paterna coi neri abiti di velluto schietto e succinto, s’intrattenevano ancora sul campo dei Due Mori alla Madonna dell’Orto, sotto ai veroni del loro Santuario, dove la genial pittrice in onesta ragunanza cantava, accompagnata dal frate Zacchino cantore e sonator di San Giorgio. Quanta poesia!..

[185]

Coalizione e diramazione delle Scuole d’Italia. — Splendore della Veneta. — Scuola Francese. — Apostolato Italiano all’Estero.

La scuola Veneta del canto adunque, sorse coi Gabrieli nel tempo stesso che negl’altri grandi centri d’Italia tanti bei genj riformavano i canti: Andrea, nato in Canaregio nel 1520, e Giovanni nipote, verso il 1550; ambidue organisti della Serenissima Repubblica, compositori di concerti, oratorj, e madrigali. Ma il vero fondatore di questa Scuola e quivi primo maestro di bel canto, è Giovanni; che, coi suoi ricercari, nuovi di forma, e sempre esprimenti ed eleganti, segnò una notabile diversità dalla scuola romana tanto celebre allora; la ruppe colle convenzioni della precedente turba di madrigalisti; e togliendosi dalle cantilene troppo austere e monotone, che quali motetti a quattro voci scritti aveva a quel tempo in Venezia anche il Zacchino, nelle istesse composizioni destinate a decoro del tempio e ne’ mottetti rivolti alla manifestazione della fede, infuse quella certa vaghezza che traeva dall’aria libera delle romantiche sue lagune.

Lo si disse talvolta scorretto, perocchè il genio non si sommetta sempre egualmente alle regole imposte, manifestando la sua natura ai limiti avversa; ma gli stranieri più giusti allora dei medesimi compaesani, e ancora non arditi tanto da censurare l’italo canto, lo difesero; i principi alemanni s’onorarono onorando il grande maestro.

Giorgio Grüber che gli professava speciale amicizia, e che fu depositario d’alcuni frammenti delle sue composizioni, li riunì religiosamente, e con altri di [186] celebre allievo li pubblicò a Norimberga nel 1615, sotto il titolo: Reliquiae sacrorum concentum Joa. Gabrielis et Joa. Hassleri utriusque prestantissimi musici, et aliquot aliorum praecellentium aetatis nostrae artificum motettae.

L’Italia ben presto s’avvide de’ frutti copiosi delle Gabrieliane sementi in quella scuola di cui Zarlino, Monteverde, Croce, Carissimi, offersero modificazioni sempre più belle, infino agli Estri sublimi dell’insuperato Marcello.

Che se la Scuola romana tenne per molto tempo soggetta alle sue maniere quella diffusa in Napoli, come ho detto, quasi a ramificazione della prima, la Veneta scuola che meglio arieggiava alla drammatica inclinazione de’ lirici fiorentini, non frappose lungo intervallo ad allearvisi; e fin da quegl’ultimi anni del secolo XVI troviamo alcuni di que’ musicisti da noi accennati, giocondamente radunati in Firenze e intesi alle geniali loro riforme, li troviam dico, associati ai Veneziani per la propagazione delle nuove idee e l’insegnamento del canto all’espressioni drammatiche riconsacrato.

Dei fiorentini, Jacopo Peri che avea appreso a cantare da un Cristoforo Malvezzi di Lucca, si fà, verso l’anno 1600, maestro di cappella al servigio del Duca di Ferrara, e quindi alla corte di Firenze, innanzi alla quale, e precisamente per gli sponsali di Enrico IV di Francia con Maria dei Medici, fu rappresentata la prima opera, L’Euridice sua, composta in unione agli amici suoi Caccini e Rinuccini, sotto i quali nomi è anche trascritta[136].

[187]

Claudio Monteverde, de’ veneziani, ed il Viadana, nell’epoca stessa, con rapidi progressi perfezionano il nuovo metodo introdotto dal Croce, e convengono tutti allo sviluppo delle azioni musicate e nel serio e nel buffo coll’uso dei recitativi: ridestano così un sentimento appassionato; arricchiscono il canto d’inusitate espressioni. Quindi, come vedemmo, Giulio Caccini ed Emilio Cavaliere, a Firenze, concorsi alla creazione, troveremo ben tosto Gian Giacomo Carissimi da Venezia, e Alessandro Scarlatti di Napoli, a contribuire sulle orme di quelli alla formazione ed al perfezionamento del dramma musicale.

Già nel 1649 in una nuova opera fatta a Venezia da Cavalli intitolata Giasone, trovansi le prime arie corrispondenti nel senso e nello spirito del dialogo.

Non più inceppati e imitatori, ma liberi nelle lor fantasie, dalle declamate note e dalle graziose modulazioni, cominciano que’ compositori a far oscillare dalle voci dei loro cantori quelle espressioni che valgono la potenza degl’atti e l’arcano del sentimento.

Non resistono gl’italiani a tal commozione, e nelle istesse maestose vôlte del Vaticano, la passione che s’era tenuta rintuzzata ed occulta, si sprigiona e si manifesta nel canto.

Nè ormai v’ha più rischio che le confusioni di strano linguaggio e l’aberrazione de’ sregolati pensamenti, inducano la esclusione dal tempio cattolico, per quella guisa che da quel d’Israele furon cacciati i profanatori: che nella scuola rigenerata dal Palestrina e da questi lasciata a Bernardino Nannini, succedea il dotto Vincenzo Ugolini (1593), prima ancor della morte del primo maestro; e fra gli allievi dell’Ugolini, sorgeva un Gregorio Allegri, della casa de’ Corregi, [188] nato a Roma nel 1580, il celebre autore del Miserere; fondatore insieme al Boccherini della musica istrumentale da Camera; e un Aguzzani pure alla romana cappella maestro, che concertava nuovi salmi sullo stile medesimo.

Fiacchi diventavano ormai i madrigalisti romani, capo dei quali era stato Verardo Marcellino al principio del secolo[137], che finiva con Boschetti Jeronimo, 1594, ed Ancino Giovenale, 1599.

E nella medesima antica e rigorosa chiesa Ambrosiana, nella illustre Cappella milanese, dove Carlo Borromeo ammise i fanciulli allettandoli col canto a riunirsi alla scuola delle religiose dottrine, un famoso Gabuzio accomodava modernamente molte modulazioni delle ambrosiane salmodie; ed il suo successore Vincenzo Pellegrino, non solo i nuovi canti di Giulio Cesare Gabuzio, ma d’altri prestantissimi cantori che quella cappella in ogni tempo accolse e protesse, in nuovo ordine raccolse e con miglior metodo ridusse. Laonde i prefetti di quella metropolitana impresero nel 1619 una prima e splendida edizione di tali canti accomodati, divisi in quattro parti secondo le varie stagioni, dedicandola poi al cardinale Federico di quella chiesa noto arcivescovo zelantissimo. Della cui cura anche pei rituali canti, e della natura dei canti medesimi, e sulla riputazione della milanese cappella, spande in brevi parole ampia luce la lettera con la quale il rettore e i deputati della vener. Fabbrica, nel 20 decembre 1675, dal Campo Santo di Milano, quella collezione impresa da Giorgio Rolla, all’illustre antistite ed al pubblico completamente porgevano.

[189]

«Godeva lo Sposo divino vedere la di lui Sposa fra mezzo a musici chori, anzi parendogli ella stessa un’armonia animata, invitandola a piamente e soavemente cantare, le replicava quelle voci: Sonet vox tua in auribus meis; vox enim tua dulcis (Cantic. c. 2). Corre il vegesimo secondo anno, che V. E. è sposata alla Chiesa milanese; stimo perciò le aggradirà sentire in armonioso concerto le lodi della sua Sposa, la di cui voce non soletica l’orecchio, se non per isvegliare l’animo alla divozione. Quindi è, che quel gran vescovo, e dottore di S. Chiesa Agostino confessa, che nello stesso Tempio maggiore della Chiesa milanese, udendo le voci allegre e sonore di chi lodava il sommo Creatore, sentivasi talmente intenerire gli affetti, che gli cadevano da gli occhi abbondanti le lagrime, onde esso medesimo persuadeva tal consuetudine di porgere ossequioso tributo di lode a Dio: ut per oblectamenta aurium infirmior animus in affectum pietatis assurgat (Confes. lib. 10, cap. 33). V. E. ha poi aggiustato questo musico concerto con tale temperamento e moderazione, che è cosa singolare della Chiesa milanese il sentire una musica grave, e non molle, che vale bensì ad eccitare la pietà, e non a lusingare i sensi. Fra questi suoni e canti non mancherà questa Chiesa di pregare Iddio, che le conservi longamente il suo Arcivescovo, al quale bacciando la sagra porpora facciamo humiliss. riverenza[138]

[190]

Tornando a Roma, nella scuola ivi ormai tanto fiorente, vôlto non ancora un secolo dal Palestrina, un altro genio s’insedia; ed è il Carissimi, che nel 1649, introduce anche nella cappella ponteficia e nel collegio tedesco di Roma, il nuovo canto e lo regola e lo perfeziona.

Benchè nato in Venezia nel 1582, tempo delle grandi novazioni musicali, non si può dir giustamente che di queste egli sia stato l’esagerato fautore o l’imitatore servile, come avviene di vedere sovente a seconda degli andazzi o a seguito de’ grandi rimurchiatori. Egli sentì, è vero, la inclinazione della sua epoca, ma fu genio libero e indipendente, e le sue maniere spontanee e tutte sue; per cui si può dir che appartenga anche il Carissimi ai genj creatori.

[191]

Infatti mostrò anch’egli come la bell’arte, più che allo studio, all’innato sentire debba i suoi trionfi. Egli non s’angustiò fra i tirocinj de’ metodi e de’ sistemi; la sua gioventù non allibì fra i calcoli e le ricerche, fra gli stenti di tutto trarre dalle altrui dottrine; Carissimi si fè da sè; per la sua fantasia fu maestro, più che per lo studio.

Col suo naturale buon senso perfezionò il nuovo modo recitativo che era stato inventato da Peri e da Monteverde; alla parte del basso diede un andamento [192] più regolare e un certo ritmo; fu il primo che compose Cantate in vece dei soliti madrigali, e vi spiegò un’insolita grazia e verità d’espressione, facendole sostenere da semplice e purissima armonia.

Fra questi veri Canti Carissimi, porta il vanto il Giudizio di Salomone; ma in tutte le sue cantate uno stile soave vi fluisce, vi brillano motetti mirabili, domina una semplicità che è il carattere eterno del bello.

Un altro valente di quel tempo lodando il maestro Carissimi, sclamava: quanto è difficile giungere a tanta facilità!

Il Lulli imitandolo, portò la musica italiana e le maniere del gran maestro in Francia, attorno quel tempo.

Fino allora i pochi e deboli compositori francesi perdeansi nell’antico stile, e fuori del paese loro passavano ignorati.

Il padre Merçenne, ricercatore di quel tempo, dichiarando le difficoltà che gli si opponevano, che Ercole non avrebbe potuto superare, e dimostrando consistere la principale nella mancanza d’ogni criterio per prescrivere leggi certe e norme sicure per compor buoni canti fuori del genio, confessa che di tutti i musicisti che allora componevano o cantavano, uno solo riscontrava fra i Galli che sapesse adornare il soggetto propostosi con belli e graditi canti — unus Guedronius, uti nunc illius gener soli in Gallia cantus pulcherrimos fecisse, censentur[139].

Merçenne medesimo con tutta l’arte sua, e De Coussu altro compositore del suo tempo, non sapeano [193] che copiare cattivi tipi e imperfetti. Altro erudito musicista rettore della reale Cappella di Parigi nel 1600, Eustachio De Caurroy, cantava e scriveva more veteri Guidonico.

Lulli italiano, fu il primo che belle forme di canto in Francia introdusse. Aveva il genio coll’arte. Scrivendo la Psiche, egli inventò di trasportare nell’opera la fuga usata da prima soltanto ne’ canti chiesastici; ridusse il recitativo secco, o dialogo galante e buffo del Peri e del Carissimi, a recitativo cantabile, ovvero articolazione modulata, dandone i primi saggi nella sua Armida.

A Parigi la Scuola di Lalande non era allora scarsa di meriti nè scevra di plausi, perchè andava appunto informandosi de’ nuovi modi italiani; ma quivi era precisamente il caso dello stento degli imitatori, e lentissimo e forzato ne era il procedere; come a nave cui il vento è negato, mancava oltr’alpi la ispirazione.

Si ricorse a maestri italiani, e questi vi fecero buone prove; ma i frutti proporzionati sempre ai terreni ed al sole.

L’impulso fertilizzava meglio nel campo istrumentale della Scuola francese, che non fosse in quello cantabile; ed il Campra, successore al Lulli, dovea secondare le disposizioni degli allievi di questi, e di Rameau specialmente a quella parte della musica tanto inclinato.

Questo fu testimoniato dagli scrittori francesi medesimi e dal Rameau istesso.

Un grande spirito contemporaneo ai due musicisti, ambi li descrisse dicendo che, Lulli parla al cuore, Rameau all’orecchio.

[194]

E quest’ultimo, già scolaro dell’organista Marchand, e non mutato dagli esempj degli italiani, per cui aveva anche viaggiato nel paese del sentimento, raffermava colla sua curiosa espressione «datemi la Gazzetta d’Olanda ed io la metterò in musica.»

Anche il celebre Ab. Perrin, compositore che insieme all’organista Cambert fu il primo ad imitare le melodrammatiche invenzioni italiane, dopo quasi un secolo, ingegnandosi appunto nel 1671 a formare quella specie di dramma musicale che fu la Pomona, ed altre tre composizioni che possono dirsi in vero le prime francesi che all’opera assomigliano, anche il Perrin allora tanto vantato e meglio stipendiato, ottenuto che n’ebbe il privilegio dal re (1669), ossequiosamente lo cesse a Gian Battista Lulli (1672) «che in Francia avea perfezionata l’Opera, il più grande sforzo e il capo-lavoro della musica — che possedeva l’arte mirabile con una varietà maravigliosa, melodie ed armonie incantevoli — i cui canti sono sì naturali e insinuanti, che si ritengono in mente per poco che s’abbia di gusto e di disposizione.»

La Fontaine l’apprezzò anche se offeso; e se Molière l’invitò talvolta a far ridere, era perchè «sopra una specie di barella grossolanamente composta di vari rami d’alloro, portata da dodici satiri, gli compariva un picciol uomo, di brutta ciera, con occhietti orlati in rosso, e un esteriore assai negletto; giocondo, bizzarro, inquieto; che spezzava i violini sulle spalle a chi anche di lontano stuonasse in fra l’orchestra che lo circondava, per poi compensarlo del prezzo dell’istrumento ed abbracciarlo se confessato avesse o emendato l’errore; e che infine si rompeva [195] le gambe battendo il tempo colla sua propria canna, per le quali battiture se ne moriva.»

Questo curioso tipo, gli stranieri storici lo vantarono musicista francese! nato a Firenze nel 1633, al servizio di M.lle di Montpensier, amico di Luigi XIV, marito alla figlia di Lambert buon musico, e morto a Parigi nel 1687, lasciando molte e grandi opere, e molti figli che camminarono di lontano sulle sue tracce.

Con tanta semplicità e buonafede, anche quel bell’umore di J. J. Rousseau, che di mala fede accusa il Bontempi per aver chiamato Perugino il De Muri in luogo di Parigino, dopo di aver detto che quasi tutte le introduzioni delle opere francesi sono formate su quelle di Lulli, parlando appunto des Ouvertures, aggiunge, che queste servirono di modello a tutta l’Europa, e che l’Italia ricorreva alla Francia per tali introduzioni. « — Anzi vidi, egli scrisse, molte vecchie opere italiane portanti in fronte un’Ouverture di Lulli: del che, in oggi che tutto s’è cambiato, non convengono gl’italiani; ma il fatto non cessa d’essere certissimo — che si servirono del genio di questo grande francese!»

Il fiorentino esaltato da Luigi XIV, e dalla nazione francese adottato e glorificato come rara conquista, poco o nulla aggiunse per altro al canto che esisteva al suo tempo, alle maniere cioè e al fraseggiar di Carissimi, alle arie del Cavalli; onde fu detto che il suo genio era quello della lingua galante del secolo, alla cui bella declamazione concorse rivestendola delle note tolte al sentimentalismo italiano; proponendo qualche bel portamento e permettendo frequenti trilli alle voci da lui scelte in Linguadocca, [196] e all’agile gola della Rochois speciale interprete della sua Armida.

Nè si scostarono granfatto dalle maniere dell’ammirato Lulli i suoi successori, fra quali il Campra e il Rameau.

Andrea Campra, benchè d’origine italiana, era nato ad Aix, nel 1660; maestro alla cappella de’ Gesuiti e di Notre-Dame di Parigi; sortì nel 1697 col suo logico ed acclamato recitativo L’Europa Galante, e di tal genere compose diverse altre operette, e musicò forse il primo le Feste ed il Carnoval di Venezia.

Anche il suo coetaneo Enrico Desmarets parigino, dapprima cantore alla corte, poscia vagante in Ispagna, sparse buoni mottetti, e scrisse l’Ifigenia poi ritoccata da Campra.

Primo poi che, intorno a quel tempo, ebbe l’arte di solleticare il gusto d’ambo le nazioni italiana e francese, e di riunire i loro suffragi, quasi sempre opposti in materia di musica (scrisse un altro letterato francese), fu il grande musicista italiano Corelli.

Era il tempo infatti del rinascimento della musica, e degli attriti inseparabili dalla gran novazione.

Claudio Goudimel, mediocre musicista della Franca-Contea, era stato ucciso a Lione nel 1572, da alcuni cattolici, che per le solite superstizioni facevansi merito di spandere sangue, i quali gli fecero crimine l’aver musicato i Salmi di Marot e di Beze.

Orlando Lassus di Berg, che scrisse pure Liber Missarum, e in pari tempo Patrocinium Musarum, Theatrum musicum, motetarum et madrigalium etc., era stato considerato alle corti di Francia, d’Inghilterra e di Baviera, meglio che Orfeo ed Anfione, il consolatore del nojato mondo — Hic ille Orlandus, [197] Lassum qui recreat orbem. — E colmo d’anni e d’onori era morto in Monaco nel 1594.

I Paesi-Bassi, secondo Du Bos, per alcuni mediocri musicisti, si disputavano il merito delle più belle composizioni.

Convenne Rousseau, che nel tempo in cui l’Italia era imbarbarita, ed anche dopo il rinascimento delle altre arti, le quali tutte l’Europa a lei deve, la musica più tardiva, non avea potuto prendervi facilmente quella purezza di gusto che dappoi si vide brillare. E a dimostrazione la più convincente, rimarca il fatto che per lungo tempo vi fu una medesima musica in Francia e in Italia e che i musicisti delle due contrade comunicavano famigliarmente fra loro, non senza però che si potesse riconoscere nella francese i germi di quella gelosia che è inseparabile dalla inferiorità.

Aggiunge siccome prova, che il medesimo Lulli, allarmato dall’arrivo in Francia del Corelli, il quale non possedeva soltanto l’abilità delle cadenze, ma la nuova e vera melodia, s’affrettò di farnelo allontanare; il che gli riuscì tanto più facilmente, in quanto che Corelli era più grande, e per conseguenza men cortigiano.

Notasi pure nella Lettera sulla Musica francese, del prelato osservatore filosofo, che «l’Ab. Du Bos ebbe molto a tormentarsi per far l’onore ai Paesi-Bassi del rinnovellamento della musica; e che ciò potrebbe anche ammettersi se si dasse il nome di musica a un continuo ripieno d’accordi: ma se l’armonia non è che la base comune, e la melodia sola costituisce il carattere, non solamente la musica moderna è nata in Italia, ma avvi qualche ragione di ritenere che in tutte le lingue viventi, la musica italiana è la sola che [198] possa esistere realmente. Al tempo d’Orlando e di Goudimel, si facea dell’armonia e de’ suoni; Lulli vi aggiunse qualche cadenza; Corelli, Buononcini, Vinci, e Pergolese, sono i primi che abbiano fatto vera musica.»

E Corelli, che fregiava il bel genio con tale amabilità di carattere e sì rara modestia, che parea dimenticasse interamente i suoi meriti, nel paese stesso in cui si vedea tanto stimato, non ebbe la smania di dirsi francese, come tanti italiani all’estero per meglio conciliarsi le simpatie, e come il bisbetico suo rival fiorentino soffriva che lo togliessero all’onor della patria, e che altri dell’italiano suo nome facessero Lully, quasi a fama più risonante.

Egli stimò Lulli, e non intese lo stile francese, nè le straniere adulazioni[140]. Morì a Roma nel 1733, lasciando principale erede delle sue dottrine il Tartini.

E a Roma perfezionavasi in quel tempo il Duni, destinato esso pure, come Lulli pel dramma lirico, a creare in Francia il comico canto; del quale italiano a Parigi, diremo con quei del suo secolo.

Oltre al Lulli, il Campra, ed il Corelli, furono apostoli musicali in Francia, intorno a quel tempo (1623), i Rossi.

Prima un Michelangelo, quindi un Luigi, e per terzo l’abbate Francesco di quel nome, furono celebrati compositori di canti; ma quello cui specialmente l’arte deve un più rapido progresso, e pel quale i modi cantabili in Francia subirono un’immediata riforma, fu Luigi Rossi.

[199]

Questo geniale cantore del diecisettesimo secolo, portò per primo i madrigali ad una voce introdotti dal Caccini e le cantate del Carissimi che esordirono il dramma musicale da camera, alla forma di vere arie, riformando le strofe o couplets dei francesi allora usate.

Erano queste certe cantilene e parti dei vaudevilles composte sopra versi d’un’eguale misura, spesso ripetute, talvolta debolmente variate, sempre scolorite e monotone; onde Rousseau, accennando anche alle migliori, contenute nelle Folies d’Espagne e nelle Vieilles Chaconnes, ebbe a dire che storpiano l’accento e la prosodia.

Le arie invece, delle quali al Rossi s’attribuisce il primo sviluppo, sono canti misurati, adattati alle parole giustamente «pezzi completi di musica vocale, che siano in un solo pezzo, o si possano dividere e separatamente eseguire, a solo, o a due e a tre voci, sono per così dire, la tela od il fondo sul quale pingonsi i quadri della musica imitativa; la melodia ne è il disegno, l’armonia è il colorito; tutti gli oggetti pittoreschi della bella natura, tutti i sentimenti riflessi dal cuore umano sono i modelli che l’artista imita; l’attenzione, l’interesse, il diletto dell’orecchio, e l’emozione del cuore, sono la fine di queste imitazioni. — Ond’è che una bell’aria soddisfa pienamente, resta nella immaginazione che se ne impadronisce e la ripete a volontà; la si eseguisce nel cervello tale qual la si intese; vedesi la scena, l’attore, se ne sente l’accompagnamento e perfino l’applauso, onde il vero amatore non ne perde mai la memoria. — Nelle arie, le parole non vanno di seguito e scorrono come nel recitativo; ma si troncano, si ripetono, [200] si traspongono a piacere del compositore: non fanno una narrazione che passa; esse pingono un soggetto da vedersi sotto diversi punti di vista, o un sentimento nel quale il cuor si compiace, nè sa staccarsene; e le differenti frasi dell’aria non sono che altrettante maniere di riguardare la stessa immagine. Per queste ben’intese ripetizioni, una espressione che da prima non ha potuto commuovere finalmente vi scuote, vi agita, vi trasporta: — e quelle medesime Roulades (passaggi di più note sur una istessa sillaba) che nelle arie patetiche sembrano fuor di luogo, inducono quella espressione che un cuore invaso da un sentimento vivissimo rende sovente per suoni inarticolati meglio che per le parole: come la Neuma nel canto-fermo ammessa da Sant’Agostino per supplire, con una confusa giubilazione di canto a quelle parole che non si possano trovare degne di piacere a Dio[141]

Tanta mirabile rivoluzione, descritta da Rousseau nella sua definizione delle arie cantabili, portò Luigi Rossi, variando il tipo melodico primamente dal Caccini proposto, determinandone, dirò così, le linee e i contorni rimasti ancora indecisi; lasciandone oltre a cento esempj più o meno belli, che si conservano nella Biblioteca di Parigi e nel Museo Britannico di Londra. Una di quest’arie specialmente, a voce sola, nominata La Gelosia «è un capolavoro tale, che in nessuna altra epoca è stato mai superato; tanto dal lato [201] dell’espressione drammatica, quanto dal lato della forma melodica e la sublimità dell’armonia[142]

Jomelli poi ne compì lo sviluppo, dividendo l’aria in andante ed allegro, per la quale dupplice forma fu a lui attribuita l’invenzione di quella composizione completa che dicesi Scena.

Abbiamo veduto che al primo sorgere del dramma musicale da camera per opera dei veneziani maestri, e di quello scenico pei fiorentini, venne di seguito immediatamente il dramma religioso che prese il nome di Oratorio.

In questo stabiliva una differenza dagl’altri drammi la struttura sua, occupata tutta dai pezzi e dai cori e non interrotta dai recitativi, seguendo sempre il sistema specialmente accolto dalla chiesa di fondere l’antico col moderno stile.

L’Oratorio però fu preceduto dai Concerti sacri, come l’Opera dalle cantate o dai concerti di camera.

Viadana, maestro di cappella a Mantova nell’anno 1611, si può dire il primo che anche nella musica chiesastica abbia tentato di trar partito dal recitativo, rivestendolo di melodici modulati, e servendosi del basso continuo recentemente allora inventato.

I suoi celebri Concerti sacri, composti per uso della chiesa, fanno fede d’una immaginazione, che influì potentemente allo sviluppo musicale.

[202]

Rossi Michelangelo, concorse a tale sviluppo, e ingrandì il Concerto aumentandone le parti senza nuocere all’unità del concetto; legò assieme con gradita varianza arie, cori, duetti, terzetti, e fece tutto precedere da una introduzione, ma più estesa e sviluppata di quella immaginata prima dal Lulli, che dimostra realmente l’esordire della sinfonia, il cui primo saggio, benchè così umilmente comparso e quasi ancora nella semplicità dell’infanzia, rivendica il vanto all’Italia anche di quella invenzione istrumentale, che col nome di sinfonia fu poi argomento di belle prove ai nostri genj moderni, e venne a tanto studio elevata dagli stranieri.

Che se quel nome che accenna ad un concetto sinfonico interamente svolto, non si volesse ancor dare alle introduzioni del Rossi, non si negherà la formazione della sinfonia propriamente detta al Sammartini ed al Valmadrera, pur nostri, che furon maestri agli oltramontani.

Questo ingrandito e completato concerto del Rossi fu l’Oratorio intitolato Erminia al Giordano, e composto nel 1625.

Laudi imitò felicemente quella composizione nel suo Santo Alessio, 1634.

Ora, continuando sull’apostolato musicale italiano all’estero, e sui ricorsi delle straniere corti e cappelle ai nostri inventori, per arricchirle dei nuovi canti, gustare le riforme e tentarne la imitazione; mentre i modi del Lulli e del Rossi si famigliarizzavano a Parigi, a Vienna, introduceansi quelli dei mantovani Viadana e Monte Sinicelli.

Quest’ultimo continuando pel teatro l’opera riformatrice dedicata dal primo alla chiesa, componeva [203] nel 1626 l’opera l’Europa, e la rappresentava in Mantova nella Accademia degli Invaghiti.

Trovandosi in questa ducale città il figlio dell’imperatore Ferdinando III, arciduca Leopoldo, ed assistendo a quella rappresentazione, si fece anch’egli Invaghito; e ne volle tosto la imitazione nella sua capitale. Da questa prima idea portata da Mantova, trae origine l’opera di Vienna, primo teatro in cui, al dire del Tiraboschi[143], fuori d’Italia si introdusse il dramma per musica.

Maestri e cantanti italiani popolarono subito il nuovo arringo, e si può immaginare di quale onore Baldovino di Monte Sinicelli abbia potuto gloriarsi.

Questo veramente fu il seme che generò l’opera anche in Alemagna, tentata subito da Riccardo Keiser in Amburgo, nel 1694, col suo Basilio, e quindi coll’Imene nel 1698, che non ressero però al confronto dell’opera italiana, la cui prevalenza ritardò a quei popoli di quasi mezzo secolo lo sviluppo dell’opera nazionale.

Tartini chiamato a Praga nel 1725 dall’imperatore Carlo VI, e quivi rimasto tre anni, rese da usura l’utile che avea ricavato dalle prime lezioni del padre Boemo organista, durante il suo soggiorno forzato in Assisi, ottenne i suffragi universali; diede consigli agli artisti tedeschi, a Stamitz specialmente, il quale dovea rappresentare la sua scuola a Mannheim, come Gairniés la rappresentava in Francia, onde fu detto il Tartini francese[144].

Anche Lalande venne a consultare Tartini in [204] Italia; e vedremo poi fra i metodisti, nuovi stranieri del celebre maestro patavino imitatori.

