The Project Gutenberg eBook of Il richiamo della foresta This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Il richiamo della foresta Author: Jack London Translator: Gian Dàuli Release Date: August 26, 2023 [eBook #71490] Language: Italian Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL RICHIAMO DELLA FORESTA *** JACK LONDON IL RICHIAMO DELLA FORESTA _ROMANZO_ PREFAZIONE E TRADUZIONE DI GIAN DÀULI MCMXXIV MODERNISSIMA MILANO PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Stab. Tipo-Lit. FED. SACCHETTI & C. — Via Zecca Vecchia, 7 — Milano JACK LONDON _Credo che non vi sia scrittore il quale abbia vissuto e sofferto, amato e odiato con tanta disperata e selvaggia intensità, come Jack London. I Gorki, i Dostoiewski, gli Upton Sinclair, i Rimbaud, i Baudelaire, tra miserie fisiche e morali, hanno saputo, sì, rappresentare visioni mai concepite da altri, ma vivendo una vita che, per quanto agitata, non soffrì che in parte del grandioso e avventuroso travaglio che agitò l’esistenza dura ed eroica del grande scrittore americano, le cui opere suscitano in noi sentimenti di paura e di tenerezza, di amore e di dolore e, soprattutto, di ammirazione. Ci pare di trovarci di fronte all’uomo delle caverne che riveli alla nostra sensibilità moderna i misteri e le ferree leggi della vita primitiva._ _Perciò, con senso di pena, ho visto in questi giorni pubblicata, a cura del Prezzolini, la prima traduzione italiana di uno dei romanzi di Jack London, «Il lupo di mare», come uno dei tanti libri per ragazzi. Poveri innocenti! Le opere di London affidate nelle mani di adolescenti che s’affacciano alla vita, e non conoscono ancora il male, e ignorano i feroci egoismi degli uomini, la cecità del Dio cristiano, le leggi inesorabili della natura? Quale errore!_ *** _La favola di questi romanzi, per quanto avventurose ne siano le vicende e pittoresco il paesaggio entro il quale si svolge, appare poca cosa in confronto dello spirito realistico che l’ànima e della visione totale della vita e del destino dell’uomo che l’autore vuole e riesce a comunicarci. Egli mira al nostro cuore e alla nostra coscienza, più che alla nostra mente e alla nostra fantasia, da selvaggio armato di frecce avvelenate e infallibili. Ossequiente alle leggi naturali della vita che accomunano l’uomo all’animale, nella foresta, egli ci mostra, a fini sociali, nell’animale, l’uomo, e gli istinti dell’uno nell’altro, rivivendo, con profondo senso primigenio, selvagge emozioni ereditarie che dormono nella natura umana, attraverso il ricordo di antenati preumani e di migliaia di generazioni._ _Così che si ripensa, per associazione d’idee, alle crudeltà della guerra mondiale, agli errori ed orrori della rivoluzione russa, ai massacri degli ebrei, alle violenze dell’attuale guerriglia sociale, alle aberrazioni quotidiane della vita umana costantemente insidiata da brutale malvagità, e vien fatto di pensare: — Possiamo, dunque, senza vergogna, affermare d’essere fatti ad immagine di Dio? O non forse è vero che anche noi, come gli altri animali, barcolliamo nelle tenebre, spinti dagl’istinti più bassi, che nelle forme più estreme e più elementari sono legge di vita per i cani e per i lupi? Pare oggi, infatti, che la legge della mazza e dei denti abbia sopraffatto millennî di diritto civile, e ci riconduca in pieno mondo londoniano, dove il più forte, per istinto, non per crudeltà, abbatte ed uccide il più debole, divorandoselo poi, e la ferocia della passione sensuale fa strage, e i maschi si uniscono e combattono insieme sotto il pungolo della fame, e s’uccidono l’un l’altro appena il pungolo è attenuato, ciascuno conducendo via la compagna quando ha ucciso i rivali. Solo ritegno conosciuto, in questo mondo primigenio, è l’istinto della propria conservazione, che tiene unito il maschio alla femmina e spinge il maschio a nutrirla! Dappertutto è libertà assoluta, dappertutto è la paura della morte onnipresente e sovrana._ _Ma il London non si limita a mostrarci, con crudele realismo, il rapporto naturale tra la vita selvaggia e la vita civile, ma rappresenta il contrasto diretto tra l’una e l’altra, affermando, invece della licenza, la legge; invece dell’istinto, il trionfo dell’autorità._ Devozione del forte al debole, venerazione del debole per il forte, _ecco la grande legge della vita che combatte gli impulsi selvaggi: ideale questo o, meglio, regola di vita veramente civile, che la società umana potrebbe a dovrebbe attingere se non fosse così mal ordinata da sembrare fatta per la conservazione e lo sviluppo degli istinti primitivi._ *** _Per dare degnamente inizio alla pubblicazione delle opere complete di Jack London, scegliemmo, nella sua vasta produzione, due romanzi: «Il richiamo della foresta» («The Call of the Wild») e «Zanna bianca» («The white fang»), i quali a nostro avviso, caratterizzano, meglio di tutti gli altri, non solo il temperamento dello scrittore, ma il processo di sviluppo della sua anima di pensatore temprato dall’esperienza della vita._ _Nel primo, «Il richiamo della foresta», è il racconto di un cane che, attraverso perigliose vicende, per la crudeltà degli uomini e l’asprezza dell’esistenza finisce col diventar lupo, facendo, cioè, a ritroso, di gradino in gradino, il cammino inverso della civiltà, da una vita sicura, tranquilla, soleggiata, familiare, quale godeva. Aveva fede negli uomini, e la perde; credeva nell’onestà e nell’onore, e finisce col rubare per vivere, e uccidere per non essere ucciso: e quando l’ultimo amore umano cade, egli si ritrova nella selva, animale primitivo signoreggiato dai soli istinti naturali._ _La vita di questo cane che diviene lupo, rispecchia materialmente e spiritualmente la vita dello stesso scrittore. Egli ebbe certamente un primo albore d’infanzia felice nell’amore dei suoi, sino a quando, fanciulletto, passava intere giornate sotto un albero a sorvegliare, per i contadini, il ritorno degli sciami delle api dalla loro vita operosa e errabonda. Breve albore al quale seguì ben presto la miseria più dura. Non ancora decenne, per aiutare la sua famiglia caduta in povertà, egli vende giornali per le vie di San Francisco, per le vie della sua amata «Frisco», dove egli era nato il 12 gennaio del 1876. Poco dopo, è operaio in una fabbrica di prodotti alimentari, dove sente i primi morsi dell’odio contro la piovra sociale, e i primi impeti di ribellione. Infatti, a soli quindici anni egli abbandona la famiglia e il lavoro per unirsi a una banda di pirati, e a sedici anni possiede una sua barca, la_ Razzle Dazzle, _e la sua donna, una fanciulla della stessa età, ed è chiamato dai contrabbandieri il Principe del Banco delle Ostriche, perchè egli solo osa fare il contrabbando nella baia di San Francisco, sotto gli occhi della polizia, con una donna a bordo. Vestito di lana grigia, con scarponi da marinaio, e la larga cintola di cuoio rigonfia d’una grossa rivoltella, solido e robusto benchè ancora imberbe, egli si sente re del proprio destino, e con pacata sfrontatezza ingoia alcool, tra perduta gente, con la tenera mantenuta al fianco, nella bettola dell_’Ultima Fortuna. _Durò un anno quella vita selvaggia ch’egli definiva, sette anni dopo, come la più rischiosa della sua esistenza; durante la quale guadagnava in una settimana quello che più tardi non riusciva a guadagnare in un anno._ _Diciassettenne, si decide o per amore di avventure o forse con la speranza di liberarsi dall’abitudine di bere, a partire, mozzo, per una crociera al Giappone, su un trealberi; ma non muta tenore di vita; come egli stesso confessa nel suo libro «Memorie di un bevitore»: «Incominciava la sera quando arrivammo ad un caffè e... è tutto quello che vidi del Giappone! E purtanto il nostro veliero stette quindici giorni nel porto di Yokohama! Quindici giorni passati a bere in compagnia dei migliori ragazzi di questo mondo»._ _Dal Giappone passa alla caccia delle foche nei mari della Russia orientale, e quando ritorna in patria, si dà a tutti i mestieri, ma soprattutto a quello del vagabondo, contro il suo vangelo sociale che considerava il lavoro fisico come un dovere per l’uomo, un dovere che conferisce alla salute e santifica la vita. «L’orgoglio che io traevo», scriss’egli, «da una giornata di lavoro ben compiuto, non si può nemmeno concepire. Io mi sentivo lo sfruttato ideale, lo schiavo tipo, ed ero quasi felice della servitù». Ma forse egli traeva a quel tempo più orgoglio dall’essere considerato da tutti come il «boy socialista», il vagabondo rivoluzionario. Per un certo tempo egli fa parte dei «two thousand stiffs», dei duemila irrigiditi, i terribili sovversivi che, condotti dal generale Kelly, mossero dalla costa del Pacifico alla socializzazione del mondo. La piccola armata di ribelli catturava treni, metteva a sacco città e villaggi, militarizzava tutti gl’uomini che incontrava sul suo cammino. Quando le autorità governative riescono ad arrestare la marcia di questi sovversivi e a disperderli, Jack London ritorna al suo vagabondaggio ed è spesso messo in prigione, come disoccupato senza fissa dimora._ _Così, Jack London è in condizioni da ascoltare e sentire in sè tutto il fascino dell’appello della vita selvaggia_, the call of the wild, _e alla vita selvaggia si abbandona con l’impeto inconsiderato della sua esuberante natura. E davanti agli aspetti sempre più terribili della realtà, fra esperienze strazianti, lo spirito gli si rinvigorisce e s’affina. Il destino l’afferra, l’attanaglia, l’abbatte, l’abbrutisce: il cane diventa lupo, ma il lupo è signore della selva, dominatore nella vita selvaggia. Ma Jack London è un sensitivo, un delicato a dispetto della sua vita, uno spirito universale che non può perire schiacciato dal contingente; ed ecco ricominciare il travaglio affannoso dell’uomo che, per virtù del suo ingegno, pur rincantucciato nell’antro, ad affinar la selce, nella desolata solitudine della Vita selvaggia, spia se stesso, studia le voci arcane della natura, e, attraverso ostacoli tremendi, risale alla superficie della civiltà, mercè la potenza del patissero._ _Il lupo diventa cane. (White fang)._ _Jack London ritorna spesso col pensiero al primo libro letto da bambino, l_’Alambra, _di Washington Irving, e cerca altre letture. Vuole istruirsi, e finisce — ha allora diciannove anni — per far ritorno alla famiglia, stabilita, a quel tempo, ad Oakland, dove l’attende la dolorosa sorpresa di trovare il padre graduato dell’odiata polizia. Egli vince, tuttavia, la ripugnanza che l’occupazione del padre e la vita ordinata destano in lui, ed accetta il posto di portinaio in una scuola secondaria. Poco dopo, collabora al bollettino letterario della stessa scuola, e, ad un tratto, diviene scrittore. Un giornale di San Francisco offre un premio per un articolo descrittivo: Jack London tenta la prova a vince. Incoraggiato dal primo successo, invia un altro articolo allo stesso giornale, che glielo rifiuta, questa volta. Allora, disgustato del suo mestiere di portinaio, riprende la vita nomade, e attraversa a piedi tutto il continente americano fino a Boston. Visita il Canadà, diviene minatore d’oro e pescatore di salmone nell’Alaska. Ma, intanto, il suo pensiero, in mezzo a tante traversie, si forma e precisa. Ha letto Spencer e Carlo Marx: la società gli appare sempre più mal combinata, il capitalismo odioso, con i suoi eccessi che ne fanno un mostro crudele, divoratore; allora il socialista per istinto diviene socialista rivoluzionario per ragionamento, convinto che il socialismo «mira, se non altro, a mettere ciascuno al suo posto»._ _Al ritorno dall’Alaska, incomincia a predicare in pubblico le sue idee socialiste, la bellezza della rivoluzione e del mondo nuovo che deve sorgere dal crollo della società capitalistica, ed è, alla fine, arrestato, non più come vagabondo, ma come rivoluzionario._ _Uscito di prigione, Jack London sente il bisogno di compiere la sua istruzione: va a San Francisco e riesce a farsi ammettere nell’Università, conciliando il bisogno dello studio con la necessità di guadagnarsi il pane, giorno per giorno. Si occupa in una stireria. «Il ferro e la penna si alternavano nella mia mano», ricorda egli più tardi, «ma dalla mia mano stanca la penna cadeva sovente, e sovente i miei occhi si chiudevano sui libri»._ _Dopo tre mesi di accannito lavoro, egli, robustissimo, non riesce più a reggersi. Allora decide di ritornare a piedi ad Oakland, di riconciliarsi con la famiglia; ma una nuova crudele delusione l’attende. Il padre è morto, la madre e i fratelli sono in miseria. Questa nuova traversìa, se lo costringe per qualche tempo ancora al lavoro manuale, non gli toglie la speranza di un avvenire diverso e migliore. Nelle solitudini nevose della terra del Nord «dove nessuno parla, dove tutti pensano», egli s’era ripiegato su se stesso ed aveva intravisto il suo vero orizzonte, che era quello del lavoratore intellettuale. Riprende a scrivere. Un giornale di California accetta un suo racconto, un altro gli chiede degli scritti. «Le cose incominciavano a prendere una buona piega, e sembrava che io non dovessi aver più bisogno, per qualche tempo almeno, di scaricare carbone». In fondo, la Società, maledetta da Jack London, incominciava a tendergli la mano. Nel 1900 appare il suo primo Volume:_ The son of the wolf, «_Il figlio del lupo_»[1], _raccolta di racconti del paese dell’oro, che gli fece acquistar subito fama di scrittore originale e poderoso, a ventiquattr’anni!_ _D’allora seguirono nuovi libri quasi senza interruzione e con crescente successo. Sposatosi, con la sua amata compagna, London gira il mondo e attende alle sue opere. Ma lo spirito d’avventura non si spegne in lui. Egli vive un certo tempo nei bassifondi di Chicago e di Londra, fa il giro del mondo in un minuscolo yacht, lungo appena quindici metri, fa il corrispondente di guerra al Giappone e in Manciuria nel 1904 e al Messico nel 1914, nè cessa mai la sua inesorabile requisitoria contro la Società mal costituita._ _A soli quarantanni, nel 1916, dopo aver pubblicato una cinquantina di volumi, la Morte lo coglie proprio all’inizio della sua vera gloria di scrittore più letto e più discusso, più odiato e più amato, nel suo paese. Ancora oggi non si sa come egli sia morto; e il mistero che vela gli ultimi istanti della vita del rude avventuriero e scrittore di genio, è degno di quel capolavoro di irrequietezza che fu, tra opere pari, l’anima di questo Grande._ *** _Così visse Jack London, lo strano romanziere che s’avvia a diventar popolare in tutto il mondo, popolare, per la ragione semplicissima che nello scrittore è l’uomo, ricco di una sua esperienza nuova da raccontare, con parola nuova._ _Già scrivendo di Jack London nell_’Azione _di Genova, nel febbraio del 1921, lamentavo che, purtroppo, bisogna cercare nelle opere straniere quei più vasti orizzonti ideali e quell’aria pura e vivificante di cui ha bisogno il nostro spirito, stanco o viziato, per ritornare fattivamente alla meditazione dei più profondi problemi dello spirito e della vita sociale._ _Oggi, più che nel ’21, c’incalzano e premono da tutte le parti formidabili problemi rivoluzionarî, e ci sentiamo oppressi da un alito di continuata tragedia nascosta che gli sbandieramenti patriottardi non riescono a mascherare del tutto, nè le fanfare e i canti a completamente soffocare. Il domani si presenta pauroso agli spiriti alacri e indipendenti, nei quali è un’avidità di sapere, di udire la verità, o parole coraggiose e nuove che aiutino a rintracciare la verità, a risolvere la profonda crisi di pensiero e di sentimento che travaglia le coscienze migliori. Che ci dà oggi la letteratura nostrana? Lettere alle sartine d’Italia e vergini da diciotto carati, romanzetti pornografici e sentimentali ed esercitazioni stilistiche e cerebrali, senza mai un accento di umana commozione per le tragedie politico-sociali del mondo o anche solo una parola che la mostri consapevole del profondo travaglio spirituale della patria. Oh, intellettuali italiani! eccovi una folata d’aria gelida purificatrice! Anche senza farvi uscire dal sicuro romitaggio del vostro egoismo o dai caffè affumicati cari alla vostra presuntuosa pigrizia, anche senza farvi deporre livree o indossare armi. Jack London vi condurrà, con le sue opere, dalla bettola dell_’Ultima Fortuna a_i confini del mondo, sui perduti sentieri di tutti gli ideali e di tutti gli ardimenti! Giova almeno con lo spirito partecipare alla grande avventura del mondo! Senza l’azione, l’azione costante, la Morte è là in agguato e non tarda a lanciarsi su di noi, inesorabile._ _Troverete nel «Richiamo della foresta» e in «Zanna bianca» la rappresentazione realistica dell’Umanità che lotta costantemente contro la prepotenza dell’infinito, dell’inafferrabile, dell’imponderabile. Scenda o risalga il millenario cammino della civiltà — il cane diventi lupo o il lupo diventi cane — ogni creatura vivente, insoddisfatta, cerca sensazioni nuove, è costretta a sgombrare il proprio cammino, a vincere mille ostacoli, chè la vita si rinnova con sempre maggiore Varietà di forme e con più rapidi mezzi di distruzione. Questi due romanzi racchiudono una lezione in atto; questa: che la civiltà non deve indebolire il carattere nè affievolire lo spirito; il lupo che diviene cane è travolto, e forse il cane trova il suo completo sviluppo nel lupo! Da questa crudele lezione, i socialisti, conservatori, comunisti e aristocratici possono trarre elementi per scindere la parte viva da quella morta della propria filosofia o del proprio credo. La lettura di queste opere ci può lasciare immutati, ma non impassibili: l’odio e l’amore trovano in esse accenti definitivi che toccano le radici della nostra coscienza e dello nostra sensibilità. E mentre l’occhio spazia per vastità nuove e terribili, e ammira terre e solitudini sconosciute, e vede esperienze impensate, il cuore, il cuore dell’eterno fanciullo che è in noi, mormora inconsapevolmente una parola d’amore e di solidarietà ultraumana._ *** _Pubblicheremo, in seguito, «Martin Eden», «L’amore della vita», «Il vagabondo delle stelle» e gli altri romanzi nei quali Jack London profuse i ricordi e le impressioni dei suoi movimentati viaggi e vagabondaggi attraverso il mondo. Ma forse daremo ai lettori italiani, prima di essi, la traduzione di almeno uno dei suoi romanzi sociali, del terribile_ Tallone di ferro, _che a noi sembra oggidì opera di viva attualità._ _Il_ «Tallone di ferro», _scrisse Anatole France, presentando, l’anno scorso, il volume ai lettori francesi, «è il termine energico col quale Jack London disegna la plutocrazia. Il libro che, tra le sue opere, porta questo titolo, fu pubblicato nel 1907. Rintraccia la lotta che scoppierà un giorno tra la plutocrazia e il popolo, se il Destino, nella sua collera, lo permetterà. Ahimè! Jack London aveva il genio che vede quello che è nascosto alla folla degli uomini e possedeva una scienza che gli permetteva d’anticipare i tempi. Egli previde l’assieme degli avvenimenti che si sono svolti nella nostra epoca. Lo spaventevole dramma al quale ci fa assistere in ispirito, nel_ Tallone di ferro, _non è ancora divenuto una realtà, e noi non sappiamo dove e quando si compierà la profezia dell’americano discepolo di Marx._ «_Jack London era socialista spinto, socialista rivoluzionario. L’uomo che, nel suo libro, distingue la verità e prevede l’avvenire, il saggio, il forte, il buono, si chiama Ernesto Everhard. Come l’autore, fu operaio e lavorò con le sue mani. E voi sapete che colui che fece cinquanta volumi prodigiosi di vita e d’intelligenza e morì giovane, era figlio di un operaio e incominciò la sua illustre esistenza in un’officina. Ernesto Everhard è pieno di coraggio e di saggezza, pieno di forza e di dolcezza, tratti tutti che sono comuni a lui e allo scrittore che l’ha creato. E a integrare la somiglianza che esiste tra loro, l’autore assegna, a colui ch’egli realizza, una moglie d’anima grande e di spirito forte, della quale il marito fa una socialista. E noi sappiamo, d’altro canto, che Mrs. Charmian lasciò, con suo marito Jack, il Partito del Lavoro dopo che cotesta associazione diede segni di moderatismo._ «_Le due insurrezioni che formano materia del libro che io presento al lettore francese sono così sanguinarie, e presentano nel disegno di quelli che le provocano una tale perfidia e nell’esecuzione tanta ferocia, che ci si chiede se esse sarebbero possibili in America, in Europa, specie in Francia. Io non lo crederei, se non avessi l’esempio delle giornate di Giugno e la repressione della Comune del 1876, che mi ricorda come tutto sia permesso contro i poteri. Tutto il proletariato d’Europa ha sentito, come quello d’America, il_ Tallone di ferro. «_Per il momento, il socialismo in Francia, come pure in Italia e in Ispagna, è troppo debole per temere il_ Tallone di ferro, _poichè l’estrema debolezza è l’unica salvezza dei deboli. Nessun_ Tallone di ferro _calpesterà questa polvere di partito. Qual’è la causa della sua diminuzione? Ci vuol ben poco per abbatterlo in Francia dove la cifra dei proletarî è esigua. Per diverse ragioni la guerra, che si dimostrò crudele col piccolo borghese spogliandolo senza farlo gridare, giacchè questi è un animale muto; la guerra non fu troppo inclemente per l’operaio della grande industria, che trovò da vivere fabbricando armi e munizioni e un salario, magro sin troppo dopo la guerra, ma non caduto, tuttavia, mai troppo in basso. I dominatori del momento vegliavano, e quel salario non era, in sostanza, che della carta che i grossi proprietarî, vicini al potere, non penavano troppo a procurarsi. Bene o male, l’operaio visse. Aveva udito tante menzogne che non si stupiva più di nulla. Fu quello il momento che i socialisti scelsero per disgregarsi e ridursi in polvere. Questa pure è, senza morti e feriti, una bella disfatta del socialismo. Come accadde? E come mai tutte le forze di un grande partito s’addormentarono? Le ragioni da me esposte non sono sufficienti a spiegarlo. La guerra ci deve entrare per qualche cosa, la guerra che uccide gli spiriti come i corpi._ «_Ma un giorno la lotta del lavoro e del capitale ricomincerà. Verranno allora giorni simili alle rivolte di San Francisco e di Chicago, delle quali Jack London ci mostra, per anticipazione, l’indicibile orrore. Non vi è alcuna ragione, pertanto, di credere che in quel giorno (o vicino o lontano) il socialismo sarà ancora frantumato sotto il_ Tallone di ferro _e affogato nel sangue._ «_Avevano gridato nel 1907 a Jack London: «Voi siete uno spaventevole pessimista!». Socialisti sinceri l’accusavano di gettare lo spavento nel partito. Avevano torto. Bisogna che quelli che hanno il dono prezioso e raro di prevedere, pubblichino i pericoli che presentono. Ricordo di avere udito dire parecchie volte dal grande Jaurès: «Non si conosce abbastanza fra noi la forza delle classi contro le quali abbiamo a combattere. Hanno la forza e si attribuisce loro la virtù; i preti hanno messo da parte la morale della chiesa per coltivare quella dell’officina; cosicchè la società tutt’intera, allorchè queste classi saranno minacciate, accorrerà a difenderle». Egli aveva ragione, come London ha ragione di porgerci lo specchio profetico dei nostri errori e delle nostre imprudenze._ «_Non compromettiamo l’avvenire: ci appartiene. La plutocrazia perirà. Nella sua potenza si scorgono di già i segni della rovina. Essa perirà perchè ogni regime di casta è votato alla morte; il salariato perirà perchè è ingiusto. Perirà gonfio d’orgoglio, in piena potenza, come perì la schiavitù e la servitù._ «_E già, assentandolo attentamente, ci si accorge che è caduco. Questa guerra, che la grande industria di tutti i paesi del mondo ha voluto, questa guerra che è stata la sua guerra, questa guerra nella quale essa riponeva la speranza di nuove ricchezze, ha causato tante distruzioni e così profonde, che l’oligarchia internazionale è essa stessa scossa e s’avvicina il giorno in cui essa crollerà su un’Europa rovinata._ «_Non posso annunziare che perirà d’un colpo e senza lotta. Essa lotterà. L’ultima sua guerra sarà forse lunga e avrà diverse fortune. O voi, eredi del proletariato, o generazioni future, figli di giorni nuovi, voi lotterete, e allorchè dei crudeli rovesci vi faranno dubitare del successo della vostra causa, riprenderete fiducia, e direte col nobile Everhard: «Perduro per questa volta, ma non per sempre. Abbiamo appreso molte cose. Domani l’idea risorgerà, più forte in saggezza e in disciplina_». *** _Non abbiamo potuto resistere alla tentazione di riprodurre nella sua interezza la presentazione che Anatole France fa del_ Tallone di ferro, _perchè, confortati dal suo giudizio, nell’ora torbida che attraversa l’Europa tutta, premuta com’è dal tallone del bolscevismo dell’estrema sinistra e dell’estrema destra, dalle dittature rosse e da quelle monarchico-militaristiche, è più che mai necessario che quelli «che hanno il dono prezioso e raro di prevedere, rendano noti i pericoli che presentono»._ _A parte il grande godimento intellettuale che dà l’opera di Jack London, essa racchiude in sè un insegnamento e un ammonimento che non debbono andare del tutto perduti. Sin dal 1904, egli aveva scritto una terribile requisitoria contro la società capitalistica attuale. Il suo inesorabile «j’accuse», dal titolo «War of the Classes»_, Guerra delle classi, _vibra di sincera e profonda rivolta contro la borghesia trionfante, e predica il socialismo come una santa crociata. In lui l’amore del proletario è qualche cosa di più alto, di più universale dell’amore di patria; e nell’accusare e nel difendere trova accenti che impressionano e commuovono, perchè ci fa sentire nella sua personale e dolorosa esperienza tutta l’ingiustizia di una società «dove sono uomini che sprecano ricchezze non guadagnate col proprio lavoro, e uomini che languono nella miseria per mancanza di lavoro»._ _Non sono certo «La guerra delle classi» e «Il tallone di ferro» le opere più interessanti del London, dal punto di vista dell’arte, ma esse aiutano, meglio di tutte le altre, a capire l’anima dell’eterno vagabondo e le crisi ch’egli patì, al punto di abbandonare gli uomini per gli animali, e a rappresentarli con così tremendo realismo._ _Questi libri di Jack London, come quelli di Upton Sinclair, di Giuseppe Conrad, di Bernardo Combette, di H. G. Wells e di Israele Zangwill, appartengono ad una letteratura d’eccezione, sono i libri di una generazione tormentata, che ha vissuto la grande tragedia degli uomini oppressi e schiacciati dall’attuale ordinamento — o disordine — economico che ci condusse alla guerra mondiale._ _Tuttavia, essi non scrivono per odio di classe, ma per indomabile amore di questa travagliata Umanità che vorrebbero vedere libera da tanti mali e da tante ingiustizie, riunita in una sola famiglia laboriosa, generosa, tollerante, concorde!_ GIAN DÀULI. Rapallo, aprile 1924. CAPITOLO I. VERSO LA VITA PRIMITIVA. _I desiderî nòmadi ed atàvici_ _Squassano la catena sociale;_ _Nuovamente, dal suo sonno letàrgico,_ _Si risveglia la bestia primordiale._ Buck non leggeva i giornali; altrimenti avrebbe saputo che maturavano guai, non soltanto per lui, ma per tutti i cani da guardia dai muscoli forti e dal pelo lungo e soffice; da Puget Sound a San Diego. Perchè uomini brancolanti nelle tenebre artiche avevano trovato un metallo giallo, e perchè compagnie di navigazione e di trasporti, propagavano con gran rumore la scoperta, migliaia di uomini si precipitavano in Northland, la terra del Nord. Questi uomini avevano bisogno di cani, e occorrevano cani grossi, dai muscoli robusti, con i quali faticare e dal pelo lanoso per proteggerli dal gelo. Buck abitava in una grande casa della soleggiata Valle di Santa Clara. La chiamavano la tenuta del Giudice Miller, ed era lontana dalla strada, mezza nascosta dagli alberi, attraverso ai quali poteva scorgersi la fresca veranda che si stendeva intorno ai quattro lati. Si giungeva colà per viali cosparsi di ghiaia minuta; viali che serpeggiavano per prati ben tenuti e sotto i rami intrecciati d’alti pioppi. Dietro, le cose erano s’una scala ancor più spaziosa che sul davanti. V’erano ampie scuderie con una dozzina di staffieri e ragazzi, file di casette inghirlandate di viti, per la servitù, e uno spiegamento ordinato, senza fine, di rimesse e tettoie, di pergolati lunghi, di pascoli verdi di frutteti e cespugli di more. Vi erano poi le macchine per il pozzo artesiano e la grande vasca di cemento dove i figli del giudice Miller si tuffavano ogni mattina e si rinfrescavano nei pomeriggi caldi. E sopra questo grande dominio, Buck regnava. Là, esso era nato e là, aveva trascorso i quattro anni della sua vita. Esistevano, è vero, altri cani: non era possibile, infatti, che non vi fossero altri cani in una tenuta così vasta; ma essi non contavano. Venivano e andavano, risiedevano nei popolosi canili o vivevano oscuramente nei recessi della casa, secondo il costume di Toots, il botolo giapponese, o di Isabella, la messicana senza pelo — strane creature che raramente mettevano il naso fuori di casa o i piedi a terra. Poi v’erano i _fox-terriers_, almeno una ventina, che latravano in atto di spaventosa minaccia contro Toots e Isabella, che li guardavano dalle finestre, protetti da una legione di cameriere annate di scope e scopette. Ma Buck non era nè cane da casa nè cane da canile: era padrone di tutto il reame. Si tuffava con i figli del giudice nella vasca o andava con loro a caccia; scortava Mollie e Alice, le figlie del giudice, in lunghe passeggiate, al tramonto o al mattino, per tempo; nelle sere invernali si stendeva ai piedi del giudice, davanti al gran fuoco avvampante della libreria; portava sulla schiena i nipotini del giudice o li rotolava sull’erba, e vigilava i loro passi attraverso straordinarie avventure sino alla fontana nel cortile della scuderia, e persino più lontano, dov’erano i recinti dei cavalli e i cespugli di more. Tra i _terriers_ camminava maestosamente: e pareva che Tools e Isabella non esistessero, agli occhi suoi, chè egli era re — re di tutti gli esseri striscianti, camminanti o volanti della tenuta del giudice Miller, compresi gli umani. Suo padre, Elmo, un enorme Sambernardo, era stato il compagno inseparabile del giudice, e Buck prometteva di seguire in tutto e per tutto la carriera del padre. Non era tanto grosso — pesava soltanto sessantatrè chili — perchè sua madre, Step, era una cagna da pastori, scozzese. Tuttavia, sessantatrè chili, ai quali andava aggiunta la dignità che viene dal viver bene e dal rispetto universale, gli davano la possibilità di assumere una perfetta aria regale. Durante quattr’anni, dacchè era cucciolo, aveva vissuto una vita da sazio aristocratico; era orgoglioso di sè, sempre un po’ egoistico, come divengono talvolta i signori di campagna, a causa del loro isolamento. Ma s’era salvato dal pericolo di divenire un semplice cane di casa viziato. La caccia e simili divertimenti all’aria aperta avevano impedito il grasso e induriti i suoi muscoli; e, per lui, come per tutte le razze dal bagno freddo alla mattina, l’amore dell’acqua era stato un tonico e un conservatore della salute. Questa razza di cane era Buck, alla fine del 1897, quando la scoperta di un giacimento aurifero a Klondike attirava uomini da tutte le parti del mondo nel gelato Nord. Ma Buck non leggeva i giornali, e non sapeva che Manuele, aiuto-giardiniere, era uomo non desiderabile. Manuele aveva una passione prepotente; adorava il gioco alla lotteria cinese. Inoltre, nella sua passione pel giuoco, aveva una debolezza dominante, la fede in un sistema; il che rendeva sicura la sua dannazione. Giacchè, per giocare secondo un sistema occorre danaro, mentre il salario di un aiuto-giardiniere basta appena a soddisfare i bisogni di una moglie e di una numerosa progenie. Nella memorabile notte del tradimento di Manuele, il giudice partecipava ad una riunione dell’Associazione dei Viticultori, e i ragazzi erano affaccendati ad organizzare un _club_ atletico. Nessuno lo vide, e Buck se ne andò attraverso il frutteto a fare quella che credeva una semplice passeggiata. E nessuno, tranne un solo uomo, li vide arrivare alla fermata facoltativa di College Park. Quest’uomo parlò con Manuele; del danaro passò fra loro. — Dovreste almeno avvolgere la merce prima di consegnarla, — osservò rudemente lo sconosciuto, e Manuele passò una grossa corda, doppia, intorno al collo di Buck, sotto al collare. — Non avrete che a