The Project Gutenberg eBook of Storia degli Italiani, vol. 9 (di 15), by Cesare Cantù This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Storia degli Italiani, vol. 9 (di 15) Author: Cesare Cantù Release Date: May 9, 2023 [eBook #70722] Language: Italian Produced by: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DEGLI ITALIANI, VOL. 9 (DI 15) *** STORIA DEGLI ITALIANI PER CESARE CANTÙ EDIZIONE POPOLARE RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI TOMO IX. TORINO UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE 1876 LIBRO DUODECIMO CAPITOLO CXXVII. Prospetto generale. — Il Savonarola. Nè idolatri del passato, nè abbagliati dal presente, e confidenti nell’avvenire, seguendo con attenzione e sincerità l’evoluzione di quel fatto complesso che si chiama incivilimento, specialmente nel nostro paese, abbiamo veduto dallo sciogliersi dell’impero romano cominciare uno sminuzzamento, che la sovranità restrinse perfino a villaggi e a semplici castelli. Carlo Magno tentò agglomerarli per mezzo della Chiesa e del sistema benefiziario, divenuto poi feudale: e la rinnovazione dell’impero d’Occidente ricollocò il rappresentante e l’eletto dei Romani sopra ai baroni conquistatori e ai re stranieri, non già con un dominio a modo degli antichi augusti, ma con un patronato. Nella gerarchia di quella società universale che chiamavasi cristianità, il solo imperatore possedeva la delegazione imperiale, fin quando Filippo il Bello di Francia, nell’intento di contrariare la Chiesa, pretese regnare per grazia di Dio. I baroni, investiti del suolo e della sovranità territoriale, prestavano omaggio al caposignore, del resto operavano indipendenti; e tali si resero pure i vescovi e le città, fosse allo scopo di garantire le antiche consuetudini, fosse per usufruire le franchigie feudali. Tale sistema si svolse ne’ secoli, che, anche dopo tanti studj, malissimo sono conosciuti, sì per le menzogne di quei che in essi vogliono osteggiare il presente o ribramare un passato irremeabile; sì per la frivolezza dei manovali della letteratura che, superbamente drappeggiandosi ne’ pregiudizj, sentenziano ad aneddoti ed epigrammi; sì per la reale difficoltà d’intendere, nella regolarità impersonale delle odierne società, quei tempi di piena indipendenza personale, quando di leggi tenevano luogo le consuetudini locali, la promessa, l’omaggio, in una graduazione dove ciascuno obbediva soltanto al superiore immediato, secondo convenzioni stipulate. La libertà non era però un diritto, sibbene un privilegio, e mancava di rappresentanti e d’un tutore universale. Ogni terra aveva un signore diretto e un signore utile: ma non v’erano sudditi nel senso odierno, cioè accomunati di leggi, d’amministrazione, di giustizia; ciascun feudo, ciascuna comunità, ciascuna classe, ciascun’arte regolandosi con particolari statuti. E principi e Comuni cercarono forza col sottomettere i vicini disgregati ed emuli; donde le guerricciuole che si deplorano come fratricidj, e che erano sforzi verso una pacificazione sociale meglio sistemata. Non che respinto, l’imperatore era venerato qual rappresentante della giustizia; consideravasi libertà il dipendere da lui, anzichè da baroni; città imperiale, privilegio imperiale, equivaleva a libero[1]. Unico potere centrale, e per origine superiore a tutti era il papa, venerato quasi come i cesari antichi, sebbene non divinizzato com’essi; e che armato soltanto delle due chiavi, al governo militare opponeva gli eterni canoni del giusto e del vero. A lui aderivano gli ecclesiastici di tutta cristianità, forti nel diritto loro speciale, nei privilegi di fôro, nella connessione con Roma e tra loro: e poichè nella Chiesa trovavansi giustizia, pace, consolazioni, dottrina, essa preponderava sopra l’opinione ed anche sopra i governi, e le sue quistioni erano le sole d’interesse generale. Perocchè, come in un giorno di rivoluzione ognuno prende le armi, e al potere caduto si surroga chi ha la confidenza del popolo e la propria; così alla sfacciata autorità secolare era sottentrata l’ecclesiastica, valendosi delle forme consuete, adottando fin i pregiudizj de’ Barbari per meglio modificarli. Se esaminiamo tale gerarchia, ecco principi che poteano abusare da tiranni, ma non dominare assoluti, giacchè non aveano eserciti stabili, ma bensì a fianco e nobili ed ecclesiastici con diritti protetti dal tempo e dall’unione. Ecco vassalli, simili a piccoli re, mentre gli altri signori drizzano ogni studio ad obbligarli a somministrar uomini anche per la guerra esterna, poi a sottoporre al loro appello la giustizia locale. Ecco semplici nobili, che o traevano lustro da cariche e dignità, qualche volta ereditarie, o possedeano feudi non sottoposti ad altra giurisdizione che del principe. I popolani erano liberi di lor persona, non tenuti cioè se non agli obblighi che avessero assunti espressamente o tacitamente; quasi dappertutto poteano acquistare terre nobili, senza per questo salire alla nobiltà. Collo stabilirsi de’ Comuni aveano ricuperato la libertà anche i villani, quantunque rimanessero legati a qualche servigio di corpo o a comandate, come di cavalli pei corrieri, di carriaggi per la guerra, di restauri alle strade. Servi della gleba o tagliabili, affissi ai poderi e venduti con essi, rimaneano soltanto là dove ai Comuni era stato impedito lo svilupparsi, come nel ducato di Savoja; e colà stesso divenivano franchi se dimorassero un anno e un giorno in un Comune libero. A differenza degli antichi, non derivando dal terreno ma dall’industria la civiltà nostra, questa portò l’indipendenza delle città, mentre i territorj restavano ancora feudali (_il contado_). In conseguenza la libertà del medioevo differiva da quella degli antichi, e da quella che oggi intendiamo: allora riponeasi nel prender parte immediata al governo; da noi, imitando gl’Inglesi, nel proteggere i diritti individuali dall’intromissione governativa. Esistenza disordinata e tormentosa sì: ma forse altro è la vita? A conciliare la libertà dell’individuo con quella del governo non riuscirono; ma forse non è questo il problema, attorno a cui tentona affannosamente la nostra generazione? Non da teoriche astratte o da concatenate induzioni, ma dalla storia era venuto fuori quel governo, temperato da tre corporazioni indipendenti, clero, nobiltà, città; le due prime invigorite dal tenersi collegate con quelle d’altri paesi, almeno per ispirito di corpo; le città invece dall’isolamento. Per accentrare i poteri in un capo, fosse individuo o collettivo, bisognava rimovere questi elementi estranei, interpostisi fra il principe e i sudditi: e tale è l’opera a cui faticò il XVI secolo, detto del rinascimento perchè le rinnovazioni, lente per addietro, arrivarono in folla l’una traendo l’altra, l’attenzione si affissò a tutti i punti, i raffinamenti delle lettere e delle arti si propagarono anche al vivere, l’esame dalla disciplina letteraria si allargò sulla ecclesiastica, e il raziocinio non s’arrestò neppur davanti alla fede. Quasi un giovane emancipato, il mondo non parve sentire che le gioje dell’attività; — O secolo avventurato! (esclamava Ulrico Hütten) gli studj fioriscono, gl’intelletti si svegliano; è una felicità il vivere»; e questa baldanza di spirito, questa pienezza di vita ci trapelerà anche di sotto ai duri patimenti, de’ quali specialmente sofferse la patria nostra. Cominciando dall’esaminare il miglioramento, troppo vedemmo come la parte peggio amministrata de’ piccoli Stati fosse la giustizia. Ogni nazione passa per uno stadio sociale, dove la punizione del delitto è vendetta privata, nè la pubblica autorità vi prende parte: in alcune è attribuita alla divinità, quasi per consacrare le conquiste dell’ordine sopra la licenza. Dappoi non legislatori togati, ma rozzi pratici v’introducono regole: con _tregue di Dio e paci pubbliche_ si proibisce di far violenza in dati tempi e a certe persone: chi le trasgredisca rimane fuor della legge, cioè esposto ancora alla vendetta personale. Ne’ feudi, costituenti un ente morale, la personalità rivisse nelle guerre private; poi il diritto penale s’introdusse non come un magistrato di riparazione e di correzione, ma per sostituire la vendetta pubblica alla particolare, laonde erano alleviate e fin tolte le pene qualora l’offeso perdonasse o le parti si riconciliassero; ed ammessa la composizione, cioè il compenso a denari, il quale, allorchè sia dal legislatore determinato, cessa d’essere un mercato dell’onore degl’individui o delle famiglie, umilia il colpevole senza degradarlo, e lo riammette nella società, anzichè privarla d’un membro utile. Il concetto della repressione pubblica fu introdotto dal diritto canonico e dal romano. Il primo insinuava negli ordini barbari i dogmi generali ed eterni della giustizia; procedure comuni divennero i congiuranti, la pubblicità, le prove di Dio; l’asilo e il diritto di grazia, disordini in regolata amministrazione, riuscivano allora di benefico rimedio. Già nelle costituzioni di Federico II di Svevia proclamavasi che ogni giurisdizione deriva dal principe, che la civile deve star separata dalla criminale, che leggi e magistrati devono essere uguali per tutti: ma nè egli stesso vi si attenne, nè la pratica se ne generalizzò. Anzi, non discendendo più gl’imperatori per farsi coronare, erano cessate le assise e i placiti che teneansi in presenza loro o dei loro messi; cessata l’unica fonte generale d’autorità laica legislativa. Di rimpatto moltiplicavansi le giustizie locali e personali; i Comuni vigilavano che niuno fosse chiamato a giudizio fuor del proprio territorio; preti, nobili, Università, arti non riconoscevano che il fôro speciale; i feudatarj maggiori godeano il mero e misto imperio. Ma i principi s’erano industriati a trarre a sè la giustizia, ed oltre esercitarla direttamente nelle terre di loro spettanza, o eleggevano un vicario sovra proposta dei Comuni, o introducevano l’appello. Questo non era un nuovo grado di procedura, ma essendo essi forti e alti signori di molti feudi, in caso di negata giustizia accettavano il ricorso dei gravati, e proferivano un giudizio nuovo; poi si determinarono i casi in cui le cause doveano essere portate al principe. È vero che ancora e giudici e principi consideravansi, non quali ministri, ma quali arbitri della giustizia: pure dovettero studiare a renderla più sicura, più dignitosa e incorrotta. Spesso erano sviati sia dalla passione, sia ancor più dalla necessità d’impinguare il fisco quando si conobbe che la tirannia non era possibile senza eserciti; sicchè a tal uopo si ledeva la proprietà o colle esorbitanti imposte, o confiscando col pretesto delle colpe di Stato; i decreti dei duchi di Milano, men che ad utili provvedimenti e a migliorare l’amministrazione, tendono a consolidare il potere arbitrario; ne’ paesi sottoposti alla Savoja infliggevasi la confisca fin «per certi buoni rispetti», permettessi al reo di redimersi mediante un prezzo sborsato al principe, davansi moratorie per debiti. Quivi la giustizia si rendea non collegialmente, ma da un solo, retribuito dalle parti; e agli abusi credeasi riparare mandando attorno giudici straordinarj, che potevano sentenziare senza riguardo ai giudici naturali. Il pubblico ministero, cioè il magistrato che sostiene l’interesse della società innanzi ai tribunali promovendo l’accusa e la punizione dei delinquenti, e vigilando perchè la legge sia osservata e tutelato l’ordine pubblico, si vide in Italia prima che altrove; e l’_avogador del Comune_ a Venezia, già nel IX secolo investito d’autorità giudiziaria per le quistioni tra i privati e il fisco, divenne poi accusatore de’ rei, e sindacatore delle alte magistrature. Simili erano i conservatori delle leggi a Firenze; e n’è pur traccia in un giudicato della gran corte di Napoli del 1221. Ancora prima del XII secolo introducevansi statuti particolari, i quali poi furono ridotti in iscritto, e si mantennero anche dopo modificata o tolta l’indipendenza comunale. Erano ordini speciali, acconci alle convenienze civili e politiche di ciascuna comunità; mentre il diritto romano, contenente i dogmi di generale equità, applicabili negl’interessi e privati e pubblici, restava legge comune. A questo poteasi far richiamo anche a petto del forestiere: gli altri non valeano che fra gli accomunati, modificavano od abrogavano il diritto romano, ed erano interpretati alla stretta lettera. Il concetto legislativo v’è per lo più espresso imperfettamente, con locuzioni inesatte e vane ripetizioni, sminuzzandosi ne’ particolari anzichè generalizzare i concetti: spesso didattici più che imperativi, lasciano troppo all’arbitrio del magistrato; esprimendo una società casalinga, anzichè regolata da interessi universali e dalla forza, ove non è bisogno di grandi precauzioni perchè manca quel supremo stromento della tirannia, l’esercito stabile[2]. Innovazioni vi si faceano di frequente, ma non radicali; deduceansi dal bisogno istantaneo, non da norme generali e filosofiche; voleasi mantenere la distinzione delle classi, creduta base della civile convivenza[3]; voleasi rispettare certe forme anche dopo che aveano perduto il senso: facile soggetto di riso a chi ignora come le forme siano la prima espressione e l’ultimo rifugio del diritto[4]. Nel secolo XV l’erudizione, vagheggiando l’armonia dignitosa della città antica, rivelata nel _Corpus juris_, rese evidente la sconnessione dell’edifizio gotico: i popoli raccolti attorno ai principi non aveano più bisogno di domandare alla Chiesa regole per gli atti, protezione per gl’interessi, provvedendovi gli ordinamenti municipali e il diritto romano: il potere principesco affaccendavasi ad abbattere la feudalità, circoscrivere la giurisdizione canonica alle materie ecclesiastiche, e i municipj agl’interessi comunali sotto la vigilanza dello Stato. L’irreparato movimento de’ tre secoli precedenti avea fatto o che i nobili scegliessero alcuno de’ suoi, il quale coll’unirli li rendesse potenti ad opprimere il popolo; o che il popolo affidasse ad alcuno la sovranità onde sottrarsi all’oppressione dei molti. Ed essendo più facile contentare chi non vuol essere oppresso che chi desidera opprimere, i tirannelli si mostravano propensi al popolo, e impedivano le soperchierie dei nobili, non foss’altro per soperchiare essi a maggior vantaggio. La nobiltà non era ad un solo modo costituita. In Lombardia e in Toscana i feudatarj erano stati repressi dalle repubbliche, e accasatisi nelle città, vi s’abbellivano d’arti e di maneggi. Funesta vitalità conservavano invece nella Romagna e nel regno di Napoli, dove mescevano ambiziosi divisamenti e guerre parziali, o vendevano indecorosamente il valore. Però neppure nei due primi paesi i nobili erano pareggiati al popolo nella giustizia e nel concorrere alle cariche; potenti nell’accordo e nell’uso delle armi, cercavano soperchiarlo; questo a vicenda ergeva a loro contrasto le maestranze; e gli uni contrapponendo agli altri non l’eguaglianza, ma privilegi ottenuti od usurpati, e movendosi non per accordo d’interessi, ma per opposizione di questi, rendeansi impotenti a ben costituire una repubblica. Quindi moto continuo d’altalena, e «riforme fatte, non a soddisfazione del ben comune, ma a corroborazione e sicurtà della parte; la qual sicurtà non si è ancora trovata, per esservi sempre stata una parte malcontenta, la quale fu un gagliardissimo stromento a chi ha desiderato variare»[5]. Ogni governo tenea dunque la mira a sventare i feudatarj ed erigere i cittadini, onde nell’eguaglianza ottenere quella centralità di poteri che desse la forza; men tosto per raziocinio che per istinto sentendo «che alcuna provincia non è mai unita e felice, se la non viene tutta all’obbedienza d’una repubblica o d’un principe, com’è avvenuto alla Francia e alla Spagna»[6]. I nostri n’erano ben lontani. I signorotti, che aveano ereditato delle antiche repubbliche, stavano attenti a conservarsi, ma dal crescere li rattenevano tre barriere, i baroni, il popolo, le vicine repubbliche: talchè insufficienti a regnare, bastanti a impedirne altri, versavano continuamente in contrasti, inganni, violenze. Costituire freno ai prepotenti e tutela ai deboli doveva essere scopo comune; ma parve che tutti i mezzi vi fossero spedienti, e troppo avremo a vedere quanto se ne scegliessero di scellerati. Intanto proseguivano tutti gli atti del dramma storico del medioevo; l’indipendenza comunale, il concatenamento feudale, le città suddite a città, il principato civile, il principato ecclesiastico, il capitano di ventura, le guerricciuole; ma fra loro faceansi strada il soldato gregario, la grande conquista, la raffinata letteratura, la politica sottile nelle arti, estesa nel concetto. Supremo intento professavasi la pace, e credeasi assicurarla fra le provincie mediante il principato, fra i principati mediante l’impero: ma quest’unità materiale sotto un individuo dispensava dal cercare l’unione degli spiriti, la concordia morale; all’originale affaccendarsi degl’individui si sovrapponea quella astrazione che chiamasi Stato; smarrito il vecchio ideale, cercavasi penosamente il nuovo, cioè quella ragion di Stato che è calcolo d’interessi positivi per cui si devano collegare o nimicare i governi, o d’interesse di principi che non riguardano più all’intera cristianità, sì bene alla propria famiglia. E appunto il sovrapporsi militarmente della monarchia alle sminuzzate signorie fu l’opera di quest’età. Coi principati non era venuta la quiete, non l’ordine, non l’eguaglianza di tutti in faccia alla legge; vacillando l’ordine della successione quando non poteasi invocare la legittimità da dinastie sorte di fresco, nè riconosciute che di fatto, ad ogni vacanza disputavasi del dominio, e chi l’usurpasse sapeva di poterlo far legalizzare dai sofismi o dalla forza. Costretti a conservarsi in mezzo a nemici, i tiranni non badavano a moralità di mezzi; e alle corti anche de’ migliori poteasi avere scuola di politica tortuosa, di corruzione, di perfidie. L’inganno credeasi ragionevole arte di vincere, nè facea vergogna più che ai Beduini il rubare e ai Romani il tenere schiavi e gladiatori; errore di raziocinio, più che malvagità d’animo; e il Machiavelli professa che pei grandi uomini è vergogna il perdere, non il guadagnare coll’inganno. Di tal passo procedeano Luigi XI in Francia, Enrico VII in Inghilterra, Ferdinando in Castiglia, Giovanni II in Portogallo, Giacomo IV in Iscozia, terribili iniziatori che non faceano divario di mezzi nell’abbattere il passato, e restringere nell’unità nazionale i confusi elementi del medioevo. L’Italia, perchè centro delle negoziazioni, maggiori esempj offriva di quella politica, di cui fu accusata inventrice, e rimase vittima. Buoni principi v’erano, ma non istituzioni che il bene perpetuassero; e quel fiero pittore dell’età sua, il quale osò dire ciò che gli altri osavano fare, soggiunge: — I regni, i quali dipendono solo dalla virtù d’un uomo, sono poco durabili, perchè quella virtù manca con la vita di quello, e rade volte accade che la sia rinfrescata con la successione: onde non è la salute di una repubblica o d’un regno avere un principe che prudentemente governi mentre vive; ma uno che l’ordini in modo, che morendo ancora la si mantenga». Concentrati gli affari ne’ principi e ministri, nacque la politica di gabinetto, e la necessità di vigilarsi reciprocamente, di combinare alleanze, di mantenere ambasciadori, col che la diplomazia divenne stromento primario di conciliazioni e di nimistà. Costituivano le entrate pubbliche i proventi de’ beni particolari del principe; i censi in natura e in denaro, retribuiti dall’infinita varietà de’ livellarj; quel che pagavasi ond’esser esenti dai servigi personali e reali, dalle comandate, dagli alloggi; le regalie della moneta, delle miniere, delle acque, de’ benefizj e vescovadi vacanti; le tasse di chi acquistava uffizj e cariche, e specialmente quelle di finanza, occasione di guadagno; le dogane e i pedaggi e dazj sulla vendita a minuto; le propine per cause civili, e le multe o composizioni per criminali; le successioni che ricadevano al principe; i censi imposti agli stranieri, agli Ebrei, ai prestatori onde avessero protezione come i cittadini; i donativi volontarj, massime per nozze, battesimi, successione; i canoni, mediante i quali i Comuni, le corporazioni, gl’individui otteneano franchigie; la tassa diretta, variamente compartita, dove secondo il numero de’ fuochi, dove secondo le teste, o a proporzione del sale, o dei cavalli che si doveano alloggiare, e variante secondo la condizione delle persone o le costumanze del Comune. In gravi occorrenze metteasi un’imposta sopra i beni clericali, col consenso del papa, o si stornavano a uso pubblico i legati di opere pie. Altre volte domandavansi sussidj, che i Comuni o i corpi non osavano negare, e dei quali talora erano stipulati previamente l’importare e l’occasione. Restava poi una fonte più copiosa, le confische, colle quali, oltre impinguar l’erario, debilitavansi le famiglie che davano ombra. Insomma la finanza diveniva potente stromento di tirannia, e non sorretta da buoni ordini amministrativi, limitavasi a cumular denaro da spendere in armi non cittadine, che della tirannia erano l’incentivo e l’appoggio. Così, mentre nel medioevo almeno in diritto era riconosciuta la superiorità della coscienza all’opinione, della giustizia alla forza, allora la politica si ridusse in un’arte di giungere al potere e conservarvisi per qual fosse modo, senza lampo di generosità. Pertanto nel Cinquecento troveremo molte belle opere, poche belle azioni; e il dipingerlo come un secol d’oro è menzogna, o volgare di chi, dolorando del presente, immagina beatissimo il passato, o letteraria di chi vuol crescere l’effetto delle tenebre antecedenti coll’opporvi sprazzi di luce limpidissima. Per vero in Italia sopravvivevano i resti dell’antica civiltà, ed avea progredito a gran passi la nuova, della quale vi stava il nerbo col pontefice; qui sapere diffuso e riverito, qui dotta agricoltura, qui estesi commerci, qui fortune più avventurose, qui lusso raffinato; gli stranieri, come per devozione pellegrinavano alle soglie degli apostoli, così venivano, romei dell’intelligenza, a cercar qui ispirazioni, esempj, compimento d’educazione, ardore di letterarie ricerche, franchezza di ragionare, sperienza di civili franchigie, per illuminare poi le patrie loro coi raggi della nostra. L’amor delle lettere si reputava dovere dei principi: retori e grammatici educavano i signori, portavano ambasciate, conducevano trattati: lo studio dell’antichità forbiva le scritture e ornava gli edifizj, senz’avere ancora incatenato a servile imitazione: ogni evento dava motivo a feste e comparse, ove sfoggiare di lusso e buon gusto. Insomma era indisputata la nostra superiorità d’arti, di cultura, d’opulenza. Ma il carattere nazionale si svigoriva; coi Comuni si spegneva la fede in se stessi, l’orgoglio personale, lo spirito di dignitosa resistenza; il servire a despoti fiacca gli animi, quanto li rinvigoriscono la legittima obbedienza e l’obbligo di proferire il proprio pensamento sugl’interessi e sugli atti della patria. I principi soli si moveano; il popolo, escluso dagli affari, si volse all’industria, alle arti, alle lettere: ma se ciò toglieva quei sommovimenti interni, che formano la parte drammatica dell’antichità e del medioevo, è pur vero che al patriotismo ed al coraggio sottentrava nelle moltitudini una pazienza incurante ed egoistica, cercando sicurezza nell’oscurità, acquistando gran concetto della forza quando questa predominava sopra un vulgo inerme, che non vedeva alcun elevato scopo a cui aspirare e per cui morire. Quindi millanteria e vanità senza virtù, devozione senza fede; sperperavansi i mezzi invece di usarne; s’inorgogliva del passato, e si provocava a duello chi tacciasse di viltà la nazione, ma non si facea ciò che sarebbesi richiesto per conservarle la superiorità. L’irreposato movimento avea fatto prevalere la ricchezza mobile sulla territoriale, comunicato la cultura, i possessi, l’autorità della classe media, desti gl’ingegni e ingagliardite le volontà: ma nella lotta le forze si stancarono, ancor più che non si logorassero; ad una libertà imperversante molti preferivano una servitù promettitrice d’ordine; altri invece considerando la monarchia come antitesi della libertà, l’aborrivano e cercavano abbatterla, anzichè ponderare i modi d’acconciarla al meglio di tutti o dei più, o a volgere il dominio, la coltura, l’operosità di pochi a vantaggio dei molti. Aggiungete eterogenei elementi storici d’un’erudizione che opprimeva le speranze sotto il peso delle memorie, e all’Italia sorgente contrapponeva il fantasma dell’Italia evocata. Mille contrarietà insomma impedirono che ad una gioventù precoce seguisse una salda virilità, e che uni nel bel cielo e nella favella, gl’Italiani creassero quella concorde opinione, ch’è indispensabile all’unità nazionale, fosse in una federazione, o nella monarchia. Le cose non sarebbero forse camminate peggio che altrove se non vi si fossero mescolati gli stranieri, sconcertando quell’artifizioso andamento, e l’avvicinarsi dei maggiori pianeti non avesse trascinato come satelliti nel proprio vertice i piccoli Stati nostri. Allora alle armi indigene sottentrarono Svizzeri briaconi, Spagnuoli superbamente rapaci, Francesi impetuosi e dissoluti, Tedeschi grossolani e sprezzatori; alle guerre cortesi la violazione d’ogni norma d’ospitalità, di decenza, fin d’umanità, e un inferocire brutale non per uno scopo e sovra persone cospicue, ma alla rinfusa e per l’unico diabolico intento di tormentare e distruggere, pel brutale puntiglio di soverchiare quelli, nei quali non si riusciva a spegnere la vita del cuore e dell’ingegno. La feudalità, fiaccata nel resto d’Italia, per la prossimità di Francia prevaleva ancora ne’ paesi soggetti ai duchi di Savoja, i quali da una parte tendeano a sottomettere i vassalli, dall’altra ai Comuni concedettero solo qualche franchigia, che gli assimilava piuttosto ai municipj antichi, e non li lasciò sorgere a indipendenza come i lombardi. Essi duchi, stranieri d’origine, dal pendìo settentrionale delle Alpi dominavano anche la porzione che scende col Po e colla Dora, primo strazio di qualunque esercito calasse in Lombardia. Le Alpi adunque non limitavano ancora il paese italico a questo lato; Tedeschi e Carinti vi s’erano introdotti dal Friuli fino al Tagliamento, e dal Tirolo fino al lago di Garda; dalle alpi Lepontine e dalle Retiche vi si spingevano Svizzeri e Grigioni. Nell’alta Italia preponderava il Milanese, e avrebbe potuto unirla tutta se i suoi capi fossero stati virtuosi almen nel senso del Machiavelli. Lo circondavano molte piccole signorie; il principato di Monaco a mezzodì del Piemonte, là signoria di Massa a maestro della Toscana, la contea della Mirandola a greco di Modena, Borso d’Este aveva ottenuto da Federico III imperatore i titoli di duca di Modena e Reggio e conte di Rovigo e Comacchio, e da Paolo II quello di duca di Ferrara. Il Mantovano, confermato da Lodovico Bavero ai Gonzaga, poi da Sigismondo eretto in marchesato, comprendeva le signorie di Bozzolo e Sabbioneta, mentre altri rami di quella casa principavano a Castiglione, a Solferino, a Novellara, a Guastalla con Montechiaruggolo. Unica dinastia forestiera, la aragonese possedeva il Napoletano, lo Stato più esteso eppure il più debole fra gl’italiani, essendovi il re Ferdinando aborrito pei modi con cui avea represso la congiura dei baroni (tom. VIII, pag. 292), aborrito il primogenito Alfonso di Calabria perchè consigliatore supposto delle immanità, colle quali però non aveano tolto di mezzo tutte le giurisdizioni signorili. Fiaccate le forze, sparsa diffidenza e speranza di cangiamenti, i Sanseverino e i Caldóra coll’istancabilità di fuorusciti seminavano odj per Italia e tenevano intelligenze dentro, mentre il popolo, non meno sofferente sotto gli Angioini che sotto gli Aragonesi, non sentivasi disposto a combattere per nessuno. Ferdinando il Cattolico agognava quel regno, ma poichè da ciò sarebbe stato guasto l’equilibrio politico, ne nacquero le guerre che finirono col versare sull’Italia chi dovea funestamente deciderne le sorti. La Sicilia implorava indarno di essere considerata regno distinto, non provincia dell’Aragona. Di là erale mandato un vicerè triennale, sotto cui stavano i capi della cancelleria, o vogliam dire segretarj di Stato, i magistrati della magna curia, un gran consiglio di tutti gli alti dignitarj del regno, baroni e prelati. I vicerè, sedenti or qua or là sinchè fissaronsi a Palermo, da frequenti istruzioni segrete trovavansi avvinti, nè cosa di conto poteano conchiudere senza l’avviso del re; mentre invece erano arbitri sopra i sudditi e i funzionarj; e facendo essi anche da capitano generale, rendeano superflui il gran connestabile e il grand’ammiraglio, quasi sempre stranieri. Le altre cariche di mastro giustiziere, mastro cartario, protonotaro, gran siniscalco, gran ciambellano più non erano che vane decorazioni a primarie famiglie siciliane od aragonesi. Sopravvivevano però i parlamenti nazionali, che esponevano i bisogni del paese, e contrappesavano questi vicerè, i quali appena restavano nell’isola tanto da conoscerla e spoverirla. Per ultimo malanno l’Inquisizione spagnuola vi fu piantata il 1513 da Fernando il Cattolico. Nel periodo della preponderanza ecclesiastica, l’autorità pontifizia fu tutt’altro che dispotica. Non solo trovavasi temperata nello spirituale da concilj e dal concistoro de’ cardinali, il cui parere soleva chiedersi e addursi negli affari di maggior rilievo, anche temporali; nel conclave soleasi imporre condizioni al papa eligendo, benchè mancasse il modo di fargliele osservare dopo eletto. Lo Stato, conteso, perduto, ricuperato più volte, e che stendeasi da Ancona a Civitavecchia, da Bologna a Terracina, oltre Benevento nel Regno, e in Francia il contado Venesino e la città d’Avignone, era spartito fra un’infinità di signorotti, di conventi, di Comuni, di prelati, connessi unicamente dalla supremazia papale, e nel fatto indipendenti a misura della lor forza; e poichè quivi dal municipio non furono soggettati mai i baroni pienamente com’era avvenuto in Lombardia, quegli or parteggiando pel papa, ora per l’imperatore, si sosteneano colle armi e coi tradimenti, a reprimere quelle turbolenze non bastando la mano d’un principe elettivo e prete[7]. Quando sentivano sfuggirsi l’Europa, i papi avrebbero potuto abbracciare l’Italia, formando una federazione che non sarebbe stata da meno di veruna potenza europea: ma neppure della penisola erano omai a capo, nè rappresentavano il partito guelfo e l’indipendenza; ed impigliati negl’interessi del dominio temporale dacchè su questo appoggiavano lo spirituale, e sovente occupati a procurare uno stato ai proprj nipoti, dovevano orzeggiare; mentre dal cozzo colle autorità terrene scapitava l’autorità religiosa, sempre meno riverita principalmente nell’alta Italia[8]. Vero è che il pontefice avea svelto da Roma ogni rappresentanza municipale, compresso i più potenti baroni del territorio, Colonna e Orsini, ridotto gli altri a secondarlo nelle imprese; nel regno di Napoli tenea sempre gran mano, come alto signore; e la tradizionale destrezza diplomatica gli assicurava molto peso nella bilancia politica, della quale Roma rimase ancora il perno per tutto questo secolo. Radicatasi la dinastia degli Sforza a Milano e degli Aragonesi a Napoli, lunga pace succedette, conservata non più per la superiorità di qualche idea morale, ma per un equilibrio di forze, bilanciato ne’ gabinetti; e gli accordi di frà Simonetto e la lega di Paolo II provano come si sentisse il bisogno di congiungere le forze a difesa comune. Ma ambizioni e invidie lo impedirono; e morto il magnifico Lorenzo, attentissimo a mantener l’equilibrio, si scatenarono l’egoismo e l’astuzia. Malgrado quest’esotica propensione ai principati, il governo repubblicano conservavasi in molte parti. Bologna, unica dell’antica Lega Lombarda, manteneva almeno il nome di libertà, pur obbedendo ai Bentivoglio: San Marino faceasi dimenticare per la sua esiguità: Siena e Lucca campavano in ristretta oligarchia. Genova possedea le due riviere da Ventimiglia fin oltre Sarzana, nè avea perduto tutti i possessi in Levante; ma sbolzonata fra i commercianti della città e i feudatarj della riviera, non parea sentire della libertà se non la fatica di cercarsi un sempre nuovo padrone. Venezia e Firenze erano salite al vertice della grandezza politica, l’una nel governo popolare, l’altra nell’aristocratico: ma Venezia, serrato il gran consiglio, si ancorò nella sua oligarchia; Firenze continuò ad agitarsi fra popolani e magnati: che se i popolani sotto i cenci de’ Ciompi furono vinti in piazza, il loro programma s’attuò coll’imposta unica e proporzionale, garantita mediante il catasto dei Medici, i quali riuscirono a sodare e abbellire la servitù. In Firenze erasi concentrata la vita di tutta Toscana. San Miniato, Volterra, San Geminiano, Colle, Cortona, San Sepolcro le erano sottoposte; Montepulciano alleato servile; Livorno, datosi a’ Genovesi durante la tirannide del Boucicault, le fu da quelli rivenduto per centomila fiorini; per cinquantamila Arezzo, sorpreso da Engherando di Coucy; dal Campofregoso comprò Sarzana, antemurale ai Genovesi; Perugia continuava a divincolarsi tra gli Oddi e i Baglioni, finchè venne disputata fra Toscani e Papalini. Della nobiltà campagnuola non rimaneano che i Farnesi nella maremma di Siena, i Malaspina in Lunigiana: Gerardo d’Appiano, vendendo Pisa a Gian Galeazzo, erasi riservata l’Elba, Piombino, i castelli di Populonia, Savereto e Scarlino, dal che cominciò il principato di Piombino, durato fino ai nostri giorni, e che abbracciava anche l’isola d’Elba. Le città assoggettate rimpiangeano la passata indipendenza; e il proverbio «Doversi Pisa tener colle fortezze, Pistoja colle parti», rivela con che atroci modi un Comune credeasi in diritto d’aggiogare l’altro. Pisa massimamente scoteva tratto tratto le catene, e per sottrarsi alla vicina avrebbe preferito servire a stranieri; e in fatti trattò di darsi alla Francia, patto che questa vi tenesse un governatore, nè a’ Fiorentini permettesse d’abitarvi o godervi privilegi, e le ricuperasse Livorno, Porto Pisano e il contado. Rifiutata, si esibì alla Spagna colle stesse condizioni, aggiungendovi che le entrate spettassero mezze alla Spagna mezze alla città, vi stesse un vicerè come in Sicilia, e i Pisani fossero in privilegi uguagliati ai sudditi spagnuoli[9]. Ah! della servitù straniera non aveva ancora fatto quella sperienza, alla quale sola i popoli sanno credere. Senza smettere le forme democratiche, Firenze erasi avvezza a considerare come padrona la famiglia de’ Medici, che da un secolo l’indociliva a decorata servitù. I capitali, che i mercanti utilizzavano fuori, costringeano la politica a riguardi e ad alleanze disopportune. Le fazioni non lasciavano di turbare il paese o per ambizione, o per leale affetto di libertà; e a tenerle in briglia si richiedeva forza o accorgimento, opprimere od illudere. Ma al magnifico Lorenzo, che avea voluto signoreggiare a cheto, e non conculcare ma sedurre la libertà, era successo il suo primogenito Pietro (1492), che, forzoso di corpo quanto fiacco di spirito, cercava riputazione di destrezza nel fare alla palla, e d’abilità nell’improvvisare; scarso di politici accorgimenti, parea dimenticare l’origine popolare della potenza di sua casa collo sceverarsi dai cittadini; e colle dissolutezze eccitava di quelle nimicizie che si covano, non si obliano[10]. Presero da ciò baldanza i malcontenti, e se ne fece organo Girolamo Savonarola. Nato nobilmente a Ferrara il 1452, da padre padovano e madre mantovana, già fanciullo cercava la solitudine e le campagne, dove sin colle lagrime sfogava la piena degli affetti; e i primi suoi versi furono gemiti sulla Chiesa[11]. Amando la libertà e la quiete, le cercò in un convento di Domenicani, dove entrò col vero spirito del monacismo, acconciandosi ad umili uffizj, e volendo restare converso acciocchè le scuole nol distraessero dall’istituto primo dei Predicatori: pure professato a Bologna, si segnalò per umiltà e penitenza, applicossi a studiar nelle fonti la parola di Dio, e andava «in diverse città discorrendo per la salute delle anime, predicando, esortando, confessando, leggendo e consigliando»[12]. In Lombardia, vedendo queste alte montagne, coronate di ghiacciaje, quasi guardiane poste da Dio al paese suo prediletto, e i colli degradanti nei limpidi laghi, sostava dalla pedestre peregrinazione, e sotto qualche albero sedevasi ad osservare, e indagava nella memoria qualche versetto di salmo che esprimesse il sentimento che gli abbondava nel cuore. Concionando a Brescia sopra l’Apocalisse, cominciò a mescere politici intendimenti, viepiù sentiti quanto peggio si stava. L’Ordine di san Domenico, malgrado qualche istante d’intepidimento, aveva continuato a produrre fervorosi predicatori. Quelli di Fiesole, riformati da sant’Antonino, eransi calati a Firenze, ove Michelozzo, a spese di Cosmo Medici, gli accomodò del convento di San Marco, presto arricchito di bellissima biblioteca e de’ dipinti di frate Angelico. Nel 1488 vi fu chiamato priore frà Girolamo; e inesorabile contro i peccati, mite coi peccatori, nella tranquillità e nel sereno naturale esprimeva la pace interna; rigorosamente povero, abbandonò fin quello che più diligeva, alcuni libri e immagini; portava abitualmente in mano un piccolo cranio d’avorio, per ricordarsi il nulla delle onorificenze umane; e credente come un frate, sagace come un tribuno e studiosissimo dei politici, associava devozione sincera a liberali intenti, volendo tutto pel popolo e col popolo. Predicava sotto un gran rosajo damasceno; e l’uditorio, scarso dapprima, forse per la sua pronunzia lombarda[13], crebbe a segno, ch’egli dovette trasferirsi in duomo, e sotto quelle vaste e ignude arcate fulminava l’abbominazione introdottasi nel santuario, i garbugli della politica, le profanità degli artisti. Quasi sbigottito di se stesso, proponea moderarsi, e — Testimonio m’è Iddio che tutto il sabato e tutta la notte vigilai, nè mai potetti volgermi ad altro. E sentii la mattina dirmi, _Stolto! non vedi che la volontà di Dio è che tu predichi in questo modo?_ E così in quella mattina feci una predica molto spaventosa». Ne avea di che, vedendo i fedeli non ascoltar più ai prelati, padri e madri allevare alla peggio i lor figliuoli, i principi opprimere i popoli e soffiare nelle loro dissensioni, cittadini e mercanti non pensare che al guadagno, le donne alla futilità, i villani al furto, i soldati alle bestemmie e ad ogni sorta delitti[14]. Fra i secolari, persone d’ingegno, di nobiltà, di sapienza umana, ignoravano le verità della fede, o si stomacavano della semplicità del catechismo e dell’obbrobrio del Calvario; artisti d’insigne nome aveano perduta la fede, e beffavano chi ancor la tenesse; le scuole divenivano pascoli avvelenati, dove ammirando solo le pagane virtù e spiegando gli autori più pericolosi, avvezzavasi alla lubricità prima che nelle Università si delirasse dietro ad una logica petulante e alle sottigliezze aristoteliche surrogate al buon senso e al vangelo. Intanto i prelati, non che correggere, pervertivano cogli esempj il loro gregge; i preti scialacquavano i beni della Chiesa; i predicatori spacciavano curiose novità. — Questa pecora smarrita, questa donna caduta in peccato, viene; Cristo l’ha perduta; il buon prete la trova, e deve renderla a Cristo; ma il malvagio la blandisce, la scusa, le dice: _So bene che non si può sempre vivere castamente, e guardarsi dal peccato_; poc’a poco la tira a sè, e l’allontana più che mai da Cristo. — Frate, non toccar questa corda. — Io non nomino alcuno, ma la verità bisogna dirla. Il cattivo prete l’adula, la trascina di modo, che la povera pecora perde la testa; non che renderla a Cristo, la tiene per sè. Se sapeste tutto quel ch’io so! cose schifose, cose orribili; e ne fremereste: e io non posso frenar le lagrime pensando che i cattivi pastori si sono fatti mezzani per condurre l’agnella in bocca al lupo. Non serve che preti e frati vadano ogni giorno a passeggiar sulle piazze e far visita alle comari; ma che studiino la Bibbia. Si son viste delle femmine vestite da cherici. E dopo notti passate nel vizio, che vuoi tu fare della messa?»[15]. Il frate commosso pregava istantemente dal Signore — Nota fammi la tua via»; e parvegli che la sua via fosse il riformare i costumi del clero, e mediante questi riformare il popolo. Nel suo convento introdusse una regola più severa, col divieto del possedere e d’ogni superfluità, e con maggiori esercizj di pietà e di studio, e sempre confermando i precetti coll’esempio; ebbe la consolazione di vestirne l’abito a persone primaje, a sei fratelli Strozzi, a cinque Bettini, fin ad alcuni Medici, a Pandolfo Rucellaj, gran tempo versato nelle pubbliche cose, a un Vespucci e ad un Sacromoro insigniti di dignità ecclesiastiche, a Zanobio Acciajuoli letterato e poi bibliotecario di Leone X, al professore di medicina Pier Paolo d’Urbino, all’israelita Blemet maestro d’ebraico a Pico della Mirandola, il quale pure avrebbe indossato quelle insegne se non moriva precoce. Fin tutti i monaci Camaldolesi mandarono offrirgli di cambiar le loro colle divise domenicane; se non che esso confortolli a perseverare nella loro costituzione. Riprovava i predicatori che si perdono in fronzoli, e appoggiandosi ad Aristotele, a Virgilio, ad altrettali autorità, «fanno delle futilità dei filosofi e della Scrittura santa un miscuglio, e questo vendono sopra li pergami, e le cose di Dio e della fede lasciano stare»[16]; e ripetea non doversi adoperar le scienze per dimostrare la fede, ma prendere la fede in semplicità; non dissiparsi in colloqui e ciancie, ma studiare la Bibbia e i Padri. In fatti Savonarola sceglie un testo, poi vi s’abbandona quasi d’ispirazione, copioso più che proporzionato, scurante del disporre o le frasi o i pensieri, e solo arricchendosi della cognizione preacquistata de’ sacri autori; ed anzichè ad aride distinzioni scolastiche, a citazioni, ad argomenti in forma, s’appoggia a prove di ordine soprannaturale; l’allegoria gli è quasi connaturata; l’arte di scrivere non conosce, sì quella di commovere e signoreggiare, e diceva: — Io non bado a verun artifizio di retorica, a verun ornamento; mi servo di parole semplici e vulgari; non mi occupo, lo sa Dio, del modo con cui parlo, nè del gesto o dell’azione oratoria. Mi basta aver l’occhio sui pensieri; per tutto il resto mi lascio condur docilmente dove mi portano l’ispirazione e il fervore dello spirito»[17]. E sempre a nome della Bibbia loda o minaccia, esalta o fulmina; passa dall’apologia personale ad impeti d’amor divino, dalla riforma de’ costumi a quella della Chiesa; e crede che, nel senso mistico, i libri sacri s’applichino non solo ai fatti generali della storia, ma anche ai particolari di ciascun tempo, qualora la grazia ajuti a combinare i testi. Ciò lo porta non solo a sottigliezze e interpretazioni forzate, ma a prolungare strani paragoni ed allegorie; come là dove i sette giorni della creazione mette a parallelo colla rivoluzione di Firenze. Ma spesso la sua eloquenza sgorgava dal cuore, e con effusione di lagrime, e cogl’impeti delle anime forti in complessioni delicate. Una volta gli ascoltanti rimaneano duri, ed egli non udendo i soliti singhiozzi, s’arresta, poi volgendosi verso l’altare, — Io non posso più, le forze mi mancano; non dormir più, o Signore, su quella croce; esaudisci queste orazioni, _et respice in faciem Christi tui_. O Vergine gloriosa, o Santi..., pregate per noi il Signore che più non tardi ad esaudirci. Non vedi tu, o Signore, che questi cattivi uomini ci dileggiano, si fanno beffe di noi, non lasciano far bene a’ tuoi servi; ognuno ci volta in deriso, e siam venuti l’obbrobrio del mondo. Noi abbiamo fatta orazione: quante lagrime si sono sparse, quanti sospiri! Dov’è la tua provvidenza, dov’è la bontà tua, la tua fedeltà?... Deh! non tardare, o Signore, acciocchè il popolo infedele e tristo non dica, _Ubi est Deus eorum?_... Tu vedi che i cattivi ogni giorno divengono peggiori, e sembrano omai fatti incorreggibili: stendi dunque la tua mano, la tua potenza. Io non posso più, non so più che mi dire, non mi resta più che piangere. Non dico, o Signore, che tu ci esaudisca pei nostri meriti, ma per la tua bontà, per amore del tuo Figlio... Abbi compassione delle tue pecorelle. Non le vedi tu qui afflitte, perseguitate? non le ami tu, Signor mio? non venisti ad incarnarti per loro? non fosti crocifisso e morto per loro? Se a quest’opera io non valgo..., toglimi di mezzo, o Signore, e mi leva la vita. Che hanno fatto le tue pecorelle? Esse non han fatto nulla. Io sono il peccatore: ma non abbi riguardo, Signore, a’ miei peccati; abbi riguardo una volta alla tua dolcezza, al tuo cuore, alle tue viscere, e fa provare a noi tutta la tua misericordia». Gran presa dava al frate quel governo dei Medici, materiale, egoisto, spoglio di concetti generosi. Il vulgo, guardando Lorenzo come usurpatore della miglior proprietà de’ Fiorentini, narrava che Savonarola, chiamato al letto di morte di questo, gli domandò in prima se confidasse nella misericordia di Dio, poi se fosse disposto a restituire i beni d’illegittimo acquisto; e il moribondo dopo qualche esitanza acconsentì: infine se ripristinerebbe la libertà e il governo a popolo; e ricusando Lorenzo la condizione, il frate se n’andò senza benedirlo[18]. Maggior appiglio ancora gli dava la depravazione della corte romana. Morto Innocenzo VIII, troppo avvoltolato in tresche politiche (tom. VIII, pag. 214), e mantice di guerre e rivalità, Ascanio Sforza dei duchi di Milano avea molte voci nel conclave; ma non riuscendo a sorpassare l’emulo Giuliano della Rovere, le vendè tutte a Rodrigo Lençol di Valenza in Ispagna, che da Calisto III suo zio materno avea preso il cognome di Borgia, e che allora si fece chiamare Alessandro VI (1492 11 agosto). Sciagurati tempi, se a salire al primato della Chiesa non gli furono ostacolo i diffamati costumi! Destrissimo e di singolare sagacità, baldanzoso a compiere che che l’ambizione gli suggerisse, robustamente frenò i baroni e gli assassini: ma anzichè al ben pubblico, s’interessava per collocare altamente i cinque figliuoli natigli da Rosa Vanozza. Era fra questi Lucrezia, diffamata per lubrici certami e per doppio incesto. Alessandro, quando andava ad assediare Sermoneta, le affidò il governo di Roma, onde abitava le camere del pontefice, ne apriva le lettere, provvedeva col consiglio di cardinali: talmente la turpitudine era recata in trionfo, e il delitto eretto in scienza. Il diario, che in quei giorni scriveva il Burcardo, ancor più che pei delitti, atterrisce per la freddezza con cui li racconta, e che giudicherebbe abituali, se piena credenza potesse prestarsi a quel documento forse corrotto, certo esagerato. «In Roma (dic’egli presso a poco sotto il 1489) nulla di buono si faceva, e in città correano infiniti furti e sacrilegi: dalla sacristia di Santa Maria in Trastevere furono sottratti calici, patene, turiboli, una croce d’argento ov’era un pezzo della santa croce, il quale poi fu trovato in una vigna; così in altre chiese. Aggiungi molti omicidj: Lodovico Mattei e i suoi figli, contro la fede e sicurezza data, uccisero Andrea Mattucci mentre in una barberìa faceasi radere; eppure non ebbero bisogno d’andarsene di città, e dicesi il papa ve li lasciasse per denaro. Si dà anche per vero, sebbene io non abbia visto la bolla, che il santissimo padre abbia a Stefano e a Paolo Margano data remissione dei delitti e omicidj fatti da essi e da dieci loro bravi, quantunque non avessero pace cogli eredi degli uccisi, trasformando la loro casa in asilo; altrettanto a Marino di Stefano per le uccisioni commesse da lui e suoi seguaci; altrettanto ai figli di Francesco Bufalo, che la matrigna gravida macellarono, e diè loro otto condannati a morte affinchè sicuramente potessero andar e venire. Lo stesso narrasi di altri, e la città è piena di ribaldi, che ammazzato uno, rifuggono alle case dei cardinali; in Campidoglio quasi mai non si supplizia alcuno; sol dalla corte del vicecancelliere alcuni sono impiccati presso Tor di Nona, e vi si trovano la mattina senza nome nè causa. Si narra ancora che un tal Lorenzo Stati, oste alla Ritonda, uccise due figlie in diversi tempi, e un famiglio che diceasi aver avuto a fare con esse: onde messo con un fratello in Castel Sant’Angelo, andò il carnefice per decapitarli, e invece furono rilasciati sui due piedi; ed io ho visto ciò e intesi che causa ne fu l’avere sborsato ottocento ducati. E una volta domandandosi al procamerario perchè dei delinquenti non si facesse giustizia, ma se ne ricevesse denaro, rispose, me presente: _Dio non vuol la morte del peccatore, ma che pagi e viva_... «Il sabato 4 settembre vennero nuove del matrimonio conchiuso tra Alfonso primogenito del duca di Ferrara, e la signora Lucrezia Borgia figlia del papa. E la domenica appresso, detta signora Lucrezia cavalcò alla chiesa del Popolo, vestita di broccato d’oro riccio, accompagnata da trecento cavalli o circa, e davanti le cavalcavano quattro vescovi. Il lunedì seguente un buffone a cavallo, cui la signora Lucrezia avea donato una vesta di broccato d’oro che jeri avea portata nuova, del valore di trecento ducati, girò per le vie principali, gridando, _Viva l’illustrissima duchessa di Ferrara! viva papa Alessandro!_ e altrettanto gridava un altro buffone a piedi, donato anch’egli d’una vesta... L’ultima domenica d’ottobre a sera, fecero una cena col duca Valentino, nel palazzo apostolico, cinquanta meretrici oneste, chiamate cortigiane, che dopo cena...» Il resto non si può raccontare, nè quasi credere. E stimiamo pure siasi trasceso nel denigrare Alessandro VI; è però costante che egli non trovò un apologista serio, neppure fra la moderna smania di paradossi. Tanta depravazione morale fra tanto materiale progresso, e quando appunto la coltura affinandosi più la faceva sentire! Quella politica clandestina, quella turpitudine ostentata fin sulla cattedra dov’erano seduti tanti santi, il susurro de’ moltissimi fuorusciti, diffondevano l’idea di disastri, più temuti perchè indeterminati. E Savonarola la fomentava, e non sapendo, come Salviano, veder la rigenerazione che in un gran castigo, ripeteva: — Sventura! sventura! O Italia, o Roma, dice il Signore, io vi abbandonerò ad un popolo che dai popoli vi cancellerà. Vengono genti affamate come leoni, e tanta fia mortalità che i sepoltori andran per le vie gridando, _Chi ha dei morti!_ e uno porterà il padre, l’altro il figliuolo. O Roma, te lo ripeto, fa penitenza; fate penitenza o Milano, o Venezia[19]... Dice il Signore, quando io verrò sopra l’Italia a visitare i suoi peccati, con la spada visiterò Roma...; in San Pietro e negli altri altari sederanno le meretrici, e faranno stalla cavalli e porci; vi si mangerà e berrà, e faravvisi ogni sporcizia... Taglierò, dice Dio, le corna dell’altare, cioè le mitre e i cappelli; taglierò la potenza de’ prelati; rovineranno quelle belle case e quei bei palazzi; tante delizie, tanti ori saran gettati per terra; saranno ammazzati gli uomini, andrà sossopra ogni cosa»[20]. Pur troppo spesso indovina chi predice sciagure[21]; laonde il popolo lo credeva ispirato dalla Divinità, e che provasse estasi, e antivedesse il futuro. La politica, per quanto divenisse profana, non era ancor distaccata dalla religione; e troppo fresca era la ricordanza del medioevo, sicchè dovesse saper di strano il cambiare il pulpito in tribuna, come facea frà Girolamo. Il quale preferiva il governo dei più, non però a foggia di demagogo; asseriva anzi che il monarchico è di tutti il migliore, perchè più simile a quello di Dio, a condizione che l’imperante sia il miglior uomo, accidente troppo difficile. Le costituzioni non sono buone se non in quanto armonizzano colle qualità o i difetti de’ popoli; e nell’Italia, viva d’intelletti e impetuosa, male può stabilirsi un governo cui non partecipano i più. Adunque il popolare v’è più adatto, specialmente a Firenze, dove rimembrava un glorioso passato. Certo costui conosceva il cuor dell’uomo, e che primo spediente della tirannia è il corrompere i sudditi, mentre la virtù è fondamento necessario d’ogni libertà. Perciò predicava dover la riforma dello Stato cominciare da quella de’ costumi e della Chiesa; al contrario di Cosimo, che dicea non doversi governare coi paternostri, egli proclamava che libertà e religione, buon governo e morale vanno inseparabili; e con seguaci tutti disinteresse ed austerità s’industriò d’attuare la santità evangelica ne’ costumi e nelle leggi di Firenze. — Popolo fiorentino (intonava), tu sai il proverbio che pei peccati vengono le avversità. Va, leggi. Quando il popolo ebreo facea bene ed era amico di Dio, sempre avea bene; al contrario, quando metteasi alle scelleratezze, Dio apparecchiava il flagello. Firenze, che hai fatto tu, che hai tu commesso? come ti trovi con Dio? vuoi che io tel dica? ohimè! è pieno il sacco, la tua malizia è venuta al sommo. Firenze, aspetta un gran flagello. Signore, tu mi sei testimonio, che co’ fratelli mi sono sforzato di sostenere colle orazioni questa piena e questa rovina: non si può più. Abbiam pregato il Signore che almeno converta tal flagello in pestilenza». E il popolo, escluso dagli affari pubblici, e sentendo in sè il bisogno d’alcun che di superiore, sapeva grado a chi ne ergesse gli occhi verso il cielo, e additasse colà il rimedio ai mali o la speranza. Adunque dai villaggi dell’Appennino affluivano moltissimi, appena alla punta del giorno s’aprissero le porte di Firenze; e accolti e sostentati dall’eccitata carità, in ascoltarlo tremavano, fremevano, faceansi gran conversioni, «sicchè pareva proprio una primitiva Chiesa; era una conversazione fra loro piena di carità, e riscontrandosi insieme si guardavano l’un l’altro con letizia inestimabile, talchè, sebbene fossero forestieri, solo a vederli in volto erano conosciuti figliuoli di quel gran padre. Per ascoltarlo non si faceva conto di disagio alcuno...; e tra questi erano giovani e vecchi, donne e fanciulli d’ogni sorta, con tanto giubilo che era uno stupore, andando alla predica come si va a nozze. In chiesa poi il silenzio era grandissimo, riducendosi ognuno al suo luogo, e con un lumicino in mano, chi sapeva leggere diceva il suo ufficio ed altre orazioni. Essendo insieme tante migliaja di persone, non si sentiva quasi un zitto, fintanto che venivano i fanciulli, i quali cantavano alcune laudi con tanta dolcezza, che pareva si aprisse il paradiso. Così aspettavano tre o quattr’ore, finchè il padre entrava in pergamo. Pel contado non si cantavano più canzoni e vanità, ma laudi e canti spirituali, cantando alle volte a vicenda da ogni banda della via come usano i frati in coro, mentre lavoravano in somma letizia; tanto s’era sparso e acceso per tutto questo gran fuoco. Vedevasi talvolta per le strade le madri andare dicendo l’ufficio con li proprj figliuoli a uso di religiosi. Alle mense loro fatta la benedizione, si teneva silenzio, leggendo la vita de’ santi Padri, e altri libri devoti, massime le prediche del Savonarola ed altre opere sue. Le donne si ornavano con somma modestia, e per riformarsi mandarono alcune ambasciatrici alla Signoria con molta comitiva e solennità. Anche fanciulli, presentatisi ai reggitori della città, li richiesero di leggi che proteggessero il buon costume»[22]. Nè soltanto in orazioni e digiuni si esercitavano, ma ed in opere di carità cristiana. Ricchi cittadini davano mangiare e bere e alloggio in casa loro a venti, trenta, quaranta forestieri per volta. Gittatasi una grave carestia, e molti del contado che accorreano a Firenze a mendicare, cadendo di fame per le strade, uomini dabbene andavano attorno con confezioni e malvagie per confortarli e li menavano all’ospedale; e n’erano derisi dai _savj del mondo_ col nome di Stropiccioni. Altri spedivano migliaja di ducati in Sicilia, e avutone grano, il rivendevano a buon mercato. Coloro che partecipavano all’oligarchia de’ Medici aborrivano quei che la scalzavano, e aveano per sè i giovani nobili, speranti il potere; i buontemponi, intitolati _Tiepidi_ dagli infervorati, sopra di questi versavano la beffa chiamandoli _Piagnoni_; e presto quei nomi designarono due partiti di morale, ed anche di arti e di letteratura. Imperocchè al Savonarola non era sfuggito un altro grave guasto d’Italia, l’irrompere delle idee pagane, che sotto l’ombra degli studj classici, aduggiavano il buon seme evangelico. Nelle accademie i nomi di battesimo si convertivano in quei dell’antica gentilità; nelle storie Cristo chiamavasi figlio di Giove, e vestali le monache, e dea Maria, e padri coscritti i cardinali, e fato la Provvidenza; nelle scuole l’attenzione era serbata a fatti mitologici, l’ammirazione a eroi pagani; e non che Tibullo e Catullo, vi si spiegavano l’_Ars amandi_ e fin la _Priapea_. Venivasi alla filosofia? le sottigliezze d’Aristotile godevano maggior credito che la santa Scrittura, e la sublimità platonica invaniva in delirj teosofistici. Fin le lascivie contro natura, comuni ai due sessi, pretendeansi giustificare cogli esempj di Tebe e d’Atene. La pittura esibiva sugli altari o seduttrici nudità o somiglianze impudenti; e di mezzo al sacrifizio, venivano i curiosi a riconoscere le famigerate belle del paese. Contro questo preferir le vie di Betsabea alle vie di Betlemme; contro quella manìa pel passato che vuol far rivivere ciò che più non è, e più non dev’essere, insorgeva il Savonarola: ma quanto tale austerezza dovea far colpo in un’età di retorici, in una letteratura d’intelletto e di lusso, fra i contemporanei dell’Aretino! E poichè i vecchi trovava «tutti duri come pietre», il frate cercava arrolare alla bandiera di Cristo la gioventù; e se la vide stringersegli attorno, cara promessa di tempi migliori. «Nel giorno di Natale convenne nella chiesa cattedrale un numero grande di più che milletrecento fanciulli d’anni diciotto in giù; e avendo udita la messa dell’alba, cantata da’ sacerdoti solennemente, ed essendo comunicato prima tutto il clero secondo la dignità e grado suo, furon dipoi divotissimamente per le mani di due canonici comunicati i detti fanciulli con tanta modestia e notabile devozione, che gli spettatori e massimamente i forestieri non si astenevano dalle lacrime, prendendo gran meraviglia che quell’età così fragile e poco inclinata alle divine contemplazioni fosse così bene animata, e ridotta in così buona disposizione[23]... I fanciulli si radunavano, e avevano fatto infra loro messeri, consiglieri e altri uffiziali, che andavano per la terra a spegnere i giuochi e gli altri vizj, togliendo carte e dadi, raccogliendo libri d’innamoramenti e novellaccie, e tutto mandavano al fuoco. Ed ancora andando per le strade, se avessero trovato qualcuna di queste giovani pompose, con istrascichi e con fogge disoneste, la salutavano con gentilezza, facendole una riprensione piacevole... di modo che, da una volta in là, se non per amore, per vergogna lasciavano buona parte di loro vanità. Così ancora gli uomini infami e viziosi, per paura di non essere additati nè iscoperti, s’astenevano da molte cose». Non vendeasi più carne i giorni proibiti, e si dovè modificare la tassa che pagavano i macellaj: sobrie faceansi le nozze, colla comunione e la predica, nè di rado vi seguiva il voto di castità: alcuni che pur voleano divertirsi, s’adunavano a venti o trenta in qualche luogo delizioso, come i giovani del Decamerone, e comunicatisi, passavano la giornata cantando salmi e in pii sermoni, o recavano in processione la Madonna e il bambino: quella gioventù pur dianzi petulante e scapestrata, accoglievasi al focolare domestico per recitare il rosario, e nelle feste veniva di brigata a coglier rami d’ulivi e sedere sui prati, cantando a coro le laudi che il Savonarola avea composte[24], e adattandole sopra arie dedicate alla frivolezza o all’immoralità. Di tal passo si rigeneravano la scienza, la poesia, la musica. Per educare le arti del disegno, frà Girolamo divisava alcun che di simile alle loggie de’ Franchimuratori; aggregare al convento una scuola, ove i frati conversi si eserciterebbero nella pittura e scultura, all’ombra del santuario. A quell’anima entusiasta, sotto il bel cielo d’Italia, nella città altrice delle arti, come dovea sorridere il pensiero di rigenerarle, e di ricollocare la bellezza in grembo all’Eterno da cui essa deriva! E, — Ditemi un po’ in che consiste la bellezza? Nei colori? no; la bellezza è una forma che risulta dalla proporzione e corrispondenza di tutte le membra e de’ colori; ma nelle cose semplici la bellezza è la luce. Vedete il sole, la bellezza sua è aver luce; vedete Iddio, perchè è lucidissimo, è la bellezza stessa; e tanto sono belle le creature, quanto più partecipano alla bellezza di Dio; e ancora tanto più bello è il corpo quanto più è bella l’anima. Togli due donne che sieno egualmente belle di corpo; l’una sia santa, l’altra cattiva; vedrai che quella santa sarà più amata da ciascheduno che la cattiva; e tutti gli occhi saranno vôlti in lei, anche gli occhi degli uomini carnali. Togli un uomo santo, il quale sia brutto di corpo; vedrai che ognuno lo vuol vedere volentieri; e pare benchè brutto, che quella santità risalti e faccia grazia in quella faccia»[25]. Dalle lodi del bello passava a disapprovare la licenza degli artisti: — Aristotele, ch’era pagano, dice nella Politica che non si deva far dipingere figure disoneste, per rispetto a’ fanciulli, perchè vedendole diventano lascivi. Ma che dirò di voi, pittori cristiani, che fate quelle figure spettorate? Voi, a cui s’appartiene, dovreste far incalcinare e guastare quelle figure che avete nelle case vostre, dipinte disonestamente; e fareste opera che molto piacerebbe a Dio e alla Vergine Maria». Ed elevandosi contro la profanazione della pittura di chiesa, prorompeva: — L’immagine de’ vostri Dei sono le immagini e similitudini delle figure che voi fate dipingere nelle chiese; e i giovani poi vanno dicendo a questa e quella,_ Costei è la Madonna, quell’altra è san Giovanni_; perchè voi fate dipingere le figure nelle chiese a similitudine di quella donna o di quell’altra. Se voi sapeste lo scandalo che ne segue, e quello che so io; non le dipingereste. Credete voi che la Vergine Maria andasse vestita in questo modo? Io vi dico ch’ella vestiva come poverella, semplicemente, e coperta che appena se gli vedeva il viso; così sant’Elisabetta. Voi fareste un gran bene a cancellare queste figure così disoneste, dove fate parere la Vergine Maria vestita come meretrice»[26]. Tanta verità, ed esposta con tanto calore, poteva non trovare ammiratori e seguaci? E molti grandi artisti il venerarono maestro e santo; a Pico della Mirandola, inteso che una volta l’ebbe, non parea aver più bene se non riudendolo; Angelo Poliziano, benchè tutt’arte greca, lo dichiarava santo, e dotto ed egregio predicatore d’insigne dottrina; il poeta platonico Benivieni difese robustamente le dottrine di esso, e compose cantici pe’ suoi devoti ed esaltando la pazzia dell’amar Dio[27]; la più bella incisione di Giovanni delle Corniole rappresenta il frate; lui il bulino del Bandini e del Botticelli, degno successore di Maso Finiguerra; Andrea della Robbia e cinque figli lo ritrassero in molte medaglie di terra cotta; il grande architetto Cronaca «d’altro che delle cose sue non volea ragionare»; Lorenzo di Credi gli tributò le caste sue ispirazioni; frà Benedetto, miniatore, e che da gajo compagnaccio erasi mutato a penitenza, appena lo intese, s’armò per lui quando il vide assalito da’ nemici; e dopo che soccombette, Botticelli propose di lasciarsi morir dalla fame; Baccio della Porta pittore bruciò tutti suoi studj di nudo, e si vestì monaco, rendendosi celebre col nome di frà Bartolomeo; lo scultore Baccio di Montelupo abbandonò la città. Del quale entusiasmo non sapea rinvenir la ragione il Vasari, creato dei Medici e adoratore de’ classici, e che pur vedeva come il suo Michelangelo avesse «in gran venerazione le opere scritte da frà Girolamo, per aver udito la voce di quel frate in pergamo»[28]. Allora il Savonarola osò un fatto, sul quale deh non rechino giudizio coloro che alla classica ammirazione sagrificano culto e sentimento, originalità e virtù! I fanciulli andarono di casa in casa cercando l’_anatema_, voleano dire gli oggetti di lusso disonesto che il predicatore avea riprovati; e nel giorno del berlingaccio ammucchiati sovra la piazza canzoni amatorie, tappeti lascivamente storiati, quadri e incisioni invereconde, le statue della bella Bencina, della Lena Morella e d’altre divulgate bellezze, carte da giuoco, liuti, buonaccordi, alberelli, cipria, dadi, ornati femminili, buffe o inumane sudicerie del Boccaccio e del Pulci, libri di sorte, nella città delle belle arti, del viver gioviale, della poesia spensierata, della sensuale allegria, nella patria del Machiavelli e del Firenzuola, vi si mette fuoco, mentre i fanciulli cantano un’invettiva contro il carnovale e ne bruciano la figura schifosa tra il suon di trombe e di campane, e il popolo vede e intuona il _Tedeum_[29]. Un mercatante veneziano offriva ventimila scudi se gli cedessero gli oggetti destinati al fuoco; e fu preso a fischi, e un fantoccio che lo figurasse venne messo ad ardere insieme. Il Nardi avverte che la cosa generò mormorazione, e rifletteasi che col denaro avutone si potea far molte limosine, «come dissero già i mormoratori del prezioso unguento sparso da quella devota donna sopra i piedi di Cristo, non considerando che i filosofi pagani e gli ordinatori delle polizie, e Platone specialmente, scacciavano tutte quelle cose che oggi son vietate più severamente dalla cristiana filosofia». Anche all’idolatria del guadagno mosse guerra il frate, risoluto a riformare tutte le facoltà; e dove tanto fiorivano i banchi e impinguavano gli usuraj, alzò la voce a favore de’ poveri; e delle limosine raccolte da que’ suoi fanciulli fece istituire un monte di pietà, che guastò gli affari degli usurieri; disapprovò i padri che metteano i figliuoli prima a imparare qualche versi profani, poi a maneggiarsi ne’ banchi; e prediceva una costituzione politica, dove ai grossi capitalisti sarebbe tolto l’onnipotere nei pubblici affari, si ripristinerebbero il governo a comune, e l’equilibrio fra la potestà secolare e l’ecclesiastica. Quel che più sempre gli stava a cuore si era l’emenda del clero. Se egli fosse stato un vulgare ambizioso, potea blandire i Medici e il papa, da’ quali non gli mancarono offerte, ma egli rispose: — Altro cappello io non voglio che quel del martirio, nè arrossire che del mio sangue». Pertanto, colla libertà che la Chiesa mai non impedì prima della Riforma, le applicava quel che Amos diceva contro i sacerdoti ebrei: — La nostra Chiesa ha di fuori molte belle cerimonie in solennizzare gli ufficj ecclesiastici, con belli paramenti, con assai drappelloni, con candelieri d’oro e d’argento, con tanti bei calici che è una maestà. Tu vedi là que’ prelati con quelle mitre d’oro e di gemme preziose in capo, con pastorali d’argento e piviali di broccato, cantare que’ bei vespri e quelle messe, con tante cerimonie e organi e cantori che tu stai stupefatto; e pajonti costoro uomini di grande gravità e santimonia, e non credi che e’ possano errare, ma ciò che dicono e fanno s’abbia a osservare come l’evangelo. Gli uomini si pascono di queste frasche, e rallegransi in queste cerimonie, e dicono che la Chiesa di Cristo Gesù non fiorì mai così bene, e che il culto divino non fu mai sì bene esercitato quanto al presente; e un gran prelato disse che la Chiesa non fu mai in tanto onore, nè i prelati in tanta reputazione; e che i primi erano prelatuzzi, perchè umili e poverelli, e non avevano tanti grassi vescovadi nè tante ricche badie, come i nostri moderni. Erano prelatuzzi quanto alle cose temporali, ma erano prelati grandi, cioè di gran virtù e santimonia, grande autorità e reverenza ne’ popoli, sì per la virtù, sì pei miracoli che facevano. Oggidì i Cristiani che sono in questo tempio non si gloriano se non di frasche; in queste esultano, di queste fanno festa e tripudiano; ma interverrà loro quello ch’io vidi, che ’l tetto rovinerà loro addosso, cioè la gravità de’ peccati delle persone ecclesiastiche e de’ principi secolari cadrà sul loro capo e ammazzeralli tutti in sul bello della festa, perchè si confidano troppo sotto questo tetto. «I demonj ed i prelati grandi, perchè hanno paura che i popoli non escano loro dalle mani e non si sottraggano dall’obbedienza, hanno fatto come fanno i tiranni della città; ammazzano tutti i buoni uomini che temono Dio, o li confinano, o li abbassano che e’ non hanno uffizj nella città; e perchè non abbiano a pensare a qualche novità, introducono nuove feste e nuovi spettacoli. Questo medesimo è intervenuto alla Chiesa di Cristo: primo, essi hanno levato via i buoni uomini, i buoni prelati e predicatori, e non vogliono che questi governino: secondo, hanno rimosso tutte le buone leggi, tutte le buone consuetudini che avea la Chiesa, nè vogliono pure ch’elle si nominino. Va, leggi il Decreto; quanti belli statuti, quante belle ordinazioni circa l’onestà de’ cherici, circa le vergini sacre, circa il santo matrimonio, circa i re e i principi come e’ s’hanno a portare, circa l’obbedienza de’ pastori: va, leggi, e troverai che non s’osserva cosa che vi sia scritta; si può abbruciare il Decreto, che gli è come se non ci fosse. Terzo, hanno introdotto loro feste e solennità per guastare e mandar a terra le Solennità di Dio e de’ santi. «Se tu vai a questi prelati cerimoniosi, essi hanno le migliori paroline che tu udissi mai; se ti conduoli con esso loro dello stato della Chiesa presente, subito e’ dicono: Padre, voi dite il vero, non si può più vivere se Dio non ci ripara. Ma dentro poi hanno la malizia, e dicono: Facciamo le feste e le solennità di Dio feste e solennità del diavolo; introduciamo queste coll’autorità nostra, col nostro esempio, acciocchè cessino e manchino le feste di Dio, e sieno onorate le feste del diavolo. E dicono l’uno coll’altro: Che credi tu di questa nostra fede? che opinione n’hai tu? Risponde quell’altro: Tu mi sembri un pazzo; è un sogno, è cosa da femminucce e da frati. Hai tu mai visto miracoli? Questi frati tutto ’l dì minacciano e dicono: E’ verrà, e’ sarà; e tutto ’l dì ci tolgono il capo con questo loro profetizzare. Vedi che non sono venute le cose che predisse colui. Dio non manda più profeti, e non parla cogli uomini; s’è dimenticato de’ fatti nostri, e però gli è meglio che la vada così e che governiamo la Chiesa come abbiam cominciato. Che fai tu dunque, Signore? perche dormi tu? Levati su, vieni a liberare la Chiesa tua delle mani de’ diavoli, delle mani de’ tiranni, delle mani de’ cattivi prelati: non vedi tu che la è piena d’animali, piena di leoni, orsi e lupi, che l’hanno tutta guasta? non vedi tu la nostra tribolazione? ti se’ dimenticato della tua Chiesa, non l’hai tu cara? ell’è pure la sposa tua! non la conosci tu? è quella medesima, per la quale discendesti nel ventre di Maria, per la quale patisti tanti obbrobrj, per la quale volesti versare il sangue in croce. Vieni, e punisci questi cattivi, confondili, umiliali, acciocchè noi più quietamente ti possiamo servire»[30]. Poco divario corre certo da questa alla voce di Lutero; tanto più se fosse a credere ch’egli «scrisse ai principi cristiani come la Chiesa andava in rovina, che però dovessin fare che ragunasse un concilio, nel quale voleva provare la Chiesa di Dio esser senza capo, e che chi vi sedeva non era vero pontefice, nè degno di quel grado, nè anco cristiano». E mentre i Tiepidi persistevano a contrariare i Piagnoni, e cuculiare il frate riformatore, alcuni di quelli che guastano il bene coll’esagerarlo, coniarono medaglie dove sopra di Roma vedeasi una mano col pugnale e l’iscrizione _Gladius Domini super terram cito et velociter_[31]. Lodovico il Moro, sempre inuzzolito di Pisa e contrastatone da’ repubblicani, e sentendosi dal Savonarola rinfacciata la crudele ambizione e predetto un tremendo castigo, lo fece dal fratello cardinale accusare a Roma. Frà Mariano da Genazzano, predicando innanzi ad Alessandro VI, uscì a dire: — Abbrucia, abbrucia, santo padre, lo strumento del diavolo; abbrucia lo scandalo di tutta la Chiesa». Il che saputo, frà Girolamo in duomo predicò: — Iddio ti perdoni, lui punirà te, e fra breve si manifesterà chi attende agli Stati e reggimenti temporali»; e infatti poco andò che Mariano fu scoperto di maneggi a favor degli oppressori. Ma già col commercio la fama del Savonarola propagasi lontano; dal fondo della Germania gli giungevano lettere e adesioni; Bajazet II granturco volle saperne il vero dal console fiorentino, e si fece tradurre qualche sermone di lui. Sette anni continuò quell’entusiasmo pubblico senza ch’egli si galloriasse; e mentre Roma minacciava scomuniche e rogo, frà Girolamo diceva: — Entrai nel chiostro per imparar a patire; e quando i patimenti vennero a visitarmi, gli ho studiati, ed essi m’insegnarono ad amar sempre, a sempre perdonare»[32]. CAPITOLO CXXVIII. Il Milanese. — Spedizione di Carlo VIII. Milano da repubblica disordinata erasi tradotto in principato militare. Aveva sottoposte Pavia, Lodi, Cremona, Parma, Piacenza, Alessandria, Tortona, Novara, Como, la Valtellina colle contee di Bormio e Chiavenna, Angera al lago Maggiore, la Geradadda al confine de’ Veneti; insomma quindici città, erette nel 1450 in ducato, che abbracciava quanto sta fra le Alpi, la Sesia, l’Oglio, il Po; anzi di là da questo più volte si spinse, e massime nelle marche d’Ancona e Spoleto, e a Bobbio, Savona, Albenga, Ventimiglia e in tutto il Genovesato. Bello e ricco Stato, che fruttava seicentomila ducati d’oro (Corio), pari a venti milioni d’oggidì, con una capitale di diciottomila trecento famiglie, o vogliam dire cenventotto mila abitanti, mentre Parigi contava tredicimila case, e Londra non quarantamila bocche. I suoi principi, derivando l’autorità unicamente dall’usurpazione, non poteano pensare che a mantenersi intrigando e sopendo: l’investitura imperiale allegavano per disobbligarsi dal farsi eleggere dal popolo, ma non sentendola necessaria, non si davano la briga di domandarla. Francesco Sforza volle riconoscere il dominio soltanto dalla propria spada, e per virtù e valore meritava di esser capo di una dinastia: ma affatto ne tralignò il figlio Galeazzo Maria. Le robuste ordinanze del padre, e la prudenza e la lunga pratica di Cicco Simonetta segretario di Stato, mantennero in quiete il paese: ma poi Galeazzo, imbaldanzito dai prestiti che gli chiedevano i re di Boemia e Ungheria, dalle ambasciate fin del soldano d’Egitto, dal tributo che gli pagavano i Fiorentini, dai sussidj d’uomini che dava a Luigi XI di Francia suo cognato, dalla speranza della corona di tutta Italia, ruppe i ritegni; d’ogni ingerenza privò sua madre Bianca Maria, savia donna e sperimentata, e dicono l’avvelenasse. Quanta suntuosità nel suo viaggio a Firenze! (t. VIII, pag. 431) ma al gusto delle voluttà sordide associava quello delle sevizie e delle torture raffinate, diabolici supplizj esacerbando colle facezie, le libidini condendo con uno sfacciato trionfo e colla disperazione dei mariti e dei genitori disonorati. Per ostentazione d’intrepidezza, fece un giorno mettere alla tortura il proprio barbiere, e appena calato volle esser raso da esso. Insegnava retorica a Milano Cola Capponi de’ Montani, di Gaggio bolognese, ingegno svegliato, animo torbido, infatuato dell’antichità. Era stato maestro di Galeazzo Maria, e per una vergognosa imputazione, o perchè il duca volesse vendicarsi delle sferzate avutene a scuola, venne frustato ignominiosamente per la città. Anelando vendetta, contro al duca istigava i suoi discepoli, e principalmente Andrea Lampugnani e Girolamo Olgiati, i quali spinse ad arrolarsi sotto Bartolomeo Coleone, per apprendere il mestiere delle armi. Gliene vollero male i costoro parenti, e di consenso l’altra nobiltà milanese; onde, perduti scolari e amici, egli dovè partirsene. Sbolliti i rancori, tornò; riebbe frequente scuola ed amicizie, colla volubilità del vulgo signorile; e seguitava a infervorare la gioventù ne’ concetti della libertà romana e greca e nel vanto dei tirannicidi; e dopo narrato de’ Timoleoni e dei Collatini, — Non sorgerà (intonava) tra’ miei discepoli un Bruto, un Cassio, che sottraendo la patria dal giogo obbrobrioso, meriti fama per tutti i secoli? — Io sarò quello» disse l’Olgiati; e viepiù dacchè una sua sorella fu vittima delle libidini di Galeazzo: onde col Lampugnani e con Carlo Visconti giurò davanti agli altari redimere la patria dal tiranno, credendola opera gloriosa e santa. — Dopo il primo nostro ritrovo (racconta l’Olgiati stesso) entrai in Sant’Ambrogio, mi posi a’ piedi dell’effigie del santo vescovo e pregai così: _Grande sant’Ambrogio, patrono di questa città, tutela del popolo milanese, se il proposito de’ tuoi concittadini di sbrattarsi dalla tirannide e dalla dissolutezza più mostruosa merita la tua approvazione, non ci manchi il tuo favore fra i tanti pericoli cui ci esponiamo per francare la patria_. Così orato, venni a’ miei compagni, e gli esortai a coraggio, assicurandoli sentivo in me cresciute la speranza e la forza dopo invocato il patrono della nostra città... Il giorno di santo Stefano (1476) di gran mattino andammo nella chiesa di questo santo, e lo pregammo propizio al gran fatto che divisavamo compire colà, e non s’indignasse se lordavamo i suoi altari d’un sangue che doveva liberare la città e la patria. Dopo le preci rituali, ne recitammo un’altra, composta da Carlo Visconti; assistemmo alla santa messa celebrata dall’arciprete»; poi, come il duca comparve ad assistere alla solennità di quel giorno, lo assalsero e trucidarono. — Il popolo avvilito, soffrente, non aspetta che un cenno per rompere le sue catene; ci acclamerà, ci sosterrà». È l’illusione consueta de’ cospiratori; ma, come molte altre volte, il popolo si buttò addosso agli uccisori e li trucidò. L’Olgiati, riuscito a scampare, non fu voluto ricevere nella propria famiglia; solo la madre il prese in compassione, e raccomandollo a un prete che sotto la propria tunica menosselo a casa. Ivi si rimpiattò due giorni, persuaso che intanto i congiurati compirebbero l’opera, secondo l’accordo; ma uscito per informarsene, qual è il primo spettacolo che gli si offre? la plebaglia del verzajo che trascina a strapazzo il cadavere del Lampugnani. Gli cadde il cuore, nè più curò di nascondersi; onde preso, e sottoposto a orribile tortura, dettò la storia del misfatto, unicamente implorando gli si lasciasse tempo da confessare i suoi peccati; e condannato ad esser tanagliato e fatto vivo a pezzi, al prete confortatore di mezzo ai tormenti diceva: — Pe’ miei peccati merito questi e peggiori strazj, ma non per quella bella azione, per la quale spero che il sommo giudice mi perdonerà le cattive; e non che pentirmene, perirei dieci volte per sì nobile scopo». Avea ventidue anni[33]. Il popolo, omai abituato a considerare come ereditario il dominio, lasciò acclamare Gian Galeazzo, figlio novenne dell’estinto: la vedova Bona di Savoja, assistita dall’accorto e procacciante Cicco Simonetta, seppe mantenere nell’ordine i sudditi, e in freno le città soggette, che ad ogni novità rumoreggiavano. Ma in quel trambusto si sfasciò il bell’esercito costituito da Francesco Sforza, che facea rispettare il paese. Del qual Francesco erano rimasti cinque figli: e Galeazzo Maria succedutogli avea, per litigi nati, confinato in Francia Filippo Maria duca di Bari e Lodovico il Moro suoi fratelli. Questi, dall’esempio paterno e dalla propria irrequietudine animati a tutto ardire, tornarono dall’esiglio, e cominciarono a sommovere lo Stato col pretender parte all’amministrazione; ed appoggiandosi ai forestieri e ai Ghibellini capitanati dal valoroso e turbolento Roberto Sanseverino, vennero fin a guerra rotta. Il Simonetta s’industriò a rompere le loro trame, ma col profonder denari e col concedere i castelli e le terre che prima aveano posseduti, sfiancò l’unità politica: poi essendosi di nuovo sollevati, egli confinò Filippo Maria nel suo ducato, Lodovico a Pisa, a Perugia Ascanio che fu poi cardinale: Ottaviano nel fuggire si affogò nell’Adda. I costoro intrighi erano favoriti dal re di Napoli e da Sisto IV, che suscitavano d’ogni banda nemici al Milanese perchè parteggiava coi Medici di Firenze, gli ribellarono Genova, infellonirono gli Svizzeri. In che modo questi acquistassero la libertà, già ci fu veduto (Cap. CXV). Borghesi e poveri, obbligati a combattere i baroni vicini o i cavalieri dell’Impero, introdussero una nuova milizia a piedi, che coperta solo d’un morione e d’un petto di ferro o di cuojo, con uno spadone a due mani sospeso alle spalle, colle picche lunghe tre metri presentavano una siepe insuperabile ai cavalli; mentre altri s’insinuavano fra l’ordinanza de’ nemici, e colla labarda ne tagliavano le aste o le conficcavano a terra. La vita montana gli avea resi robusti e destri; la caccia e gli esercizj, abituati alle armi sin da fanciulli, talchè al primo baleno di guerra tutti erano combattenti, e sospese le riotte municipali, mettevansi in marcia sotto un capo, al quale giuravano intera obbedienza. I principi, che comprendevano di non poter reggersi tiranni se non con eserciti da sè soli dipendenti, trassero subito partito da queste truppe, e al bisogno spedivano un colonnello, che col Cantone capitolava il numero, il soldo, la durata del servizio: agli arrolati seguivano commissarj, che applicavano tra essi la giustizia, poi rendeano conto dei loro atti. Addio allora alla elvetica semplicità; resa venale la bravura, agognante le lusinghe de’ principi, l’oro e il lusso straniero, s’introdussero corruzione nei consigli e farnetico di guadagni militari; e fu volta che i magistrati arrolarono i rei dati loro a giudicare, e se li trassero dietro a servizio. Formidabili come uomini, non come nazione, dopo ch’ebbero valicate le Alpi nostre contrassero la febbre del conquistare, e immaginarono la loro libertà dovesse abbracciar parte della Svevia, l’Alsazia, il Tirolo, il Milanese, lo che gli avrebbe portati sino al Mediterraneo, e renduti, non so se felici, certo potentissimi. Mancavano però d’unità, anche prima che la sconcordia religiosa li snervasse affatto, e lasciasse in tutti i paesi vicini prevalere la monarchia: il che fu l’opera del secolo che descriviamo. Avendo i Milanesi tagliato un bosco, di cui essi pretendeano il possesso, una banda d’Urani varcò il Sangotardo, e negando rimettere la decisione ai tribunali, si gettò sopra Bellinzona: finchè dal Simonetta quetati a denaro, giurarono non molestare più il ducato. Sisto IV però li dispensa dal giuramento, e manda ad essi lo stendardo delle sante chiavi acciocchè traggano a difendere il comun padre e a restituire Italia alla libertà (1479). D’inverno stridente ripassarono dunque il Sangotardo, e a Gornico combattendo sul ghiaccio come avvezzi, sbaragliarono gli scivolanti ducali, guidati dal conte Torello; e al prezzo di centomila ducati e ventiquattromila fiorini concessero la pace, però come signoria del cantone d’Uri serbando la Leventina, cioè la valle per cui scende il Ticino. Allettamento e scala a nuovi tentativi. Dalle esterne scosse ajutati, gli zii del duca rivalsero. Lodovico il Moro, sottentrato duca di Bari, più scaltro degli altri e disposto a farsi sgabello delle ruine di tutti, recuperò la grazia della duchessa, alla quale il Simonetta predisse, — Voi ne perderete lo Stato, io la testa». Di fatto Lodovico, ottenendo il perdono ai rivoltosi, si circondò d’amici, coi quali maneggiò di maniera che Bona fece arrestare quel fedelissimo e decapitare (1480 30 8bre]), annunziando alle corti d’Italia come da questo autore di tutti i mali si fosse liberata mercè de’ cognati, sostegni dello Stato e riconduttori d’un secol d’oro[34]. Guaj al regnante costretto ad immorali condiscendenze! Gli Sforza imbaldanziti tolsero alla duchessa le persone care, i tesori, le gioje, e a fatica le permisero di passare in Francia, del cui re era cognata. Lodovico il Moro, fattosi reggente a nome del debole e infermiccio nipote, avea avuto appoggio dai Ghibellini, capitanati da Roberto Sanseverino: ma venuto in potere, li prese in uggia e sospetto, e preferì i Pallavicini e i Guelfi, tanto che il Sanseverino rivoltossi contro il Milanese. Respinto, sollecitò la Repubblica veneta, e nominatone capitan generale, continuò guerra contro la Lombardia. L’insigne generale Pier Maria Rossi di Parma avea contribuito potentemente a recuperare questa città, le ville e i castelli toltile negl’infelici tempi di Ottobon Terzo; onde avea avuto il titolo di padre della patria. Bona lo avea scelto tra’ suoi consiglieri, e con questi cadde in disgrazia; onde non volendo rassegnarsi alla trapotenza del Moro, si legò con Sanseverino, e preparossi di armi nel Cremonese e nel Parmigiano, di cui i suoi una volta erano stati principi, e dove ancora possedeva amplissimi tenimenti, e i castelli di Berceto, Roccabruna, Roccalenzone, Carena, Basilicanova, San Secondo ed altri. Il Parmigiano, sotto la supremazia dei duchi milanesi, era diviso tra molti signori, quali i Sanseverino di Colorno, i Pallavicini di Cortemaggiore, i Sanvitali di Noceto e d’Oriano, fra’ quali si perpetuavano risse e baruffe. Le tre squadre, in cui divideasi la città, formavano altrettanti partiti: bande di malfattori eransi giurate a sostenersi e vendicarsi a vicenda, e mascherati scorrevano la campagna e la città con quotidiani misfatti[35]. Si valse di costoro il Rossi, ed appoggiato dai Veneziani, sollevò bandiera contro gli Sforza: ma essi, mercè il valore di Gian Giacomo Trivulzio, presero l’un dopo l’altro i castelli del nemico, il quale a gara con loro sperperava il paese; e Pier Maria si difese in San Secondo finchè morì di settant’anni[36]. Suo figlio Guido continuò a difendersi finchè ottenne pace; ma vedendosi violate le condizioni del perdono, si riscosse col fratello Jacopo, e ripigliò guerra sia di fuori cogli Sforza, sia dentro coi Torelli, coi Sanseverino, coi Pallavicini; ricevette nelle sue giurisdizioni un provveditore veneto: ma il Trivulzio e il Moro lo strinsero ne’ suoi dominj, talchè dovette cercar ricovero da Venezia, da cui ottenne la condotta di quattrocento cavalli, collo stipendio di trentaduemila scudi d’oro. E lo splendore della casa Rossi restò per sempre eclissato. A vantaggio della Lombardia combatteva Alfonso duca di Calabria, valoroso sì, ma poco risoluto a vincere dacchè s’accorse che il vantaggio toccherebbe non al duca suo genero, ma allo scaltro Lodovico. Il quale in fatto (1484 7 agosto) nella pace di Bagnolo (t. VIII, p. 289) stipulò che i Veneziani non contrarierebbero i suoi divisamenti; per compiere i quali adoprava arti codarde, cospirare, mentire, disunire[37]. Chiese imprestiti ai cittadini per far guerra a Venezia, poi fallì il pagamento; il conte Pietro del Verme avvelenò per occuparne i possessi; i Borromei pose in rissa tra loro per deprimerli. Risoluti disfarsene col mezzo allora troppo consueto, alcuni congiurati lo attesero alla porta di Sant’Ambrogio nel giorno di questo santo: ma un Vimercato lasciossi scoprire, e al tormento rivelò i compagni, donde supplizj e fughe e, solito corredo delle trame fallite, il rinvalidarsi della potenza minacciata. Quando poi Genova si sottopose volontaria al ducato, Lodovico divenne più ardito, s’impadronì del castello di Pavia e del tesoro, «ch’era il più grande della cristianità», e chiusovi il nipote Gian Galeazzo colla sposa, prese gli altri forti di Lombardia, tirò in sè ogni autorità, e meditava toglier di mezzo il nipote, e regnare a suo luogo. Ma come gliel’avrebbero comportato i vicini? come il duca di Calabria, suocero di quello? Bisognava dunque turbare lo stagno per pescarvi. Le antiche pretensioni della casa d’Angiò sul regno di Napoli eran venute per eredità al re di Francia; onde, temendo ne togliesse pretesto a qualche tentativo, i potentati italiani aveano sentito la necessità di confederarsi. Lodovico, che, sprovvisto di valore, credeva primeggiare ne’ maneggi diplomatici, suggerì di far manifesta quest’alleanza all’Europa con un pubblico atto, e perciò gli ambasciadori di ciascuno convenissero a Roma (1492) col titolo di riverire il nuovo pontefice Alessandro VI, e quello del re di Napoli portasse la parola a nome degli altri. Pietro de’ Medici, ambasciadore pei Fiorentini, non pago di spiegare agli occhi di tutti i tesori di gemme radunati dalla sua famiglia, che seminò fin sugli abiti de’ paggi, tanto che il collare d’uno di questi fu valutato ducentomila zecchini, voleva anche sfoggiare dell’eloquenza, dono così speciale dei Fiorentini; e dell’avergliene tolta l’occasione volle male a Lodovico. Il quale non tardò ad avvedersi come colui dall’antica alleanza cogli Sforza fosse passato al re Ferdinando; e sapendo che questo l’odiava per gli indegni trattamenti usati al nipote, pensò munirsi di confederati. Alessandro VI aveva accarezzato l’Aragonese, sperando mariterebbe a suo figlio Sancia, figliuola naturale del duca di Calabria; ma vistosene deluso, e che quegli fomentava l’insubordinazione di Virginio Orsini, il quale, piantato fra Viterbo e Civitavecchia, poteva aprir Roma ai Napoletani, strinse con Lodovico alleanza offensiva e difensiva. Nella quale Lodovico seppe trarre anche Venezia; e sposando sua nipote Bianca, figlia di Galeazzo Maria, a Massimiliano imperatore con quattrocentomila ducati di dote in contanti e quarantamila in gioje, gli chiese segreta investitura del ducato di Milano, e l’ebbe, eccettuandone i dominj del marchese di Monferrato, il contado d’Asti, la marca Trevisana, il dominio degli Scaligeri; allegando l’imperatore che Gian Galeazzo se n’era reso indegno col riconoscere il ducato dal popolo, a grave pregiudizio dell’impero[38]. Così quella signoria che Francesco Sforza non avea voluto riconoscere che dalla propria spada, Lodovico la rendea vassalla dell’imperatore. Avvezzo a contare sulle promesse dei grandi solo in quanto abbiano interesse di mantenerle, Lodovico sentiva che il diploma imperiale poco peso gli aggiungeva, e gli alleati lo abbandonerebbero appena vi trovassero il conto; sicchè giocando a due mani, cercò altro appoggio ne’ reali di Francia. Questi, col trarre a sè i varj feudi o per confisca o man mano che vacassero, erano prevalsi ai signorotti, che fin là poteano tenersi come altrettanti re. L’opera fu compita da Luigi XI, il quale, studiando Francesco Sforza, avea compreso che la politica è una scienza; che l’amministrazione dello Stato dev’essere sottoposta a calcolo, non abbandonata al capriccio e all’eventualità; che per deprimere la nobiltà, la quale può opporre privilegi, bisogna favorire il popolo: in fatti egli operò sempre con intenti prestabiliti, che introducevano l’ingegno nel governo e l’interesse al posto della morale; e re popolare per interesse della corona non per simpatie, ebbe con arti buone e con pessime umiliato i nobili, e consolidata l’autorità regia ben più colla sua grettezza, che non l’avessero ottenuto i re coperti d’arme. Ormai ridotto in unità politica tutto il territorio che è fra le Alpi, i Pirenei, l’Oceano e il Reno, un solo gran signore rimaneva ancora, il duca di Borgogna, che possedeva per cenventi leghe di superficie, cioè presso alla nona parte della Francia odierna: ma quando Carlo il Temerario fu ucciso a Nancy nel combattere gli Svizzeri, Luigi XI unì alla Francia gran parte del costui dominio. Dappoi Carlo VIII vi aggregò la Bretagna come dote di sua moglie; sicchè arrotondando il regno e unificate le sei nazioni che il componevano, la pubblica cura potea volgersi a migliorarle, e ad assodare la regia autorità eguagliando i sudditi sotto la legge. Sciaguratamente l’alito di conquista, ormai spento nei popoli d’Europa, risvegliossi allora ne’ principi, e le potenze ingelosirono l’una dell’altra. Luigi XI morendo trasmetteva l’assodata autorità a Carlo VIII (1483) suo figlio di appena tredici anni. Ignaro degli uomini che mai non avea praticati, degli affari da cui era stato rimosso, vergognando di non sapere tampoco l’alfabeto, Carlo si getta a studj disordinati; imparato a leggere, s’infervora delle imprese di Cesare e di Carlo Magno, e vuol divenire un eroe. Se a divenir tale bastasse la prodezza, e’ n’abbondava; ma nè ingegno bastavagli per combinare vaste imprese, nè costanza per seguirle traverso alle contrarietà. Come discendente da Carlo d’Angiò, egli vantava pretensioni alla corona d’Oriente e a quella di Napoli[39]; e Lodovico il Moro ne palpeggiò l’ambizione, confortandolo a conquistare il Reame, per farsene scala a Costantinopoli; smorbare l’Europa dai Turchi; ristabilire l’impero Orientale: quanto gloriosa, tanto facile essere l’impresa; per Genova, posta sotto l’alto dominio della Francia, e l’immediato degli Sforza, e per la Lombardia egli stesso gli darebbe sicuro varco, egli uomini, egli denaro, egli credito; il papa lo favorirebbe per vendicarsi degli Aragonesi; i negozianti fiorentini si terrebbero colla Francia, loro banco principale; Venezia sarebbe propizia, e nol foss’anche, dalla Turchia trovavasi abbastanza occupata. I Sanseverino ed altri baroni di Napoli, ricoverati in Francia, spendevano la solita moneta de’ fuorusciti, promesse e incitamenti: qual più bello esordio alla crociata contro i Turchi, che il conquistare un regno che la casa di Francia aveva anticamente strappato ai Saracini, e di cui era stata investita ventiquattro volte da dodici papi e due da concilj generali?[40] La nobiltà francese fu sempre avida d’imprese e speranzosa d’acquisti: Anna di Beaujeu, sorella di Carlo, desiderava ch’e’ partisse onde rimanere reggente dispotica; spargevansi profezie, che Carlo conquisterebbe non solo l’impero di Costantino, ma il regno di Davide. Eco estremo del medioevo, risonante in un secolo che il dimenticava, nol rinnegava. Carlo dunque fece armi, mandò tentare i popoli e speculare i luoghi, e, — Andiamo dove ci invitano la gloria della guerra, la disunione dei popoli e gli ajuti degli amici». Ma il denaro egli avea logoro prima in comprare pace dall’Austria e dall’Inghilterra, poi in giostre e feste di cui era appassionato; tanto che esitò se tirar avanti. Spinto però da ambiziosi o corrotti confidenti, altro ne procacciò a ingenti usure, cinquantamila ducati da Milano, centomila dai Sauli di Genova. Gl’Italiani, da lunga mano abituati a considerare i Francesi come liberatori, non v’era male da cui non si sperassero guariti per questo re cavalleresco, che giovane e nuovo, abbandonava trono, agi, delizie per amor nostro: Gian Galeazzo s’imprometteva d’essere sottratto all’oppressione dello zio; i Fiorentini di riscuotersi dalla dominazione de’ Medici; Alessandro VI di dare stato alla sua casa; i Veneziani di umiliare gli Aragonesi; i Napoletani di sbrattarsi dai forestieri. Ma i savj, che non isperano beni eventuali da mali certi, pigliavano sgomento, anche senza le profezie del Savonarola, e i portenti e le congiunzioni d’astri che atterrivano il vulgo non meno che gli scienziati. All’avvicinare del pericolo non s’addormentò re Ferdinando, quantunque tenuto a bada dall’ambidestro Lodovico, e trasse dalla sua papa Alessandro col concedere al figlio di lui le ambite nozze colla Sancia figlia d’Alfonso di Calabria; e col braccio di questo prode intendeva assalire la Lombardia per impedirle d’unirsi ai Francesi; ma fra i preparativi morì (1494 25 gen.), e gli succedeva Alfonso II, con pingue erario, esercito e flotta fiorenti, reputazione di valore e della perfidia e crudeltà necessarie a prosperare. Sulle prime la sostenne eccitando i principi a difendere l’indipendenza italiana, e munito il paese per terra e per mare, potè disperdere i primi tentativi di Francia verso il Genovesato; e spediva un esercito verso Lombardia, capitanato da due delle migliori spade, l’Orsini conte di Pitigliano e Gian Giacomo Trivulzio. La discordia di questi due capi impedì quella celerità, che nelle guerre è tutto; e intanto re Carlo, meglio preparatosi, passava le Alpi (agosto) con tremila seicento uomini d’armi, seicento arcieri bretoni, altrettanti balestrieri francesi, ottomila fanti leggieri guasconi coll’archibugio, altrettanti alabardieri svizzeri, in grossi battaglioni quadrati da mille ciascuno. I baroni e i feudatarj non erano obbligati a servire il re fuori paese; onde non seguivano quasi che capitani venturieri, con una schiuma di tutte le provincie dal mar Picardo al Guascone, scampaforche e per infamia bollati le spalle e mozzi le orecchie, che coprivano con cappelli e barba lunghissima[41]: nuovo genere di guerra, d’armi, di fierezza; nuova irruzione barbarica sopra l’Italia, già tanto civile; ove diventarono la prima fanteria d’Europa, ed ove ammirando le splendide città e le arti e le lettere de’ popoli che trucidavano, insiem col bottino dovevano asportarne l’amor del bello. Era la prima volta che un grande esercito civile tentasse una grande impresa, con artiglieria mobile, con corpi speciali, alla personale prodezza del cavaliere surrogando l’eroismo della disciplina e la fedeltà alla bandiera. E subito apparve l’inferiorità delle ordinanze militari italiane, sì per essere le armi mestiere di privati anzichè pubblico provvedimento, sì per consistere in cavalleria pesante e macchine incomodissime, invece di buona fanteria e di maneggevole artiglieria; tanto che difficilmente si prendeano le fortezze, e in lunghissimo trascinavansi le guerre. Finchè combatterono Italiani con Italiani, tutti pativano degli eguali difetti; ma ora, invece delle bombarde trascinate da bovi, che a lunghi intervalli lanciavano pietre contro le mura, si trovavano a fronte un furore di cenquaranta cannoni grossi e mille ducento da montagna, portati a spalla o tratti da cavalli, e che, uno senza aspettar l’altro, avventavano globi di ferro, irreparabili dalle fortezze antiche. Nè più si manovrava di squadroni succedentisi un all’altro come in torneo; ma le truppe, con meraviglia e scandalo de’ nostri, pensavano ad ammazzare davvero, e non solo gli uomini, ma fin anco i cavalli; e un macello fu reputata la battaglia di Rapallo, ove perirono cento combattenti. Con tante bocche da fuoco ben si saprebbe trovare da vivere in paese pingue: del resto Commines, che con un misto di malizia e di buon senso raccontò l’impresa di cui fa parte, dice che «l’esercito difettava di ogni cosa; il re, ancora col guscio in testa, debole di corpo e testardo, non aveva allato nè savie persone, nè buoni capi, nè denaro; non tende o padiglioni, e cominciavasi la marcia d’inverno; ond’è a confessare che questo viaggio fu condotto da Dio andata e ritorno; chè del resto il senso de’ condottieri non vi servì». Sarebbe bastata la più piccola difesa alle Alpi per impedirlo: ma il Piemonte stava sotto un fanciullo in una tutela disputata; e Bianca di Monferrato, tutrice di Carlo II di Savoja, e Maria Paleologo figlia di Stefano despoto di Servia, tutrice di Guglielmo di Monferrato, fecero aprir le fortezze. Così Carlo giunse ad Asti, città francese perchè soggetta al duca d’Orléans. A Torino la duchessa gli venne incontro a capo delle sue damigelle «ornate sì bene che non v’era che dire», e gli prestò le proprie gioje, ch’e’ mise in pegno per dodicimila ducati: la città, oltre spettacoli nei quali sui crocevia rappresentavansi le imprese di Carlo Magno, gli offerse un cavallo, cui _per cortesia_ egli pose nome Savoja e sempre il montò in quella spedizione, e sull’esempio d’Alessandro volle che il suo giornalista ne facesse ripetuta menzione. A Pavia giaceva infermo e prigioniero Gian Galeazzo; e sua moglie Isabella d’Aragona, sdegnata di quella schiavitù ove sin del cibo pativa difetto, e del vedersi soperchiata da Beatrice d’Este moglie del Moro (1494), avea fatto ogni possibile per rincorare il pusillanime marito: ma questi non sapea tacere le pratiche ch’essa ordiva per liberarlo. Non rimanea dunque che gettarsi alla pietà di Carlo, suo cugino[42]; ma questo era stato prevenuto dal Moro, e «presentato di molte formosissime matrone milanesi, con alcune delle quali pigliò amoroso piacere» (CORIO); e forse di conseguenza ammalò di vajuolo: poi esso Moro l’accompagnò dall’un all’altro de’ palazzi che i ricchi milanesi teneano su tutta la via, «e in su la campagna gli fece vedere ammazzare alcuni porci cignali, di che molto abbonda il paese, sì che il re ne prese gran diletto» (CAGNOLA.). Giunto a Pavia, Carlo visitò il duca, il quale, esinanito di corpo e di spirito, si contentò di raccomandargli la moglie e il figliuolo: ma Isabella gettossegli ai piedi, rivelando le oppressioni sofferte, e supplicandolo a non assalire suo padre, che in nulla avealo offeso. Carlo ne fu tocco un istante perchè era bella; ma rispose: — L’impresa è già a tal punto che la mia gloria non mi permette di dare indietro». Pochi giorni appresso Gian Galeazzo moriva di _febbre attossicata_, come dice un cronista ripetendo le dicerie del popolo, che vuol vedere il delitto ove vede cagione di commetterlo; e Lodovico, a preghiera universale, preso lo Stato, cavalcò per Milano acclamato duca, e Isabella e i figliuoli tenne chiusi nel castello di Pavia. Indignati di tale perfidia, e sgomenti di questi principi italiani, destri a’ veleni non men che alle spade, i signori francesi esortavano Carlo a volgersi contro il Moro; ma egli preferì assalire gl’incolpevoli Aragonesi, e scese lungo l’Italia. De’ Fiorentini i fuorusciti s’unirono al liberatore; altri, guardando ab antico la Francia come antemurale della parte guelfa, si lagnavano che Pietro Medici li trascinasse in una guerra repugnante ai sentimenti e agli interessi loro. Ma quando si cominciò a vedere le uccisioni e gl’incendj che coloro menavano, Pietro non osò resistere; e venuto a Carlo con imitazione affatto disopportuna di quanto avea fatto Lorenzo suo padre, ne impetrò pace, rassegnandogli Pisa, Livorno, Pietrasanta, Sarzana, altre piazze importanti, oltre ducentomila ducati (1494); contento di sbranare il dominio purchè sulla metà rimastagli potesse assidersi quieto. Traboccò lo sdegno de’ Fiorentini per queste arbitrarie codardie che rendevano inutile anche l’opposizione de’ Napoletani, e cacciarono a sassate quel vile mercadante (9 9bre) del proprio paese; e Pier Capponi, Francesco Valori, frà Savonarola, resuscitando l’entusiasmo patrio, fecero per la seconda volta dichiarare scaduti i Medici, e rinnovarono gli ordini repubblicani. Della rivoluzione approfittarono (come troppo spesso avviene) i nemici di Firenze, e Pisa principalmente, che in ottantasette anni di tirannico dominio non avea deposte le ire e le speranze de’ vinti. Esultante di vedersi inondata di combattenti avversi a Firenze, nè riflettendo quant’è pericoloso fondare la propria libertà sovra stranieri che poi se ne vanno, diè di piglio alle armi, ruppe le insegne fiorentine, e al marzocco sostituì la statua del re liberatore[43]. Il re, onorato di splendidissime feste, a un ballo sedette fra le due più belle; le altre donne e fanciulle di concerto se gli gittarono alle ginocchia domandando che Pisa non ritornasse più sotto i Fiorentini, volendo esse piuttosto andare attorno a far guadagno del proprio corpo[44]. Entrato in Firenze (17 9bre) «in segno di vittoria armato egli e il suo cavallo, colla lancia sulla coscia» (GUICCIARDINI), Carlo pretese trattarla come conquista; i suoi non sapeano dissimulare la cupidigia di saccheggiare la più ricca città d’Italia, e alloggiatisi ne’ palazzi medicei, presero quanto di bello v’aveano radunato i padroni in quadri, gemme, libri. Al cadere di Pietro, il Savonarola vi era rimasto la persona più notevole, e co’ suoi perseverava in orazioni e digiuni per placar Dio; poi come udì che Carlo tentava sovvertire il governo, andò al palazzo, ed essendosi quello alzato di sedere per fargli riverenza, secondo il costume dei re di Francia, egli trasse fuori il crocifisso, e presentatoglielo alla faccia, — Questo (disse) ha fatto il cielo e la terra; non onorar me, ma questo ch’è re dei re, e punisce gli empj, e farà rovinar te con tutto il tuo esercito se non desisti da tanta crudeltà. È volontà di Dio che tu parta da questa città senza farvi mutazione» (BURLAMACCHI). Con più positivo accorgimento la Signoria erasi circondata di condottieri; ogni signore avea dalla campagna chiamato i suoi villani; e Pier Capponi, al quale Carlo esibì una capitolazione ove intendeva tener Firenze come conquista, e ritrarne ingente somma, buttò via quel foglio; e Carlo avendogli detto — Faremo dar fiato alle nostre trombe», e’ gli rispose quel famoso motto: — E noi toccheremo le nostre campane». Il re voltò la cosa in celia, dicendo: — Ah Capponi, Capponi, voi siete un tristo cappone». I Francesi, che cogli arditi si placano, vollero persuadersi che tal sicurezza derivasse da grandi forze, e d’altra parte comprendevano che in città popolatissima e fra palazzi così massicci era follìa volere tener testa a un popolo sollevato; onde scesero a patti ragionevoli, lasciando a Firenze la libertà e i privilegi che godeva in Francia, le fortezze occupate, il dominio su Pisa, e ricevendo un sussidio per la guerra di Napoli. Senza dunque la rinvoluta politica de’ Medici si potè ottenere un accordo assai franco, come che velato da umili parole. Carlo proseguì verso Romagna. Alessandro VI avea mosso ogni pietra per impedirlo, fin minacciando scomuniche, alle quali Carlo rispose avere fatto voto a san Pietro, e doverlo compire anche a costo della vita. Il papa, rivoltosi a mezzi migliori, tornò in buona coi Napoletani, ricevendone presidio; autorizzò Ferdinando di Spagna a valersi contro Francia delle decime ecclesiastiche accordate a danno de’ Musulmani; a Bajazet II granturco annunziò i disegni di Carlo contro la Turchia, invocandone la buona amicizia, e che gli mandasse subito quarantamila zecchini, e tenesse in soggezione i Veneziani perchè non aiutassero Francia. Ma i signori battaglieri di Romagna, dopo avere corrotta l’Italia colle ambizioni proprie, la rovinavano vendendosi alle altrui; e sempre in armi e in fazioni, occupavano piazze forti fin in vista di Roma. Or dunque i Malatesta, i Riario, i Manfredi, i Bentivoglio, i Baglioni, gli Sforza trattarono ciascuno di per sè; Colonna e Orsini si chiarirono per Francia, dandole tutto il patrimonio di San Pietro; i Napoletani fuggirono; a Roma il popolaccio gridava — Pace, pace»; e gli avversarj di papa Alessandro, principalmente il cardinale Giuliano della Rovere, che non gli perdonò mai d’essergli prevalso nel comperare la tiara, fortificatosi in Ostia, esercitava nimicizia, ed esortava Carlo a convocare un concilio e deporre l’indegno pontefice. Ma questo giunse a propiziarselo, promettendo separare la propria dalla causa del Napoletano, dando cappelli rossi ai favoriti di esso, aprendogli castel Sant’Angelo, lasciandogli ostaggio suo figlio Cesare, proclamando indulgenza plenaria all’esercito invasore. Dei due figli lasciati da Maometto II granturco (Cap. CXVIII, _in fine_), Bajazet riuscì a cingersi la bifida spada del Profeta, vincendo il fratello Zizim o Gem, che fuggì di terra in terra e da ultimo al granmaestro di Rodi. Molti potentati il chiesero, come opportuno ad una guerra contro il Turco; alfine l’ebbe il papa, cui Bajazet mandò magnifici regali, tra’ quali la lancia di Longino[45], e preghiera di ben conservare suo fratello, assegnandogli perciò quarantamila ducati annui. A Carlo importava d’avere quest’altro pretesto di guerra contro il granturco; e Alessandro non potendo ricusare, gliel consegnava, ma vollero dire l’avesse in prevenzione avvelenato, giacchè pochi giorni dopo morì. Roma restò salva dal saccheggio (31 xbre): e con una curiosità sbigottita vide entrare quell’esercito, così diverso dai consueti[46]. Carlo, indugiatovisi un mese, fortificato con tutta l’artiglieria nel palazzo di Venezia, dove battè moneta col titolo d’imperatore, fondò la chiesa della Trinità dei Monti, fece fustigare, affogare, mozzare orecchi, impiccare «per attestato che aveva alta, media e bassa giustizia a Roma non altrimenti che a Parigi», e lasciò che i suoi rubacchiassero e lascivissero; poi sollecitato dai baroni, sfilò in due corpi verso Napoli, passando per Siena, «dove fecero cose disoneste e brutte; e bisognava che avessero quel che desideravano, giusto o ingiusto»[47]. È consueto tacciare di codardi i Napoletani nel difendere la casa propria: ma vaglia il vero, qual ragione aveano di esporsi onde sostenere un dominio che disamavano, e tanto più dopo le esazioni necessarie in que’ frangenti? Se non bastava il perfido trucidamento dei baroni, Ferdinando avea preso ombra fin d’un pio romito, san Francesco di Paola, e gli diè colpa di fondar conventi senza il regio assenso, e d’altre siffatte importanze de’ tiranni fiacchi; forse indignato perchè il santo, già in voce di profeta per avere indovinato la presa di Costantinopoli e l’assalto di Otranto, ripeteva grandissime sciagure sovrastare al regno. In tali conflitti, il popolo suol mettersi coll’inerme, anche quando avvocati e giornalisti parteggiano pel più forte. «E perchè si diceva Carlo esser santo uomo e di bonissima coscienza e giusto, e ancora perchè il re napoletano si portava male co’ suoi popoli, tutte le terre, città e castella correvano alla ubbidienza del re di Francia, e portavano le chiavi... e non aspettavano che sua maestà fosse presso a quelle da venticinque o trenta miglia; e il giorno non poteva resistere di dare udienza agli ambasciadori e mandati dalle comunità; e non bisognava combattere città e castella con spada e lancia, chè le genti ne cacciavano fuori la gente del re napoletano... e a quei passi dove si stimava che badassero più mesi per voler passare, non ristettero niente; anzi, quanto potevano camminare, tanto acquistavano al giorno; se mille miglia avessero camminato, tanto acquistavano di paese». Tanta fiacchezza nel cedere non campava dai disastri del resistere; poichè i Francesi nelle piazze di frontiera sterminavano intere popolazioni, e sfogavano i brutali istinti fin negli spedali. Ne restava sbattuto il coraggio de’ nostri, come se un assassino entri col pugnale in mezzo ad un diverbio di famiglia; onde «nè virtù, nè animo, nè consiglio, non cupidità di onore, non potenza, non fede mostrando» (GUICCIARDINI), fuggivano. Alfonso II, che pure aveva acquistato nome di prode nel ricuperare Otranto e nella guerra di Lombardia, e che il tesoro raccolto da suo padre aveva impinguato con una tassa straordinaria, in quel precipizio delle cose sue, straziato dai rimorsi, e parendogli che ogni cosa gli gridasse Francia, Francia, e che l’ombra paterna gl’intronasse dovere le commesse crudeltà aver castigo irreparabile, abdicò, e portando seco trecentomila ducati, rifuggì fra i monaci di Màzara in Sicilia (1495), e presto morì. Suo figlio Ferdinando, che s’era opposto al primo calar de’ Francesi, fu allora salutato re; e immune dell’esecrazione popolare, anzi lodato per umanità e coraggio, sperava far fronte alla tempesta. Si attestò alle gole di San Germano: ma vedendosi circuito da tradimenti, le truppe sfiduciate, popolo e nobiltà insorgere a favor di Francia, e a questa disertare il capitano Trivulzio, e gli Orsini fuggire o capitolare, e la plebe di Napoli buttarsi al saccheggiar le stalle e il palazzo regio, sciolse i suoi dal giuramento, e riparò ad Ischia (21 febb.), esclamando col Salmista: — Se il Signore non custodisce la città, invano faticano quei che la guardano». Carlo, più fortunato di Cesare, venne e vinse prima di vedere i nemici; e, come diceva Alessandro VI, cogli sproni di legno, e col gesso per segnare gli alloggi, cinque mesi dopo mosso di Francia, entrò in Napoli. «Vi fu ricevuto con festeggiamento incredibile, concorrendo ogni sesso, ogni età, ogni condizione, ogni qualità, ogni fazione d’uomini, come se fosse stato padre e fondatore di quella città» (GIANNONE); i meglio beneficati dalla casa d’Aragona più abbondarono in applausi; e il letterato Giovian Pontano nel coronamento recitò un’arringa, non solo adulatrice di Carlo, ma codardamente ingiuriosa agli Aragonesi di cui era creatura. Il paludamento imperiale e il pomo d’oro che portava nell’entrata, attestavano che Costantinopoli era sul disegno di Carlo. Da Otranto sbarcherebbe nell’alta Albania; Schiavoni, Albanesi, Greci gli tenderebbero la mano; l’arcivescovo di Durazzo avea già fatto côlta d’armi e di gente; cinquemila in Tessaglia non aspettavano che il segnale. Ma i Veneziani tenevano il sultano informato e de’ preparativi del nemico e delle trame dei sudditi, che furono tuffate nel sangue. Di peggiori danni erano causa i comporti de’ Francesi. Fin allora le due nazioni non s’erano conosciute che dal lato peggiore; e i nostri consideravano i Francesi come una gente nordica, digiuna d’ogni civiltà, quale l’avevano veduta calarsi coi Normanni dapprima, poi con Carlo d’Angiò, e ultimamente cogli Armagnacci, baldanzosa nell’uso delle armi, stretta al sistema feudale, ligia ai rei, rapace, lasciva. I Francesi in fatto non aveano più la rettitudine istintiva dell’infanzia e non ancora il senno dell’età matura, ma cieca avidità di piaceri e distruzione; riverivano negl’Italiani la precoce civiltà, la classica letteratura e il primato religioso, ma in tutto ritrovavano di che beffare o sprezzare; nell’urbanità vedeano raffinamento d’astuzia, duplicità, perfidia, corruttela; pedanteria nell’erudizione, avidità e intrigo nella curia di Roma: al vulgo eran parse magia le magnificenze che dalla corte di Gian Galeazzo avea portate in Francia Valentina Visconti; di qua vedea giungere gli astrologi, altra specie di stregoni; di qua gli usuraj e i finanzieri, la cui abilità faceali considerare come sanguisughe del popolo. Ed ecco repente i Francesi si trovano a spadroneggiare in questo paese incantato, dove le case hanno i vestiboli popolati di statue, e dentro stoffe, cristalli, cantine e cucina lautamente provviste, tappeti di Fiandra, più sale che camere, più spazio che alloggi, e terrazze aeree, e al lusso unita l’economia campestre in quelle viti che s’attaccano ai colonnati, in quelle api che fanno il mele entro le volute joniche, in quelle pecore e vacche che passano sotto ai portici. Vogliosi d’esercitarvi la cupidità non solo, ma il dispetto che i forti covano contro gl’intelligenti, s’assisero brutalmente nelle città arricchite dal commercio e dalle arti, e tutto manomisero; per soldarli si dovettero sottrarre capitali alle fabbriche, all’insegnamento; le rendite del ginnasio romano furono confiscate a quest’uso; la scuola e la stamperia di Aldo Manuzio andò dispersa. D’altra parte le delizie italiane inebbriavano, e da Napoli Carlo VIII scriveva a Pietro di Bourbon suo cognato: — Deh che bei giardini qui ho! affedidio non vi mancano che Adamo ed Eva per crederlo il paradiso terrestre, tanto son belli e ricolmi d’ogni buona e singolar cosa. Inoltre vi ho trovato i migliori pittori, e ad essi voi commetterete di fare le più belle soffitte che sia possibile, e non saranno soffitte di Baux, di Lyon e d’altri luoghi di Francia, che non s’accostano in nulla per beltà e ricchezza a questi di qua; ed io li menerò con me per farne ad Amboise». E il cardinale Briçonnet alla regina Anna di Bretagna: — Vorrei che vostra maestà avesse veduta questa città, e le belle cose che vi sono; un vero paradiso terrestre. Il re, per sua bontà, ha voluto mostrarmi tutto quando arrivai a Firenze, dentro e fuori, e vi assicuro ch’è incredibile la vaghezza di questi luoghi, appropriati ad ogni sorta di piaceri mondani... Il re ve ne conterà, e vi ecciterà desiderio di venir a vedere»[48]. Queste delizie erano stimolo a lascivia; la galanteria leggera e vivace dei Francesi solleticava la sensualità meridionale; e le poesie loro di quel tempo son piene d’allusioni alle buone venture di que’ soldati presso le donne lombarde e pugliesi, alla gelosia de’ mariti, al dispetto delle dame parigine[49]. L’esercito francese, che non avea trovato veruna opposizione in quei condottieri italiani così vantati per tattica e valore, nessuna nei popoli cui toglieva i proprj principi e l’indipendenza, concepì smisurata presunzione di sè e vilipendio de’ nostri, sicchè nè stima, nè riguardo mostrava a nemici od amici. Carlo, abbandonatosi a giostre ed amori, non approvvigionò le fortezze, non ammanì vittovaglie; intanto disgustava i nobili col mozzare le giurisdizioni feudali; e per contentare i suoi, che chiedeano tutte le cariche, tutti i titoli, i feudi, i governi, esso li toglieva ai legittimi possessori, di qualunque colore fossero. I fautori antichi degli Angioini aveano sperato premj della diuturna fedeltà; i fautori nuovi li speravano del pronto disertare dagli Aragonesi: ma gli uni e gli altri si trovavano sconosciuti dal re e da’ suoi, ignorati i loro meriti e le sofferte pene; e dopo stentato nelle anticamere, a gran fatica otteneano una parola dal frivolo ed inetto Carlo. Tutti dunque del pari soffrivano, spogli, vilipesi coll’insolenza dell’indisputata vittoria, mentre i conquistatori, snervati dalle lascivie e satolli d’oro, agognavano di restituirsi in patria a narrar le imprese; cosa che a quella nazione importa quanto il compirle. Tornava dunque il pensiero a Ferdinando II, cui non si aveano delitti a rinfacciare; tutti lo rimpiangeano, molti insorsero a favor di lui, che s’arrischiò anche a qualche sbarco. D’ogni parte intanto giungeano male nuove al quartier generale, e Carlo potè chiarirsi che invasione non disputata non è conquista, e che la conquista non si assoda se non col possesso. Ferdinando, ricoverato in Sicilia, mandò per soccorsi a Ferdinando il Cattolico, dimenticandosi delle costui pretensioni sul Regno; e quegli volentieri intrometteasi sperandone guadagno, e temendo le antiche ragioni degli Angioini sulla Sicilia. Massimiliano imperatore lagnavasi che Carlo avesse leso le ragioni imperiali col calarsi in Italia senza suo consenso. Toscana era tutta in subuglio contro Firenze, la quale però dal Savonarola era mantenuta in devozione di Carlo. Il resto d’Italia avversava i Francesi dacchè temette volessero qui piantarsi. Lodovico il Moro, soddisfatto della sua ambizione, non tardò adombrarsi e dei diritti che sopra il Milanese metteva in campo il duca d’Orléans qual discendente da Valentina Visconti, e sì dell’aura acquistata presso Carlo dal Trivulzio, condottiere milanese suo gran nemico, e da’ fuorusciti genovesi. Venezia, che prima non avea voluto credere alla calata de’ Francesi[50], poi s’andava persuadendo che non persisterebbero, come li vide vincitori, si fe centro agli scontenti (1495), negoziò lega tra loro per la conservazione reciproca degli Stati e la difesa d’Italia, senza dimenticare il solito titolo della guerra coi Turchi: e stipendiò quanti erano condottieri in Italia. Lo storico Commines, il quale, erede della politica di Luigi XI, vegliava da Venezia sulle storditaggini del re di Francia, l’avvertì delle mene veneziane; ma a che buono, se colui era sbalordito dai proprj trionfi? Papa Alessandro non andò guari a pentirsi del favore usatogli, e gli dava parole invece della investitura del Reame, dove la bandiera aragonese si rialzava. Sin la Francia, per quanto allucinata dalla gloria che fu sempre il suo idolo e il suo malanno, sgradiva una spedizione che, per interessi privati, compromettea di fuori le forze, di dentro il riposo. Carlo dunque pensò ritornarsene (20 maggio), lasciando vicerè Gilberto di Montpensier, e comandanti alle piazze; col che smembrato l’esercito, rendeva a questo impossibile la tutela del regno, a sè perigliosa la ritirata. Traversato Roma senza osar punire la perfidia d’Alessandro, nè impedire che i suoi soldati malmenassero il territorio, entrò sul Fiorentino, che trovò in armi, e frà Girolamo, che gliel avea conservato fedele, con franchezza gli rinfacciò la sua perfidia ai giuramenti prestati sugli altari, la negligenza nel riformar la Chiesa, gli eccessi del suo esercito; e poichè avea fallito alla missione datagli dall’alto, il minacciò del flagello celeste. La morte del Delfino, accaduta fra pochi giorni, crebbe al frate la reputazione di profeta. Carlo sgomentato sviò da Firenze, volgendo sovra Pisa; e invece di accelerar la marcia prima che i suoi nemici si accozzassero, si badò nelle varie città per goder le feste e le dimostrazioni. L’interesse che vi presero i suoi gl’impedì di rivendere a Firenze la libertà di Pisa e Siena, che a queste avea già venduta; ma senza conciliare la franchezza delle une colle promesse fatte all’altra, uscì di Toscana. I contadini non mancavano di portare viveri, ma i Francesi tremavano non fossero attossicati; e qualche Svizzero che, bevi e ribevi, moriva d’intemperanza, diceasi vittima dei veleni italiani[51]. Faticosamente traversarono le montagne del Pontremoli colle artiglierie; ma quando speravano svallare da quelle angustie nell’ubertosa Lombardia, i confederati italiani numerosi intercisero la via a Fornovo, fra colline divise dal Taro, che dalle montagne del Genovesato piove nel Po. Massimiliano imperatore avea promesso moltissime truppe, e non ne mandò che un pugno. Lodovico il Moro si era impegnato di soldare Austriaci e Svevi, poi all’uopo scarseggiò di denaro. Ma i Veneziani raccolsero grosso stuolo di cavalleria dalmata ed epirota; altri signori, e massime i Sanseverino, condussero corpi; onde, fra le contraddittorie relazioni, sembra che l’esercito sommasse a quarantamila uomini, comandato da Francesco Gonzaga, marchese di Mantova. Su costui s’allargano le cronache, descrivendone le abilità cavalleresche del correre, cavalcare, ferir giostre e torneamenti, cacciare il cinghiale; sommo dilettante di cani e di cavalli che a gran prezzo traeva da lontanissimo; benchè giovane allora di venticinque anni, era in fama d’uno dei migliori capitani. I Francesi, inferiori di numero e spossati dalla marcia, chiesero di poter passare pagando le vittovaglie; i nostri ricusarono, onde fu forza venire a giornata. Parve sì stringente il pericolo, che nove guerrieri (6 luglio) si vestirono come il re, per eludere i colpi ad esso diretti; ed egli si votò a san Dionigi e a san Martino. Ingaggiata la battaglia con furore più che con arte, e presto rotte le lancie, si venne agli stocchi e alle mazze ferrate; i cavalli medesimi si combatteano con spintoni e morsi e calci: ma con cavalli più deboli e armi più pesanti de’ Francesi, i nostri colpiti cascavano a terra, e non potendo più rialzarsi, quivi dai valletti erano ammazzati; la fanteria nostrale non reggeva al peso degli Svizzeri e alla furia francese; quando poi il Trivulzio abbandonò le ricche salmerie all’ingordigia degli Stradioti, su quelle si gettarono, e dietro a loro i fanti, e tutto andò in iscompiglio, lasciando i Francesi prendere la rivincita. Un combattimento, che alcuno dice durato dalle quindici ore fin all’una di notte, e alcuno solo due ore, anzi meno[52], e di cui è incerta ogni particolarità, fin il numero de’ combattenti, riuscì sanguinosissimo, non dando i Francesi quartiere perchè non poteano menarsi dietro i prigioni, anzi affrettandosi a sventrarli nell’idea che avessero inghiottito l’oro per sottrarlo alla rapacità. Carlo portava sempre indosso un prezioso reliquiario contenente particelle del legno della santa Croce, del velo della beata Vergine, della veste del Salvatore, della spugna, della lancia: per assicurarlo l’aveva affidato al suo cameriere; ma cadde in mano de’ Veneziani, come anche un libriccino devoto, su cui aveva manoscritta un’orazione. Il duca di Milano sul luogo del conflitto fece erigere una cappella: il marchese di Mantova nella sua città la chiesa di Santa Maria della Vittoria con un quadro del Mantegna. «A Bologna è sta fatto fuoghi, sonà campane, e fatto gran cridori a honor de San Marco per el successo del Taro. In Venezia è sta fatto procession, come anche a Milan e Fiorenza, per ringraziar Dio de tanto don... È sta trattà in consegio dei X di far un monastier de frati Osservanti a Fornovo, e de intitolar la giesa Santa Maria della Vittoria, con cinquecento ducati de intrada... I Francesi che xè morti è quattromila. È sta dà tagia a la persona del re trentamila ducati morto, e a chi ’l dà vivo in man dei Provedidori e del duca de Milan, trentamila ducati e do castelli»[53]. Gl’Italiani cantavano dunque vittoria, ma la cantarono anche i Francesi: e certo i nostri non conseguirono quel che voleano, cioè d’impedire la ritirata, benchè doppj di numero degli avversarj; non mostrarono nè quella tattica per cui erano rinomati, nè quell’accordo che solo può accertar la vittoria; non seppero attaccare quando l’avanguardia era ancora isolata, nè inseguire quando il disordine era compito. L’Italia non avea mai fatto sforzo più potente a sua tutela; e fu l’ultima volta che le armi sue confederate si trovassero a respingere gli stranieri: ma se a Legnano dalla vittoria era saldata l’indipendenza, a Fornovo fu perduta. A Carlo parve avere buon patto del potere più che di passo e senza suon di trombe seguitare la marcia traverso a paese nemico, e nel bollore dell’estate, dove i Francesi soffersero ogni sorta privazioni, pur ridendo e spassandosi. Altra porzione dell’esercito, che condotta da Luigi d’Orléans era discesa sulla Lombardia per rinfrancare il re, si trovò assediata alla gagliarda in Novara[54] dai Milanesi, e avendo sperperato i viveri colla solita spensieratezza, pativa gli estremi della fame, sinchè Carlo, non potendo allargarla coll’armi, il fece per patti, cedendo quella città allo Sforza. Sopraggiunsero fra ciò gli Svizzeri, e non soli cinquemila quanti Carlo n’avea chiesti, ma ventimila, e fanciulli e donne del pari sarebbero venuti, se non si fossero poste guardie a frenarli; tanto gli inuzzoliva la pinguedine lombarda. Intanto si moltiplicavano e incrociavano le trattative: ma il re godeva in Chieri l’amore di Anna Solera; la nobiltà francese, trascendente nelle vittorie e insofferente delle traversìe, ripeteva esser imprudenza l’esporre il re a nuovo pericolo; e invece di rinnovare con quel poderosissimo rinforzo le ostilità, vollero fosser rimandati gli Svizzeri, che delusi della speranza di bottinare, si gettarono sul campo francese. Carlo, ch’e’ voleano arrestare come sicurtà delle paghe, a fatica si salvò fuggendo, e promettendo mezzo milione di franchi a questi amici, più molesti dei nemici. Un corpo di Francesi ch’egli avea lasciato in Asti sotto il Trivulzio per tenere aperto quel varco, ben presto disertò. Restava la guarnigione a Napoli: levandola avrebbe abbandonato alle vendette quei che l’aveano favorito; lasciandola, la sacrificava irreparabilmente. Di fatto Ferdinando II ricomparve, con nuovi eccidj ricuperando le varie città; e Mori e Greci a gara coi Francesi uccideano e saccomannavano; il popolo trucidava a furore e sventrava i Francesi; le masnade di assassini che il Governo tollerava sperando se ne formassero buoni soldati, davano fieramente addosso a chiunque si sbandasse. Fabrizio e Prospero Colonna, con larghissimi doni guadagnati da Carlo VIII, lo abbandonarono dacchè più nulla ebbero a sperarne; Alfonso d’Avalos, marchese di Pescara, allora appunto ucciso a tradimento, Gonsalvo di Cordova il gran capitano di Spagna, e principalmente la peste, difficoltavano ogni di più la situazione de’ Francesi, sol dagli Orsini sostenuti. I due eserciti, in estrema penuria di denaro ed esauste le fonti ordinarie, si presentano nei piani di Puglia per riscuotere ciascuno la gabella che le greggie pagavano per pascolare, e in poche ore trucidano seicentomila capi di bestiame minuto, ducentomila di grosso. Non minore carnificina faceasi d’uomini. I migrati insistevano perchè Carlo mandasse ajuti a quel pugno di prodi che sosteneva l’onor di Francia; ed egli in fatti ordinò un robustissimo armamento, e parea sulle mosse, quando disse voler prima andare a raccomandarsi a san Dionigi in Parigi e a san Martino in Tours; e rivalicò le Alpi (22 8bre). I Francesi non soccorsi dovettero capitolare, e si ridussero a Baja aspettando l’imbarco: ma prima che questo arrivasse, i morbi li sterminarono. Il Trivulzio da Asti minacciava Genova, poi desistette, dissero guadagnato dai denari del Moro, ma piuttosto trattovi dalla propria instabilità, sagrificando i suoi partigiani. Infine Carlo conchiuse col re di Spagna una tregua (1496 13 luglio), nella quale furono comprese le potenze italiane. CAPITOLO CXXIX. Conseguenze della spedizione di Carlo VIII. Fine del Savonarola e di Lodovico il Moro. Un re che capitana il proprio esercito, alletta i popoli e la storia, anche quando sfortunato; e fra i conquistatori vien noverato Carlo VIII per un’impresa assunta con puerile vanità, inescusabile nello scopo, menata alla pazzesca, detestando nelle guise, riuscita per accidente, impossibile a conservarsi. Non portò altro frutto che di logorare uomini e ricchezze; nè per l’Italia fu una sventura di quelle che istruiscono e ritemprano un popolo, come quelle del Barbarossa e del 1848; pose in mostra soltanto inabilità contro inabilità, piccoli spedienti, partiti irragionevoli spesso, ingenerosi sempre, intrighi di diplomazia, complicazione d’alleanze tutte doppie e perfide; ogni potentato invocò il Turco, perfino il papa; le discordie giunsero all’estrema esacerbazione, e per isfogarle si ricorse ai forestieri, i quali più avidi tesero lo sguardo su noi, perchè sicuri di appoggio, onde furano inoculati all’Italia germi di guerre, non meno funesti che il morbo diffuso dall’esercito del piccolo re. Sbrattatolo da’ Francesi, Ferdinando rassettava il regno (1496), quando morì di ventinove anni, prima di perdere l’amore dei sudditi; eppure avanti morire ordinò fosse decollato il vescovo di Teano, e per tema che il comando restasse ineseguito, volle vederne il teschio. Gli succedeva lo zio Federico II, quarto re in tre anni, che colla moderazione e l’indulgenza cercò sopire le gelosie e gli sdegni, e riguadagnarsi gli Angioini. In Firenze, dopo espulsi i Medici, la balìa voleva chiamare al dominio i cugini di quelli, discendenti da Lorenzo fratello di Cosmo il Vecchio; ma alla democrazia anelavano i più, e principalmente il Savonarola, il quale non avea cessato di predicare contro i tiranni, e minacciare il peggior flagello, la dominazione di stranieri. Il verificarsi delle sventure da lui vaticinate aggiunse credito a lui ed alla parte dei Piagnoni o Frateschi; persone di tutti i colori accorsero in Firenze, e minacciavano lo sterminio dei Medici; sicchè per prima cosa bisognava calmare. E il frate vi riuscì; poi intento ad associar religione, morale, libertà, introdusse un governo popolare sì, ma sul modello di Venezia, ammirata come capolavoro delle costituzioni[55], mettendo limite alla podestà fin là incondizionata della Signoria. Dio regna in cielo, Cristo in Firenze; i Signori sono gli angeli che fanno il bene, gli Otto di guardia sono gli angeli che impediscono il male; e così via con idee mistiche vestendo riforme, in verità meschine quando non anche improvvide. Per risanguare le finanze ciascuno contribuirebbe un decimo della sua sostanza immobile. E poichè della libertà faceasi strada alla riforma morale, ai ribaldi costumi fece guerra con provvedimenti esagerati; contro la sodomia e il giuoco sfrenato invocando le domestiche delazioni[56]; le cortigiane si esporrebbero a suon di trombe; a chi giuoca cinquanta ducati, si mandasse a dire che il Comune n’abbisogna mille, e li desse; ai bestemmiatori si forasse la lingua; si chiudessero le botteghe in festa, eccetto le farmacie; i debitori potessero la domenica uscire senza pericolo per udir messa e predica. Dal concetto primitivo derivavano eccessive conseguenze. Se il Governo è modellato a esempio del cielo, lo sparlarne sarà empietà; i decreti son ordini divini, comunicati per mezzo profetico, dunque indisputabili; il messo di Dio s’intrigherà delle minime cose, portando lo spionaggio e la discordia nelle famiglie, donde dissapori e malevolenze, mentre la guerra al lusso uccideva l’industria, vita di Firenze. Tra i Piagnoni primeggiavano Pierfrancesco Valori e Paolantonio Soderini, mentre Guidantonio Vespucci menava gli oligarchi, che avvezzi al buon tempo, a comandi e magistrati, e volendo conservarli, si chiamavano Compagnacci o Arrabbiati pel gridar che faceano contro la versatilità e impudenza della plebe. I Palleschi o Bigi, fautori de’ Medici o piuttosto nemici del riformare i costumi, s’accostavano qualche fiata ai Piagnoni, sol perchè avversi alla balìa. La qual balìa era stata rinnovata al modo antico, cioè dal popolo convocato in piazza. Nessuna espressione più illusoria dell’approvazione popolare che il voto universale; e il popolo fiorentino, gelosissimo di quest’omaggio alla sua sovranità, non avea mai fatto che approvare le rivoluzioni compite, e conferire la balìa, cioè potere assoluto di riformar la repubblica. Venti _accoppiatori_ furono destinati a _tener le borse_, cioè a fare essi soli l’elezione; sicchè in questi pochi restringevasi l’autorità: eppure dissentendo fra loro, sparpagliavano i voti sopra moltissimi candidati, a scapito dell’opinione. Savonarola, che li fulminava come una nuova tirannide, e voleva le elezioni fossero restituite al popolo che meglio sa i meriti di ciascuno, fece vincere che entrassero nel consiglio generale tutti quelli, di cui il padre, l’avo e il bisavo avessero goduto la cittadinanza; i magistrati fossero eletti da questo consiglio, non dalla sorte nè da pochi oligarchi. Allora, pubblicando che rendeva per la prima volta veramente popolari le elezioni, bandì piena amnistia, serbando così illibato il suo trionfo. Fu opera del frate se i Fiorentini non presero parte cogli altri Italiani nel cacciare Carlo VIII, il quale però, senza riguardo per essi, manipolava con Pietro de’ Medici. Costui non seppe cogliere il destro di rientrare in Firenze all’ombra del re; dappoi lo tentò, invano: due volte coll’ajuto di condottieri romagnuoli e d’interne intelligenze. Di queste imputati, Bernardo del Nero gonfaloniere ed altri potenti e creduti cittadini furono condannati a morte (1497 1 agosto). Secondo la legge emanata dal Savonarola, essi appellarono al gran consiglio: ma ben vedendo ch’era quistione di Stato più che di giustizia, e che l’assolverli equivaleva a condannare il reggimento d’allora, gli esagerati urlando fecero ricusare l’appello, e non lasciarono la sala del consiglio finchè la sentenza non fu eseguita. Tristo al partito liberale il giorno ch’è costretto violare le proprie ordinanze e rinnegare le proclamate libertà! I Piagnoni scaddero di grazia: — Il Savonarola (gridavasi dagli Arrabbiati) è un intrigante, le cui passioni dissonano dalle parole, giacchè dopo proclamata l’amnistia non impedì il costoro supplizio; un insensato, che annunziò come inviato da Dio questo Carlo VIII; è donnajuolo, ambizioso, instabile; il coraggio, la pietà sua dov’erano nella peste d’or ora, quand’egli e i suoi frati si chiusero nel convento?» Nuovi odj accumulavasi frà Girolamo coll’inveire contro la scandalosa famiglia del pontefice, dove un fratello uccideva l’altro per gelosia della comune sorella, dove la bagascia del gran prete figurava nelle funzioni di palazzo e di chiesa: ed Alessandro VI, dopo ammonitolo ripetutamente, gli attaccò processo d’eresia, e interdisse il predicare. Il frate protestò, e: — La santità vostra si degni indicarmi qual cosa io deva rivocare di quanto ho scritto o detto, e volenterissimo il farò»[57]; poi non solo disobbedisce, ma allega una decisione di papa Pelagio, che, quando la scomunica sia ingiusta, non importi cercarne l’assoluzione[58]; e celebra in pubblico, e ripiglia il predicare, più ascoltato come suole chi è perseguitato. Citato a Roma, temendo per la sua vita, nega andarvi; e poichè è della natura umana l’esagerare nel puntiglio delle quistioni, sostiene in predica il papa poter fallare o perchè mal informato, o perchè operi contro coscienza; poi via via incalorendosi, se già avea detto che non è vero successore di san Pietro chi non ne imita i costumi, cerca sia convocato un concilio e deposto Alessandro; ne scrive ai re di Spagna, di Francia, d’Ungheria, d’Inghilterra, a Lodovico Moro, che, per ingraziarsi il papa, manda a questo la lettera. Alessandro non uscì dalle vie della moderazione[59]; consultò quattordici teologi domenicani; lasciogli sempre aperto il pentimento; nel breve ai frati dell’Annunziata lo chiamava _excommunicatum et de hæresi suspectum_, ma non eretico; esortava la Signoria che «facesse qualche segno di resistere al predicare qualche tempo, e che in qualche modo si umiliasse frà Girolamo a chiedere l’assoluzione, la quale quando seguisse, non gliela dinegherebbe mai, e poi il predicare»[60]. Non ascoltato, intimò nuova scomunica, ordinando alla Signoria d’imporgli silenzio se non volea vedere occupate di fuori le sostanze de’ Fiorentini, e interdetto il territorio proprio. Ne mostrano scandalo i frati d’altri Ordini, e gli Agostiniani lo anatemizzano: ne pigliano baldanza i Compagnacci, ed ora ipocritamente non vogliono aver affare con lui scomunicato e figliuolo di perdizione, ora collo spurgarsi e stropicciare piedi e grugnire ne accompagnano i sermoni; o gli fan trovare il pulpito fetido di brutture o covertato colla pelle d’un asino; o a mezza la predica sollevano in alto il tronco delle limosine, e lasciandolo cadere con gran fracasso scompigliano l’udienza. Quand’egli fece una processione «con i fanciulli tutti con una crocellina piccola di legno rossa in mano, passando sul ponte di Santa Trinita, li dileggiavano, e tolsero la croce rossa di mano, e rotta alcuna e gittata in Arno: nientedimeno detti fanciulli non feciono quistione, ma seguirono la processione; e fu cosa meravigliosa che avessino più cervello i fanciulli che i grandi: e bene Iddio dimostrò che era con loro, e cogli Arrabbiati il diavolo, da poi avevano in odio la Croce di Cristo» (CAMBI). La plebe pretende sempre miracoli da’ suoi idoli; e anche Carlo VIII, plebe di re, aveva detto beffardamente al Savonarola: — Fatemi un miracoluccio». Ora Francesco da Puglia, frate minore, sfidò il Savonarola (1498) a provare la verità delle sue predicazioni col giudizio di Dio: — Entri con me nel fuoco, e chi resterà illeso sia creduto. Perirò forse, ma col vantaggio di meco distruggere un eresiarca, che tante anime trarrebbe a perdizione». Il papa ringraziò i Francescani d’un sacrifizio, di cui la memoria non cadrebbe in eterno: il vulgo inuzzolì di tale spettacolo: gli accorti previdero che il Savonarola non accetterebbe, onde essi n’avrebbero il destro di trattarlo di vile, od esporlo alle baje. In fatto il Savonarola declinò l’empia prova; mentre insistevano gli avversarj per coprirlo di confusione, gli entusiasti nella persuasione della riuscita, e tutti i Domenicani, e molti laici e monache e donne e fanciulli si esibivano a sostenere il cimento del fuoco in sua vece[61]. Fu dunque forza aderirvi, e frà Domenico Buonvicino di Pescia, suo discepolo prediletto, se l’assunse per sostenere che, 1º la Chiesa di Dio ha bisogno d’essere rinnovata; 2º essa verrà percossa; 3º dopo i flagelli, Firenze e la Chiesa saranno rinnovate e prospereranno; 4º gl’infedeli si convertiranno a Cristo; 5º queste cose avverranno ai nostri tempi; 6º la scomunica portata contro frà Girolamo è nulla; nè peccano quei che non ne tengono conto. Nacque un interminabile disputare sulle forme (1498 7 aprile): finalmente allestita la pira e tutto, frà Girolamo pretese che il suo campione v’entrasse con l’ostia consacrata. Lo negarono risolutamente i Francescani: si cominciò a dire ch’egli era un fatucchiero, e portava vesti incantate: la giornata consumossi dal sì al no, e a sera un acquazzone disperse la folla, che era accorsa da tutto il territorio, avida di spettacolo, d’emozioni, di miracoli. L’entusiasmo deluso si muta in ira e vendetta; i Compagnacci lo gridano impostore; la Signoria può ormai affidarsi a lasciarlo prendere a furia di popolo, e processare. I suoi voleano difenderlo colla forza, ed egli lo impedì. Frà Benedetto da Firenze, che al secolo era stato il pittore Bettuccio, voleva a ogni modo andare seco in prigione, ma esso gli si rivolse dicendo: — Per obbedienza non venite, perchè io e frà Domenico dobbiamo morire per l’amor di Cristo»; ed in questo fu rapito dagli occhi de’ suoi figli, che tutti piangeano (BURLAMACCHI). Per le vie è insultato; uno gli caccia un pugno nelle spalle, dicendo: — Profetizza chi ti ha percosso», un altro un calcio dietro, e — Costà hai ha profezia»; amici parenti degli ultimamente condannati si satollano di vendetta, ingiuriano i Piagnoni, uccidono Francesco Valori colla moglie ed altri. Sgominati gli amici, non restano più nel consiglio e ne’ tribunali che gli avversarj del frate, i quali ripermettono le bische, gli spassi, i vizj. Condannare un frate non si poteva senza licenza del papa, il quale domandatone, chiese gli fosse consegnato il Savonarola; ma la Signoria ne volle in Firenze il processo, presenti due giudici ecclesiastici. Tribunale di tutti nemici, eppure non trova titolo a condannarlo, quantunque un ser Cecconi falsificasse le deposizioni; e un de’ giudici dicesse, — Un frate di più o di meno cosa importa?» Stirato sulla tortura perchè confessasse menzognere le sue rivelazioni, appena tolto dall’eculeo smentiva le calunnie estortegli, e — Non ho mai detto di credermi ispirato, bensì di fondarmi sopra le sante Scritture; non cupidigia, non ambizione mi mosse, ma desiderio che per opera mia si convocasse il concilio, e i costumi si riformassero a similitudine dei tempi apostolici»[62]. Avea quarantacinque anni (1498), e nel mese di prigionia scrisse l’esposizione del _Miserere,_ che nel commentare gli altri salmi avea tralasciata, dicendo serbarla pel tempo delle sue calamità. Condannato al fuoco (23 maggio) con frà Domenico e frà Silvestro Maruffi, allorchè il vescovo, sconsacrandoli, intimò che li separava come eretici dalla Chiesa, frà Girolamo soggiunse — Dalla militante», colla fiducia d’entrare nella trionfante. Detto loro che sua santità li liberava dalle pene del purgatorio e concedeva indulgenza plenaria de’ loro peccati, e domandato se l’accettassero, chinarono il capo e dissero, Sì. Ultimo e senza smentire il suo coraggio frà Girolamo andò al patibolo. Il vento parve un istante impedire le fiamme, sicchè già la plebe gridava Miracolo; e mentre alcuni il bestemmiavano come impostore e demagogo, altri perseveravano a venerarlo come santo; e subito si videro «uscire dei pubblici scritti, delle significanti pitture, delle medaglie che lo van decorando dei titoli più gloriosi» (BARTOLI). Allora gli Arrabbiati trionfanti perseguitarono molti come seguaci di lui, fra i quali Nicolò Machiavelli condannato in ducencinquanta fiorini; il titolo di Piagnone divenne un insulto; e parvero liberalismo la scostumatezza e la superstizione, cui il frate avea fatto guerra[63]. Il Savonarola fu un martire della verità anticipata? fu un profeta?