Gian Filippo Rameau, nato dall’organista di Digione nel 1683, era pur venuto a istruirsi a Milano, e fattosi artista nomade in Italia, ne osservò i maestri, compose operette buffe assieme a Piron, e tornò agli organi di Lille di Fiandra e di Clermont d’Alvernia. Sortito poi dagli studiosi suoi ritiri nel 1722 per salire ai primi onori della corte di Parigi, riportò le rimembranze italiane in quanto di bello ebbesi a riscontrare nel Sansone musicato sulle parole di Voltaire, il quale aveagli dato il primo libretto per averlo sentito cantare al clavicembalo nell’Ippolito sui versi dell’Ab. Pellegrini, nelle Indie Galanti, ed in Castore e Polluce, sulle quali opere principalmente fabbricò la sua fama[145]. La scienza confessava egli medesimo averla appresa prima dagli augelletti delle foreste d’Alvernia, indi dai cigni d’Italia.

Gli Agricola, nella cui famiglia s’annoverano maestri fin dall’anno 1450, insegnarono successivamente il canto in varie cappelle d’Alemagna nel 16.º e 17.º secolo.

Carlo Valgulio bresciano riproduce la sua traduzione e i commenti alla Musica di Plutarco, in Parigi nel 1514.

Gli Adriani, il primo dei quali nominato Francesco era maestro in Roma al tempo dell’Ugolini (1593), trovansi registrati fra i capi cantori di Parigi e di [205] Liegi fino al 1750. — A Liegi, un Giovanni Cicogna era stato maestro nel secolo XIV.

Vincenzo Albrici di Roma, verso il 1650 è già maestro in Svezia e in Sassonia.

Fra Luigi Zacconi monaco Agostiniano, di Venezia, dirige e riforma i sacri canti in Baviera, intorno al 1600, dove Orlando di Lassus avea poco prima imitati quelli del Palestrina; e scrive la celebrata opera «Pratica di Musica utile o necessaria sì al compositore per comporre i canti suoi regolarmente, sì anco al cantore per assicurarsi in tutte le cose cantabili.» Divise questo lavoro in quattro libri, nei quali si tratta: delle cantilene ordinarie, de’ tempi, de’ prolationi, de’ proportioni, de’ tuoni, della convenienza di tutti gli strumenti musicali; e di ritorno a Venezia nel 1619, quivi la pubblicò. In altra edizione (1822) viene indicata siccome trattante «de’ contrappunti semplici ed artificiosi da farsi in cartella ed alla mente sopra canti fermi, e doppj d’obbligo e non conseguenti: come si contessino più fughe sopra i predetti canti fermi ed ordischino cantilene a due, tre, quattro, e più voci

Abaco Evaristo di Verona, si trova in Baviera, pochi anni dopo (1650), che continua e perfeziona la scuola di Fra Zacconi.

E alla fine di quel secolo, Nicola Porpora della bella schiera de’ napolitani maestri all’estero, già comincia brillare colla sua rinomatissima scuola di canto a Dresda, a Vienna, ed in Londra; ammirato dai celebri musicisti che sorgeano ad illustrare rispettivamente quelle capitali, Hasse, Händel, ed Hayden.

L’amico di Porpora, Antonio Lotti, già cantore contralto di Venezia, lo si trova maestro della cappella allora cattolica di Annover, e compositore esso [206] pure al teatro di Dresda, attorno il 1690, prima che concorresse in patria coi grandi veneti suoi contemporanei e magnificasse il suo nome sulla cattedra di Cavalli e di Legrenzi suoi maestri, che alla lor volta vedemmo, il primo in Francia e Germania, il secondo in corrispondenza colla scuola parigina di Lulli.

Pollarolo Carlo bresciano, diffonde a Vienna i suoi drammi musicati a Venezia, e vi scrive l’oratorio Jefte sullo scorcio del medesimo secolo. Indi Ziani Pier Andrea, celebrato veneto organista, è a Vienna maestro.

Carlo Pallavicino, allievo di Legrenzi, dagl’Incurabili di Venezia si trasferisce in Sassonia ove morì nel 1688.

Dopo questi, Baldassare Galuppi, è apostolo dei canti a Praga, a Londra, nelle Russie, a Vienna, dove stanca Metastasio a dettargli lirici versi.

Non è a dire se anche i Fiorentini, ch’ebbero il merito de’ primi trovati nel drammatico canto, in estrani paesi passassero a far propaganda de’ nuovi modi e riscuotere i primi plausi.

Il continuo movimento fratesco contribuì alla diffusione della riformata scuola; e infatti fin dal 1516, per opera di Aarone fiorentino, si trova formata una cappella in Rimini dove quel maestro era canonico, quindi una scuola sua propria in Roma, che (come alcuni asseriscono) si diramò poscia in Francia ed in Spagna.

Anche le frequenti emigrazioni che per cagioni politiche si ripeterono in quel secolo, trasportando da quel di Firenze e dalle terre circostanti il fiore dei cittadini, che spesso spogliati d’ogni sostanza, e bisognosi presso a stranieri popoli, doveano ricorrere alla propria capacità per procacciarsi di che vivere, come [207] pur troppo avvien sempre in tempi di tali sciagure; e specialmente le fughe e gli esigli causati dai tradimenti del 1530 in cui le libertà della Fiorentina Repubblica furono spente; influirono a popolare altri paesi di que’ cantori e di quei musici che lungo le rive dell’Arno, ne’ templi dell’Orgagna, e sulle mura di Michelangelo, ispiravano i liberi ricercari, le ballate poetiche, le canzoni guerresche.

Così vedemmo più di recente per le persecuzioni austriache in Italia, più estesamente vangelizzata anche pei canti l’ospitale Inghilterra.

I fuorusciti fiorentini, in gran parte, ricoverarono in Francia, alcuni nelle terre della Veneta Repubblica; e seco trasportarono le arti loro pregiate, fra quali la serica manifattura, i modi speciali del loro canto; e tanti in Francia, in Alsazia, e nel Vicentino si piantarono stabilmente, e tuttora riscontransi i nomi, le scuole e le famiglie; e non pochi scusarono i danni della perdita della patria, acquistando felice riputazione; come il Boccaccio notò, nella sua epistola a Pino de’ Rossi, che «assai nostri cittadini sono già di troppo più splendida fama stati appresso le nazioni estrane, che appresso noi

Dalla chiara famiglia de’ Fantoni venuti da Firenze in Francia co’ fuorusciti, alcuni trattarono l’armi, altri esercitarono il canto e la musica; onde diverse scuole e varie città francesi ebbero maestri di questo nome, finchè s’incontra il celebre Nicola Fantoni, e Fanton per lo straniero accento, scrittore di mottetti e di salmi, in cui rivelasi la fantasia italiana sposata al gallico stile del Lalande, superato per altro in vaghezza e per le istrumentazioni condotte e riconosciute di miglior gusto. Prima maestro alla cattedrale [208] di Blois, e a quel famoso reale castello, lo fu poi a la Saint-Chapelle, ove morì (1757).

De’ suoi nipoti venuti in Italia, e precisamente su quello della Repubblica veneta (1769), parecchi Fantoni si distinsero nel culto del canto.

Progresso e svolgimento del Canto Drammatico. — Scuola Napolitana. — Rapido suo ingrandimento. — Precursori della nuova Epoca. — Compositori del secolo XVIII.

Ma io non discorro la serie tutta de’ maestri italiani all’estero nei tempi delle prime scuole del canto drammatico; perocchè compresi in gran parte nel novero de’ maestri di musica, torna impossibile il distinguere quelli che l’arte musicale nella piena estensione esercitarono, dai cultori speciali di quella parte che al canto si riferisce.

Nè io mi sono proposto di trattar della musica in generale; ma le fasi della scuola vocale, le memorie e lo sviluppo del linguaggio del canto io vò raccogliendo.

Inoltre il lento procedere delle scuole straniere, la povertà dell’antica loro storia, la debole e impotente imitazione della scuola italiana a cui tanti secoli confessarono l’assoluta primazia ed il pregio originale, mi riconducono ai vasti progressi del canto per l’impulso dei nostri maestri famosi che alle novità del secolo 16.º aggiunsero altre sorprese, continuando l’aurea catena de’ primi classici, e apparecchiando i prodigi con cui dovea chiudersi il 17.º e aprirsi l’ultimo secolo.

Infatti dopo le risorte scuole del Palestrina, dei [209] Gabrieli, e de’ fiorentini, più che le persone degli insegnanti che varcarono i confini d’Italia a comunicare i nuovi trovati, giova attendere ai mirabili effetti della diffusione dell’opere e dei metodi degl’itali innovatori, allora che l’eco de’ bellissimi canti risuonò per l’arie tutte dell’universo.

E qui mi si sfila dinnanzi la plejade degl’illustri maestri, che, come seconda legione non men sublime e più splendida, perfeziona l’opera de’ primi genj; per cui il canto de’ templi unisce alla maestà la poesia, e quello del mondo esprime il dramma e la commedia.

Veggo ricomparire in Venezia ispirata la sacra Musa col sorgere di Benedetto Marcello, dopo l’anno felice di sua nascita 1686.

Il gentiluomo illustre d’avi e di memorie, che per volere paterno dovea educarsi puramente per la politica e la magistratura, era tratto invece irresistibilmente all’amore, alla musica ed alla poesia. Nel primo, una popolana fanciulla lo iniziò nelle dolcezze che s’appurano per la virtù, e si piacciono di mistero. Alla poesia la sua Venezia gli fu ispiratrice. Alla musica, negata essendogli ogni istruzione, e non bastando il mediocre Gasparini esercitante allora il contrappunto, provvide da solo il Marcello e bastò a lui interamente il suo genio. Ripeteasi così l’autodidattica sperienza per cui un secolo prima avea sorpreso Carissimi.

Nè in sè soltanto ricercò gli effetti della espressione e del sentimento riguardo allo studio suo prediletto, ma nella donna istessa del cuor suo, che amò esercitarla nel canto, e che sposò poi segretamente.

Meglio che dalle applaudite esecuzioni di un ricordato Antonio Zanetti, buon maestro e cantore della [210] scuola veneta in quel tempo, io mi figuro il gentil veneziano pendere in estasi dalla voce della sua bella studiandone le soavi impressioni, come Abelardo trasfondeva col canto gli appassionati moti nel cuor di Eloisa; ma come questo non s’accontentava delle volgari parole, ei rinnovava il linguaggio melodico di David e di Salomone, e dalle labbra amate sentia ripetersi i baci della Sposa de’ Cantici e ne traduceva le dolcissime frasi coi nuovi modi del suo genio creatore.

Intitolò infatti i suoi Salmi Estri Poetici e Armonici; e come proprietà del genio felice è lo espandersi, facea gustare talvolta le sue melodie ad eletta compagnia che radunava nel Casino de’ Nobili da lui fondato in Venezia; e quindi in Pola dove la repubblica lo inviava provveditore, ed in Brescia ove morì nel 1739; mentre la patria lo proclamava, come il Palestrina, sovrano de’ canti; gli stranieri ammirati ricercavano le sue composizioni ormai rese famose; e Venezia assicurava l’onore della sua scuola.

La posterità accordò fra i veneti illustri monumento a — Benedetto Marcello, che sapientemente ispirato espresse intero il concetto de’ Salmi e n’ebbe nome di Principe della Musica sacra —.

Giuseppe Tartini, intanto, già del 1721 maestro alla cappella del Santo in Padova, e maestro anche in Venezia ad un Marcello fratello dello stesso Benedetto, variava le stupende salmodie colle celebri sue sonate, e nello studio de’ Marcelliani canti fondava il suo trattato musicale famoso.

Alessandro Stradella, il misterioso cantore, riempiva pur le Venezie delle sue composizioni lumeggiate dell’aria romanzesca della sua vita[146].

[211]

Sulle poetiche rive dell’altro mare d’Italia, non meno splendida rifulse la stella ai genj canori ispiratrice.

Come i Gabrieli a Venezia, a Napoli i due Scarlatti, Domenico padre ed Alessandro, costituito aveano e reso celebre il Conservatorio di S. Onofrio, gloriandosi fra gli altri di Leo e di Durante distinti allievi e alla lor volta maestri.

Il canto drammatico, di recente coltivato, e pur salito a mirabile sviluppo, serviva ancora a quel miscuglio di sacro e di profano, di favola e di storia, privo di buon gusto e d’interesse, sopracarico d’una musica ornamentale e bizzarra, che se valea a dinotare la scienza del compositore, nuoceva sensibilmente ai veri effetti dell’arte.

Alessandro Scarlatti, non trascurando nessuno de’ trovati precedenti, attese a riformare il dramma musicale; ed in una sua opera, intitolata Onestà ed Amore, rappresentata nel palazzo di Cristina di Svezia a Roma, nel 1680, dimostrò ai poeti come valesse meglio assai toccare il cuore che la fantasia, ed ai compositori, come la potenza dell’arte consista principalmente nella melodia.

Da questa sua bella scuola originale e riformatrice, si può immaginare quali libere vie trovassero da spaziare gl’ingegni eletti de’ suoi allievi.

Le melodie di Leo salentino furono cerche in Italia ed in Francia anche lungo tempo dopo ch’egli creandole s’era spento[147].

[212]

I primi veri espedienti insegnativi, e la vera scuola del formato canto italiano, fissano la loro origine col Leo e col Durante.

Durante napolitano, nato nel 1693, dal collegio musicale di Alessandro Scarlatti, passò a Roma, dove lodavansi i recenti insegnamenti dell’Adami da Bolsena, detto anche Carielo Piseo (1700), ed allora tenea scuola di contrappunto Bernardo Pasquini, e un Petroni procedeva fino al 1755 con quella di canto. Al comparire in Roma del Durante anche la scuola del Petroni si volse a interpretare le di lui nuove composizioni sacre, improntate d’un fare solenne ed energico e del vero sentimento religioso.

Come Marcello alla veneta, Durante diè splendore alla Scuola napolitana; come quello, sofferte avea le paterne contraddizioni, toccò a lui di lottare colle improntitudini d’una Santippa, che gli togliea perfino clandestinamente i suoi spartiti e a vil prezzo vendevali, mentr’egli con esempio di esemplare pazienza e di prodigiosa memoria s’adattava a rifarli; e trionfò anch’egli, segnando le sue opere coll’energia infocata dell’amore, e colla calma solenne della meditazione[148]. Diresse il Conservatorio di santa Maria di Loreto.

E come alla testa di quella scuola che alla fine del secolo 17.º avea apparecchiato l’ultima trasformazione del canto italiano e del drammatico sviluppo dell’opera, colle composizioni dei Bertoli, Cavalli, Draghi, Badia, Cesti, e Buononcini, avea brillato A. Scarlatti, maestro a Durante: così alli insegnamenti [213] del Durante medesimo, debbonsi i compositori del 18.º secolo; e splendono a sua corona Pergolese, Jomelli, Trajetta, Piccini, Sacchini, Paisiello.

Viste le origini classiche de’ canti religiosi e drammatici, eccoci ai primi esempj del vero sviluppo dato alle loro espressioni in maniera comica e in quella giocosa.

Non è che tali modi derivino dalle forme più serie; o sieno conseguenza de’ progressi nelle sacre melodie e nel lirico dramma; o infine ammettano uno studio esclusivo, una speciale intelligenza.

Questa lingua una e trina è sempre la stessa, che apparisce diversa secondo la varietà delle espressioni.

Fino dalle prime nostre osservazioni abbiamo potuto convincersi come anche il selvaggio con le note medesime che la natura gl’impara, e come detta il sentimento, prega, piange e folleggia.

Egli è che l’arte più presto o più tardi, applicò i suoi studj a questo o a quel modo di espressione; ed i genj a seconda della inclinazione o del capriccio si fermarono ad uno o all’altro esperimento.

Giambattista Pergolese di Jesi, presso Ancona, giovanetto compreso tutto delle solenni espressioni del Durante, educato da Gaetano Greco e da Francesco Feo nelle buone ma sistematiche leggi del contrappunto, non si lasciò legare da verun vincolo, non subì pressione da autorità alcuna; e vera immagine della libertà del genio e dell’arti divine, si lasciò trasportare alle vaghezze tutte che nel giardino delle liriche muse gli offriano diletto; i noti campi furono scarsi al suo estro; e farfalla generica che non si pasce soltanto del proprio suo vegetale, lui primo variopinse le ali all’ebbrezza di tutti i profumi.

[214]

Per meglio esprimere la indipendenza del canto, Pergolese tentò da prima spogliarlo di que’ accompagnamenti che lo seguivano tanto dappresso da confonderlo con chi doveva servirlo.

E questo in Pergolese fu un grande insegnamento: perocchè non sia vero che gli accompagnamenti diversi dal canto rendano questo meno sovrano o più soggetto; ma quelli che seguono il principale motivo, e vestono dirò così il costume del loro padrone, per eccesso di servitù, non lasciano più distinguere il signor dallo schiavo.

Anche il Vinci, compositore purista che avea afferrata la somma idea dello Scarlatti, provato s’era a separare la parte vocale da quella istrumentale, e facendo distinguere la melodia dall’accompagnamento, le avea rese amendue semplici e naturali.

Ma confermato il bel metodo, v’era ancora campo a procedere.

Pergolese fu il primo compositore che vestì qualche aria di accompagnamento istrumentale diverso dalla cantilena primaria, e per tal modo lasciò più libera e sola la espression dell’attore: trovato questo di cui purtroppo un’applicazion troppo spinta indusse poi un’altra confusione, dai poveri genj ritenuta sapiente, ma che non è altro che un abuso di libertà.

Pergolese mostrò l’intreccio di due motivi diversi anche fra que’ strumenti che meglio imitano il canto, voglio dire fra due violini; ma sempre con quella sobrietà, quella semplicità e lucidezza che mantengono il canto concepibile alla mente cui non è data la molteplicità delle intuizioni in un medesimo punto, ammenochè tutte non formino un solo nesso, che allor [215] nella musica non trattasi più di melodico canto, ma bensì d’armonia.

Altra novità trasse il Pergolese dal semitonare nel canto; altre dal rendere meno difficili e secche le cantilene e più veracemente adattandole alla passione.

Per torre il monotono che investiva i canti tutti de’ precedenti maestri, e che pesava specialmente in sull’ariette dello Scarlatti, Pergolese consultò la natura ed ispirossi al vero. Per tali cause potè variare i suoi trovati, ed ottenere effetti esprimenti e fedeli delle passioni diverse che prese a colorire col canto.

Per lui le religiose frasi mantengono la lor gravità, e le comiche conversazioni brillano di giocondità e di naturalezza.

L’Italia ha per lui la lirica commedia. Ma non è più la strofa licenziosa de’ buffoni, il capriccio sbrigliato de’ menestrelli; è la sorgente di bel canto che dopo mille filtrazioni e raffinamenti sgorga ricca di nuovi tesori; è la vena del buffo-comico di cui si compie la scuola del canto.

Fu precisamente la farsa musicata dal Pergolese nel 1731, intitolata Serva e Padrona, che segnò quasi la origine dell’opera buffa in Italia.

In questa composizione rifulge massimamente la verità di espressione propria ai canti di quel maestro: il comico stile opportunamente s’intreccia a quello dell’opera seria; perocchè l’indole sia melanconica ed elegiaca, ma non v’impedisca gli slanci vivaci, la grazia e la soavità; ed è uno stile formato, la vera espressione comica, vagamente prima segnata dagli estri serj o burleschi de’ veneziani cantori.

Dai primi che udirono la Serva e Padrona fu [216] subito compresa la novazione che que’ canti recavano al teatro, l’effetto fu pronto, l’esito sicuro.

Fra i giudizj autorevoli dei contemporanei musicisti, osservatori e filosofi, il padre Gio. Battista Martini de’ Minori conventuali di Bologna, buon maestro compositore di quel tempo — (nato 1706, morto 1784) — e conoscitore erudito della musica antica e moderna, di cui avremo a intrattenerci più innanzi fra i trattatisti, il pad. Martini elogiò specialmente il Pergolese pe’ suoi nuovi modi di canto burlesco; mentre nelle sue critiche non sembra soddisfatto appieno dello stile ecclesiastico del compositore medesimo, di cui in appresso vedremo una gran prova.

Rousseau, nella Lettera sulla Musica francese, confessò che Pergolese fu tra i primi che rese la musica melodica, mentre era prima troppo artifiziosa e ripiena di contrappunto.

Marmontel, nella Poetica francese, disse che, l’opera Serva e Padrona di Pergolese servì di scuola ai francesi; ch’essi non sapevano che la commedia può essere avvivata dalla musica, prima che gli italiani a loro non l’avessero appreso.

D’Alembert (Dissertazione sulla libertà della Musica) salutò Pergolese come il Raffaelo della musica italiana.

Ed infatti come Raffaelo, e come un altro genio straordinario e sensibile, quale fu poscia Bellini, Pergolese, fu stella nunziante il mondo di nuova luce; colla purezza de’ nuovi albòri mostrò la semplicità di natura, diè la visione del vero e bello; e scomparve.

Colla sorte di chi sembra appartenere a cieli più puri, morì giovane anch’egli, a 26 anni! Per soli [217] quattro, beò quaggiù di sue composizioni, ferito dalla sorte che parea preferire Eginio Duni, napoletano musicator del Nerone[149].

Ma pria di rapirsi alla breve sua peregrinazione il cigno di Jesi, come lo imitava più tardi quello di Pesaro, chiuse i suoi canti coll’inno di dolore, quasi a lamento della sua dipartita. Scrisse lo Stabat, ultimo lavoro che bastava questo a immortalarlo.

Il padre Martini appuntò Pergolese d’aver lasciato trasparire in questa sacra elegia lo stile della Serva e Padrona. Dal quale giudizio chiaramente apparisce avere il frate bolognese preso in esame più serio il cantico sacro di quello che non avesse fatto della farsa teatrale. Che se pari studio avesse posto analizzando lo stile della Serva e Padrona, pronunciato avrebbe opposta sentenza; che realmente nel fondo appassionato di questa commedia sembra talvolta adoprato lo stile che nello Stabat espresse la pietosa elegia.

E valga il vero che, in seguito, Meyerbeer, il combinatore profondo, si valse egli stesso d’alcun di que’ ritmi vivaci per adattarlo alle espressioni più serie, e con nuovo mirabile effetto.

Nella musica infatti del Pergolese è notabile la proprietà tutta sua caratteristica di variare il ritmo mantenendolo pur sempre brioso ed elegante; onde se la sostanziale mutanza mantiene il diletto, la forma costante intrattiene la espressione e tien ridestato e [218] rinnova sempre l’effetto, che alcuni intelligenti attribuendolo al ritmo, lo esprimono quale energico eccitamento delle azioni nervose riflesse!

Fatto è che, ora ch’io scrivo sui canti del Pergolese, cento e quarant’anni crollarono le loro polveri sulle sue composizioni, nel qual lungo spazio di tempo, se i più splendidi astri comparsi abbagliarono quasi di luce il mondo musicale, impedire però non poterono che il desìo di tutti i religiosi cultori a quelle modeste penombre non si volgessero, e i primi fiori avvivati dai miti raggi di quel mattino non ricercassero quasi a dolce riposo, a vergine ispirazione, a felice conforto.

Da Paisiello a Rossini quegli oracoli furono consultati; e a quelle idee melodiche di prima intenzione ricorrono tutti che saper vogliano come si canta italianamente.

Il gusto andò colle novità succedutesi e colla moda: ma dopo quasi un secolo e mezzo risentì vaghezza del primo latte; ed ora che scrivo, i teatri riproducono la Serva e Padrona di Pergolese con nuovo fanatismo, e i giudizj moderni riconfermano le antiche sentenze.

Oh che musica, che canto! — Si esclama a Firenze — che soavi melodie!

«Musica gentile, affettuosa, semplice, originale, espressiva, stupendamente adattata alla situazione. L’aria del basso, nella 2.ª parte, è tale da formare la riputazione d’un maestro, il vanto di una scuola; ella è addrittura portentosa. Gentile il duetto finale; e per tutto elegante e spiritosa la fantasia dell’autor dello Stabat[150]

[219]

Un progressista convinto del massimo vigore raggiunto dal drammatico canto, e incredulo di potersi beare ai vagiti di quando era bambino, confessa «di rimanersi maravigliato del brio, della scorrevolezza dello stile, e di quel misto di cattedratico e di spigliato da cui risulta tessuta la musica di questo nostro antenato. Niente infatti è più curioso dell’antitesi che offrono all’udito quelle melodie vivaci come schioppetti di risa, modellate, con un garbo proprio attico, sopra un gravissimo e serissimo basso-continuo. Niente più naturale di quell’arietta di Vespina nella quale la briosa servetta chiude con un ripetuto pss!.. impertinente la bocca al vecchio padrone indignato di non potere dire le sue ragioni; nè altro è meglio espresso di quella lotta che si sviluppa in un recitativo ed aria così belli, da sfidar qualunque maestro d’oggi giorno a fare altrettanto e con altrettanta verità d’espressione, servendosi dei soli mezzi che l’arte a’ tempi di Pergolese possedeva[151]

Da Milano si scrive con nuova letizia che, finalmente si sente ancora il vero canto italiano, nelle opere del passato che hanno un valore vero e reale ove si fa buon uso dell’arte, e s’ottiene grande effetto con poco, invece di sciupare molto per aver poco o nulla, com’usano malamente i moderni abbujati che vorrebbero farsi riformatori!.... Pergolese nella Serva Padrona, manifesta un tesoro d’idee melodiche prime, di svariati atteggiamenti, di bellezze native, di felici ardimenti. In quella farsetta si canta, e non si declama alla francese ed alla tedesca...

Ed a Roma, dal 1737, in cui Fra Sabbattini dirigeva i cantori riproducenti lo Stabat del Pergolese [220] appena allora defunto, ai giorni nostri, in cui ai padri in ecumenico concilio raccolti si ripetono, dopo 133 anni, quelle note piene di fede, meste e spiritose, italiani e stranieri, ossequiando all’eterno bello, si commovono ancora ai canti del Palestrina, del Marcello e del Pergolese.

Altro bel genio meridionale ch’ebbe la ventura di misurarsi con Pergolese, fu il Duni, nato a Matera nel 1709, allievo del conservatorio dei Poveri che sorgea in Napoli con Durante. L’estro del comico canto attagliavasi specialmente alla natura del Duni sotto alla quale ispirazione compose a Napoli, a Roma, a Parma, e finalmente dal 1757 in poi a Parigi, dov’egli creò la commedia lirica colla gloria medesima che settant’anni prima Lulli vi avea acquistato il primato nel dramma.

Duni, nella invenzione di que’ canti si lasciò lungo tratto discosti i pure famigerati Rameau e Rosseau; fu guida e scintilla al primo comico-lirico francese Monsigny di Fauquembergue (1760) che in varie operette lo imitò abilmente; morì in Parigi nel 1775, lasciando popolari le sue ariette piene di grazia e di naturalezza, che si ripetono ancora nei borghi e nel fondo delle campagne.

Data dunque la spinta, precisata la strada del canto drammatico e di quello comico, eletti ingegni di cui in ogn’arte fu sempre feconda l’Italia, alla guida di tanti maestri inoltraronsi subito alle più felice scoperte; ed ecco rivaleggiare e succedersi scrittori di bel canto ad ogni espressione rivolto; e fra i primi, e tutti nella ferace terra dove si dilatava la scuola al favore di tanfi esempj, Porpora, Paisiello e Cimarosa.

[221]

Porpora Nicola, nato in Napoli nel 1685, allievo esso pure dello Scarlatti, si dedicò con particolare predilezione alla parte precipua della musica, il canto; e si può dire il primo che seriamente abbia tentato di penetrare i misteri delle intime espressioni, le cause e gli effetti, ed abbia aperta allo studio del canto una ragion filosofica, elevando quindi la scuola di sua espressione ad una nobiltà che non era ancora riconosciuta, ed alla importanza voluta da un grande sviluppo.

Infatti alla esecuzione de’ nuovi trovati, ben’altri studj chiedevansi di quelli che gli antichi e semplici modi permessi avevano; ed al maestro dei canti della nuova epoca non poteva ormai più darsi il modesto titolo di maestro de’ fanciulli, perocchè alle manifestazioni più elevate quali l’arte drammatico-comica esigeva dagli esecutori, una guida superiore agli adulti, un maestro d’artisti voleasi.

Porpora era il profondo conoscitore delle leggi musicali: custode delle antiche tradizioni, serbò la parte melodica come ispirazione divina ossequiosamente distinta dai precetti dell’armonia.

Non è ch’egli non fosse vago di questa veste sontuosa che dispone, equilibra, protegge e sublima le prime creazioni, e per le più variate maniere ad una mirabile unità le conduce; ch’egli per le sue composizioni s’acquistò il nome di Patriarca dell’armonia. Ma se le sue Opere, le sue Messe, le sue Cantate appalesano una maestria non comune nell’arte del contrappunto, non nascondono la vera causa del bell’artificio rivolto a scusare la difficoltà d’invenzione.

