*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 74265 *** LA GUERRA E LA PACE NEL MONDO ANTICO UN SAGGIO DI ETTORE CICCOTTI TORINO FRATELLI BOCCA, EDITORI MILANO — ROMA — FIRENZE 1901. PROPRIETÀ LETTERARIA Torino — VINCENZO BONA, Tip. delle LL. MM. e dei RR. Principi. (8458) ..... assez de livres sont pleins de toutes les minuties des actions de guerre et de ces détails de la fureur et de la misère humaine. Le dessein de cet essai est de peindre les principaux caractères de ces révolutions, et d’écarter la multitude des petits faits pour laisser voir les seuls considérables, et, s’il peut, l’esprit qui les a conduits. VOLTAIRE, _Siècle de Louis XIV_, chap. XI. Attraverso tutta la storia, trascorre visibile e continua, come una via rossa e dolorosa, una serie non interrotta e non terminata di conflitti e di guerre, onde appare insanguinata, contristata, straziata la terra. E questa traccia sanguigna, ha costituito e costituisce ancora, molte volte, agli occhi degli storici, come la trama, a cui si rannodano e in cui s’innestano uomini ed eventi, costituzioni e passioni, decadenze e fortune di popoli. L’amor proprio o il pregiudizio di nazione e di razza, l’interesse passionato di ogni grande fatto umano, gl’istinti felini, mal domi o solleticati nella lotta per la vita, si compiacciono spesso ed esultano nella narrazione, ove si rispecchiano, abbelliti e resi attraenti dal lenocinio dell’arte, i tratti e gli episodi della grande tragedia umana; e, per la forza dell’abitudine, di rado avviene che, mentre il libro cade di mano, l’animo conturbato o inorridito chieda a sè stesso: Ma è questa una grande sciagurata follia che soggioga il genere umano e pervade la storia e vi trionfa? Od è un destino cieco, inesorabile che condanna gli uomini, dalle origini, a un mutuo macello? O vi è una ragione storica di questi ricorrenti e permanenti conflitti, e quale è dessa? E quali ne sono le prospettive? Con quali speranze e con quale vaticinio — se uno ve n’ha — questo passato si riflette nell’avvenire? Omai, mentre persiste e procede accurata — spesso anche fortunata — l’investigazione minuziosa del passato, sorge sempre più avvertito e impellente il bisogno di ricomporne i frammenti per conoscere, in quanto è possibile, il segreto della sua vita, le leggi del suo sviluppo, premessa e chiave anche della vita che noi viviamo; e il passato è per noi quel che per il nocchiero è il punto di partenza, il quale gli dà l’angolo di declinazione, gli segna il principio della linea che, prolungata, diventa il sentiero verso il punto di arrivo. Come un contributo a questo più alto e omai maturo lavoro d’indagine, che da’ singoli fatti bene appurati astrae la loro fisonomia generale e la loro ragione di vita, io mi sono accinto a ricercare, attraverso la varietà episodica delle paci e delle guerre, la loro causa sincera se anche dissimulata, il loro movente segreto ma necessario, facendo in modo — se sono stato così avventurato da riuscirvi — che dalla stessa realtà storica emerga, per virtù intrinseca, la _verità_ delle cose, e che i fatti stessi, anche fuggevolmente e genericamente accennati, si ricompongano in una manifestazione organica delle forme, attraverso cui è passato il fenomeno del quale sono riflesso, e dello spirito che li domina. I. Guerra e pace nell’antico Oriente. Sembrerebbe davvero che col solo suo nome l’Oriente dovesse evocare immagini di pace anzi che di guerra: un fantastico miraggio di rive fiorenti, di pingui pascoli, di messi lussureggianti, di flore maravigliose, tra la cui dovizia, sotto gl’ineffabili splendori di un cielo sereno, un popolo molle, in un tenue abbandono, coglie senza pena e senza tumulto dall’albero della vita il frutto maturo. E veramente — meno che là dove il terreno, salendo di balza in balza andava a perdersi in montagne erte ed inospiti, o, prolungandosi in brulle pianure, andava a finire in un mare sterminato d’arene — veramente la natura vi faceva sfoggio, quasi, di tutta la sua potenza creatrice, di tutta la sua virtù fecondatrice; sicchè ivi prima che altrove l’uomo non ancora educato a usufruire, comprendendole e domandole, le forze naturali, potè costituire le prime forme di società civili, divenire strumento e artefice di civiltà e armarsi di quelle fondamentali cognizioni e rudimentali esperienze, che dovevano essere arra e leva di tanti ulteriori progressi. Perfino dove i fiumi gonfi e straripanti pareva dovessero essere nient’altro che una forza devastatrice, il sole torrido svolgeva, come in Mesopotamia e in Egitto, dal limo abbandonato ubertà di prodotti e tesori di vita; dove le sponde precipitavano scoscese verso il mare, speciali vegetazioni trovavano il modo di spiegare tutto il loro rigoglio; e la costa, rósa ne’ suoi seni, bizzarramente tormentata ne’ suoi promontorî, formava porti, faceva sorgere città munite dalla loro posizione e dal mare, onde si sarebbero spiccati col tempo voli più lontani, creando con lo scambio de’ prodotti e l’intreccio de’ commerci nuove fonti di ricchezza e nuovi mezzi di civiltà e di progresso. E, intanto, ora, si lottava col mare, addestrandosi e costringendolo a dare con la pesca tutti i mezzi di vita di cui era capace. Anche la fauna, varia, strana e spesso infesta, che popolava i piani e le selve e sembrava fare all’uomo una concorrenza vitale, forniva, spesso, anch’essa, materia di caccia; e, in parte eliminata, in parte educata e allevata, si risolveva in una sostentatrice della vita, in una cooperatrice dell’agricoltura e de’ primi scambî rudimentali. Pure, in mezzo a tanta abbondanza e tali favorevoli condizioni di vita, l’uomo era troppo abbandonato alle variabili vicende naturali, come un veliero che solca agile l’onda, se ha il vento in poppa, ma resta inerte con le vele pendule e flosce se l’aria ristagna, o va a rompersi contro gli scogli e le punte, se per una bizzarria del tempo diventa ludibrio de’ venti. Una piena poco abbondante, una stagione troppo secca, una invasione di cavallette, una morìa di greggi, una epidemia sterminatrice, un improvviso, se anche temporaneo variare delle condizioni di prosperità contro cui l’uomo non era nè agguerrito, nè protetto, spargevano la carestia, la miseria, l’inedia dove ancora poco tempo innanzi erano l’abbondanza e l’opulenza. Ancora, questi doni della natura, oltre a non essere costanti, non erano neppure ugualmente ripartiti, e — a prescindere dalle zone più lontane dove il cielo azzurro scompariva sotto la monotonia di nebbie incombenti e il clima mite s’incrudiva in geli persistenti — da luogo a luogo variavano spesso le condizioni di produttività del suolo e le agevolezze di vita; e a distribuire i prodotti — anche per avventura adeguati — facevano impedimento i luoghi impervii mancanti di comunicazioni, la mancanza di mezzi e organi atti agli scambi, la produzione limitata al consumo domestico e la stessa corrispondente organizzazione sociale e politica prettamente locale, conformata in circoli chiusi, ristretti ed esclusivi. La prima e più antica forma, infatti, sotto cui ci appariscono la Mesopotamia, la Syria e anche l’Egitto stesso attraverso la tradizionale leggendaria unità primitiva, è quella di piccole sovranità locali, limitate a città e regioni, non coordinate tra loro, messe semplicemente l’una accanto all’altre in un puro rapporto di contiguità territoriale e messe in rapporto tra loro, unicamente o sopratutto, dall’ambizioso desiderio di subordinare, dalla recalcitrante renitenza a subordinarsi, sentendo tutte le molestie e i danni di una perpetua minaccia, di una difesa permanente. Destinate, anche più facilmente dalla posizione spesso piana e non munita de’ luoghi, ad un inevitabile assorbimento del più forte, intanto si trovavano in una condizione, per cui la sterilità del paese vicino, l’accrescersi della sua popolazione, una carestia, un sentimento di prevalenza determinavano una incursione, che, per effetto di successive azioni e reazioni, si risolveva in uno stato frequente se non continuo di guerra. Il movimento di unificazione, l’allungamento e l’arrotondamento del dominio, che doveva riuscire a respingere sempre più indietro la zona esposta alle aggressioni e a’ danni di attacchi continui e a costituir così un ambito più largo di sicurezza e di garentita operosità, formava il primo, più urgente e più impreteribile còmpito del tempo; ma anche a questo stadio dell’evoluzione civile non si giungeva se non attraverso una serie lunga e sempre ricorrente di guerre. Tutti quelli, a cui la tradizione attribuisce di avere originariamente costituita questa unità di dominio, o che la ricostituirono per tempo più o meno lungo, dopo che s’era dissolta — Mini, il primo re della vaga tradizione, Amenemhat I della 12ª dinastia, Ahmos il liberatore del territorio, Tafnakht de’ principi di Sais, Piônkhi, Sabacone, Taharqa in Egitto, Davide in Palestina, Sargone I nella Caldea, per tacere d’altri meno lontani — sono re guerrieri, che hanno imposta combattendo la loro sovranità e hanno suggellato con la spada il legame o la catena, con cui hanno ristretto insieme città e regioni indipendenti e nemiche. «È un bravo che opera con la spada — dice di Amenemhat I un documento contemporaneo[1] — un valoroso che non ha l’uguale: egli vede i barbari, si lancia, s’abbatte su’ predoni. È un lanciatore di giavellotto che rende deboli le mani del nemico: quelli ch’egli colpisce non alzano più la lancia. È un terribile che spezza le fronti: non gli si è resistito nel suo tempo..... È un bravo che si getta innanzi quando vede la lotta.....». E le iscrizioni, che parlano di Sargone I, sono tutto un inno di guerra, che ne canta la gloria. D’altra parte, raggiunto questo primo scopo e realizzato questo primo còmpito di ampliare, unificando, il dominio, non si era fatto ordinariamente che spostare il campo della guerra verso un confine più lontano; e, anche all’interno, non sempre e non continuamente si era giunto a costituire un ambiente di pace. Questi imperi dell’antico Oriente — se pure qualcuno ha cercato talvolta, riuscendovi in parte, di renderli più organici o meno inorganici — in genere hanno poggiato sempre sopra una base poco salda e coerente di una sovranità personale, e non sono andati oltre un’organizzazione di carattere tutto feudale. I paesi conquistati, come quelli aggregati o presi sotto protezione, restano sotto la reggenza de’ vecchi sovrani, perdonati o sommessi, o passano sotto il governo de’ nuovi investiti; e questi prìncipi, più spesso vassalli che governatori, hanno per tutto obbligo verso l’alto sovrano, insieme alla fedeltà, il pagamento di un tributo, ordinariamente in natura, e il dovere di fornire de’ contingenti armati sia per le guerre difensive che per quelle di conquiste. Dopo il tentativo di organizzazione fatto da Tiglath-Pilsesar II e di Sargone, bisogna arrivare a Dario d’Istaspe per trovare un sistematico congegno amministrativo, con poteri e funzioni distribuite, che, peraltro, se rappresenta un notevole progresso su’ precedenti aggruppamenti meccanici, è ben lungi dall’eliminare ogni inconveniente. Con un vincolo rilassato e fragile come questo, non solo rimaneva campo alle guerre che questi prìncipi vassalli, e perfino governatori, si facevano tra di loro, ma spesseggiavano rivolte, guerre interne, per rifiuto di tributi, tradimenti e tentativi d’emancipazione; e, alla morte del gran re, specie se questi non aveva avuta la preveggenza di associarsi il successore, scoppiavano tra i vassalli e nella sua stessa famiglia ribellioni e inquietudini che dissolvevano l’impero o lo mettevano a un punto dalla ruina. In Egitto, da Nitocri all’undecima dinastia, durante cinque secoli circa, com’è lecito desumere dalla brevità de’ regni e dallo spostamento di sedi delle dinastie, vi dovette essere una grande persistenza di ribellioni e lotte intestine. L’undecima dinastia solo verso il suo finire giunse a riunire la sovranità dell’Egitto, poi riperduta sotto la dodicesima. Le tribù del deserto, specialmente, già da prima sempre combattute e spesso vinte ma mai stabilmente sottomesse, tornano, come torneranno ancora appresso a fiottare o a volteggiare petulanti a’ confini. Nella XIII dinastia si ha un’usurpazione militare o sacerdotale che sia. La XIV dinastia segna un altro spostamento di sede da Tebe a Xois; e l’invasione degli Hyksos (Shasou) coglie e sopraffà l’Egitto, appunto in un periodo di lotta intestina, più debole per la discordia. L’unificazione della Caldea sotto l’egemonia de’ prìncipi di Ouran non fu di lunga durata, e Sargone I, che successe loro, ebbe turbato di rivolte il regno, che si dissolvette sotto il figliuolo Naramsin. Unificata ancora la Caldea sotto Kammourabi, cominciano ancora le rivolte che vanno poi a finire con lo spossessamento de’ sovrani elamiti, mentre nello sfondo comincia a disegnarsi la sorgente potenza dell’Assyria. Le discordie de’ popoli di Syria alla loro volta aprono più facile campo alle imprese di Thoutmos III, mentre all’altro estremo del dominio di costui gli Etiopi mantengono un intermittente ma persistente fomite di ribellione e di guerra. La morte di Thoutmos III e l’avvenimento al trono del figliuolo Amenhotpou II è il segno di una più generale sollevazione, vinta e repressa con mano ferrea, senza impedire peraltro che in tempo più lontano la XVIII dinastia si estingua in mezzo alle lotte intestine. E Harmhabi, l’instauratore — della dinastia successiva, deve quasi ricomporre da capo l’Impero egiziano. Seti I è costretto a farsi de’ Khiti, prima vassalli, degli alleati; e nondimeno il figlio Ramsete II se li trova ancora di contro; e con essi ancora la Syria, a ridurre all’obbedienza la quale basta appena una lotta di quindici anni. Sotto Minephtah maturano moti di ribellione che scoppiano più aperti alla sua morte e finiscono con lo schiudere la via del trono a un usurpatore. Nella terra di Canaan, il regno faticosamente messo insieme da David è più volte minato da rivolte, che si riproducono sotto Salomone, e, alla morte di costui approdano alla scissione delle tribù e a un lungo periodo di lotte intestine tra il popolo di Giuda e quello d’Israele. In Assiria, mentre Assurnazirpal e Salmanassar III mirano ad allargare il dominio, portando l’impero sino a’ più lontani termini, sono frequentemente costretti ad accorrere per domare rivolte. E, giù giù, venendo attraverso gli anni sino al tempo meno antico, in cui sulle rovine e dalle rovine di tutti gl’imperi precedenti si eleva l’impero persiano, si ha uno spettacolo uniforme e persistente, monotono, sino, nella sua tristezza, di rivolte spesso domate, ma sempre rinascenti; per cui la storia di questi antichi imperi sembra come un immane e ostinato sforzo di tenere insieme l’incoercibile, un travaglio di Sisifo, che non solleva la pietra se non per vedersela ricadere più pesante sul petto, un’opera delle danaidi che, non con acqua ma con sangue, intendono alla vana opera di riempire un vaso senza fondo. È l’Assyria, che proprio quando crede di essere giunta al supremo fastigio della potenza e di avere stabilmente incatenato a sè i popoli vinti e i regni incorporati, vede dall’Ourarti, dall’Elam, dalla Caldea, dalla Syria, dall’Egitto, dal suo stesso seno, risorgere come fiamma da un fuoco male spento la rivolta e divampare minacciosa e terribile. È Babilonia che, prendendo lo scettro dalle mani dell’Assyria, ne eredita anche quel germe di trambusti e di dissoluzione. È il popolo ebreo, che, ostinatamente ribelle all’Egitto, all’Assyria, a Babilonia, a Damasco, feconda in sè stesso un lievito di ribellione, che impedisce e dissolve i suoi rinnovati tentativi di unità. È l’Egitto, che non solo vede smembrato e ritagliato dalla rivolta l’Impero esteso ne’ periodi di fortuna militare e di espansione, ma appare, ne’ suoi stessi antichi confini, un campo di lotta intestina, dove tutte le sue nidiate di principi giocano di volta in volta il loro circoscritto principato vassallo contro la speranza, qualche volta riuscita e spesso anche delusa, di arrogarsi il supremo comando e dar vita a una nuova dinastia. È l’Impero medo, dal cui seno per un atto di ribellione fortunata esce l’Impero persiano; è l’Impero persiano stesso, che, proprio quando pare avere stese le sue ali dall’Africa all’Europa, è minacciato, mentre Cambise scompare, dalla più vasta e più terribile delle rivolte. Salmanasar IV, Ashhourdan II, Tiglath-Pileser II, Salmanassar V, Sabacone, Sargone, Sennacherib, Gyge, Assurbanipal, Naboukoudouroussour, Taharqou, Amasi, Dario, per nominare ancora, oltre a quelli già menzionati, alcuni de’ più tipici o de’ più noti, salgono al trono con le prospettive di rivolte da domare o per opera di una fortunata rivolta, o spendono gran parte della loro vita e della loro energia in un’opera di repressione diuturna ed estenuante. E, corrispondente a questo male che travagliava all’interno le compagini più vaste o meno grandi, era la minaccia all’esterno. La compagine mal cementata, che così faticosamente giungeva a mantenersi in uno stato di equilibrio sempre instabile, pareva per giunta continuamente sotto l’incubo di essere attratta nell’orbita di masse maggiori o di urti esterni che la mandassero in frantumi. Premute dall’alimento venuto temporaneamente meno per accidentalità naturali o reso insufficiente dal moltiplicarsi della popolazione, si spostava tutta una massa di popolo, che, schiudendosi l’adito in altri paesi, determinava alla sua volta un più persistente e più generale commovimento. Di alcune di queste immigrazioni devastatrici e conquistatrici ci serba sopra tutto ricordo la storia di Oriente: l’invasione degl’Hyksos (Shasou) o pastori, che, riversandosi sull’Egitto verso la fine della 13ª dinastia, circa diciotto secoli prima dell’Era nostra, vi rimasero accampati per parecchi secoli; l’invasione de’ Gimirri o Cimmerii, nel settimo secolo, che annientarono tra gli altri il regno di Frygia, e l’altra degli Scyti, e, vinta la Media, messo in pericolo l’Impero assyro, si avanzarono come un turbine devastatore sin nella Syria e nella Palestina, deviati dall’Egitto per virtù di doni, anzi che per forza d’armi. Ma questi costituiscono l’espressione più caratteristica e rilevante di fatti che, in proporzioni più ridotte e con carattere temporaneo, si dovevano riprodurre non di rado, specie dove paesi più ricchi ed inciviliti si trovavano a confinare con paesi poveri e rimasti a uno stato di civiltà rudimentale. A prescindere poi da questi eventi — di piccola importanza se ricorrenti, di carattere straordinario se importanti — gli stessi Imperi costituiti si trovavano, l’uno rimpetto all’altro, in condizione permanente ora di dover respingere un attacco, ora di doverlo realizzare, in uno stato di ostilità, insomma, ora latente, ora aperta. Lo stato affatto rudimentale del modo di produzione, la tecnica poco sviluppata e meno che mai proporzionata al carattere gigantesco delle opere eseguite o progettate, il commercio poco sviluppato e sempre impedito da difficoltà di ogni sorta; tutto sembrava spingere a concepire come possibile l’accumulazione della ricchezza e l’elevazione del tenore di vita solo mediante grandi e periodiche razzie, che venivano così lentamente e insensibilmente a confondersi con la prospettiva stessa del progresso. Uno Stato, che si proponeva di rinunziare o era costretto per un momento a smettere la guerra di conquista e a cessare di procurarsi all’estero con tributi e acquisto di schiavi gli strumenti adatti alla soddisfazione di tanti bisogni, doveva ripiegarsi su se medesimo per trarli dalla sua stessa popolazione, e non faceva questo senza destare i maggiori risentimenti o peggio ancora. Tutta la leggenda d’infamia, che, attraverso la tradizione greca, avvolge Cheope e Chefren, ha origine appunto nello scontento destato tra gli Egiziani col piegarli alle più dure fatiche, forse per l’insufficienza degli stessi elementi raccattati all’estero rispetto alla grandezza delle costruzioni. Asarhaddon si servì è vero della mano d’opera mercenaria, ma egli poteva far ciò appunto in virtù di larghi mezzi accumulati, con tante guerre, da’ suoi predecessori e da lui stesso, con i tributi che gli affluivano da ogni parte dell’impero portato con la conquista così lontano. Questo atteggiamento, intanto, e questa disposizione di spirito, sempre pronti a un intento rapace, erano reciproci da uno ad un altro Stato; e, in tali condizioni, s’intende facilmente che la guerra offensiva, per intima necessità, diveniva anche guerra difensiva, in quanto mirava a prevenire ed eliminare l’attacco. Perciò ogni Stato antico e precipuamente ogni impero d’Oriente — ciascuno ne’ limiti più o meno ampi de’ suoi rapporti e del suo orizzonte, — ha fatalmente innanzi a sè, come mèta e punto di attrazione, il miraggio dell’Impero universale, che, come un vero miraggio, per l’allungarsi progressivo dell’orizzonte, sembra ritrarsi proprio quando più sembra che lo si sia raggiunto e trae l’illuso in una corsa folle e vertiginosa, in fondo alla quale trova la sua stessa rovina. Tutta la storia d’Oriente sembra confondersi nelle vicende di questi centri di forze, che si formano agli estremi del suo orizzonte per isvolgersi, assorbendo le forze gradatamente limitrofe, sino al punto di venire in contatto, ingaggiando, in un alterno conflitto sempre rinascente, un duello di vita e di morte. Da un lato è il vecchio Egitto, il primogenito della storia, dietro cui in certi periodi, sullo sfondo, si disegna l’Etiopia; dall’altro, successivamente, l’Impero de’ Khiti, l’assyro-babilonese, il medo, il persiano, usciti a grado a grado dalla lotta ingaggiata prima tra loro e poi con i contermini minori. E, tra l’uno e l’altro di questi centri di due diversi ed opposti sistemi di forze, si trovano i popoli messi sulle grandi vie commerciali — sempre più disputate con l’elevarsi e moltiplicarsi de’ bisogni e fatti indici delle più rudimentali ragion di contesa — la Syria specialmente, che talvolta con le sue resistenze, nella sua buona fortuna, serve da antemurale e da tampone tra i due imperi opposti, più spesso è tutto un campo di battaglia, continuamente conteso e continuamente lacerato e insanguinato, preda, benchè sempre recalcitrante, del più forte de’ competitori. E le regioni più eccentriche dell’Asia minore, poste fuori del campo immediato delle lotte, si urtavano alla loro volta in un mutuo conflitto per divenire poi, vinti e vincitori, preda della più grande vittoria del trionfatore del resto d’Oriente. Così la storia orientale ci fa assistere da prima a un movimento ascendente di conquista dell’Egitto, cui Thoutmosis III schiude la via e che culmina con Ramsete II per avere poi, a tratti, momenti di ripresa e di fortuna; ma a questo movimento ascendente fa riscontro un movimento di reazione che, dopo lungo fiottare, porta gli Imperi del Nord a rovesciarsi sull’Egitto e a conquistarlo, in modo che, quasi per un’ironia della storia, Esarhaddon finisce per segnare la sua vittoria sulla stessa stela di vittoria di Ramsete e Cambyse, e Artaserse Okkos va ad insultare e calpestare, nelle stesse sue sedi sacre, il sentimento religioso degli Egizî. Una tale inevitabile alternativa della guerra finiva intanto per foggiare e plasmare quasi a modo suo i varî imperi, rinsaldava quelle divisioni di schiavi lavoranti e padroni combattenti, che costituisce, per tanto tempo e per tanta parte, la caratteristica maggiore del mondo antico, educava nella stessa classe di padroni uno spirito prevalentemente militare, allettava con i profitti delle conquiste, solleticava l’amor proprio nazionale, ubbriacava con i fumi della vittoria; in modo che l’origine prima e la radice di quel contrasto, così semplice e materiale, veniva acquistando un aspetto sempre più complicato, e il gigantesco conflitto millenario diveniva a volta ambizione conquistatrice di re, guerra religiosa, disputa di successione, intrigo di cortigiani e di gineceo. Ma, in questa guerra perenne, insieme a un logorio di forze e di ricchezza, vi è un vizio intimo, che rodeva in mezzo a’ loro stessi trionfi i vincitori; onde l’esistenza stessa di quegl’imperi, come la fortuna di un giuocatore accecato, era messa di volta in volta allo sbaraglio su di un solo campo di battaglia, dove imperi più volte secolari crollavano di peso come castelli di carta faticosamente architettati da un fanciullo. E questo spettacolo tipico d’immani e repentine ruine doveva naturalmente riempire il mondo di stupore e sembrare, a chi non sapeva altrimenti spiegarsi il collasso di quegli aggregati tenuti insieme dalla spada e dalla catena, come il capriccio di un dio onnipotente e vendicativo o il tetro disegno di un fato imperscrutabile, che si compiacevano a sperimentare il loro potere precipitando, tra l’onta e le stragi di una sconfitta, un dominatore del mondo da’ supremi fastigi di un trono nelle mani di un carnefice e nell’abbiezione di una prigione, o elevando un avventuriere sul soglio a cui aveva guardato con lo sgomento superstizioso del servo. V’è qualche cosa intanto che la storia — specie d’Oriente — fatta in gran parte con i fasti, spesso auto-encomiastici, de’ re, lascia appena intravedere, e sono i dolori, i danni, le pene delle folle decimate, sterminate, spiantate dalle loro sedi, la cui eco s’intuisce attraverso il cinico grido di trionfo de’ vincitori, o vibra ne’ minacciosi vaticinî e nelle lamentazioni de’ profeti. Ogni impresa di guerra, oltre al numero di morti spesso ingente — se si vuol credere alle iscrizioni de’ re di Assyria specialmente — travolgeva in una vera rovina intere popolazioni, fatte segno alla strage, alle sevizie, non di rado trascinate da un estremo dell’impero ad un altro, come armenti. Succedeva inoltre che, come suole accadere nella storia, dove dal seno stesso di un fenomeno germoglia il fenomeno contrario, dalle conseguenze stesse della guerra rampollasse un desiderio di pace. E non soltanto per le vicende varie e immediate della guerra, ma anche per lo strascico che lasciava dietro di sè. Poi, dove la guerra aveva accumulato ricchezza con bottino e tributi e creato uno stato sia pure fugace di prosperità e con questo un più elevato senso della vita e altre specie di attrattive, non solo doveva parere più sgradito arrischiare la vita, ma gli stessi disagi di spedizioni spesso lontane dovevano cominciare a riuscire ripugnanti. Lo stesso pungolo dell’ambizione cominciava a trovare altre mète e altre soddisfazioni in uffici civili e ne’ trionfi anche più efimeri dell’ordinaria vita sociale. Così, in mezzo allo stesso fiorire dello spirito guerriero, si faceva strada la voce che n’era l’antitesi; e, mentre l’Egitto trionfava de’ trionfi di Ramsete III: «Perchè dici tu che l’ufficiale di fanteria è più felice dello scriba? — domandava uno scriba al suo allievo. — Aspetta, che io ti dipinga la sorte dell’ufficiale di fanteria, tutta l’estensione delle sue miserie! — Lo si prende, ancora fanciullo, per chiuderlo nella caserma: — una piaga che lo sega si forma sul suo ventre, — una piaga di logoro è sul suo occhio, — una piaga lacera è sulle due sue sopracciglia; la sua testa è intaccata e coverta di umore. — In breve, egli è battuto come un rotolo di papiro, — egli è infranto dalle violenze. — Aspetta, che io ti dica delle sue marce verso la Siria — delle sue spedizioni in paesi lontani! — I suoi pani e la sua acqua sono sulle sue spalle come il carico di un asino, — e rendono il suo collo e la sua nuca simili a quelle di un asino; — le giunture della sua schiena sono fiaccate. — Egli beve un’acqua guasta, — poi ritorna alla sua guardia. — Raggiunge il nemico, — è come un’oca che trema, — perchè non ha più valore in tutte le sue membra. — Finisce per venire in Egitto, — è come un bastone roso dal verme. È ammalato, — lo si porta su di un asino, — le sue vesti, le portano via i ladri; — i suoi domestici, se la battono»[2]. E, la stessa analisi che ha fatta pel fantaccino, lo scriba la fa pel milite di cavalleria, facendovi su dell’ironia, spargendovi quel riso, che diventa la maggiore condanna di un’istituzione, in quanto mostra che questa è omai impotente a muovere lo sdegno e perisce, presto o tardi, sotto quell’eco dell’impotenza pretenziosa ch’è la caricatura. Ma questa aspirazione alla pace, per quanto naturalmente viva e sentita, specie in un paese come l’Egitto, rispondeva piuttosto a un senso di stanchezza, a un ripullulare della gioia di vivere, a un bisogno, a un desiderio individuale che non ad una possibilità sociale. La guerra, ch’era una necessità, era anche in que’ tempi un esercizio, mercè cui si soffocava un pericolo in germe, lo si combatteva sul nascere; e, se non riusciva eliminarlo, lo si teneva almeno lontano col prestigio di un valore altrimenti dimostrato e lo si respingeva, al sopravvenire, col vantaggio che potevano dare un’esperienza della guerra e una mano addestrata. Quel periodo più antico della storia era una vera vigilia d’armi, in cui guai a chi si addormentava! La guerra esauriva quest’imperi, vinti o vincitori; ma — strana condizione — nemmeno li salvava la pace. L’Assyria ha un relativo periodo di pace sotto Ashshourdân II e Ashshournirari II, ma non è quello precisamente il suo periodo più fiorente, e si rileva e si riafferma appresso, riprendendo la logoratrice eppur fatale politica guerriera e conquistatrice. Oltre ad essere una necessità e un esercizio, la guerra era poi anche un’intrapresa. Ne’ momenti in cui si realizzò un impero quasi universale, la pace non aveva più lo svantaggio di compromettere nell’avvenire la sicurezza del paese; e, specialmente per paesi di ricca produzione e posti sulle grandi vie commerciali, compensava il peso de’ tributi con l’impiego più largo, più sicuro e più remuneratore di tutte le sue utili energie. Ma, per uno stato autonomo, la pace poteva, in tempi più antichi specialmente, voler dire l’adito precluso ad una speculazione, la maggiore speculazione del tempo, qual’era la guerra. Un quadro della vita sociale dello stesso Egitto in tempo di pace, delineato da un contemporaneo sotto la dodicesima dinastia, non è, pur facendo ragione al subbiettivismo dello scrittore, un quadro confortante. «Io ho visto il fabbro al suo lavoro, — alla bocca del forno» — diceva uno scriba del tempo a suo figlio. — «Le sue dita sono rugose come oggetti di pelle di coccodrillo, — egli sente di cattivo odore peggio di un uovo di pesce. — Ogni lavoratore in metallo ha esso forse più riposo del lavoratore de’ campi? — I suoi campi sono il legno; i suoi strumenti, del metallo. — La notte, quando si crederebbe che egli è libero, — lavora ancora, dopo tutto ciò che le sue braccia hanno già fatto durante il giorno, — la notte egli veglia al lume della fiaccola. «Il taglia-pietre cerca del lavoro, — in ogni specie di pietre dure. — Quando egli ha finito i lavori del suo mestiere e che le sue braccia sono logore, egli si riposa: — restando raggomitolato dal sorgere del sole, — le sue ginocchia e la sua schiena sono rotte. — Il barbiere rade sino alla notte: — quando si mette a mangiare, allora solamente si appoggia sul gomito per riposarsi. — Egli va di casa in casa per cercare i suoi clienti; — si rompe le braccia per empire lo stomaco, come le api che mangiano il prodotto del loro lavoro. — Il battelliere scende sino a Natho per guadagnare il suo salario. — Quando ha accumulato lavoro su lavoro, che ha uccisi delle oche e de’ fenicotteri, che ha penata tutta la sua pena, — arriva soltanto al suo orto, — arriva alla sua casa, ed ecco che gli tocca andarsene..... «E il muratore — lo addenta la malattia; — poichè egli è esposto alle raffiche, — costruendo faticosamente, attaccato a’ capitelli delle case fatti a forma di loto, — per raggiungere forse fini suoi? — Le due sue braccia si consumano nel lavoro, — i suoi abiti sono in disordine; — si rade da sè — le sue dita sono per lui de’ pani; — non si lava che una volta per giorno. — Si fa umile per piacere; — è un travicello che passa da un posto ad un altro — di dieci cubiti per sei; — è un travicello che passa di mese in mese su’ sostegni di un’impalcatura, aggrappato a’ capitelli delle case fatti a forma di loto, — facendovi tutti i lavori necessarî. — Quando ha il suo pane, rientra in casa e batte i figli.... «Il tessitore — nell’interno delle case — è più infelice d’una donna. — Le sue ginocchia si adagiano all’altezza del suo cuore; egli non assaggia l’aria libera. — Se un giorno solo fa a meno di fabbricare la quantità di stoffa regolamentare, — è legato come il loto degli stagni. — È solo guadagnando con doni di pani i guardiani delle porte, — ch’egli giunge a vedere la luce del giorno. — Il fabbricante d’armi pena straordinariamente — partendo per i paesi stranieri; — spende una grande somma per i suoi asini — spende una grande somma per metterli in assetto, — quando si mette in cammino. — Appena arriva al suo orto — arriva alla sua casa, la sera, — gli tocca andarsene. — Il corriere partendo per i paesi stranieri, lega i suoi beni a’ figliuoli, — per paura degli animali selvatici e degli Asiatici. — Che cosa gli accade quando è in Egitto? — Appena arriva al suo orto — arriva alla sua casa — gli tocca andarsene. — Se parte, la sua miseria gli pesa; — se non se ne va, si consola. — Al tintore, gli odorano male le dita — l’odore de’ pesci putrefatti; — i suoi due occhi sono pesti dalla fatica; — la sua mano non ha più presa. — Egli passa il suo tempo a tagliare de’ cenci; — il suo orrore sono i vestiti. — Il calzolaio è disgraziatissimo; — esso mendica eternamente, — la sua salute è quella di un pesce andato a male; — rosicchia il cuoio per nutrirsi»[3]. Per chi parlava così non vi era rifugio e salute che nella professione dello scriba, cioè nella professione che associava — sia pure nella maniera più indiretta — a’ vantaggi e alle soddisfazioni del comando, che serviva di strumento in tutta l’opera di dominazione all’interno e all’esterno e in tutti i suoi profitti immediati e mediati. Si potrebbe quindi voler vedere un po’ di partito preso in questo suo schizzo della vita sociale, ma il ritratto è così spontaneo e così improntato a un buono e schietto realismo, che, anche smorzando le tinte, l’impressione non si cancella, nè si attenua sensibilmente. E si trattava dell’Egitto, cioè di un paese fecondo, ricco di materie prime, dove il ceto de’ lavoratori liberi pare che avesse un’estensione notevole specie rispetto a’ tempi più remoti del mondo antico. Ora, questa vita travagliata e monotona e sempre delusa nello sforzo ostinato di trarre dal lavoro una ricchezza, un avvenire migliore, riconciliandole con la morte, con gl’istinti predatori, con la confidenza nella fortuna, doveva non di rado rendere accetto anche a queste classi della popolazione il partito della guerra, con le sue avventure, con le sue promesse di bottino, con le sue prospettive di fortuna militare, e doveva trarre anche dal loro vago, non chiesto, impersonale consenso altra esca da aggiungere al fuoco, onde divampavano le guerre. V’è tuttavia un popolo che sembrerebbe costituire un’eccezione e quasi un’antitesi a questo spirito bellicoso; un popolo che, evocato, fomentato e sorretto dalla forza stessa delle cose, pareva penetrare tutto e tutti: è il popolo de’ Fenici. Alla lotta per la vita combattuta nella forma più diretta e brutale essi sembravano preferire un’altra lotta per l’esistenza, che si ripiega su di adattamenti divergenti, che cede per riprendere forza, che, preoccupata dello scopo finale di vivere e trarre il maggiore vantaggio della vita, ne accetta tutti gli accomodamenti e gli espedienti per comandare, all’occorrenza, servendo, e dominare essendo dominati. Di fronte alla speculazione più primitiva della guerra veniva sorgendo e sviluppandosi un’altra speculazione, quella del commercio, favorito dalla guerra stessa dove diventava conquista stabile, e apriva e sgombrava vie. Mentre la produzione era ancora al suo stadio casalingo, o, subordinata a condizioni e tradizioni locali, si manteneva circoscritta in determinati punti, l’opera di chi ne raccogliesse il supero sparso qua e là e si facesse veicolo e strumento di scambî, se presentava molte volte rischi e disagî, prometteva anche lucri non pochi; e, specialmente col crescere de’ centri abitati, col moltiplicarsi e il raffinarsi de’ bisogni, con i progressi della navigazione e l’introduzione della moneta, mezzo perfezionato di scambio, era destinato a un grande avvenire. Messi in vista del mare, avendo alle spalle regioni privilegiate dalla natura, i Fenici erano così, da un lato almeno, messi al sicuro da quella minaccia continua costituita allora da un qualsiasi vicino; e, dall’altro lato, avevano perciò stesso meglio aperto l’adito, alle resistenze prima, poi a quegli accomodamenti, che, imposti loro dalla forza delle cose, entrarono poi nella stessa loro indole. Così, adattandosi spesso a pagare un tributo, finchè poteva tenersi ne’ limiti dirò così di un premio di assicurazione, di un’accordata partecipazione a’ loro profitti, si ribellavano anche talvolta, e vittoriosamente, per calcolo di principe, o per impazienza di popolo, o per esosità eccessiva d’oppressione; e, se, alla peggio, tutto andava in ruina, i loro _cavalli del mare_ divenivano anche le loro _case di legno_, e, commessi alla libera distesa de’ mari, cercavano altrove nuova patria e nuove fortune. Per tal modo, nella sorte prospera e nell’avversa, crescevano, si spandevano sino a toccare le regioni più lontane, si arricchivano, colonizzavano i paesi d’approdo, specie le isole dove è facile la difesa, difficile l’offesa; e, mentre spargevano germi di coltura e fomiti di utile produzione, si facevano antesignani di nuovi modi di vita e preparavano un altro terreno di concorrenza. Non di rado, intanto, il loro commercio diveniva pirateria, la fondazione di fattorie occasione e germe di guerre, e l’espansione progressiva suscitava rivalità commerciali o conflitti che andavano a mettere capo nella guerra. Così quella brama di preda, che nelle più antiche guerre si svelava nuda e non dissimulata, quasi come un istinto vitale, riappariva qui più disciplinata sotto una delle sue forme riflesse; e, come pareva che avesse portato alla pace attraverso la guerra, così riusciva alla guerra attraverso la pace. E il conflitto pareva che non si fosse scansato che per meglio maturarsi, per ripullulare in tante altre lotte e, in ultimo — da parte di quel germoglio e di quell’erede de’ Fenici che fu Cartagine — nel grandioso, epico duello con i Greci di Sicilia e con Roma. II. Pace e guerra ne’ poemi omerici ed esiodèi. Il più antico monumento letterario, la prima espressione spirituale della Grecia è un canto di guerra, è il racconto epico di un’impresa bellica. Come nel Medio Evo, la società sminuzzata in feudi e comuni, scissa tra l’antico e il nuovo trovava nel sogno oltremondano il punto di convergenza che le mancava in terra e l’espressione di una coscienza etica che si andava formando; come il cinquecento italiano rifletteva nel mondo cavalleresco, rievocato e rifoggiato non senza un sorriso canzonatore, la vita galante e avventurosa delle sue corti principesche; come un popolo del settentrione, rinascente a una nuova vita economica, morale e religiosa, cercava il suo riflesso in una poesia drammatica scrutatrice di ogni più riposta latebra dell’anima; come la Germania, ansiosa del mistero dell’essere e indagatrice delle leggi del pensiero e della vita, riprendeva con un intento più lato e con più elevato proposito d’arte la leggenda di Faust; come il secolo nostro vario, multiforme, avido, curioso, impaziente, osservatore cerca l’espressione e la rivelazione della sua coscienza nel romanzo realista e psicologico, nella commedia di carattere e d’intrigo, nel dramma filosofico e passionale, nella lirica tormentosa e melodica, nell’indagine delle leggi a cui s’informa la vita sociale, nelle divinazioni dell’avvenire; — così quella più antica vita ellenica trovava naturalmente il suo punto di convergenza, il sostrato delle sue manifestazioni, la sua unità in un poetico racconto di guerra con le sue cause, le sue vicende, la serie delle sue conseguenze. Per tal modo un episodio della colonizzazione dell’Asia minore da parte de’ Greci — quale può essere, ridotto alle sue vere proporzioni e al suo primo germe, il contenuto dell’epopea — assurge a nucleo della vita e della tradizione nazionale, e intorno ad esso si aggruppano, su di esso s’innestano tanti altri episodî e tradizioni della vita locale, per comporsi in un poema, che, pur mal saldato come talvolta apparisce nelle sue parti, riesce ad essere la più lucida immagine della vita di un popolo e di un’epoca e l’opera artistica in cui meglio si compiace e si esalta lo spirito umano. La vita vi appare tutta dominata dalla guerra, penetrata de’ suoi bisogni, adattata alle sue esigenze, foggiata da’ necessari e persistenti suoi effetti. La guerra è ancora lo strumento di gran lunga più importante di ricchezza e di potere con l’imperio che dà a’ suoi trionfatori, con l’accrescere che fa la potenza de’ principi, col sacco dato alle città e alle campagne, e con l’asservimento e meglio ancora con la vendita de’ prigionieri. Ad Agamennone, che vuol persistere nella guerra, grida Tersite: ...... E di che dunque Ti lagni, Atride? Che ti manca? Hai pieni Di bronzo i padiglioni e di donzelle, Delle vinte città spoglie prescelte E da noi date a te primiero. O forse Pur d’auro hai fame e qualche Teucro aspetti Che, d’Ilio uscito, lo ti rechi al piede Prezzo del figlio da me preso in guerra. Da me medesmo o da qualch’altro Acheo? D’altra parte la vita politica si conforma tutta a questa esigenza dell’offesa e della difesa: l’assemblea è costituita da quelli che portano le armi; il principe sembra trarre, se non anche la base giuridica dal suo comando, almeno quella di fatto, dalla sua maggiore virtù militare e da questa funzione di protezione che spiega per i suoi sudditi. La produzione sembra anch’essa in massima parte volta e conformata a questi bisogni della guerra, o che si tratti di alimentare questi guerrieri, o di fornirli di cavalli per la guerra, o di apparecchiare loro le armi, che, oltre ad essere strumento di difesa e di offesa, sono anche oggetto di ornamento, su cui cominciano a sbizzarrirsi la fantasia e la perizia dell’artista e che sono il più caro patrimonio del guerriero. La città stessa è costruita in vista e con lo scopo di una difesa, ristretta intorno alla sua rocca, tutta cinta di mura e fortificata di torri. L’eroe tipico di questo mondo è ...... Achille, a cui nel seno Nè amor del giusto, nè pietà si alberga, Ma cuor selvaggio di lïon, che spinto Dall’ardir, dalla forza e dalla fame Il gregge assalta a procacciarsi il cibo[4]. E gli altri eroi sono a volta a volta paragonati a quanto vi ha di più selvaggio e distruttore nel regno animale e nello stesso ordine de’ fenomeni naturali. Ulysse è paragonato a un cignale[5]; i due Aiaci sono paragonati a due leoni strappanti a’ cani la preda, a un’onda furente[6]; Aiace Telamonio è paragonato a un’aquila che irrompe in uno stormo di gru, a un ispido verro di montagna e, pur nell’atto di salvare, a un leone che salva i lioncini[7]; Achille è simile a uno sparviero, a un leone truculento, a un incendio divoratore[8]; Sarpedonte, anche esso, è paragonato a un leone, a un avvoltoio, e, nello stesso morire, a un toro sbranato da un leone[9]; Idomeneo è simile a folgore, pari a vampa di fuoco[10]; Patroclo è simile a sparviero, ad avvoltoio, a vento che infuria, a leone[11]; Menelao, anch’esso, che assalti o che rinculi, richiama l’immagine favorita del leone[12]; e lo stesso prode e buon Ettore è presentato successivamente dal poeta come un cinghiale e un leone, un masso rovinoso trasportato da un torrente, un incendio, un’aquila, un vento che infuria[13]. Sono la terminologia e le similitudini delle iscrizioni assyro-babilonesi che ritornano qui per un fatale consenso delle cose. Pure, in mezzo a questo stesso furore di battaglia, con quanta costanza, con quanto angoscioso desiderio non si fa strada l’immagine della pace, come uno strappo di cielo sereno, che traspare rapido tra la nuvolaglia di un dì di tempesta, e appare tanto più desiderato e più bello, quanto più le nuvole minacciano di velarlo ancora e sottrarlo alla vista che se ne bea. Una viva, insistente aspirazione alla pace penetra tutto il canto del poeta; e dal grembo stesso del canto di guerra sorge la condanna e la maledizione delle guerre. Con quale nobile ira e con quanta potenza di sentimento, Menelao non maledice i Troiani e chi fu cagione della guerra ed esclama: ...... Il cor di tutte Cose alfin sente sazietà, del sonno Della danza, del canto e dell’amore. Piacer più cari che la guerra: e mai Sazi di guerra non saranno i Teucri?