torcerla per strangolarlo, quando vorrete, — disse Manuele, e lo sconosciuto brontolò affermativamente. Buck aveva accettato la corda con tranquilla dignità. Certamente, non era cosa gradevole; ma aveva imparato ad avere fiducia negli uomini che conosceva e a riconoscere loro una saggezza superiore alla sua. Senonchè, quando i capi della corda passarono nelle mani dello sconosciuto, egli ringhiò minacciosamente. Aveva soltanto espresso il suo scontento, credendo, nel suo orgoglio, che esprimere significasse comandare. Ma, con sua grande sorpresa, la corda si strinse intorno al suo collo, togliendogli il respiro. In un impeto di rabbia, si lanciò sull’uomo, il quale, però, lo fermò a mezzo, l’afferrò per la gola, e con abile giro di mano se lo gettò sulla schiena. Allora la corda si strinse senza pietà, mentre Buck si dibatteva furibondo, con la lingua a penzoloni dalla bocca e il largo petto ansante, invano. Mai in tutta la sua vita, egli era stato trattato così vilmente, e mai, in vita sua, era stato così arrabbiato. Ma la forza gli venne meno, gli si offuscarono gli occhi e perse la conoscenza, quando arrivò il treno e i due uomini lo gettarono nel bagagliaio. Ritornato in sè, si rese confusamente conto che gli faceva male la gola e che veniva trasportato in una specie di convoglio che lo faceva trabalzare. Il rauco strido di un fischio di locomotiva ad un passaggio a livello gli fece capire dov’era, avendo viaggiato troppo spesso col giudice per non conoscere la sensazione del viaggiare in un bagagliaio. Aprì gli occhi, nei quali fiammeggiò l’irrefrenabile collera di un re rapito. L’uomo si lanciò per afferrarlo alla gola, ma Buck, ch’era sin troppo agile per lui, gli addentò una mano e non la lasciò andare fino a che non gli fecero perdere i sensi un’altra volta. — Sì, soffre di spasimi, — fece l’uomo, nascondendo la mano morsicata al bagagliere accorso al rumore della colluttazione. — Lo conduco, per incarico del mio padrone, a San Francisco, dov’è un medico per i cani, molto celebre, che lo curerà. Circa quel viaggio notturno, l’uomo parlò nella maniera più eloquente, a proprio vantaggio, in un piccolo ricovero dietro una taverna, sul molo di San Francisco. — Non prendo altro che cinquanta, — borbottò, — e non rifarei il viaggio neppure se me ne dessero mille in contanti sonanti. Aveva la mano avvolta in un fazzoletto insanguinato, e un calzone stracciato, sulla gamba destra, dal ginocchio alla caviglia. — Quanto ha preso l’altro? — chiese il padrone della taverna. — Cento, — fu la risposta. — Non volle neppure un soldo di meno, che il diavolo mi porti. — Sono centocinquanta, — calcolò il taverniere, — e li vale, se non sono un idiota. Il rapitore sciolse la benda insanguinata e si guardò la mano morsicata. — Se non divento idrofobo... — Sarà perchè sei nato per essere impiccato. — disse il taverniere, ridendo. — Su, dammi una mano prima di prendere i soldi, — aggiunse. Stordito, con un dolore intollerabile alla gola e alla lingua, mezzo strangolato, Buck tentò di tener testa ai suoi aguzzini. Ma fu gettato per terra e ripetutamente preso per la gola, fino a che riuscirono a limare e a togliergli dal collo il pesante collare d’ottone. Allora gli sciolsero la corda e lo lanciarono in una specie di gabbia. Là rimase per il resto della penosa notte a covar rabbia ed orgoglio ferito. Non poteva capire che significasse tutto ciò. Che cosa volevano da lui, quegli strani uomini? Perchè lo tenevano chiuso in quella angusta gabbia? Egli non ne sapeva la ragione, ma si sentiva oppresso da un vago senso di sciagura imminente. Parecchie volte, durante la notte, balzò in piedi, allorchè la porta della rimessa si spalancava rumorosamente, attendendosi di rivedere il giudice o almeno i ragazzi. Ma ogni volta era la faccia gonfia del taverniere che veniva a spiarlo alla luce di una candela di sego; e allora l’abbaiare gioioso che tremava nella gola di Buck si mutava in un ringhiare feroce. Ma il taverniere lo lasciò stare; al mattino, entrarono quattro uomini e presero su la gabbia. Altri tormentatori, pensò Buck, giacchè erano brutti ceffi, stracciati e sporchi; ed egli s’agitò e ringhiò contro di loro attraverso le sbarre. Essi ridevano e lo punzecchiavano con dei bastoni, che egli prontamente afferrava coi denti fino a quando si rese conto di far, così, piacere a quella gente. Allora s’accucciò tristemente, e lasciò che la gabbia fosse sollevata s’un carro. Da quel momento egli, e la gabbia in cui era prigioniero, incominciarono un viaggio attraverso molte mani. Impiegati dell’agenzia dei trasporti lo presero in consegna; fu portato in giro s’un altro carro; un carrello se lo portò, con un assortimento dì scatole e di pacchi, s’un vaporetto; dal vaporetto passò nuovamente s’un carrello, sino ad un grande deposito ferroviario, e finalmente fu posato in un bagagliaio, in coda a sbuffanti locomotive; e per due giorni e due notti Buck non mangiò nè bevve. Nella sua rabbia, egli aveva accolto, da principio, con ringhi l’interesse dei conduttori del treno, i quali lo avevano contraccambiato col prenderlo in giro. Quando si lanciava contro le sbarre della gabbia, tremante e con la bava alla bocca, essi ridevano e lo beffeggiavano. Ringhiavano e abbaiavano come detestabili cani, miagolavano, sbattevano le braccia come ali e si sgolavano a far chicchirichì. Era molto stupida quella commedia, lo sapeva; ma, perciò, di maggiore oltraggio alla sua dignità; e la sua rabbia aumentava. Non gli importava molto della fame, ma la mancanza d’acqua gli causava una grande sofferenza e gli accresceva la rabbia sino allo stato febbrile. E, in realtà, animoso e delicatamente sensitivo com’era, il cattivo trattamento gli aveva dato subito una gran febbre, alimentata dall’arsura della gola e della lingua gonfia. Di una cosa era contento: di non avere più la corda al collo. La corda aveva dato loro un vantaggio non giusto; ma ora che non l’aveva più, avrebbe mostrato loro chi era. Non sarebbero più riusciti a mettergli un’altra corda al collo. A ciò era deciso e risoluto. Per due giorni e per due notti, non mangiò nè bevve, e durante i due giorni e le due notti di tormento, accumulò tale provvista di rabbia da non promettere nulla di buono a colui che gli capitasse fra le zampe per primo. I suoi occhi iniettati di sangue lo facevano parere un diavolo infuriato. Egli era così mutato che lo stesso giudice non lo avrebbe riconosciuto; così che i bagagliari mandarono un respiro di sollievo quando lo scaricarono in fretta a Seattle. Quattro uomini trasportarono delicatamente la gabbia dal carro in un piccolo cortile interno circondato d’alte mura. Un uomo grasso, in maglia rossa, generosamente larga intorno al collo, uscì fuori a firmare il libro per il conducente. Buck indovinò in quell’uomo il nuovo aguzzino, e si lanciò furiosamente contro le sbarre. L’uomo sorrise con una brutta smorfia e andò a prendere un’accetta e una mazza. — Non lo tirerete mica fuori adesso? — domandò il conducente il carro. — Certamente. — rispose l’uomo, inserendo l’accetta tra le sbarre della gabbia per far leva ed aprirla. Immediatamente, avvenne un fuggi fuggi dei quattro uomini che avevano portata la gabbia; i quali da sicuri osservatori, in cima al muro, si prepararono ad assistere allo spettacolo. Buck si lanciò contro il legno che si fendeva, affondandovi i denti, battagliando con esso. In qualunque punto cadesse l’accetta al di fuori, egli era pronto dentro, ad affrontarla, ringhiando e digrignando i denti, altrettanto furiosamente ansioso di uscir fuori quanto l’uomo dalla maglia rossa era premuroso di dargli modo di uscire. — Eccoti, diavolo dagli occhi rossi, — diss’egli, quand’ebbe fatto un’apertura sufficiente per il passaggio del corpo di Buck. Contemporaneamente, lasciò cadere l’accetta e passò la mazza nella mano destra. E Buck pareva davvero un diavolo dagli occhi rossi, mentre si raccoglieva tutto per lanciarsi, il pelo irto, la bocca bavosa, con un luccichìo furioso negli occhi pieni di sangue. Egli lanciò dritti sull’uomo i suoi sessantatrè chili di furia, accresciuti dalla repressa rabbia di due giorni e due notti, ma a mezz’aria, quando le sue mascelle stavano per chiudersi sull’uomo, egli ricevette un colpo che arrestò lo slancio del corpo e gli fece stringere i denti in uno spasimo d’agonia. Volteggiò nell’aria e toccò terra con la schiena e col fianco. Non era mai stato battuto con una mazza, in tutta la sua vita, e non comprendeva. Con un ringhio che era in parte abbaiare e più ancora lamento, fu di nuovo in piedi e ancora una volta si lanciò nell’aria. E ancora una volta gli toccò un nuovo colpo che lo abbattè per terra, annientato. Questa volta si rese conto della mazza; ma la sua rabbia non conosceva cautele. Egli tornò all’assalto una dozzina di volte e altrettante volte la mazza ruppe l’assalto abbattendolo al suolo. Dopo un colpo particolarmente terribile, egli si trascinò sui piedi, troppo stordito per lanciarsi. Andò qua e là, barcollando e zoppicante, col sangue che gli colava dal naso, dalla bocca e dalle orecchie, il magnifico manto spruzzato e macchiato di bava sanguigna. Allora l’uomo gli si avvicinò e, deliberatamente, gli assestò un terribile colpo sul naso. Tutta la pena che aveva già sofferto fu niente al paragone della raffinata tortura di questa. Con un ruggito che pareva, nella sua ferocia, quasi leonino, egli si lanciò ancora una volta sull’uomo. Ma l’uomo, passando la mazza dalla destra alla sinistra, l’afferrò freddamente per la mascella inferiore, torcendola indietro e in giù. Buck descrisse un intero circolo e mezzo nell’aria, poi s’abbattè per terra, sulla testa e sul petto. Per l’ultima volta si slanciò. Allora l’uomo gli assestò il colpo di grazia, che aveva appositamente trattenuto a lungo, e Buck cadde privo di sensi. — Non è certo lento a domar cani, dico io! — gridò con entusiasmo uno degli uomini sul muro. — Preferirei domare, piuttosto di una bestia simile, un lupo ogni giorno e due volte la domenica, — rispose il conducente mentre saliva sul carro e avviava i cavalli. Buck ricuperò i sensi, ma non le forze. Giaceva dov’era caduto, e di là osservava l’uomo dalla maglia rossa. — Risponde al nome di Buck, — diceva l’uomo, ad alta voce, da solo, citando dalla lettera del taverniere che aveva annunciato la consegna della gabbia e del suo contenuto. — Ebbene, Buck, mio caro, — continuò allegramente, — abbiamo avuto una piccola disputa, e ora la miglior cosa da fare è di considerare la cosa una cosa finita. Tu hai imparato qual è il tuo posto ed io conosco il mio. Sii un buon cane e tutto andrà bene. Capisci? E mentre parlava, accarezzava senza paura la testa battuta implacabilmente, e benchè il pelo di Buck divenisse irsuto al tocco della mano, la sopportava senza protestare. Allorchè l’uomo gli portò dell’acqua, il cane la bevve avidamente, e più tardi prese a volo un generoso pasto di carne cruda, pezzo per pezzo, dalla mano dell’uomo. Egli era vinto (lo sapeva); ma non fiaccato. Vide, una volta per sempre, ch’egli non aveva alcuna probabilità di vincere contro un uomo armato di mazza. Aveva imparato una lezione, che non dimenticò più per il resto della vita. Quella mazza era una rivelazione. Era la sua presentazione nel regno della legge primitiva, e s’avanzò ad incontrarla a mezza via. I fatti della vita assumevano, ora, un aspetto terribile; ma, affrontando quel nuovo aspetto, indomito, egli l’affrontava con tutta la penetrazione viva della sua natura risvegliata. Col passar dei giorni, arrivarono altri cani, in gabbia o al guinzaglio, alcuni docili e altri, ringhiando e digrignando i denti, come era capitato a lui; e li vide tutti passare sotto il dominio dell’uomo dalla maglia rossa. E ogni volta che assisteva a quello spettacolo brutale, Buck ripensava alla sua lezione: un uomo con una mazza era uno che dettava legge, un padrone da ubbidire, benchè non fosse necessario, riconciliarsi con lui. E a questo riguardo, Buck non fu mai colpevole; benchè avesse visto dei cani bastonati divenire servili con l’uomo, e agitar la coda e leccargli le mani. Vide pure un cane, che non voleva nè conciliarsi nè obbedire, essere alla fine ucciso nella lotta di sopraffazione. Di tanto in tanto venivano degli uomini sconosciuti, che parlavano concitatamente, pieni di moine, e in vario modo con l’uomo dalla maglia rossa. E allorchè del danaro passava tra loro, gli sconosciuti conducevano via uno o più cani. Buck almanaccava dove potessero andare, perchè non tornavano più indietro; ma aveva un gran timore dell’avvenire, ed era soddisfatto, ogni volta, di non essere prescelto. Ma infine giunse il suo turno, col presentarsi di un omino aggrinzito che parlava un inglese scorretto e vomitava molte strane e pazze esclamazioni che Buck non poteva comprendere. — _Sacredam!_ — esclamò l’omino, allorchè i suoi occhi si posarono su Buck. — Quel diavolo di cane là! Eh! Quanto? — Trecento, e un regalo in più, — fu la pronta risposta dell’uomo dalla maglia rossa. — E giacchè il danaro è del Governo, non avremo da questionare, eh, Perrault? Perrault fece una smorfia. Considerato che il prezzo di cani era stato oltremodo elevato dalle numerose richieste, non era quella una somma esagerata per un animale così bello. Il Governo Canadese non ci avrebbe perduto, nè avrebbero i suoi messaggi viaggiato più lentamente, per ciò. Perrault, che se ne intendeva di cani, quando aveva visto Buck s’era accorto che quella era una bestia che si distingueva tra mille. — Uno tra diecimila. — pensò mentalmente. Buck vide del danaro tra i due, e non fu sorpreso allorchè Curly, una piacevole terranova, e lui furono condotti via dall’omino aggrinzito. Quella fu l’ultima volta che vide l’uomo dalla maglia rossa; e fu l’ultima volta anche che vide, mentre Curly e lui guardavano Seattle che s’allontanava, dal ponte del _Narwhal_, la calda Terra del Sud. Curly e lui furono condotti giù da Perrault e consegnati a un gigante chiamato François. Perrault era un francese del Canadà, abbronzato dal sole; ma François era un francese del Canadà, di sangue misto, e doppiamente abbronzato dal sole. Essi costituivano una nuova specie d’uomini agli occhi di Buck (che era destinato a vederne molti altri ancora); cosicchè mentre egli non nutrì alcuna affezione per loro, tuttavia finì per onestamente rispettarli. Egli conobbe rapidamente che Perrault e François erano uomini giusti, calmi e imparziali nell’amministrare giustizia, e tanto saputi di tutto quanto riguardava i cani, da non poter essere ingannati da cani. Sul secondo ponte del _Narwhal_, Buck e Curly s’unirono ad altri due cani. Uno di essi era un grosso cane bianco come la neve dello Spitzbergen, condotto via da un capitano di nave, per la pesca delle balene; e aveva ultimamente accompagnato un’Esplorazione Geologica nelle Barrens. Egli era amichevole, ma in certo modo traditore, e sorrideva in faccia mentre meditava qualche tiro nascosto, come, ad esempio, allorchè rubò il cibo di Buck, il primo pasto. Mentre Buck si lanciava per punirlo, sibilò nell’aria la frusta di François, che raggiungeva prima il colpevole; e a Buck non rimase altro che ricuperare l’osso. François era stato giusto, pensò Buck, e l’uomo dal sangue misto crebbe nella stima del cane. L’altro cane non dava confidenza, e non ne riceveva; non tentava neppure di rubare ai nuovi venuti. Era un triste e malinconico cane di pessimo umore, il quale fece capire chiaramente a Curly che desiderava di essere lasciato solo; altrimenti sarebbero guai. Era chiamato «Dave», e mangiava e dormiva, o sbadigliava negli intervalli, e non prendeva interesse a nulla, neppure quando il _Narwhal_ attraversò lo stretto della Regina Carlotta e rullò e beccheggiò come se fosse stregato. Quando Buck e Curly divennero agitati, mezzi pazzi per la paura, egli alzò la testa, come se fosse annoiato, li degnò di uno sguardo non curioso, sbadigliò, e si riaddormentò. Giorno e notte, il bastimento vibrava scosso dal pulsare instancabile dell’elica; e benchè i giorni s’assomigliassero, era chiaro per Buck che la stagione diveniva rapidamente più fredda. Finalmente, una mattina, l’elica si fermò, e il _Narwhal_ fu pervaso da un’atmosfera di agitazione. Egli lo sentiva, come lo sentivano gli altri cani, e sapeva che un cambiamento era prossimo. François pose loro il guinzaglio e li condusse sul ponte. Al primo passo sulla fredda superficie, i piedi di Buck sprofondarono in una specie di muschio bianco, molto simile al fango. Balzò indietro con uno starnuto; ma altra roba bianca della stessa specie cadeva dal cielo. Egli si scrollò, ma ne vide ancora cadere su di lui. L’annusò, curioso, e poi ne leccò un po’; bruciava come fuoco, e là per là svaniva. Ciò gli sembrava assai strano. Riprovò, con lo stesso risultato. Gli spettatori risero rumorosamente, ed egli ebbe vergogna; non sapeva perchè, giacchè conosceva per la prima volta la neve. CAPITOLO II. LA LEGGE DELLA MAZZA E DEI DENTI Il primo giorno che Buck passò sulla spiaggia di Dyea fu come un incubo. Tutte le ore erano piene di mutamenti e di sorprese. Egli era stato improvvisamente strappato dal cuore della civiltà e gettato nel cuore delle cose primordiali. Non era questa una vita pigra baciata dal sole, senz’altro da fare che bighellonare e annoiarsi. Qui non vi era nè pace, nè riposo, nè un momento di sicurezza, ma tutto era confusione ed azione, e ogni momento la vita e le estremità del corpo erano in pericolo. Vi era la necessità continua e imperativa d’essere sempre vigile; chè quegli uomini e quei cani non erano uomini e cani di città, ma esseri selvaggi, tutti, che non conoscevano altra legge se non quella della mazza e dei denti. Non aveva mai visto dei cani combattere come combattevano quelle creature simili a lupi: e la prima esperienza gli servì da lezione indimenticabile; chè se non fosse stata lezione per lui, non avrebbe certo vissuto per avvantaggiarsene. Curly ne fu la vittima. Erano accampati vicino al magazzino di legnami, ed essa, con quella sua maniera amichevole, cercò di entrare in relazione con un rude cane dalla taglia di un grosso lupo, che però non era neppure la metà di essa. Non vi fu alcun preavviso, ma solo un salto in avanti, come un lampo, un colpo metallico di denti, un altro salto altrettanto rapido indietro, e il muso di Curly apparve squarciato, dall’occhio alla mascella. Era quella la maniera di combattere del lupo, che colpiva e saltava indietro; ma la cosa non finì lì. Trenta o quaranta di quei cagnacci corsero sul luogo e circondarono i combattenti, in cerchio intento e silenzioso. Buck non comprendeva quella attenzione silenziosa; nè l’avidità con cui si leccavano le zampe. Curly si lanciò sul suo antagonista, il quale colpì di nuovo e di nuovo saltò indietro. Esso arrestò un altro assalto di Curly col petto, in una maniera speciale che le fece perdere l’equilibrio stendendola ruzzoloni a terra. Non si rialzò più: gli altri cani, che parevano attendere quell’avvenimento, si lanciarono su di essa mugolando e latrando, ed essa fu sepolta, urlante di terrore, sotto la massa dei corpi irsuti. La cosa era accaduta così improvvisamente e inaspettatamente, che Buck rimase stordito. Vide Spitz tirar fuori la sua lingua scarlatta come se ridesse, e François, lanciarsi nella confusione dei cani, agitando una scure. Tre uomini con mazze l’aiutarono a disperdere i cani. Non ci misero molto. Due minuti dopo che Curly era caduta, l’ultimo dei suoi assalitori era cacciato via a mazzate. Ma essa giaceva inerte nel sangue, quasi sbranata, a pezzi: e il bruno meticcio stava chinato su lei bestemmiando spaventevolmente. La scena ritornò spesso a turbare i sonni di Buck. Quella era dunque la maniera; e gli appariva ingiusta. Una volta a terra, era la fine. Ebbene, sarebbe stato attento a non andare mai a terra. Spitz tirò fuori la lingua e rise di nuovo: e da quel momento Buck l’odiò di un odio amaro e mortale. Prima ancora che si fosse riavuto dal colpo risentito per la morte tragica di Curly, ricevette un altro colpo. François gli legò addosso una combinazione di cinghie e di fibbie. Erano dei finimenti, come quelli che aveva visto mettere dagli staffieri addosso ai cavalli, quand’era a casa. E come i cavalli che aveva visto lavorare, così era messo egli stesso a lavorare, per trascinare François s’una slitta alla foresta, nella valle, e ritornare con un carico di legna da ardere. Benchè la sua dignità fosse dolorosamente ferita dal fatto di essere così ridotto ad un animale da tiro, egli era troppo saggio per ribellarsi. Si curvò risoluto e fece del suo meglio, benchè tutto ciò fosse nuovo e strano. François era rigido, reclamava ubbidienza immediata, e per virtù della frusta otteneva immediata ubbidienza; mentre Dave, che era un tiratore esperto, morsicava i fianchi di Buck quando sbagliava, Spitz era alla testa, pure egli esperto, e non potendo sempre afferrare Buck, ringhiava di tempo in tempo brevi ammonimenti, o abilmente gettava il suo peso sui tiranti per costringere Buck ad andare a modo. Buck imparò facilmente, e sotto la guida dei suoi due compagni e di François, fece notevoli progressi. Quando ritornò all’accampamento, sapeva già che doveva fermarsi ad ogni «ho» e correre ad ogni «mush», e girare largo nelle curve, e tenersi fuori dal percorso degli strisci quando la slitta, carica, scivolava come una freccia alle loro calcagna. — Sono dei buoni, — disse François a Perrault. — Quel Buck tira come un diavolo, e impara presto, come niente fosse. Nel pomeriggio, Perrault, che aveva fretta di mettersi in cammino con i suoi dispacci, ritornò con altri due cani. Li chiamava «Billee» e «Joe», due fratelli, e dei veri huskies entrambi. Benchè figli della stessa madre, erano differenti come il giorno e la notte. Il difetto di Billee era d’essere di eccessiva bontà, mentre Joe era tutto l’opposto; acre e chiuso, con un perpetuo ringhio e un occhio maligno. Buck li ricevette con cameratismo. Dave non li guardò neppure; mentre Spitz incominciava a battere prima l’uno e poi l’altro. Billee agitò la coda per pacificarlo, e poi scappò via quando s’accorse che ogni tentativo di pacificazione era sprecato, e strillò (ancora col tono di chi vuol essere amico) allorchè gli acuti denti di Spitz gli penetrarono nella coscia. Ma per quanto Spitz girasse, Joe girava pure sui suoi piedi, per tenergli testa, con il pelo irto, le labbra convulse e ringhiose, le mascelle che battevano insieme il più rapidamente possibile per minacciare morsi, e gli occhi diabolicamente luminosi — incarnazione della paura belligerante. Il suo aspetto era così terribile, che Spitz fu costretto a rinunciare a disciplinarlo; ma per coprire la sua sconfitta si rivolse contro l’inoffensivo e gemente Billee rincorrendolo sino ai confini dell’accampamento. Prima di sera, Perrault si assicurò un altro cane, un vecchio cagnaccio, lungo, magro e mal nutrito, col volto pieno di cicatrici e un occhio solo, che lanciò una minaccia e un avvertimento di persona che non teme nulla. Si chiamava Sol-leks, che vuol dire il Collerico. Come Dave, non chiedeva nulla, non dava nulla, non s’attendeva nulla; e quando camminò lentamente e deliberatamente in mezzo a loro, persino Spitz lo lasciò stare. Egli aveva una particolarità, che Buck ebbe la sfortuna di scoprire: non gli piaceva di essere avvicinato dalla parte dell’occhio cieco. Di questa offesa Buck si rese stupidamente colpevole: e si accorse della sua indiscrezione soltanto quando Solleks gli fu sopra e gli squarciò la spalla sino all’osso per tre pollici di lunghezza. Da allora in poi, Buck evitò il lato dov’era l’occhio cieco, e sino alla fine della loro vita in comune i due non ebbero più guai tra loro. La sua sola ambizione, pareva che fosse quella di Dave, di essere lasciato in pace: però Buck doveva apprendere in seguito, che ciascuno dei due possedeva un’altra, e ancor più vitale, ambizione. Quella notte, Buck si trovò a dover risolvere il gran problema di dormire. La tenda, alla luce di una candela, appariva luminosa e calda nel mezzo della bianca pianura; senonchè, quand’egli vi entrò, naturalmente, tanto Perrault che François lo bombardarono con bestemmie e utensili di cucina, fino a che egli, riavutosi della sua costernazione, non fu costretto a fuggire ignominiosamente, nel freddo. Soffiava un vento gelato che lo pizzicava acutamente e gli mordeva con speciale veemenza la spalla ferita. Si sdraiò sulla neve e tentò di dormire, ma il gelo lo costrinse ben presto ad alzarsi tutto tremante. Misero e sconsolato allora, andò vagando tra le molte tende, per constatare nient’altro che un luogo era freddo quanto un altro. Qua e là, dei cani selvaggi si lanciavano contro di lui, ma egli arruffava il pelo del collo e ringhiava (come aveva imparato rapidamente), e quelli lo lasciavano andare senza molestie. Alla fine, gli venne un’idea. Sarebbe ritornato a vedere come i suoi compagni s’accomodavano. Con sua grande sorpresa, trovò che erano spariti. Ritornò a vagare per tutto l’ampio accampamento, cercandoli, e ancora una volta ritornò sui suoi passi. Erano forse nella tenda? No, non poteva essere; altrimenti, non ne sarebbe stato scacciato. Ma dove dunque potevano essere? Con la coda penzoloni e il corpo tremante, davvero smarrito, girò senza meta intorno alla tenda. Improvvisamente, la neve cedette sotto le sue quattro gambe e si sprofondò. Indietreggiò con un salto, irsuto e ringhioso, spaventato dall’imprevisto e dall’ignoto. Ma un sommesso amichevole latrato l’assicurò, ed egli ritornò ad investigare. Un soffio d’aria calda salì alle sue narici, e là, vide, arrotolato su se stesso come una perfetta palla, Billee che giaceva sotto la neve. Billee mugolò amichevolmente, s’agitò tutto per mostrare la sua buona volontà e le sue buone intenzioni, ed osò persino, come offerta di pace, di leccare il muso di Buck, con la sua lingua calda ed umida. Un’altra lezione. Dunque, così facevano? Buck, fiducioso, scelse un punto e dopo un grande affaccendarsi e spreco di sforzi scavò una buca per sè. In un momento, il calore del suo corpo riempì lo spazio angusto della buca ed egli s’addormentò. Poichè la giornata era stata lunga ed ardua, egli dormì intensamente e comodamente, ancorchè ringhiasse e abbaiasse agitato da cattivi sogni. Nè aprì i suoi occhi finchè non fu svegliato dai rumori dell’accampamento che si destava. Al primo momento, non sapeva più dove fosse. Aveva nevicato durante la notte ed egli era completamente sepolto. La neve lo chiudeva da tutte le parti, e un grande brivido di paura lo scosse — la paura della creatura selvaggia che teme la trappola. Era un segno, quello, ch’egli riandava attraverso la sua vita alla vita dei suoi progenitori; poichè egli era un cane incivilito, ma non bene incivilito, e per esperienza personale non conosceva alcuna trappola, e così non poteva pensare d’averne paura. I muscoli di tutto il corpo gli si contrassero spasmodicamente e istintivamente, il pelo del collo e della schiena divenne irsuto: con un feroce ringhio, egli si lanciò diritto nel pieno giorno acciecante, con la neve che gli volava intorno come una nube piena di raggi. Cadde sulle quattro zampe; vide il bianco accampamento stendersi innanzi a lui e ricordò dov’era e tutto quello che era accaduto dal momento che era uscito per una breve corsa con Manuele, al momento che s’era scavato la buca, la notte innanzi. Un grido di François salutò il suo apparire. «Che avevo detto?» esclamò il conducente di cani a Perrault. «Che Buck impara rapidamente qualunque cosa». Perrault acconsentì col capo gravemente. Quale corriere del Governo Canadese, poichè recava dispacci importanti, egli era desideroso dei migliori cani, e perciò particolarmente soddisfatto di possedere Buck. Altri tre cani furono aggiunti al tiro, nel termine di un’ora; in complesso nove; e prima che fosse passato un altro quarto d’ora, essi erano attaccati alla slitta e in cammino verso Dyea Cañon. Buck era contento d’essere partito, e benchè il lavoro fosse duro, non ne risentiva alcun peso o dispiacere. Era sorpreso della intensa volontà che animava l’intero tiro, volontà che gli si comunicò; ma ancora più sorprendente era il mutamento avvenuto in Dave e Sol-leks. Sembravano degli altri cani, trasformati dai finimenti. Ogni loro passività e disinteresse era caduto. Si mostravano, ora, attenti ed attivi, ansiosi che il lavoro procedesse bene, e terribilmente irritabili per qualsiasi incidente, ritardo o confusione che ritardasse il loro lavoro. Il tiro della slitta sembrava la suprema espressione del loro essere, la ragione della loro vita, e la sola cosa in cui prendessero piacere. Dave era il cane di stanga o cane di slitta, davanti a lui tirava Buck, poi veniva Sol-leks; il resto del tiro si stendeva lungo una fila sino alla guida di testa, ch’era Spitz. Buck era stato appositamente posto tra Dave e Sol-leks perchè potesse ricevere istruzione. E se ottimo scolaro egli era, quelli erano parimenti ottimi maestri, che non lo lasciavano a lungo nell’errore e imponevano il loro insegnamento, con i denti acuti. Dave era giusto e molto saggio. Egli non l’addentava mai senza ragione, ma non mancava mai di addentarlo se ce n’era bisogno. E siccome la frusta di François coadiuvava, Buck trovò più conveniente emendare i propri difetti anzichè rispondere. Una volta, durante una breve sosta, allorchè s’ingarbugliò nei tiranti e ritardò la partenza, tanto Dave che Sol-leks si lanciarono su lui e lo malmenarono alquanto. Si accrebbe il garbuglio; ma da quella volta Buck ebbe gran cura di tenere separati i tiranti; e prima che il giorno fosse finito, egli aveva imparato così bene il suo lavoro, che i suoi compagni cessarono di premerlo. La frusta di François schioccò meno di frequente, e Perrault onorò perfino Buck sollevandogli le zampe ed esaminandole accuratamente. Era una corsa di un giorno, molto dura, su per il Cañon, attraverso Sheep Camp, oltre le Scales e la linea delle foreste, attraverso ghiacciai e giacimenti di neve profondi centinaia di piedi, e al disopra del grande Chilcoot Divide, che elevasi tra l’acqua salata e l’acqua dolce e vigila paurosamente il triste e solitario Nord. Andarono molto in fretta giù per la catena dei laghi che riempiono i crateri di vulcani spenti, e quella sera entrarono tardi nell’immenso accampamento al capo del lago Bennet, dove migliaia di cercatori d’oro stavano costruendo barche per la primavera, quando il ghiaccio si sarebbe spezzato. Buck scavò la sua brava buca nella neve e dormì il sonno dell’esausto giusto: che durò breve tempo, perchè presto egli fu tratto dalle fredde tenebre e attaccato con i suoi compagni alla slitta. Quel giorno percorsero quaranta miglia, essendo il solco battuto; ma il giorno dopo, e per molti giorni ancora, dovettero aprirai un varco, lavorando più duramente e progredendo molto meno. Di solito, Perrault precedeva la slitta, battendo la neve con le sue scarpe munite di racchetta, per facilitare l’avanzare dei cani. François che guidava la slitta dal timone di destra, cambiava posto con lui, ma non molto spesso. Perrault aveva fretta, e si vantava di una grande conoscenza del ghiaccio, conoscenza che era indispensabile, perchè il ghiaccio autunnale era molto sottile, e dov’era dell’acqua corrente non si formava ghiaccio. Così, un giorno dopo l’altro, per giorni senza fine, Buck faticava ai tiranti. Sempre, levavano il campo quando faceva buio, e i primi albori li trovavano che battevano il sentiero percorrendo nuove miglia, segnate vagamente dal loro passaggio. E sempre s’accampavano dopo che la notte era già scesa; mangiavano il loro pezzo di pesce e s’accovacciavano a dormire nella neve. Buck era vorace. La libbra e mezza di salmone seccato al sole, che costituiva la sua razione giornaliera, sembrava non fosse nulla per lui. Non ne aveva mai abbastanza, e soffriva perpetue fitte di fame. Ma gli altri cani, perchè pesavano meno ed erano nati per quella vita, ricevevano una sola libbra di pesce e riuscivano a mantenersi in buone condizioni. Egli perdette rapidamente quella schifiltà che aveva caratterizzato la sua vecchia vita. Mangiatore accurato e lento, aveva scoperto che i suoi compagni, terminando prima, lo derubavano della parte di razione che gli rimaneva. Non vi era maniera di difendersi. Mentre egli scacciava due o tre, il cibo spariva nella bocca degli altri. Per rimediare a ciò, mangiò in fretta come loro; e, tanto la fame rincalzava, che egli non aveva ritegno a prendere anche la parte altrui. Osservò e imparò. Quando