E sì che il Porpora comprendeva tutta la espressione del divino linguaggio, e sapea comunicarla e [222] tradurla; ma il di lui genio non era quello del Pergolese: da questi le prime idee, le naturali bellezze; da quello il compimento al concetto, la coltura alle belle forme e il nobile atteggiamento. Quel fare spiegato, quel dialogo energico che formò il classico recitativo, onde al dir di Rousseau, per questo solo il Porpora s’è reso immortale.

Ecco dunque formata la scuola dei nuovi canti, e da Porpora, l’esimio interprete delle riformate leggi, si leva la fama del rinomatissimo collegio dei cantori all’Ospizio dei Poveri in Napoli, da cui sortirono i più celebri esecutori del 18.º secolo.

Nè bastò a lui dare all’arte un tanto indirizzo nella sua terra natale; apostolo del bel canto, regolò alle sue dottrine il Conservatorio dell’Ospedaletto in Venezia, trattenendosi quivi per ben dieci anni (dal 1725 al 35) quale direttore e maestro.

Provato s’era di fondare anche a Roma le sue teorie a liberazione del canto che gli abusi dell’arte magistrale ritentava padroneggiare; e concorso avea alla cappella di S. Giacomo degli Spagnoli; ma ivi la immobilità scolastica, che s’era fermata sul magistero e non sullo spirito di Palestrina, teneva al sistema; un Biordi musicista discreto prevalse nelle convenzioni d’una fuga proposta alla gara, e il patriarca fu vinto.

Coll’ambasceria veneta, Porpora passò a Vienna, dove fu guida e perfezionamento al bell’ingegno di Haydn; ed insegnò il canto italiano.

L’insegnò a Dresda, di fronte ad Hasse che iniziava la sua scuola; fece sentire i suoi metodi all’Inghilterra, quando Haendel entusiasmava coi tocchi della sua arpa; ma se trovò competitori negl’insegnamenti [223] delle armonie, Porpora potè vantarsi maestro di canto senza rivali.

Chiusa in patria la sua carriera nel 1767, rivisse ne’ suoi allievi; primo dei quali il famoso cantor Farinelli.

Era l’ora che l’astro dell’Italia musicale faceva splendida quella grande giornata di tutti i suoi raggi.

Il bell’estro invadeva maestri ed allievi. Durante, Porpora, Guarducci, Guglielmi, Fenaroli, Galuppi, Paisiello, Cimarosa, comparvero in una schiera. E gli eletti scrittori di bel canto si trovarono cinti d’una corona di egregi cantori, quali il Farinelli, l’Aprile, l’Alberti, Pacchiarotti, la Gabrielli, lo Spagnoletto.

Era maestro alla cappella de’ Cappuccini il Guarducci, quando in Taranto nacque Giovanni Paisiello, 1741, che da quel cantore trasse i primi elementi di musica, e s’impresse nei modi di bel canto, che però egli volle sperimentare a quella fonte medesima da cui il Pergolese avea attinta tanta purezza, passando alla scuola di Durante d’onde la fama e l’immortalità dispensavano i loro favori.

Quasi contemporaneamente concorreva alla medesima scuola Domenico Cimarosa, nato in Aversa intorno al 1730, l’orfano del povero muratore precipitato dalla fabbrica di Capo di Monte in Napoli, e che caritatevolmente raccolto dal padre Polcano dei Francescani, era stato da questi iniziato nei canto della chiesa e in qualche accordo dell’organo poi aveva apprese forme migliori dal cantante Aprile, artista in quel tempo celebrato.

E qui valga osservare, non pochi compositori che salirono a distinta rinomanza per le loro invenzioni cantabili, averne avuta la principale ispirazione dalla [224] forza del proprio genio, confermando il detto Platonico che «il canto de’ poeti è una lingua divina intesa in altre sfere e ch’essi rammentano come un sogno di felicità.» Di queste celesti reminiscenze avevano dato saggio Carissimi e Marcello.

Altri ravvivarono il loro spirito alle angeliche creazioni, mercè le speculazioni che sopra felici esecutori di canto poterono sperimentare; come appunto il Marcello medesimo, Paisiello e Cimarosa.

E alcune scuole straniere sorte da questi grandi ispiratori, quasi scintille più da lontano scoppiate, se brillarono di momentaneo splendore, ciò non fu senza l’opera di luminosi interpreti quasi sempre italiani; come quella di Lisbona, d’onde le composizioni dei maestri Puccita e Portogallo[152] divennero note alla Europa pel natural genio abbellitore della Catalani.

Ricorsero poi tutti alle dottrine delle classiche scuole per tutto quello che all’arte appartiene, e d’onde gli slanci della fantasia deggiono necessariamente regolarsi a buone norme e pigliare ornamento.

Di questi segreti fu Durante dispensatore ai suoi grandi allievi e rivali, mentre le loro fantasie spaziavano pei mondi che ciascun genio a sè stesso creava.

La poesia diè maggiore slancio ai loro voli; e per essi il connubio della poesia colla musica fu stabilito.

La vena di Metastasio scorrea leggiadra e feconda; i musicisti l’accolsero e la unirono alla loro corrente. Di sì potente alleanza Galuppi, Guglielmi, Cimarosa, Paisiello apparvero fortunati ministri.

[225]

Abbiamo lasciato il Galuppi buranello quando succedeva al Legrenzi, al Lotti, al Seratelli, fra una miriade di celebri cantori e di compositori che tentavano anche in Venezia nuove armonie. Lo abbiam segnato iniziatore del comico canto armonizzato ai tesori orchestrali.

Attestano cotali sue novazioni il malizioso rimprovero che il suddetto poeta disfogava nel 1749 coll’amico cantore Broschi Farinelli. «Il Buranello sarà ottimo maestro pei violini e pei cantanti, ma cattivissimo mobile pei poeti. Quand’egli scrive, pensa tanto alla parola quanto voi pensate a diventar papa, e se ci pensasse non so se farebbe di più.» Ma allora il Galuppi spingendo la riforma istrumentale, schiudeva realmente tesori di ricerche e di trovati ad altri genj che lo circondavano, che tali furono i compositori del suo tempo, e suoi amici ed allievi che venivano a compiere la serie illustre de’ musicisti veneziani, Andrea Adolfato, Michele nob. Bernardo, il barbiere Salvator Appolloni celebre violinista, rivale di Giuseppe Cappuzzo bergamasco, Don Carlo Faggi organista, Antonio Bergamo, Francesco Bianchi, Alberto Cavos e Catterino suo figlio, Carlo Pallavicino e Benedetto cav. Vinaccesi bresciani, Latilla Gaetano da Napoli vicemaestro alla cappella di S. Marco quando Ferdinando Bertoni maestro di Salò, giovane di soli vent’anni successe nel primo posto a Galuppi, che nel 1743 chiesto in Russia, vi si trasferiva per dimorarvi fino al 1768[153].

Ed ecco che del Bertoni, Metastasio non avrebbe [226] potuto lagnarsi. I suoi canti interpretavano sì fedelmente i concetti, che in un dramma da lui musicato, al primo provarlo in teatro, alla frase di Arbace — Eppur sono innocente — tutta l’orchestra si tacque. Chiestone il capo dal maestro inasprito — cosa si fa ora? perchè non muovesi l’orchestra a dare il colpo di risoluzione? — rispose confuso: — Si piange! — Sublime elogio all’autore che pur nell’Orfeo lavorato a imitazione di quello di Gluck, avea mostrato di possedere anch’egli l’arte profonda per cui gli stranieri allora cominciavano i vanti. Era il Guadagni che cantava il suo Ezio: l’Anna Pozzi ed il Pacchiarotti interpretavano gli altri suoi drammi. Ed al Conservatorio delle Mendicanti avea il maestro Bertoni la memorabile quadriglia delle cantatrici donzelle Teresa Almerico, Antonietta Lucovich, Lauretta Risegari, Francesca Tomii, alle quali voci egli stesso accoppiava la sua, o a quella di Bianca Sacchetti distintissima allieva.

Morì d’anni 88, il 1.º febbrajo 1813, che già compivasi l’ultima fase della cappella e conservatorj di Venezia con altra generazione di maestri e cantori, non ignota all’antico maestro, ma che all’epoca del Furlanetto, benchè di soli quattr’anni sopravissuto, vedremo assegnata.

Paisiello espresse le parole di Metastasio talvolta patetico e vigoroso, talor leggiadro e naturale. Così il doppio stile a seconda che al buffo ed al serio applicavasi; e rispetto al canto religioso, progredì nell’arte abbellita ed ampliata da Palestrina ed Allegri, e i nuovi modi poetici, ritenuti esclusivi al teatro, con libera franchezza fece intendere compatibili alla solennità delle preci, musicando i pontificali e la messa [227] per la incoronazione di Napoleone I. imperatore, nel 1804.

Non meno contribuì Cimarosa al progresso del canto teatrale, e si può dir che per lui quest’arte religiosa più ch’altro, e vissuta prima nelle chiese pressochè interamente, con determinazione sicura la indirizzò pel suo sviluppo e svolgimenti nel teatro.

Quivi pure egli intese all’unità della bell’arte, mostrando che le drammatiche forme non doveano essere estranee alle comiche, o queste a quelle; e fu il primo che impiegò la forma dell’aria completa, o rondò, anche nell’opera buffa, e che fece a questa servire gli accompagnamenti ritenuti esclusivi al canto serio.

Fu una vera Felicità inaspettata, la cantata di questo nome ch’egli diede alla corte di Catterina di Russia, e bellezza nuova la Vergine del sole ivi svelata.

Non impropriamente dunque fu detto Cimarosa l’anello di congiunzione fra la vecchia scuola e la moderna.

Dal suo primo lavoro teatrale, l’Italiana in Londra, coi passi del genio condusse i suoi canti alle eleganze del Matrimonio segreto[154], accompagnandoli d’una forza d’istrumentazione che usata non avea ancora Paisiello, e di cui invece, secondo l’indole della propria scuola, cominciava abusare il Mozart, censurato altamente fin da que’ tempi per la pienezza de’ suoi accompagnamenti.

Grétry interrogato da Napoleone I. sulla differenza fra il genio di Mozart e di Cimarosa, rispondeva: [228] aver Cimarosa collocata la statua sulla scena e il piedestallo in orchestra, mentre Mozart ponea quivi la statua e in scena il piedestallo. Giudizio eloquentissimo sull’importanza del canto; splendida testimonianza di quelle prime impressioni che alla reale bellezza ed alla bella verità rendevano omaggio.

Altrettanto imparziale e altamente autorevole venia pronunciato un conforme giudizio dal grande sperimentale e conoscitore profondo degl’uomini e delle passioni, Napoleone medesimo, quando versando amichevolmente col Cherubini, e colla espansione che provocava un’intima mensa, quel grande che pur gli era ammiratore e mecenate, diceva al maestro dell’imperiale suo Conservatorio: «amo la musica di Paisiello e di Zingarelli perchè mi muove dolcemente; i vostri accompagnamenti son troppo forti.»

E sì che, il Cherubini veniva abbracciato dal grande allievo di Porpora, da Haydn col saluto di figlio del cuore e padre della musica! — E sì che, Beethoven riguardava il fiorentino maestro come il più grande compositore moderno! E sì che, Raoul, Rochette, Lofont, Halevy, elogiandolo vivo, e lamentandone l’immensa perdita a Parigi nel 1842, dissero il Cherubini: genio vario e fecondo, libero come la natura, ricco e semplice, elegante come l’arte antica!

Ma un altro critico in Francia che tutta l’anima della musica sentiva nella melodia, e che per caratterizzare i più grandi maestri volea spogliarli delle varie forme con cui rivestite aveano le loro ispirazioni onde svelare la idea melodica e vederla viva di sua propria vita come la Venere uscente dall’onda, non si peritò di scrivere che «Grétry, uomo di genio e mediocre musicista, era ancora più giovane dopo [229] ottant’anni di successi e di popolarità, che il più sapiente compositore del secolo XIX. il Cherubini!..»

Era pur la gran sfida agl’uomini dell’armonia! E io credo che lo Scudo appuntasse il Cherubini non per abbattere l’idolo venerato, ma per salvare il principio della sua fede; come appunto Haydn e Beethoven incensavano forse l’immagine per inneggiare allo spirito della loro potenza, e rilevare nel genio incontrastato quella virtù soltanto ch’essi avrebbero potuto imitare; convalidando sur una libera vaghezza del grande italiano l’immobilità del loro preconcetto sistema.

I confronti fra il Paisiello e il Cimarosa, e gli appunti vivaci e spontanei ai primi istrumentatori delle italiane melodie, meritano seria osservazione quanto più facile allora la verità potea rilevarsi.

Meritano riflesso le cure ingegnose colle quali l’istesso Mozart collocava la sua statua in orchestra, dove peraltro volle tolto ogni abuso, e purificato il suo edificio da convenzioni e da concessioni contrarie alla opportunità della situazione, alla verità della espressione, e alla bellezza delle forme; per cui gli fu perdonato il sovversivo ardimento.

Nè le animosità di partito devono trascurare i meriti del tedesco compositore Gluck, che viveva in Italia verso il 1745, e dove col forte ingegno cooperò a richiamare ne’ canti la espressione drammatica; mentre il suo antagonista Piccini, col genio della grazia e della varietà, fu il primo in Italia che segnasse nei finali i cambiamenti di scena e le situazioni drammatiche con cambiamento di ritmo e di tempo; onde colla sua opera la Buona Figliuola data in Roma nel 1760, introducendo tal novità, ruppe la monotonia dei [230] finali di Leo, Vinci, Hasse, Lagroscino, e dell’istesso Pergolese ed altri classici compositori, ed apparecchiò il trionfo della sua Didone, a Parigi nel 1778.

Col procedere delle scuole s’intorbidarono esami e giudizj; e la causa della musica implicando quella del canto, senza ammettere le distinzioni dovute, le compatibilità possibili, le convenienze relative, ridusse gli affetti e le passioni proprie dell’arte, nei campi di lotta e di contrasto; volse la ispirazione a vita degli opposti partiti.

La energia dell’autore d’Ifigenia in Aulide, che più che altro s’era proposta una emancipazione della tirannia che i sopranisti e le prime donne, fra quali prima di tutte la capricciosa Gabrielli, voleano far pesare sui compositori, riducendo i canti a fioriture, e le opere a sole arie di bravura, quella salutare energia, dico, fu spinta all’esagerazione per l’incoraggiamento e la intemperanza degli scrittori di quel tempo, e il riscaldo della lotta tralignata in passione.

Allora si dimenticarono le cause da cui Gluck era partito, e poi si confusero e sconfessarono. A raddrizzare i giudizj non bastarono poi gli esempj potenti dell’istesso Mozart sopra accennato, che conservandosi nel giusto mezzo, mostrò colle immortali sue opere possibile l’emendamento degli abusi del bello, e impossibile questo, lungi dalle elette maniere riconosciute dal mondo; onde si mostrò puramente italiano nella composizion del suo Tito, e nel Don Giovanni insegnò l’eccletismo delle due scuole[155].

[231]

E se tali esempj non valsero di lui, detto il miracolo della Germania, ben meno poterono alcuni minori compositori, quali Winter, che da lui e dagli italiani ispirati, per poco ancora tentarono di lasciar libera spiegare l’umana voce alle ricerche tutte del natural suo carattere, e forse all’acquisto d’espressioni e melodie che si credono negate al men soave linguaggio.

Rinacque allora adunque la questione sul legame della parola alla musica, e di questa a quella; obliando qui pure, che sono due linguaggi distinti, due arti indipendenti, che come le altre sorelle, a vicenda s’ajutano, e non s’assoggettano servilmente; per cui l’estro melodico può scorrere libero dalla parola, come questa talvolta può suscitarlo.

Ma vuolsi sempre canto alla musica; ed ecco, che chi nol possede s’arrabatta e dispera sullo sterile e monotono recitativo. Il medesimo Wagner ne’ suoi scritti mostrò più volte rimorso del proprio trionfo, ammettendo che gl’italiani cantano, mentre i tedeschi non possono cantare.

Perfino Gluck, ch’era ben più profondamente convinto delle sue teoriche date al genio alemanno, veniva a patti con sè stesso tutti i momenti che lasciato lo stile di precettore, ricorreva alla vaga penna del compositore ed artista; e quando trovava una buona melodia, più presto che delle sue prefazioni, si ricordava delle lezioni avute in Milano per dieci anni dal Sammartini, e accarezzava quella melodia e la svolgeva come poteva e sapeva meglio.

A fronte di ciò, nel passato secolo, le animose gare fra i seguaci del Gluck e del Piccini agitarono la questione di prevalenza; ed il genio italiano con mille raggi di sole disperse le torbide nebbie.

[232]

Ai nostri giorni riprendono la presuntuosa lotta i cosiddetti Wagneriani. Non traggono questo onorato nome in odio alla verità i sinceri ammiratori del profondo musicista straniero; ma servonsi di quella bandiera, il capriccio della moda, l’allucinazione del volgo, l’interesse delle minori capacità.

La curiosità naturalmente si desta a tutto quello ch’è nuovo. Lo spettacolo delle nuove opere fantastico-romantiche allettando la vista, fa obbliare quelle esigenze che vorrebbe l’udito per essere soddisfatto.

La mancanza del genio fa aggradire tutti quei mezzi che possono procurare l’effetto dalla ispirazione non concesso.

Fu detto giustamente che, le capacità inferiori, valendosi dei nuovi elementi d’effetto, hanno rimpiazzato la espressione col chiasso, eccitando i sensi invece di commuovere l’anima; hanno obbligato il cantante a supplire alla grazia con la forza; e a poco a poco distruggono l’arte del canto..... No! per la stella immortale dell’italo canto, non avranno vittoria!

Le gelosie di Stato e gli antagonismi religiosi provocarono tanto sangue: le sfide musicali procacciano al più qualche fischio. Anche dal quale a salvarsi possibilmente, i ribelli della scuola italiana, forzati a prostrarsi al suo grande passato, nel presente impotenti a competere con quella natura cui in fatto di musica niuna cosa è impossibile, non pensarono male di consolarsi od illudersi colle sperate glorie dell’ignoto avvenire!

Noi ritorniamo intanto alla bella età dell’arte del canto, sviluppata ormai nella sua pienezza, e delle più semplici e caste forme rivestita da geniali cultori, [233] che traendola dal sacro nativo tempio, la collocarono a più splendida comparsa e a nuova vita, insieme alle arti sorelle la poesia e la drammatica, nel campo stabile del teatro: come vergine eletta che dalle romite stanze, con nuovo decoro, passa al talamo di sposa e di madre.

Della trasformazione solenne, Pergolese, Paisiello, Cimarosa, Cherubini, furon ministri, allievi tutti di que’ Conservatorj che fin allora avevano custodito il bel genio de’ canti, e di que’ maestri che, sotto il modesto titolo venuto loro dalle varie cappelle in cui l’arte esercitavano, forse ultimi, mantennero alle chiese ed ai religiosi istituti, di tali scuole l’alta ed esclusiva rinomanza.

Infatti dopo Durante a Santa Maria di Loreto, Guarducci alla cappella de’ Cappuccini, maestri a Pergolese, Paisiello, e Cimarosa; dopo Giuseppe Sarti, maestro della Cappella di Bologna, sotto ai cui dettati compì la sua educazion musicale il Cherubini; dopo Carlo Lenzi alla cappella di Bergamo e Ferdinando Bertoni a quella di S. Marco in Venezia che furono successivamente istitutori del celebre Simone Mayr bavarese; dopo il Bartolucci, il Boemo e il Mattei, il quale iniziò alla immortalità il gran Pesarese, fra i minoriti d’Assisi; la scuola del canto lascia le aure ormai troppo ristrette de’ templi, e fonda liberi e speciali istituti alle sue vaste esercitazioni.

Dallo scorcio appunto del passato secolo ebbero esistenza i veri Collegi, Istituti, o Conservatorj musicali.

Col Cherubini Napoleone I. organizzò quello di Parigi.

Cogli Scarlatti fondevansi i varj collegi musicali di Napoli.

[234]

Con Durante quello di Loreto, mantenuto in bella fama dal suo successore Francesco Basilj, e da Francesco Manna cui toccò di perfezionare nel canto il Cimarosa.

Col Sarti costituivasi il liceo di Bologna, in cui Rossini entrava scolare, e ne usciva sovrano maestro.

Mayr fu il primo direttore dell’Istituto di Bergamo, da cui Donizzetti.

Altri Conservatorj fondavansi nelle principali città d’Italia, che per bontà d’insegnamenti e per allievi cospicui salirono a rinomanza.

Così quelli di Parma coll’Agostini (1700), e il Ghiretti (1750) quando anche il Duni illustrava quella Corte; mentre quei di Venezia col Cocchi e coll’Anfossi finivano (1750-87). Restava la celebre Cappella ducale diretta dal Paer, maestro compositore parmense (1797).

E da quell’epoca traggono origine anche le scuole principali fondate all’estero, fra cui quelle germaniche che per l’impulso potente del figlio al cantante tenore nella cappella di Colonia Beethoven, l’autor del Fidelio, passarono dalle chiese e dai monasteri alle splendide aule teatrali.

Intanto in Italia non degeneri dai celebrati antichi cantori, succedeansi i compositori e gli artisti.

Le tremende politiche vicende, le stragi delle guerre, le persecuzioni de’ tiranni, non impedirono i progressi delle melodiose falangi e le glorie della plejade musicale italiana.

I tiranni di Napoli, del 1799, se ne presero anche col cigno d’Aversa infamemente, e ai loro carnefici per l’ultima pena fu designato Domenico Cimarosa. Ma un altro despota meno brutale vi si [235] interpose, e mutò la condanna. Per le istanze dell’autocrate Russo, Cimarosa fu visto esulare, dopo lunga prigionia e crudeli torture.

Ma come il vago usignolo rapito al suo nido e alla libertà delle foreste, serrato in cuore il bel canto col suo dolore, di afflizione profonda, d’immatura morte finiva in Venezia ne’ primi giorni dell’anno 1801, compiuti appena nove lustri, e si perdea la sua tomba.

Anch’egli fu annoverato fra i martiri della patria[156]. Resta ai tiranni la esecrata fama d’avere spento anche questo genio, le di cui opere vivono peraltro immortali!

Con diversa sorte Maria Luigi Cherubini nato in Firenze, 1760, chiudeva la mortale carriera in tarda età (1842), ammirato dagli stranieri, venerato da posteri che d’ogni nazione e paese si fermano religiosamente al cippo coronato sulla sua fossa in Montmartre[157].

Ben a ragione temevano i tiranni gli effetti del libero genio musicale, come gli scienziati nuovamente ricercavano gl’influssi di tanto progresso. Letterati e oratori levaronsi ovunque a celebrare ed illustrare le composizioni del secolo XVIII; fra quali, il veneto Manfredini Vincenzo che specialmente difese la musica di quel tempo ed i suoi celebri esecutori (Bologna 1788).

[236]

Presentivasi infatti allora un’aurea epoca imminente; chè nella sola Venezia, d’onde quello scrittore veniva, notavansi in quel tempo raccolti, ed intesi a nuove composizioni e a maniere di canto inusitate, i musicografi e cantori: Bernardo Pasquini, Carlo Rossi, Giuseppe Bonno, Alessandro Stradella[158], il cav. Rainaldi, Ercole Bernabei, Alessandro Scarlatti, Francesco Gasparini, Flavio Carlo Lanciani, Gerolamo Venier, Francesco Bianchi, Pietro Guglielmi, Francesco Manfredini, Vincenzo Marsinio, Antonio Martinelli, Carlo Monza, Giovanni Paisiello, Giuseppe Sarti, Giuseppe Tartini, Antonio Vescovi, Giovanni Wanhell, Amadeo Neumann, Baldassare Galuppi[159].

Giuseppe Seratelli, Sebastiano Albero, e Perotti padre (forse Francescano) dettavano i nuovi solfeggi; Leonardo Vinci musicava l’Artaserse (1730); David Perez, la Didone (1733); Pasquale Cafara ed il Trajetta napolitani, altri drammi Metastasiani; ventiquattro de’ quali ne musicava Francesco Cavalli veneziano; altri Giovanni Adolfo Hasse sassone; Giuseppe Misliwecek boemo, dava il Bemofonte (1769); Gian Francesco Brusa, Antonio Giay, Giovanni Porta, Domenico Terradellas, trovavano arie e cantate pel nuovo teatro san Giovanni Grisostomo (1724-44); Galuppi il Buranello, la sua Venere al Tempio; e questo, e Ferdinando Bertoni, e il Furlanetto, già salmeggiavano solennemente alla ducale Cappella.

Fabris Vincenzo componeva I due Castellani pel [237] nuovo teatro dell’Accademia Eretenia aperto in Vicenza nell’estate del 1784; quindi Martini Vincenzo la sua Cosa rara. Quindi altri maestri, quali: Sebastiano Nasolini, Antonio Tarchi, Valentino Fioravanti, Francesco Gardi, Marcello Capua, Marco Portogallo, Vittorio Trento, fino all’anno 1800.

Contemporanei, fautori del nuovo stile drammatico, ispirati alle poesie Metastasiane, che tradussero in belle forme cantabili, seguaci dei sommi compositori che vedemmo illustrare lo scorso secolo, sono pure da nominarsi siccome influenti all’artistico sviluppo del canto, tanti altri maestri.

Piccini Nicola autor della Didone e del Conclave, novatore da noi nominato; e Nicola Zingarelli che primo a Napoli musicò gli spasimi di Giulietta e Romeo (1786).

Marescalchi a Roma (1789) e Guglielmi a Milano, i quali ripeterono in altri canti gl’infelici amori degli amanti veronesi che ispirarono diversamente ben dodici compositori.

Farinelli Giuseppe, che musicò e cantò le poesie del Rossi e del Sográfi, sui Riti d’Efeso ed altra Vergine del Sole.

Caruso Luigi, Andreozzi Gaetano, che musicò Giovanna d’Arco; Pucilla e Pavesi Stefano, napolitani. Quest’ultimo rinomato pel suo Fingallo, e Pucilla autore della Principessa in Campagna.

Fra i bei genj meridionali furono parimenti: Giacomo Tritta, Righini e Giuseppe Gazzaniga, i quali musicarono il Don Giovanni prima di Cimarosa e di Mozart; e Duni, allievo di Durante, il primo lirico delle commedie francesi.

Francesco Gnecco autor degli Incogniti; Ferdinando [238] Orlandi, dell’Avaro; Luigi Calegari, dell’Amor Soldato.

Sarti Giuseppe di Bologna, autore di Salmodie e di Opere buffe.

Frate Mattei, pure in Bologna, seguace e imitator del Martini.

Agostini Pietro della Scuola di Parma, colle sue Cantate a voce di basso solo, e col Ratto delle Sabine rappresentato a Venezia.

Di questa città nativo (1771), e di questa scuola allievo, Ferdinando Paer, pieno d’abilità e d’immaginazione, che nelle sue Griselda, Camilla ed Agnese, primo forse ammise un’alleanza della sua scuola con quella alemanna, dopochè questa per sua parte ed a mezzo del Keiser e del Mozart l’avea già iniziata.

Paer da semplice organista, avute lezioni di canto dal Ghiretti, giunse per l’immensa sua attività giovanile, a rimpiazzare Neumann presso l’Elettor di Sassonia (1801), dopo aver lasciate belle memorie all’ultima Scuola ducale di Venezia (1797), e s’attirò gli sguardi di Napoleone che ammirò tanto l’Achille per lui composto (1806). Per questo, successe allo Spontini nella Direzione dell’Opera italiana a Parigi nel 1812, non cedendo quel posto che a Rossini. Fu maestro di canto della Duchessa di Berry, e poi del Duca d’Orleans; e dopo aver servito di 50 spartiti teatrali e innumerevoli canti una generazione di repubbliche, imperi e reali, lasciò a Parigi nel 1839 le stanche spoglie, e il desiderio ovunque, che in oggi tuttor si rinnova delle sue melodie.

Le canzoni che Napoli gli ha ispirate, ripetiamo nel vaghissimo serto della sua Camilla.

Generali Pietro, piemontese, altro allievo a Durante, [239] maestro alla Cappella di Novara, la cui cattedra lasciò morendo (1833) a Mercadante suo distinto discepolo, al quale colle sue Messe e col Jefte avea insegnato rimaner sempre italiano: per la qual fede e per un certo brio e nuova soavità, fu detto il precursore delle Rossiniane melodie.

Basilj Francesco, che sposò al canto le prime liriche del Romani, cogli Illenesi.

Cocchi Gioacchino, Anfossi Pasquale, e Alessandri Felice, veneziani maestri, che scrissero nello stile serio e giocoso.

Zanata Domenico; Don Rocco Rocchi; Don Bortolo Peretti, che fu anche buon fabbricatore d’organi; Don Antonio Grotto nato il 18 settembre 1753 e morto il 20 gennajo 1831, e Felice Bregozzo (padre al celebre vivente maestro e violinista), il primo maestro e il secondo organista alla Cappella di Vicenza, ambi famosi, e tutti Vicentini, che lasciarono composizioni de’ canti chiesastici sullo stile dei più eccellenti antichi maestri di cappella, e non meno chiari del Rampini, del Baldi e del Farinelli.