[64] fu un gran patriota? un gran democratico? un precursore della riforma religiosa? o un allucinato? un impostore? Per quanto lo negasse quando gliene fu fatta colpa, egli disse veramente, e probabilmente credette essere ispirato da Dio ad annunziare la verità e l’avvenire, e — Se un angelo di Dio venisse un giorno a contraddirmi, non gli credete, perchè è Dio medesimo che parlò»[65]. Chi però conosce gl’impeti delle anime poetiche, lo taccerà d’impostore? e tanto più in tempo che queste comunicazioni fra il cielo e la terra teneansi come consuete? Fin da’ primordj una Bresciana gli scrisse preconizzandogli il suo avvenire; frà Angelo da Brescia avea veduto la testa di lui circondata da aureola; quando le sciagure annunziate piombarono sull’Italia, potè credere egli stesso d’averle conosciute per lume superno; e allora alla prudenza umana aggiuntasi l’ispirazione, interposto Iddio fra il pensier suo e la sua persona, pigliò confidenza in sè e baldanza nell’operare. Ma ambizione personale non mostrò, non cercò propagare le sue persuasioni colla forza, sibbene coll’esempio, vale a dire che credeva alla potenza del vero. In filosofia come in politica ritraeva direttamente da san Tommaso, e innanzi tutto proponeasi la correzione de’ costumi; ma avea voluto guidare i popoli per mezzo della passione e delle moltitudini, e, inevitabile vicenda, vi soccombette. L’uccisione di lui però fu politica anzi che religiosa, e Lutero ebbe torto di farsene un precursore[66], giacchè le azioni sue lo mostrano piuttosto un uomo del medioevo che della Riforma, elegia del passato piuttosto che tromba dell’avvenire. Ben è vero che, non essendo riuscito a rintegrar quel passato, potè servire d’incentivo a quei che sorsero ad abbatterlo; come uccide il corpo un medicamento che non bastò a guarirlo. Se non fu eretico, però disobbedì, e sostenne che uno scomunicato può ancor predicare e celebrare; ma delle opere di lui fu approvata la stampa, e solo più tardi ne fu messa all’Indice qualcuna. Poco dopo il supplizio, Raffaello il dipingeva nelle sale Vaticane fra i dottori della Chiesa; in Santa Maria Novella era ritratto fra le lunette che rappresentano Cristo predicante e san Domenico nascente; allorchè si trattò di beatificare Caterina de’ Ricci che lo invocava nelle sue orazioni[67], tornò in disputa la bontà di fra Girolamo; e Filippo Neri, che ne serbava in camera il ritratto, pregava Iddio non ne fosse riprovata la memoria. E non fu: anzi si sparsero e si tennero per le case immagini e medaglie, ov’era intitolato dottore e martire; e per più di due secoli, nell’anniversario dell’esecuzione di lui, i giovani spargeano la fiorita sul luogo che ne fu infamato[68]. Il giorno che a Firenze dovea farsi il giudizio di Dio col fuoco, in Amboise moriva di colpo Carlo VIII ventottenne. Non lasciando figliuoli, succedeagli Luigi XII duca d’Orléans, che educato a lubricità e stravizj, sempre bisognoso d’un favorito, e incapace di lunga applicazione, per destati tumulti venne lungamente tenuto in gabbia di ferro. Ma salendo al trono immegliò, protesse i diritti dei più in modo che fu detto padre del popolo. Come signore d’Asti già teneva un piede in Italia; e nella coronazione (1498 27 magg.) fecesi dall’araldo gridare duca di Milano e re delle due Sicilie e di Gerusalemme, come discendente da Valentina Visconti ed erede degli Angioini. Giova ripetere che Valentina, generata da Gian Galeazzo in Isabella di Francia, avea nel 1489 sposato Luigi d’Orléans fratello del re Carlo VI; e i Francesi, che sempre ci rinfacciano alcune triste regine di casa italiana, dimenticano questa che portò all’ancor rozza Corte la coltura nostra, valse tanto a consolare la misera follìa del cognato Carlo, nobilmente amò il marito; lui morto, adottò per divisa _Rien ne m’est plus, Plus ne m’est rien_; e a vendicarlo nelle infelici capiglie de’ Borgognoni e Armagnacchi allevò il figlio Carlo, il quale fu il primo che con eleganza e facilità esprimesse in versi francesi idee graziose e sentimenti veri, governati dalla malinconia naturale ad un uomo che tanti anni passò prigioniero degl’Inglesi. Carlo fu padre di Luigi XII e di Giovanni d’Angoulême, del quale i discendenti anch’essi vennero poi al trono. Luigi pretendeva dunque al Milanese, usurpato dagli Sforza; e sebbene questo Stato non passasse regolarmente di padre in figlio e tanto meno in donne, la politica interna e la esterna il persuadevano a impadronirsene, per dare esercizio alle forze irrequiete de’ suoi, proteggere le frontiere meglio che con fortezze, e impedire che le piccole signorie d’Italia contrastassero l’ingrandire della francese. Le ire degli Italiani, rincrudite dalla calata di Carlo, lo favorirebbero nella speranza di sfogarsi. Alessandro VI perseguitava gli Orsini, chiaritisi per Francia. L’avere Carlo VIII per grossa somma rimesso ai Fiorentini le fortezze occupate, stimolò le gelosie altrui; sicchè i Veneziani e Lodovico il Moro contro di loro sostennero Pisa, che ostinatissima si difese. Paolo Vitelli, valoroso inesorabile che l’assediava, uccideva le sentinelle che trovasse addormentate, levava gli occhi agli archibugieri che facesse prigioni e le mani ai bombardieri, in esecrazione delle nuove armi; eppure non essendo riuscito a prenderla, cadde in sospetto dei Fiorentini, che processatolo alla corda, il decapitarono; ma con ciò si resero nemici tutti i condottieri, a troppo lor costo[69]. Anche ai Genovesi venne fatto d’impossessarsi di Sarzana, ai Lucchesi di Pietrasanta; l’implacabile cardinale Della Rovere minacciava Genova sua patria e il papa suo emulo: insomma dappertutto combatteano Italiani contro Italiani, colle lentezze della tattica antica, invelenita dalla fierezza imparata dagli invasori. Fra i potentati primeggiava il Moro. Il suo Stato era de’ più floridi, e Commines dicea non averne mai visto uno più bello e di maggior valuta, giacchè si potrebbe cavarne cinquecentomila ducati l’anno, restando i sudditi ricchi anche troppo e contenti, mentre il duca ne traeva seicencinquanta e fin settecentomila[70]. Lodovico, secondo l’andazzo, proteggeva le lettere e radunava ingegni elettissimi: Franchino Gaffuri da Lodi musicante; Gabriele Pirovano e Ambrogio Varese medici e astrologi; i letterati Emilio Ferrari novarese, Giorgio Merula alessandrino, Alessandro Minuciano pugliese, il quale a Milano piantò stamperia in casa, e a proprie spese fece stampare Orazio e la prima volta tutte le opere di Cicerone, come Dionigi Nestore vi stampò un dizionario latino: Andrea Cornazano che cantò in terzine l’arte militare; lo storico e giureconsulto Donato Bossi, Pòntico Virunio (Lodovico da Ponte) erudito e matematico, Antonio Fileremo Fregoso genovese, Gaspare Visconte, Nicola da Correggio facevano gara di lodare il principe, al quale da Firenze applaudiva Angelo Poliziano; Jacopo Antiquario di Perugia, famoso latinista, gli serviva da segretario; da uffiziale delle milizie Andrea Bajardo parmigiano, autore del romanzo _Adriano e Narcisa_ e di molte rime in volgare; Luca Paciólo gli dirigeva la sua opera matematica «ad ornamento de la sua degnissima biblioteca de inumerabile moltitudine de volumi in ogni facultà e doctrina adorna»; Bernardo Bellincioni fiorentino era il suo poeta laureato; suoi storici Bernardino Corio e Tristano Calco, mentre Nicolò Scillacio messinese raccontava il viaggio di Cristoforo Colombo, trasmessogli in lettera spagnuola da Guglielmo Como (1494). Aperse un teatro, formò un’accademia d’arti belle e scienze, ampliò la fabbrica dell’Università di Pavia, preparò a Milano il Lazzaretto, disegno forse di Bramante, il quale invitato da lui con cinquemila ducati di stipendio, eresse la tribuna e la cupola delle Grazie, il vestibolo di San Celso, la sacristia di San Satiro, il chiostro di Sant’Ambrogio, mentre Leonardo da Vinci, chiamato collo stipendio di duemila ducati, dipingeva la mirabile Cena alle Grazie, modellava il colosso equestre di Francesco Sforza, nel nuovo canale della Martesana applicava i sostegni che noi chiamiamo conche, e fondava una scuola pittorica da cui uscirono i Luini, Cesare da Sesto, Marco d’Ogino, il Lomazzo, il Salaini, il Boltraffi. «Questo glorioso e magnanimo principe in Milano fece ornare il castello di Porta Zobia di mirabili e belli edifizj, e la piazza ch’è innanzi fece aggrandire; nelle contrade della città tutti gli ostacoli fece tor via, e le facciate fece dipingere, ornare e imbellire; e il simile nella città di Pavia; per il che, come prima erano dette brutte e lorde città, adesso si ponno dire bellissime. E Vigevano, stanza molto dilettevole a’ signori, fece aggrandire ed ornare di molti degni e belli edifizj, e vi fece fare una bella ed ornata piazza, e tutta la terra fece selciare e imbellire; e vi fece fare un parco, dove mise molte selvaggine, a piacere e ricreazione: fecevi anche fare alcuni bellissimi giardini; e perchè quel paese era molto arido e secco, vi fece fare alcuni acquedotti, con grande artifizio ed ingegno; per modo che tanta abbondanza di acqua conducono, che molte belle e buone possessioni fece fare in quei terreni che prima erano sterili e di poco frutto, e al presente sono abbondantissimi»[71]. Attese anche a riformare gli statuti, e dilatò la coltura della pianta di cui portava il nome. Ingegno operosissimo ed animo basso, incompiuto nelle buone come nelle triste qualità, Lodovico, alla guisa de’ moderni, credeva che l’abilità fosse tutto, confidava di potere colla politica destrezza dirigere le sorti italiane, e dava negli sbagli di chi troppo sottiglia. Avea creduto che Carlo VIII dovesse professarsegli obbligato; che Pietro Medici e gli Aragonesi fossero abbattuti ma non disfatti, i Veneziani intimoriti, tutti attoniti della potenza di lui; durante la reggenza della duchessa Bianca, sperava ciuffare il Piemonte mediante intelligenze col marchese di Saluzzo e il signore di Valperga, e così unire tutta l’alta Italia. Ma la valanga smossa rotolò diversamente da quel ch’egli divisava, e mentre si facea bello di avere, colla propria astuzia, chiamato e respinto Carlo, puniti e rialzati gli Aragonesi, e vantavasi che «Cristo in cielo e il Moro in terra sanno il fin di questa guerra»[72], si trovò sopraffatto da pretensioni, di cui non s’era adombrato quando invitò i Francesi; onde movea nuovi scacchi, rinterzava trattati e alleanze, e per seguire la guerra e stare sul vantaggio mescolava un nuovo potentato nelle vicende italiane, invitando Massimiliano cesare a venir qui per la corona. La caduta della casa di Borgogna (pag. 57), come arrotondò la Francia, così assodò la grandezza di casa d’Austria, poichè l’arciduca Massimiliano, sposando Maria figlia di Carlo il Temerario, ereditò i Paesi Bassi, aggiungendoli ai dominj aviti dell’Austria, Stiria, Carintia, Carniola, Tirolo, Svevia, Alsazia, ed ebbe anche la corona imperiale. Bello di persona, vivace e piacevole di modi, cultore delle arti e delle lettere, ardito, cavalleresco, era improvvidissimo amministratore, e in tempo che il denaro acquistava suprema importanza, trovavasene sempre tal carestia, che i nostri lo chiamavano Massimiliano Pochidenari; per buscarsi trecentomila scudi di dote sposò Bianca Sforza, nipote del Moro; vendeva privilegi e titoli, e diritto di legittimare bastardi, e fin di creare poeti[73]. Fallendogli dunque i mezzi, interrompeva di botto le imprese che aveva assunte sprovvedutamente; di nuove ne pigliava sol per avere un pretesto d’abbandonare le vecchie; trescava negli affari altrui per iscusarsi di negligere i proprj; grandi intenti enunciava, e non ad uno riusciva; nascondeva i propositi onde non discuterli con chi che fosse; venuto poi l’istante di eseguirli, si lasciava scoraggiare dalla prima opposizione. Casa d’Austria fu in ogni tempo pertinacissima a voler ricuperare ciò che abbia una volta posseduto; laonde Massimiliano ritentò sottomettere gli Svizzeri. I quali gli mandarono dire: — Altezza, noi siam gente grossolana, e potremmo mancare ai riguardi dovuti ad una corona»; egli non badò all’avviso, ma sconfitto, dovette ricorrere alla mediazione del duca di Milano. E gli Svizzeri, redentisi colla prima guerra dalla casa d’Austria, e con questa dall’Impero, si allearono a Francia, provvedendola di soldati che divennero funesti al Tedesco, e che aborrivano il duca di Milano perchè vietava di portare dalla Lombardia vittovaglie per la Svizzera. Massimiliano credette inutile la coronazione a Roma, e s’intitolò imperatore eletto de’ Romani, col che pareva volesse tenersi scevro dalle cose nostre: ma diede ascolto al Moro suo zio, che gli prometteva duecentomila fiorini se lo titolasse re di Milano. Scese dunque dal Tirolo per la Valtellina (1496); ma con sì tenui forze, che chi non volle obbedirgli, non potè esservi costretto; egli medesimo vergognandosi cercava strade appartate, e sfuggiva le città per non restar mortificato dalle accoglienze. Pisa era sempre la mira delle armi e de’ maneggi; i Fiorentini la voleano per l’antico possesso; il Moro la bramava come unico ristoro alla mal consigliata guerra; viepiù Venezia, che già tenendo numerosi posti nella Puglia, coll’assidersi a Pisa sarebbesi trovata unica signora del Mediterraneo. Anche Massimiliano vi pensava come a città dell’impero; e fornito di qualche denaro e d’una flotta dai nemici di Firenze (1498), assediò Livorno; ma ben presto dovette, secondo il solito, levarsi dall’impresa e tornare in Germania, qui lasciando sempre più bassa idea di sè. Il Moro non n’aveva ottenuto che titoli per sè e pei figliuoli, e promessa di migliaja d’armati, in ricambio della promessa di milioni di denari; onde tornò a movere ogni ordigno per impedire che i Fiorentini si accordassero con Venezia, com’erano in pratica, e non le abbandonassero Pisa[74]: ma i Veneziani, che pur professavano una politica affatto italiana[75], imitando quel che nel Moro aveano altamente disapprovato, non esitarono a suscitargli un antagonista, col trattato di Blois (1499 15 aprile) riconoscendo Luigi XII duca di Milano e re di Napoli, a patto che loro cedesse Cremona e la Geradadda, e le città da essi tenute nella Puglia. Luigi, desiderando sciogliere le odiose sue nozze con Giovanna figlia di Luigi XI, e sposare Anna vedova del suo predecessore erede della Bretagna, accarezzava a tal fine Alessandro VI, che col favore di lui sperava ingrandire la propria famiglia. Il Moro vedendo addensarsi il nembo, vi si preparò. La guerra non faceasi che per mezzo di condottieri, quali allora Baglione di Perugia, Marco Martinengo da Brescia, Galeazzo di Sanseverino, Appiano di Piombino, Virginio Orsini famoso indugiatore e maestro de’ migliori combattenti, Camillo Vitelli che avea inventato gli archibugieri a cavallo, Bartolomeo d’Alviano degli Atti di Todi, Paolo Vitelli di Civita di Castello, e suo fratello Vitellozzo. Su cotesti dovea far capitale Lodovico: ma i Romagnoli erano costretti rimanere a casa per ischermirsi dagli attacchi del papa, ostinatosi ad abbattere que’ contumaci castellani: de’ suoi alleati, Massimiliano era occupato contro gli Svizzeri; e poi, che bene ripromettersene? Federico di Napoli pensava a rifarsi de’ sofferti disastri. Mancangli i Cristiani? ed egli ricorre ai Turchi, e invita Bajazet II, mettendogli in sospetto Venezia e la Francia. Bajazet mandò nel Friuli Scader bascià di Bosnia (29 7bre), che devastò sino alla Livenza, facendo grandissimo numero di prigionieri; e perchè se ne trovava imbarazzato nel ripassare il Tagliamento, scelse i migliori, gli altri trucidò. Più odioso ne diveniva cotesto incessante sommovitore d’Italia; onde si esultò all’udire che i Francesi discendevano numerosi. Dei condottieri milanesi i più rinomati erano i Dal Verme e il Trivulzio. Jacopo Dal Verme, che vedemmo (Cap. CXII) segnalarsi al servizio di Can Signorio, poi di Gian Galeazzo, del quale fu mandestra, n’ebbe in feudo amplissimi possessi nelle Langhe trasmontane, nel Piacentino, nel Pavese, nel Veronese, nel Vicentino; e Piacenza, Milano, Pavia, Verona si disputarono l’onore di dare la cittadinanza a quella famiglia. Luigi suo figlio spiegò valore combattendo pe’ Veneti e pe’ Fiorentini; dalla Repubblica Ambrosiana passò a Francesco Sforza, e aggiunse altri feudi ai paterni. Suo figlio Pietro ebbe onori e cariche dagli Sforza, ma Lodovico il Moro pensò torlo di vita sì per gelosia, sì per occuparne i vastissimi possessi che il faceano pari a un sovrano; morì in fatto di veleno il 1485, e subito le sue terre vennero tratte al fisco. Marcantonio figlio di lui come contumace fu condannato a morte; ma all’avvicinarsi dei Francesi, Lodovico cercò cattivarselo, e gli restituì i beni, donde egli levò truppe per soccorrerlo[76]. Terribile avversario restava Gian Giacomo Trivulzio. Principalissimo nella guerra del 1483 contro i Veneziani; poi sbandito per gelosia del Moro, servì a re Ferdinando contro i baroni e al papa contro Carlo VIII, meritando il contado di Belcastro; passato quindi al re di Francia, n’ebbe il ducato di Melfi, la contea di Pezenasco, e il titolo di capitano generale, colla condotta di cinquecento cavalli e la provvigione di duemila ducati, e adottò come propria la nazione che lo assoldava. Nelle precedenti condotte più volte egli avea mantenuto del proprio gli eserciti, lasciati sprovvisti dai principi, ed erasi acquistata terribile rinomanza di superbia e di severità militare. Nell’esercito della Lega dell’83, i saccomanni, che sempre numerosissimi seguivano gli accampamenti, svogliati dal rigore di lui, fecero tra sè un’intesa, ponendosi a capo un papa con cardinali, arcivescovi, vescovi di loro creazione; e al grido di _falcetta_, doveano dar nell’armi e uccidere chi gli affrontasse; e così metteano a ruba e taglia le vicinanze. Il Trivulzio, per dissipare la masnada, quanti ne cogliesse facea impiccare, e fin di propria mano andava a trucidarli. Tali erano gli eserciti, tali i capitani. Vero è che il Trivulzio seppe anche perdonare; a un assassino appiattatosi per ucciderlo non fece male; a una ribaldaglia di Spagnuoli che, non ricevendo le paghe, congiurarono rivoltarsegli, distribuì le paghe del proprio. L’aver mutato spesso bandiera e servito i forestieri contro la patria, è colpa comune ai capitani d’allora, che si consideravano indipendenti quant’oggi i re nelle loro alleanze: ma anche dopo gli elogi asseritigli da un valente biografo, non sappiam vedere in lui che un soldato; e poniamo che della forza non abbia fatto il brutale abuso che poteva, il titolo di Magno potrebbe convenirgli solo se avesse militato per la causa nazionale. Il Moro l’avea fatto appiccare in effigie come traditore, ond’egli accannito a vendicarsi, non meno col valore che colle intelligenze in pochi giorni prese Varese e Tortona, lasciando saccheggiare alla scapestrata; mentre Galeazzo Sanseverino, cui il Moro suo suocero avea fidate tutte le forze, benchè appoggiato all’importante fortezza d’Alessandria, fuggì senza aspettare il nemico, traditore o codardo. I Veneziani intanto arrivavano a Caravaggio e a Lodi: benchè il duca avesse tentato riguadagnare i cuori coll’esporre la propria condotta e i delitti che non avea commessi, donare e restituir feudi ai signori, far le concessioni che nulla si valutano quando ispirate da paura, i Milanesi tumultuarono e uccisero il Landriano, ministro delle finanze. Esso duca sollecitava soccorsi da Massimiliano, promettendo cedergli la Valtellina e Bormio fin a Como; dal re di Napoli, mostrando ch’egli era la sua sentinella avanzata; e a Galeazzo Visconti suo ministro presso gli Svizzeri scriveva: — Non vi possemo explicare lo sterminio, il terror grande ove se trovamo; ma vedemo in un momento esser presa questa cità, e dreto il resto dello Stato, se grossissimo numero de gente non è qui in un subito. Non trovamo termini de parole, trovandone in questo caso come posseti extimare, conducti a serrarsi in questo castello, ove expecteremo la venuta della maestà sua che ne liberi; nè sapemo che altro far che morire»[77]. Abbandonato di soccorsi e di consiglio all’avvicinarsi dell’ora di Dio, mandò via i figliuoli e il tesoro col fratello cardinale Ascanio; e approvvigionato il castello di Milano e istituita una reggenza, vegliò la notte sull’urna di Beatrice d’Este, che dianzi l’avea lasciato vedovo, donna forse virtuosa, certo robusta, che aveva sostenuto il coraggio ed ispirato riverenza al marito, il quale il nome e il ritratto di lei pose sempre col suo negli atti, sulle fabbriche, ne’ quadri. Indi, non sentendo che imprecazioni rispondere alle lacrime e alle raccomandazioni sue, per Como e la Valtellina fuggì in Germania. Allora i capitani voltano casacca, il popolo sollevato manda a chiamare i Francesi e il Trivulzio, e in venti giorni il ducato cangia padrone senza stilla di sangue. Re Luigi XII arriva a cosa fatta; e avuto a tradimento anche il castello, entra pomposamente in Milano (2 8bre), ricantato portatore della pace e della libertà, e l’altre baje al solito. Ma, al solito, i vinti dovettero pagar le spese; trecentomila ducati di contribuzione per essersi ribellati a Francia coll’accogliere il Moro; ai gentiluomini favorevoli a questo levate le case e le possessioni per dispensarle a sudditi o benevoli di Francia; la città pagherebbe l’anno cenventimila ducati. Il re però affettava popolarità coll’invitarsi a pranzo o a cena da questo o da quel signore, e levarne figliuoli al battesimo; restituì ai nobili il diritto di caccia, che gli Sforza avevano a sè riservato; sciolse i prelati dal dover somministrare ciascuno un bue alla mensa ducale; crebbe il soldo ai professori nella riaperta Università di Pavia, accolse letterati e artisti, armò cavalieri. Più notevole è la riforma che introdusse pel governo, e che sopravvisse alle posteriori vicende; poichè il consiglio segreto e quel di giustizia, che stavano a fianco al principe, radunò nel senato, composto di sette togati, cinque militari e tre prelati, irremovibili, presieduti da un gran cancelliere, che custodiva i sigilli del re; tribunale supremo sul modello del parlamento francese, e che poteva sospendere (_interinare_) i decreti regj quando repugnassero ai diritti e al bene del paese. Conoscendo il miglior modo di mascherare la servitù, Luigi pose tutti impiegati nazionali; avvocato fiscale Girolamo Morone, uno de’ più fini politici; presidente del senato Goffredo Caroli saluzzese, leggista insigne[78]; luogotenente il Trivulzio, al quale anche regalò la terra di Vigevano, in compenso delle artiglierie trovate in Milano che a lui sarebbonsi devolute, e che valutavansi cencinquantamila scudi; e fattolo anche maresciallo di Francia, gli diede arbitrio di mettere in piedi quattrocento lancie italiane, comandate da chi gli piacesse. Ma mentre la prima arte di un nuovo dominio è di conciliarsi tutti i partiti, il Trivulzio lasciò corso alle ire di esule, spietatamente gravò i nobili ghibellini, e non ricordossi di coloro per cui mezzo avea trionfato: provocava l’invidia con un lusso insultante, e alla venuta di Luigi fece coprire gran parte della _rugabella_, dove tenea palazzo, e del corso di porta Romana, e ornatala come una sala, vi banchettò mille commensali, tra cui cenventi signori e cinque cardinali, e prolungatosi il pasto nella notte, venne illuminata a giorno, finchè si terminò con maschere e balli. I nobili, sdegnati d’ubbidire a un compatriota, interpretavano a dispetto ogni atto del traditore della patria, del tre-volti; e dal borbottare passando alla insurrezione, coprirono porta Ticinese di barricate, difesero Marco Cagnola di cui egli voleva abbattere la casa, tanto che fu costretto ad umili proposte. Il popolo che, suo stile, erasi immaginato i Francesi dovessero fare scorrere latte e miele, vedendo cangiata la frasca e non il vino, piagnucolava, e diceva traditori tutti quei che aveano abbandonato il Moro. Le libidini poi e le prepotenze de’ soldati francesi porgeano troppi appigli ai capi de’ Ghibellini, che esageravano e invelenivano. Il Moro agli estremi avea reso in libertà Galeazzo figlio del suo predecessore, scaltrendo però Isabella madre di lui di non fidarlo ai Francesi: ma essa, per la comune illusione di guardar per amici i nemici de’ nemici nostri, pose il fanciullo in mano di re Luigi, che, più crudele dell’usurpatore, l’obbligò a monacarsi. Inoltre fin d’allora cotesti stranieri insultavano la nazione in ciò che ha di più nobile, le belle arti; e Carlo VIII moltissimi libri asportò dal regno di Napoli; Luigi XII mandò in Francia la biblioteca viscontea di Pavia, così facendo getto del maggior bene della Francia, la simpatia che essa ispira. Il Moro, che d’oltr’Alpe, come Buonaparte dall’isola d’Elba, spiava qual aura venisse di Lombardia, e, come tutti i fuorusciti, fantasticava speranze in ogni stormire di fronde, si lusingò di poter tornare in istato. Massimiliano l’aveva accolto coll’interesse della compassione e della parentela, e promessogli soccorsi, ma voleva denaro anticipato; onde il Moro, accortosi che a questo solo egli aspirava, preferì spenderlo cogli Svizzeri, arsenale comune. Raggranellatone un grosso, ripassò le Alpi e il lago di Como (1500), mentre il Trivulzio, maledetto a tutta gorgia e insultato, si ritirava trucidando. Al vedere un maresciallo fuggire dalla propria città, invanì il popolo milanese, e buttossi a saccheggiare la casa di lui e de’ caporioni guelfi; sicchè Lodovico, in quella Lombardia donde il settembre usciva bestemmiato, rientrò applaudito in febbrajo. Diremo leggero il popolo? Ma questo desidera star meglio; crede a chi glielo promette; quand’è deluso, odia ancora, non il nome mutato, ma gli ordini non migliorati. Di chi la colpa? Tosto Lodovico ebbe attorno i principotti, che rinvestiva delle signorie state confiscate dai Francesi, o che profittavano di quella debolezza per ricuperare od usurpare possessi. Ma non dormiva re Luigi; con altrettanta prontezza mandava soccorsi, e in nome della nuova amistanza obbligò gli Svizzeri a richiamare i loro compatrioti che stavano al soldo del duca. Fu come spezzar la spada in pugno a un combattente; e Lodovico dovette ricovrarsi in Novara. Ma gli Svizzeri, che la presidiavano, negarono combattere con lui, e si accinsero ad obbedire al loro Governo ritornando in patria; nè egli a gran lagrime potè impetrare se non che lo salvassero conducendolo tra le loro file travestito: ma un di loro l’additò ai nemici, onde fu preso (9 aprile) con tre fratelli Sanseverino. Il cardinale Ascanio, che teneva il castello di Milano, ricovrò a Rivolta presso Corrado Lando suo antico amico, e questi lo consegnò con altri della casa e con gentiluomini milanesi[79]. Il Moro, menato a Lione di pieno giorno fra l’insultante curiosità del popolo, chiese indarno di vedere l’ingeneroso vincitore, che lo tenne prigioniero a Loches gli altri dieci anni di sua vita. Colà potè masticare i tristi frutti della sua versatile politica: eppure tanto presunse della sagacia propria, che voleva ancora dare pareri e regolare il mondo; e nel testamento, con una povera politica, che unica forza riconosceva l’indebolire altrui, suggerisce continue paure, paura de’ condottieri, paura de’ ministri, paura de’ proprj istitutori, non mettersi vicino persone di troppo alto grado. I Milanesi, confessando essere stati sleali al re e al maresciallo, ottennero perdono, e trovaronsi in dominio de’ Francesi. Il Trivulzio, tornato luogotenente, «per un pane violentemente tolto, fece suspendere doi Guasconi ad una quercia fora di porta Ticinese; per una gallina furata fece appiccare un Gallo; appresso fece strangolare un Francese sovra il ponte Vetro per aver ad un Milanese un manto rapinato; parimenti fece suspendere sopra esso ponte monsignore de Valge, cavaliere francese, perchè temerariamente volse in publico baciare una fanciulla» (PRATO); insomma impiccò a dozzine i suoi soldati. Eppure son tanti i costoro soprusi, riferiti da’ semplici cronisti, che si vorrebbe poterli credere delle consuete esagerazioni della paura e dei partiti. I signori ghibellini mal comportavano il Trivulzio, e ispirati dal Morone suo gran nemico, concitarono il popolo, che diviso per parrocchie, firmò registri onde fosse tolto dal governo; e mentre avrebbero strillato se il re avesse posto un luogotenente non nazionale, or l’invocavano forestiero acciocchè non fosse parziale a Guelfi nè a Ghibellini. E ottennero Carlo d’Amboise; ma la nuova servitù non dava ai Milanesi nemmanco il ristoro della pace. Gli Svizzeri, non ricevendo le paghe dai Francesi, nel ritirarsi dopo tradito il Moro, occuparono Bellinzona, in piena pace acquistando questa chiave d’Italia: e poco appresso anche Lugano, che furono per sempre divelti dal Milanese. Genova era già tocca alla Francia; Venezia ebbe Cremona e la Geradadda; la peste menò stragi nel 1502 e nel seguente. Poi l’imperatore Massimiliano, pretendendo spettasse a lui solo assegnare il ducato di Milano, e mostrando compassione pei figli del Moro, faceva segno di voler discendere a _liberare_ la Lombardia, resuscitarvi i diritti del Barbarossa, e presa la corona imperiale, portare guerra al granturco; la quale impresa era allora il preambolo e l’epilogo di tutti i trattati, il tema di tutte le arringhe, il balocco che i politici gettavano ai sentimentali. CAPITOLO CXXX. Romagna. I Borgia. Politica machiavellica. Perno dell’indipendenza italiana era stato fin allora il pontificato. Mentre per tutto il medioevo si era mostrato cattolico, intento cioè a tutta la cristianità senza distinzione di paesi, nell’esiglio avignonese si rendette stromento di una politica speciale; coll’insaziabile fiscalità si disonorò; poi pel cozzo degl’interessi francesi e italiani si trovò sbranato nel grande scisma. Rimessosi da questo, cercò ringrazianirsi mediante i generosissimi sforzi che sostenne onde aggregarsi i Moscoviti, riconciliare l’Oriente, respingere l’islam; ma l’Europa cominciava a farsi sorda alla voce di esso. Pertanto si ridusse a potenza italiana, con leghe e guerre cercandosi un primato nella penisola; e dacchè più non valeva a signoreggiare i popoli de’ quali aveva fomentato l’adolescenza, confidava dello Stato ecclesiastico fare il punto d’appoggio pel quale movere il mondo. Scendendo allora nelle idee pagane che prevaleano, credette necessario il despotismo: ma questo, se anche non sconvenisse al successore di Pietro, era incompatibile con un capo elettivo; laonde fu costretto appoggiarsi sovra potenze straniere, nel mentre doveva impedire che stranieri predominassero in Italia, e mantenere la bilancia fra gli Stati di questa. Nella quale molta ingerenza gli davano la capitananza de’ Guelfi in Lombardia e Toscana e l’alta signoria sul regno di Napoli: ma l’oscillamento politico fece che contro dei papi si voltassero e i potentati rivali e l’opinione popolare, finchè la potenza loro esterna soccombette alle monarchie assolute e al protestantismo. In tutto il medioevo i papi, come principi temporali, eransi trovati ristretti fra i baroni e il popolo. Quelli coi piccoli dominj ne assediavano la metropoli: questo sempre ostentò pretensioni di sovranità sì a fronte dei Cesari, ai quali conferiva il titolo di imperatori romani, sì a fronte del pontefice, che dovea rappresentare la dominazione della città eterna sopra le corone e sopra le intelligenze e le volontà. Ridotti a podestà politica, ai papi divenne necessità lo svincolarsi dalla violenza feudale e dalla popolare turbolenza. Erano riusciti a sottomettere la città di Roma privando d’ogni rappresentanza il senato; ma alcune città di Romagna aveano mantenuto o ricuperato il governo municipale, come Ancona, Assisi, Spoleto, Terni, Narni; le più stavano ad arbitrio di signorotti che, quantunque vinti, aveano conservato la dominazione col titolo di vicarj pontifizj, riconoscendo la supremazia del pontefice, promettendogli un censo annuo che di rado pagavano, e somministrandogli guerrieri e capitani, mercè dei quali egli avea peso nelle vicende. Chi scrivesse particolarmente della Romagna, avrebbe una tela abbastanza ampia, tutta imbrattata di rivoluzioni, di sangue, di tradimenti. Giulio da Varano dominava a Camerino, Guidobaldo da Montefeltro fra la Toscana e le Marche, Vitellozzo Vitelli in Civita di Castello: Giovan della Rovere signor di Sinigaglia aspettava in eredità il ducato d’Urbino: Pesaro era signoreggiata da Giovanni Sforza, ramo cadetto dei Milanesi, e marito divorziato di Lucrezia Borgia: a Rimini, decaduta dall’antica floridezza, Malatesta col titolo di servigio accattava la tutela dei Veneziani, come anche Astorre Manfredi signor di Faenza e di val di Lamone, ed altri principotti sulle coste adriatiche; Ercole duca di Ferrara non si teneva dipendente dal papa, sebbene se ne intitolasse vicario. Ai Baglioni furono dati e tolti a vicenda dai papi Spello, Bettona, Montalera, altri castelli; in Perugia non godeano signoria, bensì la potenza dei più forti; e se i legati pontifizj cercavano sempre cincischiarla, Gian Paolo la sostenne vigorosamente. Bologna era stata sottratta ai papi da Nicolò Piccinino, che meditando farla capitale d’uno Stato proprio, vi restituì intanto le antiche forme, e vi pose comandante suo figlio Francesco. La famiglia Bentivoglio, per lui ripatriata, primeggiò ben presto nell’affetto de’ Bolognesi; onde Francesco, coi tradimenti allora consueti, arrestò Annibale Bentivoglio con altri capi (1443), e lo chiuse in Verona. Galeazzo Marescotti lo liberò, e sollevata Bologna, lo fece porre a capo del governo, nel quale Veneziani e Fiorentini lo sostennero contro di Eugenio IV e di Filippo Maria Visconti. Annibale procurò col perdono e col benefizio cattivarsi gli avversarj, e massime i Canedoli: ma questi invece tramarono col Visconti, e invitato Annibale a levare un loro fanciullo al battesimo, ivi lo trucidarono con tutti i Bentivoglio. I Bolognesi, che l’amavano per le sue virtù e perchè restitutore della repubblica, assalsero, saccheggiarono, uccisero i Canedoli prima che giungessero i soccorsi promessi da Filippo Maria; poi andarono a cercare a Firenze Santi Cascese, sterpone di quella famiglia, che in qualità di tutore del fanciullo d’Annibale governò per sedici anni, onorato e ben voluto. Venne poi al dominio Giovanni Bentivoglio, che imparentato a case principesche, abbagliava collo splendore della corte e la gentilezza delle arti al modo di Lorenzo Medici, del quale se non aveva nè la coltura nè l’affabilità, in ricambio era ricco di virtù militari. Non riposarono però i suoi emuli, e singolarmente i Malvezzi congiurarono per ucciderlo; ma scoperti, alcuni fuggirono, diciotto furono appiccati, gli altri banditi. Eugenio IV avea conferito il titolo di duca d’Urbino a Odo Antonio di Montefeltro, che due anni appresso cadde vittima di congiurati (1444). Federico suo fratello naturale, scolaro di Vittorino da Feltre e buon guerriero, gli fu acclamato successore; e ottenuto dal re di Napoli l’ordine dell’Ermellino, quel della Giarrettiera dal re d’Inghilterra, dal papa il titolo di duca, colle immense ricchezze acquistate in guerra e coi doni avuti fortificò il paese; «nell’aspro sito d’Urbino edificò un palazzo, il più bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni opportuna cosa sì ben lo fornì, che non un palazzo ma una città esser pareva; e non solamente di quello che ordinariamente si usa, come vasi d’argento, apparamenti di camere, ricchissimi drappi d’oro, di seta ed altre cose simili, ma per ornamento v’aggiunse un’infinità di statue antiche di marmo e di bronzo, pitture singolarissime, instrumenti musici d’ogni sorta; nè quivi cosa alcuna volse, se non rarissima ed eccellente. Appresso, con grandissima spesa adunò un gran numero di eccellentissimi e rarissimi libri greci, latini ed ebraici, quali tutti ornò d’oro e d’argento, estimando che questa fosse la suprema eccellenza del suo magno palazzo»[80]. In quel palazzo, architettato alla romana da Baccio Pontello fiorentino, radunava quanti uomini avessero allora più lode in Italia, e principalmente giovani guerrieri: da quattrocento persone vi stavano a servigio, regolate secondo prescrizioni del duca; la biblioteca arricchivasi di opere rare, fra cui una famosa Bibbia, insigne per lettera, commenti e fregi; colà i due dotti greci Angelo e Demetrio insegnavano la loro lingua; Pirro Peratti, Cristoforo Landino, Giannantonio Campano, il Pontano, Francesco Martini dedicavangli le opere loro, ed esso li rimunerava con denaro, con protezione, con onori. D’altre fabbriche ornava Gubbio, Cagli, Sassofeltrio, Tavoleto, Serra, La Pergola, Mercatello, Sassocorbaro, Casteldurante; cominciò la fabbrica del vecchio duomo d’Urbino, dispose a caccia i parchi di Casteldurante e Fossombrone. Sul Mercatale, dove i cittadini convenivano a giocare o a conversare, Federico veniva spesso, mescolavasi al popolo, ragionava, interrogava: «a tutti faceva motto: ad uno domandava come stava; ad un altro come stava il padre vecchio; a costui diceva, _Dov’è tuo fratello?_ a colui _Come passano i traffichi?_ e a quell’altro, _Hai ancora preso moglie?_ A cui toccava la mano, a cui la metteva sulla spalla, ad ognuno rispondeva con la berretta in mano» (VESPASIANO DE’ BISTICCI): o nel prato presso San Francesco assisteva ai giuochi dei giovinetti, che numerosi in sua Corte venivano dai varj paesi d’Italia. Mandava attorno affidati che pigliassero cognizione dei bisogni de’ sudditi, soccorressero ai poveri vergognosi. Bernardino Baldi, che lo presenta come modello di virtù civili e guerresche, narra di lui «un atto di giustizia piacevole»; che assediando Barchi nel Riminese, proclamò lascerebbe andar liberi o i terrazzani o i soldati rinchiusi, secondo che quelli o questi fossero primi a rendergli la fortezza; gli altri tratterebbe a discrezione. Allora una gara di cedere; e i soldati furono primi, onde se n’andarono con ogni aver loro. Ai borghesi pure il duca consentì d’uscire con quanto poteano recarsi addosso: poi, chiuse novamente le porte, aizzò i suoi saccomanni a far prova d’entrarvi. Questa vile bordaglia vi si accinse con corde e scale finchè sormontò la mura e buttossi a rubare, con gran divertimento del duca e de’ suoi soldati. Chi pensi all’accoramento dei poveri saccheggiati, avrà un’altra prova che le sevizie allora si consideravano di regola fra le truppe. Guidubaldo, succedutogli ancor fanciullo (1482), ne calcò le pedate. Sigismondo Malatesta, lascivo, truffatore, crudele, anche eretico, colla prodezza acquistò un ampio dominio, e lo riperdette, più non conservando se non Rimini, che dopo fu governato da Isotta, concubina, poi moglie sua vantatissima. Roberto e Sallustio suoi bastardi aspiravano a signoria, e intanto si posero al soldo del pontefice, finchè Roberto pigliò Rimini, si alleò a Fernando di Napoli, e coll’ajuto di Firenze e Milano ricuperò sin quaranta castelli; diè brave battaglie, combattè in tutte le fazioni d’allora per riacquistare terre al papa. Gli succedeva Pandolfo figlio naturale (1482), che sfregiò la casa. Imola e Forlì da papa Sisto IV erano state date a Gerolamo Riario, che le prosperò ed abbellì, ma coi tristi portamenti le trasse a rivoltarsi (1488), ucciderlo e trascinarlo per la città. Caterina sua moglie, figlia naturale di Galeazzo Sforza, si difese virilmente nella rôcca; e poichè i ribelli minacciavano ucciderne i figli se non la cedesse, ella rispose facessero pure, giacchè ne teneva uno a Imola, un altro nel ventre[81]. In fatto sopraggiunsero Giovanni Bentivoglio co’ Bolognesi, coi Milanesi Giovan Galeazzo Sanseverino, e sottomesse le città, vi proclamarono Ottaviano figlio dell’ucciso. L’anno stesso Galeotto Manfredi signore di Faenza, chiamato in camera da sua moglie fintasi ammalata, vi fu ucciso da sicarj. Giovanni Bentivoglio costei padre accorse in arme per assicurare la successione al figlio Astorre; ma i Fiorentini, sospettando non l’usurpasse per sè, incitano il popolo, che prende lo stesso Bentivoglio. Subito quindicimila Bolognesi sono in armi per liberarlo; meglio però giova l’interposizione del re di Napoli e del duca di Milano. Fra questi tirannelli prolungavasi dunque la vita feudale, e poichè i governi non aveano altre armi che mercenarie, la forza riducevasi in costoro, che tenendosi a capo di bande agguerrite e a sè attaccatissime, vestendole e armandole del proprio, alle scarse rendite supplivano col menarle a servizio altrui, o permettere ai principi di reclutarne sulle loro terre. Innestandovi poi la coltura moderna, ciascuno nella sua cittadina voleva avere corte e feste e adulatori; a dotti e artisti aprivano asilo, come ai ribelli dei vicini; provvedeano di cardinali il sacro collegio: donde un aspetto di singolare ricchezza, sostenuta collo smungere i sudditi o col guadagnar dalla guerra. Spinti da minuti rancori, o con pretensioni sproporzionate ai mezzi, ricorrevano a perfidie, a stili, a veleni, e l’opinione accettava per apologia del delitto l’audacia con cui era stato commesso. Gli uni aveano carpito la sovranità al popolo, altri alla Chiesa, altri all’imperatore: ma per soperchiare l’emulo, or a questo or a quello s’avvicinavano; or collegavansi tra sè; ora il papa stesso sosteneva un competitore per deprimer l’altro, o contro di entrambi evocava la libertà; sicchè con un potere d’ingiusta origine e di dubbia conservazione, doveano stare in sospetto del proprio, in avidità del dominio altrui, assiepati di masnade che li dispensavano dal cercare l’amore dei popoli. «Tra le altre disoneste vie che tenevano per arricchire, facevano leggi e proibivano alcuna azione, di poi erano i primi che davano cagione dell’inosservanza di esse, nè mai punivano gl’inosservanti, se non quando vedevano essere incorsi assai in simile pregiudizio, ed allora si voltavano alla punizione, non per zelo della legge fatta, ma per cupidità di riscuotere la pena. Donde nascevano molti inconvenienti, e soprattutto questo, che i popoli s’impoverivano e non correggevano; e quelli che erano impoveriti, s’ingegnavano contro i meno potenti di loro a prevalersi» (MACHIAVELLI). Viti, gelsi, ulivi andavano schiantati nelle avvicendate correrie, rimanendo unica rendita i pascoli e la messe degli anni in cui la guerra non obbligasse a cacciare gli armenti nelle terre murate, e ricoverarvi il grano non ben maturo. Alla campagna dunque non faceasi che qualche capanna; i villaggi afforzati resistevano, e se fossero presi, diroccati ed arsi, bisognava tosto rialzarli per usufruttare la campagna, sinchè non fu abbandonata alla sterilità deserta, alla mal’aria e alle bande di masnadieri. In questo stato di guerra, chi fosse forte abbastanza per ridersi delle minaccie, assecondava i brutali istinti, e per leggerissime cagioni seguivano omicidj e rapine. Un gentiluomo dell’Umbria sfracellò contro al muro i bambini del suo nemico, ne inchiodò uno sulla propria porta, e ne strozzò la moglie gravida[82]. Oliverotto, nipote e allievo di Giovan Fogliano signore di Fermo, va a militare sotto Paolo Vitelli, e segnalatosi, scrive allo zio voler mostrarsi alla patria cogli onori guadagnati: questo gl’impetra di venire con cento cavalieri, gli procura solenni accoglienze, e banchetta tutte le autorità di Fermo; ma nel bel mezzo del convito Oliverotto fa scannare il Fogliano e i commensali, e gridarsi signore. I papi, o togliessero i dominj ai principi antichi, o dessero terre della Chiesa in feudo ai loro favoriti, corrompevano ne’ popoli l’abitudine della soggezione; e violentemente strappandoli dalle istituzioni a cui erano affezionati o se non altro avvezzi, moltiplicavano gli scontenti e la facilità di rivoltarsi. Roma nel suo materiale portava l’impronta de’ secoli e delle successive civiltà; e tempj, basiliche, terme convertiti in chiese, palazzi cesarei sormontati da rôcche e bastite, attestavano il passaggio dell’impero, della cattolicità, del Comune, del feudalismo. Ciascun rione apparteneva, si può dire, ad una famiglia; ai Colonna l’Esquilino, agli Orsini piazza Navona, ai Vico il Transtevere, altri colli ai Savelli, ai Frangipani; separati con mura e porte: nel centro intorno all’isola si accumulava la plebe, bisognosa e turbolenta: sul Vaticano si difendeva il papa, col castel Sant’Angelo impedendo ai cittadini di varcare il Tevere: ogni palazzo rappresentava un feudo in compendio, trasferito dalla campagna alla città, e sottoposto alle convenienze gerarchiche, per cui la torre del vassallo non doveva elevarsi quanto quella del caposignore. E tutti si guatavano con gelosia da nemici, opponevano le immunità all’esercizio del pubblico potere, aprivano cento asili ai mille delinquenti. Non industria, non agricoltura; unica vita n’era il papato, che vi traeva l’oro di tutto il mondo, e un popolo di cherici, di notaj, di prelati, di banchieri, di postulanti, di pellegrini; popolazione fluttuante, che si sottraeva pur essa ad ogni legge. Migliaja di cariche erano create per servizio della corte e della dataria; e poichè esse fruttavano lautamente, erano vendute anche in aspettativa, e si negoziavano all’alto e basso, come oggi le rendite pubbliche. Prelati, cardinali, vescovi, mezzo preti e mezzo principi, vedovando le chiese venivano a Roma a spendere, a godere, a sfoggiare, a intrigare fra l’eleganza e la licenza. Ogni famiglia illustre d’Italia voleva avere un figliuolo nel sacro collegio per appoggio, per lustro, per guadagno: ogni cardinale teneva una corte di guardie, di camerieri, di staffieri, di buffoni, di cantanti, di poeti, a non dire il peggio. E poichè questa ricchezza non durava che a vita, nessuno brigavasi di farne masserizia, nè di migliorare i possessi, ma solo di accelerare e raffinare i godimenti. Ai quali, alleanza non rara, accoppiavasi un fiero istinto di sangue e di tradimenti, quasi la voluttà meglio si assaporasse quando poteva essere alla vigilia d’una morte violenta: alla commedia licenziosa servivano d’intermezzo gli assassinj: i veleni degl’imperatori romani, che si stillavano da nuove Canidie, erano quasi un pudore di chi non fosse sfacciato ad opere di mano: ma non mancavano i pugnali del Vecchio della montagna; e dall’ammalarsi d’Innocenzo VIII all’elezione del successore, ducentoventi cittadini furono assassinati (Infessura). Gli Orsini, dominanti a occidente del Tevere, si dicevano guelfi; i Colonna, verso levante e mezzodì sul terreno degli antichi Sabini, alzavano bandiera ghibellina: nomi che non indicavano più se non un’eredità di odj, e una fedeltà soldatesca al modo che allora s’intendeva. Generalmente parteggiavano coi primi i Vitelli, cogli altri i Savelli e i Conti; esercitando in vendette private il valore quando nol potessero vendere ai forestieri. I papi, ridotti deboli e infermi, aizzavano gli uni contro gli altri, giacchè, qualunque parte perdesse, n’aveano accrescimento di potere. Sisto IV nimicissimo ai Colonna, Innocenzo VIII agli Orsini, aveano reciso i nervi di queste due famiglie: pure ancora Paolo, Virginio e Nicolò Orsini conte di Pitigliano da una parte, dall’altra Fabrizio e Prospero Colonna e Antonio Savelli, erano capitani rinomati, e cerchi a gara dai potenti. A frangere costoro s’accinse con più risoluta fierezza Alessandro VI, il quale fra gli odj, lo scompiglio, il popolare scontento, sperò emulare Sisto IV e Luigi XI, e le piccole sovranità raccogliere in una sola, come portava l’assetto che succedeva a quello del medioevo. A tal uopo fece fondamento sul favore del popolo, giacchè, come suo figlio, diceva: — Chi vuol domare i grandi, non deve far poco pei piccoli»; onde allora furono istituiti ispettori per ascoltare gl’ingiustamente detenuti, quattro giudici che ripristinassero la giustizia in Roma, dove, lui sedente, mai non si patì di fame, mai non fu fraudato il soldo dell’operajo. Fossero state queste sole le sue vie! ma egli pensò che perfidie e crudeltà fossero lecite a’ suoi fini; vendette ai potenti l’alleanza sua a prezzo di denaro e di parentele; sparse zizzania fra i signorotti onde opprimerli disuniti, e col pretesto che gli Orsini avessero favorito Carlo VIII, fece metter prigione Paolo e Virginio. Ma il condottiero Bartolomeo d’Alviano, loro allievo, raccozzò soldati e vagabondi, montandoli sui cavalli che indomiti errano per le campagne romane, e armatili come potè, difese dai papalini e dai Colonna Bracciano, l’Anguillara, Trevigiano, sinchè Vitellozzo Vitelli accorse con altre bande di vassalli, avvezzo a vincere sotto di suo padre e de’ suoi fratelli. Il papa oppose loro il prode Guidobaldo d’Urbino, e Francesco duca di Gandia; ma vistili a Soriano in giusta battaglia sconfitti, e preso il primo, ferito l’altro, piegò a pace. E poichè ad esso duca di Gandia suo figlio non potè dare collocamento sulle costoro terre, eresse per lui Benevento in ducato, Terracina e Pontecorvo in contadi; e i cardinali in concistoro approvarono, eccetto uno, ond’esserne compensati di benefizj e condiscendenze. Ma pochi giorni dopo, un pescatore vedeva gettare un cadavere nel Tevere; chiesto perchè non l’avesse subito annunziato, — Tanti (rispose) ne vedo continuamente!» Era il duca di Gandia, ucciso, dissero, dal fratello Cesare cardinale, per gelosia dei favori del comun padre, o di quelli della comune sorella Lucrezia. A quell’avviso di Dio pianse il papa, si pentì, ma poco poi tornò al vomito, e di più alto sperare trovò cagione nel rimastogli figlio Cesare. Questo eroe del delitto se abbisognasse di denaro mandava assassinare alcuno, e non era chi osasse chieder giustizia per non soccombere egli pure all’assassinio; a un cognato attentò col veleno, e non riuscendogli entrò in casa, e palesemente lo fece strangolare; sotto al manto medesimo del papa trucidò il Peroto, favorito di questo. Tali eccessi non poteano avverarsi se non dove le due autorità stavano congiunte, e facevano sentire quanto opportuno riparo stato fosse il celibato, se tanto osava un figlio di prete. Luigi XII di Francia desiderava essere sciolto dal suo primo matrimonio, e che fosse dato il cappello cardinalizio a Giorgio d’Amboise suo ministro; e papa Alessandro spedì questi due favori per mezzo di Cesare. Vi andò «con tanta pompa di ricchezze e ornamenti, che pareva di magnificenza e ricchezza egli avesse quasi avanzato il fasto e la grandezza della corte reale» (Nardi): i cronisti francesi non rifinano di ammirare il lusso de’ suoi e del numerosissimo seguito, e la persona di lui tutta lucente di pietre preziose, sopra un cavallo ferrato d’oro e a bei lavori d’oro e perle. Cesare ottenne in compenso il ducato del Valentinese (1499), una compagnia di cento uomini, ventimila lire annue, e promessa d’un bel feudo nel Milanese, appena fosse conquistato. Allora costui, depose la deturpata porpora per infamare il nome di duca Valentino: e appoggiatosi tutto a Francia, ringrandì delle prosperità di re Luigi, che dichiarava fatta a sè qualunque ingiuria contro di lui. Il quale, ripetendo «O Cesare, o nulla», confidava formarsi un dominio indipendente fra i principotti che si sbranavano la Romagna. La mala riuscita non lo scoraggiava, usando dire, «Ciò che non si fa a mezzodì, si fa la sera»; sapeva che il buon esito gli farebbe perdonare ogni iniquità di mezzi; e correva in proverbio, il papa non eseguire mai quel che diceva, suo figlio non dire mai quel che eseguiva. Coll’assistenza dei Francesi e col braccio del duca Valentino, papa Alessandro adoprossi allora coraggiosamente a spodestare i signorotti. Agli Orsini offrì di tenerglisi alleati contro gli altri, e di spartirne con esso le spoglie; e col loro ajuto snidò da Imola e Forlì i nipoti di Sisto IV, benchè di nuovo vi si difendesse l’intrepida Caterina Sforza, che poi fatta prigioniera e liberata da Luigi XII, divenne, in seconde nozze, madre di Giovanni Medici, il famoso capitano dalle Bande nere. Così gli Sforza di Pesaro, i Malatesta di Rimini, i Manfredi di Faenza furono abbattuti; e il Valentino, che avea primeggiato di ferocia e libidine, dichiarato gonfaloniere di santa Chiesa, menò magnifico trionfo in Roma, quando il giubileo traeva gran folla alle soglie apostoliche e gran denari nella borsa del papa. Ringagliardito dai quali, il Valentino si voltò contro gli Orsini, e li spossessò: indi postosi anch’egli condottiero, con più larghi stipendj attirò i soldati che aveano servito sia agli Orsini o ai Colonna, e con essi e con quelli di Francia ebbe Romagna tutta in mano, tranne Bologna. Alessandro, nominati dodici nuovi cardinali, da queste sue creature lo fece dichiarare duca di Romagna; e il figliuolo volle meritare quel titolo (1501) collo sbrattare il paese da masnadieri e rivoltosi. L’ambizione sua gli addita allora la Toscana, il Bolognese, le Marche e il ducato d’Urbino, e vi si avventa colla prontezza propria e coi soccorsi francesi. Ma Giovanni Bentivoglio si riparò col mettersi in protezione del re di Francia; onde il Valentino gli si mostra devoto, e gli palesa le trame che con lui aveano preparate i malcontenti; e quel tiranno obbliga i figli delle case principali a trucidare gli attinenti dei congiurati: dove trentotto della famiglia Marescotti e ducento loro aderenti si dissero uccisi. In Siena Pandolfo Petrucci condottiero governava austero ma moderato, padrone ma senza uscire dai modi e dal vestire di cittadino; e anch’egli spaventato comprò la protezione di Luigi XII. Firenze stava fiaccata dall’infelice guerra contro Pisa, che mai non avea potuto soggiogare, dall’incerta amicizia del re di Francia, dalla rivalità di tutti i vicini cospiranti a rovinarla, e dagli intrighi de’ Medici, che sempre occhieggiavano il ripristinamento. Imputata dei disastri francesi e d’aver lasciato languir di fame il proprio esercito, ricusò soldarne un altro per la nuova primavera, e per mancanza di denaro fece tregua coi vicini. Subito il Valentino comprò le bande da essa congedate, dando voce di dover ajutare nell’impresa di Napoli re Luigi, e coll’esercito di lui congiungersi a Piombino. Chiese pertanto a Firenze il passo; e senza aspettar risposta entrato sul territorio, e stimolato da Vitellozzo Vitelli, che lo accompagnava smaniato di vendicare il supplizio di Paolo, domandò gli si consegnassero sei cittadini, colpevoli della morte di quello, e si restituissero in istato i Medici, sola amministrazione degna di confidenza. I Fiorentini si raccomandarono a Francia, che come loro alleata intimò al Valentino non li toccasse; ed egli se n’andò, solo imponendo gli pagassero per tre anni come lor soldato trentaseimila ducati. Assalito allora il principato di Piombino tenuto da Jacopo d’Appiano, lo devastò e prese anche il castello, avendo così un piede in Toscana; di che il papa tanto esultò, che in persona venne a godere di quel trionfo. Luigi XII intanto, non assennato dalla sorte del predecessore, mirava a Napoli, dove i Francesi aveano un’onta da cancellare; e invece di rimettersi alle larghe proferte di re Federico II, preferì trattare con Fernando il Cattolico. La Spagna, dacchè gli Arabi l’aveano occupata nel 711, con settecento anni di lotta era venuta redimendosi dal servaggio straniero, divisa in tanti regni indipendenti, quanti erano creati dal valore e dalla costanza patriotica e religiosa. Poc’a poco vennero quei regni concentrandosi, e alfine si ridussero a quattro, i quali, pel matrimonio d’Isabella di Castiglia e Leon con Fernando d’Aragona (1469), si restrinsero in un solo. L’unione diè modo di compire la vittoria sui Mori a Granata; onde si potè costituire la Spagna in unità politica (1492), prima di qualunque altro regno d’Europa, e più compitamente che la Francia stessa. Perocchè il sentimento cattolico vi si era identificato col nazionale, in modo che il clero non fece opposizione al monarca; tre Ordini religiosi ricchissimi, e i cui capi godeano potenza principesca, divennero nerbo del re, che se ne dichiarò granmaestro; la guerra santa contro gli Arabi, se non fece istituire un esercito stanziale, portò il re a poter armare tutta la nazione quando volesse, senza dipendere dai feudatarj come gli altri regnanti. Così si addestrarono negli istruttivi cimenti della guerra paesana; e come videro la tattica dei Lanzi tedeschi, ne compaginarono un sistema militare, che Gonsalvo di Cordova, intitolato il Grancapitano, ridusse poi a perfezione nella guerra d’Italia, annestandovi i progressi dell’artiglieria e del genio militare. Oltre che forte, Fernando era un capo politico, degno di servir di esemplare al Machiavelli. Padrone della Sicilia insulare, sempre agognava anche la terraferma, quasi di diritto spettasse all’Aragona, colle forze e coi denari della quale l’aveva re Alfonso acquistata. Luigi XII non s’accorse che gli diverrebbe ben presto emulo, viepiù pericoloso per la parentela coll’imperatore; e a Granata concertò con lui uno spartimento del Reame (1500 11 9bre), non diverso da quel che poi si fece della Polonia; in modo che toccherebbero a Spagna la Puglia e la Calabria, il resto a Francia. I papi usarono ogni condiscendenza al re, che aveva il titolo di Cattolico, che aveva spenta la dominazione musulmana in Ispagna, che era il miglior baluardo della cristianità contro i Turchi. E appunto Fernando fece intendere ad Alessandro VI, che il possedere la Puglia eragli necessario come base di operazione per assalire i Turchi, contro i quali aveva di fatto spedito, colla veneziana, una flotta di sessanta vascelli capitanata dal Cordova, cui comandò poi di svernare in Sicilia per tenersi pronta ai danni di Napoli. Federico II, cugino e intimo alleato di Fernando, lo ricevette senza sospetti e gli affidò la fortezza di Gaeta, mentr’egli si posterebbe nelle Gole di San Germano per abbarrare il passo ai Francesi. Ma ecco gli ambasciatori pubblicano a Roma (1501) la concertata spartizione, che indignò chiunque serbava senso morale; e il Reame si trovò esposto alle lascivie del Borgia e alle crudeltà di gente educata a trucidare Americani. Federico, serrato tra la forza e il tradimento, si diè perduto, e chiuse le truppe nelle fortezze. Capua, difesa da Fabrizio Colonna, presa per frode dai Francesi e dal Valentino, andò al più abbominando strapazzo; molte donne e monache non si sottrassero all’obbrobrio che precipitandosi dalle finestre o nel fiume; altre assai furono vendute; finito poi lo strazio e saputo che molte s’erano rifuggite in una torre, il Valentino se ne scelse quaranta delle più belle. Tali orrori scoraggiarono di modo che Federico appena ebbe tempo di fuggire ad Ischia, avendo seco la moglie e quattro figli, la nipote Isabella vedova di Galeazzo Sforza duca di Milano, la sorella Beatrice moglie di Mattia Corvino re d’Ungheria, poi di Ladislao II re di Boemia; e invece d’aspettare gli eventi, esecrando l’infamia dell’Aragonese, patteggiò con Francia, rinunziandole ogni ragion sua, stipulando amnistia pe’ suoi leali. Ito in Francia[83], ottenne la contea d’Angiò con trentamila ducati, ma col divieto di più uscire da un regno dov’era venuto col salvacondotto. Anche il Cordova, che intanto acquistava le terre predestinate al suo padrone, a don Ferrante primogenito del re che difendeva valorosamente Tàranto, giurò sull’ostia rispettarne la libertà; poi, appena avuta la piazza, il mandò in Ispagna, ove fu tenuto prigioniero per tutta la vita. Terminava così nelle prigioni la stirpe aragonese, dominata sessantacinque anni; e il regno restò diviso in due parti, una francese sotto il vicerè d’Armagnac, l’altra sotto il Grancapitano. Nel caldo di quelle vittorie Alessandro VI assalì le terre de’ Colonnesi e de’ Savelli, chiaritisi per re Federico, e le ridusse a obbedienza; intanto lasciava nel palazzo di Vaticano la figlia Lucrezia, perchè di là governasse il paese. Costei erasi prima sposata a un nobile napoletano; ma Alessandro, ottenuta la tiara, ne la sciolse per darla a Giovanni Sforza signore di Pesaro. Ben presto parvero più decorose le nozze di Alfonso di Aragona principe di Salerno, figlio naturale di Alfonso II: ma come questa casa fu stronizzata, Alfonso cadde assassinato sulla scala del Vaticano, e alla giovinetta, che ai diciassette anni era già sposata a tre, fu cercato un marito più glorioso in Alfonso d’Este (1502), figlio del duca di Ferrara, che tremando del Valentino, accettò le indecorose nozze. A Lucrezia il padre assegnò Sermoneta, tolta ai Gaetani, e il governo perpetuo del ducato di Spoleto; onde al marito portava cendiecimila ducati in oro, inestimabili valute in gioje e suppellettili, le terre di Cento e della Pieve, e l’assicurazione dei possessi aviti. Le nozze furono solennizzate nel palazzo pontifizio, ed il papa «le fece un pajo di pianelle che valevano ducati più di tremila, sì che potete pensare quanto valevano le altre sue gioje e pompe». Così racconta un cronista[84], e vi soggiunge orribili infandità di quelle nozze; forse non vere, ma divulgate. La accompagnarono in viaggio ambasciadori, vescovi, gentiluomini, tanto da contarsi quattrocentoventisei cavalli, ducentrentaquattro muli, settecentocinquantatre persone. Vennero a incontrarla la corte d’Urbino, e i principali Ferraresi, con balestrieri e trombetti e bucintori, tutti in nuovo e con lusso tale, che si contarono ottanta catene d’oro, delle quali la meno valeva cinquecento ducati, e n’era molte fin di mille ducento. L’abito del duca e il fornimento del suo cavallo si valutavano seimila ducati: i dottori portavano il baldacchino, sotto cui la duchessa procedeva fra suon di bande e d’artiglierie: oro e diamanti traboccavano sulla bella persona di lei e di quanti l’avvicinavano, e il suo corredo era portato da cinquantasei muli coperti di panno giallo e morello e da dodici di raso[85]. Queste nozze e l’aver egli sposato Carlotta figlia di Giovanni d’Albret re di Navarra, cresceano opportunità al Valentino di maturare i suoi ampj divisamenti con calma di spirito e atrocità di risoluzioni. Ricevuto sulla parola Astorre Manfredi, giovinetto di rara bellezza, per cui amore i Faentini si erano difesi ostinatamente, il manda a Roma, e dopo resolo vittima di altre brutalità lo fa strangolare con un fratello e buttar nel Tevere. Ambiva il ducato d’Urbino; ma come torlo se Guidubaldo conservavasi devoto alla santa Sede? Cesare indice guerra a Camerino, e da Guidubaldo chiede genti e artiglieria; avute le quali, ne occupa le quattro città e i trecento castelli, a fatica salvandosi Guidubaldo stesso[86]. Assale poi Camerino, ed entratovi per tradimento, fa strozzare il duca Giulio da Varano e i figliuoli. Marino, tagliapietre dalmate del IV secolo, erasi fermato sopra il monte Titano presso Urbino a vita solitaria e devota; e pochi compagni suoi vi fondarono una repubblichetta di gente industriosa, pacifica, morale, che da tredici secoli sussiste. Nel 1100 comprò dal conte di Montefeltro il castello di Pennarossa, nel 1170 quel di Casole; e si sostenne fra i papi, i vescovi di Montefeltro, i Malatesta di Rimini, i Carpegna. Da Pio II, per assistenza data contro i Malatesta, ebbe nel 1460 i quattro castelli di Serravalle, Faciano, Mongiardino, Fiorentino; ma non tardò a restringersi nella primitiva umiltà. Ora si vide invasa dai Borgia; ma se ne riscosse e mantenne fin ad oggi la sua libertà. I Fiorentini le scrivevano il 2 giugno 1469: — Sappiamo la vostra fede, e generosità e grandezza degli animi vostri... Dovete essere di buon animo e ben costante e fermo, e perdere la vita insieme colla libertà; che all’uomo, uso esser libero, è meglio esser morto che schiavo». E Giulio II poco dopo: — Vi esortiamo a stare di forte e grande animo, considerando che non v’ha cosa più dolce e utile della libertà»[87]. Il Valentino palliava le sue conquiste col bisogno di reprimere le fazioni e le parziali tirannidi; e dal popolo facevasi applaudire col distruggere quell’infinità di masnadieri, alimentata dai tumulti. Esso li fa perseguire, e con orribili e pronti supplizj castigare da Romiro d’Orco; poi come questo colla spietata giustizia si è reso esecrabile, il Valentino espone lui pure squartato sul patibolo. E il popolo lo vanta gran giustiziero. Venezia, occupata seriamente a schermire la cristiana civiltà dai Turchi, non poteva opporsi nè all’ambizione dei Borgia, nè all’invasione di Spagnuoli e Francesi. A Firenze la continua mutabilità del governo rendeva impossibile e il navigare secondo lunghe provvigioni, e il mantenere un segreto. La cingeano avidi e deboli amici; i capitani di ventura l’avevano in uggia pel supplizio di Paolo Vitelli; Vitellozzo giunse a ribellarle Arezzo, e non avendo potuto indurre Valentino ad occuparla col titolo di generale della Chiesa, le continuò guerra, devastò i seminati, occupò tutto il val di Chiana, che poi rassegnò a Francia. Agli ambasciadori fiorentini il Petrucci di Siena disse: — Bisogna ch’io vi mandi i Medici, perchè senz’essi non guarirete», e molti proponeano di richiamarli: pure si trovò il ripiego (1502 16 agosto) di eleggere un gonfaloniere non più per due mesi ma a vita, a modo del doge di Venezia, passibile però fin della vita se fosse condannato dagli Otto di balìa. La scelta col voto universale cadde su Pier Soderini (22 7bre), onest’uomo ma debole a quelle urgenze; almeno a detta dei grandi, che perdeano la speranza di divenire gonfalonieri. Accintosi egli a campare Firenze dal Valentino, gli spedì Nicolò Machiavelli, il quale accorto politico potè da vicino codiare quell’astuto, per ritrarlo poi come modello di un perfetto tiranno. E il Valentino e il Machiavelli erano predominati dal pensiero medesimo, la necessità di ridurre almeno la media Italia sotto un unico dominio; a ciò non bastare le opere di leone, ma richiedersi pur quelle di volpe. Ciò il Machiavelli insegnava ne’ libri; il Valentino voleva effettuarlo, franco ad osare, gajo a denari, e con un’attività che raddoppiava le sue forze. «Spacciò (ci racconta esso Machiavelli) don Michele Corelia suo condottiere con denari per rassettare circa mille fanti; dà denaro a qualche ottocento fanti di val di Lamona; manda in su a quella volta; al presente si trova qualche duemila cinquecento fanti pagati, e qualche cento lance di suoi gentiluomini; tre compagnie di cinquanta lancie l’una, sotto tre capi spagnuoli: ha mandato Rafaello de’ Pazzi a Milano per fare cinquecento Guasconi; ha mandato un uomo pratico agli Svizzeri per levarne mille cinquecento; fece, cinque dì fa, la mostra di seimila fanti, cappati dalle sue terre, i quali in due dì può avere insieme. E quanto alle genti d’arme e a’ cavalli leggieri, ha bandito che tutti quelli che sono degli Stati suoi lo vengano a trovare, e a tutti dà recapito. Ha tanta artiglieria e bene in ordine, quanto tutto il resto quasi d’Italia. Spesseggiano le poste e i mandati a Roma, in Francia e a Ferrara, e da tutti spera avere ciò che desidera». Già occupate Romagna, il Lazio e porzione di Toscana, la corona di Napoli non pareva al Valentino un desiderio eccessivo all’appoggio paterno e alla forza e perfidia propria. Ma i mezzi li teneva in petto, e il Machiavelli smarrivasi davanti a quella corte misteriosa, dove «le cose da tacere non ci si parlano mai, e governansi con un secreto mirabile». E scriveva alla sua repubblica: — Chi ha osservato Cesare Borgia, vede che lui, per mantenere gli Stati, non ha mai fatto fondamento in su amicizie italiane, avendo sempre stimato poco i Viniziani, e voi meno: onde conviene ch’e’ pensi di farsi tanto Stato in Italia, che lo faccia sicuro per se medesimo e che faccia da un altro potentato l’amicizia sua desiderabile. E ch’egli aspiri all’imperio di Toscana, come più propinquo ed atto a fare un regno cogli altri Stati che tiene, si giudica sì per le cose sopra dette, sì per l’ambizione sua, sì _etiam_ per avervi dondolato in sull’accordare, e non avere mai voluto concludere con voi alcuna cosa. E mi ricorda aver udito dire al cardinale de’ Soderini, che, fra altre laudi che si poteva dare di grande uomo al papa e al duca, era questa, che siano conoscitori della occasione, e che la sappiano usare benissimo. E se si avesse a disputare s’egli è ora tempo opportuno e sicuro a stringervi, io direi di no: ma considerato che il duca non può aspettare il partito vinto, per restargli poco tempo, rispetto alla brevità della vita del pontefice, è necessario ch’egli usi la prima occasione che se gli offerisca e che commetta della causa sua buona parte alla fortuna». Il vedergli profuse lodi e congratulazioni attestano o la vigliaccheria o l’eclissi universale del senso morale. Più nessuno tenendosi sicuro dal Valentino, i confinanti minacciati sollecitavano re Luigi XII, il quale di fatto calò dall’Alpi pieno di maltalento contro i Borgia; ma il cardinale d’Amboise, anima de’ suoi consigli, che aspirava alla tiara e più su e già regolava la Francia come un altro papa, teneva carezzato Alessandro acciocchè nel sacro Collegio moltiplicasse amici di lui. Anche il Valentino accorse a Milano incontro al re, e si scagionò con sì opportune parole, che quello rinnovò seco l’alleanza, dandogli soldati francesi. Ai Fiorentini restituì i castelli presi da Vitellozzo; ma la debolezza da essi mostrata invogliò il Borgia a trarne profitto. Quando i condottieri e signori si raccolsero alla Magione, villeggiatura de’ Baglioni nel Perugino, per divisare le guise di chetare l’appetito del Borgia, i Fiorentini non osarono unirvisi, anzi fecero dal Machiavelli «offrire al Valentino ricetto e ajuto contro questi suoi nuovi nemici». In fatti, secondo il concerto, l’Urbinate e Camerino si sollevano; Ugo di Cardona, luogotenente del Valentino, riman prigionero; e il Borgia, sorpreso da una insurrezione inaspettata, si ritira, ed ha l’accorgimento di tenersi immobile finchè passi quel primo bollore, ove il ben privato è posposto all’universale; poi come sottentrarono le gelosie, le avarizie, la stanchezza, esso temporeggiando sturbò l’accordo, e divisi li sacrificò. Principali fra quelli erano i Montefeltro, i Varano, i Bentivoglio, e i famosi capitani Paolo e Virginio Orsini, Vitellozzo Vitelli e Oliverotto Freducci di Fermo. Come videro il re di Francia rappattumarsi col Valentino, chiesero accordi con questo, lasciandosi dalle promesse accalappiare, essi che non soleano mantenerle; e l’ajutano contro altri tirannelli. Gli Orsini, Vitellozzo e Oliverotto vengono a campo sotto Sinigaglia, città di Francesco della Rovere. Quivi il Valentino gli accoglie con maniere d’amico, e li mena in palazzo, ma subito gli arresta e fa strangolare. Vitellozzo piangeva, riversando ogni colpa sui compagni; Oliverotto supplicava di almen fargli salva l’anima coll’assoluzione papale. Le squadre di questo furono côlte improvvise e svaligiate; le vitellesche a viva forza si ridussero in salvo. Il papa motteggiava gli uccisi, dicendo: — Gli ha castigati Iddio, perchè si son fidati al Valentino dopo giurato di non mai farlo»; e in Roma arrestava il cardinale Orsini e gli altri loro parenti, coi quali avea dianzi stipulato la pace, e li teneva prigioni finchè gli ebbero ceduto tutte le fortezze. Dal cardinale voleva anche la cessione di tutti i beni, e poichè si leggeva sui libri il prestito di duemila ducati a persona non nominata, e la compra per altrettanto valore d’una perla che non si rinveniva, dichiarò il lascerebbe senza mangiare finchè non fossero trovati; la madre del cardinale pagò quel credito, un’amica portò la perla, e il cardinale riebbe il cibo, ma in esso la morte. Il Machiavelli riferiva l’avvenuto alla Signoria fiorentina, senza sillaba di disapprovazione; anzi poco poi le scriveva: — Qui si comincia a meravigliare ciascuno come le signorie vostre non abbiano scritto o fatto intendere qualcosa a questo principe in congratulazione della cosa novamente fatta da lui, per la quale e’ pensa che cotesta città gli sia obbligata, dicendo che alle signorie vostre sarebbe costo lo spegnere Vitellozzo e distruggere gli Orsini dugentomila ducati, e poi non sarebbe riuscito loro netto sì come è riuscito a sua signoria». Ne restano sbigottiti i grandi d’ogni parte; il popolo, che detestava gli avventurieri, assassini suoi, si consola della loro caduta, sperando riposo; i soldati passano allo stipendio del Valentino, che trova apologisti e panegiristi. Bologna gli promise per otto anni dodicimila ducati d’oro, cento uomini d’arme e ducento balestrieri a cavallo: Pisa, non potendo più reggersi contro Firenze, mette il partito di darsi a lui, che, prese nefandamente Sinigaglia e Perugia, ha già posto gli occhi sopra Siena e a spegnere Pandolfo Petrucci ch’era il cervello della lega contraria, e che a stento era sguizzato dal lacciuolo di Sinigaglia. Quasi più che i delitti fa ribrezzo la sfacciataggine con cui il duca Cesare aprivasi col Machiavelli. — Costoro, che erano inimici comuni de’ tuoi signori e miei, son parte morti, parte presi, parte o fugati o assediati in casa loro; e di questi è Pandolfo Petrucci, che ha ad essere l’ultima fatica a questa nostra impresa e securtà degli Stati comuni. Io non fo il cacciarlo da Siena difficile, ma vorrei averlo nelle mani, e per questo il papa s’immagina addormentarlo coi brevi, mostrandogli che gli basta solo che egli abbia i nimici suoi per inimici, ed intanto mi fo avanti con lo esercito; ed è bene ingannare costoro, che sono sottili maestri de’ tradimenti. Gli ambasciadori di Siena, che sono stati da me in nome della Balìa, mi han promesso bene, ed io gli ho chiarificati che io non voglio la libertà loro, ma solo che scaccino Pandolfo; e loro ne dovrebbono pigliar buono documento in su le cose di Perugia e Castello, i quali ho rimesso alla Chiesa, e non gli ho voluti accettare. Il maestro della Bottega, che è il re di Francia, non si contenterebbe che io pigliassi Siena per me, e io non sono sì temerario che io mel persuada, e però quella comunità debbe prestarmi fede che io non voglia nulla del suo, ma solo cacciare Pandolfo. E credo che quella comunità di Siena mi crederà; ma quando la non mi credesse, io son per andare innanzi a mettere le artiglierie alle porte, e fare _ultimum de potentia_ per cacciarlo; e poichè io ho tolto a’ miei nimici le armi, torre loro anche il cervello, che tutto consisteva in Pandolfo e ne’ suoi aggiramenti. E veramente io credo che se, ora fa un anno, avessi promesso alla Signoria di Firenze a spegnere Vitellozzo e Oliverotto, consumare gli Orsini, cacciare Gianpaolo e Pandolfo, e avessi voluto obblighi di centomila ducati, che la sarebbe corsa a darli: il che sendo successo tanto largamente, e senza suo spendio, fatica o incarico, ancora che l’obbligo non sia _in scriptis_, viene ad essere tacito, e però è bene cominciare a pagarlo, acciò che non paja nè a me nè ad altri che quella città sia ingrata fuor del costume e natura sua». Conculcati i Savelli, gli Orsini, i Colonna, i minori stavano colla battisoffia, tanto più che l’abbassarsi della fortuna di Luigi XII lasciava il Valentino più indipendente, e franco a mercanteggiare la propria alleanza, sicchè trattava col Grancapitano; il papa dal compiacente concistoro otterrebbegli il titolo di re di Romagna, Marca ed Umbria; egli stesso aveva disposto ogni cosa per potere, venendo a morire suo padre, restar arbitro del conclave, e portare al trono una sua creatura. Ma era battuta l’ora anche pei Borgia. Non è da nessun argomento confortata la voce[88] che Alessandro, volendo avvelenare il cardinal di Corneto, gl’imbandisse una colezione, e per errore, sì egli che il figlio bevessero del vino preparato per quello. Fatto è che il papa inaspettatamente morì di settantadue anni (1503 18 agosto); e anche il Valentino stette gravissimo, mentre Orsini, Colonna, Appiani, Vitelli, Baglioni coglievano il destro di scatenarsi da quella potenza e ricuperare i dominj. Le ire divampano; sono bruciate case, saccheggiate botteghe, guasta la campagna; Fabio Orsini si lava mani e faccia nel sangue d’un Borgia; Francesi e Spagnuoli, venuti sotto velo di francheggiare la libertà del conclave, si combattono in Roma. Il Valentino riavutosi, per ajuto del cardinale d’Amboise che sperava col suo mezzo la tiara, pon le ugne sul tesoro pontifizio di centomila ducati, colloca dodicimila uomini in Vaticano, s’afforza in castel Sant’Angelo. Ma deluse le lunghe speranze del d’Amboise, fu data la tiara a Pio III (Francesco Todeschini Piccolomini senese), e dopo soli ventisette giorni al savonese Giuliano della Rovere col nome di Giulio II. Costui, accannito ai Borgia perchè aveangli strappato di pugno una prima volta il papato, erasi fin allora tenuto in armi o in esiglio, alle loro lusinghe e invitazioni rispondendo: — Giuliano non si fida del Marano». Subito si rannodano le alleanze con Francia e Spagna; molti signori rientrano ne’ perduti dominj; a Forlì gli Ordelaffi, a Rimini i Malatesta, a Faenza e altrove i Veneziani; ciascuna città si arma. Il Valentino, ridotto coll’acqua alla gola, cede i castelli che tenevansi a suo nome; e rilasciato, secondo la sicurezza datagli dal papa affine d’avere il voto de’ cardinali di sua fazione, si getta a Napoli promettendo agli Spagnuoli il braccio e l’arte sua per acquistar Pisa ed altre terre; don Gonsalvo lo riceve cortesemente, e ne asseconda i disegni, finchè re Ferdinando gli ordina di mandarlo in Ispagna. Assicurato sulla parola d’onore, il Valentino ci va, ma ciurmato egli ciurmadore, fu messo prigione[89]; riuscitogli di fuggire al re di Navarra suo suocero, è ucciso all’assedio di Viana e sepellito ignobilmente. Costui è l’eroe del Machiavelli, il quale trova ch’ei «fece tutte quelle cose, che per prudente e virtuoso uomo si doveano fare per mettere radici in quelli Stati che le armi e fortuna d’altri gli aveva concessi»; i tradimenti ne racconta con un’indifferenza che somiglia a complicità, fin a dire — Io non saprei quali precetti dare migliori ad un principe nuovo, che l’esempio delle azioni del duca»; e — Pel duca Valentino le opere io imiterei sempre quando fossi principe nuovo...»; e conchiude: — Raccolte tutte queste azioni del duca, non saprei riprenderlo, anzi mi pare di proporlo ad imitare a tutti coloro che per fortuna e con le armi d’altri sono saliti all’imperio»[90]. Dante poneva nell’inferno quel che diede i mali consigli a re Giovanni, e Buoso da Dovàra che agevolò ai Francesi la venuta, e il Montefeltro che suggerì il prometter lungo e attender corto. Vecchiaggini del medioevo! Ora non si inneggia ai santi del paradiso, ma si applaude agli eroi dell’inferno dantesco: ora bando ad ogni idealità: si stia al fatto: non vedasi quel che dovrebb’essere, ma quel ch’è; la virtù è la forza intelligente: doti uniche in un principe sono accorgimento di consigli, fermezza di risoluzione e fortuna; unica lode il riuscire. Ma a ciò quali regole dare quando sottentra l’onnipotenza individuale, cioè l’arbitrio supremo, il fluttuamento, la variazione? Il Machiavelli avea veduto Fernando il Cattolico da piccolo re divenire uno dei maggiori potentati d’Europa; per quali mezzi? per l’assolutismo: onde proclamò che bisognasse sradicare gli spinosi germogli del medioevo per mezzo d’una dominazione unica e incondizionata[91], e a questa giungere per qualsifosse via. Sian pur mali i mezzi, male anche il fine; ma sono passeggeri, e ne seguiranno il dominio supremo della legge, l’eguaglianza e la libertà di tutti, e si farà della cittadinanza un medesimo corpo, ove tutti riconoscano un solo sovrano[92]. Cerca dunque speranze nella disperazione; vedendo perire le antiche glorie d’Italia, vuol uccidere anche il diritto e la giustizia, della debolezza far forza, ad alto scopo giungere per vie basse; «suo intendimento essendo scrivere cosa utile a chi l’intende, gli è parso più conveniente andar dietro alla verità effettuale della cosa che all’immagine di essa»; oggi diremmo al fatto, anzichè all’idea. «Molti si sono immaginate repubbliche o principati, che non si sono mai visti nè conosciuti veri: ma è troppo discosto il come si vive dal come si dovrebbe vivere, e un uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene che rovini infra tanti che non son buoni. Ond’è necessario ad un principe, volendosi mantenere, imparare a poter essere non buono, ed usarlo e non usarlo secondo la necessità. Hassi ad intender questo, che un principe, e massime un principe nuovo, non può osservar tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, essendo spesso necessitato, per mantener lo Stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro all’umanità, contro alla religione»[93]. Conseguenti a questa teorica sono le applicazioni. Il tiranno deve sempre avere in bocca giustizia, lealtà, clemenza, religione, ma non curarsene qualvolta gli torni bene il contrario; farsi temere piuttosto che amare quando l’uno e l’altro non possa: scopo dei Governi è il durare, nè questo si può che coll’incrudelire, «perchè gli uomini sono generalmente ingrati, simulatori, riottosi, talchè convien tenerli colla paura della pena». Tutto ciò egli espone colla freddezza d’un anatomista, o d’un generale che calcola quante migliaja d’uomini si richiedono per espugnare una posizione. Per lui sono ammirabili i colpi arditi; lo strumento migliore è la forza, sia quella di Sparta per conservare, o quella di Roma per conquistare: il diritto è rinnegato; rinnegato Cristo, per surrogarvi non so che religione astrologica; rinnegato il progresso, giacchè «a voler che una setta o una repubblica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio»[94]. L’umanità, sottoposta a influssi d’astri, percorre entro un circolo insuperabile dal bene al male e da questo a quello[95]; e negli ordini politici, dalla monarchia all’aristocrazia, da questa alla democrazia, finchè l’anarchia riconduce la necessità d’un monarca. Tal è lo spirito del _Principe_, libro di prudenza affatto pagana, inesorabilmente logica ed egoistica, fondata sul rigido diritto e sulla riuscita, acconcio a tempi quando, in difetto di moralità, restava unica sanzione l’esito, unico intento di ciascuno Stato il conservarsi e crescere, con qualunque fosse spediente, per quell’individualità che diveniva carattere del secolo. Nel precedente, erasi cominciato a diffondere che le cose dello Stato non voglionsi regolare secondo la morale ordinaria e il diritto privato: via via indebolitasi l’autorità spirituale, l’assonnamento della coscienza pubblica preparava quel despotismo che non insinua la bontà, ma reprime colla forza. Machiavelli formolò que’ teoremi; ed il supporre nel _Principe_ un’intenzione contraria alla apparente, equivarrebbe a credere ironico Aristotele là dove sostiene il diritto della schiavitù. Chè, come questa pareva natural cosa in Grecia, così allora il tradire con senno; nè la politica era teoria, ma azione e sperimento; non scienza dei diritti de’ principi, ma arte di dominare sugli innumerati bipedi che la loro stupidità condanna all’obbedienza, e conservarsi ad ogni costo; consideravasi abilità il trarre nel laccio l’inimico, maturare lunghe vendette, e di dolci parole velare atroci disegni. E talmente sul serio ragiona il Machiavelli, che sconsiglia i modi che irritano inutilmente; il saltare dall’umiltà alla superbia, dalla pietà alla fierezza quando facciasi _senza debiti mezzi_; basta «domandar a uno le armi senza dire, _Io ti voglio ammazzare con esse_, potendo, poi che tu hai le armi in mano, satisfare all’appetito tuo». Qual poi in quel libro, tale il Machiavelli si mostra in ogni altro. Ciò cui esso aspira è l’unità dello Stato, del pensiero, della forza: vuol far cessare i vacillamenti, le dissimulazioni: vuol franchezza anche nel delitto; non considerazioni di giustizia o pietà; non s’hanno a fuggire i peccati ma gli sbagli. Nei _Discorsi_ insegna che l’idea della giustizia nacque dal vedere come utile tornasse il bene e nocivo il male[96]; e gli uomini non s’inducono al bene se non per necessità; non vuole disapprovato Romolo d’avere ucciso Tazio e il fratello Remo; accoglie come segno di grandezza della repubblica romana «la potenza delle esecuzioni sue e la qualità delle pene che imponeva a chi errava». E Roma egli ammira sempre, quanto fa Polibio, perchè conquistò tanti popoli, e in guerra o per frodi rapì ad essi ricchezze, leggi, libertà, indipendenza. Perocchè la storia egli cerca non per la verità ma come allusione, sempre nello scopo di render forte anche un piccolo Stato. Tal è il senso della _Vita di Castruccio_, romanzo storico modellato sull’Agatocle antico, e non secondo i tempi dell’eroe ma del narratore; ove mostra come colui con piccolo paese e piccoli mezzi riuscì «non cercando mai vincere per forza ch’ei potesse vincere per frode, perchè diceva che la vittoria arreca gloria, non il modo»; le _virtuose azioni_ di quello e le _grandi qualità_ crede poter essere di grandissimo esempio, e gli fa dire che Dio è sempre coi forti, e a chi ha dà ancora, a chi ha poco toglie anche quello che ha. Insomma, schernendo tutte le credenze e i principj, ammira chiunque riesce, sia pure a fini opposti; eccetto Giulio Cesare che spense le libertà classiche, e Gesù Cristo che abjettò gli uomini predicando l’umiltà, e mettendo freno a quelle crudeltà per cui i pagani s’erano sublimati. Pertanto indifferenza per le vittime, e simpatia per chi sormonta; male è il tradimento se non raggiunge il fine; male le congiure sol perchè le più volte escono a peggio; torna meglio pentirsi d’aver fatto, che pentirsi di non aver fatto. Appone ai Fiorentini che non avessero, nel 1502, sterminato la ribellata Arezzo e tutta val di Chiana, giacchè «quando una città tutta insieme pecca contro uno Stato, per esempio agli altri e sicurtà di sè un principe non ha altro rimedio che spegnerla», altrimenti è tenuto o ignorante o vile[97]. Che importa se un privato rimanga vittima d’un’ingiustizia? basta che la repubblica sia assicurata da forza straniera e da fazioni interne: «dove si delibera della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione nè di giusto nè d’ingiusto, nè di pietoso nè di crudele, nè di laudabile nè d’ignominioso». E proclama quella massima dei Terroristi del 93, che «nelle esecuzioni non v’è pericolo alcuno, perchè chi è morto non può pensare alla vendetta». Tali suggerimenti possono, comunque scellerati, venire opportuni a uno Stato conquistatore; non quando vogliasi, come da noi moderni, un popolo operoso, che tutela non le ingiustizie, ma la propria indipendenza, ma le fatiche, i progressi, la libertà di ciascuno. Il Machiavelli invece la società ravvisa soltanto dal lato pagano; quella che vi fu eretta accanto, fondata sul diritto eterno e sulla pietà, o non conosce, o vilipende. O non comprende o avversa tutte le tradizioni italiane, impero, papato, guelfi, ghibellini: vuole il despotismo sotto una forma nuova, che potrà anche esser l’unità d’Italia, ma questa egli non pronuncia se non al fin del _Principe_ e al principio dell’_Arte della guerra:_ mentre altrove non ne mostra neppur la velleità: cerca il ben di Firenze, non fusioni di altri paesi. Egli insegnerà ai nostri come liberare Italia, e a Luigi XII come soggiogarla, e come sostenersi i pontefici che pur crede ne siano la ruina. Non si ferma all’eresia, all’incredulità, all’empietà; la ragione comanderà a tutto, farà il mondo e le religioni a capriccio. Rivoluzionario nel pensiero, non negli atti, egli vagheggia la conquista francese; esorta Luigi XII a compiere l’acquisto d’Italia; semini la divisione, sostenga i piccoli, atterri il papa e la Spagna, soli ostacoli alla potenza: «nell’alta Italia pianta i tuoi invece degli abitanti». Forse immaginava che quel re diventerebbe italiano[98]. Perciò spesso s’inganna o neppur mostra quella preveggenza, ch’è il carattere degli ingegni eletti anche quando sono condannati all’inazione. Della calata di Carlo VIII non riconosce se non tardissimo gl’indestruttibili effetti; loda la conquista di Luigi XII che pur incatena l’Italia, solo vorrebbe che in Lombardia distruggesse i natii per collocarvi colonie all’uso romano; la lega di Cambrai, la rotta de’ Veneziani, l’attività di Giulio II, la protesta di Lutero, gli sono accidenti incompresi; Carlo V è padrone di tutto, ed egli non ravvisa pericolosi alla libertà italiana se non i Veneziani e gli Svizzeri, i quali possono soggiogare il mondo, come già fecero i Romani: se tardi s’accorge del vero nemico, non ravvisa che unica potenza effettiva da opporgli sarebbe il papa. Avea creduto nel Savonarola; poi, visto fallire la politica religiosa, si buttò alla politica atea, più nelle credenze non vedendo efficacia, ed anche le crociate non avvisando che come uno scaltrimento d’Urbano II. Assiste al trionfo di Cesare Borgia e non s’accorge del pericolo di Firenze: la consiglia ad attaccarsi a quello, a commettergli ambasciata sommessa: lo credea fondatore di nazione, futuro arbitro d’Italia e del papato. E del papato niente capì la grandezza, derivata dalla conquista guelfa de’ Francesi, e che ne fa una delle primarie potenze d’Europa. Prima consiglia Gianpaolo Baglione a pugnalar Giulio II che non vuol riconoscerlo signore di Perugia: poi crede che i Turchi fra un anno conquisteranno l’Italia, e così sarà vendicata dei torti fattile dalla Santa Sede: poi spera che Leone X rimetta qui i Francesi, cacciati da Giulio II, per impedire una conquista degli Svizzeri. Crede a Francia, teme gli Svizzeri sol perchè hanno armi: non capisce Roma che col pensiero move i più lontani. Al modo de’ vulgari, giudica dal risultamento immediato, anzichè dagli effetti lontani e dallo scopo ultimo; ammira chi affronta le opinioni e le barriere che trattengono l’onest’uomo; nè s’accorge dell’armonia, che pur alfine ritorna, fra la moralità dei mezzi e l’assicurazione del fine; e come l’uomo che conculca la giustizia non appigliasi che a spedienti, i quali alla fine si trovano manchi e fallaci. Suggerisce di sterminare colla spada o perdere cogli artifizj chi fa contrasto agli incrementi, e scannare ecatombe umane a un idolo che ha per unico piedestallo la forza. In tutti i casi però domandava la _repressione de’ gentiluomini_. Miglior governo crede il repubblicano, perchè gl’interessi di tutti sono affidati alle cure di tutti; ma vedendolo accompagnato da tanti scompigli, si risolve per la monarchia; non governi misti, non comandi dimezzati, ma «una mano regia che ponesse freno all’eccessiva corruttela de’ gentiluomini»; un governo forte, dove gli uomini grandi non potessero far sêtte, le quali sono la rovina d’uno Stato, «imitando Venezia, che teneva gli uomini potenti in freno». Secondava egli dunque l’opera che allora appunto compivano Enrico VIII in Inghilterra, Fernando nella Spagna, Giacomo IV in Iscozia, Luigi XII in Francia, Giovanni II in Portogallo, di sovrapporre ai nobili l’autorità de’ troni, de’ quali non prevedeasi la futura trapotenza. Crede egli alla potenza del genio, e vedendo tanti fatti grandiosi, pensa possano sorgere Licurghi e Soloni, perdendo quasi il sentimento che nella politica separa il fatto dal miracolo. E questi genj non hanno più obblighi con nessuno, non vogliono la libertà piuttosto che la tirannia, non Cristo piuttosto che Giove, purchè giungano una meta premeditata. E forse, tra le violenze soldatesche d’allora, soltanto un soldato come il suo Valentino potea prevalere: ma che un siffatto assodasse un desiderabil ordine di cose, era follia il riprometterselo; e l’eroe suo, coll’oro di Roma e l’oro di Francia, con astuzie e ferocie tante non conseguì che tenui effetti, e bastò un soffio a dissiparlo, bastarono circostanze che non avea prevedute. Venezia s’era accorta che sarebbe fuoco di paglia; un Piagnone nella fine dei Borgia legge un chiaro esempio della verità di quella sentenza che dice, «le cose violente non poter essere molto stabili, non che perpetue, come gli stolti, ogni dì ingannati, pure ogni dì si promettono»[99]: ma il Machiavelli neppure in quella caduta si disinganna: tanto il cuore può annebbiar l’intelletto. Non a torto dunque il popolo denominò da lui quella inumana politica, che, propostosi un fine, nella scelta de’ mezzi non esita fra la giustizia e l’iniquità, l’astuzia e la violenza. A sgravio però del Machiavelli dicasi com’erano venuti comuni que’ teoremi. Il Guicciardini li applica incessantemente nella _Storia_; allorchè Pisa si solleva contro Firenze, non rimprovera già questa d’avervela spinta coi mali trattamenti, sibbene di non aver chiamato a sè i principali cittadini, e tenutili ostaggi; e riflette che anche «dopo la caduta del Valentino, la Romagna stava quieta ed inclinata alla divozione sua, avendo per esperienza conosciuto quanto fosse più tollerabile il servire tutta insieme sotto un signore solo e potente, che quando ciascuna città stava sotto un principe particolare, il quale nè per la sua debolezza la poteva difendere, nè per la povertà beneficare; e non gli bastando le sue piccole entrate, fosse costretto a opprimerla. Ricordavansi ancora che, per l’autorità e grandezza sua e per l’amministrazione sincera della giustizia, era stato tranquillo quel paese dai tumulti delle parti, dai quali prima soleva esser vessato continuamente, con le quali opere s’avea fatti benevoli gli animi dei popoli, similmente coi benefizj fatti a molti di loro; onde nè l’esempio degli altri che si ribellavano, nè la memoria degli antichi signori gli alienava dal Valentino». Il Missaglia, nella vita del Medeghino, scriveva: — Poichè l’ultimo fine della guerra è la vittoria, per ottener quella pare che sia lecito o almeno tollerato mancare di fede, usare crudeltà ed altri enormissimi errori». L’Ariosto cantava: — Fu il vincer sempre mai laudabil cosa, Vincasi o per fortuna o per ingegno»; e Francesco Vettori: — Stimerei una delle buone nuove che si potesse avere quando s’intendesse che il Turco avesse preso l’Ungheria, e si voltasse verso Vienna; e i Luterani fossero al dissopra di Lamagna; ed i Mori, che Cesare vuol cacciare di Aragona e di Valenza, facessero testa grossa, e non solamente fossero atti a difendersi, ma ad offendere». Poco poi frà Paolo Sarpi, dando _consigli alla Signoria di Venezia_ sul governare i sudditi in Levante[100], la scaltrisce che alla fede greca non deva in niun modo fidarsi, ma trattarli come animali feroci, limarne i denti e le unghie, sovente umiliarli, soprattutto rimoverli dalle occasioni d’agguerrirsi; pane e bastone essere il caso loro, l’umanità si serbi per altre occasioni. E altrove asserisce che «il più grand’atto di giustizia che il principe possa fare, è mantenersi»; e vuol divietato il commercio ai nobili perchè produce grosse ricchezze a costumi novelli. Nè ciò si pensava e faceva solo di qua dall’Alpi. Quel Commines, di cui più volte toccammo, vent’anni prima del _Principe_ avea pubblicata la vita di Luigi XI colle professioni medesime; adopera come sinonimi inganno e abilità; chiama Lodovico Sforza «saviisimo, e uom senza fede qualora gliene venisse profitto»; e grandi e nobili a confronto degli altri Luigi XI e Carlo il Temerario, principi di poca fede, e sempre attenti a ingannarsi l’un l’altro[101]. Montaigne, che intitola il suo _libro di buona fede_, trova che in ogni politico ordinamento occorrono uffizj non solo bassi, ma anche viziosi, e i vizj medesimi servono a mantenere il legame sociale, come i veleni alla salute; esservi cittadini vigorosi, che sacrificano la vita per salvezza del paese; ma se il ben pubblico richiede che si menta, si tradisca, si uccida, lasciano tali uffizj a persone più destre. Come Leone X dava un salvocondotto a Gianpaolo Baglione, poi venuto l’arrestava e uccideva; come la Signoria di Firenze, credendo pericoloso il congedare Boldaccio d’Anghiari condottiero, e più pericoloso il tenerlo, stabilì di spegnerlo, e il gonfaloniere dal balcone lo chiamò su, e quando fu salito, il fece buttar in piazza, «e tutto il popolo dimostrò esser contentissimo e lodava il fatto, e infine si conobbe essere stata perfetta opera»[102]; come il Valentino sorprendeva in sicurezza di pace i tirannetti di Romagna; così vedemmo il gran Gonsalvo, l’eroe spagnuolo, il leale idalgo, giurare sull’ostia al duca di Calabria lo lascerebbe ritirarsi ove volesse, poi mandarlo in carcere; invitare il Valentino, poi spedirlo prigioniero in Ispagna. Fernando il Cattolico chiamò esso Gonsalvo a Madrid sotto pretesto d’onore, e lo tenne in arresto; «informato che Luigi XII si lagnava d’essere stato da lui ingannato due volte, esclamava: — Mente il briccone; più di dieci volte io l’ingannai». I buoni montanari svizzeri vedremo più volte disertare dal servizio nel momento decisivo; e il cardinale di Sion abbandonare al sacco i Bresciani ch’egli stesso avea sollevati contro Francia; e Francia e Spagna nelle paci sacrificare gli alleati. Quando, nell’accordo di Granata, il Cristianissimo e il Cattolico conculcavano ogni obbligazione morale, ogni legge d’onore per spartirsi il regno di Napoli; quando l’usurpazione di questo era agevolata da perfidie le più sfacciate; che diritto aveano le nazioni forestiere di far rimproveri all’italiana? ai politici di quella scuola poteva altro insegnarsi se non ad elidere coll’inganno l’inganno, coll’assassinio un altro prevenirne? il Machiavelli espone queste pratiche come evenienze naturali, senza passione, in tono d’assioma, con freddo computo di mezzi e di fine; non come Satana dice al male: «Tu sei il mio bene», ma «Tu mi sei utile»; se l’utile deva all’onesto posporsi, è disputa da frati. Così il chimico insegna come preparare i tossici e gli abortivi; se siano poi da adoperare, non è quistione da chimico. Delle astuzie insegnate ai forti, della vergogna ad essi risparmiata, gli effetti ricadono sempre sui deboli, sul popolo. Quante volte già vedemmo e quante vedremo la ricantata perfidia degl’italiani soccombere alla buona fede tedesca, alla rozza franchezza svizzera, all’onore francese, alla lealtà castigliana! I maneggi, la fredda astuzia, l’occhieggiar l’occasione, il lasciare logorarsi le forze nemiche erano tattica più praticata che non il valore personale. Alcuni Italiani impararono presto queste arti, e se ne valsero contro i popolani, di più schietto sentimento e perciò più ingannabili; e perchè in Italia fu chi espose ad alta voce questa politica, che appena uno confesserebbe alla propria coscienza, venimmo tacciati quali maestri delle scelleraggini, delle quali restammo vittime. Si perdona più facilmente una cattiva azione che non la teoria di essa, più facilmente il delitto che il sofisma. I moderni panegiristi del Machiavelli ricordino che gli stessi suoi contemporanei, che di quella politica sentivano le conseguenze, si raggricciavano contro la costui licenziosa leggerezza, maledicendo a’ perversi consigli per cui col _Principe_ aveva insegnato al duca d’Urbino «a togliere ai facoltosi la roba, ai poveri l’onore, agli uni e agli altri la libertà». Lo aborrirono i principi perchè insegna ai popoli le congiure, i popoli perchè ai principi l’oppressione, e agli uni e agli altri la mala fede, anzichè quella reciproca confidenza e benevola docilità, colle quali soltanto può affidarsi l’andamento civile. E tanto parve fuori stagione questo ritorno al paganesimo, che alcuno lo credette una continua ironia[103]; ovvero un artifizio per indurre i Medici ad abusare del potere, finchè stancassero la pazienza. Ma l’autore stesso adoprossi a levarlo di circolazione, e il popolo nol volle rimettere segretario ai Dieci della guerra; tanto la pubblica coscienza si risentiva a quella fredda analisi che pone l’ordine politico sopra l’ordine morale, la ragione di Stato sopra l’umanità, e sagrifica l’individuo alla prosperità dello Stato, identificato col principe. Egli, aspirando sempre a comandare, passò la vita a obbedire, vacillò fra principato e repubblica, e dopo aver declamato nelle _Storie_ che troppo si era conceduto ai Medici, crede poi inutile l’opporvisi, anzi li seconda, pel sussidio che potrebbe venirne a fare uno Stato forte: scopo alto ma parziale, e tante volte rovinoso. Pel quale scrive il _Principe_, onde ammaestrare Giuliano de’ Medici a conservare il recente dominio: poichè quegli manca, egli lo indirizza a Lorenzo, molto men _virtuoso_ del Valentino, ma appoggiato a un papa giovane: fallitagli la speranza anche in questo, la ritorse da capo sopra la Repubblica fiorentina. In altre nature, in altra fermezza noi vogliamo cercare il liberale; nè per austero uomo o caldo repubblicano accetteremo il Machiavelli, che continuo esorta ad acconciarsi col governo qual egli sia; che, dedito a bassi appetiti, ha per amici i più solazzevoli di Firenze, per confidenti ha turpi politici e sleali alla patria; che guardava come colmo della miseria il vivere oscuro ed umile, avendo mestieri di fracasso, di denaro, di godimenti, di amori, dell’aura dei grandi, degl’impieghi. Per ottenerli piaggia Leone X, piaggia Clemente VII e l’inetto Lorenzo; essi il mettono alla corda, ed egli li loda, e mendica, e per piaggiarli insulta all’onorevole governo del Soderini[104]. E noi, confessando che il Machiavelli e il Guicciardini contribuirono immensamente a sviluppare la nuova scienza politica, li giudichiamo scandalo della letteratura cristiana, e li rigettiamo fra i grandi del mondo gentile[105]. CAPITOLO CXXXI. Il sistema militare. Guerra di Pisa. Giulio II. Lega di Cambrai. Sotto un altro aspetto ci si presenta il Machiavelli, come maestro di tattica. Notammo altrove i miglioramenti che in questa aveano introdotto le bande mercenarie (Cap. CVIII, CXV); dappoi le bocche da fuoco portarono cambiamenti di cui era difficile valutare l’estensione; le cortesie cavalleresche soccombeano a un’arte tutta positiva; ma l’antica e la nuova si trovavano a fronte senza ancora che l’una all’altra prevalesse. La fanteria svizzera, serrata in battaglioni di tre o quattromila uomini, con picche di sei metri, spadoni a due mani, poche armi difensive, poche da fuoco, offriva una siepe insormontabile alla cavalleria, e faceva poderosa impressione nell’esercito avverso: ma se fossero costretti combattere per distaccamenti, scadeano di coraggio; poco valeano in affari di posto, in assedj od assalti; e una volta scompigliati, difficilmente si rannodavano. Gli Spagnuoli, nella lotta di sette secoli contro i Mori, aveano acquistato quel coraggio che da nulla è ispirato meglio che dalla guerra di bande; e quando, sbarbicata la dominazione straniera, uscirono a molestare l’Europa, erano reputati la prima fanteria dopo la svizzera, anzi migliore di questa dopo che da essa impararono in Italia a formare battaglioni serrati ed altri miglioramenti. Sobrj all’estremo, non patimento, non fatica gli abbatteva; portavano per offesa l’alabarda, poi la picca, spada, pugnale o daga: messi in iscompiglio, tornavano alla carica individualmente; e coperti del _brochello_ o cappa di maglia, spingevansi uno ad uno tra le picche pugnalando il nemico. La lontananza dalla casa rendea difficile ad essi il disertare, ai potenti il congedarli dopo finita la campagna, sicchè crescevano in perizia e disciplina. I Francesi pensarono a migliori ordini durante la guerra cogl’Inglesi, fissando ai militari un soldo; e Carlo VII introdusse gli uomini d’arme, primo esercito stabile, coll’ordinanza che le altre potenze poi imitarono. La cavalleria leggera cominciò ad avere importanza come corpo distinto solo quando Luigi XII soldò gli Stradioti, cavalieri greci, coperti il capo da un morione senza cresta nè visiera, cotta di maglia, spada, mazza, lungo bastone ferrato ai due capi: talora combattevano anche a piedi; e abituati alla fierezza della guerra turca, non davano quartiere. N’era comune l’uso ai Veneziani, che pagavano un ducato per ogni teschio che portassero, ed ai Napoletani, che li reclutavano fra gli Albanesi accasati nel Regno[106]. I cavalieri tedeschi o Raitri, oltre che male armati, avendo un cavallo solo, arrivavano sul campo stanchi, e mal poteano reggere contro la gente d’arme francese e italiana. I Lanzichenecchi, introdotti sotto l’imperatore Massimiliano, erano armati e ordinati al modo degli Svizzeri, coi quali spesso per emulazione venivano alle mani non dandosi quartiere: alti e belli di presenza, menavansi dietro mogli e figliuoli, grandissimo impaccio alle fazioni; volenterosi al bere, impazienti de’ disagi, improvvidi, puntigliosi; e diceasi ungessero i ferri e le mani col grasso de’ cadaveri nemici. Dietro a quegli eserciti vedeansi lunghi treni di prigionieri, uomini e donne, giovani e vecchi, legati fra loro alle code dei cavalli, e spinti a calci e a frustate; e sui carri gl’infermi e i bambini, ammonticchiati fra le spoglie, i calici e le bottiglie. Ricchi, occupati d’arti, d’industria, di traffico, gl’Italiani non aveano tempo o voglia di mettersi soldati, e preferivano vederseli condotti sul mercato, come le derrate dell’Arabia e dell’India; gente senza morale perchè di mestiero, la cui viltà facea sempre più spregevole l’uso dell’armi; sicchè la nazione restava distinta dall’esercito. Que’ mercenarj, puri masnadieri, assoldati oggi a combattere quello per cui campeggerebbero domani, feroci quando lontano il pericolo, coraggiosi solo nella speranza della preda, riponevano la prodezza nella jattanza dei pomposi nomi, Fracassa, Tagliacozzi, Fieramosca. Si tardavano le paghe? rompeano l’obbedienza, arrestavano il generale, e spesso costringevano ad azzuffarsi in circostanze disopportune, od a fazioni sconvenienti, solo per la speranza di saccheggio. Del quale conservavano il diritto per poco che una terra si fosse difesa; sicchè talvolta pattuivasi il riscatto ancor prima di acquistarla, o la si vendeva a un appaltatore[107]. Alcuni signorotti continuavano ad esercitare le armi come nobile occupazione; lo perchè la guerra menavasi con certe cortesie e a gran cura risparmiando la strage: ma con ciò eternavasi, perchè d’oro soltanto si contendeva, e miglior partito avea chi più ricco o più perfido, senza che la vittoria svigorisse il vinto, il quale coll’inganno provvedeva a rifarsi. I capitani di ventura della scuola di Braccio e di Sforza, avvezzi a vivere unicamente di guerra, erano finiti, rimanendo solo quelli che possedevano dominj bastanti per mantenere del proprio alquanti seguaci. I siffatti non poteano avere corpi numerosi, e i principotti ne soldavano diversi col nome di _lancie spezzate_: il che tutto toglieva all’esercito ogni unità; mentre il pregiudizio di credere superiore la cavalleria alla fanteria era fomentato dai capitani di ventura. Questo servizio non dispensava i terrazzani dal dovere prestarsi ai trasporti, preparare le vie, le spianate, le trincee, ed anche far le guardie nelle rôcche, e tener saldo finchè giungessero i soccorsi; poi quando l’introduzione del fucile diede tanta importanza ai fanti quanta ne toglieva ai cavalieri, queste milizie furono adoperate anche in campo, _comandando_ un uomo per casa e pagandoli a giornata, e sotto connestabili mandandoli ai luoghi minacciati. In questo sciagurato sistema, i capi, non comprendendo che non v’è società senza governo, nè governo senza forza, si rimetteano all’arbitrio de’ venturieri, dai quali da oggi in domani erano traditi; e così toglievano ai nostri il sentimento delle proprie forze, l’orgoglio nazionale, l’affetto pel bene pubblico; e i soldati, forza materiale senza giustizia di modi nè nobiltà di fine, sapendo di poter tutto, trascorrevano a qualunque delitto; e avvezzavano i popoli a soffrirli e imitarli. A sì imperfetti ordini taluno pensò supplire con cerne, che dovessero esercitarsi e tenersi pronte ad ogni occorrente. Tale fu l’_ordinanza fiorentina_, che, durante la guerra di Pisa, Antonio Giacomini e il Machiavelli suggerirono a Firenze, disgustata dai mercenarj che facevano mercatanzia della loro fede. Il Machiavelli ebbe gran campo di osservare codesti stranieri, d’ogni parte accorrenti a disputarsi i brani del bel paese, che alcuni non doveano più lasciare; e volendo mostrare la necessità di truppe nazionali e di disciplina, benchè stranio alle armi, s’industriò d’acconciare l’arte antica coi metodi nuovi, e come d’ogni altra dottrina faceasi, allattò la sua di rimembranze latine e greche. E l’espose in dialoghi, il cui interlocutore principale è Fabrizio Colonna, nipote di Prospero, che bella fama acquistò nelle guerre di quei tempi a servizio degli Spagnuoli; disgustato, si pose con Clemente VII, poi contro di questo difese Firenze; caduta questa, servì a Francia, sinchè credendosene offeso, portò il suo valore a Paolo III, del quale pure scontento, militò con Cosmo de’ Medici, infine con Carlo V, e terminò di nuovo a Firenze nel 1548. Tali erano i capitani d’allora. Il Machiavelli propone di combinare i due sistemi della falange macedone e della legione romana, alle prime file dando picche per respingere la cavalleria, alle altre spada buona per difendersi; surrogare i campi trincierati alle fortezze, i rapidi attacchi e decisivi alle lunghe evoluzioni. All’abitudine de’ condottieri, per cui ogni milite menava dietro quattro cavalli, oppone l’esempio de’ Tedeschi che un solo ne hanno, ed uno ogni venti pel bagaglio. Da politico qual era, ragiona delle relazioni tra la vita militare e la civile, tra la politica e la tattica, e cerca soprattutto come armare e disporre i combattenti nell’ordinanza. Pone una gerarchia di gradi, ben proporzionata alle facoltà dell’uomo e delle masse; suggerisce tamburi, bandiere, pennacchi, colori, altri distintivi opportuni a conservar l’ordine; vuole si esercitino le truppe continuamente, però in modo che il cittadino non divenga soldato se non all’istante del pericolo. Siano regolari le marcie; ma anzichè dividere, come si soleva, in avanguardia, battaglia e retroguardia, basta che qualche partita di cavalleria preceda e segua, mentre il grosso avanza in colonne parallele: idea non desunta dagli antichi, e che poi formò una delle glorie di Federico di Prussia. L’ordinanza dunque non doveva essere «simile a quella del re di Francia, pericolosa ed insolente, ma a quella degli antichi, i quali creavano la cavalleria di sudditi proprj, e ne’ tempi di pace li mandavano alle case a vivere delle loro arti». A tale intento, sottomette alla coscrizione (_deletto_) tutti gli uomini dai diciassette ai quarant’anni per la prima volta, dipoi quelli soli di diciassette, età sicuramente precoce; sicchè tutti ad un bisogno possano prendere le armi, nè però queste siano professione speciale d’alcuno; tutti lo sentano come un dovere santo, nè però corrano alle file con ardore improvvido. Corpi distinti formino le scorte, i piccoli distaccamenti, le guardie d’onore, senza che per tali servigi siano menomati i battaglioni. Durante la pace, il soldato si eserciti con armi e vestito e calzatura più pesanti che quando marcia in guerra. Il Machiavelli confessa la superiorità della moderna sopra la cavalleria antica, sprovvista di staffe su cui appoggiarsi nel ferire. Comprende che le armi nuove toglievano la prevalenza alla forza personale; ma qualora le applica, sempre le subordina alle antiche, e il fucile e il moschetto non ravvisa che come succedanei all’arco e alla fionda dei veliti: tanto poco ancora se ne capivano le conseguenze. Pure nel trattare delle fortezze prevede gli effetti delle mine: in città munita non vorrebbe castello o ridotto, acciocchè la guarnigione non vada meno risoluta nel difendere il tutto perchè confidi nel riparo che ancora le rimane. Le armi da fuoco avrebbero dovuto far immediatamente allargare la fronte, e la battaglia di Marignano mostrò quanto maggiore offesa portassero nell’ordine profondo: pure la consuetudine lo facea conservare per la fanteria; e il Machiavelli lo preferiva per ammirazione ai Romani, per la quale voleva i corpi grossi di ventiquattro in trentamila uomini. Nemmanco giunse, in quel suo concetto del principe forte, a conoscere che stromento precipuo a farlo tale sarebbe l’esercito stabile, e che questo renderebbe inutili i suggerimenti che dava al conquistatore d’andare ad abitare nel paese conquistato o di devastarlo. Alcune, e diciamo pure molte massime buone non bastano a collocare il Machiavelli fra gli strategi[108]. Bensì come a filosofo politico concediamogli il merito d’avere aspirato a costituire eserciti nazionali; e anzichè puri miglioramenti tattici, voluto opporre al tristo spettacolo de’ mercenarj la forza morale di Italiani, che convincessero non essere qui morto l’antico valore. In fatto, ad istanza di lui la Signoria armò diecimila contadini con abito uniforme bianco-rosso, armi e suono al modo degli Svizzeri e Tedeschi; gli esercitava i giorni festivi nel Comune, e due volte l’anno a mostre generali; e costarono meno che le condotte, e mostrarono maggior disciplina. Con questi Firenze continuò la sciagurata guerra contro Pisa (pag. 110), città che, in quattordici anni di lotta, chiarì come ottantasette di servitù non ne avessero spento il coraggio e la perseveranza. Firenze, ostinata a volerla, vi adoperava l’abilità di Leonardo da Vinci e Giuliano da Sangallo; fu persino teso un ponte di barche, in modo di reciderle ogni sussidio dal mare; fu scavato un fosso per deviare l’Arno, ma una piena ruppe la diga, e traripò il fiume sopra il campo fiorentino. Allora, come avea usato l’antico Capponi, si bloccò Pisa, con navi e batterie chiudendo le foci dell’Arno, del Serchio, del Morto, e stabilendo tre campi trincierati: laonde, mancate le vittovaglie, Giovan Gambacorti si vide costretto mandar fuori i vecchi, le donne, i fanciulli; ma i commissarj fiorentini pubblicarono impiccherebbero chiunque uscisse di Pisa, e le donne rimanderebbero colle gonnelle scorciate alla vita. Pisa disperata offrivasi a questo, a quello, sino al Valentino, anzichè ricadere all’emula che le avea stremato il commercio e la popolazione, ridotte a pantano le colte pianure circonvicine; gli ambasciadori di re Luigi condusse avanti alla Statua di Carlo VIII, supplicandoli non disfacessero l’opera del loro buon re: ed ecco venire cinquecento fanciulle biancovestite, sparsi i capelli, e supplicare i Francesi come tutori degli orfani e campioni delle donne, a non perigliare l’onestà di tante pulzelle; e davanti a una Madonna cantavano sì pietosamente, che non era un Francese che non piangesse: e quantunque il luogotenente Chaumont si ostinasse ad assediare coi Francesi questi amici della Francia, al primo disastro il suo esercito si sbandò; e tosto le donne di Pisa uscirono cercando per le macchie e pe’ campi i deboli e i feriti, confortandoli e recandoli in città, e difendendoli[109]. Perchè i Francesi la osteggiavano, gli Spagnuoli e il Grancapitano fiancheggiavano Pisa, e con essi il Petrucci di Siena e il Baglione di Perugia per gelosia della vicina repubblica: ajuti deboli e in parole, mentre Firenze potea guastarla con una nuova spedizione ogni anno, ma non prenderla. In grazia di Pisa invelenirono le fazioni di Genova, città singolare, a cui le irreconciliabili avversioni dei negozianti co’ feudatarj delle montagne tolsero non solo di dominare il Mediterraneo come poteva, ma di aver peso nelle vicende d’Italia. Essa prima diede l’esempio di esibirsi a questo o a quel signore; si sottomise ai Francesi, poi cacciolli col sussidio di Francesco Sforza, al quale serbò riverenza perchè la tenne a duro freno, ma senza violarne i patti: lui morto, s’ingegnò di accogliere magnificamente Galeazzo Maria in quel suo sfarzoso viaggio; ma egli vi comparve in abiti peggio che semplici, e alloggiò in Castelletto, tra insultante e pauroso. Genova, indispettita, esibì di darsi a Luigi XI, il quale rispose: — Ed io la do al diavolo». Durata dunque a malincuore sotto lo Sforza, quando egli morì se ne sottrasse a sollecitazione di Sisto IV, e tempestò fra le antiche parzialità: Prospero Adorno se ne fece governatore (1461), poi prevalsero i Fregosi, e Paolo cardinale arcivescovo divenne anche doge; indi si tornò ad obbedire a Milano, al quale poteva Genova essere tanto superiore per opportunità marittima e per memorabili imprese. Quando Milano cadde ai Francesi, dovette accettarli anche Genova, pur conservando l’amministrazione repubblicana. Scaduta di gente, di commercio, d’armi, esposta a tutte le avvicendantisi fortune d’Italia, i Francesi le minacciavano l’ultima ruina alzandole a fianco il porto di Savona. Ripartite le cariche fra nobili e plebei, non si tornava così spesso al sangue, pure sopravviveano le antiche fazioni; e poichè il governatore francese surrogato al doge, in tutte le contestazioni si pronunziava pei nobili, questi più non ambivano l’indipendenza della patria, ma capitanati da Gian Luigi del Fiesco, il più ricco tra essi, contrariavano i popolani fino a impedire che si accettasse Pisa, la quale offrivasi a quella che altre volte avea speso tesori per assoggettarla. Con ciò voleano corteggiare la Francia, ma ne derivavano risse continue e insurrezioni, mal frenate dai Francesi. I popolani, forti per sangue, per talenti, per ricchezza, pretendeano avere due terzi dei pubblici impieghi, giacchè erano il doppio de’ nobili, e che si togliessero a questi le fortezze e i tenimenti sulla Riviera, e si sottomettessero alle comuni gravezze: i nobili di rimpatto, i quali allora erano soltanto i discendenti dai Doria, Spinola, Fieschi, Grimaldi, sicuri dell’impunità, si munivano di pugnali, su cui era scritto _castigavillani_. Ma i villani di Genova han mostrato più d’una volta agli oppressori come i ciottoli del loro paese feriscano. Mentre un popolano sta contrattando dei funghi, un nobile se li prende per sè (1507); quello grida accorr’uomo, questo è ucciso; tutta la città vi prende parte, la baruffa mutasi in rivoluzione; si mettono al governo otto tribuni della plebe; si occupano le Riviere, governate da Gian Luigi del Fiesco. Re Luigi XII manda forze per quetarla col bombardamento e colla fame; ma il popolo si raccomanda al papa compatrioto e all’imperatore, ed elegge un doge popolare (7 febb.), Paolo da Novi, tintore di seta, uomo di coraggio, d’attitudine e di probità grande[110]; il che equivaleva a dichiararsi indipendenti. Luigi move dunque in persona con Svizzeri e Francesi; le milizie, per quanto sostenute dall’entusiasmo (1507), non reggono a fronte delle squadre disciplinate, e il cavaliere Bajardo gridava: — Olà, merciajuoli, difendetevi coi bracci; e picche e lancie lasciate a noi». Genova è presa (29 febb.) e saccheggiata: il re, entratovi colla spada nuda, fra le suppliche del popolo e degli anziani, che con ulivi e a ginocchioni implorano grazia, ben settantanove manda al patibolo: Paolo, doge per diciotto giorni, tradito da un suo per ottocento ducati mentre da Pisa fuggiva a Roma, è ricondotto, decapitato, squartato, e il capo e i quarti sospesi in varie parti della città; imposta una contribuzione di dugentomila fiorini, che era un terzo della taglia del regno di Francia; bruciati i privilegi; eretta alla Lanterna una fortezza, detta la Briglia; ordinato un governo, dove ai nobili assicuravasi la metà delle cariche; e gli storici celebrano la clemenza di sua maestà. Cessano allora i soccorsi ai Pisani, che «destituiti d’ogni presidio, rimasti soli e debolissimi, non accettati da Milano, non bene visti dal pontefice, dai Senesi poco intrattenuti, stavano pertinaci sperando sulle vane promesse d’altri e sulla debolezza e disunione de’ Fiorentini» (MACHIAVELLI). Per quanto ogni avere e forza mettessero a sostenersi con una costanza che dava risalto alla sconnessione degli aggressori, tolti in mezzo da corsari e da eserciti, sobbalzati fra le trattative di Francia e di Spagna, che non pensavano a fiancheggiarne la libertà, ma al denaro che trarrebbero dal tradirla ai Fiorentini, dopo una resistenza di quattordici anni e mezzo, che forse non ha altri esempj, dovettero rassegnarsi all’antica servitù (1509 13 marzo). A Parigi e a Madrid, ove ormai si decidevano le sorti italiane, fu pattuito il prezzo di quella sommessione in centomila fiorini che Firenze pagherebbe al re di Francia, cinquantamila a quel di Spagna. Saltò in mezzo anche l’imperatore, e ne volle quarantamila, mediante i quali confermava a Firenze tutti i privilegi concessile dai precedenti imperatori, tutte le ragioni sopra il territorio fiorentino e pisano[111]. Firenze non fu crudele ai vinti, e s’obbligò per patto a restituire i beni ai fuorusciti, e persino gli affitti riscossi dalle campagne, e le franchigie di commercio, e le magistrature; ma loro aveva tolto l’indipendenza, e con essa la popolazione e i guadagni, non la memoria e gli sdegni. Delle famiglie primarie alcune seguitarono le armi mettendosi in condotta, altre si mutarono a Palermo, a Lucca, in Sardegna, in Francia, molte furono trasferite a Firenze. L’antica dominatrice dei mari, tenuta in soggezione con presidio e fortezze, perdette ogni importanza e attività, e il censimento del 1531 vi contò appena cinquecensettantuno abitanti. Altri guaj sbattevano intanto il resto della penisola; poichè le facili conquiste degli ultimi anni aveano abituato Francia, Spagna, l’imperatore a guardarla come una preda, e disputare di chi sarebbe, senza por mente ai veri suoi possessori[112]. Nel Napoletano, quelli che turpemente si erano spartito un regno altrui ben presto vennero a lite pei confini del possesso; e il Cordova pretendeva la Capitanata, dove l’annuale migrazione degli armenti per isvernare nella Puglia fruttava di pedaggio fin ducentomila ducati. Da quel dissapore il re di Francia sperò occasione di occupare l’intero regno, e divampata guerra, Francesi, Spagnuoli, condottieri italiani fecero belle e inconcludenti prove di valore, sia in battaglie aperte, sia in disfide particolari. E fu singolarmente decantata quella di Barletta (1503), ove tredici nostri mantennero contro altrettanti Francesi, che la loro nazione non era inferiore di coraggio[113]; compassionevoli sfoggi di una valentìa personale che nessuno negava: e il vederli con tanta compiacenza vantati da storici e poeti contemporanei, indica come gl’Italiani ignorassero che il valore non è glorioso se non per lo scopo a cui si dirige; dissipassero l’ammirazione sopra qualche vincitor di duello, invece di rimbrottare i prodi che non sapessero raccogliere le volontà, e versare il sangue unicamente pel riscatto della patria. Alla lunga lotta i popoli non presero altra parte che di soffrire; e il Grancapitano fece preponderare gli Spagnuoli, malgrado il valore di Luigi d’Armagnac. In questo tanto si maneggiava la pace, convenendo di dare il Napoletano al bambino Carlo d’Austria, nato dalla figlia di Fernando di Spagna e dal figliuolo di Massimiliano, e sposandolo alla figlia di Luigi XII. Fidato negli accordi, re Luigi cessò di mandare sussidj, e impose all’Armagnac che sospendesse le ostilità: allora il Cordova, col pretesto di non aver ordini, assale i Francesi, a Cerignóle riporta una memorabile vittoria (1503 21 aprile), e secondato dai Colonna s’impossessa di tutto il Reame. Pietro Navarro, il quale aveva introdotto o piuttosto perfezionato l’uso delle mine[114], e vantavasi che nessuna fortezza valeva a resistergli, costrinse ad arrendersi i due castelli di Napoli, che furono abbandonati al saccheggio: e perchè alcuni soldati tornarono al Cordova lamentandosi di non averne avuto nulla: — Ebbene, rifatevene col saccheggiare il mio palazzo», cioè quello in cui aveva preso alloggio; e così fecero. Luigi XII, stizzito di vedersi ciuffare quel regno, assalse la Spagna, mentre in Italia mandava Lodovico La Trémouille col maggiore apparecchio che mai Francia avesse allestito, e con Svizzeri e con Italiani comandati da quel Francesco Gonzaga di Mantova, che capitano generale de’ Veneziani in acerba età avea combattuto i Francesi a Fornovo, era poi passato nell’esercito imperiale, indi avea comandato nel Regno le truppe venete contro i Francesi, coi quali ora s’era messo. Mancato il La Trémouille, esso rimase capitano supremo: ma l’orgoglio francese sdegnava ricever ordini da un italiano; onde disobbedito e aspreggiato, egli dovette deporre il bastone del comando. Massima confidenza aveano invece gli avversarj nel Cordova, il quale al Garigliano sanguinosa vittoria riportò (1503 27 xbre). Del florido esercito francese i più erano periti men di ferro che di malattie; e quasi nessuno tornò in patria: sicchè la Francia ne restò luttuosa, sconsolato re Luigi; e gli Italiani si trovarono alla balia degli Spagnuoli. Fortunatamente il Cordova, trovandosi sprovvisto di denaro e afflitto dal clima, persuase una tregua di tre anni. Nelle introdotte trattative, re Fernando il Cattolico, ontoso del perfido suo comporto verso Federico II di Napoli, parea disposto a rimetterlo in trono: ma essendo morti questo e la regina Isabella di Castiglia, esso Fernando così vecchio sposò Germana di Foix, nipote di Luigi XII, il quale a lei cedette quanto possedeva o pretendeva nel Napoletano, ricevendo settecento mila fiorini per le spese di guerra; poi nel trattato secreto di Blois (1505 22 7bre), Massimiliano imperatore assentì a Francia l’investitura del ducato di Milano per cenventi mila fiorini e un par di sproni d’oro all’anno. Tregua al solo scopo di ripigliar lena agli assalti; nè gl’Italiani poteano fidarsene: il Napoletano, preda disputata, strazio degli uni e degli altri, era caduto in una tirannide peggiore di quella da cui avea voluto riscattarsi; gli altri paesi, se non aveano perduto l’indipendenza, erano stati sottoposti a governi impopolari. Arbitre della penisola rimaneano le due potenze straniere, tenendosi l’una l’altra in rispetto; ma neppur esse poteano considerarsi padrone, esposte com’erano alla prepotenza de’ proprj generali. Il Cordova principalmente la facea da re, nè obbedì a Fernando che lo richiamava in Ispagna. Questi ingelosito viene in persona a Napoli, lo colma di vanti e d’onori, e col pretesto d’elevarlo granmaestro dell’ordine di Compostella, il conduce in Ispagna. Per via Luigi XII gli accoglie splendidamente a Savona, e vuole che il Grancapitano sieda terzo a mensa con lui e con Fernando; il quale forse da ciò più ingelosito, giunto nel suo regno, lo rimove dalla Corte, e lo lascia morire a Granata di settantatre anni nell’oscurità. Vedemmo come fosse salito papa Giulio II, destro nella politica ed anche nelle armi, sicuro nelle provvidenze, magnifico ne’ divisamenti, scurante di domestici vantaggi, rispettoso alle franchigie dei popoli; però mancante in tutto di moderazione, imperioso, tenace negli odj, sollecito a punire come nemico del cielo chiunque contrariasse le sue volontà terrene; onde si disse aveva gettato in Tevere le chiavi di san Pietro, per non tenersi che la spada di san Paolo. Franco d’atti e di parole in modo, che il suo gran nemico Alessandro VI diceva peccasse di tutti i vizj eccetto il mentire, approfittò di questa reputazione per meglio ingannare. Fomentò egli il dominante farnetico di guerre e d’intrighi; e poichè dal sublime magistero, sostenuto nel medioevo, il papato immiserivasi negli uffizj d’un principato terreno, Giulio volle almeno rialzarlo, e il debole paese gli bastò perchè in dieci anni dominasse i forti, e reggesse a briglia le cose d’Europa. Benchè i Francesi fossero soccombuti, egli era ito salvo da molestie, mercè della tregua, ed accumulava denaro pel suo alto concetto, qual era di «liberare l’Italia dai Barbari», cioè da quella soldataglia brutale, che a sua posta disponeva del bel paese, e innanzi a cui Alessandro VI avea tremato. Senonchè, sviato da interessi secondarj e dalle proprie collere, chiamava egli medesimo altri stranieri (1506). Innanzi tutto volle ridurre la Romagna a soggezione, e a grave stento ricuperati i castelli ch’erano appartenuti al Valentino, apparecchiato d’armi, di moneta, d’alleanze, intìma ai Veneziani che non si movano, intìma a Luigi XII che gli mandi soldati; e preceduto da interdetti, seguìto da truppe, accompagnato da ventiquattro cardinali, assale in persona Gianpaolo Baglione in Perugia, e lasciato indietro l’esercito, entra solo in essa città con tutta la corte. Il Baglione, parricida e incestuoso, non ardisce essere grandiosamente scellerato, e lascia togliersi di mano la città più bellicosa d’Italia, la quale allora sotto le sante chiavi riprese i privilegi di libera. In Bologna Giovanni Bentivoglio, domate le famiglie potenti, signoreggiava col terrore, colla munificenza e coll’appoggio di Luigi XII. Ma questi, sgomentato dalla risolutezza con cui il pontefice ridomandava Bologna, dichiarò aver garantito al Bentivoglio gli Stati suoi, non quelli tolti alla Chiesa, e mandò soldati al papa. Rinforzato dai quali, dal Baglione, dal marchese di Mantova, ora venuto suo generale colla mobilità di quei venturieri, scagliando scomuniche e provocando al saccheggio, procede, sicchè il Bentivoglio ricovera presso i Francesi. Giulio, entrato in Bologna, vi ripristina i privilegi e l’amministrazione popolare, ne affida il governo a un senato di quaranta, che fino a questi ultimi tempi rappresentò il popolo in contrapposto al governo. In tale spedizione il papa erasi giovato della Francia: ma ecco le truppe francesi venire per riprendere la ribellata Genova; ecco bucinarsi che Luigi XII pensa calare in Italia, e avendo dalla sua un grosso esercito, otto cardinali, trenta