[14]. Quanti intimi impulsi a finire questa guerra, che in ogni modo si presenta come un crudele decreto del fato: a’ Troiani come una sventura macchinata col mezzo di Paride da una divinità avversa, a’ Greci come una fatale impresa di inevitabile rivendicazione e d’imprescindibile difesa, e che gli uni e gli altri maledicono, intanto![15]. Con quanta meraviglia non si vede lo stesso amor proprio di uomini, che pongono in cima a tutto la forza misteriosa, battuto in breccia da un contrario, altissimo sentimento umano; e si sente Antenore consigliare a’ Troiani la franca riparazione del mal fatto, rendendo Elena e i suoi tesori[16], mentre alla mente di Ettore, nell’atto stesso che sta per muovere contro di Achille, si affacciano pensieri come questi: Pur, se deposto e lancia e scudo ed elmo, Io medesmo mi fessi incontro a questo Magnanimo rivale e la spartana Donna cagion di tanta guerra, e tutte Gli promettessi le con lei portate Di Paride ricchezze, ed altre ancora Da partirsi agli Achei, quante ne chiude Questa città; se con tremendo giuro Quindi i Troiani a rivelar stringessi I riposti tesori ed in due parti Dividendoli tutti..... È un lampo, che tosto si dilegua. Ma quale lampo rivelatore per la società stessa in cui sorgeva il poema![17]. E questi stessi guerrieri, in guerra così selvaggiamente feroci, hanno come la nostalgia del loro tetto natio, delle loro gioie familiari. Non ingaggiano mai la pugna senza che abbiano abbracciato la famiglia presente, o rivolto il pensiero più affettuoso alla casa lontana[18]. È questo stesso pensiero che delle volte, per reazione e per attaccamento alla vita, li rende più spietati. E piangono anche talvolta, il pianto del forte, quello che si versa per i dolori degli altri! L’ira turbinosa di Achille, che pure, nel suo rovescio, è affetto di Patroclo, si piega al dolore di Priamo, e le lagrime del padre dell’ucciso si confondono insieme con quelle dell’uccisore del figlio[19]. Pure inevitabile e usuale, com’è la guerra in periodi, quali questi, di scarsa produzione, quando, imposta dalla difesa, facilmente trascorre all’offesa; nondimeno l’Iliade stessa ce la presenta come un male rovinoso che si abbatte per triste decreto del fato sugli uomini. Nella sua rappresentazione simbolica essa appare, quasi come più tardi nel grande quadro di Rubens, scortata e corteggiata dallo spavento e dalla fuga, guidata dalla contesa che va compiendo la triste e dolorosa opera sua[20]. Quegli stessi spettacoli di zuffe sanguinose, quasi riflettute in uno specchio del disinganno, si risolvono in un quadro di desolazione e di tristezza, onde pare che si svolga una voce ch’è di pietà e di accusa. Qual di ricco padron nel campo vanno I mietitori con opposte fronti, Falciando l’orzo ed il frumento; in lunga Serie recise, cadono le bionde Figlie de’ solchi e in un momento ingombra Di manipoli tutta è la campagna: Così Teucri ed Achei, gli uni su gli altri Irruendo si mietono col ferro In mutua strage. Immemore ciascuno Di vil fuga, e guerrier contro guerriero Pugnan tutti del pari e si van contro Coll’impeto de’ lupi. A riguardarli Sta la Discordia e della strage esulta A cui, solo de’ numi, era presente[21]. Queste vite troncate lasciano nel verso del poeta, come nell’animo di chi legge, un solco di dolore e quasi di rimorso, come di cosa distrutta per sempre e che non si può rinnovellar più. Con un’immagine semplice, ma tanto potente quanto evidente, Euforbo abbattuto è paragonato a un fiorente olivo schiantato. In quell’ultimo episodio della vita di Ettore, quando il guerriero, lottando con tutti i tristi presentimenti, va incontro al duello e alla morte, mentre invano cercano distorglielo Priamo ed Ecuba; in quella scena del guerriero già fiorente di bellezza, di gioventù, di valore e ora spento, spogliato, trascinato a ludibrio intorno alle mura della città ove doveva regnare, mentre i genitori seguono con la vista il duello, ansiosi e impotenti ad aiutare, e poi veggono di un tratto il figlio rapito alla patria, alla vita, allo sguardo, agli ultimi baci; in questa come nella inarrivabile scena delle Porte Scee, il poeta non solo raggiunge la più alta vetta dell’arte, ma riesce, volendo o no, ad inspirare, in questo stesso canto di guerra, tale orrore della guerra, quale forse non si riesce a sentire nemmeno innanzi alla figurazione plasticamente e immediatamente suggestiva di un quadro come quello di Landseer, nemmeno — e chi può dimenticarla? — innanzi alla visione diretta di vite precocemente e violentemente abbattute. E l’Odyssea è come la proiezione sin nella casa lontana e l’epilogo di questo inumano conflitto, di questo inestinguibile bisogno di pace. Le ansie e i dolori di Laerte, di Penelope, di Telemaco sono lo specchio de’ dolori e delle ansie di tutte le famiglie invano aspettanti il guerriero che combatte lontano; il lamento cruccioso del padre di Antinoo è l’eco di tutti i lutti e di tutti i danni di tutto un popolo avvolto in una guerra[22]. Il pensiero della suprema vanità di una vita di conflitti e la suprema e sola verità di una vita benefica sembrano sgorgare come ultimo e migliore insegnamento di tanti casi fortunosi e di tante tristi e varie esperienze: Cose brevi son gli uomini. Chi nacque Con alma dura e duri sensi nutre, Le sventure a lui vivo il mondo prega E il maledice morto. Ma se alcuno Ciò che v’ha di più bello ama, ed in alto Poggia con l’intelletto, in ogni dove Gli ospiti portan la sua gloria, e vola Eterno il nome suo di bocca in bocca[23]. Che cosa sono gli avvolgimenti e le glorie e le fortune e i casi della guerra di Troia e che cosa divengono di fronte all’immagine del tetto domestico, che torna a lampeggiare per un momento dinnanzi agli occhi, di fronte al senso della vita che risorge e si afferma in tutta la sua forza! Ecco Ulysse che omai ..... non brama che veder da’ tetti Sbalzar della sua dolce Itaca il fumo E poi chiuder per sempre al giorno i lumi[24]. E Achille: Non consolarmi della morte, o Ulisse, Replicava il Pelide. Io pria torrei Servir bifolco per mercede a cui Scarso e vil cibo difendesse i giorni, Che del mondo defunto aver l’impero[25]. E, se talora si riaffaccia il pensiero della guerra, ecco una voce divina, altra volta incitatrice, che ora ammonisce: ..... O generoso, Così la Diva, di Laerte figlio, Contienti e frena il desiderio ardente Della guerra che a tutti è sempre grave, Non contro te di troppa ira s’accenda L’onniveggente di Saturno prole[26]. E l’ospite diventa sacro, sacro lo straniero che chiede protezione[27], e attraverso e contro Polifemo, attraverso e contro De’ Giganti..... oltracotata Progenie rea che per le lunghe guerre Tutte col suo re stesso alfin si estinse[28], a compiere il profilo ideale del quadro, come l’ultimo lembo indistinto dell’orizzonte, caro all’occhio che ama carezzarlo di lontano, caro alla fantasia che ama cingerlo e popolarlo de’ suoi sogni, si disegna la remota e ideale isola de’ Feaci ignara della guerra, ospizio della pace. Mirar credeste di un nemico il volto dice Nausicaa alle compagne sorprese e spaventate dalla vista inaspettata di Ulysse naufrago. Non fu, non è, e non fia chi a noi s’attenti Guerra portar, tanto agli Dei siam cari. Oltre che in sen dell’ondeggiante mare Solitari viviam, viviam divisi, Da tutto l’altro della stirpe umana[29]. E, a compiere con un ultimo tocco, l’azzurra visione: ...... che de’ Feaci Non lusingano il core archi e faretre Ma veleggianti e remiganti navi Su cui passano allegri il mar spumante[30]. Ma lo stesso poema, che, precorrendo con la fantasia e col desiderio la realtà, carezzava immagini lusingatrici di pace e fingeva in beate solitudini pacifiche popoli al riparo della guerra, formicolava tutto di agguati da sventare, di pericoli da schivare combattendo, di Giganti, di mostri, di avidità cieche, di amori prepotenti, di oppressioni intollerabili e impazienti della rivendicazione e suonava tutta attraverso di esso La forza invitta dell’ingordo ventre Per cui cotante l’uom dura fatiche E navi arma talor che guerra altrui Dell’infecondo mar portan su i campi[31]. Sicchè il poema universale riusciva così a cogliere anche meglio in tutti i suoi contrasti, nelle sue angustie e nelle sue aspirazioni, nella sua forma concreta e nella sua proiezione ideale la vita del tempo in mezzo a cui sorgeva o si andava svolgendo o modificando. Un altro poeta ora compariva che, raccogliendo il sentimento di orrore della guerra, andava anche più in là, guardando a fondo di quel contrasto e indicando, con le origini della guerra, il modo di eliminarla. In Esiodo la guerra torna con lo stesso triste accompagnamento simbolico che ricorre in Omero, scortata dalla Morte, dalla Contesa, dal Tumulto, dal Terrore, dalla Fame, vigilata dalle Parche, con le donne che dalle torri piangono e si lacerano le guance alla vista della strage e i vecchi trepidanti per la vita de’ figli; e, anche nello scudo di Eracles, il poeta si compiace a figurare pacifiche scene campestri di mietitori che falciano il pingue raccolto[32] e di vendemmiatori che tripudiano nell’abbondanza della vendemmia[33]. Gli stessi paragoni omerici degli avvoltoi, de’ leoni, del cignale, de’ massi che precipitano ruinosamente[34], se sono adoperati ancora a descrivere il conflitto di due combattenti, sembra quasi che vi ritornino per accrescere l’orrore della cosa, senza che il poeta s’indugi, compiacendosi per artistico godimento, a lumeggiare in tutti i loro contorni quelle scene mirabili di terribile grandiosità e di drammatico furore. Il segreto dell’avvenire, della fortuna, della vera prosperità è per Esiodo riposto nella giustizia. «Quelli che s’inspirano alla giustizia ne’ loro rapporti con gli stranieri e con gl’indigeni e in niente si dipartono dal giusto, quelli vedono fiorire lo Stato e il popolo prosperare dentro di esso; pel paese è la pace altrice di giovani, nè Zeus dall’ampio volto va macchinando per essi una terribile guerra, nè mai con gli uomini giusti si accompagna la fame o la sventura vendicatrice; si spartiscono bensì ne’ banchetti festivi il frutto sudato del loro lavoro. Per questi la terra porta abbondante alimento vitale, la quercia ne’ monti dà ghiande dal vertice e api dal seno, le pecore vellose sentono il peso della lana abbondante, le donne partoriscono figli simili a’ genitori, ed essi prosperano continuamente ne’ beni, nè vanno errando sulle navi, chè il campo donatore di frumento reca la sua messe»[35]. E indi soggiunge: «o Perse, tu figgiti bene in mente tutto questo e sii ligio alla giustizia e tieniti completamente alieno dalla violenza. Poichè questa norma impose agli uomini il Cronìde: che i pesci, le fiere, gli uccelli possono divorarsi tra loro, dacchè non vi è giustizia tra essi; ma agli uomini dette la giustizia ch’è la cosa di gran lunga più bella. E se qualcuno, sapendo, voglia parlar cose giuste, a lui Zeus dall’ampio volto dà la prosperità..... Sapendo delle nobili cose, io te le dico, o gran buon Perse». E prosegue, infatti, incitandolo al lavoro: «Lavora, o Perse, lignaggio divino, affinchè la fame t’abbia in orrore e t’ami invece la ben coronata Demetra pudica ed empia di alimento il tuo magazzino. Poichè la fame è assolutamente degna consorte dell’uomo inoperoso. Con lui si sdegnano uomini e Dèi perchè vive inerte, simile nell’orgoglio a’ fuchi, che, mangiando oziosi, distruggono quello che a gran pena le api hanno fatto lavorando: a te sia caro attendere ad opere adeguate, perchè, a tempo opportuno, i granai ti si riempiano di viveri. Lavorando gli uomini divengono ricchi di gregge e ragguardevoli, e lavorando sarai molto più caro agl’immortali e agli uomini, poichè essi hanno assai in abbominio gl’ignavi. Il lavoro non fa vergogna: fa vergogna l’inerzia. Che se lavorerai, ben presto ti emulerà l’ozioso vedendoti ricco: alla ricchezza si accompagnano e forza e gloria [che tu sia tale per la divinità! assai meglio è lavorare, se volgendo l’animo improvvido da beni alieni al lavoro, cercherai di tirare innanzi come io ti comando]...... le ricchezze non si debbono acquistare per rapina: molto migliori son quelle largite dalla divinità. Poichè, se anche alcuno riesca a fare, per violenza di mano una grande fortuna, o depredi col mezzo della lingua, come molte volte accade, quando lo spirito di guadagno inganni l’animo negli uomini e l’impudenza discacci il pudore; facilmente gli Dèi l’accecano e l’azienda domestica va a male per un tale uomo, e dopo poco tempo se ne va la fortuna»[36]. Il poeta che odia la rapina come «apportatrice di morte», ha fede invece nell’opera produttiva assidua e non interrotta, e crede nel risparmio e l’inculca. «Poichè, quando tu aggiunga anche il poco al poco e faccia ciò spesse volte, ben presto il poco diverrà assai: quei che aggiunge a ciò che già vi è, quegli scaccia la fame divoratrice»[37]. Esiodo fa quindi dipendere la pace e il fiorire della famiglia e della società da questo indirizzo per cui l’uomo, anzi che volgersi alla rapina, sviluppa egli stesso col suo lavoro la produzione e crea per opera propria e senza danno degli altri il suo benessere. Il poeta è tanto compreso di questo modo di vedere, che l’età di Crono, l’epoca in cui gli uomini vivono senza violenza e senza offese, a lungo, tra danze e banchetti, onorando gli dèi, morendo in tarda età con la placidezza di chi si assopisce nel sonno, è anche il tempo in cui «il campo datore di frumento portava da sè, spontaneamente (αὐτομάτη) frutto largo, abbondante; ed essi di buon animo e pacifici si ripartivano i lavori con i molti valenti, ricchi di greggi, cari agli dèi immortali»[38]. Esiodo veramente non si dissimula l’antagonismo, onde germogliano le contese tra gli uomini, ma lo concepisce sotto un doppio aspetto e mira a formularlo ed educarlo nella sua manifestazione più civile: «Non una sola dunque era la specie delle contese, ma ve ne sono due sulla terra: l’una da chi sa può essere trovata degna di lode, l’altra è biasimevole, e tengono l’animo diviso. L’una proterva, fomenta la triste guerra e la pugna; e il mortale non l’ama, ma, sotto l’impero della necessità, per divisamento degli dèi, onora la grave contesa. L’altra la generò per la prima la notte tenebrosa, e il Cronìde che regna dall’alto, abitando nell’aria, la pose nelle radici della terra molto migliore fra gli uomini. Questa eccita anche l’inerte al lavoro. Poichè alcuno bramoso di lavoro, credendo un altro ricco, si affretta ad arare e seminare e ben tenere la casa; e il vicino emula il vicino che si va facendo ricco. Questa contesa è buona per gli uomini. E il vasaio ha il senso d’emulazione del vasaio e il muratore del muratore e il mendico invidia il mendico e il cantore il cantore»[39]. Ma purtroppo quest’altra forma più civile di contesa, che si presentava da prima come un diversivo e un sostitutivo della guerra, questa concorrenza, per dirla con parola moderna, non tardava anch’essa a metter capo e degenerare nella guerra, riardente poi più vasta e furiosa per l’inevitabile conflitto verso cui spingeva gl’interessi opposti la disputa di quella ricchezza, che, neppure intesa sempre nel suo buon senso economico, era a dire del poeta come «l’anima de’ miseri mortali, e, non paghi o non alimentati a sufficienza dal frutto della terra, li spingeva lontano, inconsideratamente, verso tutti i rischi della navigazione[40]. Così, a chi legge i versi di Esiodo par di sentirsi trasportato in una di quelle verdi e chiuse valli di Grecia, dove la fecondità del suolo, la semplicità della vita, il clima temperato sembrano invitare ad una vita di raccoglimento, nella pratica della giustizia, nel culto degli dèi, nella pace della famiglia. Ma, di tratto in tratto, una tribù di predoni, in un’audace scorreria, faceva man bassa su messi ed armenti; e, se, respinto l’aggressore dalla montagna, ove l’aveva inseguito, il valligiano si fermava per un momento a guardare lo sterminato orizzonte nuovamente dischiuso alla vista, l’animo da prima allietato, era poi sopraffatto da una nuova impressione. Un germe di scontento, un fomite d’inquietudine penetrava, attraverso quella nuova gloria di sole e di azzurro, nel cuore. Dietro l’ultima linea dell’orizzonte, dove il mare tutto fiorito d’isole andava a confondersi col cielo, era l’ignoto, donde come da un agguato si sarebbero svolte le falangi e le armate di Dario e di Serse; a un estremo opposto era la Sicilia, piena di lusinghe, piena di pericoli; e una lontana eco nell’aria pareva ripercuotere un altro canto che non fosse la didascalia idillica di Esiodo; pareva ripetere il canto di Alceo fremente d’ire civili, il canto di Tirteo triste come il grido notturno di una scolta, irrompente come un incitato cavallo di battaglia. Tutta una folla di incertezze che si assiepava alla mente, tutto uno stuolo di vaghi e oscuri presentimenti che si aggravava sull’anima. III. Nel regno della guerra. Il canto caratteristico degli Spartani — una delle poche manifestazioni artistiche prodotte o assimilate in quell’ambiente — è un canto di guerra, voce fedele di tutta quella vita. «È bello per un uomo valoroso morire cadendo tra quelli che pugnano in prima fila, combattendo per la propria patria»[41]. Ed è canto di una guerra combattuta per le are e per i fuochi, per la propria esistenza: lo dice la prospettiva evocata a contrasto di quella libera morte. «La cosa più triste è, dopo aver lasciato la propria città e i pingui campi, pitoccare vagando con la cara madre e il vecchio padre e i piccoli figliuoli e la sposa pudica. Poichè ad essi sovrasterà il nemico, facendo luogo per que’ che raggiunga al bisogno e alla spaventosa povertà, mentre disonora la schiatta, offende il nobile volto e ne seguono disonore e sventure. Se adunque per un uomo vinto non vi è niente di bene, nè ritegno, nè rispetto, nè compassione, combattiamo con coraggio per questa nostra terra e moriamo per i figli, non avendo riguardo alla vita»[42]. Questo grido pare che non faccia altro se non ripercuotersi per tutta la storia greca dalla valle dell’Eurota, accompagnato da uno strepito d’armi. «L’intero sistema delle leggi — dice Aristotile — è rivolto ad _una parte_ della virtù, a quella bellica». Sparta ci presenta il tipo più completo e meglio conservato di una divisione di lavoro e di una conseguente specificazione di funzioni e di organi, per cui una popolazione di soggetti attendeva alla coltivazione della terra, provvedendo l’alimento, mentre una più ristretta popolazione di dominatori esercitava il comando coltivando l’esercizio delle armi. Come si arrivasse a questo, è materia d’ipotesi, abbandonata, in mancanza di prove e tradizioni sicure, all’induzione. Quel che di sicuro la storia ci presenta, è Sparta cinta da presso da una classe di servi della gleba, addetti all’agricoltura, più lungi da una varia popolazione di perieci, posti sotto la sovranità anzi che in servitù della capitale. Una vita economica più progredita, quale poteva sorgere specialmente in un paese marittimo, aveva spazzato via altrove — ad Atene, per esempio, dove ne troviamo traccia[43], — questo rudimentale sistema di sfruttamento, sostituito ben presto dalla schiavitù e dagli altri impieghi di un capitale crescente; la posizione geografica, invece, della Laconia, la stessa fecondità del suolo, che non esigeva importazioni, nè stimolava con l’inadeguatezza sua l’industria degli abitanti, aveva reso nella Laconia persistente e duratura quella forma sociale rudimentale e primitiva. E questa condizione di cose faceva, per necessità, di Sparta come un esercito in armi, della sua vita come una milizia permanente, adattando a quello scopo permanente, inevitabile e supremo, gli usi stessi e le norme consuetudinarie di vita e di governo, che nella tradizione, non solo più lontana, di Plutarco, ma più vicina anche, di Senofonte e Aristotile, dovevano apparire come un voluto e ben congegnato sistema di vita politica e sociale. Questa stessa precipua educazione alle armi, intanto, specie in un periodo di assidua lotta pel mutuo assoggettamento, si convertiva naturalmente in occasione e scintilla di guerre. Il conflitto con la Messenia — il più antico e rimasto forse il più memorabile nella tradizione — fu forse, dal canto di Sparta, una scorribanda di una popolazione crescente di numero e di ardire sulle invidiate terre di un popolo vicino, rese tentatrici dalla loro stessa ubertà? O fu un duello di vita e di morte, come solevano accaderne, specie nell’antichità, di due popoli che volevano reciprocamente sopraffarsi ed eliminarsi? Comunque, da quella lotta Sparta uscì trionfatrice e dominatrice, come dalle successive lotte con gli altri popoli confinanti uscì più temprata, più addestrata, più forte e adatta ad arrogarsi ed esercitare quell’egemonia e quel potere, per così dire, arbitrale, a cui s’inspira d’ora innanzi la politica e l’azione di Sparta. Agesilao, il grande re spartano, aveva detto in un’occasione che, più de’ doni de’ nemici, gli Spartani amavano conquistarne le spoglie, e, altra volta, parafrasando de’ versi d’Ibria, aveva risposto a chi gli chiedeva fin dove giungessero i confini della Laconia, scuotendo la lancia e dicendo: «Fin dove questa arriva»; — ma egli stesso altra volta aveva pur detto: «meglio custodire la libertà propria che toglierla agli altri»[44]. E infatti, a misura che si allontana dalla guerra necessaria, la politica spartana va perdendo sempre più l’impronta e le mire conquistatrici. La mancanza di mezzi per sostenere guerre lunghe e lontane, il numero limitato della popolazione, disadatta ad eserciti di occupazione, l’indirizzo di vita alieno dall’agricoltura e da’ commerci che permettevano di occupare colonizzando e trafficando, la soggezione spesso minacciosa degli Stati, erano tutte cose che distoglievano da una politica conquistatrice. Ora, in un periodo della storia, in cui, quasi come per un dilemma senza uscita, si era o conquistati o conquistatori, l’unica via di mezzo doveva consistere nel sapere imporre e mantenere un equilibrio, che paralizzasse le velleità conquistatrici di uno con quelle dell’altro, o, all’occorrenza, col _quos ego_ di un’autorità e, specie, di una forza superiore. Di qui quel diritto d’intervento di Sparta non solo nelle contese esterne, ma anche nella politica interna degli altri Stati, specialmente la sua azione avverso le due forme politiche, in apparenza opposte, della tirannide e della democrazia. La tirannide, una forma anticipata di cesarismo, realizzata nell’ambito circoscritto di un piccolo Stato, di un Comune, era un principato a base popolare e un termine di passaggio dalle oligarchie e dalle aristocrazie, di cui segnava la decomposizione, alla democrazia, cui era costretta a cedere il campo. Essa era un fenomeno di reazione impulsiva e disordinata contro le aristocrazie sfruttatrici, da parte di tutte le altre classi della popolazione, in parte crescenti di numero e di ricchezza, in parte premute dal bisogno, che escluse, interamente o quasi, di diritto o di fatto, dalla partecipazione a’ pubblici poteri, servivano col loro senso d’inquietudine d’inconsapevole strumento all’ambizioso il quale voleva e sapeva giungere ad avocare a sè il supremo potere. La coscienza sempre più prevalente de’ proprî diritti e delle proprie forze nella massa della popolazione, l’ampliarsi del ceto commerciale e la formazione di un proletariato cittadino, gli eccessi del principato gravosi anche alla piccola proprietà, prima di tutti a sentire in modo più visibile gli effetti di un qualunque stato di malessere e di crisi; tutte queste cose, scalzando poi alla loro volta la forma transitoria della tirannide, approdavano il più delle volte al regime democratico. Ora, la stessa necessità imposta dalla loro origine a queste due forme politiche, il bisogno di assicurare un largo campo di azione al commercio, uno sfogo alla popolazione crescente, il bisogno di estendere il beneficio del parassitismo a tutto il popolo, spingevano naturalmente, così le tirannidi come le democrazie, a una politica di espansione, sia sotto la forma diretta di conquiste che sotto quella di egemonia politica. La tirannide un po’ meno, in quanto corrispondeva a una condizione sociale meno bisognosa di espansione e provvedeva al disagio interno in parte anche con le confische de’ beni di emuli ed avversarî sbanditi; la democrazia anche di più, non foss’altro che per lo sviluppo maggiore di tutte le tendenze all’espansione e perchè non doveva nemmeno guardare all’interno con la preoccupazione paurosa del principe. Le aristocrazie invece, specie sotto la loro degenerazione oligarchica, monopolizzatrici del potere e delle risorse interne del paese, aventi radice nella proprietà fondiaria che meno si giova e meno è adatta a imprese lontane ed arrischiate e più sente il danno di un’invasione nemica, paralizzata per dippiù all’interno dalle altre classi spesso anelanti alla riscossa, erano naturalmente avverse a una politica di espansione; e, se guerre facevano, in periodi in cui uno Stato periva della guerra ma con la guerra si preservava la vita, erano guerre necessarie, per lo più di confine, a scopo di difesa, o dirette a rintuzzare un nemico petulante, ad arrotondare magari a sue spese il territorio. S’intende quindi come Sparta, e durante la sua prima egemonia e in seguito all’esito vittorioso della guerra del Peloponneso, mirasse dovunque a combattere, secondo i tempi, tirannidi e democrazie e ad instaurare aristocrazie, in apparenza facendo — come piaceva menarne vanto — la causa della libertà, in realtà facendo con ciò una politica esterna, che non solo garentiva la sua integrità e la sua indipendenza ma ne assicurava anche l’egemonia. Senonchè l’azione di Sparta si dirigeva sugli effetti, mentre alla costrizione sua, ed a qualunque altra, sfuggivano le cause vere, permanenti, che con loro azione lenta ma continua, se anche dissimulata, mutavano la faccia e la base del mondo ellenico; e, mentre Sparta era tutta assorbita in quest’opera di pura conservazione, l’incremento continuo delle colonie allargava i termini e il campo del mondo ellenico, il commercio si estendeva acquistando un’importanza sempre più prevalente, il centro di gravità della vita e della potenza politica si spostava verso il mare, e la lega marittima sorta dall’urto, nell’aspettativa così pauroso, dell’invasione persiana, sfuggiva di mano a Sparta per divenire l’imperio marittimo di Atene ed elevare di fronte a Sparta la rivale più potente, più fortunata, più gloriosa. La guerra del Peloponneso, la grande guerra incendiatrice di tutta la Grecia, era quindi alle viste; e da’ mirabili discorsi, che Tucidide mette in bocca agli ambasciadori corintî, agli ateniesi, a Pericle, ne appare subito — al disopra delle cause occasionali — il carattere inevitabile e decisivo. Ma da tutti quei discorsi, che pure rivelano e rispecchiano la situazione del tempo e degli Stati, si ha una curiosa impressione, in quanto si vede che, mentre Sparta è il centro su cui si appuntano tutti gli sforzi, per procrastinare o affrettare, per determinare o scongiurare la guerra, essa è l’arbitra ma non la chiave della situazione; è lo strumento, non l’anima della guerra. Sparta fa la parte di contrappeso, che, venendo meno, trae seco molt’altro nella ruina; è la miccia, che al tempo stesso separa e congiunge il deposito delle polveri e la scintilla, ma, se anche è in poter suo rallentarne l’accensione, non è in poter suo stornarne lo scoppio. E non può essere considerato come un semplice artifizio letterario, se l’incitamento vivo e replicato alla guerra è messo in bocca agli ambasciadori di Corinto, non solo danneggiata immediatamente nel suo amor proprio e ne’ suoi interessi di metropoli, ma minacciata ancor più nella sua vita commerciale. In questo discorso posto in bocca a’ Corintî è colto al vivo e messo perspicacemente in luce, sin dall’esordio, il vizio fondamentale della politica spartana di corta veduta, egoista. «La confidenza, o Lacedemoni — essi dicono[45] — che avete nella vostra costituzione e nella vostra concordia vi rende, per così dire, più diffidenti verso gli altri; e da ciò traete una certa saggezza, ma vi conducete con maggior ignoranza quanto alle cose esterne». E soggiungevano poco dopo: «Soli degli Elleni, o Lacedemoni, restate tranquilli non tenendo lontani altri con la potenza ma temporeggiando, e soli non ricacciando la potenza de’ nemici, mentre è sul cominciare, bensì quando si è ingrandita»[46]. Movendo quindi da un concetto opposto delle cose e della vita, che apparecchia la guerra durante la pace nella fiducia o nell’illusione di assicurare con la guerra la pace[47], additavano tutto il pericolo di questi Ateniesi irrequieti di cui «giustamente si potrebbe dire che non sanno aver pace nè la lasciano avere agli altri uomini»[48]. «Ora gli Ateniesi stanno a paro di tutti noi presi insieme e per quanto riguarda la città sono anche più potenti: cosicchè se tutt’insieme, ogni popolo, ogni città, con unanime consiglio non li oppugnamo, ci soggiogheranno, divisi, senza fatica. E, se anche sia spaventevole ad udire, si sappia che l’essere vinti non porta altro che una pretta schiavitù»[49]. E a quest’invocazione de’ Corinti rispondeva da parte degli Spartani una duplice e diversa voce: una, temporeggiatrice, ligia alla politica tradizionale, di troppo calcolata prudenza; l’altra, che, mostrandosi tocca del pericolo degli alleati, credeva di meglio intuire il pericolo proprio e di combatterlo più efficacemente mentre era ancora relativamente lontano. L’una era la voce di Archidamo, che, da un lato preoccupandosi de’ possibili danni impendenti allo stesso Peloponneso, dall’altro della difficoltà della guerra, diceva: «Rispetto a’ Peloponnesiaci e a’ vicini la nostra potenza è di pari natura, e rapidamente si può muovere verso ciascuno di essi: invece rispetto a quelli che abitano un paese lontano e hanno perizia del mare e sono ben provveduti di tutte le altre cose, ricchezza sia privata che pubblica, e navi e cavalli e armi e popolazione, quanti non ve ne sono in ogni altro paese ellenico e hanno ancora alleati molti soggetti a tributo, contro questi come si può sollevare a cuor leggiero una guerra e, in che cosa fidando, si può assalirli impreparati?»