Similmente lo Spegher e Zara Giambattista della Cappella di Treviso. Venturini di quella Bassanese.

Lucchesi Andrea e Antonio Salieri, il quale fu a Federico Schubert maestro, pur veneti, che insegnarono e scrissero per canto alla cappella di Colonia (1780), ed alla Camera imperiale di Vienna (1790). Come, più tardi, Morlacchi in Sassonia; Garcìa in Londra; alla corte e ai teatri di Vienna il Donizzetti.

Col quale, prima di passare al periodo di massimo splendore del canto italiano, provocato dallo studio sì lungo e paziente di tanti secoli, dalle apparizioni [240] frequenti di riformatori, e profeti, e finalmente dai prodigi operati dai genj del nostro secolo, onde tutte le scuole del mondo civile sentirono nuovo impulso e nuovo onore a sè stesse acquistarono, ricordar giova l’egregio maestro che a quel torrente di melodiche fantasie diresse il corso ne’ suoi primi anni.

È a rammentare che gli stranieri tutti meglio riusciti all’espressioni de’ canti, attinsero gl’insegnamenti e cercarono le ispirazioni in Italia, e i patriarchi della musica tedesca Haydn, Händel, Schubert, Hasse, Gluck, Mozart furono o in parte o interamente educati alle scuole di Bologna e di Roma, e tutti cominciarono in Italia la loro carriera.

Simone Mayr, oriundo di Mendorf, di soli otto anni cantore grazioso, portato dal desio musicale lasciò le liete aure sue bavaresi, per pascersi di quelle poetiche di Italia; e intorno al 1770 studiava nelle città libere e fiorenti della Veneta Repubblica.

Fu libero ne’ suoi canti come gli dettava la fantasia, attenendosi per poco alle altrui norme, mentre seguiva la scuola del veneziano Bertoni nella fioritura istrumentale. E così insegnando alla sua volta nell’Istituto di Bergamo da lui fondato (riconosciuto sovranamente nel 1805 e riorganizzato per decreto 6 luglio 1811), ebbe la gloria di vedervi brillare un allievo che rari maestri poterono esclusivamente vantare, e colse allori proprj per le dettate sue Opere che lo mantennero nella dignità magistrale a fronte delle sublimi creazioni dell’autore della Lucia.

Or eccoci giunti al sommo Colle delle Muse del canto; ove compiesi la triade sublime dell’estro, del sentimento, e del magistero; triade che, quasi a significare il confine del suo impero e a meglio diffondere [241] li suoi splendori sulla terra prescelta, comparve nell’alta Italia, colla sorgente fantastica di Donizzetti; nel centro, col genio Pesarese; e nell’estremità della penisola, coll’astro gentil Belliniano.

Ma prima d’affacciarsi a tanti tesori, e di coronare le storiche memorie degli inventori de’ canti cogli allôri dei nostri colossali trovatori, onde meglio rilevare la potenza da que’ genj manifestata in questi anni nostri, in cui pegli studj di tanti grandi predecessori parea che l’arte all’apice di suo valor fosse giunta, giova discorrere le leggi migliori che per opera de’ varj inventori, principi e sacerdoti del canto, erano venute a formare il corpo, dirò così, di quella scienza, e i diversi codici di suo insegnamento.

[243]

RIPIGLIO DELLA PARTE ANTICA

II.

Ritorno ai remoti tempi pei Metodi. — Primi Metodisti. — Grecismo. — Ricostituzioni da Gregorio al secolo XI. — Da Guido al secolo XVII. — Da Rousseau al compimento delle scuole teoretiche del suo tempo.

L’antica Sapienza, nelle cose ritenute divine, mise uno studio profondo, scrutatore, minuzioso; oppure, quasi ad eccesso di riverenza, non s’attentò penetrarvi e fece nulle o scarse ricerche.

Se non regge lo scrupoloso confronto in fra i sistemi musicali moderni, e per lo meno riescono inutili i ragionamenti sulla preminenza relativamente ai genj del canto che, come abbiamo osservato, presso a ciascuna nazione serbano le loro impronte speciali e caratteristiche, per modo da rendersi tutti assolutamente indipendenti, e di non ammettere giudizio assoluto di prevalenza se non ai riguardi del bello universale, assoluto; facilmente s’intende quanto mal fondate riuscirebbero e vane le discussioni sui migliori o meno acconci sistemi degli antichi; ed a storico omaggio basterà ricordarli.

L’Indo e la Cina colla immobilità inerente ai religiosi principj, per le espressioni de’ loro canti tennero ai modi che non lasciano penetrarne la origine, seguono ancora i sistemi usati da immemorabile. E [244] quindi, quanto più antichi, tanto più oscuri; quanto antiquati, tanto più ignoti.

Al misticismo dei Nagini (note personificate), dei Gandorva (musici), dei Silfi (suoni dell’aria), mandati da Brama per mezzo di Visnù, risalgono quei sistemi. Un Beherata fu indicato dal Balbo come il primo ed immutabile metodista.

Coloro che più dappresso alle remote epoche conobbero i costumi di quei popoli, e con ecletico studio si valsero della prima sapienza, naturalmente ne interpretarono meglio le dottrine; e nelle loro imitazioni ci lasciarono le traccie men dubbie delle antichissime norme.

Tornar dovremo adunque ai miti della antica Grecia e alle filosofiche disquisizioni che teorizzando sull’arcano linguaggio, lo fecero di comprensione universale, di appartenenza enciclopedica, di cosmologica armonia.

E come vedemmo in capo a queste memorie, dovremmo ricercare le leggi di quel linguaggio in bocca d’ogni poeta e d’ogni filosofo, nei trattati di tutte le scienze.

I canti della vetusta sapienza religiosa, morale, politica, a Rama, a Krisna, a Teuto, a Vodan, stanno a prova immutabile dell’espressione poetica nata coll’uomo.

Chirone, il contemplatore della natura, insegna la musica ad Esculapio e ad Achille.

Demodoco, amoroso cantore, palesa in Omero il linguaggio di Venere e di Marte.

Erméte in Grecia, od Irminsul nella Sassonia, interpreta il voler degli Dei.

Orfeo, figlio a Calliope, sapiente nelle celesti e umane [245] cose, svela col canto i misteri Isiaci agli Egizi ed agli Argonauti. — Lino rivela ai pastori il metodo d’Esiodo[160].

Fenio celebra alla corte d’Ulisse la fedeltà di Penelope. — Tirteo insegna i canti guerreschi[161].

Tamiri, nipote d’Apollo, ingentilisce Odrisa e la Tracia colla musica; come la impiega Taléte a Mileto.

Non è strana quest’arte al severo Licurgo, che sente ed ammira le prime regole date da Tepandro alla lira.

Lasso d’Ermione fu il primo a scrivere norme musicali ai tempi di Dario Istaspe.

Jagnide frigio, padre di Marsia, primo a cantare inni agli Dei.

Filoxene introduce canti effeminati e molli, colle sue Niglarie, onde Aristofane lo riprende.

Epigonio e Simmico dilatano il poter delle corde in concerto col canto.

Diodoro v’aggiunge e perfeziona la fistula.

Ippaso di Metaponte, Teone di Smirne, Corebo figlio d’Ati re di Lidia, Licaone di Samo, Teofastro di Pierio, Istieo di Colofone, introdussero i musici a interessanti ricerche.

A Frinni, a Epigonio, a Lisandro, devesi considerabile perfezionamento dell’arte.

S’attribuiscono sistemi antichi sui rapporti degl’intervalli armonici a Didimo e a Tolomeo, dei quali Boezio trae il tetracordo, o Lira di Mercurio.

Timoteo di Mileto coi varj modi della sua, eccita o calma i furori d’Alessandro.

[246]

In Menalippo, in Pitoclide ed in Ferecrate, riconosce Plutarco altri sistemi e perfezionamenti delle varie cetre.

D’Euclide d’Alessandria non sono smarriti alcuni insegnamenti, sui quali specialmente e su quelli d’Aristoxene, capo di setta musicale ed autore il più antico che ci resti in tale scienza, sembra che Aristide Quintiliano aguzzasse l’ingegno. Da questo autore, che scrisse dopo di Cicerone, abbiamo la divisione della Melopea in ypatoide, mesoide, e netoide, a seconda dei modi e delle estensioni dei canti.

Vennero poi Alipio, Censorino, Gaudenzio, Nicomaco e Bacchio, dai quali tutti avemmo pratiche ed utili nozioni[162].

Speciali nozioni teoriche ci lasciava anche Platone, classificando, come altrove abbiam detto, i diversi elementi della musica in tre ordini; primo de’ quali, la parola, mele o sostanza musicale; a cui segue il ritmo o misura; infine il suono o l’accordo[163].

Aristoxene di Taranto, suddetto, discepolo di Aristotile, dava nuovo impulso alla ritmica colle sue controversie sulle divisioni e misure e sui rapporti dei suoni che ci furono tramandati.

Portico quindi trova acconcio suddividere le Platoniane massime di cui era seguace, distinguendo le parti musicali, in metrica pei versi, poetica pei tuoni e gli accenti, ritmica per la danza, ipocritica per la pantomima, organica pegli istrumenti, armonica per il canto.

[247]

Nozioni ci lasciava il divino Socrate che comprendevano le armonie de’ cieli: altre il fantastico Pitagora, il quale nelle voci degli animali e nel fremito degli elementi riconosceva le anime trasmigrate; come i Zoroastri e i Magi Persiani sentivano l’accordo degli Spirti del cielo coi genj viventi; ma più che dagli insegnamenti misteriosi degli uni e degl’altri maestri, fu scuola reale e più valida la tradizione.

Tradizione è la Scuola Aristoxenica che riportavasi unicamente al giudizio dell’orecchio, all’opposto dei Pitagorici che s’atteneano alla precisione del calcolo. Fra le quali scuole tenne il mezzo quel Tolomeo, celebre matematico, che scrisse in greco stile i Principj dell’armonia, verso i tempi dell’imperatore Antonino. Alle formulate tradizioni di quest’autore, s’informarono poi fra i latini, Boezio ai tempi di Teodorico, Marziano, Cassiodoro e Sant’Agostino.

Tradizione è la legge de’ canti degli Egizj e degli Ebrei; e mentre dell’ebraica musica non resta nozione alcuna, ad onta de’ sforzi dell’Ugolini per darcene qualche traccia nel suo Tesoro dell’Antichità sacra, la tradizione serba tuttora qualche nozione degli ebraici canti.

Canti peraltro senza misura, in conformità alla libera sillabazione della ebraica poesia. Ond’è che nessun vero metodo poteano aver lasciato gli autori di quei cantici; nè a stabili norme aveano dovuto attenersi i grandi Cori salmodiaci levati dalle vette dell’Ebal e da quelle del Garisim[164].

[248]

Naturalissimo è adunque che, anche i primi ebrei fatti seguaci del Cristo cantassero i nuovi versetti vangelici coll’usanza tenuta per quelli dei salmi: e non può dirsi scoperta del Martini, nè del Chateaubriand, il ritenere che dell’ebraiche maniere sentissero i primi canti cristiani; come poi è ben provato che, questa chiesa pei primi metodi del suo canto esteso anche alle nuove poesie metriche nello stile greco e latino, ricorse ai ritmi dei greci, conseguenti ai ritmi della misurata loro poesia.

Tradizione è ancora quella degli Armeni, degli Abissinj e degli Arabi. I maestri non fanno che tramandare a memoria agli scolari le arie tradizionali, colle modificazioni di loro talento.

Adraste si fece autore d’alcuni primi libri versanti sul canto e sulla musica, ispirati alle asiatiche maniere ed ai greci concetti.

Gli arcani libri di scienza, custoditi gelosamente ne’ templi, solo in premio della virtù e dietro lunghe prove, comunicavansi agli iniziati, fuori dalle mure delle città (ἔκας δημος), nelle accademie, dove gli studj non venissero penetrati, nè turbati dal popolo i mistici linguaggi, nè gli esercizj de’ canti portassero altrui turbamento.

Altrove, rimasero in doppia urna serrati i libri Sibillini; quindi distrutti.

Le reliquie delle antiche dottrine da cui Roma trasse gran parte di sua sapienza furono sepolte sotto la base dell’Apollo Palatino da Augusto, quasi geloso dell’avvenire; come nella segreta grotta d’Egeria rimaneva celata la fonte d’onde Numa avea tratti i suoi riti[165].

[249]

Alle tradizionali maniere dei greci canti parve attenessero i famosi maestri Seneca e Burro educando l’animo ancora innocente del figlio d’Agrippina alle virtuose discipline. Troviamo infatti Nerone sulla mesta Torre d’onde contempla Roma investita dalle fiamme, che accorda al suono dell’arpa il canto coltivato con successo fin dall’infanzia, ripetendo, come sulla scena di un teatro, i versi e le antiche frasi sopra l’incendio di Troja[166].

Tradizione di commisto stile fu adunque il canto della primitiva chiesa cristiana; ed ecco al 4.º secolo, il primo sistema Ambrosiano, che conservandoci le memorie dell’antica greca melodia, regola il nuovo canto religioso.

Il milanese vescovo intese ridonare alla sua chiesa le espressioni della primitiva; e spedì periti in Oriente a raccogliere dalle originali fonti, i resti delle antichissime intonazioni di antifone e salmi.

Di questa riforma, scrisse il can. Gaetano Barbati nelle sue note alla Storia universale: «Dal poco che sappiamo, sembra in antico vi fosse grande mescolanza ed arbitrio nel canto ecclesiastico. La semplicità nascea necessariamente dalla scarsezza di mezzi; ma alcuni teneano all’ebraico, altri al jonico, altri a un misto. Sant’Ambrogio volle riformarlo partendo dalla melopea greca. Il sistema musicale de’ Greci era diviso in tetracordi, e nei modi che ne derivano. Ambrogio, visto che molte melodie sacre erano, se non melodie greche trasportate, almeno motivi composti sopra i modi musicali di quel popolo, e che non passavano i limiti di una ottava, pensò al sistema tetracordo [250] dei Greci, sostituire il più semplice e facile dell’ottava, derivando dai Greci i quattro modi primordiali che divennero base del canto ecclesiastico. Stabilì dunque questi modi:

Così ne venne un canto ritmico, scaduto, più consono colla musica greca che non il canto gregoriano, il quale procede generalmente per note di valor eguale, riuscendo più monotono e senza cadenze.»

Anche per le divisioni della battuta, s’attenne Ambrogio alle greche tradizioni, che più fedelmente però si videro conservate ancora nel decimo secolo dalla celebre scuola dei Cantori di san Gallo in Svizzera, e quali erano state adottate nei primi Inni cristiani, di cui ci dà indubbie prove Thierfelder nel suo lavoro De Christianorum psalmis et hymnis usque ad Ambrosii tempora (Lipsia); per le quali storiche notizie ivi rimetto il lettore[167].

Però il milanese vescovo ne’ suoi recitativi di sapore greco, o canto piano, lasciò trasparire anche le melodie delle popolari canzoni di tradizione più recente; della cui mistura tentò poi Gregorio il depuramento.

Il Magno pontefice propostosi di recare anche nella liturgia l’unità caratteristica della Chiesa[168], [251] ritoccò il libro delle preghiere di papa Gelasio, costituì il messale romano; tolse il ritmo del verso, la accentuazione della parola, e così quella certa figurazione profana che traspariva dagl’inni d’Ambrosio meno severo riformatore; rese dunque il canto più piano ancora, per cui fu detto canto fermo; e faticò per ricondurre con questo i rituali ad una semplicità ritenuta da lui più consonante alle origini, e più opportuna alla immutabilità cristiana.

I Milanesi peraltro rimasero saldi al rito e canto Ambrosiano: Gallia e Spagna tennero il loro, pure d’origine greca, e che poi cessò per la prima, come abbiam veduto, sotto Carlo Magno, per l’altra nell’XI secolo, ai tempi di Gregorio VII: l’Oriente conservò canti e cerimonie che tuttavia si ripetono sotto le cupole di Kief, di Mosca e di Costantinopoli.

E di Gregorio scrisse il Cantù nel libro I Papi (cap. XVII): «Nel sinodo romano stabilì, non convenire ai gravi costumi di diaconi e preti il dissolversi nella vanità d’imparare la musica, sconvenendo al maestoso contegno delle spirituali funzioni il perdere nei passaggi e nei gorgheggi la compostezza degli animi, e consumarvi la voce destinata a predicare la divina parola e assodare nelle cristiane virtù. Pertanto deputa suddiaconi e chierici inferiori a cantare i salmi e le sacre lezioni in tono grave, serio e posato. A tal uopo istituì scuole, ch’egli in persona dirigeva, e che duravano ancora trecent’anni di poi; e Agostino, andando in Inghilterra, ne menò seco qualche cantore, che fece allievi nelle Gallie.

Accortosi come dei quindici toni della musica gli ultimi otto non siano che ripetizione dei sette primi, concepì l’idea che sette segni bastassero per tutti i [252] toni, purchè si replicassero alto e basso, giusta l’estensione del canto, delle voci e degli stromenti. Ma quali note servissero al canto gregoriano non si sa, se non che si menzionano lettere dell’alfabeto, chiavi e linee in su e in giù. Quella maestosa melodia, ove ci furono conservate preziose reliquie dell’ammirata musica antica de’ Greci, crebbe splendore al culto divino, con motivi semplici e grandiosi, che poi s’andarono dimenticando fin alla profanità de’ nostri giorni, in cui la devozione è distratta da arie guerresche e da cori teatrali.»

Il violento avversario della simonìa e del concubinato, l’eroe delle interminabili lotte per le investiture, il giurato nemico d’Enrico IV, l’altero ma grande pontefice Gregorio VII — mal sofferendo la licenza anche nel linguaggio de’ templi, si rese adunque il primo noto e rispettato metodista, e stabilì alcune leggi onde si potesse cantare con qualche norma sicura e secondo una scuola: mentre per lo innanzi vagava senza regola alcuna a capriccio di qualunque capo-corista che proposta una cantilena trovata o tradizionale, si faceva imitare dagl’altri, insegnandola ad orecchia; altro modo non lasciando, e nessun dato, nessun documento.

Staforsto nella sua Storia della Chiesa (al tomo III) accenna ad alcune indicazioni o note preesistenti; e Walter, nel Lexicon Diplomaticum, dà una raccolta d’antiche foggie di scrittura e dei vetusti modi del canto: ma realmente i primi documenti attendibili risalgono dall’epoca di questo pontefice d’una certa scuola iniziatore (1073).

Resta però sempre la scarsezza delle cifre, la incertezza della scrittura loro, e la mancanza d’ogni [253] altro segno variante. È da presumere ristrettissima la estensione della cantilena, se un secolo dopo la vediamo comprendersi in sole quattro righe, mentre allora nessun rigo la dinotava. Così riguardo ai timbri delle voci, non si vede ancora esempio alcuno di chiavi, che compariscono poi in numero di tre nel secolo XII, e di cinque nel XIII. In quanto ai modi di canto, bisogna ancora imaginare una pratica meglio applicata e nulla più; se nessun dato sicuro guidava il cantore alla intuonazione, se era a suo capriccio l’andamento, chè i tempi conosciuti non erano ancora; se infatti il genere del canto era slegato e unissono sempre, ammenochè qualche voce non rimanesse talvolta scoperta per proporre al coro la cantilena, o per cadenzare con qualche gorgheggio.

Che se monotone eran le solfe, il complesso delle voci alte, medie e basse che anche allora si usavano, qualche tratto che naturalmente colorivasi colle terze, il piano e il forte, il lento e l’allegro, e la sobrietà medesima, e il sentimento negli esecutori, davano ai canti cert’aria che non era sprovvista, come vorrebbero alcuni, di melodia.

Restava però la confusione tonale, che abbiamo accennata nel procedere delle composizioni ai tempi che seguirono il gregoriano.

Il concorso de’ popoli diversi e barbari nella confessione cattolica, le mescolanze poscia causate dalle prime crociate e la mancanza d’una regola perfetta di notazione, non poteano certo impedire le licenziose sortite dalle otto scale degli Antifonarii; nè le parole piane ed i suoni uniformi ivi fissati bastavano a ritenere il genio della nuova lingua e della rinata poesia.

[254]

Furono musicisti che sostennero la necessità di otto tuoni; altri di nove; e dodeci, quattordici, quindici perfino ne ammisero.

Basta consultar l’opera dell’Ab. Gerbert — De cantu et musica sacra — per riscontrare qual numero considerevole d’autori si son pronunziati diversamente su questa importante questione.

Fra le tonalità fluttuanti e le forme indecise, i cantori a trasformare i chiesastici cantifermi: e i papi, e i frati, e i dottori, a cercar norme regolatrici.

All’entrare dell’anno millesimo compariscono già alcuni altri metodisti, che tentano nell’opere loro di volgere ad un cammino uniforme, o di raccogliere almeno e collegare le svariate forme de’ bassi tempi, porgendo regole meno vaghe di quelle licenziose del popolo e in pari tempo meno esclusive ed austere de’ gregoriani grecismi.

Aaron, abate di San Martino in Cologna, scrisse: De utilitate cantus vocalis et de modo cantandi atque psallendi; mentre, nell’istessa epoca e nella medesima città, sortiva il trattato: Ars cantus mensurabilis, annunciato di Francone colognese, che fu maestro a Liegi nel 1050.

Secondo quelle norme, colle modificazioni dalla propria fantasia suggeritegli, dettò Abelardo insegnamenti di canto all’amante sua, ed ai monaci di Saint-Denis e del Cluny ove finì la vita nel 1142.

Ma il novatore che nel secolo undecimo avea facilitata l’arte del canto, e dava in due libri il maraviglioso suo metodo musicale, fu il celebre italiano Guido Donati d’Arezzo, abbate Benedettino. Questi sostituì alle sei lettere dell’alfabeto romano, di cui servivasi il cantofermo gregoriano, le sillabe ut, re, [255] mi, fa, sol, la, ch’egli trasse dai primi versi dell’inno: Ut queant laxis etc.

Chiesto a Roma da papa Giovanni XIX, Guido diffuse di là il nuovo sistema, ritenuto infatti una maraviglia. E tale apparir doveva in quel tempo, scrisse M. Brossard analizzando le ingegnose scoperte dell’Aretino (Dictionnaire de la Musique); «perocchè quella invenzione apprendeva in un anno ad un fanciullo ciò che un uomo maturo poteva appena imparare in dieci e vent’anni.» Questo è il Solfeggio.

Nella mano armonica Guido mostrò il rapporto de’ suoi exacordi coi cinque tetracordi dei Greci; lasciando a successivi studj una settima nota segnata B, che levata di un tuono sopra il la, dovea dare all’orecchio l’effetto simile a quello che i corpi angolosi e duri fanno alla mano (B quadro); mentre colla levatura d’un mezzo tuono soltanto la nota dolcemente scorreva (B molle), come alla mano un corpo molle o rotondo[169].

È ben vero che alcuni eruditi non negando a Guido l’introduzione de la Portée, vorrebbero contestargli l’invenzion delle note, facendola risalire fino ai tempi d’Esdra, ma da tanta distanza ne convengono perduto il sistema, e vengono ad inferirne la prevalenza italiana[170].

Per Guido dunque anche i canti trovarono una regola facile e varia.

Chè, prima di queste felici combinazioni, al dir [256] del De Muri, le voci erravano senza regola, nè raggiungeasi quell’accordo di più musici che — dolcemente cantando formavano una voce sola, non per la semplice unità, ma per la soave mistione, da cui l’antico nostro discantare — o prima forma di contrappunto; l’etimologia della qual parola comprova appunto la notazione primitiva.

All’abuso poi del discantare antico, Giovanni De Muri inveì colla seguente curiosa apostrofe:

«Heu! proh dolor! His temporibus aliqui suum defectum inepto proverbio colorare moliuntur. Ist est, inquiunt, novus discantandi modus, novis scilicet uti consonantiis. Offendunt ii intellectum eorum qui tales defectus agnoscunt, offendunt sensum; nam inducere cnm deberent delectationem, adducunt tristitiam. O incongruum proverbium! o mala coloratio! irrationabilis excusatio! o magnus abusus, magna ruditas, magna bestialitas, ut asinus sumatur pro homine, capra pro leone, ovis pro pisce, serpens pro salmone! Sic enim concordiae confunduntur cum discordiis, et nullatenus una distinguatur ab alia. O! si antiqui periti Musicae doctores tales audissent Discantatores, quid dixissent? quid fecissent? Sic discantantem increparent et dicerent: Non hunc discantum quo uteris de me sumis. Non tuum cantum unum et concordantem cum me facis. De quo te intromittis? Mihi non congruis, mihi adversarius, scandalum tu mihi es; O, utinam taceres! Non concordas, sed deliras et discordas[171].

Cosa poi avrebbe detto il buon De Muri se fosse giunto a sentire la Dissertazione sulla Musica moderna [257] di J. J. Rousseau, in cui questo acuto ingegno, pur lasciando sussistere il dubbio se il De Muri sia l’Aretino, dà per sicuro che Guido rese un cattivissimo servigio alla musica, guastando col suo metodo la greca semplicità primitiva, distruggendo tutto quello ch’era in uso da duemila anni; e insegnò agli uomini a cantare difficilmente!?

«Peccato, disse Rousseau, ch’egli non abbia trovato sul suo cammino dei musici così indocili come i moderni» i quali non vollero accettare il Progetto de’ nuovi segni da lui offerto all’Accademia delle scienze nel 22 agosto 1742!

S’avrebbe forse acquetato il De Muri in onta a tanta contraddizione, per l’onore che il filosofo poi gli faceva di renderlo una gloria della nazionalità francese, negandolo agl’inglesi cui lo aveva dato Gesner scrivendolo De-Murià, ed agli italiani che lo pretendevano di loro famiglia pel solo fatto ch’era nato in Perugia, e che fra Roma e Bologna avea ispirato il suo genio e formata la sua sapienza, mentre in Parigi aveva avuta cattedra di dottore, ed aggiunta una S al primitivo suo nome[172]?!

Dopo Guido d’Arezzo, l’autor del Micrologo, che compendia tutte le regole dell’arte (e che si ritiene esistente alla biblioteca di Leiden), il Marchetto da Padova fu primo che scrisse di musica e di canto, al tempo di Roberto di Napoli (1309).

Marchetto intitolò i suoi trattati: Lucidario per l’arte della musica piana; e Pomario dell’arte della [258] musica misurata; i quali esistono nella biblioteca Ambrosiana[173].

Quindi Parmigiano e Fisifo, ai quali s’attribuisce l’idea e lo sperimento degli accordi che si dicono dissonanti.

Del secolo del Marchetto raccolse poi le composizioni, gli scritti, e i maestri più celebrati, quell’Antonio Squarcialupi che abbiamo trovato maestro in S.ta Maria del Fiore.

Come più tardi Coussemaker nel Belgio, si fece interprete e storico de’ monumenti musicali dell’età di mezzo.

Contemporaneo, o poco dopo al Marchetto scrisse delle proporzioni e degli intervalli del canto, il sunnominato De Muri di Perugia, dottore a Parigi nel 1330; il quale compose un libro sulla teoria della musicaSpeculum Musicae — diviso in tre parti, che peraltro non fu stampato e di cui rare copie rimangono. Qualche moderno attribuiva a lui erroneamente le scoperte di Guido, e la invenzione della figura e del valor delle note; mentre all’Aretino e alla sacra scienza soltanto, come ben scrisse G. Pacini, devesi il moderno musicale linguaggio[174].

Già dal XII secolo studiati i timbri delle voci e regolati colle chiavi d’Alta o contralto, Media o tenore, Infima prima o basso, s’erano successivamente estesi con quelle di Alta prima, o mezzo soprano, e Canto, soprana voce.

Egli è veramente dall’opera di que’ primi studj, che gli antichi messali, i corali, i salteri, gli antifonari, [259] presentano altrettanti testi d’originali invenzioni melodiche; modelli di espressioni profonde del sentimento; metodi caratteristici dove alla poca parte del ritmo supplisce la intonazione sorgente di armonie che spiegano le diverse impressioni dell’anima nel tempo stesso che l’onda melodica per quella stessa incertezza vaga e indistinta del ritmo non agita violentemente, ma dispone alle manifestazioni sublimi, al raccoglimento ed alla preghiera. La quale impressione tanto più ammirabile viene da quegl’esempj, quanto in essi maggiore semplicità e imperfezione di mezzi si riscontra.

Che se più tardi i libri musicali chiesastici s’infiorano di qualche arteficio, e si rivestono delle ricchezze versate in loro nuovamente dal Palestrina, non fanno che conciliare le tendenze de’ tempi; e lungi da insegnare una confusion di concetti e un abbandono del vero senso pel capriccio delle figure, come apparirebbe dalle osservazioni del Biaggi[175], ammaestrano a salvare la purezza della melodia dallo scandalo profano, con inusitato splendore[176].