vide Pike, uno dei nuovi cani, furbo ipocrita e ladro, destramente rubare una fetta di lardo affumicato, nel momento in cui Perrault voltava le spalle, egli duplicò il furto, il giorno seguente, portando via l’intero pezzo. Ne seguì un gran baccano, ma egli non fu sospettato; mentre Dub, maldestro e pasticcione che si faceva sempre cogliere in fallo, era punito per le malefatte di Buck. Questa prima ruberia mostrò che Buck era adatto a sopravvivere nell’ostile ambiente delle terre nordiche. Confermò la sua adattabilità, la sua capacità ad adeguarsi a condizioni mutate; qualità questa la cui mancanza avrebbe significato una rapida e terribile morte. Segnò, inoltre, il decadere o frangersi della sua natura morale, cosa vana, e un fardello nella furiosa lotta per l’esistenza. Ottima cosa nel Sud, protetti dalla legge dell’amore e del cameratismo, il rispettare la proprietà privata e i sentimenti personali; ma nel Nord, sotto la legge della mazza e dei denti, chi prendeva queste cose in considerazione era un pazzo, che per quanto si poteva osservare intorno, non avrebbe certo prosperato. Non che Buck facesse tutto questo ragionamento. Era adatto, ecco tutto; e inconsciamente s’accomodava al nuovo modo di vita. In ogni giorno, della sua vita, qualunque fosse il dissidio, egli non s’era mai sottratto a una lotta. Ma la mazza dell’uomo dalla maglia rossa gli aveva inculcato un codice più fondamentale e primitivo. Incivilito, egli sarebbe stato capace di morire per una idea morale; per esempio, per la difesa del frustino del giudice Miller; ma, ora, la perdita assoluta d’ogni senso di civiltà era messa in evidenza dall’abilità che usava nel sottrarsi alla difesa di una idea morale, per salvarsi il fianco. Non rubava per la gioia di rubare, ma per le imperiose necessità del suo stomaco; e non rubava apertamente, ma nascostamente e con furberia, per timore della mazza e dei denti. In breve, le cose che faceva, le faceva perchè era più facile farle che non farle. Il suo sviluppo (o regresso) fu rapido. I suoi muscoli divennero duri come il ferro; egli divenne indifferente a tutte le pene ordinarie; e si regolò secondo una perfetta economia interna oltre che esterna. Poteva mangiare qualsiasi cosa, nauseante e indigesta che fosse; e, mangiatala, i succhi del suo stomaco ne estraevano, sino alle più minute particelle, tutto il nutrimento, che il sangue portava poi alle più lontane estremità del corpo, costruendo i più saldi e duri tessuti. La vista e l’odorato gli divennero straordinariamente acuti; mentre l’udito s’era acuito al punto che nel sonno udiva il più leggero suono e distingueva se era segno di pace o di pericolo. Imparò a strapparsi il ghiaccio coi denti, quando gli si formava tra le dita delle zampe; e allorchè aveva sete e vi era un grosso strato di ghiaccio sull’acqua, lo rompeva saltandovi sopra con le quattro zampe irrigidite. La sua abilità più straordinaria era quella di odorare il vento e di prevederlo una notte prima. Qualunque fossero le condizioni atmosferiche, quand’egli scavava il suo covo accanto ad un albero, ad un monticello, il vento che soffiava più tardi lo trovava sempre ben riparato, coperto e caldo. E non soltanto egli imparava per esperienza, ma perchè si ridestavano in lui istinti da lungo tempo scomparsi. Si separavano da lui le generazioni addomesticate; vagamente ricordava cose lontane della giovinezza della sua razza, di quando i cani selvatici erravano a torme per le primitive foreste e uccidevano per nutrirsi l’animale che riuscivano ad abbattere. Non gli era difficile imparare a combattere tagliando e strappando, col rapido morso del lupo. In quel modo avevano combattuto obliati antenati, che ravvivavano in lui il senso dell’antica vita, così che le vecchie abilità ed astuzie ch’essi avevano impresso ereditariamente alla razza, diventavano le sue abilità e le sue astuzie. Gli venivano naturali, senza ricerca o sforzo, come se le avesse sempre pensate. E allorchè, nelle notti serene e fredde, puntava il naso verso una stella e ululava a lungo alla maniera dei lupi, erano i suoi antenati, morti, in polvere, che puntavano il naso alle stelle e ululavano attraverso i secoli e attraverso lui. E le sue cadenze erano le loro cadenze, che esprimevano la loro miseria e il silenzio e il freddo e le tenebre. Così, a dimostrare che specie di buffoneria è la vita, l’antico canto rinasceva in lui ed egli ritornava ad essere se stesso; e ritornava ad essere se stesso perchè gli uomini avevano scoperto un metallo giallo nel Nord, e perchè Manuele era un aiuto-giardiniere il cui salario bastava appena a soddisfare i bisogni della moglie e di varie piccole copie di sè. CAPITOLO III. LA BESTIA PRIMORDIALE PREPONDERANTE. La bestia primordiale preponderante era molto forte in Buck, e in quelle terribili condizioni della vita sul duro sentiero del Nord, crebbe ogni giorno più. Cresceva, tuttavia, segretamente. La nuova perspicacia gli dava senno e ritegno. Era troppo occupato ad accomodarsi alla nuova vita, per sentirsi a suo agio; e non soltanto non cercava litigi, ma li evitava sempre, quando poteva. Una certa ponderatezza caratterizzava i suoi atti. Egli non era soggetto a sventatezze o ad azioni precipitate: e nel profondo odio che correva tra lui e Spitz, non tradiva alcuna inesperienza, evitando qualsiasi atto offensivo. D’altro canto, forse perchè presentiva in Buck un rivale pericoloso. Spitz non perdeva alcuna occasione di mostrargli i denti. Egli si disturbò persino a minacciarlo, cercando sempre di incominciare lui una lotta che poteva finire soltanto con la morte dell’uno o dell’altro. Il che sarebbe accaduto, a principio de! viaggio, se non fosse successo un accidente poco piacevole. S’erano accampati tristemente e miseramente sulla riva del Lago Le Barge. Neve violenta, un vento che tagliava come un coltello di fuoco e tenebre li avevano costretti a cercare a tastoni un luogo dove accampare. Difficilmente avrebbero potuto trovarsi peggio. Dietro loro sorgeva una parete rocciosa perpendicolare, e Perrault e François erano stati costretti ad accendere il fuoco e a stendere la roba per dormire sul ghiaccio del lago stesso. Essi avevano scaricata la tenda a Dyea, per viaggiare più leggeri. Alcuni pezzi di legno trovati lì, sulla riva, servirono a fare un fuoco che si spense nel ghiaccio, lasciandoli, a mezzo della cena, all’oscuro. Buck scavò il suo giaciglio accanto alla roccia protettrice. Egli vi stava così comodo e caldo che a malincuore ne uscì quando François distribuì il pesce che aveva disgelato sul fuoco. Ma quando Buck finì la sua razione e ritornò alla sua buca, la trovò occupata. Un ringhio minaccioso gli fece capire che l’offensore era Spitz. Sino allora Buck aveva evitato di avere contese col suo nemico; ma quello era troppo. La bestia in lui ruggiva. Si lanciò su Spitz con una furia che li sorprese entrambi, e specialmente Spitz, che per esperienza era giunto alla convinzione che Buck fosse un cane eccezionalmente timido, che riusciva a difendersi solo per il peso e la grandezza. Anche François rimase sorpreso, quando li vide piombar fuori dalla buca rovinata, confusi insieme e indovinò la causa della lite. «Aaah!» gridò a Buck, «Dàgli, dàgli, perdio! Dàgli, a quello sporco ladro!». Ma anche Spitz era disposto a darle. Ringhiava con estrema rabbia ed ardore mentre girava avanti e indietro in attesa del momento opportuno per balzargli addosso. Buck non era meno ardente, e non meno cauto, mentre anch’egli girava indietro e avanti in cerca di un momento di vantaggio. Ma fu allora che accadde l’inaspettato, la cosa che lanciò la loro lotta per la supremazia lontana nell’avvenire, al di là di molte tormentose miglia e sentieri e fatiche. Una bestemmia di Perrault, il risuonare di un colpo di mazza su delle ossa e un acuto urlo di pena annunciarono l’inizio di un pandemonio. Si vide che l’accampamento era improvvisamente popolato di villose forme striscianti — un centinaio di cani affamati, che avevano subodorato l’accampamento da qualche villaggio indiano. S’erano avvicinati strisciando, mentre Buck e Spitz stavano combattendo, e allorchè i due uomini balzarono in mezzo ad essi con grosse mazze, quelli mostrarono i denti e si rivoltarono. Erano pazzi per l’odore dei cibi. Perrault ne trovò uno con la testa affondata nella cassa delle provvigioni. La sua mazza cadde pesantemente sulle scarne costole della bestia, e la cassetta si capovolse per terra. Ed ecco, in un istante, una torma di affamati bruti azzuffarsi per il pane e il lardo affumicato. Le mazze caddero su di essi senza pietà. Essi strillarono e ulularono sotto la pioggia di colpi, ma non cessarono egualmente di lottare con disperazione finchè l’ultima briciola non fu divorata. Nel frattempo, i cani della slitta, stupiti, erano balzati dalle loro buche, per la paura di essere assaliti dai terribili invasori. Buck non aveva mai visto cani come quelli. Sembrava che le loro ossa dovessero bucare la pelle. Erano scheletri rivestiti da cadenti pelli infangate, con occhi fiammeggianti e bocche piene di bava. Ma la pazzia della fame li rendeva terrificanti, irresistibili. Non vi era maniera di opporsi ad essi. I cani della slitta furono ricacciati sin dal primo momento, contro la parete rocciosa. Buck era assediato da tre di essi, e in un attimo ebbe la testa e le spalle lacerate e ferite. Il baccano era spaventevole. Billee piangeva, come al solito: Dave e Sol-leks, grondanti sangue da una ventina di ferite, combattevano bravamente, a fianco a fianco. Joe morsicava come un demonio. Una volta, i suoi denti si chiusero sulla zampa davanti di uno dei cani spezzandola di netto; Pike, l’infingardo, saltò sull’animale sciancato e gli ruppe il collo con un lampo dei denti e una scossa. Buck afferrò per la gola un avversario bavoso, e fu spruzzato di sangue quando i suoi denti s’affondarono nel giugulare. Il caldo sapore del sangue nella bocca lo stimolò ad una maggiore furia. Si lanciò su un altro, e, allo stesso tempo, sentì dei denti affondare nella propria gola. Era Spitz, che l’attaccava a tradimento da un lato. Perrault e François, avendo liberato la loro parte d’accampamento, s’affrettarono a salvare i loro cani. L’onda selvaggia delle bestie affamate indietreggiò davanti a loro e Buck si liberò dalla stretta. Ma solo per un momento. I due uomini furono costretti a correre indietro per salvare i viveri, e allora i cani affamati tornarono all’assalto di quelli della slitta. Billee, divenuto coraggioso per lo spavento, balzò attraverso il cerchio selvaggio e fuggì via sul ghiaccio. Pike e Dub lo seguirono da presso, col resto dei compagni dietro. Mentre Buck stava spiccando il salto per seguirli, vide, colla coda dell’occhio, che Spitz si lanciava su di lui coll’evidente intenzione di rovesciarlo. Una volta a terra sotto quella massa di cagnacci, non vi sarebbe stata più speranza per lui. S’aggiustò a sostenere il colpo dell’attacco di Spitz, e poi fuggì anch’egli sul lago. Più tardi, i nove cani della slitta si riunirono e cercarono rifugio nella foresta. Benchè non fossero inseguiti, erano in condizioni pietose. Non ve n’era uno che non fosse gravemente ferito. Dub aveva una zampa posteriore rovinata; Dolly, l’ultimo cane aggiunto al tiro a Dyea, aveva la gola lacerata; Joe aveva perduto un occhio; mentre Billee, l’allegro, con un occhio maciullato e in brandelli, pianse, gemette tutta la notte. All’alba si trascinarono faticosamente all’accampamento e trovarono i predoni scomparsi e i due uomini di pessimo umore. Avevano perduto metà dei loro viveri. I cagnacci avevano rosicchiato anche le cinghie e le coperture di tela della slitta. Infatti, nulla avevano risparmiato di quanto fosse lontanamente mangiabile. Avevano mangiato un paio di scarpe di pelle di cervo, di Perrault, pezzi dei finimenti, e persino due piedi della striscia di cuoio in fondo alla frusta di François. Egli si destò dalla dolorosa contemplazione di tanta rovina per esaminare i suoi cani feriti. «Ah, amici miei», diss’egli dolcemente, «può darsi che vi facciano diventare idrofobi, tutti questi morsi. Possono essere tutti idrofobi, _sacredam_! Che ne pensi, eh, Perrault?». Il corriere crollò il capo dubbiosamente. Con quattromila miglia di cammino ancora davanti, per arrivare a Dawson, non poteva facilmente permettersi il lusso di avere cani idrofobi. Due ore di bestemmie e di sforzi rimisero a posto i finimenti, e i cani ripresero penosamente il cammino, faticando per le ferite e la strada ch’era la più dura che avessero ancora fatta, e in vero la più dura che ci fosse fra essi e Dawson. Il Fiume dalle trenta Miglia era tutto disgelato. Le sue acque impetuose sfidavano il gelo; soltanto ai margini e nei punti tranquilli il ghiaccio resisteva. Furono necessari sei giorni di spossanti fatiche per superare quelle trenta terribili miglia. E terribili erano davvero, perchè ogni passo era fatto a rischio della vita del cane e dell’uomo. Una dozzina di volte, Perrault, fiutando la via, cadde giù attraverso i ponti di ghiaccio, salvato dalla lunga pertica che portava con sè, ch’egli teneva in modo che ciascuna volta cadesse traversalmente al buco fatto dal suo corpo. Ma aveva luogo a quel momento un cambiamento subitaneo di temperatura e il termometro registrava cinquanta gradi Fahrenheit sotto zero, e ciascuna volta che s’immergeva nel ghiaccio era costretto, se non voleva morire, ad accendere un fuoco e ad asciugarsi gli abiti. Non v’era nulla che lo spaventasse: e appunto perchè nulla lo spaventava, era stato scelto come corriere governativo. Egli affrontava ogni genere di rischi, ficcando risolutamente il suo volto secco e tagliente nel gelo, faticando dai primi albori sino alla sera oscura. Girava intorno alle rive a picco, sul ghiaccio degli orli che si piegava e frangeva sotto il piede e sul quale non osavano fermarsi. Una volta la slitta s’affondò nel ghiaccio con Dave e Buck, che erano mezzi gelati e quasi annegati quando riuscirono a trarli fuori. Il solito fuoco fu necessario per salvarli. Poichè erano rivestiti solidamente di ghiaccio, i due uomini li fecero correre intorno al fuoco, facendoli sudare e disgelare, così vicino ai tizzi, che i cani furono abbruciacchiati dalle fiamme. Un’altra volta il ghiaccio si ruppe sotto Spitz, il quale si tirò dietro l’intero tiro, sino a Buck, che fece leva con tutta la forza delle sue quattro zampe sull’orlo sdrucciolevole del ghiaccio che tremava e scricchiolava tutt’intorno. Ma dietro di lui vi era Dave, che pure tirava indietro con tutte le sue forze, e dietro la slitta vi era François che tirava sino a far scricchiolare i tendini delle braccia. Una volta, poi, il ghiaccio si ruppe davanti e dietro loro, e non vi era altra via di salvezza che su per la rupe a picco della riva. Perrault le diede la scalata per miracolo, mentre François pregava appunto per quel miracolo; e con tutte le corregge che avevano e le cinghie della slitta, e servendosi anche del più piccolo pezzo di finimento, attorcigliati e legati ad una lunga fune, issarono i cani, l’uno dopo l’altro, sulla cresta della rupe. François salì per ultimo, dopo la slitta e il carico. Poi dovettero cercare un luogo per la discesa, discesa che fu alla fine fatta con l’aiuto della fune; e la notte li ritrovò nuovamente sul fiume, con un solo quarto di miglio a credito di un’intera giornata di pena. Quando giunsero all’Hootaluiqua e al ghiaccio buono, Buck era sfinito. Anche gli altri cani erano nelle stesse condizioni; ma Perrault, per riprendere il tempo perduto, li spingeva avanti. Il primo giorno percorsero trentacinque miglia, sino al Grande Salmone; il giorno dopo trentacinque ancora sino al Piccolo Salmone; il terzo giorno quaranta miglia, spingendosi molto innanzi verso le Cinque Dita. I piedi di Buck non erano così saldi e duri come quelli degli altri cani. S’erano indeboliti e ammorbiditi durante le molte generazioni che erano passate dal giorno che l’ultimo suo antenato selvaggio era stato domato da un abitatore delle caverne o del fiume. Zoppicava tutto il giorno penosamente, e allorchè l’accampamento era fatto, si gettava a terra come morto. Affamato com’era, non si muoveva per prendere la sua razione di pesce, e François era costretto a portargliela. Inoltre egli gli fregava i piedi per mezzora ogni sera dopo cena, e sacrificò la parte superiore dei suoi _moccasins_, i sandali indiani di pelle di daino, per farne quattro per Buck. Fu un gran sollievo per Buck, che fece sorridere persino l’aggrinzita faccia di Perrault, un mattino che François dimenticò i _moccasins_ e Buck giacque sulla schiena, con le quattro zampe che s’agitavano nell’aria, a mo’ di appello, e rifiutando di muoversi senza di essi. In seguito, i suoi piedi divennero duri, e i piccoli sandali, già logori, furono gettati via. Al Pelly, una mattina, mentre stavano attaccando la slitta, Dolly, che non era mai stata buona a nulla, impazzì improvvisamente. Ella rivelò la sua condizione con un lungo doloroso ululato da lupo, che fece rizzare il pelo dalla paura, a tutti i cani; e poi si lanciò diritta contro Buck. Egli non aveva mai visto un cane diventare pazzo, nè aveva alcuna ragione per temere la pazzìa, e tuttavia ne comprese subito l’orrore e fuggì via preso da panico. Corse davanti a sè come una saetta, con Dolly che gli ansava bavosa un salto indietro; nè essa poteva guadagnare terreno su di lui, tanto grande era il suo terrore, nè egli poteva distanziarla, tanto grande era la pazzia della cagna. Egli si tuffò nel seno boscoso di un isolotto, volò giù alla riva più bassa, attraversò un canale interno pieno di grosso ghiaccio sino ad un’altra isola, guadagnò una terza isola, piegò dietro il corso maggiore del fiume, e, disperato incominciò ad attraversarlo. E tutto mentre, sebbene non guardasse, poteva udire il ringhiare affannoso, un salto indietro, della cagna pazza. François lo chiamò, un quarto di miglio lontano, ed egli tornò indietro di colpo, guadagnando un salto avanti, ansando penosamente, chè gli mancava il respiro, ponendo tutta la sua fede in François, che l’avrebbe salvato. Il conduttore di cani teneva alzata in mano la scure, e allorchè Buck gli passò accanto come una saetta, la scure precipitò con fracasso sulla testa della pazza Dolly. Buck cadde contro la slitta, esausto, singhiozzando per respirare, smarrito. Spitz, colto il destro, si lanciò su Buck e due volte i suoi denti s’affondarono nell’inerme nemico lacerandogli e squarciandogli la carne sino all’osso. Allora entrò in gioco la frusta di François, e Buck ebbe la soddisfazione di vedere Spitz bastonato come non era ancora mai stato alcuno del tiro. «È un diavolo, quello Spitz!», osservò Perrault. «Un maledetto giorno, egli ucciderà Buck». «Buck vale due diavoli», fu la risposta di François. «Più lo osservo, e più ne sono sicuro. Senti: un maledetto giorno diventerà pazzo come un diavolo e allora egli masticherà tutto Spitz e lo risputerà sulla neve. Certo. Lo so io». Da quel momento, vi fu guerra, tra i due cani. Spitz, come cane conduttore e capo riconosciuto del tiro, sentiva la sua supremazia minacciata da quello strano cane del Sud. Buck, infatti, gli appariva molto strano, perchè dei molti cani del Sud che aveva conosciuto, nessuno s’era mostrato di qualche valore nè al tiro, nè all’accampamento. Erano tutti troppo delicati, e morivano per la fatica, il freddo e la fame. Buck era un’eccezione. Egli solamente sopportava e prosperava, uguale agli «_Luskygs_» del nord per forza, selvatichezza e furberia. E poi era un cane dominatore; reso pericoloso dal fatto che la mazza dell’uomo dalla maglia rossa gli aveva tolto ogni impulso cieco o impazienza nel suo desiderio di dominare. Egli era eminentemente scaltro e furbo, e poteva aspettare il suo tempo con pazienza davvero primitiva. Era inevitabile che avvenisse il cozzo per la supremazia; e Buck lo voleva. Lo voleva perchè era della sua natura; perchè era stato irretito dall’orgoglio senza nome e incomprensibile per il tiro della slitta e pel cammino — quell’orgoglio che sostiene i cani nella fatica, sino all’ultimo respiro, e li alletta a morire pieni di gioia nei finimenti, e spezza il loro cuore, se ne sono distolti. Era l’orgoglio di Dave, cane da stanga, di Sol-leks, mentre tirava con tutte le sue forze; l’orgoglio che s’impossessava di loro quando il campo era tolto, trasformandoli da bruti doloranti e torvi in creature ambiziose, piene di ardore; l’orgoglio che li spronava tutto il giorno e li abbandonava allorchè s’accampavano, ripiombandoli in cupa irrequietezza e scontento. Questa ambizione animava Spitz e lo faceva ringhiare contro i cani della slitta, quando sbagliavano o non tiravano o si nascondevano al mattino, al momento d’essere attaccati. Questa stessa ambizione gli faceva temere Buck come un possibile cane guidatore; ciò che Buck voleva appunto, per orgoglio. Egli minacciava apertamente la supremazia dell’altro; s’intrometteva tra lui e i rilassati che egli doveva punire. E lo faceva deliberatamente. Una notte vi fu una grande nevicata, e al mattino Pike, l’infingardo, non apparì. Era certamente nascosto nella sua buca, sotto un piede di neve. François lo chiamò e cercò invano. Spitz era pazzo dalla rabbia. Girava furioso per l’accampamento, annusando e scavando in ogni possibile luogo, ringhiando così terribilmente che Pike l’udì e ne tremò nel suo nascondiglio. Ma quando, alla fine, fu scoperto, e Spitz si lanciò su lui per punirlo, Buck si lanciò con pari furia, tra loro. Fu un assalto così inatteso, e condotto con tanta abilità, che Spitz finì ruzzoloni. Pike, da pauroso e tremante qual era prese coraggio da quell’aperta ribellione, e si gettò sul suo capo rovesciato a terra. Buck, pel quale la lealtà nella lotta era codice obliato, si lanciò pure su Spitz, ma François, sogghignando per l’incidente, non deviando tuttavia dai suoi criteri di giustizia distributiva, fece fischiare la frusta, con tutta la sua forza, su Buck, e non riuscendo con ciò ad allontanarlo dal prostrato rivale, usò il manico. Mezzo stordito dal colpo, Buck cadde indietro e la frusta s’abbattè ripetutamente su lui, mentre Spitz puniva duramente l’infingardo Pike. Nei giorni seguenti, mentre s’avvicinavano sempre più a Dawson, Buck continuò ancora a interporsi tra Spitz e i colpevoli; ma lo faceva astutamente, quando non c’era François. Con la subdola ribellione di Buck, sorse e s’accrebbe una disobbedienza generale. Dave e Sol-leks rimasero immutati, ma il resto del tiro peggiorò ogni giorno più. Nulla più procedeva bene; v’erano continue contese e contrasti, costanti ragioni e possibilità di disordine, e Buck ne era la colpa. Egli teneva sempre preoccupato e affaccendato François, poichè il conducente di cani temeva sempre che avesse luogo la mortale lotta tra i due, lotta ch’egli sapeva essere, prima o dopo, inevitabile; e più di una notte, il rumore delle discordie e delle risse tra gli altri cani lo faceva alzare dal giaciglio spaventato che Buck e Spitz fossero alle prese. Ma l’occasione non si presentò ed essi entrarono in Dawson, un tetro pomeriggio, e la grande lotta non era ancora avvenuta. V’erano là molti uomini e innumerevoli cani, e Buck li trovò tutti al lavoro. Sembrava che fosse nell’ordine naturale delle cose che i cani lavorassero. Tutto il giorno essi correvano su e giù per la strada principale, in lunghi tiri, e durante la notte si udiva passare il tintinnio dei loro campanelli. Trascinavano travi da costruzioni e legna da ardere, destinati alle miniere, e facevano ogni specie di lavoro, come i cavalli nella Valle di Santa Clara. Qua e là Buck incontrava dei cani della terra del Sud, ma, per la maggior parte, tutti i cani erano della razza dei lupi selvatici. Tutte le notti, regolarmente, alle nove, alle undici e alle tre, essi alzavano un canto notturno, un canto magico e strano, al quale Buck si dilettava di prender parte. Con l’aurora boreale che fiammeggiava fredda in alto, o le stelle saltellanti nella danza del gelo, e la terra intorpidita e gelata sotto il suo manto di neve, il canto degli _huskies_ pareva la sfida della vita; soltanto, era espressa in tono minore, con lunghi lamenti e mezzi singhiozzi, ed era piuttosto la supplica della vita, l’articolato travaglio dell’esistenza. Era un vecchio canto, vecchio quanto la stessa razza — uno dei primi canti del mondo più giovane, quando i canti erano tristi. Recava l’impronta dei dolori di innumerevoli generazioni, questo lamento che tanto stranamente commoveva Buck. Quel lamento a singhiozzi esprimeva oltre che la pena dei viventi, la pena dei loro selvatici progenitori; e la paura e il mistero del freddo e delle tenebre, di ora e d’allora. Ed egli si commoveva a quel canto sembrandogli ritornare con tutto il suo essere, attraverso alle età del fuoco e del tetto, ai nudi primordi della vita, delle età degli urli. Sette giorni dopo il loro arrivo a Dawson, essi scendevano il ripido banco accanto alle Barracks sulla Yukon Trail, diretti a Dyea e Salt Water. Perrault riportava dispacci ancor più urgenti di quelli recati a Dawson; egli era poi preso dall’orgoglio della rapidità, e si proponeva di compiere il viaggio più rapido dell’anno. Lo favorivano in questo parecchie cose. Il riposo di una settimana aveva rimesso in piena efficienza i cani. Il sentiero che prima avevano penato ad aprirsi, era stato poi ben battuto da altri; inoltre la polizia aveva stabilito in due o tre luoghi dei depositi di viveri per i cani e gli uomini, e così si viaggiava con carico leggero. Il primo giorno raggiunsero Sixty Mile, che rappresenta una corsa di cinquanta miglia; e il giorno dopo erano ben innanzi lungo il Yukon verso Pelly. Ma quelle splendide corse non erano ottenute senza grandi pene per François. La insidiosa rivolta incominciata da Buck aveva distrutto la solidarietà del tiro. Non era più come un sol cane che tirasse la slitta. L’incoraggiamento che Buck dava ai ribelli, induceva questi ad ogni specie di meschine cattiverie e insubordinazioni. Spitz non era più il capo da temersi tanto. Il vecchio timore scomparve, e divennero tutti uguali nello sfidarne l’autorità. Pike gli rubò una notte mezzo pesce, e l’ingoiò sotto la protezione di Buck. Un’altra notte Dub e Joe s’azzuffarono con Spitz, e lo costrinsero a rinunciare alla punizione ch’essi meritavano. E persino Billee, il bonario, era meno bonario e non gemeva più, nè implorava così, come nei primi tempi. Buck non s’avvicinava mai a Spitz senza ringhiare minacciosamente col pelo irto. Infatti, la sua condotta era simile a quella di uno che intendesse provocarlo: ed egli si dava delle arie di spavalderia minacciosa sotto il naso di Spitz. L’infrangersi della disciplina influiva pure sui rapporti tra cane e cane. Si disputavano e azzuffavano più che mai tra di loro, tanto che certe volte l’accampamento era un inferno di ululati: François tirava giù delle strane bestemmie barbare, e pestava i piedi sulla neve, vanamente furioso, e si strappava i capelli. La sua frusta sibilava continuamente tra i cani, ma con scarsi risultati. Appena volgeva le spalle, essi ricominciavano. Egli sosteneva Spitz con la frusta, mentre Buck sosteneva il resto del tiro. François sapeva che in fondo a tutto ciò c’era Buck, e Buck sapeva ch’egli sapeva, ma era troppo furbo per farsi cogliere nuovamente sul fatto. Egli lavorava fedelmente sotto il tiro della slitta, poichè quella fatica era diventata un piacere per lui; ma era un piacere ancora maggiore suscitare una rissa fra i suoi compagni e ingarbugliare così i tiranti. Alla foce del Tahkeena, una notte, dopo cena, Dub scoprì un coniglio dalle zampe bianche, e gli si lanciò sopra; ma non lo colse. In un momento l’intero tiro fu in moto. Cento metri più in là vi era l’accampamento della Polizia del Nord-ovest, con cinquanta cani, tutti _huskies_, che s’unirono nella caccia. Il coniglio filò veloce giù per il fiume, voltò per un piccolo ruscello, e sul letto gelato di esso continuò a fuggire rapido. Correva leggero sulla superficie della neve, mentre i cani fendevano lo strato gelato con il solo peso. Buck era alla testa del branco dei cinquanta, seguendo il tortuoso corso del ruscello, senza riuscire a guadagnar terreno. Procedeva, basso, nella corsa, ululando, avido, col magnifico corpo lanciato come una saetta, salto dopo salto, nel pallido chiarore lunare. E salto dopo salto, come un pallido fantasma di ghiaccio, il coniglio dalle zampe di neve filava innanzi a lui. Tutto quell’agitarsi di vecchi istinti che a dati periodi spinge gli uomini fuori dalle frastuonanti città nelle foreste e nelle pianure per uccidere con pallottole di piombo lanciate chimicamente, la brama del sangue, la gioia di uccidere, tutto ciò provava Buck con qualche cosa di più profondamente intimo. Correva alla testa del branco, per abbattere la preda selvatica, la carne vivente, per uccidere con i suoi denti e immergere il muso sino agli occhi nel sangue caldo. Vi è un’estasi che segna il culmine della vita, oltre il quale la vita non può andare. E tale è il paradosso della vita, che quest’estasi avvenga quando si è più vivi, come un completo oblìo d’esser vivi. Quest’estasi, quest’oblìo della vita, viene all’artista avvolto e rapito in una gran fiamma; viene al soldato, impazzito nella furia della lotta, che non dà quartiere; e venne a Buck mentre conduceva il branco e risuonava l’antico grido del lupo, sforzandosi egli di raggiungere il cibo ch’era vivente e gli fuggiva leggero dinanzi nella luce lunare. Stava scandagliando le profondità della sua natura, e di parti della sua natura ch’erano più profonde di lui, ritornando nel seno del tempo. Egli era dominato dal fluire impetuoso e puro della vita, dall’onda della marea dell’essere, dalla perfetta gioia di ciascun muscolo separato, da ciascuna articolazione, e da ciascun tendine, in quanto erano tuttociò che non è morte, in quanto erano infiammati e sfrenati, esprimendo se stessi in movimento, volando esultanti sotto le stelle e sopra la faccia di materia morta e immota. Ma Spitz, freddo calcolatore anche nei momenti supremi, lasciò il branco e attraversò una stretta striscia di terra intorno alla quale girava il ruscello. Buck non ignorava la cosa, e quando girò la curva, con il gelido spettro del coniglio che fuggiva innanzi a lui, vide un altro gelido e più grande spettro balzare dalla sponda soprastante il letto del corso d’acqua, proprio innanzi al coniglio. Era Spitz. Il coniglio non poteva tornare indietro, e mentre i bianchi denti gli spezzavano la schiena a mezz’aria, egli strillò terribilmente, come potrebbe strillare un uomo colpito a morte. A quel suono, al grido della Vita che cadeva dall’apice della Vita nella stretta della Morte, l’intero branco alle calcagna di Buck alzò un infernale coro di gioia. Ma Buck non gridò. Non rallentò il suo slancio, ma piombò su Spitz, spalla contro spalla, con tanta violenza da sbagliar la gola. Ruzzolarono insieme più volte nel polviscolo della neve. Spitz balzò in piedi istantaneamente come se non fosse stato gettato a terra, lacerando la spalla di Buck e saltando da un lato. Due volte i suoi denti, batterono insieme, come i denti d’acciaio di una tagliola, mentre indietreggiava per prendere posizione, con le scarne labbra alzate, sibilanti e ringhianti. In un lampo Buck comprese. Era giunta l’ora. Era per la morte. Mentre giravano intorno, ringhiando, con le orecchie basse, cercando intensamente un vantaggio, la scena assumeva per Buck un aspetto familiare. Gli sembrava di ricordare ogni cosa: i boschi bianchi, e la terra, e la luce lunare, e il fremito della battaglia. Al biancore e al silenzio sovrastava una calma spettrale. Non vi era il più debole filo d’aria, nulla si moveva, non tremava foglia; il visibile fiato dei cani s’alzava lentamente e pigramente nell’aria gelata. Avevano spartito rapidamente il coniglio dalle zampe di neve, questi cani ch’erano dei lupi male addomesticati: e s’avvicinavano ora in un cerchio di avida attesa. Essi, pure, erano silenziosi, con gli occhi che scintillavano e i respiri che salivano lentamente nell’aria. Per Buck non era nuova nè strana, quella scena d’altri tempi. Era come se fosse sempre stata la necessaria vicenda delle cose. Spitz era un combattente pratico. Dallo Spitzberg attraverso le Terre Artiche, e per il Canadà e i Barrens, egli s’era battuto con ogni specie di cani ed era riuscito a vincerli. Terribile furia era la sua, ma mai furia cieca. Preso dalla passione di sbranare e distruggere, non dimenticava mai che il suo