[50]. E conchiudeva: «Questi metodi prudenti dunque che i padri nostri ci legarono e de’ quali ci siamo sempre giovati, non li trascuriamo, nè deliberiamo a precipizio, nel breve spazio di un giorno, bensì con calma, di molte vite e sostanze e città e fama»[51]. L’altra era la voce dell’eforo Stenelaida, che con laconica concisione, guardando in faccia alla situazione e riassumendola conchiudeva senz’altro: «Deliberate dunque, o Lacedemoni, com’è degno di Sparta, la guerra, e non lasciate che gli Ateniesi divengano ancora più potenti, nè tradiamo gli alleati, ma con l’aiuto degli dèi moviamo contro gli oppressori»[52]. Così il grande duello fu ingaggiato, un duello, che secondo le condizioni de’ tempi, si potrebbe chiamare anch’esso «della balena e dell’elefante». E all’elefante rimase la vittoria, ma una vittoria di cui apparve subito tutta l’inconsistenza e la sterilità. Nella replica a’ Corintî, che Tucidide fa pronunziare agli Ateniesi, questi, facendo la franca notomia della loro sovranità e del malcontento da essi suscitato, dicevano rivolti a’ Lacedemoni: «Voi adunque, o Lacedemoni, vi conduceste rispetto agli Stati del Peloponneso secondo l’utile vostro; e se allora, seguitando a rimanere, vi conducevate come noi nell’egemonia [della lega marittima], sappiamo bene che non meno di noi sareste divenuti gravi agli alleati e vi sareste veduti costretti o a reggere vigorosamente, o a pericolare voi stessi»[53]. «.... E se, rovesciando noi, prendeste voi il comando, subito vedreste cambiato il sentimento di benevolenza che vi siete accaparrato per la paura che si ha di noi, come mostraste nel tenere il comando per breve tempo contro i Persiani; come ancor ora vedeste, poichè voi avete sistemi vostri proprî distinti da quelli degli altri e, uscendo fuori, ciascuno di voi, isolatamente, non si conforma nè ad essi nè a quelli adottati da tutto il resto della Grecia»[54]. Se Atene si era venuta arrogando un potere sempre più assoluto sugli alleati, già aderenti spontaneamente alla prima lega marittima, sino al punto di diventarne la signora; è pur vero che aveva cercato di dissimulare, fin dove era possibile, tutte le durezze di un simile stato di cose con tutti i miraggi e i lenocinî, che fanno tollerare e qualche volta perfino aver cara la soggezione. In Atene tutti quei soggetti, chiamati ancora con uno studiato eufemismo alleati, trovavano come il punto d’applicazione del loro orgoglio nazionale e l’assicurazione del mare dischiuso e garantito a’ loro commerci: da Atene, il loro contributo di denaro e di forze tornava ad irradiarsi come lume di civiltà, come splendore di arte, come gloria letteraria, come ardimento di pensiero; onde la città di Pallade era lume e fuoco di tutta la razza, l’educatrice e il tirocinio di tutta l’Ellade, come la voleva Pericle. Gli stessi rapporti continui, fomentati da’ commerci, dalle ricorrenti feste religiose, dall’alta giurisdizione ateniese, mescolavano, fondevano, anche, spesso, tutti quei diversi elementi di quell’imperio marittimo, in modo che, come si vide poi, con la lusinga di misure meno vessatorie e sotto forma più attenuata, potè risorgere per così dire dalle sue ceneri stesse. L’egemonia di Sparta, invece, conservando tutte le durezze del dominio, ne manteneva pure tutte le forme e pretendeva estendere una disciplina rigorosa sugli alleati, che non potevano concepire Sparta — chiusa e impenetrabile a loro, repellente quasi a’ loro stessi contatti — se non come una padrona gelosa, messa in rapporto con gli altri popoli unicamente e specialmente dall’opera dilapidatrice e oppressiva de’ suoi armosti. Questa mancanza di virtù assimilatrice da parte di Sparta, che le impediva di ringagliardirsi e rinnovarsi assorbendo elementi vitali dall’esterno; questa sterilità del suo predominio, questa incapacità di convertire la stessa vittoria nella conquista e di sapere usare della vittoria dopo averla ottenuta; rendevano di necessità precario ogni suo trionfo, inorganica e incoerente ogni sua creazione politica; e bastava una vittoria come quella di Cnido per iscalzare la sua egemonia e fare risorgere d’un tratto quasi più potente la sua antica rivale, di cui poco prima pur s’erano smantellate le mura, distrutte le flotte, violati il territorio e la libertà. La stessa lode di mitezza e di magnanimità, che un oratore laconizzante[55] amava tributare a Sparta per avere impedito che Atene, dopo la sua sconfitta, venisse rasa al suolo e spiantata dalle fondamenta, più che a generosità era dovuta a calcolo politico di uno Stato che fondava la sua esistenza sugli antagonismi degli altri Stati e quindi si limitava a deprimere un rivale anzi che annientarlo per conservarlo ancora come una minaccia e un competitore agli altri rivali. Ma questo calcolo appunto rivelava appieno quanto fosse sterile e negativa la politica spartana, inetta a ridurre sotto di sè tutta la Grecia e destinata ad essere solo una forza disintegratrice e dissolvente verso ogni opposto tentativo di unificazione. A misura, intanto, che gli anni sussecutivi alla guerra del Peloponneso ne venivano svolgendo e mostrando gli effetti, da un lato se ne sentivano tutte le conseguenze disastrose, dall’altro ne appariva sempre più fallita la mira di por fine a’ conflitti dell’Ellade con una guerra decisiva, che mettesse stabilmente l’egemonia in uno degli Stati. Sicchè alla politica, come oggi si direbbe, «imperialista», politica di conquista, di assorbimento o di dichiarata supremazia; succedeva, con un sentito desiderio di pace, l’ideale di un autonomo particolarismo, per cui tutti gli Stati vivessero in una condizione di mutua indipendenza. E questa politica, che rispondeva a meraviglia agli interessi presenti della Persia e a cui la Persia sembrava aver condotto col tenere in lizza, gli uni contro gli altri, gli Stati rivali, ebbe per opera del Gran Re la sanzione forzata nella pace così detta di Antalcida (387-6 a. C). Ma, come più diffusamente si rileverà appresso trattando delle vicende della pace e della guerra in Atene, non era quello il tipo in cui ogni Stato potesse restringersi in sè per potere e sapere attendere con le risorse sue proprie a tutte le crescenti esigenze della vita; nè quel particolarismo costituiva l’ambiente più favorevole allo sviluppo degl’interessi commerciali sempre più prevalenti; nè prometteva lo schermo più efficace contro i pericoli e le minacce esterne più o meno vicine. Così quella riaffermata autonomia con tutte le sue proteste ed aspirazioni di pace tornava a degenerare nella guerra; e l’indipendenza, asserita in diritto, era continuamente violata o minacciata in fatto. Onde accadeva che Andocide potesse iniziare l’orazione a noi giunta sotto il suo nome col dire (392 a. C.): «O Ateniesi, tutti sapete, mi sembra, come è meglio fare una pace giusta che non fare la guerra; ma non tutti mi sembra che vi accorgiate come gli oratori, a parole, consentono nella pace, in realtà, contrastano quelle cose onde verrebbe la pace»[56]. E al congresso per la pace, tenuto nel 371 a C. a Sparta e finito anch’esso in una guerra, Senofonte poteva mettere in bocca ad uno degli oratori ateniesi, ad Autocle, queste parole: «O Lacedemoni, non ignoro che non vi riusciranno gradite le cose che mi accingo a dire; ma mi sembra che quanti vogliono duratura l’amicizia, che si propongono fare, debbono reciprocamente illuminarsi delle cagioni delle guerre. Voi dite sempre che gli Stati debbono essere autonomi, e intanto voi massimamente vi fate impedimento alla loro autonomia. Poichè, prima di ogni altra cosa, pattuite con gli Stati alleati che vi debbono seguire dovunque voi volete. Or questo come conferisce all’autonomia? Dichiarate la guerra senza prima averne tenuto consiglio con gli alleati e li fate entrare in campagna, così che di frequente i così detti autonomi sono obbligati a combattere contro i più amici. Ancora — ciò che è più avverso di ogni altra cosa all’autonomia — stabilite qua un governo di dieci, là di trenta; e non vi date pensiero che questi governanti governino com’è debito, ma che possano con la forza tener soggetti gli Stati; talchè pare che vi compiacciate piuttosto di tirannidi che non di libere costituzioni. E quando il re [di Persia] prescrisse che gli Stati fossero autonomi, dichiaraste con grande sicurezza, che, se i Tebani non lasciassero ogni città governarsi da sè e seguire le leggi che volesse, non si conformerebbero alle prescrizioni del re [di Persia]; indi v’impadroniste della Cadmea e non permetteste agli stessi Tebani di essere autonomi. Bisogna che quanti si accingono ad essere amici non credano di doversi aspettare l’osservanza della giustizia, per essere essi quanto più possono prepotenti»[57]. Così questa preoccupazione dell’equilibrio politico e dell’autonomia dei singoli Stati, in parte urtava contro la forza superiore delle cose e i casi non preveduti della politica internazionale, in parte diveniva un nuovo fomite di gelosie, di controversie, di dissensi; e il quarto secolo in Grecia riarde tutto di queste guerre in cui a vicenda si dilaniano i varî Stati della Grecia e in cui l’uno fa il giuoco dell’altro, e tutti, sinchè non spunta il predominio macedone, fanno il giuoco dell’Impero persiano. Intanto dal giuoco di questo equilibrio sempre incerto e sempre spostato — in cui gli amici di ieri divenivano i nemici di oggi e la Persia, con l’esca di corruzioni private e di alleanze pubbliche, la chiamava a combattere in Asia or come amico or come avversario — Sparta era tratta ad avventure e guerre lontane, così poco conformi alle sue forze e alle istituzioni, e avute prima in tanto orrore[58], perdendo in questo nuovo diuturno conflitto uomini, forze, equilibrio interno e la stessa sua ragione di essere. Le antiche abitudini ne rimanevano ruinate, i vecchi sistemi di vita ne rimanevano scossi, senza che si potesse indurre nell’ambiente patrio una modificazione corrispondente, una innovazione che dell’antica vita mutasse la base e ne costituisse una organica e normale alla nuova. Per un circolo vizioso che suole naturalmente avere origine in questi casi, la guerra diveniva, tanto più un fomite e uno sfogo di speculazione, in fondo a cui vi era la rovina finale ma che intanto costituiva individualmente un espediente. I vuoti, intanto, della popolazione già decimata dalla guerra rimanevano scoperti o mal si colmavano in una condizione economica in cui al crescente dissesto de’ più faceva riscontro la concentrazione delle fortune in una cerchia sempre più ristretta di persone. E questo stato generale dava luogo nel campo politico a un’oligarchia sempre più ristretta, che si potè persino calcolare di quaranta persone[59], a cui d’altro lato corrispondeva un lievito di malcontento, di rivolte, di congiure[60]. Per tal via le città greche, logorate in un mutuo contrasto, si ammiserivano, s’isterilivano, togliendo alimento a quel lume di civiltà, che, dove ancora con guizzi ricorrenti scintillava più bello, pareva simile agli aneliti luminosi della lampada che sta per spegnersi. Gli Stati ellenici andavano scivolando verso quello stato di cose di cui diceva il poeta: _Et propter vitam vivendi perdere caussas._ L’impotenza di raccogliere tutte le energie del paese, sia sotto la forma pacifica della cooperazione che sotto quella autoritaria del dominio, faceva sì che i fati della storia — impulso intimo, più o meno consapevole, della società cercante attraverso ogni sforzo un migliore adattamento — passassero in mano al principato macedone, a cui solennemente contrastando resisteva Atene, a cui sterilmente e interrottamente recalcitrando si ribellava Sparta, e che pure, sapendo solo raccogliere nelle sue mani un maggior fascio di forze, si mostrava atto a raccogliere l’eredità della civiltà greca, non per continuarne esso stesso la tradizione, ma per ispargerla, come fa l’agricoltore, seme di una nuova messe, in campo più largo. IV. Pace e guerra nell’antica Atene. Tra i popoli dell’antichità non ve ne è alcuno che più dell’ateniese abbia lasciato così larga traccia, meglio anche che de’ grandi fatti storici, del meccanismo della sua vita interiore, della sua maniera di vivere giorno per giorno, de’ sentimenti, delle impressioni, delle lotte destate dalle sue stesse condizioni materiali di esistenza. Il teatro, la poesia, l’arte in generale, gli oratori, l’epigrafi ne sono, in vario modo, un riflesso e una manifestazione genuina; e la storia di Atene, comunque genialmente trattata, ben lungi dall’essere un argomento esaurito, si presterà sempre ad essere ripresa, specialmente ad ogni mutamento del modo di considerare e d’interpretare la storia. Le due tendenze alla pace e alla guerra, discordi ed opposte, hanno in Atene un singolare rilievo, e, ad intervalli ma con insistenza, si riaffacciano per tre secoli della sua storia, riassumendo ne’ due diversi indirizzi il grado di sviluppo economico, i bisogni, la potenzialità produttiva, le lotte di classi, le rivoluzioni politiche dello Stato. Tra il settimo e il sesto secolo, sull’aurora, si può dire, della storia ateniese, quando la tradizione vaga e leggendaria comincia a farsi più sicura e distinta, subito si presenta questo conflitto, rispecchiato in uno de’ più antichi, se non nel più antico documento della letteratura ateniese. «Io stesso venni, araldo, dall’agognata Salamina, portando sulla piazza il ben composto mio canto. «Oh, fossi io allora Folegandrio o Sicinite piuttosto che Ateniese, scambiando la patria; perchè potrà presto accadere che si cominci a dire tra gli uomini: Costui è un Ateniese, di quelli che furono cacciati da Salamina». «Andiamo a Salamina, combattendo per l’isola ambita, scuotendo da noi la vergogna sì triste a sopportare»[61]. È l’elegia di Solone: sono anzi i frammenti dell’elegia di Solone, poveri ruderi e scarse reliquie; ma, attraverso di essi, la mente ricompone il passato come, alla vista di un basamento seminascosto dall’edera e di un capitello spezzato ricostruisce idealmente un tempio antico. La critica ha spogliati questi versi della leggenda, che la fantasia popolare o quella de’ novellatori, era venuto tessendo intorno ad essi[62]. Non tutti sono d’accordo nel ritenere se quella elegia risponde ad un impeto di ardor giovanile, oppure, così ardente com’è, fu l’espressione di un’anima che si serbava ancora agile ed entusiastica in un corpo invecchiato[63]. Non si può giungere, altro che per induzione, a dire come e quando Salamina venne in mano di Atene, e se fu il premio di una guerra vittoriosa di Solone o di Pisistrato, o, meglio, un fortunato acquisto dovuto a maneggi politici ed arbitrati[64]. Tutti questi dubbi e queste incertezze possono essere più o meno dissipati: in ogni modo, attraverso i pochi versi solonici, si vede bene sullo sfondo del sesto secolo tutta la situazione politica, interna ed esterna, dell’Attica. Questo paese, i cui colli e le cui coste non si sono ancora andati rivestendo di olivi, di fichi, di viti, è, finchè l’opera umana non ne svolga gli ascosi tesori, povero ed infecondo. Rimpetto alle limitate pianure, benedette da Demetra ed ove Demetra ha culto, stanno le pendici arse o selvagge, che male alimentano dal loro sottile strato di terra vegetale il frumento e per cui meglio s’aprono il sentiero le capre e i loro custodi. Ma da quelle stesse pendici e dalle cime de’ colli, quanto più la popolazione cresce e più si sente il disagio della vita, si guarda con maggior senso d’invidia e con ardore di desiderio più grande a Salamina, quella che anche più di Egina potea dirsi un «_pruno nell’occhio del Pireo_»; si guarda agli umidi ed infiniti sentieri del mare, cantati dal vecchio Omero e solcati ora a gara dalle navi di Egina e da quelle di Megara. Il bisogno dell’alimento, l’aspirazione al benessere, il desiderio di trovare sfogo all’energie crescenti in secreto e anelanti a rivelarsi, divengono inconsapevolmente la nostalgia del mare, il patriottismo e il sentimento dell’onore cittadino, come ne’ versi di Solone. La prudenza e la circospezione vengono in lotta con il bisogno di espansione e con lo spirito di avventura; il desiderio dell’indispensabile o del meglio lotta contro l’inerzia del soddisfatto; la corta vista del campagnuolo urta contro i più larghi orizzonti del cittadino; il ricco proprietario del piano e il piccolo proprietario ruinato della montagna, l’usuraio della città e il marinaio della costa, l’artigiano e il proletario vengono naturalmente in contrasto tra loro e costituiscono il soggetto e lo strumento degli antagonismi che domineranno ed animeranno tutta la politica interna ed esterna dello Stato. Raccogliersi ne’ propri confini, tarpare le ali alle ambizioni e alle brame, estrarre dal seno del proprio paese tutto quanto potesse dare, rassodare e perfezionare all’interno tutta una struttura politica, che, sotto l’ègida di un diritto positivo, facesse di una classe la dominatrice di un’altra: — ecco la divisa e l’indirizzo di quelli che, monopolizzando le forze produttive del paese, si sentivano naturalmente tratti a favorire una politica di raccoglimento. Rendere più agevoli i mezzi del proprio sostentamento e più proficuo l’impiego di tutte l’energie; risolvere all’esterno quel problema, che all’interno si poteva risolvere solo limitatamente, a vantaggio di pochi e a danno di molti, e fare perciò del popolo ateniese il parassita di altri popoli col commercio, con la conquista, con la supremazia; tentare quindi nuove vie, irrompere al mare, spezzare la cerchia in cui vicini e rivali tenevano stretta l’Attica: — ecco il programma e il partito di quelli, a cui era precluso il possesso della terra, o che nella terra non trovavano impiego sufficiente alla propria ricchezza e alla propria energia, o che, in una struttura sociale eminentemente parassitaria, lungi dall’essere i parassiti, erano destinati, in patria, a dare a’ parassiti alimento. In questo contrasto sta tanta parte della storia ateniese e non della storia ateniese soltanto, i cui caratteri sembrano come virtualmente contenuti in questo inizio del sesto secolo, nel quale, per la prima volta, in forma sicura e distinta, Atene ci si presenta sotto questo aspetto. E la prevalenza di uno o di un altro indirizzo, con tutte le conseguenze politiche interne ed esterne che ne derivano, dipende dalla possibilità di un diverso stato di prosperità interna e di una diversa distribuzione della ricchezza. Gl’istinti più o meno bellicosi, le forme di potere più o meno accentrato, le lotte di classi più o meno prepotenti avranno come misura e come condizione lo sviluppo più o meno sufficiente delle forze produttive interne, la necessità di trarre da’ paesi esterni i mezzi per soddisfare a’ proprî bisogni, il benessere più o meno diffuso e più o meno agevole a raggiungere, la tendenza più o meno sviluppata a qualsiasi genere di parassitismo. La necessità o la convenienza di vivere di _preda_, o, comunque, del lavoro altrui, fomenteranno, per via diretta o indiretta, la guerra; l’abitudine e la facilità di vivere del lavoro proprio tenderanno sempre più a renderla meno frequente e ad eliminarla. Nelle condizioni dell’Attica, un paese che non produceva tanti cereali quanti ne occorrevano a sostentare la sua popolazione, e avea bisogno allora, come ancor oggi ne ha bisogno, d’importarne, il libero uso del mare e il preliminare possesso di Salamina, messa come una Sfinge a guardia de’ suoi approdi, non solo erano la premessa necessaria di ogni ulteriore grandezza, ma erano una questione di vita e di morte. E il partito della guerra prevalse, malgrado l’orrore della guerra che le precedenti sconfitte aveano inspirato. Megara fu umiliata, se non prostrata, Salamina fu riacquistata, se non riconquistata; e, col vantaggio morale di una rivincita e di una gloria militare, si sorresse l’autorità morale dello Stato e si schiuse la via alla possibilità d’importazioni, di commercî, di un futuro dominio del mare. Nondimeno fu guerra che non divenne incentivo immediato ad altre guerre; parve piuttosto l’epilogo di un lungo periodo di contese. Il periodo che segue, è un periodo di raccoglimento e quasi di preparazione. La condizione incerta ed oscillante di una sovranità illegittima com’era la tirannide, spesso posta in pericolo, poteva, da parte sua, contribuire a distogliere la politica da un indirizzo pieno di avventure. Pure, altrove, la stessa forma di potere politico cercava una base ed un appoggio nella gloria militare ed in una politica, che, facendo de’ sudditi i signori ed i parassiti di altri popoli, li rendesse così più tolleranti della soggezione politica interna. I fasti de’ Pisistratidi sono fasti civili, anzi che militari; e, benchè il loro dominio traesse occasione e alimento da una guerra esterna, tutta l’attività guerresca successiva si potrebbe limitare a qualche episodio non conservato nemmeno chiaramente nella tradizione. Una delle ragioni e la precipua di siffatta politica di raccoglimento, caratteristica del dominio de’ Pisistratidi, va cercata appunto in quello svolgersi e fiorire delle energie interne, nello sforzo di suscitare tutta la potenzialità economica di cui l’Attica sembrava capace. Quel ritorno verso la campagna, rilevato specialmente da Aristotile[65], preparava la terra a rendere tutto quanto potesse; e la possibilità di una maggiore importazione di cereali agevolava un così promettente strumento di prosperità com’era la trasformazione delle culture. Le miniere del Laurio poi, se non ora scoperte, almeno ora messe meglio a profitto, erano un vero lievito degli scambî, de’ commercî, di una futura potenza commerciale. L’interesse de’ Pisistratidi veniva a collimare con quello del ceto agricolo che formava la base stessa della società del tempo, e non era in conflitto con quello del proletariato cittadino. La stessa tendenza all’espansione, per quanto venisse crescendo, avea nella migliore e più abbondante moneta d’argento uno strumento pacifico di sviluppo. Così la politica esterna de’ Pisistratidi avea dovuto assumere piuttosto un indirizzo difensivo che non un indirizzo offensivo; aveva dovuto consistere piuttosto nel rimuovere alcuni ostacoli che non nel costituire uno stato di violento predominio su paesi stranieri. Soltanto, questo stato di cose non poteva essere durevole, e da esso stesso, dato il carattere e le condizioni del mondo antico, sarebbero sorti gl’incentivi e le inevitabili occasioni di guerre. Lo svolgimento delle forze produttive dell’antichità era assai limitato, e ogni desiderio di miglioramento e ogni impulso di nuovi bisogni non si convertiva, nè si poteva facilmente convertire in uno sforzo diretto ad ottenerne l’appagamento col proprio lavoro e col diretto uso degli elementi forniti dalla natura. L’appropriazione più o meno violenta della ricchezza altrui, l’assoggettamento dell’uomo all’uomo, lo sfruttamento, sotto le forme meno larvate e più rudimentali, si presentavano come l’indirizzo prevalente, pel principio stesso della tendenza al minimo sforzo e dell’attrazione a’ punti di minore resistenza. Anche la divisione primordiale di lavoro sociale tra la classe guerriera protettrice e la classe produttrice spingeva più facilmente gli elementi dirigenti dello Stato ad estendere oltre i confini del proprio paese il loro dominio, attribuendosi, a titolo di conquista, quel frutto del lavoro altrui, che all’interno si attribuivano come corrispettivo della protezione e della difesa. In queste condizioni lo stesso sviluppo delle energie interne e un più elevato grado di prosperità esponevano un paese produttore all’avidità e alle aggressioni altrui, e ne faceano così un paese servo, oppure, per naturale reazione, una potenza militare, che assai facilmente dalla difesa passava all’offesa, dall’aggressione felicemente respinta alla conquista. Paesi ricchi e paesi poveri venivano in tal modo per diversa via, attratti nel vortice della guerra. E la guerra tendeva a rendersi permanente. La politica internazionale, nell’antichità, piuttosto che assumere come criterio direttivo l’autonomia o l’equilibrio, tendeva così necessariamente all’assorbimento degli altri dominî, all’ampliamento indefinito e illimitato dello Stato. La coesistenza e la tolleranza reciproca costituivano soltanto un termine di passaggio e un espediente provvisorio; ma, obbiettivamente anche più che non subbiettivamente, la mèta era il dominio e la supremazia. Per Atene quindi il periodo di raccoglimento dell’epoca de’ Pisistratidi non poteva rappresentare uno stato permanente, ma semplicemente un’utile preparazione e una lunga tregua. Lo stesso miglioramento delle sue condizioni e l’irradiarsi della sua attività l’attraeva in un’orbita di maggiori complicazioni e di più facili contrasti. E che così fosse, lo mostrarono prima le ingerenze di Sparta nella politica interna di Atene, e poi, in maniera più evidente, le guerre persiane. A misura che uno Stato vien tratto dall’isolamento in un ambiente più vario e più vasto, la sua politica muta necessariamente di proporzioni e d’indirizzo, come muta un risultato quando variano i fattori. Il contatto e il contrasto con la potenza persiana era un fatto destinato ad indurre la più radicale mutazione di orientamento. I fattori, l’ambiente, la mèta della politica ateniese erano ormai e dovevano apparire diversi, e l’avere saputo intendere la necessità e scorgere i segni del tempo costituisce la gloria immortale degli uomini che seppero dare allo Stato un indirizzo rispondente alle condizioni delle cose. Lo svolgimento calmo ma costante della ricchezza dell’Attica sotto i Pisistratidi, col necessario aumento di popolazione, con l’incremento lento ma continuo di benessere, avrebbe stimolato alla lunga il desiderio di espansione e avrebbe sviluppato, come in piccole proporzioni dovette già cominciare ad accadere, la marineria commerciale. La rivoluzione politica che pose fine alla tirannide e l’irrequietudine rivelata dagl’incidenti che valsero come causa prossima delle spedizioni persiane possono valere come una prova. Lo stato di benessere che l’Attica poteva procacciare a’ suoi abitanti con l’impiego di tutte le sue energie interne, era sempre qualche cosa di relativo, e potea valere piuttosto come un solletico che come un appagamento; era tale che non ne poteva fare de’ soddisfatti, ma li allettava solo con la vista di più larghi orizzonti e di più elevate condizioni di vita. Tuttavia l’espansione e il mutamento d’indirizzo sarebbero stati lenti e graduali, se l’invasione persiana non avesse resa inevitabile una unificazione ibrida e temporanea, una coalizione della schiatta ellenica, ch’era pur sempre un nuovo aggregato di forze, da cui si sarebbero sviluppati l’egemonia e il parassitismo di quella che avesse saputo divenirne l’elemento direttivo e il punto di attrazione. Atene seppe essere l’una cosa e l’altra; ma con ciò stesso la sua politica, la sua fisonomia, la sua indole mutavano radicalmente. Resistere alla potenza persiana, proteggere i membri della lega o il mondo ellenico, attaccare anche, occorrendo, il nemico; erano tutte cose che potevano compiersi o tentarsi con la costituzione di una forte marina da guerra. Ma a questa marina da guerra Atene non poteva sopperire del proprio; poteva bensì averne il comando e la cura, e gli alleati doveano contribuirvi con tributi o con navi. La potenza militare intanto e lo sfruttamento più o meno larvato erano due termini corrispondenti, di cui l’uno serviva all’altro di ragione e di sostegno; e questa tendenza al parassitismo doveva crescere parallelamente allo spirito di aggressione e di guerra. Il tributo di danaro sostituito al tributo di navi, cioè il disarmo quasi e il segno esterno della sudditanza; il trasporto del tesoro da Delo ad Atene; l’imposizione del potere giurisdizionale agli alleati; l’uso sempre più libero o meno dissimulato dal danaro comune; sono tanti passi verso una forma di parassitismo più avanzato. Al tempo stesso l’Atene agricola del sesto secolo diventa l’Attica marinara e commerciale del quinto: alla repubblica aristocratica de’ grandi proprietari fondiari e alla tirannide, potere delegato della piccola proprietà, succede la repubblica de’ commercianti, degli artigiani, de’ proletarî. All’appropriazione diretta ed immediata de’ prodotti della terra succede una forma di appropriazione indiretta e mediata, il commercio, mezzo di sfruttamento più perfetto e più larvato; sul fondo de’ mestieri si va innestando una rudimentale manifattura; il potere politico scende sempre più verso il popolo e la politica esterna si fa sempre più avida, ambiziosa ed audace. Ora questa relazione necessaria tra la potenza militare e la produzione indigena, tra la grande politica e il bisogno di espansione, tra il commercio messo a base della propria vita economica e la concorrenza di altri Stati; questa necessità del parassitismo insomma voleva dire la guerra all’ordine del giorno contro i concorrenti, contro i sudditi e gli alleati defezionati, contro i potentati stranieri il cui crescere avea in sè la minaccia e il vaticinio dell’assorbimento. Il mezzo secolo che va dalla fine delle guerre persiane alla guerra del Peloponneso è come un lungo affilar d’armi mal dissimulato; è un seguito di paci bugiarde, che in realtà covano ed alimentano la guerra e si riducono ad una incessante vicenda di tregue più o meno lunghe e di ripetuti conflitti, in fondo a cui sta la guerra inevitabile, la guerra di sterminio, il duello finale, la guerra del Peloponneso, che verso il periodo precedente è come la caduta finale di un corpo libero rispetto al suo movimento di oscillazione sempre crescente. Le cause occasionali della guerra potevano anche ridursi, come comicamente voleva un personaggio di Aristofane, ad una impresa ed una rappresaglia galante[66] di Megaresi e Ateniesi: il conflitto, in realtà, sbocciava dal seno della storia e dalle reali condizioni delle parti belligeranti come un fiore centenario, gigantesco, avvelenato e maturo. Gli stessi motivi immediati e i pretesti della guerra, Potidea, l’impresa di Corcira, il _boycottaggio_ di Megara, la pretesa indipendenza di Egina rivelano chiaramente lo scopo vero e la ragione intima della guerra: — il desiderio di limitare l’espansione verso l’Oriente o di allargarla in Occidente, — come apparve più chiaro con la guerra di Sicilia da un lato e dall’altro col proposito di ristabilire «_il bruscolo nell’occhio del Pireo_» e la rivalità commerciale. Ma tutti questi non erano che fenomeni di un dissidio più profondo e irrimediabile; e tali apparivano bene anche agli uomini del tempo. La struttura economica rudimentale, che faceva dipendere la vita e il benessere di un popolo da una forma anch’essa rudimentale di parassitismo, dall’assoggettamento di altri popoli al tributo e alle forme successive di sfruttamento, da un lato rendeva illimitato il bisogno di espansione e dall’altro faceva di ogni regione un continuo pomo di discordia, la preda presente o futura del più forte, il premio reale o possibile di un eventuale conquistatore. Perciò niente pace e sempre guerra; guerra palese o latente, ritardata o anticipata, con maggiore o minore senso di opportunismo meditata o differita, guerra contro il suddito, guerra contro l’emulo. Mancavano appunto le condizioni e con esse lo spirito della coesistenza, che soli sono fattori e condizioni di pace. Tutta la diplomazia e i progressi delle relazioni internazionali consistevano nel larvare il vero motivo della guerra e nel mettere _formalmente_ l’avversario dalla parte del torto: è la franca prepotenza del leone che prende in prestito dalla volpe il suo fare coverto e dal lupo il metodo di suscitare un’abile contesa con l’agnello. Atene e i suoi avversari erano giunti a quella linea ultima, oltre la quale entrava in gioco, minacciata da presso, l’autonomia di tutta la Grecia. Tutto ciò era così ben chiaro che, come dice Tucidide[67], «i Lacedemoni votarono di rompere il trattato e far la guerra, non tanto per essersi persuasi de’ discorsi degli alleati, quanto pel timore che gli Ateniesi non divenissero ancora più forti, vedendo che una sì gran parte dell’Ellade era loro soggetta». Del pari Pericle, secondo un discorso che gli fa pronunziare Tucidide, riconosceva il carattere inevitabile della guerra e l’opportunità di andarle incontro prima, piuttosto che poi[68]. Per questa sua stessa natura quella guerra doveva apparire agli occhi del suo storico[69] la più importante e grave di quante avevano avuto già luogo, e a’ nostri occhi si presenta come l’avvenimento centrale della storia ellenica, che costituisce il punto di arrivo della storia passata e il punto di partenza della successiva. Essa dovea rivelare, meglio di ogni altra cosa, le magagne e il principio dissolvente della vita greca; ma era destinata, ancor più, a suscitare ed acuire tutti que’ contrasti interni, che sono caratteristici della guerra dei Peloponneso[70], e rendono più chiare e visibili le vere cagioni della guerra e, mediante il contraccolpo che essa aveva all’interno, il suo vero rapporto con la struttura sociale del tempo. Nel suo discorso, Pericle metteva bene in sodo quanto utile fosse il dominio del mare, ed aggiungeva come, considerando ciò più dappresso, occorresse non curarsi della campagna e delle case ed aver cura invece del mare e della città[71]. Dal punto di vista collettivo e della grandezza pubblica di Atene, il modo di vedere di Pericle era giusto. Nel mare stava la potenza di Atene: nel mare era tutto il segreto della sua forza, sì nel passato che nell’avvenire. Analiticamente lo avea già dimostrato l’oligarca autore dello «_Stato degli Ateniesi_» pseudo-senofontèo[72]. «Essi soli degli Elleni e degli stranieri sono in grado di acquistare ricchezza. Se qualche Stato è ricco di legname adatto alla costruzione delle navi, dove andrà a venderlo, se non voglia chi ha la signoria del mare? Se un altro ha abbondanza di ferro, di bronzo, di lino, dove andrà a venderli se non lo permetta chi impera sul mare? Or di queste cose appunto si fanno le navi: da uno si prende il legname, dall’altro il ferro, dall’altro il bronzo, dall’altro il lino, dall’altro la pece. Oltre di ciò, quelli che ci sono avversarî, non lasceranno andare che dove essi hanno l’uso del mare. Ed io dunque, senza affaticarmi, dalla terra ho tutte queste cose mediante il mare. Nessun paese poi ha due di queste cose, nè uno solo ha legname e lino, ma dove il lino è in gran copia, la terra è piana e priva di alberi: nè il ferro e il bronzo si hanno dallo stesso paese, nè da una regione le due o tre altre cose, ma in uno ve n’è una e l’altra in un altro. Ancora, presso ogni paese è una spiaggia, un’isola o uno stretto, così che è lecito a quelli che hanno il dominio del mare di bloccare i continentali e danneggiarli»[73]. E non si arrestano qui i vantaggi derivanti dal dominio del mare: tutto lo scritto sullo _Stato degli Ateniesi_ ne è pieno. In tempo di pace, intanto la collisione tra le diverse classi della popolazione, che traevano i loro mezzi di sussistenza e i loro cespiti di entrata dal mare e dalla terra, poteva essere evitata o dissimulata ed attenuata; ma, in tempo di guerra, quando veniva la volta di sacrificare al dominio del mare l’uso della terra, o all’uso della terra il dominio del mare, l’antagonismo d’interessi risorgeva e si rendeva tanto più acre quanto più diveniva spiegato e duraturo. L’interesse collettivo invocato da Pericle diveniva un’astrazione di fronte agl’interessi individuali e di classe realmente offesi. Lo scritto sullo _Stato degli Ateniesi_ rileva bene questo contrasto. «Ora gli agricoltori e i ricchi tendono maggiormente a tenersi buoni i nemici: il popolo invece, ben sapendo che i nemici non gli potranno nulla bruciare e nulla tagliare, vive spensieratamente e non ha loro riguardo»[74]. È noto come la popolazione ateniese della campagna fu contrariata nel dovere abbandonare i campi ed i villaggi per ridursi nella città di fronte all’invasione nemica[75]; pure, da prima, per un po’ di tempo, anch’essa si rassegnò, se a dirittura non condivise l’entusiasmo della guerra[76]. Era la speranza di una guerra breve e vittoriosa? Era l’ira de’ danni patiti? Era la speranza di maggiori vantaggi? Erano tutte insieme queste cose, e con esse la suggestione dell’ambiente morale che si era venuto creando. Ma, quando la guerra accennò ad andare per le lunghe, e le sue molestie e i suoi danni parvero sempre più gravi e più insistenti, venne la reazione contro la guerra, e un vero movimento per la pace, accanito, tenace, appassionato si spiegò come un deciso indirizzo di politica interna ed esterna, dando una fisonomia più accentuata che mai alla non sopita lotta di classe. Questo tratto della vita e della politica ateniese ci rimane, vivo e parlante, riflettuto attraverso tutte le esagerazioni e gli scherzi della commedia come in uno specchio, in modo tale che niente potremmo desiderare di meglio, nè di più completo. È il soggetto e l’ambiente delle commedie di Aristofane. Mai apostolato per la pace fu fatto con maggiore ostinazione, con più ricchezza d’ispirazione, con maggiore varietà di espedienti. Ed è singolare trovare un tale apostolato della pace in bocca di uno degli uomini più acri, più mordaci, più spietati verso gli avversarî, il cui verso pare dardo e marchio al tempo stesso, fatto per colpire da presso e da lungi, penetrando a fondo nella carne squarciata e imprimendosi come bollo sulla fronte. Mai forse con maggiore semplicità ed ingenuità di sentimento e di espressioni fu invocata la pace e maledetta la guerra. «Giammai accoglierò la guerra in casa mia, nè in casa mia, sdraiata al mio fianco, canterà di Armodio. Donna avvinazzata, che, mentre io me ne stava in pace, in mezzo a tutti i conforti, dette la stura a tutti i mali, tutto mettendo a soqquadro, tutto rovesciando, manomettendo! E più le si diceva: _Bevi, mettiti a sedere, accetta la coppa dell’amicizia_; e più dava al fuoco i pali delle vigne e spargeva a viva forza a terra il frutto delle nostre viti.... E come insuperbisce a tavola, sì da gettare innanzi alle nostre porte le piume per far mostra del suo banchetto. «O Pace, conviva di Ciprigna, la bella, e delle Grazie, le care, come dunque, avendo un sì bello aspetto, te ne stavi celata? Che un qualche Amore, coronato di fiori come nel dipinto, ne congiunga prendendoci insieme; o credi che io sia già troppo vecchierello? Ma prendendoti con me, mi pare che possa ancora fare tre cose: prima di tutto stendere un lungo filare di viti, poi, accanto ad esso, de’ nuovi piantoni di fichi, e finalmente un tralcio di vite domestica; tutto ciò da vecchio come sono. E, tutto in giro al fondo, metterò degli olivi per ungerci entrambi alle feste del novilunio[77]. «Salute, salute, o carissima, come venisti aspettata. Io mi rodo pel desiderio tuo, volendo tornare a’ campi, o divina. O sospirata, tu eri il nostro massimo bene; tu giovavi a quanti eravamo a far la vita dell’agricoltore. Molte cose dolci e liete e care godemmo prima sotto i tuoi auspici: tu eri per gli agricoltori l’orzo abbrustolito e la salvezza. Le viti e i fichi novelli e tutte le piante ti sorrideranno, accogliendoti con l’occhio del desiderio»[78]. Tutto per la pace: le donne sotto la guida di Lysistrata negheranno agli uomini ogni loro lusinga, ogni allettativa, negheranno l’amore[79]; Trygeo farà un viaggio al cielo sul suo Pegaso da burla[80]; con corde e con opera di mano e di zappe si cercherà di trarre la pace dall’antro in cui è sepolta[81]; sacrificî, preghiere, invocazioni saranno usate per richiamarla in terra. In mezzo alle invettive, alla caricatura, all’epigramma che non perdona, il desiderio della pace porta un alito nuovo. Si sente l’aria sana de’ campi e un sentimento schietto, sano, vigoroso della natura feconda, della terra che produce, della campagna che si rinnova. Il frinire delle cicale, la gioia sacra della seminagione, la pioggia benefica, il fuoco che scoppietta al chiuso, l’inverno, l’intimità della vita agricola con i suoi piccoli piaceri tornano tutti, anticipati e animati dal desiderio, nel canto de’ cori[82]. Ma è appunto questo contrasto rivelato dalla commedia, che mostra gli antagonismi e le insidie della situazione. A pace conchiusa, il fabbricante di faci si accorge che le sue cose cominciano ad andar bene, e, all’incontro, il venditore di corazze, quello di cimieri, di tube piangono col finire della guerra la loro rovina[83]. Trygeo chiama tutti insieme gli agricoltori, i mercanti, gli operai, i metèci, gli stranieri, gli isolani, perchè l’aiutino a trarre la pace dalla caverna, dove l’ha rinserrata la guerra[84]. Ma quanti di questi dovevano essere sordi all’appello! Gli antagonismi e gl’interessi discordi degl’individui e delle classi erano tali che costringevano gli uni a vedere la loro vita e il vantaggio nella morte e nel danno degli altri. Quelli che avevano il monopolio della terra e in genere tutta la classe agricola, tutti quelli che, in maniera diretta o indiretta, scarsa o abbondante, potevano appropriarsi il prodotto della terra, naturalmente, inclinavano alla pace; ma il proletariato cittadino, i commercianti, quelli il cui benessere o la cui vita dipendeva dal dominio del mare, naturalmente tendevano alla guerra. Era un solo e necessario indirizzo egoistico, i cui punti di applicazione soltanto erano diversi; erano due forme di parassitismo, di cui l’una si svolgeva all’interno, l’altra all’esterno, e l’una non avea occhio e considerazione per l’altra. Una società, in grembo alla quale questi diversi indirizzi operavano e si svolgevano, necessariamente veniva a trovarsi in uno stato di equilibrio instabile e gravitava continuamente verso la guerra, lo strumento più rudimentale e meno dissimulato di parassitismo. Questo stato d’inquietudine e di conflitti interni era più accentuato, quanto più uno degli indirizzi opposti, la tendenza alla guerra, si faceva più spiegato. Questo stato di malessere, che costituisce un vero capitolo di patologia sociale, ci è appunto descritto da Tucidide, come conseguenza della guerra del Peloponneso in alcune delle sue pagine, che sono delle più efficaci e profonde e più obbligano a pensare. Ad un punto, Tucidide si credeva abilitato a tirar fuori la natura umana, mentre pure egli stesso avea e poteva trovare ne’ fatti stessi raccontati la ragione de’ fatti. Ma non si può far colpa a Tucidide di aver cercato, ventitre secoli addietro, in una astrazione, in una immutabile natura umana indipendente da tempi e da luoghi, quella causa de’ fatti che anche oggi vien cercata da tanti a questa astratta natura umana piuttosto che alla condizione temporanea e concreta di uomini viventi in una data società con una determinata struttura economica. «Da ultimo, per così dire, tutto il mondo ellenico fu messo in trambusto, essendo sorte da ogni parte contese tra i capi popolari, che volevano chiamare gli Ateniesi, e gli oligarchi che volevano chiamare i Lacedemoni, e in tempo di pace non ne aveano avuto il pretesto, nè erano pronti a chiamarli. Iniziata invece la guerra e contratte dall’una parte e dall’altra alleanze a danno degli avversarî ed a vantaggio proprio, facilmente, a quelli che volevano, si aprivano le vie di tentare novità. E sopravvennero allora alle città molte e tristi cose, che furono e saranno sempre, finchè la natura degli uomini sarà la stessa, ma accadono in forma più mite ed in aspetto più calmo, a seconda del giro degli eventi. Nella pace e nella buona fortuna gli Stati e i privati si conservano più sereni perchè non cadono in contrarietà non volute: la guerra invece, togliendo il benessere della vita quotidiana, è una violenta maestra e foggia su’ più difficili tempi gli animi de’ più. Era dunque perturbata la vita degli Stati, e le sedizioni che scoppiavano più tarde, per la stessa notizia delle cose già accadute, cercavano di mostrarsi più nuove ed ardite con l’ingegnosità delle imprese e la singolarità delle vendette. E, ad arbitrio, si mutò l’usato rapporto de’ nomi con le opere: l’ardire imprudente si chiamò coraggio a pro degli amici, il cauto temporeggiare larvata vigliaccheria, la saggezza maschera d’ignavia, dappocaggine verso tutto il contegno prudente verso ciascuna cosa. La fretta inconsiderata fu tenuta in conto di dote virile, la cauta ponderazione come un bel pretesto di disdirsi. Chi rinfocolava l’ira pareva fido sempre e chi moveva obbiezioni sembrava sospetto. Chi insidiava altrui pareva prudente, se riusciva nell’intento, e tanto più temibile quanto più astuto: chi invece provvedeva a che di ciò non vi fosse bisogno, era elemento dissolvente della sua fazione e timido degli avversarî. A dir breve, era lodato chi preveniva altrui nel male che si accingeva a fare e chi incitava altri che da sè non vi avesse pensato. Il congiunto diveniva meno stretto del partigiano come quello che era più pronto ad osare all’impazzata: giacchè queste consorterie non si costituivano secondo le leggi vigenti, a fin di bene, ma contro le leggi per sentimento di avidità. E la fede mutua tra loro non l’afforzavano tanto con la santità del giuramento quanto col violare insieme le leggi. Accoglievano le buone proposte degli avversarî come schermo pel caso prevalessero e non per generosità. Il vendicarsi era avuto in più pregio che non l’andare esente da offesa. Anche i giuramenti di pacificazione, se mai ve n’erano, dati da uno all’altro pel momento in qualche distretta, valevano pel momento, non avendo d’altronde potere; e all’occasione poi, chi prima se ne sentiva il coraggio, se vedeva l’altro disarmato, lo coglieva con più piacere nel suo fiducioso abbandono che non a viso aperto, sì perchè contava di essere più sicuro, sì perchè, riuscendo nell’inganno, ne riportava lode di accorgimento. Più agevolmente sono stati chiamati destri i molti malèfici che non buoni gl’ingenui, onde dell’ingenuità si ha vergogna e del malefizio s’inorgoglisce. Di tali danni era cagione il potere assunto per avidità ed ambizione; e dalle stesse cose nasce l’incitamento alle contese civili....»