vescovi ed arcivescovi, deporre Giulio II, surrogarvi il cardinale d’Amboise, e da lui farsi coronare imperatore. Giulio monta in collera, e questa sola ascoltando, manda a sollecitare Massimiliano. Costui aveva aggiunto fuoco agli incendj d’Italia, largo sempre di promesse a chi largo di denaro, e impotente a nulla compire; negò d’investire il Milanese al re di Francia, poi con questo s’accordò nel trattato di Blois; subito lo ruppe, e accingeasi a calare dall’Alpi per avere la corona imperiale e trasmetterla a suo figlio. Diè dunque ascolto a Giulio, e convocati a Costanza gli Stati, espose le querimonie del papa e l’ambizione di Luigi, con tanta eloquenza da commovere al pianto; ma invece dei trentamila uomini richiesti, gliene sono consentiti appena dodicimila, dei quali pure non comparve che un terzo e per sei mesi soli. Intimò ai feudatarj italiani mandassero gli uomini e i sussidj che doveano in tali occasioni; ma occorrendogli grosse somme per soldare Svizzeri, esorbitava in domande. Tutti pertanto mal lo secondavano: i Veneziani poi, insusurrati dalla Francia, da cui venivano garantiti della terraferma, non che accettare le proposizioni replicate di spartir con esso il Milanese, gli si opposero a visiera alzata, sconfissero i suoi squadroni avanzati (1508), gli tolsero i porti sull’Adriatico, e da Bartolomeo d’Alviano fecero con grossa contribuzione castigare Trieste dei contrabbandi, e prendere Pordenone. L’imperatore, destituito degli ajuti svizzeri e tedeschi, dovette tornarsene colla vergogna cui soleano riuscire le sue imprese; indispettito dei trionfi e delle burlette che il popolo veneziano faceva su lui e sui soldati prigionieri. Fra i passati turbamenti Venezia era rimasta sulla breccia contro i Turchi (t. VIII, pag. 228), in pericolo di perdere tutti i suoi possessi d’oltremare e di veder accampati sull’Adriatico que’ nemici comuni della cristianità. La causa sua era dunque europea, tutti credeano sacro dovere il soccorrerla, ma sol come un dovere il faceano, cioè coi minori scomodi possibili. Minacciata da Bajazet e perduto Modone, essa avea gridato al soccorso; e Fernando il Cattolico le spedì una flotta, la quale fece buone prove all’assedio di Cefalonia, sinchè fu chiamata alle guerre di Napoli. Alessandro VI vi destinò un buon rinforzo, e il ricavo delle indulgenze che si vendeano nello Stato veneto, le quali fruttarono ottantamila ducati[115]. Una flotta inviata dalla Francia, per mancanza di soldi ripartì avanti rendere alcun servigio. Meglio valse la guerra mossa alla Porta dal sofì di Persia, onde Andrea Gritti, ch’era caduto prigione dei Turchi, potè introdurre una trattativa, che finì colla pace del 1503, vegliata sin al 1537. Questa guerra avea costretto Venezia a tener bassa la fronte davanti alle potenze, e lasciarle fare: ora però la rialza per ritornare alla prisca importanza e in concorrenza colle nazioni che per le scoperte nuove mutavano faccia al commercio e alla marina. Che la scoperta del capo di Buona Speranza, trasferendo a Lisbona il commercio di Venezia, questa mandasse in subitanea rovina, è men vero, giacchè nel secolo XVI fu più ricca che mai, e ancora nel 1600 il Serra diceva che tutte le merci provenienti in Europa dall’Asia passavano per quella città. Tardi si abbandonano le vie del commercio, nè Venezia perdette il suo posto fin quando non si cominciò diretto traffico da Marsiglia col Levante. Se dunque ella avesse persistito nella natura sua di potenza marittima, avrebbe potuto gareggiare colle nuove, e assodare il suo trono nell’Adriatico. Ma mentre Spagna e Portogallo si avventuravano per altre vie, ella ostinavasi alle antiche; attraversava i passi degli emuli con ignobili maneggi, invece di precorrerli con generosa gara; mentre a buoni patti sarebbesi potuta accordare coll’Egitto e assicurarsi il passo di Suez, somministrava ingegneri e cannoni ai seidi dell’India perchè respingessero Portoghesi e Spagnuoli. Così ajutavasi delle astuzie del secolo. La serrata del gran consiglio (tom. VII, pag. 78), la quale ne escludeva le famiglie che non vi avessero avuto parte negli anni precedenti, avea ridotto Venezia ad aristocrazia, che sempre più eliminava dal governo l’elemento popolare, a segno che nel 1462 si tolse perfino la parola di _comune delle Venezie_ dalla promissione ducale, surrogandovi _dominio_; e pochi nobili[116] sopra i nobili minori, sopra il popolo e sopra la terraferma esercitavano una signoria, non diversa da quella de’ duchi e de’ marchesi. Ai popolani rimanevano le cariche di cancelliere grande, di cancellieri e consultori del doge, di notaj e segretarj; per non dir nulla del doge de’ Nicolotti, ch’era eletto dai pescatori e confermato dal doge, il quale raccomandavagli, — Siate buon padre di questa famiglia, ed ossequioso alla pubblica maestà; così facendo, vi sarò sempre protettore, e vi assisterò nelle occasioni». Ma Venezia, che ai capitani di galee imponeva di accettare battaglia contro venticinque navi nemiche, proibiva ai nobiluomini di comandare più di venticinque uomini di terra, e per gelosia si metteva all’arbitrio de’ venturieri; e doveva presto mostrare come mal provvedano gli Stati che, invece di svolgere tutte le proprie facoltà, sperano nella debolezza. I nobiluomini, distolti dall’arme, s’affinavano nella politica: e poichè allora tutti aspiravano a crescere, e Venezia era stretta dall’Austria da un lato, dall’altro dai Turchi, si buttò sull’Italia, dove eccitò gelosie che le costarono caro. La metropoli conteneva ducentottantamila abitanti, dava alimento a ogni sorta di manifatture ed arti belle, ricetto a forestieri d’ogni paese; e se lo strepito delle industrie, delle musiche, della popolaglia sturbassero gli studiosi, poteano ricoverare in amenissimi giardini delle vicine isole, come erano la villa Ramusia del famoso collettore di viaggi, a Murano quelle del Bembo, di Trifone Gabriele, dei Priuli, e quelle di Murano stesso, della Giudeca, di san Giorgio Maggiore, ove teneano le loro tornate gli accademici Pellegrini. Commines, il più filosofico scrittore d’allora, non rifina d’ammirarla, come «la più bella contrada di tutto il mondo e la meglio costrutta; i casamenti sono grandi e alti e di buon sasso: quelli che sono antichi, dipinti: quelli da cent’anni in qua hanno tutta la facciata di marmo bianco, ed anche adornati con pezzi di porfido e serpentino: è la città più trionfante ch’io abbia veduta mai, e che meglio di ogni altra saviamente si governa, e dove il servigio di Dio si fa più che altrove solennemente»[117]. Oltre il dogato, cioè le lagune e il littorale dall’Adige alla Piave, il dominio abbracciava la marca Trevisana, tolta agli Scaligeri il 1387; il Padovano, tolto l’anno seguente ai Carrara, e nel 1405 incorporato alla Signoria con Vicenza e Verona; Feltre e Belluno, datisele nel 1404; Cervia e Ravenna, tolte ai Polenta nel 1441; nel 1428 aveva dai duchi di Milano avuto il Bresciano, il Bergamasco, il Cremasco; dal signore di Mantova Lonato, Valeggio, Peschiera; e nel 1484 in pegno dal duca di Ferrara il Polesine di Rovigo, cioè la penisola fra l’Adige e il Po; anzi ottenuto il vicedominio sopra Ferrara, dove un gentiluomo, eletto dal senato, dovea governare alternativamente col duca. Dal lago di Garda e dal Bassanese spingeasi verso il principato vescovile di Trento, cercando rosicchiarne qualche lembo[118]. Nel 1420 avea recuperato la Dalmazia dal re d’Ungheria, eccetto Trieste città imperiale, e Ragusi, repubblica sotto la protezione dei Turchi: dominava pure le isole di quella costa fino a Cattaro, Corfù nel mar Jonio, Tenedo, Candia, Negroponte e le minori isole frapposte nell’Arcipelago; poi acquistò Cipro: sulle coste del Peloponneso, Argo, Napoli di Romanìa, Patrasso, Lépanto le erano disputate dai Turchi. Il Tagliamento, piovendo dal monte Maura sul confine del Cadore colla Carnia, separa due schiatte, la carnica e la veneta, parlanti due favelle distinte, malgrado la vicinanza, le mescolate parentele e la dominazione comune sotto i patriarchi d’Aquileja, poi sotto San Marco. Ivi il Friuli avea fiorito d’una costituzione particolare sotto que’ patriarchi, divenuti smisuratamente poderosi e ricchi, fin quando non li cincischiarono da un lato i conti della Carnia, dall’altra i Veneti, a cui obbedienza molte città e signori si posero, sicchè il patriarca Lodovico conte di Theck (1420), indarno sostenuto dalle armi di Sigismondo re d’Ungheria suo cugino, dovette ritirarsi a morir da privato, e il Friuli accettò la dominazione di Venezia[119]. Essa vi conservò le costituzioni municipali, come soleva altrove: e per esempio, a Cividale la municipalità si componea di sessanta consiglieri ordinarj, di cui venti popolani, un solo per casa; dieci straordinarj ogni semestre, e due difensori dei poveri e dei carcerati; due nodari, tre regolatori del prezzo delle biade, e tre sopra le frodi nelle vettovaglie, ne’ pesi e misure. Nel Friuli principalmente, ma anche in altri paesi duravano feudatarj, sui quali Venezia faceva sentire il suo alto dominio, imponendo leggi e gravezze[120]. Nè Venezia lasciava libertà ai cittadini, e tanto meno ai sudditi: ma il non esservi una volontà unica che prevalesse su tutte, bastava per farla contare come uno Stato libero. A chi poi l’accusasse, ella poteva opporre due argomenti di peso, la durata e la potenza. Perciò il Machiavelli non vedeva che tre repubbliche al mondo degne di lode, Sparta, Roma e Venezia: il Guicciardini, il Giovio, il Varchi, gli altri speculativi nostri partecipavano a quest’ammirazione; e qualvolta si trattasse di riformare uno Stato, affacciavano quel modello. Anche esternamente era protetta dall’opinione di ricchezza e prudenza; aveasi per buon augurio quand’ella si unisse a una potenza; «v’è un’opinione universale (scriveva un loro ambasciadore) che tanto sia dire la Signoria di Venezia, quanto sia dire monti d’oro; e credono che, non solo l’erario pubblico sia tutto pieno, ma ancora gli scrigni dei particolari, e che infine tutta la città sia oro e argento»[121]. Aveva essa perduto molte terre in Levante; eppure coll’acquisto di qualche brano della Romagna e del Milanese e di alcune fortezze nella Puglia, parve alle Potenze emule scompigliasse l’equilibrio; o piuttosto esse dolevansi che nel decennio precedente sola non avesse sofferto; Giulio II non men che il Machiavelli ne mostravano sgomento, e l’ispiravano agli stranieri: deplorabili gelosie, le quali diedero pretesto alla prima lega che, dopo le crociate, tessessero i principi d’Europa; lega di momentanee amicizie e dispetti personali che dava tristo iniziamento al nuovo diritto pubblico col divisare lo spartimento d’uno Stato libero, e col considerarlo nemico soltanto perchè repubblicano[122]. Re Luigi XII, che nelle sue strettezze non solo aveale consentito il possesso di Bergamo e Brescia conquistate, ma ceduto Cremona e la Geradadda, pentito come chi più non ha bisogno, or pretendeva intero il Milanese. Massimiliano, come successore degl’imperatori romani, ripetea Padova, Verona, Vicenza, e come duca d’Austria Roveredo, Treviso e il Friuli. Giulio II, che pur riconosceva in gran parte la sua elezione dal favor di Venezia, s’indispettì quando questa non volle accettar vescovo di Vicenza un suo nominato, e ridomandò Ravenna, Cervia, Faenza, Imola, Rimini e Cesena, terre che i tiranni aveano tolte alla Chiesa, Cesare Borgia ai tiranni, i Veneti al Borgia. Il re di Napoli voleva Trani, Brindisi, Otranto, Gallipoli, Mola, Polignano, da Ferdinando II consegnate in pegno ai Veneziani: il duca di Savoja pretendeva Cipro, di cui egli portava il titolo: Estensi e Gonzaghi, le terre un tempo dominate: infine l’Ungheria le città della Dalmazia e Schiavonia, pertinenza della corona angelica. Questi erano i titoli; nella realtà una sorda gelosia moveva i re contro di una repubblica, la quale, non governata dal genio di un uomo che coll’uomo perisce, ma dall’immortale sapienza del senato, senza dispendj di corte, con appena tre milioni di sudditi e un decimo del territorio della Francia o della Spagna, avea tenuto testa a Turchi e Tedeschi, prosperato di commercio e manifatture; ed elevatasi fra i maggiori potentati, ardiva dir di no a Roma, impediva ai Francesi di prevalere in Lombardia, e agli imperatori di calarvi quando volessero. Di tale bassa invidia non facea mistero Luigi Eliano, ambasciadore francese, che diceva alla dieta germanica: — Fa appena un secolo che sbucarono dai loro paduli, e già occupano più terre che non acquistassero in ducent’anni i Romani. Soggiogata che abbiano l’Italia, divisano valicare le Alpi, gettar ponti sul Danubio, sul Reno, sulla Senna, sul Rodano, sul Tago, sull’Ebro. Feccia delle nazioni, vissero di pesca, poi si fecero riverir principi per via di furti, assassinj, avvelenamenti. Si dicono padroni del mare, lo sposano come fosser mariti di Tetide e mogli di Nettuno. Quante città non distrussero! quante oppressioni ai loro popoli! Non rammenterò le loro gozzoviglie, gl’infami stravizj, ma è ben certo che hanno beccherie di carne umana, han caverne dove sepelliscono i vivi, han tori di rame come i tiranni antichi. Noi non vestiamo di porpora preziosa; le nostre tavole non sono imbandite con servizj d’oro e d’argento; non d’oro rigurgitano i nostri scrigni... Certamente, se disdice a principi far da mercanti, più disdice a mercanti l’elevarsi alla condizione di principi». Quando cominci la legittimità d’un possesso sarà sempre il problema più scabroso di quella politica che si fonda unicamente sui fatti; ma certo Venezia possedeva almeno tanto legittimamente quanto gli emuli suoi: eppure questi divisarono spartirsela. Già nel trattato di Blois n’avevano preso accordo Massimiliano e Luigi XII; ma l’inettitudine dell’uno e le occupazioni dell’altro sospesero l’effetto. Il mal esito dell’ultima spedizione indispettì Massimiliano a segno, che non esitò ravvicinarsi agli odiati Francesi. Luigi poi, per quanto a conservar il Milanese gli giovasse l’amicizia de’ Veneziani, chiamavasi offeso dell’aver essi conchiuso tregua coll’imperatore, anzichè rovinarsi a vicenda. Margherita, figlia di Massimiliano d’Austria, perduto il marito Filiberto II di Savoja, per tomba gli elevò la chiesa di Brou, colla spesa di trenta milioni; eppure nel resto di sua vita si mostrò semplice, famigliare, cucitora di camicie, come s’intitolava; governò economicamente le Fiandre, e fidando nel denaro, e trattando gli affari mercantilmente, arrivò poi a comprare l’impero per Carlo V, e adesso cominciò l’obbrobrio della Francia e il disastro d’Italia colla lega di Cambrai. Perocchè, animati da frivole stizze, essa e l’imperatore e il cardinale d’Amboise ministro di Francia (1508 10 xbre), adunatisi col titolo di pacificare i Paesi Bassi, conchiusero una lega, che avea per pretesto solito la guerra contro i Turchi, e per iscopo reale il por freno a Venezia, usurpatrice, tiranna, seminatrice di risse; e tutto quel peggio che possa apporsi a chi si vuol opprimere; trovavano dunque «non solo utile ed onorevole, ma anche necessario il chiamar tutti ad una giusta vendetta, perchè con incendio comune si spegnesse l’insaziabile cupidigia de’ Veneziani e la loro sete di dominare». Il re di Francia menerebbe l’esercito; Giulio II, quel desso che volea risciacquar l’Italia dai Barbari, farà strada ai Barbari lanciando interdetti contro le città più italiane; Massimiliano buttava al fuoco il libro rosso, su cui registrava man mano i torti che dalla Francia riceveva Casa d’Austria, e, tregua o no, verrebbe qual protettore della Chiesa; ciascun pretendente occuperebbe la destinatagli porzione; ciascuno che avea temuto Venezia, le tirerebbe una stoccata, «per ridurla (diceva il luogotenente Chaumont) a non occuparsi che della pesca»[123]. Ai Veneziani ne venne avviso dall’ambasciatore a Madrid; ma Luigi XII diede la sua real parola che nulla erasi stipulato a loro danno; il re Cattolico assicurò non entrava nella lega che contro i Turchi. Intanto il cardinale di Amboise raddoppia d’attività nel sollecitare la spedizione prima che la riflessione sottentri; ed egli stesso, tutto gottoso, traversa le Alpi in lettiga. Già la guerra era rotta sull’Adda (1509 gennajo), quando un araldo di Francia si presenta alla Signoria veneta, e gettato il guanto, l’annunzia al doge Leonardo Loredano e a tutti i cittadini «uomini infedeli e violenti usurpatori» (DA PORTO). Il doge risponde, tal genere di sfida convenire piuttosto a Turchi che non verso una repubblica cristiana, e stata a quel re sempre amica; pure coll’ajuto di Dio si difenderebbero, quand’anche egli doge dovesse menar nei campi l’ottagenaria sua persona. Insieme il papa, in una bolla che allungasi per ventidue pagine di stampa, mise all’interdetto Venezia, le autorità, i cittadini; tutti dovessero aversi in conto di nemici al nome cristiano, e schiavi di chiunque li pigliasse; scomunicato chi desse loro rifugio; tutto ciò se fra ventiquattro giorni non facessero incondizionata sommessione. A tanto sobisso trovavasi esposta Venezia, sola. E se non bastava che le finanze sue fossero peggiorate dall’aver perduto il monopolio delle spezie indiane e dalla guerra contro Carlo VIII e contro i Turchi, la polveriera vicino all’arsenale prese fuoco, il fulmine diroccò la cittadella di Brescia, diecimila ducati spediti a Ravenna naufragarono, arsero gli archivj: lo che, oltre il danno, funestava gli animi come sinistro presagio. Ben si parve in tanto frangente la prudenza dei padri nel porre al miglior servizio le ricchezze pubbliche e private, ed accorgersi che bastava tenersi sulle difese, giacchè non durerebbe a lungo una lega di elementi così eterogenei. Venezia da gran tempo usava le _cerne_, dovendo ciascun provveditore nella sua provincia descrivere tutti gli uomini atti a servire come combattenti o guastatori o nel treno; una o due volte il mese erano passati in rassegna, e all’occorrenza chiamati alle bandiere. Nel 1490 avea sparso degli archibugieri pel dominio, affinchè in quella nuova arma addestrassero la gioventù, stabilendo tiri al bersaglio e premj. Alle cerne tenevano dietro in guerra i _partigiani_, fanteria leggera. Ai savj di seconda classe spettava il sovrantendere alla milizia terrestre; ma il comando generale affidavasi sempre a stranieri, al cui fianco come consiglio e freno si ponevano due provveditori. Oltre questi ordinamenti, Venezia cercò lancie spezzate e stipendiarj; e quantunque il papa trattenesse i condottieri romagnoli da essa patteggiati, potè sull’Oglio raccorre (aprile) duemila cento lancie, mille cinquecento cavalleggeri italiani e mille ottocento greci, mille ottocento fanti e dodicimila cerne. Li guidavano come capitan generale il conte di Pitigliano, e come governatore Bartolomeo d’Alviano, entrambi degli Orsini, due delle migliori spade: ma l’uno, vecchio, lento, ostinato, nulla volea fidar nella sorte, e credea vittoria il non perdere; l’Alviano, «giovane ardito, nell’armi e nella forza, non nella prudenza e nel consiglio stimava esser posta la virtù della guerra» (BARBARO), e volonteroso ai fatti, sarebbesi avventurato a una sconfitta nella speranza della vittoria. Quello volea si prendesse posizione fra l’Oglio e il Serio, proteggendo di là la terraferma, e aspettando che i Francesi esalassero «quel primo bollore pel quale son più che uomini, mentre diventano men che femmine coll’allungarsi del tempo»; l’Alviano spingeva a pigliar l’offensiva e passare l’Adda, assalendo inopinati i Francesi sul proprio territorio. Fra il disparere di due intelligenti gl’inintelligenti credono mostrar sapienza coll’appigliarsi a un di mezzo; onde la Signoria, che, gelosa fin ne’ maggiori frangenti, a nessun dei due volea mostrarsi deferente, ordinò si accostassero all’Adda per difendere anche la Geradadda, ma non venissero a battaglia. Fu il peggior partito; avvegnachè il Trivulzio di trotto serrato guidò l’esercito della Lega alle loro spalle, onde dovettero accettare tra Vailate e Agnadello una battaglia (1509 maggio), che riuscì la più sanguinosa che da tempo si vedesse. Il re di Francia gridava: — Chi ha paura, si collochi dietro me»; il La Trémouille, vedendo i suoi voltare le spalle: — Ragazzi, il re vi osserva». In effetto, malgrado il gran valore, gl’Italiani soccombettero, e Bartolomeo medesimo restò preso. Però non era perduta se non la retroguardia d’un florido esercito; e se il paese fosse stato avvezzo all’armi, poteasi palmo a palmo disputare il terreno: ma i Veneti non impedirono che i Francesi con rapidità proseguissero la vittoria. Immediatamente Caravaggio e Bergamo si rendono, indi Brescia, Crema, Cremona, Pizzighettone: fin Peschiera fu presa d’assalto, e il re ne fece impiccare il comandante che avea fatto il suo dovere difendendosi, e passar per le spade il presidio. Così furono appiccati i difensori di Caravaggio; quanti nobiluomini si trovassero, il _buon re_ li voleva prigionieri, onde, esausti dai grossi riscatti, non fossero in grado di sovvenire la repubblica. Gli alleati di Francia, tenutisi in bilico, accorrono dacchè la vittoria non è dubbia; e Mantova col versatile marchese, Ferrara con Alfonso d’Este, Spagnuoli e Pontifizj con Francesco Maria duca d’Urbino fanno a chi prima ghermisca un brano dello spennacchiato leone: gl’Imperiali occupano le terre dell’Istria e del littorale, ed entrano pel Friuli e pel lago di Garda: Luigi XII (almen lo vantarono i Francesi) spingesi a Fusìna e fa tirare cinque o seicento colpi contro Venezia, «perchè si dicesse all’avvenire che il re di Francia avea cannoneggiato l’inespugnabile città» (BRANTÔME). Questa parea spacciata, e lo scoraggiamento invadeva gli animi. «Era la Sensa[124], ma tutti pianzeva: quasi forestiere niun vi venne; niun vedevi in piaza, li padri di colegio persi, e più il nostro doge, che non parlava e stava come morto e tristo. E fu parlato di mandar il doge in persona fino a Verona (1509) per dar animo ai nostri e a la zente; il qual movendosi, andria cinquecento zentilomeni con sua serenità e a sue spese: ma quelli di colegio non voleano metter la parte, nè il doge si oferiva andarvi. Era detto a soi filioli, e loro dicevano, _Il doge farà quello vorrà questa terra_. Tamen è più morto che vivo... Concludo, zorni cattivi; védemo la nostra ruina, e niun non provede». Così Marin Sanuto ne’ _Diarj_; e Luigi Da Porto nelle _Lettere_: — Li provveditori, pieni di avvilimento e di una certa sonnolenza, si possono vedere cento volte al giorno sbadigliare e stirare le membra, come se la febbre aspettassero; e non più l’usato altero umore del loro alto grado ritenendo, fuor di modo umili e domestici si mostrano anche verso persone indegne della loro domestichezza. Nè a tante avversità si sa per questa urgenza fare alcun provvedimento; sì questa città si vede avvilita, ed il governo pavido e smarrito. E già alcuni nobili viniziani, abbracciandomi e piangendo, mi hanno detto, _Porto mio, non sarete oggi mai più de’ nostri_. E volendo io render loro la solita riverenza, mi dissero ch’io nol facessi, perocchè eramo tutti conservi in una potestate ed eguali: poichè la fortuna gli avea ridotti a tal punto che più non ardivano di stimarsi signori, nè più chiamare il loro doge serenissimo. Alcuni altri di maggior ordine ancora, si veggono con fronte priva d’ogni baldanza andare per la mesta città con passo non continuato, ma ora frettoloso ora lento, ed abbracciando ora questo ora quello, far certe accoglienze sproporzionate, ed alcune blandizie alle genti, che non amore, ma timore smisurato dimostrano. Tutta Vinegia in dieci giorni è cambiata d’aspetto, e di lieta è divenuta mestissima: ed oltre che molte donne hanno dimesso il loro modo superbo di vestire, non s’ode più per le piazze e per li rii nella notte alcuna sorte di stromenti, di che con sommo diletto degli abitanti questa città a tale stagione suol esser abbondevolissima. E sì poco sono a tali percosse usi li Viniziani, che temono, non ch’altro, di perder anche Vinegia, non calcolando l’inespugnabile sito; e molti che hanno navi, più di prima le stimano ed hanno care; altri che non ne hanno parlano di farne l’acquisto, per fare forse come si disse d’Enea. Tanto smisurato timore è entrato ne’ cuori loro». Così il popolo; ma il senato non dispera; e risanguando l’erario con imprestiti e con patriotiche oblazioni, pensa a riparare la _dominante_, e fornirla di viveri[125]; i capitani vuotino le piazze e si rannodino; e più che nelle milizie scoraggiate fidando nel tempo, nelle pratiche e nella fatale sperienza de’ popoli, spogliasi volontaria di quanto eccitava l’invidia altrui, come uom getta la borsa al masnadiero che l’insegue. Di fatto l’essere sospesi i ricambj di commercio fra le provincie e la metropoli tornava di grave scapito ai minuti trafficanti; le città, che, esposte ai patimenti d’un assedio, avrebbero maledetta la Signoria, ribramaronla non appena fatto assaggio de’ fieri oppressori; dappertutto era ridesiderato San Marco appena si cessò di temerlo. «I Tedeschi (scriveva il Machiavelli) tendono a rubare il paese e saccheggiarlo, e vedesi e sentesi cose mirabili senza esempio: di modo che negli animi di questi contadini è entrato un desiderio di morire e vendicarsi, che sono diventati più ostinati e arrabbiati contro a’ nemici dei Veneziani, che non erano i Giudei contro a’ Romani; e tuttodì occorre che uno di loro preso si lascia ammazzare per non negare il nome veneziano. E pure jersera ne fu uno innanzi a questo vescovo (di Trento, governatore di Verona a nome di Massimiliano) che disse ch’era marchesco, e marchesco voleva morire, e non voleva vivere altrimenti; in modo che il vescovo lo fece appiccare; nè promesse di camparlo nè d’altro bene lo poterono trarre di questa opinione. Di modo che, considerato tutto, è impossibile che questi re tenghino questi paesi con questi paesani vivi»[126]. Chiave una volta del Friuli verso la Marca Trevisana era Sacìle, in un avvallamento sopra il fiume Livenza; sicchè i patriarchi d’Aquileja che n’erano signori, gli diedero la libertà comunale fin dal 1190, coll’emancipazione dei servi e colla facoltà di vendere i terreni; e lo munirono come loro difesa contro di Treviso e dei signori di Camino. Caduti questi, ingranditi in Sacìle i Pelliccia, subì l’influenza dapprima, poi il dominio dei Veneti, che ne crebbero le fortificazioni in modo che avea tre castelli, e una cinta di mura e torrioni attorno ai due borghi, difesi anche dal fiume[127]. Questo apparato non valea più contro le armi nuove, e gl’Imperiali vi passarono facilmente. Ma quando Leonardo Trissino, fuoruscito vicentino, si presentò a Treviso (1509 giugno) per riceverne la dedizione, un Marco Calligajo, spiegato lo stendardo di san Marco, condusse il popolo a respingere il disertore, e saccheggiare i palazzi de’ nobili che eransi affrettati a sottomettersi, e chiamò in soccorso milizie italiane: primo passo al risorgere di Venezia, che assolse per quindici anni dalle imposte i Trevisani. I Sette Comuni Cimbri, colonia tedesca, conservatasi in mezzo al Bassanese[128], di Venezia piuttosto alleati che sudditi, pagandole un tenue tributo, reggevansi per comunità, ciascuna indipendente dall’altra, con un consiglio composto delle famiglie originarie. Per gl’interessi di tutti si facea capo ad una reggenza di due deputati ogni Comune, sedente in Asiago. Il sindaco di ciascun Comune decideva le controversie in prima istanza; l’appello recavasi alla reggenza, che in casi straordinarj rimetteva a due arbitri, e ne’ più complicati al senato veneto. Anch’essi presero caldamente le parti di Venezia, con non piccolo giovamento. A Padova la nobiltà si era chiarita per l’imperatore, sperando col suo mezzo ricostruire la feudalità, e ridurre i contadini servi alla tedesca; e subito mostrò l’arroganza di chi tiensi appoggiato dal vincitore. I cittadini se ne indispettirono; trovarono stomachevole il rimanere sotto nazione lontana e diversa[129], che ai nuovi suoi sudditi imponeva intollerabili taglie per le passate e per la futura guerra, e coi modi rozzi e soldateschi contrastava alla colta affabilità de’ nostri. S’intesero dunque con una mano d’uomini del lago di Garda, che condotti (1509 17 luglio) da Francesco Calsone di Salò[130] sorpresero Padova nottetempo, e saccheggiarono le case degli avversi. Alcuni de’ più caldi che eransi rifuggiti in conventi, furono colla speranza del perdono invitati a una cena, ma quivi côlti e spediti ai Dieci, che alcuni imprigionarono in vita, alcuni relegarono oltremare, altri condannarono alle forche, sebbene reputati per sapere e prudenza[131]. Così periva il fiore delle famiglie padovane; e ne rimase indelebile macchia a Massimiliano, che non avea pensato a difendere la città a lui datasi. Quelli che aveano aspirato ad esser primi a sottomettersi, si vergognavano in faccia a’ proprj concittadini, dacchè erano cessate le illusioni e le speranze: rinnovatesi le battaglie e il coraggio, i nobili veneti, che non aveano mai combattuto se non per mare, furono autorizzati a porsi nell’esercito di terra, e seicentoquattordici di essi a proprio conto fecero leva di soldati. Alcun savio suggeriva di chiedere ajuti ai Turchi[132], e Bajazet ne aveva esibiti; ma per quanto offesa dal papa che le imponeva d’abbandonare il dominio dell’Adriatico, Venezia se ne astenne. A re Luigi non sapea perdonare la turpe fede, le ingannevoli promesse, l’atrocità dopo la vittoria, sicchè non cercò mai ravvicinarsegli. Ma Antonio Giustinian, traverso ai gravissimi pericoli che gli sovrastavano come scomunicato, giunse fin a Massimiliano, e il tentò con sommessione e con promesse di soddisfarlo d’ogni pretensione[133]; ma quello, che fin allora non avea mosso un dito, s’ostinava: — Voglio veder Venezia al nulla; la città medesima si occupi, e si partisca in quattro giurisdizioni fra i sovrani alleati, che vi porranno ciascuno una fortezza»; e davasi aria di gran politico col non palesare a nessuno i suoi divisamenti, di gran guerriero col menare di qua di là le truppe ne’ paesi che per altrui fatica aveva ricuperati. Poi udita la presa di Padova, Vicenza avere aperto le porte al provveditore Andrea Gritti, e l’esercito aver riprese da una parte Bassano, Feltre, Belluno, Castelnuovo del Friuli, dall’altra Monselice, Montagnana, il Polesine di Rovigo, accorse con truppe senz’ordine nè disciplina, che lasciavano orribili orme, fino ad avere addestrati cani a pigliar e sbranare uomini. A Monsélice i Tedeschi posero il fuoco, bruciandovi gli stradioti di presidio, e riceveano sulle punte delle picche quei che precipitavansi dalle mura incendiate. Dappertutto poi i lanzichenecchi non pagati rifaceansi col rubare, e fin tre volte in una settimana Verona fu saccheggiata[134]. Seicento Vicentini s’intanarono nel Còvolo di Masano, e i soldati accesero legna alla bocca e ve li soffocarono. Orrendo spettacolo si affacciò a costoro quando entrarono a vedere le proprie vittime, ammucchiati in fondo alla grotta, stretti ai loro cari, o in atti rabbiosi; alcune donne sconciarono; una tenea sotto la sottana i sei figliuoletti, come ultimo schermo; un ragazzo, che unico sopravvisse, narrò come, al primo addensarsi del fumo, alcuni nobili si fosser mossi per offrire grossi riscatti, ma gli altri vollero che tutti l’egual sorte corressero. Tali inumanità riproduceansi altrove; e ciò ch’è orrendo, i Francesi reclamano per sè questo fatto che altri appone ai Tedeschi; e i loro cronisti celiano di que’ villani di Venezia appiccati ai merli. Padova, dove s’era ricoverata gente quattro volte più dell’ordinario, fu da Massimiliano assediata (7bre) con centomila soldati tra suoi e francesi, pagati dal saccheggio e animati dalla speranza di maggiore, e ben ducento cannoni così grossi che alcuni non potevano mettersi sul carretto. Egli medesimo con coraggio attendò sotto il tiro delle batterie nemiche; ma ignorava la costanza, nè riusciva a chetare le pretensioni de’ cavalieri. Mandò una volta al generale francese La Palisse, che mettesse a piedi i suoi uomini d’arme perchè salissero alla breccia co’ lanzichenecchi; ma il cavaliere Bajardo riflettè: — Come mai scavalcare tanta nobiltà, e perigliarla con pedoni che sono calzolaj, maniscalchi, panattieri e gente meccanica, cui l’onore non sta a cuore come a ben nati? Non ha egli molti conti, signori, gentiluomini di Germania? li metta a piedi coi gendarmi di Francia, e volentieri mostreranno loro la strada, poi i lanzichenecchi terranno dietro»[135]. Ma i gentiluomini tedeschi neppur essi degnavano esporsi fra la pedonaglia, onde Massimiliano si ritirò a Verona (3 8bre) congedando l’esercito. Sebbene poi alla Polesella fosse distrutta la flotta veneziana che assaliva Ferrara per punire la slealtà di quel duca, rivoltatosi contro la repubblica sotto le cui ali era cresciuto; e sebbene morisse il conte Pitigliano, mente di quella guerra, le cose pigliavano miglior indirizzo; a Luigi Malvezzi, poi a Gianpaolo Baglione fu dato il bastone di generalissimo; il comando delle fanterie a Renzo di Ceri degli Orsini, permettendogli d’adoprar le armi riposte negli arsenali. Meglio che le armi, riuscivano a Venezia i maneggi. Re Luigi, ricuperato quanto gli assegnava l’accordo di Cambrai, pensava andarsene dall’Italia, dove mal volentieri avrebbe veduto l’Austria prendere radici, e dove ben piccol conto facea sul versatile Massimiliano. A Fernando il Cattolico era stata tolta ogni ragione di nimicizia coll’aprirgli le città staggite sulla costa napolitana; sicchè egli si oppose all’assaltare Venezia, adducendo non essersi fatta la lega che per torle la terraferma; ma in effetto perchè bramava si traesse in lungo la guerra, acciocchè Massimiliano non si mescolasse della tutela del suo nipote Carlo. Al papa la Signoria esibì quanto teneva in Romagna, purchè l’assolvesse; recedeva dall’appello fatto al futuro concilio; non porrebbe ostacoli alla giurisdizione ecclesiastica; lascerebbe libero ai sudditi pontifizj il navigare l’Adriatico. Giulio dunque (1510 24 febb.) piegatosi levò l’interdetto, e accettò i loro ambasciatori a baciargli prima il piede, poi la mano, in fine la bocca[136]; e sempre volendo governare e non esser governato, tornò sul divisamento, sol per vendetta abbandonato, di liberare l’Italia dai Barbari. Sprezzando Massimiliano, egli temeva il Cristianissimo, onde drizzate le mire ai danni di questo, sollecitò contro di lui Enrico VIII nuovo re d’Inghilterra; e come derivanti da benefizj ecclesiastici, reclamò alla Camera apostolica gli undici milioni che avea lasciati morendo il cardinale d’Amboise, frutto della savia ma non disinteressata amministrazione delle finanze francesi: a Fernando diè la sempre contesa investitura delle Due Sicilie, in onta alle pretensioni di Francia: volse poi gli occhi ai monti svizzeri, dove sono accumulati la neve e il valore, e donde rotolano sulla Lombardia la valanga e il mercenario. Matteo Schinner, fanciullo mandriano del Vallese, mostrò tale ingegno, che i suoi lo mandarono a studiar lettere a Como; a diciassett’anni sapeva greco, italiano, latino; onde il vescovo di Sion se lo volle vicino, e se l’ebbe poi successore. Cristiano e svizzero, volea l’indipendenza della Chiesa e de’ suoi monti, entrambi minacciati dalla dominazione francese in Italia. Pertanto predicava le armi a’ suoi, così ascoltato come nessun mai da san Bernardo in poi; e dividendosi tra gli uffizj di sacerdote e di guerriero, a sè attribuiva il titolo di duca di Savoja, di marchese di Saluzzo a un suo fratello. Giulio II, chiamatolo cardinale e legato pontifizio in Lombardia, contrattò con esso seimila soldati a tutelare la Chiesa contro qualfosse nemico. I quali passarono le Alpi, preceduti dallo stendardo sotto il quale aveano vinto Carlo il Temerario, e dov’era scritto, _Domatori de’ principi, amatori della giustizia, difensori della santa romana Chiesa_. Ma ben presto, atterriti dal valore o vinti dal denaro di Gastone di Foix, tornarono alle loro montagne. Ercole I d’Este aveva ingrandito Ferrara, e fuor di essa fabbricato un magnifico parco, a pubblico uso; eresse e dotò chiese e monasteri; il giovedì santo dava mangiare a cinquanta poveri; avea la cappella meglio fornita di musici e cantori; apriva caccie, combattimenti, tornei; e ogni anno facea rappresentare la Passione del Signore o l’Annunziazione o la vita di qualche santo, con indicibile sontuosità, ai quali spettacoli antichi univa il novissimo di qualche commedia di Plauto o Terenzio e di composte allora, a tal uopo cominciando un teatro stabile; e alla corte teneva Matteo Bojardo, Pandolfo Colenuccio, Tito Strozza ed Ercole suo figlio, Nicolò Leoniceno, Pellegrino Prisciano, Antonio Cornazzano, Battista Guarino il vecchio, Antonio Tibaldeo ed altri begl’ingegni[137]. Egli sostenne guerra con Venezia, che, pretendendo il monopolio del sale, gl’impediva di cavarne a Cervia. Alfonso suo figlio, che dicemmo sposato a Lucrezia Borgia, ottenne da papa Alessandro VI di ridurre il tributo da mille ducati a cento: entrò nella lega di Cambrai, ma sarebbe soccombuto alla vendetta de’ Veneziani se papa Giulio nol salvava. Il quale ora pretendeva lasciasse l’alleanza francese, e facesse pace coi Veneziani; cavillava sulle saline; e perchè tardò a obbedirgli, lo proferì scomunicato e decaduto. E subito rotte le ostilità, egli in persona menò gli eserciti impaziente d’ogni ritardo, esponendosi di ottant’anni alla neve e al fuoco, dirigendo le batterie contro la Mirandola, per la cui breccia entrò (1511 20 genn.); e ripeteva: — Ferrara, Ferrara, corpodidio ti avrò». Ma Alfonso, impegnando le gioje proprie e della moglie onde non gravare i popoli, si sostenne contro il papa, che mai non lasciossi placare. Giulio, non dimentico de’ guasti recati da Luigi XII a Genova sua patria, aveva raccolto molti profughi da essa, e sempre favoritovi la parte popolana. Ora egli cercò ribellarla ai Francesi, spedendovi Ottaviano Fregoso; ma il colpo fallì. I Francesi allora avventaronsi alla riscossa; i prelati loro, raccolti in Tours, autorizzarono Luigi a respingere coll’armi l’aggressione dell’indegno capo della Chiesa, e contro i suoi interdetti appellare al concilio generale (1 maggio). Si attizzò dunque la guerra; i Pontifizj, capitanati da Francesco Maria della Rovere, furono rotti a Casaleccio; Bologna, la città del cui acquisto Giulio si compiaceva e che vantava d’avere restituita dalla servitù dei Bentivoglio alla libertà, nè avervi mai commesso crudeltà o sopruso alcuno, fu presa; l’esercito del papa insultato; la sua statua, opera di Michelangelo ch’era costata cinquemila ducati, fu dal popolo abbattuta e ridotta in un cannone. Giulio mandò il cardinale Alidosi a lagnarsi col duca d’Urbino avesse per la sua negligenza causato tanta perdita; e il duca lo maltrattò ed uccise sulla strada. Attristato e fremente, Giulio crebbe d’impeto nel menare le imprese, mentre d’una guerra contro la potenza ecclesiastica molti della parte francese prendevano scrupolo, e massime Anna di Bretagna moglie del re; onde il maresciallo Trivulzio, al quale era stato restituito il comando supremo alla morte di Chaumont, era ridotto ad operare con esitanza. Luigi medesimo chiedeva perdono al papa che osteggiava: non riuscendo però a calmarlo, appellò ad un concilio ecumenico per giudicarlo mal eletto, e fece battere una medaglia, iscritta _Perdam Babylonis nomen_. Dal concilio di Basilea in poi la Germania non aveva cessato i lamenti contro Roma, contro l’ignoranza e avidità dei nunzj e dei prelati, contro la vendita delle indulgenze, e le annate e le aspettative. Pertanto l’imperatore Massimiliano, qual patrono della Chiesa, indìce un sinodo a Pisa, sotto la protezione dei Fiorentini, che, smunti dalla passata guerra, si erano tenuti neutrali, benchè inchinevoli a Francia. Se sbuffò Giulio dell’insulto a quella dignità, di cui era gelosissimo! e l’interdetto di lui lasciò che ben pochi prelati s’adunassero, questi pure oltraggiati dal popolo, e colà e dopo che furono trasferiti a Milano. Pontefice singolare, bisognoso d’intrighi, di trattati, di guerra; infaticabile fin nella decrepitezza; superiore a riguardi personali o a interessi proprj o di famiglia, non sapeva piegarsi a verun punto che credesse svantaggioso alla santa Sede; e soddisfatto in ciò dai Veneziani, trovava imperdonabile che altri persistesse in una guerra, da lui per quest’unico fine suscitata. Combinò una lega (1511 5 8bre), detta _Santa_, perchè diretta a prevenire lo scisma e restituire Bologna a san Pietro; e v’entrarono Venezia e re Fernando, il quale, famoso per palliare di santità le ambizioni, speravano occasione di buscarsi la Navarra spagnuola, reclamò sussidj da’ suoi Aragonesi col pretesto della guerra agli Infedeli, e mentre tutti lo credeano diretto sull’Africa, eccolo sbarcare in Italia avanti che trapelasse il suo accordo col papa. Giulio II volea trarre in questi interessi anche l’Inghilterra; al qual uopo, mentre stava adunato il parlamento, spedì a Londra una galeazza carica di vino, di prosciutti e d’altre leccornie, che lo fecero lodare a cielo; ed Enrico VIII s’associò alla lega nell’intento di ricuperare la Guienna. Gli Svizzeri, a cui Luigi XII non avea voluto aumentare la pensione o per intempestiva avarizia, o per nobile sdegno della costoro insaziabilità, corsero fin alle porte di Milano taglieggiando: il Friuli, intanto che anche i tremuoti lo scotevano, continuava ad esser guasto dalle masnade imperiali. I Francesi prosperavano sotto Gastone di Foix duca di Nemours; nipote del re e governatore del Milanese; gran generale quasi prima d’essere soldato, che a ventidue anni vinse in tre mesi quattro battaglie, espugnò dieci città, creò la fanteria francese; e per omaggio all’amica sua non portava piastrone, ma la camicia sporgente dal gomito al guanto. Eroe pei Francesi, manigoldo per gl’italiani, egli animava i suoi alla carnificina, nè ai vinti risparmiava strapazzo o aggravio, nè ai soldati fatiche o pericolo. Era seco Pietro Bajardo, il _cavaliere senza paura e senza rimprocci_, guerriero d’alto grido, che non comandò mai in capo verun esercito, benchè nessun’impresa importante si ardisse senza il braccio e i consigli suoi; quasi egli amasse meglio combattere dove e come gli pareva, ed avventarsi nei pericoli senza che lo rattenessero i riguardi al posto che occupava. Ultimo de’ paladini del medioevo, venuto ad acquistare rinomanza non in foreste e rôcche, ma fra la civiltà italiana, e fra palazzi abbelliti d’oro e di pitture, egli rappresenta il valor cavalleresco in mezzo alle brutalità della nuova soldataglia; fece appiccar due di quelli che aveano messo fuoco al Covolo di Masano; ad Alfonso di Ferrara impedì d’avvelenare papa Giulio, o l’avrebbe denunziato: pure mostravasi feroce contro i soldati gregarj, e massime gli archibugieri, che gli parevano la ruina del valor vero. Non è a tacere che, passando per Carpi, egli, La Palisse e Gastone andarono interrogare un famoso astrologo, e n’ebbero assicurazioni di vittoria, con particolarità che il seguito avverò. Guidava i federati Raimondo di Cardona vicerè di Napoli, e sotto lui generali di gran nome, quali il minatore Pietro Navarro e Fabrizio Colonna sullodati. All’esercito papale presedeva Giovanni Medici, che fu poi Leone X, e sotto lui stavano Marc’Antonio Colonna, Giovan Vitelli, Malatesta Baglione, Rafaello de’ Pazzi, condottieri di prima reputazione. Chiamavasi esercito della _Santa Lega_, eppure vi militavano molti Mori e trecento rinnegati d’ogni religione; e le cronache riboccano degli orrori che commisero, senza riguardo a sesso, età, condizione, santità; l’ingegno brutale esercitando nell’inventar nuove guise d’impiccare or per un membro or per l’altro, or in questo or in quell’atteggiamento, or ad un albero o ad un muro o ad un trespolo, e tagliare e storcere le parti più delicate, frangere le ossa, bruciacchiare dov’è più sensibile, e ai tormenti far assistere i cari prima di sottoporveli essi pure. Con tutto ciò in nessun luogo si trova che gli abitanti resistessero, o mostrassero se non il valore almeno la rabbia: ben di molte donne è memoria che precipitarono sè e i figli ne’ pozzi e ne’ fiumi, o difesero l’onestà uccidendo gli offensori. Bologna contro l’esercito pontifizio fu difesa (1512 genn.) dal Bentivoglio e dai Francesi. Brescia era stanca delle prepotenze di questi, ma partita fra i Gàmbara e gli Avogadro, non valeva a liberarsi. Nel castello di Monticolo erasi fortificato Valerio Paitone, educato dalle armi e dai libri a studiare gli uomini e sprezzarli, e circondato dai migliori buli bresciani, facea vita indipendente e soperchiatrice, taglieggiando i viandanti e i valligiani, ottenendo rispetto dalla repubblica veneta, il cui doge in pien senato si abbassò «da la sedia alquanto per farghe honore»[138]. Fremendo del veder la patria sottoposta a Francia, con Lorenzo Gigli di Rovato, Giammaria Martinengo, ed altri gentiluomini bresciani congiurò per sollevare il paese (5 febb.), e consegnarlo al provveditore Gritti. Scoperti, furono chi cacciati, chi morti; Ventura Fenaroli ch’erasi ascoso in una sepoltura, trovato si trafisse da sè e fu appiccato. Però il Paitone unì quanti potè dalle valli Camonica, Sabbia, Trompia, dalla Franciacorta e dalla riviera di Salò, e secondato da Bergamo e da’ vicini paesi, assalse e prese Brescia; ma forse impedito dalla prudenza del Gritti non attaccò il castello. I collegati speravano che, occupato da Bologna, Gastone non potrebbe impedire quest’altro acquisto; ma egli colla celerità li previene (19 febb.), ed entrato nel castello, di là assale Brescia. I natii si difesero col coraggio che è loro abituale, e ferirono il cavaliere Bajardo sulla breccia; onde i suoi presero furore a vendicarlo, ed entrativi, e combattuti via per via, la mandarono a guasto e sangue; seicento cittadini si dissero uccisi, violati fin gli asili sacri ove le donne s’erano ricoverate, fattovi un bottino di tre milioni di scudi (72 milioni); l’Avogadro con due figliuoli ed altri generosi, inviati al supplizio de’ traditori, volendo assistervi il cavalleresco Gastone, e ricevendone lode da storici e poeti[139]. Bajardo ferito fu portato in una casa, la cui signora gli si buttò ginocchione, offrendogli quanto possedea purchè salvasse l’onore di lei e di due sue figliuole da marito; ed esso glielo promise, e che da gentiluomo non le deruberebbe. Gratissima la Bresciana, gli usò ogni attenzione nella lunga malattia, e quando risanato ei fu per partire, gli offerse uno scrignetto pien di denaro, quasi in riscatto della casa non ispogliata, dell’onore non violato: tali erano le relazioni dell’Italia co’ suoi invasori! Ma Bajardo, saputo che conteneva duemila cinquecento ducati d’oro, chiamò le due ragazze, che belle e di buona educazione, gli aveano alleviato le noje e i dolori col leggere, cantare e sonare del liuto e della spinetta; e ringraziandole, pose di que’ ducati mille nel grembiale di ciascuna, il resto alle monache della città state saccheggiate. Le donne, piangendo e ringraziando e donandogli due braccialetti ed una borsa di lor fattura, presero congedo dal leale cavaliero, augurandogli ogni ben di Dio. Bergamo atterrita comprò il perdono dal Trivulzio con trentamila ducati; ma fu spoglia de’ privilegi e de’ libri, annullati i consigli, imprigionati molti cittadini; fra’ quali Francesco Bellasini, autore dell’opera _De origine et temporibus urbis Bergomi_, segretario di quel Comune, fu tenuto nove mesi in una torre. I Francesi, arricchiti dalle spoglie nostre, non pensarono più che a ritornare a casa, il che rendette disastrose quelle vittorie. Ancor più funesta fu quella dell’accannitissima battaglia di Ravenna. I cavalieri erano da un pezzo abituati a combattere con poco rischio della vita: coperti di ferro essi e il cavallo, esercitati dalla fanciullezza, trovavansi senza confronto superiori alla ciurma de’ gregari, che a piedi e colle picche gli assalivano, e che, se pure col numero li potessero sopraffare, anche dopo buttatili a terra non gli ammazzavano, preferendo trarne grosso riscatto. L’armi a fuoco cangiarono la vicenda; e, per quanto ancora imperfette, la palla di un cannone e la scaglia di un moschetto sparato da un villano poteano freddare il miglior eroe od un figlio di Francia. La battaglia di Ravenna (1512 11 aprile) fu una delle poche ove la tattica operasse più che il valor personale, e la prima vinta mercè delle artiglierie. Massime i cannoni d’Alfonso di Ferrara operarono utilissimamente, e alcune colubrine opportunamente messe innanzi per consiglio di Bajardo, sfolgorarono gli uomini d’arme di Fabrizio Colonna, uccidendone, se credessimo al cronista, fin trentatre ogni colpo: da sedicimila persone rimasero morte, prigionieri Giovanni Medici legato pontifizio, il marchese di Pescara, Pietro Navarro, esso Colonna ed altri capi de’ collegati. Ma i capitani francesi, che non voleano buttarsi col ventre a terra come gli spagnuoli, rimasero esposti ai colpi di fuoco, sicchè di quaranta che erano, trentotto perirono, ed anche lo splendido Gastone di Foix; perdita che elise il vantaggio della vittoria. Roma andò al fondo dello sgomento, e i cardinali, aspettando da un momento all’altro i Francesi vendicativi, stringeansi attorno al papa supplicandolo a chieder pace: le città di Romagna atterrite si rendevano al legato del concilio di Milano, ed eran messe a ruba dai brutali Francesi, per quanti ne impiccassero i loro generali. Ma come fu saputa la morte del capo, i più disertavano, e dispersi erano pigliati a insulti e peggio: il vescovo Giulio Vitelli riprese Ravenna che i Francesi aveano saccheggiata nell’atto che trattavasi la capitolazione, e la plebaglia se ne vendicò col sepellir vivi sino alla testa quattro ufficiali della guarnigione; sicchè re Luigi a chi nel congratulava rispose: — Augurate di tali vittorie a’ miei nemici». Giacomo La Palisse, sostituito a Gastone, non n’aveva a gran pezza la rapidità e maestria di guerra, nè quella confidenza dei soldati che è metà della vittoria. Intanto il legato prigioniero vedevasi in Milano ricevuto con venerazione; i soldati si affollavano a invocarne l’assoluzione, colla promessa di non più militare contro santa Chiesa; lo stesso re di Francia supplicava perdono per le proprie vittorie e riconciliazione; il duca d’Urbino aveva ottenuto la ribenedizione dallo zio; la convocazione del V concilio di Laterano, fatta dal papa, toglieva sempre scusa allo scisma e credito al conciliabolo. Massimiliano, nel mentre si professava fedele alla Francia, stipulava tregue e ricevea denari da Venezia, e si lasciava menare dal Cattolico; il re d’Inghilterra minacciava le coste francesi; Giulio, che cresceva le esigenze a misura dell’altrui depressione, comprava diciottomila Svizzeri. A vicenda dunque, anzi a gara, quattro nazioni forestiere desolavano il bel paese. I Francesi in un paese di signorie divise e temperate recavano quelle indefettibili loro idee del despotismo monarchico, dell’accentramento, dell’unità, laonde erano a continui cozzi colla libertà, colla federazione, cogli statuti, colle varietà italiane. Meravigliati ancor più che indispettiti di trovare opposizione dopo che il conquistare era stato sì facile, nè tampoco sognavano che la gerarchia, che l’onnipotenza di un re avessero a riuscire disastrosi al paese nostro mentre erano così profittevoli al loro; e con imperturbabile ingenuità calpestavano le nostre tradizioni antiunitarie, le franchigie antimonarchiche, quasi ricoveri di deplorabili perfidie; armati di tutto punto, correano da un estremo all’altro d’Italia a vendicare torti, e ripristinar quello che credeano diritto; con pretensioni cavalleresche faceansi sostegno ai più ribaldi, al Moro, al Borgia, ai Bentivoglio; e con tutta serietà declamavano contro la slealtà italiana, essi autori della lega di Cambrai e del trattato di Noyon. Quanto ai soldati, appetitosi ma prodighi, è vero che «ruberiano con lo alito, ma per mangiarselo e goderselo con colui a chi lo han rubato; quando non ti possono far bene tel promettono, quando te ne possono fare, lo fanno con difficoltà o non mai»[140]: pure prendeano dimestichezza coi nostri, e seduceano le donne invece di violentarle. Gli Spagnuoli, alieni dalla famigliarità per orgoglio, dalla pietà per l’abitudine di trucidar Mori ed Americani, il vinto consideravano men che uomo. Svizzeri e Tedeschi, superbi della propria forza e delle ripetute vittorie, rozzi e bestiali, insaziabili nel saccheggio, sovrattutto ubriaconi, chiedevano orgie non amori, denari non parole. Quali eran dunque gli amici, quali gli avversarj? Avea ragione Alfonso d’Este allorchè, al fatto di Ravenna avvertito che le sue artiglierie colpivano anche i Francesi, rispose: — Tirate senza riguardi, chè son nostri nemici tutti». Eppure la povera Italia era costretta guardare i Tedeschi come redentori; e nel consueto inganno di credere libertà il mutar signoria, dappertutto insorgeva contro i Francesi, trucidando alla spicciolata quelli che non le era più dato affrontare in battaglia. Il cardinale Schinner, di cui diceva il re di Francia che gli fecero più male ancora le parole che non le lancie de’ suoi, per Trento mena sulla Lombardia gli Svizzeri, e proclama duca di Milano Massimiliano Sforza (giugno), figlio del Moro, ch’era ricoverato da gran tempo alla corte imperiale, e che i potentati furono contenti di vedere in quel dominio, perchè n’escludeva i Francesi. Ma per recuperare il ducato lo Sforza avea dovuto sbranarlo; ed oltre le enormi taglie imposte dagli Svizzeri, i tre Cantoni montani si tennero Bellinzona; già la Federazione elvetica dominava i baliaggi di Lugano, Locarno e Val Maggia; i Grigioni la Valtellina; il papa, Mantova, Parma, Piacenza, come eredità della contessa Matilde. Di poi, o per gratificare i vecchi, o per farsi nuovi amici, lo Sforza regalò altre porzioni, come Lecco a Girolamo Morone suo consigliere, Vigevano al cardinale di Sion, Rivolta e la Geradadda a Oldrado Lampugnano; ed era costretto gravare d’enormi ed arbitrarie taglie i sudditi, onde satollare gli stranieri, lieti di rendere con ciò esoso il governo nazionale. I Francesi, troppo deboli, e dispersi in paese ribollente, con gravi perdite dovettero partirsi di Lombardia: Milano, sollevata con quel codardo furore che prorompe contro i vinti, trucidò fin i mercanti di quella nazione rimastivi (29 giugno); così Como, così Genova che acclamò doge Giovanni Fregoso; e tutte le città ripigliavano chi questo chi quel dominatore, purchè non fossero i Francesi. Anche Bologna si arrese ai Pontifizj; e il papa, irritato de’ fattigli insulti, peritossi un tratto se distruggerla e trasportarne gli abitatori a Cento, poi si contentò di toglierle i privilegi e le magistrature: assolse Alfonso d’Este, ma ne fece occupar gli Stati dal duca d’Urbino, e cercò anche tenerlo prigione. Anche di là dall’Alpi un tempo grosso minacciava la Francia; ed Enrico VIII d’Inghilterra entrava nell’Artois, Fernando il Cattolico nella Navarra, nella Borgogna gli Svizzeri. Se non che le pretensioni opposte dei collegati rivissero appena vittoriosi; ed avendo ciascuno oltrepassato l’oggetto della loro unione, s’inimicavano nello spartirsi le prede. Il papa volea tutto quanto giace a mezzodì del Po; Massimiliano accampava le antiche ragioni dell’Impero; il vicerè Cardona volea menar le sue truppe a vivere nella Lombardia, col pretesto di snidare i Francesi anche dalle fortezze; i Veneziani tentavano Crema e Brescia. Firenze, tuttochè alleata di Francia[141], si conservava quieta e ne’ doveri, nessuno offendendo; eppure non evitò la sorte dei deboli fra i prepotenti. Già per punirla del radunato concilio, il papa avea tentato soppiantare il gonfaloniere Soderini e la parte popolare, e lasciato che il cardinale Giovanni de’ Medici intrigasse per ripristinarvi la sua famiglia. Ora il vicerè Cardona move sopra di essa (1512), promettendo rispettare i beni e le franchigie, purchè siano cacciato il Soderini e ricevuti i Medici. Poteva ella salvarsi offrendo denari, unico movente di quei capitani; ma parendo che il pagare fosse un confessarsi in colpa, ricorse alle ragioni, quasi abbiano luogo fra le armi; e il Soderini, nobile patrioto anzichè uomo risoluto, tentennò e non fece armi se non quando il pericolo era irreparabile. Il Cardona traversò l’Appennino senza ostacoli; Prato, ove prima un corpo soldato fermò gli aggressori (30 agosto), fu mandata a inumana carnificina, sotto gli occhi del legato pontificio uccidendo da tremila persone, e violando fin le vergini sacre[142]; i rimasti, messi a strazio perchè pagassero enormi taglie. Firenze ne fu sbigottita: l’ordinanza non osava tener testa alle bande: poi una mano di giovani, che solevano adunarsi negli orti Rucellaj a ragionamenti letterarj, proclamano esser inutile il resistere, cacciano il Soderini con minaccia d’ucciderlo (2 7bre), lo fan deporre dai consigli, dare al Cardona quanti denari domanda, e acclamare Giuliano Medici terzogenito del magnifico Lorenzo. Gli antichi dominatori, restituiti in quella che consideravano casa loro, ma dove erano resi stranieri dall’esiglio, se sulle prime condiscesero alla democrazia, ripigliarono ben tosto il vantaggio; e colla solita ciurmeria del voto universale abolendo le leggi (16 7bre) emanate dopo la loro cacciata, sostituirono una stretta oligarchia, congedata l’ordinanza, rigorosamente esclusi d’ogni carica gli antichi Piagnoni, fautori della libertà e della riforma morale; con un prestito forzoso pagarono lautamente gli Spagnuoli; e Firenze entrò anch’essa nella Santa Lega. Nel costoro disaccordo Luigi XII potè sperare alleati in quelli medesimi che testè lo combattevano, e rinterzava trattati e proposizioni. Solo nel contrariarlo non allentavasi Giulio II; puniva e lodava; trasferiva al re d’Inghilterra il titolo di cristianissimo, e il regno di Francia offeriva al primo occupante; convocava un congresso per chetare le irreconciliabili pretensioni dei collegati; intanto preparavasi a togliere Ferrara all’Estense, la Garfagnana ai Lucchesi: riceverebbe dall’imperatore Modena per ipoteca d’un credito, per prezzo Siena, che donerebbe al nipote duca d’Urbino; sostituirebbe un altro doge in Genova; forse ricaccerebbe di Firenze i Medici, di cui già non era abbastanza soddisfatto; e sollecitando gli Svizzeri, ch’egli destinava barriera all’Italia dopo cacciatone i Barbari, mandava loro la spada e il cappello benedetti. Fra tanti divisamenti la morte lo colse (1513 21 febbr.), e ancor nel vaniloquio dell’agonia ripeteva: — Via i Francesi d’Italia. Se a quest’unico intento avesse misurato le azioni, poteva ben meritare del paese, come già s’era mostrato degno di governare uno Stato più grande; ma operando per collera, e volendo ogni cosa piegasse alla sua dispotica volontà, empì l’Italia di stranieri e di sangue. Noi lo lasciamo ammirare e rimpiangere dai classici adoratori della forza; come dagli idolatri del bello il suo successore. CAPITOLO CXXXII. Leone X e Luigi XII. _Casa de’ Medici._ GIOVANNI DI BICCI 1421-29 | | COSMO _Padre della patria_ 1429-64 | | | | PIETRO 1464-69 | | | | | | Cosmo | | | | | | Nanina Bianca in Guglielmo Pazzi | | | | | | LORENZO il _Magnifico_ 1469-92 | | | | | | | | PIETRO II 1492-1503 | | | | | | | | | | LORENZO II 1513-19 duca d’Urbino 1516 | | | | | | | | | | | | Caterina in re Enrico II | | | | | | | | | | | | ALESSANDRO 1531-37 | | | | | | | | | | Clarice in Filippo Strozzi | | | | | | | | Giovanni (Leone X) 1513 | | | | | | | | GIULIANO II 1512 abdica 1513 | | | duca di Nemours 1515 | | | | | | | | cardinale Ippolito -1535 | | | | | | GIULIANO 1469-78 | | | | | | Giulio 1519-27 fu papa Clemente VII 1523 | | | | Giovanni -1463 | | | | Carlo | | Lorenzo | | Pier Francesco | | Lorenzo | | | | Pier Francesco | | | | Lorenzino -1548 | | Giovanni m. di Caterina Sforza-Riario | | Giovanni dalle Bande Nere -1526 | | COSMO I 1537-74 granduca dal 1569 | | FRANCESCO I 1574-87 | | | | Maria in Enrico IV di Francia | | Giovanni cardinale -1562 | | Garzia | | FERDINANDO I 1587-1609 | | | | COSMO II 1609-21 | | | | FERDINANDO II 1621-70 | | | | COSMO III 1670-1723 | | | | Ferdinando | | | | GIAN GASTONE 1723-37 | | | | Anna princip. palatina -1743 | | D. Pietro Il magnifico Lorenzo de’ Medici ebbe tre figliuoli, che educò domesticamente in colta cortesia. Una volta taluno ritrovò lui e il fratello Giuliano che, messisi carponi e fattisi montare in groppa que’ bambini, trottavano a maniera di cavalli; e vedendolo meravigliarsi, il pregarono a non farne motto finchè egli pure non fosse padre[143]. Sono codesti i due mostri de’ romanzi e delle tragedie. Giuliano, trucidato dai Pazzi (tom. VIII, pag. 280), lasciò orfano Giulio, che col tempo divenne papa Clemente VII. Dei tre di Lorenzo, Pietro toccò le sventure pubbliche che narrammo, finchè s’annegò alla battaglia del Garigliano; Giuliano s’imparentò coi reali di Francia, e fu creato duca di Nemours; Giovanni, nato il 1475, dalle fasce fu predestinato alla chierica, e suo padre notava con compiacenza ne’ registri di casa i benefizj ecclesiastici che man mano accumulavansi su questo fanciullo. — A’ 19 di maggio 1483, venne la nuova che il re di Francia per se medesimo aveva data la badia di Fontedolce a Giovanni nostro... A dì 31, da Roma, che il papa gliel aveva conferita, e fattolo abile a tenere benefizj sendo d’anni sette... A dì 8 giugno venne Jacopino corriere di Francia sulle tredici ore con lettere del re, che aveva dato a messer Giovanni nostro l’arcivescovado d’Aix in Provenza, ed a vespro fu spacciato il fonte per Roma per questo... A dì 15 a ore sei di notte, venner lettere di Roma che il papa faceva difficoltà di dare l’arcivescovado a messer Giovanni per l’età, e subito si spacciò il fante medesimo al re di Francia...» Piace il trovare quest’amorevole padre di famiglia sotto le dissolute reminiscenze, questo principe cittadino quando sottentravano le Corti. E mandando Pietro suo al papa il 1484, quando cioè avea quattordici anni, gli dava di proprio pugno istruzioni minute, e insegnavagli le lusinghe da usar colle signorie e coi privati: — Ne’ tempj e luoghi dove concorreranno gli altri giovani degli ambasciadori, pórtati gravemente e costumatamente, e con umanità verso gli altri pari tuoi, guardandoti di non preceder loro se fossero di più età di te, poichè, per esser mio figliuolo, non sei però altro che cittadino di Firenze, come sono ancor loro: ma quando poi parrà a Giovanni di presentarti al papa separatamente, prima informato bene di tutte le cerimonie che si usano, ti presenterai alla sua santità, e lasciata la lettera mia che avrai di credenza al papa, supplicherai che si degni leggerla; e quando ti toccherà poi a parlare, prima mi raccomanderai a’ piedi di sua beatitudine, come feci alla santissima memoria del predecessore di quella... Farai intendere a sua santità, che avendogli tu raccomandato me, ti sforza l’amore di tuo fratello raccomandargli ancora Giovanni, il quale io ho fatto prete, e mi sforzo e di costumi e di lettere nutrirlo in modo, che non abbia da vergognarsi fra gli altri. Tutta la mia speranza in questa parte è in sua beatitudine, la quale avendo cominciato a fargli qualche dimostrazione d’amore, supplicherai si degni continuare per modo, che alle altre obbligazioni della casa nostra verso la Sede apostolica s’aggiunga questo particolare; ingegnandoti con queste ed altre parole raccomandarglielo, e metterglielo in grazia più che tu puoi. Avrai mie lettere di credenza per tutti i cardinali, le quali darai o no, secondo parrà a Giovanni. In genere, a tutti mi raccomanderai... Visiterai tutti que’ signori di casa Orsina che fossero in Roma, usando ogni riverente termine, e raccomandandomi a loro signorie, e offrendoti per figliuolo e servitor loro, poichè si sono degnati che noi siamo lor parenti, del quale obbligo tu hai la maggior parte per essere tanto più degnamente nato; e però ti sforzerai a tua possa di pagarlo almanco con la volontà. «Io ti mando con Giovanni Tornabuoni, il quale in ogni cosa hai ad obbedire, nè presumere far cosa alcuna senza lui, e con lui portandoti modestamente, e umanamente con ciascuno, e soprattutto con gravità, alle quali cose ti debbi tanto più sforzare, quanto l’età tua lo comporta manco. E poi gli onori e carezze, che ti saranno fatte, ti sarebbono d’un gran pericolo, se tu non ti temperi e ricorditi spesso chi tu sei. Se Guglielmo[144] o i suoi figliuoli o nipoti venissero a vederti, vedigli gratamente, con gravità però e modo, mostrando d’aver compassione delle loro condizioni, e confortandogli a far bene, e sperar bene facendolo». Principale oggetto di quest’invio era l’ottenere a Giovanni il cappello cardinalizio: e l’ebbe quando ancor non finiva i tredici anni. A minorare lo scandalo della precoce liberalità, non fu lasciato prendere la porpora nè posto in concistoro se non due anni più tardi; e gli ammonimenti che in quell’occasione gli dava Lorenzo, son quali suole un padre al figlio che va in collegio: — Il primo mio ricordo è che vi sforziate a esser grato a monsignor Domenedio, ricordandovi ad ogn’ora che non meriti vostri, prudenza o sollecitudine, ma mirabilmente esso Iddio v’ha fatto cardinale, e da lui lo riconosciate, comprobando questa condizione con la vita vostra santa, esemplare ed onesta; a che siete tanto più obbligato per aver già voi dato qualche opinione nell’adolescenza vostra da poterne sperare tali frutti... L’anno passato io presi grandissima consolazione intendendo che, senza che alcuno ve lo ricordasse, da voi medesimo vi confessaste più volte e comunicaste; nè credo che ci sia miglior via a conservarsi nella grazia di Dio, che l’abituarsi in simili modi e perseverarvi... È necessario che fuggiate come Scilla e Cariddi il nome dell’ipocrisia e la mala fama, e che usiate mediocrità, sforzandovi in fatto fuggir tutte le cose che offendono in dimostrazione e in conversazione, non mostrando austerità e troppa severità; cose le quali col tempo intenderete e farete meglio che non lo posso esprimere. Credo per questa prima andata vostra a Roma sia bene adoperare più gli orecchi che la lingua. Oggimai v’ho dato del tutto a monsignor Domenedio e a santa Chiesa; onde è necessario che diventiate un buono ecclesiastico, e facciate ben capace ciascuno, che amate l’onore e stato di Santa Chiesa e della sede apostolica innanzi a tutte le cose del mondo, posponendo a questo ogni altro rispetto... Nelle pompe vostre loderò più presto stare di qua dal moderato, che di là; e più presto vorrei bella stalla e famiglia ordinata e polita, che ricca e pomposa. Ingegnatevi di vivere accostumatamente, riducendo a poco a poco le cose al termine, che, per essere ora la famiglia e il padron nuovo, non si può. Gioje e sete in poche cose stanno bene a’ pari vostri. Più presto qualche gentilezza di cose antiche e bei libri, e più presto famiglia accostumata e dotta che grande; convitar più spesso che andare a conviti, nè però superfluamente. Usate per la persona vostra cibi grossi, e fate assai esercizio; perchè in codesti panni vien presto in qualche infermità chi non ci ha cura. Lo stato del cardinale è non manco sicuro, che grande; onde nasce che gli uomini si fanno negligenti, parendo loro aver conseguito assai, e poterlo mantenere con poca fatica; e questo nuoce spesso e alla condizione e alla vita, alla quale è necessario abbiate grande avvertenza; e più presto pendiate nel fidarvi poco, che troppo... Una regola sopra l’altre vi conforto ad usare con tutta la sollecitudine vostra; e questa è di levarvi ogni mattina di buon’ora, perchè oltre al conferir molto alla sanità, si pensa ed espedisce tutte le faccende del giorno, e al grado che avete, avendo a dire l’ufficio, studiare, dar udienza ecc., vel troverete molto utile. Un’altra cosa ancora è sommamente necessaria a un pari vostro, cioè pensare sempre, la sera innanzi, tutto quello che avete da fare il giorno seguente, acciocchè non vi venga cosa alcuna immediata...» Il cardinale de’ Medici, costretto esular da Firenze quando i suoi ne furono espulsi, e vedendo non poter vivere a Roma con dignità e sicurezza sotto Alessandro VI, prefisse di andar viaggiando. Prese seco undici giovani gentiluomini, la più parte suoi parenti, fra cui Giulio; e tutti vestiti a una divisa, comandando un per giorno alla brigata, percorsero Germania, Francia, Fiandra; a Genova alloggiarono presso il cardinale della Rovere anch’esso profugo da Roma; onde, fra quei fuorusciti, tre erano futuri papi. L’anno santo il Medici visitò Roma incognito; passò il restante tempo fra pericoli, finchè salì papa il Della Rovere col nome di Giulio II, che l’accolse e onorò. Alla Corte il Medici si metteva attorno letterati e artisti, a comodo de’ quali apriva una biblioteca, ricca anche dei moltissimi manoscritti raccolti già da Cosmo e Lorenzo, dispersi nella cacciata di Pietro e compri dai frati di San Marco, dai quali esso li riscattò per duemila ducensessantadue scudi; disputava coi dotti, componeva, giudicava con fino gusto, e scialava più che nol permettessero le avite ricchezze, scompigliate nella cacciata, poi ne’ tentativi di ricuperare lo Stato; e non rade volte egli dovette mandare in pegno a macellaj e pizzicagnoli i vasi d’argento della propria tavola. Se alcuno gliene facesse appunto, rispondeva: — La fortuna sussidia chi è destinato a gran cose, purch’egli non invilisca». Giulio II, genio militare, tramutò questo suo favorito in capitano, e per ingelosire i Fiorentini, deputollo legato all’esercito che mandava contro i Francesi (p. 207). A Ravenna il cardinale restò prigioniero, ma condotto a Milano, dove conservavasi ancora aperto il conciliabolo, v’ebbe onoranze festevoli, potè riguadagnar molti alla Chiesa, poi colle buone maniere si amicò anche gli uffiziali francesi, talchè, mentre pensavasi mandarlo cattivo in Francia, ebbe modo a fuggire, e variando travestimenti arrivare a Bologna, mescere nuovi partiti, e infine, scavalcato il Soderini gonfaloniere, ricuperar Firenze. Vi stava tormentato da una fistola (1513) allorquando udì la morte di Giulio II; onde si fece portare in lettiga a Roma per assistere al conclave, nel quale tenne seco il chirurgo. Forse questa circostanza fece preponderare gli elettori verso di lui, insolitamente giovane, ma probabilmente di breve durata (8 marzo). Intitolatosi Leone X, fece la consueta cavalcata a San Giovanni Laterano sul destriero che eragli servito alla battaglia di Ravenna, e trovati trecentomila zecchini accumulati da Giulio II con risparmiare sull’amministrazione, pensò spenderli men tosto in guerre che in magnificenze, e un terzo ne logorò nelle sole feste della sua inaugurazione. Riuscito a rimuovere lo scisma dalla Chiesa col compiere il concilio Lateranense V, e ricevere all’obbedienza quelli che aveano aderito al conciliabolo di Pisa, le principali cure volse alla propria famiglia. Non si trattava di toglierla dall’oscurità per satollarla di ricchezze e cariche; e già essendo ricca, accreditata, dominante, egli stesso si trovò, con nuovo esempio, papa insieme e principe secolare d’uno Stato confinante, e quindi larghissimo in mezzi d’ingrandire i parenti. Di Firenze conferì l’arcivescovado colla porpora al cugino Giulio; ed essendosi in quei giorni denunziata una di quelle congiure che ai governi nuovi somministrano occasione di stringere le briglie e dar di sproni, lasciò andare al patibolo Pietro Bòscoli e Agostino Capponi[145]; agli altri, fra cui il Machiavelli, fece perdonare. Le emulazioni fra Austriaci e Francesi davangli speranza d’ottenere a’ suoi o il ducato di Milano o il regno di Napoli. Intanto al fratello Giuliano maritò Filiberta di Savoja zia di re Francesco I di Francia, spendendo cinquantamila ducati per le feste a Roma, oltre quelle a Torino e a Firenze; fu detto pensasse, alla morte di Massimiliano, far eleggere imperator di Germania il nipote Lorenzo, o almeno titolarlo re di Toscana. Di mezzo a questi divisamenti cercava i godimenti dell’intelletto, accoglieva artisti e poeti, non sempre da protettore che ne conosce la dignità, anzi spesso da buontempone che vuol farsene un trastullo; e «non meno amico de’ suoi parenti, che dell’ozio e della cantilena, solea dire a suo fratello Giuliano: _Attendiamo a godere, e facciam bene alli nostri_[146]. Re Luigi XII, pacificato a Blois coi Veneziani (24 marzo) che s’erano guasti coll’imperatore perchè ostinavasi a voler Vicenza e Verona, e sciolto l’Alviano che da quattro anni teneva prigione, accingevasi a riparare in Lombardia, le perdite sofferte, e mandò la Trémouille e il Trivulzio, che dappertutto accolti festosamente, ricuperarono Genova e il Milanese. Il duca Sforza, che non vi aveva avuto altro sostegno se non gli Svizzeri, si trovò assediato in Novara: ma un nuovo corpo di questi, colà sopraggiunto, forse risoluto di riparare verso il figlio la slealtà ivi usata al padre, lo difese intrepidamente; poi alla Riotta, côlta improvvista la gendarmeria francese, le diede la peggiore sconfitta che mai toccasse (1513 6 giugno); sicchè, perduti ottomila uomini, si volse al ritorno, anzi alla fuga. La Trémouille, che avea scritto al re farebbe prigione il figlio là dove era stato preso il padre, fu mal accolto da Luigi. Lombardia e Piemonte, sgombrati dai Francesi, s’affrettano a far sommissione allo Sforza; Genova ne respinge la flotta[147]; e ogni orma francese è cancellata d’Italia. Venezia dunque trovavasi sola, esposta alle armi di Raimondo di Cardona, il quale si unì alle imperiali non tanto per vantaggio o gloria del Cattolico, quanto per arricchire i proprj soldati. A questi si collegarono le truppe pontifizie, e invano ostando l’Alviano, presero Padova, accamparono sul lembo della laguna, donde spararono contro Venezia. Questa ordinò fosse devastato il paese; sicchè dal Trevisano, dal Padovano, dal Vicentino, dal Bresciano accorsero i villani a saccheggiare ed ardere. Non v’è lingua che basti a descrivere quello sterminio; Pieve di Sacco fu distrutta; deserte le rive della Brenta e fin a Mestre; ed avendo gli abitanti salvato molta roba in val Polesella, Veneti e Francesi vi accorsero. L’Alviano impetrò d’affrontare i Tedeschi, e in fatti essi dovettero cessare lo sperpero per farsegli incontro, e trattolo a battaglia presso Vicenza, lo sconfissero, gli tolsero tutta l’artiglieria, e moltissimi prigionieri. Il Friuli subì il resto della rabbia tedesca, e in un villaggio Cristoforo Frangipane, vassallo dell’imperatore, fece cavar gli occhi e tagliare l’indice destro a tutti gli abitanti. Verona fu più volte presa e ripresa, più volte taglieggiata. Francesi e Veneti assediarono Brescia con non minor furore dell’altra volta. A Cremona l’anno precedente fu tal tumulto di guerra, che non si distribuirono tampoco gli ulivi nella domenica delle palme: i Francesi aveano fatto levare i merli dalle mura, abbassare molte torri, abbattere le antiche porte ancor sussistenti in città, aggiungere due torrioni al castello, scavare e allargar le fosse, forzando i cittadini a lavorare, e ne cacciarono più di quattrocento principali, altri mandarono a supplizio, spogliando le loro case (CAMPI): ora altrettanti guasti recaronvi i liberatori. Eguali sventure sarebbero a raccontare delle singole città. Casuale incendio (1514) mandò in cenere la più mercantil parte di Venezia, piena d’argenterie e merci di gran valuta, duemila fra botteghe e case, e il fondaco de’Tedeschi, perendo in una notte altrettanto quanto erasi speso in cinque anni di guerra. Gli eserciti soffrivano di fame perchè il paese era esausto da tante devastazioni, e le città più non sentivansi in grado di satollarli colle contribuzioni; lo sdegno de’ popoli non discerneva amici da nemici, e chiunque fosse sconfitto era certo di vedersi addosso i contadini, che voleano trucidare e svaligiare alla lor volta. Ben doveano essere stanchi i popoli di tanto soffrire, i re di tanto tormentare. D’altra parte Leone X, men passíonato del suo predecessore, vedeva come la depressione della Francia lascerebbe l’Italia all’arbitrio degli Svizzeri e dei Tedeschi, e come rovinoso ad essa, e particolarmente alla santa Sede riuscirebbe lo stabilirvisi di quegli Austriaci, che stavano per riunire al loro patrimonio gli smisurati possessi di Spagna. Pure egli mancava d’ogni esteso concetto politico; e capriccioso, avventato, giocava di due mani; negoziava coll’imperatore, e da lui comprò Modena, che con Reggio, promessa invano formalmente ad Alfonso di Ferrara, e con Parma e Piacenza, destinava in principato a Giuliano suo fratello. Un vantaggio ancor maggiore sperava dalla Francia, cioè la vendita del regno di Napoli; lo perchè blandiva a re Luigi, che preparavasi a ricuperare il Milanese: poi sgomentato dalle minaccie di Selim granturco, procurò metter pace fra i principi[148]. Di fatto il Cristianissimo rinunziò allo scisma e al conciliabolo di Pisa, riconciliossi con Fernando il Cattolico lasciandogli la Navarra, di Enrico VIII sposò la sorella. Massimiliano solo persisteva in una guerra di molto danno e nessun esito, nè dal papa lasciossi rappattumare co’ Veneziani. Nel vivo di questi trattati Luigi XII moriva (1513 gennajo), carissimo al suo paese per l’economia con cui maneggiò le rendite pubbliche: parve che solo per interesse nazionale assumesse le guerre d’Italia; giacchè, se avesse lasciato sussistere qui le piccole Potenze, esse avrebbero oppresso lui; se non si fosse alleato con Alessandro VI, quelle e questo insieme avrebbero schiacciato lui; se non invocava Fernando, non avrebbe potuto conquistar Napoli, e sarebbe soccombuto al papa; se avesse preferito d’abitare Napoli, perdeva e questo e la Francia. Così i successori di san Luigi, avendo innanzi a sè tutta l’Asia da potere strappare ai Musulmani, tutta l’America da redimere dalla barbarie, lasciavano questo glorioso compito alla Spagna e al Portogallo, per rodere qualche cantuccio dell’Italia, e non che ottenerlo, vi si facevano sconfiggere dagli Svizzeri, dagli Spagnuoli, fin dai papalini. Come Napoleone, Luigi XII volea che la guerra in Italia fosse pagata dall’Italia, col che alleggeriva la propria nazione, che lo loda di non aver fatto debiti, come poi lodò quei che seppero farne di ingenti; ma accumulava odio negli Italiani, a cui comparve perfido senza politica, ambizioso senza capacità; comprò a denari la cattura di Lodovico il Moro a Novara, che poi tenne dieci anni in fortezza; favorì di tutta possa Cesare Borgia; gettò lo scisma nella Chiesa; fu promotore della lega di Cambrai; la guerra esercitò crudelmente, eppure senza riuscire; atroce nelle vittorie, scoraggiato dalle sconfitte, tradì Fiorentini, Pisani, i Bentivoglio, i duchi di Ferrara, tutti i piccoli popoli o principi che in lui posero fidanza[149]: l’essergli mancato il primario ministro, il cardinale d’Amboise, fin allora suo senno, forse fu cagione della debolezza ed esitanza che mostrò sul fine di sua vita. Francesco I succedutogli, dall’araldo in Reims si fece, tra gli altri suoi titoli, acclamare duca di Milano, e sollecitò una spedizione mentre era sul tappeto la pace. Fattala coll’Austria e coll’Inghilterra, egli non potè trar dalla sua gli Svizzeri, onde si fermò coi Veneziani (1515 27 giugno). Francia struggeasi di riparare l’onta di Novara, e amava secondare il giovane re, brillante delle doti che affascinano quella nazione, e che scese (15 agosto) col miglior esercito che mai passasse le Alpi; duemila cinquecento lancie che contavano per quindicimila uomini, ventiduemila lanzichenecchi, ottomila avventurieri francesi, seimila guasconi, tremila zappatori, settantadue grossi pezzi d’artiglieria. Erano in quell’esercito i marescialli Trivulzio, La Palisse, Lautrec, i prodi La Trémouille, Montmorency, Crequí, Bonnivet, Cossé-Brissac, Claudio di Guisa; e tornavano con loro Bajardo a capo de’ Guasconi e Pier Navarro il minatore, che, fatto prigione nella battaglia di Ravenna e non riscattato da Fernando, prese servigio colla Francia. Si opponeva altrettanto grossa la lega avversaria degli Svizzeri, il papa, Massimiliano imperatore, Fernando il Cattolico, Firenze, Milano. Il _generale tonsurato_, come chiamavano il cardinale di Sion, nemico giurato de’ Francesi, non colle retoriche arringhe postegli in bocca dal Giovio e dal Guicciardini, ma collo spargere denaro e coll’affratellarsi agli esercizj e alle privazioni loro, animò gli Svizzeri a conservar Milano, sicchè cresciuti fin a trentamila, munirono i valichi delle Alpi; così fecero gli altri confederati, persuadendosi, come si ricanta in prosa a in poesia, che esse siano insuperabili se appena difese. Ma l’instancabile vecchio Trivulzio tanto studia quei passi, che trova un varco per l’inusata valle della Stura, donde i Francesi trassero a gravi difficoltà le artiglierie per Barcellonetta e Rôcca Sparviera fin a Cuneo e Saluzzo, mentre gli Svizzeri gli attendevano a Susa[150]. Il cavaliere Bajardo piomba sui nemici così improvviso, che a Villafranca coglie a tavola Prospero Colonna, il miglior generale italiano, togliendogli un grosso bagaglio, tutti i cavalli, e la reputazione di prudente, fin allora non disputatagli; e per varj sbocchi l’esercito francese si ricongiunge a Torino, lietamente accolto da Carlo III di Savoja, che forse ne aveva agevolato il viaggio. Allora infervorano brighe e corruzioni tra il papa vacillante, gli Svizzeri venderecci, gl’imperiali sgomentati. Massimiliano Sforza, educato inettamente alla corte imperiale[151], non poteva impedire il male, non sapea far il bene, nè tampoco addolcire le sofferenze del suo popolo; trovatosi inaspettatamente padrone e ricco, regalava città e tesori, si stordiva in feste e in amorazzi, mentre per satollare gli Svizzeri doveva rincarire le imposte. Al 18 giugno egli pubblica una taglia di trecentomila scudi d’oro per difesa dello Stato; al 24 è obbligato pubblicar ribelli e rei di Stato quei che fanno conventicole contro la taglia imposta, «poichè le cose non sono in termini da disputare nè di trattar di evitare il pagamento, nè anche di moderarlo, essendo già stabilito e deciso per necessità della pubblica salute, la quale non manco rimarria in pericolo se la somma diminuisse come se nulla si scotesse»; e perciò, d’accordo coi signori Svizzeri minaccia morte e confisca de’ beni a chi si raduni per tale oggetto, quand’anche sieno in minor numero di dieci, ripetendo che «la totale disposizione di sua eccellenza è accompagnata dalla necessità, ed anche con il consiglio e voluntate de’ signori Elvetici». I suoi Milanesi, pigliati e ripigliati, una volta spogli perchè guelfi, l’altra perchè ghibellini, stavano a guardare sui due piè, sperando, infelici! tra il picchiarsi di due padroni recuperare l’indipendenza; e il Morone ministro dello Sforza alimentava l’ardore patriotico, e coll’operosità sua cercava rimediare all’inettetudine del padrone. Il Trivulzio avvicinato sin alla porta Ticinese, ebbe insulti dalla plebaglia; ma quelli che s’intitolano uomini d’ordine mandarono a capitolare. Se non che in quel mezzo giunsero nuovi Svizzeri, che a Marignano affrontarono i Francesi. Due giorni durò la mischia (1515 13 e 14 7bre); e il Trivulzio diceva, le diciotto cui aveva assistito esser battaglie da fanciulli a petto a questa di giganti; re Francesco scrisse a sua madre, che da duemila anni non se n’era combattuta altra così feroce e sanguinosa. I _domatori de’ principi_ furono domati, poichè diecimila Svizzeri rimasero sul campo, ove i Francesi ricuperarono l’onore perduto nelle sconfitte che aveano avute dagli Svizzeri stessi a Novara, dagl’inglesi a Crecy, a Poitiers, a Agincourt. Re Francesco volle esservi armato cavaliere da Bajardo, che esclamava: — Fortunata mia buona spada, d’avere a sì virtuoso e possente re conferito la cavalleria! Spada mia buona, tu sarai come reliquia custodita, e sopra ogni altra onorata; nè ti brandirò mai che contro Turchi, Saracini o Mori». Gli Svizzeri varcarono le Alpi giurando tornare alla riscossa; lo Sforza, per quanto il Morone vi si opponesse[152], rese il castello di Milano per trentamila scudi di pensione e la promessa di un cappello cardinalizio, e si lasciò condurre in Francia, ove morì prigioniero come suo padre. Francesco entrò allora in Milano (23 8bre), e quando l’imperatore mandò a chiedergli con qual titolo il possedesse, e’ gli mostrò la spada; unica arbitra de’ poveri popoli. Al vedere vinti gli Svizzeri, in cui i papi solevano confidarsi come nei meno pericolosi fra gli stranieri, Leone X si fece perduto, e al Zorzi veneziano diceva: — Vedremo ciò che farà il re Cristianissimo; ci metteremo nelle sue mani, dimandando misericordia». Lasciati dunque i puntigli, si pose a sviare il re dall’acquistar tutta Italia; e temendo il suo avvicinarsi a Roma, chiese abboccarsegli a Bologna[153], ove (10-15 xbre) convennero di restituire Modena al duca Alfonso d’Este, al re come duca di Milano cedere Parma e Piacenza, straziate dalle fazioni[154], purchè egli desse serva ai Medici quella Firenze, che alla sua casa era sempre devotissima. Anche cogli Svizzeri il re conchiuse a Ginevra la _pace perpetua_ per la difesa del Milanese, e perchè si obbligassero alla Francia contro chiunque, eccetto il papa e l’imperatore, e rinunziassero ai baliaggi italiani. Più non avendo a temere degli Svizzeri, e non credendo matura l’Impresa di Napoli, Francesco se n’andò, lasciando a governo del Milanese Odetto maresciallo di Lautrec, fratello della Chateaubriand sua ganza, prode e alieno d’avarizia e lussuria, ma superbo s’altri mai e sdegnoso di consigli: e dai bisogni della guerra obbligato a gravare di sempre nuove tasse i Milanesi, ed esigerle con rigore, si fece esecrabile. Egli favoriva l’inetto e intrigante Galeazzo Visconti, capo de’ Ghibellini, quanto invidiava il magno Trivulzio; al quale fece colpa d’essersi mostrato aderente al Veneziani, e più d’aver chiesto la cittadinanza svizzera; e imputandolo di tramare per l’indipendenza d’Italia, fece togliergli il comando e la grazia del re. Questo prode, in cui non si può cercare nè unità di scopo nella vita, nè unità di bandiera nelle imprese, servito per quarant’anni a causa non sua, e combattuto in diciotto battaglie, accorse per giustificarsi personalmente, ma si vide fino negata udienza da quel re, per cui vantaggio s’era fatto odioso ai proprj concittadini; dovette soffrirne i raffacci; e nelle amarezze d’un potere che più non si ha, finì i giorni a Chartres (1518). Milano, o più probabilmente la famiglia di lui ne fe celebrare le esequie collo sfarzo che allora metteasi in tutte le solennità. Il corpo suntuosamente vestito rimase esposto in Sant’Eustorgio, donde poi in processione fu recato a San Nazaro. Precedevano cento della famiglia del morto, a bruno e incappucciati; cinquecento soldati suoi, cento croci, ciascuna con cinque candele; cinquecento poveri, a cadauno de’ quali eransi dati quattro braccia di panno e un torchio; tutti poi i regolari, dei quali il Morigia, che rozzamente ci descrive quel corteo, contò mille trecencinquantacinque in ventidue ordini, indi trecento parroci e cappellani, e i capitoli formanti duemila ducento persone con sessanta croci d’argento: seguivano gli araldi del morto, i trombettieri, e capitani, e destrieri colle insegne di esso; dei re di Napoli e di Aragona e del papa, e l’araldo di Francia; poi gran codazzo di cavalli e somieri, il governatore Lautrec, l’ambasciadore del papa, il senato, quattrocento parenti del morto, i magistrati, i varj collegi, e un per casa di tutta la città. La chiesa di San Nazaro, cui è unita una cappella da esso fondata, era messa con pompa di stemmi, di torchj, di gramaglie, e sul catafalco fu deposto il cadavere; e senza più basti dire che vi si spesero ventottomila scudi d’oro, che al tempo del Morigia valevano più di ottantamila. Sull’avello fu scritto: _Quel che mai non posò, or posa; taci._ Re Fernando pagava l’imperatore affinchè continuasse a tenere in sulle brighe re Francesco; sicchè non pensasse a Napoli; Enrico VIII avea ripigliata guerra; Francesco Sforza, altro figlio del Moro, ricantava i suoi diritti sul ducato; sicchè presto si fa a nuove ostilità. L’imperatore, sempre disopportuno nelle mosse e sciagurato nell’esito, menato per Trento un nuovo esercito al campo presso Milano, minacciava trattarla come Barbarossa: ma vedendo la risoluzione dei Francesi, che bruciarono i vasti sobborghi per meglio difenderla, e inviarono in Francia le persone sospette, Massimiliano diè volta, multando Lodi, Bergamo e quante città traversava; mentre gli Svizzeri, privi di paghe, devastavano il resto. I Veneziani ricuperarono Verona, difesa mirabilmente da Marcantonio Colonna; ma poco soccorsi da Francia, avendo perduto Bartolomeo d’Alviano, generale adorato dalle truppe, e trovandosi sviato il commercio, minacciati dai Turchi, esausti dalla diuturna guerra fin a dover porre all’incanto le dignità, non osarono misurarsi in campo aperto per ricuperare gli antichi dominj. Il Lautrec procedeva anch’egli esitante, forse servendo a segrete intenzioni del suo re: onde la guerra trascinavasi lenta, cioè rovinosissima pei popoli. Tra ciò Fernando il Cattolico moriva (1516 15 gennajo), e Carlo d’Austria, chiamato a succedergli, affrettava la pace colla Francia per non incontrarne l’opposizione; stesine i patti a Noyon (13 agosto), seguì il rabbonacciamento di tutta Europa. Già Francesco aveva pigliato assetto cogli Svizzeri, nella pace perpetua determinando i soldi che a ciascun Cantone pagherebbe per poter levarne quanti uomini gli abbisognassero; colla corte di Roma, alla quale spedì il Budeo, il maggior dotto del suo regno, fece un concordato che aboliva la prammatica sanzione di Bourges, cedendo al papa la collazione de’ benefizj in Francia, mentre il papa lasciava al re l’entrata d’un anno de’ benefizj che conferiva. Non per ciò l’Italia fu quieta. Quel Giuliano de’ Medici, per fare uno Stato al quale tanti garbugli avea preparati Leone X, era morto (17 marzo), onde questo concentrò l’affetto e l’ambizione sul nipote Lorenzo II, e da un pezzo desiderando investirlo del ducato d’Urbino, intentò processo a Francesco Maria Della Rovere, poi coll’armi sue e con quelle de’ Fiorentini lo spodestò. Ma costui, soldate le truppe rimaste libere per la pace, le menò improvvisamente a ricuperare Urbino. Il Medici gli oppose altre bande, che spesso venivano alle mani tra sè, come di nazione diversa, e le mantenne col vendere trentun cappelli cardinalizj per duecentomila zecchini; il Della Rovere portò le sue a vivere sul territorio fiorentino, poi, perduta la speranza di vincere, cedette, trasferendo a Mantova la sua artiglieria e la bella biblioteca. Lorenzo, tornato duca, con cinquemila cavalli e infiniti carriaggi passò in Francia per isposare Maddalena Della Torre d’Auvergne, e v’ebbe feste indicibili, altrettante ne fece a Firenze; ma presto di tormentosa e forse vergognosa malattia morì (1519 28 aprile), lasciando unica figlia Caterina, che poi diventò regina di Francia in Enrico II, e il bastardo Alessandro, che fu poi duca; nomi entrambi diffamati. Il ducato d’Urbino rimase incorporato al patrimonio di san Pietro. Firenze vide in quella morte la propria libertà, attesochè il papa più non aveva in casa chi porvi principe; ma egli vi mandò governatore il suo cugino cardinale Giulio, nel tempo stesso gratificandola col donarle la fortezza di San Leo e il Montefeltrino in compenso delle grosse spese sostenute nel ricuperare l’Urbinate. Gianpaolo Baglione, che utilissimamente avea servito papa Giulio, poi i Veneziani contro la lega di Cambrai, tornato in patria al cessar della guerra, vi esercitava la tirannide; e Leone X, voglioso di ricuperare quella città, lo chiamò a Roma con un salvocondotto di proprio pugno, e quivi lo fece prendere e decapitare. Fermo pure fu tolta al Freducci che la tiranneggiava, e che combattendo per difendersi morì. Non pochi furono messi alla tortura, dove, confessando i delitti di cui nessuno era immune, comparivano degni di morte. Di ciò sgomentati gli altri signori delle Marche affrettarono a sottoporsi. Sappiamo che l’imperatore Massimiliano aveva investito Modena al duca Alfonso d’Este, il quale privatone poi per titolo di ribellione, studiava continuamente a ricuperarla, quand’esso imperatore la vendè a Leone X per quarantamila ducati d’oro, ch’erano appena la rendita di un anno. Secondo l’ultima pace, il papa avrebbe dovuto restituirla ad Alfonso con Reggio, ma, non che tener la promessa, tentò anzi spogliarlo di Ferrara, e nol potendo a forza, praticò di farlo avvelenare: se non che un Tedesco di cui si era valso il rivelò, ed Alfonso ne fece fare processo, che spedì al papa senza altro aggiungere. Domò colla forza o colla perfidia i capi, alzatisi al cadere del Valentino; anche al sacro collegio strinse il freno non solo col nominarvi d’un colpo trentun cardinali, mentre a dodici soli erano ridotti, ma non risparmiando i membri di esso. Il cardinale Alfonso Petrucci, figlio di quel Pandolfo che lungamente governò la repubblica sanese, fedele ai Medici nella sventura, s’invelenì col papa perchè avesse fatto cacciar di Siena suo fratello Borghese, fattosene signore, e cercò farlo avvelenare da Battista di Vercelli chirurgo. Scoperta l’ordita, il papa si finse malato, e quando il Petrucci andò a trovarlo, il fece prendere e decapitare in castel Sant’Angelo, squartare il medico, il segretario ed altri; perpetua prigione ai cardinali complici Bandinelli de’ Santi e Rafaello Riario, che poi a denari ricuperarono la dignità. Massimiliano, rimasto solo in ballo, aderiva finalmente al trattato di Noyon (1517 4 xbre), lasciando Verona ai Veneziani, e conservando Riva di Trento, Roveredo e quanto aveva acquistato del Friuli. Solo allora potè dirsi finita la guerra suscitata dalla lega di Cambrai; e Venezia, a cui danno erasi congiurata tutta Europa, ricuperava nella pace quanto avea perduto in una sola battaglia, poi ricercato con otto anni di guerra. V’erano stati uccisi migliaja d’uomini d’ogni nazione, sobissato il commercio nostro, Italia esposta ai Turchi ed agli ambiziosi, che presto vennero a recarle mali più fieri e più durevoli. Poco tardava anche Massimiliano a finire una vita (1519 19 genn.), passata fra gravi disegni e inette attuazioni; senza denari e pur prodigo; di coraggio cavalleresco nelle battaglia e tutt’immaginazione ne’ consigli, attento ad ogni via d’ingrandir sè e casa sua, fino a pensare di buon senno a farsi eleggere papa. CAPITOLO CXXXIII. Francesco I e Carlo V. Gli storici. I Turchi. Filippo il Bello, figliuolo di Massimiliano cesare e di Maria di Borgogna, avea sposato Giovanna (1506), unica figlia di Fernando il Cattolico e d’Isabella; ed essendo egli morto di vent’otto anni, rimaneva successore Carlo suo figlio. Il quale così dall’ava paterna ereditava gran parte dei Paesi Bassi e la Franca Contea; dalla madre i regni di Castiglia, Leon e Granata; dall’avo materno quei di Aragona e Valenza, le contee di Barcellona e del Rossiglione, i regni di Navarra, Napoli, Sicilia, Sardegna; poi da Massimiliano d’Austria la Stiria, la Carniola, il Tirolo, la Svevia austriaca; aggiungetevi un lembo dell’Africa settentrionale e mezza America, talchè potette vantarsi — Sui miei regni mai non tramonta il sole». Si presentò anche a domandar la corona imperiale: ma, a tacere gli altri, competea Francesco I re di Francia, l’eroe di Marignano, a cui l’altro dava il titolo di _mio buon padre_; e mandava suggerire agli elettori germanici non perpetuassero in casa d’Austria una corona elettiva, che già vi stava dal 1438; disennato chi, sovrastando i Turchi, esitasse, al minacciar di tale tempesta, al confidare al più valente il governo dei vascello. Ma appunto i talenti da Francesco mostrati il faceano posporre dai principi tedeschi, che, avvezzi a operare di propria voglia, temevano che il Francese non portasse le abitudini del regnare assoluto in impero temperato. Carlo V, sebbene i prudenti gl’insinuassero d’accontentarsi alla Spagna e assicurarsene il pericolante dominio; Carlo, a cui tra via giunse l’annunzio che Ferdinando Cortes gli avea nel Messico acquistato un nuovo impero ch’egli mai non vedrebbe, brigò meglio dell’emulo; e sebbene papa Leon X mandasse avvertire gli elettori, essere di prammatica che il re di Napoli non fosse anche imperatore, meglio valse Margherita zia di Carlo (p. 189), la quale piantò regolare mercato di voti, facendone centro i Fugger di Augusta, ch’erano banchieri poderosissimi quanto quelli di Firenze e di Genova senz’averne l’ambizione, contentandosi di guadagnare in di grosso e d’avere assicurati i loro prestiti. Ma Francesco non potea dare che la parola di re: Carlo impegnava i pedaggi che le navi retribuivano entrando nella Schelda, e ch’erano esatti dalla città d’Anversa, e da questa versati alla banca d’Augusta, la quale scontava a contanti le promesse fatte agli elettori[155]; e così per oro fu prescelto l’Austriaco ad imperator romano (1519). Violento dispetto concepì Francesco nel vedere la precoce sua gloria punita col preferirgli questo giovane sconosciuto, menato da ministri, sorretto dall’intrigo; e ne cominciò la rivalità più famosa e micidiale delle storie moderne, più accannita perchè d’amor proprio anzichè d’interesse, e che, complicata dalla Riforma religiosa, concentra sopra due grandi Stati e due grandi uomini l’attenzione, la quale nel secolo precedente restava sparpagliata fra tanti piccoli. Dei due giovani arbitri d’Europa, uno erasi già manifestato guerresco, l’altro propendeva a politica e girandole. Francesco, bello, coraggioso, eloquente, amabile, tutto francese di qualità e difetti, e amato per questi non men che per quelle, circondato da uno sfarzo non di nobili ma di favoriti che gl’impedivano di conoscere il popolo, arieggia ancora de’ Paladini del medio evo, ed ambisce il titolo di _primo gentiluomo di Francia_. Carlo, senza gli avvantaggi fisici dell’emulo, freddo, positivo, di lunghi divisamenti, rappresenta un re moderno; di qualità variatissimo come il suo dominio, fiammingo per nascita, tedesco per prudenza, spagnuolo per gravità, italiano per buon senso; sapeva, al dire di Marin Cavallo ambasciadore veneto, piacere a’ Fiamminghi e Borgognoni colla famigliarità, agli Spagnuoli col contegno, agl’Italiani coll’ingegno e la disciplina. Francesco le apparenze e lo splendore, Carlo volea la sostanza e riuscire; quello affettava scrupoli d’onore, questo la semplice lealtà della sua famiglia: ma nè l’uno nè l’altro si facea coscienza di mancarvi qualvolta metteva l’interesse, da buoni contemporanei del Machiavelli. Francesco oziava ogniqualvolta non fosse spinto dalla necessità e da un pericolo immediato: Carlo non riposa mai, e col viaggiare continuo riavvicina gli sparsi dominj. Egli profondo conoscitore degli uomini, scurante dell’adulazione quanto favorevole al merito, si tiene amici i generali senza lasciarli arbitri: alle donne concede sì poca ingerenza, che mai non si conobbe la madre de’ suoi bastardi: si mostra scarco fin de’ sentimenti della natura, avendo la madre pazza, disautorizzando la zia educatrice, ascondendo i proprj figliuoli. Francesco aggrava i sudditi per isprecare in magnificenze e in un libertinaggio senza delicatezza; affida i comandi ad immeritevoli; per intrighi di donne o puntigli di corte disgusta il Borbone, il Doria, il principe d’Orange, che l’oculato nemico s’affretta a trar sotto le sue bandiere. Le guerre più prospere di Carlo furono combattute da’ suoi generali, ma la politica di lui le diresse sempre; politica non di sentimento ma d’interesse, onde Bernardo Navagero rifletteva, ch’egli fu a vicenda l’amico e il nemico di tutti gli altri sovrani; e nell’arte di menare un intrigo, promettere, eludere, corrompere, superava di gran lunga il re soldato, che col voler combattere in persona complicò e corruppe le fortune del suo paese. Riflessivo sin da ragazzo e pronto di vedute, Carlo si mise attorno persone di gabinetto, ma a nessuno abbandonandosi: inesorabile, circospetto, prendeva norma dal vantaggio personale, e sapeva aspettare, conforme alla sua divisa _Non dum_. Le facili conquiste dell’America doveano esaltarlo sin a fargli abbracciare tutto il mondo nella sua ambizione; e trovandosi il maggior potentato d’Europa, a contatto con tutti i paesi, e con tutti avendo alcun appiglio, poteva ben agognare una monarchia universale, se non come dominazione immediata, almeno come supremazia. Tale idea gli venne fomentata da vittorie più felici che meritate, le quali abbagliarono i contemporanei, e trassero i sudditi in quello sbalordimento, ove la cieca obbedienza del soldato è riputata eroismo, e onorevole qualunque via purchè rechi vantaggio e gloria al padrone[156]. Ma Carlo non era più l’imperatore sacro del medioevo, nè ancora il costituzionale de’ tempi moderni; ed era pregiudicato dall’estensione medesima de’ suoi paesi, che disgiuntissimi, varj di natura, e nessuno in assoluta sudditanza, gli misuravano a miseria il denaro e l’obbedienza. Francesco avea regno arrotondato, più indociliti i signori, più accentrato il potere, una fanteria nazionale invece de’ mercenari, il clero in dipendenza, coordinata l’amministrazione nel modo meglio opportuno per far denaro con minore aggravio de’ sudditi; onde domandato da Carlo quanto gli rendesse il suo regno, rispose assolutamente: — Quanto voglio»[157]. Non taciamo, a rivelazione de’ tempi, che Francesco si alleò coi Turchi, ed espose l’Europa a una invasione di questi Barbari; contro i quali Carlo costantemente stette sulla breccia. Nella pace stipulata a Noyon, Napoli confermavasi alla Spagna; gli altri diritti si ponevano in tacere collo sposare a Carlo V una bambina di re Francesco: ma troppi rimanevano elementi di disaccordo fra i due emuli ambiziosi. A dir solo dell’Italia, Francesco trovavasi, pel ducato di Milano, sottomesso all’alto dominio dell’imperatore rivale, il quale ben tosto lo pretese come feudo vacante, non meno che la Borgogna; domandava per sè la corona delle Due Sicilie, che le convenzioni papali, fin dal tempo degli Svevi, impedivano di tenere unita all’Impero. Leone X, benchè tante morti togliessero gli oggetti di sue domestiche ambizioni, si struggeva di segnalare il suo pontificato con qualche acquisto, come sarebbe quel di Ferrara; rimuginava le smanie di Giulio II di liberar l’Italia dai Barbari, e sperava farlo col lasciare i due re logorarsi a vicenda. Posto in mezzo a Stati svigoriti dalle passate guerre, mentre il suo era cresciuto dalle conquiste di Alessandro VI e Giulio II e dalle proprie, arbitro della repubblica fiorentina, ricco de’ contributi di tutta cristianità, Leone avrebbe potuto tener la bilancia fra i due contendenti e assicurare l’indipendenza italica; ma privo d’elevatezza nelle sue ambizioni, la pericolò col fomentare la guerra, e smaniato d’ingrandire sua casa, e intimorito che i due re si collegassero a ruina della Chiesa e di Firenze, pensò meglio mettersi coll’uno. Preferì il re di Francia, stipulando che, acquistato il regno di Napoli, ne cederebbe alla Chiesa la parte fin al Garigliano, il resto darebbe al secondo suo genito in maniera che non si rompesse l’equilibrio d’Italia. Francesco, accarezzando Leone, chiedea gli levasse al sacro fonte un bambino natogli allora, e dava una principessa del sangue in isposa a Lorenzo II Medici: pure indugiava a restituir Parma e Piacenza, che Leone non rassegnavasi d’aver perduta; onde questi ritornò all’originaria avversione contro i Francesi, e mentre dava parole a Francesco, fece lega con Carlo (1521 8 maggio), dispensandolo dall’impedimento d’unir la corona imperiale colla siciliana; convenendo che il Milanese sarebbe dato a Francesco Sforza, Parma e Piacenza alla Chiesa, come pure Ferrara, togliendola all’Estense; nel regno di Napoli si creerebbe uno Stato per Alessandro, bastardo del suo Lorenzo. Tutto ciò conchiudeva di piatto; e la guerra dovea scoppiare impreveduta a Como, a Genova, a Parma, dappertutto. Però Alfonso di Ferrara insospettito si pose in tal guardia, che non si potè sorprenderlo: Manfredo Pallavicini parmigiano, che d’accordo coi Ghibellini e con alcuni masnadieri dovea sorprendere Como[158], fu côlto dall’inesorabile Lautrec e squartato con molti gentiluomini milanesi suoi partigiani. Allora Leone gettò la maschera, e bandì guerra ai Francesi. A costoro erano divenuti avversissimi i Milanesi dopo il sacco di Brescia e la battaglia di Marignano; e sebbene non vi mancasser poeti codardi che paragonavano Gastone di Foix a una colomba[159], e codardi storici che sostenevano Francesco esser legittimo padrone di Milano perchè era stata fondata dal gallo Belloveso, e le belle dame si trovassero lusingate dal vedersi dipinte per commissione del re francese[160], il popolo aborriva costoro che trattavano il paese come di conquista, smungendone denaro, e sbandendo a torme i ricchi per usurparne i beni. Quel gran numero di fuorusciti faceva l’uffizio loro consueto d’irritare gli animi e scalzare il dominio (1521); e principalmente Girolamo Morone, caldo patriota, intrigante inesauribile, acuto, mentitore, insomma eccellente a cospirare, pasceva di speranze Francesco Maria Sforza, secondogenito del Moro; ai profughi che aveva radunati a Reggio prometteva di là da quel che sperasse; fomentava le scontentezze interne e le gelosie de’ vicini, tanto che in ogni banda si levò il popolo minuto contro i Francesi in gran concordanza di volontà, mentre Prospero Colonna conduceva in Lombardia gli eserciti del papa e dell’imperatore. Vi si oppose il Lautrec, governatore odiato; ma avendo gli Svizzeri ricusato combattere perchè altri loro fratelli servivano nell’esercito imperiale, il Lautrec dovette nascondere le proprie bandiere nel Veneto, e il Colonna, che erasi lasciato sfuggir l’occasione d’annientarlo, favorito dai Ghibellini entrò in Milano (19 9bre). I difensori aveano già spogliato i privati e le chiese; allora i liberatori continuarono dieci giorni una ruba brutale. Como invitò Francesco d’Avalos marchese di Pescara a redimerla dall’insaziabile comandante Vendenesse, e capitolò salve le vite e le robe; ma fu mandata a orrido saccheggio, non volendo il Pescara disgustare i soldati, di cui questo era il premio più aspettato e sovente l’unico soldo; e ricusò la sfida mandatagli dal Vendenesse come a mentitore. Eppure i Lombardi, contenti di sentir proclamare ancora a duca Francesco Sforza, fecero baldorie, assunsero i colori nazionali, e a gara portarono ori e gioje perchè egli potesse pagare i seimila Tedeschi coi quali avea recuperato il paese. Re Francesco procacciossi denari (1522) creando in Francia ventinove cariche da vendere; mandò alla zecca fin il cancello d’argento che Luigi IX avea regalato a san Martino; si fece dalla città di Parigi prestare ducentomila lire al dodici per cento; e così raccolti quattrocentomila scudi, spedì nuovo esercito in Italia. Alla guida di Renato di Savoja e Galeazzo Sanseverino i Francesi passarono le Alpi (1522), e congiuntisi col Lautrec che avea tenuto in continuo disturbo il contado, assalsero Milano. Ma il Colonna l’aveva munita stupendamente; il Morone, con false lettere e colla voce di predicatori infervorava contro i Francesi. Luigia di Savoja, madre del re, per fare onta al Lautrec fratello della odiata Chateaubriand, trovò modo di far passare ne’ proprj forzieri i denari ad esso spediti, talchè egli rimase sprovvisto; e quando gli Svizzeri ammutinati chiedeano paga, congedo o battaglia, esso fu costretto combattere alla Bicocca tra Monza e Milano, e sconfitto (29 aprile) dal Colonna, dal Frundsperg, da un grosso di giovani milanesi, che per l’indipendenza non sapeano adoprar soltanto parole, e abbandonato dagli Svizzeri, sgombrò la Lombardia per andare in Francia a scagionarsi d’averla sì mal governata e sì rapidamente perduta. Lo Sforza ebbe il ducato, ma esausto da eserciti siffatti e dalla prepotenza di chiunque si sentiva abbastanza forte per disobbedire. Milano era stata messa a ruba dopo la battaglia della Bicocca; ora gli Spagnuoli che il Colonna avea mandati nell’Astigiano per alleviare il Milanese, devastato tutto quel contado e il Vigevanasco, si ritorcono sopra Milano chiedendo i soldi o saccheggio, e fu forza chetarli con centomila ducati. Nell’universale abbattimento che segue a mali irrimediabili, solo il Morone sosteneva il coraggio del duca e dei sudditi, e prese Asti ed Alessandria. Venezia fe’ pace coll’Austria. Anche Genova, assalita dall’instancabile Colonna, sebben difesa dal doge Ottaviano Fregoso, dovette venire ad accordo. Il marchese di Pescara, che col Colonna era spesso a puntigli, e massime sul disputare chi dei due avesse espugnata Milano, indispettito che i Genovesi trattassero coll’emulo, volle si desse l’assalto alla città (30 maggio), ed espugnatala, fu sistemato il modo di saccheggiarla. Prima doveano andarvi gli Spagnuoli, poi gl’Italiani, in appresso i Tedeschi, infine le genti dei Fieschi e degli Adorni. Gli abitanti de’ quartieri di Santo Stefano e del Bisagno assalgono quegli sparpagliati e ubriachi; ma non fanno che rubare anch’essi. «Ed era tanta la ricchezza e burbanza loro, che non attesono a tôrre se non gioje, perle, argenti d’ogni sorta in quantità, non perdonando a chiese e monasteri; e denari assai e tutti i drappi e tabi e ciambellotti. E inoltre usarono un’altra astuzia, che presero tutti gli _schiavi_ e _schiave_ di Genova; e questo fece un danno grande, perchè insegnavano le gioje e denari e arienti; e le mule caricavano di roba sottile, ed eziam gli schiavi e schiave menavano via cariche per modo che non si poteva stimare il tesoro che ne cavarono. Fu tenuto tal sacco cosa miracolosa piuttosto che umana, e per la loro superbia in cui erano venuti, e massime di vestire e di conviti, che usavano dire: — Zena piglia Zena, e tutto il mondo non piglia Zena. E Iddio mostrò che chi confida in altro che in lui, è spacciato» (CAMBI). Il Colonna passò a punire i marchesi di Monferrato e Saluzzo del favore dato ai Francesi, i quali restarono esclusi un’altra volta dalla Lombardia, salvo i castelli di Cremona e Milano. Il sinistrare de’ Francesi lasciò scoperto Alfonso d’Este, contro di cui papa Leone avventava monitorj, e lo storico Guicciardini conduceva gli eserciti. Alfonso munì le fortezze, comprò Tedeschi, ma sentivasi in gravissimo caso, quando repente si ode che Leone morì (1521 1 xbre) di quarantasette anni, non senza sospetti gravissimi fra tanti nemici; e le pasquinate dissero: — Salì strisciando da volpe, regnò da Leone, morì da cane». Subito la fortuna si cangia: Alfonso fa coniar medaglie col motto _Ab ungue leonis_, e ricupera il perduto; Francesco della Rovere rientra desideratissimo in Urbino; il legato Medici e il cardinale Schinner di Sion, che facevano portare le loro croci d’argento avanti alle ciurme de’ bestemmiatori e ladri svizzeri, si staccano da Carlo V che non poteva dar denaro ad essi, costretto a consumarlo nel reprimere il Belgio, la Castiglia e la Valenza sollevate. Restò dunque interrotta la fortuna degli Imperiali, che non poterono occupare lo Stato ecclesiastico e avvicinarsi alla monarchia d’Italia, come gliene dava facilità l’agitazione della vacanza e del conclave. Perocchè alla morte d’un pontefice, tre cardinali ciascun mese esercitavano la suprema autorità; ma, oltrechè spesso eran fra loro dissenzienti, ogni rinnovarsi di essi portava cambiamento di persone, d’intenti, di politica, e su quello stare si lasciavano prepotere i signorotti. Tutti i creati di casa Medici favorivano il cardinal Giulio cugino del defunto; i vecchi mal soffrivano il prevalere di questo giovane; talchè, non potendo accordarsi, cumularono i voti sopra uno (1522 9 genn.), ignoto a tutti, ma lodato per virtù, e intemerato dalle colpe comuni, che fu Adriano di Utrecht, già maestro di Carlo V, e allora governatore della Spagna[161]. Conservò il suo nome, e benchè la peste, che formava tristo e perpetuo sfondo alle miserie di quel tempo[162], avesse ucciso seimila cittadini e disperso gli altri, volle entrare in Roma ed esservi coronato; e subito manda gente a ricuperar le terre usurpate, e sperdere le masnade formatesi nella vacanza. Persecutore per zelo, diffida dei cardinali perchè li conosce corrotti, ma con ciò è ridotto ad abbandonarsi affatto ai pochi in cui crede. Estraneo agl’interessi italici, ignorante de’ garbugli politici, e amator della pace, credette poterla condurre coll’assolvere e ripristinare i duchi d’Urbino e di Ferrara; s’adoprò a riconciliare Francia e Spagna: ma Carlo V lo querelò di mancata amicizia; Francesco I credeva impegnato l’onor suo a ricuperar Milano e s’allestiva d’armi, onde il papa si pose a capo d’una lega coll’imperatore, il re d’Inghilterra, l’arciduca Ferdinando d’Austria, Firenze, Genova, Siena, Lucca, a sterminio di Francia. Sommo acquisto fu per essi il connestabile di Borbone di Montpensier: nato da una Gonzaga e da padre morto vicerè di Napoli (Cap. CXXVIII f.), alla battaglia di Agnadello aveva avuto il posto d’onore, cioè la carica per fianco sull’esercito italiano, che decise della vittoria; poi disgustato che il re tentasse sminuir le sue, come le altre grandi fortune feudali, desertò da lui a Carlo V, obbligandosi a levare nelle proprie terre trecento uomini d’arme e cinquemila fantaccini. Per tali minaccie impedito dal venire in Italia, Francesco affidò un bellissimo esercito di mille ottocento lancie, duemila Grigioni, duemila Vallesani, seimila fanti tedeschi, dodicimila avventurieri francesi e tremila italiani[163], ad uno strisciante e inetto cortigiano, l’ammiraglio Gouffier di Bonnivet. Povera Italia, come fu spasmodica la sua agonia! La cacciata de’ Francesi non avea recato verun ristoro, perchè gl’imperiali, non pagati altrimenti, doveano vivere a discrezione rubando e taglieggiando città e terre secondo il bisogno, e fin gli Stati indipendenti. Quegli eserciti d’ogni genìa non portavano solo i guasti generali della guerra, ma non v’era terricciuola, non casa privata dove non recassero miseria, ferite, stupri; talchè, oltre il dissipamento delle forze, delle vite, delle ricchezze, gli affetti domestici erano avvelenati da tante violazioni. I signorotti nostrali, Colonna, Pallavicini, Martinengo, Barbiano da Belgiojoso, Scotti, Pio, Fregosi, Rangoni, i quali pel tempo addietro s’erano colle armi procacciato un dominio, allora per mantenerselo vendeano il braccio, e senza fede cercavano il favore or dell’uno or dell’altro, chi la bandiera di Francia spiegando, chi dell’Impero, nessuno la nazionale. Il popolo, come chi sta pessimamente, in un sovvertimento di tutta Europa sognava il suo meglio e il ristauro dei diritti di ciascuno. I Ghibellini, oltre le reminiscenze classiche, si ricordavano che la libertà qui era fiorita sotto il nome imperiale, e speravano che Carlo V la ripristinerebbe. I Guelfi, in ansietà per tante armi adunate, confidavano però nella Francia, in Firenze armata, in Venezia intatta, nel papa che non vorrebbe far ridere i Luterani. Intanto gli uni e gli altri pativano deh quanto, e facevano il callo alla servitù. I più disamavano Carlo V e come imperatore, cioè erede d’antiche pretensioni; e come tedesco, cioè del paese donde allora l’eresia veniva a scassinare la potestà pontifizia; e come fiammingo, cioè di gente emula della nostra per commercio; e come spagnuolo e padrone di quel Nuovo mondo, che a noi avea tolto lo scettro dei mari; e perchè dappertutto favoreggiava i governi stretti. Malgrado dunque di tante esperienze, i Francesi erano guardati come liberatori. E vaglia il vero, essi non presero mai a sterminare di proposito, nè per calcolo recavano ingiurie e danni; re Francesco avea avuto educazione tutt’italiana da Quinziano Stoa; a’ suoi figli scelse maestro il genovese Tagliacarne (Theocrene), e favoriva artisti e letterati nostri. Però a Milano sosteneva l’odio contro di Francia il Morone: frate Andrea Garbato agostiniano eccitava a tener monda da Barbari la patria; se i Gentili lo faceano per sola speranza di gloria, i Cristiani pensassero alla vita immortale. Ma sprovvisti com’erano e colle mura sfasciate, sarebbero i Milanesi caduti ai nemici, se il Bonnivet, che giunto a San Cristoforo e a Chiaravalle (1523 7bre) lungamente assediò la città, benchè a capo di sì poderoso esercito, non avesse professato disapprovare la furia solita di sua gente; e in conseguenza perduto le occasioni del vincere nemici, i quali non poteano confidare che nelle abilissime manovre. Generale in capo di questi era Prospero Colonna, il capitano più prudente del tempo, che aveva insegnato a difendere ed oppugnar le piazze secondo l’arte moderna, vincere per sole marcie e posizioni senza battaglie, e risparmiare il sangue de’ suoi. Ma egli languiva di lunga malattia, alla quale infine soccombette; e Carlo di Lannoy vicerè di Napoli surrogatogli ebbe tempo di rannodare gl’imperiali, e col Borbone e col marchese di Pescara ravvivò la guerra. Campeggiava con essi Giovanni de’ Medici, uno dei capitani più rinomati. Turbolento e sanguinario fin dalla fanciullezza, quando Leon X lo chiamò a guerreggiare il Della Rovere d’Urbino, formò una banda, ridestando il mestiere delle armi caduto in disuso, e fu lui «che rinnovò la milizia delle lancie spezzate, la quale si fa di uomini segnalati e bene stipendiati, i quali a cavallo e a piè seguono sempre la persona del loro capitano senz’essere ad alcun altro soggetti; e di questi tali nascono uomini di gran reputazione e autorità, secondo il valor loro e la benevolenza del signore»[164]. Con incessanti esercizj e severa disciplina teneva i suoi, a’ quali portava un affetto di padre, benchè nelle escandescenze ammazzasse or questo or quello; e li voleva forniti d’armi e cavalli eccellenti. Compiacendosi del pericolo, non diceva alle truppe _Andate innanzi_, ma _Venitemi dietro_, ed essi il seguivano anche quando non avesse di che pagarle. Avendo un corpo di ducento Svizzeri ucciso un suo capitano, esso li battè, e ricevutili a patti, sotto la sicurezza gli uccise tutti. Morto Leon X, fece prendere il bruno a’ suoi soldati, ond’ebbero nome di _Bande nere_, e le menò a proteggere Firenze dal duca d’Urbino, poi servì la lega in Lombardia, e disgustatone, si voltò ai Francesi. Dai quali era riverito a segno, che avendo i Grigioni fattogli qualche affronto, gli obbligarono a chiedergliene scusa in ginocchio; essendo ferito, il re andò a trovarlo, e il marchese di Pescara gli concedette libero passo traverso a’ suoi accampamenti, acciocchè più presto fosse trasferito a Piacenza. Preti e frati cuculiava, e se taluno n’incontrasse su buon cavallo, gliel cambiava con un ronzino. Eppure non dormiva solo per paura del folletto. «Se le Bande nere erano la migliore e più reputata fanteria e la più temuta che andasse attorno in quei dì, erano anche la più insolente e la più rapace e fastidiosa» (_Varchi_): ma essendo l’unica milizia indipendente italiana d’allora, vi si arrolavano anche giovani generosi; e il Machiavelli sperava che costui potesse rizzar bandiera propria, e col denaro del papa formarsi una signoria indipendente da Francesi e Spagnuoli. Su di chi mai erano ridotti a far conto gl’italiani! Ma cotesti bravi son braccia, non teste; e Giovanni sperdeva l’attività in imprese inconcludenti. Il Bonnivet, lasciatosi a Robecco tôrre in mezzo dal Pescara (1524), e non ajutato dagli Svizzeri, fu costretto ritirarsi in piena rotta, e ferito anche al passar della Sesia, commise l’esercito a Bajardo. Questo, obliando i torti, assunse il comando e regolò la ritirata: ma presso Romagnano colpito a morte (30 aprile) da un’archibugiata, volle esser appoggiato ad un albero colla faccia rivolta al nemico, e faceva preghiere e contrizioni all’elsa della spada foggiata a croce. Trovollo in quest’atto il Borbone, e lo compassionava; ma egli, — Non io son degno di commiserazione, che muojo da uom da bene; voi bensì, che servite contro il principe, la patria e il giuramento». E spirò, e dopo molte altre fazioni, i Francesi se n’andarono ancora una volta dall’Italia. Abbondanti di valore, ottimi soldati, uffiziali cavallereschi, difettavano d’ordine, di prudenza, di sufficienti apparecchi, di quella previdenza che fa men funesti i disastri. Era dunque raggiunto lo scopo delle due leghe; eppure i vincitori non ridevano. Il paese del mondo più ubertoso, lor mercè trovavasi a tale, che a fatica vi si potevano sostentare, e per vivere doveano condur gli eserciti su terre altrui, massime di Romagna, e gravare di contribuzioni sudditi ed amici; convincendo l’Italia che da tanto soffrire essa non conseguirebbe altro che di cambiar padrone. E noi tanto ci badammo intorno ad eventi di pochi anni, perchè è sempre interessantissimo a studiare il momento in cui una nazione si trasforma; e perchè, eccitato il senso storico, siccome avviene all’avvicinare delle gravi crisi, molti tolsero quasi a gara a raccontar que’ fatti, meditare sulla loro natura, e cercarne la concatenazione. Più non si tratta dell’ingenua esposizione de’ cronisti, bensì di racconti disposti con arte, esposti con cura, proposti a provare un tema o favorire una causa, o a sfoggio di letteratura: sicchè sono collocati tra i modelli non solo della nostra, ma delle altre nazioni. Dell’indipendenza, che vorrebb’essere il carattere primo di tali scritture, han talora l’apparenza; la realtà mal potea aspettarsene fra il cozzar delle passioni e sotto la protezione de’ grandi: pure nei più senti l’alito repubblicano, e fin chi si vende ostenta di pensar franco e parlare risoluto. Cammina a capo di tutti Francesco Guicciardini fiorentino (1540), giureconsulto, ambasciatore in freschissima età, poi guerriero, adoperato ne’ governi di Romagna, luogotenente generale dell’esercito pontifizio contro Carlo V. Dagli ignobili comporti verso la sua patria disonorato, e mal ripagato dai tiranni di essa, tra per giustificarsi e per tramandare all’avvenire il proprio nome con miglior lode, prese a compiere in un sol anno un’opera già meditata nel tumulto degli affari, la storia d’Italia dalla calata di Carlo VIII al 1534. In molte delle vicende che narra, potè dirsi attore; le altre non si fa coscienza di copiare alla lettera[165]: ma congiunge le due qualità di storico compiuto, saper vedere e saper dire; introduce la discussione, l’indagine delle cause e delle conseguenze; la franchezza di giudizio e l’elevatezza del pensare il fanno primeggiar fra coloro che nella storia dan risalto a un personaggio, a un avvenimento, a uno scopo, coll’addensare le ombre sulla folla innominata; nè altro moderno si accosta tanto agli antichi per magnificenza d’esposizione, stile costantemente dignitoso, colta armonia, lingua pretta, e disimpacciata d’arcaismi e di vulgarità. Se non che l’imitazione evidente d’essi antichi lo getta alla retorica pomposa, a prolisse parlate, a descrizioni esanimi, a mescolare l’affettato col naturale. Stendeva dapprima i racconti, riservandosi ad inserire poi le parlate, così artifiziosamente finite, e che nessuno legge; talchè negli ultimi quattro libri, che non terminò, n’è tanta carestia, quanta sovrabbondanza ne’ primi cinque forbitissimi. L’imitazione stessa lo porta a usare, non che parole e frasi indeterminate, ma sentimenti che oggi sono o incomprensibili o ridicoli[166]. Coll’abitudine di causidico dà importanza a lievi particolarità, mentre sorvola ad importantissime; senza badare a proporzione, si dilaga in alcune narrazioni speciali; e manca sempre di quella rapidità, che in ogni stile è necessaria, e più nello storico. L’essere spessissimo ristampato, tradotto in tutte le lingue, citato fra i modelli, prova aver lui altri meriti che dello stile, i quali nella versione vanno perduti: ma a noi pare lontano dalla calma maestà di Tucidide, quanto dalla pienezza di questo, da quei caratteri sì bene improntati, da quelle pitture della vita. E moltissimo noi abbiamo ad imparare dal maggiore storico nostro, ma sovrattutto che arte retorica non giova a mascherare le nequizie dei principi o le bassezze degli autori. Ai forestieri mostrasi sempre avverso, ma principalmente ai Francesi. Tutto classico, è incomparabile nell’analizzare gl’interessi della vecchia Italia e le astuzie de’ capi, ma come vede fallire il fatto per lui più ammirevole, la lega del 1484, poi tutti gli sforzi di Venezia, di Firenze, di Milano, piglia dispetto piuttosto che dolore, e divien freddo, ironico. Ne’ fatti della Chiesa è quel che oggi direbbesi un franco pensatore, trattando i papi non altrimenti che gli altri principi, e spesso a torto li accagiona de’ mali d’allora; benchè grandi benefizj n’avesse avuti, ma forse (riflette Apostolo Zeno) non tanti quanti ne sperava[167]. Versato in sozzi maneggi, ricco d’intime relazioni e di proprj giudizi, scruta acutissimo; le generali osservazioni applica rettamente: nè applaudendo nè indignandosi, ma con un’imparzialità che si risolve in trista indifferenza, fa vivo ritratto della politica e della società. Orrido ritratto, ove virtù non riconosce mai, nè religione nè coscienza, ma ambizione, interesse, calcolo, invidia; crede che il denaro e le cariche seducano qualunque onestà; e in fatto nel senato patrio egli parteggiava sempre con gli oligarchi, e con quelli che, a forza di rinnegare, sanno rimaner sempre a galla. Sciagurato rinomo acquistò Paolo Giovio comasco (-1559), vescovo di Nocera, che in buono sebbene non purissimo latino e più sonoro che elegante, delineò largamente il quadro dell’Europa dal 1494 al 1547. La sua posizione gli diè campo a conoscere molti fatti, ignoti altronde: ma sono appunto quelli in cui meno gli si crede; perocchè, passionato e venale, vagola continuo tra panegirici o diatribe. Poco crede alla generosità; la morale pervertisce col voler giustificare le ribalderie de’ suoi eroi: il vescovo di Pavia cade assassinato, ed esso gli scaglia una codarda invettiva per discolpare il duca d’Urbino; don Gonsalvo tradisce il Valentino, ed esso ne lo scagiona; una volta, avvertito d’avere esposto il falso, — Lascia pur ire (rispose), chè da qui a trecent’anni tutto sarà vero». I trecent’anni scorsero, e gli è strappato quell’alloro, che cresce alle contraddizioni dei forti e alle lagrime de’ sofferenti. Ma ciò che lo discerne tra gli storici del Cinquecento, dopo Machiavelli e Guicciardini, dopo Lutero e il duca di Borbone, è la venerazione per Roma papale, il mostrarne l’importanza, il crederne l’immortalità. Quando mai i papi furono più grandi di Leone X? Quando l’alleanza della tiara colla corona fu più salda, più necessaria alla Chiesa, più utile all’Italia? Dove il genio e le arti trovarono asilo migliore che nel Vaticano? La nazione, calpesta da Francesi, da Svizzeri, da Spagnuoli, da Tedeschi, a che sarebbe ridotta se non la rappresentasse il papa? non è egli il solo davanti a cui i re pieghino il ginocchio? non esso che toglie la possibilità sia di una conquista interiore e d’una micidiale unità, come d’una conquista esteriore? A tali concetti dovea repugnare il suo libro VII, ove raccontava il sacco di Roma: e perciò egli protesta che gli fu rubato; e dee crederlo chiunque non conosce l’onestà di monsignor Paolo, e non vide i manoscritti che restano in casa Giovio a Como. Firenze abbondò di storici. Giacomo Nardi fu caldo propugnatore dell’indipendenza patria; spenta la quale, esulò a Venezia, e formatosi col tradurre Tito Livio, scrisse gli avvenimenti dal 1492 al 1531, splendido di sentenze, caldo di dettatura, e colle ire d’un profugo, ma il Varchi lo chiamava suo padre, e il Guicciardini, benchè di taglia opposta, lo consultò sulla propria storia. Ama i governi della classe media, e pargli che dall’aggregato cittadino «confuso e di sua natura pernizioso, tolte via le due estreme parti, cioè il capo e la coda, il corpo di mezzo resterebbe molto utile e proporzionato alla costituzione d’una perfetta repubblica». Al contrario, patrocina i Medici Filippo Nerli senatore ne’ _Commentarj de’ fatti civili_ di Firenze dal 1215 al 1537. Bernardo Segni gentiluomo, corretto scrittore, non elegante, parteggiò coi moderati e con Nicolò Capponi gonfaloniere suo zio, del quale scrisse la vita: raccontò i tre anni in cui Firenze stette libera, per mostrare «quali sieno i costumi de’ cittadini fiorentini nella libertà, acciocchè quelli che succedono non ponessero molte speranze nella gloria e nella dolcezza del vivere libero»: proseguì poi fino alla presa di Siena, con poca arte d’intreccio e di passaggio, ma candidezza d’animo come di stile, non uscendo da quella moderazione, ch’è sì rara in chi ragiona di contemporanei. Dell’opera sua avea fatto mistero a tutti, e sol dopo morto trovata, non vide la luce che nel secolo scorso, siccome quella del Nerli. Non come i tre precedenti testimonio oculare, ma o sopra documenti nuovi, o sopra lettere di Giambattista Busini (le quali furono pubblicate poi nel 1822), Benedetto Varchi (-1565) tirò una storia dall’ultima proclamazione della libertà fiorentina sino al ducato di Cosmo I. Già in rinomo come letterato, benchè avesse coi repubblicani diviso le speranze, le persecuzioni, l’esiglio, ebbe l’incarico di questo racconto e documenti e stipendio dal duca, a cui leggeva man mano l’opera sua: pure non seppe tanto dire e tacere che l’accontentasse, e si fece opera di sopprimere il suo libro, che sol tardi fu pubblicato. E’ dice aver presi a modello Polibio e Tacito, ma sta troppo lontano dal giudizio di quello e dalla concisione di questo; e dilombato come quasi tutti gli scrittori del Cinquecento, accumula non isceglie le particolarità, a segno da riuscire pesantissimo a leggere; benchè riferendo ogni minuzia, ogni discorso, ci faccia vivere veramente tra quegli ultimi Fiorentini. Non ismentisce mai l’amor suo per la patria; se non dice, lascia indovinare le arti per cui la libertà fu divelta, e Firenze «divenne, di stato piuttosto corrotto e licenzioso, tirannide; che di sana e moderata repubblica, principato»; e se specula l’avvenire, non trova ai disastrosi sovvolgimenti d’Italia altro termine, se non che un principe prudente e fortunato arrivi a dominarla. Il miglior racconto dal 1494 al 1529 ci è offerto da Jacobo Pitti, che compila spesso gli antecedenti, ma con giudizio; benchè avesse tessuto l’apologia de’ Cappucci e le lodi dei Soderini, non nega lode ai Medici, ma riprova e Machiavelli e Guicciardini e gli altri venduti. La storia de’ suoi tempi di Giambattista Adriani è una continuazione del Guicciardini fino al 1574 in cui l’autore morì, dopo aver combattuto per la sua Firenze, poi insegnato eloquenza a Padova: e se è vero che i materiali gli fossero dati dallo stesso Cosmo de’ Medici, potè ritrarne molti fatti ignoti ad altri, e pur non sagrificare affatto la propria franchezza. Scipione Ammirato da Lecce (-1601), conoscendo «non poter raggiungere nè la schiettezza e purità della lingua de’ Villani, nè la gravità dei concetti dell’Aretino, nè l’arguzia e destrezza del Machiavelli, nè la grandezza e nerbo del Guicciardini, nè la lieta e gioconda abbondanza del Giovio», cercò superarli in accuratezza dei tempi e abbondanza di fatti. Meriti secondarj, e dove pure non riuscì sommo, avvegnachè espose in forma d’annali, distribuiti per bimestri, quant’era la durata de’ gonfalonieri di Firenze; letto di procuste, ch’e’ medesimo si fabbricò e del quale sente gli strazj[168], perdendo ogni legame, ogni larghezza di vista e di conseguenze; insulso talvolta nelle riflessioni, adula i Medici perfin negli avi[169]; e benchè di larga e corretta narrazione, manca sempre di anima. Straniero a Firenze era pure Gian Michele Bruto, che viaggiò assai, accompagnò in Polonia il re Stefano Batori di cui scrisse le imprese, fu nominato istoriografo di Rodolfo II imperatore, e pare morisse in Transilvania. Per non essere tentato a vendersi, s’abituò a vivere frugalissimo; e ispirato dai profughi, assunse di vendicare nella lingua più allora diffusa, la latina, i Fiorentini dalle calunniose adulazioni del Giovio, svelando le inique vie per cui i Medici andavano inoculando la servitù a quella repubblica. Avendo veduto molti paesi, potè ampliare le considerazioni più che non gli stipendiati pedanti, dei quali col suo rancore emenda le adulazioni. Riguardo ai fatti proprj di Firenze, il Machiavelli tra i contemporanei non ebbe reputazione quanta gliene attribuirono i posteri per secondi fini[170]; ammirando soltanto Roma e Grecia, foggia su quelle la sua città, e vuol vedere come i nobili soli la reggessero prima, poi per l’orgoglio e l’arroganza soccombessero al medio stato, il quale, cadendo negli errori proprii e de’ predecessori, apre la via al principato. E sebbene talvolta egli faccia nascere da fortuite combinazioni ciò ch’è svolgimento costituzionale, e coll’astrazione e l’accidente tolga alla storia quella vita che palpita ne’ cronisti, va distinto da tutti perchè ne’ fatti non vede soltanto la successività. Ne’ _Discorsi sulle Deche di Tito Livio_ non fa opera da critico o da storico; non accerta i fatti, eppure vuol dedurre teoriche sul governo romano; non che rivelare, nè tampoco sospetta i misteri di quella storia; dal suo autore assume i fatti qualunque sieno, e persino togliendoli dalle arringhe, certamente inventate: ma egli se ne valea come allora usavano i predicatori, per testo a discorsi su varie materie. Non è dunque a rintracciarvi la storia antica, bensì le applicazioni continue, e la conoscenza degli uomini e della società. Nel che non cerca, come Montesquieu, far effetti e antitesi, e sostenere assunti capricciosi con documenti scelti a caso o ad arte; ma si mostra convinto per esperienza propria, e indifferente all’ottener fede o no. Ragionando poi alla famigliare, dà per certa la propria sentenza o la conferma con un sol fatto; e poichè vuol dedurne sentenze universali, facilmente è recato a sostenere la contraria di quella che dianzi propugnò. Un passo restava alla storia; dalle impressioni individuali e dai fatti sconnessi elevarsi all’azione generale, dagli uomini alle forze politiche, all’accordo de’ sociali elementi. Questo indirizzo le diede Machiavelli, che nel quadro premesso alle sue _Storie fiorentine_, lavoro ancora senza modelli per quanto difettivo e difettoso, e sproporzionato all’opera seguente, conobbe la solidarietà delle generazioni umane, e che gli errori d’una fanno il male della successiva; onde spinge lo sguardo alle lontane cause degli eventi, sorvolando alle inefficienti particolarità per cogliere i punti supremi. Non grande osservatore ma ricco di senso pratico per giudicare l’utilità de’ fatti, statista attivo e speculativo, s’abbaglia però nel caos del medioevo, che non arriva a coordinare perchè troppo ancora d’erudizione mancava all’età sua e a lui specialmente; non dà proporzionata importanza a tutti gli elementi della vita sociale; e preoccupato di politica, e distinguendo la vita del pensiero da quella dello Stato, appena fra le spade e gl’intrighi lascia comparire la letteratura, gloria indefettibile della sua patria, la città più colta del medioevo; e non nomina Dante se non perchè consigliò la Signoria ad armare il popolo contro i Neri. Nella sua politica atea assolve la menzogna, la perfidia, la violazione della parola e dei trattati, lo sprezzo del diritto delle genti, la cospirazione, l’assassinio, purchè si raggiunga la meta, onesta o ingiusta non si cerca; qualunque delitto è permesso purchè si soddisfi qualunque ambizione. Gran diplomatico e scrittor grande, con agevolezza e profondità scolpisce il proprio pensiero in uno stile di energia nuda come quella degli atleti, eppure vi occorrono affettazioni e sovrabbondanze, e un soverchio imitar de’ classici nelle sentenze e ne’ discorsi; sovrattutto anche nello stile manca di cuore. Dal merito di questi sono troppo lontani gli scrittori d’altri paesi. Marin Sanuto (-1531), dal 1495 al 1531 notò ciascun giorno quel che accadeva in Venezia e «de’ successi dell’Italia, e per conseguente di tutto il mondo, in forma di diario..... a honor della patria mia veneta e non per premio datomi dalla repubblica, come hanno altri che tamen nulla o poco scrivono». Espone gli avvenimenti suoi personali, importanti come di cittadino partecipe alla