ANTONIO BELTRAMELLI
Il diario di un viandante
(Dal Deserto al Mar Glaciale).
Cammina, cammina, cammina
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1911
—
Secondo migliaio.
PROPRIETÀ LETTERARIA ED ARTISTICA.
I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi i Regni di Svezia, Norvegia e Olanda.
Copyright by Fratelli Treves, 1910.
Milano. — Tip. Fratelli Treves.
A Federico De Maria e a Stefano Catalanotti, che primi mi chiamarono alle soglie dell’Oriente, dedico queste pagine nostalgiche di un’anima errabonda.
[3]
Ricordo sempre. Sopra alla stufa, da un lato, appesa al muro entro una cornice nera e difesa da un vetro era una vecchia lettera stinta, dalla carta ingiallita, dai caratteri chiari.
La stanza era buia ed angusta e la lettera rimaneva tutto il giorno nell’ombra; solo alla sera quando, sopra alla tavola coperta da un vecchio tappeto a maglia, si accendeva il lume a petrolio, il quadratuccio di carta appariva su le pareti illuminate.
Per lungo tempo non me ne occupai; era una cosa abituale nè mi destava maggior curiosità della valvola o dello sportellino della stufa, oggetti che mi erano famigliari in quel tempo più degli uomini e delle loro parole.
Avevo forse cinque anni quando incominciai a guardare incuriosito la reliquia custodita religiosamente. Ricordo che la mamma ne spolverava il vetro ogni giorno e ricordo il nonno che a volte vi si soffermava innanzi pensoso.
Ne nacque in me un rispetto inconsapevole. Credevo si trattasse di qualche cosa prodigiosa ma ancora l’attenzione mia non ne era attratta.
[4]
Mi risuonavano bensì nella memoria alcune frasi che sentivo ripetere con frequenza da mia madre:
— .... la battaglia di Mosca mi costa più di duecento zecchini.... —
Oppure:
— .... Napoleone è con noi, non v’è da dubitar di gloria!... —
Ma allora non erano, per me, che parole senza importanza.
Fu più tardi, qualche anno dopo, che la mia mente si aprì a tale mistero e tutta se ne saturò e lo rivestì di magnificenza.
Avevo incominciato a leggere e leggevo con avidità. Un giorno trassi una seggiola presso al muro, vi salii e cominciai a decifrare lentamente i caratteri ingialliti della vecchia lettera.
Sul principio mi ci raccapezzai a stento, poi mi si aprì un orizzonte improvviso e la mia meraviglia e l’entusiasmo mio non ebbero più limiti.
Alla sera ebbi dalla mamma tutti gli schiarimenti che poteva darmi; ne ero tanto ansioso che ella ne sorrise.
Seppi che la lettera era stata scritta da un suo prozio, colonnello nell’esercito napoleonico, caduto al passaggio della Beresina.
Era morto da tanto tempo! Aveva lasciato un orologio d’oro che doveva essere recapitato alla famiglia ma, nel tragitto, diventò d’ottone. E il vecchio orologio d’ottone, con sopra impressa una sigla, lo ricordo tuttavia chè mi divenne caro per tutto ciò che la mia fantasia gli fece raccontare.
Da quel tempo lessi non so quante volte la lettera ingiallita, e da quel tempo, unitamente alla figura del vecchio congiunto, che ingigantii, un’altra ne visse, molto più modesta forse, ma infinitamente più triste: quella del viandante.
[5]
Ecco ciò che era scritto su la carta stinta:
Carissimo Fratello,
Mosca, 4 ottobre 1812.
Qual possa essere il motivo che mi vedo privo di riscontro non so immaginarlo. Posibile che tutti si siano concertati per lasciarmi nella dura credulità di non più vivere alla memoria de’ Parenti ed Amici?
Per me la Patria mi è troppo Cara per avere ad ogni istante Presente un Cielo che le sole Divinità dovrebbero ingiornarvi; Felici quelli che privi del desiderio di gloria non abbandonano un sì bel Terreno; Ma felice io pure se divenuto io sono parte di quelli che conquistarono, distrussero una Potenza la di cui influenza facea temere il Continente. Un dì l’Italia potrà vantar molto guereggiando unita per ora con la gran Nazione, e così dettare un giorno Legge a quelli che osassero insultare il Regno nostro.
Mosca, una delle prime capitali, più non esiste. Al nostro entrarvi le disposizioni erano date da quel Governatore perchè fosse incendiata.
Più di 400,000 abitanti fuggirono ed ora è Deserta. Poche Case e pochi miserabili vi restano. Bellezza e Ricchezza furono distrutte dalle fiamme. Chi non vide l’incendio di questa città vantar non può di conoscere Miserie.
Percorsi nei primi giorni le Strade a Cavallo, e posso dire più volte traversai il fuoco, ma dovetti fuggirmene commosso dalla pietà. Che orrore, che Disperazione. Due Mille forzati furono posti in Libertà con ordine di Incendiare la Città. Sei Cento e più furono presi sul fatto e fucilati. Ora l’ordine è ristabilito. Lo vuole Napoleone e lo sarà. Ma il vivere come? Noi ci facciamo provigione di Cavoli e Pomi di terra persuasi di qui restare l’Inverno, ma chi lo sa! Napoleone è con noi, non v’è da dubitar di gloria!
Per ora il fuoco ci ha procurate qualche poco di Bottiglie, Zuccaro, Caffè, Farina; per vestirsi e Calzarsi; ma il tutto è al Deser, e ciò per l’Ufficiale che col soldo cel procurò. Non si teme nulla. Sembra che si attenda il gran Ghiaccio per forse passare a Pietroburgo, che forse questo avrà pure la sorte di Mosca.
Si parla molto che Alessandro sia stato graziosamente strozzato. Il Cielo lo voglia purchè mi portasse di rientrare in Patria.
Caro Fratello, il primo scopo dell’ardente mio desiderio di rivedere il mio Paese è per darvi prova maggiore di mia affezione. Vi giuro che mi pesa il non potervi essere per ora di alcuna utilità. Ora posso assicurarvi che non è il mio stato dei più brillanti. Siamo [6] arretrati di quattro mesi. La Campagna di Mosca mi costa più di 200 zecchini. Quel che è peggio che si minaccia il pagamento in Carta.
Presentate i miei saluti all’Intendente ed a Cristoforo al quale direte che male corrisponde alle mie premure.
Rammentatemi agli amici e voi credetimi di Cuore
Il Fratello Giovanni.
Mio nonno materno si chiamava Sante. Aveva la folta barba tutta quanta bianca. Parlava poco, fumava molto; fumava una gran pipa dalla quale usciva un fumo acre che mi faceva tossire; eppure poco mi importava di ciò quando si trattava di far parlare nonno Sante. Ma era difficile. Egli solo poteva chiarire i miei dubbi ricordando tuttavia, benchè fosse fanciullo in quel tempo, suo zio Giovanni prima che raggiungesse la Grande Armata.
Una sera mi aveva preso su le ginocchia; era di buon umore; guardava scoppiettare il fuoco entro la stufa; la mamma agucchiava intorno a una camicia, china sotto la fioca lampada.
— Nonno?... — dissi ad un tratto.
Egli mi fece saltare più alto sollevando le ginocchia e scandendo il ritmo del galoppo inconsciamente, gli occhi assorti su la fiamma:
— Op, op, op.
Gli accarezzai la barba, non si commosse.
— Nonno — ripresi — ditemi com’era fatto!
Mi guardò senza capire.
— Che cosa?
— Ditemi com’era vostro zio Giovanni.
— E chi se ne ricorda?
— Siate buono, diteglielo — soggiunse la mamma e non levò gli occhi dal lavoro.
Nonno Sante brontolò; prese la pipa dalla stufa e l’infilò fra le labbra.
[7]
— Chi se ne ricorda?... Saranno cent’anni!... Lasciamo stare, lasciamo stare; ti conterò la storia di Baruccabà.
Ma poi le dolci insistenze la vinsero su la sua ritrosia e nonno Sante parlò.
— Che debbo dirti se lo ricordo appena? Era un giorno di sole; tornavo dalla campagna. Entrando nella camera del babbo vedo un grande uomo che mi viene incontro e mi abbraccia. Lo guardai. Aveva un gran paio di stivali, un colletto nero che gli arrivava sotto al mento e le basette nere. Doveva ripartire la sera stessa per raggiungere la Grande Armata. Ricordo che mi disse: — Santino, se torno dalla Russia ti porto con me in Francia. — Per questa promessa gli volli bene; ma non tornò più. Quel giorno era giunto a Forlì anche zio Cristoforo e i due zii non parevano fratelli, ma l’uno il padrone e l’altro il servitore. Zio Cristoforo era sempre sereno e non si lamentava e non chiedeva niente, anzi quando ritornava da’ suoi lunghi viaggi mi portava sempre un ricordo.
Quel giorno mio padre e zio Giovanni lo tennero per un’ora chiuso nello studio e li udii parlare ad alta voce e gridare.
Alla sera tanto Giovanni quanto Cristoforo ripartirono.
— E dove andò zio Cristoforo?
— Andò per le strade. Poi una notte, per Natale, vennero a chiamare mio padre. Avevano trovato Cristoforo su la strada del Ronco. Veniva da lontano. Voleva fare il Natale con noi; ma ormai era vecchio e stanco. Era morto in fondo a un fosso, assiderato dal freddo.
Tacemmo. Mia madre scrollò il capo continuando il suo lavoro paziente; nonno Sante accese la pipa e non parlò più.
Passarono giorni e giorni e, nella mente mia, la dolce e triste figura dello zio Cristoforo superò di gran lunga l’altra dello zio Giovanni che pure raccoglieva tutta la mia ammirazione. La prima mi era più vicina: l’amai; la seconda [8] non destò in me che una meraviglia devota e non seppi vederla se non a cavallo, fra deserti di ghiaccio e turbini di fiamme. Se per l’una il mio cuore bambino si intenerì rievocando, per l’altra non provai che il fascino delle cose terribili e stupende.
Epperò detti il mio amore a colui che più mi era vicino.
Seppi poi di tutta la sua vita; la seppi da mia madre che novellava volentieri.
Zio Cristoforo non era un gigante come Giovanni; era piccolo ma forte. Aveva gli occhi celesti, i capelli neri e ricciuti; nè bello nè brutto; c’era nella sua faccia qualcosa che poteva piacere: una tristezza soavemente uguale che non mutava segno. Era gaio in compagnia ma non soverchiava la misura. Sapeva farsi amare.
Lo avevano avviato agli studi, e volevano farne un impiegato e cioè un uomo tranquillo che sa superare anche i desideri più modesti, e, a vent’anni, sa ciò che lo attende ai quaranta, poi ai sessanta, così fino alla morte. Volevano farne un uomo pacifico che si ammoglia di buon’ora, rinnova un vestito all’anno nel giorno sacro alla Pasqua, si lucida le scarpe, si compiace e si annebbia beatamente in tutte le meschinità provinciali e limita il suo mondo a un compito procreativo. Così avevano fatto i padri, gli avi e i bisavoli; così doveva far lui.
Allora l’autorità paterna era ferrea e i figliuoli dovevano ai loro genitori un rispetto quasi da schiavi. Essi parlavano al padre in terza persona evitando ogni termine confidenziale e ciò per mantenere la dovuta distanza fra il piccolo re e i sudditi involontari.
Lo zio Cristoforo sapeva quale destino lo avrebbe atteso s’egli fosse stato ossequente alla volontà paterna; i frequenti consigli e le più frequenti parafrasi ai medesimi gli segnavano la via. Nessuno mai avrebbe dubitato ch’egli [9] fosse per non seguire il cammino disposto perchè era un giovine taciturno che non si appalesava e, bocca muta è bocca sciocca, per le persone di buon senso.
Era tenuto dai più come un buon diavolaccio mezzo sonnecchiante e mezzo inochito. Anche le donne lo avevano per un bambolo innocuo del quale ci si può fidare ciecamente e leggevano nell’anima di lui come un pappagallo può leggere nella Bibbia.
Finì gli studi che allora si riducevano a ben poca cosa, almeno in provincia, e senza protestare, senza gioia e senza dolore apparente accettò l’impiego che gli venne offerto. Un impieguccio meschino. Guadagnava poche lire al mese ed era alla catena dal primo mattino a tarda sera.
Il padre di lui ne ebbe la contentezza moderata che poteva accordarsi alla dignità sua e siccome in quel tempo poche lire mensili bastavano ad una vita modesta, pensò di dargli moglie.
Così, come lo aveva messo al mondo se lo regolava a simiglianza di un orologio.
Tutto era già disposto: trovata la donna, contenti i parenti, fissata la data del dolce imeneo, regolati gli affarucci della doterella e della casupola, ordinate le lenzuola, otto belle lenzuola a due teli per un letto matrimoniale e c’era chi aveva cominciato a scrivere i sonetti inneggianti alla felice unione e all’imene e agli amplessi quando, un bel giorno, lo zio Cristoforo non si trova più.
La voce si sparge in un attimo.
— Si è ammazzato. — Lo hanno veduto ieri notte sul ponte di Schiavonia. — Era innamorato di un’altra. — Non aveva la testa a posto. — Non parlava mai, era come un pazzo. — E l’Angiolina?... Vedeste come piange, poveretta! Aveva preparato il corredo! Aveva speso sette scudi! — Povera figliola! non meritava questa porcheria! — Ma esser matti a dare ima, figlia a quello là! Avete veduto come è [10] finita? Bisogna aver voglia di marito! — L’Assunta aveva combinato tutto, quella!... Con la sua voglia di far matrimoni! — Mi hanno detto che era innamorato dell’Ernesta. — Sì, della luna!... Era innamorato della luna quello sciocco! Se io fossi stata giovine non l’avrei sposato neppure se me l’avessero coperto d’oro! — Ma è morto davvero?... — A crederlo!... Quello non aveva il coraggio di ammazzarsi. Avrà fatto le finte e poi piglialo che sei bravo! Povera famiglia!... —
E tutta la città non parla d’altro per qualche settimana.
Il padre aspetta Cristoforo la sera, lo aspetta la mattina seguente; non si sa capacitare della cosa; teme gli sia toccata una disgrazia; lo fa cercare nel fiume, negli orti, nelle campagne, ma ad un tratto gli arriva una lettera; è la scrittura di lui; legge e impallidisce.
Nessuno seppe, se non dopo la morte del vecchio quando fra le sue carte furono trovate le lettere dell’esiliato (chè altre glie ne scrisse), nessuno seppe del vero destino di Cristoforo. I più lo avevano creduto morto. Il padre lo maledisse e gli vietò di valicare la porta della casa nella quale era nato. Così con una maledizione che gli fu di assidua angoscia tanto che, anche vecchio, ne pianse; senza sapere dove sarebbe andato nè che avrebbe fatto; privo di mezzi e di esperienza lo zio Cristoforo abbandonò tutto, rinunziò a tutto, prese, solitario viandante, il lungo cammino che non doveva abbandonare mai più.
Un giorno l’anima sua si era ridestata, aveva misurato la profonda miseria della sua vita e, con tranquillità risoluta, senza cercare consigli o approvazioni aveva deciso.
Da quel giorno nessuno più ebbe notizie di lui se non il padre, due volte l’anno: per Natale e per Pasqua. Riceveva allora, dai punti più remoti del mondo, una lettera di augurio alla quale non rispondeva metodicamente.
Egli si ostinò a non rispondere; lo zio Cristoforo, che [11] non sapeva voler male a nessuno, mantenne sempre la dolce consuetudine.
E lo scomparso scomparve dalla memoria della gente. Dopo qualche anno, i fratelli, parlando di lui qualche volta, solevano dire:
— Il povero Cristoforo!... — convinti ch’egli fosse da un pezzo nel mondo dei più.
Poi il vecchio morì. Morì sugli ultimi di marzo, pochi giorni prima della Pasqua.
Erano stati fatti appena i funerali che da un paese della Russia giunse la lettera consueta. Fu aperta e letta in famiglia fra uno stupore che aveva quasi dello spavento. Mentre l’uno se ne andava l’altro ricompariva.
I fratelli tennero consiglio: decisero di partecipare all’assente la morte del padre, di offrirgli il danaro per il ritorno, di invitarlo a ravvedersi.
Erano trascorsi quattordici anni dal giorno in cui il viandante era partito.
Attesero invano una risposta; per molti anni ancora non ebbero notizia di lui; poi, una sera, mentre erano raccolti intorno alla tavola per la cena, udirono suonare il campanello. Nonno Sante, che era allora un fanciullo, andò ad aprire e, sì come si attardava su la soglia, gli uomini gridarono:
— Chi c’è?
— Non lo so!
— Come non lo sai? Se è un povero chiudi la porta.
— Non è un povero.
— E chi è allora?...
Nonno Sante non sapeva rispondere. Suo padre si levò gettandosi il tovagliolo su la spalla e andò alla porta. Vede nel vano un’ombra immobile; era d’inverno e faceva freddo:
— Che cosa volete?...
E l’ombra non rispondeva chè forse i singhiozzi gli serravano la gola.
[12]
— Chi cercate? Sbrigatevi che fa freddo, o vi chiudo la porta in faccia!...
L’ombra tese le braccia e si strinse al petto nonno Sante che ebbe paura ma non fiatò.
— Che commedie son queste!... — gridò esasperato Domenico, il bisnonno che era un uomo risoluto e violento.
E già aveva fatto il gesto di afferrare una spranga appoggiata vicino all’uscio quando lo sconosciuto si fece innanzi, levò il viso, disse:
— Sono Cristoforo!
— Cristoforo!...
Nella stanza vicina si udì un rumore di sedie smosse, un sussurrio improvviso, poi un silenzio profondo. Tutti erano come impietriti.
Domenico fu il primo a riaversi. Allungò un braccio, trasse il fratello alla luce, lo guardò e gli chiese:
— Da dove vieni?...
— Di lontano — rispose Cristoforo e parlava sommesso. — Mancavo da diciotto anni; volevo rivedervi; domani ripartirò!
— A partire c’è tempo. Vieni avanti.
Entrò nella stanza e tutti erano in piedi a guardarlo, vinti dallo stupore smarrito che danno le cose inattese e prodigiose.
Lo zio Cristoforo era davvero irriconoscibile. Lacero, smunto, invecchiato; solo gli occhi azzurri, dolcemente tristi, si erano serbati uguali; avevano lo stesso splendore, la stessa limpidezza, la stessa tranquilla soavità di un tempo.
Gli fu offerta una sedia, sedette; tutti sedettero senza dir parola chè l’abisso sorto fra quelle anime creava un impaccio, una freddezza superiori all’impeto di un sentimento assopito da troppo tempo.
Finirono di cenare, ma stentatamente: era troppo palese [13] la presenza di un intruso perchè Cristoforo non ne avvertisse la ferita.
— Vuoi mangiare con noi? — gli chiese Domenico.
— No, grazie, ho mangiato.
— Allora bevi — e gli versò un bicchiere di vino che Cristoforo non toccò.
Rimaneva così, le braccia su le ginocchia a guardare ora l’uno ora l’altro ma non incontrava che sguardi freddi o diffidenti. Il suo aspetto non rassicurava i fratelli. Era un pezzente, disonorava la famiglia.
Finita la cena Domenico disse alla moglie:
— Pasquina, preparategli una stanza, dormirà qui.
Lo zio Cristoforo si levò:
— Grazie, non vi scomodate, ho già l’alloggio.
— Spero non vorrai farci questo sgarbo. Poi è bene che in città non ti vedano in questo arnese; non faresti onore nè a te nè a noi. Si potrebbe dire che ti abbiamo scacciato e non debbono dir ciò. Rimani qui. Domani, quando ti avremo rivestito, uscirai.
Cristoforo sorrise e scrollò il capo. La conversazione languì. Qualcuno tentò parlare del Legato Pontificio che era giunto qualche giorno innanzi; l’argomento non ebbe fortuna.
Si udì Pasquina allontanarsi e dire alla vecchia che era giunta per rimettere in ordine la cucina:
— Se suonano non aprire; nessuno deve entrare in casa questa sera, hai capito? Nessuno!...
E la vecchia rispose:
— Ho capito. Quello là non si deve vedere!
E Cristoforo non parlò. Quando si levarono per andare a letto gli passarono innanzi augurandogli la buona notte ma nessuno gli tese la mano. Nonno Sante rimase ultimo. Provava per il ramingo un sentimento profondo, commisto di simpatia e di pietà; gli avrebbe gettato le braccia al collo; [14] aveva sentito nella sua semplicità di fanciullo che avevano fatto molto male, troppo male all’inatteso; che tutto ciò era ingiusto, ch’egli non aveva chiesto niente, che non aveva offeso nessuno....
Quando si vide solo gli si avvicinò. Cristoforo era rimasto seduto, la testa nascosta fra le mani e guardava i mattoni del pavimento.
Nonno Sante gli appoggiò leggermente una mano sul braccio.
— Buona notte, zio Cristoforo!
L’esiliato levò gli occhi che di repente si inumidirono.
— Vai via?...
— Debbo andare a letto.... Buona notte!
— Vuoi darmi un bacio?... Ti faccio paura?...
— Paura?... Voi?...
— Hai ben veduto! Dopo dieciott’anni!...
Si udì la Pasquina gridare dall’alto della scala:
— Sbrigati, Sante! Che cosa fai dissotto! Vieni a letto e presto!...
— Vengo, vengo! — rispose il fanciullo, ma prima abbracciò lo zio Cristoforo e lo baciò su le guance; poi corse fin su la soglia e si rivolse.
L’esiliato aveva ripreso l’atteggiamento d’abbandono: i gomiti su le ginocchia, il capo fra le palme. Come si credette solo, scrollò le spalle, nascose la faccia fra le mani e curvandosi nell’estrema angoscia, scoppiò in un singhiozzo violento.
Durante la notte, senza che nessuno lo avvertisse ripartì.
— Ha fatto bene! — disse Pasquina quando si accorse che non era più in casa.
I fratelli brontolarono un poco ma si racconsolarono ben presto.
Quando la vecchia che faceva i servizi più umili in casa [15] salì nella stanza occupata dal viandante, trovò sopra il cassettone un piccolo involto che portò a Pasquina.
— Che cos’è questo?
— Non lo so. L’ha lasciato quell’uomo; era sul cassettone.
— Sarà una sudiceria. Chi sa mai!... Io non mi fido di aprire — e teneva l’involto fra due dita.
— L’aprirò io. Vuole?
E la vecchia disciolse lo spago annerito, svolse la carta gialla; apparve un piccolo orologio d’argento.
— L’avrà dimenticato — disse Pasquina. — Chissà dove l’avrà preso.
— C’è un bigliettino, — soggiunse la vecchia.
— Dallo qua. Che cosa dice?...
Ma Pasquina non sapeva leggere; chiamò Sante, il figliuolo.
— Leggi un po’ tu. Che cosa c’è scritto?
Il fanciullo lesse ad alta voce:
“Questo lo lascio per il vostro bambino. Dateglielo; l’ho guadagnato, non vi faccia vergogna. Ho salutato voi e la vostra casa per l’ultima volta. Perdonatemi se sono ritornato, avevo bisogno di rivedervi; vi ho riveduti; mi basta. Addio.
“Cristoforo„.
L’orologio se lo tenne Pasquina, ma il biglietto rimase al nonno che lo serbò fino alla morte.
Così il viandante riprese la via dell’esilio.
Disceso dalle grandi strade, dalle solitudini eterne alla sua casa antica, vi aveva trovato il deserto, un deserto glaciale, un’aridità paurosa. L’anima sua che cercava un antico tepore di sogni, di bontà, d’amore ne fu angosciata, affranta. Era inutile tentare; il tempo aveva profondamente mutato il suo mondo antico. Ripartì.
[16]
Per molti anni, nei giorni di Natale, giunse ancora una sua lettera indirizzata a nonno Sante e un regaluccio. Non dava mai l’indirizzo; non gli potevano rispondere.
Poi siccome le maggiori amarezze non ispengono l’illusione nel cuore dei semplici; siccome egli per quanto non lo volesse doveva pure, e la vecchiaia ve lo spingeva, ritornare verso il punto della terra nel quale ogni cosa aveva per l’anima stanca una parola e un ricordo, non tenne fede alla promessa e ritornò.
Lo videro per caso; si era rifugiato in una capanna nei campi.
In que’ suoi ultimi giorni, essendo incapace di lavorare, si caricò di una vecchia icone e andava pei mercati vendendo immagini di santi.
I fratelli lo lasciarono fare. L’ultima volta che nonno Sante lo vide, fu di sera, vicino a un orto, alle porte della città.
Si sentì chiamare, si volse e vide Cristoforo che giungeva lungo il ciglio della strada, curvo sotto la sua icone.
Il rosso sole giocondo era sui prati smeraldini in un tramonto sereno.
Scendevano le greggi dalla montagna. Lo stanco viatore si fermò; posò a terra il cavalletto sul quale dirizzava l’icone; allargò le braccia a togliersi dalle spalle l’immagine sacra nascosta da due piccoli battenti rozzamente istoriati; levò di fronte al sole che rideva sui prati verdi, il suo piccolo altare. Dalla pieve dei Romiti giungeva un suono di campane: era l’Ave.
Zio Cristoforo si tolse il lacero cappello e chinò il capo bianco. Le ultime rondini volavano nell’alto cielo, stridendo.
Giungeva rapida la sera chè la stella del pastore era su le rame degli orti. Tacquero per lungo tempo. Gli occhi azzurri del vecchio erano velati, non lucevano più; un po’ dell’anima loro era partita incontro all’ultimo sogno.
[17]
Non cercavano, come una volta, negli occhi del fanciullo un po’ d’affetto; era per essi una vaga lontananza, una tranquilla solitudine nella quale si assorbivano abbandonatamente.
L’anima dell’esiliato aveva raggiunto l’esilio supremo; aveva trovato in sè stessa e nel mistero vissuto ora per ora, nei lunghissimi anni del cammino, la pace tranquilla della morte.
Disse:
— Addio, Santino. L’ora è sonata anche per me e non ci rivedremo. Addio.
Si baciarono, poi il vecchio viandante tolse su le spalle l’icone, infilò il cavalletto in un braccio e partì lentamente sotto la prima sera.
Nonno Sante non lo rivide mai più.
Tre anni dopo, nelle notti del Natale, lo zio Cristoforo, con la sua icone sulle spalle, fu trovato in fondo a un fosso, assiderato dal freddo.
La morte lo aveva colto lungo il cammino ed era giusto.
Egli aveva reso l’anima sotto alle stelle che gli avevano segnata la prima via dell’esilio.
Tale era il vecchio congiunto che riempì della sua immagine la mia infanzia e la mia giovinezza prima. Le vicissitudini della vita, il dolore, la tristezza di un sogno senza compimento me lo elessero fratello.
Ora ho voluto ch’egli riviva qui, a capo di un libro che mutamente ispirò.
Firenze, ottobre 1910.
[19]
“.... Giardini incantevoli che il Misericordioso ha promesso a’ suoi servitori per consolarli nel loro esilio....„
Il Corano. Cap. XXI. v. 62.
[21]
Navighiamo da varie ore sul mare tempestoso che non si queta ma sempre più infuria sotto la violenza del fortunale.
Sul castello di prua non sono che pochi marinari. Il ponte è deserto. Dalle cabine salgono lamenti, piagnucolìi e spasmodiche maledizioni dirette alla tormentosa danza della quale il mare ci gratifica da quasi dodici ore. La notte è chiara, appena velata da nubi bianchicce che il vento fa mulinare sotto la luna. L’Africa è in vista. Lontanamente, sotto il bagliore diffuso del plenilunio, sorge e si profila contro la diafanità perlacea del cielo notturno, una catena di piccole montagne: è il capo Bon, l’estrema punta del continente nero. Una esigua catena di monti aguzzi, i quali si inseguono a simiglianza di una sega: null’altro sorge intorno a loro. La bassa costa si disperde nella penombra. Più ci avviciniamo e più chiara ci appare la loro immagine: hanno il profilo aspro; i fianchi scoscesi scendono quasi dirittamente sul mare, acquistano, nel fioco barlume, come un lividore azzurrastro. Li sorpassiamo. Si allontanano nel [22] vuoto orizzonte rimpiccolendo finchè non sembrano se non sette piccole vele sospinte alla deriva.
Ed ecco i primi fari della costa, ecco i lumi della Goletta; fra non molto la laguna di Tunes el bida (Tunisi la bianca), darà pace ai sofferenti e a questo colosso che sbuffa e freme e scricchiola e trema tutto, ruggendo allorquando le eliche escono inutilmente a turbinare nel vento.
L’aria si è fatta serena, tutta serena dal levante all’occaso. Gli ultimi fiocchi di nebbia scendono al mare, greggi disperse nella solitudine del plenilunio. Il cielo è di un bell’azzurro saracino. Come per l’incantesimo di questa pace improvvisa ogni lamento si tace. Il vapore che ora procede lento e tranquillo nel canale che taglia a mezzo la laguna, si anima poco alla volta di una vita inattesa; voci di richiamo, voci di augurio, sospiri e risate sorgono da’ suoi fianchi. Chi ha sofferto si rianima; chi si è taciuto, raccolto immobilmente nella cuccetta in uno stordimento pauroso, nella vaga sensazione di inerte e doloroso vaneggiamento che precede il male, balza dal proprio rifugio, si riveste alla meglio, esce sul ponte a godere la frescura dell’alba nuova. Appaiono a poco a poco volti pallidi e disfatti, visi sinistramente accigliati che appena si riconoscono. Il ponte è denso di passeggeri come al momento della partenza allorquando il vento non faceva presagire burrasca.
Oltre gli argini diritti, che delimitano il canale, si distende la laguna deserta della quale si intravede il vasto giro. Navighiamo fra due albe: da un lato tramonta la luna e le acque sono tuttavia animate dal suo chiaro lume; dal lato opposto l’alba solare dilaga sempre più e spegne le ultime stelle. Le due luci si combattono; ad un punto si fondono in una identica chiarità e Tunes el bida appare innanzi a noi fra acque e cielo. Non è più di un biancore [23] sulla bassa costa; un biancore indeterminato su l’azzurro. Ci raccogliamo verso la prora, intenti al sorgere e al delimitarsi della visione lontana. Trascorrono su l’argine velocemente i treni elettrici diretti alla Goletta che abbiamo lasciato alle nostre spalle; è uno stridulo fragore che sopraggiunge rapido e rapido si disperde fra questa immensità tranquilla. Non una vela è all’orizzonte, nè una imbarcazione; tutto dorme nella dolce ora del sogno. E noi pure sogniamo ad occhi aperti. Ogni loquacità cade innanzi alla lenta apparizione. L’aurora si invermiglia e dona all’azzurro dei cieli una prodigiosa profondità. Quanto più cresce la luce tanto più si intensifica l’azzurro di questo cielo orientale. Io lo vedo, più vicino alla terra, inarcarsi nella gran volta del sole.
Ed ecco sorgere chiarissimamente su tale sfondo di magnificenza, di cui l’arte moresca volle adorni i suoi tempii, ecco vivere e palpitare sotto la luce nuova, la città bianca.
Sono terrazze, minareti, cube, palmizi, fiocchi di verdura e lucentezze abbaglianti; linee squisite di grazia e di incantesimo. Le terrazze si susseguono inalzandosi come in un’ampia e incomposta scalinata verso il cielo; tutte bianche e tersissime, adorne di luce, di null’altro se non di luce. Pare che l’umanità ne abbia fatto tanti luoghi di contemplazione e di silenzio. La casa moresca si compendia nella sua terrazza bianca, ricinta di bassi ripari, aperta all’ampio orizzonte come l’anima del popolo che l’immaginò e la volle. Più in alto rifulgono i minareti lanciati nel sereno. Fioriscono su dal bianco sciame delle taciturne sorelle accesi negli smalti policromi ultimando coi loro arditi fastigi la linea della città singolare.
Cupole e torri e fiocchi di palmizi sboccianti con la grazia di un capitello oltre l’esile tronco diritto; tonalità bianche, verdi ed azzurre fuse in un’ampia armonia, ecco la caratteristica più spiccata di Tunes el bida.
Per un attimo ancora l’apparizione magica vivrà nel silenzio [24] fra le sue piccole alture, rilevata su lo sfondo di un cielo luminosissimo; per un attimo ancora questo schiudersi dell’anima orientale ci apparirà fra la quiete indisturbata dell’ampia laguna in un raccoglimento che favorisce l’intima comprensione, chè il porto si avvicina e si avvicina il tumulto. Le linee si amplificano, appare la città europea con le sue larghe strade fiancheggiate da alberi. Gli edifizi pubblici che sorgono attorno al porto nascondono a poco a poco la città araba.
Gettiamo l’ancora, le eliche si arrestano. Dalla riva si distaccano e si spingono a gran forza verso il nostro piroscafo, piccole imbarcazioni cariche di facchini arabi e sudanesi. Toccano il bordo. La nuova folla, lacera e urlante, si slancia sospingendosi su per le scalette, invade i ponti, ci attornia, ci interroga in francese, in italiano, in dialetto siciliano, vuole strapparci a forza le valige, vuole farci comprendere, mettendoci sotto il naso la targhetta col numero d’ordine, che essa è autorizzata a fare ciò che fa, che nessuno può proibirglielo, che dobbiamo cedere; e ci pigia e ci insidia e ci calpesta sorridendo, balbettando, urlando, in un luccichìo di volti neri, bronzei, ambrati, in uno svolazzare di cenci bianchi, rossi, celesti, gialli.
Tale la prima manifestazione della vita indigena che viene ad incontrarci e ci saluta.
Tunisi la bianca presenta a tutta prima una singolare ed inattesa fusione della vita indigena e della vita europea. Percorrendo l’Avenue de la Marine, l’Avenue de Carthage, l’Avenue de Paris, i magnifici quartieri moderni, sorti in pochi anni per iniziativa dei francesi, vi sorprende e vi disillude la mescolanza dei tipi e l’assenza del carattere orientale che vi eravate ripromesso. Vi pare che la civiltà prepotente abbia cancellato ogni traccia dell’antica città araba, che tutto si sia livellato nel tipo comune alle grandi città europee.
[25]
Qualche edifizio imita le linee dell’architettura moresca ma non riesce a convincervi e vi fa l’effetto di una smorfia fuor di luogo.
Belle ed ampissime vie fiancheggiate da palazzi, caffè e negozi sontuosi; frastuono di automobili, di tramvie elettriche, di vetture, di carri, di carretti; il caratteristico brusìo della gente affaccendata che va e viene e corre e si incrocia e parla ad alta voce, ecco l’aspetto primo che vi stordirà lasciandovi un po’ disillusi. Ma poco alla volta tale folla tumultuante non vi appare grigia ed uniforme; anzi quanto più si prosegue tanto più vi si appalesa la piacente varietà dei tipi e dei costumi e vi si manifesta la profonda disparità di due razze, le quali non possono e non potranno mai fondersi e comprendersi interamente.
La Tunisi nuova, la Tunisi moderna; chè quella araba, la vera, giace più in alto, lontana dal frastuono, tutta raccolta nel dedalo delle sue viuzze solitarie, la Tunisi moderna seduce il viaggiatore che vi giunga nuovo, per il contrasto continuo ch’egli può cogliere di passo in passo per le vie, nei caffè, nei negozi, ovunque si agiti la vita.
All’infuori dei Tunisini più evoluti (che qui chiamano i giovani turchi) i quali vestono all’europea e per distinguersi dall’uman gregge e render note le loro tendenze avveniriste calzano un berrettone di astrakan; all’infuori di costoro e di gran parte degli ebrei, e fra tutti non sono molti, la popolazione indigena ha mantenuto intatto l’antico costume, o meglio la grande varietà dei costumi. Dai poveri che vestono il kadrun, una specie di tonaca di rozzo panno, tutta spalle e niente maniche, terminata da un cappuccio e adorna da cordoni biancastri che ne seguono le giunture, ai ricchi che passano avvolti nel loro ampio burnus, bianco e lucente, alta sul capo la cecìa ricinta più volte dalla bianca benda che si chiama kasta, la varietà si moltiplica, si espande, fiorisce nei colori, nelle forme, si [26] fonde, si completa in un quadro abbagliante che questo sole torrido vivifica magnificamente.
Passano mori dalle gambe nude, i piedi scalzi, un paio di brache bianche, un kadrun su le spalle; recano ceste di violette, di piccoli tulipani e vi offrono con garbo la loro mercanzia floreale, senza sorridere, quasi compissero un gesto di estrema dignità; passano bimbi seminudi, vestiti a volte da una sola camicia bianca, strappata in varii punti, e vogliono lucidarvi le scarpe a tutti i costi (Tunisi è invasa da un vero esercito di lustrascarpe indigeni); passano arabe, nascosto il viso dalla benda nera, panneggiate nel loro sifseri che è un manto il quale le avvolge tutte. Procedono lentamente e silenziosamente, infilati i piedi in certe loro pantofole e rosse e gialle e verdi. Passano ebrei dalla dgebba azzurra e ebree nel loro caratteristico costume, terminato da un cono: sono piccole, rotonde, grasse, dal nasetto affogato fra due guance enormi. Camminano in fretta ondeggiando come anatroccoli spaventati. Poi sudanesi spettralmente lunghi, tanto più neri quanto più bianca è la loro veste. Quando ridono pare facciano bella mostra di tutta la chiarezza che hanno disponibile negli occhi e nei denti; quando parlano la loro voce gutturale ed aspra vi fa l’effetto di un mugolìo squisitamente bestiale. Ed altri ancora, infiniti altri in una cinematografia che non ha termine, che vi abbaglia e vi sorprende. Sono beduini che giungono dalle campagne poi che la carestia li sospinge; santoni dervisc che vestono una sola camicia, che hanno il capo scoperto attorniato da una selva irsuta di capelli, gli occhi larghi e stupiti, il magro volto oscuro contratto dalle sofferenze. Si appoggiano ad un lungo bastone, trascorrono fra la folla senza guardare, senza osservare, tutti assorti nella loro follia. E sono fanciulli che sospingono, gridando, un vecchio asinello; ragazze che passano nel sole avvolte in un loro sifseri vermiglio; teorie di portatori mori [27] e sudanesi che trascorrono offrendosi e cantando; gente agiata che passeggia, annegata nella kasciabìa, specie di sacco di lana con maniche cortissime, adorno e fioccuto come una bardatura da cavallo; ricchi che sfoggiano manti verdi, celesti, paonazzi; è una folla multicolore che si accorda, sotto l’azzurro cupo di questo cielo di smalto, in una composta letizia, la quale non ha riscontro; una folla grave, accigliata, solenne, dal portamento sacerdotale, sdegnosa e indifferente per tutto quanto si agita intorno a lei, muta e assorta in un secolare fatalismo. E, nella città moderna, ogni aspetto della civiltà europea, della nostra vita quotidiana, impallidisce, scompare di fronte a questo mondo ignoto che non possiamo intendere compiutamente, che ci passa vicino sì, ma velato come il volto delle sue donne dai grandi occhi di gazzella.
Tale è il primo aspetto di Tunes el bida distesa nel suo piano fiorente, coronata da minareti e da cube fra i monti di Hamman-el-lif e i monti Laguan: una fastosità occidentale sopraffatta dal carattere di un oriente che si mantiene intatto nel suo taciturno mistero. Una fusione strana in cui vari elementi si mescolano senza disperdersi, senza confondersi, senza originare l’uniforme gora della vita nostra.
La nostalgia dell’oriente che aveva animato di singolari fantasie i lunghi silenzi della mia prima giovinezza deserta, non mi aveva tratto in inganno; ciò che vedevo nell’incerto sfondo di una lontananza irraggiungibile ecco fiorisce innanzi agli occhi miei con tutta la sua luce e il suo fascino occulto.
Mi allontano dalla Tunisi moderna, varco la Porte de France, entro nelle piccole strade che precedono lo schiudersi della città moderna.
A poco a poco il frastuono si disperde, i passanti si [28] fanno sempre più radi, sempre più scarsi gli europei. Il passaggio è quasi insensibile, ma ad un tratto mi accorgo di essere solo in una viuzza bianca, inondata di sole, silenziosa come certe vie conventuali nelle nostre città di provincia. Quattro archi moreschi susseguentisi inquadrano lo sfondo di un’altra via la quale si disperde in una penombra azzurrastra. In alto, dai muri bianchissimi, sporgono le barmacli, le finestre protette da griglie fittissime attraverso le quali le arabe guardano per la via senza essere vedute. Le piccole porte ad arco moresco, dai battenti rossi e verdi lavorati ad arte, sono tutte chiuse. Più su si elevano nel sole le terrazze. In fondo appare il profilo gibboso di una cuba. Non si ode che il cinguettìo dei passeri da invisibili giardini e, a volte, un altro cinguettìo più sommesso attraverso le barmacli chiuse nel profilo di un arco squisito o lavorate come graziosissime mensolette sospese nell’aria ad accogliere un nascosto tesoro. Un grido lento e nasale si avvicina:
— El fakrun! (Le testuggini!)
Passa una vecchia scalza, sporca di fango, dalla faccia tatuata. Reca su le spalle un sacco di testuggini. Le chiedo:
— Dove le hai raccolte?
— Nella foresta! — mi risponde e prosegue lanciando all’aria il suo grido nasale, in attesa di qualcuno che voglia comprare le tarde bestie tenute in gran pregio dagli arabi perchè portano fortuna.
Poi anche la voce di lei si disperde, è riassorbita dal silenzio gaio, dalla raccolta solitudine pensosa.
La luce si fa sempre più viva, inonda le piccole vie bianche, pulite, nelle quali permane un vago odore di muschio e di gelsomino, di incenso e di rose. Ad un tratto sotto un arco più alto che si apre nel sole, oltre l’ombra di una moschea, appare una giovane beduina. Potrà avere [29] dodici anni forse; è alta, sottile come il fusto del papiro, bruna come la buccia del grano maturo. Porta sul capo e la sorregge col braccio destro una grande anfora. È bella come la luce del suo deserto. Gli occhi grandi e luminosi hanno una trasparenza gemmea.
Si chiama Khadija (la pura). La fame l’ha scacciata dai campi insieme a tutta la famiglia sua. Hanno abbandonato la tenda per cercare in città di che vivere. Non si lamenta, non impreca. Ad una piccola fonte deterge i piedi scalzi e si allontana, e scompare nel sole, silenziosamente.
Dagli invisibili giardini giunge il cinguettìo dei passeri che pare culli il languore e la dolcezza stanca di Tunes el bida, l’estrema città dell’oriente.
Sono passato oggi dal Suk, il mercato coperto pieno di brusio e di profumi.
In un angolo, alcune donne ammantate sedevano a terra, in fila lungo il muro. Ognuna aveva innanzi a sè un mucchietto di cenci: vecchie vesti, sifseri, veli sdrusciti. Attendevano il compratore. Vendevano l’ultima loro miseria. Erano calme e rassegnate.
Un vecchio passava e ripassava agitando un incensiere nel quale ardeva del benzoino. Incensava le povere donne per portar loro fortuna e raccoglieva qualche soldo. Un negro, un po’ più lontano, intingeva in un po’ d’olio raccolto sul fondo di una scodella, un pezzo di pane ammuffito.
E le donne velate guardavano senza fiatare, senza invitare i passanti a soffermarsi per offrir loro le vecchie vesti stinte, i veli a lustrini, gli sifseri vermigli. Avevano le mani piccole, bianche e scarne e gli occhi solari lucevano dietro alle bende.
Si è fermato un vecchio, ha contrattato per lungo tempo, [30] con una giovinetta, uno sciamma cilestrino, poi l’ha gettato a terra e se ne è andato ridendo.
A voce sommessa, dolcemente, senza ira nè dispetto, ella ha allungato il braccio a raccorre la sua miseria derisa e ha mormorato:
— Pazienza, mio Dio!
Poi è ricaduta nel suo dolce stupore.
Alle porte di Tunisi, fra i fichi d’india e le macerie, in un terreno cosparso di rovi, di pietre, di buche e di immondizie abita un Santone.
È un uomo scarno, lacero, sporco, dai lunghi capelli azzollati, ridotti a una massa compatta innominabilmente lurida.
Veste uno sciamma che non ha colore, che non ha età e lascia trasparire, dagli innumerevoli strappi, il corpo macerato, ricoperto di loja.
Cammina lentamente appoggiandosi ad un lungo bastone; è scalzo, ha lo sguardo attonito, le labbra flaccide, il volto di un idiota. Non parla, non sorride, non si guarda attorno, non si preoccupa del mondo più che non si preoccupi del lerciume nel quale vive. Non so se tanta sporcizia sia un segno della sua superiorità divina; forse sì, se si considera il venerando rispetto dal quale è circondato.
Si chiama Mohamed; ha sessant’anni; è solo. Sua casa è un buco nella terra; una tana come non ne hanno le volpi; vive sotto il sole e sotto l’acqua; mangia quel che mangia: un fico d’India, un rosicchiolo, una buccia di cocomero; cade sovente lungo la strada, e le sue cadute si moltiplicano innanzi alle botteghe dei fornai, o ai venditori di kuskus; allora la gente gli si stringe intorno; lo risolleva e lo ammira.
[31]
Qualcuno sorride. Il popolo lo chiama: — Il giusto, il santo! — e lo fa morir di fame.
Odia gli europei, gli infedeli contro i quali ha tentato di bandire, molti anni or sono, una specie di crociata. Ora attende che Maometto lo chiami. Non so se le divine Urì possano sedurlo; su la terra, a’ suoi bei tempi, ha odiato le donne e vuolsi ch’egli sia stato un padre Origene dell’islamismo.
L’ho incontrato oggi nei dintorni di Tunisi. C’era un gran sole; Mohamed, il santo, veniva lentamente verso me a capo scoperto.
Ad un tratto, da una maceria, è sbucata una frotta di ragazzi che si è data a rincorrerlo e a lanciargli sassi. Mohamed si è rivolto; gli occhi suoi si sono illuminati di repente, poi, levando il bastone, ha gridato a gran voce:
— Possiate essere maledetti e sia maledetto il vostro seme e tutta la razza umana....
Le quali parole, in bocca a un Santone, mi hanno fatto pensoso.
Questa mattina ho assistito a un funerale arabo. Passava per le vie di Tunisi e le vie erano quasi deserte.
Era un piccolo feretro chiaro, portato a spalle da quattro uomini; dipinto in celeste e lavorato ad arte graziosamente; traforato, scolpito ma semplice; semplice come un fiore. Aveva, a sommo, una ghirlandetta di viole: null’altro e, intorno, tutto l’oro del mattino.
Alcuni sacerdoti gravi ed austeri andavano innanzi salmodiando, seguiva un brevissimo corteo. Non un volto addolorato, non un segno di sconforto: portavano una morta, nel sole, verso una tomba bianca.
Ad una cantonata due operai siciliani si sono soffermati a sogguardare e l’un d’essi ha mormorato:
[32]
— Fimmena è!
Poi hanno proseguito indifferenti.
Di repente una piccola beduina, avvolta in una hamla tutta azzurra, è sbucata correndo da una via laterale; si è soffermata, incerta, scoprendo il suo piccolo volto color delle selci poi si è gettata prona, la faccia su la terra, e ho udito il singhiozzo di lei alto e straziante.
I sacerdoti imperturbati invocavano Allah sotto il sole che ardeva.
Ho veduto le case della gioia, le piccole tane del piacere. Torno or ora dal mio giro solitario e ho nelle orecchie tuttavia le contumelie di cui sono stato gratificato mercè la mia qualità di cane infedele.
Se mi soffermavo, qualcuno mi gridava:
— Barra, barra!... (via, via!)
Se proseguivo indifferente udivo dietro le spalle, a quando a quando, risate di scherno e suoni diversi di significato non dubbio. Comunque sia, la mia tranquillità mi ha permesso di compire il giro di ispezione senza incidenti spiacevoli.
Gli arabi, generalmente parlando, trattano male le loro donne, non le hanno in maggior conto di una bestiola graziosa, o le baciano o le picchiano, non le ascoltano, non le considerano molto più di una cosa, le addomesticano come i canarini in gabbia, se ne stancano spesso e, quando ne sono stanchi, le scacciano; ma ne sono gelosissimi. La loro gelosia è pari al loro fanatismo e sarebbe men che prudente soffermarsi a guardare a lungo una donna, avesse pur questa, avvolto nella mano destra, il fazzoletto che distingue la femmina di malaffare da quella che vive nei casti ginecei.
Ora percorrere i quartieri della lussuria che si offre [33] al richiedente non è cosa difficile, però conviene assumere l’indifferenza di colui che si trova a passare di là per caso e che non ha alcuna intenzione di offrire una colomba a Venere pandemia. Con simile atteggiamento se ne può uscire con le costole illese, che se a qualcuno passasse per il capo la malaugurata idea di andar donneando per simili quartieri, non potrebbe evitare una solenne bastonatura.
Aggirandomi così per i vicoli mal selciati e pieni d’ombra, nei quali, senza quasi ve ne avvediate in causa all’oscurità, vi trovate innanzi uomini che scivolano via silenziosi e che non avevate intravvisto; passando da tana a tana venivo rievocando la suburra di Pompei: le stesse angustissime stanzuccie aperte su la via e, ritta o seduta su la soglia o sdraiata, in fondo, sul giaciglio, la creatura indifferente che attende e tenta sorridere e non sa più e si angoscia in una smorfia tragica.
Ho cercato procedere con lentezza senza preoccuparmi degli urtoni piuttosto frequenti ricevuti casualmente dai frettolosi passanti.
Le stanze sono arredate quasi tutte ad un modo: un giaciglio o un divano, un piccolo tavolo, alcune stuoie e una lampada dalla luce raccolta che lascia intravvedere appena i volti e sì li vela e li accarezza e li avvolge da creare la fuggevole illusione di un lontano fascino giovanile. Lontano sì, chè, se pur giovani d’anni, son vecchie di corpo queste derelitte dai grandi occhi bistrati che hanno una luminosità falsa come certe gemme create ad arte.
Talune sono su la soglia, su la nuda soglia accosciate: il mento su le palme, gli occhi fissi e inebetiti. Non portano veli; hanno scoperto il volto e i capelli uniti e intrecciati a nastri rossi e gialli. Vestono un paio di brache, un corsaletto a colori vivaci, una maglia; hanno le unghie rosse, tinte con l’henne; le sopracciglia unite da una linea nera [34] trasversale, sono dipinte e tatuate. Maschere inespressive a volte, a volte feroci, pietose sempre.
Ne ho osservato una che era sola, sul principio di un vicolo oscuro. Non passava gente in quel punto, ho potuto soffermarmi nell’ombra e sogguardarla. Sedeva sopra una misera stuoia, le gambe incrociate su lo scalino della soglia; appesa all’architrave, alta sul capo di lei, ondulava una lampada e fiammeggiava e fumigava guizzando. Tale intermittenza di luce dava al volto appassito, come la contrazione di un singhiozzo, di uno spasimo dilacerante. Era orribile a vedersi.