[85]. La guerra stessa così scalzava ed eliminava la guerra; ma non semplicemente coll’ispirare considerazioni simili a queste fatte da Tucidide, bensì col determinare, sul terreno pratico, condizioni di fatto che rendevano opportuno ed anzi necessario un diverso adattamento, un adattamento, come si dice, divergente. La guerra cominciava a non apparir più un punto di minima resistenza; invece, con l’incertezza delle sue fasi e degli stessi suoi acquisti, con le sue rappresaglie, con la ripercussione che aveva all’interno e all’esterno, dovea cominciare a destare sempre più repugnanza e dovea richiamare lo sguardo verso altri orizzonti, spingere verso altri campi l’attività umana. Una guerra poi come quella del Peloponneso finita in una immane ruina, dovea, per necessità assoluta di cose, spingere a compensare il parassitismo esterno, venuto meno, con l’esplicazione di tutte le forze produttive interne, con l’impiego di ogni elemento utile che fosse in paese, col mettere a profitto ogni elemento di ricchezza. Di questa necessità obiettiva e sentita si trova l’eco chiara ed esplicita riflessa in qualche scrittore del tempo[86]; e, d’allora in poi, la coscienza di questo nuovo indirizzo da dare alla politica dello Stato e l’opportunità di sostituire, con lo svolgimento delle energie interne, i mezzi di prosperità per l’innanzi cercati all’esterno, tornano con maggiore insistenza, specie dopo qualche rovescio, che con la forza stessa delle cose richiamava e ribadiva quell’insegnamento. L’orazione d’Isocrate _intorno alla pace_, redatta dopo la ruinosa guerra sociale, tende appunto a far prevalere questo indirizzo e vuol conciliargli favore con ogni argomento sia di carattere utilitario, che di carattere morale, ma specialmente di carattere utilitario. La pace che Isocrate vuole, è la pace con tutti, la pace a qualunque costo. «Dico adunque — così egli si esprime — che bisogna fare la pace non solo con i Chioti, i Rodî, i Bizantini, ma con tutti gli uomini, e bisogna osservare non quelle convenzioni proposte ora da alcuni, ma quelle fatte col Re di Persia e con i Lacedemoni, che rendevano autonomi i Greci e disponevano che le guarnigioni sgombrassero le città altrui e che ognuno stesse contento del suo. Noi non troveremo mai nulla che sia insieme più giusto e più conveniente allo Stato»[87]. Seguita quindi ad illustrare questa proposta e a mostrare quanto vi fosse di buono sotto la modestia apparente dal suo ideale pacifico. «Non ci basterebbe dunque l’abitare con sicurezza il nostro paese, l’avere a più agio tutto quanto occorre alla vita, il vivere concordi tra noi e il goder buona opinione presso gli altri Greci? Io credo che con tutte queste cose lo Stato finirebbe per essere di nuovo felice. «Ora la guerra ci privò di tutte queste cose: ci rese più poveri, ci assoggettò a molti pericoli, ci ha messi in mala vista presso i Greci e ci ha in ogni modo danneggiati. Se faremo la pace e ci mostreremo quali vogliono i trattati, abiteremo con piena sicurezza il nostro paese, liberi da guerre, pericoli e trambusti, in cui reciprocamente ci siamo cacciati; ogni giorno aggiungeremo qualche cosa al nostro benessere, evitando le imposte, le triarchie e tutti gli altri obblighi della guerra, coltivando la terra tranquillamente, navigando il mare e attendendo a tutti gli altri lavori negletti ora a cagione della guerra. Vedremo il paese rendere il doppio di quello che ora rende, pieno come sarà di mercanti, di stranieri, di metèci, di cui ora è deserto. Quel che è più, avremo alleati tutti gli uomini, e non per forza ma per inclinazione, nè dediti a noi in tempi prosperi a cagione della nostra potenza e defezionanti ne’ pericoli, ma così disposti come debbono essere quelli che veramente sono alleati ed amici. Inoltre, avremo facilmente con le semplici ambascerie quello che ora non ci riesce avere con la guerra e con molta spesa. Non crediate che Chersoblepte voglia guerreggiare con noi pel Chersoneso e Filippo per Anfipoli, quando vedano che noi non aneliamo ad avere l’altro paese. Ora, verosimilmente, essi temono di averci come vicini a’ loro regni, giacchè vedono che noi non ci teniamo paghi a ciò che abbiamo, e bramiamo sempre di più. Se muteremo sistema e acquisteremo migliore opinione, non solo non insidieranno quello che è nostro, ma ci daranno del loro, perchè sarà loro utile, servendo alla potenza del nostro Stato, conservare con sicurezza i loro regni. Anche della Tracia ci sarà lecito averne tal parte, che non solo essi la terranno senza eccitare l’invidia altrui, ma i Greci, che espatriano per bisogni, ne avranno quanto basti a sostentarli. Dove Atenodoro e Callistrato, l’uno da privato e l’altro da esule, hanno potuto fondare città, là stesso noi, volendo, potremmo occupare molti luoghi. Occorre che acquistino preponderanza tra i Greci quelli, a cui stieno a cuore tali cose, piuttosto che la guerra e gli eserciti mercenarî, che ora massimamente desideriamo»[88]. Isocrate si faceva propugnatore di un indirizzo affatto opposto a quello ch’era nella tradizione e nella politica dell’ultimo secolo della storia ateniese: un indirizzo di raccoglimento, di neutralità disarmata, di rinunzia ad ogni pretesa od ambizione di dominio. A quell’impero del mare, che l’oligarca dello _Stato degli Ateniesi_ avea considerato come la pietra angolare della repubblica, che avea formato l’ambizione, la mèta e la forza dell’Atene periclèa, egli vi rinunziava. «Io credo che staremo meglio nel nostro paese e saremo migliori noi stessi e ci avvantaggeremo in tutte le cose, se smetteremo di volere l’impero del mare. Giacchè è questo che ci ha cacciato nel disordine e ha sovvertito quella democrazia, sotto la quale, i nostri progenitori furono i più felici de’ Greci, ed è quasi la cagione di tutti i mali che noi soffriamo e facciamo soffrire agli altri»[89]. Senz’altro Isocrate tiene a dirlo e a ripeterlo che l’ambìto dominio del mare è la causa di tutti i danni. «Bisogna riferire le cause non a’ mali sopravvenuti, ma a’ primi errori, onde poi si venne a questo fine. Così che direbbe proprio il vero chi dicesse che allora hanno avuto origine i loro mali, quando assunsero il dominio del mare: infatti assunsero un potere in nulla simile al precedente»[90]. Lo spreco de’ tributi e la facile dissipazione delle ricchezze male acquistate, il contrasto tra gli antenati che lottano contro i barbari ed il tempo presente, i danni delle milizie mercenarie e gli effetti della guerra; tutti gli argomenti, i fatti, gl’incitamenti sono adoperati per sostenere la politica pacifica, facendo assorgere il ragionamento schiettamente utilitario, come si è detto, a tratto a tratto, a una più elevata ragione etica[91]. Questa tendenza alla pace rispondeva del resto così bene a un bisogno del tempo e alla condizione reale delle cose, che, nello stesso torno di tempo, contemporaneamente o a breve distanza, nello scritto di Senofonte sulle _Entrate degli Ateniesi_ s’insiste appunto sulla utilità e sulla necessità di dare tutto l’impulso possibile all’incremento della produzione interna per sopperire con essa a quei bisogni, che divenivano causa di conflitti e di guerre, quando se ne cercava, con l’estensione del dominio, all’esterno l’appagamento. Lo scopo che Senofonte si proponeva, secondo la sua chiara ed esplicita frase, era appunto quello di «indagare se i cittadini non potessero trarre il sostentamento dal loro stesso paese»[92], togliendo così base od occasione al loro atteggiamento vessatorio e rapace verso altri popoli; e a ciò miravano le sue proposte dirette a favorire il commercio, a rendere lo Stato acquirente di navi da trasporto e di schiavi da allogare pel lavoro delle miniere. Chiudendo lo scritto con lo stesso pensiero con cui l’avea iniziato, Senofonte affrontava, senza altre ambagi, la questione della pace e della guerra. «Se alcuni pensano che, quando lo Stato resti in pace, diverrà per ciò più imbelle, più inglorioso e di minore nominanza nella Grecia, essi a parer mio non guardano da un punto di vista giusto la cosa. Felicissimi divengono tutti gli Stati che godono di periodi di pace più lunghi, e, fra tutte le città, Atene specialmente è fatta per prosperare con la pace. Chi dunque, quando la città nostra stesse tranquilla, non avrebbe bisogno di essa, a cominciare da’ naviganti e da’ mercanti? Non quelli che hanno molto frumento da smerciare e molto e buon vino? I produttori d’olio, i possessori d’armenti e quelli che mettono a profitto sia il denaro che le loro attitudini, e gli artefici e i sofisti e i filosofi, i poeti e quelli che si applicano a queste cose, quelli che hanno gusto negli spettacoli sacri e profani, degni di esser visti e sentiti, e quelli finalmente che hanno bisogno di vendere e comprare, qual luogo troverebbero più adatto di Atene? Se nessuno contraddice a ciò, nondimeno soggiungono quanti vogliono rivendicare l’egemonia allo Stato, che questa si ottiene più che con la guerra con la pace; ma ripensiamo dapprima alle guerre persiane, se fu con la violenza o con i beneficî che allora divenimmo i capi della forza navale e i cassieri della Grecia. «Ancora, dopo che per volere troppo primeggiare, lo Stato perdette il comando, non ce lo conferirono ancora spontaneamente gli isolani, poichè ci astenemmo dall’operare contro giustizia?.... Quando si credesse che voi pensate a mantenere la pace per terra e per mare, credo che tutti pregherebbero per la salvezza e il benessere d’Atene dopo quello delle loro patrie. Se qualcuno credesse più vantaggiosa la guerra che non la pace allo Stato, per quanto riguarda la ricchezza, non so come meglio potrebbe essere giudicato ciò, che guardando al modo come andarono per la città gli avvenimenti passati. Troverà che anticamente durante la pace vennero alla città molte ricchezze e che in guerra tutte furono spese: vedrà, se osservi, che anche oggi molte delle entrate andarono perdute a cagione della guerra e le altre spese in bisogni d’ogni genere; e, dopo che sul mare è tornata la pace, le entrate si sono accresciute e i cittadini ne hanno potuto disporre a loro talento»[93]. Intanto, come venissero accolti da molti, anzi da’ più, questi propositi di pace, appare dalla stessa orazione d’Isocrate, ove si accenna, ripetutamente, al favore con cui erano ascoltati quelli che predicavano la guerra[94]. E la ragione ci vien data indirettamente da Senofonte, là dove fa dire dagli uomini di Stato ateniesi che «conoscono ciò che è giusto non meno di tutti gli altri uomini, ma dicevano che la povertà della plebe gli obbligava a non comportarsi secondo giustizia verso gli altri popoli»[95]. Perciò, quando Senofonte voleva risolvere questa contraddizione con lo sviluppare tutte le sorgenti di ricchezza all’interno, era acuto nello scorgere le cause del male e pratico nel porre la questione. Ma egli s’illudeva sul valore e sulle conseguenze de’ suoi rimedî. Senofonte, quasi in via di proemio, al suo trattato sulle entrate degli Ateniesi, presentava un breve quadro della produttività dell’Attica e delle sue risorse per dedurne quanto bene fosse dotata e come fosse in grado di provvedere a sè stessa. Quello che Senofonte diceva della varietà delle sue condizioni e de’ suoi prodotti era vero, ma era vero pure che l’Attica non produceva tanti cereali quanti occorrevano ad alimentare i suoi abitanti; e la notevole importazione[96], a cui dovea ricorrere, era fatta per dare, essa sola, un particolare carattere alla politica e allo svolgimento delle sue istituzioni. Senofonte faceva il massimo caso delle miniere d’argento ed anzi si illudeva su di esse, al punto da ritenerle inesauribili[97]. Ma, lasciando stare questa illusione presto smentita dalla realtà, egli faceva del _mercantilismo_: credeva che bastasse una grande quantità di metalli preziosi alla prosperità di un paese. Se non che vi erano tante cose da osservare. Noi sappiamo a un dipresso quanto rendevano allo Stato, ma non sappiamo quanto profitto netto dessero in realtà le miniere. In ogni modo si trattava di un profitto particolare degli assuntori delle imprese, a cui non partecipava direttamente la restante parte della popolazione; e l’acquisto di schiavi pubblici, proposto da Senofonte, solo in parte avrebbe accresciuta l’entrata dello Stato con la locazione degli schiavi. Comunque, la quantità maggiore di metallo prezioso realizzata avea soltanto un valore di scambio, e poteva riescire utile ad Atene solo in quanto le riuscisse di convertirlo in valori di uso. Le stesse osservazioni quindi che Senofonte faceva sulla potenzialità economica dell’Attica, le sue stesse proposte sull’acquisto delle navi onerarie lo traevano successivamente alla conclusione che l’Attica fosse un paese fatto essenzialmente pel commercio[98]. Ora il commercio e il dominio del mare erano due cose così intimamente connesse, specialmente nell’antichità, che l’uno dipendeva dall’altro e non poteva svolgersi e svilupparsi senza di esso. Ma il dominio del mare era conseguenza e causa di guerre, e così si ricadeva nella necessità della guerra, quando più pareva che la si volesse e potesse evitare. E il contrasto lumeggiato da Senofonte fra i periodi di pace e i periodi di guerra era più sottile che vero, e poteva appagare piuttosto il lettore superficiale che non l’osservatore più acuto. Quei vantati periodi di pace non erano stati che conseguenza e preparazione di guerre, od erano stati una calma imposta e una soggezione accettata nell’intento di evitare un male maggiore. La prima e la seconda lega marittima, uscite da un periodo di guerra, facevano luogo all’egemonia ateniese anche per difesa contro la prepotenza spartana; e l’egemonia, per necessità di cose, naturalmente e insensibilmente, si trasformava o tendeva a trasformarsi nell’imperio marittimo di Atene. Lo svolgimento delle energie interne del paese dovea ben servire a rendere meno frequenti le guerre; e l’orazione d’Isocrate e lo scritto di Senofonte non erano che la coscienza riflessa di un movimento reale che si produceva in questo senso. Ma questa esplicazione delle forze produttive non poteva essere così rapida e vigorosa da sopperire all’interno a tutti i bisogni, e, in ogni modo, quale che si fosse, sotto il sistema della proprietà privata, sotto forma di produzione individuale, non eliminava gli antagonismi e i contrasti di classe contro classe, all’interno, e di città contro città, all’esterno: piuttosto trasformava la proporzione e le forme degli antagonismi. Inoltre non in tutti gli Stati questa esplicazione delle forze produttive procedeva di pari passo, e così non si toglievano nè lo squilibrio, nè le cause di aggressione. Un conflitto che dipendeva da così svariati elementi, come erano i molti Stati greci, non si eliminava col modificare le condizioni interne di qualcuno di esso soltanto. Anche la prosperità ottenuta per opera e virtù propria diveniva una occasione di guerra, stimolando le voglie altrui. Aristotele[99] osservava appunto che non bisogna essere tanto ricchi da eccitare la bramosia de’ vicini più forti, nè tanto poveri da non potere respingere le aggressioni. E la ricchezza e la povertà, da paese a paese, erano sempre qualche cosa di relativo, s’intende. La favorita teoria aristotelica della soggezione naturale dell’inferiore al superiore faceva considerare la guerra come un mezzo naturale di acquisto, come una forma di caccia, della quale si poteva fare uso tanto verso le fiere, come verso gli uomini fatti dalla natura per obbedire ad altri. E questa era una guerra giusta secondo natura![100]. Le ragioni che, nella pratica si ritenevano atte a consigliare e sconsigliare la guerra, erano in fondo utilitarie[101]. In un ambiente come questo e con siffatta struttura economica, lo sviluppo delle energie interne non bastava ad evitare la guerra, e tanto meno bastava, quanto meno era possibile isolarsi. Isocrate proponeva l’esempio di Megara[102], il che vuol dire che Atene avrebbe dovuto rinunziare al posto preeminente, da essa moralmente e politicamente occupato in Grecia, per ridursi alle proporzioni di Megara. E anche ciò le sarebbe giovato poco per evitare i pericoli e le conseguenze della guerra. Aristofane, per rappresentare le condizioni di Megara in mezzo alle distrette del tempo, la figurava in un mortaio, pestata spietatamente[103]. Era così: in forma sostanzialmente non diversa dalla nostra, ma in maniera anche più rudimentale, la vita antica era un viaggio fatto insieme, in poco lieta compagnia, da vasi di ferro con vasi di creta. In fine del suo ragionamento anche Senofonte era costretto a proporsi il caso di un conflitto necessario e lo faceva in questi termini. «Se qualcuno mi domandasse: Credi che bisogna conservare la pace, anche quando qualcuno faccia torto allo Stato? Non direi; ma dico piuttosto che più sollecitamente lo puniremmo, quando non avessimo fatto torto ad alcuno, giacchè l’avversario non troverebbe alleati»[104]. Questa domanda, evidentemente, scrollava dalla base tutto il ragionamento di Senofonte; e la risposta non era tale da eliminarla. Il conflitto sorgeva, e da uno se ne svolgeva un altro, per necessità di cose; dalla difesa si passava all’attacco e dalla protezione del proprio territorio all’occupazione dell’altrui. Le milizie mercenarie, contro cui tanto si ribellava Isocrate[105], erano state la conseguenza necessaria non solo di un maggiore progresso dell’arte militare, ma di un certo svolgimento di forze produttive, di un certo sviluppo industriale, che rendeva molesto a molti l’esercizio prima normale della milizia, e, per una maggiore specificazione delle funzioni sociali, faceva commettere la guerra ad una classe speciale tratta dal proletariato crescente e disoccupato. La milizia mercenaria avea così in gran parte la sua origine in cause analoghe a quelle, che produssero nel Medio Evo le compagnie di ventura, e provava praticamente che lo svolgimento delle forze produttive, se è presupposto e base alla eliminazione della guerra e all’assicurazione della pace permanente, non è, per sè solo, sufficiente a produrre l’uno e l’altro di questi due effetti. L’ideale della pace era sorto e si era venuto affermando naturalmente, a misura che da un lato la guerra, con le sue disillusioni e con i suoi lutti, si mostrava disadatta a realizzare uno stato di benessere durevole, e dall’altro si venivano sempre più maturando condizioni tali, che lasciavano sperare la possibilità di sopperire con lo sviluppo normale della produzione a’ bisogni della vita. Ma, tutto ciò costituiva semplicemente la _possibilità_ della pace in un ambiente in cui varî elementi avessero omogeneità d’interesse e potessero, concorrentemente, giovarsi de’ benefici della pace e provvedere in maniera normale alla soddisfazione de’ propri bisogni con l’appropriazione diretta e resa più agevole de’ mezzi opportuni. Invece, in quell’ambiente regnava sovrana la più completa eterogeneità d’interessi, un’opposizione d’interessi quale può sorgere dove sussistono vive le antitesi di cittadino e di straniero nelle relazioni esterne, di proprietario e proletario in quelle interne. Allora quella pace che poteva rappresentare l’interesse e la mèta di uno Stato prospero e industrioso, rappresentava invece un ostacolo per uno Stato, che con la prevalenza politica, e la estensione del dominio sperava ovviare alla sua inferiorità economica; quella pace che rappresentava l’interesse e la sicurezza del proprietario e dell’agricoltore costituiva una minaccia di disagio pel commerciante, per il proletario, per il mercenario. In tal caso, le parole che inculcavano la pace erano destinate a perdersi inascoltate di fronte all’azione continua e prepotente delle cose. Che se, talvolta, questa illusione della pace riusciva ad imporsi come norma di politica presente, tristi effetti ne potevano nascere in un tempo, in cui si apparecchiava la pace solo facendo o minacciando la guerra. La politica bellicosa di Demostene era la conseguenza ed il rimedio, tardo forse e impotente, della politica pacifica di Eubulo. Degli Stati dell’antichità e della loro inclinazione alla guerra, poteva dirsi davvero: _aut sint ut sunt aut non sint_! Il movimento verso la pace era dunque semplicemente il riflesso nella coscienza di uno squilibrio che diveniva sempre più vivo e più sentito, di un contrasto tra la possibilità per tutti di ottenere pacificamente i mezzi di esistenza e la serie di conflitti con cui gli uni tendevano a procurarseli divenendo i parassiti degli altri. Questa aspirazione verso la pace, che, come un grande e luminoso arcobaleno, ondeggiava innanzi agli occhi, al disopra della vita, costituiva il nesso ideale tra una triste realtà, destinata a tramontare, ed una migliore realtà destinata a svolgersi da quella stessa. Come aspirazione, come tendenza ideale, quindi, si affermava e progrediva, assai più che nella vita pratica, nel mondo della coscienza e delle idee, dove appariva come avvolta in un leggiero velo di malinconia. Da Eschilo ad Euripide, da Erodoto a Tucidide la guerra veniva perdendo delle sue attrattive e la pace guadagnava favore. A Tirteo si contrapponeva Bacchilide, e il suo poema era un inno alla pace. «La grande pace dà a’ mortali la ricchezza e i fiori de’ canti soavi e fa che ardano agli dèi sugli altari fatti belli dall’arte, con aurea fiamma, le membra de’ bovi e delle pecore vellose; fa popolare di giovani i ginnasî e le aule. Negli scudi ferrati si stendono le tele de’ neri ragni; l’umidità rode le acute lancie e le spade taglienti; nè si ode più lo strepito delle trombe di bronzo, nè dalle mie palpebre è rapito il dolce sonno che molce il mio cuore. Le piazze son piene di amabili simposi, ed inni infantili si destano»[106]. Ma, altrove, Bacchilide stesso soggiungeva come oppresso dal peso di un destino crudele: «Non è dato agli uomini di eleggersi il benessere o l’instancabile guerra o la sedizione che tutto rovina; ma la sorte, ministra d’ogni cosa, spinge il nembo qua e là, su l’uno o l’altro paese»[107]. Così cantava Bacchilide. Noi alla storia chiediamo appunto il segreto di quella «sorte ministra d’ogni cosa», la legge e la causa della pace e della guerra, nel passato e nell’avvenire; e qualche risposta pur ce la dà, la storia. La pace e la guerra e la tendenza opposta all’una ed all’altra possono essere prese come due termini dell’evoluzione sociale. La tendenza alla guerra e la guerra permanente corrispondono alle forme economiche più primitive e allo stato più rudimentale di parassitismo. Con un modo di produzione più progredito si sviluppa sempre più fortemente la tendenza alla pace; ma resta aspirazione, spesso contrastata dalla realtà, finchè vuole soltanto sostituire la concorrenza all’appropriazione violenta; e mostra così, con la stessa sua inefficacia, di potersi tradurre in atto solo con l’avvenimento di una struttura economica, che, eliminando con la forma individuale della produzione ogni parassitismo di popolo verso popolo, d’individuo verso individuo, e limitando l’appropriazione della ricchezza per parte di ciascuno al solo prodotto del suo lavoro, tolga alla guerra ogni base ed ogni motivo utilitario. V. Pace e guerra nell’antica Roma. Le istituzioni di Roma sembrano plasmate dalla guerra e per la guerra; e la lingua stessa serba tracce evidenti e profonde di una vita tutta penetrata dall’esercizio della guerra. Virtù è nel suo significato etimologico il valore personale, la forza virile preponderante che si spiega e trionfa in campo. _Hostis_ è, al tempo stesso, il nemico e lo straniero, a cui giuridicamente non si riconosce diritto di sorta e a cui a rigore non compete alcuna tutela legale dello stesso suo stato di fatto[108]; e tutta la politica e la graduale organizzazione del dominio romano non sono che l’applicazione in parte strettamente logica, in parte temperata di questo principio. Se, nel seno della federazione latina la pace, stipulata in perpetuo, vale come la regola e la guerra come l’eccezione, fuori di quell’aggruppamento vale precisamente il contrario; e la pace, conservata come stato di fatto o assicurata temporaneamente da limitate stipulazioni, non è che un armistizio. La cittadinanza coincide, nelle sue più antiche manifestazioni, con l’esercito, e la sua attività politica sembra la funzione di quest’esercito mentre è in patria. Il potere nella sua forma più alta e completa si chiama, con un nome militare, _imperium_. Una delle funzioni della guerra, il servizio militare a cavallo, dà il nome e l’origine a tutta una classe della cittadinanza, l’ordine de’ cavalieri. Il possesso mobiliare mette capo alla preda, e quello immobiliare, per mezzo dello Stato, alla conquista. Roma estende il suo potere ad Oriente, ad Occidente, oltre le Alpi, oltre il mare; e, dovunque il vessillifero pianta le sue insegne, ivi tutto diventa proprietà di Roma. Che se la grande, ma pur limitata forza di espansione della sua popolazione, e considerazioni di ordine politico e amministrativo e interessi di dominanti le vietano di fare una colonia di ogni angolo di terra ottenuto per dedizione o conquistato, resta nondimeno ben fisso, in principio ed in legge, che solo il suolo italiano è suscettibile di dominio, mentre quello provinciale — propriamente tale — è semplicemente passibile di possesso e, anche lasciato agli antichi proprietari, rimane in mano loro a titolo precario con obbligo di un tributo, diverso secondo i casi, verso Roma proprietaria e sovrana. Perciò i paesi venuti in soggezione e chiamati amministrativamente _provinciae_, con nome che ne vuole dire l’origine, sono anche con espressiva metafora chiamati i fondi (_praedia_) del popolo romano[109]. «E, come la provincia stessa è stata concepita quale un’occupazione militare perpetuata, così la contribuzione, che si esige da’ provinciali, si concepisce come una contribuzione di guerra perpetuata, cosa a cui mena anche la denominazione _stipendium_; poichè il pagamento del soldo all’esercito vittorioso costituisce il punto di partenza per le contribuzioni di guerra... E, giacchè il suolo provinciale fu considerato come proprietà dello Stato romano, i pesi che vi gravano sono riguardati come rendita della terra (_vectigal_) dovuta al proprietario, e questa concezione ha appresso dominato»[110]. La finanza romana, specialmente dal cadere che fa in desuetudine il tributo di guerra, prelevato del resto straordinariamente e come imprestito forzoso sulla proprietà de’ cittadini, sino all’introduzione per opera dell’Impero di nuove imposte generali, è costituita tutta dal provento sia temporaneo che duraturo della guerra, impiegato in tutti gli usi della vita religiosa e civile, adoperato a dare uno sfogo alla popolazione esuberante, volto a sostenere nuove guerre, diretto a riparare e placare la sorgente e risorgente questione sociale. In modo che tutta la storia — quella rifoggiata dalla tradizione e quella rispecchiata da’ documenti — sembra comporsi e spiegarsi, come verso un nucleo ed un centro, intorno a questa preda strappata e difesa all’esterno, disputata all’interno; mentre la stessa coscienza riflessa del popolo consacra e magnifica, idealizzandolo, questo stato di cose e il poeta nazionale inculca il vaticinio d’imperare su’ popoli. Cicerone, egli stesso, sia pure per comodità di difesa, subordina con ogni altra l’emula virtù dell’eloquenza alla virtù militare, scudo e fondamento dello Stato[111], e più tardi ancora il giureconsulto, notomizzando il diritto esistente e intessendolo come una rete d’oro e di ferro intorno al congegno economico della società sua, dice come «diventano nostre per ragione naturale le cose che si prendono al nemico» e «quelle cose che prendiamo al nemico diventano immediatamente nostre per diritto delle genti, sino al punto che anche gli uomini liberi sono ridotti in nostra schiavitù»[112]. Pure, s’ingannerebbe, io credo, chi volesse riferire tutto questo a uno spirito naturalmente bellicoso de’ Romani, che, quasi per intimo e irrefrenabile impulso, corresse combattendo e conquistando tutta la terra. A chi partisse da un tal preconcetto, andrebbe non senza opportunità rammentato quello che un finissimo scrittore francese faceva testè, con una vena di sottile ed elegante umorismo, osservare a un suo personaggio[113]: «... quanto a’ Romani, essi non erano essenzialmente militari dal momento che fecero conquiste profittevoli e durature, all’opposto de’ veri militari che prendono tutto e non conservano nulla, come, per esempio, i Francesi. «Questo anche si deve notare che, nella Roma de’ re, gli stranieri non erano ammessi a servire come soldati. Ma i cittadini, al tempo del buon re Servio Tullo, poco gelosi di conservare soli l’onore delle fatiche e de’ pericoli, v’invitarono gli stranieri domiciliati nella città. Vi sono degli eroi; non vi sono popoli d’eroi, non vi sono eserciti d’eroi. I soldati non hanno mai marciato che sotto pena di morte. Il servizio militare fu odioso anche a questi pastori del Lazio che acquistarono a Roma l’impero del mondo e la gloria d’essere dea. Portare l’equipaggiamento fu per loro così duro che il nome di questo equipaggiamento, _aerumna_, espresse in seguito presso di loro l’oppressione, la stanchezza del corpo e dello spirito, la miseria, la sventura, i disastri. Ben condotti essi formarono, non già degli eroi, ma de’ buoni soldati e de’ buoni terrazzieri; a poco a poco conquistarono il mondo e lo covrirono di sentieri e di strade. I Romani non cercarono mai la gloria: essi non avevano immaginazione. Non fecero che guerre d’interesse, assolutamente necessarie. Il loro trionfo fu quello della pazienza e del buon senso». La storia tradizionale, se anche altera il nesso e il sèguito vero de’ fatti, duplicando e moltiplicando, per esempio, le guerre, o spostando in tempi più antichi conflitti più recenti come quelli della lega latina, pure può accampare una pretesa di verità, in quanto attraverso i fatti singoli, sformati dalla tradizione orale e dall’elaborazione successiva, riproduce questo aspetto più remoto di popoli vicini e di territorio limitrofo o quasi, che stanno continuamente sotto la minaccia o il danno di reciproche incursioni e sopraffazioni. La menzione di uno stato di cose che non è pace e non è guerra, ricorre frequentemente in Livio, e, insieme alla stanchezza della guerra e alla repugnanza al conflitto, appare la necessità di prevenire con l’aggressione l’attacco e di scongiurare con atto anche audace la tempesta alla prima apparizione o al primo presentimento della lievissima nube che l’annunzia. «A che tardate ancora? — fa dire lo storico latino da T. Quinzio Capitolino a’ plebei che non si vogliono arrolare[114]: — A che stato sono le vostre cose private? Già già stanno per essere annunziati a ciascuno dalle campagne i danni proprî. Quando, perdio, militavate sotto il comando di noi consoli, non sotto quello de’ tribuni, in campo non sul foro, e avevano paura del vostro clamore i nemici, avendovi a fronte schierati, non già i patrizi romani, allora tornavate a casa, a’ vostri penati, trionfanti, carichi di preda, ricchi di territorio preso al nemico, pieni di fortuna e di gloria, sì pubblica che privata: ora lasciate andar via il nemico carico delle vostre sostanze. Ve ne rimanete piantati nelle assemblee e vivete nel foro, mentre v’insegue quella necessità di combattere che fuggite. Era gravoso muovere contro agli Equi ed a’ Volsci: ora ecco che la guerra è innanzi alle porte. Se non la si rimuove di là, ben presto sarà tra le mura e salirà la rocca e il Campidoglio e vi premerà nelle stesse vostre case». E, altra volta, Appio Claudio a proposito della guerra contro Veio[115]: «[Il nemico] non pose a coltura il suo territorio, e quella parte che coltivò è stata devastata dalla guerra. Se ritiriamo l’esercito, chi può mai dubitare che essi, avendo perdute le cose loro, non invaderanno il vostro territorio, non solo per la brama di vendetta ma anche per la necessità in cui si trovano di dover predare l’altrui? Non differiamo dunque con questo partito la guerra, la ricettiamo bensì entro i nostri confini....». Sotto questo incubo il progresso di un popolo, il suo crescere, una impresa vittoriosa, per la gelosia e i timori che suscitava nel più prossimo vicino, divenivano anch’essi occasione di guerra. «La guerra di Veio — dice Livio[116] — crebbe pel repentino sopravvenire de’ Capenati e de’ Falisci. Questi due popoli di Etruria, essendo di regioni vicine, credendosi prossimi alla guerra con Roma quando Veio fosse vinta in guerra — i Falisci nemici anche per ragione propria per essersi già precedentemente immischiati nelle guerre di Fidene — strettisi insieme con giuramento mediante legati scambiati reciprocamente, inopinatamente con gli eserciti si accostarono a Veio». Così la vittoria e la sconfitta, l’una con le brame che acuiva e le paure che suscitava, l’altra con l’aspirazione della rivincita e l’iroso desiderio della rappresaglia — tutto diveniva fomite e materia di guerra. Anche qui la risoluzione del conflitto stava nella sua eliminazione, mediante la fondazione di un dominio unico e sovrano, ottenuto con tutti i mezzi che la forza delle armi e l’accorgimento della politica potevano suggerire e fornire. Prima di tutto nella penisola. Roma, benchè sòrta da umili inizî, anche per i suoi stessi umili mezzi, venne a trovarsi in condizioni straordinariamente favorevoli, rese tali anche vie maggiormente dalla sua posizione centrale. Se Roma si fosse trovata di contro, in Italia, uno Stato assolutamente refrattario ad essere nè soggiogato, nè assimilato, la grandiosa opera politica di Roma sarebbe stata soffocata in germe, e l’Italia ci avrebbe presentato politicamente e militarmente lo stesso spettacolo della Grecia sempre scissa e sempre pugnante tra Sparta ed Atene. Ma in Italia mancava uno Stato, che, come Atene, messo alla testa di tutto un imperio marittimo, sfuggisse alla presa di un’opposta potenza territoriale e potesse irridere alla stessa devastazione de’ suoi campi fatti in vista delle sue mura; nè la politica e i metodi di lotta di Roma si restringevano in quelli angusti e sterili di Sparta. Mentre Roma, modesta sovranità locale, combatteva ancora la sua lotta per l’esistenza, sulle coste d’Italia fiorivano colonie greche ricche e potenti, pel Mediterraneo andava dilagando l’egemonia cartaginese, al Nord fiorivano il potere, i commerci e la civiltà degli Etruschi, e dall’Italia centrale le stirpi sabelliche stendevano verso il mezzogiorno le loro propaggini, presto alla loro volta diramate ancora e moltiplicate. Ma il contatto di tutti questi elementi, disgiunti da diversità di origine, di sistemi di vita, di sviluppo civile, era necessariamente un urto alla lunga estenuante e logorante, da cui i vincitori stessi uscivano affranti e consunti o senza sapere trarre un frutto adeguato e durevole dalla vittoria. Il dominio etrusco, già fiaccato su’ mari dal tiranno di Siracusa, sopraffatto contemporaneamente, secondo un sincronismo che il Mommsen chiama elegiaco, al confine meridionale da’ Romani e al settentrionale da’ Celti, era scalzato anche nell’Italia meridionale da’ Sanniti, che con le varie loro ramificazioni fiottavano, minando o fronteggiando, contro le colonie greche; e si venivano così disegnando nello sfondo come l’ultimo propugnacolo della resistenza italica e insieme il trionfo de’ Romani. Mentre questi nuclei già annosi e potenti ruinavano, sgretolandosi spesso nella loro caduta, Roma era giunta all’egemonia del Lazio, che andò poi facendo luogo, attraverso resistenze e ribellioni, ad una vera sovranità di sostanza, se non sempre di forma, e protetta e rafforzata da quella limitata compagine di cui era il centro naturale. Alleata con gli Ernici, aveva ridotto in soggezione il paese de’ Sabini, de’ Volsci, aveva messo stabilmente piede sul territorio etrusco con la presa di Veio; e poteva già, come il falco che si libra per guatarsi attorno, volgere l’occhio pieno di cupidigie e di fascini alla circostante regione italiana. Potevano i Celti irrompere anche vittoriosamente in Roma, ma, privi com’erano di salda organizzazione politica, di una vera coesione nazionale, la loro impresa di guerra, con tutte le disastrose sue conseguenze, rimaneva una tempesta che devasta, schianta ed abbatte, ma che, quando sia passata, feconda con le stesse piene riversate su’ campi. Potevano gli Etruschi con ricorrente inquietudine rialzare ancora il capo, ma come morti galvanizzati, dalle loro tombe che sole dovevano conservare la traccia misteriosa della loro storia. Le colonie greche, strette del resto da rapporti d’interesse e di amicizia, fatte mercato di provviste e di esportazione, potevano sussistere ancora, dove il ferro e il fuoco sabellico non erano giunti o non ne avevano trionfato, potevano costituire specie nell’estremo punto d’Italia una minaccia solo come punti di consistenza di un aiuto straniero. Contro la possibile riscossa de’ paesi sottomessi, Roma era andata stendendo le sue colonie e insinuando il suo spirito assimilatore. Restava, grande antagonista, il Sannio, fiorente di gioventù bellicosa, ampio di territorio, addestrato alle armi, appoggiato all’Appennino come ad una rocca. Ma, come le fasi e l’esito del successivo conflitto hanno rivelato, per le stesse condizioni interne e la natura delle due compagini, la bilancia doveva finire per pendere dalla parte di Roma. Roma favorita anche dalla sua posizione topografica, appoggiata alle rive di un gran fiume, baluardo e sentiero di traffico, in prossimità del mare, su lievi eminenze messe a cavaliere di un’ampia pianura, che da un lato si stendeva a perdita di vista, mentre dall’altro con dolce declivio andava a finire in una accidentata serie di colline e di montagne, sembrava fatta per essere il naturale centro di gravità della zona circostante, di cui non raccoglieva soltanto le forze, ma riassumeva anche la vita, divenendo perciò ben presto, come accadde, non solo la città egemonica e la signora, l’anima anche di una compagine, che in periodo di lotta esteriore ha tanto più forza, quanto più ha fusione ed unità. Questa stessa favorevole posizione topografica nel centro d’Italia le aveva permesso di polire e elevare l’agreste stato dell’agricoltore e del pastore col contatto commerciale e civile delle più varie civiltà e de’ gruppi etnici più diversi, senza che le subite e mutevoli fortune di una vita esclusivamente commerciale ne falsassero l’indole o ne sviassero lo sviluppo. Così un senso di bisogno o un desiderio del meglio che faceva guardare oltre il confine, un modesto appannaggio che consigliava di andar cauto, una disparità non grande di fortune, che manteneva, col desiderio e la possibilità dell’indipendenza all’interno, il reciproco controllo delle varie classi sociali obbligate ad assistersi e procedere concordi nella lotta esterna — tutti questi elementi costituivano il sostrato di una politica nè avventurosa, nè imbelle, nè miope, nè follemente ambiziosa, per cui la potenza di Roma — col progresso costante della luce solare, che dissipa le nubi, che si diffonde, che illumina, che riscalda quando più sale — potè allungarsi su