sovranità; abbonda di documenti privati e pubblici; e il consiglio dei Dieci gli permise di valersi dell’archivio «e di quelle lettere che sono avvisi di nuove occorrenti in diverse parti del mondo, siccome di giorno in giorno veniranno da oratori ovvero da rettori nostri, dappoichè saranno lette in Pregadi, e non sia comandato particolarmente che sieno tenute secrete». Stette costantemente coll’opposizione; ma nel volere si conservassero le antiche istituzioni patrie, repudiava i miglioramenti che il secolo richiedeva. Sono a stampa le sue _Vite dei dogi_; e cinquantotto volumi in-foglio di sua mano lasciò al consiglio dei Dieci, unico asse d’una famiglia dogale e sovrana di Nasso e di altre isole dell’arcipelago[171]. La carica di storiografo della repubblica veneta, creata pel Sabellico mediocre e venale, fu poi coperta da Andrea Navagero (-1529), che continuò il racconto sino al 1498, e non l’avendo finito, lo bruciò avanti morire: ma la vera o finta traduzione italiana che ne esiste, è delle più fedeli e patriotiche storie[172]. E questo, e Pier Giustiniani che in latino narrò fin al 1575, furono tolti a rifare in italiano da Pier Morosini, che giunse solo al 1486; e non allegando le fonti, si scema autorità. Dal punto ov’egli cessa, Pietro Bembo (-1547) va fino al 1513, il tempo più momentoso per la sua patria. Estranio agli affari di Stato in paese ove tanti partecipavano, non anima il racconto colla sicurezza dell’esposizione, colla vivezza delle particolarità, colla prurigine di fatti reconditi; ai Dieci che gli esibivano le carte secrete, s’accontentò di chiedere i diarj del Sanuto[173]; talvolta dipinge bene ma da retore, nè mai s’addentra nelle cause, talchè raffinisce tra le mani, frivolo quanto una gazzetta, ed inesorabile encomiasta del suo governo. Scrisse la storia in latino e in italiano, e l’una dicono emuli Cicerone, l’altra il Boccaccio: ma in fatto vi trovi sempre un’eleganza compassata, un periodare labirinteo, le idee nuove camuffate con espressioni arcaiche e con mitologiche allusioni; e mentre pone il mese e il giorno de’ fatti, tralascia l’anno, ovvero lo indica romanamente dalla fondazione della città. I Dieci lo fecero continuare a Luigi Borghi, volendo «esponesse integralmente e con sincerità, e perchè conterebbe cose da non pubblicarsi, l’opera sua sarebbe custodita, e leggibile solo dai senatori». Rimase manoscritta, ed or trovasi nella Marciana. Dopo di lui altri segretarj sostennero tale incarico, e migliore degli altri Paolo Paruta (-1598), narratore della _Guerra di Cipro_ e dei fatti dal 1513 al 52. Sperto negli affari e ne’ pubblici scaltrimenti, gli espone colle circostanze e le cause, combinando gli eventi di Venezia con quelli di tutta Europa, traendo le varie fila ad un nodo principale, e desumendone riflessi istruttivi: «dà un’idea compiuta della repubblica veneta col porre innanzi i principj del di lei operare, l’istituzione de’ cittadini, la concordia fra i membri del principato, i confini della potenza, i termini della giurisdizione, i fondamenti della libertà; e dando buon conto delle deliberazioni, disvela agli occhi dei leggitori l’anima stessa di quel governo, e la condotta che tenne in tempi difficilissimi tanto al di dentro come al di fuori» (FOSCARINI). Sempre con gravità più che eleganza, dettò pure _Discorsi politici_ con idee non vulgari sopra il crescere e dibassare di Roma; posato e senatorio, meno assoluto del Machiavelli, propone a modo di dubbio, lasciando che il lettore decida: e merita singolar riflessione il capitolo _Se le forze delle Leghe sieno ben atte a far grandi imprese_. Gli _Annali di Genova_ stese Agostino Giustiniani in italiano fino al 1528 con molta verità e poca arte, giacchè non li destinava al pubblico. Uberto Foglietta, buon politico, purgato latinista e sempre vivace, esule e raccolto a Roma da Ippolito d’Este, dettò elogi de’ Genovesi e la storia europea e la patria sino al 1527, senza documenti; declamando contro alla nobiltà e ai Doria, senza propendere pei Fieschi, e odiando gli oppressori, natii o stranieri che fossero. Jacopo Bonfadio la scrisse in classico latino dal 1528, anno della ricuperata libertà, fino al 50 in cui morì. Vollero pareggiarlo a Cesare, e certo, malgrado gli strascicati proemj dottrinali e le intempestive descrizioni, maschia vigoria palesa nelle arringhe, come quella ove Andrea Doria esorta i Genovesi a ricuperare la libertà, e ne’ ritratti, come quello di Luigi Fieschi; potè vantarsi di non sagrificare la veridicità alle speranze[174]; e ben ritrae le convulsioni di quella repubblica, che ebbe migliori gli storici che la storia. La prima compiuta è quella stampata nel 1579 ad Anversa da Pier Bizaro, in trentatre libri, lavorata però di seconda mano, e viziosamente separando i fatti esterni dagli interni. Della storia milanese il principale autore è Bernardino Corio (-1514), ciambellano del Moro, il quale gli aperse tutte le biblioteche e gli archivj, invitando anche vescovi, abati, monaci della Valtellina, del lago di Como e d’altrove a lasciargli trasportare a Milano i manoscritti occorrenti[175]. Stampò l’opera sua regnante Luigi XII, eppure la dedicò al cardinale Ascanio Sforza, suo antico signore. Appoggiò il racconto a documenti; e per quanto disgusti il suo scrivere tra rozzo e pedantesco, piaciono quelle minuzie, di cui gli perdoniamo l’eccesso perchè altrimenti ci sarebbero sconosciute; ai fatti guerreschi aggiunge gl’interni svolgimenti dell’economia e dell’amministrazione; a tempo rileva il racconto con riflessioni non sempre triviali; mostra conoscere, se non il cuore umano, le tranellerie della politica, e valuta le azioni de’ principi suoi con quella verità che può consigliarsi coll’essere stipendiato. Anche la _Storia di Napoli_ di Angelo di Costanzo dal 1250 al 1489, di stile netto ma languidamente monotono e senz’affetto nè acume, è preziosa per gli inseriti documenti. Sempre vantatore di Napoli, divaga in generalità; ha lodi e biasimi per gli Svevi come per gli Angioini e gli Aragonesi; con violenza e prolissità confuta il male che del paese avea detto Pandolfo Collenuccio pesarese; e il trovarlo quasi sempre relegato ci fa credere che mal s’acconciasse alla servitù spagnuola. Camillo Porzio narrò la congiura de’ baroni contro Ferdinando I, elegante e nervoso[176]. Ciascun fatto, ciascuna città ebbero storici, coi quali legheremo conoscenza adoperandoli: alcuni lodati per stile, sebbene guasto dall’imitar le forme classiche; altri per accorgimento; tutti aspettano un potente ingegno che li faccia servire come materiali ad una storia italiana. Di rado producono documenti, nè bastano di critica per vagliarli, e tanto meno per penetrare nell’intelligenza de’ secoli anteriori; si passionano per un paese e per un uomo: in generale però vagheggiano meno l’aneddoto che nel secolo precedente, perchè minore la vita pubblica; ma attenti ai fatti strepitosi, negligono la vita intima, le alterazioni dei governi che non avvengono solo col mutar di stato, le consuetudini e le opinioni tra cui versarono i personaggi, gl’intenti loro, i desiderj, le paure, le sofferenze di quella turba, che dei pubblici avvenimenti non ebbe azione, ma subì gli effetti. I latini restano inferiori, perchè preoccupati della forma, in grazia della quale mutilano quelle particolarità che meglio avvivano i tempi. Vogliamo distinguere il milanese Galeazzo Cappella, segretario di Stato di Francesco II Sforza, al quale serbò fede anche nella sventura, e narrò le imprese fatte per ristabilirlo dal 1521 al 30, e quella contro il castellano di Musso, degno che il Guicciardini in non piccola parte lo copiasse[177]. Taluno ancora stendeva cronache per uso domestico, senza scegliere nè verificare nè fondere, rozzissime fuori di Toscana, ma inestimabilmente preziose pel rivelare che fanno le impressioni personali. Più evidente il concetto di que’ tempi esce dalle relazioni degli ambasciadori, che, oltre i divisamenti statistici, offrono costumanze e precetti e applicazioni di politica e d’economia. De’ veneti molte abbiamo alle stampe. Giovanni Guidiccioni di Viareggio, vescovo di Fossombrone, eccellente uomo e schietto, di sentimenti cristiani insieme e patriotici, accompagnò come nunzio Carlo V in Africa, e nelle sue _Lettere_ ci lasciò prezioso ritratto degli affari di quel tempo. Un solenne farcitore di libri, Gerolamo Ruscelli, ebbe modo d’unire una raccolta di _Lettere di principi a principi_ veramente preziosa. Vi vanno del paro le _Lettere famigliari di XIII uomini illustri_, raccolte da Dionigi Atanagi; ed oltre quelle del Da Porto sulla guerra veneta e del Busini sull’assedio di Firenze, altre assai furono tratte, non è guari, dagli archivj di Francia per opera del Molini; altre sono sparse nelle collezioni o fra le opere de’ letterati d’allora, o vengono in luce qua e là; e meriterebbe della patria chi sapesse sceglierle e coordinarle in una storia d’Italia, raccontata da contemporanei. Il lettore ha veduto quanto noi ce ne valiamo largamente. Le più argute sono quelle fra Nicolò Machiavelli e Francesco Vettori, intelletti rinvigoritisi negli studj, poi nelle legazioni e nelle magistrature della patria, ed acuiti dal malcontento. Amanti dei governi forti cioè incondizionati, essi da prima aveano preso ombra di Venezia, come minacciosa all’indipendenza degli altri Stati italiani; da poi temevano degli Svizzeri; e intanto non s’avvedeano che maggior pericolo veniva dal portentoso ingrandimento di casa d’Austria. Tra quelle effimere combinazioni affacciavasi a loro un’altra minaccia troppo reale, e nel giugno 1513 il Vettori scriveva a Machiavelli: — Noi andiamo girandolando tra i Cristiani, e lasciamo da canto il Turco, il quale fia quello che, mentre questi principi trattano accordi, farà qualche cosa che ora pochi vi pensano. Egli bisogna che sia uomo di guerra e capitano per eccellenza; vedesi che ha posto il fine suo nel regnare; la fortuna gli è favorevole, ha soldati tenuti seco in fazione, ha danari assai, ha paese grandissimo, non ha ostacolo alcuno, ha congiunzione con il Tartaro; in modo che non mi farei maraviglia che, avanti passasse un anno, egli avesse dato a questa Italia una gran bastonata, e facesse uscire di passo questi preti: sopra di che non voglio dir altro per ora». In effetto quella potenza era allora la più poderosa in Europa, con formidabile marina, coll’unico esercito stanziale. Quanti erano in cristianità perturbatori, rivoluzionarj, fuorusciti pendeano a svincolarsi dalle obbligazioni dello Stato e della Chiesa coll’abbracciare l’islam: e i Turchi faceano gran capitale de’ rinnegati, sapendoli congiunti fatalmente alla loro causa; sceglievano tra costoro i principali magistrati e i capitani; donde la grandezza della Turchia è aumentata dall’attività de’ Cristiani e dal solito ardore de’ fuorusciti. Piantata in vasto semicircolo attorno al Mediterraneo, ella assediava l’Italia sia dalla costa africana, sia dalla levantina; e se non bastava che rompesse i commerci marittimi, toglieva ogni sicurezza al nostro littorale. Nel 1517 sapendo che Leon X villeggiava verso la marina, si proposero di cogliere sì lauta preda, e sbarcati con diciotto fuste, fu un miracolo se fallirono tale divisamento. Delusi del quale, piombarono sopra l’isola d’Elba, appartenenza del signor di Piombino, e la sperperarono. L’anno seguente «presero sopra Ostia e sino alla foce del Tevere alcuni navigli che venivano da Roma, e smontati a terra, colsero uomini e donne: il cardinale di San Giorgio e il cardinale Agenense, ch’erano in campagna ad Ostia e presso Porcigliano, salvaronsi colla fuga»[178]. Erano simili a disastri naturali, di cui si prevede l’arrivo: lo stesso gransignore non bastava a frenare quel mostro organizzato per la guerra, ch’erano i Gianizzeri, nè la pirateria de’ Barbareschi. Crebbe il pericolo della cristianità quando a Bajazet II succedette suo figlio Selim (1512), sanguinario che non vedeva se non guerra, sterminio santo, gioja della strage: eppure voleva ragionarle, e al muftì proponeva casi di coscienza, da cui dipendeva il macello di migliaja di viventi; e una volta gli chiese se non sarebbe opera santa l’ammazzare due terzi del genere umano per salvare l’altro terzo. Rabbioso coi Cristiani quanto avido di nuovi acquisti, impossessatosi della Soria e di Gerusalemme, soggiogato ed ucciso il soldano d’Egitto, vinto il sofì di Persia reo di credere all’incarnazione di Dio, all’Europa rea della stessa credenza potè volgere forze raddoppiate; e chiamato il visir Piri-bascià (1518), gli disse: — Se cotesta razza di scorpioni copre i mari co’ suoi vascelli: se la bandiera di Venezia, del papa, dei re di Francia e di Spagna padroneggia le acque d’Europa, è colpa della mia tolleranza e della negligenza tua: voglio una flotta numerosa e formidabile». Detto fatto, i disusati cantieri preparano centinaja di vascelli da guerra; l’Europa si sgomenta di udire dai minareti cinque volte al giorno proclamare l’abolizione di Cristo per opera di Allah; i vecchi narrano come il Turco imponga un perpetuo tributo di donne pe’ suoi serragli, di fanciulli pe’ suoi eserciti; le madri stringonsi i bambini al seno udendo raccontare di figliuoli arrostiti, d’uomini segati, di preti scuojati. S’innalza di nuovo il grido della crociata; e papa Leone esorta a concordia i re cristiani, e che offrano ciascuno denari e uomini per assalire i Turchi sotto la capitananza del granmaestro de’ cavalieri Teutonici: tutti promettono, e i particolari di quell’apparecchio possono darci la misura o, come oggi diciamo, la statistica delle potenze d’allora[179]. Ogni principe cristiano doveva contribuire un quinto delle annue rendite; i privati pagare cinque fiorini ogni cento di rendita; chi n’avesse meno, un fiorino all’anno; e se venisse duopo, si venderebbe la terza parte dei frutti delle chiese e dei santuarj, e gli ecclesiastici pagherebbero due decimi dell’annuo provento. Il duca di Borgogna darà mille lancie da quattro cavalli ciascuna, duemila soldati leggeri alla tedesca, e venticinque lanzi pedoni; i Confederati Elvetici ventimila pedoni, e se sia duopo, ottomila venturieri, fiore di lor gente; il re Cattolico mille soldati, tremila gianizzeri all’italiana, e ventimila spagnuoli; l’inglese cinquecento cavalieri, mille arcieri a cavallo, e diecimila pedoni; il re d’Ungheria, fra boemi e ungheresi, trecento cavalieri, trecento leggeri e cinquemila archibugieri boemi; quel di Polonia quattrocento cavalieri e tremila arcieri alla turca. Massimiliano imperatore somministrerà mezzo l’esercito, ove tra’ suoi e confederati siano settantamila pedoni, quattromila soldati biancovestiti, dodicimila armati alla leggera, e cento bocche d’artiglieria: egli guiderà l’esercito per l’Ungheria verso Belgrado, Adrianopoli e Costantinopoli; le vittovaglie scenderanno pel Danubio. Il re di Francia coll’altr’ala di settantamila pedoni, quattromila cavalieri e dodicimila leggeri, terrà via pel Friuli, la Dalmazia, la Bosnia e la Grecia, e contribuirà duemila cinquecento cavalieri francesi, cinquemila pedoni leggeri, e ventimila guasconi, normanni e picardi. Il papa con Venezia, Savoja ed altri principi d’Italia e coi Fiorentini, darà mille cinquecento cavalieri, settemila armati di balestre, schioppi e mezze lancie, e ventimila pedoni italiani, de’ quali un terzo armati di schioppi, e quest’esercito passerà a Cattaro per Ancona e Brindisi, o per Bari ed Otranto. Verrà terzo l’armamento marittimo per portare i foraggi verso la Grecia e la Morea, somministrandovi il re di Portogallo trenta caravelle, il senato veneto cento galee, il re di Francia con Genova venticinque, altrettante carache, quaranta galeoni, venti barche; venticinque galee il papa e il re Cattolico, il quale aggiungerà tre navi di Biscaglia; l’inglese dieci grandi carache; in tutto centocinquanta galee, trentasette carache, centoventi fra barche, galeoni e caravelle, e infinite navi da carico. Per ogni galea computavasi al mese il costo di ducati cinquecento, di seicento per ogni caraca, di ducento pei galeoni, di cinquanta per le caravelle, di trecento per le barche: i pedoni toccheranno al mese quattro ducati d’oro, i cavalieri centoventi all’anno; i leggeri sessanta: e tutto l’armamento importerà otto milioni e mezzo d’oro, mentre l’imposta sopraccennata ne produrrebbe dodici, oltre gli ornati e i tesori delle chiese. Tali promesse non facevano per zelo, ma per gara di principi, più largheggianti perchè nessuno intendeva mantenere. La morte (1520) liberò la cristianità da così risoluto nemico; ma non meno ostile succedeva il figlio Solimano detto il Grande, che prode, generoso, ardito, sapendo disciplinare gl’istinti proprj e della sua gente senza spegnerli, e alla passione d’invadere congiungendo il genio del dominare, in tredici spedizioni dilatò i confini dell’impero ottomano più che mai fossero, e fece sventolare le code a Diu ed a Vienna, in faccia a Marsiglia e a Roma. Quasi l’amor delle lettere comune fra’ Cristiani non dovesse mancare neppur fra i Turchi, egli leggeva abitualmente i _Commentarj_ di Cesare, arricchì il paese di capi d’arte e libri, diè buon ordinamento agli ulemi; operosissimo, fervente, religioso, eppure non intollerante, a chi l’aizzava a perseguitare i sudditi cristiani mostrava un giardino, reso bello dalla varietà d’alberi e fiori. Allora apparvero i frutti di quella politica, che all’unità cristiana surrogava l’equilibrio delle nazioni. Perocchè Francesco I per deprimere l’Austria cercò l’alleanza de’ Turchi; e come fanterie dagli Svizzeri, così da quelli si ripromise una flotta sul Mediterraneo e una tremenda diversione sul Danubio: cioè la Francia, antesignana delle crociate contro l’islam, ora dell’islam si faceva introduttrice. In fatto, col pretesto che gli Ungheresi avessero maltrattato l’ambasciadore da lui mandato a riscuoterne il tributo, Solimano portò contro di loro un esercito immenso e trentatremila camelli di munizioni e viveri; assediò in persona Belgrado (1521), e assistito da un artigliere francese, espugnò quel baluardo della cristianità; rimandò gli abitanti ungheresi sulla sinistra del Danubio, i bulgari trasferì a Costantinopoli. Se ne spaventò la divisa Europa, già immaginandolo condotto dai Francesi in Germania; ma per allora egli sospese il colpo onde assalire con trecento vele e centomila uomini di sbarco l’isola di Rodi, scalo a lui necessario fra Costantinopoli e l’Egitto. Dicemmo (Cap. CXVIII fine) come vi avessero preso stanza i cavalieri di san Giovanni, i quali, non isbigottiti dalle cento bocche di fuoco che fulminavano la fortezza, sotto Villiers de l’Ile-Adam granmaestro (1522) si difesero intrepidamente. Le donne portavano rinfreschi, medicamenti, terra per ristoppar le breccie, sassi da avventare. Quella politica che dagli sbadiglianti seggioloni sentenzia così agevolmente d’inettitudine e di codardia, appone ai Veneziani di non aver difeso l’isola; ma essi poteano rispondere: — Come! i due maggiori potentati della cristianità sciupano le forze e il sangue in gara di spietate ambizioni; e il Cristianissimo è alleato coi Turchi, il Cattolico non risponde che parole alle affannose chiamate del granmaestro: e intanto si pretende tutto da noi, i quali teniamo in Oriente tutte le forze, i mezzi, i guadagni; noi in prima fila esposti alle offese del nemico comune; noi rifiniti dal lungo duello con questo e coi re cristiani, de’ quali nessuno ci tenderebbe una mano nel pericolo?! Siam dunque costretti a rispettare la pace fatta col Turco, stare osservando e far voti». Pure lasciarono che molti, fingendosi disertori, andassero ad unirsi coi cavalieri; e segnatamente il valoroso ingegnere bresciano Gabriele Martinengo[180], venuto da Candia con cinquecento soldati, diresse la difesa, e v’incontrò la morte de’ prodi. Meglio di centomila Turchi erano periti quando i cavalieri capitolarono, e il granmaestro uscì con cinquemila persone. Errarono qua e là; poi Bernardo Salviati, nipote di Leon X, il quale entrato in quella sacra milizia, colle galee dell’Ordine e della Chiesa aveva tolto Modone ai Turchi, ajutato a prendere Corone, e acquistata bellissima fama di valore, fu deputato a Carlo V (1530) per impetrare come stanza dell’Ordine le isole di Malta, già feudo delle famiglie Chiaramonti e Moncada, con Gozo e Comino che gli appartenevano come a re di Sicilia; rupi aride che non vivrebbero se la Sicilia non vi recasse frumento e neve, diceansi non valer la pergamena su cui ne fu scritta la donazione; ma con ciò l’imperatore metteva un antimurale a Napoli e alla Sicilia, anzi alla libertà de’ mari e agli interessi commerciali di tutta Europa. I cavalieri faceano omaggio annuo d’un falcone al vicerè: ciascuna delle lingue in cui era diviso l’Ordine, teneva a Malta un _albergo_ dei giovani che venivano a _farvi la carovana_; e ancora nella varietà della costruzione rivelano il diverso gusto delle nazioni e dei tempi. Alla lingua italiana spettava sempre la dignità di grande ammiraglio, il quale, oltre a tutti i marinaj, comandava anche agli altri soldati qualvolta mancasse il gran maresciallo. Allora Solimano si ritorse verso il Danubio con centomila uomini e trecento cannoni, e piantò il campo a Mohacz, giovandosi dell’indebolimento in cui le interne scissure precipitavano quel paese dopo la morte del grande Mattia Corvino. Ivi Solimano (1526 29 agosto) riporta vittoria sanguinosissima, dopo la quale difila sopra Buda e la incendia; varca a Pest devastando sino a Raab; e lascia morti in due mesi centomila Ungheresi, sentinelle perdute della cristianità, la quale, per private ambizioni, stavasi indolente al comune pericolo. Chiamato un tratto dalle sommosse in Asia, bentosto Solimano riconduce cenventimila uomini contro Ferdinando arciduca d’Austria, ch’erasi fatto gridar re dell’Ungheria, e non pensava a difenderla; e preso Buda e Gran, investe Vienna, l’assalta venti volte (1529), ma sempre respinto dalla guarnigione, e mancando d’artiglieria e di viveri, dà la volta, lasciando devastato il paese. Ma raccolti trecentomila guerrieri, eccolo di nuovo sopra l’Austria. Grosso esercito s’adunò allora sotto quell’Anton de Leyva, che tanto aveva giovato alle vittorie in Italia, e seco passarono le Alpi il conte Guido Rangoni, un Martinengo generale di cavalleria, il marchese Alfonso Del Vasto generale della fanteria, Pietro Maria De’ Rossi conte di San Secondo, Fabrizio Maramaldo, Filippo Tornielli, Giambattista Gastaldo, Marzio e Pietro Colonna, don Ferrante Gonzaga generale della fanteria leggera, due compagnie di cavalleggeri del duca di Ferrara; e per parte del papa Ippolito Medici, cardinale più voglioso degli sproni che della porpora, con trecento archibugieri, e molta nobiltà italiana. Intanto da Carlo V spedito a fare una diversione per mare, Andrea Doria occupò Corone e Patrasso, e minacciò Costantinopoli; onde Solimano si ritirò menando trentamila contadini prigionieri, e sceso a negoziati (1533), concesse pace perpetua al figliuolo pentito, come chiamava l’arciduca d’Austria. Ma Luigi Gritti, veneziano a’ servigi della Porta, spedito da Solimano al re d’Ungheria, essendo trascorso ad atti arbitrarj, fin a decapitare il governatore di Transilvania dormente, gli amici di questo insorsero, e uccisero il Gritti. Solimano, occupato in Persia, ne chiedea continuamente soddisfazione; inoltre i bascià turchi, in onta della pace conchiusa, non desistevano di saccheggiare i vicini; di che nascevano baruffe e sangue. Ferdinando se ne lamentò, si lamentò Solimano, e la spada risolse (1534): un grosso d’Ungheresi, Tedeschi, Italiani, guidati da Alessandro Vitelli, entrarono in Ungheria, ma presto furono ridotti incapaci di tener la campagna. Appena si crederebbe che i Cristiani prendessero sì scarso interesse a tanto pericolo: ma ormai la politica si rimpinzava d’egoismo; e a quell’autorità, che sola bastava a riunire i Cristiani, era portato un fiero assalto, non più per amore di correggerla, ma per astio di diroccarla. CAPITOLO CXXXIV. Cominciamenti della Riforma religiosa. Le idee antiche, insinuatesi nella società nuova, giovarono a toglierne le scorie della grossolanità e dell’ignoranza, e affinare la cultura; ma acquistando piede, pretesero modificarne le credenze e più ancora gli atti, ritraendo verso la morale pagana. All’alito di Dio e sotto le ale del cristianesimo era sbocciata la società moderna; e Dio, unica fonte d’ogni potestà, credeasi aver commesso l’esercizio della temporale non meno che della spirituale al suo vicario in terra; il quale, occupato delle anime e di conservare integro il dogma e pura la morale, aveva affidato una delle due spade all’imperatore[181]; l’imperatore, unto dal Cristo in terra, consideravasi come capo dei re, come rappresentante il potere temporale della Chiesa, in quella grande unità, la quale nell’ordine religioso chiamavasi _cattolicismo_, e nell’ordine temporale _sacro romano impero_. Concetto sublime, che sottraeva il mondo all’arbitrio della forza per porlo in tutela delle idee; piantava dominj non per conquista o per nascita, ma per fede ed opinione; preveniva spesso le guerre mediante l’arbitrato supremo, appoggiato alla minaccia delle scomuniche; sempre le rendeva meno micidiali; garantiva i re e i popoli dai mutui attentati col chiamare gli uni e gli altri a render ragione di loro condotta avanti ad un tribunale, inerme, eppure potentissimo, perchè fondato sulla coscienza de’ popoli; e resistendo ai forti non in nome della rivolta, ma della sommessione che si deve a Dio più che agli uomini. Al sublime divisamento vedemmo quali ostacoli s’attraversassero, sicchè rimasero mal determinati i confini delle due autorità. I papi, per tutelarsi in un’età guerresca e quando ogni potenza derivava dal possesso de’ terreni, dovettero procacciarsi un dominio temporale: ma tristo il guadagno che n’ebbero, avvegnachè li mise più d’una fiata in punto di scambiare per supremazia principesca quel ch’era tutela e arbitramento, affidato dalle coscienze, e fondato in un regno che non è di quaggiù. Di rimpatto gl’imperatori pretendevano dominare sopra i re e far da tutori ai papi più che non fosse compatibile coll’indipendenza de’ primi e colla dignità del padre comune dei fedeli. Di qui la diuturna lite fra il pastorale e la spada, solo temporariamente sospesa mediante transazioni che all’uno e all’altra impedivano di trascendere, ma toglievano di spiegare intera la loro efficacia. Ai pontefici venne fatto di respingere l’islam dall’Europa e frenarlo in Asia colle crociate; salvare dalle regie libidini l’inviolabilità del matrimonio e la dignità della famiglia; risarcire la sacerdotale disciplina, sdruscita dal contatto e dalla mistura coi signorili interessi qual era portata dalla feudalità: ma non riuscirono a costituire sovra base solida e riconosciuta le relazioni fra Stato e Stato, impediti ch’essi erano dalla gerarchia feudale, dalle comunali oligarchie, dalla consuetudini nordiche dominanti. Così nell’attuazione restava difettivo quel cristianesimo applicato, vivo, onnipossente nella vita, profondamente umano, fautore dell’arte, affettuosamente comunicabile, amico della povertà, dell’obbedienza, della fedeltà, che nel mondo riconosce il governo della Provvidenza, fa gli uomini confidenti gli uni negli altri e in Dio, credendo che il cibo mortale possa convertirsi in pane e vino d’eterna vita. Intanto restauratasi l’antica cultura, si moltiplicavano le scoperte. Quando annunziavasi che il mondo non consisteva nelle sole tre parti antiche; che in America si trovava una differente vita animale e vegetale, e uomini e civiltà differenti; che la terra gira e il sole sta; che i libri talmudici e la cabala erano ripostigli di profonda scienza; che l’India possedeva una lingua madre delle altre; che il Turco non era più barbaro dell’Austriaco; poteva la mente aquetarsi ne’ misteri? non dovea svegliarsi lo spirito d’esame? colle nuove idee raffittirsi bisogni nuovi? La specie umana, passando al periodo pensante, s’appropriava colla ragione le verità che fin allora avea possedute solo per la fede; nè soltanto dalla Chiesa domandava come meglio servir Dio e gli uomini. Le scienze, disciplinate dagli Scolastici come un esercito in battaglia sotto il comando del verbo di Dio, aveano rotto l’armonioso accordo per tornare all’arida logica o alla visionaria teurgia; poi sbucate dal santuario, dilagavano mediante la stampa; la rinata letteratura attingeva l’educazione ad altre fonti che le cristiane; le arti belle s’ispiravano d’altro che di divozione: ai popoli stretti attorno ai principi scemava il bisogno di domandare agli ecclesiastici regole per gli atti, protezione per gl’interessi; il diritto romano facea vagheggiare la coordinata unità degli antichi, in luogo delle istituzioni paterne, delle franchigie locali, e dell’indipendenza personale introdotte dai Germani. Nuovi istituti sociali aveano trasferita nei governi laici l’importanza suprema; l’ammirazione del _bello_ delle società classiche toglieva pregio al _buono_ delle moderne: alla fede sottentrava il dubbio, questo corrompeva i costumi, e i costumi di ricolpo scassinavano le credenze. Quindi perduti i sentimenti cavallereschi, e non ancora acquistata la posa della ragione; quindi un, se posso dirlo, paganizzamento delle arti, della politica, delle lettere, della moralità, che ai buoni facea desiderare una riforma. Altre volte dal fondo della corruttela vedemmo cavato il mondo per la forza di Gregorio VII, o per lo zelo e gli esempj dei santi Francesco e Domenico: ma troppo erano mutate le contingenze. La Chiesa, società delle anime legate innanzi a Dio dalle medesime credenze, fu istituita perchè pronunziasse come parola viva tra le disputazioni degli uomini. Questi, che, per la loro natura peccaminosa, sono incapaci di qualificare infallibilmente gli errori, proclamarono la libera discussione: mentre la Chiesa, che rappresenta la natura umana innanzi il peccato, è infallibile, e perciò non soggiace a disputa quel che essa affermi o neghi. Irremovibile nel dogma, essa non isdegnò mai piegarsi alle opportunità dei tempi nell’applicazione e nella disciplina; nessuno de’ solenni suoi comizj tenne senza proporre canoni di emenda; e singolarmente nei due ultimi di Costanza e di Basilea, che furono alla Riforma ciò che l’Assemblea nazionale alla rivoluzione francese, erasi a gran voce domandato di riformar la Chiesa nel capo e nei membri. Vi fossero proceduti con franchezza e con accordo, prevenivano il flagello: ma vennero meno la saviezza pratica degli affari ed il prudente aspettare: una critica indiscreta si pose a rischio di surrogare agli abusi altri peggiori; poi l’apparenza di vittoria addormentò Roma sull’urgenza del rimedio, lasciando che la piaga incancrenisse, e nella religione e nella sua stessa metropoli acquistasse predominio lo spirito secolaresco. Le chiavi di san Pietro erano desiderate, non perchè schiudono il paradiso, ma perchè d’oro: cardinali, nominati per favore, per condiscendenza a principi, per denaro, non divenivano santi (è l’espressione del Bellarmino) perchè aspiravano ad essere santissimi. Paolo II e Sisto IV fecero elezioni vergognose, per le quali poterono vedersi sulla cattedra di san Pietro Innocenzo VIII e Alessandro VI. Essi cardinali avevano facoltà di porre condizioni nel conclave al futuro pontefice; ma una decretale d’Innocenzo VI dichiarava che nessun giuramento dato prima dell’elezione può restringere l’autorità pontifizia, atteso che, in sede vacante, alla Chiesa non competa altro diritto che di eleggere il successore. Nel conclave succeduto alla morte di Sisto IV i cardinali stesero una costituzione, ma a lor mero vantaggio: non avessero entrata minore di quattromila zecchini; non fossero colpiti da censure o scomuniche o giudizj criminali se non colla sanzione di due terzi del sacro collegio; non passassero il numero di ventiquattro, e un solo potess’essere della famiglia del papa. Le chiese non si conferivano per merito di scienza ed esemplarità di costumi; la curia romana, che vulgarmente si confonde colla Chiesa, più che ad altro braccheggiava a lucrare dalla vacanza e dalle collazioni de’ benefizj, e moltiplicare le tasse di cancelleria. Il più de’ vescovi procedevano su quell’orme; alcuno rinunziava alla sede, riservandosi la collazione de’ benefizj e certe rendite; altri a denari faceansi nominare dei coadjutori, ch’era uno spediente per trasmettere il vescovado ai così detti nipoti; fin arcidiocesi importantissime, come quella di Milano, lasciavansi in commenda a principi. Dacchè le prelature furono predestinate ai ricchi e come semplice propina, s’introdusse l’ubiquità, cioè di poter goderne i frutti dovunque si dimorasse, talchè uno poteva essere cardinale d’una chiesa di Roma, vescovo di Cipro, arcivescovo di Glocester, primate di Reims, priore di Polonia, e intanto alla corte del Cristianissimo trattava forse gli affari dell’imperatore. Giovanni de’ Medici, che fu poi Leone X, giovinetto ancora si trovava canonico delle cattedrali di Firenze, di Fiesole, d’Arezzo, rettore di Carmignano, di Giogoli, di San Casciano, di San Giovanni in Valdarno, di San Pier di Casale, di San Marcellino di Cacchiano; priore di Montevarchi, cantore di Sant’Antonio di Firenze, prevosto di Prato, abate di Monte Cassino, di San Giovanni di Passignano, di Miransù in Valdarno, di Santa Maria di Morimondo, di San Martino di Fontedolce, di San Salvatore di Vajano, di San Bartolomeo d’Anghiari, di San Lorenzo di Coltibuono, di Santa Maria di Montepiano, di San Giuliano di Tours, di San Giusto e di San Clemente di Volterra, di Santo Stefano di Bologna, di San Michele d’Arezzo, di Chiaravalle presso Milano, di Pin nel Poitou, della Chaise-Dieu presso Clermont. Il cardinale Innocente Cibo suo nipote tenne contemporaneamente otto vescovadi, quattro arcivescovadi, le legazioni di Romagna e di Bologna, le abbazie di San Vittore a Marsiglia e di Sant’Ovano a Rouen. Il cardinale Ippolito d’Este a sette anni era primate d’Ungheria, poi vescovo di Modena, Novara, Narbona, arcivescovo di Capua e di Milano, la qual ultima dignità rinunziò a un nipote di dieci anni riservandosene l’entrata: e questo nipote fu pure vescovo di Ferrara, amministratore dei vescovadi di Narbona, di Lione, d’Orléans, di Autun, di Morienne, a tacere le infinite badìe. Il patriarcato d’Aquileja stette ne’ Grimani dal 1497 al 1593; il vescovado di Vercelli da forse un secolo poteva dirsi ereditario nelle famiglie Rovere e Ferreria. Giuliano della Rovere, divenendo papa, ne investì il cardinale Ferrerio, benchè già avesse la sede di Bologna e molte ricche badìe. Filippo, figliuolo del duca Lodovico di Savoja, fu eletto vescovo di Ginevra mentre ancor fanciullo, poi fatto maggiore depose l’abito clericale. Così avvenne di Giovan Giorgio Paleologo vescovo di Casale, che nel 1518 cessò d’esser cherico e menò moglie. Nel 1520 Giovan Filippo di Giolea fu eletto vescovo di Tarantasia a quindici anni. Secondo avviene delle autorità incontrastate, pei diritti negligevansi i doveri. Cadetti di grandi famiglie, allevati nel fasto spensierato, circondati dagli esempj de’ fratelli, puntigliosi sul decoro delle famiglie, digiuni di studj teologici, amanti del ben vivere più che del viver bene, i vescovi abbandonavano il gregge a vicarj spirituali, e per averne miglior mercato preferivano frati mendicanti che nè spendeano in lusso, nè ricevevano mercede. L’alto clero, fra cure secolaresche, a nulla avea l’animo meno che ad istruirsi in quella fede, ch’era suo uffizio supremo il diffondere e tenere immacolata. Gl’inferiori sogliono comporsi sull’esempio de’ capi; e Innocenzo VIII dovette rinnovare la costituzione di Pio II, che ai preti vietava di tener macello, albergo, bettola, casa di giuoco, postribolo, o di far da mezzani per denaro; e se _dopo tre ammonizioni_ non ismettessero, non godrebbero più l’esenzione del fôro[182]. Silingardo vescovo di Modena, dirigendo la Somma di teologia morale al cardinale Morone, diceva «avere nella visita di quella diocesi trovata tanta ignoranza della lingua latina nella maggior parte de’ sacerdoti curati, accompagnata da così poca pratica dell’esercizio della cura delle anime, che verisimilmente si può temere una gran ruina e precipizio del gregge». I tre Stati di Savoja, raccolti a Ciamberì nel febbrajo 1538, faceano istanza al duca perchè fossero frenati e moderati gli ecclesiastici, che trascendono in abiti e pompe mondane, ed esercitano l’usura con gran danno del popolo minuto, e che godono pingui benefizj senza adempirne gli obblighi di limosina e messe[183]. Insomma il sacerdozio consideravasi come uno stato, non una vocazione; le penitenze, lo studio, il predicare rimaneano uffizj de’ frati. Se non che i monasteri, già centri all’attività del pensiero e delle arti, rilassavansi anch’essi nell’opulenza e in profana gelosia d’un Ordine coll’altro. I frati mendicanti, già ricchi di privilegi, ne ottennero di nuovi da Sisto IV, che nella famosa bolla del 31 agosto 1474, fratescamente qualificata _mare magnum_, minacciava sin di destituzione i curati che non obbedissero a loro, o li turbassero in qualsifosse modo. Ma i vantaggi che traevano dall’opinione di santità tornarono a danno di questa; e resi mondani, con mille brighe cercavano le dignità, e (dice il cardinale Caraffa) «si veniva ad omicidj non solo con veneno, ma apertamente col coltello e colla spada, per non dire con schioppetti». Altri frati si trovavano ridotti all’ozio dalla stampa; onde si buttarono sopra quistioni di poca arte e di molti cavilli, facendo schermaglia di sillogismi, e surrogando la teologia al vangelo: la beata Vergine fu concepita anch’essa nel peccato originale? i Monti di pietà sono un’istituzione opportuna, o un’usura riprovata dal vangelo? Domenicani e Francescani si abbaruffarono a lungo su questi e su altri punti. La scarsità di libri facea volgere più volentieri ai compendj, e come per la medicina alla _Somma_ di Taddeo e per la giurisprudenza a quella di Azone, così per la teologia ricorreasi alle _Sentenze_ di Pier Lombardo, alla _Somma_ di san Tommaso e ad altre, prestandovi fiducia illimitata, come avviene delle materie non discusse, e tenendosi dispensati dall’esaminare nè la natura nè i testi. Al Savonarola ancor novizio un frate esemplarissimo e d’eccellenti intenzioni domandava: — Che giova leggere il Testamento vecchio, e qual frutto si ricava da fatti compiuti già tanti secoli?»[184] Con tale corredo teneano la più parte delle cattedre d’università, e presentavansi sul pulpito con inettitudine a disporre e maneggiare il soggetto, nessuna chiarezza nè unzione, ma continua aridità e tecnica nojosa, mentre la ringentilita letteratura stomacavasi degl’insulsi metodi e delle scolastiche compagini. Il Bembo, chiesto perchè non andasse a sentirli, rispose: — Che ci ho a far io? mai altro non s’ode che garrire il Dottor sottile contro il Dottore angelico, e poi venirsene Aristotele per terzo, e terminare la quistione proposta»[185]. Con pessimo gusto mescolavasi sacro e profano, serio e burlesco, in caccia del nuovo, del bizzarro, del sorprendente, mettendo la forma sopra il fondo, i mezzi sopra lo scopo. Già ne cadde menzione di Gabriele Barletta (tom. VIII, p. 173), e sebbene appartenga al secolo precedente, in questo ebbe ripetute edizioni[186]: applausi prodigavansi a Mariano da Genazzano, a Paolo Attavanti, il quale nella prefazione, si gloria di citare ad ogni piè sospinto Dante e Petrarca: a frà Roberto Caracciolo da Lecce fioccavano e brevi in lode e onorevoli commissioni e mitre e il titolo di nuovo san Paolo. Crisostomo italiano era intitolato il piacentino Cornelio Musso vescovo di Bitonto, per avere sbandite dal pulpito le sottigliezze scolastiche, le declamazioni ridicole, le continue citazioni d’autori profani, onde far luogo a un predicar sodo, devoto, conforme al vangelo; ai cardinali Contarini e Bembo «parea nè filosofo, nè oratore, ma angelo che persuadesse il mondo»; Girolamo Imperiali lo chiama l’Isocrate italiano, e non mancargli nè la robustezza di Demostene, nè l’ubertà di Cicerone, nè la venustà di Curzio, nè la maestà di Livio; gli si dedicarono opere e coniarono medaglie; e più d’ogni elogio vale l’essere a lui affidato il discorso all’aprimento del concilio di Trento. Eppure Ortensio Landi dice che quell’orazione sua era «piena di sottile artifizio, sparsa di retorici colori, come se tempestata fosse di tanti rubini e diamanti; egli vi avea consumati dentro tutti i preziosi unguenti d’Aristotele, d’Ippocrate, di Cicerone, e tutti i savj precetti d’Ermogene». La natura della lode è di per sè significativa, quand’anche non avessimo l’orazione stessa, forse troppo vilipesa dai critici, certo non quale poteva essere ispirata dall’assemblea più augusta che mai si fosse veduta; e talmente la mitologia era incarnata, ch’egli invitava i prelati a rendersi a quel sinodo come i prodi di Grecia al cavallo di Troja. Altri più volgari frattanto si diffondeano tra il popolo, insegnando errori e superstizioni, e conchiudendo inevitabilmente coll’accattare[187]. Ciascun ordine, ciascun villaggio, ciascuna chiesa aveva un santo speciale, ne’ cui panegirici non si poneva misura fino alle assurdità, per dabbenaggine o per frode moltiplicandone i miracoli, le grazie, le reliquie, e attirandogli un culto, che nei giudizj vulgari facilmente rasentava all’idolatria. Predicava in Modena il 1532 Francesco da Castrocaro minor osservante, e pubblicò un breve, secondo le forme della curia romana, «dato nel paradiso terrestre, il VI giorno dalla creazione, l’anno eterno del nostro pontificato, confermato e suggellato il giorno di parasceve sul monte Calvario», dove era approvata e confermata d’autorità divina la regola de’ Minori Osservanti[188]. Il Savonarola poi aveva abituato a mescolarvi la politica, e bersagliare anche personaggi altissimi; e tra gli altri frà Callisto piacentino, uno de’ meglio lodati, sermonando a Mantova il 1537 sul testo _Seminastis multum et intulistis parum_, esclamava: — Povero papa Leone, che s’aveva congregato tante dignitadi, tanti tesori, tanti palazzi, tanti amici, tanti servitori; e a quell’ultimo passaggio del pertuso del sacco, ogni cosa ne cadde fuori, e solo vi rimase frate Mariano, il quale, per essere leggero (ch’egli era buffone) come una festuca, rimase attaccato al sacco; che arrivato quel povero papa al punto di morte, di quanto e’ s’avesse in questo mondo nulla ne rimase, eccetto frate Mariano, che solo l’anima gli raccomandava dicendo, _Raccordatevi di Dio, santo padre_; e il povero papa in agonia constituto, a meglio che poteva replicando dicea, _Dio buono, o Dio buono!_ e così l’anima rese al suo Signore. Vedi se egli è vero che _qui congregat merces, ponit eas in sacculum pertusum_». Quel sentimento così umano, che ci lega a coloro che ne precedettero in quest’esiglio e ci attendono nella patria, era stato consacrato dalla fede, riconoscendo una comunione fra noi militanti e le anime aspettanti, a cui sollievo e le preghiere e le buone opere possiamo applicare. Ma esso pure fu implebeato coll’idea del guadagno, e i suffragi si restrinsero quasi unicamente a messe ed uffizj, che troppo facilmente prendevano aspetto di bottega. La Chiesa fin da’ suoi esordj, come prescrisse penitenze e mortificazioni, così fece uso della facoltà di rimetterle; sicchè, accanto alla dottrina che insegna venir la salute da Cristo gratuitamente, stette quella della cooperazione dell’uomo, del soddisfacimento penale, e della remissione, parziale o plenaria, secondo le circostanze del penitente. In tempi d’ignoranza le singole pene, che non oltrepassavano mai i trent’anni, formarono talora un cumulo di più secoli; onde essendo impossibile conseguire l’assoluzione in vita, si permise di commutarle e farle eseguire da altri, e massime dai monaci; e poichè la messa ha merito infinito, venne adoperata più che le altre commutazioni. Le indulgenze si rivolsero anche sulle pene postume, volendo che papi e vescovi potessero applicarvi una parte dell’inesauribile tesoro di misericordia, preparato dal sangue di Cristo e dai meriti soprarogatorj de’ santi. — Che? (diceano gli arguti) stan dunque in mano dei preti le chiavi del purgatorio e del paradiso». Ed essi in fatto qualche volta ne abusarono non solo co’ plenarj giubilei, ma col concedere perdonanze a chi sovvenisse ai bisogni della Chiesa anche temporali. Eravi chi avesse danneggiato altrui, nè potesse risarcirlo? procuravasi l’assoluzione mediante una somma, che parea giustificata dall’uso che se ne faceva. L’Inquisizione avrebbe dovuto punire molti delinquenti, se non si fosse ad essi aperto uno scampo mediante le indulgenze, cambiando il delitto in peccato, il supplizio in penitenze. La Chiesa dichiarava espresso che le indulgenze mancano d’ogni valore se non congiunte al pentimento: pure gl’ignoranti facilmente cadevano nell’opinione contraria, e la fomentavano coloro che ci viveano sopra. Fatto è che lo spaccio delle bolle d’indulgenze divenne pingue entrata della romana curia, e v’ebbe persone che n’apersero bottega falsificandole: il che tutto e screditava le indulgenze, e ne corrompeva il senso[189]. Il vulgo facilmente recavasi a credere che quel denaro fosse il prezzo della cosa santa; e i questori che mandavansi a riscuoterlo, partecipando d’un tanto per cento al vantaggio, ne magnificavano profanamente la virtù. Qual v’ha mai cosa santa, di cui l’avarizia non abusi? Che la gramigna delle superstizioni fosse allignata fra il buon grano, troppo avemmo a dirlo, nè occorre ripetere quanto esse operino sopra la condotta. Di vere eresie non sappiamo che alcuna nascesse o si propagasse in Italia[190], dove anche discutendo dell’applicazione, non s’impugnava il principio: ma segno di decadenza dava il crescente rigore del Sant’Uffizio, sebbene, in mancanza d’eretici, perseguitasse maliardi e superstiziosi. Nessun creda che lo spirito di verità e di santità che dimora colla Chiesa eternamente, non si vedesse glorificato, principalmente da persone appartenenti ad ordini religiosi. Bernardino da Siena, che con mirabili frutti di penitenza predicò per tutta Italia, tra i Francescani introdusse una riforma rigorosa (1444), mandò missionarj in Egitto, in Assiria, in Etiopia, nell’India, dappertutto menava su’ suoi passi la pace e la limosina, e ravvivò lo spirito religioso moltiplicando chiese, conventi, spedali. Consorte alle sante fatiche gli venne Antonio dei marchesi di Roddi vercellese, sollecito in riformar monasteri domenicani. Antonio Pierozzi, priore e riformatore de’ Domenicani e teologo del concilio di Firenze, eletto arcivescovo di questa città, non si rassegnò a tal carica se non quando Cosmo de’ Medici e tutti i Fiorentini si recarono a Fiesole a pregarnelo: conservò nel vescovado la regolarità monastica e la semplicità evangelica; il palazzo, la borsa, i granaj teneva aperti a chiunque; e una mula bastavagli a tutti i servigi: della peste del 1448 spiegò disinteressata carità, come nei tremuoti del 53: colla sventurata e coraggiosa Elena Malatesta fondò il ricovero delle orfane e vedove decadute, e quello degl’incurabili ed altre istituzioni pie che durano ancora, come i provveditori dei poveri vergognosi: e lasciò una Somma teologica di temperate conclusioni, che passa ancora per delle meglio ordinate, e ch’egli stesso compendiò in italiano ad uso de’ confessori; un ristretto di storia fin al 1458, opera di buona fede più che di critica. Al suo segretario che compiangealo di tante cure ond’era oppresso, disse: Tutti gli affari non ci torranno di godere la pace interna, se nel cuore ci «riserviamo un ritiro, ove poterci stare con noi stessi, e dove gl’impacci del mondo non riescano mai a penetrare»[191]. Il domenicano Matteo Carrieri da Mantova (-1450) fu lodato oratore; ma portenti di maggiori conversioni operò colla preghiera e coll’esempio per tutta Italia, richiamando al cuore famose peccatrici, e coltivando nascenti virtù. Lo zelo di lui fu denunziato come eccessivo al duca di Milano, ed egli dovette scagionarsi del non usar quella che alcuni guardano come unica virtù, la moderazione. Nel tragittarsi da Genova a Savona, catturato da un corsaro e ottenutane la libertà, la esibì a riscatto d’una signora presa anch’essa colla figlia; onde il pirata commosso rilasciò tutti i cattivi. Anche Antonio Neyrot (-1460) di Rivoli domenicano, nel tragittarsi a Napoli fu côlto da un corsaro e condotto a Tunisi; quivi non reggendo ai tormenti, rinnegò; ma ben presto ravvedutosi, meritò il martirio, e il corpo suo fu da mercanti genovesi restituito in patria e illustrato da miracoli. Costante da Fabiano dell’Ordine stesso, allievo del beato Corradino da Brescia e di sant’Antonino, si divise fra lo studio, la preghiera e le macerazioni, e già vivo ottenne un culto, che poi fu riconosciuto. Bernardo da Scammaca di Catania da’ disordini giovanili ridottosi a pietà e vestito domenicano, si diede ad assistere a tutte le necessità altrui, mentre attendeva alla propria santificazione. Giovanni Licci da Palermo edificò i Domenicani in centoquindici anni di vita. Sebastiano de’ Maggi di Brescia alle lodi di letterato rinunziò per attendere alla conversione de’ peccatori ed al rappacificamento de’ nemici, massime a Genova, ove morì nel 1494. Tra i Francescani Giacomo delle Marche di Mombrandone si ridusse a rigorosissimo tenor di vita; predicando a Milano, colse tai frutti, che il popolo il voleva arcivescovo, ma egli fuggì; con Giovanni da Capistrano girò la Germania, la Boemia, l’Ungheria apostolando e sollecitando contro i Turchi. Antonio da Stroconio nell’Umbria; Pacifico da Ceredano nel Novarese, autore di una _Somma pontificale_; Giacomo d’Illiria, frate a Conversano e a Biceto presso Bari; Pier da Moliano, compagno poi successore a Giacomo delle Marche; Angelo da Chivasso, riverito principalmente a Cuneo; Vincenzo d’Aquila dedito a stupende austerità, sono appena alcuni dei tanti onde quell’Ordine s’ingloriò. Bernardino Tomitano da Feltre (-1494), quantunque scarso della persona, allettava il popolo coll’eloquenza e colla virtù, e col raccogliere i gemiti delle vedove e de’ pupilli. I Monti di pietà, allora appena introdotti da un Barnaba francescano a Perugia, furono da Bernardino difesi e propagati, salvando così dagli usuraj, che, per esempio, a Parma teneano ventidue banchi ove prestavano sin al venti per cento. Le Calabrie ci presentano il loro Francesco di Paola (-1508), che istituì l’ordine de’ Minimi, affinchè coll’esempio correggessero la rilassatezza de’ Cristiani nel digiuno e nelle altre pie pratiche; assunse per divisa la parola _carità_; non tacque il vero ai regnanti di Napoli; quando Luigi XI di Francia mandò a pregarlo andasse a lui malato, non obbedì che al comando del papa, poi ad esso Luigi annunziò che la vita dei re sta come le altre in man di Dio, e a questo si preparasse a renderla. Colà lo chiamavano il _buon uomo_, e tal nome rimase a’ suoi frati, e ad un pero di cui egli avea portato l’innesto. Il beato Antonio da Méndola fu agostiniano; come il beato Andrea di Monreale presso Rieti, che per cinquant’anni predicò in Italia e Francia. E tutti gli Ordini, a chi cercasse, offrirebbero personaggi illustri per virtù o per scienza. Fra le donne ricordiamo Francesca di Busso romana, che sposata a Lorenzo de’ Ponzani a dodici anni, fu esempio di quelle matrone, massime nei patimenti dell’invasione di re Ladislao e della peste; per trent’anni servì ai malati negli ospedali senza negligere le cure domestiche; infine istituì la regola delle Oblate. Caterina da Pallanza, udendo a Milano il beato Alberto da Sarzana predicar la passione di Cristo, a questo dedicò la sua verginità, e con altre fanciulle si raccolse sul monte di Varese, modelli di ascetica perfezione. Veronica, di poveri parenti milanesi, costretta al lavoro continuo anche dopo entrata agostiniana, la notte imparava da sè a leggere e scrivere, e fu da Dio graziata d’insigni favori. Caterina dei Fiesco di Genova, il cui padre fu vicerè di Napoli, dai teneri anni si dedicò alla più austera pietà; costretta sposare un Adorno, qual pegno di riconciliazione fra le due emule famiglie, nei dieci anni di matrimonio ebbe esercizio di continua pazienza, finchè le riuscì di convertire il marito; servì i poveri nello spedale, e nelle pesti del 1497 e del 1501; irrigidì all’estremo le astinenze, consolata da superne illustrazioni; e lasciò opere, che per elevatezza e fervore emulano quelle della sua contemporanea santa Teresa. Aggiungiamo Luigia d’Albertone romana, Caterina Mattei di Racconigi, Maddalena Panatieri di Trino, Caterina da Bologna che scrisse delle _Sette armi spirituali_, la carmelitana Giovanna Scopello di Reggio; Serafina figlia di Guid’Antonio conte d’Urbino, e moglie malarrivata di Alessandro Sforza signore di Pesaro; Eustochia dei signori di Calafato a Messina, fondatrice del Monte delle Vergini; Margherita di Ravenna, provata da Dio con dolorose infermità, fondatrice della confraternita del Buon Gesù; Stefania Quinzani d’Orzinovi, salita in tal fama di santità che le città se l’invidiavano, e il senato veneto e il duca di Mantova e quel di Milano le chiedevano direzione, e con limosine eresse un monastero a Soncino; Margherita di Savoja, vedova del marchese di Monferrato, che offertole da Cristo d’essere provata colla calunnia o la malattia o la persecuzione, tolse di subirle tutte. Ma la pietà di questi e d’altri, che diremo e che ometteremo, non bastava a quella riforma che avrebbe dovuto venire dall’alto. All’autorità dei pontefici, reggitrice del mondo per tutto il medioevo, erasi già prima avventato qualche ardito, come Arnaldo da Brescia e i Patarini; ma la critica rimaneva soffocata sotto l’universale consenso. Però l’opinione, fondamento del potere papale, avea ricevuto un grave crollo dalle contese con Filippo il Bello e cogli altri re, dove a vicenda eransi rivelate le debolezze di ciascuno; nell’esiglio d’Avignone i successori di Innocenzo III parvero ridursi in vassallaggio di principi; e persone pie, e massime gl’Italiani, considerandoli come disertori dall’ovile, non si faceano coscienza di rimproverarli con un’acrimonia che proveniva da riverenza al grado, ma scemava quella alla persona. Ne derivò lo scisma occidentale, in cui per quarant’anni si stette esitanti sulla promessa perpetuità della Chiesa. La quale, invece di concordare i principj com’è suo uffizio, sparpagliò zizzania; papi emuli si maledissero l’un l’altro; i vescovi eletti dall’uno impugnavano l’autorità degli eletti dall’altro, e tutti ebbero bisogno del braccio principesco per sostenere e la verità e l’errore; i concilj di Basilea e di Costanza proclamandosi superiori al pontefice, rinnegavano nella Chiesa la monarchia quando appunto veniva compaginata negli ordini civili. I re, aspiranti a concentrare in sè la potenza, allora colsero quel destro, e reluttando alle antiche prerogative di Roma, dissero: — Noi conosciamo e sappiamo fare il bene meglio della Chiesa; noi non dobbiamo dipendere da nessuno; nessuno vi dev’essere nei nostri Stati, che da noi non dipenda». Nella comune propensione di quel secolo a convalidare i principati sulle rovine delle repubbliche e dei Comuni, anche i papi procacciarono più solertemente negl’interessi temporali, o s’affissero a dare opulenza e stato alle proprie famiglie, da un lato accarezzando i potenti per averli cospiranti ai loro concetti, dall’altro spremendo i deboli. Per questo e per rinvigorire il loro principato terreno a scapito dei signorotti della Romagna che n’erano catene, annasparono una politica non immune di violenze e di frodi. Nella congiura de’ Pazzi vedemmo prelati cospirare per un assassinio in chiesa, e il popolo per vendetta impiccar fino un arcivescovo: prova di deperita religiosità ancor più della violenta diatriba, in quell’occasione avventata a Sisto IV, credesi, da Gentile de’ Becchi vescovo d’Urbino. Viene poi Alessandro VI: e se come uomo rimase tipo d’una ancor più romanzesca che storica infamia, come papa diede savie costituzioni; colla sì ingiustamente beffata delimitazione prevenne i conflitti della Spagna e del Portogallo nel Nuovo mondo; i contemporanei s’accordano a lodarlo d’aver tarpate le minute tirannidi; e molti confessano, come fu detto di Tiberio, che in lui andavano pari i vizj e le virtù. Dove non veglino i tirannici ordinamenti che la cristianità sconosce, neppur l’inettitudine o la malvagità d’un capo abolisce la bontà delle istituzioni e la consistenza degli intenti. Ormai però nel papa ricercavasi più il capo dello Stato che quello della Chiesa; e Giulio II fu tutto spiriti guerreschi quanto un vescovo del Mille; ricevuto il paese in tale scompiglio, che fin per Roma si battagliava, seppe ordinarlo, rimise al freno i baroni, e sarebbe a dirsi un eroe se l’armadura e la fierezza non disconvenissero al successore del pacifico pescator di Galileo. Senza violenza procacciatole il possesso d’Urbino, pose ogni cura a rendere robusta la Chiesa; non fece cardinali di case ricche: ma quando tu il vedi obbligato ad accampare egli stesso sotto al tiro del cannone, comprendi d’essere in un’età in cui i re credevano ancora a Dio, non più al papa; troppo differenti da quando una parola di Gregorio VII bastava a trarli umiliati dal cuore della Sassonia, a baciare scalzi il suo piede nel castello di Canossa. Leone X s’attaccò a spegnere le reliquie degli Ussiti in Boemia, diffondere il cattolicismo tra i Russi e gli Abissini, fondar chiese in America; ovvio lo scisma minacciato dal sinodo di Pisa; abolì la prammatica sanzione in Francia; il lungo e indecoroso litigio sui Monti di pietà terminò dichiarando non vedervi nulla d’illecito e usurario; e insinuava concordia a’ principi cristiani per opporli ai Turchi. Sobrio sempre, trascendeva i rigori ecclesiastici nei giorni di digiuno, e introdusse la commovente liturgia della settimana santa a Roma. Con limpida integrità conferiva i benefizj, raccomandando a’ suoi favoriti non gli facessero conceder grazie di cui dovesse pentire e vergognare, e piuttosto ai supplicanti soddisfaceva colla propria borsa. Ma d’altra parte le dignità ecclesiastiche non distribuiva come un premio d’insigne zelo o d’esemplare bontà, ma spesso dell’ingegno, comunque applicato; nè mai sì chiaro apparve come lo spirito gentilesco fosse penetrato fin nella corte pontifizia. Rampollo di casa dov’erano ereditarie la magnificenza e il patronato delle belle arti, papa sul fiore degli anni, colto, amabile, agogna le voluttà dello spirito, e di vedersi attorno faccie contente, e che tutti abbiano ad acclamare la beatitudine del suo tempo. Ora fa musica, ed egli accompagna a mezza voce le arie; sconcerta il suo cerimoniere uscendo senza rocchetto e talvolta fino in stivali; Viterbo e Corneto lo vedono a cavallo cacciar per giornate intere, pescare a Bolsena; fa recitare le commedie del Machiavelli e del Bibiena, e ogni anno chiama da Siena la compagnia comica dei Rozzi; bacia l’Ariosto; minaccia di scomunica chi ristampasse Tacito o l’Orlando Furioso, di cui accetta la dedica, come dell’Itinerario di Rutilio Numaziano, uno degli ultimi pagani accanniti contro il nascente cristianesimo; aggradisce le annotazioni d’Erasmo al Testamento Nuovo, che poi furono messe all’Indice; e la dedica del libro di Hutten sulla donazione di Costantino, dal quale Lutero disse aver attinto tutto il suo coraggio; e diede ad Aldo Manuzio il privilegio per la stampa delle costui _Epistolæ obscurorum virorum_. Convivi abituali teneva un figlio del Poggio, un cavaliere Brandini, un frà Mariano, tutti buontemponi che inventavano celie e piatti bizzarri, e che soffrivano qualunque tiro dal papa e da’ suoi. A un de’ Nobili fiorentino, detto il Moro, «gran buffone e ghiotto e mangiatore più che tutti gli altri uomini, per questo suo mangiare e cicalare avea dato d’entrate d’uffizj per ducento scudi l’anno» (CAMBI). Sopra cena tratteneva sei o sette cardinali dei più intimi, coi quali giocava alle carte, e guadagnasse o perdesse, gettava manciate di zecchini sugli spettatori. Le lettere non rispetta come matrone, ma accarezza come bagasce: se vede alcuno preso da vanità, esso gliela gonfia con onori e dimostrazioni, finchè divenga il balocco universale; come avvenne col Tarascon suo vecchio secretario, cui fece persuaso fosse improvvisamente divenuto gran dotto in musica, onde si pose a stabilire teorie stravaganti, e diventò matto. Altre beffe faceva a Giovanni Gazoldo, a Girolamo Britonio poeti, all’ultimo de’ quali fece applicare solennemente la bastonata per aver fatto de’ versi cattivi. Camillo Querno improvvisatore, gran beone, gran mangiatore, che gli si era presentato col poema dell’_Alessiade_ di ventimila versi, e di sue lepidezze gli ricreava le mense, fu da lui dichiarato arcipoeta. Il Baraballo abate di Gaeta a forza di encomj fu indotto a credersi un nuovo Petrarca, e Leone volle incoronarlo; e fattolo mettere s’un elefante donato da Emanuele di Portogallo, con la toga palmata e il laticlavio de’ trionfanti, lo mandò per Roma, tutta in festa e parati, e non guardossi a spese acciocchè il poetastro salisse in Campidoglio ad onori che l’Ariosto non ottenne. Questi e simili spassi del papa sono descritti da Paolo Giovio con un’ilarità, che anch’essa è caratteristica in un vescovo; com’è notevole la conchiusione a cui riesce, cioè ch’essi sono degni di principe _nobile e ben creato_, sebbene gli austeri le disapprovino in un papa[192]. Anche Rabelais francese, frate adoratore della _divina bottiglia_, e che domandava di professare sopra l’ubriachezza lucida, passato a Roma, facea rider di sè papa e cardinali, mentre raccoglieva onde rider di loro nel suo _Pantagruele_, libro stranamente audace, dove non la perdona tampoco a Cristo. Buon signore ma papa e principe riprovevole, Leone si avventurò ad una politica di capriccio, senza concetti elevati, e come un nuovo ricco sprecò nella pace i tesori accumulati da Giulio II in mezzo alle guerre, ne cercò di nuovi col vendere indulgenze, o coll’imporre tasse gravose; impegnò le gioje di san Pietro; nominò trentun cardinali a un tratto, fra cui due figli delle sue sorelle Orsini e Colonna, mentre da un pezzo si avea cura di non crescere con dignità il potere di quelle famiglie; inventò tante cariche da vendere, che a quarantamila zecchini aumentò le spese annue della Chiesa; e tutto avea consumato quando morì. Qual meraviglia se tutta la Corte sua paganeggiava? Si traeva ad ammirar sugli altari del Vaticano pitturate le amasie de’ pittori, e le belle di divulgata cortesia nella Vergine della casta dilezione. Alessandro VI fu dipinto dal Pinturicchio in Vaticano sotto forma d’un re magio, prostrato avanti una madonna ch’era la Giulia Farnese. Ligorio, nella villa Pia dei papi eretta per ricreazione, si mostrò gentilesco non solo nella costruzione, ma nelle scene e nelle figure. Tiziano ritrasse la regina Cornaro in S. Caterina; il Pordenone fece Alfonso I di Ferrara inginocchiato davanti a santa Giustina, la quale era Laura Dianti, druda di lui. Nell’adorazione dei Magi spesso si ritrassero i Medici, per aver pretesto di porvi in testa quella corona a cui aspiravano. Nella sacristia di Siena si ammiravano le tre Grazie ignude; e ignudi abbondavano sull’austera maestà delle tombe principesche, e fin nelle cappelle pontifizie. A Isotta, amasia poi moglie di Pandolfo Malatesta signore di Rimini, fu su medaglie e sul sepolcro dato il titolo di _diva_; e Carlo Pinti nell’epitafio di essa la dichiarava «onor e gloria delle concubine». In un sepolcro di San Daniele di Venezia leggeasi _Fata vicit impia_; e Paolo Giovio assunse per divisa, _Fato prudentia minor_. All’esaltazione di Alessandro VI le iscrizioni alludevano sempre al nome eroico: _Cæsare magna fuit, nane Roma est maxima: sextus Regnat Alexander, ille vir, iste Deus;_ e un’altra: _Scit venisse suum patria grata Jovem._ Per Leone X si fece quest’epigramma: _Olim habuit Cypris sua tempora, tempora Mavors Olim habuit; sua nunc tempora Pallas habet._ Marsilio Ficino provava la divinità di Cristo dall’esser egli stato predetto da Platone, dalle Sibille, da Virgilio, e dall’avere gli Dei molto benignamente testificato di lui (_Sulla religione cristiana_): e loda Giovanni Medici con queste parole: _Est homo Florentiæ missus a Deo, cui nomen est Joannes. Hic venit ut de summa patris sui Laurentii apud omnes auctoritate testimonium perhibeat_; e da Plotino fa dire sopra Platone: _Hic est filius meus dilectus, in quo mihi undique placeo: ipsum audite_[193]. Leone X eccitava Francesco I contro i Turchi _per Deos atque homines_. V’è chi chiama Olimpo il paradiso, Erebo l’inferno, _manes pios_ le anime de’ giusti, _lectisternia_ le maggiori solennità, arciflamini i vescovi, _infula romulea_ la tiara, _senatus Latii_ il sacro concistoro, _sacra Deorum_ la messa, _simulacra sancta Deorum_ le immagini dei santi. L’eloquenza sacra toglieva non solo le forme, ma e le autorità e gli esempj dai classici. Il Sadoleto, uno dei più pii di quel secolo, dirige una consolatoria a Giovan Camerario per la perdita di sua madre, tutta vertente sulla intrepidezza e la magnanimità pagana, senza pur toccare agli argomenti ben più efficaci della religione. Il Sannazaro invoca le muse per cantare il parto della Vergine, ma senza mai nominare _Jesus_ perchè non latino; perchè non è latino _propheta_, fa che Proteo vaticini al Giordano la venuta di Cristo; chiama Maria _spes fida Deorum_: l’angelo Gabriele la trova intenta a leggere le sibille (_illi veteres de more sibyllæ in manibus_): e quand’ella assente, le ombre de’ patriarchi esultano _quod tristia linquant Tartara, et erectis fugiant Acheronta tenebris, Immanemque ululatum tergemini canis_. Il dotto e santo vescovo Vida nella _Poetica_ non parla che di Muse e Febo e Parnaso, come i classici di cui raccozzava gli emistichj, e ai quali, principalmente a Virgilio, prestava un culto da Dio: fa un poema sul giuoco degli scacchi, ove alle nozze dell’Oceano colla Terra gareggiano Apollo e Mercurio: nella _Cristiade_ poi applica a Dio padre tutti i nomi di Giove (_Regnator Olympi, Superum pater nimbipotens_), il Figlio è un eroe (_heros_)[194]; Gorgone, Erinni, Arpie, Idre, Centauri, Chimere spingono gli Ebrei al deicidio: alla cena vien consacrato della Cerere sincera: sulla croce è porto al morente tristo umor di Bacco (_sinceram Cerem: corrupti pocula Bacchi_). Nei funerali di Guidobaldo da Montefeltro l’Odasio recitò nel duomo d’Urbino l’orazione, dicendo che coi sacramenti amministratigli dal vescovo di Fossombrone aveva placati gli Dei superi e i mani (_deos ille superos et manes placavit_), e più d’una volta esclama agli Dei immortali. Le allusioni gentilesche del Bembo strisciano all’empietà: fa Leon X assunto al pontificato _per decreto degli Dei immortali_; parla dei doni alla _dea lauretana_, dello _zefiro celeste_, del _collegio degli auguri_, cioè quello dei cardinali; chiama _persuasionem_ la fede, la scomunica _aqua et igni interdictionem_; fa dal veneto senato esortare il papa _uti fidat diis immortalibus, quorum vices in terra gerit_; e così _litare diis manibus_ è la messa dei morti; un moribondo s’affrettò _deos superos manesque placare_; san Francesco _in numerum deorum receptus est_. Ne’ versi poi anteponeva il piacere di veder la sua donna a quello degli eletti in cielo[195]; negli _Asolani_ conforta i giovani ad amare; e al cardinale Sadoleto scriveva: — Non leggete le epistole di san Paolo, chè quel barbaro stile non vi corrompa il gusto; lasciate da canto coteste baje, indegne d’uom grave»[196]. Nell’epitafio pel famoso letterato Filippo Beroaldo egli ne loda la pietà, per la quale suppone che canti in cielo[197]; eppure i costui versi ostentano gli amori colla famosa Imperia, e con un’Albina, una Lucia, una Bona, una Violetta, una Glicera, una Cesarina, una Merimma, una Giulia, le quali appaja a quella cortigiana; eppure era prelato. Il cardinale Bibiena si fece fabbricare sul Vaticano una villa, di voluttuose ninfe dipinta da Rafaello; sovrantendeva alla parte splendida della corte di Leone X, dirigeva i carnasciali e le mascherate; persuase il papa a far rappresentare la _Mandragora_ del Machiavelli e la propria _Calandra_, le cui scene da postribolo fecero ridere Leone che v’assisteva in palco distinto, e Isabella d’Este e le più eleganti dame d’Italia. Chi pari a lui per indurre alle pazzie i meglio assennati?[198] Si congratulava che Giuliano dei Medici menasse a Roma la principessa sua moglie, e «la città tutta dice, — Or lodato sia Dio, che qui non mancava se non una corte di madonne, e questa signora ce ne terrà una, e farà la croce romana perfetta»[199]. Accanto a loro monsignor della Casa componeva capitoli di trascendente lubricità, e domandava il cappel rosso non per le virtù proprie, ma «in mercè delle perpetua fede e della sincera ed unica servitù che avea sempre dimostrata ai Farnesi». E questi, e il Bembo, e il cardinale Ippolito d’Este, e tropp’altri ostentavano figliuoli. Che la forma non alteri le idee, rado avviene; e il ravvivato splendore dell’antichità abbagliava per modo, da non lasciar più vedere il cristianesimo. Il Guicciardini, il Paruta, il Machiavelli, il quale credeva all’astrologia e non a Cristo, sanno ammirare unicamente la civiltà anteriore al cristianesimo; Marsilio Ficino accende una lampada al busto di Platone. Più avanti si procedeva, e le due opposte scuole de’ Platonici e degli Aristotelici s’accordavano nell’osteggiare o almeno mettere da banda la religione, e in nome della filosofia sostenevano chi la mortalità dell’anima, chi l’unità dell’intelligenza, chi l’ispirazione individuale; men tosto eretici che pagani; non combattendo l’evangelica predicazione, ma affettando che mai non fosse sonata. Primo sintomo n’era la smisurata superbia, ciascun di quei dotti credendo suprema la propria scienza, come il viaggiatore crede il più eccelso il vertice del monte ove a stento si arrampicò. De’ filosofi, alcuni stavano fedeli ad Aristotele, meglio conosciuto dacchè studiavasi il greco; Leonico Tomeo veneziano ne impresse una traduzione, molti attesero a interpretarlo, altri a rammodernarlo mescolandovi un poco d’arabo, di scolastico, di platonico, di cristiano, sì da formarne un bastardume indicifrabile, ma anche sterile. L’arabo Averroe, il più vantato suo commentatore, il quale sosteneva l’unità e l’immortalità delle anime e Dio essere il mondo, era stato da Pietro d’Abano introdotto nell’Università di Padova, ove pose radici (t. VIII, p. 156): Gaetano Tiene assodò colà, Nicolò Vernia diffuse ad altre terre l’insegnamento dell’unità dell’intelletto, la quale al fine del Quattrocento regnava nelle scuole venete, come il platonismo[200] nelle toscane: Regiomontano dava lezioni pubbliche a Padova sopra Al-Fargani, e bene avanti nel secolo XVII durò colà quel realismo razionalista, sotto il quale ammantavasi il pensare indipendente. Francesco Patrizio illirico, che presunse fondare una filosofia nuova, esortava il papa a sbandire Aristotele come repugnante al cristianesimo, mentre in quarantatre punti vi aderiva Platone. E a Platone prestava culto Marsilio Ficino quanto a Cristo, vi trovava l’intuizione de’ misteri più profondi, il _Critone_ considerava come un secondo vangelo caduto dal cielo; ma Michele Mercato, un de’ suoi più diletti scolari, non sapea torsi i dubbj sull’immortalità dell’anima. Ed ecco una mattina costui è svegliato dal correre d’un cavallo e da una voce che il chiama a nome; s’affaccia, e il cavaliero gli grida: — Mercato, è vero». Egli avea pattuito col Ficino che, qual dei due morisse prima, darebbe certezza all’altro delle cose d’oltre tomba; e Ficino era appunto spirato in quell’istante. Pietro Pomponazzi mantovano, cattivo filologo e debole logico, ma arguto e vivace parlatore, tormentato dai dolori di Prometeo nell’incertezza del vero, e nell’accorgersi che la ricerca di questo rende beffati dal vulgo, perseguitati dagl’inquisitori[201], dubita fin della Provvidenza e dell’individualità dell’anima; promuove discussioni, senza riguardo ai dogmi nè alla disciplina; schiera le argomentazioni più speciose a provare che colla ragione non può dimostrarsi l’immortalità dell’anima nè il libero arbitrio; fa inventate dagli uomini le idee morali e le postume retribuzioni[202]. Sulla predestinazione erano allora comunemente accettate le decisioni di san Tommaso, e il Pomponazzi non esita a contraddirlo, e — Se fosse vero (dice) quel che molti Domenicani asseriscono, che quel santo avesse ricevuto realmente e davanti molti testimonj tutta la sua dottrina filosofica da Gesù Cristo, non oserei porre dubbio su veruna delle sue asserzioni, per quanto mi sappiano di false e impossibili, e ch’io vi veda illusioni e decezioni piuttosto che soluzioni: perocchè, come dice Platone, è empietà il non credere agli Dei o ai figli degli Dei quand’anche sembrino rivelar cose impossibili. Vero però o no che sia il racconto, io citerò di lui su tal soggetto cose che ispirano gravi dubbj, de’ quali e dagl’infiniti uomini illustri della sua _setta_ attendo la risoluzione». Vedete bel modo d’accettare la tradizione religiosa! E nel trattato delle _Incantagioni_ professa tenersi alla natura qualvolta i ragionamenti bastano a dar ragione di fenomeni per quanto straordinarj; e spiega moltissimi avvenimenti prodigiosi e miracoli, lasciando a parte quei del vangelo. Ricorre anche alla teurgia, alla quale arrivavano gli Aristotelici ragionando, come i Platonici contemplando, mercè degli studj orientali e della cabala, che derivava dalla parole di Ormus e precedeva quella di Hegel. Secondo il Pomponazzi, ogni cosa è concatenata in natura, onde i rivolgimenti degli imperi e delle religioni dipendono da quelli degli astri; i taumaturghi sono fisici squisiti, che prevedono i portenti naturali e le occulte rispondenze del cielo colla terra, e profittano dei momenti in cui le leggi ordinarie sono sospese per fondare nuove credenze; cessata l’influenza, cessano i prodigi, le religioni decadono, e non lascerebbero che l’incredulità, se nuove costellazioni non conducessero prodigi e taumaturghi nuovi. L’opera sua fu bruciata pubblicamente a Venezia; tolta a confutare da Alessandro Achillini averroista scolastico e da altri; eppure alla Corte di papa Leone la difese il Cardinale Bembo e le continue proteste di sommessione e la condotta intemerata salvarono dalla persecuzione l’autore, il quale seguitò a professare sicuramente a Bologna, dopo morte fu onorato d’una statua, e deposto nella sepoltura d’un cardinale. Non piccolo effetto esercitò egli sul suo tempo; e qualora un professore cominciasse le solite dissertazioni, i giovani interrompevano gridando: — Parlateci delle anime», per conoscere subito il suo modo di vedere nelle quistioni fondamentali. Facilmente da noi ogni sentimento divien passione, e gli scrittori contemporanei ci sono prova che quei pensamenti non erano un fatto isolato; certo vi aderirono Simone Porta, Lazzaro Bonamico, Giulio Cesare Scaligero, Giacomo Zabarella, Simone Porzio, la cui opera sull’anima è detta dal Gessner «più degna d’un porco che d’un uomo», eppure non gli partorì disturbi. Andrea Cesalpino, illustre naturalista, fa nascere le cose spontaneamente dalla putredine, mediante il più intenso calore celeste. Galeotto Marzio di Narni, nelle dissertazioni di filosofia avendo posto che, chi vive secondo i lumi della ragione e della legge naturale otterrà l’eterna salute, fu côlto dall’Inquisizione a Venezia, e s’un palco colla mitera di carta dipinta a diavoli, obbligato a ritrattarsi. Non ebbe maggior castigo in grazia della protezione di Sisto IV ch’era suo allievo; e ritiratosi in Ungheria, dove fu bibliotecario e educatore del figlio di Mattia Corvino, ne uscì per seguitare Carlo VIII in Italia, dove cascando di cavallo, si ruppe la persona. Nell’inedito suo libro _De incognitis vulgo_ i dogmi nostri confronta con quelli de’ pagani, nell’evidente intenzione di mostrare che non sono meno credibili questi che quelli. Mattia Palmieri, nella _Città della vita_, poema inedito, proclama la trasmigrazione delle anime, e nella orazione funebre recitatagli in chiesa, Alamanno Rinuccini mostrava deposto sul cadavere di lui quel libro, dove cantava come l’anima, sciolta dalla terrena soma, per varj luoghi girava, finchè giungesse alla superna patria. Agostino Nifo (_De intellectu_) sosteneva non esistere che un’anima ed un’intelligenza, sparsa in tutto l’universo, che vivifica e modifica gli esseri a sua voglia; pure Pietro Barozzi, vescovo di Padova, lo campò dalle minaccie, e Leon X il favorì, e pagollo perchè confutasse il Pomponazzi. Speron Speroni, a Pio IV che gli diceva, — Corre voce in Roma che voi crediate assai poco», rispose: — Ho dunque guadagnato col venirci da Padova, ove dicono che non credo nulla»; e poco prima di morire esclamò: — Fra mezz’ora sarò chiarito se l’anima sia peribile o immortale»[203]. Cesare Cremonino da Cento, professore a Ferrara e a Padova, troncava in modo risoluto e antifilosofico l’accordo tra la fede e la filosofia col dire: _Intus ut libet, foris ut moris_; e morto ottagenario dalla peste, anche dal sepolcro (almen lo dissero) volle protestare contro l’immortalità, mediante l’epitafio _Hic jacet Cremoninus totus_. Quando Erasmo da Rotterdam, il maggior erudito e forse il più franco pensatore fra i Tedeschi, fu a Roma, alcuno volle provargli non correre divario tra le anime degli uomini e delle bestie; e «non pareva fosse gentiluomo e buon cortigiano colui che de’ dogmi non aveva qualche opinione erronea ed eretica»[204]. Ecco perchè Leon X proibì d’insegnare Aristotele nelle scuole, e nel concilio Lateranese V ordinò di smettere la distinzione che faceasi delle opinioni, false secondo la fede, e vere secondo la ragione, ed esser eretico chi insegnasse una sola esser l’anima razionale, partecipata a tutti gli uomini, mentre invece è la forma dei corpi moltiplicata a norma di quelli; e ingiunse che gli ecclesiastici studenti nelle Università non si applicassero più di cinque anni alla filosofia o alla poesia, senza unirvi la teologia e il diritto pontifizio. Giovanni Pico della Mirandola a ventiquattr’anni mandava per Europa una sfida a sostenere novecento tesi, dialettiche, morali, fisiche, ecc., quattrocento delle quali avea dedotte da filosofi egizj, caldaici, arabi, alessandrini, latini[205], e le altre avevano opinioni sue, dichiarando sottomettersi alle decisioni del papa. E il papa le proibì. Ricco signore, innamorato degli studj, caro al magnifico Lorenzo, dai dotti della costui Corte aveva attinto quel misto di cabala, gnosticismo, neoplatonismo, giudaismo, che univasi colla letteratura gentilesca, col filosofare di Aristotele, d’Epicuro, d’Averroe, per gettare gli spiriti nel dubbio e in quel che ora intitoleremmo razionalismo. E a questo era giunto Pico, sebbene professasse rispetto per la santa Sede, e avesse mostrato le sue tesi a teologi provati; ma tredici principalmente furono dal pontefice disapprovate, dopo maturo esame. Le difese egli in un’apologia, poi le sostenne di nuovo nell’_Heptaplus de septiformi sex dierum geneseos enarratione_, nel _De Ente et Uno_, opere scolastiche, dal cui gergo non è così agevole il trarre un chiaro concetto. Riducesi però a mettere d’accordo Platone e Aristotele, e la teologia pagana colla mosaica e cristiana: aver Cristo confidato arcanamente alcune verità a discepoli suoi, tramandate a voce, il conoscere le quali è «fondamento grandissimo della fede nostra», e non vi si giunge che per mezzo della cabala, dalla quale per es. si impara perchè Cristo dicesse d’esistere prima d’Abramo, perchè dopo di sè mandasse il Paracleto, perchè venisse egli coll’acqua del battesimo, e lo Spirito Santo col fuoco. Vantavasi d’aver egli primo in Italia reso ragione dell’aritmetica teologica di Pitagora; l’unità numerica fondarsi sull’unità metafisica, la quale è al dissopra dell’ente. Fidato nella cabalistica, interpreta liberamente Mosè, che a prima vista sembra grossolano, attesa la legge degli antichi savj di velar le cose sublimi: altrettanto fece Cristo parlando per parabola al vulgo; e perciò san Giovanni, il meglio istrutto negli arcani, non scrisse che tardissimo, e san Paolo ricusava il vital nutrimento ai Corintj, ancora carnali, e Dionigi areopagita esortava a non mettere in carta i dogmi più reconditi. Egli dunque, spiegando il genesi, anche dove non s’abbandona alla fantasia, lo tratta come un mito, che riconosce in fondo a tutte le religioni antiche; la qual conciliazione tenta pure pei misteri cristiani, che rintraccia nella parte recondita delle filosofie. Ognun vede sin dove avesse a portare un tale eclettismo, molto divulgato alla Corte de’ Medici, e per nulla attenuato dalle ripetute proteste di soggezione alla Chiesa, mentre alla Chiesa volea sostituirsi nella definizione del dogma. E a ciò tendeva Pico per mezzo della cabala e dello studio dell’ebraico; e ne vennero quelle tesi, fra cui v’era che Cristo non discese agli inferni con reale presenza, ma solo coll’effetto; che al peccato mortale di tempo finito non deesi pena infinita; che niuna scienza ci certifica della divinità di Cristo quanto la magìa e la cabala; le parole _hoc est corpus meum_ sono ricevute materialmente, non con un vero senso; l’anima nulla intende distintamente se non se stessa. Niuna meraviglia dunque se, mentre i suoi libri erano applauditi come cosa più che umana dalla Corte e dalle accademie, Roma li riprovava, e Innocenzo VIII, malgrado le raccomandazioni del magnifico Lorenzo[206], mai non volle ritirarne la condanna. Pico, sempre più ingolfato negli studj, non sapea però darsi pace d’avere incorso la disapprovazione papale, si riprotestava di sentimento cattolico, per quanto vi fossero persone che lo istigavano a rompere affatto con Roma, ed eccitare un grande scandalo. Che anzi Pico disputava con Ebrei, affatto razionalisti; contro di essi sosteneva la fedeltà di san Girolamo nella traduzione dei salmi; voleva anche scrivere una grand’opera per confutare i sette nemici della Chiesa; ma non fece che la parte contro gli astrologi; macerava il corpo; consumava le veglie sulle sacre carte, e dopo che Alessandro VI lo assolse d’ogni censura, morì piamente in man de’ Domenicani, l’abito dei quali voleva vestire. Così erano sobbalzate le menti fra il dogma e il dubbio. Ma dietro alle sottilità astratte erasi insinuato un materialismo semplice e pratico, e i moderati credevano prestare omaggio alla fede col non riflettervi, accettare le credenze senza studio nè esame; ingerendosi così un’accidia voluttuosa che, come in tempi a noi vicini, chiamava spirito forte l’indifferenza, e lo sdrajarsi col bicchiere in mano e spegnere i lumi. Ben è degna d’osservazione la franchezza con cui dappertutto, ma più in Italia, si censuravano gli abusi insinuatisi nella Chiesa. Dante e Petrarca fulminarono la Corte romana, eppure non ne furono riprovati, nè tampoco proibiti i loro libri. Il Boccaccio, se in frà Cipolla non fa che canzonar gli spacciatori di reliquie, e in ser Ciappelletto le bugiarde conversioni, precipita affatto al razionalismo nella famosa storia dell’anello. Gli altri novellieri ridondavano di arguzie e d’avventure a carico dei monaci, e nessun peggio del Novellino di Masuccio salernitano[207]. La satira, impotente e contro l’Impero e contro i tiranni, si esercitò contro la lassa disciplina. Il Poggio, segretario che fu di tre papi, descrivendo in lettera a Leonardo Bruno il supplizio di Giovanni Huss e Girolamo da Praga, per compassione di essi inveisce contro Roma: le invereconde sue _Facezie_, ove insieme col vulgo e cogli aristocratici, cogli eruditi e coi parlatori, sono berteggiati gli ecclesiastici e la Corte pontifizia, si stamparono in Roma stessa il 1469. Gian Francesco Pico della Mirandola nel concilio Lateranese pose al pallio l’ambizione, l’avarizia, la scostumatezza del clero, con una franchezza che nessun eretico la ebbe maggiore, attestando il comune desiderio d’una riforma. Giorgio Trissino, placido ingegno, ch’ebbe onori e incarichi fin di ambascerie da due papi, nella _Italia liberata_ s’avventa contro i preti, i quali «spesse volte han così l’animo alla roba, che per denari venderiano il mondo», e da un angelo fa vaticinare a Belisario la corruzione in cui cadrebbe la Corte romana, sicchè i papi non penserebbero che a rimpolpare i loro bastardi con ducati, signorie, paesi; conferire sfacciatamente cappelli ai loro mignoni e ai parenti delle loro bagasce; vendere vescovadi, benefizj, privilegi, dignità, o collocarvi persone infami; per denaro dispensare dalle leggi migliori, non serbar fede, trarre la vita in mezzo a veleni e tradimenti, seminar guerre e scandali fra principi e cristiani, sicchè i Turchi e i nemici della fede se n’ingrandiscano; e conchiude che il mondo ravvedutosi correggerà questo sciagurato governo del popol di Cristo. Non era il concetto medesimo, per cui, nel secolo precedente, alcuni pii aveano fantasticato la venuta d’un papa angelico? Del resto il dire che la Corte romana fosse corrotta, venale la dateria, ribalda la sua politica, sprezzar le scomuniche, ridere dei frati, disapprovare il mercimonio delle indulgenze, impugnar le decretali, erano azioni consuetissime in Italia. Vaglia il vero, quando un potere non è contestato, e agli occhi di tutti serba il carattere sacro, si può giudicarlo eppur venerarlo, nè reca pericolo il biasimo che si porti sugli abusi non sull’essenza, e al quale non aggiustano idea d’insulto chi lo fa, nè idea d’offesa chi lo riceve. Ben d’altro passo procede la cosa quando, mancato il rispetto irriflessivo, si sottilizza il discorso, si diffonde la dottrina, s’insinua il dubbio erudito o la beffa religiosa. Con altra moderazione, ma anche piissimi uomini e molti vescovi nelle prediche e nelle pastorali gemevano degli abusi ecclesiastici, e reclamavano un rimedio. Il cardinale Sadoleto, stretto cattolico, nelle lettere ripete costantemente questa necessità[208], e Girolamo Negro dice che esso «ha in animo di scrivere un libro _De republica_, e di crivellar tutte le repubbliche del nostro tempo, _præcipue_ quella, non della Chiesa ma dei preti». Senza ritornare sul Savonarola, il primo anno di Leon X, un frà Bonaventura predicava a Roma d’essere il salvatore del mondo, eletto da Dio, la cui Chiesa avrebbe capo in Sionne; e più di ventimila persone accorsero baciandogli i piedi come a vicario di Dio; scrisse un libro «della apostatrice cacciata e maledetta da Dio meretrice Chiesa romana», ove scomunica papa, cardinali, prelati, predica che egli battezzerà l’impero romano, eccita i re cristiani ad accingersi d’armi ed assisterlo, e massime esorta i Veneziani a tenersi in accordo col re di Francia, il quale è scelto da Dio ministro onde trasferir la chiesa di Dio in Sionne, e convertire i Turchi. Nel 1516 fu arrestato e messo in castel Sant’Angelo[209]. «Il dì vigesimoprimo d’agosto del 1515, a Milano venne uomo secolare, di forma grande, sottile e oltremodo selvaggio, scalzo, senza camicia, col capo nudo, e capelli aggricciati e barba irsuta, e di magrezza quasi un altro Giuliano romita; solo avendo una vesta di grosso panno lionato; e il viver suo era pane di miglio, acqua, radici e simili cose; e a dormire solo un desco, o vero la nuda terra gli bastava. Andò dal vicario dell’arcivescovo per intercedere licenza di poter predicare; ma esso non gliela volle concedere; non pertanto egli il dì seguente cominciò nel duomo a predicare il verbo di Dio, e continuò sino a mezzo settembre, con tanta grazia di lingua, che tutta Milano vi concorreva. E dopo che aveva finito il predicare, se ne andava all’altare della Madonna, e a terra gittandosi, vi stava per un gran pezzo (credo) in orazione; e ogni sera poi alle ventitre ore faceva suonare la campana di esso duomo, d’onde molta gente vi concorrea con i lumi accesi a dire la _Salve Regina_; ma prima che la dicesse, stava circa mezz’ora in terra carpone. Denari in elemosina per modo alcuno non volea; e chi glieli offeriva, li facea donare all’altare della Madonna. Ma troppo era nemico de’ preti, e molto più de’ frati; e a ogni predica rimproverava loro grandemente, dicendo che la loro professione, la quale dovria esser povertà, castità e obbedienza, solamente era di rinunciare la fame e il freddo e le fatiche, e d’ingrassarsi nelle buone pietanze per amor di Dio; e quegli i quali non devono toccar denari, non solamente possedono de’ suoi, ma e dell’avere d’altrui divengono guardatori»[210]. Che più? la Chiesa confessava que’ disordini, e s’affaticava al riparo. Il concilio Lateranese era stato raccolto da Giulio II specialmente nell’intesa di correggere gli abusi curiali; e a ciò dirizzollo Leon X, che lo trasse a termine. I discorsi ivi recitati versano incessanti sulla necessità della riforma; e singolarmente quello tenuto alla nona sessione da Antonio Pucci, magnifica l’eccellenza della Chiesa, perchè maggiore appaja il dovere di rivocarla alla pristina purezza. Tutti, ma egli maggiormente, deploravano che a ciò si opponessero le nimicizie de’ principi cristiani; che, mentre tutti rigurgitavano di denaro, di popolazione, d’armi, di vigore, di genio, non sapessero adoprarli che ad empire il mondo d’ostilità reciproche, invasioni, correrie, saccheggi, incendj, micidj d’innumerevoli adoratori di Cristo: — O cuori affamati dei re, non mai satolli delle innocenti viscere de’ popoli! o terra assetata, gonfia da un fiume fumante di cristiano sangue! o cieca rabbia dei demonj, non calmata dagli innumerevoli macelli umani! Da vent’anni cinquecentomila Cristiani furono sgozzati di spada, e ancor n’avete fame? e ancor sitite sangue?» Ma un male ancor peggiore dichiarava, l’essersi provocata la collera di Dio con tante colpe; nè poter sopirsi la guerra esterna finchè non fosse tolta l’interiore dei vizj: — Vedete il secolo, vedete i chiostri, vedete il santuario; quali enormi abusi a correggere! Dalla casa di Dio bisogna cominciare, ma non fermarsi là»[211]. I decreti di riforma pubblicati in quel concilio sono eccellenti; vescovi non prima dei ventisette anni, nè dei ventidue gli abati; non si potranno dare in commenda i monasteri; non si permetterà di cumular benefizj se non per valide ragioni; i cardinali sorpassino gli altri per vita esemplare, recitino l’uffizio e la messa; nella casa e ne’ mobili non ostentino fasto mondano, nè nulla di sconveniente alla vita sacerdotale; evitino però anche l’avarizia, dovendo la casa d’un cardinale esser porto, rifugio, ospizio a tutte le persone dabbene, alle dotte, alle nobili decadute; trattino cortesemente i forestieri, decentemente gli ecclesiastici, umanamente i poveri; visitino ogn’anno la loro chiesa, non ne sprechino i beni; sappiano quali paesi sono infetti d’eresie o superstizioni, o dove rilassata la disciplina, o minacciata di danno, e ne informino il pontefice, suggerendo i rimedj. Ordini conformi si danno agli uffiziali della Corte romana e a tutto il clero. Un decreto ancor più memorabile vi si emanò: — La stampa, per favore divino perfezionatasi ai nostri giorni, è opportunissima a esercitare gl’intelletti, e formare eruditi, de’ quali godiamo veder abbondante la Chiesa. Pure udiamo lamenti che molti imprimano opere contenenti errori e dogmi perniciosi, e ingiurie a persone anche elevate in dignità; sicchè i libri, invece di edificare, guastano la fede e i costumi. Affine dunque che un’arte, felicemente trovata a gloria di Dio, incremento della fede e propagazione delle scienze utili, non divenga pietra d’inciampo ai fedeli, e volendo che essa prosperi tanto più quanto più vigilanza vi si apporterà, stabiliamo che nessun’opera si pubblichi se prima non sia riveduta dal maestro del sacro palazzo o dai vescovi, che vi metteranno la propria firma gratuitamente e senza indugio». E certamente un’alta e sincera volontà avrebbe potuto ricondurre a chiaro e cristiano scioglimento e a pacifica mediazione la sciagurata discrepanza delle idee pratiche e la complicazione degli interessi ecclesiastici e religiosi coi politici e secolari, e ingiovanir la Chiesa senza farla a pezzi nè buttarla nella caldaja di Medea, consolidando l’unità non distruggendola. Sciaguratamente intrometteansi le passioni politiche ad esacerbare le piaghe, e impedire i rimedj calmanti; Giulio II, scialacquando scomuniche per interessi mondani, provocò in Francia un ricolpo, espresso dal conciliabolo di Pisa, e prorompente anche in popolareschi drammi a tutto vilipendio della Corte romana. La Germania da un pezzo strillava del denaro che fluiva a Roma, e viepiù da che la curia papale si pose a capo della resistenza contro i Turchi, sicchè di nuove imposte e decime dovea sempre gravare per guerre che poi non sempre s’intraprendevano, o non riuscivano prospere[212]. La dieta d’Augusta del 1510 levò querele contro le pretensioni pontifizie, minacciando, se non vi si ponesse riparo, una generale rivolta contro il clero. Dal continuo mescolarsi de’ Tedeschi nelle vicende italiane era stata acuita la naturale antipatia delle istituzioni e delle nature germaniche contro le romane; e i nostri odiavano quelli come prepotenti, essi disprezzavano noi come fiacchi, e nella superiorità dell’ingegno scorgeano soltanto furberia e mala fede. Lo spirito romano che riunisce, e il germanico che separa, aveano lottato incessantemente: e mentre quello avviava all’unità giuridica, politica, religiosa, attuata anche nell’istituzione dell’Impero, questo tendeva a separare, sia nei feudi, o nei Comuni, o nelle minute signorie tedesche; ed oggi pensava farlo nella religione. Che se l’opposizione religiosa in Italia era ironica, beffarda, scettica, negava ma sottometteasi; in Germania, all’incontro, procedea positiva, credente, collerica, e proponeasi di demolire per rifabbricare. Ai nostri spettava il merito d’aver dissonnato la ragione col pensiero, colla libertà dell’arte, collo studio dei classici; ma la Germania sprezzava l’arte italica, quanto gl’italiani vilipendevano la scienza tedesca: infelice dissenso, per cui questa inaridì a segno da parere destituita d’ogni applicazione vitale, mentre la letteratura nostra riducevasi a un trastullo, a una distrazione dello spirito. E spesso i Tedeschi la appuntavano di scostumata, e Puyherbault diceva[213]: — A che buoni cotesti scribacchianti d’Italia? ad alimentar il vizio e la mollezza di cortigiani azzimati e di donne lascive; a stimolare le voluttà, infiammare i sensi, cancellar dalle anime quanto v’avea di virile. Di molto siam debitori agl’Italiani, ma togliemmo da loro anche troppe cose deplorabili. I costumi di colà sentono d’ambra e di profumo; le anime vi sono ammollite come i corpi; i libri loro nulla contengono di gagliardo, nulla di degno e di potente, e piacesse a Dio avesser tenute per sè le opere loro e i loro profumi! Chi non conosce Giovan Boccaccio, Angelo Poliziano, il Poggio, tutti pagani piuttosto che cristiani? A Roma Rabelais immaginò il suo _Pantagruele_, vera peste dei mortali. Che fa costui? qual vita mena? tutto il giorno a bere, far all’amore, socratizzare, trae al fiuto delle cucine, lorda d’infami scritti la miserabile sua carta, vomita un veleno che lontan si diffonde in ogni paese, sparge maldicenza e ingiurie su ogni ordine di persone, calunnia i buoni, dilania i savj; e il santo padre riceve alla sua tavola questo sconcio, questo pubblico nemico, sozzurra del genere umano, tanto ricco di facondia quanto scarso di senno». In Germania dunque la guerra già caldeggiava, benchè non ancora dichiarata. Erasmo da Rotterdam, dottorato a Torino il 1506 e accolto a Roma coll’affetto che prodigavasi ai cultori delle lettere, fino ad arrestarsi i cardinali ed il papa per salutarlo, deliziavasi di quei troppo facili costumi, e a Fausto Anderlini descriveva quelle voluttà, «per le quali (diceva) non rincrescerebbe rimaner dieci anni esule dal tetto paterno»[214]. Talento universale, umore comico, spirito filosofico, or coll’ironia or colla dottrina sbertava i monaci, tipi dell’ignoranza, del libertinaggio, della ghiottornia; e — C’è uom al mondo che campi più beatamente e con meno pensieri che questi vicarj di Cristo? Per Iddio credono aver fatto abbastanza quando, in mezzo delle più fastose cerimonie, in un mistico e quasi teatrale apparato, la loro santità viene a trinciar benedizioni o slanciare anatemi... Che dirò di quelli che colla fiducia delle indulgenze addormentano le coscienze, e quasi con l’oriuolo misurano la durata del purgatorio, ed a puntino ne calcolano i secoli, gli anni, i giorni, le ore? Non v’è mercante nè soldato o giudice che, coll’offrire uno scudo dopo rubatine migliaja, non presuma lavare ogni labe della sua vita». Eppure costui non ruppe colla Chiesa, ma della propria perplessità si fece una fede, sicchè rappresenta quel torbido d’indifferenza, ove il dubbio risparmia qualche tradizione. Ulrico di Hutten, cavaliere tedesco, tutto entusiasmo pel suo paese, sentendolo a Roma beffare da sette giovani, li sfida tutti; poi nella _Trinità romana_ sostiene che da Roma si riportino tre cose, mala coscienza, stomaco guastato, borsa smunta; che tre cose ivi non vi si credono, l’immortalità dell’anima, la risurrezione dei morti, l’inferno; che di tre cose vi si fa commercio, grazia di Cristo, dignità ecclesiastiche e donne. Dappoi fu detto il Demostene tedesco per le sue filippiche contro il papa; e peggior danno fece colle _Epistolæ obscurorum virorum_, ove canzona i frati e i teologanti[215]. E a Roma capitò pure, mandato per non so quale quistione insorta fra’ suoi Agostiniani, frà Martin Lutero, nato ad Eisleben l’anno che il Savonarola cominciò a predicare a Firenze, poi professore di teologia alla nuova Università di Wittemberg. In Lombardia prende scandalo d’un convento (1510) provvisto di trentaseimila zecchini di rendita: trova però dappertutto «gli ospedali ben fabbricati, ben provvisti, con buona dieta, servigiali attenti, medici esperti, letti e biancherie pulite, l’interno degli edifizj ornato a pitture. Appena un malato v’è condotto, gli si tolgono gli abiti facendone nota per custodirli, è vestito d’un palandrano bianco, messo in un buon letto; gli si menano due medici; gli spedalinghi dangli a mangiar e bere in vetri limpidi che toccano appena colle dita. Poi signori e matrone onorevoli vengono velate per servire i poveri, di modo che non si sa chi sieno. A Firenze ho veduto ricoveri, ove i gettatelli son nutriti che meglio non si potrebbe, allevati, istruiti, tutti in abito uniforme». Giunto alla gran città, Lutero visita le cappelle, crede tutte le leggende, prostrasi alle reliquie, sale ginocchione la scala santa. Stupisce di quella pulizia severa, per cui di notte il capitano scorre la città con buone scolte, punisce chi coglie, e se ha armi lo appicca o getta nel Tevere; ammira il concistoro e il tribunale della sacra Rota, ove gli affari sono istruiti e giudicati con tanta giustizia[216]. Ma l’anima sua, manchevole d’amore e d’umiltà, nulla comprende alla poesia del nostro cielo, delle nostre arti, al vedere tanti capolavori d’antichi, emulati dai nuovi colla penna, collo scalpello, coi colori, e sotto al manto papale raccolto uno stuolo di sublimi ingegni, uno dei quali basterebbe ad immortalare un paese, un’età. Uggiato, trova piovoso il clima, disagiati gli alberghi, aspro il vino, micidiale l’acqua, l’aria febbrile, e una natura meschina quanto gli uomini; fra le splendidezze del culto e la magnificenza de’ pontificali non calcola se non quanto denaro costano, e con che modo questo procacciavasi; resta scandolezzato ai reprobi costumi, agli aneddoti che spacciavansi sul conto di Leon X, alla sbadataggine di quei preti che «dicevano sette messe nel tempo ch’egli una sola», talchè i cherichetti gli ripetevano — Passa, passa»[217]; alla venalità della curia, disposta a dire come Giuda, — Quanto mi date? ed io ve lo tradirò». Rimpatriato con tali sentimenti (1512), s’ingolfò a studiar la Bibbia in greco e in ebraico; quando de’ suoi studi venne a stornarlo il dispetto per la vendita delle indulgenze. I concilj di Vienna, di Costanza, di Laterano aveano colpito di severo divieto questo traffico; ma Leone X credette sorpassarvi pel nobile oggetto di raccoglier fondi a due grandi imprese, la crociata contro Selim granturco, e l’erezione d’un tempio, al quale come ad immagine visibile tutti i Cristiani contribuissero[218]. Il medioevo nulla avrebbe trovato a ridirvi; ma le nazioni già prendeano il volo fuori del nido in cui aveano messe le penne; i principi, bisognosi di denaro, chiedeano parte a quest’insolito genere d’entrata, e voleano trafficar le indulgenze come trafficavano i voti per la corona imperiale. Giovanni Tetzel, domenicano di Pirna, dal nunzio Arcimboldo e dall’arcivescovo elettore di Magonza incaricato di riscuotere il prezzo delle bolle in Germania[219], adempì scandalosamente quest’uffizio, traversando la Sassonia con casse di cedole bell’e firmate; dove arrivasse alzava una croce in piazza, spacciava la sua merce nelle taverne, e — Comprate, comprate (diceva), che al suon d’ogni moneta che casca nella mia cassetta, un’anima immortale esce dal purgatorio»; e il popolo a calca versava talleri in cambio delle perdonanze[220]. — Farò un buco in questo tamburo», esclama Lutero indignato a quella profanità; ad alcuni che le aveano comprate nega l’assoluzione se non riparassero il mal fatto e si correggesse e alla chiesa di Wittemberg, nella solenne occorrenza dell’ognissanti (1517), affigge novantacinque tesi, sostenendo esservi abuso nelle indulgenze, e appartenere a Dio solo tutto il bene che l’uomo può fare. L’abuso confessato sarebbe potuto togliersi senza rompere l’unità della Chiesa; ma ogni cosa era preparata di maniera, che poca favilla destasse inestinguibile vampa. Lutero, benchè professasse sottomettersi alla decisione del papa, predicando su questa materia sbraveggia in tono di sfida; e dall’applauso popolare fatto confidente in sè e nella lettera della Bibbia, conculca la tradizione e la scuola, richiama ai primi tempi della Chiesa, aprendo così l’avvenire con un appello al passato. Tosto gli sorgono contraddittori: ma da una parte col sentenziare d’eresia ogni divergenza d’opinione si spingevano molti nel campo nemico; dall’altra le dispute faceano il solito uffizio di approfondar viepiù il frapposto fosso; si trascorreva dal censurare gli abusi all’intaccare i principj; dall’asserire che i prelati trascendevano, al revocare in dubbio la legittima potestà del papa e perfino l’autorità sua in materia di fede; e quando appunto le minacce dei Turchi rendevano necessaria una più stretta unione, la cristianità spartivasi in due campi, dapprima opposti, ben presto ostili. Eppure Roma si tacque nove mesi, non vedendovi nulla più che una delle quistioni, solite a nascere e morire tra frati ozianti e professori ringhiosi; i dotti di qua delle Alpi mal si capacitavano che da un Barbaro potesse uscire nulla di straordinario; il secolo invaghito delle arti credeva bastasse opporre ai sillogismi la fabbrica del Vaticano e il quadro della Trasfigurazione, linguaggio inintelligibile alla positiva Germania; e Leone X pigliava gusto a quelle sottigliezze, dicendo: — Frà Martino ha bellissimo ingegno, e coteste sono invidie fratesche»; alla peggio soggiungeva: — È un Tedesco ubriaco, e bisogna lasciargli digerire il vino»[221]. Massimiliano imperatore, più vicino all’incendio, ne conobbe la gravezza e sollecitò Leone, il quale, riscosso come chi è desto per forza, citò Lutero al suo soglio (1518 luglio). Frà Martino, mentre riprotestavasi sommesso al pontefice, erasi procurato appoggi terreni, e mercè dell’elettore di Sassonia impetrò fosse deputato uno ad esaminarlo in Germania. La scelta cadde su Tommaso De Vio cardinale di Gaeta, domenicano in gran reputazione di dottrina e santità, che già davanti al capitolo generale del suo Ordine aveva sostenuto una famosa disputa con Giovan Pico della Mirandola, e pubblicato un’opera sulle indulgenze, lodata da Erasmo come di quelle che _rem illustrant, non excitant tumultum._ Propose egli una disputa pubblica in Augusta, mal avvisando qual sia imprudenza il chiamar il senso comune a giudice in materie positive, fondate sull’autorità. Di fatto, ridotta la quistione ai veri e finali suoi termini, cioè l’obbedienza assoluta alla Chiesa come unica autorevole in materia di fede, Lutero negò l’incondizionata sommessione; poi fingendo di credersi mal sicuro, fuggì di piatto; e Leone approvò l’operato dai distributori delle bolle d’indulgenze, dichiarando eretico Lutero. Il quale, crescendo in baldanza per l’aura del popolo e degli scolari, omai non lasciava ferme che le verità letteralmente esposte nei due Testamenti e nei quattro primi concilj ecumenici; del resto rifiutava la transustanziazione, l’efficacia de’ sacramenti, il purgatorio, i voti monastici, l’invocazione dei santi. Al papa scrisse anche in tono di canzonella, compassionandolo come un agnello fra lupi, e ricantando tutte le abbominazioni che di Roma si dicevano: — Gran peccato, o buon Leone, che tu sia divenuto papa in tempi ove nol potrebb’essere che il demonio. Deh fossi tu vissuto di qualche benefizio o del paterno retaggio, anzichè cercar un onore sol degno di Giuda e de’ pari suoi da Dio rejetti». Leone allora, abbandonata la lunganimità, scagliò la scomunica (1520 15 giugno); e Lutero, imitando quel che Savonarola avea fatto co’ libri immorali, davanti agli studenti di Wittemberg brucia le decretali e la bolla (10 xbre), dicendo: — Oh potessi fare altrettanto del papa, il quale turbò il santo del Signore»; e giunta da sè la cocolla, sposa Caterina Bore smonacata, e cangia forma di culto. Dei giovani è sempre sicuro l’applauso a chi si avventa senza ritegni: le dispute venivano diffuse rapidamente dalla stampa, che parve allora soltanto accorgersi della sua potenza; le belle arti prestarono anch’esse sussidio, moltiplicando disegni, rilievi, caricature, ritratti, lenocinio alle moltitudini. Gli scienziati gongolavano tra quelle controversie, e scoprivano a Lutero forza d’ingegno meravigliosa: i letterati, sebbene scrivesse alla carlona, l’applaudivano di prender pei capelli la screditata scolastica e i frati, l’ignoranza e la pedanteria incarnata: i begli spiriti ridevano del papa, messo in sì male acque; ridevano insieme dei Riformatori, che prendeano aria di rigoristi entusiastici; e stavano a vedere chi prevarrebbe. Anche anime rette credettero in Lutero ravvisare l’uomo suscitato da Dio non per distruggere il dogma, ma per correggere le aberrazioni. Quei che s’ammantano col nome di moderati, perchè, simili a Pilato, dondolano fra Cristo e Barabba, deploravano quella scissura, ma credeano meglio non opporvisi, per non esacerbare, per non tôrre speranza, per non compromettersi. Alcuni risposero al novatore tessendo argomenti in quelle forme sillogistiche, di cui erasi abusato nelle dispute e fin ne’ concilj precedenti[222]; e Lutero sguizzava loro di mano con una celia, e coll’ardire proprio ringalluzziva gli scolari, che moltiplicavano applausi a lui, fischiate ai contraddittori. Sempre la forza anormale è ammirata, e trascina chi ha bisogno di movimento, e chi trova più comodo il pensare coll’altrui che colla propria testa. La nazionale indisposizione contro quanto stava di qua dall’Alpi trova sfogo in una guerra di nuovo conio, e che non cagionava nè spese nè pericoli nè spostamento d’abitudini; laonde i Tedeschi s’affezionano al nuovo Erminio, declamano contro malignità e finezze ch’essi non raggiungono, contro la gaja cultura da cui si trovano tanto lontani. E Lutero s’inoltra, e mentre Leone lo chiama ancora a penitenza, pubblica il trattato della _Libertà cristiana_. Tutto l’edifizio sacerdotale impiantavasi sulla credenza che le buone opere acquistino la salute; per demolir quello, Lutero nega che l’uomo possa cooperare alla propria salvezza. _Sola la fede salva_, è scritto nel Vangelo: noi siam corruzione e peccato, sicchè nulla possiamo se non quel che ci è _dato dal nostro divin Salvatore_, nè merito o giustizia vi ha se non in esso: onde sono inutili anzi nocevoli alla salute le buone opere dell’uomo, che non è libero della sua volontà; inutili le penitenze, i sacramenti, i suffragi pei morti, le altre opere satisfattorie. Al contrario, la Chiesa insegna che la fede senza le opere è morta, il che meglio si concilia col concetto del merito e demerito personale e della retribuzione divina, e con quel lume naturale dalla coscienza che illumina ogni uomo vegnente in questo mondo. Che se ci manca il libero arbitrio, per qual fine Iddio ci ha dato i suoi comandamenti? Lutero non esita a rispondere, che fu per provare agli uomini l’inefficacia della loro volontà, beffandoli coll’ordinar cose, ad osservar le quali non hanno forza[223]. Questo primo deviamento implicava che la Chiesa non è infallibile; che può discordare da essa la parola della santa scrittura, interpretata dai singoli con sincerità e invocando lo Spirito Santo. Fede dunque unicamente in quella, non badando a Padri o a concilj, ma al testo qual è da ciascuno interpretato. Nel qual modo egli vi leggeva, che Iddio è unico autore del bene come del male; i sacramenti dispongono alla salute, ma non la conferiscono; nella santa cena è presente Cristo, ma non transustanziato; il ministro è un uomo come gli altri, e in conseguenza non può assolvere i fratelli, nè deve distinguersi per voti e rigori; la giurisdizione religiosa spetta intera ai vescovi, eguali tra loro sotto Cristo che n’è il capo, e scelti dai principi. Insomma, per abbattere l’autorità ecclesiastica prevalsa, per inaridire la fonte delle ricchezze, dell’importanza della potestà del papa e dei preti, toglie la distinzione di spirituale e temporale; d’ogni laico fa un sacerdote dandogli la Bibbia, e «Interpretala come Dio t’ispira». Bisogna dunque vulgarizzarla. Fin nel primo secolo erasi voltata in latino; poi Ulfila la tradusse pei Goti, altri per gli altri popoli convertiti; nè forse c’è lingua che non ne possedesse versioni anteriori alla Riforma. Stando all’Italia, Giambattista Tavelli da Fusignano n’avea fatto una, a istanza d’una sorella di Eugenio IV: un’altra Jacopo da Varagine vescovo di Genova: quella di Nicolò Malermi frate camaldolese fu stampata a Venezia nel 1471[224], e ben trentatre volte riprodotta: ivi nel 1486 si stamparono _Li quattro volumini degli Evangeli, volgarizzati da frate Guido, con le loro esposizioni facte per frate Simone da Cascia_. Anzi Jacopo Passavanti, nello _Specchio di penitenza_, si lagna che i traduttori della sacra scrittura «la avviliscano in molte maniere; e quale con parlar mozzo la tronca, come i Francesi e i Provenzali; quali con lo scuro linguaggio l’offuscano, come i Tedeschi, Ungheri e Inglesi; quali col vulgare bazzesco e crojo la incrudiscono, come sono i Lombardi; quali con vocaboli ambigui e dubbiosi dimezzandola la dividono, come Napoletani e Regnicoli; quali con l’accento aspro l’irrugginiscono, come sono i Romani; alquanti altri con favella maremmana, rusticana, alpigiana l’arrozziscono; e alquanti, meno male gli altri come sono i Toscani, malmenandola troppo la insucidano e abbruniscono, tra’ quali i Fiorentini con vocaboli squarciati e smaniosi, e col loro parlare fiorentinesco stendendola e facendola rincrescevole, la intorbidano e rimescolano con _occi_ e _poscia, aguale, pur dianzi, mai pur sì_ e _berretteggiate_»[225]. Censuravasi dunque il modo, non si condannava il fatto; e Leon X fece intraprendere a proprie spese la stampa d’una nuova traduzione latina della Bibbia per Sante Pagnini lucchese[226], il quale poi, morto esso pontefice, la pubblicò a Lione nel 1527. Pantaleone Giustiniani, che fu frate Agostino da Genova, poi vescovo di Nebbio in Corsica, deliberato a pubblicarla in latino, greco, ebraico, arabo e caldeo, cominciò dal Salterio, dedicato a Leon X il 1516, in otto colonne, una col testo ebreo, le altre con sei interpretazioni e colle note: ma di duemila cinquanta copie, appena un quarto trovò compratori; il resto naufragò con lui nel 1586. Intanto la filologia era risorta, e la critica, addestrata sopra gli autori profani, volgeasi ai testi sacri; e nella baldanza di un nuovo acquisto, ciascuno volea cercarvi interpretazioni a suo senno. L’illustre tedesco Reuclino fece molte emende alla Vulgata; e se le menti anguste ne riceveano scandalo, Roma lo difese, tollerante fin dove non ne pericolasse l’unità della fede. È dunque ciancia che allora soltanto venisse divulgata la Bibbia; come non poteano dirsi nuove le dottrine di Lutero. Fin dalla cuna la Chiesa dovette colla parola sostenere le verità che suggellava col sangue, e raccolta attorno al successore di Pietro, discutere dogmi, e, secondo l’ispirazione dello Spirito Santo, fulminar la superbia della ragione, che, a guisa dell’antico tentatore, dice all’uomo — Tu sei Dio». Nel conflitto tra il pastorale e la spada quali non si erano agitate quistioni sulla potestà pontificia? e il mondo avea proclamato la superiorità della materia sullo spirito, della forza sul sentimento. I Valdesi, i Catari, e quelle varietà di novatori aveano accettato la Scrittura come unico giudice in materia di fede; la tradizione, come parola umana, andar soggetta ad errore; e solo la lettera di fuoco della Scrittura sfolgorar come sole, e rimaner sicura da inganno; inutile il culto esterno; il successore di Pietro essere un anticristo, la cui cattedra poco tarderebbe a diroccare. La libertà dell’esame non era stata la bandiera di ciascun eresiarca? e sulla Grazia, sulla giustificazione, sul purgatorio qual era verità od errore che non fosse stato messo in discussione? Lutero dunque non fece che raggranellare traverso ai secoli i dubbj, sostituire alla costanza della tradizione la volubilità di spiegazioni esoteriche, e colla franchezza che non si briga di metterle d’accordo, gettarle in un mondo più che mai disposto a quella semente. Pertanto, allorchè Leone scagliò la condanna definitiva (1521 3 genn.), Carlo V, che del papa avea bisogno in quel momento, proscrisse Lutero e chi gli aderiva; ma ben presto si trovarono cresciuti a segno da poter resistere all’imperatore, che, cambiate le necessità politiche, concedette l’_Interim_, cioè la tolleranza. Così rapida diffondeasi la Riforma in un decennio (1526) per le passioni che la fomentavano. Alle singole nazionalità costituitesi pareva un ceppo la monarchia papale: le classi medie, dopo fatto prevalere il possesso democratico al feudale, osteggiavano l’alta aristocrazia anche col sovrapporre la secolare alla dottrina ecclesiastica: i governi, invigoritisi, aborrivano un sistema che sottraeva al loro imperio parte dell’uomo e le coscienze: i principi, esausti dalle guerre e dalle truppe stabili, spasimavano dei beni del clero[227], da cui astenevansi solo per paura di Roma: monache e frati di fallita vocazione esultavano di scapestrarsi dall’esosa disciplina: i Tedeschi godevano di rinnegar il primato di questi Italiani, da cui erano stati impediti di soggiogare l’intera Europa. E Lutero, nel suo proclama alla Nobiltà Cristiana di Germania, la ingelosiva delle progressive usurpazioni del clero e di Roma contro la nazione tedesca, e — Via i nunzj apostolici, che rubano il nostro denaro. Papa di Roma, ascolta ben bene: tu non sei il più santo, no, ma il più peccatore; il tuo trono non è saldato al cielo, ma affisso alla porta dell’inferno... Imperatore, sii tu padrone; il potere di Roma fu rubato a te: noi non siam più che gli schiavi de’ sacri tiranni; a te il titolo, il nome, le armi dell’impero; al papa i tesori e la potenza di esso; il papa pappa il grano, a noi la buccia». Ma Lutero stesso già più non reggea le briglie del cavallo che aveva spronato; e per quanto, mentendo il proprio canone della ragione individuale, agli esageranti opponesse la santa Scrittura e i libri simbolici, non tardarono a scoppiare le conseguenze logiche della Riforma; dacchè ciascuno potea interpretarla a suo senno, la Bibbia fu recata a servire alle passioni; e i villani, lettovi che gli uomini sono eguali, scatenarono l’irreconciliabile ira del povero contro il ricco, bandendo guerra all’ordine, alla proprietà, alla scienza come nemiche dell’eguaglianza, alle arti belle come idolatria. Terribile esempio ai novatori che, sia pur con magnanima intenzione, s’avventano nell’avvenire senza riverenza pel passato. Lutero, sbigottito da sì fiere conseguenze sociali, si volse a ringagliardire il principato: e di qui comincia l’azione politica della Riforma, qual fu d’attribuire ai principi l’autorità in materie ecclesiastiche, talchè ogni suddito dovesse credere e adorare come voleva il principe, secondo quel canone, _Cujus regio ejus religio_. Poi i fratelli uterini della Riforma furono presto in disaccordo fra loro. Contemporaneamente a Lutero, e senza sapere di lui, il curato svizzero Ulrico Zuinglio, che aveva militato in Italia come cappellano, predicò a Zurigo (1518) contro frà Bernardo Sansone milanese che vi vendeva le indulgenze, poi contro l’abitudine de’ suoi di servire a soldo straniero; e dietro a ciò, che il pane e il vino della Cena fossero meri simboli del sacrosanto corpo e sangue, e altri dogmi che pretendeva antichi, e che furono accolti in molta parte della Svizzera. Il francese giureconsulto Giovanni Calvino risolve di riformare la Riforma e sistemarla; e se Lutero aveva abbattuto la monarchia cattolica per favorire i vescovi tedeschi, Calvino prostra quest’aristocrazia luterana (1535), secondo le idee repubblicane di Ginevra; abolisce il vescovato, per affidare la scelta del ministro alla comunità religiosa; nega il mistero, sopprime nel culto tutto ciò che colpisce i sensi, ripone la certezza nella rivelazione individuale; l’arbitrio è libero, ma per iscegliere il bene è necessaria la Grazia; e questa sola, non le opere producono la giustificazione; nulla rimane al battesimo della sua misteriosa efficacia, i figli degli eletti appartenendo per nascita alla società redenta; nulla alla penitenza, poichè il vero eletto non può ricadere; nella santa cena non sono transustanziate le specie, ma sotto que’ simboli il Signore comunica veramente Cristo per nutrir la vita spirituale. Su queste dottrine, sostenute con inesorabile intolleranza, è fondata la principale suddivisione de’ Riformati in Luterani e Calvinisti; o, come essi dissero allora, Protestanti della Confessione augustana ed Evangelici. Indarno Lutero s’arrovella, pretendendo vera unicamente la sua: ma e Melantone e Carlostadio ed Ecolampadio ed Engelhard uscirono con dogmi nuovi, modificati a senno di ciascuno e a norma della costituzione del paese: inevitabile sbranamento là dove a ciascuno è libero l’interpetare. Poi gli Anabattisti impugnarono anche le sante Scritture; gli Unitarj, che vedremo prevalenti in Italia, esclusero la Trinità; in somma si repudiava il cristianesimo in conseguenza di dottrine proclamate a titolo di riformarlo, riducendosi il protestantismo a negazione sistematica dei dogmi della Chiesa. Le quistioni religiose, per quanto pajano astratte, non può farsi che non penetrino nelle viscere della società; e di fatto l’intero ordinamento di questa n’era scompigliato; il carattere teocratico se ne dissipava; l’indipendente interpretazione toglieva l’universalità del pensare, e que’ canoni ch’eransi accettati come senso comune; i figli dissentivano dal padre, fratelli a fratelli, mogli a mariti contraddicevano; e la scossa domestica si propagava alla società civile, dove ciascuno pretendeva operare a sua voglia, dacchè a sua voglia pensava; dove i principi più non riconosceano ritegni, dacchè essi dirigevano anche le coscienze. N’erano sovvolti gli Stati; e la Svizzera, la Francia, la Germania, tutto il Settentrione per un secolo e mezzo fortuneggiarono fra rivoluzioni e guerre, per le quali con torrenti di sangue furono mutate quasi dappertutto le forme di governo. Vedremo altrove la parte che ne toccò anche agli Italiani, e come a torto Voltaire, colla spigliatezza che in lui era sistema ed artifizio, asserisse che «questo popolo ingegnoso, occupato d’intrighi e di piaceri, nessuna parte ebbe a que’ commovimenti». CAPITOLO CXXXV. Clemente VII. Sacco di Roma. Pace di Barcellona. Giulio de’ Medici cavaliere gerosolimitano, destro in armi, in trattati difficili, in cabale, era stato la man dritta di Leon X suo cugino, e principale nel ripristinare la sua famiglia in Firenze, dove poi fatto arcivescovo e cardinale, regolò le cose in modo di farsi ben volere; andò come legato dell’esercito pontifizio in Lombardia, poi a Roma: quando morì Adriano VI, sant’uomo e inetto principe, nel conclave si guadagnò il cardinale Colonna, dapprima avversissimo, col promettere di cedergli il lucroso uffizio della vicecancelleria, e riuscì papa (1523 18 9bre) col nome di Clemente VII[228]. Sulle morali sue doti concordano i contemporanei; e fra gli altri l’ambasciator veneto Marco Foscari ne scriveva alla Signoria veneta: — Discorre bene, vede tutto, ma è molto timido. Niuno in materia di Stato può sopra di lui: ode tutti, e poi fa quello che gli pare. Uomo giusto e uom di Dio... quando segna qualche supplicazione, non revoca più, come faceva papa Leone, il quale segnava a molti. Non vende benefizj, non li dà per simonia, non toglie ufficj per dar beneficj, come faceva papa Leone, ma vuole che tutto passi rettamente. Non ispende nè dona quello degli altri; però è reputato misero... Fa pure assai limosine, e ha dato a chi trecento, a chi cinquecento, a chi mille ducati per maritar figliuole: nondimeno in Roma non è amato molto. È continentissimo; vive parcamente;... e sempre quando mangia ha due medici presenti, coi quali parla delle qualità delle cose che si mangiano; poi parla in filosofia o in teologia con altri che sono lì... Non vuol buffone nè musici,... e tutto il suo piacere è di ragionar con ingegneri e parlar di acque»[229]. Ma come pontefice e principe la storia non può che sentenziarne severissimamente. Il dominio temporale dei papi non era mai stato così esteso e consolidato quanto allora; eppure, sgomentato dall’assalto che vedea portarsi all’autorità spirituale, vacillò in ogni atto[230], quasi l’irresoluzione fosse prudenza e abilità l’incostanza; Clemente si lasciò invadere dal sentimento della propria impotenza; e proponendosi di logorar la Francia coll’Impero e l’Impero colla Francia, or all’uno gettandosi or all’altra secondo la gelosia, nè amato nè temuto, diviso d’interessi, nè buon papa riuscì nè buon italiano; spense la libertà del suo paese, e trasse sull’Italia flagelli, di cui una parte lui pure percosse. Il tesoro esausto da Leone X cercò risanguare con meschini spedienti e sordide economie sulle pensioni, sui lavori pubblici, sulle paghe dei soldati, sui posti gratuiti ne’ collegi, sul monopolio dei grani, invece di metter riparo alle mangerie degl’impiegati e allo sciupìo dell’amministrazione. Ma suprema cura ebbe il dare stato a’ suoi parenti, benchè del ceppo di Cosmo non restassero che lui, Ippolito e Alessandro, tutti bastardi. Avea sempre favorito Spagna, e si vantava sempre d’aver impedito Francesco I di spingersi fin a Napoli nella prima invasione; indotto Leon X a lasciare che Carlo avesse la corona imperiale, e la tenesse unita alla napoletana; favoritone la lega per riprendere Milano; poi l’elezione d’Adriano VI; «e per questi fini non aver risparmiato tesori d’amici, della patria, e suoi»[231]. Sgomentatosi però di veder gli Spagnuoli assisi in Lombardia, fluttuò, poi si chiarì pel Cristianissimo. Contro di questo, Carlo V provvedeva armi e navi, l’Inghilterra denari, e il Pescara, col Borbone che avea sollecitato a invadere la Francia, passò il Varo: ma l’assedio di Marsiglia, dopo quaranta giorni, li stanca, onde si ritirano come in fuga; e Francesco I, sopraggiunto (1524) a punire la _rodomontata spagnuola del disertore_, traversa il Moncenisio con quarantamila uomini impegnati a vendicare la patria e con formidabile fanteria svizzera, e senza badarsi attorno alle fortezze come aveva fatto l’ammiraglio Bonnivet (pag. 252), e in nessun luogo arrestato dagli scompigliati Imperiali, per Vercelli si difila sopra Milano. Gl’Imperiali v’aveano recato la peste, onde e lo Sforza e il suo cancelliere Morone n’erano usciti; il Pescara vedendo non potersi tener in città vuota d’abitanti e di vittovaglie, dopo munito il castello, se n’andò, e i Francesi entrativi posero a guasto. Perduta la speranza di vincere e saccheggiare, molti Imperiali disertavano, gli uffiziali dissentivano nei partiti, e Francesco, se gli avesse incalzati, compiva la vittoria; ma il Bonnivet distoglieva dalle imprese ardite, quasi disdicessero alla dignità di re: sicchè si limitò ad assediar Milano e Pavia (8bre); e quivi indugiandosi fra i piaceri d’un mite inverno, le lautezze della Certosa e gli spassi del parco di Mirabello, confortato anche dall’alleanza di Clemente VII, credendo aver di fatto tanti soldati quanti gliene facevano pagare, ne spedisce porzione alla conquista di Napoli. Ma il tempo ch’egli logora, lo guadagna Anton de Leyva, valoroso spagnuolo che aveva assistito a trentatre battaglie e quaranta assedj[232]; il Borbone faceva denari d’ogni parte; il Pescara cercava corrompere i fedeli di Francesco; e Gian Giacomo Medeghino, avventuriero milanese che fra quei trambusti erasi creato una dominazione sul lago di Como, potè, assalendo Chiavenna, impedire i soccorsi che mandavano i Grigioni alleati di Francia; sicchè gl’Imperiali, raccozzatisi d’ogni banda col Lannoy per allargare Pavia, tolsero in mezzo i Francesi. Mentre già la guerra si era ridotta a tattica, il re si ostinava sulle prodezze dell’antica cavalleria e sul puntiglio di non ritirarsi mai; e quantunque assai inferiore di numero, accettò la battaglia (1525 24 febb.), ove perirono ottomila de’ suoi con una ventina de’ maggiori capitani, tra cui il Bonnivet, Galeazzo Sanseverino, La Palisse, Aubigny, La Trémouille: il re medesimo, circondato da nemici che nol conoscevano, si difese finchè incontrò il vicerè Lannoy, al quale rassegnò la spada, ch’egli ricevette in ginocchio, e gliene rese un’altra. Erano pure rimasti prigioni il re di Navarra, il bastardo di Savoja, il maresciallo di Montmorency, due Visconti e un venti altri personaggi di conto, tutti gli attiragli del re e le sue artiglierie, mentre la ciurma ne saccheggiava perfino i vestimenti. L’esercito francese non oppose più la minima resistenza; gli Svizzeri, per sottrarsi all’odio nazionale de’ Tedeschi, gettaronsi nel Ticino, ove moltissimi affogarono. Sebbene il re scrivesse a Luigia di Savoja sua madre, «Tutto è perduto fuorchè l’onore»[232a], Carlo V sentiva non esser perduto nulla, e che Francia rimaneva intera anche senza il suo re. Pertanto sulle prime mostrò quella moderazione che raddoppia merito alle vittorie; non feste nè _Tedeum_; riconoscervi la mano di Dio, rallegrarsene solo perchè tale accidente farebbe cessar l’effusione del sangue; non ascoltò al duca d’Alba che consigliava subitamente d’invadere la Francia costernata; null’ostante fece chiudere Francesco in Pizzighettone; se voleva liberarsi gli cedesse la Borgogna, Milano, Asti, Genova, Napoli; e avutone il niego, lo mandò cattivo a Madrid. Questo caso inaspettato recideva i sotterfugi d’una politica che si era appoggiata a un uomo, anzichè ad una nazione; i principi d’Italia, che aveano sperato vedere i due re indebolirsi a vicenda, si trovarono agli arbitrj d’un esercito vincitore, insubordinato, rapace, e d’un imperatore inorgoglito. I generali spagnuoli, più non temendo la concordia de’ principi italiani, colpirono i singoli con enormi contribuzioni, e così pagato l’esercito, tiranneggiarono ed espilarono. Clemente VII, scoperto de’ suoi maneggi, trovavasi esposto alla procella, mentre la sua finezza compariva malizia, la generosità medicea risolveasi in lesinerìa, la sua politica in quel tentennare, che avversa tutti i partiti e stomaca il popolo, disposto ad ammirar la risolutezza anche quando gli è nocevole: e vistosi alla mercede degli stranieri per non aver osato porsi a capo de’ nostri, mutò linguaggio, e unì i suoi ai rammarichi di tutta Italia. Francesco Sforza, in cui nome era stato ricuperato il Milanese, sentiva che Carlo, sebben ne l’avesse investito per seicentomila zecchini e coll’obbligo di tener guarnigioni tedesche, mirava ad aggregare il ducato ai suoi possessi ereditarj. Buono ma inetto, e a discrezione degli stranieri che l’aveano rimesso, non poteva che gemere dell’agonia del paese, dilaniato dalla peste, e da quell’altra de’ lanzichenecchi, i quali nè tampoco capivano la lingua in cui i nostri ne imploravano la misericordia. Il cancelliere Morone, dopo procurato amicarsi i Milanesi coll’istituire un senato, corpo irremovibile e irresponsale, che vigilava l’esazione delle imposte, rendeva robusta e imparziale l’amministrazione della giustizia, rivedeva gli atti legislativi del principe, non sapeva darsi pace di quell’abiezione, e concepì il divisamento d’una lega italica per assicurare l’indipendenza; Enrico VIII la favoriva per gelosia di Carlo; la reggente di Francia prometteva sussidj, fidando per questa diversione ottenere migliori patti a riscattare il marito. Capitanava allora l’esercito imperiale Francesco marchese di Pescara, nato in Italia dagli Avalos spagnuoli. Segnalatosi alle battaglie di Ravenna, della Bicocca, di Pavia, lodato per ingegno inventivo, operosità, stratagemmi, prendeva a vile la coltura italiana, doleasi di non esser nato in Ispagna, nè parlava che spagnuolo; e gl’Italiani lo trovavano «superbo oltremodo, invidioso, avaro, ingrato, venenoso e crudele, senza religione, senza umanità, nato proprio per distruggere l’Italia» (VETTORI). A lui davasi principal merito della vittoria di Pavia, nella quale era anche stato gravemente ferito[233]; sicchè corrucciossi dell’avere il Lannoy mandato in Ispagna il reale prigioniero, che l’esercito volea serbare come pegno delle dovutegli paghe: per queste promise libertà a Enrico II re di Navarra per ottantamila ducati, ma Carlo V non v’assenti. Di queste due scontentezze erasi egli aperto più volte col Morone, il quale sperò trarlo al partito italiano, se non per sentimento nazionale, almeno lusingandone la vanità. E scandagliatolo, gli espose: «Una lega fra la reggente di Francia, il re d’Inghilterra, gli Svizzeri, tutti i principi e le repubbliche d’Italia, si tesse per cacciare i Barbari: capo ne sarete voi stesso, che colle vostre disarmerete le truppe dell’altro capo d’esercito comandato dal Leyva, aiutandovi l’ira del popolo, esasperato da tanti strazj. Colle forze unite moveremo alla conquista di Napoli, di cui il papa è disposto a darvi l’investitura, e dove i regnicoli anelano di vedersi governati da voi, loro compatrioto. Sbrattata Italia dagli stranieri, a chi meglio che a voi potrebbe conferirne la corona il voto popolare? A voi i posteri asseriranno il glorioso titolo di liberatore dell’Italia». Non rimase egli sordo: consulti di gentiluomini e di teologi tranquillarono l’onor suo e la sua coscienza, prima che capitano di Cesare essendo egli cittadino di Napoli e suddito del papa. Ma presto il Pescara si ravvide; e educato ne’ romanzi spagnuoli a idee esagerate di lealtà, non aborrì per essa di scendere all’infamia di agente provocatore: continuò a tenere in susta i congiurati; poi richiese il Morone a nuovo colloquio nel castello di Novara (1525 14 8bre). Quivi si fece divisare per filo e per segno le pratiche, i complici e i mezzi di riuscita; ma dietro agli arazzi avea nascosto Anton de Leyva: onde subito il cancelliere fu sostenuto ed esaminato alla presenza del marchese medesimo. Il quale poco dopo morì di trentasei anni (30 9bre), e mentre poteva aspirare all’immortalità, preferì affiggersi alla gogna di spia, non temperatagli dai poetici laj della sua vedova Vittoria Colonna[234]. Il Morone protestò contro l’arresto, non essendo egli suddito di quel che il sosteneva e giudicava; ma benchè trattato con riguardi, fu sempre tenuto prigione. Il duca Sforza venne sottoposto a processo come complice a guisa d’un privato. Milano assediata, bombardata, esposta agli orrori d’un governo militare, infine fu costretta di viva forza giurar fedeltà al re di Spagna. Allora gl’Italiani conobbero a che estremo si trovasse la loro indipendenza. Venezia, assumendo il posto di tutrice della libertà, che Firenze avea perduto, armava e raddoppiava istanze a papa Clemente, che da senno unendosi con essa, la quale aveva un esercito intatto, e col duca di Ferrara, avrebbe potuto sostenere l’onore italiano contro un esercito sbandantesi per mancanza di paghe. Clemente non amando il fatto, adoprò parole, e descrisse all’imperatore lo sbigottimento cagionato dall’occupazione del Milanese: — Con quest’apparenza manifesta della ruina d’Italia, quelli che di sè temevano ed a vostra maestà erano poco amici, non cessarono confortarci che, da buon principe italiano e da vero papa, proibissimo la servitù e l’oppressione d’Italia...; e benchè noi alcuna volta fossimo d’animo sospesi, e dubbj della mente della vostra maestà verso noi, vedendo da’ ministri di quella fattici molti oltraggi nel nostro Stato e sudditi, nientedimeno mai non volemmo stringere conclusione, che ci levasse dall’amicizia e dall’amore di quella... tenendo ferma speranza che quel che tante volte ha promesso di stabilire in libertà i potentati d’Italia, ora tanto più diligentemente farà, quanto l’occupazione del Milanese fu a questa aspettazione più contrario. Vostra maestà tante volte ha detto voler la pace e la libertà d’Italia; eccone il tempo: col restituire lo Stato al duca di Milano levi dagli animi d’ognuno una paura e disperazione tale, che può accender grave incendio. Questi atti, figliuol nostro carissimo, la morte e il tempo non possono annichilare; col sacrificare qualche disegno particolare al ben pubblico si guadagna il cielo, ed appresso la posterità nome immortale. Se vostra maestà si lasci persuadere da un suo buono ed affettuoso padre, noi le offriamo non solo decime e crociate e cappelle e tutto quello che per la spirituale e temporale podestà da noi si può fare, ma il sangue ancora e la vita nostra ad ogni esaltazione e satisfazione sua»[235]. Clemente dunque sentiva i doveri di Carlo e i suoi proprj; poi al fatto barcollava e ricorreva alle subdole vie, tanto conformi alla politica d’allora; e appena Carlo assicurò ai Medici Firenze, il papa si chiarì per esso e l’accomodò di denaro. In questo mezzo la Sicilia ripeteva indarno i suoi privilegi da un re padrone di mezzo mondo; Napoli era a baldanza rapinata dai capitani e dai magistrati, che nello smungere le ricchezze ne esaurivano le fonti; Toscana vedeva agonizzare la sua libertà; Romagna avea sofferto a vicenda da indocili tirannelli e da pontefici ambiziosi; in Lombardia non cessava la guerra guerreggiata, dove molte città furon prese e riprese, e le campagne rifinite; a tutti poi sovrastavano eserciti di reclute straniere, compre alla spicciolata, o condotte da capitani intesi solo al bottino, disposti a voltarsi contro colui che gli assoldava, e volenti la guerra, unica loro vita, dovessero anche condurla per proprio conto. In Lombardia si erano anche rideste le fazioni dei Guelfi e Ghibellini, e sorti molti capibanda, che in tempi quieti si chiamano masnadieri, e ne’ torbidi pretendon nome d’eroi; fra essi e con essi elevavansi alcuni signorotti, coll’unica ragione della spada, coll’unico desiderio di potere ogni lor voglia. Tra questi ottenne rinomanza Gian Giacomo, d’una famiglia Medici milanese in nulla attinente alla fiorentina, e soprannominato il Medeghino. Cominciò sua carriera con _virili vendette_, e cercato al castigo, si buttò all’armi; nè la sua potenza sarebbe spiegabile quando non si ricordasse che, nei giorni d’agitazione, migliaja si rannodano a chi mostri forza ed offra probabilità di esercitar il valore e di rubare; si riesca o no, poco monta. Il Medeghino parteggiò coi Ghibellini, che volea dire coi fautori di Spagna; per secondare il Morone a cui era caro, colse un corriere francese, l’ammazzò, e dai