A volte pareva si scarnificasse nell’ombra; rimaneva il teschio coronato dai rossi capelli accesi. Poi il moto della lampada si è fatto più lento, è cessato, e allora ho potuto osservare, nella luce tranquilla, il volto della sperduta. La faccia del silenzio, nulla più; un volto impietrito, mummificato, tutto spento.
Chi avesse core di truccare la faccia di una mummia e di infiggere nelle orbite vuote due grandi occhi di vetro otterrebbe l’immagine esatta della donna ch’io vedevo.
L’età? Nessuna. L’età del patimento. Non si poteva numerare gli anni a tale spettro; era su la soglia del trapasso; cominciava la trasfigurazione finale.
Il vicolo era deserto, buio. Sul bianco muro che fronteggiava la tana della donna sola, si apriva, ingrandito più volte dalla luce della lampada, il rettangolo della piccola porta e in quella chiazza di luce che faceva più densa la tenebra circostante appariva l’ombra della sciagurata che attendeva un ignoto e il suo pane.
Nessuna voce: un busso di zoccoli lontano, il suono di una guzla più remotamente; non un suono distinto ma una eco interrotta, malcerta; languida e lieve, sospirata e remota. Intorno, lungo il vicolo breve, nessun altro lume: due archi moreschi, il muro di un giardino occulto, l’incerto [35] biancore di una terrazza sotto alle stelle e l’ombra e il silenzio deserto. Chi poteva attendere in tale solitudine la reietta? da quanto tempo sedeva su quella soglia? Chi, senza sentirne ribrezzo e pietà, avrebbe osato chiederle un simulacro d’amore? Le altre non erano sole; ella non conosceva se non l’incubo del silenzio.
Stava diritta sul torso, immobile, gli occhi muti come la bocca sottile. Dietro di lei era un piccolo giaciglio intatto, coperto da uno sciamma rosso; una vecchia stuoia sul pavimento umido, e, su la parete bianca, tracciata da mano inesperta, simile in tutto ai disegni di certi pazzi, la sagoma di un leone. Una sagoma rossa, grottesca e spaventosa. Riempiva la camera di un terrore fanciullesco, era l’unico, singolare adornamento che apparisse su le nude pareti.
Ho atteso inutilmente un gesto, un sospiro, un nuovo atteggiamento della solitaria; ella non soffriva, non aveva coscienza della propria miseria; il pensiero ed il dolore erano morti in lei, se pure avevano avuto mai un albore remoto.
Le sue guance infossate erano rosse, accese dal carminio. Aveva il colore delle bambole, se non l’espressione dolcemente idiota, quella bambola muta che attendeva un padrone per giacersi con lui senza nulla dire, senza contrastare, impassibile e compiacente.
Sono uscito dall’ombra. Non appena mi ha veduto si è guardata intorno, poi è sorta in piedi lentamente.
— Nehârak sa’ îd! (Che il tuo giorno sia felice!)
Ha mormorato l’augurio; ho visto solo un breve tremito delle labbra, ma gli occhi e il viso non hanno mutato espressione.
Le ho chiesto:
— Come ti chiami?
— Zubeida[1].
[36]
— Quanti anni hai?
— Ventidue.
L’ho guardata meravigliato. Ella non si è accorta della mia meraviglia. D’altra parte chi le aveva mai chiesto simili cose? Forse le apparivo strano come lo sono tutti gli europei agli occhi degli arabi i quali non si spiegano il loro amore al viaggio e alla investigazione.
— Da quanto tempo vivi qui?
— Da quindici anni.
— Sei sola?
— Sola.
— Non hai figli?
— Ne avevo uno, è morto.
Neppure il ricordo della sua creatura l’ha turbata.
— Tfaddal! (Entra, prendi qualcosa!)
Ha mosso l’invito timidamente, senza guardarmi in viso, guardando l’ombra sua sul muro bianco.
Non le ho risposto nè il mio silenzio l’ha sorpresa. Ho veduto sopra un tavolinuccio un vassoio di lacca con alcune mandorle di lukùm[2], ma la prospettiva di doverne inghiottire qualcuna per corrispondere alla cortesia di Zubeida (cortesia disinteressata, d’altra parte, perchè è costume tanto degli arabi quanto dei turchi, anche nelle malinconiche case della lussuria, di offrire ai visitatori qualcosa senza richiedere per questo alcun sacrifizio personale) mi ha trattenuto dal rispondere all’invito.
È trascorso un silenzio penoso, per me non per lei forse che era solita ad ogni più rude rifiuto, poi le ho chiesto:
— Ma non hai paura di viver sola in questo vicolo buio?
Ella ha rivolto su di me i suoi grandi occhi di vetro; come un’ombra di stupore ha animato un attimo le pupille larghe nella scarsa luce:
[37]
— Paura? — e ha alzato leggermente le spalle.
— Ma se passano i soldati ubbriachi?
Ha chinato il viso esclamando:
— Mâchallâh! (Ciò che Dio vuole!)
— E se ti bastonano?
— Inchâllâh! (Se così piace a Dio!)
— Non hai nessuno che possa difenderti?
— Robbi! (Iddio!)
E su tale parola ha taciuto guardando, sul muro del giardino occulto, il bianco rettangolo di luce che la lampada vi proiettava. Chiusa nel suo fatalismo immutabile, radicato profondamente nell’essere suo, fino alle radici della vita; insensibile ad ogni sofferenza fisica o morale, impietrita come la sfinge, simile in tutto a’ suoi grandi occhi di vetro senza luminosità nessuna, il muto fantasma, la carne martoriata, sottoposta ad un vituperio diuturno, trovava nella propria fede l’impassibilità della cosa, la forza inerte della cosa che non vede e non sente e non partecipa e non si addolora. Un bagliore in alto: Iddio; una spessa tenebra intorno. Per lei la morte non era che un fenomeno come il sonno: nè un incubo, nè una liberazione; non l’affrettava col desiderio nè la temeva; quando fosse giunta l’avrebbe trovata sola più che mai (anche se un’ombra fosse stata accanto alla sua sul giaciglio), nè avrebbe penato troppo a trascinarla con sè. Il silenzio della sua bocca non sarebbe stato accresciuto che di un niente: del fruscìo de’ suoi piedi scalzi, immobili ormai.
Se l’avessero veduta non ne avrebbero avuto maggior ribrezzo di quello che poteva destare quando attendeva ad occhi aperti un ignoto padrone. Il volto imbellettato, biaccoso, rosso di carmino; le sopracciglia unite dal nerofumo, le unghie tinte di henne, le labbra screpolate ma fiammanti come il fior dei gerani, per i sapienti pennelli, non avrebbero subìto oltraggi. Qualcuno si sarebbe affacciato [38] alla porta, una voce bestialmente rauca avrebbe gridato:
— Zubeida?... o Zubeida, destati!... — Poi un fiato grave, le avrebbe ventato su la faccia fredda finchè la lampada, come l’anima di lei, non si fosse spenta per mancanza d’alimento.
La bambola dagli occhi di vetro avrebbe trovato un suo signore per l’eternità.
Ancora per Zubeida come per il vecchio centenne abbandonato in fondo a un cortile, come per cento altri che ho osservato durante il mio peregrinare, l’islamismo è un fulcro di resistenza, un cosciente irrigidimento morale e materiale, una passività tetragona ad ogni assalto. Si annienta la vita per annientare il dolore. È come una morte innanzi alla morte poichè tutti i sensi si ottundono, si addormentano, si annientano; una potenza negativa; un ritorno alla quiete della tenebra. Senza disperazione, senza grida, senza follie convulsionarie la creatura si isola in sè in un suo concetto solo e attende. Prepara le vie alla morte, non ha fretta nè tormento, discende agli ipogei del suo destino.
L’anima nostra turbolenta, instabile, timorosa ne è sorpresa e stupita.
Ho proseguito il cammino chè un improvviso urlìo di arabi sopraggiungenti mi vi ha sospinto. Sorpassato il piccolo arco moresco la lampada di Zubeida è scomparsa. La scena ha mutato aspetto.
Le tane sono successe alle tane, l’una appresso all’altra come le celle di uno strano alveare. L’identico ammobigliamento: un giaciglio, un divano, alcune stuoie, una lampada dalla luce modesta.
I tipi quasi sempre gli stessi. Donne invecchiate anzitempo; truccate, imbellettate, coperte da stoffe vistose, gialle, rosse, verdi. A volte sono in due, in tre nella stessa tana; [39] siedono intorno a piccoli bracieri nei quali ardono profumi, le gambe incrociate, il viso indifferente.
Con la paziente lentezza dei ruminanti masticano e rimasticano una sostanza gommosa profumata, una specie d’ambra che dovrebbe ingentilire l’alito; sono sempre occupate in tale faccenda quando non fumano.
A quando a quando una porta si chiude, una lampada si spegne.
Talune hanno sul grembo un loro marmocchio giallo come lo zafferano e lo cullano con la stessa indifferenza con la quale masticano l’ambra.
Una piccola beduina tutta piena di medagliette, di ciondoli, di armille, una giovinetta di undici anni forse, se pure ne ha tanti, ritta su la soglia del suo tugurio provoca i passanti. La sua giovinezza è sfiorita benchè negli occhi grandi, cinerei, se ne mantenga il lume. La volgarità della piccola traviata non ha nome; non ho udito mai un turpiloquio simile. In fondo, una sudanese, nera come la fuliggine, guarda accigliata a simiglianza di un vecchio scimmione inciprignito.
Frotte di fanciulli passano da porta a porta ridendo e urlando.
Qualcuna esce ad inseguire un uomo che scivola via ammantato nel bianco burnus.
Un’ebrea che ha un gorgo di capelli nerissimi, seduta su la porta, il capo appoggiato allo stipite in un atto di languido abbandono, canta lentamente accompagnandosi sul salterio che tiene sul grembo. Le sue babbucce rosse sono vicino a lei su la stuoia gialla accanto a una tazza di caffè. Rievoca le nenie de’ suoi remotissimi padri, dei popoli pastori dai quali discende.
Vedo la bianca gola tutta scoperta, tremare nel fremito del canto. Poi mi allontano, mi allontano sempre più verso l’ombra delle vie deserte.
[40]
Rientrando oggi, verso sera, su l’avenue Bab Djedid mi sono imbattuto in un piccolo gruppo di beduini. Erano raccolti sotto un albero, in circolo. Tenevano il volto levato un poco verso il cielo e un sorriso vago, quasi interiore errava su la loro faccia olivigna. Erano ciechi. Forse attendevano chi li guidasse. C’erano due vecchi, tre uomini, una giovinetta e due fanciulli.
Conversavano; mi sono soffermato ad ascoltare. Si raccontavano antiche novelle, favole, enigmi. Il rosso sole tramontava dietro le loro spalle e l’aria era infocata, era come una fiorita di papaveri vermigli.
Il più vecchio, lo chiamavano Salah ben es Sa’ad, ha detto:
— Queste sono le nozze della formica.
La formica si tinse con l’henne e si fece le labbra rosse. Partì e lungo il cammino incontrò uno sciacallo che le chiese:
— Dove vai? perchè ti sei tinta con l’henne? perchè sono rosse le tue labbra e sei tanto profumata?
— Voglio maritarmi, — rispose la formica.
— Sposa me!
— Parla. Io ti conoscerò alle tue parole.
Lo sciacallo parlò; la formica rispose:
— Non fai per me.
Dopo aver lasciato lo sciacallo incontrò il grillo che le disse:
— Formica, mi sposerai?
— Parla.
Il grillo parlò e la formica lo sposò.
Sgozzarono un montone: con la pelle costruirono una tenda; con le tibie fecero delle vanghe e con le coscie dei vasi.
Il grillo portò la farina. La formica cominciò a passarla allo staccio.
[41]
— Scuoti la polvere che hai su la testa, — le disse il grillo.
La formica scossò tanto forte che la testa si staccò dal busto e cadde ruzzoloni.
Il grillo per il gran ridere crepò e morì.
Quando Salah ben es Sa’ad si è taciuto, il sole era già scomparso.
Avrà sei anni forse. Ella non sa numerare il tempo alla sua vita; quando le ho chiesto: — Quanti anni hai? — mi ha risposto: — Sono nata da Alì ben Hamed, a Mohamedia.
La incontro tutti i giorni vicino a un arco moresco a Bab Djedid. Ella è là e si balocca; o ride o passeggia grave. I primi giorni mi chiamava Khanâdja (signore); ora mi dice: — Addio!
Jasmina è nera, ha la pelle liscia come il velluto e il visetto tondo; gli occhi grandi e sereni e una boccuccia di fiore. Se ride è un dolce biancore sul suo viso; allora il nome di lei: Gelsomina, pare le stia dipinto, chè sono gelsomini i bei denti serrati e gli occhi bianchi fra le palpebre nere.
Se mi vede, sorride. I primi giorni mi guardava imbroncita con una sua gravità di donna esperta che diffida dello straniero; ora appena appaio in fondo alla via di Bab Djedid mi si fa incontro. Ha letto forse negli occhi miei quanto io ami i bimbi; si è accorta che non saprei dirle male parole, che non saprei guardarla con viso torvo; si è accorta che poteva dirmi: — Khanâdja, dammi questo; Khanâdja, regalami un fiore, un balocco, una moneta.
Jasmina ama i fiori come tutti i bimbi in tutto il mondo.
[42]
Non appena sbocco all’un capo della strada sento gli zoccoletti di Jasmina, odo il loro busso affrettato sui ciottoli.
Se non la guardo mi segue, mi si pone al fianco, mi sfiora un braccio:
— Addio, Khanâdja....
E se non rispondo insiste. Una volta mi ha chiesto:
— Sei inquieto?... Che cosa ti hanno fatto le tue donne?...
Ella crede ch’io possegga un harem con mogli e schiave circasse e serve sudanesi.
Siamo diventati tanto amici che non lascierei trascorrere un giorno senza passare, alla solita ora, per la via Bab Djedid.
Ella sa che debbo andarmene presto e mi chiede quando ritornerò e quante settimane debbo viaggiare per giungere alla mia tenda lontana.
È figlia di una schiava. Verrà anche il suo tempo, quando il rapido amore la farà sbocciare per trarla alla bestiale cecità di qualche padrone. Il suo cuore che sa intenerirsi sarà fatto di selce allora.
Oggi le ho detto addio.
La sudiceria del quartiere ebreo a Tunisi è cosa che non ha paragone. Non v’è luogo sulla terra che non abbia gente sudicia, ciò resta inteso; all’estremo nord i contadini della Scania, ad esempio, potrebbero gareggiare senza timore di perder la partita, coi contadini delle nostre Calabrie i quali, nonpertanto, in tema di sporcizia godono di una immeritata fama mondiale. Gente sporca, ce n’è per tutta la terra e chi arriccia il naso nominando l’Italia meridionale segno è che ben non conosce casa propria.
Ammetto come verità dimostrata quanto ho esposto sopra, [43] ma conviene aggiungere che nessun paese e nessuna razza può sperare di portar la palma su gli ebrei di Tunisi. La loro sudiceria è una cosa iperbolica, colossale.
Volevo percorrere il loro quartiere da vari giorni; oggi solo mi vi sono azzardato perchè è sabato, è festa, e le donne fanno pulizia.
Avanziamo turandoci il naso; sarà prudente far ciò.
Le strade sono strette, oscure, tormentate in avvolgimenti continui. Per soprappiù piove a dirotto. Si cammina fra una melma spessa, formata da chi sa quali elementi. Meglio è non guardare; tirar diritto con cuore risoluto.
Sporche le vie, sporche le case, i cortili, le scale, le finestre. Il lerciume non ha avuto riguardi, nè pudori, nè titubanze: si è esteso con bella franchezza dalle strade alle stanze; è salito dai marciapiedi ai comignoli; ha accolto tutte le cose sotto il suo velo pareggiatore. Una veste bianca pone una nota stridente fra tutto questo grigio: stona, non è a posto, dispiace, direi quasi disgusta. Due mani candide farebbero ribrezzo. È questione di far l’occhio, di abituarsi ad uno stato di fatto, a una predilezione. Si vede tutto uguale, tutto concorde in una mirabile armonia e si pensa: — Questo è un mondo a parte: ha i suoi gusti, le sue tradizioni, le proprie preferenze e conviene accettarlo tal quale esso è. Discuterlo significherebbe diminuirlo.
E per diminuire il lerciume del quartiere israelita tunisino occorrerebbero tutte le pompe a vapore di cui può disporre Londra e forse non basterebbe. No, perchè si tratta di una veste secolare di una qualità che non si ferma alla superfice ma che ha raggiunto l’anima delle cose.
Oggi le donne fanno pulizia. Convien dire così perchè non si può disporre di una parola diversa; converrebbe crearla per significare esattamente ciò che fanno le donne ebree (tunisine) nel giorno consacrato al riposo. Rinnovano la superfice, mescolano le varie sostanze di rifiuto, le tramutano [44] o le adunano su la soglia. Ogni soglia è una concimaia; ciò è esatto. Può darsi che tale uso leggiadro abbia una ragione; ad esempio quella di non invitare il passante ad entrare; sarebbe la ragione opposta al salve patriarcale. Una soglia fetida non vi lusinga anzi è un invito a proseguire. Comunque sia, la via è di tutti, ragione per la quale nessuno si sente in obbligo di curarla, di rispettarla. Le cose di tutti sono sempre le più disgraziate. All’infuori del mio e del tuo l’uomo non ci vede chiaro e doventa un animale maligno. Parlategli del bene sociale ed egli vi capirà solo allora quando potrà pensare di chiamarsi società. In ogni uomo c’è un Io-società e basta; più oltre c’è la tenebra. Le astrazioni non hanno fortuna e, sotto un certo punto di vista, una strada non potendo essere nè mia nè tua è una specie di astrazione. Ecco perchè su la strada, nella strada e per la strada ogni cosa è lecita. In questo quartiere, ad esempio, è diventata per comune accordo uno sterquilinio.
A quando a quando certe zaffate come d’aglio stantio giungono non si sa da dove; sono per l’aria; caratterizzano l’ambiente.
Tutte le porte sono aperte: sogguardo: ecco una fila di anditi angustissimi, scivolosi, nerastri; un’umidità tenebrosa e puzzolente. Sono lastricati? E chi lo sa? Le pareti furono un giorno imbiancate a calce? Chi potrebbe dirlo? In fondo riluce qualche patio, qualche cortiletto in cui la grigia giornata affoga malinconicamente in un lungo sbadiglio.
Le donne si muovono, gridano, cantano, urlano. Assisto a frequenti bisticci. È una razza irrequieta, nervosa e litigiosa; si accapiglia con facilità, strilla che pare abbia di continuo le doglie del parto. È affannata: un niente la fa montare in furore. Oh santa pace! Come potrà prosperare il classico istituto della famiglia dati simili temperamenti? [45] È come una antropofagia intenzionale; se non si mangiano in realtà, si consumano nell’ira, le quali cose hanno punti di contatto. Vivono in tempesta; sono come legni che si cozzano in un porto malsicuro.
Dalle finestre aperte, basse, difese malamente da griglie in isfacelo mi giungono, quasi da ogni casa, simili concerti vocali: sono donne e bambini, ragazzetti e fanciulle; ne deduco che il giorno festivo sia dedicato di proposito a tale novissima esercitazione.
Un uomo mi sorride. È fermo sopra una soglia immonda come tutte le sue sorelle. Lo guardo in viso, lo riconosco. Piccolo, grassoccio, sorridente; affogato nelle ampie brache farebbe la fortuna di un circo equestre. Si chiama Jacob. Da dieci giorni lo trovo alla Porte de France e da dieci giorni mi chiede imperturbato se sono disposto a vendergli un paio di calzoni. La mia impazienza non lo ha scoraggito nè punto nè poco. Una volta la sua petulanza è giunta a tanto, che mi si è fatto incontro con le mani unite a giumella facendo risuonare le monete che vi teneva rinchiuse per trarmi al mercato proposto.
— Buongiorno, signore.
— Buongiorno.
Con un gesto ripete l’offerta; ormai sa che non occorrono parole a spiegare il desiderio che lo anima.
Gli dico:
— Accompagnami per il quartiere ebreo; fammi entrare in qualche casa; avrai una buona mancia.
Jacob sorride e annuisce.
— Vieni con me.
Lo seguo. Si passa di vicolo in vicolo, ci si addentra per un laberinto pantanoso e oscuro. Le case sono alte; il buio aumenta sempre più.
— Dove mi conduci?
— Non vuoi vedere una casa ebrea?
[46]
— Sì.
— Vieni. Vedrai delle ragazze da marito.
— E che me ne importa?
— Vedrai!...
Lo seguo docilmente; vedremo. Jacob è l’uomo dalle sorprese.
Si entra in un andito. Ci si fa incontro una donna immonda, dal volto gialliccio, dalle mani giallicce. Quando ha parlato con Jacob tenta un sorriso e si volge a precederci. Ha le calze rotte, un paio di brache ampissime che le giungono alla caviglia, un giubboncello poverino, ma tanto poverino che non copre nulla e, sui capelli grigi, una specie di cono sul quale è appuntato un velo. Batte gli zoccoli sul selciato, si sofferma ad una porta e, mentre la dischiude, parla in una lingua che non intendo.
Dove si andrà? quale sorpresa ci attende?
Entriamo. Una stanza quadrata; alcune stuoie luridissime; due divani lungo le pareti, un tavolo nerastro, qualche sedia zoppa; tale è l’ammobigliamento.
Siamo immersi in una penombra spessa. La donna che ci ha accompagnato scompare da un’altra porta.
— Ed ora? — chiedo a Jacob.
— Ora si aspetta.
— Che cosa?
— Le figlie di Debora.
— Per che farne?
— Per vederle.
— Sono tanto belle?
— No, sono grasse!
— Grasse?
— Sì, ingrassano perchè debbono sposare presto.
Non riesco ad orientarmi. O che si ingrassa per sposare? Quale concetto hanno del matrimonio queste genti? Non risolvo il dubbio ed attendo; quand’ecco che la porticina [47] si riapre per lasciar passare Debora la quale reca un lume a petrolio. La stanza ne è rischiarata. Trascorrono altri dieci minuti; siamo seduti vicino alla tavola attendendo; si ode l’acqua sgrondare.
La signora Debora dopo averci illuminato l’ambiente è scomparsa di bel nuovo.
— Ma che fanno? — chiedo a Jacob.
— Si vestono. Vogliono farsi vedere nei loro costumi più belli. Ti piaceranno.
— Ah!
Frattanto guardo le travi che sono nere come il pavimento; tutta una architettura di tele di ragno ne riempie gli angoli.
La porta si riapre: un sussulto, un bagliore, un biancore inusitato: ecco Debora ed ecco le belle figlie: l’una appresso all’altra, in fila indiana.
Fanno due passi e si soffermano presso la soglia guardandomi; credo mi abbiano sorriso, qualcosa è passato infatti sul loro volto enorme.
Resto stupito, inchiodato al mio posto, incapace di far parola.
Odo Jacob che mi chiede:
— Ti piacciono? L’una ha sedici anni e l’altra diciotto. Andranno spose fra qualche settimana. Debora ha lavorato per bene, vedi? Sono fra le più grasse del quartiere.
È vero è vero! Una pinguedine gialla, molle, traballante, gelatinosa; qualcosa di informe, una specie di elefantiasi artificiale mi sta innanzi. Quali campioni della specie! Tutto è cresciuto a sproporzione deformandosi in una mostruosità bofficiona che desta ilarità e compassione. Ogni linea ha superato le misure della verosimiglianza. Le guance non si posson più chiamar tali, non sono guance anzi gotoni, due sfericità sovrabbondanti che sopravanzano dando al volto un che di badiale e di allegroccio che fa pensare [48] a cose ridanciane. La grazia della gola e la linea del mento scompaiono sotto una enorme pappagorgia. Il naso è ridotto ad una coserellina minuscola, umilmente inutile; la bocca si è arrotondita, costretta com’è a rimaner dischiusa; assomiglia al becco del pesce palla. Il resto del corpo non ha linea, è una deformità impacciata che stenta a muoversi e il costume ne compie la grazia. Le solite brache fino alla caviglia e il corsaletto e l’ampio velo che dipartendosi dal cono fermato sui capelli si stende lungo tutta la persona a pareggiarla in una linea ancor più goffa. Vedute di dietro in tal costume codeste giovinette da marito non sembrano già creature ma otri fantastici, semoventi faticosamente fra il brusìo delle vie popolose.
Nessuno dice parola.
Debora guarda con vivo compiacimento la sua pingue prole poi, a un cenno di Jacob, le due grazie fanno una specie di inchino, si rivolgono ed escono senza dir parola. Non ho udita la loro voce, non so, ma mi pare debba essere sottile, eunuca, tremante. I grandi involucri hanno talvolta sorprese simili.
Ho ancora negli occhi l’ondular lento e impacciato delle due sorelle e i pochi passi faticati e le rotondità mostruose.
Quando siamo per la strada, Jacob mi dice che da quattro o cinque mesi non escono di casa ma stanno rinchiuse di continuo in una stanza buia, tutte intente a rimpinzarsi, a trangugiare, fin che resistono, certi cibi speciali preparati ad arte dalla madre loro. Più ingrassano e più sono certe di raggiungere il termine estetico verso il quale si appunta il desiderio maschile. Per un ebreo tunisino una donna magra è ripugnante; esso porta nell’apprezzamento della bellezza femminile gli stessi criteri seguiti dai mercanti di certi quadrupedi commestibili. Dio mi guardi dal voler adombrare con ciò la gentilezza di cotali vergini [49] ebree; dopo tutto esse non fanno che piegarsi alle esigenze maschili, si deformano perchè ciò è necessario; debbono piacere, e si sottopongono alla cura dell’impinguamento. Le ottentotte, allo stesso scopo, si allungano le labbra per mezzo di dischetti, tanto da sembrare mostruosi anatroccoli; le negre di Bengasi si infilano un corallo rosso nel naso; le sudanesi cercano di avere i piedi enormi e via dicendo. Non v’è cosa più insensata del desiderio umano, soggetto, com’è, a deformazioni stravaganti.
— Vuoi vederne ancora? — mi chiede Jacob.
— No; mi basta ciò che ho veduto.
E si prosegue per viottoli sempre più neri, sempre più fetidi.
Incontriamo ancora donne goffe nei loro goffi costumi a colori vivacissimi. Quanto più vivo e stridente è un colore tanto più sembra bello. Non conoscono o non sanno apprezzare le sfumature.
Ma non sono tutte brutte codeste donne; qualcuna si salva e più precisamente le ridestate, quelle che non seguono la macabra tradizione.
Ecco Rebecca. L’ho veduta su lo sfondo di un piccolo patio nel quale mormorava una fontanella. Era appoggiata ad una colonnetta bianca. Vestiva di scarlatto. Era bella come le donne di Moab, come le vergini d’Israel sotto i padiglioni lucenti. Bella d’occhi e di capelli e di persona; il suo colore era quello dell’oliva quando il sole la feconda.
Per il silenzio di lei fioriva il Cantico d’amore, dato al Capo de’ Musici dei figlioli di Core, sopra Sosannim:
.... Ascolta, fanciulla, e riguarda, e porgi l’orecchio: e dimentica il tuo popolo, e la casa di tuo padre:
Ed il Re porrà amore alla tua bellezza....
E la figliuola di Tiro, ed i ricchi fra i popoli, ti supplicheranno con presenti....
Era pura come un mattino sul mare.
[50]
Poco distante dal Suk dei profumi, entro il recinto dei mercati coperti, una griglia verde fra colonne policrome, rosse e turchine chiude l’accesso a un piccolo cimitero. È un quadratuccio di terreno alto quasi mezzo metro sul livello della strada; vi cresce un’erba rada e pallida poichè vi manca la luce. Ivi sono raccolte due tombe quadrangolari che assomigliano a due arche, ma sono di legno, dipinte in rosso ed in celeste ad archi moreschi. Vi riposano due santoni, due saggi che vissero in santità e onorarono Iddio. Data la singolarità della loro ultima dimora, vien fatto di pensare contengano ben altra cosa che non poche ossa polverose, raccolte tuttavia negli ultimi brandelli di un sudario. Arche sembrano, sì, ma arche nuziali, odorate di spigonardo e d’ambra. La santità de’ buoni vecchi non basta a inciprignire la gaiezza della loro dimora.
D’altra parte gli arabi non temono la morte e non la vogliono nera. Non conoscono nè la tetraggine, nè la sfacciata volgarità dei nostri cimiteri. Meglio è sorridere di una tomba anzichè ritrarsene con paura o con disgusto. Una morte che si perpetui in un sorriso non è morte compiuta. Noi, sì, ci annientiamo miseramente in un lugubre rituale, per il nostro spirito misero, troppo misero di sole e di gaiezza.
Ho ripensato alle due tombe medioevali elevate a due legisti in una piazza di Bologna, alte sopra sottili colonne gemine, circondate d’aria e di luce, simili a un dolce nido sotto l’azzurro. Non so concepire come il medioevo abbia potuto creare qualcosa di tanto sereno.
L’età moderna non ne comprese la bellezza quando negò a un suo grande poeta una simile esaltazione.
L’anima nostra è ancora troppo oscura. Noi non amiamo i morti.
[51]
Ecco quattro proverbi che ho raccolto oggi da un vecchio, in un bagno arabo:
I. — Fa il bene e buttalo a mare; se non lo sanno i pesci lo sa Iddio.
II. — Se venissero esaudite le preghiere dei cani, dal cielo pioverebbero ossa.
III. — Il cane abbaia e la carovana passa.
IV. — Il segreto ti è schiavo; se lo riveli ne diventi schiavo.
Fu chiesto una volta a Kadìr, che la benedizione sia su di lui!,[4] quale fosse la cosa più meravigliosa ch’egli avesse veduto durante le sue lunghe peregrinazioni per il mondo; Kadìr rispose:
— “Una volta giunsi ad una città magnifica, una città di potenti, ricca e gloriosa; prima di entrarvi vidi, in un piccolo giardino, un uomo che raccoglieva certe sue frutta. Mi soffermai e gli chiesi:
— Dimmi: sai tu da quanti mai anni sia sorta la città dei magnifici?
Egli si rivolse, mi guardò e rispose:
— Sia gloria a Dio! Essa è sempre stata nei tempi dei tempi. Sorse dopo il diluvio; impererà in eterno!
Partii. Dopo qualche anno, tornato sul luogo, gli occhi miei si affaticarono invano a ricercare le torri e le mura, le cube e i minareti: dov’era la città dei magnifici?... Io non vedevo che un immenso prato smeraldino.
[52]
Un pastore seguiva il suo gregge. Mi avvicinai; gli chiesi:
— Sai tu da quanto tempo fiorisca questo prato fra gli alberi e le paludi salate?
Il pastore levò gli occhi e mi guardò sorridendo. Rispose:
— Nei tempi dei tempi!
Ripresi il cammino, l’eterno cammino mio.
Dopo molti anni ancora, non so più quanti, ebbi a ritornare nello stesso luogo, e vidi con mio grande stupore che anche il prato era scomparso. Il mare ne ricopriva l’immensa distesa. E vidi uomini che si tuffavano nell’abisso dell’acqua e ne sortivano recando perle e coralli; vidi altri tender reti ed altri giungere e partire su le velivole navi.
Chiesi ad un vecchio:
— Sai tu da quanto tempo si naviga e si pesca in questo luogo?
Rispose:
— Nei tempi dei tempi! Da quando il sole riluce„.
I notai sono gente preziosa; sono gli uomini della buona fede in Grecia come nella Svezia. Necessariamente non è ammissibile una buona fede unica; il concetto varia da Atene a Stoccolma come variano il clima, l’indole, le disposizioni, le abilità, le percezioni. Un gesto che potrebbe chiamarsi piacevole e che farebbe sorridere il pubblico di Atene scandalizzerebbe quello di Stoccolma. La buona fede o è troppo buona o non lo è punto, secondo lo spirito che la informa. Ora i notai sono i rappresentanti di codesto spirito. Gente preziosa, comunque sia.
A Tunisi la loro frequenza ne dimostra l’importanza. [53] Hanno certe botteguccie dalle imposte azzurre come le loro buone intenzioni; siedono gravemente dietro il loro banco, uccellando. (Ogni bottega è come una ragna. Vi si potrebbe scrivere sopra: Qui si uccella).
Hanno, posate su la stuoia accanto al sedile, le loro babbucce e hanno a portata di mano una grande giara piena d’acqua. Portano gli occhiali e lunghe barbe e pare meditino sul problema dell’universo.
L’atteggiamento dell’uomo che si dilunga verso le amare conclusioni del pensiero e dell’uomo che gravita in un suo piccolo mondo oscuro, quasi bestiale, è sempre lo stesso: Una maschera uguale per un uguale silenzio.
L’anima del viandante è come una prora che solca il mare: incontro alle tenebre e alle tempeste e incontro alle aurore. Scacciamo la tristezza, su, anima mia; la vela si distende al respiro del mare.
Se l’acqua ristagna, imputridisce; compiamo il corso come le limpide vene che vedemmo su le montagne della Norvegia lanciarsi dalle cime al mare dirittamente, lungo le coste brulle.
Più ti dilunghi e più ti senti sola; il cerchio del tuo orizzonte non si amplifica; tu porti con te il tuo confine.
Su, anima mia, triplica il giro delle tue illusioni intorno a te stessa; vivi come vive la Terra per la propria atmosfera, nel vuoto spazio tenebroso. Oggi, ad una fonte, oltre l’arco moresco di Sidi Abdallah, su l’ora del crepuscolo, è riapparsa Hadda, fiore di giovinezza.
Si è detersa i piccoli piedi alla fonte e le armille d’argento tintinnivano su le fini caviglie.
Nessuno c’era all’intorno; unica voce quella dell’acqua [54] azzurrina. Il silenzio dell’ora e la dolcezza del fiore umano turbavano il pulsar delle vene.
L’acqua cantava entro l’anfora sottile traboccando, come trabocca il miele dagli otri, la dolcezza dagli occhi innamorati.
Nessuno l’ha veduta quand’ella ha sorriso; nessuno l’ha veduta quando ha inchinato il mento al seno.
C’era una sola stella sopra le bianche cube di Melassìn.
Nel centro dell’Africa, in una parte remota e solitaria sorge una grande montagna, nera come la notte, dura come il diamante. Un cavallo lanciato al galoppo non potrebbe compierne il giro se non in due ore e a un uomo saldo occorrerebbero quattro ore per dominarne la cima.
Ogni mille anni un uccelletto esiguo giunge alla montagna nera ad affilarsi il becco.... ogni mille anni.
Ora sappi che quand’egli avrà consumata tutta la montagna, solo allora e non prima sarà trascorso il primo attimo dell’eternità.
Tutto, al mondo, si consuma. Iddio è eterno. —
Questo raccontano i saggi agli uomini del deserto.
Ho visitata una casa abbandonata; un antico palazzo arabo comprato da un cristiano, consacrato al culto cristiano, deturpato da mani cristiane per il futile motivo che mani cristiane lo avevano eretto qualche centinaio d’anni fa quando i corsari saraceni battevano il mare e traevano schiavi gli uomini delle nostre spiagge.
Un’epigrafe ampollosa, redatta nello stile dei vecchi quaresimali sta sul muro sgretolato fra le piante rampicanti [55] che vi si abbarbicano. Che cosa dica precisamente non ricordo bene, ma pare che il compratore fosse convinto di compire opera altamente meritoria verso la Chiesa, riscattando da mani arabe il bel monumento per depredarlo e saccheggiarlo e ridurlo a uno scheletro nudo.
Le vendette della fede hanno simili incoerenze: giusto perchè elevata da mani cristiane la dolce casa doveva essere saccheggiata. Non domandiamo un perchè nè cerchiamo la logica di tali fatti; potrebbe dirsi fanatismo se non fosse ciò che oggi chiamano affarismo; un affarismo ipocritamente beghino che rivolge al suo Dio occhi pietosi e ne fa commercio.
Tutti i magnifici lavori in ceramica di cui si adornava questa casa di letizia hanno esulato. Le belle stanze circondanti il patio, i loggiati, le fontanelle, il patio stesso serbano le tracce di tale depredazione. Si è venduto tutto, non sono rimaste che le mura dispoglie, i marmi bianchi e neri e la grazia architettonica che non poteva essere incassata per qualche collezionista. Una malinconia viva; come un volto sfregiato che non ha perduto il suo sorriso.
Nessuno abita il bel nido. Nel patio quadrato, racchiuso fra l’armonico giro degli archi moreschi, crescono erbacce e rovi; nelle stanze polverose corrono ragni e topi.
Se gli uomini che credono in Dio rispettassero l’arte che non ha paese, nè setta religiosa, nè intendimenti meschini! Essa potrebbe dimostrar loro come esista in realtà, nell’anima umana, qualcosa che l’avvicina ad una fede universa, che l’eleva ad una zona uguale nella quale non è che una luce divina per tutti i nati di donna i quali abbiano cuore e intendimento.
[56]
Aprile.
Camminiamo con la primavera. Tunisi è scomparsa fra il bianco mareggiare delle sue terrazze fiorite da gerani rossi, fra i minareti quadrati e ottagonali, le cupole, le cube, le mezzelune e i globi dorati. È scomparsa in fondo all’orizzonte.
Altre lagune, altri stagni sono passati, innanzi agli occhi miei innamorati. Immense pianure verdi, circondate dai monti; piccole case biancheggianti; esigui corsi d’acqua e vigneti e boschi d’ulivi e siepi di fichi d’India. La campagna; la libertà primitiva.
Tribù di beduini sono accampate a grandi distanze. Di tanto in tanto, su la linea piatta dell’orizzonte, un gruppo di tende ne indica la presenza. Pascolano intorno mandre di buoi rossi e neri, pecore e cammelli.
Fra le sterpaglie e i fichi d’India è apparso ad un tratto un villaggetto arabo, una macchia bianca. Ad Hamman-el-lif la pianura si è estesa ancor più; un solo palmizio lontano ne interrompeva la monotonia.
Altri paesi sono trascorsi, altri tempii, altre case. Una via interminabilmente diritta va da un punto all’altro del cielo fra una distesa di margherite rosse e di cardi azzurri.
I miei compagni di viaggio cambiano ad ogni stazione; si rinnovano come l’acqua in una vasca, ma ciò non significa che l’ambiente sia puro.
Ebrei nella loro dgebba ricamata; arabi con la cecìa e col turbante; donne sdegnose e donne compiacenti! C’è chi dorme, c’è chi fuma, c’è chi pensa con la testa inchina. Un grande odore di muschio aleggia intorno con le mosche e la polvere. Ad ogni sussulto nel treno, un uomo che [57] sonnecchia si desta di soprassalto e spalanca gli occhi spaventati guardandosi intorno, poi riprende a sonnecchiare. Si giunge, si riparte, si ruzzola, ci si intontisce, ci si guarda, si sbadiglia.
Alle singole stazioni le identiche scene: gente che scende, gente che sale; parole scambiate sommessamente: un addio, un consiglio, un augurio. Poi l’invito dei conduttori:
— En voiture, s’il vous plaît!
Un sibilo e via. Ricomincia il dondolio interrotto da sobbalzi e il rumore monotono delle ruote su la via ferrata.
Ci si guarda sempre più stanchi.
Vorreste distendervi e non lo potete: avete accanto un grosso ebreo.
Il paesaggio? Sempre lo stesso! Nulla lo anima; almeno voi non vedete nulla; tutto si dipinge del vostro dispetto. Una fila di beduini inebetiti, laceri, sporchi, con la bocca aperta vi guarda ad ogni passaggio a livello. Uno stupore vuoto come la loro bocca aperta; una vivacità simile a quella dei loro dromedari.
Proprio incontro a voi un’araba si affanna a tirarsi le bende sul viso per poco che l’occhio vi sfugga a guardarla.
Per rassicurarla le volgete le spalle e l’occhio vi corre al finestrino senza volerlo.
Ecco: un palmizio spelacchiato, polveroso in mezzo a un’arida pianura; vi pare un fruciandolo; poi lo sgorbio vegetale che si chiama fico d’india: una mostruosità gibbosa, appiattita, contorta, irta di spine come la castimonia di una brutta donna; e qualche marabùt; e qualche beduino rimbecillito nel sole.
Tutto ciò non dà tregua.
Guardate con fissità le reticelle del vagone; porgete la tessera al controllore che viene a bucarvela per la ventesima volta; vi stendete un poco più appoggiando il capo alla spalliera.
[58]
Avete trovata la positura favorevole ecco.... nasce l’idea bella che vi conduce al riposo del sonno.
Uno scrollone, un sobbalzo, una spinta. Vi ridestate spaurito.
Siete a una nuova stazione....
Vi trovate fra un monte di ceste e di stuoie; un nuovo viaggiatore è seduto incontro a voi, anzi una viaggiatrice e vi guarda con un occhio solo attraverso alle bende. E il caldo vi cuoce e un terribile tedio vi assale.
Aprile.
Susa, la città saracena. Passa nella storia con molti nomi: Adramatos, Hadrumetum, Unurico polis, Djoerah, Soussa, Sisa, Sissa Negra e vai dicendo.
Fu nel dominio di molti ma non ha serbato che il carattere saraceno.
Fondata dai fenici in epoca troppo remota per esser determinata, passò dai Cartaginesi ai Romani, dai Romani ai Vandali, dai Vandali ai Bisantini, ai Turchi, agli Arabi.
Gli arabi la dissero Djohera, pietra preziosa.
Una graziosa leggenda spiega come fosse chiamata in seguito, Susa.
“Un governatore arabo fece sospendere una volta, sopra Bab-el-Bahar, una bella perla legata a un filo. Ora avvenne che, durante la notte, il filo fosse tagliato.
“Appena sorse l’alba, la gente si avvide di ciò e andò intorno gridando che un verme (sussa, in arabo) aveva mangiato il filo al quale era sospesa la gemma.
“Da quel giorno, il nome di Susa è restato all’antica Hadrumetum„.
Per me rimane Djohera il gioiello. Una gemma bianca incastonata su l’orlo del mare turchino. È tutta bianca. [59] L’immagine di una nube che passa nel cielo mattutino di un maggio, ne dà la sensazione, non foss’altro per ciò che è colore.
Si stende sopra un colle su la riva del mare, è piatta, le sue bianche mura orlate paiono trine. A quando a quando dalla sua massa frastagliata che sale dolcemente col salire del colle si leva un palmizio, un minareto, una cuba, e sopra è il turchino del cielo profondo, e sotto è il turchino del mare. Un nido fra due immensità gioconde.
È il vero sorriso dell’oriente, una fra le immagini che assecondano maggiormente il nostro sogno. In tutta la costa fra cielo e mare, non ha sorella.
Nessun’altra città la supera in gaiezza serena nè in Siria, nè in Egitto, nè in Algeria. È la gemma saracina: Djohera.
Intorno le si distende il Sahel dagli immensi oliveti.
C’è, a Susa, una piccola fonte remota fra gli ulivi; la chiamano l’Ombra del Mandorlo.
L’ho veduta ieri; vi sono giunto per caso, aggirandomi per le viottole fra gli uliveti.
Ero felice, contento di un nulla, della chiara mattina. Mi è parso che il sole sorgesse in me. La grande letizia del giorno si era trasfusa in tutti i miei sensi; ho sentito l’anima mia, figlia del mondo, riempirsi di luce come tutte le cose.
Ad un tratto un mormorio di acque correnti mi ha fatto sostare e, in un lembo di terreno dispoglio, ho veduto un mandorlo e una piccola fonte. Da questa derivava un ruscelletto gorgogliante che scorreva fra ciottoli e fiori e si perdeva ben tosto sotto l’ombra degli ulivi. Il mandorlo era in fiore.
[60]
Mi sono seduto all’ombra azzurrina, d’altro non mi importava: nè di andare, nè di sapere dove ero; mi erano innanzi due cose vive, due voci, due forze misteriose quanto il palpito del mio cuore: un albero e una fonte.
El Djem ora non è che un villaggio arabo, un miserrimo villaggio, un aggruppamento di sudicie tane. Fu già grande città e si chiamava Thysdrus.
Ci siamo soffermati a guardare il grande anfiteatro che è il terzo nel mondo per bellezza.
Tale monumento, che pare una copia del Colosseo, contava sessantaquattro arcate. Fu costruito nel III secolo dall’imperatore Gordiano.
Nel 689, dopo aver riportato numerosi successi sugli Arabi, la regina dei Berberi, Damiah-el-Kahena, fu costretta a rinchiudersi nel detto anfiteatro del quale fece distruggere le scalinate per otturare le arcate inferiori.
La tradizione racconta che, obbligata dalla carestia, ella fece scavare un sotterraneo che trovava sbocco a dodici chilometri da El Djem.
Tale sotterraneo, oggi in parte interrato, sembra essere l’avanzo di un condotto d’acqua che permetteva di innondare l’arena per i combattimenti navali.
Nel 1695 una banda di Arabi rivoltosi si rifugiò a El Djem.
Mohamed Bey assediò l’anfiteatro, lo tolse loro a viva forza e per impedire che le larghe breccie fossero riparate fece distruggere tre arcate.
Tale mutilazione forma un’entrata gigantesca all’immenso anfiteatro.
Tutto il suolo intorno ricopre le rovine di una grande città.
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Scavando si sono trovati tesori. Quando vi siamo giunti fervevano le opere di sterro.
Operai arabi e mori erano intenti a scavar larghe fosse, a trasportare lontana la terra di rifiuto.
Passavano nel sole, fra gli archi, donne avvolte in un grande manto vermiglio. Singolari fantasmi contro l’enorme rovina.
Intorno, la campagna è quasi brulla, sabbiosa e l’anfiteatro vi appare come lo scheletro di una città sepolta.
La miseria che gli si intristisce ai piedi non lo adombra. Il suo dominio è nell’immensità.
Si arriva fra gli ulivi. Monastir sorge sul mare. Abbiamo costeggiato la sebkra, il lago salato; siamo passati sopra un vecchio ponte romano, poi fra i gioiosi giardini di Skanes contro il mare.
Ancora una volta l’anima delle terre calde sorgeva in tutto il suo fulgore.
Monastir è preceduta da una vasta necropoli e cinta da un giro di bianche mura che la inghirlanda. Gruppi di palmizi le sovrastano.
Guerin dice che questa città racchiudeva, al tempo dell’invasione araba, un monastero cristiano (El Menstir che avrebbe dato il nome alla città attuale) trasformato poi nella moderna Casbah o fortezza.
La Casbah è dominata da un’alta torre che si chiama El-Nador. Vi saliamo per godervi il magnifico panorama.
Al nord si abbraccia tutta la costa e il Sahel: Hammamet, Hergla, Hammam-Susa, Akuda, Susa; al sud la veduta si distende fino a Lemta.
Una delizia di sole e di verde, di azzurro e di bianco e d’oro. Città candide e densi oliveti e colli perlacei e distese [62] piatte dalle quali il sole trae riflessi dorati. Non saprei paragonare tutto ciò se non al sorriso di una giovinezza esuberante.
Sono luoghi e ore che lasciano per sempre in fondo all’anima la nostalgia dell’oriente.
Più tardi visitiamo il palazzo della Karaia che appartenne al generale tunisino Si Osmar.
Dal lato architettonico non presenta alcun interesse ma è magnifico il luogo nel quale sorge.
Si eleva sopra una roccia che si avanza nel mare e sopra lunghe gallerie nelle quali le onde si precipitano ululando.
Pare il nido di una procellaria. L’immensa distesa turchina gli sta d’intorno.
Entrando nelle gallerie scavate dalle acque, ai piedi della roccia, si ha l’illusione di visitare un antico stabilimento di bagni.
Vi sono sale e piscine d’acqua chiara. Uno, fra i suddetti trafori naturali, è lungo sessanta metri.
Djeziret-el-K’mam, l’isola dei colombi, sorge di fronte a Monastir.
È un isolotto disabitato pieno di rovi e di sterpaglie. Solo le colombe vi nidificano.
L’ho veduto di lontano, nel sole, fra un abbarbaglio di bianchi voli. Nessuno vi approda. Vi cantano le allodole tutto l’anno.
Anche Ustania è un’isola che sorge di fronte a Monastir. Vi ho approdato per osservarvi le caverne.
Si tratta di una cinquantina di caverne scavate in una rupe gigantesca.
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È difficile stabilire quale sia stata l’origine e quale fosse la destinazione di queste cinquanta camere quadrate. Dicono siano di origine fenicia e si suppone servissero, nei primi tempi del cristianesimo, di rifugio ai monaci.
Si tratta di un vero e proprio villaggio di Trogloditi con anditi, camere comunicanti, scale sinuose scavate nella roccia. Un remotissimo mondo che nessuno ha saputo vivificare.
Abbiamo proseguito fra il mare e i giardini; fra una rossa fiorita di melograni e le vele bianche. Aranci e mandarini, gli alberi del sole, ombreggiavano qualche solitario marabùt; grandi boschi di ulivi mettevano sul cielo il loro tremolìo d’argento.
Vedevamo piccole case bianche e minuscole. A volte, vicino ad un ajbab (pozzo) si udiva il suono dei campani di un vecchio cammello che faceva salire, girando, la guerba stillante acqua.
Alcuni villaggi; alcune rovine.
Ecco Lempta l’antica Leptis parva dei Romani. Città formidabile un tempo, ora misero aggruppamento di casette bianche.
Leptis-Parva era una città molto più antica di Cartagine. Rimangono i resti di un acquedotto, gli avanzi di un anfiteatro e qualche altra rovina dispersa. Gli Arabi ne fecero scempio.
Nel villaggio moderno si eleva il marabùt di un santone: Moudjadin, che i nativi venerano grandemente.
Oltre Lempta si attraversano i villaggi di Saiada, Kasser Hellal e Moknin per giungere a Tebulba, centro di una terra fecondissima ricca di selve di aranci e di mandarini.
[64]
A Tebulba segue Bekalta ed è dopo tale villaggio, su la sinistra della strada che conduce a Mahdia, che si trovano le rovine di Thapsus.
Sono abbandonate, nessuna cosa viva sorge intorno; dormono nel loro silenzio.
Sotto le mura dell’antica città della quale non restano che pochi ruderi fra le sterpaglie Cesare vinse Scipione.
Presso il capo Dimas si osservano ancora i resti di una diga in muratura che si avanzava per buon tratto nel mare.
L’Enfida è un immenso dominio agricolo, fertilissimo; è uno dei centri più ricchi della Tunisia. Ne ho un ricordo dolce di luce e di verde. Fu rinomatissima fino dall’antichità.
“Le innumerevoli rovine romane che si incontrano ad ogni passo testimoniano dell’antica prosperità di questo suolo.
“La Tunisia è, in realtà, la terra dei ricordi romani e bisantini. La dolcezza del clima, la fertilità del suolo, la vicinanza della Sicilia o della Grecia avevano determinato un grande movimento di colonizzazione verso le due provincie romane Lengitana e Byzacena che corrispondono alla Tunisia moderna.