tutto il mondo antico colle armi vittoriose che sgombravano la via, con i suoi negozianti che, alla avanguardia o alla retroguardia, ne accompagnavano il passo, con i suoi agricoltori che, venendo per ultimo, trapiantavano e radicavano le insegne, il nome, la lingua, le istituzioni della patria sempre viva e sempre presente in loro stessi. E, come conseguenza e complemento di tutto questo, una mai fiaccata virtù assimilatrice, che dovunque sapeva con occhio esperto trovare il punto di fusione, che su tutto metteva la propria impronta, che a tutto comunicava il suo spirito assumendone le forme e a tutto comunicava le sue forme assumendone lo spirito, innestandosi su qualunque ceppo diverso col miracolo del centauro che innesta sul dorso equino un busto umano, e proseguendo così invitta la sua corsa per avvincere a sè e in sè, in mirabile fusione, tutti i popoli, tutte le terre, tutte le civiltà della storia. E questo miracolo umano della storia si compiva sotto il pungolo dell’interesse, che, occhiuto si scagliava sulla preda, e prudente, a tempo opportuno, frenava gli eccessi dell’avidità, adoperando di volta in volta la generosità che lasciava liberi e ricchi, o la severità inesorabile che adeguava al suolo le città, colonizzando, invadendo, aggravando, civilizzando, pacificando, in modo da fare della stessa lotta per l’esistenza una missione epica ed etica, che dava alla storia il carattere grandioso e fantastico del poema e toglieva al poema il suo carattere costringendolo ne’ termini della storia. Quanto al Sannio — anche senza volere oracoleggiare _ex eventu_, esagerando il giusto criterio di considerare come una necessità delle cose gli eventi della storia — quanto al Sannio, si può ben dire che per la sua ubicazione, per la sua fisonomia topografica e politica, pel suo grado di civiltà esso doveva rappresentare nella storia piuttosto l’episodio del valore sfortunato, il quale soccombe lottando per la propria indipendenza, anzichè la parte del popolo che dà l’indirizzo e il carattere a tutto un periodo della storia mondiale. Disseminato per i contrafforti e le valli dell’Appennino, donde dilagava a’ piani e alle coste sottostanti non per assimilarsene la civiltà più progredita ma per sopraffarla con l’impeto di una raffica devastatrice, l’elemento sannita perdeva subito non solo il legame ma il contatto con le sue stesse ramificazioni più lontane; e anche le stirpi più vicine, nella mancanza di un centro di attrazione fatto tale dalla natura de’ luoghi e della vita, permanevano in una forma federativa, determinata più che altro dalle esigenze della difesa esterna, senza tuttavia fondersi in un più coerente organismo. Questo popolo che non aveva potuto trovare nemmeno in sè stesso un centro preponderante di attrazione, unificatore e moltiplicatore di tutti i suoi sforzi; a cui, se la mancanza di duttilità, di virtù assimilatrice e di adattibilità davano maggior potere di resistenza e maggior riluttanza al soggiogamento, toglievano altresì la possibilità di un’espansione durevole e pacifica; questo popolo aveva nella stessa sua posizione eccentrica, rispetto al resto della penisola, un’altra difficoltà a divenire il centro e la capitale d’Italia, il nucleo mediano di tanti popoli circostanti spinti a fondersi insieme, a costituirsi in uno Stato, a comporsi in una nazione. I montanari disadatti ad un’opera continua e restauratrice di assorbimento e di rinnovazione erano così destinati a vedere invaniti i loro sforzi ostinati e a soccombere — come soccombettero — contro il fiottare sempre più insistente e più gagliardo del popolo che aveva in sè tutta la virtù germinativa dell’albero ben piantato in suolo propizio e che, grazie alla forza delle sue radici, per ogni ramo reciso dalla scure o spezzato dalla bufera, spande meglio, con vendetta allegra, nell’aria una più lussureggiante dovizia di germogli e di rami. E dopo il Sannio venne la volta di Taranto, la colonia greca più fiorente, piantata sul porto più bello, che aveva accarezzato benchè senza fortuna il sogno di un largo dominio territoriale alle sue spalle, ma che stava sempre là come una sentinella avanzata e un punto di approdo della razza greca, come un pomo della discordia tra l’elemento ellenico e quello che per gli Elleni prendeva anch’esso nome di barbarico. Sino a questo punto Roma si era trovata nella condizione favorevole di non avere a lottare contro l’intervento di una potenza straniera bene organizzata; chè tali non erano i Galli; e dall’ingerenza de’ Siracusani e de’ Cartaginesi, limitati a difendere l’egemonia del mare, i Romani non avevano tratto che vantaggio nella lotta contro gli Etruschi. Il provocato intervento di Pirro fu la prima avvisaglia della nuova potenza occidentale con la potenza orientale che, avendo ora raggiunto il suo apice, si avviava per la curva discendente della parabola; ma fu soltanto un’avvisaglia. Pirro, più capitano che principe, più cavaliere di ventura che conquistatore, neppure affatto sicuro del suo nido epirota, potè essere efficacemente e vittoriosamente combattuto, su terreno non suo, in battaglie che lo sfibravano anche quando avevano forma di vittorie, tra le crescenti diffidenze de’ suoi stessi alleati d’Italia, che proprio mentre cominciavano ad accorgersi d’avere importato un padrone mentre chiamavano un mercenario — si sentivano per la prima volta davvero attratti verso Roma e s’accorgevano d’essere congiunti ad essa da legami etnici, geografici, politici. Con la vittoria avuta su Taranto, Roma era omai giunta al confine meridionale d’Italia; e, in cospetto del mare che cingeva e limitava la penisola, in vista del biforcato Appennino che apriva le braccia come un anfiteatro e un altro baluardo, potè sembrare a molti che si fosse chiusa la storia di Roma. Con l’anno che segna la presa di Taranto (482 a. u. c. — 272 a. C.), Roma si trovava già di avere sparso per l’Italia come sentinelle della sua egemonia, come pionieri del suo nome e della sua civiltà ben trentatre colonie latine e romane[117], e pochi anni appresso (266 a. C.) repressa la sollevazione di Reggio e del Piceno, vinti i Salentini, era omai esteso ed assodato l’impero di Roma su tutta quella parte della penisola che, — sin quando il nome non ne fu spinto più oltre a’ confini naturali — s’intese sotto il nome d’Italia. Ma a più d’uno quello stesso mare, sul cui sfondo a breve distanza si disegnavano le coste della Sicilia e della penisola balcanica, posti avanzati dell’Africa e dell’Oriente, doveva apparire come un nuovo e maggiore campo di lotta, un mobile ponte verso un ignoto e più fortunoso avvenire. In realtà non si era chiusa la storia, ma un periodo soltanto della storia di Roma: un altro se ne apriva più vario e più grande. Questo fantastico miraggio della pace, che ogni allargamento di confini pareva dover realizzare, in realtà non faceva che spostarsi con lo stesso spostarsi de’ confini, e, vera fata morgana della vita, traeva a sè sempre più oltre, dissimulando agli occhi allettati ed illusi i baratri che si schiudevano innanzi a’ piedi. Oltre quel mare pieno di lusinghe e di promesse, gravido di tutti i pericoli e le attrazioni dell’ignoto, sulle sponde estreme, che, cingendolo, ne segnavano i confini, erano le membra divise di quello che era stato l’ultimo e più grande impero della storia, ma che pur così divise — gloriose di antiche tradizioni e del prestigio più recente, ricche di risorse e ridivenute, nello spezzarsi del più grande impero, esse stesse centri di commercî, di civiltà e di cultura — rappresentano una potenza e una minaccia. Erano la Macedonia, la Siria, l’Egitto. Rimpetto, appena oltre la Sicilia, quasi in vista, era Cartagine, disputante vittoriosamente all’elemento ellenico il dominio del Mediterraneo occidentale. Ma la Grecia, ma la Sicilia specialmente, due antemurali verso l’Oriente e verso l’Africa, erano anche due ponti, che, disputati, si convertivano naturalmente, com’era accaduto prima, come accadde poi, in due grandi e quasi perpetui campi di battaglia. Così, non un preordinato piano di conquista e uno schema d’impero da tradursi in atto — quale sembra apparire dalla storia — ma una necessità storica, determinata di volta in volta da difese che si convertivano in aggressioni, da interventi precauzionali o lusingatori che divenivano occupazioni, portava i Romani ad estendere il loro dominio con la sembianza del primo piccolo cerchio di un’acqua percossa, che si dilata in tanti cerchi maggiori, propagandosi, finchè il moto dura, sino all’estremo. E da’ fatti stessi il senso di questa necessità storica si traduceva nelle menti e diveniva prima in alcuni, poi ne’ molti, — come la fortuna secondava e i contrasti scemavano ne’ più o in tutti — politica di espansione, politica _imperialista_ come oggi si direbbe, per cui l’_urbs_ si mutava nell’_orbis_, e l’umile rifugio di pastori del Palatino diveniva il centro della terra abitata, l’ombelico del mondo, l’erede e il crogiuolo di tutti gl’imperi e di tutte le civiltà preesistenti. Prima a scoppiare fu la lotta con Cartagine, che, ingaggiata da prima per la protezione e poi pel possesso della Sicilia, non tardò a rivelarsi, nella sua durata secolare (490-608 a. u. c. — 264-146 a. C.) una vera lotta mortale, e finì, nella sua terza fase, secondo l’indole del mondo antico, col completo annientamento della rivale soccombente, con la sparizione di Cartagine. Era questo — più che non ogni altro, avvenuto in passato tra potenze navali e terrestri — il duello della balena con l’elefante. L’elemento fenicio, duttile, pieghevole, forte di tutti i vantaggi e gli espedienti dell’adattamento divergente in Oriente, si era trovato dalla necessità delle cose educato alla resistenza ed alla lotta in questo suo rifugio d’Occidente, onde non aveva altro scampo; e dove, alla fine, sopraffare od essere sopraffatto, era divenuto un dilemma senza uscita, e non era possibile scorrere i mari senza dominarli, nè commerciare senza combattere e conquistare. Ma a combattere e conquistare si adattò sopratutto per mezzo di mercenarî, in modo che, come assai felicemente è stato osservato, anche la guerra per esso divenne una specie di traffico. E l’arte di governo, il dominio, la politica erano anch’essi in fondo riguardati come un affare trattato col colpo d’occhio, ma anche con la corta veduta dal mercante e rovinato con l’avidità che vuol trarne troppo frutto in una volta. Ridotta a una oligarchia chiusa, Cartagine, finiva così per vivere isolata, non solo rispetto a’ sudditi e a’ possessi più lontani, ma in mezzo allo stesso suo dominio africano, col legame lento e temporaneo del traffico, che mette spesso i due contraenti di fronte come due schermidori se non come due nemici, imperando e procedendo attraverso e mediante tutto un sistema di diffidenze, senza virtù assimilatrice, senza quella veramente romana arte d’imperio che trasforma, che fonde, che congiunge per mille vie con un vero processo di concrescenza il dominato al dominatore. Al cozzo con questa sua prima davvero grandiosa rivale, Roma procedeva con tutta la forza, l’energia, la virtù perseverante e penetrativa del suo popolo di agricoltori da’ progressi lenti ma stabili, che dissoda il campo e fabbrica la casa dove il mercante ha piantata la tenda, col sostegno di quelle stirpi italiche, che, anche attraverso qualche risorgente proposito di defezioni e i dissidî di una condizione disuguale, si sentivano nondimeno strette da comunanza di aspirazione e d’interesse, costituendo per Roma una base e uno schermo nel suo progresso verso l’Impero universale. Così potè accadere che la battaglia di Canne fosse soltanto una ferita larga e sanguinosa cicatrizzata con relativa sollecitudine, mentre la battaglia, forse meno disastrosa, di Zama, fu colpo mortale che pose fine alla guerra di rivincita, minacciando l’esistenza stessa di Cartagine; così accadde che, mentre Annibale in vista di Roma non aveva potuto osare l’assedio e l’assalto, Roma potè, nell’ultima fase della guerra, stringere da vicino Cartagine e spianarla. La lotta con Cartagine, oltre a tutti gli effetti diretti inerenti al grande conflitto, aveva avuto la conseguenza di attrarre Roma in tutti gli avvolgimenti e i contrasti della politica estraitalica; e la seconda guerra punica, primieramente divampata in Ispagna, non era ancora finita, e già altre nubi, suscitate da nuove gelosie, da nuovi temuti o incipienti conflitti d’interesse, addensate dall’instancabile odio di Annibale, si stendevano dall’Oriente per approdare, gravide di procella, alla guerra tre volte rinnovata con la Macedonia, a quella con la Siria. La lusinga, prima accarezzata in certi circoli della classe dominante romana, di risolvere que’ confitti in un’egemonia di Roma su di un sistema di Stati ridotti a considerarla come arbitra, urtò primieramente contro l’instabilità di una simile posizione e il conseguente risorgere de’ conflitti, invano risoluti, e delle guerre inutilmente vinte; mentre la forza delle cose, che si rivelava nell’incompatibilità di un’ulteriore coesistenza, ne’ bisogni crescenti di Roma, nella dilagante attività economica e avidità delle sue classi dominanti, portava irresistibilmente a fare di quegli Stati prima de’ tributarî e poi de’ sudditi, avendo l’epilogo nella distruzione di Cartagine e in quello di Corinto. Così dalla parte d’Oriente, Roma non aveva a guardarsi che per proteggere o per dilatare i suoi confini, come fece nelle guerre più tarde della Repubblica, nella mitridatica, nella conquista di Egitto, episodio dell’ultima guerra civile, nella guerra dell’Impero contro ribellioni più o meno ostinate di popoli soggiogati e contro i Parti, gli Armeni fiottanti a’ confini. Assicurata da quella parte, Roma allungava la mano sulla Numidia, riprendeva l’ascensione verso il Nord interrotta dalla seconda guerra punica, legando all’Impero l’impresa, omai dall’evento rifranta e riflettuta come missione, di fare de’ confini del mondo conosciuto e del mondo romano una sola ed unica cosa e riuscendo così, attraverso la guerra tante volte secolare, al solo temporaneo periodo di pace, che il mondo antico pareva promettere e consentire, l’unione di tutti i popoli in un dominio, sotto un solo imperio; una pace figlia della forza, legata a una catena, comunque dissimulata dal tempo e dall’adattamento, troppo artificiale per essere durevole, troppo costosa e inquinata di parassitismo per riuscire appieno feconda, troppo piena di antagonismi mal costretti per cementare i varî elementi in un organismo e impedire che dal loro seno stesso risorgessero altri conflitti più volte secolari. A tutto, intanto, questo ampliamento progrediente del dominio romano, che dall’esterno e nel suo complesso appare nell’aspetto di una forza che si esplica con moto continuo e in un solo senso, corrisponde all’interno dello Stato un contrasto di forze e d’indirizzi di cui quel movimento non è che la risultante. Già la storia tradizionale è tutta penetrata dal dissidio interno, in cui si ripercuote, nelle sue premesse e nelle sue conseguenze, ogni azione di guerra; e, se la tradizione non può essere accolta in questo come espressione del _certo_, può aversi in conto come riflessione del _vero_, secondo il concetto del Vico, e vale nelle sue linee generali sia come proiezione in tempi più antichi di lotte venute posteriormente a farne più visibili le proporzioni maggiori, sia come interpretazione data dalla coscienza nazionale di più remoti ma non alieni rapporti di vita. Nella versione così di Dionigi, come di Livio, la tradizione lascia spesso trasparire il desiderio di pace che fa argine al partito della guerra, e il più delle volte la guerra s’inizia tra la reluttanza e la resistenza aperta della plebe, o come diversivo di una sedizione interna, o come una concessione della plebe in cambio di promessi alleviamenti economici e di ottenute riforme costituzionali. «..... Quanto è bella cosa — fa dire Dionigi[118] perfino a Coriolano — che ognuno si abbia il suo e vivasi in pace: quanto pregevole che niuno tema nè i nemici, nè i tempi; e come è biasimevole che chi ritiene l’altrui si esponga senza necessità alla guerra con pericolo delle cose anche proprie.....». E Livio, alla sua volta, tra le altre cose accenna a un dissidio tra il partito della pace e quello della guerra tra i Sabini[119]; e, presso i Latini, tanto è l’odio della guerra e la brama della pace, dopo la tradizionale battaglia del lago Regillo, che non si rispetta nemmeno il carattere sacro degli ambasciatori volsci incitanti alla guerra, e, contro il diritto delle genti, se ne fa la consegna a Roma[120]. «Una moltitudine ingente d’invocanti la pace atterrì con clamore sedizioso i consoli passanti in rassegna le legioni»[121] per la rinnovata impresa contro i Volsci. «Consoli e senato» — in questa impresa contro Coriolano — «in niente fuorchè nelle armi riponevano la loro speranza, la plebe tutto preferiva alla guerra»[122]. La guerra provocata per riversare all’esterno l’inquietudine interna e sopirla col cercarle una nuova mèta e un nuovo sfogo, è motivo che ricorre con frequenza così nell’uno come nell’altro storico delle origini di Roma[123]; ma occorre lo scalpitare de’ nemici alle porte per riuscire a stento e dopo molto tentennare e molto promettere, se non molto concedere, a trarre nel turbine della guerra i dissenzienti. Spesso anzi il dissidio interno riaccende e fortifica l’avversione alla guerra. «Non appena fu bandita — dice Livio[124] — [la nuova guerra contro i Veienti (447 a. u. c.)] ecco la gioventù fremere che non ancora si era usciti dalla guerra con i Volsci, e pur mo’ erano stretti di assedio due presidii, che si ritenevano ancora con gran pericolo; non passava anno in cui non si venisse a battaglia campale, e, quasi che non se ne avesse abbastanza, si preparava una nuova guerra con un popolo confinante e potentissimo, che avrebbe suscitata a favor suo tutta l’Etruria. I tribuni della plebe, per soprassello, soffiano su questo malcontento sorto spontaneamente. La guerra maggiore, van dicendo, è tra la plebe e i patrizi: a disegno perciò la si espone a’ travagli della guerra e alle armi de’ nemici, la si ricaccia e relega lontano dalla città, perchè non agiti stando in patria a riposo, non si occupi di libertà, di colonie, di demanio pubblico o di libero diritto di voto». Questo sospetto reale o immaginario, spontaneo o fomentato, della guerra suscitata come un diversivo, traeva tanto più le classi inferiori e più disagiate della popolazione a patteggiare la loro cooperazione, esigendo alleviamenti nel diritto rigoroso e crudele delle obbligazioni, guarentige politiche di una maggiore tutela in ogni campo della vita sociale; e così l’atteggiamento discorde verso la guerra, naturalmente provocato dalla diversità degl’interessi e dalla repugnanza a una vita di continui pericoli, cresceva per ragione artificiale con lo studiato calcolo della resistenza. Col graduale scostarsi, poi, della guerra dalle più immediate adiacenze del territorio cittadino, mentre la guerra diveniva meno urgente e di utilità generale meno immediata, cresceva di durata, di difficoltà, di dispendio. È vero che il territorio de’ nemici era in tal caso usufruito ad alimentare l’esercito invasore, che anzi talvolta la guerra si proponeva come scopo principale di cercare alimento a una parte del popolo a spese del nemico[125]; è vero che per l’imprescindibile forza delle stagioni e della economia agricola si regolavano il contingente e le fasi della campagna in modo da non sconvolgere troppo la produzione agricola; ma, quando la guerra era troppo lontana e l’azione si prolungava troppo inevitabilmente e il territorio nemico già devastato e non tornato a coltivare non forniva più il necessario alimento, la guerra approdava a un altro genere di difficoltà più gravi forse della stessa azione militare. Fu così che, durante l’assedio di Veio, lo Stato si vide costretto (348 a. u. c. — 406 a. C.) ad assumersi esso l’obbligo di una indennità di guerra a’ cittadini militanti; e, con felice e naturale intuito della situazione dice Livio[126]: «niente si dice che sia mai stato accolto con tanto gaudio dalla plebe». Ma questa gioia dovette ben presto temperarsi quando anche quel provvedimento cominciò a mostrare i suoi inconvenienti. Secondo l’ordinamento che va sotto il nome di Servio Tullio, e finchè innovazioni non s’introdussero tra la seconda e la terza guerra punica e successivamente, il servizio militare nelle legioni ricadeva tutto su quelli che avevano un censo di undicimila assi; e, oltre al pesante servizio militare, questi stessi erano, per la loro parte, soggetti al _tributum_, prestito forzoso che lo Stato si obbligava di restituire; ma la restituzione, naturalmente subordinata alle condizioni finanziarie dello Stato, era così incerta o per lo meno irregolare, che le molestie e i danni della gravezza finivano per esserne di poco attenuati. Come compenso a questa gravezza personale e reale, doveva in certo modo valere il bottino di guerra, che andò crescendo a misura che la guerra fu portata in paesi più ricchi, ma che, d’altra parte col procedere del tempo, non fu attribuito tutto a’ soldati, bensì nella proporzione voluta dal comandante. V’era pure un altro vantaggio nelle assegnazioni sia coloniarie che viritane, individuali, della parte di territorio tolta non solo di diritto ma anche di fatto al nemico vinto ed avocata allo Stato. In questa colonizzazione, subordinata e inspirata da prima a ragioni prevalentemente militari, si vennero a grado a grado contemperando scopi anche essenzialmente economici e sociali; sicchè Roma, molte volte e per molto tempo, trovò in essa uno sfogo alle agitazioni e al malessere interno, un vivaio della sua popolazione e della sua forza militare e al tempo stesso un mezzo, oltre che di dominare, di diffondere il suo nome e la sua costituzione e di assimilare le popolazioni soggette. Ma un così lungo sèguito di guerre non poteva fare a meno di stremare una popolazione per sè stessa limitata; e l’immiserimento progressivo dipendente dalla continua sottrazione di tante forze vive all’agricoltura, esercitando i suoi ultimi tristi effetti, complicava continuamente il problema sia sotto l’aspetto economico che sotto quello demografico con le sue conseguenze militari e politiche. Mentre, appunto dopo la prima guerra punica, la rogazione di C. Flaminio per l’assegnazione di terre nell’agro piceno e gallico mirava ad assicurare alla plebe rustica, alla piccola proprietà fondiaria un nuovo campo propizio al suo rigermogliare, sopravvenne la seconda guerra punica con tutte le devastazioni e le sciagure dell’invasione annibalica. Al tempo di Polibio, per una innovazione introdotta probabilmente da poco, forse intorno al 566 a. u. c.[127], con provvedimento pregno di gravi conseguenze politiche, si abbassò a 4000 assi il censo richiesto pel servizio nelle legioni, mentre, anche quelli che avevano un censo inferiore a 4000 assi, erano chiamati a prestar servizio nella marina. Ma, mentre un tale ordinamento non faceva altro, sottraendo forza all’agricoltura, che far succedere sempre più il latifondo alla piccola proprietà, il pascolo al terreno sativo, il lavoro servile al lavoro libero, riesciva tuttavia insufficiente alle cresciute esigenze della politica internazionale e della guerra trasportata su di una così larga zona in paesi lontani. L’avversione ad ogni nuova impresa di guerra da parte di questa plebe rustica, che costituiva ancora il nerbo della forza combattente, si mostrava in ogni cosa. Solo le minacce, abilmente fatte balenare e fatte valere, di un’altra invasione in Italia[128] fecero compiere la prima guerra macedonica, a cui si portavano truppe protestanti a gran voce contro il nome ad esse dato di volontarie[129]. Il reclutamento di schiavi, di volontari, che comincia quind’innanzi a non essere più raro, gli espedienti de’ Latini per isfuggire alla coscrizione, mostrano la difficoltà del reclutamento ordinario. All’estremo opposto, in Ispagna, quanto più persisteva la guerra, tanto più suscitava ripugnanze e stentava a trovare forze combattenti, finchè non soccorse con l’incitamento, con l’azione sua personale, con l’esempio, Scipione Emiliano. Di queste tendenze e di questi bisogni fu espressione la politica degli Scipioni, che, appoggiati al medio ceto campagnuolo, cercavano di far prevalere un indirizzo per cui Roma riuscisse a mantenere la propria egemonia, rispettando certe suscettività, un certo grado di autonomia delle regioni transmarine, e così si scongiurasse l’evento di guerre lunghe, difficili e frequenti. Ma questa politica di mezzi termini, come si è accennato, non riuscì a prevalere che per poco e andò presto a rompersi contro tutte le difficoltà delle condizioni sia interne che esterne. Catone il censore volle invece affrontare la situazione direttamente, rompendo per sempre con impeto vigoroso la resistenza e favorendo la persistenza e la rinascenza del medio ceto campagnuolo col combattere il lusso e determinare il ritorno a’ campi specie con un sistema d’imposizione, che, gravando sui bisogni voluttuarî, facesse al tempo stesso sopportare le spese della guerra a’ più ricchi e spingesse i capitali verso le forme d’impiego più produttive. Una più oculata e rigorosa amministrazione, poi, una larga distribuzione del bottino a’ soldati dovevano contribuire alla loro volta a restaurare le finanze del medio ceto e far convergere a loro vantaggio tutti gli accresciuti cespiti dello Stato. Questo indirizzo, che Catone voleva dare allo Stato, si rivelava sinteticamente in quei motti brevi e concettosi con cui egli soleva spiegare e commentare una sua azione o ribattere e castigare un avversario; come quando, distribuendo dal bottino della Spagna una libbra d’argento ad ogni soldato aggiunse «esser meglio che molti Romani riportassero a casa argento che non pochi oro»; e quando disse che la «guerra deve alimentarsi da sè». Intanto gli allargati orizzonti, il più ampio campo d’azione, la cresciuta quantità de’ bisogni e de’ rapporti avevano creato nello Stato tanti altri nuovi fini, tendenze, contrasti, tanti altri nuovi fattori, massime della politica sia interna che esterna, influenti l’uno sull’altro; e, non solo la guerra e la pace non andavano più soggetti a quelle ben delineate alternative e a quelle semplici forze agenti che ne determinano le vicende nelle condizioni dell’antica più semplice vita romana, ma le vedute in apparenza più semplici erano non di rado deluse dagli avvenimenti successivi e approdavano per ulteriori complicazioni a fini non preveduti e anche opposti, mentre nuovi e vecchi interessi ora si trovavano a cooperare sul terreno dell’opportunità, ora venivano di nuovo in contrasto. La classe dominante si era andata biforcando nelle due categorie de’ grandi proprietari fondiarî e de’ capitalisti, ora in conflitto tra loro, ora alleati, come la plebe si era andata scindendo in urbana e rustica, possidente e proletaria, con interessi non di rado diametralmente opposti. A tratti a tratti questi dissidî si risolvevano in maniera più pronunziata, finchè non cercavano e ritrovavano un modo di composizione a spese degli elementi esterni. La controversia per la terza guerra punica che nello stesso acuto Polibio[130] appare troppo avvolta di legalità formali, appariva già da qualche tempo ad un accuratissimo interprete dell’antichità[131] come un dissidio in cui Catone e il ceto commerciale combattevano rispettivamente la concorrenza de’ cereali esiziale al ceto agricolo italico e la risorgente rivale commerciale, mentre i latifondisti allevatori d’armenti, con a capo Scipione Nasica, difendevano nella conservazione di Cartagine il mercato di bestiame sempre più proficuo con la progrediente messa a cultura della terra d’Africa. E, con Cartagine, cadde contemporaneamente l’altro malvisto emporio commerciale, Corinto. Parve poi venuta la volta di Rodi, ma la sua colpa poteva apparir lieve e contro di essa questa volta lottava una sola categoria d’interessi: si approdò a un accomodamento tra il sentimento, la giustizia e l’interesse delle classi commerciali: Rodi rimase, ma menomata, umiliata, depressa, con Delo alle spalle, elevata a privilegiata concorrente. Il dominio romano intanto si era così allargato con la cooperazione più o meno entusiasta, più meno sforzata di tutti, in ossequio alla prevalente forza delle cose e all’azione decisiva degli interessi presenti: obbedendo agli stessi agenti, spiegava ora obbiettivamente tutta la sua azione realizzando e appagando le speranze di alcuni, deludendo e magari deridendo le illusioni di altri. Con la distruzione di Cartagine non era nè cessata, nè ridotta la concorrenza a’ cereali italici, e il latifondo si estendeva sempre più, ricacciando continuamente il ceto medio espropriato nella città, spingendolo verso la voragine in cui scompariva. Il dominio romano s’era ampliato ma non per ricostituire fuori d’Italia il decadente medio ceto italico. Nè l’aristocrazia fondiaria lo voleva, nè conveniva a’ capitalisti; nè Roma e l’Italia senza esaurirsi potevano scaricarsi di una popolazione già declinante; nè probabilmente gli stessi eventuali coloni erano allettati dalla prospettiva di essere trapiantati in paesi lontani, tra popolazione mal domite e talora in istato di barbarie, rinunziando all’esercizio effettivo de’ loro diritti politici. Il dominio fu quindi ordinato per provincie, in linea di principio a tutto beneficio dello Stato, in linea di fatto a massimo se non esclusivo vantaggio dell’ordine senatorio chiamato a governarle con autorità quasi vicereale, a vantaggio de’ capitalisti ammessi a sfruttarle come appaltatori, pubblicani, parassiti di ogni grado e di ogni forma. Tante guerre, insieme alla terra e a’ capitali, avevano anche dato con la schiavitù lo strumento animato, automatico per mettere a profitto l’uno e gli altri; e il medio ceto rustico, premuto, incalzato dal latifondo, fatto proletario, veniva anche in questa nuova veste, stretto e vessato dalla deprimente affamatrice concorrenza del lavoro servile. Allora le speranze, le brame e i bisogni, che avevano cercato appagamento all’esterno, ricacciati entro i confini stessi d’Italia riarsero ivi più forte, come forza compressa che, vicino allo scoppio, cerca un ultimo sfogo, con aria minacciosa di tempesta. Abili concessioni suggerite da una politica piena di perspicacia e di tatto posero per un momento i capitalisti dal lato della plebe, con cui potevano far causa comune questa volta anche perchè l’assegnazione dell’agro pubblico italiano non intaccava l’ordinamento provinciale e lasciava loro mano libera in questo. Le resistenze erano molte e bene organizzate, quali potevano essere quelle dell’aristocrazia fondiaria, che s’era appropriato l’agro pubblico, ma gagliardo e potente era anche l’assalto, e la sua maniera di eliderlo era quello di deviarlo, come fu fatto. Piuttosto che leggi agrarie, leggi frumentarie; piuttosto che terra da coltivare, pane da raccogliere sul Foro; pane e doni e feste e le bricciole del banchetto de’ dominatori. La composizione avvenne sulle basi di un comune parassitismo, tutto a spese de’ dominati. Con la fine della guerra perseica (167 a. C. — 587 a. u. c.) cessò il prelevamento del tributo in Italia, sicchè quel che restava e poteva ancora sussistere dalla piccola proprietà, n’era alleviato, mentre, al tempo stesso, si vedeva messo al sicuro di un’altra campagna, come l’annibalica. Le classi dominanti imperavano, arricchivano, smungevano, corrompevano, diguazzavano nel lusso e nel piacere. Il proletariato, specie l’urbano, oltre agl’impieghi in cui poteva vincere o sostenere la concorrenza servile, aveva aperto l’adito alla corruzione elettorale, alle distribuzioni di frumento: a tutti gli espedienti del parassitismo pubblico e privato. Un altro sfogo s’aperse — naturale conseguenza di questa condizione di cose — al proletariato, e fu la milizia, dischiusa sotto Mario a tutti senza distinzione di classi e di possesso, e che cominciò a costituire, specie per tutti i detriti sociali, una professione, una carriera, un mezzo di sussistenza, onde s’usciva infine col gruzzolo del bottino risparmiato, con la scorta della terra assegnata al veterano, specie ad occasione delle guerre civili. Parve un equilibrio, e, per quanto mutabile, mal fido, roso da un intimo vizio, era tale pel tempo; e trovò la sua espressione pratica nell’Impero, che, gravitante a lungo sotto forma di cesarismo, instaurato sotto forma di una transazione tra il principato cesareo e l’ordine senatorio, degenerato in una dispotia, appariva pur sempre come l’unico centro di gravità di tanti elementi discordi, come l’unico mezzo di soggezione del dominio e la guarentigia di una pace, di cui una serie di concentriche oligarchie, che dall’Italia anelavano alla Corte imperiale, raccoglievano i frutti, ma di cui anche l’intero dominio, pure sfruttato com’era, sentiva e godeva i vantaggi. In quell’immenso dominio, che omai abbracciava quasi la terra abitata (οἰκουμένη) la guerra omai, ridesta da contese di successione o da ribellioni, riardeva solo come fuoco che irregolarmente divampa, e per poco, da’ resti di un incendio, o vagava incerta intorno a’ confini, come fiamma, che lambe a sbalzi, come per tentarlo, un tronco non ancora invecchiato, senza potervisi tuttavia apprendere e penetrare oltre la scorza. VI. Le cause della guerra. Quanto non è mai grande e molteplice la varietà de’ casi, attraverso cui si determina o si fa più acuto il conflitto di due popoli e scoppia la guerra! La passione, la bizzarria, la leggerezza, la sottigliezza di storici e di polemisti, di novellatori ed esegeti vi si fermano con compiacenza di artisti e di curiosi; e le piccole e le grandi tempeste passano, scatenate, a volta a volta, dall’ambizione di un re, dall’avidità di un demagogo, dal volubile capriccio di una donna, da un intrigo di bassa lega per assumere, agli occhi di un osservatore più acuto, successivamente, le forme dell’esplicazione di una tendenza bellicosa, dell’antagonismo di due razze o varietà etniche, di una piccola o grande rivalità commerciale, di una suggestione di fanatismo religioso. In vero quella varietà episodica rappresenta talvolta una serie di fatti talvolta anche storicamente accertati, e queste vedute più generali e più approfondite hanno anch’esse riscontro in reali condizioni dell’ambiente: solo, un’indagine ancora più spinta riesce a scorgere nel primo caso le cause soltanto occasionali e nel secondo delle cause suscettibili di una generalizzazione ancora più ampia e capaci di andar tutte comprese sotto una causa di ordine anche più generale, che persiste, opera in continuazione, e si rifrange, si rivela, s’individua, secondo la varietà de’ casi e degli ambienti, in episodî e moventi di carattere più particolare. Nelle sue forme più antiche e più semplici la guerra si svela apertamente come un mezzo di provvedere alla sussistenza di una popolazione. Così in quella _primavera sacra_, comune all’Oriente come all’Occidente, alla Lydia come all’Italia[132], forma riflessa e consapevole del fenomeno più generale rivelato dalle grandi migrazioni di popoli e determinata, come diffusamente spiega Dionigi[133], dalla permanente sproporzione de’ mezzi di sussistenza rispetto alla popolazione o anche da vicende atmosferiche, che riducessero la consueta produzione del suolo o da qualsiasi altra ragione che rendesse necessaria una riduzione della popolazione. In tutti i ricordi epigrafici assyro-babilonesi — tanto più manifestamente quanto più sono antichi — la guerra si risolve tutta in una gigantesca razzia, in una imposizione, in una rivendicazione di tributi rifiutati da sudditi ricalcitranti e che comprendono, oltre a’ metalli preziosi, i metalli d’uso comune specie per la guerra, e bestiame e tutto quanto potesse occorrere al vario bisogno della vita ordinaria[134]. E sotto quale altra forma si presentano le guerre più antiche di Sparta e Tegea, di Sparta e della Messenia, e le guerre continue in cui la storia tradizionale ci mostra avvolta Roma con i popoli immediatamente circostanti? Questo scopo vero e diretto della guerra permane, del resto, come carattere intrinseco e saliente, per tutta la storia successiva con la riduzione in servitù de’ prigionieri e de’ soggiogati, con l’incorporazione de’ territori conquistati, con l’imposizione di tributi. Con l’elevarsi intanto delle condizioni di vita, col moltiplicarsi de’ bisogni, con l’acquistare che il corpo sociale fa una struttura più varia e più complicata, questa lotta per l’esistenza, già così primitiva e rudimentale, confinata ancora nell’infimo stadio della contesa per la venere e il pane, si trasforma anch’essa, si complica di una quantità di concause che orpellano spesso come di un velo roseo e lucente la brutalità interna e istintiva del rinascente conflitto. A misura che il processo conoscitivo del mondo e della vita assumeva in un primo momento forma cosmogonica, religiosa, la legge e i fatti della vita si rannodavano, come ad un centro, alla divinità e assumevano naturalmente la parvenza di emanazione e riflesso della volontà divina; e, in quanto si facevano dipendere dalla divinità i rapporti sociali, in quella rudimentale concezione cosmogonica si compenetravano con l’azione della divinità. E questa illusione, che in momenti successivi divenne un fatto consapevole utilizzato come tale, in periodi più antichi potè essere un fatto spontaneo che faceva solitamente della guerra una guerra religiosa. Il tempio, l’idolo che costituivano come l’estremo palladio e il punto di raccolta di tutto un popolo, ne costituivano perciò stesso come il vessillo e il punto di applicazione del massimo sforzo. Riprendere l’idolo rapito da’ nemici in una fortunata guerra precedente, o fiaccare il nume emulo e concorrente de’ nemici, oltre che un’affermazione evidente di superiorità e un titolo di onore, era un obbligo sacro; e, per quel principio di causalità insito nella materialità delle più antiche credenze religiose, era anche un mezzo di assicurare o rendere stabile il primato proprio, impegnando al bene proprio una potenza oltremondana con i vincoli del cointeresse e della riconoscenza. Il tributo imposto in nome della divinità e alla divinità rivendicato attraverso le varie vicende, la decima assicurata al nume protettore — ciò che con diversa gradazione di sentimento inconsapevole emerge da’ fasti di Oriente a quelli di Grecia, da questi a quelli di Roma — davano anche secondo i tempi ed i popoli carattere spiccatamente religioso alle cause della guerra. «Imposi loro — dice un re assiro[135] — il grave giogo della mia signoria e li sottomisi ad Ašur, il mio signore». Accanto alla feudalità terrena, e intimamente compenetrata con essa, sussisteva, in Egitto, una feudalità divina, per cui coincidevano le sorti di principi e dèi, e la preminenza di Ammon e quella di Tebe erano termini correlativi come altrove erano termini correlativi quelli di Javeh e d’Israele, dell’Assiria e delle sue divinità. Così Salmanassar II poteva dire: «Dietro comando di Ašur, il grande signore, il mio signore, combattetti con loro e li vinsi»[136]. «Per volere di Ašur, il grande signore, il mio signore, io presi Til-barsip, Aligu... etc.»[137]. «Per ordine di Ašur, il grande signore, il mio signore, e di Nergal, che procede innanzi a me, mi accostai a Sitamrat...»