toltigli dispacci prese norma; e cogl’Imperiali entrato in Milano, gli ajutò ad occupare il lago di Como. A Francesco Sforza tornato in dominio prestò il braccio per disfarsi di Astore Visconte, particolare suo nemico; e in premio dell’assassinio chiese il castello di Musso. Lo Sforza e il Morone finsero dargliene la patente, diretta al castellano; ma invece conteneva l’ordine d’arrestarlo. Egli, insospettito, aperse la lettera e ne sostituì un’altra, in vista della quale gli fu rassegnato il castello: egli dissimulò, e il duca dovette inghiottire. Quel castello accavalcia un promontorio nelle parti superiori del lago di Como, ed oltre la naturale difficoltà del monte da tre parti scosceso, il maresciallo Trivulzio, cui era appartenuto, l’avea cinto di buone fortificazioni, alle quali il Medeghino ne aggiunse di nuove, tanto da renderlo inespugnabile. Il lago e le montagne circostanti erano infeste da banditi, che facendosi parte da sè fra lo scompiglio universale, rubavano, uccidevano, sfidavano le leggi, sicchè guaj ai pacifici. Il Medeghino fiaccò gli uni, altri raccolse intorno a sè disciplinandoli; istituì un consiglio di finanza ed uno di giustizia per tenerli in freno; ebbe eccellenti ingegneri; con soldatesca affabilità amicandosi i subalterni, i signori coll’ajutarli di denaro, di braccia, di protezione, signoreggiò in quel contorno, ed ora secondò il duca, ora l’affamò impedendo il trasporto de’ grani; assalendo la Valtellina e Chiavenna, obbligò i Grigioni a revocar le truppe che servivano sotto re Francesco, il che fu precipua causa della rotta di Pavia. Occupato dagl’Imperiali il ducato, neppur a questi egli piegò; e leone e volpe alternamente, si sostenne atterrendo le vicinanze. Ebbe anche il contado di Lecco, che apparteneva al Morone, il quale fu compensato con terre in Brianza; ivi battè moneta; a poco più otteneva anche Como; e possente d’oro, d’uomini, di delitti, furbissimo in età di furbi, guadagnando con tutti i partiti, tenendo intelligenze e spie in ogni canto, affettava un esteso dominio e forse l’intero ducato, col procaccio degli Svizzeri che sperava comprare. A quest’uopo coglieva denari in ogni modo, fin con piccoli riscatti e con tasse sulla pesca. Ma diecimila Grigioni, di cui era nemico dichiarato, accordaronsi a suo danno con Carlo V, di cui era incomodo amico; eppure egli menò sì bene di mani e di trattati, che dall’imperatore ottenne larghe condizioni, trentacinquemila scudi e il marchesato di Marignano (1532). I Lombardi intanto non sapevano adagiarsi nella servitù; anche spogliati della nazionalità, nutrivano quel patriotismo che più non produce ispirazione ma ambasce; speravano nell’insurrezione, nell’assassinio, nell’Inghilterra, ne’ Francesi principalmente, interessati a danno di Carlo V per vendicare il re prigioniero: ma la reggente di Francia (ne abbondano prove) riceveva i progetti e le speranze degl’Italiani, poi li trasmetteva all’imperatore, onde persuadergli che imminesse una generale conflagrazione, e farlo così più agevole agli accordi. Ma Carlo duro, finchè il re prigioniero condiscese alle condizioni impostegli (1526 14 genn.), cioè di rinunciare alla Borgogna, al dominio sopra la Fiandra, l’Artois, il Napoletano; sposar Eleonora di Portogallo sorella di Carlo; conferire al Borbone i feudi confiscatigli e il ducato di Milano; come statichi consegnare i figliuoli. Mercurino Gattinara italiano, gran cancelliere di Carlo e l’unico fra’ costui agenti che mostri carattere elevato[236], gli suggeriva di tener Francesco sempre prigione, o liberarlo senza patti: e Carlo ben vedea che questi erano inattendibili; ma, più che l’acquisto della Borgogna, forse importavagli disonorare l’eroe di Marignano, l’ultimo paladino, col mostrarlo codardo se osservava la condizione, e mentitore se falliva. Di fatti il re cavalleresco credè lecito ingannare chi lo violentava; e appena restituito in libertà, aduna a Cognac (18 marzo) i grandi, che lo dispensano da un accordo estortogli, e pel quale intaccava illegalmente l’integrità del regno, e votano due milioni d’oro per rinnovare la guerra. Un re e l’altro a vicenda si accusano di fellonia, e si preparano di armi; il Gattinara stende una consultazione per dimostrare che Francesco ha tutti i sette peccati capitali, e perciò lo si deve guerreggiare; Francesco, confortato da Clemente VII e da’ Veneziani, entra in una _santa lega_ (22 maggio), di cui si chiamavano protettori il re d’Inghilterra e il papa, e che aveva per iscopo di liberare i suoi figliuoli, assicurare allo Sforza il Milanese, al papa Napoli, all’Italia l’indipendenza. E buona cagione di sperare davano la gelosia eccitata dall’insaziabilità austriaca, lo scompiglio delle finanze di Carlo V, e la disperazione che spingeva gl’Italiani ad avventurarsi ad ogni estremo, dopo che da trent’anni soffrivano il turpe supplizio, inflitto ad una popolazione inerme da una soldataglia feroce e ribalda. Sciaguratamente i nostri mancavano di capi; quelli che per rubare e soperchiare affrontavano la giustizia o vendevano il valore, erano sprovvisti del vero coraggio che nasce da sentimento, e stavano separati dalla nazione; i Governi aveano disimparato la fermezza d’altre volte; l’ingerenza guelfa di Firenze andava in dileguo; Venezia provvedeva giorno a giorno; il papa se ne vivea tra due. Perocchè, a tacere le promesse che Carlo gli raddoppiava, lo spettro dell’ingrandito Lutero lo sgomentava, sicchè nella rovina d’Italia sperò almeno la salvezza della Chiesa, mediante l’ingrandimento di Carlo ch’egli credeva cattolico infervorato, e al quale suggeriva una lega coi principi ben pensanti, onde estirpare a ferro e fuoco la velenosa pianta. Ma se l’imperatore Massimiliano avea protetto Lutero dicendo, «Un giorno potrà venire a taglio», Carlo V tenne il papa collo spauracchio de’ crescenti eresiarchi e del minacciato concilio. Rottasi la guerra tra Francia e l’Impero, con ardore l’assunsero i nostri, sentendo che non era fatta «per un puntiglio d’onore, o per una vendetta, o per la conservazione d’una città, ma si trattava della salute e della perpetua servitù di tutta Italia»; e sperando «veder rinnovare il mondo, e da un’estrema miseria Italia cominciare a tornare in grandissima felicità». Son parole del datario Ghiberti[237], il quale a don Michele Silva così ragionava delle cose di qua: — Vi scrissi che, se nei Francesi non era in tutto estinta ogni virtù, e il re di Francia corrispondesse a quello che diceva di voler essere con noi per liberare Italia e i figliuoli, e vendicarsi delle ingiurie di Cesare, ancor noi saremmo uomini, e ci ajuteremmo per non istare a discrezione del malissimo animo di Cesare. Così abbiamo continuate le nostre pratiche tanto, che alli 22 del passato fu conchiusa in Francia la lega tra noi, re di Francia, Veneziani e duca di Milano, lasciando loco al re d’Inghilterra d’entrarvi fra tre mesi, come tenemo per certo che farà. Se i Francesi tengon saldi, ed io sia creduto, faremo che Cesare conosca quanto perde per essere stato sì ingrato a Dio ed agli uomini del mondo. Senza forza son certo non ne possiamo aspettar altro che male; nessun conto della Sede apostolica; una sete infinita di regnare per _fas et nefas_; e tanti mali, che spero in Dio non sia per sopportar più tanto disprezzo delle cose sue»[238]. Il duca d’Urbino, capitano dei Veneti, marcia sopra il Milanese, mentre Guido Rangone e lo storico Guicciardini in qualità di luogotenente vi vengono coi papali. Ma i Collegati non sapeano operare d’accordo: a Clemente sembrava gli mancassero de’ dovuti riguardi; il Medeghino, che da questo riceveva gran somme per soldare Svizzeri, le spendeva a proprio incremento; il duca d’Urbino, vantandosi imitare Fabrizio Colonna indugiatore, strascinava la guerra evitando le battaglie; «le provvisioni de’ Francesi, amplissime in parole, riuscivano ogni giorno più scarse di effetti, massime che Francesco era entrato in nuove trattative coll’imperatore». Tutto ciò riduceva miserabilissime le condizioni della Lombardia, «lacerata con grandissima empietà dai soldati della Lega; i quali, aspettati prima con grandissima letizia dagli abitatori, aveano, per le rapine ed estorsioni loro, convertito la benevolenza in sommo odio: corruttela generale della milizia del nostro tempo, la quale, preso esempio dagli Spagnuoli, lacera e distrugge non meno gli amici che gl’inimici; perchè, se bene per molti secoli fosse stata grande in Italia la licenza dei soldati, nondimeno l’aveano infinitamente augumentata i fanti spagnuoli per causa, se non giusta, almeno necessaria; perchè in tutte le guerre d’Italia erano stati malissimo pagati. Ma come dagli esempj, benchè abbiano principio scusabile, si procede sempre di male in peggio, i soldati italiani, benchè pagati, cominciarono a non cedere in parte alcuna alle enormità degli spagnuoli; donde non meno desolano i popoli e i paesi quelli che sono pagati per difenderli, che quelli che sono pagati per offenderli» (GUICCIARDINI). Capitanava gli Spagnuoli Anton de Leyva, che, «non gli bastando di tôrre agli uomini insieme colla vita la roba, faceva ancora metter fuoco nelle case, e tutto quello ch’egli trovava ardeva barbarissimamente»; e al duca d’Urbino, che gli mandò a domandare qual modo di guerra fosse quello, rispose, sè aver commissione da sua maestà di dover così fare a tutti coloro i quali obbedir non la volevano; perchè il duca gli fece rispondere: — Se voi farete il fuoco, io cocerò l’arrosto, e abbrucerò quanti posso pigliare de’ Tedeschi» (VARCHI). Costui, con Alfonso d’Avalos nipote del Pescara, accampato a Milano attorno al castello che era ancora tenuto dai Francesi, aspettava ogni tratto l’assalto de’ Collegati o degli Svizzeri, tiranneggiava per mantenere un esercito senza paghe, e con supplizj atroci e inesplebili esazioni eccitava sommosse, le quali giustificavano nuovi rigori e nuove ruberie. Non avendogli un gentiluomo fatto di cappello, mandollo a morte; del che irritato il popolo si ammutina, sforza la corte vecchia uccidendo cencinquanta fanti di guardia, prende il campanile del duomo, ne trabalza le sentinelle, e alcune centinaja di vite vi si consumano combattendo. Ma i lanzichenecchi mettono il fuoco a diversi quartieri della città: gli Spagnuoli, accorsi dal contorno più numerosi, mandano al supplizio o in esiglio i capipopolo, il resto tengono a discrezione. Due volte la plebe levossi a rumore per impetrare null’altro se non che i militari cessassero le violenze: n’aveano promessa, e subito raccheti si era da capo, nel tumulto avendo la plebe peggiorato le condizioni saccheggiando. All’avvicinarsi dell’esercito della Lega rinacque la speranza d’esser liberati, e il popolo quanti Tedeschi trovava divisi uccideva; poi rizzò barricate, e dai tetti e dalle finestre lanciava la morte sulle truppe sopraggiugnenti[239]. I nobili però, in cui si era confidato, non ardivano mettersi capi della riscossa, e tentennarono in parlamenti, finchè il Leyva potè rispondere colle forche all’agitazion popolare; gran numero di cittadini di qualità furono mandati in bando, altri vi andarono volontarj, e Milano fu abbandonata non al saccheggio, ma al lento sanguisugio dei soldati[240]. Alloggiati per le case, e non paghi d’aver mandate a sperpero le campagne, a sacco le botteghe, teneano legato ciascuno il proprio ospite, per potere ad ogni voglia coi tormenti estorcerne se alcun che avesse nascosto. Il Leyva non badava che a trovar nuovi modi di estorcer denaro; fece arrestare i prevosti affinchè notificassero gli arredi d’oro e d’argento delle chiese nascosti; un giorno proibiva, pena la vita, d’uscir di città; un altro ne dava licenze a prezzo; al domani proibiva di vender pane se non bollato coll’aquila imperiale. Le botteghe stavano chiuse; le ricchezze delle case e gli ornamenti delle chiese non erano sicuri perchè i soldati, sotto specie di cercare dove fosser le armi, andavano frugando per tutto, sforzando i servi a manifestarle, e insieme contaminando i corpi. «Donde era soprammodo miserabile la faccia di quella città, miserabile l’aspetto degli uomini ridotti in somma mestizia e spavento; estrema commiserazione ed esempio incredibile della mutazione della fortuna a quegli che l’avevano veduta poco innanzi pienissima di abitatori, e per la ricchezza dei cittadini, per il numero infinito delle botteghe ed esercizj, per l’abbondanza e delicatezza di tutte le cose appartenenti al vitto umano, per le superbe pompe e suntuosissimi ornamenti così delle donne come degli uomini, e per la natura degli abitatori inclinati alle feste ed ai piaceri, non solo piena di gaudio e di letizia, ma floridissima e felicissima sovra tutte le altre città d’Italia; ed ora si vedeva restata quasi senza abitatori per il danno gravissimo che vi aveva fatto la peste, e per quelli che si erano fuggiti e continuamente si fuggivano; gli uomini e le donne con vestimenti inculti e poverissimi; non più vestigie o segno alcuno di botteghe o di esercizj, per mezzo dei quali soleva trapassare grandissima ricchezza in quella città; e l’allegrezza ed ordine degli uomini convertito tutto in sommo dolore e timore;... alcuni per finire tante acerbità e tanti supplizj morendo, poichè vivendo non potevano, si gittarono dai luoghi alti nelle strade; alcuni miserabilmente si sospesero da se stessi» (GUICCIARDINI). Eguali trattamenti soffriva Lodi da Fabrizio Maramaldo, uffiziale calabrese, che fu poi l’uccisore del Ferruccio; sinchè Luigi Vestarini, sorpresa una posterla, v’introdusse i Collegati (1526 24 giugno), che costrinsero gl’Imperiali a sfrattare. Questo fatto aperse ai Veneziani la via di congiungersi coi Pontifizj, e di spingersi sovra Milano, forti di numero e d’artiglieria. Il duca d’Urbino, o diffidente delle truppe italiane, o voglioso di veder umiliati i Medici, che un tempo l’aveano spoglio del suo ducato, negò sempre assalire: una volta si mostrò fin sotto la porta Romana; poi indietreggiò con tal dispetto di tutti, che Giovanni de’ Medici volle rimanervi solo con le sue Bande nere una giornata, e potè ritirarsi senza che alcuno l’offendesse. Così si lasciò che il Borbone arrivasse con rinforzi da Genova; e mentre i Confederati, dopo ricevuti i soccorsi svizzeri condotti dal Medeghino, tenevano quattro giorni a marciare da Marignano a Casoretto, passeggiata di tre ore, il castello di Milano fu costretto capitolare (24 luglio), pattuendo la libera andata a Francesco Sforza, cui più non rimasero che Lodi e Cremona, cedutegli dai Confederati. Altrettanto fiacchi erano i procedimenti della Lega in Toscana; Siena, spiegata la bandiera imperiale, non potè essere forzata dai Fiorentini, mostratisi inettissimi battaglieri[241]; nè Genova da Andrea Doria ammiraglio dell’armata papalina. I Milanesi eransi lusingati che il connestabile di Borbone userebbe alcun riguardo per un paese che gli era stato promesso: ed egli prodigò compassione e buone parole; ma intanto gli dessero trentamila ducati. Somma esorbitante per città consumata; pure tutti per abbonirlo si tassarono: ma come l’ebber data, non ritirò i suoi soldati, nè in veruna guisa assicurò gli abitanti da truppe, a cui già gran tempo l’imperatore non dava soldi, e che chiedevano a piena gola il saccheggio d’una ricca città. Al Morone, divenuto allora suo prigioniero, domandò centomila scudi per riscattarlo, e avendo questi risposto essergli impossibile dare tal somma, gli mandò il prete, il ceppo e il boja; poi s’accontentò di trentaduemila, esprimendo nel breve di liberazione _cum nihil sit magis necessarium pecuniæ, et sumtus sint ingentes et fere intollerabiles_; e se lo prese a segretario ed anima de’ suoi consigli. Papa Clemente, scombujato il senno in quell’affollarsi di avvenimenti, porse ascolto all’ambasciadore imperiale Ugo di Moncada, che vantavasi discepolo del Valentino, e che, nel mentre ingrossava truppe sul confine napoletano, promette ridurlo in pace coll’imperatore e coi Colonna che guatavano armati dai loro castelli. Fu astuzia diplomatica, poichè non sì tosto Clemente ebbe stipulato col Lannoy vicerè di Napoli e congedato le truppe, il cardinale Pompeo Colonna[242], ch’eragli stato competitore al papato e che sperava da Carlo essergli surrogato, d’intesa col Moncada, raccozza ottomila villani (7bre), e pel Laterano li guida su Roma, saccheggia Transtevere e il palazzo Vaticano, e gran parte del borgo Nuovo, con quanti cardinali e prelati si lasciarono cogliere. Clemente invia deputati a patteggiare, e intanto eccita alla difesa il popolo: ma a questo che caleva d’un papa cagione de’ suoi mali? Egli dunque pensa rinnovar le scene della Roma antica aspettando gl’invasori sul proprio trono e nella maestà della tiara; poi, come più prudente, preferisce il salvarsi in castel Sant’Angelo: ma non vi trova vittovaglie per tre giorni, onde gli è forza capitolare, pattuendo di perdonare ai Colonnesi e richiamare di Lombardia le sue truppe e la flotta che bloccava Genova. Sì dure condizioni gl’imponeva il Moncada stando a ginocchi e cogli atti di maggior riverenza, onde il papa ricordò quel del Vangelo, _Davangli schiaffi e diceano, Salve re de’ Giudei._ Svilita la sua dignità, e compromessa la sua reputazione d’accortezza, appena libero disdice la tregua ai Colonnesi, toglie il cappello ai loro cardinali, avventa sulla lor testa le scomuniche, sulle lor terre Renzo di Ceri e Paolo Vitelli, che ai ridenti dintorni del lago d’Albano e fin agli Abruzzi recarono uno sterminio da cui più non si ristorarono; e di Marino, Montefortino, Zagarolo, Subiaco e di quattordici altri villaggi non rimasero che le macerie. Quali eran più fieri all’Italia, i difensori o gli aggressori? Ma l’avere, secondo i patti, dovuto i Pontifizj allontanarsi dall’esercito della Lega, tolse a questa ogni nerbo e il titolo di santa. Poteva però ancora ben sostenersi contro Tedeschi che l’imperatore non era in grado di pagare; ma questi si rivolsero a Giorgio Freundsberg, comandante del Tirolo. Costui, infervorato nelle dottrine di Lutero, giurava pel sacrosanto sacco di Roma, e portava allato capestri di seta e uno d’oro per istrozzare i cardinali e l’ultimo de’ papi. Col proprio credito e con pegno trovati denari, e mostrando le grasse prede che altri faceva in Italia, ammassa trentacinque compagnie di lanzichenecchi, scende per val Sabbia, Rôcca d’Anfo e Salò nel Bresciano senza assaltare veruna città forte; e poichè la Lombardia era esausta, prende accordo col Borbone di campeggiar Roma, ringorgata dell’oro smunto alla cristianità. Ecco dunque da quattordicimila Tedeschi, cinquemila Spagnuoli, duemila Italiani, cinquecento uomini d’arme, e forse mille cavalleggieri[243], ciurma di lingue e di religioni varie, senza disciplina, senza magazzini, senza bagagli, non d’altro in cerca che di prede, non rispondendo agli uffiziali se non _Pagatemi_, traversano lentamente l’Italia, diffondendosi su larghissimo spazio per trovar da vivere come uno sciame di locuste. Giovanni delle Bande nere, non sentendosi bastante ad affrontarli, li bezziccò alla coda con tale insistenza, che lo denominarono il Gran Diavolo; ma presso a Mantova un colpo di falconetto lo mandò a morte, di soli ventotto anni; e la fine precoce, e quando maggior bisogno se n’avea, fece vantarlo come il valorosissimo tra gl’Italiani. Alfonso duca di Ferrara, che vedeva i papi trasmettersi da un all’altro la voglia di spodestarlo, sovvenne gl’Imperiali di buona artiglieria e munizioni, purchè presto sbrattassero i suoi paesi[244]. Il duca d’Urbino poteva reciderne la marcia: ma per conservare la gloria di non esser mai vinto, subiva l’obbrobrio di trascurar le occasioni di vincere; al vanto di liberar Roma preferiva il gusto di vendicarsi di Clemente VII; e per quanto lo pregassero Machiavelli e Guicciardini, si consumò nell’assedio di Cremona, contento di difendere il Veneto. Lannoy mosse incontro all’esercito del Borbone per concertare con questo sul da farsi; ma quella ciurma efferata gridò: — Niente pace, niente patti», impedì ogni colloquio, e fu assai se gli risparmiò la vita: tanto i capitani stessi erano in balìa de’ soldati. Clemente, trascinato dalle sonore promesse di re Francesco, e dalla perfida tregua del Lannoy, poi abbandonato da tutti all’approssimare del formidabile esercito, cercò riconciliarsi l’Estense, e far denari vendendo cappelli, ciò che fin allora avea ricusato, inducendo i cittadini a spontanee offerte, invocando quegli alleati che fiaccamente aveva abbandonati. Intanto quella bordaglia che s’intitolava imperiale, irreparabile come la lava del Mongibello, spinta da inesorata fatalità come le torme di Alarico[245], procedeva, saccheggiando le terre che s’erano arricchite con saccheggi precedenti. Agognavano Firenze; ma le genti della Lega s’erano postate in modo che il Borbone, schivando l’affrontata (1527 gennajo), pel Valdarno di sopra si sgroppò sopra Roma. Traverso a strade rotte e fangose inoltravano, lasciandosi dietro la desolazione; il papa udiva ogni giorno che Brisighella, che Meldola, che Russi, Acquapendente, San Lorenzo, Ronciglione erano state fracassate; onde affidava la difesa di Roma a Renzo di Ceri degli Orsini. Costui avea servito i Veneziani contro la lega di Cambrai, e il suo corpo di fanti italiani fu il primo che sapesse tener testa ai battaglioni svizzeri e spagnuoli; sostenne valorosamente l’assedio di Bergamo, ma credendo che l’Alviano l’avesse in quell’impresa disajutato, passò al soldo di Leon X, che l’adoprò a conquistare Urbino; a stipendio di Francesco I devastò l’Italia, e difese Marsiglia dal Borbone, al quale adesso non poteva opporre che una ciurmaglia inesperta, senza coraggio nè disciplina, eppure vantavasi salverebbe Roma e l’Italia. Però gli uomini, presi da terror panico a quello sbaratto, gemeano e rabbrividivano, anzichè pensare al riparo: pochi giovani armatisi, inesercitati e sfavoriti dai Ghibellini che rideano al trionfo degl’Imperiali, vanno in fuga all’apparire di questi (5 maggio). Il Borbone accampò ne’ prati sotto Roma; e poichè l’esercito collegato lo serrava alle spalle e la campagna era talmente sperperata da non trovar vitto, determinò abbandonare la città del cattolicismo e delle arti alla ingordigia di barbari e protestanti. I lanzichenecchi mancando di scale, s’ajutano coi loro spadoni per ascendere la mura: il Borbone monta dei primi verso porta San Spirito, ma un colpo di fuoco lo stende morto (6 maggio); aveva trentott’anni. Già il Freundsberg s’era ritirato[246], tocco da un accidente d’apoplessia; onde l’esercito rimase senza capi che potessero frenare quell’avidità di vendetta, di ruba, di sacrilegio, e in due ore fu presa la città Leonina. Gl’invasori, pel ponte Sisto cacciatisi di qua dal Tevere, trucidano i Romani e le guardie svizzere, che ancor resistessero; il resto è abbandonato irremissibilmente alla sfrenata furia di quarantamila masnadieri e dei villani dei Colonna, che sopravvenivano al nuovo strazio allettati dal precedente. Traverso al lungo corridojo che lo congiunge al Vaticano, Clemente fuggì in castel Sant’Angelo, coperto da monsignor Giovio col suo mantello violaceo perchè gli aggressori nol conoscessero, e di là potè vedere la città sua in preda alla brutalità soldatesca ed all’ira luterana. I saccheggi del tempo d’Alarico e Genserico non offrono nulla di così tremendamente schifoso come quel che avveniva nel meriggio della civiltà, in nome del re Cattolico. Spagnuoli cattolici, Tedeschi luterani, Italiani scredenti non pareano più emularsi che nel fare a chi peggio, non soltanto ai ricchi e al clero, ma all’innocente popolazione. Unitisi a suon di tamburi e pifferi, davano l’assalto ad un palazzo, mentre di dentro si adoprava ogni mezzo di difesa, moltiplicandosi così gli attacchi e le ragioni del nuocere. Molti, già riscattatisi a gran prezzo dei Tedeschi, sono ripigliati dagli Spagnuoli, e toccano nuovi strapazzi, e torture e taglie nuove. Matrone e fanciulle vanno ad osceno ludibrio sugli occhi de’ padri e de’ mariti incatenati. Vi furono genitori che scannarono le figliuole, matrone che invocarono un pugnale per sottrarsi all’obbrobrio; nè il tempio le proteggeva; che dico? neppur la morte preservava i cadaveri dalla contaminazione. Letterati e artisti, ammucchiati allora a Roma dalla protezione dei Medici, ebbero tutti a soffrire, e ne empirono le memorie loro e l’Italia ove si dispersero. Il Sansovino architetto, Maturino e Polidoro da Caravaggio e gli altri scolari di Rafaello fuggirono: il Peruzzi fu costretto fare il ritratto dell’ucciso connestabile di Borbone: Marco Dente intagliatore ravegnano fu ucciso: Marco Fabio Calvi, suo compatrioto, traduttore d’Ippocrate, uomo d’incontaminata gravità, morì di miseria: il pensatore Telesio, vantato per sapienza e virtù, fuggì ignudo: Cristoforo Marcello, vescovo di Corfù, ebbe la casa saccheggiata dai Colonnesi prima, poi dai Tedeschi, i quali gl’imposero la taglia di seimila ducati, e non potendo egli pagarla, l’incatenarono a un tronco d’albero e gli forarono le unghie, tanto che dallo spasimo, dall’intemperie e dal digiuno morì[247]. Nelle stanze vaticane, dove era dipinto Attila arrestato dalla spada dei santi Apostoli, i Tedeschi accesero fiammate che affumicarono i mirabili dipinti di Rafaello: i celebri arazzi di questo furono rubati, essendo ai Luterani gioja lo strapazzo delle cose sacre e il distruggere l’_idolatria_ dei quadri e delle statue. Si traevano dai conventi le vergini per essere violate a gara nelle orgie imbandite sugli altari coi sacri vasi. Gente briaca, messisi a vilipendio i cappelli cardinalizj e i parati ecclesiastici, menavano lubriche danze. Posto il cardinale d’Araceli in un cataletto, il portano per Roma con esequie beffarde; indi il mandano in groppa d’un Tedesco a mendicare di porta in porta il riscatto. Neppure dalle tombe astennero le scellerate mani; e un anello fu strappato dal dito di Giulio II, postuma punizione del suo _Via i Barbari_. Delle bolle papali stabbiano i cavalli; chiamano un prete perchè accorra col viatico, e condottolo in una stalla, vogliono forzarlo a dar la comunione a un asino, e perchè ricusa l’uccidono; indi accoltisi in una cappella del Vaticano, contraffacendo parati e cerimoniale, degradano il pontefice, e ad una voce acclamano a succedergli Lutero. Elettosi poi per capo Filiberto principe d’Orange, rizzarono trincee contro il Castello, tutti i viveri della città riducendo in borgo, talchè di fame e rabbia molti Romani s’appiccarono o affogarono. Qualche ritegno alle masnade posero Ugo di Moncada e il cardinale Pompeo Colonna, il quale, venuto per godere dell’umiliazione dell’emulo, s’impietosì ed aperse il suo palazzo a quanti vi ricovravano; molti cardinali riscattò, a molti diede pane. I cardinali non presenti a Roma si erano raccolti a Piacenza, risolvendo sottrarsi all’oppressione col trasferire ancora la sede in Avignone: ma il cardinale Cibo nipote del papa, che già aveva contribuito a mantener in fede le rumoreggianti Legazioni, distolse i prelati da un passo che avrebbe dato l’ultimo tuffo all’Italia. Ah! ben avea vaticinato il veneziano Girolamo Balbo, quando disse a Clemente VII: — Fabio Massimo temporeggiando salvò la repubblica romana; voi temporeggiando rovinerete Roma e l’Europa»[248]. Di queste calamità cavano profitto i nemici de’ Medici, e Firenze congeda i nepoti del papa, ne abbatte le insegne e gridasi libera; i Veneziani riprendono Ravenna e Cervia; Sigismondo Malatesta entra in Rimini; Alfonso d’Este ricupera Modena. A quai dolorose meditazioni dovette allora essere condotto Clemente dagli effetti disastrosi della sua perplessa politica! Aspettava pur sempre che arrivasse l’esercito della Lega: ma Guido Rangone, che il conduceva, nol credè bastante ad assalir quelle masnade, quantunque sparpagliate dietro al saccheggio; atteso che una divisione avea dovuto staccarne per custodire Firenze. Disperato d’ogni soccorso, il papa dovette capitolare, obbligandosi a rimanere ostaggio dell’esercito con tredici cardinali sinchè fossero pagati quattrocentomila ducati, cedere Parma, Piacenza e Modena, ricevere guarnigioni cesaree ed aspettare gli ordini dell’imperatore. Carlo V aveva di quest’assassinio la colpa di chi volge sopra la campagna un torrente, senza prevedere i guasti ch’egli non potrà impedire[249]. O perchè in fatti nulla potesse sovra quelle bande sbrigliate e chiedenti paga, o perchè volesse illudere il mondo e la coscienza propria, decretò e fece preghiere per la liberazione del papa, vestì il bruno, mandò ai potentati per iscusarsene innocente: ma insieme gli piaceva che i politici comprendessero com’egli fosse in grado di vendicarsi di chi propendeva a Francia; laonde non diminuiva d’uno scudo il riscatto del pontefice, anzi procurava trarlo in Ispagna, e «si credeva per li più prudenti che l’intendimento suo fosse di volere il papato a quell’antica semplicità e povertà ritornare quando i pontefici, senza intromettersi nelle temporali cose, solo alle spirituali vacavano. La qual deliberazione era, per gl’infiniti abusi e pessimi portamenti de’ pontefici passati, lodata grandemente e desiderata da molti, e già si diceva infino da plebei uomini che non istando bene il pastorale e la spada, il papa dover tornare in San Giovanni Laterano a cantar la messa» (VARCHI). Pubblico lutto e generale indignazione prese la cristianità del trattamento usato alla metropoli del mondo e al capo della Chiesa; e tesoreggiata esecrazione contro l’Austriaco, ad Amiens (1527 18 agosto) si collegarono Francesco I ed Enrico VIII all’intento di rimettere in libertà il papa e i figliuoli di Francia, garantire allo Sforza il ducato di Milano, e reprimere le trascendenze di Carlo V. Questi tacciò Francesco d’aver fallita la parola, datagli quando lo sprigionò; e dichiaravasi pronto a mantenerglielo da persona a persona; Francesco gli diè la mentita secondo le regole; ne seguì sfida, ricambiaronsi i cartelli[250], assegnarono il campo e il giorno ove duellare. Se l’avessero fatto e fossero entrambi periti, quanto sangue e pianto risparmiato! ma elusero il combattimento lasciandolo alle nazioni; e la povera Italia, regalata anche della peste, doveva prepararsi a nuove battaglie. Mentre Andrea Doria, staccatosi dal papa che nol pagava, a nome di Francia s’impadronisce di Genova, il Lautrec mena di qua dalle Alpi trentamila Francesi; e avrebbe potuto strappar la Lombardia alle deboli guarnigioni imperiali, se anch’egli non avesse barcollato nelle risoluzioni: avuta di sorpresa Alessandria, Pavia, invano difesa dal conte Lodovico Belgiojoso (1527 1 8bre), lasciò da’ suoi saccomannare e vituperare alla tedesca[251], per vendicar la vergogna che la nazione francese v’avea avuto dalla presura del suo re; poi risparmiando gli orrori d’una egual liberazione a Como e Milano, batte la marcia verso Roma per soccorrere il papa. Quivi si muor di fame, non osando i villani portar roba sul mercato; i capitani cesarei, sprovvisti di moneta, non possono staccare i soldati dal sangue e dall’avere de’ Romani; e poichè Clemente, sebben mettesse all’incanto cinque cappelli cardinalizj per centomila scudi, e ducento altri mila ne accattasse a ingordi interessi (SEGNI), non basta a raccogliere le somme convenute, i Tedeschi levano rumore, facendo gran vista di volerlo trucidare. Vescovi, arcivescovi e primari di Roma, da lui offerti statichi, tre volte in catene furono condotti in Campo de’ Fiori, e minacciati della forca se il denaro tardasse; poi serbati come l’unico pegno per ottenerlo, infine poterono sottrarsi ubriacando i furibondi. Clemente stesso riuscì a fuggire travestito (9 xbre); ma si trovò in una strana cattività morale: ai Francesi doveva riconoscenza come a suoi protettori; Enrico VIII d’Inghilterra negava operare a suo pro se non proferisse il divorzio tra lui e Caterina d’Aragona zia di Carlo V; questo minaccia deporlo se a tal domanda accondiscenda, protesta di non desiderar che la pace, ma non chiamasi mai soddisfatto delle garanzie che il papa gli dà di non contrariarlo: onde questo si rimise di nuovo alla sua politica, oscillante nella sottigliezza delle antiveggenze; e per tener tutti buoni, tutti disgustò. Tra siffatte ambagi, la peste e i soldati, non so qual peggio, continuavano le desolazioni in Roma. A questi l’imperatore aveva mandato ordini o piuttosto raccomandazioni di rispettare il papa; sapeano che il Lautrec s’avvicinava; d’altra parte, denari non poteano omai più aspettarne[252], e tanti morivano, che si asserì, degli assalitori di Roma, dopo due anni, non un solo sopravvivesse. Pertanto le masnade volteggiarono per Otricoli, Terni, Narni, Spoleto, tribolando e taglieggiando, sicchè a volta i paesani dettero nelle campane, e li tagliavano a pezzi; e le case o vuote o lasciavansi aperte. Le antiche fazioni rincalorivano, e vendette esercitavansi a furore tra Orsini e Colonna, tra Guelfi e Ghibellini, sempre a maggior esterminio del paese. — Non è stato possibile (scriveasi al conte Baldassarre Castiglioni) contenere li signori Colonnesi dalla vendetta contro l’abate di Farfa (Napoleone Orsini), perchè il signor Giulio e il signor Camillo Colonna hanno abbruciato e distrutto qua più castella, che non abbruciò lo abate case, nè si sono contenuti di non offendere ancor gli altri Orsini, che non aveano parte negli errori dello abate, bruciando anco lo stato del cardinale Orsini e l’abbadia di Farfa, che è cosa ecclesiastica, donde pur oggi son venuti a nostro signore de’ frati, alli quali non è rimasto un calice, non un paramento, non una lampada da tener accesa in onore di Dio. Di che è dispiaciuto gravemente a nostro Signore; ed avendone fatto querela con quelli signori di Napoli, è pur venuto ordine che desistano, ma in tempo che già è fatto quasi ciò che si poteva fare a distruzion del paese, e pur anco l’arme non son posate. Non mi basteria un quinterno di carta per narrare tutta la perturbazione di questo paese; per che, come in un corpo dopo una lunga infermità spesso qualche malo umore si risente, così restando il paese afflitto e debile della gran ruina dell’altro anno, ogni dì si sente qualche nuova afflizione. Scrissi già a vostra signoria lì danni che avea fatto l’abate di Farfa nelle terre dei Colonnesi: ultimamente, per chiarire ognuno che quel che faceva era contra la mente di nostro Signore, ha trattato le terre di sua santità come quelle del signor Ascanio, saccheggiato Tivoli, fatti prigioni, e tutte le crudeltà possibili; poi levatosi di là, e andato per congiungersi col signor Renzo per Marca, ha fatti tutti li mali portamenti che può. Dall’altra parte il signor Giulio e il signor Camillo hanno abbruciato non solo le castella dell’abate e degli altri Orsini, ma saccheggiato anco Anagni, e fatto in Tivoli del resto di quel poco che l’abate ci avea lasciato: il signor Giambattista Savello ha fatto il simile nella Sabina per una controversia che ha col reverendissimo Cesarino: seco è anco il signor Cristoforo Savello, il signor Pirro di Castel di Piero, Ottaviano Spiriti, e molti altri di quelli che, non per servire a sua maestà cesarea, ma per coprirsi sotto l’ombra di quel nome, vogliono esser tenuti imperiali. Questi tali con la fame grande che è per tutto, e con la licenza del rubare si tirano dietro buon numero di gente, e le terre dove entrano si ponno mettere per ruinate, come occorse l’altro dì a Rieti, dove essendo stati ricettati amichevolmente per essere quella terra molto ghibellina, come drento, cominciarono a saccheggiarla; ma avendo già saccheggiata una parte, li Reatini si risentirono, e presono l’arme, e li ributtarono fuora con uccisione di circa trecento». Otto mesi era continuato lo sperpero di Roma, quando gl’Imperiali (17 febb.) sopravanzati s’indussero ad uscirne, e Napoleone Orsini vi entrò, eroe tardivo, scannando quanti infermi aveano essi lasciato. Udito gli armamenti di Francia, l’Orange andò a chiudersi in Napoli, dove lo raggiunse il Lautrec, il quale, sempre in attesa degli accordi ch’erano in pratica, o de’ soccorsi svizzeri, guasconi o veneti, avea procrastinata la marcia: e dopo unitesegli le Bande nere stipendiate dai Fiorentini, contava sessantamila uomini. Soggettato il Napoletano colla facilità che è solita dove ai popoli non importa qual sia il padrone, e abbandonate al saccheggio e alla strage le città che prendeva, si opponessero o no, cinse Napoli per terra, mentre per mare l’assaltava Andrea Doria. Questo, praticando sul mare quel che gli altri per terra, avea posto in essere dodici galee per proprio conto; e ruppe la flotta castigliana venuta a soccorso, uccidendo lo stesso vicerè Moncada che la comandava, e prendendo il marchese Del Vasto, il principe di Salerno e molti gentiluomini. Intanto s’ode che Carlo V manda un esercito per la via di Trento col feroce duca di Brunswick; nuovo spavento ai sopravvissuti. Anton de Leyva, che non avea mai rallentata l’oppressione di Milano, ne mena fuori le truppe acciocchè non muojano di fame e di peste, e congiuntosi al Brunswick, che dilagavasi saccheggiando pel Bresciano e il Bergamasco, ripigliando Pavia con altri scempj, assedia Lodi, che unica rimaneva ai Francesi fra l’Adda e il Ticino, e che vigorosa si sostenne, finchè un tifo che chiamavano _mal mazucco_ gittasi in quell’esercito, ne stermina duemila in otto giorni; gli altri disfatti tornano in Germania, qui rimanendo il Leyva a proteggere Milano. Alla lor volta allora ingrossavano i Francesi, condotti da Francesco di Borbone conte di Saint-Pol, ripigliano Pavia (19 7bre) con nuovo sterminio di vite e di robe, e s’accostano a Milano. Gl’Italiani suggerivano al re di Francia come far guerra all’imperatore, e — S’ha bisogno di vigilanza ed estrema cura, avendo a fare con inimici pieni d’astuzia e di malizia, e li quali han pazienza d’aspettar l’occasione, e par che sempre abbino in presupposto che gli eserciti di sua maestà e suoi collegati s’abbino a consumar da se stessi; la qual cosa, perchè già più volte s’è visto avvenire, bisogna con tutte le necessarie provvisioni provvedere nelle imprese che ora si faranno... Sarà bene condur di Francia una conveniente quantità di guastatori..., che difficilmente si troverà in Italia, per esser morti tra di fame, di peste e d’altro la maggior parte de’ contadini»[253]. Ma altri s’accorgeano che debolissimi sforzi facea quella nazione, e «il ricordarmi che di nessuna impresa che sia andata in lungo, mai i Francesi sono stati vincitori, mi fa temere di questa il medesimo; e perchè so quanto confidano sempre delle cose loro, e si promettono della debilità degli inimici, mi pare già vedere che, come abbino avviso che i lanzichenecchi imperiali se ne tornano a casa, allenteranno ancor loro delle provvisioni, e monsignor di San Paolo si troverà condotto in Italia, e imbarcato, come si dice, senza biscotto, cioè che si mancherà di provvederli di denari»[254]. Di fatto il Saint-Pol, lentissimo procedendo (1529) per mancanza di paghe, per disaccordo col duca d’Urbino e per l’annunzio della rivolta di Genova e del Doria, non seppe tampoco impedire che duemila _Bisogni_ spagnuoli, sbarcati a Genova senz’armi nè vesti nè scarpe nè paghe, si traforassero fin a Milano, la quale fu sottoposta dal Leyva a nuove angherie, e validamente fortificata. Saint-Pol a Landriano, presso Milano, fu sorpreso e sconfitto dall’instancabile Leyva (1529 21 giugno), che spasimando allora di gotta, erasi fatto portar nella mischia sopra una bara: caduto prigione il capo, l’esercito francese si disperse. Il Lautrec s’era indugiato sotto Napoli tanto, che fallirongli i denari (1528), sempre a miseria ministratigli dal re; poi sopravvenne l’epidemia; onde tra la malignità dell’aria e il mal governo e il tanfo degli alloggiamenti, gli assedianti si ridussero in un mese da venticinque a quattromila, non risparmiando le vite dei capi nè del Lautrec istesso. Egli fu sepolto a Poggioreale, ma un fantaccino spagnuolo lo dissepellì, e mezzo fracido recosselo sulle spade, fra il popolo e i soldati, in una cantina, sperando che di Francia verrebbe qualche parente suo a riscattarlo, e così egli ne guadagnerebbe. Nessun barone lo ricomprò per dargli degna sepoltura, tanto aveano paura dell’Orange; ma i Romani, tenuto consiglio in Campidoglio, gli resero onorevoli esequie, da rinnovarsi ogn’anno in S. Giovanni Laterano. Dappoi Gonsalvo de Cordova duca di Sesse pose al Lautrec un monumento in S. Maria la Nuova di Napoli, con epigrafe composta da Paolo Giovio. Michel Antonio marchese di Saluzzo, sottentratogli al comando (15 agosto), scioglie l’assedio e si ritira in Aversa, e costretto ad arrendersi, ne muor di vergogna (30 agosto); i brani del bellissimo esercito conquistatore d’Italia perirono di stento chiusi nelle scuderie; e l’infezione dell’aria prodotta dalle loro malattie estese fieramente la mortalità e le imprecazioni contro gli stranieri. Le Bande nere, che aveano mostrato non esser morto il valore italiano, allora si sciolsero: l’illustre Pietro Navarro, attore importante in tutte queste guerre, restò preso in battaglia, e Carlo V ordinò fosse decapitato; se non che il governatore della fortezza, compassionando a quel vecchio prode, andò e strozzollo di propria mano. Il principe d’Orange, portato vicerè di Napoli, colmava nella pace i mali della guerra; apponeva a molti feudatarj d’aver favorito ai Francesi, onde mandarli al patibolo e incamerarne i beni; e fece pagare dai natii sei mesi di soldo dovuti all’esercito saccheggiatore di Roma. Principj violenti di quel governo assurdo e tirannico, che per due secoli fece miserabile la più bella parte d’Italia. Così gravi e così indecorose miserie infondevano un cupo spavento, un bisogno di ricorrere a Dio quando più negli uomini non v’era pietà. Il Savonarola lasciò dietro di sè lunga scuola ne’ Piagnoni che deploravano la corruttela e i mali presenti e i futuri. Quando Lodovico Moro era in pratica di chiamare i Francesi, un frate cieco predicando sulla piazza del Castello di Milano gli diceva: — Signore, non gli mostrare la via, o te ne pentirai». Di molti miracoli si fa memoria in quel torno. A Perugia sul fine del Quattrocento avea rivelazioni e rapimenti la beata Colomba di Rieti, ed eccitò gran devozione: l’ombra di san Romualdo cacciò a sassate l’Alviano dalla badia de’ Camaldoli di Cesena: tre capitani, entrati in un monastero, udirono chiamarsi a nome e intimare non nocessero alle vergini sacre: gli Spagnuoli saccheggiando Prato, tolsero la corona d’argento alla Madonna della Cintola, e questa sudò tutta, e rivolse la faccia verso il Bambino, che le pose la mano al capo[255]: il Lautrec stava per abbandonare al saccheggio la borgata di Treviglio, quando una Madonna pianse, e la vista di quel miracolo frenò i violenti; come pianse la Madonna di San Calocero a Milano allorchè egli opprimeva questa città: presso la rotonda a Roma i lanzichenecchi trafissero una Madonna, e ne stillò sangue. Nel 1522 comparve la Madonna sui monti veronesi presso Rivoli, ove poi fu eretto il santuario della Madonna della Corona. «Non pure i frati sui pergami, ma eziandio cotali romiti su per le piazze andavano, non solo la rovina d’Italia, ma la fine del mondo predicendo, nè mancavano di coloro i quali, dandosi a credere che a peggiori termini dei presenti venir non si potesse, dicevano papa Clemente esser l’anticristo» (VARCHI). Un pazzo de’ Brozzi che chiamavano Martino, andava predicendo guaj e penitenza: — Quest’inverno morirono di freddo gli aranci, le viti, gli ulivi, i fichi, gli allori; non morì il lino che tanto lo teme. Chi mi sa dirne il perchè? perchè in questi tempi ogni cosa va al contrario, e Dio vuol governar lui, e non la sapienza vostra. E Dio flagellerà Firenze e Roma e l’Italia: perchè hanno morto frà Girolamo e gli altri profeti suoi, in iscambio de’ quali Iddio ha mandato me, profeta pazzo». Un Senese che chiamavano Brandano, vestito di sacco andava attorno per Roma prima del saccheggio, predicando che sovrastava un gran flagello, venissero a penitenza, placassero Dio, il quale non avrebbe risparmiato nè papa nè cardinali: e fu cacciato prigione, ma non quetò il terrore di quelle ominazioni. Anche per Cremona predicava un bimbo di undici anni, traendo grandissimo concorso di persone[256]. Nel 1523 predicava nel duomo di Milano un frate di San Marco confortando contro i Francesi; non avea riguardo all’uffiziatura, ma seguitava a predicare; e faceva profezie che sebbene non si avverassero, non gli scemavano credito. Nel 29 si fece per quella città una processione per mitigar il Signore; e quando il tabernacolo «entrò dentro della porta maggiore del duomo, tutto il mondo si mise a cridare Misericordia; poi arrivato al mezzo della chiesa, il medesimo cridare Misericordia; arrivato all’altare, crida Misericordia; tanto che il clero volendo celebrar le litanie non poterono far ristare li clamori, e non fu uomo nè donna che non si movesse a piangere». Era stato consiglio d’un frà Tommaso, che predicava in duomo «e diceva non voler mancare di confortarne fino che Dio ne liberasse: e sempre dava qualche suo comando di qualche devozione, e dalla maggior parte era tenuto profeta... E ai 5 settembre fece una predica molto disperata, e con gran minaccie non tanto a Milano quanto a tutta la cristianitade; ma che da Milano avria principio la rinnovazione della ecclesia, e per questa bisogna sia da prima afflitta e in ultimo rinnovata» (BURIGOZZO). Altrettanto ripetevasi dappertutto; talmente gli uomini, non vedendo più che demonj nei loro simili e nei governanti, sentivano la necessità di rifuggirsi alle divozioni e fin alle superstizioni. Che più? invidiavasi la dominazione turca; tanto che Lodovico Vives da Bruges dirigeva un discorso agl’Italiani[257], compatendoli come i più miseri fra gli uomini, pur mostrando a quanto peggior condizione si troverebbero cadendo sotto Solimano. Ultimo colpo alle fortune di Francia portò la defezione di Andrea Doria. Stratto di famiglia un tempo dominante in Oneglia, giovanissimo entrò uom d’arme del papa, poi di Guidubaldo d’Urbino; servì al re di Napoli contro Carlo VIII; e come vide le cose andare a quello sfascio, prese il bordone e il sanrocchetto, e pellegrinò in Terrasanta. Da quel pio entusiasmo, nuovo suono d’arme il richiamò: fermatosi col duca d’Urbino, a questo difese Sinigaglia contro il Valentino; poi a Genova mostrò tale abilità sul mare, ch’ebbe il comando di quattro galee, colle quali, allorchè la sua patria cadde agli Imperiali, passò a servizio di Francia, e vi divenne famoso, e giovò alle imprese più arrisicate. Irato agl’Imperiali che aveano saccheggiato la sua patria, più non volea riceverne riscatti, e quanti cogliesse teneva a remare sulle sue galee. Ma presto fu messo in punto contro i Francesi, perchè da’ cortigiani ricevette superbe sgarbatezze: re Francesco nominò altri alla carica d’ammiraglio nel Levante, e pensava trasferire il commercio di Genova a Savona, inoltre pretendeva per sè i prigionieri dal Doria fatti a Napoli, sperandone grossa taglia. S’avvide di questi rancori il marchese Del Vasto, caduto prigioniero del Doria a Napoli, e vi soffiò sì destramente, che il persuase a sottrar la patria da’ Francesi; non l’hanno anch’essi saccheggiata? non ne conculcano i privilegi e minacciano l’esistenza? facile è l’accorgersi come Genova sia destinata ai turpi mercati fra Spagna e Francia, che la serba per venderla a miglior vantaggio. Il Doria venne nel proposito di trarla dalle ugne dei due contendenti, e sagrificando il trepido rispetto dell’onor suo, mandò in Francia a chiedere soddisfazione dei torti recati a Genova e a sè. Non la ricevendo, anzi avendo motivo di credere che il re avesse dato commissione d’arrestarlo, spedì all’imperatore, e — Che patti mi fate, ed io vi do il mio braccio e l’Italia»[258]. L’imperatore non sottigliò sulle condizioni, e il Doria sventolò una bandiera imperiale (1528 12 7bre) che dianzi aveva conquistata; e sapendo che la peste avea ridotto scarsa la guernigione e poco attenta, entrò impensatamente in Genova con soli cinquecento fanti, e la chiamò a libertà. Colpo risolutivo alla somma delle cose di Francia, giacchè (dice Brantôme) chi non è signore di Genova e del mare non può ben dominare l’Italia. Fra il perire di tanti Stati antichi consola il vedere i Genovesi rivolere la libertà; e da tanti eserciti e da peste e fame non buttati in quello scoraggiamento che più non cerca rimedj, pensare a coglier l’occasione, per riordinare la propria indipendenza: e subito (21 8bre) sfasciano il Castelletto, empiono di sassi il porto di Savona destinato emulo. Il Doria diede l’ultimo tuffo all’Italia consegnandola a Carlo V, poi facendosi amico e sostegno di Filippo II; eppure fra i posteri gli dà certissima gloria l’aver restituito la libertà alla sua patria, e rifiutatone la sovranità, che gli offeriva Carlo V disamante delle repubbliche. Levato fin alle stelle dai Genovesi, da molti però veniva imputato come traditore; e il poeta Luigi Alamanni ragionandone con esso, gli disse così sorridendo: — Certo, Andrea, che generosa è stata l’impresa vostra; ma molto più generosa e più chiara ancora sarebbe se non vi fosse non so che ombra d’intorno, che non la lascia interamente risplendere». Andrea a quelle parole messe un sospiro, e stette cheto, poi con buon viso rivoltosi, disse: — È gran fortuna d’un uomo, a cui riesca d’operare un bel fatto ancorchè con mezzi non interamente belli. So che non pure da te, ma da molti può darmisi carico, che essendo sempre stato della parte di Francia, e venuto in alto grado co’ favori del re Francesco, io l’abbia ne’ suoi maggiori bisogni lasciato, ed accostatomi ad un suo nemico. Ma se il mondo sapesse quant’è grande l’amore che io ho avuto alla patria mia, mi scuserebbe se, non potendo salvarla e farla grande altrimenti, io avessi tenuto un mezzo, che mi avesse in qualche parte potuto incolpare. Non vo’ già raccontare che il re Francesco mi riteneva i servizj, e non m’attendeva la promessa di restituire Savona alla patria, perchè non possono queste occasioni aver forza di far rimutare uno dall’antica fede. Ma ben puote aver forza la certezza ch’io aveva, che il re non mai avrebbe voluto liberar Genova dalla sua signoria, nè che ella mancasse d’un suo governatore nè della fortezza. Le quali cose avendo io ottenuto felicemente col ritirarmi dalla sua fede, posso ancora, a chi bene andrà stimando, dimostrare il mio fatto chiaro senza alcun’ombra che gl’interrompa la luce» (SEGNI). Clemente VII, non per anco disingannato dall’intrigare, tornò sulle ambizioni, riprese Imola e Rimini, cercò spossessare Alfonso d’Este e anche ucciderlo, il che costò la vita ai congiurati scoperti. Vedendo in dechino sempre maggiore le fortune francesi, si risolse alfine per l’imperatore, e praticò una riconciliazione che tutti sentivano necessaria. Nella pace di Barcellona (1529 20 giugno) ne ottenne condizioni, che le meglio non avrebbe potuto aspettarsi dopo una vittoria: l’imperatore gli farebbe restituire da’ Veneziani Ravenna e Cervia; Modena, Reggio e Rubiera dal duca di Ferrara; rimetterebbe i Medici in Firenze, lo Sforza a Milano, se si provasse innocente delle trame del Morone; sottoporrebbe gli eretici di Germania; ad Alessandro bastardo de’ Medici sposerebbe Margherita bastarda sua; il papa in compenso darebbegli la corona imperiale, e l’investitura del regno di Napoli mediante il solo omaggio della chinea. D’altra parte Margherita zia di Carlo, a Cambrai dov’essa avea cominciata la ruina d’Italia, ora la compiva (5 agosto), con Luigia di Savoja madre di Francesco assettando tra questo e l’imperatore. Il quale, restituiti a peso d’oro i principi ostaggi, non dimenticò veruno di coloro che seco aveano parteggiato. Francesco non ne ricordò nessuno, non Firenze o Venezia, non i duchi di Milano o di Ferrara, non gli Orsini di Roma o i Fregosi di Genova, non i Napoletani suoi parteggianti che lasciava esposti all’esiglio o alle galere; scese perfino a stipulare non darebbe asilo a veruno che avesse portato le armi contro l’imperatore. Va dunque, re cavalleresco, ed esclama, — Nulla è perduto fuorchè l’onore». Sulla capitana di Andrea Doria, cui a Barcellona avea prodigato onorificenze, Carlo V venne in Italia; e questa, vagheggiando le speranze d’un riposo, qual ch’esso fosse, ornò con tutte le arti il passaggio di colui (9bre), che ne portava in petto le sorti. In Bologna Carlo e il papa cinque mesi vissero sotto al medesimo tetto trattando. Quegli voleva risolutamente il Milanese, come appoggio del suo dominio in Italia. Ma perchè Venezia manifestamente, gli altri principi alla coperta sosteneano il duca Francesco Sforza, a questo il consentì Carlo (23 xbre), sottraendone però Pavia che investì al Leyva vita durante; Como e il castello di Milano tenendo in pegno de’ novecentomila ducati che doveano pagarsegli, metà subito, il resto fra nove anni. Venezia restituì al papa Ravenna e Cervia, all’imperatore i paesi che aveva occupati sulla costa napoletana, con trecentomila ducati di sopraggiunta; e reciprocamente provvidero ai fuorusciti e ricoverati. Ad Alfonso d’Este Carlo V aggiudicò Modena e Reggio (1530 20 marzo), e il papa gl’investì Ferrara per centomila ducati: poi morto Alberto Pio conte di Carpi, egli occupò anche il feudo di questo. A Federico di Mantova fu dato il titolo di duca (25 marzo). Carlo III di Savoja, cognato di Carlo V e zio di Francesco I, avea potuto conservarsi neutro, e veniva a partito vinto. Libere rimasero Genova, Lucca, Siena; Firenze in minaccia. Al congresso di Bologna apparvero, fra altri, gl’inglesi Nicolò Carew e Ricardo Sampson, i quali ad Enrico VIII scrivevano: — Mai s’è visto nella cristianità desolazione pari a quella di queste regioni. Le buone città distrutte e desolate; in molti luoghi non si trova carne di niuna sorta. Tra Vercelli e Pavia, per cinquanta miglia del paese più ubertoso di vigne e di grano che il mondo abbia, tutto è deserto; nè uomo, nè donna incontrammo a lavorar le campagne, nè anima viva, eccettuate in un luogo tre donne povere che racimolavano quei pochi grappoli che c’erano rimasti. Vigevano, già buona terra con una rôcca, oggi è rovina e deserto. Pavia fa pietà; nelle strade i bambini piangevano domandando del pane, e morivano di fame. Ci dissero, e il pontefice lo confermò, che la popolazione di que’ paesi e di parecchi altri d’Italia fu consunta da guerra, da fame, da pestilenza, e che vi vorrà molti anni prima che l’Italia si riduca in buona condizione. Siffatto sperpero è opera dei Francesi non meno che degl’Imperiali, e ci dicono che il signor di Lautrec devastò dovunque passò»[259]. Carlo V volle risparmiarsi, se non il rimorso, la vergogna di veder Milano nè Roma, assassinate a quel modo dalle sue truppe: onde in Bologna medesima (22 febbr. e 24 marzo) ebbe la corona di ferro e quella d’oro. Essa non esprimeva più il patto fra il rappresentante del popolo e il capo dei conquistatori, divenuto imperatore dei conquistati, e che, inginocchiatosi uomo e con titolo mondano, sorgeva unto di Cristo e con apostolato divino. Era patrono del papa colui che pur anzi l’avea avuto suo prigioniero. e n’avea lasciato devastare la città? era salvaguardia della fede quegli che coll’_Interim_ avea riconosciuta e lasciata crescere l’eresia che staccava mezzo mondo da Roma? Quella cerimonia preservatrice, sociale, destinata a imprimere profondamente nei popoli il rispetto all’autorità, traeva dall’elemento religioso la riverenza che ispirava al popolo: ma ora prevaleva l’elemento regio, che nel popolo portava esitanza e opposizione; il diritto, mantenuto dai papi, soccombeva al fatto, proclamato dai cesari; tutta l’attenzione era rivolta alle feste, con cui si onorava in Carlo l’ultimo imperatore germanico che i pontefici coronassero. Il disegno, la poesia, la teatrica gareggiarono in quella solennità, splendidissima in un secolo di tante splendidezze[260]. Stanchi, sbigottiti, i nostri adulavano Carlo, e ripetevano non esser mai potuti immaginarsi tanto affabile e cortese l’autore di sì orribili disastri. Fra queste allegrie consumavasi l’italico avvilimento, cominciato per le discordie, finito per la concordia dei potenti. Più non sussisteva equilibrio fra i piccoli Stati, depressi o fatti ligi all’Impero. Il papa, sgomentato dai progressi della Riforma, abbracciò le ginocchia di quella maestà, sul cui collo i suoi predecessori aveano altre volte messo il piede; e se l’opporsi all’Impero aveva un tempo formato la gloria e la grandezza sua, il papa allora indossò la casacca ghibellina, e così suggellò la pietra, che sull’Italia creduta cadavere posava la conquista mediante il degradamento, insegnato da Machiavelli, eseguito mediante un’amministrazione assurda, una calcolata oppressione del pensiero, del genio, dell’industria. CAPITOLO CXXXVI. Assedio di Firenze. Affannoso assodarsi della dominazione medicea. Nella pace non era stata compresa Firenze, vittima predestinata. Della prosperità di essa e d’una civiltà, gran tratto superiore alle altre nazioni, dove altro ne mancasse, dan cenno le feste con cui celebrò l’assunzione di Leon X al pontificato. Appena avutone l’annunzio, «si cominciò a sonare in palazzo, e di poi tutte le chiese; e il popolo corse in piazza e a casa i Medici, benchè non vi lasciavano entrare se non cittadini amici loro, per paura di non andare a sacco, come si costuma a Roma; e per non essere a quell’ora aperte le botteghe (ch’era di quaresima), cominciarono a ardere gli assiti, che non rimase nessuno in Firenze. Di poi la mattina le botteghe arsono scope, corbelli, botti e ciò che veniva loro alle mani; e per la città fastella di scope a ogni casa, e lumiere per tutti i campanili e in sulla cupola; e a casa del papa e di Giuliano de’ Medici gittarono dalle finestre mantelli, cappucci, berretti per magnificenza. Di poi il sabato gittarono fiorini d’oro e battesimi e grossoni e crazie[261] per parecchie centinaja di fiorini; e alla chiesa di San Lorenzo pane e vino a ogn’uomo; il simile la casa di Giovanni Tornabuoni e Jacopo Salvioli; e molte altre case di cittadini parenti e amici in buon numero davano pane e vino a ogni uomo. E in un tratto ognuno faceva fare l’arma del papa; tutti i magistrati fecer fare tondi di tela, dipintavi quell’arme; di modo che di arme del Comune non si faceva più conto alcuno. Di poi si mise in palazzo e nell’udienza e su tutte le porte di chiese, e nemmen si faceva festa di santi che non fosse sopra a crocifissi l’arme; di modo che pareva una mezza idolatria, più esaltandosi quella che la croce di Dio» (CAMBI). D’entusiasmi, cambiati poco appresso in esecrazioni, non ci occorre andar fin là per cercare esempj: quel che c’importa è che in esse feste gareggiarono i primarj artisti; eretti archi dal Granacci e dal Rosso, finte facciate e prospettive da Antonio di Sangallo, e da Jacopo Sansovino una a Santa Maria in Fiore; chiaroscuri da Andrea del Sarto, grottesche dal Feltrino, statue dal Rustici, dal Bandinelli, dal Sansovino stesso; poi il Ghirlandajo, il Pontormo, il Franciabigio, l’Ubertini ornarono a chi meglio l’appartamento del pontefice; mentre Michelangelo e Rafaello con altri maestri deliberavano della facciata di San Lorenzo e d’altre opere da Leone meditate[262]. Quel lusso intelligente sfoggiavasi anche in men solenni occasioni, nelle molte brigate sollazzevoli, e nelle sagre delle confraternite. Di queste ben settantacinque noverava il Varchi, e vogliono special ricordo i Laudesi, consorzj secolari, istituiti già nel XIII secolo, e ordinati con certe leggi e colla consuetudine di alternare, nelle chiese e davanti a tabernacoli, l’innodia latina ecclesiastica con canzoni melodiose nella lingua del popolo. «Si adunavano ogni sabbato dopo nona in una chiesa, e quivi a più voci cantavano cinque o sei laudi o ballate composte dal Giambullari, dal Pulci, da Lorenzo de’ Medici, dalla madre di lui Lucrezia Tornabuoni, da ser Francesco d’Albizzo, da Feo Belcari, da Castellano Castellani e da altri» (SANSOVINO). In occasione d’interdetto della città, supplivano al silenzio de’ riti sacerdotali; crebbero al tempo di Savonarola; talora musica ed arti congiungevano in devote rappresentazioni. Delle compagnie godereccie menzioneremo due di signori e gentiluomini, denominate del Diamante e del Broncone dall’insegna che aveano assunto, preseduta quella da Giuliano e questa da Lorenzo Medici. La prima preparò un trionfo alla romana, con tre carri, rappresentanti la puerizia, la virilità, la vecchiaja, disegno di Rafaello delle Viole, del Carota intagliatore, di Andrea di Cosmo, Andrea del Sarto, Pietro da Vinci, Bernardino di Giordano, Jacopo da Pontormo, e con iscrizioni e canti analoghi. Di rimpatto lo storico Nardi dispose gli apparati della compagnia del Broncone, in sei trionfi: il primo rappresentava la saturnia età dell’oro con simboli di pastorali felicità e cavalli coperti di pelli di lioni e di tigri coll’unghie d’oro, e d’oro le corde, e per staffe teste di montoni, e freni di verzure; seguiva Numa Pompilio con insegne religiose, e sacerdoti con turiboli e altri arredi da sacrifizj; il terzo trionfo figurava il consolato di Manlio Torquato, con senatori togati e fasci e scuri; veniva poi Giulio Cesare trionfante di Cleopatra, con pitture di quei fatti, e armi e torce; il quinto era di Augusto, circondato dai poeti che abbellirono la sua corte; sopra il sesto carro seguiva Trajano coi giureconsulti in toghe dottorali e scrivani e notaj; poi il trionfo dell’Età, con figure di Baccio Bandinelli e pitture del Pontormo; il tutto accompagnato da allusioni, ricche sempre, talvolta anche ingegnose, fra cui un uomo corcato sopra un globo e tutto armato fuorchè alla schiena, donde gli usciva un fanciullo dorato per esprimere che un secol d’oro veniva dopo quello di ferro. Il carnevale uscivano «ventiquattro o trenta pariglie di cavalli ricchissimamente abbigliati co’ loro signori travestiti secondo il soggetto dell’invenzione, sei o otto staffieri per uno, vestiti d’una livrea medesima, con le torce in mano, che talvolta passavano il numero di quattrocento; e il carro poi o trionfo pieno d’ornamenti e di spoglie e bizzarrissime fantasie»[263]. Le varie scuole d’artisti solevano dare spettacoli pubblici, mandando attorno carri di trionfo in gara di nuove invenzioni e di splendidi decoramenti, sopra soggetti or della storia or allegorici: una volta erano i trionfi di Paolo Emilio, un’altra quelli di Camillo, diretti da Francesco Granacci; Baccio Baldini ci descrive la genealogia degli Dei, atteggiata in ventun carri; il Vasari ci mostra occupati i pittori in siffatte invenzioni. In casa di Gianfrancesco Rustici convenivano Andrea del Sarto, Aristotele da San Gallo, Roberto Lippi e altri nove, formando una compagnia detta del Pajuolo, ove ciascuno dovea portare qualche vivanda artifiziosa, e potean menare quattro amici. Una sera, per allusione al nome loro, si allestì la tavola entro un immenso pajuolo, il cui manico serviva da lumiera. Postisi a sedere, ecco sorgere di mezzo un albero, i cui molti rami portavano il servito, poi discendeva per risalire con altri, e tutto ciò fra suoni e vini. Il Rustici offrì un pasticcio in forma di pajuolo, entro cui Ulisse tuffava il padre per ringiovanirlo, e padre e figlio eran due capponi. Andrea del Sarto un tempio, fondato sopra gelatina a varj colori, salsicciotti per colonne, capitelli di cacio parmigiano, cornicioni di paste dolci; nel coro era il leggìo con un libro di lasagne, avente le note e le lettere di grani di pepe, e in giro tordi in atto di salmodiare. Così gli altri sbizzarrirono in invenzioni. La compagnia della Cazzuola, di ventiquattro, fece le più strane capresterie, massime una volta che fu proposto di vestirsi ognuno al modo che gli piacesse, e quel che si scontrasse nella foggia d’un altro pagasse una penitenza. Una volta comparvero tutti da muratori e manovali, colla cazzuola e il martello; e cominciarono un edifizio portando vassoj pieni di lasagne e ricotte, per rena cacio e spezie, per ghiaja confetti, per quadrucci e pianelle pani e stiacciate. Spezzato un imbasamento, si trovò composto di torte, fegatelli e altre leccornìe; poi una colonna di lesso, fasciata di trippe e col capitello di capponi arrosto e cimase di lingua; indi un architrave con fregio e cornicione di manicaretti. E così godeansi finchè venne una finta pioggia con tuoni che li fece abbandonar l’edifizio. Un’altra volta era Cerere, che in traccia della rapita Proserpina, pregava i compagnoni della Cazzuola d’accompagnarla all’inferno. Moveano dunque, e per una bocca di serpente che chiudevasi sopra ogni coppia che entrasse, si condussero in una camera buja, ove la mensa era apparecchiata di nero, finchè Pluto, che gl’invitò alle nozze, ordinò cessassero le pene, e subito si videro illuminati i quadri figuranti le varie bolge; e tutte le vivande pareano animali sozzi e schifezze, ossa di morti, corna, serviti da diavoli con pale; finchè sparve quello squallore, e venne un ricchissimo apparato per recitare una commedia. Altri finsero uno spedale, dove ricoveravano coloro che si erano rovinati in feste e cene, vestendo da paltonieri; e dicean le cose più ladre del terzo e del quarto, finchè compariva sant’Andrea, loro patrono, che cavandoli dallo spedale, li menava in una stanza magnificamente arredata, e comandava che d’allora innanzi non facessero che una festa l’anno. E così osservarono, in quell’occasione disponendo una cena e una rappresentazione; ora Tantalo dava mangiare a tutti; ora sant’Andrea mostrava le glorie de’ cieli; ora Marte sanguinante di stragi o preso alla rete. Con divisamento strano Cosimo Ridotti figurò il carro della morte, tirato da bovi neri, dipinto a teschi e ossa e croci bianche, e sovr’esso lo scheletro colla falce e il polverino, e attorno sepolcri spalancati, donde al fermarsi della processione sbucavano scheletri spolpati che cantavano: — Fummo già come voi siete; Voi sarete come noi. Morti siam, come vedete; Così morti vedrem voi». La quale moralità messa in burletta e cerca a divertimento, non mi fa meraviglia minore che le oscenità ostentate spesso negli atti, sempre nelle canzonacce onde si accompagnavano que’ simulacri degli antichi baccanali. Questi gaudj esprimevano una prosperità, che stava per finire. I primi Medici, saputa l’arte di elevarsi per mezzo della borghesia, aveano governato cittadinescamente; ma quando, dopo diciotto anni di libertà, vennero rimessi in dominio, Lorenzo II, benchè non valesse che per l’appoggio del papa, si comportò da signorotto borioso e soverchiatore, opprimeva o corrompeva sfacciatamente, e col trascurare fin quelle forme che illudono sopra le perdute libertà, mostravasi cupido d’usurpare l’autorità suprema. Non fu dunque compianto allorchè morì (1519 28 aprile), ed essendo ultimo discendente da Cosmo il Vecchio, nè rimanendo alcuno della famiglia abile al governo[264], molti esortavano il papa a far opera pia e gloriosa col restituire alla patria una libertà che i suoi più non potevano usufruttare. Di questa generosità non si sentì capace Leone, e appoggiatosi a casa d’Austria, pose un governo di suoi fazionieri, preseduti da Giulio, figlio naturale e postumo dell’ucciso Giuliano, e ch’egli avea fatto cardinale e arcivescovo di Firenze. Neppur quelli che bramavano franca la patria non voleano male a costui, che dimorava quasi continuo a Roma, essendo anima de’ consigli del papa; e che resse con prudenza e modestia, pazientissimo nelle udienze, conciliatore delle discordie, avverso ai delatori; non arrogavasi le nomine agl’impieghi nè altra principesca prerogativa, e buttava polvere negli occhi de’ liberali col farsi da questo e da quello presentare consulti sul riordinare lo Stato. Non manca mai chi le passioni dei governanti aizzi a sfogo delle sue proprie: e gli ottimati[265] metteangli timore de’ popolani e de’ devoti; e con questi sospetti, e col ripetergli che bene non potevasi aspettare se non da lui e sua casa, traevano a sè ogni potere, nè lasciavano salire alle cariche altrimenti che per loro procaccio. Dopo il Savonarola, l’amore della libertà erasi innestato colla devozione; e gli austeri e temperanti favorivano il _buono stato_, mentre pei Medici parteggiavano gli scapestrati e gli ambiziosi. Ai primi giorni del pontificato di Leon X, «dodici frati, ristretti in poverissima vita, andavano per Italia predicando e prenunziando cose avvenire. Di questi, comparse in Santa Croce di Firenze frate Francesco di Montepulciano, riprendendo severamente i vizj, ed affermando che Dio voleva flagellare Italia e particolarmente Firenze e Roma, con tanto spaventevoli prediche, che si gridava dagli uditorj con dirottissimi pianti, Misericordia. Era il popolo sbigottito tutto quanto, perchè chi non lo poteva per la gran moltitudine udire, lo sentiva dagli altri con non minore spavento raccontare. Sollevarono queste così fatte predicazioni non solamente alcuni frati a predicare e prenunziare rinnovazioni e flagelli sopra la Chiesa, ma ogni dì sorgevano monache, pinzocchere, fanciulli, contadini a far lo somigliante... Le quali cose confusero tanto, tanto insospettirono l’universale, che per rallegrarlo in parte, furono fatte da Giuliano e da Lorenzo de’ Medici grandissime feste, caccie, trionfi e giostre, presenti sei cardinali, venutivi travestiti da Roma»[266]. Di rimpatto, sparlare del clero, dar ragione ai Luterani, motteggiare le immunità ecclesiastiche, sfrenarsi a dissolutezze pareano segni di spirito forte, e fin le superstizioni, perchè repugnanti alla Chiesa. Nominandosi capitan generale Paolo Castelli, per dargli il bastone si attese che gli astrologi indicassero il felice punto delle stelle, aspettandolo essi nella corte del palagio co’ loro stromenti in mano[267]. Il Cambi si lagna «che pareva il ben vivere fosse dispregio, in modo che ognuno ch’era amico del frate stava cheto, sperando nella giustizia di Dio e nella sua misericordia. La notte di pasqua di natale, i giovani fiorentini scorretti condussero un cavallo in Santa Maria al mattutino, e fecionlo correre per la chiesa, e di poi l’ammazzarono a piè delle scalee; poi andarono nei Servi, e gittarono dell’assafetida in sul fuoco, e questo fu l’incenso che dettono alla nostra Donna; e a Santa Maria Novella andarono a dileggiare i frati coll’arme, e uno mescolò carte in sur una predella d’altare; a Santo Spirito ruppero la pila dell’acqua benedetta...» E segue narrando come tutto fosse pieno di sodomiti e meretrici, le quali più non voleano tenersi ne’ luoghi appartati, e poteano tanto, che, chi volesse nulla dagli Otto di balìa, raccomandavasi ad esse: i giovani andavano in volta con armi a far burbanze, e se alcuno se ne richiamasse alla balìa, la notte era ferito; sicchè i delitti non erano nè puniti, nè denunziati. «E però (conchiude) è da credere che il Signore manderà la spada e gastigheracci giustamente; e non volendo noi la sua misericordia, ci darà la giustizia a nostra dannazione». Fra molti misfatti che dai cronisti potremmo racimolare, ne addurremo uno di quella famiglia Buondelmonti, che trovammo spesso pietra di scandalo nelle cittadine resie, e nel cui seno mai non erano mancati litigi e micidj atroci. Di cinque fratelli che restavano, due ammazzarono un altro per conto d’un cavallo, poi rifuggiti a Pergolata sulle loro possessioni, si gittarono al rubare con altri sbanditi. La Signoria ne colse uno e gli mozzò il capo; il secondo andò da un altro fratello prete, stranandolo perchè gli desse denaro; e il prete fattoselo coricare a lato, l’uccise nella camera stessa ove era stato assassinato quel primo. Citato dal vescovo, il prete si scagionò colla ragione del bando ch’era sopra la testa dell’ucciso; ma imputato d’altre colpe di carne, con un fiasco si tagliò la gola, «e coll’ajuto del diavolo quel nuovo Caino spirò di questa vita»[268]. Ubertino Risaliti, di famiglia che avea dato gonfalonieri sin dal 1326, ragguardevole egli stesso per lettere, costumi, parentele, stando provveditore dell’arte della lana, ne abusò involando molte centinaja di fiorini e falsando i conti; del che scoperto, ebbe mozza una mano, e fu confinato alle Stinche fin all’intera restituzione[269]. Un giovane de’ Corsini chiese dal papa di potere, contro il divieto, portare in Egitto acciaj ed armadure, onde col guadagno riscattar suo fratello caduto schiavo de’ Turchi: andò, e accontatosi con un Pisano, finse aver ricavato centododicimila scudi, ma il fratello esser fuggito di schiavitù, talchè quel denaro in altre mercanzie investì, facendole assicurare: passato un mese, scrisse essere il legno andato a traverso, e il Pisano venne per riscuotere la sicurtà a Firenze; ma si scoprì che mai non aveano nulla caricato, ond’egli fu preso, mozzatagli la mano, e chiuso nelle Stinche: bandito il Corsino contumace. Un artefice abusò del proprio figliuolo, onde fu tanagliato per tutti i luoghi pubblici della città. Un capitano di Mortara, arrivato con un condottier genovese a servizio del papa, la notte quando i giovani tornavano d’aver preso il fresco sulle scalee di Santa Reparata, ne rapiva qualcuno, a sfogo di libidine: scoperto, per quanto il condottiero reclamasse, fu impiccato alle finestre del bargello[270]. Insomma il popolo fiorentino appariva diviso in due sêtte opposte: gli uni, tutta moralità e austero liberalismo, a guisa de’ moderni Puritani, attendeano a litanie, e far missioni, stabilire conventi nuovi e l’ospedale degl’incurabili in via San Gallo, e nelle pesti buttaronsi a cura degl’infermi; gli altri scorretti e licenziosi, avidi di godimenti, beffardi e calunniosi alla pietà. Alcuni di costoro, alla tavola del cardinale de’ Medici, presero a cuculiare il frate Savonarola, le sue profezie, e chi vi credeva: e Girolamo Benivieni, voltosi animosamente al cardinale, — Io sono de’ seguaci del frate, e insieme con tutti gli uomini dabbene desidero la libertà comune; ma nè io nè coloro faranno per tal conto fellonìa, nè verranno colle armi contro allo Stato giammai: ben pregheremo Dio e voi che ne la conceda, per mantenerla in pubblico giustamente e con fede, e in privato con industria e parsimonia. Ma questi vostri affezionati in vista, aborriscono la libertà e le leggi per tiranneggiare crudelmente; e tanto vi si mostreranno ossequiosi, quanto permetterete loro la violenza e le rapine: nè anco per questo empirete mai le loro voglie insaziabili; onde un dì vi si volteranno contro. Però, lasciate da parte uomini sì malvagi, e compiacete delle cose oneste questo popolo, che sempre esalterà il nome e la gloria vostra»[271]. Giulio, divenuto Clemente VII, da principio mostrò clemenza e liberalità, anche per tema di Giovanni dalle Bande nere, e finchè non ottenne che Ippolito, figlio di Giuliano terzogenito del Magnifico, d’appena quindici anni e già cardinale, fosse dichiarato abile (1525) a tutti gl’impieghi della repubblica: allora il pose governatore di Firenze, nè la Signoria poteva risolvere alcuna cosa senza consultare questo fanciullo. Clemente intanto nelle sue velleità politiche ravviluppò Firenze, la quale, perduta ogni importanza di Stato, e costretta a dar uomini o denaro per gli intenti altrui, fino a tassare i beni ecclesiastici e vender quelli delle corporazioni di arti, rimpiangeva il Savonarola, il Soderini, l’antico buono stato, e come avviene dei malcontenti, facea suo gaudio d’ogni traversìa del papa. Quando il Borbone minacciava la patria loro co’ suoi ladroni, che già depredavano la val di Chiana e il Casentino, i giovani chiesero armi secondo l’usanza per respingere quell’esterminio; e vedendosele negate, le tolsero per forza, e munirono la mura, mentre domandavano d’assicurare l’interno contro la guarnigione forestiera; alzarono l’antico grido di _Popolo e libertà_, e proponeano si facessero banditi i Medici. Capitanava e aizzava gl’insorgenti Clarice figlia di Pietro II Medici, la quale alla morte di Lorenzo d’Urbino suo fratello avea preteso sottentrargli ne’ diritti, e invece vedeasi preferiti due bastardi, e nè tampoco ornato cardinale il figlio ch’essa aveva da Filippo Strozzi. Questo ricchissimo cittadino, figlio dell’altro Filippo che fabbricò il grandioso palazzo, l’avea sposata benchè la legge vietasse le parentele co’ ribelli, e pagò la multa, forse sperando che l’altalena della fortuna rialzerebbe casa Medici, e con questa la sua, la quale avea dato sedici gonfalonieri, novantatre priori, e nel 1520 contava ottanta capifamiglia, cenventi persone abili agli uffizj. Filippo era stato uno degli ostaggi dati ai Tedeschi da papa Clemente per liberarsi dalla cattività: e poichè questo ricusò pagare il riscatto, Filippo, dal Moncada sciolto spontaneamente, ne volle sempre malissimo al pontefice, e adesso procurò rivoltargli la città. Ma Luigi Guicciardini gonfaloniere di giustizia, «stato sempre ossequioso e beneficato dai Medici, ingegnandosi di trovarsi da chi vince, mostrava in un medesimo tempo un viso fedele allo Stato e un altro disposto a compiacere ai desiderj della gioventù»[272]; a questa ripeteva — Io sono dei vostri», mentre dava mano alle forze della Lega, le quali, giovandosi degl’imbarazzi d’un governo nuovo, vennero in città a colpi di moschetto, e il moto fu represso e perdonato. Ma ripigliato animo col crescere delle calamità di papa Clemente, si congedarono i Medici (1527 17 maggio), esuli per la terza ed ultima volta, e si costituì un governo libero e il gran consiglio del popolo. La peste, come nel resto d’Italia, così a Firenze infierì per tre mesi, consumando da cinquecento vite il giorno, e ducencinquantamila in tutto lo Stato; e fu seguìta dalla peggior fame che uom ricordasse. Frà Bartolomeo da Ficaja corse predicando penitenza, sul tenore del Savonarola; la Signoria in pubbliche processioni e con tutti i magnati scalzi andò incontro alla miracolosa Madonna dell’Impruneta, che soleasi trasportare a Firenze nelle maggiori calamità, e «in cui non avea mai la repubblica sperato senza frutto» (AMMIRATO). Nicolò Capponi, succeduto gonfaloniere e discepolo del frate, nel gran consiglio, troppo diradato dall’infezione, usò il linguaggio di quel maestro suo, «dai fatti della repubblica e dalle presenti tribolazioni rivolgendo l’animo e le parole alla contemplazione della maestà di Dio» (NARDI), e «nell’ultimo si gettò ginocchioni in terra, e gridando ad alta voce Misericordia, fece sì che tutto il consiglio Misericordia gridò» (VARCHI): indusse ad eleggere Cristo per re perpetuo, e che solo a lui e alla sua legge volevasi obbedire; e il decreto scolpito in marmo fu posto sul palazzo della Signoria, dove ancora si vede. Fra la devozione provvedeva come meglio al governo, alle finanze, alla giustizia; e ordinò una milizia urbana di quattromila cittadini di famiglie statuali, e di fasciare con buone fortificazioni la città. L’amministrazione precedente e le ultime disgrazie aveano carico estremamente di debiti lo Stato, e ottantamila ducati l’anno assorbiva il Monte, dei ducentosettantamila d’entrata centomila spendeansi in impiegati, guardie, fortificazioni; sicchè alle altre spese bisognava supplire con nuovi balzelli o accatti, e fin con imposizioni sopra i più facoltosi[273]. Il Capponi, anima retta ma di quell’esitanza che sembra carattere de’ moderati, sentendosi soverchiare dagli Arrabbiati, sperò infrenarli mettendosi alla testa de’ magnati, e sempre lusingavasi di buoni accordi coi Medici, coi quali teneva arcana corrispondenza. In effetto i Palleschi s’erano ristretti a lui, non meno che gli antichi Piagnoni; ma Baldassarre Carducci, cognominato messer Scimitarra, e Dante da Castiglione, capi de’ popolani o de’ Libertini, schiamazzando recidevano ogni via di conciliazione[274]. Eppure la prudenza avrebbe suggerito ai Fiorentini d’aderirsi a Carlo V, il quale teneva prigione il peggior nemico della lor libertà, il papa; ma il popolo, esecrando l’insolenza spagnuola e quasi istintivamente presentendo che dagli Imperiali verrebbe la servitù d’Italia, e ricordandosi che frà Savonarola avea detto, gigli con gigli dover fiorire, prediligeva i Francesi, meno atroci nelle recenti guerre, e con un re cavalleresco. Machiavelli, Guicciardini, Capponi, Vettori scaltrivano a non confondere le luccicanti qualità del re colla politica d’un governo che sempre gli avea tirati nelle male peste onde salvar se medesimo; nè dalla gratitudine per tanti sacrifizj fattigli sarebbe rattenuto dall’abbandonarli: ma, come avviene quando la ragione parla contro l’immaginazione, non erano ascoltati, anzi ne venivano in pessima voce. Luigi Alamanni poeta, appartenente col Martelli, col Vettori, col Brucioli, col Machiavelli a una società che adunavasi negli orti Rucellaj per ragionare di studj e di politica, côlto di notte con armi proibite, era stato multato, ond’egli per dispetto entrò in una congiura coi Buondelmonti contro la vita di Giulio allora cardinale; e scoperti e condannati gli altri, egli provvide alla propria salute col ricoverare in Francia, che trovò più cortese che la patria[275]. Tornato alla cacciata de’ Medici, sebbene avverso a questi, non cessava di ripetere a’ Fiorentini: — Andrea Doria, che brama altre repubbliche vicine a quella che a lui deve l’esistenza, vi raccomanda di imitare gli esempj di Genova e d’appoggiarvi all’imperatore; io stesso, se volete, andrò mediatore presso di questo, nelle cui mani stanno omai le sorti italiche»: ma l’antipatia nazionale e l’abbajare de’ piazzeggianti prevalsero, tanto che l’Alamanni dovette sottrarsi all’indignazione popolare. Passato col Doria in Ispagna, di là avvisò che si tramava contro Firenze, ma non riscosse che sgradimento, come chi disnuda il vero alle fazioni, che vogliono essere ingannate. Al contrario, Baldassarre Carducci, che, per allontanarlo, era stato spedito ambasciatore alla corte di Francia, prometteva mari e monti; e il 1529, mentre si praticava la pace, scriveva di là: — Stringendo io molte volte questa maestà a ricordarsi della divozione e fede delle signorie vostre verso di lei in questa composizione, ha con tanta efficacia dimostro l’obbligo sommo che gli pare avere con quelle, affermandomi non esser mai per fare alcuna composizione senza total benefizio e conservazione di cotesta città, la quale reputa non manco che sua. Ed ultimamente m’ha ripetuto queste medesime ragioni ed assicurazioni il granmaestro (Montmorency), dicendomi: _Ambasciadore, se voi trovate mai che questa maestà faccia conclusione alcuna con Cesare, che voi non siate in precipuo luogo nominati e compresi, dite che io non sia uomo d’onore, anzi ch’io sia un traditore_. Ed a Bartolomeo Cavalcanti il re disse espressamente con giuramento, non esser mai per comporre con Cesare altrimenti; e piuttosto voler perdere i figliuoli che mancare a voi confederati»[276]. Più sincera la regina erasi lasciato sfuggire che darebbe mille Firenze per riaver uno de’ suoi figliuoli. E in fatto si concordò la pace senza la minima riserva a favor di Firenze, e il deluso Carducci scriveva: — L’empia ed inumana determinazione di questa maestà e de’ suoi agenti aveano dato mille promessioni e giuramenti di non concludere cosa alcuna senza partecipazione degli oratori, degli aderenti e dei collegati; e nondimanco, senza farne alcuno di noi partecipe, questa mattina hanno pubblicato la composizione e pace con grande solennità, senza includerci altrimenti; di modo che non s’è alcuno di noi potuto contenere (gli ambasciatori veneti trovansi nello stesso caso) di non mostrare a questi signori la loro ingiustizia ed irrazionabile rimunerazione di tanta osservanza e spese ed incomodi, patiti per questa corona di Francia. Sarà una perpetua memoria alla città nostra e a tutta Italia, quanto sia da prestar fede alle leghe, promissioni e giuramenti francesi». Alle stesse lagnanze rispose il granmaestro: — Adunque voi volete impedire la ricuperazione dei nostri figliuoli? Guardate che, avendo voi un nemico, non ne abbiate due». In questi accordi dunque poneasi che i Medici, spossessati illegittimamente nel 27, doveansi rimettere; e poichè Ippolito era cardinale, restava come principe Alessandro, generato in una schiava mora da Lorenzo d’Urbino, o, come diceasi, da Clemente VII, e fidanzato colla Margherita bastarda di Carlo V. Vilmente tradita dal re di Francia (1529), la città mandò all’imperatore, rimostrandogli che, se era entrata nella lega contro di lui, l’avea fatto quando obbediva ai Medici e al papa, e chiedeagliene perdonanza, esibendosi pronta ad ogni accordo purchè le conservasse la libertà: «ma i messi, piuttosto uccellati che uditi» (VARCHI), furono rimessi a Clemente VII; ottenessero il perdono di lui e bastava. Clemente, offeso anche come papa e ne’ prelati più eminenti dagli Imperiali, avea perdonato a questi per forza; ma secondo lo stile de’ fiacchi che si rivendicano sui deboli, metteva l’onor suo nel castigare i Fiorentini del rispetto mancatogli come principe. Acciò dunque che sola non galleggiasse fra l’universale diluvio, l’imperatore, mentre se n’andava dalla pacificata Italia per non udirne i nuovi ejulati, spediva le sue torme, lorde del sangue e delle rapine di dieci anni, a spegnere quest’ultimo anelito della fazione guelfa. I Fiorentini, più non potendo confidare che in se stessi, benchè da tanti anni avessero dismesso le armi pei traffici e le arti, non mancarono all’estremo momento: respinti i patti della servitù, voltano il viso alla fortuna, e attirano l’attenzione del mondo con fatti che rimangono fra’ più eroici della storia. Nicolò Capponi, che un’onorevole conciliazione preferiva all’inutile resistenza[277], non solo ebbe rimproveri pubblicamente, ma processo di secrete pratiche col papa; e sebbene provasse l’intemerata sua intenzione, ed anche la posterità non gli trovi altra colpa che d’essersi lasciato illudere da Clemente, il quale colle trattative voleva addormentar la città e remorarne gli armamenti, quelli che non sanno urlare se non _traditore_ e _morte_ lo voleano al patibolo; salvato dai moderati, fu deposto dal ben tenuto uffizio; perchè nelle febbri popolari non vuolsi la prudenza che modera, ma la violenza che spinge. Il surrogatogli gonfaloniere Francesco Carducci, uom nuovo negli affari, ma sviscerato della repubblica, addomestica Piagnoni e Arrabbiati, e fa i preparativi più risoluti. Solennemente si pronunziano decaduti i Medici: e poichè i popoli sogliono di Dio ricordarsi nelle gravi urgenze e nelle inaspettate fortune, si fecero processioni, si tornò a pietà come al tempo del Frate, proibiti i giuochi di zara, corretto il lusso, puniti la bestemmia e il mal costume; una quarentìa renderà la giustizia pronta e severa con appello al consiglio generale; e Jacopo Alamanni, giovane nobilissimo, condannato da quella, nel montare al patibolo congratulavasi co’ cittadini che il suo supplizio servirebbe a saldare le recenti ordinanze. A soccorso di Firenze trassero i residui delle Bande nere, con diciotto capitani reputati; si fece una «descrizione generale per tutta la città di una milizia civile»[278], giurata di non adoprar le armi se non per onore di Dio, per lo ben comune e per difesa della libertà; le rinnovate bande dell’ordinanza si trovarono salire a diecimila uomini, fior del contado, armati e disciplinati meglio che non s’aspettasse da gente divezza; in piazza San Giovanni, cantata messa, giurano che nessuno abbandonerà mai l’altro, ma ad ogni estremo la libertà difenderanno. In fatto, «sebbene erano fra di loro di molte gozzaje e di cattivissimi umori, essendo di tanti pareri e in tante parti divisi, nondimeno si astenevano, non che di manomettersi l’un l’altro coi fatti, d’ingiuriarsi colle parole, dicendo, — Questo non è tempo di far pazzie; leviamoci costoro d’addosso, e poi chiariremo le partite» (VARCHI). Michelangelo Buonarroti, come già Archimede, dirigeva le fortificazioni, e bastionava la città col Sangallo, col Peruzzi, col Serlio, col d’Alberti; Donato Giannotti serviva da segretario di Stato; da cancelliere Francesco Aldobrandino, padre di Clemente VIII, che ora stendeva sapientissimi consulti, ora argute satire; Bartolomeo Cavalcanti, Luigi Alamanni, Pier Vettori combatteano a vicenda ed arringavano (1529); Andrea del Sarto dipingeva ad infamia i traditori; il Nardi, il Segni, il Busini, l’Adriani, il Nerli cooperavano ad imprese che poi doveano tramandare alla posterità; prestiti forzosi, gli argenti delle chiese e de’ privati, le gemme de’ reliquarj, le facoltà dei corpi religiosi e d’arte, vendute o poste a pegno, procurarono il denaro, con cui si presero al soldo Malatesta Baglione, Stefano Colonna, Napoleone Orsini ed altri venturieri; nove commissarj con amplissimo potere aveano il maneggio della guerra. Egregi provvedimenti, ma tardi, quando era spalancato il varco, che sarebbesi potuto ben chiudere ai giorni di Carlo VIII colle campane minacciate da Pier Capponi, e colla ispirazione del Savonarola. Ora contro alla libertà stavano i Medici, fatti onnipotenti da che univano oro, spada, croce; stavano i principi tutti, risoluti a spegnere le antiche libertà; stavano l’odio delle provincie mal governate, il dispetto dei grandi conculcati dal popolo, immensa turba di servili comprati dai Medici, i quali con arte secolare aveano guasto anche le forme buone, e col voto de’ loro creati portavano agl’impieghi le persone meno meritevoli, affinchè screditassero quel modo di governo. Il duca di Ferrara, non che mandasse, come avea stipulato, a capitanarli il giovinetto suo figlio[279], si rappattumò col papa, e lo fornì d’artiglierie. All’abate di Farfa spedirono tremila zecchini perchè facesse mille fanti, ma il portatore fu côlto presso Bracciano per ordine di Clemente VII, e spogliato. Che fa l’abate? apposta il cardinale Santacroce, che dal papa era mandato a Genova incontro all’imperatore, e menatolo prigioniero, nol rilasciò finchè il papa non gli ebbe restituiti i tremila zecchini. Allora egli tenne alcun tempo la campagna pei Fiorentini, ma poi compro o sgomentato dalle prime disgrazie, tornò al suo Bracciano e a riconciliarsi col papa. Malatesta Baglione, preso a capitano generale per compiacere al re di Francia (1529), staccasi da Cortona ed Arezzo che aveva assunte a difendere, e mena i suoi a Firenze traverso il Valdarno, non provveduto di vittovaglie, perciò violentandolo alla peggio; le truppe mercenarie, di scarsa fede, pareano più timorose del vincere che della sconfitta; nessun ajuto dall’Italia, spossata dai conflitti, o sbalordita dalla vittoria. Clemente VII, oltre le proprie truppe comandate da Baccio Valori, dirizzava sopra la sua patria quegli stessi imperiali e luterani della cui ferità avea fatto così deplorabile sperimento, e ai quali or dava autorità di esiger dai Romani le somme che per terrore avessero promesse durante il sacco: e quegl’ingordi, affacciatisi (24 8bre) dal colle dell’Apparita al ridentissimo prospetto che presentano la città e i colli popolati di vigneti e di ottocento palazzine[280], urlarono con selvaggia bramosia: — Prepara, o Firenze, i tuoi broccati d’oro, che noi veniamo a misurarli colle picche». Erano guidati da Filiberto principe d’Orange, che partecipe delle cospirazioni del Borbone, con esso era disertato dalla Francia a Carlo V, e a quello succeduto nel comando degl’Imperiali e nel guasto d’Italia: e benchè detestasse senza rispetto la cupidità del papa e l’ingiustizia di quella impresa, nondimeno aveva chiarito non poter mancare di continuarla senza la restituzione dei Medici» (GUICCIARDINI). Sua madre gli scriveva dissuadendolo da quella come ingiusta, o gliene arriverebbe male: e indovinò. Una città dopo l’altra cede a costoro; molti Palleschi disertano dalla patria, tra’ quali Francesco Guicciardini, che forse increscevasi di non ottenere bastante considerazione in governo popolare, come altri di gran famiglia, e sperava di assodare un’aristocrazia coi Medici, mal prevedendo che questi si eleverebbero deprimendo i nobili; e recò ai nemici il soccorso del proprio ingegno politico, più utile dacchè fu morto Girolamo Morone (15 xbre), il quale prestava ai nemici d’Italia quell’accorgimento che contro di loro aveva aguzzato. — Il papa non s’ostinerà a’ nostri danni, o l’Europa non rimarrà indifferente a vederci perire», dicevano i Fiorentini; e Clemente: — Non reggeranno a vedersi guastare i loro orticini». D’altra parte, che valor ripromettersi, che costanza da mercanti, esercitati solo in arti sordide, non in quella nobilissima dell’ammazzare?[281] Ma il patriotismo gl’infervora di modo che giurano uccider mogli e figli, metter fuoco alla città anzichè cedere. Demolite chiese e conventi colle loro bellissime pitture, distrutte le ville, deliziosa ghirlanda di Firenze, vedeansi recar di là fasci d’aranci, di rosaj, d’ulivi recisi, per crescere le fortificazioni della patria. — Perchè esporre cotesto innocente?» fu chiesto ad un vecchio che trascinava un fanciullo a combatter sulla mura; — Perchè scampi o muoja con me a salvezza della patria»[282]. Pareva il Savonarola rivivesse in frà Benedetto da Fojano, frà Zaccaria da Fivizzano, frà Bartolomeo da Faenza, che promettevano vittoria e schiere d’angeli a protezione. La balìa scriveva a Baldassarre Carducci: — Noi qui stiamo di bonissima voglia, confidando, oltre all’ajuto di Dio, nelle buone provvisioni che abbiamo fatte sì di ripari e di gente, come d’ogni altra cosa; nè pare altro ci possa far male, salvo che la lunghezza del tempo, la quale ancora tollereremo mentre che avremo vita; poichè siamo disposti a mettervi tutte le nostre facoltà prima che venire sotto il giogo della tirannide. Ai nostri cittadini, ancorchè fossimo consumati per tante altre incomodità, non è grave alcun peso per mantenere questa libertà, la dolcezza della quale tanto più si gusta, quanto maggiore è la guerra che le è fatta. E nonchè altro, niuno è che spontaneamente non concorra a fare i ripari della città con le proprie mani... Trovandosi oggi la terra ottimamente fortificata, non temono forza alcuna; ed essendo disposti a non perdonare al resto delle nostre facoltà, dureremo insin tanto che si apra qualche spiracolo alla nostra liberazione. Abbiamo assai da ringraziare Iddio che, avendo dentro tanta gente forestiera, non è mai seguita cosa alcuna di quelle che hanno sopportato le altre città che sono state assediate: anzi si è generato tanto amore e benevolenza tra’ soldati e li nostri giovani, che pajono tutti fratelli; e si vede nei forestieri tanta prontezza alla nostra difensione, che pare che non meno combattino per li proprj loro interessi che per li nostri: il che nasce perchè sono benissimo pagati, ed amorevolmente da ciascuno intrattenuti; onde seguita, aggiunto i mali pagamenti de’ nemici, che moltissimi tutto giorno si partono da loro, e vengono agli stipendj nostri. Talchè tutta questa nostra fanteria è ridotta a tanta perfezione sì di numero come di bontà, che se uscisse in campagna farebbe tremare tutta quanta Italia»[283]. Nelle prime avvisaglie col principe d’Orange si segnalò Francesco di Nicolò Ferruccio, uomo austero che sarebbe vissuto alla campagna o al fondaco oscuramente per sottrarsi alla dipendenza, se l’occasione non l’avesse fatto patrioto fervoroso e tipo dell’eroe popolano. Messosi capo di bande, seppe mantenere l’abbondanza e, che più era difficile, la disciplina; e credendo che i partiti medj guastino e non salvino, neppur si ratteneva dalle crudeltà. A Pisa adoprò tutta la severità d’un conquistatore; se non gli dessero armi e vittovaglie minacciava impiccare i facoltosi, e infliggere a tutti la morte del conte Ugolino; e per prevenire qualche sollevazione mandò via tutti i cittadini capaci delle armi. A Volterra «dopo la vittoria fece impiccare quattordici Spagnuoli che avea presi prigioni;... messe di poi le mani in sulle robe dei cittadini e sull’argenteria sacra, e comandato pena la vita che nessun cittadino uscisse dalla città, alloggiò i soldati nelle case loro con modi aspri e insolenti;... usò molto rigore nel trovar denari, facendo impiccare per tal conto due cittadini alla finestra del palazzo dov’egli abitava» (SEGNI); un trombetto speditogli dal capitano Fabrizio Maramaldo calabrese, fece appiccare alla mura, dalla quale intanto i soldati sbeffeggiavano con un miagolare che somigliava al nome di quel capitano; e difese quella città contro diecimila assalitori. — L’ardimento è necessario ne’ casi estremi (diceva egli); al modo che già tenne il Borbone, assaliamo Roma; strasciniamovi gente colla speranza del saccheggio; corrompiamo i Tedeschi e pigliamoci prigioniero il papa»: altri parlavano di ricorrere ai Turchi, o almen faceano sperare ne’ loro ajuti[284]. E certo se Firenze commetteva la dittatura al Ferruccio o al Carducci o ad altro nazionale, avrebbe guidate le cose meglio che non esponendosi alle pretensioni de’ condottieri, sdegnosi di obbedire ad altri che a principi: ma, ahimè! il patriotismo agguagliato alla religione, le nobili virtù guelfe rideste nella gioventù, il valore inaspettatissimo in gente mercadante, non doveano riuscire che a rendere decorosa la caduta sotto la cospirazione delle armi, dei tradimenti, della fortuna. I Fiorentini non aveano cessato ancora di sperare dai Francesi, nè questi d’illuderli. Francesco I assicuravali non esser la pace che uno stratagemma per recuperare i suoi figliuoli; eppure ai Fiorentini mercadanti in Francia proibì di spedir denari alla patria pericolante: ordinò a Malatesta Baglione e a Stefano Colonna si togliessero dal servire que’ ribelli, eppure secretamente gli avvisava non obbedissero: richiamò da Firenze il suo inviato pubblico, eppure ve ne conservò uno secreto, che tenesse ben edificati i cittadini, e promettesse che, appena pagato il riscatto, li soccorrerebbe a viso aperto. Così maneggiava la politica il cavalleresco. Anche Venezia (1530), in cui avevano sperato come repubblica e come ombrosa di Cesare, erasi accordata con questo. Ma i Fiorentini si confortavano all’udire ora che papa Clemente stava in fin di morte, ora che il Turco minacciava di prender Vienna, ora che tutto il contado sorgeva in armi, ora che i nemici pensavano levarsi in fuga: le baje dileguavansi, rimaneva la realtà. L’imperatore, sciolto dalla paura de’ Veneti, mandava nuove truppe col Lodrone, col Belgiojoso, col Leyva; gli Spagnuoli, trattando i Fiorentini da bottegaj, non ne accettavano le sfide, nè il riscatto quando prigionieri: bande di Romagnuoli scorrazzavano le strade impedendo le vittovaglie, che ogni giorno più si stringevano; «le gatte erano venute in gran prezzo, e i topi erano cibo, e gli asini si mangiavano ne’ conviti, senza gustarsi vino; e i cittadini erano ridotti a tale disposizione d’animo, che ragionando famigliarmente cogli amici, quasi si vergognavano di mostrare di aver mangiato qualche vivanda delicata, come troppo molli ed effeminati»[285]. Onde rinfrescare le provvigioni, occorreva di aprire la strada per Prato e Pistoja, sicchè fu mandato al Ferruccio che piombasse sopra gli assediatori, mentre gli assediati farebbero una sortita con tutta la gente di guerra e la milizia cittadina; avendo determinato che quei che restavano a custodia, se vedesser rotti i combattenti, uccidessero le donne e i figliuoli, mettessero fuoco alle case, poi uscissero alla stessa fortuna degli altri. L’Orange, avuto spia di quell’ardito movimento, dovette abbandonare il campo per farsi incontro al Ferruccio nella montagna di Pistoja, e scontrollo a Gavinana (2 agosto). I Fiorentini, benchè i Cancellieri di Pistoja gli avessero traviati per farli cadere sopra San Marcello, rôcca de’ Panciatichi loro nemici e palleschi[286], combatterono eroicamente e uccisero l’Orange stesso: ma Alessandro Vitelli sopraggiunto, rifece testa, sicchè i repubblicani rimasero sconfitti, e preso il Ferruccio, il quale così inerme fu agramente insultato e trafitto dal Maramaldo. — Tu ammazzi un uomo già morto», gli disse l’eroe; e fu da cento colpi finito. Gravissimo sconforto a Firenze, che sentivasi agli estremi. Vi erano periti ottomila cittadini e dodicimila soldati forestieri; colla fame si faceano le prove estreme, e le teneva allato la peste; i fautori de’ Medici macchinavano entro la città, e al solito i chiassoni, che non sanno far altro, andavano denunziando traditori, e domandando supplizj contro uno che trattò di vender Pisa, contro un frate che voleva inchiodare le artiglierie, contro un Soderini che teneva informato il nemico: erano sospetti, ma vi rispondeva la forca; che più? la forca a chi nominasse favorevolmente i Medici, o il Magnifico, o il Padre della patria. Mentre si delirava nelle imputazioni fraterne, non si teneva occhio al Baglione capitano generale, abilissimo guerriero, ma già altra volta traditor di Firenze; e forse bastò la tristizia del capitano a sperdere il buon volere di tutti. Ricusò assalire il campo mentre l’esercito s’era vôlto contro il Ferruccio, anzi in petto all’ucciso Orange furono trovate lettere che il rivelavano traditore: ma quando i Fiorentini lo licenziarono dal comando (8 agosto), assalì a pugnalate chi glielo intimò, e puntò le artiglierie contro le porte di Firenze. Se questa l’avesse trattato come Venezia il Carmagnola, sarebbesi avuto un altro tema contro l’ingratitudine delle repubbliche. Non l’osarono, ed egli procedette e accettò dal pontefice patti, leggendo i quali il doge di Venezia disse: — Ha venduto il sangue di quei poveri cittadini a oncia a oncia, e s’è messo un cappello del maggior traditore del mondo». La città, che in tre anni di libertà avea speso un milione e mezzo di fiorini d’oro, e in undici mesi d’assedio sofferto fame, peste, privazioni, stenti d’ogni guisa, fu costretta a capitolare (1530 12 agosto) con Ferrante Gonzaga sottentrato all’Orange; stipulando salve e libere le persone, dimentiche le offese, restituito il territorio; pagherebbe ottantamila ducati all’esercito imperiale; rimetterebbe all’imperatore il regolar la forma del suo governo, «inteso però sempre che sia conservata la libertà». Tosto è eletta una balìa di dodici Palleschi, fra’ quali Pier Vettori, Baccio Valori, Francesco Guicciardini, Roberto Acciaioli; e spezzata la campana che per l’ultima volta avea convocato il popolo ad approvare col voto universale ciò che i suoi vincitori avevano ordinato, si cominciò con processi e torture ad abusar della vittoria. A Francesco Carducci già gonfaloniere, a Bernardo da Castiglione e ad altri quattro fervorosi patrioti è mozza la testa nel cortile del bargello, molti relegati, ad altri confiscati i beni; frà Benedetto da Fojano è mandato a Roma a morire non meno di sporcizia e di disagio, che di fame e sete. «Nè gli giovò ch’egli aveva umilmente fatto sentire al papa lui esser uomo per dovere (quando a sua santità fosse piaciuto tenerlo in vita) comporre un’opera, nella quale, mediante i luoghi della Scrittura divina, confuterebbe manifestamente tutte le eresie luterane» (VARCHI). Tedeschi, Spagnuoli, Italiani dell’esercito nemico vennero spesso alle mani tra loro (1531), finchè col pagarne i soldi si ottenne partissero, a riserva di piccolo presidio in Firenze: poi Carlo V notificò che a questa restituiva gli antichi privilegi, ma vi poneva duca Alessandro Medici (5 luglio); e la balìa proclamò questo e i suoi discendenti «fra i viva del popolo e col rimbombo delle artiglierie, le quali senza palle ferirono il cuore di chiunque deplorava la perdita dell’antica libertà», dice il Muratori, con una semplicità ben più espressiva che non le declamazioni, affocatesi testè attorno a quel fatto, dove il romanzo rimarrà sempre inferiore di lunga mano alla storia. Così dalla codarda vendetta di Clemente VII restava ribadita la supremazia imperiale sopra la città più guelfa d’Italia. Il vulgo superstizioso, cioè coloro che credono che Dio manifesti la sua collera anche in terra, vide la mano di lui nell’inondazione del Tevere (2 aprile), la più fiera che Roma ricordasse, con rovina di molti edifizj e di molte vite, e un conseguente lezzo che fomentò micidiale epidemia. Clemente patì sin di fame, e pericolò della vita in quella calamità, nè per questo si emendò della sordida politica. Per la quale, non potendo perdonare a Carlo il lodo proferito in favore d’Alfonso di Ferrara, ritorceva verso Francia, e spiava occasione di vendicarsi. I Medici trovavansi piantati in Firenze dall’armi forestiere, quando non rimaneva di lor famiglia alcun degno rampollo, ma un cumulo d’odj pei mali causati. A vero dire, Carlo V non v’avea spento il governo repubblicano; a quella famiglia restituiva i diritti che avanti il 1527; ad Alessandro competerebbero ventimila fiorini, non le totali entrate. Ma ai Palleschi non garbava un governo a tempo, sicchè bastò che i Medici li lasciassero fare, perchè si togliesse ogni rimasuglio di libertà. Girolamo Benivieni, l’antico discepolo del Savonarola, scrisse a Clemente VII con quella franchezza che tante volte si concilia colla devozione, «esortandolo a dare una forma di governo lodevole, come a cittadino conviene; insieme difendeva la memoria di frà Girolamo, e come le profezie di esso fossersi in parte avverate, le altre si avvererebbero» (VARCHI). Ma Filippo Strozzi, che tutto ambizione non badava per quali vie la soddisfacesse, divenuto pallesco malgrado della moglie, sollecitava Clemente a estirpar le reliquie del governo popolare; l’Acciajuoli consigliava a spoverire i nemici e la città, e fingere congiure che irritassero l’imperatore; il Vettori gli suggeriva: — Non ponete fiducia che nei soldati mercenarj, ma più ancor di questi vale il bargello»; il Guicciardini: — Invano cerchereste con qualsifosse maniera di dolcezza o benefizj rendere popolare questo governo; nè utile è, nè ragionevole aver pietà di coloro che hanno fatto tanti mali, e che, potendo, farebbono peggio che mai; meglio tornerà il compromettere col popolo i ricchi e destri, affinchè riconoscano non aver salute che nell’appoggiarsi ai Medici. Non bisogna esaurire le entrate della città, anzi mantenerla viva per poterne cavar pro; non obliando ma dilazionando di giungere al fine proposto; agli amici prodigare oneri ed utili di modo che, chi ne partecipi, diventi odioso all’universale; non concentrar tutto nel principe, ma spargere dei feudatarj pel dominio; togliere i consigli e l’altre chiacchiere vecchie, facendo una taglia di ducento, tutti confidenti. Insomma vorrei procedesser tutte le cose con questa massima, che, a chi non è dei nostri, non fosse fatto beneficio alcuno, eccetto quelli che sono necessarj per trarre da loro più utile si potesse: gli altri non solo son gettati via, ma son nocivi»[287]. Conforme a tali suggerimenti, Clemente così s’esprimeva col Nerli in Roma: — Dirai a quei cittadini che più giudicherai a proposito, che noi siamo ormai alle ventitre ore, e che intendiamo e abbiamo deliberata di lasciare dopo di noi la casa nostra in Firenze sicura. Però pensino a un tal modo di governo, ch’eglino vi corrano i medesimi pericoli che la casa nostra, e lo disegnino di tal maniera, che alla casa nostra non possa più avvenire quello che nel 1494 e nel 1527 avvenne, che noi soli ne fossimo cacciati, e quelli che con noi godevano i comodi dello Stato restassero in case loro. Dell’altre cose ci contenteremo ch’elle s’acconcino in modo, che gli amici, disposti a correre la fortuna di casa nostra, tirino dei comodi dello Stato quella ragionevol parte che a ciascheduno ragionevolmente si convenga». Il papa non ebbe che a commettere a questi vili la riforma del governo (1532 5 aprile). L’antica costituzione non abbracciava nell’eguaglianza nobili e plebei, città e campagna; ma distinguevansi i Sopportanti, cittadini che pagavano le decime de’ loro beni, e i Non-sopportanti, che viveano delle braccia. De’ sopportanti, godeano la piena cittadinanza e gli uffizj que’ soli, i cui antenati avessero partecipato ai tre uffizj maggiori della signoria, del collegio e dei buoni uomini. Di questi ammessi o statuali, dicevansi andar per la maggiore quegli iscritti nelle arti maggiori, e per la minore quei delle quattordici arti inferiori. Alcuni pagavano le gravezze di Firenze, ma abitavano pel contado, e chiamavansi cittadini selvatici[288]. Nel nuovo statuto fu abolita la distinzione delle arti maggiori e minori, proclamando eguali in diritto i cittadini, nè più distribuiti gl’impieghi per quartieri; cassati i privilegi, che sono l’ultimo rifugio d’un popolo oppresso; tutti siano abili del pari a tutti gli uffizj, e formino un medesimo corpo e un medesimo membro; il principe è capo della repubblica, in luogo del gonfaloniere di giustizia; e Alessandro in futuro si abbia a chiamare il duca della Repubblica fiorentina, come si chiama il doge di Venezia[289]. Michelangelo Buonarroti era stato più giorni ascoso in un campanile per sottrarsi alla prima furia, e i Medici lo salvarono perchè contribuisse ad immortalarli. Luigi Alamanni, relegato in Provenza, avendo rotto il bando, fu processato come ribelle; poi piantatosi in Francia, da re Francesco ebbe stimoli e comodò a poetici lavori. Fu anche destinato ambasciadore a Carlo V, che l’accolse bene, il felicitò d’un tal protettore, e deplorò il duca di Firenze che lo avea perduto. Ma le sue opere toscane furono pubblicamente bruciate a Roma, d’ordine di Clemente VII, e un librajo, che le vendeva a Firenze, multato e bandito dal duca; di che sempre più lo favorì Caterina, delfina di Francia, la quale lo prese maestro di casa. Fuoruscirono pure Donato Gianotti, il vecchio Jacopo Nardi, il giovane Bartolomeo Cavalcanti, il dottore Silvestro Aldobrandino, Anton Francesco degli Albizzi, Lorenzo Carnesecchi, e a tacer altri, fin quel Baccio Valori, che avea servito da commissario papale al campo liberticida. Ridottisi a Pesaro, ad Urbino, in Venezia, alcuni esercitavano nobilmente l’ingegno o nel fare scuola o nell’avvocatura, massime a Venezia, dove, secondo la consuetudine della repubblica romana (NARDI), si agitavano pubblicamente le cause; carezzati, ben voluti, sino a permettere che portassero armi in quella città dove nessun altro. Aveano essi creato sei _procuratori della libertà fiorentina_, che promovessero la causa di questa; intanto ai molti bisogni sovvenivano con denaro offerto da case stabilite in Roma ed altrove, e da frati che n’andavano raccogliendo[290]. Ma non vi mancava pure la feccia solita che s’arrabatta nel calunniare a vicenda, nello sfidarsi, nel denigrare, nell’esagerare i torti e le speranze. I rimasti, giacchè della libertà più non era quistione, carezzavano l’idolo dell’indipendenza; e come salvaguardia dalla servitù straniera, Alessandro de’ Medici in sulle prime fu sofferto in pace. Ma trovandosi in mano un potere illimitato, e attorno tanti adulatori, costui non tardò a riuscire quel ribaldo che la sviata sua gioventù già lasciava temere. Portato alla signoria da armi straniere, guardando i sudditi come nemici, come vili quei che a suo pro abbattevano le barriere costituzionali, cinto da satelliti che aspettavano ogni suo cenno, fabbricata una cittadella[291], minacciando di morte chiunque tenesse armi, collo spionaggio, colle segrete, col mandare a male oggi uno doman l’altro, soffogava il repetìo della perduta libertà, mentre con frequenti feste, or per la venuta di Carlo V (1533), or pel matrimonio colla costui figlia, spiegava pompe solennissime e sovrattutto allettevoli al vulgo, che correva a mangiare e bevere ed applaudire[292]. Dilettavasi a scorbacchiare persone gravi e onorate. Le arti belle e le lettere, seconda vita di Firenze, recavasi a vile, benchè desse commissioni al Vasari, e per lui mandasse saluti e doni all’infame Aretino. Nelle caldezze dei ventidue anni, non rispetto di famiglie, non santità di talami o di chiostri frenava il brutale, prorompente alle libidini senza distinzione di sesso e d’età, di condizione, di santimonia; e piacentesi d’umiliare più spiegatamente quelli che più apparivano amici della libertà e riveriti dal popolo. I delitti che palesassero vigoroso animo, puniva severo; a quelli di sensualità conniveva: ma non ponea divario tra le persone: e nato un giorno romore nell’affollarsi a uno spettacolo, egli mandò i servitori a bastonare i romoreggianti; e dettogli che v’avea giovani nobili e persone di qualità, — Non importa (rispose), tutti son del pari miei nemici». Il cardinale Ippolito suo cugino gl’invidiava onori che a sè credea dovuti, e propenso alle lettere e all’armi, carezzava i fuorusciti che confidavano nell’ambizione e ne’ denari di lui, e che come rappresentanti della patria lo elessero «padre e protettore, e principale autore della recuperazione della libertà»; ma fra breve Alessandro se ne sbrigò col veleno (1535 10 agosto), dicendo: — Si veda che ci sappiam levare le mosche d’attorno». «Era in tutto l’universale una tacita mestizia e scontentezza. La plebe e la maggior parte del popolo minuto e degli artigiani, i quali vivono delle braccia, perchè non si lavorando non si guadagnava, ed erano tutte le grascie carissime, stavano incredibilmente tristi e dolenti. I cittadini popolani veggendosi sbattuti, e avendo chi il padre, chi il figliuolo e chi il fratello o confinati o sbanditi, e dubitando ognora di nuovi accatti e balzelli, non ardivano scoprirsi, e non che far faccende e aprire traffichi nuovi, serravano gli aperti e si ritiravano per le chiese e nelle ville, parte essendo e parte infingendo d’essere non che poveri, meschini. I Palleschi, conosciuto quanto si fossero ingannati, si guardavano in viso l’un l’altro senza far motto; perciocchè s’erano persuasi di dover essere piuttosto compagni che servi, e che Alessandro, bastandogli il titolo di duca, dovesse, riconoscendo così fatta superiorità da loro, lasciarli trescare a lor modo, e non ricercare, come si dice nel proverbio, cinque pie’ al montone. Ma egli, con tuttochè non passasse i ventidue anni, essendo desto e perspicace di sua natura, instrutto da papa Clemente e consigliato dall’arcivescovo di Capua, uomo sagacissimo, aveva l’occhio e poneva mente a ogni cosa, e voleva che tutte si riferissono a lui solo. Dispiaceva ancora universalmente il vedere che non il palazzo pubblico dei signori, ma la casa de’ Medici sola si frequentasse, e fosse tutte l’ore piena di cittadini; dava terrore a tutto il popolo la guardia (cosa non usitata di vedersi a Firenze) che menava seco continuamente il duca con una maniera nuova d’arme in aste, le quali avevano in cima due braccia di largo e taglientissimo ferro» (VARCHI). Sull’esempio di lui, ministri e soldati faceano a chi peggio, la giustizia si mercatava, vendeansi grazie ed impieghi; oggi diceasi che un suo satellite avesse saccheggiato un nobile fiorentino; domani che un altro avesse ucciso a bastonate un ragazzo; e chi rapito, chi stuprato; e si era a quel fondo di miseria ove non rimane più nemmeno l’ardire di lamentarsi. Come è stile dei tiranni, voleva la gente allegra, divertentesi; onde i suoi fautori insultavano alle miserie con «sontuosissime cene, dove convitando le più belle e più nobili giovani di quella città, consumavano tutta la notte in far feste, intervenendo sempre il duca immascherato a intrattenerle, di tal maniera niente di manco, che era da ognuno conosciuto... Furono le spese di que’ pasti sì smisurate, che non mai da que’ tempi indietro erano state vedute nella nostra città; perchè non ve ne fu nessuna che non arrivasse alla somma di quattro e di seicento scudi;... e tre arrivarono ala somma di mille»[293]. Non son questi i modi da far rassegnati ad una signoria nuova; e i fuorusciti erano tanti e così irrequieti, da impedire che essa durasse con pace. Più volte ricordammo Filippo Strozzi, marito della Clarice Medici, «nella ricchezza senza comparazione di qualsivoglia uomo d’Italia: perchè alla morte sua si trovò che aveva scudi trecentomila di denari contanti, e ducentomila di beni, di gioje e d’entrate d’uffizj; onde appariva fortunatissimo, avendo aggiunto una prole di figliuoli maschi e femmine senza alcun paragone di bellezza e di destrezza d’ingegno e di accortezza di giudizio»[294]. Passava anche per valente in maneggi di Stato e in guerra; ma quanto alla mercatura e agli studj, tanto si dava ai piaceri; donde gli venne quello svigorimento d’animo, che rende incapaci a compiere i generosi concetti. Del resto pien di dottrina come di cortesia, di eccellente gusto, di gran generosità coi letterati, fu ripagato a lodi, le quali non tolgono di vedere come fosse sprezzatore delle cose sacre, e trascinato da un’ambizione senza intenti elevati. Stimolato dalla moglie contro i Medici nella prima cacciata, destò sospetto di favorirli segretamente, sicchè alla malevolenza popolare si sottrasse ricoverando a Lione: poi quando i Medici rivalsero, ne sposò gl’interessi. Abbiamo la vita di lui scritta da suo fratello Lorenzo, tutta scuse e lodi; ove, da quei piccoli ambiziosi che transigono colla propria coscienza meritano esser notate le progressive condiscendenze di Filippo a una causa che disamava, e come egli o il biografo ne versino la colpa sovra la necessità, scusa dei fiacchi. Clemente desidera svellere le apparenze di libertà, ma che l’opera paja condotta da Fiorentini; onde chiama a Roma Filippo, e gliene affida l’incarico: «parve a Filippo duro; nondimeno, temendo più i propinqui pericoli che i lontani, offerse largamente l’opera sua in tutto quello che a sua beatitudine fosse grato». Adunque in un congresso si tratta di concentrare tutta l’autorità in Alessandro; e Filippo, conoscendo che il domandar di ciò consiglio era fatto solo per cerimonia e per far partecipi altri di sì fatto carico, per non nuocere a se stesso senza giovare alla patria, aderì». Allora Clemente a molti cittadini chiede pareri di riforme, e man mano che arrivano li mostra a Filippo, coll’approvare e col disapprovare chiarendo quai fossero i suoi desiderj; e «come gli parve che Filippo possedesse la mente sua appieno», gl’impose andasse a Firenze e mettesse d’accordo que’ consiglianti nello stabilire un governo a suo beneplacito. «Sebbene Filippo aveva aderito alla sua opinione, gli parve strano d’averne ad essere palesemente ministro; nondimeno non potè fare di non obbedire». E così va e inganna i cittadini, consolida il duca, «e per questa e per altre dimostrazioni egli si persuadeva aver riguadagnato appresso al duca tanta fede che lo rendesse sicuro». Eppure subisce l’ingratitudine de’ Medici: ma quando Clemente lo prega di condurre in Francia Caterina, sposata al Delfino, e di farsi garante della dote, Filippo, «sebbene conoscesse l’astuzia di sua santità, pure, pensando che la servitù e le buone sue opere potrebbono vincere l’ingrata natura sua, si offerse paratissimo a tutti i desiderj di quella». E via di questo passo, col quale si spiace ai liberi non meno che ai servili. Di fatto Alessandro, dopo averne avuto consigli e denari per fabbricare la fortezza di Basso, guardava Filippo d’occhio sospettoso, l’imputò d’aver tentato avvelenarlo in una pozione amatoria, cercò anche disonorarlo in Luisa sua figlia, e non la potendo avere alle sue voglie, la avvelenò. Filippo allora colla restante famiglia fugge in Francia, poi cambiato il pontefice, e avendo la Corte francese incarcerato i suoi agenti affinchè pagasse la dote di Caterina di cui stava responsale, torna a Roma, si fa centro de’ fuorusciti; e con essi porta i lamenti loro e della patria a papa Paolo III, avverso ai loro nemici, e manda esporre a Carlo V (1535) le miserie di Firenze e l’infamia del duca, spendendo e spandendo per indursene favorevoli i cortigiani. Carlo diede ascolto e buona intenzione a costoro, come chi disapprova l’inutile provocare; ma troppo alieno dal voler restaurare una repubblica guelfa, accettò le discolpe del tiranno, sostenute dalla prostituita eloquenza del Guicciardini, e da quattrocentomila fiorini. E importandogli di correre ad assicurarsi il vacante ducato di Milano, propose un’amnistia di cui nessuno si fidava, e riforme di poco rilievo e di niuna sicurezza; talchè i fuorusciti risposero: — Non venimmo per dimandare a vostra maestà con che condizioni dovessimo servire, nè per chiedere perdono di quel che liberamente abbiamo fatto per la libertà della patria nostra, nè per potere colla restituzione dei nostri beni tornare servi in quella città, dalla quale siamo usciti liberi, ma per pregarla a restituirci intera la libertà, promessaci nel 1530 dagli agenti e ministri suoi in suo nome. Se le pare obbligo di giustizia torla da sì aspra servitù, si degni provvedervi conforme alla sincerità della fede sua: quando altrimenti sia la sua volontà, noi aspetteremo che Iddio e la vostra maestà meglio informata provveda ai desiderj nostri; risolutissimi a non macchiare per privati comodi il candore degli animi nostri col mancare a quella carità che tutti devono alla patria»[295]. Confermato Alessandro, i fuorusciti, perduto ogni ripiego legale, non poterono che ritorcersi in quelle trame, le quali fan rampollare mille speranze, non ne maturano alcuna. Lo Strozzi diceva: — Chiedo la libertà della mia patria a Dio, al mondo, al diavolo; e a qualunque di questi me la dia, sarò egualmente tenuto»; e confiscatigli i beni, ricoverava a Venezia, riverito da’ profughi come capo e speranza. I cittadini che delle trame aveano sentore, guardavano verso questi liberatori; quei che non ne sapevano, desolavansi senza conforti, quando la vendetta venne donde niuno aspettava. Dei Medici popolani sopravvivevano due rami, all’un de’ quali apparteneva Cosmo, all’altro Lorenzino di Pierfrancesco, garzone sui ventun anno, colto ma sviato, procace a cavarsi tutte le voglie, e detestato universalmente come spia, compagno, ministro e stromento alle dissolutezze del duca. V’intervenisse rivalità d’amore, o il toccasse virile vergogna o libidine di rinomanza, costui pensò rintegrarsi nella stima de’ suoi con un’azione, ch’egli misurava secondo le idee de’ classici, dei quali era studioso. Già a Roma aveva abbattuto statue d’antichi tiranni; di che papa Clemente, che viziosamente l’amava, fu per mandarlo alle forche. Ebbe un tratto l’ispirazione di uccidere esso papa, e non l’osò o non gli venne fatto. Parvegli poi bello sbrattare la terra da un mostro qual era Alessandro, tanto più facile che spesso erano insieme a ribalde avventure. Una volta gli capitò il destro di trabalzarlo da un muro di monastero, che scalavano insieme, ma s’astenne perchè potea credersi caso, non deliberato proposito. E questo covò, sinchè un giorno trasse il duca nella propria camera, col pretesto di condurgli la bella Caterina Soderini, zia di esso Lorenzo, da Alessandro lungamente desiderata (1537 6 genn.); e qui assalitolo con un tal Michele del Tavolaccino, soprannomato Scoronconcolo, che da lui sottratto alla forca, se gli era profferto ad ogni servigio, invano resistente lo passò fuor fuori. Ad ammazzare basta il coraggio d’un ribaldo; e il far un colpo senza pensare al dopo è eroismo da piazza, che troverà sempre seguaci perchè insano, lodatori perchè vulgare. Tal fu Lorenzino, il quale del suo proposito non avea fatto motto a persona; non concertato coi fuorusciti; scannato il duca, chiude a chiave la camera ove lo lascia cadavere, e senza manco far prova di sollevare il popolo, fugge, non so se più inetto o più tocco da rimorso. Per ricoprire il quale ai proprj occhi, da Venezia manda fuori una retorica diceria a dimostrare che operò da eroe; ma se qualche letterato applause al nuovo Armodio, se i fuorusciti «lo portavano con sommissime lodi di là dal cielo, non solo agguagliandolo, ma preponendolo a Bruto» (VARCHI), il mondo non gli fece onore d’un atto compito per _immensa cupidigia di lode_; ond’egli andò fuggiasco in Francia, in Turchia, finchè alcuni sicarj in Venezia guadagnarono la taglia bandita sul capo di lui[296]. Firenze sentì il fatto (1537) come avviene d’accidente imprevisto, lieta di trovarsi tolto dal collo costui, ma incerta sul da fare. Palla Rucellaj co’ repubblicanti esortava, giacchè era caduto impensatamente il tiranno, a coglier l’occasione di rassettare il buono stato antico; i Piagnoni trassero la testa fuor de’ cappucci dicendo: — È il dito di Dio»; gli artigiani, quando vedeano cotesti nobili affrettarsi a cogliere i frutti d’un colpo, a cui non aveano nè merito nè peccato, esclamavano: — Se non sapete o potete far voi, chiamate noi che faremo»; ma nessuno sorse capace di ghermire una vittoria, ch’era sicura a chi più pronto. I fuorusciti, dopo tanto chiacchierare e promettersi pronti ed aizzare gli altri, si trovarono côlti alla sprovveduta, e si diedero fretta di raccor gente, e ajutarsi anche con soccorsi del papa. Ma il cardinale Cybo, principal ministro del duca, potè conservare l’ordine in Firenze e impedire che mutamento di stato seguisse. S’aduna l’assemblea, ed il Guicciardini adopra il suo ingegno a mostrare quanto gli oligarchi avrebbero avuto a soffrire dalla reazione popolare. Maggior effetto faceano le guardie d’Alessandro Vitelli, disposte a saccheggiare o a gridare viva: sicchè i prudenti determinarono evitare i rischi d’una rivoluzione, le vendette degli oppressi, l’ingordigia della plebe, dando un successore ad Alessandro. Lasciava egli Giulio, figliuolo d’amore, ma troppo fanciullo, sicchè prevalsero quei che portavano Cosmo, de’ Medici popolani, figlio di Giovanni dalle Bande nere. A soli diciassett’anni, «colla tenue facoltà di sette in ottocento scudi d’entrata tutti in litigi e garbugli, essendo in poca grazia del duca Alessandro, al quale non parea giovane di riuscita, non frequentando la corte ma stando sempre in villa e dilettandosi di uccellare e pescare sotto la tutela della madre, povera e sconsolala vedova»[297], era mondo delle malvagità de’ Medici, erede d’un nome tradizionalmente caro ai Fiorentini e più agli antichi commilitoni di suo padre. In cosiffatte urgenze prevale chi fa più presto; onde i suoi amici, vistolo venir dalla villa per sapere le novità, lo acclamarono capo della repubblica fiorentina (1537 9 genn.), col grado stesso di Alessandro. I tre cardinali Salviati, Ridolfi, Gaddi, accorsi alla patria per procacciarne la libertà, conobbero tarda l’opera, o più utile la connivenza; onde ai fuorusciti che s’erano mossi da Roma, mandarono dire che voltassero indietro, vinta anche questa volta l’inconsideratezza di quei di fuori dalla pronta sagacia de’ governanti. Il Vettori aveva già scritto allo Strozzi: — Non stiamo in su’ Bruti e Cassj, nè in sul voler ridurre la città a repubblica, perche è impossibile. Fate che questo infermo viva; vedete non li siano date medicine forti che l’ammazzeranno; e nel farlo vivere si potrebbe un dì ridurre a miglior abitudine, da poterne sperare qualche bene». Da poi a chi gli rinfacciava quest’opera scellerata di avere costituito un tiranno, scusavasi dicendo: — In questi tempi non si può trovare strada che sia men rea». Il Guicciardini, sempre intento a fabbricarsi il nido fra le ruine, parteggiava per Cosmo, che s’era impromesso ad una figlia di lui, ma insieme volendo cattivarsi i grossi cittadini, proponeva che al nuovo signore si mettesse una costituzione, stretta quanto a un doge di Venezia; però il Vettori, da soldato, derideva siffatte restrizioni; e, — Se gli date la guardia, l’arme e la fortezza in mano, a che fine metter poi ch’ei non possa trapassare un determinato segno?» In fatti tra un mese Cosmo ebbe dimenticati gli accordi e gli amici[298]; la parentela stipulata col Guicciardini da privato rinnegò da principe, sicchè quello, riscosso dal suo tristo sogno, prorompeva: — Ammazzate pure de’ principi, che subito se ne susciteranno degli altri», e si ritirò ad Arcetri, dove il rancore dell’ambizione delusa e dell’orgoglio umiliato amareggiò gli ultimi suoi anni. Matteo Strozzi, Roberto Acciajuoli, altri che aveano intrigato per Cosmo, tardi gemeano fra la costui ingratitudine e la popolare esecrazione. Palla Rucellaj, che unico si era opposto al ragionamento del Guicciardini, ricoverò in Francia, e tenne mano a una congiura; e Cosmo credette ingannare la posterità col farlo dipingere dal Vasari in atto di prestargli omaggio. Rimanevano dunque molte gozzaje; e quelli che aveano difeso la libertà, e quelli che si doleano di non avere una parte nella tirannia accomunavansi nell’odiar Cosmo. I fuorusciti numerosissimi, venuti al pasto dopo lo sparecchio, s’erano ristretti attorno a Filippo Strozzi, il quale aveva accolto a Venezia il fuggiasco Lorenzino, e maritate le costui due sorelle a’ suoi figli, bastando per dote la parentela del Bruto fiorentino; ma sotto manto di libertà aspirava a sottentrare al dominio[299]. Pensarono dunque assalire lo Stato, fidando nelle intelligenze interne, e, come sempre si suole, ne’ Francesi, larghi di promesse agli esuli; i cui fautori, attestatisi alla Mirandola, di là ajuterebbero certo lo Strozzi; che, soldato un grosso di mercenarj, e rinforzato dai sussidiarj più chiassosi e più inutili, gli studenti dell’Università, assalse Pistoja. Questa città non avea mai dismesso le fiere accozzaglie tra Cancellieri ghibellini e Panciatichi guelfi, il contado vi prendea parte, e il ricco paese n’era rifinito. Neppur cessarono dopo assoggettati a Firenze, che avea tolto tutte le armi, messi bandi rigorosissimi; e destinativi tredici commissarj apposta. Questi inflissero pene gravissime, e stimarono che negli ultimi tre anni vi fossero bruciate quattrocento case in Pistoja (1537), mille seicento nel territorio, danneggiata la sola città in ventiduemila ducati d’oro. I Panciatichi, i Cancellieri, i Ricciardi, i Gualfreducci, i Vergiolesi e loro consorti furono sbanditi, poi richiamati, e le discordie rivalsero[300]: e coll’appoggio de’ Gabellieri, i fuorusciti vi si stabilirono. Ma mentre lo Strozzi, esitando fra un componimento coi Medici e l’aperta ostilità, guastava le cose, le guastava col precipizio Baccio Valori, un tempo capitano di Clemente VII contro Firenze, ora de’ fuorusciti contro i Medici, e che tutto facendo agevole, li spinse avanti in posizioni nè previste nè esplorate. Alessandro Vitelli, che, per tenere Cosmo a devozione dell’Impero, aveva occupato la fortezza di Firenze rubando i tesori d’Alessandro ivi deposti, sorprende i fuorusciti a Montemurlo (2 agosto), si disse al solito per tradimento d’un Bracciolini, li manda in piena rotta, e piglia lo Strozzi, Baccio Valori, suo figlio, Alessandro Rondinelli, Antonfrancesco degli Albizzi ed altri repubblicanti di primarie famiglie. Giusta gli usi della guerra, costoro spettavano ai capitani stessi cui si erano resi, ma Cosmo ne mercatò con questi il riscatto, rincarendo sull’offerta dei loro parenti: volle vederli nella propria casa inginocchiarsegli davanti a chieder mercè, poi li mandò al bargello, e man mano li faceva torturare, indi mozzarne il capo a quattro ogni mattina. Un principe giovane, vincitore e che non sa perdonare, è spettacolo stomachevole ancor più che orrendo: e al quarto giorno il popolo mostrò la propria indignazione in modo, che i restanti furono confinati in fortezze, dove non tardarono a perire; tra essi il figlio di Nicolò Machiavelli. Filippo Strozzi erasi reso al Vitelli, già suo particolare amico, il quale lo tenne in fortezza per ismungere denaro e regali da’ suoi figliuoli coll’usargli qualche cortesia. Era caldamente raccomandato da generali, da donne, dal Doria, da Bernardo Tasso, da Vittoria Colonna, da Caterina di Francia; nel colloquio di Nizza l’imperatore diede parola al papa di campargli la vita; pure alle incessanti istanze di Cosmo che già n’avea pagato la taglia al Vitelli[301], assenti fosse messo alla corda, per chiarire se avesse avuto intendimento dell’uccisione del duca Alessandro. Mentre Cosmo divulgava i processi, che rivelavano basse ambizioni mascherate di patriotismo, i profughi vollero di Filippo fare il Catone della loro causa, e sparsero voce che, stanco di due anni e mezzo di carcere, nè assicurandosi di resistere alla tortura, si segasse la gola e col sangue scrivesse: _Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor_. Forse l’aveano ucciso gli agenti dell’imperatore per risparmiare a questo l’obbrobrio del consegnarlo[302]: ma la fama del suicidio prevalse appresso dei più, come meglio confacente ad uomo che «nel tenore della vita e delle opinioni rappresentò gli spiriti del paganesimo, e parve nato nei tempi corrotti della romana repubblica»[303]. Pietro Strozzi suo figlio salvossi in Francia presso la delfina Caterina, che come ultimo rampollo di Lorenzo il magnifico, considerava Cosmo quale usurpatore del suo patrimonio. Seco esularono molti nostri valorosi[304], che empivano il mondo di querimonie, obbrobriavano il lor vincitore, e cercavano alle speranze un appiglio qualunque, siccome chi non ne ha alcuno di fermo. Cosmo sempre si resse a beneplacito dell’imperatore, il quale, come vide che sapea da sè vincere e infierire, prese a stimarlo; e in onta delle costituzioni e de’ proprj fatti, dichiarò dovere il principato trasmettersi nella linea di esso, per sempre escludendone quella del _traditore_. Sciolto da’ nemici, Cosmo seppe sbrigarsi anche degli amici. Francesco Vettori, perito lo Strozzi, cui era strettissimo, più non uscì di casa: il Vitelli, che avea fatto denaro col saccheggiare anche a danno di Cosmo, fu da questo congedato, ma l’imperatore lo compensò con un feudo nel Napoletano: il cardinale Cybo, che era stato principale autore del succedere di Cosmo, poi l’aveva sorretto di opportuni consigli, ebbe accusa d’averlo calunniato a Carlo V, sicchè si ritirò a Massa. Una magistratura militare domò le ostinate parzialità de’ Pistojesi. Arezzo, che si era messa in repubblica durante l’assedio di Firenze, dai vincitori ch’essa avea dispendiosamente favoriti, fu presto ritornata a obbedienza de’ Medici, che vi posero fortezze: ai renitenti il bando e il supplizio. CAPITOLO CXXXVII. Terza guerra fra Carlo V e Francesco I. Casa di Savoja. Spedizione in Africa. Anche sull’antica e gloriosa repubblica di Firenze è dunque suggellata la lapide principesca. I Liberali, che fremettero contro il papato del medioevo perchè scomunicava gl’imperatori liberticidi, applaudiscanlo ora che, azzoppato, s’appoggia da una parte sul re di Francia, dall’altra sugli Austriaci. Clemente VII, il pontefice più funesto all’Italia, in ogni parte di questa perseguitò i Fiorentini fuorusciti, sollecitò una fortezza a Firenze, e introdusse a Siena un governo favorevole a’ suoi divisamenti. Ancona era vissuta sotto i papi con forme repubblicane, e con patti che in fondo si riduceano a non mostrarsi loro nemica; e a Clemente negò il denaro ch’e’ domandava. Egli dunque struggeasi di sottometterla; ma non osando tentarlo colla forza aperta nel timore ch’essa chiamasse i nemici, col pretesto d’un imminente sbarco dei Turchi (1532) ottenne di alzarvi fortificazioni, dalle quali calando sulla città, le tolse l’indipendenza. Il tesoriere aveva in quel frangente nascosto il denaro pubblico; e il cardinale Accolti, che avea suggerito quell’inganno e pattuito per la sua famiglia il perpetuo governo della città, lo fece decollare, e i tesori portò in casa propria: indi forche e torture ed esigli domarono gli Anconitani, e negli impieghi furono surrogati da Fiorentini. Di ciò passarono impuniti gli Accolti fin che visse Clemente; ma Paolo III fece carcerare Benedetto; e nol rilasciò che per lo sborso di cinquantamila scudi d’oro. Gli altri paesi della Chiesa non rimanevano quieti. Napoleone Orsini, col nome d’abate di Farfa infamato di mille delitti, a capo di masnade assalì i toltigli castelli, e corse il paese come nemico, facendo prigioni, ponendo taglie, esigendo riscatti. Girolamo e Francesco suoi fratelli a fatica camparono lasciandogli il ricco arredo. Sua matrigna Felicia, figlia di Giulio II, impetrò che il papa spedisse armati contro di lui, che vinto si ritirò a Farfa, poi in Francia, sinchè il re gli ottenne perdono e di tornare in Roma. Quivi saputo che sua sorella andava sposa a un principe napoletano, egli appostò il corteo per rapirla; ma Girolamo fratello la convogliò con trenta uomini, e scontrato l’abate, lo uccise. Gian Francesco Pico era tornato signore della Mirandola; ma Galeotto suo nipote, signore di Concordia, assalse la città, penetrò nella camera di Gian Francesco, davanti a un crocifisso