nemico era preso dalla stessa passione di sbranare e distruggere. Non si lanciava mai all’attacco prima di essere preparato a ricevere un attacco; non attaccava mai prima di avere difeso quell’attacco. Invano Buck si sforzò di affondare i denti nel collo del grosso cane bianco. Ogni qual volta i suoi denti miravano alla carne più soffice, incontravano i denti di Spitz. Denti contro denti, e le labbra erano tagliate e sanguinavano, ma Buck non poteva penetrare nella guardia del suo nemico. Allora si riscaldò e avvolse Spitz in un turbine di attacchi. Ripetutamente tentò di afferrare la gola candida, dove la vita palpitava alla superficie, e ciascuna volta Spitz lo feriva e saltava da un lato. Allora Buck prese a slanciarsi contro Spitz come se mirasse alla gola, improvvisamente piegando la testa da un lato, battendo con la spalla contro la spalla di lui, come un montone, per rovesciarlo. Ma invece di rovesciarlo, la spalla di Buck era lacerata dai denti di Spitz, che balzava subito via leggero. Spitz non era tocco, mentre Buck grondava sangue e respirava affannosamente. La lotta diveniva disperata. E intanto il cerchio silenzioso e lupino attendeva per finire qualsiasi cane soccombesse. Mentre Buck annaspava, Spitz, incominciò a sua volta a lanciarglisi contro, tanto che egli penava a mantenersi in piedi. Una volta Buck cadde, e l’intero cerchio dei sessanta cani balzò in piedi; ma egli si rimise, quasi a mezz’aria, e il circolo si gettò giù ad aspettare. Ma Buck possedeva una qualità fatta per la gloria e la grandezza: immaginazione. Combatteva per istinto, ma poteva combattere pure con la testa. Si lanciò come se volesse ritentare il vecchio colpo di spalla, ma all’ultimo istante s’abbassò rapido rasente la neve e colpì. I suoi denti si chiusero sulla zampa sinistra, anteriore, di Spitz. Si udì uno scricchiolìo d’osso spezzato, e il cane bianco gli tenne testa su tre zampe. Tre volte cercò di rovesciarlo, e poi ripetè il colpo e gli spezzò l’altra zampa davanti. Nonostante la pena e l’impotenza, Spitz lottò disperatamente per tenersi ritto. Vedeva il cerchio silenzioso, con occhi luminosi, lingue a penzoloni e fiati argentei, salire e chiudersi sempre più su di lui, come aveva visto cerchi simili chiudersi su vinti antagonisti nel passato. Soltanto questa volta egli era il vinto. Non vi era alcuna speranza per lui. Buck era inesorabile. La compassione era una cosa serbata per climi più miti. Preparò l’ultimo attacco. Il cerchio s’era ristretto tanto ch’egli poteva sentire l’alito degli _kuskies_ ai suoi fianchi. Poteva vederli, oltre Spitz e da ogni lato, mezzi rannicchiati per lanciarsi, con gli occhi fissi su lui. Seguì come una pausa. Ogni animale era immobile, come pietrificato. Soltanto Spitz tremava col pelo irsuto mentre barcollava, ringhiando terribilmente e minacciosamente, come se volesse spaventare la morte imminente. Alla fine, Buck balzò avanti e balzò indietro, ma in quell’ultimo balzo in avanti egli aveva alla fine raggiunta la gola del suo nemico. L’oscuro cerchio divenne un punto sulla neve innondata dalla luce lunare, allorchè Spitz scomparve. Buck rimase da un lato a guardare, campione fortunato, primordiale bestia dominante che aveva ucciso e che aveva trovato piacere nell’uccidere. CAPITOLO IV. COLUI CHE HA GUADAGNATO IL PRIMATO. — Eh! Che dicevo? Dicevo il vero quando asserivo che Buck vale per due diavoli. Fu questo il discorso di François la mattina dopo, quando scoprì che mancava Spitz e che Buck era coperto di ferite. Lo tirò vicino al fuoco e alla luce del fuoco mostrò le ferite. — Quello Spitz combatte come un diavolo, — disse Perrault, mentre esaminava gli squarci e i tagli. — E questo Buck combatte come due diavoli. — fu la risposta di François. — Ed ora potremo guadagnar tempo. Non più Spitz, non più disordine, per certo. Mentre Perrault impaccava gli attrezzi dell’accampamento e caricava la slitta, il conducente incominciò a porre i finimenti ai cani. Buck trottò subito al posto che Spitz avrebbe occupato come capo del tiro; ma François, non badando ad esso, condusse Sol-leks alla bramata posizione. A suo giudizio, Sol-leks era il miglior cane che rimaneva per dirigere il tiro. Buck si slanciò furioso su Sol-leks, spingendolo via e prendendone il posto. — Eh? eh? — gridò François battendo le mani allegramente. — Guardate un po’ Buck. Ha ucciso Spitz, e crede ora di prenderne il posto. — Via! via di qui, stupido! — gridò, ma Buck non si mosse. Afferrò Buck per la collottola del collo, e benchè il cane ringhiasse minacciosamente, lo trascinò da un lato e rimise a posto Sol-leks. Il vecchio cane non era punto contento, e mostrava chiaramente che aveva paura di Buck. François era cocciuto, ma quando voltò le spalle, Buck scacciò via nuovamente Sol-leks, che era contento di andarsene. François si stizzì. — Ora, perdio! t’insegno io a ubbidire! — gridò, ritornando con una pesante mazza in mano. Buck, che ricordava l’uomo dalla maglia rossa, si ritirò lentamente, nè ritentò di scacciare Sol-leks quando fu rimesso a posto. Girava intorno, fuori del tiro della mazza, ringhiando furiosamente e amaramente; e mentre girava intorno, teneva d’occhio la mazza per schivarla se mai François gliela avesse gettata contro, giacchè era diventato saggio nei rapporti con le mazze. Il conducente continuò i suoi preparativi, e chiamò Buck quando fu il momento di porlo al vecchio posto davanti a Dave. Buck indietreggiò di due o tre passi. François lo seguì, ma il cane continuò a indietreggiare. Dopo un po’ di questo gioco, François depose la mazza, pensando che Buck temesse d’essere picchiato, ma Buck era, invece, in piena rivolta. Non voleva sfuggire alla mazza, ma avere il comando del tiro. Gli apparteneva di diritto. Se l’era guadagnato, e non avrebbe rinunciato. Perrault venne a dare una mano a François. Tutt’e due lo rincorsero per quasi un’ora. Gli gettarono mazze: egli le schivò. Lo maledirono, e maledirono i suoi genitori, e la sua semente sino alle più remote venture generazioni, e tutti i peli del suo corpo e ogni goccia di sangue delle sue vene; ed egli rispondeva ad ogni maledizione con ringhi e si teneva lontano dal loro raggio d’azione. Egli non cercò di scappare, facendo intendere chiaramente che quando l’avessero accontentato, sarebbe rientrato al suo posto e sarebbe stato buono. François alla fine si sedette grattandosi la testa. Perrault guardò l’orologio e bestemmiò. Il tempo fuggiva, ed essi avrebbero dovuto essere in cammino già da un’ora. François si grattò nuovamente la testa. La scrollò e fece una smorfia di malcontento al corriere, il quale scrollò le spalle, significando ch’erano vinti. Poi François si avvicinò a Sol-leks e chiamò Buck. Buck rise, come ridono i cani, ma tuttavia si tenne a distanza. François staccò i tiranti da Sol-leks e rimise questo al suo solito posto. La slitta, ora, era pronta per partire, coi cani in fila, l’uno dietro l’altro. Non v’era posto per Buck, tranne che in testa. Ancora una volta François lo chiamò e ancora una volta Buck rise e rimase dov’era. — Getta via la mazza. — gli ordinò Perrault. François ubbidì, e allora Buck accorse trottando, ridendo trionfalmente, e si girò, in posizione di tiro, alla testa della fila dei cani. Fu attaccato ai tiranti, e la slitta, liberata dalla presa del ghiaccio, filò via lungo la traccia sul fiume, con i due uomini che le correvano dietro. Per quanto il conducente di cani avesse già dato un gran valore a Buck, con i suoi due diavoli, pure egli trovò, sin dal principio di quella giornata, che non l’aveva valutato al giusto. In un balzo, Buck aveva assunti tutti i compiti del cane di testa; mostrandosi, dove bisognava giudizio, pronto a pensare e pronto ad agire; dimostrandosi persino superiore a Spitz, del quale François non aveva mai visto l’eguale. Ma nell’obbedire alla legge e nel farla rispettare dai suoi compagni soprattutto, Buck primeggiava. Dave e Sol-leks erano indifferenti al mutamento del capo. Non era faccenda che li riguardasse. Il loro compito era di tirare, e tiravano poderosamente, e finchè non erano impediti nella loro fatica, non importava a loro che cosa accadesse. Anche se fosse stato messo alla testa del tiro Billee, l’amabile, essi non avrebbero fatto alcuna opposizione, purchè tenesse l’ordine. Il resto del tiro, tuttavia, era diventato indisciplinato durante gli ultimi giorni di Spitz, e la sorpresa fu grande quando Buck incominciò a porre ordine, punendo senza misericordia. Pike, che tirava alle calcagna di Buck, e che non metteva mai un’oncia di più del suo peso di quanto bisognasse contro il pettorale, fu rapidamente e ripetutamente punito per la sua neghittosità: così che prima della fine del primo giorno di viaggio egli tirava come non aveva mai tirato durante tutta la sua vita. La prima notte nell’accampamento, Joe, il maligno, fu punito esemplarmente, cosa che Spitz non era riuscito mai a fare. Buck lo debellò semplicemente per virtù del suo maggior peso, e lo coprì di morsi finchè alla fine smise di ringhiare e incominciò a mugolare chiedendo misericordia. Il tono generale del tiro migliorò immediatamente; ricuperò la solidarietà di un tempo, e ancora una volta i cani tiravano come un sol cane. Alle Ruik Rapids furono aggiunti due _kuskies_ nativi, Teck e Koona: e la celerità con la quale Buck li istruì alla disciplina del tiro, tolse il respiro a François. — Mai c’è stato un cane come Buck! — esclamò egli. — No, mai! Vale un migliaio di dollari, perdio! Eh! Che ne dici, Perrault? Perrault confermò con un cenno del capo. Era già in vantaggio sul _record_ di velocità, e guadagnava ogni giorno. Il sentiero era in eccellenti condizioni, ben battuto e duro, e non era caduta della nuova neve che rendesse più difficile il cammino della slitta. Non faceva troppo freddo: la temperatura, scesa a cinquanta Fahrenheit sotto zero, rimase tale per tutto il resto del viaggio. Gli uomini correvano o andavano sulla slitta, a turno, e i cani erano mantenuti al galoppo, tranne rare fermate. Poichè il Fiume delle Trenta Miglia era relativamente coperto di ghiaccio, percorsero in un giorno il cammino per il quale nell’andata avevano impiegato dieci giorni. In una sola corsa percorsero le sessanta miglia che separano il Lago Le Barge dalle Cascate del Cavallo Bianco. Attraverso Marsh, Tagish e Bennett (settanta miglia di laghi) volarono con tale velocità, che l’uomo, cui toccava correre, si fece rimorchiare, attaccato con una corda della slitta. E nella notte della seconda settimana raggiunsero la sommità del Passo Bianco e scesero il ripido pendio verso il mare, con le luci di Skaguay e delle navi ai loro piedi. Avevano raggiunto il _record_ della rapidità. Per quattordici giorni avevano percorso, in media, quaranta miglia al giorno. Per tre giorni Perrault e François si pavoneggiarono su e giù per la via principale di Skaguay ed erano affogati sotto un diluvio d’inviti a bere, mentre il tiro era il centro costante di una folla di adoratori della prodezza e valentia canina. Poi tre o quattro malandrini occidentali tentarono di mettere a sacco la città, e furono massacrati, e l’interesse del pubblico passò ad altri idoli. Vennero poi degli ordini governativi. François chiamò a se Buck, gli gettò le braccia al collo e pianse, e fu l’ultima volta che il cane vide François e Perrault. Come altri uomini, essi scomparvero per sempre dalla vita di Buck. Un uomo di sangue mezzo scozzese prese in consegna i cani, e in compagnia di una dozzina d’altri cani da tiro, Buck riprese la faticosa via per Dawson. Non era una corsa leggera o rapida da _record_, ora, ma un duro lavoro d’ogni giorno, con un carico pesante dietro; chè quello era il corriere postale ordinario che portava notizie dal mondo agli uomini che cercavano oro, all’ombra del Polo. A Buck non piaceva quel nuovo lavoro, ma egli lo sopportava coraggiosamente, provando orgoglio in esso, alla maniera di Dave e di Sol-leks, e sorvegliando che i suoi compagni, prendessero amore o non al lavoro, facessero la loro parte di fatica. Era una vita monotona, che procedeva con la regolarità di una macchina. I giorni s’assomigliavano. Ogni mattina, ad una certa ora, i cucinieri apparivano, venivano accesi fuochi, ed era fatta colazione. Poi, mentre alcuni toglievano l’accampamento, altri attaccavano i cani ed erano già in viaggio da un’ora e più prima che calassero le tenebre che annunciano l’aurora. Alla sera s’accampavano. Alcuni piantavano le tende, altri tagliavano legna da ardere o rami di pini per i letti, e altri ancora trasportavano acqua o ghiaccio per i cucinieri. Davano, inoltre, da mangiare ai cani, per i quali il pasto serale costituiva l’avvenimento più importante della giornata, benchè fosse pure piacevole vagare per l’accampamento, dopo mangiato il pesce, per un’ora e più con gli altri cani, un centinaio circa. Tra essi vi erano dei terribili combattenti, ma tre battaglie con i più temibili diedero il primato a Buck, sicchè quand’egli arruffava il pelo e mostrava i denti tutti lo evitavano. Più di tutto, forse, egli amava starsene accanto al fuoco accovacciato sulle gambe posteriori, con le anteriori tese innanzi, la testa alta, e gli occhi socchiusi fissi in sogno sulle fiamme. Qualche volta pensava alla grande casa del Giudice Miller, nella soleggiata Valle di Santa Clara e alla vasca di cemento per il nuoto, e a Isabella, la messicana senza pelo, e a Toobs, il cane giapponese; ma più spesso ripensava all’uomo dalla maglia rossa, alla morte di Curly, alla grande lotta con Spitz, e alle buone cose che aveva mangiato e che avrebbe desiderato di mangiare. Non soffriva nostalgia: la Terra del Sole era molto lontana ed incerta, e quelle memorie non avevano alcun potere su di lui. Molto più potenti erano le memorie ereditarie che davano a cose che non aveva ancora viste un aspetto familiare; gli istinti (che non erano altro che le memorie dei suoi antenati divenute abitudini) già assopiti in lui, si ravvivano e tornavano in vita. Talvolta, mentre stava là accovacciato a guardare con gli occhi socchiusi e persi in sogni le fiamme, sembrava che le fiamme appartenessero ad un altro fuoco, e che mentre egli era accovacciato a quest’altro fuoco vedesse un altro uomo, diverso dal cuoco di razza mista che gli stava, in realtà, innanzi. Quest’altro uomo aveva le gambe più corte e le braccia più lunghe, con muscoli che erano fibrosi e nodosi anzichè rotondi e gonfi. I capelli di quest’uomo erano lunghi e appiccicati, e la testa sfuggente. Emetteva strani suoni, e sembrava avesse terrore delle tenebre, nelle quali spiava continuamente, stringendo in una mano, che arrivava a metà tra le ginocchia e i piedi, un bastone con un sasso pesante infisso all’estremità. Era quasi interamente nudo, con una pelle a brandelli e abbruciacchiata, gettata sulle spalle, ma il corpo era molto peloso. In alcuni punti, attraverso il petto e le spalle e lungo la parte esterna delle braccia e delle cosce, il pelo era folto da divenire quasi una pelliccia. Non stava eretto, ma col tronco inclinato in avanti dai fianchi, su gambe che si piegavano ai ginocchi. Il suo corpo animato da una speciale elasticità, o possibilità di contrazioni e di scatti, quasi da gatto, era sempre vigilissimo, come di chi viva in perpetua paura delle cose visibili e invisibili. Altre volte quest’uomo peloso si rannicchiava accanto al fuoco, con la testa tra le gambe, e dormiva. In tali occasioni teneva i gomiti sui ginocchi, le mani congiunte sulla testa come per difendersi dalla pioggia colle braccia pelose. E, oltre quel fuoco, nelle circostanti tenebre, Buck poteva scorgere molti carboni accesi, a due a due, sempre a due a due, che egli sapeva erano gli occhi delle grandi bestie da preda. E poteva udire il ruinare dei loro corpi tra l’alta vegetazione, e i rumori che facevano nella notte. E sognando sulla riva dello Yukon, con pigri occhi socchiusi fissi sul fuoco, questi suoni e visioni di un altro mondo gli facevano rizzare lungo la schiena i peli che diventavano irsuti sul collo, sino a che gemeva basso e soffocato o ringhiava dolcemente, e il cuciniere di razza mista gli gridava: — Ehi! Buck, svegliati! — Allora l’altro mondo svaniva e il cane apriva gli occhi sul mondo reale, e s’alzava e sbadigliava e si stendeva come se veramente avesse dormito. Il viaggio era così faticoso, con la posta da tirare, che il duro lavoro li rese esausti. Erano diminuiti di peso e in cattive condizioni, quando arrivarono a Dawson, e avrebbero dovuto avere almeno una settimana o dieci giorni di riposo; ma due giorni dopo riscendevano la riva dello Yukon dalle Barracks, carichi di lettere per la gente di fuori. I cani erano stanchi, i conducenti brontolavano, e per aggravare le cose, nevicava ogni giorno. Le conseguenze erano: un terreno molle, maggiore attrito per gli strisci, e maggiore fatica per i cani nel tirare; tuttavia i conducenti si mostrarono giusti durante l’intero viaggio, e fecero del loro meglio per gli animali. Ogni notte le prime cure erano per i cani. Essi mangiavano prima dei conducenti, e nessun uomo pensava di coricarsi prima di avere esaminate le zampe dei propri cani. Tuttavia, i cani perdettero le loro forze. Sin dal principio dell’inverno avevano percorso mille ottocento miglia, trascinando slitte per tutta la faticosa distanza; e mille ottocento miglia lasciavano una profonda impronta anche sugli organismi più induriti alle fatiche. Buck resisteva, tenendo i suoi compagni al lavoro e mantenendo disciplina, benchè egli, pure, fosse molto stanco. Billee si lamentava e sussultava ogni notte durante il sonno. Joe era bisbetico più che mai, e Sol-leks era inabbordabile, tanto dal lato dell’occhio cieco che dall’altro lato. Ma era Dave che soffriva più d’ogni altro. Doveva avere qualche malanno. Divenne sempre più cupo e irritabile, e quando s’accampavano, faceva subito la sua buca per dormire e il conducente andava a dargli il pasto nella buca. Una volta fuori dai finimenti s’accasciava e non si rialzava più sino all’ora di essere attaccato, al mattino, alla slitta. Talvolta, in cammino, quando era scosso da un improvviso arresto della slitta, o si forzava per smuoverla, gridava di pena. Il conducente l’esaminò ma non potè trovar nulla. Tutti i conducenti s’interessarono al caso: ne parlavano durante i pasti, e durante le loro ultime pipate prima di coricarsi. Una sera tennero consulto. Dave fu condotto fuori del suo ricovero al fuoco, e fu toccato e tastato sinchè gridò più volte. Qualche cosa c’era che gli faceva male, ma non poterono trovare alcun osso spezzato, nè altra ragione del male. Quando raggiunsero Cassiar Bar, il povero cane era così debole che cadde ripetutamente sotto i tiranti. Lo scozzese di sangue misto fece fare una fermata e levò Dave dal tiro, ponendo sotto la slitta, al posto di esso, Sol-leks, ch’era il secondo del tiro. L’intenzione del conducente era di fare riposare Dave, lasciandolo correre libero dietro la slitta. Malato com’era, Dave soffriva di essere tolto dal tiro, brontolando e ringhiando mentre lo staccavano, e mugolando, col cuore spezzato, quando vide Sol-leks nel posto ch’egli aveva tenuto amorosamente per tanto tempo. Chè egli aveva l’orgoglio del cammino e del tiro, e, quasi moribondo, non poteva sopportare che un altro cane facesse il suo lavoro. Quando la slitta s’avviò, si dibattè nella neve lungo la via battuta, attaccando con i denti Sol-leks, lanciandoglisi addosso e cercando di farlo ruzzolare dall’altra parte della neve soffice, sforzandosi di saltare tra i tiranti e di porsi tra lui e la slitta, e tutto il tempo ululando e abbaiando e piangendo di dolore e di pena. Il conducente cercò di allontanarlo con la frusta; ma il cane non badava al bruciore delle frustate, e l’uomo non aveva coraggio di colpirlo più forte. Dave non volle correre tranquillamente seguendo la traccia dietro la slitta, dove era agevole andare, ma continuò ad affaticarsi lungo la slitta nella neve soffice, dove era straordinariamente difficile procedere, finchè fu esausto. Allora cadde, e rimase lì, ululando lugubremente, mentre la lunga fila delle slitte gli passava innanzi. Con le forze che gli rimanevano, riuscì a trascinarsi barcollando dietro le slitte finchè non fu fatta una nuova fermata e allora si lanciò sino alla sua slitta, e si fermò al fianco di Sol-leks. Il conducente di questa indugiò un momento ad accendere la pipa dall’uomo che veniva dietro a lui: poi ritornò sui suoi passi e diede il via ai cani. Essi balzarono innanzi, con notevole facilità, senza sforzo alcuno; volsero le teste dubbiosi e si fermarono sorpresi. Anche il conducente era stupito: la slitta non s’era mossa. Egli chiamò i suoi compagni a osservare l’accaduto. Dave aveva spezzato coi denti tutt’e due i tiranti di Sol-leks, e stava davanti alla slitta, al suo posto. Egli supplicò con gli occhi perchè lo lasciassero là. Il conducente era perplesso. I suoi compagni raccontavano come un cane può avere il cuore spezzato se gli venga negato il lavoro che l’uccide, e ricordavano casi in cui cani, troppo vecchi o feriti, erano morti perchè erano stati tolti dal tiro. Inoltre, ritenevano che era un atto di pietà, poichè Dave doveva in ogni caso morire, lasciarlo morire sotto il tiro, a cuor leggero e contento. Sicchè gli furono rimessi i finimenti ed egli ricominciò a tirare orgoglioso come un tempo, benchè più di una volta gridasse involontariamente, per il dolore del male interno. Parecchie volte cadde e fu trascinato dai tiranti, e una volta la slitta lo travolse, sicchè da allora in poi zoppicò ad una gamba posteriore. Ma resistette fino a che non pervennero all’accampamento, e il conducente fece un giaciglio accanto al fuoco. All’alba, era troppo debole per viaggiare. Al momento di attaccare la slitta, cercò di trascinarsi sino al suo conducente. Con sforzi convulsi riuscì a porsi in piedi, barcollò e cadde. Allora si trascinò penosamente e lentamente sino al luogo dove stavano ponendo i finimenti ai suoi compagni. Metteva innanzi le sue zampe anteriori e trascinava il suo corpo con un movimento sussultorio: poi rimetteva innanzi le zampe, e ancora si trascinava per qualche pollice. Sinchè le forze non l’abbandonarono, alla fine, e i suoi compagni non lo videro per l’ultima volta boccheggiante nella neve, e anelante verso di loro. Poterono udire il cane che ululava lugubremente finchè non scomparvero dietro una fila di alberi, lungo il fiume. Là furono fermate le slitte. Lo scozzese di sangue misto ritornò lentamente sui suoi passi all’accampamento che avevano lasciato. Gli uomini cessarono di parlare. Risuonò un colpo di rivoltella. L’uomo ritornò in fretta. Schioccarono le fruste, tintinnarono gaiamente i sonagli e le slitte scivolarono lungo la traccia; ma Buck sapeva, e tutti i cani sapevano, ciò che era accaduto dietro la fila degli alberi. CAPITOLO V. LA FATICA DEL TIRO E DEL CAMMINO. Trenta giorni dopo aver lasciato Dawson, il Corriere dell’Acqua Salata, con Buck e compagni di tiro, arrivò a Skaguay. Essi erano in uno stato deplorevole, stanchi e mal ridotti. Il peso di Buck era sceso da centoquaranta libbre a centoquindici. Gli altri suoi compagni, benchè cani meno pesanti, avevano perduto relativamente più peso di lui. Pike, il finto ammalato, il quale, durante la sua vita d’inganni, era riuscito spesso a simulare con buon successo una zampa malata, zoppicava ora sul serio. Anche Sol-leks zoppicava, e Dub soffriva per un’orribile piaga alle spalle. Avevano tutti le zampe terribilmente rovinate. Non potevano più nè lanciarsi nè saltare. Le loro zampe battevano il sentiero pesantemente, agitando penosamente i corpi e raddoppiando la fatica d’ogni giorno di viaggio. I cani non erano malati, ma mortalmente stanchi, non della stanchezza mortale che consegue a uno sforzo eccessivo ma breve, dalla quale ci si rimette dopo poche ore; ma di quella stanchezza mortale che succede a un lento e prolungato esaurimento di forze, per fatiche durate mesi. Non vi era più alcuna possibilità di riprendersi, nè riserva di forza a cui ricorrere. Era stata tutta consumata sino all’ultima particella. Non v’era muscolo, fibra, cellula, che non fosse stanca, stanca morta. E c’era bene il motivo. In meno di cinque mesi avevano percorso duemila cinquecento miglia; e durante le ultime mille e ottocento miglia non avevano avuto che cinque giorni di riposo. Quando arrivarono a Skaguay, essi potevano appena reggersi in piedi. Era molto se riuscivano a tener tesi i tiranti. Nelle discesa potevano appena tenersi fuori dal percorso della slitta. — Coraggio, avanti, povere zampe malate! — l’incoraggiava il conducente, mentre percorrevano barcollando la strada principale di Skaguay. — Questo è l’ultimo sforzo. Poi avremo un lungo riposo. Eh? Certo! Un incredibile lungo riposo. I conducenti s’attendevano fiduciosi una lunga fermata. Essi stessi avevano percorso mille duecento miglia, con soli due giorni di riposo, e nel campo della ragione e della comune giustizia, essi meritavano un periodo completo di riposo. Ma erano tanti gli uomini corsi nel Klondike, e tante le fidanzate, le mogli e i parenti rimasti indietro, che l’importanza del congestionato corriere assumeva delle proporzioni enormi; inoltre, vi erano degli ordini ufficiali. Nuove consegne di cani dovevano aver luogo alla Baia di Hudson per sostituire i cani non più utili per il tiro. I conducenti dovevano liberarsi di quelli che non erano più buoni a nulla, e, poichè i cani valgono ben poco al confronto dei dollari, dovevano venderli. Passarono tre giorni, durante i quali Buck e i suoi compagni si resero conto di tutta la loro stanchezza e debolezza. Poi, la mattina del quarto giorno, giunsero due uomini dagli Stati Uniti e comprarono cani e finimenti, per una canzone. I due uomini si chiamavano tra loro «Rico» e «Carlo». Carlo era un omino di mezza età, biancastro di carnagione, con degli occhi deboli e acquosi e baffi vigorosamente e terribilmente rivolti in sù, nascondendo le labbra cadenti e floscie. Rico era giovane, tra i diciannove e i vent’anni, e aveva alla cintura, ben carica di cartucce, una grossa rivoltella «Colt» e un coltello da caccia. Quella cintura era la cosa che più risaltava in quel giovane, di cui rivelava subito la durezza, una durezza estrema e indicibile. Entrambi erano evidentemente fuori di posto, e il fatto che gente come loro s’avventurasse nelle regioni nordiche fa parte del mistero incomprensibile delle cose di questo mondo. Buck udì mercanteggiare, vide il denaro passare dalle mani dell’uomo nelle mani dell’agente del Governo, e comprese che il conducente mezzo-scozzese e quelli del corriere scomparivano dalla sua vita, dietro le calcagna di Perrault e di François e di quelli che erano scomparsi prima di loro. Allorchè fu condotto con i suoi compagni all’accampamento dei nuovi padroni, Buck vide un gran disordine e una grande trascuratezza: la tenda mezza tesa, piatti sporchi, tutto sottosopra; vide pure una donna. Gli uomini la chiamavano Mercede. Era la moglie di Carlo e la sorella di Rico: nell’assieme, formavano una bella famiglia. Buck li guardò con apprensione, mentre tiravano giù la tenda e caricavano la slitta. Facevano dei grandi sforzi, ma non avevano alcun metodo o pratica. Rotolarono la tenda così malamente, che formava un fagotto tre volte più grande di quello che avrebbe dovuto essere. I piatti di latta furono riposti senza lavarli. Mercede era sempre tra i piedi dei due uomini e continuava a ciarlare senza interruzione, ammonendo e consigliando. Quando misero un sacco di panni sul davanti della slitta, essa suggerì che il sacco dovesse andare sulla parte posteriore; e quando essi misero il sacco sulla parte posteriore della slitta e lo coprirono con un paio d’altri fagotti, essa s’accorse d’aver lasciato fuori altri oggetti che non potevano essere posti che proprio in quel sacco; ed essi dovettero scaricare nuovamente. Tre uomini da una tenda vicina uscirono a guardare i preparativi, sghignazzando e ammiccando tra loro. — Voi avete già un bel carico, — osservò uno di essi: — Non tocca a me a insegnarvi quello che dovete fare, ma, se fossi in voi, non porterei dietro la tenda. — Fu mai sognata una cosa simile! — esclamò Mercede, alzando le braccia con atto di candido stupore. — Come diavolo potrei mai fare senza della tenda? — È primavera, e non avrete più tempi freddi. — rispose l’uomo. Elusa scrollò il capo, decisa, e Carlo e Rico misero le ultime cose su quel carico immenso. — Credete che potrà camminare? — chiese uno degli uomini. — Perchè no? — domandò Carlo, piuttosto brusco. — Oh, va bene, va bene, — s’affrettò a dire l’uomo in tono sommesso. — Pensavo soltanto se poteva, ecco tutto. Mi sembrava alquanto pesante. Carlo attaccò i cani ai tiranti, quanto meglio potè, ma non nel modo migliore. — E, naturalmente, i cani non possono andare avanti tutto il giorno con quel peso dietro. — affermò un secondo uomo. — Certamente — disse Rico, con gelida cortesia, afferrando la stanga di destra con una mano e agitando la frusta con l’altra. — Avanti! — gridò. — Avanti, ehi! I cani si lanciarono tendendo le cinghie del pettorale, fecero dei grandi sforzi per un momento, e poi si rilassarono: erano incapaci di muovere la slitta. — Lazzaroni bruti, vi mostrerò io! — gridò egli facendo l’atto di frustarli. Ma Mercede s’interpose, gridando: — Oh, Rico, non devi picchiarli, — e gli afferrò la frusta, e gliela strappò di mano. — Poverini! Ora tu devi promettermi che non sarai duro con loro per tutto il resto del viaggio, o io non vado un passo avanti. — Ah! tu ne sai qualche cosa dei cani, — sghignazzò il fratello. — Vorrei che tu mi lasciassi un po’ in pace. Sono lazzaroni, ti dico, e tu devi frustarli se vuoi ottenere qualche cosa da loro. Questa è la maniera. Domandalo a chi vuoi. Domandalo ad uno di questi uomini. Mercede guardò, come implorando, gli uomini, con indicibile espressione di ripugnanza per la sofferenza, sul suo volto grazioso. — Sono deboli come l’acqua, se volete saperlo, — rispose uno degli uomini. — Assolutamente sfiniti. Ecco il loro male. E hanno bisogno di riposo. — Crepi il riposo, — esclamò Rico, muovendo il suo mento imberbe, mentre Mercede emetteva un — Oh! — di pena e di dispiacere, all’esclamazione del fratello. Ma poichè era una creatura che parteggiava ciecamente per i suoi, s’affrettò a dire, puntigliosa, in difesa del fratello: — Non badare a quello che dice. Tu conduci i nostri cani, e devi fare quanto credi meglio. La frusta di Rico s’abbattè nuovamente sui cani. Essi tesero nuovamente i pettorali, puntarono i piedi sulla neve battuta, s’incurvarono su di essa, e impegnarono tutta la loro forza. Ma la slitta tenne duro, come se fosse un’ancora. Dopo due di quegli sforzi, i cani si fermarono, ansanti. La frusta fischiava furiosamente, allorchè Mercede s’interpose nuovamente. Cadde in ginocchio davanti a Buck, con lagrime agli occhi, e gli pose le braccia attorno al collo. — Poverino, poverino, poverino — piagnucolò con simpatia, — perchè non tiri forte?... Non saresti frustato. A Buck non piaceva quella donna, ma si sentiva troppo infelice per resisterle; egli sopportò quelle carezze come una parte del miserevole lavoro di quella giornata. Uno degli spettatori, che aveva tenuti i denti stretti per reprimere parole violenti, disse alla fine: — Non perchè m’importi nulla di quanto può succedervi, ma solo per amore dei poveri cani, voglio dirvi che potete aiutarli molto smuovendo la slitta. Gli striscii sono trattenuti dal ghiaccio. Gettatevi con tutto il vostro peso sul timone, a destra e a sinistra, e liberate gli striscii dal ghiaccio. Fu fatto un terzo tentativo, ma questa volta, seguendo il consiglio, Rico ruppe la neve che si era ghiacciata intorno agli striscii, e la troppo carica e male accomodata slitta scivolò, mentre Buck e i suoi compagni tiravano disperatamente sotto la pioggia delle frustate. Cento metri innanzi, il sentiero voltava e scendeva ripido lungo la strada principale. Sarebbe occorso un uomo esperto per mantenere ritta la slitta con quei carico; ma Rico non era un uomo esperto. Voltando velocemente l’angolo, la slitta si capovolse, e metà del carico cadde tra le corregge allentate. I cani non si fermarono. La slitta, alleggerita, sobbalzava dietro di loro, piegata su un fianco. I cani erano furiosi per il cattivo trattamento e per il carico eccessivo. Buck era idrofobo: si diede a correre e gli altri del tiro seguirono il suo esempio. Rico gridò: — Oho! Oho!, — ma quelli non gli badarono. Egli inciampò e cadde per