[138]. E Asarhaddon poteva dire parlando di un tempio spogliato da’ nemici: «Di ciò fu sdegnato il signore degli dèi, Merodach, e deliberò subito di devastare il paese, di annientare gli abitanti»[139]. Più chiaramente ancora in un’iscrizione di Tiglat-Pileser I: «Ašur (e) i grandi dèi, che fanno prosperare il mio regno, che mi concedono come mio retaggio forza e potenza, mi ordinarono di estendere l’ambito del loro territorio, posero in mia mano le loro armi potenti, il turbine della battaglia»[140]. Ma, sia per il ripetersi che fanno i conflitti tra popoli della stessa credenza religiosa, sia perchè, in società d’ordine più complesso e di civiltà più elevata la prima concezione religiosa della vita cede il posto a una concezione più positiva e sopratutto umana de’ fenomeni sociali, i motivi mondani non solo diventano prevalenti, ma la loro risoluzione esige che sieno messi in chiaro; e la guerra si viene quindi spogliando dell’involucro religioso, che in periodi più progrediti ricorre, così, assai raramente e solo come l’occasione o il pretesto o la forma esterna del conflitto: nell’ultima così detta guerra sacra in Grecia, per esempio. La causa obbiettiva, permanente e fondamentale della guerra si rivela, allora, piuttosto in una lotta per l’egemonia commerciale, o si dissimula in una contesa d’indole politica o in un antagonismo di carattere etnico. Col costituirsi e il venire a contatto di potenze antagonistiche, la ragione del conflitto assume la forma del mantenimento di un sedicente equilibrio che il mondo antico — per lo stesso sviluppo poco progredito della produzione — non comporta e che si traduce in una disputa di preda, o in una guerra precauzionale diretta a prevenire l’attacco e ad atterrare il nemico in condizioni favorevoli; così che vengono a scambiarsi e a fondersi le cause dell’offesa e della difesa. Quella concorrenza vitale, che in condizioni più progredite, si esercita, fra individui e individui, fra città e città, fra popolo e popolo, col diffondere i propri commerci e aumentare la propria ricchezza, producendo a minor costo, conquistando i mercati a preferenza di altri, spiegando un’azione lenta e inavvertita nel suo esercizio quotidiano e permanente; in condizioni meno progredite si esercitava prevalentemente mediante la guerra; sì perchè lo sviluppo insufficiente della tecnica e delle forze produttive in generale non permetteva di svolgere sino alla più ampia soddisfazione de’ proprî bisogni la produzione propria, sì perchè quest’appropriazione violenta dell’altrui rappresentava, comparativamente ad ogni altro sforzo, la via di più facile escogitazione, di minore resistenza e di più immediata riuscita. Le varietà etniche, tanto più accentuate, quanto più chiuse in sè stesse e diffidenti verso l’esterno; le vendette sorrette da’ criterî morali proprî di un ambiente di mutua violenza e fomentate dall’utilità in cui promettevano di risolversi; le ambizioni solleticate dalla facilità di trovare un appagamento e rafforzate dal corrispondere che facevano a un bisogno del tempo; i governi personali, che costituivano come un punto di applicazione e un moltiplicatore delle tendenze dell’ambiente — tutte queste cose accentuavano le ragioni continue e fondamentali di guerra, ne acceleravano, accrescevano e precipitavano l’azione, usurpandone spesso la forza e l’importanza agli occhi stessi degli storici, nella narrazione di molti de’ quali, così, il lungo sèguito di guerre si riconnetteva tutto a questo nesso di cause più appariscenti e tangibili, ma del pari mutevoli e secondarie. Ma, attraverso l’indagine che spinge più a fondo l’osservazione, che mette la questione ne’ suoi termini e completa i dati necessarî alla esatta cognizione dell’argomento, i pretesti, le cause occasionali e i motivi secondarî, prendono tutti il loro posto per comporsi e far luogo alla causa delle cause, alla causa in ultima istanza, all’insufficiente sviluppo di forze produttive, che tende a spostare specialmente verso l’esterno un sistema di appropriazione violenta. La guerra si presenta così come un aspetto dello sviluppo delle forze produttive. Ne’ periodi più antichi, di minimo sviluppo, è perciò un fatto ordinario ed il miglior mezzo, se non il solo, di provvedere a maggiori comodità della vita, sino al punto che diventa anche un abito, che, o non trova, o tarda molto a trovare censori e scongiuratori. L’immane Briareo incatenato, la grande macchina umana, il grande strumento vocale della produzione antica, la schiavitù, che costituiva la base su cui si adagiava e la radice da cui traeva elemento il mondo antico, avendo per molto tempo nella guerra la fonte principale e il mezzo continuo e migliore di rifornimento, mette in luce tutta l’indole e il carattere necessario della guerra nel mondo antico, che legittimava e da cui si faceva legittimare alla sua volta. La guerra forniva così la terra e il braccio che la fecondava, la materia e la forza del lavoro, e veniva quindi a confondersi con le ragioni stesse dell’esistenza del mondo antico, con la possibilità — o ironia della storia! — di raggiungere certi scopi civili ed elevarsi a un grado più alto. Col venir meno della sua utilità assoluta o relativa, scema quindi la tendenza alla guerra, che trova resistenza e impedimento nel seno stesso dello Stato da cui muove, perchè, con la maggiore complicazione e varietà degli elementi sociali dipendenti dall’ulteriore sviluppo delle forze produttive, la guerra presenta una diversa importanza e un diverso interesse per i diversi elementi della popolazione. La guerra allora diviene una funzione degli interessi e delle classi predominanti in un dato aggregato sociale. VII. Gli aspetti della guerra. Una tragica aura d’incendî, di rapine, di stragi passa attraverso le memorie, specie più antiche, delle gesta assyro-babilonesi; e tutto quell’immane macello, tanto più ripugnante e impressionante in quanto è glorificato in persona prima, si disegna sullo sfondo lontano come un lugubre sogno sanguinoso. «Guerreggiando e battagliando — dice Ašurnâṣir-abal[141] — assalgo, prendo la città. Abbattei con le armi tremila guerrieri, portai via il loro bottino, il loro avere, i bovi, le pecore, arsi nel fuoco molti prigionieri, molti ne presi vivi; agli uni tagliai mani e braccia (?), agli altri naso (?) e orecchie (e braccia), molti ne accecai, elevai una piramide di viventi, un’altra di capi tronchi, agli.... alberi sparsi nel territorio della loro città sospesi le loro teste, consunsi nelle fiamme i loro fanciulli e le loro figliuole. Desolai la città, la ruinai, l’arsi col fuoco, l’annientai. Indi desolai le città di Nerbi e le minai, bruciai le loro solide mura». E Tiglath-Pileser I: «Come un turbine infransi in un assalto furioso i corpi de’ loro guerrieri, feci scorrere il loro sangue per i valloni e le pendici de’ monti, tagliai le loro teste e le sparsi ne’ dintorni della loro città...»[142]. E Salmanassar II: «Atterrai i suoi guerrieri con le armi, simile a Rammân feci piovere la tempesta su loro, li riversai nelle fosse, riempii l’ampio campo de’ cadaveri de’ suoi bravi, tinsi del loro sangue il monte come lana... (?), alzai una piramide di teste rimpetto alla sua città, desolai, minai le sue città, le devastai con l’incendio»[143]. E Sargone parlando d’un ribelle: «... Lo assediai insieme a’ suoi guerrieri nella sua prediletta città di Karkar, la espugnai, arsi Karkar, lo scuoiai, massacrai i ribelli in quella città e vi ricondussi la quiete»[144]. E Senacherib: «Con la forza dell’armi sopraffeci gli uomini della città Chirimmi, nemici ostinati, non ne lasciai in vita neppure uno; i loro cadaveri li legai a’ pali e ne recinsi la città»[145]. «Le loro gole le tagliai come fossero gole d’agnelli, la loro cara vita la tagliai come una corda. Come una fitta, tempestosa pioggia che cade dal cielo, feci spandere per la pianura le loro onde di sangue»[146]. E Ašurbanipal: «A Mannu-kî-aḫí... Dunânu, e Nabû-uṣallî, che si erano condotti in maniera sconveniente verso i miei dèi, strappai le lingue in Arbela e li scuoiai. Dunânu lo gittai in Niniveh su di uno scanno da macellaio e lo scannai come un agnello»[147]. Nè si tratta di casi isolati od eccezionali. Queste citazioni si potrebbero quasi dire scelte a caso fra le tante di cui riboccano i monumenti epigrafici assyro-babilonesi, ripetute con la monotonia incosciente di un rituale funebre[148]. Pare come se una mente tormentatrice si sia dilettata a escogitare crudeltà raffinate, che si rispecchiano nel documento storico con tutti i colori e le immagini di una fantasia entusiasticamente truculenta, compiaciuta dell’opera di distruzione. Le città distrutte, incendiate, rase al suolo — tenuta anche ragione dall’iperbole millantatrice — non si numerano[149]. Le lingue sono irrevocabilmente strappate a’ ribelli spergiuri[150]. Ašurbanipal dopo aver scuoiato i suoi nemici, ricopre della loro pelle le mura della città[151]. Altra volta, dopo averli fatti a pezzi, «fece mangiare la loro carne dilaniata a cani, porci e avvoltoi, aquile, uccelli del cielo e a pesci dell’Oceano»[152]. Il pretendente del reame di Arabia, dopo averlo vinto, «lo pose in una gabbia in compagnia di cani, lo legò e lo lasciò a vigilare una porta di Niniveh...»[153]. Quest’altra è di Asarhaddon: «Per mostrare a’ popoli la potenza di Ašur, mio signore, legai le teste di Sanduarri e di Abdimilkutti a tergo de’ loro grandi e con canti e suoni di arpe entrai nel sobborgo di Niniveh»[154]. Questo è di Ašur-ba-nipal: «Io li legai al timone, al carro della mia maestà e a piacer di questa.... li menai attorno per tutti i paesi»[155]. I miti animali da macello, i feroci animali da preda, le potenze distruttrici della natura sono invocati da questi guerrieri auto-biografi come gradite similitudini per dare un’idea viva dell’opera loro. Uno si paragona alla tempesta[156], a Rammân che tuona[157], un altro all’aquila[158]. Un esercito invasore è paragonato alle cavallette[159], un fuggiasco ad una volpe[160]. Un prigioniero sul rogo brucia come un legno da ardere[161]. I nemici sono infranti come pentole[162], sgozzati come agnelli o come minuto bestiame[163], mietuti come biada dal falciatore[164]. E tutto ciò con un’impassibilità che non trema, non si turba, non sente; una imperturbabilità, che ha una curiosa espressione in un documento egiziano: «Questo esercito andava in pace: esso entrò, come gli piacque, nel paese degli Hirousshaïtou. Quest’esercito andava in pace: esso schiacciò il paese degli Hiroushaïtou. Quest’esercito andava in pace: esso aprì una breccia in ogni cinta fortificata. Questo esercito andava in pace: esso tagliò i loro ficheti e le loro vigne. Quest’esercito andava in pace: esso incendiò tutte le loro messi. Quest’esercito andava in pace: esso massacrò i loro soldati a miriadi. Quest’esercito andava in pace: esso portò via i loro uomini, le donne e i loro figli in gran numero, come prigionieri viventi, cosa di cui Sua Santità gode più che di ogni altra cosa»[165]. Quanto lontano non si direbbe il mondo ellenico da una tale barbarie! Eppure l’_Iliade_, tanto diversa sotto certi aspetti, raccoglie ancora come l’eco di una simile mischia; e, volta a volta, è come il crepuscolo di quel giorno sanguigno di cui si temperano e si fondono i colori, come un lembo di uno di quei campi di battaglia, rispecchiato nel terso azzurro di un lago sereno, intravisto tra i concenti di una melodia paradisiaca. Come già si è accennato altrove, anche nell’_Iliade_ ricorrono, con insistente frequenza, quelle comparazioni de’ guerrieri alle bestie feroci, che si riscontrano nelle epigrafi assyro-babilonesi. Achille è veramente, come lo chiama il poeta nazionale latino, _durus, impius, inexorabilis, acer_. Le sue stragi, ove egli diguazza e di cui s’inebbria, sono orgiastici eccidî. Lo stesso Achille, al pari di Ulisse, è chiamato, quasi con epiteto di gloria, devastatore di città (πτολίπορθον)[166], come di un re assiro si dice che «annienta città»[167], che «stritola il complesso de’ suoi nemici e passa calpestando su’ paesi»[168]. Si spogliano i nemici uccisi[169]; si sacrificano prigionieri sulla tomba di un guerriero morto[170]; si fanno razzìe[171]; si usano frecce avvelenate[172]; si evoca, s’incoraggia la vendetta[173]; si adopera il tradimento, la perfidia, l’invidia; si saccheggiano regolarmente le terre de’ vinti, e una città presa d’assalto si presenta alla vista così: ...... trucidati i figli, Rapite le fanciulle, i casti letti Contaminati, crudelmente infranti Contro terra i bambini, e strascinate Dall’empio braccio degli Achei le nuore, Ed ultimo me pur, su le regali Porte trafitto e spoglia abbandonata, Voraci i cani sbraneran......[174]. E Ulisse, egli stesso, descrive così una delle sue avventure di viaggio: Ad Ismaro, dei Ciconi alla sede Me, che lasciava Troia, il vento spinse. Saccheggiai la città, strage menai Degli abitanti; e sì le molte robe Dividemmo e le donne, che alla preda Ciascuno ebbe ugual parte[175]. E Agamennone inculca ostentatamente questi propositi: ...... Or su, nessuno De’ perfidi risparmi il nostro ferro, Nè pur l’infante nel materno seno; Pèrano tutti in un con Ilio, tutti Senza onor di sepolcro e senza nome[176]. La guerra anche qui è un duello mortale e senza scampo, il cui epilogo è, per la parte combattente specialmente, l’eccidio, per gli scampati la vita umiliante e dolorosa dello schiavo. L’alba incerta, adombrataci leggenda, della storia greca, della storia romana, fa vedere nello sfondo Troia rasa al suolo, Alba distrutta, le loro popolazioni sgominate o trapiantate altrove; una dolorosa immagine che si proietta nel campo della storia propria, più antica e più recente, ricongiungendo le città distrutte e le popolazioni decimate e trapiantate delle memorie assyro-babilonesi[177] e di altre della storia orientale a Cartagine, a Corinto, a Gerusalemme distrutte, alle intere popolazioni spiantate e trapiantate, pure nel periodo di Roma repubblicana e imperiale. E la storia tradizionale romana, quale ce la presenta Livio, si apre e si protrae con questo seguito cupamente monotono di prede e di riprede, d’incendî e di stragi, di offese e di rappresaglie tra Roma e i suoi successivi confinanti; mentre il fuoco e il ferro passano ostinati e inesorabili sugli abituri invano risorti dalle macerie, sulle messi invano rinascenti, quasi in una sacrilega sfida tra l’instancabile feconda natura creatrice e la potenza distruttrice dell’uomo[178]. Ma, pur tra questo imperversare di rabbia omicida, tra questo infuriare di passioni e di cupidigie scatenate, sotto il pungolo dell’utilità che si fa sentire, della civiltà che si eleva, della vita che rivendica i suoi diritti, de’ bisogni sociali che si fanno più complessi e più esigenti, si annunziano — prima come incerti bagliori destinati alla lunga a divenire più radiosi e persistenti — alcuni temperamenti de’ furori e degli orrori della guerra, alcuni princìpî di umanità, alcune leggi del conflitto; quasi una diga, che, non potendo evitare la foga ruinosa della corrente che discende, la segue per ammorzarne l’urto, per moderarla, per contenerla entro certi confini. Salvo che, come pure accade, l’impeto delle onde non finisca esso stesso per travolgere la diga e involgerla in una sola ruina. Nelle stesse memorie epigrafiche assyro-babilonesi ricorrono non di rado accenni ad atti di clemenza, a vite risparmiate, a colpe perdonate anche qualche volta, a beni lasciati a’ vinti dietro un tributo[179]. «Io — giunge perfino a dire Sardanapalo — il misericordioso, che non covo odio (non medito vendette), che purgo i peccati, concessi grazia a Tammaritu e lo feci stabilire nel mio palazzo insieme alla sua parentela»[180]. È vero che quasi sempre la clemenza ha per corrispondente, e direi corrispettivo la dedizione, il tributo. Dice, per esempio, Salmanassar II: «Essi uscirono e abbracciarono le mie ginocchia. Io presi ostaggi da lui e ricevetti argento, oro, ferro, armenti, greggi come suo tributo»[181]. «Essi paventarono — dice Tiglath Pileser I — il violento turbine del mio attacco e si gettarono a’ miei piedi. Io li graziai, non espugnai quella città e presi ostaggi da loro. Imposi loro un tributo annuo invariabile»[182]. La constatazione dell’atteggiamento supplice, del prostrarsi a’ piedi ritorna, si può dire, invariabilmente, al pari dell’imposizione del tributo; sicchè l’atto di clemenza ne rimane menomato, apparendo come un maggiore atto di orgoglio e un calcolo interessato. Ma pure era proprio per questa via che la guerra si faceva più umana. Il bisogno e l’utilità crescente degli schiavi portava naturalmente a risparmiare le vite de’ prigionieri per adibirli al proprio servizio, per metterli anche occorrendo in commercio, scambiandoli con altre merci o con danaro. Il commercio, iniziale o progrediente, che creava vincoli d’interessi, di simpatia, di ospitalità, andava togliendo un po’ di quell’insita avversione tra straniero e straniero; e, oltre a rendere più rare le guerre, ne mitigava qualche asprezza. L’abitudine, la vita più umana, più civile faceva il resto. Ne’ poemi omerici è notevole come, pur tenuto conto della veste e delle esigenze poetiche, s’incontrano non infrequentemente, anche in forma disinteressata, questi sentimenti di pietà, che magari si dileguano subito, ma rischiarano come di un bel raggio confortatore le tenebre di quella lotta sanguinosa. Vi è in qualche caso, quasi un’ostentazione di cavalleria, come quando Glauco e Diomede si separano nell’atto di venire alle mani e Aiace ed Ettore rimettono al domani il loro duello, e, intanto, si scambiano de’ doni[183]. Alla nutrice che si rallegra della strage de’ Proci, lo stesso Ulisse, il vendicatore, risponde così: Godi dentro di te, disse, ma in voci, Vecchia, non dar di giubilo, chè vanto Menar non lice sopra gente uccisa. Questi domò il destino, e morte a loro Le stesse lor malvagitati furo, Quando non rispettaro alcun giammai, Buon fosse o reo, che in Itaca giungesse. Dunque a dritto periro[184]. Quest’ultimo concetto di una giustizia, che regola e risolve i destini della guerra, non è neppure infrequente sia nell’_Iliade_ che negli scritti posteriori; ed era naturalmente un riflesso della generale concezione cosmogonica, del modo di considerare tutti gli altri rapporti di vita. Ad esso s’informa la tendenza ricorrente, sia nell’_Iliade_ che nella storia tradizionale più antica, di sostituire alla battaglia dell’intero esercito la lotta di alcuni campioni, regolando dall’esito di essa l’esito della causa motrice della guerra. Questo modo di vedere, naturalmente, rinsaldava l’aspetto religioso della guerra, ma elevandolo e idealizzandolo. Le stesse ragioni, a cui si è accennato innanzi trattando delle cause della guerra e che davano a queste ultime un colore o un travestimento religioso, avevano naturalmente dovuto dare alle forme stesse della guerra colore o travestimento religioso, in maniera tanto più rudimentale e materiale, quanto più si risale nel corso del tempo. La guerra è, in queste sue fasi più antiche, guerra di dèi, oltre che guerra d’uomini. Gli dèi erano chiamati a difendere lo stesso interesse loro, l’integrità de’ loro templi, la guarentigia e l’abbondanza de’ sacrifizi, la proprietà de’ territori sacri, lo stesso loro regno terreno. Erano quindi chiamati a fare, vicendevolmente, prova della loro forza e della loro potenza; e la sconfitta de’ loro adoratori, se non era voluta punizione della loro empietà, era una prova della loro impotenza e un argomento della loro decadenza. Stretto intorno a Javeh, Israele lotta come serrato intorno a un vessillo. Più ancora, esso si sente il braccio, nient’altro che il braccio della divinità che l’anima e lo guida. «Il Signore — dice il cantico di Mosè[185] — è la mia forza e il mio cantico, e mi è stato di salvezza: quest’è il mio Dio, io lo glorificherò; l’Iddio del padre mio, io l’esalterò. — Il Signore è un gran guerriero; il suo nome è il Signore. — Egli ha traboccati in mare i carri di Faraone e il suo esercito; e l’eletta de’ suoi capitani è stata sommersa nel Mar Rosso..... — Il nemico dicea: Io li perseguirò, io li raggiungerò, io porterò le spoglie, l’anima mia si sazierà di essi; io sguainerò la mia spada, la mia mano li sterminerà. — Ma tu hai soffiato col tuo vento, e il mare gli ha coperti; essi sono stati affondati come piombo in acque grosse. — Chi è pari a te fra gl’Iddii, o Signore? chi è pari a te, magnifico in santità, reverendo in laudi, facitor di miracoli? — Tu hai disteso la tua destra e la terra gli ha tranghiottiti. — Tu hai condotto per la tua benignità il popolo che tu hai riscattato; tu l’hai guidato per la tua forza verso l’abitacolo della tua santità. — I popoli l’hanno inteso ed hanno tremato; dolore ha colti gli abitanti della Palestina. — Allora sono stati smarriti i principi di Edom; tremore ha occupati i possenti di Moab; tutti gli abitanti di Canaan si sono strutti. — Spavento e terrore caggia loro addosso; sieno stupefatti per la grandezza del tuo braccio come una pietra; finchè sia passato il tuo popolo, o Signore; finchè sia passato il popolo che tu hai acquistato. — Tu l’introdurrai, e lo pianterai sul Monte della loro eredità; nel luogo che tu hai preparato per tua stanza, o Signore; nel santuario, o Signore, che le tue mani hanno stabilito. — Il Signore regnerà in sempiterno». «Con lui — diceva il profeta alludendo a Sennacherib — è il braccio della carne; ma con noi è il Signore Iddio nostro, per aiutarci e per combattere le nostre battaglie»[186]. E le vicende del culto di Javeh diventano così, subbiettivamente la spiegazione, obbiettivamente l’indice e la misura delle vicende del popolo d’Israele. E al canto dell’Ebreo fa riscontro quello dell’Egizio. Sotto tutti i cieli, in tutte le lingue, per qualunque causa, ognuno invoca il suo dio, perchè gli venga in soccorso. «Nessun principe era con me — fa dire un poeta a Ramsete, narrando la battaglia di Qodshou[187] — nessun generale, nessun ufficiale degli arcieri o de’ carri. I miei soldati mi hanno abbandonato, i miei cavalieri sono fuggiti davanti ad essi e non uno è rimasto per combattere presso di me. Allora il re dice: «Chi sei tu dunque, o padre mio Amon? Un padre dimentica forse suo figlio? Ho io dunque fatto qualche cosa senza di te? Non mi sono io messo in marcia e non mi sono arrestato sulla tua parola? Io non ho punto violato i tuoi ordini. È ben grande, il Signore dell’Egitto che rovescia i barbari sulla sua via! Che cosa sono, dunque, innanzi a te questi Asiatici? Amon snerva gli empî. Non ti ho io consacrato innumerevoli offerte? Io ho riempita la tua dimora sacra de’ miei prigionieri: io ti ho costruito un tempio per milioni d’anni, t’ho dati tutti i miei beni per i tuoi magazzini. Ti ho offerto il mondo intero per arricchire i tuoi dominii... Certo, una misera sorte sia riserbata a chi s’oppone a’ tuoi disegni! felice chi ti conosce! poichè i tuoi atti sono prodotti da un cuore pieno di amore. Io t’invoco, o mio padre Amon!....». E Amon accorre. «La voce ha echeggiato sino a Hermonthis, Amon viene alla mia invocazione: egli mi dà la mano. Io getto un grido di gioia. Egli parla dietro di me: — Io accorro a te, a te Ramsetes-Mîamoun, vita, salute, forza; io sono con te. Son io, tuo padre! La mia mano è con te e io valgo per te meglio di un centinaio di migliaia. Io sono il signore della forza che ama il valore; io ho riconosciuto un cuore coraggioso e sono soddisfatto. La mia volontà si adempirà». Era la stessa voce, che, invocata tanto tempo prima da Thoutmos III, diceva[188]: «Io son venuto, io ti concedo di schiacciare i principi di Zahi; io li getto sotto a’ tuoi piedi attraverso le loro contrade; — io faccio loro vedere la tua maestà come un signore di luce, quando tu brilli sulle loro teste come la mia immagine. — Io son venuto, io ti concedo di schiacciare i barbari di Asia, di menare prigioni i capi de’ popoli Routounou; — io faccio vedere la tua maestà, coverta dal tuo arnese di guerra, quando tu prendi le armi sul carro. — Io sono venuto, io ti concedo di schiacciare la terra d’Oriente....». L’intervento di Javeh che nella concezione giudaica rimaneva qualche cosa di misterioso, di trascendente, diviene qui — e più ancora altrove — una partecipazione personale, diretta, tangibile alla lotta. «Io — fa dire ad Asarhaddon una delle epigrafi[189] — io chiesi ad Ašur, Sin, Šamaš, Bel, Nebo e Nergal, Istar di Niniveh e Istar Arba’ el di poter reggere il dominio della mia casa paterna, di rivestire il mio sacerdozio ed essi udirono le mie parole. Nella loro fida grazia mi mandarono una tavola purpurea, che diceva così: Va, non indugiare; noi ti veniamo a lato, noi soggioghiamo i tuoi nemici! — Per uno o due giorni io non mi guardai attorno, non vidi la faccia delle mie truppe; non guardai indietro; non feci togliere il morso de’ cavalli, il tiro del carro che portava gli arredi militari, non spiegai le mie tende da campo, non temetti il gelo e il rigore del mese di Šabat, non il violento temporale; come un uccello da preda apersi le mie braccia per atterrare i miei nemici, a marce forzate procedetti verso Niniveh. Innanzi a me, nel paese di Ḫanirabbat presero posizione tutti i loro eserciti potenti, sul mio cammino, e squassavano le loro armi. Il terrore de’ grandi dèi, de’ miei signori, li abbatteva, essi videro il turbine della mia pugna e si spaventarono. Istar, la patrona della guerra e delle battaglie, che ama il mio sacerdozio, mi stava accanto, spezzava i loro archi, confondeva la loro allineata ordinanza. Nel loro esercito si diceva: Questi è il nostro re, e al loro comando ognuno si rivolgeva a me. Essi dicevano: Questi è il nostro re...». Altre volte è in sogno, per mezzo di espressi interpreti di sogni che il re riceve le istruzioni delle divinità[190]; ma, da per tutto, attraverso tutte le epigrafi assyro-babilonesi, il combattente si muove sotto la suggestione continua del comando divino, sentendo o sapendo accanto la divinità, credendosi il suo braccio allungato[191]. E a questa concezione della guerra si riconnettono naturalmente come tanti episodî connessi e interessanti gli accenni a divinità catturate, spezzate, mutilate, trafugate e poi riprese e condotte trionfalmente alla loro sede; a voti fatti, a parte del bottino consacrata, a templi eretti, a sacrifizî per la vittoria, a cerimonie espiatorie compiute[192]. Anche da questo punto di vista i poemi omerici riflettono, con notevole corrispondenza, un aspetto della guerra orientale. Tutta la guerra combattuta intorno a Troia non è che un riflesso di una lotta che ha luogo nell’Olimpo, donde scendono continuamente dèi e dèe per venire a combattere accanto a’ loro eroi preferiti, incitando, moderando, difendendo, duplicando la lotta. Dèi e dèe, da una cui contesa ha avuto origine la guerra e che ne sono gl’ispiratori e la causa diretta e indiretta, dèi e dèe combattono tra di loro e con gli uomini, e assaltano, sono assaliti, fuggono, ritornano all’assalto, sono feriti, tramano inganni, suggeriscono astuzie, amano, odiano, si sdegnano, si placano, piegano per doni, fanno tutto quello che potrebbe fare un uomo di morale molto ordinaria e talvolta anche un po’ scadente. Le sorti degli uomini e delle città sono regolarmente pesate dall’onnipossente e onniveggente Zeus, il quale, ligio in questo a’ voleri del Fato, ne ritarda l’adempimento o ne tempera le conseguenze, rintuzzando orgogli, creando intrighi e avvolgimenti, tutto attraverso una imperturbata serenità, la quale fa strano contrasto con i pianti, i lutti, le stragi, gl’incendî della sfera terrena, che al padre dell’Olimpo, spesso, più che preoccupazione, sembrano trastullo. La storia tradizionale, così greca come romana, serba ancora, là dove va a confondersi nella leggenda, la memoria di questi interventi diretti, che sono però piuttosto di eroi, di personaggi semi-divini, di cui la fantasia popolare o il calcolo politico innesta l’azione talvolta sugli stessi eventi storici. Così a Maratona si credette vedere l’ombra di Teseo[193], a Salamina quella di Aiace[194]; ed Erodoto fa attribuire da Temistocle l’esito della guerra a «dèi ed eroi», di cui egli spiega l’intervento con una ragione morale-religiosa[195]. La persistenza di questo concetto, in forma più o meno superstiziosa, è rivelata anche da trovamenti archeologici[196], dato che ve ne sia bisogno. Gli auspìcî, i voti, le cerimonie religiose che si facevano precedere all’inizio della guerra, sono una conseguenza dello stesso principio ed una espressione dello stesso sentimento, benchè sotto forma più elevata, perchè non presuppongono necessariamente l’intervento tangibile della divinità, ma un’azione suprema di governo del mondo e della vita. La divinità spiega allora la sua partecipazione sopratutto con avvertimenti contenuti negli auspìcî o in veri e proprî prodigî, o semplici fatti naturali interpretati come tali e capaci, come più volte riferisce la storia tradizionale, di far rinunziare a un’impresa, di fare interrompere una battaglia, di far concludere una pace. La stessa incipiente incredulità de’ singoli non potè per lungo tempo nulla contro la forza dell’abitudine, la cupa impressione di certi spettacoli naturali in momenti solenni di tragica preoccupazione e contro l’inclinazione superstiziosa delle masse. Questa immistione della divinità nella guerra non faceva — come appare specialmente dalle epigrafi assyro-babilonesi — che rendere più ostinata, più spietata, più inesauribile la guerra: il pensiero che la mano colpiva in servizio della divinità, o sotto la sua protezione, affrancava il braccio e santificava la crudeltà, l’incendio, la rapina, la strage. Ma, quando, in condizione di vita più progredita e quindi con lo svolgersi di una coscienza più matura, nella divinità cominciò a riflettersi, come in una ipòstasi, un più elevato concetto de’ rapporti sociali e della vita, alla divinità si pensò come ad una protettrice e coadiutrice, almeno morale, a patto che la guerra apparisse giusta agli occhi suoi e fosse dichiarata e iniziata nelle debite forme. Questa sottintesa sanzione religiosa della guerra che avrebbe dovuto assicurare la vittoria alla parte ingiustamente offesa e danneggiata e che si presenta ancora involuta in qualche accenno omerico e troppo commista di presupposti religiosi nelle epigrafi assyro-babilonesi, dovrebbe avere avuta la sua espressione pratica e concreta nel _iustum bellum_ de’ Romani; e, così intesa — dove lo spirito di proselitismo non trovava nella religione stessa un altro argomento o pretesto di guerra — avrebbe potuto servire di freno alle guerre o a’ loro eccessi. Ma, purtroppo, tutti i materiali impulsi alla guerra erano facilmente solleticati a cercare tutte le scappatoie della casistica per trovare uno sfogo; e, quindi, anche indipendentemente dall’affievolirsi del sentimento religioso, il _iustum bellum_ si ridusse troppe volte alla osservanza di un modo convenzionale di dichiararlo, anzi che al pensiero del suo contenuto intrinseco. Nondimeno anche la preoccupazione di quell’ipocrisia risaputa, che era in fondo la coscienza di quel che vale la forza morale nell’iniziare una guerra, non era sempre priva di ogni effetto. «E anche l’equità della guerra — dice Cicerone[197] — è santissimamente prescritta dal diritto feziale del popolo romano. Onde si può vedere come nessuna guerra è giusta, se non si faccia dopo aver domandato soddisfazione, o che non sia prima indetta e denunziata». «Che se — fa dire Livio da C. Ponzio a’ Sanniti[198] — che se nulla di diritto umano rimane a chi è misero verso il più potente, io cercherò rifugio presso gli dèi vindici di ogni intollerabile prepotenza e li pregherò perchè rivolgano le loro ire contro quelli a cui non basta nemmeno aver ricevuto il proprio, non l’avere accumulato l’altrui. La cui crudeltà non si placa con la morte de’ colpevoli, non con la consegna de’ cadaveri, non con la consegna de’ beni che segue la resa, a discrezione del padrone; con nulla se non diamo a dirittura a bere loro il nostro sangue e a straziare i nostri visceri. È guerra giusta, o Sanniti, quella che è necessaria e pia per chi la combatte, a cui nessuna speranza rimane se non nelle armi. Onde, essendo di grandissimo momento, per le cose umane, il compiere una cosa col favore o con l’avversione degli dèi, tenete per certo che, se abbiamo combattuto le guerre precedenti contro gli dèi piuttosto che contro gli uomini, combatteremo ora la guerra imminente, avendo gli stessi dèi a condottieri». Questo concetto che, come si vede, Livio presta anche a un altro popolo italico, pure in onta a’ Romani, sembrava, d’altra parte, così penetrato in questi che essi ne menavano vanto e se ne pavoneggiavano perfino, si potrebbe dire: «Sappiano tutte le nazioni — fa dire Livio a Scipione[199] — che il popolo romano intraprende e finisce giustamente le guerre». _Justum ac pium bellum_, torna con frequenza, specie presso Livio. Cicerone attribuisce ripetutamente a questo ossequio verso gli dèi la meravigliosa fortuna de’ Romani[200]. Se, intanto, molte volte questo nuovo concetto astratto della guerra si disperdeva e si contraddiceva nell’azione, altre volte le stesse condizioni che l’avevano fatta sorgere gli facevano esercitare una forza moderatrice. Se la guerra tra popoli dello stesso ceppo e vicini, per ciò stesso, per la diuturna ragione di contrasto, degeneravano, talvolta, come è stato osservato, in atti di crudeltà, spesso anche potevano ingenerare sentimenti e condotta simili a quella che a Callicratida faceva apparire repugnante a un greco ridurre in ischiavitù un altro greco. La moderazione e la magnanimità erano talvolta incoraggiate anche da un sentimento utilitario, visto che, come bene osservava Polybio[201], si era visto ottenere con la convenienza e la bontà delle maniere (διὰ τῆς ἐπιεικείας καὶ φιλανθρωπίας τῶν τρόπων) quello che non si otteneva con le armi. Il bello episodio della storia tradizionale romana per cui Camillo disdegna vincere Falerio per tradimento e Falerio perciò stesso si arrende, se non è improntato alla _realtà_, è improntato alla _verità_ storica, e, se non un fatto storicamente avvenuto, rispecchia uno stato di animo. «Vi sono norme della guerra come della pace — fa dire lo storico a Camillo[202] — e noi imparammo a praticarle con giustizia non meno che con fortezza». «La fede romana — narra indi Livio — la giustizia del capitano sono levate a cielo nella curia e nel foro; e per consenso di tutti vanno ambasciadori a Camillo negli accampamenti e indi, col permesso di Camillo, a Roma, al senato, per fare la dedizione di Falerio». E «con l’avvenimento di questa guerra, due esempî salutari — fa dire egli a’ legati — sono stati tramandati al genere umano: voi alla vittoria presente preferiste mantenere intatta, pure in guerra, la fede, noi, tratti a gareggiare con voi nella fede, spontaneamente vi accordammo la vittoria». La guerra è così intimamente materiata e contesta di azioni disumane e distruttrici, che, per quanto si faccia, di poco si riesce a mitigarne gli orrori: pure, per questa via ne’ desiderati almeno, negl’intenti, a qualche cosa si mirava e a qualche cosa anche si riusciva. È notevolissimo, per esempio, per mostrare quanto, moralmente almeno, si fosse progredito in questo senso, il passo seguente scritto da Polybio[203] per censurare la condotta di Filippo verso gli Etoli, comunque questi potessero essere immeritevoli e fedifraghi: «A levar via le cose attinenti alla guerra e a distruggere fortezze, porti, città, uomini, navi, frutti, e tutte le cose congeneri, mercè cui si possono rendere più deboli gli avversarî, più poderosi le cose nostre e i nostri assalti; a far questo ci astringono le leggi della guerra e quanto da essa è voluto. Ma, quanto a ciò che non promette aiuto alle cose proprie per l’avvenire, nè di presente ne procaccia, nè affievolisce i nemici nella guerra che si combatte, ma, per semplice eccesso, manomette i templi e insieme ad essi le statue e ornamenti di simil genere; come si può non dire che ciò sia atto di costume e spirito rabbioso? Perchè gli uomini dabbene non debbono combattere con gli ignavi per distruggerli e cancellarne sino la traccia, ma per l’emenda e la riparazione del malfatto; nè debbono uccidere quelli che non hanno fatto male insieme a quelli che commisero colpe, bensì piuttosto salvarli tutti e trascegliere quelli che sembrano colpevoli dagl’innocenti». Si può ben dire che in una simile affermazione teorica, oggi, non si sia andati più oltre. Insieme a questa trasformazione dello spirito e della intensità distruttrice, la guerra andava poi soggetta a un’altra continua trasformazione nelle stesse forme tecniche, con cui si combatteva[204]. La guerra, quale appare da’ documenti egizi e più specialmente assyro-babilonesi, è come uno sciamare lungo, continuo, confuso di uno su di un altro popolo, da uno ad un altro paese. La similitudine delle cavallette, frequentemente ricorrente nelle epigrafi assyro-babilonesi, è un’immagine semplice ed ingenua, ma di grande veracità e di meravigliosa evidenza. La battaglia — anche nell’_Iliade_ — non coordinata ad un vero piano, trova la sua unità piuttosto nello scopo generale a cui mirano i combattenti, anzi che in una concorde azione spiegata, e si dirama, così, naturalmente, in una serie di episodî, in cui campeggiano, emergono ed operano pochi eroi, mentre la folla anonima, continuamente fluttuante e sparente, serve quasi di fondo al quadro per completare le proporzioni epiche de’ guerrieri sovraneggianti. Secondo il poema altrove citato, alla battaglia di Qodshou, Ramsete, egli solo, non sorretto da altro che dall’aiuto divino, si trae dall’imboscata in cui era caduto e batte i nemici. I re assyri sono anch’essi come il motore dell’azione, il centro in cui si appunta e donde si dirama ogni energia; e la vittoria è l’opera del loro braccio, anche più che della loro direzione. Gli eroi omerici, terribili e corruschi nella sfavillante armatura, sul loro carro di guerra, elemento integrante della guerra orientale, percorrono da un capo all’altro il campo di battaglia, facendo inclinare le sorti della pugna con la loro azione e qualche volta con la sola loro presenza. Per quanto vi sia un’ordinanza, per quanto si sappia anzi che i combattenti marciano per tribù e per patria, pure l’azione si risolve in tante monomachie e si riassume nelle monomachie degli eletti. La turba innominata, che quando vuole assumere un nome si chiama Tersite, si direbbe il zero dell’abaco, di nessun valore in sè stessa, ma fatta per darne solo all’unità, quando le si mette accanto. Nondimeno, come un accenno di altri destini dice un verso dello stesso poema che «unito, emerge anche il valore di quelli che per sè valgon poco»[205]; e l’uso de’ sassi e delle frecce, che da lungi, pareggiano la diversa virtù de’ combattenti, è anch’esso come un vaticinio obbiettivo di diversi sistemi di guerra. Quest’azione collettiva, regolata, uniforme e simultanea, di tutta una massa si realizza, più per tempo e in forma più perspicua, nell’ordinamento militare spartano e nella tattica corrispondente, che divenne subito il tipo comune, cui si conformarono gli altri Stati, specie in vista del buon successo e della incontestabile superiorità militare ottenuta dagli Spartani, da un lato, e, dall’altro, dell’evoluzione democratica progrediente de’ diversi paesi, che all’azione preponderante della cavalleria, arma aristocratica, faceva succedere quella della fanteria. Ma questo periodo segnava ancora uno stadio semplice e rudimentale nell’arte della guerra. Nessuna strategìa, nessuna cura veramente apprezzabile delle accidentalità del terreno, della conformazione de’ paesi, di tutte quelle varietà di condizioni e di espedienti che formano la prova del genio di un capitano e conferiscono interesse allo svolgimento della guerra. Le battaglie, solitamente limitate a piccole forze quali potevano mettere in campo i piccoli Stati greci, non miravano all’annientamento del nemico; e, combattute in aperta pianura, avevano per lo più l’aspetto e l’importanza di una giostra, sia pure sanguinosa. L’armamento fatto di lancia e di scudo, che lasciava quindi esposto il lato destro del combattente, faceva dell’ala destra dell’ordinanza il punto più vulnerabile della mischia; è all’ala destra quindi che si soleva mettere il migliore elemento combattente. E, poichè l’attacco era generale e frontale, e la necessità di proteggere il lato destro della persona e impedire l’aggiramento obbligava a marciare con una lieve inclinazione a destra, che poneva così lo scudo tra le due linee combattenti, la mischia finiva per aver luogo in