Era il secolo fortunato in cui ridestavansi le arti e s’incamminavano al grande sviluppo in cui le abbracciarono i sommi cinquecentisti.

Era quando il Guido Reni (nato a Bologna nel 1375), figlio a un sonatore di liuto, amoreggiava colle due belle sorelle la musica e la pittura, disposandone poi la minore con tanta grandezza.

Succedea Leonardo da Vinci, che per giungere al posto sublime nel tempio dell’arti, cominciava infocandone i genj col canto e colla lira; per cui poi [260] tante nozioni musicali sparse nei sapienti artistici suoi trattati.

Rifulgea la sapienza de’ Veneziani; e fra le arti dei mosaicisti e dei dipintori tabulari, ai tempi di Bellino e dei Muranesi, la veneta magistratura dei Pregadi decreta «l’assegno di un ducato al mese ad otto puti diaconi veneti che imparino a cantare nella Cappella di san Marco» dov’era già stabilita una scuola nel 1403.

Iniziava così quelle istituzioni inerenti a’ suoi Spedali, che si trovarono nel secolo 18.º ricolme di fama, e in numero di quattro, dette le Scuole dei Mendicanti, della Pietà, dell’Ospedaletto, degl’Incurabili; ne’ quali pii stabilimenti educavansi al canto ed alla musica un gran numero di ragazze povere, per la esercitazion delle quali, nuovi oratorj e melodrammi sopra latino testo, annualmente comporre dovevano i maestri, la cui eletta schiera inaugurossi con quel Giovanni Spataro, che fu anche trattatista pel canto nel 1531, e col Vicentino di cui diremo, ed alla quale poscia appartennero Caldara, Gasparini, Buranello, Hasse, Trajetta, Sarti, Sacchini, Anfossi, Bertoni, oltre ai ricordati specialmente in queste memorie, e tanti altri.

Così tardar non dovea aprirsi le scene presso ai Conservatorj; e si ritenne primo teatro pubblico in Italia quello a san Giovanni Grisostomo, esclusivo ai canti rinati col 17.º secolo.

La città di Fano tenne dietro a Venezia per possedere un siffatto edificio, a popolarizzazione dell’arte, che s’era fatta patrimonio delle corti e della aristocrazia, a stimolo de’ genj e a procaccio di lavoro a gran numero d’artisti.

[261]

A Milano invece s’accolse l’idea delle scuole sotto la protezione del potere; e Luigi Sforza, chiamato da Lodi il Gafori, dove nel 1450 era celebre maestro, fondò ivi pure un primo conservatorio o scuola Gafurea.

Anche a Brescia questa si diffuse, e nel 1508 Gafurius Franchinus vi pubblicò un’opera speciale Sul Canto.

Su quei dettati e sulle pratiche apprese nelle venete cantorìe, Costanzo Porta (Vedi pag. 103-143), progredì alla riforma della scuola lombarda, ond’egli ne fu poi detto anche il fondatore.

Ma veramente dal Gafori e dal Marchetto patavino si possono classificare i primi trattati ed opere della letteratura dell’arte.

Aaron Pier-Francesco, che avea scritto Della Musica, Venezia 1523, aggiunge un Trattato sui tuoni del Canto figurato, 1525, migliorando le Cleonide Armonie, nel 1497, pure in Venezia comparse.

Analogo libro pubblica in Verona nel 1529 Rossetto Blasio, dotto maestro; e nuovi trattati a Venezia Lodovico Foliano nell’anno stesso; e Stefano Vanneo in Roma nel 1533.

Per questi nuovi sistemi, imitati e progrediti ben presto in tutte le altre città, crollarono con altrettanta prontezza quelle mostruose usanze che non trovando altro campo da esercitarsi colle nuove esperienze dell’arte, s’erano riparate presso le primitive scuole chiesastiche, e ne aveano recata la corruzione. Le rappresentazioni melodrammatiche eseguite in apposite pubbliche sale, liberarono la chiesa dalli sconci spettacoli medioevali, in cui, cherici mascherati sceneggiavano cantando le Lodi delle Passioni. Caddero le [262] congreghe enigmatiche de’ musicisti Belga, che furono anche dette, scuole di calcolo geometrico, e di gergo diabolico, le quali sorrette più ch’altro dalla altrui cupidigia di novità, erano state fortunate fino allora di seminare sventura e corruzione nel bel linguaggio degl’angioli. Cominciò Marcello II escludere un tale genere di profanatori dal tempio; e i nuovi canti della Messa che porta il suo nome, mercè la stella subito comparsa del Palestrina, arrestarono tutti quelli che per la prima volta erano venuti ad usurpare l’onore della pubblicazione per le stampe[177], eclissando d’un sol tratto la fama dei Villaercht, degli Arkadelt, dei Morales, e del medesimo Goudimel.

Alla prima scossa italiana dagli stranieri sistemi de’ canti, benchè lenta anche questa e combattuta, auspice pure di più ampia liberazione, successe analoga riforma presso ad altra nazione, relegata sempre però nel bujo e nel complicato di sua natura.

Sui primordj del 1500, la purezza del sentimento combatte colla passione religiosa e la loro espressione s’informa nuovamente in Germania colle norme di Martin Lutero e colle sue riforme ai corali di Erfurt e di Wittemberg, delle quali i Meistersinger eressero quei rigorosi codici della Tabulatura, che marcano quasi un’epoca di schiavitù al canto alemanno, e in cui si successero rozzi ministri rivolti per altro a conservar la grandezza delle antiche espressioni.

Qui vedemmo Polz, Rossemblüt, Walter, ed altri.

[263]

E la Spagna inquisitoriale non meno severamente, nei metodi di quel tempo s’attenne al Labyrintho di Giov. Mena per quei canti che ad una regola dovevano ufficialmente assoggettarsi.

Più dotto e più libero nella Svizzera Enrico Lorit detto Glareanus, perchè nato a Glaris nel 1488, celebre pei suoi talenti musicali e per l’amicizia di Erasmo e de’ più reputati sapienti del suo tempo, mostrasi seguace di Guido.

Ivi parimenti Giovanni Calvino, nato a Noyon nel 1509, celebre per la sua riforma religiosa che penetrò fin nella Scozia, spinse vie maggiormente il sistema metrico salmodiale, in onta alla maestà dei cori e alla semplicità del canto fermo.

Contro alla quale tendenza ultramontana, antispontanea, e complicata perfino colla politica, e d’altra parte contro alla libertà licenziosa delle chiese italiane, intesero a provvedere i padri del Concilio di Trento (1545), facendosi essi medesimi prescrittori e metodisti[178]. Inutilmente: chè la serenità non procede dalla confusione e dalle agiatezze; ed era dalla solitudine e dalla sventura, scuola de’ grandi, che Palestrina dovea ridonare il metodo di semplicità e di grandezza.

I Francesi, curiosi sempre, adottano per la loro metropolitana l’Officium Stultorum, vecchio normale di popolari cantilene adattate alle funzioni religiose, fra le quali brilla la Canzone dell’Asino che per tre volte i fedeli ripeteano nella messa di Natale. Tale Officium stultorum ad usum Metropoleos ac primatialis [264] ecclesiae Sennonensis, conservasi nella Biblioteca Parigina[179].

Peraltro, Burtius Nicola, a Parigi, nel 1487, avea già diffuso un compendio del metodo di Guido.

In Baviera similmente la scuola fondata da Orlando s’attiene più vicina a quella italiana, sia pei canti chiesastici come per quelli di camera e di teatro[180].

Carlo Valgulio nativo di Brescia, pubblica in patria (presso Angelo Britannico) nel 1507, una traduzione latina del libro La Musica, di Plutarco, e vi aggiunge un suo lungo preambolo, illustrazione sapiente più che spiegazione felice.

Guglielmo monaco, cantore, erige de praeceptis artis musicae; e Severo Manlio Boezio, famoso pavese, il suo de Istitutionis.

Il prete Don Nicola Vicentino, ricordato dal Calvi nella storia degli Scrittori vicentini, pel suo libro — Dell’antica Musica ridotta alla pratica moderna — pubblicato in Roma nel 1555, apparisce come un primo raggio di quella luce che dovea farsi ben tosto anche nella piacevole scienza; ed egli inventando l’Archicembalo (o primo pianoforte) comparso a Vicenza nel 1554, accompagnando col nuovo istrumento i suoi canti, contribuisce a un nuovo metodo ed allo sviluppo del canto medesimo[181].

[265]

Anche un Freschi Giovanni trattò la scienza musicale ed i canti[182].

Sulle complicate novazioni intanto de’ cantori e musicisti e specialmente sulla usanza de’ Canoni, a imitazione de’ metodi Greci sulle divisioni de’ Monocordi o rapporti degli Intervalli, di cui trattava allora a Roma il chiaro monaco Adoramno, e sulle introdotte Fughe in conseguenza, il Gioseffo Zarlino di Chioggia, riformatore di canti già da noi celebrato, pubblica i suoi sistemi in Firenze nel 1589.

Delle sue dottrine inizia la scuola in Venezia, [266] influendo notabilmente sulle produzioni ed esecuzioni dei Gabrieli allora viventi.

Nelle sue ricerche discopre nuovi veri, e lascia: le Istituzioni armoniche (1536); le Dimostrazioni armoniche (1571); i Supplimenti musicali (1588); opere queste dedicate a Diedo patriarca, ad Alvise Mocenigo doge, a Sisto V papa.

Scrisse venticinque libri in latina lingua — De re musica — ovvero, de utraque musica, per insegnare, come egli promettea nei Supplementi, molte cose utili pell’acquisto della vera intelligenza della musica, e dilettevoli insieme; opera che purtroppo andò smarrita, e giudicasi rimasta inedita, benchè da quanto ne scrive Francesco Sanseverino[183] apparisca che di que’ giorni fosse di pubblica ragione.

Facciasi la stessa lamentanza sui di lui scritti — Il perfetto musico; l’Africa musicale, — di cui egli stesso fa cenno nelle Dimostrazioni.

Si riprodussero le opere del Zarlino in Venezia nel 1602, tre anni dopo la sua morte, essendosi già prima rapidamente sparse in tutta Italia e fra l’estere nazioni; e specialmente in Francia, dove la fama del veneto autore si mantenne chiarissima per quasi due secoli, secondo i giudizj del padre Merçenne e d’Alberto Bannius, come quella del più grande autore che fino ai loro tempi avesse scritto di musica.

Il medesimo suo Aristarco, il contemporaneo Galileo, fu costretto a confessare che «a quest’huomo esemplare di costumi, et di vita, et di dottrina, deve il mondo per le molto belle fatiche ch’egli ha fatte; [267] particolarmente intorno alla musica, perpetuo obbligo, dalle quali si trae cognizioni d’infinite cose, e senza esse ne sarebbero la maggior parte degli huomini al bujo[184]

Il cav. Bottrigari si fece Scoliaste delle opere del Zarlino; ed il celebre canonico Ottusi ridusse in tavole i Zarliniani precetti, l’illustrò, li sostenne e difese a tutta possa.

Viene poi lodato fra gli italiani, da Roselli, Sansovini, Doglioni, Foscarini, Doni, Zeno, Martini, Tiraboschi.

Fra gli Spagnuoli, tuttochè prevenuti pel loro illustre Salinas, dai Sampillas, Eximeno, Areaga, e Requeno.

Fra gli Inglesi, da Burney. Tra i Francesi, oltre i nominati, da Baunio, Razier, Barette, Thuan, Pietro Bayle, Brossard e Rousseau. Fu detto che quest’ultimo sembra aver disposto alfabeticamente nel suo Dizionario di musica la teoria Zarliniana con poche altre aggiunte, per tal maniera che l’abate Requeno non esita chiamarlo plagiario del Zarlino. Prima di Rousseau io riscontro la medesima colpa in Brossard; e parmi che Requeno a quello avrebbe potuto dire plagiario del plagiario più esattamente.

Confutando le varie maniere de’ Canoni antichi e quelle del suo tempo, il Zarlino aprì il campo alle successive più vaste osservazioni, ed agli esempj del Bontempi e del Tartini, trattatista esso pure famoso della musica levata a scienza fisico-matematica e fondatore d’un sistema che eclissa quelli di Démos, di [268] Sauveur, di Soaitti, di Boisgelou, di Couperin, di Rameau, e delle cui sperienze d’Alembert, Blainville, Brossard e i ginevrini Serre e Rousseau fecero pure tanto tesoro.

È da notarsi, come dice Zarlino, che a quella specie di Fughe, chiamate anche perpetue, in cui i cantori incominciavano l’un dopo l’altro, ripetendo tutti il medesimo canto, mettevansi in fronte le regole che insegnavano come doveansi cantare: e questi avvertimenti indicati per Canoni, diedero un tale nome a quelle composizioni.

I compositori dunque più originali di tali intrecci cantabili, nel secolo XVI si fecero autori di tali regole dalle cui imitazioni nacquero i più complicati sistemi.

Anton-Francesco Doni prete fiorentino, che pubblicò a Venezia nel 1544 un Dialogo della musica, canto e tenore, trattò le cose musicali così che, anche per queste, s’ebbe il titolo di bizzarro fra gli accademici Peregrini (1570).

I Trattati del Doni Giov. Batt., pur fiorentino venuto un secolo dopo, scritti nel 1647, coi primi non confondibili, meritarono invece d’essere raccolti nuovamente e pubblicati per cura di Anton-Francesco Gori, ed essere coronati colle aggiunte del padre Martini, Firenze 1763.

Il cieco Salinas di Burgos, abate di san Pancrazio, concentrato nelle matematiche, ai tempi del primo Doni appunto, scrisse latinamente il suo Trattato di musica, che fu gradito da Paolo IV e dal Duca d’Alba, e fu tradotto e impresso a Salamanca, 1592, dove egli era maestro.

Meibomio quindi trasse a nuovo studio la greca [269] melopea, traducendone gli autori; come l’inglese Wallis riprodusse l’armonia di Tolomeo (1640-50)[185].

Il padre Merçenne e il padre Kircher, parimenti nel colmo di quel secolo, trattarono speculativamente l’Armonia universale e le Teorie de’ suoni e de’ canti. Il primo compendiò con eclettico studio quanto i precedenti scrittori e metodisti aveano lasciato fino al suo tempo intorno alle cose musicali e suddividendo in opportune proposizioni i suoi Libri Harmonicorum (1635), trattò in ispecialità de’ cantibus; de compositione, de canendi methodo et de voce — ai lib. VII e VIII. Ma meno felice d’invenzione che non fosse stato nelle matematiche, e meno celehre per le musiche che nol fosse per l’intimità sua col Descartes, Marino Merçenne frate dei Minimi a Parigi, trasse da Platone, Aristotile, Plutarco, dai Rudimenti musicali di Euclide pubblicati a Parigi nel 1557, dalle Introduzioni di Alypio e di Geneseo, e da quelle del suo contemporaneo Bacchio Seniore (1623); trasse da Guido e dal Galileo, e dai compositori francesi celebrati alla sua epoca, Guedronio, De Coussu, e De Caurroy, le sue dottrine; onde per l’arte sua di sapere impiegare [270] ingegnosamente le altrui idee, fu detto da suoi: le tres-minime Per... le bon Larron...

Alle tante cacofonie intese portare qualche rimedio il Thibaut col suo libro Della purezza della Musica, stimato anche dagli alemanni. Fra questi, dopo Paolo Hofheimerus di Norimberga, 1539, erasi levato Kircherus Atanasio, che stampava a Roma Musurgia universitatis, 1650.

La Musica speculativa trovò altresì eccellenti trattatisti in Pietro Mengoli di Bologna (1670); e in un Vallotti Francesco Antonio di Padova, più tardi.

La Storia della Musica, fino alla metà del XVII secolo, ebbe un buon espositore in Angelino Buontempi (1660)[186] l’autore del Paride.

La Cartella di Musica del padre Banchieri olivetano, nel 1614, mostrò in maniera fissa e positiva il compimento della scuola cantabile lasciata sospesa da Guido, e il cui perfezionamento fu attribuito al De Muri, o secondo altri[187], ad Erricus Puteanus, rettorico di Milano intorno al 1600; mentre in tutti i corali monastici e nelle cappelle s’avea già studiato in varie forme quella indispensabile graduazione.

E di quell’epoca (1600) riportandosi alle bibliche tradizioni, scrisse De Musica Haebreorum, un Gaffarelli in Francia; oltre ai precitati ricercatori in argomento (pag. 247). De’ canti in genere lesse parecchie orazioni a Parigi un Gian Francesco Vandinelli, 1625.

Gli Alberi musicali di Lorenzo Penna, in analogia al Musico pratico del Bononcini, non furono inutili tabellarj alla condotta ed alla misurazione del canto.

[271]

La Musica moderna pratica, del 1658, di Giov. Andrea Herbst, data alla luce in Francfurt, fu un buon metodo per esercitare la voce; e indusse forse a più vaste osservazioni il padre G. B. Martini, relativamente agli accenti alla famosa sua Melopea quando questi ricompendiò in Bologna la storia musicale fino al 1784.

Non parlo quindi d’altri tedeschi che metodizzarono nelle loro profonde e gelose scuole clesiastiche, chè ogni vangelica cattedrale vanta istituzioni di studiosi maestri cantori.

Altrettante Opere teoriche-pratiche e di disciplina artistico-chiesastica vantano Spagna e Portogallo; per cui, gara ne nacque fra i due popoli, e non è ancora spenta: chè nella patria de’ metodisti e compositori, Marcos de Portugal, Pedro Thalesio, Jorge de Monte Mayor, Garcia de Resende, Gil Vicente, Gregorio Silvestre, Francisco Manuel de Mello, e re Don Giovanni IV, musico e fondatore di gran biblioteca d’arte, ancora in oggi un Gioacchino Vasconcello di Porto raccoglie oltre 400 musicisti portoghesi (dei quali pochi soltanto son ricordati dal Fétis), e li magnifica rispetto agli Spagnuoli; dando però interessanti notizie e quadri sinottici sulla storia della r. Cappella portoghese dal secolo XV ai giorni nostri, cui rimando il lettore[188].

In Francia, un generale Codice della Musica fu compilato da Rameau, il cantor di Dijone, ma non fu attivato; ond’ebbe a dirsi che le teorie di quell’autore [272] sortirono la rara sorte di far fortuna senz’essere da alcuno mai lette.

I Problemi musicali del balbuziente Sauveur (1716), e la nuova maniera di compor canto fermo, del dizionarista Sebastiano Brossard, credo che abbiano goduto in quell’epoca (1730) il medesimo privilegio.

Il Dizionario della Musica di quest’autore tratto dal Zarlino, com’ebbe infatti servito a I. I. Rousseau per l’erezione del suo, Zarliniano ad uso francese, si può dir sia passato agli archivj siccome minuta abbandonata; e il medesimo Brossard pensò regalare al Re pe’ suoi musei, anche le sue dissertazioni sul canto, per procurar loro la custodia almeno, se non ne prevedea la lettura[189].

[273]

Ma veniva ben a farsi leggere ed ammirare dagli italiani e dagli stranieri, Tartini Giuseppe, nato in Pirano, 1692, genio musicale europeo, che alla fama della pratica sua direzione alla cappella illustre di Sant’Antonio in Padova (1721), durata per quasi cinquant’anni, aggiunse il grido del suo Trattato di Musica (1754), in cui una teoria magistrale e profonda è spiegata.

Tutti i maestri dell’arte consultarono il suo sistema, come aveano accolte con trasporto le sue composizioni. Le speculazioni dell’arte in questo autore famoso non sono confuse od arbitrarie, ma ogni artificio musicale è impiegato a proposito, ogni finezza si deduce naturalmente. È mirabile poi, in mezzo alle complicate e profonde teorie, scorgere sempre in Tartini il rispetto alla semplicità ed al purismo del canto; vedere quel calcolatore tranquillo innanzi alle più astruse ricerche della scienza, maravigliare alla sua volta ed esaltarsi per poche note facilmente e spontaneamente cantabili. Eccone la sua confessione, che meglio d’ogn’altro giudizio, nella materia in cui riguardiamo un tal metodista, lo caratterizza.

«L’anno decimoquarto del secolo presente (1714), nel dramma che si rappresentava in Ancona, v’era su ’l principio dell’Atto terzo una riga di recitativo non accompagnato da altri stromenti che dal basso; [274] per cui tanto in noi professori, quanto negli ascoltanti si destava una tal e tanta commozione di animo, che tutti si guardavano in faccia l’un l’altro, per la evidente mutazione di colore che si faceva in ciascheduno di noi. L’effetto non era di pianto (mi ricordo benissimo che le parole erano di sdegno), ma di un certo rigore e freddo nel sangue che di fatto turbava l’animo. Tredici volte si recitò il dramma, e sempre seguì l’effetto stesso universalmente; di che era segno palpabile il sommo previo silenzio, con cui l’uditorio tutto si apparecchiava a goderne l’effetto.»

Ecco il gran trattatista, il sacerdote delle armonie che s’umilia confuso a un semplice raggio della divinità pura del canto.

E questa fede si può dir che il Tartini l’abbia compendiata nel melodico adagio della sua famosa Sonata dell’Imperador, Carlo VI, cui l’avea dedicata, e nella quale, come scrisse Beiriot, il violino armonioso, toccante e pieno di grazia, prese la prima volta l’espressione drammatica[190].

Per le novità della immaginazione e le preziose sue ispirazioni fece dimenticare il fiorentino Veracini (o Vernacini) che avea tanto temuto[191], e lasciò all’arco di Nardini suo allievo la eredità de’ suoi canti.

Nel 1770 finì l’esistenza consacrata tutta all’arte, nella quale avea trovate le più vive emozioni e i conforti contro al mal genio della sua donna che, non [275] dissimile alla Santippa di Durante, gli avea cagionata tanta persecuzione da prima, poi tanta guerra.

Per simil modo, il Tartini fu ritenuto nuova difesa al mal genio che contro la buona scuola del canto, malgrado tante luci rinate a suo splendore, non cessava dagli attacchi, rinnovandoli in famiglia quando gli stranieri si davano vinti.

Compositore, animator prodigioso di quello strumento che meglio ai canti si presta, maestro e direttore provetto di cantori e di teatri, ben potea direttamente abbattere la nuova reazione sollevata dagli armonicisti del suo tempo, dal lucchese Boccherini e dal Valmadrera, mentre Stamitz, Gairniès, Lalande, Rousseau, piegavansi ammirati e persuasi al suo consiglio.

E credo volesse alludere alla sua perdita, Santa Rosa, quando accennò che dopo il 1770, non si udì che — cantare in sulla cetra il Miserere — collo stile da farsa o da commedia. —

Farò memoria che non estraneo alle trattazioni Tartiane compariva in quel tempo il libro del Pizzati: La scienza de’ suoni e dell’armonia diretta specialmente a render ragione de’ fenomeni e conoscere la natura e le leggi della medesima, ed a giovare alla pratica del contrappunto. (Venezia 1782, in foglio picc. con Tavola degli esempj). Don Giuseppe Pizzati gesuita era nato in Piovene di Vicenza nel 1732, dove, dopo d’essere stato professore di fisica in Siena, riduceasi a morire nel 1803. Il suo lavoro versava anche sulle cose vocali e del canto, benchè non lo accennasse; e perchè d’altre classiche opere generalmente men noto, servì forse meglio di comoda base a più recenti scritti che in ispecialità sulla fonetica si diedero per originali.

[276]

Anche Nanni Domenico, il facondo toscano archeologo sigillario, nel 1756 pubblicava in Firenze un libro, Della disciplina del canto ecclesiastico antico; recando meglio che novità, nuovo ricordo e quasi ammonizione a non disertare dall’antico per le aberrazioni recenti col buon progresso incamminate.

Ad analogo scopo erasi adoprato il vescovo Francesco Cirillo pel canto delle chiese spagnuole, ma spingendo le sue opinioni così, da provocare una controdifesa alla musica modernamente introdotta (1649).

Ai principj antichi più sobriamente risalivano tessendo le loro opere: Trezza Giuseppe — Il Cantore Ecclesiastico — Padova 1698; Tevo Zaccaria — Il Musico Testore — Venezia 1706; Eulero Leonardo, Petropoli 1739; Frisio Paolo, Lucca 1759; il dialogista Bergamasco, 1761; e quello Pisano, Sacchi Giovenale, 1786; Benvenuto di S. Raffaele, 1792.

Allora Vincenzo Manfredini, veneto, stampava a Bologna, 1788, la Difesa della Musica moderna e dei suoi celebri esecutori; dove anche un Francesco Tognetti, i Progressi musicali propugnava.

Nel 1774, usciva a Roma l’opera di Antonia Eximeno — Origine e regole della musica colla storia del suo progresso; nelle cui lotte per gli storici svolgimenti arieggia l’opera che Pietro Laurembergius nel 1642 intitolava: Musomachia, id est bellum musicale.

In varie regioni progredirono colla storia musicale altri scrittori nel passato secolo, fra quali: Giuseppe Fux, Vienna 1725; Jean-Teofilo Wald, Magdel 1781; Bethizy, Parigi 1764; Philodem, Berlino 1796; Burney Carlo, Londra 1776-1789; Gaultier Luigi autor di un Trattato contro i balli e le cattive canzoni [277] di cui fu fatta una versione dal francese, a Venezia nel 1787. Bourdelot, La Haye 1743; De la Borde, Essai sur la Mus. Parigi 1780; e l’ab. Martino Gerbert, de la Mus. et ses effets, Amsterdam 1725 — de Cantu et Mus. sacra, 1744[192].

Si noti però un Gerbert, abate di Bobio, maestro a Reims, arcivescovo di Ravenna, poi papa col nome di Silvestro II, matematico, musicista e scrittore, morto nel 1003 al tempo del quale riscontrasi l’altro monaco Remi d’Auxerre, versato pure nelle cose musicali, commentatore dei Salmi, di Quintiliano, ed Hucbald.

Anche la storia musicale delle regioni a noi più remote ebbe ricercatori.

De la Laubère descrivendo il regno di Siam (Amsterdam 1700), raccolse le canzoni di quel popolo e ne spiegò i loro modi.

Sôma giunse a formare un trattato di musica Indiana, interpretando approssimativamente il più antico trattato indigeno tramandato col nome di Sangita Ratnakara ed altri modi di canto consimili. — Horn Carlo Edwardo pubblicò in Londra, 1813, un libro sulla Melodica indiana. — Willard, a Calcutta, nel 1834, un trattato di musica dell’Indostan.

Rossellini s’intrattenne sul canto della Cina, osservato quale monumento civile. — Champollion di quello Egiziano, come grammatica.

Rawlinson, intese a spiegar la storia del canto Assiro-Fenicio-Caldeo-Babilonese, dalle imagini de’ monumenti[193].

[278]

Federico Reise, maestro nel Brasile, indagò le Musiche Indiane e Brasiliane, Monaco 1824; Bachmann ritornò sulle antiche di cui già avea trattato (Erlangen 1792); Zalluski Carlo su quelle Cinesi, Venezia 1853; Breton Ernesto sulle Ateniesi, Parigi 1862.

Salvador Daniel descrisse il canto dei Kabili in relazione a quello degli Arabi.

E tante storie delle Missioni e de’ Viaggi ci diero più o meno contezza dei canti presso i popoli selvaggi, i quali benchè raccolti da regioni in latitudine diverse, confermano l’osservazione della comune loro povertà, causata principalmente dal breve numero di suoni che entrano nei loro concetti melodici, e quindi monotoni nelle forme. A mo’ d’esempio, i canti de’ Caraibi neri s’aggirano su quattro note soltanto, e traggono tutto il loro spirito dal ritmo marcatissimo, come riscontrasi nella Polynesia (Nuova Zelanda), nel Canadà, e nell’Australia; il che risveglia il sospetto d’un’origine ebraica. Così il canto dell’Affrica, che sente peraltro di più alle forme dell’Arabia e di Egitto[194]. Anche i Cinesi e Malesi appariscono usi a cantare sur una scala di sole cinque note, sprovvista di mezzi tuoni e quindi anche di significazione melodica.

Nè ciò fa meraviglia se osservasi che anche presso popoli più civili, adesso tanto progrediti nell’arte, anticamente limitavansi i canti formali a scale di poche note. Vedemmo de’ Greci, de’ Romani e dei primi Cristiani. Ne abbiamo prove dalle raccolte fatte per Carlo Magno, colle quali il suo genio intese formare [279] la storia popolare delle Gallie[195]; dagli antichi corali della chiesa d’Occidente e Orientale, dove Sant’Anastasio in Alessandria aveva un recitativo più piano ancora dell’Agostiniano; dal trattato di S. Odone, della cui melodia organizzata conservò traccie ancora il Gafori accanto i non meno piani riti Ambrosiani[196].

Che se nelle chiese greche, copte, siriache, etiopie, armene e di tutta l’Asia, riscontransi i canti ornati d’appoggiature, di gruppi, trilli e portamenti, con antico stile immobile e inveterato, come ogni canto popolare orientale, questo dobbiamo attribuirlo alle tradizioni spontanee degli esecutori, al di fuori delle strette forme metodiche.