terra; e la capovolta slitta gli passò sopra, e i cani volarono su per la strada, aumentando il divertimento di Skaguay con lo spargere il resto del carico lungo la via principale della città. Dei cittadini di buon cuore fermarono i cani e raccolsero gli sparsi indumenti. Essi diedero pure qualche consiglio. Era necessario ridurre il carico di metà e aumentare del doppio i cani, se volevano proprio arrivare a Dawson; fu detto. Rico, sua sorella e suo cognato ascoltarono mal volentieri, ripiantarono la tenda e riesaminarono il loro equipaggiamento. Tirarono fuori delle scatole di carne conservata che fece ridere i presenti; essendo la carne conservata, sul Long Trail, una cosa neppure da sognarsi. — Coperte per albergo, — disse uno degli uomini ridendo ed aiutando. — La metà di queste coperte è già di troppo; liberatevene. Gettate via quella tenda, e tutti quei piatti. Chi li laverebbe, poi? Dio buono, credete di viaggiare in un treno di lusso? E così seguì l’inesorabile eliminazione del superfluo. Mercede si mise a piangere quando i sacchi d’indumenti furono vuotati per terra, e furono scartati i suoi oggetti, uno dopo l’altro. Piangeva, e specialmente su ogni cosa scartata. Piegata in due, con le mani ai ginocchi, si dondolava avanti e indietro col cuore affranto. Affermava che non sarebbe andata avanti di un passo, neppure per una dozzina di Carli. S’appellava a tutti e a tutto, e, alla fine, s’asciugò gli occhi e incominciò a gettar via persino oggetti di vestiario ch’erano indispensabili. E così indurita, quando finì di gettar via le proprie cose, incominciò a prendersela con le cose dei suoi uomini, che fece volare tutte come sotto un uragano. Ciò fatto, l’equipaggiamento, benchè ridotto della metà, formava ancora un cumulo formidabile. Carlo e Rico uscirono, la sera, e comprarono sei cani _esterni_. Questi, aggiunti ai sei del tiro originale, e con Teck e Koona, _huskies_ ottenuti al Rink Rapids, nel viaggio _record_, formarono un tiro di quattordici cani. Ma i cani _esterni_, benchè allenati al lavoro, quasi dal momento del loro sbarco, non valevano molto. Tre erano bracchi dal pelo corto; uno era un terranova, e gli altri due erano bastardi di razza indeterminata. Sembrava che non sapessero nulla, questi nuovi venuti. Buck e i suoi compagni li guardarono con disgusto; ma Buck sebbene insegnasse loro rapidamente i loro posti e quanto non dovevano fare, non poteva insegnar loro tutto ciò che dovevano fare. Non s’adattavano volentieri al tiro e al cammino. Tranne i due bastardi, essi erano storditi e avviliti dal selvaggio ambiente in cui si trovavano, e per il cattivo trattamento ricevuto. I due bastardi non avevano punto spirito; tutta la loro sensibilità si riduceva alle ossa Con i nuovi venuti incapaci e smarriti, e il vecchio tiro esausto per duemila e cinquecento miglia d’ininterrotto cammino, le previsioni erano tutt’altro che liete. I due uomini, tuttavia erano allegrissimi, e orgogliosi per giunta; perchè facevano le cose da gran signori, con quei quattordici cani. Avevano visto altre slitte partire oltre il Pass, per Dawson, o arrivare da Dawson, ma mai una slitta che avesse tanti cani, quattordici cani! Per la natura dei viaggi artici, vi era una buona ragione perchè quattordici cani non dovessero tirare una slitta: cioè, perchè una slitta non può portare il cibo per quattordici cani. Ma Carlo e Rico non lo sapevano. Essi avevano preparato il viaggio, facendo i calcoli a matita: tanto per un cane, tanti cani, tanti giorni, Q. E. D. Mercede guardava dietro le loro spalle, e approvava col capo: era così semplice! Sul tardi, la mattina dopo, Buck condusse il lungo tiro lungo la strada. Non presentava nulla di vivace, quel tiro; e nè lui nè i suoi compagni mostravano entusiasmo con impeti e strappi. Essi incominciavano il viaggio già mortalmente stanchi. Egli aveva percorsa quattro volte la distanza tra Salt Water e Dawson, e ora, avvilito e stanco com’era, affrontare lo stesso cammino ancora una volta, provava un senso di amarezza. Nè il suo cuore nè quello degli altri cani partecipavano al lavoro. Gli _esterni_ erano timidi e spaventati, gli _interni_ non avevano fiducia nei loro padroni. Buck sentiva vagamente che non c’era da fare affidamento su quei due uomini e su quella donna. Non solo non sapevano fare nulla, ma col passare dei giorni apparve chiaro che non potevano neanche imparare: erano manchevoli in tutto, senz’ordine e senza disciplina. Impiegarono metà della notte per preparare un accampamento disordinato, e metà del mattino per togliere l’accampamento e per caricare la slitta così male, che per il resto della giornata dovevano fermarsi e riassettare il carico. Alcuni giorni, non percorsero neppure dieci miglia. Altri giorni non riuscirono neppure a mettersi in cammino. E in nessun giorno riuscirono a percorrere più della metà del cammino ordinario, quale si computava per stabilire il quantitativo del cibo necessario pei cani. Così era inevitabile che dovessero trovarsi in breve a corto di cibo per i cani. Per giunta, essi affrettarono quel fatto col sovralimentarli, avvicinando così il giorno in cui avrebbero dovuto, per necessità, ridurre, sino all’insufficienza, il cibo per le bestie. I cani esterni, la cui digestione non era stata allenata, da cronica fame, a trarre il massimo alimento dal minimo cibo, avevano un appetito vorace. E quando, per giunta, gli sfiniti _huskies_ tirarono fiaccamente, Rico decise di aumentare la razione normale, ch’egli considerava scarsa. Come se non bastasse tutto ciò, Mercede che, pur con lagrime nei suoi occhi graziosi e un tremito nella voce, era riuscita ad ottenere una maggiore razione pei cani, rubò, dai sacchi, del pesce, e li nutrì di nascosto. Ma Buck e gli huskies avevano bisogno, soprattutto, di riposo. Benchè procedessero molto lentamente, il pesante carico ch’essi trascinavano logorava grandemente le loro forze. Poi venne la nutrizione insufficiente. Rico, un bel giorno, sì dovette convincere della realtà del fatto che il cibo per i cani era per metà consumato, mentre avevano percorso solo un quarto della distanza; e, che, nè per amore nè per danaro, era possibile ottenere altro cibo per i cani. Così, egli ridusse anche la razione normale e cercò di affrettare il viaggio d’ogni giorno. Sua sorella e suo cognato l’assecondavano; ma erano sforzi vani, a causa del loro pesante equipaggiamento e della incompetenza dei conducenti. Sì, era cosa semplice, dare minor cibo ai cani; ma impossibile farli viaggiare più rapidamente, mentre la incapacità dei conducenti a mettersi in viaggio più presto, il mattino, accorciava le ore del viaggio. Non soltanto essi non sapevano come trattare i cani, ma non sapevano come trattare se stessi. Il primo ad andarsene fu Dub. Quel povero ladro incapace com’era, sempre scoperto e punito, era stato tuttavia un fedele lavoratore. La sua penosa piaga alle spalle, non curata e sempre tormentata, peggiorò tanto, che alla fine Rico uccise il cane con un colpo della sua grossa rivoltella «Colt». E poichè è noto, in quei paesi, che un cane esterno muore di fame se alimentato con la semplice razione di un _husky_, i sei cani esterni alle dipendenze di Buck non potevano non morire con mezza razione di quella assegnata di solito a un _husky_. Il terranova se ne andò per primo, seguito dai tre bracchi dal pelo corto: i due bastardi rimasero più a lungo afferrati alla vita, ma anch’essi furono spacciati, alla fine. Giunti a questo punto, tutte le amenità e le belle maniere della terra del Sud scomparvero dalle persone dei tre conducenti. Svestito dal suo fascino romantico, il viaggio artico divenne una realtà troppo dura per il loro vigore e il coraggio maschile e femminile. Mercede cessò di piangere per i cani, troppo occupata a piangere su se stessa e a disputare col marito e col fratello. Quella di altercare, era l’unica cosa di cui non fossero mai stanchi. La loro irritabilità fu causata dalla miseria, e s’accrebbe con essa, raddoppiò e divenne di gran lunga superiore ad essa. La meravigliosa pazienza che viene agli uomini dagli stenti e dai travagli sofferti pel cammino della slitta, e che li fa diventare buoni e gentili di parola, non venne a quei due uomini e a quella donna, i quali non sospettavano neppure che tale pazienza esistesse. Erano duri, perchè soffrivano; avevano male nei muscoli, male nelle ossa, e male negli stessi cuori; e per ciò s’abbandonavano facilmente alle parole irose; e parole dure erano sulle loro labbra al mattino, e parole dure terminavano la loro sera. Carlo e Rico questionavano ogni volta che Mercede ne offriva l’occasione. Ciascuno di loro era convinto di fare più della propria parte di lavoro, e ciascuno non lasciava l’occasione per esprimere questa convinzione. Talvolta, Mercede prendeva le parti di suo marito, e talvolta del fratello. Il risultato era una magnifica e interminabile disputa familiare. Incominciando con una discussione su chi toccasse rompere un po’ di legna per il fuoco (discussione che riguardava soltanto Carlo e Rico) finivano poi col trascinare in essa il resto della famiglia: padri, madri, zii, cugini, gente lontana migliaia di miglia, e alcuni anche morti. Come il giudizio sull’arte di Rico o sulle commedie moderne, che scriveva il fratello di sua madre, avessero a che fare con la necessità di procurarsi un po’ di legna, non è comprensibile; eppure, la disputa si sviava sino a quel punto, o in altra direzione, toccando i pregiudizî politici di Carlo. Che poi la pettegola lingua della sorella di Carlo dovesse influire circa il fuoco da accendere in Yukon, era cosa che pareva ragionevole soltanto a Mercede, che si sfogava copiosamente riuscendo a ficcare sempre, incidentalmente, alcuni particolari spiacevoli riguardanti la famiglia di suo marito. Frattanto, il fuoco non era acceso, l’accampamento rimaneva a metà, e i cani restavano senza cibo. Mercede cullava una speciale afflizione, un risentimento di donna. Graziosa e delicata, ella era stata trattata cavallerescamente, durante tutta la sua vita; ma ora, il trattamento del marito e del fratello era tutt’altro che cavalleresco. Poichè era avvezza ad avere aiuto in tutte le cose, essi se ne lagnavano. E per queste accuse rivolte contro le più essenziali prerogative del suo sesso, essa rendeva le loro vite insopportabili. Ella non aveva più alcun riguardo per i cani, e siccome era stanca e indolenzita, insisteva per voler viaggiare sulla slitta. Era graziosa e delicata, sì, ma pesava cinquanta chili, che costituivano un troppo gravoso colpo per il carico tirato da animali deboli e affamati. Ella si fece portare per dei giorni interi, finchè i cani caddero sfiniti e la slitta si fermò. Carlo e Rico la pregarono di scendere e di camminare, la supplicarono, la minacciarono, mentr’essa piangeva e disturbava il Cielo enumerando le loro brutalità. A un punto, furono costretti a toglierla dalla slitta a viva forza. Ma non lo fecero più. Essa si mise a zoppicare come un bambino viziato e si sedette sulle tracce lasciate dalla slitta, rimanendo così, senza muoversi, mentre essi proseguivano il cammino. Percorse tre miglia, i due furono costretti a scaricare la slitta, a ritornare indietro, a prenderla, e a metterla sulla slitta a viva forza. Era tanta la loro miseria, che divenivano noncuranti delle sofferenze dei loro animali. La teoria di Rico, ch’egli applicava agli altri, era che si doveva essere duri. L’aveva incominciata a predicare alla sorella e al cognato; ma non riuscendo con loro, finì con applicare la teoria, a colpi di mazza, ai cani. Alle _Cinque Dita_, si trovarono senza cibo per i cani. Allora una sdentata vecchia indiana acconsentì a cedere qualche libbra di pelle di cavallo gelata in cambio della rivoltella «Colt» che Rico teneva, col coltello da caccia, nella cintura. Un misero surrogato al cibo era quella pelle, così, com’era stata tolta ai poveri cavalli morti di fame, dal mandriano, sei mesi prima. Così gelata, pareva fatta di striscie di ferro galvanizzato: e formava nello stomaco dei cani, che la mangiavano a stento, come dei sottili spaghi coriacei privi di nutrimento, o masse di corti crini, irritanti e indigesti. Attraverso questo inferno, Buck andava avanti, barcollando, alla testa del tiro, come in un penoso incubo. Tirava quando poteva: quando non ne poteva più, cadeva e rimaneva a terra, finchè i colpi di frusta o di mazza non lo rimettevano in piedi. Tutta la compatta lucentezza del suo magnifico pelo era scomparsa; esso pendeva dal corpo: ora floscio e sporco, o appiccicato di sangue, dove la mazza di Rico aveva ammaccato e ferito la pelle. I suoi muscoli erano deperiti al punto che parevano cordoni a nodi, e i cuscinetti di carne erano scomparsi; sicchè ciascuna costa ed osso del suo corpo appariva chiaramente attraverso la pelle cadente e rugosa. Era in uno stato da spezzare il cuore; ma quello di Buck era infrangibile. L’uomo dalla maglia rossa l’aveva provato. Come Buck erano i suoi compagni: simili a scheletri in movimento. Erano, ora, in sette, compreso Buck. Nella loro grande miseria erano diventati insensibili ai morsi della frusta e alle ammaccature prodotte dalla mazza. La pena delle bastonature era oscura e lontana, come le cose che i loro occhi vedevano e i loro orecchi udivano. Essi non erano mezzi vivi, nè un quarto vivi: ma ridotti a sacchi di ossa in cui palpitavano debolmente dei bagliori di vita. Ad ogni sosta, essi cadevano sulla traccia del cammino come cani morti, e il bagliore di vita s’affievoliva e pareva spegnersi. E quando la frusta o la mazza cadeva su loro, il bagliore si ravvivava debolmente, e si rimettevano traballanti in piedi e andavano avanti barcollando. Un giorno, Billee, l’allegro, cadde e non potè più rialzarsi. Rico invece della rivoltella venduta, prese l’ascia e colpì Billee sulla testa mentre giaceva ancora tra i tiranti, poi tagliò la carcassa fuori dai finimenti e la trascinò da un lato. Buck e i suoi compagni videro, e capirono che lo stesso sarebbe accaduto, fra non molto anche a loro. Il giorno dopo, fu la volta di Koona; cosicchè rimasero cinque cani: Joe, troppo malandato per essere ancora maligno; Pike zoppo e storpio, soltanto mezzo conscio e non conscio abbastanza per fingersi ammalato; Sol-leks, quello da un occhio solo, ancora fedele alla fatica del cammino e del tiro, e malinconico perchè aveva poca forza per tirare; Teek, che non aveva viaggiato tanto quell’inverno, e veniva bastonato più degli altri, perchè era più fresco; e Buck, ch’era ancora alla testa del tiro, ma non costringeva più gli altri alla disciplina nè si sforzava di ottenerla; quasi cieco per la debolezza, cosicchè seguiva il cammino intravedendolo come una incerta penombra, e procedeva ancora, sostenuto da quel poco di vigore rimasto alle sue zampe. Era un magnifico tempo primaverile, ma nè i cani nè le creature umane se ne accorgevano. Ogni giorno, il sole sorgeva più presto e tramontava più tardi: alle tre del mattino spuntava l’alba, e il crepuscolo si prolungava sino alle nove di sera. Tutta la giornata era come una gran fiamma di sole. Lo spettrale silenzio dell’inverno aveva lasciato il posto ai sussurri della primavera e al ridestarsi della vita. I sussurri salivano da tutta la terra, e recavano la gioia del vivere. Venivano dalle cose che erano vive e ritornavano a muoversi, cose che erano state come morte, in letargo, durante i lunghi mesi di gelo. La linfa saliva su per i pini. Dai salci e dalle tremule sbocciavano giovani gemme; i cespugli e le viti selvatiche si rivestivano di verde; i grilli cantavano, la notte; e esseri striscianti e rampicanti, d’ogni genere, uscivano, con infiniti fruscii, al sole. Pernici e picchi risuonavano e picchiettavano nella foresta; gli scoiattoli, cianciavano, gli uccelli cantavano, e sopra il capo s’udivano le anitre selvatiche che venivano dal Sud disposte in abili stormi a cuneo, che tagliavano l’aria. Da ogni pendice giungeva il mormorìo d’acque correnti, la musica d’invisibili fontane. Tutte le cose sgelavano, si piegavano, s’aprivano. Il Yukon si sforzava di rompere il ghiaccio che lo teneva fermo, rodendolo di sotto; mentre il sole rodeva di sopra. Si formavano dei fori d’aria, si aprivano e s’allargavano fessure, mentre sezioni sottili di ghiaccio cadevano intere nel fiume. E in mezzo a tutto questo aprirsi, sbocciare e palpitare di vita che si risvegliava, sotto il sole fiammeggiante e al dolce sospiro delle brezze, come viandanti della morte, barcollavano i due uomini, la donna e gli _huskies_. Coi cani cadenti e Mercede che piangeva sulla slitta, e Rico che bestemmiava, e gli occhi di Carlo terribilmente acquosi, essi entrarono barcollando nell’accampamento di Giovanni Thornton, alla foce del fiume Bianco. Quando si fermarono, i cani caddero come fulminati. Mercede s’asciugò gli occhi e guardò Giovanni Thornton. Carlo si sedette a riposare s’un tronco d’albero: sedette molto lentamente e dolorando, a causa del suo grande indolenzimento. Rico parlò anche per gli altri. Giovanni Thornton stava dando gli ultimi colpi di coltello ad un manico d’ascia che aveva fatto con un pezzo di betulla. Tagliava e ascoltava, e rispondeva con monosillabi, dando, solo quando era richiesto, chiari e concisi consigli. Conosceva quella razza di gente, e dava consiglio con la sicurezza che non sarebbe stato seguito. — Ci hanno detto lassù che il fondo avrebbe ceduto, e che la miglior cosa per noi era attendere, — disse Rico, in risposta all’ammonimento di Thornton di non tornare ad esporsi a pericoli sul cattivo ghiaccio. — Ci hanno detto che non avremmo potuto raggiungere il fiume Bianco, ed eccoci qui. — Quest’ultime parole le pronunciò in tono di dileggio trionfante. — Vi hanno detto la verità, — rispose Giovanni Thornton, — Il fondo può cedere ad ogni momento. Soltanto dei pazzi, assistiti dalla cieca fortuna dei pazzi, possono essere giunti fin qui. Vi dico, francamente, che non rischierei la mia carcassa su quel ghiaccio, per tutto l’oro dell’Alaska. — Forse perchè non siete un pazzo, — disse Rico. — Ciò nonostante, noi proseguiremo per Dawson. — E agitò la frusta. — Su, là, Buck! Ih! ih! Su, là! Avanti! Thornton continuò a levigare il suo manico. Era tempo perso, lo sapeva, interporsi tra un pazzo e la sua pazzia; mentre due o tre pazzi o stupidi di più o di meno non avrebbero mutato la faccia del mondo. Ma i cani non si alzarono al comando. Da lungo tempo ormai erano ridotti in uno stato tale, che a smuoverli e a rialzarli erano necessari dei colpi. La frusta fischiò qua e là, senza pietà. Giovanni Thornton strinse le labbra. Sol-leks fu il primo a levarsi a fatica in piedi. Segui Teek. Poi venne Joe, che ululava dalla pena. Pike fece degli sforzi penosi. Due volte cadde, quand’era già mezzo in piedi, e al terzo sforzo riuscì a levarsi. Buck non fece alcun sforzo. Giaceva tranquillo dove era caduto. La frusta lo colpì ripetutamente, ma egli nè mugolò nè si mosse. Parecchie volte Thornton fece l’atto di voler parlare, ma poi mutò idea. Mentre gli occhi gli s’inumidivano e le sferzate continuavano, egli si alzò e si mise a camminare in su e in giù, irrisoluto. Quella era la prima volta che Buck mancava, ragione sufficiente per far diventare furioso Rico. Egli lasciò la frusta e prese la mazza. Buck rifiutò di alzarsi anche sotto la scarica di pesanti colpi che ora s’abbattevano su lui. Come i suoi compagni, egli aveva appena la forza sufficiente per alzarsi, ma, contrariamente a loro, aveva deciso di non alzarsi. Egli aveva la vaga sensazione del destino che gli sovrastava. Questa sensazione era stata fortissima in lui dacchè era entrato nel banco, e non l’aveva più lasciato. Il ghiaccio sottile e cattivo che sentiva sotto le zampe, tutto il giorno, pareva che gli annunciasse un disastro vicino, e fuori, sul ghiaccio dove il suo padrone cercava di trascinarlo. Rifiutò di muoversi. Egli aveva talmente sofferto, ed era in così cattive condizioni, che i colpi non gli facevano ormai molto male. Mentre essi continuavano a cadere su di lui, quella scintilla di vita che gli rimaneva, vacillò e si spense. Egli era quasi finito: si sentiva stranamente intorpidito. Quei colpi gli arrivavano come da una lunga distanza. Le ultime sensazioni di pena erano scomparse. Egli non sentiva più nulla, tranne, come attutito, l’urto della mazza sul suo corpo, anzi su quello che non pareva più il suo corpo; tanto era lontano. Ma, improvvisamente, in modo inatteso, emettendo un grido inarticolato simile al grido di un animale, Giovanni Thornton balzò sull’uomo che maneggiava la mazza, e Rico fu scaraventato indietro, come colpito dalla caduta di un albero. E mentre Mercede strillava, Carlo guardava pensosamente asciugandosi gli occhi pieni d’acqua, immoto, a causa del suo indolenzimento. Giovanni Thornton stette davanti a Buck, facendo sforzi per dominarsi, troppo agitato dalla collera per parlare. — Se voi colpite ancora una volta questo cane, vi uccido, — riuscì a dire alla fine, con voce rauca. — È il mio cane, — rispose Rico, asciugandosi il sangue dalla bocca mentre ritornava sui suoi passi. — Levatevi d’innanzi, o vi accomodo io. Vado a Dawson. Thornton stava in piedi tra lui e Buck, e non mostrava alcuna intenzione di togliersi di là. Rico tirò fuori il suo lungo coltello da caccia, mentre Mercede strillava, piangeva, rideva, in preda a una crisi d’isterismo. Thornton battè le nocche della mano di Rico col manico dell’ascia, facendo cadere il coltello a terra; e quando l’altro cercò di raccogliere l’arma, picchiò, nuovamente; poi s’abbassò, prese il coltello, e con due colpi tagliò i tiranti di Buck. Rico non aveva più modo di lottare, ma aveva le mani, o, piuttosto, le braccia piene di sua sorella; mentre Buck era quasi finito e non poteva servire pel tiro della slitta. Alcuni minuti dopo uscirono dal banco, e scesero giù per il fiume. Buck li udì andarsene e alzò la testa a guardare. Pike conduceva, Sol-leks era al timone, e tra loro erano Joe e Teek. Zoppicavano e barcollavano. Mercede era adagiata sul carico della slitta. Rico guidava, al timone, e Carlo veniva dietro zoppicando. Mentre Buck li guardava, Thornton s’inginocchiava accanto al cane e con ruvide mani gentili, tastando, cercava di accertarsi se vi fosse qualche osso spezzato. Quando ebbe accertato che il solo male, erano le molte ammaccature e uno stato di terribile sfinimento per fame, la slitta era già a un quarto di miglio lontana. Il cane e l’uomo stettero a guardarla mentre strisciava sul ghiaccio. Improvvisamente videro sprofondare l’estremità posteriore, come in un alto solco, e la stanga, con Rico che la teneva afferrata, agitarsi nell’aria, mentre giungeva ai loro orecchi uno strido di Mercede. Videro Carlo voltarsi e fare un passo per correre indietro, ma in quel momento un’intera sezione del ghiaccio cedette, e cani e creature umane scomparvero. S’era spalancato come un baratro, sotto il ghiaccio, che aveva ceduto al peso della slitta. Giovanni Thornton e Buck si guardarono. — Povero diavolo! — fece Giovanni Thornton, e Buck gli leccò la mano. CAPITOLO VI. PER L’AMORE DI UN UOMO. Quando Giovanni Thornton ebbe un piede gelato, nel precedente dicembre, i soci l’accomodarono bene, e lasciatolo perchè guarisse, andarono lungo il fiume a preparare una zattera di tronchi segati, per Dawson. Egli zoppicava ancora un po’ quando salvò Buck, ma poichè la buona stagione continuava, guarì e cessò di zoppicare. E lì, accovacciato sulla sponda del fiume, durante i lunghi giorni di primavera, guardando l’acqua corrente, ascoltando pigramente i canti degli uccelli e il ronzìo della natura, Buck riguadagnò lentamente le sue forze. Un riposo è veramente salutare, quando si è viaggiato per tremila miglia; infatti bisogna confessare che Buck diveniva pigro a mano a mano che le ferite gli si guarivano, e i muscoli gli si gonfiavano e la carne ricominciava a coprire le sue ossa. In verità, erano tutti placidamente in ozio, Giovanni Thornton, e Skeet e Nig, in attesa della zattera che li portasse sino a Dawson. Skeet, ch’era un piccolo setter irlandese, fece subito amicizia con Buck, il quale, in condizioni d’agonia, era incapace di risentire le prime offerte del cane. Quella bestiola aveva capacità mediche, che alcuni cani possiedono; e come una gatta fa con i micini, essa lavorava e puliva le ferite di Buck. Regolarmente, ogni mattina dopo ch’egli aveva finito il primo pasto, essa sbrigava quel compito prefissosi, tanto ch’egli finì per attendere le cure di essa, come attendeva quelle di Thornton. Nig, egualmente amichevole, benchè meno espansivo, era un immenso cane nero, mezzo segugio e mezzo cerviero, con occhi che ridevano, e illimitato buonumore. Con sorpresa di Buck, quei cani non manifestavano alcuna gelosia verso di lui. Sembravano condividere la bontà e generosità di Giovanni Thornton. A mano a mano che Buck diveniva forte, essi l’allettavano ad ogni sorta di giochi ridicoli, ai quali non poteva fare a meno di partecipare anche Thornton; e in questa maniera Buck passò dalla convalescenza ad una nuova esistenza. Per la prima volta, egli aveva amore, amore genuino e appassionato. Questo sentimento egli non l’aveva mai provato nella casa del giudice Miller, giù nella soleggiata Valle di Santa Clara. Con i figli del giudice, andando alla caccia o a camminare, egli aveva stretto una specie di società; con i nipoti del giudice, esercitato una specie di pomposa tutela; con lo stesso giudice aveva una salda e dignitosa amicizia. Ma amore, che fosse febbre e bruciore, adorazione, pazzia, non l’aveva provato: c’era voluto Giovanni Thornton a suscitarlo. Quest’uomo gli aveva non solo salvata la vita, — il che aveva la sua importanza, — ma, si dimostrava, inoltre un padrone ideale. Mentre altri curavano il benessere dei loro cani per un senso di dovere e per necessità degli affari, egli curava il benessere dei suoi come se questi fossero suoi figlioli; perchè non poteva fare altrimenti. Ed andava oltre. Egli non dimenticava mai una buona accoglienza o una parola di incoraggiamento, e sedeva a conversare a lungo o a «cianciare», — come egli diceva — con gran divertimento suo e dei cani. Egli aveva un modo tutto suo di prendere rudemente la testa di Buck tra le mani, e di posare la sua testa su quella di Buck, scrollandolo in avanti e indietro, chiamandolo con cattivi nomi che per Buck erano nomi d’amore. Buck non conosceva gioia più grande di quel rude abbracciamento e di quelle finte male parole borbottate, e a ciascuna scrollata in avanti e indietro, sembrava che il cuore gli balzasse fuori del corpo, tanto era grande la sua estasi. E quando egli, lasciato libero, balzava in piedi, con la bocca ridente, gli occhi espressivi, la gola vibrante per suoni non pronunciati e rimaneva, così, immobile, Giovanni Thornton esclamava con ammirazione: — Dio! ti manca solo la parola! Buck aveva una forma di esprimere l’amore, che commoveva sino a far male al cuore. Egli afferrava spesso la mano di Thornton in bocca e chiudeva i denti così furiosamente da lasciarne le tracce sin molto tempo dopo. E come Buck capiva che le male parole erano parole d’amore, così l’uomo capiva che quel finto morso era una carezza. Di solito, però, l’amore di Buck era espresso con l’adorazione. Quando Thornton lo toccava o gli parlava, egli impazziva di gioia, ma non mendicava queste prove di affezione. Diversamente da Skeet, che doveva fregare il naso sotto la mano di Thornton e spingere e spingere per essere accarezzato, o da Nig, che avanzava a grandi passi e posava la sua grossa testa sul ginocchio di Thornton, Buck era contento di adorare a distanza. S’adagiava per delle ore ai piedi di Thornton, ansioso e attento, guardandolo in volto, esaminandolo, studiandolo, seguendo col più vivo interesse la più fuggevole espressione, ogni movimento di lineamento. O, come voleva il caso, giaceva lontano, di fianco o accosciato, osservando il contorno della figura dell’uomo o i movimenti del suo corpo. E spesso, tale era la comunione in cui essi vivevano, che lo sguardo di Buck faceva volgere il capo a Thornton, il quale contraccambiava lo sguardo, senza parlare, col cuore che gli luceva negli occhi, come luceva il cuore negli occhi di Buck. Dopo che era stato salvato, Buck non perdeva mai Thornton di vista. Dal momento che questi lasciava la tenda al momento in cui vi rientrava, Buck gli era alle calcagna. Poichè i suoi transitorii padroni gli avevano messo nel cuore il timore che nessun padrone fosse durevole, aveva paura che Thornton svanisse dalla sua vita come Perrault e François e il meticcio scozzese. Persino di notte nei suoi sogni, era perseguitato da questa paura. Allora si scuoteva dal sonno e andava, nel freddo, davanti la tenda, e si fermava ed ascoltava il suono del respiro del suo padrone. Ma nonostante questo suo grande amore per Giovanni Thornton, che sembrava ricordare il morbido influsso della civiltà, la natura primitiva che la terra nordica aveva ridestata in lui, rimaneva viva ed attiva. Con la fedeltà e la devozione, sentimenti nati dal focolare e dal tetto, egli conservava anche la selvatichezza e l’astuzia. Era una creatura di natura selvaggia, venuta dalla selva ad accovacciarsi al fuoco di Giovanni Thornton, anzichè un cane della mite terra del Sud, con i segni di generazioni civili. Il suo grande amore gli impediva di rubare a quell’uomo, ma di fronte a qualunque altro uomo in qualsiasi altro accampamento, egli non avrebbe esitato un momento; e con la furberìa e destrezza che usava, avrebbe evitato d’essere preso. Poichè la sua faccia e il suo corpo erano segnati dai denti di molti cani, ora avrebbe combattuto più furiosamente che mai, ma con maggior astuzia. Skeet e Nig erano troppo di buonumore per litigare, eppoi, appartenevano a Giovanni Thornton; ma i cani estranei, di qualunque razza e per quanto valorosi fossero, avrebbero riconosciuto rapidamente la superiorità di Buck e si sarebbero trovati a lottare per la vita con un terribile antagonista. E Buck era senza pietà. Aveva imparato bene la legge della mazza e del dente, e mai si lasciava fuggire un vantaggio o indietreggiava di fronte a un nemico col quale avesse iniziato un combattimento mortale. Aveva avuta la sua lezione da Spitz e dai principali cani nella lotta di supremazia per la disciplina e pel corriere, e sapeva che non vi era via di mezzo. Doveva o dominare o essere dominato; mostrare pietà era una debolezza. La pietà non esisteva nella vita primordiale: era considerata paura; e tale malinteso conduceva alla morte. Uccidere o essere uccisi, mangiare o essere mangiati, era la legge; e a questo comandamento, sorto dalle profondità del Tempo, egli obbediva. Egli era più vecchio dei giorni che aveva visti e dei respiri che aveva emessi: ricongiungeva il passato al presente, e il senso dell’eternità gli palpitava dentro con un possente ritmo al quale egli obbediva come ubbidivano le maree e le stagioni. Egli stava accovacciato accanto al fuoco di Giovanni Thornton, col suo petto largo, di cane dai denti bianchi e dal pelo lungo; ma sapeva che dietro di lui erano le ombre d’ogni genere di cani mezzi lupi e lupi selvaggi, che lo insidiavano e spingevano, che gustavano il sapore della carne ch’egli mangiava, assetati dall’acqua che egli beveva, fiutando con lui il vento, ascoltando con lui e svelandogli i suoni della vita selvaggia della foresta, dettandogli i suoi umori, dirigendo le sue azioni, adagiandosi a dormire con lui e sognando con lui e oltre lui, divenendo essi stessi la materia dei suoi sogni. Imperativamente, quelle ombre lo chiamavano, ogni giorno più, a mano a mano che il ricordo del genere umano e dei diritti del genere umano s’allontanava da lui. Ogni volta che risuonava profondo dalla foresta un appello, ed egli, udiva quell’appello, misteriosamente attraente e vibrante, si sentiva obbligato a volgere le spalle al fuoco e alla terra battuta intorno a lui, e a immergersi nel profondo della foresta, procedendo senza sapere dove e perchè; senza domandarselo neppure, giacchè l’appello risuonava con tono imperativo e profondo nella foresta. Ma quando era pervenuto alla morbida terra non tocca e all’ombra verde, l’amore per Giovanni Thornton lo riconduceva al fuoco. Soltanto Thornton lo teneva; il resto del genere umano non esisteva agli occhi suoi. Viaggiatori passanti per caso potevano lodarlo o accarezzarlo; ma egli rimaneva freddo ad ogni premura; e se qualcuno si mostrava troppo espansivo con lui, egli si alzava e se ne andava. Quando i soci di Thornton, Hans e Piero, arrivarono