“L’Enfida rappresenta la parte più ricca della Byzacena, che ebbe già il nome di granaio di Roma.
“Uno storico romano ci dice che si poteva andare da Hadrumetum a Cartagine all’ombra della città e dei giardini. Tale strada meravigliosa attraversava in tutta la sua lunghezza l’Enfida.
“Le rovine delle città, delle fortezze, dei ponti, delle ville, delle tombe, delle cisterne, le innumerevoli rovine che ricoprono detto territorio ci attestano della veridicità delle parole dello storico. Diciassette città con una popolazione di non meno di diecimila abitanti sono state ricostituite [65] con le vestige sparse per il territorio dell’Enfida e con l’aiuto degli antichi autori che ne fanno menzione.
“Citeremo la cittadella di Battaria in mezzo alle montagne; Ulisipena col suo acquedotto che raccoglieva le acque di El-Garci; Grassum nella quale si rifugiò Belisario dopo aver vinto i Vandali chiamati dal patrizio Gregorio; Thac ricca di torri e di fortezze; Sedjermès nella quale si trovano tuttavia gli avanzi di un tempio pagano, di una basilica bisantina, la facciata del pretorio, un teatro, un tempio cristiano ed altre innumerevoli costruzioni delle quali non restano che fregi, capitelli, colonne infrante, architravi scolpiti e ammassi di bianche pietre ricoperte dal lentisco o dagli olivi; Upenna con le sue strane epigrafi; Mediocera, chiamata oggi Ain-M’deker con le sue belle tombe romane; Aphrodisium, la città di Venere (gli Arabi la ribattezzarono Sidi-Khalifat) che mostra tuttavia gli avanzi del suo tempio magnifico e del suo arco di trionfo, dorato da secoli di sole.„
L’Enfida non è che un’immensa necropoli; una terra magnifica depredata già da barbare turbe, devastata dalla cieca bestialità di una razza feroce uscita dal deserto come le cavallette.
È la città araba per eccellenza, è la storia araba scritta dopo il passaggio dei Vandali, coi resti della storia fenicia, romana, bisantina.
Sorge in un’immensa pianura. I colli remoti s’intravvedono appena sul terso cielo.
Lo storico arabo Bu-Dinar è il solo che attribuisca a Kairuan un’origine anteriore all’invasione araba; però l’opinione più accreditata la vuol fondata dal conquistatore Okba il quale avrebbe fatto costruire la città santa nel bel [66] mezzo di una inestricabile foresta piena di serpi e di bestie feroci. Ciò fece, secondo la tradizione, con l’aiuto del potere divino e per questo la città fu dichiarata sacra.
I dati approssimativi storici, ci fanno noto che, abbattuta nel 703 e nel 744 (d. C.), fu in gran parte ricostruita da Ziadet Allah, secondo principe della dinastia degli Aglabiti.
Oggi conta all’incirca 24,000 abitanti; è una città bianca in mezzo a una pianura immensa, senza alberi, mal coltivata; il nido di una vita occulta, gelosa, strana che lascia nella mente nostra un ricordo indefinibile quasi di sogno. Questo nido saraceno è incantevole con le sue cupole e i minareti chiusi in una cinta di bianche mura smerlate. Quando il sole sorge, il biancore delle case e dei tempii e delle mura si cangia in rosa, in un pallido rosa diffuso; verso il tramonto tutto si incendia e nella dolce ora del brevissimo crepuscolo l’ombra assume il soave colore dell’ametista.
La città santa contiene non meno di 90 zanias e di 85 moschee. Fra queste ultime le più importanti sono: la Grande Moschea; la Moschea del Barbiere; la Moschea delle Sciabole e la Moschea delle Tre Porte. Nella Grande Moschea sono raccolti capitelli sì disparati da abbracciare cinque secoli di architettura.
Vi si trovano rappresentate la scuola africana e la scuola orientale e vi si può osservare il degenerare dell’ordine ionico e corinzio.
Magnifiche colonne gemine di porfirio (un vero tesoro) stanno all’entrata del santuario (Djamâ-el-Kebir). La Moschea delle Sciabole non è notevole che per le sue cinque cupole; la Moschea delle Tre Porte per la facciata nella quale sono murati frammenti di scultura bisantina. Vien per ultima la Moschea del Barbiere, così detta perchè vi si conserva e vi si venera Abu-Zema-el-ben-Aui che [67] fu un compagno del Profeta. La leggenda dice che questo Abu, ecc., ecc., avesse in cura la barba di Maometto e vuole che, come talismano, serbasse e custodisse tre peli della suddetta barba dai quali peli nacque la grande venerazione che circonda il barbiere.
La moschea che ospita i suoi avanzi mortali è notevole per il minareto quadrato, tutto adorno, nella parte superiore, da belle ceramiche verdi e azzurre e per un gran patio sul quale si apre una specie di alta loggia decorata con belle ceramiche antiche.
Questa sera tornando dalla visita alle moschee (alla Moschea del Barbiere nè le ova di struzzo, nè la terra della Mecca, nè le venerabili bagattelle adunate in onore dei tre santi peli mi hanno commosso, bensì due occhi ingenui, chiari, azzurri che mi seguivano ovunque sorridendo, gli occhi della piccola figlia del guardiano che veniva dietro di noi, scalza, su le spesse stuoie) tornando sono passato dal quartiere dei fùnduk. Una folla multicolore, urlante vi era adunata; una folla cenciosa che aveva sul volto le stigmate della fame.
Certi fellàh che giungevano dall’interno, e fra piccoli e grandi deserti avevano percorso centinaia e centinaia di chilometri, erano talmente sparuti da far pietà; si reggevano a stento, inebetiti nello stupore della fame.
Bisogna convenire che, fra gli arabi, il sentimento caritatevole non è troppo diffuso.
Un simile spettacolo di miseria muta; un simile orrore di uomini e donne e fanciulli assolutamente disfatti dai patimenti, accoccolati in tutti gli angoli, fra i loro cenci luridissimi non destava l’attenzione di alcuno, non spegneva nè un sorriso, nè una canzone. La carestia è terribile quest’anno, nell’interno sono centinaia di creature che muoiono [68] di fame ma la cosa non commuove i ricchi arabi, non li commuove neppure per lo spettacolo diretto che hanno sotto gli occhi, per la fame che si trascina ai loro piedi languendo. Ci sono abituati; poi: era scritto!...
Se tu muori nell’inedia ed io mi impinguo beatamente di ogni ben di Dio: era scritto.
Nè tu nè io possiamo aver colpa di ciò: Allah vuole così.
Da tale comodissimo sistema deriva l’indifferenza bruta di coloro che muoiono e di coloro che godono.
Il Governo della Reggenza distribuisce grano ai più poveri. La folla si accalca dove si fanno tali distribuzioni. Ognuno reca un suo sacchetto meschino. In prevalenza sono donne e fanciulli e attendono senza impazienza, per ore ed ore, che la porta si apra, poi entrano, poi ritornano con una manciata di grano senza essere nè più contenti, nè più tristi. Può darsi che la disperazione della fame li tragga alla rivolta? Non credo. Potranno sollevarsi domani se qualcuno approfitti del loro fanatismo religioso per trarli al tumulto, alla guerra e allora si faranno uccidere dal primo all’ultimo tranquillamente. Ma la fame in sè, o un concetto astratto non può nè convincerli nè unirli.
Allah ha mandato la carestia perchè l’acqua non è discesa dal cielo per mesi e mesi; essi debbono morire perchè Allah ha deciso così.
E li vedete aggruppati lungo le cancellate o i muri dei fùnduk, accosciati su la terra, il capo raccolto in una piega del burnus, muti, tranquilli, morenti. Il loro volto è tragico, sottile, sparuto come il volto di un asceta, ombreggiato dalla barba incolta, sinistramente vivo per gli occhi profondi.
Hanno venduto i cammelli, i montoni, gli arnesi di lavoro, tutto ciò che avevano, li hanno ceduti per pochi soldi agli strozzini; non resta loro che aspettare la volontà di Dio.
Qualcuno possiede ancora il cammello più vecchio, una [69] bestia pietosamente viva, un alto scheletro dalle immense piote e dalla pelle scialba e l’ha trascinato al fùnduk con l’estrema speranza di trovare un compratore.
Non chiedono l’elemosina, non sanno mendicare, attendono raccolti e stremati che qualcosa giunga: un po’ di pane o la morte.
Sul tramonto si levano e ripartono; ritornano ai loro attendamenti nella campagna.
Li vedo allontanarsi sotto il cielo color sangue. Vanno lentamente senza rivolgersi, ammantati nei loro cenci, solenni; è in realtà una miseria dignitosa, sdegnosa, e vi desta tanta maggior pena quanto più la sentite tale.
Pare che la campagna li inghiottisca nella sua luce di fuoco. Si vedono per la strada polverosa le loro grandi orme uguali. Per le vie di Kairuan o qui, nel quartiere dei fùnduk, vedrete molto difficilmente un uomo mendicare. Se offrite accettano; ma non chiedono. Parlo dei fellàh, dei contadini, non già degli altri che sono petulanti e incontentabili. Vedete mendicare bensì le donne e i fanciulli e quelle e questi non vi daranno tregua e se ne accontentate uno vi troverete circondati da venti da trenta chè si moltiplicano come le mosche e come le formiche.
Petulanti lo sono, ma con gli europei non già coi loro simili dai quali sanno che poco o niente debbono aspettarsi. Se non vedono europei siedono all’angolo di una via e cominciano una loro cantilena monotona la quale non è quasi mai esaudita. Di tale gente seduta agli angoli delle vie Kairuan è piena.
Ho veduto oggi una vecchia; era in realtà uno spettro. Sapendo inutile ogni sua questua aveva adottato un metodo originale: innanzi alle botteghe da fornaio che incontrava su la sua via si lasciava cadere come stremata e, una volta caduta, se la gente non si occupava di lei, si distendeva tutta quanta attraverso la via. Allora qualcuno si soffermava, [70] e con un motto e una risata la rimetteva in piedi e la mandava per il suo destino.
Nessuno le ha dato un pane.
Nel mondo islamitico la pietà ha pochi seguaci.
La folla indifferente non si accorge dei morituri che le stanno intorno; ascolta un novellatore il quale, battendo in cadenza sopra un tamburo, racconta la storia degli Aglabiti; si sofferma sorridente innanzi a un incantatore di serpenti. Due negri battono su certi loro tamburelli cantando, un terzo suona una piccola cennamella, in terra son le borse di cuoio nelle quali dormono i serpenti cobra. Un giovine urlante e strepitante, danza intorno a tali borse e si accosta e fugge invocando il nome di Maometto. Il suo volto è congestionato quantunque riesca troppo evidente la commedia. Alla fine si protende, cauto, afferra i cordoni di una borsa, li allenta, introduce una mano e estrae un serpentello arroncigliato che depone in mezzo al circolo formato dagli spettatori.
Da principio la bestia striscia lingueggiando, inebetita, e l’incantatore le salta intorno urlando sempre più per impedirle di prendere una qualsiasi direzione. Il fracasso musicale cresce di tono, diventa frenetico. Come ne sono storditi gli astanti ne sarà stordito il serpente e tale può essere il segreto dell’incantesimo. Ma ad un tratto la brutta creatura nera pare cambi opinione, si ferma, si leva su la coda, gonfia enormemente le borse disposte alla base del piccolo cranio e assume un aspetto grottesco e mostruoso. Certo il ribrezzo che desta anche senza tale apparato di guerra, si raddoppia. È come una grande pistagna, una improvvisa deformità minacciosa. In tale assetto il serpente si volge intorno, segue con gli occhi il suo incantatore, lingueggia disperatamente, si avventa a mordere ma si ferma a mezza strada.
La musica e folle è convulsionaria. Si inizia un dialogo [71] rapidissimo fra l’incantatore e i suonatori. Si invocano Maometto e i Santoni perchè la cosa abbia ancor più del sopranaturale. Ad ogni nome di santo la folla si tocca la fronte e si inchina mormorando.
È un miracolo. Iddio ha dato al giovane furibondo una potenza sovrumana la quale ora non toglie che il suddetto giovine, scorto fra la folla un europeo, non interrompa ogni cinque minuti il suo incantesimo per chiedergli un altro soldo.
Ad un certo punto il congestionato si getta a terra carponi, urlando sempre, si avvicina lentamente alla serpe che lo adocchia minacciosa, gli arriva di fronte, fissandola negli occhi a un palmo di distanza e la bestia si inarca, prende lo scatto al morso ma ancora una volta si ferma a mezza strada vinta dall’immobile fermezza dell’avversario. Le movenze di lei si addolciscono, cede il lingueggiare, come un irrigidimento la prende; ristà diritta, immobile, impietrita. Gli occhi negli occhi, la serpe e l’incantatore sostano così per qualche secondo. La musica tace; solo dalla folla si leva un “oooh!...„ modulato e prolungato.
Poi l’incantatore afferra la serpe dietro la testa, con un ago la costringe ad aprir la bocca e la porta in giro per mostrare agli increduli i lunghi denti del veleno.
Lo spettacolo è finito e ricomincia con due, con tre, con quattro serpenti finchè un po’ di luce sia ancora nei cieli, finchè qualcuno resti a gettar qualche cosa.
Mi allontano. Nelle immense campagne appaiono minareti neri. Il cielo è di fiamma.
Passa un bahlul, un uomo coperto da una sola camicia e sporco come non lo sanno essere che gli uomini. Il bahlul è quella specie di serio imbecille il quale serba la castità, non lavora, non si occupa di nulla, non si lava, non si veste, non si pettina, non parla, non sa niente, non si occupa di niente: dorme e cammina. Mangia se gli danno [72] da mangiare, ma glie ne danno sempre perchè è un bahlul. Un sorriso ebete gli piega le labbra. È pieno di pidocchi ma tollera in santa pace tale delizia. Il popolo lo ama, lo crede divino per la sua lercia imbecillità e così sia! Entro in città, entro nella discreta penombra delle vie. La folla dilegua, son quasi solo. Ogni tanto colgo un dialogo sommesso o mi incrocio con un bimbo che rasenta il muro. In un vicoletto, una donna velata parla piano con un giovine. Trascorrono bianche ombre silenziose. Un abbaiare di cani dietro le porte, un gatto che guizza via improvviso e silenzioso, un uscio che si chiude, un busso di zoccoli che si allontana, ecco la vita di queste vie strette e buie. A grandi distanze qualche fanale rompe l’oscurità.
Seguo il noto cammino fino alla porta saracena, alla rossa porta dalla quale due grandi occhi mi spiano ansiosi, gli occhi di Chadliia, la tutta amorosa.
Una sera avevo lasciato l’uscio dischiuso ed ella entrò e si tolse il velo dalla faccia. Aveva sette piccoli cuori dipinti sul volto e sul seno, sopra la pelle bruna.
Mi guardò con un sorriso triste. Rimase con me come una rondine sperduta.
Un antro polveroso e buio; si ode il tinnire assiduo di un campanaccio, un tinnire ritmico misurato sopra un passo uguale. Mi soffermo e aguzzo gli occhi per la tenebra. Non distinguo sul principio, fra il pulviscolo bianco che aleggia per l’aria, se non un fioco lume appeso ad una trave e un’aureola breve che gli fa ghirlanda, poi intravedo due ombre.
La prima è quella di un uomo il quale, accoccolato sopra un muricciuolo, pare legga; la seconda è quella di un mulo bendato che gira lentamente a muovere una pesante mola. Distinguo pure, su la polvere bianca, l’esiguo cerchio del suo andare. Esiguo sì, ma non tanto ch’io possa vederlo distinto. [73] A quando a quando, sotto il suono intermittente del campanaccio, la bestia bendata esce dalla tenebra e vi rientra.
L’opera è lenta e faticosa. Un arabo dorme su la porta del mulino e il mugnaio che sorveglia la macinata, legge, nella penombra, un suo libro ignoto, forse il Corano:
— Non vi è altro Dio che Iddio....
Un giro di macina, uno stridore, un bagliore sopra il grano che si frantuma.
Una via compiutamente oscura. L’ultima lampada a petrolio è ormai troppo lontana, per poter rischiarare anche debolmente la strada inuguale, disselciata, piena di pozzanghere. Si ode dal Bacino degli Aglabiti, dietro la Grande Moschea, il tremulo gracidare delle rane, che infuria ed affievolisce assecondando gl’impeti del vento. Le case sono basse; tutte chiuse, tutte oscure: dalla soglia alla terrazza. Sul cielo notturno, luminoso di stelle e come di uno strano bagliore fosforico, passano velocemente cumuli di nubi nere, dei quali possiamo discernere la forma. Un esile quarto di luna appare e scompare fra gli alti minareti e le cube; traspare dai veli di nebbie meno spessi, si spegne per riaccendersi più in alto, sopra una guglia, come un falcetto d’argento.
La mia guida ha acceso una lanterna, e procede diguazzando co’ suoi grandi piedi fra le pozzanghere e la melma. Avvolta nel burnus bianco, rialzato il cappuccio fioccuto, tace preoccupata dalle difficoltà della via, mi lascia tranquillo. Da cinque ore ero costretto ad ascoltarla; da cinque ore, trotterellando da un canto all’altro di Kairnan, la città santa, mi aveva ripetuta in una lingua commista di francese, di arabo e di italiano, la sua lezioncina alla quale m’ero interessato fino ad un certo punto. Ora pare abbia definitivamente esaurite le sue risorse ed io preferisco rimanere nella mia santa ignoranza anzichè ridestare [74] con una domanda improvvisa il sacro fuoco di Khalifa ben Gassem ben Si Krema soprannominato Courage. Perchè i francesi lo abbiano battezzato Courage non si sa. Non lo so io come non lo sa il buon Khalifa. Quando gli chiedo di chiarirmi la ragione di tale appellativo mi risponde con un sorriso indefinibile:
— Mi hanno chiamato così forse perchè sono coraggioso!
Ma io vedo bene che il buon Grassem non è perfettamente convinto di tale sua virtù straordinaria e non insisto. È un uomo piuttosto piccolo, con enormi baffi neri e sopracciglia marcatissime. La parte pelosa del suo volto ha, in verità, un carattere eroico.
Non è eccessivamente forte; non è eccessivamente bello. Dispone di due piote elefantesche e di una parlantina infaticabile. Come guida possiede le qualità richieste.
E procediamo per le stradicciuole oscure, appena biancheggianti se la luna si disveli e sorrida fra l’ardua grazia delle innumerevoli moschee.
Nel tramonto rosso ma di un rosso violento che ha spento ogni altro colore per avvolgere l’intera città come in una sola fiamma e farla apparire tutta ardente agli occhi miei, tutta accesa a simiglianza della mitica Dite, su lo sfondo di un cielo fatto più pallido da quell’improvviso bagliore; nell’ora ultima del giorno allorquando il grido nasale del muezzin, dall’alto delle moschee, chiama il popolo alla preghiera, Courage mi ha chiesto:
— Questa sera vuoi uscire?
— Certamente.
— Allora ti condurrò in una casa araba. Vedrai come si tessono i tappeti di Kairuan.
Poi si è taciuto, mi ha fatto il cenno del silenzio, si è guardato attorno sospettosamente, come se mi avesse promesso il vietato paradiso delle Urì o fosse per violare ad [75] un tratto, proprio per me che non ho alcun titolo speciale a tal privilegio, le più rigide leggi maomettane. Mi sono prestato al giuoco come gl’infiniti miei predecessori. Per quanto sia battuto il campo di questo facile mistero qualcosa di nuovo potrà apparirmi ed eccoci quindi per le vie oscure e deserte della singolare città.
Qualche passante ci scivola vicino silenziosamente, avvolto e nascosto negli ampi panneggiamenti del burnus tanto da non poterne distinguere neppur l’ombra del volto, appare ad un tratto giganteggiando nello scarso lume della nostra lanterna, scivola nell’oscurità senza guardarci. Qualche altro lume ondeggia più lontano: sbuca da un vicoletto, palpita e si riflette su le pozzanghere, scompare. Udiamo lo stridere e il cigolare delle vecchie porte scosse dal vento; è questa l’unica voce delle case taciturne. Pare che qualcuno voglia forzare i vecchi battenti sconnessi.
Passano due sacerdoti preceduti da un sudanese che reca una grande lanterna infitta su la cima di un bastone. Courage si precipita a baciar loro la mano, si inchina, si umilia, mormora incomprensibili parole. Essi non lo degnano di uno sguardo, seguitano il loro cammino diritti ed impassibili nella loro immutabile dignità.
Proseguiamo, proseguiamo senza fine per l’inestricabile rete dei vicoletti uguali fiancheggiati da case basse o da qualche moschea su le scalinate della quale dormono, avviluppati nei loro cenci, i beduini più poveri. Ad un punto mi accorgo che la mèta non deve essere lontana.
Courage non cammina più in fretta, procede lentamente, sospettoso e guardingo; colorisce piacevolmente la sua parte di violatore dei santi precetti del Corano. Pericoli non ve ne sono perchè nessuno sorveglia il nostro andare, ma è bene far intravvedere al viaggiatore nuovo una infinita serie di possibilità nemiche. Ad un tratto il buon Khalifa spegne la lanterna e mi porge la mano:
[76]
— Vieni con me, presto!
Ubbidisco. Ormai sono nelle sue mani e mi lascio guidare saltando da pozzanghera a pozzanghera.
Una sosta. Non so da qual parte mi giunga il suono di un tamburello e di una specie di salterio. Sono immerso nell’oscurità. Tutte le stelle sono scomparse sotto le nubi nere. È un suono lento, grave, a lunghe pause, a subite riprese. Il tamburello segna un ritmo di danza sul quale il salterio ricama una semplice melodia; non più di un tema ripreso su varie tonalità, difficilmente arricchito da qualche sviluppo. Dapprima ne ricevo un’impressione penosa e monotona, ma poi, a mano a mano, tale procedere lento e tranquillo, insistente e languido mi affascina, tiene ridesta la mia attenzione. È il vibrare continuo di tre o quattro note predominanti, gravi ed intense che si intrecciano in vario modo assecondando il ritmo del tamburello. Poi una voce chiara e squillante si leva; è la voce di una donna, di una giovanetta. L’improvviso balzare di un fresco riso in una letizia mattutina. Canta un’antica canzone moresca, una canzone d’amore. Forse nella casa occulta, innanzi al patio ricco di colonne, fra tappeti e candelabri di bronzo e lampade a tronco di piramide tutte arabeschi e lucentezze, ella danzerà agitando (alte le nude braccia) seriche stoffe vermiglie; danzerà fra i profumi dell’incenso e dell’ambra, del muschio e del belzuino, le caratteristiche danze orientali assecondate a meraviglia da questa musica singolare. Basterà al suo moto, un solo tappeto, un niente, uno spazio tanto raccolto da poter raccogliere null’altro che i suoi piccoli piedi; e gli occhi di lei, gemmanti, vivi di un interno ardore, si fisseranno immobili come il bianco viso, fermo nello smarrimento dell’ebbrezza. Poi il collo si snoda, e il torso e il seno, senza che il capo ondeggi, trema e si agita come il giunco e come il ligustro sotto l’impeto della fiamma; finchè la canzone si muore e tutto si tace in un grido breve ed improvviso.
[77]
Fermi in mezzo alla via, udiamo questo grido e udiamo il cupo mormorio degli spettatori dalla sala occulta aperta sui colonnati del patio.
La dolce voce che ha cantato una fra le più fresche e passionali canzoni dell’oriente si è spenta in un singulto. Invano attendo che risorga nella notte. Courage mi trascina, mi sospinge verso la meta non lontana.
Sostiamo alla porta di una casa silenziosa. Courage si guarda attorno una volta ancora, poi si decide e cautamente picchia tre colpi ai quali succedono altri tre colpi. Una pausa. Qualcuno si avvicina dall’interno, sosta dietro la porta chiusa. Un rapido dialogo si inizia, poi un battente si dischiude appena, una mano mi afferra dall’oscurità e mi trascina dentro. Non so dove si vada; siamo sempre al buio. Attraversiamo un cortile, un’altra porta si dischiude. Finalmente! Eccoci nel santuario.
Una lunga stanza bassa, dalle pareti bianche, dal soffitto rozzamente dipinto in rosso e in verde. Schierati lungo il muro sono cinque telai verticali; ad ogni telaio è una lampada fumigante ed una donna accosciata sopra un piccolo tappeto, le gambe incrociate. Una vecchia viene ad incontrarmi, si tocca la fronte e il petto poi si bacia la mano e sorride, sorride sempre non abbandonandomi un attimo con gli occhi.
— Che vuole costei? — chiedo a Courage.
— Dalle un franco.
È la prima tassa. Ubbidisco. Frattanto si ode l’infuriare dei telai. Le piccole spole adorne di campanellini tintinnano e squillano nell’affrettato lavoro. Pare il bubbolio di cinque sonagliere in un trotterello cadenzato. Mi avvicino ad osservare; mi chino su la trama dell’ordito per vedere in volto le tessitrici. Sono cinque giovinette dai dodici [78] ai quindici anni brune e piacenti, dagli occhi pieni di sorrisi. Tessono, all’uso di Kairuan, certi loro tappeti di lana dal disegno bizzarro e dai colori vivacissimi. È tutto un lavoro di piccoli nodi su la trama distesa. E le mani scorrono rapide e le spole squillano e tintinnano senza requie. Le cinque giovinette hanno il capo avvolto in bende di seta dalle quali sorge, sopra alla fronte, un’onda di capelli neri. Vestono una maglia, una specie di bolero adorno di pagliuzze lucenti e un par di brache ampie e cadenti fino alla caviglia. Sono scalze. Ad un tratto abbandonano il lavoro, infilano i piedi in certi loro zoccoletti bene adorni e mi si affollano intorno sorridendo e tendendo la mano. La legge di Maometto è violata, ma è violata anche la legge della discrezione.
Lunghe, interminabili fila di dromedari che giungono dalle oasi si accampano nei fùnduk alla periferia della città; carovane di beduini, di fellàh, povere, cenciose, aduste dai soli del deserto; una folla meno ricca di quella di Tunisi ma più varia e più caratteristica anima e percorre Kairuan, la città santa. Dal primo mattino fino alle ultime ore della luce questa folla è in movimento, si incrocia, si urta, si assiepa nei mercati, nei caffè, nei fùnduk, nelle moschee, ma senza vociare, senza frastuono. L’arabo parla poco e sommessamente. Può restare immobile per ore ed ore, raccolto in qualche angolo, le gambe incrociate tra le pieghe del suo burnus senza annoiarsi, senza mostrare alcun segno di stanchezza. Pare concentrato in una meditazione profonda e forse non pensa. È in uno stato di dormiveglia. Riposa. Così le città arabe più popolose, per la natura stessa dei loro abitanti, non conoscono il frastuono.
Kairuan, che è corsa da un fiotto continuo di gente, si può dire relativamente una città silenziosa. E non vi è angolo [79] di lei che possa dirsi deserto. Dalle piccole vie alle arterie principali è una fiumana continua che esce dalle moschee, entra per le case, si disperde per le piazze, si sbanda sui mercati. La via più popolosa è occupata per metà dai rivenditori che hanno distesa all’aperto la loro mercanzia e vi si sono accoccolati in mezzo, sopra una piccola stuoia, le gambe incrociate. Vendono in prevalenza generi alimentari: peperoni rossi disseccati, cavoli, carni di montone, teste di montone arrostite. In una botteguccia tanto angusta da potere accogliere appena il proprietario, un enorme vaso pieno di kuskus, il caratteristico manicaretto arabo, in attesa degli uomini sfama le mosche. I piccoli caffè sono rigurgitanti. Dove non saprebbero stare cinque europei, dieci arabi sanno adattarsi comodamente. E questa loro qualità di usufruire del minimo spazio, fa sì che i loro caffè possono prosperare. Si tolgono le ciabatte, si raccolgono su le stuoie l’uno vicino all’altro come tanti sacchetti, si allineano sui sedili, lungo le pareti e fanno scomparire le gambe, inutili appendici. Così nelle botteghe da barbiere, dove osservo i pazienti farsi radere le gambe e le braccia e nelle trattorie e in tutti i luoghi nei quali il pubblico debba sostare. Giungono ondate di profumo. A passo a passo riesco sul mercato, oltre la bella porta arcuata. La folla dirada come procedo verso la sterminata campagna. Il sole tramonta, si infosca fra nubi sanguigne.
Odo il grido del muezzin. Due fellàh che sono per via si gettano a terra, si prostrano, il capo volto verso la Mecca. Il cielo si illumina ancor più di una fantastica luce abbagliante, poi, senza graduale passaggio, quasi di repente, subentra il crepuscolo con la corona delle prime stelle. Kairuan scompare, si raccoglie nella penombra della tepida notte rabbrividendo fra i lunghi canti dell’amore e l’onda persistente di tutti gli aromi delle terre calde.
[80]
Parto. Nell’immensa pianura si odono belati di agnelli e il sommesso parlare dei fellàh che vanno al mercato. Il sole è appena sopra la terra; illumina e non riscalda. Fa freddo. Dai sentieri fra i fichi d’India appaiono cammelli e beduini.
Grandi distese di grano verdeggiano come lo smeraldo e, dall’alto, le allodole salutano il sole e il loro nido.
Kairuan è tutta color di rosa, sola nell’immenso piano, senza l’ombra di un albero. Una visione che commuove come nessun’altra, una fantastica città d’amore in mezzo ai grani e alle acque stagnanti. La penso e la vedo così perchè è strana e nuova per il mio ricordo, per la mia conoscenza; non v’ha una linea nota; mi dà il brivido delle cose belle e inattese.
Dolce città saracina ignota al mio sogno! Sorride nella molle carezza del sole, chiusa sul suo mistero.
E mi allontano, mi allontano.
Tale è il destino del viandante.
Sorgere, tramontare, di terra in terra; raccogliere qualche fiore; vivere brevemente la vita delle varie genti; andarsene con un ricordo dolce nell’anima; lasciare, forse, nell’anima altrui un ricordo altrettale.... non più.
Qualcuno saprà di avervi veduto; qualche altro penserà di non avervi saputo che in sogno. Non rimarrà di voi che l’eco di una parola o di un sorriso così come la luce di un astro remoto che vi brilla negli occhi ma serba il suo segreto.
E mi allontano sempre più. Ecco un attendamento di beduini; quattro fanciulle cantano ad una pozza e sciacquano i loro panni.
Kairuan non è più di un nido di rose fra i grani ma io vedo tuttavia una piccola porta moresca, rossa come il fiore del melograno e, nel primo lucore dell’alba, mentre [81] sono per varcare la soglia l’ultima volta e per sempre, rivedo Chadliia, prona, la faccia su la terra, piangere nella pena de’ suoi quattordici anni.
Povera cara usignoletta! Nessuno aveva pensato mai ch’ella avesse un’anima e allo straniero che non la volle schiava aveva dato tutto il suo amore riconoscente.
Che la civiltà sia passata da questa terra e vi abbia lasciata la propria impronta è indiscutibile; che gli arabi usufruiscano tranquillamente e indifferentemente dei benefici che la civiltà stessa ha portato loro è più che evidente, ma non è altrettanto evidente ed indiscutibile l’apprezzamento che questo popolo, chiuso nella propria tradizione, impassibile nel ferreo cerchio della sua legge fatale, faccia o abbia fatto intorno a tale espandersi di energie superiori e prepotenti.
A giudicare dalle apparenze, si direbbe che gli indigeni non fossero nè scossi, nè sorpresi dalle nostre scoperte, dalle nostre innovazioni, dal nostro quotidiano furore di vita. Si direbbe anzi che essi ci considerassero con una certa tal quale pietà, fra ironica e benigna, da vecchia gente che sa ormai cosa valga il mondo e che non trova necessario prenderlo troppo seriamente. L’arabo genuino assomiglia un poco al suo dromedario; gli assomiglia per l’indole, se non per l’intelligenza. Ora il dromedario è una bestia impastata di tranquilla beatitudine e di docile sdegno. Il deserto ne ha fatto un filosofo come la natura ne ha fatto una creatura grottesca. Nulla sorprende la sua indiscutibile fierezza; nessuna cosa inusitata può farlo trasalire o meravigliare. Il dromedario è lento. Il dromedario padroneggia i propri sentimenti. Un tardo volgere di quel suo muso inalberato obliquamente sopra un collo a mezzaluna potrà significare il colmo della sua sorpresa. Molte volte non fa che volgere [82] la coda a ciò che non rientra nell’ambito del suo mondo secolare, e in tale gesto è lo sdegno del filosofo. Un’automobile non lo impaurisce, gli ripugna. Un treno diretto non ridesta la sua attenzione. Egli vede molte cose, troppe cose correre, precipitare in quel suo sterminato mondo, del quale era un tempo l’unico dominatore, ma con tutto ciò non modifica nè l’andatura, nè la particolare concezione della vita. Se qualcuno vuol rompersi il collo se lo rompa, non per questo egli ne sarà preoccupato o commosso. Se la disgrazia toccherà a lui, tanto peggio. Gli europei han fatto sì che le acque sane non manchino; egli continuerà a far le proprie provviste, per otto giorni, nella pozza più fetida che incontrerà sul suo cammino. A che pro mutare? È forse ben certo, il buon dromedario, che ciò che hanno istituito gli europei sia stabilmente duraturo? Il suo cuore millenario non lo sollecita e non lo sprona, anzi gli consiglia di non mutare ambio. Egli può guardare le cose dall’alto; la natura lo ha favorito in ciò. Così passa fra le automobili e i cavalli veloci, fra i treni e le varie macchine strepitanti, ondulando lentamente nel suo passo grave, diritto il muso innanzi a sè, non curandosi più del repentino impeto di una corsa sfrenata di quel che non si curi di ciò che reca su la gobba. Bestia magnificamente superiore che sarebbe ingiusto giudicare idiota, per quanto anche l’idiozia abbia indiscutibili virtù.
Ora, come dicevo più sopra, l’arabo genuino assomiglia molto al suo dromedario, tantochè sarebbe difficile decidere a tutta prima quale fra i due sia più mussulmano. Da che dipenda tale somiglianza io non so e non so neppure se il dromedario abbia imitato l’arabo o viceversa. Il fatto sta che l’uomo e la sua bestia hanno l’identico temperamento.
Andando in automobile da Susa a Sfax per una via interminabilmente diritta, aperta in gran parte in un piano brullo, sul quale rilucono a grandi distanze gli stagni salsi, [83] avemmo occasione, ad un certo punto, di vedere in lontananza qualcosa che ci precedeva: non era più di una piccola macchia nera sotto il sole. Il meccanico, pratico del paese e degli abitanti, siccome aveva spinto la vettura a tutta velocità, non pose tempo in mezzo e, data aria alla sirena, cominciò una sinfonia di mugolii, di sibili acutissimi, di strappi e di singulti. La macchia lontana si avvicinava con rapidità fulminea. Ben presto distinguemmo di che si trattava. Era un beduino sul suo dromedario. Occupavano il mezzo della strada e non si volsero neppure una volta a sogguardare. In un battibaleno li raggiungemmo. Il meccanico dette i freni, sterzò gridando, ma nello stesso punto il dromedario si spostò, si pose di traverso e fu investito.
Tanto la bestia quanto l’uomo ruzzolarono a vari metri di distanza oltre la strada. Balzammo in piedi impauriti; corremmo verso le vittime quasi volontarie e.... Il beduino si era rialzato e stava rassettandosi il burnus; il dromedario si levava allora. Tanto l’uno quanto l’altro non dimostravano la benchè minima sorpresa. Erano tranquilli. Pareva tornassero da una gita di piacere. E alle nostre sollecitazioni l’arabo non rispose che una volta sola e molto brevemente:
— Era scritto!
Poi dopo una sommaria visita di ricognizione alla sua bestia, riprese la strada e se ne andò senza fiatare.
Esempio mirabile di indifferenza e di rassegnazione. Ora, su temperamenti simili, quale effetto può produrre la civiltà nostra? Molto probabilmente un effetto nè benefico nè malefico. La civiltà non penetra e non corrode queste genti. Scivola via e lascia il tempo che trova.
A Kalaa Srira mi sono accostato oggi alla botteguccia di un libraio. Un vecchio uomo, dalla barba veneranda, sedeva sopra una stuoia, sulla soglia della sua piccola tana. [84] Aveva le gambe incrociate, il volto atteggiato alla più solenne tranquillità ch’io mi avessi mai veduta. Vestiva una dgebba di panno verde scuro ricamata in seta. Aveva sul capo un turbante candidissimo. Intorno a lui giacevano cosparsi tanti mucchietti di vecchi libri arabi. Mi ha lasciato considerare la sua mercanzia senza muoversi e senza fiatare; solo, quando ho teso la mano a prendere un volume rilegato in nero, mi ha respinto pronunziando concitatamente una serie di frasi incomprensibili. Ho capito poi che si trattava del Corano. È ben vero ch’egli non avrebbe peccato, tanto sarebbe rimasto, per me, pien di mistero quel libro dagli inesplicabili scarabocchi; ma tanto fa: io, come infedele, non potevo toccare, senza profanarlo, il libro sacro. Mi sono allontanato dalla botteguccia semioscura, dalla quale lo spirito di Maometto pareva mi guardasse rabbiosamente e, per vie bianche e tranquille, letificate dal sole e dall’azzurro, son giunto ad una piccola moschea. Passavan due donne avvolte nel loro sifseri nero.
Dalle mura di un giardino sovrastavan su la via i rami di un pesco in fiore. Fra il bianco vivissimo dei muri e il caldo azzurro del cielo, quei fiori acquistavano una grazia squisita. La primavera si affacciava sorridendo oltre i vietati confini, soffusa di rosa come la giovinezza. Mi sono seduto su la scalinata della moschea, senza pensare, assorto in quell’improvvisa carezza di luce. Per molto tempo non ho udito se non la eco di qualche voce lontana, voce velata di languore nella calda giornata; per molto tempo ho sostato in una soave tranquillità di pensiero e di spirito. Vedevo al mio fianco un minareto erigersi bianco e disadorno nel sereno, pareva un nido di colombe, un alto nido su le case raccolte. Poi un brusio, un busso di zoccoli si è avvicinato: la porta della moschea si è aperta alle mie spalle. Qualcuno ha parlato sussurrando. A tre, a quattro, a dieci sono sopraggiunti gli anziani e i giovinetti. [85] Li guardavo incuriosito, senza alcun’aria inquisitoria, allorchè mi sono accorto di non essere guardato con altrettanta semplicità. Ho sorpreso alcuni dialoghi concitati, alcuni occhi troppo insistentemente fissi su la mia modesta persona finchè, non muovendomi io dalla comoda positura prescelta, un giovane arabo mi si è avvicinato e mi ha detto in puro francese:
— Voi non potete restare qui.
— Qui dove? Su gli scalini della moschea?
— Precisamente.
— E chi me lo proibisce?
— La nostra legge.
Mi sono alzato e per la seconda volta ho ripreso la strada. La legge è la legge, sia cristiana come mussulmana, ed io, di fronte a questo mondo, mi sono sentito un po’ come l’ebreo errante.
Così di città in città, di divieto in divieto, dovendo guardare solamente da lontano questi benedetti tempii eternamente chiusi alla nostra curiosità vagabonda, dovendo sostare con umile ossequio innanzi a mille soglie vietate avevo finito per lasciar libero campo alla mia fantasia e per figurarmi deliziosamente inverosimili le cose proibite.
Ma il giorno in cui sono entrato in una moschea, a Kairuan, il giorno in cui ho varcato la soglia non più difesa, ho sentito morire in me un incantesimo.
La grande moschea di Kairuan col suo immenso patio lastricato di marmo, col suo alto minareto che domina tutta la città, con le sue innumerevoli colonne, vera selva di steli marmorei fioriti a sostenere la grazia dell’arco moresco, mi ha stupito senza superare l’immagine ch’io mutamente vagheggiavo.
Era il crepuscolo quando vi entrai. Da poco era finita [86] la preghiera. Nel patio, fiancheggiato da un loggiato, sostavano, conversando sommessamente, alcuni fellah dall’alto turbante. Una luce quasi violacea scendeva con la penombra. Ebbi la sensazione di trovarmi in una vastità raccolta entro la rovina di una bellezza antica, di una bellezza nostra. Le colonne appaiate e i capitelli erano in prevalenza romani; così il lastricato del patio, così il materiale di costruzione e ciò che rimaneva di nostro aveva tuttavia la forza di superare in bellezza le bianche cupole scannellate, il seguito degli archi, i ricami del minareto. Nell’interno del tempio tale sensazione non si modificò, anzi si accrebbe, chè nel fiorire interminato di basse volte, l’unica cosa che richiamasse l’attenzione erano appunto le colonne romane e i capitelli a foglia d’acanto. Due forme d’arte, le espressioni di due anime antitetiche si trovavano in intimo contatto senza fondersi, anzi l’una nella sua forza compiuta e possente soverchiava l’altra e la immiseriva. Non nella grande moschea vasta e taciturna io colsi l’intimo e sincero fascino dell’anima moresca, ma più nella semplice e disadorna moschea delle Tre Porte e più ancora in quella vietata di El Bey che si eleva nel sole in un seguito di vaste terrazze e pare si perda come in un biancore diffuso quando il sole l’avvolge. In queste ultime non confusione di stili e di elementi disparati, non intromissione di un sentimento diverso in pieno disaccordo con l’anima del luogo, ma il rivelarsi di un’arte indigena che seppe e sa tuttavia esprimersi nelle sue schiette forme.
Oggi è giorno consacrato alla preghiera per le donne. Da questa mattina lunghe teorie di bimbe, di vecchie, di giovanette avvolte e velate nei loro sifseri bianchi, neri e rossi, escono dai vicoletti, si incrociano su le piazze, si dirigono verso le campagne nelle quali sorgono i marabùt [87] dalle piccole cube. I marabùt sono costruzioni minuscole, non più grandi di una modesta casa, dalla porticina adorna di battenti policromi, dalla cupoletta imbiancata di calce. Agli infedeli ne è vietato l’ingresso. Più che tempii, veramente, sono tombe; tombe di Santoni sparse senza legge per la campagna e nell’interno delle città. Là dove la morte colse l’uomo saggio, venerato dal popolo, ivi sorse il marabùt in segno di ricordo e di venerazione. Alle donne sono vietate le moschee, agli uomini i marabùt. Dove si accoglie un sesso l’altro non può stare. Allah non ama le cose promiscue. Alcuni fra questi tempii singolari sono cinti da piccole mura, altri sorgono fra i fichi d’India, altri fra gli olivi, altri appaiono nella immensità della campagna deserta, a distanze grandissime.
Gironzando senza meta pei dintorni di Kalaa Srira ne incontro moltissimi. Dal loro interno mi giungono suoni di cembali e di canzoni, musiche strane misurate su ritmi indefinibili. Più che preghiere sembrano canti d’amore. L’onda armoniosa esce da certe finestrelle tanto piccole che vi potrebbe passare appena il capo di un bimbo. L’andirivieni delle donne velate non finisce mai. Entrano, escono dai piccoli tempii, si soffermano su la soglia, parlano a voce sommessa. Le bimbe hanno quasi sempre lo sifseri vermiglio e, a volte, procedono col volto scoperto.
Un vecchio povero, nel nome di Robbi, cerca tre soldi per comprarsi una misura di grano. Più innanzi un giovanetto mi indica una piccola casa ridente che sorge a lato di un marabùt. Cosa insolita, la bianca terrazza è adorna di gerani in fiore; dalle barmacli celesti sporgono rami di gelsomini.
— Questa è la casa di Frek-el-luz, — mi dice. — L’hai conosciuta?
— No.
— Frek-el-luz (il cuore della mandorla) era la più bella figlia di Kalaa Srira ed era sola e fece il piacere degli [88] uomini. Nessuna altra, come lei, sapeva cantare e danzare. Durò quanto dura una mandorla. Ebbe la vita della primavera. Morì a diciott’anni e la sua casa rimase vuota. Ma v’è chi l’ama tuttavia e coltiva i fiori ch’ella ha lasciato.
Guardo la casa solitaria. Un alito di vento scuote leggermente le corolle vermiglie dei gerani; pare che invisibili mani le sfiorino: le mani della piccola bella che aveva sì teneri polsi per monili di perle.
Una cosa feroce ed orrenda; ne provo tuttavia l’intenso ribrezzo.
La notte è discesa. Entriamo in una specie di stamberga male illuminata. È un tempio, una cantina, un’osteria? Non si capisce bene. La natura del luogo è indefinibile. Un sacerdote grave ed austero, dalla lunga barba nera, dagli occhi spiritati, ha cominciato una singolare preghiera nel nome del dio Aissa. Intorno, intorno, raccolti e apparentemente tranquilli, stanno i seguaci del rito furibondo. Li osservo. Sono facce spettrali dalle grosse mandibole, dagli zigomi sporgenti, dalle guance incavate. Facce patibolari. Gli occhi rilucono sinistramente nell’ombra. Cantano, urlano? Non so. Dalle loro grosse labbra esce un mugolìo sordo e roco che pare voglia essere modulato. A poco a poco tale mugolìo cresce di intensità. Ma i neri ceffi dai lunghi capelli aggrovigliati sono tuttavia tranquilli. E il sacerdote incalza. Il nome di Aissa ricompare con maggiore frequenza; è un grido reiterato; il termine fisso del sopravveniente furore. Già qualche volto ha un guizzo, una contrazione spasmodica e repentina; già qualche mano si increspa subitamente su le lacere vesti. E il grido sale, si amplifica, si espande. È come un’ebbra follia che prorompe tumultuando. [89] La voce del sacerdote non è più sola. Ogni ritmo cade; ogni cadenza scompare. Le bocche si aprono all’urlo contraendosi; gli occhi si storcono, roteano nelle orbite; le vene si inturgidiscono nei colli e nelle tempie; si vedono pulsare a gran furia. Ogni minuto che trascorre segna il sopravvenire del parossismo. Lo spirito del dio epilettico è presente. Gli energumeni hanno perduto ogni potere inibitorio trascinati dal loro fanatismo mostruoso; fissi gli occhi nello smarrimento dell’ipnosi, corrono, si intrecciano, si prosternano, si levano irrigidendosi, le scarne braccia alzate.
— Aissa! Aissa!...
Il grido è tanto acuto che penetra come una lama tagliente. Ne sono stordito e non so a che riesca tale turbinante follìa. Ma non siamo al termine. Il rito non è compiuto. I forsennati si eccitano, si gridano su la faccia parole incomprensibili, hanno grandi gesti di devozione e di spasimo, si inarcano verso l’alto ficcandosi le unghie nelle nude carni.
— Aissa! Aissa! Aissa!...
Ne osservo uno, vera faccia di spavento, dagli occhi torti, dalle mascelle bestiali. Sembra maturo all’esplosione finale. Il suo corpo è corso da un tremito febbrile; guizza, salta, si getta a terra, si afferra la testa e la batte violentemente sui muri. Non è più un uomo, è una pazza bestia orribilmente losca. Il grido di lui è lacerante e non ha paragone, non assomiglia ad altro suono. Ad un tratto si sofferma, trae da sotto le vesti un enorme scorpione, lo solleva, lo guarda urlando, apre la bocca e di repente lo trangugia. Così si inizia il macabro festino. Più oltre un negro gigantesco si empie lo stomaco di chiodi; un altro mastica foglie di cacti irte di spine, un quarto addenta una piccola serpe nera che gli guizza di mano e lo staffila su la dura cotenna.
— Aissa! Aissa! Aissa!...
Il Dio è presente. I suoi fedeli lo vedono, lo sentono [90] nell’impeto del farnetico e danzano sopra spade affilate, si percuotono con verghe roventi. Sanguinano, urlano, si arrovellano in un furore senza posa che stordisce ed esalta.
Ci volgiamo, abbiamo bisogno d’aria, di pace. Vicino alla porta, nascosto nell’ombra, accosciato è un vecchio fedele di Aissa. Muove le mascelle lentamente e ad ogni moto è uno scricchiolìo sottile, uno stridore che fa abbrividire. Una bava sanguigna gli esce dalla bocca.
— Che cosa mangi?
Leva gli occhi e non risponde.
— Che cosa mangi?
E il vecchio si sporge, dischiude le mani sanguinanti: sono piene di vetro in frantumi, in ischegge sottili, minutissime. Non potrebbe rispondere. Apre la bocca orrendamente ferita e, nella stupida fissità del suo fanatismo, riprende imperturbato l’orribile martirio.
Sostiamo nell’antico mercato degli schiavi cristiani. Non è gran cosa. Un cortiletto cinto da un basso porticato, tanto basso che un uomo di statura superiore alla media non potrebbe starvi diritto. Su le colonne tozze, adattate alla meglio, osservo qualche iscrizione malamente graffita, appena decifrabile.
Una dice: Io Angelo Dajello di Torre del Greco fui preso schiavo il 20 agosto 1759 dai mori barbareschi. E un’altra: Michele Piumolillo nato il 31 marzo 1724 morto il 9 gennaio 1762. — Forse un compagno di prigionia ne volle fissare così il ricordo. E una terza: Io Michele Gerace, schiavo, ho servito nel Serraglio. — Nella quale si vede come Michele Gerace non fosse affatto schivo di servire nei serragli, anzi come traesse da tale insolita occupazione un certo suo vanto non assolutamente privo di dignità. [91] Tanto l’uomo si adatta alle proprie occupazioni e se ne accontenta.
Attorno attorno, dove era esposta un tempo la preda umana degli antichi corsari, sotto il loggiato umido, sono distese lunghe stuoie su le quali una fila di beduini medita su la fatalità del sonno. Tutto è fatalità per questa gente, così l’erba che cresce fra i grani e che nessuno strappa giacchè il buon Dio l’ha mandata, come la mosca che li importuna. Tutto ciò che accade era scritto nel gran libro di Allah. Se una carestia minaccia il paese, nessuno vorrà perdere la propria serenità o correre ai ripari: era scritto. Se una pestilenza li macera e li decima e li tormenta non se ne daranno maggior cura: era scritto. Tutto è scritto, tutto è codificato, preveduto, catalogato nel libro dei cieli, nel libro del destino. Ogni azione umana è inutile di fronte a ciò. La morte giunge quando il suo tempo è segnato, nè un minuto prima, nè un giorno dopo. Tu ti affanni e muori; ti agiti, gridi, ti arrovelli in mille opere, in mille studi, consumi miseramente la tua vita senza gioia e muori; muori come colui che non si è data alcuna pena, gli sei uguale nella morte, gli sei uguale nel destino che può attenderti oltre il trapasso: dunque? Perchè agitarsi tanto? Meglio è sostare nel sonno e conquistare la suprema indifferenza. Data la quale illazione la maggior parte degli arabi dorme o sonnecchia in nome del suo Profeta. E fedeli al Profeta lo sono sempre, sì nel fanatismo religioso come nell’implacabile disdegno per le cose della vita. A volte per tale loro virtù negativa riescono ad uno stoicismo ammirevole.