lo trucidò col figlio Alberto e cogli altri della casa, e unì il paese alla sua signoria. A Malatesta Baglione non era stata mantenuta veruna delle promesse fattegli perchè tradisse; onde coi denari e coll’infamia si ritirò nella sua Perugia, ove morì trentanovenne. Rodolfo suo figlio che n’era sbandito, s’impossessa della città a viva forza, brucia il palazzo del prolegato, e lui con due auditori mette alla tortura perchè rivelino i denari, poi nudi li fa decapitare, e si costituisce signore. — La bella pace portata all’Italia dai forestieri! Nè riposava il Milanese, stremo da tanti guasti, e in pendente per la preveduta vicina morte del duca. Le prepotenze del Medeghino (pag. 350), che minacciava gran parte dello Stato, obbligarono il duca a una guerra di dieci mesi che costò tesori, e ad impor gravezze che esacerbarono lo scontento. Cremona, che aveva sofferto orribili guasti dall’esercito della Lega, si sollevò contro le tasse ducali, e chiedendo pane, sotto un tale Luchetto saccheggiò, uccise alcuni signori; il castellano uscì colle armi, e Luchetto si ricoverò nel Torrazzo; donde cavato a larghe promesse e assicurazioni, fu ucciso. Truppe accorse da Milano moltissimi imprigionarono; «non furono però condannati a morte se non uomini e una donna; e molti furono banditi» (CAMPI). Re Francesco I, che al proprio vantaggio avea indegnamente sagrificato l’Italia, uscito del pelago non seppe rassegnarsi all’averla perduta; e per contrariare Carlo V, dava mano ad Enrico VIII d’Inghilterra e ai Protestanti tedeschi, i quali traducendo la religiosa in libertà politica, eransi levati in armi (1533) formando la lega Smalcaldica; e per distaccare Clemente VII dall’imperatore, chiese sposa al suo secondogenito Enrico Caterina figlia di Lorenzo II Medici. Tali regie nozze versavano tanto lustro sulla sua famiglia, che il papa venne a trattarne in persona a Marsiglia (8bre), mutandosi in paraninfo, per quanto ne scapitasse la pontifizia dignità; le assegnò in dote centomila scudi d’oro, e quanti beni possedeva in Francia la madre della sposa, fruttanti diecimila zecchini l’anno. Il re, sapendo che Francesco Sforza duca di Milano tante ragioni aveva di chiamarsi scontento dell’imperatore e del Leyva, gli spedì Alberto Meraviglia come ambasciatore, ma segreto, e coll’incarico di sollecitarlo a una lega. Il duca gli diede orecchio; ma sempre tremebondo de’ suoi padroni, appena si temè scoperto, col pretesto di un omicidio lo fece arrestare e decapitare. Il re a strepitare del violato diritto delle genti; e Carlo V, soddisfatto di tale dimostrazione, diè sposa allo Sforza sua nipote Cristierna di Danimarca. Ma poco appresso il timido duca e crudele moriva incompianto (1535 1 9bre) di quarantacinque anni, e con lui s’estingueva la famiglia Sforza, che in ottantasette anni avea dato sei duchi a Milano, un’imperatrice alla Germania (Bianca Maria), una regina a Napoli (Ippolita), una alla Polonia (Bona)[305]. Il ducato conserverà l’indipendenza, o cadrà servo? e di chi? Per risolverne si raddoppia l’affaccendamento de’ gabinetti: l’imperatore l’occupa come feudo ricaduto all’impero e come lasciatogli in testamento dal defunto, riceve il giuramento, e conferma tutti ne’ prischi impieghi. Ma il Cristianissimo si fa innanzi asserendo nel trattato di Cambrai avervi rinunziato soltanto a pro dello Sforza. Carlo V, per non dover mantenere grosso esercito di qua dall’Alpi, aveva tessuto una lega fra tutti gli Stati d’Italia, eccetto Venezia, che contribuissero un contingente, al quale comanderebbe il Leyva, mentre le ladre e micidiali bande dei Bisogni erano mandate in Morea e in Sicilia. Ma poichè quella fina politica dell’equilibrio mal comportava che si unissero s’un capo solo la corona imperiale e quella della Spagna, che allora comprendeva mezzo mondo, Carlo rinunziò la prima al fratello Ferdinando, massime che la Germania era volta sossopra dalle conseguenze della Riforma, e minacciata gagliardamente dai Turchi. Perocchè Solimano non avea voluto comprendere Carlo V nella pace, col pretesto ch’egli s’intitolava imperatore; mentre Francesco I, al titolo di Cristianissimo anteponendo la politica nuova che non guardava a religione, col granturco non solo fece trattato di commercio (1536), ma propose collegarsegli ai danni di Carlo per invadere Napoli; e lo facea se Venezia non avesse negato aderirvi. I fratelli Arugi e Kaireddin Barbarossa, formidabili pirati di Lesbo, segnalatisi giovanetti col prendere due galee del papa, s’erano allogati a servizio del sultano afside di Tunisi. Il primo perì dopo essere stato terrore de’ littorali europeo ed africano: l’altro, ucciso il dey d’Algeri, prese il dominio di questa e di Tlemecen, come vassallo dell’impero ottomano; si diede in corso più largamente, e tutte le coste desolò, salvo le francesi garantite da Solimano; il quale, credendolo unico capace di tener testa al grande ammiraglio Doria, gli affidò sessantasei vascelli. Aggiungendone diciotto suoi proprj, Kaireddin traversò lo stretto di Messina, sorprese Capri, saccheggiò Procida e Terracina, menando schiavi quantità di Cristiani. Saputo che in Fondi dimorava Giulia Gonzaga moglie di Vespasiano Colonna, vantata fra le belle, pensò sorprenderla e farne dono al harem di Solimano: assalì in fatto la città, ma la duchessa ebbe tempo a fuggire. Kaireddin, sbarcato a Tunisi con ottantamila gianizzeri datigli dal sultano, detronizzò Muley-Hassan (1533), ventesimosecondo sultano afside, e sottopose quel paese all’alto dominio della Porta. Lo spossessato rifuggì a Carlo V, il quale dalle costui sollecitazioni e da quelle de’ cavalieri di Malta si lasciò persuadere che alla grandezza non solo ma alla sicurezza della Spagna importava ristabilire la propria autorità sulle coste d’Africa, e distruggere la pirateria. Pertanto a Cagliari raccolse cinquecento navigli, guidati da Andrea Doria, con più di trentamila uomini delle antiche bande spagnuole sotto Alfonso d’Avalos marchese del Vasto; il pontefice v’aggiunse dieci galee, capitanate da Virginio Orsini; altre i Genovesi; Ferrante Gonzaga venne di Sicilia; e l’imperatore medesimo vi salì col principe di Salerno ed altri signori italiani. Prosatori e poeti celebravano l’Ercole che andava a soffocare Anteo, ma i maligni vollero dire che Carlo avesse assunta la spedizione contro il Barbarossa per isfuggire d’affrontare Solimano in Ungheria; onde si dicea che mai principe non s’era veduto fuggir dal nemico con tanto apparato[306]. Il Barbarossa avea sapientemente fortificato Tunisi e il porto della Goletta, cui proteggeano diciotto galee con cento bocche di fuoco, ventimila cavalieri mori e innumera fanteria: pure gl’Imperiali espugnarono quel porto (1535), prendendo l’arsenale e le navi. Il Barbarossa, costretto uscirne con cinquantamila uomini, prima di andarsene volea trucidare diecimila Cristiani ivi dimoranti, ed ebbe a pentirsi d’essere una volta stato pietoso; giacchè insorti voltarono contro di lui i cannoni della cittadella, onde preso tra due fuochi, fuggì in rotta a Bona, mentre gl’Imperiali entravano in Tunisi, uccidendo trentamila persone, e diecimila facendo schiavi. Tornava Carlo carico di gloria e di debiti dalla spedizione di Tunisi, quando udì che i Francesi avevano invaso Savoja e Piemonte. In tante vicende appena ci accadde far menzione di questo paese, del quale gli storici nostri pochissime particolarità ci tramandarono, non considerandolo per italiano. La signoria di Savoja sedeva sui due pendìi delle Alpi dalla Saona alla Sesia, e dal Mediterraneo al lago di Neuchâtel. Vedemmo (tom. VII, pag. 431 e seg.) i conti di Moriana ottenere per matrimonio il marchesato di Susa e la contea di Torino, e per conquista la Tarantasia; da Enrico VII il titolo di principi dell’impero e il feudo d’Aosta: v’aggiunsero poi la Bressa, le baronie di Faucigny e Gex e di Vaud, il Bugey, il Valromey, gli antichi comuni liberi di Chieri, Savigliano, Fossano, San Germano, Biella, Cuneo, le contee di Nizza, Ventimiglia, Tenda, Beuil con Villafranca e la valle di Barcellonetta, smembrate dalla Provenza; il Genevese, che toglieva la continuità fra gli Stati d’oltremonte; Briga e Limone, che agevolarono il passo del Col di Tenda. Il Piemonte, esteso dalla Dora Riparia alla Vauda di San Maurizio, da Gassino a Savigliano, Fossano e Mondovì, restò quasi appannaggio della linea cadetta di Acaja, fin quando nel 1418 l’imperatore Sigismondo lo investì col titolo ducale ad Amedeo VIII, il quale dal conte d’Angiò si fece confermare le terre staccate dalla Provenza, e dal duca di Milano cedere Vercelli, sicchè avesse per confine la Sesia. Di quel tempo furono unite al ducato molte terre del paese di Vaud, sette altre ne’ contorni di Mondovì, tolte al marchese di Monferrato, come Chivasso e altri castelli del Canavese, oltre l’omaggio di molti signori e Avogadri del Vercellese, dei Fieschi di Masserano e Crevacuore, del Tizzone di Crescentino, e dei popoli della val d’Ossola. Ne restavano ancora disgiunti la contea di Tenda e il Monferrato, che, spenta l’antica famiglia d’Aleramo nel 1305, era passato in un ramo de’ Paleologhi di Costantinopoli, e si divideva nelle case di Monferrato e di Saluzzo (tom. VII, pag. 434). Inoltre grosse porzioni erano assegnate in appannaggio a principi della casa; poi la Francia teneva sempre alcuni passaggi; e nel 1375, col pretesto dell’omaggio resole dal marchese di Saluzzo, piantò sua bandiera in questo piccolo Stato, incentivo a mestare nelle vicende italiche, e contrasto perpetuo agl’incrementi della casa di Savoja, ne’ cui interessi, mediante le donne maritate in quella, troppo intrigarono e poterono i re francesi[307]. I quali, tolto di mezzo quello Stato dacchè possedettero Genova e il Milanese, vi operavano ad arbitrio, e vi passavano continuo cogli eserciti, senza tampoco chiederne licenza; tanto più ch’era dominato da principi deboli. Nel Monferrato Guglielmo IX, succeduto il 1493 a Bonifazio V di sette anni, variò sistema secondo i tutori, nè mai figurò. Alla morte di Bonifazio figlio di lui non restavano della casa Paleologa che Gian Giorgio suo zio, abate di Lucedio, e Margherita sposata a Federico Gonzaga di Mantova. Gian Giorgio, schiericato, gli succedette nel 1533, sposando Giulia d’Angiò figlia d’Isabella ch’era stata regina di Napoli; ma ben presto morì anch’egli, si disse avvelenato dal duca di Mantova, che anticipatamente avea compra da Carlo V l’investitura di quello Stato. Ma ecco disputarglielo Carlo III duca di Savoja, Francesco marchese di Saluzzo, oltre molti che allegavano ragioni su paesi particolari; cominciando di quelle gare, ove i popoli a guisa d’un patrimonio sono barattati per nozze o per stipulazioni di principi. Carlo III il Buono (1504), di diciott’anni succedeva nella signoria di Savoja, che comprendeva tutta la riva destra del lago di Ginevra, e nel principato del Piemonte, che trovava in gran parte impegnato per appannaggio a tre vedove duchesse e ad altri principi; oltre il marchesato di Saluzzo, ancora distinto, e ligio a Francia. Carlo, debole di carattere, s’avvolse d’oscurità; lasciò che gli Svizzeri gli occupassero molte fortezze, che il Piemonte fosse corso e taglieggiato da quelli che si disputavano la Lombardia, che Ginevra si togliesse alla sua obbedienza per accomunarsi con Friburgo, poi abbracciando la Riforma, gli si sottraesse per sempre; infine si trovò infelicemente trascinato nelle guerre dei vicini. Per acquistare il Monferrato, Carlo dovea blandire i due arbitri d’Europa: ma sebbene zio di Francesco I, il temeva come vicino; onde preferì Carlo V (1521-31), sposò Beatrice di Portogallo, prediletta cognata di questo, e ne ricevette in regalo la contea d’Asti e il marchesato di Ceva. Con queste guise egli divenne causa primaria del sormontare di Carlo V in Italia. Nè però questi gliene seppe grado; e dopo ch’ebbe tenuti lungamente in susta i varj pretendenti al Monferrato, l’occupò come feudo vacante, infine aggiudicollo al marchese di Mantova (1536), che con trentamila ducati erasi guadagnato uno de’ suoi consiglieri. Il duca di Savoja si gridò ingannato, ma quando Carla V già erasi invigorito in modo da non temere più le sue inimicizie. Il Cristianissimo, vistolo parziale ai Cesarei, ne occupò gli Stati, e si fortificò a Torino e in altri luoghi, saccheggiando Rivoli[308], Grugliasco, Carignano, Chieri e Savigliano. L’imperatore, allorchè, reduce dalla spedizione contro Tunisi, udì avere i Francesi invaso il Piemonte, proruppe in invettive, rinnovò la sfida contro Francesco, e giurava ridurlo il più pitocco gentiluomo del suo paese. Ma cauto anche nell’ira, lo addormenta con trattati, mentre in Lombardia fa massa di Tedeschi, Spagnuoli, Italiani, coi quali ricupera gran parte delle terre piemontesi, e si propone d’invadere la Francia, e già ne scomparte fra’ i suoi le grandi signorie, e dice a Paolo Giovio: — Tempera la penna d’oro, che vo a darti gran materia di scrivere». Gli astrologi predicevano che il Leyva era fatato a conquistare la Francia, onde, contro al parere de’ migliori, fu a lui confidato l’esercito; ma avendo ad un prigioniero francese domandato quante giornate vi voleano dai confini a Parigi, — Dodici (gli fu risposto), ma giornate campali». In fatti la spedizione trovava in Provenza le campagne deserte, la guerra di bande implacabile, alfine anche la peste, tanto che l’imperatore vergognosamente dovette ritirarsi, tra ferocissime vendette dei paesani; e il Leyva tal dolore ne concepì che gli consunse la vita. Il conte Guido Rangone modenese, che s’era posto a capo di quanti favorivano ai Francesi in Italia, e che s’erano attestati alla Mirandola, con buon numero di questi tentò Genova (1537), ma essa non rispose; ond’egli, dato volta, prese Chieri, Carmagnola, Bricherasio, Cherasco, altre città, e sciolse l’assedio che a Torino avea posto Gian Giacomo Medici. E fra un re zio e un imperatore alleato, Carlo III restava spoglio de’ dominj, giacchè Francia teneva da Moncalieri all’Alpi; l’imperatore, col pretesto di sicurezza, metteva presidio in Asti, Fossano, Vercelli[309]. Ma improspere succedevano all’imperatore le fazioni ne’ Paesi Bassi, sollevatisi contro la tirannia di lui, che colla libertà religiosa volea strapparne anche le franchigie comunali; Solimano granturco, sollecitato da re Francesco, invadeva l’Ungheria, bersagliava il Napoletano, minacciava la Toscana; per sobillamento de’ Francesi moveasi a sollevazione Siena. Il nuovo pontefice Paolo III insinuò una tregua (1538), fissando all’uopo un congresso a Nizza di Provenza; e colà indirizzossi con gran solennità. Ma passando da Parma si litiga a chi deva toccare la mula di lui; nella baruffa il maestro di stalla resta morto, il papa e i suoi rifuggono in duomo. A Nizza poi esso papa voleva avere in mano il castello; il pretendeano Francesco I e Carlo V; il duca di Savoja ricusava di cederlo a chicchefosse, nè tampoco accolse entro la città il pontefice: i due re poi, l’uno volendo come preliminare il possesso del Milanese, l’altro negandolo, nè tampoco acconsentirono di abboccarsi; il papa, che si vantava abilissimo negoziatore, propose le condizioni separatamente (18 giugno), ma non potè ottenere che una tregua per dieci anni, serbando ciascuno quel che possedeva, cioè Piemonte e Savoja restando a tutt’altri che a’ suoi principi. Carlo III rimostrava a suo cognato Carlo V come gli eserciti imperiali avessero malmenato il Piemonte, ad onta del denaro da lui profuso onde impedirlo; Fossano spese fin trentamila scudi; altre città andarono a sacco o dovettero riscattarsene; in sei mesi il danno non fu minore di tre in quattromila scudi il giorno, senza contare le case bruciate, le robe disperse. L’imperatore mandava un gentiluomo ad assumere informazioni, e protestare che i sudditi del cognato teneva a cuore quanto i proprj; ma il marchese di Pescara scriveva contemporaneamente che le truppe bisognava mantenerle, e accampatosi nel Piemonte, ve le lasciò vivere a discrezione; Torino e Chieri se ne difesero a viva forza; le paghe imperiali non venendo mai, bisognava supplirvi per paura di peggio; quando poi se ne andarono, trassero seco una quantità di fanciulle[310]. Agli avidi Tedeschi sottentrarono i generosi Francesi; il cavalleresco De Foix, presa Susa, la guarnigione rimandò in camicia a Torino, benchè fosse novembre; il connestabile Montmorency, avuto in dedizione il castello d’Avigliana, fece impiccare il capitano Orzo siciliano che l’avea difeso valorosamente. Così soffrivano i popoli, mentre litigavano i re. Carlo V, accorrendo a domare i Fiamminghi ribellati, attraversò la Francia, e stretto dal pericolo più che vinto dalle cortesie, promise a re Francesco d’investire il Milanese a un figlio di lui; ma dopochè ebbe infrenato gl’insorgenti col braccio del terribile Medeghino, pose in non cale la promessa, ed assegnò il Milanese al proprio figlio Filippo. Sentivasi dunque in aria una nuova guerra; e re Francesco, ingelosito dei vanti che Carlo davasi come vincitore dei Turchi, stimolava Solimano contro l’Austria. Di questi maneggi del Cristianissimo più non v’è dubbio[311]; e l’alleanza, dissimulata in sulle prime, manifestò dacchè gli Austriaci assalirono Marsiglia, e il Mediterraneo portò sul suo dorso le galee del Barbarossa palvesate con que’ gigli d’oro che san Luigi avea sventolati contro i Musulmani. E quali fossero questi Barbari che Francesco traeva nel cuor dell’Europa, lo dica il sapere che, dovendo egli ricoverarli nel porto di Tolone, fece sloggiare dalla città tutti i suoi sudditi e devastare i contorni, affinchè la bellezza della Provenza non li tentasse. Ministro di Solimano era Ibraim da Parga, nato suddito di Venezia e a questa propenso, sicchè indusse il suo padrone a rinnovare con essa trattati di libertà e sicurezza di commercio. Ma essendosi scontrate (1537) navi venete con turche, nacquero dissidj pel saluto e pei segnali, e dietro a ciò qualche avvisaglia; e per quanto Venezia mandasse scuse, e punisse, e scendesse alle umiliazioni che incoraggiano l’oltraggio, Solimano volse sopra Corfù le truppe che aveva allestite contro Napoli: ma non riescirono che a togliere molte minori isole della repubblica o di Veneziani. Carlo V profittò per combinare una lega fra Venezia, l’imperatore di Germania e Paolo III, onde non cessare più la guerra finchè non fosse smorbata l’Europa dai Turchi. Già se ne spartivano l’impero; a Cesare Costantinopoli e il titolo imperiale; a Venezia gli antichi possessi e la Vallona e Castelnuovo di Dalmazia; Rodi ai cavalieri[312]. Venezia, fatto denari in ogni modo, allestì un grosso navile; ma il papa non volle concederle d’impor le decime sui beni del clero fino alla somma di un milione di zecchini[313]: Spagna stitica sugli approvvigionamenti in Puglia, e tardò mandare le navi capitanate dal Doria. Questo ammiraglio, cui spettava la capitananza dell’impresa, poco benevolo a Venezia come genovese, e stando alto di pretensioni a petto di Vincenzo Capello generale dei Veneti, e del patriarca Marco Grimani generale delle galere pontifizie, lasciò sfuggirsi le occasioni di distruggere il Barbarossa, già a Lépanto battuto dal Capello; anzi ritirandosi, abbandonò soli i Veneziani a difendere la principale isola del Jonio, e sostenere una guerra suscitatale dal vanitoso schiamazzo della lega. Conoscendosi traditi, fosse dal Doria o dal suo padrone, e vedendo Solimano e Barbarossa fare nuova massa per assalirli a Candia e nel Friuli, rannodarono trattative colla Porta. Antonio Rincone, fuoruscito spagnuolo, ambasciadore di Francia, onde secondare la benevolenza di Francesco I per Solimano, tradiva la repubblica, e vuolsi che, oltre aizzarle il granturco, lo informasse che le istruzioni segretissimamente date dai Dieci ad Alvise Badoero estendevansi fino a poter cedere Malvasia e Napoli di Morea. Pertanto il granturco si ostinò a volerle, e trattò di bugiardo l’ambasciatore che negava a tanto arrivassero i suoi poteri. Fu dunque forza condiscendere, e si stipulò la pace (1540) pagando trecentomila ducati, cedendo tutta la Morea, Nadinao e Laurona sulle coste di Dalmazia, Sciro, Patmo, Egina, Nea, Stampalia, Paros e Antiparos: donde, disperati del vedersi consegnati ai Turchi, i Cristiani migravano in folla. Di sì rovinoso accordo non sapeva darsi pace il popolo di Venezia; gridava traditori il Badoero e il Rincone, che ebbe lo scambio; i suoi complici furono mandati al supplizio. Forse non erano che i soliti sfoghi della plebe, la quale in ogni disgrazia domanda una vittima. Poco poi Francesco mandava per assodare l’alleanza colla Turchia (1541), e concertare nuovi assalti contro l’imperatore; e con ricchissimi doni tornavano i messi, che erano il predetto Rincone e Cesare Fregoso fuoruscito genovese[314], quando gl’Imperiali li colsero al Po, e, si disse, dopo lungamente tormentatili nel castello di Milano, gli uccisero. Dalle loro carte poterono argomentarsi i disegni del Turco; laonde Carlo V s’accese viepiù all’impresa che già meditava sopra Algeri. In questa città della costa di Barberia aveano posto nido i pirati musulmani, nè sicurezza restava più nel Mediterraneo se non ne fossero snidati. Ardua però era l’impresa, e Carlo V conoscendone le difficoltà, con gran cura vi s’allestì; chiamò marinaj d’Italia e Spagna, galee da Genova, Napoli, Venezia; raccolse in Sardegna ventimila fanti e duemila cavalli spagnuoli, tedeschi, italiani, la più parte veterani, e fra essi Fernando Cortes conquistatore del Messico e della California, Pier da Toledo, Ferrante Gonzaga, Stefano Colonna, il marchese Spinola, il duca d’Alba, cento cavalieri di Malta con mille soldati, assai dame spagnuole, ducento vascelli di guerra, trecento di carico, settanta galee. Essendo già innanzi l’ottobre, Andrea Doria ripeteva all’impresa disopportuna la stagione; ma non fu ascoltato: ed ecco sinistrare il tempo; poi la burrasca più sformata che il Doria avesse in cinquant’anni veduta, manda a picco porzione della flotta, il resto sdrucisce; pioggie stemperate riducono il campo in un pantano; l’imperatore, costretto alla ritirata sotto gli occhi del nemico, per raggiungere un imbarco dovette coll’esercito traversare mille pericoli, facendo tre leghe in tre giorni senza viveri, e bersagliato incessantemente. Una nuova tempesta nel ritorno fa perdere la conserva alle navi, che stentatamente approdarono quali in Ispagna, quali in Italia: e Carlo a fatica sopra un cattivo legno tornò sul continente. Intanto Francesco I strepitava per l’uccisione de’ suoi legati e per la mentitagli promessa del ducato milanese; agli assassinj dell’Austriaco opponeva la subornazione, con cui erasi guadagnato i castellani di Pizzighettone, Cremona, Soncino, Trezzo, Lecco, e alcuni Sanesi e molti Piemontesi. Allora repentino con tre eserciti (1544 14 aprile) assalta i Cesarei a Perpignano, nell’Artois, nel Luxemburg, mentre la flotta turca condotta dal Barbarossa e montata dall’ambasciatore del Cristianissimo devasta le coste italiane, brucia Reggio, si affaccia all’imboccatura del Tevere; e a fatica le buone provvigioni di Cosmo de’ Medici camparono la Maremma. Infieriva in questo mezzo la guerra in Ungheria, in Francia e nella sommità occidentale d’Italia; poichè re Francesco, infellonito contro Carlo di Savoja perchè dall’imperatore avesse accettata in dono la città d’Asti, allegò pretesti onde chiedere la restituzione di Nizza; e perchè il duca la negò, questa fu assediata dai gigli d’oro, uniti alla mezzaluna[315]. La città dovette cedere (1543 maggio), ma il castello tenne saldo, sicchè il Barbarossa se n’andò menando seco molti Nizzardi pel remo o per gli harem, gran numero di Mori regalatigli dal re di Francia, e quanti Turchi prigionieri trovò sulle navi francesi, le quali depredò non meno delle nemiche. Ma la flotta siciliana colse quattro navi che portavano ai bagni ed ai serragli turchi cinquemila cristiani e ducento vergini sacre, e li condusse a Messina. Anche l’anno dopo il Barbarossa devastò l’Elba, arse Piombino, prese Telamone, Portercole, il Giglio; ad Ischia, Procida, Lipari predò ricchezze e persone; e col turco fece maledire il nome francese. Stimaronsi a dodicimila i rapiti; gran parte de’ quali, stivati nelle carene, perirono di puzzo, e furono gettati al mare. Nè quanto visse, il Barbarossa lasciò mai riposo al littorale d’Italia: lui morto (1546), Dragut sangiaco di Mantesce, or da solo, ora col granvisir corseggiando, occupò Bastia, ritolse Tripoli ai Cristiani, e ne fu fatto governatore; e contro lui fu duopo fortificare Ancona, Civitavecchia, Roma stessa. I Cristiani lo lasciavano fare per uccidersi tra loro nella guerra del Piemonte; della quale sorpasseremo i particolari per dire come a Ceresole presso Carmagnola duca d’Enghien diede la prima battaglia (1544 14 aprile) dopo otto anni di guerra; ove gl’imperiali, condotti dal marchese del Vasto, andarono a pezzi, lasciando ottomila morti, tremila prigionieri; Saluzzo, Carignano, Alba, Mondovì, Casale e tutto il Monferrato furono presi, e poteva esser anche il Milanese, contro di cui movea Pietro Strozzi. A dispetto del padre, questo era entrato a servigio di Francia (18 7bre), conoscendo quanto importasse d’imparare le armi per usarne a liberare la patria; dal re aveva avuto in dono la borgata di Marano nel Friuli, ed esso la vendette ai Veneziani per trentacinquemila ducati[316], coi quali armò diecimila uomini, la più parte migrati italiani, e con questi tentò un’arditissima punta sopra Milano; e la prendeva se le promesse sollevazioni del popolo non fossero fallite, e se Francesco non avesse temuto pel proprio regno, minacciato da Carlo V e da Enrico VIII, che dalla Picardia s’avvicinavano a Parigi. Pietro, sconfitto presso Tortona, attraversò paesi nemici con variati travestimenti, sinchè raggomitolò quattromila fanti de’ migliori d’Italia, e giunto in Francia, volò a combattere gl’imperiali verso le Fiandre. Ai furori pose termine la pace di Crêpy, per la quale Francesco I rinunziava al diretto dominio sopra la Fiandra e l’Artois e alle pretensioni su Napoli; restituiva a Savoja quanto le avea sottratto dopo la tregua di Nizza; Carlo III a vicenda rinunziava alla Borgogna, disputata eredità di Carlo il Temerario, e che d’allora restò francese. Tale risoluzione aveva la diuturna lotta fra Carlo V e Francesco I, nulla vantaggiando nè l’uno nè l’altro da tanti disastri de’ popoli, e dell’aver aperto l’Occidente agli Ottomani. Poco mancò che le pretensioni sull’Italia cagionassero lo smembramento della Francia. Carlo ebbe la soddisfazione di vedere il suo nemico prigioniero e supplicante; eppure non conseguì un sol brano della Francia; e l’opposizione di questa, che non esitò d’appoggiarsi al Turco e ai Protestanti, ruppe i suoi sterminati divisamenti. Italia giaceva sfinita da quattro guerre. La prima di Carlo VIII non fa che avviluppare gl’intrighi, acuire gli appetiti stranieri, rivelare la forza dell’unione e l’impossibilità di mantenerla: la seconda tra Carlo V e Luigi XII, quando già il sistema militare erasi trasformato a segno che non si poteva più correre da un capo all’altro della penisola, ma bisognava combattere eserciti e fortezze, sconnette l’equilibrio della politica artifiziale, e ribadisce le più belle contrade alla dominazione forestiera: quella tra Francesco I e Carlo V dilata su tutta la penisola l’ingerenza austriaca, e più non lascia se non che i vincitori si straziino per disputarsene i brani: nell’ultima il solo Piemonte è corso da Imperiali e Francesi, pessimamente ridotto per l’ambizione di codesti estrani, gareggianti di valore e di ferocia. Italiani trucidavano Italiani, perchè gli uni portavano le insegne imperiali, gli altri le francesi; ogni città e terra veniva presa e ripresa, e trattata da ribelle dagli uni e dagli altri, e le forche finivano chi era campato dalle spade. Pure la rivalità delle due potenze impedì che il Piemonte o divenisse provincia di Francia, o fosse aggregato al Milanese. La più parte ne restò in mano de’ Francesi; e Asti, Lanzo, Vercelli e qualche altro cantone, salvato al duca, erano occupati da guarnigione imperiale. Il re di Francia pareggiava i Piemontesi ai proprj sudditi, e istituì a Torino un parlamento, destinandovi presidente il milanese Renato Birago d’Ottobiano[317]; ma i popoli non sapeano indocilirsi al giogo straniero, studenti e maestri sparvero dall’Università torinese, e i contadini lasciavano il grano non raccolto alla campagna. Il duca d’Orléans, cui era destinato il Milanese, morì poco poi, e si volle dire per veleno propinatogli da Carlo V; sicchè la sorte del Milanese tornava in discussione, e con essa la pace: tanto più che Carlo querelava Francesco di non isgombrare il Piemonte. Francesco poco tardò a morire (1547 31 marzo), lasciando il trono ad Enrico II: ma l’odio nazionale sopravviveva, e presto proruppe con nuove jatture della povera Italia. CAPITOLO CXXXVIII. Doria e Fieschi. I Farnesi. Gli Strozzi. Guerra di Siena. Cosmo granduca. Erasi ricantato che la debolezza d’Italia veniva dall’impedire i signorotti ogni potenza più vigorosa; che le sue turbolenze derivavano dalle repubblichette e dalla mancanza di regolari successioni: ora i signorotti erano repressi, le repubblichette soffogate, stabilite le dinastie; bella felicità che ne seguì! Fu anzi chiaro che la moralità di un popolo, ben più che dalle guerre civili ove in battaglia aperta cade chi colpito dal giudizio di Dio, è peggiorata dai repressi rancori, dalle impotenti trame, dal cupo terrore; dagli assassinj, siano quelli che i potenti mascherano col velo della giustizia e il pretesto dell’ordine, siano quelli in cui si sfogano le passioni, invelenite dalla compressione e ammantate di politica. Siffatti delitti esprimevano gli spasmodici guizzi dell’agonia dell’indipendenza italiana. Genova, accomodata da Andrea Doria di nuova costituzione, oltre esser divisa in parte guelfa e ghibellina «come generalmente tutte le terre d’Italia» (VARCHI), era ancora in nobili e popolani, questi ultimi in cittadini e plebei, e i cittadini di nuovo in mercanti ed artefici. Le famiglie, nobili o no, che avevano primeggiato negli affari politici, soleano crescersi potenza coll’aggregarsene altre meno illustri ma numerose; laonde, non per vincolo di sangue, ma per comunanza d’interessi o di fazione, si erano formati degli _alberghi_, portanti il medesimo cognome e stemma, associati nei litigi, negl’impegni, nelle votazioni. Del popolo parte si schierava cogli Adorni guelfi, parte coi Fregosi ghibellini: prevalsi questi, a nessuna persona nobile o di parte guelfa erano accessibili le magistrature, e ghibellino e plebeo fu sempre il doge fin dalla metà del secolo XIV. Siffatte discordie partorirono la servitù; e la servitù comune ritemprò la fratellanza degli oppressi, talchè, se non spente, rimasero sopite le rivalità. Allora dunque che fu assicurata l’indipendenza dal disinteresse di Andrea Doria, dodici riformatori istituiti per istabilire un governo tolsero ai Ghibellini e popolani quel privilegio delle cariche, accomunandole a tutte le antiche case possidenti e contribuenti, che vennero a costituire i _gentiluomini_; ciascuna famiglia avente in Genova sei case aperte, formasse un albergo, al quale come a nocciolo si aggregassero le stirpi meno facoltose, mescolando guelfi e ghibellini, nobili e popolani, di modo che le stirpi cessassero di rappresentare i partiti, e si scomponessero i casati degli Adorni e Fregosi, che perpetuavano la memoria de’ rancori. Questi ventotto alberghi uscirono così: Calvi, Cattani, Centurioni, Cicala, Cybo, Doria, Fieschi, Fornari, Franchi, Gentili, Grillo, Grimaldi, Giustiniani, Imperiali, Interiano, Lercaro, Lomellino, Marini, Negro, Negroni, Pallavicini, Pinelli, Promontorio, Salvaghi, Sauli, Spinola, Usodimare, Vivaldi; dai quali si scelsero quattrocento senatori annui a sorte, e cento a palle, che nominavano alle altre cariche. Di tali alberghi doveva essere il doge; e il primo fu Oberto di Lazzaro Cattaneo. Al Doria, sebbene avesse ricusato d’esser principe, una specie di dominio assicuravano i benefizj e la virtù; teneva in porto navi proprie, e proprj soldati su quelle e a custodia del suo palazzo. Egli non trascese le condizioni di cittadino, ma quelli stessi che ne rispettavano la benemerenza, temevano volesse trasmettere l’autorità al nipote Giannettino, al quale invecchiando avea ceduto il comando delle galee; valente uomo di mare, ma superbo e dissoluto, e che della potenza dello zio e della grazia dell’imperatore abusava a soddisfacimento di sue passioni. Particolare dispetto ne concepiva Gianluigi del Fiesco, conte di Lavagna e signore di Pontremoli, disordinato, ambizioso, cupido non di liberare la patria, ma di dominarla, e che nel mentre piaggiava il Doria, s’intese con Francia, col papa, col duca di Parma per disfare ciò che l’imperatore avea ricomposto, e scassinare in Italia la potenza imperiale, ch’era minaccia di tutti. Dentro poi carezzava artigiani e marinaj largheggiando; col pretesto di allestir navi contro i Barbareschi, chiamò da’ suoi feudi molti fidati, e trasse a sè l’antica parzialità dei Fregosi. Tutto preparato, i congiurati levano rumore, uccidono Giannettino (1547 2 genn.), han in mano la flotta di Andrea Doria, al quale riuscì di fuggire; gridano libertà, ma fra il trambusto Gianluigi s’annega casualmente, i suoi perdono la testa e vanno dispersi, e il Doria tornato, sanguinosamente racconcia il freno alla patria. Tre anni dopo, Giulio Cybo cognato del Fiesco ritessè la congiura, e fu decapitato. La Corte spagnuola, pentita della generosità dopochè fu signora del Milanese a cui per Genova avrebbe avuto libero accesso, tentò alcuna volta occuparla, ma Andrea la schermì; acquistò alla repubblica il marchesato del Finale; mosse pure contro la Corsica, ammutinata dai Francesi finchè la rinunziarono nella pace di Cateau-Cambrésis (1560); e sino ai novantaquattro anni egli continuò a proteggere la patria, mentre Dio proteggeva lui dai coltelli, cui ricorrevano allora i regnanti non meno che i cittadini. Però le gelosie interne ribollivano; e alle antiche distinzioni tolte dalla legge del Garibetto, pubblicata dopo la congiura di Fiesco, ne sottentrarono altre fra l’antica nobiltà e la nuova, e fra esse due classi e il popolo escluso: quelle fuggivano ogni contatto con questo, tenendo e banchi e divertimenti e fôro separati[318]. Prorompeva dunque la discordia civile, finchè il papa, il re di Spagna e l’imperatore chiamati arbitri (1576), stabilirono fossero scomposti gli alberghi, ripigliando ciascuna famiglia i prischi nomi, senza divario da vecchi a nuovi, da popolani ad aggregati; il doge fosse biennale, come continuò fino al 1797; il maggior consiglio constasse di quattrocento, dei quali, cento formassero il minore; e trenta scelti da questo nominassero i membri de’ due consigli. Il potere esecutivo apparteneva al doge coi due collegi del senato e di otto procuratori del comune, specialmente attesi alle finanze, estendendosi fino al far grazia, derogar testamenti, avocare cause da qualsifosse magistrato, accordare o negare l’esecuzione de’ brevi pontifizj, vigilare sulla religione. Al potere legislativo partecipavano i due collegi coi due consigli annuali. Li coadjuvavano molti magistrati, la più parte collegiali, e tutti con qualche brano anche di giurisdizione: l’ordinaria spettava a una rota civile e ad una criminale, composte ciascuna di tre giurisperiti stranieri, eletti dai consigli sovra proposizioni de’ collegi; al qual modo era pure eletto il procuratore fiscale. La repubblica allora contava da trentacinquemila abitanti[319]. Tolta ogni differenza di setta e d’origine, i cittadini attivi e in pieno possesso de’ diritti politici, erano iscritti nel _Liber civitatis_, che poi si tramutò in libro d’oro, dove si registravano tutti i nati legittimi, i quali a ventun anno partecipavano al governo. Poteano esserne depennati, per esempio, se esercitassero arte meccanica; e ogni anno s’apriva il libro a dieci popolani: ma poichè si richiedeva grossa spesa e i nobili stessi doveano trovarli meritevoli, tale aggregazione s’avverava rarissimo. Quest’eguaglianza fra i nobili saldò l’aristocrazia. Veruna parte restava al popolo minuto, nè a quel della campagna: pure non ne rimase mai tolta l’energia, come a Venezia; e sì poco invecchiò, che ducent’anni più tardi seppe mostrare l’aborrimento a quella servitù, cui l’Italia avea fatto il callo. Lucca[320] tentava grandemente l’avidità di Cosmo de’ Medici; ma essa se ne schermì tollerando le provocazioni di lui, e tenendosi raccomandata all’imperatore, i cui consiglieri guadagnava a gran prezzo. Però Francesco Burlamacchi, scaldato dalle storie antiche di Plutarco, e massime dalle glorie tirannicide di Timoleone, Pelopida, Arato, Dione, e propenso alle dottrine protestanti, divisò di resuscitare a libertà l’Italia (1546), e delle poche truppe che per l’uffizio suo di gonfaloniere potea radunare, fare il nocciolo attorno a cui si unissero Pisa sempre sospirante l’antica indipendenza, Pescia, Pistoja, Siena, Perugia, Bologna; presa Firenze, si sbratterebbero degli stranieri, tedeschi fossero o francesi, e insieme terrebbero i dominj temporali al papa, ricorrendo per ciò anche all’imperatore, il quale n’avrebbe un mezzo di contentare i suoi Tedeschi, e ricomporre le scissure della Chiesa. I profughi Strozzi, disposti sempre agli scompigli di Toscana, lo sovvenivano di denaro e di promesse: ai liberi pensatori, che non erano pochi in Lucca, prometteva colla libertà cittadina l’indipendenza religiosa. Il colpo era già sullo scocco, quando un traditore lo rapportò a Cosmo, e Cosmo a Carlo V, che obbligò la repubblica a processarlo nelle orribili guise d’allora, indi consegnarglielo, e a Milano (1556) il mandò a morte[321]. Ogni colpo fallito diviene pretesto e opportunità a serrare i freni, laonde Martino Bernardini fece ai Lucchesi accettare che si ammettessero alle cariche del governo le sole famiglie che in tale istante godevano di quell’onore, col diritto di trasferirlo alla loro discendenza, «esclusone però chiunque fosse nato in Lucca da padre forestiero o da persone di contado». Così la repubblica venne a stretta aristocrazia, che qualificavasi scherzevolmente intitolandoli i _Signori del cerchiolino_. E chi si elevasse per meriti di qualsia genere, veniva mandato via per la legge del discolato: legge odiosa, come quella che non puniva il delitto, ma la possibilità del delitto. Alessandro Farnese, creato cardinale da Alessandro VI pei meriti della sorella Giulia, possedea buone lettere, molta perizia d’affari, mansuetudine ed affabilità; amoroso di belle arti, cominciò in Roma il più bel palazzo del mondo, e tenne villa splendidissima presso Bolsena; amatissimo, garbato, magnifico, non voleva usar parola che classica; credeva all’influsso degli astri; dalle fragilità umane non si tenne guardato, e frutto ne fu un figlio, diffamato poi col nome di Pierluigi. Dopo essere intervenuto a cinque conclavi, Alessandro fu eletto successore a Clemente VII col nome di Paolo III, e non volle in magnificenza parer da meno dei Medici. Ordinò a Michelangelo continuasse il cartone del Giudizio universale, fece gli orti Farnesiani sul Palatino, la Sala Regia e la cappella Paolina nel palazzo Vaticano, e animò a fabbricar quello dei conservatori sul Campidoglio, la scala doppia del senatorio e l’altro palazzo presso Araceli. Introdusse di dare udienza una volta al mese a chiunque si presentasse: tolse ai Colonna i dominj, da cui infestavano il patrimonio di San Pietro: volle gravare ai Perugini la gabella del sale, ed essi resisterono colle armi, ajutati dai vicini e condotti da Rodolfo Baglione; ma costui se l’intendeva coi papalini, che sperperarono il paese, e senza venir a battaglia (1540) rimisero al giogo i sollevati; molti furono sbanditi, di molti diroccate le case, e colle imposizioni e coi servigi obbligati a fabbricare la fortezza Paolina. Quanto alla politica esterna, Paolo III vedeva Carlo ispirare alla supremazia universale, blandire i Protestanti di Germania, e mostrare maggior cura della propria autorità che non dell’integrità della fede cattolica; ma d’altra parte non osava scoprirsi per la Francia, mobile troppo, sempre di precaria dominazione in Italia, e che non esitava collegarsi colla Turchia; laonde vacillava nelle risoluzioni. Delle quali la più decisa era quella di fornire lautamente il suo Pierluigi. Ad Alessandro, figlio di questo, conferì la porpora a soli quattordici anni, e gli attribuì la collazione di quasi tutti i benefizi della diocesi di Novara. Pretendendo vacante e ricaduto il feudo di Camerino, il papa mosse guerra a Guidubaldo d’Urbino che lo tenea come dote dell’unica erede dei Varani; guerra grossa e lunga, finchè Guidubaldo si rassegnò a vedere il ducato conferito a Ottavio, altro figlio di Pierluigi, a quindici anni già governatore di Roma. Margherita, la bastarda di Carlo V e vedova di Alessandro duca di Firenze, avea bottinato le gioje e il denaro dell’ucciso marito; e sebbene pel sangue e per le ricchezze ne ambisse le nozze Cosmo de’ Medici, il pontefice la ottenne al suo Ottavio, confidando per mezzo di essa ottenere grande stato a’ suoi. Di fatto Margherita, troppo lontana dal contentarsi del piccolo Camerino, e così istrutta dai Farnesi, si gittò ai piedi del padre supplicandolo desse a suo marito il Milanese, giacchè il tenerlo per sè metteva tanto mal umore nei potenti. Carlo non era uomo da cedere a moine donnesche, sicchè il papa disgustato ripeteva: — Ho bell’e veduto dalla storia e dall’esperienza mia ed altrui, che mai la santa Sede non fu potente o prospera se non quando alleata coi Francesi». Messosi allora a diservire Carlo, avea favorito la congiura del Fiesco contro i Doria, e quando la udì fallita, esclamò: — Vedo chiaro che Dio ha designato che questo imperatore prevalga per rovinar la Chiesa e tutta la cristianità» (SEGNI). Tali propositi già indisponeano Carlo V, e viepiù il prodigare che Paolo III faceva dei beni della Chiesa a Pierluigi. Costui, più che a governo o a guerra, valeva a sporcizie e ladrerie, sicchè serravansi le robe e le donne dovunque egli passasse; Paolo gli compativa come _leggerezze giovanili_ colpe che faceano fremere il mondo; e per alimentarne il lusso e le ambizioni disanguava lo Stato. Procuratogli dai Veneziani il titolo di gentiluomo, benchè le loro consuetudini il ricusassero a’ bastardi, dall’imperatore la nobiltà e il marchesato di Novara e lauto assegnamento sui dazj del Milanese, lo costituì gonfaloniere e capitano generale di santa Chiesa; e poichè non potette ottenergli il Milanese o Siena, l’investì dei ducati di Nepi e Castro di Maremma; poi al sacro concistoro dimostrando che queste città erano troppo utili allo Stato della Chiesa, propose (1545 agosto) di surrogarvi Parma e Piacenza, lontane e in procinto d’essere assorbite dal potente vicino; e il concistoro disse di sì. Di tal guisa Pierluigi ebbe quel nobilissimo ducato, e il tenne come Dio vel dica. Intento ad abbassare i nobili, tanto più che nel servire a Francia s’erano addestrati alle armi, esigette che tutti i feudatari dimorassero in città, vi menassero le loro mogli al carnevale, e così tenendoseli sotto mano, li disabituava dal comandare, e ne toglieva i privilegi quando non potesse torne i possessi con fiscali sottigliezze. E in fatto privò de’ feudi i Rossi, i Pallavicini, i Sanvitali, gli Scotti, ed anche alcuni forestieri, come i Borromei, i Fieschi, i Dal Verme: dagli altri smungeva denaro, e valeasene per fabbricare fortezze con cui tenerli in soggezione; e proponeasi a modello Cesare Borgia. Parma[322] e Piacenza aveano formato parte del ducato di Milano, fin quando Leone X se l’era fatte cedere; onde Carlo V mal soffriva di vederle in mano altrui, massime Piacenza, chiave del Po. Lo subillava don Ferrante Gonzaga governatore del Milanese, che particolarmente astiato contro del papa, sollecitavalo a permettergli «di far rubare alcuna delle terre del Farnese, con dar nome di poi d’averlo fatto di mia testa, senz’ordine e saputa di sua maestà, acciocchè con questo venisse disgravata dal carico che di ciò potesse esserle dato d’esser fatto per ordine suo»[323]. Non disdetto dal padrone, divisò un sucidissimo intrigo, e se non palese eccitamento, diè conforto a una congiura, ordita da gentiluomini delle case Anguissola, Landi, Confalonieri, Pallavicini. Costoro offrivano Piacenza a Carlo V[324], il quale a vicenda prometteva lasciar impune il sangue o i furti che si facessero quel giorno, e ricevere a omaggio tutti i feudatarj piacentini[325]. Questi dunque, assalito nel suo palazzo Pierluigi (1547 10 7bre), liberarono la terra da un mostro[326]; Piacenza gridava libertà; e quel giorno stesso don Ferrante la occupava a nome dell’imperatore, secondo il prestabilito, e sotto certe condizioni, osservate al solito modo[327]. Ottavio Farnese, genero di Carlo V, accorse per occupare Parma di nascosto del papa, minacciandolo a tal fine di collegarsi fin cogli uccisori di suo padre: del che Paolo III provò tanto dolore che ne morì (1549 9bre), e il successore Giulio III fece rilasciare quella città a Ottavio. Ma quel piccolo paese fu (come in tempi più vicini) per mettere in fuoco l’Europa, non soffrendo Carlo che potessero da quello i Francesi minacciare il Milanese, o piuttosto volendo egli da quello minacciare Modena e Bologna. Perocchè la morte di Francesco I non aveva tronche le rivalità fra gli Austro-Spagnuoli ed i Francesi; e il suo figlio Enrico II, per far dispetto a Carlo V, tolse in protezione il Farnese, e mandò il maresciallo Cossé-Brissac nel Piemonte. Ferrante Gonzaga, i cui superbi e subdoli portamenti erano stati fomite a quella guerra, inveleniva i Tedeschi contro gl’Italiani, asserendo che costoro, «spenti che avranno gli Spagnuoli, spegneranno anche voi»; a Carlo V raccomandava di non fidarsi delle soldatesche italiane, «gente inquieta, disobbediente, infedele»; e per assicurare la Lombardia suggeriva di ridurre a un deserto il Piemonte[328]. E in fatti, costretto allargare Parma, dove assediava il Farnese e lo Strozzi, venne a desolare il Piemonte (1551), ove i soldati di Francia parevano coppe d’oro a fronte degli sregolatissimi Spagnuoli e’ Tedeschi. Intanto i Luterani davano duro intoppo a Carlo V, che, sorpreso da loro a Innspruck, fu ad un punto di restarne prigioniero; i Francesi, che avevano incitato quel partito, sollecitavano Roberto Sanseverino a ribellar Napoli; dappertutto rinverdiva la parte francese; e i malcontenti di tutti i paesi, e massime napolitani, congregati a Chioggia, pensavano ogni via di nuocere agl’Imperiali, neppur esitando a chiamare in Italia i Turchi, da cui furono abbruciate Reggio, Nola, Procida. Tradimenti, coltelli, veleni, corruzioni che allora più che mai frequentavano, io li tacerò volentieri; solo dicendo come Carlo mandò il duca d’Alba con grosse armi, il Doria genovese portò quelle e il denaro americano a’ danni nostri, il Medeghino milanese vi unì le proprie bande. Carlo V, tenendo alle due estremità il Milanese e il Napoletano, legandosi il papa col timore de’ Protestanti, Cosmo colla necessità de’ benefizj, poteva disporre a suo senno delle forze e della politica italiana, sicchè il consolidarsi di lui guardavasi come servaggio comune; badavano dunque i nemici a suscitargli qualche avversario, e sperarono nuocergli almeno in Toscana col rivoltargli Siena. Questa piccola repubblica meriterebbe storia ben più che alcuni grandi imperj; tanto fu piena d’attività, di senso estetico, di fede in quel medioevo, la cui virile operosità vorrebbero i liberalastri eclissar nella luce che concentrano sopra la beatitudine odierna. Le arti belle forse colà resuscitarono, certo vi fecero delle prime e più felici prove, e vi conservarono le tradizioni cristiane anche dopo che Firenze e Roma le aveano cambiate collo stile classico e coi concetti pagani. La rendeano venerabile tante memorie di santi colà fioriti, massime dacchè vi nacque l’ordine de’ Serviti, che sul cadere del XIII secolo fu un focolajo di vita spirituale. In quella era arso di zelo per Maria e pei poveri Gioachino de’ Pelacani; il bealo Giovanni Colombini, da gonfaloniere della città ridottosi mendicante volontario, con Francesco Vincenti aveva fondato un nuovo ordine; a quel di Santa Maria di Montoliveto aveva dato origine Bernardo Tolomei, dottore in ambi i diritti e in filosofia, armato cavaliere da Rodolfo d’Habsburg, e che con Ambrogio Piccolomini e con Patrizio Patrizi erasi ritirato al deserto. Vivaci erano la memoria e il culto di Bernardino da Siena, di Ambrogio Sansedoni e di Antonio Patrizi; di quel Pietro Petroni certosino, che morendo mandava a dire al Boccaccio riparasse gli scandali del suo scrivere; e viepiù di quella Caterina, che colla semplicità onde assisteva gl’infermi e ne succhiava fin le ulceri, andava a rappacificare gl’infelloniti Ghibellini, mitigare i capitani di ventura, e dar consigli ai papi (tom. VIII, pag. 149). Siena, anche in mezzo a incessanti dissensioni, dava prova di quella floridezza, per cui un tempo aveva emulato Firenze. Arrestò il fiume per formare un lago che fornisse di pesce la città, mediante una diga di seimila canne, sulla larghezza di quattordici passi, e doveano trasportarvisi ventimila libbre di pesce dal lago di Perugia: essendo però l’opera acciabattata per guadagnare molto più del dovere, nella fine del 1492 rovinò da un lato, allagando il paese circonvicino, con morte d’uomini e di bestiame (ALLEGRETTI). Fin negli ultimi suoi tempi fece terminare l’interno del duomo di Grosseto. Caduti i Petrucci per opera di Leone X poi di Clemente VII, Siena ricevette un governo popolare (1523): ma parendole troppo stretto, si giovò delle traversie di esso Clemente per trucidare Alessandro Bichi capo del magistrato dei Nove; e a Carlo V, partecipe o connivente a questi fatti, raccomandò la propria libertà. Egli, visitatala nel 1536, lasciò a governarla il senese Piccolomini duca d’Amalfi, e poichè le turbolenze vi continuavano, cambiollo con Francesco Sfondrato, ma sempre era sommossa dai Francesi e dai malcontenti. I Fiorentini la voleano tener dipendente, e d’accordo con papa Clemente vi mandarono un grosso esercito; ma si trovò respinto dal caldissimo valore de’ Senesi. E fu ben deplorabile che le due principali città di Toscana si danneggiassero, a mero vantaggio della casa che entrambe dovea schiacciare. Siena, non che collegarsi a Firenze per respingere i Medici e gl’imperiali, questi provvide d’artiglieria; ma subito caduta quella città, si conobbe esposta agli arbitrj de’ Cesarei, che vi ristabilirono i fuorusciti, i quali pensarono a punire gli avversi e assodare la tirannia. Alfonso Piccolomini duca d’Amalfi, generale di Carlo V, era realmente il padrone di cotesti ringhiosi, che si cacciavano a vicenda e si uccidevano. Da ciò prendendo titolo, e dalle mene che incessantemente vi facea la Francia, desiderosa d’inquietare lo spagnoleggiante Cosmo, e istigato dagli Strozzi e loro parteggianti, Carlo mandò il ministro Antonio Granuela (1541) colla guardia tedesca di Cosmo, acciocchè riformasse quello Stato, surrogando una stretta oligarchia da sè dipendente, e con tribunale a cui presedesse un cesareo; vi stanziò anche guarnigione propria, che, al solito, non pagata, dovendo vivere a discrezione come in terra nemica, diede motivo a più d’una sollevazione. Pertanto Carlo V la crebbe, e l’affidò a don Diego Hurtado de Mendoza. Grand’amatore delle lettere era costui, ed uno dei primi scrittori spagnuoli: ambasciadore a Venezia, poi al concilio di Trento e a Roma, valutava al vero quella posizione fra d’ingannatore e d’ingannato, e fu volta che esclamò, — Qual miserabile genìa è mai un ambasciadore!» A Siena si comportò con superbia e spavalderia, esigliava i giovani d’ingegno e valore, disarmava gli altri, mentre conniveva agli abusi de’ soldati ladri e non pagati; fece morire un Politi che consigliava a non festeggiarlo di troppo; consigliava a Carlo di darla a suo figlio Filippo, acciocchè di là tenesse in freno e il papa e la Toscana e il popolo riottoso; e per quanto i Senesi si opponessero e reclamassero all’imperatore, vi cominciò una fortezza; inevitabili spedienti d’un governo oppressore. Il romito Brandano, detto il pazzo di Cristo, andava gridando per le vie, _In vanum laborant qui ædificant eam_; i Senesi menarono devote processioni e offrirono alla Madonna chiavi finte della città; al che il Mendoza esclamava: — Gliele presentino, purchè le chiavi vere stiano in mia mano». Con questi trattamenti la città più ghibellina, fu ridotta avversissima agli Imperiali. Cosmo, che pur era il più necessario alleato di Carlo, oltre vedere di mal occhio così vicini gl’Imperiali, desiderava per sè quella città, come parte del proprio paese: la desiderava Paolo III per suo nipote Enea Piccolomini, e per mortificare Cosmo. Fra gli amici di Francia adunati a Chioggia discuteasi del come soccorrerla; proponeasi che i Francesi assalissero Orbitello, e quando gli Spagnuoli uscivano a difenderlo, i sollevati ucciderebbero il Mendoza: intanto i Senesi, che indarno aveano tentato ripristinare la democrazia, e che nelle elezioni annuali erano sempre straziati dai parteggiamenti de’ popolani e del monte dei Nove, congiurarono, capo Cesare Vajari, insorsero (1532), e colle barricate e col fuoco costrinsero gli Spagnuoli a ritirarsi: fecero quelle gazzarre, troppo solite in cotesti trionfi popolari; ma uno spagnuolo uscendo diceva: — Senesi valorosi, bellissimo colpo voi faceste, ma badate bene all’avvenire, che avete offeso troppo grand’uomo». I sollevati tenevansi sicuri sui Francesi, allora tornati in guerra cogli Austriaci, e che mandarono navi di conserva colle turche per devastare quella marina e le isole, rimedio peggiore del male; poi entrarono in Siena, promettendo libertà. I cittadini si smaniarono a distrugger la fortezza, colle lagrime agli occhi gridando _Vittoria, Libertà, Francia_; fecero dipingere dal Sodoma sulle pareti i santi loro cittadini Ausano, Caterina, Bernardino, e su porta Pispini una vergine in gloria colle parole _Vittoria e Libertà_; trassero fuori lo stendardo di san Sebastiano, che moveasi solo per le grandi occasioni,e «passarono due mesi allegramente, senza più ragionare di guerra, ma solo si attendeva a banchetti, caccie e piaceri»[329]. Tanto i vulghi s’assomigliano sempre e dappertutto! Montalcino, la terra più salda di quello Stato, fu difesa da Giordano Orsini, finchè gli Spagnuoli se ne staccarono per proteggere le coste dai Turchi, i quali devastavano la Sicilia, spogliavano la Pianosa e l’Elba, prendeano quasi tutta la Corsica, sterminando i Genovesi. Carlo V, non lasciandosi abbattere dai rinascenti guaj, drizzò verso Italia molta gente tedesca; molta spagnuola fece portare sulle galee del Doria, con l’oro americano; e a don Pier di Toledo, vicerè di Napoli e suocero del duca Cosmo, diede incarico di ridurre Siena all’obbedienza. La costui morte ritardò l’impresa; però fu lasciato arbitrio a chiunque di correre sopra Siena, talchè ne venne guerra di stupri e assassinj contro paesani e imbelli. Poi mentre i Francesi munivano i castelli del Grossetano, e il governo senese metteva in assetto diecimila fanti e cinquecento cavalli, l’imperatore affidava l’esercito ad Alessandro Vitelli. Il duca Cosmo, se odiava i Francesi, temeva gli Spagnuoli, e prevedendo si troverebbe in balìa di qual dei due vincesse, reggevasi su due piè; mostrando non darsi per inteso dei moti di Siena, adocchiava al proprio profitto; lasciava che truppe ed eserciti francesi attraversassero la Toscana, ma intanto allestitosi d’armi, assalse i castelli che circondano Siena. I Senesi, che mai non aveano temuto da Cosmo un attacco risoluto, si accinsero a respingerlo con quell’eroismo, che i popoli spiegano negli estremi loro momenti. L’annunzio d’una guerra suona speranza ai popoli oppressi, che non s’accorgono com’essa non faccia che aggiungere un nuovo male ai precedenti: e subito vennero a farvi prove molti gentiluomini d’Italia, Aurelio Fregoso, Cornelio Bentivoglio, Flaminio d’Astabbia, Mario Sforza di Santafiora, Paolo e Giordano Orsini, Bonifazio Gaetani, Gerolamo della Corbara; altri furono soldati dai Francesi come condottieri, Lodovico Carissimi, Camillo Martinengo, Ottavio Thiene, Fulvio Rangoni, Adriano Baglione, il conte della Mirandola. Pietro Strozzi, figlio della Clarice Medici e di quel Filippo che finì in carcere, partecipò alcun tempo ai vizj del duca Alessandro, poi stomacatosene fuggì in Francia, e sostenuto da Caterina de’ Medici regina e dal proprio valore, divenne gentiluomo del re, e fin maresciallo. Avea menato seco «la più bella compagnia che mai si fosse veduta di duecento archibugieri a cavallo, i meglio in punto che si potessero, ciascuno con due buoni cavalli, con eccellenti armi dorate, e avvezzi i più alla disciplina di Giovanni dalle Bande nere»[330]. Questi veterani, più non potendo spiegarlo per la patria, usarono il valore per Francia nella guerra di Borgogna e di Piemonte, poi in quella contro gl’Inglesi. Lo Strozzi intanto mestava senza riposo nelle cose d’Italia; la girò più volte travestito per togliere or la Corsica a Genova, or Genova al Doria, or Piacenza ai Cesarei, soprattutto Toscana ai Medici, e in generale l’Italia agli Imperiali, proposito ch’egli diceva impressogli dal cielo. Parve venirgliene il destro quando il re di Francia lo destinò suo generale a difendere Siena da Cosmo e da Carlo V; e drappellava una bandiera verde col dantesco _Libertà vo cercando ch’è sì cara_. Appoggiavalo la flotta comandata da suo fratello Leone, priore dell’ordine di Malta, uno de’ più arditi uomini di mare, che a servizio di Francia avea menato l’armata navale a difendere Maria Stuarda contro la regina Elisabetta d’Inghilterra; erasi costituito emulo del Doria; una volta, fingendosi imperiale, con ventidue galee francesi cercò sorprendere Barcellona, e vi sparse un terror panico, che sarebbe stato funesto se Emanuele Filiberto di Savoja non avesse improvvisato una difesa. Guastatosi con Francia, Leone era ito a combattere i Turchi: ora riconciliatosi con quella, portava il suo valore in Toscana, e osò perfino assalire Firenze, gareggiando in crudeltà coi nemici. Perocchè tutti professavano che il fine giustifica i mezzi. Da prima la guerra si esercitò a nome di Cesare, poi Cosmo propose toglierla sopra di sè, purchè l’imperatore gli desse truppe e compenso delle spese che anticiperebbe. Così convenuto, egli prese al soldo ventiquattromila fra Italiani, Spagnuoli e Tedeschi, scrisse di proprio pugno le disposizioni guerresche, affidò la capitananza a quel Gian Giacomo Medeghino (1554), che tanti mali aveva recato nelle guerre di Lombardia, e che fatto da Carlo V marchese di Marignano, con questo titolo avea prestato grand’appoggio agl’Imperiali nell’ultima guerra in Germania, massime per la sua abilità nell’artiglieria. Presa Ajuola, costui ne impiccò quasi tutti gli abitanti, bandendo tratterebbe così chiunque in una rôcca aspettasse una cannonata, e l’attenne: col che portava il patriotismo alla disperazione; ogni bicocca gli costò gran sangue, e col sangue egli puniva della lealtà e del valore. Lo Strozzi gli propose più volte di rispettare reciprocamente le donne e i fanciulli, come esso ne dava l’esempio; ma il Medeghino prometteva e falliva, forse perchè de’ riscatti la maggior parte entrava nella sua borsa[331]. Dovendo lo Strozzi tener la campagna, chiese al re di Francia un luogotenente, e fu Biagio di Monluc guascone, il quale ci lasciò ricordi curiosissimi. Messosi di buon’ora alla milizia, a diciassett’anni venne in Italia, tratto «dal racconto de’ bei fatti d’arme, che vi si compivano ordinariamente», e sopra un cavallino di Spagna regalatogli da suo padre, guadagna il grado di capitano a vent’anni, e toglie per divisa, _Deo duce, ferro comite_. Combatte alla Bicocca: resta prigioniero a Pavia, ma è rilasciato «perchè vedeano bene che non v’era da cavarne gran denaro»: in patria assolda una compagnia a piedi, e viene col Lautrec a Napoli; all’assalto di Capistrano presso Ascoli è ferito a morte: pure quando il castello fu preso, si fe cedere un numero di donne, le quali avea fatto voto alla Madonna di Loreto di salvare da oltraggi. Stentò per anni a guarire: poi rimessosi all’armi, giacchè «nulla odiava tanto quanto casa sua», gettasi una volta in Casale, città quasi smurata; v’improvvisa una fortificazione, obbligando tutti dal capitano allo zappatore a lavorarvi dalla punta del giorno, e fa alzar forche per chi ricusa, ed è obbedito «perchè avea voce di far giocare molto la corda». A Napoli ebbe in dono Torre della Nunziata, e benchè ancora col braccio al collo, facea prodezze stupende, ch’e’ narra colla vanità d’un guascone. Precipitate le fortune francesi, torna addietro desiderando mille volte la morte «perchè avea perduto tutti i suoi signori ed amici». Appena si ripigliano le armi, con Francesco I combatte in Provenza, sempre smaniato di quel ch’è l’idolo de’ Francesi, la gloria. «Mi parea, quando mi facevo a leggere Tito Livio, che vedessi in vita quei bravi Scipioni, Catoni, Cesari; e quand’ero a Roma, guardando il Campidoglio, ricordandomi di quel ch’avevo udito dire (giacchè del leggere poco sapevo), pareami dovessi trovar là quegli antichi Romani». Nei consigli fa prevalere sempre il partito più risoluto, persuaso che «soldati francesi non si vincono, quand’anche avessero un braccio legato; pensate poi avendoli tutt’e due liberi»; non sa darsi pace di quei che riflettono _se perdiamo, se perdiamo_; e «Non c’è principe al mondo che abbia nobiltà più volenterosa della nostra; un piccol sorriso del padrone riscalda i più ghiacciati; e volentieri cangiando prati, vigne, mulini in cavalli ed armi, vanno a morire su quello che noi chiamiamo letto dell’onore». A Ceresole guidava gli archibugieri, giacchè egli sapeva profittare dell’armi da fuoco, quantunque spesso le esecri; e vi fu armato cavaliere dal duca d’Enghien. Mal tollerava le distinzioni fra i soldati e i puntigli di preminenza: se alcuni ne vedeva ricusare i lavori di pala e scure, s’inviperiva, parendogli che qualunque cosa giovi alla guerra non possa sconvenire a capitano nè a soldato. Di denaro e di bottino facea prodigiosa liberalità; sì poco gli costavano! «Quante volte, vedendo i soldati stanchi, scavalcai per camminare con essi e fare qualche lungo tratto! quante volte bevei dell’acqua con essi, per mostrare l’esempio del soffrire!» Vero è che confessa, la sua colpa essere stata di metter mano troppo spesso alla spada negli impeti di collera. Noi c’indugiamo intorno a lui, perchè quelle sue memorie con frequentissime digressioni sull’arte militare, da Enrico IV erano chiamate il manuale del buon capitano, e perchè egli fu lodatissimo da coloro che vantano il valore sotto qualsiasi forma, non da coloro che vi vogliono accoppiate moderazione, giustizia, umanità. Già di settantacinque anni scrivendo l’odissea delle sue imprese, diceva: — Nel nostro mestiere bisogna essere spietati, e Dio deve usarci misericordia pel male che abbiamo fatto»[332]. Costui fu dunque destinato luogotenente regio (1554) a Siena, per quanto un tal posto paresse richiedere ben altra prudenza in una repubblica, in guerra di partiti. Finchè lo Strozzi rimase a capo del piccolo esercito, Monluc comparve in secondo piano; ma ben presto Leone Strozzi restò ucciso, e Pietro, tepidamente secondato da Francia, mal nudrito in paese sperperato, fu sconfitto a Lucignano (2 luglio) e ferito. «Fatta rassegna, mancorno al campo franzese, fra morti e prigioni, circa dodicimila uomini. Ora, chi avesse visto tornare in Siena la sera tanti soldati di tante nazioni svaligiati, feriti e tanto malconci, piangendo buttarsi per le strade a giacere per le banche e murelli (dopo pieno lo spedale a quattro per letto, e di più piene le banche e le tavole e la chiesa), non saria stato possibile aver possuto tenere le lacrime, sebbene avesse avuto il cuore di durissima pietra, vedendo e considerando una strage siffatta. Moveva tal caso orrendo a compassione chi vedeva le strade piene di feriti, e sentiva i pietosi lamenti, e massime dei Tedeschi e Franzesi, che si raccomandavano chiedendo un poco da bere e un poco di sale, pane e vino, e gli ajutavano meglio che possevano; ed io fo fede, che vidi più di cent’uomini appoggiarsi a un muro, e lacrimare per pietà de’ poveri soldati a tale esterminio condotti» (SOZZINI). Lo Strozzi non potè più tener la campagna, e tornato in Francia (1555), vi fu malvisto come chi è vinto, e accusato d’ambe le parti, finchè col valore e colla perseveranza ricuperò nome e gloria. Monluc allora divenne il personaggio principale di Siena, e sebbene, all’uso de’ suoi, egli attribuisca tutto a sè il merito della perseveranza e del valore de’ Senesi, non può non ammirarne la virtù. Rinascevano discordie e sospetti? egli facea far processioni, «giacchè digiuni ne facevamo già abbastanza, nè dal febbrajo uscente sino ai ventidue aprile mangiammo mai più d’una volta; e questo mangiare consisteva in un piccolo pane, alquanti piselli con lardo e cattivo brodo. La voglia d’acquistare onori, e di far all’imperatore questa vergogna d’avere sì a lungo arrestato il suo esercito, mi toglieva il rincrescimento del digiunare: quella meschina refezione mi equivaleva ad un banchetto quando tornavo da qualche abbaruffata, dove ai nemici si fosse bene scossa la polvere». E di fatto non trattavasi che di puntiglio, giacchè del vincere non rimanea speranza; soccorsi di Francia sapeva non arriverebbero, per quanto e’ ne lusingasse i Senesi; voleva soltanto illustrarsi con una bella difesa, il che dalla sua nazione chiamasi gloria. Al Medeghino e’ non vuol male; «serve al suo padrone come io al mio; egli attaccava me pel suo onore, io lo respingeva pel mio; egli voleva acquistar reputazione, io pure». Anzi esso Medeghino la vigilia di Natale gli mandò mezzo cervo, sei capponi, sei pernici, sei pani bianchi, sei fiaschi di vino: vero è che la notte stessa, sperando che i Senesi fossero distratti nel celebrarla, tentò sorprendere la città, ma se ne trovò respinto. Quella che tra i soldati sembrava una partita d’esercizio, pei Senesi era decisione capitale, andandovi della libertà e della vita; e serrato l’assedio, da mezzo ottobre sino al 21 aprile passarono per tutti i gradi della fame, delle ansietà, delle malattie. Cosmo e il Marignano seguitavano le immanità, respingendo le bocche inutili che fossero mandate fuori, impiccando chiunque tentasse introdur viveri. Eppure i contadini bazzicavano di continuo i quartieri nemici, e difendevano bravamente ciascuno la propria masseria. Siena vide scemare da trenta a diecimila i suoi cittadini; eppure si resse, e le donne medesime adoperavansi a faticosi servigi in pro della libertà; e — Voi (esclama il Monluc) siete degno d’immortal lode, se mai donna il fu. Presa la bellissima risoluzione di difendere la libertà, si divisero in tre bande di tremila ciascuna, condotte da una Forteguerra, una Fausta, una Piccolomini, con vestire e divise proprie, e lavoravano alle fortificazioni»[333]. Alla fine, stremi dalle malattie, nè roba più nè cavalli o gatti o sorci rimanendo da mangiare, i Senesi chiesero patti. Il Marignano voleali a discrezione: ma poichè essi mostravansi disposti piuttosto a sepellirsi sotto le ruine della patria, e un esercito francese si avanzava dal Piemonte, e Firenze fremea di dover sostenere tanti sacrifizj per fare altri servi com’essa, alfine vennero accordate (21 aprile) condizioni simili a quelle che venticinque anni innanzi avea ottenute Firenze stessa, e violate al par di quelle. Monluc, che, come Massena ai nostri giorni, aveva giurato che «capitolazione non farebbe mai», uscì senza patti, e il Marignano ricevette lui e i suoi non come vinti, ma come eroi e camerata. Egli menò seco i più compromessi, e al vedere i congedi di quel popolo «sì devoto alla libertà, non seppe frenarsi dal pianto». Contano che cinquantamila uomini perissero d’armi, di fame o di supplizio: e il viandante, che sospirando attraversa la desolata maremma, florida un giorno di coltura e di casali, maledice ancora le snaturate guerre del Cinquecento, e la memoria del Marignano e de’ suoi padroni. Alla guarnigione francese sottentrò in Siena la spagnuola; molti preferirono l’esiglio alla vista dei vincitori, delle armi tolte, della fortezza rifabbricata (1556); altri ricoverati a Montalcino, ostinandosi ad intitolarsi Repubblica senese, sostennero quegli ultimi aneliti d’indipendenza, finchè la pace di Cateau-Cambrésis non assodò i ceppi della Toscana. Allora se n’andarono anche i Francesi (1559), che fin là aveano tenuta Grosseto. Lungamente la Francia alimentò i profughi nostri, e ancora nel 1585 quel re ne manteneva ventuno della propria cassetta, fra cui un Caracciolo, un Ubaldini, un Alamanni, tre Giustiniani, un Fiesco, un Marcello[334]. Chi crede alle esagerazioni de’ profughi, troverà asserito che Cosmo pensò disfare questo nido de’ suoi nemici, e al Pichena, segretario suo d’ambasceria a Parigi, spedì sottilissimi veleni e i più abili assassini, promettendo quarantamila ducati per ogni morte, oltre rimborsar le spese. La prima vittima fu Bernardo Girolami; e talmente ne rimasero sgomenti gli altri, che si sparpagliarono per le provincie e in Inghilterra, ormati incessantemente da’ sicarj de’ Medici. Non tanto i generali colle armi, quanto Cosmo coi denari, colle forze, col vitupero proprio aveva conquistato Siena: ma Carlo V ne investì Filippo II, il quale a Cosmo non la cedette (1557 19 luglio) se non quando ebbe bisogno di lui nella guerra terminata colla pace di Cateau-Cambrésis, e a patti che posero la Toscana in qualche dipendenza dalla Spagna, essendosi questa riservato i porti di Orbetello, Telamone, Portercole, Montargentaro e Santo Stefano, che furono detti i _Presidj_, e che preclusero a Siena il commercio e il mare, così perpetuandone la desolazione. Dell’isola d’Elba porzione fu restituita all’Appiano signor di Piombino; al duca restò Porto Ferrajo, con due miglia di contorno. Lucca non si salvava da lui che col farsi dimenticare[335]. Soltanto Soana tardò a venire a Cosmo. Nicolò Orsini, nel 1547, incarcerato il proprio padre Giovan Francesco conte di Pitigliano, ne tenne lo Stato, e per non esserne punito dall’imperatore, secondò i Francesi nella guerra di Siena, i quali gli diedero Soana. Per la pace di Cateau-Cambrésis avrebbe dovuto restituirla; ma egli allegando che fosse antico feudo di sua casa, la tenne violentemente; si circondò di concubine ebree, non risparmiava la roba d’alcun uomo, l’onestà d’alcuna donna, neppur della moglie di suo figlio Alessandro. Questo propose a Cosmo d’ammazzarlo: ma Nicolò, scoperta la trama, arrestò il figliuolo. Allora Cosmo dovè mover coll’armi, e l’Orsini cedette. Cosmo chetò a denari il presidio spagnuolo che usciva di Siena, e ricomprò da esso fin le artiglierie e le munizioni, che pure appartenevano al comune senese; vi pose guarnigione tedesca, che finì di guastare se alcun che vi si era salvato; e pubblicò — In evidentissima dimostrazione del buon animo nostro e del paterno affetto inverso di questa nostra dilettissima città, per pace e quiete universale e per ogni ragionevole considerazione, per nostro proprio movimento e per certa scienza, perdoniamo pienamente e scancelliamo in tutto e per tutto ogni eccesso e delitto commesso da qualsiasi persona, avanti al giorno nel quale a nome nostro si prese il possesso della città, assolvendo e liberando pienamente ciascuno da qualsivoglia pena incorsa per delitti ed eccessi, ancorchè enormissimi». Frasi stereotipe, siccome quelle altre che, nel desiderio di riparar i mali e restituire l’antica felicità e splendore a Siena, introduceva la forma di governo che credeva di maggior soddisfazione universale per distribuire le dignità, utili e onori della città ai più meritevoli, ed a ciascuno buona ed eguale giustizia. Pertanto terrebbe in Siena un luogotenente per vigilare all’osservanza delle leggi, e intervenire al consiglio generale, creato dal duca, da cui erano eletti pure il capitano del popolo, i confalonieri, il capitano di giustizia, i conservatori dello Stato, gli uffiziali della mercanzia, il giudice ordinario, gli auditori di rota, gli otto capitani dello Stato; agli antichi uffizj del popolo erano conservati i diritti e privilegi. Tante morti, tante migrazioni, tanto devastamento di ubertosissimi paesi segnarono il decadimento della Toscana. Un secolo i Medici aveano faticato a corromperne la libertà, ed ecco finalmente se l’erano soggiogata, e col levare le forme democratiche di cui era fin allora vissuta, se la resero serva senza temperamento. Alle città sottoposte Cosmo lasciò da principio le forme municipali e risparmiò le gravezze[336]: e per vero quelle che già erano suddite di Firenze ebbero piuttosto a lodarsi d’aver mutato la tirannia di molti in quella d’un solo. Per tener in freno un paese di tante rimembranze, dove i fuorusciti predicavano ogni mezzo essere onesto a ripristinare la libertà, dove i Piagnoni non aveano perduto la potente flebilità, Cosmo adoprò e forza ed arte. Contro i ribelli (come chiamava i fedeli a quella repubblica, cui egli si era ribellato) pubblicò quarantatre editti dal 1537 al 74, di fierezza draconiana, colpendo di confisca non solo l’eredità de’ figliuoli, ma le enfiteusi e i fedecommessi, senza riguardo a diritti di terzi, e perfino i beni che gli ascondenti di rei avessero acquistati dopo il delitto, e a perpetuo esiglio la loro figliolanza[337]; moltiplicò bargelli, carceri, relegazioni, vigilanze; chi uscisse di casa in tempo di tumulto poteva esser morto impunemente; insomma quelle fierezze di dominio, di cui poteasi fremere e persin dubitare nel benigno secolo passato, ma che il nostro rivide con più sapiente ferocia. Nel suo principato si decapitarono cenquarantasei persone, fra cui venticinque di famiglie illustri e sei donne; nel 1540, quattrocentrenta furono condannati in contumacia; oltre quelli che lontano cadeano colpiti di veleno o di pugnale. Filippo II era l’ammirazione di Cosmo; e suoi oracoli Pier di Toledo e il duca d’Alba, sanguinarj conculcatori dell’umanità; ma prima di loro il Machiavelli aveagli insegnato «nemico temuto doversi spegnere». Fu lui che introdusse quel sistema di spionaggio, insolito anzi impossibile ne’ governi precedenti, per cui furono seminati il sospetto ne’ principi, la diffidenza ne’ popoli: peste moderna, alla quale non ebbe la equivalente il medioevo. Perchè la libertà del pensare religioso non avviasse alla libertà del politico, vigilava i progressi dell’eresia, faceva numerare le particole, contare le persone in chiesa: pure non lasciava che gl’inquisitori procedessero se non assistiti da deputati laici. Pretendendo che i Domenicani, non dimentichi dell’alito popolesco di frà Savonarola, s’intendessero coi fuorusciti, subillassero il popolo contro il principe, e secondassero le animosità di Paolo III, li cacciò e fece processare, non badando a reclami di Roma e de’ timorati, che consideravano i Domenicani come zelantissimi dell’ortodossia, mentre gli Agostiniani a loro sostituiti non andavano senza sospetto di parteggiare per l’agostiniano Lutero. Cosmo, costretto richiamarli, colle spie e le accuse li molestò: poi per imbrigliare anche la curia romana creò il «dipartimento della giurisdizione», assistito da Lelio Torelli di Fano, valente giureconsulto, per impedire che alcuna autorità esterna turbasse il governo; il qual magistrato poi si arrogò la cognizione de’ fatti ecclesiastici che portassero pene temporali, e di concedere l’_exequatur_ ai decreti della podestà clericale. Questa magistratura fu temperata coll’introdurre un nunzio, il quale aveva tribunale per le cause ecclesiastiche, ma divenne occasione di frequenti conflitti tra le due potestà. Cosmo ridusse in sè solo l’arbitrio de’ consigli, dei giudizj, del tesoro. Dappoichè Carlo ebbe levata la guarnigione spagnuola dai forti, fu il primo principe italiano che tenesse milizia regolare, ideata sopra l’antica ordinanza fiorentina; fortificò le città[338], provvigionò le rôcche, istituì compagnie d’archibugieri a cavallo per guardare le coste, e dodici galee: per tal modo ottenne quiete dentro, e rispetto dai Turchi, che per far piacere a Francia e dispetto all’imperatore, tornavano a devastare l’Italia; e giovò non poco agli Imperiali, sia col tenere in fede il ducato di Milano, sia coll’assisterli nella guerra di Piemonte. La guerra di Siena l’avea logoro al punto, che dovette sospendere le paghe agl’impiegati; ma presto restaurò le finanze. Il Fiorentino contava allora settecentomila abitanti, e centomila il Senese, ed egli con esenzioni e regali e sovvenzioni vi chiamava agricoli ferraresi, mantovani, parmigiani, piacentini, veneti, e maestranze e marinaj dalle coste. L’unione del Senese crebbe le comodità de’ popoli, per le ricche raccolte di quello rendendosi inutile il tirar grano forestiero, anzi avendone da mandar fuori. Cosmo aveva pensato ad un canale, che varcando l’Appennino alla montagna della Consuma, congiungesse i due mari, talchè Firenze divenisse un emporio de’ più operosi; ne fece anche elaborare il progetto dal celebre matematico Ignazio Danti, poi l’abbandonò. Il commercio era decaduto, e molte famiglie trasportarono i banchi o le braccia loro in Francia, in Inghilterra, altrove. L’istituzione dell’ordine di Santo Stefano, mediante il quale volle alloppiare con decorazioni chi gli chiedeva libertà, trasse molti ad aspirare a quella nobiltà, abbandonando il commercio, e parte salire sulle galee dell’ordine, parte brigare nelle anticamere del padrone. Cosmo faceva egli stesso monopolio di alcune merci, e s’interessava con ricchi negozianti sulle banche di Anversa, Bruges, Londra, Lisbona, Barcellona, Marsiglia, Lione, oltre le italiane; impiegava due galeoni per trasportar merci d’Italia e del Levante ai porti dell’Oceano; dai Fugger d’Augusta traeva il rame d’Ungheria; da Levante grano, olio, vino; schiuse il porto di Livorno; cavava metalli, e da operaj di Germania fece tentare a Pietrasanta le miniere dell’argento. A tale concorrenza soccombeano i minori negozianti; ed egli, malgrado tante spese, divenne il più ricco principe d’Italia, e lasciò sei milioni e mezzo di ducati in cassa; comprò il palazzo Pitti perchè i suoi successori avessero la residenza più bella che in Europa sia; edificò quel degli Uffizj, il loggiato del Mercato vecchio e il più grandioso del nuovo, la biblioteca Laurenziana, l’archivio d’Or San Michele; quadruplicò le entrate del paese portandole a un milione centomila ducati; spense i debiti pubblici. Le Università di Firenze e di Pisa rassettò; alla Platonica, istituita da Cosmo il Vecchio, sostituì l’accademia Fiorentina, in cui entrarono il Carnesecchi, il Domenichi, il Giambullari, il Segni, Benedetto Varchi richiamato di bando. Coglieva ogni occasione di allettare il popolo, ed occupare artisti e operaj con feste, or per qualche galea tolta ai Barbareschi, or per le nozze di suo figlio con Giovanna d’Austria, or pel battesimo d’un bambino natone[339]: mettessero pure i Fiorentini tra i ritratti che allora esponevano, non solo Farinata e il Capponi, ma anche il Carducci e il Ferruccio, e’ non era sì codardo da temere gli eroi di cartone. Fece involar da Roma il corpo di Michelangelo per sepellirlo in patria; diede commissioni al Pontormo, al Bandinelli, al Bronzini, al Cellini, a frà Giovanni; dal Vasari fece dipingere tutto il palazzo ducale; e volendo questo ritrarlo in mezzo a’ suoi ministri in atto di discutere della guerra di Siena, il duca gli disse: — Che ci hanno a fare i ministri? mettici il silenzio e altrettali virtù, che tengono luogo di consiglio». Chiamò da Sicilia a Pisa lavoratori di coralli e specchi, arti perfezionatesi sotto il suo figlio; il quale introdusse la fabbrica della porcellana, fin allora ignota, e il meraviglioso magistero de’ commessi di pietra dure. «Soprattutto (scriveva Andrea Gussoni ambasciatore veneto nel 1576) ha diletto di lavorare di lambicchi, formando molte acque e dei sublimati atti a medicare molte infermità, e ne ha quasi per ognuna; e fra le altre fa un olio di sì eccellente virtù, che ungendo di fuori dei polsi, il cuore, lo stomaco, la gola, guarisce e difende da ogni sorta di veleno, sana gl’impestati, preserva i sani, ed è attivissimo rimedio alle petecchie e ad ogni sorta di febbre maligna; e mi ha detto aver voluto fare esperienza del veleno in persone che aveva a far morire per giustizia, facendo loro bere del veleno, e con questo suo olio li ha del tutto guariti»[340]. Ma anche il bene è disgradito quando obbliga a sagrificar l’onore: la vita artifiziale che le arti traevano dalla protezione, non toglieva che deperissero; e Cosmo dovette far lavorare fuori gli argenti per le nozze con Eleonora di Toledo. Il traffico restò impacciato, la giustizia passionata; la popolazione si sottigliò; i cittadini ambiziosi di titoli sottraevano i capitali dal commercio per investirli in terreni; i migliori velavano l’umor repubblicano con inezie letterarie, e istituirono l’accademia del Piano, e per Piano intendeano la repubblica, e vi recitavano dicerie allegoriche. Non è dunque meraviglia se fu vituperato da’ suoi, malgrado le eccellenti qualità. Pio IV, che l’amava perchè n’aveva favorito l’esaltazione ed accettato nella sua pienezza il concilio di Trento, gli offerse il titolo di re, ed egli nol volle; ma quando si trattò di dare una figlia all’imperatore Ferdinando, Pio V gli esibì di nominarlo arciduca; e poichè Casa d’Austria non voleva accomunato ad altri questo titolo, s’inventò (1569) quello di granduca e di altezza serenissima; e recatosi a Roma con un fasto che mai il maggiore, ricevuto da cardinali e da tutta la nazione fiorentina, alloggiato nel palazzo pontifizio, fu coronato sedendo alla dritta del papa, e d’allora s’intitolò _per grazia di Dio_. Non sono a dire le proteste degli Austriaci; dell’imperatore, che pretendeva fosse vassallo suo per la Toscana, e della Spagna per Siena; del duca di Ferrara, che fin là aveagli disputato la preminenza; e per anni durarono le collere e i litigi sotto apparenza di cerimoniale, ma in fatto perchè trapelava anche in lui quell’ambizione che ogni principe ingrandito concepì, di dominare tutt’Italia, o almeno di snidarne gli stranieri. In ciò lo secondava il papa; ma poichè il disegno non gli successe, colmò di nuovi favori il granduca, gli regalò tante anticaglie da empire quattro vascelli, e beni alla moglie, e il proprio palazzo e giardino a un figlio, all’altro il comando delle galere dello Stato. Chi pensa come le città, eccetto Firenze e Siena, già stessero sotto una servitù che egli cercò mitigare; che senza lui la Toscana sarebbe divenuta provincia della Spagna o della Francia; che gravi e secolari agitazioni non possono calmarsi senza violenza; che tanti proscritti e fuorusciti artifiziavano instancabilmente congiure e turbamenti, ed esagerarono le colpe e i difetti di esso, vorrà riconoscerlo del male che non fece o che palliò. E molti de’ contemporanei lo lodarono sinceramente; così è facile passare dall’orrore dell’anarchia all’avversione della libertà politica. Egli stesso cercò illudere la posterità col comprare storici, e il non esservi riuscito fa lode a questi. Pure l’Ammirato più volte encomia i Medici della libertà che lasciavano di dire il vero; e il Pitti, nell’_Apologia de’ Cappucci_, liberale confutazione del Guicciardini, dice che «il granduca Cosmo e il principe Francesco reggente hanno caro che si sappia il vero delle cose, largheggiano non pur delle scritture pubbliche a chiunque le desidera vedere, ma delle lettere segrete loro, ancora de’ casi più ascosi dello Stato, premiando chi s’affatica a descrivere le pubbliche azioni». Chè i tiranni brutali strozzano il pensiero e incarcerano gli scrittori; i tiranni scaltriti se li guadagnano quando possono, o almeno gli abbagliano. CAPITOLO CXXXIX. Fine di Carlo V. Estremo assetto dell’Italia. Prodi suoi figli. Sventure e glorie di Venezia. Imprese contro i Turchi. Intanto scomparivano gli attori di questi terribili drammi. A Francesco I, morto delle conseguenze dell’irrefrenato libertinaggio, era succeduto Enrico II, marito di Caterina de’ Medici, dissipato egli pure in altri amori e in valenterie cavalleresche, per le quali in un torneo cadde ucciso (1559 10 luglio), dopo essere stato zimbello di donne e di partiti, e aver visto invadere il suo regno dall’eresia, collegata colla riottosa nobiltà. Carlo V, allorchè partì d’Italia, vi lasciò Garcia di Lojasa suo confessore, coll’incarico di mandargli informazioni d’ogni cosa[341]; e questi da Roma il 15 agosto 1530 gli scriveva: — Sire, non pensate a divertimenti, e non perdete coraggio alla vista degli impacci che v’attendono, certo non minori di quei che aveste a Bologna. Pensate che nè corona fu conquistata, nè gloria ottenuta colla mollezza, col vivere lussurioso e coi viziosi diletti. Due antagonisti contendono in vostra maestà; l’indolenza e l’ambizione. Finora in Italia prevalse la seconda; possa essere altrettanto in Germania; e la cura dell’onore e della gloria trionfi del nemico interno, che vi trae a sciupare la miglior parte della vita in feste, banchetti, stravizzo». Suona strano l’udire imputato di accidia quell’imperatore, che si vantò d’avere, dai diciassette anni in poi, veduto ogni cosa coi proprj occhi, nove volte passato in Germania, sei in Ispagna, quattro in Francia, sette in Italia, dieci ne’ Paesi Bassi, due in Inghilterra, altrettante in Africa, undici traversato i mari. Giunto ai cinquantasei anni, diceva: — La fortuna, come le altre donne, mi abbandonò dacchè invecchiai»; e il mal esito di molte imprese, la contraddizione che trovava nel fratello e nel figlio, l’irrefrenabile estendersi della Riforma, quella sazietà che presto ammuffa le grandezze umane, lo indussero a rinunziare al figlio Filippo II (1555-56) i Paesi Bassi e la Spagna coll’Italia e l’America, raccomandandogli di mantenere la santa fede e l’Inquisizione; e al fratello Ferdinando il titolo d’imperatore e i possessi di Germania. E si ritirò a pii ma non inoperosi esercizj nel convento di Just dell’Estremadura[342], come quegli eroi del medioevo che mettevano un intervallo di raccoglimento fra la presente vita e la futura. Con tale spartimento egli stesso dichiarava impossibile quella monarchia universale che qualche volta fantasticò. Re di titolo a sei anni e di fatto a sedici, imperatore a diciotto; altero e fermo, ma severo e melanconico, sapendo con calma e penetrazione valutare le difficoltà delle imprese: mai non montava in collera; offeso, avvolgeasi nella dignità del silenzio: versava sangue senza riguardi ma senza piacere, e coglieva ogni occasione di perdonare. Comparso al momento che la società nuova usciva in fasce, e sulle ruine delle repubblichette e delle feudalità ergevansi poteri compatti, che conglobavano le singole forze e volontà fin allora cozzanti, pensò alla vita animata e indipendente del medioevo sostituire un’amministrazione centrale, e nella monarchia raccogliere tutta l’attività; reprimere l’agitazione municipale delle Spagne; al tempo stesso che sperava togliere ai Barbareschi le coste d’Africa, conquistare e legarsi l’Italia, coprire di colonie il Messico e il Perù, osteggiare la Francia, tenere in briglia la Germania, comprimere i Paesi Bassi; in somma sostituire l’Austria alla Chiesa nel rappresentare l’unità cristiana, onde si credette volesse assorbire le singole nazioni. Se non che d’arrivare al gran fine era impedito dalla natura de’ suoi possessi, immensi ma nè vicini nè omogenei, dalle gelosie della Francia, che parve erigersi protettrice delle parziali nazionalità. Glorioso uffizio come imperatore cristiano fu l’opporre una diga ai progressi del Turco; pure lo lasciò prendere Rodi senza contrasto, ed avanzarsi in Europa più che non avesse fatto ne’ momenti di suo slancio maggiore; e col disastro d’Algeri offuscò la gloria della spedizione di Tunisi. Guardandolo come la potenza preponderante fra’ Cattolici, e il vero ostacolo agl’infedeli, i papi smetterono quell’antagonismo che costituì l’attività di tutto il medioevo; e se Carlo fosse riuscito a subordinare la corona germanica elettiva all’ereditaria di Spagna, farsi dare successore nell’impero il figlio Filippo, e a questo ottenere, colle nozze di Maria, lo scettro d’Inghilterra, tutta Europa si sarebbe trovata austriaca, e il despotismo gentilesco incatenava una società tornata pagana. Ma ad impedirlo sorsero il pensiero emancipato, lo spirito riformatore, e le idee della personale responsalità, rincalorite da Lutero. Carlo sperò un pezzo riconciliare alla Chiesa i dissenzienti, o almeno conservare l’unità, fosse poi trionfante la fede apostolica o la nuova: però, come vide questa crescere di estensione e di petulanza, e intaccare non che la dominazione regia, le basi della società, si diede a tutt’uomo a reprimerla; ma che? versato tesori e sangue, costretto a fuggire innanzi ai campioni di essa, non potè che farle accettare un soprattieni (l’_Interim_), all’ombra del quale essa si consolidò entro i termini che fin oggi conserva. Inoltre già si era stabilita quella politica che riunisce tutti contro quello che minaccia di soverchiare; e non è ultimo vanto di Firenze e di Siena l’avere saputo così a lungo, sebbene infelicemente, resistere al dominator del mondo. Povero in mezzo a smisurati dominj[343], dopo supplito ai regolari tributi con estorsioni d’ogni specie, dopo lasciato ai soldati il saccheggio invece delle paghe, dalla mancanza di denaro costretto a interrompere tutte le imprese, non conquistato nessun regno malgrado di tante guerre e di tanti paesi incamerati, Carlo vide invasi da stranieri tutti i suoi, eccetto l’estrema Spagna; dovette cedere terreno ai Turchi; abbandonò alla ventura e all’avidità la conquista del Nuovo mondo, che avrebbe potuto offrire campo al guerresco ardore della nazione e rimedio alle impoverite finanze, più che gli spedienti che toglieano di circolazione capitali e depauperavano l’industria. Monopolio de’ mestieri, ingordi dazj d’entrata e uscita, fabbriche imperiali, costose licenze erano abusi già praticati: ma Carlo gl’introdusse sistematicamente nell’amministrazione; il commercio fu ricinto di restrizioni ed esclusioni; sagrificate le colonie alla capitale; lo spirito pubblico sviato dalle vie regolari della prudenza per gettarlo in quelle del rischio. Tutte le forme tutelari furono abolite sottomettendole a dispotici governatori: ritornò in onore l’aristocrazia, ma creata da diplomi, e perciò oppressiva degli inferiori, inetta a resistere agli arbitrj superiori. Che se il nome di lui sfolgora all’apogeo dell’Austria, l’Italia vi associa l’elegia della perduta sua indipendenza. Allora un vecchio di sentimenti moderatissimi scriveva: — Dappoichè Carlo V ebbe le insegne imperiali, per cagione delle guerre seguite fra lui e il re Francesco, coll’aggiunta di quelle che Solimano granturco, parte spinto da oro e parte incitato da se stesso, ha fatte contro a’ Cristiani, sono state ammazzate in guerra ducentomila persone, più di cento tra città e castella di notabil fama sono ite a sacco, rovinate e distrutte. Tante migliaja, dopo queste, d’uomini e di donne innocenti son periti per fame e pestilenza, che non è agevole raccontarne il numero, senza contare gli sbordellamenti delle matrone nobili, la verginità perduta delle fanciulle sacre e profane, e i vituperosi e abbominevoli stupri nei fanciulletti: cose empie, atroci, fuor d’ogni legge umana e divina, commesse la più parte da Cristiani infra loro medesimi, non per altra cagione che per soddisfare all’ambizione di due uomini, i quali nati, cresciuti e invecchiati con odj eterni e con animi sempre nemici, non mai stanchi di far sangue, ancora combattono e combatteranno infino che avranno vita. Onde i popoli afflitti non hanno da avere maggior desiderio, per quietarsi una volta, che a pregar Dio che gli spegna, o veramente che voglia ambidue sottoposti al granturco; acciocchè, ridottosi il mondo sotto un solo monarca, avvegnachè barbaro ed inimico della nostra legge, possano con qualche riposo nutrire i figliuoli, e sostenere, sebben poveri, almeno senza tanti travagli, i pesi della loro infelicissima vita»[344]. Anche Paolo III moriva (1549), e dopo lungo tempestare del conclave, otteneva la tiara Gianmaria Ciocchi, cardinale lodatissimo e papa infingardo col nome di Giulio III, assorto nell’ingrandire nipoti e favoriti. Succedettegli per pochi giorni Marcello II (1555), dei Cervini di Montepulciano, poi l’ottagenario Paolo IV, dei Caraffa napoletani. Stava costui alla corte di Spagna quando Fernando il Cattolico, rimorso nell’agonia d’avere sottratto il regno di Napoli agli Aragonesi e imprigionato l’ultimo di essi contro la fede data, volle consultarsene con persone pie e dotte. L’uno fu il Caraffa, il quale francamente gl’intimò non poter lui salvare l’anima e la reputazione altrimenti che restituendo quel regno; e talmente il compunse, che forse ne seguiva l’effetto, se altri, «perturbando con la ragione degl’interessi di Stato le ragioni di Dio e della giustizia», non avessero svolto il moribondo[345]. La verità suona ingiuria ai potenti; e Carlo V lo guardò come avverso a Spagna, l’escluse dal consiglio reale, gli contrastò lungo tempo l’arcivescovado di Napoli, ne turbò sempre la giurisdizione. Egli a vicenda non dissimulava la sua avversione per gli Austriaci, e fatto cardinale, contraddiva in ogni atto all’imperatore, che chiamava fautore d’eretici, e che in conseguenza gli diede due volte l’esclusiva dal papato: la terza fu per castigare severamente i cardinali cesarei che non eransi adoprati efficacemente ad impedirlo, e pensò convincere d’illegale la nomina, deporlo e avvelenarlo. Paolo IV, mostratosi fin allora pio ed austero, quando gli fu chiesto come voless’essere trattato, rispose: — Da gran principe»; e coronato splendidissimamente, si mostrò in tutto suntuoso, e più temporale che alla dignità sua non convenisse. Focoso, iracondo, tutto capricci e partiti, bistrattò l’ambasciadore di Toscana, prese a pugni e calci il governatore di Roma, svelse la barba all’inviato di Ragusi; vestì cardinale suo nipote don Carlo, fin allora guerriero sotto i profughi Strozzi; prese segretario monsignor Della Casa, manifestandosi così nemico al duca Cosmo, di cui era ribelle. L’Italia paragonava ad uno istromento, le cui quattro corde erano Napoli, Milano, Venezia, lo Stato della Chiesa: — Infelici quelle anime di Alfonso d’Aragona e Lodovico duca di Milano, che furono i primi a guastare così nobile stromento d’Italia! _Hinc omnis mali labes_, perchè costoro aprirono questa mala porta a’ Barbari, la quale noi vorremmo serrare e non siamo ascoltati, per colpa de’ peccati nostri. Noi non ci pentiremo mai d’avere fatto quello che abbiamo potuto, e forse più di quel che potevamo. Lasceremo ne’ secoli avvenire la confusione a quelli che non ci avranno ajutato, e che si dica che fu già un vecchio di ottant’anni, il quale, quando si credeva avesse a star in un cantone a piangere le sue infermità, si scoperse valoroso e desideroso della libertà d’Italia, ma fu abbandonato da chi manco dovea; e così la penitenza sarà de’ signori Veneziani, e degli altri che non vogliono conoscere l’occasione di levarsi dalle spalle questa gente mista di Fiamminghi e Spagnuoli, nella quale _nihil regium, nihil christianum_; tengono come la gramigna ove s’attaccano, a differenza dei Francesi, che non vi starieno se vi fossero legati. Non ci pentiremo mai d’avere stentato questo poco di vita per onor di Dio e per benefizio di questa povera Italia; perchè ci abbiamo proposto una vita facchinesca, e non riposiamo mai». Così diceva egli a Bernardo Navagero ambasciator veneto, e altre volte: — Siamo vecchi, e ce ne partiremo un di questi dì quando piacerà a Dio; ma verrà tempo che conoscerete che vi diciamo il vero; e Dio non voglia sia con nostro danno. Sono barbari tutti due, e saria bene che stessero a casa loro, e non fosse in Italia altra lingua che la nostra». Il Navagero conchiude: — Mai parlava di sua maestà e della nazione spagnuola, che non li chiamasse eretici, scismatici e maledetti da Dio, seme di Giudei e di Mori, feccia del mondo, deplorando la miseria d’Italia, che fosse astretta a servire gente così vile»[346]. Paolo sospettava ogni tratto che Carlo attentasse ai suoi giorni, e diceva: — L’imperatore vuol uccidere me di febbre mortale, ma io darò a lui da fare, e libererò la povera Italia». Ma neppure a Francia si confidava pienamente, e al nipote diceva: — Vedi che non crediamo troppo in questi Francesi, e che, rotta che noi avremo l’inimicizia, non ci abbandonino come è fama che soglion fare»[347]. Ma questi nipoti che speravano pescare nel torbido, e monsignor Della Casa suo intimo, che desiderava redimere la patria Toscana, gli aggiungeano sproni; ed egli, spogliati i feudatarj romani, massime i Colonna, fermò alleanza con re Enrico, assolvendolo da una tregua giurata recentemente, e meditava trasferire in questo o trarre a sè il regno di Napoli e il Milanese, dichiarandone scaduti gli Spagnuoli; se non altro, ottenere Siena, fracassata dagli Spagnuoli e da Cosmo. A tal fine pretendesi negoziasse fin coi Turchi acciocchè infestassero le marine toscane e napoletane, e col marchese di Brandeburgo luterano perchè assalisse l’imperatore in Germania; nessun mezzo reputando illecito a raggiungere il suo fine. Per incarnare il magnanimo disegno di liberare l’Italia da’ forestieri, al papa occorreva l’appoggio degli altri signori: ma la Savoja si ostinava contro Francia, appoggiandosi perciò all’imperatore; Venezia adombravasi degli incrementi del papa; Cosmo temeva che i Caraffa ottenessero l’ambita Siena; Ottavio Farnese, non abbastanza irritato dall’assassinio del padre e dall’usurpazione di mezzo il suo dominio, erasi riconciliato cogl’Imperiali, e li serviva con zelo; gli stessi nipoti, arbitri del papa a segno che ne aprivano le lettere, operavano di capriccio e di prepotenza, spingendolo a consigli inopportuni o a meschini ripieghi, a sospettare di quanti lo circondavano, a perseguitare e tormentare persone anche altissime. Pure egli mise insieme una lega santa, a capo della quale portava le irreconciliabili sue ire Pietro Strozzi; e l’occhio dei Protestanti si dilettò di nuovo allo spettacolo del papa in guerra coll’imperatore e col re Cattolico. L’esercito di questi, guidato dal duca d’Alba, fatta orribile strage a Segna, presi un dopo uno i castelli dell’agro romano, difesi valorosamente e assaliti furiosamente, si presentò con scale a Roma, la quale, impaurendosi di vedere rinnovato il sacco del 27, chiedeva pace ad ogni costo. Come allora, i Colonna assalgono la città, Pietro Strozzi e Biagio di Monluc accorrono a difenderla, ma non vi sarebbero riusciti se gli Spagnuoli non avessero accettato un armistizio. Enrico II, che, erettosi vindice dei disastri paterni, coglieva ogni destro di turbare agli Spagnuoli il tranquillo godimento d’Italia, non foss’altro per isviarli da casa sua, vi spedì Francesco di Lorena duca di Guisa (1557). I costui Francesi, traversata baldanzosi la penisola, si assisero nel Lazio, molestandolo poco meno che i nemici, i quali anch’essi v’entrarono per ricolpo dal Napoletano. Il duca d’Alba, avveduto calcolatore, evitò la battaglia; e il Guisa, a cui s’erano promessi soccorsi d’altri feudatarj e la sollevazione del Napoletano, si lagnava di non vedersi secondato, non voleva avventurarsi a fazioni pericolose (1557), per quanto sollecitato dallo Strozzi; infine fu richiamato acciocchè col fiore della nobiltà francese proteggesse i Paesi Bassi. Colà dodicimila Inglesi s’erano congiunti all’esercito ispano di trentaseimila, comandato dal conte d’Egmont e da Emanuele Filiberto di Savoja, governatore di quelle provincie; e davanti a San Quintino (10 agosto), emporio del commercio tra Francia e i Paesi Bassi, colla robusta cavalleria posero in pienissima rotta l’esercito francese. Mai l’indipendenza di Francia da Giovanna d’Arco in poi non erasi trovata in sì grave frangente, poichè gli Spagnuoli potevano senza verun ostante marciare sopra Parigi: fortunatamente si ostinarono all’assedio di San Quintino, intanto che Enrico II rinnovavasi d’armi; il Guisa, accorso d’Italia ed ajutato da intelligenze, dal verno e dalla trascuranza degli avversarj, in meno di tre settimane col braccio dello Strozzi prese Calais (1558), che da ducent’anni era il punto d’appoggio degl’Inglesi sul continente. Il papa, pertinace a ricusare ogni condizione di pace, quando si vide abbandonato da’ Francesi, in Roma la castità e la roba minacciate dai difensori, molti de’ quali erano luterani, e i cittadini stessi far trama d’aprire le porte all’Alba, dovette chinare ad accordi. Il duca d’Alba, che «non aveva ancora esperienza della gran differenza ch’è tra il guerreggiare con i papi, coi quali finalmente niente si guadagna, anzi si perdono le spese» (GIANNONE), instava perchè si proseguisse la guerra: ma Filippo II, desideroso da un pezzo di riconciliarsi, concordò una pace di sì ampie condizioni, che tutti ne stupirono. La penna di chi scrive e l’attenzione di chi legge si stancano al racconto di queste guerre meramente politiche; eppure dal preponderare de’ Francesi o degli Spagnuoli restavano mutate le sorti degl’Italiani, non più dalla forza e volontà nazionale. La lunga guerra, oltre causare quella di Spagna, Francia, Inghilterra, avea sfinito lo Stato romano: per sopraddosso le acque del Tevere e dell’Arno traboccarono, colla morte di migliaja di persone; il duca di Ferrara continuava le ostilità ai Farnesi, finchè staccato dalla lega con Francia, rappacificossi al Cattolico; la flotta turca tornava ogni anno a predare alcune coste, e spaventarle tutte. Il papa poneva il capo in grembo a’ suoi nipoti, dei quali nessuno osava manifestargli gli eccessi. Il cardinale Pacheco davanti a lui volendo scolpare un altro cardinale, il papa gli ruppe le scuse in bocca, esclamando: — Riformazione ci vuole, riformazione». Al che il Pacheco: — Bene sta, padre santo; ma la riformazione dovrebbe cominciare da noi», e gli gettò qualche cenno. Poi l’ambasciatore di Firenze gli rivelò tante brutture de’ Caraffa, che il papa colle lacrime deplorò in concistoro gli scandali derivatine, li tolse dai gradi e dagli uffizj, e licenziolli e relegò, dando miglior forma al governo; e al cardinale Farnese, che voleva mitigarlo, rispose: — Se Paolo III avesse dato simili esempj, vostro padre non sarebbe stato impiccato». Non per questo cessò lo scontento de’ Romani, irritati da’ suoi rigori, dallo spionaggio con cui sosteneva l’Inquisizione, dalle gravezze esagerate in grazia delle guerre. Intanto sotto gli auspizj del papa stesso era in pratica una pace generale, che poi fu conchiusa a Cateau-Cambrésis (1559 3 aprile), e fin alla quale noi volemmo trarre il racconto, perchè chiuse le ostilità fra Austria e Francia, e assise le cose d’Italia in quella miseria, in cui doveano rimanere gran pezzo. Ivi fu convenuto che il Cristianissimo desisterebbe dal proteggere i Senesi, e ritirerebbe le truppe che ancor vi restavano; rinunzierebbe al Milanese e al Napoletano, come il Cattolico alla Borgogna. Siena fu assicurata a Cosmo; la Corsica resa ai Genovesi; Piacenza ai Farnesi in benemerenza de’ servigi renduti a Spagna da Alessandro guerreggiando i ribelli Fiamminghi. Questo grandissimo capitano, dotto quanto prode, cauto quanto vigoroso ne’ governi, ito all’impresa dov’erano falliti il terribile duca d’Alba, l’accorto Requesens, l’impetuoso don Giovanni d’Austria, seppe attendere e agire, negoziare e vincere, profittar delle scissure solite fra gl’insorgenti, trattare senza duplicità, governare senza tirannia, in modo di rimettere all’obbedienza di Spagna le dieci provincie cattoliche, restringendo la rivoluzione alle sêtte protestanti, che ben tosto si costituirono in repubblica. Mai non dimorò egli a Parma, e morendo il 1592 lasciò al figlio Ranuccio un dominio ben consolidato, e protetto dalla Chiesa e da Spagna. Alfonso d’Este era morto (1534) poco dopo di Clemente VII; e suo figlio Ercole II, imparentatosi colla Francia, tentò due volte scuotere il giogo imperiale che sentivasi sul collo, soccorse Ottavio Farnese, capitanò la lega di Paolo IV contro Filippo II; ma come questo vinse, dovette accettare una pace umiliante, alla quale poco sopravvisse (1559), lasciando successore quell’Alfonso II, il cui nome s’accompagna sciaguratamente a quello di Torquato Tasso. Il ducato d’Urbino, cheto fra’ suoi monti, era passato immune da guerre: ma Guidubaldo (1538), succeduto a Francesco Maria Della Rovere, sprecando in lusso e vanità, ebbe ridotti a estrema miseria i sudditi, i quali proruppero ad aperte rivolte, tuffate nel sangue. Carlo di Savoja, forse buono come n’ebbe il titolo, certamente sfortunato, e credendo abilità il destreggiarsi, avea peggiorato la difficoltà della propria posizione, e non rimediato a nessuno de’ mali del suo paese. Ma Emanuele Filiberto, nella guerra di Fiandra acquistatasi fama di valoroso, gridato eroe (1539) della giornata di San Quintino, sposata Margherita di Francia sorella di Francesco I, potè domandare condizioni migliori; e per quanto i generali francesi esclamassero contro il cedere un paese acquistato con tanto sangue, egli recuperò quanto erasi nella guerra perduto: e da questo punto la casa di Savoja apparve potenza italiana, ed ebbe peso fra le europee. Tanto più che l’essersi allora ribellata Ginevra, portava l’attenzione di que’ duchi mentosto verso il Rodano che verso il Po. Le guerre religiose scoppiate in Francia impedirono agli Enrichi di più mescolarsi de’ fatti d’Italia, dove rimase senza contrappeso l’Austria. Qui dunque finirono le agitazioni e con esse la libertà, e i nostri dovettero subire in silenzio l’insulto de’ loro nemici. Grandezze e virtù incontreremo ancora in Italia, ma sempre velate dalla melanconia che ispirano le opere incompiute e le ruine, e il veder la potenza degl’istinti e le indistruttibili speranze lottare colla perseveranza della sfortuna. Molti Italiani stavano ancora profughi; altri esercitavano fuori un valore, a cui erano mancate le occasioni in patria. È ingiustizia il tacciare i nostri d’aver dismesso le armi e adoperato le mercenarie; non era questo allora il modo universale di far eserciti in Europa? eppure non solo gli Stati feudali nostri, come il Piemonte, la terra di Roma e il regno di Napoli, stavano in armi, ma le repubbliche mercantili mostrarono valore da eroi sia nelle interminabili guerre di Levante, sia nella micidiale di Pisa con Firenze, o di questa e di Siena co’ loro tiranni; forza di carattere apparve nelle tante congiure, o generose o insane, contro al Medici, ai Farnesi, ai Doria; il Ferruccio, e le Bande nere, e gli Strozzi mostraronsi degni di causa o di riuscita migliore. Quando più non si potè combattere in patria, portarono di fuori il lor valore. Cosmo respirò allora solo quando Pietro Strozzi, mostratosi eroe (1558) alla presa di Calais, morì d’una cannonata a Thionville; ma i suoi seguaci, avanzi i più delle Bande nere e dei difensori di Siena, e favoriti da Caterina de’ Medici avversa a Cosmo[348], continuarono utili servigi alla Francia. Ferrante Sanseverino principe di Salerno, genero del vicerè Toledo, era stato spedito ad esporre le querele dei Napoletani a Carlo V; e mal ricevuto da questo, in patria perseguito prima da sicarj, poi da accuse di eresia e di Stato, fuggì a Padova, e dichiarato ribelle, tramò cogli altri fuorusciti, poi deluso andò a servire i Turchi; unitosi a Pietro Strozzi sotto Siena, entrò anche nel Reame; cadute poi tutte le speranze, tornò oltr’alpe al durissimo pane degli esuli; e cantossi lungamente per Italia e per Francia una sua canzone che cominciava, _Ohimè, ch’io non pensava dipartirmi_, e una spagnuola che esprimeva, _Passò il tempo dell’amore, passò la mia gloria, passò la mia ventura; non mi aspetta che il sepolcro_. Sua moglie vendette poi le suppellettili e mendicò alle Corti per ergere una tomba sulle stanche ossa di lui. L’Armanni (_Lettere_, volume I, pag. 727) dice che Gubbio dal 1530 al 70 aveva in diversi eserciti tre capitani generali, due luogotenenti generali, sei colonnelli, 65 capitani, divisandoli per nome e anni. Don Giovanni d’Austria, nella rassegna dell’esercito che menava contro i Turchi, udendo ogni tratto nominare _da Gubbio_, domandò: — Ma cos’è questo Gubbio? o ch’è maggior di Milano? maggior di Napoli?» Gli fu risposto era una città del principe Francesco Maria ivi presente, del che egli lo felicitò. Eppure quando ai dì nostri, Napoleone volle obbligare i Gubbiesi alla coscrizione, buttavansi piuttosto ai boschi e ai monti. Bernardino Rocca piacentino fu buono scrittore di cose militari. Centorio degli Ortensi, romano o milanese, portò sui campi lo spirito osservatore, e dopo la pace fece discorsi sull’arte militare, commentarj delle guerre di Transilvania, ed altri lavori. Antonio Castrioto duca di Ferrandina, ultimo discendente dello Scanderbeg, liberalissimo fin alla prodigalità e buon poeta, militò con Carlo V contro gli eretici, e reduce passò per Venezia, ove assistendo mascherato a una festa di gentildonne a Murano, usò insolenza a Marco Giustiniano, onde un costui famiglio l’ammazzò[349]. Torquato Conti, signore di molti castelli di Romagna, e suo fratello Alto assai campeggiarono in Germania e Francia. Molti altri de’ nostri militarono per gli oppressori e contro, ma erano tenuti da meno, esposti ove maggiore il pericolo, abbandonati dopo questo: Carlo V nel 1547 congedava quelli che lo aveano servito contro i Protestanti in Germania, in tal povertà, che ebbero ad accattare il pane di porta in porta, e pochi si ridussero alle patrie[350]. Jacobo Inghirami marchese di Montegiori fu de’ capitani più famosi nel XVI secolo, comandò le galere della religione di S. Stefano e fu il flagello de’ Barbareschi. Biagio Capizucchi marchese di Monterio, generale delle truppe papali all’assedio di Poitiers nel 1569, osò mettersi a nuoto, e andar a tagliare le corde che teneano i pezzi che gli assedianti preparavano per gettar un ponte e dare l’assalto; di che Pio V lo loda in una bolla. Combattè poi anche in Germania e ne’ Paesi Bassi. Suo fratello Camillo, segnalatosi alla battaglia di Lepanto e ne’ Paesi Bassi e in Ungheria, morì di 60 anni nel 1597, e scrisse _De officio præfecti castrorum_. Francesco Sommi cremonese, cavaliere di Santo Stefano, servì Francia contro gli Ugonotti, con bellissima compagnia di cavalleggeri. Nella guerra di Fiandra si segnalarono Vincenzo Machiavelli e il Fiammelli fiorentino, Scipione Vorganno, Antonio Pittore, Giambello architetto, Girolamo Osio luogotenente di cavalleria[351], e Chiapino Vitello di Città di Castello, già capitano generale della fanteria di Cosmo, del cui valore i Fiamminghi si vendicavano col beffarne la mostruosa pinguedine[352]. Ivi stesso il conte Basta di Rocca presso Táranto, militò col duca di Parma, poi guidò gli eserciti austriaci a togliere la Transilvania al famoso Stefano Batori, e la governò con militare prepotenza; scrisse il _Maestro di campo generale_, e il _Governo della cavalleria leggiera_. Nell’età seguente Lodovico Gonzaga, divenuto poi duca di Nevers, combattè gli Ugonotti, salvò Parigi dal Coligny, tolse agl’Inglesi Hâvre de Grace, ed espugnò Macone. Gabrio Serbelloni milanese si segnalò all’impresa della Goletta. Pier Battista Borgo di Genova osteggiò valorosamente gli Svedesi in Germania, e descrisse la guerra de’ Trent’anni fin alla morte di Gustavo Adolfo. Nella quale Alberto Caprara bolognese più volte ebbe il comando supremo degli Imperiali, fece quarantaquattro campagne, ambasciate molte e due alla Porta. Ottavio Piccolómini senese, come venturiere fece buona prova contro i Turchi e in Valtellina, servì sotto il Waldstein, e alla famosa battaglia di Lutzen caricò sette volte il nemico, sei colpi di pistola ricevette, prese diciassette bandiere, e furono i suoi che, uccidendo Gustavo Adolfo, salvarono la Germania dalla dominazione svedese; poi rivelando all’imperatore i disegni confidatigli dal Waldstein, procacciò a questo l’assassinio, a sè il titolo di principe e l’infamia di spia. L’arte degli assedj dovette mutarsi da capo a fondo dopo introdotte armi di sì lontana projezione e di sì terribile urto; le alture non più si accurarono se non in quanto non fossero dominate da altre; poi restò sempre a temere delle mine che facesser saltare la meglio munita fortezza. Affondando le mura nel fosso, si venne a potere strisciar colle artiglierie lo spalto che via via declina verso la campagna; il quale col suo pendìo copre la cortina in modo, che il nemico, volendola battere, è costretto tagliare esso spalto e la controscarpa, e venir a piantare sul labbro del fossato le batterie di breccia, con estremo pericolo. Tali miglioramenti furono introdotti passo a passo, e di molti il merito spetta agl’Italiani, quasi unici che, nel primo secolo dell’artiglieria, servissero in uffizio d’ingegneri militari per tutt’Europa. Dentro, i principi s’applicarono a munirsi di fortilizj, e distruggere le bande di ventura e i loro capitani; anzi i duchi di Toscana e d’Urbino s’accordarono a tal fine col papa, severissimi bandi mandarono, e divieto di portare armi, od allogarsi a soldo straniero. Pel medesimo intento i principi avvisavano distruggere le famiglie, semenzajo perenne di campioni; i duchi di Parma tolsero i Torelli da Montechiarugolo; Gregorio XIII traeva alla Chiesa molti beni e castelli di vassalli, come Castelnuovo degli Iseri di Cesena, Corcona dei Sassatelli di Imola, Lonzano e Savignano dei Rangoni, Bertinoro e Verrucchio dei Pio, e via discorrete. Nell’universale nimicizia contro le antiche repubbliche, vanto o vita della nostra penisola, il sentimento patriotico si può ancora consolare affissandosi in Venezia. Assalita dall’inimicizia di tutta Europa collegata a Cambrai, essa trova al cinque per cento le esorbitanti somme occorrenti, mentre Francia ne ha appena al quaranta. Uscitane con onore, dopo il sagrifizio di settanta milioni, è mirabile come potesse alleviar le imposte, fortificare Padova, Treviso e le altre piazze e soccorrer re Francesco. La libertà s’era ristretta in pochissimi; diminuito, non tolto il commercio; e minacciata dai Turchi e dagli Austriaci, dovea pensare a schermirsi, più che ad ingrandire: pure vi si scorgono ancora nobili caratteri. Antonio Grimani, capitano generale dell’armata nel 1498, vinto a Lépanto, fu dalla repubblica condannato ai ferri; e suo figlio Vincenzo non soffrì che altri fuor di lui glieli mettesse, poi non l’abbandonò mai. Scontata la prigionia, spoglio di dignità, messo a confine, Antonio fuggì a Roma presso un altro suo figlio cardinale, dove, sempre amoroso dell’ingrata patria, non cessava di distorre Giulio II dalla fatal lega, teneva avvisati di che si operasse contro Venezia, la quale gli restituì la patria e gli onori, e perchè fosse prova del come si deva vendicarsi de’ concittadini, fu eletto doge a ottantacinque anni. All’inaugurazione, egli s’inginocchiò, e trattosi il corno dogale, si raccomandò a Dio lo guidasse nel difficile cammino. Un giorno, mentre in solennità montava il bucintoro, si fermò e disse: — Qui stesso mi furono messi i ceppi, ed ora son doge». Morto che fu, Vincenzo suo non depose più mai le vesti di lutto[353]. Biagio Giuliano comandava alla batteria di San Teodoro a Candia, e vedendo non la poter difendere, aspetta l’accostarsi di molti Turchi, poi mette fuoco a una mina, e nella morte travolge sè ed i nemici. Andrea Gritti, stando prigione dei Turchi, avea riconciliato quella potenza colla sua repubblica; stando prigione dell’imperatore, lo indusse a far lega con quella; da poi fu spedito a visitar le provincie, ripristinare le fortezze e l’obbedienza, ricevere di nuovo il giuramento; ravviò le disperse fonti della prosperità, per quanto era possibile ne’ mutati modi del commercio; riparò i canali irrigatorj e navigli; riaperse l’Università di Padova. Pietro Duodo, di buon’ora adoprato negli uffizj della patria, andò ambasciatore a Carlo Emanuele di Savoja, poi a Sigismondo III di Polonia che lo creò cavaliere, ad Enrico IV che per riconoscenza gli permise d’inquartare alle sue armi lo scudo di Francia e di Navarra, a Rodolfo imperatore che lo creò conte del sacro romano impero, poi al re d’Inghilterra e a papa Paolo V. Capitano di Padova, v’instaurò la pace, fece contornar d’alberi la città, rinnovò le corse de’ cavalli, migliorò le strade, e vi fondò l’accademia Delia di sessanta gentiluomini applicati agli esercizj cavallereschi sotto un matematico, un cavaliere, un maestro d’armi e così via, per rendersi abili a servire la patria. Dallo Scamozzi, di cui fu il mecenate, fece erigere a Monselice sei cappelle: e scrisse qualche opera, oltre le relazioni di sue ambasciate. Carlo Magio nobiluomo, incaricato di visitare le fortezze di Cipro, munirle e approvvigionarle, l’eseguì; poi si condusse al papa per sollecitarne i soccorsi contro il Turco minacciante: tornato a Cipro, difese Famagosta, ma come questa fu presa, restò schiavo, venduto successivamente a due padroni, che lo fecero lavorare senza riguardo. Dopo varj accidenti uscito di schiavitù, e tornato in patria verso il 1570, fece dipingere le proprie avventure da Paolo Veronese e da altri insigni artisti in diciotto miniature, che ora si conservano nella biblioteca imperiale di Parigi. Oltre emblemi e assai figure simboliche, e il ritratto del Magio e di suo figlio, vi si vedono l’isola di Cipro, Zante, Candia, Venezia, l’Egitto, Tripoli ed altri paesi, e la nave su cui esso Magio li scorre; poi Firenze, Roma, Bologna, altri luoghi dov’egli viaggiò, e il concistoro di Roma in cui arringò il papa. In quel curiosissimo monumento biografico, ora lo scorgiamo da pellegrino visitare il santo Sepolcro sopra asini, giacchè non si permetteva d’entrare in Gerusalemme su cavalli; ora legato e nudo davanti un bascià, o bastonato e oppresso di fatiche dai padroni; ora approdare alla Sanità di Venezia, e davanti al doge e ai pregadi esporre le sue avventure; ora rientrare nella ricca e deliziosa sua casa, e riconciliarsi coi parenti che forse aveano abusato della sua assenza, e celebrare con festini e banchetti il ritorno; tutto si chiude devotamente con un angelo, che al Magio e a suo figliuolo mostrano la gloria del paradiso. Le scoperte strappavano a Venezia lo scettro de’ mari per darlo alla Spagna, all’Inghilterra, all’Olanda: eppure questo residuo delle cadenti creazioni del medioevo tenevasi eretto qual sentinella avanzata contro il furore ottomano, nè denari nè sangue risparmiando per combattere talvolta, per vigilare sempre il comune avversario della cristianità. Dalla presa di Costantinopoli in poi, tre guerre avea Venezia maneggiato col Turco, e sempre a scapito: nella prima dovette rinunziare Negroponte e molte terre della Morea e dell’Albania; contro Bajazet II perdè assai piazze sulla costa di Grecia; nel 1538 abbandonò Malvasìa e Napoli e quasi tutte le isolette dell’Arcipelago. Queste perdite furono in parte compensate dall’acquisto di Cefalonìa, Zante e soprattutto di Cipro, da cui dominava il seno circondato dall’Asia Minore, dalla Siria e dall’Egitto; e questi possessi conservava pagando alla Porta e al soldano d’Egitto tributi, mascherati col titolo d’ottenere privilegi mercantili. Ma i pericoli crescevano quanto più inrobustiva la potenza ottomana, e massime dopo che venne a capo di essa il gran Solimano. Carlo V come nemico, Francesco I come amico provocarono contro l’Italia ostilità che non finirono con loro, e i pirati turchi trattavano la nostra patria come dappoi gli Europei il centro dell’Africa, cioè come un vivajo di schiavi; non lasciavano passar anno senza correrie, contro le quali Pio IV dovè metter in essere di difesa Ancona e Civitavecchia, anzi rinnovare le fortificazioni della città Leonina; Cosmo granduca munì il littorale toscano; il vicerè Toledo formò reggimenti stanziali, e pose i castelli di Reggio, Castro, Otranto, Lecce, Gallipoli, Trani, Barletta, Manfredonia, Monopoli. Il terribile corsaro Dragut, nell’inseguire il quale non credeva avvilirsi Andrea Doria, fu catturato da questo, vicino a Calvi di Corsica, e messo a remare s’una galera, poi liberato per tremila scudi. Imprudente venalità, della quale colui si vendicò con nuovi guasti, e tolta ai cavalieri di Malta Tripoli di Barberia e l’isola delle Gerbe, neppur piegavasi all’autorità del granturco, e costrinse fino il Doria a fuggire, e stare a vedere inoperoso le devastazioni della costa calabrese. È vero che poi il Doria incalzandolo risolutamente, lo chiuse in un porto della Barberia; ma quando già lo credea preso, quell’intrepido fece trarre in secco le galere, e su carri trascinatele oltre una lingua di terra larga forse una lega, gettarle in acqua, sicchè alla mattina il Doria le vide in alto mare prendere una galea cristiana proveniente di Sicilia. Filippo II allestì un forte naviglio con soldati di Genova, di Napoli, di Lombardia; ma l’impresa uscì alla peggio, anzi i corsari (1561), imbattutisi in tre galee del duca di Firenze, le cacciarono a rompere contro la Corsica, e ne fecero preda. Poco poi Dragut, udito che sette galee fabbricate in Sicilia doveano varcare a Napoli, le assalì e prese con roba e persone assai, fra cui due vescovi e molti nobili, donde trasse grossissimi riscatti. Dragut continuò i guasti, e assediò Orano sul lido d’Africa appartenente a Spagna; a cui soccorso essendosi mosse le galee di Napoli, Dragut volse le prore sopra questa città, e afferrò a Chiaja sperando cogliervi la marchesa Del Vasto, ma non gli venne fatto che di rapir gente di minore valuta. Dal Pegnon, altissimo scoglio sulle coste barbaresche, i corsari vedeano lontanissimo le navi cristiane, e colle loro galeotte lanciavansi a predarle (1564). Pertanto si allestirono a Napoli e Genova ottantasette galee e infiniti legni minori, che, comandati da don Garzia figlio del vicerè Toledo, espugnarono quella rupe. — Mai una guerra, mai una corsa sul mare, dove io non mi sia trovato a fronte i cavalieri di Malta, instancabilmente prodi a danno de’ miei; empia congrega, irreconciliabile coll’islam per voto: io renderò omaggio a Dio distruggendola». Così dovette esclamare Solimano; e avendo i cavalieri predato il _galeone de’ sultani_, che recava a Venezia le derrate orientali, egli deliberò d’assalire l’isola loro; e con ducentoquaranta vele (1565), secondato anche da Dragut, pose a terra quarantamila uomini con ottanta cannoni. I cavalieri si difesero in maniera, che i Turchi dovettero ripartire dopo perduti ventimila uomini, fra i quali Dragut, e ridotta la flotta in deplorabile condizione. Da trecento cavalieri vi perirono, e il vecchio Giovanni La Vallette granmaestro combattè e faticò da eroe; poi dall’ingegnere Francesco Laparelli di Cortona fece munire la città che conserva il suo nome, e che fin testè era la più forte del mondo. E furono questi i tempi eroici dell’Ordine di Malta, il quale ben presto decadde: le commende vennero ambito appannaggio de’ cadetti di grandi famiglie, anzichè palestra e premio del valore; e i giovani cavalieri piacevansi di portar la croce bianca sul mantello nero onde figurare nelle corti, mentre tiranneggiavano Malta e Gozzo. Il 1566, Solimano, rinnovata la flotta, tolse ai Genovesi Scio, tanto produttiva pel mastice, poi corse l’Adriatico, sperperando cento miglia di coste: e poichè egli minacciava l’Ungheria, il papa mandò gran somme all’imperatore, Emanuele Filiberto di Savoja cinquecento archibugieri a cavallo, altro denaro i duchi di Mantova e di Firenze, e più Alfonso II d’Este, che in persona menò a Vienna trecento gentiluomini e seicento archibugieri a cavallo, con altri armati fino a quattromila, di cui la metà a cavallo. Anche il resto della cristianità si armò, pure non compì veruna degna impresa; e fortuna fu che Solimano morisse (1566), e con lui cessasse l’ascendere della potenza musulmana. Selim II, venuto al soglio traverso al cadavere dei suoi fratelli, briacone, spietato, negligente, eppure sospettoso e superbo nè curante della fede, ruppe la pace che vegliava da trent’anni con Venezia, perchè piacevangli i vini di Cipro. Vuolsi che Giuseppe Massy, rinnegato, avesse da Selim ubriaco avuto promessa dell’isola di Cipro; onde mosse ogni pietra per ottenerla, e forse fu per costui opera che saltò in aria (1569 13 7bre) la polveriera dell’arsenale di Venezia. Questo disastro, che annichilava tutte le provvigioni navali e guerresche, e sterminava moltissime case e vite, sbigottì gli spiriti, già soffrenti per un’orribile fame; ma allora si parve la mirabile fermezza del senato nel provvedere e riparare. E ben n’era bisogno, giacchè, chiusa nella solita borsa di filo d’oro, giunse una lettera del granturco (1570), ove si leggeva: — Noi vogliamo Cipro, o per amore o per forza; non provocate la mia terribile spada, o noi faremo movere guerra crudelissima da ogni paese; non confidate nel vostro tesoro, che faremo defluire a guisa d’un torrente». E subito cento galee, ducenventiquattro legni minori e più di ottantamila Turchi, con cinquanta falconetti e trenta pezzi grossi d’artiglieria, serviti da moltissimi rinnegati italiani e spagnuoli, assalsero la deliziosa isola di Cipro, antemurale della cristianità contro i Turchi, ricca di produzioni e traffici, e delle due forti città di Nicosia fra terra e Famagosta a mare, oltre quelle di Pafo, Cerina e Limasol. Dai Lusignani era passata alla Repubblica; ma indomabile avversione serbavano i natii ai feudatarj veneti, da cui erano trattati come schiavi, sicchè aspiravano a un mutamento. Quantunque desolata da tanti disastri, Venezia (1570) pose in essere settanta legni di guerra; descrisse la gioventù in tutte le isole; i gentiluomini concorsero con generose offerte e col braccio; e il solo Eugenio conte di Singta, principale fra i nobili di Cipro, vi menò mille fanti e altrettanti cavalli. Pio V diede denaro ed eccitò tutta la cristianità, ma non potè conseguire se non cinquanta galee dal re Cattolico, capitanate da Gianandrea Doria, cui esso ne unì dodici o tredici, comandate da Marc’Antonio Colonna, alquante i duchi di Toscana e Savoja. Con ardore e coraggio i negozianti di Genova, i cavalieri di Malta, i gentiluomini d’ogni paese, lasciavano le famiglie, i piaceri, le corti per venire a ferire colpi sulle galeazze italiane, o in Ungheria e Transilvania contro i Turchi. Troppo però diversi dagli antichi Crociati, i quali non pensavano a gloria, e morivano ignoti com’erano vissuti, per Gesù e Maria, costoro portavano alle imprese vanità, braveria, cupidigia di gradi o ricompense, di sentir ripetere alla Corte le proprie imprese, ottenere un bel priorato o un’odalisca. Marc’Antonio Colonna pretendeva il comando in capo, come rappresentante del papa; Gian Andrea Doria, sempre geloso de’ Veneziani, non volle cedere a Girolamo Zeno, che più di censessanta vascelli menando, credea poter aspirare al capitanato: del quale mentre contendono nel porto di Candia, le epidemie cominciano, la stagione passa, e la flotta bisogna si riduca ne’ quartieri d’inverno. La turca invece procede (9 7bre), e con torrenti di sangue, dopo quindici assalti prende Nicosia, scannando ventimila persone, poi Pafo e Limasol. Restava Famagosta, sotto la quale accamparono ben tosto, circuendola colle teste dei difensori di Nicosia infisse sulle picche e le scimitarre. Il papa faticò a combinare una nuova lega, ma neppure questa ebbe effetto; anzi il Doria, adducendo di non essersi mosso che per salvare Nicosia (1571), ed oggimai essere imprudente un assalto, ricondusse in Sicilia le sue galee. Venezia sola non intepidiva negli appresti, trecentomila zecchini al mese spendendovi: eppure quei che fanno il generoso da lontano, la tacciavano che pensasse riconciliarsi col Turco. Astore Baglione, buon poeta e guerriero distinto in ogni guerra, comandante a tutta l’isola, Luigi Martinengo capo dell’artiglieria, Antonio Quirini; e principalmente il procuratore Marco Bragadino difendevano da eroi Famagosta; ma dopo respinto sei assalti, dopo faticosissime mine il cui scoppio avvolgeva assediati e assediatori, dopo logorate tutte le munizioni e i viveri anche più schifi, capitolarono onorevolmente (1 agosto). Lala Mustafà mostrò desiderio di conoscere di viso que’ prodi, onde il Bragadino, colla porpora di magistrato e l’ombrello rosso della sua dignità, accompagnato dal Quirini, dal Martinengo, dal Baglione, da altri uffiziali va alla tenda di lui: ma quivi nato diverbio sul modo d’intendere la capitolazione, esso li fa prendere, squartare, anzi il Bragadino pelar vivo in sua presenza, e la pelle impagliata portare in trionfo sotto il baldacchino rosso; collo strazio di loro e di Famagosta volendo vendicare i settantacinquemila Ottomani che v’avea perduti. La fama di quell’assassinio corse per la cristianità; e romanzi e tragedie mossero a compassione per l’eroe della fede[354], la cui pelle ornò lungamente il serraglio. Ed altri eroi mostrò Venezia in quelle guerre. Tommaso Morosini, assalito da quaranta navi nemiche, nega arrendersi, e per un’ora si difende, finchè due galeazze sopraggiunte lo salvano. Tommaso Costanzo di diciassett’anni capitanava un legno veneto, e incappato nella flotta turca risolve difendersi; il colonnello Buonagiunta, benchè malato, si fa portare fra i combattenti; il capitano Antonio mettesi la camicia sopra l’armadura per essere meglio distinto, e con due spade si avventa nella mischia: così difesero palmo a palmo la nave; infine il Costanzo restò prigioniero, e i Turchi, dopo invano cercato conciliarselo, lo martirizzarono e circoncisero, senza però indurlo a rinnegare. Presa Nicosia, una gentildonna venuta in potestà del nemico, per non essere disonorata mette il fuoco alla santa barbara, e fa saltare la propria nave con altre. Le donne di Famagosta combattevano esse medesime; portavano acqua, polvere, vino, consolazioni, rimedj; divise in quattro compagnie, preceduta ciascuna da un prete, recavano i mobili anche più preziosi onde risarcire la mura o lanciarli sui Musulmani. Una di esse ferita si volge alle compagne, e — Non piangete: io non partirò di qui prima ch’io versi tutto il sangue per la patria e per la fede, e mi ricongiunga a mio marito»; e mescolandosi di nuovo nella pugna, vi trova la morte. Perduta Cipro, i Cristiani sentirono il comune pericolo, e fu preso accordo d’unire nel nome di Cristo cinquantamila fanti e quattromila cavalli: Filippo II farebbe mezze le spese, un terzo Venezia, un sesto il papa, e in tal proporzione si spartirebbe il bottino; le conquiste d’Europa e d’Asia resterebbero alla Repubblica, quelle d’Africa alla Spagna. Comandava ai Romani Marc’Antonio Colonna, ai Veneti Sebastiano Venier, agli Ispani il Doria; e per evitare il conflitto delle pretendenze si diede l’imperio supremo a don Giovanni d’Austria, bastardo di Carlo V. Vi si unirono Firenze con dieci galee de’ cavalieri di Santo Stefano, Savoja, Ferrara, Urbino, Parma, Mantova, le repubbliche di Genova e Lucca, fino al numero di dodicimila Italiani, più tremila nobili venturieri, fra’ quali Alessandro Farnese principe di Parma, Francesco Maria Della Rovere principe d’Urbino, Gabrio Serbelloni milanese. Salpati da Messina (7 8bre), alle isole Curzolari nell’antico golfo di Crissa videro ducenventiquattro vele turche sbucare dal golfo di Lepanto, comandate da Alì bascià; e il Serbelloni e il Colonna e principalmente Agostino Barbarigo provveditore vinsero le esitanze del Doria, e indussero don Giovanni ad accettare la mischia. Faceano l’antiguardo otto galere, sotto Giovanni da Cardona ammiraglio di Sicilia; seguivano cinquantatre galee del Doria; sei galeazze veneziane sotto il Duodo, cui tenea dietro la battaglia di sessantuna galee con bandiera papale; infine cinquantatre galee sotto il Barbarigo, e trenta sotto Alvaro da Bazan, ammiraglio di Napoli. «Inarborarono ne’ luoghi più eminenti le immagini di Cristo crocifisso;.... ed essendosi tutti alla santissima immagine inginocchiati, ed unitamente ciascuno chiedendo perdono de’ suoi peccati, crebbe tanto la volontà di combattere ed il valore ne’ cristiani soldati, che in un subito quasi miracolosamente per tutta l’armata in generale una voce levossi, che iterando altissimamente _Vittoria, vittoria_, fin dagli stessi nemici udir si poteva»[355]. Si viene all’attacco; Mustafà, lordo ancora del sangue del Bragadino, lanciavasi contro il vascello di don Giovanni, ch’era irreparabilmente perduto, e con esso la battaglia, se Antonio Loredano e Francesco Malipiero non si fossero interposti, e disperatamente combattendo non avessero salvo il generale. Alì è ucciso, i Turchi, spaventati e rotti, lasciano più di ventiduemila morti e diecimila prigionieri. I Cristiani, schiavi al remo sulle galee turche, appena videro piegare la fortuna, si sferrarono, e crebbero il disordine; mentre quei delle nostre, promessa la libertà, combatterono disperati; sicchè quindicimila Cristiani furono liberati. Agostino Barbarigo periva, ringraziando Dio che avesse consolato gli estremi suoi momenti colla certezza della vittoria. Anche tra le file nemiche troviamo dei nostri prodi. Un frate calabrese, côlto dai Turchi mentre andava a studio a Napoli, rinnegò, e col nome di Ucciali (Kilig-Alì) postosi a loro servizio, e impadronitosi d’una nave, si diede al corsaro, e fu lungo spavento alle coste italiane. Una volta, dopo saccheggiato Tagia ed arso Roccabruna, afferrò a Villafranca, mentre vi si trovava Emanuele Filiberto di Savoja. Questi mandò in fretta per soccorsi a Nizza, e intanto raccozzati da trecento archibugieri, co’ suoi cortigiani sortì incontro ai pirati; al cui aspetto però i nostri fuggirono. Il duca vuolsi ne rimanesse prigione, e ne fosse liberato da due gentiluomini a prezzo della propria vita: quaranta de’ suoi furono morti, e pel riscatto de’ gentiluomini Ucciali pretese dodicimila scudi, e inoltre la grazia d’inchinare la duchessa Margherita. Quel tumulto di atti e di delitti non gli cancellò dall’animo le memorie della fanciullezza, e talora approdato sulle rive calabresi, mentre i suoi si diffondevano alla rapina, egli incognito visitava la casipola de’ suoi, e piangeva di tenerezza. A Lepanto egli comandava la sola ala che non cedette, e che anzi profligò i cavalieri di Malta, e con quaranta galee si salvò traverso ai nostri. Era la maggiore battaglia navale che si combattesse dopo quella che, nelle acque stesse, avea deciso della sorte del mondo fra Antonio ed Ottaviano, sedici secoli innanzi. Esulta l’animo nel raccontare ancora un’impresa dell’Italia, unita e gloriosamente armata ad una di quelle poche battaglie, dove il vincitore non ha a vergognarsi. Ma la vittoria di Legnano non fu contrassegnata neppure da un nome, bastando si dicesse che la nazione avea vinto: ora l’alito principesco era talmente penetrato, che, sebbene i ragguagli contemporanei ascrivano ai Veneziani il merito di quella giornata, la fama ne glorificò don Giovanni; il papa nel tripudio di tale notizia esclamò, _Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Johannes_; ma il freddo e geloso Filippo — Ha vinto, sì, pure rischiò troppo», nè gli permise accettasse la corona d’Albania e Macedonia, offertagli da’ Cristiani di colà. Cinquemila prigioni furono divisi tra i vincitori, e al papa toccarono diciassette galee e quattro galeotte; a don Giovanni cinquantasette galee e otto galeotte; ai Veneziani quarantatre galee e sei galeotte; diciotto galee fra Savoja[356] e i cavalieri di Malta. La cristianità sentì ancora per un momento l’unità sua, e santificolla con miracoli; attribuì la vittoria alla Madonna, il cui rosario per ordine di Pio V in quell’ora si recitava da tutti i fedeli; eternò con annua festa la memoria di quel fatto e di quella devozione, e alle litanie aggiunse _Auxilium christianorum_. A Roma si celebrò in onore di Marc’Antonio Colonna l’ultimo trionfo moderno, con fasto all’antica, entrando egli a cavallo per la breccia aperta a porta Capena, fra i prigionieri turchi e i magistrati romani e le arti. Solennissime feste ne fece Venezia; tutto il portico a Rialto, ove stavano i drappieri, fu addobbato di panni turchini e rossi, le botteghe con armi e spoglie, fra cui disponeansi insigni dipinti di Gian Bellino, Tiziano, Pordenone, Giorgione, Tintoretto; poi archi, bandiere, festoni, torce, candelabri, lanternoni[357]: in San Giovanni e Paolo si edificò la suntuosa cappella del Rosario; si apersero le prigioni ai debitori; si profuse denaro a’ poveri, sussidj ai superstiti, solenni esequie ai caduti, recitandone l’elogio il Paruta, e componendo le famose canzoni Giuseppe Zarlino, padre della musica moderna; e «per mostrare qualche segno di gratitudine verso Gesù Cristo benedetto, facendo dimostrazione contro quelli che sono nemici della santa sua fede», stabilirono che fossero espulsi gli Ebrei. Parea dunque l’Europa deporre il tutto che aveva assunto alla presa di Costantinopoli: pure da tanta vittoria si trassero frutti scarsissimi; don Giovanni d’Austria non mostrò altra vaghezza che la giovanile di raccogliere applausi a Messina; gli emuli di Venezia si accorsero ch’essa poteva recuperare tutti i possessi in Oriente, onde vacillarono, nè si potè mettere insieme un numero di navi che bastasse a veruna impresa. Vero è che don Giovanni riuscì a salvare la Goletta che dominava Tunisi, e mettere una nuova fortezza sotto gli ordini di Gabrio Serbelloni e di Pagano Doria; ma poi anche questo dovette soccombere. All’incontro, Ucciali crebbe a ducento le navi che avea campate a Lepanto, e al nuovo anno ricomparve a molestare il Jonio. Vedendo non potere far conto sopra gli alleati, Venezia conchiuse col gransignore una pace, nella quale essa recuperava i prischi privilegi mercantili in Turchia, cedeva Cipro[358] (1573 15 marzo), e pagava alquanto d’indennità per le spese[359]. Dopo una lauta vittoria pacificavasi dunque peggio che non solea dopo le rotte: di che non rifinivano di disapprovarla quelli che non avevano saputo sostenerla. Fortunatamente i Turchi, che minacciavano l’Europa d’una nuova conquista senza pietà, d’una preponderanza senza limiti, decaddero senza che possa assegnarsi di qual colpo, ma a guisa d’un torrente che, scavatosi il proprio letto, cessa di traboccare; e perchè la società nuova rendeva sempre meno tollerabile la tirannia di un popolo sovra un altro, e le varie nazioni emancipate si proteggeano col proprio braccio. FINE DEL LIBRO DUODECIMO E DEL TOMO NONO INDICE LIBRO DUODECIMO CAPITOLO CXXVII. Prospetto generale. Il Savonarola _Pag._ 1 CXXVIII. Il Milanese. Spedizione di Carlo VIII » 46 CXXIX. Conseguenze della spedizione di Carlo VIII. Fine del Savonarola e di Lodovico il Moro » 82 CXXX. Romagna. I Borgia. Politica machiavellica » 121 CXXXI. Il sistema militare. Guerra di Pisa. Giulio II. Lega di Cambrai » 163 CXXXII. Leone X e Luigi XII » 218 CXXXIII. Francesco I e Carlo V. Gli storici. I turchi » 239 CXXXIV. Cominciamento della Riforma religiosa » 280 CXXXV. Clemente VII. Sacco di Roma. Pace di Barcellona » 339 CXXXVI. Assedio di Firenze. Affannoso assodarsi della dominazione medicea » 391 CXXXVII. Terza guerra fra Carlo V e Francesco I. Casa di Savoja. Spedizione in Africa » 442 CXXXVIII. Doria e Fieschi. I Farnesi. Gli Strozzi. Guerra di Siena. Cosmo granduca » 463 CXXXIX. Fine di Carlo V. Estremo assetto dell’Italia. Prodi suoi figli. Sventure e glorie di Venezia. Imprese contro i Turchi » 503 NOTE: [1] I collegati lombardi il 1177 in Ferrara dicevano a papa Alessandro III: _Nos gratantes imperatoris pacem recipimus, salvo Italiæ honore; et ejus gratiam, libertate nostra integra manente, præoptamus. Quod ei de antiquo debet Italia, libenter exsolvimus, et veteres illi justitias non negamus. Libertatem autem nostram, quam a patribus nostris, avis, proavis hereditario jure contraximus, nequaquam relinquemus, quam amittere nisi cum vita timemus._ ROMUALDI SALERNITANI _Chronicon_, Rer. It. Script., tom. IV. [2] Quelli che anche oggi compiangono o deridono gl’Inglesi perchè non hanno cinquecentomila soldati, nè gendarmi e fortini, ci beffino del compiacerci della domesticità di que’ regolamenti dei Comuni, che direbbonsi contratti d’affitto tra un buon padrone e i suoi famigli. All’elezione di ciascun doge, Venezia gli stendeva i patti che dovea giurare, e ch’erano come la costituzione impostagli. La più antica promissione che si conosca, è di Enrico Dandolo nel 1192, in una pagina; mentre quella dell’ultimo doge è un volume di trecento. In quella del 1249, il doge Marino Morosini promette operar sempre ad onore di Dio e della santa Madre Chiesa, e a saldar la fede: — Quelli che ci saranno dati dai vescovi come eretici, faremo bruciare. Studieremo all’onore e al profitto di Venezia. Faremo rendere esatta giustizia senza dilazione. Se i giudici fossero discordi, sicchè noi dovessimo proferire, ci porremo dalla parte che ci parrà migliore secondo lo statuto; e se manchi lo statuto, secondo l’uso; e se manchi l’uso, secondo la nostra coscienza (_Non si riferiscono dunque alla legge romana_). Nel consiglio prenderemo il partito che ci appaja migliore, e manterremo il secreto. Studieremo di ricuperare e conservare incolumi i lidi, le terre, le acque, le vigne, i boschi spettanti al dogato, di cui godiamo le rendite. Se sapremo che qualcuno sia debitore al Comune di Venezia, faremo che sia escusso, e così per le condanne de’ consoli de’ mercanti. Non daremo bollette per estrarre chechessia senza il consenso della maggior parte del Consiglio. L’elezione dei vescovi rimanga in potere del clero. «Non esigeremo la quarantesima, l’ottantesima e le altre ragioni che i visdomini del Comune soleano prendere; nè di ciò che viene dalla Marca d’Ancona, eccetto i pomi di Lombardia, de’ quali avremo due parti e la terza i visdomini; nè di quanto entra per mare, nè del sale, nè del dazio di Cabodarzere, nè della peschiera e beccheria, salvo l’onoranza della nostra curia che dobbiamo avere ogni giovedì grasso. Anche le quarantesime degli altri Comuni rimangano al pubblico, eccetto il dazio dei gamberi e quello delle ciliegie di Trevisana. Non c’immischieremo negli affari di Chioggia senza la maggior parte del Consiglio, salvo la gondola, il fieno, il vino, e le altre onorificenze nel ricever noi e i nostri messi, e quel che si deve farci quando volessimo andare a caccia; eccettuate pure le appellazioni e gli interdetti che ci fossero portati. «Il Comune farà tutte le spese per legazioni e per eserciti all’occorrenza. Daremo a prestanza le quindicimila lire di nostro salario, e gli altri beni nostri. Non manderemo ambasciate o lettere al papa, all’imperatore, a re o ad altri pel Comune nostro senza la maggioranza del Consiglio. Le lettere che da essi ci fossero mandate non apriremo prima di farle vedere ai nostri consiglieri o alla maggior parte di essi. Le altre lettere per affari del Comune potremo aprire e leggere e tenerle in segreto, se giudicheremo vantaggioso a Venezia. «Ai nostri giudici di palazzo daremo ogni anno per ciascuno quattro anfore di vino delle viti di Chioggia: e se, che Dio tolga, le vigne non ne portassero, ne farem dare dell’altro. Dalle scuole di mestieri non esigeremo alcun lavoro oltre il consueto, se non colla volontà della maggioranza del Consiglio. Ciascuno andrà a negoziar dove vuole senza contrasto. La nostra moneta sempre dovremo ricuperare e tenere in cumulo, se altrimenti non paja al Consiglio. Puniremo i falsatori della moneta o dei sigilli. «Non riceveremo doni da chichessia, eccetto acqua rosata, fiori e foglie, erbe d’odore, e balsamo; qualunque altro dono sia fatto a noi, o ad alcuno per riguardo nostro, lo farem restituire fra tre giorni al tesoriere del Comune. Potremo però noi e i nostri nunzj ricevere vettovaglie cotte, fiale di vino, selvaggine, cioè un capo per giorno, da chiunque le porti, e dieci paja di uccelli, e frutti sin al valore di dieci soldi, purchè non venga da persona che domandi qualche servizio nella curia. Altrettanto farem giurare alla dogaressa e a ciascun nostro figlio quando sia in età, e alle nuore. Se faremo nozze in palazzo, o quando vi meneremo la dogaressa, potrem ricevere qualunque maniera di doni comestibili. «Noi per la nostra entrata avremo la somma di duemila denari, cinquecento al mese dal Comune di Venezia, settanta da quel di Veglia, settanta dai Tiepolo conti di Absaro, metà dei drappi a oro che suol darsi a san Marco dai signori di Negroponte, le onoranze e rendite dell’Istria e delle acque e pesche del ducato, quali le ebbe il nostro antecessore. «Quando sei del minor Consiglio fossero concordi colla maggioranza del gran Consiglio che dovessimo abdicare, abdicheremo senza condizione. Faremo che i capi contrada, eletti per riparare le ingiurie e ricevere l’obbedienza, giurino secondo il prefisso. Daremo dodici marche d’argento per fabbricare quattro trombe, che rimarranno dopo la nostra morte presso i procuratori della fabbrica di San Marco. Potremo dare a chi vorremo le camere del nostro palazzo, che abbiano la porta di fuori; e dovrem fare il tetto al palazzo a spese nostre quando occorra. Al beato Marco daremo un panno lavorato a oro del valore di venticinque denari almeno. Baderemo che dai nostri consiglieri si facciano venire duemila moggie di frumento per mare, ed anche altre mille se non li dispensiamo noi e il minor Consiglio e i Quaranta. «Terremo con noi venti servi, contandovi quelli di cucina, avendo per essi venti armadure di ferro; inoltre un notajo a nostre spese per servizio del Comune, e datoci dal Consiglio; e uno che tenga il sigillo nostro. Quello cui daremo le chiavi delle carceri, sarà buono e leale secondo la nostra coscienza. Per le udienze d’ogni giorno seguiremo l’uso, e in esse non gioveremo all’amico, nè noceremo al nemico». Si paragoni coi giuramenti di consoli e di podestà, da noi addotti al Cap. LXXXV. [3] Nel 1783 il re di Danimarca decreta che un servo convinto di essersi fatto pettinare da un parrucchiere, pagherà quattro scudi d’ammenda per volta. Nel 1814 l’elettore d’Assia Cassel vieta di dar del signore (_herr_) a chi non sia nobile. [4] Anche adesso a Londra, quando s’insediano i nuovi sceriffi, e che sono presentati ai giudici di Westminster, il pubblico banditore intima ai possessori d’un pezzetto di terra chiamato la Landa e d’un altro detto la Fucina, di rendere omaggio e pagare il loro canone; e un usciere compare, porgendo agli sceriffi due farcine per la Landa, e sei ferri di cavallo con sessantun chiodi per la Fucina. Se a spiegare i nostri Comuni citiamo spesso l’Inghilterra, n’abbiam di che. [5] MACHIAVELLI, _Della riforma di Firenze_. [6] MACHIAVELLI, _Discorsi_, I, 12. [7] Il Machiavelli dice che «da Alessandro VI indietro i potentati italiani, e non solamente quelli che si chiamavano potentati, ma ogni barone e signore benchè minimo, quanto al temporale stimava poco la Chiesa». _Principe_, XI. [8] Francesco Sforza dava una lettera _e Firmano nostro, invito Petro et Paulo_. [9] Le trattative sono nell’archivio delle Riformagioni a Firenze, Cl. II. dist. III. Nº 9. [10] È denigrato da tutti gli storici; pure una sua lettera, inserita nel vol. I dell’Archivio storico, ne dà molto miglior concetto. Il re di Napoli gli aveva esibito lo stato d’un Sanseverino conte di Cajasso; ed egli si profonde in ringraziamenti, ma soggiunge: — La regia maestà sa quale è stata la vita de’ miei passati, che civilmente sono vissuti delli loro traffichi e possessioni, nè mai hanno cerco avere stato altro che privato. Io non sono per degenerare in questo dalli modi loro..., e però pregate quella che... mi perdoni se io non accetto quello che lei mi dà...; e se pure vuole beneficarmi, degni farlo ordinariamente in quello che li pare costì con li miei del banco. Da Firenze, 6 maggio 1494». [11] Io vidi a Roma entrar quella superba Che va tra’ fiori e l’erba Sicuramente; mi restrinsi alquanto Ove io conduco la mia vita in pianto. Poi — Mira (disse), figlio, crudeltade; E qui scoperse da far pianger sassi... E lacerato in mille parti il petto Fuor dell’umìl suo primo santo aspetto. _De ruina Ecclesiæ_, scritti nel 1473. [12] Lettera 25 gennajo 1490 delle pubblicate dal padre Marchesi. Esistono molti libri sacri da lui postillati, e cita continuo la Bibbia. [13] — Quanto io fossi per natura inetto a questo ufficio del predicare, ne ha fatto fede l’esperienza. Onde avendo io esercitato per comandamento de’ miei superiori dieci anni questo tale ufficio, ero, non solamente al mio parere, ma di tutti li uditori, reputato inettissimo, come quello che non avevo punto di voce, nè grazia di pronunzia, nè modo del dire, da poter dilettare lo animo degli uditori». _De veritate prophetica_, cap. V. [14] Prediche sopra l’_Arca di Noè_, l’avvento 1492. [15] Sermone fatto a molti sacerdoti in San Marco, il 15 febbrajo 1498. [16] Per la IV domenica di quaresima. [17] _De veritate prophetica_, cap. V. [18] Ciò leggesi nella _Vita del Savonarola_, pubblicata dal Manso (BALUZIO, _Miscell_., tom. I, ediz. di Lucca). Il Poliziano, nell’Ep. II del lib. IV descrive a minuto gli estremi momenti di Lorenzo, senza un cenno di ciò, anzi facendolo morire cristianamente. Ne taciono pure i _Ricordi storici_ di Filippo Rinuccini, avversissimo ai Medici. [19] Predica XXI. [20] Predica XXIII. [21] Pronostici intorno ai mali che verrebbero dalla calata de’ Francesi ne corsero molti, e singolarmente quelli di san Francesco di Paola e del beato Vincenzo d’Aquila. Nei processi del Savonarola è mentovata una Madonna Camilla de’ Rucellaj, alla quale mandavasi a chiedere quel che s’avesse a fare, ed essa dava i responsi avuti per rivelazione; ed anche una Bartolomea Gianfigliazzi, «la quale avea sue devozioni e suoi spiriti, secondo diceva». [22] _Vita del Savonarola_, scritta da frà Pacifico Burlamacchi; Lucca 1764, pag. 109. 