sulla zattera tanto a lungo attesa, Buck non volle accorgersi di loro, finchè non capì ch’erano cari a Thornton: dopo, li tollerava in una maniera passiva, accettando favori da essi come se fosse egli a favorirli accettandoli. Ed essi ch’erano semplici e generosi come Thornton, perchè vivevano vicini alla terra, e pensavano semplicemente e vedevano chiaramente, prima che spingessero la zattera nel largo turbine vicino alla segheria di Dawson, avevano già imparato a capire Buck e i suoi modi, e non insistevano per avere un’intimità quale avevano ottenuta da Skeet e Nig. Ma l’amore di Buck per Thornton, pareva crescere sempre più. Questi solo, fra gli uomini, poteva porre un fardello sul dorso di Buck, nel viaggio estivo. Nulla era troppo gravoso per Buck quando Thornton comandava. Un giorno, (s’erano vettovagliati con quello che avevano ricavato dalla zattera ed avevano lasciato Dawson per le sorgenti del Tanana) gli uomini e i cani si trovavano a riposare sulla cresta di una roccia che scendeva a picco su un letto di nude rocce giacenti trecento piedi sotto. Giovanni Thornton sedeva vicino al margine della roccia, Buck alle sue spalle. Thornton fu preso da uno sconsiderato capriccio, e invitò Hans e Piero ad un esperimento che aveva in mente. — Salta, Buck!, — comandò egli, agitando il braccio sul precipizio. Un istante dopo, egli era alle prese con Buck sull’estremità dell’orlo, mentre Hans e Piero li tiravano indietro a salvamento. — È straordinario, — disse Piero, dopo che il pericolo fu passato ed ebbero ricuperato il respiro. Thornton scrollò il capo. — No, — disse, — è magnifico; ed è terribile pure. Sapete che talvolta, mi fa paura? Non vorrei essere l’uomo che vi mettesse le mani addosso, quand’egli è vicino, — disse Piero, accennando col capo a Buck. — Per Giove! — aggiunse Hans. — Neppur io. A Circle City, alla fine dell’anno, le apprensioni di Piero divennero realtà. Burton, il «nero», un uomo cattivo e falso, aveva preso a litigare con un ingenuo al bar, e Thornton s’interpose bonariamente. Buck, stava come soleva, accovacciato in un angolo, la testa sulle zampe, osservando tutte le azioni del suo padrone. Burton, senza che l’altro se l’aspettasse, diede un gran pugno a Thornton. Thornton girò su se stesso ed evitò di cadere a terra aggrappandosi alla barra del bar. I presenti alla scena udirono non un abbaiamento o un ululato, ma un ringhio che parve un vero e proprio ruggito, e videro il corpo di Buck volare in aria, dal pavimento alla gola di Burton. L’uomo si salvò avanzando istintivamente le braccia, ma fu rovesciato per terra, con Buck sopra. Buck liberò i denti dalla carne del braccio e cercò di afferrare nuovamente alla gola l’uomo, il quale riuscì a coprirsi solo in parte, ed ebbe la gola squarciata. Allora la folla ai gettò su Buck, che fu trascinato via; ma mentre un chirurgo cercava di arrestare il sangue, Buck girava, su e in giù, ringhiando furiosamente, e tentando di lanciarsi dentro, ricacciato solo da una schiera di mazze ostili. Un’«assemblea di minatori» chiamata sul luogo, giudicò che il cane aveva avuto una sufficiente provocazione, e Buck fu liberato. Ma la sua reputazione era fatta; da quel giorno, il suo nome si sparse per tutti gli accampamenti dell’Alaska. In seguito, alla fine dell’anno, egli salvò la vita di Giovanni Thornton in maniera del tutto differente. I tre soci tiravano una lunga e stretta barca, con la pertica, lungo un cattivo tratto di corrente, sul Forty-Mile Creek. Hans e Piero camminavano lungo la riva, trattenendo la barca con una sottile corda manìla che avvolgevano di albero in albero, mentre Thornton, rimasto sulla barca ne aiutava la discesa per mezzo di una pertica, e gridando ordini alla riva. Buck, sulla riva, preoccupato e ansioso, si teneva alla stessa altezza della barca, senza mai distogliere gli occhi dal padrone. In un punto, particolarmente cattivo, dove una catena di nudi scogli appena sommersi sporgeva sul fiume, Hans passò la corda sopra, rallentandola, e, mentre Thornton spingeva con la pertica la barca fuori nella corrente, corse giù lungo la riva col capo della corda in mano per trattenere la barca dopo sorpassati gli scogli. La barca passò gli scogli, trascinata precipitosamente dalla corrente rapida come una gora, allorchè Hans tirò la corda troppo bruscamente. La barca ondeggiò, sobbalzò e si capovolse contro la sponda, mentre Thornton lanciato dalla barca, era trasportato dalla corrente verso la parte peggiore, un tratto di corrente furiosa nella quale nessun nuotatore avrebbe potuto salvarsi. Buck, che s’era gettato in acqua subito, a trecento metri raggiunse Thornton. Quando sentì che il padrone gli s’era afferrato alla coda, Buck si diresse alla riva, nuotando con tutto il suo meraviglioso vigore. Ma il progresso verso la riva era lento; il progresso verso la corrente incredibilmente rapido. Da sotto giungeva il fatale rombare del punto dove la corrente diveniva più furiosa, rotta in contorti stracci spumosi dalle rocce che tagliavano il fiume come i denti di un enorme pettine. Il risucchio dell’acqua, là, dove incominciava l’ultima pendenza, era terribile, e Thornton capì che sarebbe stato impossibile raggiungere la riva. Passò furiosamente sopra una roccia, si ferì contro la seconda punta e sbattè con terribile violenza contro una terza. Allora s’afferrò a una punta sdrucciolevole, con tutte due le mani, e liberando Buck, sopra il frastuono delle acque agitate, gridò: — Va’, Buck! Va’! Buck non riuscì a fermarsi: trasportato dalla corrente, lottava disperatamente, incapace di ritornare indietro. Quando udì il comando di Thornton, ripetuto, si sollevò in parte fuori dell’acqua, come per dare un ultimo sguardo, poi si volse, obbediente, verso la riva, e nuotò poderosamente, sinchè non fu tratto in salvo da Piero e da Hans, proprio al punto dove nuotare diveniva impossibile e la distruzione era certa. Essi sapevano che un uomo può tenersi afferrato ad una roccia sdrucciolevole nel mezzo di una simile corrente, solo per pochi minuti, e corsero quanto più rapidamente poterono su per la riva ad un punto molto più su di quello dove si teneva afferrato Thornton. Attaccarono la corda, con la quale avevano trattenuto la barca, al collo e alle spalle di Buck, curando che non lo strangolasse nè gl’impedisse di nuotare, e lo lanciarono nella corrente. Egli si mise a nuotare poderosamente, ma non abbastanza diritto nella corrente. S’accorse dello sbaglio troppo tardi, quando Thornton gli era quasi di fronte, soltanto a cinque o sei colpi di distanza, mentre egli era trasportato senza speranza oltre. Hans, prontamente, tirò la corda, come se Buck fosse una barca. La corda gli si strinse addosso, nel punto più forte della corrente, e il cane fu sommerso, e sommerso rimase finchè il suo corpo non battè contro la riva e fu tirato su. Era mezzo annegato, e Hans e Piero si gettarono su lui facendolo respirare artificialmente, e facendogli ributtare l’acqua. Il cane barcollò per rialzarsi, ma ricadde; ma il debole suono della voce di Thornton giunse sino a loro, e benchè essi non potessero intendere le parole, compresero che egli era agli estremi. La voce del padrone agì su Buck come una scossa elettrica. Il cane balzò in piedi e corse su per la riva precedendo gli uomini sino al punto dov’era partito prima. Nuovamente fu attaccata la corda e lanciato, e nuovamente egli nuotò, ma questa volta diritto nella corrente. Aveva mal calcolato la prima volta, ma non avrebbe sbagliato la seconda. Hans mollava la corda, ma senza permettere allentamenti, mentre Piero la teneva libera da nodi. Buck continuò a nuotare finchè fu in linea retta sopra Thornton; poi si volse, e con la velocità di un treno espresso piombò su lui. Thornton lo vide arrivare, e mentre Buck lo colpiva come un montone che desse di cozzo, con tutta la forza della corrente dietro, si sollevò sulla roccia e si afferrò con tutt’e due le braccia al collo irsuto. Hans attorcigliò la corda ad un albero, e Buck e Thornton furono sbattuti sott’acqua. Quasi soffocati, l’uno talvolta sopra, talvolta sotto l’altro, trascinati sul fondo roccioso e ineguale, sbattuti contro rocce e tronchi d’albero sommersi, raggiunsero la riva. Thornton ritornò in sè con la pancia in giù, violentemente spinto innanzi e indietro, su un tronco portato dalla corrente, da Hans e Piero. Il suo primo sguardo fu per Buck, sul cui corpo floscio e apparentemente senza vita Nig urlava, mentre Skeet leccava il muso bagnato e gli occhi chiusi del cane. Thornton, che pure era ferito e ammaccato, esaminò accuratamente il corpo di Buck richiamato in vita, e trovò tre costole spezzate. — Questo fatto decide, — annunciò egli. — Ci accamperemo qui dove siamo. — E s’accamparono, finchè le costole di Buck non furono salde ed egli potè viaggiare. Quell’inverno, a Dawson, Buck compì un’altra prodezza, non così eroica, forse, ma tale da porre il suo nome di molte tacche sul palo della fama, in Alaska. Questa prodezza fu particolarmente vantaggiosa per i tre uomini; poichè essi avevano bisogno dell’equipaggiamento ch’essa fornì, e poterono così fare un viaggio da lungo tempo desiderato, nel lontano vergine oriente, dove non erano ancora apparsi dei minatori. Il fatto ebbe origine da una conversazione nella _Birreria Eldorado_, nella quale gli uomini vantavano con orgoglio i loro cani favoriti. Buck, a causa della sua fama, era la mira di quegli uomini, e Thornton era spinto gagliardamente a difenderlo. Dopo una mezz’ora, un uomo affermò che il suo cane poteva smuovere una slitta con un peso di cinquecento libbre sopra, e tirarla; un secondo vantò che il proprio cane ne poteva tirare seicento; e un terzo, settecento. — Puf! puf! — fece Giovanni Thornton; — Buck può smuovere mille libbre. — E trarle dal ghiaccio? e tirarle per cento metri? — domandò Matthewson, Re di Bonanza, un riccone, quello che aveva vantato le settecento libbre come prodezza del suo cane. — E rompere il ghiaccio, intorno, e tirarle per cento metri, — ripetè Thornton, freddamente. — Ebbene, — disse Matthewson, lentamente e deliberatamente, in modo che lutti potessero udire, — scommetto mille dollari che non può farlo. Ed eccoli qui. — Così dicendo, sbattè sul banco un sacchetto di polvere d’oro delle dimensioni di una mortadella di Bologna. Nessuno parlava. Il _bluff_ di Thornton, se era un _bluff_, era posto alla prova. Egli sentì un’ondata di sangue caldo salirgli al volto. La lingua l’aveva compromesso: giacchè non sapeva se Buck potesse tirare mille libbre: mezza tonnellata! L’enormità della cosa lo spaventava. Egli aveva una grande fiducia nella forza di Buck, ed aveva spesso pensato che il cane fosse capace di tirare un simile carico; ma mai, come ora, egli ne aveva considerato la possibilità, con gli occhi di una dozzina di uomini fissi su lui, in attesa silenziosa. Inoltre, egli non aveva mille dollari; nè li aveva Hans o Piero. — Ho una slitta qui fuori, ora, con venti sacchi da cinquanta libbre di farina, — continuò Matthewson con brutale sfida: — perciò non vi preoccupate delle difficoltà. Thornton non rispose: non sapeva che cosa dire. Guardava ora una faccia ora un’altra, come un uomo distratto che abbia perduto la forza di pensare, e cerchi in qualche luogo un oggetto che gli richiami il pensiero. La faccia di Nino O’ Brien, un Re dei Mastodonti, altro riccone, fermò i suoi occhi. Fu per lui come un lampo, che sembrava spingerlo a fare quello che non avrebbe mai sognato di fare. — Puoi prestarmi mille dollari? — domandò, quasi mormorando. — Certo, — rispose O’ Brien, gettando un sacchetto rigonfio accanto a quello di Matthewson. — Benchè abbia pochissima fiducia, Giovanni, che il cane possa compiere una tal prodezza. Tutti quelli che si trovavano nell’_Eldorado_ uscirono sulla strada per vedere la prova. I tavoli divennero deserti, perchè i giocatori e quelli che tenevano il banco uscirono a vedere il risultato della sfida e a far scommesse. Parecchie centinaia di uomini impellicciati e con manopole circondarono la slitta, tenendosi a poca distanza da essa. La slitta di Matthewson, carica di mille libbre di farina era rimasta lì ferma per un paio d’ore, e nel freddo intenso, (erano sessanta gradi sotto zero) gli strisci s’erano gelati sulla neve battuta. Degli uomini scommettevano, offrendo il doppio della posta, che Buck non sarebbe riuscito a smuovere la slitta. Sorse un cavillo sul significato della frase «liberare». O’ Brien asseriva che spettava a Thornton liberare gli strisci dal ghiaccio, lasciando a Buck il compito di trascinare la slitta dal peso morto; Matthewson insistette sostenendo che la parola comprendeva anche il compito del cane di liberare gli strisci dalla presa della neve gelata. La maggioranza di quelli che avevano assistito alla scommessa decisero in suo favore, e allora le scommesse salirono da tre ad uno contro Buck. Non vi era nessuno che scommettesse in favore di Buck. Nessuno lo credeva capace di quella prodezza. Thornton, ch’era stato spinto a scommettere, pieno di dubbi, ed ora vedeva la slitta, il fatto concreto, con il tiro regolare di dieci cani arrotolati nella neve davanti ad essa, sentiva ancora più impossibile quel compito. Matthewson si pavoneggiava, giubilante. — Tre contro uno, — proclamò. — Metto giù altri mille dollari, a tre contro uno, Thornton. Che ne dite? Il dubbio pareva scritto sul volto di Thornton, ma lo spirito di lotta era ormai desto, — lo spirito combattivo che s’eleva al disopra delle scommesse, non riconosce l’impossibile, ed è sordo a tutto, tranne al clamore della battaglia. Egli chiamò a sè Piero e Hans. Ma i loro sacchi erano smilzi: col suo, i tre soci non potevano mettere insieme, più di duecento dollari. Nella bassa marea delle loro fortune, quella somma era tutto il loro capitale; tuttavia essi lo arrischiarono, senza esitare, contro i seicento dollari di Matthewson. Fu tolto l’attacco dei dieci cani, e Buck, col suo finimento e i suoi tiranti, fu posto alla slitta. Egli aveva preso il contagio dell’eccitamento generale, e sentiva di dovere rendere un gran servizio a Giovanni Thornton. Si levarono mormorii di ammirazione, per lo splendido aspetto dell’animale. Era in perfette condizioni, senza un’oncia di carne superflua; formando le centocinquanta libbre ch’egli pesava, altrettante libbre di risoluta energia. Il suo pelo luceva come seta. Giù per il collo e attraverso le spalle, il suo manto, in riposo com’egli era, mezzo irsuto, pareva sollevarsi ad ogni movimento, come se l’eccesso di vigore rendesse vivo ed attivo ogni pelo. Il largo petto e le pesanti gambe davanti erano proporzionate al rimanente del corpo, dove i muscoli apparivano come saldi rotoli sotto la pelle. Qualcuno palpò quei muscoli e li proclamò duri quanto il ferro, e le scommesse scesero a due contro uno. — Perdio, signore! Perdio, signore! — balbettò un membro dell’ultima dinastia, un re delle Skookum Benches. — Vi offro ottocento dollari per il cane, prima della prova, signore; ottocento com’è. Thornton scrollò il capo e andò al fianco di Buck. — Dovete stare lontano dal cane, — protestò Matthewson. — Gioco onesto e spazio in abbondanza. La folla divenne silenziosa: soltanto si potevano udire le voci dei giocatori che offrivano in vano, due contro uno. Tutti riconoscevano in Buck un magnifico animale, ma venti sacchi da cinquanta libbre di farina apparivano troppo grossi, ai loro occhi, per aprire i cordoni della borsa. Thornton s’inginocchiò accanto a Buck. Gli prese la testa fra le mani e appoggiò la guancia alla guancia del cane. Non lo scosse scherzosamente, come faceva volentieri; nè mormorò dolci male parole d’amore; ma gli mormorò all’orecchio: — Come tu mi ami, Buck. Come tu mi ami, — e Buck gemette con frenata ansia. La folla guardava incuriosita. La faccenda si faceva misteriosa. Sembrava come una congiura. Mentre Thornton s’alzava in piedi, Buck afferrò la mano ricoperta dalla manopola tra le mascelle, stringendola tra i denti e lasciandola andare lentamente, mezzo riluttante. Era la risposta, non con parole, ma con segni d’amore. Thornton si tirò bene indietro. — A te, Buck, — diss’egli. Buck tese i tiranti, poi li rallentò, per alcuni pollici; come aveva imparato. — Va! — risuonò la voce di Thornton, tagliente, nel silenzio perfetto. Buck girò a destra, con un movimento che finì con un balzo che tese i tiranti, e fermò, dopo una forte scossa, le centocinquanta libbre del cane. Il carico tremò, e dagli strisci s’alzò un leggero crepitìo. — A sinistra! — comandò Thornton. Buck duplicò la manovra, questa volta a sinistra. Lo scricchiolìo si mutò in un brusco frangersi del ghiaccio, la slitta girò leggermente su se stessa, e gli strisci scivolarono graffiando la neve. La slitta era liberata. Tutti trattenevano il respiro, intensamente, inconsci del fatto. — Ora, avanti! Il comando di Thornton risuonò come un colpo di pistola. Buck si gettò in avanti, tendendo i tiranti, con sbalzi a scosse. L’intero corpo era raccolto strettamente in sè nel tremendo sforzo, i muscoli si gonfiavano e contorcevano come delle cose vive sotto il pelame di seta. Il suo largo petto era proteso e abbassato sino a terra, la testa in avanti, mentre le zampe gli si muovevano furiose, e gli unghioni scavavano la neve battuta, in solchi paralleli. La slitta oscillava e tremava, quasi smossa. Uno dei piedi del cane sdrucciolò, e un uomo gemette rumorosamente. Poi la slitta si mosse, con un succedersi rapido di scosse, benchè, in realtà non si fosse fermata più... Mezzo pollice... un pollice... due pollici... Le scosse diminuirono percettibilmente; a mano a mano che la slitta avanzava, Buck cessava le scosse, finchè alla fine la slitta filò, senza oscillare. Gli uomini mandarono un gran sospiro e ricominciarono a respirare; chè senz’accorgersene, avevano cessato per un momento di respirare. Thornton correva dietro la slitta incoraggiando Buck con brevi parole liete. La distanza era stata misurata prima, e mentre il cane s’avvicinava alla pila di legna da ardere, che segnava il termine dei cento metri, incominciava a levarsi un plauso sempre più alto, che divenne clamore di urli, allorchè, oltrepassata la legna da ardere, il cane si fermò, ad un comando. Tutti gli uomini esultavano pazzamente; persino Matthewson. Gettavano in aria cappelli e manopole; scambiavano strette di mano col più vicino, chiunque fosse, vociando, come in una confusionaria babele. Ma Thornton cadde in ginocchio accanto a Buck. Con la testa centro la testa, lo scrollava in avanti e in dietro. Quelli ch’erano corsi dietro a lui l’udirono che malediceva Buck, e lo malediceva a lungo e con fervore, ma dolcemente e amorosamente. — Perdio, signore! Perdio, signore! — balbettò rauco il re di Skookum Bench — Vi dò mille dollari per lui, mille, signore, mille e duecento, signore. Thornton s’alzò in piedi: aveva gli occhi bagnati. Le lagrime gli rigavano liberamente e copiosamente le gote. — Signore, — disse al re di Skookum Bench, — no, signore. Potete andare al diavolo, signore. Non ho altro da dirvi e da fare. Buck afferrò tra i denti la mano di Thornton, che lo scrollò avanti e indietro. Come animati da comune impulso, gli spettatori si ritirarono a rispettosa distanza; abbastanza discreti per interromperli nuovamente. CAPITOLO VII. IL RICHIAMO DELLA VOCE. Buck, facendo guadagnare mille seicento dollari in cinque minuti a Giovanni Thornton, rese possibile al suo padrone di pagare alcuni debiti che aveva e di partire con i suoi soci verso oriente, alla ricerca di una favolosa miniera, la cui storia era vecchia quanto la storia del paese. Molti uomini l’avevano cercata; pochi l’avevano trovata; e molti non erano più ritornati dalla ricerca. Questa perduta miniera era immersa nella tragedia e avvolta nel mistero. Nessuno sapeva chi fosse stato il primo a scoprirla. La più antica tradizione finiva prima della scoperta di essa. Si diceva che a principio era un’antica e diroccata capanna. Uomini sul punto di morire avevano giurato affermando l’esistenza della capanna, e della miniera della quale la capanna segnava il luogo, ribadendo la loro testimonianza con mostrar pepite ch’erano diverse, per qualità, da qualsiasi tipo d’oro conosciuto nel Nord. Ma nessun essere vivente aveva potuto saccheggiare quel tesoro, e i morti erano morti; perciò Giovanni Thornton e Piero e Hans, con Buck e una mezza dozzina d’altri cani, s’avventurarono nell’oriente lungo un cammino sconosciuto, per ottenere ciò che uomini e cani capaci come loro non avevano ottenuto. Essi risalirono in slitta, per sessanta miglia, lo Yukon, volsero a destra nello Stewart River, passarono il Mayo e il Mac Question, e continuarono, finchè lo stesso Stewart non divenne un ruscello, varcando gli alti picchi che segnano la spina dorsale del continente. Giovanni Thornton chiedeva ben poco agli uomini o alla natura. Non aveva alcuna paura della terra vergine e selvaggia. Con una manata di sole e un fucile, poteva tuffarsi nelle selve, e nutrirsi in qualunque luogo egli volesse e quanto a lungo gli piacesse. Non avendo fretta, all’uso indiano, cacciava procurandosi il cibo durante il viaggio; e se non gli riusciva di trovarne, come gl’indiani, continuava a viaggiare, tranquillo nella certezza che prima o dopo avrebbe trovato di che sfamarsi. Così, in questo grande viaggio nell’oriente, la selvaggina costituiva il vitto, e munizioni e attrezzi formavano il carico principale della slitta, lungo un cammino illimitato. Per Buck, era una gioia sconfinata quel cacciare, pescare e vogare attraverso luoghi sconosciuti. Per intere settimane andarono innanzi senza tregua; e per settimane e settimane s’accamparono qua e là; i cani riposando e gli uomini bucando col fuoco il fango gelato o la ghiaia gelata, e lavando innumerevoli padelle sporche, al calore del fuoco. Qualche volta soffrivano la fame, qualche volta banchettavano tumultuosamente, a seconda dell’abbondanza della selvaggina e della fortuna della caccia. Arrivò l’estate, e gli uomini e i cani si caricarono le loro cose sulle spalle e attraversarono su zattere azzurri laghi montani, e discesero o risalirono fiumi sconosciuti, in sottili barche segate e costruite alla meglio, con alberi della foresta. Così, per mesi e mesi, avanti e indietro, essi girarono per tutta la vastità della terra sconosciuta, senza trovare alcun uomo, dove, tuttavia, degli uomini dovevano essere stati, se la Perduta Capanna era vera. Attraversarono passi nelle montagne, durante tormente estive; tremarono di freddo sotto il sole di mezzanotte, su nude montagne, tra la linea delle foreste e le nevi eterne; si calarono giù in valli soleggiate, tra sciami di zanzare e di mosche, e all’ombra dei ghiacciai raccolsero fragole e fiori mature e fragranti quanto i più vantati frutti e fiori delle terre del Sud. Circa la fine dell’anno, penetrarono in un fantastico paese di laghi, triste e silenzioso, dove vi erano state delle anitre selvatiche, ma dove, allora, non vi era alcuna vita o segno di vita, tranne di venti freddi, il formarsi del ghiaccio in luoghi riparati e il malinconico leggero mareggiare delle onde sulle sponde solitarie. Durante un nuovo inverno, vogarono sulle orme cancellate di uomini passati prima di loro. Una volta, trovarono un sentiero segnato tra gli alberi nella foresta, un antico sentiero, e la Perduta Capanna parve molto vicina. Ma il sentiero non incominciava in nessun luogo e non finiva in nessun luogo, e rimase un mistero, come rimase un mistero l’uomo che l’aveva tracciato, e il perchè l’aveva tracciato. Un’altra volta scoprirono gli avanzi di un vecchio rifugio da caccia; e tra i fili di marcite coperte, Giovanni Thornton trovò un fucile a canna lunga e a pietra focaia. Riconobbe in quello, uno dei vecchi fucili dell’_Hudson Bay Company_, dei primi tempi dell’America del Nord-ovest, allorchè un tal fucile valeva un mucchio di pelli di castoro poste l’una sull’altra, quant’era alto. E non trovarono altro, nemmeno il più piccolo indizio dell’uomo che in tempi primitivi aveva costruito quel rifugio di caccia e lasciato il fucile tra le coperte. Ancora una volta, ritornò la primavera, e alla fine delle loro peregrinazioni trovarono, non la Perduta Capanna, ma un giacimento poco profondo, in un’ampia valle, dove l’oro appariva come burro giallo attraverso al colatoio. Non cercarono oltre. Ogni giorno di lavoro faceva loro guadagnare migliaia di dollari in polvere d’oro e in pepìte, ed essi lavoravano ogni giorno. L’oro era posto in sacchi di pelle di alce, ognuno dei quali conteneva cinquanta libbre, ammucchiati come cataste di legna fuori della loro capanna di rami di abete. Faticavano come giganti, e i giorni si seguivano ai giorni, come sogni, mentre essi ammucchiavano il tesoro. I cani non avevano altro da fare che trascinare nell’accampamento la selvaggina uccisa di tempo in tempo da Thornton; e Buck passava lunghe ore a meditare accanto al fuoco. La visione dell’uomo peloso dalle gambe corte gli ritornava più di frequente, ora che vi era poco lavoro da fare; e spesso, socchiudendo gli occhi accanto al fuoco, Buck vagava con lui in quell’altro mondo ch’egli ricordava. La cosa più notevole di quell’altro mondo sembrava la paura. Quand’egli guardava l’uomo peloso dormire accanto al fuoco, con la testa tra le ginocchia e le mani congiunte sul capo, Buck vedeva ch’egli dormiva inquieto, con molti sussulti e destandosi spesso, guardando atterrito nelle tenebre e gettando dell’altra legna sul fuoco. Se camminavano lungo la spiaggia del mare, dove l’uomo peloso raccoglieva molluschi e li mangiava a mano a mano che li raccoglieva, egli procedeva con occhi che cercavano intorno pericoli nascosti e con gambe pronte a correre come il vento, alla prima presenza di pericolo. Attraverso la foresta passavano senza far rumore, Buck alle calcagna dell’uomo peloso; ed erano sempre in ascolto e vigili, tutt’e due, le orecchie che si muovevano e drizzavano e le narici tremanti, chè l’uomo udiva e fiutava con la stessa finezza di Buck. L’uomo peloso poteva saltare sugli alberi, e andare innanzi tra le rame come per terra, dondolandosi da un ramo all’altro, per le braccia, spesso saltando da un’estremità all’altra, alla distanza di una dozzina di piedi, lasciandosi andare e afferrandosi, senza mai cadere, senza sbagliare mai. Infatti, egli pareva a suo agio tra gli alberi come a terra; e Buck ricordava notti di veglia passate sotto alberi sui quali era appollaiato l’uomo peloso, tenendosi afferrato stretto, mentre dormiva. E molto affine alle visioni dell’uomo peloso era l’appello che ancora risuonava nelle profondità della foresta. Quell’appello gli dava una grande irrequietezza e strani desiderî. Gli faceva provare una vaga e dolce contentezza, come se egli si rendesse conto di selvaggi turbamenti e appetiti. Qualche volta Buck seguiva l’appello nella foresta, cercandolo come se fosse stato una cosa tangibile, abbaiando dolcemente e in tono di sfida, come gli dettava l’umore. Ficcava il naso nel fresco muschio della selva, e sbruffava con gioia nella terra nera dove cresceva dell’erba alta, e sbruffava con gioia agli odori grassi del suolo; e si rannicchiava per delle ore, come se si nascondesse, dietro tronchi fungosi d’alberi caduti, con gli occhi e le orecchie spalancate a tutto ciò che si muoveva e risuonava intorno a lui. Può darsi che, così accovacciato, sperasse di sorprendere quell’appello ch’egli non poteva comprendere. Ma egli non sapeva perchè facesse quelle varie cose: era costretto a farle, ma non ragionava punto su esse. Lo sopraffacevano impulsi irresistibili. Talvolta egli giaceva nell’accampamento, pigramente assonnato dal calore del giorno, allorchè, improvvisamente, alzava la testa e tendeva le orecchie, vigile, in ascolto, e balzava in piedi e si slanciava avanti, avanti e avanti proseguendo per ore ed ore, tra navate della foresta e per varchi aperti, dove si raggomitolavano gl’indiani. Godeva nel percorrere il letto asciutto delle correnti, e sorprendere e spiare la vita degli uccelli nel bosco. Per giorni interi, rimaneva nella macchia, dove poteva osservare le pernici che tamburellavano pavoneggiandosi su e giù. Ma godeva specialmente quando poteva correre nel profondo crepuscolo delle notti di mezza-estate, ascoltando i mormorii sommessi e assonnati della foresta, comprendendo segni e suoni, come un uomo legge in un libro, e tendendo l’orecchio all’eco di quel misterioso richiamo che lo invitava, vegliasse o dormisse, in tutti i tempi, ad andare. Una notte, balzò dal sonno, di soprassalto, con gli occhi luminosi, le narici tremanti e annusanti l’aria, il pelame irsuto. Dalla foresta era giunto il richiamo (o una nota di esso, che ne aveva molte), distinto e definito come mai prima d’allora; come un lungo ululato, simile, e tuttavia non uguale, alla voce di un cane husky. Egli sapeva, per un ricordo familiare, di avere già udito altra volta quel suono. Attraversò di un balzo l’accampamento addormentato e s’immerse velocemente e in silenzio nella foresta. Mentre s’avvicinava al grido, procedette più lentamente, con corti movimenti, finchè giunse in uno spazio aperto tra gli alberi, e guardando vide, eretto sulle anche, col naso al cielo, un lungo magro lupo di bosco. Buck non aveva fatto alcun rumore; pure, il lupo aveva cessato di ululare e fiutava la presenza del cane. Buck uscì lentamente tra gli alberi, mezzo rannicchiato, col corpo tutto raccolto, la coda diritta e rigida, le zampe che si posavano con insolita cura. Ogni movimento annunciava un misto di minaccia e di offerta amichevole. Era quella la minacciosa tregua che caratterizza l’incontro di bestie selvatiche da preda. Ma il lupo fuggì, alla vista del cane. Buck l’inseguì con furiosi salti, preso dal ticchio di raggiungerlo. Lo fece correre in un canale cieco, nel letto di un torrentello sbarrato da un cumulo di tronchi d’albero. Il lupo gli si rivolse di colpo, girando sulle gambe posteriori, come facevano Joe e tutti i cani _husky_ che si trovino senza via di scampo, ringhiando, col pelo irto, serrando e digrignando i denti, in una continua e rapida successione di morsi. Buck non lo assalì, ma gli girava intorno e lo teneva all’erta con profferte d’amicizia. Il lupo era sospettoso ed aveva paura, chè Buck gli era tre volte superiore per peso, mentre egli arrivava con la testa appena alla spalla di Buck. Colto il momento propizio, il lupo balzò via, e l’inseguimento ricominciò. Ripetutamente egli fu posto nella impossibilità di fuggire, e ogni volta ripetè il gioco di riprendere la fuga, quantunque fosse in cattive condizioni. Solo perchè era in cattive condizioni, Buck poteva facilmente raggiungerlo. Il lupo correva sino a che sentiva il fiato di Buck sulla sua coscia, e allora si voltava in atteggiamento di difesa, per poi balzare via ancora, alla prima opportunità. Ma alla fine, la pertinacia dì Buck fu compensata: il lupo, accortosi infine, che il cane non intendeva fargli alcun male, si decise a scambiare con lui annusamenti. Poi divennero amici, e si misero a giocare insieme, con quel fare nervoso e mezzo timido, col quale le bestie feroci smentiscono la propria ferocia. Dopo qualche tempo il lupo s’avviò a piccolo galoppo in modo che mostrava chiaramente come andasse in qualche luogo. Egli fece capire a Buck che doveva andare con lui, ed essi corsero, l’uno al fianco dell’altro, nel crepuscolo oscuro, lungo il letto del torrentello, per la gola dond’esso usciva, e attraverso il solitario passo dove sorgeva. Lungo l’opposto pendio dello spartiacque, essi scesero in una pianura dove vi eran delle grandi distese di boschi e molti fiumi, e attraverso a quelle distese di boschi, essi corsero senza arrestarsi, per ore ed ore, mentre il sole s’alzava più alto e il giorno diveniva più caldo. Buck era pazzamente contento. Sapeva ch’egli stava finalmente rispondendo all’appello, correndo al fianco del suo fratello silvano verso il luogo donde era certamente venuto il richiamo. Vecchie memorie gli ritornavano rapidamente: egli sentiva mescolarsi con esse come un tempo si mescolava con la realtà di cui essere erano l’ombra. Sentiva di avere fatto lo stesso prima, in qualche luogo dell’altro mondo vagamente ricordato, e rifaceva, ora, la stessa cosa correndo libero all’aperto, sulla terra non battuta, avendo l’ampio cielo sul capo. Si fermarono a bere ad un’acqua corrente, e, fermandosi, Buck ricordò Giovanni Thornton. S’accovacciò per terra. Il lupo si rimise a correre verso il luogo di dove, certo, era venuto il richiamo, poi ritornò a