Fra gli Arabi più vaghi e licenziosi, s’indicano come storiografi della musica: El Kindi (Ahmed), figlio di Osman Jahja (o Mekki) raccoglitore di canti, che lasciò due libri e una introduzione, ed altra raccolta di 14,000 modi cantabili; Koraiss, autore della Scienza de’ Canti, an. 838 di C.; El Fârâbi, secondo maestro, che diè un Trattato, fra gli anni 900-950 di C.

Ali-Ibn-Nafi-Serjab, cantore e poeta, che stabilì in Andalusia una scuola, continuata poi dal figlio Abderrahman, ambi celebri non meno in Ispagna che a Bagdad, ove voglionsi conservati i loro libri (821). E nella stessa epoca, Ishak, figlio d’Ibrahim, di Koufta, famoso cantore, ed egli pure cantore e suonator [280] di liuto, prezioso al suo Califfo come la gioventù, la gioja e la vita, cui parea che al suo canto si estendesse il proprio impero, lasciò numerosi libri di canti, di suoni, di ritmi, di biografie e notizie di cantori, di metodi e di battute, perocchè di quest’uso, a lui che batteva con canna di bambuk, s’attribuisca l’invenzione; competitore del sommo Mocharik alla corte di Aaron-Rascid, per cui finì in esilio. Pel predetto Califio anche Jélih, della Mecca, raccolse i cento canti.

Dinanir, allieva di Besl e di Ibrahim suddetto, che rifiutò la mano di Akid cantore perchè mediocre, si fa autrice d’un libro la grazia dei canti, che però a noi non pervenne.

Rimane tradizionale la perfezione delle sue espressioni, e qualche canto a lei attribuito.

Agani fece una collezione generale delle canzoni arabe sotto il Califfato. — Kosegarten. —

Tutti li surriferiti trattati musicali, e tante altre opere che veniamo in corso di storia accennando, parlano necessariamente del canto, come quello che è parte prima ed essenziale della musica, e gli storici speciali di questa, dovettero nei loro lavori cominciare dall’istinto naturale del canto, dalla rivelazione spontanea d’esso alla umanità, come quella delle lingue[197]; e quindi tutti dovettero per lungo tratto intrattenersi quasi esclusivamente del canto, perocchè l’arte della musica propriamente detta ben più tardi comparve.

Fu detto infatti, che la vera storia della musica armonica non cominciò che verso il 1370, ed anche il Fétis, maestro belga, vorrebbe questo, per opera dell’inglese Dunstaple e dei belgi Binchois e [281] Dufay[198]; ma noi vedemmo già d’onde abbiano tratta origine le prime armonie, e qui basta ricordare che Isidoro di Sicilia, meno superbamente, rinviene la diafonia, la organazione, il discanto, nelle forme dei secoli precedenti; e nel corso di questa istoria è dichiarato a quanti d’ogni paese per una sistemazione musicale, all’accordo vocale e istrumentale intendessero; mentre ai riguardi della antichissima musica quasi tutta al solo canto ristretta, d’altronde oscura, limitata ed incerta, e da ogni scrittore necessariamente indicata, io mi tenni conciso.

Or seguitiamo coi trattatisti ultimi dello scorso secolo.

Contemporaneo e sopravissuto di pochi anni a Gianfilippo Rameau e a Giuseppe Tartini fu lo scrutatore, compositore e dizionarista musicale J. J. Rousseau, che di lor fu ammirato[199]. Inutile parlar di quest’ingegno versatile, ma non sempre coerente, e nella bell’arte ossequioso più che profondo. Critico e non maestro, oratore e non artista, giudica in base all’erudizione ed al pensamento. Nel ragionamento pone le basi colla serietà di un filosofo oriundo dal suolo ove avea seminato Calvino, e negli argomenti sorvola colla leggerezza e il rigoglio della scuola fraucese. Con questo istinto, anche nelle trattazioni che alla musica si riferiscono, conchiude finalmente come fautore del genio della elettiva sua patria, e per [282] questo non bada a detrarre ad altri, od arrogare ai suoi gli altrui meriti incontestati. Basta a provarlo la insistenza di ritenere il Lulli francese; ad eguagliarla, vorrebbesi in oggi l’impudenza d’asserir Parigino il Rossini, perchè in Francia trasse lunga dimora.

Non per questo mancarono sapienti giudizj e confessioni sincere dall’autorità di quel trattatista. Specialmente apprezzabili sono le di lui sentenze intorno al canto. Questo, conviene anche Rousseau che deve sempre signoreggiare la musica.

La vera armonia piacevole e costante deve sortire da ciò ch’egli chiama Unità di melodia.

L’armonia non è che un piacere di pura sensazione, e il godimento de’ sensi è sempre breve; mentre il piacere della melodia e del canto è un piacere d’interesse e di sentimento che parla al cuore, e che l’artista può sostenere a lungo e rinnovare a forza di genio.

Rammenta certa Opera di Venezia tutta piena di canto, nell’udizione della quale lungi d’essersi mai annojato, per quanto fosse lunga, vi prestò sempre una attenzione novella, ascoltandola con più interesse alla fine, di quello che al cominciamento. Ciò necessariamente, egli dice, perchè quella Musica cantava sempre e l’armonia non la soffocava, ma non facea che animarla, rinforzarla, determinarla; ed era questa la sua Unità di melodia.

Il canto francese, scriveva egli intorno il 1770, lungi dall’acquistare alcuna perfezione, diviene di giorno in giorno più languido e goffo (lourde). Questo però volea attribuito al cattivo sistema vocale, di cui egli tentò dare una riforma. Lodò i compositori italiani, i quali appropriavano opportunamente le parti alle voci che le doveano cantare.

[283]

Non negò all’Italia il vero linguaggio musicale; e come una specie di satira ai suoi, facendo quasi l’apologia della nostra lingua e del nostro canto, e generando in essi non indifferenti querele, dettò in tale argomento filosoficamente la famosa sua Dissertazione sulla Musica francese: dedicò la prima parte al canto, che trae seco come accompagnamento l’armonia; trattò in secondo luogo della misura, che disse essere alla melodia come la sintassi al discorso.

La musica in generale ei la distingue naturale e imitativa; la prima limitata ai fisici effetti che agiscono sui sensi, l’altra esprimente le passioni, parlante all’anima.

L’armonia, avendo il suo principio nella natura, è la medesima presso tutte le Nazioni, o se pure qualche differenza riscontrasi, è introdotta da quella della melodia. Per il che dalla melodia soltanto egli fa derivare il carattere speciale d’una musica nazionale, ed essendo questo principalmente marcato dalla lingua, da questa il canto risente la maggiore influenza.

Si può concepire, disse argutamente il filosofo, lingue più o meno proprie alla musica; se ne può concepire improprie affatto. Tale potrebbe essere una che non fosse composta che di suoni misti, di sillabe mute, sorde o nasali, con poche vocali sonore, molto consonanti ed articolazioni, e che mancasse d’altre condizioni essenziali alle cadenze ed al tempo. — Cerchiamo per curiosità cosa risulterebbe della musica a tale lingua applicata.

Primieramente, il difetto di sonorità nelle vocali obbligherebbe a darne molta alle note; e perchè sorda la lingua, la musica sarebbe stridente. In secondo luogo, la durezza e frequenza delle consonanti [284] forzerebbe ad escludere alcune parole, e non procedere sulle altre che per intonazioni elementari; e la musica sarebbe insipida e monotona; la sua andata sarebbe inoltre lenta e nojosa per la medesima ragione, e qualora si volesse affrettarne un poco il movimento, la sua celerità rassomiglierebbe a quella di un corpo duro e angoloso girantesi sul pavimento.

Siccome una tal musica sarebbe spoglia d’ogni gradita melodia, si cercherebbe supplirvi con bellezze fittizie e poco naturali; la si sovracaricarebbe di modulazioni frequenti e regolari, ma fredde, senza grazia, senza espressione. S’inventerebbe de’ gorgheggiamenti, cadenze, portamenti di voce, e d’altri ornamenti posticci che si prodigherebbero nel canto, le quali cose senza renderlo meno piano non lo farebbero che più ridicolo. La musica con tutta questa sguajata acconciatura resterebbe languida, inespressiva, senza imagini, priva di forza e di energia, pingerebbe pochi oggetti in molte note, come quelle scritture gotiche, le di cui linee ripiene di segni e di figure non contengono che due o tre parole, e che racchiudono poco senso in grande spazio. L’impossibilità d’inventare canti aggradevoli, obbligherebbe i compositori a volgere tutte le loro cure all’armonia, e in mancanza di bello reale, v’introdurrebbero bellezze di convenzione non aventi altro merito che la difficoltà superata: in luogo d’una buona musica, la si imaginarebbe sapiente; per supplire al canto, si moltiplicherebbero gli accompagnamenti; per togliere l’insipidezza s’aumenterebbe la confusione; si crederebbe far musica, e non si farebbe che rumore. — Voces praetereaque nihil. —

Se carattere d’ogni musica nazionale è la lingua, [285] esso principalmente si fonda sulla prosodia; perocchè le diverse misure della musica vocale non poterono nascere che dalle diverse maniere di poter dividere il discorso e collocare le brevi e le lunghe le une rispetto alle altre; ciò che evidentissimo si mostra nella greca musica, nella quale tutte le misure non erano che le formule d’altrettanti ritmi forniti dalla disposizione delle sillabe e de’ piedi di cui la lingua e la poesia erano suscettibili. Di maniera che, quantunque si possa molto bene distinguere nel ritmo musicale le misure della prosodia, del verso e del canto, sarà indubitabile la musica più aggradevole esser quella in cui queste tre misure concorrono insieme e quanto più è possibile perfettamente.

La supposta lingua adunque, infelice nella prosodia, poco marcata, senza esattezza e precisione, non avente le lunghe e le brevi combinate fra loro nella durata e nel numero dei rapporti semplici e propri a rendere il ritmo gradevole, esatto e regolare; che ha le lunghe più o meno lunghe, le brevi più o meno brevi, sillabe nè brevi nè lunghe, indeterminate e quasi incommensurabili; tale lingua naturalmente comunicherà alla musica nazionale le irregolarità tutte della sua prosodia; il recitativo se ne risentirà specialmente; non si saprà come accordare il valor delle note a quello delle sillabe; si dovrà cangiare ad ogni istante di tempo; tutti i movimenti sortiranno poco naturali e senza precisione; l’idea dell’eguaglianza de’ tempi si perderebbe interamente nello spirito del cantore e dell’uditore — nel capriccio de’ compositori...

Con qualunque arte, infatti, si cercasse coprire i difetti d’una tal musica, sarebbe impossibile ch’ella [286] potesse piacere mai ad altre orecchie che a quelle dei naturali del paese ove ella sarebbe in uso....

Se v’ha in Europa una lingua propria alla musica, è certo l’italiana, perchè è dolce, sonora, armoniosa, accentata più che ogni altra; e queste quattro qualità sono precisamente le più convenevoli al canto.

Le inversioni di cui questa lingua è suscettibile, sono favorevolissime alla buona melodia; per esse la frase musicale si sviluppa in maniera più grata e interessante. Le sospensioni e le tronche parole, sconosciute ad altre lingue, che rendono così famigliare alla musica la sua costituzione felice, non possono essere supplite da chi non le possede che per mezzo di silenzj, che non sono mai canto, e che in certe occasioni mostrano piuttosto la povertà della musica che le risorse del musicista.

Gl’Italiani pretendono che la melodia francese sia piana e senza alcun canto. Tutte le nazioni neutre confermano unanimemente il loro giudizio su questo punto. Milord Shaftesbury ebbe a dire, che coll’uso di parlar francese in Inghilterra, divenne in moda anche tale musica: ma ben presto la musica italiana, mostrandoci la natura più da vicino, ci disgustò di quella, e ce la fece riconoscere così piana, goffa o sguajata, com’è di fatto.

I Francesi accusano di bizzarria e barocchismo l’italiano canto: ci sembra, dissero i neutri, che non possa più osarsi un tal rimprovero a quella melodia dappoichè s’è fatta intendere fra noi; è un fatto che questa musica mirabile non ha che a mostrarsi qual è per giustificarsi di tutti i torti di cui la si accusa.

Rousseau ama meglio credere che gli uni e gli altri s’ingannino, piuttosto che dover acconsentire che, [287] nelle contrade dove le scienze e le arti tutte sono pervenute a sì alto grado, la musica sola sia ancora da nascere — ed aspetti il suo essere dall’avvenire.

Non sembra ch’egli scrivesse appunto per le questioni del 1870?!..

Egli segue: i meno prevenuti fra noi s’accontentarono dire che la musica italiana e la francese son buone entrambi, ciascuna nel suo genere, e per la lingua che a ciascuna è propria. Ma oltrechè le altre nazioni non convengono in tale giudizio, resta sempre a sapere quale delle due lingue può comportare il miglior genere di musica.

Rousseau, dichiarandosi in quello stato necessario per pronunziare in una tale questione spassionato, cioè di buona fede, e versato egualmente ne’ due stili e fornito di quelle cognizioni indispensabili a giudice competente, motivò per tal modo il suo consiglio, velando però la definitiva sentenza purtroppo severa pe’ suoi.

Ho preso dalle due musiche alcune arie egualmente pregiate ciascuna nel suo genere, e spogliando le une de’ loro portamenti e cadenze, le altre delle note sott’intese, le ho solfeggiate esattamente sulle note, senza alcun ornamento, e senza fornir niente di mio nè al senso nè al legame della frase: nè vi fu dubbio per la decisione.

Altra prova più decisiva.

Feci cantare ad italiani le più belle arie di Lulli, — (tanto vantato dai francesi e ritenuto come lor gloria nazionale, mentr’il fiorentino non facea che adattarsi alle loro maniere; per quella guisa che anche un Verdi mostrò poi di saper attagliarsi a’ gusti stranieri) —; e diedi a trattare a musici francesi arie di Leo [288] e di Pergolese: ed ho rimarcato che questi, benchè fossero ben lontani da cogliere il vero gusto di tali pezzi, essi ne sentivano peraltro la melodia, e ne tiravano alla loro maniera frasi cantabili e gradevoli.

Ma gl’Italiani solfeggiando molto esattamente le arie francesi le più patetiche, non hanno potuto mai riconoscervi nè frasi, nè canto; non erano per loro che note poste senz’ordine e come per caso, musica priva di senso; essi le cantavano precisamente come voi leggereste parole arabe scritte in carattere francese.

Non pertanto, i musicisti francesi pretenderebbero ricavare un vantaggio da questa notabile differenza: noi eseguiamo la musica italiana, essi dicono con la loro baldanza accostumata, e gl’italiani non possono eseguire la nostra, dunque la nostra è migliore.

Non s’avvedono che dovrebbero tirarne una conseguenza totalmente contraria, e dire: dunque gl’italiani hanno una melodia e noi non ne abbiamo.

Terza esperienza di Rousseau.

Vidi a Venezia un Armeno, uomo di spirito, che non avea intesa mai musica, e davanti il quale si eseguiva in uno stesso concerto, un monologo francese, ed un’aria di Galuppi. L’uno e l’altra cantati furono mediocremente da francesi, e male da italiani. Rimarcai nell’Armeno, durante tutto il canto francese, più sorpresa che piacere; ma osservarono tutti gli assistenti, dalle prime battute dell’aria italiana, che il suo viso e i suoi occhi si raddolcivano; egli era incantato; seguiva coll’anima le impressioni della musica, e benchè egli non intendesse la lingua, i semplici suoni gli causavano un sensibile rapimento. D’allora in poi non gli si potè più fare ascoltare alcun’aria francese.

Il francese filosofo ed autore dell’Indovino del [289] Villaggio[200], che tanti fatti l’hanno reso dubbioso perfino della esistenza d’una francese melodia, e gli hanno fatto supporre che questa potrebbe essere niente altro che una specie di canto-piano modulato; che non ha niente d’aggradevole in sè, e non piace che coll’ajuto di qualche ornamento arbitrario, e soltanto a quelli che sono convinti di trovarlo bello.

Che tale musica è sopportabile appena alle stesse orecchie francesi quand’ella è eseguita da voci mediocri che mancano d’arte per farla valere; mentre ogni voce è buona per la italiana; perchè le bellezze di tal canto sono nella medesima musica, a differenza che quelle del canto francese non sono che nell’arte del cantante.

Alla perfezione della melodia italiana, trova il concorso delle tre condizioni indispensabili — la dolcezza della lingua — l’arditezza delle modulazioni — la rigorosa precisione del tempo — d’onde tutte le attrattive e la energia.

Perocchè quando si comincia a conoscere la melodia italiana, vi si rilevano da prima le grazie, onde non la si crederebbe atta ad esprimere che sentimenti di dolcezza; ma per poco che se ne studj il suo carattere patetico e tragico, si è ben tosto sorpresi della forza che l’arte dei compositori le presta.

Egli è per le modulazioni sapienti, per l’armonia semplice e pura, pegli accompagnamenti vivi e brillanti, che que’ canti divini straziano o inebbriano [290] l’anima, mettono lo spettatore fuor di lui stesso, e gli strappano ne’ suoi trasporti, gridi di cui giammai le tranquille opere francesi furono onorate.

Il prodigio di que’ canti non è estraneo a quella unità di melodia cui gli italiani compositori si conformano con tanta cura che degenera qualche volta perfino in affettazione; regola d’altronde indispensabile e non meno importante nella musica quanto l’unità d’azione nella tragedia.

Riconosciuta la potenza della musica italiana, ai tempi di Rousseau, e il primato assoluto di que’ canti «capi d’opera del genio, che strappano lagrime, che offrono quadri i più toccanti, che pingono le situazioni più vive, che trasfondono all’anima tutte le passioni che esprimono» il medesimo autore ci lascia la immagine del vero stato del canto francese nella sua epoca. «I Francesi, egli dice, danno il nome d’arie a quelle insipide canzonette che frammettono nelle scene delle lor Opéra, mentre chiamano monologhi per eccellenza quelle trascinate e nojose lamentazioni, cui non manca perchè assopiscano ogni uditore, se non che siano cantate senza grida e con precisione...

Le parole delle ariette francesi, sempre staccate dal soggetto, non sono che un miserabile gergo melato, che si è troppo felici di non intendere; una collezione fatta a caso di poche parole sonore che la nostra lingua può fornire, girate e rigirate in ogni maniera, eccetto quella che potrebbe darvi un senso: e su queste impertinenti amphigouris i nostri musicisti consumano il loro gusto e il loro sapere, e gli attori i loro gesti e i loro polmoni. Innanzi a questi stravaganti pezzi le nostre donne vengono meno d’ammirazione; e la più chiara prova che la musica francese [291] non sa nè piangere, nè parlare, è il non poter ella sviluppare quel poco di bello di cui è suscettibile, se non nelle parole di niun significato...

I nostri musicisti più che si sforzano di raggiungere gli effetti prodigiosi de’ canti italiani, più si scostano dalla possibile via; e se m’è permesso di dirvi naturalmente quello che penso, io trovo, che quanto più la nostra musica in apparenza si perfeziona, più ella in fatto si guasta.

Era forse necessario ch’ella venisse a questo punto, per avvezzare insensibilmente le nostre orecchie a rigettare i pregiudizj della abitudine ed a gustare canti diversi da quelli con cui le nostre nutrici ci addormentavano. Prevedo che per portarla al mediocrissimo grado di bontà di cui è suscettibile, bisognerà presto o tardi cominciare per rediscendere o rimontare al punto in coi Lulli l’avea collocata...»

Cessate le velleità de’ cantori dell’epoca di Rousseau, tornò la musica infatti, od apparve nella più povera infanzia dinanzi ai classici colossi italiani; e a tanti esempj, ed a furia d’imitazione, veggonsi in oggi i progressi di quella nazione che parea più inclinata ad emularli!...

Scuole metodo-pratiche del secolo XVIII. — Dal metodo primario didascalico, a quello superiore analitico. — Trattatisti.

Appena si tacque l’Uomo della natura e della verità, e con questa vera divisa del Filosofo Vitam impendere Vero, fu nel 1778 deposto nella tomba, sorse un altro celebre trattatista del canto, non meno osservatore e pratico, ed esclusivo nella materia, un maestro che raccoglieva in sè le condizioni per le quali [292] soltanto il Boezio voleva che si potesse accordare l’onore del nome di Musicista. Quello cioè che «pratica la musica non solamente pel ministero servile dei diti o della voce, ma che possede questa scienza pel ragionamento e la speculazione.»

Ma per la luminosa comparsa del perfetto metodista del vero canto per l’arte nobilitato, doveano prima seguire alle teoriche ricerche le più alte sperienze: ed ecco, offerivasi un’altra schiera di veri maestri ed artisti, che come roccie granitiche, non più pieghevoli e trabalzate da nessuna corrente, compirono il purificamento di quell’onda melodiosa e soave, onde poi dar si potesse un saggio di canto perfetto.

Domenico Gizzi, nato in Arpino nel 1684, allievo di Angiolino e del Carissimi; compagno a Porpora e a Durante, maestro del Conti; potè dare alla bella scuola quella piega elegante e sapiente che rese celebre il suo nome nel suo grande allievo.

Questi, Gioacchino Conti, che si fece chiamare Gizziello, per gratitudine e venerazione al suo istitutore, fu non solo uno de’ cantanti più celebri del XVIII secolo, ma un religioso indicatore delle maniere più pure e dei mezzi meglio opportuni a mantenere il bel canto. Non erano tanto per lui la sorpresa dell’estensione, o la forza d’effetto, quanto la rigorosa intonazione e la facile scorrevolezza.

Il canto per lui non dovea essere diletto all’uditore e pena al cantante; ma delizia ad entrambi.

Si comprenderà il significato di questa mia osservazione sui modi del Gizziello, ponendo mente a una nota del Grétry, che si trova al tomo I, pag. 268 della sua opera Essais sur la Musique. «Io vidi a Roma il famoso cantore Gizziello, che costumava inviare il suo [293] proprio accordatore nelle case dove voleva mostrare i suoi talenti, temendo sempre che il clavicembalo fosse troppo alto, o non fosse perfetto nell’accordo

Non eran per lui gli sforzi atletici del suo predecessore nella fama europea, il cavaliere Baldassar Ferri, Perugino, fiorito intorno il 1660; che eseguiva esercizj sul trillo cromatico in un solo fiato, mantenuto fino a quattordici battute di tempo ordinario[201].

L’agilità pel Gizziello era figlia della facilità e della naturalezza.

Fu degno emulo del Farinelli.

Carlo Brioschi, detto Farinelli, napoletano, gran musicista, celebrato per la più bella voce che abbia potuto mai esistere, che univa alla conoscenza profonda della musica, il gusto più squisito, e che a meriti sì rari aggiungeva una bontà d’animo proverbiale, esordì a Roma nel 1722, e dopo essere stato la ammirazione e la delizia dei teatri d’Italia, cantò con sommo plauso a Londra (1734) e passò in Ispagna.

Qui nuovo Davidde, cominciò per sanare colle dolci sue note il malato spirito del re Filippo V, onde pei favori di questo e della regina Elisabetta, divenne l’idolo ed il buon genio di quella corte.

Mille prodigj narransi per la potenza del suo canto; di mille omaggi cittadini e stranieri lo fanno le storie rivestito: a noi basta citarlo come fautore della bella scuola del canto.

Dopo la morte di Filippo V, benchè richiesto anche [294] da Ferdinando VI, si ritirò a Bologna, ove cessò di vivere il 15 luglio del 1782[202].

Imitatore distinto di questi illustri italiani, fu Gilles Giovanni di Tascona (Provenza), che a un bell’ingegno accoppiava grandi virtù, e che in Francia avrebbe assai giovato al perfezionamento del canto se in giovane età la morte non l’avesse rapito.

Cominciò corista col Campra nella metropolitana d’Aix, ove dirigeva la cappella l’ab. Guglielmo Poitevin. Studiando sulla propria voce, e sui nuovi modi dei famigerati artisti italiani, propose i suoi metodi al vescovo di Rieux, che lo inviò alla cappella di san Stefano di Tolosa. Nel frattempo questo posto era stato assegnato al Farinelli, il quale però nobilmente lo cesse al suo concorrente, sforzandolo d’accettare una dimissione che li onorò entrambi egualmente.

Da alcune opere del Gilles lasciate alla cappella che dirigeva in Tolosa, ove morì nel 1705, appariscono i suoi buoni studj e le riforme.

Così Karsten, primo cantante nel real teatro di Stoccolma, divenuto segretario del Re Gustavo III; Karsten reso celebre alla Svezia, come i nipoti per le arti sorelle all’Italia ed Europa[203].

Adolfati Andrea di Venezia, allievo del Galuppi, provò una nuova misura di tempo, insegnò il bel canto, lo espresse nelle sue opere, fino al 1750, in cui morì egli pure a 40 anni.

[295]

Suo concittadino e contemporaneo, fu un cantore dilettante, allievo di Bissi, e di Lotti, certo Alberti Domenico, non indegno emulo di Farinelli. E da questa scuola, Conservatorio dell’Ospedaletto da noi a suo luogo accennato, ricomparve pure intorno a quell’epoca una Gabrielli Francesca ferrarese detta la Gabriellina, che di quella istituzione lasciò prove non isfuggite alla storia (1770); nè i musici Scotto ed i Zanetti, erano quivi ancora dimenticati.

Fiorì in pari tempo pure in Venezia un Tommaso Albinoni egregio cantore e maestro, la cui scuola giovò alla Affabili per diffondere anche in Germania (1725) il metodo risorto nel canto.

Tosi, cantante nel 1723, non si limitò ad eseguire, ma ricercò e raccolse appassionatamente le migliori Opinioni di cantori antichi e moderni, facendone a sè e ad altri tesoro.

Egizio e Bernacchi di Bologna, diedero risultamenti felici di educazione vocale, accettati dai cantanti per tradizione e per pratica, meglio che per teoria.

Amadori a Roma, Redi a Firenze, Peli a Modena, Vallotti a Padova, Pugnani a Torino, Gervasoni a Piacenza, Brivio a Milano, furono docenti di canto, che senza tante pretese di scienza e di teorie, formarono cantori incomparabili, interpreti di quella scuola sublime nella sua semplicità, che pur non era ancora corrotta prima del nostro secolo.

Giambattista Mancini, Ascolano, maestro alla imperial Corte di Vienna, nel 1774 dettò Le Osservazioni pratiche sul canto figurato, esponendo realmente le varie eleganze di questo, per modo da far dimenticare quelli antichi Compendj-Regole di canto fermo o semifigurato, o Principj per cantare gli otto toni [296] ecclesiastici, o Elementi di figurato e semifigurato, che più o meno succinti, tratti dalle introduzioni ai corali, o da lavori frateschi, anonimi o con beate indicazioni, andavansi ristampando a facile e comoda usanza.

Ma anche questi nuovi figuristi del canto, compreso il padre Martini, dappoi venuto a confutarli furono freddi osservatori che s’attennero più alla parte materiale che allo spirito del canto, e furono, dirò così, i fisici della bell’arte; i nuovi lavoratori che apparecchiarono il terreno a coltivazion più elevata; i regolatori dell’organismo per cui il soffio animatore non dovea trovare più inciampo.

Infatti il Tosi ed il Mancini fissano il modo di disporre la bocca, come quando sorride naturalmente; piantano la linea perpendicolare de’ denti; segnano la apertura media e regolare; scostano all’indietro le braccia per lasciar libero il movimento del petto.

Albanese, confermando l’utilità dell’atteggiamento sorridente, che per giunta fà sempre piacere, ferma la bocca nei passaggi, ne’ quali tocca alla gola d’agire e null’altro (Lettere 1773).

Il Martini negli Accenti della voce fa consistere la varietà dei coloriti; e indicandoli coi soliti segni con cui gli antichi maestri figurarono le diverse emissioni, alcuni ne marca nuovamente con legature e mordenti, spiegandone gli effetti in base sempre agli atteggiamenti di gola ed a seconda delle sue dilatazioni o ribattimenti[204]. Sente di quel meccanico, per cui gli alemanni Herbst e Petris accentavano nelle loro Musiche pratiche[205].

[297]

Col padre Martini peraltro si può dire formata l’arte del canto, e come tale ormai riconosciuta.

Il bolognese maestro, che tenne per cinquantanove anni scuola alla cappella di san Francesco, che dalle passate ricerche, da tante recenti sperienze, e dalla sapienza di tanti illustri contemporanei, aveva potuto attingere, e illuminar la sua mente speculativa, compendiò le teorie dell’arte; e coronò il bell’edificio, lasciando una Storia della Musica, e fondando una scuola divenuta celebre per la solidità delle dottrine ivi insegnate e pel gran numero d’eccellenti professori sortiti.

Godeva il Martini d’una reputazione europea come il più sapiente de’ musicisti; egli era in corrispondenza coi più grandi personaggi del suo tempo, quali Federico II di Prussia e Clemente XIV; gli uomini più istruiti, i compositori più illustri lo consultavano con deferenza e si appoggiavano all’autorità delle sue decisioni, come fece Gluck in una circostanza solenne.