Ricordo un vecchio, un vecchio uomo che aveva più di cent’anni. Lo scopersi un giorno aggirandomi per le vie più remote di Tunisi. Il luogo era solitario, silenzioso. Non discendeva nell’ora crepuscolare, per la via stretta ed oscura, se non una bambina, una nera. Aveva gli occhi lucenti e [92] un gran sorriso bianco su la sua faccia tonda. I capelli corti e cresputi. Mi chiese un soldo e se ne andò come una reginetta contenta. Rimasi solo fra le case ermeticamente chiuse, dalle quali non mi giungeva suono, che pareva albergassero un singolar mondo da fiabe, un mondo di ombre taciturne immobilizzato nello stupore del silenzio. Il crepuscolo era grigio. Da qualche ora era spiovuto e il cielo era tuttavia nuvoloso. Grigio in cielo e fango in terra. Un oriente inverosimile, da far nascere la nostalgia dell’estremo nord. Ad un tratto vidi una porta socchiusa. Ristetti ad ascoltare, e come non mi giunse alcun suono sospinsi i vecchi battenti color della cenere e guardai nell’interno. La porta si apriva in una specie di cortiletto angustissimo, reso più angusto da una catasta di legna che vi era ammassata da un lato e da un gran mucchio di cenere. Sul muro, a destra, si apriva la nera bocca di un forno. Tutto intorno, ammassate alla rinfusa, erano pietre, tegoli, calcinacci; cumuli di rottami e di immondizie. La reggia dei topi. Ed oltre il fetido ritrovo non poteva esservi altro. Tutto doveva cominciare e finire in quella specie di antichissima concimaia. Non era ammissibile che qualcuno abitando oltre il cortile, avesse potuto tollerare simile entrata. L’ispezione e la deduzione furono rapidissime e già stavo per andarmene quando mi sentii chiamare. Ristetti sorpreso, guardandomi intorno, levando gli occhi agli alti muri per scoprire da quale misteriosa soffitta potesse essermi giunta la fioca e tremante chiamata, allorchè la riudii di nuovo ma più vicina. Pareva uscisse di sotto la cenere, da una tomba fra la cenere nerastra. Era una voce stanca, di timbro indefinibile; una di quelle voci in cui il tempo pare abbia lasciata la sua gromma sì che giungono velate come da una lontananza. Voci che muoiono prima che il cuore muoia. Diceva:
— Che cosa cerchi? Che cosa vuoi?
Inoltrandomi un poco vidi chi mi parlava.
[93]
In fondo al cortile, nell’angolo più buio era scavata nel muro una piccola nicchia bislunga tanto da poter ospitare appena un uomo sdraiato o seduto. Un tempo doveva servire da giaciglio al fornaio, ora era l’unica e continua dimora di un vecchio centenne.
Non distinsi, a tutta prima, se non un cumulo di luridi cenci; un avviluppo singolare di bende e di brandelli tra il grigio e il nero, ma esiguo, un piccolo rifiuto abbandonato là fra gli altri rifiuti. Poi dall’incomposto arruffio di stracci vidi levarsi una mano scarna, sottile, ridotta allo scheletro, tremante; un intrico di ossa e di vene nel quale era tuttavia un soffio di vita; e, più in fondo, appena emergente dalle spesse bende, un volto sparuto ma, più che un volto, un teschio del quale non erano visibili se non i denti, gli zigomi e le occhiaie. Tutto il resto era d’ombra, era l’ombra.
E la voce affiochita ripeteva:
— Che cosa cerchi? Chi vuoi?
— Non cerco nessuno. Ma tu perchè stai in questa tana?
— È la mia casa.
— Stai sempre qui?
— Sempre.
— Non ti muovi mai?
— Mai! Non posso muovermi.
— Ma non hai figli, non hai nipoti al mondo?
— Nessuno.
— E come vivi?
— Aspetto.
— Chi ti aiuta?
— Robbi! (Iddio!)
Poi tacque. Il grave viso di asceta, indurito alla singolar prova della terribile vita non ebbe alcun segno di commozione. S’io me ne fossi andato senza domandar più, mi avrebbe lasciato partire indifferentemente. Non chiedeva, [94] aspettava. Ed era nascosto in fondo a un cortile, fuori dalla vista dei passanti. Aveva a portata di mano una latta di petrolio piena d’acqua; poi, sparse intorno per la nicchia, alcune scatole di latta, una scodella e un cucchiaio. Tutto ciò era sudicio, immondo ed era l’unico suo bene. La grande vecchiezza gli aveva tolto le forze ma non l’intelletto. Egli non poteva muovere un passo fuor dalla nicchia ma poteva avere l’esatta nozione di tutta la sua miseria. E non si lamentava. Abbandonato da tutti, esposto all’acqua ed al sole, tormentato dal freddo e dalla canicola, non essendo sicuro di poter saziare la fame tutti i giorni, condannato ad una solitudine taciturna di fronte allo spettro della morte imminente aspettava tranquillo e sereno l’ultimo suo giorno. L’islamismo è una negazione ed una forza. Distrugge e supera. Distrugge ogni energia di azione ma supera il dolore.
Abbiamo mangiato alla buona, in una trattoria araba, dal comico Shiahlela. Un pasto tanto più indimenticabile quanto maggior bruciore mi ha lasciato per tutto il corpo. Poche cose minuscole ma tanto pepate da assumere proporzioni da incendio. Conveniva correggere ogni boccone con un bicchier d’acqua, chè anche la bukha (un liquore fatto di fichi fermentati, non potendosi servire vino ad una tavola araba) aggiungeva anzichè togliere ardore. Carni di montone, uova sode tritate (una pastura da pulcini), fave lessate e salse di tutte le qualità e di tutti i colori, miscugli incendiarî a base di peperoni rossi e di pepe di Caienna. Non so come gli arabi possano adattarsi a tali pasti infiammatorî. Tanto varrebbe trangugiare una carta senapata. Chi ha più goduto della mia sofferenza è stato Shiahlela il quale, frattanto, si è bevuto tutta la bukha che avevo ordinata e se ne è ordinata dell’altra per conto mio e l’ha bevuta tranquillamente. Alla fine il buon trattore, lungo come [95] una pertica, con due occhietti rotondi sotto due accenti circonflessi era tanto espansivo e piangevole che mi avrebbe abbracciato se avessi ritenuta opportuna la cosa. E, con voce rotta, m’ha raccontato che, purtroppo, beve molto, beve più del bisogno, e che la bukha gli si converte in pianto. Quando ha bevuto è travolto dal torrente della sentimentalità e corre a rifugiarsi nel suo harem. Allora le sue donne gli si fanno intorno ed egli impreca alla vita e rammenta le cose più lacrimevoli e piange a corona, a scroscio, a ritrecine e tutte le donne sue giù con lui a singhiozzare disperatamente. Una faccenda da non si dire, da muovere a pietà il cuore più indurito. E frattanto ribeve. Oggi sarà, senz’alcun dubbio, una giornata di grande commozione.
Vicino alla tavola mia, un ricco arabo (me l’hanno indicato come il più ricco di Gabès e come il più colto; ha studiato in Europa) ascolta sorridendo. Ha un grande turbante giallo; pare un fiorrancio di tra le biade. Parla correttamente il francese e intavola con me una conversazione piacevole. Mi racconta molte cose interessanti. È tutto imbevuto della nostra civiltà. Ha vissuto molto tempo a Parigi ma siede alla turca. Ha abbandonate le babbucce ai piedi del sedile ed è scalzo. Parla con entusiasmo dei nostri costumi, ma, frattanto, osservo che, a mo’ di distrazione, seguendo un uso della sua terra, si passa l’indice della mano destra fra le dita dei piedi. E ciò fa con perfetta correttezza e con garbo indifferente.
Troviamo alle porte della città le cavalcature che ci aspettano. La giornata è radiosa, calda, estiva più che primaverile. Verso il mare si elevano nella somma chiarità i pennacchi dei palmizi che coprono l’oasi di Gabès. Ben [96] presto si disperdono come in una opacità perlacea su lo sfondo delle acque chiare. Questi cieli magnificamente limpidi hanno anche opacità inesplicabili. Non appena una cosa si innalza o si allontana, si avvolge di una nebbia atomica estremamente luminosa nella quale a poco a poco si disforma e si disperde. Nelle ore di grande luce, l’orizzonte si raccoglie entro un circolo breve; non è limitato da nitidi contorni ma da tenui profili e da ombre nell’estremo bagliore. È come un dissolvimento. Pare che tutto si debba dissolvere in luce.
Cavalchiamo per una strada bianca e diritta, tra sabbie, paludi e rari campi seminati. Dovremmo essere domani, verso sera, alle grotte dei Matmata.
I Matmata sono trogloditi che vivono ai confini orientali della Tunisia. Meta del mio viaggio è il loro paese fantastico, irto di rocce nelle quali si aprono a varie altezze, come tanti nidi di rondine, le loro caverne.
Il paesaggio non varia, prosegue uguale e monotono sotto il sole ardente. A quando a quando incontriamo qualche dromedario che porta su l’alta gobba un’intera famiglia di beduini, qualche asinello striminzito, qualche biroccio carico di mori che sonnecchiano al sole.
Verso sera cominciamo a vedere le prime tende di beduini finchè ci appare, vicino ad un gruppo di palmizi, l’intero accampamento di una tribù. Dirigiamo a quella volta le nostre cavalcature e vi giungiamo in breve tempo fra un furioso abbaiare di cani i quali ci si avventano contro con intenzioni tutt’altro che ospitali. Tale accoglienza richiama, poco alla volta, l’attenzione di tutta la tribù presente. Corrono prima i monelli i quali sbucano di tra le siepi che circondano ogni singola tenda, poi le giovinette, le donne, gli anziani. In breve siamo circondati da un nuvolo di gente che ci guarda con curiosità, sorridendo. Si fanno tacere i cani e si intavola una vivissima discussione fra gli anziani [97] e il capo della tribù. Si tratta di sapere chi dovrà offrirci ospitalità. Il capo tenta risolvere l’interminabile questione decidendo che saremo ospiti dei proprietari delle tende verso le quali si sono diretti i nostri cavalli giungendo all’accampamento, ma anche tale decisione non tronca la disputa perchè è difficile precisare l’esatto punto dell’arrivo.
Finalmente la cortesissima controversia viene risolta e discendiamo dalle nostre cavalcature. Entro nel recinto che mi è stato riserbato e mi dirigo verso la tenda nera a larghe striscie grige, molto bassa e di forma conica. Nell’interno non trovo che un po’ di fieno disteso a mo’ di giaciglio, qualche masserizia primitiva e la nuda terra. Tutto ciò è poco ma basta a raccogliere nel sonno la famiglia nomade.
Intorno intorno è un fitto assieparsi di piccoli coni neri molto larghi alla base; formano, nell’insieme, uno strambo villaggio intersecato da siepi, percorso da vicoletti e stradicciuole. Ne sono abitanti i beduini, i dromedari, gli asini e i cani. Ogni tenda ha il suo recinto, come ho detto, e in tale recinto si raccolgono, a notte, le bestie. I cani sorvegliano mentre il sonno ristora i pastori. Girando gli occhi intorno vedo gobbe e musi di dromedari e bianchi turbanti e frotte di monelli seminudi in una promiscuità grande, in una fratellanza universale. Si elevano esili colonne di fumo azzurrastro qua e là, fra una siepe e l’altra, fra una via e l’altra, tenui veli che hanno i toni dell’acciaio brunito e si dissolvono sfioccandosi; qualche lingua di fuoco fiammeggia breve, qualche fresca risata ne accompagna il guizzo. Lunghe file di dromedari tornano dai lontani pascoli. Ne giungono da tutti i punti dell’orizzonte lentamente, gravemente, accompagnando il ritorno con un urlo che sta fra la grazia del grugnito e la sonorità del raglio. Il sole muore. Una donna raccoglie da una siepe alcuni panni che vi aveva disposti ad asciugare; un gruppo di giovinette ritorna dal pozzo con le anfore alte su la spalla. Mi pare di essere risalito nei [98] secoli alle età remotissime di cui favoleggia la Bibbia. Ricordo i tratti salienti che mi avevano fissato nella mente la vita patriarcale dei primi figli di Israele:
“E questi uomini sono pastori di greggi.... ed hanno menate le lor greggi e i loro armenti e tutto ciò che hanno.„ E ancora: “Ecco Rebecca usciva fuori avendo la sua secchia in su la spalla. E la fanciulla era di molto bello aspetto, vergine, ed uomo alcuno non l’aveva conosciuta. Ed ella scese alla fonte ed empiè la sua secchia e se ne ritornava....„ Il pozzo è fra i palmizi. Un’ombra ed un lucore di acque nella grande distesa dispoglia, arsa dal sole. Le donne vi giungono a gruppi di sei, di dieci, parlando piano, sorridendo appena. Vestono un lungo manto azzurro, l’hamla che giunge loro fino alle caviglie e lascia nude le braccia e nudo il collo. Il pozzo è il ritrovo delle fanciulle quando cade il sole e il sole si affonda fra le sabbie del deserto e pare sollevi nell’aria e le cosparga intorno, a ventaglio, le arene infocate. Giungono in fila, le belle creature, i piedi scalzi, il braccio nudo sollevato a tener obliqua su la spalla l’anfora leggera. Al collo dei piedi e ai polsi e all’avambraccio rilucono e tintinnano le grandi armille di argento di cui vanno adorne. Hanno alle orecchie, larghe anella di argento, e i capelli quasi disciolti, nerissimi, scendono a raccogliere nella loro ombra la grazia del viso, composto in un segno di fiera bellezza. Sono diritte come palme; esili e forti perchè temprate agli ardori del deserto. Le loro carni sono brune e gli occhi si accendono di fosforescenze solari. I pastori ritornano di lontano; qualcuno canta più remotamente. E passano le greggi, gli armenti; giungono all’adunata guidati dall’ombra che cade. È un trepestio lento, un correre e un incrociarsi di voci, di mugghi e di belati. Qualche giovane armentario trascorre sul suo cavallo; guizza via con un urlo roteando per l’aria la lunga asta.
[99]
Vedo il burnus sollevarsi nell’impeto della corsa e l’odo battere l’aria stioccando. E l’acqua risuona ricadendo in fondo all’arca e le anfore si riempiono e stillano; stillano oro e coralli in quest’aria di vespero acceso. Ecco Zubeida (la graziosa); Sasiia (la gentile), Kadija (la pura). Vengono e vanno senza rivolgersi; diritte e composte in una loro grazia ieratica. Si inchinano sorridendo, si toccano la fronte e il cuore, mi rivolgono un augurio.
— Bislemma!
— Bislemma!
E ritornano alla loro tenda dalla quale sale per l’aria un tenue nastro di fumo. Vita aspra e magnifica; intensa, piena, impetuosa, gagliarda. Tutta la gioia della giovinezza vi si libera a volo, disfrenata; ogni forza ed ogni desiderio vi hanno la loro piena espansione. Senza posa e senza sonno. Tale è la legge che guida da millennii il popolo pastore. Esso emigra di pascolo in pascolo, di terra in terra abbandonando i suoi morti per via. Senza posa e senza sonno. La sua patria è lo spazio; il suo desiderio, il cammino; la sua ricchezza, la tradizione. Così come Giuseppe presentò i fratelli suoi a Faraone potrebbero presentarsi oggi i beduini. Nulla è mutato nei millennii: “E questi uomini sono pastori di greggi.... ed hanno menate le lor greggi e i loro armenti e tutto ciò che hanno.„
Due giovani arabi trovarono un giorno su la via un arancio.
Disse Said:
— È mio perchè l’ho veduto prima!
Rispose Alì:
— È mio perchè l’ho raccolto!
La controversia si infiammò e volarono le busse.
[100]
Passava un taleb[5] e si fermò. Si pose fra i contendenti:
— Vi farò giustizia! Datemi l’arancio.
Come se l’ebbe ne divise la buccia in due zone uguali e disse:
— Una parte della buccia spetta a Said perchè fu primo a vedere l’arancio; l’altra parte spetta ad Alì perchè lo raccolse; il frutto lo tengo per me come prezzo per la sentenza!
— E mangiò l’arancio.
Questa è la giustizia.
Vorrei narrarvi la novella di Selìma che ho udita l’altra notte in una di queste enormi pianure circondate dai colli. Eravamo intorno al fuoco; un vecchio beduino cominciò a parlare e raccontò la novella salace della quale vorrei farvi compartecipi se sapessi ammantarla di ben sette veli. È riccamente poetica ma tanto scabrosa che temo possa allettar troppo i difensori della morale. È immaginata da un popolo immaginoso e voluttuoso il quale se si corregge un poco nella sua letteratura, è, nella comune parlata, terribilmente osceno.
Il Boccaccio o il Lasca che novellavano ad uomini sani i quali da tali storie non traevano che il senso ridevole l’avrebbero narrata bellamente senza timori; noi siamo troppo viziati per ascoltare con tranquillità. Ma ecco la novella.
In una tribù dell’interno, verso il deserto viveva un tempo Selìma, bellissima giovinetta, desiderata con ardore furibondo.
Un giorno vennero a mancarle il padre e la madre ed [101] ella rimase unica padrona delle immense mandre che andavano pascolando all’intorno e padrona del suo destino.
Dormiva sola sotto la ricca tenda, sul giaciglio coperto da pelli di leone e una vecchia schiava ed un eunuco vegliavano il sonno di lei.
Il tempo trascorreva senza ch’ella si concedesse ad alcuno.
Era superba, ardita, dominatrice e bella e lontana quanto la stella polare. Disprezzava gli uomini schiavi, gli uomini che la guardavano col desiderio della bestia e non sapevano dominare l’istinto.
Un giorno la vecchia schiava che la teneva cara quanto una figlia, ricorrendo il quindicesimo anno della fiera giovinetta le disse:
— Selìma tu sei sola; che ne sarà della tua fortuna se invecchi senza figli? Pensa a sceglierti un uomo fra quelli della nostra tribù. Ve ne son cento che morirebbero contenti solo per averti baciata.
Selìma scrollò le spalle sdegnosamente e non voleva; ma disse poi:
— Ascoltami, Fatma: io non sceglierò un uomo che ad un patto!
— Quale?
— Ascolta. Io sarò di colui che pur essendo giovine e forte e nel pieno possesso della sua vita, saprà resistere al fascino della mia bellezza.
— E come?...
— Egli dovrà farmi vento per un’intera notte essendo io distesa sul mio giaciglio compiutamente ignuda e non dovrà dir parola nè guardarmi con desiderio.
Fatma scrollò il capo e tacque ma la nuova del patto singolare si sparse rapidamente fra i giovani della tribù.
Nel giorno che seguì si presentò il primo concorrente. Era un giovine gagliardo, alto, dalla barba rossa, bello come un nazareno.
[102]
Sul far della notte Selìma gettò ne’ suoi bracieri i profumi più inebbrianti dell’oriente, ne saturò la tenda damascata, rossa e turchina, cosparse il giaciglio di gelsomini e di rose rosse, poi, scesa alla fonte, si deterse e si unse di olî odoriferi.
Fatma l’attendeva.
— Vieni che è l’ora.
Selìma non aveva fretta. Si tolse le armille d’argento e d’oro, disciolse il nero gorgo de’ suoi capelli e vi intrecciò fiori di gelsomino, del gelsomino orientale dal molle profumo insidioso, poi, disciolta l’hamla serica, allargò le braccia e la fece discendere lentamente lungo il seno e le anche finchè apparve ignuda. Allora tolse da una piccola arca incrostata d’avorio, una spera d’argento e si guardò.
Si vide bella nella perfezione della sua forma intatta. La pelle di lei aveva il caldo tono dell’oro, ardeva come il sole. Sorrise, cedette la spera a Fatma e disse distendendosi sul molle giaciglio:
— Venga Selem; lo aspetto.
E Selem entrò; ma ancora non era a mezzo la notte che i servi lo avevano scacciato dalla tenda di Selìma.
L’identica sorte toccò a molti altri i quali giunsero di lontano e se ne andarono vinti.
Ultimo fu Mohamed, il bel lupo.
Egli trascorse l’intera notte al fianco della giovinetta; ma, sul far del giorno, dichiarandosi vincitore e negando ella di essere stata vinta, decisero di andarsene dal Kadi per aver giustizia.
— Se io ho torto non mi rivedrai più, — disse Mohamed; e partirono.
Ecco il racconto che il giovine fece al Kadi.
— Ora ascolta, — disse Mohamed, — e giudica secondo la tua sapienza.
Io giungevo da un lungo viaggio e avevo bisogno di [103] riposo e di ristoro; andando così e cercando con gli occhi intorno, mi ritrovai su l’entrata di un magnifico giardino, un giardino promesso, Kadi, bello quanto il paradiso. V’erano giglieti e rosai e aiuole di gelsomini; vi cantavano fontane fra i molti prati. Ero stanco, affaticato. Discesi, legai il cavallo ben forte, a più doppi su la soglia vietata e entrai a riposare.
Avevo preso sonno allorchè all’improvviso mi destano le grida di quella che vedi qui, mia avversaria. Il cavallo era entrato nel giardino e aveva calpesto il fior dei gigli e delle rose e aveva fatta sua l’erba dei prati. Kadi.... di chi la colpa se la stessa mano di Selìma aveva disciolto le doppie ritorte alle quali il cavallo si trovava avvinto?
Il Kadi disse:
— Abbia torto chi disciolse i legami!
E i giovani partirono chè non poteron aggiunger parola; ma Selìma non si dette per vinta e disse a Mohamed:
— Io non sarò la tua donna se non supererai una seconda prova.
— E sia, — rispose Mohamed.
Si accordarono, ritentarono; ma alla seconda mattina le stesse contestazioni sorsero fra di loro e ritornarono dal Kadi.
E Mohamed disse:
— Ascolta e giudica anche questa volta.
Selìma ed io passeggiavamo per i sentieri di un orto; ad un tratto ci trovammo di fronte un magnifico mandorlo pieno di frutta e Selìma disse:
— Se tu con la tua fionda saprai abbattere dodici mandorle senza fallir colpo, io sarò tua. — Accettai. Raccolgo i sassi opportuni, armo la fionda e lentamente ma sicuramente abbatto le dodici mandorle; non un colpo è perduto.
[104]
Ora di chi la colpa, Kadi, se l’ultima mandorla non aveva il seme?
Rispose il Kadi rivolto al giovine:
— Abbia torto chi ti vuol troppo saggio!
Anche la seconda prova era perduta per Selìma ma ella ricorse a una terza, alla più disperata e disse:
— Se perdo questa sarò la tua agnella!
— E sia, — rispose Mohamed.
Andarono, ritentarono e alla terza mattina rieccoli dal Kadi.
— Ascoltaci per l’ultima volta, — disse Mohamed, — e giudica.
L’altra sera, Selìma ed io, eravamo pei campi; una moschea era in fondo, molto lontana da noi.
Quando il sole tramontava il muezzin salì sul minareto a invitare i fedeli alla preghiera. Selìma si ferma e mi dice:
— Se tu entrerai nella moschea prima che il muezzin discenda dal minareto io sarò tua.
La prova era ardua ma accettai. Partii correndo come un veltro e giunsi che il muezzin cantava ancora; ora di chi la colpa, Kadi, se trovando io chiusa la gran porta di bronzo entrai per la porta delle abluzioni?...
Il Kadi sorrise e disse:
— Andate e state in pace che siete nati per amarvi.
I giovani chinarono gli occhi, contenti.
Così la fiera cerbiatta fu tutta del bel lupo.
[105]
“.... Egli manda i venti che portano le nubi su le contrade nelle quali la terra langue. La pioggia rende alle campagne sterili la loro prima fecondità: immagine della resurrezione.„
Il Corano. Cap. XXV. v. 10.
[107]
18 agosto.
Abbiamo salpato da Brindisi iernotte. Ora è il mattino e si naviga sotto le coste dell’Epiro. Le nebbie velano a mezzo i monti, non si vede un paese intorno; solo il grigio e ripido corso di un torrente che pare squarci la montagna brulla.
Il mare ha il colore del latte. I marinai lavano il ponte. Verso la poppa cinque ragazzi albanesi sono saliti sopra due stie per superare la murata di bordo e guardare il paesaggio. Seguono silenziosamente l’uguale svolgersi delle montagne azzurre, gli occhi larghi e pieni di sogni. Nessuno dice parola. Superano appena col capo l’alta murata, e le cinque testoline si illuminano nel sole. Un gallo canta festosamente.
Nella terza classe due albanesi in fez, coperti da una lunga camicia bianca, a fiorami rossi, passeggiano conversando pacatamente; un terzo, accosciato su le assi del ponte, mangia un cocomero biancastro.
Lungo la costa appaiono isolotti scogliosi, fra i quali intravvedo qualche casa. Sale sopra coperta un prete greco diretto a Costantinopoli e mi domanda garbatamente quali siano le disposizioni dello spirito pubblico italiano circa la Grecia.
[108]
Lo spirito pubblico? Esiste da noi in realtà una cosa simile? Ne dubito molto. Comunque sia, sonnecchia finchè non è frustato.
Appare Santi Quaranta con le sue antiche fortezze veneziane, sui monti. La costa è bianca e la montagna è color d’oro.
Scendo a terra col tenente Speranza del Bosnia per prender la pratica.
Le autorità turche ci attendono sul piccolo molo. C’è il dottore col suo fez a tronco di cono e un grande ombrello nero e ci sono altri due individui che non so che cosa rappresentino. Volti tranquilli e beati. Il tenente fa firmare il foglio di via poi si discende.
Seguiamo il dottore fino alla casa di lui. Si oltrepassa un piccolo pergolato, un cancelletto e si entra.
Ci vengono offerte sigarette passabili e una tazza di caffè infame.
L’autorità medica siede alla scrivania e scrive.
Non conosce nè il francese nè l’italiano, e vorrebbe rivolgerci molte domande.
Ogni tanto alza il capo, dice:
— Grechi!... Grechi!... — e continua in turco.
Ci guardiamo negli occhi e sorridiamo senza rispondere. Anche il dottore sorride e continua a parlare.
Nella pergola cantano i passeri.
Che bel sole!...
Si esce senza aver capito una sola parola, e il nostro gentiluomo ci accompagna fino alla soglia parlando sempre in turco.
— Addio.
— Addio.
Si esce dal pergolato, si scavalcano macerie, si entra in [109] una via fiancheggiata da case diroccate. Ovunque ci si volga non si vedono che ruderi.
Eccoci dall’Agente della Navigazione Italiana il quale agente tiene il suo ufficio in un han o albergo se così vuol dirsi, ma più stallatico che albergo.
Entriamo in un corridoio nel quale le rondini hanno nidificato sotto alle travi, poi in una stanza che può dirsi linda se si pensi al resto. In ogni luogo c’è l’odore caratteristico dello stallatico.
Anche il nostro agente, che è un greco, ci offre il caffè. Aspettiamo la posta di Janina. Frattanto il piccolo uomo rotondo che ci rappresenta se la piglia con le Potenze perchè non agiscono.
— Dovrebbero distruggere la Turchia. Si mandano due corazzate e buona notte!
Abbiamo sorbito il caffè, la posta è giunta; si riparte.
Passiamo dall’ufficio telegrafico che ha sua sede entro una tana sudicia.
L’agente che ci accompagna ci dice che se volessimo spedire un telegramma in Italia arriveremmo prima in piroscafo.
Sul molo vediamo fra la folla una magnifica figura d’uomo su la quarantina. È armato di fucile, di pistola e di pugnale ed ha sul ventre una enorme cartucciera. Veste alla foggia albanese. Pare dubbioso se imbarcarsi o no. Guarda il sole. Qualcuno gli si avvicina e gli parla; resta esitante qualche secondo poi ci volge le spalle e parte.
Sappiamo che l’uomo singolare è un famigerato brigante, il quale non più di un mese fa ha svaligiato l’Ufficio della Navigazione Generale. Avrebbe voluto imbarcarsi, ma qualcuno lo ha sconsigliato facendogli intravvedere la possibilità di essere messo ai ceppi. L’Italia non avrebbe fatto nulla, questo è vero, ma il ribelle ha ripreso le vie dei monti.
[110]
È salito a bordo il pascià di Janina accompagnato da suo figlio. Un bell’uomo grasso dalla faccia turca, ambigua cioè, senza espressione marcata.
Non appena lo han veduto i suoi sudditi che erano a bordo si sono precipitati a baciargli la mano e il lembo della veste.
Umili, fedeli, devoti, ridicoli. Se debbo dire il vero, ridicolo era anche il pascià col suo fare sacerdotale; e si lasciava baciare, tutto compreso nel suo còmpito da reliquia.
Dopo tale funzione il buon uomo dalla faccia ambigua, che ricorda sì dolcemente il profilo del montone, ha preso possesso del ponte di prima classe.
Ci sono molti greci. Poco fa discutevano di politica ad alta voce e bestemmiavano la Turchia, ora per la presenza del pascià tacciono come fringuelli se odano lo strido del falco. E non sono sudditi turchi, e non hanno a temere che S. E. abbia a tirar loro le orecchie. Forse sarà un abito secolare, che so: il fatto si è che coloro che per lo innanzi gridavano ora sussurrano e chi parlava tace.
Quale potenza ha costui?... — mi chiedo — e lo guardo e lo scruto, ma non vedo che la sua bella faccia da montone ambigua e bonaria.
Un’isola bella e malinconica. Comprendo ora come la dolorosa imperatrice l’avesse scelta a sua dimora.
Non appena i marinai hanno calato la scaletta di bordo, una vera orda di facchini indemoniati, urlanti invade il piroscafo.
Ma siamo a Corfù o a Venezia? Non si sente parlare [111] che il dialetto veneto, e la stessa lingua greca ha qui la dolce cadenza del nostro dialetto.
Qualcuno mi dice che nelle ricche famiglie di Corfù è consuetudine aristocratica parlare la lingua italiana. Fino a quando durerà tale nostra supremazia della quale andiamo debitori alla Repubblica Veneta? Fino a quando se la nostra cieca indifferenza si lascia sfuggire di mano ogni governo morale, al di là dei confini?
Corfù è una città veneta, serba il carattere che le impressero i suoi dominatori.
Vie strette; case alte e aduggiantisi; finestre e balconi veneziani. Comunque sia, vi si fa sentire la prima influenza dell’Oriente. Il quartiere dei sellai quello dei calzolai e dei sarti hanno un carattere orientale; sono pittoreschi.
Altro lato caratteristico di Corfù è costituito dai venditori di frutta; frutta magnifiche le quali denotano la bontà della terra e la mitezza del clima.
La vegetazione è simile a quella della Sicilia; le stesse agavi, gli stessi agrumeti e i fichi d’india e i palmizi.
Quando salgo in vettura per andare al Cannone, che è un luogo dal quale si gode un magnifico panorama, e all’Achilleion, la villa della muta imperatrice del dolore, attraverso ai campi e lungo il mare colgo il vero aspetto di quest’isola dolce e malinconica. Tutto vi è esuberante ma non gaio; l’anima non vi riposa tranquilla, ma è presa come da una nostalgia di sogni lontani.
La stessa nostalgia trasse a questo riposo una vittima della vita: Elisabetta imperatrice che rivisse, sola, il fosco destino degli Atridi.
Riprendiamo la rotta verso il golfo di Corinto. Sono saliti a bordo altri greci e un prete armeno.
[112]
Il vecchio pascià e il figliuol suo sono alla mia stessa tavola. Benchè non siano in Turchia mangiano col fez ben calzato su le orecchie. Non bevono vino; impugnano la forchetta fieramente.
Il pascià, che ancora non si è deciso ad aprir bocca, ad un certo punto mi guarda sorridendo e mi chiede dove sono diretto.
— Ad Atene.
— Il signore viaggia per qualche casa di commercio?
— Precisamente.
— Quale genere tratta?
— Filati di cotone.
La risposta lo convince; mi guarda ancora, anzi mi squadra poi soggiunge:
— Che ne dicono in Italia della questione cretese?
E la conversazione si avvia su l’eterna questione dell’isola minoica.
Per conto suo il pascià è convinto che la Turchia dovrebbe rinunciare definitivamente al possesso dell’isola; tanto le Potenze non le permetteranno mai di ritornarvi.
— C’è bisogno di pace per tutti, — soggiunge. — Così per la Grecia come per la Turchia. Dobbiamo superare difficoltà enormi; c’è tutto un mondo da rifare.
Non ha torto ma io dubito molto circa la sua sincerità.
C’è tutto un mondo da rifare, questo è verissimo; ma da quale parte cominceranno a demolire e a ricostruire? da quale parte e con quale profitto, se tutto ciò che è tradizione e che costituisce appunto la causa genetica della barbarie turca, deve essere rispettato? Si tratta evidentemente di un fior di rettorica. L’età moderna ne è piena e la Turchia ne ha compresa la necessità.
Cantare non significa agire. Quando ai nostri rivoluzionari fu concesso di sgolarsi nei loro inni pandistruzionisti se ne tornarono a letto contenti senza aver fatto male a una mosca.
[113]
Ora, benchè la musica sia differente e differente lo scopo, i turchi cantano e chi è lontano si illude.
Le vere riforme essenziali, quelle che potrebbero porre il popolo turco sulla via della civiltà, non saranno nemmeno tentate. Pochi volonterosi non possono vincere una compagine cieca od ostile. L’insegnamento, come si imparte tuttavia nell’Impero Ottomano, non può aprire le menti nè preparare coscienze diverse: poi il Corano, per quanto lo si voglia rendere agile, segna un limite fatale, è nello stesso tempo una forza e una diminuzione. Conserva una razza ma la isola.
Per questo il proposito fiero di un giovine turco il quale mi disse che anche in Turchia vi sarebbe stata un giorno una libera Chiesa in libero Stato, mi fece sorridere. Non s’è mai detto che un girasole possa fiorir gelsomini, e finchè il sole della Turchia sarà il Corano ella dovrà volgersi dal levante all’occaso ogni giorno, fatalmente. Il suo cammino è segnato.
Poi la maggior parte dei giovani turchi è conservatrice.
E non dimentichiamo che Maometto soleva dire molto spesso che Iddio aveva create due cose per la suprema felicità degli uomini: “le donne e i profumi„.
Oggi il figlio del pascià mi si è confessato giovane turco. Non ne avrebbe l’aria, veramente, ma già che lo dice!...
È un giovanotto alto, tarchiato, dal portamento molle degli orientali. Non ha mai fretta, non è mai turbato: pare uscito da un’arca di profumi e di pomate.
È nato sopra a Janina, nelle campagne, in un mezzo selvaggio, fra gente che adora i suoi padroni. È cresciuto come un piccolo Iddio fra baci, carezze e genuflessioni. È cosmocentrico; vede tutto il mondo dal suo piccolo trono e sorride.
[114]
Ama la voluttà come Maometto; ride beatamente quando parla e quando tace; è gaio perchè è ben nutrito.
Gaio?... Ecco, la gaiezza dell’anatra e del pinguino: batte le ali, si sente piacevolmente bestia.
Buon figliuolo, in fondo! Mi parla con passione degli ottimi formaggi fabbricati da’ suoi montanari, nell’Albania, e la sua sincerità mi commuove.
Anch’egli è un pochino come la pasta del formaggio: insipiduccia, grassoccia e molle, ma riesce simpatico. Ha il viso tondo; due occhi nè neri nè chiari, color dell’aria annebbiata esprimenti un’anima piccoletta che si raccoglie nel poco e se ne accontenta; la bocca del voluttuoso sempre dischiusa, dalle grosse labbra vive di sangue. È un po’ bavoso, forse per la consuetudine dell’alimentazione sovrabbondante e del piacere.
Parla un francese di sua invenzione, intramezzando al discorso brevi e continue risate le quali denotano la sua arguzie e la compiuta soddisfazione di sè stesso.
— Oh!... Z’etais a Paris!... sì sì!... Trois fois!... Ah ah ah!... Le Moulin rouze!...
— E che ricorda di Parigi?...
— Oh!... Paris, monziè!... — mi batte le ginocchia confidenzialmente con una mano. — Les femmes!... Ah ah ah!... Quelles femmes!
E strizza un occhio:
— Z’en avais de la chanze moi!...
Lo guardo. Eh, sì, perchè è un bel ninnolone da destar passioni!
E continua:
— Lenore!... Ah ah ah!... Elle me dizait touzours: — Je t’embrazze!... — Oh oh!... Et elle fouillait dans ma poze!
Che cara semplicità e quale limpidezza.
E riprende:
[115]
— Z’ai envie, d’y retourner. Z’en suis fou de Paris!... Ah ah!... Z’est rigolot n’ez pas? Il faut y étudier auzi la vie.... Oh!... mais mois ze suis zage, vous savez?... Oh!... Ze suis zage!... Z’étudie touzours! — Pffff!... Lenore eclatait en riant et me dizait: Tais-toi, vieux zameau! — quand ze lui démandais: Dis donc, m’zélle, qu’elle differenze trouve tu entre la Franze et la Tourchie?... Ah ah ah!... Ça ze passe touzours dans la même fazon!... Oh bien surement!... Sì! sì!... Bien surement!... Ah ah ah!...
Gli occhi gli lacrimano, il volto gli si accende, la bocca gli si dischiude un po’ più.
Tutto ciò mi ricorda un opuscolo pubblicato a Venezia sul principio del XVI secolo e intitolato: “Opera a chi si dilettasse de saper domandar ciascheduna cosa in turchesco.„ Nella quale opera si trovano frasi di simile genere:
— Cuore mio!
— Chi te feci tanto bella!...
— Vorria che venisse una sera a dormire meco! ecc., ecc.
Il giovine turco ha viaggiato la Francia con gli stessi intendimenti.
È trascorsa Patrasso la bella città moderna che sorge in un arco di monti. È disceso un vecchio greco che dormiva nella mia stessa cabina, un insopportabile uomo, scontento anche dell’aria che respirava. Nulla gli tornava a genio, mai. Il ventilatore era aperto e lo chiudeva, era chiuso e l’apriva; s’infuriava contro l’hublot, contro il caldo, contro le mosche; non era mai in pace neppure nel sonno, chè aveva a quando a quando di gran sussulti e parlava e smaniava quasi albergasse l’inferno in corpo.
Prima di partire questa mattina mi ha chiesto:
— Signore, taliano?...
— Per servirla.
[116]
— Bona Talìa!... Bona!...
Qualcosa almeno gli andava a genio; ma è stato un riposo brevissimo, perchè si è infuriato poi con le sue valige e le ha lanciate ad una ad una fuori della cabina imprecando.
Non regge vento.
Alcune vele quadrangolari, stanno immobili in varï punti della rada. Un’ultima vela, in fondo, scompare nella caligine grigiastra che il sole non ha superato tuttavia.
Le alte montagne sembrano scolpite in oro antico, pallido e schietto.
Una fortezza impera sotto il cielo. Si ode un lieve ondare di campane remote.
Siamo nel Golfo di Corinto. Quanti castelli veneziani su le nude rive!... Costeggiamo la Morea, che non è arida come le altre terre. Una strada solitaria segue la riva. Le case sono rarissime e miserrime.
Il mare è ricco di meduse. Paiono sugheri galleggianti.
A bordo si legge, si riposa. Si intravvede in fondo in fondo l’angustissima gola del Canale di Corinto.
Ci avviciniamo a poco a poco. Un vento caldissimo ci investe discendendo dagli infocati ed aridi piani della Tessaglia.
Giunge il vaporetto che deve rimorchiarci attraverso il canale.
Alcuni contadini in fustanella sogguardano dalle rive.
Il vapore procede lentissimo. Ci troviamo chiusi fra due alte pareti a picco. Si respira a disagio; la luce acceca.
Un lento volo di corvi ci precede.
Il prete armeno, proveniente da Roma e diretto ad Angora, mi si è avvicinato e, rassicurato dalla mia nazionalità, ha dato la stura alle sue confidenze.
[117]
È un uomo piccolo, striminzito, dalla lunga barba nera. Ha gli occhi vivacissimi e parla l’italiano correttamente.
Mi racconta delle continue persecuzioni alle quali sono esposti gli armeni in Turchia e della lotta sorda e ininterrotta che muovon loro, senza pietà. Essi non sono benvisti neppure dai greci; in massima non possono stringere la muta alleanza del dolore che dovrebbe affratellare i due popoli percossi e flagellati da ogni sciagura.
Sono soli, sono come un’oasi maledetta nell’umanità, ed ogni anno vedono diminuire il loro numero. Ogni mezzo è buono per perseguitarli; ogni arme è ottima per ucciderli.
— Si dice, — continua parlando rapidamente e con voce quasi singhiozzante, — si dice che gli armeni stavano tramando una grande rivolta, che si costituivano in associazioni segrete, che volevano organizzare una specie di Partito Rivoluzionario Russo, per vendicarsi della Turchia, per muovere guerra alla Turchia. Tutto ciò è falso, compiutamente falso! È la menzogna più sfrontata, ordita contro di noi. Si dice che siamo usurai, che affamiamo il popolo e che seguiamo la nostra sorte per la brutale ingordigia che ci distingue. E questa pure è menzogna! Se il signore verrà ad Angora, potrò farle vedere le cose da vicino, potrò farle osservare le nostre condizioni e studiare la nostra vita. Siamo un popolo che si difende, che non vuol morire, che non vuol essere assorbito, che è geloso delle proprie tradizioni e della propria lingua e dell’anima propria. Ecco la nostra grande colpa! Chè se l’usura è esercitata fra noi, non lo è mai quanto fra i greci o gli ebrei. Ci difendiamo, non vogliamo morire! Non si può condannare l’uomo che, stando per annegare, si afferra a qualsiasi cosa gli venga d’attorno. I turchi ci odiano per il loro fanatismo religioso e perchè siamo deboli e indifesi. Anche [118] noi siamo fanatici, ma è l’unica nostra forza. Se la fede nostra morisse, saremmo perduti senza speranza.
“Sono stato ad Adana, sa; ho veduto con questi miei occhi ciò che hanno fatto quelle bestie! E il massacro fu ordinato da Abdul Hamid; tutti lo sanno, tutti lo dicono. Con tale massacro egli, che ben vedeva il torbido intorno a sè voleva provocare un intervento delle Potenze e salvare il suo trono. Ora il kaimakan di Adana, colui che eseguì gli ordini ricevuti, è in esilio a Bengasi. Un esilio strano; una vera villeggiatura. Forse sarà richiamato in servizio.
“Lei non può immaginare la fosca barbarie, la crudeltà di quella gente.
“Una povera madre (e quello che le racconto è verità nè il sentimento mi fa esagerare), una povera madre quasi soffocata dal fumo della sua casa incendiata, colta dalla disperazione si recò in braccio i suoi due piccini, una bimba di cinque anni ed un bimbo di tre e si precipitò giù per le scale, fra le fiamme. Non era appena giunta su la soglia della fornace che un soldato le spianò il fucile contro e la ferì mortalmente. Ella barcollò, ma prima di cadere fra le fiamme ebbe la presenza di spirito di lanciare lontana da sè la piccina; così non potè fare per il bimbo che morì con lei bruciato. La povera piccola ebbe l’istinto di nascondersi e si salvò. Due giorni dopo fu raccolta mezza morta di fame da un buon uomo che la portò a Smirne; ed ora è a Smirne, ricoverata in un convento.
“Potrei raccontarle mille atrocità simili. Chi non ha veduto non può supporre a quale grado di ferocia giungano quelle genti.
“Un ingegnere francese che era ad Adana per l’esportazione del tabacco si salvò perchè, per tre giorni, stette nascosto fra i sacchi della sua mercanzia.
“Il giorno che seguì la carneficina si vedevano nel quartiere [119] turco, nelle botteghe dei macellai, attaccate ad uncini, membra di fanciulli e di donne; cuori e viscere. È la verità, signore.
“La testa di un bimbo quattrenne fu ruzzolata sui selciati come una palla, poi i cani ne fecero scempio. Fu la gioia della bestialità, un orrore indescrivibile! —
Ho visto gli occhi di lui vîvi ed ardenti inumidirsi d’improvviso. Un pianto muto gli è sceso per le gote.
— Del resto guardi, — ha ripreso, — queste sono tre fotografie di Adana che potemmo fare dieci giorni dopo i massacri. Vede come è ridotto il quartiere armeno?... Tutto una maceria fumante; non una casa è in piedi. Volevamo mettere in commercio queste fotografie a beneficio dei superstiti, ma non ci fidammo per timore di nuove persecuzioni e di nuove rappresaglie.
— Ma.... col nuovo regime?... — chiedo timidamente.
Mi guarda fisso poi scrolla il capo:
— Il nuovo regime?... Ah, signore!... Lei non conosce la Turchia!...
Segue un silenzio penoso, poi il mio compagno di viaggio mi offre le tre fotografie:
— Le tenga ma non le faccia pubblicare, per ora. Sono tuttavia inedite. Le tenga per sè, per ricordo.
Soggiunge poi che sarà ad Angora fra quattro giorni.
Il viaggio è lungo perchè le ferrovie turche dell’Asia Minore non compiono viaggi durante la notte per timore dei briganti che infestano quelle contrade.
Usciamo dal Golfo di Egina.
Ecco la profonda baia di Salamina; il nido della vittoria che respinse l’Oriente e che dette alla Grecia la possibilità di compire tutta la sua via luminosa. Alla vittoria di Salamina seguì un periodo di concentrazione e di [120] ascesa. Il genio della razza prodigiosa ebbe tutto il suo fulgore.
Ecco la magica scena animata dall’Imetto, dalle bianche cave del Pentelico, dal Partenone.
È tutto un oro diffuso.
A Pireo come a Corfù ci accoglie un nugolo di gente urlante, che prende d’assalto il piroscafo.
Saluto Helena, una mia piccola compagna di viaggio, il sorriso della giovine Grecia, e scendo in una barca nella quale mi trovo stipato fra uomini e bauli.
Si discende alla dogana e ci si imbroglia nel cambio della moneta con queste drakme e mezze drakme di carta luridissima.
Pireo non ha alcuna caratteristica. È una città in via di formazione, sudicia, dalle grandi vie disselciate piene di fango.
Mi faccio condurre a Falèro, che è un luogo di bagni, sul mare.
Lo stridere delle cicale acuto e lacerante, un suono di campane, la tosse insistente di un tisico che dormiva nella stanza vicina alla mia mi hanno ridestato di buon’ora e sono sorto dalle pigre coltri.
Falèro era deserta, deserta la spiaggia e le piattaforme sul mare. Ho ripreso la via di Pireo per imbarcarmi alla volta di Creta.
Lungo la strada ho incontrato un breve corteo. Due preti andavano innanzi cantando, seguiva un becchino col coperchio della bara, poi quattro uomini portavano a spalla un feretro nel quale era distesa, scoperta, alla piena luce del sole una vecchia morta.
[121]
Non mi attendevo una visione simile e ne ho avuto un invincibile brivido di orrore, proveniente non già dalla visione di un morto, che troppe volte nella mia vita randagia mi sono trovato di fronte alla morte, ma dal rito macabro, ma da quella esposizione indifferente e inesplicabile!
Vedendo l’assoluta noncuranza dei passanti, che neppure si toccavano il cappello di fronte alla maschera tragica della morte, mi sono accusato di soverchia impressionabilità. Un giorno o l’altro tutti dobbiamo essere così, — mi sono detto —; conviene abituarsi a ciò.
So che la costumanza fu imposta ai greci dai turchi quando i primi fingevano un funerale e riempivano il feretro di armi e di munizioni; ora però, nella libera Grecia, nel paese solare per eccellenza, non dovrebbe sussistere tale uso, che non ha più ragione.
Qualunque cosa si possa opporre, resta sempre il fatto che è un inutile e ripugnante spettacolo di cinismo.
[125]
Siamo in vista della Canea. La piccola città biancheggiante ci appare lontana oltre le sette corazzate che le stanno a guardia.
Distesa in un grande arco di spiaggia e sui colli circostanti, soverchiata da alte montagne, velate in parte dalla nebbia del mattino, ci arride, nel primo sole, con la grazia dei suoi minareti a guglia che escono dal folto e si appuntano al cielo, esilissimi, a simiglianza di singolari lance. E tutto un biancore l’avvolge, la pervade nella indicibile soavità di un cielo tersissimo; e in alto, il mattino distende i suoi veli orientali di ambre e d’oro.
Non si ode che lo scrosciare delle acque sotto l’impeto della prora. Navighiamo fra i monti di Akrotiri e il capo Spada, in uno specchio di mare di un colore blu metallico, limpido come una gemma e molle come occhi umidi nel piantoriso.
La catena dell’aspra Vuna spegne l’asprezza de’ suoi contorni in soffuse opacità violacee e ha il colore della perla nelle vette più ardue e riluce in parte nell’oro pallido del sole mattutino. Magnifico velario contro i cieli.
Le ampie valli sono solchi di penombre lucenti; discendono dall’alto fino alla profondità più cupa: prima esili rivi fra dirupo e dirupo, poi torrenti e fiumi e ampiezze [126] luminose; accompagnano la montagna, ne assecondano i fianchi, ne segnano le ferite millenarie, le voragini e gli abissi. E, viste dal mare, da questa lontananza fascinatrice, non sono più di una lucente penombra, di una vita di nebbie, le quali salgono e vi si diffondono e si tramutano di colore in colore, finchè il sole non le dissolva.
I dorsi, le creste, le asperità dei dirupi gettano una grande ombra obliqua, acquistano un rilievo maggiore ma addolcito nella carezza dell’ora. Sembra quasi che la scena portentosa debba scomparire col morir del mattino, tanto appare lieve sui cieli e indefinita. Quattro ricchi cretesi sono con me sul ponte e guardano senza nulla dire, chiuso il volto in un atteggiamento di fierezza sdegnosa. Quando sono salito, essi erano già fermi agli appoggiatoi, scrutanti le nebbie color d’asfodelo; poi l’isola è apparsa; sono apparse prima le montagne dell’aspra Vuna, non più chiare di una remotissima nube estiva fra cielo e mare, sospese nell’aria come un favoloso continente irraggiungibile; poi i contorni si sono precisati fin verso il mare e si sono delineate le coste e i monti di Akrotiri e quelli di Psakon, e più lontano, verso il sol levante, il gruppo dei Psiloriti. I quattro isolani non hanno parlato, nè si sono guardati; forse sapevano di pensare la stessa cosa, e la parola era inutile a esprimere un sentimento comune. Seguivano il sorgere della loro isola dalle profondità marine, quieti e taciturni, in null’altro compresi se non nella ferma gagliardia di una volontà improntata alla saldezza delle grandi montagne che si vestono di nevi e di silenzio.