lui, annusandolo e facendo atti, come se lo volesse incoraggiare. Ma Buck girò intorno e prese lentamente a seguire le tracce del ritorno. Per quasi un’ora, il fratello selvatico corse al suo fianco, mugolando flebilmente. Poi si sedette sulle anche, puntò il naso in alto, e ululò. Era un lugubre ululato; e Buck continuando la sua strada a buon galoppo udì l’ululato affievolirsi sempre più, finchè non si perdette nella lontananza. Giovanni Thornton stava pranzando, quando Buck, balzando nell’accampamento, gli si lanciò addosso, in un impeto d’affezione, rovesciandolo, tenendolo sotto le sue zampe, leccandogli il volto, morsicandogli la mano, facendo le solite buffonate, come diceva Giovanni Thornton, mentre scuoteva Buck su e giù, amorosamente maledicendolo. Per due giorni e due notti, Buck non lasciò mai l’accampamento, nè perdette un momento di vista Thornton. Lo seguiva al lavoro, lo sorvegliava quando mangiava, lo vedeva la sera andare sotto le coperte e la mattina uscirne. Ma dopo due giorni, l’appello della foresta incominciò a risuonare più imperioso che mai. A Buck ritornò l’irrequietezza, perseguitato com’era dal ricordo del fratello selvaggio e della terra ridente, di là dal passo, e della corsa a fianco a fianco attraverso le distese di foreste vergini. Ancora una volta, ricominciò a vagare nei boschi, ma il fratello selvatico non ritornò più; e benchè ascoltasse durante lunghe veglie, il lugubre ululato non fu più emesso. Incominciò a dormir fuori la notte, rimanendo per giorni interi lontano dall’accampamento; e una volta attraversò il passo alla fine del torrentello e scese alla pianura di selve e corsi di acqua. Vagò per quei luoghi una settimana, cercando invano qualche recente segno del fratello selvatico, uccidendo la selvaggina durante il viaggio e proseguendo con quel lungo facile galoppo che sembra non debba mai affaticare. Acchiappò dei salmoni in un largo fiume che si scaricava in qualche luogo nel mare, e accanto a questo fiume uccise un grosso orso nero, acciecato dalle zanzare, mentre anch’esso pasceva, che correva furioso per la foresta, impotente e terribile. Anche questa lotta dura risvegliò la ferocia latente di Buck. E due giorni dopo, quando ritornò alla sua vittima e trovò una dozzina di ghiottoni che si litigavano le spoglie dell’orso, li disperse, come paglia, e quelli che fuggirono lasciarono dietro di loro due compagni che non avrebbero mai più litigato. Il desiderio del sangue divenne più forte che mai, d’allora. Egli era un uccisore, un essere che predava, vivendo di cose che vivevano, senza aiuti, solo, per virtù della propria forza e prodezza, sopravvivendo trionfalmente in un ambiente ostile dove soltanto i forti sopravvivevano. A causa di tutto ciò, divenne pieno di un grande orgoglio di se stesso, che si comunicava come per contagio al fisico, e gli si svelava in tutti i movimenti, appariva nel gioco d’ogni muscolo, parlava chiaro nelle movenze del portamento e rendeva il suo meraviglioso pelame ancor più meraviglioso. Se non avesse avuto delle chiazze brune sul muso e sopra gli occhi e una macchia di pelo bianco che arrivava sin quasi a mezzo il petto, egli avrebbe potuto essere scambiato per un gigantesco lupo, più grosso di qualunque esemplare della razza. Da suo padre, un San Bernardo, egli aveva ereditato la grandezza e il peso: mentre sua madre, cagna da pastore, aveva dato forma a quella grandezza e a quel peso. Il suo muso era il muso lungo del lupo, soltanto, era più grande di qualunque muso di lupo; e la sua testa, una testa di lupo ingrandita e massiccia. La sua scaltrezza era scaltrezza di lupo e di animale selvatico: la sua intelligenza, intelligenza da pastore e da Sambernardo. E tutto ciò, aggiunto all’esperienza fatta alla più feroce delle scuole, lo rendeva una creatura formidabile quanto qualsiasi essere vagante nella selva. Egli era un animale carnivoro, che si nutriva di carne di animali uccisi; era nel fiore della vita, nell’età piena, traboccante di vigore e di gagliardia. Quando Thornton passava una mano carezzevole lungo la schiena di Buck, un leggero scoppiettìo e scricchiolìo seguiva a quel gesto, poichè ciascun pelo scaricava al contatto, la sua elettricità animale. Tutte le parti di quel corpo, cervello e carne, nervi e fibre, erano armoniosamente sviluppati in sommo grado, e con perfetto equilibrio tra loro. A viste e suoni ed eventi che richiedevano azione, egli rispondeva con una rapidità fulminea. Rapidamente, come fanno i cani husky quando balzano per difendersi da un attacco o per attaccare, egli balzava; ma era più rapido del doppio. Vedeva il movimento, o udiva il suono e rispondeva in minor tempo che impiegasse un altro cane per rendersi conto del movimento o del suono. Egli vedeva, determinava e rispondeva là per là. In realtà, i tre momenti del vedere, del decidere e del rispondere erano successivi, ma a intervalli così rapidi di tempo tra loro, che parevano simultanei. I suoi muscoli erano sovraccarichi di vitalità, e scattavano rapidi come molle d’acciaio. La vita fluiva in lui come una splendida fiumana, lieta e sfrenata; così che pareva che alla fine egli dovesse scoppiare, per riversare generosamente la sua vitalità sul mondo. — Non è mai esistito un cane come questo, — disse, un giorno, Giovanni Thornton, mentre i soci guardavano Buck che se ne andava maestoso dall’accampamento. — Quando fu fatto, lo stampo fu spezzato, — disse Piero. — Per Giove, lo credo anch’io! — affermò Hans. Lo videro uscire pomposamente dall’accampamento, ma non videro l’istantanea e terribile trasformazione che avvenne quand’egli fu nel folto della foresta. Egli non procedeva più: divenuto a un tratto un essere della selva, scivolava leggero, con zampe di gatto, un’ombra fuggevole che appariva e spariva tra le altre ombre. Egli sapeva trarre vantaggio da ogni riparo, sapeva trascinarsi sul ventre come un serpente, e come un serpente balzare e colpire. Poteva prendere un francolino dal nido, uccidere un coniglio nel sonno e afferrare a mezz’aria uno scoiattoletto che avesse ritardato un secondo a slanciarsi sugli alberi. I pesci negli stagni aperti, non erano troppo rapidi per lui; nè i castori che riparavano le loro dighe, erano abbastanza accorti per sfuggirgli. Uccideva per mangiare, non per il piacere d’uccidere; ma preferiva mangiare le prede uccise da lui. Sicchè provava un segreto piacere nelle sue azioni; ed era un gran divertimento per lui piombare inaspettatamente sugli scoiattoli, e, allorchè li aveva quasi presi, lasciarli andare, a gridare spaventati, sulle cime degli alberi. Coll’avvicinarsi della fine dell’anno, gli alci apparvero in gran numero, scendendo lentamente a svernare nelle valli più basse e meno fredde. Buck aveva già abbattuto un giovane alce smarrito; ma egli agognava una preda più grossa e formidabile; nella quale s’imbattè un giorno, su un passo, al termine del torrentello. Una torma di venti alci aveva attraversato il passo venendo dalla pianura delle acque correnti e delle distese boscose; tra essi primeggiava un grande alce maschio. Era un animale furioso, alto più di sei piedi; un antagonista formidabile, quale Buck poteva desiderare. L’alce agitava avanti e indietro i suoi grandi palchi palmati, che si diramavano in quattordici punte e misuravano sette piedi tra le estremità delle punte più lontane. Gli occhietti gli brillavano, maligni e cattivi, mentre egli muggiva furiosamente alla vista di Buck. Dal fianco dell’alce, al disopra della coscia, sporgeva l’estremità di una freccia piumata, che era causa della furia selvaggia della bestia. Guidato dall’istinto che gli veniva dai lontani giorni di caccia in un mondo primordiale, Buck si avanzò per allontanare l’alce dalla mandria. Non era un compito facile. Egli danzava, abbaiando, davanti all’alce, fuori del tiro dei grandi palchi e delle terribili unghie fesse, che avrebbero potuto ucciderlo con un solo colpo. Incapace di liberarsi dal pericolo di quei denti che lo minacciavano e di proseguire il cammino, l’alce era al parossismo della collera. Così egli si lanciava contro Buck, il quale si ritirava furbamente, allettandolo a seguirlo, e fingendo di non poter fuggire. Ma quando l’alce maggiore era così separato dai suoi compagni, due o tre degli alci più giovani ai lanciavano a loro volta su Buck e impedivano all’alce ferito di raggiungere la mandria. Vi è una pazienza del selvatico — cocciuta, instancabile, persistente come la vita stessa — che tiene immobili per infinite ore il ragno nella sua ragnatela, il serpente nelle sue spire, la pantera in agguato; una pazienza ch’è propria degli esseri viventi che vanno a caccia di cibo vivente. Tale era la pazienza che spingeva Buck ad accannirsi contro l’orda di alci, a ritardare la loro marcia, a irritare i maschi giovani, a spaventare le femmine e i loro piccini, a fare impazzire l’alce ferito e rabbioso per l’impotenza. Quel gioco continuò per mezza giornata. Buck si moltiplicò, attaccando da tutti i lati, avvolgendo la mandria in un turbine di minacce, togliendo fuori la sua vittima con la rapidità ch’essa usava nel raggiungere i compagni, esaurendo la pazienza delle creature da preda, la quale è minore di quella delle creature che predano. Mentre il giorno declinava e il sole tramontava a nord-ovest (le tenebre erano ritornate, e le notti autunnali duravano sei ore), i giovani alci proseguivano sempre più riluttanti ad aiutare il loro capo. L’imminente inverno li rendeva ansiosi di scendere a livelli più bassi, mentre sembrava loro di non poter mai più liberarsi da quella instancabile creatura che li tratteneva indietro. La vita di un solo membro della mandria era molto meno importante delle vite di tutti gli altri, che alla fine erano contenti di pagare quel tributo richiesto. In sul cader del crepuscolo, il vecchio alce stava con la testa abbassata, a guardare i suoi compagni, — le femmine che aveva conosciute, i vitelli suoi figli, i giovani alci che aveva comandato — mentre andavano innanzi goffamente a passo rapido, alla luce morente. Non poteva seguirli, chè davanti al suo naso s’alzava quell’implacabile terrore in forma di bestia dai denti aguzzi, che non l’avrebbe lasciato andare. Esso pesava seicentocinquanta chili; aveva vissuto una lunga e strenua vita, piena di lotte e di contrasti, e alla fine affrontava la morte ricevendola dai denti di una creatura la cui testa non arrivava oltre il ginocchio dei suoi grandi garretti. Da quel momento, notte e giorno, Buck non lasciò mai la sua preda, non gli concesse un momento di tregua, non gli permise mai di brucare nè le foglie degli alberi nè i germogli delle giovani betulle dei salci. E neppure concesse al toro ferito, l’opportunità di lenire la sua ardente sete nei mormoranti ruscelletti ch’essi attraversavano. Spesso, preso da disperazione, egli rompeva in lunghe corse pazze. In tali momenti, Buck non tentava di arrestarlo, ma gli saltava placidamente alle calcagna, soddisfatto del gioco, accovacciandosi per terra quando l’alce rimaneva immobile, assalendolo terribilmente quando esso tentava di mangiare o bere. Così che la grande testa s’abbassò sempre più sotto l’albero delle corna, e il suo goffo aspetto divenne sempre più avvilito. L’animale incominciò a rimanere fermo, per lunghi periodi, col naso a terra e le orecchie cadenti; e Buck ebbe maggior tempo per bere e per riposare. In tali momenti, ansante, con la rossa lingua penzoloni e con gli occhi fissi al grosso alce, appariva a Buck che un mutamento avvenisse nell’aspetto delle cose. Poteva sentire una nuova agitazione nel paese. Con gli alci, giungevano altre specie di creature viventi. La foresta, il ruscello e l’aria sembravano palpitare per la loro presenza. Egli aveva sentore di loro, non perchè vedesse, o sentisse o odorasse, ma per qualche altro senso più fine. Non udiva nulla, non vedeva nulla e tuttavia sapeva che il paese era mutato; che attraverso ad esso strane cose accadevano e si propagavano; così che risolse di investigare appena avesse compiuta l’impresa in cui era impegnato. Finalmente, al declinare del quarto giorno, egli riuscì ad abbattere il grande alce. Per un giorno e una notte rimase accanto alla sua preda, mangiando e dormendo, alternativamente. Poi, riposato, rinfrescato e forte, si volse verso l’accampamento e Giovanni Thornton. Incominciò il suo lungo facile galoppo, e andò innanzi, per ore ed ore, mai smarrito davanti all’intricato sentiero, proseguendo diritto verso l’accampamento, attraverso il paese sconosciuto, con una sicurezza di direzione da far vergognare l’uomo col suo ago magnetico. Mentre avanzava, diveniva sempre più consapevole della nuova agitazione intorno. Vedeva una vita diversa dalla vita che vi era stata durante l’estate. E ora non fiutava più la cosa, in maniera fine e misteriosa: ne parlavano, ora, gli uccelli, ne cianciavano gli scoiattoli, la stessa brezza ne mormorava. Parecchie volte s’arrestò per annusare una specie di messaggio che lo faceva poi galoppare con maggior velocità. Era oppresso da un senso di calamità imminente, se pure non avvenuta già; così che mentre attraversava l’ultimo spartiacque e piombava giù nella valle, verso l’accampamento, procedette con maggior cautela. Tre miglia più in là, trovò una traccia d’orme fresche che gli fece rizzare il pelo del collo. Andò diritto all’accampamento e a Giovanni Thornton. Buck procedeva veloce e cauto, con tutti i nervi tesi, rilevando tutti i particolari che raccontavano la stessa storia, ma non la fine della storia stessa. Il suo naso gli faceva fiutare quel mutar di vita, sulle cui orme ora andava veloce. Osservò il gravoso silenzio della foresta. La vita degli uccelli era scomparsa. Gli scoiattoli s’erano nascosti. Ne vide uno soltanto, grigio e lucido, appiattito contro un ramo morto, grigio anch’esso, così che sembrava un’escrescenza legnosa del ramo. Mentre Buck scendeva giù all’accampamento coll’addensarsi di un’oscura ombra, sentì il suo naso come bruscamente attratto di fianco, come se una forza reale l’avesse afferrato e tirato da quella parte. Seguì il nuovo odore in un cespuglio, e trovò Nig, che giaceva sul fianco, morto, nel punto dove s’era trascinato, con una freccia che mostrava da un lato la punta e dall’altro una estremità piumata. Cento metri più avanti, Buck trovò uno dei cani della slitta che Thornton aveva acquistati a Dawson. Questo cane barcollava nel mezzo del sentiero, in lotta con la morte; e Buck gli girò intorno senza fermarsi. Dall’accampamento giungeva il debole suono di molte voci, s’alzava e s’abbassava in una cantilena. Sul margine dello spiazzo, trovò Hans che giaceva bocconi, coperto di frecce piumate, come un porcospino. Nello stesso momento, Buck gettò uno sguardo dove era la capanna di frasche di abete e vide uno spettacolo che gli fece rizzare il pelo del collo e della schiena. Egli fu preso da un impeto di rabbia cieca e travolgente: non s’accorse di ringhiare, ma ringhiò con terribile ferocia. Per l’ultima volta nella sua vita, lasciò che la passione travolgesse furberia e ragione; e il suo grande amore per Giovanni Thornton gli fece perdere la testa. Gli indiani _yechats_ danzavano intorno alle rovine della capanna di frasche di abete, allorchè udirono un terribile ruggito e videro lanciarsi un animale di cui non avevano mai visto l’uguale prima d’allora. Era Buck, un uragano vivente di furia, che si scagliava su di essi, con frenesia di distruzione. Il cane si gettò sull’uomo più maestoso del gruppo (il capo degli _Yechats_), squarciandogli la gola, dalla quale sgorgò un fiotto di sangue. E non si fermò sulla vittima, ma squarciò, passando, con un secondo salto, la gola di un altro uomo. Non vi era modo di resistergli: infuriava nel gruppo stracciando, squarciando, distruggendo, con movimento costante e terribile che sfidava le frecce che gli scaricavano addosso. Infatti, i suoi movimenti erano così inconcepibilmente rapidi, e così vicini gli uni agli altri erano gl’indiani, che questi s’uccidevano tra loro con le frecce; così che un giovane cacciatore lanciandogli contro una lancia, trafisse invece il petto di un altro cacciatore con tale forza, che la punta apparve dietro la schiena. Poi gli _yechats_, presi da panico, fuggirono terrorizzati nei boschi, proclamando, alto, mentre fuggivano, l’avvento dello Spirito del Male. E in realtà, Buck pareva il diavolo incarnato, inseguendoli furioso e atterrandoli come se fossero dei cerbiatti, mentre correvano tra gli alberi. Fu quello un giorno fatale per gli _yechats_. Si dispersero per il paese, in tutte le direzioni, e lontano, e soltanto una settimana dopo gli ultimi sopravvissuti si raccolsero insieme in una valle più bassa e contarono le loro perdite. In quanto a Buck, stanco d’inseguirli, ritornò al desolato accampamento. Trovò Piero dove era stato ucciso, di sorpresa, tra le coperte. La disperata lotta di Thornton appariva in fresche tracce sul suolo; così che Buck potè annusare ogni particolare della lotta, sino al margine dello stagno profondo. Sulla sponda, con la testa e le gambe sporgenti nell’acqua, giaceva Skeet, fedele sino all’ultimo. Lo stagno, fangoso e scolorito per i depositi dei cassoni del drenaggio dell’oro, nascondeva quello che conteneva; e conteneva Giovanni Thornton; di Buck aveva seguito le tracce nell’acqua, sino allo stagno oltre il quale non v’era alcuna orma. Tutto quel giorno, Buck vagò meditabondo e irrequieto sulla riva dello stagno e per l’accampamento. Egli conosceva bene la morte, come cessazione di movimento, come un trapasso dalla vita dei viventi, all’immobilità, e sapeva che Giovanni Thornton era morto. E sentiva che quella morte produceva un gran vuoto in lui, in qualche modo simile alla fame, ma un vuoto che gli faceva continuamente male, e che il cibo non poteva riempire. Talvolta, quando si fermava a contemplare le carcasse degli _yechats_, dimenticava per un momento la sua pena, e in quei momenti era consapevole di un grande orgoglio di se stesso; un orgoglio maggiore di ogni altro provato sino allora. Aveva ucciso degli uomini, la migliore selvaggina: e li aveva uccisi secondo la legge della mazza e del dente. Annusava curiosamente i corpi. Erano morti così facilmente! Era più duro uccidere un cane _husky_, che loro. Non sarebbero stati punto avversari degni, senza quelle frecce, quelle lance e quelle mazze. Ormai avrebbe avuto paura di loro soltanto quando li avesse visti con frecce, lance e mazze. Discese la notte, e una luna piena s’alzò sopra gli alberi, nel cielo, illuminando la terra, che parve immersa in una luce spettrale, simile a quella del giorno. E col cader della notte, meditando e gemendo accanto allo stagno, Buck si destò al rumore della nuova vita nella foresta, diversa da quella creata dagli indiani. S’alzò ad ascoltare e ad annusare. Veniva da lontano un leggero acuto ululato, seguito da un coro di altri ululati acuti. Dopo qualche, tempo, i guaiti divennero più alti e più vicini. Ancora una volta, Buck riconosceva quei guaiti come uditi in quell’altro mondo che persisteva nella sua memoria. Camminò sino al centro dello spiazzo e rimase in ascolto. Era l’appello, il richiamo dalle molte note, che risuonava più allettante e imperioso che per il passato. E mai come allora, egli s’era sentito così pronto ad ubbidire. Giovanni Thornton era morto. L’ultimo vincolo era spezzato. Gli uomini e i loro diritti non lo legavano più. Cacciando la loro carne viva, come la cacciavano gli _yechats_, sui fianchi degli alci emigranti, il branco di lupi aveva anch’esso alla fine attraversato il monte, dalla terra dalle molte correnti e dalle distese di boschi, ed invasa la valle di Buck. Nella radura dove la luce lunare fluiva, essi si riversarono come un fiotto argenteo; mentre al centro della radura stava Buck, immobile come una statua, ad attenderli. Essi furono presi da paura, tanto egli era grande e immobile, e si arrestarono per un momento, fino a quando il più ardito non gli fu sopra con un balzo. Come un lampo, Buck colpì, rompendogli il collo; ridivenne immobile, mentre il lupo colpito ruzzolava, agonizzante, dietro a lui. Altri tre provarono, con rapida successione; e l’uno dopo l’altro indietreggiarono, spargendo sangue, dalla gola e dalle spalle lacerate. Bastò perchè l’intero branco, agglomerato, confuso, si slanciasse, nell’impazienza di abbattere la preda. La meravigliosa prontezza ed agilità giovarono assai a Buck. Girando sulle gambe posteriori, e morsicando e squarciando, egli era pronto ad ogni assalto, presentando sempre la stessa fronte apparentemente intatta; girando rapidamente su se stesso e difendendosi da tutti i lati. Ma per impedire ch’essi gli girassero alle spalle, fu forzato a indietreggiare, giù, oltre lo stagno, e nel letto del torrentello, sino a che giunse contro un banco di ghiaia assai alto. Indietreggiò abilmente riparando in un angolo retto del banco che gli uomini avevano fatto durante i loro scavi; e rifugiato in quell’angolo, protetto da tre lati, non ebbe altro da fare che difendersi di fronte. E così bene si difese, che dopo mezz’ora i lupi indietreggiarono sconfitti. Le lingue di tutti essi erano fuori, a penzoloni, e i denti bianchi brillavano in modo crudele alla luce lunare. Alcuni erano accovacciati per terra ma con le teste alte e gli orecchi tesi; altri rimanevano in piedi, sorvegliandolo; ed altri ancora bevevano acqua allo stagno. Un lupo, lungo, magro e grigio, s’avanzò cautamente, in maniera amichevole, e Buck riconobbe il fratello selvatico col quale aveva corso una notte ed un giorno. Esso mugolava dolcemente. Quando Buck mugolò a sua volta, si toccarono il naso. Allora un vecchio lupo, scarno e pieno di cicatrici, s’avanzò verso di loro. Buck contrasse le labbra, preparandosi a un ringhio, ma poi toccò il naso dell’altro, annusandolo. Ciò fatto, il vecchio lupo s’accosciò, e, puntato il naso alla luna, si mise a ululare. Anche gli altri s’accosciarono e ulularono. Ormai il richiamo giungeva a Buck con accenti chiarissimi. Egli pure s’accosciò e ululò. Finito ch’ebbe di ululare, egli uscì dal suo angolo, e il branco gli si affollò attorno, annusando in modo tra amichevole e selvaggio. Poi i capi mandarono un guaito di richiamo al branco, e si lanciarono nel bosco. Il lupi li seguirono ululando in coro. E Buck si mise a correre con loro, al fianco del fratello selvatico, ululando mentre correva. E qui può ben finire la storia di Buck. Non passarono molti anni, e gli _yechats_ osservarono un cambiamento nella razza dei lupi della selva; vedendone alcuni con macchie brune sulla testa e sul muso, e con una striscia di pelo bianco nel mezzo del petto. Ma un fatto più notevole raccontano gli indiani; parlano dell’esistenza di un Cane Spettrale che corre alla testa del branco di lupi. Essi hanno paura di questo Cane Spettrale, perchè è più furbo dei lupi, ruba nei loro accampamenti, durante i terribili inverni, spoglia le trappole, uccide i cani, e sfida i più bravi cacciatori. Ma la storia diventa anche più truce. Narrano di cacciatori che non ritornano più all’accampamento, di cacciatori che i loro compagni di tribù hanno trovato con le gole crudelmente squarciate, tra impronte di lupo, sulla neve, più grandi delle impronte di qualsiasi lupo. Ogni autunno, allorchè gli _yechats_ seguono il movimento degli alci, si fermano davanti una valle nella quale non osano penetrare. E vi sono delle donne che diventano tristi quando si racconta, intorno al fuoco, come lo Spirito del Male abbia scelto quella valle per dimora. Tuttavia, l’estate, appare un visitatore in quella valle; un visitatore del quale nulla sanno gli indiani. È un grande lupo dal mantello meraviglioso, simile e pur diverso da tutti gli altri lupi. L’animale attraversa, solo, il monte ridente di boschi, e scende in uno spazio aperto tra gli alberi; dove un ruscelletto giallo sorge tra imputriditi sacchi di pelle di alce, e s’affonda nella terra. E tra le alte erbe che crescono dove il ruscello scompare, e tra muschi che ne nascondono il giallore al sole, egli rimane assorto per qualche tempo; poi ulula e se ne va. Ma egli non è sempre solo. All’approssimarsi delle lunghe notti invernali quando i lupi seguono le loro prede nelle valli più basse, lo si vede correre alla testa del branco, alla pallida luce lunare o alla luce fioca delle aurore boreali; e balzare come gigante tra i suoi compagni, e precederli, ululando coll’ampia sua gola il canto del mondo più giovane, il canto del branco. FINE IL FIGLIO DEL LUPO. L’uomo stima di rado la donna secondo il giusto merito, se non quando rimane privo della sua compagnia. Egli, di solito, vive immerso nell’atmosfera femminile, nella quale, in certo modo, si lagna, senza sospettar neppure quant’essa sia penetrante. Ma il giorno in cui essa gli manca, comincia a farsi, nell’esistenza dell’uomo, un vuoto che s’ingrandisce sempre più. Allora l’uomo aspira vagamente a qualche cosa di poco definito, ch’egli non è capace di spiegarsi in che consista. Se ha per caso degli amici inesperti come lui, questi scuotono il capo guardandolo e gli raccomandano un rimedio energico. Senonchè il malessere s’accresce, col tempo; i piccoli fatti della vita quotidiana perdono importanza, ai suoi occhi, sinchè, alla fine, un bel giorno, il vuoto gli diventa insopportabile e l’animo gli si illumina di nuova luce, a un tratto. Quando questo accade nel paese bagnato dal Yukon, l’uomo che si trova in tali condizioni morali si procura subito una barca, se può, oppure attacca i cani a una slitta, se l’inverno è rigido, e si dirige verso il sud. Dove, se ha fiducia nel progresso del paese, ritorna mesi dopo, conducendo con sè una donna che sarà partecipe della sua confidenza e, all’occorrenza, della fatica. Questo ci mostra l’egoismo innato nell’uomo e ci fa ricordare le disavventure di «Scruff» Mackenzie, nel tempo in cui il paese non era ancora invaso dall’afflusso dei nuovi avventurieri, i _che-cha-quas_, e il Klondyke era noto solo per la pesca del salmone. L’aspetto di Scruff Mackenzie mostrava ch’egli era nato sul confine e c’era vissuto. Il suo viso portava i segni di venticinque anni di lotta incessante contro la Natura, nella sua vita più aspra e più selvaggia. Egli aveva trascorso gli ultimi due anni, più difficili e più duri di tutti, a cercare tastoni l’oro che ai trova all’ombra del cerchio polare artico. Quando la solitudine incominciò a pesargli, egli non fu punto sorpreso della cosa, da uomo pratico che aveva conosciuti altri colpiti a quel modo: non manifestò, esteriormente, alcun segno di sofferenza, anzi, si rimise al lavoro con maggiore applicazione di prima. Durante tutta l’estate lottò contro le zanzare africane e lavorò nei terreni auriferi di Stuart River, per potere provvedersi d’una quantità doppia di viveri. Quindi, ammassato un certo numero di tronchi d’alberi, costrusse una zattera sulla quale seguì il corso del Yukon sino a Forty Mile, dove costruì una delle più graziose capanne dell’accampamento. Quella capanna era così comoda, che parecchi gli fecero la proposta di abitarvi e di vivere, da buoni compagni, con lui; ma egli distrusse subito le loro speranze con poche parole dure, risentite e sbrigative, e comperò provviste abbondanti, sì, ma per due persone. Scruff Mackenzie era, come si vede, un uomo pratico: quando aveva bisogno di qualche cosa, riusciva di solito a procurarsela, ma senza incomodarsi più del necessario. Sebbene avvezzo alle fatiche più penose, non aveva però nessuna voglia di fare prima un viaggio di novecento chilometri sul ghiaccio, poi un secondo sul mare — duemila chilometri circa, — quindi, un terzo viaggio di circa mille e cinquecento chilometri a piedi, per andare, in fin dei conti, in cerca di una donna. No: la vita gli pareva troppo breve, per agire così. Egli attaccò i cani, fissò sulla slitta un carico molto originale, e partì lungo la grande pianura che, digradando in occidente, viene irrigata dalle sorgenti del Tanana. Era un viaggiatore infaticabile, e aveva dei cani-lupi che, pur consumando razioni minime di cibo, potevano percorrere un lungo cammino e compiere maggior lavoro di qualsiasi altro tiro in tutta la regione bagnata dal Yukon. Tre settimane dopo, egli giunse a un accampamento di cacciatori della tribù degli Sticks, stabilitisi lungo il Tanana; i quali furono colpiti della sua audacia, giacchè non godevano buona reputazione, ed erano giustamente malfamati per avere uccisi parecchi bianchi allo scopo di toglier loro delle inezie, come un’accetta o una carabina in cattive condizioni. Pure, Scruff Mackenzie s’avanzò solo tra essi, con un’aria che conciliava in modo meraviglioso umiltà, familiarità, _sang-froid_, e insolenza. Occorrevano una profonda conoscenza dell’indole dei barbari e una grande finezza di tatto per usare armi così diverse, ma il nostro eroe era diventato maestro in quest’arte, e sapeva, secondo i casi, mostrarsi remissivo o minacciare con accento di collera olimpica. Egli andò diritto al Capo Thiling-Tinneh, e gli fece un profondo inchino offrendogli una libbra di tè nero e una di tabacco, conquistandosi, così, immediatamente, le buone grazie del capo. Poi s’unì agli uomini e alle ragazze e annunziò che avrebbe dato, la sera, un _potlach_[2]. Entro un rettangolo di circa cento piedi di lunghezza, e venticinque di larghezza, fu battuta la neve sino a formarne una superficie compatta, e preparato nel centro un gran fuoco, mentre con rami di abete veniva formata come una cinta adorna ai due lati. I membri della tribù, una settantina circa, lasciate le loro capanne, incominciarono a cantare delle canzoni popolari in onore dell’ospite. In due anni di dimora in quelle regioni, Scruff Mackenzie aveva imparato le poche centinaia di parole che formano il vocabolario di quelle popolazioni, impadronendosi dei loro suoni gutturali e assimilando, al tempo stesso, il loro frasario giapponese, le costruzioni e le particelle onorifiche. Di modo che pronunziò un discorso secondo il loro gusto, avendo cura particolare di soddisfare il loro istintivo amore di poesia con voli d’eloquenza grossolana e contorsioni di metafore. Quando Thiling-Tinneh e il Shaman[3] gli ebbero risposto con lo stesso tono, egli fece dei piccoli regali agli uomini e incominciò a cantare con loro, poi prese parte al loro gioco dei cinquantadue bastoni, nel quale era molto forte. E quei selvaggi fumarono il suo tabacco e erano contenti. Ma i giovanotti assunsero un atteggiamento di diffidenza. Serpeggiava tra loro come un’aria di sfida, che le allusioni chiare delle vecchie e i sogghigni delle ragazze rendevano palese. Essi avevano conosciuto pochi bianchi. — o «Figli del lupo», com’essi dicevano — ma da costoro avevano appreso strane lezioni. Scruff Mackenzie, quantunque mostrasse un’aria d’indifferenza, si rese ben conto di quello stato d’animo; e durante la notte seguente, tutto raccolto nelle sue pelliccie, riflettè seriamente ai casi suoi e meditò, pur fumando numerose pipe, il da fare. Tra quelle ragazze, una sola gli piaceva, ed era, nientemeno, la figlia del capo della tribù, la bella Zarinska, che per lineamenti, taglio della persona ed andatura, impersonava un tipo di bellezza bianca, in modo da sembrare una specie di anomalia fra le altre ragazze della tribù. Egli l’avrebbe condotta con sè, come moglie, e ne avrebbe mutato il nome in quello di Geltrude. Così deciso, egli si voltò su un fianco e s’addormentò subito, da vero figlio di razza conquistatrice. Ottenere quell’intento, però, non era facile; occorreva molta abilità per riuscire. Scruff Mackenzie si comportò con molta accortezza e ostentando un’indifferenza che metteva in imbarazzo gli Sticks. Egli seppe, con molta cura, convincere gli uomini della sua abilità di cacciatore fanatico e di buon tiratore; così che da un estremo all’altro dell’accampamento si sparsero le lodi della sua bravura, quando uccise un moose[4] a cinquecento metri. Visitava, di sera, la capanna del Capo Thiling-Tinneh, tutta adorna di pelli di moose e di cariboo; e parlava dandosi grandi arie, distribuendo generosamente tabacco, non trascurando di far partecipe dello stesso onore il Shaman; giacchè egli si rendeva conto del prestigio che questa specie di medico esercitava sul popolo ed era ansioso di farsene un alleato. Ma costui, ch’era sdegnoso ed altero, non si lasciò corrompere, e Scruff Mackenzie lo incluse, giustamente, nel numero di quelli che gli si sarebbero voltati contro. Mackenzie, non intravvedendo la possibilità di rimanere solo con Zarinska, le rivolse degli sguardi incendiari