maniera indipendente a destra ed a sinistra; e l’ala destra di un esercito che rompeva prima la fronteggiante ala sinistra del rispettivo avversario, decideva definitivamente della battaglia, rinnovando l’attacco sulla sinistra con l’altra ala già impegnata dell’avversario. L’allargarsi del teatro della guerra, specie durante la lunga, accidentata e multiforme guerra del Peloponneso, ove il conflitto riarse ne’ paesi più diversi di configurazione fisica e di condizioni civili, in contrasto con nemici diversamente combattenti, doveva suggerire, se non proprio imporre, notevoli mutamenti di tattica e di armamento. L’esempio de’ peltasti di Tracia, de’ montanari di Etolia offrivano esempî che non potevano andare, come non andarono, perduti per Brasida e per Demostene e portarono a un impiego maggiore de’ soldati di armatura leggiera, come subito e temporaneo ripiego che a Sparta non trovò nè imitazione, nè prosecuzione, ma che ad Atene, sopratutto per opera d’Ificrate, ebbe poi largo sviluppo e più stabile ordinamento, sino al punto di fare la sua trionfatrice esperienza sul campo di battaglia ed assicurare così nell’opinione generale la prevalenza de’ soldati di men grave armatura sulla fanteria pesante. La cavalleria, la cui importanza era tanto decaduta col decadere de’ regimi aristocratici, de’ quali sembrava schietta espressione, ricominciò ad acquistare importanza come corpo tecnico con la buona esperienza della cavalleria siciliana e con la maggiore importanza politica ottenuta dalla Tessaglia, dalla Beozia, da paesi dove le stesse condizioni fisiche le avevano consentito uno sviluppo non permesso dalle condizioni della Grecia peninsulare. L’uso sempre più consigliato e diffuso delle armi da getto sviluppò anche quest’altra categoria di combattenti; sicchè la battaglia acquistava aspetto sempre più vario e complesso. Ma chi innovò radicalmente i criterî direttivi della battaglia, fu, nella breve e fortunata sua carriera, Epaminonda, che può considerarsi come il geniale inventore e pioniere di metodi applicati poi da Filippo e specialmente, con importanza storico-mondiale, da Alessandro. All’attacco frontale e simultaneo di tutta l’ordinanza, Epaminonda sostituì un metodo per cui, contrariamente all’uso precedente, l’ala sinistra, ove egli concentrava il nerbo delle sue forze, aveva l’offensiva, mentre l’ala destra, messa puramente sulla difensiva, faceva semplicemente della resistenza e teneva a bada l’ala destra nemica, intanto che la sua ala sinistra, facilmente vittoriosa per la forza preponderante, dopo avere sgominata l’ala destra dell’avversario, ne scompigliava l’ala sinistra, attaccandola di fianco. Alessandro, pur commettendo ancora l’offensiva all’ala destra, che per la specialità dell’arma non obbligava a considerare l’inconveniente del fianco scoperto, adottò il metodo di Epaminonda, fecondandolo e sviluppandolo con la varietà delle armi e de’ contingenti, col rendere mobile l’esercito snodandolo in reparti atti all’azione agile e varia, con la rapidità delle mosse, col colpo d’occhio sicuro, calcolatore di tutti i vantaggi offerti dagli eventi, con la strategìa geniale che intuisce le difficoltà per superarle, che escogita i piani, li rinnova, li muta secondo il bisogno, e, adocchiato il nemico non lo perde più di vista, sinchè non l’abbia stritolato, come aquila, con avvolgimenti, or lenti or fulminei, sempre inevitabili e fascinatori, diretta alla preda. Presso i Romani, la legione ci si presenta di varie composizioni con il suo contingente suddiviso in _principes, hastati, triarii, velites_. Sotto Camillo secondo alcuni, nelle guerre sannitiche secondo altri, si divide in trenta manipoli, appresso suddivisi ancora per comodità amministrativa in due centurie, e ricomposti, per ragione tattica, in coorti di tre manipoli ognuna. Questa suddivisione in manipoli segnava una nuova tattica, che da’ manipoli appunto prendeva il nome; e, sostituendosi al più antico modo di combattere per falange serrata, apriva nuove vie e forniva nuovi strumenti all’arte della guerra. Spezzata in manipoli, l’ordinanza dava tutta l’agevolezza di restringere o dividere la linea di battaglia, permettendo alla prima linea di ritirarsi, tra gl’interstizî, dietro la seconda, e alla terza di venire alla sua volta in prima linea; e sopratutto dava modo di riformare nel più vario modo il piano di attacco o di difesa, deludendo i calcoli del nemico e le mosse fatte in vista di una preveduta azione tattica. Così i Romani, come avevano fatto per le altre forme della vita civile, parimenti per la guerra avevano consultata l’esperienza loro e degli altri, erano proceduti per adattamenti e imitazioni di amici e di avversarî verso metodi di guerra e di battaglia più complicati, usando rispettivamente l’attacco frontale, l’obliquo come quello di Epaminonda, combattendo con l’_acies triplex, quincunx, sinuata_, in sette tipi, quanti ne sono attribuiti. Un’evoluzione analoga a quella della guerra terrestre aveva avuto la guerra marittima. La trireme, divenuta la forma tipica delle navi da guerra e base delle flotte, pur non rimane la forma ultima della costruzione navale; e, benchè in via straordinaria, si ebbero navi di struttura più complicata. Sopratutto, poi, la prima rudimentale guerra navale, che differiva dalla terrestre più per il campo su cui avveniva anzichè per le forme, si venne mutando in una forma specifica di guerra, alla quale l’esperienza della navigazione e del mare dava un carattere suo proprio. Mentre i popoli meno esperti o all’inizio della guerra navale ricorrevano a speciali congegni per avvincere le opposte navi combattenti, per convertire il combattimento in una lotta pugnata su di un mobile suolo, su di un ponte, o cercavano di tenersi in prossimità della sponda, mischiando la forza di terra nel conflitto; i marinai più esperti cercavano il mare largo, davano maggiore agilità alla nave, accrescevano il personale di servizio della nave a spese del personale combattente, e cercavano nelle fughe simulate e ne’ rapidi ritorni, nelle celeri evoluzioni, nelle violente abbordate, ne’ colpi di sperone, nelle veloci traversate, negli sbarchi inattesi, i mezzi della vittoria. Aveva del pari tutta un’evoluzione l’arte delle fortificazioni e quella opposta degli assedî per tutta una serie che andava dall’inerte e sterile campeggiare degli spartani innanzi alle mura di Atene sino alla difesa di Siracusa contro i Romani e alla sua presa. Variava l’armatura di difesa e di offesa col sostituirsi e l’alternarsi della lancia, della spada, del giavellotto e l’ampliarsi e il restringersi dello scudo e il sostituirsi del giaco alla lorica, del copricapo di cuoio all’elmo di bronzo, dell’armatura leggiera alla pesante o della combinazione di entrambe. Il rudimentale genio militare, che prima era consistito soltanto in un certo numero di fabbri e legnaiuoli, aveva anch’esso il suo sviluppo: progrediva l’arte di costruire il campo; l’approvvigionamento veniva reso meno disordinato con un sistema di contribuzioni e requisizioni e l’uso di magazzini nello stesso paese nemico. Questi ed altri progressi dipendevano specialmente dalla nuova base, che l’esercito si faceva con un diverso sistema di reclutamento. Nel tempo più antico il cittadino è sopratutto guerriero, se non proprio esclusivamente guerriero come gli Spartani, e quanto più è in una posizione economica più favorita dalla fortuna, ha non solo, come occupazione preferita, ma come monopolio il servizio militare. Con l’evoluzione democratica dello Stato, con l’ampliarsi del medio ceto, con l’allargarsi de’ conflitti che richiedono forze combattenti più numerose, anche l’esercito allarga la sua base; e, allora, da un lato si rende necessaria l’introduzione del soldo, dall’altro, viene necessariamente a modificarsi l’armatura, anche per l’obbligo che spesso ricade allo Stato di fornirla. Le guerre lunghe o lontane, la complessità maggiore de’ rapporti economici, l’arte della guerra più progredita, l’aumento di un proletariato in cerca di uno sfogo; tutte queste cose unite insieme, mentre sviano il ceto de’ gaudenti e il medio ceto dall’impresa di guerra, mentre spingono parte del proletariato verso l’esercito, come verso una risorsa e un impiego, obbligano d’altra parte l’esercito, o ad aprire indistintamente — come sotto C. Mario — i ranghi a’ cittadini senza distinzione di censo, o a far ricorso a’ mercenarî; e si finisce così di nuovo col soldato professionale, quale si può considerare il milite dell’epoca imperiale romana, militante sedici, venti, venticinque, ventotto anni, secondo la diversità de’ tempi e delle armi. Ma è un soldato professionale, che segna un altro estremo dell’evoluzione, al cui punto opposto sta il guerriero dell’epoca eroica e del periodo più antico della storia. VIII. Gli effetti della pace e della guerra. Quando la tempesta si rovescia furiosa su di una campagna, non si vedono, dopo il suo passaggio devastatore, le piante prostrate rilevare a poco a poco la testa, e dagli stessi rami infranti, da’ campi inondati, dall’alluvione straripante svilupparsi come una nuova forza e la promessa di un nuovo rigoglio? E da questo lungo, immane, continuo conflitto, da questo disgustoso dilagare di stragi, da queste violenze e da questi orrori nulla sorgeva mai, che fosse come una affermazione rivendicatrice della vita, una nuova forza, un’emenda o una attenuazione dello spirito di distruzione? Non si tratta di giustificare la guerra. Il passato è quello che è, con le sue angosce, con i suoi danni e anche con le sue attrattive. Si può volere scongiurare la guerra per l’avvenire e sperare di riuscirvi, ma a ciò stesso si richiede precipuamente la cognizione delle sue cause, della sua azione, de’ suoi effetti. Pel passato, dato che da esso, per le condizioni sue, per le ragioni accennate, pullulava come un fatto continuo e inevitabile la guerra, ciò che principalmente occorre — nell’interesse di quello stesso processo conoscitivo che è base e premessa dell’azione pratica — ciò che occorre è constatarne diligentemente i fenomeni concomitanti e consecutivi. Se la possibilità universale di una produzione agevole, soddisfacente e sicura avesse potuto sin d’allora, con la prospettiva di un minore sforzo e di un maggiore vantaggio, bandire od eliminare la guerra, certamente per una via più o meno lunga, con maggiore o minore sforzo, ma con graduale persistenza, gli uomini si sarebbero, con la successiva accumulazione della ricchezza prodotta, elevati a forme più alte di vita e a condizioni di elevata civiltà. Ma, nella mancanza di quella premessa, che faceva riardere la guerra incessantemente, ora sotto forma d’ingiusta aggressione, ora sotto forma di difesa necessaria, certe guerre, che — in qualunque maniera e con qualsiasi intento cominciate — approdarono alla costituzione di vasti dominii, ebbero l’effetto, anche negli stadî più rudimentali, di costituire, sia pure temporaneamente, nell’aggregato meccanicamente realizzato sotto un solo scettro, un periodo di pace relativa e di una coesistenza quale solo appariva possibile nel mondo antico. Quello stesso grande sacrifizio di vite umane ebbe, rispetto alle fasi della popolazione, un effetto ben diverso da quello che avrebbe oggidì; e, mentre ora, con la più facile e abbondante produzione di alimenti, una violenta decimazione della popolazione è una crudeltà inespiabile che non si risolve in nessuna indiretta utilità od attenuante, nel mondo antico anche questa specie di ostacolo a un troppo rapido incremento di popolazione poteva, considerandone tutti gli effetti, presentare un lato meno doloroso. La specie del conflitto quasi generale di popolo con popolo, l’eliminazione spietata di tutti gli elementi inutili e più deboli dopo la vittoria, può anche — a differenza di quel che accadrebbe oggigiorno — aver fatto compiere dalla guerra una certa selezione de’ più forti. Queste guerre poi, che in una maniera più o meno aperta — spogliazione violenta o imposizione di tributo — si risolvevano in una grande rapina, avevano l’effetto di accumulare rapidamente in alcuni centri una quantità ingente di ricchezza, creando così un campo di sviluppo adatto a tante energie materiali e spirituali, a tante manifestazioni dell’arte e del sapere. La schiavitù, d’altra parte, la cui storia gronda tante lagrime e tanto sangue e che era uno de’ primi e più diretti effetti, una delle lusinghe della guerra, col suo lavoro concentrato in certi punti, compì davvero per molto tempo nell’antichità la funzione che oggidì compie la macchina; e molte delle più maravigliose opere dell’architettura, della ingegneria e dell’arte antica appariscono come l’effetto ultimo di guerre che avevano messo in mano di un conquistatore, come in un punto di applicazione di una leva, ricchezza accumulata e forza di lavoro disponibile. Certo chiunque sente umanamente, risente anche tutto il tragico fato della storia; e la maestà delle Piramidi e del Colosseo, la bellezza del Partenone e della statuaria antica si appannano come di un’ombra al pensiero de’ dolori che costarono. Dolore, ammirazione, rimorso, conforto: un turbine di sentimenti potenti e contrarî sorge innanzi ad ognuna di quelle opere, le quali, se talvolta non sono che il mostruoso specchio dell’orgoglio di un re, altre volte hanno in sè un riflesso d’eterna, serena bellezza, o, come le opere di canalizzazione e di viabilità, rappresentano un grande passo innanzi sulla via dell’evoluzione economica e della civiltà. Anche qui, per rilevare certi fenomeni e certi effetti della guerra, possono meglio servire de’ documenti, che, quanto più sono antichi, tanto più hanno valore, perchè mostrano alcuni nessi nella maniera più semplice ed immediata, non dissimulati nè celati da fenomeni intermediarî e più complessi. Le iscrizioni assyro-babilonesi[206] ci fanno assistere nella forma più costante e quasi iperbolica a questa sistematica razzìa, susseguita poi dall’altra meno violenta ma non meno esauriente de’ tributi, che faceva migrare la ricchezza de’ paesi vinti verso il paese vincitore. Questi stessi documenti ci fanno vedere come le esigenze della guerra già incitassero e obbligassero a superare luoghi impervii, a guadar fiumi, a tracciare strade[207], a fare tanti altri lavori, che rappresentavano una difficoltà tecnica superata e convertibile poi ad usi più proficui che non fossero quelli della guerra. Costantemente, i re guerrieri sono anche costruttori; e non certamente perchè avessero maggiore attività e maggiore spirito d’iniziativa, ma perchè nella guerra avevano raccolto mezzi e braccia adatte alle opere, a cui, nell’eccitamento della gloria, davano mano. Ahmos, il liberatore dell’Egitto, ricomincia subito le serie delle costruzioni, servendosi dell’opera forzata degli Asiatici, prima dominatori, ora servi[208]. Thoutmos I, al ritorno dalla sua spedizione d’Asia, impiegò come muratori i numerosi prigionieri condotti al suo sèguito e cominciò grandi lavori, che i suoi successori continuarono senza interruzione. Tutta la valle del Nilo, dalla quarta cataratta al mare, si covrì di monumenti[209]. Ad altrettale uso servì il bottino raunato in Siria da Sethi I[210]. Queste costruzioni avevano luogo ordinariamente nell’intervallo tra una e l’altra guerra, specialmente in qualche periodo di pace protratto, ma erano sempre una dipendenza delle risorse della guerra. Ne’ casi in cui l’opera de’ prigionieri veniva meno, queste opere pubbliche non si potevano continuare senza grandi oppressioni e turbamenti. Ramsete II, il principe costruttore per eccellenza, privato dalla lunga pace con i Khiti delle risorse della guerra, dovette servirsi per la costruzione, di Egiziani e di stranieri già internati nell’Egitto, sollevando grandi lamenti[211]. Shabakou, che pure aveva guerreggiato, per procurarsi le braccia necessarie, sostituì alla pena di morte quella de’ lavori forzati[212]. Salomone, che non era re guerriero, dovette menare innanzi le costruzioni di Gerusalemme aggravando i sudditi d’imposte e di contributi di opere[213]. È noto il lamento de’ Romani contro l’ultimo Tarquinio di essere «_opifices ac lapicidas pro bellatoribus factos_»[214]. Parimenti per i re assyro-babilonesi questo lusso di costruzioni è un complemento delle loro glorie militari, un’appendice della guerra, in quanto questa erezione di templi, di palagi, di monumenti è una ricompensa ed una glorificazione della divinità e di chi ha vinto col suo aiuto e nel suo nome. «Poiché — dice Tiglath-Pileser I[215] — ebbi vinti tutti i nemici di Ašur, costruii il tempio ad Ištar di Ašur, mia signora, il tempio di Martu, il tempio del vecchio Bel, la casa delle divinità, tempio degli dèi della mia città Aššur, che erano in rovina e li completai. Feci l’ingresso a’ loro templi, vi condussi dentro i grandi dèi miei signori e rallegrai il loro cuore divino. Ricostruii e completai palazzi, sedi reali nelle grandi città, a’ confini del mio territorio, che dal tempo della reggenza de’ miei padri, per lungo periodo di tempo, erano abbandonati, decaduti e ruinanti». «L’antica Kalḫu — dice Asur-nâṣir-abal[216] — che Salmanassar, il re di Aššur, un principe regnante prima di me, aveva costruito — quella città era decaduta, ruinata, ridotta a calcinacci e terra arabile — quella città io la resi di nuovo abitata, mettendovi a dimorare i miei prigionieri de’ paesi che io avevo vinti e presi. Scavai un canale dal Zab superiore e lo chiamai Patiḫigal[217], vi feci intorno giardini, offersi in sacrifizio frutta e vini ad Ašur, mio signore e a’ templi del mio paese. Spianai l’antica collina, scavai sino alla profondità dell’acqua, andai sino a 120 tikpi al disotto del suolo, costruii le sue mura; la costruii e la completai dalle fondamenta al tetto». Di un’altra costruzione anche più immediatamente connessa con le guerre ci parla Asarhaddon: «Per l’arsenale, che i re regnanti prima di me, miei padri, avevano costruito per tenervi l’esercito e custodirvi cavalli, muli, carri, proiettili, arredi di guerra, bottino de’ nemici e ogni altra cosa qualsiasi che Ašur, il re degli dèi, mi facesse pervenire come reale retaggio — per l’arsenale io feci portare dagli abitatori de’ paesi, bottino del mio arco, materiali ed opera, ed essi dovettero preparare mattoni. Io demolii completamente quel piccolo edifizio, tagliai dal campo un gran pezzo di terra come suolo edificatorio e ve l’aggregai»[218]. E di simili lavori riflettenti costruzioni, piantagioni, opere di canalizzazione, si potrebbe, volendo, citarne molti e molti altri[219]. Il vantaggio, anzi il carattere indispensabile che aveva per certe opere di molta estensione l’unità del dominio, è rilevato da un egittologo[220] per l’Egitto riunito sotto Shabakou (Sabacone); e si può naturalmente rilevarlo anche meglio pel dominio romano solcato di vie, che l’attraversavano in tutti i sensi, rigato di acquedotti monumentali, che fornivano copia d’acque alle sue città, fornito di terme grandiose, abbellito d’immensi anfiteatri e di fôri maestosi; tutte opere queste, in parte agevolate, in parte addirittura imposte, più che rese possibili, da un vasto dominio, che dava origine a centri popolosi, che richiedeva, per la sua stessa esistenza, una comunicazione agevole e possibilmente rapida delle varie sue parti e che per questa via ne agevolava i contatti, l’assimilazione se non la fusione. Se commercio e guerra, sotto un certo rapporto, si potrebbero considerare quali termini opposti, è pure indubitato, come già è stato osservato[221], che vengono a trovarsi in frequenti relazioni tra loro, non solo in quanto dalle contese commerciali frequentemente si è sviluppata la guerra, ma in quanto la guerra stessa ha finito per dischiudere l’adito al commercio. «Non è forse vero — diceva uno di questi scrittori a cui si è alluso[222] — che spesso la guerra ha lasciato cadere qualche benefizio dalla sua veste sanguinosa? Per essa si son visti parecchie volte estendersi il commercio, propagarsi l’industria, perfezionarsi l’agricoltura, e costumi meno inumani imporsi a’ popoli barbari». A prescindere dalle forme con cui si presenta in tempi più antichi il commercio, partecipe dello scambio e della pirateria, è pure evidente come un dominio ampio, che rovesciava tante barriere, assorbendo tanti dominî minori, creava al commercio, sulla terra e sul mare, oltre ad un campo d’azione più largo, anche un ambiente di relativa sicurezza atta a farlo prosperare. E poichè la conoscenza di cose nuove acquistata in quel vario rimescolìo, i danari delle conquiste, l’elevato tenore di vita accrescevano i bisogni e davano temporaneamente almeno il mezzo di appagarli, il commercio non poteva che giovarsi di questo movimento, per quanto potesse in parte essere fittizio. Da quell’incontro di popoli di costumi così diversi, da quel percorrere di paesi così lontani nasceva pure inevitabilmente tutto un lavoro di assimilazione materiale e morale, pel quale si cercava anche di acclimatare produzioni di altri paesi, mentre un rudimentale protezionismo, corrispondente all’opposto divieto di esportazione, faceva incoraggiare in patria quanto poteva essere necessario od utile alla guerra. «Cedri..... alberi di paesi da me conquistati — dice Tiglath-Pileser I[223] — piante che sotto i re miei predecessori nessuno aveva piantato, li presi con me e li piantai ne’ parchi del mio paese. Presi anche piante di giardino di gran pregio, che non v’erano nel mio paese, e le piantai ne’ parchi d’Assiria. Carri di battaglia, attrezzi di tiro per la forza combattente del mio paese, ne feci costrurre più che per l’innanzi». Pindaro cantava che gli olivi d’Olimpia sarebbero stati portati da Ercole al ritorno da spedizioni lontane. Lucullo avrebbe portato il ciliegio dall’Asia in Italia. E così via. Anche l’arte traeva qualche motivo di sviluppo da queste vicende di guerra. Anzitutto, le armi. Uno studio indefesso, un lavoro paziente e geniale si metteva nell’abbellire l’armatura, che servisse all’offesa o alla difesa, costituisce l’orgoglio del guerriero; e quel lusso di armi de’ poemi omerici, che prima pareva tutta una prodigiosa fantasmagoria, col progredire de’ trovamenti archeologici si è trovato assai meno lontano dalla realtà. In quella sovreccitazione dello spirito e de’ sensi, data dall’infuriare del conflitto, rampollava naturalmente il canto di guerra di volta in volta ebbro, severo, appassionato di Tirteo, di Alceo, di Callino, e l’immagine degli avvenimenti, rispecchiata nella fantasia, abbellita dalla lontananza, ricomposta nelle sue grandi linee, diveniva epopea nel poema finora e forse per sempre insuperato ne’ secoli. L’orgoglio del vincitore cercava una sede adeguata e costruiva palagi, dove dal lusso si doveva sviluppare l’eleganza, e l’arte dalla ricchezza. «Io mi costruii — dice Tiglath-Pileser III[224] — un palazzo di legno di cedro... Al Nord feci le sue porte di avorio... Lo copersi, lo rafforzai con travi di legno di cedro, ampie, che sentono bene, come a’ fumatori le fragranze del legno di Ḫašurri, il prodotto dell’Amanus, del Libano e Ammanana. Per ornamento adoperai l’arte degli artefici e collocai la porta. I battenti di legno di cedro, doppî, il cui ingresso largisce le grazie, il cui profumo allieta il cuore, li cinsi con una cornice raggiante e splendente e li fermai alle porte. I leoni colossali, i tori colossali, formati con tanta arte, con tanto lavoro, li posi alle entrate, li feci ergere per l’altrui ammirazione. Sotto di essi dal lato di mezzogiorno posi soglie di... feci un ingresso maestoso. Eressi anche una statua... de’ grandi dèi; la creatura del fondo de’ mari, la posi là con la faccia rivolta (?), feci sì che spandesse intorno a sè il terrore. A completarla la circondai d’oro, d’argento e di rame e feci risplendere la sua figura». Mentre lo sviluppo stesso dell’architettura, sacra e profana, tirava dietro di sè lo sviluppo della statuaria, questa riceveva un altro eccitamento indipendente dal desiderio, dal bisogno di eternare quei re vittoriosi, quei guerrieri famosi. Quasi di prammatica nelle iscrizioni assyro-babilonesi appare dopo qualche grande vittoria questa statua di re eretta ad eterna sua gloria[225]. A questo stesso desiderio si riconnette il principio di una tradizione storica scritta. Nelle loro reciproche incursioni, i diversi belligeranti usavano lasciare all’ultimo termine della loro conquista un segno visibile, una memoria delle loro gesta: altre ne lasciavano ne’ templi, altre simili iscrizioni apponevano alle stesse loro statue. «Nella mia tavola commemorativa e nel mio documento di fondazione — dice Tiglath-Pileser I — scrissi la gloria della mia forza eroica, le vittorie riportate nelle mie battaglie, l’assoggettamento de’ nemici, che odiavano Ašur, che Ašur e Rammân mi avevano donati; e li posi per l’eternità nel tempio di Ašur e Rammân, i grandi dèi, miei signori. Nettai anche con olio il documento di Samši-Rammân, mio antecessore, feci un sacrifizio e lo rimisi al suo posto»[226]. E Samši-Rammân[227]: «Feci ergere una statua della mia maestà reale di conveniente grandezza, vi feci scrivere la potenza di Ašur, mio signore, la magnanimità, la forza e tutte le gesta della mia mano da me compite nel paese di Nairi e la feci porre in Sibara...». È lo stesso impulso — generalizzato e spostato da un re a una cittadinanza — che dà origine agli annali de’ pontefici e de’ magistrati civili, e che poi fa sorgere la storia stessa, suggerendo ad Erodoto di eternare le guerre persiane, intorno a cui trovano posto, come intorno a un nucleo, tutti gli altri fasti storici di altri popoli; a Tucidide di narrare la guerra del Peloponneso, e così ad altri scrittori di narrare i fasti de’ popoli, prendendo le mosse dalle guerre, che, essendone la parte più visibile e impressionante, ne costituiscono per lungo tempo come la spina dorsale. Insieme a questi effetti più generali e diretti, la guerra ne produceva altri più indiretti, mediati e meno visibili per l’adattamento a cui obbligava i popoli belligeranti, per le modificazioni che, col suo contraccolpo, induceva nella loro stessa organizzazione interna. La guerra — se non realmente, potenzialmente almeno, quasi permanente — obbligava generalmente, la società antica a organizzarsi in vista e sulla base della guerra. In primo luogo, quindi, finché — ciò che accade per la più parte degli Stati in periodo molto avanzato — l’esercito non si costituisce una base professionale o mercenaria, vi è corrispondenza tra il diritto di cittadinanza attiva e il servizio militare, in modo che l’uno e l’altro, estendendosi, esercitano un’azione reciproca. Il servizio militare per le classi superiori delle popolazioni è, più che un dovere, un privilegio. L’assemblea sovrana deliberante è, si può dire, l’esercito sul piede di pace. L’evoluzione democratica che allarga i termini e i poteri della cittadinanza, abbassa anche le condizioni di entrata nell’esercito e finisce coll’aprirne l’adito a’ proletarî. Del pari il governo della finanza si orientava massimamente sulla guerra. La mancanza di servizî pubblici geriti dallo Stato riduceva, specie ne’ più antichi tempi, lo Stato a un organo di protezione o di sopraffazione collettiva. La forma rudimentale, che in più antichi tempi assumeva la guerra, la sua breve durata, l’immediata distribuzione del bottino, non esigevano, nè determinavano una vera organizzazione finanziaria; ma col soldo introdotto, con l’avocazione delle prede allo Stato, si rese necessaria una gestione. La quale, peraltro, dove non era richiesta una preparazione alla guerra, continua, dispendiosa, tecnica, si riduceva a levare un tributo straordinario secondo l’occorrenza; ma, dove, come ad Atene, l’armamento, specie navale, esigeva preparazione di lunga data, rinnovazione continua del materiale, costruzione di ripari e tutto il resto, la finanza si sviluppò più che altrove, sia per la regolare percezione ed amministrazione de’ tributi degli alleati, sia per l’ordinamento e l’andamento della trierarchia. La guerra poi aveva un’azione continua sulla politica interna dello Stato e sul contegno delle parti in lotta: tanto maggiore quanto più all’interno diveniva più complessa la vita politica. La classe dominante cercava talvolta nella guerra un diversivo a’ torbidi interni, sia spostando verso l’esterno, verso la speranza di preda e di annessioni territoriali le brame che cercavano appagamento all’interno, sia contando su quel naturale sentimento di solidarietà, che si desta anche in una popolazione discorde di fronte a un attacco esterno. E, veramente, molte volte ne seguì l’effetto voluto, perchè non solo lo spirito civico e la preoccupazione del danno presente decisero della concorde preoccupazione momentanea, ma l’esito fortunato delle guerre permise di cercare nelle colonizzazioni, nelle assegnazioni, nelle cleruchie uno sfogo quasi permanente al disagio locale. Non di rado, intanto, le discordie erano troppo forti per cessare all’istante, e cedevano a stento e a rilento e non senza patteggiare la propria cooperazione, concessa a base di corrispondenti concessioni della parte dominante. La storia tradizionale romana, quale che possa essere la sua esattezza relativamente alla cronologia e alle particolarità di quest’ordine di fatti, è tutta intessuta degli episodî di queste dissensioni, riardenti o sopite rimpetto al nemico, e dei tentativi da parte della plebe di mettere a prezzo la sua partecipazione alla guerra per fare qualche passo innanzi nel _ius connubii_, nella questione agraria, nella sua emancipazione dal gravoso giogo del _nexum_[228]. Il diversivo del resto era momentaneo: le promesse spesso non erano mantenute, o le concessioni erano revocate, e alle vecchie ragioni di dissenso, risorgenti con maggiore acrimonia, si aggiungevano altre difficoltà, maggiori bisogni, nuovi e più complicati problemi. Cominciavano le controversie per la divisione delle spoglie, sia sotto forma di distribuzione di denaro o di oggetti mobili, come di territorio. Le guerre lunghe e lontane, la milizia prolungata, i poteri prorogati ad alcuni generali per imperiose necessità di guerra, le ricchezze accumulate nel governo delle provincie e nell’appalto de’ tributi, le abitudini contratte in paesi di vita più raffinata, inducevano nuovi bisogni e crescente disparità di fortune, creavano poteri personali e consorterie oligarchiche e conturbavano tutta la vita pubblica con le prevalenze de’ pochi, con la corruzione elettorale, con lo spirito fazioso fomentato, con le concentrazioni de’ possessi, con l’interesse pubblico traviato od eclissato. Una guerra difensiva di confine, poi, combattuta, si può dire, alle porte, in condizioni di vita assai semplici, aveva un interesse presente e quasi universalmente sentito. Una guerra lunga e lontana, combattuta mentre le condizioni economiche dello Stato erano progredite e gl’interessi delle varie classi della popolazione si erano differenziati ed anche contrapposti, turbava adattamenti già conseguiti, offendeva interessi e speranze e suscitava necessariamente vivi contrasti. Se il proletario vi poteva vedere la via di diventare proprietario e il commerciante l’ampliamento del suo campo di azione e il pubblicano una nuova mèsse di tributi da esigere, il proprietario fondiario, specie medio e piccolo, vi doveva vedere volta a volta il peso del tributo, l’invasione richiamata come un turbine di lontano sulle sue terre, la propria azienda abbandonata, il suo mercato aperto alla concorrenza; tutto ciò a prescindere da’ pericoli e dalle molestie rese più sensibili a chi più aveva cominciato ad apprezzare il piacere di evitarle. Così gli antagonismi dissimulati talvolta all’interno dalle loro manifestazioni individuali, si riflettevano nella politica estera come in un mezzo più terso e ne ripigliavano vigore per divampare peggio: la guerra n’era a un tempo come lo spontaneo processo dimostrativo e il principio risolvente; e i partiti si riorganizzavano come partito della guerra e partito della pace, servendo come di centro di attrazione e di punto di applicazione a tutte le opposte tendenze. Così, se da un lato si creava un ostacolo e un inceppo a’ conflitti, dall’altro canto il logorìo del contrasto esterno era accresciuto da quello di tutti i contrasti interni, e la guerra esercitava anche per questa via la sua azione dissolvente, che operava immancabile, or segreta, or palese, e, nell’ebbrezza del trionfo, apriva agli stessi vincitori una fossa dissimulata sotto un tappeto di fiori. Mentre sperdeva nel conflitto mille energie, mentre disertava, desolava, stremava il paese e le forze de’ vinti, la guerra induceva tra i vincitori, come un sottile e celato veleno, lo spirito di parassitismo, il lusso corruttore e snervante, lo sperpero scialacquatore, la demoralizzazione irresistibile, tutti gli elementi insomma che, soppiantando lo spirito produttore, parco, assiduo, costante, disintegrano e sovvertono una società tra l’illusione della prosperità assicurata e crescente. Così, proprio quando parevano aver toccato l’ultimo trionfo, questi Stati antichi, cominciavano a presentare i tristi presagì della loro decadenza e della loro ruina. La guerra continua li esauriva; e, se una volta la volubile fortuna della guerra li abbandonava, rovinava in un giorno l’opera di secoli; pure, mentre durava, la guerra manteneva un certo eccitamento artificiale, uno spirito di coesione, sia pure fittizio, e riforniva con le prede, con gli schiavi, gli stessi vuoti ch’essa aveva prodotto. Ma, come accade dopo un lungo sforzo, la stanchezza si sentiva proprio più quando lo sforzo veniva per un momento a cessare. Allora diveniva più sensibile il lungo esaurimento. Niente era più fatale di quella sosta, che metteva fronte a fronte col problema di mutare la base della propria esistenza o perire. Così l’Egitto dopo Ramsete III[229]. Così l’Assiria sotto Salmanassar IV e i suoi immediati successori[230]. Così gli altri. Naturalmente i paesi che sapevano ritrovare o ricreare in sè le ragioni della loro vitalità, ripiegarsi su sè stessi in un lavoro fecondo di produzione, se non superavano la crisi, per lo meno vi resistevano vivendo una vita modesta, sin che un urto esterno più forte e irresistibile per la stessa forza dominante non provocava la ruina, o sin che non si ricostituivano condizioni di nuovi successi. Gli Stati, invece, prevalentemente, puramente militari, sorti dalla guerra, per la guerra, sulle condizioni della rapina permanente, incapaci di trar profitto dalle arti della pace; questi Stati decadevano irremissibilmente, andavano in ruina, si disfacevano qualche volta, senza lasciare una traccia nella storia della civiltà, come un lugubre sogno. IX. La guerra civile. La radice della guerra stava nel desiderio — e si potrebbe anche dire, in molti casi, nel bisogno — determinato da uno scarso sviluppo delle forze produttive, di vivere dell’altrui produzione, risolvendo con uno sforzo, presuntivamente minimo almeno nella durata, il problema della vita. Questo fenomeno, che, all’esterno, ne’ rapporti di Stato a Stato, si manifestava con le forme di una guerra propria e dichiarata, aveva vita anche all’interno in forma più dissimulata e circoscritta, sia che si trattasse di disputarsi il frutto esclusivo delle imprese esterne, sia che si trattasse di cercare all’interno l’adattamento insufficientemente consentito nelle relazioni esteriori. Questo parassitismo sociale muta di aspetto, di forma, d’intensità, è diretto o indiretto, più o meno esteso, si esercita direttamente sugli uomini o li colpisce indirettamente attraverso le cose; ma persiste continuo e ininterrotto sotto il sistema dell’appropriazione privata de’ mezzi di produzione. Il fine si raggiunge esigendo servigî, in cambio di protezione, come nel caso de’ clienti, percependo una parte de’ frutti della terra, come nel caso degli addetti alla gleba di varia denominazione; escludendo dal possesso delle terre e dalle funzioni politiche una parte della popolazione, come nella contesa per l’agguagliamento de’ ceti, che ha tant’eco nella storia tradizionale romana; arrogandosi il possesso diretto dell’uomo, come nel _nexum_; ma, attraverso così varie modalità, volute dal diverso sviluppo economico e dalla migliore convenienza particolare e generale, uno è il punto di partenza, una la mèta. L’estendersi della schiavitù, per effetto di una nuova fase della guerra, dando agli abbienti un più comodo ed economico mezzo di acquisto e una più assoluta disponibilità della forza di lavoro, aveva reso possibile di dichiarare l’inalienabilità della persona del _cittadino_; ma, risoluta vittoriosamente la questione della sua libertà formale, restava sempre da risolvere la questione ognor viva e presente dell’esistenza materiale. E, per coloro che non avevano parte al possesso della terra, lo schiavo straniero non solo non era stato un liberatore, ma era un concorrente. Questa condizione di cose ha avuto la sua fase ultima, benchè non definitiva, nella formazione di un salariato, il cui primo nucleo andò sempre crescendo pel crescere del proletariato e la sua concorrenza alla schiavitù, per la degenerazione progressiva di questa e la sua eliminazione definitiva[231]. Ma, durante questo processo di trasformazione più volte secolare, a principio del quale specialmente il salariato stentava più a trovare uno sfogo e ad attecchire, la contesa per l’emancipazione economica, cioè pel possesso di un mezzo di produzione specialmente fondiario e sussidiariamente per la ripartizione degli utili dello Stato, considerato come un’impresa comune, dovea essere viva, continua. Il corpo organizzato, che lottava concorde e come ente unico, per l’acquisto o per la difesa di una preda, aveva in sè un permanente contrasto d’interessi, in vista dell’appropriazione privata di ogni possesso; e così, nel seno stesso degli aggregati politicamente organizzati, su di una scala più o meno vasta, sotto l’apparente uniformità e coesione, v’erano sordi e mal dissimulati contrasti, resi sempre più acuti da antitesi d’interessi, fomentati dalle passioni stesse a cui davano luogo. La piccolezza dello Stato, poi, e il fatto che nell’antichità la vita politica di un dominio, per quanto grande, si concentrava esclusivamente nella città dominante, facevano sì che i dissensi d’indole più generale si complicassero e s’inasprissero di tutti gli odî ereditarî di famiglie, di tutte le avversioni personali, di tutte le gare locali. Sicchè si aveva una guerra continua, or manifesta, or latente, di classi contro classi, di famiglie contro famiglie, di persone contro persone. E uno stato di cose che da Platone[232] si era compendiato in questa osservazione: «..... Ognuna di esse non si può chiamare una città, ma molte città. Perchè, comunque sia, ve ne sono due avverse tra loro, una de’ poveri, una de’ ricchi, e in ognuna di queste ve ne sono molte alla loro volta; e tu ti sbaglieresti assolutamente, se le volessi considerare come una sola città; considerandole invece come molte, dando agli uni le ricchezze, la potenza, le persone stesse degli altri, troveresti sempre molti alleati, pochi avversarî....». Un quadro che, come giustamente si è osservato, non può a meno di richiamare quanto, tanti secoli dopo, in un suo romanzo politico, diceva il Disraeli dell’Inghilterra contemporanea: «Sono proprio due popoli tra cui non esiste nessuna comunione, nessun sentimento comune, che si conoscono così poco nelle loro abitudini, ne’ loro pensieri e ne’ loro sentimenti, come se fossero le creature di diverse zone o gli abitanti di diversi pianeti»[233]. L’allargarsi degli orizzonti, il crescere de’ bisogni, la facilità d’arricchire non facevano che acuire questo stato di cose. Uno scrittore latino[234] delinea così questa nuova fase della vita a Roma: «Ma poichè le cose dello Stato ebbero incremento dalla laboriosità e dalla giustizia, e re potenti furono vinti in guerra e fiere nazioni e vaste popolazioni sottomesse con la forza, e Cartagine, emula della potenza romana, fu divelta dalle fondamenta ed ogni mare