Io sento, in questo prodigioso levarsi di una terra e del sole dai concavi orizzonti marini, sento la vaga trepidazione che coglie l’anima protesa verso gl’improvvisi incantesimi della bellezza divina; e tanto più si avviva in me tale trepidazione, quanto più chiare salgono le voci della leggenda e della storia, evocanti miti nebulosi e scorci [127] possenti di vita. È la culla di una fra le più remote civiltà mediterranee che sta dinnanzi a noi, ogni palmo di questa terra è sacro alla storia del nostro pensiero. Dall’antica Keftò degli egiziani partì la prima luce che accese la grande anima ellenica, di qui ebbe principio il nostro cammino ascensionale.
Quante volte non abbiamo veduto nella spettrale grandiosità di un sogno i favoleggiati palazzi regali elevantisi verso il sole in un impeto titanico? Ne parlavano le fiabe, le quali sono le esili e disformi voci della storia che muore nel silenzio dei tempi; ebbene, forse da quest’isola ne partì la prima voce allorchè si sparse la fama del palazzo minoico nel quale il re sacerdote imperava. Era immenso come una città; cinto da altari e da terrazze, ricco di giardini e di ville, intricato come un laberinto, ampio e solenne come una montagna.
Mille aspetti tumultuano nella mente mia. Non uno fra noi pronuncia parola; siamo tutti volti verso la grandiosità nuova che ci accoglie.
Passiamo fra le grigie corazzate; qualche bandiera si inalbera a saluto; procediamo più adagio verso il minuscolo porto. Già si distinguono le grandi mura veneziane.
Gettiamo l’àncora; il raccoglimento è interrotto. Qualche barca si muove ad incontrarci; grida e comandi si incrociano sul ponte, che si anima sempre più.
L’isola omerica dalle cento città ci accoglie in un’onda di sole e di gaiezza.
Ho percorso i quartieri più remoti, ho atteso i contadini alle porte della città, ho interrogato tutti gli aspetti, ho visitato a parte a parte i quartieri mussulmani per trovare una benchè minima traccia di agitazione, di apprensività; ma invano. La Canea è tanto tranquilla quanto può [128] esserlo una nostra città di provincia sotto la violenza della canicola.
Ciò non toglie che dall’oggi al domani, così in un battibaleno, non possa divampare un incendio. Tutti sono armati fino ai denti; al classico pugnale dall’impugnatura d’argento si è aggiunto il fucile, un ottimo fucile a otto colpi che fino a qualche giorno fa si vendeva a sei franchi; sono armati i cristiani come sono armati i mussulmani; ogni casa è convertita in fortezza; si vocifera anche di depositi di dinamite. È una pace armata.
La gente ride, siede ai caffè, ozia, canta, sbadiglia, legge i giornali, ma da un attimo all’altro può balzare in piedi pronta al combattimento. Nè la cosa la sorprenderebbe, nè credo fosse per dispiacerle.
Per dimostrare lo stato d’animo che si nasconde sotto tale calma apparente narrerò un fatto occorso in questi giorni alla Canea.
Un giovinotto cretese si era fidanzato con una bella figliuola dagli ampi fianchi ma, a quel che pare, non bastandogli l’amore della fidanzata, aveva cercato l’amore della madre di lei. Accadde così che il marito, venuto a cognizione di tale illecito intreccio pensasse di risolverlo con decisa energia. Armatosi di tutto punto attese il momento propizio, giunto il quale, irruppe in casa e diresse sui colpevoli un ben nutrito fuoco di fucileria. E fu dal punto risolutivo della tragedia domestica che la cosa minacciò di assumere un aspetto ben differente e ben più serio.
Non appena dalle strade e dalle piazze furono uditi i primi colpi, nacque un vero tumulto.
Fulmineamente si sparse la voce che i contadini erano discesi ad assaltare la città, che già ne avevano invasa la parte alta dando fuoco alle case e saccheggiando. Si temette una strage. I mussulmani corsero alle armi. Si vide in breve tutta la Canea invasa da gente farneticante la quale [129] correva in varie direzioni impugnando minacciosamente il fucile. Anche i giovinetti erano armati. Bastava l’imprudenza o la soverchia eccitazione di qualcuno a far nascere un massacro. Ciò non avvenne perchè si riseppe la causa prima che aveva originato il panico improvviso e, poco alla volta, la fittizia calma ritornò.
A Rettimo è avvenuto qualcosa di simile; causa, un fucile che esplose cadendo dalle mani di un gendarme. I mussulmani vivono nel timore continuo di una rappresaglia da parte dei cristiani, ma non lo manifestano. Tutto è ordinariamente tranquillo e si svolge nella pace dei rapporti consueti.
Ora, su l’entrata del porto, non è issata alcuna bandiera; i marinai delle sette navi montano la guardia per turno e i cretesi attendono la decisione delle Potenze. Attendono tranquillamente fiduciosi. Basterebbe però la sola presenza di una nave turca nelle acque di Creta a far divampare la rivolta. A ciò tutti sono risoluti con fermezza, nè i consigli di Michelidakis, di Venizèlos e di Loghiades, che sono i capi del governo dimissionario, potrebbero far desistere un solo uomo dal partecipare ad una insurrezione che è nella coscienza comune.
Il nazionalismo ha ferventi seguaci, in quest’isola, tutti i cristiani, non uno eccettuato, e sono la grande maggioranza. Benchè si dividano in partiti; o meglio: benchè vengano parteggiando o per Venizèlos o per Kùnduros, il quale rappresenterebbe una supposta opposizione al Governo dimissionario, opposizione unicamente risolvibile nel desiderio del sopravalere, sono in fondo uniti e solidali nella volontà dell’annessione alla Grecia. Tale volontà è il fuoco fisso verso il quale si appunta ogni energia. Non vi sarebbe possibilità alcuna di governo autonomo, nè di calma se le Potenze pensassero di abbandonare Canea. Inoltre l’isola non ha tuttora in sè tali e tante risorse da poter costituirsi [130] in istato autonomo; ha bensì tutto un popolo di soldati forti, resistenti, sobrii, tutto un popolo che è pronto a sacrificarsi per la causa che difende. E non v’ha in ciò alcuna esagerazione rettorica.
Girando per la città si vedono tuttavia le traccie delle antiche lotte; sono case sventrate, diroccate, annerite dagli incendi. Pare siano lasciate in tale stato in segno di minaccia.
Domani si potrebbe ricominciare. Basterebbe una parola di Venizèlos o di Kùnduros a raccogliere quattro, cinque, seimila armati da un’ora all’altra. La cosa che sarebbe impossibile in altri luoghi è, qui, lo stato di fatto quotidiano. Combattere è un giuoco per questa gente. I contadini, al faticoso lavoro dei campi, preferiscono la battaglia. L’entusiasmo li accende; sono fermi ed eroici. Tipi di atleti dall’alta fronte che si infosca sotto le chiome selvaggiamente scomposte. Uomini bellissimi, diritti come antenne, dal profilo classico. Sorridono di rado, parlano poco, hanno gli occhi assorti di continuo come in una visione interiore. Mi ricordano il David michelangiolesco: la stessa snella vigoria; la stessa compostezza fieramente sdegnosa; la stessa struttura armonicamente maschia.
Gli eroi omerici non dovevano essere dissimili da questi loro lontani nepoti. È una razza sana ed incorrotta che ha mantenuto nei secoli le sue virtù primigenie. Il mare e la loro natura sdegnosa e le tradizioni che osservano rigorosamente li hanno difesi da contatti che avrebbero disperso la loro magnifica eredità. Nelle loro virtù essenziali sono oggi come erano mille anni fa. Lo stesso istinto guerriero lo dimostra. Ora con un popolo simile la ragion diplomatica avrà effetto sicuro finchè risponderà ai desideri di lui; il giorno in cui se ne allontani resterà lettera morta. Queste genti si potranno vincere con la forza, ma non convincere; si potranno incatenare, ma non domare. Si domano [131] gli imbelli e non i popoli decisi agli estremi sacrifizî. La coscienza nazionale è qui radicata fin nell’ultimo montanaro isolato lungo i dirupi dell’aspra Vuna; si sa ciò che si vuole e si attende. Sinchè le Potenze restano, tutto si manterrà tranquillo; ma domani? Del domani non se ne parla, si attende in un silenzio sdegnoso. Le Potenze sanno come le decisioni siano ferme nell’animo di tale popolo e come nulla possa trattenerlo dal porle ad effetto.
La bandiera greca è stata abbassata dai marinai delle Potenze; non già da mani cretesi. Quando si seppe che il Governo Provvisorio, pur ossequente alla volontà degli Stati protettori, aveva deciso di far abbassare la bandiera greca issata all’imboccatura del porto, un migliaio di contadini, armati di fucili, irruppe in città e per tutta la notte montò la guardia all’antenna, deciso agli estremi; se un gendarme o un politofilakes (guardie di città) avesse eseguito gli ordini, si sarebbe esposto a morte sicura.
Per questo il Governo, trovatosi di fronte alla inflessibile volontà popolare, anzichè far nascere la guerra si è dimesso.
Ora fra i rappresentanti dei quattro Stati e i capi del Governo dimissionario corrono continue trattative le quali a ben poco approderanno se vorranno aggirarsi all’infuori dei due corni del dilemma cretese: l’occupazione straniera o l’annessione alla Grecia. Non si vede per ora altra via risolutiva.
Frattanto due volte al giorno, dalla mia camera che guarda il porto, odo il canto del muezzin il quale, dal minareto della moschea di Yalì chiama i fedeli alla preghiera.
E i fedeli si raccolgono tranquillamente in questo punto più animato della città ed entrano ed escono dalla moschea senza che nessuno si occupi delle faccende loro.
[132]
Io non so se i mussulmani siano amati dai cristiani di Canea, so di certo che sono rispettati sempre. All’infuori della ragion politica, vige, fra queste genti, la maggiore tolleranza. Un vero e proprio odio di razza non vive se non nella fantasia dei giornalisti sbrigliati; poi non è ben detto odio di razza, perchè tanto i mussulmani quanto i cristiani appartengono ad uno stesso ceppo, parlano una stessa lingua, hanno in comune tradizione e storia. Li chiamano “i turchi„, ma sono in realtà cretesi; ve ne sono certuni che hanno tuttavia nomi di origine veneta. C’è un moro, un vecchio moro che veste malamente all’europea il quale si chiama Lorenzi. Il fenomeno strano si è che i fratelli suoi sono perfettamente bianchi, tanto bianchi almeno quanto lo può comportare questo clima. Il signor Lorenzi rappresenta una distrazione o un fenomeno di mimetismo ed è mussulmano.
I mori sono rappresentati alla Canea da un’intera tribù la quale fu trasportata qui dalla Cirenaica qualche secolo fa. Mantengono raramente il loro costume tradizionale, credo anche abbiano dimenticata la lingua madre; non hanno serbato intatto se non il colore, la petulanza e la fanatica intolleranza. Abitano un quartiere speciale della città, verso il mare e pare guardino continuamente in cagnesco. Accrescono l’infinita varietà dei tipi che passano per questa città singolare mezzo diroccata, mezzo incompiuta, mal selciata, percorsa da gendarmi e da marinai, da mussulmani e da preti greci dalla chioma soverchia; città dai mille aspetti incantevoli, mezzo estesa oltre la cinta veneta e mezzo aduggiantesi per vicoli e calli ed antri e suburre entro il giro delle grandi mura, fra le montagne altissime ed il terso mare.
L’Oriente le ha dato la sua impronta coi minareti, le terrazze, i pergolati, le case mute e le donne velate; col sole e col cielo!; ma l’Occidente l’ha creata. Vicino a una [133] casa turca sorge una casa veneziana; vicino alla mezzaluna il leone di San Marco domina tuttavia.
È mezzogiorno. L’aria è immobile, il sole ha un bagliore accecante: tutto il mare ne è acceso. Lungo la via che circonda il porto è una interminabile sequela di caffè che hanno distesi i loro tavoli all’aria aperta.
La gente taciturna sorbisce qualche bevanda e fuma. Non si odono che i borborismi dei narghilè e i gridi striduli delle cicale, gridi assordanti, ebbri di tanto sole.
Un grande vecchio dalla pancia rispettabile e dalle larghe brache pendule, si avanza appoggiandosi ad un ombrello. Ha una rotonda faccia giovialmente serena. A quando a quando si sofferma per far la sua grida. È un ebreo. Si chiama Yakò. È nello stesso tempo burattinaio, mediatore, banditore. La voce di lui si leva alta e chiara:
— Avrio to proi tsi deca i ora fevghi to vapori thia to..., ecc., ecc. (Domani mattina alle ore dieci parte il vapore per..., ecc., ecc.). Nessuno lo ascolta ed egli continua tranquillamente.
Simili a cetacei enormi rilucono lontano, sul mare, le corazzate gigantesche.
I politofilakes di Creta corrisponderebbero ad un di presso alle nostre guardie di pubblica sicurezza.
Magnifico corpo sul quale si può contare come su la famosa fede punica. I cretesi lo sanno, ma chiudono gli occhi, e perchè li chiudano non lo so io.
Disciplinati come le anatre, le quali hanno inventato primamente la fila indiana, ossequenti verso i loro superiori, corretti nella divisa e nei modi, danno un punto ai famosi policemen inglesi.
Li osservo da qualche giorno. Sono vestiti di tela gialla, [134] calzano un berretto a visiera e goffi stivali; passano a due, a tre, a quattro per volta (il numero poco importa), ridendo forte, dandosi di braccio, spassandosela allegramente.
Buoni amiconi, cuori d’oro!
Osservano i forestieri con curiosità infantile e si lasciano andare a commenti più o meno garbati; scherzano col pubblico, si accompagnano alle belle ragazze, e, quando il buon umore soverchia, si rincorrono.
Formano una compagnia istituita per dare un esempio di serenità agli uomini tetri.
Non sono chiamati mai a prestar man forte nei servizi di una certa importanza, perchè non si sa quale partito potrebbero prendere all’improvviso. Essi decidono per conto loro, e il comando di un capo può avere un certo valore se a questa bella società garba l’ubbidire.
Sono giovinetti imberbi e non rappresentano i migliori campioni della razza cretese.
A volte arrestano qualcuno e si abbandonano a piacevoli conversari con l’arrestato stesso; li vedete passare per la via in fraterna comunione, tanto che, fra i tre, non vi spiegate quale possa essere il malvivente.
Qui a Canea tutto ciò non desta stupore; ci si è abituati anche ai politofilakes.
Questa mattina ne ho osservati quattro che seguivano un uomo ubbriaco fradicio. Credevo volessero portarlo in domo petri, ma la mia ingenuità era troppo grande. Dovevo supporlo! I buoni giovinotti volevano divertirsi un poco alle spalle del malcapitato, niente più. E si sono divertiti come quattro monelli che abbiano saltata la scuola.
Nè si può biasimarli se la loro indole li porta a simili manifestazioni.
Essi costituiscono, in verità, la compagnia del buon umore.
[135]
Kanna è arabo di origine, ma è nato a Canea, ed ha adottato gli usi e i costumi di questo popolo antichissimo.
Come tipo è insignificante: grande, grosso, un viso da bestia e le mani enormi; ma come innamorato è originale e val la pena conoscerlo.
I palikari cioè i giovani arditi, gli elegantoni, i temerari allorchè l’amore li colga, usano dare alla loro amata una prova singolarissima della loro passione, una prova tale che obbliga la donna ad un affetto eterno. Diventano autofagi.
Un bel giorno, quando più li preme l’ansia d’amore corrono dalla loro donna, estraggono l’acuminato pugnale che portano sempre alla cintura, si tagliano da un braccio o da qualche altro luogo nel quale il muscolo sia più spesso, un pezzetto di carne, la infilano su la punta del pugnale, l’arrostiscono e la mangiano.
Un esperimento simile può accadere una volta forse nella vita di un uomo; Kanna non è un uomo comune, egli ha amato più di una volta, ragion per la quale si è mangiato mezzo.
Ad una mia domanda acconsente a mostrarmi le braccia; sono tutta una cicatrice; paiono irrigate da tanti fossatelli.
Gli chiedo quale sapore abbia la sua carne e mi risponde ridendo:
— Sa di porco!
— Come?
— Sì, assomiglia a quella del porco.
— Ed ora sei innamorato?
— No.
— E non hai intenzione di ricominciare?
[136]
— No, basta! Le donne non valgono neppure la cima di un’unghia.
Confessione preziosa per chi, come Kanna, ha consumato sè stesso per amor delle donne.
“Allah Acbar. Echhed en la ila ella Allah. Echhed en Mahammed Raçu Allah. Hai ala Elsalat. Haë ala Elfalah. Allah Acbar. La ila ella Allah.[6]„
Queste le parole che i muezzin, in tutti i paesi mussulmani, cantano dall’alto dei minareti cinque volte al giorno e cioè: all’aurora, a mezzogiorno, alle tre pomeridiane, al tramonto e due ore dopo.
Da secoli sono le stesse parole, la consuetudine è immutata, e cioè dal giorno in cui Abdallah, figlio di Zaid ebbe una pretesa rivelazione. Si era al primo anno dell’Egira (632 d. C.); Maometto, che si trovava allora a Medina, era incerto sul modo che avrebbe adottato per chiamare il popolo alla preghiera. Le trombe delle quali si servivano gli ebrei e la tempella che usavano i cristiani non lo soddisfacevano. Preferì la voce dell’uomo. Non gli mancava se non la formula che avrebbe adottata. Era incerto allorchè Abdallah gli propose la formula che disse essergli stata rivelata.
Maometto l’accettò e comandò a Belal, che era il suo banditore, di pronunziare ad alta voce tali parole nelle ore già fissate alla preghiera. E dal primo anno dell’Egira e cioè dal 632 dopo Cristo o, se più vi piace, seguendo lo storico arabo Abul-Feda, dal 6217 dalla caduta di Adamo, in tutti i paesi della terra nei quali si adora Allah, si cantano le parole di Abdallah, figlio di Zaid.
[137]
E fra tali cantori è una specie di gara. Le moschee cercano scegliere gli uomini dalla voce migliore perchè il pubblico dei fedeli li ascolti più volentieri.
Anche Allah, il violento Allah deve ricorrere a lenocinï per sedurre il suo popolo fanatico.
Quale è l’anima riposta di questo popolo? Quali ne sono le sfumature, le ebbrezze, gli abbandoni? Quale il pensiero che regge la loro vita? Tante volte mi sono rivolto tale domanda e ho atteso, ho interrogato, ho scrutato per sapere se oltre la scorza si celava qualche luce che mi sfuggisse, qualche vita misteriosa e dimenticata, qualche concezione nuova ed inattesa. E mi è parso, o mi inganno forte, che null’altro trasparisse dalle parole e dagli atti se non un profondo cinismo.
Orgogliosi anzi tronfii di un passato col quale non hanno niente a che fare, vani ed ignoranti in gran parte, presuntuosi fino al punto da credersi capaci di guidare il mondo, imbevuti nel pettegolezzo quotidiano di una politica parolaia della quale si compiace e si inebbria la loro superficialità, appariscono a tutta prima all’occhio dell’osservatore, in una luce antipatica, che una più lunga conoscenza può attenuare.
La colpa non è tutta loro. Il giorno in cui avranno maggior contatto col mondo esterno e con la grande onda di idee che agita l’età moderna, la loro psiche dovrà forzatamente modificarsi, e se ne attenueranno le asprezze e le manchevolezze pur rimanendo satura di quel cinismo che fu sempre una prerogativa della razza.
Per ora essi non hanno una vera e propria idealità altamente intesa. La stessa lotta per l’annessione alla Grecia si riduce e si immiserisce in una guerricciuola di parti, nel [138] prevalere di un uomo, in un giuoco di scaramucce. Il loro interesse è sempre in ballo. Ora a Canea vedono di buon occhio l’intervento delle Potenze, perchè la permanenza di otto navi nelle acque di Creta significa per i commercianti un’entrata quotidiana di parecchie migliaia di lire.
V’è chi dice, e sono i vecchi del luogo, che se domani avvenisse l’annessione alla Grecia la contentezza non sarebbe di lunga durata. Già gli ufficiali greci che hanno sostituito gli italiani nel comando della gendarmeria hanno destato frequenti malumori. Si dice manchino di camaraderie, siano prepotenti, intransigenti e villani.
Per quanto abbia accostato persone di ogni condizione, non una volta mi si è comunicato quel brivido di entusiasmo, quell’alata poesia che accende tutta quanta l’anima ed arde per gli occhi e trascina. L’idea pura, l’amore profondo per il quale fiorisce l’immagine della patria non l’ho conosciuto quaggiù. Forse esisterà nella massa, ma per quanto abbia fatto e mi sia indugiato cercando ridestarlo, non mi è balzato mai d’innanzi radioso e bello.
Mai! Un sorriso, un freddo acconsentimento, una parola glaciale furono le risposte e molto più spesso l’indifferenza.
Mi dicono che gli sfakioti, che gli abitanti dell’interno, siano differenti, e lo credo perchè conosco i loro eroismi. Qui, a Canea, il cinismo è legge.
Da Santi Quaranta in poi, e cioè dalle coste montuose dell’Albania fino a quest’isola controversa, inutilmente fertile, nella quale più abbondano i guerrieri che non gli agricoltori, l’aridità continua ininterrotta. Non una selva, mai. Le coste dei monti e le ampie vallate si succedono rocciose, squallide, deserte. Ardono sotto il sole, non conoscono freschezza di fonti, mormorii di polle o di ruscelli, gioiosi impeti di fiumi sonori. Non un’ombra, non un riposo; [139] sembra che la maledizione del deserto abbia inaridito ogni sorgente di vita, che la terra nel suo interminato squallore non possa alimentar seme, che tutto ciò sia condannato ad una morte lenta ed inevitabile.
Santi Quaranta è una rovina cinta tuttavia dalle antiche mura veneziane. Ai lati della strada carrozzabile che giunge da Jànina sorgono quindici o sedici case fetidissime, innominabilmente sporche, nelle quali si accumulano uomini, mosche, e generi alimentari. Tra queste case è un albergo, o meglio un han, come lo chiamano i turchi. Tale han, per definirlo con precisione concisa, è uno stallatico per uomini e cavalli. Ai cavalli è riservato il pianterreno, agli uomini il piano superiore; ma l’atmosfera è sempre la stessa. V’è in ciò una fraterna tolleranza encomiabile. La sala da pranzo, che è nello stesso tempo cucina ed osteria, occupa un angolo angusto ed è come la dipendenza della stalla. Oltre a ciò l’albergo non presenta cosa osservabile se ne togli i tipi diversi e turchi e greci e albanesi; questi ultimi specialmente, notabilissimi per i baffi che sembrano spade, per la fustanella, per le grandi scarpe rosse a forma di gondola. Su la soglia dell’han si adunano le diligenze che provengono dall’interno; vecchie carcasse sospese su ruote enormi, dondolanti come cune, arabescate d’oro e d’argento, cigolanti, pericolanti sotto il grave peso dei secoli. Poi muli, asini e cavalli ovunque ci si rivolga: al sole e all’ombra; uomini armati, casette dischiuse, donne coperte e scoperte, e il grande velo livellatore del sudiciume.
Tutto ciò si aduna in breve spazio; in quattro palmi di terra, fra ruderi e ortiche. Gli alberi sono rappresentati da qualche cipresso ombreggiante una piccolissima chiesa greca, e gettano un’ombra funebre su la terra deserta. Da questo punto fino all’isola dei rapsodi non ho incontrato una selva. L’Epiro e l’Attica non sono che un seguito di montagne brulle, aride che solo la bellezza del cielo e del [140] mare riveste di splendore. Al canale di Corinto, prima di entrare nella stretta fornace per la quale il piroscafo si attarda, rimorchiato a rilento, ricordo una pianura ondulata, che chiudeva intorno tutto il giro dell’orizzonte. Il sole meridiano vi ardeva incontrastato. Impeti di vento caldissimo, vere ondate di fiamma giungevano fin sul mare a mozzarci il respiro; a intorpidirci i sensi. E sotto tale canicola, per un sentiero appena tracciato fra i cardi secchi, i roveti e i crepacci della terra riarsa, alcuni contadini, in fustanella bianca, se ne venivano lentamente l’un dietro l’altro appoggiandosi a piccoli bastoni, la testa bassa, ricurvi come sotto pesi enormi. Quando giunsero alla chiatta che doveva trasportarli all’altra riva si abbandonarono disfatti, senza dir parola, congestionati in viso, la bocca socchiusa, gli occhi torbidi ed atoni. Nessuno li compianse. Essi stessi si erano preparati e venivano preparandosi tuttavia tale supplizio col distruggere metodicamente e gli alberi e gli arbusti e ogni vita vegetale che non apparisse più direttamente utile alla loro supina cecità. Essi avevano incendiato le selve e le macchie per dar pascolo ai loro montoni; neppure un arbusto si era salvato da tale furia devastatrice e la terra, che avevano voluto deserta, li ripagava giustamente.
A Creta, come nell’Attica, la poesia degli alberi è morta. Internandomi nell’isola ho potuto vedere di notte, su le coste dei monti, vasti fuochi accesi dai montanari a sopprimere la vegetazione che tenta riprendere il proprio dominio. Non si concede tregua. Non so se vi siano leggi che vietino tale insensato vandalismo, ma se anche vi fossero chi potrebbe metterle in pratica? I pastori si ribellerebbero, ed ogni pastore ha il suo fucile al quale affida le proprie ragioni. Essi non sanno forse che procacciano il loro danno, ma se anche lo sapessero muterebbero [141] forse? Ne dubito molto. La pastorizia è press’a poco un vagabondaggio quotidiano, un dolce far niente senza interruzione, e ciò conviene alla scarsissima attività di queste genti. Procedendo dal piano verso il monte ci si convince sempre più di tale verità fondamentale. La terra fertilissima che può dare fino a tre raccolti all’anno, rende per proprio conto. L’uomo se ne cura appena appena quel tanto che può essere necessario. Gli olivi secolari crescono enormi senza traccia di potatura, e così le viti. Veri e propri campi coltivati non ne esistono. Di tanto in tanto, senza regola e senza legge, qualche appezzamento di terreno è stato grattato da un aratro primordiale simile a quello che usano gli arabi e che usavano gli egiziani; un poco di sementa vi è stata sparsa, poi la terra si è incaricata del resto. Le erbe parassite possono crescere a loro agio fra i seminati, che nessuno si cura di estirparle. A tempo giusto si ritorna a raccogliere ciò che la dovizia di questa natura regala largamente, e non ci si occupa d’altro. Dormire, oziare, cantare, combattere, ecco ciò che desidera questo popolo. Forse l’influenza del clima dolcissimo e snervante lo spinge all’inerzia. Così si dice. Siamo alle soglie dell’Oriente.
Abbandonata Canea alle nostre spalle, dopo breve cammino, perdiamo ogni traccia di strada propriamente detta. Le strade carrozzabili in tutta l’isola si riducono a ben poca cosa; a qualche decina di chilometri e non più. Bisogna viaggiare a cavallo per vie mulattiere, che sono a volte assolutamente impraticabili.
Procediamo fra ulivi centenari dal tronco bipartito e tripartito; ritorti, sconvolti, mostruosamente vivi. Larghi cespi di mirto fiancheggiano il sentiero. Ogni rudero, ogni piccola casa è ricoperta da gelsomini in fiore. Cominciano [142] le tracce delle antiche lotte senza tregua. Enormi ulivi segati alla base, chiese sventrate, case delle quali non restano in piedi se non le quattro mura. Attraversiamo cumuli di mattoni e di calcinacci che nessuno si cura di rimuovere: erano case turche; passiamo vicino ad abitacoli malamente restaurati: sono case cristiane. Nei piccoli villaggi le tracce della lotta si fanno ancora più vive. Intiere strade non sono ridotte che ad una maceria; pare sia passata una furia distruggitrice a scuotere tutta questa miseria fin dalle sue fondamenta. Già parecchi anni sono trascorsi dalle ultime convulsioni rivoluzionarie, e sembra che le rovine datino dal giorno innanzi. La gente si è assuefatta a tale spettacolo: non lo osserva, oppure, se lo osserva, se ne compiace. Sarebbe pronta a ricominciare: nulla è mutato nell’animo suo, nè l’ardimento selvaggio, nè l’odio senza riposo. Di ciò ci si convince abbandonando la città nella quale e interessi e influenze e scetticismi hanno mutato molte cose. Ciò che è possibile nell’isola di Creta non è possibile che per il popolo delle campagne, saldo ne’ suoi vizi e nelle sue virtù.
Siamo in una piccola stanza disadorna, ma tutta bianca di calce e odorata di fiori. Dalle finestrelle senza parapetto si intravede, nella luce crepuscolare, una fila di cortilucci nei quali scivolano ombre di donne dalle lunghe trecce. Non un canto; qualche voce sommessa, qualche uggiolare di cani randagi e lo stridore delle cicale. In fondo è il mare. Si ode lo scarpicciare delle gente che passa. Una soave tranquillità di sonno si distende sul bianco nido degli uomini. Le donne si affaccendano al pianterreno per prepararci l’immancabile pasto destinato agli ospiti; frattanto, per la ventesima volta forse, ci offrono la mastika, che è [143] una specie di acquavite dal gusto assai discutibile. Durante il viaggio, che continua da dodici ore, ci avranno costretti a mangiare non meno di dodici volte, e dico costretti perchè la cortesia dei cretesi è permalosa e guai a rifiutarsi. Conviene assaggiare mille cose e prendersi un’allegra indigestione per onorare l’ospitalità. Ad ogni sosta era capretto bollito e capretto arrostito che veniva in tavola, poi ulive secche, formaggi, uova, latte, cocomeri, cetrioli e mille altre diavolerie da rimpinzare un eroe omerico. Trascorso mezzogiorno abbiamo cercato di evitare i villaggi, ma la sorte non ci ha favorito. Ci spiavano da lontano; ci attendevano all’agguato e quando, dopo averci offerta una bibita al caffè del paese, si assentavano pregandoci di attendere, ci si guardava negli occhi allibendo: il supplizio ricominciava, conveniva mangiare di nuovo.
Ora preferiremmo rimanercene quieti nel nostro riposo un po’ torpido, ma non lo possiamo. Le donne, che non siedono mai alla tavola comune, sogguardano in disparte: le mani intrecciate e il volto sorridente. La notte è discesa, giungono gli amici dell’ospite a stringerci la mano, la stanza si riempie di giganti dalle lunghe barbe. Li osservo; paiono tanti corsari saraceni, e dei corsari indossano tuttavia il caratteristico costume: le larghe brache, gli stivali, un panciotto e un corsaletto ricamati. Sui capelli foltissimi portano qualche volta una specie di berretto frigio, ma più sovente un fazzoletto nero annodato intorno alla fronte. Innestate nella larga fascia che stringono alla cintola fanno capolino pistole e pugnali. Tanto i giovani quanto i vecchi hanno un segno di vigoria indomita nel profondo arco cigliare e nel lampo delle pupille accese. Parlano rado, senza gridare, senza gestire, gravi come tanti sacerdoti.
L’ospite nostro ce li presenta ad uno ad uno. Quasi tutti, meno i giovanissimi, hanno partecipato a qualche rivolta, hanno capitanato qualche banda di insorti. Il più vecchio: [144] barba Sifi, dalla fronte attraversata da una larga cicatrice, compì gesta eroiche ed è circondato da una muta venerazione. Quando parla barba Sifi tutti ascoltano riverenti e nessuno osa interloquire. Ma barba Sifi beve e beve a lunghi sorsi, levando il capo beatissimamente. Ha una faccia grande e rosseggiante, animata dagli occhi nerissimi. Per dieci volte grida: evviva! e vuota forse dieci bicchieri se non più, poi mentre gli altri parlucchiano, appoggia un gomito su la tavola, la fronte su la mano aperta e si concentra. I più lontani ammican fra di loro; alcune giovinette sono apparse su la terrazza; le voci si fanno sempre più sommesse, finchè, quando Sifi leva la faccia trasfigurata, tutti tacciono raccolti. Ad un tratto il gran vecchio si volge e grida:
— Diamarta!
Una giovinetta agile, sottile, diritta come una canna di Vrises, la bella fonte, esce dall’ombra della terrazza e si avvicina. Il volto severo, di un pallido bruno, è animato da due grand’occhi dolcemente austeri. La fronte, fra l’onda dei capelli rosso rame e le esilissime ciglia, ha l’antica soavità delle iddie prassiteliche.
Senza nulla chiedere Diamarta toglie da un angolo la lira (un istrumento a corde che serba il nome dell’antica lira se non la forma), la porge al padre, poi si rivolge, rientra nell’ombra senza aver levato gli occhi su gli astanti. Su le sue spalle ondeggiano i capelli raccolti in una lunga treccia. Trascorre un breve silenzio. Tutti si protendono verso il vecchio settantenne. Qualcuno mi sussurra:
— Ora canterà i giorni della rivoluzione!
Un accordo grave rompe il silenzio, poi un secondo, un terzo in una continuità dolcemente monotona. Sifi ha levata la fronte, guarda in alto, verso un punto incerto, segue il volo delle memorie attendendo il gioioso prorompere della sua esaltazione; poi comincia adagio e la [145] voce trema e gli astanti impallidiscono sogguardando. Ma il tono si fa sempre più forte, la voce sempre più alta e secura, e i distici succedono ai distici in una improvvisazione che non si stanca, in una gioia impetuosamente grande, in un respiro largo e possente di sole, di cieli, di forza battagliera, di vita e di morte. Tutto si trasfigura per la voce del rapsodo, tutto si amplifica nobilitandosi. Il tumulto di un’anima si comunica a cento a mille anime; non si ascolta, si vive di una stessa vita; non si approva, ci si leva, ebbri di una sola ebbrezza.
Quando Sifi tace è un urlo che conchiude il suo canto, poi nessuno più dice parola. Diamarta si accosta ancora e gli occhi di lei scintillano di pianto.
E non è un solo rapsodo in quest’isola dall’anima antichissima, ma cento. Sono vecchi che hanno sfidata la morte, che hanno condotti manipoli ardimentosi all’assalto; vanno di villaggio in villaggio e si fermano alle capanne disperse, ascoltati da tutti. Cantano le antiche rivolte e le nuove; esaltano la libertà e la fierezza nel nome del loro Iddio. E nel nome del loro Iddio e della libertà sono poeti. Il popolo li ascolta e li inchina. Una grande ombra li segue: la morte; un’ombra più grande ancora li illumina e li irradia: l’epopea.
Tutto è finito fra l’indifferenza comune. All’imboccatura del porto non sventola più alcuna bandiera, le corazzate sono partite per Suda, il Governo locale ha promesso la calma e la calma, per adesso, esiste. E quale calma! È un vero torpore quotidiano; una monotonia senza fine uguale. Si sa benissimo che si tratta di cosa effimera, che il problema è tuttavia insoluto, ma durante la tregua si sonnecchia nella più compiuta indifferenza.
Alla chetichella le grandi navi sono scomparse ad una [146] a due per volta; la gendarmeria cretese ha sostituito i marinai su le vecchie fortificazioni veneziane, ma ciò non ha destato nè entusiasmo nè curiosità. Si attende il domani.
Ieri a Retimo, un greco ha ucciso un turco, ma anche tale notizia, che si è sparsa rapidamente in città, non ha commosso troppo gli animi. Ciò mi ricorda i tempi classici di Cesena allorquando un socialista uccideva un repubblicano o viceversa, e ci si era assuefatti ormai a tale triste vicenda. I turchi continuano la loro vita tranquilla ed appartata, avendo scarsissimo contatto coi greci; i greci non sono meno tranquilli (almeno a Canea) e sdegnano la compagnia dei turchi. Tale, in massima, è la verità. Ciò non preconizza certamente un’armonia stabile e duratura. Ma le cose si trascinano così da anni ed anni e possono continuare immutate fino a che non si ritorni da capo. Ritornare da capo è la meta del domani. D’altra parte, data l’assoluta impossibilità di una vita autonoma, non rimane ai cretesi altra via d’uscita. Frattanto il torpore dell’estate concilia il riposo ed il sonno.
Ho già conosciuto perfettamente tutti i frequentatori delle banchine del porto e della piazza Montenegro; sono sempre gli stessi, sempre negli identici atteggiamenti e con la stessa aria di gente che si annoia a morirne. Se non fanno gorgogliare gli enormi narghilè, fanno passare fra le dita i grani del komboloi, che è una coroncina, molto spesso di ambre, la quale non serve ad altro che a contare il tempo per convincersi che non è moneta.
Sorbiscono enormi bicchieri d’acqua, guardano il cielo, guardano il mare, osservano, parlucchiano. Ed ogni caffè ha una montagna di sedie a loro disposizione.
Ci si può sedere quando si voglia, e se il cameriere si avvicina gli si grida:
[147]
— Tìpota! (Niente).
Ed egli se ne torna come è venuto. Che se poi si voglia consumare qualcosa si può ordinare signorilmente:
— Mikrè, ena krio nerò! (Cameriere, un bicchier d’acqua fresca!)
E, sopra un bel vassoio, vi è servito un bicchiere che conterrà mezzo litro d’acqua; voi lo sorbite facendo la vostra siesta, che può continuare fino a sera, poi ve ne andate senza avere sborsato un soldo e il mikrè si guarderà bene dal serbarvi rancore, perchè tale è la consuetudine comune....
Del resto, nelle mie continue peregrinazioni per il mondo, non ho trovato mai i caffè tanto a buon mercato quanto a Creta. In primo luogo non esiste qui la consuetudine delle mance, e non per questo i camerieri sono meno premurosi; in secondo luogo le bibite più care non costano che quattro soldi, ma i prezzi normali variano da uno a due soldi. Per un soldo potete avere un buon caffè oppure un bicchierino di mastika accompagnato da una manciata di olive secche, da un piattellino di ceci abbrustoliti, da un po’ di formaggio, da un pezzetto di pane e da un pomodoro. Poi la sedia, il cielo, il mare e la vista dei passanti. Che più? In questo soldo è compendiata tutta una vita. Ci si accontenta, ed io ammiro chi apprezza il proprio destino e lo accetta tal quale e aspetta che giunga l’ora sua buona, tranquillamente, facendo girare fra le dita i grani del komboloi.
Lungo la banchina c’è un caffè turco e quattro o cinque caffè greci; sono gremiti dalla mattina alla sera. Le sedie per i poveri sono disposte in fila lungo il mare, e i poveri vi siedono e dormono o si guardano i piedi per ore ed ore. È una contemplazione pensosa che non so precisamente a che cosa riesca; ma forse non riesce più in là del sonno.
Si odono le grida del mikrè:
[148]
— Ena pagotò! (Un gelato!)
— Ena mastika! (Una mastika!)
Le barche deserte dondolano lentamente al sole su l’acqua torbida del porto. Passano vere torme di cani randagi che vanno annusando ogni immondizia famelicamente o vi guardano dal sotto in su quasi vi chiedessero se avete altrettanta fame quanto ne hanno loro. I gatti innamorati urlano su le finestre e dentro le botteghe chiuse.
Seduta su lo scalino di una porta c’è una vecchia nera tutta avvolta nella milàia (così si chiama la veste particolare alle mussulmane di Creta). Ha un viso scimmiescamente inespressivo. Attizza un suo braciere sul quale viene cuocendo del formentone immaturo. Poco più lontano un uomo scalzo, dagli enormi baffi rossi, grida infaticabilmente le lodi delle sue frutta:
— Sicàia, staffilàia, carpusàia! Èmata, èmata, èmata! (Fichi, uva, cocomeri! Color sangue!)
Un venditore di halluf, un dolce turco seminato di mandorle, passa senza offrire la propria mercanzia. Si ferma a parlare con un tipo strano che porta sul capo un berretto cilindrico lungo non meno di mezzo metro. È un monaco del convento dei dervisci urlanti.
Alcune galline contendono ai cani le ricchezze dei selciati. Fa caldo, fa afa.
Ab-Eddìn, l’unico cameriere sospinto da una eterna fretta, nonostante le sue larghe brache, grida verso l’interno del caffè:
— Glìgora, glìgora! (Presto, presto!)
Ma la sua fretta nasce e muore in lui; non si comunica alla sonnolenta indifferenza dell’ambiente. Ab-Eddìn non si scoraggisce per questo: in maniche di camicia, un cencio sotto al braccio, un pezzetto di gesso infilato dietro a un orecchio, trotta da un tavolo all’altro e scaccia le mosche e pulisce e ripulisce e si affanna e, quando altro [149] non può fare, serve acqua fresca a tutti, a chi ne vuole e a chi non ne vuole, così, per vezzo, perchè è innamorato del proprio mestiere Ab-Eddìn dai piccoli occhi gaiamente infantili.
Una barca dalle vele bianche si allontana sul magnifico mare. Dal minareto della moschea giunge il canto gargarizzante del muezzìn:
— Allah Acbar....
Ballonzolando in vettura per una strada inverosimile, data la sonnolenza di Canea, mi faccio condurre a Suda; ma anche Suda dorme. Nella magnifica baia circondata dai monti sono ancorate le navi da guerra. La solita gente ai numerosi caffè. Alì, il vetturino nero, mi chiede, veduta la mia perplessità:
— Andiamo a Kalyves?
— Andiamo — rispondo.
E si parte. Kalyves è un villaggio situato all’entrata della baia di Suda, e a Kalyves vive, quasi a guardia della baia stessa o kapetanios Blum, il capitano Blum! Il nome è già una divisa.
Giungiamo al piccolo villaggio mezzo ruinato. Non abbiamo veduto che monti aridi e capre fameliche, ma lo splendore del mare ha vinto la povertà del monte. Poi hanno fatto capolino, ai lati della strada, le piccole case a terrazza, tutte bianche, con appese agli architravi delle porte le ghirlandette, appassite ormai, che vi furon lasciate dai giovani al nascer di maggio, per amore e per augurio, e Kalyves è apparso.
Ne uscivano, quando entravamo noi, alcuni villani recanti in città il miele contenuto in certi loro otri ampissimi. Ne avevano caricato quattro asinelli. Si sono allontanati sotto il sole fra le mosche e la polvere.
[150]
Ed eccoci giunti alla piazza del paese. Un immenso platano ne occupa il centro, al quale platano sono appesi gli avvisi del Comune. Stanno, intorno, alcune casette, un mulino e un fiumicello attraversato da un antico ponte. Le finestre sono adorne di fiori e le terrazze scompaiono sotto i grandi pergolati.
Mi siedo al caffè e attendo pazientemente qualcosa di insolito che mi scuota e ravvivi lo spirito mio.
Qualcuno mi parla di lui:
— Venite. È bene conoscerlo. È un uomo straordinario.
Non cerco di meglio. Si attraversa il ponticello e ci si presenta su la soglia di una bottega.
— C’è? — chiede chi mi accompagna ad un giovinetto fermo dietro il banco.
— Sì — risponde l’interloquito.
— Chiamalo. Presto!
Qualche minuto di attesa, poi si ode un passo cadenzato e, di repente, una lunga ombra si disegna nel vano di un’altra porta che immette in un giardino.
Eccolo. È lui!
Due alti stivali, un paio di calzoni da soldato, una fascia rossa alla cintura, dalla quale fascia occhieggia un pugnale; poi una maglia grigia: ecco il capitano Blum. Quando si presenta ha fra le mani una maschera di fil di ferro simile a quelle che usiamo noi nelle sale di scherma. Suppongo stesse esercitandosi in giardino contro qualche avversario che non si presenta, ma il capitano Blum si affretta a dissipare il mio dubbio. Con un sorriso ne’ suoi grandi occhi chiari mi dice:
— Cercavo un’ape!
— Un’ape?
— Sì. Con loro permesso.... torno subito. Siedano, siedano!
[151]
E scompare di bel nuovo senza ch’io riesca a spiegarmi la ragione di tale sua nuovissima ricerca! Dopo pochi minuti si ripresenta. L’osservo meglio. È lungo due buoni metri e magrissimo; le braccia e le gambe non finiscono mai. Sul collo nudo e sottile le grosse vene si inturgidiscono ad ogni piccolo moto. Da sotto la maglia, le scapole, le clavicole, le costole, ogni squisita particolarità dello scheletro, si addimostra in perfetto rilievo. Il lungo collo è terminato da una piccola testa rotondeggiante, compiutamente rasa e adorna da un pizzo mefistofelico e da due lunghi baffi orizzontali. È di pelo bianco. Le guancie incavate dànno maggior rilievo e solennità al pizzo triangolare. Ha gli occhi grandi e chiari or sorridenti, or fieri, ora ammiccanti nei frequenti sottintesi erotici ed eroici. Siede alla tavola con noi.
— Il signore è italiano? — chiede sorridendo.
— Sì.
— Io ho un certificato di Canevaro.
— Un certificato? E di che si tratta?
— Si tratta della mia opera di combattente.
Si rivolge, dà un ordine ad un ragazzo e il ragazzo si allontana, ma non ritorna più.
Vogliamo farlo parlare, ma non è necessaria troppa insistenza per deciderlo a ciò.
Portano il vino, portano la mastika, ci preparano una piccola refezione, poichè la bottega del capitano Blum è anche trattoria. Molte volte l’ospite nostro deve interrompere il racconto per dare ordini in cucina, dove la sua grossa moglie sbraita; ma tali piccole miserie non tolgono serenità allo spirito suo eroico.
A poco a poco la parlantina gli si snoda. Si spiega in un suo italiano semibarbaro commisto di greco e di francese. Ci racconta come nel ’66 fosse con Garibaldi ch’egli chiama molto semplicemente “il vecchio Giuseppe„. Fu a [152] Pisa e non so perchè; fu a Roma e a Torino, e ancora il perchè di tale spedizione mi riesce oscuro. Ad un tratto s’interrompe per soggiungere:
— Gli volevo tanto bene! È stato il mio maestro!
E guarda il mare e si passa la mano anchilosata su la piccola testa glabra.
— E i turchi? — gli chiedo all’improvviso.
Egli si volge di scatto. Vedo sul suo viso succedersi varie smorfie.
— I turchi?... Pff!... — E traccia un gran gesto nell’aria.
— Nel 1867 — riprende — ho dato loro una buona lezione. La ricorderanno per un pezzo. Avevo il mio manipolo: eravamo duecento cinquanta contro duemila. Ci eravamo accampati a Vrises, alle fontane. Combattemmo da cani. Il giorno dopo, dei duemila turchi non ne erano vivi che trecento. Li avevamo bloccati. Chiesero di venire a patti. Bè, veniamo a patti. Ci lasciarono ottanta uomini come ostaggio e partirono disarmati. Viene la notte. Io dico ai miei uomini: — Che cosa ne facciamo di questa gente? — Che cosa ne facciamo? — Non si poteva dormire insieme, è vero? Erano disperati; potevano farmi uno scherzo. Bè! — pensai — Accorciamo la loro pelle!
— E li uccideste?
— Tutti! — risponde trinciando l’aria. E gli occhi gli si allargano. Ad ogni parola grande, gli occhi doventavan più larghi.
— Bè! — conchiude e per la seconda volta guarda il mare oltre le sue case. Possiede due case fra un monte di rovine che rappresentano gli avanzi di una piccola moschea. C’era la rivoluzione, tutto andava a soqquadro. Un uomo come lui non poteva rimanere inattivo. Si scagliò su la moschea e la distrusse. Non restò pietra su pietra. Poi, che fare? Il terreno non era più dei turchi, era una res nullius [153] ed egli vi riconobbe il proprio diritto tanto più forte quanta maggior fatica gli era costata la demolizione. Nessuno lo disturbò, nè egli lo avrebbe permesso.
— Ho combattuto, ho vinto, sono in casa mia!
Allora, oltre i due coltellacci, portava uno jatagan, che ora è appeso in cucina, sopra il banco della vendita. Così si era stabilito su la terra di Maometto.
I turchi lo conoscevano bene e lo avrebbero fatto ricco s’egli avesse voluto sposare la loro causa; ma Blum non tradiva, Blum si vendicava terribilmente.
Una volta era possessore di due barchette, due barchette belle che gli servivano per andarsene pescando lungo le coste. Una mattina si leva, scende sulla spiaggia, guarda intorno, guarda più lontano, guarda sul mare, ma nulla vede; le barchette non c’erano più. I turchi le avevano rubate.
Scuote il capo, non fa parola, si arma di un fucile e di una grande scure e parte. Parte in guerra contro gli ulivi. In pochi giorni ben quattordici mila ulivi fra i più saldi cadono rasi al suolo per mano sua. Erano ulivi turchi. Non contento di ciò rende nota ai proprietari la sua impresa e impone loro di rendergli nel termine di ventiquattro ore le barche se vogliono aver salve le case e le vite. E le due barche gli furono rese. Per la magnificenza della persona e per le singolari imprese piene di impetuoso ardimento non vi era donna che non morisse d’amore per lui, e di ciò grandemente si compiace l’eroe ammiccando, mentre la sua casta moglie, la buona Zacarenia dalle larghe spalle, lo guarda melanconicamente da dietro il banco sul quale troneggiano, infilate in una bottiglia, due lunghe penne di pavone.
E parla e parla offrendoci le vivande, affettando il pane co’ suoi coltellacci anneriti dal lungo uso domestico. Si fa sera, la trattoria si anima, giungono gli avventori e il buon [154] capitano deve interrompersi cento volte per correre da un tavolo all’altro.
Ci racconta le sue tristezze. Non è contento della patria. Poi che Creta ebbe ottenuta l’autonomia egli non si ebbe altro incarico se non quello di guardia carceraria. E come se ciò non bastasse, una volta dovette sorbirsi ventisette giorni di prigione, perchè ricercando un prigioniero evaso, aveva telegrafato di sua iniziativa al questore di Cefalonia firmandosi: Capitano Blum, comandante della gendarmeria cretese.
Un bel giorno piantò in asso ogni incarico e ritornò alla sua cara libertà attendendo gli eventi. Ora affila le armi in silenzio, le affila per i suoi usi domestici, ma anche perchè ai turchi non venga la disgraziata voglia di ritornare. E grida e corre in cucina e ne ritorna con grandi vassoi ricolmi che deposita ai singoli tavoli.
— Kalispera! (Buona sera).
— Kalispera!
Non si sofferma, disdegna i suoi umili avventori, corre da noi ad ogni intervallo e ricomincia il racconto.
— Una volta c’erano cinquemila turchi, erano accampati ad Armenus, io non avevo che il mio jatagan....
Dai tavoli lo chiamano, dalla cucina lo chiamano. Egli si volge urlando, poi si arresta, lungo, sparuto, affilato come una lama di rasoio. Guarda l’immenso orizzonte marino; tace.
— Che vedete, capitano?
Non risponde. Tutto a punte come il suo bel pizzo spavaldo, affissa i grandi occhi lontano.
— Ha scoperto la flotta turca! — grida un avventore. Blum tace tuttavia. Nulla ha scoperto: attende. Attende dalla penisola iberica il suo grande fratello. Ecco già lo vede fiero e solenne, la lancia in resta, chino sul collo di Ronzinante; già lo sente lanciato nell’impeto irresistibile, alto cavalcando sul mare.