che rivelavano chiaramente le sue intenzioni; mentre lei, che aveva intuito, si circondava, da civettuola qual’era, d’uno stuolo di donne, ogni qualvolta gli uomini uscivano, e Mackenzie, aveva l’occasione desiderata. Ma egli da parte sua, non aveva fretta, sapendo che lei non poteva fare a meno di pensare a lui, e che tenendola costantemente preoccupata di lui per alcuni giorni, avrebbe potuto attuare meglio i suoi disegni. Finalmente, una sera, giudicando il momento propizio, egli uscì bruscamente dall’abitazione annerita del capo e si diresse alla capanna prossima. Zarinska era seduta, come soleva, tra donne d’ogni età, intenta a far _moccasins_ e lavori di perle; così che, quando egli entrò, tutte incominciarono a ridere, unendo il nome di Zarinska con quello di lui. Egli le prese, senza riguardo, l’una dopo l’altra e le spinse fuori, sulla neve, donde partirono in fretta per andare a divulgare la notizia in tutto l’accampamento. Rimasto solo, egli difese con calore la sua causa, usando l’idioma della giovane, che altrimenti, non l’avrebbe potuto comprendere, non conoscendo altra lingua, ed alla fine, dopo due ore, s’alzò per andarsene. Dunque, Zarinska verrà nella capanna dell’uomo bianco? Bene! Ora, vado a parlarne a tuo padre, che forse non sarà dello stesso parere. Gli farò molti regali, ma bisogna che non pretenda troppo. E se dice di no? Bene! Zarinska verrà ugualmente nella capanna dell’Uomo Bianco». Aveva già sollevato la portiera fatta di pelli di bestie per uscire, allorchè un’esclamazione soffocata lo richiamò presso la giovane. Questa gli si inginocchiò davanti sulla pelle d’orso che tappezzava la capanna, e, arrossendo, da vera figlia d’Eva, gli sciolse timidamente la pesante cintura. Sorpreso e insospettito, egli la guardava, tendendo l’orecchio al menomo rumore di fuori. Ma il movimento ch’ella fece poi allontanò ogni timore, ed egli sorrise dal piacere. Zarinska s’alzò, andò a prendere nel suo sacco da lavoro un fodero di cuoio di moose tutto lucente di perle dal ricamo fantastico e tolto il coltellaccio di caccia di Mackenzie, ne osservò rispettosamente la lama, quasi tentata di provarlo sul pollice, e l’infilò nell’astuccio. Poi rimise l’arma nel fodero, al posto solito, alla cintola, proprio sull’anca. Pareva uno spettacolo medioevale: quello della dama che arma il cavaliere. Mackenzie rialzò la giovane, e sfiorò coi suoi mustacchi le labbra vermiglie di Zarinska, che conobbe per la prima volta, la carezza del Lupo. Fu come l’incontro dell’età della pietra con l’età del ferro. E fu come un fremito nell’aria, poco dopo, quando Scruff Mackenzie, portando sotto il braccio un enorme pacco, sollevò la portiera della tenda di Thiling-Tinneh. I ragazzi correvano, qua e là, portando legna secche nel luogo dove doveva avvenire il _potlach_; un mormorio di voci femminili s’udiva sempre più distinto, e i giovanotti, in gruppi, si consultavano, con aria cupa, mentre dalla tenda dello Shaman proveniva uno strano rumore, come di scongiuro. Il capo era solo con la moglie, dagli occhi cisposi. Bastò uno sguardo a Mackenzie per capire che la notizia era già divulgata; di modo che affrontò senz’altro la questione, avendo cura di mettere bene in vista il fodero ricamato, regalo del fidanzamento. — O Thiling-Tinneh, capo possente degli Sticks e della terra di Tanana, — esclamò. — Sei tu che regni sul salmone, sull’orso, sul moose e sul cariboo! L’uomo bianco si presenta a te, per un gran disegno ch’egli ha concepito, sono ormai trascorse molte lune, ed egli vive ancora da solitario, in una capanna vuota. Il suo cuore, raccolto nel silenzio, sospira pensando a una donna che gli segga accanto, sotto la sua tenda, e gli prepari, al ritorno della caccia, un buon pasto che lo ristori. Egli ha udito strane cose: il rumore di piccoli passi di bambino e il suono di voci giovanili che gli giungono di lontano agli orecchi. Una volta la sua notte di solitario è stata turbata da una apparizione: egli ha visto il Corvo, che ti è padre, il Gran Corvo, padre di tutti gli Sticks, e il Corvo ha parlato così all’uomo bianco: «Metti i tuoi _moccasin_, attacca i pattini e prepara la slitta; mettivi su delle provviste di viveri per numerosi giorni; e bei regali pel Capo Thiling-Tinneh. — Quindi volgi gli occhi dalla parte dove il sole è solito scomparire in piena primavera, e viaggia sino all’accampamento di caccia del grande capo. Tu gli offrirai magnifici regali, e Thiling-Tinneh, che mi è figlio, diverrà un padre per te. Sotto la sua tenda c’è una fanciulla alla quale ho dato vita per te: quella fanciulla sarà tua moglie». «Così parlò il Gran Corvo, o capo! E perciò io pongo ai tuoi piedi numerosi doni e desidero condurre con me tua figlia.» Con una mossa non priva di maestà, il vecchio s’avvolse nelle sue pelli, ma indugiò a rispondere, mentre un omuncolo ficcatosi nella tenda e detto rapidamente che il consiglio, radunato, desiderava il capo, spariva. — O Uomo Bianco che abbiamo soprannominato l’Uccisore di Moose, tu sei noto anche col nome di Lupo e figlio di Lupo. Noi sappiamo che la tua razza è potente e siamo orgogliosi di averti come ospite, al nostro pollach, ma il salmone-re, non può far comunione col salmone inferiore, come non può il Corvo col Lupo. — Come! — esclamò Mackenzie. — Ma se ho incontrato le figlie del Corvo negli accampamenti del Lupo! Per esempio, la moglie di Mortimer, la moglie di Tregidgo, la moglie di Barnabè, che è ritornata due inverni fa, e ho udito parlare di parecchie altre figlie del Corvo, che però non ho viste. — Tu dici il vero, figliuolo, ma sono unioni infelici, come quella dell’acqua colla sabbia o del fiocco di neve col sole. Hai incontrato Mason e la sua compagna? No?... È venuto qui dieci corvi di gelo fa: è stato il primo, di tutti i Lupi. Con lui, c’era un uomo robusto, grande, diritto come un salcio; forte come l’orso grigio, dalla faccia senza peli, dal cuore come la luna piena d’estate; il suo... — Oh! — interruppe Mackenzie, riconoscendo in quello l’uomo noto in tutto il Nord, — è Malemute Kid! — È lui, un uomo fortissimo. Ne hai visto mai la moglie? Pareva sorella gemella di Zarinska. -No, capo, non la conosco, ma ne ho sentito parlare. Mason, giù, giù nel Nord, è stato schiacciato da un enorme vecchissimo abete; ma il suo amore era grande ed egli possedeva molto oro. Mediante quest’oro, sua moglie ha potuto viaggiare col figlio per molti giorni alla volta del paese dove si vede il sole a mezzo inverno; e là essa vive. Non più geli, nè neve, nè sole a mezzanotte, d’estate, nè notti a mezzogiorno, d’inverno. Giunse un secondo messaggero che portò una chiamata urgente del Consiglio. Mackenzie, nel respingerlo fuor dell’uscio, sulla neve, intravvide con un rapido sguardo alcuni uomini curvi davanti al fuoco del consiglio; indi le profonde voci basse degli uomini che cantavano a coro, ritmicamente, e comprese che il Shaman eccitava la collera del popolo contro di lui. Bisognava sbrigarsi... allora si volse al Capo: — Insomma, io desidero tua figlia. E ora guarda: Ecco tabacco, per te, un gran numero di vasi pieni di zucchero, coperte che riscaldano, fazzoletti belli e grandi, infine una carabina, una vera carabina con molte palle e polvere. — No. — replicò il vecchio, resistendo alla tentazione di tutte quelle ricchezze esposte davanti a lui — ormai il mio popolo è adunato; non vuole questo matrimonio. — Non sei tu il loro capo? — Certo; ma i giovani sono furiosi perchè i Lupi hanno preso le ragazze della tribù ed essi non possono ammogliarsi. — Ascolta, o Thiling-Tinneh: prima che alla notte succeda il giorno, il Lupo avrà già preso con i suoi cani la via delle montagne dell’Est, diretto al paese del Yukon e Zarinska andrà avanti ai cani. — E prima che metà della notte sia trascorsa, i miei giovani forse avranno dato in pasto ai cani la carne del Lupo e disseminato le sue ossa sulla neve, dentro la quale rimarranno sepolte, sino al giorno in cui, la primavera le scoprirà. Minaccia opposta a minaccia. La faccia abbronzata di Mackenzie divenne rossa, d’un rosso cupo; egli alzò la voce. La vecchia moglie rimasta sino a quel punto spettatrice impassibile, cercò di svignarsela strisciandogli accanto verso la porta. Il canto degli uomini cessò di botto; si udì, però un gran mormorio quando Mackenzie respinse rudemente la vecchia sul tappeto di pelle. — Torno a gridartelo: Ascolta, o Thiling-Tinneh! Il Lupo muore a denti stretti, e con lui, dieci uomini, i più forti fra i tuoi, cadranno, uomini necessari, giacchè è appena incominciata la stagione della caccia e quella della pesca sarà fra poche lune. E poi, a che ti gioverebbe la mia morte? Io conosco le costumanze del tuo popolo; tu avrai la minima parte delle mie ricchezze, che, invece, potranno essere tutte tue se mi dai tua figlia. E poi... i miei fratelli verranno, e sono numerosissimi, e la loro fame non è mai sazia. E le figlie del Corvo partoriranno nei capanni del Lupo. Il mio popolo è più grande del tuo. Così vuole il Destino. Concedimi ciò che chiedo, e tutte le mie belle cose saranno tue. S’udiva un pestìo di _moccasins_, di fuori, sulla neve. Mackenzie caricò la carabina e preparò due rivoltelle che aveva nella cintura. — Accetta, o capo! — Sarà il mio popolo a dir di no! — Accetta, e queste ricchezze saranno tue. Penserò io a intendermela poi col tuo popolo. — Giacchè il Lupo vuole così, io prendo i pegni... ma ti ho avvisato. Mackenzie gli consegnò tutti i regali, avendo cura, però, di scaricare la carabina e aggiungendo, come segno di gradimento e conclusione del patto, un fazzoletto di seta screziata di varî colori. A questo punto, ecco entrare il Shaman, accompagnato da una mezza dozzina di giovanotti. Subito, Mackenzie s’aprì arditamente un varco tra essi, spingendoli con le spalle, e uscì dalla tenda. — Preparati per la partenza, — fece con un tono reciso a Zarinska, a mo’ di saluto, nel passare davanti alla tenda di lei. Poi andò in fretta ad attaccare i cani. Pochi minuti dopo, giungeva, alla testa del tiro, in pieno consiglio. La donna gli stava allato. Egli si collocò nella parte più alta del rettangolo, accanto al capo, e mise Zarinska alla sua sinistra, un po’ indietro, al posto che le spettava, anche perchè appressandosi l’ora della lotta, era bene che avesse le spalle salve. Da ogni lato, gli uomini, accosciati attorno al fuoco, cantavano ad alta voce un motivo popolare, ricordando un passato da lungo tempo dimenticato. Misterioso, a pause cadenzate, con un ritornello ossessionante, quel canto era tutt’altro che bello; l’aggettivo _terribile_ non basta neppure a definire la sensazione che suscitava. All’altra estremità del rettangolo, danzavano cinque o sei donne, sotto l’occhio del Shaman, il quale sgridava severamente quelle che non s’abbandonavano con tutto lo slancio che ci voleva, di solito, in quelle occasioni. Mezzo nascoste sotto la greve massa dei loro capelli neri che ricadevano in disordine fino alla cintola, esse ondeggiavano lentamente, ora indietro, ora in avanti, facendo oscillare i loro corpi secondo il ritmo, che mutava continuamente. Era uno spettacolo strano, anacronistico: mentre nel mezzogiorno, il secolo XIX moriva con gli ultimi anni della sua ultima dècade, lì, l’uomo primitivo, frammento negletto del Vecchio Mondo, fioriva, quasi come al tempo degli abitatori delle caverne preistoriche. I cani lupi, dal pelo fulvo erano coricati tra i loro padroni coperti di pelli di bestie o si facevano largo in mezzo ad essi. I loro occhi sanguigni e le loro bocche colanti schiuma riflettevano i rossi chiarori del fuoco. I boschi dormivano, indifferenti, sotto un bianco lenzuolo, e il gran silenzio ricacciato, a quell’ora, ai margini delle foreste, pareva rifugiarsi in fondo in fondo; le stelle danzavano nella volta turchina, come accade di solito al tempo del gran freddo: mentre gli spiriti del polo trascinavano le loro vesti splendide attraverso i cieli. Scruff Mackenzie ebbe un concetto approssimativo, della grandezza selvaggia, di quello spettacolo, quando percorse collo sguardo i due filari di abeti, per rendersi conto del numero degli assenti. E lo sguardo si posò, un momento, su un neonato che succhiava il seno di sua madre. S’era a quaranta gradi sotto lo zero. Egli pensò alle donne delicate della sua razza, e sorrise con aria selvaggia. Eppure, egli era nato da una di queste donne, e aveva ricevuto un retaggio regale, come quelli della sua razza: il potere di regnare su terra e su mare, sui popoli e sugli animali di tutte le regioni. Solo com’era contro cento, lontano da tutti i suoi, in pieno inverno artico, egli sentì passare nelle vene l’ardore dei suoi antenati, il desiderio dell’amore selvaggio e pericoloso, e, col fremito della lotta prossima, l’ardore di vincere o morire. Canti e danze cessarono, e il Shaman incominciò a parlare con eloquenza avvincente; servendosi della loro intricata mitologia, egli sapeva influire abilmente sull’animo credulo del popolo. La faccenda diventava seria. Creando un contrasto tra i principî creatori incarnati nella Cornacchia e nel Corvo, e Mackenzie, egli marchiò costui col nome di Lupo, principio di lotta e di distruzione. — Non si trattava solo di un contrasto di forze spirituali, ma della lotta, ma della lotta dell’uomo contro l’uomo sino alla soppressione. Essi erano i figli di Jelchs, il Corvo, che aveva portato il fuoco; Mackenzie era il figlio del Lupo, o, con parole più precise, il Demonio. Dar tregua per un momento a questa lotta perpetua e maritare le loro figlie con i capi nemici era un tradimento e uno spaventoso sacrilegio... non c’era immagine bassa o parola dura bastante per definire Mackenzie, ch’egli chiamava intruso, sornione, creatura di Satana. Una specie di ruggito selvaggio, subito represso, sfuggì dal petto degli ascoltatori quando egli s’abbandonò al volo della perorazione. «Sì, fratelli miei, Jelchs è onnipotente. Non ha portato il fuoco dal cielo per riscaldarci? Non ha fatto uscire dalle loro caverne il sole, la luna, e le stelle per darci la luce? Non ci ha insegnato a lottare contro gli spiriti maligni, quali la Carestia e il Gelo? Ora, Jelchs è adirato contro i suoi figliuoli ridotti a un piccolo numero, e rifiuta di aiutarli, perchè si sono abbandonati a male azioni, hanno percorso i sentieri del male e accolto nelle loro case i suoi nemici ch’essi hanno fatto sedere accanto al loro focolare. E il Corvo è afflitto dalla perversità dei suoi figliuoli; ma quando essi si solleveranno e mostreranno di voler tornare a lui, egli uscirà dalle tenebre per aiutarli. O fratelli, il Messaggero del Fuoco è venuto a sussurrare delle parole all’orecchio del vostro Shaman, e le parole sono queste che udrete: «I giovani conducano le giovani nelle loro capanne, si lancino alla gola del lupo, e il loro odio non si estingua mai. Allora le loro mogli diverranno feconde, ed essi cresceranno e moltiplicheranno e formeranno un popolo potente. E i Corvi guideranno tribù numerose dei loro padri e dei padri dei loro padri, dalle lontane terre del Nord; e sconfiggeranno i Lupi sino al punto di farli scomparire come i fuochi dei nostri accampamenti dell’anno passato, e allora i Corvi regneranno su tutta la terra». Tale è il messaggio di Jelchs, il Corvo». Questo simbolo della venuta del Messia suscitò una specie di urlìo rauco degli Sticks che, a un tratto, balzarono in piedi. Mackenzie liberò il pollice dai guantoni e attese. Sorse un gran clamore: volevano la Volpe. Il clamore s’acquetò solo allorchè un giovanotto s’avanzò per parlare, a sua volta. «Fratelli! Le parole del Shaman sono dettate da saggezza. I Lupi hanno condotto con loro le nostre donne, e i nostri uomini sono senza figliuoli. Siamo ridotti a un pugno d’uomini. I Lupi hanno preso le nostre calde pellicce e ci hanno dato in cambio degli spiriti maligni che giacciono in bottiglie e vesti fatte con erba e non con pellicce di castoro o di lince. Queste stoffe non serbano calore e i nostri uomini muoiono di strane malattie. Io, la Volpe, non ho moglie... perchè? Due volte, le ragazze che mi piacevano sono partite per l’accampamento dei Lupi; oggi, ho messo da parte pelli di castoro, di moose e di cariboo, per ingraziarmi Thiling-Tinneh e sposare sua figlia Zarinska. Ebbene! Ella ha già calzato i pattini ed è bell’e pronta a guidare i cani del Lupo... Non parlo solo per me: lo stesso è accaduto all’Orso. Anch’egli desiderava tanto d’essere il padre dei figliuoli di Zarinska, ed aveva in serbo numerose pelli di bestie per ottener l’intento... Parlo in nome di tutti i giovani che non hanno moglie. I Lupi sono insaziabili, e si prendono sempre la parte migliore del bottino, lasciando quel che loro avanza, ai Corvi. «Guardate Gugkla!», esclamò egli, accennando col dito a una donna inferma: «le sue gambe contorte come i fianchi d’un canotto di betulla le impediscono di raccogliere legna e di portare il cibo ai cacciatori. I Lupi se la son presa? — È vero, è vero! — acclamarono gli uomini della tribù. — Ecco Moyri, alla quale lo Spirito del Male ha torti gli occhi. I ragazzi hanno paura quando i loro sguardi cadono su di lei: e si dice che l’Orso le apra il cammino sul ghiaccio. È stata scelta, forse? Risuonò l’applauso crudele. — Guardate Pischet, seduta là. Le mie parole non giungono sino a lei, che non ha mai udito la voce del marito e neppure il cicaleccio del figliuolo, giacchè vive nel gran Silenzio Bianco. I Lupi si sono curati di lei?... No! Essi scelgono la parte migliore e a noi tocca il resto... Ebbene! Fratelli, d’ora in poi, non sarà più così! Noi non permetteremo più che i Lupi si insinuino nei nostri accampamenti. L’ora è venuta». Nel momento in cui pronunciava queste ultime parole un immenso chiarore purpureo, verde, giallo, e violetto, si distese da un punto all’altro del cielo: era un’aurora boreale. Colla testa rovesciata indietro e le braccia distese, l’oratore esclamò, terminando: — Guardate! Gli spiriti dei nostri padri sorgono, e grandi cose stanno per compiersi stanotte! Egli indietreggiò di alcuni passi, e un altro giovane s’avanzò timidamente, spinto dai compagni ch’egli sorpassava di tutta la testa. Il suo largo petto scoperto, sembrava sfidare il freddo; egli oscillava ora su un piede ora sull’altro, le parole gli si fermavano tra le labbra; era in gran disagio. La sua faccia, orribile all’aspetto, recava i segni dei colpi spaventosi che glie ne avevano tolta una parte. Egli incominciò a colpire col pugno chiuso il suo vasto petto, che risuonò come un tamburo, e la voce s’alzò, rumoreggiando come le onde che rifluiscono da una profonda caverna. — Io sono l’Orso... la Punta d’Argento e il Figlio della Punta d’Argento. La mia voce rassomigliava ancora a quella d’una ragazza quando già cacciavo la lince, il moose, il cariboo; allorchè il vento soffiava terribile; io ho percorso le Montagne del Sud e ucciso tre uomini dei Fiumi Bianchi, e quando questi sono diventati torrenti, ho incontrato l’orso bianco, ma non gli ho ceduto il passo. Egli tacque un momento e passò, in modo significativo, una mano sulle sue orribili cicatrici. — Io non rassomiglio alla Volpe. La mia lingua è gelida come l’acqua. Io non sono capace di fare lunghi discorsi. Posso dire solo poche parole. La Volpe annunzia che grandi avvenimenti si compiranno questa notte. Bene! Le parole scorrono dalle sue labbra come l’acqua dalla fonte, ma egli non è prodigo di azione. Questa notte mi batterò col Lupo. L’ucciderò, e Zarinska verrà a sedersi accanto al mio fuoco. L’Orso ha parlato. Nonostante un pandemonio infuriasse intorno a lui, Mackenzie non si mosse. Sapendo che la carabina non poteva servirgli così da vicino, trasse le due rivoltelle, e se le pose innanzi pronte a servirsene, e tolse i guantoni a sacco così che le mani erano appena riparate dai guanti che incominciavano dal gomito. Sapeva che a voler prendere tutti i suoi nemici insieme era come perdersi, ma, fedele alla parola, era preparato a morire coi denti stretti. Ma l’Orso tratteneva i suoi compagni, respingendo, col suo terribile pugno, i più avventati. Quando il tumulto cominciò a placarsi. Mackenzie lanciò uno sguardo in direzione di Zarinska. Formava un quadro magnifico. Curva in avanti nei pattini, con le labbra socchiuse e le narici frementi, era come una tigre pronta a balzare. I suoi grandi occhi neri fissavano gli uomini della sua tribù con una espressione tra di sfida e di timore. Era tale la tensione del suo animo che pareva ch’ella non respirasse neppure. Con una delle mani raggrinzite si premeva convulsamente il petto, e con l’altra teneva come in una morsa il frustino pei cani. Sembrava una statua di pietra. Poi i suoi muscoli s’allentarono; rovesciatasi indietro, emise un sospiro, e lanciò a Mackenzie uno sguardo ch’esprimeva più che amore. Thiling-Tinneh tentava invano di parlare, la voce sua si perdeva nel clamore. Allora, Mackenzie s’avanzò. L’Orso incominciò a lanciare una specie di urlo selvaggio continuo, ma Mackenzie si precipitò con tanto furore sul nemico, che questi indietreggiò e non fece uscire altro dalla sua gola che un suono soffocato. Degli scoppi di risa salutarono la sua sconfitta, e i compagni del vinto, acquetatisi, stettero volentieri ad ascoltare. — Fratelli, — esclamò Mackenzie. — L’uomo bianco, che vi compiacete di chiamare il Lupo, è venuto fra voi con buone parole. Venne da amico, da fratello, con labbra che non hanno detto menzogne. Ma i vostri uomini hanno spiegato ciò che loro pesava sul cuore, e il tempo delle buone parole è passato. Prima di tutto, permettetemi di dirvi che il Shaman è un falso profeta: egli ha una brutta lingua; i messaggi ch’egli vi porta non provengono dal Portatore del Fuoco; i suoi orecchi non possono intendere la voce del Corvo; ed egli si è preso giuoco di voi raccontandovi le parole che ha immaginate. Egli non ha potere alcuno. Ricordatevi il passato. Quando dovevate uccidere i vostri cani e mangiarli, allorchè i vostri stomachi soffrivano perchè non si nutrivano d’altro che di petto d’animali e di cordicelle dei vostri _moccasins_; quando i vecchi e le donne d’età inoltrata s’addormentavano, per non svegliarsi più, e i neonati morivano sul seno inaridito delle loro madri, e tutto era tetro attorno a voi, e voi perivate in gran numero, come il salmone al momento del passaggio, e la carestia faceva strage. Ebbene! è forse venuto il Shaman a togliere ogni affanno ai vostri cacciatori? Ha egli dato della carne ai vostri stomachi affamati? Ve lo ripeto: il Shaman non ha alcun potere; perciò, gli sputo in faccia! Sebbene sorpresa a quella specie di sacrilegio, la folla non fece udire alcuna protesta. Alcune donne si spaventarono, ma parecchi, fra gli uomini, parvero attendere un miracolo. Tutti gli occhi erano fissi sulle due figure centrali. Il prete-medico sentì tutta l’amarezza di quell’ora crudele, il potere gli sfuggiva, egli aprì la bocca per minacciare, ma indietreggiò subito davanti all’atteggiamento feroce, ai pugni stretti e agli occhi scintillanti di Mackenzie; il quale sogghignò e proseguì: — Sono morto, forse? Il fulmine mi ha colpito? Son cadute le stelle dal cielo per distruggermi? Bah! l’ho finita col cane. Ora, vi parlerò del nuovo popolo, che è il più possente di tutti e regna su tutti i paesi. Prima di tutto, noi cacciamo soli, come faccio io; poi, cacciamo in compagnia, e, infine, ci spargiamo in massa sui paesi, come il cariboo in certe stagioni dell’anno. Quelli che noi conduciamo nelle nostre capanne vivono, gli altri, quelli che restano, muoiono. Zarinska è una giovane graziosa e robusta, nata per diventare la madre di Lupi. E ancor io morissi, ella sarà tale, giacchè i miei fratelli sono numerosissimi e seguiranno la traccia dei miei cani. Ascoltate la legge del Lupo: «_Chiunque ucciderà un Lupo sarà punito con la morte di dieci dei suoi_». Parecchi paesi hanno già pagato questo tributo, e sarà sempre così. — Ora, io mi rivolgo alta Volpe e all’Orso. Tutti e due hanno, com’essi dicono, posto gli occhi sulla giovane. Ebbene? io l’ho comprata! Thiling-Tinneh s’appoggia in questo momento sulla carabina che gli ho data io, i miei regali sono tutti nella sua tenda. Tuttavia, io sarò giusto coi giovanetti. Alla Volpe, la cui lingua è disseccata dalle parole ch’egli ha pronunziate, io darò cinque grossi pacchi di tabacco, che serviranno a inumidirgli la bocca e a permettergli di pronunziare dei discorsi in consiglio. Quanto all’Orso, di cui sono orgoglioso, gli offro due coperte, venti coppe di farina, il doppio del tabacco offerto alla Volpe, e, se vuole seguirmi d’altra parte delle Montagne dell’Est, una carabina simile a quella di Thiling-Tinneh. Altrimenti?... ebbene! Vedremo!... il Lupo è stanco di parlare, e vi ripete per l’ultima volta la legge: «_Chiunque farà perire un Lupo, sarà punito con la morte di dieci dei suoi_». Così detto, Mackenzie, riprese la posizione di prima, un po’ indietro; ma, in fondo al cuore, provava una grande ansia. La notte era molto oscura: Zarinska s’accostò a lui per parlargli, ed egli ascoltò con la maggiore attenzione tutto quanto ella disse circa la bravura combattiva dell’Orso col suo coltello. La lotta fu decisa in breve: in un batter d’occhio, un gran numero di piedi calzati di _moccasins_ ingrandì lo spazio della neve battuta presso il fuoco. Si parlava molto della sconfitta apparente dello Shaman; c’era chi diceva ch’egli teneva per sè la sua potenza senza manifestarla per un po’, e chi commentava le vicende del passato, dando ragione al Lupo. L’Orso s’avanzò verso il mezzo del terreno segnato pel combattimento, tenendo in mano un lungo coltello da caccia di fabbricazione russa. La Volpe richiamò l’attenzione sulle rivoltelle di Mackenzie, che si sciolse la cintura e ne cinse Zarinska, alla quale affidò anche la carabina. Ella fece un cenno del capo per mostrare che non sapeva servirsene, giacchè una donna non aveva punto occasione di maneggiare cose così preziose. — Dunque, se sono minacciato alle spalle, grida con tutte le tue forze: «Marito mio!» Non così, ma a questo modo: «Marito mio!...». Egli rise, udendola ripetere le sue parole, le pizzicò la gola e rientrò nel cerchio. Non solo l’Orso era molto più grande di Mackenzie, ma aveva un coltello almeno di due pollici più lungo di quello dell’altro. Mackenzie, che aveva più d’una volta guardato bene in faccia degli uomini, comprese che stava per lottare contro un nemico formidabile. Pure, il luccichìo dell’acciaio sotto la luce, gli fece battere più forte il polso e risvegliò in lui l’istinto dominatore della razza. Di tanto in tanto, Mackenzie, era respinto vicinissimo al fuoco e all’estremo del terreno, e, ogni volta, la tattica familiare ai pugilisti lo riconduceva al centro. Neppure una voce s’alzava in suo favore, mentre applausi, incitamenti e avvertimenti erano prodigati all’Orso. Ogni qualvolta i coltelli s’incontravano, Mackenzie, stringeva i denti maggiormente, e dava o parava i colpi con una colma coscienza della sua forza. Dapprima, egli sentì pietà per l’avversario, ma questo sentimento cedette in breve all’istinto di conservazione, che, a sua volta, cedette al piacere d’uccidere. Diecimila anni di cultura sparirono e non rimase che un abitante delle caverne che lottava per la donna da lui eletta. Due volte toccò l’Orso senz’esserne toccato, ma, la terza volta, sentì la lama dell’avversario, e, per iscansarla, toccò con la mano libera il braccio armato dell’Orso. Vennero alle mani. Mackenzie allora si rese conto dell’immensa forza di questi: i muscoli tesi gli si annodavano dolorosamente, nervi e tendini sembravano spezzarsi, dallo sforzo, la lama di momento in momento s’avvicinava sempre più. Egli tentò di svincolarsi, ma non fece altro che perder forza, mentre la cerchia degli spettatori rivestiti di pelli di bestie, si stringeva per vedere la sconfitta e il colpo finale. Allora, con tutta l’astuzia d’un lottatore esperto, Mackenzie si gettò un po’ da lato e diede un gran colpo di testa all’avversario. L’Orso indietreggiò involontariamente e perse, così, il centro di gravità, mentre Mackenzie, si lanciava su di lui con tutto il suo peso e lo precipitava sulla neve spessa e dura. L’Orso inciampò e cadde sul dorso, lungo disteso. — O marito mio! — risuonò la voce di Zarinska, vibrante di pericolo. Al rumore del distendersi d’un arco, Mackenzie si curvò a terra, ed ecco una freccia, passando sopra di lui, colpire l’Orso al petto, nel momento in cui stava per gettarsi sul nemico, strisciante innanzi a lui. Mackenzie si rialzò subito. L’Orso giaceva, immobile, ma dall’altro lato del fuoco, lo Shaman si preparava a lanciare una seconda freccia. Mackenzie prese il suo pesante coltello per la lama e lo lanciò nello spazio. Fu come il guizzo d’un lampo attraverso il fuoco: la lama s’affondò sino al manico nella gola dello Shaman, il quale vacillò un momento e cadde colla persona in avanti tra le ceneri ardenti. Clic! clic!... La Volpe s’era impossessata della carabina di Thiling-Tinneh e cercava invano di sparare. A un tratto, abbassò l’arma udendo lo scroscio di risa di Mackenzie. — La Volpe non sa ancora servirsi di quel gingillo? È ancora come una donna. Vieni! Portamela e ti mostrerò come usarla! La Volpe esitava. — Vieni, dico! La Volpe finì coll’avvicinarsi con passo pesante, a testa bassa, come un cane battuto. — Ecco come si fa, così e così! — e ficcata una palla nella carabina, col cane alzato, portò l’arma alla spalla. — La Volpe ha detto che grandi cose avverranno questa notte, e non s’è ingannata. Vi sono state delle grandi gesta, ma quelle della Volpe non sono le più notevoli. Ha egli ancora l’intenzione di condurre Zarinska nella sua capanna? Vuol seguire la strada presa dallo Shaman e dall’Orso?... No?... Bene! Mackenzie si voltò, con aria di supremo disprezzo, e strappò il coltello dalla gola del prete-medico. — C’è altri giovanotti desiderosi di seguire la stessa sorte? Se vi sono, il Lupo li ucciderà a due o tre per volta, finchè non ne rimanga neppur uno. No? Bene! Thiling-Tinneh, ti dò questa carabina la seconda volta. Se ti capitasse, col tempo, di viaggiare fino al paese bagnato dal Yukon, sappi che vi sarà sempre per te, al fuoco del Lupo, un posto e vitto abbondante. Il giorno è prossimo. Io me ne vado, ma, forse, ritornerò. E per l’ultima volta, ricordatevi della legge del Lupo! Agli occhi di tutti, egli sembrava un essere soprannaturale quando raggiunse Zarinska. La giovane si mise subito alla testa del tiro, e i cani non tardarono a partire. Pochi minuti dopo, sparivano nel folto della foresta. Mackenzie, da parte sua, attendeva. Dopo un po’ ficcò i piedi nei pattini per seguir lo stesso cammino. — Il Lupo non ricorda i cinque pacchetti di tabacco? Mackenzie si voltò, con aria furibonda, verso la Volpe, ma rimase colpito dalla comicità della cosa: — Te ne darò uno piccolo. — Come vuole il Lupo, — rispose la Volpe, con voce mite, stendendo la mano. INDICE Jack London _pag._ 5 IL RICHIAMO DELLA FORESTA. _Cap. I_ — Verso la vita primitiva _pag._ 31 » _II_ — La legge della mazza e dei denti » 53 » _III_ — La bestia primordiale preponderante » 73 » _IV_ — Colui che ha guadagnato il primato » 101 » _V_ — La fatica del tiro e del cammino » 119 » _VI_ — Per l’amore di un uomo » 149 » _VII_ — Il richiamo della voce » 177 IL FIGLIO DEL LUPO » 213 I ROMANZI E LE NOVELLE DI JACK LONDON _Di questo grande scrittore americano, già universalmente noto, la nostra Casa Editrice inizia, e continuerà a mano a mano, la prima ed unica pubblicazione di tutte le opere a cura di Gian Dàuli, il quale fu il primo a segnalare Jack London al pubblico italiano come uno dei genî più originali e possenti che possa vantare la letteratura anglo-sassone._ _IN CORSO DI STAMPA:_ ZANNA BIANCA (_White fang_) — Romanzo. _IN PREPARAZIONE:_ MARTIN EDEN — Romanzo. L’AMORE DELLA VITA — Romanzo. IL TALLONE DI FERRO — Romanzo di previsione sociale. IL FIGLIO DEL LUPO — Novelle. OGNI VOLUME LIRE OTTO «.... _Hélas! Jack London avait le genie qui voit ce qui est caché à la foule des hommes et possedait une science qui lui permettait d’anticiper sur les temps_....». ANATOLE FRANCE. NOTE: [1] Del quale pubblichiamo il primo racconto, dello stesso titolo, alla fine del presente volume. [2] Specie di festa barbarica in uso presso quelle tribù. [3] Medico-prete. [4] Grosso animale delle regioni polari, della famiglia delle renne. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL RICHIAMO DELLA FORESTA *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. 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