27. 80 e _passim_. [23] NARDI, _Storia di Firenze_, lib. II. Il pezzo che segue è del Burlamacchi. [24] _Poesie di Jeronimo Savonarola_, illustrate e pubblicate per cura di Audin de Rians; Firenze 1847. Queste mostrano che frà Girolamo poetò e da giovane e maturo, con affetto e forza, ma senza eleganza; e spesso i versi suoi furono raccomodati dall’altro poeta domenicano frà Benedetto Fiorentino, di cui mano son quelle stampate dall’Audin, come si accerta dal codice originale, posseduto dai Borromei milanesi, e che ne contiene assai maggior numero. L’intento dell’autore appare dai versi proemiali: Onnipotente Iddio, Tu sai quel che bisogna al mio lavoro E quale è il mio desio; Io non ti chiedo scettro nè tesoro Come quel cieco avaro, Nè che città o castel per me si strua, Ma sol, Signor mio caro, Vulnera cor meum cantate tua. [25] Feria IV della III settimana di quaresima. [26] Per la I domenica di quaresima. [27] Io vo darti, anima mia, Un rimedio, che sol vale Quanto ogn’altro a ciascun male, Che si chiama la pazzia. To’ tre once almen di speme, Tre di fede e sei d’amore, Duo di pianto, e poni insieme Tutto al fuoco del timore; Fa di poi bollir tre ore, Premi, e infin v’aggiungi tanto D’umiltà e di dolor, quanto Basta a far questa pazzia, Ch’io vo’ darti, anima mia. [28] _Vita di Michelangelo_, sul fine. [29] Giuseppe Maffei, nella _Storia della letteratura italiana_, ci narra con passione che bruciossi fin un canzoniere del Petrarca, «adorno d’oro e di miniature», che valeva cinquanta scudi: — _Finalmente_ (egli continua) _giunse l’ora fatale_ per chi seminava tanti scandali nella sua patria, e le ombre del Petrarca e del Boccaccio furono vendicate!» Mettiamgli a paro il Ranalli, che nella _Storia delle belle arti_ diceva avere il Savonarola bruciato i dipinti del beato Angelico! Vedi MARCHESI, _San Marco, convento de’ frati predicatori in Firenze, illustrato e inciso_. Prato 1850-53. [30] Sermone sopra Amos. [31] Jacopo Pitti, lib. i, p. 51. [32] Fra alcune sue lettere ultimamente trovate, produciamo la seguente: «A frà Domenico Buonvicini da Pescia, «Dilettissimo fratello in Cristo Gesù. Pace e gaudio nello Spirito Santo. Le cose nostre riescono bene; imperocchè Dio maravigliosamente ha operato, benchè appresso a maggiori patiamo grandi contraddizioni; le quali, quando sarete tornato, vi racconterò per ordine: ora non è a proposito scriverle. Molti hanno dubitato ed ancora dubitano che non accaggia a me come a frà Bernardino (_da Montefeltro, che fu scacciato perchè predicava contro le usure_). Certo, quanto a questo, le cose nostre non sono state senza pericolo; ma io sempre ho sperato in Dio, sapendo, come dice la Scrittura, il cuore del re essere nelle mani del Signore, e che dovunque gli piace lo gira. Spero nel Signore che per la bocca nostra farà gran frutto, perchè egli ogni giorno mi consola, e quando ho poco animo, mi conforta per le voci de’ suoi spiriti, i quali spesso mi dicono: — Non temere; di’ sicuramente ciò che Dio t’inspira, perchè il Signore è teco; gli scribi e farisei contro a te combattono, ma non vinceranno». Voi confortatevi, e siate gagliardo; imperocchè le cose nostre riusciranno bene. Non vi dia noja se in cotesta città pochi vengano alla predica: basta avere dette queste cose a pochi; nel piccolo seme è gran virtù nascosta. Frà Giuliano e la sorella vi salutano, la quale dice non vi sbigottiate, perchè il Signore è con esso voi. Io spessissime volte predico la rinnovazione della Chiesa, e le tribolazioni che hanno a venire, non assolutamente, ma sempre col fondamento delle Scritture; di maniera che niuno mi può riprendere, se non chi non volle vivere rettamente. Il conte tuttavia va avanti nella via del Signore, e spesso viene alle nostre prediche. Non posso mandare limosine; imperocchè, dato che i denari del conte siano venuti, nondimeno per buoni rispetti bisogna aspettare ancora un poco. L’altre cose che voi mi scrivete, ingegnerommi farle. Sono breve, perchè il tempo passa..... Tutti siamo sani, massime i nostri Angioli, che a voi si raccomandano. State sano, e pregate per me. Aspetto con desiderio grande il vostro ritorno per potervi contare le cose maravigliose del Signore. Di Firenze, il 10 marzo 1490». [33] Cola Montani fuggì presso Ferdinando di Napoli, a cui istanza scrisse un’invettiva contro i Medici per distorre i Lucchesi dal far lega con loro. Ma passando da Genova a Roma lasciossi cogliere presso Porto Ercole, e a Firenze fu processato e appiccato il 14 marzo 1483. [34] Tutti l’ebbero per innocente, e tale lo mostra il suo processo che conserviamo. Lo stesso duca, in una lettera ch’è nell’archivio milanese, scrive: — La potissima cagione d’essa morte è stato il signor Roberto (Sanseverino), quale per la sua perversa e maligna natura, e per l’inimicizia e gli odj grandissimi con li quali sempre avea perseguitato il signor Cicco, pose ogni cura e pensiero a farlo morire; nè mai riposò, finchè ebbe l’intento suo, come voi, signor Ugo, assai siete informato ecc.». Suo fratello Giovanni, autore della _Sforziade_, per somma grazia ottenne la vita. Il Rosmini conchiude: — Tale ebbe ricompensa l’autore del più bel monumento che si abbia delle geste sforzesche; eterno e salutevole (?) avviso, onde senno imparino tutti coloro che la loro vita consumano nell’illustrare colla penna la memoria de’ principi». [35] Prendendo soltanto l’anno 1480 e il mese d’agosto, le cronache parmensi ricordano una donna di parto che fu sepolta per morta, ma tre giorni dopo schiudendosi la tomba per deporvi anche la sua neonata, la si trovò levata a sedere, e coi segni della disperazione tra cui era morta davvero. Il connestabile di porta San Michele, uscito a cavallo di città, fu trucidato da due sicarj de’ Maffoni, dei quali uno era stato ucciso dal figliuolo d’esso connestabile. Poco poi un giovane di Reggio, che sull’imbrunire stava alla porta d’un postribolo, fu ucciso. Tre giorni appresso, sei armati scannavano Angelo Becchigni. Bande mascherate scorreano la città in armi giorno e notte, massimamente i dì festivi, rubavano, toglievano le vesti, tagliavano i capelli, gittavano ne’ canali chi incontrassero, rapivano fanciulle e matrone. Tommaso da Varese era ucciso da un armigero dei Sanseverino; e quando al domani il giudice de’ malefizj si recò a visitare il cadavere, trovò su questo l’uccisore con una scorta di armati che intimava celiando, — Portate via questo corpo santo». PEZZANA, _Storia di Parma_, IV. 196. [36] Giova alla conoscenza de’ costumi il costui testamento. A sua moglie Antonia di Guido Torelli e alle figlie avutene lascia soltanto la dote. I due figli Giovanni e Giacomo disereda, raccontando a disteso i torti che ne ricevette, e le ingiurie che gli dicevano, per esempio — Io vorrei essere in una tina con Piero Maria con una coltella alla mano — Al dispetto di Dio, s’io avessi il core di Piero Maria in mano io lo mangerei ecc.» I figli di Bernardo vescovo di Cremona e Guido istituisce eredi in parti eguali delle moltissime ville nel Parmigiano. — Delle vesti e suppellettili d’argento si dia a cinquanta fanciulle povere la dote di venticinque lire imperiali. Ai Francescani di Felino trentasei sacchi di frumento ogni anno, scongiurandoli a viver lodevolmente». Aveva egli avuto per amante Bianchina Pellegrini, e non che ricoprirli, volle eternare que’ suoi legami di ammogliato con maritata, facendoli dipingere nella rôcca di Torchiara. A costei e ad Ottaviano figliuolo di essa nel testamento lascia tutti i beni che acquistò sul Milanese, e moltissimi castelli e giurisdizioni; all’altro figlio naturale Bertrando la contea di Berceto. PEZZANA, iv. 310. [37] _Estoit homme très-saige, mais fort craintif et bien souple quant il avoit pour_ (_j’en parle comme de celluy que j’ay cogneu et beaucoup de choses traicté avec luis_), _et homme sans foy s’il veoit son prouffit pour la rompre_. COMMINES, lib. VII. cap. 3. [38] Questa clausola è in un secondo diploma; in un terzo del 1495 mette patto la conferma degli elettori, e la espressa riversibilità alla morte di Lodovico. [39] Renato il Buono, duca d’Angiò e conte di Provenza, intitolavasi re di Sicilia come figlio adottivo di Giovanna II. In testamento lasciò a Carlo suo nipote la Provenza e il regno di Napoli, e a Luigi XI il diritto di riunire alla corona la ducea d’Angiò. Carlo morendo lasciò a Luigi XI tutte le sue pretensioni, e perciò il titolo di re di Sicilia. [40] Queste ultime ragioni sono addotte da Carlo VIII in un proclama riferito dal Burcardo, pag. 2049. Faceasi circolare una profezia, dov’era detto di Carlo: _Il fera si grant batailles,_ _Qu’il subjuguera les Ytailles;_ _Ce fait, d’ilec il s’en ira_ _Et passera de là la mer;_ _Entrera puis dans la Grèce,_ _Où par sa vaillante pruesse_ _Sera nommé le roi des Grecs:_ _En Jérusalem entrera_ _Et mont Olivet montera._ Il trattato fu maneggiato in Francia a nome del Moro da Carlo di Barbiano conte di Belgiojoso e da Giovanni Francesco di Cajazzo, primogenito di Roberto Sanseverino; e furono testimonj al contratto il visconte di Beaucaire e Guglielmo Briçonnet, che fu poi cardinale. [41] _L’armée du petit roi Charles VIII était épouvantable à voir. De tous ceux qui se rangeaient sous les enseignes et bandes des capitaines, la plupart étaient gens de sac et de corde, méchants garnemens échappés de justice, et surtout force marqués de la fleur de lis sur l’épaule, esorillés, et qui cachaient les oreilles, à dire vrai, par longs cheveux hérissés et barbes horribles, autant pour cette raison que pour se montrer plus offroyables à leurs ennemis_. BRANTÔME, disc. 89. [42] Carlo VIII e Gian Galeazzo nasceano da due figliuole di Lodovico II di Savoja. [43] Il sentimento popolare ci è espresso nel Memoriale d’un Giovanni Portovenere: — Carlo di Franza è uomo di piccola statura, con poca barba quasi rossetta, con gran faccia, magro in viso con naso aquilino; uomo spirituale e d’anima, niente avaro, non pomposo; cavalca piccole e vili bestie, con pochi appiè; di poche parole, tanto che i suoi lo tengono quasi santo. E per tutta Toscana si grida Franza, con sua insegna addosso, cioè la croce bianca, così pei contadini, come soldati e cittadini, che pare che tutti ne siano in paura». [44] _Ululantes se male passim ubique vagantes, sui corporis quæstum turpiter facere, quam honeste in Florentinorum vivere tyrannide_. SFRENATI, lib. II. [45] In Vaticano, Innocenzo VIII fu da Antonio e Pietro Pollajuolo effigiato con essa lancia. Sta nella biblioteca dell’Università di Torino la geografia di Tolomeo, tradotta in versi toscani da Francesco Berlinghieri, che la dedicò a Gem, con molte lodi del suo sapere e di quello del padre suo. Salabery, nella _Storia dell’impero ottomano_, riferisce in latino le istruzioni di Alessandro VI a Giorgio Bozzardo, le quali dicono in compendio: — Salutato che avrai il sultano Bajazet ed eccitatolo al timor di Dio, gli manifesterai che il re di Francia viene per togliere dalle nostre mani Gem fratello di lui, acquistar Napoli che noi dobbiamo difendere come feudo nostro e per amicizia a quel re, pei tragittarsi in Grecia col pretesto di mettere in trono esso Gem. Secondo la buona amicizia che corre fra noi, lo esorterai con istanza a mandarci quarantamila zecchini per l’annata presente; mostri suo sdegno verso i Veneziani se mai favorissero i Francesi, e vi mandi un ambasciatore onde persuaderli ad adoperarsi in favore del regno di Napoli; intanto non perturbi l’Ungheria, la Croazia, Ragusi nè altra parte di cristianità, come il papa interporrà perché l’Ungherese non gli rechi alcuna molestia». Narrasi che esso Bozzardo nel ritorno fosse arrestato a Sinigaglia da un Della Rovere, fratello del cardinale Giuliano, e confermasse a voce la verità di tali istruzioni. A tal deposizione sono accompagnate cinque lettere di Bajazet al papa, quattro in turco, una in italiano, tutte tradotte in latino da interpreti e dal notajo rogato a far fede di tutto ciò. Bajazet proponeva al papa di liberare Gem dalle angoscie terrene e mandar l’anima sua nell’altro mondo, ove si gode miglior riposo; e per ciò prometteva al papa trecentomila ducati, ed altri pe’ suoi figliuoli: la lettera è data da Costantinopoli il 18 settembre 1494 d. C. Questi documenti furono lungo tempo tenuti come autentici, e come tali li accetta il Sismondi: ma si adducono troppe ragioni per crederli finti; e almeno si dovrà credere che nella traduzione vennero molto alterati. [46] Paolo Giovio, nella descrizione della sua entrata in Roma, ci divisa gli eserciti d’allora. La cavalleria andava distinta dai fanti; e prima Svizzeri e Tedeschi marciavano in cadenza al suon di strumenti, belli di aspetto e mirabili per ordine, con veste corta e assettata, non uniforme di colore, i più prodi un pennacchio, spade corte e lancie da dieci piedi; molti inoltre le alabarde, ascie sormontate da una lama quadrangolare, onde ferivano di punta e di taglio; ogni mille fanti, cento portavano schioppi. Seguivano cinquemila guasconi balestrieri; poi la cavalleria, cernita dalla nobiltà francese, magnifica a vedersi, con sajoni di seta, collane e braccialetti d’oro. Gli scudieri, spesso adoprati come cavalleria leggera, avevano una lancia robusta e una mazza ferrata, grossi cavalli, colle orecchie e la coda mozze, usanza forse introdotta in grazia dell’armadura onde coprivansi. Ogni lanciere teneva un paggio e due scudieri. Gli arcieri armavansi d’elmo e piastrone, arco grande all’inglese, e alcuni di lunghi giavellotti per ferire i nemici abbattuti; distinguevansi mediante lo stemma del loro capo. Quattrocento arcieri a cavallo facevano guardia al re, fra cui cento scozzesi; e più ancora vicino a lui, ducento gentiluomini francesi con mazze ferrate e bei cavalli, brillanti d’oro e porpora. La maraviglia maggiore erano i cenquaranta cannoni grossi e i moltissimi piccoli, che movevansi rapidamente tratti da cavalli, mentre prima solevasi da bovi. [47] _Materazzo_, _Cronaca perugina_. Del quale è pure il brano seguente. [48] Sono pubblicati negli _Archives de l’art français_, tratti da copie che allora si moltiplicavano e spedivano alle persone e alle città, come bullettini interessanti a tutti. [49] Alione d’Asti scrisse, oltre varie poese, due farse: l’una «De la dona che si credia aver una roba de veluto dal Franzoso alogiato in casa sua»; l’altra «Del Franzoso alogiato a l’osteria del Lombardo». In quest’ultima «vien da principio el Lombardo ospite calcolando e fantasticando con la sua nota in mano: Cinque per cinque vinte cinque, Sei per sei trenta e sei, Septe per septe quaranta e nove, Octo per octo sexanta e quatro, Ho guadagnato in otto mesi Solamente a logiar Francesi A centenara de fiorini ecc.» _Poésies françaises d’Alione d’Asti, composées de 1494 à 1520, publiées par J. C. Brunet_. Parigi 1836. [50] — La Signoria non ha mai vogiù creder che Francesi vegnisse in Italia; e ’l consegio dei Pregai era sì fisso, che ’l no voleva dar fede ai avisi de quel regno... Pareva a la Terra che no fosse per nui che i calasse, e molti crede quel che i voria». MALIPIERI, _Annali veneti_. Il quale, all’anno 1495, dà il catalogo dei «sessantatre condottieri stipendiati da Venezia, con circa ventimila uomini, oltre i pedoni e i provvigionati della repubblica». [51] COMMINES, lib. VIII. c. 5. [52] Lettera del provveditore alla Signoria di Venezia, 7 luglio. Il Ricotti fa durare un quarto d’ora la mischia e tre quarti la ritirata. [53] MALIPIERI. Egli stesso però riferisce lettera di Daniele Vendramin, pagatore in campo, che comincia: — Oggi abbiamo avuto fatto d’arme con li inimici, i quali non hanno avuto quella rotta ch’era nostro desiderio e che speravamo, perchè le sue artelarie li hanno grandemente ajutati». Quel piacere che reca l’udir raccontate le imprese da coloro stessi che ne furon parte, rende gradite le varie lettere in proposito, raccolte dal Malipieri. Il conte Bernardino Fortebraccio alla Signoria veneta scriveva: — Dio sa che non mi pareva tempo di venire alle mani con gl’inimici. Volevo lasciare che si movessero, che si sariano rotti da loro stessi. L’illustrissimo marchese di Mantova deliberò altramente e diede dentro da Cesare. A me toccò il secondo colonnello; lo ordinai, e andai al loco mio. Alcuni dei nostri pervertirono l’ordine, e ne fecero danno a tutti. Il terzo colonnello toccò al conte di Gajazzo: ognuno diede l’assalto al loco suo. Io procedeva all’impresa mia ben armato e ben a cavallo. Combattemmo un pezzo, e andammo al basso. Fui affrontato da un cavaliere che portava sopra l’arme una veste di velluto negro e oro a falde. Combattemmo alquanto, e finalmente restò ferito da me, e se mi rese per prigione; non dico a me, ma all’illustrissima Signoria; che in altro non dimandai mai che si rendesse. Mi dimandò la vita, e gliela promisi; mi diede il suo stocco, e lo posi alla mia catenella dell’arzone; mi porse il suo guanto in segno di captività, e lo gittai in acqua, e consegnai la persona sua al mio ragazzo. Procedei più oltre e presi un altro; e successivamente in su fin al numero di quattro, due de’ quali sono, a mio giudizio, di qualche condizione. Erano bene ad ordine, e tra le altre cose aveano le loro catene d’oro al collo, in modo che io aveva al mio arzone quattro stocchi de’ nemici. Seguitai combattendo verso lo stendardo reale, sperando d’esser seguitato e ajutato dalli nostri, con disegno di condurre nel felicissimo nostro esercito o tutto o parte dell’insegna reale. Fui affrontato vicino ad essa insegna da un gran maestro ben a cavallo; e fummo alle mani. Gli dissi che si rendesse, non a me, ma all’illustrissima Signoria: mi rispose che non era tempo. Spinsi ’l cavallo, e gli tirai della spada nella gola; ma ad un suo grido fui assaltato da quattro cavalieri, e fui con loro a battaglia. Non voglio dire quello che feci; ma combattendo contro otto, fui prima ferito d’un’accetta nella tempia, poi nella coppa pur di accetta, e restai stornito; e ad un istesso tempo una lancia restata mi urtò nella schiena, e mi gettò a terra mezzo tramortito. Poi mi furno addosso e mi diedero dodici ferite, sette sull’elmo, tre nella gola e due nelle spalle. Iddio benedetto mi aiutò, che mi avevo posto sotto l’elmo un mio garzerino doppio, il quale mi salvò la vita; chè le ferite che io ebbi nella gola mi avariano dato la morte tante volte quante furno; ma non penetrorno. Ma quelle che io ebbi mi hanno data tanta passione, quanta dir si possa. Fui lasciato per morto, e fui abbandonato da ognuno del mio colonnello; il quale se fosse stato soccorso, non veniva conculcato da cavalli. Fui strascinato da un mio ragazzo in un fosso; persi il corsiero, un ragazzo, e un servitor che mi avea servito lungamente: alcuni altri dei miei più cari persero i cavalli; e in questa fazione pioveva grandemente. Cessato ’l fatto d’arme, fui portato in campo al mio padiglione. Li magnifici Provveditori furno a visitarmi, ma io non mi n’avvidi, chè ero più morto che vivo, in modo che mi fu raccomandata l’anima. Fui portato qui in casa di Andrea Bagiardo, uomo da bene: furno chiamati i medici, i quali non si curando di medicar le ferite, fu mandato a Bologna per un medico di Parma mio conosciuto; il qual prima che arrivasse, un suo fratello venuto qui a caso m’avea levato tre pezzi d’osso della testa, in modo che mi restò il cervello discoperto per quanto saria un fondo di tazza; perchè di tre ferite ne fece una sola. Giunse poi qui la donna mia, e con lo studio e sollecitudine sua son ridotto, per grazia di Dio, ad assai buon termine, in modo che spero di salute. Ogni male mi par niente, pur che abbia fatto cosa grata all’illustrissima Signoria e a quel glorioso senato. Non mi curerei della vita, purchè l’esercito de’ nemici fosse del tutto restato sconfitto. Mi par mill’anni a liberarmi del tutto, e poter tornare appresso l’illustrissimo signor marchese nel felicissimo nostro esercito: dove, occorrendo, mostrerò a pieno la mia vera servitù e fede; chè son marchesco, come sempre ho detto. Mi è stato di grandissima consolazione e sussidio, in tempo di sì grave caso, l’arrivo di Rafael mio, con quella lettera dell’illustrissima Signoria, piena di umanità e di dolcezza; e veramente non sento nè doglia nè passion, conoscendo di aver fatto cosa grata ad essa illustrissima Signoria; e certamente ho più stimato le proferte che mi son fatte nelle lettere, che li denari che mi son stati mandati. Lodato Dio, non stimo nessuna cosa più che esser in grazia del mio padrone... Questa notte ho riposato meglio dell’usato, per grazia di Dio. Di quanto succederà, la farò tener avvisata. Mi raccomando. Di Parma, a’ XX di luglio MCCCXCV. BERNARDIN DE FORTIS BRACHIIS _comes, eques armorum_. «Voglio dir queste parole le quali non posso tacere. Eramo atti a romper quello e maggior esercito, se li nostri avessero atteso alla vittoria e non alli carriaggi; come particolarmente ragionerò a bocca con vostra magnificenza, se così piacerà al Signor Dio». [54] Il duca d’Orléans vi fece battere la prima moneta ossidionale di cuojo. [55] — Credo che non sia costituzione migliore di quella dei Veneziani, e che voi pigliate esempio da loro, resecando però qualche cosa di quelle che non sono a proposito nè al bisogno nostre, come è quella del doge. Predica sopra Aggeo, iii domenica d’avvento 1494. Della sua avversione al suffragio universale diretto è monumento la strofa che avea fatto scrivere sulla sala del gran consiglio, e che parve profetica quando, per mezzo di quello, i Medici si fecero acclamare principi. Diceva: Se questo popolar consiglio e certo Governo, popol, de la tua cittate Conservi, che da Dio t’è stato offerto, In pace starai sempre e in libertate. Tien dunque l’occhio de la mente aperto, Che molte insidie ognor ti fian parate; E sappi che chi vuol far parlamento Vuol torti da le mani il reggimento. [56] — Si vorria far una legge che le schiave che rivelassino, quando si giuoca in casa i padroni, fossero libere, e che i famigli che ancora rivelassino il giuoco, avessino qualche premio». Predica del 12 maggio 1496. Esisteano dunque schiave. E poc’anzi il Savonarola avea detto alle donne: — Intendo che le donne non allattano i figliuoli. Voi fate male perchè gli fate allattare ancora dalle schiave: è quel primo latte di grande inclinazione al fanciullo, e sono poi mezzi vostri figliuoli, e mezzi no». Predica del 1º aprile. [57] _Dignetur sanctitas vestra mihi significare quid, ex omnibus quæ scripsi vel dixi, sit revocandum, et ego id libentissime faciam._ 20 settembre 1497. [58] _Vita del Savonarola_, lib. IV. c. 10 e 14. [59] Nel Burcardo (_Diarium Curiæ romanæ sub Alexandro VI papa_) è una savia lettera di Alessandro al Savonarola, ove gli suppone semplicità ed eccesso di zelo, e perciò lo richiama a penitenza. Il frate ne risponde una lunga, ribattendo punto per punto le imputazioni referendosi alla testimonianza di tutto il popolo che l’ascoltò e dei libri da lui stampati, e negando l’essersi detto profeta nè inviato direttamente da Dio; sovrattutto impugna l’accusa di spargere nimicizie: _Certe, beatissime pater, notissimum est non solum Florentiæ, sed etiam in diversis Italiæ partibus, quod meis verbis secuta est pax in civitate Fiorentiæ, quæ si non fuisset secuta, Italia fuisset perturbata. Quod si verbis adhibita fuisset fides, Italia hodie non hoc modo quateretur; nam illius prævidens afflictiones, licet a multis semper fuerim derisus, pronunciavi gladium venturum, ac pacis remedium ostendi solum esse; unde Italia universa gratias pro me Deo agere deberet. Docui enim eam remedium tranquillitatis, quod quidem servans Florentia jam habet quod non haberet; et si similiter faceret tota hæc Italia, gladius nequaquam per eam transiret: quid enim nocere potest pœnitentia?_ [60] Lettera di Domenico Bonsi ai Cristiani di balìa. [61] Il Burcardo, avverso a frà Girolamo, produce molte dichiare di frati, disposti andar nel fuoco per provare le conclusioni di esso e la nullità della scomunica. Tra questi, tutti quei di Prato, sotto la cui dichiarazione Savonarola scrisse: — Io accetto le offerte di questi frati che si trovano al presente in Santo Marco e in Santo Domenico di Fiesole, e prometto di darne uno, due, dieci, quanti ne bisognano per andare nel fuoco a probazione della verità ch’io predico; e mi confido nel nostro signore e salvatore Gesù Cristo, nella sua verità evangelica, che, ciascuno ch’io darò, n’uscirà illeso senza alcun danno; e quando di questo dubitassi punto, non lo darei per non essere omicida; e in segno di ciò ho fatto questo, sottoscritto di mia mano propria, e a salute dell’anime e confermazione della verità del nostro salvatore Gesù Cristo, _qui solus facit magna et mirabilia et inscrutabilia, cui est honor et imperium sempiternum_». Avendogli poi alcuno rinfacciato che non osasse egli medesimo mettersi all’esperimento, diè fuori un’apologia che comincia: — Risponderò brevemente, per la gran carestia che io ho del tempo. E prima quanto al non aver accettato d’andare io nel fuoco col predicatore di Santa Croce, osservante de’ Minori, dico ch’io non l’ho fatto sì perchè egli ha proposto in pubblico voler andare nel fuoco, non ostante che lui, come dice, creda ardere, per provare che la scomunica fatta contro di me è valida, ed io non ho bisogno di provare col fuoco che tale scomunica sia nulla, conciossiachè io abbia già provato questo con tali ragioni, che ancora non s’è trovato nè qui nè in Roma chi abbia a quelle risposto; sì perchè la prima volta lui non propose di voler combattere meco, ma bensì generalmente con ciascuno che fosse a lui in questa cosa contrario. Vero è che poi, offerendosi a questo frà Domenico da Pescia, trovò questa scusa che non voleva aver a fare se non meco; e sì massimamente perchè il mio entrar nel fuoco con un solo frate non farebbe quell’utilità alla Chiesa che richiede una tanta opera, quant’è questa che ci ha posta nelle mani; e però mi sono offerto, e di nuovo mi offerisco io proprio di far tale esperienza ogni volta che gli avversarj di questa nostra dottrina, massime quelli di Roma e i loro aderenti, vogliano commettere questa causa in questo padre o in altri; e mi confido nel nostro signore e salvatore Gesù Cristo, e non dubito punto che ancor io andrò nel fuoco, come fece Sidrach, Misach e Abdenago nella fornace ardente, non per miei meriti o virtù, ma per virtù di Dio, il quale vorrà confirmare la sua verità, e manifestare la sua gloria in quel modo. Ma certo io mi meraviglio assai di queste tali obiezioni, perchè essendosi offerti unitamente tutti i miei frati che sono incirca trecento, e molti altri religiosi di diverse religioni, delli quali io ho le sottoscrizioni presso di me, e similmente molti preti secolari e cittadini, tutte le nostre monache e di quelle anco di diverse altre religioni, molte altre donne cittadine e fanciulle, e questa mattina ultimamente, che siamo al primo d’aprile, parecchie migliaja di persone di quelli che si trovarono in Santo Marco nostro alla predica con grandissimo fervore, gridando ciascuno: _Ecco io, ecco, andrò in questo fuoco per gloria tua, Signore_: se uno di questi tali andando sotto la mia fede, e per fare l’obbedienza da me impostagli, come si sono prontissimamente offerti, ardesse nel fuoco, chi non vede che io e tutta questa opera e impresa di Dio andrebbe meco in ruina, e che non potrei più in luogo alcuno comparire? E però non bisogna che quel predicatore richieda altri che frà Domenico predetto, contro il quale predicando l’anno passato, ebbe qualche differenza con lui. E se dicessino che al manco le cose da noi per modo di profezia annunziate richiederiano, a volere che fossero credute, ch’io le provassi con miracolo, rispondo che io non costringo gli uomini a credere più che a loro si pare, ma sì bene gli esorto a vivere rettamente e come cristiani, perchè questo solo è quel miracolo che li può far credere le cose nostre e tutte l’altre verità che procedono da Dio. E benchè noi abbiamo proposto di provare cose grandi che s’hanno a manifestare, e che noi diciamo essere sotto la chiavetta con segni soprannaturali, non abbiamo per questo proposto di fare tali segni per annullare la scomunica: ma non è ancora il tempo nostro, il quale quando sia, Dio non mancherà delle promesse sue, _quia fidelis Deus in omnibus verbis suis, qui est benedictus et gloriosus in sæcula_». Giovan Canucci proponeva scherzosamente di rendere men micidiale la prova col mettere i due frati in un tino d’acqua tiepida, e fosse tenuto veritiero quel che n’uscisse asciutto. Vedi NERLI, _Commentarj_, lib. IV. [62] La parte di processo di frà Girolamo, che il signor Emiliani Giudici stampò dietro alla sua _Storia de’ municipj_, non contiene gl’interrogatorj propriamente, ma l’estratto di questi, che si fece firmare dal convenuto sotto le minaccie della corda. Ne diamo qualche brandello: — Circa quindici anni fa, essendo io nel monastero di San Giorgio, la prima volta ch’io fui a Firenze in chiesa io pensava di comporre una predica, e nel pensare mi venner alla mente molte ragioni (furon circa sette), per le quali si mostrava che alla Chiesa era propinquo qualche flagello; e da quel punto in qua cominciai molto a pensare simili cose, e molto discorsi le Scritture. E andando a San Geminiano a predicarvi, cominciai a predicare proponendo queste conclusioni, che la Chiesa avea ad esser flagellata e rinnovata, e presto; e quello non avevo per rivelazione, ma per ragioni delle Scritture, e così dicevo; e in questo modo predicai a Brescia e in altri luoghi di Lombardia ove stetti circa quattro anni. Di poi tornai a Firenze, e cominciai il primo dì d’agosto in San Marco a leggere l’Apocalisse, che fu nel 1490, e proponevo similmente le medesime conclusioni di sopra dette. Di poi la quaresima predicai in Santa Liparata il medesimo, non dicendo però mai l’avessi per rivelazione, ma proponendo che credessino alle ragioni, affermando questo con più efficacia che io potevo. «Di poi passato pasqua di quella quaresima, frà Salvestro tornando da San Geminiano mi disse, che dubitando delle cose ch’io dicevo e reputandomi pazzo, li apparve in vigilia visibilmente, secondo disse lui, uno dei frati nostri morto, il quale lo riprese e dissegli queste parole: — Tu non dei pensar questo di frà Geronimo, perchè tu lo conosci». E di poi ebbe molte altre apparizioni simili, secondo mi disse frà Salvestro: e però oltre al desiderio e accensione ch’io avevo di predicare simili cose, m’accesi ad affermare ancora in qualche parte più che prima, benchè in fatto fossino tutti miei trovati e per mio studio; e vedendo la cosa succeder bene, andai più avanti. Vedendomi crescere la reputazione e la grazia nel popolo di Firenze, cominciai a dire che l’avevo per rivelazione, e così cominciai a uscir forte fuora, il che fu una mia gran presunzione, e molte volte dicevo delle cose che mi riferiva fra Salvestro, pensando qualche volta fossino vere. Niente di meno non parlavo a Dio, nè Dio a me in alcun special modo, come Dio suol parlare a’ suoi santi apostoli, profeti o simili; ma andavo pure seguitando le mie prediche, con la forza e industria dello ingegno, e presuntuosamente affermavo quello ch’io non sapevo esser certo, volendo ciò che io trovavo con lo ingegno fosse vero. «Quanto alle visioni di frà Salvestro, quali elle si fossino, non me ne curavo, ma mostravo bene di curarmene assai, perchè eran tutti trovati di mio ingegno e mie astuzie; e se pure le cose di frà Salvestro mi servivano al proposito, le averia dette e attribuitele a me per dare più reputazione alle cose nostre, come era qualche bel punto o qualche gentilezza. Ma sappiate di certo che questa cosa ch’io l’ho condotta, l’ho condotta con industria, e prima colla filosofia naturale, la quale molto mi serviva a provar le cose ed efficacemente persuaderle; e poi la esposizione della Scrittura ajutava la materia, e sempre il mio ingegno versava in queste cose grandi e universali, cioè circa al governo di Firenze e circa le cose della Chiesa; e poco mi curavo di cose particolari o piccole. Quanto all’intento mio e fine, al quale io tendevo, dico in verità esser stato la gloria del mondo e d’avere credito e reputazione; e per venire a questo effetto ho cercato di mantenermi in credito e buon grado nella città di Firenze, parendomi che la detta città fosse buono stromento a far mantenere e accrescere questa gloria e farmi credito ancora di fuori, massime vedendo che m’era prestato fede. E per ajutare questo mio fine, predicavo cose, per le quali i Cristiani conoscessino le abominazioni che si fanno a Roma, e si congregassino a fare concilio, nel quale, quando si fosse fatto, speravo fossino deposti molti prelati e anche il papa, e avrei cercato d’esser lì, ed essendovi confidavo predicare, e fare tali cose che ne sarei stato glorioso o con essere stato fatto grande nel concilio, o con restarne con assai fama e reputazione di mondo. E per condurmi meglio al soprascritto mio intento e fine, essendo già introdotto nella città di Firenze il governo civile, il quale mi pareva esser opportuno strumento alla mia intenzione, cercavo di stabilirlo a mio proposito per tal modo, che tutti i cittadini fossino benevoli a me, o vero seguitassino il mio consiglio per amore o per forza. «Il signor Carlo Orsino e Vitellozzo Vitelli, quando tornarono di Francia, furono a me in San Marco a confortarmi a far quello potevo per il re di Francia, e vennero a me come se io fossi il signor della terra; a’ quali risposi che pregherei Dio per il re, che ero di buona voglia a fare per il re ciò che io potessi. Più altri ancora Franciosi e Napolitani cacciati da Napoli, che dicevano andare a torno per le cose del re di Francia e per cose di Stato, mi vennero a visitare e parlare per simili effetti; perchè pareva a loro che io fossi amico del re di Francia e tenessi la parte sua, ed io li rimettevo tutti a Francesco Valori. Fu ancora a me messer Dolce da Spoleto imbasciatore del duca d’Urbino a offerirmisi, e fu in quel tempo che il duca d’Urbino s’era tornato a casa sua; e io scrissi una lettera al detto duca. «Circa a non obbedire il papa, e non andare a Roma, dico procedè per timore di non esser morto per la via o a Roma, da Piero de’ Medici e dalla lega, per essere io contro al proposito loro. «Circa alla scomunica, dico che, benchè a molti paresse che la fosse nulla, niente di meno io credevo che ella fosse vera e da osservarla, e la osservai un pezzo; ma poi parendomi che l’opera mia andasse in ruina, presi partito a non la osservar più, anzi manifestamente a contraddirla e con ragioni e con fatti. E stavo ostinato in questo per onore e per reputazione e mantenimento dell’opera mia. «Le polizze, di che io feci menzione nelle prediche, ch’io volevo fare e dar in mano di alcuni perchè le tenessino guardate fino a certo tempo, e poi si aprissino, furon tutte favole e ciance per isbigottire i miei contrarj. E quanto d’inganno fu in questa materia, fu solo ch’io dissi a frà Salvestro: — Io vo dire di darvi una polizza, la quale conterrà i peccati di Pier Capponi», che esso frà Salvestro li sapeva, perchè lo confessava; ma non gliene detti, e in fine fu una finzione per isbigottire, e in fatto non ne fu altro. «Circa a’ Barbari ch’io ho predetto più volte che verranno contro a Italia, dico e credo certo che in Italia abbia a venire flagello alla Chiesa da gente barbara, perchè sempre i flagelli della Chiesa in Italia son venuti da gente barbara: e per questo mio discorso lo dissi, ma non per altra certezza particolare, benchè mostravo esserne certo più che non ero in fatto. «Circa la rinnovazione della Chiesa e la conversione degli infedeli che io ho predetto dover succedere, dico che l’ho avuto e l’ho dalle Scritture sacre, e credelo certo per ordine delle Scritture solamente, senz’altra revelazione particolare; ma dello avere a esser presto, non ho spressamente dalle Scritture nè da revelazione. «Circa lo sperimento del foco, dico così, ch’io ebbi molto per male che frà Domenico proponesse quelle conclusioni e provocasse questa cosa, e avrei pagato gran faccenda non lo avesse fatto. Similmente mi dolse che li miei amici lo stringessino, ch’io per me non l’avrei voluta: che se vi consentii, lo feci per difendere il mio onore il più che potevo; e se io avessi predicato allorquando la cosa si mosse e poi quando si stringeva, mi sarei ingegnato estinguerla con dire che quelle conclusioni si potevano provare con ragioni naturali: e dissine male a frà Domenico, che l’avea così incalciata, parendomi cosa grande e pericolosa. Finalmente lo consentii per non perdermi la reputazione; e sempre dissi che ci conducevamo a questo cimento per essere provocati e per rispondere; e stimavo al tutto che il frate di san Francesco non vi avesse a entrare; e non vi entrando lui, non era obbligato anche a entrarvi il nostro: e se pure fosse occorso che il nostro avesse a entrare anch’egli, volevo vi entrasse con il sacramento dell’eucaristia; nel quale sacramento avevo speranza non l’avesse a lasciar ardere, e senza il quale non l’avrei lasciato ire. Per sbigottire più il detto frate di san Francesco che non vi entrasse, e per darvi maggior terrore, operai che il fuoco fosse grande, e mandai frà Malatesta alla Signoria a ordinare la forma di detto fuoco. Similmente avevo detto che il fuoco s’accendesse da una delle bocche, e dall’altra vi entrassino i frati, e drieto a loro si mettessino scope, che serrassino l’altra bocca, di modo paresse che non potessino tornare adrieto. Il che tutto disegnai perchè il detto frate di san Francesco si sbigottisse e non vi entrasse; e così restava disobbligato anche il nostro. «Alla parte delli spiriti, che già si disse esser in San Marco circa sette anni fa, e de’ quali io sono stato interrogato, rispondo che quanto alli spiriti non li vidi mai. È vero che in quel tempo alcuni frati di San Marco dicevano sentire per il convento di dì e di notte spiriti in modo che tutti erano impauriti; ma io non vidi altro segno se non che un giorno fui chiamato a vedere uno de’ nostri conversi, il quale all’ora di nona nella sua cella era legato mani e piedi alla lettiera, e io lo vidi con la spuma alla bocca, fatto insensato come sogliono far quelli che si dicono essere spiritati. Durò questa cosa circa un mese, e io andavo ogni sera per casa facendo l’_asperges_, dicendo orazione, e altro non se ne sentì poi. Il converso che fu trovato, tornando poi in sè diceva che gli pareva veder uomini a modo di ghezi: il medesimo, un altro converso che è morto. Delli spiriti che dicono essere in San Lucio, non ve ne so dir altro se non che una volta ch’io vi sono stato da più mesi in qua, io vidi quattro monache che facevano e dicevano cose strane; e perchè io vi vo molto di rado, non ne so altro. «Quando io dicevo più anni fa nelle mie predicazioni _Gladius Domini super terram cito et velociter_, lo dicevo sotto la generalità de’ flagelli, ch’io reputo debbano venire alla Chiesa e all’Italia per ordine delle Scritture sacre, e non per rivelazione, come altre volte ho detto. E così non intendevo allora per la passata del re di Francia in Italia, della quale non sapevo altro, massime per rivelazione. Ma essendo poi venuto il re di Francia, ed essendomi ito la cosa bene, me ne servii dipoi dicendo: — Io lo predissi quando non si vedevano nugoli per aria. «Di nuovo dico che il mio disegno era di regnar in Firenze, per ajutarmi poi col mezzo de’ Fiorentini per tutta Italia; e volevo che la parte che si diceva mia de’ cittadini di Firenze, soggiogasse l’altra parte, col favore del Consiglio però, e col castigare i detti dell’altra parte quando avessero errato. «Di far questo con l’arme non avevo anco pensato, ma quando fosse bisognato, mi vi sarei vôlto. È ben vero ch’io avevo caro che i miei stessino preparati con l’arme e raccolti insieme, acciocchè, quando fosse venuto il bisogno, non avessino avuto a prepararsi, e avessino potuto di subito rispondere ognivolta che gli altri si fossero mossi; ma che i miei si movessero no, se non erano provocati: e avevo disegnato che Francesco Valori fosse il capo e primo di tutti...» Di veri peccati nel senso ecclesiastico non pochi confessò fra Girolamo; e nella _seconda esamina, fatta senza tortura o lesione alcuna di corpo_, dice non essersi mai confessato de’ suoi veri intenti, benchè si comunicasse, «sì per non manifestare a persona, sì perchè non ne sarei stato assoluto, non volendo lasciar l’impresa: ma non ne facevo caso, attesa la cosa grande a che mi addirizzavo; e quando l’uomo ha perso la fede e l’anima, ei può fare ciò che vuole, e mettersi poi a ogni cosa grande. Confesso bene ora di essere un gran peccatore, e mi vo’ molto bene confessare, e farne gran penitenza. «Circa il segno della croce e del nome di Gesù che dissi a frà Salvestro avere scolpito nel petto mio, confesso esser vero che io gliene dissi, e feci opera che me lo credesse; e dicevoli che era per mia divozione: ma tutto fu una finzione ch’io feci per mostrarli di esser buono...» Confessò pure altra volta d’essersi voluto far re, e perciò tenere in armi i suoi; d’aver già palesato cose «di che io merito mille morti»; e tutto ciò «spontaneamente e senza alcuna tortura». Ma il 20 maggio del 1498 interrogato di nuovo, e non contentando i giudici, questi ordinarono di spogliarlo per dargli della fune. Egli mostrando grande paura s’inginocchiò e disse: — Orsù uditemi. Dio, tu mi hai côlto: io confesso che ho negato Cristo, io ho detto la bugia: signori Fiorentini, siatemi testimonj che io l’ho negato per paura de’ tormenti; se io ho a patire, voglio patire per la verità. Ciò ch’io ho detto, l’ho avuto da Dio. Dio, tu mi dai la penitenza per averti negato per paura de’ tormenti: io lo merito». Appena spogliato, s’inginocchiò di nuovo, e mostrava il braccio manco dicendo averlo guasto, e del continuo ripetea: — Io ti ho negato, Dio; t’ho negato per paura de’ tormenti». Tirato su, esclamava: — Gesù, ajutami, questa volta tu mi ha’ côlto. «Domandato in sulla fune perchè ora aveva detto così, rispose: — Per parer buono; non mi lacerate, chè vi dirò il vero certo, certo». Perchè avete negato ora? rispose: — Perchè io sono un pazzo». Posto giù, disse: — Come io vedo i tormenti, mi perdo, e quando sono in una camera con pochi e pacifico, dico meglio...» E seguitò a confessar tutto quello che volevano e — La mia superbia, la mia pazzia, la mia cecità m’imbarcarono in questo: ero sì pazzo, che non vedevo il pericolo in che io era; e qui me ne sono accorto. «Domandato se crede in Cristo, mostrandogli che se ne dubitava rispetto a quello da lui fatto, rispose: — E’ può bene stare il credere in Cristo, e far quello ch’io ho fatto. Io ho fatto come i demonj, _Demones enim credunt, et contremiscunt_». Domandato se ha usato incanti, rispose che se n’è sempre fatto beffe, e non li ha usati mai. Domandato se aveva detto che Cristo fosse stato uomo come gli altri, e che a lui sarebbe bastato l’animo di fare il simile, rispose: — Questa cosa saria da matti. «Di nuovo tirato su, e datogli un tratto di fune, e poi posto giù dopo che vi fu tenuto assai bene, e di nuovo domandato se è vero quello ha confessato, disse tutto esser vero, e confermò ogni cosa...» Il modo usato per averne le confessioni spiega e misura l’attendibilità di quelle. [63] Abbiamo una canzonetta che allora ripeteano i Piagnoni: La caritade è spenta, Amor di Dio non vi è. Tepido ognun diventa, Non c’è più viva fè. Non s’ama il ben comune, Ciaschedun ama sè. Quel dice alla fatica: Non s’appartiene a me. Il piccol dice al grande: Io ne so quanto te. Io vedo tal che regge Che non sa regger sè. Sol nel mangiare e bere Diletto e gusto c’è. Chi più terra conduce Più savio tenut’è. Chi più spirito vuole Rotte le braccia gli è. La santa povertà Ciascun gli dà di piè. Che debbo dir, Signore, Se non gridare — Ohimè? Ohimè, che il santo è morto, Ohimè, Signore, ohimè! Tu togliesti il profeta, Il qual tirasti a te. O Geronimo santo, Che in ciel trionfo se’, Tra le tue pecorelle Entrato il lupo gli è. Ohimè, soccorri presto, Ohimè, Signore, ohimè. Col Savonarola stette fin agli estremi il padre Tommaso Sardi, insigne oratore e buon poeta, che nel poema _Dell’anima pellegrina_ imitò Dante, fingendo un pellegrinaggio traverso alla terra, agli elementi, al limbo, al purgatorio e fin all’empireo, in cerca della verità, della giustizia, dell’amore; tutto scienza scolastica. Nel purgatorio trova frà Girolamo, il quale tra altro gli chiede: ... Poi dimmi quel che pensa Di me il me’ popol, fatt’in me in do parti? Ancora apparecchiata sta la mensa (Diss’io a lui), di cui è tuo erede Che li tuoi frutti ancor vi si dispensa, Ancor, quanto che allor, più ti si crede, Benchè di molti opinïon sien molte Di tua dottrina speme e di tua fede. Però gli fa confessare d’essere stato condannato giustamente: Et io: Errasti? Et ei: Sì, nel giudizio Quando la vera via tenni smarrita; Che morte che seguì fu per mio vizio. Et io: E meritasti perder vita? Sì (disse), che la colpa fu a tempo, Se non intera alla bontà infinita. [64] Fra quei che lo credettero profeta è Commines, il quale asserisce averlo interrogato se il re potrebbe ritirarsi da Napoli, ed esso gli rispose, troverebbe ostacoli grandi, pure vi riuscirebbe; ma poichè avea mancato alle promesse fatte a Dio, questo gli manderebbe un grave castigo, Lib. VIII, c. 3; e al cap. 26: — Questo posso con asseveranza dire, ch’e’ predisse molte cose, delle quali nessun mortale avria potuto avvisarlo. Indovinò al re che perderebbe il figliuolo, e che esso gli sopravvivrebbe poco; e le lettere di ciò le lessi io in persona ad esso re». [65] Predica del 17 febbrajo 1497. Nella _Verità profetica_ occorre questo passo: _Savonarola_. Atqui io son profeta. Poichè ragionevolmente mi sforzi, non senza verecondia e umiltà confesso essermi stato da Dio, per suo dono e non per alcuno mio precedente merito, conferito. _Uria_. Guarda che questo non sia detto per umiltà, ma più presto per arroganza. _Savonarola_. Io non m’attribuisco il falso, ma non mi vergogno già di confessare d’averlo ricevuto a laude di Dio e per salute de’ prossimi. [66] Commentando una meditazione di esso dice: — Cristo lo canonizzò, perchè non appoggiossi sui voti o sul cappuccio, sulle messe o sulla regola, ma sulla meditazione del Vangelo della pace; e rivestito della corazza della giustizia, armato dello scudo della fede e dell’elmo della salute, si arrolò non all’Ordine de’ Predicatori, ma nella milizia della Chiesa cristiana». [67] Inferma a morte, si votò a frà Savonarola, e questo le apparve in sogno cogli altri due _martiri_, e ne fu risanata. Di ciò ella scrisse una laude, ove fra il resto dice: Quel vivo amor che ti commosse il petto A render alla ancilla sanitade, Quello ti muova, padre mio diletto, A crescer nella figlia la bontade. A te ricorro, perchè la pietade Cognosco viva dentro alla tu’ alma; E spero per te, padre, aver la palma Contro l’astuzia del gran seduttore... Sempre t’arò nel mezzo del mio core. [68] Di quel tempo circolò un epigramma, che può far riscontro al noto del Flaminio: _Quem Ferrara tulit, furca extulit, abstulit ignis,_ _Cuique urna est Arnus, ego ille Hyeronimus._ Avversissimo a frà Girolamo si mostra Gismondo Naldi in una lettera riportata nei _Diarj_ manoscritti di Marin Sanuto. Quest’ultimo pure lo tratta da ribaldo, e può dar idea delle esagerazioni che se ne dicevano a Venezia: — Da Fiorenza si havè avisi come frate Hironimo preso et tormentato, havia hauto sette schossi di corda, et ei havea aperto sotto il brazo, adeo non se li potea dar più corda; et li voleano dar altri tormenti, zoè la stangheta. El qual confessò a la corda molte cosse, tra le qual sette cosse heretiche, videlicet che da do anni in qua pluries havia ditto messa non consacrando l’hostia; item havia comunichato con hostia non sacra; item che havia alcuni frati per Fiorenza li quali confessavano, et questi li rivelava tutti li secreti dili primi di Fiorenza, et talhor questi diceva ad alcuno qualche sua peccato, overo in percolo, dicendo haver per inspiratione divina; item voleva far Francesco Vallori ditator perpetuo; item chel non credeva in Dio, et altre cosse, maxime dil miraculo mostrò di far di la lampreda che li fo mandata, la qual lui la fè atosicar, fingendo la ghe fusse mandata per atosicarlo, dicendo havia inspiratione divina, et fè la experientia contro uno, che subito manzata morì; item domandato perchè queste cose faceva, rispose, per il sacramento havia hauto da Carlo re di Franza a Fiorenza, che voleva invader Italia, et lui credeva, et però predicava in suo favor, et si voleva far cardinal. Or ditto processo compito, et lecto nel consejo, parse al pontefice di voler veder dicto processo, et mandoe a Fiorenza maistro Ioachim Turiano general dil hordine di Predicatori, con uno suo commissario, acciò examinasse il ditto processo, et contra di lui et di altri frati procedesse bisognando. Or par che li deputati al suo collegio terminono, che havendo confessato queste tal heresie, a dì 29 dicembre, istante il sabato dovesse esser, insieme con do frati zoè frà Domenico et frà Silvestro, apicati et brusati, et fusse disgradato prima; tamen la cossa andò in longa, perchè il duca de Milano scrisse, havia a caro veder il processo prima che si facesse morir. Et cussi Fiorentini, per far quello voleva Milano, mandò la copia fin a Milano; et al par che dicto frate Hironimo inteso era per dispazarsi, cognoscendo meritava la morte, domandò tre gracie: la prima, non sia mandato nè dato in le man dil papa, contr’il qual havia predicato; secondo, non sia sententiato a morir a le man di puti di Fiorenza, dili qual havia hauto tanto seguito; tertio, non fusse brasato vivo: le qual tre gracie Fiorentini libentissime li concesseno». Nei _Documents inédits sur l’histoire de France,_ t. I. p. 774, Champollion Figeac pubblicò una lettera di Luigi XII alla Signoria di Firenze, esortante a differire ogni sentenza sopra il Savonarola finchè esso re non abbia manifestato la propria opinione. Quando, sotto Paolo IV, si prese ad esame la dottrina del Savonarola, il padre Paolino Bernardini lucchese, fondatore della congregazione di Santa Caterina da Siena, compose _Narrazione e discorso circa la contraddizione grande fatta contro l’opere del R. P. frà Girolamo_, e vuol convincere che la dottrina di esso «non poteva esser dichiarata nè per eretica, nè per scismatica, nè manco per erronea o scandalosa». Il Burlamacchi nel 1764 stampò a Lucca la vita del Savonarola con un’estesa apologia: contraddetto da un Fiorentino, rincalzò l’argomento, e annotò il processo proprio del frate. BALUZIO, _Miscell_., tom. IV. 521. Manca di critica, come pure Francesco Pico, che istituisce un parallelo fra Cristo e il Savonarola, e ne moltiplica i miracoli. Naudé ne faceva un Ario, un Maometto; mentre il padre Touron lo chiamava uomo inviato da Dio. Francesco Mayer di Jena (1836) lo fa precursore ed emulo di Lutero, e produce molte lettere di Alessandro VI. Rudelbach lo studiò teologicamente. P. J. Carle (1842), copiando il Barsanti senza citarlo, lo mostra un santo alle prese colle malvagie passioni del tempo, martire della verità e della virtù, ortodosso nella teologia, moderato nella politica. Rio lo considera come rigeneratore dell’arte nell’idea. Perrens dice: — Regna su tutta la vita del Savonarola estrema incertezza; la cronologia n’è imbarazzata; gli avvenimenti più notevoli furono snaturati dagli autori; numerose lacune, che solo può spiegare l’ignoranza de’ biografi o la negligenza degli storici; grande sproporzione nelle varie parti del racconto; la storia scompare sotto tante leggende incredibili, che reputiamo impossibile elevare uno studio qualunque sovra basi così poco solide. Salvo qualche pagine di storia sincere, ma sparpagliate e incompiute, ne’ libri consultati non trovammo che apologie o detrazioni» (_Jérôme Savonarola, sa vie, ses écrits d’après les documents originaux._ Parigi 1855). In questi ultimi anni moltissimo si scrisse intorno al Savonarola e principalmente dal Villari, e se ne pubblicarono nuovi documenti. Fu anche messo in scena dal Rubieri nel _Francesco Valori_, in poema dal tedesco Lenau, in romanzo dal piemontese Corelli. [69] «Il magnifico Paulo Vitelli in questo tempo fu condutto a Fiorenza; il qual giunto ad ore tre di notte, lo incominciarono ad esaminar con varj tormenti. Durò ditta esamina fino alle dodici, et non trovando cosa notabile in esso che meritasse se non laude et fama immortale, per le ragion dette di sopra, et etiam per non parer de aver errato, il primo giorno di ottobre ad ore ventitre in circa, in Palazzo, in su un palchetto fatto per ciò, pubblicamente li fecero tagliar la testa. Premio conveniente a tanta fede et opera sua immortale! Il vulgo errante non si persuadendo che li signori soi lo avessen decapitato, ma un altro in cambio suo, con voce crudele al cielo gridavano: — Noi siam gabbati; non è Paulo ma altri; lo vogliam vedere questo traditore». Li signori, veduto et inteso questo rumore, per timore delle persone proprie, et etiam per satisfare a quello, vituperosamente, con doppieri ardenti, giù per le scale del Palazzo, fereno strascinare il tronco et il capo appresso; et condutto da basso, fu collocato in la chiesa di San Piero Scaraggi lì vicina. Concorsevi la plebe, la qual chiaramente conosciuto, si pascè del sangue suo. Così tanti suoi sudori, vigilie et male notti da’ Fiorentini gli sono state rimeritate, che si può dir meritamente Paulo Vitelli esser stato quello che abbia conservato et restituito ad quelli et il Casentino et il territorio pisano. Voi, illustrissimi signori Taliani, che per le virtù militari meritate il bastone, considerar possete che merito et gloria da’ Fiorentini aspettar dovete. Specchiatevi nello excellente capitano signor Paulo Vitelli, et di poi, parendovi, militate sotto loro ingratissimo vessillo. Ritornando al magnifico Vitellozzo, il quale, intesa questa trista nova, con forte animo l’ascoltò et sopportò usando queste parole: — De cetero, mortal non me ne parli, nè me ne lacrimi davanti; a me se ne spetta il dolore, et a Dio la vendetta». _Archivio storico_, vol. VI. p. 383. [70] Lib. VII. c. 3. _Et de ce que contient ceste duché, je ne veiz jamais plus belle piece de terre, ne plus grant valleur_. [71] CAGNOLA, _Cronaca_, lib. VIII in fine. [72] Il Matarazzo, cronista contemporaneo, dice che battesse una moneta con questa epigrafe; ma è falso: bensì quel detto correva proverbialmente, lo cita il Nardi nella _Storia fiorentina_, lib. III, e ne trovo segno in una canzone popolare de’ Milanesi dopo le sue sventure: Son quel duca di Milano Che con pianto sto in dolore; Son sugeto ch’ero signore; Ora son fatto alemanno. Io diceva che un sol Dio Era in cielo, e un Moro in terra; E secondo il mio desìo Io faceva pace e guerra... Esso Nardi accenna una medaglia di Lodovico, dov’era una mano che teneva acqua e una fuoco, volendo inferire che la sua prudenza sapeva produrre guerra e pace; e soggiunge che avesse fatto dipingere una Italia tutta piena di galli, e un Moro che colla granata parea cacciarli. Mostrandola a Francesco Gualterotti ambasciadore fiorentino, e chiedendo che gli paresse di tal sua invenzione, questi rispose: — Benissimo; ma mi sembra che questo Moro volendo spazzare i galli fuor d’Italia, si tiri tutta la spazzatura addosso». [73] A Urbano Terralunga d’Alba, consigliere del marchese di Monferrato, concede _ut facere, creare et instituere possit poetas laureatos, ac quoscumque qui in liberalibus artibus ac maxime in carminibus adeo profecerint, ut promoveri ad poeticam et laureatum merito possint._ Diploma del 3 agosto 1501, ap. TIRABOSCHI, tom. VII. p. 1823. [74] Il Moro nel 1498 lagnavasi col Foscari, ambasciadore veneto, della diffidenza che di lui avea la Signoria, e soggiungevagli: — Confesso che ho fatto gran male all’Italia; ma l’ho fatto per conservarmi nel loco in cui mi trovo. L’ho fatto mal volentieri, ma la colpa è stata del re Fernando; ed anche, voglio dirlo, in qualche parte dell’illustrissima Signoria (veneta), perchè mai si volle lasciar intendere. Ma di poi non ha ella veduto le continue operazioni mie, rivolte alla liberazione d’Italia? E state certo che, se differiva più a far la pace di Novara, _actum erat de Italia_; perchè le cose nostre erano costituite in pessimi termini». MALIPIERI, _Annali_, pag. 482. In un’altra lettera nell’archivio Trivulziano del 1499, si lagna siasi sparso ch’egli avesse invitato i Turchi: — E però sopra l’anima nostra diciamo, che non è vero che ’l Turco si sii mosso ad istanza nostra, nè che mai n’abbiamo fatto opera perchè ei si movesse». In un’altra, che è il 15º de’ _Documenti di storia italiana_ pubblicati dal Molini: — Io giuro a Dio che mai non mandai a dire cosa alcuna al Turco». Or bene, il Corio suo lodatore asserisce che ciò «consta per la propria minuta della instrutione che sua eccellenza diede ad Ambrogio Bugiardo et a Martino da Casale, la quale così diceva ecc.», e reca la precisa commissione data da Ludovico a’ suoi legati. [75] Ai Fiorentini che mandarono raccomandarsegli, il doge avea risposto: — Sempre che vorrete esser buoni e fedeli Italiani, e non v’impacciare di là dai monti, noi con tutta la lega vi avremo per nostri amici. Sapete bene che, se non eramo noi, tutta Italia era occupata da’ Francesi; se non volete esser Italiani, non possiamo prestar ajuto alcuno alle cose vostre». MALIPIERI, pag. 428. [76] In conseguenza di ciò i Francesi vollero considerarlo per ribelle. S’agitò in tutte quelle guerre, finchè Carlo V lo confermò nei beni e nei privilegi; e morì nel 1538. Anche suo fratello Federico resistette ai Francesi, e dopo lunghi guaj ebbe il contado di Bobbio. [77] ROSMINI, _Istoria di Gian Jacopo Trivulzio_, pag. 322. [78] Costui fu gran protettore dei dotti, che perciò lo ricambiarono di lodi e dediche. Arcangelo Madrignano cistercense del nostro monastero di Chiaravalle, nel dedicargli il Viaggio da Portogallo in India (Milano 1508), gli pone in bocca un lungo discorso sulla cosmografia, poi rammemora i benefizj e impieghi dati a Marc’Antonio Cadamosto lodigiano, fatto professore di astrologia a Milano e a Pavia; Francesco Tavella e Francesco Balzio, fatti senatori; Giovanni Mayna torinese, messo segretario regio; Facio Cardano professore d’architettura, Cesare Sacco astronomo e letterato, Nicola Picensio poeta vulgare e latino, Francesco Tanzi Cornigero improvvisatore, Gian Giacomo Ghilino erudito, Gian Antonio Cusano medico e dotto, Lancino Corti filosofo, poeta, legale, enciclopedico, Gian Francesco Musicola, Fabio Romano, Alessandro Minuziano educatore di prestantissimi Lombardi. Il Madrignano trovavasi spesso con questi a magnifici conviti presso il Caroli. [79] Da lettere di Girolamo Morone segretario del duca, che sono nell’archivio comasco (ROVELLI, III. 383), impariamo che lo Sforza, vedendo scemar le sue truppe, spacciò Galeazzo Visconti alla dieta degli Svizzeri in Lucerna per farli mediatori di pace, al che bastava richiamassero le truppe loro, nerbo d’ambe le parti. La dieta in fatti ordinò un armistizio, inviandone l’ordine ai due eserciti per due diversi corrieri. Ma Antonio Baissey bailo di Dijon, legato di Francia, corruppe il corriere inviato all’esercito francese, sicchè indugiò più giorni, mentre l’altro, senza por tempo in mezzo, recò l’ordine di cessar l’armi agli Svizzeri che militavano collo Sforza. Si presenta la battaglia il 9 aprile; questi abbassano le lancie; mentre gli Svizzeri che erano coi Francesi, nulla sapendo dell’armistizio, stettero sull’armi, e lo Sforza così rimase di sotto. Quanto alla cattura del duca, il Muralto cronista comasco dice che Lodovico passava incognito colle file elvetiche, se un certo svizzero Ansone, ch’egli ben conobbe, e che n’avea patteggiato col bailo Dijon la mercede di ducento ducati, non gliel avesse segnato a dito. Merita credenza, perchè appunto di quei giorni fu dai Comaschi spedito a Novara oratore al conte di Ligny, ove potè parlare volto a volto coll’illustre prigioniero: _Cœpi lacrymis ducem in mula sedentem salutare, qui me interrogavit de statu Mediolani, cui multa retuli, et lacrymando recessit cum Gallis._ Paolo Giovio, nell’istoria del suo tempo, dice che il duca e i suoi furono additati da Rodolfo di Salis, detto il Lungo Grigione, e da Gaspare Silen di Uri, che servivano agli stipendj del Moro; così il Belcario, _Comm. rer. gall._, VIII. 240. Il Mallet, _Storia Svizzera_, part. II. c. 6, lo dice un Turman di Uri, che fu in patria dannato nel capo; e si lagna che Voltaire scrivesse avere gli Svizzeri bruttato la gloria loro per sete d’oro, e venduto la fede data. [80] CASTIGLIONI, _Cortigiano_, lib. I. [81] Quest’è la risposta attribuitale dalla più parte de’ contemporanei, invece della sguajata riferita dal Machiavelli e da altri. [82] RIPAMONTI, _Historia Mediolani_, VII. 667. [83] Fu fedele alla sventura di lui il poeta Jacopo Sannazaro, e dopo venduto ogni aver suo per fornire ai bisogni di esso, lo seguì esule volontario, e partendo salutava la patria con questi affettuosi versi (Epigramm., lib. 7): _Parthenope mihi culta, vale, blandissima siren;_ _Atque horti valeant, hesperidesque tuæ;_ _Mergillina vale, nostri memor; et mea flentis_ _Serta cape, heu domini munera avara tui._ _Maternæ salvete umbræ, salvete paternæ,_ _Accipite et vestris thurea dona focis._ _Neve nega optatos, virgo Sebethias, amnes,_ _Absentique tuas det mihi somnus aquas;_ _Det fesso æstivas umbras sopor, et levis aura,_ _Fluminaque ipsa suo lene sonent strepitu;_ _Exilium nam sponte sequor. Sors ipsa favebit._ _Fortibus hæc solita est sæpe et adesse viris._ _Et mihi sunt comites musæ, sunt numina vatum;_ _Et mens læta suis gaudet ab auspiciis,_ _Blanditurque animo constans sententia, quamvis_ _Exilii meritum sit satis ipsa fides._ [84] Il Matarazzo, pag. 188. Vedi anche qui indietro, pag. 31. [85] MARIN SANUTO, _Diarj mss._ Alessandro VI chiudeva una lettera ad essa: — Per questa volta null’altro se non che attendi a star sana, et a esser devota della nostra donna gloriosa (24 luglio 1494, nelle carte di Urbino a Firenze). [86] La fuga del duca è pittorescamente descritta da Bernardino Baldi nella _Vita di Guidubaldo_, lib. VI. [87] DELFICO, _Storia di San Marino_, docum., pag. 61-88. Negli antichi tempi Pindinisso, castellotto degli Eleutero-Cilicj, sull’inespugnabile sua altura era stato rispettato da tutti i conquistatori, e fin da Alessandro, come San Marino da Napoleone. [88] Vedansi nel Muratori gli argomenti contrarj alla vulgare asserzione. Voltaire (_Dissert. sur la mort d’Henri IV_) trova strano che, mentre il Guicciardini così lo particolareggia, non ne faccia cenno il Burcardo, raccoglitore diligente di tutti gli scandali del suo tempo. Pure il cauto Nardi dice questa «opinione costante degli uomini». _Storia di Firenze_, lib. IV. [89] Quando il Valentino fu arrestato, Baldissera Scipione senese mandò ad affiggere per tutta cristianità un cartello contro qualunque Spagnuolo volesse dire che «il duca Valentino non era stato ritenuto in Napoli sopra un salvocondotto del re Ferdinando e della regina Isabella, con gran infamia e molta mancanza della fede e delle loro corone». LUIGI DA PORTO, _Lettera_ 30. [90] Vedi le _Legazioni_, la XL _Epistola famigliare_, e il _Principe_, VII. [91] A Leone X dice: — Nessuno Stato si può ordinare che sia stabile, se non è vero principato o vera repubblica; perchè tutti i governi, posti entro questi duoi, sono difettivi». [92] Lettera al Vettori. [93] _Principe_, XV e XVIII. [94] _Deche_, III. [95] — Sogliono le provincie il più delle volte, nel variare ch’elle fanno, dall’ordine venire al disordine, e di nuovo di poi dal disordine all’ordine trapassare; perchè non essendo dalla natura conceduto alle mondane cose il fermarsi, come elleno arrivano alla loro ultima perfezione, non avendo più da salire, conviene che scendino; e similmente, scese che le sono, e per li disordini all’ultima bassezza pervenute, di necessità non potendo più scendere, conviene che salghino; e così sempre dal bene si scende al male, e dal male si sale al bene». _Storie fiorentine_, lib. V. [96] — Da questo nacque la cognizione delle cose oneste e buone, differenti dalle perniciose e ree, perchè veggendo che se uno noceva al suo benefattore, ne veniva odio e compassione in tra gli uomini, biasimando gl’ingrati ed onorando quelli che fossero grati, e pensando ancora che quelle medesime ingiurie potevano esser fatte a loro, per fuggire simile male si riducevano a far leggi, ordinare punizioni a chi contraffacesse, donde venne la cognizione della giustizia». _Deche_, I. 2. [97] _Deche_, II. 23; III. 41. [98] Vedasi in tal proposito la consulta _del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati_. Esposto il discorso ove Camillo dittatore propone ai Romani di rovinare il Lazio affinchè più non possa ribellarsi, e si vanta di averli, colle sue vittorie, messi in grado di operare a loro arbitrio, esorta a imitar quel savissimo popolo, che diroccò una città nemica, in un’altra mandò nuovi abitanti. «Io ho sentito dire che la storia è la maestra delle azioni nostre, e massime de’ principi: e il mondo fu sempre ad un modo abitato da uomini che hanno avuto sempre le medesime passioni; e sempre fu chi serve e chi comanda: e chi serve mal volentieri; e chi si ribella ed è represso... Dunque non era male per chi aveva a punire e giudicare le terre di Valdichiana, pigliare esempio, e imitar coloro che sono stati padroni del mondo.... Non si chiama assicurarsene lasciare le mura in piedi, lasciarvene abitare i cinque sesti di loro, non dare loro compagnia di abitatori che li tengano sotto, e non si governare in modo con loro, che, negli impedimenti e guerre che vi fossero fatte, voi non avessi a tenere più spesa in Arezzo che all’incontro di quello inimico che v’assaltasse ecc.» [99] È il Nardi nella _Storia di Firenze_, lib. IV. [100] Che quel trattato non sia di frà Paolo, ma di un bastardo di casa Canal, è asserito non dimostrato; ma all’assunto nostro poco cambia. [101] Tom. I. p. 237 dell’edizione della _Société historique_: _Je veulx declarer une tromperie ou habileté, ainsi qu’on vauldra nommer, car elle fut saigement conduicte_. Pag. 278: _Il pourra sembler, au temps advenir, à ceulx qui verront cecy, que en ces deux princes_ (Luigi XI e il duca di Borgogna) _n’y eut pas grand foy... mais quant on penserà aux autres princes, on trouvera ceulx cy grans, nobles et notables et le notre très-saige... je cuyde estre certain que ces deux princes y estoient tous deux en intention de tromper chascun son compaignon_. Tom. II. pag. 311: _Ludovic Sforce estoit homme très saige... et homme sans foy s’il veoit son prouffit pour la rompre_. Pure Commines ammette la Provvidenza come ordinatrice delle sorti dei regni; e dice che bisogna far conoscere anche la malvagità del mondo, non per valersene, ma per guardarsene. Tom. I. pag. 237. [102] Parole d’uno de’ priori d’allora, partecipe dell’assassinio. [103] Il primo a dirlo credo fosse Alberigo Gentile, che (_Legat_. VIII. 9) scrive: _Sui propositi non est tyrannum instituere, sed arcanis ejus palam factis, ipsum miseris populis nudum et conspicuum exhibere._ Il cardinale Reginaldo Polo, che fu a Firenze pochi anni dopo la morte del Machiavelli, scrive che colà «molti cittadini, stati famigliari del Machiavelli, gli dissero che egli rispondeva sempre aver seguito non il proprio giudizio, ma l’animo di quello al quale dirigeva il libro del _Principe_: perchè egli odiando siffatti governi, avea sempre inteso a rovinarli; onde se quegli, a cui fu diretto il libro, avesse ascoltati e messi in opera i precetti, il suo regno sarebbe durato pochissimo, ed ei sarebbesi precipitato da sè». _Apologia ad Carolum cæsarem_, Brescia 1774, tom. I. p. 552. [104] La notte che morì Pier Soderini, L’anima andò dell’inferno alla bocca: E il diavolo gli disse: — Anima sciocca! Via di qua; vanne al limbo coi bambini. Questo motto non è tampoco originale. Il _Diarium parmense_, pubblicato dal Muratori, sotto il 1481 nota che uscì di carica il governatore Pietro Trotti, _qui dignus est ad limbum descendere, cum nihil mali, nihilve boni egerit, cujus proclamationes et mandata nullatenus observabantur_. Il Busini scrive al Varchi, 23 gennajo 1549, che il Machiavelli «l’universale, per conto del _Principe_, l’odiava: ai ricchi pareva che quel suo _Principe_ fosse stato documento da insegnare al duca tor loro tutta la roba, a’ poveri tutta la libertà. Ai piagnoni pareva ch’e’ fosse eretico, ai buoni disonesto, ai tristi più tristo e più valente di loro; talchè ognuno l’odiava... Fu disonestissimo nella sua vecchiaja, ma oltre all’altre cose goloso». [105] Il re che contribuì allo sbrano della Polonia, confutava il _Principe_ nell’_Anti-Machiavel_, e dicea: _=Le prince= de Machiavel est en fait de morale ce qu’est l’ouvrage de Spinosa en matière de foi. Spinosa sapait les fondements de la foi, et ne tendait pas moins qu’à renverser l’édifice de la religion: Machiavel corrompit la politique, et entreprit de détruire les préceptes de la saine morale. Lesi erreurs de l’un n’étaient que des erreurs de spéculation, celles de l’autre regardaient la pratique_. Nelle _Memorie dell’abate Morellet_ (Parigi 1823) è una lettera di Pietro Verri del 1766, ove si legge: — Qual altro paese che il nostro ha prodotto un Machievelli e un frà Paolo Sarpi? due mostri in politica, la cui dottrina è tanto atroce quanto falsa, e che mostrano freddamente i vantaggi del vizio, perchè ignorano quelli della virtù». Napoleone diceva: — Tacito ha fatto romanzi, Gibbon è uno schiamazzatore, Machiavelli è l’unico autore leggibile» (DE PRADT, _Ambass. en Pologne_). Al tempo che Napoleone era cascato di moda, fu stampato _Machiavelli commentato da Buonaparte_ (Parigi 1816). Gran panegirista del Machiavelli e violento contro a’ suoi detrattori è il signor Emiliani Giudici nella lez. XI della _Storia delle belle lettere in Italia_; ma viene a concludere: — Questo io so certo, che il libro di Machiavelli, quel repertorio mirabile in cui si ragiona tutta la scienza dei veleni e de’ loro farmachi, tornò giovevolissimo ai tormentatori, ed inutilissimo ai tormentati». Al modo stesso i suoi istinti generosi prevalendo ai razionali giudizj, lo fanno paragonare la politica del medioevo alla «snaturata odierna diplomazia» (_Storia de’ municipj_, I. 821). Ancor più notevole è che Mazzini, il 1848, nei _Ricordi ai giovani_ scriveva: — E che mai potremmo attingere dalle pagine di Machiavelli se non la conoscenza delle tattiche de’ malvagi, a sfuggirle ed eluderle? Io dico che i popoli si ritemprano colla virtù, si rigenerano coll’amore, si fanno grandi e potenti colla religione del vero, quand’essi possano guardar sicuri dentro delle nazioni e della propria coscienza, e dire, _La nostra vita è una santa battaglia, la nostra morte è quella dei martiri_. Dico che la moralità è l’anima delle grandi imprese; che l’inganno, efficace a corrompere, a smembrarci, a inceppare, è buono ai padroni, è impotente a movere, a produrre, a creare, e riesce fatale ai servi che intendono ad emanciparsi e rifarsi uomini. Dico che nè un popolo ha conquistato indipendenza e unità di nazione, nè una grande idea si è incarnata nei fatti, nè un incremento reale di potenza e di libera vita s’è aggiunto allo sviluppo d’una razza mortale per artifizj machiavellici». [106] — Stradioti son gente a piedi e a cavallo, vestita come Turchi, salvo la testa dove non hanno il turbante; gente dura e dormono all’aria tutto l’anno, essi e’ cavalli. Erano tutti Greci, venuti dalle piazze che i Veneziani ci hanno; gli uni da Napoli di Romania in Morea, gli altri d’Albania verso Durazzo, e han cavalli buoni, e tutti di Turchia. I Veneziani se ne servono molto, e se ne fidano: son prodi uomini, e molto molestano un campo quando vi si mettono». COMMINES. [107] Gli Spagnuoli nel 1530 vendettero il sacco d’Empoli per cinquemila ducati a Baccio Valori, che, alquanti mesi da poi, mettea sequestro su quel Comune, e arrestava alcuni terrazzani per averne certi resti. VARCHI, _Storie_, IV. [108] L’Algarotti s’impenna contro chi non crede il Machiavelli gran mastro di guerra: ma in fatti non diede di nuovo che lo strano pensiero di far la fossa dietro la mura; certe arme sue sconvengono affatto; la sua proposta di reclutare la fanteria nelle campagne, la cavalleria in città, è una rimembranza di Atene; ma se ivi era conforme alla costituzione, fra noi mancava di significato. Quelle sue asserzioni sul poco sangue che si versava delle battaglie, sono per lo meno esagerate: alla Molinella dice che morì nessuno, mentre il Sabellico chiama quella battaglia sanguinosa molto; a quella d’Anghiari, ch’egli dà per incruenta, il Graziani nella _Cronaca perugina_ dice perì molta gente; e il Biondo, contemporaneo e segretario del papa, asserisce che dei ducheschi sessanta perirono, quattrocento furono feriti: di quei della lega ducento morti nella mischia e dieci dopo, e seicento feriti. L’opinione della superiorità della fanteria già era abbastanza comune; e Daniello de Ludovisi, nella _Relazione dell’impero ottomano_ al senato veneto il 3 giugno 1534, dice: — Le armi in ogni tempo sono state meglio e più utilmente adoperate dalle fanterie che da’ cavalli: e questo si è in diversi tempi e luoghi conosciuto e massimamente nei Romani. E se nei tempi più propinqui ai nostri sono state in Italia le genti d’arme in reputazione, questo è proceduto dal mal animo e dalla trista volontà dei condottieri, li quali deprimendo le fanterie e privando li principi della buona gente, tiravano nelle genti d’arme loro tutta la reputazione per farsi arbitri d’Italia; e ciò fu con rovina e desolazione, e in buona parte con servitù di quella». [109] GIOVANNI D’AUTUN. [110] L’atto dell’elezione di Paolo da Novi porta: _Cum ab aliquo tempore citra, civitas januensis seditione civili vexata fuerit, quæ inter nobiles et populares defectu justitia orta est, ita ut in maximo discrimine existeret, et considerans populus januensis necessarium esse saluti reipublicæ consulere, amota vivendi forma sub factionum rectoribus, qui solent unum favere, alterum vero opprimere; et animadvertens sanum, sanctumque ac salubre consilium ad dignitatem ducalem Januæ promovere virum gravem, integrum et Deum timentem, cujus providentia, prudentia, experientia et consiliis possint omnes Januenses sub protectione sua in pace et sine stimulis vivere; considerata virtute, prudentia ac probitate illustrissimi domini Pauli de Novis, cujus gratia facit ut ab omnibus ametur et observetur; idcirco Dei nutu et voluntate, acclamant toto populo januense etc.... Cum primum omnipotenti Deo placuerit ut arx Casteleti ad manus nostras deveniat, eam pro libertate et gloriam nominis januensis dirui faciet_.... [111] SCIPIONE AMMIRATO, _Storie fiorentine_, lib. XXVIII. [112] «Il re ha usato dire ad uomo che non dice bugie: — L’imperatore mi ha ricerco di dividermi seco l’Italia; io non l’ho mai voluto consentire, ma il papa a questa volta mi necessita a farlo». MACHIAVELLI, _Legazione_ 9 agosto 1510. [113] Della sfida di Barletta una nuova descrizione fu pubblicata dal Maj nel vol. VIII dello _Spicilegium romanum_, in lettera di Antonio Galateo contemporaneo: ed ivi pure trovasi descritta nella _Vita del Gran Consalvo_, per G. Cesare Capacio. [114] Giacchè nol crediamo inventore, come si asserisce comunemente. Filippo di Mezières, nato in Picardia nel 1312, guerriero alcun tempo in Sicilia, poi canonico di Amiens, fece il viaggio di Terrasanta, dal re di Cipro fu preso cancelliere, poi consigliere da Carlo V di Francia, infine si ritirò ne’ Celestini, dove morì il 1405. Fra altre sue opere rimaste manoscritte n’è una intitolata _Nova religio militiæ passionis J. C. pro acquisitione sanctæ civitatis Jerusalem et Terræsanctæ_, che sono gli statuti di un Ordine ch’egli divisava pel ricupero de’ santi luoghi. Un capitolo è intitolato, _De diversitate multiplici ingeniorum ad obsidendum civitates, castra et fortalicia inimicorum fidei, super faciem terræ in aqua, in aere et =subtus terram=, tam in ingeniis virtute propria et artificiali lapides projicientibus, quam ingeniis =virtute pulveris= et ignis projicientibus_. Qui si troverebbe la polvere adoprata già a bombardamenti e a mine avanti il 400. Poi nel 1403 un Pisano fuoruscito avvertì i Fiorentini d’una porta disusata ch’era nella mura della sua patria, murata dai due lati; e Domenico di Firenze ingegnere propose d’empirla di polvere, la quale scoppiando aprirebbe una breccia. I Pisani n’ebber fumo, e vi ripararono. Cornazzano poeta milanese verso il 1480 cantava: Chi li muraglie ruinar sol cura, Cava fin sotto a’ fondamenti d’esse, E li sospende con intravatura. Poichè gran parte in su colonne messe, Dà sotto travi fuoco, e lui fuor viene: Cascan le mura allor sbandate e fesse. Qui non si parla che delle mine all’antica; ma delle moderne discorrono a lungo Francesco Martini e Leonardo da Vinci. I Genovesi nel 1487, assediando il forte di Sarzanello tenuto dai Fiorentini, le adoprarono; e Pietro Navarro che colà militava, potè vedere quest’artifizio. La mina del Castel dell’Ovo di Napoli, che diè tanta fama al Navarro, sembra per molti argomenti dovuta al suddetto Martini. [115] BEMBO, _Storia veneziana_, lib. V. p. III; RAYNALDI, _Annal. eccles._ ad 1500, § 22. [116] La nobiltà di Venezia non proveniva da feudi, eppur era la più ambita. Negli ultimi tempi il popolo vi distingueva i dodici apostoli e i quattro evangelisti. I primi erano le case elettorali vecchie: Contarini ch’ebbero otto dogi, Morosini che n’ebbero quattro, Michiel che tre, Badoer, Sanudo, Gradenigo, Falier, Dandolo, Manin, Tiepolo, Bolani, Barozzi. I quattro evangelisti erano Giustiniani, Bragadin, Bembo, Corner. Aggiungansi le famiglie tribunizie dei Dolfin, Quirini, Ziani, ecc. [117] Lib. VII. c. 45. — Nel 1855 per nozze fu stampato a Milano il _Viaggio di Pietro Casola a Gerusalemme_, scritto nel 1494. Questo pio prete milanese dovendo indugiarsi a Venezia per attendere l’imbarco, «acciò per tedio non gli venisse voglia de tornare indietro come feceno li fioli de Israel», cominciò a visitarne le rarità e le bellezze, e le descrive con una ammirazione così dabbene, che incanta. [118] Il ducato, marchesato e contado di Trento fa donato dall’imperatore Corrado il Salico nel 1027 al vescovo Voldarico, onde i vescovi furon anche principi sino al 1802: nel 1182 il vescovo Salomone vi ottenne il diritto di zecca. Però i Veneziani possedevano il castello di Lizzana, Roveredo ed altre terre della val Lagarina per testamento di Guglielmo di Castelbarco del 1416: nel 1440 tolsero a forza Penede e Torbolo ai d’Arco, e Riva di Trento al vescovo, che tennero fin nel 1509, quando gl’Imperiali la ripresero. [119] Anche durante il dominio veneto, si conservarono a Cividal del Friuli alcune costumanze, che attestavano l’antica giurisdizione sì del patriarca, sì del capitolo. Esso patriarca, nella prima sua entrata, veniva investito colla spada dal decano del capitolo: all’Epifania il diacono ascendeva a cantare il vangelo, con elmo dorato in testa e pennacchio bianco e rosso, e colla spada nuda dorata nella destra, nella sinistra l’evangelo: alla festa della Purificazione un canonico recitava tutti i nomi dei patriarchi cominciando da san Marco, e il gastaldo della repubblica veneta saliva al coro a offrir alcuni denari, e riceveva una candela. _Relazione_ del provveditor Balbi nel 1637, nelle _Monografie friulane_. [120] All’Alviano la Serenissima infeudò Pordenone, il 1508 20 giugno, _pro se et heredibus suis masculis legitime descendentibus, cum mero et mixto imperio, cum reservatione statutorum, consuetudinum et privilegiorum hactenus servatorum ipsi communitati, et civibus prædicti loci, cum recognitione dominio nostro cerei singulo quoque anno dando in festo sancti Marci, cum obligatione salis, et quod ibi stare non possit aliquis qui stare non possit in terris dominii nostri. Item quod dominium nostrum possit accipere vastatores, currus et cornetas, prout ab aliis, sicut semper est solitum servari in locis datis in phœudum per dominium nostrum_. [121] _Relazione_ di Giovanni Corner del 1569. [122] Gli eventi della lega di Cambrai sono narrati a minutissimo da storici famosi, quali il Paruta, il Giustiniani, il Barbaro, e fra i moderni principalmente da Giambattista Dubos, _Histoire de la ligue de Cambray_, tutta in onore di Luigi XII e vitupero di papa Giulio II. Meglio la ritraggono le moltissime cronache e relazioni contemporanee. [123] È curioso che i paesi che doveva appropriarsi Massimiliano, son quelli stessi che l’Austria ottenne nel trattato di Campoformio; come egli già trattava collo czar di Moscovia per uno spartimento della Polonia. [124] La festa dell’Ascensione, la maggiore solennità veneta. [125] Che dispensasse i sudditi della Terraferma dal giuramento è asserito da tutti, ma non ne trovo vestigio negli atti uffiziali, e repugna anzi con alcuni di essi, per es., colle punizioni inflitte a chi favorì lo straniero. [126] Nella _Legazione a Mantova_. [127] La storia di questa cittaduccia, importante come tutte quelle del Friuli, può in parte raccogliersi dal DEROSSI, _Mon. eccles. aquilejensis_, e dal FLORIO, _Discorso preliminare alla vita del beato Bertrando patriarca_. Essa città aveva avuto, al solito, il consiglio maggiore di famiglie patrizie; il piccolo, composto del podestà e cinque consoli; e un sindacato di cento capifamiglia. Ogni anno in San Giorgio congregavasi l’arrengo, cioè il consiglio generale, ed eleggeva a voti i magistrati del Comune; ma le cariche principali spettavano ai nobili. Sotto i Veneti il capitano presedeva; il consiglio maggiore fu ristretto in venticinque famiglie; due provveditori tenean luogo del podestà e del sindaco, ma continuavano il sindacato popolare e l’arrengo. Il Comune aveva giurisdizione civile e criminale con mero e misto imperio sulla città e territorio; la civile esercitavasi dal Consiglio, la criminale minore dal capitano, la maggiore dai tribunali veneti. [128] Su questi Tedeschi sporadici moltissimo si scrisse. Il consigliere Bergmann, nell’introduzione al _Dizionario cimbrico_ di Schmeller, morto nel 1852, espone le varie opinioni sull’origine loro. V’è chi li crede avanzo degli antichi Reti, chi de’ Cimri sconfitti da Mario (t. 1, cap. XX), chi Alemanni quivi stanziati al tempo d’Onorio, chi Goti, chi seguaci de’ Carolingi o degli Ottoni. Infatti la prima loro venuta in que’ paesi pare fosse quando Ottone I nell’872 donò al vescovo Abramo di Frisinga molto paese attorno a Castelfranco, a Godego, e più addentro in que’ monti, dove s’erano stabiliti molti Tedeschi. Ezelino da Romano dovette condurne altri, ed Ezelino IV verso il 1250 teneva un uffiziale (_amtmann_) a Rozzo, uno de’ sette Comuni. Tedeschi di Pergine nel Tirolo e della vicina val Cembra, la quale sol più tardi s’italianizzò, vennero nel XII secolo a cercare fra i monti vicentini sicurezza dall’oppressione del balivo Guidobaldo, e forse vi portarono anche il nome di Cimbri. Certo in antico son nominati teutonici, e la loro lingua è un dialetto simile al tirolese-bavaro del XIII secolo, per attestazione del suddetto Schmeller. Da principio il paese era a dominio dei monasteri d’Oliero e di San Floriano, dei Ponzi di Breganze, del Comune di Vicenza e d’altri signorotti; quindi passò agli Scaligeri, coi privilegi che godettero poi sempre; indi ai Visconti di Milano fino al 1404, quando vennero alla repubblica di Venezia, che diè loro il titolo di Fedeli, e alla quale contribuivano in occasione di guerra quattrocento lire e sette arcieri, oltre l’obbligo di custodire i passi dal Tirolo al Veneto; del resto esenti da prestazioni personali, da dazj, da dogane, ecc. [129] Vedi le _Lettere storiche_ del Da Porto. [130] GRATAROLO, _Storia della riviera di Salò_. [131] Il 17 luglio 1509, festa di santa Marina, in cui Padova fu ricuperata, restò sempre feriato a Venezia: il doge andava alla chiesa di questa santa, e vi si esponeva un vessillo coll’iscrizione: _Hanc tibi debemus trojani Antenoris urbem_, _Præsidii memores, diva Marina, tui_. [132] «Dio volesse fusse sta fatto l’accordo che io voleva far, se intrava Savio ai Ordeni, di mandar a tor cinque over seimila Turchi, e mandar secretario over ambasciatore al Turco! ma ora è tardi». MARIN SANUTO, al 17 maggio 1509. [133] Il Guicciardini mette in bocca al Giustinian un’orazione delle sue solite, che pretende aver tradotta dall’originale latino. Sì abjetto n’è il senso, che i Veneziani l’impugnano come calunniosa; e robuste ragioni vi opposero molti di essi e Rafael della Torre, Teodoro Gransvinckel e altri; mentre la sostengono vera il cardinal della Cueva, il Caringio, Goldast nella _Politica imperialis_, ed altri. [134] FLEURANGE, _Mémoires_, tom. XVI, p. 63. [135] _Pense l’empereur que ce soit chose raisonnable de mettre tant de noblesse en péril et hasart avecques des pietons, dont l’ung est cordonnier, l’autre mareschal, l’autre boulengier, et gens mecaniques, qui n’ont leur honneur en si grosse recommandation que gentils hommes! c’est trop regarder petitement, sauf sa grace à luy._ Quest’assedio è descritto alla distesa nell’_Histoire du bon chevalier_, cioè Bajardo: _Desja etait bruist par tout le camp, que l’on donneroit l’assault à la ville sur le midy, ou peu après. Lors eussiez vue une chose merveilleuse; car les prestres estoient retenuz à poix d’or à confesser, pource que chascun se vouloit mettre en bon estat; et y avoit plusieurs gens d’armes qui leur bailloient leur bourse à garder; et pour cela ne fault faire nulle doucte que messeigneurs les curez n’eussent bien voulu que ceulx, dont ils avoient l’argent en garde, feussent demourés à l’assault. D’une chose veulx bien adviser ceulx qui lysent ceste histoire; que cinq cens ans avoit qu’en camp de prince ne fut vu autant d’argent qu’il y en avoit là; et n’estoit jour qu’il ne se desrobast trois ou quatre cens lansquenetz qui ammenoient beufz et vaches en Almaigne, lictz, bleds, soyes à filer, et autres ustensilles; de sorte que audit Padouan fut porté dommage de deux millions d’escus, qu’en meubles, qu’en maisons et palais bruslez et detruitz_. [136] — Il modo della benedizione fu così: Eran cinque ambasciadori veneziani, i quali, dopo l’accordo, innanti al papa se inginogiarno, e tre volte in pubblico sotto a lo antiportico di San Pietro in Roma andarno a basiare prima el piede, poi la mano, ultimamente l’osculo; indi furono aperte le cinque porte di San Pietro, e drieto a cardinali alla messa papale entrarno egli poi, e da esso al finir della messa benedicti furno». PRATO, _Cronaca milanese._ [137] MURATORI, _Antichità estensi_. [138] Così un Nassino, suo fidato. [139] Merita esser letto il _Racconto di Gian Giacomo Martinengo_, pubblicato dietro alla _Storia di Milano_ del Rosmini. Egli divisa tutti i mezzi de’ congiurati, la loro fiducia sopra mille accidenti, che teneano per infallibili e che uscirono al contrario, e che egli, secondo il solito, imputa a tradimento. Fra altri, don Raimondo Cardona doveva impedire a’ Francesi di abbandonar Bologna, intanto che i Bresciani coi Veneti, cogli Spagnuoli, cogli Svizzeri avrebbero occupato gran parte del Milanese. Ma egli si lasciò corrompere da trentamila scudi, numeratigli dal Foix. Vivissime sono le particolarità di quel racconto, che finisce con queste parole: — Ora, figliuoli miei carissimi e discendenti, io ve raccomando per l’obbedienza che siete tenuti portarmi, che mai in alcun tempo facciate come ho fatto io in questo, a metter la vita e la roba in servizio de’ principi, perchè con essi si ha a perder molto e a guadagnar poco; perchè li principi sono liberalissimi rimuneratori a parole, ma de’ fatti sono avarissimi; e se non obbedirete a’ miei comandamenti, ve ne troverete malcontenti». Fu notato un bizzarro riscontro fra l’impresa di Gastone e quella de’ Tedeschi nel 1849 contro Brescia stessa. La parte di Bajardo sarebbe rappresentata dal giovane Nugent, il quale avanzandosi per calmare, restò ferito a morte; testando beneficò la città stessa, che sulla sua tomba scrisse, _Oltre il rogo non vive ira nemica_. [140] MACHIAVELLI, _Della natura de’ Francesi_. [141] Il cardinale d’Amboise confessò al re, che da alquanti anni riceveva la provvigione di cinquanta mila ducati da varj principi e repubbliche d’Italia, e trentamila dalla sola Firenze. [142] Lo nega il Guicciardini per adulare ai Medici. — Tre descrizioni di quel sacco si stamparono nell’_Archivio storico italiano_, vol. I, 1842; e le immanità degli Spagnuoli trascendono l’immaginazione. «Dove io non voglio mancar di raccontare duoi esempj molto notabili, l’uno per la conservazione della castità, e l’altro per la vendetta della perduta pudicizia. Era campata dalla morte una donna vecchia, la quale essendo stata presa nella propria casa, serviva a’ comandamenti e servigi de’ vincitori. Costei in quel primo tumulto e furore aveva nascosto una pulzella sua nipote in un luogo segretissimo, e in quello nascosamente la cibava, per salvarla dall’insolenza de’ nemici. I quali nondimeno, essendosi accorti di ciò, e avendo ritrovato il luogo, ne trassero l’infelice fanciulla, la quale piangendo e piena di dolore era accarezzata e consolata dai detti soldati; ma ella, raccomandandosi e dissimulando quanto più poteva la grandezza del dolore, e accostandosi poco a poco ad un balcone, di subito con un salto inaspettatamente si gettò a terra di quello, e così coll’acerbo rimedio della morte provvide alla conservazione della castità. Un’altra giovanetta, il marito della quale era rimaso ancora nelle mani de’ nimici perchè pagasse la taglia, ne fu menata da un uomo d’arme spagnuolo, e tenuta poi più tempo a’ suoi servigi, menandosela per tutto dietro, vestita a guisa di ragazzo. E così, avendo consumato lo spazio di sette anni nelle guerre di Lombardia, secondo che gli fu poi di bisogno si condusse nella città di Parma; dove dimorando la giovane, e conoscendosi esser vicina alla Toscana, pensò di liberarsi, con giusta vendetta della sua perduta pudicizia, da tanto vergognosa servitù; e così una notte quando tempo le parve, giacendo a lato del suo padrone, mentre egli era oppresso dalla gravezza del sonno, gli segò la gola, e pigliando tutti i denari e gioje e ricchezze di lui, delle quali essa medesima era guardiana, e appresso montata sopra uno de’ migliori cavalli ch’egli avesse, passati i vicini monti, se ne scese in Toscana. E arrivata in Prato, e giunta alla bottega del marito, che bottajo era, standosi ancora essa a cavallo, chiamandolo per nome disse: — Conoscimi tu?» E quegli, avendola riconosciuta, si volle accostare a lei e accarezzarla; ma ella con voce libera gli disse: — Marito mio, stammi lontano; o tu risolvi e promettimi di ricevermi e trattarmi per l’avvenire come tua carissima moglie con questa sopraddote di cinquecento fiorini d’oro che io ti reco in ricompensa della mia violentemente perduta pudicizia». Onde dal marito ella fu ricevuta amorevolmente, e da tutte le donne pratesi sempre poi molto onorata e accarezzata, come se con questo suo generoso atto avesse anche parimente vendicato l’ingiuria della loro violata pudicizia». JACOPO NARDI. [143] Vedi la nota (14) del Cap. CXX. [144] De’ Pazzi; quei che aveano congiurato. [145] A Luca della Robbia, nipote del pittore, che l’assistette fin agli ultimi momenti, il Boscoli diceva: — Deh, Luca, cavatemi dalla testa Bruto, acciò ch’io faccia questo passo interamente da cristiano». Il frate che lo assistè, diceva pure a Luca: — E quanto a quello cui dicesti la notte, ch’io gli ricordassi che le congiure non son lecite, sappi che san Tommaso fa questa distinzione: o che il tiranno i popoli sel sono addossato, o che a forza, in un tratto, a dispetto del popolo e’ regge; nel primo modo non è lecito far congiura contro al tiranno; nel secondo è merito». Neppur questa volta il liberalismo stava col Machiavelli. [146] PRATO, _Cronaca milanese_, pag. 415 nell’_Archivio storico italiano_. [147] Nell’assedio la città già cadeva ai Francesi quando Emanuele Caballo osò fra le artiglierie nemiche penetrarvi con un vascello carico di viveri; onde, sospesi gli orrori della fame, restò liberata. [148] Nelle lettere del Bembo a suo nome ricorrono frequenti esortazioni alla pace. Quando Massimiliano Sforza rientra in Milano, lo prega a non voler vendetta, e usare della vittoria con moderazione (lib. III, ep. 2). A Raimondo di Cardona dopo la vittoria degli Svizzeri scrive: — Quanto deploro la morte di sì prodi soldati ed illustri capitani, che tanti servigi avrebbero potuto rendere alla causa cristiana! Non la guerra noi dobbiamo volere, ma la pace. Voi, che assai potete su Massimiliano, mostrategli come a un principe nulla convien meglio che la dolcezza, la bontà, la clemenza; dimentichi le ingiurie, e voglia far suo non le ricchezze ma il cuor de’ sudditi» (lib. III. ep. 2). Così intercede presso Massimiliano a favore del marchese di Monferrato che avea lasciato il passo ai Francesi, diretti sopra Milano (lib. III. ep. 3). [149] È strano che il Machiavelli, grande apostolo dell’unità, rimprovera a Luigi XII _d’aver rovinato i deboli in Italia_. [150] Vorrebbesi che in quell’occasione i Francesi forassero il passaggio del Monviso alla Traversotta: ma pare quell’operazione fosse eseguita nel 1480 da Luigi decimo marchese di Saluzzo. [151] Al Montmorency dirigeva una lettera che conservasi nella biblioteca nazionale di Parigi e che finisce: — Io ho scripto la presente de mano mia propria per non fidarmi di persona. Vostra signoria mi perdona se hè mal scripto, che a la scola non imparai meglio». [152] L’ottobre 1515, ad Ambrogio Cusano, pretore del suo feudo di Lecco, scrive: _Deum testor optimum maximum neminem fuisse aut esse qui magis deditionem impugnaverit, magisque contenderit, ut potius extrema sequeremur, quam in hostium potestatem arcem nosque ipsos dederimus, quam ego fui..... Oportuit, atque iterum repeto, oportuit deditionem fieri; cujus rei culpam cum sit periculosum revelare, satius est subtacere_. [153] Paride de’ Grassi cerimoniere ci lasciò descritto a minuto questo convegno, e quanti onori re Francesco rese a Leon X. Nella messa solenne il papa chiese al re se voleva comunicarsi: egli rispose non esservi disposto: ma molti della sua corte che lo desideravano v’accorsero, sicchè il papa dovette dimezzar le ostie per comunicarne quaranta. Il re stesso teneva indietro la folla; ed un Francese ad alta voce disse: — Santo Padre, giacchè non posso da voi comunicarmi, mi voglio almen confessare, e poichè non potrei all’orecchio, vi dirò di qui che ho combattuto il meglio che potei contro papa Giulio, senza far mente alle censure». Allora il re soggiunse d’avere il peccato medesimo, altrettanto dissero gli altri baroni, e il papa diè loro l’assoluzione. [154] Monsignor Goro Gheri, governatore di Piacenza, scrive il 1514: — Egli è qua il Rovato, frate da zoccoli, el quale è valentuomo, e in questa città ha buona reputazione. E perchè questa città è divisa, da una parte di quella abitano Guelfi, dall’altra abitano i Ghibellini, di modo che l’una parte non va ad udire la predica nelle chiese che sono più propinque all’altra parte, e la chiesa cattedrale è la manco frequentata che ci sia dall’una delle parti: il frate Rovato, per trovare un luogo che sia più comune che si possa nella città all’una e l’altra parte, ha trovato una chiesa di San Protasio ecc.». _Archivio storico_, app. VI, 36. A Giuliano de’ Medici rimandava il 1515 un memoriale, ove dice: — Questa città è divisa in due fazioni principali, cioè Guelfi e Ghibellini; e più particolarmente ci sono quattro case principali: due guelfe, cioè Scotti e Fontana; e due ghibelline, cioè Landesi e Anguissola: e con il nome di queste quattro famiglie si imborsano li officj di questa città e nello estraere detti officj non si fa alcuna menzione nè del principe nè della comunità, ma nelle borse dove sono le polizze è scritto la borsa de’ Landesi o la borsa degli Scotti, e così delle altre famiglie dette di sopra; cosa poco onorevole al principe e odiosa al popolo molto, perchè per questo modo ricevono una superiorità molto strana: e ne risulta che quelli che sono gentiluomini e uomini da bene fuggono intervenire nelle cose della comunità, e quelli che accettano detti officj, pro majori parte sono genti bisogna che seguino le voglie di chi dà loro li officj». [155] Vedansi le negoziazioni austriache, pubblicate nel 1815 da Le Glay. [156] Lasciando via l’adulatore Giovio e il maledico Steidan e gli altri storici antichi, e il Robertson, viepiù imperfetto dacchè tanti nuovi documenti vennero in luce, il dottor Vehse scrisse una vita di Carlo V denigrandolo: ma meglio compare in opere posteriori. Fra le quali merita molta attenzione la _Correspondenz des Kaisers Carl V, aus den K. Archiv und der Bibliothèque de Bourgogne zu Brüsselle mittgetheilt von Dr_ CARL LANZ. Lipsia 1844. G. De Leva stampa la storia di Carlo V relativamente all’Italia. [157] Relazione di Giovanni Corner alla Signoria veneta, nelle _Rel. des ambassadeurs_, II. 144. Parigi 1838. [158] Il Molini nei _Documenti di storia italiana_ pubblicò la lettera dello Sforza, che dà tal commissione al Pallavicini. I Pallavicini, signori di Cortemaggiore, Castiglione, Busseto e altri luoghi del Lodigiano, figurarono assai tra i fautori di Francia. Orlando, ch’ebbe da Francesco Sforza il feudo di Busseto, lasciò molti figli che ottennero titoli ecclesiastici e civili dagli Sforza e nuovi feudi, dai quali presero nome i diversi rami. Gian Luigi, rompendo la fede avita, si gettò coi Francesi: ma quando Lautrec fece squartare Manfredo, egli non cessò più dai lamenti e dalle accuse non ascoltate. Cristoforo, che avea arricchito Busseto di chiese e conventi, combattè coi Francesi a Marignano; pure l’odio del Lautrec lo perseguì finchè l’ebbe prigioniero, e quando ritiravasi dalla Lombardia il fece decapitare. Galeazzo e Anton Maria suoi fratelli si tennero fedelissimi a Francia; quand’era battuta, ritiravansi ne’ loro feudi; appena risorgesse ricomparivano. Anton Maria era detto il _gran traditore_ perchè consigliò a Bernardino Corte di cedere il Castello di Milano; ebbe ricchezze dal re; amò la bella Caterina Leopardi, ammirata da tutti e da Luigi XII, che ne arricchì e nobilitò la discendenza. Girolamo, figlio di Cristoforo, combattè contro i Francesi in Fiandra, e dopo la pace di Castel Cambresì tornò a Busseto, e volle sposare la prima donna che mendicasse al suo castello. Fu una montanara piacentina, che mai non dimenticò l’origine, e fece sepellirsi negli abiti di origine. Eran gente robusta di corpi e di spiriti. Cristoforo, chiamato a Roma a giustificarsi a Giulio II del suo starsi neutrale, investiva il fratello Ottaviano che mal rispondeva, e castigavalo a schiaffi. Galeazzo sposò Eleonora Pico; e perchè questa levossi buon’ora al domani delle nozze per udir messa, egli cacciolla e riprese la druda Bianchina. Carlo Sforza Pallavicini fu santo vescovo di Lodi, e da questa stirpe venne il famoso storico del concilio di Trento. [159] E una pura colomba Nel conversar paria. DIOMEDE DA PO [160] Da Ambrogio Noguet, nella preziosa raccolta di ritratti della biblioteca Trivulzio. [161] È stravagante l’opinione del padre Mattia Bellintani da Brescia, che Adriano VI nascesse in Renzano della riviera bresciana. Vedi _Storia di Salò._ Brescia 1599. [162] Le bande inglesi portarono in Italia la malattia conosciuta col nome di _sudore anglico_, che con forma di petecchie contaminò il regno nel 1506; nel 1524 apparve a Milano, nel 27 nell’esercito del Borbone, nel 28 in quello del Lautrec. Vedi HECKER, _Der englische Schweiss_. Berlino 1832. [163] In generale noi omettiamo questi numeri de’ soldati, degli uccisi ecc., perocchè non troviamo mai d’accordo gli scrittori; oltre che ognun di noi sa oggi quel che valgano, non solo i bullettini di guerra, ma fino i quadri degli eserciti. Certamente Luigi XII, quando leggeva la storia delle sue campagne, ne facea risate. Vedi FERRON, _De gestis Gallorum_, lib. III. [164] ROSSI. _Vita di Giovanni dalle Bande nere_. [165] La battaglia di Pavia e tutto il libro XV sono tolti da Galeazzo Cappella; molte altre narrazioni dal Cavalcanti, dal Rucellaj, dal Commines. [166] Al principio del libro XIV dice: — La quale (Italia) stata circa tre anni in pace, benchè dubbia e piena di sospensioni, pareva che avesse ’l cielo, il fato proprio e la fortuna o invidiosi della sua quiete, o timidi che (riposandosi più lungamente) non ritornasse nell’antica felicità». [167] I passi contrarj a Roma furono taciuti nella prima edizione postuma fatta dal Torrentino a Firenze il 1561; e solo comparvero nell’edizione del 1775 colla falsa data di Friburgo, perfettamente conforme al manoscritto dell’autore. Il passo più notevole e lungo è nel lib. IV e V secondo la disposizione del Rosini, sopra il rimutamento dei papi dalle cure spirituali alle mondane, dall’universalità alle famiglie proprie. Turpe macchia inflisse alla memoria di lui la pubblicazione delle opere inedite, fattasi a Firenze il 1858. Degli storici riparliamo nel Cap. CXLI. [168] — Io dubito che a molti sia per recar noja così pieno e accumulato inviluppo di cose; avendo io a obbedire a spazio di tempo così ristretto quanto è quello di due mesi, e insiememente a materia tanto varia e molteplice quanto è questa, che in un medesimo tempo tutta Italia in diverse parti bolliva di guerra, che altro modo o via posso tener io, per cui speri poter con maggior luce queste cose trattare?» Lib. XXV. [169] Nel libro VI si gloria d’avere udito dal duca Cosmo che la famosa campana di Pisa pesava ventisettemila libbre, e si udiva da tredici miglia discosto. — Ammirato giuniore, diligentissimo cercatore d’archivj, vi fece copiosissime aggiunte, le quali viepiù imbarazzarono il racconto. [170] L’Ammirato (lib. XXIII) dice del Machiavelli che «si vede esser poco diligente in tutta quella sua opera; i cui errori se noi volessimo andar riprovando, o non osserveremmo il decoro dell’istoria, o senza dubbio ci acquisteremmo biasimo di maligno. Scambia gli anni, muta i nomi, altera i fatti, confonde le cause, accresce, aggiunge, toglie, diminuisce, e fa tutto quel che gli torna in fantasia senza freno e ritegno di legge alcuna. E quel che più par nojoso è che in molti luoghi pare ch’egli voglia far ciò piuttosto artatamente che perchè ci prenda errore, o che non sappia quelle cose essere andate altrimenti: forse perchè così facendo, lo scrivere più bello e men secco ne divenisse, che non avrebbe fatto se a’ tempi e a’ fatti avesse ubbidito, come se le cose allo stile, e non lo stile alle cose s’avesse ad accomodare». «Il Machiavelli, invece di darci le _storie fiorentine_, come porta il titolo del suo libro, altro non ci diede che la storia delle _ambizioni fiorentine_. Lo stato economico e morale di quel popolo è così obbliato, che tu non ravvisi differenza fra il secolo de’ Medici e quello de’ Buondelmonti e Amidei». ROMAGNOSI, _Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento_, part. II. § 3. [171] _Ragguaglio sulla vita e le opere di Marin Sanuto detto Juniore, veneto patrizio_ ecc., per RAWDON BROWN. Venezia 1838. Giaciono nella biblioteca di Vienna; ma la Marciana n’ebbe una copia, e la loro importanza è provata dal vederli continuamente fra le mani degli studiosi. [172] Del Navagero sono importanti le relazioni che mandava, stando ambasciadore a Carlo V nel 1524; e un compendio ne diede Emanuele Cicogna in _San Martino di Murano_. Egli udì da esso imperadore rinfacciar all’ambasciadore di Francia che Francesco gli avesse proposto di calare in Italia, e, svelto il dominio pontifizio, spartirsela. [173] Il decreto del Consiglio dei Dieci al 26 settembre 1530, dopo le generalità sull’importanza della storia e lodi al Bembo, «le cui opere latine si leggono per tutta Italia e cristianità con somma ammirazione ed estimazione», gli affida la custodia della biblioteca Nicena, e la continuazione delle deche sabelliche. «E perchè gli sarà necessario, per legger le lettere e i libri nella cancellarla nostra, dove avrà ad informarsi di detta istoria, venir a star in questa nostra città, però per segno di gratificazione verso la sua persona, e non per premio alcuno, sia preso che gli siano dati ogni anno ducati sessanta per pagar l’affitto d’una casa». La _Storia veneziana_ del Bembo in italiano fu stampata con moltissime correzioni, non solo per le cose, ma per lo stile, le parole e il periodo. Non se ne conosce il colpevole, ma certo la cosa fu discussa, e monsignor Della Casa scrivevane al Gualteruzzi, erede dei manoscritti del Bembo, che «sebbene vi fossero alcune parole e modi antichi, o fors’anco tutta la frase fosse un poco affettata, secondo il giudizio di alcuno, o ancora secondo il giudizio comune», nessun però avrebbe voluto mettere il proprio giudizio avanti a quel di esso Bembo, il quale, «essendogli stato detto questo che si dice ora dell’affettazione delle sue scritture vulgari in prosa, non avea però mai voluto mutare quello stile, reputandolo degno e grave e non antico e affettato». L’originale autografo fu trovato nell’archivio dei Dieci, e da questi mandato, il 1788, alla biblioteca Marciana, dove ora si trova, e sul quale il Morelli, per stimolo del procuratore Francesco Pesaro, fece la bella edizione del 1790. Riferiremo il principio, sì per saggio dello stile che gli accademici lodano, sì per le asserzioni che contiene: — I fatti e le cose della città di Vinegia patria mia, le quali in tempo di quarantaquattro anni avvenute e state sono, io a scrivere incomincio, non di mio volere e giudicio, o pure perchè a me giovi e piaccia di così fare; ma da uno quasi fato sospinto, o almen caso, che così portato ha che io faccia. Perciocchè, morto nell’ambascieria di Francia M. Andrea Navajero, a cui questa cura era stata data per lo addietro; essendo io stato richiesto per decreto del Consiglio delli Diece, che, posciachè egli morendosi avea fatto ardere i suoi scritti, io in quella stessa bisogna alla città ciò da me chiedente non mancassi; vergognandomi di ricusare, a questa così varia e molteplice e, come nel vero dire posso, sommamente faticosa scrittura mi son posto _nell’anno della mia vita sessantesimo_: di maniera che, se la richiesta pubblicamente fattami stata non fosse, giustamente potrei ripreso essere dagli uomini dello avere avuto ardire in questa età di sottopormi a cotanto peso». Sebbene dovesse comprendere quarantaquattro anni, non va che dal 1467 al 1512. [174] Nelle lettere dice: — Quanto alla vita e costumi, fo maggior professione di sincerità e di modestia, che di dottrina e di lettera». E nella storia, lib. II: _Equidem non is ego sum qui cujuspiam gratiam eorum qui vivent aucapari studeam; homo recondita natura, et satis cognita fide_. [175] Lettera del 1º ottobre 1497. [176] Delle moltissime storie municipali accenneremo soltanto, per Padova Bernardino Scardeone; per Rovigo Andrea Nicolio; per Treviso il Bonifacio e il Burchelati; per Verona il Rizzoni, il Corte, il Saraina; per Ferrara il Baruffaldi; per Brescia il Cavriolo; per Bergamo il Bellafini e Gian Grisostomo Zanchi (_De Orobiorum sive Cenomanorum origine_, Venezia 1531), che esalta la sua patria, come allora si facea, con esagerate opinioni, impugnategli da Gaudenzio Merula novarese e da Bonaventura Castiglioni milanese, i quali trattarono de’ Galli Cisalpini, e che, al pari d’Ottavio Ferrari da Milano, conobbero le falsità di Annio da Viterbo; per Crema Alemanio Finio; per Belluno il Piloni e il Doglioni; per Feltre il Dalcorno; per Vicenza il Maccà, il Barbarano, il Castellini; pel Friuli Giovanni Candido; per Ferrara Pellegrino Prisciani, Gasparo Sardi, Cintio Giraldi; e Girolamo Falletti e il Pigna specialmente per la casa d’Este; per Milano l’Alciati, il Merula, il Bescapè, il Morigia, oltre le cronache del Cagnola, del Burigozzo, del Prato; Antonio Campi per Cremona; Benedetto Giovio e Francesco Muralto per Como: l’Equicola per Mantova; il valente medico Girolamo Rossi per Ravenna; per Bologna l’Alberti, il Sigonio, Achille Bocchi, il Ghirardacci; il Maurolìco e il Fazello per la Sicilia. Benvenuto da San Giorgio conte di Biandrate fece una storia latina del Monferrato, esatta, e giovandosi degli archivj che ebbe a disposizione. Un discorso di don Vincenzo Borghini sulla storia fiorentina è irto d’erudizione. [177] Aggiungiamo Giorgio Florio, professore di retorica a Milano, che stese in sei libri le guerre di Luigi XII e Carlo VIII, propenso ai Francesi; e Biagio Buonaccorsi fiorentino, che fece un arido diario dal 1498 al 1512. [178] Lettera del cardinal Bibiena in quelle di _Principi a Principi_. [179] Li raccogliamo da Francesco Muralto, che di que’ giorni scriveva una cronaca rimasta manoscritta. Se ne trovano pure notizie in ROSCOE, _Vita di Leon X_, vol. 7, ediz. di Milano. La guerra contro i Turchi fu sempre soggetto di esortazioni popolari in prosa e in versi. A tacere le composizioni di letterati, abbiamo del 1480 poesie vulgari, di foggia bizzarra, fra cui scegliamo questo sonetto: _Surgite, eamus_, dixe el bon Jesù, _Ecce appropinquat_ chi trader me de’: _Surgite et vos_, signor, principi, re Che Juda è in l’orto, non dormite più. _Non potuistis vigilare._ Or sù Pigliate l’arme in man ch’el tempo n’è. _O stulti et tardi_, non vedete che Se non ve unite insieme, tristi vu? Guardate Jove che a Saturno va Per farne in breve tempo sentir ciò Che tante lingue han predicato già. _Surgite_ adunche _ad quid_: ma per che no Che con prudenzia l’omo savio fa Bus... il ciel e Dio pentir si po. Il _Diarium parmense_, manoscritto nella biblioteca di Parma, reca pure una lamentanza assai lunga: Italia sono, misera chiamata, Con le man zonte a lacrimosi occhi. Pietà ve prenda, o falsa brigata, Prima che Dio la punizione scocchi. Ecco ver nui la turchesca armata: Deh mirate un po i miei lacrimosi occhi! Pietà ve prenda legger mio lamento, Forse farete alcun provvedimento... Italia sono, e il rimembrar m’accora, Che cresce el mondo quanto intorno cigne; Oh quante glorie digne N’ebbi a’ miei tempi e trionfali onori!... Io prego Iddio che l’intelletto allume A vui, crudeli e falsi Italiani, Che sete come cani Di rabbia e di venen calcati e colmi... A te mi volgo, o papa Sisto, Che tieni in mano le divine chiavi... Lassa li cibi e le oziose piume, I stati altrui per darne a chi m’intende; A questa impresa attende, Lassando le avarizie e pompe false. La ricca dote a Costantin che valse Lassare a voi, pastor, se ’l cristianesimo Fia dal paganesimo Con gran dispregio vinto e con dolore?... Regina del gran mar donna Vinetia Che tien l’insegna del beato Marco, Che hai avuto il carco Gran tempo a contrastar con tal genìa, Qui mostrarai tua gran vigoria Spiegando le toe belle insegne ornate. E passati in rivista gli stranieri e i potentati italiani, ripiglia: Non so in qual parte più mi valga el dire; Sento mancar la voce a mezzo el petto... A mio soccorso l’un l’altro riguarda, E tal ne ride sotto i falsi panni Che sentirà gli affanni, Non è gran tempo ben che non sel creda. [180] Ecco un’altra delle famiglie magnanime, di cui noi raccogliamo le ricordanze, aspettando si faccia una storia delle famiglie, per tutt’altro che per vanità di genealogie. Bartolomeo Colleone ne adottò tre della famiglia bergamasca, i quali seco combatterono alla Ricardina, e ne ereditarono l’amore delle arti, delle quali furono patroni a Brescia e a Bergamo; e non meno pii che eroici, vi favorirono il movimento religioso, iniziato da Bernardino di Siena, poi sospinto dal concilio di Trento, e pel quale sorsero tante chiese e conventi. [181] Gli Spagnuoli, quando andavano a conquistare un paese in America, facevano una intimazione, nella quale si raccontava ai selvaggi qualmente tutti gli uomini fossero nati da un solo, poi dispersi e moltiplicati, e — Dio ne affidò la condotta a Pietro, costituendolo capo e sovrano di tutta la stirpe umana, acciocchè dovunque nascano e in qualunque credenza vivano, a lui obbediscano; sottopose tutto il mondo alla giurisdizione di lui, e gli ordinò di piantar sua sede in Roma; gli ha dato podestà di stabilire l’autorità sua su tutte le altre parti del mondo, e governare e giudicare tutti i Cristiani, Mori, Ebrei, Gentili, e di qualunque setta; vien chiamato papa, che vuol dire _ammirabile, gran padre, tutore_... Quest’uso dura tuttavia, e durerà sino alla fine dei secoli». [182] RAYNALDI, al 1488 7 aprile, § 21. [183] CIBRARIO, _Istituzioni della monarchia di Savoja_, pag. 127. [184] Sermone per la V domenica di quaresima. [185] LANDI, _Paradossi_. [186] A Lione 1502, 1505, 1507, 1536, 1571, 1573, 1577, 1594; a Agen 1508, 1510, 1514, 1578; a Parigi 1518, 1521; ad Argentina e Rouen 1515; a Brescia 1521; a Venezia 1585. [187] Uno diceva: — Voi mi chiedete, fratelli carissimi, come si vada in paradiso. Le campane del monastero ve l’insegnano col loro suono; dan-do, dan-do, dan-do». [188] MURATORI, _Annali d’Italia_ a quell’anno. [189] Ammirato il Giovane racconta che, nel 1431, a Firenze venne un cavaliere gerosolimitano con un Minorita; e quegli annunziava aver dal papa autorità somma per assolvere dalla dannazione: questi stava a banco nelle chiese a scrivere e sigillar le lettere delle indulgenze e assoluzioni _di colpa e di pena_, dispensando in arduissimi casi chi portava non solo denari, ma vesti e panni. I senatori, dubitandone, vollero vedere l’autorità del cavaliere, e la trovarono minore di quella che annunziava; onde gli proibirono di passar più avanti, ne scrissero al papa, e crebbero _le pene contro a simil gentaccia_. [190] Jacopo delle Marche Minorita, predicando a Brescia il 1462, affermò che il sangue da Gesù Cristo versato nella sua passione era separato dalla divinità, e perciò non gli si doveva l’adorazione. Se ne levò tanto rumore, che Pio II volle fosse messo in disputa alla sua presenza da celebri teologi: i quali si bilanciarono in modo, che esso papa non potè se non imporre silenzio su tal quistione. Non saprei che eretici fosser quelli che dalla Francia e dalla Lombardia si erano ricoverati fra i monti della Valtellina, e alla cui conversione andò il beato Andrea Grego da Peschiera, domenicano del convento di San Marco in Firenze, dimorando quarantacinque anni fra pastori e carbonaj (-1455). [191] Nella vita di sant’Antonino scritta dal Vespasiano, edita dal Maj nello _Spicilegium romanum_, leggo: — Giunto a Roma, dal pontefice fu molto onorato e da tutta la corte di Roma; e contro a molti che dicono i prelati usare le pompe per essere stimati, giunto a Roma con una cappa da semplice frate, con un mulettino vile, con poca famiglia, era in tanta reputazione, che non andava per Roma in luogo ignoto, che quando passava per la via non s’inginocchiasse ognuno a onorarlo: assai più onorato era lui che i prelati con le belle mule e con gli ornamenti dei cavalli e famigli». Sebbene alcuni mi accusino dell’opposto, io credo mi si farà colpa di non avere tenuto conto di tutti i pii e i santi italiani. In realtà, questo è un nuovo punto d’aspetto della storia nostra, e deve importare l’osservare coloro, almen quanto il Borgia e l’Aretino. E bene il Rohrbacher, nel lib. LXXIX della _Histoire universelle de l’Église catholique_ (Parigi 1851), dopo enumerati i moltissimi Santi della metà del 1300, conchiude: _On le voit; l’Italie était un paradis terrestre dont le ciel paraissait sillonné de nuages et d’éclairs en tout sens, mais dont le sol produisait les plus belles fleurs, les plus beaux fruits, et pour le temps et pour l’éternité. Il y a des voyageurs d’histoire, qui n’aperçoivent et ne signalent que ces éclairs et ces nuages. Autant vaudrait dire que le printemps est la triste saison où les hannetons bourdonnent, où les grenouilles coassent, où les chenilles rongent les arbres, où la vermine foisonne partout_. [192] _Vita Leonis X._ [193] Dedica del Giamblico e proemio al Proclo. Qui alcuno aspetterà ch’io metta anche i lamenti del Poliziano pel tempo buttato via nel dir l’uffizio, riportati dal Bayle e copiati da tanti. Ebbene, tutt’al contrario, nell’epistola 9 del libro II a Donato, egli si querela che le frequenti visite lo obblighino a interrompere sin l’uffizio: _Adeo mihi nullus inter hæc scribendi restat aut commutandi locus, ut ipsum quoque horarium sacerdotis officium pene, =quod vix expiabile credo=, minutatim concedatur_. È però vero che, scrivendo a Lorenzo de’ Medici il 6 aprile 1479, si lagna che la madre facesse leggere al figlio Giovanni i salmi, a preferenza de’ nostri libri: _Transtulit jam illum mater, id quod equidem non probavi, ad psalterii lectionem, atque a nobis abduxit_. Son note le poesie lubriche del Poliziano, e le oscenità di Giovian Pontano, del Landino, del Poggio, del Filelfo, e l’_Ermafrodito_ del Panormita, che dirigendolo a un suo amico, lo diceva _libellum equidem lascivum, sed ea lascivia, qua summi oratores, sanctissimi poetæ, gravissimi philosophi, viri continentes et christiani præluxere_. [194] _Te colimus, tibi serta damus, tibi thura, tibi aras_ _Et tibi rite sacrum semper dicemus honorem._ _Nos aspice præsens,_ _Pectoribusque tuos castis infunde calores_ _Adveniens pater, atque animis te te insere nostris._ _Multis comitantibus heros — immobilis heros orabat — curis confectus tristibus heros — ipse etiam_ (il cattivo ladrone) _verbis morientem heroa superbis stringebat._ [195] E s’io potessi un dì per ventura Queste due luci desiose in lei Fermar quant’io vorrei, Su nel cielo non è spirto beato Con ch’io cangiassi il mio felice stato. [196] _Omitte has nugas, non enim decent gravem virum tales ineptiæ._ [197] _Quæ pietas, Beroalde, fuit tua, credere verum est_ _Carmina nunc cœli te canere ad cytharam._ [198] _Accesserat et Bibienæ cardinalis ingenium, cum ad arduas res tractandas peraore, tum maxime ad movendos jocos accommodatum. Poeticæ enim et etruscæ linguæ studiosus, comœdias multo sale multisque facetiis refertas componebat, ingenuos juvenes ad histrionicam hortabatur, et scenas in Vaticano spatiosis in conclavibus instituebat. Propterea, quum forte Calandram a mollibus argutisque leporibus perjucundam... per nobiles comœdos agere statuisset, precibus impetravit ut ipse pontifex e conspicuo loco despectaret. Erat enim Bibiena mirus artifex hominibus ætate vel professione gravibus ad insaniam impellendis, quo genere hominum pontifex adeo oblectabatur, ut laudando, ac mira eis persuadendo donandoque, plures ex stolidis stultissimos et maxime ridiculos efficere consuevisset._ GIOVIO. [199] _Lett. di Principi a Principi_, I. 16. [200] Gemistio Giorgio, che poi trasformò il suo nome in Pletone, nato a Costantinopoli verso il 1355 e morto il 1452, stabilito a Misitra, dov’ebbe scolaro il Bessarione, cercò distorre dall’unir la Chiesa greca colla latina, e lo fece anche nel concilio di Firenze a cui intervenne. Quivi trovò il platonismo già rinato, e contribuì a diffonderlo, misto a fantasie pagane tolte dai Neoplatonici. Diè fuori un _Sunto dei dogmi di Zoroastro e Pitagora_, esposizione fatta con arte perchè non desse ombra agli eterodossi quel suo opporre la teologia gentile alla ecclesiastica. La contraddizione del famoso patriarca Gennadio nol lasciò proseguire nel suo apostolato, e restò inedito il suo _Trattato delle leggi_, del quale molta parte fu stampata nel 1858 da M. Alexandre dell’Istituto a Parigi. È una vera apologia del politeismo, combinandone i dogmi per adattarli a un sistema filosofico regolare; vi si trovano l’esposizione dei dogmi, l’organamento della nuova società pagana, le leggi sue, il culto, le feste, gl’inni e le preci per ciascun Dio. Insomma appare degno maestro di quel Pomponio Leto, che davanti ai papi professava di voler distruggere l’opera di Gesù Cristo. [201] _De fato_, III. 7. [202] _Respiciens legislator pronitatem viarum ad malum, intendens communi bono, sanxit animam esse immortalem, non curans de veritate sed tantum de probitate, ut inducat homines ad virtutem; neque accusandus est politicos._ De immortalitate animæ. Matter (_Hist. des découvertes morales et politiques des trois derniers siècles_) alzò a cielo il Pomponazzi come avesse stabilito la legge della perfettibilità umana, il progresso delle istituzioni e delle scienze, e la dottrina d’indipendenza dei tempi moderni. Sono sofismi degni di chi chiama _barbara_ l’Italia al tempo di Leon X. [203] Lo racconta lo Zilioli, _ms_. nella Marciana. [204] CARACCIOLO, _Vita di Paolo IV_, ms. Il Pulci metteva in baja queste disquisizioni: Costor che si fan gran disputazione Dell’anima ond’ell’entri e ond’ell’esca, O come il nocciol si stia nella pesca, Hanno studiato in su n’un gran mellone. [205] Sono Alberto Magno, san Tommaso, Francesco Marone, Enrico Gandavense, Egidio Romano, Averroe, Avicenna, Alfarabio, Isacco di Narbona, Abumaron babilonese, Mosè egizio, Mahumet Tollettino, Avempaten arabo, Teofrasto, Ammonio, Simplicio, Afrodiseo Alessandro, Temistio, Plotino, Adelando arabo, Porfirio, Giamblico, Proclo, i Pitagorici, i teologi caldei, ebraici, i cabalisti, Mercurio Trismegisto. E dice essere stato educato a non giurare nella parola di nessuno, ma diffondersi su tutti i maestri di filosofia, vagliare tutte le carte, conoscere tutte le famiglie. Il razionalismo di Pico arrivava sin a credere che l’oro puro, anche sotto forma tedesca, valga meglio che il falso coll’eleganza romana (Lettera del 1485). [206] Il costui carteggio in proposito col Lanfredini fu testè pubblicato dal Bert nella _Rivista contemporanea_ con ricche notizie. [207] Viene a proposito specialmente la novella X, il cui argomento è: — Come un vecchio penitenziere non in ville o in luoco rustico, che l’ignoranza il potesse in parte iscusare, ma ne l’alma città di Roma e nel mezzo di San Pietro per somma cattività e malitia vendea a chi comperare il volea come cosa propria il paradiso, sì come da persona degna di fede m’è stato per verissimo raccontato». [208] JACOBI SADOLETI cardinalis. _De Christiana Ecclesia._ _Ad Johannem Salviatum cardinalem,_ _.... Majores nostri salientissimi homines, optimis illis