[155]
Poco distante da Canea sorge una fattoria che serba il nome antico di Peleka pina (lavora ed abbi fame). È un ricordo della dominazione mussulmana. I greci erano costretti a lavorare le terre come servi della gleba, avendone in compenso bastonate e peggio. Di simili ricordi è ricca tutta l’isola di Creta. La piaga è viva tuttavia e assolutamente insanabile. Se vi è un sentimento nel quale convergano tutti i cretesi senza distinzione è l’odio che portano ai turchi. Anche se la Turchia spendesse milioni per rabbonir gli animi non riuscirebbe ad essere popolare nell’isola. È un odio antico ed immutabile, nato nei secoli per le infinite sofferenze patite, ed è santo quanto l’amore e il dolore.
Passeggiando questa sera verso Butsumaria, che era un’antica fattoria veneziana convertita poi in luogo di villeggiatura da Mustafà Pascià (ora è tutta diroccata chè così la ridussero gli insorti), e conversando con un vecchio contadino ho imparato alcune credenze popolari che mi sembrano insolite. Eccole:
A sera, camminando per le vie deserte della campagna è ritenuta grande fortuna quella di imbattersi in un cane nero.
Gli spiriti maligni non potranno sorgere su la vostra strada e impedirvi il cammino.
E ancora, per salvarsi dall’influenza di tali spiriti i cretesi portano un pugnale dal manico nero.
Ed ecco uno scongiuro d’amore detto thesimo. Si pratica tuttavia nei villaggi dell’interno.
Quando due giovani sono innamorati della stessa donna, colui che ha minor fortuna e vuole riuscire al proprio intento [156] aspetta che la luna sia in quintadecima; allora, a mezzanotte precisa, prende una gallina nera, si ferma ad un bivio e uccide la bestia con un pugnale dal manico nero. Prende poi una manciata di polvere, la intride col sangue della vittima e ne fa una specie di pasta che depone su la soglia dell’innamorata. Se questa, uscendo di casa, scavalca la pasta fatata, è presa dall’incanto e non può amare se non colui che era per lo innanzi il deriso.
Però l’infelice può liberarsi da tale fascino nel modo che segue. Ella ruba al nuovo innamorato il cordone delle brache, lo introduce nella canna di un fucile e spara.
Lo scongiuro è infallibile.
Così mi ha assicurato in perfetta buona fede il mio grande compagno dalla folta barba ricciuta. Un sereno tipo di Giove dalla fronte diritta.
Passavamo, a cavallo, fra cespi di gelsomino e di mirto, fra gli enormi ulivi secolari e gli eucalipti e le agavi e i gelsi giganteschi. Ogni casa era una rovina e dietro le macerie sorgevano i nuovi tuguri abitati dai contadini.
Le tracce della lotta furiosa, senza quartiere, abbondavano ad ogni passo.
Andavamo alla montagna della fonte lungo sentieri quasi impraticabili. Fanciulli e fanciulle uscivano dalle catapecchie a offrirci grandi mazzi di basilico. Su ogni ramo cantava una cicala. Dalle brulle montagne e dalle vallate occulte si elevavano immense nubi di fumo.
Sono in un villaggio remoto, nell’interno dell’isola, fra le montagne. Per giungervi abbiamo cavalcato due giornate fra alte pareti di granito e precipizi, nel silenzio.
Il villaggio e come tutti gli altri semisventrato, miserevole. Sediamo sotto ad un platano presso a una fonte.
[157]
Vicino a noi, attorno a un tavolo, sono raccolti gli anziani del paese: il sindaco e cinque o sei uomini dai cinquanta ai settanta anni. Vestono il loro costume tradizionale.
Hanno l’aria tranquilla e beata; parlano pacatamente; mi paiono vecchie conoscenze.
Ecco mastro Mikali. È un bel vecchio dal viso rubizzo, dalle spalle quadre. Sorride volentieri sorseggiando la mastika.
Racconta di una gran festa che fecero nel 1872. Ammazzarono sette montoni e non so più quanti polli e quante pernici, di cui l’isola abbonda. Sgombrarono due botti di vino. Sedettero a tavola a mezzogiorno per levarsi a mezzanotte.
— Erano bei tempi quelli! — soggiunge mastro Mikali. — Ci saremmo mangiati un bue e lo avremmo digerito come un boccon di pane.
Si ode lo stormire del platano.
Nella fonte, fra le canne e i ligustri della riva, navigano diguazzando alcuni anatroccoli.
Il vento porta un profumo inebbriante di gelsomini. Sui monti più lontani si leva una gloria di bianchissime nubi.
Il sindaco fuma il narghilè, pensosamente, le braccia incrociate. Parla di rado, sorride e consente. Siccome, data la sua carica, ci terrebbe a parlare il greco puro, e non sa parlarlo, si limita ai monosillabi.
Barba Sifi (lo zio Giuseppe) rievoca il ricordo di un altro festino molto più grande, perchè furono uccisi quindici montoni e si consumarono quattro botti di vino.
— Dovemmo restar seduti più di cinque ore — dice ridendo — tanto eravamo ingozzati; ma si smaltì tutto. Ce ne fosse stato del ben di Dio per quanta fame avevamo.
— Però Mikali ne ammalò — soggiunge un vecchietto pallido seduto in disparte.
— Mi ammalai di testa e non di stomaco! — risponde [158] Mikali. — Tu piuttosto dovresti pensare a ber del buon vino; non vedi che ti tremano le guance?
I compagni ridono, il vecchietto scuote il capo.
Il dialogo continua tranquillo su lo stesso argomento.
Un giovinetto mi si accosta e mi offre una corba di frutta. Faccio per pagarlo ed egli rifiuta sdegnosamente e mi dice:
— Prendi, non voglio niente. Può darsi che anch’io, un giorno, venga nell’isola tua: allora mi renderai ciò che ti ho dato.
Una bimba selvaggia, dai capelli disciolti, seminuda, è ferma vicino ad una cascatella lucente. Intorno le pascola un gregge di pecore bianche.
Su le porte, su quasi tutte le porte, sopra all’architrave è appesa una ghirlandella ben contesta. Ora è disseccata.
È un ricordo della prima alba di maggio. Allora i giovani giunsero cantando ad appendere l’augurio su le porte del loro amore.
Passano cani, cavalli e muli, cinto il collo da collane azzurre. Nulla è più strano e più ridevole. Un vecchio asino dalle orecchie pendule, dalle gambe piegate, recante un vezzo azzurro sopra i guidaleschi, mi ricorda una vecchia signora nordica che si era vestita di rosa pallido fra trine e falpalà e si pensava ammirata.
So bene che l’associazione di immagini è irriverente, ma non l’ho provocata ad arte.
L’orecchiuta bestia che ebbe pure il vanto, allorchè discendeva lungo l’Eufrate, con la gaia vendemmia, dall’Armenia [159] a Babilonia, di dare origine ad un demone dolce e impuro, Bel-Phegòr[7], è giusto non abbia il senso del ridicolo, ma per quale singolarità nei popoli nordici tale senso è sì scarsamente diffuso?
L’ho conosciuto per caso, sta sempre su la soglia del suo negozio, il fez di traverso. Anche il signor Mehemed ha sul volto ambiguo le caratteristiche della sua razza, solo vi si aggiunge una specie di vacuità dolcemente insensata. È molle; ha la molle imbecillità degli uomini lussuriosi. Il volto biancastro, gli occhi sporgenti, dalla sclerotica cosparsa di venoline rosse, il grosso labbro inferiore pendente, le guance floscie e ricadenti a borsa mi significano subito l’essere suo.
Tardo nel dire, più tardo nel comprendere, senza anima, senza scatti, senza entusiasmi, pare una cosa vuota, una povera cosa ridotta ad un esercizio meccanico.
L’altra sera, con la cortesia degli uomini tardi, volle per forza ch’io lo seguissi; doveva mostrarmi la sua casa, voleva farmi assaggiare la sua birra.
Andammo. La casa sorgeva in fondo a un vicoletto fra gli orti. Era deserta. Mehemed bey mi precedette per avvertir le donne che si nascondessero, e quando giunsi non udii che un fruscìo di rapidi passi su la ghiaia del giardino, ma nulla distinsi.
Sedemmo in una veranda coperta da un pergolato.
Dietro gli alberi neri sorgeva la luna rossa.
Una vecchia ci servì birra e cacio, cocomero e olive, [160] carne secca e carne arrostita in pezzetti minuscoli e.... si bevve! La conversazione era penosa, ma come intenderci? Fra il francese, l’inglese e l’italiano il buon uomo aveva fatto tale confusione babelica da sbalordire.
— Drink! drink, my dear!... Kalò kalò!...
— Non bevo, sono astemio.
— Buvete buvete, c’est de la bierra et.... par consequence!
Il “par consequence„ era la conclusione di tutti i suoi discorsi e se il senso non correva tanto peggio per il senso.
— Debbo andarmene....
— Oki oki! Il faut stop et.... par consequence!...
— Ma mi aspettano!
— Mi aspettano, ne ne, mi aspettano et.... par consequence!...
Lo guardavo negli occhi ed egli rideva. Che bello spasso!... E per altri dieci minuti si restava l’uno di fronte all’altro senza dir parola.
Finalmente fra una interminabile fila di par consequence gli sfuggii.
Mehemed bey è un buon ragazzo ed ama svisceratamente la Turchia.
Oggi ho veduto sfilare fra i celebri politofilakes, otto uomini ammanettati.
Hanno percorso fra l’indifferenza comune il quai per tutta la sua lunghezza: solo innanzi ad un caffè al quale sedevano dei giovani cretesi qualcuno ha gridato togliendosi il cappello:
— Addio, patrioti!
E i malviventi hanno riso ed hanno riso i politofilakes che li accompagnavano.
[161]
Prodoti è un vecchio cencioso che vive per le vie di Canea. Indossa l’antico costume saraceno comune a tutti; ha le gambe nude e le scarpe rotte. Sui lunghi capelli bianchi e ricciuti calza una vecchia paglietta di colore incerto. Ha gli occhi azzurri e un bel viso largo da profeta. Lo chiamano a scherno Prodoti, il traditore. E il buon vecchio a quando a quando si sofferma, si accende di sdegno, urla improperi e decanta il suo amore per la patria.
Dicono in realtà che, a’ suoi tempi belli, egli fosse uno fra i tanti capitani di ventura i quali, adunato un manipolo di valorosi, muovevano la guerriglia ai turchi. Non ho potuto appurare a fonti sicure il suo passato, ma Prodoti, quando si infuria, sostiene di avere speso 20.000 piastre per la santa causa e di avere ucciso da solo, nel 1866, ben venti turchi.
Il popolo ride; Prodoti impallidisce e se ne va. Non possiede un soldo e molte volte non mangia. Quando la fame lo ha condotto all’esasperazione, verso sera si dirige alla punta occidentale del molo dove sorge il caffè dei ricchi e comincia a girare fra i tavolini, la testa inchina e le mani annodate dietro le reni, e parla concitato e impreca ai conterranei suoi che non riconoscono il valore del suo sacrificio.
La scena continua finchè un cameriere non lo scaccia o qualcuno non gli dona un soldo.
Porta sempre seco il libro dei Profeti, sul quale maledice coloro che lo chiamano traditore.
Nuriè è una giovinetta turca che ho conosciuta a Rethimo. A tredici anni fu venduta al turpe mercato della strada; ora ha dieciotto anni.
[162]
Ha la pallida e calda bellezza delle donne turche, le quali poco vivono al sole, che pure dà agli occhi loro una fosforescenza viva e alla pelle un dolce tono dorato.
I capelli spessi e ricciuti, ribelli ad ogni acconciatura, nerissimi, le formano attorno ai capo un’aureola selvaggia.
Nuriè, come le compagne sue: Azidiè, Fatima, è la vittima inconscia contro la quale si sfoga l’odio dei greci per la razza turca.
Essa deve sottostare ad ogni vituperio, ed ogni vituperio è ritenuto giusto perchè è nata di un altro sangue.
Contuttociò serba, per la sua età giovanile, una freschezza di fiore.
Tutte le sere, per ritornare al mio albergo, debbo passare innanzi alla sua soglia e la vedo ferma sul limitare, i capelli cosparsi di gelsomini.
Ieri a sera la sua lanterna rossa era spenta.
La strada di lei dalle piccole case in legno piene di verande e di terrazze e di pergolati, si illumina a notte di lanterne rosse; ogni soglia ha la sua lanterna fioca: un occhio e un cuore nell’oscurità, un invito a chi è solo, a chi cerca un asilo e una creatura. Ieri a sera Nuriè non era su la soglia.
Non chiesi di lei; andai pel mio cammino. Fra noi non c’era stato che un silenzio, nulla più.
Oggi sul piroscafo che mi conduce a Candia e a Smirne, mentre ero solo sul ponte deserto e guardavo sotto le stelle il lontano profilo del monte Ida, ho veduto una donna ammantata accostarmisi.
Si è soffermata ad un passo, ha sollevato il velo ed è apparso il volto pallido e dolce di Nuriè.
— Vado a Candia — ha sussurrato. — Ti ho veduto. Volevo dirti addio.
Non so che cosa le abbia risposto.
[163]
Quando è ripartita e mi ha distese le mani ho sentito al contatto una ciocca de’ suoi gelsomini.
Le sue piccole mani tremavano e negli occhi grandi era un’ombra accorata.
L’ombra di una lanterna rossa nel cuor della notte, in una strada solitaria.
Di lei, della sua vita, del suo destino non so che il mistero.
Dopo Candia, più bella forse ma molto meno caratteristica di Canea, dopo Cnosso e Festo, con la memoria piena di ruderi titanici e di una civiltà che per opera sapiente degli scienziati si viene illuminando, ho ripreso le vie del mare.
Dire delle cose vedute?... Fare una dissertazione e a quale pro?... Della civiltà minoica molto si è scritto anche in Italia. Chi può cercare fra gli appunti di un viandante, di un’anima nostalgica, la dissertazione sapiente? Qui passa una vita diversa e la figura tragica del re sacerdote non vi avrebbe luogo.
Meglio è ch’io la veda fra i ruderi del suo palazzo, ricinto di altari consacrati al sole, levarsi contro l’immensità, nel rosso fuoco di un’aurora, intenta a celebrare il mistero della vita e della morte.
E poi dilegui, come dilegua il picco dell’Ida nel fondo del mare turchino.
[167]
Lieta mattina senza vento e senza nubi, gioiosamente calma nella tersa serenità. Oggi ogni volto è tranquillo, per poco che l’amarezza non aggravi il cuore; il sangue fluisce più rapido; ogni senso è più alerte. È finito il tempo delle piogge, e la terra si rasserena. Gli scarsi alberi tornano a verdeggiare sulle prode, sui monti, nel grande semicerchio della spiaggia. Esco che il sole è appena sui monti; un disco d’oro rosso su le vette inuguali che cingono la città del mare.
Il quai è già animato e così il porto e tutta la baia da Gruez-Tepè a Cordeliò; da Burnabà a Cocarialì. Uno sciame di velieri dalla poppa piatta, divisa in tanti riquadri e istoriata e densa di pitture simboliche e di fiori, si allontana, si divide, svaria, scompare, si rinnova.
Sono vele bianche o grige che pongono su la magnifica opalescenza marina un lieve palpito, l’ombra di una farfalla nell’immensità. E navi e navicelli e canotti guizzano, solcano in tutti i sensi la baia incantevole. Urlano le sirene lontane, vicine; getti di vapore, cigolìo di catene, grida, canti, bestemmie, in dieci, in cento lingue si incrociano, si fondono, salgono in un suono uniforme ed indeciso, nell’esaltazione di un’attività febbrile e sulla terra e sul mare.
[168]
I modesti cambiavalute hanno installato i loro tavolinetti lungo il quai e attendono pazientemente l’inesperto il quale, fra moneta buona e moneta cattiva, fra ottaraki e mezidiè e metallik e piastre e piastrine, per venti lire di moneta nostra se ne abbia quindici di moneta turca e se ne vada contento.
Passano gli acquaioli curvi sotto le loro anfore enormi, rivestite di metalli lucenti e di ciondoli e di catenelle e di amuleti che squillano e tintinnano seguendo il ritmo del passo; trascorrono i venditori d’uva col loro asinello carico di due corbe adorne di mirto, e ciccaioli e uomini coperti da tappeti e lustrascarpe.
I facchini, curvi sotto il loro grande basto, si seguono in fila ininterrotta fra cammelli e carretti policromi, fra monti di mercanzia e assi e travi e marmi gettati alla rinfusa lungo le banchine del porto.
Sacerdoti dell’Anatolia dagli enormi berrettoni bianchi, e pastori dell’interno coperti di pelli; tipi di briganti dalla grande fascia rossa, che giungono chi sa da quale remota provincia selvaggia; conduttori di cammelli; beduini; soldati straccioni e straccioni senza divisa; pattuglie in fila indiana, il fucile a bandoliera e le mani in tasca e l’aria svogliata; branchi di montoni; arabi con al guinzaglio piccole gazzelle saltellanti e spaurite; ulema dall’aspetto solenne; giovani ufficiali elegantissimi; donne ammantate e fanciulli seminudi; tale la folla che cresce sempre più col salire del sole e si urta e si accalca e si pigia fra carri e vetture e tramways in un urlìo senza posa.
Mi allontano, oltrepasso il konak, cerco la quiete sussurrante della città turca arrampicata su pel monte Pagus fra minareti e cipressi. Per le viuzze tortuose ed anguste la folla non diminuisce. I cammelli, che quasi quasi oltrepassano le casupole, incedono solenni l’un dietro l’altro al suono di un loro grande campanaccio attraverso i neri e [169] sudici bazars; si perdono nel laberinto di stradicciuole ugualmente fetide. Tutto è sporco e scintillante: è questo un controsenso che non si verifica se non in Turchia. Sporche le vie, i negozi, le vesti, le persone, ma pure non v’è cosa che non abbia parte che riluca. Il luridume sarà corretto da un cencio rosso fiammante, da un metallo lustrato con furia accanita, da carte colorate, da veli a lustrini; ma è corretto, è rivestito, direi quasi azzimato. I turchi, come le allodole, amano tutto ciò che riluce. I pesci e le carni esposti alla polvere e alle mosche su per le porte o dentro certi vassoi di colore oscuro si fanno perdonare e desiderare dai consueti avventori, perchè rivestiti di stagnola dorata ed inargentata; puzzano ma risplendono, e questo è l’essenziale. Tutto è bello ed è buono se in qualche parte riluca. Un lustrino fa perdonare il fango. Un fiore fa dimenticare il luridume. Il sudiciume è necessario e il colore è la sua poesia. Se l’occhio si inebbria, il naso può perdonare; è una concessione reciproca, un adattamento che non manca di una certa fastosità. Ma vi è cosa forse in Oriente che non tenda al fastoso? L’ultimo asinello spelacchiato, bistorto, pieno di guidaleschi, avrà, non foss’altro, intorno al povero collo striminzito, una collana di perle azzurre.
Evito i bazars e le strade dei mercati, mi arrampico su per stradicciuole gaie e quiete, arrise da pergolati e da fiammanti fiori di geranio. Dietro i musciarabì delle finestre cinguettano donne e bimbi; è un sussurrìo sul mio passare; uno squillare argentino di fresche risate, un fiorire di parole ignote e pur dolci nella loro musicalità indefinita. Salgo sempre più. Il profilo di una moschea, un lembo di mare, una distesa di giardini mi si offre a volta a volta nel panorama che si allarga, e il silenzio aumenta e il raccoglimento è più dolce.
Due giovanette dal volto scoperto mi passano d’accanto [170] sorridendo e non si ammantano come sogliono se qualche turco sia in vista. Il loro ciarciaf azzurro e bianco riluce nel sole ondeggiando; scompaiono fra i cipressi nel fondo, dove si apre un cimitero.
I cimiteri sorgono nel cuore della città, piccoli e grandi, numerosissimi. A volte lo spazio che intercede fra due case è convertito in cimitero. Di simili se ne trovano fin nelle vie più popolose, e nessuno vi pone mente. Una piccola cancellata ne difende l’adito. All’interno, fra qualche albero, si levano cinque o sei lapidi annerite, poi erbacce e rovi e qualche gatto famelico. Non sono cupi nè malinconici, sono come vecchi cortili abbandonati, sui quali l’occhio si sofferma distratto. I più grandi, convertiti in vere selve di cipressi, sorgono sul pendio del colle; case e giardini li circondano. Le tortore e le colombe ne hanno fatto la loro dimora consueta; si allietano di bianchi voli e di canti; i bimbi vi penetrano, vi trascorrono, vi giuocano tutto il giorno fino a sera tarda, fino a quando il grande sole si addormenta e le colombe si rifugiano fra i cipressi.
Nel 631 dopo Cristo, e cioè un anno avanti all’Egira, alla fuga cioè di Maometto dalla Mecca a Medina, gli idolatri che già presentivano nel guerriero apostolo un nemico temibile, decisero di sopprimerlo.
Maometto era allora proscritto dalla Mecca e aveva nella tribù dei Loreisciti, dalla quale discendeva, nemici possenti che non gli davan quartiere. Però le sue dottrine avevan guadagnato campo nelle tribù limitrofe e in Abissinia; a Medina era già riconosciuto come Raçul Allah, apostolo di Dio.
Egli sapeva che se fosse rientrato alla Mecca, dove pur rischiava di rimetterci la vita e fosse riuscito a sfuggire [171] alle mani degli avversari, sarebbe stato accolto in trionfo a Medina, e decise il colpo che segna il limite fra il periodo della sua predicazione tranquilla e quello dell’azione violenta.
Non appena i Loreisciti seppero della presenza di Maometto alla Mecca, si adunarono e decretarono la sua morte. Però, per non essere soli a subir l’odio della potente tribù degli Hascemiti, decisero di scegliere un uomo per ciascuna tribù; formarono così un manipolo numeroso che doveva pugnalare il profeta.
Maometto, informato della decisione presa da’ suoi nemici, chiamò Alì, il compagno fedele, lo ricoprì del suo mantello verde, lo fece coricare nel suo letto e partì eludendo la vigilanza degli assassini.
Questi avendo riconosciuto Alì e non avendo l’ordine di spargere il sangue di lui, attesero fino alla mattina, ritenendosi certi che Maometto non avrebbe potuto fuggire dalle loro mani; e quando si avvidero dell’inganno, lasciarono il compagno del profeta e corsero su le vie di Medina per raggiungere la preda agognata. Ma, come narra lo storico Abul-Feda, Maometto aveva preveduto l’inseguimento e aveva preso una via traversa.
Nascosto in una profonda caverna del monte Tur, che sorge a mezzogiorno della Mecca, vi rimase per tre giorni. I nemici suoi giunsero fin sulla soglia della caverna, e già stavano per penetrarvi allorchè si accorsero che su l’entrata era alla sua covata una colomba e ritornarono.
Maometto fu salvo.
Tale preteso miracolo è popolarissimo fra i mussulmani, ed ecco perchè in tutte le città dell’Oriente v’è una specie di venerazione per le colombe, ed ecco perchè ad Algeri come a Smirne, in tutte le case e in ogni albero si sente il placido tubare delle amorose compagne che salvarono il Profeta.
[172]
Mi ritornano alla mente i versetti del Deuteronomio:
“E sarai in istupore, in proverbio ed in favola, fra tutti i popoli, dove il Signore ti avrà condotto....„
“E il Signore ti disperderà, fra tutti i popoli da un estremo della terra all’altro estremo...„
“E voi resterete poca gente, là dove per addietro sarete stati come le stelle del cielo, in moltitudine....„
Eppure essi ubbidirono alla voce del Signore, Iddio loro, e Mosè non pensava essere così sinistramente profeta.
Oggi, qui, su questa costa di monte su la quale si distende il cimitero abbandonato, sopra alle ville di Guez Tepè, allargandosi intorno il grande arco della città turca ed europea fra una gloria di minareti sottili come steli, in questa solitudine sacra un tempo alla morte (ora non più, chè gli uomini hanno fatto scempio del luogo), guardando le pietre tombali infrante, sconvolte, accatastate, ridotte in ciottoli, ho ripensato al terribile destino di un popolo che pur ci impose le sue leggi, la sua poesia, il suo cuore tumultuoso e grande.
Sono solo. Il sole si abbassa sul mare. Odo salire il tumulto confuso della città operosa e i gridi delle sirene e qualche remoto tocco di campana.
Sotto di me, nel piazzale di una caserma, alcune file di punti neri si esercitano alla guerra; li vedo muoversi, incrociarsi, fondersi, disparire; ogni tanto da quelle piccole cose che si muovono sale un urlo altissimo. Due vele bianche si allontanano sul mare verso i monti Gemelli, vulcani spenti.
Mi aggiro silenziosamente fra i ruderi guardando le epigrafi monche. È tutto un popolo di parole sconvolte, dalle quali raramente si può trarre un significato.
[173]
A volte è come un guizzo dalla tenebra:
“.... ebbi vent’anni.... ma troppi....„
“.... vivrai.... nell’eterno dolore....„
Frasi monche, le quali, aggruppate così, hanno un significato diverso dal primitivo, ma che corrisponde tuttavia all’amarezza che vi ispira la rovina.
Le pietre tombali hanno la grigia patina del tempo.
Da quanti anni mai non sale il pianto degli uomini dispersi a questa terra? Chi ricorda più il nome, un gesto, un sorriso di qualcuna fra le tante creature sperdute in questo riposo?
Il libro è chiuso; le parole ne sono indecifrabili.
La vita è ritornata alla vita inconsapevolmente. Gli uomini che furono, sono; i gesti, i sorrisi, i pianti che furono, sono e saranno. L’acqua torbida che si inabissa, rizampilla limpida e fresca per le innumerevoli fonti.
Ogni rimpianto muore in apparenza, ma si rinnova in eterno.
Nulla più.
Altro non conosco del cimitero abbandonato.
Il suo nome mi è ignoto.
La vita europea a Smirne può dirsi si concentri sul quai intorno alla birreria Clonaridis.
Smirne è in realtà una città greca, più che una città turca; la sua prosperità, il suo commercio, tutta la sua vita migliore deriva dall’attività greca. I turchi poco valgono o nulla nel commercio e nelle industrie.
I greci costituiscono il nucleo maggiore della popolazione; ma, ciononostante, vivono in continuo timore di persecuzioni, di vendette e di possibili stragi.
Dopo le giornate di Adana, lo spavento si era impossessato della popolazione la quale si dava a fuggire precipitosamente [174] per un nulla: per un arresto operato, per un grido, per una voce sparsa sediziosamente. D’altra parte, tale stato d’animo non può avere origine fantastica.
I greci di Smirne, patriotti convinti e irriducibili, sono osservati, spiati, perseguitati senza posa.
In questi giorni hanno arrestato vari giovani perchè portavano cravatte dai colori della bandiera greca.
Da una parte si spia e si perseguita, dall’altra si opera e si teme.
I raià, e cioè i greci che hanno presa la cittadinanza ottomana, non sono numerosi; molti furono costretti a far ciò per accudire tranquillamente ai loro affari; comunque sia il loro sentimento resta immutato.
Cittadini ottomani sì, ma greci d’anima e di pensiero.
La lingua che più si parla a Smirne è la lingua greca. Conviene oltrepassare il Konak, perdersi per le strette vie della città turca, per sentir parlare il turco, il quale è riconosciuto bensì come lingua ufficiale, ma che non ha e non può avere nei traffici alcuna importanza.
Non v’è turco che non sappia il greco, e ciò è necessario data l’inferiorità della razza turca in tutti i campi dell’attività umana. Ciò che tale razza possa essere domani, non so; certo è che la strada ch’essa dovrebbe percorrere è molto lunga ed irta di difficoltà.
Ma lasciamo di questo.
Smirne è il mercato al quale convergono i prodotti dell’Asia Minore. Le vie carovaniere si accentrano a questo punto. Tutto che può rendere il suolo mal coltivato e l’industria dei tappeti, diffusissima, si aduna a Smirne per poi proseguire su le vie del mare. Nonostante il brigantaggio esercitato con relativa sicurezza su vasta scala e tanto audace [175] da spingersi fino ai sobborghi della città stessa, gli scambi con l’interno prosperano, specialmente per la magnifica industria dei tappeti che ha qui, per opera dell’Oriental carpets Co., una mirabile organizzazione.
Per tale continuità di scambi si adunano per i mercati e per le vie di questa città singolare, mezzo europea e mezzo turca, le genti più diverse le quali provengono dall’interno o sui cammelli o su certi loro carri primitivi a quattro ruote, dipinti in azzurro.
Giungono da paesi lontanissimi, dall’interno dell’Asia, per consuetudine secolare. Vien fatto di pensare, a volte, alle succinte descrizioni lasciateci da Marco Polo. Certo è che presso questi popoli poco è mutato dal tempo in cui il viaggiatore veneto li visitò.
Le stesse tradizioni, gli stessi costumi, le identiche consuetudini. Ho incontrato oggi tre uomini singolari, dalla testa compiutamente rasa. Avevano sul capo tre piccoli fez quasi microscopici, indossavano un costume a ricami d’oro.
Giravano per i bazar soffermandosi a guardare. La gente usciva su la soglia a sbirciarli.
Ad un tratto qualcuno ha emesso un grido; li ho visti in fuga. È incominciato un inseguimento furioso. Svoltando di vicolo in vicolo hanno tentato sfuggire alla gente che li rincorreva, ma i cani, questi orribili cani magri, famelici senza padrone, che popolano Smirne, si sono aggiunti all’inseguimento.
Quando si sono visti perduti, senza fiatare, tranquillamente si sono seduti su gli scalini di una moschea.
La gente è rimasta a discreta distanza vociando finchè una fila di soldati cenciosi non si è avanzata e non li ha presi in mezzo conducendoli via.
I coraggiosi inseguitori, sentendosi più sicuri, hanno gridato male parole, ma i tre uomini sorridevano.
Si trattava di tre briganti, famosi per le loro audaci rapine.
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È un villaggio distante qualche chilometro da Smirne. Vi si giunge in ferrovia. È un’oasi di fresco verde, un paese di ville raccolte fra gli alberi e i giardini; è il luogo preferito dai residenti inglesi, che ne hanno fatto una loro villeggiatura, ed è a Buggià che sorge il convento dei cappuccini, dal quale escono i missionari che si spargono in tutto l’Oriente.
Il convento è internazionale, ma il rettore, padre Lorenzo Guidi, è italiano e buon italiano.
Sono giunto oggi, verso il pomeriggio, alla soglia del convento tranquillo ed ospitale.
Non appena la porta si è chiusa alle mie spalle, non appena sono entrato nel semplice giardino, come un’aria di intimità già nota e cara al mio cuore mi ha sorriso. Altra volta, in terre lontane, oltre il mare, avevo veduto alcunchè di simile; mi pareva di esser giunto ad una soglia remota, alla quale mi soffermavo talvolta nei pomeriggi domenicali e mia madre mi teneva per mano.
Ho rivissuto con tale intensità il tempo trascorso da averne una dolce angoscia, uno smarrimento.
C’era poca gente per via: qualche rivenditore di frutta, qualche vecchia seduta su la soglia a guardare. I più erano in piazza, intorno al palco della musica, o sparsi per i caffè, o lungo la passeggiata tradizionale: il borgo Cotogni, la via Emilia, il Ronco.
Noi si prendeva le viuzze secondarie, si usciva da Porta San Pietro su la strada che conduce a Ravenna.
Mia madre non parlava, andava col suo rapido passo tenendomi per mano ed io a seguirla sgambettando; ma gli occhi miei erano sempre assorti, ricordo bene, guardavano trasfigurando.
Ero un bimbo silenzioso che si accontentava di un niente, che di un niente faceva la sua felicità.
[177]
Il sole dorava le mura degli orti, le antiche mura dei monasteri sopra le nostre teste; noi camminavamo nell’ombra. Per uscire dalla città si compiva un lungo giro allo scopo di evitare le vie più frequentate; mia madre amava il silenzio e mi educava alla poesia del silenzio.
Come ricordo le stradicciuole lungo le quali non si incontrava nessuno! Tutte le porte erano chiuse e su le finestre aperte, toltone quello dei garofani e dei gerani, non v’era altro sorriso.
Non si udiva una voce; si udiva il rumore dei nostri passi frettolosi sui ciottoli della strada.
Eppure quelle case deserte vivevano nella striscia di sole che dorava i tetti e le finestruccie del primo piano; sorridevano, io ne sentivo l’anima e il tepore; mi parevano amiche, le riconoscevo per il colore, per la forma, per qualche particolarità, benchè si rassomigliassero un po’ tutte.
Potrei ora, a tanta distanza di tempo, descriverle ad una ad una, strette così come tante sorelle piccine che guardano ad occhi aperti, oltre il muro di un orto, il sole che si nasconde. Perchè si nasconde al sole?... Dove andrà?... Lo sapranno i lontani pioppi del fiume che vedono tanto cielo?...
Tali cose mi passavano per la mente mentre sgambettavo dietro i rapidi passi della mia povera mamma.
E si udivano le campane. Era l’ora della benedizione.
Le campane del Duomo più gravi, poi quelle del Carmine, quelle del Suffragio, quelle delle Suorine, e più lontana, qualche altra, tanto più lontana, che so, in fondo all’anima e nei cieli.
E se mi capita di riudirle, anche adesso che la vita ed il soffrire mi hanno fatto tanto diverso, se mi capita di trovarmi disperso, in un’ora simile, per le vie della città dove son nato, in me si ridesta il fanciullo di allora e riprovo [178] la sensazione provata e mi attardo a continuarla, chè in lei vorrei disperdermi come il tocco di una campana nella malinconìa del vespero.
Giungevano dal cielo, sopra i tetti più alti, sopra le case grandi dei signori, di quella gente ch’io guardavo con l’ammirazione devota di un fanciullo ignaro, vissuto in povertà; ci passavano sopra il capo, scivolavano via radendo gli alberi e le casupole fino all’ultima zona del cielo.
Quale dimenticato tesoro ho dato io a quei suoni? quale mio sogno disperso hanno cullato che mi siano tanto cari? Non so questo; so che ancora le distinguo ad una ad una, ne conosco il suono pacato, ne ho come una visione circolare, la visione di allora, chè mi pareva il cielo si aprisse sul loro cammino in tanti arcobaleni.
Poi ci si fermava innanzi alla piccola porta grigia di un convento. C’era, di fronte alla chiesa, una croce che poi fu abbattuta in tempo di carnovale per fare una burla macabra. Un infelice, mascherato da diavolo, vi fu legato. Era nel sonno dell’ubriachezza. Quando si destò morì dallo spavento.
Si entrava nel giardino, poi nella piccola chiesa dove riposavano i nostri morti: Domenico il bisavolo e il nonno Antonio e altri ancora.
L’uno s’era dato ai campi, l’altro alla mercatura, un terzo alla chiesa.
Così mi sono soffermato, oggi, prima di entrare nel convento, seguendo la rievocazione improvvisa che mi ha portato verso i luoghi della mia fanciullezza.
Qualcuno è venuto ad incontrarmi.
Padre Lorenzo Guidi era nella sua piccola cella di asceta fra una montagna di libri e di carte. Ha tralasciato lo studio per accompagnarsi a me e mostrarmi il convento, dalla ricca biblioteca, al refettorio, al grande orto.
Tutto è italiano qua dentro; vi si sente il caldo amore di un uomo legato saldamente alla sua terra.
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I frati quivi raccolti sono bulgari, georgiani, polacchi, greci, ma tutti indistintamente parlano l’italiano, che è diventato oramai la loro lingua madre. Tale convento fu istituito nel 1883 e, a quest’ora, ha mandato più di ottanta missionari in tutto l’Oriente. È una istituzione internazionale, ma in realtà, grazie al tatto, alla profonda dottrina e al patriottismo di padre Lorenzo Guidi, può considerarsi come istituzione italiana. E quando si pensi che in Oriente codesti missionari, per la loro vita raccolta, semplice, modestissima, godono grande stima e venerazione fra i mussulmani, i quali ne ammirano e ne apprezzano le virtù; quando si pensi che esercitano un’influenza non indifferente, non può sfuggire l’importanza dell’italianità dei loro sentimenti.
Passiamo dalla biblioteca al refettorio, dal refettorio alle celle, dalle celle alla cucina; ogni cosa è linda, da tutto traspira un senso di gaia e modesta semplicità. La vita non deve essere grave a questi frati.
Si conversa lietamente; padre Lorenzo è di un buon umore inesauribile.
Passando nel giardino vediamo alcuni turchi con certi loro asinelli carichi di due corbe piene di uva. Attendono ne sia verificato il peso, poichè quaggiù tutto si vende a oke.
Frattanto i conversi mostano allegramente il frutto della vite. Sono giovani, ridono, si divertono all’occupazione insolita.
Fra di loro parlano italiano e, toltone uno, credo, o due al più, che sono nati in Sicilia, tutti gli altri provengono dalle parti più lontane d’Europa.
Altri ne incontriamo nell’orto, intenti a varie culture.
Tutto si passa in armonia, tranquillamente.
Ritornando passiamo vicino a una botteguccia. Un vecchio falegname è intento a piallare un travicello.
[180]
— Questo è mastro Giovanni — mi dice padre Lorenzo. — È un vecchio garibaldino.
— Un garibaldino?
— Sì.
— E si è fatto frate?
— No, io l’ho raccolto; vive con noi da dodici anni. Aveva il vizio di ubbriacarsi, e quando era ubbriaco diventava il ludibrio dei ragazzi che lo inseguivano per le vie. Era ridotto in uno stato pietoso, non aveva più un soldo. Un giorno lo chiamai al convento, gli dissi: — “Che mestiere sai fare?„ — “Il falegname„. — “Qui c’è lavoro, vuoi rimanere con noi?„ — Il patto fu concluso e da dodici anni è qui.
— E non si è più ubbriacato?
— Due volte sole, ed è ben poco in dodici anni. Poi molto spesso scende a Smirne, ma ritorna senza aver bevuto.
Ci facciamo su la soglia della bottega:
— Addio, mastro Giovanni — dice padre Lorenzo —; c’è qui un signore italiano che vuol salutarti.
Leva la bianca testa, si avvicina sorridendo, mi tende una mano, pensa un poco, pare voglia dir qualche cosa, poi stringendo forte la mano, che ha tenuta fra le sue, mi grida:
— Viva Garibaldi, sior, e viva l’Italgia!...
È notte; sul quai ardono centinaia di lumi; una fiumana di gente si riversa alla birreria Clonaridis o passa oltre, si disperde nella notte.
Il piroscafo ha tolto gli ormeggi, prende il largo. A poco a poco della grande città e della sua vita non rimane che un vago chiarore su l’orizzonte: Smirne dalle belle donne è scomparsa.
[181]
In massima noi siamo ancora un popolo che non ama viaggiare, che si infiacchisce nella consuetudine di una vita pigramente uguale e sta alle cose fatte, ai giudizi tradizionali ed ha troppe volte un’idea incertissima intorno a paesi e a questioni che dovrebbero tener ridesta l’attenzione più viva.
Noi temiamo il viaggio oggi come l’avremmo potuto temere cinquant’anni fa, quando si andava per le poste; ne abbiamo lo stesso concetto; lo consideriamo come una cosa appena appena possibile per i ricchissimi, come un diporto dispendioso ed inutile, o come un seguito di noie e di privazioni, alle quali non val la pena sottostare. Nel concetto comune è già superare una distanza enorme andare da Roma a Milano; data la qual cosa, le città più lontane come Cagliari, Palermo, Siracusa rientrano addirittura nella zona grigia, entro la quale, per la diffusa ignoranza geografica, sono compresi i vaghi confini del mondo abitato. Da ciò proviene, per restare entro i limiti delle nostre terre, il perpetuarsi di pregiudizi e di prevenzioni non mai abbastanza biasimevoli in una terra come la nostra, la quale ha il dovere di rinsaldare giorno per giorno sempre più, i vincoli di fratellanza fra regione e regione.
Vedere non è forse sapere? — dice Balzac nella sua Peau de chagrin —; e se questo è, se vedere vuol dire allargare sempre più i confini della propria conoscenza; coltivare la mente e lo spirito; paragonare, giudicare, apprezzare, unire e scindere, assimilare e distanziarsi, se è tutto ciò e anche un divago, un proficuo riposo, perchè non vincere la tradizionale paura? perchè non superare uno fra i tanti preconcetti che perpetuano una nostra schiavitù che nessuna ragione sostiene? Nè si ponga in campo il tema delle spese e della comune esiguità dei mezzi. Così non è in realtà almeno per chi vuole e sa volere.
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In Isvezia, ad esempio, non v’è professore di ginnasio o di liceo, non v’è impiegato il quale non si proponga al principio dell’anno, come finalità delle economie che verrà facendo, un viaggio verso i paesi del sud. Egli conosce le tariffe ferroviarie delle singole nazioni, le varie facilitazioni delle quali potrà usufruire; sa quanto spenderà per il vitto e l’alloggio durante il soggiorno in una determinata città; ciò che potrà costargli la vita nei piccoli paesi e nei grandi centri; viene preparandosi di lunga mano ciò che dovrà essere la sua gioia migliore. E tutti gli anni noi vediamo in Italia, perchè è appunto la nostra terra solare la preferita dai popoli nordici, vediamo queste lunghe teorie di viaggiatori che scambiamo ancora, benchè con minor frequenza, per tanti Cresi, per miliardari a spasso e che invidiamo senza aver neppure la remotissima idea di poter fare altrettanto.
Io non consiglierò mai abbastanza, ai giovani, l’amore al viaggio. Conoscere in primo luogo casa nostra e in seguito i popoli finitimi e quelli più lontani; imparare facilmente per la più semplice facoltà d’osservazione; vedere in quale valutazione siamo tenuti all’estero; dissipare per quanto si può le innumerevoli prevenzioni nemiche a nostro carico; diffondere la nostra lingua; imparare ad essere coscienti ed orgogliosi della nostra nazionalità; contrapporre a tempo e a luogo orgoglio ad orgoglio, disdegno a disdegno, fierezza a fierezza; valutare le nostre superiorità e le manchevolezze nostre; vivere intensamente la vita in tutte le sue forze, ecco ciò che dovremmo proporci, ciò che ci permette il viaggio, il quale è, senza forse, uno fra i maggiori ammaestramenti.
Una razza tanto più si rinsalda nelle sue tradizioni quanto più si muove ed ha occasione di conoscere gli antagonismi che la dividono, le qualità etniche che la differenziano, gli interessi che l’allontanano dalle altre razze. [183] Avere esatta coscienza della propria entità significa raddoppiare il proprio valore, e tale coscienza non si acquista intera e compiuta se non quando si possono stabilire raffronti e rapporti non già cervellotici, ma derivati da una diretta e costante osservazione dal vero.
Ecco perchè ciascuno di noi dovrebbe proporsi di ridestare e di alimentare l’amore al viaggio, ritornando su tale proposito ogniqualvolta se ne presenti l’occasione; chè solo con l’insistere si vincono le secolari pigrizie, si scuotono gl’incerti torpori, si ridestano le energie latenti.
Noi dobbiamo combattere le nostre umiltà; dobbiamo renderci esatto conto del cammino percorso. Fino ad ora, come gente pazza che non sa bene su quale salda base appoggi i propri ragionamenti, siamo passati da elevazioni a demolizioni, perdendo e nell’un campo e nell’altro il senso della misura, ci siamo fidati troppo o abbiamo spinto l’amara gioia dell’autocritica fino all’aberrazione. Abbiamo esagerato nel primo caso falsando l’importanza dei fatti, dando loro una valutazione che non era esatta; abbiamo esagerato nel secondo allorchè, senza essere soccorsi da dati positivi, da una chiara conoscenza, si è giunti a conclusioni prive di qualsiasi serietà. Questo stato di fatto, codesta corsa alle antitesi non è certamente la più opportuna a rinfrancare la coscienza nostra, a dare quell’unità di intendimento che fa di tutto un popolo una magnifica compagine. Così è nata fra noi ed è cresciuta a gran rigoglio la mala pianta dello scetticismo; così si è alimentata la generale sfiducia, sfiducia che ha superato i nostri confini e viene serpeggiando, benchè con minore intensità, fra i nostri connazionali residenti all’estero. Più di una volta ho avuto amare confessioni; più di una volta mi son sentito chiedere: — Perchè non si fa? Perchè non si agisce? Non vedono, non sanno in Italia le [184] nostre condizioni? Non osservano ciò che fanno gli altri? — E a tali interrogazioni mi conveniva rispondere citando la buona volontà dei pochi; ciò è a dire: una coscienza limitata; una forza ancora inadatta.
Sappiamo forse noi quali siano le condizioni dei numerosi italiani sparsi per le regioni del Levante?
Sappiamo forse quale grande importanza abbia tuttavia la nostra lingua in questi paesi, benchè debba sostenere una lotta assidua con la lingua francese, e molte e troppe volte, venga soprafatta? Sappiamo con esattezza in quale concetto siamo tenuti dagli indigeni, e ci preoccupiamo forse di vincere, con azioni dirette allo scopo, le male prevenzioni, i disprezzi radicati, i tronfii sdegni alimentati da chi ne ha interesse? Conosciamo le lotte aspre sostenute dalle nostre scuole a Tunisi e a Smirne, a Bengasi e a Salonicco? Lotte quotidiane, a volte, affrontate con una costanza, una fede e un entusiasmo dei quali non sarebbero capaci certamente i nostri scettici dalla volontà flaccida e dal cuore vuoto.
Tutto ciò è pressochè ignoto alla maggioranza del pubblico e non so se il pubblico sia per appassionarsene, disabituato com’è a partecipare ai vivi problemi della vita nostra; a quei problemi che escono dalle meschine controversie della politica interna o dalle dimostrazioni di piazza. Eppure tali cose dovrebbero richiamare la nostra attenzione assidua, dovrebbero tenerci desti ed alerti. Io non so quale effetto esercitino alla Consulta le relazioni dei consoli e dei tenenti di vascello, incaricati di studiare questioni particolari in Oriente, so però che non sarebbe male se tali relazioni, detratte le notizie di carattere delicato, fossero rese di pubblica ragione. Troppe volte apprendiamo dai resoconti dei consoli esteri, riportati dai nostri giornali, lo sviluppo economico e le condizioni generali di qualcuna fra le nostre colonie, e mi pare, o mi inganno, che ciò sia ridevole. La stessa cosa non avviene in Inghilterra, non avviene in [185] Francia, paesi nei quali la coscienza nazionale non è mai sonnecchiante, ma veglia e si impone.
Troppe volte mi sono sentito chiedere, al ritorno da qualche viaggio in Oriente: — “Quale lingua parlava laggiù?„ — E quando rispondevo: — “L’Italiano!„ — vedevo i miei interlocutori, che non erano precisamente dei semplicioni o dei mercanti di castagne, allargar tanto d’occhi, fare un viso di meraviglia e stupire e stralunare. Non pareva loro possibile che la lingua italiana potesse essere intesa un palmo più in là dei confini del Regno. Essi si erano abituati ormai a considerarla come una povera, inutile cosa, rifiutata e scacciata; sì come una bellissima veste ma fuori d’uso, della quale ci si poteva tutt’al più compiacere in casa propria, innanzi all’ammirazione degli intimi; si erano abituati all’umiltà della rassegnazione, di una supina rassegnazione derivante da cecità di spirito e di conoscenza. Eppure quanto il francese e più del francese la lingua nostra ha potere di espansione per poco che la si aiuti; per poco che ciò si voglia. Conviene viaggiare per convincersi di tale verità. Ma la coscienza nostra non è ancora tanto libera da servilismi, da imporsi con ragione per la via più diritta. Quanti sono ancora fra noi che preferiscono il francese; che, viaggiando, non pronunzierebbero una sola parola italiana per timore di essere svalutati nella considerazione dei compagni di viaggio? Dico questo con coscienza di causa, perchè ho assistito a troppe scenette tipiche e ne ho arrossito di vergogna. Vinceremo il malanno, non ne dubito; ma frattanto sussiste tuttavia ed è l’indice di una miseria di spirito che conviene combattere con ogni nostra forza migliore.
L’espansione di una lingua segna il progredire economico, l’influenza morale, il prevalere della civiltà di un popolo. Nei centri più civili dell’Oriente, la Francia è scimiottata fin nella letteratura. I pochi turchi che scrivono [186] sono imbevuti fino alle midolle di letteratura francese, e non è certo la migliore che arriva quaggiù. Basta dare un’occhiata alle vetrine dei libri. I titoli, le copertine, gli autori vi dicono subito di che cosa si tratta; pornografia e pornografia in tutte le salse, attraverso mille sfumature. Ed ogni vetrina è inondata da pubblicazioni di simil genere, ne è aggravata, costipata. Avete un bel cercare qualcosa di diverso: non vi riuscirà. Sempre la stessa merce, sempre gli stessi autori. All’infuori dei giornali, non un libro italiano, nè inglese, nè tedesco. Se ne chiedete qualcuno, vi guardano in faccia quasi pretendeste l’araba fenice o il cinamulgo. Non sono abituati a simili domande; nessuno se ne occupa. E di giorno in giorno si perde campo, perchè la Francia non dorme e le preme mantenere la propria incontestabile supremazia. Che facciamo noi? Poca cosa invero per il molto che ci sarebbe da fare.
Toltone nelle classi colte, è incontrastato che la lingua italiana è molto più diffusa della francese in tutto l’Oriente mediterraneo. Da Corfù a Pireo, da Pireo a Canea, da Canea a Smirne, da Smirne a Salonicco, fin dal vostro giungere, trovate i facchini del porto che parlano italiano correttamente, senza intoppi; simil cosa avviene nei porti della Siria e dell’Egitto, della Tripolitania e della Cirenaica.
Tale diffusione della nostra lingua in seno ai popoli del Levante si è mantenuta spontaneamente senza l’intromissione di alcuna volontà estranea o di azioni premeditate. Ragioni etniche e storiche ne favoriscono l’espandersi nei secoli; ora, se pure tali ragioni permangono, sono appoggiate da noi con mezzi fiacchi.
Tutti coloro che in Oriente agiscono per il mantenimento del nostro buon nome o per lo stabilirsi di una nostra supremazia non si sentono appoggiati, spalleggiati, in patria, da un comune acconsentimento, da quella viva simpatia che fa ringagliardire ogni entusiasmo; sono, in realtà, un poco [187] soli, hanno il senso di un isolamento tanto più amaro quanto è meno ragionevole. Così coloro che spendono di propria iniziativa (e sono molti) danaro ed energie per la causa nostra e non cercano alcun compenso; così i direttori di scuole, i professori, i maestri, i missionari e tutti i religiosi, i quali compiono un’opera vera e continua di italianità.
Per tali vie, che la Francia ben conosce, si espande la lingua e l’anima di una gente. Ma a volte noi abbiamo inesplicabili ignoranze e più inesplicabili umiltà.