Egli richiamò la scuola de’ compositori al sano principio che la base della musica dev’essere il canto; e fermo alle antiche tradizioni, di cui fè la storia, 1757, lasciò scritto che «per apprendere e impossessarsi dell’arte del contrappunto è necessario comporre sopra il canto fermo[206]

Egli ebbe il contento di benedire e coronare la feconda giovanezza di Mozart. L’autore del Don Giovanni avea 14 anni quando ricevette dalle mani di quel venerando scienziato, nel 1770, il diploma di membro della Accademia Filarmonica di Bologna.

[298]

Il padre Martini ebbe inoltre tanta fortuna di lasciare il deposito delle sue buone tradizioni immediatamente ad un allievo che gli fu emulo nella fama. Stanislao Mattei, frate esso pure del medesimo ordine, che s’acquistò celebrità nell’insegnamento del contrappunto, e di questo fu il primo maestro nel nuovo Liceo Comunale di Musica creato a Bologna nel 1804; d’onde così presto uscirono in sì gran numero celebri compositori, fra quali, Pilotti, Tesei, Tadolini, Salieri, Morlacchi, Donizzetti[207], Pacini e Rossini.

Ma se la scuola musicale era ovunque fondata sur un metodo ormai vasto e sicuro, questo mancava ancora per la scuola del canto; che pel procedere appunto della scienza speculativa, era tenuta ancor macchinale.

L’arte del canto era formata; la scienza aveale svelate tutte le sue ricerche e suggeriti i mezzi più acconci, ma quelle e questi non avea ancora disciplinati, per modo da porgere una norma non dubbia e sicura, una via non confusa, breve, retta, tendente a una meta ben definita. Questa meta, pel progresso appunto dell’arte, non presentavasi più unica, facile, distinta come quella a cui tendevano le scuole antiche, e le riforme clesiastiche e quelle della infanzia drammatica; nuovi porti adesso venivano dischiusi ai novelli argonauti vaghi dell’aureo tesoro musicale; diverse vie per raggiungerlo. Di queste le principali e nel genere loro ormai demarcate, e ch’io non dubiterei a rassomigliare quasi alle vie di terra o di mare, si presentarono: la scuola stabile pel canto comune [299] o corale, e quella più vaga e indefinita, la scuola del bel canto drammatico e figurato. Quindi la necessità de’ metodi rispettivi.

I filosofi, delle scienze benemeriti esploratori, aveano vagato anche pei campi musicali, e se non sempre o specialmente s’erano riferiti colle loro indagini alla parte vocale, non poca luce anche su questa vi aveano diffusa.

Dopo Rousseau, il quale per facilitare lo studio musicale, nel 1742 avea proposto di sostituire alle note le cifre, attraverso tutte le peripezie cui van soggetti quegli uomini che s’affaticano all’utile e al bene, due scuole in Francia erano sorte: quella generale di Pietro Galin per lo studio del canto; e quella speciale di Choron per le finezze della bell’arte.

Di questa avremo in seguito a intrattenersi.

Cominciò Galin, raccogliendo l’idea di Rousseau e perfezionandola, a dare il suo Cronomerista o tavola figurativa delle durate; quindi il Meloplasto, o formatore del canto — di cui Wilhem ampliandolo, ne fece il suo Indicatore vocale, ed anche il nostro Luigi Felice Rossi ebbe a servirsi nel metodo da lui proposto.

Con tali trovati pose base alla sua scuola nascente, della quale potè produrre nel 1818 le norme speciali.

Aimé Paris, continuò l’opera troncata insieme alla vita del Galin suo maestro ed amico; e compì a Strasburgo, nel 1829, il sistema divisore, colla invenzione della sua Lingua delle durate, mezzo maravigliosamente semplice ed efficace a facilitare l’insegnamento e la pratica della lettura misurata; e modificò naturalmente il metodo Galiniano.

Più tardi Emilio Chevé, non senza il concorso della brava Nanine sua moglie, sorella a Paris, lo completò, [300] confermando così col suo nome quel Metodo elementare di musica vocale tanto divulgato, e formando la triade fondatrice della scuola che dai tre maestri si noma.

Da quanto ho detto, facilmente rilevasi che il merito della scuola Galin-Paris-Chevé, verte meglio sulla materialità che sullo spirito dell’insegnamento: non pertanto, e perchè gli autori saviamente in esso si attennero a quella parte cui soltanto un metodo può e deve applicarsi perchè l’opportuno loro sistema realmente facilita la conoscenza della musica vocale e quindi giova meglio e dispone alla scuola più libera quanto elevata che apparecchia e forma l’artista; e perchè finalmente quel metodo concorse a generalizzare il canto corale moderno; porremmo qui qualche cenno di suo propagamento.

Dopo parziali ma felici sperimenti, nel 1.º ottobre 1842 fu introdotto dal medesimo Chevé nel Ginnasio militare di Lione, sotto la sorveglianza del capitano d’Argy, e dopo soli sei mesi di studio a cinque lezioni per settimana, i soldati allievi offersero tale programma d’una mattinata che parea impossibile a’ cantori i più provetti.

Ben venti prove di canti classici e complicati sostennero; onde la relazione fatta dal corpo del Ginnasio, constatò — la maraviglia e la commozione destate da tali risultamenti, ottenuti in sì breve tempo, con elementi ingrati e di cui la volontà non era stata consultata[208]. —

[301]

A richiesta del Chevé, un Giurì composto, fra gli altri, de’ celebri Berlioz, Reber, Elwart Maillart, Prudent, David, Hiller, Meyerbeer, Kastner, Offenbach, Kreutzer, Lefébure-Wély, Vieuxtemps, Massé, bandì a tutte le Società corali francesi e straniere un concorso internazionale basato su Programma senza precedenti sino allora, fra cui: — esecuzione di tre cori a piacere; coro inedito composto per la circostanza e fornito dal Giurì, comunicato 24 ore prima della pubblica prova; solfeggio a prima vista di coro simile distribuito seduta stante; scrittura d’aria sotto il dettato. — Quest’aria inedita, fornita dal Giurì, dovea essere vocalizzata ad ogni Società dal rispettivo direttore; e ciascun concorrente obbligato a dare il suo esemplare scritto nella chiave e tonalità che il Giurì prescriveagli.

Malgrado che da’ componenti il Giurì nessuno appartenesse alla scuola di Chevé, malgrado la massima pubblicità e le reiterate istanze fatte a tutte le società corali e scuole di musica note, nessuna, ad eccezione della Società corale della scuola Galin-Paris-Chevé osò affrontare lo strano e difficile sperimento.

La prova fu fatta nella sala di S.ta Cecilia, il 12 giugno 1862, in presenza di meglio che mille e cinquecento spettatori.

Per la prima volta s’udì ivi una massa di 180 individui, non musicisti di professione, cantare in pubblico a prima lettura, e al dettato d’un vocalizzo trascriverlo ed eseguirlo in tutte le chiavi e in tutti i tuoni.

Il Giurì a unanimità dichiarò, che la Società avea subìto nel modo più soddisfacente la prova.

Il metodo di tale Scuola fu adottato dai principali [302] Istituti a Parigi ed in Francia; in tutte le Scuole Comunali di Ginevra, e di quel Cantone.

L’Ateneo delle Arti decretò a quella Scuola medaglia d’oro (1861); la Esposizione Univ. di Londra (1862), la medaglia unica; il Congresso scientifico di Chambery (1863) emise il voto che il suo metodo sia generalmente adottato pel canto sacro e profano. Parecchi illustri maestri e metodisti, fra quali il Wilhem, in tutto o in parte si valsero di quel sistema.

Altri riputati scrittori e maestri, anche in Francia, pur ritenendo quelle basi in generale, non mancarono di studiarvi attorno, portando modificazioni o aggiungendo di proprio, e fra questi Halévy, che nel suo Metodo per la lettura ha lavorato cinque anni: ma la Commissione che sopraintendeva nel 1852 alle scuole di Parigi non potè sanzionar quella dottrina, nè la pubblica opinione accettarne i criteri.

Al primo Congresso musicale tenuto in Napoli nel settembre del 1864, gl’italiani maestri seriamente fissaronsi sulla nuova teorica, valutandola in preferenza d’ogn’altra; e l’illustre Casamorta, direttore dell’Istituto di Firenze, specialmente consigliò le semplificazioni in quella proposte, per la loro ragionevolezza e pei vantaggi mirabili che ne derivano[209].

Il maestro napolitano Carlo Caputo eletto membro e relatore d’una Commissione nominata da quel Municipio per istudiare i metodi corali e riferire al Congresso pedagogico ivi indetto pel 1870[210], onde proporre [303] quello che si ritenesse il migliore, o formulare i criteri su quali dettarne uno di nuovo, in un dotto scritto con cui io corroboro le memorie surriferite, presi in disamina i quesiti che i fondatori e continuatori della scuola Galin-Paris-Chevé si proposero di risolvere, conchiuse per la bontà incontestata di quel metodo che a tutte le proposte risponde.

Osserva in ispecialità che per quella teoria musicale ragionata, gli allievi sono condotti facilmente alla intonazione esatta e sicura di qualunque intervallo più difficile e disparato ne’ tre generi diatonico, cromatico ed enarmonico; in quest’ultimo specialmente, del cui studio efficace i migliori metodisti lamentano la mancanza, e quindi la somma difficoltà della pratica. Pratica che il Choron nella sua Enciclopedia Musicale dichiara erronea in tutti quelli che si fondano sulla teoria de’ semituoni, nella falsità de’ quali convengono le opinioni di Rousseau, di Fétis, De La Fage, e Boucheron, mentre il Candiotti[211], il Mascitelli[212] nelle sue illusioni acustiche, e tanti altri razionalisti la sostengono assolutamente impossibile.

Il Caputo invece, rassicurando sulla possibilità pratica, accetta il metodo di Chevé che insegna con la massima facilità la Scala enarmonica.

Conviene con questo autore nei mezzi adottati per facilitare il solfegio anche ai riguardi della nomenclatura delle note, a modificazione dell’attuale sistema oscuro e insufficiente alla indicazione degli intervalli. [304] A riparo di tale inconveniente, dopo le osservazioni e i tentativi di M.r Sauveur[213], di Rousseau[214], dell’Euchero[215], del Pintado[216], fatto riflesso alla opportunità del solfeggiare secondo la scuola tedesca colle lettere gregoriane, dà a divedere il Caputo che le riforme semplici e logiche sperimentate nelle rispettive scuole corali, e suggerite dai riputati nostri professori, quali il Luigi Felice Rossi nella pratica per l’insegnamento del canto corale[217], e dallo Stefano Tempia suo continuatore, da Beniamino Carelli sull’arte del Canto[218], dal Casamorta nelle letture all’Accademia musicale di Firenze[219], e dal medesimo relatore nel propostosi Manuale di Corodagogia[220], sono in gran parte desunte dall’opera del Chevé.

Così in quanto riguarda alle ricerche per una perfetta intonazione, che deve pensarsi nella mente prima di emettere le voci; e che non deve cercare ajuto in veruno istrumento e specialmente dal pianoforte; in onta alle prevalse opinioni sostenute principalmente dal Gervasoni, e secondo i precetti di Choron, il quale nega recisamente che non si possa cantare intuonato senza il soccorso degli strumenti, non essendo questi [305] che una imitazione più o meno imperfetta della voce umana, per la maggior parte, e specialmente i polipetri, più o meno falsi, e tutti solo approssimativamente intonati; onde il Choron medesimo dichiarava essere i suoi esercizj senza accompagnamento, perchè tutti gli studj di canto debbono farsi in tal modo, e l’uso diverso reca gravissimi inconvenienti[221].

Insiste finalmente sulla opportunità di quel metodo al mutuo insegnamento, e ciò nell’interesse generale della creazione in Italia del canto popolare più che in quello speciale della formazione dell’artista[222] questione ormai trattata e risolta in Francia per opera di Pollet; in Germania per Zelter e Marx[223]; e in Inghilterra per Bell, Lancaster, Curven, e per Boequilon-Wilhem[224], iniziatori di quel sistema mutuo all’insegnamento del Canto, che è la sacca da viaggio del povero[225], salute morale e fisica del fanciullo[226], elemento di sociale riforma, bisogno non soddisfatto degli italiani.

Il metodo Galin-Paris-Chevé, chiude Caputo, — anche indipendentemente dalla sua ortografia — pure [306] utilissima perchè rende accessibili e facili a tutti le idee nascoste sotto le più complicate combinazioni de’ caratteri presenti, e perchè alletta col pronto risultato e col risparmio d’un tempo prezioso, specialmente a chi deve impiegarlo pel pane ad altre fatiche, porge pure nella parte teoretica, chiarezza, semplicità, precisione; nelle sue deduzioni è esclusa l’assurda formola — oportet discentem credere —; è ispirato ai più sacri principj dell’arte, e però i mezzi di cui si serve non possono essere che buoni. Malgrado tutti gli ostacoli dei partigiani della routine (così faceva mio nonno), tale metodo ha fatto la sua strada e tende sempre più a diffondersi e stabilirsi.

Gli attuali direttori della Scuola Chevé inoltre, allo scopo di rendere qualunque professore idoneo ad insegnare col loro metodo, pubblicavano una Guida che traccia il programma di ciascuna lezione.

Questo adunque potrà assicurare il pronto e facile apprendimento della musica vocale, e soddisfare ai riguardi delle didattiche cognizioni relative.

Veniamo adesso alle norme che, stabilite le basi, le forme e gli elementi, dovrebbero ajutare a portare il canto materialmente appreso, a quelle regioni dove stanno riposti i segreti più gelosi dell’arte, le espressioni e gli incanti della bellezza.

Molti maestri s’attentarono di dettar quelle norme, credendo, nella sperienza propria o sugl’altri, d’aver trovati i mistici fili regolatori. — Il vedremo.

FINE DEL PRIMO VOLUME


[307]

INDICE

L’Editore pag. 5
Introduzione 7
 
Parte antica.
I.
 
Origini. — Primi Compositori. — Elementi del Canto 11
Fisiologia vocale antica. — Organismo. — Artificio della castrazione 42
Applicazioni del Canto. — Iniziamento artistico 52
Canto cristiano. — Piano. — Fermo. — Codificazione rituale. — Progresso libero popolare 58
Invenzione spontanea. — Arte. — Filosofia 66
Prima riforma in Gallia e Germania. — Immutabilità caratteristica. — Scuole conservative 70
Canto romantico medioevano. — Epoca delle Crociate. — Comunione e sviluppo. — Corali e Madrigali. — Fondazione delle Cappelle — Mistri dei fanciulli. — Scuola Fiamminga. — Scienza e suoi influssi 90
Cantori nomadi. — Influenza straniera. — Maestri-cantori tedeschi. — Tavolatura. — Corporazioni. — Trovatori alle Corti. — Canto romanzesco 109
Creazione del Dramma lirico in Italia. — Compositori riformisti di Firenze, di Venezia, di Roma. — Canzonieri Accademici 135
Scuole stabili o Cappelle. — Fondazione dei Conservatorj. — Primi Oratorj. — Maestri musicisti, loro riforme. — Abusi. — La Nazione dei Cantanti 148
Melodica italiana — suo sviluppo. — Ristauratori del Canto chiesastico. — Scuole formate di Canto drammatico 166
[308]
Coalizione e diramazione delle Scuole d’Italia. — Splendore della Veneta. — Scuola Francese. — Apostolato Italiano all’Estero 185
Progresso e svolgimento del Canto Drammatico. — Scuola Napolitana. — Rapido suo ingrandimento. — Precursori della nuova Epoca. — Compositori del secolo XVIII 208
 
Ripiglio della parte antica.
II.
 
Ritorno ai remoti tempi pei Metodi. — Primi Metodisti. — Grecismo. — Ricostituzioni da Gregorio al secolo XI. — Da Guido al secolo XVII. — Da Rousseau al compimento delle scuole teoretiche del suo tempo 243
Scuole metodo-pratiche del secolo XVIII. — Dal metodo primario didascalico, a quello superiore analitico. — Trattatisti 291

NOTE:

1.  Monografie artistico-sociali. VI. Napoli e la Musica. Venezia, Tip. Grimaldo.

2.  Vedi (I. Mohl, Parigi 1830) Confutii Sci-hing, sive liber carminum; et Yo-King antiquissimus Sinarum liber.

3.  Sul segreto del polso da cui conoscono i Cinesi tutto le malattie, avvi il libro di Uang-scin-ho.

4.  De l’instruction publique en Chine, etc. Biot, Paris 1743.

5.  F. Marini Mersenni ord. S. Francisci a Paula, Harmonicorum libri. Liber Septimus, de cantibus, seu cantilenis. Propositio I. — Lutetiae Parisiorum, 1635.

6.  Continua Agostino la sottile argomentazione: «Cum enim cantatur, auditur sonus, qui non prius informiter sonat, et deinde formatur in cantum. Quod enim primo ut cunque sonuerit, praeterit, nec ex eo quicquam reperies quod resumptum arte componas: et ideo cantus in sono suo vertitur, qui sonus ejus materies ejus est. Idem quippe formatur ut cantus sit, et ideo prior materies sonandi, quam forma cantandi, non perficiendi potentia prior.

»Neque enim sonus est cantandi artifex, sed cantanti animae subiacet ex corpore de quo cantum faciat, nec tempore prior, simul enim cum cantu editur. Nec prior electione, non enim potior sonus quam cantus, quandoquidem cantus est non tantum sonus, verum etiam sonus speciosus: sed prior est origine, quia non cantus formatur ut sonus sit, sed sonus formatur, ut cantus sit.» (Lib. 12 Confess. cap. 29).

7.  «Mitto quod Cantus significare possit incantationem, quemadmodum canere sumitur pro incantatione, qua serpentes rumpi dicuntur.» Mercenne, lib. VII.

8.  Rodiginus, lib. 27, cap. 26. — Julius Polluces, lib. 4, cap. 7 e 14.

9.  Polibio al lib. 2, farebbe salvato dai Veneti il Campidoglio nell’anno 364 di Roma anzichè dal cicalio delle oche sacre.

10.  Dante Purg. C. XXXI, v. 140.

11.  Tomicich, Dizionario Enciclop. Music.

12.  Kircher sostiene la parola musica venir da un motto egizio.

13.  Herb. Spencer, On the origin and function of Music. Londra, 1858.

14.  Vedi Diodoro, Descrizione delle Feste Egiziane.

15.  Vedi Giuseppe Flavio, Storia degli Ebrei.

16.  Stesichori graves Camenae. Orazio.

17.  Vedi Aristotile, de Politica. Plutarco, de Musica. Versor — Utrum scientia musicalis sit juvenis utilis. Alexander — Varie apud diversas gentes puerorum institutiones. Colle — La musica nella educazione de’ Greci, Mantova 1775. Giuseppe Sacchi — Dissertazione sulla perfezione e natura della musica de’ Greci.

18.  19, Problemi.

19.  Dissertazione dell’Autore: Il Simbolo delle Palme, nelle Monografie Artistico Sociali, N. XXVI. Tipi Grimaldo 1872.

20.  Fa, Mixo-lidio. Mi, Lidio. Re, Frigio. Ut, Dorico. Si, Ipo-lidio. La, Ipo-frigio. Sol, Ipo-dorico.

21.  Redattore dell’Opinion Nationale. (V. sua opera Sotto i Tigli.)

22.  V. Giornale di Venezia La Scena, 21 Luglio 1870, N. 8.

23.  Vedi Gerolamo Mei.

24.  Curiosi più che fondati ed efficaci sono i differenti mezzi impiegati dai cantanti nella credenza di giovare alla voce. Non pochi, e fu di questi la Sontag, usano di mangiare le acciughe. La signora Dorus, fra gl’intermezzi dell’opera ristorava la voce con vitello freddo. La Despares credeva rinfrescarla bevendo acqua calda; la Cruvelli col vin generoso; l’Adele Patti con birra.

La Sass mangia beefteaks; la Cabel, pera; la Ugalde, prugne; la Trebelli, patate; la Lucca, pasticche di menta.

Michot inghiotte gran quantità di caffè nero.

Troy beve latte. Mario non lascia lo zigaro che all’entrare in scena; mentre tanti altri se ne astengono assolutamente; e paragona la rarità d’un buon tenore a quella d’uno zigaro buono, ambedue animati dal soffio del petto, pagati carissimi perchè di corta durata, non restando d’essi che la memoria delle aggradevoli sensazioni che fanno provare.

A chi scrive queste memorie, parve utile a schiarimento di voce il fiutare lo zucchero.

25.  Respiro, sospiro, aspirazione, ronco, sibilo, gemito, singulto, brontolìo, popjsmo, screazione, rutto, sussurro, sbadiglio, tosse, riso, cachinno, vociferazione, acclamazione, clamore, e canto.

26.  Giudicavasi anticamente, gli Orientali rompere le parole nella strozza; i Mediterrani al palato; gli Occidentali frangerle ne’ denti; i Settentrionali formarle in petto. Autori successivi indicarono fra i primi, Greci ed Asiani; posero gl’Itali ed Hispani fra gli Occidentali; e divisero i nordici in Germani che traggono dal petto le voci, e Galli che le formano in petto, in gola e sul palato: onde non so quanto giustamente dissero: Italos caprizzare, Alemannos ululare, Gallos cantare, Anglos jubilare.

27.  Perciò «siccome è regola dai savj maestri di canto a dovere adottata e inculcata, quella che il cantante conformi la sua bocca alla rotondità, forma naturale e graziosa che dà meglio d’ogni altra il mezzo di bene spiegare la voce, così dev’essere cura del compositore non obbligare il cantante a lunghe fermate sugli i ed u, vocali troppo strette e che danno alla bocca una strana conformazione e sembianza al canto come di nitrito...» Maestro Sessa sudd.

28.  Ateneo, lib. 12.

29.  Deuter. cap. 23.

30.  V. Dante.

31.  Buffon, Stor. Nat.

32.  V. Epifanio, Origene, S. Ambrogio.

33.  V. Saint-Laurent, Diction. Encyclop.

34.  Il dottor Burnoy nella sua storia musicale dichiara aver rilevato che il maggior numero di castrati venne da Lecce di Puglia.

35.  Con questi termini il Duca di Wurtemberg nel 1772 dava libertà d’azione a due chirurgi bolognesi chiamati alla sua corte, a decoro della sua cappella.

36.  Ho conosciuto l’ultimo de’ paesi nostri, morto pochi anni or sono nella sua villa di Dolo, presso Venezia, egregio uomo ed artista, che seppellì con lui le più strane avventure; era il Velluti.

37.  Plat. Leggi, lib. XII.

38.  V. Eneide in fine, lib. 1.

39.  Super flumina Babylonis. Salmo 186.

40.  Quint. Curt. lib. VII.

41.  An. Marc. Lib. XIX, cap. 1.

42.  In somnium Scip. Lib. II, cap. 3.

43.  Bochard fa derivare questo nome da Parat — cantare. Camden conviene con Festus che Bardo significa un cantore, in Celtico detto Bard.

44.  L’origine delle Linie, chiamate Naenia dai latini, s’attribuisce da alcuni autori agli Egizj; altri ne fanno inventore Lino Eubeo.

45.  Nerone e Domiziano specialmente protessero e coltivarono i cantori e i musicisti.

46.  V. il Dott. Bouther e Matineo Siculo nelle loro storie di Spagna. Morì Damaso l’11 decembre 352 in Roma, imperando Teodosio.

47.  V. di S. Ambrogio Simeone Metafraste, Paolo diacono, Gregorio prete Cesariense, Niceforo Calisto, e di Agostino, Possidonio Calamense.

48.  Secundum morum orientalium partium. — Confes. Lib. VII, cap. 7.

49.  Vedi Zoncada, S. Benedetto i Monaci d’Occidente — e De Angeli, Compendio di Stor. Univ. Epoca III.

50.  La Festa dell’Asino indicata dal Baini, vedremo in seguito.

51.  V. Giovanni Garzoni e Lorenzo Surio, nella vita di San Tommaso.

52.  V. Baini. E qui più innanzi.

53.  I Canti popol. Scozzesi, ora recati in versi ital. da Francesco Amaretti (Torino, Paravia 1872), hanno riscontro nei tipi di feroce vendetta dei canti Côrsi, se pur talvolta nell’Idilio sembrano accennare alla greca poesia.

54.  Nella Filosofia della musica, Mazzini, 1836.

55.  Il m.º Amintore Galli nelle recenti sue investigazioni sul ritmo, lo dice automatico, se dipende dalle facoltà dell’uomo di formare una serie di durate dietro una prestabilita durata di tempo; patetico, se gli è suscitato dalle passioni; omonopeico, se imitante altra cosa, come il galoppo del cavallo, la tempesta ecc.

56.  Già prima del maraviglioso prete Linzt, e prima ancora di Back, e del melodico Thalberg non ha guari perduto (1871), l’italiano Pollini s’era ingegnato di far brillare sovra tutto il canto, ed ottenuto avea il sommo effetto legando le note e prolungandole come la voce umana. Vedi Pollini, uno studio a 3 righe col canto.

57.  Annal. et Hist. Franc. ab ann. 708 ad ann. 990. Scriptores coætaneos. Francfort 1594, sub vita Caroli Magni.

58.  Antifonia, parola greca, canto eseguito da più voci alla unissona.

59.  Vedi M. Marin, Vie d’Abailard. — P. Théophile Rainaud. — M. Colardeau. — E le lettere di Abelardo e di Eloisa.

60.  Il p. e maestro Fantoni-Castrucci, della originaria famiglia toscana indi veneta, come vedremo in appresso, dimorò lungo tempo in Avignone, indi a Venezia, ove pubblicò la sua Istoria della Città d’Avignone e del Contado Venosino, 1678; essendo segretario dell’Ordine Carmelitano e della Romana Provincia Provinciale, altamente estimato per dottrina e stile.

61.  Del nascimento della Poesia volgare in Italia. Lettura di Giov. Franciosi all’Accademia di Modena (1871).

62.  Vedi le relazioni del Parlamento Ital. e la Gazzetta ufficiale del Regno, 1871.

63.  Gius. Pitrè. Canti popolari Siciliani. Palermo, Pedone 1871. Alcuni dei quali saggi furon raccolti dal dottor Giuseppe Morosi.

64.  Baini. Di Palestrina, Vol. I.o — E più avanti parlando dei metodi di quest’epoca.

65.  A Smirne, nello Istituto delle Suore di Carità quando ancor non s’insegnava la lingua italiana, le allieve davano saggi di musica cantando, accompagnate dal cembalo i più cari versi dei Romani musicati da Bellini e tradotti nel gallico idioma. (1850-51). G. Regaldi. (L’Egitto Note Stor. e statist.)

66.  Tomicich, nel Diz. Encicl. Musical., fa discendere da terra santa per mezzo de’ trovatori l’uso de’ trilli, gruppetti, appoggiature, etc.; e di chitarrini a sei corde, col ponticello, che suonavansi con arco convesso, prima specie di violino, riformato poi dopo tre secoli dal Baltazarini.

67.  Biblioteca delle Crociate.

68.  Una festa celebre di Riccardo.

69.  Storia di Riccardo di Cornovaglia fratello di Enrico III d’Inghilterra.

70.  Vedi le Storie della Sicilia di Biundi, Amari, Palmieri e Ferrara. — Wenrik, Commentarj rerum ab Arabibus in Italia insulisque adiacentibus gestarum. — Reinaud, per le invasioni de’ Saraceni in Francia ecc. — Conde, la Dominazione degli Arabi in Ispagna; — e Dozy, Ricerche sulla storia e letteratura della Spagna nel medio evo.

71.  Vedi Il canzoniere Ebraico, spiegato e illustrato dal prof. Salvatore De Benedetti. Pisa, tip. Nistri, 1872.

72.  Michaud. st. delle Crociate. Vol. IV, cap. VI.

73.  I canti composti dal Castellano di Coucy nel 1100, e le canzoni del suddetto Tebaldo di Champagne re di Navarra e di Bianca moglie a S. Luigi di Francia, (specie di cantilene o canti fermi) son conservati alla Bibliot. di Parigi, in antico quaderno.

74.  Du mouvement romantique. I. Scudo.

75.  Dante, Purg. C. XXXI, vers. 132 e nota P. Costa.

76.  Dante. Purgatorio, Canto II.

77.  Canzoni nelle Calende di Maggio. Anche nel Veneto e specialmente a Padova e a Treviso, fino a pochi anni or sono solennizzavansi le fiorite con canti distinti.

78.  Vedi Francesco Doni. (Marmi).

79.  Dante, Convitto, Tratt. II, Canto IV.

80.  V. Monografie Artistico Sociali dell’Autore, N. 11. Assisi.

81.  La Musica Nova di Willaert a spese del duca di Ferrara venne pubblicata nel 1559 per Antonio Gardano.

Cosimo Bartoli fiorentino scrisse poi di lui nei suoi Ragionamenti Accademici.