temporibus quibus ecclesiastica vigebat disciplina, quæ nunc tota pæne nobis e manibus elapsa est, tales eligebant et consacrabant sacerdotes, quos doctrina vitaque eximios, egregie et posse et velle intelligerent, docere populum publice, habere conciones, præcipere plebibus quæ facienda cuique essent... Solis tum presbyteris et sacerdotibus Dei hæc concionandi et dicendi provincia in templis et sacris locis erat demandata; reliquis omnibus de populo, etiam ex ea vita quam monasticam vocamus, quamvis doctis et prudentibus ad hoc omni munere penitus exclusis_. [209] HOEFFLER, _Analecten zur Gesch. Deutschlands und Italiens_, 1847, da lettera esistente nella biblioteca di Monaco. [210] PRATO, _Cronaca di Milano_. E segue: — Era costui di età d’anni trenta, di nazione toscano, e disse lui avere nome Geronimo; e, per quanto ho potuto comprendere nel ragionar seco, una fantasma mi parea e non un uomo; e molte volte vacillava di proposito: ma era di parlar soave, e nella Scrittura sacra credo fosse assai dotto. Esso da chi era invitato non volea ospizio, ma secondo che nell’animo li cadea, or in uno or in un altro loco andava: e di lui molte meraviglie mi è riferito; ma perciocchè io non le credo, non voglio nè anche perder tempo in scriverle». [211] LABBE, _Concil_., tom. XIV. 232. [212] In tal proposito abbiam molte lettere di Enea Silvio, che scagionano i papi, attesa la necessità di far fronte al nemico comune. [213] _Teotimus de tollendis_, _malis libris_, 1549. [214] _Epist_. V. 10. [215] Hutten fece un epigramma sanguinoso contro Giulio II, inserito nei _Pasquillorum tomi duo_, e gli s’attribuisce pure il _Dialogus viri cujuspiam eruditissimi festivus sane ac elegans, quomodo Julius II pontifex maximus, post mortem cœli fores pulsando, ab janitore illo D. Petro intromitti nequiverit_. [216] _Opere di Lutero_, ediz. di Walch, tom. XXII. pag. 786 e seguenti. [217] _Op. di Lut._, t. XIX. p. 1509, si legge espresso: — Prima ch’io finissi il vangelo, il mio vicino avea finito la messa, e mi diceva, _Passa, passa_». I biografi posteriori esagerarono questo racconto per tramutare una celia in una bestemmia, e più rilevare la corruzione de’ preti. Selneccer (_Oratio de divo Lutero,_ pag. 3) traduce: — Passa, passa, _idest, festina et matri filium remitte_». Mathesius lo copia, se pure non fu lui che l’inventò. E i biografi moderni si fecero belli di quest’empio scherzo contro la dottrina della transustanziazione. Di tutto ciò si ragiona più a distesa nei nostri _Eretici d’Italia_. [218] Molto rumore levò il libro _Regulæ, constitutiones, reservationes cancellariæ sancti domini nostri Leonis papæ X_; ristampato molte volte, dove son fissate le tasse per l’assoluzione di ciascun peccato. [219] La bolla papale smentisce il Guicciardini, che dice aver il papa assegnato il prodotto delle indulgenze di Germania a sua sorella madama Cibo. [220] I sermoni di Tetzel furono stampati da un Protestante, e vi si legge espressa la necessità della confessione e contrizione: _Quicumque confessus et contritus eleemosynam ad capsam posuerit juxta consilium confessoris, plenariam omnium peccatorum suorum remissionem habebit_. Come già col Savonarola, Tetzel proponeva a Lutero la prova dell’acqua e del fuoco; e questo, men civile del Savonarola, rispondeva: — Io me n’impippo de’ tuoi ragli. Invece d’acqua ti suggerisco il sugo della vite; invece del fuoco odora una buona oca arrosto». [221] _Ein voll betrunkener Deutscher._ LUTERO, _Opere_, tom. XXII. p. 1337. [222] Per es. al concilio di Basilea erasi argomentato: — Per presedere alla Chiesa universale, bisognerebbe che il papa precedesse ai capi e ai membri di tutte le Chiese stabilite nell’universo. Ora il papa non presede al capo della Chiesa romana perchè non può presedere a se stesso. Dunque non presede a tutte le Chiese che fanno la Chiesa universale». [223] _De servo arbitrio._ Invano gli si nega un insegnamento così repugnante all’intimo senso morale e alla sana ragione. Nelle sue opere dell’edizione di Wittemberg, 1572, tom. VII. fogl. 18, si legge: — Un’opera buona, compita il meglio possibile, è un peccato quotidiano davanti la misericordia di Dio e un peccato mortale davanti la sua stretta giustizia». Nella _Cattività di Babilonia_: — Ve’ quanto un cristiano è ricco! Non può perdere la sua salute neppure volendolo. Commetta peccati gravi quanto vuole, finchè non è scredente nessun peccato può dannarlo. Finchè la fede sussiste, gli altri peccati son cancellati in un istante dalla fede». E nella _Libertà cristiana_: — Di qui si vede come il cristianesimo è libero in tutto e sovra tutto: giacchè per esser giustificato non ha mestieri di veruna specie di opere, e la fede gli dà tutto a sovrabbondanza. Se alcuno fosse tanto stolto da credere ch’e’ può giustificarsi e salvarsi mediante le opere buone, perderebbe subito la fede con tutti i beni che l’accompagnano». Quando nel 1541 a Ratisbona Melantone cercò conciliarsi coi Cattolici, dicendo che per la fede che giustifica dovea intendersi una fede operante per la carità, Lutero dichiarò ch’era un misero ripiego, una toppa nuova s’un abito vecchio, che lo straccia di più. [224] _In kalende agosto. In kalende octobrio_ ve n’ha un’altra che non porta data, e che forse è quella del Varagine. Dell’edizione della Bibbia vulgare fatta a Venezia dal Jenson ebbe or ora in dono un magnifico esemplare la Marchiana. * Il Fontanini dimostrò non esistere la versione della Bibbia del Varagine, vissuto a metà del secolo XIII. Bensì si conosce una traduzione dell’Apocalissi con sposizione continua, fatta in rozzo veneziano da frà Federico de Renoldo, che visse nel 1300: e fu stampata dal Paganini a Venezia il 1515 col titolo: _Apocalypsis J. C. hoc est revelatione fatta a sancto Giohanni Evangelista con nova expositione in lingua volgare composta per el Reverendo Theologo et angelico Spirito Frate Federico Veneto Ordinis Prædicatorum; cum chiara dilucidatione a tutti soi passi_. È notevole che, davanti all’edizione del Malermi del 1477, Girolamo Squarzafico stampò: _Venerabilis D. Nicolaus de Malermi sacra Biblia ex latino italiæ reddidit, eos imitatus, qui vulgares antea versiones, si sunt hoc nomine, et non potius confecerunt_. Vogliam qui notare come Aldo Manuzio, nella lettera premessa al Salterio greco del 1495, promettea pubblicare l’intera Bibbia in latino, greco, ebraico, e aver già preparato i caratteri ebraici, de’ quali infatti trovasi un saggio alla biblioteca della Sorbona. Vedi FOSCARINI, _Della lett. veneziana_, l. IV. [225] L’ascetico autore dell’_Imitazione di Cristo_ non vieta di leggere la Scrittura, ma vuole «vi si cerchi la verità, non la dicitura; leggasi collo spirito con cui fu fatta»; lib. I. c. 3. [226] Questo fece il _Thesaurus linguæ sanctæ_ (1529); ed è mirabile che, in tempi di sì scarsi mezzi, s’ardisse un’opera, che neppur oggi si troverebbe chi osasse rifarla. Il primo Cristiano che professasse ebraico in Italia, pare Felice da Prato, israelita convertito, che nel 1515 pubblicò la traduzione latina dei Salmi, e da Leon X fu invitato a Roma nel 1518. In quel tempo lo insegnava anche Agatia Guidacerio di Catania, chiamato poi da Francesco I nel collegio delle tre lingue, dove gli succedette Paolo Paradisi di Canossa. A Fano si stampò nel 1514 una raccolta di preghiere in arabo, stampate nella stamperia fondata da Giulio II (SCHNURRER, _Bibl. arabica_, pag. 231-34). Pagnini cominciò a Venezia l’edizione originale del Corano (ivi, pag. 402). Nel 1513 erasi pubblicato a Roma il Salterio in etiope (LE LONG, ediz. Masch., vol. I. part. II. p. 146); poi nel 48 il Nuovo Testamento per cura di Mariano Vittorio di Rieti, che quattro anni più tardi diede la prima grammatica abissina (COLOMESII, _Ital. oratores =ad nomen=_). Teseo Ambrosio dei conti d’Albonese insegnò a Bologna le lingue caldaica, siriaca, armena, delle quali e di dieci altre diede un’introduzione (Pavia 1539) coi caratteri di quaranta alfabeti. E tanti sono i lavori di esegesi sacra a quel tempo, che il M’Cree ammira la Provvidenza, la quale faceva dai Cattolici stessi affilar l’armi che doveano trafiggerli! [227] Non è fuor di tempo ricordare uno dei _Discorsi di Tavola_ di Lutero: — Dice il proverbio che la roba dei preti va in crusca; e di fatto quei che ghermirono i beni delle chiese finirono per restare più poveri». Burcardo Hund, consigliere di Stato dell’elettor di Sassonia, soleva dire: — Noi nobili abbiamo aggiunto i beni de’ conventi ai nostri, e quelli mangiarono questi in modo che nè gli uni ci restarono, nè gli altri. E voglio raccontarvi una favoletta: L’aquila rapì un pezzetto di carne arrostita dall’altar di Giove, e lo portò agli aquilotti nel suo nido, e riprese il volo per cercare qualc’altra preda. Ma il carbone ardente era rimaso attaccato alla carne, cadde nel nido, v’appiccò il fuoco; e non potendo gli aquilotti ancora volare, bruciarono col nido. Così avviene a coloro che pigliano per sè i beni della Chiesa, i quali furon dati per onorar Dio o per sostenere la predicazione e il culto divino; devono perdere il loro nido e i pulcini, e soffrire nei corpi e nell’anima». _Tischreden_, pag. 292; Jena 1603. [228] Il cardinale Wolsey inglese, ministro di Enrico VIII, aveva sempre spasimato per la tiara; morto Adriano VI, faceasi raccomandare caldamente dal suo re; e negli _State’s papers_ ultimamente apparve la lettera di lui agli ambasciadori inglesi a Roma, dove, a tacer altro, dopo mostrato conoscere le probabilità favorevoli al cardinale Medici, soggiunge: — Potrà darsi troviate che il cardinale ha tanti avversarj nel sacro collegio da non nutrire ragionevole speranza di riuscire. In tal caso potrete con più franchezza indagare com’e’ sia disposto a mio riguardo. E gli direte che, se egli non riuscisse, il re farebbe ogni possibile per me; lo che in certo modo sarebbe la medesima cosa, giacchè egli ed io nutriamo un desiderio solo, e siamo concordi nello zelo per il bene e la quiete della cristianità, per l’aumento e la sicurezza d’Italia, pel benefizio e vantaggio della causa dell’imperatore e del re. Se divenissi papa io, sarebbe in certo modo papa lui, tanto io gli ho amore, stima e fiducia; egli sarebbe sicuro di ottenere tutto secondo l’animo e desiderio suo, e di conseguire tutti gli onori possibili per sè, per gli amici e pe’ congiunti suoi. Con tali parole assicuratevi che, non potendo per sè, egli coi suoi aderenti s’adoperi per me. Se vedete dunque scemare le probabilità pel detto cardinale, procederete franco nel mio interesse, presentando le lettere del re al sacro collegio, e ai singoli cardinali che giudicherete ben disposti. Presso i medesimi, in segreto, farete valere quanto sarà in voi le mie povere qualità: tali sono la grande esperienza degli affari del mondo, e l’intero favore dell’imperatore e del re; le mie molte relazioni con altri principi, e la cognizione profonda delle cose loro; l’incessante zelo pel bene loro e per la sicurezza d’Italia e la quiete della cristianità; il non mancarmi, la Dio mercè, sostanze da usar liberalità verso gli amici; la vacanza che dalla mia elezione risulterebbe di varj alti uffizj, di cui disporrei in favore de’ cardinali che l’avessero meritato con vera e ferma amicizia verso di me; la grata dimestichezza che essi troverebbero in me; il mio carattere non austero nè disposto a rigore: il non avere nè fazione nè famiglia, cui dimostrarmi parziale nelle promozioni o collazioni di benefizj ecclesiastici. Quel che però più monta si è che, per mio mezzo, non solo all’Italia si renderebbe perpetua sicurezza, ma si ristabilerebbe tra’ principi cristiani la concordia tanto necessaria; di modo che si potrebbe fare contro gl’infedeli la maggior spedizione che da lunghi anni siasi tentata. Essendochè in tal caso l’altezza del re ha promesso di venire, _volente Deo_, a Roma; dove non dubiterei di trarre parecchi principi cristiani, deciso come sono ad esporre la mia propria persona qualora Iddio mi largisse tanta grazia; potendo la mia presenza conciliare molte cose che produssero male intelligenze fra i principi. Tutto ciò per altro non va messo in primo luogo, nè sarebbe il migliore spediente per guadagnarsi i cardinali. Userete dunque della vostra prudenza rimovendone i dubbj d’una traslocazione della santa Sede, nè di ritardo al venire, dicendo che, seguìta ed annunziatami l’elezione, non mancherei colla grazia di Dio di essere a Roma nello spazio di tre mesi, onde passare ivi e in quelle parti il rimanente de’ miei giorni. Con tali assicurazioni, e colle promesse di larghi premj per parte del re, i quali sua altezza rimette alla vostra discrezione, non v’è dubbio che otterrete il voto di molti, se si abbia riguardo all’onore della Sede apostolica, alla sicurezza d’Italia, alla pace della cristianità, alla sua difesa contro gl’Infedeli, all’esaltamento della fede, alla guerra contro i nemici di Cristo, all’incremento e benessere del collegio dei cardinali, mediante il vantaggio e la promozione loro, ed insieme un trattarli cortese, franco e liberale; insomma al benefizio di santa Chiesa». [229] Relazione del 1526. [230] Un papato composto di rispetti, Di considerazioni e di discorsi, Di più, di poi, di ma, di sì, di forse, Di pur, d’assai parole, senza effetti. BERNI. [231] In una lettera citata dal Ranke. [232] Brantôme (_Vies des grands capitaines_) dice che il Leyva, assediato in Pavia, prese gli ori e gli argenti delle chiese, facendo voto solenne, se restava vincitore, di restituirne ben di più, e ne fece batter monete; ma «passato il pericolo, gabbato lo santo». [232a] Mi rincresce di dover disabbellire questo motto così ripetuto, restituendolo alla sua integrità: _Madame, de toutes choses ne m'est demeuré que l'honneur, et la vie qui est saine_; e sèguita una lettera abbastanza lunga. Sulla battaglia di Pavia molte notizie desunte dal Sanudo pubblicavansi nella _Bibliothèque de l'Ecole des Chartes_, 1863, settembre e ottobre. [233] Nei dispacci di Andrea Navagero del 1525 leggiamo che il Pescara proponeasi di prender Venezia, come quella ch’è difesa soltanto dalle acque, credendo arrivarvi per mezzo di fascine dalla parte di Malghera. [234] Se crediamo al Varchi (_Storie fiorentine_, lib. II), essa aveva avuto sentore della trama del marito, e gli scrisse acciocchè non contaminasse col tradimento una vita così onorevole; mentosto che di venir regina, a lei importare di esser moglie d’un cavaliere leale; chè all’immortalità non conducono titoli e regni, bensì la fede e le altre virtù. Il Pescara, scoraggiato dalla vicina morte, nel testamento scriveva: — Item vi lascio Hieronimo Morone qual è in prigione; et voglio che si supplichi la cesarea maestà istantemente per la vita sua et ogni altro benefitio che gli potrà fare, et che non voglia che quello che ho discoperto in benefitio di sua maestà habbia ad essere per condannatione del suddetto. In questo sua maestà me voglia compiacere, perchè altrimenti me reputerei esser caricato». Sul fatto del Morone e del Pescara diffonde qualche luce la relazione dell’ambasciator veneto Gaspare Contarini: — Il consiglio di Cesare è diviso in due parti: il capo d’una è il cancelliere (Gattinara);... consiglia costui Cesare per la via di farsi monarca universale, e attendere all’impresa degl’infedeli, la quale è propria d’un imperatore cristiano, ed abbassare la corona di Francia... al che è necessario che si tenga Italia amica... All’incontro, il vicerè (monsignor di Beaurain), e don Ugo di Moncada, il consiglio dei quali favorisce quanto più può il marchese di Pescara, consigliano Cesare all’accordo con Francia e alla ruina d’Italia, della quale dicono si farà padrone accordandosi col re cristianissimo. Ma la cesarea maestà, al partire nostro di corte, pareva accostarsi al consiglio del cancelliere, e che quello prevalesse. Dopo giunto in Italia, e veduto questo tumulto dello Stato di Milano, io ho presa grandissima ammirazione, giudicando che questa commissione così particolare (_di destituire il duca_) il marchese non l’abbia avuta da Cesare, dal quale solo avesse, per alcun sospetto contro il duca, qualche commissione generale; ma che lui, spinto dalla sua mala volontà contro il duca e contro Italia, ajutato poi dall’arciduca d’Austria, il quale aspira sommamente al ducato di Milano, sia proceduto tanto avanti, quanto vediamo». _Relazioni degli ambasciatori veneti_, serie prima, vol. II. p. 59. [235] _Lettere di Principi a Principi_, II. 95. È del 16 dicembre 1525. [236] Mercurino di Gattinara, nato il 1465 nel castello d’Arborio presso Vercelli da illustre famiglia, presto ebbe rinomanza come giureconsulto, fu professore all’Università di Dole e consigliere di Filiberto il Bello duca di Savoja. Margherita d’Austria, vedova di questo nel 1506, affidò al Gattinara la difesa de’ suoi diritti presso il duca regnante. Con patente del 12 febbrajo 1508, l’imperatore Massimiliano lo destinò presidente del parlamento di Borgogna, posto che prese solo dopo finite le negoziazioni per la lega di Cambrai, a cui ebbe gran parte, e nella quale ottenne fosse compreso Carlo duca di Savoja. Nel marzo seguente andò ambasciadore dell’imperatore e di Margherita d’Austria presso Luigi XII, acciocchè restasse fedele alla lega di Cambrai. Avuti da questo gran donativi, si pose presidente in Borgogna. Tornò ambasciador dell’imperatore a Luigi XII con Andrea di Borgo, altro diplomatico lombardo, assai adoprato in que’ tempi, massime negli affari milanesi. Quando Massimiliano, disanimato dall’assedio di Padova, ritiravasi pel Tirolo, Mercurino scrisse a Margherita d’Austria perchè gli rendesse il coraggio. Fu poi ora in Ispagna, or ne’ Paesi Bassi con essa Margherita, da cui fu fatto capo del consiglio privato. Disgustato delle triche di corte, fe’ voto di visitar Terrasanta; ma dispensatone dal papa, si raccolse a vita santa nella Certosa di Bruxelles. Ne lo richiamò l’imperatore per ispedirlo ambasciadore al duca di Savoja: poi assistette alle più rilevanti negoziazioni di Carlo V. Divenuto vedovo, si fece ecclesiastico, ed ebbe la porpora nel 1529: l’anno dopo morì a Innspruk. Lasciò varie opere ed è altamente lodato dai contemporanei. Del 30 luglio 1521 è una lettera di lui, ove all’imperatore dissuade la guerra, mostrandogli dieci ragioni da ciò e confutando sette che si adducono per la guerra. _Sire, en ceste matière si perplexe, par les raisons alleguées d’ung cousté et de l’aultre, à les bien considerer, peut sembler que les sept raisons alleguées pour l’acceptation de la tresve sont les sept pechez mortelz que l’hon vous envoye pour tempter, et vous divertir du droict chemin, et les dix raisons alleguées au contraire signiffient les dix commendementz de Dieu, lesquelz devez observer_. [237] _Lettere di Principi a Principi_, II. 95, al 10 luglio 1526. [238] Lettera da Roma, 10 giugno 1526. Fra altre cose dice: — Apparecchieremo diecimila fanti, altrettanti i Veneziani; diecimila Svizzeri aspettiamo che ci conduca il vescovo di Lodi, il quale prima li avea praticati ed ora è là a questo effetto, e noi con Veneziani li diamo danari; e se questi non vengono, ne faremo in ogni modo calar diecimila. La fortezza di Milano massime è allo estremo, ancor quella di Cremona patisce assai; spero saremo a tempo a soccorrerle. Il popolo di Milano è ancor in arme; come si avvicini lo ajuto da qualche banda, promettono far meraviglie. Spagnuoli fortificano molto Lodi; credemo vorranno ridursi là in Pavia: il tutto sta che li siamo adosso avanti le ricolte, perchè, se si riducessero nelle terre fornite, ci fariano spendere un mondo. Lanzichenecchi non hanno danari, credemo che non avendo i Cesarei modo da pagarli, se ne anderanno: li Spagnuoli pur serviranno senza. Voi ci farete grandissimo servizio a non darli denari, però tenete forte, e ovviate quanto potete che non se li diano. Sono stato di malavoglia che, per la vostra del primo del passato, mi scrivete che Cesare manda in Italia dugentomila ducati avuti da voi, di che non avemo altro aviso, se non che cercavano cambi di settantamila o incirca per Italia. Noi vedremo se possibile è levarli Genua, affinchè quando voi fussi pur sì da poco, non abbia Cesare il modo di rimetterli. Vorrei facessimo ora ancor l’impresa del Regno, o pur vedremo _ut se initia dant in Lombardia_... Di fare il vostro infante duca di Milano, ancor voi vedete che sono sogni e barrerie. Le lettere vostre non vede persona, salvo il papa; vi scriverò, e voi scrivete; ed anco senza scrivere sapete ciò che si può fare in disfavor di Cesare, massime in non darli denari, nè alcun altro sussidio, tutto torna in favor nostro ecc.». [239] «Si levò un gridar per la città, dicendo _all’arma, all’arma_. A questo gridar se mosse gran gente all’arma, chi con schioppi, chi con una lanza, chi con una cosa, chi con un’altra; e fu fora per le contrade gente assai, e fu dato campana a martello al Broletto, poi alle altre gese. E presero per forza la Corte e... morse gran gente de Corte. E presero el campanil del domo, e fu sonato al domo campana a martello, e sonavano insieme con le altre campane per Milano; donde che Milano all’arma e lanzinechi non sapevano in che mondo fossero; e se serrorno verso il ponte Vetro, e le contrade si serrorno con carri, vasselli, carrette, terra al meglio che possenno. De quelli del borgo delli Ortolani ne andò una gran squadra in Castello (_donde gli Sforzeschi fecero varie sortite_), e parte ne tornò, e in questo andar e tornar furno morti paregi lanzinechi. Per tutta notte se tenne all’arma... e ogni contrada faceva il suo bastione fortissimo per difendersi..., e per tutto Milano se faceva ripari con terreni e travi... e campana a martello. Al quale strepito, i villani per le terre traevano a sturmi, e furno svalisati e morti assai lanzinechi a piedi ed a cavallo. Ognuno era alli bastioni, aspettando qualche buona provision da qualche capo, e de molti che pareva che volessero metter paura a tutto il mondo: e al bisogno come l’era al presente, non comparse mai alcuno a far animo al popolo, qual veramente faceva più che non poteva. Ma alla mattina el signor Francesco Vesconte ensiem con altri andavano per la città a far deponere le armi alli Milanesi, dicendo, — Lasciate fare a noi, che conzeremo le cose che la città non averà a lamentarse». Così la cronaca del pizzicaruolo BURIGOZZO, al 25 aprile 1526. [240] «De nove de Milano, il grano vale lire cinquanta il mogio, il vino sedece lire; legna nè altro non ci è; tute persone in Milano mangiano pane di miglio, salvo li capitanei». _Documenti di storia italiana_ del Molini, 163 Alla compassata eleganza del Guicciardini (lib. XVII) possiamo cercar riscontro nel rozzissimo Burigozzo, viepiù attraente per infelicissimi riscontri coll’accaduto in questi ultimi anni. «Gli Spagnuoli comenzorno a far per Milano cose, che io non le potrò narrare perchè non gh’è chi le credesse. Fra le quali, se uno omo d’arme, overo uno fante alogiava in una casa, non bastava avere quella dove alogiavano, ma ne avevano quattro o cinque per uno delle case, e la facevano pagare un tanto al giorno; talmente che el gh’era tal omo d’arme e fante, che tocava da sei o otto scudi al giorno, e chi più e chi manco. E se trovaveno qualche roba par le cose che fossero ascose, se coloro de casa le volevano, besognava che ghe desseno tanti dinari come quasi valeva la roba. «E assai de Milano se ne fugivano con le donne e con li putti, per non poterghe stare: tanto più che in tutto questo tempo le botteghe stavano serrate e non se fazeva quasi niente de ogni arte; e parte ne fugiva per non poterse mantenere e fare le spese alli soldati; perchè lì era tale omo, secondo el grado, a chi costava dieci e dodici e venti scudi al giorno in farghe le spese; e non tanto a loro, quanto ancora alli cavalli de biada. E se uno cavallo se amalava, bisognava che el padron de casa pagasse el magistro; tanto che per simili respecti e ancora pegio, besognava fugire; e quelli che rimaseno in Milano e in casa bisognava portare el basto... «Tutto Milano aspettava con allegrezza ch’el campo (_francese_), da poi acquistata Cremona dovesseno venire a Milano a far l’impresa; e certo che quasi ognuno desiderava per far presto de andar a sacco, acciocchè la cosa avesse fine una volta; ma per contrario, mai non se ne dette all’arma, o ben poco; e pur Milano stentava, e ogni dì ne fugiva. E li Spagnoli qual logiavano in casa, vedendo li patroni fugire, ruinavano le case, e facevano de gran mali. E a dì 28 octobre, se retirò el campo de Veneziani in dietro quattro o cinque miglia, e fu fora li bagagi de Spagnoli, che portorno in Milano tanta roba che tolsono nel loro campo... E de presente se dice che Veneziani passano Adda, e così fu el vero. E fu ditto che el soccorso de lanzinechi era passato per forza su quello de Veneziani, e fu morti assai de loro da una parte e dall’altra... «In questo mezzo fu ditto che bisognava che li Spagnoli, qual era in Milano, se partissero a andar incontra al soccorso, per adunarse inseme; e fu fatto assai consilj infra loro signori de partirse. E el povero Milano se fogava a pagar dinari et altre angarie, per ajutarse de fare che lo exercito se partesse: ma la fantaria mai non volse venire a partirse, dicendo voler esser pagati del tutto de quello che avevano servito. Dondechè uno sabbato de mattina, qual fu a dì 15 decembre, se ritrovò la fantaria con li capitanei a consiglio a San Gregorio, e non potenno esser d’accordo. E intrò in Milano la fantaria desperata, e se retrovorno alla piazza del domo, e menorno le mane a sachezzare le botteghe, e prender li omeni e torghe la borsa; e fezeno tremare Milano. Beato chi se poteva serrare in casa; e cridavano — Sacco, sacco»; e poi: — Paga, paga». Al qual rumore li capitanei corsero alla piazza, e se repararono prontissimi de pagare; e così le botteghe se erano comenzate a aprire; e per questo tratto beato chi poteva tenere serrato. Dondechè Milano stava molto male; e a dì 24 decembre, che fu la vigilia de Natale, in lunedì, fu dato licenzia de sonar le campane, qual non erano state sonate dal 17 giugno insino al presente; e in Milano se parse un poco megliorare. «Il dì de santo Joan evangelista, ch’è a dì 27 decembre, la mattina si partì li lanzinechi fora de Milano, e quelli del quartero di porta Cumana dove erano logiati, l’avenno a male, dubitandose che Spagnoli non ghe andasseno a far qualche male, perchè già per lo passato ghe menazavano; e così fu vero. De subito partiti lanzinechi, loro Spagnoli ghe andorno alogiando, e con quelli modi ch’era sua usanza: tanto che, beato quello che poteva fugire fora da quello quartiero; tanto che fra tre o quattro giorni la fu conzata in dinari... «In questo mezzo fu ditto ritornare lanzinechi a Milano per guardia, e che Spagnoli se avessero a partire tutti per andare in campo; e così fu. A dì 23 januario 1527, retornorno a Milano, e fu fatto ordene de darghe alogiamento in tre o quattro loghi per porta. Intrati in Milano, non volseno stare nell’ordine fatto, e se alogiorno con tanto dispiasere verso Milanesi in domandare cose grande, dicendo che Spagnoli volevano galine e caponi, e che anche loro volevano il simile e più: talmente che a Milano parse stranio. E el mal che aveva fatto Spagnoli, non era nulla a paragon de costoro. E quelli pochi Spagnoli qual restorno in Milano se partirno a dì 11 febraro fora de Milano; qual gente d’arme del suo bon deportamento se tace, perchè sarebbe troppo longo el scrivere. Tanto che a dì 27 zugno 1526, rivorno in Milano, e stettene alle coste de Milano a vivere, e con tanta carestia insino al presente, ch’è al dì 11 febbraro 1527; tanto tempo, e con tanta spesa intolerable, che el dire non saria possibile... L’è vero che Spagnoli hanno fatto mal assai; ma questi Taliani (_del conte Belgiojoso_) hanno avanzato assai là dove sono stati su per lo paese, e in la roba, in le persone e in l’onore delle donne; tanto che se Turchi venessero in queste bande, non fariano el mal qual fanno costoro. «Passato qualche giorni, el signor Anton de Leyva fece domandare tutti li omeni de Milano, zoè tanti per porta. Andorno tutti alla Pace, là dove logiava; e lì gionti, ghe feze intendere che de due cose l’una: o che l’esercito voleva venir dentro de Milano e logiare al solito, zoè a discrezione, onde che besognava darghe li dinari de pagarli; tanto che a questa domanda ognuno dubitava dovesseno intrare, e beato chi se poteva serrare in casa. E molti ghe n’era che avevano fatto stangare le porte; tantochè chi andava per Milano era uno stremizio a vedere le contrate bandite de gente, e le porte a quello modo. Al povero Milano non erano bastanti le taje passate che mai non se faceva altro che scodere taje per dare a costoro; talmente che del passato non ne besognava parlare. Al presente fu resposto al melio se potè, perchè li omeni de Milano, scottati del tanto suo far male, besognò conzarla in dinari; e fu messa una taja d’un mezzo ducato per migliajo a quelli che sono in estimo de valsente, e ducati un per bottega alli bottigari, e ducati un per casa. Chi avesse visto per Milano le botteghe serrate per tal respetto de non pagar, era tal contrada che non gh’era bottega aperta; e perchè non se fazeva fazende alcune, non volevano pagare questi dinari; talmente che li sindaci delle parochie andavano conzando la cosa, secondo el grado delle persone che pagassero... «A dì... settembre fu fatto una crida sotto pena della vita, che tutti quelli che non pagavano contribuzioni a Spagnoli, de soldi cinque in giuso, avesseno spazzato da Milano; donde che tanti e tanti poveretti che a fatica potevano vivere con tanta carestia, non potevano pagare questi denari ogni giorno: e così se partì de Milano un numero infinito de omeni, con le sue donne e fioli. Più ancora, che quelli che pagavano contribuzione, fusseno ricchi e arciricchi, pagando per due mesi la contribuzione potesseno andare dove gli pareva. A questa crida, assai omeni de grado se partirno, con le robe e mulìere e fioli; dondechè Milano non pareva più Milano, e le botteghe eran quasi tutte serrate. Ancora de più; el castello fazeva provisione de fornirse de quello li faceva de bisogno, come saria formagio, lardo, formento e molte altre cose: vino non entrava dentro de Milano dieci a dodici brente, che non ne volesseno la sua parte e per niente; e se ancora colui del vino voleva dire niente, ghe davano delle bastonate. E el detto vino, zoè mosto, era portato da lontano sei mìa con le brente; per chè non gh’era cavallanti che potessero andar in volta, che ghe era tolto el caval e le baghe; e valeva el mosto a questi giorni del mese de octobre 1527, lire sette la brenta, e poco bono. «El povero Milano non saria stato malcontento a livrarla e andar a sacco, zoè la roba; perchè ad ogni modo la roba e li dinari ghe vanno ogni giorno: ma la paura era in fare prigioni, e darghe tormenti, e l’onore delle donne, e molti altri inconvenienti che acadeno. E per tal respetto se andava dal signor Anton de Leyva a lamentarse, dicendo la città non poter portare tanto carigo. Alle quali domande sempre bone risposte: — Faremo, non oggi, ma domani»; e con questa proroga se andava innanzi così; tanto che pure un giorno fu ditto che la gente d’arme se doveva partire. Ad ogni modo el tal giorno, che fu a dì 4 dicembre, fecero la preparazione certa per andare al termine tolto. Ma passò el termine tolto, e non fezeno niente; talmente che el povero Milano se vide tolto a festa, e ognuno incontrandose per Milano, se strenzevano in le spalle, perchè non se vedeva fine a tal cosa» «Dal mese di aprile fu ditto di pagare la contribuzione de giorni 20 a un tratto, che el ditto esercito se partiria; tanto che sforzato el povero Milano a fare più che non se poteva, deliberarno de pagare questi tal dinari; e così fu fatto, tanto che a poco a poco se partirono. A dì primo de maggio (che fu la seconda festa de Pasqua), se partì el signor Anton de Leyva con certe compagnie ultime de lanzinechi; qual lanzinechi da tre giorni inanzi andavano per li monasteri de frati e de moneghe, vivendo a discrezione. Donde che era una cosa grande le ruine che era, massime in le moneghe, che andavano per Milano fugendo, e vedendo de reparare a questa cosa; ma che non gh’era ordene. Non bastò questo, che ancora andavamo per le giese, e intravano in casa de parochiani, e lì volevano del bono e del migliore, e li pigliaveno e li tractavano male. E per tal respetti accadeva de gran inconvenienti, talmente che li poveri preti stavano fugiti; e se andavano in volta, andavano in abito mondano per non esser conosciuti; e per tal causa el dì de Pasqua de maggio non fu fatto officj in parecchie giese de Milano, per causa che li preti non v’osavano a comparire. Per Milano non se trovava pane per mangiare, per l’ordene fatto ch’el pane non se avesse a vendere se non a soldati: e questo perchè se avevano a partire da Milano: tanto che el povero Milano non se sentiva se non lamentare. «Vedendo el signor Anton de Leyva non poter più cavar contribuzione da Milano per esser del tutto desfatto, trovò un modo, che forza era che ognuno pagasse, e fu a questo modo. Fece fare la crida, che ognuno che aveva biada o farina, sotto pena de rebellion, l’andasse a notificare: e così fece ognuno, e poca o assai fu scritta. Da poi fu fatto la crida, che pristinaro alcuno non cocesse a casarenghi nessuni; e così che nessuno avesse a cocere pane nè in casa, nè in altro loco de guisa nessuna, sotto una pena grandissima, e così pure i frati e le moneghe; ma ognuno avesse da stare a pane comprato. E tolevano della farina de quelli li quali l’avevano notificata, e la pagaveno lire diciotto al moggio de formento; e quella de segale lire dodici; e poi li prestini de Milano davano lire quindici de guadagno al signor Antonio per ciaschedun moggio de farina; e fazevano de soldi otto l’uno i pani de formento da soldi due, di quattordici quei di miglio. E non bastava questo ancora; che i lanzinechi e Spagnoli e Italiani andavano per le case de grandi, e dove le pareva a stare meglio, e lì volevano mangiare, e forza era mettergli la tavola, overo dargli denari, e mandarli via: tanto che per Milano ognuno stava serrato in casa, e così ancora le botteghe serrate. Ma non valeva; chè scalavano le case, e andavano de una in l’altra, e in monasteri e case de moniche come de frati, et lì mangiaveno fino ch’erano sazj; e pur pazienzia. E durò queste andare per le case dal principio de settembre sino a San Matteo, ch’è a dì 22 settembre 1528». [241] Sulla battaglia alla Castellina presso Siena, 5 agosto 1526, il Machiavelli scrive a Francesco Vettori: — Voi sapete che io mai volentieri mi accordo a credere cosa alcuna soprannaturale; ma questa rotta mi pare stata tanto straordinaria, non voglio dire miracolosa, quanto cosa che sia seguita in guerra dal 1494 in qua; e mi pare simile a certe istorie che ho lette nella Bibbia, quando entrava una paura negli uomini che fuggivano, e non sapevano da chi. Di Siena non uscirono più che quattrocento fanti, che ve ne era il quarto del dominio nostro banditi e confinati, e cinquanta cavalli leggeri, e fecero fuggire insino alla Castellina cinquemila fanti e trecento cavalli; che se pure si mettevano insieme dopo la prima fuga mille fanti e cento cavalli, ripigliavano l’artiglieria in capo di otto ore; ma senza esser seguiti più d’un miglio, ne fuggirono dieci. Io ho udito più volte dire che il timore è il maggior signore che si trovi; e in questo mi pare di averne visto l’esperienza certissima». [242] È pittoresca la costui vita, scritta da Paolo Giovio. [243] FREUNDSBERG _Kriegsthaten_. [244] Il Muratori nega che Alfonso d’Este consigliasse il Borbone di gettarsi su Roma; ma tutti gli storici lo ammettono, e del suo abboccamento col Borbone al Finale 5 marzo parla anche il Ghiberti nella lettera 7 marzo. _Lettere di Principi a Principi_. [245] Il Sepulveda, _De rebus gestis Caroli V_, lib. VII. dice: _Borbonius, postea quam nec a militibus, ut ab incepto itinere ac proposito desisterent impetrare, nec eos, ut erat stipendio non suppetente precarius imperatore coercere posset, non putavit nec ad suum officium et dignitatem, nec ad Caroli cæsaris rationes interesse ut ipse quoque ab exercitu discederet, ne, si tanta multitude sine imperio ferretur, obvia quæque devastans atque diripiens in omnem injuriam et maleficium intollerantius irrueret, et pontificiæ ditionis populis, contra inducias factas, et Caroli cæsaris voluntatem, longe gravius noceretur_. [246] Allontanato il Freundsberg, il comando de’ lanzichenecchi fa preso da Corrado di Bemelberg, che li condusse al sacco di Roma, poi all’assedio di Firenze, durante il quale vinse al giuoco al principe d’Orange tutto il denaro che a questo avea spedito Clemente VII pel soldo delle sue truppe. Il Borbone era figlio di Chiara, sorella di Lodovico Gonzaga marchese di Mantova, padre di Francesco, padre di Ferrante. Quest’ultimo comandava nell’esercito imperiale, benchè l’educazione che aveva ricevuto gli mettesse scrupolo su questa spedizione contro Roma. A Roma, nel palazzo dei Ss. Apostoli abitava Isabella marchesa di Mantova sua madre, ed egli le diede ogni assicurazione, sicchè quel palazzo restò salvo, e molti vi ripararono le sostanze e l’onestà. «Mentre con sete e avidità insaziabile attendevano gli altri a saccheggiare e a far prigioni, don Ferrante con filiale pietà e con fatica e pericolo incredibile attese a por in sicuro, con la marchesana, la pudicizia e l’onore di molte matrone e vergini nobilissime romane... Lontano da far preda e guadagno di cose altrui, in quella tanta e sì gran confusione perdè egli buona parte delle sue proprie più care. Per ristoro delle quali e per usar gratitudine al magnanimo figliuolo del pietoso officio... la magnifica madre gli fece dono di 10,000 ducati». GOSELLINI, _Vita di D. F. Gonzaga_. [247] VALERIANO PIERIO, _De literatorum infelicitate_, lib. I; il quale è pieno di disgrazie avvenute in quell’occasione. I preziosi tappeti disegnati da Rafaello, e allora rubati da Anna Montmorency colonnello francese, furono restituiti poi a Giulio III: rubati di nuovo sotto Buonaparte, e ricuperati da Pio VII. [248] Fu in occasione che l’arciduca d’Austria lo aveva mandato a sollecitar Clemente alla pace universale e alla spedizione contro i Turchi. Balbo era grammatico e oratore famoso, e vescovo a Gurk in Corintia. [249] Persisto in questa opinione, malgrado le discolpe di Carlo V, recate dal professore De Leva. [250] Il Varchi (_Storie fiorentine_, lib. V) reca i cartelli ricambiatisi fra i due re, che sono una bizzarria da disgradarne i nostri spadaccini da caffè. [251] Quando il longobardo re Liutprando espugnò Ravenna, ne tolse una statua equestre di bronzo che chiamavasi Regisole e rappresentava l’imperatore Marc’Aurelio e la trasferì a Pavia. Il primo soldato del Lautrec, che penetrò per forza in questa città, fu un ravegnano di nome Cosimo Magni, e non altrimenti come è detto da altri; e per ricompensa domandò fosse restituita quella statua alla sua patria. Ma quando si cominciò a levarla, i Pavesi, più dolenti di ciò che delle acerbissime sciagure provate, tal rumore levarono, che il Lautrec indusse quel soldato a riceverne invece tant’oro quanto bastasse a farsi una corona murale. Così il Giovio ed altri: ma il Rossi, storico di Ravenna contemporaneo, dice che il Magni, portossi la statua giù pel Po; e giunto a Cremona, il custode della rôcca, istigato da’ Pavesi, lo assalì e gliela ritolse, onde fu rimessa a Pavia. Quivi rimase nella piazza fra il duomo e il vescovado sin al 1796, quando fu abbattuta dai Giacobini. [252] Il Morone scriveva a Carlo V, le forze di quell’esercito essere bastanti a vivere, «ma la difficoltà e il pericolo consiste in tanto difetto quanto c’è delle paghe, tante che non è meraviglia se le genti non vogliano e non possino più militare... I Tedeschi, dopo fattile mille promesse, le quali non si son potute poi osservare, finalmente si sono ammutinati, e hanno deliberato di voler esser pagati di presente, o che voglion licenza di potersene andar a casa loro, e non hanno voluto aspettar altro che quattro giorni la risposta, e si vede poco rimedio di poterli pagare o assicurare: perchè il papa va differendo a compire la sua promessa di denari; e non valgon a fargli compiere il capitolato i lamenti de’ Romani e i gridi de’ paesani, i quali patiscono grandissimi e intollerabili danni, e sanno che l’esercito partirebbe da Roma e dal paese se fosse pagato; e nondimeno sua santità non si move, nè si può conoscere se voglia pagare o quando... Quantunque le altre genti non siano ammutinate come i Tedeschi, nondimeno sua maestà può considerare come sarà possibile che servino d’or in avanti senza paga, perchè non potranno più vivere a discrezione». Anton de Leyva scriveva all’imperatore, in cattivo francese, da Milano il 4 agosto 1527: — Quest’esercito si conduce male; direbbesi piuttosto una masnada d’avventurieri che l’esercito di vostra maestà, facendo quel che vogliono. I capitani non possono farli operare quando vogliono, ma solo quando a lor piace. Se avesser obbedito appena presa Roma, e fossero tornati in Lombardia, tutta Italia apparterrebbe a vostra maestà» (LANZ, _Correspondenz_, tom. I p. 235). E l’imperatore stesso da Burgos il 21 novembre scriveva al fratello Ferdinando, pur in francese: — Ho notizie della divisione fra le genti del mio esercito che furono alla presa di Roma, e la discordia fra i capitani, di sorta che non tengono nessun per capo, ma ciascuno pretende esserlo: e molto devesi loro pei soldi, così gran somma che troppo s’avrebbe a fare a trovar tanto denaro quanto sarebbe necessario per pagarli. Quest’è l’ostacolo per cui quell’esercito dimorò sì lungamente intorno a Roma senza voler moversi nè andar a soccorrere lo Stato di Milano» GÉVAY, _Urkunden_ ecc., tom. I, p. 147. [253] Lettera 291 di Teodoro Trivulzio a Guido Rangoni del 1529, nei _Documenti di storia italiana_ del Molini. [254] Lo stesso; e finiva: — Ma, per amor di Dio, avvertite, quando scrivete cosa che sia in disfavore dei Francesi, di non la scrivere senza cifra, perchè non basta che voi la scriviate per dolor che avete che le cose non vadano felicemente per loro, come vi scrivo ancora io; essendo il costume loro d’aver sempre per male che li sia detto cosa contro l’appetito suo, e di credere che chi la dice la dica per malignità e perchè si desideri che così sia ecc.». [255] _Archivio storico_, lib. VI. p. 240. [256] CAMPI al 1517. [257] _De vita sub Turca_; nel 1529. [258] — Andrea domandava all’imperatore sessantamila ducati di soldo, la libertà de Genova, e la tratta per diecimila salme di grano di Sicilia e certe altre condizioni di poco momento. Sua maestà li ha concesso non solamente quello che chiedeva, ma davvantaggio; scrive el signor principe che terminandosi bene la guerra per la maestà sua, provveda il capitano Andrea d’uno stato nel regno di otto o diecimila ducati; oltre a questi, mille seicento al conte Filippino, credo settecento a Cristoforo Pallavicino, uomo di Andrea, ed altrettanti ad esso Erasmo, in modo che tutti stanno contentissimi d’aver preso il servizio suo». _Lettere di Principi a Principi_, III, 43. * Sopra Andrea Doria assai si scrisse in questi ultimi tempi, con molti documenti nuovi e molta passione, dal Bernabò Brea, dal Celesia, dal Guerrazzi, da altri. Tutti li prese in esame Massimiliano Spinola (_Considerazioni su varj giudizj di alcuni recenti scrittori_, Genova 1867) difendendo gli atti e le intenzioni di Andrea. [259] Bologna, 12 settembre 1529, negli _State’s papers_, vol. VII. [260] GAETANO GIORDANI, _Della venuta e dimora in Bologna di Clemente VII per la coronazione di Carlo V_; Cronaca con documenti ed incisioni ecc. Bologna 1842. — Il duca di Savoja portava un abito che costava trecento mila scudi. _Monum. Hist. patriæ_, Script. I. 861. [261] I battesimi erano medaglie che si offrivano in occasione de’ battesimi: i grossoni cessarono: crazia pare corrotto da _hreutzer_, ed è moneta corrente anch’oggi. [262] In quell’occasione Siena figurò il cavallo di Troja e lo condusse per città, e fu detto volesse con ciò avvertire la Toscana de’ nemici che le entravano in seno. [263] VASARI in _Jacopo da Pontormo_; ma erra nel dire questi trionfi fossero fatti per la coronazione del papa. [264] Ingrandita che fu Casa de’ Medici, s’inventarono genealogie per aggiungere lo splendore degli avi a una gente popolana. Ma nessun de’ nostri storici avvertì un fatto che trovasi nella _Storia dell’anarchia di Polonia_ di Rulhière, cioè che la famiglia Mikali o Jatrani, capi de’ Mainotti nel Peloponneso e famosi anche nelle ultime guerre, sia il ceppo de’ Medici di Firenze, il cui nome sarebbe tradotto dal greco. [265] Della nobiltà fiorentina già toccammo nel t. VII, p. 33 e t. VIII, p. 235; ma sì poca certezza se n’aveva, che il Nardi scrive: — Questa distinzione di nobiltà e ignobiltà confesso io ingenuamente non aver mai saputo fare, ancora che io sia nato e allevato nella medesima patria. Conciossiacosachè io abbia veduto i figliuoli discordare da’ padri proprj, e i fratelli da’ medesimi fratelli nelle azioni di questa stolta favola del mondo, secondo che ciascuno è stato vinto e traportato dall’empito de’ proprj appetiti, e secondo che più o meno il suo intelletto è stato illuminato dallo splendore della divina grazia». _Storia di Firenze_, lib. VI. [266] JACOPO PITTI, _Storia fiorentina_, pag. 112. Vedi _Archivio storico_. [267] NARDI, lib. III. [268] CAMBI, al 1523. [269] AMMIRATO, al 1515. [270] Lo stesso, al 1521. [271] Le racconta Jacopo Pitti, pag. 123. [272] JACOPO PITTI, pag. 136. [273] Erasi speso un mezzo milione di ducati d’oro nell’acquistare Urbino al duca Lorenzo; altrettanto nelle guerre di Leon X contro i Francesi; trecentomila ai capitani imperiali prima dell’elezione di Clemente VII. [274] — E si può dire certo che messer Baldassarre Carducci, inimico de’ Medici, operasse più nella tornata loro in Firenze che qualunque altro, reputato a essi amicissimo». VETTORI, _Sommario detta Storia d’Italia_ dal 1511 al 1527. Della prudenza, cioè timidità d’alcuni reca buona immagine il Nardi, introducendo due cittadini, amici ma differenti d’opinione in senato, l’un de’ quali dice all’altro: — Compare, non è molta la saviezza nostra nel difendere il presente stato in modo che, succedendo uno stato diverso, ci abbia ad essere turbata la quiete di nostra casa»; ma l’altro gli risponde: — Anzi il modo di stare a casa nostra dopo cambiato governo è appunto il difendere quel d’adesso, che è giustissimo. Il quale se per colpa nostra rovinasse, gli avversarj ci avrebbero giustamente in dispregio come dappochi, e Dio in abbominazione come tepidi; e la patria, che su noi riposa, si terrebbe ingannata come da imprudenti o forse infedeli consiglieri». VARCHI. [275] E il buon gallo sentier, ch’io trovo amico Più de’ figli d’altrui, che tu de’ tuoi. [276] È di somma importanza il carteggio d’esso Carducci, che sta nell’archivio Capponi. Come meglio conobbe la diplomazia francese, il 3 agosto scriveva: — Questi nostri Francesi sono tanto al di sotto degl’Imperiali, che è loro necessario ricevere quelle condizioni che sono porte loro. Nondimanco, avendo io avuto sempre da questa maestà e da questi signori una quasi certa speranza di dover essere inclusi con condizioni oneste e comportabili, non ho voluto disperare le vostre signorie». [277] Una lettera del Busini 31 gennajo 1549, che non è fra le edite a Pisa, dice: — Nicolò Capponi mai non volse che si fortificasse il monte di San Miniato; e Michelagnolo, che è uomo veritierissimo, dice che durò grandissima fatica a persuaderlo agli altri principali, ma Nicolò mai potette persuaderlo: pure cominciò nel modo che sapete con quella stoppa; e Nicolò gli toglieva l’opere, e mandavale in un altro luogo; e quand’ei fu fatto de’ Nove, lo mandarono due o tre volte fuora; e quand’ei tornava, trovava sempre il monte sfornito, ed egli gridava e per la reputazion sua e per il magistrato ch’egli aveva. Si ricominciava, tanto che alla venuta dell’esercito si potette tenere. Cred’io per questo e altri suoi modi che Nicolò fosse persuaso che lo stato si muterebbe, non in tirannide, ma in stato di pochi, come desideravano quasi tutti i ricchi, parte per ambizione, parte per sciocchezza, come Pietro Salviati e il fratello; parte per dependenza, come Ristoro e Pier Vettori: e soggiunge che egli da in quel tempo in là, non volle mai bene a Nicolò, nè egli a lui». Un’altra lettera del Busini, mutila nella stampa di Pisa, ma riferita intera dal Gaye, narra i motivi della fuga di Michelangelo, della quale è tanto incolpato: — Ho domandato a Michelagnolo quale fu la cagione della sua partita. Dice così, che, essendo de’ Nove, e venuto dentro le genti fiorentine e Malatesta e il signor Mario Orsini ed altri caporali, i Dieci disposero i soldati per le mura e per li bastioni, e a ciascun capitano assegnarono il luogo suo, e detton loro vittovaglie e munizioni, e fra gli altri dettono otto pezzi d’artiglieria a Malatesta che le guardasse e difendesse una parte de’ bastioni del Monte, il quale la pose non dentro, ma sotto i bastioni, senza guardia alcuna; ed il contrario fece Mario. Onde Michelangelo, che come magistrato e architetto rivedeva quel luogo del Monte, domandò al signor Mario onde nasceva che Malatesta teneva così trascuratamente l’artiglieria sua? A che disse Mario: — Sappi che costui è d’una casa che tutti sono stati traditori, ed egli ancora tradirà questa città. Onde gli venne tanta paura che bisognò partirsi, mosso dalla paura che la città non capitasse male, ed egli conseguentemente. Così risoluto trovò Rinaldo Corsini, al quale disse il suo pensiero, e Rinaldo come leggieri disse: — Io voglio venire con esso voi; ecc.». [278] NARDI. La Provvisione di quella milizia fu messa a stampa, col motto virgiliano: _Æneadæ in ferro pro libertate ruebant._ [279] «La somma e i capi principali furono, che don Ercole, primognito di don Alfonso duca di Ferrara... fosse, ancorchè giovanetto, capitan generale di tutte le genti d’arme della repubblica fiorentina tanto di piè quanto da cavallo, d’ogni e qualunque ragione, per un anno... con tutte quelle autorità, onori e comodi che sogliono avere i capitani generali della repubblica fiorentina; e la condotta fosse dugento uomini d’arme in bianco, con fiorini cento di grossi, con ritenzione di sette per cento per ciascun uomo d’arme ogn’anno, da doversi pagare a quartieri, e sempre un quartiere innanzi, e con provvisione e piatto all’illustrissima persona di sua eccellenza, di fiorini novemila di carlini netti, cioè senza alcuna ritenzione, da pagarsi nel medesimo modo; fosse però obbligato di convertire almeno la metà dei dugento uomini d’arme, e quelli più che a lui piacesse, purchè fra lo spazio di venti giorni lo dichiarasse, in tanti cavalli leggieri, a ragione di due cavalli leggieri per ciascun uomo d’arme. Ancora, che ogni anno gli si dovessero pagare quattromila ottocendiciannove fiorini e soldi otto marchesani d’oro in oro del sole, e questo per le condizioni de’ tempi cattivi e grandissima carestia in tutte le cose e grasce, ch’era per tutta Italia. Ancora, che ciascun uomo d’arme fosse obbligato di tenere nel tempo della guerra tre cavalli, un capo di lancia, un petto e un ronzino, e a tempo di pace solamente i due principali senza il ronzino. Ancora, che in tempo di guerra, e ciascuna volta che la città soldasse almeno duemila fanti, gli dovesse dare, cavalcando egli, una compagnia di mille pedoni da farsi per lui, nè fosse tenuto di rassegnarne più d’ottocento; e facendosi minor numero di duemila dovesse anch’egli farne la parte sua a proporzione nel soprascritto modo e patto. Ancora, che gli si dovessino pagare ogni mese a tempo di guerra cento fiorini d’oro di sole, e a tempo di pace cinquanta, per poter trattenere quattro capi di fanteria a sua elezione. Ancora, che tutti i denari per fare i detti pagamenti si dovessero mandare in mano propria di lui. Ancora, che dovunque in cavalcando gli fossero assegnate le stanze, gli fossero parimenti assegnate legne e strame, e di più nel tornarsene le coperte senza alcun costo. Ancora volle, e così fecero, che li signori Dieci s’obbligassero in nome della magnifica ed eccelsa Signoria di Firenze, che durante la sua condotta non condurrebbono, nè darebbono titolo o grado alcuno a persona, il quale fosse, non che superiore, eguale al suo. E d’altro lato la sua eccellenza s’obbligò a dover servire colla sua persona propria e con tutte le genti, così in difesa come in offesa di qualunque Stato o principe, ogni e qualunque volta o dalla Signoria o da’ Dieci o dal loro commissario generale ricercato ne fosse, con questo inteso che i signori fiorentini fussono obbligati a consegnarle il bastone e la bandiera del capitano generale, colle patenti e lettere di tal dignità». VARCHI, _Storie fiorentine_. [280] Il Varchi, lib. IX, riporta un còmputo di Benedetto Dei, che, al fine del 400, si trovassero a venti miglia in giro a Firenze trentaseimila possessioni di cittadini con ottocento palazzi murali di pietra picchiata, che l’un per l’altro erano costati meglio di tremila cinquecento fiorini d’oro. E Marco Foscari, ambasciador veneto, nella sua _Relazione_ del 1527: — Non credo che sia in Italia, anzi in tutta Europa una regione più amena nè più deliziosa di quella ove è posta Firenze; perchè ella è posta in un piano tutto circondato di colli e da monti fertili, coltivati, amenissimi e carichi di palazzi bellissimi e suntuosissimi, fabbricati con eccessiva spesa con tutte le delizie che sia possibile immaginare, con giardini, boschetti, fontane, peschiere, bagni, e con prospettive che pajono pitture, perchè dalli detti colli e palazzi si scoprono gli altri colli d’intorno e poggetti e vallette, tutte cariche di palazzi e di fabbriche, che par proprio un’altra città più bella di Firenze stessa ecc.». [281] L’anzidetto ambasciator veneto Foscari diceva che Firenze è debole per la debilità degli uomini. La quale debilità viene «prima per natura, poi per accidente. Per natura, perchè quell’aere e quel cielo producono naturalmente uomini timidi; per accidente, perchè tutti si esercitano nella mercatanzia e nelle arti manuali e meccaniche, lavorando e operando colle proprie mani ne’ più vili esercizj: e li primi che governano lo Stato vanno alle lor botteghe di seta, e gittati i lembi del mantello sopra le spalle, pongonsi alla caviglia e lavorano pubblicamente che ognun li vede; ed i figliuoli loro stanno in bottega con li grembiali innanzi, e portano il sacco e le sporte alle maestre con la seta, e fanno gli altri esercizj di bottega ecc.». _Relazioni degli ambasciadori veneti_, serie 2ª, vol. I. pag. 21. Di questi spregi verso la gente mercadante avemmo altre volte a far ragione; e sin d’allora il Varchi li confutava, e, — Io mi sono meco più volte maravigliato come esser possa che quegli uomini, i quali sono usati per piccolissimo prezzo infino dalla prima fanciullezza loro a portare le balle della lana in guisa di facchini, e le sporte della seta ad uso de’ zanajuoli, o star poco meno che schiavi tutto il giorno e gran pezza della notte alla caviglia e al fuso, si ritrovi poi in molti di loro, dove e quando bisogna, tanta grandezza d’animo e così nobili ed alti pensieri ecc.». [282] — Tanto sono diversi gli affetti e le passioni degli animi degli uomini in diversi tempi, secondo la varietà e la forza degli accidenti: conciossiachè già nella mia adolescenza io avessi veduto i padri e le madri levare e torre dalle camere de’ loro figliuoli ogni generazione di arme quanto meglio potevano e sapevano, acciò, che quegli fossero meglio disciplinati e manco discoli che fosse possibile; e poscia io medesimo abbia veduto più d’un padre, ancora di verde età, descritto nella milizia, andare alla mostra o vero rassegna, o anche nelle fazioni fuori delle porte, accompagnato in mezzo di duoi suoi figlioletti con gli archibusi, che non passavano l’età di quindici o sedici anni; e similmente ho veduto le sorelle armare in persona i fratelli loro, e le madri e i padri mandare i loro figliuoli lietamente alle fazioni della guerra, raccomandandoli alla bontà di Dio con la loro benedizione». NARDI. [283] Anche il residente Carlo Cappello, a’ 15 ottobre 1529, scriveva alla Signoria veneta: — La città tutta è di ottimo animo, ed ognora si rende più intrepida e desiderosa di mostrare il valor suo: nè più si può dire con verità che li poderi di questi signori sieno ostaggi dei loro nemici, perchè sono tanti gli incendj di bellissimi e ricchissimi edifizj, fatti sì dalle genti nemiche come dalli padroni proprj, che non è facile giudicare qual sia maggiore, o la immanità e barbarie di quelli, ovvero la generosa costanza di questi; e sebbene così grande rovina non può fare che non doglia, pure è di molto maggior contento vedere la grandezza degli animi e la prontezza d’ognuno in sostenere ogni danno, ogni pericolo, per conservazione della libertà». _Relazioni ecc._; serie 2ª, vol. I. pag. 234. — Sebbene sia questa la prima fiata che questa città abbia sentito l’artiglieria alle mura, non v’è però alcuno che non sia di costante e forte animo, e prontissimo alla difensione di quella, la quale, per somma diligenza usata da ognuno e per la comodità di balle mille ottocento di lana, le quali sono state poste nelle fortificazioni di essa, è ridotta ormai di sorte, che il nemico deve piuttosto di lei temere, che sperare vittoria». Ivi, pag. 238. [284] Questo fatto nuovo raccogliamo da relazioni dell’ambasciatore Cornaro, che scriveva alla Signoria veneta: — Non voglio restar di dire che questi signori sempre mi domandano delle cose del signor Turco, dimostrando di avere in quello grandissima speranza; e jeri hanno avuto lettere da Ragusa, che quella potenza preparava grande armata di mare e di terra, e già aveva inviato alla Vallona galere cento e cento palandre, la qual nuova è stata di sommo contento a tutta questa città, di modo che si può quasi esser certi che questi signori abbiano fatto intendere al Turco il bisogno loro; e di ciò mi è stato eziandio fatto motto da buon loco». _Relazioni ecc._; serie 2ª, volume I, pag. 279. [285] NARDI. Il quale, al lib. ix, ci dà alcuni prezzi: vino al barile ducati 8, 9, 10; aceto ducati 5 o 6; olio un ducato e più al fiasco; carne di vitello 5 carlini la libbra; 2 la bovina; 4 quella di castrato; 1 quella di cavallo o d’asino; 5 carlini la libbra il cacio; ducati 6 e fin 8 il pajo di capponi; 3 di pollastri; uno di piccioni; soldi 18 la coppia d’ova. [286] In espiazione, il giorno dell’Ascensione movono da San Marcello e da Gavinana due processioni verso la fonte dei Gorghi; quando s’incontrano rinforzano i canti, e accostano i crocifissi, il che dicesi il bacio de’ Cristi. Fabrizio Maramaldo, alquanti anni dopo, s’una festa alla corte di Urbino invitò a ballare la figliuola di Silvestro Aldobrandino, ed essa gli rispose: — Nè io nè altra donna italiana che non sia del tutto svergognata, farà mai cortesia all’assassino di Ferruccio». Di rimpatto, la marchesa di Pescara ha una lettera al principe d’Orange, ove loda infinitamente Fabrizio Maramaldo, e lagnasi che, per accuse dategli, abbiagli esso diminuita la sua grazia, e confida che «la candida fede d’un tal cavaliere, affinata per mano» del marchese di Pescara e del marchese del Vasto, sarà restituita all’onorato grado ed autorità che i suoi servigi ricercano. _Lettere di XIII uomini illustri_, 1564. p. 570. [287] Nel _Discorso sopra il governo di Firenze_, che è nelle _Lettere di Principi a Principi_, III. 124, tra il resto dice: — Le difficoltà principali mi pajono due: la prima che questo Stato ha alienissimi da sè gli animi della più parte della città, i quali in universale non si possono guadagnare con qualunque maniera di dolcezza o di benefizj; la seconda che il dominio nostro è qualificato in modo, che non si può conservare senza grosse entrate: ed il nervo di queste consiste nella città propria, che è tanto indebolita, che, se non si cerca di augumentare quella industria che vi è restata, ci caderà un dì ogni cosa di mano; però è necessario aver rispetto assai a questo, il che ha impedito il poter usare molti rimedj gagliardi, che erano appropriati alla prima difficoltà; e se questa ragione non ostasse, era da fare quasi di nuovo ogni cosa, non essendo nè utile nè ragionevole aver pietà di coloro che hanno fatto tanti mali, e che si sa che, come potessino, farebbon peggio che mai: ma quanto la città ha più d’entrate, tanto è più potente chi n’è capo, purchè sia padrone di quella; e il diminuire ogni dì l’entrate con esenzioni a sudditi, è mal considerato... «Parmi bisogni navigare tra queste difficoltà, ricordandosi sempre che è necessario mantenere la città viva per potersene servire, e quello che per questo rispetto si designasse riservare ad altro tempo, fosse dilazione e non oblivione, cioè non mancar mai di camminare destramente a quel fine che l’uomo si fosse una volta proposto, ed intrattanto non perdere occasione alcuna di stabilir bene gli amici, cioè di fargli partigiani; perchè come gli uomini son ridotti qui, bisogna vadino da se medesimi, e proponghino e riscaldino tutto quello che tende a sicurtà dello Stato, non aspettando di esser invitati, come forse si fa ora. È vero che gli amici son pochi, ma sono in luogo che, se non sono totalmente pazzi, conoscono non poter stare a Firenze non vi stando la casa de’ Medici; perchè non interviene a noi come a quelli del 34 che avevano inimici particolari, ed in tempo di dodici o quindici anni restarono liberi dalla maggior parte di loro. Abbiamo per inimico un popolo intero, e più la gioventù che vecchi, sì che ci è a temere per cento anni; in modo che siamo sforzati desiderare ogni deliberazione che assicuri lo Stato, e sia di che sorta voglia... «I modi di fare una massa sicura e ferma d’amici nuovi e vecchi non sono facili, perchè io non biasimo soscrizioni e simili intendimenti, ma non bastano: bisogna siano gli onori ed utili dati in modo, che chi ne partecipa diventi sì odioso all’universale, che sia forzato a credere non potere essere salvo nello stato del popolo: il che non consiste tanto in allargare o stringere il governo un poco più o manco, in stare su modelli vecchi o trovarne de’ nuovi, quanto in acconciarla in modo che ne seguiti questo effetto, a che fa difficoltà assai la povertà e le male condizioni nostre... «Il ridursi totalmente a forma di principato non veggo dia, per ora, maggior potenza nè più sicurtà; ed è una di quelle cose che, quando si avesse a fare, crederei fosse quasi fatta per se stessa, e comproporzionare con la proporzione che si conviene le membra al capo, cioè fare de’ feudatarj pel dominio; perchè il tirare ogni cosa a sè solo farebbe pochi amici, e come questo si possa fare al presente senza disordinare le entrate e senza scacciare l’industria della città, io non lo veggo. In questa scarsità di partiti mi occorreva che, spento il modello de’ consigli e di quelle chiacchere vecchie, si eleggesse per ora una balìa di dugento cittadini, non vi mettendo dentro se non persone confidenti...». [288] VARCHI, _Storie_, lib. III. in fine. [289] Gli statuti del 27 aprile 1532, che trasformano la repubblica in principato, sono recati per disteso dallo Zobi, _Storia di Firenze_, vol. V, append. X. [290] Il Nardi, fuoruscito anch’esso, ci ragguaglia di tutti i movimenti de’ fuorusciti nella parte della sua storia che rimase inedita fin testè. [291] La fortezza di San Giovan Battista, or detta di Basso. La prima pietra ne fu posta dal duca e dal vescovo d’Assisi il 15 luglio 1534 a ore 13, minuti 25, ora di felice augurio computato dall’astrologo frà Giuliano Buonamici di Prato. [292] All’entrata di Margherita moglie del duca Alessandro, «da Livorno a Pisa perfino a Poggio e a Fiorenza, i castelli, le ville, i popoli e le genti erano calcate per le strade a guisa dei pastori che, tornando dalle maremme, solcando con le loro capre ed altri armenti le strade, adornano i greppi, i piani e’ poggi; e, perdio, non era sì piccol forno in su la strada, che apparecchiato non avesse le tavole in su le strade, con moltissime robe sopra, che avriano sfamata la fame e la sete a Tantalo; e aveano fatto a ogni casa o porta fonte di due bocche, gettando vino una e acqua l’altra». Così il Vasari scrive all’Aretino; e dappertutto, oltre le solite comparse, sono notevoli questi allettamenti alla gola plebea. «Alla porta del Prato a Firenze era una botte di barili sei che gettava vino con un grasso nudo sopra..... Stavano innanzi a sua eccellenza due dromedarj, quali sua maestà cesarea donò al duca, e dopo essi era Baldo mazziere, con due gran bisaccie a traverso al cavallo, gettando denari... Erano calcate le vie di donne e uomini, che mai dacchè Fiorenza è Fiorenza si vide tanto popolo, con un’allegrezza miracolosa...» Dallo stesso sono eziandio descritte le feste splendidissime per l’entrata di Carlo V. [293] SEGNI, lib. VI. Allora furono introdotti o ripristinati i baccanali detti _Potenze_, ove diverse brigate si univano sotto un capo con titolo e veste di gransignore, marchese, duca, principe, re, papa; e ciascuna con bandiera e insegna proprie, da maggio a tutta estate festeggiavano in comparse e gara di lusso e di brio, e battaglie di sassate. Nella facciata di Santa Lucia sul Prato leggesi ancora: _Imperator ego præliando lapidibus vici anno_ MDXXXIV. [294] Lo stesso, lib. IX. [295] I fuorusciti si teneano molto raccomandati ai frati; e al confessore di sua maestà lasciarono un’esposizione del salmo _Verba mea auribus percipe, Domine_, in forma d’orazione ad esso imperatore. [296] Il Segni, che pur è benevolo a Cosmo, narra nel lib. xii d’aver molto bene conosciuto Beba da Volterra, uno degli assassinatori di Lorenzino, «il quale vantandosi di quel fatto, lo raccontava pur come un’azione gloriosa... Ed essi dal duca Cosmo non avendo voluto accettare la taglia, furono provvisionati con trecento scudi l’anno per ciascuno, e con titolo di capitani; onde di poi lietamente potessero vivere in Volterra, e trionfare del prezzo del sangue». [297] Relazione dell’ambasciador veneto Fedeli. Questo racconta che, mentre in consiglio si dibatteva sul partito da scegliersi, un soldato che stava di guardia tirò a un colombo sulla torre del palazzo, e il popolo applaudì a quella botta con tal rombazzo, che i quarantotto adunati credettero la città sollevata, e fretta e furia risolsero per Cosmo. [298] — L’altro giorno venne a bottega mia quello de’ Bettini, e... mi disse come Cosimo de’ Medici era fatto duca, ma ch’egli era fatto con certe condizioni, le quali l’avrebbon tenuto che egli non avesse potuto isvolazzare a suo modo. Allora toccò a me ridermi di loro, e dissi: Codesti uomini di Firenze hanno messo un giovane sopra un maraviglioso cavallo; poi gli hanno messo gli sproni e datogli la briglia in mano in sua libertà, e messolo sopra un bellissimo campo, dove sono fiori e frutti e moltissime delizie; poi gli hanno detto ch’ei non passi certi contrassegnati termini. Or ditemi voi chi è quello che tener lo possa quand’egli passar li voglia? Le leggi non si possono dare a chi è padrone di esse». BENVENUTO CELLINI, _Vita_. — A questo punto finisce la storia del Varchi. [299] Appare evidente dai documenti soggiunti da Giovan Battista Niccolini alla tragedia su _Filippo Strozzi_, e specialmente dalla lettera di Francesco Vettori, 15 gennajo 1537. Al 6 luglio 1536 re Francesco I scriveva e mandava per uomo espresso a Filippo Strozzi, esibendosi a tutto: — Io credo che voi sapete assai il desiderio ed affezione che vi porto, non solamente a voi e a tutti quelli di vostra casa ed alleati, ma eziandio a tutte le cose pubbliche di Fiorenza. Di presente essendo le cose ridotte al punto che si trovano, io ho voluto spedire Emilio Ferretti acciò di sapere da voi e dagli amici vostri se ci sarà loco e modo dove possa io fare qualche cosa tanto per voi quanto per loro e la repubblica di Fiorenza; pregandovi avvertirmene amplissimamente per mezzo suo, e di quello vi parrà si potrà e dovrà fare a quel punto. E potete esser sicuro che facendomelo sapere, mi c’impegnerò di tal modo, che voi conoscerete chiaramente quanto desidero fare per voi, per vostri amici, e in conseguenza per la libertà di Fiorenza». [300] Il Cambi scrive: — Addì 19 di maggio 1524 si azzuffarono i Pistoiesi, _come sono usitati_; per modo che i Panciatichi cacciarono fuori i Cancellieri della città; e fuvvi morto da dieci cittadini ecc.». [301] Filippo n’avea offerti al Vitelli cinquantamila scudi: esso ne voleva sessantamila, tutti in denari contanti. Dietro al Filippo Strozzi del Niccolini si stamparono le trattative pel riscatto di Filippo. Il sunto delle ragioni sta in queste parole di lui, ove al cardinale Salviati raccomanda di far presente a sua maestà e al Medici che «la morte mia dispera sette figli, i quali restano con non poche facoltà; offende tutta la famiglia degli Strozzi, che è la più numerosa di questa città, e tutti li parenti che sono di qualità; disordina e scompiglia una città che ha necessità di essere riordinata; e finalmente che il trarre più sangue a questo infermo che ha bisogno di ristoro infinito, saria estremo errore e passione e non ragione». Quelle lautissime esibizioni spiacevane a Pietro Strozzi, ch’era fuggito e che poi divenne maresciallo; e ai fratelli scriveva: — Ci troveremo senza il padre, poveri, ruinati della riputazione. Nostro padre non pensa più nè a roba nè a figliuoli, ed offre le più esorbitanti e vituperose cose che mai s’udissino; scrive che vuole piuttosto viver povero che morire ricco; certo voce degna d’un uomo che abbia sette figliuoli!... e dice tante altre coglionerie, che credo certo vi morreste dal dolore vedendole». 21 febbrajo. Filippo se ne scagionava, e secondo suo stile diceva averle offerte solo perchè Cosmo non avrebbe mai voluto dare sì grossa taglia, e perciò non l’otterrebbe dal Vitelli; ma del resto «non pensai mai pagare tale taglia, sapendo non potere se non con vendere quanto ho al mondo, e restare poi mendico, vituperato e non libero; il che non farei mai, eleggendo prima morire». 8 marzo. Di Pietro diceva Filippo nel testamento: — Piero mio si è portato dopo la mia cattura tanto empiamente, che si può con verità dire ch’io perisco per sua colpa». [302] — Più certa fama in fra pochi fa che il Filippo fosse stato scannato per ordine del castellano o del marchese Del Vasto, che gli avevano promesso di non darlo in mano del duca; i quali, intesa la risoluzione dell’imperatore che voleva compiacere il duca Cosimo, l’avevano fatto scannare, e fatto ire fuora voce che da se stesso si fosse ammazzato». SEGNI, lib. IX. [303] Niccolini, nella vita dello Strozzi che precede la tragedia mentovata. Si aggiunse d’una carta trovatagli, intitolata _Deo liberatori_, e con una proclamazione, che fu esercizio, giacchè ciascuno la reca diversa. È notevole la sua preghiera a Dio, acciocchè all’anima sua «se altro bene dare non vuole, le dia almeno quel luogo dove Catone Uticese ed altri simili virtuosi uomini che hanno fatto tal fine». [304] Del Migliore, nella _Firenze illustrata_, annovera le famiglie magnatizie che allora migrarono. [305] Da un figlio naturale di Francesco I Sforza derivarono i conti di Borgonuovo, finiti nel 1680. Da uno di Lodovico Moro i marchesi di Caravaggio, finiti nel 1697. Francesco avea avuti due fratelli: Alessandro ebbe nel 1445 la signoria di Pesaro, che poi Galeazzo, ultimo suo discendente, rinunziò al papa nel 1512; Bosio, la signoria di Castell’Arquato, e sposando nel 1439 Cecilia, erede del conte Guido degli Aldobrandeschi, per lei ereditò la ricchissima contea di Santa Fiora in Toscana, da Mario Sforza venduta poi nel 1633 al granduca. Suo nipote Federico sposò nel 1673 Livia Cesarini, donde i duchi romani Sforza-Cesarini. [306] PAOLO GIOVIO, lib. XL. — Anche Gregorio Leti taccia Carlo V d’essere fuggito dinanzi a Solimano, conducendosi in Italia per la via più breve. La cosa è pure attestata da un bel documento inserito nei _Diarj_ manoscritti di Marin Sanuto, che giova riferire come prova dell’insubordinazione delle truppe d’allora: — Non volevano (le soldatesche italiane) andare in Ungaria a morir di fame. E cussì il signor marchese del Vasto volendo risolvere e aver l’opinion di queste fanterie italiane, avendoli tutti ceduti alli soi colonnelli, e passando lui per mezzo loro colonnelli, dimandò qual voleva restar in Ungaria e quali retonar in Italia; dove per uno fante discalzo e ragazzone fu scomenzato a risponder, _Italia Italia, andar andar_; e cussì in un atimo, come sol succedere nelle guerre e campi; e il desiderio di repatriar, e li mali pagamenti, la carestia del viver, la dubitazione de morir in Ungaria e non poder più venire in Italia, la mala natura dei oltramontani dall’Italiani contraria, fu precipuo e principal fondamento che tutti Italiani con grandissimo strepito comenzorono a cridar _Italia Italia, andar andar_; e cussi in ordine se posero in cammino a dispetto dello imperatore e marchese del Vasto e delli soi capi, ali quali più volte li archibusi le fece angustia e paura, che tre delli soi colonnelli amazarono, e costituetono tre altri e novi capi, sotto il governo delli quali vennero avanti lo imperatore, caminando in un giorno leghe sei che son miglia sessanta; e cussì sino alla Chiusa sono venuti in ordinanza; e perchè non trovavano vittuaglie e volevano intertenerli, brusavano, amazavano, sachizavano, strapazavano li preti, e vergognavano le donne. Ma sopratutto ad un locho, se adimanda la Trevisana, per esser stato amazato alcuni capitani e gentilomini che venivano avanti, hanno brusato e fato quel più male hanno potuto, talchè dubito se ha rinovato l’odio ed inimicizie antiche dei oltramontani con Italiani. A Vilach a stafeta, per dirupi e vie insolite, arrivò innanzi al capitano Ponte, ministro del campo cesareo, mandato in diligenza da Cesare per intertenerli lì a quel passo, o con bone parole overo per forza; dove non potè far cosa alcuna nè con promission di darli denari, e manco per forza, che scomenzorono a brusar il burgo, dove avevano el passo, e per tre giorni continui fino alo arrivar alla Chiusa hanno vissuto di radici; e arrivati suso al Stato nostro, vedendo le buone preparazion di vittuaglie ed essere intesi, scomenzorono a cridar _Marco Marco, Italia Italia_, dicendo che, se si credessero ciascun di loro acquistar un imperio, non torneria in quella parte, che li mancava e denari e vittuaglie, e quando domandavan pane, overo vino, tutti respondevano _Nicht Furt_ ecc.». [307] Al fine del 1300 i villani del Vallese, della Tarantasia, del Vercellese e più del Canavese si sollevarono contro i nobili; le valli di Brozzo e di Pont formarono un’estesa cospirazione, e fecero strazio de’ beni, de’ castelli, dell’onore, dei castellani e delle mogli e figlie loro, e quasi un secolo durò il movimento. [308] Una cronaca contemporanea di Rivoli racconta che molti si chiusero nel campanile; ma i Francesi poser fuoco ad una catasta di legna là vicina; onde i rinchiusi sarebbervi soffocati : se non si fossero calati per le corde delle campane. Ma queste non giungendo fin a terra, doveano saltare, fiaccandosi la persona. Una madre si calò a questo modo portando un figliolino pel braccio, l’altro tenendo per le fasce coi denti. [309] Matteo Dandolo, andando per la Signoria veneta ambasciadore in Francia, visitava il duca di Savoja in Vercelli, quasi unica città rimastagli. «Io non so se veramente egli si possa chiamare non che duca, signor di Vercelli, essendo anche questa città, ov’egli abita, in guardia de’ Spagnuoli, e così stretta, che li miei servitori che conducevano le mie cavalcature non vi furono lasciati entrare, ma furon fatti alloggiare di fuori, siccome par che facciano di quasi tutti forestieri». _Relaz. degli ambasciatori veneti_, serie 1ª, vol. II. p. 62. Esso Carlo diceva al Muzio: — Ho due granmastri di casa, l’imperatore e il re, che governano il mio, ma senza rendermene ragione». _Avvertimenti morali._ [310] CIBRARIO, _Origine delle istituzioni di Savoja_, pag. 136. [311] Vedi _Négociations de la France dans le Levant_, 1854, raccolti da Charrière. Solimano aveva concertato di assalire Otranto; ma venutone in vista e non trovatovi la flotta francese, diè volta. Il signor Michelet, nel libro intitolato _Réforme_, misto di profondo e di buffo, dogmatico a forza di dubbio, e con uno stile tutto a sorprese, imputa della negligenza quei che in corte favorivano il papa contro il Turco e l’eresia; domanda se sarebbe stato un male che i Turchi occupassero il regno di Napoli, e risponde di no, perchè, come nella Cina, i conquistatori sarebbero stati inciviliti dai vinti, e il Turco sarebbesi ridotto europeo. Quasi ciò fosse avvenuto in Grecia e in quattrocento anni d’occupazione! Ma il professore parigino è accecato dal desiderio di veder abbattuto il cattolicismo. Per un altro principio, la legalità, il nostro Giannone giustifica le continue correrie e le conquiste de’ Turchi in Italia, perchè, avendo essi conquiso Costantinopoli, divenivano legittimi eredi dell’impero orientale, e quindi de’ diritti di questo sull’Italia meridionale!! [312] In quell’isola la chiesa di San Giovanni vuolsi disegno del fiorentino Arnolfo, continuata poi da tutti i granmaestri dell’Ordine. Per noi trovammo memorevole il sepolcro di Fabrizio Del Carretto, _urbis instaurator et ad publicam utilitatem per septennium rector_, morto il 1521. [313] Sarebbesi voluto levare il decimo de’ frutti per cinque anni, invece de’ quali il papa offriva un milione di ducati d’oro. Adunque esso decimo doveva essere per lo meno di ducento mila ducati, cioè la rendita annua de’ beni del clero superava i due milioni di ducati. Ingente possesso! [314] Questo, già generale de’ Veneziani, aveva un castello presso Agen, in Francia, e a lui e sua moglie Costanza Rangoni largheggia encomj Matteo Bandello, il quale avendo avuto la sua casa in Milano bruciata dagli Spagnuoli, erasi rifuggito presso di loro. Morto Cesare, re Enrico diede al Bandello il vescovado di Agen, riservando metà dei frutti per Ettore Fregoso, figlio dell’estinto. [315] Il duca di Savoja fece battere medaglie col titolo _Nicea a Turcis et Gallis obsessa_. [316] Marano era stata occupata da Massimiliano nella guerra della lega di Cambrai, e non la volle restituire nella pace. Pietro Strozzi nel 1542 la sorprese con una sua masnada; e intimatogli di lasciarla, rispose la darebbe piuttosto al Turco che all’Austria. I Veneziani risolsero allora comprarla da lui per trentacinquemila ducati; ma ecco l’imperatore querelarsene, e pretendere settantacinquemila ducati per indennità. Il senato rassegnavasi a questo sacrifizio, ma voleva s’acconciassero contemporaneamente altre divergenze di confini nell’Istria e nei Friuli; onde vennero lunghissime dispute. [317] La famiglia Birago milanese era durata fedele ai Francesi; e ripristinati gli Sforza, ricoverò in Francia. Renato vi ebbe grandi favori da Francesco I, che lo fece consigliere del parlamento di Parigi, poi presidente di quel di Torino, governatore del Lionese, e lo deputò al concilio di Trento. Carlo IX lo nominò guardasigilli, e si asserisce sia stato principal consigliatore della strage del San Bartolomeo. I Francesi estesero anche a lui l’odio che portavano a Caterina, e lo davano per famoso avvelenatore. Il capitano La Vergerie avendo detto che gl’Italiani erano la ruina della Francia e bisognava sterminarli, esso lo fece appiccare e squartare. Pure lo storico De Thou lo dà per generoso, prudente, tutto candore; e Papiro Masson ne stese un ampio elogio. Si oppose a Enrico III quando questi volle cedere al duca di Savoja le città di Pinerolo e Savigliano. Rimasto vedovo, fu ornato cardinale nel 1558, nella qual occasione diede una festa dove intervennero il re e la regina; un’altra scialosa ne diede pel battesimo del figlio d’un suo nipote, dov’erano due lunghe tavole, coperte di mille ducento piatti di majolica con confetti e droghe, disposte a piramidi, a castelli e in altre figure; e tutto il vasellame fu mandato a pezzi. Come Enrico III, apparteneva alla confraternita de’ Disciplini, e con quello e coi principi e grandi girava per le strade di Parigi, vestito di sacco e col volto coperto. Suo nipote Flaminio Birago scrisse poesie francesi. Altri di quel cognome ebber cariche e onori in Francia. Governatore del Piemonte per re Francesco fu il signore di Bellay-Longeay, che scrisse le _Ogdoadi_, a imitazione delle _Deche_ di Tito Livio. [318] Uberto Foglietta, in un’orazione a propria difesa, rivela le discordie e l’arroganza degli aristocratici: _Sed quid ego ut sanguinem misceant loquor, cum nobiles ab ipsa popularium consuetudine abhorreant, se seque ab eorum aditu, congressu, sermone sejungant, illosque devitent, perinde quasi illorum contactu se polluere ac contagione contaminare formident? Quare, separata loca et compita habent, in quæ utriusque corporis juventus conveniat, cum alteri alterius corporis homines excludant. Quin etiam, cum forum unum esse, in quod omnes cives convenient; necesse sit, ratione quadam assequuti sunt, ut forum ipsum dividant, ac duo fora prope faciant: duæ enim sunt porticus, in quas alteri ab alterius corporis hominibus separati conveniunt. Eadem quoque distinctio in juventutis sodalitatibus servatur, quarum multas nobiles instituerunt; in quas neminem unquam ex popularibus acceperunt, cum nonnulli, privatis necessitudinibus illis conjuncti, se admitti postulassent, sed ad repulsæ injuriam, verborum quoque contumelias addiderunt, cum se degenerum sodalitate commaculaturos negarent. Jam vero, cum ad animos hominum accendendos major sit contemptus, quam injuriarum irritatio, dii immortales quam despecti ab istis nostris nobilibus sumus, quam illi a nobis abhorrent, quam nos auribus et animis respuunt, quam contemptim de nobis loquuntur, in quanta convicia, linguæ intemperantia provehuntur, cum nos degeneres et rusticanos, non modo Genuæ, sed in aliis civitatibus appellant, per inde quasi deorum genus, atque e cœlo delapsi ipsi sint; exterosque, simulatque de aliquo ex nobis incidit sermo, etiamsi alias res longe agatur, sedulo admoneant, hominem illum degenerem et ex infima plebe esse, nobilitateque sibi haudquaquam, comparandum: neque sentiunt, se risui plerumque exteris esse, quos non pudeat fœnus ac sordidiores quæstus exercentes, nobilitatis nomine, quam comprimere deberent, se commendare, haud ullam animæ nobilitatis mentionem facere. Anecdota Uberti Folieta._ Genova 1838. [319] Secondo gli annali del vescovo Agostino Giustiniani, al principio del Cinquecento contenevano, la Liguria occidentale fuochi 31,457, o teste 125,828, calcolando solo quattro teste per fuoco; Genova e borghi 104,216; la Liguria orientale 22,088 famiglie, o teste 88,352; i paesi oltre Gioghi, 15,173. Ansaldo Grimaldi di Genova fece rifabbricare a proprie spese la chiesa di Santa Maria della Consolazione; e in una sola volta donò alle opere pie della città 75 mila scudi d’oro. Perciò ottenne franchigie perpetue e due statue nel 1536, una delle quali vedesi ancora nel palazzo di San Giorgio. [320] Lucca nel 1504 avea stabilito munirsi di mura, e fino al 1544 si fecero quelle verso levante e mezzodì; poi dall’estendersi delle nuove armi fatti accorti che i bastioni circolari e le mura con poca scarpa mal resisterebbero, affidossene la cura ad altri ingegneri, segnatamente a Vincenzo Civitali; e l’opera con undici bastioni fu compita solo nel 1645, colla spesa di 956,000 scudi; oltre il valore di 120 cannoni che la munivano; nella tagliata, fin a 750 braccia di distanza non era permesso piantare. La fortificazione fu adattata a bel passeggio, della lunghezza di 5000 metri, tutto pianeggiante. Con un fosso navigabile si pose in comunicazione Lucca coll’Ozzeri e il lago di Sesto, donde per l’emissario della Seresta sboccavasi in Arno, e così poteasi navigare a Firenze, a Pisa e al mare. [321] Il Burlamacchi «interrogato, rispose, che il desiderio suo di mettere in libertà la Toscana, e farne poi una unione, li era nato dall’aver letto più libri d’istorie, e massime le _Vite_ di Plutarco; fra le quali aveva considerato la vita di quattro gran capitani, che con pochissima gente avevano fatto gran cose; e questi erano Timoleone, Pelopida, Dione ed Arato. Ed in questi pensieri era stato da sei mesi se non forse un anno avanti che lo conferisse con persona; ed ogni giorno parendoli che la cosa fosse più riuscibile, deliberò conferirla; e così li parve che fosse a proposito Cesare di Benedino; e ne lo conferì, dicendoli che ci andasse pensando, che altre volte ne parlerebbero, perchè era cosa da pensarla; e sendone stato alcune volte insieme, a esso Cesare pareva che la cosa fosse riuscibile. «Item, interrogato, disse: essersi confessato e comunicato quest’anno in Ferrara, e da molti anni in qua, ogni anno una volta; non avere mai desiderato alcun comodo o utilità particolare di questo suo disegno, ma che il principale intento suo era di fare una cosa buona, lodevole e di memoria; tenere per certo che, se la cosa non si fosse scoperta, sarebbe riuscita, senza dubbio alcuno, a giudizio suo, ed oggi lo crede più che mai. «Interrogato qual benefizio intendesse fare a sua maestà con quest’unione, sì come scrive, rispose che, riuscendoli l’impresa dell’unire Toscana, aveva disegnato di poi andare o mandare o scrivere all’imperatore, e pregarlo se ne venisse dalle parti di qua, e che vedesse di riformare la Chiesa dalli molti abusi che vi sono, e ridurla all’unione di molte varietà d’opinioni che vi sono; il che li poteva riuscire con levarli l’entrate, e con questo avrebbe contentato gli Alamanni, e ridottili alla obbedienza sua, li quali non desideravano altro. «Ed allora il prefato signor commissario, per aver meglio la verità delli altri complici del detto delitto, ha ordinato sia spogliato, ligato et alzato. E subito postosi da se medesimo alla corda spogliato, e dopo ligato ed alzato per braccia quattro o circa da terra, ed ivi stando sospeso, interrogato che dica la verità degli altri complici di più di quello ha detto, e massime delli suddetti Senesi, rispose: Ah, signor commissario, ch’io son morto, che ho detto la verità, ahimè!... Un altro giorno «entrato il soprascritto signor commissario nella carcere della torre del Palazzo di Lucca, dove sta detenuto il soprascritto Burlamacchi, e di nuovo monito ed interrogato, rispose lamentandosi: Oh! signore, che volete ch’io vi dica: se ho detto tutto ciò che sapeva? Fatemi di grazia tagliar più presto la testa che tormentarmi tanto, chè io sono tutto stroppiato. Non avete, signore, la cosa chiara? «E volendo il prefato signor commissario chiarire l’animo suo di questo fatto importantissimo, in conformità dell’ordine che tiene, ordinò li fosse appresentato il fuoco e ceppi, e scalzato. E di nuovo interrogato, rispose: Ah! signore, se si vede la cosa chiara, come e a che tanto tormentarmi? «E scalzato che fu, il prefato signor commissario ordinò che fosse condotto al fuoco; e così ivi condotto, nell’atto di ponerli i ceppi, più volte monito e pregato a dire la verità, disse: Signore, io non so che mai dirle altro, perchè ho detto tutta la verità, e mai dirò altro di più di quelle ho detto. «Il che vedendo il prefato signor commissario, e conoscendo la ferma constanza del detto Burlamacchi, attese li tormenti avuti e l’apparato del fuoco fattoli come di sopra, ed ancora attesa l’età e la delicatezza del suddetto Burlamacchi, che non patiria tanti tormenti se altro sapesse, ordinò fosse lasciato e non tormentato: e così fu dimesso in detta carcere con la medesima custodia». (Processo nell’_Archivio storico_). [322] Parma avea per insegna il torello rosso colle corna dorate, che vestivasi solennissimamente il giorno dell’Ascensione; sul suggello portava: _Hostis turbetur quia Parmam Virgo tuetur_. Nel 1470 gli spedali vi furono riuniti in quello del Tanzi. Il _Diarium Parmense_ sotto il 1481 racconta che, mentre i Turchi aveano occupato Otranto, re Ferdinando mandò ad essi quattro meretrici infette, le quali accolte lietamente, appestarono l’esercito. [323] Lettera del primo febbrajo 1547. Il padre Ireneo Affò scrisse una _Vita di Pier Luigi Farnese_, donde restiam chiari quanto Carlo V volesse male a questo perchè parteggiava con Francia, e perchè esso Carlo da un pezzo agognava a Piacenza. Anche don Ferrante Gonzaga nutriva particolare rancore contro di esso perchè aveagli contrastato l’acquisto di Soragna: — Scrivendo questo dì a vostra maestà, e dandole conto del procedere del duca Pierluigi Farnese, e parlando del trattato di Parma e Piacenza, dissi che mi pareva meglio per molte ragioni di attendere al detto trattato in vita del papa che non dopo la morte sua, e lo supplicai a farmi intendere se, offerendosi qualche apparente occasione di rubargli Piacenza in vita del papa, quella sarebbe stata servita che si tentasse. Vostra maestà mi rispose, che le piaceva che le si attendesse, ma che io non venissi all’esecuzione senza consultar seco, e avvisarla particolarmente del modo che in ciò penserei di tenere. Sa vostra maestà che nel _robbar_ di un luogo, la maggior difficoltà che si presenta è lo unire le genti senza scandalo, che hanno da fare il _furto_; perchè, quando si vede far genti senza un qualche giusto e legittimo colore, quelli che possiedono gli Stati, i quali per l’ordinario ne sono gelosi, provvedono in qualche modo alla sicurezza loro, ed ogni provvisione che facciano, per minima che sia, disturba tutto il disegno. Ora egli si presenta questa colorata causa di far gente, e di farla in luogo comodissimo a Piacenza, con l’impresa che convien fare di Montojo. «Per dar mo conto a vostra maestà del modo che vorrei tenere per questo effetto, dirò l’intento mio esser di occupare una porta, e tener in punto il soccorso, e per quella impadronirmi della terra. L’occupar la detta porta in questi tempi, come ho detto, è da me giudicato facile; ed il soccorrerla, e soccorsa impadronirmi della terra, facilissimo. Per pigliare la porta penserei di fare che uno de’ miei servitori facesse un affronto ad una persona della quale mi fido che farebbe questo furto, e fare che lo affrontato si partisse di qua e se ne andasse in Crema, e di là cominciasse a mandar cartelli a questo mio che l’avesse affrontato, e presa occasione da questi cartelli, vorrei mandar uomini che mostrassero voler di mia commissione ammazzare quel tale, e dall’altro canto vorrei dar ordine che il detto affrontato, mostrando aver scoperto il trattato de’ detti uomini ch’io manderei per mostrare di ammazzarlo, se ne fuggisse in Piacenza, ed indi proseguisse pur a mandar cartelli, e mostrasse animo di voler combattere, e per guardia e sicurezza sua tenesse otto o dieci uomini che sempre l’accompagnassero. E a fine che la pratica dei cartelli aspettasse e desse luogo alla principale, la farei trattenere quanto mi piacesse senza venire ad alcuna conclusione sin a tanto che il resto delle cose a ciò necessarie fosse maturo. Appresso vorrei, per la notte che dovesse porsi in esecuzione il trattato, mandarci altri quindici uomini, che l’uno non sapesse dell’altro, nè l’effetto per il quale andassero, finchè non si venisse al bisogno, e con questi venticinque uomini occupata la porta, che intendo non esser guardata se non da uno che la chiude, e quella occupata, introdurre il soccorso delle genti. «Sotto colore adunque dell’impresa di Montojo, vorrei dar fama di fare una compagnia di trecento fanti solamente nel paese di Lodi, che si estende fin presso Piacenza due o tre miglia; ma in effetto vorrei che se ne facessero cinque o seicento, e costituire per la mostra e paga loro il giorno precedente alla notte che si avesse ad eseguire il trattato, acciocchè, venuta l’ora che li venticinque di dentro avessero ad occupare la porta, questi potessero esser presti e comodi a mantenerla occupata, ed a cacciarsi per forza dentro... «Mandai ne’ giorni passati un mio confidente per tentare da lontano gli animi di alcuni di quei gentiluomini, e sapere se, caso che succedesse alcun tumulto, essi se ne starebbero al vedere. Il quale vi andò, e fatto l’officio come il dovea, trovò talmente mal disposti quei tali con chi parlò, che dice quelli, senza sapere con chi parlassero, esser venuti a dire, che il maggior piacere che aver potessero in questo mondo sarebbe sentendo che una notte si gridasse Spagna Spagna, o Francia Francia. Io ho uno di quei gentiluomini principale, con cui potrei fidarmi, e che la notte, sentendo il rumore per la città della porta occupata, cavalcheria, e trovando chi sembiante facesse di volersi movere, con buone parole o con minaccie lo farebbe tornare in casa... «Promettendosi qualche buono trattamento e qualche mercede a qualche persona principale, spererei che Parma non dovesse molto replicare a rendersi, vedutosi chiusa la via del soccorso, ed esser in favor nostro alcun principale, che si scoprisse in favore di vostra maestà, attesa ancora la malevolenza portata al duca predetto. Come vostra maestà sa molto bene, le cose di questa qualità non si sono mai condotte bene, se non si è proposto premio a quelli che per effettuarle han posto la vita in pericolo». Come accade, passò del tempo, moltiplicaronsi lettere e brighe; don Ferrante trasse dalla sua l’Anguissola, e i 13 giugno scriveva all’imperatore: — La maestà vostra deve ricordarsi di quel tanto che a questi dì le scrissi, in proposito di unire con questo Stato quel di Parma e di Piacenza, e del disegno che mi si offriva di rubar Piacenza, nel qual disegno interveniva per capo il conte Giovanni Angosciola principale di quella città, e per mezzo di Luigi Gonzaga suo cognato trattava seco di questa pratica. Il qual conte Giovanni mostrava allora di moversi in ciò principalmente per servizio di vostra maestà, e di voler esporsi a questo pericolo per mostrare la volontà che aveva di servirla. Ma ora aggiungendosi nuova cagione a questo suo disegno, cioè il desiderio ch’egli ha di liberare la patria della soggezione e tirannide di Pierluigi, non può lasciar di persistere e perseverare nel medesimo disegno, essendo d’accordo egli con quattro altri principali della città, i quali si tirano dietro tutto il resto, e uniti e collegati sotto la fede datasi di far rivoltare la città, e di prender la persona di Pierluigi, e occupare la cittadella, e darla in potere di vostra maestà. E non domandano altro, salvo che dopo il fatto siano soccorsi da me con quel numero di gente che avran bisogno per difesa della città». [324] Esso don Ferrante scriveva ai congiurati che l’imperatore «vorrebbe non si ponesse mano nella persona del duca... e che aggradiva di buon animo quanto faceano, e non mancherà di riconoscere questo segnalato servizio». Anche sulla vita del duca non faceva gran caso don Ferrante, e scriveva a Carlo V: — Morto ch’egli fosse, mi parria che poco caso si avesse a far di lui»; e dice solo aver raccomandato si risparmiasse Ottavio genero dell’imperatore, «benchè in caso simile, dove i colpi non si danno a misura, è cosa difficile a poter assicurare una persona». [325] «Che delli omicidj che seguissero il giorno del caso, non sarà domandato conto nè ragione; nè similmente di robe e denari che fossero stati acquistati in qualsivoglia modo; ma che tali robe e denari saranno tenuti per acquistati a buona guerra». Capitoli concessi al conte Anguissola, 7 settembre. [326] Che Pier Luigi Farnese non fosse quel mostro che è nella tradizione, cercò mostrarlo Luciano Scarabelli in un _Capitolo inedito_ della sua Storia civile (Bologna 1868). Di tante cronache e memorie contemporanee da lui compulsate, nessuna lo presenta quale i partitanti dei Medici, dei Doria, degli Austriaci e i nemici del papa: certo aveva attorno persone rispettabilissime, Annibal Caro, il Pacino, il Monterdo, Claudio Tolomei, Marcantonio Scotti, G. B. Pico ed altri. Il popolo non prese parte all’assassinio, anzi lo detestò. [327] A chiarire la condizione delle città italiane d’allora giovi qui riferire i «Capitoli ricercati per la magnifica comunità di Piacenza, e stabiliti per l’illustrissimo ed eccellentissimo signor don Ferrando Gonzaga, capitano generale e luogotenente della cesarea maestà in Italia, alli 10 settembre 1547 in Piacenza: «1. Prometterà sua eccellenza, in nome di sua maestà, attesa la devozione volontariamente dimostrata e con manifesto pericolo, che mai s’infeuderà, alienerà, o _quovis modo_ si separerà detta città dallo Stato di Milano, in alcuna persona di qualunque grado, dignità o preeminenza sia, anche che fosse del proprio sangue di sua maestà, o per qualunque altra causa anche privilegiata. «2. Che tutte le entrate ordinarie si riducano ed esigano come erano ed esigevano nanti la investitura ed alienazione fatta di questa città, e le addizioni fatte per papa Paolo; nè quelle si possano _quovis modo_ accrescere. «3. Che accadendo imporsi nello Stato di Milano gravezze straordinarie, non possa imporsi alla città e contado di Piacenza più della decima di tutta la somma. «4. Che il podestà, qual sarà deputato nella città, sia uno dei magnifici senatori giureconsulti residenti nell’illustrissimo senato di Milano, nel modo e forma e con l’autorità quale si suol dare a quello di Cremona. «5. Che le cause civili si vedano, conoscano e decidano in questa città, nè siano tirate in Milano, eccetto le cause feudali e quelle che passano mille ducati di entrata. «6. Che siano conservati li nostri statuti e legge municipale, non ostante qualunque disposizione di ragione comune in contrario. «7. Che per mantenere la città e contado in unione e pace, colla quale sono venuti all’obbedienza di sua maestà, si cancellino ed annullino tutti i processi e condanne criminali di qualunque causa e delitto, _etiam criminis lesæ majestatis_, intervenendo però la pace in quei casi, ov’è necessaria la pace; eccetto che, dove non è intervenuto omicidio o ferite di animo deliberato, s’intenda anche fatta la remissione del tutto, senza pace, eccetto quello che concerne l’interesse e pregiudizio del terzo. E così tutti i banditi anche dello Stato di Milano per i tempi passati siano liberi e assolti. «8. Che tutti i beni confiscati siano restituiti a quelli di chi erano, essendo capaci per la presente concessione; e in ogni caso non essendo essi capaci, siano restituiti a’suoi più prossimi, quali verranno ab intestato. «9. Che non sia proibito ad alcuno di questa città il far mercanzia e artifizio di qualunque sorte che sia permesso nella città di Milano. «10. Che niuno sia forzato contro sua volontà a venire a stare ed abitare nella città, ma sia in libertà sua star dentro e fuori. «11. Che il governo della città si riduca e sia com’era nanti la investitura e infeudazione o alienazione di questa città. «12. Che i signori feudatarj siano preservati nei loro privilegi e amministrazione delle loro giurisdizioni, com’erano nel tempo degli eccellentissimi duchi passati di Milano, avanti che lo Stato fosse occupato dai Francesi, osservandosi però sempre il decreto del maggiore magistrato. «13. Che sua maestà _perpetuis temporibus_ farà de’ magnifici senatori residenti in Milano uno dei giureconsulti di questa città. «Ultimo, che sua eccellenza costringa ognuno che posseda beni nel territorio di Piacenza, così piacentino come ogni altro, anche feudatarj, a venire alla debita obbedienza, fedeltà e unione con gli altri cittadini; e contro gl’inobbedienti si proceda alla privazione de’ loro beni e altre pene, come meglio parrà a sua eccellenza». [328] GRISELLINI, _Vita di don Ferrante_; ADRIANI, _Storia_, lib. IV. [329] SOZZINI, _Diario Senese_, pag. 88. [330] Brantôme nella Vita di esso scrive: _Le seigneur Strozzi quitta l’Italie et vint trouver le roy au camp de Marole, avec la plus belle compagnie qui fût jamais vue de deux cents arquebusiers à cheval, les mieux dorés, les mieux montés, les mieux en point qu’on eût su voir; car il n’y en avoit nul qui n’eût deux bons chevaux qu’on nommoit cavalins, qui sont de légère taille, le morion doré, les manches de maille, qu’on portoit fort alors, la plupart toutes dorées, ou bien la moitié, les arquebuses et fourniments de même, ils attoient souvent avec les cheveaux légers et coureurs, de sort qu’ils faisaient rage; quelquefois ils se servoient de la pique, de la bourghignote et du corselet doré, quand il en faisoit besoin; et qui plus est, c’étoient tous vieux capitaines et soldats bien aguerris sous les bannières et ordonnances de ce grand capitaine Jeannin de Médicis, qui avoient quasi tous été à lui, tellement que, quand il falloit mettre pied à terre, on n’avoit besoin de grand commandement pour les ordonner en bataille, car d’eux-mêmes se rangeoient si bien qu’on n’y trouvoit rien à redire_... [331] _Lettere di Principi a Principi_, tom. II. p. 149. [332] Al ritorno, Enrico II lo trattiene cinque ore d’orologio a raccontare tutti gli accidenti dell’assedio, soprattutto stupendosi come egli, collerico e impetuoso, avesse potuto accordarsi con una gente straniera e puntigliosa; e Monluc gli rispose: — Un sabato andai sul mercato, comprai un sacco e una corda per legarne la bocca; e portato che l’ebbi in camera, bruciai una fascina, e preso il sacco vi chiusi dentro tuttavia mia ambizione, la mia avarizia, li miei rancori privati, la mia lascivia, la mia ghiottoneria, la mia poltroneria, la parzialità, l’invidia, le mie particolarità e umori di guascone, tutto insomma quel che potrebbe pregiudicarmi nel servigio di vostra maestà; e legato ben bene il sacco, tutto buttai al fuoco». Per le ferite avute a Siena restò così sformato, che portò sempre una maschera. Nella strage di San Bartolomeo e nelle guerre civili mostrò tal ferocia, ch’era intitolato il boja reale; e non che scusarsene e’ se ne vanta, quasi ciò sia inevitabile. Sul suo sepolcro fu scritto, a imitazione di quello del magno Trivulzio a Milano: CI-DESSOUS REPOS LES OS DE MONLUC QUI N’EUT ONC REPOS. [333] _Il ne sera jamais, dames sienoises, que je n’immortalise vostre nom, tant que le livre de Monluc vivra: car à la verité; vous estes dignes d’immortelle louange, si jamais femmes le furent. Au commencement de la belle resolution que ce peuple fit, de defendre sa libertè, toutes les dames de la ville de Siene se departirent en trois bandes: la première estoit conduite par la signora Forteguerra, qui estoit vestue de violet, et toutes celles qui la suivoient aussi, ayant son accoustrement en la façon d’une nymphe, court etmonstrant le brodequin; la seconde estoit la signora Picolhuomini, vestue de satin incarnadin, et sa troupe de mesme livrée; la troisième estoit la signora Livia Fausta, vestue toute de blanc, comme aussi estoit la suite avec son enseigne blanche. Dans leurs enseignes elles avoient de belles devises: je voudrois avoir donné beaucoup à m’en resouvènir. Ces trois escadrons estoient composez de trois mil dames, gentils-femmes ou bourgeoises. Leurs armes estoient des pics, des pelles, des hottes et des facines. Et en ceste equipage firent leur monstre, et allerent commencer les fortifications. Monsieur de Termes, qui m’en a souvent fait le compte (car je n’y estois encor arrivé) m’a assuré n’avoir jamais veu de sa vie chose si belle que celle là. Je vis leurs enseignes depuis. Elles avaient fait un chant à l’honneur de la France, lors qu’elles alloyent à leur fortification. Je voudrois avoir donné le meilleur cheval que j’aye, et l’avoir pour le mettre icy. Et puisque je suis sur l’honneur de ces femmes, je veux que ceux qui viendront après nous admirent et ce courage et la vertu d’une jeune Sienoise, la quelle, encore qu’ elle, soil fille de pauvre lieu, merite toutesfois estre mise au rang plus honorable. J’avois fait une ordonnance au temps que je fus créé dictateur, que nul, à peine d’estre bien puny, ne faillit d’aller à la garde à son tour. Ceste jeune fille voyant un sien frere, à qui il touchoit de faire la garde, ne pouvoit y aller, prend son morion, qu’ elle met en teste, ses chausses, et un colet de buffle: et avec son hallebarde sur le col, s’en va au corps de garde en cest equipage, passant lors qu’on leut le rolle sous le nom de son frere: fit la sentinelle à son tour, sans estre cogneue jusqu’ au matin, que le jour eut point. Elle fut ramenée à sa maison avec honneur._ MONLUC, Mémoires. [334] Ap. RICOTTI, _Compagnie di ventura_, IV. 264. [335] «Dei Lucchesi non bisogna parlare, che stanno come la quaglia sotto lo sparviere, e sempre con questa ansietà d’animo di non andare nelle mani del duca, che li circonda collo Stato suo. Ma il duca che non vede come averli in modo da essere padrone assoluto degli uomini e dei capitali, li quali sono per la maggior parte in mercanzie e denari contanti sopra cambj, e che conosce che ogni minimo moto saria un disertar quella città, perchè i cittadini se ne partiriano abbandonando con le facoltà loro la patria, come fecero i Pisani, e che vede così esser difficile non ad impadronirsi di quella città che in un soffio se la faria sua, ma ad impadronirsi degli uomini che sono quelli che fanno gli Stati, li lascia nei loro termini viver quieti, ma sì ben sempre in timore; sì che eziandio in questo modo, lasciandoli nella loro libertà, gli sono si può dire soggetti». _Relazione_ dell’ambasciatore veneto Vincenzo Fedeli nel 1561. [336] «Sono i Senesi molto accomodati, e tutti hanno del proprio, e non attesero mai ad industria alcuna se non a quella dell’agricoltura, vivendo molto delicatamente e spensieratamente; e le donne tutte vivaci e piene di spirito e di lussuria (_lusso_) erano quelle che facevano la città molto più bella e dilettevole. Ma gli uomini sempre divisi, e in parte fra loro contendendo insieme fino al sangue, e tagliandosi a pezzi, hanno fatto che si sono ridotti in servitù: sebbene dicano pubblicamente che, perfino non saranno tocchi con le gravezze e con le angarìe dalle quali sono liberi, staranno nei termini; che altrimenti saranno quelli medesimi che sono stati sempre, desiderosi di cose nuove, il che conoscendo ed intendendo, il principe va ponendo loro il freno per levarli d’ogni ardire, ed abbassarli quanto più può». _Relazione_ predetta dell’ambasciadore Fedeli, che è bellissimo ritratto dei primordj del principato mediceo. Descritti i naturali vantaggi di Firenze, prosegue: — Ma a questo quadro si aggiunge un rovescio molto oscuro e tenebroso, in considerare come tante nobilissime e ricchissime famiglie, piene di tanti onorati uomini, soliti a viver liberi ed a governare un sì bello Stato, il quale era pur loro per natura, si veggono ora da un solo e da un loro cittadino dominati e governati; e di liberi e di signori che erano, fatti servi, che a vederli solamente se gli conosce manifestamente l’oppressione dell’animo; che non so qual maggiore calamità di questa si possa vedere, di una città dove quello che era di tutti è ora di un solo, il quale colla potenza del principato tiene in sua mano e le ricchezze pubbliche e le private». E l’attribuisce a castigo di Dio per le ingiustizie che la democrazia fiorentina aveva commesse. _Relazioni degli ambasciadori veneti_; serie 2ª, vol. I. pag. 327. [337] È famosa nei fasti della tirannide la legge Polverina, dell’11 marzo 1548, stesa da Jacopo Polverino auditore fiscale. Considerato l’immenso danno che deriva dalle macchinazioni contro i principi, e sebbene i rei «sieno stati in Firenze in diversi tempi puniti, non solo essi autori di così crudeli flagizj, ma etiam li loro proprj figliuoli e discendenti e di relegazioni e di esilj e di confiscazioni, e non tanto dei loro beni liberi, ma etiam de’ sottoposti a qual si voglia spezie di fideicommissi e d’obbligazioni, e che siano per tal conto i detti figliuoli e discendenti, per pena de’ paterni delitti, stati fatti inabili, e sieno stati privi in perpetuo di tutti gli officj, onori, dignità e commodi di essa città, e fatti incapaci di ogni successione»; non vedendo però correggersi con ciò i riottosi per diabolica istigazione, il duca provvede alla felicità dello Stato collo stabilire che Chiunque cospirasse contro la persona del duca e de’ suoi, o la sicurezza dello Stato, o avendone notizia non lo denunzii, s’intenda incorso nelle pene inflitte dalle leggi comuni; e vengano perseguitati in ogni luogo, promettendo cinquantamila fiorini a chi rivela tali macchinazioni, oltre conseguir le sostanze de’ cospiranti; assolti da ogni pena se fossero stati anch’essi cospiratori. Eguale premio a chi ucciderà uno d’essi cospiranti, quand’anche fosse bandito, e condannato nella vita; e inoltre possano ottener grazia della vita a due banditi per altra colpa che di Stato: eguale a chi un rubelle conducesse vivo nelle forze della santa giustizia, quand’anche siano bargelli o persone pubbliche: ai ribelli s’infligga la pena di morte; e se non siano in podestà della giustizia vengano banditi, confiscati i loro beni, quantunque legati a fedecommesso, sostituzione, traslazione; e fin i beni materni e delle avole che ad essi pervengano; cassando i contratti che abbian fatto dopo messisi a cospirare. E «acciocchè non solo essi cospiranti siano puniti e castigati, ma i figliuoli ancora e i loro discendenti maschi etiam inlegittimi, come discendenti da corrotta radice, e per tale discendenzia partecipi del soprascritto contagioso e abbominevole delitto, portino parte della pena che si convien loro come persone odiose e colpevoli», si stabilisce che essi pure siano infami, incapaci d’ogni dignità, esuli in perpetuo e relegati, cominciando al duodecimo anno. Le figliuole s’intendano solo prive d’ogni successione, e fin de’ beni fedecommessi, salvo una dote competente. Le doti delle mogli de’ delinquenti s’impieghino sul Monte dello Stato o in beni stabili, in modo che non possano conseguirne alcun frutto vita durante: che se muojano senz’altri figli che dello scellerato, tutto vada al fisco, non ostante qualsivoglia contratto: bensì possano succedere i figli che abbiano d’altro letto. Con queste non s’intende tolta verun’altra delle pene comminate dalla legge comune o dalle municipali, e non ostante qualsivoglia privilegio, statuto, provvisione, immunità, capitolazione. [338] Sono sue le fortezze di Pistoja, d’Arezzo, di San Sepolcro, di Eliopoli al confine della Romagna, due castelli dell’isola d’Elba, quel di San Martino nel Mugello, il bastione di Poggio imperiale. Del modo di quelle milizie Cosmo informava di sua bocca il Fedeli suddetto: — Io ho una milizia descritta nello Stato di Firenze d’uomini da diciotto anni fin a cinquanta, e tutti usi alle armi, in numero di ventitremila, così bene regolati e disciplinati, che si può dire che questa sia una bellissima banda, tutta armata, parte d’archibugi, parte di corsaletti e picca. Da questa descrizione è riservata la città di Pistoja e suo territorio, per gli animi che hanno implicati nelle parti, e la città di Firenze e suo territorio; chè a questa non ho voluto lasciar l’arme, ma vi si caveria e miglior gente e in gran numero in un bisogno importante, come fu nella guerra di Siena, ch’io me ne servii mirabilmente; così che in tutta quella impresa non altri che due soli mi si ribellarono, e tutti continuarono sino a guerra finita; cosa che non fece nessun’altra nazione, che ogni tratto se ne andavano e se ne fuggivano. In regolare questa milizia ho avuto grandissima fatica a ridurla obbediente ed in provveder di non essere rubato nei pagamenti, come io era da principio; ma in questo ho ora posto così buon ordine, che ben posso al tutto e di tutti rassicurarmi «Quando si ritrova di tempo in tempo alcuno che passi l’età, o che si faccia impotente, o che abbia qualche altra legittima causa di non poter essere soldato, subito si mette un altro in suo luogo, e si vanno descrivendo eziandio alla giornata quelli che pervengono alli diciotto anni. Quando poi mi occorre di levar una banda dalla provincia, faccio cavar dal libro della descrizione generale un ruolo a San Pietro, con li cognomi, nomi dei padri, e segni, e con li pagamenti stabiliti a’ capitani, sergenti ed alfieri e capi di squadra; e con una lettera mia e con il denaro bollato in gruppo, mando l’ordine al commissario di quella città dove voglio levare la gente; il qual subito col ruolo in mano chiama la gente e la paga, e quelli se ne vengono tutti spediti, perchè sanno che hanno da camminare; e così immediate marciano dove dai capi sono guidati. E quest’ordine ho io ridotto così facile, che in cinque soli giorni li metto tutti insieme ed uniti in campagna: perchè in due giorni e mezzo va il comandamento per tutto lo Stato, e in due giorni e mezzo sono tutti uniti. Ma quando è il tempo delli raccolti e di far i servizj della villa, ordino che li contadini siano lasciati a casa persino che dura il bisogno della campagna. Ho poi fatto una descrizione per tutto lo Stato di dodicimila guastatori, tutti uomini di campagna forti e robusti, e sono tutti per pelo o per segno descritti; e di questi me ne posso servire mo’ di una parte, mo’ dell’altra in quel modo che io voglio, scambiandoli di continuo secondo il bisogno, e adoperandoli sì nella guerra come in altre opere secondo la mia volontà. «Di quel di Siena io cavo poco per adesso, per le esecuzioni fatte loro per la guerra, ma penso ridurli a buoni termini. Ora ne cavo poco più di centomila ducati oltre la spesa; e questo denaro si cava solamente dai pascoli, dal sale e da due dazj, li quali spero io che si faranno molto maggiori presto, perchè torneranno li traffichi, e moltiplicheranno le genti. La milizia descritta è di settemila uomini, tutta gente eletta (che il Senese fa sempre buoni soldati), ed è governata col medesimo ordine e con la stessa disciplina che ho detto esser quella di Firenze. Di modo che dell’uno e dell’altro Stato di Firenze e Siena avrò sempre pronti trentamila fanti, senza che li Stati predetti patiscano. «De’ cavalli non son molto in ordine, ma presto farò di maniera che ne avrò una banda di mille e cinquecento; perchè in tutti due li Stati vi sono molti gentiluomini, ed altri che tengono cavalli per loro uso, ai quali dando io due scudi al mese in tempo di pace, supplisco al mio bisogno con poca spesa, e terranno buoni cavalli con questo poco intertenimento. «Io mi sono posto poi con tutti gli spiriti alle cose di mare, e ho delle galere fatte, e tuttavia se ne fanno, e continuerò a farne, e le terrò in ordine di tutte quelle cose che fanno bisogno per poterle armare; chè ciurme non me ne mancheranno, e d’avvantaggio, se occorrerà in servizio delli miei amici; fra poco tempo ne voglio avere trenta in ordine. E per avere nel mio Stato tutte le cose per bisogno dell’arsenale, quest’anno ho posto in ordine per il tessere cotonine da far le vele; chè il resto nasce tutto sul mio in grandissima copia, e da servirne chi ne volesse». [339] Non si può immaginar festa più insigni, di quelle per le nozze del granduca Francesco Medici colla regina Giovanna d’Austria, descritte a lungo dal Vasari, e dove tutto il giro della città ebbe archi, statue, ritratti, iscrizioni, poi apparati diversi di comparse, di teatri, di musiche, continuati per molti giorni. Il Vasari stesso ordinò e descrisse quelle pel battesimo del loro figlio. [340] L’ambasciadore Fedeli diceva di lui: — Avendo provato la cattiva poi la buona fortuna, e l’uno e l’altro modo di vivere, e l’una e l’altra condizione de’ tempi, s’è fatto molto prudente e savio, e si è conservato ed ingrandito, e ha superate tutte le difficoltà, scoperte tutte le congiure; e vinti e debellati tutti li suoi potentissimi nemici, e quelli avuti nelle mani ha castigato di modo che con le persecuzioni s’è assicurato e con le guerre confermato; talmente che oggidì si dice in Firenze che ogni tumulto, ogni guerra, ogni assedio, ogni vittoria ed ogni morte si vede esser seguìta per fermare e stabilire in Cosmo questo principato... «Questo principe governa gli Stati suoi con un grandissimo rigore e spavento; vuole la pace, l’unione, la tranquillità fra i suoi popoli e cittadini, li quali non ardiscono pur muoversi; e non vuole che si parli d’odj, d’ingiurie, d’inimicizie e di vendette, nè che più si nomini nè parte guelfa nè ghibellina, nè parte panciatica nè cancelliera, nè piagnoni nè arrabbiati, sebbene tutte fra loro queste parti sieno piene di veleno. Tiene una giustizia incomparabile, e così grande, così eccessiva, così espedita, e così a tutti indifferente, che fa stare ciascuno ne’ termini; e in ciò mette grandissima cura acciocchè non segua disordine, e non sia fatto torto ad alcuno nè ingiustizia, e che tutti siano eziandio de’ loro errori indifferentemente castigati e puniti. Finalmente colla quiete de’ popoli, con l’abbondanza, con la pace e con la giustizia si fa sempre più degno del principato: nè manca in cosa alcuna, ponendo ogni cura e diligenza che gli ufficiali di dentro, e li reggimenti e governi di fuori siano sempre d’uomini periti, pratici e intelligenti, e soprattutto che siano buoni e fedeli; e come ne scuopre un tristo o parziale, lo cassa e lo punisce senza rispetto alcuno; e non sono molti mesi che una mattina assistendo all’udienza del magistrato degli Otto, che è il supremo nelle cose criminali, li mandò tutti a casa con ignominia, e dubitavasi di peggio assai, solamente per mostrarsi parziali in un caso che aveva bisogno di pronta e severa risoluzione; di modo che le cose civili e criminali sono con grandissimo studio spedite ed amministrate. «Ha medesimamente provveduto per la difesa de’ suoi popoli, per la conservazione de’ suoi Stati, per l’aumento della sua grandezza, e per la futura autorità e dignità de’ suoi posteri e successori; perciocchè ha disposto sotto perpetui ordini una onorata e valorosa milizia di fanti trentamila, tutti disciplinati e tutti descritti da anni diciotto fino a cinquanta, li quali in cinque giorni si possono unire e porsi tutti insieme in campagna; e si può eziandio servire di molto maggior numero se vuole, per la buona e numerosa gente de’ suoi Stati. «Di cavalli, volendone tenere una banda di duemila, ne va ogni dì facendo, ma con grandissima difficoltà, per la carestia che ha il paese di cavalli: pur mi disse che pensava di facilitar l’espedizione col fare una nuova descrizione di tutti quelli del suo Stato, che o per comodità o per sollazzo o per onorevolezza tenessero cavalli, e con due scudi al mese in tempo di pace, e con qualche esenzione personale o privilegio di portar l’armi, obbligarli a star bene a cavallo, con promessa di pagarli in tempo di guerra: e con questo modo pensava di dar pronta esecuzione a questo suo disegno, come darà, perchè quello che egli vuole senza replica sempre si eseguisce. «Ha poi una descrizione di dodicimila guastatori, tutti uomini di campagna robustissimi, delli quali, sebbene sono fatti per adoperarli nella guerra, se ne serve però anche in tempo di pace, secondo il bisogno, ad assettar le strade, a cavar fossi, seccare paludi, bonificar terreni, e così fa opere grandi e maravigliose che è uno stupore; volta le acque e i fiumi dove che vuole per ridurre il paese all’agricoltura. «Fa poi di continuo lavorare intorno le munizioni di polvere, e gettare artiglierie, che finora n’ha pezzi cento da batteria ed altri infiniti da campagna; e a questo si aggiunge una elevazione di capitani valorosi di diverse nazioni, tutti esercitati nella guerra, i quali sono al numero di centoventi, che tutti seguono la Corte, e tutti hanno soldo da diciotto fino a venti, venticinque, trenta e quaranta scudi al mese per uno... «Non entra nè esce cosa alcuna dalle città dello Stato, che tutte non paghino pur qualsivoglia minima cosa; nè in ciò vi è rimedio, tanta è la esatta diligenza dei dazieri e deputati, che tutti sono per conto del principe, il quale non affitta nè appalta alcun dazio o gabella, e però si fa la esazione con molta cautela e riscontri, e quelli che hanno i carichi stanno sempre con spavento nel rivedere de’ conti, perchè il principe punisce gl’intacchi severissimamente; il quale, con aver fatto impiccare un suo favoritissimo, e che però rubava con sicurtà, nominato messer Giuliano del Tovaglia, uomo già fatto ricchissimo e al quale a tutte l’ore era l’adito aperto di poter entrare dal duca, ha dato un esempio perpetuo a tutti li suoi ministri. E mi ricordo che sua eccellenza un giorno mi disse, che in regolare il suo Stato il tutto gli era stato facilissimo, ma che il provvedere di non esser rubato l’avea trovato difficilissimo, e l’avea ottenuto con gran fatica, parendogli però d’esser ora sicuro che li ministri s’abbino a guardare di torgli pur un quattrino; li quali per la verità stanno sempre in un terrore grandissimo, talmente che non bisogna pensare di potere far contrabbandi nello Stato suo. «Ha un corpo di assai più che comune statura, robustissimo e forte; nell’aspetto è molto grazioso, ma quando vuole si rende tremendo; nelle fatiche e negli esercizj è indefesso, e molto si diletta delle cose ove abbisogni agilità, forza e destrezza, talmente che nel levar dei pesi, nel maneggiar dell’armi, nei torneamenti dei cavalli, e nel giuoco della palla e nella caccia, non vi è chi lo superi, e stracca ognuno. Ed in simili piaceri delli quali si diletta molto, e nel pescare e nel nuotare è la totale sua ricreazione, e si spoglia allora d’ogni autorità e dignità, e sta con molta domestichezza burlando con tutti molto famigliarmente, e vuole che tutti i suoi egualmente piglino questa sicurtà senza avergli rispetto alcuno: ma fuori di questi esercizj non riconosce persona, come se vista e conosciuta mai non l’avesse, nè v’è chi fosse ardito di far pure un minimo segno di famigliarità, e si ritira immediate nella sua solita severità, talmente che è fatto un proverbio nella città, che il duca si disduca e s’induca quando vuole, perchè si fa privato e principe a sua posta. Ma questo fa solamente con i suoi, perchè con gli altri non si domestica mai, nè fa punto copia di se stesso se non quando porta il bisogno del negoziare. «Così come è grande nel maneggio e nel governo dello Stato, così già soleva usare tutte le grandezze in tutte le cose: ma da un tempo in qua è molto rimesso e ritirato, e nelle cose della casa non vive in vero da principe con quelle grandezze esquisite che sogliono usare gli altri principi o duchi, ma vive come un grandissimo padre di famiglia, e mangia sempre unitamente con la moglie e con i suoi figliuoli, con una tavola moderatamente ornata; nè li figli fanno da sè tavola, nè altra spesa come s’usa nelle altre corti, ma tutta è una spesa ed una sola corte; e così nell’andar fuori o per la città e in campagna, dove va il duca va la moglie e figliuoli e tutta la casa, con una guardia sempre a canto d’una banda d’Allemanni, d’una compagnia di cavalli leggieri e di cento archibugieri, che non mancano mai; e lui sta sempre armato di maniche, giaco, spada e pugnale con la sua numerosa corte che lo segue; e dove va la sua persona vanne tutti li suoi capitani pensionati e stipendiati, che manco di seicento cavalli non sono mai, i quali tutti ad un suon di tromba si muovono; e tutto è ridotto a tanta facilità, che li muli e carriaggi, che sono infiniti, sono subito pronti e presti in seguire; nè altri poi vi sono che gli facciano corte di quelli della città, perchè il duca non vuole che nè le donne nè gli uomini si occupino in altro che nelle loro faccende, per non esser nè atti nè assuefatti a questo, come è usanza nelle corti degli altri principi. «Soleva già questo principe dare la spesa e fare una tavola per chi voleva andare; ora l’ha levata del tutto, e non la fa se non in campagna, e non sempre. Soleva tenere una stalla regia di tutte le sorta di preziosi cavalli; ora tiene tanto che basta. Soleva nelle cose della caccia far una grandissima spesa; ora se la passa con ogni mediocrità, e fa che li privati suppliscano, che il tenere un buon falcone o un buon cane si reputa favore. Ed ha ristretto finalmente tutte le spese superflue, nè si vede tenere in altro la mira che in accumular tesori. «Confinando assai con lo Stato della Chiesa, non può avere il duca maggior disturbo se non da quella banda; chè nessun altro principe gli può far guerra offensiva, nè solo nè accompagnato con altri, se non ha la comodità delle vittovaglie e delle monizioni da quello Stato. Nè bisogna pensare che in Toscana vi possa durare molto un esercito grosso; perchè il duca ha introdotto un bell’ordine ne’ suoi Stati in tempo di pace, acciocchè in tempo di guerra e quando bisogni non patiscano, e non si renda difficile l’osservarlo; e l’ordine è questo: che tutti li grani e tutti li vini, subito fatti i raccolti, si portano e si conducono nella città e luoghi forti, e li contadini e gli uomini di campagna ne vanno poi a pigliare per li loro bisogni di tempo in tempo; e di quello che entra e di quello che esce se ne tiene particolar conto, e tutto passa per bollettini e licenze senza alcuna spesa; di modo che sempre la campagna è vuota, e le terre, città e luoghi forti sono pieni; e mai, arrivato colui che facesse in ciò fraude: ma è tanto il terrore, che non vi è alcuno che ardisca contraffare agli ordini dati. «E questa cosa di far monti di provvisioni cammina con tanta esattezza e così facilmente, che il principe sa sempre a dì per dì fino a un granello quanto vi sia in ogni luogo, premiando gli accusatori, e castigando li trasgressori gravissimamente: e con questi modi s’assicura dalli potenti eserciti, e delli minori non teme, per aver il modo di cacciarli e di romperli». [341] Quelle lettere furono pubblicate a Berlino nel 1848 da G. Heine col titolo _Cartas al emp. Carlos V en les anos del_ 1530-32. [342] Ivi condusse seco Giovanni Torriano cremonese, oriolajo e meccanico valentissimo, che Famiano Strada qualifica l’Archimede di quel tempo, e che inventò la macchina, da cui a Toledo l’acqua del Tago è sollevata fino alla cima d’Alcazar; faceva automi ingegnosissimi, ed eseguì l’orologio pubblico di Pavia con mille cinquecento ruote, che indicava i movimenti dei pianeti. [343] Aveva per banchieri i Fugger d’Augusta, negozianti ricchi quanto già i Medici e gli Strozzi di Firenze, e che come questi proteggevano le arti, raccoglievano libri, iscrizioni, letterati, onde Roberto Stefano gloriavasi del titolo di stampatore di Ulrico Fugger. Questa casa fin dal secolo precedente nelle sue corrispondenze facevasi mandare informazioni di tutti i fatti; le quali si cominciarono a stampare col nome di _Ordinari Zeitungen_ e _Extraordinari Zeitungen_, origine della famosa Gazzetta universale d’Augusta. Dovendo Augusta pagare ottantamila fiorini d’oro, quella casa li fece coniare. Carlo V li teneva carezzati, alloggiava da loro, e nel 1530 tornando d’Italia, si scusava di non poter ancora soddisfare le cambiali che aveva ad essi rilasciate; e al tempo stesso dolevasi che, quantunque fosse giugno e in Italia estate spiegata, colà si sentisse ancor freddo: allora i Fugger gli accesero il camino colle cambiali stesse di lui, e con legni di cannella che costava due zecchini la libbra. Teneano sempre un di loro famiglia a Venezia per assistere al banco che vi aveano nel fondaco de’ Tedeschi; ed Enrico III, quando passò da Venezia nel 1574, andò a fargli visita. [344] SEGNI, _Storie fiorentine_, lib. XL. — Un dì, liberamente ragionando meco, sua maestà mi ha detto essere di natura fermo nelle opinioni sue. E volendolo io scusare, dissi: — Sire, l’esser fermo nelle opinioni buone è costanza, non ostinazione»; ed egli mi rispose subito:. — E qualche volta son fermo nelle cattive». _Relazioni di Roma di Gaspare Contarini._ [345] NORIS, _Guerra contro Paolo IV_, lib. I. pag. 6. [346] Vedasi il giornale delle lettere di Bernardo Navagero al senato veneto, sotto il 21 maggio e 28 giugno 1557. [347] NORIS, lib. cit., pag. 11. [348] Nella _Relazione_ letta in senato da Giovanni Michiel, reduce dall’ambasceria di Francia il 1561, leggiamo: — In secreto la regina (Caterina) non può addolcir l’animo verso del duca Cosmo, ancorchè sia della medesima casa, e lo veda accrescere e farsi ogni dì più grande; chè non solo la grandezza sua non gli piace, ma, per contrario, ognora gli è più molesta: e la causa non si sa se sia ingiuria privata ricevuta dal duca (oltre la pubblica d’aver accordato col re dopo la presa di Siena col mezzo del cardinal di Tornone, e poi, senza occasione, rotto la capitolazione, essersegli dichiarato nemico), o sia per istigazione de’ molti fuorusciti fiorentini che sono in Francia, che accendono a tutte le ore essa regina all’odio del duca e alla restituzione della libertà, della quale in pubblico e in secreto (o finga o sia da vero) ella ne mostra grandissimo desiderio. E so dire a vostra serenità, per relazione di persona atta benissimo a saperlo, che subito ch’ella seppe che vi era principio di diffidenza tra il re di Spagna e il duca, diede in commissione con una scrittura di sua mano alla regina sua figliuola, nel mandarla a marito, di fare per parte sua quel peggior uffizio che potesse contro esso duca. E tra le altre cose perchè desiderasse vedersi col re Filippo, era per confirmar meglio quel re ad averlo in disgrazia, ed esortarlo alla ruina sua. E per confirmazione di questo, so che quando da più vie si divulgò in Francia che l’imperatore, con permissione del re Filippo, era per dimandar la restituzione di Siena al duca, andati alcuni gentiluomini fiorentini alla regina per dirle che aveano deliberato, se così le paresse bene, d’andar un di loro in Ispagna per raccomandare con quest’occasione a quel re le cose loro, e metterle innanzi molte sorte di partiti per offesa del duca, la regina non solo li laudò, ma disse che daria loro efficacissime lettere di sua mano. Ed essendole poi detto dalli medesimi, che temevano di non aver ad essere scoperti e impediti dal duca, perchè, intendendolo, i signori di Guisa l’avriano fatto saper al duca di Ferrara, e lui a Fiorenza, per il parentato e unione che è tra loro: — No, no (disse la regina), a questo io rimedierò benissimo, che i Guisa non lo sapranno, e se «lo sapranno, si guarderanno benissimo di non offendermi». Consideri ora vostra serenità se con questo mal animo della regina, e con l’autorità che ha, se venisse occasione d’offenderlo, si restasse di farlo». [349] ZILIOLO, _Vite de’ poeti_, ms. [350] RICOTTI, IV. 115; e _Scelta di azioni egregie operate in guerra da generali e da soldati italiani_; Venezia, 1742. [351] CAMBI, _Storia di Cremona_. [352] Tra altri gli fecero quest’epitafio: _O Deus omnipotens, crassi miserere Vitelli_, _Quem mors præveniens non sinit esse bovem._ _Corpus in Italia est, tenet intestina Brabantus_, _Ast animam nemo. Cur? quia non habuit._ [353] MARIN SANUTO, _Diarj_. [354] Paolo Contarini, balio a Costantinopoli nel 1580, scriveva alla Signoria: — Mustafà bascià a me fece grandissime cortesie, mostrando risentimento grande della morte del clarissimo Bragadin di felice memoria, e affermando non aver avuto alcuna parte in essa, e che fu tutta opera di Araparmat, il quale poi ne patì la pena, perchè nel luogo stesso che fu scorticato quel povero martire, essendo egli vicerè in quel regno, fu in una sollevazione de’ Gianizzeri impiccato». _Relazioni degli ambasciadori veneti_, vol. IX. All’assedio di Famagosta assisteva Girolamo Maggi di Anghiari, valente filologo e giureconsulto, che scrisse molte opere, fra cui la più notevole è il trattato _Della fortificazione delle città_. Vi espone molte macchine belliche da esso medesimo inventate, e delle quali pare siasi servito a difesa di Famagosta. Caduta questa, restò prigioniero e fu venduto a un capitano di nave che lo menò a Costantinopoli. Ivi nello studio cercò distrazione, e alfine riuscì a fuggire e ricoverarsi in casa dell’ambasciadore cesareo: ma il gran visir lo scoperse, e lo fece strangolare nel 1572. [355] SERENO, _Comm. della guerra di Cipro_, pag. 191. — Pochi giorni dopo la battaglia delle Curzolari fu stampato a Venezia un opuscoletto: «L’ordine delle galere et le insegne loro con li fanò, nomi et cognomi delli magnifici et generosi patroni di esse che si ritrovarono nell’armata della santissima lega al tempo della vittoriosa et miracolosa impresa ottenuta et fatta con lo ajuto divino contro l’orgogliosa et suprema armata turchesca. Fidelmente posto in luce in Venetia presso Giovan Francesco Camotio MDLXXI». Vi sono divisate le cinquantatre galee del corno sinistro; poi le trenta della battaglia reale, ossia del centro, a sinistra, e trentadue a destra; poi cinquantacinque del corno destro; e trentasette di retroguardia o riserva. [356] Andrea Provana, detto monsignor di Leiny, vi serviva con tre galee piemontesi: d’una rimasero vive soia dodici persone, e vi fu ferito a morte Francesco di Savoja. [357] SANSOVINO, _Venetia città nobilissima et singolare_, lib. X. Per la battaglia di Lepanto Francesco Zane fece un epigramma, il cui prima distico è tutto di parole cominciate in _T_ (_Thrax trux turca trahit tantos terrore tumultus_), il secondo in _F_, il terzo in _P_. NATALE GENNARI, _Della santa triplice alleanza del S. P. Pio V contro Selim II, battaglia di Lepanto e trionfo di M. A. Colonna_. Roma 1847. [358] Tra i fuggiaschi da Cipro fu Giasone di Nores, che si piantò a Padova, e v’ebbe la cattedra di filosofia morale. Lasciò molte opere più erudite che belle, fra cui una retorica e una poetica. In questa condannava le tragicommedie pastorali; e il Guarini, che credea colpito specialmente il suo _Pastor fido_, vi rispose acremente. Pietro di Nores suo figlio scrisse pur egli alcune opere, fra cui una vita di Paolo IV, pubblicata solo testè. [359] La relazione di Gianfrancesco Morosini, balio a Costantinopoli nel 1585, dice: «Le forze marittime, con le quali il granturco difende il suo impero, sono tali, che non ci è nel mondo altro principe che ne mantenga maggiori di lui, perchè ha nel suo arsenale un grandissimo numero di galere, e ne può molto facilmente far davantaggio quando vuole, perchè ha abbondanza di legnami, di ferramenti, di maestranze, di pegola, di sevi e d’ogni altra cosa necessaria per questo effetto. «È vero che al presente non si ritrovano in pronto tutti quelli armezzi che sariano necessarj per armare i corpi delle galere che sono in essere, e molto meno quelle che di nuovo il gransignore ha ordinato che si facciano, ed ha mancanza di cotonine di che fanno le vele, e d’altre cose; ma è così grande la sua possanza, che con prontezza e facilità, quando gliene venga voglia, potrà far provvisione di tutto quello che gli manca, come ha già dato principio a provvedere. «De’ galeotti, quando il gransignore vuole dal paese uomini e non denari, ne avrà sempre abbondantemente per fare ogni grossa armata, siccome anco avendo tanta gente pagata, come la vostra serenità ha inteso, potrà sempre mettervi sopra quel numero di soldati che vorrà: li quali anco vi sogliono andare molto più volentieri che non vanno per terra, così per la comodità, come anco per la manco spesa. «È ben vero che la fortezza dell’armata turchesca consiste in trenta ovvero quaranta galere, che sono armate di schiavi cristiani, e tutto il resto è simile e forse peggiore delle galere che si armano qui di contadini, e tutte insieme confessano li medesimi Turchi che non sono così buone come quelle de’ Cristiani. Ed in questo proposito non voglio lasciar di deplorare la semplicità de’ principi cristiani, che potendo levar in gran parte a’ Turchi il nervo delle loro forze marittime, non pare che vi pensino; e questo saria procurando con destro modo di ricuperare tutti gli schiavi cristiani che si possono avere con denari, perchè questi sono li marangoni, li calafati, li compagni, li comiti, li padroni e anco li galeotti che fanno buone le loro galere, li quali con molta facilità si potriano liberare, con grande gloria del Signore Dio e benefizio di quegl’infelici, e sicurtà di tutta la repubblica cristiana». Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DEGLI ITALIANI, VOL. 9 (DI 15) *** Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. 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