Alcune nostre merci, ad esempio, si sono imposte ormai in tutto l’Oriente; non siamo più noi che andiamo a cercare il mercato, ma è il mercato che viene a noi. Ora, perchè le nostre Case di esportazione, seguendo l’esempio delle Case tedesche, inglesi e francesi le quali impongono la loro lingua, non mantengono la corrispondenza in italiano? perchè preferiscono il francese che non è necessario nè imprescindibile?
Adottando la lingua italiana, come ne avrebbero diritto, non potrebbero trovare impiego presso le Case estere di importazione tanti giovanotti che ora escono dalle nostre scuole all’estero e non trovano collocamento?
E inoltre, diffondendosi tale giusta misura, non scomparirebbe poco alla volta la sfiducia, non cesserebbe l’amara domanda che si rivolgono i nostri giovani: — “A che ci serve l’italiano? perchè studiarlo?„
Se abbiamo ormai una incontestabile forza economica, conquistiamoci altresì una supremazia morale. La prima non avrebbe valore duraturo senza la seconda.
Conviene scuotersi dal sonno e camminare.
Per farci un’idea pressochè esatta del pubblico viaggiante sui nostri piroscafi che fanno servizio fra la Tripolitania e Costantinopoli, scorriamo il registro di bordo, quel libro [188] cioè sul quale dovrebbe essere scritto il nome e il cognome di ogni viaggiatore. Apriamo a caso e leggiamo: — Una donna araba; Mustafà e due donne; Cinque ufficiali ottomani; Uno; Donna turca; Alì sa femme e un minore; Indigente; Una compagnia di teatro; Bernarda da Malta e due poppanti, e così di seguito. Pare di leggere la didascalia dei personaggi che non parlano di qualche dramma spettacoloso, e abbiamo a che fare in realtà con personaggi che non parlano.
L’impiegato di bordo il quale, dovendo registrare il sopraggiungere di un nuovo viaggiatore, ha scritto con estrema semplicità: Uno, ha fatto, senza saperlo, il più bell’esame psicologico di questa gente in rapporto a noi. Uno, e cioè un’unità oscura, una quantità imponderabile, senza nome; una specie di monade solitaria o di oasi inaccessibile fra gli ardori di un deserto incommensurato.
Per noi tutta questa gente non è più di un’ombra che trascorre. Ci passa vicina, vive al nostro fianco una diecina di giorni nella più stretta intimità di vita che possa immaginarsi, ma non si appalesa, non si accomuna; appare e scompare silenziosa, chiusa, quasi nemica; veglia anche nel sonno; si apparta quanto più può, si nasconde, china la faccia, volta le spalle, cerca gli angoli più remoti, si raccoglie: è l’ombra che trascorre.
Che potremmo dirne che non sia esteriorità, lato di colore o costume più o meno edificante? La nostra migliore volontà si infrange contro la muta barriera, contro l’impassibile indifferenza ostile. Ogni indagine è vana, ogni tentativo ha l’identico risultato pressochè nullo. Non valgono cortesie. Una mano che passa dalla fronte al cuore, o dal cuore alla fronte è la dimostrazione della loro riconoscenza e niente più. Li interrogate e vi rispondono appena, o non vi rispondono affatto; se non vi guardano con diffidenza, sorridono e non si levano dalle loro positure oltremodo comode. [189] Io credo veramente che essi vivano in uno stato torpido; fra l’essere e il non essere così come stanno di continuo fra la veglia e il sonno; credo non abbiano nulla da dire di loro stessi, nulla che sia in chiara evidenza innanzi agli occhi della loro mente. Non conoscono che Allah; vivono in Allah; si moltiplicano per Allah. Una idea, una tradizione cieca, un fanatismo feroce. Ci appaiono come coscienze primitive e tenebrose appena emergenti dalla penombra; nulli come individui, meravigliosamente saldi come compagine. La loro miseria individuale, l’incapacità di essere qualcosa particolarmente, li rinsalda. Maometto è il capitano che li conduce tuttavia e li ha ubbidienti fino alla morte. Ogni gerarchia comincia e finisce in Maometto; è l’ombra del Profeta che li governa e li disciplina oggi come tredici secoli fa. La massa amorfa ch’egli trasse furiosamente alla conquista di un vecchio mondo in isfacelo serba tuttavia l’impronta della sua volontà straordinaria. Il formidabile impeto che li risvegliò in un grido di guerra cova tuttavia nel loro cuore, pronto a divampare con la stessa furia. Ciò che Maometto foggiò secondo una legge gelosamente ferrea è rimasto immutato nei secoli, nè credo sia per mutare. La stessa inerzia di questi popoli forma un ostacolo quasi insuperabile; inerzia morale superiore a qualsiasi tentativo che voglia o tenda superare l’antico confine. La loro religione è il loro mondo, il loro Io, la ragione della vita o della morte; all’infuori di ciò essi non vedono che una zona grigia e minacciosa. La nostra civiltà è una parola, una fiaba della quale hanno sentito dire troppe volte e che li lascia perfettamente indifferenti se non ostili. Imitarla o seguirla non sarebbe possibile se non rinunziando alla loro vecchia anima statica; potranno assimilarne, forse, quella parte che riesca più direttamente a nostro danno. Frattanto noi siamo e restiamo, per la grande massa, gli antichi giaurri, i cani infedeli che conviene rispettare perchè [190] possono far danno, perchè non è possibile sbarazzarsene. Non è un freddo pessimismo calcolato che mi conduca a tale conclusione, ma una osservazione diretta e continua; una serie di fatti concomitanti, allo svolgersi dei quali ho potuto assistere, e il convincimento sereno della maggiore e della migliore parte dei nostri connazionali che vivono da lungo tempo nell’Oriente mediterraneo.
Ora il registro di bordo, nella sua semplice e schietta spontaneità, è l’indice migliore della grande distanza che ci separa tuttavia dal vecchio mondo mussulmano. Ne ho dato un breve saggio, ma potrei continuare. Non si tratta unicamente di Alì e compagni, di Un arabo o di Un soldato, ma di ufficiali e di kaimakan ed anche di qualche governatore delle provincie più remote dell’impero turco. Ci sfilano dinanzi tutti senza nome o quasi, appena emergenti dalla loro ombra; compaiono come scompaiono. Muti e sdegnosi, estranei e lontani. Non parlano, ed anche quando vi accostano e vi interrogano e voglion sapere dell’Europa e dei nostri costumi; quando vi esaltano Parigi, non già per le sue forze migliori, ma per ciò che vi hanno trovato di più corrotto, sentite sempre una barriera che li divide da voi. Vi fanno l’effetto di creature le quali si sporgano per un attimo oltre un grande recinto, entro il quale si affrettano a ritornare.
In massima, presi a parte a parte, non sono, per noi, niente più di Uno, di un ignoto il quale, uscito dalla folla, compia un lungo giro, vi scivoli innanzi senza guardarvi e rientri rapido nell’ombra uniforme dalla quale era emerso. Ho detto in massima perchè le belle eccezioni vi sono, ma non certo benvise dalla maggioranza.
Tale è, per oggi, la semplice verità. Può darsi che in un domani più o meno remoto le cose cambino aspetto; che la millenaria anima nemica, ridesta da un entusiasmo improvviso, voglia rinnovarsi più apertamente al sole; che, [191] per la tenace volontà dei pochissimi, la montagna vada al nuovo Maometto; tutto può darsi. Dopo tanto entusiasmo non conviene far l’amara professione degli scettici impenitenti.
Il mare è tranquillamente sereno; facciamo un giro per il piroscafo; sarà altrettanto divertente quanto percorrere i bazar di Smirne e di Costantinopoli, o penetrare nel più riposto cuore di una casa turca.
Siamo in viaggio da vari giorni, abbiamo perennemente in vista le squallide coste dell’Africa: piccoli pallidi colli appena emergenti dalla foschìa, piani immensi dai quali giunge l’impeto soffocante del khamsin, il vento del deserto. A quando a quando qualche fila solitaria di palmizi sorge su l’afosa diafanità dell’orizzonte entro la quale la terra color d’oro dilegua e trascolora. Il mare è bianchiccio, senza luminosità, torpido, oleoso. Le piccole increspature che il vento vi produce appaiono e dispaiono, si rinnovano in un giuoco infinito, guizzano via, senza lucori, fra il bianco e il grigio nell’immensità lattiginosa. Tutto si appesantisce e si attarda nell’imperare immutato del caldo e della caligine.
Abbiamo toccato gli scali di Tripoli, di Misrata, di Bengasi. Il piroscafo è rigurgitante chè, ad ogni scalo, vi si è riversata una vera fiumana di viaggiatori. Sono giunti urlando e strepitando, stipati fra bauli e fardelli, hanno invaso il ponte coprendolo e trasformandolo in pochi secondi. Abbiamo a bordo una rappresentanza di tutte le razze dell’Impero turco: greci, albanesi, arabi, circassi, sudanesi. La varietà dei costumi è altrettanto grande quanto la varietà dei dialetti e delle lingue. Abbondano i beduini coi loro marmocchi, che se ne stanno perfettamente ignudi al sole.
Sono a bordo cinque ufficiali turchi, ma viaggiano in terza classe attendati col resto della tribù; un solo ufficiale superiore, che ha il passaggio in seconda, ha confinato la [192] moglie in terza classe in compagnia delle serve nere. È ben vero che il Corano proibisce ai mussulmani di accostarsi ad una donna, sia pur questa la madre o la moglie, in qualsiasi luogo che non sia nell’haremlik; ma non sarebbe stato difficile invertir l’ordine delle classi. Bisogna convenire che tali sfumature non rientrano ancora nel sentimento cavalleresco mussulmano. L’esempio di persone che viaggiano in seconda e lasciano la moglie in terza non è infrequente, è quasi la regola, come pure è regola generale la estrema libertà di movimento, l’assoluta noncuranza delle più elementari convenienze che la nostra civiltà ritiene indispensabili alla serenità dei rapporti reciproci, e l’indifferenza olimpica con la quale tutta questa gente fa il proprio comodo senza restrizioni di sorta. Sono in casa loro, non c’è che dire; nessuna cosa li disturba; fanno ciò che fanno e Allah li sorveglia. Il torto è nostro, che guardiamo con occhi diversi; bisogna inambientarsi. A dire il vero i cinque ufficiali, non appena sono saliti a bordo, avevano una divisa sgargiante, ma, dopo qualche ora, chi li avrebbe riconosciuti? In pantofole, senza calze o con le calze rotte; un lungo camicione a fiorami ed ecco fatta la toeletta da viaggio. Si sono accosciati su le stuoie e si guardano senza parlare, accarezzandosi i piedi. Uno ha un grande binoccolo a tracolla, un altro ha un narghilè; un terzo il tespikh, del quale fa scorrere i grani fra le dita metodicamente. Poco più lontano è un gruppo di soldati che vanno in congedo. Descrivere la loro divisa è quasi impossibile, tanto è dissimile da individuo a individuo. In una cosa si rassomigliano perfettamente, nelle rattoppature, nella sporcizia come nella tonsura, che varia dalla corona alla mezza luna; dalla grande chierica alla piccola coda eretta sul bel mezzo del cocuzzolo.
Passiamo fra cumuli di bauli policromi, rossi, verdi, gialli, a fiorami, a figurazioni simboliche; rivestiti di carta, di lamiera, di chiodi e di bullette migliarine; scartiamo i [193] materassi, i tappeti, le coperte e le stuoie; scavalchiamo gli individui, distesi ovunque sia un piccolo spazio, per abbracciare con un’occhiata questo novissimo bazar. Sui quattro boccaporti di poppa e di prua sono state distese quattro tende; ogni boccaporto accoglie una o due famiglie: le donne da un canto, gli uomini dall’altro. Per mezzo di tende supplementari hanno fatto divisioni e suddivisioni tanto da non vedersi reciprocamente e da celare agli occhi scrutatori il volto delle loro hanum, e ci sarebbero riusciti se il vento non scompigliasse tali baracche. Li cogliamo così nella loro intimità. D’altra parte è sempre la stessa cosa: materassi, coperte, stuoie, tappeti, e persone sdraiate e persone accosciate. Le donne fanno il caffè. Tale è la loro occupazione continua, quando non dormono e non si bisticciano.
Vedute così, libere dal ciarciaf, appaiono piccole e goffe; troppo grasse; troppo impacciate nelle movenze.
Le ricche, e conseguentemente le più indipendenti, spingono il loro ardimento fino a salire fra noi, sul ponte riservato alla prima classe; però, superata la barriera, si aggruppano in un angolo e guardano il mare per lunghe ore, o siedono alla turca sui sedili europei voltando la faccia alla spalliera e le spalle a noi. Le povere sono compiutamente abbrutite. Cinque donne del popolo per quattro giorni e quattro notti sono state rannicchiate dietro una barriera di bauli, per non farsi vedere, e non sono uscite mai dalla prigione angustissima. Il comandante del piroscafo, per non violare il prezioso gineceo e non far nascere una rivolta a bordo, si è dovuto accontentare della pulizia sommaria che le donne stesse compivano nel loro angolo sacro. A Smirne era salita a bordo un’altra disgraziata: una turca compiacente; non appena lo seppero i babau, fu presa e rinchiusa nella stiva, e dalla stiva non uscì se non quando fu giunta a destinazione; ciò vuol dire che vi rimase per sei giorni consecutivi.
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I poveri mordono il freno per le novissime libertà dei ricchi, e non so se vorranno sempre pazientare. Certo, ciò che può tollerarsi in viaggio, sarebbe assolutamente intollerabile a terra. Approfittiamo adunque di tale condizione di grazia per osservare meglio.
Ogni famiglia ha portato con sè tutti gli oggetti di casa, io credo: dalle stoviglie ai materassi. Hanno fornelli a spirito, cesti, bottiglie, terraglie, panieri, vassoi, tazze, bicchieri ed altri arnesi, dei quali è difficile conversare. Un maggiore turco ha spinto la sua tenerezza fino a portare seco, oltre la famiglia, un pappagallo, un montone, un gatto d’Angora e due gazzelle. L’osservo da tre giorni, e da tre giorni lo vedo sempre più lacero e sporco. Trascina seco un marmocchio che non ha alcuna soggezione di adempiere a’ suoi doveri più urgenti ovunque si trovi. Da tre giorni si cibano di un enorme cocomero che hanno imbarcato a Tripoli. Non conoscono l’uso del fazzoletto, non guardano in faccia a nessuno. Il padre è sempre taciturno, il figlio strilla come un’aquila dalla mattina alla sera, e quando il padre si abbandona a’ suoi acrobatismi religiosi, la qual cosa avviene varie volte al giorno, dopo un opportuno orientamento verso la Mecca, il figlio, che è rimasto senza guardia, si spoglia urlando e se ne fugge ignudo. La qual cosa esilara i vecchi turchi dalle mani incrociate sull’ombelico.
Gentilmente invitato dal comandante Salvatore Viola, salgo sul ponte di comando; si domina meglio la scena.
Ovunque si volga l’occhio non si vedono che cumuli di fardelli fra i quali si stipano uomini e bestie. L’odore che sale da tale massa di creature è, a volte, insopportabile. È l’odore della cipolla e del muschio, della fogna e dello zibetto, un miscuglio senza nome, non mai avvertito; nè il vento vale a disperderlo, chè sempre si rinnova. Sotto di noi una giovane beduina è intenta a cercare fra i lunghi capelli di una sua congiunta qualcosa che di quassù non si [195] può vedere. Un’altra, che ha il volto velato, ha il seno interamente ignudo e allatta il suo figliuolo, che non può avere meno di due anni; un brutto sgorbio nero dai capelli tagliati a ghirlanda e dall’enorme ventre. Poi piedi e gambe che sporgono da inviluppi di lacere coperte e di stuoie e di tappeti; uomini sdraiati, raccolti, rannicchiati, composti negli atteggiamenti più inattesi, accatastati e costretti entro spazi inverosimili, e bauli e valige e teste rase e teste incappucciate. Cento costumi, cento colori. È tutto un luridume pittoresco, un’immondizia variopinta, un austero pidocchiume che non perde mai l’innata gravità.
Il sole muore in un tramonto tranquillo sul mare senza moto. Lo vediamo discendere fra l’estrema caligine; lo si può guardare: è pallido ed enorme. Contro il suo disco metallico un vapore ignoto si allontana, sempre più impicciolendosi finchè non resta, sotto il crepuscolo roseo, che un tenue alito di fumo fra cielo e mare. La terra è scomparsa; navighiamo pei campi del silenzio. Anche la gente tace. Ma ad un tratto, verso la prua, compare un vecchio cieco guidato da una bambina: è alto, rigido, quasi spettrale nella penombra; siede sopra un fascio di corde, posa su le ginocchia un suo istrumento, poi, in questa immensità senza confine apparente, si leva una monodia dolcemente monotona, di una tristezza profonda. Chi canta? È un vecchio greco, un povero ramingo che va per il mondo con una bimba pallida, amore senza carezze. Canta le arie della sua Tessaglia, rievoca una grande anima tragica, un immenso dolore senza mutamento.
Nessuno parla all’intorno; il raccoglimento si propaga simile a un incubo e la voce si rafforza, preme nell’impeto rievocatore.
È l’ombra di un popolo millenario che sorge fra cielo e mare e si ammanta nel suo paludamento nero.
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Giù nel cielo, fra la foschia, sorge l’altipiano della Cirenaica. È una linea giallastra sul mare scialbo.
Il caldo umido snerva talmente, che è già fatica l’osservare.
Giunge il vento del deserto, il khamsin, e ci avvolge nelle sue folate e ci mozza il respiro.
Incontriamo alcune piccole navi a vela. Sono ancorate al largo, chè l’acqua non supera i quindici metri di profondità. Attendono alla pesca delle spugne.
Un uomo nudo, stretta una grossa pietra fra le gambe, si lancia a capofitto nel mare, raggiunge il fondo, strappa le spugne e risale rapidamente.
Il pericolo è continuo, chè i pescicani sono abbastanza frequenti in queste acque.
Non più tardi della settimana scorsa un pescatore di spugne fu ingoiato fino alla cintola da uno squalo, il quale si affrettò a rendere la preda non appena sentì fra i denti la pietra che aveva servito da zavorra al disgraziato.
I compagni lo raccolsero cadavere informe.
Già, dal piroscafo, hanno segnalata Derna. Nulla si vede su la bassa costa, se non tre lunghe antenne; le antenne del telegrafo senza fili, impiantato da vari mesi da una Società Tedesca, la quale non potè poi servirsene stante i soliti procedimenti del governo turco, procedimenti che consistono nel tutto concedere sul principio per tutto ostacolare in seguito.
Ora sembra che le controversie siano superate e il telegrafo possa funzionare. Si tratta della Germania!
Se in suo luogo si fosse trovata l’Italia, a quest’ora, di fronte alla cortese passività dei giovani turchi, la partita non sarebbe risolta tuttavia.
Ma noi facciamo la politica della penetrazione pacifica, [197] la quale politica, se dovesse essere definita garbatamente lo sarebbe ad un di presso così:
— Quella cosa per cui uno spende molti soldi per buscarsi qualche calcio a tramontana e dire: Grazie, e tante scuse!... —
È un nido fra i palmizi, non più di un nido, chè tutto intorno l’alta costa è arida e deserta.
Il nostro arrivo è segnalato, ma non si può scendere a terra prima che il kaimakan, e cioè il prefetto di Derna, sia salito tra noi ad assumere informazioni circa un incidente avvenuto a bordo.
Contemporaneamente al kaimakan una turba lacera e urlante invade la nave; sembrano pirati e sono probabilmente gli stessi che saccheggiarono il piroscafo della Navigazione Generale che si arenò in questi paraggi.
Pare entrino in casa loro; passano correndo, vi urtano, non vi curano, vi guardano loschi, bestemmiano nel loro dialetto cose incomprensibili.
La disciplina di bordo? E come mantenerla? Di quale forza si dispone e di quale autorità, sopratutto? Poi non facciamo noi la penetrazione pacifica?
Noi umili e buoni, ed essi signori. E di ciò si è avveduta questa razza ignorante e bruta, che vuol essere trattata, a scudisciate per convincerla che una nazione ha una forza e una volontà.
Sì, ho sentito dire molte volte, troppe volte, lungo questo mio viaggio, fra qualche marinaio nostro e qualche lurido mascalzone il quale non conosceva altro dovere a bordo se non quello di fare il proprio comodo, ho sentito dire:
— Bono taliano, bono!
E il marinaio:
— Bono turco, bono!...
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Quale squisito duetto sentimentale! Poi alla prima occasione, come è accaduto proprio a me di vedere, alla prima occasione in cui il bono taliano non facesse i comodi del bono turco, giù un tal pugno su la faccia da doverlo curare con tre punti di sutura, e il bono taliano, mosca!... chè altrimenti si compromette la penetrazione pacifica e gli alti, segreti, incomprensibili interessi nostri patrocinati dallo Stato.
E la nostra influenza morale diventa di giorno in giorno sempre più quella graziosa e ridevole cosa che tutti conosciamo.
Se qualcuno protesta, se qualche comandante di nave si sente salir la nausea e avrebbe volontà di darla una buona volta una lezione esemplare alla schifosa ciurmaglia che gli innonda e gli appesta il piroscafo e glielo riempie di pidocchi e di tutti i parassiti umani ed ha mille pretese ed è insolente e prepotente; se un comandante di nave, il quale deve pur trasportare codesto carico di delizie, volesse far rispettare la disciplina di bordo e desse una santa lezione, correrebbe il rischio di perdere il posto.
I consoli raccomandano la pazienza, la rassegnazione, la bontà, sante virtù cristiane che nel campo politico hanno un logico valor negativo; biasimano gli atti energici, e se qualcuno fra di loro, come, ad esempio, il nostro console a Canea, ha un’opinione diversa, non può mantenerla che a suo rischio e danno.
E appunto perchè in Italia la politica estera è quella cosa talmente oscura e sibillina, che troppe volte vano sarebbe tentare decifrarla, appunto per questo noi che ci troviamo di fronte ad uno stato di fatto umiliante, indecoroso e dannoso, dobbiamo accontentarci di chinare il capo, di non tentare l’indovinello e di sussurrare:
Vuolsi così colà, dove si puote....
[199]
E torniamo a Derna fino a che non si ricominci, e ho in animo di ricominciare, perchè certe cose che non si possono dire convien dirle ad alta voce, sì che tutti sentano e ne siano convinti, e siano convinti altresì che questa è la verità e nessun’altra la quale potesse apparire più o meno mascherata da blandizie.
Quando il kaimakan di Derna, che è una cortesissima persona (è giovane turco, avrà cinquant’anni forse; è stato esiliato lungo tempo a Parigi e a Londra sotto il regno di Abdul Hamid; ora occupa qui una carica delicatissima e si vedrà perchè), quando il kaimakan ha sbrigato i suoi affari inquisitori ed ha ascoltato imparzialmente anche una donna di circa sessantacinque anni, la quale sostiene di essere stata urtata malamente da un soldato italiano che le ha strappato dal capo le sacre bende ed ha voluto perquisirla (vedi sacrilegio nefando! E pensare che in tutto ciò non c’è una sola parola di vero); quando le querimonie e le lamentele e le imprecazioni contro l’Italia hanno avuto l’esito loro, il permesso è dato e si può discutere su le imbarcazioni che ci condurranno alla non lontana spiaggia.
Si discende sopra un monte di detriti di alghe marine; sono intorno: da un lato le basse montagne che cadono a picco sul mare, dall’altro alcune casupole dall’aspetto miserevole e un bosco di palmizi.
Passiamo la zona sabbiosa, ci inoltriamo per la stradicciuola che conduce a Derna.
Si cammina fra basse mura di orti e di giardini; ovunque si guardi si elevano i ciuffi eleganti dei palmizi.
Ogni tanto qualche porta moresca si apre su una magnifica visione di verde.
Vedo strani e indimenticabili intrecci di palme e gruppi di banani e di fichi e di cacti. All’ombra delle piante pascolano cammelli e pecore.
[200]
Qualche figura di donna ammantata nella sua veste giallo-oro e rossa, si perde fra le ombre.
Traversiamo il letto sassoso di un torrente asciutto ed eccoci, alla piccola Derna. Un bianco nido fra giardini e campi ubertosissimi, un sèguito di casupole dalla terrazza ricca di fiori.
Ma tutto questo ben di Dio, tutta questa ricchezza in realtà si limita a ben poca cosa: intorno intorno, su l’altipiano, è terra incolta e dispoglia. Non un albero, non un’ombra: una distesa desertica.
Derna non è che un’oasi sul mare.
La città, o meglio il villaggio, non ha alcun carattere particolare. Sono le solite casupole arabe, tutte bianche, terminate da una terrazza.
In una piazzetta irregolare sorge il palazzo del kaimakan.
Ciò che mi resta a dire su questo angolo d’Africa non riguarda nè il clima, nè gli abitanti, nè le mie particolari impressioni. Benchè non possa qui trattare esaurientemente la questione, voglio accennare ad alcune cose le quali dimostrano approssimativamente quale sia, almeno in queste regioni, l’atteggiamento assunto dai giovani turchi verso l’Italia.
La loro massima è la seguente: Fare buon viso e favorire in apparenza ogni iniziativa italiana; ostacolarla in sostanza in tutti i modi possibili, tanto che non se ne venga mai a fine.
La politica del doppio giuoco, insomma; un astuto andirivieni pieno di affabilità, tanto affabile da distruggere l’avversario a furia di cortesie e da lasciarlo con un pugno di mosche.
E questo è appunto ciò che accade ai nostri connazionali residenti in Cirenaica.
[201]
Eccone una prova che mi pare abbastanza significativa.
Un nostro connazionale che ha attraversato in lungo e in largo l’altipiano della Cirenaica e ne ha studiato il clima e i terreni e le possibilità di irrigazione, venuto nel convincimento che sarebbe stata non solo possibile, ma altamente rimunerativa una cultura di detti terreni, tre anni fa si decise di tentare l’impresa e comprò dal Governo turco un largo appezzamento incolto per tentarvi i primi esperimenti.
Il vecchio Governo necessariamente annuì, intascò i soldi, e quando si trattava di legittimare e di definire la proprietà del nostro connazionale, quando si trattava di segnarla a catasto sorgevano mille difficoltà e una. Prima un impedimento, poi un altro; mandarono la cosa alle calende greche.
Il vecchio Governo cadde; Abdul Hamid andò in esilio; tutta la stampa europea, e più specialmente quella italiana, levò odi e inni al nuovo reggimento, ne magnificò le intenzioni, ne salutò esultando l’avvento al potere. Non una nota stonata, non un sorriso incredulo o pessimistico; dal nord al sud si davano l’imbeccata, e la gioia dei mussulmani pareva una gioia famigliare.
— Che cuori d’oro questi italiani! — avrà pensato qualche turco dalla faccia ambigua; qualche turco per antonomasia, voglio dire, il quale, giovine o vecchio che sia, non è precisamente troppo sentimentale. E noi giù, a fare il “Francesco mio!„ come i fringuelli in amore e a gettar parole a mani piene e a cantare il “magnificat„.
E qualcuno ci crede ancora un popolo vecchio, mentre abbiamo l’ingenuità dei poppanti e la baldanza dei giovinetti che non misurano il loro entusiasmo.
Insomma si prese un granchio a secco e un bel granchio solenne, tanto da dover torcere il niffolo mortificatamente come la pulcella che si fida troppo su l’idealità dell’amante suo e si vede fatta una cosa che non si attendeva.
[202]
Ora il nostro connazionale, che aveva esperimentato a sue spese i metodi del vecchio Governo, a tanto suon di tube e di tamburi, si sentì allargare il cuore e cominciò a sperare da bono e si ringalluzzì.
Egli viveva, veramente, molto lontano dalla capitale turca, in un’oasi quasi selvaggia e non poteva veder mutamenti, ma, in compenso, leggeva i giornali i quali inneggiavano alla marcia trionfale della Giovine Turchia.
Contuttociò gli parve, così, nel suo isolamento, che al magnifico concerto cominciasse a mancare qualche istrumento: oggi i clarini, il giorno dopo i flauti, poi i tromboni; gli parve che la voce ne fosse meno sonora e che l’eco ne morisse; poi gli nacque un dubbio che ritornò a tormentarlo con insistenza assidua:
— Ma.... o io sogno.... o questa è musica che conosco!
E non sognava e ben presto se ne convinse per sua personale esperienza.
La Giovine Turchia aveva cambiato i suonatori, ma la musica era la stessa.
Giunse a Derna il nuovo kaimakan con le sue donne.
Fu ricevuto a gran festa; si installò nel palazzo del comando come i reucci da fiaba.
E cominciò la serie delle mirabili cortesie.
Inchini a destra, sorrisi a sinistra e strette di mano e parole soavi, mentre in cuor suo cantava l’antica antifona turchesca:
— Accidenti ai giaurri!
Sorrisi e parole oh! tante quanti i datteri su la palma.
E il nostro connazionale cominciò a bene sperare. Le necessarie formalità per la legittimazione de’ suoi terreni sarebbero state compiute ed egli avrebbe potuto mettersi all’opera; senonchè....
Ecco; la prima volta ch’egli ne parlò al kaimakan (erano diventati intimi amici), questi fece le più alte meraviglie. [203] Come mai a Costantinopoli si aspettava tanto? Come spiegare una così dannosa incuria? Non era l’Italia una nazione amica, anzi una fra le migliori amiche della Turchia?
— Non dubiti, scriverò, scriverò; la cosa sarà sbrigata entro un termine relativamente breve. È bene si cominci la cultura di queste terre. Lo Stato deve concedere, facilitare, stimolare, difendere.... — e giù una fiumana di parole entusiastiche.
Il nostro connazionale se ne andò sfregandosi le mani. Era giunta la volta buona.
Che cara persona quel kaimakan, e che esatta visione delle cose e quale modernità d’intendimenti!... Con una persona tanto compita non conveniva insistere, non bisognava mostrarsi seccatori; egli avrebbe agito per conto proprio ottenendo sicuramente un risultato favorevole.
E il nostro amico comincia ad aspettare, non trascurando pertanto di usare le dovute cortesie a quel caro giovine turco.
E passan due mesi, passan cinque mesi, ne passano otto....
L’italiano guardava timidamente il riverito rappresentante della potenza islamitica; ma questi non capiva, sorrideva, aumentava le cortesie, parlava dei canali di Marte; poi un giorno in cui al connazionale nostro rinacque quel tale dubbio di cui abbiamo detto sopra, un giorno in cui il suo buonumore era relativo, si decise a parlare:
— Dica un po’, e le mie terre?
— Quali terre?...
— Quelle di cui abbiamo parlato, via!... Quelle che debbono essere segnate a catasto!
— Ah! sì, mi ricordo, perdoni. Ha ragione, ha ragione; ma ho scritto, vede, ho scritto e ho fatto sollecitudine!... Non capisco come non mi abbiano ancora risposto. Ma abbia [204] la cortesia di aspettare.... guardi, lei è qui, leggerà la mia nuova lettera, poi la spediremo. Va bene?
— Benissimo.
E la nuova lettera è scritta nei termini più soddisfacenti ed è affidata al primo piroscafo che la porti a Costantinopoli. La risposta non si fa aspettare, senonchè....
Una sera, dopo l’arrivo del postale da Costantinopoli, il nostro connazionale ti vede il kaimakan, ma con tale una faccia nera da sembrare uno spaventapassere; fa per tirar di lungo; ad un tratto si pente, fa un cenno al nostro amico, il quale, quando gli è vicino, si sente dire in tono cavernoso:
— Venga; dobbiamo essere soli!
E vanno. Quando sono soli, il kaimakan estrae di tasca una lettera, ma prima di consegnarla all’amico nostro gli dice:
— Lei mi deve promettere di non compromettermi.
— Comprometterla?
— Sì. Si tratta di un affare gravissimo. La mia posizione ne va di mezzo.
— Ma dica, dica e si fidi della mia discrezione.
Una pausa. La lettera è consegnata.
— Legga!...
E il nostro connazionale legge strabiliando, poi si stringe fra le spalle e se ne va raumiliato.
Nella lettera in questione il Governo centrale rimproverava aspramente il kaimakan per il suo poco patriottismo (parole testuali) e lo consigliava di non insistere troppo su certi punti, minacciandolo altresì di punizioni severissime.
Che dire dopo tutto ciò? Con quale coraggio insistere?...
E qui torna a proposito il terzo senonchè....
La commedia era troppo evidente; i machiavellucci da strapazzo non conoscevano la buon’arte toscana dell’inganno [205] politico, chè non erano soccorsi nè dall’alto ingegno, nè dalla scaltrezza, nè dalla furberia dei nostri uomini maggiori; non sapevano essere che astuti come le volpi e come i contadini, e cioè di una grossolana astuzia la quale non saprebbe ingannare non già un cane da fiuto, ma più inesperto bamboccio in fatto di politica.
Di questo si avvide il nostro connazionale, ma a quali ripari poteva ricorrere?
La commediola fra il kaimakan e il Governo di Costantinopoli era più che evidente: il kaimakan non aveva fatto che il giuoco del Governo e, per non avere ulteriori noie dal suo amico personale, era ricorso allo strattagemma perfidiosetto della lettera minacciosa. Necessariamente l’amico avrebbe abboccato all’amo, e pace e patta!
Questa storiella si è svolta nell’anno di grazia dell’Egira 1287 e più precisamente nel nostro 1909.
Potrei documentarla e far nomi. In essa non è una parola aggiunta, nè un particolare esagerato.
La persona di cui ho parlato attende ancora, se pure, come ne espresse desiderio, non ha lasciato in asso tutto e non ha abbandonato la Cirenaica.
Il sentirsi le mani legate, il vedersi ostacolare sordamente ogni iniziativa è cosa che finisce per stancare un uomo d’azione, il quale vede nel mondo altri campi aperti alla propria energia.
Se ha resistito con la perseveranza della nostra razza che non si lascia infiacchire, vorrei augurarmi ch’egli potesse da solo (e l’Italia ha sempre fatto da sola oltre il suo Governo decorativo) ottenere il risultato che merita, ma che mi sembra tuttavia molto dubbio; se poi ha abbandonato il campo, i Giovani Turchi si fregheranno le mani gioiosamente assegnando la diserzione a un nuovo trionfo del loro sistema.
Essi vogliono ostacolare in qualunque modo l’opera e [206] l’impiego del capitale italiano in Cirenaica, e siccome non sono forti e non possono opporsi con la violenza, si adornano di sorrisi e di salamelecchi, e con mille scuse e con inchini profondi ci mettono soavemente alla porta.
Essi non hanno per ora nè capitali, nè energie da impiegare nello sfruttamento di queste terre; ma che importa? il popolo è bestia: si nutre di Allah e di una manciata di grano, e muore convinto che così era scritto. Poi: favorire un russo, un inglese, un patagone, sì; ma un italiano, no.
In Tunisia i francesi ci trattano come bestie da soma, ci negano le scuole, ci fanno una colpa di essere italiani, e noi zitti; in Cirenaica siamo perseguitati e messi alla porta, e noi zitti; in Tripolitania succede altrettanto, e noi raccomandiamo il silenzio e ci umiliamo.
La linea di navigazione, sussidiata dal Governo, la quale partendo da Catania tocca la Tripolitania, la Cirenaica, l’isola di Creta, Smirne e Costantinopoli (linea istituita a solo beneficio dei turchi), ha dato fino ad ora risultati magnifici. La nostra penetrazione, come abbiamo veduto a Derna e come accade a Bengasi e a Tripoli, si svolge indisturbata, e gli ingenui che si rivolgono ai nostri consoli per aver schiarimenti, li trovano fermi in un gesto ieratico, come il dio indiano accosciato sul fiore di loto; le mani sul ventre dorato.
Abbiamo costeggiato l’immenso altipiano deserto, animato solo, a grandi distanze, da qualche gruppo di palmizi; ora, fra le nebulosità del cielo e del mare, in una pianura rossiccia si distingue il minareto di una moschea; è l’unica cosa che soverchi all’intorno.
Bengasi appare fra una desolata natura, e, quando si discende, l’impressione non varia. Camminiamo fra la sabbia, [207] nella quale il piede si affonda fino alla caviglia; il caldo è soffocante; tutto è arido, sitibondo.
Sorgono qua e là alcune case meschinissime, una montagna di sale, una piazza deserta.
Passano torme lacere di beduini incappucciati e grondanti sudore. Le vie sono disselciate, sabbiose, cosparse di immondizie e di pozzanghere di un’acqua nerastra che tramanda un fetore insopportabile.
Non un aspetto gaio, non un’ombra piacevole vi invita a riposare; tutto è riarso, stanco, inebetito nella gran calura.
Alle ombre brevi dei muri riposano lunghe fila di arabi taciturni; qualche lento cammello dalla bocca bavosa e dagli occhi malinconici passa nel sole ondulando.
Cammino a fatica.
Nelle strade solitarie gli arabi che riposano su le soglie mi guardano col disprezzo indefinibile che è in fondo agli occhi di tutta questa gente quando squadra un infedele.
Attraverso il Suk, che non ha altro carattere se non quello di una grande miseria. Tutto è misero, lacero, esausto. È il paese dello squallore.
Oltrepasso la cinta della città, e fra la sabbia ardente mi interno in un villaggio di neri.
Tutta una tribù si è stabilita alle soglie di Bengasi e vi ha elevato le sue misere capanne.
Le donne, per vezzo, hanno infilato nel naso un corallo; sul nero della loro faccia la piccola macchia rossa fiammeggia come una ferita.
In questo caldo meridiano quasi tutti dormono. Vedo donne e fanciulli sdraiati all’ombra delle loro capanne su la sabbia.
Intorno intorno si levano i ciuffi dei palmizi.
Questo villaggio africano si chiama Zraib.
[208]
Qualche giorno fa capitò a Bengasi un bell’uomo alto, tarchiato, adusto dal sole; vestiva alla foggia algerina.
Parlava correttamente il francese e l’arabo e, quantunque si dichiarasse mussulmano, si vuole fosse di nazionalità francese. Oltre il tipo fisico, molti altri indizi davano a credere che la sua terra d’origine non fosse l’Africa.
Aveva adottato il nome di Rafaat Safi.
Scese all’Albergo Cirenaica, condotto da un maltese e, nei discorsi che ebbe a fare col proprietario dell’albergo stesso, si mostrò fanatico dell’islamismo. Tanto fanatico da destare qualche dubbio circa la sua sincerità.
Il giorno che seguì al suo arrivo si diresse al muftì (prefetto mussulmano), gli espose la sua intenzione di studiare gli ordini religiosi maomettani e gli chiese una scorta che lo accompagnasse e lo guidasse verso l’interno.
Il muftì gli fece osservare tranquillamente che non era affatto necessario dirigersi verso regioni inospitali, dato il còmpito che si proponeva; ch’egli poteva rimanersene a Bengasi, dove lo studio gli sarebbe riuscito più facile, soccorso dall’aiuto e dal consiglio diretto del muftì stesso.
Rafaat Safi non si lasciò convincere e partì solo.
Che voleva in realtà? dove andava? Nessuno seppe delle sue intenzioni.
Ieri, al di là di Deriana, nelle vicinanze di un antico castello diroccato, fu trovato il cadavere del pellegrino.
Gli sciacalli ne avevano fatto festa, poi ch’egli era caduto per via e non si sa come.
Certo, qualcuno sorride nell’ombra.
[209]
A Bengasi, come a Derna, si rinnovano le cortesie dei Giovani Turchi verso i nostri connazionali. Ormai ho detto di che si tratta, nè vale citare esempi sopra esempi per avvalorare le mie affermazioni.
Il terreno di un italiano, per citare un caso tipico, è occupato da gran tempo da un enorme mucchio di sale di proprietà governativa, e chi sa mai quando sarà liberato, nonostante le preghiere e le insistenze del proprietario stesso.
Un altro caso tipico, benchè di indole diversa, è quello dell’ambulatorio mantenuto a spese del Governo italiano.
Il nostro Governo mantiene in questo inferno un giovine medico valentissimo e valorosissimo, il quale, per voler adempiere scrupolosamente l’incarico avuto, si buscò già una malattia dalla quale non è ancora completamente guarito.
Una volta i nativi pareva gli serbassero gratitudine per il suo sacrificio continuo e per lo zelo e per la valentìa; ora le cose sono cambiate a tal punto ch’egli deve riguardarsi dal percorrere certi quartieri in ore poco opportune.
Risate, frizzi e sassate lo accolgono molte volte, tanto che si direbbe ch’egli fosse qui ad esercitare un ufficio ben diverso da quello che esercita in realtà.
Anche tale mutamento nei sentimenti della popolazione indigena, deve assegnarsi al frutto della nuova politica dei Giovani Turchi.
È il tramonto. Ho lasciato or ora la vasta piazza nella quale, in quest’ora meno aspra, erano usciti a passeggiare a piedi o a cavallo i deportati politici.
Un grande negro dalla faccia gioviale mi accompagna verso il piroscafo. Tutto arrossa: cielo e mare. I ciuffi dei [210] palmizi su la spiaggia sembrano pennacchi neri. Uno stagno si infoca; le lontananze si addolciscono.
Dalla bianca fortezza sparano undici colpi di cannone ad indicare che incomincia il digiuno del Ramadan[8]; rulli lontani di tamburi e suoni di piccole cennamelle dànno lo stesso avviso ai fedeli.
Il minareto che si leva nel pulviscolo d’oro dell’aria, dorato egli stesso e tenue tanto da sembrare una dolce forma fantastica, pronta a dileguare col dileguar del sole, si incorona di piccole luci scialbe a festeggiare l’inizio del mese sacro.
Ricordo i versetti del Corano che fecero del Ramadan un precetto fondamentale dell’islamismo.
“O credenti! È scritto che osserverete il digiuno come lo osservarono i vostri padri, e ciò perchè temiate il Signore.„
E ancora:
“Il mese di Ramadan, durante il quale il Corano è disceso dal cielo[9] per essere la guida e la luce degli uomini, e la regola dei loro doveri è il tempo destinato all’astinenza....„
“Voi potete, durante la notte del digiuno, accostarvi alle vostre spose. Esse sono la veste vostra e voi siete la loro. Dio sapeva che, a questo proposito, avevate trasgredito al suo comandamento. Egli vi ha guardato benevolmente; vi ha perdonato....„
[211]
“Potrete bere e mangiare fino all’ora in cui vi riuscirà distinguere, alla chiarità del giorno, un filo bianco da un filo nero. In seguito digiunate fino alla notte....„
Il gran negro che rema vigorosamente, seduto verso la poppa del battello, mi guarda sorridendo.
— Tu non digiunare.... — mi dice; e la sua bocca, quando parla, si apre come quella di un coccodrillo.
— No — gli rispondo.
— Tu essere porco! — risponde garbamente. — Tu brugiare inferni!... Tu malate pesta critare cane!... Infitèli saltare inferni; non morire, saltare sempri giorni, notta! Me, ciartini piratisi!...
E ride e ripete beato:
— Me, ciartini piratisi!
E sarebbe davvero un gran torto, poveretto, se non dovesse trovare, valicando la gran soglia, il giardino paradisiaco che lo fa tanto gaio.
Il piroscafo è animatissimo, viaggiano in prima classe: il fratello del Governatore di Tripoli con la sua signora, un bimbo e una serva nera; un impiegato turco e qualche greco. L’impiegato turco, che ha il passaggio gratuito fino a Costantinopoli e una commendatizia per il nostro ambasciatore, non viaggia per diporto, fugge.
Pare lo attenda una grave punizione per aver egli favorito o tentato favorire, in cosa di non troppo grave importanza, gli interessi italiani.
Il tramonto muore.
Dice il Corano, a proposito del Ramadan:
“.... Chiunque vedrà codesto mese deve osservare il precetto.
“Colui che sarà ammalato o in viaggio digiunerà, in seguito, un numero uguale di giorni.„
[212]
Questa la ragione per la quale la maggior parte dei viaggiatori mussulmani non digiuna.
La maggior parte, ma non tutti. I più vecchi mostrano uno zelo eccessivo.
Due giovinette, abbassato il velo che le nasconde, guardano la corolla solare discesa sulle acque per un attimo di splendore.
Ed è tanto bella che, per sua dolcezza, mare e cielo si congiungono smorendo nel color d’amore.
Non sorride, ha l’ansioso languore degli estremi abbandoni; è penetrata tutta quanta di paurosa letizia come la vergine che più non si oppone e piega temendo e sospirando forte sotto la carezza dell’amato; e così si invermiglia e negli occhi vaghi, larghi e fissi, traluce l’anima turbata nel desiderio del dolce dolore e nel timore della violazione.
E la corolla cede; ecco, il miracolo avviene. Il cielo l’ha perduta e la segue con un accenno di stelle, mentre il mare tutta la possiede e ne gode e se ne feconda nel suo ardore, che non muta segno.
È la sera, la languida sera per i begli occhi innamorati; fioriscono dal vuoto i misteri adamantini della tenebra, le luci che chiamiamo stelle e che immaginiamo come un diadema sopra la fronte di un gioioso Iddio.
Le stelle, il brivido della tenebra.
Tu le fissi e se l’anima tua si disfrena e schianta ciò che la vincola, e più non riconosce nè parola, nè senso, nè limitazione, e per le bianche vie delle meteore si scaglia fuori dal tepido e lucente circolo dell’atmosfera negli abissi tenebrosi dell’immensità; se l’anima tua inutilmente ardita vuol raggiungerle, ecco non sa che il terrore, chè il piccolo cuore la chiama dalla sua zolla, la chiama prigione entro le vene per la sua vita rossa.
[213]
Vita rossa, mistero pari al mistero delle costellazioni!
Oh! affaticarci proni su l’infinito inconoscibile e tessere nostre ghirlande e vederle sfiorire; e elevare bianche torri fra le nuvole e vederle rovinare! Oh nostra pena diuturna, nostra angoscia terribilmente vana, nostro ansimare e ascoltare e scrutare!
Altri compone sue città portentose e ad un ghigno dileguano; altri sorridendo tesse mirabili fedi e ad una parola si oscurano.
E l’ansia del cammino ne sospinge.
La sera è morta. Ecco il Carro di Boote ch’io guardavo già sopra i pioppi della mia casa; ecco l’accenno.
Cammina, poeta, cammina; si accendon le stelle; qualcuna che forse non raggiungerai ti attende lontana.
[215]
[217]
È, questo, il viaggio del sogno. Conviene essere soli, dimenticare il presente, darsi tutti all’onda delle memorie, vivere della magica eredità del passato e niente più. Di isola in isola si ritrova il silenzio, la solitudine, il deserto. Attraversate miseri villaggi fra aride terre, gruppi di squallide case fra giri di montagne rocciose; procedete a dorso di mulo per sentieri impossibili, chè strade non ve ne sono; vi internate sempre più fra il silenzio e la desolazione; chiedete ospitalità a qualche montanaro per trascorrere la notte, chiuso in un sacco che vi preservi da assalti importuni; riducete il vostro vitto a pane, uova e formaggio; continuate la strada solo, sempre più solo per giungere ai luoghi sacri, ai ruderi informi, dai quali vi proverrà il brivido tragico delle grandi evocazioni e nessun’altra vita che non sia quella lontana che rifulge nei millennii, nessun’altra voce che non provenga dalla storia più luminosa del genio umano vi sarà dintorno a distrarvi, a richiamare l’attenzione vostra su l’ora che fugge.
Due parole sole vi rimarranno nella mente per sentirle ripetere di continuo, anche al più timido presentarsi di un vostro desiderio: den exei: non c’è, non l’abbiamo, non esiste; una negazione, insomma, l’indice dell’assoluta mancanza [218] di tutte le cose di prima necessità. Conviene ridurre ad una misura più che minima i propri bisogni.
Chiedete un alberguccio qualsiasi? den exei; chiedete del sapone? den exei; un po’ d’acqua che non sia torbida? den exei; nulla c’è che non sia la tranquilla ospitalità che vi viene offerta di tutto cuore. Dividono con voi ciò che hanno, e se sono poveri non è colpa loro. Vivono nell’abbandono, nello squallore, e la dolcezza del cielo e del clima non basta alla loro prosperità.
D’altra parte da quando vi imbarcate su questi vaporetti che approdano, unici, alle isole dell’arcipelago greco, cominciate ad abituarvi alle privazioni, alla pulizia relativa. È una specie di iniziazione. Compite un vero pellegrinaggio con tutti i suoi disagi, ma non si approda a Cerigo, a Milo, a Santorino per puro diporto; non si viene quaggiù alla ricerca degli alberghi inglesi o tedeschi.
Abbiamo toccato Cerigo, l’antica Cythera, nella quale fiorì il culto della Venere fenicia. La terra della voluttà è apparsa in un mare chiaro quando l’alba rompeva all’oriente; è fiorita con l’alba dai fondi marini. Ero solo, i pochi viaggiatori dormivano sul ponte l’uno presso l’altro, avvolti nelle loro coperte. Il canto acuto di un gallo, chiuso in una stia, a poppa, si levava a interrompere il monotono pulsare delle macchine, il cigolìo delle catene, lo scricchiolìo degli assiti. C’era ancora una piccola lanterna accesa su la prua. Il timoniere ed il pilota, fermi sul ponte di comando, scrutavano l’orizzonte senza parlare. Una pesantezza di sonno era tuttavia su la piccola nave grigiastra. Il mare non aveva movimento, e su quell’immota serenità l’isola apparve quasi all’improvviso, quando il sole si affacciò sul mare. Una montagna azzurrina su le acque corse da sùbiti bagliori. [219] Avrei voluto vederla non più di così; non avvicinarmi; non saperne l’arida povertà. Toglierle il colore, studiarne troppo da presso lo scheletro è un uccidere in noi il fantasma nato per il fascino di una fresca giovinezza appassionata che cantò remotamente la sua gioia bambina. Il nido di Cythera aveva allora il color delle viole e del rosso bronzo; i culmini erano accesi; le coste pallide smorivano nel mare magnifico. Le ombre e le penombre potevano sembrare tuttavia foreste e giardini; immensi roseti per la bionda Iddia che le ore trassero al trionfo dei cieli. Nessuna cosa velava il sorriso del mare, il sorriso dei grandi occhi turchini, dai quali traluceva il desiderio e la limpida anima giovanile aperta come un fior d’oro sotto il sole; nulla s’interponeva. Nella quiete immensa sbocciava l’isola dell’amore ricinta dalla luce dell’aurora, dal grande abbraccio del mare, tutta serena, senza asperità, senza particolarità, come qualcosa che era e non era nella lontananza, che poteva da un attimo all’altro dileguare, essere assorbita come un giuoco di nebbie dal concavo orizzonte. Incerta e affascinante a simiglianza della voce lontana che il tempo non seppe vincere e che ascoltiamo tuttavia col brivido di un bacio. Meglio era trascorrere, passar oltre con nella mente gli echi di un antico convivio, i ritmi delle elegie e degli iambi che servirono a misurare, a dar vita impareggiabile agli impeti della poesia erotica e simposica; meglio era dileguare ricordando il fantasma di Cythera e non più.