ed ogni terra era aperta innanzi a noi; la fortuna cominciò a incrudelire e a confondere ogni cosa. A quei che facilmente avevano tollerato fatiche, pericoli, vicende d’esito incerto ed aspre, parvero desiderabili ozio e ricchezze; tutte le altre cose misere e gravose... Poichè le ricchezze vennero in onore, e la gloria, il comando, la potenza dipendevano da quelle, cominciò a vacillare la virtù, la povertà cominciò a sembrare vergogna e la integrità malevolenza. Dalle ricchezze quindi emersero, a sopraffare la gioventù, lussuria, avarizia e superbia; rubare, consumare, far poco conto del proprio, desiderare l’altrui, non aver riguardo, nè misura rispetto al pudore e alla pudicizia, alle cose umane e alle divine confuse». E, poco appresso, lo stesso storico fa parlare Catilina così[235]: «Dopo che lo Stato cadde in potere ed arbitrio di pochi, sempre re e tetrarchi sono loro tributari, popoli e nazioni sono tassati a loro favore; tutti noi altri, strenui e buoni, nobili ed ignobili fummo volgo, privi di ogni considerazione, di ogni autorità, avvinti a quelli, di cui, se la Repubblica fosse quale dovrebbe essere, noi saremmo lo spavento. Quindi sovranità, potenza, onore, ricchezza sono in mano loro o dove loro piace: a noi lasciano pericoli, ripulse, piati giudiziarî, miseria. Le quali cose sino a quando vorrete soffrir voi, fortissimi uomini? Non giova meglio morire valorosamente che perdere inonoratamente una vita misera e infelice, nella quale si sarà servito di ludibrio all’altrui superbia?... Qual mortale che abbia animo virile può tollerare che a quelli avanzino tante ricchezze da profonderne nel costruire in mare e nell’adeguare i monti, mentre a noi manca una sostanza familiare da poter sopperire al necessario? Che quelli possano avere di seguito due e più case, mentre a noi manca un lare familiare? Mentre comperano quadri, statue, cesellature, e diroccano nuovi edificî per costruirne altri, e infine in ogni maniera estorquono danaro, vessano, pure non possono con la somma loro libidine superare le ricchezze. Noi, invece, abbiamo l’indigenza a casa, fuori i debiti; triste la condizione dell’oggi, molto più aspro l’auspicio del domani: infine che cosa altro ci resta se non una misera anima?». Questo stato continuo di tensione, spinto all’estremo, sotto l’azione di un avvenimento esterno, di un crescente dissesto interno, di una rivoluzione politica, precipitava finalmente verso la catastrofe; e allora tutte le ire, tutte le violenze si scatenavano senz’ordine, nè misura. Tutti i metodi di guerra, tutte le crudeltà, a cui i conflitti esterni avevano adusata l’una e l’altra parte, erano usati reciprocamente, aggravati e circuiti di tradimenti, d’insidie, di ragioni personali, quali potevano esservi tra vicino e vicino, nell’àmbito di uno stesso recinto. Nel 370, per es., il popolo di Argo massacrava con la fustigazione millecinquecento persone. «Il popolo d’Argo — dice Isocrate[236] — si reca a soddisfazione di massacrare i ricchi, e si rallegra, ciò facendo, più che non facciano altri nell’uccidere i nemici». Delle condizioni del Peloponneso dice[237]: «Si temono i nemici meno de’ proprî concittadini. I ricchi preferirebbero gettare in mare le loro ricchezze anzi che darle a’ poveri: per questi, d’altra parte, niente è più gradito che lo spogliare i ricchi. Cessano i sacrifizî: sugli altari si sacrificano gli uomini. Più di una città ha ora più emigrati di quanti ne aveva prima l’intero Peloponneso». E a questi scoppî violenti d’ira della piazza facevano riscontro da parte delle oligarchie gli stati d’assedio, le misure eccezionali, le proscrizioni in massa, le confische. Oneste lotte intestine, di cui è materiata la storia antica, e che, mal placate da una certa beneficenza di Stato, riardevano continuamente, finivano di solito con l’indebolire la compagine dello Stato, facendolo preda di un nemico esterno più potente, o, sotto la doppia pressione del bisogno di resistere agli urti interni ed esterni, determinava il sorgere o il risorgere di un principato. A Roma, si arrivò per questa via all’Impero, che importava un ambiente di relativa pace favorevole agl’interessi, specie del medio ceto, e alla sua eventuale ricostituzione, un freno all’aristocrazia avida, una migliore amministrazione del dominio, una sistemazione delle provvidenze pel proletariato. Ma le dispute di successione tornavano, quando non era possibile stabilire o mantenere una dinastia, a compromettere gravemente la pace pubblica; e, prima di arrivare alla stessa prima costituzione dell’Impero, tutto il dominio aveva dovuto passare attraverso un lungo periodo di convulsioni e di guerra civile. E niente vale forse a dare meglio un’idea di tutti gli episodî di essa, quanto la descrizione che ne dà Appiano, discorrendo del secondo triumvirato[238]: «Nell’atto stesso che erano fatte le proscrizioni, si occuparono le porte e quante altre uscite vi erano delle città e i porti e le paludi e tutto quanto potesse dar sospetto di prestarsi a fuga o ad appiattamento: si fece in modo che i centurioni scorressero il paese, investigando, e ogni cosa si fece in questo stesso senso. «Subito, adunque, in città e in campagna, dovunque ognuno si trovava, si vedevano repentine sorprese e uccisioni di vario genere e recisioni di teste per la taglia promessa a’ denunziatori e fughe inonorate e contegni sconvenienti di chi prima era ragguardevole. Poichè si nascondevano alcuni ne’ pozzi, altri in condotti luridi sotterranei, altri ne’ camini fumosi, o se ne stavano in gran silenzio sotto le incombenti tegole de’ tetti. Giacchè, non meno de’ sicarî, temevano alcuni le mogli o i figli non ben disposti verso di loro, altri i liberti e i servi, altri i debitori o i confinanti di fondi per l’avidità di avere le loro terre. Era come un erompere, tutto in una volta, di ciò che sin’allora era venuto suppurando, ed era spietata la vicenda di senatori, consoli o pretori o tribuni, o ancora in carica o già investiti di tali uffizî, cadenti in pianto a’ piedi del loro stesso servo, invocando salvatore e padrone lo schiavo. E il più spietato era che non trovassero mercè. Vi era tutto uno spettacolo di mali, non quali si scorgono nelle rivolte o nelle espugnazioni delle città: poichè non accadeva, come in quelle, che si temesse l’avversario o il nemico, rivolgendosi a’ proprî familiari: questi appunto si temevano più de’ sicarî, non temendoli come in guerra o nella sedizione, ma fatti d’improvviso, di familiari nemici, o per segreta inimicizia, o per donazioni ad essi promesse, o per oro ed argento che si avesse in casa. Per queste cose ciascuno diveniva infido verso i suoi di casa e anteponeva alla compassione il suo lucro. Chi si manteneva fido o benevolo, temeva di recare aiuto, o celare, o essere fin consapevole per la simiglianza delle pene. A ritroso l’incalzava il primo timor de’ diciassette [i _presi_ prima della proscrizione]. Poichè, allora, non essendo stato proscritto alcuno, ma essendo improvvisamente stati presi quelli, tutti temevano le stesse cose e si sentivano compagni. Venute fuori le tavole di proscrizione, altri furono subito consegnati; altri, fatti securi di sè stessi e voltisi al lucro, davano la caccia ad altri per consegnarli, dietro una taglia, a’ sicarî. Dell’altro gran numero, alcuni saccheggiavano le case degli uccisi, e il guadagno li alienava dalla coscienza de’ mali presenti; altri più assennati e buoni erano colpiti dalla sorpresa ed era per essi più strano se consideravano come altre città erano state danneggiate dalle dissensioni e le aveva salvate la concordia; questa, l’avevano ruinata in precedenza le dissensioni de’ governanti e il loro accordo ora si rivelava in tali effetti. Morivano alcuni difendendosi dagli assalitori, altri non difendendosi e come soccombendo a una ingiusta loro violenza; ve n’erano anche che perivano di volontario digiuno e disfatti dalle piogge, che si affogavano in mare o si gettavano da’ tetti o si lanciavano nel fuoco, o andavano incontro a’ sicarî, o li mandavano a chiamare se indugiavano, mentre altri si nascondevano, o supplicavano senza dignità, o cercavano di scongiurare il male incombente a viva forza o con la corruzione. Alcuni perirono all’insaputa de’ triumviri, per errore o per insidia. E sapevano del non proscritto ucciso, quando si presentava la testa. Poichè i capi de’ proscritti si esponevano nel Fôro, presso i rostri, dove bisognava che venissero a prendere la mercede quelli che li portavano. Si osservava parimenti la premura e la virtù d’altri, donne e giovinetti e fratelli e servi, che salvavano ricorrendo a molti stratagemmi e morivano insieme quando non riusciva ciò che avevano escogitato: altri si uccidevano sugli uccisi. Di quelli che fuggirono, alcuni perirono in naufragî, in tutto oppressi dalla fortuna; altri, inopinatamente, furono condotti a’ magistrati cittadini e a’ comandi degli eserciti e a’ trionfi...». X. Pax Romana. La guerra! La pace! La pace! La guerra! Col ritmo monotono di un pendolo che non tocca un estremo se non per allontanarsene e tendere subito all’altro; con l’intreccio inestricabile di trame intessute per formare una sola tela a vario colore; col contrasto e la correlazione di una triste realtà e di una dolce aspirazione che si rincorrono per escludersi e per completarsi — la pace e la guerra, la guerra e la pace si succedono, si rinnovano, si avvicendano, s’insidiano attraverso la lunga, dolorosa via della storia! Il desiderio della pace, immanente e perenne, ma perennemente minato e deluso da’ contrasti della vita, risorgeva inestinguibile e ostinato e trovava la sua espressione e la sua incarnazione in molteplici e continuamente riprodotti trattati di pace. Ma erano tregue piuttosto che paci, vigilie d’armi e incubazioni di guerre. La loro lunghissima serie[239] non fa che provare la loro fragilità, la loro nessuna persistenza; e, nel loro carattere generale, sembrano altri aspetti della guerra; alleanze che miravano a una guerra futura, e, nello stesso loro nome (συμμαχία), rivelavano questo loro scopo e questa ragione bellicosa. A misura che si venivano costituendo più vasti e più solidi organismi politici, che il concetto di razza si veniva fissando e determinando, che gli interessi si complicavano e s’intrecciavano, l’aspirazione alla pace trovava un campo più vasto in cui esercitarsi; ma non perciò riusciva a realizzarsi. Così, in forma tipica, il mondo ellenico, cementato da comuni tradizioni, dalla comune fede religiosa e da comuni interessi, veniva acquistando un senso di solidarietà e un’anima collettiva, che riflettuta ne’ suoi artisti e ne’ suoi pensatori, faceva talvolta considerare come una lotta intestina e quasi fratricida le guerre reciproche. Ma era una unità ideale a cui non si conformava la realtà delle cose; era una mèta morale fatta di stati d’animo e di tendenze, a cui si ribellava, recalcitrando, la vita quotidiana con i suoi interessi varî che non di rado divenivano anche discordanti. Pure, in queste sue tendenze e manifestazioni ideali, la solidarietà nazionale e di razza finiva per avere, come antitesi e corrispondenza, insieme, un senso di ostilità verso tutto ciò che era fuori di quel cerchio e di quell’ambiente. «In primo luogo — si dice in uno de’ dialoghi platonici[240] — quanto alla schiavitù, ti pare giusto che Elleni riducano in ischiavitù città elleniche o che ciò non si conceda ad alcuno, per quanto è possibile, e si avvezzi a risparmiare la gente ellenica, facendo in modo che non debba essere ridotta in servitù neppure da’ barbari? Assolutamente, disse, importa che si risparmî. Non acquistare uno schiavo greco, consigliando agli altri Elleni di fare altrettanto? Certamente, disse: così si rivolgerebbero maggiormente contro i barbari ed essi si avrebbero riguardo reciprocamente». E poco appresso[241]: «Vedi dunque se dico cosa confacente. Dico che la gente ellenica è congiunta da legami di famiglia e di un lignaggio, aliena ed estranea alla gente barbarica. Benissimo, disse. Diremo, così, di conseguenza, che, combattendo gli Elleni con i barbari e i barbari con gli Elleni fanno guerra, e sono nemici per natura, e questa ostilità si deve chiamare guerra. Quando, invece, gli Elleni combattono con gli Elleni, mentre sono amici per natura, l’Ellade, così facendo, presenta uno spettacolo morboso, si trova in istato di sedizione; e una tale ostilità si deve chiamare guerra civile. Io, disse, convengo che si debba ritenere così... La città che fonderai, non sarà ellenica? Bisogna ch’essa sia così, disse. Adunque (i suoi cittadini) saranno buoni e indulgenti? Certamente. E non saranno filelleni? E non considereranno la Grecia come congiunta, e non parteciperanno con gli altri alle cose sacre? Certamente. Adunque le controversie, che avranno con gli Elleni, come con congiunti, le riterranno guerra civile e non le chiameranno guerra? No, certamente. Controvertiranno come persone che debbono riconciliarsi? Assolutamente. Castigheranno, con animo ben disposto, non spingendo la punizione sino alla riduzione in servitù e alla distruzione; essendo correttori, non nemici. Così, disse. Essendo Elleni, dunque, non manometteranno l’Ellade, nè incendieranno le abitazioni, nè considereranno in ogni città tutti come loro nemici, gli uomini, le donne, i fanciulli, bensì i pochi colpevoli del dissidio, e però non vorranno manomettere il loro territorio, quale cosa di molti amici, nè rovesciare le case, e lotteranno invece insino a quando i colpevoli saranno obbligati dagl’innocenti, che soffrono per loro, a pagare il fio. — Convengo, disse, che i nostri cittadini si debbano condurre così con questi loro avversarî, con i barbari invece come fanno ora gli Elleni tra loro...». Benchè, sotto questa forma, il senso di ostilità e le occasioni di guerra fossero piuttosto spostate che non eliminate, pure quello spirito di solidarietà, insufficiente a realizzare la pace nell’àmbito delle stirpi elleniche, si traduceva qualche volta in effetti pratici, o che una controversia fosse composta da un oracolo di comune fiducia, o che fosse portata a qualche consiglio anfizionico o federale, o che si risolvesse per mezzo di arbitrati, un’istituzione dalla civiltà greca comunicata e trasmessa anche alla società romana. La formazione di grandi Stati, poi, in quanto erano costretti per qualche tempo a controbilanciarsi in un mutuo gioco di equilibrio, o faceva luogo ad un’egemonia, che si spiegava anche per mezzo d’interventi e di arbitrati[242], contribuiva anch’essa talvolta ad allontanare, per qualche tempo, occasioni di guerra e assicurava temporaneamente la pace. Ma la pace, che urtava, come contro un ostacolo invincibile, contro il processo di mutua eliminazione, ritardato soltanto o sospeso per una o un’altra via, dovette sembrare finalmente assicurata, quando quel processo di mutua eliminazione giunse al punto di toccare veramente l’impero universale; e, con la costituzione dell’Impero romano, dovette sembrare anche che fosse maturato l’ambiente per la pace universale. Così, per quel carattere dialettico ch’è nell’indole stessa della storia, tutto l’infinito periodo di guerre sembrava che non avesse fatto se non preparare la sua antitesi, e che il sangue e la strage non avessero cosparsi tutti i campi del mondo se non perchè da essi sorgesse più desiderato e più vigoroso il fiore della pace, e questa trovasse la sua sanzione e la sua guarentigia nella impossibilità obbiettiva di un contrasto! L’Impero romano sorse anche come l’appagamento di questa aspirazione, nell’estrema lotta tra l’Oriente e l’Occidente, tra il più antico impero e il più recente, tra l’antica tradizione e i nuovi bisogni; e non parve a moltissimi pagato a caro prezzo l’inestimabile benefizio della pace, se ad essa dovevano immolarsi vecchie forme e nomi cari e orrori tradizionali. Nessuno de’ fasti o delle cerimonie dell’antica èra gloriosa parve vincere quello che si riassumeva nella chiusura del tempio di Giano. La Pace parve davvero stendere l’ali ampie e benefiche e altrici sul mondo; e il grido di trionfo di tutte le guerre, il gaudio intimo del fortunato presente, le fiorenti speranze dell’avvenire trovarono tutta la loro espressione nel canto con cui Orazio[243] credeva a un tempo mettere il suggello alle sue odi e alle guerre che parvero le ultime. «A me, che volevo cantar le battaglie e le città vinte, Febo avvertì, in atto di rimprovero, con la lira, che non commettessi le piccole vele all’onde tirrene. L’età tua, o Cesare, riportò anche la pingue mèsse a’ campi e restituì al nostro Giove le insegne strappate a’ superbi penetrali de’ Parthi e chiuse il tempio di Giano non più aperto a’ conflitti, e impose il retto ordine a chi se ne dipartiva e i freni alla licenza e bandì i delitti e richiamò le antiche arti, per cui crebbero il nome latino e le forze italiche, e la fama e la maestà dell’imperio si è stesa dall’occaso alla culla del sole. Finchè tu, o Cesare, starai a custodia di tutto, non l’infuriare delle lotte civili, non la violenza cacceranno la quiete di seggio, non l’ira che tempra le spade e inimica le misere città. Le leggi giulie, non le infrangeranno quei che si abbeverano al profondo Danubio, non i Geti, non i Sericani, non gl’infidi Persiani, non i nati sulle sponde del Tanai. E noi, ne’ giorni feriali e ne’ sacri, tra i doni di Libero giocondo, con i nostri figli e le nostre matrone, dopo aver pregato secondo il rito gli dèi, canteremo, secondo il costume degli antenati, con canto sposato alle tibie lydie, i duci che si condussero valorosamente, e Troia e Anchise e l’alma progenie di Venere». Quella filosofia stoica che era emersa dalla ruina dello Stato ellenico come un tentativo superbo e geniale dello spirito, che si costruiva da sè una città sottratta ad ogni prepotenza di conquistatore, uno stato d’invidiabile libertà, e come tale tornava a infrangere, moralmente, il particolarismo ellenico per emanciparsi meglio dalle angustie fortunose e opprimenti della politica; quella filosofia si trovava a miglior agio e si diffondeva meglio in uno Stato che tendeva a confondersi col mondo abitato, dove il cittadino tendeva a confondersi con l’uomo, e l’anima umana aveva meno ostacoli a vincere per sublimarsi nella sua trionfante espressione; mentre, d’altro canto, il diritto della città tendeva ad allargarsi, come in un cerchio concentrico, nella sfera più vasta di una generalizzazione maggiore del diritto delle genti, e questo stesso in una sfera più vasta, nel diritto naturale: una realtà che diveniva un’astrazione, un’astrazione che diveniva una realtà. La pace aveva così il suo crisma dalla filosofia, col suo concetto di uomo che si sovrapponeva a quello di cittadino, con quella sua sfera ideale di azione che si emancipava dalle contingenze della vita, con quella sua atarassia che si librava, irridendo, su tutti gli assalti della miseria e del dolore; e, d’altra parte, per un altro crisma diverso, si naturalizzava a Roma, prendeva anche essa il diritto di cittadinanza romana e, nel suo epiteto e nella sua funzione solenne di _pax romana_, s’imponeva con tutto il prestigio e l’autorità di un’istituzione positiva, con la forza e la sanzione della potenza e dello Stato romano. E, per qualche tempo, fosse pure una sosta, il mondo parve godere gl’inestimabili beneficî della pace. Rimarginava, quasi, le sue ferite; si rifaceva in quel senso di sicurezza, come un convalescente che sente rinascere il senso della vita al tepore del sole novello; e fu ed è opinione di più d’uno storico, che in quei primi secoli dell’èra nuova, sotto gli Antonini specialmente, un vero miraggio di felicità arridesse al genere umano. Pure, col venir meno del bersaglio, non era venuta a mancare la ragione delle armi; e quella pace, che certo includeva in sè molti vantaggi e sotto cui il mondo parve per qualche tempo vivere e respirare a suo agio, celava ancora troppe ragioni intime di contrasti e simulava sotto molti rispetti ancora come uno stato di guerra. Tutta quella straordinaria varietà di elementi non era ben fusa o non era fusa affatto, e l’Impero contava popoli di lingua e di origine diverse, e, negli stessi àmbiti delle diverse regioni, padroni e schiavi, abbienti e proletarî, dominatori e dominati, tributarî e signori, cittadini e folle prive della pienezza dei diritti politici e civili. Questi elementi, così diversi e spesso inevitabilmente messi dalla forza stessa delle cose o dalle loro ragioni di vita in contrasto, erano tratti, di volta in volta, a cozzare tra loro, e allora quella stessa potestà imperiale, che era il punto di unione, il centro di quel mondo in movimento, diveniva, nelle successioni specialmente, una mèta e una leva pel divampare della guerra civile. Per quanto, nella fusione perenne delle diverse civiltà e nell’irradiazione del suo potere, Roma cercasse di diventare come l’anima e lo spirito vitale di tutto il mondo dominato, quella compagine gigantesca era troppo aliena dal centro, troppo diversa e lontana, perchè, da un aggregato qual’era, potesse davvero trasformarsi in un organismo. E, finchè restava un aggregato, un dominio artificialmente tenuto insieme, rappresentava anche un meccanismo troppo complicato e troppo costoso; sicchè, specie in quello stadio ancora poco sviluppato delle forze produttive, funzionava come una continua forza depauperatrice, che elideva in certo modo i benefici della pace, e, rendendo più aspre le cause intime di contrasto, ne fomentava i dissensi. L’esercito stesso, che in mezzo agli elementi inorganici non ancora coordinati o alla disorganizzazione sotto altri aspetti crescente, rappresentava l’elemento più organizzato, pel fatto stesso che era tale e che costituiva una forza prevalente, diveniva agevolmente strumento e causa di prepotenza e, all’occasione, di conflitti interni e di disordine. Tutt’intorno all’immenso confine, convertito in una cinta fortificata e guardato come un baluardo, formicolavano poi popolazioni barbariche, vere orde talvolta, che si moltiplicavano con la spensierata prolificità di gente allo stato di natura, e, soggette a tutte le vicende degli elementi e alla balìa del caso per quanto concerneva la stessa loro possibilità di vita, fiottavano con l’ostinazione di una forza naturale, cieca e inesauribile, contro un ostacolo, oltre cui vedevano, come l’immagine viva di una terra promessa, uno stato di ricchezza e di vita, quale l’opera di secoli e gli stenti d’infinite generazioni avevano potuto foggiare e verso cui li chiamava lo stesso spirito della propria conservazione, la stessa lotta per l’esistenza. Così, tra il risorgente ideale della pace, che prendeva la forma di aspirazione religiosa, di bisogno presente, di meditazione filosofica e la vita quotidiana irrimediabilmente turbata o insistentemente minacciata, il mondo romano, che quasi era l’orbe, si agitava ancora come in una contraddizione senza uscita, col moto misteriosamente fatale del pendolo, che, proprio mentre sta per toccare un estremo, è sospinto ed attratto verso l’estremo opposto; e si aveva lo spettacolo dell’Imperatore filosofo, che sillogizzava sulla vanità della vita nel campo stesso in cui ne affermava le vane ire, gli sforzi sterili e sanguinosi. La pace è equilibrio, che ha bisogno di essere stabile, se si vuole stabile pace; e non vi è nè equilibrio, nè pace, dove la forza è base e legame della vita, e popolo è congiunto a popolo, individuo a individuo, non da mutuo scambio di servigî e uguale correlazione di diritti e di doveri, ma da una legge di servitù che fa l’uomo e l’opera sua mezzo a un altro uomo. Non vi è equilibrio, nè pace, dove qua la mancanza del necessario, là il desiderio e la possibilità del superfluo creano, a vicenda, lo scontento e la preoccupazione, la minaccia e la cupidigia, l’aggressione ch’è difesa e la difesa ch’è aggressione, cioè la guerra, in cui la forza non si risolve, ma si perpetua come in un circolo vizioso, per rigermogliare esacerbata e moltiplicata in altre guerre, in altre violenze, in altri motivi di conflitto. Anche questa pace menzognera, a cui sembrava essersi arrivato con la guerra, non per rinnegare ma per consolidare l’opera della guerra, non per regolare la forza ma per assiderla in trono, si risolveva così nella guerra, e faceva luogo al crollo più enorme che la storia abbia mai veduto. La compagine vacillava, si allentava, si disgregava nelle sue stesse commessure interne, nello svilupparsi delle stesse forze centrifughe, del malcontento, delle disuguaglianze stridenti, di quegli stessi dispendiosi legami artificiali, che per il loro stesso carattere dispendioso e violento si convertivano in un’azione disintegratrice; e si agevolava la via all’urto esterno, ripetuto, continuo, fatale, che si ripercuoteva sempre più sonoramente e fortemente sugli elementi interni in conflitto. E quanto più, nel procedere della disorganizzazione, le parti si sentivano sciolte del tutto, cercavano in sè stesse le ragioni e i mezzi della propria conservazione, e, sviluppando funzioni e creandosi organi, si formavano una vita propria ed autonoma. Finchè, venendo sempre meno la coesione, stremata la resistenza, come un torrente, che, abbattuto l’argine, si riversa e dilaga, la piena barbarica, forza vittoriosa e vendicatrice di una forza soggiogata, si spandeva, trionfatrice, adimando l’opera più volte secolare, sovrapponendosi ad essa, distruggendo e cancellando il lavorìo lungo ed industre della civiltà. Poi, per un lento lavoro di stratificazione e di riordinamento, tra le ultime scosse di quel vero cataclisma sociale, nel riformarsi, pur su di una base non sostanzialmente diversa, dell’assetto sociale, emergevano nuovi gruppi etnici, nuove nazionalità, nuove compagini politiche, che, sotto l’assillo dell’antica concorrenza, rinnovavano l’antiche lotte; mentre dagli stessi orrori della competizione quotidiana, da’ sanguinosi conflitti che n’erano il contraccolpo, si svolgeva un nuovo sogno di fraternità universale, ove la pace avesse la base e la guarentigia in sistemi di vita alieni da ogni sfruttamento di un popolo a pro’ di un altro popolo, di un uomo a pro’ di un altro uomo. INDICE I. Guerra e pace nell’antico Oriente _Pag._ 6 II. Pace e guerra ne’ poemi omerici e esiodèi » 31 III. Nel regno della guerra » 49 IV. Pace e guerra nell’antica Atene » 68 V. Pace e guerra nell’antica Roma » 110 VI. Le cause della guerra » 145 VII. Gli aspetti della guerra » 154 VIII. Gli effetti della pace e della guerra » 188 IX. La guerra civile » 208 X. Pax Romana » 219 DELLO STESSO AUTORE _La costituzione così detta di Licurgo_. Napoli, 1885 L. 2 — _La famiglia nel diritto attico_. Torino, 1886 » 2 50 _Introduzione alla storia generale del diritto_. Torino, 1886 » 1 25 _La Basilicata_. Torino, 1889 » 1 25 _I sacerdozî municipali e provinciali della Spagna nell’epoca imperiale romana_. Torino, 1890 » 2 — _Antonino Pio_ (Estratto) Roma, 1891 » 1 — _Amicus_ (Estratto). Roma, 1891 » 1 — _Arcadio_ (Estratto). Roma, 1891 » — 50 _Le istituzioni pubbliche cretesi_. Roma, 1891 » 15 — _Augusto_ (Estratto). Roma, 1894 » 2 — _Il processo di Verre_. Milano, 1895 » 3 50 _Donne e politica negli ultimi anni della Repubblica romana_. Milano, 1895 » 1 25 _La questura di C. Verre_ (Estratto). Torino, 1885 » — 75 _La fine del secondo triumvirato_ (Estratto). Torino, 1895 » 1 — _Il numero degli schiavi nell’Attica_ (Estratto). Milano, 1897 » 1 — _La retribuzione delle funzioni pubbliche civili e le sue conseguenze nell’antica Atene_ (Estratto). Milano, 1897 » 1 50 _La pace e la guerra nell’antica Atene_ (Estratto). Scansano, 1897 » 1 25 _Il tramonto della schiavitù nel mondo antico_. Torino, Bocca, 1898 » 6 — _Attraverso la Svizzera_. Napoli, 1900 » 3 50 _Scritti di Marx, Engels e Lassalle_, tradotti in italiano e pubblicati insieme a lavori illustrativi. Roma, Mongini edit. (a fascicoli). NOTE: [1] MASPERO, _Le papyrus de Berlin_, n. 1 nelle _Mélanges d’archéologie égyptienne et assyrienne_, t. III, pp. 68-82 e _Histoire ancienne des peuples de l’Orient_, 4^e éd. Paris, 1886, p. 97. [2] Presso MASPERO G., _Histoire ancienne des peuples de l’Orient_. Paris, 1886, p. 272, con le fonti ivi citate. [3] MASPERO, _Du genre épistolaire_, pp. 50-62; _Histoire ancienne etc._, pp. 117 sgg. [4] _Il._, XXIV, vs. 55 sgg. = vs. 40 sgg. del testo, ed. Dindorf. [5] _Il._, XI, vs. 414, ed. Dindorf. [6] _Il._, XVII, vs. 746 sgg. [7] _Il._, XVII, vs. 133 sgg., 281 sgg. [8] _Il._, XX, vs. 164 sgg., 490 sgg. — XXII, vs. 139 sgg. [9] _Il._, XVI, vs. 425 sgg., 487 sgg. [10] _Il._, XIII, vs. 240 sgg., vs. 330. [11] _Il._, XVI, vs. 582, vs. 765. [12] _Il._, XVII, vs. 61 sgg., 109 sgg. [13] _Il._, XII, vs. 40 sgg. — XIII, vs. 136 sgg. — XV, vs. 605 sgg. — XXII, vs. 308, ecc. [14] _Il._, XIII, vs. 816 sgg. = 635 sgg. del testo, ed. Dindorf. [15] _Il._, VI, vs. 282 sgg. [16] _Il._, VII, vs. 348 sgg. [17] _Il._, XXII, vs. 111 sgg. [18] _Il._, V, vs. 152 sgg., 408 sgg., 480 sgg., 684 sgg. [19] _Il._, XXIV, vs. 511 sgg. [20] _Il._, IV, vs. 440 sgg. [21] _Il._, vs. 95 sgg. = 67 sgg. del testo, ed. Dindorf. [22] _Odys._, XXIV, vs. 426 sgg. [23] _Odys._, XIX, vs. 401 sgg. = 328 sgg. del testo. [24] _Odys._, I, vs. 84 sgg. = 58 sgg. del testo. [25] _Odys._, XI, vs. 609 sgg. = 486 sgg. del testo. [26] _Odys._, XXIV, vs. 685 sgg., = 542 sgg. del testo. Cfr. pure vs. 531 sgg. [27] _Odys._, XVI, vs. 483 sgg. [28] _Odys._, VII, vs. 74 sgg. = 59 sgg. del testo. [29] _Odys._, VI, vs. 280 sgg. = vs. 200 sgg. del testo. [30] _Odys._, VI, vs. 380 sgg. = vs. 270 sgg. del testo. [31] _Odys._, XVII, vs. 345 sgg. = 286 sgg. del testo. [32] Ἀσπὶς Ἡρακλέους, vs. 154 sgg., 242 sgg., ed. Weise. [33] Ἀσπὶς Ἡρακλ., vs. 286 sgg. [34] Op. cit., vs. 374 sgg. [35] Ἔργα καῖ ἡμέραι, vs. 271 sgg. [36] Ἔργα καὶ ἡμἑραι, vs. 297 sgg. [37] Op. cit., vs. 359 sgg. [38] Ἔργα καὶ ήμέραι. [39] Ἔργα καὶ ήμέραι, vs. 11 sgg. [40] Ἔργα καὶ ήμέραι, vs. 684 sgg. Cfr. 629 sgg. [41] _Tyrt._, Ὑποθῆκαι, I, vs. 1-2. [42] TYRT., I, vs. 3 sgg. [43] Ἀθ. πολ, 1. [44] PLUTARCH., _Apophtheg. lacon._ Ἀγεσιλάου τοῦ μεγάλου, XIV, XV, XXVIII. [45] THUC., I, 68, 1. [46] THUC., I, 69, 4. [47] THUC., I, 120, 4. [48] THUC., I, 70, 9. [49] THUC., I, 122, 2. [50] THUC., I, 80, 3. [51] THUC., I, 85. [52] THUC., I, 86, 5. [53] THUC., I, 76. [54] THUC., I, 77, 6. [55] ANDOC., _Or. de pace cum Lacedaem._, 21. [56] ANDOC., _Or. de pace cum Lacedaem._, 1. [57] XENOPH., _Hellen._, VI, 3, 7 sgg. [58] HERODOT., V, 49-50. [59] XENOPH., _Hellen._, III, 3. [60] XENOPH., _Hellen._, III, 3; — PLUTARCH., _Ag._, 5 sgg.; _Cleom._, 3 sgg. [61] BERGK TH., _Poetae Lyr. Gr._ II^3, p. 416, 1. [62] PICCOLOMINI E., _L’Elegia_ Σαλαμίς _e la simulata pazzia di Solone_ (nel _Museo di antichità classica_ diretto da D. Comparetti, II, pp. 510 sgg.). [63] WILAMOWITZ-MOELLENDORFF, _Aristoteles und Athen_, Berlin, 1893, I, 267. [64] TOEPPFER I., _Quaestiones pisistrateae_, Dorpat, 1887, pp. 56 sgg. [65] Ἀθην. πολ., 18. [66] _Acharn._, vs. 523 sgg. [67] I, 88. [68] I, 140 sgg. [69] I, 1. [70] THUC., III, 82. [71] I, 143. [72] c. 2, 11. [73] _Resp. Athen._, c. 2, 11. [74] c. 2, 14. [75] THUC., II, 16. [76] ARISTOPH., _Pax_, vs. 633 sgg. [77] _Acharn._, vs. 977 sgg. [78] _Pax_, v. 582 sgg. [79] _Lysistr._, vs. 119 sgg. [80] _Pax_, vs. 149 sgg. [81] _Pax_, vs. 229 sgg. [82] _Pax_, vs. 1127 sgg. [83] _Pax_, vs. 1198 sgg. [84] _Pax_, vs. 292 sgg. [85] THUC., III, 82. [86] XENOPH., _Mem._, II, 7-10. [87] _De pace_, p. 159, 6. [88] _De pace_, pp. 162-3, 19 sgg. [89] _De pace_, p. 172, 64. [90] _De pace_, p. 179, 101. [91] _De pace_, pp. 168, 42, 44, 46; 172, 64; 173, 68; 175, 82-3; 178, 95. [92] _De vectig._, I, 1: ... σκοπεῖν εἴ πη δύναιντ’ ἄν οἱ πολῖται διατρέφεσθαι ἐκ τῆς ἑαυτῶν.... [93] _De vectig._, V. [94] _De pace_, p. 169, 172, 51, 66. [95] _De vectig._, I, 1. [96] DEMOSTH., _c. Leptin._, pp. 466-7, 31 sgg. [97] _De vectig._, IV, 3 sgg. 26. [98] _De vectig._, I, 6, 7; III, 1, 2. [99] _Polit._, p. 1267, a, II, 4, 9. [100] ARIST., _Polit._, p. 1255, b, I, 2, 7. [101] [ARISTOT.], _Rhet. ad Alexand._, p. 1425. [102] _De pace_, p. 183, 117. [103] _Pax_, vs. 246-7. [104] _De vectig._, V, 13. [105] _De pace_, p. 168, 44, 46. [106] BERGK, _Poetae Lyr. Gr._, III^2, p. 1230. [107] Op. cit., III^2, p. 1238, nº 36. [108] _In hostem aeterna auctoritas esto._ Legg. XII Tab. [109] CIC. _in Verr._, II, 2, 3, 7: ... _quasi quaedam praedia populi Romani sunt vectigalia nostra atque provinciae_... [110] MOMMSEN, _Abriss des römischen Staatsrechts_, Leipzig, 1893, pp. 71 e _passim_. [111] _Pro Muren._, 10, 22. [112] _Dig._, XLI, 1, 5, 7. [113] FRANCE (A.), _Le mannequin d’osier_, Paris, 1897 (28 éd.), p. 7. [114] LIV., III, 68, 3, 6. [115] LIV., V, 5, 3. [116] V, 8, 4 sgg. [117] DE RUGGIERO E., _Le colonie de’ Romani_, Spoleto, 1897, pp. 127-8. (Estr. dal _Dizionario epigrafico di antichità romane_). [118] VIII, 35. [119] LIV., II, 16, 3. [120] LIV., II, 22, 4. [121] LIV., II, 39, 9. [122] LIV., II, 39, 6. [123] DION. HAL., VIII, 83, 91; — LIV., V, 2. [124] IV, 59, 9 sgg. [125] DION. HALIC., VII, 19. [126] IV, 59, 11. [127] NITZSCH K. W., _Die Gracchen_, Berlin, 1847, p. 108. [128] LIV., XXXI, 7. [129] LIV., XXXII, 3. [130] XXXVII, I, _b, c_. [131] NITZSCH K. W., _Die Gracchen und ihre nächsten Vorgänger_, Berlin, 1847, pp. 235 sgg. [132] HERODOT., I, 94; — STRAB., V, 4, 12; — FEST. S. V., _Ver sacrum_. [133] I, 16. [134] SCHRADER E., _Sammlung von assyrischen und babylonischen Texten_, Berlin, 1889 e sgg., I, pp. 93, 99, 105, 165, 167, 171-3, 179, 181, 183, 191; II, pp. 15, 41, 53, 55, 95, 135, ecc. [135] SCHRADER, _Sammlung assyr.-babyl. Inschriften_, Berlin, 1889, I, p. 29. Cfr. pp. 33, 37, ecc. [136] SCHRADER E., _Sammlung assyrischen und babylonischen Texten_, I, p. 135. [137] Op. cit., I, p. 163. [138] Op. cit., I, p. 169. [139] Op. cit., II, p. 121. [140] Op. cit., I, pp. 17-19. [141] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, p. 71. [142] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, p. 19. [143] Op. cit., I, p. 159. [144] Op. cit., II, p. 57. [145] Op. cit., II, p. 87. [146] SCHRADER E., _Sammlung etc._, II, p. 109. [147] Op. cit., II, p. 257. [148] Op. cit., I, pp. 25, 27, 35, 59, 77, 81, 89, 143, 145, 147 sgg., 155, 179, 181, 183, 189; II, 65, 67, 109, 119, 165, ecc. [149] Op. cit., II, pp. 101, 119, 123, 125, 129, 145, 177, 207, 209, 241, 243, 255, ecc. [150] SCHRADER, _Sammlung etc._, II, p. 193. [151] Op. cit., II, p. 165. [152] Op. cit., II, p. 193. [153] Op. cit., II, p. 217. [154] Op. cit., II, p. 127. [155] Op. cit., II, p. 265. [156] Op. cit., II, pp. 89, 189. [157] SCHRADER, _Sammlung etc._, II, p. 183. [158] Op. cit., II, pp. 67, 181. [159] Op. cit., II, p. 245. [160] Op. cit., II, p. 145. [161] Op. cit., II, p. 43. [162] Op. cit., II, p. 53. [163] Op. cit., II, pp. 43, 183. [164] Op. cit., II, p. 149. [165] MASPERO, _Histoire ancienne etc._, p. 83. [166] _Il._, XXI, 550; _Od._, XXIV. [167] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, p. 117. [168] Op. cit., I, 5. [169] _Il., passim._ [170] _Il._, XXIII, vs. 181 sgg. [171] _Il._, XVIII, vs. 520 sgg. [172] _Odyss._, I, vs. 255 sgg. [173] _Il._, XIII, vs. 659. [174] _Il._, XXII, 77 della trad. = 39 sgg. del testo. [175] _Od._, IX, vs. 43 sgg. della trad. = 62 sgg. del testo. [176] _Il._, VI, 75 della trad. = 57 sgg. del testo. [177] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, 185; II, 7, 11, 15, 17, 29, 67, 85, 89, 133, 147, ecc. [178] DIONYS., VIII, 64, IX, 14; — LIV., II, 64, 3; III, 1, 8; 2, 12; 3, 10; 8; 10, 1; 26, 1-2; 30; 38; IV, 1; 21, 1; 45, 6; V, 16; 24; VII, 16, 3; 22, 3; X, 16; 36, 14, ecc. [179] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, pp. 19, 31, 33, 35, 37, 65, 73, 85, 87, 89, 107, 145, 147, 149, 155, 171; II, 55, 59, 91, 131, 133, 135, 145, 167, 171, 179, 197, ecc. [180] Op. cit, II, 191. [181] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, p. 145. [182] Op. cit., I, p. 33. [183] _Il._, VII, vs. 356 sgg. = 286 sgg. del testo. [184] _Od._, XXII, vs. 519 sgg. = 411 sgg. del testo. [185] _Esod._, XV, 2, sgg. [186] II, _Chron._, XXXII, 8. [187] ERMAN A., _Neuägyptische Grammatik_, p. 6-7; — MASPERO, _Hist. ancienne_, p. 230. [188] Cfr. MASPERO, _Hist. ancienne_, p. 203 e gli altri autori ivi citati. [189] SCHRADER, _Sammlung etc._, II, 143. [190] SCHRADER, _Sammlung etc._, II, 187, 251. [191] Op. cit., I, pp. 23, 25, 27, 37, 55, 69, 79, 89, 105, 113, 115-7; 131, 135, 145, 151, 153, 157, 159, 161, 163, 169, 171, 173, 179, 181, 185, 191; II, pp. 7, 19, 37, 41, 53, 61, 63, 75, 83, 85, 87, 91, 93, 97, 103, 107, 109, 119, 145, 147, 153, ecc. [192] Op. cit., I, 23, 37; II, 7, 91, 97, 133, 193, 203, 209-11, 221. [193] PLUT., _Thes._, 35, 64. [194] HERODOT., VIII, 64. [195] HERODOT., VIII, 109. [196] FOUGÈRES, _Bas-reliefs de Thessalie_ (in _Bulletin de correspondance hellénique_, X (1886), p. 185). [197] _De off._, I, 11, 36. [198] LIV., IX, 1, 8 sgg. [199] LIV., 30, 16, 9. [200] _De nat. deor._, 2, 3, 8; 3, 2, 5. [201] 5, 10. [202] LIV., 5, 27. [203] 5, 11. [204] Delineo qui appresso per sommi tratti, tanto da rilevarne i caratteri distintivi, le fasi, attraverso cui passò l’arte della guerra presso gli antichi. Entrare in maggiori e più minuziose particolarità sarebbe cosa aliena dallo spirito di questo scritto. Per chiarimenti più ampi si possono vedere: BAUER A., _Griech. Kriegsalterthümer_, 2ª ediz. (in Iw. Müller’s, _Hdb._, IV, 1) e SCHILLER, _Röm. Kriegsalterthümer_ (in Iw. Müller’s, _Hdb._, IV, 2) ove è pure citata l’amplissima bibliografia dell’argomento. [205] _Il._, XIII, vs. 237: συμφερτὴ δ’ ἀρετὴ πέλει ἀνδρῶν καὶ μάλα λυγρῶν. [206] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, pp. 61-3, 149, 167, 169, 171, 179, 181, 191; II, pp. 169, 171, 203, 207, 255. [207] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, 29, 31, 37, 81, 87. [208] MASPERO, _Hist. ancienne_, pp. 170-1. [209] Op. cit., p. 205. [210] Op. cit., p. 217. [211] MASPERO, _Hist. ancienne_, p. 262. [212] Op. cit., p. 417. [213] Op. cit., p. 334. [214] LIV., I, 59, 9. [215] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, p. 39. [216] Op. cit., I, p. 117. [217] In una iscrizione successiva (op. cit., I, p. 119) lo chiama «apportatore di fecondità». [218] SCHRADER, _Sammlung etc._, II, p. 149. [219] Op. cit, I, pp. 111, 127-9, 145, 163; II, pp. 9, 11, 19, 23, 39, 47, 71, 73, 75, 77, 111, 117, 123, 135, 137, 157, ecc. [220] MASPERO, _Hist. ancienne_, p. 416. [221] DU MESNIL MARIGNY, _Hist. de l’économie politique des anciens peuples_, Paris, 1872, I, p. 36; — CUNNINGHAM W., _An essay on western civilization in its economic aspects_, Cambridge, 1898, pp. 3 sgg., 23. [222] DU MESNIL MARIGNY, l. c. [223] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, p. 41. [224] SCHRADER, _Sammlung etc._, II, 23-5. [225] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, pp. 69, 99, 135, 141, 143, 147, 155, 159, 161, 181; II, pp. 33, 59, ecc. [226] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, p. 45. [227] Op. cit, I, p. 181. [228] LIV., I, 17, 4; II, 24; 27-29; 43; 38, 9; 65, 6; 66, 69; IV, 1; 5, 5; VI, 18; 31; 34; VII, 12, 4, ecc. [229] MASPERO, _Hist. ancienne_, p. 271 sgg. [230] Op. cit., p. 384 sgg. [231] Cfr. CICCOTTI E., _Il tramonto della schiavitù nel mondo antico_. Torino, 1899. [232] _Respubl._, 423, a. [233] PÖHLMANN R., _Geschichte des antiken Kommunismus und Sozialismus_. München, 1893, I, p. 156. [234] SALLUST., _Bell. Cat._, 10-12. [235] 20, 5. [236] _Philipp._, 20. Cfr. anche PÖHLMANN, op. cit., I, 155. [237] _Archidam._, 67-8. [238] _B. C._, IV, 12 sgg. [239] SCALA (R. von). _Die Staatsverträge des Altertums_. Leipzig, 1898. [240] PLAT., _Respubl._, 469, c. [241] Op. cit., 470 c, d, 471 a, b. Cfr. PLAT., _Politic._, 261 d. _Epinom._, 987 d. [242] DE RUGGIERO E., _L’arbitrato pubblico in relazione col privato presso i Romani_. Roma, 1893, pp. 40, 65, 67, 232 sgg. [243] _Od._, IV, 15. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. La notazione ^ indica che il carattere seguente è in apice. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 74265 ***