82.  Rimase la Scuola dei Zaghi, fanciulli o sagristi, fino al 1774, nella quale poi si distinsero gl’insegnanti preti, Domenico Catinello, Cristoforo Lanari, e Lorenzo Locatelli.

83.  Nella raccolta Laurenziana di Firenze, s’annoverano fino a 347 ballate, caccie e madrigali italiani del 1300; due sole francesi.

In un codice italiano esistente nella Biblioteca di Parigi si contengono intorno a 200 composizioni musicali, fra cui sole 17 francesi e 5 latine, del 1400.

Nel Palatino di Modena pure v’ha qualche canzone francese fra molte italiane del 14.º e 15.º secolo. — Vedi Ant. Cappelli, Poesie Musicali antiche, Modena 1856; e G. Carducci, Musica e Poesia del Mondo elegante Italiano del Secolo XIV. Firenze 1870.

84.  È nota la bravura di tali, spacciati anche per maghi, o spiritisti, che regolando i tuoni della voce con quelli proprj a qualche bottiglia o vaso di vetro, v’imprimono un movimento, e senz’altro contatto lo spezzano. (Vedi Rapporto de’ Suoni).

Da queste leggi fisiche spontanee o sperimentate sembra derivata anche la tradizione d’Orfeo, che cessa per ciò d’esser favola.

85.  È noto che Tartini attribuiva ad una di queste visioni, la famosa sua Sonata del Diavolo.

86.  Vedi Geoffroy e Mead, Théorie des effets de la morsure de la tarentule, 1702. — Dissertazione del Dott. Baglivi sulla tarantola, pubblicata nel 1669.

87.  Narrano le storie che Farinelli, secondando l’astuzia della regina, commosse col canto dalla vicina stanza, il malato re Filippo, e traendolo da profonda malinconia, lo indusse a radersi l’incolta barba, a presentarsi al consiglio, e riprendere gli affari dello Stato.

88.  M. Gerbertus, Hist. de la Mus. et ses Effets. Amsterdam 1725. Wald, Magdel 1781.

89.  Vedi ora i più recenti autori Segond, Saechi, Mantegazza, sulla Igiene dei cantori.

90.  Note dell’Archivio Petroniano.

91.  Idem.

92.  Dal codice musicale italiano della Biblioteca di Parigi, detto Imperiale.

93.  Vedi Antonio Da Prato sui Madrigali.

94.  I Martegalli, o Mandrigalli, o Pastorali, con o senza coda cioè coi Rispetti, in quanto a poesia erano poca cosa, o se ne facea poco conto; sovente erano scritti dai medesimi musicisti, e rimanevano anonimi: non mancano però alcuni di bella semplicità e naturalezza. Si hanno collezioni di Madrigali nelle Rime di Francesco Sacchetti; nelle Poesie italiane inedite del Truchi; nelle Poesie musicali del Cappelli; alcuni più oscuri furono raccolti da Giosuè Carducci nella N. Antologia 1870.

95.  Codice Laurenziano.

96.  Vedi Cronache di Wagenseil.

97.  C. Cantù, Lett. tedesca. Vol. 7, lib. 13, cap. 32 della St. Un.

98.  Il cardinale Riario nipote a Sisto IV, dettò le parole della tragedia con cori l’Orfeo, 1475: il card. Gonzaga ne protesse il musicista Poliziano ed uno dei cantori Braccio Ugolini. Il card. Bertrando da Bibbiena, fece la commedia La Gualandra da rappresentarsi al cospetto di Leon X. Clemente IX scrisse sette melodrammi.

99.  Il Paenulus, rappresentato per la venuta in Roma di Giuliano de Medici proclamato cittadino.

100.  Il Ferrabosco diede altre cinque edizioni di Madrigali, Mottetti e raccolte di musica del secolo XVI.

101.  Sotterrato in quella cattedrale, in faccia a Cipriano Rorè di cui era stato compagno a Venezia e successore a Parma.

Girolamo Colleoni pur di Correggio scrisse la vita del Merulo.

102.  Fra questi: Apostolo Zeno nelle sue Annotazioni alla Bibliot. dell’Eloquenza italiana di M. Giusto Fontarini, Vol. I. pag. 242. Angelo Ingegneri, Discorso della Poesia rappresentativa, pag. 72. Ottavio Bertotti Scamozzi, Le fabbriche di A. Palladio. Orefici. Montanari. Magrini, Descriz. e illustraz. del Teatro Olimp. 1847. Formenton, Mem. Stor. di Vicenza. Lampertico, Mem. dell’Accad. 1872.

103.  Vedi Le Orationi Volgari di Luigi Groto cieco di Hadria, alla Ill. Accad. Olimpica Vicentina. Venezia, 1589, Frat. Zoppini.

104.  Lettera al magnifico messer Giovanni Bandini oratore dell’Ill. duca di Firenze appresso la Maestà Cesarea.

105.  Luigi Groto, Orat. VIII. Venez. 1589.

106.  Il Calderino, che fra il 1537 e 1545 era stato de’ cantori di san Petronio, stampava altre musiche a Venezia, per il Gardano nel 1557.

107.  Mutetta quinque vocum. Venetiis 1555.

108.  Mottetti della Corona, di Josquin M. e di altri maestri. Venezia 1504-1505, e Fossombrone 1514-1519.

109.  Rappresentata a Firenze pel connubio di Enrico IV con Maria de’ Medici, nel 1600. Cui seguì con pari pompa e successo Il Ratto di Cefalo, l’Arianna, S. Ursola, degli stessi autori.

Peri ci tramandò i nomi dei poveri cantanti che interpretarono la sua opera mitologica.

Nella Dafne, la parte di donna fu sostenuta da un fanciullo di Lucca.

E solo dopo oltre mezzo secolo fu conosciuta e apprezzata in Francia la nuova composizione, quando appunto il card. Mazzarino dopo avere assaggiato, come da noi sopra fu detto, le rappresentazioni liriche italiane dello Strozzi, qui ormai antiquate, rinnovò l’invito a’ cantori fiorentini nel 1647 per dare alla Corte l’Euridice; e stipendiò una terza compagnia per le feste nuziali di Luigi XIV.

110.  Provvedimento de’ Fabbriceri del 1.º dicembre 1547. Archivio Petroniano.

111.  Il Monteverde, ordinato anche prete in Venezia poco prima di sua morte, ebbe elogiaste speciale Matteo Coburlotti.

112.  La partitura di quest’opera giace nella biblioteca di Parigi, depostavi l’anno 1695 da Fossard ordinatore della musica del Re.

Cavalli moriva nel 14 gennajo 1676.

113.  Il celebre compositore Carlo Pollarolo, morto nel 1722, lasciava il figlio Antonio non meno capace, ma fatalmente dedito al vino, onde per questo e per la sua corporatura ebbe il sopranome di Caratello, che in veneto dialetto significa piccola botte, morì miserabile nel 1762.

114.  Tale fenomeno dicesi vedersi oggi rinnovato in una giovane, basso profondo, pervenuta da oltre mare a Parigi.

115.  Baini, Vita di P. da Palestrina.

116.  V. Opera di Antonio Calegari m.º nella stessa Basilica, giusta il metodo del Pacchiaroti.

117.  Andrea e Giovanni Gabrielli, della nobile famiglia dei Caobelli di Cannaregio, furono da Michele Pretorio, nel Syntagma musicum, poeti a modelli di quell’epoca. Artusio medesimo nella sua opera Imperfettioni dell’Hodierna musica, mentre flagella il Monteverde, esalta Giovanni Gabrielli.

Cinquant’anni dopo la morte di questo, che fu al 12 agosto 1612, ebbe Venezia altro bravo compositore di quel nome, il succitato Domenico Gabrieli, che diede drammi alle patrie scene con plauso, dal 1685 al 1689.

«Di Giovanni Gabrieli e del suo Secolo: La storia del fiorire della Musica sacra nel secolo 16.º e del primo sviluppo delle principali forme della Musica moderna, tanto in quest’epoca, quanto nel secolo appresso, principalmente nella scuola di Musica di Venezia» è un’Opera di Mons. C. De Wirtenfeld, pubblicata a Berlino nel 1834.

118.  La tratta de’ fanciulli delle Prov. Merid. Vedi retro.

119.  Demontiosius, Tractatu de pictura.

120.  «Amano assai — Gli alterni canti de’ pastor le Muse» Virgilio, Egl. III.

121.  Joannes Petrus Aloysius Musicae Princeps.

122.  Vedi anche Dubois — Le Chanteur Florentin. —

123.  Prima teoria del Fétis.

124.  Discorso della musica antica e moderna, di Vincenzo Galilei.

125.  Le opere del Zarlino furono pubblicate in Firenze nel 1589, in 8.º — Indi a Venezia, 4 Vol. in fol. 1602.

126.  Foscarini. Lib. 4, pag. 335. Della Letteratura Veneziana.

127.  Cose notabili di Venezia, pag. 44.

128.  Dizionario, Zarlino.

129.  Alcuni segnano la morte del Zarlino nel 1590, altri nel 1599.

130.  Di Monte musicò inoltre Le Eccellenze di Maria descritte da Orazio Guargnante, a 5 voci, Venezia 1593.

131.  De Ponte musicò cinquanta stanze del Card. Bembo.

132.  Striggio compose anche Il Cicalamento delle donne al bucato, a 6 voci, Venezia 1579; e la Caccia a 7 voci, Venezia 1584.

133.  Pozzi intitolò i suoi Concerti Diatonici, Cromatici ed Armonici: L’Innocenza de’ Ciclopi.

134.  Di Alessandro Scarlatti conservansi nella Veneta Biblioteca 83 volumi o drammi.

135.  Tale raccolta che ora rappresenta la storia degli istrumenti musicali, vien conservata dal nob. Pietro Correr a Venezia.

136.  Esemplare che si conserva alla Marciana: L’Euridice di Ottavio Rinuccini e G. Caccini. 1600, Firenze.

137.  Raccolta di Verardo Marcellino, Roma 1493.

138.  Fin dal principio della pubblicazione dei quattro libri de’ Pontificali dell’Ambrosiana Chiesa erasi preposto (1619) «Miranda sedes (Metropolitanae) omnibus igitur nominibus exornata — ut omnem Italiam trahat in admirationem — illud etiam prope singulare habuit, ut armonica modulatione cum primis annumeraretur; caelestem ex mortali parte Musicen secuta, quae numinis aeterni praeconia concinit. Fovit itaque miris modis canoras voces, et per omnes temporum gradus spectata tali virtute Virum capita conquisivit, quorum industria, ne muto silentio, vel morte deperiret, fortiter contendit. Horum in numero postremus fuit Gabutius, quem mors invida sustulit, sed fama perennat, qui modulationes multas Ecclesiae Ambrosianae peculiariter accomodatas reliquit. — Hujus in locum suffactus est Vincentius Pellegrinus, qui studio et labore non mediocriter huic Ecclesiae profuturo, non solum Gabutij, sed aliorum etiam praestantium Virorum modulationes, suasu hortatuq. nostro collectas in ordinem, et methodum redegit, pluresq. addidit eiusdem generis aere ingenti praedictae Fabricae in lucem editas, ut quam lucem sospes Gabutius ex industria sua est assecutus, eadem Pellegrinus aequali labore compararet, etc.»

Curiosa poi per la forma è un’altra lettera preposta al Secondo Choro per Alto e Basso, del Gabuzio, del 16 decembre 1669, che per l’originalità del documento crediamo notare.

«Eminentiss. e Reverendiss. signore e Patron Coll.

»Ecco consagrati al nome di V. Em. questi musici componimenti, che resi ugualmente divoti dalla qualità della materia, e dall’humiltà dei nostri ossequj con metro di ben aggiustate note fanno ritratto della perfetta consonanza, quale si gode nel suo pastorale e zelante governo.

Furono formati all’idea della celeste hinnodia, acciò si gustassero qui in terra le melodie de’ Serafini nel Cielo, e per corrispondere all’ardente brama di V. E, che vorrebbe trasformare li suoi Popoli in Angioli, e convertire le sue Chiese in Paradisi.

Di varie voci sono intrecciati, per invitare con il Regio Profeta ogni Creatura ad applaudere alle glorie dell’Altissimo, e perciò si presentano a V. Em., come a quello, che chiama a sè tutte le voci della fama per decantare li suoi nobilissimi pregi. E perchè il lor fine si è di far risplendere in questa Augustissima Metropoli l’ineffabile grandezza d’Iddio, dovevano perciò prendere i lumi dalla Maestà d’un Vice Dio, che su la fronte di V. Em. lampeggia.

Non saranno già sprezzevoli, benchè si vedessero nati da un Grancio, perchè ciò fu, acciò portassero seco la gravità condegna, e camminassero con passo retrogrado alle profane canzoni dai sagri Tempij eliminate.

Riusciranno però anche armoniosi, tanto più accompagnati al concento delle virtù di V. Em. e ribomberanno maggiormente alla presenza della sagra porpora, come più canori si fan sentire li augelli alla vista del Sole. Che se di questi cessa il canto, quando sì gran Pianeta s’alza al meriggio, V. Em. pure sollevata all’apice del Vaticano, come si spera, renderà mutole le voci per stupore; ma sarà perfetta musica il solo Basso della profondissima adoratione di tutto un mondo etc.

Il Rettore e Deputati della Vener. Fabric. del Duomo di Milano.»

139.  Harmonicorum libri — De Cantibus, propositio XVII. — 1635.

140.  Risposte del Corelli al cardin. d’Estrées ed al Sassone Handel.

141.  «Imperciocchè a chi conviene una tale giubilazione senza parole, se non all’Essere ineffabile, quando non si può tacere nè si trova ne’ trasporti dell’anima niente che li esprima, se non suoni inarticolati?» S. Agostino.

142.  «Le arie di L. Rossi presentano già la forma a Da capo, o seguono quella a Strofe.

«La Gelosia offre il più alto sviluppo della forma a strofe. Però tutti gli sforzi di possenti genj erano insufficienti a drammatizzare l’aria sotto alla forma fino allora adottata, ed era quindi necessario di far nuovi tentativi di progresso, rompendo ed alterando i limitati confini, imposti dalla convenzione scolastica.» — S. De Castrone — Marchesi.

143.  Storia della Letteratura: XV.

144.  Ciò peraltro specialmente pei canti applicati al violino.

145.  Morì più che ottuagenario nel 1764. L’Accademia di musica gli fece celebrare una Messa in cui si cantarono i pezzi migliori delle sue opere, prendendovi parte tutte le celebrità di Parigi.

Lasciò un Trattato che accenneremo fra i Metodi.

146.  Vedi Catalani, Dell’Opere di A. Stradella.

147.  Morì componendo sul cembalo, come Pergolese, d’anni 50, verso la metà dello scorso secolo.

Le sue composizioni, come quasi tutti i preziosi autografi dei celebri maestri napoletani sono in quel Conservatorio, per tali raccolte il più rinomato d’Europa dopo quel di Berlino.

148.  La collezione delle sue opere fu portata in Francia dal Selvaggi. Una magnifica riproduzione tratta da quella prima, vidi negli archivi del Conservatorio di Parigi.

149.  La qual’opera allora, ebbe a Roma successo più favorevole dell’Olimpiade del Pergolese, onde questi accuorato si morì di etisia nelle braccia di Feo suo maestro, ultimando appunto il suo Stabat, innanzi alla spinetta; da cui la bella tela del napoletano Ferd. Ruggeri.

150.  Gius. Barini. Firenze 19 giugno. La Scena.

151.  Guido Tacchinardi. Nel Sistro, giugno 1870.

152.  Portogallo, autore della Semiramide, Puccita, delle Tre Sultane, imitatori di Paisiello.

153.  Morì in Venezia il 3 gennajo 1784, d’anni 79. È sepolto in S. Vitale.

154.  Poesia del celebre librettista veneziano Giovanni Bertati. Rappresentata la 1.a volta a Vienna nel 1792, due anni dopo davasi a Venezia nel teatro d’opera a S. Moisè.

155.  Vedi Oulibicheff Alessandro, Biograf. di Mozart e analisi delle sue opere principali. Mosca 1843.

Holmes Edward, Vita di Mozart. Londra 1845.

Da Ponte Lorenzo, Memorie. New-York, 1836.

156.  Vedi il Nuovo Diurno Italiano dell’Autore.

Morto Cimarosa l’11 gennaio 1801 e tumulato nella chiesa allora esistente di Sant’Angelo, colla demolizione di questa, estesa la piazza di quel nome, or si passeggia su quelle ossa; vi fosse almeno un debito monumento!

157.  Vedi Viaggi dell’Autore.

158.  Di questo singolare musicografo veggasi la raccolta rarissima di Cantate varie a voce sola, nella Marciana.

159.  Di tutti questi autori d’Arie, Duetti, e Musiche del secolo XVIII, conservanti due preziose raccolte alla Marciana.

160.  Vedi Virgilio, Egloga IV e VI. — Orazio, Ode XII, lib. 1.

161.  Vedi gl’Inni di Guerra di Tirteo, tradotti dal greco da Senuccio D’Oro. Roma 1871.

162.  Marco Meibomio ha raccolti, tradotti in latino, e illustrati di note, i trattati dei 7 autori greci: Aristoxene, Euclide, Quintiliano, Gaudenzio, Nicomaco, Bacchio ed Alipio.

163.  Vedi Westpal, sulla Musica Greca.

164.  Vedi Herder, Spirito della Poesia Ebraica. Schlegel, Stor. della Letteratura, Lez. IV.

165.  Vedi Principi Anagogici dell’Autore: Premesse. Tip. Naratovich, Venezia 1865.

166.  Ann. di Roma 817. D. C. 64.

167.  Anche il dott. Oscar Paul pubblicò in Lipsia un erudito libro: Dell’Armonia assoluta de’ Greci; e Bellermann diede anche una trascrizione di reliquie credute greche canzoni, che pure possono in proposito dar luce.

168.  Vedi Istitutions liturgiques par don Prosper Gueranger. Paris 1840.

169.  Si attribuisce al Palestrina l’aggiunta del nuovo tuono alla scala diatonica, il Si.

170.  Vedi una recente dissertazione in argomento dell’avvocato Ascoli di Genova.

171.  Jean De Murs — Théorie de la Musique.

172.  Fu detto anche De Muris o De Murs, o Meurs; ma negli antichi Dizionarj biografici francesi si tace il luogo de’ suoi natali, facendolo vivere soltanto verso il 1330 a Parigi.

173.  Muratori e Gaffurio ne fanno citazione.

174.  Lettera a M. Ubaldo Solustri.

175.  La Musica Sacra. Aless. Biaggi.

176.  Vedi sopra del Palestrina (1500).

177.  Edizione di Andrea Antico di Roma, che nel 1516 pubblicava una collezione di 15 Messe tra le migliori della scuola Fiamminga «easque incisis in ligneas tabulas notis (quod nullus ante fecit) nova imprimendi ratione sociorum sumptibus...»

178.  Paolo Sarpi, Le Storie del Concilio di Trento.

179.  La Canzone dell’Asino comincia: Orientis partibus — Adventavit asinus — Pulcher et fortissimus — Sarcinis aptissimus ecc.

180.  Vedi Orlando de Lassus, Theatrorum Musicum; Motetarum et Madrigalium libri; Liber Missarum. Monaco 1590.

181.  Prete Don Nicola Vicentino, nacque a Vicenza nel 1511. Da alcuni cenni su di lui dati dal Giornale Biografico di Vicenza per l’anno 1827, N. 1, contenente 17 Biografie de’ più eccellenti Musici Vicentini ed un Elenco di altrettanti, che sembrano meritare onorevole ricordanza, non rilevo se oltre d’essere Vicentino per nascita, e quindi coll’appellativo di quel luogo indicato com’era antico vezzo fra gli artisti, fosse poi Vicentino anche di suo casato.

Interpellato l’illustre Marchese monsig. cav. Lodovico Gonzati, esimio cultore di cose patrie, gentilmente mi riscontrava: «Se poi fosse chiamato Vicentino perchè appartenente a famiglia di tal cognome, o solo perchè nato a Vicenza non è chiarito dai nostri Biografi. Io sono di parere che fosse Vicentino anche per cognome, giacchè nella suddetta sua Opera da lui stesso pubblicata in Roma nel 1555 egli si annunzia nel frontespizio Don Nicola Vicentino, senza più, e così si sottoscrisse nella Lettera dedicatoria; come pure sotto il ritratto impresso in legno a tergo del titolo dell’Opera medesima, si legge: D. Nicolas Vicentinus, e parimenti Nicolas Vicentinus sta scritto interno alla medaglia con ritratto coniata in suo onore lui vivente, per lo istrumento da lui inventato detto Archicembalo

Intorno a tale istrumento scrissi nel Giornale La Scena di Venezia, 17 giugno 1869, N. 3 — Articolo sulla nuova Fabbrica di Pianoforti Mattarello in Vicenza. Da questo riscontrerassi l’errore incorso nella pretesa Storia del Pianoforte pubblicata da Giac. Ferdin. Sievers di Napoli, ove anzichè al Vicentino ed al Padovano, primissimi costruttori, si dà il vanto a’ stranieri.

182.  Freschius Joa. Argentorati 1535.

183.  Venezia nobilissima, 1663. Vedi Zarlino Opere. Venezia 1589.

184.  Dialogo della musica antica e moderna. Firenze 1584, pag. 88.

185.  Vedi anche di Marco Meibomio: Musicae antiquae auctores septem; Amsterdam 1652. — Ptolomeus Claudius: Harmonicorum, Oxonii, 1682. — Vedi Aristoxenus: Harmonicorum elementa; Venetiis, 1562.

Alardus Lampetro trattava de veterum musica a Schleusinga, 1636; Ornitoparchus Andrea, nel 1617 a Lipsia; Artusio Gian Maria avea scritto Sulle imperfezioni della Musica, a Venezia nel 1600; e Lodovico Casali da Modena, nel 1629, dava un Generale invito alle grandezze e maraviglie della Musica risorta; come Pier Gerolamo Gentile in Venezia, 1605, scrivendo Dell’armonia del Mondo.

186.  Angelini Bontempi Gio. Andrea, Historia musica nella quale si ha piena cognizione della Musica armonica.

187.  Il Card. Bona.

188.  Oz Musicos Portuguezez. Porto, 1871.

Fra le recenti guide didascaliche, è riputata quella del Panseron: Solfeos concertantes le duos, tres y cuatro voces dividos en tres partes.

189.  Oggi la Musica ha: il Dizionario biografico di Fétis, di cui parleremo più avanti. Quello Enciclopedico musicale di F. Tomicich. Il Dictionnaire lyrique par Clément et Larousse, biografico aneddotico, ma incompleto; e del primo autore, altre biografie isolate, Les Musiciens célèbres.

Sul far di quest’opere, è quella recente — La Musica ed i Musicisti del secolo X fino ai nostri giorni — biografie di musicisti e loro influenza nel progresso delle discipline fonetiche, di Amintore Galli, Milano 1872. Il medesimo autore pubblicò nel 1870, L’Arte fonetica, preceduta da un compendio storico e da investigazioni fisiologiche e psicologiche musicali.

Già esisteva in quest’ordine il Sistema armonico del Basevi. Il Codice delle leggi de’ suoni e armonie, di Amerino Barbieri. A History of Music, dello Stafford.

Si sta pubblicando inoltre in Udine dal Berletti — Studj di Allegorie armonico-religiose — lavoro sinfonico del maestro Cimoso.

Storie delle Rivoluzioni del Teatro musicale in Italia, dell’Arteaga. — Biografie de’ Compositori; Regli, in Torino.

Pompeo Cambiasi diede a Milano coi tipi Ricordi, 1872, una cronologia delle — Rappresentazioni date nei R. R. Teatri di Milano 1778-1872 — utile lavoro a rilevare le Opere e loro vitalità, gli artisti ed i loro successi, simile in parte alle memorie pubblicate dal Formenton pel teatro Eretenio di Vicenza, 1870. Il medesimo Cambiasi sta poi elaborando un Dizionario delle Opere in musica rappresentate in teatro dall’origine del Melodramma fino a noi.

190.  Metodo per violino.

191.  Veracini Francesco Maria è stato dopo Corelli il primo violinista del suo tempo, e Tartini dopo averlo udito si rimise a studiare due anni consecutivi, chè gli pareva a suo confronto un gigante.

Attorno quell’epoca anche Boccherini fu concertista e compositore.

192.  Vedi retro, a pag. 108, 254.

193.  The five great Monarchies of the ancient Eastern World. Rawlinson. Vol. II.

194.  Ne dà chiara prova la principale loro Canzone Empoungoua.

195.  Vedi la Niebelungenlied. Breslau, 1820 e seg.

196.  S. Odone, citato dall’Ab. Lebeuf — Traité hist. et pratique sur le Chant ecclésiastique: in cui il curioso passo «Diaphonia verum conjunctionem sonat quam nos organum vocamus, cum disjunctae ab invicem voces et concorditer et dissonanter concordat.»

197.  F. J. Fétis, Hist. gén. de la Mus. Introd. §. 1.

198.  Dufay, vantato da altri francese, viene dal Fétis ritenuto belga per nascita. Vedi di lui a pag. 64.

199.  Rameau morì a Parigi nel 1764, e fu sepolto in S. Eustachio accanto alla tomba del Lulli. Vedi nota a pag. 204.

Tartini nel 1770 a Padova. — Rousseau 1778 presso a Parigi. — Martini nel 1784 a Bologna. — Duni nel 1775 a Parigi.

200.  Quest’opera, parole e musica di J. J. Rousseau, ad imitazione italiana, fu ritenuta la sua migliore composizione cantabile, e ancora nel 1827, venia rappresentata a Parigi colle Opere di Gluck, Grétry, Kreutzer, Piccini, Spontini, Salieri, Mozart e Rossini.

201.  Vedi Angelino Bontempi, Istoria della Musica; e Rousseau, Dictionnaire, alla parola Voix.

202.  Non si confonda con Giuseppe Farinelli buon compositore già accennato, che appunto attorno a quest’epoca scriveva La Vergine del Sole.

203.  Fu avo materno di Maria Taglioni contessa Gilbert, e del coreografo rinomato di quel nome e maestro e scrittore Ferdinando Taglioni.

204.  Anche le famose sue percussioni, le chiama: la stessa nota legata e ribattuta da colpi di gola.

205.  J. A. Herbst. Francfurt, 1658. — Johan Samuel Petris. Leipsig, 1767. — Anleitung zur practischen Musik.

206.  Saggio fondamentale di contrappunto sopra il canto fermo, Bologna, 1774.

207.  Donizzetti ebbe la prima istituzione dal Mayer che venerò qual padre, passò poi a Bologna a perfezionarsi cogli studj del Mattei.

208.  Il Rapporto del Cap. d’Argy, conferma che il Chevé ha cominciato e fatto il suo sperimento (25 aprile 1843) sopra soggetti fornitigli dalla sorte, tutti ignari di conoscenze musicali, molti ripugnanti, e nella massima parte analfabeti.

209.  Lettere del cav. L. F. Casamorta ai promotori del Congresso, 23 agosto 1864.

210.  Per gli avvenimenti politici del 1870, riportato il VII Congresso nell’anno seguente, non pertanto la relazione del maestro Caputo fu pubblicata.

211.  Candiotti di Cividale, maestro al Tomadini — Scritti inediti.

212.  Luigi Mascitelli di Napoli, La Teorica musicale svolta razionalmente ne’ suoi principj e nelle sue pratiche applicazioni. In corso di pubblicazione.

213.  Système général des intervalles des sons. Paris 1701.

214.  Dissertation sur la Musiq. mod. Paris, 1743.

215.  Riflessioni sopra alla maggior facilità che trovasi nello apprendere il canto con l’uso del solfeggio di 12 monosillabi atteso il frequente uso degli accidenti. Venezia, 1746.

216.  Vera idea della musica e del contrappunto. Roma, 1794.

217.  Torino presso Giudici e Strada, recente edizione.

218.  Opera prossima a sortire in Napoli, in seguito alla Cronaca d’un respiro, che il medesimo autore ivi pubblicò (Giugno 1871) per introduzione al suo metodo di canto.

219.  Vedi Atti dell’Acc. del R. Istitut. Mus. Anno VII, 1869.

220.  Lavoro del M.º Caputo in corso di pubblicazione in Napoli.

221.  Manuel de mus. voc. et instrum. Choron. pag. 89, 96 nota a.

222.  «Trattasi di creare il canto popolare dell’artigiano e non di formare l’artista.» Rapport de Conseil Municip. de Paris sur l’introduction du Chant dans les écoles communales, 6 mars 1836.

223.  A. B. Marx autore del Vollständige Chorschule.

224.  Wilhem autore delle nuove tavole di lettura musicale e canto elementare. — Curven, del Tonic Sol-fa Method. Londra.

225.  Vedi Rawlinson, The power of music.

226.  Segond, Igiene del cantante.

Mantegazza, Igiene del sangue.

Secchi, Della Musica de’ Greci nella educazione ecc.

Gallico, Leggi igieniche del cantante in seguito alle sue norme.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

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