“Aveva un ramo di mirto e i bei fiori del rosaio, e si trastullava: la chioma le ombrava le spalle....„
Così appare ad Archiloco la donna inutilmente amata, appare in un segno di bellezza semplice e divina e dilegua nell’amarezza della realtà; così a noi l’isola dolce dell’aurea dea dell’Amore.
Quando vi abbordammo, il mattino era nei cieli. Un piccolo molo, qualche veliero, una tranquillità stanca, forse [220] non turbata mai dall’affanno del lavoro; e intorno intorno l’ininterrotta aridità. Camminai per sentieri dirupati fra montagne riarse. Ricordo il canto di un giovine pastore seduto al sole sul culmine di una roccia rossastra; un canto di una malinconia inesprimibile, che mi seguì per lungo tempo fra le solitudini montane; ricordo, in un cortiluccio di una casa solitaria, tre belle giovinette che, per un attimo, rievocarono innanzi a me, inconsciamente, l’antica vita ellenica.
Ero uscito dal mio sacco di difesa dopo una notte quasi insonne; avevo aperto le finestre; guardavo sorgere il sole fra le montagne. Di repente apparvero in un frullo, nel cortiluccio sottostante, i capelli quasi disciolti, le vesti scomposte, nude le braccia e il collo, tre giovinette belle, fresche come il frutto di luglio su la rama. Avevano gli occhi umidi e grandi sul volto bruno; umidi di gioia, umidi di sorriso e una languida soavità accompagnava i loro gesti. Si fecero al pozzo, riempirono d’acqua le loro secchie di rame rosso, se ne irrorarono fra strilli e risate, poi, presesi per mano cantarono:
“Io mi lavo con fede davanti al Figlio di Dio e davanti alla stella del mattino che è la pupilla del mondo....„
Scomparvero, non mi fu possibile rivederle, furono non più di un bagliore, eppure, per loro virtù, rivisse innanzi a me fuggevolmente l’anima omerica:
“Quivi giovinetti e fanciulle, che portano in dote le mandre di buoi, danzavano tenendo le mani l’una nel carpo dell’altra.... Ora correvano con abili piedi assai facilmente.... ora ricorrevano in fila gli uni verso gli altri....„
Echi remotissimi che riempiono l’anima di nostalgica dolcezza, e solo per simili echi si è animato fulgoreggiando tutto il mio viaggio solitario.
Di Cythera, o meglio di Cerigo, non rammento se non scarsi ruderi informi, grandi cespi di mirto e di gelsomino [221] e otri di miele, di un ottimo miele che sa di timo; e rammento altresì una ricetta per un filtro di amore donatami da una vecchia, nei dintorni di Hapsali. Sì come le feci l’elemosina, la scarna creatura volle farmi compartecipe di un suo segreto che potrebbe risalire, forse, al tempo del molle Adonis. A me non serve e lo comunico ai lettori:
“Si riempie di acqua di rose, per metà, una bottiglietta di cristallo e vi si pongono a macerare alcuni grani di incenso e qualche foglia, disseccata, di mirto e di santoreggia. Si chiude ermeticamente la bottiglietta e la si espone al sole per quarantott’ore, trascorso il quale periodo si filtra il liquido e vi si aggiungono trenta gocce del succo di un cedro di trecento anni e la rugiada di nove rose rosse e di sette rose bianche raccolte all’alba che segue l’apparire del primo quarto di luna; poi un chiodo di garofano e l’ultimo anello della coda di un serpente disseccato.„
Nient’altro.
La vecchia dagli occhi pallidi mi assicurò che tale ricetta era infallibile.
— Provala — mi disse —; non avrai più desiderio....
E si allontanò zoppicando sotto il crepuscolo violaceo.
Da Cerigo a Milo, da Milo a Santorino, da Santorino a Paro a Scio a Metelino abbiamo percorso in tutti i sensi il classico mare degli Ulissidi.
Di isola in isola, sostando a lungo in piccoli scali quasi abbandonati, in compagnia di povera gente che si industria come può, ma che ha precisa coscienza della propria condizione e non si abbrutisce nell’ignavia che nulla cura; parlando rado e sempre di politica chè anche l’ultimo fra i greci si interessa della vita pubblica del proprio paese e ci si appassiona; passando da piroscafo in piroscafo senza [222] mutare per questo, sistema di vita: dalla Morea, sono giunto a Metelino lungo le coste dell’Asia Minore.
Si navigava su mari di cobalto, di azzurro tanto intenso che a volte, nell’ombra, diventava nero e avevamo sempre in vista qualche isola, qualche scoglio, qualche aggruppamento di montagne coniche. L’orizzonte era sempre interrotto da una forma singolare, che ne frastagliava la linea piatta. Nelle lunghe ore silenziose si seguiva l’apparire e lo scomparire degli scogli granitici e gialli e rossi; nudi, rivestiti di sole e battuti dalle onde. Avevano ai piedi una bianca orlatura di spume; al vertice, nell’incendio solare, un volo di procellarie. Passavano oltre, più remotamente, sotto i confini del cielo, altri vapori. A volte non si vedeva che un tenuissimo pennacchio di fumo su l’ultimo mare. Poi piccole barche da pesca con la vela d’artimone tutta bianca e la piccola vela del trinchetto di un rosso violento e si andava, si andava senza tregua lentamente, monotonamente. A bordo era padrone il sonno. La gente mangiava e dormiva.
Tutto era propizio al sonnecchiare, e il silenzio e l’ampio ondulamento e il caldo. Così di tappa in tappa, dalle coste di Milo tutta fiorita di gelsomini a l’immenso cratere invaso dal mare che forma la baia di Santorini; dalla montagna circolare di Paro, l’isola dolce che dette i natali ad Archiloco, alla scoscesa Scio, sacra a Minerva, si approdò a Metelino. Anche il bel nome antico le fu tolto, e l’“insula nobilis et amœna„ di Tacito, la patria di Alceo e di Saffo, Lesbo dalle belle figlie, fra terremoti e guerre e invasioni nulla serba dell’antico splendore.
Quando entrai a Metelino (Midillii la chiamano i Turchi), era quasi notte. Su la porta di una casa equivoca un turco grattava una guzla, un istrumento a corde dal suono aspro, chioccio, stridente, e alcune voci cantavano. Era un canto turco, ciò è a dire un indefinibile gargarismo, una specie [223] di singhiozzo modulato sgarbatamente su alcune note discordi che si rincorrevano a gran furia accavallandosi, sopraffacendosi, urtandosi come tre fiere nemiche rinchiuse in uno spazio breve. Da prima ascoltate stupefatto, cercate un filo conduttore, una ragione di tanto frastuono, un qualsiasi disegno melodico, poi restate disorientato finchè non fuggite stordito. Questa è la musica turca.
Tale frastuono mi accolse quando entrai nella meschina città senza garbo e senza carattere, percorsa da marinai turchi e dalle eterne ammantate che scivolavano rasentando i muri, simili a goffi spettri claudicanti o ad otri rigonfi dall’equilibrio instabile.
Ricordai i silenzi di Paro, il calmo raccoglimento delle isole sperdute fra cielo e mare, e le voci e i suoni e le cose che stavano in sì grande contrasto con l’alba remota che venivo pensando, mi riuscirono odiose. Non mai come a Metelino sentii il profondo abisso che separa due anime, due popoli, due razze.
La lira di Orfeo, che la leggenda fece approdare a quelle rive, doveva essere sepolta bene a fondo sotto la terra sacra, nell’isola più musicale fra quante ne ebbe la Grecia. Tutto è morto, tutto è scomparso nel gran buio dei millennii.
Il fanatismo vinse la calma serenità antica, la sopraffece, la turbò, la sconvolse. I greci che rimangono non sono meno fanatici dei turchi; a suprema difesa, nella loro debolezza, si avvincono al loro Dio, e il fanatismo è una sciocca follìa che annebbia ogni chiaro entusiasmo. Più che altro, pare sia rimasto a questo popolo smembrato, perseguitato, combattuto senza tregua nella pace e nella guerra, ciò che era un tempo la rarissima eccezione: la malinconia di Esiodo. È un popolo malinconico, in fondo, cupamente malinconico. Lo dicono le sue canzoni e tutta quanta la sua vita. Quante cose non ha visto morire? Quale soccorrevole Minerva ha sopravvissuto per la sua fortuna? Egli favoleggiò [224] bensì, un tempo, quando il giovine sorriso dell’Iliade era nell’anima sua; favoleggiò di un bel Dio dall’arco di argento che vinse, lottando, lo spirito delle tenebre; ma con quanta tenebra non ha ripagato di poi quella luce che non fu mai più sopravanzata?
Sulla terra nella quale l’assurdo e l’incomprensibile furono sempre sdegnati, doveva stabilirsi appunto il regno dell’assurdo e dell’incomprensibile, e il popolo più fecondo, perchè credette alla libertà, doveva piegarsi e immiserire sotto il fanatismo mussulmano perennemente sterile. Sterilità che fece il deserto. La gran vita solare fu oscurata nei secoli. L’anima gioiosamente chiara tramutò, si intristì, decadde e, ai più sperduti, rimase unicamente una inconscia eredità di costumi.
Solo l’irrequietezza, la turbolenza, la mutevolezza, il cinismo, caratteri che furono già degli antichi, si mantengono nei greci moderni.
Dolorosa eredità.
Allorchè, nei tempi più belli di Atene, alla domanda:
— Chi governa il Destino?
Eschilo fece gridare a Prometeo:
— La Parca e le Furie!... — vide nel tempo, profetizzò. Eschilo fu l’Elia del popolo greco.
Ciò ch’io vidi a Metelino mi fece triste. Fu come chi giunga festosamente dove era già un giardino e non ritrovi che aride sabbie.
Solo quando l’isola si allontanò sul mare e fu tutta azzurra come un nido di sogno nell’immensità, potei pensarla e vederla quale era; solo allora mi rifiorirono nella mente gli echi dei lontani hymenei e gli sparsi frammenti di una poesia immortale.
Cadeva un crepuscolo soave; ero solo. Passò una piccola [225] barca; mi giunse una voce. Un giovine e una giovinetta erano ritti su la prora. Non udii ciò che dicevano; mi ritornarono nella mente le parole di Saffo:
“Stammi in faccia, caro, e spandimi la grazia che hai negli occhi....„
Sui confini del mare la luce moriva come in una ghirlanda.
Tutte le rose della Pieria eran cadute dal cielo a coronare il fantasma che dileguava.
Atene è dileguata fra il fulgore violaceo de’ suoi monti dispogli. Visione indimenticabile, ebbrezza senza pari!
L’Acropoli, a somiglianza di una enorme torre mozza elevata a prodigio in queste terre d’oro, è scomparsa. Passano le ombre delle nubi su le montagne.
Navighiamo verso il canale di Corinto.
In quale diafana chiarità, sotto il fumo del vapore, si perde Atene!... Naviga, sopra di noi, nel cielo, un velario di nubi bianche. E tanto sono belli il cielo ed il mare e l’oro del sole è sì vivo, che gli scogli lontani sembrano gemme.
Di sopra le basse colline spuntano strani profili di nubi; piccole barche con due vele rosse trascorrono silenziose.
Ecco Helena dal colorito di ambre; Helena, la piccola ateniese mi ritorna alla memoria.
Ricordi, piccina, le belle meduse nel golfo di Corinto? Navigavano su le acque chiare, simili a sugheri, le meduse rotonde, e tu le indicavi col braccio ignudo, con piccole grida.
C’erano due inglesi che andavano in viaggio d’amore e sorridevano alla tua fanciullezza pensosa come io ti sorridevo; io che pensai in te il destino della tua patria.
[226]
Poi Atene spuntò e tu stavi raccolta su la prora, immersa nella magnifica chiarità orientale e avevi negli occhi il cuore, il cuore della tua terra che si affissa verso l’avvenire.
Passammo vicino a uno scoglio. C’era una croce bianca. Non so perchè una nube di tristezza ti passò sul chiaro volto di bambina e non ti interrogai: vidi, nel segno, il dolore della tua terra.
Un raccoglimento ed una fede.
E ti benedissi in cuor mio, piccola ignara, che impersonavi un destino tragico e stupendo. Adesso, come allora, appare lo scoglio dalla croce bianca, ma tu sei lontana.
Prima che la gran terra dilegui, a te viene il mio cuore benedicendo, poi che tu mi sei la giovine Grecia che attende.
[227]
Buöreb lä jode, go oro.
(Meglio è andare anzichè stare).
Proverbio lappone.
[229]
Un canto dei Lapponi, e cioè degli uomini che abitano le ultime terre verso il silenzio polare, dice ad un dipresso così:
Solo le navi degli Dei raggiungono la stella del nord,
ma tu non ti affidare, fratello,
non ti affidare alla tua forza.
Nessuno ritorna dalle montagne della bianca stella,
dalle montagne di ghiaccio
che vegliano i palazzi infernali!
E in queste parole è espresso il sentimento che coglie ciascuno di noi allorchè il pensiero rievochi la titanica sfinge eretta alle soglie del polo a conservarne intatto il tragico mistero.
Ma noi, gente dei paesi felici che il sole non abbandona mai, abbiamo del lontano orrore iperboreo una visione incerta, vaga come le immagini del sogno, indefinita come i paesaggi crepuscolari, diffusi fra un fluttuare di nebbie; non ne sentiamo l’immediatezza, non ne avvertiamo la minaccia se non a grandi intervalli, allorquando l’ardimento di qualche eroe nostro si spinga ad avventurarsi verso l’ultimo mistero del mondo. All’opposto i Lapponi, come gli Esquimesi, i Ciukci, gli indigeni delle coste americane polari, vivono la [230] loro povera vita randagia ai piedi della grande sfinge e ne sentono il contatto e ne sopportano l’assidua violenza, sì nelle tenebre senza aurora, come nel pallido giorno privo di tramonti. Essi stanno alle soglie delle terre ignote, nei paesi tristi e sterminati, in una solitudine che non ha confine.
E i loro rarissimi canti significano, la maggior parte delle volte, o una timida speranza o la paura che sovrasta in un impero incontrastato. Tale la sensazione ch’io ne ebbi accostandoli, vivendo con loro qualche settimana nella più interna parte delle loro terre verso il mar Glaciale.
Era mio proposito, partendo da Stoccolma, di inoltrarmi quanto più mi fosse possibile nel cuore della Lapponia, e ciò unicamente per la gioia della mia conoscenza e per quel sentimento nostalgico che sospinge eternamente colui che ha l’anima del viandante ad un punto più remoto sempre più remoto su le vie della terra e dei mari.
Un tempo non si poteva intraprendere tale viaggio se non seguendo le coste della Norvegia; ora il Lappland Express, che giunge fino a Narvik, nel fjord di Ofoten, e cioè verso il 70º parallelo, facilita di gran lunga il cammino al viaggiatore.
Tale linea ferroviaria, costrutta dallo Stato svedese, è l’unica al mondo che sorpassi il circolo polare. Essa si lancia attraverso le steppe deserte del nord ed è protetta per tratti lunghissimi da gallerie artificiali affinchè le terribili tempeste dell’inverno non abbiano a seppellirla sotto uno strato di quattro e a volte di cinque metri di neve. Con tutto ciò dall’ottobre al maggio, lungo il tratto che va da Boden a Narvik, cioè dal circolo polare fin quasi al 70º parallelo, nonostante una squadra di oltre un migliaio di operai, impiegata a mantenere libera la linea, non è raro che i treni vengano arrestati dalle tempeste, che in quelle latitudini piombano improvvise e violentissime, e siano quasi sepolti sotto la neve.
[231]
Le grandi miniere di Kiruna, il paese delle montagne di ferro, rendono possibile il mantenimento di tale ferrovia, chè altrimenti non potrebbe sussistere perchè l’umanità, per quanto la si voglia sedurre con la visione di una bellezza tragica ed inattesa, preferirà sempre il Cairo e magari l’Equatore alle singolari dolcezze di un paese nel quale la notte si prolunga per tre e quattro mesi, confortata da una temperatura di 40 e 50 gradi sotto zero.
Comunque sia, l’industria che non ha troppe sottili preferenze, visto il proprio tornaconto, ha sfidato le difficoltà maggiori e con la sua tenace gagliardia, con l’ardimento che non cede, le ha superate trionfandone.
Per opera sua ai piedi del Kirunavaara, dove fino a pochi anni or sono non era che il silenzio dell’immensa steppa, è sorta una città di 9000 abitanti (cifra enorme per quelle latitudini) e per opera sua la ferrovia che attraversa la Lapponia meridionale può prosperare.
Fra i miei appunti di viaggio trovo la nota seguente: — 5 agosto — Vännäs. — Il cielo è sempre grigio. La vegetazione impoverisce. Fra poco entreremo in Lapponia. —
Forse fu la mala ventura che si fece mia assidua compagna, ma il fatto si è che dal giorno in cui sbarcai a Trelleborg, nel punto più meridionale della Svezia, fino al giorno in cui giunsi ad Enontekis e a Kautokeino, nel cuore della Lapponia, la pioggia, il vento e il freddo furono miei assidui compagni. Conobbi l’estate più nella volontà degli uomini che non in quella della stagione. Vidi le signore nelle più ardite vesti estive, nude le braccia e il principio del seno, ma il termometro segnava modestamente 12, 15 gradi e qualcosa più ed anche molto meno. A Stoccolma, ad esempio, alla sera, tempo permettendolo, si andava a [232] frescheggiare su le terrazze aperte dei grandi caffè. Frescheggiare è la giusta parola, perchè non appena seduti, il cameriere si affrettava ad offrirci, oltre alla bibita, una coperta rossa, nella quale era necessario avvolgersi per difenderci un poco dalle intemperanze estive.
Tale non è il clima consueto della Svezia, che gode fama di dolcissimo durante l’estate. Per mia disgrazia io assaporai un frutto di eccezione e lo assaporai tanto più compiutamente quanto meno avevo preveduto un simile cataclisma.
Man mano che procedevo verso il nord i miei poveri vestiti, troppo nostalgicamente italiani, mi dimostravano la loro completa insufficienza finchè, prima un ampio scialle da viaggio, poi un pastrano imbottito, non li corressero in modo definitivo. Data la quale correzione mi fu concesso osservare i luoghi ed i costumi con occhio più tranquillo. Così il 5 agosto 1907, essendosi fermato il Lappland Express alla stazione di Vännäs, scrivevo la malinconica nota.
Avevamo percorso fino allora il Norrland, fra le dense nebbie delle valli ed il pallido sole delle cime. La natura aveva assunto un aspetto di grandiosità severa, ma troppo continua, troppo eguale per l’anima nostra mutevole, che mai non s’appaga perchè educata ad una varietà incomparabile.
Gli occhi nostri facilmente si saziano di un aspetto sì per la rapida facilità di coglierlo sotto tutte le sue linee, come per l’indubbia certezza di trovarne innumerevoli altri dissimili; ora tale facilità e tale certezza nuocciono alla compiuta penetrazione di un paesaggio nordico. Là dove la vita si attarda, dove le cose si fanno oscure e solenni, dove gli uomini hanno un’anima diversa, più tranquilla, più dolce, più profonda, è necessaria a noi una continua moderazione, una vigilanza assidua su ogni giudizio, su ogni moto d’impulso, su ogni repentina impressione; conviene temperare il nostro ardore per bene intendere le cose che pur passandoci [233] da presso non ci sono vicine e l’intimo senso delle quali ci sfugge. A primo aspetto gran parte della Svezia farebbe a noi un’impressione desolatamente monotona, sicchè saremmo tratti, con tutto il garbo possibile, a parlarne come di un paese che si ripete e si ripete senza varietà, quasicchè la natura, esausta dal troppo creare, fosse giunta laggiù con poche idee e le avesse svolte in una continuità che opprime. E questo sarebbe un errore causato da una impressionabilità mal contenuta e dalla luce e dai colori e dai rapporti interamente diversi e disposti in armonie insuete.
Noi proveniamo dalla terra dei contrasti, dalla terra in cui ogni arditezza è possibile, in cui i giuochi delle mezze tinte, delle più tenui gamme di colore, son pur sempre vivi, distinti, apertamente chiari e rilevati. La nostra natura, che ha breve il sonno invernale, si desta nell’ebbrezza primaverile prorompendo come in un magnifico tumulto, impaziente di vivere, di donarsi alla carezza del sole, di espandersi in una festosità piena di ardore. Il dolce miracolo si compie in poche notti quando l’aria raddolca, così come fioriscon le stelle nel sereno, quasi inavvertitamente. V’è giorno in cui gli alberi aprono i loro bocci bianchi e vermigli, in cui le selve, i campi, si coprono della soave veste di giade della primavera, in cui un infinito tremito di vita dilaga in un impeto improvviso quasi per forza di prodigio. A troppa gioia son usi gli occhi nostri perchè possano a tutta prima intendere il lento languore, la profonda malinconia di un paese nordico, colto nella pienezza di una triste estate che non ha autunno e non ha primavera. E tale languore e tale profonda malinconia provengono appunto da quelle indefinibili sfumature, da quei rapporti degli alberi coi pallidi cieli, con le acque dei laghi deserti, con la luce diffusa che li fonde e li tramuta lievemente e li vela e li inargenta, ma appena, in tocchi di una leggerezza a noi ignota. E per questo giuoco sottilissimo, ecco: ciò che pareva [234] uniforme svaria, si moltiplica in mille aspetti, in un seguito di apparenze multiformi estremamente instabili, ma di una triste soavità che rivela tutta l’anima di quella terra dolente.
Ricordo quella corsa ininterrotta attraverso il Norrland con una particolare sensazione di tristezza. Il giorno non finiva mai. Il riposo della notte non c’era concesso.
Verso le dieci di sera il cielo si rasserenò, apparve tutto azzurro. Il sole volgeva allora al suo breve tramonto, tanto breve da essere vinto da una subita aurora che gli si accendeva a lato. Quell’eterna luce mi eccitava talmente da togliermi il sonno. Gli altri viaggiatori si erano già ritirati nelle loro cabine, ero rimasto solo. Ci fermammo ad Asträsk: una piccola stazione in legno in una landa. Nessuna casa io vidi, solo la luce di un lago lontanissimamente. Una linea fulgida; un bagliore in un deserto. Le abetaie eran finite coi monti. Guardai tutt’intorno per quanto era vasto l’orizzonte, ma non scorsi traccia del paese. Asträsk non esisteva, era un nome ed una casa in una infinita solitudine. Le grandi, le forti selve erano scomparse. Incontrammo ancora gruppi d’alberi, ma sempre più miseri e contorti: il circolo polare si avvicinava. A Bassuträsk una bimba scalza, e il vento freddo le faceva tutti rossi quei suoi piccoli piedi, si avvicinò al treno per offrirmi alcuni fiori raccolti lungo gli stagni in quel paese sinistro. Non disse parola, tese la mano verso di me e mi guardò senza sorridere offrendomi quel suo dono con una luce talmente dolorosa, in fondo a que’ suoi grand’occhi di bimba, ch’io non potrò mai più dimenticare.
Discesi, l’interrogai. Aveva un fratello e la mamma; il padre le era morto a Kiruna dove lavorava su le montagne del ferro. Un giorno l’abisso l’attrasse, gli occhi gli si annebbiarono, precipitò nel vuoto, colto dalla vertigine. Da quel tempo esse vivevano nelle terre di Bassuträsk in [235] una casa sola, al limite di una selva, lontana miglia e miglia da ogni altro luogo abitato. Ogni mattina ella, ch’era la maggiore, vestiva il suo piccolo fratello e partivano per la scuola. Percorrevano dieci chilometri, su la neve, durante l’inverno, fra gli stagni nell’estate. Nonostante una notte di tre mesi, l’inverno era preferibile. Allora scivolavano via su gli skidor e dieci chilometri erano un niente.
Scompariva appena il lume della loro capanna che già si intravvedeva fra gli alberi e la neve il lume della scuola. Avevano avuto tre maestre. Una era morta, l’altra era impazzita dalla paura, la terza era sempre triste e parlava della Scania, di un paese lontano dove il sole ritornava ogni giorno.
La scuola era una piccola casa rossa sperduta tra i boschi, le abitazioni più vicine essendo ad otto o dieci miglia di distanza. Del resto in tutta la regione di Bassuträsk sorgevano forse una ventina di case, sparse sopra un raggio di venti miglia.
Le maestre erano giovani e quasi sempre sole. Giungevano dalla Svezia meridionale, dai paesi felici, e poche potevano resistere a tanta solitudine, a quell’isolamento pauroso. Dal novembre alla fine di febbraio scendeva la notte, la terribile notte polare, squarciata solo a quando a quando dalla tremula luce rossiccia dell’aurora boreale. Allora la lucerna non si spegneva mai, non c’era più limite di ore, limite di luci, ma un unico stanco bagliore: quello della neve; ma un’eguale profondità tremendamente muta: quella del cielo oscurato.
Gli scolari restavano poche ore con la loro giovane, grande sorella, poi si levavano, poi ripartivano. C’erano uomini armati di fucili che li attendevano nel buio per riaccompagnarli e difenderli dai possibili assalti dei lupi, e in un attimo scivolavan via, ombre nell’ombra. Si udiva appena il fruscìo degli ski che già eran lontani.
[236]
E intorno alla casa rossa, alla piccola scuola fra i boschi, restava la tenebra tragicamente taciturna.
Così delle tre maestre, di cui la bimba mi parlava, una era morta e l’altra impazzita dal terrore in quell’isolamento inumano. Sapevo che la piccola diceva la verità. I giornali di Stoccolma avevan fatto una campagna in favore di queste eroine sconosciute, le quali per uno stipendio, a volte derisorio, accettano un còmpito tanto superiore alle loro forze e ne ritornano quasi sempre condannate alla morte; conoscevo la tragedia oscura e me ne ero appassionato per quella legge di giustizia umana, che dovrebbe sempre vincere la parte meno nobile che è in noi e che ci fa troppe volte meschini; ogni particolare era a mia conoscenza, eppure la storia che mi raccontò con la sua voce fioca la piccola bimba scalza, tanto mi commosse che ne ebbi umidi gli occhi.
Si avvicinava la mezzanotte ed il crepuscolo rossigno era tuttavia nei cieli. Una luce radente illuminava gli stagni innumerevoli: macchie di sangue sulle terre oscure.
Quando il treno si allontanò mi sporsi a salutare un’ultima volta la creatura triste e gentile; triste come i suoi paesi, gentile come i fiori che mi aveva offerti e che serbo ancora. Era ritta sul margine della banchina e mi guardava senza sorridere, agitando le mani in segno di saluto. Sentiva forse nella sua anima bambina, che il vecchio amico di mezz’ora partiva per non tornare mai più, sentiva tutta la malinconica dolcezza dell’ultimo addio! Le anime nordiche hanno una sensibilità affettiva molto maggiore, molto più tenace della nostra; la natura avversa le fa più buone, le spinge ad amare.
Il treno fuggiva rapidamente, ma fin che potei, fin che gli occhi miei ressero alla distanza, rimasi al finestrino a vedere l’ombra della piccola creatura che agitava le mani lentamente, continuamente nell’estremo saluto all’ignoto [237] che non avrebbe incontrato mai più su le vie di questa terra. Poi la penombra crepuscolare l’avvolse, la tenne, la disperse.
Il paese si faceva di ora in ora più fantastico. Ora montagne nude e nere si specchiavano in laghi color di ferro, poi anche le montagne scomparvero. Correvamo per una sterminata landa cinerea, senza l’ombra di un albero. Ad un tratto, siccome ero assorto, udii dietro di me una rapida corsa ed una voce che diceva:
— Herr! Herr! Det är Policirklen![10]
La voce si ripetè ad ogni cabina. Il treno fu corso da un improvviso vocìo. Mi sporsi dal finestrino. La landa continuava cinerea, solo ad un punto vidi sopra una grande targa di ferro la parola magica: — Policirklen. — Era un’ora dopo mezzanotte e il sole rosseggiava su l’orizzonte.
Kiruna, l’unica vera città della Lapponia, appare fra un giro di grandi montagne. Sorge sopra un rialzo del terreno avendo ai piedi il lago di Luossajärvi e numerose paludi. Tre grandi cime sovrastano intorno, segnano il limite del triangolo nel quale la città è racchiusa: il Luossavaara, l’Hauvikaara e il Kirunavaara, quest’ultima significa la vita e la ricchezza della città, perchè è la montagna dalla quale si estraggono ogni anno 1 500 000 tonnellate di ferro.
Kiruna conta 9000 abitanti, in maggior parte operai delle miniere, numero che varia di anno in anno perchè la sua popolazione non è stabile. In generale, dopo una permanenza di due anni, gli immigrati ripartono non potendo resistere alle crudezze degli interminabili inverni polari. Nonostante tutto il comfort immaginabile e le infinite cure stabilite per iscongiurare il male, la percentuale dei tubercolotici [238] è laggiù addirittura spaventosa. Nè ciò può meravigliare quando si pensi che gli operai sono costretti a lavorare all’aperto con una temperatura che varia dai 40 ai 50 gradi sotto zero.
A Kiruna hanno una notte continua di tre mesi, e cioè: dicembre, gennaio e febbraio, alla qual notte corrisponde un giorno di uguale durata nell’estate.
La vegetazione intorno alla città si riduce alle rade boscaglie della betulla nana; un arbusto contorto e risecchito che rinverdisce stentatamente ai primi di giugno per perdere le foglie alla fine di agosto. È l’ultimo simulacro arboreo, l’ultimo tentativo della natura che cede il campo alla morte. Ancora qualche centinaio di chilometri e il suolo non sarà coperto che dal tappeto dei licheni bianchi e gialli, i tardigradi dell’estrema vegetazione, perchè, a crescere, impiegano dieci anni.
Kiruna è tuttavia in via di formazione. Il piano della città è vastissimo, ma solo per metà compiuto. Le scuole vi sono numerose e singolarmente eleganti. Costrutte in legno, secondo i disegni del grande architetto svedese Ferdinando Boberg, traggono dalle tinte vivacissime di cui sono adorne una gaiezza inattesa. L’interno pare voglia far dimenticare l’esterno. Laggiù l’uomo cerca correggere la natura e si circonda a volte di una vera orgia di colori per sognare, per dimenticare.
I villini degli operai sono forniti di tutto il comfort moderno. Non di rado ho veduto le belle stanze di quei rudi minatori adorne di oggetti d’arte. In quella latitudine la casa è l’unico rifugio; è un tempio ed un cuore, onde si cerca rinchiudervi la maggior gaiezza possibile. Vi abbondano i fiori che le donne coltivano con soavissima cura e che crescono esili e pallidi per un vero miracolo d’amore. È il desiderio che li trae dal loro germe, la volontà umana che li costringe a sbocciare; ma le loro corolle non ardono [239] e ricordano come in sogno l’ampia gioia di vivere per la quale si moltiplicano sotto al sole nelle terre felici.
Le vie della città sono tuttavia disselciate; in alcuni punti il terreno serba il suo carattere primitivo: scabro, inuguale, corroso dal gelo. La fretta ha presieduto alla edificazione di Kiruna, città transitoria di lotta e di affanno, nella quale nessuno pensa di restare giungendovi, ma che s’ebbe già una vera ecatombe umana nei nove anni della sua vita oscura.
La ricordo nella notte del 10 agosto, notte crepuscolare immersa in un silenzio altissimo. Partivamo per Kautokeino, si era formata una comitiva di svedesi e di americani, alla quale mi ero aggregato. Non era possibile intraprendere da solo un tale viaggio, venendo a mancare quasi compiutamente ogni mezzo di comunicazione. Era passata da poco la mezzanotte e la sollecita guida ci aveva chiamato a raccolta. Partimmo attraverso le vie della città addormentata. Il sole era dietro ai monti, la luce cresceva di minuto in minuto, ma tutte le case, erano mute, immerse nel sonno più profondo. Si udiva qualche pispiglio a volte, dalle finestre più basse, una voce incerta di bimbo che chiamava i fantasmi del suo sognare e nulla più. Ebbi la profonda sensazione di attraversare una città abbandonata. Quella luce non si associava ancora nella mia mente a l’idea del sonno, del riposo comune. Il piccolo nido umano fra lo squallore pareva convertito in una fantastica città di fiaba, in una delle inobbliabili città dei nostri sogni bambini, prese per incantesimo nei cerchi del silenzio. Un lago grigio, il Luossajärvi, si stendeva immobile sotto le montagne, pieno d’ombra a somiglianza d’una voragine. Non una voce intorno, non un canto, nè un grido. Eravamo assorti allorchè d’improvviso risuonò per l’immensa volta taciturna un rombo ed un muggito. Levando gli occhi al Kirunavaara vedemmo una grande nube di fumo salire pei cieli chiari. Era la [240] montagna che si squarciava urlando per le sue immani ferite. Non tutti dormivano adunque, qualcuno vegliava lassù nelle aspre miniere, qualcuno che non sapeva nè il riposo, nè la sosta, qualcuno che trionfando sull’inimicizia della natura, aveva portato per primo, nell’ombra del deserto polare, il grido, l’affanno, il tumulto della vita moderna: il lavoro.
In quel suo ultimo posto avanzato su la terra, rodendo il cuore della montagna, esso lanciava una sfida al mistero dei cieli profondi. E non mai come allora io vidi l’uomo erigersi di fronte allo spettro del proprio destino e fissarlo negli occhi obliqui e contendergli il suo bene su questa terra, libero alfine, dopo una prigionia secolare, dai vincoli che lo facevano imbelle per l’eterno enigma.
Viaggiando verso l’interno della Lapponia conviene fare due supreme rinunzie: la prima è quella dell’usual cura della propria persona; la seconda è quella del palato. Ciò che si mangia laggiù, toltone rarissime eccezioni, è semplicemente spaventoso. Eppure, quando la fame lo vuole, conviene fare buon viso anche ai famosi manicaretti lapponi, a ciò che quei popoli considerano come una leccornia.
Non dimenticherò mai due cose: il primo caffè che mi fu offerto da una bella pige,[11] ed un budino semplicemente infernale. Il caffè, che fui costretto ad ingoiare, era un miscuglio di caffè, di latte di renna, di burro di renna e di un formaggio in corso di putrefazione, il quale raccoglieva in sè, concentrati in uno, gli odori più innominabili. E il budino infernale era composto dagli elementi che seguono: cervello di renna triturato, sangue di renna, acqua, sego e [241] farina. Una delizia gastronomica da avvelenare lo stomaco di Gargantua.
Accettate queste due rinunzie, vi sono poi le delizie del viaggio che si deve compire parte a piedi e parte in barca, essendo questi gli unici mezzi di comunicazione vigenti in Lapponia durante l’estate.
Tali delizie sono numerose; mi accontenterò di nominarne qualcuna. In primo luogo la pioggia che, almeno durante la nostra permanenza, ci visitò quasi giornalmente; in secondo luogo, nei rari intervalli di sole, le zanzare, vere nuvole di piccole zanzare, molto più piccole delle nostre, che vi attorniano ronzando, avide del vostro sangue, insaziabili, indicibilmente tormentose; in terzo luogo, gli squilibri di temperatura fra il giorno e la notte, o meglio fra il crepuscolo e il giorno, squilibri di 10 e a volte di 15 gradi, tantochè, quando ci si raccoglieva sotto alla tenda, si batteva i denti dal freddo. Dalla prima e dalla terza delizia era difficile ripararci; dalla seconda, e cioè dalle zanzare cercammo difenderci adottando il sistema lappone.
Una bella mattina l’uno fece all’altro una toilette singolare, ci si dipinse il volto con catrame sciolto nell’olio di pesce. Una miscela che ci convertì nella più ridevole comitiva che io mi abbia mai veduto. Nonostante il nostro aspetto orrendo le zanzare non si spaventarono; solo si raggiunse uno scopo: quello di tenerci in olocausto le importune nemiche le quali, dopo averci punto, non potevano riprendere il volo, impacciate com’erano nella miscela della quale ci eravamo cosparsi.
Si proseguì lentamente per una landa deserta ed uniforme, coperta dai licheni bianchi e gialli, fra i quali crescevano rari ciuffi di betula nana. La prima tappa era stata fissata a Sevuvuoma, dove era un accampamento di lapponi. Si doveva percorrere una distanza di 75 chilometri.
Traversammo il lago Jakkasjarvi, livido e nero fra le [242] sue rive piatte, poi riprendemmo il cammino l’un dietro l’altro, seguendo la guida. A lungo andare l’uniformità silenziosa del paese ci accasciava. Ognuno di noi si era taciuto, vinto più da una stanchezza d’anima, da un’intima tristezza, anzichè dal cammino.
L’uniformità ininterrotta mette ad una ben dura prova ogni nostra facoltà di attenzione e di osservazione, finisce per fiaccare, per annebbiare la mente e ci lascia in uno stato torbido dal quale emergono poche idee, che sono sempre le stesse e segnano come gli ultimi guizzi di un’attività che si addormenta.
Ho parlato più volte del silenzio di quelle terre. Noi non possiamo averne che un’idea molto relativa, perchè non conosciamo l’assoluto silenzio. Viaggiando in Lapponia ne conobbi il tragico impero. Tutta quanta la natura era immersa in un silenzio infinito. A volte non si udiva neppure il rumore dei nostri passi. Nè un grido, nè un suono remoto, nè uno squillo, nè una eco, nè un fremito, nulla, assolutamente nulla se non l’immobilità taciturna. Ne eravamo disorientati, sperduti. Ci si guardava, a volte, come in uno stato di sonnambulismo.
Il sole segnava la mezzanotte, e cioè rasentava l’orizzonte, quando udimmo da una piccola altura un forte abbaiar di cani. Aguzzammo gli occhi e una leggera nube di fumo ci rivelò la presenza dei lapponi. Eravamo giunti a Sevuvuoma.
Dopo un breve consiglio tenuto circa l’ora inadatta ad una visita di curiosità e le convincenti ragioni della guida, la quale ci dimostrò che, durante l’estate, i lapponi dormono e non dormono, che non hanno ora fissa di sonno e lo interrompono e lo riprendono a loro piacere, decidemmo di proseguire il cammino e chiedere un’udienza alla piccola tribù.
Salita l’altura, vedemmo su l’altro versante otto o dieci [243] capanne di miserrimo aspetto. Erano capanne coniche, formate da un impasto di torba e di zolle, sorrette da alcuni pali. Un’apertura praticata in alto dava la via al fumo; in basso un’altra apertura triangolare, chiusa da una tela, fungeva da porta. Quest’ultima era talmente stretta da doversi passare a stento e con una duplice operazione di curvatura. Conveniva chinare il capo e doppiare il dorso e poi mettersi di traverso; in altro modo non s’entrava. Qualche lappone era all’aperto, richiamato dall’abbaiare dei cani. Distinsi a tutta prima un vecchio ed un fanciullo. Indossavano il loro costume tradizionale. Una casacca di pelliccia di renna stretta alla cintola, un paio di brache di pelle di renna, una specie di cioce dell’identica sostanza ed un berretto simile ad una tiara, tutto azzurro e terminato da un gran fiocco rosso. Stavano vicini, senza movimento, il capo inclinato sopra una spalla e il viso contratto in una smorfia indefinibile. Ci lasciarono avvicinare fino a pochi passi senza muoversi, senza batter le ciglia, senza modificare quella loro smorfia. Solo ad una parola della guida si scossero e sorrisero. Poco dopo varcai la soglia di una capanna. Appena entrato fui costretto a sedermi in causa al fumo che empiva quella specie di imbuto rovesciato; ma quando potei aprire gli occhi, vidi intorno a me non so quante persone distese promiscuamente su pelli di renna in un arruffio tale di braccia, di gambe, di teste da non poter distinguere ogni singolo individuo. Solo in alto, da una singolar cuna appesa al fusto della capanna, un viso rotondo di poppante mi guardava fra il fumo come una paffuta luna fra le nebbie autunnali. Aspettavo che gli ospiti miei si togliessero dal sonno, nè molto rimasi nell’attesa che, dall’incomposto cumulo umano, vidi sorgere prima una testa, poi un torso, poi una figura completa di donna, la quale mi guardò sorridendo e cominciò a parlare.
Poco dopo la guida mi disse:
[244]
— Questa è la madre. Si chiama Anda e ti dà il buon giorno.
Un dopo l’altro sorsero dal comune giaciglio vecchi, giovinette e fanciulli. I giovani erano lontani, avevano condotto le renne a bere il mare, come dicono i lapponi, e cioè ai pascoli estivi. Furono pronti in un battibaleno. La toletta dei lapponi si riduce a poco: quando vanno a letto sfibbiano la cintura della casacca, quando si alzano l’affibbiano, e tutto è fatto. Non si spogliano mai, non si lavano mai, tutt’al più si ungono col grasso di renna, e ciò dà al loro viso rotondo, dai grandi zigomi e dagli occhi obliqui, quella tinta olivastra che non è naturale, ma è semplicemente un risultato del sudiciume. Il loro abbigliamento non varia. D’estate portano la casacca col pelo verso l’interno, nella stagione invernale non fanno che rovesciarla. Sotto la casacca non c’è altro; c’è la creatura come la fece Iddio; solo le scarpe sono imbottite da una specie di fieno che supplisce le calze. Altra particolarità notevole è la pipa. Tutti fumano, vecchi e fanciulli, il bel sesso compreso.
Offrii una sigaretta alla signora Anda, la quale l’offrì a sua volta al poppante, che la masticò senza disgusto.
I lapponi sono fra gli uomini più piccoli del mondo e sono anche fra i più fetidi in causa dell’olio del quale si imbevono. Quella loro tremenda vita nei deserti polari li rende forti e resistentissimi. Pare soffrano rarissime volte di tisi. Curano molti mali interni bevendo sangue caldo di renna e curano il mal di denti fregandoli con un legno tolto da un albero colpito dal fulmine.
Tutta la loro fortuna consiste nelle mandre di renne che posseggono. Dalle renne traggono le vesti e l’unico alimento. Qualche volta mangiano pesce. Il pane è quasi sconosciuto. Tutta la loro vita si riassume in tre parole: la capanna, la slitta e la renna. La slitta principalmente su la quale viaggiano di continuo in cerca di nuovi pascoli.
[245]
Tanto a Sevuvuoma come ad Enontekis e a Kautokeino ho avuto occasione di vivere in continuo contatto con tale popolo povero e randagio, e l’ho trovato d’indole mite ed eccezionalmente ospitale. Certo non ebbi a gloriarmi della sua vicinanza dal lato, dirò così, della mia immunità personale. Durante il breve soggiorno a Sevuvuoma, all’ora del riposo, quando mamma Anda mi offriva il posto accanto al fuoco, per riposare (la nostra tenda non era sufficiente a ripararci dal freddo) era con vero terrore che abbassavo il capo su le pelli di renna.
Il rifugio era adattatissimo per dormire, ma il mio terrore era causato dalle bestie che non dormivano. Mi spiegherò meglio citando due indovinelli lapponi. Ecco il primo: — Qual’è il morto che tira fuori i vivi dal bosco? — Il pettine. — Ed il secondo: — Qual’è la creatura che sta più vicina all’uomo? — Il pidocchio. —
Comunque sia, questi scarsi popoli delle lande polari, questi ultimi rappresentanti dell’umanità in una terra estremamente nemica, non vanno considerati solo dal lato umoristico; essi combattono la lotta più aspra e conducono la vita più misera che si possa immaginare su la faccia del globo. Giunti in quelle lande estreme, forse per un destino di miseria, non certo per elezione; scacciati di regione in regione da popoli più forti, cercarono e si ebbero nella profonda notte del polo, l’ultimo rifugio. Secondo le più recenti ricerche etnologiche sembra probabile ch’essi provengano da un grande centro altaico. Emigrarono dall’Asia verso il nord-ovest seguendo il fiume Irtisch o l’Obi e varcando gli Urali. Dire a quale epoca siano giunti in Europa è cosa impossibile. Certo essi hanno perduto, nel corso dei secoli, anche il ricordo di regioni più miti. Nella loro lingua vi sono 20 parole per esprimere il ghiaccio, 11 per il freddo. 41 per la neve e le sue varietà, ma non un vocabolo che significhi cose o fenomeni dei climi temperati.
[246]
Anche l’ultimo ricordo, l’ultima tradizione è scomparsa. La loro mente si è oscurata; altro non sanno se non la miseria che li combatte.
Io affaticato lappone ed uomo errante
su le faticose vie di questa terra,
devo pellegrinare per tutto il mondo
e così passare il mio tempo.
Tale è il lamentoso canto del cammino allorchè seguono le renne attraverso alle gelate steppe o lungo le rive del mar Glaciale per centinaia e centinaia di chilometri. Il loro sonno non è mai tranquillo, la loro pace non è mai compiuta, essi non possono riposare nell’assoluto abbandono fidente, dovendo salvare l’unica ricchezza che si abbiano dagli agguati dei lupi. E quanto più infuriano le bufere durante l’inverno, tanto maggiore deve essere la vigilanza loro. Il grido: — Gumpe lae botsuìn! — Il lupo ha aggredito il gregge! — li trova pronti all’inseguimento, fra la turbinosa furia che si scaglia nelle tenebre. Armati di bastone balzano in un attimo dalla loro capanna e si disperdono urlando fra la tormenta. Il freddo, la fatica, il pericolo al quale si espongono non li abbatte; la tragica lotta secolare li ha fatti ferrigni come le ultime montagne della loro terra. Ciò che fiaccherebbe un gigante della Svezia, non turba quella loro piccola persona gagliarda. Essi portano fra gli orrori delle terre iperboree l’ultima voce dell’umanità di fronte al mistero polare.
FINE.
[247]
Il viandante | Pag. 1 |
Alle soglie dell’Oriente | 19 |
Tunes el bida | 21 |
Il Mercato del Dolore | 29 |
Il Santone | 30 |
Un Funerale | 31 |
Le Case della Gioia | 32 |
La favola di un cieco | 40 |
La piccola Jasmina | 41 |
L’Hara (il Ghetto) | 42 |
Le Tombe dei Santoni | 50 |
Ciò che vide Kadir | 51 |
I Notai | 52 |
L’Anima del Viandante | 53 |
L’Eternità | 54 |
La Casa abbandonata | 54 |
In via | 56 |
Susa | 58 |
L’ombra del Mandorlo | 59 |
El Djem | 60 |
Monastir | 61 |
Djeziret-el-K’mam — Ustania | 62 |
Verso Tapsus | 63 |
Enfida | 64 |
Kairuan | 65 |
Ai fùnduk | 67 |
Il mulino | 72 |
Facili misteri | 73 |
Chadliia | 80 |
L’arabo e il dromedario | 81 |
Dal Corano alla Moschea | 83 |
Giorno di preghiere | 86 |
Il rito degli Aissauas | 88 |
Gabès | 90 |
Trattorie arabe | 94 |
Verso il Deserto | 95 |
La Giustizia | 99 |
Selima | 100 |
Nei paesi del Sole | 105 |
In mare | 107 |
Compagni di viaggio | 108 |
Il Pascià di Janina — Corfù | 110 |
Verso la Grecia | 111 |
Il figlio del Pascià | 113 |
Il golfo di Corinto | 116 |
Amare verità | 116 |
Pireo — Falèro | 120 |
L’isola Minoica | 123 |
I “politofilakes„ | 133 |
Kanna | 135 |
Il canto dei muezzin | 136 |
Canea | 137 |
L’esodo degli alberi | 138 |
Verso l’interno | 141 |
Il rapsodo | 142 |
O kapetanios Blum | 149 |
Peleka Pina — Superstizioni | 155 |
Alla fonte | 156 |
Collane azzurre | 158 |
Mehemed bey | 159 |
Prodoti — Nuriè | 161 |
In viaggio | 163 |
Nell’Asia Minore | 165 |
Ismirn (Smirne) | 167 |
Il miracolo della colomba | 170 |
Un cimitero israelita | 172 |
La vita a Smirne | 173 |
Tre briganti | 174 |
Buggià | 176 |
In cammino | 180 |
Le nostre umiltà | 181 |
Sopra la tolda | 187 |
Verso la Gran Sirte | 196 |
Derna | 197 |
Bengasi | 206 |
La storia di un pellegrino | 208 |
Sempre cortesie — In mare | 209 |
Il “Ramadan„ in viaggio | 211 |
Un tramonto sul mare | 212 |
Sul Mare degli Ulissidi | 215 |
Il viaggio del sogno | 217 |
L’isola di Venere | 218 |
Da Cythera a Mitilene | 221 |
Una croce in uno scoglio | 225 |
Verso i mari di ghiaccio | 227 |
Una ferrovia in Lapponia | 229 |
Tristezze nordiche | 231 |
Kiruna | 237 |
Verso l’interno | 240 |
[248]
INDICE DELLE TAVOLE A COLORI:
INDICE DELLE TAVOLE IN NERO:
DELLO STESSO AUTORE:
Anna Perenna, novelle | L. 3 50 |
I Primogeniti, novelle | 3 50 |
Il Cantico, romanzo | 3 50 |
L’alterna vicenda, novelle | 3 50 |
Gli uomini rossi, romanzo | 1 — |
Il cavalier Mostardo, romanzo (in preparazione). |
1. Zubeida vuol dire La graziosa.
2. Il lukùm è un dolce turco composto di gomma, zucchero e mandorle.
3. Kadir fu un himan molto venerato.
4. Quando si nominano uomini illustri o Santi si usa dagli arabi aggiungere una formula di saluto.
5. Maestro.
6. Dio è grande. Attesto che non v’è che un Dio. Attesto che Maometto è il suo apostolo. Venite alla preghiera. Venite all’adorazione. Dio è grande. Egli è unico.
7. Esso entrava in Babilonia su certe barche, le quali, abbandonate alla corrente, discendevano l’Eufrate. Era festeggiato, onorato, accolto come un re mago, perchè portava il dolce frutto della vendemmia. Lo chiamarono dapprima Bel Peòr, signor Asino. Poi ne nacque il demone lascivo che fu profeta e parlò su una montagna, la quale ebbe il suo nome. In detta montagna, secondo Sant’Ilario, Belfegor raggiunse gli angeli e li accese di desiderio per le figlie degli uomini.
8. Ramadan deriva da ramad, ardente. Questo mese ebbe tal nome perchè nell’anno solare degli antichi Arabi, cadeva al tempo delle maggiori calure.
9. Il Corano era scritto sopra una tavola serbata nel settimo cielo. L’Arcangelo Gabriele raccolse il Corano in un volume e lo portò a Maometto, a parte a parte, nel termine di ventitrè anni. I dottori mussulmani non sono d’accordo circa il tempo preciso nel quale Gabriele cominciò le sue rivelazioni. Convengono però nel dire che fu una delle ultime dieci notti del mese di Ramadan. Questo mese è consacrato all’astinenza. Durante tutto questo tempo i maomettani non mangiano, non bevono e non fumano, dal levar del sole al tramonto. Un mussulmano che rompesse pubblicamente il digiuno correrebbe rischio di essere lapidato.
10. Signore, signore! Ecco il Circolo polare!
11. Ragazza.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.